La tua mano nella notte

di PerseoeAndromeda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La tua mano nella notte

 

 

Prologo

 

Trascinarsi come terra legata alla terra, una creatura deforme che striscia, senza meta e senza identità, un grumo di pieghe mostruose che si afflosciano verso il suolo, senza gambe, braccia come scheletri raggrinziti, denti digrignati e orbite vuote tese verso il cielo che significa libertà.

Libertà da che cosa?

Da tutto questo dolore che lo tiene avvinto alla terra.

Un mostro… solo un mostro orribile fuori e marcio dentro.

Questo… questo…

 

“Sono io…”.

Gli occhi di Aito si schiusero nelle tenebre della sua stanza. Come al solito gli ci volle qualche istante per comprendere dove si trovasse: quel sogno lo portava in un altro luogo, quasi tutte le notti e, nel sottile passaggio tra il sonno e la veglia, per qualche istante, rimaneva vivida la sensazione della terra umida sotto le mani, il solletico degli arbusti, i graffi dei rami contro la pelle… e i richiami ipnotici degli yurei1 che lo invitavano ad unirsi a loro per sempre, nel mare di alberi di Aokigahara.

Si alzò, rassegnato a non riprendere sonno: quando tornava cosciente dopo uno di quegli incubi il sonno svaniva, il cuore batteva troppo forte e la testa girava in preda ad un turbine di pensieri confusi. Erano diventati così contorti, così pressanti, che diventava inutile appigliarsi alla ragione per ritrovare una lucidità mentale d'altronde ormai smarrita da tempo.

Non ricordava quando fosse iniziata la sua caduta nel baratro, non ricordava neanche se ci fosse una reale motivazione: sapeva solo che, ad un certo punto, la sua esistenza era diventata troppo pesante, la vita stessa con le sue tragedie, le sue contraddizioni, troppo difficile da accettare.

Si affacciò alla finestra che dava sulle strade buie e deserte, ma il suo sguardo si posò sulle sagome nere dei rilievi in lontananza: laggiù vi era il luogo che era diventato la sua ossessione, il mare di alberi che lo chiamava nei suoi sogni.

“Aokigahara” mormorò, mentre dagli occhi spenti scivolavano lacrime silenziose.

1Gli Yurei sono i fantasmi della tradizione giapponese.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

 

Il treno correva a velocità moderata tra i monti della prefettura di Yamanashi; al di là del vetro piccoli paesi si alternavano a boschi, fiumi e verdi vallate nelle quali occhieggiavano, qua e là, casolari sparsi con i loro variopinti tetti di ceramica.

Gli occhi di Aito erano persi fuori dal finestrino, fissi su quel paesaggio che conosceva a memoria.

Lo sguardo di Daisuke, invece, era perso in quegli occhi, tanto strani da vedere, con il loro verde intenso, in terra giapponese, quanto grandi e belli: il giovane si chiedeva quando essi avessero cominciato a mutare a tal punto.

Lui e Aito si conoscevano da sempre.

Vicini di casa nella cittadina termale di Isawa Onsen, erano nati a distanza di un anno l'uno dall'altro e la loro crescita fianco a fianco si era dipanata come un evento naturale e necessario riguardo al quale nessuno che li conoscesse si era mai posto domande: era accaduto perché doveva accadere e tanto bastava. La loro diversità non era mai stata un ostacolo all'affetto che provavano l'uno per l'altro.

Per Daisuke era sempre stato facile rapportarsi con il mondo, socializzare, farsi nuovi amici.

Per Aito no.

Timido e sensibile, nel suo microuniverso era sempre esistito solo Daisuke, non importava quanto spesso conquistasse gli altri con la sua dolcezza ed i suoi modi affabili, lui sembrava non saperlo, si accorgeva solo delle occhiate ostili dovute alla sua condizione di gaijin1 mai del tutto accettato.

Daisuke ricordava una conversazione svoltasi tra di loro nel giardino di casa sua, non molto tempo prima.

Quel giorno Aito era particolarmente pensieroso, le mani in tasca, gli occhi perennemente rivolti alle nuvole che correvano nel cielo azzurro.

“Dai-kun, sai, a volte mi chiedo come tu riesca ad essere tanto tollerante con me”.

Daisuke l'aveva guardato, totalmente incapace di dare un senso alla frase che aveva udito. lnfatti non seppe ribattere, ma Aito si sentì addosso il suo sguardo ed abbassò il proprio a terra.

“Come puoi sopportare la mia costante presenza in tutto ciò che fai? Tu avresti amici anche senza di me”.

Daisuke era andato su tutte le furie, ma non l'aveva mostrato all'amico, non gli mostrava mai quanto spesso la sua bassa autostima lo mettesse a disagio. Si era limitato a scrollare le spalle e a mormorare:

“Certo che ne dici di scemenze”.

E poi si era affrettato a cambiare argomento, come sempre.

Anche adesso, mentre il sole faceva capolino dalle vette e il treno li conduceva verso la città di Yamanashi, Daisuke non sapeva cosa dire, gli mancavano i momenti leggeri, le risate che condividevano e che si diradavano sempre di più.

“Aito...” Io chiamò leggermente e l’altro sussultò, come se solo in quel momento si fosse ricordato di non essere solo.

Si voltò verso di lui, gli occhi vacui, smarriti. Ed erano così segnati da farlo sembrare un po’ più vecchio, persino malato.

“Sei stanco?”.

Aito scosse il capo:

“Ho solo dormito poco”.

Daisuke corrugò le sopracciglia: ormai dava quella risposta troppo spesso.

Aito ritenne che tanto bastasse per porre fine alla questione e tornò a guardare fuori dal finestrino… sempre che quegli occhi senza espressione vedessero realmente qualcosa.

Per Daisuke la questione era tutt'altro che conclusa, ma il solito, fastidioso senso di colpa si insinuò in lui: c'era qualcosa che gli impediva di approfondire, di voler capire fino in fondo cosa si celasse dietro l'evidente malessere dell'amico. Forse temeva che fosse tanto profondo da contaminarlo? Era davvero così egoista da anteporre il proprio benessere a quello di Aito?

O forse, dopotutto, temeva di conoscere una persona diversa dal compagno con il quale era cresciuto o, peggio, di scoprire che non era affatto in grado di aiutarlo?

Sospirò, in preda allo sconforto.

Aveva preso con troppa leggerezza i momenti di malinconia sempre più frequenti del suo amico? Perché il bambino dagli occhi luminosi e pieni di sogni si era trasformato, in un percorso lento ma inesorabile, nel giovane uomo triste che era adesso?

Venne annunciata la fermata di Yamanashi e Aito fu il primo ad alzarsi, con mosse meccaniche che rendevano ancora più evidente la sua estraneità all’ambiente nel quale si trovava immerso.

Daisuke seguì i suoi movimenti con lo sguardo, per qualche istante: era quella parte di lui che faceva di tutto per ricordare all’amico che lui era lì, per far notare la sua presenza.

Qualche passeggero lo superò e, quando finalmente riuscì a scendere, Aito era già all’altezza del sottopassaggio: per raggiungerlo dovette fare una piccola corsa.

Questa volta non poté fare a meno di mostrarsi indispettito e lo prese energicamente sotto braccio:

“Hai proprio deciso di startene per i fatti tuoi, stamattina?”.

Percepì sotto le dita il tremito del giovane e un altro sussulto, un nuovo ritorno alla realtà dopo l'estraneità al mondo.

“Scusami… ero sovrappensiero”.

“Già, me ne sono accorto, non ci siamo scambiati quasi una parola”.

Mentre scendevano le scale, Aito chinò il capo: era visibilmente contrito.

“Non avercela con me, Dai-Kun”.

Daisuke avrebbe urlato per la frustrazione, dopo la tristezza arrivava il senso di colpa: non sapeva quale dei due aspetti del malessere di Aito lo facesse più infuriare.

Strinse i denti…

Perché avrebbe dovuto infuriarsi? Lui stesso faceva una colpa ad Aito per quello che era diventato?

Non era così: in realtà era infuriato solo perché non si confidava con lui. Ed era infuriato anche con se stesso, perché non riusciva a costringerlo a farlo.

 

***

 

Lo schermo del computer gli ondeggiava davanti facendogli male agli occhi, la pagina del sito al quale stava lavorando era velata da uno strato di nebbia. Si passò pollice e indice sulle palpebre: inutile negarlo a se stesso, non si trattava dello schermo, ma delle lacrime che tanto spesso non controllava. Ormai cominciavano a scendere senza che se ne accorgesse, silenziose, a ricordargli che non sarebbe mai più riuscito a tornare quello di un tempo. Quando era iniziato?

Ricordava un'infanzia felice.

Poi i primi lutti in famiglia, i suoi sensi che accoglievano con angoscia le brutture di un mondo che non capiva e che faticava ad accettare, rendersi conto che chi gli stava intorno lo sentiva estraneo e diverso…

E da ogni singolo dramma, piccolo o grande che fosse, lui, troppo debole e fragile, piano piano si era visto sopraffatto, soffocato, incapace di dare un ordine a tutto.

Fu sul punto di urlare al tocco che sfiorò la sua spalla.

“Che hai? Ti ho spaventato?”.

Respirò a fondo, non era assolutamente concepibile che Daisuke si accorgesse dello stato in cui versava. Doveva fare in modo di ritrovare il controllo di se stesso prima di rispondere, doveva rendere ferma la propria voce, ma temeva che cominciare a parlare significasse lasciare via libera al pianto che per ora si era sfogato solo attraverso gli occhi.

“Ero… concentrato”.

Parlò a voce bassa per mascherare l'inevitabile tremolio di ogni parola.

Daisuke si sporse oltre la sua spalla, a scrutare lo schermo.

“Hai qualche intoppo con il software? Ti serve una mano?”.

Lo schermo tremava davvero troppo… o era lui che tremava?

“N-no… non credo. Perché?”.

Gli occhi dell'amico abbandonarono la pagina web per spostarsi sul suo viso, facendolo sentire piccolo e nudo.

“Sei fermo al medesimo punto di stamattina”.

Si stropicciò nervosamente le mani l'una contro l'altra e guardò con occhi vacui la tastiera, ma le lettere ballavano e i tasti sembravano muoversi da soli, un po' su e giù, un po' ondeggianti come le placche terrestri durante un terremoto. Ingollò un grumo di saliva troppo denso e respirò ancora:

“Non ero soddisfatto e ho cancellato il lavoro”.

Era dannatamente difficile sforzarsi di conferire naturalezza al tono della propria voce, più ci provava e meno gli sembrava naturale.

“Ma così rischi di non finire in tempo”.

Sbuffò, nascondendo il volto nelle mani: Daisuke non poteva saperlo, ma stava ottenendo solo di aggiungere ulteriore ansia a quella che già lo opprimeva.

Sentì il rumore di una sedia che veniva spostata e seppe che Daisuke si era accomodato accanto a lui; il suo respiro era caldo, la sua presenza avvolgente, troppo in quel momento durante il quale per Aito risultava difficile controllarsi.

“Dai, non ti agitare, ti do una mano io, così nel giro di un'oretta o due ti rimetti a passo. Tanto io ho finito tutto il lavoro che avevo in programma per stamattina”.

Aito si alzò di scatto, scostandosi dall'amico in maniera così brusca che si spaventò di se stesso e ricevendo, in cambio, uno sguardo quasi costernato.

“Ho bisogno di staccarmi”.

Daisuke non rispose subito, poi scosse il capo, si alzò a propria volta e mise le mani sui fianchi, tendendo la schiena per sgranchirsi.

“Pausa pranzo allora! Prendiamo qualcosa al Seven o preferisci andare in un locale?”.

Una scrollata di spalle fu l’unica risposta che riuscì a dare, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, lo sguardo fisso a terra. Da qualche parte dentro di lui, uno dei pochi frammenti di se stesso conservatisi lucidi gli diceva che stava mostrando in maniera troppo plateale il proprio stato d'animo, cosa che non aveva mai voluto fare, ma quella parte era distante, affondata nel buio di un’anima che faticava sempre più a riconoscere come propria.

 

 

 

***

 

Il cielo era così limpido sopra Yamanashi che la vetta del Fuji si accendeva di tanti lampi dorati nel riflettere i raggi del sole.

Qua e là, nei parchi e nei viali, qualche timido fiore di ciliegio cominciava a fare capolino tra i rami.

“Non manca molto all’hanami2” osservò Daisuke, gli occhi che vagavano qua e là, a cogliere i primi segnali di primavera.

Sperava, in tal modo, di ravvivare l’interesse dell’amico, di scorgere, nei suoi occhi, un po’ degli antichi fermenti, di quella gioia ed emozione di fronte alla bellezza della vita. Aito aveva sempre amato quel momento dell’anno in cui tutto, intorno a loro, si risvegliava e si riempiva di luce.

Spiò la sua reazione e rimase deluso: Aito non guardava assolutamente nulla, se non l’asfalto della strada, ma Daisuke non era certo che vedesse neanche quello. Era probabile che non avesse neanche ascoltato le sue parole.

Con un sospiro infilò le mani in tasca e tornò in silenzio: gli dispiaceva dover ammettere che la compagnia dell’amico, da qualche tempo, era diventata opprimente, anche se gli bastò concepire un tale pensiero per sentirsi in colpa.

Come se gli avesse letto nella mente, Aito parlò per la prima volta da quando erano usciti e quello che disse fece sentire Daisuke ancora più male:

“Mi dispiace Dai-kun, potevi andare a pranzo con gli altri, io non me la sentivo”.

Daisuke lo guardò, ma non riuscì a rispondere subito, soprattutto perché le successive parole di Aito risultarono anche peggiori da sopportare:

“Non dovevi sentirti obbligato a venire con me… non me la sarei presa”.

Il tutto pronunciato con quella sua voce dolcissima e morbida che, nei momenti migliori, riscaldava solo ad udirla, ma che adesso era come il pianto di una creatura in agonia. A maggior ragione il cuore di Daisuke si sciolse: avrebbe voluto afferrargli un braccio per attirarlo contro di sé e stringerlo forte, per non lasciarlo andare finché non gli avesse confessato cosa gli stesse accadendo.

Invece, come sempre, si lasciò vincere dalla paura…

Paura di una reazione che lo avrebbe colto di sorpresa, che lo avrebbe messo a contatto con una persona che non era più così sicuro di conoscere.

Si limitò quindi a sbuffare, gli occhi levati al cielo e a commentare con le prime parole che gli salirono alle labbra:

“È una giornata così bella che non andava neanche a me di andare a pranzare in un locale, preferisco comprare qualcosa e sedermi al parco”.

Aito annuì e lasciò cadere l’argomento, ma Daisuke avrebbe voluto che sollevasse, almeno un po’, gli occhi su di lui; invece li mantenne fissi a terra, a guardare non si sapeva cosa. Intanto avevano raggiunto il Seven Eleven3 che si trovava a pochi passi dal posto di lavoro. Daisuke non poté fare a meno di osservare quanto poco cibo Aito comprò per sé e, per l’ennesima volta, notò quanto fosse dimagrito negli ultimi mesi.

“Ti ricordo che devi arrivare fino a stasera” cercò di scherzare, “guarda che se ti viene fame io non ti do niente!”.

Con soddisfazione riuscì a strappargli un sorriso, per quanto forzato e intriso di tristezza: “Tranquillo, non mi verrà fame, puoi divorare tranquillamente tutto quello che hai preso”. Daisuke fece una smorfia:

“Non è così positivo che non ti venga fame”.

Continuando a sorridere, Aito scrollò le spalle, gesto che gli era diventato abituale e che faceva pensare ad un’inquietante indifferenza, soprattutto nei confronti di se stesso. Pagarono e tornarono all’esterno e lì Aito si immobilizzò, gli occhi enormi fissi davanti a sé. Daisuke, preoccupato, seguì la direzione del suo sguardo.

Comprese subito cosa avesse turbato l’amico a tal punto: sull’asfalto giaceva il corpo senza vita di un colombo, le piume sparse e il sangue ancora caldo.

“Prima non c’era… devono averlo investito adesso”.

La voce di Aito era flebile, tremante, sull’orlo delle lacrime e Daisuke si morse le labbra: Aito si era sempre mostrato sensibile al cospetto di ogni scena triste cui gli capitasse di assistere, ma quella tendenza, nell’ultimo periodo, aveva assunto connotati sempre più destabilizzanti, persino distruttivi.

Gli prese una mano e se lo trascinò dietro, più lontano possibile da quella visione angosciosa.

“Non ci pensare, vieni qui”.

Nell’attirarlo verso di sé, prese la sua testa e se la portò sulla spalla, poi affondò la mano nei ricci morbidi, strappandogli un gemito e un sussulto.

Daisuke non aveva resistito alla tentazione di lasciarsi andare ad un gesto di affetto e fu felice nel constatare che Aito lo accettò, come lo avrebbe accettato un tempo. Forse, dopotutto, ne aveva ancora bisogno, forse almeno quello non era cambiato.

È questo che vorresti?” avrebbe voluto chiedergli, “più abbracci, più affetto?”.

Lui era lì per darglieli, perché non accadeva più spesso?

Ancora si arrabbiò con se stesso: se Aito era un testone che non chiedeva aiuto anche lui, Daisuke, lo era, anzi era un vigliacco, terrorizzato da quel nuovo Aito che non cessava di amare in maniera profonda, ma la paura di vederlo scivolare via, inghiottito dalla propria stessa oscurità, era ancora più forte del coraggio che avrebbe dovuto mostrare nel dargli un appoggio.

Raggiunsero il parco e si sedettero su una panchina riscaldata dal tiepido sole di inizio primavera. Dal punto in cui si trovavano era possibile vedere il Fuji, che si stagliava solenne all’orizzonte, la dama velata, incontrastata custode e regina di quell’angolo di Giappone incuneato tra i monti.

Mentre Daisuke divorava con appetito tutto quello che aveva comprato, Aito sbocconcellava la sua insalata controvoglia, tanto da attirare nuovamente l’attenzione dell’amico.

“Lo vuoi almeno un po’ di pane? Ne ho comprato abbastanza per entrambi”.

Aito scosse il capo:

“No, grazie, mangerò di più stasera”.

“Come no” borbottò Daisuke, poco propenso a credergli.

Una coppia di piccioni scese dagli alberi per aggirarsi circospetta, gli occhietti curiosi e speranzosi che qualcosa cadesse dalle loro mani. Daisuke colse al volo l’occasione per cercare di rasserenare l’amico: staccò qualche briciola dal proprio panino e la gettò a terra. Il gesto richiamò non solo i due primi arrivati, ma un intero stormo che piombò dal cielo, in un frullare di ali e piume, ad ingaggiare una lotta all’ultimo rimasuglio di cibo.

Daisuke sperava che la vivacità e il fremito della vita confortassero Aito, dopo lo spettacolo di morte cui aveva dovuto assistere.

“Loro pensano solo a vivere. Dimenticano presto il dramma” commentò, osservando l’amico di sottecchi, per cogliere ogni sua espressione.

Aito, intanto, si era accovacciato a terra, si era fatto salire un piccione su una mano e lo guardava con un sorriso mesto:

“Non sanno quel che si rischia a vivere…”.

Daisuke corrugò la fronte:

“Sì che lo sanno, ma la vita viene prima di tutto, deve essere così, prima della paura e della tristezza”.

Il sorriso scomparve dai lineamenti di Aito:

“Hai ragione”.

Pronunciò quelle parole con tono neutro, tutt’altro che convinto e, per l’ennesima volta, Daisuke si sentì sconfitto.

 

***

 

“Sono a casa!”.

Aito si sfilò le scarpe posandole sulla pavimentazione in legno del genkan4 e chiuse lo shoji5 alle proprie spalle.

Lo stretto corridoio che portava alle stanze della sua casa era immerso nel buio, ma un fascio di luce si riversava dalla cucina e alcuni bisbigli raggiunsero le sue orecchie, mentre le narici vennero colpite dal profumo della cena in cottura.

Trovò la nonna seduta al tavolo e sua madre impegnata ai fornelli: fu certo che avessero interrotto di colpo una conversazione dopo averlo visto comparire nella cornice della porta, come a volergli nascondere qualcosa. Non importava che lui fosse adulto, sulla soglia dei trent’anni, loro due continuavano ad essere protettive nei suoi confronti, cosa che lo umiliava perché, per quanto si impegnasse, non riusciva a dimostrare di essere ormai un uomo da tempo.

Ogni volta che rincasava il suo cuore veniva invaso da un senso di profonda tristezza e nostalgia, la sua memoria andava a quando c’erano tutti intorno a quel tavolo: suo nonno, suo padre, cani e gatti che avevano transitato tra quelle mura e altre presenze di amici e parenti scomparsi da anni.

Pian piano tutto si era svuotato di voci e di vita, tutto era diventato malinconia e silenzio, quello era il significato del trascorrere inesorabile del tempo, la perdita e l’abbandono, l’incapacità sempre più grande di affrontarli e l’amplificarsi, anno dopo anno, di sofferenze e paure… e la consapevolezza di sentirsi sempre più soli.

“Che succede?” domandò, facendo correre lo sguardo sulle due donne di casa. Non fu cieco di fronte all’inquietudine che rendeva sfuggenti gli occhi di sua madre.

“Le solite stupidaggini” rispose la nonna, energica, con una scrollata di spalle, “ma tua madre se la prende sempre troppo”.

Se entrambe erano protettive con lui, la nonna li proteggeva entrambi. Era una donna forte, plasmata nell’autentico spirito dell’antico Giappone: sopravvissuta, senza aver perso la testa, alla morte del marito e di due figli, era stata lei a mantenersi lucida e salda, anche quando, intorno a lei, tutti erano stati sul punto di crollare.

Aveva accettato che il figlio maggiore tornasse da un viaggio in Europa accompagnato da una gaijin, dopo un primo momento di sconcerto aveva preso relativamente bene anche la notizia dell’arrivo di un nipote. Si era chiusa in se stessa per un po’ e poi, come era stato raccontato ad Aito, aveva preso in mano le redini della situazione ed aveva deciso che avrebbe difeso quella famiglia ibrida da ogni condanna e pregiudizio, trasformandosi in una madre anche per quella straniera giunta a movimentarle l’esistenza ed un rifugio solido e sempre presente per un nipotino che cresceva fragile, troppo permeabile alle critiche del mondo esterno.

“Ancora le solite vicine?”.

“E tua madre che dà troppo peso alle parole”.

“È che sono stanca di sentirmi straniera a casa mia! E non sono solo loro. Vado a fare la spesa e mi scrutano, come se ogni giorno fossi una creatura diversa, possibile che non si abituino mai a me?”.

“Tu ormai sei giapponese, Maeve, se non se ne sono fatti una ragione dopo tutti questi anni, è un problema loro”.

La donna più giovane sbuffò e apparecchiò la tavola con fare nervoso poi, come se solo in quel momento si fosse ricordata della presenza del figlio, si avvicinò a lui e lo baciò sulla guancia:

“Scusami, Ai-kun, torni stanco da una giornata di lavoro e ti accolgo così”.

Aito ricambiò il saluto e le sorrise. Poteva comprendere sua madre: lui stesso aveva passato anni a sentirsi un escluso a scuola senza capire perché, lui era giapponese, voleva così disperatamente essere giapponese, era nato e cresciuto alle pendici del Fuji, si era sempre sforzato di comportarsi come i giapponesi si sarebbero aspettati da lui, tanto che Daisuke era solito dirgli che sembrava più giapponese dei giapponesi autentici.

Eppure il suo aspetto non ingannava nessuno e lo escludeva a prescindere: se non ci fosse stato Daisuke nella sua vita, se non avesse avuto una famiglia accogliente ed affettuosa, sarebbe sempre stato solo.

Un sottile miagolio e uno strofinarsi sulle sue gambe lo portò ad abbassare lo sguardo:

“Ciao, Yoori”.

Si chinò a raccogliere tra le braccia il gatto di casa ed annunciò che aveva già mangiato fuori, che era stanco e che sarebbe andato subito a letto.

La sua tristezza lo stava rendendo persino bugiardo, una persona che mai più avrebbe potuto amarsi ed essere orgogliosa di se stessa.

1Termine con cui i giapponesi definiscono gli stranieri. Spesso, anche se non sempre, è usato in senso spregiativo.

2Letteralmente: “guardare i fiori”. L'usanza giapponese di festeggiare la fioritura dei ciliegi.

3Catena di Combini o Convenience Store molto presente in Giappone.

4Anticamera di ingresso di molte case giapponesi, dove si è soliti togliersi le scarpe.

5Porta scorrevole che divide le stanze giapponesi, in legno con riquadri di carta di riso.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

Non riesco a muovermi, qualcuno mi aiuti!”.

Era buio, ma lui vedeva se stesso, il medesimo mostro di tutti i suoi sogni, senza più alcuna connotazione umana: arti troppo lunghi fatti solo di ossa, corpo informe che strisciava su un terreno accidentato, avanzava lento, un grumo di dolore puro che solo il peso di tutta quella sofferenza era sufficiente a tenere legato al suolo.

Era pesante, trasformato in un essere senza senso in un mondo in bianco e nero, pesante come il suo cuore che non batteva più, eppure faceva male.

Era troppo stanco, troppo vuoto, persino per urlare.

La sua bocca rimaneva serrata, i denti stretti in un ghigno beffardo, perché tutto quello che poteva fare, ormai, era rivolgere solo odio contro se stesso.

Aiuto… aiuto…”.

 

“Aiuto!”.

Aito si svegliò con quel richiamo tra le labbra. Il cuore nel petto batteva all’impazzata e, lungo le guance, le lacrime si mischiavano con il sudore.

Riconobbe i sintomi di un attacco di panico, quello che lo aggrediva ogni volta che si risvegliava da quel sogno.

Era sempre uguale: lui trasformato in mostro, uno scheletro con brandelli di carne che lo avvolgevano come un sudario, quasi incapace di muoversi per una pesantezza che lo teneva ancorato sul posto, senza permettergli di fuggire, di sottrarsi alla gabbia nella quale si stava rinchiudendo da solo, unicamente per la sua incapacità di affrontare il mondo.

Una sagoma si mosse al suo fianco, strappandogli un nuovo grido di terrore: era talmente sconvolto che non riconobbe subito Yoori, complice il pelo nero che si confondeva con la notte.

Lo fissò per qualche istante, poi cercò di controllare il proprio respiro, senza molto successo, si artigliò il petto con una mano, nel tentativo di calmare il cuore impazzito, ma faceva sempre più male.

Per la prima volta ebbe davvero paura di morire, che il cuore gli sarebbe esploso, nonostante esistesse quella voce, dentro di lui, che beffarda gli suggeriva:

Morire è quello che desideri, no? Ti basta andare là”.

Si portò le mani alle tempie, affondandole nei capelli fino a farsi male.

“Perché?” si chiedeva, perché quel pensiero diventava un’ossessione, ogni giorno di più? Voleva morire? Lo voleva davvero?

E allora a cos’era dovuta tutta quella paura? Sarebbe bastato così poco!

Le mani scivolarono fino agli occhi, dalla gola chiusa nella stretta di panico salì un singhiozzo e barcollò, come se fosse sul punto di svenire.

Voleva scomparire dal mondo e, al tempo stesso, agognava un aiuto, qualcuno che fosse in grado di sollevarlo da quel baratro nel quale, giorno dopo giorno, scivolava sempre più, voleva così disperatamente tornare quello di un tempo, voleva vivere ed essere felice… ma voleva anche morire.

“Dai… Daisuke…”.

Il nome a lui più caro gli salì alle labbra, unica luce in quella che era diventata la tenebra della sua esistenza.

Non voleva che Daisuke si preoccupasse per lui ma, al tempo stesso, aveva tanto, troppo bisogno di lui.

Forse per questo, con gesti meccanici, lottando per non cadere a terra, cominciò a vestirsi poi, passo dopo passo, scese al piano inferiore ed uscì, nella notte ancora fredda nonostante la primavera alle porte.

Il freddo forse gli avrebbe fatto bene, avrebbe in qualche modo rischiarato i suoi sensi.

O forse, dopotutto, si illudeva e per lui non vi era più alcuna speranza.

 

 

***

 

 

Daisuke non riusciva a prendere sonno, si rigirava nel letto senza smettere di pensare ad Aito e al suo opprimente stato d’animo.

Da giorni gli sembrava peggiorato come se, lentamente, l’amico stesse scivolando sempre più in un gorgo di sabbie mobili alle quali non era in grado di sottrarsi. Al lavoro rivolgeva più volte lo sguardo verso di lui, notava che spesso Aito si strofinava gli occhi, come per asciugarsi le lacrime.

E se fosse così? Aito piangeva ogni giorno, più volte al giorno e…

“E io non faccio niente…”.

Si mise seduto sul letto, le mani al volto, chiedendosi perché dava segno di tanta impotenza, perché non riuscisse semplicemente a prenderlo, abbracciarlo, costringerlo, una volta per tutte, a buttare fuori ogni cosa, perché non riuscisse a fargli capire che per lui era tutto, che non lo avrebbe mai lasciato, che l’amicizia tra loro andava oltre…

Oltre ogni dolore e ogni concetto di amicizia concepibile ai più.

Ogni tanto Daisuke aveva l’impressione che Aito volesse dirgli qualcosa senza trovare il coraggio di farlo, sembrava ricercarlo, lo guardava, scopriva quegli occhi verdi levati su di lui e quella sera, mentre era nel letto a pensare a lui, Daisuke si rendeva conto di non aver saputo probabilmente cogliere una sua richiesta di aiuto.

“Sono un idiota” si disse a denti stretti.

Aveva troppa paura di scoprire quale orrore si celasse nel cuore di Aito. Voleva stargli vicino, eppure gli mancava il coraggio di sondare fino in fondo tutta quell’angoscia.

Perché almeno quello l’aveva capito, che quella di Aito era autentica angoscia, che la depressione, quel maledetto male oscuro, si era impadronita dell’animo del suo amico, una bestia nera e feroce che, quando ti prendeva in trappola, difficilmente ti lasciava andare.

Una lacrima sfuggì ai suoi occhi; lui raramente piangeva o si lasciava sopraffare dalle emozioni, ma questa volta non poté impedire a quella solitaria lacrima di sottrarsi al controllo, c’era qualcosa, dentro di lui, che faceva male e si incrinava, era un sospetto, un pizzico doloroso dettato da una paura senza nome. Sentiva di dover fare qualcosa, ma cosa non lo sapeva.

Un uggiolio dal tappeto ai piedi del letto attirò la sua attenzione: Kimi, l’anziana labrador che aveva preso con sé anni prima, si alzò e fece qualche passo verso la finestra.

“Che c’è?” la richiamò Daisuke, ma lei continuò a piagnucolare, lo sguardo testardamente puntato verso l'esterno.

Daisuke si alzò e si diresse alla finestra, tirò la tenda e guardò giù. C’era qualcuno nel giardino, una sagoma esile, immobile, tremante, con le mani in tasca, avvolta dal fascio di luce che la luna piena proiettava a terra.

Daisuke sgranò gli occhi:

“Aito?!”.

Pronunciare quel nome e precipitarsi giù per le scale fu tutt'uno, si concesse solo il ritardo necessario per infilarsi una giacca e, seguito da Kimi, si gettò fuori nella notte.

Pochi istanti dopo furono l’uno di fronte all’altro, in silenzio e Daisuke si sentì, per l’ennesima volta, stupido ed incapace.

Aito teneva il viso basso e sarebbe toccato a lui dire qualcosa: Aito era venuto da lui, adesso Daisuke doveva tirare fuori il coraggio per entrambi, almeno un passo, un piccolo passo in direzione dell’amico che, finalmente, era uscito dal suo guscio per cercarlo.

In fondo, Daisuke non aspettava altro.

“Ai-kun…”.

“Non so perché sono qui…”.

“Se sei venuto, era quello che volevi”.

Aito annuì, senza sollevare lo sguardo:

“Ma non so perché… lo volevo…”.

Daisuke chiuse gli occhi, trasse un profondo respiro, poi le sue mani cercarono il viso dell’amico e lo sollevarono: era strano spingersi a un gesto così intimo…

O forse no…

Dopotutto loro due erano intimi, lo erano sempre stati: restava da vedere fino a che punto avrebbero potuto diventarlo. Daisuke non si poneva limiti.

“E che importa? A me fa piacere”.

“Sai… non volevo stare solo, penso… ho fatto un brutto sogno”.

Il cuore di Daisuke si strinse, Aito non aveva mai rinunciato alla sua riservatezza, neanche per confidarsi con lui: quanto stava male, in quel momento?

“Vuoi raccontarmelo?”.

Il più giovane scosse il capo:

“Vorrei solo fare due passi, ti va di accompagnarmi?”.

Due passi a quell’ora di notte, in una cittadina di montagna quasi del tutto addormentata, loro due soli, se si escludeva qualche auto e qualche passante.

C’era qualcosa che intrigava Daisuke in quello scenario, ma non poteva dimenticare che, se Aito aveva fatto una simile richiesta, significava che qualcosa, in lui, non andava affatto bene.

“Lascia che mi vesta e andiamo”.

Solo a quel punto si accorse che Aito era vestito troppo leggero per l’aria della notte; per questo tremava? O c’era qualcos’altro?

Quando uscì nuovamente di casa, portò con sé una giacca pesante anche per l’amico e gliela porse:

“Sarà un po’ grande, ma basta che ti ripari”.

Aito lo ringraziò e si avvolse nell’indumento, grato perché le sue membra erano, con ogni evidenza, intirizzite.

Si incamminarono per le strade silenziose, con Kimi che li scortava, paziente, senza staccarsi dal fianco del padrone. Si inoltrarono nei vicoli costeggiati da case tradizionali e antichi ryokan poco frequentati da turisti stranieri e i loro passi li condussero fino alla stazione, anch’essa deserta a quell’ora della notte.

“Ti va un caffè caldo?”.

Aito annuì e si sedette su una panchina, le mani in tasca, facendosi piccolo per ripararsi dal freddo…

O per scomparire?

Perché era quella l’impressione che aveva Daisuke.

Prese due lattine dal distributore e ne passò una all’amico che, intanto, si era messo a fissare con insistenza uno shinkansen1 in transito a tutta velocità. C’era qualcosa di strano in quello sguardo, di inquietante, pensò Daisuke.

“Vorrei che la velocità di quel treno mi portasse via”.

Daisuke deglutì: il tono cupo, gli occhi vacui di Aito lo spaventavano. E non era certo che intendesse di voler salire su quel treno per andare lontano…

Aito intendeva un’altra cosa?

Era troppo terrorizzante anche solo immaginarlo.

Gli occhi del più giovane rimasero fissi sulle rotaie anche quando il treno fu scomparso, lasciando dietro di sé solo la scia di vento che la sua velocità aveva sollevato; si riscosse solo quando Daisuke si sedette e gli porse il caffè, che già aveva aperto per lui.

Lo prese e se lo portò alle labbra, con un sussurro di ringraziamento.

Daisuke decise di fare un tentativo, non era più possibile ignorare quello che stava accadendo:

“Allora, vuoi parlarmi del tuo sogno, adesso?”.

Aito rabbrividì e sollevò lo sguardo a scrutare un punto indefinito davanti a sé: si trattava di uno sguardo pieno di terrore, Daisuke non aveva dubbi.

“Avrei solo voglia di dimenticarlo, veramente”.

“Ti capita spesso di fare brutti sogni?”.

Aito esitò e Daisuke temette che si sarebbe chiuso di nuovo.

Invece, grazie forse al silenzio della notte, a quella dimensione nella quale si trovavano soli, loro due e un cane, si creò tra loro una complicità che Daisuke credeva svanita, almeno da parte dell’amico.

Aito abbassò lo sguardo sulla propria lattina fumante, rigirandola distrattamente tra le mani:

“Ultimamente è sempre lo stesso”.

“Sempre lo stesso sogno?”.

Con un cenno d’assenso, Aito si raccolse ancora di più. Sembrava così piccolo adesso che Daisuke avrebbe potuto avvolgerlo tutto nel proprio abbraccio, ma chi poteva sapere come l’avrebbe presa l’amico? Forse un tempo lo avrebbe accettato, ma nell’attuale situazione Daisuke non era più sicuro di niente.

Quasi volesse rispondere ai suoi pensieri, Aito si piegò di lato e Daisuke credette di trovarsi lui stesso in un sogno, ma tutt’altro che spiacevole, quando la testa del compagno si posò sulla sua spalla.

Tuttavia si preoccupò per quell’improvviso abbandono:

“Va tutto bene?”.

“Credo che… dopotutto… mi sia venuto un po’ sonno”.

La voce era già poco lucida, in effetti.

“Ti riaccompagno a casa?”.

“Vai tu se devi andare… io preferirei restare qui”.

Ma come ragionava? Restare in stazione da solo a dormire?

“Ti faccio compagnia”.

Aito rispose con un mugolo sommesso e Daisuke ritenne una buona idea sfilargli delicatamente dalle mani la lattina, prima che finisse a terra spargendo tutto il suo contenuto. La posò vicino alla sua già vuota, poco distante e si rassegnò a restare in quella posizione poco comoda, finché l’amico non si fosse svegliato.

Per assicurargli ancora un po’ di calore abbandonò ogni reticenza e lo abbracciò, stringendolo contro il proprio corpo: almeno entrambi avrebbero avuto meno freddo.

Kimi sollevò il muso dolce a contemplare la scena, incuriosita sia dall’atteggiamento dei due giovani uomini che da quell’uscita fuori programma.

Daisuke le sorrise:

“Amica mia, temo che dovremo essere pazienti. Sarà una notte molto lunga”.

 

***

 

Non c’erano più stati brutti sogni, solo il piacevole calore di un abbraccio che circondava il nulla.

Quel nulla era la sua mente che, per un po’, aveva potuto riposarsi…

Non brutti sogni…

Neanche belli, certo.

Solo il vuoto di una momentanea dimenticanza, l’annullamento da ogni cosa, anche da se stesso.

Non voleva tornare dal nulla: il nulla era riposo, era non sofferenza, voleva restare in quello stato per sempre.

Ma finché si era in vita, anche l’abbandono più completo era destinato ad avere una fine, dopo il sonno senza sogni giungeva la veglia che ormai, per Aito, era il riflesso cosciente dell’incubo generato dall’inconscio.

“Buongiorno”.

Quale buongiorno poteva esserci, ormai, per lui?

Ma quel saluto era così gentile, così premuroso, che un poco di tepore lo fece scendere dentro il suo cuore, nonostante il freddo di quello strano mattino.

Quando aprì gli occhi si ritrovò a guardarsi intorno, confuso: i ricordi della notte precedente erano vaghi e tardò a ritrovare un minimo di lucidità.

Ricordava di essere stato male, di avere perso il controllo dei propri nervi e di avere chiamato Daisuke a un certo punto.

E poi?

Poi solo flash sparsi di se stesso che, come un sonnambulo, vagava nella notte, che cercava Daisuke e che gli parlava…

Poi camminavano fianco a fianco e si sedevano su una panchina della stazione e bevevano caffè.

E un treno che passava…

Il desiderio di alzarsi e di gettarsi sulle rotaie.

Strinse le palpebre e si morse le labbra, terrorizzato da quel ricordo che si era insinuato in lui, più vivido di tutti gli altri.

Non qui…” gli parlò una voce nella mente, “Non è qui che dovrai farlo... vieni nel mare di alberi”.

Si passò una mano sulla fronte, per cacciare via quella voce sempre troppo presente, insistente negli ultimi tempi.

Si guardò ancora intorno: era davvero in stazione, ma qualcosa lo riparava dal freddo, come un nido caldo ed accogliente.

Gli ci volle qualche istante per riconoscere, in quel rifugio, un abbraccio che lo teneva stretto contro il petto di un altro essere umano.

Si mosse, stropicciandosi gli occhi.

“Dormito bene?”.

Non aveva più dubbi che fosse la voce di Daisuke e adesso aveva un’inflessione particolare, come divertita dalla situazione, ma anche preoccupata, perché la situazione medesima non poteva dirsi, certo, normale.

Non rispose e tentò di mettersi dritto.

Era anchilosato e poteva solo immaginare quanto fredda e scomoda fosse stata la posizione per Daisuke. Adesso poteva solo vergognarsi a morte e non riusciva a sollevare gli occhi su di lui.

“Qui c’è ancora il tuo caffè di ieri sera, ma credo tu preferisca qualcosa di caldo”.

“Ma che ore sono?” borbottò, ancora intontito da quel sonno strano e pesante.

“Solo l’alba, non c’è ancora quasi nessuno in giro”.

D’altronde era sabato, molti non andavano al lavoro e la stazione si sarebbe riempita più tardi di gente in partenza per qualche gita di fine settimana.

Aito strizzò gli occhi, infastiditi da un raggio del sole nascente che li aveva colpiti con violenza. Intorno a loro tutto si era tinto di giallo e arancio, lasciando presagire una giornata serena e luminosa, ma Aito non vedeva tutti quei colori e quella promessa di vita.

Aveva letto, da qualche parte, che la depressione altera la percezione dei colori, sottraendo ad essi le vibrazioni più lucenti ed ammantandoli di cupezza: per questo a lui, da un po’ di tempo, sembravano sempre spenti e uniformi?

“Andiamo a fare colazione insieme o temi che le tue donne si preoccupino? Immagino che tu non le abbia avvisate della tua uscita notturna”.

“In realtà ho lo stomaco chiuso”.

Non seppe sostenere lo sguardo severo di Daisuke, stava diventando sempre più difficile nascondere il fatto che mangiava poco e niente, ma non poteva farci nulla: il cibo, semplicemente, non andava giù. C’era quel nodo che ostruiva ogni passaggio e gli dava l’idea di morire soffocato se solo un corpo estraneo avesse provato a scendere per dare nutrimento.

“Anche oggi non hai fame?”.

Si strinse nelle spalle, fissando il pelo dorato di Kimi, ancora accucciata ai loro piedi:

“Sarà la primavera”.

“La primavera un corno!”.

Sussultò e il suo viso scattò verso l’alto, ma ancora non riuscì a portare i propri occhi sull’amico, così non si accorse del movimento di Daisuke: sentì solo il braccio imprigionato tra le sue dita forti e uno strattone fin troppo violento da parte di una persona avvezza solo ad essere gentile.

“Parlami, deciditi a dirmi come stanno le cose una volta per tutte!”.

Aito tentò di liberarsi. Cosa voleva Dai-Kun?

Non capiva, non riusciva neanche più ad interpretare le reazioni della gente, neanche di coloro che amava.

Ma c'era davvero qualcuno che lo amava?

Lui non lo meritava in fondo, era logico che le persone si arrabbiassero con lui, lui a loro non dava nulla, se non la sua presenza inutile ed opprimente.

“Aito!”.

Daisuke insisteva alzando ancora il tono, non riuscì a liberare il braccio, perché l’amico lo strinse con maggior forza e gli fece male.

Rintanò il viso tra le spalle, desiderava fuggire, scomparire anche dalla vista di Daisuke.

“Non gridare” supplicò in un flebile sussurro, “ti prego, non gridare”.

I rumori erano amplificati, tanto da fargli male alle orecchie.

Daisuke si bloccò, allentò la stretta:

“Scusami…”.

Non appena fu libero, Aito si alzò, ma si ritrovò a barcollare con la testa che vorticava; non poteva trattarsi di un altro attacco di panico, non davanti a Daisuke!

“Io sono preoccupato, capisci? E tutti quelli che ti conoscono lo sono”.

Tre persone al mondo si sarebbero preoccupate per lui e forse la loro preoccupazione era semplice pietà: poteva esserci un altro motivo per il quale Daisuke continuava a restare al suo fianco, nonostante tutte le possibilità che aveva? Sceglieva sempre di stare con lui, ma l’unico motivo era la pena…

Che altro poteva provare, una persona positiva, solare, amata da tutti come Daisuke, per un essere inutile come lui? Che giovamento poteva trarre dalla loro frequentazione?

“Mi dispiace tanto per questa notte” sussurrò ancora, con fatica, perché il groppo che aveva nella gola lo spingeva a piangere, ma non voleva che Daisuke si preoccupasse ancora per lui, non era giusto e poi si vergognava troppo.

“Non vuoi proprio guardarmi, Ai-kun?”.

Se adesso gli parlava con quella tenerezza, come sarebbe riuscito a non piangere?

Respirò a fondo, infilò le mani nelle tasche e cercò di concentrarsi sul sole, che ormai era sorto e cominciava a riscaldare in maniera gentile le sue membra.

La carezza del sole era una delle poche cose che ancora gli dava un minimo di conforto.

Rumori e voci si levavano intorno a loro, segno che la nuova giornata aveva preso il via e che la gente si preparava a trascorrere un week end sereno, magari in qualche località turistica o in visita a qualche tempio dei dintorni.

Famiglie con bambini andavano e venivano, ridevano e il sole illuminava tutta l’allegria di cui la stazione si stava ammantando.

Lui si sentiva estraneo a tutta quella gioia, a tutta quella vita; gli era appartenuta un tempo… dov’era andata?

La parte viva di se stesso lo aveva abbandonato, lasciando spazio a un involucro grigio e viscoso.

Ripensò al suo incubo, lui che vagava nel nulla, scheletro vivente in una terra incolta…

Lì, in quella stazione, c’era tanta gente, ma lui era sospeso in una bolla, lontano da tutti, a quel mondo non apparteneva più da tempo, era un estraneo.

Non si trattava più di essere un gaijin in mezzo a giapponesi che non lo accettavano: non sarebbe cambiato niente in nessun’altra parte del mondo, dell’universo intero. Lui non apparteneva a niente, a nessuno, lui non era nessuno e senza di lui la vita sarebbe andata avanti ignara, felice, si sarebbe forse liberata di un peso che sottraeva, senza giovarne, un po' di quella felicità.

“Mi sento come un fantasma, che si aggira senza essere visto sullo sfondo di queste altre vite felici”.

Non ricordava dove avesse sentito quella frase, ma le sue labbra la formularono come una poesia recitata a memoria, quasi senza che la sua coscienza se ne rendesse conto.

“Come?”.

Sussultò. Non si era accorto di avere parlato ad alta voce o, più probabilmente, non aveva pensato che qualcuno potesse udirlo: lui, d’altronde, era nella sua bolla e per il mondo non esisteva più.

Invece Daisuke era lì, ed era fin troppo attento alla sua presenza, fin troppo partecipe; perché non lo lasciava in pace, per ritrovare lui stesso la propria pace?

“Come ti vengono in mente simili pensieri, Ai-kun?”.

Con le mani in tasca, Aito cominciò a camminare in mezzo alla gente sforzandosi, nonostante la pesantezza che provava, di mettere in fila un passo dopo l'altro.

Forse Daisuke non lo avrebbe seguito, forse avrebbe rinunciato a stargli dietro, almeno così sperava.

E se lo sperava, perché quell’angoscia, quel senso di vuoto che si amplificò quando non percepì al suo fianco i passi dell’amico?

Si fermò e si guardò alle spalle: la prima a raggiungerlo fu Kimi, ma dietro di lei giunse Daisuke, con un’espressione indefinibile sul volto.

Era arrabbiato con lui?

Allora perché non si decideva ad abbandonarlo al suo destino?

1Treno giapponese ad alta velocità.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 

La mattinata si era conclusa in modo strano, non gli era mai capitato di arrabbiarsi così con Aito. Non ricordava neanche il susseguirsi preciso degli eventi, l’unica cosa chiara era che l’indolenza autodistruttiva dell’amico, a un certo punto, lo aveva esasperato. E ancora di più lo avevano esasperato le sue parole che, sicuramente, riflettevano un profondo odio verso se stesso.

Tutto era cominciato con un suo tentativo di conversazione.

“Potremmo prendere esempio da questa gente e andarcene anche noi da qualche parte nei nostri giorni liberi”.

“E dove?”.

Gli era parso così indifferente il tono di Aito da rimanerne ferito.

“A te dove piacerebbe andare?”.

“Non lo so…”.

“Non ti farebbe piacere fare una gita insieme a me?”.

“Non voglio che tu ti senta in obbligo nei miei confronti, Dai-kun; se ti faccio pena, come ne faccio a tutti, mi fai solo sentire umiliato”.

Era a quel punto che la rabbia aveva preso il sopravvento, l’aveva aggredito con le parole, urlandogli contro che era ingiusto, ingeneroso, dopo anni di affetto, di complicità, di dimostrazioni date e ricevute, come poteva anche solo pensare una cosa simile?

“Pena?” aveva concluso, “mi fai pena, è vero, mi fai pena perché sei cieco, perché non vedi, perché respingi chi ti vuole bene e potrebbe tirarti fuori se solo tu lo volessi!”.

“Ma io non voglio, è inutile, è tutto inutile per me!”.

Aito era scoppiato a piangere e Daisuke non aveva più resistito: aveva allargato le braccia e lo aveva stretto forte, ignorando i suoi tentativi di divincolarsi.

“Che cosa ti succede, Aito? Dimmelo, non tagliarmi fuori dalla tua vita, io…”.

Stava per dirglielo, per confessargli, dopo anni, quali fossero i suoi autentici sentimenti, ma proprio quando si era fermato, spaventato lui stesso da una tale ammissione, Aito aveva ripreso a parlare, come se non avesse neanche ascoltato le sue parole:

“C’è un solo posto dove vorrei andare, in questo momento”.

“E dove?”.

“Aokigahara… una passeggiata notturna tra gli alberi... e poi...”.

Erano state le sue ultime parole e Daisuke era rimasto freddo e rigido per il modo in cui le aveva pronunciate, un tono che gli aveva messo i brividi, una voce che non sembrava neanche più quella di Aito.

Poi l'amico si era sottratto con decisione al suo abbraccio ed era scappato via, lasciandolo immobile, a fissare la sua schiena che si allontanava.

Non era riuscito a fare altro, sconvolto dall’atteggiamento di Aito, da quella sua incapacità di ascoltare, da quella frase che sembrava buttata lì, ma che faceva tanta paura.

Per il resto della giornata aveva provato a chiamarlo: il cellulare di Aito era rimasto spento, sordo ai suoi tentativi, indifferente ai messaggi che gli aveva inviato.

Nel pomeriggio era andato a casa sua, ma la vecchia Saeko-san gli aveva detto che non aveva pranzato ed era uscito di nuovo. Gli era sembrata in ansia, ma forse era solo il riflesso delle proprie stesse emozioni.

Non riusciva a smettere di ripensare a quel loro ultimo contatto, dando dell’idiota a se stesso, che si era arreso lasciandolo scappare, ad Aito, che non gli aveva permesso di confessargli il suo amore.

 

 

Giunse così la sera e, per l’ennesima volta, Daisuke controllò il cellulare: nessuna risposta, nessun segno che i suoi messaggi fossero stati letti.

Fece il numero.

Aveva perso il conto delle volte in cui lo aveva composto, in cui aveva aperto il contatto di Aito in rubrica. Quando dall’altra parte gli rispose la voce asettica della segreteria telefonica, fu sul punto di gettare il telefono contro il muro, invece fece un respiro profondo e si decise a lasciare un messaggio vocale:

“Ai-kun… sono preoccupato. Per favore, chiamami”.

Tenendo stretto il telefono tra le dita si lasciò cadere prono sul letto, l’altra mano penzoloni ad accarezzare Kimi, come sempre accucciata sul tappeto.

Da poco erano passate le nove, il giorno dopo sarebbe stata domenica e, normalmente, l’avrebbe trascorsa in compagnia di Aito, a passeggiare tra i monti o, essendo ancora abbastanza freddo, a rilassarsi in un onsen.

Sapeva che quella domenica non sarebbe accaduto, sapeva che Aito non si sarebbe fatto vivo, ne era certo, come un segnale d'allarme ineluttabile nel suo cuore.

Gli sembrava impossibile provare tanta nostalgia per qualcosa che non era ancora avvenuto, si sentiva come se Aito gli avesse detto addio e gli occhi pizzicavano in maniera prepotente, mentre il cuore gli balzava in gola, soffocandolo ad ogni battito.

I suoi occhi non si staccavano dallo schermo del cellulare e, quando il display si spegneva, un senso di perdita si impadroniva di lui, di speranze infrante che si riaccendevano solo quando premeva il tasto per illuminarlo di nuovo.

Era consapevole, a livello razionale, quanto fosse assurdo dipendere dal display di un cellulare, ma in quel momento gli sembrava l’unico filo che lo legasse ad Aito.

Il tempo passò, minuti, ore, senza che nulla mutasse intorno a lui, senza che il sonno venisse, mentre lui galleggiava in quella dimensione sospesa.

Il suo respiro accelerò di colpo quando il telefono prese a vibrare e sullo schermo comparve la scritta “AITO CASA”.

Ormai erano quasi le undici. Perché Aito chiamava a quell’ora? Aveva visto i suoi messaggi? E allora perché da casa? Il cellulare era scarico?

Quella fila di domande insensate lo fece esitare cancellando, per qualche istante, l'azione più logica ed importante: rispondere.

Pigiò il tasto e si portò il telefono all’orecchio.

“Pronto”.

“Dai-kun, scusa se mi permetto di chiamarti a quest’ora, ma sono molto preoccupata”.

Maeve-san?

Aveva sperato di sentire, dall’altra parte, la voce di Aito…

O forse no…

Aveva saputo fin dall'inizio che c’era qualcos'altro, che la situazione era molto seria e che non ci sarebbe stato lui al telefono. Lo sapeva, ma non se lo confessava.

“Bu… buonasera… Maeve-san”.

Ci fu un’esitazione, poi la voce si abbassò, ma i toni si fecero più pressanti, tanto da trasmettere a Daisuke tutta l’ansia che la madre del suo amico non riusciva a reprimere:

“Speravo… che sapessi dirmi qualcosa di Aito”.

Ogni suo senso si tese all'inverosimile, così come i nervi che presero a fargli male; le membra rigide, si sollevò fino a mettersi seduto.

“L'ho visto stamattina... poi non l'ho più sentito”.

“Non è tornato, ci siamo accorte solo poco fa che non ha portato con sé il cellulare; è scarico nella sua stanza”.

Daisuke deglutì più volte: ecco ogni sua paura che si concretizzava, tutto ciò che fino a quel momento era rimasto tra il conscio e l'inconscio, ridotto a fuggevoli sensazioni, si presentava in tutta la sua vivida realtà.

Avrebbe dovuto dire qualcosa ad una povera madre preoccupata, ma non sapeva lui stesso come reagire e come calmare le proprie paure.

Dopo qualche istante di silenzio, la voce della donna si fece riudire:

“Non hai idea di dove potrebbe essere?”.

Si umettò le labbra, secche come secca era la sua gola, tanto che temeva di non riuscire a formulare neanche una sillaba.

“No” rispose a stento, ma non lo sapeva davvero? Aito non gli aveva forse dato un indizio, quella mattina?

“Ti è sembrato strano stamattina? Ti ha detto qualcosa di particolare?”.

“Non... più del solito”.

Era vero, che domanda era? Aito era sempre strano, da troppo tempo ormai.

Anche se, in effetti, quella mattina qualcosa di diverso era accaduto... e qualcosa di particolare l'aveva detto.

Sussultò, mentre la consapevolezza negata dalla sua mente fino a quel momento esplodeva come una scintilla attraverso le tempie.

Ritrovò tutta l'energia di cui aveva bisogno:

“Ascolta, Maeve-san, non vi agitate. Restate a casa nel caso qualcuno, o lo stesso Aito, si facesse vivo. Io vado a cercarlo”.

“Mi dispiace tanto crearti questo disturbo, ma non sappiamo che altro fare”.

Poi la voce si fece esitante, come se temesse di formulare le successive parole, che suonavano come la conferma di una tragedia in corso:

“Se non torna, domani denunceremo la scomparsa”.

“Io... spero che non sarà necessario”.

Lo sperava, ma quanto ci credeva?

Se l'indizio sfuggito quasi per caso ad Aito quella mattina aveva un senso, la tragedia poteva ancora essere evitata, dopo tutte quelle ore?

Salutò la donna e interruppe la telefonata, poi si portò una mani agli occhi, soffocando un singhiozzo:

“Ai-kun... non fare sciocchezze... ti supplico... non fare niente prima che io sia lì”.

 

 

***

 

Aokigahara, il mare di alberi ai piedi del monte Fuji, una distesa incontaminata di cipressi e conifere il cui intrico non lascia penetrare i raggi del sole.

Aito si inoltrò, guidato solo dall'istinto, dal bisogno di scomparire dal mondo. Quale luogo più adatto della foresta dei suicidi?

In quel luogo abitavano gli spiriti di coloro che più gli assomigliavano, lo chiamavano notte dopo notte per invitarlo a raggiungerli, l'unico posto rimasto sulla terra nel quale, forse, avrebbe potuto sentirsi a casa.

Ignorò i cartelli che invitavano a non abbandonare il sentiero principale, a lui non importava perdersi, era lì apposta. Le strade battute dai turisti non gli interessavano, lui cercava gli altri, coloro che si erano addentrati nel folto della vegetazione per non tornare mai più sui propri passi, per restare lì, immersi per sempre in un mondo pieno di vita che era stato scelto per simboleggiare la morte.

La foresta lo chiamava da tempo, era nel suo destino; da quando aveva intrapreso quel viaggio, qualche ora prima, quello che per mesi era stato un lumicino, un fastidioso prurito nella sua testa, si era trasformato in urgenza di rispondere a quel richiamo, semplicemente perché non aveva altra scelta.

Tra i vivi non aveva più nulla da fare: ciò che gli restava era rispondere al richiamo dei morti.

Si bloccò davanti ad un cartello che si materializzò davanti a lui, come una voce della coscienza, non la sua, la sua era annullata.

La coscienza di qualcun altro?

C'era qualcuno, ancora, desideroso che lui restasse in vita?

La tua vita è un dono prezioso dei tuoi genitori. Pensa a loro e al resto della tua famiglia. Non devi soffrire da solo”.

Si portò una mano agli occhi, scosse il capo.

“Non posso” mormorò, “non ce la faccio più, sono stanco”.

Un gesto che era un rifiuto: non voleva vedere quel cartello, come nessun altro di tutti i messaggi disseminati lungo il percorso.

C'era un solo modo, allora, per eliminare anche quelle ultime tracce di un mondo razionale, che invitava alla vita: non guardare più nulla e inerpicarsi verso le zone meno battute, affrontare il cammino più impervio dove difficilmente simili segnali avrebbero trovato posto.

Così si tuffò, falcata dopo falcata, aiutandosi con gambe e braccia, nell'oceano verde di Aokigahara.

Non sapeva cosa avrebbe fatto, non aveva pianificato nulla, non aveva niente con sé che potesse aiutarlo ad abbandonare la vita.

La spiegazione era una sola: la sua volontà era annullata. Ormai era solo la sua tristezza irrazionale a guidare ogni mossa, ogni impulso, anche quei passi che non sapeva quando avrebbero visto la fine.

Camminò, lottando contro rami ed arbusti, graffiandosi mani, viso e collo, il respiro sempre più affannoso, le lacrime che non sapeva quando avessero cominciato a scendere lungo le sue guance. Forse erano lì fin dal primo istante in cui aveva intrapreso il suo ultimo viaggio.

Perché non vi erano dubbi che sarebbe stato l'ultimo.

Il tempo per lui aveva perso significato. Il sole non splendeva sotto quelle fronde e i rimasugli di luce potevano solo diminuire man mano che le ore passavano.

Seppe che era notte quando i suoi occhi non riuscirono più a penetrare la tenebra, solo a tentoni percepiva la solidità delle cortecce intorno a sé, i suoi piedi avanzavano per inerzia, scivolando a tratti, ma lui si tirava sempre su, aggrappandosi a qualche ramo o artigliando la terra con le dita ormai sanguinanti.

Non sentiva il dolore dei graffi, le ferite non contavano più, lui era già oltre il contingente, oltre tutto ciò che lo collegava alla vita, fosse anche oltre il dolore fisico, la fatica e l'indolenzimento di un corpo ormai allo stremo.

Nel buio completo, i suoni della notte persero alle sue percezioni i connotati naturali, per trasformarsi in lugubri lamenti, ma lui non aveva paura: sapeva a chi appartenevano quelle voci. Erano i suoi amici, gli yurei che lo incoraggiavano a lasciarsi andare, a non opporre più resistenza, perché loro lo avrebbero accolto.

La percezione di sé andava dissolvendosi e si annullava nel languore che si impossessava di lui: ad ogni passo era come fluttuare nel vuoto.

Doveva solo abbandonarsi, accettare quella mano tesa che all'improvviso squarciò il muro di tenebra: apparteneva certo ad uno di loro, uno dei suoi amici pronti ad accoglierlo e a cullarlo nella dimenticanza.

Alla mano seguì il volto: allora avevano ancora un volto, un'identità coloro che, in preda alla disperazione, avevano lasciato la vita?

Eppure perché quel volto sembrava vibrare di vita, sembrava palpitare di emozioni e lacrime?

“Ai-kun, ti ho trovato! Kami-sama, ti ho trovato!”.

Sgranò un attimo gli occhi, udì i singhiozzi disperati mentre quella mano lo attirava in un abbraccio soffocante, poi i suoi occhi si chiusero e ogni residuo di coscienza venne annullato.

 

 

Epilogo

 

Si trattava di tanta stanchezza, dovuta ad ore ininterrotte di camminata nella foresta, al freddo, all'esaurimento nervoso che aveva offuscato ogni forza residua. Nessuna ferita era grave, solo graffi e contusioni.

I medici si erano prodigati nel rassicurare la famiglia di Aito e l'amico, ma si erano anche raccomandati di non lasciarlo privo di sorveglianza per un po' di tempo, e di fare in modo che seguisse una cura presso un terapista.

L'intento di togliersi la vita non era sembrato ben costruito, appariva più come un'irrazionale fuga da una realtà che stava diventando per lui impossibile da sopportare, non vi era nulla di chiaro nei suoi gesti, nulla di realmente pensato.

Non vi era tuttavia nessuna certezza che non ci avrebbe riprovato, quindi era consigliabile assisterlo costantemente e assicurarsi che seguisse le cure.

Saeko-san e Maeve-san erano uscite dalla stanza d'ospedale per prendersi qualche ora di riposo, sapendo che lasciavano Aito in buone mani: Daisuke non aveva nessuna intenzione di allontanarsi dal suo capezzale.

L'amico non apriva gli occhi da ore e lui gli teneva la mano: non gli importava di nulla, che la gente intuisse cosa lo legava a quel giovane e che criticassero pure! L'unica cosa che gli interessava, adesso, era sollevare Aito da quel baratro e lottare al suo fianco perché non si lasciasse più andare così.

Non aveva più paura di quello che si nascondeva nella mente dell'amico, non importava quanto dolore, quanta sofferenza avrebbe portato ad entrambi, quanta fatica sarebbe costata sostenerlo, non avrebbe più avuto paura. L'importante era che Aito capisse che la vita valeva la pena di essere vissuta, che tante cose belle li avrebbero attesi se si fosse fatto aiutare.

Per questo, quando finalmente intravvide tra le palpebre l'accendersi di quelle iridi verdissime, sorrise e continuò a sorridere nel momento in cui Aito focalizzò il proprio sguardo su di lui.

“Bentornato”.

Le palpebre del giovane si strinsero ancora per qualche istante, poi si aprirono con più sicurezza: era ancora debole, si vedeva, ma le labbra si mossero e in un soffio leggero diedero vita alle prime parole:

“Eri... tu...”.

 

Furono le prime parole del ritorno alla vita per Aito e, con esse, il palpitare di un cuore che, dopotutto, non voleva fermarsi.

 

 

 

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