The Poet And The Pendulum di LaMicheCoria (/viewuser.php?uid=53190)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Songwriter's Dead - Battlefield ***
Capitolo 2: *** 2. The Dreamer And The Wine ***
Capitolo 3: *** 3. One Last Perfect Verse ***
Capitolo 4: *** 4. I Have But Two Faces ***
Capitolo 1 *** 1. Songwriter's Dead - Battlefield ***
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The Poet And The Pendulum
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1. The Songwriter’s
Dead
Battlefield
Il silenzio deflagrò in mezzo a
loro e l’impatto spazzò via le ossa dei morti, i resti dei caduti.
La stanchezza si sollevò come
l’onda durante la marea, scavalcò la testa e le spalle, si infranse contro le
ginocchia e li fece tremare, rese insicuri i loro piedi e trascinò il cuore ben
oltre le fondamenta dello stomaco.
Il campo di battaglia brillava
allo scintillare immobile delle stelle; i loro volti vacui, filamentosi li
fissavano curiosi; le mandibole dei Chitauri schioccavano e sbatacchiavano,
seminascosti dalla spuma iridescente dei portali ancora aperti. Le creature
allungavano gli artigli, attendevano ringhiando nel ventre delle Navi Madri,
tuttavia osavano oltrepassare il sottile confine tra loro e le stelle.
Il loro Padrone era morto.
Il Padrone dei Chitauri era
morto.
Il Lord dell’Infinito era morto.
Il suo corpo mastodontico aveva
sollevato una nube tale da nascondere i contorni del mondo a chi era
sopravvissuto per vedere la tanto agognata e sofferta caduta di Thanos.
Un evento di tale portata
meritava di essere accolto con grida di gioia, sorrisi di sollievo, dalla consapevolezza
di aver appena scongiurato la più grande minaccia all’intero Multiverso: quel
cadavere, quel trofeo di stazza inaudita simboleggiava la fine del terrore.
L’intero Multiverso, ora al
sicuro, poteva dirsi finalmente salvo dagli occhi crudeli di Thanos, dal suo
sguardo in grado di sondare l’Anima degli avversari, e dalle sue mani capaci di
imbrigliare in un sol gesto la Mente, il Tempo e la Realtà, di incatenare tra
le dita il Potere e ridisegnare i confini dello Spazio.
Il Multiverso poteva finalmente
gioire e danzare sotto la volta del cielo e la presenza vigile degli Eterni
fino all’albeggiare e poi oltre, fino all’imbrunire.
Perché Thanos era morto, Thanos,
il Padrone dei Chitauri, il Lord dell’Infinito aveva cessato di spadroneggiare
e uccidere.
Il Multiverso poteva finalmente
festeggiare una vittoria come mai prima di allora.
Ogni vittoria, tuttavia, reclama
per sé un tributo.
Sempre.
Il prezzo grande o piccolo sia, non può
aspettare di essere pagato, il debito deve essere saldato immediatamente: non
si può rimandare, non si può attendere il momento più opportuno, non si può
nemmeno tentare di essere pronti.
Il prezzo della vittoria è una
spada di Damocle pronta a cadere all’ultima goccia di sangue versato.
E la spada era caduta.
Era stato un attimo. Un battito
di ciglia.
Il respiro spezzato e il cuore
che gelava e il sangue come piombo nelle vene e la cassa toracica ripiegata su
se stessa a stritolare i polmoni e lo sterno spaccato e le costole in frantumi
e i muscoli che si gonfiavano e poi si rinsecchivano e le membra che s’appesantivano
gravando sulle ossa e tagliando i legamenti e fracassando le articolazioni e la
testa che cascava all’indietro sul collo molle e gli occhi a seguire il movimento del capo all’interno delle orbite
rovesciandosi bianchi a guardare immoti le profondità del cranio e la bocca che
perdeva colore e s’apriva, si spalancava a vomitare fiato voce e sangue.
E il corpo che, infine, cadeva.
Crollato e collassato sulla terra
dura, coperto di polvere, il boato del contraccolpo come un ruggito nella
notte, onde di dolore propagatesi a scuotere i nervi e la coscienza.
Il loro sguardo, spalancato e
incredulo, le ginocchia che si abbandonavano a terra e si genuflettevano
dinanzi ad uno spettacolo terribile e definitivo.
Nel mezzo dello sgomento, Quill
si era alzato e Drax con lui e Gamora, chiuse le palpebre raccapriccianti di
Rocket, li aveva accompagnati a sollevare le membra divelte; lo tennero sulle
spalle, il capo piegato, gli occhi semichiusi e l’iride affaticata seminascosta
tra le ciglia. I loro passi spossati si
trascinavano a stento sul terreno brullo, incespicando nella polvere ed ogni
passo accumulava pena e lutto sulla schiena, piegandola, curvandola, fino a
quando, troppo stremati per continuare, non si lasciarono andare e caddero,
prima Gamora, quindi Star-Lord e infine Drax, colpito più dallo sguardo dell’uomo
di fronte a lui che dalla battaglia appena conclusa.
Drax il Distruttore conosceva
quello sguardo.
Conosceva il rimpianto delle cose
non dette, delle cose fatte, delle cose che sarebbero potute essere e non
sarebbero state mai: le aveva provate sulla pelle e nella carne e la sua mente
sconvolta aveva gridato per ore e ore e ore, per albe e tramonti rossi come il
sangue. Gridava e giurava vendetta e nel mentre il suo cuore rattrappiva nel
torace e piangeva ricordi e memorie e speranze e più le piangeva più le perdeva
e lo abbandonavano e andavano a nutrire, sconvolte, il suo rancore bollente
come acido.
Per questo non disse nulla,
quando l’uomo strisciò verso di loro, una lingua lucente e vermiglia a segnare
il percorso del suo dolore. Non disse nulla, perché conosceva la sofferenza che
riempiva l’addome, un vuoto dalle fauci spalancate e pronte a divorare e
sbranare.
Pronte a distruggere.
E nel mentre che l’uomo si
aggrappava a quel corpo tanto caro, gli eroi vennero vicini e si fecero loro
intorno, li nascosero agli occhi dell’Universo e della realtà, bandirono il
tempo dal frammento Non-Spazio che avevano così ritagliato e rimasero in
silenzio.
Ammutoliti dalla Morte e dalle
ferite che Thanos aveva loro inferto e forse non sarebbero mai guarite del
tutto.
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Capitolo 2 *** 2. The Dreamer And The Wine ***
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2.
The Dreamer And
The Wine
Tony Stark –
Gemma Dell’Anima
Nello scroscio del vino, il
murmure del presente e un ringhio ovattato.
Nella schiuma che imbelletta il
vetro, il futuro cosparso di vuoti impercettibili che risucchiano aria e
ossigeno.
Nel fondo liquido, il grumo del
passato, rimasugli che hanno il colore del sangue, densi, enfi come annegati,
stracci divelti di ricordi e momenti.
È lì, in un bicchiere colmo di
vino e liquore e veleno, è lì e soltanto lì, che Tony Stark sa riflettersi il
vero volto della propria anima.
E gli fa orrore.
Il terrore gli agguanta le
viscere. Lingue di fuoco si rovesciano nella carotide e il respiro si fa incandescente,
al punto di arroventargli la gola –E non è forse, gli suggerisce una voce, non
è forse a questo che si riduce la tua esistenza? A questo fuoco che non crea,
bensì distrugge?
E in questo caleidoscopio di
fiamme tu spasimi, genio di follia e disperazione, in questo amplesso volgare e
prostituito ti strappi dal cranio visioni e occhi e pensieri e voce e identità
e sangue. Preghi un dio fermentato di fracassarti le ginocchia e ti genufletti,
il torace colmo di un enthusiasmos che
obnubila la ragione e i sensi. Non aspetti altro, non desideri altro che
agitarti come un Menade al folle ritmo dei bicchieri che si svuotano e si
susseguono e poi affondare i denti nella carne, strapparti pelle e ossa e
ridere, ebbro, nell’attesa della Morte che sempre corteggi, ma mai si concede. Non
aspetti altro che la Morte. Il picco dei sensi. Il crollo. La volta del cielo e
il grembo dell’Inferno. È per arrivare alla tomba che avveleni la tua anima di
liquore e follia. Ogni brindisi è una libagione all’Erebo che ti attende.
Tony vuole smettere di guardare.
Vuole coprirsi gli occhi con le mani, vuole essere al contempo cieco e sordo, non
vedere, non sentire, essere niente, essere nulla.
Tuttavia, sa che non può
sottrarsi: ciò che gli sta accadendo non è qualcosa di fisico, non lo può
combattere, non lo può ridurre al silenzio. Non c’è armatura che possa
proteggerlo, nessuno schermo che possa abbassarsi per isolarlo dal mondo. Lui
stesso non ha fisicità, non può sperare di girare la testa, non può fare niente
se non assistere al tragicomico spettacolo della sua anima ora schiusa al
ludibrio del mondo.
Un’anima sporca di lordura,
vomito e saliva, un’anima che ride del riso incontrollato, svenevole degli
ubriachi.
La sua anima lo sta fissando e
Tony la fissa di rimando, per la prima volta dopo anni. Sente la nausea
arrivare fino alla bocca, dove cementifica insieme denti e lingua: sono uguali,
sono identici, la sua anima liberata dai ceppi dell’indifferenza ride, sorride,
e la risata lasciva fa traballare il pomo d’Adamo e subito si trasforma, si
muta in acidi e sangue. Lo stomaco quasi gli arriva alla bocca tanta è la forza
dei conati e Stark si ritrova d’improvviso piegato in avanti, con le mani che
pressano sull’addome e cercando di aprirsi la via verso gli intestini. La spina
dorsale si torce e ramifica scariche di dolore lungo la schiena e le braccia e
il cuore guaisce, una stilettata d’infarto gli rovescia gli occhi nelle orbite e
sopra la volta cranica lo attende un oceano rosso di vino, sospeso in un
esofago di vetro.
Sulle pareti curve, inframezzato
dal lucore di cadaveriche gocce di condensa, il volto che lo fissa ad ogni
respiro ha la pelle tirata sugli zigomi e il livore delle labbra è un tutt’uno
col pallore della carne; le ossa lasciano intravedere il profilo aguzzo delle
scapole, dei gomiti, delle nocche; il completo stazzonato e straziato racconta
per ogni macchia una storia diversa e i nodi del tessuto sono intrisi di vomito
e sudore e drink rovesciati. Eccolo, che annaspa e ansima, e tende le mani, le
dita e i polpastrelli tremano, vibrano, non sanno più mantenere la presa all’aria
e le mani sbucciate hanno dimenticato la grazia dell’invenzione e la musica del
sogno. L’ha barattato per un goccio di più; ha smembrato, strappato e ogni
pezzo, ogni frammento di sé venduto al miglior offerente e al peggior barista.
Nello stomaco non gli rimane che
il sapore della polvere e del vomito, della strada, del lerciume, dell’abbandono,
dell’addio.
Vergognosa, imbarazzante, lurida
e putrida, egoista, malsana, suicida, , ecco cos’è la sua anima.
Una porta che si chiude, una
stanza vuota, un silenzio assordante –Il freddo di una pistola. Il caldo del
sangue.
Non può scappare. Non può
fuggire. Non può girare gli occhi altrove.
La sua anima è lì, che lo guarda
e ghigna dal fondo di un bicchiere.
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Capitolo 3 *** 3. One Last Perfect Verse ***
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3.
One Last Perfect
Verse
Doctor Strange –
Gemma Del Potere
Si era guardato le mani
congestionate dal freddo e le aveva strette contro il petto, soffiando un poco di fiato sulla pelle screpolata.
Non era servito.
Il respiro si era fatto livido al
pari del suo corpo.Era pieno di spifferi e cigolava come cigolava il legno
pieno di spifferi investito dal vento, lì, in quella cupoletta macilenta in cui
l’Antico lo aveva costretto e in cui sarebbe dovuto rimanere fino a quando non
fosse riuscito ad accendere il fuoco.
Viveva a Kamar Taj da alcuni mesi, ormai, era sicuro di aver
imparato a comprendere tutte le sfumature e i non-detti contenuti nelle richieste
e nei compiti che l’Antico gli affidava, per quanto semplici sembrassero in
apparenza.
Dovette ammettere con sommo
scorno che, ancora una volta, l’Antico gliela aveva fatta 1e i suoi pensieri e
le sue intenzioni erano ancora e di nuovo ineffabili come quando aveva solcato
per la prima volta la soglia del Tempio.
E come allora la cosa era stata
molto, molto irritante.
Con il viso affondato nella
polvere e la Cappa della Levitazione chiusa a proteggerlo dai colpi inferti da
Thanos, Strange si scoprì di nuovo afferrato dalla medesima impressione d’inutilità
che lo aveva colto nel gelo della catapecchia, anni e anni prima, quando doveva
accendere un fuoco e non aveva legna da ardere e le sue mani si erano
rattrappite al punto da non riuscire a compiere il più elementari dei gesti.
Era rimasto ore a fissare il
pavimento di terra battuta, stringendosi nelle spalle per disperdere meno calore
possibile. Non c’erano vetri alle finestre e il vento ruggiva contro di lui,
drizzava il pelo innevato e gli rovesciava contro odio e rancore. Non c’erano
luci e il cielo era talmente gonfio di ghiaccio e putredine da impedire il
passaggio del più piccolo bagliore.
Allora non aveva capito. Come
poteva accendere un fuoco senza niente che potesse fare combustione e con le
mani martoriate dal freddo? Aveva cominciato ad ingiuriare l’Antico, alzando la
voce per sovrastare la risata sardonica del vento, urlando e gridando fino a
farsi sanguinare la gola, fino a schiacciare i polmoni contro lo sterno, fino a
perdere coscienza di sé come corpo fisico e non essere nulla di più di un
ululato volgare e osceno.
Lo Stregone Supremo rotolò di
lato e un boato squassò il terreno sotto le sue dita. La presa si fece
malferma, schiacciò il viso nella polvere per soffocare il gemito scagliato
attraverso l’apparato nervoso,. Avvertì le fiamme appiccarsi alla pelle,
artigliare la carne e fondere le ossa, liquefarle, scioglierle in un pastone
appiccicoso e lustro di sangue.
Rivide con l’occhio della memoria
il sorriso effimero dell’Antico, soffuso di quel suo divertimento sottile e
curioso. Il suo sguardo si era colmato di interesse, forse persino di
soddisfazione nel vedere l’espressione scomposta dalla rabbia e dall’insulto
stupire in un istante.
“Prego.” Gli aveva detto
“Continua pure.”
Lui aveva invece continuato a
fissare l’Antico fra l’istupidito ed il rabbioso. La voce era mancata
d’improvviso e allora, solo allora l’Antico aveva schiuso le labbra ad un
sospiro sconfitto.
“Da cosa viene così tanta
veemenza?” lo canzonò con affetto quasi materno, scostando le pieghe dell’abito
color zafferano e accomodandosi lì accanto, le belle braccia nude tese ad
appoggiare le mani sulle ginocchia “Persino la neve ha smesso di cadere,
sconvolta da tanta ira.”
Una punta di vergogna, che aveva
reso la sua voce piccata.
“Cosa ti aspettavi? Mi hai
chiesto di accendere il fuoco in questo posto dimenticato da Dio! Senza legna o
delle dannate pietre focaie!”
Aveva sorriso, l’Antico, col
sorriso accondiscendente di una madre eterna contro l’impertinenza infantile di
eterni bambini.
“Tu sei insieme legna e pietra
focaia.”
“Io sono soltanto uno stupido
assiderato.”
“Che sciocchezze.” Fu il commento
sbrigativo dell’Antico “Ti rimangono almeno due ore prima di essere preda
dell’assideramento.” Voltò il viso candido verso di lui, lo sguardo consapevole
puntato nei suoi “Ritengo sia meglio per te trovare una soluzione. In fretta,
ti consiglio.”
Più feroce della neve e del
freddo fu la rabbia che montò fiammeggiando nelle viscere di Strange.
“Come credi che possa fare?”
abbaiò, la voce irrancidita dallo sprezzo, dalla furia e dalla disillusione.
Alzò le braccia e le mostrò le dita livide, gonfie, sanguinanti “Come posso
scaldarmi, come posso fare qualcosa ridotto così?”
Un sorriso divertito sollevò la
bocca affettuosa dell’Antico.
“Ah, signor Strange...!” esclamò
“Ancora convinto che tutto si riduca ad una danza insensata di mani e di dita?
Ad un gioco di prestigio? Il Potere non si concede a chiunque, signor Strange,
il Potere non si corteggia, né si accarezza a punta di dita. Va chiamato.
Invocato.”
“E come?”
“Con la stessa veemenza e
convinzione con cui hai invocato e chiamato me soltanto pochi minuti fa.”
Una fitta di vergogna allo
stomaco, uno stringersi convulso dell’intestino.
“Devo soltanto chiamare il fuoco?”
“Soltanto? Non esiste niente di
più difficile.”
Strange pressò le labbra e puntò gli occhi sulla
terra battuta che faceva da pavimento alla casupola. Chiamare il fuoco. Non
pareva una cosa tanto complicata, nonostante le parole dell’Antico, soprattutto
se era qualcosa che non coinvolgeva l’uso delle mani.
“Fuoco!” esclamò, osservando poi
indispettito il niente che era scaturito alla sua voce “Fuoco!” ritentò “Fuoco!
Fiamma! Falò!”
Nulla. Il terreno brullo lo
derideva col suo essere ancora spoglio e vuoto. Persino il silenzio dell’Antico
aveva assunto i contorni di una risata canzonatoria, di un dito puntato al suo
ennesimo fallimento, al suo essere ancora troppo ancorato alla razionalità del
mondo esterno per lasciarsi cadere e assorbire dal grembo mistico a tratti
grottesco di Kamar Taj. Il Potere lo aveva guardato ancora una volta con sdegno
e ancora e di nuovo lo aveva superato, si era mostrato e ritratto, riottoso e
superbo.
“La parola non è nulla se non c’è
la comprensione.” L’Antico, paziente, gli fece cenno di riprovare “Non è nulla
più di una concatenazione di suoni, vuoti movimenti della lingua e contrazioni
della glottide. Devi comprendere la
Paola e il Verbo e il Verso, perché si
facciano nella tua carne, perché si
mutino nel tuo sangue. Se vuoi il fuoco, sii
fuoco.”
Sii fuoco. Stephen guardò
dapprima l’Antico, quindi le mani, le falangi, le unghie nere di terra. Sii
fuoco. Cos’era il fuoco? Calore. Calore, sì. Un calore scarlatto, un cuore
palpitante, un nucleo liquido che tremava e vibrava, danzava, si spandeva, si
contraeva e rilasciava lampi bollenti e schiocchi che si alzavano verso il
cielo, mani di fiamme tese tese tese fino a dissolversi in fumo e ghironde e
girandole ancora calde di cenere.
Dapprima furono le ramificazioni
delle vene. Poteva sentire distintamente qualcosa, una sorta di filo, come un
rivolo di lava, cominciare il proprio percorso dalle arterie fino ai capillari;
un bagliore attorno ai polsi ed ecco, il rivolo si apriva e si spandeva entro
il dorso e scendeva a riempire il palmo, si sollevava, spumeggiava contro gli
anelli delle falangi e sfondavano la diga delle ossa e si rovesciavano
all’interno dei polpastrelli e si gonfiavano fin oltre le unghie.
Bruciava. Sì. Bruciava, bruciava
ogni nervo, ogni muscolo, ogni articolazione, ogni pensiero.
“Ecco.” Fu il sorriso
dell’Antico, la cui ombra danzava contro le pareti, abbaglianti per il fuoco che
ruggiva nella casupola “Questa è comprensione. Questo è Potere.”
Bruciava anche ora. Di un fuoco
che agguantava la carne e la pelle, che sbranava ogni nervo e pensiero. Uno
schiocco di Bande Cremisi ad afferrare e stringere i polsi, a tirare e tirare e
tirare oltre il limite della carne, oltre gli agganci delle ossa che ora
scricchiolavano senza posa e gemevano e piangevano senza sosta. Poi le Fiamme.
Le Fiamme Delle Faltine che salivano a lambire le gambe, il torace, le spalle, il
collo, la testa. Salivano e abbaiavano, scavavano nelle guance, nelle sterno,
succhiavano il midollo dalla spina dorsale e vomitavano nella cavità vuota un
rigurgito di lava e di magma.
Strange aprì la bocca per gridare
ed invocare aiuto, per chiamare a sé un incantesimo, ma il fuoco gli si
rovesciò nella gola e lo riempì di cenere liquida, tanto spessa da
incatramargli la trachea e i polmoni, il cuore. Sollevò gli occhi illividiti
dalla mancanza di ossigeno e incontrò lo sguardo irridente del Titano, le sue
labbra storte a disegnare un sorriso terribile e derisorio, illuminato dal
bagliore perverso della Gemma.
“Questo, Dottore, questo è il vero Potere.”
Ringrazio Mardy Paranoica per la splendida recensione!
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Capitolo 4 *** 4. I Have But Two Faces ***
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I Have But Two Faces,
One for the World, One for God
Loki – Gemma Della Realtà
Il profumo della carne e della
pelle, del sudore che scintilla, occhieggia tra le gambe, la carezza dei
capelli, delle ciocche che scivolano oltre le spalle, scendono sulla schiena,
un movimento languido della spina dorsale che cresce e risale, solleva piano la
nuca e mostra il lobo dell’orecchio, un palpito bianco della tempia.
Il corpo di lei si tende
all’arrivo del sole e mentre i raggi le cadono piano sulle braccia, ecco, ne
segue il percorso come se il mattino tirasse lentamente i fili dell’alba
inanellati alle dita e ai polsi, allo collo niveo, alle ciglia scure, alle
palpebre che tremolano e si increspano, smuovono la superficie immobile del
sonno, si aprono, sorridono.
“Buongiorno, mio Re.”
Loki la osserva. I suoi occhi non
lasciano la presa su di lei un singolo istante: la osserva mentre solleva le
belle spalle e le braccia, mentre tende le dita al soffitto arabescato, osserva
il respiro alzarle la curva del seno, il freddo irrigidirle i capezzoli scuri,
il singulto del diaframma che fa sussultare l’ombelico e il ventre e solletica
lo scuro incunearsi delle cosce, fino alle profondità ancora umide
dell’inguine.
Bella, oh, splendida Sif, che ora
passa le unghie e le mani tra i capelli neri e doma nodi e ciocche, li tira e
li manovra come briglie, splendida guerriera.
“Buongiorno, mia Regina.”
Sif gli sorride e Loki si muove
sotto le coperte bordate d’oro, la invita con una mano e lei acconsente, gli è
sopra, quel suo corpo già caldo, il dolce peso del pube e del seno a combaciare
con le sue gambe e col suo petto.
“Abbiamo questioni importanti cui
rivolgere la nostra attenzione.” Sif cerca di farlo tornare alla ragione, ma
non è che un gioco cui le membra rispondono con piacere non appena le passa le
mani sulla schiena, contando le vertebre di lei con la punta delle dita.
“Quanto importanti?”
“Molto importanti.”
“Ah.” Esala lui, già proteso a
cercare la sua bocca, le sue belle labbra ancora arse di rossi baci “Sarebbe un
così terribile peccato se siffatte…Questioni attendessero ancora un momento,
mio Regina?”
“Se il Re è d’accordo sul fatto
che siffatte questioni attendano…”
“Il Re.” Sillaba lui, assaporando
sulla lingua ogni più piccolo respiro che arriva gemendo dalla gola di lei “E’
decisamente d’accordo.”
Chi non è d’accordo, Loki, ahimè,
è costretto a scoprirlo a proprio spese. Passetti di corsa lungo il corridoio,
manine chiuse a pugno che battono e bussano, strilli piccati, infastiditi,
arrabbiati, Padre! Lo chiamano Padre! E il Re sorride, divertito, e Sif
gli regala un bacio sulle labbra e sulla punta del naso, prima di spostare il
bel corpo affusolato e coprire la pelle nuda con una tunica color smeraldo e a
piedi nudi raggiungere le porte di legno pregiato, poggiare le dita sulle
maniglie d’argento e scostarsi, perché le due figurette urlanti possano saltare
assai più agevolmente sul materasso e raggiungere il povere Re, in modo da
renderlo edotto sulle loro improrogabili rimostranze.
“Padre!” urla il più grande, che
porta il nome di Mòdi “Padre, Magni si è trasformato in un serpente gigante e
mi ha spaventato!”
“Non è vero!” tuona Magni,
pestando il piede a terra con fare stizzito “Non era enorme! E non è mia la
colpa se sei solo un pavido cialtrone!”
“Pavido cialtrone?” domanda Sif
“Magni, chi mai ti ha insegnato simili discorsi?”
“E’ stato Fandral!” Mòdi coglie
al volo l’occasione di seminare zizzania “Quando non è con quel suo nasaccio
tra i libri è con lui che trascorre il tempo! E parlano di sangue e di spade e
di battaglie!”
“La tua è bieca gelosia! Vorresti
discorrere anche tu con Fandral e Hogun, mentre il tuo amore per i pasticci di
carne non ti fanno porgere orecchio e bocca che al solo Volstagg!”
“Molto bene, ora basta.”
Loki è quasi divertito dallo
scambio di battute. È quasi nostalgico, avverte una punta di amaro rammarico
gelare un momento il sangue nelle vene. Nel sollevarsi dal letto, ecco, deve un
istante guardarsi alle spalle e alzare gli occhi chiari al soffitto, alla
propria destra, quindi a sinistra. Ha la sensazione di essere braccato. Dura un
istante, un attimo appena, eppure è lì, un peso gli si annida sulle spalle,
gracchia parole di veleno e timore.
“Dunque qual è il motivo di tanta
agitazione? E’ solo il serpente, Mòdi?” lo interroga il padre “O è come dice
Magni e la vera ragione è il mostro della gelosia che ti morde le dita dei
piedi?”
Mòdi gonfia le guance, è
arrabbiato.
“Mi ha spaventato. Si è
trasformato in un serpente e ha finto di volermi strappare la pelle dalla
faccia.”
“Magni.”
A quel tono, il bambino si
stringe nelle spalle. Cerca gli occhi chiari in quelli della madre, forse
sperando in un suo intervento. Sif, però, contrae le labbra e alza le
sopracciglia scure.
Nessun aiuto arriverà dall’algida
guerriera.
Il corridoio è silenzioso.
La sempiterna storia di Asgard
osserva il suo passaggio dalle pareti, dagli arazzi, dalle volte e dagli
stucchi. Lo sfidano a far meglio. A superare i suoi eroi in coraggio, i suoi re
in saggezza, i suoi sapienti in arti e magie.
Loki non teme il confronto. È destinato
a percorrere il sentiero tracciato per coloro che appartengono alla genia di
Odino e lui ne è degno, più di chiunque abbia percorso quei corridoi, calcando
il passo sul pavimento marmoreo..
Lui, Loki figlio di Odino, è il
legittimo Re di Asgard. Il sovrano degno di sedere su Hiloskjàlf, il trono di
Padre Tutto.
Finisce di formulare tale pensiero,
s’arresta.
Al principio del corridoio, una
figura si staglia contro la luce che erompe dalle sale principali. E’ lui,
Odino, avvolto in una veste da camera color borgogna. Loki fissa con sgomento
la punta delle babbucce che s’arricciolano sotto l’orlo dorato; guarda il
calice che Padre Tutto tiene nella mano inanellata e non può non interrogarsi
su quel gusto pacchiano, sulla posa indolente e sul vestiario. Più che Odino
pare un attore, anzi, un mascalzone travestito come tale con la pretesa di
poter governare i Nove Regni con una corona di cartapesta sul capo.
“Padre.” Esala “Ti credevo in
viaggio.”
“E io.” Risponde Odino, con un
tono beffardo che certo non gli appartiene “Ti credevo capace di riconoscere un
tranello, oh Dio delle Malefatte.”
Loki s’irrigidisce.
“Come osi—“
“E’ ciò che sei, no? Il Dio degli
Inganni e delle Malefatte, Loki Lingua D’Argento…”
“Basta!” esclama il re, con occhi
di ghiaccio “Questi tuoi titoli sono soltanto menzogne! Spoglie del passato
ormai dimenticate! Io sono Loki, figlio di Odino! Il legittimo Re di Asgard!”
Una risata malevola è la sola
risposta che il mascalzone travestito di Odino gli concede.
“Perché ridi? Perché ti burli di
me?”
Con orrore, Loki assiste al
tremendo trasfigurarsi della creatura: spariscono la veste da camera, gli
anelli, la barba bianca; lunghi capelli neri cadono da sotto un elmo dorato, le
cui corna si curvano alte sulla sommità della testa. Il naso si fa affilato,
sottili le labbra. I piedi calzano ora pesanti stivali neri e non più comode
babbucce. La scura tinta borgogna diviene verde come fiele.
E Loki si guarda, ora, occhi
negli occhi con se stesso, contro un riflesso maledetto e decaduto, che ha
l’aspetto del rancore, della sconfitta, della redenzione, del disfacimento.
“Cielo.” Commenta il suo doppio,
volgendo gli occhi astuti e freddi al mantello rosso sangue, alle placche di
metallo rotondo che gli sfavillano sul
petto “E’ proprio quello che abbiamo sempre desiderato, non è vero?”
Sif lo ha trovato che ancora
aveva lo sguardo intrappolato in un vuoto abisso.
Gli è occorso del tempo per
capire dove si trovasse, ma non sa dare una spiegazione a ciò che gli è accaduto.
Vuole raccontarlo a Sif, ma non trova le parole per farlo. All’ultimo
incespicano sulle labbra stupidamente socchiuse e non è più in grado di
formulare frase alcuna.
La rassicura, le dice di non
temere, non è stato nulla, solo un’idea, un pensiero più arduo degli altri da
seguire, non ne è ancora venuto a capo, nulla di cui debba essere spaventata,
nulla che debba turbarla più del necessario. Ai re, sostiene, capita spesso di
perdersi tra i marosi della propria mente, ma solo i più accorti, continua,
prendono il largo su un legno spesso e adatto a domare flutti e correnti.
La Sala di Hiloskjàlf è già
gremita di postulanti quando fanno il loro ingresso; Magni e Mòdi, di nuovo
riappacificati, li attendono ai lati del trono. Hanno l’aria già annoiata ancor
prima di cominciare la querula litania di richieste e offerte, in trepida
attesa della conclusione e sognano l’orizzonte che si tende fuori dalle mura
del Palazzo. Non hanno la pazienza necessaria, così come Loki non l’ha avuta
prima di loro e forse nemmeno Odino, quando le pareti all’intorno erano di
pietra appena sbozzata e dalle dita dei cantori stillavano lacrime di rosso
sangue.
Nel tempo che i postulanti s’inchinano
sfilando dinanzi al trono, Loki si ritrova a pensare a loro, ai suoi figli, a
Sif dai capelli neri, ai Tre Guerrieri, ad Asgard, ai Nove Regni che
sottostanno alla sua autorità. Osserva i volti dei suoi sudditi, le pieghe
della veste nel genuflettersi al suo cospetto, domandando grazia e pietà. Rialza
gli occhi e con orrore scorge la figura che l’ha sorpreso nel corridoio
fissarlo, lì, all’entrata della Sala: ora sfoggia un abito blu, le cui fasce di
tessuto cingono dense il petto e i polsi; un mantello dall’interno dorato
poggia pigramente sull’avambraccio sinistro; alti stivali chiudono i polpacci
fin sotto al ginocchio.
Il suo sorriso è ferino, divertito.
e Loki si scopre incapace di porgere orecchio ai postulanti, a Sif che tende il
braccio ben tornito a sfiorargli la mano, la dolce carezza dei polpastrelli
sulle nocche.
“Come puoi non vedere?” lo
canzona il suo doppio “Come puoi, oh Dio degli Inganni, non accorgerti del
tranello di cui sei vittima e carnefice?”
I suoi passi, ora che a grandi
falcate superano la coda che attende ondeggiando il proprio turno, non
producono alcun suono sul pavimento lastricato. Nessuno degli astanti si
accorge della sua presenza, della sua orgogliosa avanzata. Osa addirittura
passare accanto a Mòdi, rivolgendo a lui e a Magni una rapida occhiata, un
istante di fiato trattenuto, un’espressione ferita, sale la scalinata che
rialza Hiloskjàlf, e ritto lo sfida, troneggia su di lui e pare adesso che
abbia manette ai polsi, un collare di spesso metallo a chiudere la gola.
“E’ tutto ciò che abbiamo sempre
desiderato.” dice “Noi siamo Inganno e Malefatta. Noi siamo il caos naturale,
l’entropia dell’esistenza, il disordine che permea ogni Regno e freme tra le fronde
di Yggradsil. Noi sapremo sempre cosa è vero e cosa non lo è, cosa è Menzogna,
cosa è Reale. Ascoltami. Ascoltaci. Ascoltati. Tu sai cosa è Inganno,
Malefatta, Menzogna. Per questo io sono qui e ti parlo e tu mi vedi. Io sono la
Chiave che apre la tua gabbia dorata, oh mio Sovrano.” Lo deride “La tua
Salvezza “ sorride, ora, e la pelle si tinge di azzurro, gli occhi hanno il
colore del sangue, volute e segni che paiono cordoni di cicatrici butterano il
viso, la fronte, le guance. “Io sono il tuo peggior incubo. Io sono la verità.”
Il cuore gli toglie il respiro. Il
sangue si ritira dalle tempie in un risucchio gorgogliante, quindi deflagra
contro la fronte, l’arcata sopraccigliare, persino le orbite. Il dolore è tanto
violento da lasciarlo istupidito per alcuni minuti e le orecchie ronzano, i
suoni sono distorti, ragliano lungo la spina dorsale. Gela. Inorridito,
intirizzito, inebetito.
La vista si appanna, si confonde,
è come perdere la presa, non avere più appiglio, e il reale si straccia e si
sfalda, un istante, un attimo, pezze di immagini intessuti di forme e colori. La
nausea monta alla bocca, sulle guance seccano lacrime e polvere, le labbra
riarse colano gocce di sangue—Le dita di Sif gli coprono la mano, i suoi occhi
lo cercano, le spalle sono piegate in avanti, il bel collo è teso, occhieggia
dalla ciocca di capelli scivolata sulla spalla.
Ora respira di nuovo.
Nessuna fantasmagoria, nessun
incubo.
Unicamente due figure incappucciate
attendono che gli vengano rivolte attenzione e parola. Non vede il loro volto,
indovina appena i loro corpi sotto al tessuto ruvido; il più massiccio dei due
trasporta un sacco sulle spalle. Non sembra intenzionato a posarlo.
Loki inclina appena il capo e
avverte il sudore gelare in minuscole stille lungo la nuca. La stessa Sif è
tesa mentre i due vengono annunciati come viaggiatori dei Nove Regni, venuti al
cospetto del Re per omaggiarlo con un dono.
Una strana elettricità permea l’aria.
Scintille d’attesa crocchiolano e crepitano nel silenzio, tra i nodi e le trame
di quel sacco che, Loki lo vede, è in più punti rovinato da incrostazioni
marroni, in altre da macchie ancora fresche che hanno il colore del sangue.
Un sospetto gli balza alla mente
e non fa in tempo ad alzarsi, ad intimare ai due di andarsene, a dare l’ordine
perché siano trascinati fuori da Asgard, quindi banditi per tutti gli anni che
saranno loro concessi dalla Norne, non in tempo, ecco, il sacco viene
rovesciato di malagrazia sul pavimento.
E gli occhi spalancati e sgomenti
e vuoti di Odino fissano Loki con accusa, e la testa mozzata rotola sulle
grandi piastrelle lucide, tracciando dietro di sé un cammino di sangue secco e
nervi e liquidi e umori.
Una risata sguaiata accompagna il
frusciare dei mantelli e Loki trasecola e gli astanti prorompono in un grido di
paura, uno stridio acuto e Sif s’alza in piedi e richiama Mòdi e Magni tra le
sue braccia e i Tre Guerrieri si fanno avanti e la Guardia avanza, armi in
pugno, scudo alzato.
Thor è lì, accerchiato, e non
cessa la sua risata.
Anni e anni sono trascorsi da
quando Odino l’ha bandito e la sua figura s’è fatta selvatica, il suo sguardo
selvaggio. Dei lunghi capelli e delle trecce che portava alle tempie non sono
rimasti se non dei corti ciuffi arruffati; il bel viso è deturpato da una
magrezza acida e maligna, sulle guance bianche cicatrici artigliano la carne
stopposa e dura. L’occhio destro è stato cavato via. Il sinistro si posa vorace
su Loki.
Meno brutale, anche la seconda
figura s’è tolta il cappuccio e il mantello. È bianca come bianchi sono i
cadaveri afferrati dalle mani scheletriche della morte; dalle orbite livide
spiccano occhi astiosi, pallidi. Solleva le braccia inguainate in un sudario
attillato e nero, le dita affondano tra i capelli scuri e dalle ciocche aggrovigliate
si innalzano dieci affilati aculei, dalle tempie alla nuca. Un sorriso deliziato
le arcua la bocca cerulea.
Ogni cosa, in lei, ogni tratto,
ogni piega ha il lezzo della morte. La sua pelle ha il sapore di un avvelenato,
le sue labbra il colore di un annegato, il collo i duri tendini dell’impiccato.
“Loki!” esclama Thor, allargando
le braccia con fare festoso “Che piacere vederti fratello mio, oh mio Re!” mima
un inchino, esagera la riverenza, china la testa fin quasi a toccarsi le
ginocchia con la fronte “Il mio regalo è di tuo gradimento?”
E qui accenna alla testa di Odino,
che ha terminato la sua lugubre corsa proprio davanti alla scalinata del trono.
“Sei un folle.” Sibila Loki “Hai
ucciso Odino! Hai ucciso nostro padre e ti ripresenti qui—“
“Ah, no, mio caro fratello, qui
io devo fermarti. Non è tuo padre, lo
sai.” Un ghigno ed ecco, Thor indica la donna cadaverica al suo fianco “Al
contrario Odino è nostro padre. Mio e
suo e, oh, accidenti, in questi anni ho davvero scordato le buone maniere.
Lascia che ti presenti Hela, Loki. La prima, sanguinaria, barbara figlia di
Odino. La legittima erede al trono di
Asgard.”
Tra gli presenti s’alza un brusio
come di api impazzite.
Hela rotea gli occhi pallidi al
soffitto e storce la bocca, forse per il rumore fastidioso, forse per le scene di
pace e armonia che si rincorrono sulle volte.
“Non mi piace quest’atmosfera.” Decreta
“Le riunioni di famiglia devono essere intime.”
Li uccide. Uno alla volta. Li massacra
e rapida come la morte falcidia sudditi e soldati, vecchi e giovani, uomini e
donne. Le guance si tingono di rosso, il sangue le imbratta le mani e i suoi
occhi sono lucidi e febbrili, infuocati. Nemmeno i Tre Guerrieri possono
qualcosa e le viscere di Fandral insozzano il pavimento e Volstagg vomita
sangue e saliva e dal petto di Hogun trafitto un ultimo respiro fischia nell’abbandonare
i polmoni.
Sif estrae la spada e strattona i
due figli, via, i soldati le fanno da scudo, un’uscita secondaria dietro il
trono, ecco il suo obiettivo.
Ma non lo raggiunge.
I soldati le cadono ai piedi, un
muro di cadaveri dal cranio sfasciato le blocca la strada e Thor la guarda,
brandendo un’ascia immonda, già grondante di umori.
“Lode a te, Prode Sif.” Mostra i
denti in un sorriso da belva e gira la testa verso Mòdi e Magni, ancora stretti
alle gambe della madre, impauriti oltre ogni dire “Salute a voi, figli miei.”
“No!” dalla cintola Loki estrae
due coltelli e una copia di se stesso sfolgora dalle sue membra e per prendere
tempo balza contro Hela, che ancora danza la sua immonda carola funebre “Fatti
da parte, Thor! Non osare alzare un dito su di loro!”
“Ho pieno diritto su di loro!”
tuona il fratello, le dita strette all’impugnatura dell’ascia “Ho potere sulla
loro vita, se desidero! Sulla loro morte, se così voglio!”
Sif contrae la mascella e il
petto si alza in un respiro ringhiante. In un lampo di armatura si getta su
Thor e la spada fischia e saetta, assetata di sangue, bramosa di vendetta. Lui la
tiene lontana, una, due, tre volte, avanti e indietro, feroci entrambi, col
cuore che pulsa dentro le tempie e nel fondo degli occhi, finchè col piatto
dell’ascia le colpisce la tempia e la bella Sif stramazza al suolo e la testa
ruota sulle scapole e l’ultimo sguardo che mai rivolgerà al mondo si posa
pietoso sui figli stretti nell’ombra dell’avversario.
Per Loki ogni istante è in incubo
che ha principio, ma non fine. Per ogni passo che compie verso Mòdi e Magni,
ecco che Hela arriva per sbranarlo e lui l’allontana e lei è lì di nuovo, lo
rallenta, gioca, perché possa vivere ogni singolo attimo che lo separa dalla
morte dei suoi prediletti. Non vuole ucciderlo, non ancora, vuole godere della
sua sofferenza, vuole nutristi del suo insignificante, patetico tentativo di
salvare le loro vite.
Le mani di Thor si posano l’una
sul capo di Mòdi e l’altra sul capo di Magni, in una pantomima di carezza, di
amore paterno; li guarda con un sorriso di bestia, preme le dita sui crani e
loro urlano e si dimenano e la stretta si fa più forte.
“Sapete, mi ricordate Sif.” Narra,
una stomachevole storia di tempi passati “Vostra madre aveva la stessa
espressione quando l’ho violentata.”
E il rumore delle ossa che si
frantumano e delle cervella stritolate tra le mani riempiono la Sala.
Hela ride, ride, ride, e Loki
urla e grida e bestemmia e non vede altro, ora, che rosso e vendetta e pianto e
morte e odio e ira e furore cieco. Si avventa su Thor, si avvinghia come Serpe
al suo corpo, vuole spezzarlo, vuole strappargli la carne dalle ossa e il
costato dal petto e la bocca e i denti e la lingua e sbranare le dita e le
braccia e azzannargli lo stomaco nel tripudio bollente degli intestini che
riempiono di sangue la bocca e gli occhi di lacrime.
E Thor ride, ride, ride, ulula,
abbaia, è folle, è pazzo, gli chiude la gola tra le mani e sono solo loro,
adesso, e Asgard è in fiamme e i Nove Regni rovesciati e il fuoco li divora e
non c’è più scampo.
Non c’è più salvezza.
“E’ quello che volevi, no, fratello
mio?” lo deride Thor “Questo è tutto ciò che hai sempre desiderato.”
E Loki alza lo sguardo e lo vede,
lì, il suo doppio che lo fissa di rimando, intoccato dalle fiamme, dallo
scorrere del tempo e degli eventi.
“Non è reale.” Sussurra e si
guarda le mani e guarda il trono e il corpo di Sif e i resti dei bambini e il
groviglio di membra che era il suo popolo “Non è reale.” Ripete e l’altro se
stesso gli rivolge un sorriso che non è tale, è solo una rapida smorfia.
“Non è reale!”
E il respiro infine si spezza.
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