A broken man

di Watson_my_head
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** File a caso ***
Capitolo 2: *** Non lasciarmi affogare ***
Capitolo 3: *** Prime volte ***
Capitolo 4: *** Tornare ***
Capitolo 5: *** Non il mio colore ***
Capitolo 6: *** Senza titolo ***



Capitolo 1
*** File a caso ***


Disclaimer:
Se questa storia vi risultasse in qualche modo familiare, vi invito gentilmente a chiedere in privato.
A presto!


 



 

A broken man






“Prima scrivevo per te, ora scrivo per i momenti che hai portato via”

Víctor de la Hoz

 

 

 

“A volte mi sembra ancora di sentirlo.”

Lo studio di Ella è avvolto in una luce soffusa. E' il tramonto, c'è silenzio.

“Che cosa?”

“Niente.”- Dovresti pensarci un po' di più prima di parlare se non vuoi dire quello che pensi. Guardala come ti scruta. Come se capisse davvero. Non può capire. Sono già stufo di essere qui. Quanto manca alla fine? Perché sono venuto?

“Siamo qui per parlare, John.”

Respiro forte. Ho mal di testa.

“L'odore.”

“Quale odore?”

Respiro di nuovo. Lo sento anche adesso. Ho voglia di vomitare.

“John..?”

“Il sangue. L'odore del sangue sull'asfalto.”- Perché cazzo mi fa dire queste cose. Penserà che sono pazzo. Forse lo sono in effetti. Chi se ne frega. Sono fuori di me. Fuori da me. Devo mettere fine a questa cosa. Ora dirà qualcosa di psicologico sull'olfatto, ci potrei scommettere. Come se non lo sapessi già.

“E' normale. L'olfatto è uno dei sensi più potenti. E' in grado di conservare un ricordo per molto tempo. Che cosa senti quando avviene?”

Le sorrido, ma vorrei ucciderla. Si, con le mie mani, adesso. Stringerle attorno al suo collo. Che cosa vuoi che mi provochi sentire l'odore del sangue di.. Devo vomitare, Dio.

“John, devi permettermi di aiutarti. Sono qui per questo. Puoi dirmi ogni cosa.”

Anche che vorrei farti stare zitta?

 

“Niente, non mi provoca niente.” A parte il desiderio di smettere di respirare. “Credo che l'ora sia finita, giusto?”

“...giusto. Ci vediamo la settimana prossima. Spero che tu venga.”

“Contaci.” Devo uscire da qui il più in fretta possibile. Mi alzo, recupero la mia giacca e apro la porta. Scendo una rampa di scale, cammino lungo il corridoio e finalmente esco sulla strada. Tutto senza pensare assolutamente a niente. Mi fermo, il cielo è rosso. Forse qualcun altro lo apprezzerebbe. Io non lo vedo nemmeno. Non ho più occhi per vedere queste cose. E' un giorno qualunque, di un mese qualunque, in una vita qualunque. La mia.

Riesco a girare l'angolo un attimo prima di dovermi piegare sulle ginocchia e vomitare quel poco che ho mangiato da questa mattina. Mi appoggio con una mano al muro su un manifesto sbiadito di una compagnia di assicurazioni. “La tua vita nelle nostre mani”. Fanculo.

 

***

 

“Sherlock!” - lo sto chiamando disperatamente. “Sherlock!!” - continuo ad urlare ma lui non si volta. Vorrei correre verso di lui ma non riesco a muovermi. Sono su un albero senza foglie. All'improvviso c'è la neve attorno a noi. Perché sta fermo di spalle e non si gira? “Sherlock!”. Non riesco a respirare, non riesco...

Mi sveglio in preda ad un attacco di panico. Mi manca il respiro. Il cuore sta per uscirmi dal petto. Sento che potrei morire questa volta. John, è un attacco di panico notturno, lo sai bene. Devi restare calmo. Metto la testa tra le ginocchia per evitare di soffocare e respiro il più lentamente possibile per cercare di abbassare il ritmo cardiaco. Respiro. Respiro. Cinque minuti dopo sono completamente sveglio, terrorizzato, immobile, seduto sul mio letto, al buio. Mi prendo la testa fra le mani e piango. Piango disperatamente. Non piango per te bastardo. Piango per me. Per il fantasma dell'uomo che sono diventato. Sono morto anche io quel giorno, sul marciapiede davanti al Barts.

 

Ho pianto forse per un'ora prima di avere la forza di alzarmi, accendere la luce e dare colore alla tristezza in cui vivo in questo momento. La camera è vuota, squallida, così come l'appartamento intero. Il verde di queste pareti mi provoca un odio viscerale. Ho provato a strappare la carta da parati con le mani una notte, in preda ad una crisi di nervi. E' venuta via un po', mi sono fatto male. Mi sono seduto per terra a guardare quello scempio malriuscito e ho urlato con tutto il fiato che avevo. L'ho lasciata così. Sotto si intravede una vecchia carta da parati gialla. Odio anche il giallo. Il giallo mi sorrideva una volta. Adesso lo odio.

Cammino verso la cucina. Accendo la luce. E' un orribile neon bianco, freddo come la morte. Mia madre diceva sempre che la cucina è il cuore della casa. Perché penso a mia madre adesso? La mia invece sembra una stanza d'ospedale. Un po' me ne compiaccio e non so neanche perché. Dovrei mangiare qualcosa ma non ho fame, ovviamente. Bevo un bicchiere d'acqua. Mi fa male il petto. Mi siedo su uno dei due sgabelli della penisola, la testa fra le mani. Vorrei piangere ancora, ma mi scopro a ridere. John, che cosa stai facendo? Che cosa stai facendo? Devi rimettere insieme i pezzi. Sono passati sei mesi, Cristo. Cinque mesi, tre settimane e quattro giorni, puntualizzerebbe qualcuno. Non rido più.

L'orologio alla parete segna le 3:46 del mattino. So che non tornerò a dormire. Respiro profondamente. Davanti a me, abbandonato, c'è il mio computer. Lo faccio scivolare verso di me, il cavo collegato alla corrente trascina una tazza lasciata lì non so da quanto e la fa cadere a terra. Si rompe. Lo noterò solo fra due giorni quando calpestandola mi ferirò un piede che lascerò sanguinare. Alzo lo schermo, si accende, apro un file di scrittura nuovo.

 

“Ella dice che scrivere mi aiuterà a rimettermi in sesto. Ma dato che non posso scrivere sul blog, scrivo file a caso. File a caso file a caso file a caso file a caso”. John smettila. Cancello e ricomincio da capo.

“Secondo la mia psicoterapeuta, che io non voglio assolutamente uccidere, scrivere mi aiuterà a superare la morte del mio migliore am” non ce la faccio. Cancello di nuovo.

 

“La mia psicoterapeuta è convinta che scrivere potrebbe aiutarmi a superare questo momento difficile della mia vita.”

 

Guardo lo schermo, rileggo. Sembra che mi sia morto il cane. O che abbia divorziato. Sicuramente questa frase a lei piacerebbe. “Aiutarmi a superare questo momento difficile della mia vita”. Aiutarmi, lei? Non credo proprio. A superare? Io non lo voglio superare. Lo renderebbe vero, sarebbe come lasciar andare. Che cazzo stai dicendo. Momento difficile? Momento difficile. Perdere il lavoro è un momento difficile. Avere una qualche malattia fisica è un momento difficile. Ritrovarsi soli, è un momento difficile. Morire, morire ma dover restare vivi e sorridere agli altri affinché si sentano tranquilli nelle loro vite vive. Questo è tutt'altro che un momento difficile. E' una condizione perenne. Uno status quo di squilibrio. Un'impasse.

Forse dovrei scrivere queste cose e mandarle ad Ella via email. Oggetto: file a caso. Respiro. Il mio divagare è estenuante.

“La mia psicoterapeuta dice che scrivere i miei pensieri potrebbe aiutarmi. Dice potrebbe, perché è evidente che nemmeno lei ne è convinta. Forse devo cambiare psicoterapeuta. Forse devo cambiare casa, città, stato, nazione. Forse devo cambiare faccia.

Sherlock.

Ecco l'ho scritto. Sei contenta? Merito una stellina sul registro, vero?”

Passo una mano sulla faccia. Non riesco a smettere di essere odiosamente sarcastico nemmeno quando scrivo. Rileggo. Cancello tutto. Riscrivo solo una parola.

“Sherlock”

Guardo per un po' il nome scritto nero su bianco. Mi do un minuto per assimilare quello che sento. Per capire. Credo sia odio. Aspetta, questo lo devo scrivere.

“Credo sia odio. Ah è odio, sicuramente. E' questo quello che provo. Un odio profondo e viscerale. Come hai potuto? Come hai potuto farmi questo e farti questo? Farci?”. Mi fermo. Farci?

Farci...

Voglio di nuovo piangere. Mi prendo la testa tra le mani. Ho freddo. Sono solo, seduto su uno sgabello scomodo nella mia cucina/stanza da ospedale, con una maglietta a maniche corte e i pantaloni del pigiama di un'altra persona. Una di cui non riesco nemmeno a dire il nome. Mi sento patetico. Sono patetico. Ah se lo sei. Il cursore lampeggia sullo schermo davanti a me. Anche lui sta aspettando. Tutti che aspettano. Tutti che si aspettano qualcosa da me. “John Watson, se la caverà”, “John Watson sta bene”, “John Watson è un medico stimato e professionale”, solo perché a lavoro indosso il camice e quello che ne deriva. E invece, non sono me. Se solo sapessero. Sono un medico, ma non sono più me. Sono quello che fingo di essere per gli altri, il bravo medico, attento, focalizzato, scrupoloso. Ma quello, non sono io. Invece, questo, questo sono io. Patetico, triste, perduto John. Solo nella mia cucina a scrivere e pensare cose a caso.

Sono distrutto.

Davanti ai miei occhi un'unica parola campeggia sul file bianco:

 

“Sherlock”

 

E il cursore lampeggia affianco alla k. Lampeggia. Lampeggia. Lo sposto. Vado a capo.

“Come hai potuto farlo? A me.”

A me. Rifletto. In fondo chi sono io? Chi sono stato io per te? In teoria il tuo unico amico. Parole tue. “Io non ho amici, ne ho solo uno”. All'improvviso un ricordo mi colpisce al petto forte, come se fossi stato investito. E' il profumo dell'erba di quel vecchio cimitero. Chiudo gli occhi, abbandono le mani sulla tastiera del pc. Ella ha ragione sull'olfatto. Ma non è il momento di pensare a lei. Concentrati John. Sei sicuro di volerlo fare? Si, voglio ricordare. Adesso. E' quel vecchio cimitero e l'erba ancora un po' bagnata dalla brina del mattino. Sono seduto sui gradini della chiesa e sto scrivendo qualcosa. Sono arrabbiato. Con te ovviamente. Sei stato il solito stronzo, egoista, figlio di puttana. In realtà ricordo bene che non stavo scrivendo niente. Scarabocchiavo per non pensare e mi sentivo anche piuttosto stupido per quella falsa pista che avevo seguito. E poi sei arrivato tu. Camminavi dritto, come sempre, elegante anche dentro un cimitero, col tuo cappotto, le mani in tasca ed una faccia mesta che poche volte ho visto sul tuo viso. Avrei comunque voluto prenderlo a pugni, sappilo. E invece ho deciso di ignorarti e andarmene. Non voler parlare con qualcuno non è proprio ignorare, comunque. E' piuttosto prendere una posizione. Sono arrabbiato, mi hai ferito, non voglio parlarti o permetterti di parlarmi. Questo vuol dire. E' tutto l'opposto dell'ignorare. John, siamo dalla stessa parte, non puoi essere in conflitto con te stesso. Mi hai fatto qualche domanda, hai cercato anche di essere simpatico. Ti ho detto che non ti si s'addiceva. Non era vero. Non sempre almeno. Mi sei venuto dietro, ho apprezzato. Poi ti sei aperto con me, hai cercato di spiegarmi la paura, il dubbio, quello che hai provato. Ma ero troppo arrabbiato, troppo. Ti ho dato le spalle di nuovo. Certo, sono stato un coglione comunque, anche io. Che razza di comportamento. E poi mi hai detto di avere un unico amico. Ti ho guardato e me ne sono andato, di nuovo.

Mi fermo a riflettere su questo punto del ricordo. Perché ho agito in questo modo? Osservo il muro.

Soffiava forte il vento.

 

“Io non ho amici, ne ho solo uno”. Forse uno era troppo poco per tenerti aggrappato alla vita. Non sono stato abbastanza, evidentemente. Tu non avevi amici, avevi solo me. Bel ringraziamento. Non mi sento lusingato adesso, questo è certo. “Ho solo un amico” e visto che tanto ho solo te, mi butto da un tetto. Dio, che cosa sto pensando. Non lo so. Non so più cosa pensare. Il ricordo svanisce, sono di nuovo solo.

 

Sono le 4:50. Tra poco sarà lunedì. E' già lunedì. Mi farò la doccia, mi vestirò, andrò all'ambulatorio, indosserò il camice e sarò quello che tutti si aspettano che io sia. Poi prenderò la metro e se pioverà tornerò a piedi. Mi siederò qui, e neanche mi asciugherò. Aprirò questo file e tornerò ad essere me. Me, solo per me.

 

Tu non ci sei più.

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Capitolo 2
*** Non lasciarmi affogare ***




“Ci sono ricordi che non cancellerò, persone che non dimenticherò, silenzi che preferisco tacere”

Fito Páez

 




Mercoledi.

Ore 11:27

“Dottore, il paziente delle 11 e 30 ha annullato l'appuntamento. Ho chiamato il successivo ma non ce la fa ad arrivare prima, quindi...ha un'ora libera.”

La guardo. Nancy è una segretaria modello. Sempre perfetta, sempre cordiale, sempre precisa. Non ha mai un capello fuori posto. Le mani curate, il sorriso felice. Mi chiedo se abbia una vita vera fuori da qui. Non ha bambini, fa qualsiasi turno a qualsiasi ora. Ha un gatto che vive in giardino, però. Non è sposata. La sto osservando un po' troppo. Non sono molto bravo in realtà a fare questo gioco.

“..dottore?”

“Si grazie Nancy”.

Sta indugiando sulla porta. Ti prego vattene.

“Dottore vuole che le porti qualcosa, un caffè, da mangiare?”

“No grazie, sto bene così.”

Annuisce. Solito sorriso gentile. La trovo assolutamente noiosa.

Sorrido appena, non per lei. Esce dallo studio e chiude la porta. Passo una mano sugli occhi, guardo fuori falla finestra. Londra è perfettamente grigia oggi. Una sfumatura deliziosa. Piove incessantemente da due giorni. Mi rallegra molto. Che cos'è questa? Ironia? John, mi compiaccio. Mi ignoro. Mi volto per cercare il cellulare, non ho più attenzione nel tenerlo sempre a portata di mano. Lo lascio nei posti più disparati. Qualche mese fa l'ho perso per due giorni interi. L'ho trovato nel frigorifero. Non c'è quasi mai niente nel mio frigorifero, ma quella volta c'era il mio cellulare. E' stato quasi simpatico. Meglio che trovarci una testa, comunque...

Dici?

Mi schiarisco la voce. Ho bisogno di distrarmi dai miei stessi pensieri.

Lo trovo nella tasca della giacca appesa alla sedia. Ci sono 3 messaggi. Harry e Greg. Ignoro entrambi, non ho voglia di discutere, di nuovo. La pioggia sembra smettere per un secondo, attira la mia attenzione. Mi alzo, la sedia fa un rumore strano, mi avvicino alla finestra e guardo fuori. Non penso a niente, non riesco più a pensare a niente. Sento la testa vuota e sono stanco. La mia mano trema leggermente, stringo il pugno. Mi sento soffocare. Apro la finestra e lascio entrare la pioggia ed un ricordo.

Ma vorrei uscire io.

Mi perdo.

Smetteranno mai?

 

***

 

Era stato un caso complesso quello, anche per te. Duplice omicidio, i corpi ritrovati perfettamente puliti, vestiti e seduti a tavola, pronti per la cena. Nessuna parentela tra loro, nessuna correlazione apparente, due perfetti sconosciuti seduti nella cucina di una casa in vendita, a mangiare cibo di plastica. Morti. Quando Lestrade ci aveva portato il caso c'è mancato poco che ti mettessi a saltare. Forse qualche salto l'hai fatto, in effetti. Ci siamo vestiti e abbiamo raggiunto la scena del crimine.

“E' un'opera d'arte. Geniale”

Mi sono schiarito la voce. “Sherlock.”

Mi hai guardato un secondo, hai scosso la testa, poi ti sei avvicinato ai corpi e hai iniziato a studiarli. Io constatavo il decesso evidente per asfissia.

“Grazie John. Comunque dobbiamo capire non il come, ma il perché sono morti. Guardali! Che cos'è? Una rappresentazione teatrale? Un film? Per chi?”.

Ti sei allontanato maneggiando il cellulare.

In meno di dieci minuti sapevi ogni minimo particolare delle due vittime. Lei, donna d'affari sposata non felicemente con un avvocato, corso di cucina il martedì sera, yoga il giovedì, vegetariana, un coniglio domestico, due tatuaggi fatti da ragazza, un passato da barista, niente figli. Lui, architetto, figlio di una ricca famiglia inglese, sposato da poco con una ragazza francese, matrimonio riparatore, un figlio, 2 cani, villa con piscina, una passione per gli orologi e le macchine costose. Apparentemente nessuna cosa in comune tra loro. Sembrava un delitto perfetto destinato a rimanere irrisolto.

Ma c'era una cosa che l'assassino non aveva tenuto in conto. Sherlock Holmes.

“Non hanno niente in comune. Tranne una cosa. Lo stesso amante.”

“Straordinario”. Avrei mai potuto dire altro?

Il proprietario di un bar, vecchio amico di lei e cliente di lui. Uno psicopatico di primo livello.

Eri così affascinato ed estasiato da quella scena del crimine che una volta scoperto l'assassino hai voluto inseguirlo tu stesso. Probabilmente volevi farci una chiacchierata. Certe cose non le capirò mai.

“Hai chiamato la polizia?”- ti ho urlato mentre correvamo per Londra sotto una pioggia battente.

“Certo che l'ho chiamata, John!”

Non era vero.

Poi successe qualcosa. Finimmo lungo la banchina del fiume, in un posto pieno di container enormi. Praticamente, un labirinto di morte. Poteva essere ovunque. Fu un attimo e ci perdemmo di vista.

“Cristo”- mi rannicchiai contro uno dei container e tirai fuori la pistola. Con l'altra mano cercai il telefono. Ti scrissi un messaggio

-Dove cazzo sei. Io container rosso. Non fare niente, per l'amor di Dio.-

Non potevo sapere in effetti quanti container rossi ci fossero, ma quando eravamo arrivati lì non ne avevo visti altri. Non mi hai risposto.

“Cazzo, Sherlock”. Presi due o tre respiri e restando con la schiena attaccata alla parete di metallo scivolai fino all'angolo. Mi affacciai con prudenza. Pioveva così tanto che i miei occhi non riuscivano a restare aperti. Non vidi niente. Se si fa ammazzare giuro che questa volta... Restai qualche secondo a riflettere, indeciso se restare lì e aspettare che leggessi il mio messaggio o spostarmi e venire a cercarti. Scelsi per quest'ultima. Abbandonai il riparo del container rosso e passai velocemente all'altro. Distavano un paio di metri al massimo e di nuovo, mi spinsi in fondo verso l'angolo percorrendolo rapidamente per tutta la sua lunghezza. Oltre quello non c'erano altri container, ma solo la banchina e sotto, il fiume agitato. Mi affacciai con prudenza. Di nuovo non vidi niente.

“Cristo.” Presi il cellulare, nessun messaggio. Dovevo spostarmi, non più in orizzontale ma in verticale, salire oltre la linea di container nella quale mi trovavo. Sei bravo in queste cose John. Nessuna paura. Girai l'angolo, la schiena appoggiata sul lato corto del container, di fronte a me un paio di metri di cemento e sotto il fiume. Feci due passi, la pistola all'altezza del viso. Ti senti vivo, John? Un respiro. Lentamente, mi affacciai. Davanti a me un'altra fila di 4 container, una cinquantina di metri di spazio, calcolai, forse di più. L'assassino poteva trovarsi dietro l'angolo di ognuno di essi e così Sherlock. Non riuscivo nemmeno a immaginare che potessero essersi già scontrati, d'altronde non avevo sentito niente se non quella fottuta pioggia. Giuro che ti ammazzo.

E poi tutto accadde nello spazio di un secondo.

Qualcosa mi premette delicatamente contro la testa. Un bacio freddo. Acciaio e capelli. Una pistola gentile.

“Dottor Watson, mi ha fatto faticare per girarle attorno”. Aveva la voce più calma e terrificante che io abbia mai sentito. “Ora da bravo, dammi la pistola. Sei così carino che quasi mi dispiace”. Mi prese la pistola dalle mani, delicatamente e la gettò nel fiume. Rimasi immobile, completamente preso alla sprovvista. Mi maledii. “Cazzo”.

“Dottore, non le si addicono queste parole. Si giri, per favore. Lentamente, grazie”.

Mi girai il più lentamente possibile. Mi trovai davanti un uomo alto forse due metri, di una bellezza quasi finta. Sembrava un attore sulla scena di un film d'azione. Peccato che fosse tutto vero. E aveva due occhi così freddi e spenti che mai potrei dimenticarlo in tutta la vita. Due pozzi neri di miserabile nulla. Mi puntava la pistola dritta sul cuore, con una fermezza impressionante. Aveva la testa leggermente piegata di lato e sorrideva. Ho fatto abbastanza esperienza nella vita da capire al primo sguardo che quell'uomo mi avrebbe ucciso senza nessuno scrupolo di coscienza, senza pensarci nemmeno un secondo. Non potevo fare nessun passo falso.

“Ma guardati, tutto bagnato. Magari in un'altra vita...”

Aggrottai la fronte ma non dissi niente. Cercai di restare calmo. Che cazzo sta dicendo?

“Dov'è il tuo...” roteò la punta della pistola leggermente “..collega? compagno?”

Non mi diede il tempo di dire nulla. All'improvviso iniziò ad urlare, continuando a tenere la pistola appoggiata sul mio cuore.

“Lo sai che se fai una minima cosa io lo ammazzo vero??”

Diceva queste cose urlando, sotto la pioggia a mezzo metro da me e mi guardava fisso negli occhi. Ero terrorizzato. Quasi non respiravo. Si rivolgeva a Sherlock che doveva essere da qualche parte lì intorno ed io, non avevo spazio nella testa per pensare a cosa fare.

“Cammina dottore.” Di nuovo quella voce dolce. “No, non girarti, all'indietro così. Bravo. Cammina, cammina..”

Iniziai a camminare all'indietro verso il fiume a poco più di un paio di metri da noi, i suoi occhi fissi nei miei. Ancora li sogno, a volte. Piegò di nuovo la testa di lato.

“Se sei fortunato non morirai. Lo spero per te. Mi piaci un sacco.”

Capii quello che voleva fare solo nell'istante in cui con una mano sul mio petto mi spinse giù, oltre la banchina, con una forza incredibile. Feci in tempo a vedere Sherlock saltargli addosso nel momento stesso in cui la pistola venne allontanata dal mio cuore. Sentii il mio nome.

Poi persi tutto.

L'impatto con l'acqua fu terribile. Era fredda, ghiaccio liquido. Sprofondai di qualche metro, le braccia larghe, gli occhi aperti. Fu catartico. Vidi l'acqua chiudersi sopra di me e sentii la pressione che chiude le orecchie e ti esclude dal mondo. E per quell'istante, per un unico brevissimo momento, ci fui solo io. Ero solo io. Il tempo si era fermato, un attimo perfetto di assoluto silenzio. E fu quasi...bello, liberatorio. L'istante in cui decidi che puoi lasciar andare tutto.

John...

No, non tutto.

Fui spinto di nuovo in superficie. Fine di quell'istante di finta perfezione. Nuotai, non so per quanto, nonostante l'acqua agitata e la pioggia incessante. Riuscii ad arrivare ad alcune scale in cemento che risalivano su per la banchina, mi aggrappai lì e mi tirai su sdraiandomi sui gradini. Erano la cosa più comoda del mondo. Tornai a respirare come se avessi smesso dall'esatto momento in cui avevo toccato l'acqua.

“Cristo”. - Ero esausto.

Sherlock arrivò pochi secondi dopo. “John! Stai bene? John??”

Mi toccava la faccia, le mani, le braccia. Se non lo avessi conosciuto, avrei detto che era in preda al panico.

“Sto bene.”- Tossivo acqua di fiume e parole.

Si lasciò cadere stremato e si sedette affianco a me. L'ombra di un sorriso sul suo volto. Eravamo un perfetto quadro grottesco. Mancava solo una cornice dorata.

In lontananza sirene e luci.

“Hai davvero chiamato la polizia.”

“Certo che l'ho chiamata, John.”

“Dobbiamo smetterla di fare così”- dissi, mettendomi a sedere e tossendo ancora.

“E dove sarebbe il divertimento?”

Ridevo come un cretino.

 

E un istante prima, mi ero quasi lasciato morire.

 

 

Il barista, Damon Pine era stato messo ko da Sherlock e arrestato da Lestrade poco dopo. Abusi infantili, mancanza assoluta di empatia e propensione genetica avevano fatto di lui un assassino terribile. Avrebbe confessato più tardi che la sua era solo una mania, “un vezzo. Mi piace uccidere persone che non si conoscono e metterle insieme nella morte. Così, per vedere cosa fanno”. Perfino Lestrade era rimasto shockato dalla confessione. Sherlock aveva semplicemente detto: “interessante”.

Tornammo a casa che era praticamente notte. Ero distrutto, avevo un mal di testa terribile, gli occhi mi facevano male, le ossa mi facevano male, le mani mi facevano male. Non c'era una minima parte di me che non mi dolesse. Mi sdraiai direttamente sul divano. Fare le scale era impensabile.

“Avrei voluto fare qualcosa prima, ma Pine ti avrebbe ucciso. Non c'era nessuna possibilità che non lo facesse. Solo ad un uomo ho visto una mano più ferma in situazioni di pericolo”

Aprii gli occhi per guardare Sherlock che parlava armeggiando con le corde del violino, in piedi vicino la finestra. Si era già cambiato. Mi ero addormentato?

“Come?”- aggiustai il cuscino sotto la mia testa. Che sta dicendo?

“Ti avrebbe ucciso John. Senza ombra di dubbio.”

C'era tensione nella sua voce. Sicuro? Non lo ricordo.

“Non riesco a capire perché non lo abbia fatto. Fortunatamente.”

Presi un respiro. Avevo davvero sonno. “Ha detto che gli piacevo un sacco e che sperava che io non morissi.” - la mia voce suonava meccanica persino alle mie orecchie.

Sherlock smise di armeggiare col violino e si voltò a guardarmi. Mi fissava, come suo solito. Niente di nuovo, chiusi gli occhi.

Ci fu silenzio per un po'.

“John...John.”

Sentivo il mio nome, ma era troppo lontano per dargli peso.

“John”

Mi svegliai. Avevo la vista annebbiata, la testa mi pulsava e respiravo a fatica.

“Hai la febbre alta”.

Sherlock? Sei tu? Dove sono? Dio, la testa. Misi a fuoco. Sherlock era seduto sul tavolino di fronte al divano. Era piegato verso di me, sembrava preoccupato. Da qui in poi i miei ricordi assomigliano a sogni. Non so dire cosa sia reale e cosa non lo sia.

Sentii una mano fredda posarsi sulla mia fronte. Sollievo. Chiusi gli occhi, credo. Alzai la mia mano e la poggiai sulla sua. Fu un gesto del tutto naturale, quasi automatico. Ghiaccio contro fuoco. Intrecciai alcune dita sotto le sue. Non si mosse. Ci fu silenzio.

“Sherlock. Non posso affogare.”- E' la mia voce?

Mi poggiò l'altra mano sulla testa. Ero già di nuovo mezzo addormentato.

“Molly sta venendo a visitarti. Tu dormi. Non ti lascerò affogare, John. Mai.”

Non ricordo altro di quella sera. Sicuro?

 

***

“Dottore, la signora è qui. La faccio entrare? Dottore?”

Mi giro di scatto verso Nancy.

“Mi dia un minuto.”

“Certo.”

Chiude la porta. Devo averla turbata. Non me ne importa niente. Sono ancora in piedi davanti alla finestra aperta. La chiudo. Ho il camice un po' bagnato. Questo non sono io. Avevi detto che non mi avresti lasciato affogare, mai. Guardami adesso.

 

 

Un istante in cui decidi che puoi lasciare andare tutto. E' stato così per te?

Forse era meglio se fossi morto quel giorno, John.

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Capitolo 3
*** Prime volte ***


Rieccomi qui, con quello che è il mio capitolo preferito tra quelli scritti fin'ora. John sta compiendo un lavoro su stesso (anche se forse non ne è del tutto consapevole), attraverso l'intreccio tra quella che è diventata la sua vita adesso ed i suoi ricordi, che lo colpiscono e lo tormentano in continuazione. Il passato ed il presente si intrecceranno fino a collidere e a coincidere ad un certo punto, in un determinato momento. 
Ah, Mary is coming.
Sherlock pure.

 

 

 




“Sii sempre con me, prendi qualsiasi forma, portami alla follia.

Solo non lasciarmi in quest’abisso, nel quale non riesco a trovarti”

Emily Brontë, “Cime Tempestose”

 

 

 

 

“Hai risposto ai messaggi di tua sorella?”

Oggi Ella ha qualcosa di diverso. Forse sono i capelli. Mi sembra distratta. Smettila, non sai giocare a questo gioco.

“John?”

“Si, ci vediamo la settimana prossima per un caffè.” Non è vero. La guardo. Resta in silenzio qualche secondo, sembra stia decidendo se credermi o meno.

“Sarebbe un progresso.”

No, non sembra convinta. Annuisco. Osserva il pavimento qualche istante prima di parlarmi di nuovo.

“John, capisco perfettamente quello che stai passando.” Non credo. “Ma mi sembra che da un po' di tempo siamo fermi.”

“Fermi?”

“Non stai facendo progressi.” Ma se hai appena detto il contrario. Prende un respiro. “Devi iniziare a prendere più seriamente le sedute. Devi restituire, John. Non possiamo passare ore intere a parlare solo del fatto che non riesci a dormire.”

“Ho dormito questa notte.” Ha ragione, lo sai.

“Ecco, vedi.”- si sposta sulla sedia. Picchietta il suo blocco dove-scrivo-quello-che-mi-pare-senza-che-tu-possa-saperlo con la punta della penna. “Sei costantemente sulla difensiva. Ogni volta, ogni singola volta. Non posso aiutarti così.”

Resto in silenzio. Guardo fuori. Perché è sempre il tramonto quando sono seduto su questa poltrona? Devo smettere di venire.

“E non puoi interrompere la terapia. Non è il caso. O almeno, non è una cosa che suggerirei.”

Suggeriresti. A chi? Mi mordo le labbra. Certo. Mycroft lo verrebbe a sapere nel giro di 4 secondi. Anzi, prima ancora che io abbia preso la decisione di lasciare la terapia, lui lo saprebbe. E non sarebbe felice. E' un incentivo a non venire più, in realtà. Sorrido.

“Ti fa sorridere John?”- mi guarda reclinando la testa di lato. Torno serio. Lei non può seguire il filo dei tuoi pensieri. Le piacerebbe. Sarebbe sicuramente più facile il suo lavoro.

“John.” - si sta spazientendo.

“Scusami. Riflettevo su una cosa.”

“Che cosa?”

“Che non si può dire niente a voi psicoterapeuti. Rispondete sempre con beh parliamone. Che cosa hai provato. Di che cosa si tratta.”- stringo gli occhi. John, smettila adesso. “Scusami. Ok, sono qui.”

“Bene. Direi di ricominciare da capo. Hai risposto ai messaggi di tua sorella?”

Sono indeciso questa volta. Guardo le mie mani unite sulle gambe. Respiro a fondo.

“No.”

Annuisce. “Bene. Una verità.” - scrive qualcosa sul quel suo blocco. Se chiedessi a Mycroft di scoprire cosa scrive, potrei saperlo. Probabilmente lui lo sa già. E comunque non me lo direbbe mai. “Perché?”- continua.

“Perché francamente, dubito che mia sorella sia la persona più adatta con cui parlare al momento. O in qualsiasi altro momento, in effetti”. Inizio a pensare lo stesso di te, Ella.

“Non dovete discutere di questo, John. Della tua situazione. E' solo un modo per uscire di casa e andare in un posto che non sia l'ambulatorio. E poi è tua sorella. E' preoccupata. Lo sarà sicuramente.”

E' preoccupata”. Vi telefonate? Non voglio saperlo.

Annuisco. “La chiamerò”. Non voglio farlo. Lo farai.

Sembra sollevata. “Avevamo fatto tanti progressi, John. Non sarà difficile trovare di nuovo un tuo equilibrio. Ma devi volerlo. Devi almeno volerci provare.”- fa una breve pausa. “A volte ho i miei dubbi, che tu voglia farlo sul serio.”

La odio. Resto in silenzio.

“Sei un uomo molto diverso da allora. Ricordi?”

“Che cosa?”

“La prima volta.”

 

***

 

La mattina dopo l'avventura del barista killer mi svegliai davvero male. Fu strano. Prima ancora di aprire gli occhi mi accorsi che c'era qualcosa che non andava. La luce, seppure tenue, proveniva dalla parte sbagliata. Il materasso era più morbido rispetto al mio, troppo morbido. Il cuscino era scomodo per me. Anche l'odore della stanza era diverso. Un odore che conoscevo, ma che decisamente non era il mio. Quello non era il mio territorio. La prima sensazione fu il panico. Il cervello associò in un meccanismo automatico e insano gli ultimi ricordi degli occhi terribili di Damon Pine alla consapevolezza di trovarsi in un posto sbagliato. Come se le due cose avessero potuto collegarsi in una qualche maniera a me sconosciuta. Fu un ragionamento complesso, sviluppato in una frazione di secondo e svanito altrettanto velocemente nell'istante stesso in cui aprii gli occhi. La camera di Sherlock. Che diavolo ci faccio qui? Mi guardai attorno. La luce era talmente bassa che non riuscivo a capire che ore fossero. Mi misi a sedere. Dio... L'emicrania era fortissima. Avrei potuto sentire le vene pulsare sulla mia testa se mi fossi concentrato abbastanza. Poi ricordai. Pine arrestato, ritorno a Baker Street, la stanchezza, Sherlock che mi diceva che avevo la febbre, la sua mano sulla mia fronte...Compresi il mal di testa. Ma non il motivo per cui mi trovavo lì. Mi alzai, lentamente. Molto lentamente. Indossavo il mio pigiama e una buona dose di ansia. Aprii la porta e attraversai la cucina fermandomi sulla soglia del soggiorno.

“Buon pomeriggio”. Eri seduto sulla tua poltrona, vestito come il giorno prima. Non ha dormito. Avevi il violino in mano e pizzicavi le corde distrattamente. Mi appoggiai alla porta.

“Che ore sono?”

“Le 15:36. Come ti senti?”

Mi guardai attorno. Ero confuso. Imbarazzato. “Ho mal di testa.”

“Ovvio. Ieri avevi 39 e mezzo di febbre. Hai fame?”

Non avevo fame. Piuttosto, avevo la nausea, quella tipica degli stati febbrili. Ma avevo anche bisogno di un antidolorifico quindi dovevo mangiare qualcosa. Mi girai e tornai indietro verso la cucina senza rispondere. Mi sedetti al tavolo. Era il solito macello. Non ci feci nemmeno caso. Appoggiai i gomiti sul piano e mi stropicciai gli occhi. Sei uno straccio, Watson.

“John?”

Eri di fronte a me. Sicuramente io ero abbastanza rallentato, ma tu eri stato piuttosto silenzioso. Mi fissavi. Come sempre.

“Si”.

“Ti preparo un tè?”

“Si.” Non riuscivo a concentrarmi su cosa fare e lo sapevi. Probabilmente l'avevi capito da come me ne stavo in piedi sulla soglia del soggiorno, o da come avevo camminato fino a lì, o dal modo in cui avevo aperto la porta della tua camera, o da come ero sceso dal tuo letto. Forse eri in grado di percepire anche l'esatta angolazione dell'apertura dei miei occhi stando seduto in un altra stanza e da lì dedurre che ero perfettamente rincoglionito. Chiediglielo.

“Perché stavo dormendo in camera tua?”- buttai la domanda. Come se non ci stessi pensando dal momento stesso in cui hai aperto gli occhi.

“L'hai suggerito tu.”- hai risposto, senza nessuna inflessione nella voce che potesse darmi un qualche motivo, il più disparato a cui aggrapparmi per rifletterci su. Eri di spalle e preparavi il tè. Due tazze. “E comunque era più comodo portarti lì che di sopra. Ovvio. Molly mi ha aiutato.”

Molly. E' vero, hai detto che sarebbe passata. Non la ricordo. L'ho suggerito io? Io? Non può essere. Io? Perché? Perché avrei dovuto dirti... Perché? Non può essere. Non me lo ricordo. Chiediglielo. Non posso chiederlo di nuovo. Non posso aver detto... Deliravo, devi aver capito male. Sicuramente. E' stata la febbre. Non posso averti chiesto deliberatamente di portarmi in camera tua. Hai capito male.

“Smettila John.”

Ero rimasto in silenzio tutto il tempo. Fissavo il muro davanti a me.

“Sento i tuoi pensieri da qui. Sei noioso”- mi porse il tè e dei biscotti che Mrs. Hudson aveva preparato per noi il giorno prima. Non chiesi più niente.

 

Le settimane a seguire furono difficili. Difficili è usare un eufemismo, in realtà. Non ci furono casi interessanti per un po' e quei pochi che arrivarono alla nostra porta furono classificati nell'ordine come: noioso, ridicolo, banale e per l'amor di Dio. O forse ci fu prima per l'amor di Dio e poi quello banale. Non lo ricordo.

Eri tremendamente annoiato. Io, ero tremendamente nervoso.

Dopo quella notte con la febbre ero precipitato in uno stato di nervosismo perenne che non faceva che aumentare col passare dei giorni. Era come se fosse qualcosa che non dipendeva da me. Come no, John. Non lo controllavo. Me ne stavo in silenzio, o leggevo, controvoglia. Rispondevo, controvoglia. Mangiavo, dormivo, controvoglia. Tu sembravi ignorarmi. Grazie a Dio. Giravi per casa in preda ad un vero e proprio esaurimento nervoso. Un giorno recitavi in piedi sul divano un passo dell'Otello. Un altro giorno decantavi alla finestra aperta le diverse qualità di droghe conosciute e non. Una notte hai quasi dato fuoco alla cucina durante un esperimento. Sono venuti i pompieri, quindi potrei togliere il quasi. Mrs. Hudson lasciò Baker Street per qualche giorno, “altrimenti lo uccido”, mi aveva detto prima di andarsene. Penso che lo avrebbe fatto davvero. Potrei farlo io.

Poi una sera, dopo aver urlato ad un concorrente di Masterchef che la moglie lo tradiva con il suo migliore amico mentre io leggevo controvoglia un libro di cui non ricordo assolutamente niente, hai detto:

“John, va tutto bene?”

Ho alzato la testa. Ero seduto sul divano, tu sulla mia poltrona girata verso la tv. Mi davi le spalle. Non risposi.

“Ho calcolato che per un po' di tempo saresti stato intrattabile, dopo quella sera. Niente di nuovo. Tipico di te. Ho atteso qualche giorno. Ma sono passate tre settimane e non è cambiato niente. La mattina scendi in pigiama, invece di vestirti, come tua consuetudine. Prepari il tè ma non lo chiedi. Lo fai e basta. Hai smesso di leggere. Quel libro lo tieni in mano da un mese. Hai letto quattro pagine in tutto. Ho cambiato il posto al segnalibro una volta spostandolo di 50 pagine e quando l'hai ripreso hai continuato a leggere come se niente fosse. Non hai più indossato il maglione verde, quello orrendo. Pensavo fosse uno dei tuoi preferiti. In realtà sono tutti orrendi ma quello lo è in particolare, comunque. Quando esci dimentichi l'ombrello. Prendi il cibo da asporto per due, senza nemmeno chiedermi cosa voglio. Dimentichi il cellulare in camera. Non ti sei più lamentato per il tavolo della cucina. Non ti sei lamentato nemmeno quando sono venuti i pompieri. E quello è stato piuttosto divertente, dovresti ammetterlo. Mrs. Hudson è preoccupata per te.”- hai fatto una breve pausa, poi hai aggiunto con un tono di voce leggermente più basso - “E ieri hai attraversato senza guardare, John.”

Ero sconvolto. Avevi elencato, come fai di solito per impressionare un cliente, una serie di cose su di me di cui nemmeno io mi ero reso conto. Come la prima volta che ci siamo visti. Ma non mi stavi ignorando?

“Non puoi attraversare la strada senza guardare, John.” - hai ripetuto continuando a tenere lo sguardo fisso sulla tv. Vedevo solo i tuoi capelli. Quindi per settimane mi avevi studiato, registrando ogni mio minimo cambiamento senza dire nulla. E poi, quello che apparentemente avevo fatto il giorno prima ti aveva costretto a rendermi partecipe dei tuoi pensieri. Perché? Ma sei stupido John?

“Ho attraversato senza guardare?”- ho ripetuto, abbastanza incredulo.

“Mycroft mi ha fatto vedere il video. Senza dubbio, lo hai fatto. Stai cercando di ucciderti John?”- avevi una voce molto calma. Io ero turbato. Mycroft. Ovviamente. Vuoi arrabbiarti per questo adesso? Sei sicuro? Attraversi senza guardare, John? Andiamo.

Chiusi il libro. Lessi il titolo forse per la prima volta. Cime tempestose. Cime tempestose??Cinquanta pagine? Me ne sarei accorto. Certo. Guardai per terra.

“Non essere ridicolo.”

“Lo immaginavo. Non mi importa se compri cibo cinese a caso, e nemmeno se vai in giro in pigiama o se dimentichi l'ombrello anche se ti sta piovendo praticamente in testa. Ma gradirei che tu prestassi maggiore attenzione quando cammini, John. Sarebbe oltraggiosamente banale farsi ammazzare così per uno come te.” Poi hai insultato qualcuno alla tv.

Ed io, mi sono sentito irrimediabilmente ordinario.

Avrei voluto dire una cosa, qualsiasi cosa. Una qualunque. Ma ero interdetto. Dal fatto che avevi dedotto tutte quelle cose su di me. Non che fosse una novità certo, ma pensavo che non stessi facendo caso a quello che facevo io visto che eri impegnato nei tuoi melodrammi da noia. Ed ero arrabbiato. Con Mycroft, con te e con me stesso, per essermi concesso una tale distrazione. Il solo pensiero di me che attraverso una strada qualsiasi di Londra senza guardare mi avrebbe provocato incubi certi. Ero già preparato. E tutto perché ero...distratto. Da cosa?

Lo sai benissimo.

Distratto e nervoso. Ed ero confuso. Il mio nervosismo era stata una reazione istintiva di difesa successiva a quella notte. L'essere distratto, assente e lontano dalle mie abitudini fu solo una conseguenza. Ma l'essere così un libro aperto per te era la cosa che più mi mandava fuori di testa.

“Io...”.

Fu l'unica cosa che dissi. Lestrade stava salendo le scale e dal modo in cui lo faceva avevi già capito tutto. In un attimo eri in piedi, in mezzo alla stanza ad aspettarlo.

“Questo è uno buono”- Ed i tuoi occhi cambiarono colore. Si riaccesero di quella sfumatura fatta di eccitazione e attesa che ben conoscevo. Mi alzai anche io, lasciando quel libro non letto abbandonato sul divano.

“Dovresti venire con me”. - disse Lestrade non appena varcò la soglia.

“Certo, voi siete degli incompetenti, è ovvio.”- gli hai risposto togliendoti la vestaglia e prendendo la giacca. “John? Vieni?” Mi hai guardato. All'improvviso non ero più così scontato per te?

Annuii. E fui grato a Greg per quella conversazione interrotta.

 

Di nuovo il lungo fiume. Notte. Ma non c'è un altro scenario in tutta Londra per uccidere qualcuno? Ero irritato. Davanti a noi, il solito schema. Cordoni della polizia. Qualche pattuglia. Luci rosse e blu. Io, tu e Lestrade scendemmo dall'auto e ci avvicinammo. Donovan simpaticissima come sempre, all'ingresso vip. Ci alzò il nastro giallo. Fece una battuta che non ricordo, ma ricordo benissimo la mia risposta poco gentile, poco da me. Mi hai guardato un istante. Io ho continuato a camminare. Ecco sta deducendo cose. Perfetto. Stai zitto John Watson. Ci avvicinammo al cadavere. Era nudo, supino.

“John?”

Mi invitavi a dare un'occhiata, come sempre. Mi inginocchiai nel fango. Feci qualche valutazione, studiai quello che vedevo.

“Maschio, ma questo è evidente, credo tra i 50 e i 60 anni. Ferita mortale da corpo contundente alla testa, ecchimosi varie qui e qui, braccia e gambe. Segni di tentato strangolamento. E' morto da almeno un paio di giorni.”- nessuna flessione nella mia voce. Stavo leggendo un libro di medicina, praticamente. Mi rialzai. Ormai avevo imparato a reprimere l'empatia sulle scene del crimine. “L'empatia è superflua e inutile”, avevi detto, tipo 47 volte in 47 occasioni diverse.

“Grazie John”. Poi hai cominciato ad osservare il cadavere.

“Pensavo fosse annegato.” -disse Lestrade guardandosi attorno.

“Pensare è pericoloso. Nulla è più ingannevole di un fatto ovvio, Graham.” - hai risposto mentre controllavi la bocca dell'uomo morto.

Graham. Ho scosso la testa. Non ti ho corretto. Avrà notato che non l'hai corretto. Sospirai. Lestrade si era comunque già allontanato.

Passarono cinque minuti.

“Ci sarà una rapina.”

“Una rapina?”

“Si John, una rapina. Sei forse sordo?” - armeggiavi con il cellulare.

Aggrottai la fronte. “E cosa c'entra questo con il cadavere?”

Hai roteato gli occhi. “Deve essere proprio bello essere voi. Lo usate il cervello ogni tanto?Che ci fate?”. Ti eri incamminato verso le macchine della polizia.

Non ho risposto. Non è proprio la sera adatta Sherlock. Sospirai per reprimere l'istinto di uccidere anche te, sul lungofiume, di notte. All'improvviso mi sembrava uno scenario perfetto.

“Quest'uomo è William Crowder. E' un autista di portavalori. E' morto da due giorni, ma nessuno ne ha denunciato la scomparsa”

“Non se ne sono accorti?”

Hai sospirato, impaziente. “Non puoi accorgerti che qualcuno è scomparso, se non lo è.”

Mi sentivo sempre più confuso.

“Potresti gentilmente spiegare a noi comuni mortali che cosa hai scoperto?”. Anche Lestrade si era avvicinato.

Ti sei fermato, la frustrazione nello sguardo. “William Crowder qui presente, è morto da due giorni. Ma dai controlli che ho appena fatto risulta che il nostro cadavere è andato regolarmente a lavoro. Quindi, o il suo è un fantasma particolarmente zelante, oppure...” -ci guardavi speranzoso agitando una mano verso di noi, come se servisse a tirarci fuori la risposta.

“Qualcuno deve aver preso il suo posto”- dissi. Ero io o eri tu ad essere particolarmente irritante quella sera?

“Bravo John, stai migliorando.” Eri tu. Decisamente tu. “Quindi, sappiamo che qualcuno ha preso il suo posto. Domani il portavalori di cui è responsabile sposterà un'ingente somma di denaro. Ciò significa che ci sarà una rapina. E' così ovvio.”

“Come hai fatto a capire che questo è William Crowder se nessuno ne ha denunciato la scomparsa?” - fu la domanda di Lestrade.

Hai sorriso. “Due giorni fa la signora Crowder è venuta a Baker Street per chiedere il mio aiuto. Diceva che il marito era strano, che era lui ma non era lui.”

“Me la ricordo. Le hai detto che era pazza, che il marito aveva l'amante, cioè la baby sitter e che comunque era un caso noioso.” - dissi. “Direi che ti eri sbagliato.”

“Lui aveva davvero una storia con la baby sitter, John! Prima di morire, ovviamente.”

Mi venne un po' da ridere. Come se non fossimo nel bel mezzo di un omicidio, preceduto da una sostituzione di persona, e seguito da una prossima rapina.

“Andiamo a prenderlo” - disse Lestrade.

“Noi prendiamo un taxi.”

Quindi, ci separammo. Prendemmo un taxi subito dopo. Eri silenzioso.

“Dove stiamo andando?”

“La polizia sta andando a casa di Crowder, quello vero. Ma lui, quello finto, non è lì. O meglio, non sarà più lì.” - guardavi il tuo telefono.

“E perché non gliel'hai detto? Cristo, Sherlock!”

“Perché sono troppo stupidi. Quando arriveranno, se lo faranno scappare. Ma lo prenderemo noi. Hai la tua pistola vero?”

“Non mi hai detto che dovevo portarla.”

“Ma l'hai portata.”

“Certo.”

Non dicemmo più niente. Fu un altro dei nostri infiniti viaggi in silenzio, nel retro di un taxi, insieme a Londra di notte. Cercai di farmi scivolare addosso il nervosismo di quelle ultime settimane. Respira John. In realtà mi rendevo perfettamente conto che il mio corpo rispondeva automaticamente a situazioni come quelle. Più erano difficili e pericolose e più avevo i nervi saldi. Era sempre stato così. Quello era il mio territorio.

Il taxi ci lasciò in un posto terribile, al limite di una strada oltre la quale non c'era nulla. Dovemmo camminare a piedi per un bel pezzo prima di arrivare da qualche parte, nei pressi di un enorme capannone attorno al quale giacevano bidoni sparsi e rottami. Sentivo l'adrenalina scorrermi nelle vene. Mi sentivo da Dio.

“Come fai a sapere che verrà qui.”

“E' già qui. E' dove tengono il portavalori e dove hanno organizzato il colpo. Mycroft mi ha mandato le coordinate.” - hai risposto, muovendoti rapido ma silenzioso.

Diedi un'occhiata veloce intorno. Studiare il territorio. Individuare le eventuali vie di fughe per il nemico e per noi. Escogitare un piano funzionale di attacco. Portare a casa tutti sani e salvi. Lo avevo già fatto. Non era niente di nuovo per me. Ho iniziato a parlare quasi in maniera automatica.

“Ok, due ingressi. Quindi dobbiamo dividerci o potremmo perderlo. Tu davanti, io vado sul retro. Entriamo. Resta sempre contro il muro. E non fare niente di stupido. Hai capito?” - ti ho guardato dritto negli occhi. Il mio tono di voce era un po' diverso dal solito, non permetteva obiezioni. Mi hai restituito lo sguardo, hai annuito. Quindi ci separammo.

Il retro del capannone era un vero disastro. La porta era ostruita da rottami e varie cianfrusaglie che comunque non avrebbero impedito un'eventuale fuga. Fui costretto a scavalcare varie cose al buio, mi ferii un piede e una spalla. Niente di grave. Raggiunsi la porta che era semi aperta. Fantastico. Non mi sembrava proprio un buon segno. Mi affacciai. L'interno era completamente buio. Più buio dell'esterno. Con la pistola ferma tra le mani all'altezza del viso, entrai e strisciai lungo il muro. Cercai di abituare gli occhi all'oscurità per capire dove mi trovassi, se il capannone fosse un ambiente unico, se riuscissi a vederti dall'altra parte o chissà che altro. Ma non vedevo niente. Solo una piccola luce in lontananza, forse una piccola lampada. Un cellulare? Non può essere Sherlock, non sarebbe così stupido. Deve essere il nostro morto che cammina. Mi abbassai contro alcuni bidoni. Cercai di avanzare lentamente verso la luce, in silenzio. Sentivo solo il mio respiro e dell'acqua gocciolare da qualche parte.

Poi all'improvviso un frastuono agghiacciante. Bidoni rovesciati, un colpo di pistola. Mi si gelò il sangue.

“John! Joh..!” -avevi urlato il mio nome un paio di volte. Uscii allo scoperto per raggiungerti, dovevi essere ad a una decina di metri da me. Inciampai in qualcosa. Finii a terra. Gli occhi erano ormai abituati all'oscurità e riuscivano a scorgere la tua sagoma in lontananza sormontata da qualcuno. Ti stava soffocando. “Cristo, Sherlock!”. Avrei voluto sparare, non avrei esitato se non avessi avuto il timore di colpirti. Abbandonai quel pensiero e mi precipitai verso di te. L'uomo che ti stava addosso era esattamente uguale al cadavere trovato sul fiume, almeno per altezza e corporatura. Non riuscivo a scorgerne il viso. Te lo tolsi di dosso con forza e lo scaraventai a terra ad un paio di metri di lontananza.

E poi, persi del tutto il lume della ragione.

Mi avventai su di lui e lo picchiai. Lo picchiai così forte che mi spaccai le mani. Non riuscivo a fermarmi. Avrei voluto togliergli la vita strappandogliela dal petto. Avrei voluto farlo. Volevo farlo. Volevo ucciderlo. Ero completamente fuori di me.

Mi hai afferrato per un braccio. “John! Smettila! John! Non si muove più. Fermati”. Mi sono voltato di scatto verso di te. Ero in iperventilazione. Avevo le mani piene di sangue, mie e di Crowder. Doveva essere una scena pietosa. Mi resi conto di quello che stavo facendo solo nel momento in cui ti guardai. Sherlock. Ed ogni pezzo sembrò tornare al suo posto. Mi sono accasciato su me stesso reggendomi sulle ginocchia. Ero sfinito. Completamente distrutto. Gli occhi spalancati, guardavo il pavimento e cercavo di respirare e tornare, a galla.

Mi hai messo una mano sulla spalla. “John, va tutto bene.”

Ho continuato a respirare. Volevo solo respirare.

 

Quella notte non chiusi occhio. Ero spaventato. Guardavo il soffitto della mia camera e rivivevo in continuazione quelle scene terribili, mentre picchiavo Crowder, colpevole di aver messo le sue mani su di te. Sei impazzito John? Alzai le mani davanti agli occhi. Piccole fasciature sulle nocche. Mi hanno quasi obbligato a metterle. Guarda che hai combinato. Respirai. Mi sentivo terribilmente in colpa e terribilmente solo. Era notte fonda e i miei pensieri erano così assordanti che avrei voluto urlare pur di sovrastarli. Mi alzai, uscii dalla camera e scesi le scale. Andai in cucina, guardai la tua porta chiusa per un istante. Volevo farmi un tè ma guardai le mie mani, rinunciai e passai in salotto. E tu eri lì. Dormivi rannicchiato sul divano, nella penombra. Non ci entra nemmeno tutto. Sorrisi. Mi appoggiai con la schiena alla porta, mi lasciai scivolare e mi sedetti per terra. Ti guardai dormire. C'era il più assoluto silenzio, solo i nostri respiri. Non lo so per quanto tempo ti ho guardato. Minuti? Ore? Dormivi placido, respirando leggero. Avevi una maglietta a maniche corte e i pantaloni del pigiama a quadri blu. Non potrò mai dimenticarlo. I capelli erano un disastro, ricadevano sul cuscino senza nessun senso. Ho reclinato la testa di lato. Ti guardavo dormire e pensavo a quanto io fossi triste e miserabile. Con le mie mani rotte e il cuore a pezzi.

 

E fu quella.

Fu quella la prima volta in cui pensai che avrei voluto guardarti dormire tutte le notti.

 

 

***

 

 

“John? La prima volta. Intendo la prima volta che sei venuto da me, dopo l'Afghanistan.”

“Mh?”

Ella mi sta guardando come se fossi scomparso per ore. “Dove sei appena stato John?”

Mi schiarisco la voce.

“Ci vediamo la prossima settimana?” - le dico, alzandomi. Lei annuisce. Ma credo che vorrebbe dire altro.

“A giovedì. E chiama tua sorella.”

“Lo farò.” - la voce esce da me senza controllo.

Mi incammino e lascio lo studio.

 

E' quasi notte. Dio, ho bisogno di bere.

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Capitolo 4
*** Tornare ***


Salve a tutti. 
Riecomi con un aggiornamento un po' tardivo, lo so, ma c'è una cosa che continua a mettersi in mezzo, la vita. Spero che questo capitolo vi piaccia.
I need some love, c'mon.


 


 


“Di questo per me si tratta, di essere il resto di alcune persone, delle loro sottrazioni.

Porto il vuoto che mi hanno lasciato.”

Erri De Luca, “Non ora, non qui”

 

 

 

 

Non puoi sapere che rumore fanno i tuoi pensieri se non hai mai camminato da solo di notte. Ed io lo so, fin troppo bene, ormai. Hanno il suono di sussurri segreti e parole non dette. Che rumore fa una parola non detta? E' come uno sguardo non ricambiato. E' un silenzio condiviso. E consapevolezza. O forse no. Ma se non c'è nessuno ad ascoltare, non c'è rumore. Eppure io lo sento. Solo io. E' qui dentro.

Guardo il cielo. E' stranamente limpido. Stelle, niente luna. Sto cercando di tornare a casa, credo. Cammino da un po'. Sono ubriaco. Ho bevuto whisky e tristezza, a dosi alterne. Cammino, ma non so dove sto andando. Vai a casa John. Si vado a casa. Cosa direbbe Ella se ti vedesse adesso? Ella ha ragione. Sono costantemente sulla difensiva. Non voglio parlare, non voglio affrontare. Non voglio restituire, come dice lei. Cosa devo restituire? Io non ho niente. Niente. L'unica cosa che mi resta è questo. E se lo restituisco sarò più vuoto. Non posso lasciarlo andare. Non voglio nemmeno provarci. Se lascio andare, sarà finita davvero. Niente ultimo miracolo per me. Niente. Continuo a camminare. Mi gira un po' la testa e va bene così. Annebbiamento. E' davvero come galleggiare. Morbido, lento, lasciarsi andare. Se non fosse per l'irrefrenabile corso dei miei pensieri, potrei decidere di restare annebbiato sempre. Non è da te John. No, non lo è. Nemmeno questo sono io. Non so più chi sono in realtà. Forse nemmeno l'uomo seduto in cucina a scrivere file a caso sul suo pc. Forse nemmeno lui. E non sono più il dottore diligente. Diligente. Forse non ho mai usato questa parola da sobrio. Non sono nemmeno lui comunque. E non sono questo tizio ubriaco che cammina per Londra di notte, da solo. Dove sono? Stai andando a casa, John, continua a camminare. E non sono l'uomo che parla con Ella. Ah, di certo non sono lui. Quello non dice mai niente di sè. Credo che lei lo sappia bene. Forse semplicemente sono tutte queste cose messe insieme. Pezzi di uomo. Ecco cosa sono. Pezzi di me messi insieme, male. Pezzi che non combaciano più perfettamente. Sono un uomo a pezzi. Mi guardo nel riflesso di una vetrina. Sembro intero, comunque. Non è l'immagine giusta. Le persone a pezzi dovrebbero potersi riconoscere, avere segni sul viso e sulle mani. Spaccature profonde. E nessuno dovrebbe chiedere il perché. Così dovrebbe essere. Liberi di essere a pezzi davanti a tutti. John, cosa stai dicendo? Metto a fuoco l'uomo che vedo di fronte a me. Sono io. Mi avvicino per guardare meglio il mio viso. Sono io? No, quello è solo un riflesso. Un riflesso è ciò che potrei essere davvero, in realtà. Mi sto cercando da mesi e alla fine potrei essere qui, nel riflesso di una vetrina a caso. Mi allontano di nuovo, passo una mano sulla testa. Vorrei farli smettere. Pensieri inutili. Continuo a camminare verso casa. L'orologio di una farmacia segna le 3 e 28. Ed io sono solo. Qualcuno cammina dall'altro lato della strada, sento voci lontane e sorrisi. Una giovane coppia si abbraccia vicino alla fermata dell'autobus. Ed io sono solo. Di fronte a me, un uomo alto cammina a lunghe falcate nella mia direzione. Si avvicina e mi sorpassa indifferente. Ignoro il breve flash di un paragone che non ha ragione di essere. Qualcuno cammina dietro di me da un po'. Credo sia una donna. Ma io sono solo. E vorrei essere a letto, a non dormire. Sei arrivato John. Sei a casa. Finalmente, casa. Se così si può chiamare. Alzo lo sguardo ed ognuno di quei pezzi di cui sono fatto mi lascia. Mi guardo intorno. Poi guardo a terra, prendo un respiro. Rialzo lo sguardo. E mi sento completamente sconfitto. Tradito da me stesso.

 

221B, Baker Street.

 

E non è qui che stavo andando. Ma è qui, che sono tornato.

 

Devo andarmene. Non posso entrare qui dentro. Dio, ti prego, fa che io abbia le chiavi. Ho già le mani in tasca, mentre cerco di rimettere a posto i pezzi. E combatto, combatto con tutte le mie forze contro me stesso. Mi piego un po', appoggio le mani sulle ginocchia, occhi spalancati, respiro forte. Rifletti John, rifletti. Sai già che entrerai. E' inutile riflettere. Stai zitto, lasciami pensare. Il pavimento del marciapiede, così come lo ricordavo, calpestato distrattamente un milione di volte. Non posso alzare di nuovo lo sguardo, non ancora. Devo riflettere. Posso vedere i nostri piedi correre veloci e saltare su un taxi. O camminare lenti, vicini, al ritorno da un caso concluso, mangiando cibo da asporto. Cristo, questo non mi aiuta. Chiudo gli occhi. Respira John. Le mani nelle tasche toccano il mazzo di chiavi e qualcos'altro. Riapro gli occhi, tiro fuori un biglietto. Un numero di telefono e un nome di donna. Aggrotto la fronte. Non ricordo chi sia. E' importante adesso? Puoi pensarci domani. Concentrati John. Lo rimetto nella tasca, riassumo una posizione dritta, tiro fuori le chiavi e le guardo. Le conto. Sono cinque. Le riconto. Sono 6. Le conto di nuovo. Sono cinque. Concentrati John, stai andando fuori di testa. Respiro. Quindi, hai le chiavi. Qualcosa o qualcuno dentro di me sta sorridendo. Mi prendo in giro da solo.

Fuori di me, la notte, il silenzio. Solo brevi passi lontani e luci di lampioni. Dentro di me, la guerra.

Lo faccio. Guardo la porta. E' sempre uguale. Come se non fosse cambiato nulla. E' una porta John, cosa doveva cambiare? Colore? Mi guardo intorno, come fossi un ladro. Perché sai che stai facendo qualcosa di sbagliato. Ecco, l'altro qualcuno dentro di me che non sorride affatto. Dovrei dargli ascolto, penso, mentre mi sto già avvicinando alla porta con le chiavi in mano. Mi gira ancora la testa. Questo lo rimpiangerai, domani. Fisso i numeri. Casa. Magari la serratura è stata cambiata. Dio, fa che non sia così. La chiave gira, senza problemi, come ricordavo. Sono sollevato. E terribilmente spaventato. Sento il cuore battere su per la gola. Lo faccio velocemente, entro e mi chiudo la porta alle spalle. Mi appoggio con la schiena e chiudo gli occhi. Voglio respirare questo odore, imprimerlo nel cervello. E' casa, senza dubbio. Polvere, legno, tappeti, un sentore lontano di miele e qualcosa di chimico. E sono ancora fermo all'ingresso. Riapro gli occhi. Le scale di fronte a me. Mrs. Hudson non deve essere in casa, avrebbe sentito la porta aprirsi. Sarebbe uscita, avrebbe fatto mille domande, mi avrebbe rimproverato per non essere mai passato. Grazie a Dio, non c'è. A questo avresti dovuto pensarci prima. Faccio un passo. Guardo in alto. Che cosa sto facendo? Cosa mi aspetto di trovare o di ritrovare? Non lo so. Ella dice che non è più il tempo di negare niente. E' il tempo di fare quello che voglio, quando voglio. E adesso io voglio salire le scale. Non credo sia questo che intendeva Ella. Tornare qui a crogiolarsi nel, com'è che l'hai chiamato? Profumo di casa. Raccontaglielo alla prossima seduta, se ci riesci. Ignoro l'ultimo pensiero razionale e inizio a salire le scale, al buio. Le ho fatte così tante volte. Così tante volte... Sento il rumore dei miei passi sui gradini, voglio ricordarli, ad uno ad uno. Chiudo gli occhi e salgo a memoria. Sono ancora confuso. A tratti penso di non essere qui dentro. Forse sono tornato a casa, l'altra, ubriaco e sto dormendo, sicuramente vestito, sul letto e sto sognando di essere qui. Riapro gli occhi immediatamente. Non deve essere un sogno. Non lo è. Sono quasi davanti all'appartamento, al buio da solo, ma nessun posto è mai stato così luminoso come questo, in questo preciso momento. La porta è socchiusa. Mi permette già di intravedere l'interno. E' buio, ovviamente, ma le luci esterne illuminano debolmente tratti di pavimento e mobili. Il mio respiro accelera. Ho perso il conto dei miei battiti. Potrei essere nel pieno di un attacco di panico. E' solo emozione, paura, tensione, rabbia, calore. Tutto insieme. Potrei soccombere a me stesso, senza nemmeno entrare. Invece, appoggio una mano sulla porta e spingo, ma lentamente, fino ad aprirla del tutto. Faccio un passo e mi fermo. Chiudo gli occhi. Mi investe come un'onda, senza possibilità di scampo.

Avevo perso il mio odore. In tutto questo tempo, lo avevo perso. Come un animale che non sa più riconoscersi, ho vagato per mesi cercando me stesso, nelle strade deserte, nelle vetrine dei negozi di notte, nelle parole di una psicoterapeuta di giorno, nei sogni nascosti, nei vecchi vestiti, nel fondo di bicchieri vuoti. E invece, eccomi qui. Ero sempre stato qui. E nel profumo di un appartamento vuoto, all'improvviso, mi sono ritrovato.

 

Respiro forte. Appoggio una mano alla parete per sorreggermi. Mi sento travolto. Cerco di descrivere a mente quello che sento, per ricordarlo quando ne avrò bisogno, quando sarò di nuovo solo, fuori di qui. E' il miele. E' legno vecchio e mattine noiose. E' la pioggia, quella battente, finestre aperte e camino acceso. E' un giornale sul tavolo. E' la polvere. Oh, e il tè, onnipresente, inebriante. Tappeti consumati, e terra. Adrenalina. Ferro e ruggine. E' il sangue. Toast. Corde di violino, libri vecchi. Umidità. Carta da parati e vernice. Notti insonni. Solventi. E' casa. Questo è l'odore di casa, il mio odore. Ma ne manca uno. Manca il tuo.

Apro gli occhi.

Ogni cosa è al suo posto, coperta da teli bianchi. Non manca nulla. Niente che io riesca ad individuare almeno. Ma forse sono troppo sopraffatto per capirlo. Resto fermo dove sono, vicino alla porta, una mano sulla parete e da qui posso attraversare con lo sguardo tutta la stanza. Succede all'improvviso, come nella scena di un film. In un istante non ci sono più teli bianchi, e vedo tutto esattamente come dovrebbe essere, forse anche meglio. Ogni cosa riacquista il suo colore. Il suo spessore. La sua dimensione. Sto impazzendo? Guardo il divano. E ti vedo. Sei allungato, con gli occhi chiusi e le mani unite, sotto il mento. Camicia bianca e pantaloni neri. Capelli. La luce del mattino ti illumina da dietro e sei immobile. Palazzo mentale. Abbasso lo sguardo. Mi passi davanti. Sei coperto di sangue e vaneggi. Automaticamente mi sposto e mi schiaccio contro la parete. Come se un sogno ad occhi aperti potesse colpirmi. Come se io potessi disturbare con la mia presenza vera quello che è solo un ricordo vivido. Ti osservo. Cammini per la stanza. Non riesco a capire cosa stai dicendo. Svanisci all'improvviso. Sei rannicchiato sulla tua poltrona adesso, maglietta e pantaloni del pigiama. Le ginocchia al petto, la testa appoggiata sopra. Sembri un bambino. Guardi il camino e sembri triste. Dov'ero quando ti ho visto così? Ti muovi appena. Sospiri. Aggrotto la fronte, vorrei raggiungerti. Svanisci di nuovo. Esci all'improvviso dalla cucina, occhiali trasparenti, ampolle nelle mani, vestaglia aperta. Vai verso la finestra e ti fermi ad osservare. Dici qualcosa. Cliente? Fai una faccia annoiata, torni indietro. Ti vedo così chiaramente che credo quasi tu possa essere vero. Non sei vero. Sparisci in cucina, di nuovo. Ed ora sei davanti alla finestra, di schiena, camicia viola e pantaloni neri. Stai suonando. Ma io non sento niente. Posso solo vederti, immaginarti, in realtà. Ma non posso sentirti. Perché non riesco a sentirti? Ho creato una tale illusione... Mi prendo la testa tra le mani. Di nuovo teli bianchi, buio e luci esterne.

Come quella sera, mi lascio scivolare sulla parete e mi siedo per terra. Appoggio la testa sulle ginocchia e resto così. Ti è piaciuto John? Ne è valsa la pena? Ti senti meglio? Non mi sembra. Che cosa speravi di ottenere? Che cosa credevi di trovare? Me stesso. E ti sei trovato? Non appartieni più a questo luogo. Niente appartiene più a questo luogo. Non riesci nemmeno a ricordare il suono di quella voce. Lo capisci? Devi andartene. Voglio restare. Mi manca tutto questo. Mi manca da morire. Voglio addormentarmi qui, svegliarmi e trovare tutto come era prima, scendere, fare colazione, lamentarmi per il disordine e poi correre per Londra, rischiare di morire, vivere, e alla fine tornare qui. Questo voglio. Non è più tempo di negare niente. E' il tempo di fare quello che voglio, quando voglio. Ma questo non puoi farlo, John. Non puoi farlo. Non potrai farlo, mai più.

Ed è in mezzo ad uno di questi pensieri tristi e sconnessi che ad un certo punto mi sono addormentato.

 

***

 

“John.”

“John.”

Qualcosa mi toccava il braccio. Sentii il mio nome, di nuovo.

“John, svegliati.”

Aprii gli occhi con difficoltà. Volevo continuare a dormire ma la posizione non doveva essere delle più comode. Avevo la schiena a pezzi. Mi svegliai rendendomi conto di essere seduto sul pavimento del soggiorno senza capire il perché. Poi ricordai, quando vidi le mie mani fasciate. Misi a fuoco. Ti eri abbassato davanti a me, una mano sul mio ginocchio, le nostre teste alla stessa altezza. Mi fissavi, sembravi preoccupato. Occhi nei miei.

“John, che stai facendo?”.

Forse era una domanda riferita al fatto che stessi dormendo seduto sul pavimento, certo, ma alle mie orecchie suonò come una questione più generale. Dopotutto il mio comportamento iniziava a sembrare strano anche a me, ormai. Riflettei sul fatto che per uno come te, in grado di prevedere un uragano dal battito d'ali di una farfalla, il mio modo d'essere così diverso nelle ultime settimane, o almeno, il cambiamento che avevo inconsciamente sviluppato, doveva essere stato perfettamente chiaro quasi fin dall'inizio, come avevi tenuto a precisare con quel monologo quella volta davanti alla tv. Ma ero altrettanto sicuro che per quanto ne riguardasse la spiegazione, tu barcollassi nel buio più completo. Non era un uomo dedito ai sentimenti Sherlock Holmes. E comunque barcollavo nel buio anche io.

Certo, avremmo potuto esplorarlo insieme. Oh, per piacere.

Mi strofinai gli occhi. Era ancora buio intorno a noi. Forse le 4 del mattino, non ne avevo idea. Continuavi a scrutarmi.

“Mi sono addormentato” - fu la prima cosa che riuscii a dire.

“Questo l'avevo capito da solo, John.” - sembravi infastidito.

Cominciai a chiedermi se fosse il caso di alzarsi e uscire da quella situazione. Si che lo è. Non mi sentivo a mio agio. Il tuo sguardo indagatore era fastidioso. Non avevo intenzione di parlare con me stesso, figurati con te. No, non l'avrei fatto. Continuavi a fissarmi.

“Sherlock?” - e “la smetti di fissarmi e ti sposti” era sottinteso, ma nemmeno poi così tanto. Sei strano John Watson. Un'ora fa volevi vederlo dormire tutte le notti. Adesso vorresti scappare come un codardo.

“Perché dormi sul pavimento? Non hai mai dormito sul pavimento, perché oggi si? Perché?” - mi stringevi il ginocchio. Il tuo disagio derivato dall'ignoranza, era palese. Volevi sapere. Tu dovevi sapere ogni cosa. Sempre. Ah non penso proprio. Non questa volta.

“Sherlock!” - alzai un po' la voce spostando la tua mano dal mio ginocchio. Mi stavo arrabbiando e non capivo nemmeno il perché. La tua mano rimase a mezz'aria, insieme alle mille parole non dette di cui era pieno l'appartamento.

“Non lo so, sono sceso, ho visto che dormivi, mi sono sentito stanco e mi sono addormentato. Tutto qui.” - cercai di riacquistare il contegno che avevo perso nel momento esatto in cui ti avevo guardato la prima volta, quella notte.

Sei rimasto in silenzio ma non ti sei spostato. Potevo quasi sentire il rumore dei tuoi pensieri, rapidi e ingarbugliati sotto quei capelli.

“Non farlo.” - ti ho detto con voce ferma.

“Non fare cosa.”

“Non stare lì impalato a dedurmi come fossi un cliente qualsiasi. Smettila.”

“Non sto facendo niente.”- ti sei accigliato, con quelle rughe di espressione in mezzo alla fronte, tipiche del tuo sconcerto o del tuo sarcasmo. Non saprei dire. Perché non ti sposti e basta?

“Spostati Sherlock”. Mi sono schiarito la voce.

Mi hai guardato ancora, per quello che credo sia stato un minuto o una vita intera. Poi all'improvviso ti sei alzato, ti sei voltato e sei andato alla finestra. Ed io potevo di nuovo respirare. Chiusi gli occhi. Complimenti Watson.

“Dobbiamo partire. Lestrade mi ha mandato un messaggio. Nuovo caso.” - ti sei voltato di nuovo verso di me - “Sempre che tu voglia venire.”- hai guardato le mie mani. Io nel frattempo mi ero alzato e me ne stavo appoggiato alla porta.

“Certo che voglio venire.” - mi sono affrettato a rispondere.

“Allora preparati. Abbiamo mezz'ora.”

Mi avviai verso la mia camera salendo le scale velocemente. Sentivo già l'adrenalina di un nuovo caso scorrere nelle mie vene. Questo era quello che volevo e basta. Senza pensare ad altro. Senza implicazioni di nessun genere. Mentre mi vestito promettevo a me stesso che mai più mi sarei permesso tali debolezze, niente pensieri notturni, niente dormite sul pavimento, niente sguardi nascosti. “Sempre che tu voglia venire”. Che significa sempre che tu voglia venire? Che razza di affermazione è? Cos'era cambiato all'improvviso? Aveva forse letto davvero qualcosa nel mio sguardo? Aveva dedotto qualcosa che io stesso faticavo a comprendere? Probabile. Lui era sempre un passo avanti a tutti. Che dico uno, almeno dieci. Ma non poteva aver capito qualcosa di cui nemmeno io ero a conoscenza. Non ero certo di niente. Assolutamente di niente. L'unica cosa di cui ero certo era che fra mezz'ora saremmo partiti per un risolvere un nuovo caso. E che Sherlock Holmes non sarebbe andato mai da nessuna parte senza di me.

 

 

Tranne quella volta, sul tetto del Barts.

 

 

***

 

“Dottor Watson.”

Mi sveglio all'improvviso con un movimento spasmodico della testa. Qualcuno è in piedi davanti a me. Cerco di mettere a fuoco, ma so già chi sia. Anche controluce, è inconfondibile.

“Perché dorme sul pavimento?” - mi domanda, educatamente.

Cristo, mi prende in giro?

“Non lo so, ma sono piuttosto certo che non siano affari suoi, Mycroft”.

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Capitolo 5
*** Non il mio colore ***






Forse le avrebbe fatto piacere confidarsi con qualcuno su tutte queste cose.
Ma come esprimere quell’inafferrabile malessere che muta d’aspetto come le nuvole, che turbina come il vento?
Le mancavano le parole, e l’occasione, e l’ardire
.”

Gustave Flaubert, “Madame Bovary”

 

 

 

 

Quel giorno fu surreale. Alieno. Tanto che non posso fidarmi, nemmeno dei miei ricordi. Ogni cosa aveva cessato di appartenermi, questo lo so. Sangue, ossa, carne e testa, mani, cuore. Niente mi apparteneva. Non c'ero più io dentro di me. Mi ero scivolato via dalle dita delle mani come rivoli d'acqua. Rivoli di John Hamish Watson. Non ero più con me. E quella voce che sempre mi accompagnava, i miei pensieri, la mia coscienza, la parte razionale di me, aveva smesso di parlarmi. Come drenata via, anch'essa. Ero completamente solo. Abbandonato due volte.

Vedevo però. Riuscivo solo a vedere anzi. Non a sentire. Non sentivo niente. Ma vedevo cose. Cose che mi succedevano intorno, noncuranti, estranee da me. Come se mi fossi fermato in mezzo ad un incrocio mentre centinaia di persone mi passavano accanto per andare altrove. Come un punto fermo attorno al quale girano altre vite.

Avevo un vestito nero da indossare, quel giorno. Nero. Mai stato il mio colore. Di qualcun altro si, certo. Non il mio, mai. Qualcuno lo aveva lasciato sul mio letto, pronto per essere indossato. Io, seduto rigidamente lì affianco, con i pugni stretti sulle ginocchia, lo guardavo, anzi, lo vedevo e non riuscivo a pensare a niente, se non a quanto fosse nero.

 

“Sarà breve, John.”- qualcuno aveva tenuto a precisare la sera prima toccandomi una spalla, una parte del mio corpo che come le altre a malapena percepivo. Non ricordo chi fosse, forse Mrs Hudson, forse Greg. Mike? Ricordo solo che ero seduto sulla mia poltrona, il solito posto, al solito modo, da due giorni. Gli stessi vestiti, gli stessi occhi. Scalzo, come ero stato tante volte, ma mai a causa del sangue. Non del tuo comunque. Non vidi mai più quelle scarpe. Il resto invece era completamente diverso. Anche io ero diverso. Il tappeto, il camino, la finestra, i mattoni del palazzo di fronte, i quadri, le assi del pavimento. Tutto era uguale e diverso. Come se si fosse spenta una luce all'improvviso. E dopotutto, qualcosa si era spento davvero. Poco prima li avevo sentiti parlottare in cucina. Qualcuno aveva pianto. Mrs Hudson, di questo sono certo. Qualcun altro aveva speso poche sussurrate parole per me, come se non avessi potuto sentirlo ugualmente. In effetti, non ero molto presente, ma non ero ancora diventato sordo.

“John, mi preoccupa”. Aveva detto non so dire chi. E mi mancò quella voce dentro di me che avrebbe saputo cosa rispondere, forse addirittura con del sarcasmo. Ma non ci fu nessuna voce quella volta. Nessuna risposta. Solo silenzio, fuori e dentro. Mi sentivo vuoto.

“Sarà difficile.” Gli aveva risposto un'altra voce.

Ed io, che fingevo di non ascoltare, che pretendevo di non essere nemmeno lì, guardavo fisso un niente sul muro del palazzo di fronte e desideravo follemente che tutti sparissero all'improvviso.

 

Avrei barattato una qualsiasi di quelle vite per avere la tua indietro.

 

Il vestito nero era ancora affianco a me. Cercai la forza di indossarlo e la trovai nella mia disciplina. Lo feci come se mi stessi preparando per andare in battaglia, ed era un po' così in effetti, anche se sapevo di aver già perso tutto. Prima di scendere mi guardai allo specchio, forse pensando di ritrovare la mia voce in quel riflesso. Ma vidi solo gli occhi blu di un uomo che mi fissavano. Poteva essere chiunque. Mi appoggiai con le mani sul lavandino e abbassai la testa. Non ero pronto per farlo, per dire addio. Ma sapevo che non lo sarei mai stato comunque. Respirai a fondo. Qualcuno chiamò il mio nome dolcemente dal fondo delle scale. Era ora.

Uscii dalla stanza senza specchiarmi di nuovo e fui quasi certo che l'uomo di quel riflesso mi stava guardando mentre mi allontanavo. Scesi le scale lentamente, gli occhi fissi davanti a me ad ogni gradino. Entrai in salotto. Ricordo che c'era una luce strana. Le tende erano tirate per metà e il grigio della pioggia che scendeva delicata da ore, entrava prepotente cambiando i colori di ogni cosa. O forse erano solo i miei occhi. Mrs Hudson era seduta sul divano con lo sguardo un po' vacuo e gli occhi rossi di chi aveva pianto forse per tutta la notte. Mi rivolse un leggero sorriso a cui risposi con un'espressione che non saprei dire. Qualsiasi cosa riuscì a fare la mia faccia, fui sicuro che andasse bene, per quel che mi importava. In piedi vicino alla porta della cucina, Greg aspettava in silenzio. Aveva le braccia incrociate sul petto e guardava il pavimento. Non mi rivolse sorrisi di circostanza, né frasi di alcun genere. Lo apprezzai molto. Mrs Hudson si alzò.

“Mycroft ha mandato un'auto.” - disse, muovendosi impacciata nel suo vestito nero, asciugandosi una lacrima con un fazzolettino che aveva nella mano destra. Afferrò la sua borsetta dal tavolino e passandomi accanto mi strinse il braccio.

“Ha mandato un'auto, certo.” - dissi accennando un sorriso tagliente. Ero disgustato. Come se potesse anche solo pensare di poter in qualche modo riparare a quello che aveva fatto. Era tutta colpa sua, ogni cosa. Avevo passato gli ultimi due giorni in silenzio a guardare fissamente il muro cercando di capire e le notti sveglio a torturarmi, a piangere qualche volta, chiedendomi cosa avessi potuto fare per impedire che tutto ciò accadesse, a maledirmi ogni istante per essere uscito da quel laboratorio e a ripercorrere ogni passo di quegli ultimi giorni, ma tutto inutilmente. Perché ogni cosa mi riconduceva sempre a quel dannato club e a quel discorso. Tutta la vita di Sherlock regalata al suo peggior nemico come se valesse niente. Niente.

Ed io non riuscivo a sopportare una tale aberrazione.

Ogni avvenimento che aveva portato a quel preciso giorno, a noi tre in quella stanza, al mio vestito nero che odorava di lavanderia, alle lacrime di Mrs. Hudson, alla faccia costernata di Greg, alla poltrona vuota, ai miei occhi scuri, ogni cosa, ogni cosa, era stata colpa di Mycroft Holmes.

Mrs Hudson mi strinse il braccio più forte, riportandomi alla realtà.

“John, caro. Dobbiamo andare” - disse dolcemente.

La guardai. Lo stomaco mi si contorceva. Avrei voluto spaccare ogni cosa, prendere a calci i mobili e mettermi a urlare. Invece mi girai verso le scale e cominciai a scenderle in silenzio. Sentii Greg avviarsi dietro di noi.

La macchina ci aspettava fuori, sotto la pioggia. L'autista, impalato davanti alla porta con un ombrello aperto sulla testa aiutò Mrs Hudson, io feci il giro per salire dall'altra parte e mi bagnai un po' i capelli e quell'orribile completo. L'odore di lavanderia svanì appena. Vidi Greg salire sulla sua macchina grigia e seguirci. Appoggiai la testa al vetro del finestrino e rimasi in silenzio con gli occhi aperti a guardare fuori, senza vedere niente. Fu un viaggio di cui non ricordo molto, se non i singhiozzi sommessi di Mrs Hudson e il silenzio assordante della mia testa. Mi sentivo un involucro senza contenuto.

 

La cerimonia civile fu organizzata direttamente all'interno del cimitero, nel punto esatto in cui Mycroft aveva deciso di seppellire suo fratello. Non aveva smesso un secondo di piovere ed io ero fermo lì, davanti a quella lapide nera senza essere in grado di ricordare come ci fossi arrivato. Mrs Hudson mi stringeva il braccio e con l'altra mano reggeva uno degli ombrelli neri che qualcuno aveva distribuito all'ingresso, credo, coprendo parzialmente anche me. La sua stretta era un'ancora che mi teneva legato al terreno, a quel momento preciso, in quel terribile luogo. Ogni volta che chiudevo gli occhi, la sua presenza al mio fianco mi riportava alla realtà. Non ascoltai una sola parola di quello che il celebrante disse. Non ricordo nemmeno la sua faccia e potrebbe non aver avuto voce, per quel che mi riguarda. Muoveva la bocca e spostava lo sguardo su ognuno di noi a turno, come fosse un pesce. Guardai gli altri. Greg, le mani dietro la schiena, lo sguardo basso verso la lapide, la fronte appena corrucciata. Mike, era lì più per me che per Sherlock, ne ero sicuro. Di tanto in tanto mi lanciava delle occhiate che io facevo finta di non cogliere. Molly. Tra tutti, l'atteggiamento di Molly è quello che ricordo maggiormente perché se ne stava immobile, fissando il celebrante e torturando un fazzolettino con le mani, ma soprattutto, e questo lo ricordo bene, non versò mai una lacrima. Aveva lo sguardo perso di chi è profondamente distrutto, ma non pianse mai. Non piansi nemmeno io, e questo mi fece provare un moto di pietà per entrambi.

I genitori di Sherlock non erano venuti. Mi chiesi perché in un attimo di lucida constatazione di quello che mi avveniva accanto, ma mi risposi che probabilmente la perdita di un figlio era un dolore troppo grande da sopportare. Fu il mio cervello a trovare questa risposta in qualche meandro della coscienza dove teniamo le cose che si sentono dire continuamente. E smisi di pensarci. E poi, c'era Mycroft.

Dritto, elegante nel suo completo nero e nella sua postura perfetta. Il mento leggermente alzato, lo sguardo fisso sul celebrante in un'espressione distaccata, un sopracciglio appena più su dell'altro, quasi impercettibilmente. La bocca, una linea sottile i cui angoli tendevano al basso. Le lunghe dita di una mano, nascoste in guanti neri, tenevano elegantemente l'ombrello aperto. L'altra riposava lungo il fianco. Non poteva essere più se stesso di così. Ed io, lo odiavo profondamente.

Ero arrabbiato, più di ogni altra cosa. Disperato, affranto, stremato, ma soprattutto arrabbiato. Con la polizia, con le persone presenti a quella orribile cerimonia, con Moriarty, con Sherlock, con Mycroft, oh quanto lo odiavo, e con me stesso. Ero così arrabbiato che avrei potuto mettermi a urlare. Ma non lo feci, nemmeno quella volta. Mi limitai ad osservare quella bella lapide lucida, l'unica cosa più nera del mio vestito.

Non so quanto tempo durò. Nessuno dei partecipanti disse niente, come invece mi era capitato di vedere ad altri funerali a cui avevo assistito nella mia vita. Commilitoni, vecchi parenti, conoscenti. Qualcuno trovava sempre la forza di dire qualcosa, riportare qualche aneddoto divertente tra le lacrime, ricordare quanto fosse speciale chiunque fosse morto. Io stesso mi trovai a dire due parole in più di un'occasione, più per cortesia verso i famigliari che per vero spirito d'iniziativa. Avevo sempre pensato che quella fosse una pratica discutibile. Se c'è un momento sbagliato per dire qualcosa, quello è proprio un funerale. Le cose andrebbero dette prima, quando le persone sono ancora in vita e in grado di ascoltare. Quindi fui grato del fatto che nessuno disse niente. Probabilmente una richiesta specifica di Mycroft.

E comunque, nessuno dei presenti avrebbe potuto dire niente su Sherlock Holmes. Nessuno, a parte me. Nessuno ti conosceva come ti conoscevo io. Nessuno avrebbe potuto anche solo azzardarsi a dire qualcosa su di te. Solo io. Solo io avrei potuto raccontare di quanto la mia vita fosse vuota e triste prima di incontrarti, e di quanto fu diversa a partire dall'esatto momento in cui ti guardai per la prima volta. Di quanto tu, in qualche modo, sapessi tutto su di me. Di quanto fossi arrogante, maleducato, probabilmente pazzo e assolutamente affascinante e di quanto mi piacessi in modo del tutto folle e incomprensibile. E ancora non sapevo niente di te. Nessuno potrebbe raccontare di come sia stato correre con te nella notte più ridicola della mia vita, per le strade di Londra e poi, di quanto sia stato bello ridere, senza fiato, contro il muro del nostro nuovo appartamento. Nessuno potrebbe dire cosa si prova nel momento esatto in cui si sceglie di uccidere qualcuno per salvare la vita di una persona che si conosce appena. Nessuno saprebbe dire qual è il suono di una tua risata sincera. Io potrei. Io lo so. Avrei potuto raccontare di come sia stato svegliarsi ogni mattina ed odiarti per la cucina ridotta ad un laboratorio e per tutta le strane cose da dover spostare solo per poter fare il tè, anche per te. E poi sorridere del fatto che fossi del tutto ignorante di politica, geografia astronomica e comportamento sociale. Ed adorarti per questo, forse ancora di più. Nessuno avrebbe potuto descrivere l'esatto colore dei tuoi capelli alla luce di una giornata grigia, mentre suonavi il violino tristemente, dandomi le spalle. E nessuno potrebbe descrivere l'assurdità dei tuoi occhi alla luce del sole, accesi di emozione, davanti ad un cadavere. Avrei potuto raccontare dei lunghi silenzi, delle frasi non dette, degli sguardi intensi. Avrei potuto dire di quanto odiassi vederti rannicchiato sul divano, annoiato e di quanto avrei voluto poter fare qualcosa per te. Avrei potuto raccontare di quanto, troppo spesso, mi sentissi ordinario e completamente inutile in confronto a te. E di quante volte io mi sia chiesto se davvero avessi bisogno di me come mi facevi credere ogni giorno. Di ogni volta in cui mi hai salvato, di ogni volta in cui hai rischiato la tua vita solo per salvare la mia. Avrei potuto raccontare di quella volta in cui ti sei ammalato e di quanto fui felice nel sentirti silenzioso e remissivo nelle mie mani. Ma su questo, devo ammettere che nemmeno io saprei rendere a parole quanto fossero liquidi e grandi i tuoi occhi, quella volta. E di quanto fui ad un passo dal perdermi completamente. Non lo saprei dire. Ma tanto non lo capireste. E avrei potuto raccontare della volta in cui mi resi conto che avrei voluto guardarti dormire tutte le notti. E di come quel pensiero mi tormenti ancora, ogni giorno.

Eri come una droga per me.

Avrei potuto raccontare in mille modi diversi quanto tu fossi straordinario, senza tuttavia poterti rendere giustizia perché mi mancherebbero le parole giuste e forse anche la forza per poterle esprimere.

E potrei raccontare di come io mi senta adesso. Di come io mi senta a pezzi, ogni giorno che passa, di come mi manchi la vita che avevamo, di come mi manchi tu, e il tuo sorriso. E il cinese da asporto con te, i programmi stupidi alla televisione, e il non fare niente insieme. E di quanto ti odio per aver fatto quello che hai fatto e di quanto odio me stesso per non aver capito e per non essere stato in grado di fermarti. Avrei potuto dire tutte queste cose, ma non dissi mai niente.

Perché se c'è un momento sbagliato per dire qualcosa, quello è proprio un funerale.

 

Mi accorsi che la cerimonia era finita quando ad uno ad uno gli altri mi passarono accanto sfiorandomi un braccio o dicendo qualche breve parola che non ricordo. Molly mi guardò per un breve, intenso istante negli occhi. E fu strano. Guardai altrove. Alla fine anche Mrs Hudson lasciò il mio braccio e mi disse qualcosa che io ignorai. Rifiutai con un cenno della testa l'ombrello che cercò di lasciarmi e quindi, affranta, si allontanò. Rimasi lì fermo con le mani unite a guardare i fiori che qualcuno aveva lasciato, mentre la pioggia mi bagnava completamente. Non me ne accorsi nemmeno. Di nuovo cercai quella voce dentro di me che sapeva riportarmi indietro, che mi aveva sorretto nei giorni peggiori dell'Afghanistan, che mi aveva impedito di compiere gesti irreparabili una volta tornato. Quella voce che mi permetteva di non affogare e di resistere ogni giorno. Quella voce che mi suggeriva cose che non volevo ascoltare, sentimenti che non potevo lasciar uscire, verità da tacere. La cercai fissando le lettere dorate impresse sulla lapide, ma quando misi a fuoco trovai solo il mio riflesso e vidi, che non ero solo.

Mycroft Holmes era in piedi, pochi metri dietro di me. Ne vedevo la sagoma chiaramente riflessa accanto alla mia, sulla costosa lapide che lui aveva scelto per suo fratello. Non mi voltai sperando che decidesse di andare via, ma non lo fece. Sentivo montare dentro di me quella rabbia che da due giorni, anzi, fin da quell'incontro rivelatore mi portavo dentro e che cercavo di sopire. Si avvicinò invece, coprendo anche la mia testa con il suo ombrello.

“Mycroft, vattene.” - dissi in un sussurro teso. Diglielo.

Ed eccola, per la prima volta da giorni, quella voce che avevo bisogno di risentire. Gli Holmes riuscivano sempre ad avere un'influenza su di me, in qualche modo. Proprio fantastico.

“Dottor Watson, la prego di lasciarmi esprimere...” - cercò di dire con quel suo tono educato e asettico che mi innervosiva ogni volta.

“No.” - mi voltai fissandolo negli occhi e facendo un passo indietro in modo da essere fuori dal suo spazio personale. Tornai a bagnarmi. “No.” - ripetei. Mi accorsi che avevo iniziato a respirare affannosamente e che avevo un dito puntato contro di lui. Stai calmo, John.

“Non voglio ascoltarti”. E per un po' ci fu solo il rumore della pioggia che rimbalzava leggera sul suo ombrello e cadeva a terra in rivoli sottili. Io ormai, ero completamente fradicio.

Rimase in silenzio per qualche secondo fissandomi negli occhi. Il suo sguardo era peggio di quello di Sherlock quando cercava di dedurre qualcosa. Molto peggio. Sherlock era veloce, ma Mycroft, Mycroft era letale. Metodico. Dal modo in cui ti guardava potevi quasi credere che avesse letto nei meandri più profondi di te, quelli dove nemmeno tu stesso osi addentrarti. E probabilmente era così.

“Oddio, non farlo.” - abbassai la testa lasciandomi andare ad un tono affranto che avrei preferito non condividere con lui. Non puoi, non voglio...Passai una mano sugli occhi, tentando in un gesto impacciato di asciugare inutilmente la pioggia. “Non farlo”. Mi sentivo completamente esposto. Non leggermi dentro.

“John.” - mi chiamò per nome stavolta e non so se avesse cambiato registro per ciò che era riuscito a capire guardandomi negli occhi o per semplice pietà. “Sono estremamente dispiaciuto. La perdita di mio fratello è un dolore che condividiamo entrambi.” - disse, accantonando per un momento la sua freddezza.

Mi venne da ridere. Rialzai lo sguardo. Avrei potuto ucciderlo con le mie mani in quel preciso momento. Fallo.

“Un dolore che condividiamo entrambi. Un dolore...” - spostai lo sguardo verso gli alberi per un secondo, cercando di riallacciare il filo dei miei pensieri. Mi passai la lingua sulle labbra mordendo quello inferiore in un sorriso angosciato.

“Come ti permetti? Come ti permetti di dirmi una cosa del genere? Lo sai perché siamo qui? Eh? Lo sai?” - avevo alzato la voce senza nemmeno rendermene conto. “E' tutta colpa tua. Ogni cosa. E' solo colpa tua. Come hai potuto? Come...Dio!” - mi piegai un po' su me stesso appoggiando le mani sulle ginocchia. Non riuscivo più a sostenere il mio peso, né quello delle parole che ci stavamo dicendo. Non ce la faccio. Io così non ce la faccio.

“Io non immaginavo...” - provò a rispondere, ma lo bloccai immediatamente, rialzandomi. Con un movimento veloce coprii la distanza che ci separava fino a quando non fummo di nuovo insieme sotto l'ombrello, questa volta faccia a faccia. Si mosse impercettibilmente all'indietro, ma il mio movimento lo aveva sorpreso e immobilizzato. Hai paura, Mycroft?

“Tu non immaginavi”. Avevo smesso di urlare. La mia voce ora era un sussurro freddo tra un respiro e l'altro. Lui non immaginava. “No, non immaginavi. Mh?” - ci fissavamo, occhi negli occhi. “E tu dovevi essere quello più intelligente. Così intelligente da fornire al peggior nemico di tuo fratello l'arma perfetta per distruggerlo.” - scavavo nei suoi occhi alla ricerca di una ragione, una spiegazione che mi facesse capire. Non trovai niente. Sei un fottuto bastardo. “Come puoi averlo fatto?”

“Mi dispiace.” - fu l'unica cosa che disse dopo un po'. E ci fu un cambiamento nel suo sguardo. Feci un passo indietro, disgustato. Tornai a bagnarmi. Non osare.

“Non provarci. Non provarci nemmeno” - mi stava guardando con...pietà? Non potevo sopportarlo, non da lui. “Non ti permettere di guardarmi in quel modo”. E non so che cosa mi trattenne, ma non lo picchiai. Sei uno stupido, Watson. Gli passai accanto e mi allontanai di qualche metro prima di voltarmi di nuovo verso di lui.

“L'unico per cui dovresti provare pietà, sei tu, Mycroft”.

Non si voltò. Guardava la tomba di suo fratello e non so dire per quanto tempo rimase lì. Io assunsi una postura più rigida prima di andarmene, rialzai il mento e respirai a fondo guardando la lapide un'ultima volta. Promisi silenziosamente che sarei tornato.

Per dirti quello che non sono mai riuscito a dirti.

 

 

***

 

 

Resto seduto ancora qualche istante cercando di recuperare il contatto con la realtà. Mi sento a pezzi, ho una sete tremenda e la testa mi pulsa. Meraviglioso, lo rifacciamo? La figura davanti a me resta in silenzio, forse per darmi il tempo di riprendermi. Io non ho nessuna voglia di riprendermi, né di parlargli. Non ho voglia di parlare con nessuno in realtà.

“E' passato un po' di tempo dal nostro ultimo...incontro” - dice all'improvviso voltandosi e andando verso la finestra.

“Intendi dal funerale di tuo fratello, quello che si è ucciso per colpa tua? Si in effetti è passato un po' di tempo, eppure non mi sembra abbastanza.” E se non te ne vai, questa volta ti spacco quella faccia.

“Perché sei venuto qui, John?” - con un gesto disinvolto della mano indica la stanza. Si volta di nuovo verso di me. Ha quel sorriso appena accennato che vorrei tanto toglierli con un cazzotto. Mi alzo lentamente strisciando la schiena sul muro e restando appoggiato lì. Si in effetti, perché sei venuto qui? Quand'è che hai deciso di farlo?

Ignoro i miei stessi, traditori pensieri.

“Ma passi la tua vita a controllare i video di sorveglianza di tutta Londra? Devi essere molto solo.” - gli dico con cattiveria.

“Almeno quanto lo sei tu.” - risponde reclinando leggermente la testa di lato - “e comunque ho delle persone che lo fanno per me.” - aggiunge immediatamente, forse pentito della sua prima risposta. Sposta lo sguardo sul suo ombrello.

Ha ragione comunque.

“Smetterete mai di tenermi d'occhio come se fossi un sospettato?” - alzo appena la voce ma me ne pento subito. La mia testa non apprezza. No, non lo rifacciamo, forse.

Sorride appena più apertamente. “John.”

“Cosa? Che cosa? Mycroft, seriamente, che cosa sei venuto a fare qui? Che cosa vuoi da me? Quello che ti ho detto l'ultima volta è quello che penso ancora. Niente mi farà cambiare idea. E potresti smetterla di farti gli affari miei? Gradirei non essere osservato 24 ore su 24.”

Mi guarda in silenzio per pochi secondi. “Potrei essere in qualche modo, come dire...preoccupato.” - dice, e sembra qualcuno a cui si sta estorcendo una confessione con la forza.

Ah, questa poi. Scoppio a ridere di gusto.

“Per favore.” - incrocio le braccia al petto e lo guardo, con sincera incredulità. Lui mi fissa di rimando, senza quel sorriso accennato che si ostina ad indossare quasi sempre. Per un momento, solo per un breve momento, scorgo nel suo sguardo la stessa ferma decisione di quelli che a volte Sherlock riservava solo per me quando voleva convincermi a fare o a non fare qualcosa. Ma soprattutto quando aveva bisogno che io credessi fermamente in quello che stava dicendo. Come se fosse mai stato necessario.

Mi costringo a dirigere lo sguardo altrove. Non posso farcela adesso. Non se immagino i tuoi occhi. Resta concentrato John.

“Sto bene” - è l'unica cosa che riesco a rispondere. Ho il cervello fuso. Mi sento ancora ubriaco, ho mal di testa, il ricordo dei tuoi occhi fissi nella mente, Mycroft che sembra volermi tirare fuori cose che non posso dire e sono a Baker Street. Non è proprio il mio momento migliore. Mi sento vacillare. E' tutto bellissimo.

Sento che lui mi sta osservando. E' evidente che non sto bene, altrimenti non mi troverei qui nel pieno della notte. Non c'è bisogno di essere un genio per capirlo.

“John, vorrei solo che fosse chiaro che se mai tu avessi bisogno di qualcosa, dovresti solo chiedere. Mio fratello avrebbe voluto...”

Lo interrompo immediatamente. “Tuo fratello cosa?” - sento montare di nuovo quella rabbia che per qualche breve momento avevo dimenticato. - “Tuo fratello ha perso ogni diritto di volere qualcosa o di pensare qualcosa nel momento stesso in cui mi ha telefonato...Dio.” - mi blocco. Non riesco. Non posso ripensare a quella telefonata, a quel giorno. Non adesso. Non di fronte a Mycroft. Mi piego un po' su me stesso abbassando la testa.

“John..” - si avvicina ma fa solo un passo, restando impalato in mezzo alla stanza. Ed io ringrazio la sua completa incapacità di gestire i rapporti umani. Se non altro lo tiene lontano da me. Non lo sopporterei.

Prendo un respiro. “Per cui, non venirmi a parlare di quello che tuo fratello avrebbe voluto o non avrebbe voluto, perché non me ne importa niente. E vale lo stesso per te.” - rialzo la testa, fissando i miei occhi nei suoi e sorridendo gelido - “non seguirmi più e non controllare più quello che faccio. Credi che non mi accorga di macchine nere che di tanto in tanto vedo agli angoli delle strade? O di tizi strambi che mi guardano seduti sulle panchine dietro gli occhiali da sole? Ma pensate tutti che io sia così stupido?”

Lui sembra non trovare una risposta e si limita a reclinare appena la testa.

Sento che è troppo. Mi muovo verso le scale.

“John.”

Mi fermo, dandogli le spalle. Che cosa vuoi ancora.

“Abbi cura della tua persona” - dice, in maniera fin troppo delicata.

Non rispondo niente. Scendo velocemente i gradini lasciandolo lì, in quello che una volta era il mio appartamento, insieme a tutti i miei ricordi, ai tuoi sorrisi e ai miei rimpianti.

E mentre chiudo la porta e attraverso la strada, prometto a me stesso che non vi avrei mai più fatto ritorno.

 

 

 

Nota dell'autrice:

 

Per la prima volta, da quando ho iniziato questa ff mi sento di lasciare una nota personale. Questo capitolo è stato davvero difficile per me da scrivere. Più volte mi sono trovata a cancellare tutto, a scrivere sfilze di lettere tutte uguali o parole messe a caso senza senso compiuto (come John). Spero quindi che lo apprezzerete anche se forse è un po' diverso dai precedenti. La “seconda” voce che accompagna sempre John non è molto presente. Si è persa. E' che non riuscivo a sentirla mentre scrivevo. Immagino e so come ci si sente, in certi momenti, e il mio John non ha fatto eccezione. A volte ci si annulla, e non si sente più niente. Nemmeno se stessi.

Alcune delle cose che John elenca tra quelle che avrebbe potuto dire al funerale, sono liberamente tratte dal suo blog (per chi non lo avesse letto, consiglio vivamente di farlo. E' straordinario).
Infine, ringrazio chi ha letto questa storia e chi continuerà a farlo, nonostante i lunghi intervalli di tempo. Mi dispiace. A volte semplicemente la vita è troppo piena, o troppo vuota, per farci entrare qualcos'altro. 
A presto (spero).

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Capitolo 6
*** Senza titolo ***


Ciao a tutti, a quelli andati, a quelli rimasti.
Sono una pessima, pessima scrittrice. Ma intanto c'è questo e anche se fosse solo per me, è qui.
Alla prossima.


 




«La gente si innamora del proprio dolore al punto che non riesce più ad abbandonarlo.

Lo stesso vale per le storie che racconta. Siamo noi stessi a tenerci in trappola».

Chuck Palahniuk, “Cavie”

 


 


THE PERSONAL BLOG OF
 

Dr. John H. Watson



9 Novembre

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Eccomi qui. Solo per me, comunque.

 

Sono passate sei ore.

 

La cosa triste è che alla fine un po' ci si abitua. Perché a nessuno a parte te sembra importare. A qualcuno probabilmente si, ma la verità è che sei troppo cieco per vederlo o troppo impegnato a non essere te stesso per preoccupartene. Dormi, non dormi, ti svegli, respiri, vivi, sopravvivi. Un giorno dopo l'altro. E così, senza nemmeno accorgertene, ti abitui.

Abituarsi.

E' una parola che mi fa vomitare. Ci si abitua a svegliarsi ad una certa ora, a mangiare senza sale, al traffico, alle chiacchiere inutili, alla pioggia costante, ai convenevoli superflui. Ma non ci si può abituare a qualcosa che manca. Perché mancherà sempre e farà male sempre. Non ci si abitua al dolore. Io non mi abituo al dolore.

 

Ti odio con tutto me stesso.

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16 Novembre

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E se non fossi andato via quel giorno?

Me lo chiedo tutte le notti.

 

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12 Dicembre

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Vorrei avere qualcosa da scrivere ma la verità è che non succede niente nella mia vita. Non succede più niente. Come se il destino o chi per lui avesse esaurito già tutto quello c'era in serbo per me. Come se non ci fosse altro. Finito. Hai già finito tutto John. Mi sembra di aspettare da solo un treno che non passerà mai. A volte mi chiedo se questo mio vivere sia ancora utile, se abbia ancora uno scopo, se tornerà ad accadere qualcosa, se passerà mai quel treno. Una parte di me vorrebbe cedere, alzarsi, lasciare la stazione senza girarsi nemmeno una volta a guardare. Ma l'altra parte, quella che mi fa sedere ancora qui a scrivere di niente, mi tiene incollato a quel pensiero, a questa sedia, in questa vita. Non parlerò mai di queste cose, mai. A nessuno.

E' che non dovrei scrivere di sera. La sera i pensieri si fanno complicati.

Sono ancora incazzato.

Se fossi qui adesso ti spaccherei quella faccia. Ah puoi giurarci.

 

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24 Dicembre

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Ho sempre amato il Natale.

Non è vero, l'ho odiato, poi l'ho amato, ora lo odio di nuovo.

Sono fermamente convinto che a nessun bambino debba essere negata la felicità del Natale, per quanto stupido, finto e consumistico sia. Eppure, o forse è proprio per questo, se ripenso alla mia infanzia non ricordo un solo Natale felice. E ci sto pensando, ma proprio non lo ricordo. Che infanzia di merda. Grazie papà.

Poi ho smesso di crederci, ed è andata meglio.

 

Sono sempre stato solo. Durante gli anni nell'esercito ogni giorno era uguale al precedente e se riuscivi a non farti ammazzare quello era il tuo Natale. Anche se era agosto o febbraio, potevi rinascere ogni volta. Qualcuno invece ci è morto davvero e basta. Qualcun altro è tornato a casa, ma in realtà è ancora lì.

 

Perché sto scrivendo queste cose?

La verità è che Ella ha ragione. Scrivere può far bene.

Scrivere mi fa sentire di avere un posto a cui tornare.

 

Buon Natale Sherlock.

 

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28 Dicembre

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Credo che a volte ci convinciamo di essere soli solo per poter giustificare il nostro comportamento e sentirci in pace con noi stessi. Ho un fottuto casino qui dentro e sono fottuto io. Ma forse, lo sono sempre stato.

Non sono una persona emotiva. Cioè, so di esserlo. Sono emotivo. Tutti hanno emozioni. Persino Sherlock Holmes ne aveva. E' solo che non posso lasciarmi andare al dolore, alla sofferenza. Non davanti agli altri, non con qualcuno che non sia me stesso. E' tutto qui dentro, seppellito da qualche parte.

 

Mi hanno cercato in questi giorni, Greg, Mike, Molly, Harry.

Harry.

A volte dimentico di avere una sorella che è più fottuta di me. In tutti questi anni avrei dovuto aiutarla, ascoltarla. Ma la verità è che sono sempre stato troppo incasinato per riuscire ad occuparmi anche di lei. Almeno quello avrei voluto non annoverarlo tra i miei fallimenti. E invece.

E invece...

Ignorare i problemi non li risolve e non li fa sparire. Devo chiamarla.

 

La cosa migliore di questi post è che non potrà leggerli nessuno.

 

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31 Dicembre

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E' l'ultimo giorno dell'anno.

Cosa fanno le persone normali? Stilano una lista di buoni propositi che poi non rispetteranno mai? Fanno un bilancio dell'anno passato? Il mio bilancio è in perdita. Ho perso tutto, rimango solo io. Io che non mi abituo al dolore. E ogni giorno che passa è solo un giorno in più di perdita. Non accumulo più niente, perdo solo pezzi. Arriverà il meraviglioso giorno in cui non ne avrò più e spero che avvenga il più presto possibile.

 

Ero così solo, e lo sono di nuovo.

 

Buon anno nuovo Sherlock.

 

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15 Gennaio

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Non ho più visto Mycroft da quel giorno all'appartamento. Ma sono certo che lui vede me. Non smetterà mai di spiare le persone ed esercitare quel suo controllo inquietante su tutto.

 

Avrebbe dovuto controllare suo fratello.

 

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26 Gennaio

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Buon compleanno Sherlock, ovunque tu sia.

 

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18 Febbraio

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C'era questa donna ieri che mi guardava sull'autobus. Era attraente. Aveva lunghi capelli neri e occhi chiari. Mi ha sorriso.

Avrei dovuto salutarla, scambiare due parole, magari invitarla a cena. Sentire del calore umano. Sentire che sono ancora vivo, che sono ancora qui. Perchè per quanto tu sia uno stronzo e te ne sia andato, io sono rimasto.

 

Dovrei riprendere in mano la mia vita e andare avanti. O avere quel coraggio che una volta ho quasi avuto. Quasi.

 

 

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27 Marzo

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Le cose possono cambiare in fretta. Ed io lo so bene. Nell'arco di una telefonata si possono cambiare vite intere. Una corsa in metro, un caffè nel parco con un vecchio amico, un pranzo. A volte non hai nemmeno il tempo di rendertene conto.

 

Forse è giunto il momento di tornare, tornare a questa cosa, il blog.

 

Tornare ad avere una vita vera, una che non sia notti insonni, lavoro e bicchieri di whisky. Tornare a condividere. Anche se sinceramente non ho idea di cosa potrei mai condividere di nuovo. Ma mi è stato detto che devo farlo e che devo parlarne. Parlare del mio “migliore amico” e del fatto che sia morto. E che devo accettarlo e che non tornerà. Questo è l'esatto ordine in cui devo imparare a fare queste cose. A volte le ripeto come un mantra per dargli maggiore forza, ma finisco solo col togliergli ogni significato. Come quando ripeti una parola e all'improvviso ti sembra di non averla mai sentita. E sono punto e a capo.

 

Ti ho anche chiesto di smetterla di essere morto, te l'ho chiesto per me. Non esattamente quello che si dice “andare avanti”, lo ammetto. E' che non ho voluto farlo, per molti mesi. Sono stato incredulo e poi arrabbiato, e ancora incredulo. Non sono riuscito nemmeno a dirlo per così tanto tempo. Non potevo convincermi di essere di nuovo solo. Non potevo davvero credere di averti perso. Sono ancora arrabbiato.

 

Ripenso a quella notte, quella in cui ti guardai dormire. Sono cambiate così tante cose eppure, tutto è come allora. Sono lo stesso, sono rimasto triste e miserabile. Il cuore a pezzi. Le mani vuote. Se avessi saputo che si può essere più miserabili di come ero allora, forse ti avrei svegliato. Ma la verità è che il passato non può essere cambiato. Io non ti ho svegliato quella notte. Così come non ti ho salvato quel giorno.

 

Ma tu hai salvato me. E ti devo così tanto che una vita intera non basta. E anche se sono ancora così arrabbiato perchè mi hai lasciato indietro di nuovo, sento di doverti quella vita che quel giorno di tanti anni fa hai salvato per la prima volta.

 

Non potrò mai dimenticarti e dimenticarmi di noi, ma forse è davvero giunto il momento di tornare, Sherlock.


(Ho conosciuto una persona. Non sarà niente di serio ma è riuscita a farmi sorridere. E a questo punto non so se serva altro.)

 

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20 Aprile*

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Un nuovo inizio

 

E' strano. Tornare qui. Questo blog. Mi ci è voluta circa una settimana per scrivere questo. Ho continuato a tornare. Cancellando. Aggiungendo. E' che non sono una persona emotiva. Lo sono, ovviamente. Provo emozioni ma non mi lascio andare al dolore. Immagino sia molto inglese da parte mia.

Non mi piace parlarne.

Ma mi è stato detto che dovrei. Che se non ne parlo sarò come ero prima di Sherlock. E non posso tornare a quello. Ho una vita adesso.

Comprendo che sia morto. E lo accetto. Credo ancora in lui. In chi era. La verità dietro tutto questo verrà fuori, ne sono convinto. Ma Sherlock è morto e quel periodo della mia vita appartiene al passato.

E questo è ciò che è la vita. Le cose accadono. Poi passano. E tu vai avanti verso cose nuove. Nuove persone. Nuovi amici. Nuovi inizi.

Ma è altrettanto importante non dimenticare il passato. E ho trovato alcune foto e post incompleti quindi per le prossime settimane è quello che farò. Ricordare il passato.

E non sarò triste. Non più. Perché sono stati bei momenti. Siamo stati grandi e ci siamo divertiti. Ed è questo che ricorderò. Il mio migliore amico, e mi ucciderebbe per aver detto che era quello che era, è morto. Sherlock Holmes è morto.

Ma lo giuro, non sarà mai dimenticato.

12 commenti

 



* Tutto ciò che è scritto alla data 20 aprile è la traduzione dello stesso post sul blog ufficiale di John:  http://www.johnwatsonblog.co.uk/

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