L'Innocente e il Deluso

di SparkingJester
(/viewuser.php?uid=130390)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ladro furtivo. ***
Capitolo 2: *** Doveri da Reale. ***
Capitolo 3: *** Crisi e conseguenze. ***
Capitolo 4: *** Il dolore nel sangue. ***



Capitolo 1
*** Il ladro furtivo. ***


Il giovane Hud, di appena dieci anni, restò sbalordito alla vista dell’imponente ingresso al Passo della Balena: una lunga e trafficata tratta mercantile tra i cunicoli di una galleria, attraverso un complesso montuoso altrimenti insuperabile.
Una grande apertura nella roccia di color verde acqua, plasmata dal tempo fino ad assomigliare ad una bocca di balena, accolse al suo interno la carovana, mostrando a Hud cosa gli uomini potessero fare pur di superare i propri limiti.
La galleria principale presentava una pavimentazione levigata, frutto di centinaia di anni di cammelli, cavalli, truppe, carri e viandanti che attraversarono quel Passo prima di loro. Lungo i bordi e sulle pareti, strani funghi luminescenti con larghi cappucci illuminavano la via.
Hud continuava a guardarsi attorno, ammirava le stalattiti e strattonava il padre tentando di toccare qualche fungo.
«Hud, buono figliolo. Presto ci fermeremo e potrai fare un giro se vorrai. Dove io possa vederti, ovviamente.»
«Ma è tutto così bello, papà! Guarda che luci accoglienti, tutte le caverne del Nord sono così?»
Suo padre Faruq lo corresse: «Ahah, no assolutamente no. Queste sono particolari, sono sicure. Di solito nessuno va in una caverna, sono nascondigli adatti per i mostri!»
Cercò di intimidirlo, senza successo.
«Questa invece è stata scavata apposta per noi mercanti. E’ una scorciatoia sotto le montagne, altrimenti ti immagini a fare il giro delle Ande Nere? Ci impiegheremmo una vita, tu avresti persino dei bambini. Ah-ah!»
Hud imbronciò il viso: «Non sei divertente. Allora vuol dire che sarà tutto così il viaggio? Nessun mostro o cavaliere solitario?»
«Niente di tutto questo, figliolo. I cavalieri, magari, se avremo fortuna.»
Cercò di concludere, sorridendo al figlio e prendendolo rapidamente sulle sue vecchie spalle.
Hud si afferrò al mento barbuto del padre, poggiandosi sul turbante e attendendo con ansia qualunque cosa stuzzichi la sua attenzione.
La carovana si arrestò dopo un’ora dal loro ingresso nel Passo.
In viaggio ormai da mesi, partiti dal loro regno natio, Nem, nascosto tra le sabbie del deserto dell’Ovest, puntavano a vendere i loro minerali più preziosi ai regni sempre più avidi del Nord.
Un centinaio tra mercanti, servi e la scorta, legarono i cammelli sui bordi del sentiero, fermarono saldamente al suolo le carrozze in degli anfratti artificiali e montarono su delle rampe di roccia le tende per la “notte”, scandita solo dal tempo delle loro clessidre data l’impossibilità di vedere il sole. L’uscita era a cinque giorni di cammino ma la prima pausa dopo l’ingresso era la più importante poiché avrebbero dovuto procacciarsi del cibo dalle foreste appena fuori, prima di addentrarsi nelle viscere della terra.
«Si tratta solo di tre giorni di pausa, Hud. Avanti non fare così.»
Il bambino era a gambe incrociate, braccia conserte e faccia sul cuscino all’interno del suo caldo rifugio.
«Io mi annoio a morte qui dentro!»
«Perché invece non ci aiuti con i cammelli? Ti piacevano i cammelli una volta.»
«No, io voglio andare coi cacciatori allora! So tirare con l’arco, mi hai visto anche tu.»
«Lo so, ma è pericoloso lo sai. Puoi farti un giro e giocare al piccolo esploratore se vuoi, basta che rimani nei dintorni, dove una guardia può vederti.»
Gli occhi del ragazzo, contornati da un pigmento nero, abbandonarono il  cuscino e fissarono quelli occhi del padre, anch’essi marchiati. Una barra tatuata nera che dalla punta del mento arrivava alla bocca completava il segno distintivo del popolo di Nem, fatti alla nascita dell’individuo con un pigmento particolare.
«Va bene, allora inizio subito!»
E il ragazzo saettò fuori, vorticando la testa alla ricerca di un buon cunicolo da raggiungere arrampicandosi.
Ne individuò uno, corse saltellando tra barili, casse e roccia, oltrepassando i vigili occhi delle guardie e salendo fino ad una sporgenza a tre metri d’altezza, roccia dopo roccia.
«Inizierò da qui, griderò se necessario!»
Salutò vagamente i membri della compagnia e partì nell’esplorazione.
I cunicoli secondari e terziari erano composti da archi che conducevano ad altre sporgenze, alcune larghe altre strette, ma tutte ricoperte da un verde muschio e illuminati dalla soffusa aura dei funghi.
Ma dopo un lungo pomeriggio, niente di nuovo. Solo cunicoli, rilievi sopraelevati e grossi funghi, niente di eccitante.
Quella sera cenò con i Pakras: polpette di carne ovina avvolte in sottili fette di pancetta e fritte, accompagnate da pane e formaggi.
L’intera carovana banchettò e brindò serenamente alla meritata pausa e, al tempo indicato dalle clessidre, nessuno tardò a recarsi nelle proprie tende. Hud incluso, ancora sveglio e tamburellando silenziosamente le dita al terreno mentre il padre e la madre dormivano tranquilli.
Passò qualche ora, le palpebre del ragazzo fecero per chiudersi per l’ultima volta quella sera ma qualcosa destò la sua attenzione: qualcuno o qualcosa stava rovistando tra scodelle e casse, appena fuori la sua tenda.
Il ragazzino dai corti capelli neri come la pece drizzò le orecchie e spalancò gli occhi, voltandosi rapidamente in direzione del rumore.
In un misto tra eccitazione e paura, fece capolino lentamente con la testa al di fuori della sicura tenda: un losco figuro, pelato, rovistava effettivamente tra delle ceste, tenendone ben salda un’altra sotto il braccio destro.
Sembrava nudo, con solo una mutanda bianca mal legata alla vita.
Il ragazzino si pietrificò. Lo sconosciuto si voltò e i due si fissarono per pochi ed imbarazzanti attimi.
Il pelato aveva in bocca un pakra, altri nella cesta sotto il suo braccio e due stretti nella mano sinistra; i suoi occhi erano spalancati e sorpresi. Si voltò rapidamente ed iniziò a correre maldestramente per allontanarsi dall’accampamento.
Hud fece per seguirlo, senza emettere un suono. Quell’uomo non sembrava una minaccia ma di sicuro era abbastanza strano da sentire il bisogno di seguirlo.
Il pelato era stranamente silenzioso e leggiadro nella sua goffaggine; saltò perfino usando un muro come spinta per poi finire su una roccia molto più in alto.
Il ragazzino iniziò quindi a scalare, mosso dal brivido dell’avventura e sempre più curioso di sapere perché uno sconosciuto nudo aveva i suoi deliziosi pakras.
Raggiunta la sporgenza e superato qualche arco, la parete rocciosa iniziò a presentare come dei gradini a chiocciola portando il piccolo avventuriero in una camera segreta: molto larga ma bassa, con un tozzo fungo dal cappuccio grande come la cupola di un tempio che troneggiava al centro della grotta segreta.
Il fungo non brillava come quelli dei piani inferiori e qualcosa di appena visibile sembrava appoggiato al robusto fusto del fungo.
Dell’uomo nudo, nessuna traccia.
Hud si avvicinò cauto, in punta di piedi, aggirando il fungo e nascondendosi dietro qualche sporadica roccia.
Le forme sembravano due, un’arma e un corpo.
La curiosità fu troppa e Hud abbandonò il rifugio delle rocce e ogni parvenza di furtività per avvicinarsi ancora una volta. Ma preferì non averlo fatto, rabbrividì: una gigantesca scure dalla lama lunga, larga e affilata come un rasoio da un lato e con grossi dentelli triangolari dall’altro, riposava affianco ad un cadavere umano, seduto a braccia distese lungo i fianchi.
Notò poi che non era un cadavere bensì uno scheletro molto strano, sporco di sangue ma con delle piccole corna sul teschio, ossa affilate e puntute spuntavano dalla cassa toracica e lungo le spalle, braccia, gambe, piedi e le mani avevano persino delle ossa piatte che ne rafforzavano la struttura.
C’era qualcosa di strano.
Un tonfo e rumore di roccia sbriciolata svegliarono Hud dal torpore della paura, facendolo voltare velocemente.
L’uomo nudo e pelato gli era di fronte: mulatto come lui, portava un segno distintivo unico.
«Ecco, le ho finite tutte le pakras. Adesso vattene ragazzino e non dire a nessuno di avermi visto.»
Disse l’uomo sbattendo a terra la cesta ormai vuota.
Hud ormai non aveva più timore. Fissò scioccato il volto dello sconosciuto e ne riconobbe gli stessi simboli che lui, il padre e tutto il popolo di Nem portava con sé: occhi contornati di nero e una linea da mento a bocca.
«Avanti, ti decidi a sparire? Sciò!»
Fece come per scacciare una gallina, avanzando verso il bambino.
«Guarda che ti ammazzo, tornatene dai tuoi genitori e… Aspetta un momento.»
Finalmente anche lui realizzò. Afferrò il cranio del bambino con la mano destra e lo sollevò alla sua altezza, fissando i tatuaggi facciali.
Hud iniziò ad agitarsi.
«Lasciami, mi fai male! Sei un Nemeru, non puoi far male ad un altro Nemeru!»
«Oh, dannazione!»
Lo lasciò e il bambino infierì: «Sono un bambino, sai? Non si trattano così i bambini. Ma dimmi, ti sono piaciuti i pakras di mamma? Sono i migliori della carovana!»
Lo sconosciuto lo fissò con aria interrogativa, il viso altamente espressivo mutò poi in uno sguardo perso ai suoi piedi, poi uno deciso ed infine un sorriso diretto al ragazzino.
«Erano strepitosi! Appena ho sentito il profumo sono corso immediatamente, non li mangiavo da… Forse un centinaio di anni!»
Il bambino spalancò la bocca: «Un… centinaio? Davvero?»
«Dannazione! Perché parlo troppo? Eh, ragazzino? Lascia stare. Scherzavo. Comunque sia, lo ripeto ancora una volta. Anche se sono un Nemeru come te, devi andare via da qui. Mi sto nascondendo e nessuno deve sapere che sono qui.»
«Ma quello cos’è?» Si girò Hud puntando verso lo scheletro deforme poggiato al fungo.
«Quella è la mia armatura. E’ un’armatura d’ossa che mi sono costruito da so… Dannazione! Non mi distrarre, vattene! Subito!»
Alzò la voce stavolta. Hud s’irrigidì ma vide che negli occhi di quell’uomo non c’era un briciolo di aggressività.
«Senti io mi annoio di là. Dobbiamo dormire qui tre notti e poi farne chissà quante verso l’uscita di questa noiosa caverna!»
«Ma no, è una meraviglia naturale e ci sono salamandre e…»
«Non mi interessano queste cose! A me interessano i cavalieri e tu hai un’arma davvero enorme! Sei un cavaliere? A Nem non ci sono i cavalieri, come ci sei finito qui? E perché sei nudo? Ah già quella è la tua armatura hai detto. Che bella!»
Il pelato iniziò a sudare freddo, spaventato dalla curiosità del bambino.
«Io sono Hud!» Aggiunse nel turbinio di domande.
I due si scambiarono una imbarazzante stretta di mano.
«Io sono… Ax. Chiamami Ax.»
«Piacere di conoscerti Ax. Passeresti la notte con me? Non voglio dormire.»
«Senti, mocciosetto, non posso stare qui con te. Poi se ti scoprono? Mi attaccheranno perché penseranno che sono un uomo cattivo e poi dovrò ucciderli tutti. Vuoi che ammazzi tutta la tua carovana, Hud?»
Ax parlò con velocità e sicurezza e il ragazzino sgranò gli occhi, stupito.
«Perché dovresti ucciderli?»
«Per difendermi. Ma soprattutto perché nessuno deve sapere che sono qui.»
«E perché?»
«Perché devo aspettare qui, dovrebbe essere un posto segreto questo. Non accessibile ai ragazzini come te.»
«E chi stai aspettando?»
«Amici.»
«E quando arrivano.»
«Non lo so, dannazione! Un mese… forse due.»
«E perché proprio qui?»
«Senti, facciamo una cosa. Vuoi fare un patto?»
«Un patto?»
«Io ti racconto della mia vita, ti narrerò delle mie gesta, della mia fuga da Nem, delle mie peripezie e delle mie battaglie.»
Le pupille di Hud si ingrandirono per l’emozione.
«E… delle persone che ho ucciso!»
«Si! Ci sto!»
«Perfetto, hai accettato. Sei fortunato che non sono un tipo avido. Mi porterai più pankras che puoi ed io racconterò finché ne avrò da mangiare.»
«Ma… ma come li giustificherò a mamma?»
«Problemi tuoi.»

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Doveri da Reale. ***


Quella notte Hud fu rimandato all’accampamento.
Ax si sdraiò e sbuffò, maledicendosi per essere sceso a patti con un ragazzino.
La mattina quest’ultimo si ripresentò, stavolta con due ceste di pakras.
«Già qui? Sono passate solo poche ore!»
«Queste le ho fatte io, finendo gli ingredienti di mamma. Mangia e racconta adesso, abbiamo tutto il giorno! O notte? Ho dimenticato la mia clessidra!»
Le pallotte di carne non sembravano invitanti come le precedenti ma Ax apprezzò lo sforzo del bambino e mangiò con gusto il quasi delizioso spuntino, orgoglio della cucina tradizionale Nem.
Hud si sedette con la schiena sul tronco del fungo, dimenticando per un attimo la tetra presenza dell’armatura d’ossa che gli sedeva affianco, col teschio chino e tetro come a guardare anche lei la cesta piena di carne che il ragazzino imbracciava.
Ax continuò ad afferrare e masticare, parlando con la bocca piena:
«Ma chi se ne frega, va bene. Tanto nemmeno io ho da fare. Allora, tanto per cominciare dimmi un po' che ci fate voi di Nem qui.»
«Andiamo a Nord, dobbiamo vendere il Ferro Cremisi delle caverne Aghal.»
«Oh, il Ferro Cremisi! Da quanto non vedo un’arma costruita con quella roba! E’ vero noi Nem siamo un popolo fortunato, un lungo tragitto dal deserto però! Saranno passati mesi ormai dalla vostra partenza.»
«Più o meno, ho perso il conto.»
«Bhé, io ad essere sincero non ci torno da… centosette anni credo.»
«Allora è vero! Sei vecchissimo eppure sembri così giovane!»
Ax sembrava sulla trentina, le pelata non intaccava il suo fisico mascolino, glabro e con muscoli da atleta. Nessuna cicatrice solcava la sua pelle mulatta e, ridacchiando per il complimento ricevuto, continuò:
«Sono maledetto, ragazzino. Ma ci arriveremo dopo. Non invecchio ma posso comunque essere ucciso, eh!»
«Wow!»
Gli occhi del bambino brillarono, pendeva dalle sue labbra. Ax ridacchiò ancora, nervosamente ed iniziò:
«Non so da dove cominciare, dannazione!»
«Forse dall’inizio?»
«Quale? Ne ho avuti molti.»
«La tua nascita! Ma sei tonto, sicuro di essere un cavaliere? Come si chiama la tua famiglia? A Nem ci conosciamo tutti. Anche se sono passati cento anni, la tua famiglia sarà rimasta nella memoria di qualcuno.»
Ax chinò il capo, la bocca corrugata dalla tristezza. Si sforzò di non deludere il ragazzino:
«Io… Non sono molto orgoglioso di dirlo. Il mio nome completo però è: Axanadros Dhey-Matuhaz.»
Come previsto, Hud sospirò dalla sorpresa. Lievemente spaventato, interruppe la triste voce di Ax:
«Dhey? La dinastia… dei Tiranni?»
«Ci hanno chiamato così? Davvero?»
Un sorrisetto orgoglioso gli risollevò il morale.
«Ma tu non sembri un tiranno, sei un tontolone nudo scrocca-pakras con un’armatura fantastica!»
«Non so se prenderlo come un complimento o meno…»
«Ma… La tua dinastia è scomparsa anni e anni fa. Allora è vero che hai più di cento anni!»
«Ma mi ascolti quando parlo? Non sono un bugiardo!»
Ax chinò ancora il capo, si grattò nervosamente la testa e proseguì:
«Lo so che la mia famiglia ha fatto cose orribili. Io sono l’ultimo dei Dhey, l’erede al trono Nem. Questo almeno anni fa. Ora so che sono cambiate un po' di cose ma francamente non mi interessa il potere. Io lì non voglio più tornarci. Ho una nuova famiglia ora.»
«Si, le cose sono cambiate, ma in meglio! Se torni, avrai un’accoglienza che un tempo non potevamo sognare. La tua stirpe ha pagato il debito, non avrai il trono ma se vuoi puoi tornare a vivere a casa!»
«Assolutamente no. E soprattutto chi credi abbia pagato quel debito, mocciosetto? Ho una missione da compiere al momento: aspettare i miei compagni.»
«Ma allora parlami dei tuoi genitori! Chi erano?»
Un ultimo sbuffo, due pakras in bocca masticati voracemente e il racconto iniziò:
«Io sono figlio di Kalina e di Mahn, Ottantottesimo Faraone di Nem, Liberatore di Fiumi e Luce nella Notte.
Crebbi nella spensieratezza, nella gioia di vivere. Mamma la ricordo benissimo: bella, profumata e con delle trecce così articolate che facevo fatica a seguirle.»
Ax aveva uno sguardo sereno ma malinconico allo stesso tempo, Hud invece continuò ad annuire.
«Mi parlò di tutta la fauna del deserto e delle nostre divinità. Mi procurò giocattoli e compagni di gioco, venivo lavato da fascinose serve e scortato da possenti soldati. E quelle mura erano tutto il mio mondo.
Nonostante la cordialità, i doni, i bellissimi affreschi del Palazzo Reale e i mille animali che mamma riusciva a procurarmi, c’era qualcosa che non andava.
Mio padre di contro era sempre impegnato a “governare”, diceva. Tornava di rado a casa ma con me era sempre gentile: mi carezzava i capelli e mi sussurrava che presto, una volta cresciuto, mi avrebbe portato a caccia con lui e mi avrebbe mostrato il suo regno. Già, il suo regno.»
Afferrò quattro pakras insieme e se li mise compulsivamente in bocca, continuando a bocca piena:
«Fai, forfe fono un pho tonto – deglutì- poiché non mi accorsi che il palazzo aveva porte.»
Ax ridacchiò, nervosamente.
«Ero così… distratto da tutto quello che mamma mi faceva fare, ero così credulone nei confronti delle scuse che usava mio padre. Le guardie, che siano maledette, spostavano la mia attenzione con un’abilità unica verso barzellette, cibo, promesse di trofei di battaglia. Dannazione quant’ero stupido. Cinque anni chiuso in un palazzo e viziato fino all’orlo. Non avevo ancora idea di cosa fosse un regno, non pensavo che oltre la “Tenda Proibita” ci fosse un balcone dal quale mio padre parlava al popolo. Quando svaniva dietro le rosse tende, mamma mi teneva stretto tra le braccia per non farmi correre da lui. Dopo vari secondi di solito si levavano urla di giubilo e il suono di corni e trombe. Assurdo. Papà veniva fuori e… puff, gli affari del regno erano risolti. Mio padre non perse mai nemmeno il sorriso entrando o uscendo da quelle tende.
Io ero orgoglioso di lui… e amavo mia madre.»
Fece una lunga pausa, socchiudendo gli occhi, assonnato.
«Sveglia!»
Hud lanciò un pakras in faccia ad Ax e lo svegliò dal torpore dei ricordi.
«Oh? Scusa, ragazzino. Sono… ricordi difficili da affrontare per me.»
La sua voce era calma e rilassante stavolta.
«Poi però… accadde qualcosa. Di colpo, quelle robuste e ben difese porte che contenevano il mio piccolo e sicuro mondo dorato, vennero abbattute con violenza, urla e sangue. Entrarono a frotte: uomini e donne, vestiti di stracci, non come i miei abiti pregiati, brandendo falci, forconi e spade. Massacrarono le guardie, le schiave e fecero a pezzi mia madre. Tutto questo avvenne nel giro di pochi interminabili minuti.
Io restai… immobile. Fisicamente e mentalmente. Come un’improvvisa eclissi venuta a mostrarmi l’oscurità di questo mondo. Qualcuno di loro, tutti con sguardi truci e tesi, mi circondò. Prima iniziarono ad urlarmi contro, poi mi afferrarono per un braccio e mi strattonarono. Io non emisi un suono, guardai shockato alle loro spalle mentre mio padre veniva trascinato per le braccia da altra gente.
Non capì nulla. Non sapevo cosa fosse tutta quella… rabbia. Non comprendevo il motivo dei loro sguardi, il motivo della loro veemenza e violenza. Mamma ormai era morta, avevo perso di vista papà ed io venni trascinato fuori, nel mondo esterno che mai mi era stato concesso di vedere.
C’erano migliaia di persone di fronte al palazzo. Non sapevo nemmeno che ci fosse una rampa per raggiungerlo, pensa tu! Per me quello era un posto nuovo, casa mia, la capitale Hinamer. Ma le nuvole erano nere, un alone rosso copriva il cielo, generato da enormi incendi che si levavano da dietro gli edifici.
I templi erano in rovina, soldati e nobili erano impalati e sorretti come bandiere, oggetto di scherno, dissacrati e maledetti.
Nel caos generale, la mia mente non riuscì ad orientarsi. Probabilmente ebbi uno sguardo terrorizzato, paralizzato. A quanto pare non dissi nemmeno una parola da quando quella porta fu sfondata.
Ricordo vagamente di essere stato preso a schiaffi, legato e trasportato alle Prigioni Rosse, sbattuto in una delle famigerate Cinque Stelle d’Isolamento. Ovviamente ad un’ospite come me, l’unico e l’ultimo discendente maschio dei Dhey, fu riservata la Stella centrale: alte pareti rocciose, spoglia e con un pilastro al centro a cui venni legato per le mani con catene spesse. Non capisco il perché, poi! Dannazione avevo cinque anni!»
Ax batté il pugno sul proprio ginocchio, forte.
«Dannazione… Ci credi che mi tennero lì per altri cinque anni?»
«Davvero? Ma è una cosa tristissima.»
«Già, a cinque anni, chiuso per cinque anni in una cella vuota. Mi tenevano tutto il giorno legato con le braccia in alto. Il mio corpo si sorreggeva sulle ginocchia, il mio volto guardò il pavimento per la maggior parte del tempo. Venivano a portarmi da mangiare e da bere, nutrito a forza. Va bene, ho le mie colpe, potevo ribellarmi, ma ero sconvolto e paralizzato da… non so nemmeno io cosa. Tutto il mondo che conoscevo si incrinò, rivelandone dietro una malvagità che non pensavo esistesse. Le mie orecchie funzionavano ancora bene però. C’erano altri quattro prigionieri nelle Stelle che mi affiancavano, in celle gemelle adiacenti ma con sporgenze di roccia abbastanza comode da formare letti o scrivanie. Non che li usassero, erano pazzi anche loro. Chiuso con un assassino seriale, un sacerdote rinnegato, un ex-nobile impazzito ed una “strega”. Tra loro e gli insulti delle guardie, capì ben presto che mio padre non era poi il buon sovrano che io mi aspettavo che fosse, che lui mi fece capire di essere.
Schiavizzava, sovvertiva, trafficava. I suoi sorrisi non erano di spensieratezza ma di autocompiacimento. Crudele, privo di coscienza a quanto dissero. Nella mia mente turbinavano ricordi ed informazioni, mescolandosi e confrontandosi a vicenda.
Il mio corpo crebbe debole, mal nutrito, capelli lunghi e sporchi. In pantaloncini per cinque anni, che cavolo potevano mettermela una veste! Va bene che nelle grotte fa caldo, però!»
«E come hai fatto a scappare da lì? Non dirmi che ti sei ribellato e hai rotto le catene, uccidendo le guardie e fuggendo!»
«Non ti eccitare, Hud. Niente di tutto questo. A me non fregava niente, la fuga non fu nemmeno un’opzione. Che potevo fare? Ero un bambino! Non sapevo combattere. Sarei morto lì, di vecchiaia e solitudine, se un giorno non vennero a chiamarmi. Mi accorsi di quello che stava accadendo solo quando sentì il torpore delle braccia svanire, accolto dalla sensazione di sollievo mi svegliai per un attimo e notai che due guardie ed un nobile dalla pelle chiara mi stavano liberando e trasportando fuori dalla cella.
Gli altri quattro ergastolani mi insultarono ancora di più, sputarono e vennero percossi dalle guardie. C’era molta agitazione nell’aria. Altri prigionieri e guardie durante il tragitto mi fecero capire che stava accadendo qualcosa. Mi portarono in un sacco di stanze, ma realizzavo poco a poco. Venni lavato, curato e vestito. Mi tagliarono persino i capelli e si assicurarono che i pigmenti dei miei tatuaggi fossero intatti.
Quando il mio cervello si destò completamente dal torpore durato cinque anni, mi trovai in una carrozza che correva nel deserto. Elaborata e dorata, al cui interno un uomo dalle vesti porpora e la sua giovane figlia, bionda e dalle vesti rosse, mi fissavano curiosi.»
«Ti comprarono come schiavo?»
«Non proprio, non come schiavo. Ecco, io…»
«Che c’è?»
«Mi comprarono per… sposarmi.»
«Cosa!? Davvero?»
«Davvero. Quei codardi della capitale non ebbero il coraggio di uccidermi. Ero colpevole di essere un Dhey ma ero pur sempre un bambino innocente e privo di potere, nel loro regno. Mi imprigionarono solo per disprezzo e vendetta. Pensarono che fossi stato addestrato ad essere un tiranno, un truffatore.
Ma la fortuna non mi abbandonò. Un mercante dell’Ovest voleva costruire un suo impero clandestino nei nostri deserti. Aveva bisogno di sangue nobile da far sposare a sua figlia, Elohette, che gli dei mi perdonino. Quant’era bella.»
«Uuuuh, che schifo.»
«Che schifo? Ma quanti anni hai?»
«Dieci, ma non mi interessano le ragazze così tanto. Ma che avete tutti? Pure le guardie!»
«Aaah, lascia perdere, moccioso. Sei strano tu, non io!»
Hud gli fece la linguaccia e mangiò anche lui stavolta dalla cesta. I due condivisero altri bocconi e poi Ax proseguì:
«Dicevo, dovevano farmi sposare. Una roba politica, io non sono bravo in queste cose, insomma se io sposavo Elohette, lui prendeva il controllo di alcuni villaggi.
Fui condotto ai limiti del deserto, dove la verde vegetazione iniziava a prendere il controllo della terra. Per me fu una meraviglia indescrivibile. Non facevo che guardarmi attorno e stupirmi di ogni singola cosa. Ricordo ancora quanto ero ingenuo e curioso. Iniziai a sentirmi ancora come quando stavo a casa con i miei genitori. E ogni volta che guardavo, ricordavo ed ogni volta che ricordavo… veniva il vuoto.»
La voce calò, seguita da uno sguardo triste a capo abbassato.
«Che ti prende, Ax?»
«Questi… vuoti erano come flash nella mia mente, come lampi rossi. Era tutto così meraviglioso fuori da quelle prigioni ma una voce dentro di me ripeteva sempre: “Tu non appartieni a questo mondo.”
Mi stupì di me stesso all’inizio ma poi divenne quasi familiare.
Venni cresciuto nelle tenute lussureggianti del Nobile Bisbak, circondato ancora una volta da guardie e servi. Mi sentii a mio agio, all’inizio. Però non ero un figlio, ma uno studente.
Imparai a leggere, scrivere, comportarmi elegantemente. Venni allenato e nutrito a dovere per essere un marito esemplare, degno di estirpare il male del passato della mia famiglia e sostituirlo con una nuova possibilità. Pensavo sarebbe stato facile. Ma di questo, ti parlerò in seguito.»
«Cosa? E perché?»
Insistette Hud.
«Perché è quasi ora di cena a giudicare dal profumino che arriva fin qui.»
«Che profumino? Io non sento niente. Ah, è vero non ho la clessidra con me!»
«Tranquillo, io lo sento. E so anche che ora è. Vattene un po', mangia e riposa. Faccio un pisolino e ci vediamo più tardi. Svegliami, in caso.»
E i due si separarono, uno impaziente e l’altro soddisfatto.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Crisi e conseguenze. ***


S’incontrarono ancora una volta, la seconda notte. Il tempo stava per scadere e il bambino lo sapeva.
Portò ancora pakras e li lanciò distrattamente tra le gambe dell’armatura ossuta, colpendo Ax con uno schiaffo sulla fronte.
«Sveglia! E’ l’ora della favola!»
«Che cavolo, moccioso!»
«Avanti, avanti. C’è poco tempo, avrai un’infinità di racconti e voglio sentirne il più possibile. Cosa andò storto con Elohette?»
Ax era più impacciato che mai, il ragazzino era diretto e spontaneo.
«E dammi il tempo! Ti ho detto che sono cresciuto circondato dal lusso e dalla possibilità di ottenere nuove conoscenze, nella curiosità. Ma i cinque anni di isolamento mi avevano fatto male. Mi avevano messo in pausa, mentre la mia mente analizzava silenziosa e decretava il suo di giudizio.
Le troppe attenzioni tutte insieme, i corsi con gli altri studenti, i libri che mi era permesso leggere e gli sport che mi era concesso fare. Era tutto così… splendente. Avevo ritrovato la mia vecchia vita e la voce nella mia testa venne silenziata, sconfitta. Uscì dal mio silenzio perenne ed iniziai a radiare energia vitale. Ero pieno di me, mi sentivo grandioso!»
Pronunciò quelle parole con orgoglio, cercando lo sguardo del ragazzino.
«Iniziai a fare amicizia velocemente con la mia parlantina, a prendere iniziative personali con coraggio e rischi annessi, a farmi notare dai superiori e soprattutto da Lord Bisbak. Se proprio ero costretto al matrimonio, volevo che Elohette fosse fiera di me. Volevo si innamorasse di me. Ah, già. L’amore… Che brutta storia.»
«Sono cose noiose infatti, saltale.»
«No, no. Non posso del tutto. Devi almeno sapere che di lei mi importava, mi piaceva. Non… in “quel” senso, non a quel tempo. Ma… ecco, altre serve provarono a… baciarmi.»
Entrambi divennero rossi. Hud non era pratico, troppo ingenuo, ma anche Ax sembrò esserlo.
«E lì, qualcosa scattò nella mia testa.»
«Che vuoi dire?»
«Ricordo che la vista divenne buia ed un teschio color del sangue venne verso di me, come in un incubo. Quando ripresi conoscenza, la ragazza era accovacciata in un angolo delle cucine, incolume ma in lacrime e tremante. I compagni e l’insegnante restarono pietrificati dal terrore. Dissero che stavo lavando delle zucchine quando lei iniziò a parlarmi. Io nemmeno me lo ricordo cosa disse, ma tutti confermarono la stessa versione: afferrai la ragazza per le braccia e la scaraventai contro la cucina di fianco. Mi misi a lanciarle contro boccali e conserve, senza parlare, solo con uno sguardo misto tra divertimento e stupore.»
«Per gli Dei, cosa ti avrà mai detto di così cattivo?»
«Cattivo? Niente, era sicuramente innamorata di me. Ma non la presi bene. Capì in seguito che in quel momento riaffiorarono ricordi della mia vita passata. Un senso di… rifiuto.»
«Mi dispiace…»
«Non fui più trattato allo stesso modo, da allora. Il numero di studenti nelle classi era ridotto, io ero più sorvegliato. Ma avevano ragione. Mi vennero altre crisi, alcune grosse altre piccole: diedi fuoco ad uno scaffale della libreria, impalai un maiale, entrai persino di nascosto nella camera di un mio “amico” per distruggergli il posto. Ma non ne ero consapevole, non sempre. Prima di ogni crisi la mia mente era come si muovesse da sola, intorpidita e distante dal mondo reale ma comunque funzionante. Dopo le crisi, invece, mi isolavo e piangevo per i problemi che avevo causato. Il giovane Ax curioso e pieno di vita era stato ancora una volta messo da parte.»
«E adesso ti capita ancora?»
«No, non più come una volta.»
Entrambi presero ancora dalla ciotola, mangiando con gusto.
«Comunque sia, gli anni passarono ed io raggiunsi la maggiore età! Dopo… aspetta quanti erano? Ah, si, quattro anni. Ero ancora così giovane, per gli Dei quanti ricordi.
Brutta storia anche quella del matrimonio però. Lord Bisbak e i suoi medici di corte non erano convinti. Ero instabile e potenzialmente pericoloso, potevo ferire l’innocua e sacra Elohette. Nemmeno io lo volevo e non insistetti quando mi dissero che dovevo affrontare un periodo di prova. Ancora un altro anno, prendendo delle medicine, e se fossi guarito allora il matrimonio si sarebbe fatto.»
«Medicine? Che medicine?»
«Pensavano fossi mezzo pazzo, così mi diedero una mistura di semi in pillole che avrebbe dovuto “contenere” il mio lato distruttivo.»
«E funzionarono?»
«Ovviamente no.»
«E Perché no?»
«Perché non c’era nulla di sbagliato in me.»
«Che vuoi dire?»
«Erano loro i “sapienti” del mestiere, non potevo oppormi. Come dei folli, furono convinti fino alla fine di potermi curare con sciocchi rimedi alchemici. Io le presi perché se rendevano tranquilli loro, ero tranquillo anche io. E se mi sentivo normale, la mia mente non rigettava fuori quella parte di me.»
«Quindi il matrimonio ci fu!»
«E invece no. Le pillole non fecero un bel niente, non potevano mica entrarmi nel cervello! Le nozze però furono organizzate, il popolo riunito ed io rimesso a lucido. Ma non mi presentai mai all’altare. Di fronte allo specchio, oltre il mio riflesso vestito da gran reale, ho rivisto l’immagine di mio padre. Ed ancora, il mio corpo si rifiutò ed ebbi un’altra crisi.»
«Povera Elohette! E lei come la prese?»
«Non bene, credo. Io ebbi un altro vuoto di memoria e mi ritrovai a camminare fuori dai confini della città, tornando verso il deserto a piedi. Avevo già percorso molta strada, attraversavo un leggera tormenta di sabbia ed avevo i vestiti inzuppati di sangue, parzialmente mio. Ero ferito al fianco e ad un braccio, mi trascinavo dietro una mannaia da macellaio. Poi svenni per diverse ore, rinvenendo in una baracca di pietra ai confini tra verde e sabbia. Cammelli attendevano fuori, io legato dentro con catene ed un bavaglio.
Delle guardie mi consegnarono ad altre guardie ed io venni trasportato fuori zona.
Venni dopo a sapere che avevo preso delle vite, durante la mia ultima crisi, e che Lord Bisbak, affezionato a me, non ebbe il coraggio di giustiziarmi. Il matrimonio era saltato per sempre, Elohette avrebbe sposato qualcun altro. Per me, un’altra vita! In un’arena per gladiatori.»
«Un’arena? Mitico!»
«Non c’è da essere allegri! Lì si mietono un sacco di vite, è uno spreco di combattenti. Ma è vero. E’ divertente!»
I due sghignazzarono contenti e brindarono con l’acqua, tanto agognata dopo tutta quella carne e quel parlare.
«Io però ricaddi in uno stato catatonico. Ero un morto che camminava. Non parlavo e rispondevo ai comandi meccanicamente, prendendo pure le botte per l’assenza di risposte verbali. Si aspettavano che Axanadros, l’ultimo della dinastia Dhey, resosi ancora una volta ridicolo di fronte alla società, potesse riscattarsi magari nell’arena. Avrebbe potuto imparare qualcosa da una massa di uomini che emanavano mascolinità e forza. Ma io smisi persino di mangiare, solo il necessario per vivere.
Ai nuovi arrivati come me, spettava un anno di scuola di base. Poi ci sarebbe stata una battaglia campale ed i sopravvissuti sarebbero stati nominati di fronte al popolino come nuovi membri di quella atroce macchina di divertimento.»
«Ed eri bravo con le armi? Con Lord Bisbak non ti avevano insegnato a combattere un po'?»
«Ma allora lo vedi che sei attento quando vuoi? Si, è vero. Sapevo combattere, ma non volevo. Ero troppo apatico, presi un sacco di botte. Tante, con armi di legno non affilate ma pur sempre tante. Abbastanza da far pietà al mio nuovo proprietario, credo si chiamasse…. Lord Lopol. Che nome ridicolo.
Mi misero a spazzare e pulire i corridoi dalla sporcizia e dal sangue e dalle feci e dai denti dei “veri guerrieri” che combattevano sopra di me, sopra la pavimentazione di legno che nascondeva i cunicoli di servizio.
I miei coetanei si presero sempre gioco di me, ma gli insulti non mi sfioravano, ero troppo passivo persino per loro. Ogni tanto mi pestavano, ma quando arrivavano gli adulti almeno potevo respirare. Loro provavano pietà, alcuni forse disprezzo, per il mio stato catatonico.
Un giorno però, esagerarono: di fronte ad alcune celle, uno ragazzone alto e grosso, mulatto anche lui, mi afferrò per i capelli mentre passavo la scopa tra i loro corridoi. Altri due erano liberi e si avvicinarono, mi tennero per le spalle contro le sbarre ed il bestione iniziò ad insultarmi e sputarmi in faccia, mentre mi tirava forte i capelli tenendomi la faccia verso l’alto.»
«Oh, oh…»
Solo allora Hud notò con più attenzione che la pelata di Ax non era esattamente liscia: la pelle presentava come dei tagli cicatrizzati qua e là.
«Oh, si. Quello schifoso afferrò un pentolino in cui ci aveva fatto bollire dell’acqua e me lo versò tutto in testa.»
Il bambino rabbrividì, disgustato.
«E lì, mi risvegliai ancora una volta dal torpore! Urlai a squarciagola. La mia testa sembrò esplodere dal dolore. Mi maledico per la mia resistenza, per non essere svenuto quella volta. Mi colarono i capelli ed iniziai a perdere sangue. Ma i due che mi reggevano sembrarono ad un tratto terrorizzati, mollando la presa. Quella volta, fui “testimone” di una mia crisi. Ero cosciente, ma non avevo il controllo. Vidi però il mio riflesso nelle pupille dei loro occhi. Urlavo dal dolore ma avevo un’espressione divertita e malvagia, tremavo e i sensi sembrarono più acuti. Mi spinsi così in avanti, strappando via gli ultimi lembi di pelle e capelli che il ciccione mi reggeva. Afferrai contemporaneamente le gole dei due che avevo di fronte e tremai ancora di più, percorso da un senso di piacere indescrivibile. Il mio alter-ego urlò ancora, stavolta di gioia. Poi fracassai il cranio di uno con una testata e con lo sguardo sporco del sangue di entrambi, guardai fisso il secondo negli occhi e gli spezzai il collo con una stretta sovrumana.»
«Accidenti, meno male che eri denutrito o li avresti fatti in mille pezzi!»
«Non sono un buon esempio da seguire, moccioso. Smettila di farmi i complimenti! Ma aspetta, anzi. Non sai cosa ho fatto a lui.»
«Cosa, cosa?» Fremeva, Hud.
«Tremava e sudava, se l’era fatta sotto il porco. Gli altri ragazzi delle celle restarono scioccati, alcuni iniziarono ad urlare. Quelli in libertà non osarono avvicinarsi. Ero terrificante: malnutrito, costole esposte, tremante e vestito con un unico straccio nero e con la testa tutta fusa ed insanguinata. Afferrai allora una sbarra con entrambe le mani ed iniziai a piegarla di lato. Risi moltissimo mentre lo feci, ma la parte di me che “assisteva” era terrorizzata. Non avrebbe mai avuto il coraggio, avrebbe vomitato alla vista di tutto quel sangue se avesse avuto il controllo della bocca per farlo. La piegai infine, abbastanza da permettere al mio già esile corpo di passarci attraverso. Il ciccione non riusciva a reggere il mio sguardo terrorizzante, era inerme e totalmente sotto il mio controllo. Così afferrai la torcia che stava sulla sua parete e mi gettai su di lui con le gambe. Lo costrinsi con la gola sotto al mio ginocchio e gli aprì la bocca con la mano sinistra. Con la destra gli infilai fiamme, ceneri e braci in gola, affondando con forza la torcia. Smise di muoversi dopo non molto. Io la estrassi ed iniziai a pugnalarlo. Non ricordo quanto tempo passai a pugnalarlo, forse ore a giudicare da come avevo ridotto quell’ammasso di carne. Venni trascinato da due colossi corazzati, veterani dell’arena, poiché le guardie non vollero avvicinarsi.»
«Accidenti…»
«Accidenti, si. Accidenti. Bhè, almeno questo mi garantì l’accesso all’elite di gladiatori! Mi soprannominarono: lo Scheletro Squartatore. Faceva scena, si creò un giro di scommesse su di me!»
«Ma è fantastico, eri fortissimo allora!»
«Oh, se lo ero. Eccome se lo ero. Imparai in fretta a combattere e ci provai un sacco di gusto nel massacrare altri uomini. Mi sfogai dopo anni di repressione, imbracciando ogni arma possibile. Provai di tutto ma alla fine decisi che spadoni o grosse scuri sembravano reggere bene le mie scariche di furia.
Ma come sempre, la vita non mi ha dato molta scelta. Mi divertii sicuramente durante gli anni nell’arena. Quanti aspetta? Ehm… a quindici mi ci hanno mandato e sono uscito a… ecco, si, ho passato otto anni trascorsi a lottare lì dentro. Ma la mia coscienza restò silenziata per tutto il tempo. Dal momento in cui pugnalai quel ciccione nella sua cella, il mio corpo venne controllato dal mio alter-ego. Non potevo sentirlo o influenzarlo. Potevo solo assistere: perennemente all’erta, provando ogni sua sensazione. Complice di ogni testa mozzata, osso spezzato e vite rubate. Divenni uno spettatore passivo della vita che mi era rimasta.»
«Ma c’è sempre un lieto fine.»
«Più o meno. Un giorno infatti, ripresi il controllo di me stesso!»
«Fantastico!»
«Ma questo telo dico domani, moccioso. E’ quasi l’alba e tu sicuro dormirai per un bel po'.»
Il ragazzino sbuffò, scocciato. Poi realizzò che era la verità e la stanchezza calò velocemente su di lui, costringendolo alla ritirata ed al riposo.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il dolore nel sangue. ***


Si fece così pomeriggio, nuovi pakras vennero offerti ed il loquace Ax proseguì il racconto col suo giovane ospite.
«Indovina cosa successe.»
«Cosa?»
«Andiamo indovina!»
«Ma dimmelo, che ci provo a fare!»
«Dannazione, sei una noia. Va bene te lo dirò. Elohette venne a trovarci!»
«Cosa!? Davvero?»
«Oh, sì. Lei, il suo nuovo stupido marito e Lord Bisbak vennero a presenziare l’inaugurazione della nuova gestione dell’arena. Nuovi proprietari, stesso schifo per noi “attori”. Ma quella volta il gladiatore vincitore del torneo sarebbe stato ricompensato non solo con la gloria e la promessa di oro ma con la libertà. Solitamente infatti si muore gladiatori, una volta entrati. Ma la nuova gestione volle mostrare clemenza ed io lo sfruttai per poterne finalmente uscire. O almeno, lo volle la mia coscienza, quella inerme.
Loro non credo ebbero mai notizie di me. Lo dico perché durante quei giochi, con le mie braccia ricoperte di ferro, una scure lunga e larga come questa che ho qui, ma senza dentelli, ed un elmo dalle fattezze di un teschio, massacrai decine, che dico, centinaia di contendenti! La competizione si svolse in più fasi, più giornate con sfide particolari. Il mio corpo era ancora sotto il controllo del secondo me stesso, la mia coscienza si concentrò solo sull’osservare Elohette, sul ricordare chi eravamo prima di divenire assassini spietati e privi di ragione.
Non mi riconobbero, nascosto dall’elmo. Superai tutte le fasi ed arrivai alle finali. Mutilai tutti gli ultimi contendenti, lasciandoli in vita solo per poter urlare e dimostrare ai presenti cosa significa combattere contro di me: soffrire atrocemente e morire ugualmente.
La folla non mi interessò mai, ma era in visibilio per me. Urlarono come non mai, lanciarono fiori e cibo in segno di apprezzamento e le trombe suonarono alla mia vittoria. Alzai le braccia, stringendo la grossa scure con una mano sola e guardai verso il cielo. E il cielo mi incantò.»
«Cosa vuoi dire?»
«Non so cosa successe nella mia mente ma… mi bloccai. La mia coscienza sentì nuovamente la presenza del corpo ma qualcosa di caldo e tossico fece irruzione e pressione nella mia testa.»
Il ragazzino sembrò teso, come durante una storia dell’orrore. Ax ne alimentò gli effetti facendosi grosso e abbassando il tono della voce, recitando:
«Ma guardati, Ax. Ancora prigioniero.
Disse.
Togliamoci una volta per tutte queste catene.
Di cosa parli? - Gli risposi. Anche se in realtà parlavo tra me e me.
Pensi che io abbia dimenticato? Ti ricordi come ci hanno trattato a Nem?
Non ci hanno mica ucciso.
Ci hanno imprigionato e privato della vita, se non è questo uccidere, cosa lo è?»
Ax alternava persino le voci, con abilità e una strana determinazione.
«Non posso ascoltarti. Voglio un’altra possibilità con Elohette.
Elohette? Dimentica quella sgualdrina. E’ come tutti, ti tradirà.
Hai dimenticato che possiamo essere felici?
Felici? Vieni a vedere qui dentro cosa hai combinato.
Uno di noi potrà avere il controllo del corpo. Uno soltanto.
Vuoi essere tu? Ci rovineresti! Ci faresti sfruttare, ti inginocchieresti.
Ma di che parli!
La gente ti userà, sei una macchina omicida. A nessuno frega se sei un bravo bambino colto ed educato. Ti hanno venduto come si fa con i buoi e le pecore. Sbattuto di cella in cella solo perché “esistiamo”. Tutto per colpa di mamma e papà!
Non provare a nominarli! Loro ci hanno voluto bene, nonostante avessero le loro vite.
Non provarci con me, ci hanno mentito e nascosto la reale natura del mondo. Tutti continuano a farlo. Ti sottometteranno se non lo farai prima tu con loro.
Dannazione!
Dannazione lo dico io! - E urlammo entrambi.
Sembra che anche il mio corpo urlò, raggiungendo un acuto urlo di battaglia spaventoso. Coprii gli applausi e lasciai tutti esterrefatti.
Mi tolsi l’elmo con foga e guardai Elohette, fin sopra gli spalti, dritta negli occhi. Con la furia nel mio sguardo e la mia testa solcata dalle cicatrici. Mi riconobbe, senza dubbio. Oltretutto solo io portavo il marchio facciale dei Nem.»
«Non dirmi che…»
«Esatto. Massacrai tutti, ma proprio tutti!»
L’aria spaventata di Hud preoccupò Ax, ma non riuscì a fermarsi.
«Le mie voci iniziarono a combattere tra di loro e nel frattempo, il mio corpo se la spassò. Saltai ad un’altezza considerevole, degno di un demone, e fracassai la testa ad uno spettatore. Poi un altro e così via, saltando allegramente e affettando chiunque fosse a tiro. Arrivai fin sopra il piano dei nobili e sono sicuro di aver tagliando a metà per lungo Lord Bisbak senza nemmeno farci caso. Ma ricordo bene di aver afferrato la povera Elohette per la gola ed averla scaraventata giù da dieci metri fin sotto gli spalti. Saltai e le atterrai con i piedi sulla pancia, uccidendola del tutto, e poi la decapitai. Feci tutto con un sorriso demoniaco sullo sguardo ma quando ebbi la sua testa tra le mani, iniziai a piangere. Feci una pausa per l’intensità del pianto, i sussulti al cuore, le lacrime a fiotti. Ma non bastò, ancora piangendo ricominciai il massacro e con una forza disumana portai con me più vite che potei. Fuggirono gli altri, per giorni nessuno osò avvicinarsi all’arena ed io mi nutrì, come un morto vivente, di cadaveri crudi e sonno leggero, pieno di ansie ed incubi. Tornai il silenzioso e solitario Ax di un tempo.»
«La tua vita è davvero triste, Ax.»
«Grazie, eh. Peccato che la pacchia finì. Arrivò l’esercito e mi prese in custodia. Ancora una volta incatenato, ancora una volta condotto in una cella. Stavolta ancora più a Nord, uscii dal deserto ancora una volta dunque ma fui condotto comunque in una nuova caverna. Ai lavori forzati, schiavo essenzialmente. Circondato ancora una volta da bruti e scontrosi criminali. Non esattamente un posto divertente, ero anche il più giovane.»
«Ti hanno portato alle Cave Kendrar? Accidenti, è una colonia di schiavi famosa, sai?»
«E certo che lo so, mi ci hanno messo dentro! La conosco la vita che fanno: cibo scarso, a dormire nelle ore notturne e a spaccare pietre nelle diurne. Più semplice e brutale di così, si muore. E infatti molti ci morirono.»
«Non dirmi che sei scappato anche da lì…»
«Non avere fretta! Lo sai cosa fanno lì gli schiavi?»
«Picconano le pietre?»
«Ma sai perché lo fanno?»
«Mmmh. Effettivamente no.»
«Ecco, quello lo facevamo perché dovevamo scavare gallerie. L’impero Gol, al tempo in cui possedeva le miniere e quindi il traffico di schiavi, cercò di estrarre un materiale particolare: le Gemme Iridescenti.
Hanno capacità magiche particolari, sono molto richieste dai maghi di alto rango e dai criminali più impavidi. Ovviamente il loro traffico frutta milioni di monete d’oro, ti ci compreresti un regno con dieci kili di quella roba!»
«Accidenti, sono un sacco di soldi!»
«Non hai idea di quanto oro ci passava per le mani sotto forma di gemme. Quelle dannate pietre però emanavano una radiazione pericolosa. Molti schiavi morivano come essiccati, privati della loro energia vitale. E come sempre, la vita mi fece ammalare. I sintomi si presentarono ed io iniziai a perdere forza. Ero comunque una bambola mossa dai comandi altrui. Le mie due coscienze non ebbero il coraggio di scontrarsi ancora, dati i risultati dell’ultima volta. La depressione si fece sempre più pesante e con la debolezza della malattia da radiazione, i medici non poterono che ricoverarmi. C’erano alchimisti e stregoni tra i loro ranghi, capaci di giudicare e intervenire dove la magia fosse richiesta, trattandosi di pietre che emanavano e risucchiavano energia.
Ero però molto resistente, che il mio corpo sia maledetto, e si presero la liberà di fare degli esperimenti. Io non ebbi le forze per rifiutarmi e mi feci traportare nel turbinio di iniezioni e riti magici con tanto di candele e glifi tatuati sul corpo.
Passarono gli anni, sette. La malattia arrivò a corrodermi e gli interventi, magici e non, sembrarono inutili contro l’avanzare dei lavori. Non facevo altro che minare, sporcarmi e trasportare quelle dannate gemme avanti e indietro tutto il giorno. Mi imbottivano di medicine, mi benedivano e tornavo a lavorare. Finché un bel giorno non collassai. Diedi un’ultima picconata, poi caddi con la testa e la battei con l’elmetto sulla roccia, rivelando una Gemma Iridescente e svenendoci sopra.
Quando mi risvegliai, il mio corpo era guarito. Mi alzai dal letto, ero nella mia stanza. L’ora dei lavori risuonò tramite la campana del campo ed io mi catapultai meccanicamente fuori.
Mi presi del tempo per osservarmi meglio. Ero in forma, in carne, muscoloso. La mia testa era più liscia del normale e soprattutto… potevo accorgermi di tutto! Avevo ripreso la connessione tra coscienza e corpo. Non provavo più paura, non più rimorso o dolore. Camminai tra la schiera di schiavi, dirigendomi come sempre alla mia postazione ma con una serenità inaspettata. Presi il piccone dalla mano di una guardia esterrefatta, me ne accorsi.
Tutti mi fissarono come avessero visto un fantasma.
Come biasimarli, fino alla sera prima ero uno scheletro con la pelle.
Gli alchimisti e i dottori si precipitarono fuori dalle loro tende e mi circondarono. Mi riempirono di domande, più che altro chiedendomi cosa mi fosse accaduto; ci pensai anch’io.
Già, cosa ci è accaduto?
Parlò però ancora la voce del mi alter-ego. Pensavo di averlo sconfitto, di aver ripreso il completo controllo.
Tranquillo, ce l’hai.
Mi rispose, anche.
Ricordai tutto ciò che mi accadde. Ma intendo tutto, eh. Dall’inizio delle mie crisi: la sfuriata con la ragazza nelle cucine, il volto di alcune serve stuprate e sgozzate nella sala in cui mi preparavo per il matrimonio, il terrore dei ragazzi che uccisi a mani nude nell’arena e dei mille che massacrai con la mia scure. Inclusi gli spettatori, i nobili, Lord Bisbak ed Elohette. Ricordai la sua paura e la sua disperazione. Ogni vuoto causato dalle crisi, fu riempito.
Le guardie mi intimarono più volte di muovermi, ma le mie emozioni si mescolarono e si compressero come lava in un vulcano in procinto di esplodere. Ricordai il dolore provato ed inflitto ma mi tornò anche la voglia di vivere.»
«Caspita…»
«Mi frustarono sulla schiena. Più il dolore aumentava, più il mio sorriso si allargava. Il dolore infine sparì e la serenità mi pervase. Allargai le braccia come ad accogliere una pioggia fredda del cielo, accolsi invece il mio sangue spruzzato per aria. Però restò in aria! Sembrò levitare, sembrò voler uscire dal mio corpo a fiumi come finalmente libero dalla maledizione del mio corpo. Si addensò sopra la mia schiena, come una bolla, prese poi forma e ne uscirono delle braccia ed una testa.
Delle dita si strinsero in pugni pieni di rabbia, un teschio cremisi spalancò le fauci e sibilò, riecheggiando sulla parete di roccia e cunicoli.
La figura spaventosa di un uomo con uno spettro fatto di sangue che esce dalla sua schiena deve aver fatto abbastanza paura ai presenti. Non che mi fossero antipatici. Punire gli schiavisti e punire gli schiavi. Scesi a compromessi con il mio alter-ego ed egli mi prestò la sua forza.
Divenni una belva con quattro braccia: le mie e quelle del torso cremisi che mi si era generato sopra.
Sentii il ferro scorrermi nel corpo e formare proprio quest’arma che vedi qui.»
Disse mostrando la scure mezza dentellata e mezza liscia, alta due metri tra la larga lama ed il robusto manico.
«Questa me la feci costruire molto tempo dopo, ma quella venne creata col ferro del sangue del mio corpo. La spada però si fece sempre più densa. Senza rendermene conto, ancora in uno stato catatonico di felicità, massacrai subito delle guardie, falciandole con le affilate unghie dello spettro di sangue che si allungava e fletteva con maestria.
La spada poi si formò e frantumò ancora. Ossa, carne e pietra. Mi scontrai con l’esercito Gol ed i loro ufficiali, persino quattro Capitani mandarono. Non ci fu verso. Finii col brandire quattro di queste immense e pesanti scuri, una per braccio, forgiate dal sangue di migliaia di uomini, innocenti e non.
Il mio corpo era ferito, spezzato, aperto. Le ossa potevano intravedersi con facilità e il mio braccio destro stava per staccarsi completamente dalla spalla. Per non parlare dei danni a schiena e gambe. Restai in piedi, per qualche motivo. Lo spettro mi sorresse con la forza dell’ira e del sangue, mie e delle vittime di quel giorno.» Ax chinò la testa.
«Ma non potrò mai pentirmi di quel giorno. Fui me stesso, finalmente. Fui libero da ogni costrizione e abbastanza forte da affrontare ogni ostacolo. Le mie metà smisero di essere deluse l’una dall’altra ed iniziarono a scendere a compromessi. Nessuna volle abbandonare il mio corpo e le onde magiche delle gemme devono aver creato un mezzo di comunicazione tra le due. Beata magia.»
«Per tutti i diavoli, allora è vero che sei maledetto. Sei fenomenale, un guerriero con un demone guardiano, sei un eroe!»
«Eroe lo sono diventato troppo, ma questa è un’altra storia. Per te è il momento di andare adesso. Sento la puzza delle tue guardie e di tuo padre, che schifo. Puzzano di alcol.»
«Cosa? Ma che dici?»
«Ti sono venuti a cercare ed ora devi andartene. Saluta la mia armatura, giovane Hud. Mantieni segreta la mia presenza e non prendere esempio da me.»
«Ma io…»
«Vai e non discutere con il Folle Cavaliere, o potrei avere un’altra delle mie crisi!»
Scherzò, spaventando comunque il giovane Hud. I due si scambiarono un sorriso e si separarono silenziosamente.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3759324