Ecate

di Atlantislux
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Caro diario ***
Capitolo 2: *** Preda ***
Capitolo 3: *** Vittima ***
Capitolo 4: *** Sospetto ***
Capitolo 5: *** Lama ***
Capitolo 6: *** Ospite ***
Capitolo 7: *** Chiacchiere ***
Capitolo 8: *** Snack J ***
Capitolo 9: *** Incrinatura ***
Capitolo 10: *** Sangue ***
Capitolo 11: *** Esitazione ***
Capitolo 12: *** Attrito ***
Capitolo 13: *** Collisione ***
Capitolo 14: *** Trappola ***
Capitolo 15: *** Contatto ***
Capitolo 16: *** Identità ***
Capitolo 17: *** Strategia ***
Capitolo 18: *** Rendezvous ***
Capitolo 19: *** Flagello ***
Capitolo 20: *** Dedalo ***
Capitolo 21: *** Frattura ***
Capitolo 22: *** Duello ***
Capitolo 23: *** Post mortem ***
Capitolo 24: *** Ecate ***



Capitolo 1
*** Caro diario ***


Riscritta, riveduta e aggiornata, ho cambiato pure il titolo. Ripubblico una delle mie prime fanfiction, che avevo dedicato all'anime Gatchaman.
L'amore per l'universo dei cinque eroi con le ali non è mai scemato, e ogni tanto si ravviva.
“Pianeta Terra chiama Squadra G...” 

Lux
 

P.S. Mentre l'ambientazione è quella dell'originale serie giapponese "Kagaku Ninjatai Gatchaman", le caratterizzazioni dei personaggi sono più aderenti al remake a fumetti uscito nel 2003 in US, dal titolo "La Battaglia dei Pianeti". Mi ha ispirata anche il crossover Battle of the Planets/Witchblade, da non perdere per i fan di Jun il Cigno.  

 

 

 

Ecate

 

Caro diario



Dal diario di Jun, primo gennaio


Sono passati due anni da quando fui catturata dai Galactor, al termine di una missione in cui nulla era andato come doveva.
Ricordo ancora il dolore. Non smise un secondo di tormentarmi. Dal momento in cui mi risvegliai, prigioniera, a quando mi salvarono i miei compagni Gatchaman. E poi, ancora, nella clinica-bunker della nostra base a Crescent Base, dove mi ricoverarono. Vi passai settimane, entrando ed uscendo da uno stato di letargia indotta dai farmaci che mi somministravano per controllare le mie condizioni... e la mia rabbia distruttiva. Non ero mai abbastanza lucida per capire cosa mi stesse succedendo. Però dovevo aver immaginato quello che i Galactor mi avevano inflitto... dicono che provai a suicidarmi, ma io non ne ho memoria.
La coscienza tornò poco alla volta e, con essa, il dolore e il furore svanirono.

Un giorno mi svegliai, mi guardai le braccia, e chiesi uno specchio. Me lo diedero senza fiatare, e davanti all’immagine di me –della nuova me- che vi vidi, piansi probabilmente tutte le lacrime che mi rimanevano. Non ne ho più versata una da allora.
Dopo qualche giorno trovai il coraggio di incontrare il resto dei Kagaku Ninjatai. Come dimenticare i loro sguardi? Il mio fratellastro Jinpei, sconvolto. Ryu, addolorato. Joe, furibondo. Ken… beh, Ken era l'Eroe. Sempre autorevolmente controllato. Normale per il ragazzo che era stato scelto per essere il Comandante dei Gatchaman, la temuta Aquila Bianca.
Strano, non ci avevo mai fatto caso fino a quel momento.
Non fino a quando quello sguardo di distaccata pietà non fu rivolto a me. Alla ragazza che era stata segretamente innamorata di lui per anni.
Fu allora che quella ragazza svanì completamente.
Aveva attraversato indenne un feroce allenamento durato anni, e la guerra senza quartiere contro un esercito di criminali. Combatteva tutta fiera per il bene del mondo, con la sua divisa rosa che incorporava una minigonna. E nella testa sognava un matrimonio da favola con Ken l’Aquila, quando la guerra sarebbe finita.

Quel giorno lo guardai negli occhi e quel sogno andò in frantumi. Non sarei mai stata sua, né probabilmente di nessun altro. Quello che i Galactor mi avevano fatto mi aveva resa ai suoi occhi un’altra vittima di quei bastardi. Non ero più una guerriera, ma una povera donna da compatire e difendere. L'incidente mi aveva resa anche diversa –e ancora non sapevo esattamente quanto-, in un modo che lui non avrebbe mai potuto accettare. Leggevo Ken come se fosse un libro aperto: Jun il Cigno era morta, nella sua mente scorreva il mio epitaffio.

Anche per smentirlo, una volta accertate le mie condizioni, e ristabilita completamente, chiesi di tornare in squadra. Se ci furono delle resistenze, a me non venne detto. Fui dichiarata abile all'azione.
Avrei voluto tornare sul campo con un'altra BirdSuit, più adatta a quella che sentivo come la nuova me, ma ricaccia in gola la richiesta. Avvertivo di essere cambiata ma, agli occhi del mondo e dei compagni, ritenni opportuno apparire come la Jun che avevano conosciuto da sempre.
Qualcosa dentro di me mi diceva di essere cauta, di non instillare negli altri inutili sospetti o paure. Non penso tuttavia di esserci riuscita. Jinpei, Ruy e Ken mi hanno accettata, ma lo sguardo circospetto di Joe, le rare volte che incrocia il mio, svela tutti i suoi dubbi. Non sa più cos'è tornato dalla prigionia tra i Galactor. E nemmeno io, del resto.

Quando vado in missione, sento cosa scatena il mio arrivo: un'onda di panico che posso quasi avvertire fisicamente. Per i nostri nemici non sono più Jun il Cigno. Mi hanno soprannominata Ecate, la dea greca signora degli spettri e dei demoni infernali.

La vecchia Jun, quando dormiva, sognava di amoreggiare con Ken l'Aquila su un prato fiorito, riscaldati dal sole di mezzogiorno. La nuova Ecate sogna di camminare sola in una città aliena, dove grattacieli a spirale alti come montagne si ergono sotto un cielo livido. E si risveglia sentendosi come strappata via da casa. 


P.S. Il dottor Nambu e i ragazzi non dovranno mai leggere questo diario...

       

 

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Capitolo 2
*** Preda ***


Preda


Base Galactor Transient 4, 7 Aprile


Jun si fermò sul bordo del precipizio, abbassando lo sguardo per esaminare la propria armatura devastata. Qualunque arma i Galactor stessero usando, i colpi penetravano il suo BirdSuit e le procuravano tagli che non riuscivano a rimarginarsi con la necessaria velocità.
Stava perdendo troppo sangue, di minuto in minuto si sentiva sempre più debole. Stizzita si leccò impaziente il palmo della mano. Aveva perso anche il suo kit di sopravvivenza. Separata dal resto del team, sarebbe stata nei guai molto presto, se non avesse trovato di che nutrirsi. Il solo pensiero le procurava un moto di repulsione, ma non aveva altra scelta.
Guardandosi attorno, nel buio vide una stretta passerella alla sua destra.

Corse così forte che praticamente la superò volando, lanciandosi dall’altro lato. La sfiorò solo il tenue retropensiero che se la passerella avesse nascosto una trappola adesso starebbe precipitando verso una morta certa. Ma la fame e la paura per i suoi amici stavano uccidendo ogni residua traccia di cautela.
Oltrepassato l'ostacolo Jun imboccò l’unico corridoio che si spalancava nel muro opposto. Corse a perdifiato, fino a che il passaggio improvvisamente terminò davanti a lei. Si fermò accovacciandosi lungo il muro, ancora al sicuro tra le ombre. Stagliate contro l'apertura, truppe Galactor correvano avanti e indietro. Molti soldati, troppi anche per lei. Era in trappola.

Girò la testa, notando, qualche metro dietro di lei, una porta ben mimetizzata nel muro. La aprì con cautela, forzando facilmente la serratura elettronica. Dietro la porta, una scala saliva verso il piano superiore. Con pochi balzi la risalì, per ritrovarsi in un altro corridoio che correva più in alto ma perpendicolare al primo, lungo tutto il muro dell’hangar. Una lampada di emergenza colorava ogni cosa di una luce scarlatta, mentre una voce abbaiava ordini da un altoparlante.

Con cautela Jun girò la maniglia della prima porta alla sua sinistra. Poteva percepire una presenza umana dall’altro lato. Chiuse gli occhi per un secondo prima di scivolare dentro la stanza, silenziosa come una pantera a caccia.

L'ambiente, a differenza dei corridoi, era invaso da un bagliore accecante. Si trovava in una specie di torre di controllo, alta sopra l’hangar. La vetrata opposta al punto dove si trovava lei offriva a Jun lo spettacolo impressionante delle navi cargo che decollavano: i Galactor stavano evacuando la base.
Il Cigno fissò lo sguardo su una figura solitaria in piedi davanti ad uno dei computer. Era una guardia Galactor, nella consueta divisa verde completa di maschera che tutti loro indossavano. L’uomo aveva un mitra, ma tenuto in mano così fiaccamente che Jun dubitò persino che l’arma avesse la sicura sganciata. Era solo nella stanza. Non poteva chiedere una preda migliore.

Si avvicinò al soldato senza far rumore; non voleva dargli il tempo di girarsi o di combinare qualcosa di stupido.
Come al solito, il disgusto che prima aveva provato all'idea di nutrirsi come un animale aveva lasciato il posto ad una sensazione più primaria, che nasceva dalla bocca dello stomaco e azzerava ogni cautela: l'urgenza di sopravvivere.

Avvicinandosi, notò l’alta statura dell’uomo, solo di poco più basso di Joe, e il fisico atletico di qualcuno sicuramente ancora nel fiore degli anni. Si leccò le labbra, inconsapevole del gesto.
Il Galactor non aveva probabilmente ancora avvertito la sua presenza ma, quando la ragazza si fermò ad un passo da lui, Jun lo sentì improvvisamente irrigidirsi. Non avrebbe dovuto aspettare oltre, ma qualcosa la tratteneva, facendole assaporare il momento. Rispetto ad altre volte, percepiva quello che stava per fare come giusto, non solo come necessario per sopravvivere. Era una sensazione curiosa, e intrigante allo stesso tempo.
La sua preda aveva capito di non essere più sola. Aveva inclinato la testa, come se stesse ascoltando qualcosa e, improvvisamente, Jun vide un movimento nervoso della mano che teneva il mitra.

Con una mossa fluida la ragazza gli mise un braccio intorno alla vita, e con l’altra gli circondò le spalle, stringendosi a lui. Poi, alzandosi sulle punte e abbassandogli il colletto dell'uniforme, strofinò le labbra sulla pelle morbida del collo dell'uomo, mordendo in profondità. Lui non tentò nemmeno di combattere.
Lo sentì rilassarsi quasi improvvisamente, poi udì il suono attutito del mitragliatore lasciato cadere. Un grugnito soffocato scappò dalle labbra del Galactor. Era un mugolio di soddisfazione. Lei chiuse gli occhi, godendosi il momento. Quello che stava accadendo, piaceva ad entrambi.
Jun avvertì le sue pulsazioni accelerare, mentre un gradevole calore le invadeva il corpo. Doveva rimanere focalizzata sulla missione, ma era difficile non avere altri pensieri. Tra qualche ora si sarebbe detestata da sola ma, in quel frangente, si sentiva solo terribilmente eccitata.
Se questo era quello che si provava a fare sesso, beh, avrebbe dovuto farsi avanti lei con Ken, visto che lui non ne aveva avuto il coraggio. Quello stupido aveva sottratto ad entrambi un bel po' di divertimento.

La sua preda collassò, e le gambe tremanti di Jun non ce la fecero a sostenere entrambi; insieme finirono a terra, la bocca di lei ancora incollata al collo dell'uomo.

Improvvisamente, una strana sensazione di pericolo la scosse, facendole alzare riluttante la testa dal suo pasto. Qualcosa stava per succedere. Si alzò in piedi a fatica e, in quel momento, una potente vibrazione riverberò lungo il muro. Le sirene dell’hangar si misero a urlare follemente, mentre l’onda d'urto raggiungeva la vetrata. Il suono acuto del cristallo torturato ferì i timpani di Jun.
Si volse verso la porta, ma non riuscì nemmeno a fare un passo. Il muro davanti a lei si deformò come colpito da un maglio.
'Esplosivo' pensò, mentre il pavimento collassava e la seppelliva in un maelstorm di detriti.
 

“È viva!”
“Bene, potete andare ora. Ci prenderemo noi cura di lei.”
“Che dici? Va stabilizzata subito” protestò la prima voce.
“Non è così grave come pensate, il suo BirdSuit l’ha protetta. Badate a non toccarla!"
Un terza voce, più autoritaria, si unì alle prime due. "Vi prego, andate, avete dei prigionieri da radunare. Sta arrivando una squadra medica dell'ISO.”
La ragazza sentì qualcosa posarsi sul suo viso, qualcosa di morbido e umido. Cercò di aprire gli occhi, ma la luce era troppo violenta.
Si sforzò quindi di alzare un braccio, subito bloccata da una fitta di dolore. Le sentiva sbocciare ovunque.
“Resta immobile, hai contusioni e fratture multiple.”

Eccola ancora, quella voce ferma e gentile.
"Ken...” L'aveva riconosciuto. “Mi avete trovata... siete vivi" biascicò faticosamente.
Udì Ken sollecitare qualcuno a passargli una coperta. Lei cercò di muoversi, ma il suo costato non gliele diede l'occasione. Le sembrò di essere trapassata da una lama.
“Non muoverti!” Ora c'era urgenza nella voce di Ken. “Sopporta per qualche minuto. Non ti possiamo spostare, e nemmeno prestarti il primo soccorso prima che quelli dell'ISO siano qui.”
Finalmente riuscì a socchiudere gli occhi, fissando il suo Comandante. “Conosco le disposizioni, sto bene” mentì.
Ryu, accanto a Ken, scosse la testa. “A me non sembra. Ken, si devono sbrigare. 'Qualche minuto' è un sacco di tempo quando hai le ossa rotte.”
Jun non poteva non dargli ragione ma, contemporaneamente, non voleva nemmeno frignare come una ragazzetta davanti a Ken. Quei giorni erano finiti per sempre. Si sforzò di pensare ad altro.
“Dove sono gli altri? Stanno bene?” chiese a fatica.
Ken, che non aveva smesso un attimo di fissarla, annuì. “Sì. Jinpei è al lavoro per salvare il database della struttura, mentre Joe sta dando una mano con i prigionieri. Grazie al tuo diversivo, ci siamo potuti disimpegnare facilmente.”
“Grazie al cielo...”

Richiuse gli occhi, girando la testa verso il punto dove il collo era meno dolente.
'È così che va da un po'. Joe fa qualche casino durante la missione, e io salvo il culo alla squadra attirando i Galactor su di me. Li ammazzo tutti ma ogni tanto torno pesta. Pazienza. Non è che una cosa del genere mi possa uccidere, no?'
Chiuse gli occhi scivolando nel buio; in sottofondo, udiva il frastuono delle pale di un elicottero in avvicinamento.
'La cavalleria è arrivata tardi. Come al solito, ho fatto tutto io...'

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Capitolo 3
*** Vittima ***


Vittima

Utoland, International Science Organization, 29 Aprile


Dopo tre settimane Jun aveva già dimenticato l’incidente, le giornate freneticamente impegnate in allenamenti e test medici.
Arrivava a sera così stravolta che non vedeva l'ora di potersi buttare a letto, trovando rifugio nel suo nido di lenzuola. Un'altra delle conseguenze della sua novella condizione, post prigionia tra i Galactor, era che aveva dovuto abbandonare il suo lavoro allo Snack J. e la sua casa sopra il locale. Ora viveva dentro il compound dell'ISO. Un po' per precauzione, date le sue ancora precarie condizioni fisiche, un po' per tenerla d'occhio.
O così credeva Jun. D'altronde, li capiva. Chi avrebbe lasciato aggirarsi per il mondo una come lei?

Era l'alba del 29 aprile –una data che avrebbe ricordato per sempre– quando lo squillo del telefono la svegliò di soprassalto.

“Jun” fece con voce impastata dal sonno, vagamente disorientata.
Dall'altra parte le rispose il Direttore dell'International Science Organization, il Dottor Kozaburo Nambu. “Il tuo allenamento delle sette è stato cancellato, ho bisogno di vederti con la massima urgenza. Appuntamento nel mio ufficio tra quindici minuti.”
La ragazza fece appena in tempo a mormorare un flebile ‘va bene’, quando il click dall’altra parte le annunciò che Nambu aveva già chiuso la comunicazione.
Stranita fissò la cornetta, ardentemente sperando che la chiamata non avesse a che fare con qualche altra pessima notizia sul suo stato di salute.

Il tempo di darsi una sciacquata e vestirsi, e uscì incamminandosi verso il palazzo che ospitava l’ufficio del Direttore.
Jun si fermò un attimo ad ammirare il cielo, dove il sole non era ancora sorto. Era sgombro da nubi, e di un blu che cominciava a scolorirsi ad oriente. Una fredda brezza le portò il sentore della neve che indugiava sui picchi attorno alla città, scompigliandole i capelli. Il vento veniva da nord.
La sua anziana vicina allo Snack J. le diceva sempre che era foriero di brutte notizie.
Jun si alzò il bavero della giacca, reprimendo un brivido e affrettandosi verso la sua destinazione.

L’ufficio di Nambu era sistemato all’ultimo piano del palazzo; spazioso ed arredato con gusto sobrio e quasi asettico, era reso luminoso da una vetrata che occupava un’intera parete.
Di solito Nambu accoglieva là davanti i propri ospiti, come ad invitarli ad ammirare lo spettacolo e la potenza dell’istituto da lui diretto. Stavolta invece ricevette Jun seduto dietro la propria scrivania, il volto serio come sempre, imperscrutabile.
Lei lo guardò, mentre il sorriso che si era preparata le si spegneva sulle labbra. Nambu era preoccupato. Molto. Lo poteva avvertire distintamente.
Ad un cenno del Direttore la ragazza si accomodò rigidamente in una delle poltrone riservate agli ospiti, aspettando che lui le rivelasse la ragione della chiamata.
Nambu la fissò negli occhi e, come sempre, arrivò diretto al cuore del problema. “Ho letto il tuo rapporto sull’ultima missione. Sicura di non aver dimenticato nulla?”
Jun spalancò gli occhi. “No di certo” replicò, quasi offesa.
Il suo mentore la guardò, come a soppesare le parole della ragazza. “Adesso ti racconterò una storia che è stata portata da qualche ora alla mia attenzione. Poi mi dirai tu dov’è la parte mancante.”
Jun avvertì distintamente il cuore mancare un battito. Se la ragione della chiamata non era lei stessa, allora cosa stava succedendo?

Nambu appoggiò i gomiti sulla scrivania, intrecciando le mani sotto il mento. “Ti faccio un breve riassunto della situazione. Quando cominciammo i test su di te, per cercare di scoprire le origini della tua malattia, di quello che i Galactor ti avevano inoculato, formai un team di scienziati e medici per visitare gli ospedali intorno al mondo, per essere sicuro che nessuno avesse contratto il tuo stesso virus. Per essere certo che non ci fossero stati altri esperimenti. Come sai, invece, ne avevano organizzati, ma tutti fallimentari.”
Nambu aprì le mani, le labbra strette in una linea sottile. “I Galactor avevano ordinato altre campagne di inoculazione, chiamiamole così, ma nessuna cavia era sopravvissuta. Qualunque natura avesse la malattia da te contratta, il tasso di mortalità era intorno al 100%. Te esclusa, ovviamente, seppure con tutte le conseguenze fisiche che conosciamo bene. L'unica scampata” ribadì Nambu. “Fino ad ora.”
Jun sentì una morsa contrarle lo stomaco. “Non può essere” bofonchiò.
Il Direttore riprese il suo racconto come se lei non avesse parlato.
“Ieri sera sono stato contattato dal responsabile dell’ospedale della prigione di Orange. Lui aveva fatto parte di una delle squadre di ricerca. Nella struttura che ora dirige è ricoverato un paziente piuttosto speciale. Si tratta di un uomo giovane, arrivato qualche settimana fa in condizioni disperate. Aveva perso molto sangue, e riportato traumi multipli ma, dopo una trasfusione, le sue condizioni migliorarono più velocemente di quanto fosse umanamente possibile. Dopo pochi giorni dal ricovero il prigioniero sviluppò una strana forma di anemia e fotofobia.”
Jun abbassò la testa, incapace di sostenere più a lungo lo sguardo di Nambu. Non aveva quasi bisogno di sapere il resto. Era accaduto anche a lei.

“In tre settimane il suo organismo ha smesso di produrre melanina, e ha perso quella presente nella pelle e nei capelli” continuò il Direttore. “Riescono ad alimentarlo solo con emoderivati e, fatto ancora più grave, nonostante fosse così malridotto una settimana fa ha tentato di evadere, ferendo malamente il dottore che l’aveva in cura e mordendo la guardia. Il pover’uomo è stato comunque abbastanza svelto da chiudere la porta, o il prigioniero sarebbe fuggito, uccidendo chissà quante persone.”
“La guardia?” Jun udì se stessa chiedere, la bocca inaridita.
Le labbra di Nambu si serrarono in una linea sottile. “È morta tre giorni dopo.”
Gli occhi della ragazza corsero alle sue mani, bianche come ossa sbiancate. Lei era passata attraverso la stessa ordalia. Aveva un vago ricordo di quel periodo, ma aveva preteso che le mostrassero le fotografie del suo corpo. L'immagine di quell'essere calvo, dalla pelle a chiazze, ma incatenato al letto perché dotato di una forza mostruosa, ancora perseguitava le sue notti. 
Il ricordo la fece irrigidire sulla sedia. Come era possibile che fosse successo a qualcun altro? Tutti le avevano detto che era praticamente impossibile.

La voce del Direttore Nambu la scosse. Lui non aveva ancora finito.
“Credimi, Jun, dato il particolare status del prigioniero, se il mio uomo non fosse stato là, e non avesse capito cosa aveva sottomano, avrebbero ammazzato seduta stante quel povero bastardo.”
Lei aggrottò la fronte. “Quale status?”
Nambu la guardò, non nascondendo una smorfia. “Pensavo che avessi potuto aiutarmi tu, Jun. Orange è una prigione militare, e il nostro paziente è un Galactor, uno dei soldati catturati nell’ultima base che avete distrutto. Adesso, mi vuoi dire cos'è successo laggiù?” 
Il Cigno sbatté le palpebre, lo shock che le serrava la gola. Si sentì tornare bambina, quella volta che a sette anni era stata beccata dalla maestra a tagliare le trecce di una sua compagna di scuola.
“Stavo perdendo le forze... non potevo fare in altro modo. Dovevo nutrirmi...”
“Posso capirlo. Avevamo previsto questa eventualità. Perché non l'hai ucciso? Sai qual è la procedura, no?”
“Spezzare il collo a quelli che contagio con il mio morso. Sempre” rispose lei meccanicamente, come se leggesse le istruzioni da un libro stampato. Aveva appreso bene la lezione.
“Esatto. Anche se sembrava quasi impossibile, non volevamo che si verificasse un altro caso come il tuo. Non era nemmeno giusto lasciarli morire tra atroci sofferenze, come accade nella norma a chi contrae il tuo stesso virus.”
“Lo so” ribatté lei. Non le piaceva come quella conversazione stava andando. Non poteva essere solo colpa sua. “Non ne ho avuto il tempo. Il soffitto è crollato e dopo non ero in condizioni di intervenire.” Strinse le mani tra loro. “Poi me ne sono dimenticata. E comunque pensavo che fosse morto. Come potevo sapere?”
Ora la rabbia stava avendo il sopravvento sulla vergogna.

Nambu si strofinò il mento, suonando improvvisamente tranquillizzante. “Calmati. Questo tuo errore potrebbe rivelarsi non del tutto un problema, Jun. Dopotutto stavamo aspettando e paventando questo momento da quando abbiamo scoperto il virus. Perché questo potrebbe essere la nostra occasione d’oro, e darci finalmente l'occasione per guarirti completamente.”
Lei scosse la testa. “Ma quale occasione? Non avrei dovuto e basta. Cosa sarebbe successo se fosse fuggito? E la guardia? Magari aveva una famiglia? Dei bambini da crescere!”
Jun si nascose il volto tra le mani, desiderando di avere il potere di riavvolgere il nastro del tempo. “Dov'è ora il Galactor?” chiese, senza rialzare la testa.
“Un'eliambulanza lo sta trasportando qui dalla prigione. Le sue condizioni sono tutt'ora molto critiche.” Nambu spostò gli occhi sullo schermo del computer. “Quando il virus ha cominciato ad agire, le fratture non si erano ancora ricomposte. I medici le hanno lasciate guarire da sole, senza poter intervenire. Ieri notte, con i farmaci per la sedazione adatti, siamo dovuti intervenire noi dell'ISO.”
Malgrado le avessero insegnato che i Galactor erano i nemici peggiori del genere umano, e niente altro che feccia criminale, Jun rabbrividì al pensiero di quello che l'uomo doveva aver sofferto.
“Farmaci testati su di me. Almeno ho fatto qualcosa di buono” commentò amaramente.
Nambu si limitò a scuotere le spalle. “In un certo senso, gli hai salvato la vita, laggiù. Se non lo avessi morso, sarebbe morto come tanti suoi compagni. Non colpevolizzarti troppo.”
“Non riesco a farne a meno, dottore.” Sospirò profondamente, stanca come se fosse appena tornata da una missione. “Voglio vederlo. Mi merito di vederlo. Per ricordarmi quello che... che io posso fare alle persone.”
Nambu scosse la testa. “La cosa non ti farà certo stare meglio. E non ti sarà di nessun aiuto martirizzarti in questo modo. Non potevi pensare che qualcuno sopravvivesse al virus, le possibilità erano infinitesimali e tutti noi avevamo cominciato a pensare che il tuo caso fosse unico.”
“Lo so. E la ringrazio per le sue parole, Dottor Nambu, ma non ho bisogno della sua pietà” disse con voce bassa, resa roca dal rimpianto. "Non sono uno scienziato, che lavora con astratte teorie. Sono un soldato, e i miei sbagli uccidono i miei compagni. La regola era che se mi fossi trovata a mordere un Galactor avrei dovuto immediatamente finirlo. L'ho fatto altre volte. In questo caso però ho fatto un errore, e ora devo affrontare lo conseguenze del mio comportamento irresponsabile."
Nambu sembrò soppesare le sue parole per interminabili secondi, prima di cedere. “Ritorna al tuo alloggio. Ti chiamerò più tardi. Non farne parola con i tuoi compagni, non ancora. Ci penserò io quando sarà il momento.”

Jun fuggì quasi dall'ufficio. Dove avrebbe trovato la forza per dirlo al resto del team?


La stanza le sembrò gelida sotto le luci verdastre dei monitor e le fioche lampade che illuminavano il locale.
Jun si avvicinò al letto, respirando inconsapevolmente allo stesso ritmo del bip-bip dei macchinari.

La porzione del corpo che emergeva dal lenzuolo era quasi totalmente avvolta in bendaggi elastici e ingessature, e i pochi pezzi di pelle esposta non erano più scuri delle bende. Era intubato, e il volto era nascosto da una fasciatura rigida sembrava modellargli il naso, e rendeva impossibile distinguerne le fattezze.
Jun diede un’occhiata nervosa alle macchine che tenevano in vita il Galactor. Il respiro era flebile e le pulsazioni troppo deboli per un uomo adulto.
Nambu la affiancò. Non aveva voluto che lo vedesse da sola.
“Non sta morendo,” le spiegò. “Gli stiamo somministrando un alto dosaggio di sedativi per indurre un stato di coma mentre il suo corpo si sta rigenerando. Non ha bisogno di soffrire di più.”
“E quelle? Temete che possa di nuovo aggredire qualcuno?” Jun chiese, indicando le pesanti manette metalliche che assicuravano il Galactor al letto.
“No, la fase di bersek è passata. Ma non vogliamo che tenti di uccidersi, come hai fatto anche tu” fu la secca risposta di Nambu. Jun contrasse i pungi, chiudendo gli occhi per un momento. Capiva quelle misure, ma umanamente le trovava comunque eccessive per un essere umano in quelle condizioni.

Tornò a guardare il Galactor, come se lui potesse darle una risposta. “Avete scoperto chi è? Ce l’ha un nome?”
“Sì, Jinpei è stato un tuo buon allievo. Prima di andarsene ha crackato il mainframe della base Galactor, estraendo più materiale possibile, compresa la lista del personale, con foto e impronte digitali. Ovviamente non abbiamo modo di controllare se le informazioni sono corrette; come sai il Sindacato non fa molte ricerche su chi si arruola come soldato generico. In ogni modo, il nome che ha dichiarato quando si è arruolato è Erlik. Solo un numero come cognome. Il suo record dice che ha 27 anni. E questo è probabilmente vero. Nazionalità sconosciuta. Etnia caucasica.”
Jun fissò Nambu. “Sopravviverà?”
“Ha un buon 70% di possibilità.”
Il Direttore le mise le mani sulle spalle, guardandola negli occhi con espressione estremamente preoccupata. “Come stai?”
“Tutto bene” lei replicò, adocchiando il profilo della gamba destra del Galactor che si intravedeva sotto le lenzuola. C’era qualcosa di terribilmente sbagliato in quella forma. Jun soppresse il senso di nausea in gola.
“Pensate che si riprenderà completamente?”
Nambu annuì lentamente. “È troppo presto per dirlo, ma è sopravvissuto alla fase peggiore. Dovrebbe tornare... beh...”
Il Direttore non terminò, per una volta a corto di parole.
“Aspettiamo a vedere cosa ne penserà lui...” Jun aggiunse in un sospiro, girandosi poi a guardare il Galactor per l'ultima volta.

L'uomo in quel letto non sarebbe mai tornato come era prima. Non era successo a lei, non sarebbe capitato nemmeno a lui. Ma questo quindi cosa voleva dire?
L'essere sopravvissuto alla sua stessa malattia, rendeva quel Galactor un suo affine? Il solo pensiero di avere qualcosa in comune con uno di quei laidi criminali le dava il voltastomaco.

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Capitolo 4
*** Sospetto ***


Sospetto



Utoland, International Science Organization, 10 Maggio


Alla fine Nambu aveva convocato l'intero team e aveva informato tutti della situazione. Le reazioni furono quelle che Jun si era aspettata.

“Hanno considerato attentamente la situazione?”
“Tutto ciò è una follia!”
Le voci di Ken e Joe la colpirono simultaneamente, mentre Jun sentiva gli occhi di tutti gli altri Gatchaman su di lei.
Ken era perplesso, Jinpei scioccato, Ryu preoccupato e Joe... Joe...
“Cazzate. Sono tutte fottute cazzate! Non venirmi a parlare di esperimenti; li abbiamo già fatti, loro sanno tutto quello che devono sapere per farti stare meglio. Sono consapevoli, e lo siamo anche noi, che tu non sarai mai più la vecchia Jun che noi conoscevamo. E lo accettiamo."
Joe scosse la testa, incrociando le braccia sul petto. "E non fare quella faccia adesso! Tutti ci preoccupiamo per te, e faremmo ogni cosa per farti stare meglio. Ma l’amara verità è che non ti cureranno ospitando e assistendo il maledetto Galactor che hai tralasciato di ammazzare.”
“Calmati Joe” cercò di intervenire Ken.
 
Jun era sconvolta, incapace di credere a quello che Joe aveva appena detto. Tremando di rabbia lanciò al Condor un’occhiata che avrebbe gelato il Sahara. Ruggì con furia. “Stai forse dicendo che ho fatto apposta a risparmiarlo?”
“Neanche per sogno. Non mi hai capito, come al solito” lui replicò stizzito, appoggiandosi al muro e chiaramente non impressionato dalla veemenza della ragazza. “Hai fatto un errore madornale, ma non sto giudicando te, solo quelli che hanno deciso che la priorità adesso è di assistere quel tipo. E in nome di cosa, poi?"
"La parola compassione non ti fa squillare un campanello in testa?"
Un ghigno torse le labbra di Joe. “Per un fottuto assassino? Neanche per sogno. La prigione è il posto dove dovrebbe essere sbattuto. Non un letto di ospedale, curato e coccolato come un povero bambino malato. Dio solo sa quanti ne ha uccisi.”
Jun sbarrò gli occhi. “Stai platealmente suggerendo che dovremmo sopprimerlo come un cane rabbioso? Anche se è un nostro nemico, è pur sempre un essere umano.”
“Chiamami cinico se vuoi, ma tu cosa preferiresti?” Joe le rise in faccia. “Lasciarlo libero di tornare dal suo padrone? È veramente questo che desideri? Conosciamo bene le tue capacità, che immagino acquisirà anche lui. Vuoi dotare i Galactor dell’arma definitiva? Nambu non ha pensato che potrebbe scappare?”
“Sarei sorpresa se il Direttore non avesse considerato tutti i pro e i contro. E poi, che dici? Non sarà mai come me. La mia forza ed agilità dipendono dal mio addestramento come Gatchaman. Tutto il resto sono conseguenze della malattia, di cui mi libererei volentieri. E ricordati che, in ogni caso, noi indossiamo una BirdSuit.”

Joe fece una smorfia come se avesse morso un limone. Poi aggiunse, con il suo più minaccioso tono di voce: “Quante cazzate. Io ero nell’hangar quando l’hanno ripescato da sotto le macerie. I soldati delle Nazioni Unite l’avevano già infilato in una sacca di plastica quando un medico troppo zelante si è accorto che quella massa di ossa spezzate e carne, tenuta a malapena insieme da uno straccio verde, stava ancora respirando.” La voce di Joe si alzò di un’ottava. “E poi devo venire a sapere che dopo solo due settimane quello zombie ha strappato via il braccio di un uomo a mani nude? Malamente guarite oltretutto!”
Jun sentì il sangue abbandonarle il viso. “Come lo sai? Questo doveva essere un rapporto confidenziale.”
Joe rise, schernendola. “Cosa credi? Non sei l’unica che può crackare le banche dati.”
La ragazza guardò sorpresa Jinpei, che stava cercando senza successo di nascondersi dietro a Ryu.
“Joe!” Ken si intromise tra i due. “Adesso basta. Non c’è bisogno di essere così duro con lei, non è colpa sua.”
Il Condor fece finta di non averlo sentito. “Guarda che io non ho nulla contro di te” disse, ignorando Ken e puntando un dito contro Jun. “Al contrario, sto solo cercando di evitarci di fare un terribile errore e di mettere te ancora più in pericolo! O forse preferisci che il Galactor guarisca e, da buon cagnetto addestrato, torni a scodinzolare sotto il tavolo di Berg Katze?"
Ryu intervenne per la prima volta. "Avanti Joe, non puoi credere che quello sia così desideroso di tornare da un uomo che ha lasciato lui e i suoi compagni a morire."
Joe allargò le braccia, mentre uno sguardo sconsolato gli si dipinse in volto. "Ragazzi. Vorrei solo sottolinearvi il fatto, nel caso non abbiate notato, che gli uomini delle truppe Galactor sono solitamente reclutati tra criminali o persone che non hanno più nulla da perdere. Altrimenti non accetterebbero quella specie di patto con il diavolo. Quel tizio potrebbe non avere altro posto in cui tornare. Il Sindacato potrebbe essere la sua unica famiglia sulla faccia della Terra.”
Ryu non sembrò convinto. “In ogni caso, non è così facile andarsene da qui. Il complesso dell'ISO è uno dei meglio sorvegliati sulla faccia della Terra.”
 
Joe scosse la testa, la sua voce avvelenata di rabbia controllata quando riprese a parlare. “E tuttavia non è impossibile, visto che questa non è una prigione. E noi non saremo sempre qui a fermarlo. Con lui a disposizione, Berg Katze potrà riprendere la sperimentazione, e questa volta con il fattore vincente. Ve lo immaginate cosa potrebbe fare con plotoni di truppe tanto forti e veloci quanto Jun?”
“Ti ho già detto...” Jun cercò di interromperlo, ma Joe alzò una mano. Tanto truce era l'espressione del Condor che la ragazza si zittì.
“Fammi finire” terminò cupamente, fissando la sua compagna. “Non solo Berg Katze verrà a conoscenza di ogni nostro segreto, ma probabilmente cercherà anche di catturarti, cosa che non ha fatto fino ad ora.”
Lei lo guardò stranita, non avendo colto il significato nascosto delle sue parole. “E quindi? Pensi che vi potrei tradire?”
“No di certo, ma capirai che con un altro soggetto a sua disposizione la situazione per te cambia radicalmente. Anche perché... è un maschio.”
L'insinuazione di Joe colpì il bersaglio. Jun lo fissò stranita. "Ma che dici? La mia malattia non è genetica. Quelle che tu insisti a chiamare capacità non sono trasmissibili" farfugliò.
'"Non lo sappiamo. Ma ora i nostri scienziati potranno scoprirlo, non credi anche tu?" finì Joe, con un sguardo che ora mostrava un'oncia di compassione.
Jun fece un passo indietro, premendosi una mano sulla bocca. Sentiva improvvisamente l'impellente desiderio di vomitare.
“Jun” udì Ken chiamarla come da una remota distanza. “Ci lascerai aiutarti anche questa volta?”
Lei annuì distrattamente. Non le era sfuggita l'aria guardinga di Ken. Le parole del Condor erano in qualche modo andate a segno.
"Va bene, ma ne parliamo più tardi. Adesso sono stanca."



Jun uscì dalla stanza quasi fuggendo, con la voglia disperata di stare sola, ma non riuscì a fare molta strada.
Si infilò nel primo bagno che trovò, chiudendosi dentro. Se le fosse stato concesso, avrebbe voluto scomparire.
Proprio quando pensava di aver raggiunto un minino di equilibrio, tutto franava sotto i suoi piedi, ed erano proprio i suoi compagni i primi a dubitare, ad avere paura di lei.



Lasciati soli anche da Ryu e Jinpei, Ken si voltò ad affrontare Joe. “Sei stato troppo duro con lei. Come al solito” lo rimproverò. L’altro si girò verso la finestra, fissando qualcosa di distante nel cielo.
“Ha il diritto di sapere, e non sono sicuro che Nambu l’abbia messa al corrente di tutto quello che dovrà affrontare.”
“Non sarà peggio di due anni fa.”
“Lo pensi veramente?” Joe scosse la testa. “Sono preoccupato Ken, per lei. È troppo presto per affrontare questa cosa una seconda volta. Con qualcun altro coinvolto. Un fottuto Galactor, poi, di tutte le persone su questa Terra."
Ken scosse la testa. “Non ci possiamo fare nulla. E Jun non può comunque mostrarsi men che compassionevole, è la sua natura.”
“Non dovrebbe farlo. Quello è un nostro nemico, vorrei che se lo ricordasse.”
"Ti capisco. Ma capisco anche lei. Non deve essere facile scoprire che proprio uno di quelli è l'unica persona finora scovata che condivide la sua stessa malattia."
“È proprio il fatto che sia un Galactor che mi turba..."
"Cioè?"
Joe si girò verso Ken e gli scoccò una lunga, pensierosa occhiata.
"Berg Katze ce l'ha sempre avuto sotto il naso, l'unico uomo che, come Jun, poteva sopravvivere al suo virus, e trasformarsi in...”
Ken non lo lasciò finire. “Non dire quella cosa” lo ammonì severamente. “È una cazzata. Jun e l'ha detto e ripetuto. Le sue condizioni...”
“Me ne sbatto degli effetti collaterali, e dovresti farlo anche tu!” sibilò Joe, interrompendo a sua volta il comandante dei Gatchaman. Gli si avvicinò minaccioso, affondandogli un indice nel petto. “Pensaci bene, Ken. Non è vero che è come prima. Proprio no. È distintamente più forte e più veloce, come se non bastasse vederci di notte, con quella vista che si è ritrovata. Chissà poi cos'altro riesce a fare che non ci dice. A volte ti guarda e sembra leggerti dentro. In giro per la base la chiamano vampira dietro le spalle, e lo sai anche tu che non hanno tutti i torti.”
Joe non aveva mai parlato così chiaramente dal momento dell'incidente.
“Lo so” gli concesse Ken. “Ma so anche che sono stupidaggini. Ti sembra più sana da ché il virus l'ha colpita?” Ken scosse la testa. “Malgrado tutte le medicine che le stanno somministrando, si può nutrire solo di emoderivati ed è completamente albina. Senza contare che i suoi fluidi corporei sono veleno per noi... non ha più una vita normale. Da come parli fai sembrare che la malattia abbia migliorato la sua esistenza, ma non è così.”
Lo sguardo torvo, Joe gli passò accanto, per dirigersi verso la porta. “Vedi che non capisci Ken? Dipende dal tipo di vita che vuoi fare. Te lo metto giù chiaro. Quel virus l'ha trasformata in un fottuto predatore di esseri umani. Le ha dato tutti gli strumenti per cacciarci con la massima efficienza. Questa è per lei, ora, la normalità. E forse la stiamo solo limitando, costringendola a comportarsi come... come noi. È ora che qualcuno lo dica chiaramente.”
Senza lasciare tempo a Ken di replicare, il Condor se ne andò chiudendosi la porta alle spalle.

Rimasto solo, al comandante dei Gatchaman non resto altro che sedersi a riflettere. Il suo secondo, nonostante i suoi modi bruschi, non aveva poi tutti i torti.
Intrecciò le mani sotto il mento, fissando il muro. Non che a lui non fossero venuti gli stessi dubbi, ma faceva di tutto per non esternarli. Per trattare Jun come se non fosse cambiato nulla.

Perché dopotutto lei era malata. Solo malata. Oppure no?

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Capitolo 5
*** Lama ***


Lama

Dal diario di Jun, 10 maggio


Non l'ho rivelato a nessuno. Già hanno paura di me così come sono, figuriamoci se sapessero che ho sviluppato la capacità di avvertire i loro stati d'animo.
Ho discretamente cercato su Internet. Se c’ho capito qualcosa si chiama empatia questo... potere. Il fatto che abbia trovato la spiegazione in alcuni siti di roba fantasy non conta molto, giusto?
Non è che riesca a leggere i loro pensieri, ma so interpretare chiaramente come si sentono quelli intorno a me. Il timore di tutti, per quello che sono diventata, è palpabile. I primi giorni l'impressione che mi dava era come... camminare nella marmellata. Nemmeno le lunghissime docce che facevo riuscivano a togliermi di dosso quella sensazione di ribrezzo che provavano nei miei confronti.
Ora va meglio. Alla base hanno imparato ad accettarmi... quasi tutti, eh. Poi, se mi trucco con cura ed esco tra la folla, posso quasi passare per una ragazza normale. Mi sono tinta i capelli del mio vecchio colore. Sembro una qualsiasi ragazza ventenne, solo un po' più pallida del normale. 
Non tornerò più quella di prima. Mai più. Mi sono messa il cuore in pace. Non c'è cura per questa malattia, nonostante gli scienziati dell'ISO si stiano spendendo in ricerche in questo senso.
Mi terrò per sempre nella carne le conseguenze dell'esperimento dei Galactor, e Joe è un idiota se pensa che mi faccia piacere essere ridotta così, solo perché in battaglia, ora, uccido con più efficienza di tutti loro. Vorrei che fosse capitato a te!
E come osa menarmela per il nuovo arrivato?! Come se non mi tormentassi già abbastanza da sola.

Chissà chi è... la maggior parte dei bassi ranghi dei Galactor sono delinquenti, o ex-galeotti per i quali il Sindacato rappresenta solo un modo per avere da mangiare e un letto in cui dormire. Criminali, e non soldati, altrimenti combatterebbero con più convinzione. 
Se mi è andata bene, sarà uno dei soliti idioti a cui facciamo il culo tutte le volte che andiamo in battaglia. Già la situazione è brutta così, figuriamoci se fosse pure un qualche tipo di fanatico che si è bevuto le palle di Berg Katze sul fatto che loro sono la 'razza eletta'.          
Dio che schifo... dovrò averci a che fare. Mi tocca parlarci. Tra poco, quando si sarà ristabilito, mi ha detto il Direttore. 
Però un po' lo compatisco, sta soffrendo quello che ho sofferto io. Nambu stasera mi ha detto che il tipo ha avuto un attacco isterico quando si è visto per la prima volta allo specchio. 
Eh, povero bastardo, benvenuto nel club...    

Vabbé, parliamo d'altro. Nambu è stato carino. Mi ha tirata su di morale dopo quello scazzo con i ragazzi. Mi ha detto che mi guariranno sicuramente, e io ho fatto finta di crederci. Poi mi ha fatto un bel regalo.
È una fighissima spada giapponese. Una katana! È tanto affilata da tagliare una sciarpa di seta, come ho visto una volta in un film. È fatta dello stesso materiale del BirdRang di Ken, e può penetrare anche le nostre BirdSuit. Forse questo preoccuperà un po' Joe... beh, cazzi suoi, no?
A me piace da morire. Finalmente ho un'arma vera, al posto di quello stupido yo-yo. 

Certo, è stato un dono interessato. Adesso Nambu ha paura che possa incontrare un avversario come me. Un sopravvissuto. Le mie cellule, mutate dal virus, si riparano talmente in fretta che c'è un solo modo per uccidermi all’istante. Mi fa un po' senso, però. Ora devo andare in giro a decapitare Galactor. La mia reputazione tra di loro diventerà ancora più sinistra, e non mi fa esattamente piacere.

Perché questo non è successo a Joe? A lui sarebbe piaciuto... :(

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Capitolo 6
*** Ospite ***


Ospite

Utoland, International Science Organization, 30 maggio


Gli occhi di Ken, incollati allo schermo, seguivano attentamente le evoluzioni della sua compagna Jun. La ragazza volteggiava sulle teste dei suoi antagonisti con una grazia ed un'agilità che sfidavano la forza di gravità. Poteva quasi passare per uno spettacolo di ginnastica ritmica, se non fosse terminato con il Cigno coperta di sangue, in piedi in mezzo ai corpi decapitati di una dozzina di Black Bird, le truppe scelte dei Galactor. 

“Come prima uscita è andata bene, non ti pare, Ken?”
Il ragazzo annuì alle parole di Nambu. “È brava. Professionale.”
“Non potevamo sperare di meglio, come recupero.”
Ken meditò un momento su quelle parole, osservando la slanciata figura di Jun che si aggirava circospetta tra i corpi, la spada stretta in pugno. 
“Ha realizzato un risultato sorprendente...” commentò laconico, lasciando pendere le parole tra loro. Sembrava stare bene, vero. Ma quella non era la Jun con la quale era cresciuto. Si voltò a fronteggiare il Direttore dell'ISO. “Però, non vorrei che tutto fosse vanificato dal nuovo arrivato. Jun mi ha detto che lei le ha dato il permesso di incontrarlo. Io non sono d'accordo.”
Nambu annuì. “Tutto avverrà nella massima sicurezza, non preoccuparti.”
“Non è di quello che ho timore. Non mi piace che parli con quel tipo. Non sappiamo nemmeno da dove arriva.”
Ken si bloccò, sorpreso dalla sua stessa foga. Trovava repellente l'idea che Jun dovesse confrontarsi con un Galactor. Non andava bene. Non nel suo stato. 

Nambu, seduto alla scrivania, girò verso di sé il portatile dove aveva mostrato a Ken il video della loro ultima missione. Sembrò cercare qualcosa in qualche file.
“Proprio per quello le ho dato il mio assenso. Vorrei saperne di più su di lui. Non siamo riusciti a cavargli nulla. Non ci ha detto niente di sé. Si rifiuta di parlarne, e ci ha propinato solo la solita storia di abusi famigliari e povertà, e che i Galactor gli hanno offerto l'unico lavoro decente che è riuscito a trovare.” 
"E lei non gli crede?"
Numbu scrollò le spalle.
"Non del tutto. Non ho avuto ancora modo di interrogarlo a dovere. Mi solleva il fatto che dai controlli che abbiamo eseguito sui database delle prigioni di tutto il mondo, ci risulta che non sia mai stato loro... ospite." 
"Potrebbero non averlo mai preso..."
"Potrebbero. Il suo profilo non esiste su nessun social, e non ci sono foto in internet, nemmeno un selfie al mare. Adesso siamo passati a controllare le liste dei passeggeri sbarcati o in transito per gli Stati Uniti e l'Europa. L'FBI e l'Europol hanno raccolto foto ed impronte digitali di milioni di persone. Se è passato di là lo sapremo. Certo che... se era povero come ci raccontava, forse è davvero rimasto invisibile fino a questo momento."
“Dov'è nato? Almeno questo siamo riusciti a stabilirlo?”
Il Direttore si sistemò gli occhiali sul naso, esalando un lungo sospiro come di rassegnazione. “Non ci ha detto nulla, ma ha un accento vagamente mitteleuropeo. Potrebbe essere croato o serbo. Ci ha anche raccontato che è stato reclutato un paio d'anni fa in Uzbekistan, ed è sempre stato impiegato come guardia interna in varie basi Galactor attorno al mondo."
"E quindi non dovrebbe aver mai ammazzato nessuno o, quanto meno, non ha mai partecipato a nessuna incursione contro i civili."
“Così sembra, ma potrebbero essere tutte bugie, per apparire il più innocente possibile” commentò Nambu.
Lo sguardo di Ken si fece duro. "Appunto. E, in ogni caso, nessuno si arruola nei Galactor se non è pronto a sparare su donne e bambini. Ma lasciamo perdere, tanto non sapremo mai perché era nel Sindacato se non ce lo vorrà dire. E dubito che lo farà.”
“No, ma è anche per questo che alla fine ho deciso di farlo parlare con Jun. Condividono qualcosa, magari con lei scucirà qualche dettaglio in più.”
La sola idea che un bruto del genere potesse avere qualcosa in comune con la sua compagna di squadra fece venire a Ken la pelle d'oca. Non riuscì a nascondere il disgusto. “È davvero così necessario?”  

Nambu attese qualche secondo prima di rispondere, come se non credesse nemmeno lui in quello che stava per dire. “Capisco i tuoi dubbi,” ammise “ma quell’uomo è prezioso per noi, Ken, ti prego di tenerlo a mente. Dobbiamo capire di più su questo morbo. Potrebbe essere il fattore vincente che ci permetterà di curare Jun una volta per tutte, forse anche di mettere la parola fine a questa guerra. Purtroppo non possiamo fare a meno di rivelargli qualche nostro segreto, per questo è imperativo capire con chi abbiamo a che fare.”
“Non mi piace comunque, ma non posso fare a meno che accettare la sua decisione, dottor Nambu. Le chiedo però il permesso di incontrare il Galactor prima che lo faccia Jun. Vorrei anche presentarmi ufficialmente come il Comandante dei Gatchaman.”
Un tiepido sorriso toccò le labbra del Direttore. “Vuoi metterlo in guardia?”
“Ci può giurare! Deve sapere con chi ha a che fare” Ken si alzò, incrociando battagliero le braccia al petto. “Sarà anche un asset importante per noi, ma se si azzarda ad insultare o minacciare Jun, lo lascio a fare i conti con il Condor.”
“La fama di Joe lo precede. Sono sicuro che il nostro ospite si comporterà bene.”
Ken non ne era affatto sicuro. La carne da cannone Galactor non brillava notoriamente di intelligenza, ed erano solitamente dei laidi criminali. Da quello che aveva sentito, l'ospite dell'ISO non sembrava costituire un'eccezione.
“Andiamo, allora. Non vedo perché aspettare.”
 



Strinse così forte la tazza di caffè che sentì gemere la ceramica. Con cautela, Ken decise di posarla prima di fracassarla.
“Non è andata come speravi, vero?”
L'Aquila alzò gli occhi su Joe. Si era augurato di non trovare nessuno nella caffetteria dell'ISO, ma la fortuna non era stata dalla sua parte. Avrebbe dovuto tornarsene a casa. Non aveva voglia di parlare nemmeno con il suo secondo. 

“No” rispose, maledicendo il momento in cui aveva anticipato a Joe la sua intenzione di vedere il Galactor. Avrebbe dovuto sapere che l'amico l'avrebbe atteso al varco. “Quello non ha scucito un'informazione, e non sembra neppure che voglia farlo in futuro. Forse perché non ha niente da dirci, dopotutto. È solo un vizioso teppistello, come tutti i suoi compagni.”
Ken fletté istintivamente le dita, quasi accartocciando il bracciolo della poltroncina sul quale erano appoggiate. Dopotutto Joe aveva ragione a dire che il posto giusto per il loro ospite era la prigione. 
Il Condor sembrò meditare qualcosa, mentre si accomodava nella poltroncina davanti alla sua. Non era mai stato particolarmente riflessivo -quello era il ruolo di Jun- ma ciò che gli chiese prese Ken in contropiede.
“Se fosse solo quello non avresti questa espressione, ho ragione?”
Il Comandante dei Gatchaman aggrottò le sopracciglia. Già. C'era qualcosa che non tornava. Doveva averlo scritto in faccia, se anche Joe se ne era accorto. 
"È così” gli concesse. “Durante il colloquio ho avuto la distinta impressione che stesse solo recitando una parte. Sa benissimo cosa pensiamo dei Galactor e fa di tutto per accontentarci."
"Assurdo. Perché dovrebbe farlo?"
"Penso abbia paura di noi, e di quello che possiamo fargli. Non ti dimenticare quello che sta passando. Potrebbe essere un suo modo per difendersi."
Joe scosse la testa. "Strano. Proprio perché così malridotto dovrebbe fare di tutto per tentare di conquistare la nostra fiducia.”
“Lo penso anche io. Invece cerca di essere il più sgradevole possibile.” Ken riprese la tazza, e si bagnò le labbra con un sorso di caffè. “Forse dobbiamo considerare da dove arriva. Un ambiente nel quale tutti sono contro tutti, dove il sospetto e il tradimento sono elevati al rango di valori. Qui, lui per noi è il nemico. Lo sa benissimo. Non si fida di noi, e si comporta di conseguenza.”
“Non capisco niente di tutte queste menate psicologiche, Ken, e francamente me ne sbatto di sapere da che fogna è uscito quel tipo. Non mi capacito che Nambu ci stia perdendo così tanto tempo.” Joe allungò le gambe davanti a sé, sistemandosi più comodamente sulla poltroncina. “L'unica cosa che mi interessa è se davvero le ricerche che faranno su di lui ci aiuteranno a vincere la guerra.”
“Su questo siamo d'accordo.”
Il Condor annuì, per sembrare poi disinteressato a continuare la conversazione. Chiese alla cameriera una coca e rhum, allargando le braccia sullo schienale della poltroncina e chiudendo gli occhi.

Dal canto suo, Ken si decise a terminare il caffè oramai freddo. Non aveva il coraggio di confessare a Joe quello che davvero l'aveva turbato durante il colloquio.
Nel corso della lunga guerra con i Galactor aveva visto corpi straziati dalle pallottole e dalle esplosioni, ma raramente aveva provato la stessa avversione di quel pomeriggio. Il loro prigioniero aveva qualcosa di disturbante, e non era solo per il suo aspetto, per il pallore mortale o per le cicatrici che gli solcavano il volto; Nambu aveva spiegato a Ken che sarebbero sparite presto. 
Poteva avere anche gli stessi colori di Jun, ma Ken dubitava che l'avrebbe mai trovato una presenza gradevole. 
Fece una smorfia ricordando lo sguardo dell'uomo. Il Galactor aveva tenuto gli occhi bassi per la maggior parte del colloquio, ma le rare volte che l'aveva fissato, era parso a Ken che riuscisse a scandagliargli l'anima. Lo turbava che, a volte, anche Jun gli desse quella sensazione.
Pur non credendo a tutte le sciocchezze che la gente diceva dietro le spalle della ragazza, Ken doveva ammettere che qualcosa di vero c'era. E il nuovo arrivato sembrava ancora più alieno di lei. 

Il Comandante dei Gatchaman soffocò una smorfia afflitta, fissando Joe che sorseggiava in pace il drink che era nel frattempo arrivato.
Non aveva nessun dubbio che se il Condor avesse beccato il prigioniero a guardarlo in quel modo gli avrebbe spezzato il collo seduta stante. Asset o non asset.
Il maledetto Galactor avrebbe sicuramente costituito un problema in futuro, Ken ne era certo.

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Capitolo 7
*** Chiacchiere ***


Chiacchiere

Utoland, International Science Organization, 17 giugno


Jun entrò nella stanza in silenzio, scrutando nervosamente i due uomini seduti attorno ad un tavolo. Nambu la fissò, accogliente, mentre il Galactor stava cercando di fare senza successo due cose: evitare di incrociare il suo sguardo e rendersi invisibile. 
La guardia, che fino a quel momento era rimasta accanto a Nambu, uscì, scambiando un cenno con Jun.
Lì dentro bastava lei e, in ogni caso, non sembrava che il prigioniero avesse alcuna voglia di reagire.
La ragazza poteva percepire la sua paura, e la confusione, nascoste sotto una parvenza di arrogante distacco. Inutile. Non c'era nulla che potesse nasconderle, l'aveva capito entrando in quella stanza. Se era in grado di percepire le emozioni delle persone normali, con il prigioniero scoprì che quella capacità era acuita.
Jun era sorpresa, ma cerco di mascherarlo, sicura che lui potesse leggerla allo stesso modo: voleva apparire risoluta, ma senza intimidirlo troppo.
Un po' di pietà la muoveva. Evidentemente, la scuola Galactor non aveva preparato quel povero bastardo ad affrontare nessuna minaccia più grande di un civile in panico. E se lui era lì era solo colpa sua; Jun non voleva dimenticarselo, o sarebbe stata uguale a quelli che aveva sempre combattuto.  

Seguendo i consigli, e le precedenti raccomandazioni di Nambu, fece le presentazioni del caso. 
“Ciao Erlik, io sono Jun, nome in codice Cigno.” 
L'uomo la fissò con gli occhi sbarrati. Se fosse stato possibile sarebbe impallidito ancora di più. 
Jun si sedette davanti a lui con il fantasma di un sorriso sulle labbra, esaminandolo per la prima volta. Dopotutto, quando si erano incontrati l'aveva visto solo di spalle.
Era giovane, ma non un ragazzo, forse più vicino ai trenta che ai venti. Piuttosto anonimo come lineamenti, giudicò lei, con il fisico asciutto di una persona che ha passato molte ore della sua vita ad esercitarsi in palestra.    
Per spezzare la tensione, gli indicò i capelli.
“Non ho mai capito perché i Galactor portino tutti la medesima pettinatura. Sembra che da voi manchino i barbieri. Così corti ti stanno meglio.” 
Distogliendo lo sguardo da lei, il prigioniero si toccò i capelli candidi, prendendosi una ciocca tra le dita.
“I capi vogliono che siamo standardizzati. Stessa uniforme. Stessa pettinatura. Altezza simile per quelli assegnati alla stessa squadra.”
“Sembrate cloni...”
“Non lo siamo... noi... i miei compagni non sono bersagli senz'anima, se è questo che vuoi dire.”

Jun aggrottò le sopracciglia, sorpresa dall'aria improvvisamente ostile del prigioniero. Era stato come sbattere contro un muro di cemento, quando si era aspettata solo aria.
“Non credo di aver capito dove vuoi arrivare” ammise con sincerità.
La risposta, che non si aspettava, fu netta. La paura che lui provava per lei adesso era decisamente scavalcata da altro. 
La fissò incattivito, con due occhi dello stesso azzurro pallido di una fredda mattina invernale.  
“Voi ci uccidete come se fossimo sagome di cartone in un luna park del cazzo” il Galactor scandì. “Ma molti di quei ragazzi non solo lì per loro libera scelta. Il Sindacato arruola solo poveracci, promettendogli gloria e onore, e la maggior parte di loro non ha altro posto in cui andare, o famiglie da cui tornare.” Il giovane le fece un cenno con la testa. “Pensi di essere tanto figa, tu e i tuoi altri compagni? Voi ammazzate come cani dei disgraziati che hanno avuto la sola sfortuna di nascere un qualche posto di merda.”
Esterrefatta, Jun si voltò verso Nambu, che sedeva accanto a lei, in cerca di supporto, ma il Direttore sembrava ugualmente impietrito. Che cos'è che aveva appena sentito?

Piantò gli occhi verdi in quelli del Galactor. “Spero tu stia scherzando. Me ne frego da dove vengono. Potevano trovarsi un lavoro vero. Eh, ma è più appagante vestire un'uniforme e sparare addosso a gente indifesa, vero?”
“Ma di che parli? Non tutti sono assegnati agli incursori. E forse non hai ben capito da dove la maggioranza viene reclutata” la interruppe lui, ma Jun non lo lasciò continuare.
“No, e non ho nessuna intenzione di perderci il sonno” ululò, i buoni propositi di rimanere calma già evaporati. Si alzò prima che Nambu potesse fermarla. Con un balzo saltò dall'altra parte del tavolo. Afferrò il Galactor per il davanti della felpa che indossava e, alzatolo di peso, lo sbatté contro il muro. Avvicinò il viso a quello del giovane, senza che da parte di lui ci fosse alcuna reazione. 
“Come osi venire qui a difendere i tuoi compagni? Lo sai quante migliaia di persone avete ucciso per obbedire a quel mostro che vi comanda? Prenditela con quell'essere se ti turba il pensiero dei tuoi amici morti. Quello che facciamo noi è solo proteggere civili innocenti da voi criminali. E non so se ti sei guardato allo specchio, ultimamente. Anche quello che è capitato a noi è colpa del ex-datore di lavoro, ti è chiaro?”
Fu sorpresa quando il prigioniero le afferrò i polsi, e la allontanò da sé con una spinta. Sbilanciata, fece due passi indietro, allontanandosi da lui. Era diventato più forte in conseguenza della malattia, non lo doveva sottovalutare. 
“No che non mi è chiaro che cazzo ci è capitato. Qui nessuno mi dice nulla” le sibilò.

Jun si appoggiò alla scrivania cercando di calmarsi. L'istinto le urlava di strangolarlo immediatamente, e chissà che poi non l'avrebbe fatto davvero, al diavolo Nambu e i suoi piani. Ma prima voleva fargli capire tutto il male che le era stato fatto, a quell'idiota che si preoccupava solo di altri criminali come lui. 
Si passò il dorso della mano contro le labbra, incerta su dove cominciare. “Te lo racconto dell'inizio” decise. Le sembrò che il prigioniero non aspettasse altro. “Tutto successe due anni fa. La missione consisteva nell'infiltrarci in uno dei vostri laboratori, nel quale si stava probabilmente testando un mortale agente patogeno. Ma qualcosa andò storto. Io fui presa prigioniera e separata dai miei compagni. Eravamo sotto copertura, in abiti civili, e non ci fu tempo di attivare la mia BirdSuit prima che venissi narcotizzata. Non ricordo cosa mi fecero, so solo che rinvenni un paio di giorni dopo tra atroci dolori. Fui in qualche modo fortunata, però. I Gatchaman arrivarono a salvarmi poco dopo. Ce ne andammo appena prima che il laboratorio saltasse in aria, autodistrutto dai suoi stessi occupanti. 
“Io venni caricata dai miei compagni sulla Phoenix. Erano sconvolti da quello che mi stava succedendo. Io non riuscivo a spiegare, a parlare... nemmeno ad urlare. Non avevo ferite esterne, ma soffrivo terribilmente. Un dolore continuo, insopportabile, come se tutto il mio corpo stesse andando a fuoco. Una volta a terra i medici esaminarono i file salvati dal mainframe; qualcosa di virulento mi era stato inoculato, ma non vi erano i dettagli che sarebbero serviti a guarirmi. Poterono solo curare i sintomi.” Jun sentì distintamente la sua voce farsi tesa. Ma non ci poteva fare nulla. Aveva comunque tutta l'attenzione del giovane davanti a lei. Il Galactor non le toglieva gli occhi di dosso.
“Il virus si era propagato ovunque dentro di me, replicandosi immune ad ogni terapia conosciuta. E quello che ho visto quando mi sono risvegliata... beh, dovresti conoscerlo anche tu.” 
“Ma comunque questa cosa non ti ha uccisa, no?” La interruppe il prigioniero. “Dov'era il vantaggio per il nostro leader? Mi sembra anzi che questo virus ti abbia resa più forte di prima.” 

Jun lo guardò in tralice, nemmeno troppo stupita che il Galator pensasse di lei quello che anche Joe sembrava condividere. “Forse non pensavano che qualcuno sopravvivesse, erano più interessati ai danni causati nel frattempo.” 
Si interruppe; il Galactor inalberava un'espressione totalmente vacua. Lei dedusse che non ci arrivasse a capire quello che stava dicendo.
Nambu le venne in aiuto ma, con sua blanda sorpresa, fu ancora più tecnico di lei. Se quello era il metodo che aveva escogitato perché il Galactor comprendesse chiaramente in che casino erano finiti, buon per lui. Lei aveva imparato che le menti semplici rimangono sempre impressionate dai paroloni.    

“Erlik. Nel 99,9 % degli esseri umani le cellule infettate dal virus necrotizzano a poche ore dall’inoculazione” spiegò Nambu. “Nei restanti, pochi casi, un ribozima catalizza invece una reazione chimica che consente la replicazione del virus, senza uccidere le cellule ospiti. Nel corso dei primi quindici giorni di malattia l'organismo acquisisce un’impressionante forza fisica e agilità, ma la mente è totalmente offuscata, incapace di distinguere tra amici e nemici. Una vera macchina per uccidere.” 
“No, Direttore” lo interruppe Jun. "Una belva assetata di sangue, l'unico nutrimento che il nostro corpo riesce ad accettare."
Il Galactor le sembrava decisamente poco felice di quello che aveva sentito. 
“Può essere...” disse, lentamente. “Ma non avresti certo potuto fermare le pallottole.” 
Jun stirò le labbra in un sorriso cinico. “Non puoi immaginare quale consistente ammontare di dolore il tuo corpo può sopportare nella fase acuta del contagio. E poi, pensi forse che il virus lasci morire il suo ospite così facilmente? È come un simbionte, e lavora per proteggere se stesso, riparando velocemente le cellule danneggiate. Avrei ucciso centinaia di persone prima di essere fermata.” 
"E quindi? Se il fine era quello di seminare il panico, e uccidere più persone possibili, il solito attacco con un mecha avrebbe avuto lo stesso effetto."
Il Galactor pareva ancora poco convinto della pericolosità di quella fase o, in generale, della brutalità di quell'esperimento. 
Nambu intervenne. “Ma non lo stesso impatto psicologico. E questo era probabilmente il fine del piano malato di Berg Katze. Rimandare i pochi che sopravvivevano all'inoculazione nelle loro comunità come untori; avrebbero ucciso più persone possibili e contemporaneamente sparso il contagio.” 

Jun prese un respiro profondo, fissando il prigioniero ancora appoggiato al muro dove l'aveva lasciato. Il giovane aveva abbandonato l'atteggiamento di sfida. Poteva percepire la sua confusione, ma la ragazza aveva deciso che non avrebbe più provato pena per lui. Doveva assaporare fino in fondo il calice di dolore che i Galactor le avevano servito. 
Li difendeva, ma ora era anche lui era una vittima. 
Si passò una mano tra i capelli, abbassando lo sguardo per ammirarsi la punta delle scarpe. 
“Io e te siamo i portatori sani di un mortale agente patogeno; per ora gli unici sopravvissuti. Alcuni nostri fluidi corporei sono veicoli perfetti per il virus, ma questo i medici te l'avranno già detto. Soprattutto il sangue, e la saliva, se entra direttamente in contatto con una ferita aperta di un soggetto sano. Se mordessimo qualcuno, lo condanneremmo a morte sicura. O forse a diventare come noi... ma, finora, in tutti i test compiuti, è successo solo in un caso: il tuo.”

Dopo un paio di minuti di silenzio, interminabili, il Galactor si lasciò scivolare a terra. Da lì la guardò, dal basso verso l'alto. “Giravano strane voci, ultimamente. Che nelle basi e sui mecha distrutti dai Gatchaman erano stati trovati corpi quasi dissanguati, con il collo spezzato. Mi stai dicendo che l’hai fatto tu per risparmiargli di morire, in ogni caso, in un modo peggiore? E dopo esserti fatta una bella bevuta?” 
I buoni propositi di Jun di rimanere tranquilla svanirono all'istante. 
"Fammi capire" gli chiese, stizzita. "Ti ho appena raccontato la cosa ripugnante che Berg Katze ci ha fatto, e tu sei scandalizzato perché ho osato ammazzare quelli che sono la feccia della Terra? Ma che razza di perversa lealtà ti lega a loro?" Si raddrizzò furibonda. “Pensi che sia così sadica da torcere il collo alla gente per gioco? Mi nutro dei Galactor quando non ho altra scelta, mi fa schifo anche solo l'idea di toccarli. E dopo non posso fare altro che ucciderli. Perché non possiamo commettere errori. Non possiamo permetterci di fornire a Berg Katze un'altra arma, anche se la probabilità che qualcuno di quei soldati sopravviva al virus rasenta lo zero.”
Erlik le scoccò uno sguardo freddamente superbo, mentre un sorriso vizioso gli si allargava in viso. “Ed è questo che sono io per voi? Un errore che hai commesso? Oh, poveri difensori della Terra, il vostro Cignetto si è dimenticata di torcermi il collo.”
Nambu si era spostato accanto a lei. Jun sentì la pressione della mano del Direttore sul suo avambraccio, ma era troppo tardi.
"Non avrei dovuto permetterti di vivere” gli urlò. “Meritavi di morire come tutti gli altri sporchi Galactor. Lascia che ti dica un’ultima cosa, da questo momento in poi dimenticati di avere una vita fuori da qui, dimenticati di poter avere un giorno una famiglia. Tutti ti staranno lontano. E quei tuoi compagni, che tu insisti tanto a difendere, quando lo verranno a sapere ti cacceranno come fanno con me. Come una bestia."

Un silenzio glaciale accolse le sue parole. Non perse nemmeno tempo a sondare il prigioniero. Non ci sperava che le sue parole l'avessero colpito. La totale mancanza di empatia nei suoi riguardi, verso l'unica persona che condivideva la sua sorte, l'aveva distrutta. Si era preparata ad incontrare un ghignante idiota come era la maggior parte dei suoi compari, ma l'atteggiamento di disprezzo che lui provava nei suoi confronti era decisamente peggio.  
Jun passò davanti al Direttore, senza aspettare di venire congedata. Non sarebbe rimasta in quella stanza un minuto di più.
“Io qui ho finito. Buona continuazione.”
 



Il dottor Nambu sentì la voce roca in gola. “Odio esprimermi in questo modo davanti ai ragazzi ma… te l’ha mai detto nessuno che sei veramente uno stronzo?”
Il Galactor stava ancora guardando la porta, dietro la quale Jun era scomparsa. Rispose a Nambu con una voce che suonò distante come la luna. 
“Quando mi ucciderete?” 
“Nessuno ti vuole fare del male.” 
“Come no… e quella storia che raccontava il Cignetto sul non dare armi a Berg Katze? Se le cose stanno così, perché mi avete salvato?” 
“Non potevamo fare altro. Il danno era già stato fatto. Jun ti aveva trasmesso il virus e tu eri sopravvissuto. Se fossi rimasto in quella prigione prima o poi ti avrebbero ammazzato. Come ti ha raccontato Jun, non è facile ma non sei invulnerabile." 
Si bloccò un attimo, ma il suo interlocutore non sembrava avere più voglia di replicare. Era ancora seduto a terra, occhi ora fissi al pavimento. 
"Il laboratorio dove era stato stoccato il virus è stato distrutto, e il team di scienziati che lo aveva creato ucciso” continuò Nambu. “Non sappiamo quanti altri campioni ci siano in giro. Berg Katze, probabilmente, non era nemmeno al corrente delle reali possibilità della sua creazione, ma noi non possiamo permetterci di non sapere nulla su di essa, e vivere felici solo perché Jun è sopravvissuta, pur se menomata dalle conseguenze della malattia. Ci siamo imposti di saperne di più, e onestamente è meglio avere due soggetti al posto di uno.” 
Aveva deciso di essere cinico. Visto come la pensava il prigioniero sui Galactor, non gli sembrava il caso di essere troppo gentile con lui. 
“Io ho responsabilità verso la mia razza dalle quali non mi posso esimere” terminò intransigente. 

Il silenzio del prigioniero sembrò durare anni.
"Quindi” alla fine il Galactor disse. “Mi state trattenendo qui perché non possa tornare da Berg Katze e per fare da tester per i vostri esperimenti."
“Qualcosa del genere” ammise il Direttore dell’ISO. 
“Potete tranquillizzarvi. Ho pietà per i miei compagni, ma non desidero finire a fare la cavia del leader del Galactor. Non più di quanto desideri esserlo per voi.” 
“È brutto da dire, me ne rendo conto. Ma non ti nascondo che abbiamo la labile speranza di poter un giorno trovare una cura. Ti assicuro che i nostri trattamenti non ti metteranno in pericolo.” 
"Peggio di così…” commentò sconsolato il giovane. “In ogni caso ho capito di non avere scelta. Devo rimanere vostro ospite. Qual è la mia aspettativa di vita?"
Nambu allargò le braccia. "Non lo sappiamo. Non sembra una malattia degenerativa e, per quello che abbiamo accertato, una volta che l’alterazione metabolica si è assestata l’organismo funziona perfettamente sui nuovi parametri. Ci dovrai convivere."
Il Galactor annuì, seppure con riluttanza.
"Erlik, sei sicuro di non voler avvertire la tua famiglia?” gli chiese il Direttore, nel tono più gentile che riuscì a produrre. “Hai detto che non sono del Sindacato Galactor. Qualunque cosa sia successa fra di voi, rimani sempre loro figlio. Sicuramente sarebbero felici di sapere che sei vivo."
Il giovane scosse la testa. "Ne dubito. Se mio padre venisse a sapere cos'ho combinato mi ucciderebbe con le sue stesse mani. Meglio che pensi che io sia morto."
"Come vuoi. Ricordati che potrai sempre cambiare idea." 

Il Direttore premette il pulsante sotto il tavolo che apriva la pesante porta blindata. Due guardie armate fecero il loro ingresso, e si posizionarono ai lati della porta. 
"Per ora direi che è tutto. I ragazzi qui ti accompagneranno giù nel laboratorio, ti ho fissato una serie di esami che cominceranno oggi. La dottoressa Sylvie Pandora ti aspetta per dirti il resto. È la mia assistente, e riferisce direttamente a me. Per qualunque problema, da oggi in poi, ti puoi rivolgere a lei."
Il Galactor gli sembrò rassegnato. "Me lo ricorderò. Questi tizi, invece, mi seguiranno sempre e dovunque?"
"Per ora. Ho la tua parola che non combinerai guai e ti comporterai in maniera ineccepibile con il personale dell'ISO?"
"Ovvio. Non ho certo intenzione di correre dietro alle impiegate e alle infermiere, se è questo che temi. Sono dei cessi in ogni caso."
Nambu scosse la testa. "Meglio per tutti. Appena sarai completamente ristabilito lascerai l'ospedale, e ti trasferiremo in un appartamento all'interno del complesso. Questa è un centro di ricerca, non una base militare, ma in ogni caso capirai che non possiamo lasciarti gironzolare ovunque. Un agente in borghese ti accompagnerà sempre, anche se con molta discrezione."
"Che onore, ho la guardia del corpo come una rock star."
"È una misura necessaria per la tranquillità dei miei impiegati che, come ti ho detto, non sono militari ma scienziati, e anche per la tua sicurezza. Molti qui dentro hanno perso famigliari e amici in attacchi Galactor, e sono certo che qualcuno non esiterebbe a farsi giustizia da solo."
Nambu vide il suo interlocutore fare una smorfia, per poi alzarsi lentamente.
"E come non capirli…” il prigioniero gli concesse con un filo di voce. 
Nambu si schiarì la voce. “Un’ultima cosa. Che ti è preso per trattare Jun in quel modo?”
“Che modo? É carina, ma dovrebbe rifarsi le tette.”
A Nambu, il ghigno lascivo sul volto del Galactor fece quasi ridere. “Con me puoi smetterla di fare la parte del laido criminale. Non mi è chiaro perché ti fossi unito a loro, ma lo capisco benissimo che hai un’educazione che non corrisponde al profilo del comune affiliato del Sindacato.”
“Ah, davvero? Non sapevo ti avessero recapitato il mio cv.”
“Non è successo, ma tu hai azzeccato troppi congiuntivi di seguito.”
Il prigioniero socchiuse gli occhi, come a soppesare Nambu. Poi si girò di scatto per uscire, ma non prima che il Direttore avesse notato che era arrossito.
Notò anche che le guardie non solo si tenevano a debita distanza, ma evitavano persino di guardarlo se non era necessario.
La ragione gli era chiarissima: un Galactor in giro per la base e nessuna possibilità di ripassarlo a dovere. Dove sarebbero andati a finire?

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Capitolo 8
*** Snack J ***


NdA: un grazie immenso a Tynuccia che si sta leggendo in anteprima questa zuppa. Le giuro pubblicamente che, prima o poi... succederà :)


Snack J

Dal diario di Jun, 17 giugno


Che brutta testa di cazzo. Ma perché, tra tutti, proprio questo bastardo è sopravvissuto? Non lo sopporto...
Per sfogarmi ho passato ore ad allenarmi con il curiosissimo sparring partner che Nambu mi ha preparato. É drone con il nome assurdo di 7-Zark-7. Alla fine dell'allenamento sono riuscita a farlo a pezzi.
Sono stanca, ma questa sera non riesco a rimanere qui all'ISO. Il pensiero di stare sotto lo stesso tetto di quel coglione mi distrugge. 

Caro diario, ho raccolto il coraggio a due mani e fatto quello che avrei dovuto fare anni fa: ho chiesto a Ken di portarmi fuori a bere qualcosa. Ahah, che faccia che ha fatto, non si aspettava il mio invito, ma alla fine ha detto sì.
Peccato, però, usciamo insieme proprio ora che non provo più nulla per lui. Anche allora, però... forse era solo una stupida infatuazione... ero una bambina pudica, innamorata del primo della classe, del bel ragazzo con gli occhi blu come il cielo, onesti e sinceri. 
Strano, eh? Le ragazzine timide e secchione, come ero io, di solito si innamorano dello stronzo seduto in ultima fila. Solo ora ci penso: se avessi scelto Joe forse lui non si sarebbe fatto così tanti problemi, solo per il fatto che ero una del team.
Il Condor non avrebbe lasciato cadere nel vuoto le mie attenzioni. 

Ma capisco Ken. Nella sua posizione forse avrei fatto lo stesso. Non lo colpevolizzo, ma rimpiango di non aver potuto vivere una vera storia d'amore quando è stato il momento giusto. Non sarei ora una ex-adolescente, ex-secchiona, ma ancora vergine senza nemmeno volerlo. Già, mi è negata anche la possibilità di farmi una scopata con qualcuno di rimorchiato a caso online. 
I medici sono stati chiarissimi in proposito. Tutti i miei fluidi corporei sono veicolo per il virus. Tutti
Nemmeno un bacio mi è concesso. Se l'altra persona avesse una ferita in bocca morirebbe. Il rischio è troppo alto.   

Quando il bisogno si fa troppo intenso, vado in doccia e mi masturbo, ma non è la stessa cosa che avere un altro paio di mani che ti accarezzano. Almeno credo. Come fa a mancarmi qualcosa che non ho nemmeno mai provato? Anche solo per togliermi il dubbio vorrei farlo, magari nemmeno mi piacerebbe. 

Eh... forse la scopata dovrei farmela con il Galactor. Lo stronzo di certo non ne morirebbe -purtroppo- e non è che giù alla loro base ci sia andata delicata con lui. 
Caro diario, ecco qual è stato l'errore. Era una preda succulenta. Mi attirava. Oh se mi sono eccitata mentre gli succhiavo il sangue e, da come ha reagito, penso che anche lui non abbia disdegnato affatto. Non ha nemmeno fatto finta di opporsi. Dovevo farmelo là e poi ammazzarlo. Hoplà! Tutti i miei problemi risolti :)

Dio che vergogna! Sto impazzendo. Se la Jun di tre anni fa leggesse quello che ho appena scritto ne morirebbe. Forse è meglio che cancelli questo post...

Ma no. Ribadiamo il concetto: non sono più nessuna delle cose che ero prima. Che mi definivano. 
Ora sono incattivita, arrogante, e non so più cosa fare della mia vita. Sono pudica? Beh, ho appena avuto la fantasia malata di farmi sbattere da un Galactor. 
Però stasera esco con Ken. 
No, Jun, non ci siamo proprio... 
 




Snack J, quella sera   


La richiesta l'aveva un po' preso in contropiede, ma poi Ken aveva deciso di accontentarla. Da troppo tempo Jun non si divertiva come tutte le ragazze della sua età.
 
Lo Snack J li accolse, confortevole come una vecchia casa di famiglia. 

Ken sapeva quanto Jun adorasse quel posto: il suo profumo, le chiacchiere dei ragazzi che impregnavano l’aria, la buona musica. Era in un appartamento lì sopra che lei aveva vissuto prima che la sua vita cambiasse, gestiva anche il locale con l'aiuto del suo fratellino adottivo Jinpei. Ma poi era stata costretta ad andare a vivere all'ISO, e Jinpei affidato ad una coppia di impiegati del centro. Jun non poteva più permettersi il lusso di stare in mezzo alla gente, come una ragazza normale. 

Ma, quella sera, se Ken chiudeva gli occhi poteva ancora sognare che nulla fosse cambiato. Che lei fosse ancora la stessa persona: amabile, pura, materna. Una guerriera che amava mettere il rossetto per andare in battaglia, e che teneva al team come se fosse la sua vera famiglia. Dopotutto, Ken era felice di aver accettato l'invito di Jun ad uscire.

La osservò. L'esile bambina con la quale, tanti anni prima, aveva cominciato ad allenarsi, si era trasformata in una ragazza che faceva girare gli uomini per strada, da quanto era bella. Una dolce paperina sbocciata in un voluttuoso cigno. 
Un fiore che lui non aveva voluto cogliere. 
E come avrebbe potuto? 
Ignorare le attenzioni di Jun, far finta che non stesse succedendo nulla era l'unico modo di continuare a svolgere al meglio il proprio compito. Cedere, avrebbe distrutto il team. E lui, come avrebbe potuto mandare in battaglia la donna che amava?
Soprattutto negli ultimi due anni, molte volte si era chiesto se avesse fatto la scelta giusta. Quella sera, il rimpianto era più forte che mai.       
Vederla lì davanti a lui e non poterla confortare era l'inferno. Lei con quegli occhi verdi che non riuscivano a nascondere il tormento che la consumava, una pena che lei non voleva condividere con nessuno di loro. 

Ken prese un sorso d'acqua, gli occhi che seguivano la mano di Jun, ora nei capelli, a tormentarsi una ciocca scura dai riflessi verdastri.
'Un penny per i tuoi pensieri, baby' avrebbe voluto dirle, ma sorrise, invece, e optò per qualcosa di meno drammatico. "Tutto bene?"
Jun annuì con poca convinzione, o così sembrò a lui. 
“Sì, è che non riesco a non pensare a quello che è successo oggi.” 
Gli occhi della ragazza fissarono il vuoto, mentre la musica si spandeva melanconicamente nella sala. 
Il colloquio di Jun con il Galactor non doveva essere andato molto meglio di quello che aveva avuto lui, Ken rifletté, anche se lei non gli aveva raccontato i dettagli.
Quando le aveva chiesto come era andata, Jun aveva solo scosso le spalle, e risposto laconicamente che il loro prigioniero era solo un lurido bastardo, come tutti avevano sospettato, del resto.   
Eppure, Ken aveva avvertito un po' di delusione in quelle parole. Come se lei, dopotutto e contro tutte le aspettative, avesse sperato in qualcosa di diverso.
 
Il Comandante dei Gatchaman si levò di scatto, innervosito da dove i suoi stessi pensieri l'avevano portato. Afferrò la mano libera di Jun e la fece gentilmente alzare. 
“Vieni, andiamo in pista.”
“Ma è un lento” protestò lei. “Non sai ballare.”
“Improvviserò.”
Gli venne da ridere al solo pensiero, perfettamente consapevole di quanto fosse inetto con le donne. Forse, prima di accettare quell'appuntamento, avrebbe dovuto chiedere a Joe qualche dritta.
Ridacchiò al pensiero dell'impavida Aquila e del Condor abbracciati in un tango. Quella scena sì che avrebbe fatto morire Berg Katze. Dal ridere. 
Senza troppi complimenti trascinò Jun sulla pista da ballo, contento di vedere che sorrideva da un orecchio all'altro come se le avesse fatto chissà che regalo. 
Contro tutte le premesse, la giornata stava terminando alla grande.
 


Cross Karakoram, data indefinita


“Berg Katze. La dovete trovare, è imperativo che quella ragazza torni da noi.”
Il tono era di quelli che non ammettevano repliche. Il leader dei Galactor, inginocchiato davanti alla forma evanescente del vero potere che stava dietro l'organizzazione da lui diretta, rabbrividì.
Ultimamente, i pensieri dell'alieno che si era presentato come Sosai X, erano unicamente rivolti ad un obiettivo.
“Lasciate perdere il resto. Interrompi immediatamente tutte le operazioni non necessarie alla sopravvivenza dei Galactor. Dirama a tutte le spie, agli infiltrati e i sub-comandanti un unico ordine: la Tecno Ninja con la BirdSuit da Cigno va riportata sotto il nostro controllo.”    
Berg Katze osò alzare gli occhi verso il suo creatore e padrone. “Posso chiedere come mai? L'esperimento è fallito. Lei è guarita senza uccidere nessuno dei suoi, e ora è più forte di prima.” 
“Meglio. Era un esito non previsto, ma possiamo approfittare di questa situazione. Riportamela” ordinò l'essere, senza offrire altre spiegazioni. 
 
Berg Katze ritenne più prudente non insistere. Le punizioni di Sosai erano esemplari, e lui non aveva nessuna voglia di riceverne una.
Si ritirò invece con discrezione, continuando tuttavia a chiedersi come mai tanto interesse. E perché proprio in quel momento.

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Capitolo 9
*** Incrinatura ***


Incrinatura



Utoland, International Science Organization, 5 luglio


“La tua amica aveva un bel vestito questa mattina.” 
“Chi?” 
“Il Cignetto.” 
Sylvie Pandora alzò la testa per guardare Erlik, leggermente sorpresa.
Il commento sembrava assolutamente neutrale, però le parve strano. Il Galactor non sprecava mai complimenti per nessuno, men che meno per i Techno Ninja, dai quali si teneva accuratamente lontano.

La stanza era silenziosa, se si escludeva il rumore lieve delle pagine che Erlik stava girando.
Semisdraiato a letto, con nel braccio una flebo dell’ultimo cocktail di medicine della giornata, sfogliava svogliatamente una rivista scientifica. L’unico genere di pubblicazioni che si trovava sparso in giro nei reparti dell’ISO.
Il liquido scendeva con una lentezza esasperante, e Sylvie era stanca, era tardi e avrebbe voluto tornare a casa, in tempo per dare alla sua piccola Sammie il bacio della buonanotte. Ma si era imposta di fare compagnia ad Erlik. 
A parte Nambu, lei era l’unica persona con cui il giovane avesse un minino di rapporto. A chi le chiedeva il perché, Pandora rispondeva dando la colpa al suo istinto materno, anche se non era tanto più vecchia di Erlik. La realtà era che lo compativa. Era malato, solo e prigioniero. La donna non riusciva a pensare ad una situazione peggiore.

“Mi pare di averla intravista… aveva un abito giallo giusto? Ha molto gusto nel vestire” commentò.
“Concordo” il Galactor le rispose. “Avreste dovuto lasciar scegliere a lei la sua uniforme. È orribile.” 
L’uniforme del Cigno. Il chiodo fisso di Erlik. Non ricordava più quante volte gli aveva sentito dire che odiava quella BirdSuit.
“Quella non è certo fatta per essere alla moda” commentò Pandora. 
Erlik fece una smorfia disgustata. “Ma non è neppure pratica. Quella gonna è troppo corta.” 
Un sorriso reclamò le labbra della donna. “È grande abbastanza per indossare una minigonna...” 
“Anche per combattere? Che cazzata. La tua amica è insopportabile, ma non augurerei a nessuna ragazza, soprattutto se così giovane, di essere stuprata.” 
“Non sarà colpa della gonna se le succederà qualcosa, ma dei suoi violentatori” puntualizzò Pandora.
Erlik non alzò nemmeno gli occhi dalla rivista. “Come no. Sarà consolante per lei saperlo, dopo che l'avranno ripassata per bene.” 
“Non succederà mai, è troppo in gamba per farsi prendere.” 
“Sbaglio o due anni fa...”
“E poi, oramai dovrebbero saperlo tutti” chiosò Pandora, interrompendolo. “I suoi fluidi corporei sono altamente velenosi per chiunque.” 
Il commento le guadagnò l'occhiata esasperata di Erlik. “Mi vuoi far andare sul tecnico? Ti devo raccontare in quanti e quali modi si può violentare una persona anche senza toccarla con le mani nude?”
Pandora alzò le mani davanti sé, scuotendole vigorosamente. “No no. Ti ho capito. È che sono solo stupita. Non pensavo ti preoccupassi per lei.”
Gli occhi del giovane tornarono ad immergersi nella rivista. “Non lo faccio. Mi infastidisce solo la sua cecità, come fa a non rendersi conto...”
“Di?”
 La sua domanda incontrò solo un silenzio impenetrabile. Diversi secondi passarono, senza che Erlik riprendesse il discorso. Pandora tentò di stuzzicarlo.
“Dai, confessa che ti piace...”
“Se mi stai chiedendo se mi piacerebbe sbatterla fino a farle perdere i sensi, certo che mi piacerebbe.”
“Ma no! Non intendevo questo.”
“Lo so. Comunque no, non mi piacciono quelle come lei, verginelle con la puzza sotto il naso da Wonder Woman del cazzo. Ciò non toglie che me la farei. Dopotutto a me non succederebbe nulla, giusto?” Erlik soffocò una risatina. “Si può anche tenere la gonnellina, in quel caso non avrei nulla in contrario.”
Il cicalino del dispositivo che annunciava l'esaurimento del farmaco bloccò la risposta acida che era sovvenuta alle labbra di Pandora. Un infermiere, bardato da capo a piedi, fece il suo ingresso e la conversazione si interruppe.

La donna gettò un'occhiata alla sacca del farmaco: un cocktail di antivirali combinati con un antidepressivo. Era sua opinione che non stesse affatto funzionando.
Il loro ospite, prigioniero o paziente che fosse, le pareva sempre più demoralizzato. Non che fin dall'inizio avesse dimostrato chissà che vitalità. Ma con il passare delle settimane l'apatia di Erlik sembrava lentamente scivolare in qualcosa di peggio.
DPTS. Disturbo post-traumatico da stress, diagnosticò Pandora. Doveva consigliare a Nambu di fornire al Galactor una terapia psicologica di supporto. Jun l'aveva avuta, dopotutto.
Lo osservò scendere dal letto con una lievissima esitazione, come se avesse un attacco di vertigini. Il paramedico gli stava accuratamente distante, ben attento a non toccarlo se non strettamente necessario.
“Buonanotte Erlik” lo salutò Pandora. “Ti ricordi quello che ti ho detto prima? Da domani niente più fleboclisi. Potrai prendere l’ultima dose di medicinali tranquillamente in camera tua.” 
L’unica risposta di lui fu blando cenno del capo, che rafforzò in Pandora la giustezza della sua valutazione sul precario stato psichico del Galactor.  
 


L'intuizione sovvenne alla dottoressa Pandora più tardi, mentre stava guidando verso casa. Chiamò subito Nambu, trovandolo ancora in ufficio nonostante l'ora tarda.
“Sai, io credo che Erlik appartenga a qualche famiglia Galactor altolocata.”
“Mi sembra strano. Quelli non mandano i propri figli a rischiare la vita tra i soldati generici.”
“Beh, non era esattamente in prima linea. D'altronde non riesco a spiegarmi in altro modo il suo comportamento. È molto rude, a volte, ma abbiamo notato entrambi come sembri solo un atteggiamento costruito. Anche se quando lo fa è sgradevole. Non ti ripeto cosa ha detto questa sera di Jun.” Pandora strinse il volante. Forse non era il caso di far notare a Nambu come Erlik non sembrasse affatto scherzare. Dall'altra parte il Direttore dell'ISO sembrò percepire il suo imbarazzo, perché tossì come se disagio.  
Pandora riprese cercando di fare finta di niente. “Dunque, come ti dicevo, parla in modo corretto, e conosce perfettamente l'inglese. Forse anche il tedesco.”
“Quello l'ho pensato pure io. Quell'accento lo tradisce...”  
“Un giorno l'ho sorpreso a leggere il bugiardino, tutto in tedesco, di uno dei medicinali che gli stavamo somministrando. E non c'erano figure sopra!”
“Quindi cosa pensi di fare?” Il tono di Nambu tradiva un certo interesse.
“Se è il figlio di qualche pezzo grosso dei Galactor, questo spiegherebbe perché sia l'FBI che l'Europol non abbiano niente su di lui: considerato quanto queste due agenzie sono corrotte, è probabile che abbiano fatto sparire i file. Però le varie polizie locali potrebbero avere qualcosa.”
“Del tipo?”
“Multe per eccesso di velocità, o per schiamazzi notturni. Magari è finito nei guai per essersi fatto beccare con una piccola partita di droga, o per aver picchiato la fidanzata. Se ha passato anche solo una notte in galera, gli hanno sicuramente scattato una foto e preso le impronte. Lo possiamo rintracciare così.”
Dall'altro capo della linea un prolungato silenzio accolse le sue parole. Pensava che fosse caduta la comunicazione, quando il Direttore finalmente rispose.
“Beh... non è una cattiva idea... ma questi database non sono quasi mai condivisi online. Bisognerebbe setacciarli uno ad uno. Un lavoro colossale.”
“Lo so. Ma gli stagisti servono a quello, no?” rise Pandora. “Voglio restringere comunque il campo alla sola Europa continentale, secondo me è da lì che viene.”
“Va bene. Fai pure, ma non dimenticare il tuo impegno principale. Tra un paio di giorni arriverà qui la professoressa Pawar per completare le sue ricerche.”
“Non temere, non mi toglierà tempo.”

Nambu la salutò velocemente, e chiuse la conversazione. Sembrava soddisfatto dell'idea che Pandora aveva avuto, anche se il loro focus era altrove. 
Sapere da dove Erlik arrivava serviva a lei, però. Sperò che la vita che lui aveva avuto prima di arruolarsi tra i Galactor non fosse stata così dura come raccontava. Sarebbe stato davvero triste.
Pandora sorrise tra sé e sé. Forse i suoi colleghi avevano ragione a dire che era troppo buona.
 


Il dottor Nambu l'aveva trattenuto fino a tardi, ma forse era stato meglio così. Ken aveva avuto l'occasione di origliare la telefonata con Pandora. L'idea che lei aveva avuto sulla famiglia di Erlik avrebbe spiegato molte cose, ma non riusciva a togliersi dalla testa un altro particolare della telefonata: cos'è che quel maledetto Galactor aveva detto di Jun?
A lunghe falcate ascese le scale, diretto verso la terrazza. Aveva bisogno di una boccata di aria fresca per calmarsi. L'idea di Erlik che offendeva la sua compagna di squadra era veramente insopportabile. 

Incrociarsi nei corridoi o nei locali dell'ISO era inevitabile, ma Ken badava bene a far finta che il Galactor non esistesse. Joe, al contrario, lo fissava ostile. Ken era sicuro che prima o poi il Condor avrebbe fatto qualcosa di stupido. Jinpei e Ryu invece erano neutrali, il più giovane del team quasi incuriosito, ma Ken gli aveva fatto divieto di avvicinarsi. Voleva evitare il più possibile qualunque incidente. 
Jun, dal canto suo, non aveva mai più parlato al prigioniero da quel primo, disastroso colloquio. A volte la coglieva ad osservare il Galactor mentre Erlik era distratto. Sembrava soppesarlo. 
In un'unica occasione li aveva visti incrociare lo sguardo. Non gli era piaciuto affatto. Aveva avuto la spiccata sensazione che tra di loro stesse passando un qualche tipo di messaggio. Ricordava che era stata Jun la prima ad abbassare gli occhi, nascondendo il volto tra le falde dei capelli scuri.
No, a Ken l'Aquila quel tipo non piaceva per niente.

Imprecò sottovoce quando giunse in cima alla terrazza. L'oggetto dei suoi vituperati pensieri era lì, accanto alla balaustra, sorvegliato da una guardia.
Erlik si girò a guardarlo. Impossibilitato ad andarsene, Ken ingoiò l’acrimonia e si avvicinò, l'espressione ostile.    
“Che diavolo ci fai qui, Galactor?”
“Lo stesso motivo tuo, suppongo.”
Il tono del prigioniero lo colpì. Il sarcasmo non riusciva a mascherare la stanchezza. Ken non si fece impietosire. Aveva ancora nelle orecchie la telefonata di Pandora.
Fece un cenno alla guardia; l'uomo si dileguò nelle ombre. Poi si avvicinò al Galactor, fermandosi davanti al giovane. Delle tante cose che odiava di Erlik, un posto di riguardo l'aveva l'altezza del bastardo. Per una manciata di centimetri il prigioniero era più alto di lui. Come detestava non poterlo sovrastare.
“Stammi a sentire, perché te lo dirò una volta sola” gli sibilò. “Che non ti salti in mente di fare strani pensieri su Jun. Dovessi mai venire a sapere che le hai detto qualcosa di spiacevole, giuro che porterò personalmente la tua testa al tuo padrone Berg Katze, fosse l'ultima cosa che faccio.”
“Di che pensieri parli?” esclamò il suo interlocutore, inclinando la testa di lato. Poi si leccò le labbra, come se si stesse gustando qualcosa di particolarmente delizioso. “Oh, dici quelli dove me la immagino nuda e bagnata nel mio letto, con le sue belle gambe…”
Qualcosa scattò nella testa di Ken, come per un riflesso condizionato. Coprì la distanza tra loro con un balzo e afferrò Erlik per la gola, sollevandolo quel tanto che bastava per…
Si bloccò l'istante prima di fare qualcosa di irreparabile. Lasciò andare il Galactor, che si appoggiò pesantemente alla balaustra dietro di sé. Ken lo guardò quasi con orrore. 
Che cosa stava per fare? Che cosa Erlik stava per fargli fare?     
Fece due passi indietro, scosso nel profondo. Come aveva fatto a perdere così il controllo, lui che aveva affrontato situazioni ben più critiche?

Si era aspettato che il Galactor gli ridesse in faccia, o che lo insultasse come era solito fare quando era messo alle strette. Non stava succedendo niente di tutto questo. 
Davanti a lui, Erlik lo fissava imperturbabile, con quello sguardo inquietante che, a tratti, lui e Jun condividevano. 
“Se vuoi morire” Ken gli disse, facendo uno sforzo erculeo per parlare normalmente. “Non contare su di me. Buttati di sotto da solo, se ci tieni, ma ti assicuro che ti faresti solo un gran male.”
“Sono dieci piani.”
“Jun c’ha provato prima di te.”
Il Galactor incassò la risposta con un’alzata di spalle, come se non gli importasse di non essere riuscito nel suo intento. Ken, dal canto suo, si sentiva ancora smarrito. Lo fu ancora di più quando Erlik riprese a parlare, senza interrompere il contatto visivo con lui. 
“Tu eri attratto di lei,” esordì il prigioniero, per una volta senza traccia di malizia nella voce. “Ma non gliel'hai mai voluto confessare. Jun era affascinata da te, e aspettava solo un tuo cenno, che non è mai arrivato. E ora non siete più niente, e tu ti senti in colpa verso di lei, e vorresti proteggerla da tutto. In realtà, provi pena più per te stesso, e ti stai chiedendo se con Jun non hai sbagliato tutto.”
Era probabilmente il discorso più lungo che Ken gli avesse mai sentito fare. Guardò il Galactor come se lo vedesse per la prima volta, cercando di non pensare a quello che Erlik gli aveva appena detto, a come l'avesse messo a nudo, pur non conoscendolo. Gli aveva detto cose che Ken aveva rivelato solo a Joe, una sera poco dopo la prigionia di Jun, quando il suo secondo l'aveva costretto a bere e a sfogarsi con lui. 
Ma Erlik era davvero così perspicace? Al Comandante dei Gatchaman non sembrava proprio. 

E quello che era successo prima? Gli faceva paura la spiegazione. C'era stata un'intenzione ben chiara nelle parole del Galactor; qualcosa che aveva fatto scattare Ken come una molla carica, qualcosa che andava ben al di là del laido significato delle parole di Erlik. Qualcosa come un ordine.

Ken aprì la bocca, facendo quasi fatica a parlare, tanto era secca. “Te lo ripeto. Se dovesse accaderle qualcosa, tu sei morto.”
Non rimase ad aspettare una risposta. Girò le spalle ad Erlik e se andò. 
In fondo in fondo, forse Joe aveva ragione, ed erano in un guaio più grosso di quello a cui avevano pensato.

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Capitolo 10
*** Sangue ***


Sangue



Portaerei nucleare George H. W. Bush, 20 luglio


Joe trattenne il braccio del Black Bird che aveva incautamente aperto troppo la guardia, e con una gomitata sotto il mento gli ruppe la colonna vertebrale. Il corpo del Galactor si afflosciò ai suoi piedi. Era l'ultimo degli assalitori.
Il Condor si guardò attorno. Il ponte era costellato di cadaveri nemici, la maggior parte nella divisa verde delle truppe ordinarie, e qualche occasionale Black Bird, le loro milizie scelte.
Fece una smorfia, attivando il comunicatore con la Phoenix. “Ryu, hai sistemato il mecha che ci seguiva?”
“Affermativo. Abbiamo perso uno dei sottomarini di scorta alla portaerei, ma il campo è sgombro, e i Galactor non sembrano avere altri mezzi di supporto. Estrazione?”
“Non ancora. Gli altri hanno ripulito i livelli inferiori, ma ho un messaggio da Jinpei che mi chiede di convergere al ponte tre.”
“Problemi?”
“Non specificati. Tieniti pronto ad andartene in fretta.”
Si avviò svelto giù per la scala che dalla torre di comando scendeva nei recessi della nave. Lo spettacolo là sotto era nauseante; gli americani avrebbero avuto un bel daffare a ripulire quel casino.

Cadaveri giacevano ovunque nei corridoi angusti, e un pesante afrore di sangue e liquidi corporei appestava l'aria. L’impianto di condizionamento doveva essere saltato, ad un certo punto della battaglia. I corpi era tutti di Galactor, e di qualche occasionale marinaio rimasto in mezzo alla contesa.
“Poveri diavoli...” mormorò Joe. A differenza del ponte, lì sotto i corpi dei membri della forza d’élite dei Galactor erano la maggioranza, riconoscibili dalle loro Suit nere, che mimavano quelle dei Gatchaman.
Giunto al punto di rendez-vous, Joe si bloccò ad attendere i compagni. Ai suoi piedi giaceva l'elmetto di un Black Bird, diviso di netto da un colpo di spada.
Il loro numero era inusuale. Quel corpo veniva solitamente impiegato in azioni di infiltrazione, eseguite in piccoli gruppi. Il Condor non ne aveva mai visti così tanti tutti insieme.

Un tonfo improvviso lo mise in guardia ma, da uno dei corridoi, emersero solo Jun e Jinpei. La ragazza si reggeva al fratello; barcollava, e aveva una profonda ferita sul collo che si tamponava con un panno intriso di sangue.
“Che è successo?” esplose Joe, correndo ad aiutare il compagno di squadra. Sollevò Jun con facilità, muovendosi poi velocemente verso l’uscita, Jinpei alle calcagna.
“Un colpo fortunato. Un tipo le ha lanciato una mannaia, Jun non è riuscita ad evitarla.”
Joe soffocò un'imprecazione. 'Sei sopravvissuta fino ad ora. Sei praticamente invulnerabile. E un coglione fortunato ti ammazza con un coltello da cucina. Vedi tu la sfiga...'
“Come ha fatto? Le comuni lame non possono penetrare il campo di forza delle nostre BirdSuit.”
“Jun non l’aveva ancora addosso. Ti ricordo che noi tre siamo saliti a bordo sotto copertura, sei tu quello che è arrivato dopo, già preparato per l’azione!”
Colse una nota di biasimo nella voce del ragazzino, che lo fece scattare. “Che significa? Siete arrivati un’ora fa. Mi stai dicendo che ha indossato la BirdSuit dopo essere stata ferita e ha combattuto in questo stato per tutto questo tempo?”
“Sembrava farcela… poi all’improvviso è collassata.”
Joe digrignò i denti. ‘Non mi meraviglio, sta perdendo sangue come un vitello scannato.’

Che pessima organizzazione. Fosse stato per lui, Jinpei se ne sarebbe rimasto al sicuro sulla Phoenix, al posto suo. Travestirsi da una famiglia di velisti in difficoltà, per infiltrarsi in una portaerei che sapevano piena zeppa di nemici, non gli era sembrato il più brillante dei piani, e quel disastro era la sua logica conseguenza.

Joe scrutò il volto di Jun. La ragazza era silenziosa ma cosciente, per il momento; il Condor però aveva visto fin troppe ferite mortali per non capire che quella al collo si qualificava come tale.
“Perché Ken non è ancora uscito?” chiese, cercando di affrettarsi sulle ripide scalette della nave.
“C’ha detto di andarcene. Lui è ancora in sala macchine, sta controllando che i Galactor non abbiano minato i motori.”
“La missione prima di tutto, eh…”
In quel momento sbucarono sul ponte; la Phoenix levitava in volo stazionario sopra di loro. Joe posò Jun a terra.
“Portatela subito all’ISO, io raggiungo Ken. Non aspettateci.”
Non ci fu bisogno di spiegare a Jinpei l’urgenza. Dal canto suo, si voltò per ripercorrere la strada a ritroso.

  Trovò Ken dove Jinpei gli aveva detto. Il compagno si aggirava tra le apparecchiature con un palmare in mano. Anni prima quello sarebbe stato il lavoro di Jun. Il mondo, a volte, cambiava in un modo inaspettato. Sentendolo avvicinarsi Ken alzò la testa dal suo lavoro.
Joe indicò un punto dietro di sé. “Ho spedito la ferita all’ISO. Trovato nulla?”
“No, e nemmeno penso ci sia qualcosa, lo faccio solo per scrupolo. Ho i miei dubbi che fossero qui per dirottare questa nave. Non c'è nessuna ragione per cui dovrebbero farlo, i loro mecha sono molto più avanzati, e dubito gli manchino le armi nucleari o i jet.”

Questo lo credeva anche Joe, ma non si era chiesto il perché di quell’assalto. Tutto quello che interessava a lui, era ammazzare il maggior numero di Galactor possibili.
Decise però di dare retta a Ken. Era lui lo stratega del team.
“Quindi?” gli chiese.
“Penso volessero solo attirarci in trappola. Questi corridoi angusti sono il peggior terreno di combattimento possibile per le nostre BirdSuit. Peggio, credo che mirassero ad uccidere Jun. L'hanno particolarmente presa di mira.”
“Me ne sono accorto quando l'ho vista. Ha un taglio sul collo che ci puoi fare passare una mano. Per poco non l'hanno decapitata.”
Gli occhi di Ken lo abbandonarono per posarsi di nuovo sul palmare. “Hai visto quanto sanguinava? È peggiorata all’improvviso. Eppure quando l'hanno colpita non sembrava così grave.”
“È strano. Le sue ferite non dovrebbero rimarginarsi con facilità?”
“Dovrebbero, ma forse questa era troppo anche per lei. In ogni caso è colpa mia. L'ho persa di vista solo un attimo...”
“Ehi, mica ti sarai messo a proteggerla, vero? Non mi pare che ne abbia bisogno.”
“Dai, tutti noi ci guardiamo le spalle a vicenda.”
“Ovvio. Ma quello che mi stai dicendo tu è una cosa diversa” Joe sentiva l'irritazione crescergli dentro, alimentata dall'eccitazione per la battaglia che non si era ancora placata. “È per darle una mano che hai chiesto a Nambu quella?”
Con un cenno della testa indicò la katana che Ken portava al fianco, identica a quella di Jun.

Una decina di giorni prima il Comandante dei Gatchaman aveva chiesto un colloquio con Nambu, chiudendosi con lui in ufficio e riemergendo un paio di ore dopo con l'arma. Aveva giustificato il dono con il timore di trovarsi davanti a persone con la stessa malattia di Jun, ma per qualche ragione Joe ci credeva solo in parte.
Doveva essere successo qualcosa a Ken che gli aveva suggerito di optare per un'arma di prossimità. Una che tagliava teste, addirittura.
Ken scosse il capo. “Come hai detto tu, lei non ne ha bisogno, ed è anche più brava di me ad usare questo affare, però non mi fido dei Galactor e dei loro esperimenti. Non voglio trovarmi in una brutta situazione, tutto qui.”
“Fatti tuoi. Ma cerca di non metterti nei guai. Ti ricordo che quella lama può trapassare le nostre BirdSuit, e noi non siamo immuni al virus.”
“L’ho ben presente.”
Visto che la sua presenza era dopotutto inutile, senza aggiungere altro Joe voltò le spalle al suo Comandante e si avviò verso l’uscita.

Già, lui non possedeva l’antigene, e il virus l’avrebbe ucciso. Strinse i pugni, dopo anni dalla scoperta, il pensiero ancora lo infastidiva.
'Non mi sarebbe dispiaciuto essere al posto di Jun. Chi se ne frega di non poter più andare in spiaggia, non poter avere più una donna o essere costretto a bere sangue per sopravvivere. Sarei volentieri diventato un mostro, per vendicare i miei genitori. Un Dio della Morte. Penso che Jun possa essere molto di più di quello che ci sta facendo vedere. Si sta limitando… forse nemmeno consapevolmente. D’altronde, dall’ISO continuano a ripeterle che è malata. Anche Ken. Non capisce niente, vuole indietro la vecchia Jun, come fa a non rendersi conto che è cambiata?
'Non mi è chiaro se all’ISO credono davvero che la guariranno o se Nambu stia solo cercando di non spingerla lungo una certa strada.’

Joe si bloccò in mezzo alla carneficina, ispirando a fondo l’aria viziata. Per lui, odorava di vittoria.
‘Chissà fin dove arriverebbe. Chissà cosa c’è, in fondo a quella strada…’
 


Utoland, International Science Organization


Si svegliò al freddo.
Debolmente, Jun si sistemò il lenzuolo che le era scivolato sotto le spalle, grugnendo in protesta.
“Ti porto una coperta?”
La voce le fece aprire gli occhi. Si sentiva la testa pesante, i pensieri annebbiati. Era una sensazione strana; era da tempo che non le succedeva di venire seriamente ferita in battaglia. Si girò verso l’infermiera, che conosceva bene, tentando di sorriderle.
“Grazie, Margot. Ho freddo e ho la testa che mi scoppia… che ore sono?”
“Le undici di sera. Sei arrivata qui verso le cinque.”
Corrispondeva a quello che ricordava. Era rimasta cosciente fino all’arrivo all’ISO; il suo ultimo ricordo era il chirurgo di guardia che le diceva che le avrebbe somministrato un sedativo, necessario per procedere a suturarle la ferita.
Con qualche difficoltà alzò la mano per toccarsi il collo. La fasciatura era monumentale.
“Non mi pareva fossi così grave…”
“Lo eri invece” Margot rispose mentre le sistemava la coperta addosso. “Hanno dovuto sottoporti ad un vero e proprio intervento di ricostruzione della carotide.”
La donna non proseguì oltre, non c’era bisogno di aggiungere che se Jun non fosse stata nelle particolari condizioni in cui era, sarebbe morta dissanguata.
“Come ti senti?” una voce ben nota le chiese, e il dottor Nambu entrò nel suo campo visivo. Insieme a lui Jun riconobbe un altro medico, il dottor Ishiwari, che faceva parte dello staff che l'aveva in cura.
“Rintronata.”
“Ti sentirai meglio quando l'effetto dell'anestetico svanirà completamente.”
“Dice? Non so... c'è qualcosa che non va...”
“Hai dolore da qualche parte? Non dovresti, la TAC non ha evidenziato altri traumi.”
“No no... è come un pizzicore diffuso... non spiacevole, ma lo sento chiaramente.”
“Ovunque?”
“Già...”
“E non è fastidioso?”
“Per nulla.”
Ishiwari diede un'occhiata al tablet che reggeva. “I suoi valori sono perfettamente normali, possiamo escludere che ci sia una crisi emolitica in corso.”
Addestrata nel primo soccorso, Jun sapeva bene di cosa il medico stesse parlando. “E per che motivo dovrei avere una reazione avversa ad una trasfusione?”
Come colto in fallo, l'uomo lanciò uno sguardo di aiuto a Nambu.
“Perché te ne sono state somministrate due dal momento in cui sei arrivata” il Direttore dell'ISO rispose, senza tentennamenti. “Il sangue perso era troppo, stavi andando in arresto cardiaco. Non c'era assolutamente tempo per fare altro.”
La procedura era corretta, in un caso come il suo, peccato che lei fosse tutto meno che un paziente regolare.
Aggrottò le sopracciglia, momentaneamente smarrita. “Non ho ancora capito dov'è il problema.”
“Infatti non esiste” tagliò corto Nambu. “Eravamo preoccupati perché dal momento della prigionia non hai mai più assunto emoderivati via endovena. E c'era un elemento di rischio non trascurabile nel donatore. Compatibile certo, però... abbiamo dovuto condurre alcuni test prima di procedere in sicurezza. Per il resto non è il momento, ti diremo tutto quando sarai ristabilita.”
Il problema era il donatore, quindi? La risposta Nambu ce l'aveva scritta in volto. Lei la capiva come se il Direttore l'avesse urlata.
“Erlik...” Jun sussurrò, sentendo il cuore mancare distintamente un battito.
Per un infinitesimale secondo aveva sperato che qualcosa stesse cambiando per il meglio. E, invece, ora le circolava addirittura in corpo il sangue di un Galactor.
Le sue dita strinsero il lenzuolo. Perché le sembrava che Nambu fosse impallidito?
“Non potevamo fare altro” le ripeté, avendo la compiacenza di mostrarsi affranto.
“Lo so.”
Era dura da accettare, ma Jun dopotutto non voleva morire. Prima doveva vendicarsi di Berg Katze per quello che le aveva fatto.
“Adesso ti lasciamo riposare” le disse ancora Nambu. “Ti prego di avvertirci se dovessi avere qualche sintomo particolare.”
“Ok... per ora va bene, anzi. Mi sento meglio di minuto in minuto. Sta anche passando la stanchezza.”
Margot, che la guardava dai piedi del letto, le sorrise. “Beh, ovvio, sei a letto dalle cinque di oggi pomeriggio.”
Jun le sorrise di rimando. Le piaceva quella donna, riusciva sempre a metterla di buonumore, ed era una dei pochi che all’ISO la trattavano come una ragazza nomale.
“Eh sì, ma dicevo stanchezza arretrata. Ero veramente a terra negli ultimi giorni.” Alzò una mano per sfiorare il bendaggio, riportando la sua attenzione su Nambu. “Stanca e lenta. Questo non sarebbe mai successo fino a qualche mese fa... oggi, non sono riuscita a prevederlo, men che meno ad evitarlo.”
“E ora va meglio?” le chiese Nambu.
“Molto. Mi sento... rinata.”
“Ne sono felice. Ma non strafare, cerca di riposarti davvero e per bene, stanotte.”
 
Anche Jun era felice. Consciamente si rendeva conto che non avrebbe dovuto: era bloccata in un letto di ospedale, con del sangue Galactor in corpo; eppure era da tempo che non si sentiva così bene.
Però c'era una cosa che la turbava: Nambu se ne era andato sprofondato in una nube di cupa angoscia. Lei non riusciva a spiegarsi il perché.
 


Aveva allineato le quattro pillole sul tavolo, in ordine di grandezza. Erano carine viste tutte insieme, con i loro colori brillanti. Sembravano caramelle.
Erlik le detestava, come la maggior parte dei dolci.
Quando era bambino sua madre gli diceva sempre che rovinavano i denti, e negli anni lui aveva sviluppato una profonda avversione per tutti i prodotti zuccherati.
Il pensiero di quella donna gli strappò una smorfia. Non aveva più avuto sue notizie, ma immaginava stesse alla grande. Quando mai era stato il contrario?
Prese una pillola e la guardò.
Che situazione di merda.

Nonostante tutto, però, non si era ancora pentito di aver abbandonato la sua vecchia vita. Gli piaceva stare tra i Galactor. Nessuno lì nutriva la benché minima aspettativa su di lui, era solo un altro dei soldati senza nome e volto dell'organizzazione. Carne da cannone, ma si viveva abbastanza bene. Bisognava solo obbedire agli ordini, e riuscire a non farsi coinvolgere in una missione; perché in quel caso non aveva idea di quello che avrebbe fatto: non voleva fare del male a nessuno, ma nemmeno voleva essere picchiato dai superiori.
Comunque, il problema non si era mai posto. Jun il Cigno l'aveva trovato prima.
“Bel casino nel quale mi hai messo...” mormorò, raccogliendo le pillole e spostandosi in bagno.

Si vedeva che quello era un centro di ricerca e non una prigione. La sorveglianza terminava nel momento in cui varcava la soglia del suo alloggio. Non c'era nemmeno una telecamera in giro, altrimenti si sarebbero accorti che da giorni aveva smesso di prendere alcune dosi dei medicinali prescritti: quelle che doveva assumere prima di dormire, e al mattino al risveglio.
Fare il bravo ragazzo aveva pagato. Si fidavano abbastanza di lui per lasciargli un minimo di autonomia. D'altronde, come potevano immaginare che si stesse consciamente rifiutando di curarsi?
L'incontro con Ken l'Aquila sulla terrazza era stato provvidenziale. Fino a quel momento aveva solo desiderato di morire, tanto stava male. Ma lì era successo qualcosa. Non sapeva nemmeno come ci era riuscito a fare andare fuori di testa il Comandante dei Techno Ninja in quel modo, ma gli era piaciuto tantissimo.
La sua nuova condizione, dopotutto, presentava anche dei lati positivi.

  Erlik sorrise compiaciuto, guardando la propria immagine nello specchio. Era sempre stato soddisfatto del suo aspetto, ma quei nuovi capelli albini gli donavano e rendevano il suo volto, dai lineamenti regolari, ma abbastanza anonimi, molto più interessante.
Certo, non aveva comunque la sfolgorante bellezza classica di Ken l'Aquila.
Sbuffò, mentre schiacciava una delle pillole nel lavandino, aprendo l'acqua per far sparire la polvere.
'Sarà anche bello, ma certo di donne non capisce niente. Come si fa a rifiutare una come Jun? Magari quel buffone è gay, e lei ha passato gli anni a sbavare su uno che invece si voleva fare il suo compagno Condor.'
Ridacchiò al pensiero, mentre una seconda pillola raggiungeva la prima nello scarico. 'Bravo antivirale, fai compagnia nelle fogne all'inibitore della proteasi.'
Ne aveva ancora due. Gli piaceva smaltirle, era diventato il suo rito serale.
'Come mi sono ridotto, mi diverto con queste stronzate. Bah... ecco la mia preferita. Nevirapina, un inibitore della transcriptasi inversa. Stanno provando a curarci con gli stessi farmaci usati per l'AIDS e l'HIV.'
La guardò sparire, poi lanciò un ultimo sguardo al suo riflesso. 'C’è qualcosa che non va. Questa terapia non funziona, ci fa stare solo male.'
L'ultima compressa che rimaneva era un antidepressivo, ma quello gli era gradito. Lo aiutava a dormire, quindi andava bene. Lo buttò giù con un sorso d'acqua.

Ritornò in camera e si lasciò cadere sul letto. A qualche ora dalla donazione ancora avvertiva delle vertigini. Quel pomeriggio, da cavia era stato surrettiziamente promosso a donatore del sangue. Tutto per salvare Jun il Cigno.
Il corpo di lei, abbandonato su quel letto troppo grande, il suo volto smunto, tornarono a tormentarlo.

Non che avrebbe potuto rifiutarsi, ma qualcosa gli era scattato dentro quando l'aveva vista così. Lei non doveva morire. Lui doveva fare qualcosa. Era imperativo.
Erlik grugnì. A distanza di ore, quello che aveva provato ancora lo sorprendeva. Che cosa era stato? Da dove arrivava quella urgenza di aiutarla?
Non riusciva a capirlo... certo, nemmeno voleva vederla morta, e men che meno la detestava. Lei lo pensava, ma si sbagliava. La commiserava e basta.

Ricordava come i suoi compagni Galactor ne parlavano. C'era chi la odiava e chi ne era innamorato, ma tutti se la volevano fare. E lui non era da meno.
Nei video che giravano sui canali interni lei sembrava bellissima, regale ed invincibile, anni luce lontano dalla ragazza che aveva poi conosciuto all'ISO. Ancora più attraente dal vivo, ma testarda, rabbiosa e piena di pregiudizi
'Niente altro che una bambina a cui hanno fatto credere di avere una missione speciale. Ma quale missione, sei solo la marionetta di Nambu.'
Nonostante tutti i difetti che riusciva a trovale, Jun lo affascinava comunque. Forse proprio perché l'aveva scoperta così imperfetta, quando prima era solo una guerriera irreprensibile.
Pensare a lei gli riportava alla mente la statua di un'alata dea greca che aveva visto in un museo anni prima. Il passare dei secoli aveva frantumato la scultura, e un'artista l'aveva ricomposta usando la tecnica giapponese del kintsugi: le crepe erano state riempite con dell'oro. Da rotta, era molto più preziosa. Così era Jun.

  Erlik sorrise nel dormiveglia, combattendo il torpore indotto dal medicinale. Da quando l'aveva conosciuta dal vivo si era divertito ancora di più fantasticare su di lei ma, mentre quel pomeriggio la guardava esanime, aveva realizzato che non gli sarebbe affatto bastato portarsela a letto.
Desiderava per lei una cosa che non aveva mai voluto per nessuna delle donne con le quali aveva avuto una relazione. La maggior parte era anche più bella di Jun. Ma loro erano solo delle nullità; avevano tutto, ma non si meritavano niente. Jun era diversa. Speciale. E lui voleva compiacerla.
Prima doveva però farle aprire gli occhi. Perché in quel posto da incubo l'avrebbero sfruttata fino ad ammazzarla. Ed Erlik, con la stessa necessità che aveva avvertito quel pomeriggio, adesso sapeva che doveva fare qualcosa.

Aveva provato a comunicare con lei con quella curiosa, nuova sensibilità che si era ritrovato, ma la ragazza era sfuggente, scostante e astiosa con lui. Ed era solo colpa sua. Non era riuscito a trattenersi quando l’aveva vista la prima volta. Gli erano tornati in mente tutti gli amici che si era fatto nei Galactor, uccisi da lei e dagli altri Techno Ninja.
Erlik si arrese alla sonnolenza, dopo un ultimo pensiero coerente: 'Non erano tutti assassini, come crede lei. Ma il loro sangue è sulle mani di Nambu. Jun è stata solo manipolata. Le parlerò chiaramente. Il prima possibile. È l'unica soluzione, perché lei merita... qualcosa... qualcosa che è molto di più di questa vita del cazzo... però... è tanto bella quanto esasperante. Come si fa rimanere calmi con una così?'

Dopo pochi secondi era già scivolato nel sonno, e in un sogno ricorrente.
Quello dove vagava tra le vie di una città immersa in un pallido crepuscolo; attorno a lui si alzavano palazzi spiraliformi che svettavano tra le nubi. Era in compagnia di una donna, le cui fattezze erano avvolte nell'ombra. Non ricordava nemmeno il suo nome, così non aveva altro modo di chiamarla che con il titolo che sapeva essere suo di diritto.
Meine Herrin...” mormorò senza svegliarsi.

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Capitolo 11
*** Esitazione ***


Esitazione



Cross Karakoram, 25 luglio 


Se avessero chiesto a Berg Katze cosa si provava ad essere puniti da Sosai X, il leader dei Galactor non avrebbe esitato: la sensazione era quella di essere immersi in una vasca di acido.
Il mutaforma urlò di dolore, contorcendosi sul pavimento davanti alla spettrale immagine dell'alieno suo creatore. Bastava che i tentacoli di plasma eruttati dall'alieno gli sfiorassero la pelle, per fargli desiderare la morte. Almeno la sofferenza sarebbe cessata, insieme alla costante pressione nella sua testa. Se la sentiva scoppiare.
“Sei una nullità! Tu, e tutti quei poveri idioti che hai reclutato!” Sosai gli urlava oramai da ore, non degnandosi nemmeno di utilizzare il sintetizzatore vocale ma preferendo la telepatia. Una modalità che Berg Katze detestava.
“Mio signore...” mormorò bocconi sul pavimento, senza più forze. Stava cominciando a pensare che Sosai volesse ucciderlo davvero.
“Taci, stupido. Ti avevo forse detto che la volevo morta? Me la devi riportare intatta. Lei è...  indispensabile per il nostro piano.”  
Un'ulteriore sventagliata di energia gli si scaricò addosso, ma stavolta il dolore fisico gli lasciò lo spazio per un pensiero coerente. Sosai aveva avuto un'esitazione che non gli era sfuggita. 
Forse avvertendo il dubbio nel suo pupillo, o perché oramai sazio della sua sfuriata, la tensione si allentò improvvisamente. Il tocco lieve di Sosai sfiorò la mente di Berg Katze, quasi con amore, come un padrone accarezza il suo cucciolo preferito.
“Porrò il mondo ai tuoi piedi, ma per farlo ho bisogno di quella ragazza, oramai è matura abbastanza. Mi accompagnerai mentre la corromperò alla nostra causa, perché di lei voglio fare il nostro miglior guerriero.”
Sembrava un piano ragionevole. Perché lui, mero umano, avrebbe dovuto dubitare? 
Faticosamente, Berg Katze riuscì a mettersi in ginocchio, la testa ancora appoggiata contro il pavimento, in totale sottomissione.
“È davvero così forte?” 
“Oh, certo, molto più di quanto i suoi compagni pensino. Ma per ora è solo una promessa.”
Sentì l'alieno ridere. Una sensazione raggelante. “È troppo lontana perché io riesca ad avvertire i suoi pensieri, ma nei video che mi mostri il risentimento è palese in tutte le sue azioni, nel modo nervoso in cui si muove e uccide. Mi stupisco che non se ne accorgano. L’hanno armata ed addestrata per essere una combattente, ma dentro è ancora una bambina, un’anima non formata. Lavorerò su quello, e vedrai che alla fine si scaglierà contro i suoi stessi compagni. Questa sarà la nostra vittoria più grande, e la loro sconfitta peggiore.”
Berg Katze sentì il battito accelerare. Era stato uno stolto a dubitare, anche se solo per un secondo, del suo padrone.  
“Mio signore” ripeté in venerazione. “Saluto i picchi della tua intelligenza.” 
“Picchi? Venera piuttosto gli abissi della mia perversione. Ma ora vai, e portami questo dono, sarai ben ricompensato.”

Berg Katze osò levarsi solo quando fu nei pressi della porta. La varcò con le gambe che ancora gli tremavano; non aveva segni esteriori della tortura di Sosai, ma si sentiva devastato.
Senza un cenno passò davanti alle guardie poste ai lati della porta, e sulle labbra di una delle due credette di vedere un sorrisetto di scherno. Peccato, gli era stato presentato come uno competente, ma evidentemente era troppo stupido per controllarsi.
Più tardi si sarebbe divertito a torturarlo a morte, gli sarebbe servito per rilasciare la tensione.
Ora però aveva altro da fare. 
'Supervisionerò personalmente l’assemblaggio del prossimo mecha, e condurrò l'azione. Qui non ci si può fidare di nessuno per far un buon lavoro.' 
 


Utoland, International Science Organization, 5 agosto


Quell'estate il tempo era piacevole. Invece della solita umidità che affliggeva in quella stagione l’entroterra, brevi temporali notturni lavavano via la calura, e le mattinate erano fresche e luminose, il sole brillante che esaltava i colori della natura. 
Se fosse stata una ragazza con una vita normale Jun sarebbe andata con le sue amiche al mare, o in giro in moto, a godersi la campagna. Era invece costretta a rimanere all'interno del complesso dell'ISO; dopo l'ultima azione Nambu aveva reputato che fosse opportuno limitare le sue uscite, anche in borghese. 
Quanto alle missioni, invece, il problema non si poneva, visto che i Galactor erano stranamente silenti. Forse, meditava anche se con poca convinzione, si stavano anche loro godendo la bella stagione.
Il divieto di uscire la lasciava comunque libera di approfittare degli spazi comuni del centro ricerca. Tra tutti, il suo posto preferito era un angolo di parco tenuto alla maniera dei tradizionali giardini giapponesi, completo di un tempio e di un piccolo lago nel quale nuotavamo colorate carpe. 
La ragazza amava seguire i loro intricati percorsi appena sotto la superficie dell’acqua, giocando ad indovinare quale sarebbe stata la loro mossa successiva. 

Quella mattina aveva deciso di visitarlo, e scelto di indossare un vestito color rosa pallido, colore che esaltava i suoi occhi verdi e la pelle di alabastro. 

Passeggiava senza metà, ogni tanto alzando la mano per aggiustandosi la sciarpa attorno al collo. La ferita di qualche settimana prima le aveva lasciato una cicatrice che guariva con difficoltà, e che lei non gradiva mostrare in giro.
Era già brutto che, dietro le spalle, la chiamassero mostro, figuriamoci se fossero venuti a sapere che si era fatta fregare da un lancio fortunato di un coltello da cucina.
Improvvisamente un gatto attraversò il sentiero davanti a lei, fermandosi a fissarla. 
Gli occhi del felino affondarono nei suoi e, così intenso era quello sguardo, che per un momento Jun pensò che l’animale stesse cercando di comunicare con lei. 
Durò solo un istante. Brutalmente il gatto ruppe il contatto, sparendo sotto i cespugli di rose noisette. Leggermente delusa lei alzò la testa, e il suo cuore mancò un battito. 
Erlik era davanti a lei, appoggiato ad una delle colonne del tempio che Jun aveva come meta. Non stava guardando nella sua direzione, e nemmeno aveva sentito la sua presenza. Non erano abbastanza vicini perché la loro empatia funzionasse. 
Incerta su cosa fare Jun decise di riprendere la sua passeggiata. Non sarebbe certo stato un Galactor a rovinargliela.

Non avevano più parlato dal loro primo, tempestoso colloquio. L’aveva evitato accuratamente, anche se le era sembrato che da parte del giovane ci fosse stato qualche tentativo di contattarla. 
Si avvicinò al Galactor serrando i pugni. Se le voleva parlare, prima avrebbe dovuto scusarsi.  Con la coda dell'occhio notò allontanarsi la guardia che era sempre con lui. Evidentemente l'uomo pensava di essere di troppo.

Ora percepiva chiaramente la sua presenza, e quello che Erlik provava: una grandissima solitudine. Ma c'era anche altro sotto, qualcosa che lei non riusciva a decifrare. 
'Speranza?' pensò, aggrottando le sopracciglia.
Il Galactor si girò lentamente verso di lei e, con sorpresa di Jun, fu lui a rivolgerle la parola.
“Come stai?”
Il tono era stato abbastanza gentile, ma con un velo di tensione che alla ragazza non sfuggì. 
“Molto meglio... ti ringrazio per quello che hai fatto per me.”
“Lascia perdere. Non mi sono certo offerto volontario, e non potevo rifiutare, ma mi fa piacere che tu ce l'abbia fatta.”
Prima che lei potesse ribattere lui aggiunse, in un tono vagamente più conciliante: “Com'è successo? Mi sembrava che non fosse facile ferirti.”
La domanda colse Jun alla sprovvista, mentre la sua mano corse senza volerlo alla ferita. Il ricordo faceva ancora male.  
“Uno spiacevole effetto collaterale della vecchia terapia. Me l'hanno modificata dopo questo incidente.”
“Perspicaci. Ora va meglio?”
“Sì. Considerata la nostra condizione.”
Erlik si permise un sorrisetto, che lei non seppe come interpretare. Lo fissò: la sensazione che le stesse nascondendo qualcosa si era acuita. 

Le sembrava in forma, almeno tanto quanto l'aveva visto la prima volta. Doveva chiedere a Nambu se il protocollo di cura di Erlik fosse diverso dal suo; di certo, a lui stavano dando qualcosa che funzionava meglio.
“La mamma non ti ha insegnato che non si fissano le persone?”
Sbatté le palpebre, sorpresa dalla domanda canzonatoria. Il Galactor sembrava trovare molto divertente punzecchiarla. 
“Difficilmente. Sono orfana.” 
La rivelazione non oscurò il sorriso di Erlik che, anzi, si fece ancora più pronunciato. 
“Ti assicuro che a volte è meglio.” 
Lei colse l’occasione per far prendere al discorso un’altra piega. Si stava già innervosendo.
“Anche i tuoi genitori erano nel Sindacato?” gli chiese, esitante. 
“Pensi che tutti i Galactor arrivino da una famiglia nell'organizzazione?”  
“Non ho abbastanza informazioni per processare questa domanda.” 
La risposta era suonata incattivita, ma non poteva farci nulla. Quell’uomo aveva il dono di farle veramente perdere le staffe. La continua allusione a che Jun fosse una stolta piena di pregiudizi era umiliante.  
“Va bene, tieniti l'informazione per te, se ci tieni tanto” ritorse con una lieve alzata di spalle. “Però adesso mi hai incuriosita. Se i tuoi non erano nel Sindacato, perché tu ti sei unito a loro? E non osare propinarmi ancora la storia della povertà e degli abusi famigliari. Di tutto sembri, fuorché uno cresciuto nei bassifondi.”
Erlik si mise a ridere, appoggiandosi più comodamente alla colonna dietro di lui. Era forse la prima volta che lei lo sentiva ridere, ma non lo percepiva per niente divertito.
“Perché no? È come la Legione Straniera, dopotutto. Nessuno fa domande su chi sei o da dove vieni.” 
“Ma li hai presi per un ordine religioso? Non hai pensato agli innocenti che potevano ordinarti di uccidere?” 
Erlik scrollò leggermente le spalle. “Certo che ci pensavo, ed ero piuttosto bravo ad evitare di essere mandato in missione.” 
Jun non poteva credere a quello che lui le stava raccontando con tanta noncuranza. “E come la metti con le nostre incursioni? Avresti potuto rimanere ucciso.”
Erlik non sembrò per nulla turbato. “Avevo messo in conto questo rischio.” 

Adesso era proprio arrabbiata. Non era possibile che tenesse in così poco conto il suo benessere. “La tua vita precedente doveva essere stata ben grama se hai deciso di unirti a dei criminali.”
“Mi pare che avessimo già fatto questo discorso.” Adesso anche il Galactor si stava innervosendo. “Continui a chiamarli criminali, ma non tutti lo erano. E alcuni erano anche miei amici. Persone normali che voi avete ucciso come cani rabbiosi, e che non stavano facendo nulla se non il proprio lavoro.”
“Lo chiami lavoro sparare sugli innocenti?”  
“Non parlo solo dei soldati. Ma cosa credi? Pensi che dentro le basi che fate saltare ci siano solo quelli?” Erlik le fece un sorrisetto di scherno. “I tecnici, i manutentori, gli scienziati… oh, cazzo, l’addetto alle pulizie me lo stavo dimenticando. Li chiameresti militari?”
Jun si sentì avvampare. Sì che ci aveva pensato, e spesso, ai cosiddetti “civili Galactor” che rimanevano presi in mezzo alle loro azioni. Ma Nambu gli aveva sempre detto di non curarsene. Era colpa loro, dopotutto: si erano scelti l’impiego sbagliato.
La ragazza serrò i pugni. Nambu aveva ragione, ma evidentemente Erlik era uno di quelli che vedevano le cose solo dal loro punto di vista. “Mi dispiace per loro” gli concesse, “ma di certo non gliel’ha prescritto il dottore di lavorare per i Galactor. Sapevano quello a cui andavano incontro quando si sono uniti al Sindacato.” 
“Come ti ho già detto, difficilmente la maggior parte ha avuto una scelta.”
“E quindi? Pochissimi di noi possono permettersi questo lusso. E nel caso di questa gente, mi chiedo come possano alzarsi tutti i giorni sapendo che il loro lavoro contribuisce alla sofferenza di altri esseri umani.”
Jun avvertì distintamente la tensione calare. Improvvisamente, Erlik sembrava non aver più voglia di discutere con lei. 
“Parla per te” le disse stancamente. “Prima di giudicare gli altri, dovresti guardare te stessa e i tuoi amici, i cosiddetti eroi.”
“Non ti permetto di parlarmi così!” Jun marciò verso di lui fermandosi davanti al giovane. “Hai buttato la tua vita nella spazzatura e vieni a sindacare la mia? Non lo accetto. Io ho dovuto combattere per ogni pasto della mia vita, con dignità, senza piegarmi a fare lavori sporchi, come te e i tuoi amici. Sono felice che mi abbiano scelta per questa missione.”
Erlik le si avvicinò, adesso quasi si sfioravano. “Devi riconsiderare il tuo concetto di ‘lavori sporchi’, Jun il Cigno. E poi felice per cosa? Eri una bambina, hanno rubato la tua infanzia per trasformarti in un'assassina, facendoti pure credere che questa fosse la cosa giusta per te. Spiegami in che cosa il tuo caro Nambu sarebbe diverso da Berg Katze.” 
“Non sono un’assassina, io difendo la Terra” sibilò lei, infastidita da quello che Erlik le stava subdolamente suggerendo. Quelle parole toccavano corde che preferiva che rimanessero sopite.
“Non lo metto in dubbio. Ma dovevano scegliere dei ragazzini per farlo? Parlavi di scelta, prima. Pensi di averne avuta di più degli operativi Galactor? Voi eravate troppi piccoli per scegliere. Tu sei stata usata. Oh, ma ora che Jun il Cigno si è rotta, di te non sanno più cosa farsene.” 

Jun era una guerriera. Il suo pugno scattò prima che se ne rendesse conto. 
Pugno che Erlik bloccò a mezz'aria prima che riuscisse a colpirlo. Non si era mosso di un millimetro. 
Sbigottita, Jun il Cigno guardò la sua mano, stretta in quella di Erlik. E poi il viso del giovane.
Non le sembrava particolarmente scosso. Ma quando mai era successo che un soldato Galactor riuscisse a difendersi?
“Non è possibile” la ragazza esalò, sentendosi improvvisamente molto debole. “Tu non sei così forte.”
Le labbra di Erlik si piegarono nel primo sorriso non di scherno che lei ricordasse.
“No. Sei tu che non stai bene. Jun, devi smetterla di prendere quelle medicine, ti stanno avvelenando.”
“Ma che dici?” gli chiese, abbassando il braccio con cui aveva portato il pugno.  
Erlik le rispose quasi sussurrando. “Ascoltami bene. Non ho idea della natura del virus che ci ha infettati, ma so per certo che non dovresti più prendere quello che ti danno.”
“Non possiamo non assumere quelle medicine” protestò lei. “Senza moriremmo.”
“Ti sembro uno che sta per morire?”
Le ci volle un attimo per processare la domanda. Adesso il mistero dell'ottima forma fisica del Galactor le era chiaro.
“Tu non stai più seguendo la terapia” sussurrò sconcertata. 
“Non interamente, e non sono mai stato meglio.”
“Da quando?”
“Dal dieci luglio.” Il sorriso del giovane si allargò. “Me lo sono segnato sul calendario.”
Jun sentì una morsa serrarle lo stomaco. “Mi hanno trasfuso il tuo sangue qualche giorno dopo. Mi sono sentita subito meglio. Credo che Nambu sapesse che c'era qualcosa di strano... lui... era preoccupato.”
“Di quello che pensa Nambu non può importarmene di meno.” 
“Ma perché?” 
Erlik capì al volo a cosa lei si stesse riferendo. “Non lo so. Forse non sanno davvero cosa stanno facendo, oppure hanno paura di te, di quello che puoi diventare, e cercano di tenerti sotto controllo nell'unico modo che hanno.”
Jun scosse la testa. Quello non lo poteva credere, ma c'era comunque qualcosa di strano in tutta quella faccenda.
“Non so... devo indagare... cercherò di farlo.” Forse la dottoressa Pandora avrebbe potuto rispondere a qualche discreta domanda. Era sempre così gentile con lei. “Ma ora devo andare, è l'ora del mio allenamento.”
“Ok... quella te la tieni?” 
Solo in quel momento Jun si rese conto che la sua mano destra era ancora stretta in quella del del Galactor. La ritirò con riluttanza; per quanto lo detestasse come persona, il contatto fisico con lui era gratificante. A volte ripensava a quando si erano incontrati, e doveva ammettere che il ricordo le provocava dei brividi piacevoli.
Così come doveva ammettere, mentre lo salutava con un cenno della testa e se ne andava senza una parola, che forse ora non lo detestava nemmeno più.
Dopo quella conversazione, di Erlik non sapeva più che pensare.

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Capitolo 12
*** Attrito ***


Attrito



Utoland, International Science Organization, 10 agosto 


“È lui?”
Jinpei si sporse oltre la spalla di Joe per dare un'occhiata al Galactor.
La cafeteria era mezza vuota, ma nonostante quello Erlik era seduto ad un solitario tavolo fuori, sulla balconata, non facendo apparentemente nulla se non guardare l’orizzonte. Vestito con jeans e una leggera felpa nera, il cappuccio tirato accuratamente sopra la testa, sembrava non essere minimamente infastidito né dal caldo né dai raggi solari che si riflettevano crudelmente sulla superficie simile a vetro della balconata.
“Proprio lui” mormorò Ken, senza neppure girarsi a guardare l'uomo.
Il più giovane membro dei Gatchaman si rivolse a Ryu. “È un problema se vado a parlargli?”
L'altro scosse tristemente la testa. “Lascia perdere, hai sentito quello che hanno detto il Direttore e Ken, no? Non dobbiamo avere nulla a che fare con lui, a meno che non sia assolutamente necessario.”
Jinpei non sembrò avere voglia di darla vinta ai compagni più grandi. Incrociò le braccia sul petto, sporgendo le labbra. “Non è giusto però. Perché Ken e Jun devono essere gli unici a parlarci?”
Ken gli fece un sorriso tirato, mentre Joe scoppiava a ridere.
“E perché ti interessa così tanto?” il Condor chiese a voce abbastanza alta perché anche dalla balconata potessero sentirlo. “È solo un altro Galactor che si crede tanto furbo ed invece è solo un idiota.”
“Joe, piantala” lo ammonì Ken.
L'amico alzò le braccia in segno di resa, senza aggiungere altro se non una scocciata imprecazione che Ken sapeva non rivolta a lui. Capiva Joe. Non aveva ancora digerito la presenza di Erlik tra di loro; andava contro tutto quello che il Condor aveva sempre combattuto.

Da parte sua, Ken aveva promesso a Nambu che avrebbe fatto di tutto per evitare problemi tra loro e il Galactor.
Non aveva raccontato al Direttore i dettagli dell'incidente sulla terrazza, non voleva che Jun ci andasse di mezzo, ma aveva cercato di metterlo in guardia. Qualcosa Nambu doveva aver capito, se aveva intimato al personale non sanitario di stare lontano dal Galactor, e aveva dotato Ken di una nuova arma.

Il Comandante dei Gatchaman si rifugiò dietro al suo bicchiere di Coca Cola, mentre Ryu soppesava pensosamente Joe e Jinpei distoglieva finalmente lo sguardo dall'oggetto delle sue osservazioni.
Il membro più giovane del team si cacciò in bocca una cucchiaiata di gelato. “Ok, non ci parlo. Volevo solo chiedergli come riusciva a sopportare la luce del sole. Secondo le leggende dovrebbe fargli male.”
Ken ci mise un paio di secondi a realizzare il significato di quello che Jinpei stava dicendo.
“Che stai dicendo? Hai mai visto tua sorella evitare la luce diretta?” gli chiese, più sferzante di quanto avrebbe voluto. Quell’argomento lo faceva imbestialire.
Jinpei ebbe la decenza di arrossire, mentre la grossa mano di Ryu calava sulla testa del ragazzino.
“Anche se la loro pelle manca di melanina non rischiano nulla se non una brutta scottatura” spiegò il Gatchaman più anziano. “Ma questo dovrebbe esserti ben chiaro. Nambu ce l’ha spiegato mille volte.”
La Rondine gli spostò la mano borbottando, intenzionato ad avere l’ultima parola. “Me lo ricordo, ma anche se il sole non lo incenerisce, non ho mai visto Jun così indifferente alla propria salute.”
“Se lo fosse, non si sarebbe mai unito ai Galactor, non ti pare?” concluse Ryu.
 
Ken appoggiò un gomito sul tavolino, affondando il mento nel palmo della mano. Quello era un altro problema che lo assillava: ad Erlik non sembrava importare nulla della sua vita, come se il gene dell'autoconservazione in lui fosse mancante.
La voce di Jinpei lo distolse dai suoi pensieri. “Ehi, c'è Jun.”
Ken si girò a guardarla, ferma nella cornice della porta.
 
La ragazza, individuati i suoi amici, avanzò decisa verso di loro. Teneva la testa leggermente inclinata da un lato –quello della ferita, notò Ken-, e torturava con le lunghe dita una ciocca di capelli, in un gesto che le era tipico. Sorrideva, ma sembrava molto stanca.
Da quello che Ken sapeva, Nambu aveva ordinato tutta una serie di nuovi test e, finché non fossero stati completati, lei non sarebbe rientrata in servizio attivo.
Lui non aveva idea della natura di questi esami, ma sembravano gravare molto sulla salute della sua compagna di squadra.
 
Quando fu tra di loro, Jinpei le cinse la vita. Erano tre giorni che non si vedevano.
Il ragazzino alzò la testa per incrociare lo sguardo della sorellastra. “Quindi? Non hai ancora finito?”
Lei scosse la testa. “No, ma ci siamo quasi. Mi manca solo ancora un giorno di clausura. Poi potrò riprendere gli allenamenti. E magari ci andremo a prendere un bel gelato con Kara e John. Che ne dici?” gli chiese, riferendosi alla coppia che lo stava ospitando.
Lui fece una smorfia. “Lascia perdere.”
“Perché? Non ti trovi bene con loro?”
Jinpei alzò gli occhi al cielo. “Sono ok, ma mi trattano come un bambino.”
“Forse perché lo sei, fratellino” lei gli disse ridendo, scompigliandogli i capelli nel frattempo.

Ken non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Jun non aveva un bell'aspetto. La pelle aveva perso la sua luminosità, e ombre scure sotto gli occhi indicavano quanto poco stesse dormendo. Persino il suo sorriso era tirato.
“Vuoi qualcosa da bere?” le chiese.
“No, sono a posto, mi hanno dato qualcosa in laboratorio. Sono salita solo a prendere una boccata d’aria. Vi faccio compagnia per cinque minuti, poi dovrò tornare di sotto.”
Si sedette, e a Ken non sfuggì lo sguardo lanciato verso la solitaria figura sulla balconata.

Per tutto il tempo che rimase con loro, Jun non degno più il Galactor di un’occhiata, ma Ken poteva chiaramente vedere che si stava dominando. Era tesa, e un paio di volte rispose stizzita a Joe.
Da un certo punto di vista, fu un sollievo per tutti quando si alzò dichiarando che stava facendo tardi per il laboratorio.
Quando se ne fu andata, Joe non resistette a non commentare. “Nambu può dire tutto quello che vuole, ma quel tipo ha una cattiva influenza su di lei. La sua stessa presenza qui la rende nervosa.”
“Ma se non si parlano mai” protestò Jinpei, che non poteva fare a meno di difendere la sorella.
Lo squillo del cellulare salvò Ken dall'obbligo di appianare il battibecco. Non aveva voglia di discutere con Joe ancora e ancora dello stesso argomento.
Se portò il telefono all'orecchio, ascoltando l'uomo dall'altra parte. “Perfetto, arriviamo” disse, facendo un cenno a Ryu. “Ci vogliono in officina. Un problema con i nuovi propulsori della Phoenix.”
 
A grandi falcate raggiunsero l'ascensore ma, una volta dentro, Ken realizzò di non potere più scappare dal sorriso falsamente innocente di Ryu.
“Sei preoccupato” dichiarò il Gufo.
Un ghigno gli sorse spontaneo. Ryu poteva essere silenzioso, ma era bravo a giudicare le persone. “Sono così trasparente?”
“Certo, e conosco quello sguardo.”
Ken incrociò le braccia davanti a sé, fissando il suo riflesso sulla lucida superficie della cabina. “Non mi piace questa situazione. Questa atmosfera di tensione nel gruppo rischia di creare danni irreparabili. È molto pericolosa. Il nostro... non è un lavoro normale.”
“Lo so, sono preoccupato anche io.”
Ken annuì. “Era lei, sai? Era Jun che ci teneva insieme, che smussava le tensioni tra di noi. E ora è diventata parte del problema. E sembra stare sempre peggio, nonostante tutte le cure.”
La sguardo di Ryu su di lui si fece pensoso. “E tu non puoi fare nulla per proteggerla, vero?”
Ken sentì il battito accelerare, come quasi mai succedeva sul campo di battaglia.
La mano di Ryu calò sulla sua spalla. Era grande e forte, confortante come quella di un padre.
“Non la vuoi perdere. In nessun modo. É comprensibile, dopotutto siete stati così vicini per tanti anni.”
Ken abbassò gli occhi. Non gli era facile parlare di quell'argomento. “Prima... era tutto facile. Gli allenamenti, le lezioni, le prime missioni… eravamo ragazzini.”
“Poi qualcosa è cambiato, no?”
“Sì” ammise.
L'ascensore era arrivato, ma Ken colpì bruscamente il pulsante che manteneva chiuse le porte.
“Sono stanco, Ryu. Stanco di sentire pettegolezzi. Sai che dicono di lei? Che sapeva cosa sarebbe successo quando ha morso quel Galactor, e che l'ha fatto apposta per non essere l'unica al mondo con questa malattia. Come se avesse potuto scegliere.” Scosse la testa .”Mi consolava quello che ci aveva detto Nambu, che con un altro paziente da studiare avrebbero potuto curarla meglio. Invece lei sta sempre peggio, mentre quel bastardo è in piena forma. Perché Ryu?”
Un pallido sorriso reclamò le labbra di Ryu. “Non lo so, Ken, ma dobbiamo avere fiducia in Nambu e nella scienza. E dobbiamo avere fiducia anche in Jun. È una che è abituata alle battaglie vere, a rischiare la vita. Io non starei a preoccuparmi delle voci di corridoio, si può difendere da sola, come ha sempre fatto.”
Ken distolse lo sguardo, non completamente convinto.
'Lo pensano tutti. Che lei è forte. Che non ha bisogno di aiuto. Ma perché quando la guardo mi sembra che stia per andare in pezzi da un momento all'altro? È solo la mia immaginazione? Che faremo, se succederà veramente?'
 


“Sylvie, posso chiederti una cosa?”
“Tutto quello che vuoi, Jun.”
“Cosa succederebbe se non prendessi tutte le medicine che mi somministrate? O se non le prendessi in parte?”
Jun sbirciò l’espressione dell’assistente di Nambu. La donna non aveva alzato gli occhi dal foglio che stava compilando. Aveva incassato bene la domanda diretta, ma a Jun non era sfuggito quanto fosse sorpresa. Ringraziò le sue capacità, per una volta.
“E perché vorresti fare una cosa del genere?”
Rispondere ad una domanda con un’altra domanda; Jun odiava quel modo di condurre una conversazione. La faceva sembrare una bambina che aveva chiesto la cosa sbagliata ad un adulto. In quel caso, forse era proprio così.
“Non so, era solo per dire. Così… interesse puramente scientifico.”
Finalmente la dottoressa Pandora si degnò di guardarla. “Moriresti, cara, questo è certo.”
Jun avrebbe voluto dirle che non sembrava che Erlik stesse esattamente passando a miglior vita, ma si trattenne. Non pensava che lui le avesse mentito, ma non voleva nemmeno dare adito ad ulteriori pettegolezzi. Ci mancava solo che la accusassero di connivenza con il nemico.
Cercò di dissimulare il suo interesse per la questione, cambiando discorso. “Lo so, e di certo non voglio che succeda. Ma, dimmi, nelle ultime settimane ho visto delle persone nuove aggirarsi qui sotto. Chi sono?”
“Si tratta dello staff della professoressa Aruna Pawar. È una luminare della virologia, addirittura in odore da Premio Nobel! Sai, lei e Nambu si conoscono da anni, la Pawar era una delle sue insegnati di dottorato.”
“E che ci fanno qui?”
Pandora sembrava entusiasta, ma Jun non sapeva che pensare. Non aveva abbastanza scienziati e medici l’ISO?
“Lei e il suo staff studiano il tuo caso da anni. È a loro che si deve il protocollo di cure che stai seguendo.”
“Oh… nessuno mi ha detto nulla.”
Per qualche ragione Jun si sentì contrariata, come se le avessero nascosto un’informazione importante. Non le piaceva molto l’idea che fuori dall’ISO qualcuno fosse a conoscenza del suo segreto.
Sylvie Pandora sembrò leggerle in faccia tutto il suo malumore. Erano sedute attorno ad una scrivania, e la donna allungò una mano per prenderle la sua, stringendo leggermente.
“Non starò a giustificare Nambu, ma neppure io sapevo niente fino a poco tempo fa, e considera che sono la sua assistente. Ti posso dire, però, che la professoressa è arrivata a inizio luglio, molto motivata. Ha espressamente chiesto di continuare qui le proprie ricerche, e io credo che possa essere vicina a scoprire la natura del virus che ti ha colpita.”
La risposta di Jun fu sconsolata. “Ho già sentito questa storia. Non è la prima volta che ci adiamo vicino, no?”
“Certo, ma mai così tanto. Non voglio darti false speranze, ma il problema dei ricercatori è che avevano un solo Paziente Zero: tu. Adesso siete in due, e hanno potuto ampliare l’indagine. Magari sono riusciti a scoprire come avviene la replicazione virale e, possibilmente, ad individuare il gene responsabile della vostra sopravvivenza.”
“Mi interesserebbe di più una cura…”
“Quella verrà di conseguenza. Ora, però, dobbiamo continuare con la terapia. Ecco qui le tue nuove pillole. Una al mattino e una alla sera, al posto di quelle che prendi ora. Sto aspettando i risultati di alcune analisi, rivediamoci domani mattina, se è andato tutto bene potrai già riprendere i tuoi allenamenti.”
Jun ne dubitava. Si sentiva davvero a terra. Senza commentare, prese la scatola che Pandora le allungava, e la scrutò con sospetto. Forse avrebbe dovuto seguire il consiglio di Erlik e buttarle via, ma non se la sentiva. Aveva imparato nei lunghi anni di guerra con i Galactor che i loro consigli erano sempre deleteri.
 


“Così le ha prese senza reagire.”
La dottoressa Pandora annuì. “Sì, non ha chiesto dettagli né spiegazioni.”
A Nambu la cosa non stupì. Era una brava ragazza, abituata ad obbedire agli ordini.
“È solo metà della dose abituale” il Direttore commentò. “Secondo la Pawar, dovrebbe immediatamente sortire qualche effetto.”
“Permettimi di dire che non amo molto questi sotterfugi. Avremmo dovuto avvertirla.”
“E perché? Non voglio darle false speranze, e spero che i risultati dei test siano positivi, così potrà tornare in campo.”
“Lo capisco, ma non mi piace comunque quello che le stiamo facendo, le stiamo nascondendo troppe cose.” Pandora, che era rimasta in piedi davanti alla scrivania di Nambu, si strinse le mani tra loro. “Perché non le possiamo dire dei progressi che abbiamo ottenuto con l'arrivo di Erlik?”
“Perché non voglio spaventarla” dichiarò lui, forse con un po' troppa forza. Vide la sua assistente trasalire. “Scusa, non è un richiamo, ma hai visto anche tu i risultati preliminari, no? E' vero che siamo vicini alla scoperta della natura del virus, ma i risultati non sono per nulla consolanti.”
“Non credere che non capisca... prima o poi glielo dovremo dire, però. È molto sfiduciata in questi giorni.”
“Per questo spero che rientri in servizio il più presto possibile. Le darebbe sicurezza tornare a fare quello che sa fare meglio.”
“Non è un po’ presto?”
Il Direttore dell’ISO sorrise al tono seccato di Pandora. Stava passando per un senza cuore, e non avrebbe voluto.
“So che fisicamente non è al 100% ma, ancora di più, è psicologicamente debilitata dalla forzata reclusione qui. I medici hanno comunque dato parere positivo a che ricominci almeno gli allenamenti” le puntualizzò. “Per ora non se ne parla di missioni. Non voglio che metta in pericolo sé stessa e gli altri.”

Rimasto solo, Nambu rilesse per l’ennesima volta l’email che qualche ora prima la professoressa Pawar gli aveva mandato.
Erano in effetti vicini ad una spiegazione. Una spiegazione che a lui non piaceva per nulla. 

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Capitolo 13
*** Collisione ***


Collisione



Dakar, Base Galactor Wolof, 20 agosto 


Berg Katze osservò soddisfatto la capsula a cilindro che veniva caricata sul mecha di nuova costruzione. Era grande abbastanza per contenere un corpo umano: quella della ragazza-Cigno, se fossero riusciti a catturarla. Il leader dei Galactor si corresse immediatamente. Loro ci sarebbero riusciti, non aveva nessun dubbio in proposito. Sosai X questa volta sarebbe rimasto in contatto telepatico con lui per tutto il tempo, niente poteva andare male.
E quando la ragazza fosse stata lì dentro, Sosai avrebbe potuto comunicare direttamente anche con lei. Il pensiero gli causò un momentaneo moto di gelosia. Lui era il prescelto per guidare gli esseri umani, ma lei sarebbe stata un ottimo strumento.

Lei. La odiava, con ogni fibra del suo essere. E la invidiava a morte. Così... aggraziata, anche nell'uccidere. Lei che era misteriosamente scampata al morbo studiato per sterminare i Techno Ninja, e che Sosai voleva far passare dalla loro parte. Le labbra piene di Berg Katze si curvarono in un sorriso cattivo. Gli ordini del Generalissimo erano chiari: alla ragazza non doveva essere fatto alcun male, ma lui non avrebbe potuto farci nulla se nel processo di catturarla qualche suo uomo si fosse spinto un po' troppo oltre.
D'altronde, bastava che arrivasse a Sosai intatta, no?   

Le sue elucubrazioni vennero interrotte da un sottoposto. L'uomo tossì discretamente per attirare la sua attenzione, guadagnandosi un grugnito scocciato.
“Che c'è?”
“L'Emperess of the Seas ha doppiato lo Stretto di Gibilterra.”
“Ottimo. Completate i preparativi, salpiamo tra otto ore.”
Berg Katze si strofinò le mani guantate tra di loro. I Gatchaman erano caduti nella trappola della portaerei, e ancora di più sarebbero accorsi in questo caso, considerato che avevano come specchietto per le allodole una nave da crociera.
Sulla nave si era imbarcato un noto pubblico ministero, famoso per aver presieduto tanti processi contro affiliati Galactor di punta. Questo avrebbe reso più credibile la trappola. E se nell'azione il tizio fosse morto, Berg Katze non se ne sarebbe certo lamentato.
Era tutto pronto, mancavano solo gli invitati principali.
 


Utoland, International Science Organization, 23 agosto


Ken sbirciò il profilo di Jun con la coda dell’occhio.
Da qualche giorno la sua compagna sembrava rinata. Quali che fossero le medicine che le stavano somministrando, l’effetto era quasi miracoloso. Anche le sue performance erano tornate ai livelli usuali e, soprattutto, era di ottimo umore.
Quando lei gli aveva detto che stava per recarsi in clinica, per sottoporsi al check-up giornaliero, lui aveva approfittato per accompagnarla. Ultimamente l'aveva sentita molto distante. Doveva trovare più momenti da passare insieme, anche con tutti gli altri. Ne andava della coesione del team. 

La guardò sorridere furtivamente, come se stesse assaporando un qualche scherzo segreto.
“Mi sembra che tu sia in gran forma in questi giorni.”
“Decisamente. Ma devo chiedere a Nambu di fare un upgrade a quel robottino.” La osservò accarezzarsi i capelli, e attorcigliarsi una ciocca attorno all'indice. “Oramai mi è diventato facile batterlo, fin troppo.”
“Non sforzarti troppo. Ti sei appena rimessa, e i Galactor non sono comunque a quel livello.”
“Lo so, ma non mi fido di Berg Katze. Chissà cosa può architettare in futuro...” 
Erano intanto arrivati al settore medico dell’ISO. Ken afferrò la maniglia e le tenne aperta la porta.
La seguì, solo per trovarla impalata appena dopo l'ingresso. Il motivo era davanti a loro.
Ken dovette trattenere smorfia infastidita.

Erlik era là, in mezzo al corridoio e a pochi metri da loro, che li fissava a braccia conserte e un'espressione di totale indifferenza calata sul volto.
“Dov'è la tua guardia?” Ken gli chiese ruvido, affiancado Jun.
Il Galactor non sembrò prendersela a male. “Nambu ha deciso che sono grande abbastanza per andare in giro senza.”
L'espressione di Ken dovette essere eloquente, perché Jun gli appoggiò una mano sulla spalla.
“Perché no? Dopotutto si è comportato in maniera ineccepibile da quando è qui” gli disse la ragazza, quasi sottovoce, come se volesse farsi sentire solo da lui.
Ken la guardò esterrefatto. Un campanello d'allarme cominciò a suonargli nella testa.
Scrollò le spalle, tentando di apparire noncurante. “Meglio per lui, allora. Jun, affrettiamoci, sei in terribile ritardo.”
“Aspetta” lo esortò la compagna. Fece qualche passo verso il Galactor. “Ti sei sbagliato. La terapia è cambiata, e io sto meglio.”
Il suo interlocutore la fissò per qualche secondo, senza parlare. Poi Ken lo vide scuotere la testa.
“Non esserne così certa. Ti avranno modificato i dosaggi, e tu non te ne sei accorta.”
Ken non capiva di cosa stessero parlando, ma lo inquietò che Jun facesse un altro passo verso Erlik. Adesso erano proprio vicini. Troppo per i suoi gusti.
“Non puoi dirlo” gli disse lei.
“Hai controllato la dose di principio attivo sulla confezione?”
“Erano scatole bianche.”
“Ma non mi dire...”
Jun strinse i pugni, e Ken decise che ne aveva avuto abbastanza di quella conversazione.

Marciò verso di lei. “Adesso basta, Jun, ti stanno aspettando.”
Senza nemmeno fare finta di vedere Erlik, Ken passò accanto a Jun cercando di prenderle la mano, ma la ragazza respinse delicatamente il gesto. Lo seguì, però, ma non senza un'ultima occhiata al Galactor.
Il campanello nella testa di Ken diventò una sirena che preannuncia un attacco aereo.
Jun era trasparente come l'acqua, e lui aveva visto confusione in quello sguardo. Perché aveva guardato Erlik come se lui potesse aiutarla? 

Accanto a lui, Jun camminava sprofondata nel silenzio. Il cambiamento di umore rispetto a qualche minuto prima era sconsolante. Joe aveva ragione a dire che il Galactor aveva una cattiva influenza su di lei. E quella strana conversazione? Lui non sapeva trovarci un senso.
“Va tutto bene?” le chiese.
Lei scrollò le spalle. “Sì... però, sai, stavo pensando che forse sarebbe il caso che voialtri ragazzi cercaste... ecco, di essere un po' più cordiali verso Erlik. Parlo anche per me, ovvio. Dopotutto è qui da mesi, e non si è mai comportato male. E noi lo trattiamo ancora come un criminale.”
Questo non se l'era aspettato.
“Jun. Nambu stesso ha ordinato al team di non avere nulla a che fare con quel tipo. E anche tu dovresti stargli lontano.”
Sperò che la compagna cogliesse il suggerimento. Come faceva a dirle che era stato proprio lui a consigliare a Nambu di non far parlare nessuno con Erlik, a meno che non fosse assolutamente necessario? E mai da soli.
Sentì la mano di lei sull'interno del gomito. “Aspetta un attimo.” La sentì esclamare.
Si fermò girandosi verso la compagna. L'espressione di Jun era combattiva.
 
“Non posso, Ken! C'ho provato. L'ho evitato per tutto questo tempo. Ma adesso basta. Me ne sono fatta una ragione, sai. Non si torna indietro dai propri errori, e forse è davvero una buona cosa, per me, che lui sia qui.”
Per Ken, fu come se un blocco di ghiaccio gli si fosse posato sullo stomaco. La fronteggiò, allarmato da quello che aveva appena sentito.
“Dal punto di vista clinico, sì. Ma non affezionarti troppo a lui, Jun. Ricordati che quando la ricerca sarà terminata, quando non avranno più bisogno di lui, lo rimanderanno in prigione.”
Lei aggrottò le sopracciglia. “Cosa? Nessuno mi ha detto niente. Perché dovrebbero fare una cosa del genere? Non ha mica ucciso nessuno.”
Di tutto si sarebbe aspettato, Ken, meno di sentirla difendere quel Galactor. Non gli piaceva affatto.
“Non lo sappiamo, Jun. Finora abbiamo solo la sua testimonianza. Non è abbastanza. Dovrà subire un processo, come tutti gli altri suoi compagni. Ricordati quando l'hai trovato e che divisa vestiva.  Non è speciale solo perché ha contratto la tua stessa malattia, sai?”
“Certo che lo so” gli rispose lei, abbassando gli occhi. La vide mordersi il labbro inferiore. “Ma fino a quel momento possiamo però cercare di essere più civilizzati nei suoi confronti, no?”
“Ci proverò” mentì lui. “Ma non garantisco lo stesso per Joe.”
“Grazie. Significa tanto per me.”
Si incamminò lungo il corridoio, da sola, e Ken rimase a guardarla, ipnotizzato dall'ondeggiare delle sue ciocche.

Non gli piaceva come si stava sentendo, e ancora meno gli piaceva averle mentito. Fu distratto dal bip del comunicatore che aveva al polso. Era Joe che gli ricordava che avevano programmato per quell'ora una sessione di allenamento al poligono, e lui era in ritardo.
Ken si precipitò a raggiungere l'amico. Sicuramente sparare a sagome di cartone avrebbe risollevato il suo umore.
 


Non ce l'aveva fatta a non raccontare a Joe quello che era successo in clinica. Era il suo migliore amico, praticamente un fratello, nonostante spesso discutessero, anche violentemente. Aveva qualche remora a parlare chiaramente di come si sentiva con Nambu, con Joe invece non aveva quel problema.

“Forse sarei dovuto intervenire, tu che dici?” gli chiese.
Nello stallo accanto al suo, Joe piazzò una pallottola in testa al bersaglio, sagomato come un soldato Galactor. La sua mira era sempre stata impeccabile.
Il compagno abbassò l'arma e, prima di rispondergli, sganciò il caricatore e prese ad esaminare criticamente il silenziatore dell'arma.
“Se volevi buttarla nelle sue braccia era proprio la cosa che dovevi fare.”
L’ultimo colpo che Ken si era preparato in canna mancò clamorosamente il bersaglio. Il comandante dei Gatchaman guardò scandalizzato l'amico.
“Non ho mica paura di quello.” 
Joe sogghignò, ricaricando la sua arma. “E di cosa altrimenti? Che ogni tanto si facciano una chiacchierata?”
“L'hai detto anche tu che il Galactor ha una brutta influenza su di lei.”
“E lo confermo. Però tu hai paura di una cosa diversa. Te lo si legge in faccia.”
Joe ricominciò a sparare. Cinque colpi cinque centri, gli comunicò il computer collegato ai bersagli.
Ken invece si stava spazientendo. “La metti giù come se io reputassi quel tipo un mio rivale, ma non è così.”
“Ah no? Però ti scoccia sapere che stanno facendo amicizia, vero? Beh, non hai tutti i torti, dà fastidio anche a me. Non mi piace che ci parli. E l'idea che ci possa anche fare altro mi fa accapponare la pelle.”
Ken infilò con violenza il caricatore nel calcio. Non voleva nemmeno sentire parlare di una cosa del genere. “Non succederà mai. Si detestano.”
Altri cinque colpi, altri centri da parte di Joe. Ken invece non sembrava riuscire a colpire altro che l’aria.
Il suo secondo esalò un sospiro di rassegnazione. “Ken, avessi avuto un dollaro per tutte le volte che ho sentito una cosa del genere, di due che poi sono diventati amanti, a quest'ora sarei ricco.”
“Sia Nambu che Jun stessa ci hanno raccontato del loro colloquio, no? Non è andata tanto bene.”
“È stato mesi fa, Ken, magari qualcosa è cambiato.” Joe scaricò di nuovo il caricatore, e lo posò sul banco davanti a lui, insieme alla pistola. Poi si girò verso il suo Comandante. “Anzi, te lo dico perché tu o non te ne sei accorto, o stai facendo finta di niente. È cambiato come si guardano. Lui la osserva come se si aspettasse qualcosa da lei, mentre quando è arrivato qui la squadrava come se vedesse un succulento pezzo di carne. Mentre Jun lo studia come se lui avesse la risposta a tutti i suoi problemi, quando all'inizio si girava disgustata non appena lo incrociava.”
“Sei un osservatore.”
“Mica tanto. Ti ho riferito quello che mi ha detto la dottoressa Pandora; Sylvie è più sensibile di me, ma io sono d’accordo con lei.” 
Ken piazzò un altro colpo a vuoto. Non poteva essere vero. “Jun non ha gusti così turpi.”
Scuotendo la testa, Joe raccolse pistola e caricatore e si preparò ad uscire. “Sarà... certo che te la stai lasciando sfilare da sotto il naso senza fare un cazzo.”
Il comandante dei Gatchaman sbuffò, alterato dalla piega che aveva preso la conversazione. “Io non c'entro, te l'ho già detto.”
“Balle. Quanto ci hai messo ad accorgerti di lei? Dieci anni? E hai fatto di tutto per schivare le sue attenzioni, anche se ti piaceva, mettendo la missione davanti a tutto. Da quanto è qui quel bastardo? Tre mesi? A differenza tua non ha mai nascosto di essere attratto da lei, forse è questo che sta affascinando Jun.”
La rabbia ribollì dentro Ken. Non rivolta verso Joe, ma verso il maledetto Galactor.
“Ti ripeto che lei non prova niente per lui.”
“Per ora.”
“E io che cosa dovrei farci, secondo te?”
“Parlale. Oppure... potresti considerare finalmente di dichiararti. Tanto è chiarissimo che ti piace ancora, e che sei geloso.”
Ken si sentì arrossire. Non pensava che quello che provava per Jun fosse attrazione romantica, però ricordare la scena a cui aveva assistito poco prima gli faceva male.
“Joe. Le ragioni per cui non era opportuna una nostra relazione ai tempi sono valide anche ora.”
“Lo so, ma meglio tu che quel Galactor, non ti pare? Avanti, Ken, siamo tutti soldati, no? Pensa come tale. Strategia, obiettivo, motivazione. Se vuoi riprenderti Jun, è il momento di metterle in pratica.”
Le mani di Ken si strinsero attorno al calcio della pistola, che teneva sollevata verso il bersaglio. Il suo ultimo colpo.
L'Aquila tirò il grilletto e, questa volta, il colpo trovò la fronte del bersaglio. Ken fissò la sagoma furente. Perché prima che arrivasse Jun non aveva incontrato lui quel dannato? Gli avrebbe spaccato il cranio come agli altri suoi compagni, e tutto questo non sarebbe successo.

In quel momento dall'altoparlante la voce di Nambu lo scosse dalle sue fantasie omicide.
“Squadra G. a rapporto immediatamente nel mio ufficio.”  
 
Dimentico dei problemi, il Comandante dei Gatchaman si precipitò con Joe dal Direttore.
  
 

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Capitolo 14
*** Trappola ***


Trappola



Al largo di Capo Verde, 24 agosto


Ci vollero due ore di volo, in parte orbitale, perché la Phoenix arrivasse a destinazione, quindici miglia a nord di Capo Verde.
L'Empress of the Seas giaceva immobile sotto l'aeromobile dei Techno Ninjia, baciata dal sole di un bellissimo mattino di tarda estate. Non era la più grande nave da crociera esistente, ma era lunga comunque più di duecento metri. Tuttavia rimpiccioliva drammaticamente di fronte dalla stazza del mecha Galactor immerso sotto di lei, chiaramente visibile dall'alto. Il mostro, un incrocio tra una manta ed un crostaceo, tratteneva la nave grazie a quattro braccia meccaniche che si protendevano fuori dall'acqua, penetrando lo scafo della Empress appena sopra la linea di galleggiamento.
Ken osservò criticamente i danni causati. Quegli squarci non sarebbero stati un problema fino a quando, paradossalmente, il mecha non si fosse mosso. Quello, però, era un dilemma a cui avrebbero pensato dopo.
“Ryu, rapporto” ordinò al compagno di squadra.
“I sensori hanno completato la scansione. La maggior parte dei passeggeri sono stati radunati nel grande salone centrale. C'è qualche sacca sparsa qua e là, ma si tratta di poche unità.”
Ken annuì.

Quando Nambu li aveva informati erano già passate tre ore dell'arrembaggio. Le richieste di aiuto dalla nave erano state inviate immediatamente, ma le truppe ordinarie arrivate dalla terraferma non avevano potuto fare nulla davanti alla superiore tecnologia e potenza di fuoco dei Galactor. Quello era un lavoro per la squadra Gatchaman.
Erano partiti temendo il peggio, e durante il volo il quartier generale li aveva avvertiti di quale poteva essere il probabile bersaglio dei terroristi: la cattura di Andrea Lorenzoni, l'attuale presidente della Corte Penale Internazionale dell'Aja, che aveva giurisdizione sui criminali Galactor catturati intorno al mondo.

Non dovevano ancora averlo trovato tra i duemila passeggeri, giudicò Ken; il mecha era tuttora ancorato saldamente alla nave, ma probabilmente avevano poco tempo. Purtroppo non c'era modo di sapere cosa stesse succedendo a bordo, le comunicazioni radio e dati impedite dai disturbatori di frequenze dei terroristi.
“Jun, Joe, Jinpei. Formazione a tenaglia. Jun, con me sul ponte di dritta, Joe con Jinpei a sinistra.”
Pronto a tutto, Ken si sporse dal portellone destro della Phoenix, la sua nuova arma saldamente ancorata alla schiena per non intralciarlo nei movimenti. Jun lo affiancò, e il Comandante dei Gatchaman non riuscì a non guardarla.

Convinto che le servisse ancora tempo per recuperare, Ken non l'avrebbe voluta in quella missione, ma lei aveva insistito, fin quasi all'insubordinazione. Nambu, di malagrazia, o così era parso a Ken, aveva alla fine acconsentito.
Nonostante la sua opposizione, a Ken non era comunque mai sembrata così in forma, e così concentrata sull'obiettivo. Il Cigno fissava la nave sotto di loro come ipnotizzata, in volto un'espressione che lui non le aveva mai visto. Sembrava in tutto e per tutto un predatore a caccia.

Una volta completata quella missione avrebbe dovuto parlarle sinceramente, come non aveva mai fatto prima. Quello che le stava succedendo lo spaventava, ma non poteva lasciarla a percorrere quella strada da sola; anche se non avesse avuto un interesse personale nella vicenda, doveva ricordarsi che la coesione del team era sulle sue spalle. Se lei cadeva, cadevano tutti loro.
Le mise una mano sulla spalla, e la ragazza ci impiegò un secondo di troppo a girarsi verso di lui.
“Ken?”
“Contiamo su di te.”
“Lo so” lei gli rispose sicura, scoccandogli un sorriso ferale.
Poi si librarono insieme in aria, calando come rapaci verso la nave.

Ken colpì morbidamente la superficie del ponte, e con la coda dell’occhio vide la sua compagna fare altrettanto. Il fuoco cominciò immediatamente. Quasi danzando evasero le raffiche provenienti dai soldati di guardia sui ponti esterni della nave, cercando con traiettorie incrociate, e finalmente trovando, un accesso che li portasse all’interno.
L’Aquila si lanciò attraverso i corridoi, incontrando poca resistenza, Jun dietro di lui.


Sul display incorporato nel visore del casco gli apparve la localizzazione del salone principale, e la posizione dei soldati Galactor che lì stazionavano. Non erano molti. I due Techno Ninja sbucarono nella sala contemporaneamente ai loro compagni, che apparvero dal lato opposto.
Non c’era tempo di pensare, dovevano liberarsi dei Galactor prima che questi cominciassero a sparare sugli ostaggi. Come avevano previsto, i terroristi, disorientati, divisero le forze per cercare di colpirli. Niente di più stupido.
Ken ne aveva abbattuti una mezza dozzina quando Jun richiamò la sua attenzione.
“Ken, verso la prua, a destra!”
L'Aquila seguì l'indicazione. Sul fondo della sala che dava verso la prua della nave, un gruppo di cinque persone si era alzato e aveva appena gettato gli abiti, rivelando delle divise da Black Bird. Repentinamente si mossero verso uno dei corridoi, trascinando un civile con loro.

“Jun, come me. Pensiamo noi ai Black Bird. Joe, Jinpei, rimanete a bonificare l'area, poi raggiungeteci.”
Si fecero strada velocemente verso il punto dove erano scomparsi i Galactor in nero, senza incontrare resistenza, gli altri terroristi completamente impegnati a contrastare il Condor e la Rondine.
Presero il corridoio, che fortunatamente non aveva altre diramazioni. Gli ci volle poco per scoprire da che parte si erano diretti i Black Bird: davanti a loro la paratia destra era sfondata dal braccio di arrembaggio del mecha nemico.
Ganci di metallo assicuravano il braccio alla parete e, quando vi furono davanti scoprirono, come Ken aveva supposto, che il braccio stesso era cavo. Un tunnel dal diametro abbastanza ampio perché potessero stare in piedi sprofondava nell'oscurità. Non era molto rassicurante, ma non potevano fare altro che proseguire.

L'unico dilemma di Ken era solo se aspettare o meno i loro compagni di squadra, ma fu risolto dall'arrivo di Joe.
Il Condor, combattivo, fece un cenno verso il tunnel. “Qui sopra abbiamo ripulito. Ho lasciato Jinpei con l'equipaggio, li aiuterà a ripristinare le comunicazioni. Noi che si fa?”
Per Ken gli ordini che avevano ricevuto erano chiari. “Non possiamo lasciargli l'ostaggio. E abbiamo già perso troppo tempo. Scendiamo. Jun dopo di me, Joe chiudi la fila e guardaci le spalle.”
“Roger” risposero i compagni all'unisono.

La discesa fu abbastanza agevole, nonostante il tunnel scendesse in verticale ad un certo punto, con pareti lisce che non offrivano nessun appiglio. A Ken non era chiaro come i Black Bird fossero riusciti a percorrerlo con un civile in spalle.
L'ostaggio, comunque, ad un certo punto doveva essersi ferito: il rilevatore incorporato nel visore di Ken riscontrò una traccia ematica sulla parete. Avrebbe reso più facile la ricerca, anche se l'Aquila non era completamene tranquillo; quella situazione puzzava di trappola, ma non potevano fare altro che proseguire.
Sul visore scorrevano anche i dati mandati dalla Phoenix: erano ad una decina di metri dalla fine del percorso.
La voce di Ryu gracchiò nei loro auricolari. I sistemi di jammer riuscivano a disturbare anche le loro comunicazioni, anche se non a impedirle del tutto.
“Una volta dentro non riuscirò più a seguirvi. L'armatura stealth del mecha blocca qualunque segnale. Sarete completamente soli.”
Ken annuì. “Grazie per l'informazione. Tieniti comunque pronto all'estrazione.”

Dopo qualche minuto uscirono nel corpo del mecha. Le comunicazioni con la Phoenix si interruppero, ma dell'ostaggio e dei Black Bird ancora nessuna traccia.
Ken e Jun sfoderarono le loro spade, e Joe estrasse la pistola.
“Proseguiamo” ordinò. “Massima attenzione.”

Presero il primo passaggio alla loro sinistra: si inoltrava nel ventre del mecha, la traccia ematica portava lì. Non fecero molta strada però, prima che truppe in verde gli furono addosso.
L'adrenalina della battaglia cancellò in Ken ogni residuo di cautela.
“Andiamo” ordinò, lanciandosi per primo contro i soldati.

Ne sbucavano da ogni angolo, ma offrivano poca resistenza. D'altronde non era facile per truppe regolari resistere all'impatto con i tre migliori guerrieri dell'ISO: addestrati, ben armati e motivati.
Ken teneva discretamente d'occhio Jun, notando come la ragazza tendesse a colpire gli avversari con l'impugnatura della spada, o con il piatto della lama, cercando di stordirli e non di ucciderli. Era la prima volta che le vedeva fare una cosa del genere, e non riusciva a trovarne la ragione.
Dopo aver spacciato l'ultimo gruppo, in un momento di relativa calma, se la trovò che gli correva in fianco. Il Cigno aveva le labbra tirate, sbiancate dalla tensione.
“Jun, va tutto bene?”
“Sì.”
Stava mentendo, era chiarissimo.
“Non mi sembra.”
La ragazza fece un gesto noncurante con la mano libera. “È l'odore del sangue Ken, non l'avevo mai percepito così forte. Sto cercando di trattenermi, di non tagliarli, ma non è facile.”
Jun aveva tenuto la voce bassa, come se non volesse essere sentita da Joe. La brutta sensazione che Ken aveva avuto durante la discesa ritornò, confermata dalle successive parole del Cigno.
“E questo rumore in sottofondo mi disturba. Sembra una trasmissione radio...”
Ken aggrottò le sopracciglia. “Quale rumore?”
Lui non sentiva assolutamente nulla, ma non ci fu tempo di chiedere altro. Il passaggio improvvisamente terminò, aprendosi su una vasta sala vuota, illuminata a giorno e coperta dal soffitto al pavimento in larghe piastre metalliche. Una passerella correva lungo un lato, circa a metà dell'altezza della sala. Non c'erano aperture eccetto una porta, chiusa, che dava sulla balconata.
Ken aveva già visto strutture simili nelle basi Galactor; i terroristi sembravano esserci affezionati. Segnalò agli altri di avanzare con cautela, preoccupato per l’inesistenza di un qualunque riparo. Di solito, ad un certo punto delle loro azioni, balconate simili si riempivano d soldati.
“È l’unica via?” chiese il Condor affiancandosi, la pistola pronta a sparare al suo fianco.
Ken annuì lentamente. “Sì, deve essere un qualche sorta di baia cargo. La traccia ematica porta dall'altra parte. É molto lieve, l'ostaggio non dovrebbe star perdendo troppo sangue, ma dobbiamo trovarlo in fretta. Andiamo, state all'erta.”




Jun rinfoderò la spada e avanzò con cautela, la sua concentrazione ancora disturbata da un curioso ronzio che aveva avvertito appena entrata nel mecha; le era sembrato quasi come elettricità statica, anche se era sicura di poter distinguere delle parole in quel brusio.
Si guardò attorno. “Sanno che siamo qui, perché non ci hanno ancora attaccati?” chiese a nessuno in particolare.
“Perché è una trappola Jun” le rispose la profonda voce da basso di Joe.
“Prestate la massima attenzione. Siamo osservati” raccomandò a tutti Ken.
Jun non riuscì a sopprimere un brivido. La situazione era simile a quando l’avevano rapita, una vita prima.
Come se qualcuno nel buio la stesse ascoltando, qualcosa improvvisamente accadde.

Senza nessun suono di avvertimento i pannelli che componevano il pavimento si divisero sotto i Techno Ninja, che saltarono per non cadere, librandosi in volo per raggiungere la passerella.
Distratta dal rumore di fondo che ora sembrava urlare nella sua testa Jun prese il volo completamente scoordinata, realizzando immediatamente di avere commesso un errore.
‘Devo scendere, non ho nulla a cui aggrapparmi’ realizzò.
Dall’alto vide le piastre riconfigurarsi lungo nuove linee.
Cominciò a sentire il corpo pesante e le ali perdere il sostegno dell’aria. Atterrò sicura ma il suolo sembrò accompagnare il suo movimento, collassando sotto il suo peso.
Perse l’equilibrio, mancando il momento per riprendere il volo.
L’intera porzione di pavimento sotto e attorno Jun si inclinò sul suo asse, facendola scivolare nel vuoto. Lei allungò le braccia ma le piastre sembrarono dissolversi sotto i suoi palmi, e le sue mani colpirono il nulla
Istintivamente gridò, una nota acuta che superò l’orlo della trappola prima che si richiudesse sopra di lei, riverberando attraverso la stanza. Poi con uno schiocco la sezione ricadde al suo posto, indistinguibile da decine di altre sue compagne.

L’urlo raggiunse Ken nel momento stesso in cui atterrava sulla balconata. Allertato si guardò indietro, a malapena cosciente che Joe aveva anch’esso raggiunto la salvezza.
“Jun?” chiese selvaggiamente.
Joe non rispose, si girò invece verso la sala, le mani che si aggrappavano a parapetto.
Velocemente Ken scrutò la vuota superficie sotto di loro. Jun non si vedeva da nessuna parte.
“Joe, scendiamo a cercarla.”
Il Condor lo fissò, il visore che nascondeva la sua espressione.
“Ti rendi conto che la loro trappola è scattata?”
“Lo so, e di certo non gliela voglio lasciare.”
Era pronto a sollevare quelle piastre a mani nude pur di ritrovarla.
Per un momento vide Joe inclinare la testa da un lato, poi il Condor si girò ad osservare il suolo sotto la balconata e la smorfia severa che aveva teso le sue labbra scomparve.
Con gli occhi che seguivano lo sguardo del Condor, Ken udì l’amico imprecare.

Aperture si erano create nel pavimento metallico, ed eruttavano nella sala geyser di acqua.
Ken strinse forte il corrimano. “Si stanno preparando ad immergersi. Questa è una camera di zavorra!”
Joe non perse tempo. “Andiamocene. Non c'è altro che possiamo fare, per ora!”
Estrasse la pistola. Le sue pallottole colpirono la porta che rimase intatta dopo la tempesta di metallo. Frustrato il Condor schiantò contro di essa tutto il suo peso, ma inutilmente. La porta sembrò impenetrabile.
Ken unì i suoi sforzi a quelli dell'amico, e finalmente l'apertura cedette.
Con un ultimo sguardo di rimpianto al lago che si stava formando dietro di loro, i due Gatchaman si allontanarono dalla trappola.




Le labbra ricoperte da uno spesso strato di gloss di Berg Katze si stirarono in un sorriso vizioso, mentre osservava i suoi più cari nemici volare lungo i corridoi.
“Lord Berg Katze. Stanno accedendo al condotto A7. Dobbiamo intrappolarli là?” gli chiese un addetto.
La maschera dalle orecchie a punta oscillò, mentre il suo proprietario considerava il problema.
“No” disse alla fine. “Lasciateli andare, abbiamo il Cigno e per questa volta è sufficiente. E scaricate in mare l'ostaggio, non ci serve più.”
Poi spostò lo sguardo sulla solitaria e bagnata figura, che reclinata su un lato sbucava da un monitor. La ragazza era inconscia.
A quella dolcissima vista Berg Katze rise, un suono senza la minima traccia di gioia che gelò il sangue di tutti i presenti.

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Capitolo 15
*** Contatto ***


Contatto



Utoland, International Science Organization, 25 agosto


“Mi avete davvero deluso.”
Potevano anche essere i migliori guerrieri in circolazione ma Nambu, quando ci si metteva, riusciva ancora a farli sentire come i ragazzini impacciati dei primi giorni di addestramento. Mortificato, Ken abbassò la testa. Come era stato possibile quel disastro?
Il Direttore dell’ISO fissò lui e i suoi compagni.
“Vi ho insegnato ad essere perfetti. Niente altro può sopravvivere là fuori. E voi avete fallito.”
Dietro a Nambu un schermo raccoglieva gli elementi emersi durante il debriefing con gli esperti di Utoland, evidenziando i due fattori che avevano condotto a quella débâcle: troppa sicurezza nelle abilità di Jun di sfuggire ad ogni trappola postale da Berg Kazte, e una incosciente sottovalutazione dei propri nemici.
Sorprendentemente, i Galactor avevano imparato dai propri errori, ed essendo lei il loro primo obiettivo, erano infine riusciti nel proprio intento.
Questo, senza contare l'ostaggio ucciso. Non il bersaglio che avevano identificato, ma un pover'uomo preso a caso tra la folla, usato come esca per farli cadere nella più stupida delle trappole.
 
“Dottor Nambu? Sarà ancora viva?”
La tremolante voce di Jinpei si fece udire a stento. Jun per lui era come una sorella, e quasi una madre. Era distrutto.
Il Direttore dell'ISO annuì. “Certo. E anche questo è stato un nostro errore di valutazione. Eravamo convinti che cercassero di ucciderla, non che volessero catturarla.”
Gli occhi del ragazzo più giovane di riempirono di lacrime. “Dobbiamo trovarla, chissà che le staranno facendo.”
“È la nostra priorità” gli rispose Nambu. “Ma adesso è essenziale rimanere calmi. Abbiamo bisogno di tempo per preparare la nostra prossima mossa, e dobbiamo pianificala con cura.”
Era la cosa più sensata da fare, ma non voleva dire che per Jinpei fosse quella giusta.
Ken lo sentì soffocare un singhiozzo, poi la Rondine si alzò in piedi di scatto. “Vuol dire che non andiamo a salvarla?” il ragazzino esclamò sconcertato.
La risposta del Direttore fu netta. “Per ora no. Non possiamo rischiare altri di voi.” 
A quel punto Ken decise di intromettersi. Fosse stato per lui si sarebbe già precipitato a salvare Jun, ma sapeva che Nambu aveva ragione. “E quindi, cosa faremo esattamente?”
“Per prima cosa dobbiamo rintracciare il mecha Galactor.”
Nambu richiamò una mappa sul video dietro di lui. Era una carta nautica del medio Atlantico. “Il loro mecha naviga in immersione verso nord. Alla velocità alla quale procedono dovrebbero raggiungere l'arcipelago delle Azzorre tra una settimana.”
“Non pensavo riuscissimo a seguirli” commentò Joe, l'unico che sembrava aver mantenuto la calma, e per niente disposto a farsi intimidire da Nambu.
 
Il Condor se ne stava stravaccato sul divano a braccia conserte, fissando la cartina davanti a lui. Per Joe non aveva mai senso rimuginare troppo sugli errori passati. L'importante era la mossa successiva.
“Il loro sistema di propulsione genera un particolare rumore di fondo che le boe per la rilevazione dei terremoti sottomarini riescono a captare” spiegò Nambu. “E inoltre ogni quattro ore circa riemergono, viaggiando per una decina di minuti in superficie prima di inabissarsi di nuovo”
Ken incrociò le braccia davanti a sé. Non gli piaceva per nulla, sembrava congegnato apposta. “Idee sul perché lo facciano?”
Nambu pareva ugualmente sospettoso. Fissava la mappa tormentandosi con una mano i baffi. “L'unica spiegazione è che nell'abbordaggio abbiano subito danni al sistema di riciclo dell'aria, o all'impianto di raffreddamento del reattore. Non vedo altre ipotesi.”
“Oh, avanti, è chiaramente una trappola.” Joe invece non sembrava avere nessun dubbio in proposito. “Ci stanno segnalando la loro presenza come se sventolassero un drappo rosso, e noi non vediamo l'ora di abboccare.”
“Lo so, è palese che ci stiano aspettando. D’altro canto lei è troppo importante per noi, ma stavolta non possiamo essere avventati. A parte il problema di salire a bordo, rimane quello di trovarla una volta dentro il mecha.” Il Direttore indicò lo schermo, che ora mostrava altri grafici. “Abbiamo esaminato i dati dei vostri comunicatori. A bordo tutte le trasmissioni sono compromesse, compreso il segnale GPS del vostro braccialetto. Non potrete rintracciarla attraverso il localizzatore, e il mecha è gigantesco. Dobbiamo trovare il modo di risolvere questo problema prima di inviarvi in missione; non potete perdere le ore a bordo nel tentativo di trovarla.”
“Ma siamo sicuri che sia ancora lì?” chiese Ryu.
“Sì. La flotta di supporto della NATO ha segnalato che nessun vascello o mini-sommergibile ha lasciato il mecha.”
Ken sospirò. L'idea che Jun fosse prigioniera lo uccideva. Lo consolava solo il pensiero di sapere dove fosse, e che essendo il corpo di Jun altamente infetto, forse non avrebbero rischiato di morire solo per violentarla. D'altro canto, con quei criminali non si poteva mai sapere...

Fissò con odio la nave nemico sullo schermo. Lui era d’accordo con Jinpei, e soffriva allo stesso modo. Sarebbe andato a recuperarla anche subito, anche da solo, anche contro gli ordini di Nambu.
Non avrebbe mai pensato un giorno di riuscire a capire Joe, e tutte le volte che il Condor aveva fatto di testa sua, tutte le volte che aveva messo in pericolo una missione per correre dietro ai suoi fantasmi.
Il Comandante dei Gatchaman abbassò la testa, desiderando, per la prima volta nella sua carriera, di mandare al diavolo la disciplina.
 


Mecha Galactor, qualche ora prima


Berg Katze accarezzò quasi sensualmente il sarcofago contenente il corpo della ragazza-Cigno.
La Techno Ninja aveva addosso la sua divisa alata; giusto le penne erano un po' arruffate, giudicò il leader dei Galactor, ma per il resto non aveva altri danni.
Il suo viso appariva rilassato. Sotto le luci del laboratorio il visore aranciato, foggiato come il becco di un cigno, sembrava quasi trasparente. Gli occhi erano chiusi, e la bocca semiaperta lasciava intravedere i denti bianchi.
Zoltar sentì un’ondata di eccitazione invadere il suo corpo. Quei denti, molto più appuntiti del normale, facevano paura. Così come la pelle sbiancata, e le abitudini alimentari che i primi, sommari esami medici avevano confermato.
A prima vista quella ragazza sembrava normale, ma in realtà era un mostro, non molto dissimile da quello che anche lui era. Il pensiero lo fece sorridere.
Il biondo leader dei Galactor avvertì la presenza di Sosai X al margine della propria coscienza. Rilassandosi diede il benvenuto all’essenza del suo creatore.
“Avete fatto un buon lavoro, questa volta. Lei... è davvero bellissima.”
“Perché non ha lasciato che la interrogassimo prima di chiuderla nel sarcofago?”
Seppur intimidito da Sosai, Berg Katze non riuscì a non fargli la domanda che tutti i suoi luogotenenti avevano posto a lui.
“A che pro? Non ci sono segreti che mi possa nascondere. Questo sarcofago, e il fluido che contiene e che la ragazza sta respirando, mi permettono di poter entrare direttamente in contatto con lei. La prossima volta ti prometto che avrai tutti i Gatchaman che vuoi. La sua stessa presenza qui li trascinerà a noi ancora una volta.”
La voce incorporea di Sosai suonava tranquillizzante nella mente di Berg Katze, ma lui aveva ancora dei dubbi. Non ricordava che il piano originario prevedesse il dover gironzolare per l'Atlantico, in attesa che i Gachaman li attaccassero.
“Quindi non vuole che la portiamo immediatamente a Cross Karakorum?”
La risposta di Sosai fu netta. “No. Ci farà da esca. È importante per loro. È più di una compagna di squadra, è un’amica. La verranno a cercare per forza, e chissà che per allora io non sia già riuscito a convincerla che è questa, la famiglia per la quale lei deve combattere.”  
Di questo Berg Katze era veramente poco convinto, quanto meno sul breve periodo. Stimava che i Gatchaman ci avrebbero messo non più di una settimana ad attaccarli, e per allora dubitava che una di loro potesse passare dalla parte dei Galactor.
Appoggiò una mano sul sarcofago, all'altezza del cuore della Techno Ninja.
Il liquido in cui era immersa aveva anche lo scopo di somministrarle un blando allucinogeno per fiaccarne la resistenza, e altri composti per depurare il sangue della ragazza dal cocktail di medicinali antivirali dell’ISO.   
Non aveva idea di come fosse riuscita a sopravvivere al virus; virus la cui codifica genetica Sosai stesso aveva graziosamente elargito agli scienziati Galactor.
Berg Katze sorrise al pensiero. Era un virus che sulla Terra non esisteva, e per il quale gli scienziati dell’ISO dovevano evidentemente ancora trovare una cura. Probabilmente non avevano nemmeno idea di che cosa causasse davvero. Nemmeno gli scienziati Galactor, in realtà; si era solo limitati ad inocularlo ad un campione piuttosto consistente di cavie. Non che ne avessero ricavato chissà che risultati...
“Trovi i miei piani così divertenti?” lo redarguì Sosai.
Freneticamente, il leader dei Galactor tentò di bloccare qualunque pensiero malandrino. Cosa gli era venuto in mente?
“No, Generalissimo. Mi chiedevo solo... riguardo a questo virus... è piuttosto strano che lei sia sopravvissuta, vero? Gli esperimenti sugli altri soggetti sono stati fallimentari.”
“Purtroppo. Ma la colpa è sicuramente dell'incompetenza dei tuoi scienziati. In tutti i contagiati il decorso della malattia avrebbe dovuto essere il medesimo. La necrosi cellulare non era affatto contemplata nel mio progetto. Certo, se gli esseri umani non fossero così deboli... E comunque l’errore è stato dei tuoi uomini, che se la sono lasciata scappare dopo averle inoculato il virus. Avremmo potuto studiarla due anni fa, e capire subito in cosa era diversa dagli altri.”  
“Come potevano sapere che quella prigioniera era proprio una Techno Ninja?”
“Poteva anche essere una fioraia!”

L’effetto della staffilata di energia di Sosai fu quello di una scossa elettrica applicata direttamente alla superficie del suo cervello. Il dolore fece crollare il mutante sulle ginocchia.
“Che sia proprio il Cigno è stato un fortunato evento, ma non è importante” continuò l'alieno; il tono, pur senza suono, era gelido. “Dobbiamo scoprire come è sopravvissuta, in cosa è diversa dagli altri umani, per poter replicare l'esperimento. Ci occorrono altri come lei, molti altri. Hai capito?”
Berg Katze annuì, non osando aggiungere altro. Aveva inteso fin troppo bene.
Sentì Sosai ritirarsi dalla sua mente, e solo allora osò rialzarsi. Guardò un'ultima volta il sarcofago, aggrottando le sopracciglia alla vista del corpo che conteneva. Il Cigno sembrava abbastanza inoffensiva, ma lui sapeva che non era così. I primi esami non davano adito a dubbi. Era cambiata, una metamorfosi fin troppo radicale per essere la sola conseguenza di un virus, seppur così aggressivo. Come avevano fatto i suoi compagni a non accorgersene? O forse gli andava bene così?
Katze le fissò di nuovo le labbra. Non si sentiva a suo agio all'idea di avere intorno altri come lei. Cercava di nasconderlo a Sosai, ma certe implicazioni non gli erano affatto sfuggite. Per quella ragazza lui non era niente altro che cibo. Era difficile non pensarci.
 


Indifferente ai dubbi del leader dei Galactor, chiusa nella sua angusta bara, Jun galleggiava senza peso.
C'era stato un momento di panico, all'inizio, poi una strana pace l'aveva avvolta. Era da molto tempo che non provava più una sensazione del genere.
La quiete fu rotta da qualcosa che emerse improvvisamente dal nulla e che le accarezzò le dita, un tocco gentile che durò solo un secondo.
Sorpresa trattenne il respiro. Cercò di forzare il suo corpo a muoversi, ad aprire gli occhi, ma era impossibile. Come se di lei esistesse solo la sua coscienza, e quelle che avvertiva fossero sensazioni residuali fantasma, di un corpo che non c'era più. Però, stranamente, non provava alcuna paura. 
Ora sentiva qualcosa accarezzarle la schiena, dolcemente.
Il tocco le trasmise una sensazione strana, e tuttavia non sconosciuta. Il suo corpo fantasma sembrava conoscere chi la stava sfiorando. Non riusciva a capire come o chi, ma era così.
“Chi sei?” domandò al nulla, sperando che ci fosse qualcuno in ascolto.
“Un prigioniero. Una vittima. Intrappolato qui perché le persone avevano paura di me” fu la sorprendente risposta che le venne. “Abbandonato. Come te.”
“Nessuno mi ha abbandonata!” Jun protestò, senza chiedersi da dove quella voce arrivasse.
Le sembrava di aver passato l’eternità nel buio e nel silenzio. Ogni contatto era ben accetto. E la voce che le sussurrava silenziosa era dolce, suadente. Le causava un piacere fisico sentirla, come olio tiepido lasciato cadere sulla pelle nuda.
“L’errore è stato mio. Sono stata... imperfetta” confessò.
Anche nella pace di quell'ambiente protetto, Jun si sentì stringere il cuore. Aveva fallito un'altra volta. Cosa avrebbe pensato il dottor Nambu di lei? E Ken?
“Rilassati” la voce sconosciuta le disse. “È vero, hai fatto un errore ma, ribadisco, quelli che chiami amici non avrebbero dovuto lasciarti qui, alla mercé dei tuoi nemici. D'altronde, sono umani. E sbagliano. È nella loro natura.”
“Parli come se tu non lo fossi.”

Una risatina incorporea si fece udire. Lieve come un scampanellio.
“Non lo sono, infatti. Io sono quello che voi chiamate un alieno.”
Non era la cosa più strana che Jun avesse sentito, da quando era entrata nel progetto Techno Ninja. Tuttavia, cosa ci faceva un alieno lì? Glielo chiese, e la creatura esalò l’equivalente psichico di un profondo sospiro.
“Una volta avevo un posto che chiamavo casa. Avevo amici, una famiglia, ma esseri crudeli mi tolsero tutto, riducendo in cenere il mio mondo. Arrivai su questo pianeta e Berg Katze mi trovò, debole e impaurito per il lungo viaggio. Mi curò e mi nutrì. Mi sentivo così solo, così miserabile, che accettai il suo aiuto con gratitudine, rivelandogli i segreti della mia avanzata tecnologia. E invece di utilizzarla per aiutare questo mondo lui sta usando le mie conoscenze per renderlo schiavo.”
La voce sembrava ragionevole. Jun avrebbe invece voluto urlare. Era questo dunque il segreto dei Galactor? Usavano tecnologia aliena, ecco perché le loro macchine erano così tanto più avanzate rispetto agli standard terrestri.
“Come faccio a crederti? Potresti star collaborando con lui, invece!”
“E perché dovrei? Cosa ne avrei da guadagnare? Oramai il mio mondo è irrimediabilmente perso, così come la mia gente. Qui... io volevo trovare la pace, invece la loro stupidità non ha fine. Mi sono sbagliato un'altra volta su di loro. Non cambieranno mai, non impareranno mai. La guerra è nei loro geni e tutta la scienza dell’universo non potrà cambiare questo fatto.”
“Loro chi?”
“Le creature a sangue caldo, come gli esseri che hanno distrutto il mio mondo. Gli stessi che infestano questo pianeta bellissimo. Umani.”
“Se li odi così tanto perché stai parlando con me? Anch’io sono umana” Jun protestò.
La voce fece una pausa. Quasi sembrò a Jun che fosse scomparsa.
Improvvisamene invece tornò a sussurrarle all'orecchio, carezzevole come brezza estiva. “Ne sei certa?”
Poi la voce tacque, lasciando il Cigno con la sola compagnia dell'oscurità silenziosa.

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Capitolo 16
*** Identità ***


Identità



Utoland, International Science Organization, 27 agosto


“Che cazzo avete combinato?” lo aggredì Erlik, gli occhi pallidi che lasciavano trapelare una palese promessa di morte.
Ken alzò entrambe le mani, nel gesto più pacifico che riuscì a produrre. Gli faceva leggermente male il gomito che aveva urtato contro la parete della caffetteria, ma decise di ignorare il dolore. Aveva ben altri problemi.
Di tutte le persone che potevano accusarlo di qualcosa riguardo alla fallita missione, di certo Ken non si sarebbe mai aspettato che la reazione più violenta l’avrebbe avuta dal loro prigioniero Galactor.
Si guardò attorno, sopra la spalla del giovane davanti a lui.
Tutti gli astanti si erano girati a guardarli, e Ryu fissava la scena come ipnotizzato. Dall’espressione stupita del suo compagno di squadra, Ken ipotizzò che nemmeno il Gufo aveva capito cosa avesse in testa Erlik quando, qualche secondo prima, si era presentato nel locale dell’ISO e, senza dire una parola, aveva messo Ken l’Aquila con le spalle al muro. Scagliato letteralmente contro al muro. 
Ken fece un cenno a Ryu; non si sentiva minacciato e non era il caso di peggiorare la situazione. Rimpianse solo che non ci fosse Joe, sarebbe stata la volta buona per liberarsi di una seccatura.
“Pensi che te lo venga a raccontare davanti a tutti? Usciamo.”
Senza attendere una risposta, ma sicuro che Erlik l’avrebbe seguito, il Comandante dei Gatchaman marciò fuori dal locale.
Prese la prima porta-finestra che incrociò e uscì all'aperto, su una delle balconate. Era uno spazio abbastanza riservato, ma non così tanto da non poter essere tenuto d’occhio. Ken era sicuro che le guardie stessero già accorrendo.
Il pensiero gli strappò un sorrisetto. Chissà se sarebbero riuscite ad intervenire prima che lui ponesse definitivamente la parola fine alla vita del loro insopportabile prigioniero.
 
Si girò a fronteggiarlo, ricordando a sé stesso che mai più avrebbe dovuto permettere ad Erlik di farlo innervosire. Il ricordo del loro precedente incontro era ancora ben vivo dentro di lui ma, questa volta, Ken si ripromise che non si sarebbe lasciato fregare da strani giochetti mentali. E poi, aveva promesso a Jun che si sarebbe comportato civilmente. Ci poteva provare.
“Spiega” il Galactor gli intimò, in un tono arrogante che fece immediatamente riconsiderare a Ken i suoi buoni propositi.
“Intanto calmati. E poi non c’è nulla da dire: abbiamo fatto un errore, del quale mi rammarico.”
“Ti rammarichi? È solo colpa tua e di quell'altro buffone mascherato se Jun ora è nelle mani di Berg Katze.”
Ken alzò gli occhi al cielo, senza riuscire a trattenersi. “Per favore... intanto non si capisce perché proprio tu ti stia preoccupando, avevo inteso che non la sopportassi. E poi non sottovalutarla. Lei è una guerriera, non una ragazzetta spaventata.”
“Ti correggo. Per Katze lei è materiale da esperimenti.”
Il Comandante dei Gatchaman ignorò il commento. “Non mi hai risposto. Perché ti interessa così tanto?” lo aggredì, cercando di non urlare.
In tutta risposta, Elik gli rise in faccia. “Perché no? È l'unica qui dentro degna di nota. Voi siete tutti così genuflessi al vostro mentore che mi fare pena.”
“Senti…” cominciò Ken, avvertendo il suo autocontrollo scricchiolare. Buttare Erlik di sotto, dopotutto, non sarebbe stata una cattiva idea. Non l'avrebbe ucciso ma gli avrebbe fatto molto male; il pensiero gli era dolcissimo.
Prima che potesse fare o dire qualunque altra cosa, però, con la coda dell'occhio vide la dottoressa Pandora affacciarsi alla balconata. Anche il Galactor si girò verso di lei.
“Erlik, vieni con me” la voce della donna era piuttosto tesa, notò Ken.
“Problemi?” il Comandante dei Gatchaman le chiese, incapace di trattenersi.
“Nambu vuole vederlo. Ora” rispose lei, senza sciogliere il dubbio dell'Aquila.
Senza nemmeno fare finta di salutarlo, Erlik se ne andò con Pandora.
 
Respirando profondamente per ritrovare un minimo di pace, Ken si ritrovò a pensare che non ce l'avrebbe mai fatta a condurre una conversazione civile con quel tizio. La cosa lo faceva sentire ancora più in colpa verso Jun di quanto già non fosse, ma non ci poteva fare nulla. Il Galactor era veramente un imbecille. Polemico fino all'inverosimile, e forse nemmeno tanto sveglio.   
Ken l'Aquila rientrò dalla porta-finestra e, istintivamente, prese la via del poligono. Quando in dubbio, Joe gli aveva insegnato che non c'era niente di meglio da fare che sparare. 




Erlik lo sapeva che prima o poi Jun sarebbe finita prigioniera dei Galactor. Era ovvio.
Si passò una mano tra i capelli corti, mentre seguiva la dottoressa Pandora. La destinazione lo irritava. Se c'era uno lì dentro che detestava più di Ken l'Aquila, quello era il Direttore dell'ISO.
D'altronde, a lui avevano sempre dato fastidio i cattivi maestri. Gli allievi, che non riuscivano a scappare dalla vita che qualcun altro aveva preparato per loro, gli facevano pena e basta.
Chissà cosa voleva Nambu. Pandora era nervosa, poteva avvertirlo, l'agitazione che eclissava il suo naturale buon umore. 
Erlik non sapeva che cosa aspettarsi. La più brutta notizia dell'anno -dopo quella della sua malattia- l'aveva giù avuta.
Cercava in tutti i modi di non pensare a Jun nelle mani di Berg Kazte. Quel tipo era un mostro vizioso; le voci che giravano sui giochetti che amava fare niente affatto rassicuranti, ed Erlik aveva sempre evitato accuratamente di essere destinato alla sua guardia personale, anche se fisicamente aveva tutti i requisiti che potevano garantirgli l'accesso.
Era vero che quei soldati avevano un trattamento ed una paga migliore, ma a lui non tornava che le uniche qualità che servissero fossero lineamenti gradevoli, un'altezza di almeno 1.80 e un fisico prestante. Chissà perché, ogni tanto qualcuno del personale assegnato alla sicurezza del leader spariva dalla circolazione. E tutti sapevano che non erano stati mandati in prima linea.
Il giovane fissò la porta dell'ufficio di Nambu, in attesa che il Direttore facesse entrare lui e Pandora.
Se un personaggio come Berg Katze poteva fare cose del genere ad altri Galactor, Erlik rifletté, chissà quello che sarebbe potuto capitare a Jun. Varcò la porta sperando che la Techno Ninja avesse agli occhi del leader un valore maggiore come cavia, rispetto a quello di trastullo sessuale.
Quanto meno, si augurò che ci mettessero talmente tanto a studiarla che i Gatchaman potessero andare a salvarla prima dell'inevitabile passaggio negli alloggi di Berg Katze.
 
Erlik si accomodò nella poltroncina davanti alla scrivania di Nambu, sentendosi come disconnesso da tutto quello che lo circondava.
“Sei più pallido del solito. Va tutto bene?”
La voce del Direttore lo scosse dal suo incubo ad occhi aperti. Quanto meno Nambu sembrava altrettanto preoccupato di lui, e non sbruffone come quell'idiota di Ken.       
“No che non va bene” Erlik gli rispose senza preamboli, e senza alcuno formalismo. “I tuoi ragazzi hanno fatto un disastro.”
Il Direttore posò i gomiti sulla scrivania ed intrecciò le mani sotto al mento, sporgendosi verso di lui.
“Lo so benissimo, invece. La tortureranno fino ad ucciderla, cercando di carpirle i segreti della sua sopravvivenza.”
“Mi sembra un'ottima approssimazione.”
“E tu, quanto sei preoccupato per Jun?” Nambu gli chiese, a bruciapelo.
Non aveva molto senso mentire o minimizzare, ed Erlik non lo fece. “Io preoccupato? Sono terrorizzato. Perché l’hai fatta partire? Non era nelle condizioni di combattere.” Erlik lanciò un’occhiata a Pandora, rimasta in piedi accanto alla scrivania. “Io ho conosciuto Berg Katze, Nambu, e ti dico che non hai assolutamente idea di quello che può fare alla tua pupilla.”
Pandora distolse lo sguardo, l’apprensione che le stravolgeva i lineamenti.
Ma che gente era quella? Erlik si chiese. Pensavano di poter per sempre mandare in battaglia una squadra di ragazzini e che non gli sarebbe mai successo nulla di più grave di un taglio?   
“Quindi, che anche tu pensi che la dobbiamo tirare fuori di lì il più presto possibile. Ottimo. Erlik, come poi aiutarci?”
Pensando di aver sentito male, il giovane riportò la sua attenzione su Nambu. “Che hai detto?”
“Mi hai capito. Temo proprio che abbiamo bisogno del tuo aiuto.”

Se c'era una cosa che Erlik non riusciva a fare, era sondare il Direttore dell'ISO; emotivamente l'uomo era esattamente come appariva all'esterno: un professionale e incredibilmente freddo bastardo. Che Nambu fosse in pensiero per Jun era chiaro, ma Erlik non era in grado di stabilire quanto credesse in quello che aveva appena detto.
Erlik scosse la testa. “In che senso? Io non so fare nulla. Ero un soldato per modo di dire. Mi hanno solo dato un mitra in mano e spiegato come funzionava, tutto qui.”
Le labbra di Nambu si piegarono in un lievissimo sorriso.
“Non ti preoccupare per quello, abbiamo idea di come combattono i Galactor, e non ti chiederei mai una cosa del genere. Abbiamo già la migliore squadra di guerrieri del mondo. Però ci puoi aiutare in un altro modo.” Il Direttore fece una pausa per sistemarsi gli occhiali sul naso. “Corre voce che tu riesca a... percepire gli stati d'animo della gente attorno a te. Quanto è precisa questa facoltà?”
Mentire non aveva senso, Erlik nemmeno ci provò. “Abbastanza, da quando non prendo più le vostre maledette pillole.”
La notizia non sembrò turbare Nambu; l'aria di austera indifferenza che aveva dipinta in volo rimase immutata. “Certo” il Direttore commentò, condiscendente. “Era piuttosto ovvio che non stessi più seguendo la terapia. D'altronde, tu non potevi saperlo, ma fin dall'inizio le dosi di principio attivo che ti venivano somministrate erano dimezzate rispetto a quelle di Jun. Altrimenti, sospettiamo, non avresti potuto sviluppare così velocemente le tue... facoltà.”
Erlik doveva mostrare in faccia tutta la sua sorpresa, perché il Direttore scosse la testa, sembrando sconfortato. “Pensavi di essere tanto furbo? Credevi non ci fossimo accorti che non assumevi più i farmaci che ti davamo? Erlik, l'abbiamo fatto apposta a lasciarti fare. Volevamo testare come il tuo organismo reagisse alla malattia, prestandoti solo le cure necessarie a controllarne il decorso, senza bloccarlo del tutto come nel caso di Jun.” Il Direttore allargò le mani. “I risultati sono stati sorprendenti, e allarmanti insieme, ma ora non ho tempo di presentarteli. Ti basti sapere che nell'ultimo mese abbiamo adottato lo stesso protocollo anche per Jun. Guarda caso, ha riportato subito importanti... cambiamenti.”
Non sapendo se sentirsi infuriato o amareggiato per come l'avevano trattato, Erlik strinse i braccioli della poltroncina, desiderando ardentemente solo scagliarla sulla testa di quel pazzo nazista che aveva davanti. Non aveva affatto sbagliato a considerarlo, dopotutto, non così diverso da Berg Katze. 
“E dopo quello che mi avete fatto, hai il coraggio di chiedere il mio aiuto?” scandì. 
“Ne farei a meno, credimi, ma non posso procedere altrimenti. Abbiamo già perso troppo tempo, Erlik. Dimmi se riusciresti a rilevare la presenza di Jun nell'ambiente chiuso di un mecha, abbastanza precisamente da rintracciarla.”
Il giovane fissò Nambu, elaborando per un secondo quello che gli era stato chiesto. Poi si sentì gelare, mentre la consapevolezza si affacciava dentro di lui. C'era una sola ragione al mondo che giustificava quella domanda.
“Aspetta un attimo” gli disse, alzando le mani davanti a sé. “Vorresti che io salissi sul mecha dove è prigioniera Jun e, in mezzo a tutti quelli a bordo, capissi dov'è?”
Nambu annuì. “Non abbiamo modo di localizzarla velocemente. Quel mezzo è troppo grande per perdere tempo a setacciarlo palmo a palmo, e non conosciamo le specifiche e la planimetria.”
“Non pensarci proprio” lo interruppe Erlik, frettolosamente, cercando di non cedere al panico. Non gli piaceva l’espressione inflessibile di Nambu. “Manda delle spie, prima, o chi cazzo ne hai voglia. Sei pazzo se pensi che faccia questo lavoro al posto vostro.”
“Fammi finire. Non abbiamo tempo di verificare prima il campo di battaglia. Basterebbe un errore da parte nostra, un allarme fatto scattare senza volerlo, e i Galactor potrebbero sbarcare Jun.” Una mano dell'uomo corse a lisciarsi i baffi, forse l'unica concessione al nervosismo a cui Erlik aveva assistito. “Qualche ora fa due altri mecha hanno circondato la flotta di sommergibili della NATO che seguiva il primo. Rischiamo una battaglia sottomarina, nel qual caso la possibilità che, nella confusione, una piccola lancia sfugga inosservata è altissima. Sarebbe impossibile allora ritrovare Jun.”
Erlik si prese la testa fra le mani. C'era solo una cosa peggiore dell'idea di sapere Jun nelle grinfie di Berg Katze, ed era di finirci lui stesso. 
Alzò gli occhi verso Nambu e ne ebbe la certezza: il Direttore era pronto a sacrificarlo per recuperare il Cigno. Perché no, dopotutto? Lui per loro non era nulla. Gli aveva appena detto che l'avevano, né più né meno, sfruttato per i loro esperimenti. Le risposte le avevano avute e ora, probabilmente, non avevano più bisogno di lui. Era solo un prigioniero fastidioso da avere tra i piedi.
Beh, avrebbero dovuto obbligarlo. Erano folli se pensavano che si sarebbe offerto volontario.

“Mi dispiace che non hai un piano B. Ma io sono... ero uno di loro. Non voglio finire a fare la cavia di Berg Katze, o peggio. Quando lui verrà a sapere cosa mi è successo, e perché non ho fatto di tutto per tornare tra i Galactor, mi spellerà vivo per divertirsi a vedere se mi ricresce da sola.”
Il giovane si girò verso la dottoressa Pandora, forse più malleabile di Nambu. “Sylvie. Non potete chiedermelo” le disse nel tono più drammatico che riuscì ad esibire, senza arrivare a supplicare. Era tuttavia pronto a fare anche quello, se necessario.
La vide sbarrare gli occhi, e appoggiarsi al bordo della scrivania. “Nambu” la donna esalò con un filo di voce al suo capo. “Forse non è il caso... troviamo un altro modo.”
Il Direttore non la lasciò finire. “Non c'è. Pandora, esci a vai a rinfrescarti. Non ti accorgi che Erlik ti sta manipolando? E tu, smettila immediatamente di fare quello che stai facendo.”
Il tono tagliente di Nambu fu come uno schiaffo. Erlik abbassò gli occhi, per poi tornare a guardare Pandora, momentaneamente smarrito.
Non si era nemmeno accorto di essersi ritrovato nella stessa situazione di quella notte sulla terrazza con Ken, ma Pandora non era l'odiato Comandante dei Gatchaman; lei l'aveva sempre trattato con umanità, e lui cosa le aveva appena fatto?
Provò un po' di rimorso guardandola uscire. La donna si teneva una mano sulla tempia, e sembrava fosse sotto shock.

Erlik Non sapeva esattamente come innescare quella reazione, ma aveva la sensazione che funzionasse solo quando le difese dell'altra persona erano davvero allentate. Di una cosa quindi era certo: con Nambu non avrebbe mai funzionato. Quando mai aveva visto il Direttore men che controllato?
Lo sguardo di Nambu era severo. “Spero che poi andrai a scusarti con lei. Comunque, capisco quello che provi. Ti stiamo chiedendo davvero tanto, ma non lo farei mai se non fosse, purtroppo, l'unica strada che possiamo percorrere. Non c'è altro modo per noi di riavere la nostra Jun. Ti prego di capire. E di aiutarci.”
Bel discorso, Erlik si trovò a pensare. Peccato che lui non fosse nelle condizioni di decidere liberamente e, soprattutto, mai e poi mai avrebbe voluto ridargli la loro preziosa Jun. Pensandoci, però, se li avesse aiutati a liberarla magari sarebbe poi riuscito a negoziare qualcosa, e avrebbe avuto la gratitudine del Cigno.  
Certo, meditò mordendosi leggermente il labbro inferiore, rischiare la propria vita per redimersi in qualche modo agli occhi di una donna era una cosa che qualche mese prima avrebbe ritenuto impensabile, ma non era la prima volta che Erlik faceva qualcosa di veramente folle in vita sua, spinto solo dall’impulso del momento.
Fu con estrema difficoltà che aprì bocca. “Nambu, come faccio a fidarmi? I tuoi Techno Ninja potrebbero cogliere la bella occasione per recuperare il Cigno e lasciami là al posto suo.”
“Ma no, che sciocchezze. Sono i Galactor che fanno queste cose. Ti assicuro che gli ordini saranno chiari. Dovete tornare tutti.”
“Chiariscigli anche che dobbiamo tornare vivi.
Erlik non ci poteva credere di stare davvero per candidarsi a quella missione suicida. Quel maledetto virus doveva avergli bruciato qualche sinapsi di troppo. “Certo che siete ben strani. Qui tutti mi trattano come un criminale, e adesso tu mi proponi questo. Come fai a fidarti di me? Una volta a bordo potrei tradirvi.”
Il Direttore sorrise apertamente; era la prima volta da quando Erlik lo conosceva. Sembrava che non aspettasse altro che quella domanda.
“Io non credo che tu lo farai. Hai troppa paura di Berg Katze. E poi Pandora ha scovato interessanti informazioni su di te.”

Dolcemente, come se volesse gustarsi la sua sorpresa, Nambu girò il portatile verso di lui.
Una sola occhiata allo schermo, ed Erlik si sentì sprofondare. Cercò di rimanere impassibile, non voleva che Nambu si accorgesse di quanto fosse disperato.
Un lui più giovane di qualche anno lo fissava dalla foto segnaletica scattata in una stazione di polizia, in volto un’espressione annoiata e infastidita.
“Questo foto è stata scattata quattro anni fa, prima che ti unissi ai Galactor. Suppongo che la polizia stradale svedese fosse impermeabile alle mazzette, giusto?” commentò Nambu, chiaramente compiaciuto di averlo messo all'angolo.

La scheda abbinata alla foto conteneva la vera identità di Erlik e tutti i suoi dati biometrici; impossibile far finta di non essere quella persona: un idiota che aveva bevuto troppo e stava correndo al triplo del limite consentito.
“Maledetti gli svedesi e la loro correttezza...” Erlik bofonchiò.
“Sono un popolo molto civilizzato, ma capisco perché a te possano non piacere. Comunque, considerata questa scoperta, sono convinto che non ci tradirai mai, dico bene?”
Al giovane non restò altro da fare che annuire. Non aveva proprio senso aggiungere altro, a parte una cosa. “Ti prego solo di non rivelarlo a nessuno... capirai il perché.”
“Certo. Vorrei fare una chiacchierata con te riguardo a questo, ma ci sarà tempo al vostro ritorno.”
Erlik avrebbe voluto dire a Nambu di non essere affatto sicuro che sarebbe tornato vivo, ma decise di far finta di niente.
Si limitò a concedere al Direttore un rigido cenno del capo. Di una cosa in realtà era certissimo: al rientro da quella missione non sarebbe rimasto all'ISO un secondo di più.

Il giovane fissò la foto sullo schermo, che gli aveva appena ricordato chi era e da dove veniva. Abbandonando quella vita che detestava, aveva tentato di scordarselo in tutti i modi, ma evidentemente non c'era modo di sfuggire al passato. Tanto valeva approfittarne, allora. Malattia o non malattia, Erlik decise se ne sarebbe andato da quella gabbia di matti, e avrebbe fatto di tutto per convincere Jun a partire con lui. L'idea di lasciarla lì lo faceva inorridire.
 


Mecha Galactor, da qualche parte nell’Atlantico


Jun sentì distintamente la mente aliena fiorire nel vuoto, come un fiore disincarnato.
Lo aggredì prima che lui potesse dirle qualcosa, qualunque cosa.
“Cosa significa che non sono umana? Di che stai parlando?”
“Ti sembra ultimamente di comportarti come tale?”
“Certo che sono umana! Sono solo malata.”

“Questa parola non ha senso. Povera piccola...”
Jun avvertì un tocco lieve sulla fronte, come una carezza.
“Non lo sei. Non lo sei mai stata. Chi te l'ha detto si è sbagliato, o mentiva.”
“E cosa sarei allora?” Jun chiese, con un'ombra di dileggio nella voce. Quell'alieno, se era davvero tale, doveva averla presa per stupida. 
“Diversa. E questo dovrebbe farti pensare. Ricorda: loro sono impauriti da tutto ciò che non capiscono. Sono un gregge di pecore, che rigetta tutto quello che non è come loro.”
“Mi fai impazzire. Non esiste un loro o un noi.”
“Certo che c'è. Ti sembra ultimamente di comportarti come loro?”
La voce tornò a chiederle.  “Pensa a come sei, a come appari, pensa alle possibilità che loro ti negano, avvelenandoti con le loro medicine. E datti una risposta.”
Quel discorso lei l'aveva già sentito. Il ricordo delle insinuazioni di Erlik le strappò un brivido. Come era possibile che stessero dicendo la stessa cosa?
Principessa. Il liquido in cui sei immersa, che ti nutre e ti fa respirare, sta mondando il tuo corpo dai veleni che ti hanno inoculato, che hanno bloccato il tuo sviluppo. Ti hanno tarpato le ali ma, quando uscirai di qui, finalmente sarai te stessa. La Ecate delle leggende, e tutti gli uomini ti temeranno.”
 
La voce era sparita, e Jun avrebbe voluto piangere dalla frustrazione. Voleva liberarsi da quel limbo che la attanagliava ma, anche se tentava di agitarsi, di scalciare, non succedeva nulla.
Ogni tanto la voce tornava, dicendole sempre le stesse cose. Come gocce di inchiostro lasciate cadere in una bacinella di acqua limpida. Nel frattempo i suoi sogni si facevano sempre più vividi, sempre più reali.
 
Sogni dove vagava per le vie deserte della metropoli aliena dalle alte torri, che oramai ben conosceva. La città giaceva sotto un cielo grigio dove splendeva una stella binaria, i suoi due soli talmente piccoli e fiochi che la luce che proiettavano era a malapena sufficiente per rischiarare le strade.
Urlava alle tenebre, chiedendo se ci fosse qualcuno, ma il suo appello cadeva sempre in un silenzio che cominciava a diventare frustrante. 

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Capitolo 17
*** Strategia ***


Strategia



Utoland, International Science Organization, 30 agosto


Erlik, seduto alla sinistra di Nambu, fu la prima cosa che Ken notò entrando nella stanza del briefing.
‘Le leggende dicono che quello è un posto sfortunato’ pensò, senza riservare un secondo di pietà al Galactor.
Gli fece solo un cenno di saluto, perfettamente conscio che Joe e gli altri non l’avevano imitato. Erlik, dal canto suo, stava fissando lo schermo di un tablet appoggiato sul tavolo di fronte a lui, pretendendo di non notare la fredda accoglienza.
Il comandante dei Gatchaman lanciò una lunga occhiata di sbieco a Joe; anche lui stava ignorando la presenza del Galactor.

Ken era solito non contestare mai i piani di Nambu, ma quando il Direttore gli aveva illustrato quello per il salvataggio di Jun, le sue proteste erano state veementi. E non meno violenta era stata la reazione di Joe, quando Nambu aveva spiegato anche al resto del team come avrebbero proceduto.
Il Direttore era stato inflessibile, spiegando a tutti perché la presenza di Erlik era necessaria al completamento della missione, e garantendo che il Galactor avrebbe fatto quello che doveva senza mettersi nei guai e, soprattutto, che non li avrebbe traditi.
Per quello che ne sapeva Ken, se da una parte Erlik non aveva mai espresso il desiderio di tornare tra i Galactor, nemmeno si era mai apertamente dissociato dalle loro azioni. Anzi.
Ken non capiva come Nambu riuscisse a fidarsi, ed era sicuro che da quel brefing preparatorio, al quale tutta la squadra era stata invitata, non sarebbero usciti con una risposta. Come già altre volte, il Direttore aveva deciso sulla base di informazioni che non poteva o non voleva condividere con loro. Ken sperò che, come già nel passato, Nambu avesse preso la decisione migliore.

Jinpei prese il posto vicino ad Erlik, scoccandogli un’occhiata ma non osando dire nulla.
Ken si sedette invece alla destra di Nambu, mentre il Condor scivolava nella poltroncina accanto alla sua. E lì Joe stette immobile, tanto teso da fisicamente irradiare disapprovazione.
Dovendo compiere insieme quella missione, il Direttore aveva reputato corretto informare Erlik dell'identità del resto dei membri dei Techno Ninja. Un'altra decisione che Ken trovava inspiegabile.
 
L’Aquila si schiarì la gola, fissando il Direttore.
“Ho sollevato Ryu dal presenziare a questa riunione, visto che è impegnato nel completare i test sulla versione sottomarina della Phoenix. Ci invierà i risultati nel corso della prossima mezz’ora, e si unirà a noi più tardi per discuterli.”
“Perfetto. Ecco lo schema tattico” Nambu selezionò qualcosa sul suo laptop e, su una lavagna touch-screen sistemata dietro l'uomo, si materializzò la planimetria parziale del mecha nemico.
“L’attacco sarà condotto sott’acqua. Come avete visto, i nostri tecnici hanno apportato speciali cambiamenti ai vostri veicoli, che sono ora in grado di operare anche sott’acqua. Lascio al vostro comandante decidere quali uomini portare con lui, anche se il mio suggerimento è ancora quello di lasciare Ryu sulla Phoenix, e salire a bordo con tutti gli altri.”
Ken avvertì Joe irrigidirsi alla parola ‘altri’, ma fortunatamente il Condor tenne per sé qualunque commento.
Ken invece fece un cenno di assenso al Direttore, sentendo su di sé gli occhi di tutti i presenti.
“Concordo con lei, dottor Nambu. La Phoenix sarà affidata a Ryu, pronto a recuperarci a missione conclusa e a piazzare qualche torpedine nel ventre del vascello Galactor. Data la struttura e la pressione è improbabile che noi potremo farla esplodere dall’interno, e il nostro esperto di esplosivi è nelle loro mani.”
Nambu sfiorò di nuovo lo schermo del tablet, e quattro puntini rossi apparvero sulla lavagna dietro di sé, sovrimpressi alla planimetria. 
“Formerete due team, e raggiungerete la nave con due dei vostri mezzi individuali. Scansioni a lungo raggio dei sommergibili di appoggio hanno individuato una baia di carico a lato del mecha. Potete infiltrarvi da lì.”
“Il sonar nemico non rileverà la nostra presenza?” chiese Jinpei.
“No, i vostri mezzi saranno dotati di armature stealth, fatte apposta per ingannare i sistemi di rilevamento” spiegò il Direttore. ”Avranno un sistema di agganci magnetici che gli permetteranno di rimanere ancorati alla corazza del mecha. Una volta usciti dai vostri mezzi, potrete salire a bordo dal condotto che vedete evidenziato sulla planimetria. Probabilmente un tunnel di carico del mecha.”
Ken lanciò di soppiatto un'occhiata a Erlik. Non aveva bisogno di strane facoltà ESP per capire quanto il Galactor fosse preoccupato da quella manovra, che avrebbero dovuto compiere con il mezzo nemico in movimento ed in immersione.
Nambu sembrò dar voce ai suoi dubbi. “La missione è programmata tra due giorni, prima che il mecha raggiunga le Azzorre. La loro probabile meta, se consideriamo la rotta che stanno tenedo. Nelle prossime ore vi ho pianificato delle esercitazioni subacquee.” Il Direttore tamburellò l'indice sul piano del tavolo. “Il momento in cui salirete a bordo è il più critico della missione, non dovete fare errori.”
“Noi non ne faremo, ci può contare, siamo addestrati da una vita per questo. Ma lui?” puntualizzò Joe, facendo un cenno del capo verso Erlik. 
Gli occhi dei presenti si spostarono sul Galactor.
In quel momento il giovane non aveva nulla del solito atteggiamento arrogante e distaccato. Al contrario, tutto, dallo sguardo perso nel vuoto alla postura, rendeva chiaro a Ken che Erlik la pensava esattamente come Joe. Un condannato a morte avrebbe avuto in faccia la stessa espressione smarrita. Ken provò per lui un minimo di empatia. Mai e poi mai avrebbe voluto trovarsi nei suoi panni.
“Sentite, io non ho la minima idea di come farò a...” il Galactor si interruppe, lanciando un'occhiata apprensiva allo schermo. “... a fare questa cosa. Però, mi pare di aver capito che è l'unico modo, giusto? Quindi, non c'è molto altro che posso fare se non provare, giusto?”
Joe si lasciò scappare una risatina. “Non devi provare, devi riuscirci. Un errore e sei morto. E non pensare che noi potremo aiutarti, se fai qualche cazzata.”
In realtà, pensò Ken mentre fissava Erlik, era proprio quello che Nambu gli aveva raccomandato, senza che Joe lo sapesse. In qualità di Comandante della squadra, doveva fare lui coppia con il Galactor, e assicurarsi che non gli capitasse nulla.
L'Aquila sperò che andasse tutto bene, nonostante l'espressione di sussiego che inalberava Joe. Sapeva bene cosa significava: guai per tutti.
 


Mecha Galactor, da qualche parte nell’Atlantico


Più ci pensava, più quella situazione sembrava a Berg Katze assurda e paradossale.
Saltuariamente gli era capitato di avere dei dubbi sulla strategia di Sosai, come se l'alieno dopotutto gli nascondesse qualcosa, ma la sensazione non era mai stata così forte come quella volta.
Fissò il volto racchiuso nel sarcofago. La ragazza ultimamente era agitata; si era sfilata da sola il casco, e ora i capelli le fluttuavano attorno alla testa, come umidi serpenti.
Lei era bella, ma l'immagine che il suo corpo evocava era tutt'altro che rassicurante. Lo repelleva, lui che pure aveva una certa passione per i bei ragazzi e le belle ragazze. Ma il Cigno no, non l'avrebbe toccata nemmeno sotto tortura. Già stare nella stessa stanza con lei chiusa dentro un sarcofago, era una sofferenza.
Katze era consapevole di non essere forse la persona più titolata a pensarlo, ma avvertiva nella ragazza-Cigno qualcosa di profondamente innaturale che spaventava anche lui, che pure tanto normale non era.
Berg Katze avvertì un fruscio dietro di sé. Si voltò a fronteggiare il comandante del mecha. L'uomo, abbigliato di nero come una gigantesca manta bipede, era nervoso; la porzione di volto che spuntava da sotto la maschera era pallida, e a Katze non sfuggì come stesse impercettibilmente spostando il peso da una gamba all'altra.
“Problemi?” gli chiese, tentando di mantenere salda la voce. Non che lui si sentisse meno inquieto.
“Non con la missione. La navigazione procede senza problemi; i sommergibili della NATO si tengono alla larga, e le confermo che la nostra scorta è arrivata.”
“Quindi, perché sei così ansioso? Non affannarti a negare, si vede benissimo.”
L'uomo non tentò nemmeno. Alzò invece una mano per indicare il sarcofago.
“È quella, signore. Gli uomini sono nervosi.”
Berg Katze strinse le labbra. Si era aspettato una cosa del genere. “Hai personalmente selezionato sia l'equipaggio che le truppe, tra gente che non temesse le stupidaggini che si raccontano su di lei. Ora mi dici che i tuoi uomini hanno paura?”  
La manta smise di dondolarsi. “No, non paura, ma sono comunque un po'... perplessi. Si chiedono perché procediamo in questo modo, quando la rotta impostata inizialmente ci avrebbe portati velocemente alla nostra base nella dorsale atlantica, dove avremmo potuto scaricare la ragazza.”
Berg Katze non trovò ragioni per nascondere all'uomo i piani di Sosai. Non aveva avuto anche lui gli stessi dubbi? “Digli pure che stiamo aspettando i compagni di questa ragazza. Ci farà da esca per il resto dei Techno Ninja. Prepara una calorosa accoglienza.”
Il comandante sembrò soddisfatto della risposta. Alzò rigido il braccio destro in segno di saluto, e marciò fuori dalla sala senza aggiungere altro.
 
Berg Katze un po' invidiava i suoi sottoposti. Erano talmente invasati da non essere sfiorati da nessun dubbio. Lui, invece, ne aveva parecchi, e il silenzio di Sosai non aiutava a dissiparli.
La guida aliena dei Galactor parlava raramente con lui in quegli ultimi giorni, preferendo dedicare la sua attenzione alla Techno Ninja prigioniera.
Ogni tanto sprazzi di conversazione, e suggestioni che Sosai riversava sulla ragazza, filtravano fino a lui. Tutti quei discorsi sull'essere diverso, sull'essere speciale, Berg Katze li aveva sentiti prima di lei, per anni e anni.
Il leader dei Galactor tornò a guardare il sarcofago, e la forma che racchiudeva. Con il passare dei giorni il piano di Sosai gli sembrava sempre più confuso: come faceva a pensare che lei si sarebbe rivoltata contro i suoi? Era impossibile. Sperò che non la volesse liberare per testare questo fantomatico tradimento. Berg Katze aveva letto tutti i rapporti sulle sue imprese, e non ci teneva affatto ad averci a che fare.




Jun era stanca, voleva uscire da quella gabbia e voleva delle risposte.
La voce riappariva poco frequentemente, ora, come se volesse lasciarle il tempo per meditare su quello che lui le aveva sussurrato.
Per lei era inquietante. Si sentiva come davanti ad un puzzle, di cui aveva completato alcune parti, ma altre erano elusive, i pezzi non in suo possesso.
L'alieno le stava nascondendo delle informazioni vitali per comprendere il quadro, come se lei dovesse arrivarci da sola, o forse chiederle abbastanza violentemente.
Si era risolta a fare proprio quello, urlando all'essenza di comparire e spiegare, in tutte le lingue che conosceva, e ricorrendo anche agli insulti.
Avvertiva un senso di liberazione in quel comportamento. Nonostante fosse una guerriera, i suoi insegnanti le avevano inculcato che in pubblico il suo comportamento doveva essere grazioso e posato, da vera donna giapponese. Solo nel suo diario si poteva sfogare, ma ora non ce la faceva più, era giunta ad un punto di rottura.

Vorresti uscire, vero?” la voce si materializzò, come sempre inaspettata, e parlandole senza suoni, direttamente nella sua mente.
Tu che ne pensi? Ho perso il conto dei giorni che sono qui dentro, martoriata da te che mi parli per enigmi.”     
Avvertì l'alieno esalare l’equivalente psichico di un profondo sospiro. “Oggi ti mostrerò qualcosa, allora, qualcosa che ti aiuterà a capire.

Nella mente di Jun si materializzò una piana, rischiarata debolmente da due soli gemelli. Quella sicuramente non era la Terra. La vegetazione attorno a lei era bassa, formata da arbusti decisamente poco invitanti. Faceva freddo. O i raggi della stella binaria non erano sufficienti per scaldare a terra, oppure stava guardando un panorama invernale. Jun non avrebbe saputo dirlo.
Con il cuore in gola alzò gli occhi all'orizzonte e la vide: la città che popolava i suoi sogni.
Infinite teorie di palazzi si stendevano davanti a lei, la maggior parte aveva una forma a spirale; neri e lucidi, sembrano fatti di ossidiana, e così alti da raggiungere il limite della troposfera.
Aeromobili si spostavano tra quei palazzi e, poco lontano, navette partivano da uno spazioporto, alzandosi leggere nel cielo livido. A differenza di quella che aveva visto lei, questa città era decisamente viva.
L'ho già vista...” ammise.
Lo so. Questa era la capitale del mio mondo, l'altera signora di molti sistemi. Oramai, è tutto perso per sempre.”
Perché la visito nei miei sogni?”   
L'alieno continuò come se lei non avesse parlato. “Eravamo potenti. E temuti perché potenti. Una notte, con l'inganno, i nostri nemici superarono le difese planetarie e rasero al suolo le nostre città. Fu un genocidio a cui solo io riuscii a fuggire. Vagai per centinaia dei vostri anni prima di giungere qui, su questo pianeta che, una volta, era una delle nostre colonie extra sistema.
La realizzazione, e terrore che l’accompagnò, serrarono la gola di Jun come una morsa.
“Altri come te vivono qui?”
“Vivevano. Nel vostro passato. Quando il nostro pianeta madre fu attaccato le colonie, separate dal mondo di origine e con il grosso del nostro esercito impegnato a difendere vanamente la nostra casa, furono velocemente soggiogate. Quando arrivai, anni fa, non trovai alcuna traccia dei miei simili, se non una. Infinitesimale.”
“Dove?”

La risata leggera dell’alieno le riverberò nella testa.
“Non l’hai ancora capito?”  

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Capitolo 18
*** Rendezvous ***


Rendezvous



Utoland, International Science Organization, 1 settembre


Alla fine le esercitazioni non furono completamente un disastro. Il vero problema, per Ken, cominciò quando salirono a bordo della Phoenix, pronti a partire. 
 
“Sei fuori di testa se pensi che io volerò con te seduto dove non ti posso tenere d’occhio! Armato di un coltello.”
“Vorresti scambiare il mio cazzo di posto con il tuo? Tu ti siedi là dietro a guardare il panorama, e io sparo i tuoi missili.”
Ken assistette allarmato al brusco scambio di battute tra Joe ed Erlik. Che il Condor non apprezzasse vedere l’altro a bordo, e oltretutto abbigliato nella divisa standard dei soldati Galactor, era stato chiaro da subito, ma evidentemente non riusciva più a trattenersi.
    
D’altronde, la scelta del “travestimento”, era scontata. Se avessero incontrato una pattuglia, mentre i Techno Ninja potevano nascondersi nelle ombre, Erlik in verde Galactor non avrebbe attirato attenzioni indesiderate. Per il resto, il Direttore non aveva concesso al giovane nessuna arma da fuoco, solo un coltello tattico per difendersi.
Non che la cosa fosse in ogni modo andata giù a Joe, come Ken aveva giustamente previsto.

Lo sguardo dell'Aquila danzò tra i due giovani uomini.
Ken sapeva che Joe era micidiale se provocato, e che il suo odio per i Galactor pompava adrenalina nelle sue vene come combustibile per razzi; Erlik, invece, pareva provare un piacere perverso nell'esasperare l'interlocutore, come se si reputasse intoccabile. Anche senza contare quegli strani giochetti mentali che ogni tanto il Galactor riusciva a fare, la combinazione dei loro due caratteri era letale.
Il Comandante dei Gatchaman scrutò il suo luogotenente flettere le dita pericolosamente.

Con uno sguardo percorse il ponte della Phoenix, lanciando un'occhiata di ammonimento a Jinpei e Ryu; i suoi compagni erano immobili, come inchiodati ai propri posti.
Poi, con un rapido movimento si piazzò tra i due rivali, posando una mano sul torace di Joe, sia per fermarlo che per offrirgli un qualche tipo di supporto fisico.
“Ti assicuro che Erlik se ne starà buono e quieto per tutto il viaggio con le cinture di sicurezza allacciate, e io custodirò il coltello fino al momento di abbordare il mecha.”  
“Perché? Paura che mi tagli un dito?”
Il Comandante dei Gatchaman si girò lentamente verso Erlik, facendo pesare il gesto, e fissandolo con lo sguardo più duro che riuscì a produrre. “Piantala di fare l'idiota, e va a sederti. Non voglio udire da te nemmeno un sospiro per tutto il resto del volo, o sarà un piacere sbatterti fuori bordo. Non pensare di essere così indispensabile.”
Chiaramente il Galactor aveva sempre bisogno di qualcuno che gli ricordasse il suo posto nel naturale ordine delle cose. Maledetto lui e la sua linguaccia.

Riluttante, Erlik gli tese il fodero senza abbassare gli occhi, poi si girò e finì per collassare in quello che era stato il sedile di Jun. Il tutto senza proferire una parola.
Ken sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Era il fermo tocco di Joe.
Lo guardò, intuendo che sotto il visore un sorriso si stava allargando sulle labbra del Condor.
“G-1, è tempo che anche tu prenda il tuo posto.”
Ken annuì, avvertendo la tensione nella mano di Joe. Anche lui si sentiva già sotto pressione. 

Dopo pochi minuti la Phoenix prese il volo.
Ryu diede la massima accelerazione ai reattori, e Ken percepì i potenti motori danzare sotto di sé.
Si concesse, per la prima volta da quella mattina, un sorriso vero, aiutato dalla pura gioia per le sensazioni che provava sempre al decollo. Ogni volta, in quel particolare momento, si sentiva onnipotente.
Dopo qualche minuto entrarono in orbita, e fu solo dopo una mezz’ora di volo monotono che Ken realizzò quanto silenzioso fosse stato il viaggio fino a quel momento.
 
Joe era immerso nei suoi pensieri, come sempre prima di una missione, ma anche Ryu e Jinpei erano insolitamente quieti.
Non era strano considerato quello che li attendeva, ma Ken cominciava a trovare il silenzio irritante. 
“Jinpei, è vero che stai seguendo un corso di letteratura moderna?” chiese al più giovane del gruppo, decidendo che quello almeno era un argomento neutrale.
“Sicuro!” replicò la vocetta di Jinpei. “È figo!”
“Che strano. Pensavo che trovassi estetici solo i virus informatici che ti diverti a creare” gli fece ironicamente Ryu.
Il diverbio verbale che seguì tra i due portò un sorriso sulle labbra di Ken. Almeno dava l’impressione di normalità a bordo.  
“Mi piacciono addirittura le poesie” stava insistendo Jinpei. “Anche se molte di loro sono davvero cupe. Tutte sullo stesso argomento, poi: amori dimenticati o persone morte giovani. Le rime però sono belle.”
“Qual è la tua favorita?” Ken udì Joe chiedere.
Jinpei rispose dopo un minuto di silenzio.
“Al momento ne ho una appiccicata in testa, ma… non so… è molto triste. Anche se è eroica e marziale.”
“Sentiamola” lo incitò Joe.
Ken pensò che Joe traesse un segreto piacere nel martoriarsi con cupe memorie, ed ebbe paura di quello che Jinpei poteva aver scelto di recitare.
Ma, prima che potesse dire qualcosa, la voce acuta della Rondine aleggiò sopra di loro.

“I have a rendezvous with Death
At some disputed barricade,
When Spring comes back with rustling shade
And apple-blossoms fill the air.
I have a rendezvous with Death
When Spring brings back blue days and fair.
It may be he shall take my hand
And lead me into his dark land
And close my eyes and quench my breath.
It may be I shall pass him still.”
 
Jinpei inciampò sull’ultima rima, ma le parole sembrarono riverberare attraverso il ponte, rimanendo là, congelate tra loro.
“Vai avanti, per favore” Joe gli disse, il tono stranamente roco.
“Non mi ricordo l’intero poema, solo qualche passaggio” si lamentò Jinpei, ma dopo qualche momento riprese.
 
“But I've a rendezvous with Death
At midnight in some flaming town,
When Spring trips north again this year.
And I to my pledged word am true,
I shall not fail that rendezvous.”
 
Ken rabbrividì, infreddolito sin nel profondo dell’anima. Jinpei avrebbe sicuramente potuto scegliere qualcosa di meno lugubre.
Gettò un'occhiata ai suoi compagni. Erano tutti pensierosi, e Joe teneva il capo chino, perso in chissà che incubo dei suoi.
Erlik fissava invece il vuoto dello spazio, che si intravedeva fuori dall'abitacolo della Phoenix. Chissà se aveva ascoltato? Non sembrava particolarmente colpito, eppure era difficile restare indifferenti. Quella poesia, praticamente, raccontava la loro vita.
“Era molto bella Jinpei. Chi è l’autore?” Ken chiese al compagno più giovane, per rompere il momento.
L’altro rispose con un attimo di esitazione. “Alan Seeger, un poeta americano morto combattendo nella Legione Straniera durante la Prima Guerra Mondiale.”
“È bella” gli concesse, serrando i pugni tra di loro. “Ragazzi, non fatevi impressionare dalla difficoltà di questa missione. Io vi prometto che usciremo tutti sani e salvi da là. Tutti noi” sottolineò, perché anche il Galactor si sentisse incluso. Non lo sopportava, ma aveva promesso a Nambu che l'avrebbe riportato indietro. E, come il poeta, lui era fedele alla parola data.
“Questo non sarà il nostro appuntamento con la morte” puntualizzò.

Poi si girò verso il quadro comandi, e così facendo non vide Erlik scuotere la testa.
 


Mecha Galactor, da qualche parte nell’Atlantico


Ancora una volta, l’alieno l’aveva lasciata sola per ore, forse per giorni interi –il tempo nel buio le sembrava non passasse mai– a meditare su quello che le aveva rivelato.
Che la Terra nel passato fosse stata visitata da alieni, Jun l’aveva letto nei rapporti dell’ISO, ma i visitatori non avevano lasciato tracce, e questo confermava quello che la misteriosa voce le aveva detto. Tuttavia, ancora non capiva come la cosa potesse avere a che fare con lei. La chiave era forse in quei sogni che condivideva con l’alieno?
Come se lui le avesse letto nella mente, improvvisamente la voce carezzevole ritornò a farsi udire.
Tutti voi,” le disse, senza preamboli, “che il mio virus ha mutato, mentre dormite potete vedere Spectra, il mio pianeta natale. Siete in collegamento con me, e condividete i miei ricordi. Fino a quando la mutazione non sarà completata, tuttavia, fuori da questo sarcofago non potremo comunicare così chiaramente, ma mi avvertirai comunque. Sai, non è qualcosa che posso fare con un essere umano. Solo con Berg Katze, ma lui è tutto fuorché un umano qualunque.
 
Virus.
Collegamento.
Mutato.
Mutato?

“Di che mutazione stai parlando?”
“La tua, figlia mia. È da giorni che ti sto dicendo che non sei affatto malata. Il virus che ho portato l’ha innescata. È stato il mio cavallo di Troia, come dicono i terrestri. Sapevo che eravate qui, ma non avevo altro modo per trovarvi…”

Jun avrebbe voluto raggomitolarsi e scomparire. Non è che ci fosse molto da interpretare nelle parole dell'alieno. Era tutto piuttosto chiaro. Inaccettabilmente chiaro.
Che cosa mi hai fatto?
Ti ho dato un'opportunità. A te, e a quelli come te. Non sei sola, ma questo lo sai già. Ne incontrerai altri. Anche nella forma larvale, voi riuscite a riconoscervi.
L’attrazione che aveva provato quando aveva incontrato Erlik per la prima volta era stato quindi quello? Riconoscimento?
Altri? Altri chi? Chi siamo?
I miei figli…”
Rabbia e paura ribollirono come lava dentro la ragazza.  “Ma che diavolo dici? In che senso? Perché ci hai fatto questo?
La voce rispose dopo un attimo di esitazione. “Mi sentivo così solo… e questa è una cosa che ora tu puoi capire bene, non è vero?

Mentre la presenza scompariva, ritirandosi da lei come risacca, a Jun venne per la prima volta in tanti anni voglia di piangere per l'assurdità della sua sorte. Come era possibile una cosa del genere? Quello che l’alieno le stava suggerendo era impensabile.
Lei era come lui? Non era possibile, e tuttavia perché continuava a chiamarla figlia? Dov’era la consanguineità tra loro? Lei era umana, nata su quel pianeta, non c’erano dubbi a riguardo.
Ricordava benissimo i suoi genitori, mancati quando era ancora una bambina. E, comunque, gli studi che avevano compiuto su di lei non avevano rivelato nulla di diverso.
Il respiro le si fermò in gola.
Però, gli studi non erano stati ancora completati. E, poi, avrebbe potuto affermare lo stesso di Erlik?
Che ne sapeva lei da dove arrivava? Gliel’aveva mai chiesto seriamente? Le era mai interessato quale fosse il suo passato?   
 
L’alieno sembrava essere già a conoscenza dell’esistenza del giovane, anche se lei era stata attenta a non parlargliene mai. Certo, avrebbe potuto benissimo leggerglielo nella mente.
Si diede della stupida.
Da quello che la voce aveva detto, probabilmente anche Erlik vedeva nei suoi sogni la città dalle alte torri, ma non gliel’aveva mai raccontato, e Jun rimpianse di non averglielo chiesto.
‘E come avrei potuto, quando la sola idea di parlare con lui mi ripugnava? Pensavo non sarebbe servito a nulla… tanto lui era come tutti gli altri Galactor, no? Un laido criminale.’
Laido. Criminale. Quanto tutto, da come lui parlava a come si comportava, se si andava oltre le apparenze diceva il contrario.  
L’entità dell’errore le toglieva il fiato.
Se avesse osato approcciarlo in un modo un po’ più civile da subito, avrebbe potuto scoprire prima molte cose. Avrebbe potuto, dovuto, superare il suo astio, anche se Erlik era così poco collaborativo.
‘Ma non l’ho fatto. E l’errore è solo mio. Lui era prigioniero, probabilmente spaventato. Ha reagito con disprezzo, e io ho avuto paura. Paura di sembrare debole davanti ai miei amici, paura di quelle che potevano essere le reazioni loro, e del personale dell’ISO, se avessi trattato umanamente il soldato nemico che io stessa avevo portato lì. Non desideravo che mi accusassero di complicità con un nemico. Non volevo che mi vedessero parlare con lui. Avevo paura del loro giudizio, più di quanto non desiderassi instaurare un rapporto umano con Erlik.’
Strinse i denti con rabbia, imponendosi di riprendere il controllo del suo corpo.
‘Eppure, che lui capisse il mio dolore, come mi sentivo sola ed estranea anche tra i miei amici, non era quello a cui agognavo da quando ho saputo che c’era un sopravvissuto?’
Soffocare quello a cui teneva davvero. Non era sempre stata bravissima a farlo?
‘Era più importante il giudizio degli altri. Volevo essere quello che per tutti era sempre stata: una ragazza perfetta… un soldato senza macchia.’
Non aveva fatto lo stesso con Ken? Non aveva represso i suoi desideri per paura di quello che potevano pensare di lei? Per timore che la accusassero di mettere le sue aspirazioni di donna davanti alla missione?
E ora, cosa le rimaneva? Si era mai sentita così distante da tutto quello che conosceva? Un alieno le aveva appena detto che era una mutata, tanto diversa quanto era lui dal resto del consesso umano. Che fosse vero oppure no, lei non aveva nessuno con cui condividere il suo strazio.
Aveva allontanato tutti.    

Furibonda con sé stessa, Jun spalancò la bocca in un silenzioso urlo di rabbia, d’un tratto scoprendo che le sue braccia e le sue mani avevano ripreso sensibilità. Afferrò il casco e lo scagliò con tutta la forza che aveva contro la copertura del sarcofago, ancora ed ancora, fino a scardinarlo.
Non era ancora riuscita ad uscire, ma non ci sarebbe voluto molto. 
 

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Capitolo 19
*** Flagello ***


Flagello



Utoland, International Science Organization, -2 ore all'attacco


Nambu entrò nell'ufficio assegnato alla professoressa Pawar con Pandora al seguito, controllando l'orologio.
Di norma, con un attacco programmato in corso, non avrebbe abbandonato il suo posto, ma l'appuntamento con la Pawar per la presentazione dei risultati delle ricerche era stato fissato da giorni, prima del “contrattempo”, e lui reputava fosse altrettanto importante.
Si accomodò su un divanetto davanti alla sua vecchia insegnate di dottorato. La donna, che  aveva superato la settantina, lo accolse con un cenno del capo. Gli occhi intelligenti risaltavano come giaietto sulla pelle scura, e lo sguardo era grave.    
Nambu ne fu stupito. Aruna Pawar era nota nel mondo scientifico per non perdere mai il sorriso. Ma non in quel momento. D'altronde, i riscontri preliminari che lei gli aveva inviato non erano esattamente incoraggianti.

“Grazie per essere venuti” la professoressa gli disse, distribuendo a lui e a Pandora due tablet. “Qui ci sono i risultati definitivi. Non li ho condivisi sul server del laboratorio, e tra il mio staff sono noti solo a me, ai miei due assistenti diretti.”
Nambu annuì, sfiorando con un dito lo schermo. “Come sai abbiamo poco tempo. Guarderò il materiali dopo la missione. Ci puoi sintetizzare i risultati?”
“Certo” Pawar gli rispose, prendendo tempo per bere un sorso di tè dalla tazza che aveva davanti.

Altre due erano posate davanti a Nambu e Pandora, ma lui non aveva ancora toccato la sua. Scrutò la sua ex insegnante mentre beveva. C'era sicuramente qualcosa che non andava. Non ricordava di averla mai vista così. Sembrava spaventata.
“Ti sintetizzo velocemente quello che già sapevamo” la virologa ricominciò, le labbra piegate nel primo pallido sorriso di fronte allo sguardo corrucciato di Nambu. “Scusa, lo so che non hai molto tempo, ma è un'abitudine data da anni di insegnamento, e poi Pandora non ha questa specializzazione, lo faccio per lei. Dicevo, questo virus, a cui abbiamo assegnato il codice di FN 2009, è un retrovirus, che utilizza un enzima chiamato transcrittasi inversa, o DNA-polimerasi-RNA-dipendente, per sintetizzare il suo genoma RNA nel DNA dell’ospite, modificandolo.”
Nambu sapeva tutto a menadito, ma in effetti non era esattamente il campo di studi di Pandora. La scrutò. La sua assistente non perdeva una parola della professoressa Pawar.
“Normalmente,“ la donna stava continuando, pedante come se stesse in effetti tenendo una lezione. “La trascrizione avviene dal DNA all’RNA, che successivamente ordina alle nuclobasi di assemblarsi secondo lo stampo, chiamiamolo così per semplicità, datogli dal DNA. La funzione della trascrittasi inversa invece è di convertire l'RNA del retrovirus in DNA, che successivamente si integra nel DNA della cellula infettata. Questa a sua volta produce RNA mutato, in un’infinita reazione a catena. Le nuove cellule così prodotte, dal genoma modificato rispetto a quelle dell’organismo ospite, non sono più riconosciute come estranee. E non sono più rigettate.” Pawar indicò una sequenza genetica sullo schermo di Pandora. “La trascrizione è resa possibile da un gene, che innesca la produzione dell'enzima responsabile del processo. Nel caso dei nostri soggetti di studio, abbiamo rintracciato il colpevole. È un gene recessivo che sia Jun che Erlik condividono. Loro due, e nessun altro dei soggetti esaminati.”
“L'avete identificato” Nambu esalò. Non poteva sperare in un risultato migliore.
“Sì. Noi dubitiamo che i due pazienti lo posseggano in senso assoluto, sarebbe impossibile, ma è sicuramente molto molto raro. Potrebbe essere associato a qualche malattia genetica, come l'albinismo o l'anemia falciforme, ma questo dobbiamo ancora investigarlo.” La virologa fece un'altra pausa, per prendere l'ennesimo sorso di tè. “Piuttosto, quello che noi pensiamo di questo retrovirus è che il suo fine ultimo potrebbe non essere quello di uccidere l’ospite, ma bensì di modificarne il genoma.”
“Ma come?” la interruppe Pandora. “Tutti quelli a cui è stato inoculato sono morti.”
Pawar alzò una mano. “Quasi tutti, e ora sappiamo il perché: non erano geneticamente predisposti a sopravvivere. E chi lo è, sta subendo una vera e propria mutazione, tanto per cominciare a chiamare le cose con il loro nome.” 
 
“E suppongo sia quindi impossibile bloccare o invertire il processo” chiese Nambu, il quale aveva già chiaro dove quel discorso stesse andando a parare.
Pawar estrasse dalla tasca del camice un blister di pillole che gettò sul tavolo tra di loro. “Combinazioni di farmaci antimetabolici, specifici per i malati di tumore, e agenti antiretrovirali e antiproteasi usati per il trattamento dell’HIV, si sono dimostrati in questo caso inefficaci ad inibire il processo. Hanno solo rallentato il fenomeno della replicazione; anzi, quando lo scorso marzo abbiamo intensificato la terapia di Jun, gli effetti collaterali avversi sono stati più dei benefici. Dal punto di vista medico, dopo anni di sperimentazione, ti devo purtroppo chiaramente confermare che entrambi i soggetti non potranno essere curati da nessun protocollo di cura a noi conosciuto. E quanto all’invertire il processo, lo stato dell’arte delle attuali terapie geniche non ci consente nulla del genere.”
Pandora si prese il capo tra le mani, mentre Nambu abbassava lo sguardo sul palmare. Lo schermo in stand-by rifletteva la sua immagine. Non aveva un bell'aspetto. Alla fine di tutto, quindi, forse Joe era quello che più di tutti c'era andato vicino: Jun non era malata, non lo era mai stata. E se stava male, era solo a causa dei loro maldestri tentativi di invertire un processo inarrestabile.

“Ma perché?” udì Pandora chiedere. “Non ha senso per i piani dei Galactor.”
“E invece sì” lui le rispose. “Siamo noi che non abbiamo capito. Pensavamo che volessero diffondere un'epidemia, e invece miravano alla creazione di super soldati, più forti e più veloci di un normale essere umano.”
La virologa, davanti a lui, incrociò le braccia al petto. “Soldati? Nambu, tu ne sai sicuramente più di me di strategia militare, ma non trovi che il processo per ottenere questi soldati sia un po' troppo lungo e laborioso?” Senza attendere una risposta, la donna cominciò a contare sulle mani. “Innanzitutto dovrebbero lanciare una campagna di screening genetico a livello almeno continentale per trovare i portatori del gene; gli ci vorrebbero anni solo per raccogliere i risultati. Dovrebbero poi produrre le dosi di virus necessarie, che va inoculato; il contagio non si diffonde per via aerea. Senza contare eventuali decessi nel frattempo, stimo che ci metterebbero almeno sei, sette anni per avere dei risultati che, a livello numerico, e considerando la sola popolazione statunitense, potrebbero rientrare nell'ordine del milione di persone su duecentocinquanta milioni. Così, a livello puramente spannometrico considerando la diffusione del gene.”
“Mi sembra notevole come numero” commentò Pandora.
Nambu si alzò, incapace di stare seduto più a lungo. “Sì, ma non sarebbero tutti adulti” rispose alla sua assistente. “In parte sarebbero anche vecchi e bambini, inadatti al combattimento, e anche gli adulti potrebbero non voler lavorare per i Galactor. Anche ammettendo che quei maledetti selezionino solo le persone adatte, l'esito è troppo aleatorio. La professoressa ha ragione, difficilmente è questo l'obiettivo diretto.”

“Con i miei assistenti abbiamo pensato ad una cosa diversa, in effetti...” gli disse lei, debolmente, come se avesse paura a parlare. La donna si portò una mano alla zip che le chiudeva al collo il maglioncino che indossava, prendendo a tormentarsi il tiretto. “Lo leggerete nei file che vi ho dato. La mutazione è molto più estesa di quello che sembra a prima vista. Non è solo fenotipica, ma genotipica. Ha modificato il genoma stesso di Jun e, anche se non possiamo fare confronti, perché non abbiamo campioni del DNA dell’altro paziente antecedenti al momento del contagio, immagino che anche per Erlik sia la stessa cosa.”
Nambu non riusciva a staccare gli occhi dalla mano della Pawar. Ipnotizzato, si mise a posto gli occhiali, senza che ci fosse necessità di farlo. Quella era una pessima notizia. “Quindi questa mutazione” le chiese. “L'avete anche riscontrata nelle linee germinali di entrambi gli individui?”
La sua docente annuì, mentre Pandora li guardava smarrita. “Sì. Questa mutazione sarà con certezza trasmessa ai loro figli.”
Nambu spese qualche secondo a meditare, nel silenzio della stanza. “Professoressa Pawar, perché è così preoccupata?” le chiese poi, quasi dolcemente. Il Direttore dell'ISO in realtà una risposta l'aveva, ma voleva una conferma da lei, uno degli individui più intelligenti e pragmatici che conosceva.

La donna replicò immediatamente. “L'hai detto prima, Nambu. Pur con i trattamenti che gli stiamo somministrando, sono diventati in poco tempo più forti e veloci di un normale essere umano. Hanno inoltre capacità di visione notturna, e quelle strane facoltà extrasensoriali, che entrambi condividono, non sono magia, ma una combinazione di acuità capacità di osservazione, analisi del teatro di caccia, e fattori biochimici. Dobbiamo approfondire, ma temo che secernino particolari ferormoni...”
“E a cosa gli dovrebbero servire?” la interruppe Pandora, che era impallidita.
Fu Nambu a risponderle. “A bloccare le prede, una volta che le hanno individuate.”
“Esattamente” la Pawar puntualizzò annuendo. “Nel regno animale, esistono comportamenti e tratti fisiologici simili, ma lo zoologo del nostro team non li aveva mai visti in una forma così sofisticata. Come se fossero stati ingegnerizzati apposta per creare il predatore ultimo, quello che caccia l'animale più intelligente, del cui sangue si nutre. Noialtri...”
Stringendosi le mani attorno al corpo, Pandora si alzò in piedi a sua volta. “E quindi cosa vorrebbero i Galactor? Creare una... nuova specie?”

La professoressa Pawar sospirò, afferrando la tazza oramai quasi vuota per rimirarne il fondo. “Ritenete che sia un piano troppo ambizioso per un gruppo terroristico che, finora, ha preso di mira solo le nostre risorse naturali? È il vostro lavoro assodarlo. Per quello che mi riguarda, vi posso solo dire come possono farlo.” La donna posò la tazza, cominciando a contare sulla punta delle dita. “Innanzitutto hanno bisogno di mutare inizialmente un gruppo sufficientemente numeroso di persone, per ottenere il minimo della variabilità genetica necessaria a scongiurare la trasmissione di malattie genetiche. Come spiegavo poc'anzi, devono prima individuare il gruppo target, produrre e inoculare le dosi di virus, e infine controllare gli effetti collaterali. È uno sforzo organizzativo e produttivo alla portata solo delle multinazionali più forti sul mercato, con partecipazioni in cliniche private e pubbliche. Fossi in voi le terrei d'occhio, prima che una di loro entri nell'orbita dei Galactor. Dubito che ci siano di già, altrimenti i nostri nemici non avrebbero infettato persone a caso sperando di ottenerne la mutazione, come se nemmeno loro avessero capito quello che avevano per le mani.”
“Quali sono queste aziende?” le chiese Pandora.
“Pochissime. Torche, Hobson&Hobson, Mayer, Kahn-Kobashi, Rezif Phama, più altre cinque o sei. Vi preparerò una lista.”
Nambu annuì, gelato sin nell'anima. “Grazie, professoressa. Adesso andiamo, Pandora, dobbiamo seguire l'attacco.”
“Una raccomandazione, Nambu” gli disse Pawar, levandosi in piedi. Sembrava invecchiata di colpo di ulteriori dieci anni. “Sono medico per formazione e ho pronunciato il giuramento di Ippocrate. Ma ho anche una figlia e due bellissimi nipoti, e sono preoccupata, no terrorizzata, se penso a quello che li aspetta in futuro. Ti prego, Nambu, risolvi questa... aberrazione, o non saremo al vertice della catena alimentare ancora per molto. Se i Galactor dovessero portare a termine quello che noi pensiamo sia il loro piano, in pochi anni il pianeta diventerà il territorio di caccia di una nuova specie dominante.”

    
 
Nambu quasi corse fuori dall'ufficio. Fu solo quando arrivò all'ascensore che si accorse che Pandora lo stava chiamando. Era talmente immerso nei propri pensieri da non aver sentito. Come aveva potuto sbagliarsi così tanto?
La donna lo raggiunse. Era sconvolta. “Nambu. Hai sentito quello che ha detto? Siamo ancora in tempo. Abortiamo la missione.” 
“No, non possiamo. A questo punto, proprio per quello che ha detto, è vitale riavere Jun.”
“Ma se qualcosa andasse storto...” Pandora scosse la testa. I capelli rossi si mossero morbidamente attorno al suo viso esangue. “I Galactor avrebbero tutto.”
“Lo so. Ma ci penseremo se e quando succederà.”
Il Direttore dell'ISO entrò nell'ascensore con un'unica certezza: che doveva aver fiducia nei suoi ragazzi. Loro sarebbero rientrati vittoriosi, erano nati per quello.
 


Mecha Galactor, da qualche parte nell’Atlantico


Jun si risvegliò dall'incubo agitando freneticamente le braccia davanti a lei. Questa volta, quando colpì il coperchio del sarcofago, questo si aprì senza problemi.
Emerse dal liquido vischioso respirando voracemente l'aria, sentendo il gel che si asciugava  sulla sua pelle.

Dopo qualche secondo, con ancora il cuore che le martellava nel petto, aprì gli occhi, che ancora avevano davanti quello che aveva visto nel suo incubo. Concreto e reale come la stanza disadorna che la circondava.
'Un ricordo, non un incubo' si corresse. 'Evidentemente un ricordo. E non è possibile che l’alieno abbia voluto farmi vedere quello. Il dettaglio che aveva tralasciato nei suoi racconti sulla grandezza del suo popolo. Probabilmente mi ha lasciata troppo a lungo a contatto con la sua mente, ed è filtrato qualcosa che io non avrei dovuto conoscere.'
La ragazza, come in trance, si prese tra le mani le ciocche di capelli che mollemente le pendevano attorno al viso. La tinta si era sbiadita, e lasciava trasparire il candore sottostante. Erano bianchi. Come la sua pelle. Come la pelle e i capelli degli esseri che aveva visto in sogno. Gli abitanti del mondo che l’alieno magnificava.
'Senza melanina, perché non ne avevano bisogno sul loro pianeta di origine, perennemente avvolto nel crepuscolo. Erano aggressivi, e intelligenti, e avevano costruito un impero stellare basato sul terrore. Mondi di esseri dal sangue caldo erano stati resi schiavi, e costretti a pagare un tributo di sangue ai loro pallidi padroni. Letteralmente. E agli alieni il pasto piaceva vivo. Dissanguavano le vittime a poco a poco, badando a mantenerle vive il più a lungo possibile. Fino a quando gli schiavi non si erano ribellati.'
La nausea le serrò la gola, e Jun si portò una mano alla bocca, combattendo contro i ricordi che la assalivano di nuovo.
'Altri mondi invece, come la Terra, erano usati come territori di caccia. Sanguinari parchi divertimento di dimensioni planetarie, dove gli esseri umani non erano altro che selvaggina e materiale da esperimenti. A quanto risale tutto questo? Forse due o tremila anni fa? Il folclore mondiale è ricco di esseri abominevoli, che vivono di notte e si cibano del sangue dei loro simili.'   
Rabbrividì a ripensarci.
'E io? L’alieno ha detto che i suoi simili avevano lasciato una traccia del loro passaggio su questo pianeta. Forse è qui, nel mio genoma. Probabilmente è rimasta una traccia di quegli esperimenti. O forse sono il frutto di un incrocio tra gli alieni, rimasti bloccati qui quando il loro mondo di origine è stato distrutto, e la popolazione locale. È questo il motivo per cui il virus su di me ha funzionato, e non mi ha uccisa? In ogni caso, ho saputo abbastanza.'      
Tutto le era chiaro. Quello che stava cercando di fare l’alieno, e quello che doveva fare lei. Strinse i pugni cercando di non pensare a quello che si era proposta. La voce nella sua testa era ridotta ad un bisbiglio di fondo, ma non voleva comunque farlo insospettire.

Voltandosi verso la porta, scoprì un nutrito gruppo di Galactor che bloccava l'uscita. Chissà da quanto erano lì. In parte soldati ordinari, in parte Black Bird, se ne stavano impalati con i mitra in mano, a fissarla come se non l'avessero mai vista in vita loro. Nessuno si muoveva.
Avevano troppa paura di lei. E Jun non aveva bisogno di nessuna facoltà speciale per capirlo, era chiaro dalla postura.
Con uno sforzo, gettò le gambe oltre al bordo del sarcofago e si lasciò scivolare fuori. Dovette aggrapparsi al bordo per non cadere. Non voleva dare a quegli uomini alcuna occasione per vederla debole. Erano come una muta di cani davanti ad un puma. Lei era più forte ma loro erano un branco. Se avessero avvertito una fragilità, l'avrebbero attaccata. 
Invece, più elegantemente che poté, spese un momento a rassettarsi l'uniforme spiegazzata. Poi si sistemò una ciocca di capelli dietro le orecchie, lasciando pendere l'altra sul seno. Infine recuperò il suo casco, ma non lo indossò. Che la guardassero pure in faccia, oramai non le importava nulla.
Solo allora alzò gli occhi verso il gruppo, identificando in un tizio corpulento in divisa verde il capo della combriccola. Quanto meno, doveva essere quello che aveva meno paura di tutti: era un paio di passi davanti agli altri.
Jun lo fissò, piegando le labbra in un sorriso ferino. “Portami da Berg Katze.”     

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Capitolo 20
*** Dedalo ***


Dedalo



Mecha Galactor, Atlantico Occidentale


Ken si guardò attorno, ispezionando la baia di carico dove era riuscito ad accedere, con Erlik al seguito. Il Galactor non aveva avuto fortunatamente particolari difficoltà a seguirlo, e stava ora nascondendo la muta e il respiratore dietro ad una pila di pallet. 

Il Comandante dei Gatchaman era preoccupato. Non era previsto che i due team si dividessero, ma era successo. Un’emersione improvvisa del mecha Galactor aveva costretto il suo mezzo e quello di Joe ad attraccare ai lati opposti della nave nemica ed ora, come la prima volta in cui avevano messo piede lì dentro, i dispositivi di jamming dei Galactor impedivano le comunicazioni.
Prima di abbordare il mezzo si era dato un rendez-vous con Joe nella sala dove erano stati divisi da Jun, che era posizionata bene o male al centro del mecha; tuttavia, se fosse andato storto qualcosa a chiunque di loro, gli altri l’avrebbero scoperto troppo tardi per poter prestare soccorso.

Ken strinse con la mano sinistra la tracolla che reggeva il fodero della spada. Gli dava sicurezza quell’arma. Poi indicò due porte all’estremità della baia.
“Quale?” chiese girandosi verso Erlik.
Il Galactor aveva indossato la maschera verde che tutti loro portavano. Ken sapeva che le sue lenti rosse non incorporavano nessun mezzo per la visione notturna, ma Erlik non sembrava avere nessun problema in tal senso.          
Ken osservò il suo compagno inclinare la testa da un lato, per poi guardare alternativamente le porte. Sembrava confuso.
“Lei è qui… da qualche parte di sopra” Erlik disse lentamente. “Ma non riesco chiaramente ad individuarla.
L’Aquila si irrigidì. “Nambu diceva che tu potevi.”
“All’ISO. Ma qui c’è un qualche tipo di… interferenza” il Galactor replicò irritato.
Ken si avvicinò di un passo.
“Stai scherzando? E che cosa dovrebbe mai interferire con una… capacità psichica?”
Erlik incrociò le braccia al petto, come a voler piazzare qualcosa tra loro.
“E io che ne so? Non mi hanno dato il libretto di istruzioni per questa cosa. Ti ripeto che non so cosa sia ma sento come un fruscio di elettricità statica.”
Quando avevano abbordato il mecha con Jun, il Cigno aveva detto la stessa cosa. Ken avvertì un brivido di freddo. Non era per niente normale.
Si sporse in avanti, il suo volto pochi centimetri da quello dell’altro uomo.
“Perfetto, quindi non puoi localizzare Jun da qui. Allora ti dirò quello che faremo. Prenderemo la porta a destra, sperando che ci porti di sopra, magari da lassù riceverai una… trasmissione più chiara. Vai prima tu e io ti seguo. Non dimenticarti che io posso rendermi invisibile alle telecamere ma tu no, quindi cammina naturalmente, come se sapessi dove devi andare. Se quei corridoi non sono troppo popolati, e siamo fortunati, penseranno che sei solo uno dei loro soldati che si è perso.”
“Altrimenti?”
“Manderanno qualcuno a controllare. Sarò là ad aiutarti ma preferirei rimanere non visto il più a lungo possibile.” Ken indicò con un cenno del capo il coltello che pendeva dalla cintura di Erlik. “So che hai specificato a Nambu che non avresti combattuto contro i tuoi ex compagni. La scelta è tua. Se sgozzarli va contro le tue regole di ingaggio, puoi sempre cercare di convincerli a parole a non spararti.”
Da una certa tensione nella mandibola di Erlik, Ken intuì come l’altro stesse probabilmente sopprimendo una risposta acida. Ma inaspettatamente il Galactor annuì e, girandosi bruscamente, si diresse verso la porta.
Ken lo seguì un istante più tardi, notando positivamente come tutte le telecamere di videosorveglianza fossero puntate sul suo compagno, lasciando un angolo cieco dove lui si poteva nascondere.
 


“Hai una minima idea di dove stiamo andando?” Ken gli sussurrò per l’ennesima volta.
Erlik era vicino al punto di girarsi e tirargli in faccio il maledetto coltello. “Come ti già detto due minuti fa: NO.”
Il giovane chiuse gli occhi appoggiandosi alla paratia. Il brusio di fondo che sentiva gli stava facendo venire un mal di testa monumentale, che il continuo piagnisteo di Ken non contribuiva ad alleviare. Era difficile concentrarsi, anche se risalendo nel mecha la sensazione che si stessero avvicinando a Jun si era acuita.
“Potremmo essere vicini” concesse al Techno Ninja, tanto per farlo stare zitto.
“Buon per te.”
 
Erlik soffocò una risposta irritata. Si era già pentito di essersi offerto per quella missione. Non aveva previsto che la continua compagnia con quel pallone gonfiato di Ken sarebbe stata così insopportabile. 
Gli venne voglia di urlare, ma non era certo che quella fosse la cosa più logica da fare. Anzi, probabilmente era il modo migliore per avere il boomerang di Ken piantato nella schiena.
Ad un tratto avvertì qualcuno arrivare da uno dei corridoi laterali: due persone, circondate da un’aura di determinata spietatezza. Si bloccò improvvisamente.
Quando si materializzarono da dietro l’angolo, Erlik dovette combattere la tentazione di girarsi e scappare: non avrebbero potuto incontrare gente peggiore.
I nuovi arrivati erano due donne; portavano una maschera che gli copriva gli occhi e parte del viso, incorniciato da parrucche colorate. Le due vestivano aderenti tute scarlatte adorne di un collo di pelliccia: l’uniforme delle infauste Devil Star.
La coppia si fermò al centro del corridoio, braccia lungo i fianchi e apparentemente rilassate. Per loro, Erlik non rappresentava alcun pericolo.
“Che stai facendo qui? È un settore vietato a voi soldati semplici” una delle due gli disse.
Erlik la ignorò, adocchiando invece l’altra Devil Star, una po' più alta della compagna e con la parrucca di un blu brillante. La ragazza aveva un qualcosa che lo attirava; se fosse stato un profumo, sarebbe stato uno molto buono.
“E allora? Sei sordo o scemo? O entrambi?”
La sbrigativa domanda lo mise in allarme; con quelle non era il caso di distrarsi. Alzò entrambe le mani per scusarsi, cercando di non prestare troppa attenzione alla ragazza alta.
“Mi spiace, ma il comandante Katze mi ha spedito nell’hangar e mi sono perso. I corridoi sono infiniti quaggiù e io non ho una mappa.”
Aveva sperato che nominare Berg Katze servisse come lasciapassare, ma fu subito deluso. La donna che gli aveva fatto la domanda rispose con una risata cattiva, mentre l’altra era ferma e silenziosa, e solo la sua testa si muoveva; guardava alternativamente la sua compagna ed Erlik, come se non sapesse cosa fare.
“Una mappa? Allora sei proprio stupido. Non sai che ce n’è una in ogni angolo? Le hanno sistemate così proprio per voi idioti, ma chiaramente non è stato sufficiente. Comunque, cosa cercavi per il comandante?”
Erlik si irrigidì. Cos’è che la tizia gli aveva detto? Sentiva la testa scoppiare. “Qualcosa che non ho trovato” rispose evasivamente, e forse in modo un po’ troppo brusco per i gusti delle Devil Star.
Le due donne girarono per un istante il capo l’una verso l’altra, come a volersi scambiare un’occhiata, poi la più bassa si mise le mani sui fianchi. “Sei veramente senza cervello. E dici anche un sacco di cazzate. Sai, si dà il caso che noi supervisioniamo tutto il personale assegnato al comandante Katze, e non mi sembra di averti mai visto.” La Devil Star lo squadrò da capo a piedi, esibendo un sorriso cattivo. “Uno come te me lo sarei ricordato. Dimmi il tuo nome e ID, soldato.”
Erlik fece un passo indietro, ma donna lo seguì. Adesso avrebbe davvero gradito un po' di aiuto da parte dell'Aquila. Si spostò preventivamente verso il muro, sperando che Ken cogliesse l'implicito suggerimento.
“Nome e matricola” la Devil Star ripeté, la voce dura come acciaio.
Come ad esaudire la preghiera di Erlik, una falce argentata tagliò l’aria, accarezzando la donna che gli aveva appena parlato ed infilandosi nel muro sopra la testa della seconda, che si era mossa di lato all’ultimo secondo.
Erlik si appiattì contro il muro mentre la Devil Star davanti a lui collassava al suolo, il torace aperto dal BirdRang.
Il giovane ebbe un istante per riconoscere la rosa esplosiva che la seconda ragazza aveva in mano. Lei si sporse, allungando il braccio per lanciare l’arma.
Un'ombra bianca si mosse verso di lei, superandola con una piroetta e recidendole il braccio che reggeva la rosa. Quando si fermò, l'ombra si materializzò nella figura di Ken; il Gatchaman reggeva il moncone del braccio della Devil Star. La rosa era rimasta al suo posto, tra le dita della sua proprietaria. Se non fosse stato un momento critico, Erlik sarebbe scoppiato a ridere per l’assurdità della cosa. 
Il corpo della ragazza cadde sulle ginocchia. Una linea rossa apparve lungo il collo, che lentamente si aprì, come se lei avesse una zip sulla pelle, rivelando i tessuti sottostanti.
Finalmente la testa rotolò da un lato, seguita dal corpo. Fiotti di sangue eruttarono dal collo decapitato.
 
Ken alzò la testa verso Erlik, le labbra serrate sotto l’orlo del visore. “Potevi anche raccontare una bugia più credibile, no?”
Erlik scosse le spalle. Non bastava il mal di testa, ora ci si metteva anche l'odore di sangue caldo a complicare le cose. Cercò di mantenere l'attenzione su Ken. “Questo continuo ronzio mi confonde. E potevo inventarmi qualunque palla, due stronze del genere non ci avrebbero comunque creduto.”
“Ma come? Per queste non hai la stessa compassione che provi per il resto dei Galactor?”
“No. Sono delle psicopatiche.”
L'Aquila si chinò per posare delicatamente rosa e braccio a terra, emettendo un suono che poteva essere una risata soffocata. “Tutti assassini uguali, per me. Ma andiamo ora, abbiamo già perso troppo tempo.”
Con una smorfia, Erlik si avviò con Ken, lanciando uno sguardo al corpo decapitato in mezzo al corridoio. Il profumo stava scomparendo.
 


Mano a mano che avanzava verso la sala comando principale, dove sapeva che avrebbe trovato Berg Katze, Jun aveva notato un deciso cambiamento nell'umore degli uomini che la circondavano e la seguivano: da carcerieri, erano diventati quasi il suo picchetto d'onore.
La ragazza sorrise lievemente. Sicuramente avevano ancora paura di lei, ma avvertiva contemporaneamente in tutti loro un curioso orgoglio, che il Cigno non riusciva a spiegarsi. Certo, c'era anche una componente di attrazione sessuale che nessuno di quelli che la attorniavano riusciva a nascondere.
Fosse stata ancora la vecchia Jun sarebbe arrossita, ma ora non le importava più niente. L'esperimento che l’alieno aveva compito su di lei aveva violato il suo corpo in un modo assai più profondo di un'occhiata lasciva. Che fantasticassero su lei come volevano, quello che percepiva era come aria calda sulla sua pelle. Un fastidio momentaneo, ma assolutamente sopportabile.

Le porte della sala comando si aprirono davanti a lei, e Jun le varcò. I soldati si scostarono per permetterle di passare, e lei avanzò fino a trovarsi di fronte a Berg Katze. Il leader dei Galactor era rivolto verso gli schermi che decoravano l'intera parete.
Tutti gli uomini nella sala si erano voltati al suo ingresso, ma lui attese. E quando si girò verso di lei lo fece lentamente, come a voler sottolineare che non aveva nessuna urgenza, né particolare timore di vederla.
Berg Katze torreggiò sopra Jun, sembrando immenso nel mantello porpora che l'avvolgeva. L'inquietante maschera da sciacallo che gli celava il viso si abbassò verso la ragazza, come a voler mimare un inchino.
“Oh, la principessa dei Gatchaman si è svegliata. Sono felice di fare la tua conoscenza, finalmente. Sai, ti ho guardata spesso negli ultimi giorni. Ti ho osservata mentre eri chiusa in quel sarcofago, e ti agitavi quando Sosai ti parlava. È stato molto… soddisfacente” le disse abbassando la voce sull’ultimo vocabolo, come a volerle sussurrare un segreto sconcio che avrebbe dovuto rimanere tra loro.
Jun lo fissò senza mostrare alcun timore. Non riusciva a percepire nulla di Berg Katze, quindi o lui era molto bravo a nascondere le sue emozioni, o aveva poteri che non le consentivano di leggerlo. In ogni caso, non è che ci volesse uno psicologo per capire quello che stava tentando di fare.
La ragazza si appoggiò una mano sul fianco, notando che Katze portava agganciata alla cintura la sua spada inguainata… non avrebbe potuto chiedere occorrenza migliore.
“Sei penoso” gli disse a voce alta, perché tutti presenti sentissero. “Pensi che mi scandalizzi per così poco? Buon per te che hai osservato, spero ti sia goduto lo spettacolo.” Jun vide le labbra di Katze distendersi in un ghigno divertito, ma non gli diede il tempo di replicare. “E così si chiama Sosai il nostro comune amico alieno, eh? Hai anche sentito quello che mi diceva? Sai, mi ha raccontato una strana storia su di te, ma io non ci credo molto…”
“Certo che ho sentito tutto” Berg Katze le rispose, la voce sempre controllata e il tono vagamente flautato. “Lui ti ha cambiata… e ora non puoi più tornare dai tuo amici. Ora sei nostra, sarai la nostra arma contro di loro.”
“Oh… nostra?”
Con studiata calma, la ragazza si guardò attorno, lo sguardo che sfiorava tutti i Galactor nella sala. Poi, soddisfatta da quello che aveva percepito, tornò a rivolgersi a Berg Katze.
“Sosai voleva farmi credere che tu fossi il suo carceriere. Che tu avessi approfittato della sua debolezza per carpirgli i segreti della sua tecnologia, ma io credo che la storia sia ben diversa.” Strinse gli occhi, lasciando scorrere liberamente tutto il risentimento che aveva provato negli ultimi mesi. “Tu, sei solo un altro mostro creato da Sosai” declamò. “Un'aberrazione. Ma non come me. Tu sei un instabile pazzoide, uno strumento utile all'alieno, da sostituire non appena gli obiettivi saranno raggiunti.” Gli puntò il dito contro. “Tutti gli attacchi che hai pianificato, tutti i tuoi stupidi e contorti piani, sono stati vanificati da noi Techno Ninja. Perché sei solo un'incompetente buffone.”
La risata di Berg Katze interruppe il suo sermone. Alta e sgraziata si levò nella sala, nel silenzio generale. “Ohh il nostro uccellino ha tirato fuori gli artigli? Quindi non sei più un cigno ma un falco?” Il leader dei Galactor si mise entrambi le mani sui fianchi, sporgendosi verso di lei e stirando le labbra lucide in un ghigno beffardo. “E dopo avermi detto tutte queste belle cose, chi pensi di essere tu?”
“Io?” Jun si appoggiò la mano aperta sul petto, sgranando gli occhi verdi come se non si fosse aspettata la domanda. “Non l'hai ancora capito? Non te l'hai detto Sosai? A cosa pensi che servisse il virus che ti ha fatto inconsapevolmente testare? A trovare me, e quelli come me. Noi, i suoi figli legittimi. La razza eletta che erediterà la Terra, e la trasformerà ad immagine e somiglianza di Spectra, il pianeta da dove Sosai proviene.”
Era stato un azzardo, ma Jun era praticamente certa che l'alieno non avesse detto nulla a Berg Katze. Già il fatto che il leader dei Galactor non avesse chiaramente idea di come funzionava il virus, era ragione sufficiente per credere che fosse completamente all'oscuro dei piani di Sosai. In quel momento, oltretutto, l'alieno era silente nella tua testa, e probabilmente anche in quella di Berg Katze, visto come il mutaforma stava reagendo. Che Sosai stesse testando i suoi pupilli? Jun lo sperava.
Vide Katze irrigidirsi, e seppe di aver colto nel segno.
“Ma che stai dicendo?” ribatté lui, il tono acuto che tradiva il suo sdegno. Si mosse passandole accanto e mettendosi tra lei e i soldati; lì le si rivolse con una melodrammatica piroetta che gli gonfiò il mantello. “Non dire sciocchezze, ragazza-Cigno. Sei tu che sei solo uno strumento. La nostra arma per conquistare la Terra.”
Era fin troppo facile. Jun spostò il focus del suo sguardo sugli uomini dietro a Katze. “Ancora dici nostro. Qui non c'è nulla di tuo, idiota con le orecchie a punta. Da Sosai arrivano i mezzi con cui i Galactor portano i loro attacchi, mentre i membri dell'organizzazione non sono tuoi. Hanno solo paura di te.”           
“E quindi? La paura porta obbedienza.”
La ragazza si permise una risatina derisoria. “Per questo siete sconfitti tutte le volte. No, è l'amore che porta alla sottomissione totale.” Con un gesto affettato della mano indicò i presenti, senza smettere di sorridere nel modo più dolce ed insieme civettuolo che riuscì ad esibire. “Chiedilo a loro se non ci credi.”
Se Berg Katze non avesse indossato la maschera, Jun era certa che il mutaforma avrebbe inalberato l'espressione più stupita del mondo. Lo osservò guardarsi attorno, e finalmente notare come i suoi uomini fossero completamente ipnotizzati da lei.

Katze reagì con furia, muovendosi così velocemente che Jun quasi non riuscì a vederlo. Chiuse la distanza tra loro afferrandola per la gola con entrambe le mani. La sollevò facilmente da terra, esponendo però il torace. Jun rispose senza nemmeno pensarci. Mise tutta la sua considerevole forza in un calcio laterale che colpì Katze sottò l'ascella sinistra. La pressione sul suo collo si estinse immediatamente mentre il comandante dei Galactor si piegava sulle ginocchia con un ululato di dolore.
Jun giudicò di avergli rotto almeno un paio di costole. Non era un cattivo risultato per un unico calcio.
Adesso Katze era rannicchiato ai suoi piedi, mentre Sosai continuava a tacere e i Galactor presenti a godersi lo spettacolo. Nessuno stava intervenendo a difendere il loro comandante.  
Jun fece un passo verso di lui, costringendolo ad alzare la testa per guardarla.
“Vedi? Sei anche debole. Perché non fai un favore a te stesso e a noialtri e ti tagli le vene con quella bella spada che porti? I Galactor non hanno bisogno di una nullità come te.”
Berg Katze non rideva più. Scoprì i denti in un ghigno che non aveva nulla di umano, poi balzò in piedi sguainando con la destra la spada e in un unico, fluido movimento, la attaccò.
Jun non fece nulla per evitarlo.  
 

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Capitolo 21
*** Frattura ***


Frattura



Mecha Galactor, Atlantico Occidentale


Katze calò la spada sulla ragazza, furibondo come mai ricordava di essere stato in vita sua.
Come osava quella cagna sbeffeggiarlo davanti ai suoi uomini?
L’avrebbe uccisa sul posto, per poi togliere la vita anche a tutti gli idioti che se ne stavano a guardare impalati, come se non avessero mai visto una femmina in vita loro.
“FERMO!” 
Il ruggito di Sosai penetrò attraverso la nebbia della sua collera come un coltello infuocato nel burro.  
I riflessi di Berg Katze, molto più veloci di quelli di un normale essere umano, bloccarono il braccio senza che nemmeno il suo proprietario se ne accorgesse coscientemente, e un attimo prima di combinare un disastro.
La lama si posò lieve sul collo della ragazza-Cigno. Lei rimase a fissare il comandante dei Galactor come mesmerizzata, i grandi occhi verdi spalancati, forse per la sorpresa di non essere stata colpita.
Attingendo a tutta la sua forza di volontà, Berg Katze strinse i denti, ruotando la spada in modo da appoggiare la lama di piatto sul collo della Techno Ninja.

“Mio signore…” sussurrò mentalmente.
“Non osare colpirla.”
“È vero quello che questa ragazza mi ha detto? Che la sua mutazione è stata indotta perché… lei prendesse il mio posto?”
La domanda, sincera, gli era venuta dal cuore, e la risposta che l’alieno gli diede fu come una stilettata. “Katze, osi dubitare di me?”
Il comandante dei Galactor trattenne il fiato, tanto malvolente era stato il tono di Sosai. Non c’era alcun dubbio avesse deluso il suo signore.
“Cosa avrei dovuto raccontarle per farla passare dalla nostra parte, secondo te?” l’alieno gli disse. “Lei ora si rende perfettamente conto che non è più come gli altri. Solo mostrandole un futuro di grandezza avrei potuto vincere il suo terrore. In futuro in cui vivrà in un mondo dove tutti saranno come lei.”
“E non è vero?”
La risatina di Sosai lo fece subito pentire di avere posto la questione. Era sembrata idiota anche a lui, ma non riusciva più a controllare le proprie emozioni.
“Certo che no. Perché dovrei sostituire la popolazione di questo pianeta, composta da deboli schiavi, con esseri impossibili da controllare? Mi serve un unico dominatore, e quello sei tu.”
Berg Katze esitò. Quello che aveva sentito era ragionevole, ma non era ancora convinto. Drammaticamente, si rese conto che non avrebbe comunque potuto farci nulla.
Focalizzò la sua attenzione sulla ragazza-Cigno, che continuava a fissarlo, senza muovere un muscolo ma senza nemmeno nascondere l’espressione di sfida che ora inalberava.        
Che cosa poteva fare?
Se l’avesse colpita, Sosai l’avrebbe ucciso sul posto. E, se non l’avesse fatto lui, Katze era ragionevolmente certo che tutti i soldati presenti gli avrebbero sparato. La Techno Ninja non aveva mentito a proposito: erano come incantati da lei, soggiogati da qualche strana malia. Avrebbe potuto colpirne qualcuno, ma erano troppi anche per lui.
“Che cosa stai facendo? Lei è la guerriera che ti avevo promesso, quella che ci libererà dai Gatchaman. Abbassa quell’arma. Subito.”
La tensione del momento fu spezzata dallo stridio di un allarme.
Per la sorpresa Berg Katze quasi lasciò cadere la spada. Si allontanò dalla ragazza e guardò gli schermi davanti a sé, che mostravano i due Techno Ninja con il codice di Condor e Rondine combattere nei corridoi. Si stavano dirigendo verso il centro del mecha, e non sembrava ci fosse qualcuno in grado di fermarli.
Anche la ragazza-Cigno si girò, dimentica dell’arma ancora puntata contro di lei. Gli diede le spalle, probabilmente sicura che lui non l’avrebbe mai colpita. Il gesto lo innervosì, ma non poté fare a meno di abbassare la spada, come Sosai gli aveva ordinato.
“Maledetta” sibilò a bassa voce, ma non così tanto che lei non potesse sentirlo.
Non poteva farci nulla; per toglierla di mezzo avrebbe dovuto aspettare il momento propizio. Che sicuramente non era quello.

“Hai un bel problema” gli fece notare la ragazza, come se lui fosse cieco.
“Ovviamente.”
“Sai benissimo che i tuoi soldati non sono in grado di fermare i Techno Ninja. Ci penserò io a loro.”
Sicuramente non era cieco, ma Katze per un attimo pensò di essere diventato sordo. Aveva davvero capito bene?
“Mi prendi in giro?” ritorse. “Non posso credere che combatteresti contro i tuoi compagni.”
Lei scosse le spalle. “Invece dovrai fidarti. Se non intervengo io quelli distruggeranno questo posto palmo a palmo, fino a quando non mi avranno trovata.”
“Mi vuoi dire che a te non piacerebbe?”
Katze vide la ragazza spostare il peso da un piede all’altro. “Certo che mi piacerebbe. Ma ciò non significa che io possa tornare con loro.” Si girò, avvicinandosi a lui fin quasi a sfiorarlo. “Ora che so quello che sono diventata, con che coraggio potrei mai tornare tra di loro?” Lo sguardo del Cigno si indurì. “Sono un mostro. Meglio che cominci a comportarmi come tale.”
Seppur impercettibilmente, il comandante dei Galactor si mosse per allontanarsi da lei. Che ci fosse qualcosa che in quella ragazza non andava era chiarissimo. Il suo profumo era repellente e sbagliato. E nemmeno gli importava sapere da Sosai che specie di essere fosse esattamente diventata; in ogni caso, lui voleva averci a che fare il meno possibile. E liberarsene quanto prima.
Accompagnando il gesto da un inchino, le gettò la spada, che la ragazza prese al volo. A Katze doleva il fianco, ma sopportò.
“Non mi servono spiegazioni. Se insisti a combattere i tuoi ex-compagni, non sarò certo io ad oppormi. Accomodati pure.”
 


Una volta ancora Joe sentì il soddisfacente rumore di ossa spezzate. Gettò via il corpo del Galactor che aveva strangolato, per poi girarsi verso il suo compagno.
Jinpei si era appena liberato di due uomini grossi il doppio di lui; la Rondine lo guardò scuotendo la testa. “Sono dieci minuti che combattiamo, hai idea di dove stiamo andando?”
Joe indicò dietro di sé. “Al punto di rendez-vous con Ken, e dobbiamo anche muoverci, l'allarme l'avrà sentito anche lui”.
“Non faceva parte del piano farlo scattare, me lo ricordo bene.”
“Lo so, ma come hai visto che non ci hanno lasciato scelta. Adesso andiamo, prima ci ricongiungiamo con Ken prima riusciremo ad attaccare la sala comando; è l'unico modo per prendere il controllo di questa mostruosità ed evitare che sbarchino Jun.”
Senza aspettare la riposta del compagno, Joe si volse e cominciò a correre.

Come al solito si era lasciato prendere la mano, ma d’altronde nessuno aveva previsto che ci fossero pattuglie di Devil Star a bordo.
Joe strinse i denti. ‘Nambu fa tutto facile. Avrei voluto vedere lui cercare di saltare quelle stronze senza farsi notare.’
Ora non potevano che ricongiungersi a Ken, e con lui tentare di rintracciare il ponte principale del mezzo e Jun. Sempre che l'Aquila non avesse già trovato la loro compagna.
‘E chissà che nel frattempo non abbia invece perso per strada quel povero idiota di Erlik. Sarebbe l’unica buona notizia della giornata.’      

Dopo qualche minuto arrivarono a destinazione. La grande sala era come Joe se la ricordava: uno spazio chiuso, illuminato a giorno, decorato da una passerella che correva a circa metà dell’altezza tra il pavimento e il soffitto. A differenza della volta precedente, una porta si apriva ora a livello del suolo, dall’altra parte della sala rispetto a quella da dove erano appena entrati lui e Jinpei. Entrambe le aperture si stavano velocemente riempiendo di truppe Galactor.
Joe guardò i muri. Che ci fossero altre porte nascoste? Non sarebbe stata una cattiva notizia.
La sua attenzione si spostò poi al pavimento, dove si avventurò con cautela.
“Stai attendo” intimò al suo compagno, indicandogli le piastre sulle quali stavano camminando. “E preparati a saltare nel caso si aprissero all’improvviso. È così che hanno preso in trappola tua sorella.”
Stava ancora fissando il pavimento, quindi non la vide finché Jinpei non ne sussurrò il nome.
“Jun…”
Sorpreso, Joe alzò la testa. Il Cigno era in piedi sopra il corrimano, sicura come se fosse in equilibrio su un piedistallo.
“Sorellona!” udì Jinpei urlare felice.
Allo stesso modo, il Condor avrebbe dovuto gioire, eppure c'era qualcosa che non tornava. Dal punto in cui era non poteva vedere il volto della ragazza, ma aveva uno strano presentimento.
Il Cigno si lanciò di sotto, planando elegantemente attraverso la sala. Atterrò a qualche metro dai suoi due compagni, sguainando contemporaneamente la spada.
Joe conosceva quella posa, la rigidità nei muscoli, il respiro trattenuto. Era come vedere se stesso in uno specchio. Jun era pronta ad attaccare.
 
Urlando un avvertimento gettò Jinpei da parte, mentre Jun si lanciava in avanti, katana in una mano e il fodero nell’altra.
Joe, che nel frattempo aveva estratto la pistola, piroettò da un lato ma non abbastanza rapidamente, e avvertì la punta affilata della lama scalfirgli la pelle appena sopra la cintura.
Si allontanò con un balzo, per poi gettarle una shuriken, tentando di mirare la mano che reggeva la spada, ma la ragazza schivò facilmente l’arma.
Joe non fece in tempo ad estrarre un’altra piuma, né a puntarle contro la pistola. Quasi troppo veloce perché riuscisse a vederla, Jun gli si avventò contro colpendolo con la punta del fodero alla spalla destra. Il dolore esplose lacerante, e fu così intenso da costringere Joe a lasciar cadere la sua arma.
‘Me l’ha lussata, forse addirittura rotta. Ma quanto è veloce? È quasi... inumana.’  
“Sorellona smettila!”
“Stai indietro!” Joe urlò a Jinpei tra gli spasmi. Spalla o non spalla, non l’avrebbe lasciata avvicinare al ragazzo.
Si allontanò da lei, che aveva smesso di attaccarlo. A distanza di sicurezza, il Cigno si limitava a fissarlo. Jun gli sorrise. Un sorriso maliziosamente divertito che lui non le aveva mai visto sulle labbra. Qualunque cosa le fosse successa da quando era stata catturata, di certo non era quello che loro avevano paventato. 
“Cosa sta succedendo… che ti hanno fatto?”
“Tutto quello che Nambu mi ha negato.”
“Che significa?”
“Avreste potuto chiederlo a lui. Mi dispiace che nessuno di voi tornerà per farlo.”
La sinistra non era la sua mano dominante, ma Joe era in grado di combattere piuttosto bene anche con quella. Estrasse un lungo coltello, dando inizio ad uno stretto girotondo con Jun, gli occhi fissi sulla spada di lei.
 


Quando l’allarme aveva cominciato a strillare, per Ken non era stata del tutto una sorpresa: che Joe riuscisse a trattenere le mani, su un mecha pieno di nemici, era pura fantasia.
A quel punto, non aveva nemmeno senso per lui continuare a nascondersi.
Si avvicinò ad Erlik, che si era bloccato nel mezzo del corridoio. Ken non riusciva a capire cosa gli stesse succedendo, ma il Galactor non pareva stare molto bene.
“A meno che tu non riesca a capire ora dove si trova Jun, procediamo verso il punto di rendez-vous con gli altri” lo informò. “Sicuramente Joe e Jinpei sono nei guai, e si staranno dirigendo lì.”
Erlik annuì, togliendosi la maschera verde che gli copriva il viso. Il Galactor guardò Ken socchiudendo gli occhi. Sembrava aver difficoltà a mettere a fuoco.
“È qui” gli disse, indicando un punto su una delle mappe a parete distribuite un po' ovunque.
Ken sorrise, il cuore un po' più leggero. Jun era esattamente dove avrebbero dovuto incontrarsi con Joe e Jinpei. Magari quell'allarme significava che i suoi compagni avevano trovato e liberato il Cigno, e che li stavano aspettando nel punto prestabilito.    
“Ottimo. Raggiungiamoli.”
“Non posso. Non ce la faccio più” il Galactor affermò in tono abbattuto. “Questo rumore mi sta facendo scoppiare la testa.”
“Erlik, io non sento niente…”
Il giovane si appoggiò pesantemente alla paratia con la schiena. “Non so che dirti. Corri dai tuoi amici… io me la caverò.”

Ken lo fissò. L’idea di lasciarlo lì non gli piaceva in nessun modo. L’insistenza con cui Nambu gli aveva fatto giurare che avrebbe riportato Erlik sano e salvo all'ISO era stata curiosa, ma perentoria. Che fosse dovuta ad una improvvisa crisi di coscienza di Nambu, o ad altro, a Ken non era noto, ma non poteva fare altro che ottemperare.
“Non dire sciocchezze, non posso abbandonarti. Se una pattuglia ti trovasse...”
Erlik sollevò la maschera verde. “Me la rimetterò. Farò finta di essere ubriaco, non sarebbe la prima volta che qualcuno beve troppo anche se in servizio.”
Adesso a Ken sembrava che il Galactor respirasse anche a fatica. Forse stava avendo un attacco di panico? Poteva davvero lasciarlo? Si guardò attorno, doveva prendere una decisione in fretta.
Il corridoio era deserto. A parte le due Devil Star, non avevano incontrato nessuno. In quella parte del mecha non sembravano esserci pericoli evidenti, mentre probabilmente Joe, Jun e Jinpei erano nei guai. Ken si rese conto di avere bel poca scelta.
“Guardami, Erlik” gli intimò.
Il Galactor alzò gli occhi su di lui. Non aveva un bell'aspetto.
“Io vado. Tu aspettami qui e non muoverti per nessun motivo. Per tornare al mio mezzo dovrò comunque ripassare da questa parte. Ti recupererò al ritorno, mi hai capito?”
Erlik annuì, anche se la smorfia che fece non rassicurò granché Ken. Non ci voleva un genio per capire quanto il Galactor fosse preoccupato e spaventato.
L'Aquila non seppe dargli torto.
“Tornerò, te l'assicuro” gli disse rialzandosi, per poi girarsi e correre verso il punto di rendez-vous senza guardarsi indietro, e cercando di non pensare troppo alle conseguenze della sua decisione.

Erlik era detestabile. Più volte Ken aveva desiderato colpirlo, e sarebbe stato felice a saperlo fuori dall'ISO, ma non era nel suo carattere lasciare qualcuno nei guai. Qualcuno della cui sicurezza era stato investito.
Si disse che Erlik non correva nessun pericolo, che era nel suo ambiente, tra i suoi compagni, ma dentro la sensazione di aver commesso un errore lo stava mangiando vivo.
Corse più forte che poté.
 


“Ecco, bravo. Corri dai tuoi amichetti.”
Erlik appoggiò la testa alla paratia, felice che Ken se ne fosse andato. Almeno una fonte di disturbo si era allontanata. Il brusio che aveva sentito salendo sul mecha si era intensificato di minuto in minuto, fino ad essere quasi intollerabile.
Lanciò uno sguardo alla mappa sul muro. La cosa buona era che ora sapeva esattamente dove si trovava Jun, anche se non riusciva a spiegarsi come l'informazione gli fosse arrivata. Non è che avesse percepito la presenza della ragazza, era più come se qualcuno gli avesse detto dov'era.
“Offrirsi volontario... che grandissima cazzata...” si disse, cercando di concentrarsi per capire che fare.
Esclusa l’opzione di attendere i comodi di Ken, poteva tornare da dove era venuto, e approfittare del mezzo dell’Aquila per allontanarsi dal mecha. Aveva osservato Ken mentre lo pilotava, e i comandi erano abbastanza elementari. Oppure poteva confondersi tra gli altri Galactor, e sperare che quel mecha fosse dotato di scialuppe di salvataggio, per quando i Gatchaman l'avrebbero distrutto.
Lui non aveva dubbi che l'avrebbero fatto, una volta recuperata Jun. In alternativa c'era un'ultima, terrificante opzione... 
Erlik sorrise. Chi stava cercando di prendere in giro? Erano anni che, se messo davanti ad una scelta, preferiva sempre il percorso di vita più complicato.
Si raddrizzò, guardando con rimpianto il corridoio che aveva percorso, quello che portava ad una facile uscita da quella trappola.
'E tutto questo per una donna con cui ho parlato tre volte. Una che nemmeno mi sta troppo simpatica.'
“Sei impazzito...” si disse scuotendo la testa, per poi avviarsi verso il punto dove sapeva che avrebbe trovato Jun. Lei e tutti gli altri.
 

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Capitolo 22
*** Duello ***


Duello



Mecha Galactor, Atlantico Occidentale


Le truppe Galactor, ammassate sull’apertura che dava accesso alla camera di zavorra, si divisero di fronte a Ken come le acque del Mar Rosso davanti a Noè.
Il comandante dei Gatchaman le superò correndo, per bloccarsi poi pochi metri dentro al salone. 
Jun, Joe e Jinpei erano lì, come aveva sperato, ma la situazione non era esattamente come se l’era immaginata.

Joe e Jun erano nel mezzo del locale. Giravano l’uno attorno all’altra, scambiandosi quasi casualmente dei colpi.
Lei sembrava in forma smagliante, mentre il Condor era chiaramente stanco: una lunga ferita sanguinante gli sfigurava l’addome, e lacerazioni più leggere, ma di certo non meno dolorose, gli costellavano le braccia e le gambe. L’arma di Jun era più lunga del pugnale di Joe, e riusciva facilmente a superarne la guardia, la ragazza non sembrava tuttavia voler portare un attacco definitivo.
Jinpei rimaneva in disparte, pugni serrati e una postura che suggeriva fosse pronto in ogni momento a lanciarsi tra i due duellanti. Ken non poteva permetterlo.
Senza pensarci, come un fulmine si catapultò a dividere i suoi compagni, spingendo fisicamente Joe da parte.
“Tocca a me” ringhiò.
Senza badare troppo alla mano che reggeva la spada, Ken afferrò il polso sinistro di Jun, ma lei si liberò torcendo la mano. Istintivamente, Ken la colpì con un duro ceffone che non le fece nemmeno girare la testa. Anzi. Le belle labbra della ragazza si piegarono in un sorriso ironico.
“Tutto qui?”
Ken non ebbe tempo di reagire. Un calcio nello stomaco lo costrinse a piegarsi in due, seguito da un secondo colpo laterale, tanto forte da farlo cadere a terra. Ignorando una momentanea vertigine, il giovane si rialzò immediatamente, contemporaneamente sguainando la spada. Non avrebbe voluto farlo, ma Jun non sembrava in vena di discussioni civili.
Al contrario lo schernì, ridendogli apertamente in faccia.
“Temevo non volessi fare sul serio. Come il Condor. Così, invece, se ti difendi seriamente non proverò sensi di colpa quando ti ammazzerò.”
Ken non poteva credere alle sue orecchie. La fissò, alzando la spada davanti a sé. La sua compagna non sembrava sotto l’effetto di qualche droga. Che le avessero fatto il lavaggio del cervello? Ma come era stato possibile in così pochi giorni?
“Jun, non ti rendi conto di quello che stai dicendo.”
“Oh, tutt’altro…” Jun allungò la sua lama, fino a toccare quella di Ken. “Ora so la verità. Quelli dell’ISO mi hanno mentito. Tutti. Soprattutto Nambu. Era come un padre per me, e mi ha trattata come una cavia, nascondendomi le mie vere condizioni.” 
“Smettila, tu non stai bene…”
Ken si rese conto troppo tardi che non avrebbe potuto dire cosa peggiore. L’affondo di Jun fu brutale, portato con una velocità ed una forza che sorpresero il comandante dei Gatchaman, costringendolo sulla difensiva. Scambiò qualche colpo con la compagna, parando con difficoltà i suoi attacchi. Indietreggiò, per un attimo aprendo troppo la guardia.
Jun lo superò scostandogli la lama con la propria, e colpendolo con un calcio in faccia che lo stordì. Ken sentì il sapore metallico del sangue inondargli la bocca. Solo in quel momento l’addestramento prese il sopravvento, e con un salto si allontanò da lei di qualche metro.
Il Cigno lo fissò, rimuovendo il casco e gettandolo da parte. L’espressione rabbiosa che aveva in volto tolsero a Ken qualunque dubbio che la ragazza non stesse facendo sul serio. Non sembrava nemmeno umana.

Le labbra di Jun erano sguainate su canini appuntiti, e gli occhi verdi piantati nei suoi erano freddi e determinati.
Ken ebbe paura. Non il terrore per un pericolo reale –perché ancora non poteva del tutto credere che lei gli avrebbe fatto del male- ma per qualcosa di più atavico, di profondamente legato alla sua condizione di essere umano. Qualcosa dentro di lui aveva riconosciuto, nella posa della ragazza, forse nel suo aspetto o nel suo odore, il predatore della sua specie.      
“Perché mi guardi così?” Jun gli abbaiò contro. “Ti sembro diversa, vero? Lo sono sempre stata. Sempre. Il Condor aveva capito tutto, sai? Non ero malata. Stavo mutando.”
Ken non aveva quasi la forza di reagire, tanto era sconcertato dalla piega presa dagli eventi. Che cosa le aveva inculcato Berg Katze per farle dire quelle assurdità?
“Non so cosa ti abbiano raccontato, ma ti hanno mentito” il giovane ritorse. “Tu non sei diversa da noi. Siamo cresciuti insieme… noi siamo la tua famiglia!”
Ken non riuscì a non scoccare un’occhiata a Joe e Jinpei che, in quel momento, si trovavano dietro le spalle di Jun. Ken vide il Condor stirare le labbra in una smorfia di dolore, mentre il loro compagno più giovane si portava le mani alla bocca.
Jun li ignorò. Il suo sguardo non si addolcì mentre il tono si faceva più basso, la voce quasi sul punto di spezzarsi. “Famiglia… con che coraggio ne parli. Mi avete isolata quando avevo più bisogno di voi. E tu, proprio tu… sapevi quello che provavo per te, e mi hai sempre ignorata. Era più importante la missione, vero?” La ragazza si leccò le labbra. Nonostante lo sguardo incattivito aveva gli occhi lucidi, come se stesse per piangere. “Credi che sia stupida? Che non me ne sia accorta? È solo quando Erlik è arrivato che tu hai cominciato a guardarmi con altri occhi. Sei patetico.”  
Momentaneamente distratto dalle parole del Cigno, Ken quasi non registrò che lei si stava muovendo verso di lui. Alzò la spada giusto in tempo per incontrare quella della compagna. Le due katane si bloccarono guardia contro guardia, e gli occhi di Jun affondarono in quelli di Ken. Lui vi lesse una fermezza incrollabile.
“Arrivi tardi, Aquila” lei gli sussurrò. “Oramai conosco la mia strada. Non sarò più una marionetta nelle mani di qualcuno. Ora sono il seme da cui nascerà la stirpe che erediterà la Terra. Miliardi di umani soffriranno, ma voi non lo saprete. Vi uccido ora. Consideratelo un atto di pietà.”
Ken si ritrovò a urlare tutto il suo sdegno, mentre con difficoltà la spingeva via. Non ci poteva credere che lei fosse convinta di quello che stava vaneggiando.
Tuttavia sembrava davvero fisicamente diversa, come se in pochi giorni avesse subito una trasformazione. Un’accelerata mutazione.
Un brivido lo percorse. Nambu davvero non ne sapeva nulla o, come aveva insinuato lei, il Direttore aveva nascosto a tutti la verità?
'Che faccio, ora? Non posso certo ucciderla...'
Al solo pensarci una stretta dolorosa gli torse lo stomaco. Senza distogliere l’attenzione da Jun, per non insospettirla, con la coda dell'occhio Ken percepì Joe annuire. Il suo compagno doveva aver avuto la sua stessa idea.
 


“È meravigliosa, non è vero?”
Quella ragazza di tutto pareva a Berg Katze, fuorché quella parola che l'alieno aveva usato per descriverla. Sosai si era finalmente degnato di farsi sentire, solo e unicamente per lanciarsi in elogi sperticati della creatura che stava combattendo con l’Aquila.
A Katze stava venendo da vomitare. Ed era anche preoccupato.
C’era qualcosa di assurdo nel comportamento di lei. Apparentemente sembrava motivata nell’attaccare i suoi ex-compagni, eppure c’era qualcosa nel suo comportamento che al leader dei Galactor, abile nel manipolare le persone, non tornava.
Grazie ai sensibili sensori sonori che tappezzavano la sala sentiva chiaramente le sue parole, ma non capiva perché la ragazza stesse cercando di far perdere la calma all’Aquila. Se avesse chiacchierato di meno forse i suoi attacchi sarebbero stati più efficaci; così sembrava solo cercare di distrarlo, senza arrivare mai all’affondo definitivo.
Katze inclinò la testa, portandosi un dito alle labbra. Forse era una strategia consolidata. Con lui non aveva dopotutto fatto lo stesso? C’era mancato poco che le staccasse la testa dal collo, spinto da una strana urgenza ad attaccarla.
Il pensiero assurdo che lei l'avesse manipolato a compiere quell'azione gli balenò in mente, ma fu subito trascurato: Sosai stava gorgheggiando qualcosa.  

“Splendido, splendido. Chi l’avrebbe mai detto che si sarebbero attirati così?”
Katze smise immediatamente di pensare al duello.
“Di chi sta parlando, mio signore?” gli chiese telepaticamente, mimando una deferenza che non provava.
“Dell’altro. Era nei suoi pensieri, costantemente, ma non ero riuscito a cogliere il suo nome.”
Il mutante aggrottò le sopracciglia. Altro? Non era così perso nelle sue elucubrazioni da non aver sentito il Cigno menzionare un certo Erlik. 
“Che significa altro?” si azzardò a chiedere, anche se in cuor suo già conosceva la risposta. Contrasse così forte le dita da sentire dolore.
La risposta di Sosai fu estatica. “C’è un secondo sopravvissuto. È qui, l'hanno portato loro. Era uno dei tuoi uomini... non ti avevo forse suggerito di somministrare anche ai Galactor il virus? Anzi, di cominciare proprio dai tuoi soldati?”
Se Berg Katze non si mise ad urlare, fu solo perché non voleva del tutto passare come un pazzo. Certo che si ricordava il suggerimento di Sosai, subito accantonato quando i primi cento “volontari” umani erano tutti morti. Non aveva problemi a sacrificare i suoi uomini in battaglia, ma se si fosse sparsa la voce che venivano usati come cavie le defezioni sarebbero state incontrollabili.
'Ma se l'avessi fatto l'avremmo scoperto prima... era uno dei nostri... che ci fa con i Techno Ninja?' pensò, nemmeno cercando di escludere Sosai dai suoi pensieri.
Tremando dalla tensione, Katze si avvicinò agli schermi che mostravano tutti gli angoli della sala.    
Purtroppo non riesco a comunicare con lui direttamente” lo informò Sosai. “Ci sto provando da quando è salito a bordo, ma la mutazione è ancora incompleta. Non può sentirmi. Manda qualcuno a prenderlo.”
Non ci fu bisogno che Sosai gli indicasse la persona in questione. Non poteva essere che il giovane uomo accanto ad uno degli ingressi, abbigliato in verde Galactor, ma senza la maschera. I capelli corti, completamente bianchi, lo rendevano piuttosto visibile, ma non era quello il dettaglio che rendeva Katze sicuro che fosse la persona che Sosai aspettava.
Era semmai l’aria esotica dello sconosciuto, aliena, qualcosa che, nonostante l’espressione stravolta che campeggiava sul viso del giovane, a Katze ricordava la ragazza-Cigno. Come lei, era di bell’aspetto, ma in un modo che Katze trovava anomalo e quasi ripugnante.  
Il mutante dovette trattenere un risolino isterico. I mostri erano due. Quando già uno sarebbe stato di troppo. Si sentì perduto.
 


Per arrivare alla camera di zavorra Erlik si era rimesso la maschera, ma se la tolse in vista della sua meta. Le lenti colorate gli amplificavano il mal di testa, e comunque nessuno stava facendo caso a lui.
Un nutrito gruppo di Galactor si stava invece accalcando presso l'accesso del locale, mentre altri accorrevano. Là dentro stava evidentemente succedendo qualcosa di molto interessante.
Percepiva la presenza di Jun, riusciva a avvertirla molto meglio che non all'ISO, ma non gli piacevano affatto le emozioni che dalla ragazza si irraggiavano. Sentiva rabbia, dolore, e una determinazione assoluta. Cosa aveva in mente quella pazza?
Con qualche difficoltà Erlik si fece largo tra i suoi ex-compagni e, quando finalmente riuscì a mettere piede nella sala, capì il perché quello fosse il posto dove tutti volevano essere: Jun stava duellando con Ken l'Aquila, e sembrava una cosa seria.
Erlik non poteva credere ai propri occhi. Cosa le aveva fatto Berg Katze per convincerla a combattere i suoi compagni?
Il suo opponente pareva completamente scioccato dalla situazione e, per quello che Erlik poteva capire, sembrava si stesse solo difendendo. Lui non avrebbe mai voluto essere al suo posto. Come doveva essere combattere contro una ex-compagna, una di cui l'Aquila era stato in qualche modo innamorato? Nonostante lo reputasse solo un arrogante coglione, Erlik provò un minimo di pena per lui.  
“Che situazione assurda...” sussurrò, non sapendo assolutamente cosa fare.   
Jun sembrava decisamente in vantaggio fino a quando, dietro di lei, il Condor non sollevò repentinamente il braccio, lanciandole qualcosa contro.
L'oggetto colpì la spalla della ragazza, senza trapassare la tuta ma distraendola quel secondo di troppo che diede a Ken il tempo di attaccare.
Tutto si compì nello spazio di un respiro.
Un secondo prima Jun incespicava e Ken si lanciava contro di lei; l'attimo dopo l'Aquila si ritrasse, come se orripilato da quello che aveva fatto. 
Erlik, ugualmente sconvolto, si portò una mano al petto avvertendo quasi lo stesso, insopportabile dolore fisico che Jun stava provando. 

Le mani Ken avevano lasciato l'elsa, ma la sua spada era rimasta conficcata nel corpo del Cigno. La lama le aveva trapassato il polso sinistro e il braccialetto che consentiva la trasformazione, e la punta era sepolta nel petto della ragazza, più o meno all'altezza del cuore.
Jun si inginocchiò, mentre il BirdSuit si smaterializzava attorno a lei.
Il rumore nella testa di Erlik adesso era cambiato. Non era più un brusio, ma aveva il suono cupo delle mareggiate. Lui non riusciva capire, ma c'erano sicuramente delle parole in quel mugghio. Degli ordini, ululati istericamente.
Il giovane strinse i pugni, incapace di distogliere gli occhi da Jun. Doveva fare qualcosa, qualunque cosa... ma come ci sarebbe riuscito, se in quel momento era così sconvolto da non riuscire nemmeno a respirare?
 


La prima reazione istintiva di Ken fu di rimettere le mani sull’elsa ed estrarre la spada. Si trattenne appena in tempo. Le ferite erano nette, e solo poche gocce di sangue ne stillavano: se avesse rimosso la lama probabilmente l’avrebbe uccisa. Probabilmente.
Il suo sguardo cercò quello della compagna, caduta in ginocchio. Jun provava dolore, la smorfia sul suo bel viso non dava adito a dubbi, e tutta la rabbia che prima covava negli occhi della ragazza sembrava dissolta nel nulla.
Che aveva fatto? Svuotato da ogni pensiero coerente, Ken tremò.
Le parole gli uscirono con difficoltà estrema. “Volevo… solo bloccarti…”
Non aveva avuto l’intenzione di ferirla così, ma si era sentito come costretto a colpirla, spinto ad affondare la lama dentro di lei da un bisogno che non aveva mai sentito prima. Quella pulsione poteva essergli venuta da una sola persona.
Jun, il volto contratto dalla sofferenza, riuscì a sorridergli. E lui rivide finalmente la sua compagna di squadra, la sua amica. La ragazza che avrebbe potuto essere ben più di quello. Gli parve triste.
“Ken, non ascoltavi Nambu quando ti diceva come ucciderci definitivamente? Mi devi tagliare la testa…”
“Non avrei mai potuto… non POSSO farlo!” ammise lui.
Un colpo di tosse la squassò, e la ragazza sbarrò gli occhi socchiudendo le labbra. Un rivolo di sangue le scese sul mento. La lama doveva averle perforato un polmone.
“Ma è tuo compito, Ken” Jun gli disse, scandendo bene le parole. “Sei l’Aquila Bianca, il comandante dei Gatchaman. Devi portare a termine questa missione.”
Addolorato, Ken scosse la testa.
Non importa quanto psicologicamente pressato, quanto minacciato. Non contava nemmeno che cosa lei fosse diventata, e cosa avrebbe potuto fare in un futuro quanto mai ipotetico. Guardandola, Ken si rese perfettamente conto del suo fallimento. Jun aveva ragione: avrebbe dovuto decapitarla, ma non ne avrebbe mai avuto il coraggio.
“No, non era questo che Nambu mi aveva chiesto. E anche se il suo ordine fosse stato di ucciderti, avrebbe dovuto trovare qualcun altro per farlo.”
Jun chiuse gli occhi e abbassò il mento sul petto, sembrando tanto sconfitta quanto lui. “Se dici questo, mi hai spezzato il cuore per l’ultima volta.”
 
 


Berg Katze aveva ruggito esaltato quando l’Aquila aveva colpito la ragazza-Cigno ma, ora, ascoltando le loro parole, ebbe di nuovo paura. L’idiota l’aveva trafitta, eppure quella non era, a sentirli, una ferita mortale.
“Che stai facendo? Aiutala subito” gli ululò l’alieno, e Katze si mosse come un automa verso la consolle che controllava il pavimento della sala.
Doveva agire. Ora. Subito. Non avrebbe avuto un’altra possibilità.
Le sue dita si mossero veloci sulla tastiera. La sala era collegata direttamente alla chiglia dello scafo e, sotto il pavimento, scomparti modulabili potevano essere assemblati a seconda delle esigenze. Avendo contribuito personalmente allo sviluppo di quel mecha, il comandante dei Galactor conosceva le configurazioni a memoria.
Guardò la piastra dove era inginocchiata la ragazza e fu pronto a digitare il comando di riconfigurazione.
Esitò.
Le scelte non erano illimitate. Quello che Sosai voleva era probabilmente farla cadere in una trappola a fondo chiuso, da dove poi l’avrebbero recuperata. Katze strinse i denti. Lui aveva un’altra idea.
Alcuni moduli erano dei semplici tubi a pressione, che avrebbero scaricato il corpo in acqua. Era ferita, e stavano viaggiando in pieno oceano a circa un centinaio di metri sotto la superficie. Poteva usare quell’opzione, ma forse non sarebbe bastato ad ucciderla definitivamente.
Oppure, poteva farla cadere in uno dei condotti di espulsione dell’acqua di zavorra, dove le turbine l’avrebbero dilaniata. In tal caso quanto, quanto sarebbe stata violenta la reazione di Sosai? Avrebbe forse potuto farlo passare come uno sbaglio?
Le dita di Katze composero un comando, senza dare ancora l’invio. La sua attenzione si spostò invece sull’altra creatura. Il giovane in divisa verde se ne stava ai lati della sala senza far nulla, lì impalato a guardare il Cigno, trafitta come una farfalla da collezione.
Le labbra di Katze si stirarono in un sorrisetto condiscendente. Se era uno dei suoi, era probabile che fosse anche un idiota patentato come la maggior parte dei soldati Galactor. Forse aveva qualche chance di controllarlo. In ogni caso, Sosai si sarebbe dovuto accontentare di un solo esemplare della sua nuova specie.    
Il dito del comandante dei Galactor calò sul pulsante di invio.
 


Giù nella baia, la lastra sotto il corpo di Jun tremò. Si ritrasse su invisibili guide, facendolo cadere nel vuoto il corpo esanime della ragazza.
Ken ululò, vedendola affondare nell’oscurità. Con un attimo di ritardo saltò, allungando una mano cercando di raggiungerla, ma una decisa presa fermò il movimento che lo avrebbe portato oltre il bordo, giù nell’abisso.
Trattenuto, non ebbe tempo di fare nulla se non vedere, con la coda dell'occhio, un qualcosa di verde che gli passava accanto e si buttava appresso a Jun.
Un attimo dopo la piastra si richiuse.
Sconcertato, Ken si voltò come una furia verso chi lo stava bloccando. L'insulto che aveva sulle labbra morì quando vide il volto di Joe; il visore che parzialmente lo occultava non poteva nasconderne lo shock, chiaro dalla mascella serrata.
“Andiamocene” gli sibilò il Condor, indicando il pavimento della sala. Altre piastre si erano aperte, e l'acqua stava invadendo il locale, in una esatta ripetizione di quello che era successo la volta precedente.
“Ma non hai visto? Era ferita, e quello si è buttato...”
Joe gli diede uno strattone, tirandoselo così vicino che gli elmetti quasi cozzarono tra loro. “Già. Se avevamo qualche dubbio che Erlik fosse fuori di testa, ci è stato completamente fugato. Ora andiamocene, non possiamo fare altro.”
Ken si guardò attorno. Le porte laterali si erano richiuse, e l'unica via di scampo era ancora la balconata. Jinpei era già lì, accasciato contro la ringhiera.
L'Aquila scosse la testa. “No. Stavolta abbiamo gli esplosivi, facciamo saltare il pavimento.”
“Non sai in che punto si trova, potremmo darle il colpo di grazia. O magari è già morta, e ritardando ancora faremmo la sua stessa fine.” La presa del Condor sul suo avambraccio si fece dolorosa. “Non puoi fare più nulla per Jun, ma ci devi condurre fuori di qui. Sei tu il comandante. Guidaci.”
Il richiamo al suo dovere era l’unica cosa che poteva smuovere Ken. Joe lo conosceva troppo bene.
A malincuore annuì, sentendo come se stesse abbandonando lì un pezzo del suo corpo.

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Capitolo 23
*** Post mortem ***


Post mortem



Il Paradiso profumava di salsedine, ed era allietato dagli strilli dei gabbiani. Faceva anche caldo, e il bel tepore le aveva asciugato i vestiti e i capelli, che ora sentiva rigidi dal sale.
Jun si strofinò il viso con una mano. Il Paradiso doveva essere un’isola dal clima mite, e c’era evidentemente arrivata con gli abiti che aveva addosso quando Ken l’aveva uccisa.

Con riluttanza aprì gli occhi. Il cielo sopra la sua testa aveva l’intrigante colore blu cobalto tipico di un tardo pomeriggio estivo. Fosse stata in vacanza, l’avrebbe apprezzato. Si guardò attorno, non stupendosi del panorama scabro e della sabbia basaltica, nera. Aveva visto delle immagini di quel posto qualche anno prima, quando voleva convincere Ken a portarcela. Le correnti dovevano averla trascinata fino alle Azzorre, le isole più prossime alla nave Galactor.
Le venne da sospirare. Tutto il suo magnifico piano vanificato dal buon cuore di Ken, e dal momento di pazzia di Erlik. Se da un lato non voleva credere alla sua sfortuna, dall'altro non riusciva a non provare un certo piacere nell'essere ancora viva.
Si volse di nuovo alla sua destra. Erlik, inginocchiato accanto a lei, la stava fissando senza dire una parola. Imperturbabile, come se stesse aspettando un suo cenno per muoversi.
Chissà per che ragione indossava la divisa dei Galactor, la parte superiore slacciata ed arrotolata per le maniche attorno alla vita. Jun non riusciva a spiegarsi la sua presenza con Ken e gli altri sul mecha. Non più di quanto riuscisse a capire come avessero fatto entrambi a sopravvivere.  
Combattendo una leggera vertigine si mise seduta. La spiaggia, deserta, si estendeva attorno a loro. Se era fuori dall'acqua, era solo perché Erlik doveva avercela trascinata.
“Queste... sono le Azzorre?” gli chiese, sentendo la gola secca e la pelle del viso arrossata dal sole.
La risposta fu laconica. “Probabilmente. Le correnti devono averci portato fin qui.” Erlik indicò con un cenno della testa il mare. “Eravamo già a riva quando mi sono ripreso. La tua spada... cioè, quella di Ken, non c'era più.”
Jun annuì, fissandosi il polso. Anche il suo braccialetto era sparito, ma la ferita si era già richiusa. Provava solo un lieve fastidio nella parte sinistra del torace, assolutamente sopportabile. La maglietta in quel punto era strappata, ed era l’unico segno rimasto della lesione che avrebbe ucciso qualunque altro essere umano.
“Volevo morire, sai?” confessò, senza smettere di guardarsi il polso. “Quello che Sosai mi ha rivelato su di noi è inconcepibile. Io... noi, siamo troppo pericolosi per questo mondo. Volevo che mi uccidessero. Ma sia Ken che Berg Katze non ne sono stati capaci.”
Erlik fece un risolino, che attirò la sua attenzione su di lui. “Che piano assurdo. Se volevi morire potevi farlo da sola no?”
“E come? Un po' difficile riuscire a tagliarsi la testa.”
Le labbra pallide del giovane si stirarono in un sorrisetto di scherno. “Nemmeno troppo, considerato che eri a bordo di un mecha pieno dei tuoi nemici. Non c'erano altri candidati? Katze è malevolo ma non stupido, sapeva che sarebbe morto se avesse fatto una cosa del genere. E poi, affidarsi a Ken... che crudeltà.”
Jun si sentì arrossire dalla vergogna. Erlik stava rivelando il solito atteggiamento insopportabile, ma l'irritazione la stava almeno aiutando a combattere il torpore del risveglio.
“Era l'unico che poteva farlo... che ne avrebbe avuto il coraggio, e la forza...”
“E che ne avrebbe portato il peso sulla coscienza per l'eternità” Erlik terminò per lei, scuotendo le spalle. “Contenta tu. Non pensavo che lo odiassi così tanto.”
La ragazza abbassò la testa, affondando le dita nella sabbia. Che inconsciamente avesse voluto in quel modo punire Ken, per averla rifiutata per troppo tempo? Non ci voleva pensare. In ogni caso, la sua storia con i Gatchaman era definitivamente chiusa.

Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, mentre l'entità di quello che aveva fatto si faceva strada dentro di lei. Non poteva più tornare all'unico posto che aveva chiamato casa, all'unica famiglia che avesse mai avuto. Anche se loro l'avrebbe sicuramente riaccolta; e Ken l'avrebbe di certo capita. Ma come avrebbe potuto, dopo tutto quello che Sosai le aveva rivelato? Ora che aveva la certezza di essere diversa, e pericolosa, non poteva fare finta che nulla fosse cambiato.
“Adesso che farai, vuoi ancora morire? E forse uccidere anche me?”
Jun riportò la sua attenzione su Elik, perplessa dalla noncuranza con la quale era stata pronunciata quella domanda. La questione in sé non era invece assurda, Jun se ne rendeva perfettamente conto.
Lui la stava guardando, aspettandosi una risposta. Il suo aspetto non poteva non ricordarle gli esseri dei suoi incubi, ma non poteva nemmeno negare la sconcertante sensazione di affinità che provava per lui. Che fosse scatenata dalla mutazione a Jun non importava, ed era comunque stanca di far finta che non esistesse.     
Adesso che farai? Non sapeva come replicare, ma sicuramente mai avrebbe potuto fargli del male. E ora non voleva più nemmeno morire.
“Non lo so cosa mi succederà” rispose sinceramente. “Non posso tornare all'ISO. Quello che vorrei, è solo scomparire.”
Delicatamente, quasi con soggezione, fece scivolare la sua mano destra in quella di Erlik, senza che da parte di lui ci fosse alcun cenno per stringergliela.    
Lo sguardo del giovane si posò prima sulle loro mani, e poi su di lei.
I secondi passarono senza che succedesse nulla. E Jun cominciò a temere che, nonostante quello che aveva detto di lei quando era all’ISO, alla fine anche Erlik la volesse rifiutare. Gli era rimasto solo lui. Non poteva dirle di no. Non l’avrebbe sopportato.

Finalmente, Erlik chiuse le sue dita attorno alla mano di Jun. Aveva una bella stretta, ma lo sguardo negli occhi chiari mostrava una curiosa esitazione. Strano, le era sembrato sempre piuttosto sicuro di sé.
“Se vuoi scomparire,” le disse “farò in modo che succeda.”
“E come? Ci cercheranno, Nambu non crederà che siamo morti, e forse neppure Sosai. E noi siamo molto riconoscibili, bloccati su quest’isola e senza soldi. Ho un conto, ma penso che a questo punto lo abbiano bloccato o sia sotto controllo.”
Jun era preoccupata. Non avevano neppure documenti. Se solo fossero almeno finiti sul continente, qualcosa si sarebbero potuti inventare. Lì, invece... scappare da quell'isola senza chiedere l'aiuto dell'ISO era un'idea ridicola.
Erlik, però, la sorprese. “Il denaro non è un problema.”
Il giovane si levò in piedi, facendo alzare anche lei poi, senza preavviso e come se fosse la cosa più normale del mondo, si sporse verso di lei e la baciò.
Jun era talmente stupefatta che non oppose nessuna resistenza. Si limitò ad assaporare quelle labbra che sapevano di sale, scoprendosi sempre più avida mano a mano che i secondi passavano.
Quando si staccarono, lei era senza fiato, ma Erlik sembrava quasi allarmato. Le indicò un gruppo di case a circa un chilometro dal punto dove si trovavano. 
“Vieni. Devo fare una telefonata.” 
Il tono del giovane, notò Jun, non era esattamente felice. Nonostante quello che era appena successo, e che lei aveva trovato estremamente gratificante, era come se in volto gli fosse calata un'ombra.

Confusa lo seguì, mano nella mano come due fidanzatini in vacanza. Non fosse stato per la divisa di lui e per la maglietta strappata di lei avrebbero anche potuto esserlo, notò Jun. Sicuramente, un po' si sentiva tale.  
Sperò che quelle case non fossero abitate da qualcuno di troppo curioso, altrimenti ci sarebbero state domande alle quali nessuno dei due avrebbe potuto rispondere.
“Hai qualcuno da chiamare?” gli chiese.
Non pensava che Erlik volesse ritornare dai Galactor, dopo essersi buttato da una delle loro navi, ma non si poteva mai sapere. Il comportamento che il giovane stava avendo era decisamente bizzarro.
“La mia famiglia.”
Tirandolo leggermente per la mano, Jun lo costrinse a fermarsi e a girarsi verso di lei.
“Ci possono aiutare? Ma non fanno parte del Sindacato, vero?”
Erlik scosse la testa. “Non c'entrano nulla con i Galactor. Non so quanto mio padre sarà contento di sentirmi, ma ci aiuterà. Sono il suo unico figlio, dopotutto.”
Malgrado quello che le stava dicendo, non sembrava per niente felice di quella decisione. Lei non ci stava capendo nulla.
“Tuo padre...” scandì. “Non era quello che dopo la morte di tua madre ti picchiava tutti i giorni per costringerti a rubare?”
“Questo è quello che ho raccontato a Nambu.”
Erlik era arrossito. Per la prima volta da quando lo conosceva, Jun lo vide genuinamente in difficoltà. Non che lei avesse davvero creduto alla sua storiella degli abusi famigliari, era fin troppo tipica per un Galactor, ma nemmeno aveva mai pensato che dovesse discostarsi troppo dalla realtà.
“E invece?” gli chiese.
Erlik le lasciò la mano, e i suoi occhi vagarono verso le case poco distanti. “I miei genitori mi hanno sempre dato il meglio, e mia madre non è affatto morta. Sempre se si può chiamare viva una persona più interessata alla moda e ai gioielli che alla sua famiglia.”
Se l’avesse saputo in un altro momento, Jun era certa che si sarebbe arrabbiata. Ma dopo tutto quello che nelle ultime settimane aveva vissuto, non ne aveva più la forza. La rivelazione le sembrò solo estremamente folle. Si premette i palmi delle mani contro le palpebre, cercando di non ridacchiare per il nervosismo. Non era facile.
“Io sono cresciuta in un orfanotrofio, e ho dovuto combattere ogni giorno per un pasto. E tu mi stai dicendo che eri un privilegiato, e che hai buttato via la tua vita per unirti a dei criminali?”
La risposta ebbe un tono vagamente sprezzante. “Quella non era la mia vita. Era tutto ciò che gli altri si aspettavano da me: le scuole giuste, il lavoro giusto, gli amici e la fidanzata adeguata.  Non potevo più sopportalo e quell’ambiente mi faceva orrore. Volevo sparire e basta.”
Jun riaprì gli occhi, sopprimendo l’impulso di prenderlo a schiaffi, tanto quel discorso le sembrava degno di un principino viziato. “Va bene, questo posso anche arrivare a capirlo, ma perché i Galactor?”
“Perché quando ti arruoli nessuno fa domande su chi sei o da dove vieni. E perché tra di loro la mia famiglia non mi avrebbe mai trovato. Nonostante non manchino di mezzi, indagare tra i Galactor è fuori dalla loro portata.” Sovrappensiero, il giovane si accarezzò distrattamente la mandibola. “Non credere che torni volentieri. Ne farei veramente a meno, ma è l’unica chance per andarcene da qui. E se l’alternativa deve essere rivolgerci all’ISO… beh, gabbia per gabbia, preferisco casa mia. Almeno lì nessuno mi avvelenerà.”
Jun lo guardò, incerta su cosa pensare di Erlik. Lo capiva dal suo sguardo, e dalla distinta tensione che il giovane irradiava, che tornarsene a casa era veramente l’ultima cosa che avrebbe voluto fare. Per lei che aveva desiderato una famiglia per tutta la vita, quell’atteggiamento era incomprensibile, però le vennero in mente i mesi trascorsi da Erlik all’ISO e dovette riconoscere che, almeno, era una persona decisamente salda nelle sue convinzioni. Doveva dargliene atto.    
“Ti abbiamo trattato come un criminale… come una cavia… e tu avresti potuto andartene quando volevi.”
“Avrei potuto, ma nemmeno per una volta ci ho pensato. Avevo deciso di essere nessuno, e non ho mai cambiato idea, nonostante quello che mi è successo.”
“Ma ora vuoi riavere la tua vecchia vita. Perché?” Jun mormorò con difficoltà, il respiro mozzato dalla tensione.   
Le mani di Erlik sfiorarono le sue per un attimo, poi salirono ad accarezzarle il viso. Nonostante il calore della giornata, Jun soppresse un brivido. Aveva quasi paura delle sue reazioni. Erlik era sicuramente un po' particolare, e la faceva impazzire non riuscire mai ad anticipare cosa avesse in testa. D’altra parte, quella continua altalena di emozioni la stuzzicava, lei che era stata sempre così controllata, attenta a non mostrare mai troppo, a non provare mai la cosa che tutti reputavano sbagliata.
Il sorrisetto sulle labbra di Erlik le fece mancare un battito. “Perché ora ci sei tu. E tu meriti tutto.”
Il giovane si abbassò per baciarla di nuovo, e Jun si abbandonò, assaporando ogni istante. Era stanca di quelli che la manipolavano per i loro obiettivi poco chiari. Il fine di Erlik le sembrava invece quanto mai limpido. E condivisibile. Che la manipolasse pure come voleva.
 


Utoland, International Science Organization, 3 settembre


Il debriefing durò ore.
Interminabili le parole spiraleggiarono intorno ai miserabili dettagli della loro missione fallita, come se il fiume di parole potesse lavare via il dolore, invece di renderlo ancora più intollerabile.
Infine Ken si alzò, ma fu bloccato della raggelante voce di Nambu.
“Comandante, due parole in privato con te.”
 
Ken guardò gli altri uscire, in silenziosa quanto mesta processione, fino a trovarsi solo con il Direttore dell’ISO, nella sala semibuia come una cappella funebre.
Si fissò le braccia muscolose, allungate e abbandonate sul tavolo davanti a sé, come se fossero strane appendici di un corpo che non gli apparteneva più. Tutta la sua preparazione, anni di allenamenti… non era servito a nulla. Non sapeva cosa Nambu gli volesse dire, ma intanto aveva lui una domanda per il Direttore. Una questione che gli stava parecchio a cuore e alla quale nessuno aveva accennato durante il debriefing.
“State pianificando delle squadre di soccorso?”
“Come da prassi.”
“Voglio unirmi a loro.”
Nambu scosse la testa. Che fosse stato anche lui colpito da quella débâcle era chiaro in ogni suo gesto stanco, e nelle profonde occhiaie che gli decoravano il volto. “Apprezzo l’entusiasmo ma sono già fuori. Mandate nel momento stesso in cui abbiamo ricevuto la vostra comunicazione. Ma tu sei a riposo, quindi non pensarci neanche, senza contare che non ti potrebbe piacerebbe quello che eventualmente dovessero trovare.”
“Avete almeno ristretto l’area delle ricerche?”
“Sì, abbiamo circoscritto il perimetro, ma l’area comprende un arcipelago densamente abitato.”
Ken si fissò le mani. “Vi prego di chiamarmi non appena trovate qualcosa. Qualunque cosa sia. Noi non abbiamo nemmeno una tomba sulla quale portare i fiori.”
Nambu, che fino a quel momento era rimasto in piedi, si accomodò davanti a lui, dall’altra parte del tavolo, e appoggiò il mento sulle mani intrecciate. Sembrava che lo stesse soppesando. Ken, dal canto suo, non vedeva l’ora di andarse a sfogarsi da qualche parte. Forse, per la prima volta in vita sua, si sarebbe anche ubriacato.
“C’è una cosa che ti devo rivelare” il Direttore cominciò, con una voce quasi incerta, che Ken era certo di non avergli mai sentito. “C’è la concreta possibilità che Jun sia ancora viva. Anzi, che siano vivi tutti e due.”
“E come? Ci ha detto che i Galactor non li hanno recuperati, come si capisce dalle comunicazioni che abbiamo intercettato, ed erano troppo lontani dalla terraferma per arrivarci a nuoto.” Il comandante dei Gatchaman strinse le mani a pugno. “Questo senza contare il fatto che i loro corpi sono stati espulsi sottacqua. È impossibile che siano sopravvissuti.”
“Ken, non stai considerando il fatto che, loro due, non sono più esattamente esseri umani.”
Solo a sentir parlare di quella cosa, a Ken veniva il voltastomaco. Ancora prima del debriefing Nambu l’aveva messo a parte dei risultati della ricerca, e nulla di quello che aveva letto in quei file gli era piaciuto. Avevano fatto acquistare un devastante senso alle cose dette da Jun durante il loro duello.
“Ne parla come se ne avesse la certezza” commentò al suo mentore, sicuro che il direttore dell’ISO gli stesse ancora nascondendo qualche altra informazione.
“Quasi la certezza, diciamo. E ha a che fare con l’identità di Erlik.”
Ken fissò Nambu senza capire. “Che significa?”
“Che poco prima che partiste per la missione l’abbiamo identificato, grazie ad una ricerca di Pandora.”
“E non mi avete informato?” A Ken continuava a sembrare una notizia senza importanza, ma evidentemente doveva esserlo, a giudicare dell’espressione di lugubre amarezza che Nambu esibiva.
“Non volevamo distrarti. Ma, a pensarci ora… ho commesso un errore a non dirti nulla, e uno ancora più grosso a mandarlo con voi.”

A ricordo di Ken non era mai successo che Nambu avesse ammesso una sua mancanza. Forse perché, anche quando ce ne erano state, i risultati positivi delle missioni le avevano eclissate. Quella volta non era andata così. E l’errore, oltretutto, doveva essere particolarmente grave.
“Mi dica…” replicò con un filo di voce.   
“Il suo cognome è Kahn. Erlik è nato a Zurigo, in Svizzera, ventisette anni fa. È l'unico figlio di Dominique Kahn, uno dei soci della Kahn-Kobashi, una delle multinazionali che si spartiscono il mercato mondiale dei prodotti farmaceutici.”  
Per attimo, Ken pensò di aver capito male. “Una multinazionale?”
Nambu annuì, il volto simile ad una maschera di pietra. “La sua famiglia detiene il pacchetto di maggioranza della holding che controlla la farmaceutica, e hanno partecipazioni in una manciata di altre aziende alimentari e chimiche. Il padre è un pezzo grosso, siede nel consiglio di amministrazione. È per questo che non siamo mai riusciti a scoprire nulla su Erlik. Viaggia probabilmente con un passaporto diplomatico, e il suo è un profilo riservato, che non compare tra i pazienti di nessun ospedale, nelle liste di imbarco di nessun aereo, e tra i dati schedati dalle agenzie di controllo frontaliere. Se qualche anno fa non fosse stato beccato dalla polizia svedese a correre troppo, non avremmo mai scoperto chi era.”
“Ma è assurdo” Ken sbottò. “Che ci faceva tra i Galactor?”
“Non ho risposte a questo…”
“Può essere che questa holding abbia legami con loro?”
Nambu scosse la testa. “No, sono puliti. E di lui possiamo solo supporre quello che ci ha detto, cioè che si era allontanato dalla sua famiglia e che non voleva avere nulla a che fare con loro.”
“Ed è credibile?”
“Ken, le due divisioni più importarti di una farmaceutica sono la ricerca e sviluppo e l’ufficio legale. Ad Erlik sarebbe bastata una telefonata per uscire di qui, e per farci recapitare una denuncia per sequestro di persona. Quindi sì... in effetti è credibile.”
Ken si prese la testa tra le mani. Quello che Nambu gli stava dicendo era inconcepibile. “Non può essere vero…”
“Lo è. I dati biometrici della persona schedata dalla polizia stradale svedese collimano con quelli di Erlik. E, quando gli ho chiesto spiegazioni, a malincuore lui ha confermato.”
“Quello è pazzo” sbottò Ken. Nulla di quello che aveva pensato del Galactor l’aveva preparato a quella rivelazione. E nemmeno nulla di quello che Erlik aveva lasciato trapelare di sé. Molto poco, in effetti. La cosa che veramente gli stava a cuore, però, non era l'identità di quell'idiota. “Cosa le fa pensare che possa essere ancora viva?” chiese, forzando la voce a rimanere ferma.
“Stavamo tenendo sotto controllo lo spazio aereo della zona, e la notte scorsa un jet privato, intestato ad una delle società del gruppo Khan-Kobashi, è atterrato all’aeroporto di Lajes Field alla Terceira, una delle isole dell’arcipelago delle Azzorre. L’aereo è poi ripartito alla volta degli Emirati Arabi. Non so chi sia salito a bordo, ma di certo è ben strana come coincidenza.”
“E cosa c’entrano gli Emirati?”
“Non hanno un trattato di estradizione con il nostro paese.”
Ken non sapeva cosa pensare, ma Nambu sembrò leggergli nella mente.
“Non voglio darti false speranze, ma Erlik non aveva preso bene la notizia che avevamo scoperto la sua identità, e non penso che l’avesse detto a Jun prima della vostra missione. Per cui posso solo pensare che quell’aereo fosse lì per recuperare lui, e l’unica ragione per cui Erlik potrebbe aver voluto riallacciare i rapporti con la sua famiglia, si chiama Jun.”
Se qualcuno avesse chiesto a Ken come si sentiva in quel momento, non avrebbe avuto una risposta coerente. Il sollievo di sapere che probabilmente la sua compagna di squadra era ancora viva, si accompagnava all’inquietudine di saperla insieme alla persona con cui meno avrebbe voluto vederla. Si passò una mano tra i capelli, consapevole che Nambu lo stava fissando.
“Jun... come potrebbe stare? L'ho ferita gravemente...”
“Da come me l'hai descritta, quella ferita non potrebbe ucciderla. E, per quanto detesti dirlo, è decisamente in buone mani.”
Era vero, Ken ammise con se stesso, anche se la cosa gli dava poca soddisfazione.
“Cosa faremo ora?” chiese al suo mentore.
“Tra qualche giorno contatterò la Kahn-Kobashi e cercherò di indagare. Nel caso Jun fosse sopravvissuta, potremmo essere molto fortunati oppure...”
Nambu non finì la frase e, incredibilmente, Ken fu certo di aver colto una passeggera inquietudine sul volto del Direttore dell'ISO. Colse immediatamente l'incognita che affliggeva l'uomo.
“Non poteva esserci comparto peggiore, vero?” esalò con un filo di voce.
“No. Avessero prodotto lavatrici sarebbe stato decisamente meglio” Nambu gli confermò, per poi alzarsi in piedi. “Basta così, è tempo che tu vada a riposarti. Non dire nulla agli altri, fino a quando non saremo sicuri che Jun è davvero ancora tra noi.”
Con un cenno del capo, Ken annuì, per poi alzarsi a sua volta ed uscire dalla stanza con tutta la calma del mondo.

I suoi passi lo portarono nel garage. Accanto alla sua auto, era ancora parcheggiata la moto di Jun. Guardò il mezzo sovrappensiero, nemmeno ricordando più l'ultima volta che la ragazza l'aveva usata.
Si sentiva scollegato. Dov'era adesso Jun? In un lontano paese straniero tra amici, oppure tra persone che l'avrebbero solo sfruttata? Ed era da sola oppure... Ken bloccò i suoi pensieri prima che potessero diventare molesti, quindi salì in macchina affondando nel sedile. Afferrò il volante come se fosse una ciambella di salvataggio.
Sicuramente si sarebbe ubriacato. Era l'unico modo per superare sano di mente quella notte.    

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Capitolo 24
*** Ecate ***


Epilogo - Ecate



And if I told you that I loved you
You'd maybe think there's something wrong
I'm not a man of too many faces
The mask I wear is one
 
Sting - "Shape Of My Heart"  



Dal diario di Jun, 4 dicembre


       
Gli incubi sono cessati. Da quando mi sono risvegliata su quella spiaggia alle Azzorre, i lividi panorami del pianeta Spectra non hanno più turbato i miei sogni.
Potrei quasi dire di essere tornata la vecchia me; mi sento bene, senza più vertigini o nausee, senza le emicranie che mi hanno tormentata per mesi, e senza più sbalzi d'umore. Ora lo so: erano gli effetti collaterali delle terapie. Ora non assumo più nulla, e non sono mai stata così in forze. Meglio, anzi, più in forma e più lucida di quanto sia mai stata durante i miei primi vent’anni di vita. Significa che la mutazione si è completata?
Non so a che punto siano gli studi, in questo senso. I ricercatori qui sono molto più discreti di quelli dell'ISO, e sono a conoscenza che il team ha dei contatti con quello del dottor Nambu, ma non so i termini dell'accordo. A differenza del passato, qui nessuno mi nasconde nulla, ma ora sono io ad essere poco interessata. So già tutto di me, non mi piace, ma non sono nella posizione di poter cambiare le cose. È piuttosto l’ambiente che mi circonda che mi incuriosisce.  

Non avevo capito quanto benestanti fossero i genitori di Erlik, fino a quando non ho visto atterrare l'aereo privato di una delle loro società. Una delle tante. Una volta a bordo mi ha rivelato tutto. Benestanti non è nemmeno il termine corretto… Joe li avrebbe chiamati fottutamente ricchi.
Non ho fatto fatica ad abituarmi al lusso, agli ossequi, ai privilegi di una casta di persone di cui avevo letto solo sulle riviste. Più difficile, per quanto possa sembrare paradossale, è stato abituarmi a non dover più combattere.

La mia vita, prima, era una sola cosa: un’estenuante sequenza di addestramenti e battaglie simulate, con l’unico scopo di sconfiggere l'ennesimo malato piano di Berg Katze.
Quando ero nei Techno Ninja pensavo che mi sarei goduta il momento in cui i nostri nemici sarebbero stati sconfitti, e mi sarebbe stato concesso di tornare ad una vita da civile. Beh, era solo un pensiero sciocco.
L’addestramento è cominciato che avevo appena sei anni; io non ho mai avuto una vita, uno scopo al di là di essere un’eroina che salva il mondo. Così ho vissuto fino all’altro ieri. La mia mente e il mio corpo, costruiti, scolpiti per quel fine si ribellano ad un regime di quiete.
I miei giorni da ventenne “normale” sono durati quarantotto ore. Tanto ho resistito nell'ozio, prima di capire che non era quello che volevo. 
Mi sono iscritta all'università, studio biotecnologia medica, e molte delle ore libere le passo in palestra, a correre sulla spiaggia o ad addestrarmi insieme ad un paio di energumeni ex-SAS. Chiaramente, sono meglio di entrambi.

Le giovani cugine di Erlik, le mie nuove amiche in questo ambiente, mi osservano con curiosità e commentano con garbo i miei hobby. Sono due bamboline cortesi, educate e perfette.
Ogni tanto facciamo un giro insieme nei vari centri commerciali che ad Abu Dhabi abbondano. Da quando ci sono io escono senza guardia del corpo. Non sono come le amiche che avevo quando frequentavo lo Snack J, ma non sono male, e un po’ mi scoccia che non gli possa rivelare la verità sul mio passato. Di me sanno solo che sono orfana, e cresciuta in una base militare giapponese, cosa che non è tanto lontana dalla realtà.
Solo Dominique e Gustav, il padre e lo zio di Erlik, conoscono la mia vera identità.
Sono uomini d’affari, pragmatici e sempre molto impegnati. Dominique ha però qualcosa di ambiguo che mi ricorda un po’ il dottor Nambu. Come mi succedeva con il Direttore, trovo difficile riuscire a percepire le sue emozioni.
Considerati come sono tesi i rapporti tra lui ed Erlik -non fa mistero di reputare il figlio un cretino fuori di testa- non mi stupisco che, all’ISO, il mio amante detestasse così tanto Nambu. Doveva ricordargli casa sua costantemente.
Erlik. Il mio amante. Sorrido a pensare come tutte queste parole stiano bene nella stessa frase, quando qualche mese fa mi lamentavo di essere ancora vergine, e che l’unico partner che avrei mai potuto avere era un detestabile idiota.

Ammetto che non è un idiota. E non è nemmeno troppo detestabile, quando decide di non voler giocare a fare il polemico a tutti i costi. Immagino sia un atteggiamento costruito apposta negli anni, come reazione a questo ambiente dove sembra regnare il più zuccheroso bon-ton e dove una parola impropria, o un gesto sopra le righe, ti guadagnano occhiate stupefatte.
Lui è irrispettoso dell’etichetta e sicuramente non si fa problemi a dire in faccia alla gente quello che pensa, non importa quanto sbagliata o inappropriata sia. 
Deve aver trovato liberatorio l’ambiente del Sindacato Galactor, che è allo spettro opposto della civilizzazione rispetto al mondo in cui Erlik è cresciuto.
Se ripenso al suo modo di fare, e a quanto l’ho odiato per questo al nostro primo incontro, non mi capacito che i miei sentimenti per lui siano cambiati così tanto. Per Erlik non provo l’infatuazione adolescenziale che nutrivo per Ken, è un sentimento diverso, forse più adulto e non esente da dubbi. Sicuramente, l’attrazione fisica gioca una parte notevole nella nostra relazione. È un tipo di trasporto che per Ken non ho mai provato, per quanto fortemente avessi desiderato essere la sua compagna di vita, oltre che di team.

Ken. Mi manca. La sua rigidità virtuosa e battagliera mi ha fatto male, ma lui era anche il mio pilastro, il perno del nostro team e della mia esistenza. Sogno spesso di prendere il telefono in mano e di chiamarlo, ma ora è troppo presto. Ci saranno recriminazioni, e vorrà spiegazioni su cosa sono diventata, e su Erlik, che non ha mai sopportato. Non sono ancora pronta a dirgli in faccia che il suo odiato rivale per me sta diventando più importante dell'aria che respiro.
Mi mancano anche gli altri ragazzi. L'unico che sento frequentemente è Jinpei. Non potevo scomparire dalla sua vita. Mi ha portato i saluti di Ryu; Joe invece non si è fatto sentire. Chissà se mi odia...
Tra poco sarà Natale, e potrei invitare qui il mio fratellino. Questo posto gli piacerebbe, chissà se il dottor Nambu gli darà il permesso di venire. Non ho più sentito nemmeno lui, ma suppongo non sia molto felice della mia scelta.

E io, invece, sono felice? Me lo chiedo spesso.

Qui ho tutto quello che ho sempre desiderato: una vita agiata, la tranquillità di un futuro senza battaglie da combattere, un compagno che mi tratta come una principessa... soprattutto, ho una famiglia.
Avevo dubbi a riguardo, temevo che mi vedessero come un'avventuriera interessata solo ai soldi, eppure i Kahn mi accolta molto bene. Anzi, anche chi non sa la verità su di me mi tratta con una deferenza che trovo curiosa. Gustav mi ha messa a parte di molti dettagli operativi che riguardano le aziende di famiglia, ed è stato su suo consiglio che mi sono iscritta a quella particolare facoltà. Mi dice sempre che Erlik non poteva scegliere una compagna migliore. Le figlie di Gustav, l'ho già detto, sono le mie nuove migliori amiche.
Per dimostrarmi il piacere nell'avermi con loro i Kahn mi hanno fatto un regalo per il quale immagino abbiano speso un patrimonio.

È una statua antica, che raffigura la dea Ecate. Il marmo è venato d'oro puro, opera di un artista giapponese che ha ricomposto il corpo della scultura riempiendo le crepe con la tecnica del kintsugi. La statua è esposta nell'atrio della sede della Kahn-Kobashi qui ad Abu Dhabi.
Mi inquieta un po', perché non mi sfugge il suo significato, e il motivo del regalo.
Mi rappresenta. Ecate mi chiamavano i Galactor, e cosa sono io se non una bella scultura che il caso ha ridotto in pezzi, e che poi qualcuno ha rimesso insieme con un metallo prezioso? Almeno, questo è quello che Erlik crede, e che vorrebbe che io accettassi.
Io non sono ancora pronta. Mi sveglio, a volte, sentendo l'eco della voce di Sosai nelle orecchie, e con davanti agli occhi le immagini di Spectra. Ringrazio Erlik di essere lì al mio fianco, e di placare la mia angoscia con le sue carezze. Mi sussurra di non preoccuparmi, che non sono un mostro e, soprattutto, che sono troppo buona e troppo moralmente irreprensibile per trasformarmi in una genocida. La mutazione non mi ha cambiata così tanto e, alla fin fine, mi ha portato solo dei vantaggi.  
Io ho deciso di credergli. Perché altrimenti vorrebbe dire che dovrei sparire da questo mondo, ma non voglio più. Non ora che ho una prospettiva futura che non consiste solo di infinite battaglie contro innumerevoli orde di Galactor.
Ora voglio solo essere felice.
 


Abu Dhabi, Kahn-Kobashi HQ, 4 dicembre


Se qualcuno gli avesse chiesto quale era il panorama più bello del mondo, Erlik Kahn non avrebbe avuto dubbi, in quel momento ce l'aveva davanti: Jun, fasciata in un abito color ciclamino, stagliata contro la vetrata del settantesimo piano della Sky Tower. Al di là, il deserto faceva capolino tra i grattaceli di Abu Dhabi.
Erlik le aveva promesso che le avrebbe dato tutto, e l'aveva fatto. Non l'aveva mai sfiorato il pensiero che la sua famiglia avrebbe potuto accoglierla malamente: li conosceva troppo bene, e sapeva com'era lei.
La guardava muoversi tra di loro, ed era perfetta, come se fosse nata in quell'ambiente. Aveva tutti i pregi delle donne dell'alta società, e nessuno dei difetti. Educata ma non snob, curiosa ma non pettegola... la fine della sua guerra personale le aveva restituito l'amabilità. Persino le sue due noiose cugine la trovavano incantevole.
Quanto a suo padre e a suo zio, avevano intuito subito le potenzialità di Jun.
Erlik era consapevole che i due consideravano lui una nullità, e le sue cugine niente altro che mocciose viziate; suo padre gliel'aveva detto in faccia fin da ragazzino, e Gustav era d'accordo con il fratello, solo che lo nascondeva meglio.
Al contrario, erano affascinati da Jun, che Erlik sapeva essere molto più intelligente, tenace e volenterosa di tutti loro messi insieme. Era l'erede che i Kahn aspettavano.
Un'erede che, oltretutto, aveva portato in dote qualcosa di molto più prezioso di capitali o gioielli.

Erlik la osservò, mentre la ragazza prendeva da un tavolino un bicchiere colmo di un liquido chiaro e se lo portava alla bocca. I laboratori della Kahn-Kobashi avevano sintetizzato per loro dei prodotti emoderivati migliori di quelli che assumevano all'ISO.
Jun aveva apprezzato, ma cosa avrebbe pensato se avesse saputo che i ricercatori avevano anche sequenziato il genoma dei membri della famiglia Kahn, e cominciato a sviluppare un virus analogo come effetti a quello dei Galactor?
Forse sarebbe scappata, ma oramai era troppo tardi. Erlik non era ancora riuscito a convincerla che la sua mutazione non era dopotutto una cattiva cosa, ma a suo padre e a suo zio i vantaggi erano chiari.

Jun si girò e, sistemandosi con grazia una ciocca di capelli dietro l'orecchio, gli si avvicinò sorridendo.
Lei non sospettava niente, e ogni tanto ad Erlik veniva il dubbio di averla tolta da una gabbia per metterla in un'altra, solo con le sbarre d'oro; ma lo accantonava subito.
Non c'erano paragoni. Lei tra loro era una principessa, il gioiello più prezioso della corona, non una ragazzina costretta a combattere vestendo un costume idiota.
Jun gli mise le braccia attorno alla vita, e si strinse a lui. Abbracciandola, l'attenzione di Erlik si spostò sul panorama al di là della vetrata.

I sogni non erano mai cessati, ma ora avevano la consistenza della realtà. Davanti ai suoi occhi, le torri della città terrestre presero forme a spirale, e il deserto di sabbia si trasformò in uno di neve.
Anche la voce che aveva sentito sul mecha Galactor non aveva mai smesso di bisbigliare, ma gli era facile tacitarla. Non aveva bisogno di lui, per dare a Jun tutto quello che lei si meritava.
Meine Herrin...” le sussurrò all'orecchio.  
 
 
 
Fine 

 


N.d.A.: Finalmente ripubblicata tutta, questa mia vecchissima fic, in forma riveduta e corretta.
Grazie ancora a tutti i lettori e a chi, tra i lettori, ha lasciato o lascerà un cenno del suo passaggio.
Bird Go!
:)

Lux

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