The Poet And The Pendulum

di LaMicheCoria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Songwriter's Dead - Battlefield ***
Capitolo 2: *** 2. The Dreamer And The Wine ***
Capitolo 3: *** 3. One Last Perfect Verse ***
Capitolo 4: *** 4. I Have But Two Faces ***



Capitolo 1
*** 1. Songwriter's Dead - Battlefield ***


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The Poet And The Pendulum

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1.    The Songwriter’s Dead
Battlefield

 

Il silenzio deflagrò in mezzo a loro e l’impatto spazzò via le ossa dei morti, i resti dei caduti.
La stanchezza si sollevò come l’onda durante la marea, scavalcò la testa e le spalle, si infranse contro le ginocchia e li fece tremare, rese insicuri i loro piedi e trascinò il cuore ben oltre le fondamenta dello stomaco.
Il campo di battaglia brillava allo scintillare immobile delle stelle; i loro volti vacui, filamentosi li fissavano curiosi; le mandibole dei Chitauri schioccavano e sbatacchiavano, seminascosti dalla spuma iridescente dei portali ancora aperti. Le creature allungavano gli artigli, attendevano ringhiando nel ventre delle Navi Madri, tuttavia osavano oltrepassare il sottile confine tra loro e le stelle.
Il loro Padrone era morto.
Il Padrone dei Chitauri era morto.
Il Lord dell’Infinito era morto.
Il suo corpo mastodontico aveva sollevato una nube tale da nascondere i contorni del mondo a chi era sopravvissuto per vedere la tanto agognata e sofferta caduta di Thanos.
Un evento di tale portata meritava di essere accolto con grida di gioia, sorrisi di sollievo, dalla consapevolezza di aver appena scongiurato la più grande minaccia all’intero Multiverso: quel cadavere, quel trofeo di stazza inaudita simboleggiava la fine del terrore.
L’intero Multiverso, ora al sicuro, poteva dirsi finalmente salvo dagli occhi crudeli di Thanos, dal suo sguardo in grado di sondare l’Anima degli avversari, e dalle sue mani capaci di imbrigliare in un sol gesto la Mente, il Tempo e la Realtà, di incatenare tra le dita il Potere e ridisegnare i confini dello Spazio.
Il Multiverso poteva finalmente gioire e danzare sotto la volta del cielo e la presenza vigile degli Eterni fino all’albeggiare e poi oltre, fino all’imbrunire.
Perché Thanos era morto, Thanos, il Padrone dei Chitauri, il Lord dell’Infinito aveva cessato di spadroneggiare e uccidere.
Il Multiverso poteva finalmente festeggiare una vittoria come mai prima di allora.
Ogni vittoria, tuttavia, reclama per sé un tributo.
Sempre.
Il  prezzo grande o piccolo sia, non può aspettare di essere pagato, il debito deve essere saldato immediatamente: non si può rimandare, non si può attendere il momento più opportuno, non si può nemmeno tentare di essere pronti.
Il prezzo della vittoria è una spada di Damocle pronta a cadere all’ultima goccia di sangue versato.
E la spada era caduta.
Era stato un attimo. Un battito di ciglia.
Il respiro spezzato e il cuore che gelava e il sangue come piombo nelle vene e la cassa toracica ripiegata su se stessa a stritolare i polmoni e lo sterno spaccato e le costole in frantumi e i muscoli che si gonfiavano e poi si rinsecchivano e le membra che s’appesantivano gravando sulle ossa e tagliando i legamenti e fracassando le articolazioni e la testa che cascava all’indietro sul collo molle e gli occhi a seguire  il movimento del capo all’interno delle orbite rovesciandosi bianchi a guardare immoti le profondità del cranio e la bocca che perdeva colore e s’apriva, si spalancava a vomitare fiato voce e sangue.
E il corpo che, infine, cadeva.
Crollato e collassato sulla terra dura, coperto di polvere, il boato del contraccolpo come un ruggito nella notte, onde di dolore propagatesi a scuotere i nervi e la coscienza.
Il loro sguardo, spalancato e incredulo, le ginocchia che si abbandonavano a terra e si genuflettevano dinanzi ad uno spettacolo terribile e definitivo.
Nel mezzo dello sgomento, Quill si era alzato e Drax con lui e Gamora, chiuse le palpebre raccapriccianti di Rocket, li aveva accompagnati a sollevare le membra divelte; lo tennero sulle spalle, il capo piegato, gli occhi semichiusi e l’iride affaticata seminascosta tra le ciglia.  I loro passi spossati si trascinavano a stento sul terreno brullo, incespicando nella polvere ed ogni passo accumulava pena e lutto sulla schiena, piegandola, curvandola, fino a quando, troppo stremati per continuare, non si lasciarono andare e caddero, prima Gamora, quindi Star-Lord e infine Drax, colpito più dallo sguardo dell’uomo di fronte a lui che dalla battaglia appena conclusa.
Drax il Distruttore conosceva quello sguardo.
Conosceva il rimpianto delle cose non dette, delle cose fatte, delle cose che sarebbero potute essere e non sarebbero state mai: le aveva provate sulla pelle e nella carne e la sua mente sconvolta aveva gridato per ore e ore e ore, per albe e tramonti rossi come il sangue. Gridava e giurava vendetta e nel mentre il suo cuore rattrappiva nel torace e piangeva ricordi e memorie e speranze e più le piangeva più le perdeva e lo abbandonavano e andavano a nutrire, sconvolte, il suo rancore bollente come acido.
Per questo non disse nulla, quando l’uomo strisciò verso di loro, una lingua lucente e vermiglia a segnare il percorso del suo dolore. Non disse nulla, perché conosceva la sofferenza che riempiva l’addome, un vuoto dalle fauci spalancate e pronte a divorare e sbranare.
Pronte a distruggere.
E nel mentre che l’uomo si aggrappava a quel corpo tanto caro, gli eroi vennero vicini e si fecero loro intorno, li nascosero agli occhi dell’Universo e della realtà, bandirono il tempo dal frammento Non-Spazio che avevano così ritagliato e rimasero in silenzio.
Ammutoliti dalla Morte e dalle ferite che Thanos aveva loro inferto e forse non sarebbero mai guarite del tutto.

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Capitolo 2
*** 2. The Dreamer And The Wine ***


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2.    The Dreamer And The Wine
Tony Stark – Gemma Dell’Anima

 

Nello scroscio del vino, il murmure del presente e un ringhio ovattato.
Nella schiuma che imbelletta il vetro, il futuro cosparso di vuoti impercettibili che risucchiano aria e ossigeno.
Nel fondo liquido, il grumo del passato, rimasugli che hanno il colore del sangue, densi, enfi come annegati, stracci divelti di ricordi e momenti.
È lì, in un bicchiere colmo di vino e liquore e veleno, è lì e soltanto lì, che Tony Stark sa riflettersi il vero volto della propria anima.
E gli fa orrore.
Il terrore gli agguanta le viscere. Lingue di fuoco si rovesciano nella carotide e il respiro si fa incandescente, al punto di arroventargli la gola –E non è forse, gli suggerisce una voce, non è forse a questo che si riduce la tua esistenza? A questo fuoco che non crea, bensì distrugge?
E in questo caleidoscopio di fiamme tu spasimi, genio di follia e disperazione, in questo amplesso volgare e prostituito ti strappi dal cranio visioni e occhi e pensieri e voce e identità e sangue. Preghi un dio fermentato di fracassarti le ginocchia e ti genufletti, il torace colmo di un enthusiasmos che obnubila la ragione e i sensi. Non aspetti altro, non desideri altro che agitarti come un Menade al folle ritmo dei bicchieri che si svuotano e si susseguono e poi affondare i denti nella carne, strapparti pelle e ossa e ridere, ebbro, nell’attesa della Morte che sempre corteggi, ma mai si concede. Non aspetti altro che la Morte. Il picco dei sensi. Il crollo. La volta del cielo e il grembo dell’Inferno. È per arrivare alla tomba che avveleni la tua anima di liquore e follia. Ogni brindisi è una libagione all’Erebo che ti attende.
Tony vuole smettere di guardare. Vuole coprirsi gli occhi con le mani, vuole essere al contempo cieco e sordo, non vedere, non sentire, essere niente, essere nulla.
Tuttavia, sa che non può sottrarsi: ciò che gli sta accadendo non è qualcosa di fisico, non lo può combattere, non lo può ridurre al silenzio. Non c’è armatura che possa proteggerlo, nessuno schermo che possa abbassarsi per isolarlo dal mondo. Lui stesso non ha fisicità, non può sperare di girare la testa, non può fare niente se non assistere al tragicomico spettacolo della sua anima ora schiusa al ludibrio del mondo.
Un’anima sporca di lordura, vomito e saliva, un’anima che ride del riso incontrollato, svenevole degli ubriachi.
La sua anima lo sta fissando e Tony la fissa di rimando, per la prima volta dopo anni. Sente la nausea arrivare fino alla bocca, dove cementifica insieme denti e lingua: sono uguali, sono identici, la sua anima liberata dai ceppi dell’indifferenza ride, sorride, e la risata lasciva fa traballare il pomo d’Adamo e subito si trasforma, si muta in acidi e sangue. Lo stomaco quasi gli arriva alla bocca tanta è la forza dei conati e Stark si ritrova d’improvviso piegato in avanti, con le mani che pressano sull’addome e cercando di aprirsi la via verso gli intestini. La spina dorsale si torce e ramifica scariche di dolore lungo la schiena e le braccia e il cuore guaisce, una stilettata d’infarto gli rovescia gli occhi nelle orbite e sopra la volta cranica lo attende un oceano rosso di vino, sospeso in un esofago di vetro.
Sulle pareti curve, inframezzato dal lucore di cadaveriche gocce di condensa, il volto che lo fissa ad ogni respiro ha la pelle tirata sugli zigomi e il livore delle labbra è un tutt’uno col pallore della carne; le ossa lasciano intravedere il profilo aguzzo delle scapole, dei gomiti, delle nocche; il completo stazzonato e straziato racconta per ogni macchia una storia diversa e i nodi del tessuto sono intrisi di vomito e sudore e drink rovesciati. Eccolo, che annaspa e ansima, e tende le mani, le dita e i polpastrelli tremano, vibrano, non sanno più mantenere la presa all’aria e le mani sbucciate hanno dimenticato la grazia dell’invenzione e la musica del sogno. L’ha barattato per un goccio di più; ha smembrato, strappato e ogni pezzo, ogni frammento di sé venduto al miglior offerente e al peggior barista.
Nello stomaco non gli rimane che il sapore della polvere e del vomito, della strada, del lerciume, dell’abbandono, dell’addio.
Vergognosa, imbarazzante, lurida e putrida, egoista, malsana, suicida, , ecco cos’è la sua anima.
Una porta che si chiude, una stanza vuota, un silenzio assordante –Il freddo di una pistola. Il caldo del sangue.
Non può scappare. Non può fuggire. Non può girare gli occhi altrove.
La sua anima è lì, che lo guarda e ghigna dal fondo di un bicchiere.

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Capitolo 3
*** 3. One Last Perfect Verse ***


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3.    One Last Perfect Verse
Doctor Strange – Gemma Del Potere

 

Si era guardato le mani congestionate dal freddo e le aveva strette contro il petto, soffiando  un poco di fiato sulla pelle screpolata.
Non era servito.
Il respiro si era fatto livido al pari del suo corpo.Era pieno di spifferi e cigolava come cigolava il legno pieno di spifferi investito dal vento, lì, in quella cupoletta macilenta in cui l’Antico lo aveva costretto e in cui sarebbe dovuto rimanere fino a quando non fosse riuscito ad accendere il fuoco.
Viveva a Kamar  Taj da alcuni mesi, ormai, era sicuro di aver imparato a comprendere tutte le sfumature e i non-detti contenuti nelle richieste e nei compiti che l’Antico gli affidava, per quanto semplici sembrassero in apparenza.
Dovette ammettere con sommo scorno che, ancora una volta, l’Antico gliela aveva fatta 1e i suoi pensieri e le sue intenzioni erano ancora e di nuovo ineffabili come quando aveva solcato per la prima volta la soglia del Tempio.
E come allora la cosa era stata molto, molto irritante.
Con il viso affondato nella polvere e la Cappa della Levitazione chiusa a proteggerlo dai colpi inferti da Thanos, Strange si scoprì di nuovo afferrato dalla medesima impressione d’inutilità che lo aveva colto nel gelo della catapecchia, anni e anni prima, quando doveva accendere un fuoco e non aveva legna da ardere e le sue mani si erano rattrappite al punto da non riuscire a compiere il più elementari dei gesti.
Era rimasto ore a fissare il pavimento di terra battuta, stringendosi nelle spalle per disperdere meno calore possibile. Non c’erano vetri alle finestre e il vento ruggiva contro di lui, drizzava il pelo innevato e gli rovesciava contro odio e rancore. Non c’erano luci e il cielo era talmente gonfio di ghiaccio e putredine da impedire il passaggio del più piccolo bagliore.
Allora non aveva capito. Come poteva accendere un fuoco senza niente che potesse fare combustione e con le mani martoriate dal freddo? Aveva cominciato ad ingiuriare l’Antico, alzando la voce per sovrastare la risata sardonica del vento, urlando e gridando fino a farsi sanguinare la gola, fino a schiacciare i polmoni contro lo sterno, fino a perdere coscienza di sé come corpo fisico e non essere nulla di più di un ululato volgare e osceno.
Lo Stregone Supremo rotolò di lato e un boato squassò il terreno sotto le sue dita. La presa si fece malferma, schiacciò il viso nella polvere per soffocare il gemito scagliato attraverso l’apparato nervoso,. Avvertì le fiamme appiccarsi alla pelle, artigliare la carne e fondere le ossa, liquefarle, scioglierle in un pastone appiccicoso e lustro di sangue.
Rivide con l’occhio della memoria il sorriso effimero dell’Antico, soffuso di quel suo divertimento sottile e curioso. Il suo sguardo si era colmato di interesse, forse persino di soddisfazione nel vedere l’espressione scomposta dalla rabbia e dall’insulto stupire in un istante.
“Prego.” Gli aveva detto “Continua pure.”
Lui aveva invece continuato a fissare l’Antico fra l’istupidito ed il rabbioso. La voce era mancata d’improvviso e allora, solo allora l’Antico aveva schiuso le labbra ad un sospiro sconfitto.
“Da cosa viene così tanta veemenza?” lo canzonò con affetto quasi materno, scostando le pieghe dell’abito color zafferano e accomodandosi lì accanto, le belle braccia nude tese ad appoggiare le mani sulle ginocchia “Persino la neve ha smesso di cadere, sconvolta da tanta ira.”
Una punta di vergogna, che aveva reso la sua voce piccata.
“Cosa ti aspettavi? Mi hai chiesto di accendere il fuoco in questo posto dimenticato da Dio! Senza legna o delle dannate pietre focaie!”
Aveva sorriso, l’Antico, col sorriso accondiscendente di una madre eterna contro l’impertinenza infantile di eterni bambini.
“Tu sei insieme legna e pietra focaia.”
“Io sono soltanto uno stupido assiderato.”
“Che sciocchezze.” Fu il commento sbrigativo dell’Antico “Ti rimangono almeno due ore prima di essere preda dell’assideramento.” Voltò il viso candido verso di lui, lo sguardo consapevole puntato nei suoi “Ritengo sia meglio per te trovare una soluzione. In fretta, ti consiglio.”
Più feroce della neve e del freddo fu la rabbia che montò fiammeggiando nelle viscere di Strange.
“Come credi che possa fare?” abbaiò, la voce irrancidita dallo sprezzo, dalla furia e dalla disillusione. Alzò le braccia e le mostrò le dita livide, gonfie, sanguinanti “Come posso scaldarmi, come posso fare qualcosa ridotto così?”
Un sorriso divertito sollevò la bocca affettuosa dell’Antico.
“Ah, signor Strange...!” esclamò “Ancora convinto che tutto si riduca ad una danza insensata di mani e di dita? Ad un gioco di prestigio? Il Potere non si concede a chiunque, signor Strange, il Potere non si corteggia, né si accarezza a punta di dita. Va chiamato. Invocato.”
“E come?”
“Con la stessa veemenza e convinzione con cui hai invocato e chiamato me soltanto pochi minuti fa.”
Una fitta di vergogna allo stomaco, uno stringersi convulso dell’intestino.
“Devo soltanto chiamare il fuoco?”
“Soltanto? Non esiste niente di più difficile.”
Strange  pressò le labbra e puntò gli occhi sulla terra battuta che faceva da pavimento alla casupola. Chiamare il fuoco. Non pareva una cosa tanto complicata, nonostante le parole dell’Antico, soprattutto se era qualcosa che non coinvolgeva l’uso delle mani.
“Fuoco!” esclamò, osservando poi indispettito il niente che era scaturito alla sua voce “Fuoco!” ritentò “Fuoco! Fiamma! Falò!”
Nulla. Il terreno brullo lo derideva col suo essere ancora spoglio e vuoto. Persino il silenzio dell’Antico aveva assunto i contorni di una risata canzonatoria, di un dito puntato al suo ennesimo fallimento, al suo essere ancora troppo ancorato alla razionalità del mondo esterno per lasciarsi cadere e assorbire dal grembo mistico a tratti grottesco di Kamar Taj. Il Potere lo aveva guardato ancora una volta con sdegno e ancora e di nuovo lo aveva superato, si era mostrato e ritratto, riottoso e superbo.
“La parola non è nulla se non c’è la comprensione.” L’Antico, paziente, gli fece cenno di riprovare “Non è nulla più di una concatenazione di suoni, vuoti movimenti della lingua e contrazioni della glottide. Devi comprendere la Paola e il Verbo e il Verso, perché si facciano nella tua carne, perché si mutino nel tuo sangue. Se vuoi il fuoco, sii fuoco.”
Sii fuoco. Stephen guardò dapprima l’Antico, quindi le mani, le falangi, le unghie nere di terra. Sii fuoco. Cos’era il fuoco? Calore. Calore, sì. Un calore scarlatto, un cuore palpitante, un nucleo liquido che tremava e vibrava, danzava, si spandeva, si contraeva e rilasciava lampi bollenti e schiocchi che si alzavano verso il cielo, mani di fiamme tese tese tese fino a dissolversi in fumo e ghironde e girandole ancora calde di cenere.
Dapprima furono le ramificazioni delle vene. Poteva sentire distintamente qualcosa, una sorta di filo, come un rivolo di lava, cominciare il proprio percorso dalle arterie fino ai capillari; un bagliore attorno ai polsi ed ecco, il rivolo si apriva e si spandeva entro il dorso e scendeva a riempire il palmo, si sollevava, spumeggiava contro gli anelli delle falangi e sfondavano la diga delle ossa e si rovesciavano all’interno dei polpastrelli e si gonfiavano fin oltre le unghie.
Bruciava. Sì. Bruciava, bruciava ogni nervo, ogni muscolo, ogni articolazione, ogni pensiero.
“Ecco.” Fu il sorriso dell’Antico, la cui ombra danzava contro le pareti, abbaglianti per il fuoco che ruggiva nella casupola “Questa è comprensione. Questo è Potere.”
Bruciava anche ora. Di un fuoco che agguantava la carne e la pelle, che sbranava ogni nervo e pensiero. Uno schiocco di Bande Cremisi ad afferrare e stringere i polsi, a tirare e tirare e tirare oltre il limite della carne, oltre gli agganci delle ossa che ora scricchiolavano senza posa e gemevano e piangevano senza sosta. Poi le Fiamme. Le Fiamme Delle Faltine che salivano a lambire le gambe, il torace, le spalle, il collo, la testa. Salivano e abbaiavano, scavavano nelle guance, nelle sterno, succhiavano il midollo dalla spina dorsale e vomitavano nella cavità vuota un rigurgito di lava e di magma.
Strange aprì la bocca per gridare ed invocare aiuto, per chiamare a sé un incantesimo, ma il fuoco gli si rovesciò nella gola e lo riempì di cenere liquida, tanto spessa da incatramargli la trachea e i polmoni, il cuore. Sollevò gli occhi illividiti dalla mancanza di ossigeno e incontrò lo sguardo irridente del Titano, le sue labbra storte a disegnare un sorriso terribile e derisorio, illuminato dal bagliore perverso della Gemma.
“Questo, Dottore, questo è il vero Potere.”

Ringrazio Mardy Paranoica  per la splendida recensione!

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Capitolo 4
*** 4. I Have But Two Faces ***


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I Have But Two Faces,

One for the World, One for God

Loki – Gemma Della Realtà

 

Il profumo della carne e della pelle, del sudore che scintilla, occhieggia tra le gambe, la carezza dei capelli, delle ciocche che scivolano oltre le spalle, scendono sulla schiena, un movimento languido della spina dorsale che cresce e risale, solleva piano la nuca e mostra il lobo dell’orecchio, un palpito bianco della tempia.
Il corpo di lei si tende all’arrivo del sole e mentre i raggi le cadono piano sulle braccia, ecco, ne segue il percorso come se il mattino tirasse lentamente i fili dell’alba inanellati alle dita e ai polsi, allo collo niveo, alle ciglia scure, alle palpebre che tremolano e si increspano, smuovono la superficie immobile del sonno, si aprono, sorridono.
“Buongiorno, mio Re.”
Loki la osserva. I suoi occhi non lasciano la presa su di lei un singolo istante: la osserva mentre solleva le belle spalle e le braccia, mentre tende le dita al soffitto arabescato, osserva il respiro alzarle la curva del seno, il freddo irrigidirle i capezzoli scuri, il singulto del diaframma che fa sussultare l’ombelico e il ventre e solletica lo scuro incunearsi delle cosce, fino alle profondità ancora umide dell’inguine.
Bella, oh, splendida Sif, che ora passa le unghie e le mani tra i capelli neri e doma nodi e ciocche, li tira e li manovra come briglie, splendida guerriera.
“Buongiorno, mia Regina.”
Sif gli sorride e Loki si muove sotto le coperte bordate d’oro, la invita con una mano e lei acconsente, gli è sopra, quel suo corpo già caldo, il dolce peso del pube e del seno a combaciare con le sue gambe e col suo petto.
“Abbiamo questioni importanti cui rivolgere la nostra attenzione.” Sif cerca di farlo tornare alla ragione, ma non è che un gioco cui le membra rispondono con piacere non appena le passa le mani sulla schiena, contando le vertebre di lei con la punta delle dita.
“Quanto importanti?”
“Molto importanti.”
“Ah.” Esala lui, già proteso a cercare la sua bocca, le sue belle labbra ancora arse di rossi baci “Sarebbe un così terribile peccato se siffatte…Questioni attendessero ancora un momento, mio Regina?”
“Se il Re è d’accordo sul fatto che siffatte questioni attendano…”
“Il Re.” Sillaba lui, assaporando sulla lingua ogni più piccolo respiro che arriva gemendo dalla gola di lei “E’ decisamente d’accordo.”
Chi non è d’accordo, Loki, ahimè, è costretto a scoprirlo a proprio spese. Passetti di corsa lungo il corridoio, manine chiuse a pugno che battono e bussano, strilli piccati, infastiditi, arrabbiati, Padre! Lo chiamano Padre! E il Re sorride, divertito, e Sif gli regala un bacio sulle labbra e sulla punta del naso, prima di spostare il bel corpo affusolato e coprire la pelle nuda con una tunica color smeraldo e a piedi nudi raggiungere le porte di legno pregiato, poggiare le dita sulle maniglie d’argento e scostarsi, perché le due figurette urlanti possano saltare assai più agevolmente sul materasso e raggiungere il povere Re, in modo da renderlo edotto sulle loro improrogabili rimostranze.
“Padre!” urla il più grande, che porta il nome di Mòdi “Padre, Magni si è trasformato in un serpente gigante e mi ha spaventato!”
“Non è vero!” tuona Magni, pestando il piede a terra con fare stizzito “Non era enorme! E non è mia la colpa se sei solo un pavido cialtrone!”
“Pavido cialtrone?” domanda Sif “Magni, chi mai ti ha insegnato simili discorsi?”
“E’ stato Fandral!” Mòdi coglie al volo l’occasione di seminare zizzania “Quando non è con quel suo nasaccio tra i libri è con lui che trascorre il tempo! E parlano di sangue e di spade e di battaglie!”
“La tua è bieca gelosia! Vorresti discorrere anche tu con Fandral e Hogun, mentre il tuo amore per i pasticci di carne non ti fanno porgere orecchio e bocca che al solo Volstagg!”
“Molto bene, ora basta.”
Loki è quasi divertito dallo scambio di battute. È quasi nostalgico, avverte una punta di amaro rammarico gelare un momento il sangue nelle vene. Nel sollevarsi dal letto, ecco, deve un istante guardarsi alle spalle e alzare gli occhi chiari al soffitto, alla propria destra, quindi a sinistra. Ha la sensazione di essere braccato. Dura un istante, un attimo appena, eppure è lì, un peso gli si annida sulle spalle, gracchia parole di veleno e timore.
“Dunque qual è il motivo di tanta agitazione? E’ solo il serpente, Mòdi?” lo interroga il padre “O è come dice Magni e la vera ragione è il mostro della gelosia che ti morde le dita dei piedi?”
Mòdi gonfia le guance, è arrabbiato.
“Mi ha spaventato. Si è trasformato in un serpente e ha finto di volermi strappare la pelle dalla faccia.”
“Magni.”
A quel tono, il bambino si stringe nelle spalle. Cerca gli occhi chiari in quelli della madre, forse sperando in un suo intervento. Sif, però, contrae le labbra e alza le sopracciglia scure.
Nessun aiuto arriverà dall’algida guerriera.

 

Il corridoio è silenzioso.
La sempiterna storia di Asgard osserva il suo passaggio dalle pareti, dagli arazzi, dalle volte e dagli stucchi. Lo sfidano a far meglio. A superare i suoi eroi in coraggio, i suoi re in saggezza, i suoi sapienti in arti e magie.
Loki non teme il confronto. È destinato a percorrere il sentiero tracciato per coloro che appartengono alla genia di Odino e lui ne è degno, più di chiunque abbia percorso quei corridoi, calcando il passo sul pavimento marmoreo..
Lui, Loki figlio di Odino, è il legittimo Re di Asgard. Il sovrano degno di sedere su Hiloskjàlf, il trono di Padre Tutto.
Finisce di formulare tale pensiero, s’arresta.
Al principio del corridoio, una figura si staglia contro la luce che erompe dalle sale principali. E’ lui, Odino, avvolto in una veste da camera color borgogna. Loki fissa con sgomento la punta delle babbucce che s’arricciolano sotto l’orlo dorato; guarda il calice che Padre Tutto tiene nella mano inanellata e non può non interrogarsi su quel gusto pacchiano, sulla posa indolente e sul vestiario. Più che Odino pare un attore, anzi, un mascalzone travestito come tale con la pretesa di poter governare i Nove Regni con una corona di cartapesta sul capo.
“Padre.” Esala “Ti credevo in viaggio.”
“E io.” Risponde Odino, con un tono beffardo che certo non gli appartiene “Ti credevo capace di riconoscere un tranello, oh Dio delle Malefatte.”
Loki s’irrigidisce.
“Come osi—“
“E’ ciò che sei, no? Il Dio degli Inganni e delle Malefatte, Loki Lingua D’Argento…”
“Basta!” esclama il re, con occhi di ghiaccio “Questi tuoi titoli sono soltanto menzogne! Spoglie del passato ormai dimenticate! Io sono Loki, figlio di Odino! Il legittimo Re di Asgard!”
Una risata malevola è la sola risposta che il mascalzone travestito di Odino gli concede.
“Perché ridi? Perché ti burli di me?”
Con orrore, Loki assiste al tremendo trasfigurarsi della creatura: spariscono la veste da camera, gli anelli, la barba bianca; lunghi capelli neri cadono da sotto un elmo dorato, le cui corna si curvano alte sulla sommità della testa. Il naso si fa affilato, sottili le labbra. I piedi calzano ora pesanti stivali neri e non più comode babbucce. La scura tinta borgogna diviene verde come fiele.
E Loki si guarda, ora, occhi negli occhi con se stesso, contro un riflesso maledetto e decaduto, che ha l’aspetto del rancore, della sconfitta, della redenzione, del disfacimento.
“Cielo.” Commenta il suo doppio, volgendo gli occhi astuti e freddi al mantello rosso sangue, alle placche di metallo rotondo che gli sfavillano sul  petto “E’ proprio quello che abbiamo sempre desiderato, non è vero?”

 
Sif lo ha trovato che ancora aveva lo sguardo intrappolato in un vuoto abisso.
Gli è occorso del tempo per capire dove si trovasse, ma non sa dare una spiegazione a ciò che gli è accaduto. Vuole raccontarlo a Sif, ma non trova le parole per farlo. All’ultimo incespicano sulle labbra stupidamente socchiuse e non è più in grado di formulare frase alcuna.
La rassicura, le dice di non temere, non è stato nulla, solo un’idea, un pensiero più arduo degli altri da seguire, non ne è ancora venuto a capo, nulla di cui debba essere spaventata, nulla che debba turbarla più del necessario. Ai re, sostiene, capita spesso di perdersi tra i marosi della propria mente, ma solo i più accorti, continua, prendono il largo su un legno spesso e adatto a domare flutti e correnti.
La Sala di Hiloskjàlf è già gremita di postulanti quando fanno il loro ingresso; Magni e Mòdi, di nuovo riappacificati, li attendono ai lati del trono. Hanno l’aria già annoiata ancor prima di cominciare la querula litania di richieste e offerte, in trepida attesa della conclusione e sognano l’orizzonte che si tende fuori dalle mura del Palazzo. Non hanno la pazienza necessaria, così come Loki non l’ha avuta prima di loro e forse nemmeno Odino, quando le pareti all’intorno erano di pietra appena sbozzata e dalle dita dei cantori stillavano lacrime di rosso sangue.
Nel tempo che i postulanti s’inchinano sfilando dinanzi al trono, Loki si ritrova a pensare a loro, ai suoi figli, a Sif dai capelli neri, ai Tre Guerrieri, ad Asgard, ai Nove Regni che sottostanno alla sua autorità. Osserva i volti dei suoi sudditi, le pieghe della veste nel genuflettersi al suo cospetto, domandando grazia e pietà. Rialza gli occhi e con orrore scorge la figura che l’ha sorpreso nel corridoio fissarlo, lì, all’entrata della Sala: ora sfoggia un abito blu, le cui fasce di tessuto cingono dense il petto e i polsi; un mantello dall’interno dorato poggia pigramente sull’avambraccio sinistro; alti stivali chiudono i polpacci fin sotto al ginocchio.
Il suo sorriso è ferino, divertito. e Loki si scopre incapace di porgere orecchio ai postulanti, a Sif che tende il braccio ben tornito a sfiorargli la mano, la dolce carezza dei polpastrelli sulle nocche.
“Come puoi non vedere?” lo canzona il suo doppio “Come puoi, oh Dio degli Inganni, non accorgerti del tranello di cui sei vittima e carnefice?”
I suoi passi, ora che a grandi falcate superano la coda che attende ondeggiando il proprio turno, non producono alcun suono sul pavimento lastricato. Nessuno degli astanti si accorge della sua presenza, della sua orgogliosa avanzata. Osa addirittura passare accanto a Mòdi, rivolgendo a lui e a Magni una rapida occhiata, un istante di fiato trattenuto, un’espressione ferita, sale la scalinata che rialza Hiloskjàlf, e ritto lo sfida, troneggia su di lui e pare adesso che abbia manette ai polsi, un collare di spesso metallo a chiudere la gola.
“E’ tutto ciò che abbiamo sempre desiderato.” dice “Noi siamo Inganno e Malefatta. Noi siamo il caos naturale, l’entropia dell’esistenza, il disordine che permea ogni Regno e freme tra le fronde di Yggradsil. Noi sapremo sempre cosa è vero e cosa non lo è, cosa è Menzogna, cosa è Reale. Ascoltami. Ascoltaci. Ascoltati. Tu sai cosa è Inganno, Malefatta, Menzogna. Per questo io sono qui e ti parlo e tu mi vedi. Io sono la Chiave che apre la tua gabbia dorata, oh mio Sovrano.” Lo deride “La tua Salvezza “ sorride, ora, e la pelle si tinge di azzurro, gli occhi hanno il colore del sangue, volute e segni che paiono cordoni di cicatrici butterano il viso, la fronte, le guance. “Io sono il tuo peggior incubo. Io sono la verità.”

 

Il cuore gli toglie il respiro. Il sangue si ritira dalle tempie in un risucchio gorgogliante, quindi deflagra contro la fronte, l’arcata sopraccigliare, persino le orbite. Il dolore è tanto violento da lasciarlo istupidito per alcuni minuti e le orecchie ronzano, i suoni sono distorti, ragliano lungo la spina dorsale. Gela. Inorridito, intirizzito, inebetito.
La vista si appanna, si confonde, è come perdere la presa, non avere più appiglio, e il reale si straccia e si sfalda, un istante, un attimo, pezze di immagini intessuti di forme e colori. La nausea monta alla bocca, sulle guance seccano lacrime e polvere, le labbra riarse colano gocce di sangue—Le dita di Sif gli coprono la mano, i suoi occhi lo cercano, le spalle sono piegate in avanti, il bel collo è teso, occhieggia dalla ciocca di capelli scivolata sulla spalla.
Ora respira di nuovo.
Nessuna fantasmagoria, nessun incubo.
Unicamente due figure incappucciate attendono che gli vengano rivolte attenzione e parola. Non vede il loro volto, indovina appena i loro corpi sotto al tessuto ruvido; il più massiccio dei due trasporta un sacco sulle spalle. Non sembra intenzionato a posarlo.
Loki inclina appena il capo e avverte il sudore gelare in minuscole stille lungo la nuca. La stessa Sif è tesa mentre i due vengono annunciati come viaggiatori dei Nove Regni, venuti al cospetto del Re per omaggiarlo con un dono.
Una strana elettricità permea l’aria. Scintille d’attesa crocchiolano e crepitano nel silenzio, tra i nodi e le trame di quel sacco che, Loki lo vede, è in più punti rovinato da incrostazioni marroni, in altre da macchie ancora fresche che hanno il colore del sangue.
Un sospetto gli balza alla mente e non fa in tempo ad alzarsi, ad intimare ai due di andarsene, a dare l’ordine perché siano trascinati fuori da Asgard, quindi banditi per tutti gli anni che saranno loro concessi dalla Norne, non in tempo, ecco, il sacco viene rovesciato di malagrazia sul pavimento.
E gli occhi spalancati e sgomenti e vuoti di Odino fissano Loki con accusa, e la testa mozzata rotola sulle grandi piastrelle lucide, tracciando dietro di sé un cammino di sangue secco e nervi e liquidi e umori.
Una risata sguaiata accompagna il frusciare dei mantelli e Loki trasecola e gli astanti prorompono in un grido di paura, uno stridio acuto e Sif s’alza in piedi e richiama Mòdi e Magni tra le sue braccia e i Tre Guerrieri si fanno avanti e la Guardia avanza, armi in pugno, scudo alzato.
Thor è lì, accerchiato, e non cessa la sua risata.
Anni e anni sono trascorsi da quando Odino l’ha bandito e la sua figura s’è fatta selvatica, il suo sguardo selvaggio. Dei lunghi capelli e delle trecce che portava alle tempie non sono rimasti se non dei corti ciuffi arruffati; il bel viso è deturpato da una magrezza acida e maligna, sulle guance bianche cicatrici artigliano la carne stopposa e dura. L’occhio destro è stato cavato via. Il sinistro si posa vorace su Loki.
Meno brutale, anche la seconda figura s’è tolta il cappuccio e il mantello. È bianca come bianchi sono i cadaveri afferrati dalle mani scheletriche della morte; dalle orbite livide spiccano occhi astiosi, pallidi. Solleva le braccia inguainate in un sudario attillato e nero, le dita affondano tra i capelli scuri e dalle ciocche aggrovigliate si innalzano dieci affilati aculei, dalle tempie alla nuca. Un sorriso deliziato le arcua la bocca cerulea.
Ogni cosa, in lei, ogni tratto, ogni piega ha il lezzo della morte. La sua pelle ha il sapore di un avvelenato, le sue labbra il colore di un annegato, il collo i duri tendini dell’impiccato.
“Loki!” esclama Thor, allargando le braccia con fare festoso “Che piacere vederti fratello mio, oh mio Re!” mima un inchino, esagera la riverenza, china la testa fin quasi a toccarsi le ginocchia con la fronte “Il mio regalo è di tuo gradimento?”
E qui accenna alla testa di Odino, che ha terminato la sua lugubre corsa proprio davanti alla scalinata del trono.
“Sei un folle.” Sibila Loki “Hai ucciso Odino! Hai ucciso nostro padre e ti ripresenti qui—“
“Ah, no, mio caro fratello, qui io devo fermarti. Non è tuo padre, lo sai.” Un ghigno ed ecco, Thor indica la donna cadaverica al suo fianco “Al contrario Odino è nostro padre. Mio e suo e, oh, accidenti, in questi anni ho davvero scordato le buone maniere. Lascia che ti presenti Hela, Loki. La prima, sanguinaria, barbara figlia di Odino. La legittima erede al trono di Asgard.”
Tra gli presenti s’alza un brusio come di api impazzite.
Hela rotea gli occhi pallidi al soffitto e storce la bocca, forse per il rumore fastidioso, forse per le scene di pace e armonia che si rincorrono sulle volte.
“Non mi piace quest’atmosfera.” Decreta “Le riunioni di famiglia devono essere intime.”

 

Li uccide. Uno alla volta. Li massacra e rapida come la morte falcidia sudditi e soldati, vecchi e giovani, uomini e donne. Le guance si tingono di rosso, il sangue le imbratta le mani e i suoi occhi sono lucidi e febbrili, infuocati. Nemmeno i Tre Guerrieri possono qualcosa e le viscere di Fandral insozzano il pavimento e Volstagg vomita sangue e saliva e dal petto di Hogun trafitto un ultimo respiro fischia nell’abbandonare i polmoni.
Sif estrae la spada e strattona i due figli, via, i soldati le fanno da scudo, un’uscita secondaria dietro il trono, ecco il suo obiettivo.
Ma non lo raggiunge.
I soldati le cadono ai piedi, un muro di cadaveri dal cranio sfasciato le blocca la strada e Thor la guarda, brandendo un’ascia immonda, già grondante di umori.
“Lode a te, Prode Sif.” Mostra i denti in un sorriso da belva e gira la testa verso Mòdi e Magni, ancora stretti alle gambe della madre, impauriti oltre ogni dire “Salute a voi, figli miei.”
“No!” dalla cintola Loki estrae due coltelli e una copia di se stesso sfolgora dalle sue membra e per prendere tempo balza contro Hela, che ancora danza la sua immonda carola funebre “Fatti da parte, Thor! Non osare alzare un dito su di loro!”
“Ho pieno diritto su di loro!” tuona il fratello, le dita strette all’impugnatura dell’ascia “Ho potere sulla loro vita, se desidero! Sulla loro morte, se così voglio!”
Sif contrae la mascella e il petto si alza in un respiro ringhiante. In un lampo di armatura si getta su Thor e la spada fischia e saetta, assetata di sangue, bramosa di vendetta. Lui la tiene lontana, una, due, tre volte, avanti e indietro, feroci entrambi, col cuore che pulsa dentro le tempie e nel fondo degli occhi, finchè col piatto dell’ascia le colpisce la tempia e la bella Sif stramazza al suolo e la testa ruota sulle scapole e l’ultimo sguardo che mai rivolgerà al mondo si posa pietoso sui figli stretti nell’ombra dell’avversario.
Per Loki ogni istante è in incubo che ha principio, ma non fine. Per ogni passo che compie verso Mòdi e Magni, ecco che Hela arriva per sbranarlo e lui l’allontana e lei è lì di nuovo, lo rallenta, gioca, perché possa vivere ogni singolo attimo che lo separa dalla morte dei suoi prediletti. Non vuole ucciderlo, non ancora, vuole godere della sua sofferenza, vuole nutristi del suo insignificante, patetico tentativo di salvare le loro vite.
Le mani di Thor si posano l’una sul capo di Mòdi e l’altra sul capo di Magni, in una pantomima di carezza, di amore paterno; li guarda con un sorriso di bestia, preme le dita sui crani e loro urlano e si dimenano e la stretta si fa più forte.
“Sapete, mi ricordate Sif.” Narra, una stomachevole storia di tempi passati “Vostra madre aveva la stessa espressione quando l’ho violentata.”
E il rumore delle ossa che si frantumano e delle cervella stritolate tra le mani riempiono la Sala.
Hela ride, ride, ride, e Loki urla e grida e bestemmia e non vede altro, ora, che rosso e vendetta e pianto e morte e odio e ira e furore cieco. Si avventa su Thor, si avvinghia come Serpe al suo corpo, vuole spezzarlo, vuole strappargli la carne dalle ossa e il costato dal petto e la bocca e i denti e la lingua e sbranare le dita e le braccia e azzannargli lo stomaco nel tripudio bollente degli intestini che riempiono di sangue la bocca e gli occhi di lacrime.
E Thor ride, ride, ride, ulula, abbaia, è folle, è pazzo, gli chiude la gola tra le mani e sono solo loro, adesso, e Asgard è in fiamme e i Nove Regni rovesciati e il fuoco li divora e non c’è più scampo.
Non c’è più salvezza.
“E’ quello che volevi, no, fratello mio?” lo deride Thor “Questo è tutto ciò che hai sempre desiderato.”
E Loki alza lo sguardo e lo vede, lì, il suo doppio che lo fissa di rimando, intoccato dalle fiamme, dallo scorrere del tempo e degli eventi.
“Non è reale.” Sussurra e si guarda le mani e guarda il trono e il corpo di Sif e i resti dei bambini e il groviglio di membra che era il suo popolo “Non è reale.” Ripete e l’altro se stesso gli rivolge un sorriso che non è tale, è solo una rapida smorfia.
“Non è reale!”
E il respiro infine si spezza.

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