I will always be for you

di veronica85
(/viewuser.php?uid=2246)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nuovi incontri su strade diverse ***
Capitolo 2: *** Fantasmi, maschere e scuse ***
Capitolo 3: *** Halloween ***
Capitolo 4: *** Ricordi ***
Capitolo 5: *** Tutti al circo! ***
Capitolo 6: *** Turbamenti ***
Capitolo 7: *** Fase 1: ricerca ***
Capitolo 8: *** Fase 2: assemblaggio ***
Capitolo 9: *** Fase 3: ricostruzione ***



Capitolo 1
*** Nuovi incontri su strade diverse ***


Il Writober incalza, io ho sempre meno tempo e sono sempre più indietro eppure non demordo e continuo a  provare a restare almeno non troppo indietro anche se tutto sembra cospirare contro di me. Tipo il prompt dell’8 ottobre (che poi è anche il compleanno di mio padre) che ha dovuto attendere due giorni per essere anche solo pensato e poi, quando finalmente è stato il suo momento non voleva decidersi a scriversi e l’ho dovuto cambiare.
Per questo giorno, riprendo in mano questa long, implementando un capitolo a cui pensavo da tanto. Forse non è esattamente come lo volevo, ma vediamo.
Edit del 04/01/2021: Capitolo completato, aggiungendo una scena iniziale.


Anche quella giornata era trascorsa più lenta del solito, come tutte quelle delle ultime due settimane. Per Henry Mills quella fine di luglio era decisamente un periodo “no”: non riusciva a scrivere come voleva, in taxi c’erano clienti fastidiosi e insolenti che lo costringevano a giri interminabili e ultimamente anche il suo appartamento aveva deciso di rivoltarsi contro di lui: giusto la sera prima aveva dovuto metterlo sottosopra da cima a fondo per trovare la pen drive (che era sicuro di aver lasciato accanto al pc, come tutti i giorni) dove conservava gli appunti dei suoi articoli e alcune foto. Ci aveva dovuto perdere ben due ore e alla fine quella dannata era spuntata sopra il letto, in camera, sommersa da lenzuola e vestiti di ogni tipo. Come fosse arrivata fino a lì andava sicuramente annoverato tra i grandi misteri dell’umanità. In ogni modo, finalmente sembrava essere tutto a posto e per la prima volta in quasi settantadue ore avrebbe potuto rilassarsi: si sarebbe scaldato la cena al microonde, poi avrebbe dedicato il resto della serata ad una maratona di Game of Thrones, che aveva lasciato parecchio indietro e non vedeva l’ora di recuperare. Gli Stark dovevano avere una gioia, non poteva sempre andare tutto male, giusto? Certo, che però… con un autore sadico come Martin… tutto era possibile, ormai.. Si era comprato i dvd e adesso aveva tutta l’intenzione di spararsi almeno metà della quarta stagione. Accese quindi il computer, collegandolo alla televisione e inserendo il primo dvd  ma, proprio nel momento in cui stava per premere “play” comodamente seduto sul divano, il campanello suonò: qualcuno aveva deciso che in quei giorni avrebbe dovuto abolire la parola relax, ormai era chiaro. Perché, quale altro motivo avrebbe potuto spingere chiunque a suonare alla sua porta alle 20:30?  Beh, sospirò alzandosi, presto lo avrebbe scoperto, giusto? Pochi minuti dopo Mr Peterson, il suo padrone di casa, faceva il suo ingresso in salotto.
«Buonasera, Charles, come mai questa visita? Se non sbaglio l’affitto te l’ho pagato la settimana scorsa…» o se ne era dimenticato? Poteva essere: era un po’ sfasato in quel periodo e gli poteva capitare di prendere per vere cose che in realtà non erano accadute, anche se… proprio per non rischiare segnava tutti i pagamenti e quello gli sembrava proprio che…
«Non sono qui per l’affitto, anche se in effetti devo parlarti della casa. Ci sediamo?» propose, dirigendosi verso il divano e accomodandosi sul lato destro: se anche non avesse detto nulla, sarebbe bastato quell’atteggiamento a far capre che quella casa era di Charles e lui non era nient’altro che qualcuno che per caso aveva incrociato la sua strada. Ovviamente Charles non lo faceva apposta, ma Henry era fin troppo abituato ad interpretare i comportamenti altrui per lavoro: dopotutto, era pur sempre uno scrittore. Che non scrivesse da qualche tempo era un dettaglio, prima o poi il periodo nero sarebbe passato  avrebbe ricominciato ed era buona norma non perdere l’allenamento. Scacciò quei pensieri: non era quello il momento di divagare.
«Vuoi qualcosa da bere?» propose: dall’orfanotrofio in cui aveva trascorso i suoi primi diciotto anni aveva imparato che l’ospitalità era sacra sempre, anche con chi, in realtà, non era un vero e proprio ospite e si presentava senza preavviso e, soprattutto, con motivazioni sibilline che mettevano ansia.
«No, grazie, sto a posto così. Sono venuto a dirti che… entro due mesi, al massimo tre, ho bisogno che mi liberi  l’appartamento. Ho avuto un imprevisto, mia figlia si sposa e voglio darlo a lei». Charles aveva snocciolato quelle parole con grande naturalezza, come fosse una cosa ovvia e scontata…. e probabilmente lo era anche: qualunque genitore avrebbe messo i propri figli davanti a degli estranei (tranne i suoi, per loro lui non era stato abbastanza importante) ed era ovvio che il suo padrone di casa preferisse dare l’abitazione a sua figlia piuttosto che a lui,  a prescindere dal fatto che fosse sempre stato un inquilino modello.
«Capisco. D’accordo, libererò l’appartamento il prima possibile». Non esisteva altra risposta, non nel suo caso: Charles lo aveva accolto dopo che la sua casa era bruciata, gli aveva dato un tetto quando si era trovato completamente solo, ignaro di cosa ne sarebbe stato della sua vita da quel giorno in avanti dopo che aveva di nuovo perso, senza appello, le uniche persone che erano state tutto il suo mondo.
Non avrebbe mai dimenticato il fumo che aveva visto uscire dalle finestre di casa l’otto aprile di due anni prima, i pompieri che domavano le fiamme, un medico che saliva a controllare, persone che lo trattenevano per impedirgli di seguirlo. Ricordava perfino che giorno della settimana era, - un dannato mercoledì- che tempo faceva e tutti i dettagli possibili immaginabili. E soprattutto, erano ben impressi nella sua mente i volti cerei di Abby e Lauren, già segnati dalla morte. La corsa disperata verso l’ospedale e l’arrivo dei soccorsi  a nulla erano valsi: il monossido di carbonio era già stato letale e il massaggio cardiaco e la somministrazione dell’ossigeno erano giunti troppo tardi, per madre e figlia non c’era stato niente da fare. E lui era arrivato in ospedale appena in tempo per vedere il dottore uscire dalla sala di rianimazione e cercare un familiare a cui comunicare il decesso. Ma non era quello il momento di perdersi in quei ricordi: Charles si era alzato e lo stava salutando con parole di circostanza che non era sicuro di aver registrato. Henry lo accompagnò alla porta meccanicamente salutando solo con un cenno del capo, poi richiuse la porta e in tre passi tornò ad accasciarsi sul divano
«Fantastico…. La perfetta conclusione della serata, mi mancava solo questo… e ora dove la vado a trovare una nova casa in meno di due mesi?». Scosse la testa, volgendo lo sguardo verso la cornice in cui una donna dai capelli rossi e una bambina con occhi e capelli castani sorridevano all’obiettivo. Si alzò, prendendo la cornice argentata tra le mani «Voi non vi sareste arrese, vero Lauren? Tu avresti detto che una soluzione si trova sempre e che evidentemente ero destinato ad un posto ancora migliore. Beh, vediamo se sarà così, ne riparliamo tra due mesi». Sorrise, riponendo la cornice nel posto che le spettava. Accanto al televisore, dove poteva sempre vederla appena entrava. Nella nuova casa avrebbe dovuto trovarle un altro posto. Ma ora, forse, era meglio andarsene a dormire e porre fine a quella giornata: dall’indomani sarebbero cominciati i problemi.
 
Casa/lavoro, lavoro/casa: questa era la routine tipica di Ivy Belfrey che, anche quel giorno, stava guidando annoiata per le strade di Seattle per eseguire alcune commissioni che sua madre le aveva affidato. Un giorno o l’altro si sarebbe rifiutata e avrebbe smesso di farsi sfruttare per quelle stupidaggini, se lo ripeteva di continuo, ma… ma quel giorno non veniva mai e anche quella mattina, quando sua madre l’aveva spedita a portare i vestiti in tintoria, poi in posta, in edicola e in una serie di altri posti che si era segnata, aveva chinato la testa e annuito, uscendo di casa per dirigersi alla lavasecco più vicina, fosse mai che perdesse troppo tempo e la sua Signora Madre si indisponesse. Ma quella, evidentemente, non era la sua giornata: la lavanderia era chiusa per turno, avrebbe dovuto cercarsene un’altra. Fantastico, come se avesse avuto voglia di perdere ancora più tempo per simili idiozie!
Sospirò: avrebbe fatto meglio a calmarsi o le sarebbe partito un embolo un giorno di quelli. Quindi, qual era la lavasecco più vicina? Controllando l’applicazione sul cellulare, scoprì che quella che avrebbe aperto prima si trovava a circa mezzo miglio da lì: beh, via, poteva andarle peggio, constatò risalendo in macchina e rimettendo in moto, imboccando una via segnalata dall’applicazione che lei mai avrebbe trovato da sola.. Raggiunse il luogo designato in breve tempo e stavolta fu fortunata: era aperto e funzionante, c’erano diverse macchine e una, ringraziando la sua buona stella, era libera. La raggiunse in men che non si dica aprendola e inserendovi i capi che aveva portato con sé: se tutto andava come aveva previsto, nel giro di mezz’ora avrebbe potuto andarsene. Alla sua sinistra, una ragazza poco più grande di lei con una valigia piena di roba: Ivy stimò che le sarebbero occorse due o tre ore per finire, probabilmente si era presa l’intera mattina libera per dedicarsi solo a quello. Alla sua destra, invece, c’era un ragazzo più grande di lei: capelli castani, fisico asciutto, stava trafficando con un’altra lavasciuga: non era il primo che incontrava ma.. beh, di solito i ragazzi buttavano vestiti alla rinfusa e a casaccio, questo sembrava sapere quel che faceva e usare un certo criterio. Sicuramente era sposato o aveva avuto una madre severa quanto la sua. Non lo aveva mai visto, ma non se ne stupiva: di solito non arrivava lì e le sue commissioni si svolgevano in orari in cui i comuni mortali erano a lavoro, per cui era tutto perfettamente nella norma. E comunque non era così importante, di certo non le sarebbe più capitato di incrociarlo.
O almeno ne fu convinta per l’ora e mezza successiva: la fila alla posta era stata interminabile, tutto per accontentare un capriccio di sua nipote, così Ivy stabilì di concedersi una pausa e andare a prendersi un meritato ginseng ristoratore. Il bar di Roni era lì vicino, dopotutto e non ci avrebbe messo più di una decina di minuti.  Parcheggiò ed entrò e… toh, guarda chi c’è al bancone a ritirare un caffè, un paio di panini dall’odore sospetto e qualcos’altro di non ben identificato! Lo stesso sconosciuto! Chi l’avrebbe mai detto? Seattle era una grande città, incontrare la stessa persona nel giro di poco tempo non era da tutti. Magari uno dei due stava inconsciamente seguendo l’altro.
Via, non essere sciocca, è ovvio che sia soltanto una coincidenza e niente di più si rimproverò mentalmente, attendendo il suo turno e osservando lo sconosciuto andarsene con il suo cibo nel sacchetto. Quella era, evidentemente una cosa che non avevano in comune, lei non avrebbe mai ordinato del cibo in quel posto. Piuttosto aveva imparato a cucinare quelle quattro cose che si concedeva di mangiare e che sua madre approvava.
«Un ginseng da portare via». Questo era uno strappo alla regola che si concedeva ogni mattina e che le permetteva di accumulare abbastanza resistenza da sopportare  sua madre per tutto il giorno. Roni glielo preparò con una smorfia: sapeva di starle antipatica, era la figlia di sua madre, dopotutto, e sua madre teneva in pugno mezza città, che si aspettava? Se ne era fatta una ragione, ormai e non si aspettava cambiamenti di alcun tipo. Fu per questo che non le chiese nulla del ragazzo che aveva servito poco prima di lei: anche se Roni l’avesse conosciuto non l’avrebbe certo detto a lei, piuttosto avrebbe preferito parlarne con Jacinda. Ok, ora era infantile, in questo sua sorella non c’entrava e non era giusto metterla in mezzo. Trattenne uno sbuffo, lasciò i soldi sul bancone ed uscì, diretta all’edicola: doveva prendere i giornali per la rassegna stampa, poi passare in posta e andare a prendere il caffè per sua madre. avrebbe potuto prenderlo da Roni, ma poi chi l’avrebbe sentita, Victoria, se gliel’avesse portato freddo? Meglio non pensarci. Giunta all’edicola, rimase di sasso: c’era di nuovo quel tipo! Possibile? Ma chi era? E perché quel giorno sembrava destinato a incrociare così spesso la sua strada? Beh, l’importante era che non fosse uno stalker ma poi… perché mai? Che motivo avrebbe avuto di stalkerare proprio lei?
Si concentrò a guardare i giornali, cercando di scegliere le solite testate, ma una voce la distolse dal suo compito.
«Visto che è già la terza volta che ci incontriamo, oggi, che ne dici di presentarci? Sono Henry Mills». Ivy alzò gli occhi, incontrando il viso del ragazzo che aveva incrociato per ben tre volte in poco più di tre ore e per un breve istante rimase senza parole: era davvero carino e anche gentile, quanto ci avrebbe messo a scappare? Beh, magari se lei non avesse fatto l’acida…
Strinse la mano che lui le stava porgendo «Ivy Belfrey, piacere Di solito non passo in questi posti a queste ore, oggi è stata una coincidenza e.. ammetto che mi è sembrato strano incontrarci così spesso»
«In realtà anch’io oggi ho cambiato strada: quella che prendo di solito da casa mia alla lavanderia era chiusa per lavori che non so e ho deciso di andare in quella che hai scelto anche tu… e il resto è venuto da sé. A dire il vero, sto cercando una nuova casa perché il mio padrone di casa mi darà lo sfratto a breve e, beh…» Un silenzio imbarazzato calò tra i due solo per un istante «Scusa, non so neanche perché ti dico questo, fai finta di niente. Arrivederci» si congedò Henry, allontana dosi rapidamente. Ivy, dal canto suo, era rimasta interdetta: le ci era voluto qualche secondo per registrare tutte le parole del suo interlocutore dando a lui il tempo di allontanarsi un po’. Per questo allungò il passo, sperando che non le si rompesse un tacco proprio in quel momento.
«Aspetta! Henry Mills!» lo chiamò. Aggiungere il suo nome fu un’idea dell’ultimo secondo che ottenne il risultato sperato: l’uomo si fermò, voltandosi nella sua direzione. Lei lo raggiunse poco dopo, tirando un po’ il fiato.
«Ecco… hai detto che stai cercando una nuova casa e… beh… in agenzia ne abbiamo tante, magari c’è anche qualcosa che fa al caso tuo. Puoi passare quando vuoi, se vuoi vedere qualcosa, c’è sempre qualcuno che può darti una mano» concluse, deglutendo.
Henry prese ta le dita il bigliettino che lei gli porgeva leggendolo. «Belfrey Industries…. Grazie, ma… non credo di potermi permettere il vostro onorario»
«Oh, beh… allora come non detto, scusami, non ci ho pensato». Già, lei non pensava mai a certi dettagli, mettersi nei panni di persone di classe sociale inferiore le era estremamente difficile. E ora aveva anche offeso quel ragazzo e, di certo, allontanato un’altra persona che avrebbe potuto far parte, in qualche modo della sua vita. Eppure aveva cominciato così bene! Era meglio non pensarci, però.
«Però… magari potrei venire a vedere gli annunci…. Soprattutto perché ne ho davvero urgenza, in realtà. E almeno comincerei a farmi un’idea un po’ più chiara».
Ivy si bloccò, voltandosi di nuovo verso di lui, l’espressione distesa. «Potresti, sì: venire a vedere qualche annuncio non è impegnativo, solo se compri o affitti con noi devi pagarci una parte.»
«D’accordo, allora, credo che ci vedremo lì in giornata. A più tardi, Ivy» la salutò Henry, tornando sui suoi passi e avvicinandosi alla sua macchina: prima aveva delle cose da concludere, ma sarebbe passato alle Belfrey Industries quanto prima. Dal canto suo Ivy, dopo averlo salutato a sua volta, girò i tacchi con un sorriso stampato sul volto: chi l’avrebbe mai detto che cambiare strada avrebbe potuto portare una simile novità? E ancora non sapeva fino a che punto tutto nella sua vita sarebbe cambiato, a partire da quel giorno.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Fantasmi, maschere e scuse ***


Ciao a tutti! Pubblico per la prima volta in questo fandom, anche se mi ero ripromessa che avrei atteso di avere più capitoli scritti, ma non ce la posso più fare xd. Da quando la settima stagione di OUAT è iniziata mi sono appassionata al personaggio di Ivy/Drizella, adoro la sua storia e il rapporto che ha con gli altri personaggi, in particolare con Henry. Li vedo troppo bene insieme e, dopo aver letto una marea di fanfiction su di loro, in inglese, mi ero ripromessa di scrivere qualcosa anch’io, visto che, quando ho cominciato a pensarci, in italiano non esisteva ancora niente riguardo la settima stagione. Ma le mie fanfiction sono sempre lunghe e ho talmente tante idee per la testa che ne ho cominciate ben due, ancora ben lungi dal concludersi. Questa è la seconda che ho iniziato, ma quella di cui ho definito meglio trama e personaggi. Si tratta di un AU, ambientato a Seattle in cui sono reali SOLO le identità maledette dei personaggi. Tutti i ricordi creati dalla maledizione sono quindi veri e non esistono magia o portali o altri mondi. In questa storia, Anastasia è la sorella MINORE di Ivy, per mantenere inalterate le età dei personaggi, senza necessità di maledizoni varie.
 
Ho finito di annoiarvi, giuro, fatemi solo sapere cosa ne pensate. Se qualcosa non risulta chiaro, a meno che non l’abbia volutamente scelto, spiegherò tutto nelle successive note.

 
Halloween. Ogni anno, in quel periodo, tutte le città americane cambiavano aspetto, rivestendosi di un alone spettrale e facendo fiorire zucche ad ogni angolo della strada. Henry ricordava di averlo amato per molto tempo e di essersi divertito un mondo ad accompagnare Abigail di casa in casa per il classico trick or treat. Ma da quando lei non c’era più, quella festa per lui non era nient’altro che l’ennesimo modo in cui i negozianti riuscivano a fare soldi. Da tre anni non gliene importava più niente e, in quel preciso giorno, si limitava a starsene tappato in casa augurandosi che il tempo trascorresse il più in fretta possibile. Il giorno prima, però, qualcosa era cambiato: dopo troppo tempo era riuscito a ripassare al cimitero e a soffermarsi davanti alla tomba della sua bambina. Ed era stato lì che aveva capito: lei e Lauren sarebbero state molto deluse di vedere come stava reagendo. Di certo, se fossero state lì, lo avrebbero spronato ad uscire e a godersi la festa anche per loro. Ed era stato con quel pensiero in testa che si era ritrovato a vagare per le strade di Seattle, sbirciando le vetrine e osservando i preparativi e, in particolare, i costumi sfoggiati dai bambini che sciamavano per le vie brulicanti di vita. Individuò l’insegna del bar di Roni e fu quasi tentato di entrare a bere qualcosa… ma no. Non era questo che aveva sempre inteso con “godersi la festa”. Magari ci avrebbe fatto un salto alla fine della giornata: al momento, la cosa più urgente era fare una capatina in un negozio di dolci e saccheggiarlo, così da poter distribuire il suo bottino ai bambini che avrebbero incrociato la sua strada come un insolito Babbo Natale fuori stagione. E dato che quella festa era stata un vero e proprio culto per la sua famiglia per anni, non si sarebbe limitato a barrette di cioccolata scelte a caso: avrebbe selezionato solo il meglio. Come animato da una nuova energia, si avviò velocemente verso la sua macchina. Non era interessato ai grandi negozi che di certo sarebbero stati immediatamente presi d’assalto da centinaia di ragazzini urlanti e scalmanati. Lui ne conosceva uno speciale e fu lì che si diresse, certo di trovare esattamente quello che stava cercando. Mezz’ora dopo, usciva trionfante col suo bottino: bastoni di zucchero, cioccolato al peperoncino, cioccolato al latte, fondente, extra fondente, bianco, bianco e nero, alle nocciole… tutti di ottima qualità. La padrona del negozio era un’esperta cioccolataia che usava un ingrediente nella preparazione che dava quel qualcosa in più a tutti i suoi prodotti: tutti gli anni tentava di indovinare quale fosse e puntualmente, finiva con lo sbagliare. Ma adesso, non era quello l’importante: la sua prossima meta era la North Avenue, dove, generalmente si concentravano sempre pochissimi ragazzini poiché tutti conoscevano la taccagneria degli abitanti di quella zona. Non ci mise molto a raggiungere la zona, fare il tassista gli aveva permesso di conoscere un sacco di stradine secondarie e vie traverse. Come aveva previsto, non c’erano molti ragazzini. Uno era veramente strano, aveva un sacchetto in testa e sembrava discutere con l’adulta di fronte a lui. Henry si avvicinò curioso, non potendo fare a meno di origliare
«Uffa, non mi hai neanche voluto truccare il viso! Almeno possiamo andare nella parte sud della strada? C’è una magnifica casa stregata! Questo isolato è così noioso!» Ma quella non era… la voce di Lucy? Sì, in effetti sembrava proprio la sua…e guardando meglio, Henry riconobbe, nell’adulta che stava parlando con lei Ivy, la sorella di Jacinda. Ma perché Lucy girava con un sacchetto in testa?
«Saresti tu quella scontenta? Io mi sto perdendo il ballo in maschera perché la mamma vuole assicurarsi che la sua preziosa Lucy si diverta!» Sul serio? Chi era l’adulta tra le due? Stava davvero discutendo con una bambina? Henry affrettò il passo arrivando accanto a loro giusto in tempo per sentire la replica della bambina:                                                  
«Non mi diverto e tu non ti stai perdendo niente: non sei stata invitata quest’anno. Ti ho sentita mentre te ne lamentavi…» Prima che Lucy avesse il tempo di continuare, o Ivy di ribattere, Henry decise di intervenire:
«Ivy! Ehi, che ci fai qui in giro? Pensavo dovessi essere a lavoro…». Come in fondo avrebbe dovuto fare lui se non avesse deciso di prendersi un giorno libero. L’espressione della ragazza, fino a quel momento imbronciata, sembrò distendersi lievemente. «Henry! Ciao!» gli sorrise mentre Lucy si toglieva il sacchetto dalla testa spazientita, prendendo la parola.
«Dovevamo andare a fare trick or treat, ma lei non ha voglia: non ha voluto truccarmi, né andare alla casa stregata: mi sto annoiando a morte, questa giornata fa schifo!» Ivy avrebbe voluto strangolarla: che razza di figura le stava facendo fare? Ok, era tutto vero, ma… maledizione! A quella ragazzina era sempre tutto dovuto e toccava sempre a lei assecondare i suoi capricci. Avrebbe solo voluto….
«Beh… forse ho qualcosa che potrebbe farti cambiare idea…. guarda» propose Henry sollevando il sacchettino ed estraendone alcuni dolciumi. Li porse a Lucy con un sorriso e lei, al settimo cielo, gli gettò le braccia al collo, dopodiché scappò un po’ più avanti a rimirare il suo bottino. Ivy gli rivolse un’occhiata storta:
«Bene, Autore, hai fatto la tua buona azione quotidiana, il tuo senso del dovere sarà appagato fino a domani». Da dove diavolo le era uscita una risposta così acida? Come poteva pretendere di andargli minimamente a genio se…
«Ehi, datti una calmata! Stavo solo cercando di essere gentile. Che problema hai?». Ecco, appunto. Ivy sospirò, riponendo il cellulare e guardandolo negli occhi:
«Mi dispiace. È che sono… insomma… credo di essere un po’ nervosa. E se devo essere sincera, l’ultima cosa che mi andava di fare oggi, era portare Lucy in giro ad elemosinare. Ma Jacinda è in punizione a causa della vostra bella pensata dell’altra volta, quindi tocca a me starle dietro». Cosa che avrebbe anche potuto evitarsi: con tutti i soldi che aveva, sua madre poteva ben permettersi una babysitter, perché diavolo doveva essere sempre lei a rimetterci se Jacinda combinava casini? Ma, ovviamente, quello non era un problema di Henry:
«Intendi la petizione per il parco? Mi dispiace che abbia causato problemi, ma… era la cosa giusta. E sai? Lucy non sta elemosinando, non devi vederla così. Si tratta solo di un gioco: i bambini si divertono e la maggior parte degli adulti li asseconda volentieri. Sai, pagherei oro per avere ancora qualcuno da accompagnare…».  L’espressione di Henry a quell’ultima aggiunta era così triste che Ivy non se la sentì di ribattere. Uno strano silenzio calò tra loro, interrotto poco dopo, di nuovo dalla voce di Henry:
«L’ultima volta che ho fatto trick or treat è stato quattro anni fa: Abigail aveva cinque anni e io e Lauren l’abbiamo portata in questo negozio, quello in cui ho preso i dolci che ho dato a Lucy e la proprietaria le ha regalato tanti biscotti quanti ne entravano nel suo dito medio. Poi l’abbiamo portata in giro per le case e lei si è divertita un mondo a spaventare la gente col suo costume da Wicked Witch of the West. Lauren aveva anche trovato il modo di farle la faccia verde… Cavolo!» esclamò, rendendosi improvvisamente conto di quanto aveva appena detto «Mi dispiace. Di certo non sei qui per sorbirti una predica o per sopportare le mie paturnie. E comunque, non ha più importanza, ormai» concluse, scegliendo di rivolgere lo sguardo nella direzione in cui si era allontanata Lucy. Dal canto suo, Ivy era paralizzata. Si sentiva un’idiota: Henry aveva ragione, c’erano cose, nella vita, ben più importanti e più gravi di uno stupido ballo in maschera… ma lei aveva preferito fingere che così non fosse. E come avrebbe dovuto comportarsi, adesso? Normalmente, non le sarebbe importato, ma Henry era diverso: le era piaciuto subito, dal giorno in cui si erano conosciuti, anche se lui era sembrato interessarsi maggiormente a Jacinda… e forse cominciava a comprenderne il motivo. Fu sul punto di chiedergli maggiori chiarimenti, ma l’espressione di lui la trattenne: aveva la sensazione che fosse una questione delicata, come lo era per lei parlare di Ana. Sospirò tentando di trattenere le lacrime: le mancava ogni stramaledetto giorno ed erano già passati nove anni da quando l’aveva persa. Ad interrompere il corso dei suoi pensieri, intervenne Lucy:
«Possiamo andare? Sono stata in tutte le case di questo isolato». Anche Henry sembrò riscuotersi dal torpore e si rivolse alla bambina:
«Hai ottenuto tanti dolci? Posso vedere?» Lucy gli porse il sacchetto, al cui interno Henry individuò varie marche di cioccolata e altri dolci che avrebbero di certo causato alla bambina un colossale mal di pancia, se li avesse mangiati tutti quella sera. E comunque, nessuna di quelle barrette poteva rivaleggiare con quelli che aveva acquistato lui. Era ancora il miglior cacciatore di cioccolato, dopotutto. Cercando di non montarsi troppo la testa, tornò a rivolgersi alla bambina:
«Da cosa sei vestita?» Lucy fece una smorfia.
«Dovrebbe essere un costume da scheletro… ma senza trucco non si capisce e non spavento nessuno!» si lamentò lanciando un’occhiataccia ad Ivy. La giovane donna alzò gli occhi al cielo:
«Se hai finito di infastidire Henry con queste paranoie, andiamo». Non poteva farci niente, era più forte di lei: quelle feste la rendevano ancora più acida. Il pensiero che tanti bambini potessero divertirsi senza pensieri, mentre Ana… non riusciva neanche a concepirlo, figurarsi accettarlo!
«Non mi dà fastidio, anzi… che ne direste se mi unissi a voi? Il mio programma era starmene tappato in casa, ma… forse è meglio che eviti per oggi: mi metterei a scrivere e so già che non ne uscirebbe niente di buono. Magari fare un giro mi metterà dell’umore giusto… e almeno non starei per conto mio» concluse, guadagnandosi l’espressione sconcertata di Ivy:
«Sicuro di averne voglia? Pensavo…» Cosa? A dire il vero aveva smesso di pensare da qualche minuto, non era del tutto sicura che il suo cervello connettesse adeguatamente.
«Ne sono sicuro, grazie, non preoccuparti. Piuttosto…» continuò rivolgendosi a Lucy «…parliamo di cose serie: qual è la prossima meta?». La bambina sbuffò:
«Volevo andare alla casa stregata, ma così conciata sono ridicola! Senza trucco, nessuno si spaventa, meglio tornare a casa» Lucy aveva messo di nuovo il broncio: le era venuto in mente che Henry non poteva passare del tempo con Ivy. Lui doveva stare con sua madre, erano una così bella coppia, e lei desiderava così tanto che lui diventasse suo padre… ma se fosse uscito con Ivy, la mamma ci sarebbe rimasta male e non gli avrebbe parlato per un po’ e questo lei non poteva permetterlo.
«Beh, è un po’ difficile truccarti in mezzo alla strada e senza trucchi…». Tentò Henry.
«Ma lei ce li ha, i trucchi, la nonna glieli ha dati, e…» Lucy, che aveva interrotto Henry, venne a sua volta stoppata da Ivy.
«Ok, senti ragazzina, mi hai scocciato! Vuoi truccarti? Adesso troveremo un dannato bagno e ti truccherò, ma poi non voglio più sentirti fiatare, sono stata chiara?» Dannazione! Perché diavolo si era cacciata in quella situazione? Non ne poteva più, voleva andare a casa! Senza attendere oltre, si avvicinò a sua nipote, afferrandola per un braccio e incitandola a darsi una mossa, solo per essere, a sua volta, bloccata da Henry:
«Ok, tutte e due, calmatevi. Ho un piano, se mi state a sentire. Adesso troveremo un bar, magari vi offro anche qualcosa da bere e magari Ivy può truccarti lì. Che ne dite?» Ivy trasse un profondo respiro: era appena stata incastrata definitivamente ma… in fondo, poteva andarle peggio: la compagnia di Henry non le dispiaceva affatto e finché fosse rimasto con loro, come sembrava intenzionato a fare nonostante lei gli avesse dato la possibilità di defilarsi, la giornata sarebbe stata almeno passabile. E se perdere mezz’ora a truccarla avesse significato che Lucy si sarebbe risparmiata ulteriori capricci, era disposta a prestarsi.
«D’accordo, andiamo, forza!» accettò prendendo una direzione a caso alla ricerca di un qualsiasi bar. Furono fortunati: ne individuarono uno dopo appena dieci minuti di ricerca. E c’erano diversi tavoli liberi. Ne scelsero uno un po’ appartato: Lucy aveva rifiutato la cioccolata che Henry le aveva offerto e si era seduta accanto ad Ivy per agevolare il trucco. Voleva che i due adulti restassero ben concentrati su di lei, non dovevano avere il tempo di chiacchierare o diventare amici: era la sua personale missione giornaliera. Ivy osservò perplessa i trucchi che sua madre le aveva dato: doveva essere scritto da qualche parte, molto chiaramente, che fossero anallergici e quindi adatti anche ai bambini, ma non riusciva ad individuare la scritta da nessuna parte. Girò e rigirò il tubetto, controllò anche la scatola e il foglio illustrativo, ma nulla, non vedeva niente. Cavolo… sua madre si era sbagliata? No, non lei, ovviamente, una delle sue altre assistenti, magari. Chissà cos’avevano capito e ora lei si ritrovava con un prodotto quasi certamente sbagliato, impossibilitata a rimediare in tempo utile all’errore, dato che, per godersi tranquillamente la festa, quel giorno tutti i negozi che non vendevano dolci o qualsiasi altro genere di cibo avevano tenuto aperto solo mezza giornata. E se ora non avesse assecondato Lucy, dopo che gliel’aveva promesso, sarebbe stata di nuovo la zia cattiva e avrebbe scatenato altri capricci. Sospirò e prese un po’di cerone, cominciando a passarlo sulle guance della nipote e pregando che andasse tutto bene:
«Ti ricordo che non ho comprato io questa roba, non voglio responsabilità se ti viene un’irritazione, chiaro?». Henry, incuriosito, afferrò la scatola di fronte a lui: c’era scritto Cerone bianco. Osservò Ivy perplesso: qual era il problema? Ne esistevano anche per bambini: Lauren l’aveva comprato verde, per Abigail, quando la mascherarono da Wicked Witch. Intanto Ivy, continuava a passare il trucco sul viso di Lucy chiedendosi perché diavolo avesse assecondato quella follia. Se il giorno dopo, Lucy si fosse ritrovata completamente arrossata, tutti avrebbero dato la colpa a lei. Si impose di non pensarci e, un quarto d’ora dopo, aveva concluso: Lucy ora era un perfetto scheletro, col viso bianchissimo e gli occhi infossati al punto giusto. Henry sorrise:
«Stai benissimo, Lucy, sei uno scheletro perfetto! Dai, alzati, ti faccio una foto e poi andiamo» la invitò, mentre finiva rapidamente la sua cioccolata. Detto, fatto: pochi minuti dopo erano fuori, sulla strada per la casa stregata. Lucy saltellava impaziente, tirando Henry con sé:
«Dai, andiamo! Dicono tutti che è bellissima, non vedo l’ora di vederla!». Lo scrittore si lasciava trascinare sorridendo: gli piaceva l’esuberanza di Lucy, gli ricordava Abigail ed era disposto ad assecondarla in qualsiasi cosa. Raggiunsero presto la loro meta. Lucy saltellava di gioia: finalmente erano arrivati e c’era pochissima fila! Strinse forte la mano di Henry, tirandolo in quella direzione:
«Dai! Vieni! Andiamo!» Henry, già pronto ad assecondarla, si voltò verso Ivy, notando che non li stava seguendo:
«Tu non vieni?». Ivy, sorpresa, trasalì: a dire il vero odiava le case stregate con tutto il cuore, non le aveva mai sopportate, sarebbe rimasta lì volentieri. Eppure, c’era una parte di lei che voleva andare e non solo per passare ancora del tempo con Henry: per quanto la considerasse insopportabile e irritante, doveva assicurarsi che Lucy fosse al sicuro. Prima che avesse il tempo di rispondere, Lucy stava già tirando Henry in direzione dell’ingresso: a quanto pare, a sua nipote non interessava la sua presenza, le bastava quella di Henry. Poteva davvero rischiare? Prima di riuscire a prendere una decisione chiara, Ivy sentì se stessa dire:
«Andate voi, io vi aspetto qui. Però… Henry, tienila d’occhio, d’accordo? Non mollarla un secondo». Dio, era impazzita? Che diavolo le era saltato in mente? Stava consapevolmente permettendo a qualcuno di portarle via un’altra bambina da sotto gli occhi. Ok, questa era la figlia della sua sorellastra ed era una rompiscatole galattica, ma… se sua madre l’avesse sentita, l’avrebbe presa a ceffoni «Sono seria: se scappa, mia madre mi uccide». E, in ogni caso, non era solo quello a farle salire l’ansia: si stava fidando di Henry solo perché era lui, le era sembrato una persona pulita fin dal primo momento. E la storia che le aveva raccontato, senza che lei gli chiedesse nulla, l’aveva convinta che non avrebbe mai potuto fare del male a Lucy. Come in risposta a quei pensieri, Henry annuì:
«Non preoccuparti, andrà tutto bene. Anzi, facciamo così…» continuò, estraendo il cellulare dalla tasca «ti do il mio numero, così, se ci fosse un qualsiasi problema, saremmo subito in contatto. E poi, almeno potrò mandarti la foto che ho fatto a Lucy». Ivy sorrise: quello era un punto a suo favore, un ulteriore motivo per dargli fiducia. E una svolta decisamente inaspettata che non le dispiaceva affatto.
«Ok, aspetta… dimmi». Lucy li guardava orripilata: doveva fare qualcosa!
«Non serve, davvero! Prometto che starò sempre vicino ad Henry e sarò buonissima, lo giuro!». I due adulti la guardarono interdetti, decidendo di ignorare quell’ennesimo capriccio e lo scambio si concluse senza intoppi. Lucy non sapeva cosa fare: che stava succedendo? Non doveva andare così, quei due non dovevano scambiarsi addirittura i numeri di cellulare, non andava affatto bene! Henry, intanto, l’aveva presa per mano:
«Allora noi andiamo, ci rivediamo qui tra… direi un’ora, credo possa bastare…». Ivy annuì, osservandoli allontanarsi finché l’ingresso della casa stregata non li inghiottì. Solo a quel punto si chiese se davvero avesse fatto la scelta giusta: onestamente, non poteva dire di conoscere davvero Henry. Sapeva che Jacinda lo considerava un amico e si fidava di lui, ma lei non era esattamente il termine di paragone ideale, dato che si fidava di tutti. L’aveva fatto una volta di troppo e il risultato era stato una mocciosa di otto anni che ultimamente era costretta a sorbirsi troppo spesso. In ogni caso, Henry e Lucy non erano troppo lontani da lei, avrebbe potuto raggiungerli in qualsiasi momento. E Henry le aveva dato un tempo massimo. Inoltre aveva il suo numero e quello di Lucy (aveva sempre considerato una follia dare un cellulare ad una ragazzina della sua età ma forse, non era poi così fuori di testa, dopotutto) poteva chiamarli quando voleva. Avrebbe atteso la fine dell’ora che avevano concordato, poi, se non fossero tornati entro i successivi cinque minuti, avrebbe fatto squillare i loro telefoni senza pietà e, se nessuno dei due avesse risposto, avrebbe chiamato la polizia. Tranquillizzata da quella risoluzione, mise una sveglia sul cellulare, poi tornò a guardare le sue mail.
Nel frattempo, Henry e Lucy stavano esplorando la casa stregata: la bambina sembrava molto più rilassata e non faceva che trascinare il suo accompagnatore da un punto all’altro, senza sosta. Ed era eccitatissima perché, finalmente, con il costume completo, era riuscita a spaventare qualcuno. Henry non era in grado di starle dietro: era un vero vulcano e la prima metà del tempo era trascorsa con lui che la rincorreva. Poteva sentirsi vecchio a poco più di trent’anni? A quanto pareva, sì. O almeno, era fuori allenamento: Lucy stava mettendo a dura prova la sua resistenza. Ma doveva rimanerle appiccicato, o Ivy gli avrebbe cavato gli occhi. Non si era dimenticato il tono che aveva usato quando gli aveva chiesto di tenere d’occhio la nipote. E, ne era sicuro, a preoccuparla non era solo ciò che avrebbe potuto dire sua madre. Doveva esserci di mezzo qualcos’atro. Chissà se un giorno avrebbe scoperto di cosa si trattava. Lui invece, si era esposto più di quanto avesse mai fatto con chiunque. Non sapeva spiegarsi cosa gli fosse preso, forse aveva solo voluto che lei capisse che esistevano anche altri punti di vista. Ma probabilmente aveva esagerato e l’aveva messa in imbarazzo. Maledizione, era un vero idiota! Quando fossero usciti di lì si sarebbe scusato e magari, le avrebbe chiesto di dimenticarsi di quella storia. A proposito di chiedere…. Accelerò il passo, raggiungendo Lucy: gli era venuto in mente…
«Ehi, Lucy, aspetta! Devo chiederti una cosa». La bambina si voltò, regalandogli un sorriso che, con quel trucco, sembrava leggermente inquietante: Ivy aveva fatto decisamente un buon lavoro.
«Cosa c’è? Dai, vieni, abbiamo quasi finito il giro e quest’ultima parte deve essere fichissima!» esclamò, oltrepassando una serie di ragnatele e ragni che si calavano dal tetto. C’erano i tipici rumori che ci si poteva aspettare: l’ululato di un lupo, il fischio del vento, il tipico verso di un fantasma e la risata maligna di una strega. Più che spaventata, Lucy sembrava eccitata. Quella era una notevole differenza tra lei e Abigail, forse perché avevano anche due età diverse. Abby era scoppiata a piangere quando la risata della strega l’aveva spaventata e lui l’aveva stretta forte tra le braccia, assicurandole che lui non avrebbe permesso che le facessero del male. E poi… poi, solo qualche mese più tardi, era stato incapace di mantenere quella promessa. Scosse la testa: non ci doveva pensare, ora, doveva concentrarsi su Lucy e riportarla a sua zia sana e salva. E poi… ecco, avevano cominciato una discussione:
«Sono curioso. Ho visto che tu e tua zia non andate molto d’accordo. Come mai? Bisticciate sempre così quando state insieme?» Lucy mise il broncio:
«Dobbiamo proprio parlare di lei? Lei è cattiva, non mi piace stare con lei, ogni volta mi annoio. E oggi non voleva nemmeno portarmi qui, nonna l’ha dovuta costringere» Henry annuì: l’ultima parte corrispondeva a quello che gli aveva detto Ivy.
«Beh, da quanto ho capito, tua zia ha una visione un po’… distorta di questa festa, che non le permette di apprezzarla come si deve. Se poi litigate continuamente, capisco che nessuna delle due muoia dalla voglia di stare insieme un intero pomeriggio. Ma…» si interruppe, cercando di scegliere le parole giuste «…sai, Lucy, Ivy è pur sempre tua zia, è una parte della tua famiglia. E io sono sicuro che in fondo, vi vogliate bene. Lei deve essere di sicuro meno brusca, e questo è un fatto, ma tu… che ne dici se, quando usciamo di qui provi a coinvolgerla un po’? Da quando sono arrivato, le uniche volte che ti ho sentito rivolgerle la parola è stato per lamentarti. E sai, neanche io vorrei stare tutto il pomeriggio con una bambina lamentosa, specie se è qualcun altro a costringermi».
«Non sono una bambina lamentosa!» protestò Lucy indignata. Perché sbagliava sempre e solo lei? Veniva sempre rimproverata non era giusto!
«Infatti no, non lo sei» ammise Henry, nel tentativo di placarla, «ma con lei lo sei stata da quando vi ho incontrate. Non è stato piacevole, ascoltarti, te l’assicuro. E se l’avessi fatto con me, che non sono tuo parente e non sono costretto a stare con te, probabilmente me ne sarei andato e sarei tornato a casa. Ovviamente Ivy non può farlo, perché non è così irresponsabile da lasciarti da sola. E anche adesso, l’ha fatto solo perché c’ero io con te. E perché ha il mio numero di cellulare. Di sicuro se non avessi proposto io di darglielo, lei me lo avrebbe chiesto. È normale, sei sua nipote, si preoccupa per te». Lucy sbuffò: quel discorso non le piaceva, faceva sembrare Ivy una brava persona e lei non lo era.
«Lei si preoccupa solo di quello che penserebbe la nonna, non lo capisci? Le importa solo che la nonna la lasci in pace. E non è vero che mi vuole bene, lei non vuole bene a nessuno!». Henry sospirò: era inutile discutere, Lucy si era intestardita e non sarebbero state due parole a farle cambiare idea. Magari doveva solo crescere e imparare a guardare oltre le apparenze. E forse stava ad Ivy fare un primo passo e ammorbidirsi, dimostrando esplicitamente ciò che lui credeva di aver intuito durante la loro conversazione. Proprio in quel momento, il suo cellulare squillò: ecco, parli del diavolo… era già passata un’ora?
«Ehi, siamo ancora vivi. E abbiamo quasi finito, il tempo di tornare indietro e arriviamo. Ti passo Lucy? D’accordo, allora… tra poco siamo fuori» concluse riagganciando. Si voltò verso Lucy «Era tua zia, siamo in ritardo sull’orario che le avevo dato. Andiamo, forza, non facciamola preoccupare» la invitò, prendendola per mano. Mentre la conduceva fuori, Lucy mise nuovamente il broncio:
«Te l’ho detto, lei non si preoccupa! Non le importa di nulla, se non di quello che penserebbe la nonna». Henry scosse la testa: che razza di famiglia incasinata erano? Aveva sentito una nota di sincera preoccupazione nella voce di Ivy durante la chiamata e non voleva credere che fosse dovuta solo a ciò che gli altri avrebbero potuto pensare di lei. E cosa spingeva Lucy ad essere così convinta delle sue teorie? Varcò la soglia della casa stregata uscendo all’esterno e tenendo saldamente la mano della bambina. Ivy li aspettava non molto distante e andò subito loro incontro:
«Eccovi. Allora, ne è valsa la pena? Era davvero così magnifica questa casa stregata?» Henry le regalò un sorriso a cui lei istintivamente rispose e strinse leggermente la mano di Lucy spronandola in silenzio a seguire il suo precedente consiglio. La bambina annuì:
«Sì, moltissimo, c’erano un sacco di fantasmi, ragni, streghe…e tantissimi Jack o’ lantern appesi ovunque. E ho trovato altri bastoncini di zucchero. Ne porterò un po’ anche alla mamma». Lucy osservò l’espressione di Henry: andava bene? Era stata brava? Era questo che intendeva? Era tranquillo, non l’aveva guardata male, quindi doveva aver fatto bene.
«Ha ragione, sai, è stato divertente, saresti davvero dovuta venire con noi» Ivy strinse le labbra, scuotendo la testa:
«Fuori questione. Non sopporto le case stregate, mi mettono ansia, non ci entrerei nemmeno sotto tortura. Ecco perché non mi andava di portarcela». Tanto… quello sembrava il giorno delle confessioni, per lei ed Henry e quest’ultima non era stata poi così terribile… o almeno credeva… Henry la stava guardando come se avesse appena detto di venire da un altro pianeta. Sbuffò:
«Beh, che c’è? Mi è spuntata una seconda testa e non me ne sono accorta?»
«Ah… no… no, certo… è che… è tutto finto, sai, è un gioco…». Oh, fantastico, ora Henry la considerava una bambina fifona! Trattenne un ringhio:
«Ma davvero? Ci arrivo anch’io, grazie, non è quello il punto. Vuoi farmi credere che non è mai spuntato nulla dietro di voi? O non ci sono state grida improvvise? Io non sopporto gli agguati, mi sale l’ansia, d’accordo? E se volete considerarmi una bambina, fatelo, va bene? Non mi interessa!» Cavolo! Quella giornata andava sempre peggio! E ora ci si metteva anche Henry, l’unico che fino a quel momento era stato in grado di sollevarle l’umore con la sua sola presenza. Per fortuna erano già le 19, a breve Jacinda avrebbe finito il turno e avrebbe potuto riconsegnarle la sua ragazzina. Dopodiché sarebbe andata a seppellirsi in camera sua, tentando di dimenticare quella giornata. Afferrò bruscamente la nipote per mano:
«Forza, andiamo, ti riporto da tua madre, abbiamo un po’ di strada prima di arrivare da Cluck’s. Grazie della compagnia, Henry». Perfetto, ora aveva definitivamente bruciato ogni possibilità che lui le parlasse di nuovo… pazienza, sarebbe di certo sopravvissuta, aveva resistito a cose peggiori. Si mosse di buon passo… solo per essere bloccata da una mano adulta e una voce che credeva non avrebbe più sentito, almeno per quel giorno:
«Ivy, aspetta!» si voltò esasperata, incontrando gli occhi di Henry. Sembrava mortificato. Abbassò lo sguardo: perché diavolo non la lasciava in pace?
«Io… senti mi dispiace, oggi sono veramente un idiota, non ne faccio una giusta…» Ivy sospirò scuotendo la testa:
«Non importa. Ma ora dobbiamo proprio andare. Muoviti Lucy, su!» concluse liberando il braccio dalla sua presa e voltandogli le spalle, dirigendosi poi con la nipote verso la penultima tappa di quell’estenuante giornata. Henry le osservò allontanarsi per un po’ chiedendosi che diavolo avesse quel giorno in testa al posto del cervello: prima le aveva fatto la predica, raccontandole cose personali a cui magari, lei non era neanche interessata; poi l’aveva presa in giro, trattandola come una bambina. Non c’era da stupirsi che non avesse voglia di continuare a passare il suo tempo con lui. Eppure, si rese conto che avrebbe almeno dovuto insistere: si era fatta notte, non era sicuro lasciare una ragazza e una bambina da sole in una città grande come Seattle.
«Sei un deficiente, Mills» si insultò, dirigendosi da Roni: almeno lì non avrebbe fatto altri danni.
Un’ora dopo, Ivy aveva da tempo portato a termine la sua missione e riaccompagnato Lucy da sua sorella, dopodiché aveva girato i tacchi: per quel giorno, aveva chiuso con quella responsabilità. Ora sarebbe toccato a Jacinda occuparsene, lei voleva solo andare a casa, buttarsi a letto e dormire fino alla mattina successiva. E che tutti quanti se ne andassero al diavolo, Henry compreso. Guardava distrattamente le insegne dei locali intorno a lei, procedendo nella direzione che le avrebbe permesso di tornare a casa. Sbuffò: in realtà non aveva voglia nemmeno di tornare a casa, non voleva vedere sua madre, non voleva vedere nessuno, voleva solo starsene per conto suo. Da anni ad Halloween tendeva ad evitare i vicoli frequentati da ragazzini mascherati, preferendo feste riservate esclusivamente agli adulti. Era per quello che aveva desiderato così ardentemente partecipare al ballo in maschera, ma ormai non era più dell’umore. E poi, cosa ci sarebbe andata a fare? Lucy aveva ragione: nessuno l’aveva invitata, sarebbe stata lì a fare la bella statuina e ad annoiarsi a morte. L’ultima persona che le aveva voluto bene se ne era andata anni prima senza più fare ritorno. Maledizione! Ricacciò indietro le lacrime che sembravano intenzionate a sgorgare dai suoi occhi. Non avrebbe pianto, non si sarebbe commiserata, doveva solo andare a casa e… I suoi occhi trovarono l’insegna familiare del bar di Roni. Forse poteva aspettare ancora a rincasare. Magari le avrebbe fatto bene bere qualcosa, forse si sarebbe perfino ubriacata. Sì, decise, quella poteva essere una buona soluzione. Si sarebbe stordita d’alcol fino a non connettere più, fino ad avere difficoltà a tornare a casa. In fondo, a chi mai sarebbe importato se le fosse accaduto qualcosa? Proprio mentre raggiungeva la soglia del locale designato e si accingeva a varcarla, il suo telefono segnalò l’arrivo di un nuovo messaggio. E adesso chi diavolo era?! Doveva almeno verificare che non fosse nulla di importante. Estrasse il cellulare, facendo illuminare il display e osservando il nome di Henry invadere lo schermo. Sospirò: che diavolo voleva ancora? Aprì il messaggio, intenzionata a dargli solo un’occhiata veloce e poi cestinarlo. Il testo che comparve sotto i suoi occhi, però le fece cambiare idea. Erano solo poche parole, ma erano quelle giuste. Mi dispiace tanto. Sono stato un idiota. Perdonami. E, per favore, dimentica tutto quello che ho detto. Cavolo! Perché quell’uomo aveva il potere di farle cambiare umore in quel modo? Quelle parole erano state come un balsamo sulle ferite che lui stesso aveva contribuito a riaprire. Mentre fissava il telefono, incerta se rispondergli o meno, un altro messaggio si aggiunse al precedente, dallo stesso mittente. E per favore, quando arrivi a casa fammi uno squillo, non farmi preoccupare: non mi piace saperti in giro da sola di notte. Ivy si bloccò; doveva offendersi di nuovo? Henry non la riteneva in grado di cavarsela da sola? O magari le fece notare la parte posteriore della sua mente è semplicemente preoccupato come lo sarebbe per un’amica. E questo non è affatto terribile. Proprio in quel momento, si alzò un vento freddo che la fece rabbrividire: ormai erano in autunno inoltrato, forse non era più il caso di andare in giro in minigonna e giacca a mezze maniche… Rivolse una nuova occhiata al bar di Roni, decidendosi ad entrare: almeno si sarebbe scaldata.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Halloween ***


Ed eccomi qui a postare il secondo capitolo di questa long che all’inizio non era nemmeno prevista (dovevo scrivere un’altra fanfiction, ambientata prevalentemente nella Foresta Incantata… se la state cercando, no, ancora non l’ho postata xd) e di cui invece, prima ho sviluppato la trama, poi i personaggi e sempre più dettagli rendendomi conto di avere così tanto materiale che sarebbe stato un delitto non lavorarci. Ho idee perfino per il seguito già, fate un po’ voi…. Spero che a voi piaccia leggerla quanto sta piacendo a me scriverla. Un po’ di spiegazioni relative al capitolo precedente e alla storia in generale, che serviranno anche per il capitolo successivo a questo:
  • La petizione a cui accennano Henry e Ivy quasi all’inizio della loro interazione è presente nell’episodio 7x03 ed è stata promossa da Lucy, che ha coinvolto Jacinda per salvare dalla distruzione un parco che amava. Nell’episodio ci sono altri dettagli e riferimenti alla magia, ma in questa storia non ci interessano.
  • H Town è il blog che Henry usa per farsi conoscere e mettere in atto il piano contro Victoria
  • Nel 7x01, Victoria, dopo aver trovato Jacinda al bar, le dice una cosa tipo “Sei qui a bere, è così che è arrivata Lucy”: di nuovo, nella serie ovviamente sono solo cattiverie e cose inventate, nella mia storia è avvenuto esattamente così e avrete il racconto a tempo debito
  • Nel 7x08, idem, Jacinda dice ad Henry “Ho ceduto per iscritto la mia potestà genitoriale”: nella serie l’ha fatto sostanzialmente perché Victoria è brutta e cattiva e  le ha fatto credere di non essere in grado di occuparsi della bambina. Ma la mia storia non è la serie e le motivazioni che qui l’hanno spinta a questa scelta saranno chiaramente spiegate.  
Dopo questo eterno papiro, vi auguro buona lettura!
 
Henry era entrato da Roni da quasi un’ora e, in tutto quel tempo, le sue uniche occupazioni erano state ordinare una birra scura (una a caso, la prima che gli era venuta in mente), mandare un messaggio, anzi due, ad Ivy e fissare insistentemente il cellulare in attesa di una risposta che tardava ad arrivare. Cominciava a preoccuparsi: perché non gli faceva almeno uno squillo? Anche senza parlargli, giusto per fargli sapere che era tutto a posto. D’accordo, lui era stato pessimo e magari lei era ancora arrabbiata…forse non aveva neanche letto quello che le aveva scritto. No, aspetta… ragiona Mills si impose. Che lei avesse letto i suoi messaggi era praticamente certo, gli risultavano entrambi visualizzati. Magari li aveva solo scorsi senza realmente leggerli? O non aveva intenzione di parlargli? Sospirò, scuotendo la testa e alzando il viso. Proprio in quel momento,Ivyattraversò la porta del locale dissipando in parte le sue preoccupazioni: non era ancora arrivata a casa, ma stava bene. E se non aveva più con sé Lucy, significava che l’aveva riportata a sua madre. Più tranquillo, Henry decise di non muoversi dal suo tavolo: se non gli aveva risposto, forse non aveva voglia di sentirlo. Forse la cosa migliore sarebbe stata lasciarla in pace, almeno per quella sera.
Ivy, intanto, si era avvicinata al bancone, valutando le bottiglie esposte: voleva una birra, ma possibilmente di una marca decente… e magari un posto appartato, dove nessuno sarebbe venuto a rivolgerle la parola. Individuò facilmente la bottiglia che voleva e se la fece passare insieme ad un bicchiere, poi cominciò a guardarsi intorno, alla ricerca di un angolo libero. Un’occhiata veloce, le rivelò che la maggior parte dei tavoli era stata già occupata. Sospirò cercando più attentamente: possibile che non ci fosse un minimo posto? In quell’esatto momento, i suoi occhi si soffermarono sulla figura di Henry, seduto da solo ad un tavolo. Anche lui l’aveva vista, non aveva dubbi: la stava fissando, ma non accennava ad alzarsi o fare alcunché. Ivy intuì che le stava lasciando la scelta: avrebbe tranquillamente potuto girarsi dall’altra parte e fare finta di nulla. Strinse la bottiglia tra le mani, sospirando: doveva darci un taglio. Lui si era scusato, lei credeva davvero che fosse sincero e quindi non aveva senso continuare a fare l’offesa. Quella strana era lei, non era giusto che lui subisse le sue paranoie: non era suo fratello né il suo ragazzo. A dire il vero, non erano neanche amici, non davvero e, se avesse continuato a comportarsi in quel modo, c’erano scarse possibilità che lo diventassero. Affondò i denti nell’interno del labbro inferiore e si avvicinò al suo tavolo.
«È libero questo posto?»
Henry, che non aveva smesso di fissarla, annuì.«Certo, accomodati» la invitò, osservandola sedersi di fronte a lui. A quanto pareva, aveva deciso di parlargli di nuovo quella sera. Ora doveva stare attento a non fare altre cazzate. Buttò giù d’un fiato l’ultimo sorso di birra che gli era rimasto nel bicchiere, giusto per fare qualcosa e magari, per darsi un po’ di coraggio, mentre cercava il modo giusto per cominciare il discorso. E dire che era perfino uno scrittore! Anche Ivy era rimasta in silenzio, aveva poggiato la sua birra di fronte a lei e ora lo fissava. O meglio, fissava la sua bottiglia: davvero era così disperato? Quella era la marca più scadente che ci fosse in circolazione! Aprì la bocca per parlare, ma si trattenne: se l’avesse fatto avrebbero discusso di nuovo ed era l’ultima cosa che voleva. E non era lì per discutere dei suoi gusti in fatto di alcolici.
«Ho… ricevuto i tuoi messaggi. È tutto a posto, davvero, non ce l’ho con te. È solo che… oggi scatto per ogni minima sciocchezza e tu ci sei andato di mezzo. In realtà… dovrei essere io a chiederti scusa, sono stata davvero acida, anche con te, tutto il pomeriggio».
Henry scosse la testa e, senza riflettere, posò una mano su quella di lei. Ivy non si ritrasse.
«Facciamo che siamo pari? Entrambi ci abbiamo messo del nostro. Nemmeno io sono stato un santo, certe uscite potevo risparmiarmele e… non avrei dovuto parlare di Abigail è stato… fuori luogo».
Forse poteva esserlo per qualcun altro, rifletté Ivy, non per lei. Sapeva bene cosa significasse una perdita del genere e quanto potesse essere devastante.
«No. Non è vero, anzi. Mi hai schiarito il cervello, mi hai aiutato a vedere quali sono le vere priorità. E soprattutto mi hai dato un altro punto di vista: finora ho sempre creduto che il mio fosse l’unico modo giusto e soprattutto possibile di vedere le cose, ma mi sbagliavo. E… se vuoi… puoi parlarne… sai di quella bambina… di Abigail… se parlarne ti fa stare meglio, devi farlo. Io… non sono brava coi consigli o con le parole, ma… posso ascoltarti, se vuoi…». Mosse la mano sotto quella di Henry, intrecciando delicatamente le dita con le sue. Tra loro calò un confortevole silenzio, rotto soltanto dalle voci in sottofondo degli altri avventori e dalla musica.
Henry le regalò un piccolo sorriso. «Grazie. Approfitterò dell’offerta un giorno, forse. E magari, tu mi dirai qual è il vero motivo per cui eri così in ansia, oggi. Ho visto la tua espressione quando mi hai chiesto di stare attento a Lucy. Non può essere solo perché tua madre ti sfinirebbe l’esistenza, ci dev’essere qualcos’altro. Ma non voglio sapere niente, ora. Me lo racconterai se e quando ne avrai voglia».
Un’ombra era passata negli occhi di Ivy, subito scacciata dalle ultime parole del giovane scrittore. La ragazza gli sorrise, sentendosi di colpo più leggera: «Sembra che abbiamo un patto. Mi piace. D’accordo: ti racconterò le mie paturnie quando tu mi racconterai le tue. A proposito di patti e di accordi…» continuò riportando alla memoria un momento precedente a cui, inizialmente, non aveva dato troppo peso «non dovevi mandarmi le foto di mia nipote?». Aveva intenzionalmente cambiato discorso, era stanca di parlare di cose tristi.
Henry la seguì a ruota, schioccando le dita. «Giusto, hai ragione! Me ne stavo dimenticando, aspetta…» afferrò il cellulare, controllando la galleria e selezionando le foto che gli interessavano, che poi inserì in un messaggio destinato a lei. Mentre attendevano che le immagini passassero da un telefono all’altro, entrambi lasciarono che i loro pensieri fluissero in libertà; Ivy si versò un po’ di birra, rimasta ancora intatta di fronte a lei e assaporandola lentamente.
Fu di nuovo Henry, poco dopo, a rompere il silenzio. «Quindi, pensavo… ora siamo… amici, giusto?»
Ivy lo guardò sorpresa: oh. Non aveva cercato una definizione, non aveva neanche pensato di doverlo fare, ma… «Direi di sì. Ci siamo chiariti, abbiamo fatto pace… insomma… siamo a posto, credo».
Henry la guardò mentre una nuova idea prendeva forma nel suo cervello: no che non lo erano. Ed era colpa sua. «In realtà… ci sarebbe una cosa che dovresti sapere. Vedi, da quando ho messo piede in questo quartiere quello che mi è subito stato evidente è come tua madre volesse avere il controllo su tutto e tutti. Ha cercato perfino di comprare questo locale. Scusa se sono così schietto, ma proprio non sopporto questo genere di persone. Ecco perché è nata la petizione di cui parlavamo oggi pomeriggio. Ed ecco perché io, Roni e il detective Rogers, stiamo cercando informazioni su tua madre». Si bloccò, attendendo la sua reazione: si sarebbe arrabbiata? Non avrebbe avuto tutti i torti, avrebbe potuto perfino pensare… Dio, perché era così idiota? Sospirò profondamente, alla ricerca delle parole giuste per spiegare quali fossero i loro obiettivi e i mezzi che intendevano usare per raggiungerli, ma, prima ancora che potesse aprire bocca, Ivy intervenne.
«Che genere di informazioni?»
Henry la guardò: non sembrava arrabbiata, nemmeno sconvolta. Gli aveva posto quella domanda con il tono di chi parla di argomenti di ordinaria amministrazione. Decise di rischiare: si sarebbe esposto e le avrebbe raccontato tutto. E se Roni e Rogers non fossero stati d’accordo, pazienza, se ne sarebbe assunto la responsabilità, era sufficientemente adulto da poter prendere da solo le sue decisioni.
«A dire il vero non lo sappiamo neanche noi. Ci andrebbe bene qualsiasi cosa purché serva a metterle un freno. So che non è una cosa carina da dire, tantomeno a te che sei sua figlia, ma…»
Ivy liberò delicatamente la mano dalla sua, muovendola poi con noncuranza e usandola per portarsi di nuovo il bicchiere alle labbra. «Lascia perdere. Avete ragione. Tutti in famiglia dovremmo rivedere le nostre priorità. E mia madre… lei è cambiata totalmente da quando mio padre è morto e soprattutto da quando… Niente, lascia stare… Avevamo detto niente cose tristi, giusto?»
Non le andava ancora di parlargli di quello, era troppo presto. Magari l’avrebbe fatto tra qualche tempo, se avessero continuato ad essere amici. Riprese. «Sono diversi anni che io e mia madre non andiamo più d’accordo per vari motivi che non mi va di stare a spiegare… diciamo che, probabilmente è colpa di entrambe. Siamo al punto che lei mi odia e io… cerco solo di fare di tutto per renderla felice… ma non è abbastanza e non lo sarà mai. Comincia ad essere logorante. Forse dovrei davvero darvi una mano: magari così riuscirei finalmente a staccarmi da lei e quello che pensa non sarebbe più così importante. Cavolo! Sono pessima… non riesco proprio a non essere deprimente, stasera».
Henry scosse la testa e le riprese la mano. «Non importa. Sono felice che stiamo parlando. Mi sembra di aver imparato qualcosa di nuovo su di te e di conoscerti un po’ meglio. E vale per te quello che hai detto a me: se parlare ti fa stare meglio, puoi sfogarti con me ogni volta che ne hai bisogno».
Fu il turno di Ivy di sorridergli: nonostante i presupposti infausti, quella sera non era andata poi così male. Il suo cellulare squillò proprio in quel momento, segnalando che tutte le foto erano arrivate: lo prese in mano, scorrendole velocemente. «Ma quante gliene hai fatte? Mi hai intasato il telefono!» esclamò divertita.
Henry sorrise: «Ha letteralmente adorato la casa stregata, non faceva che passare da un punto all’altro, non riuscivo quasi a starle dietro. Saresti dovuta venire anche tu, ti saresti divertita».
Ivy rabbrividì. «Non credo. Te l’ho detto, non sopporto quel genere di attrazioni, mi mettono ansia…».
Henry annuì.«Questo l’ho capito. Ma... non saresti stata da sola, ci saremmo stati io e Lucy con te. Potevamo proteggerti dai mostri cattivi che spuntano all’improvviso».
Ivy non trattenne un nuovo sorriso immaginandolo con il mantello e la spada tipici dei cavalieri di un tempo. «Tu forse. Sembri il classico cavaliere senza macchia e senza paura delle favole. Lucy… non credo. Hai visto, non siamo particolarmente amiche. Probabilmente è soprattutto colpa mia, dovrei cercare di essere un po’ meno acida… ma è più forte di me. Non dipende nemmeno da lei è che… non voglio bambini tra i piedi, non voglio responsabilità simili, non sono brava con loro».
Henry annuì. «Magari cambierai idea più avanti, chi può dirlo. Prenditi il tempo che ti serve. Come ho detto a Lucy oggi pomeriggio, sono sicuro che in fondo vi vogliate bene, dovete solo smettere di negarlo a voi stesse».
Ivy gli rivolse una smorfia:«Quanta saggezza… sei sempre così o è quella birra terribile? Perché deve esserci un altro motivo se hai scelto proprio quella: è la più amara e la peggiore in circolazione. Ti aiuta a risvegliare i neuroni?» lo canzonò.
Henry osservò la bottiglia di sbieco, facendo spallucce. «Avevo voglia di una birra, ne ho presa una a caso, non sono stato tanto a pensarci. Tu invece ti tratti bene, so che questa marca è una delle migliori in commercio, anche se, personalmente, non l’ho mai provata. Mi è sempre sembrato un inutile spreco di denaro. Si possono trovare buone alternative anche con cifre minori». Ivy lo guardò oltraggiata: aveva smesso di ascoltare dopo che aveva ammesso di non averla mai provata. Era uno scherzo, vero? Si portò platealmente la mano al petto: «Vuoi farmi morire? Non l’hai mai provata? Dobbiamo rimediare assolutamente!» esclamò, afferrando la bottiglia e versando parte del contenuto nel bicchiere dell’uomo. Ne mise un dito anche nel suo bicchiere, poi lo sollevò, facendo per avvicinarlo alle labbra.
Henry sollevò una mano: gli era venuto in mente… «Aspetta. A questo punto ci vuole un brindisi. Direi che ne abbiamo di motivi, no?»
Ivy annuì, avvicinando il bicchiere a quello di lui e riflettendo solo qualche istante. «Uhm… a una nuova amicizia?»
Henry fece tintinnare il bicchiere contro il suo approvando la sua proposta e assaporando la birra che lei gli aveva offerto.
«Hai ragione, è davvero buona. Magari ogni tanto potrei concedermene una, ma non troppo spesso… sono pur sempre un povero tassista squattrinato che passa il tempo libero a tentare di scrivere libri»
«E la mia famiglia invece ha i soldi che le escono dalle orecchie. Vorrà dire che queste le offro io, non vorrei mai essere responsabile della tua rovina economica» celiò la ragazza, ormai rilassata.
Henry la guardò male.«Non ci provare. Non mi hai permesso neanche di offrirti un caffè, oggi pomeriggio, il minimo è che lasci pagare me. Non vorrai mica discutere per questo, vero?».
Sembrava tenerci davvero. Ivy scosse la testa: chi avrebbe mai pensato di incontrare l’ultimo esemplare di cavaliere esistente al mondo?
«D’accordo, d’accordo, non mi permetterei mai di offenderti così». Risero insieme e proprio in quel momento, il cellulare di Ivy squillò. La ragazza gli rivolse un’occhiata rapida e sbuffò vedendo apparire il nome di Victoria sul display. «È mia madre… vorrà sapere perché sono in ritardo a cena e che fine ha fatto Lucy. Non ho proprio voglia di sorbirmi una predica…. In effetti ero venuta qui per evitarla il più a lungo possibile…»
Henry non commentò: dopo quello che lei gli aveva raccontato non era certo di essere in grado di trovare qualcosa di appropriato. Poi un pensiero si affacciò alla sua mente. «Un momento… vuoi dire che, pur di evitarla, stai… saltando la cena?»
Ivy si strinse nelle spalle. «Non è un grosso problema, non ho particolarmente fame, mangerò qualcosa più tardi».
Henry strinse le labbra. «Sai una cosa? Non ho ancora cenato neanche io. Che ne dici se paghiamo qui e poi andiamo a cercare un locale che non sia ancora stato preso d’assalto?».
Ivy scosse la testa: «Non penso sia una buona idea… ci ho provato più di una volta, ma, esclusi i ristoranti, non ci sono molti locali che servono ciò che mangio abitualmente… infatti di solito me lo preparo da sola. Normalmente opto per verdure cotte, carne bianca con un po’ d’olio… tutti i ristoratori mi odiano, sono il loro incubo. Finirei per guardare te, o ti farei girare a vuoto finché non trovassimo un locale che vada bene ad entrambi».
Per la seconda volta quel giorno, Henry la fissò come se avesse appena detto di essere un marziano sotto mentite spoglie. «Cioè… sei a dieta?» Al suo cenno di assenso, lo scrittore non poté evitare di roteare gli occhi. «Ivy è… folle. Voglio dire… non ne hai bisogno, stai benissimo così. Chi ti ha messo in testa che devi stare a dieta? No,aspetta, non me lo dire… indovino… tua madre».
Il silenzio di lei fu più eloquente di qualsiasi altra risposta. Henry non riusciva davvero a crederci: la Belfrey doveva trovarsi un hobby che non contemplasse l’intromettersi nella vita altrui perché le sue interferenze erano dannose.
«Beh, è una stronzata. Facciamo una cosa, allora: non stiamo in questa zona. Usciamo da questo quartiere, cambiamo, ci stai? Mi sono appena ricordato che c’è una festa a Madison Park: possiamo trovare un locale da quelle parti e poi andare, o mangiare direttamente lì. Non servono inviti, le maschere non sono obbligatorie, chiunque può andare. E se volessi mascherarti e per qualche motivo non potessi farlo, ti mettono a disposizione vestiti da pendere in prestito e poi riconsegnare a fine serata. E potrai fare una deroga alla tua dieta senza temere che nessuno ti giudichi, perché nessuno ci conoscerà. Che ne dici? Ti va di venire con me? Pensaci, finché vado a pagare». Ivy lo osservò districarsi tra la gente e guadagnare il bancone: non aveva bisogno di pensarci, sapeva di aver voglia di passare ancora del tempo con lui. E così facendo avrebbe ulteriormente ritardato il momento del confronto con sua madre. Però… però fuori non era esattamente caldo, forse sarebbe stato meglio passare a casa e prendere almeno una giacca a maniche lunghe? Scosse la testa: avrebbe resistito. E poi, Henry aveva detto che si potevano noleggiare costumi. Magari ne avrebbe scelto uno che le coprisse le braccia.
Quando tornò, aveva mandato un messaggio veloce a sua madre, informandola che Lucy era con Jacinda e che lei non sarebbe tornata per cena, poi guardò Henry, comunicandogli la sua decisione: «D’accordo. Vediamo questa festa».
Henry si concesse un sorriso vittorioso, poi la guidò fuori dal locale, verso la sua macchina. Nonostante le strade relativamente libere, ci volle più di mezz’ora per raggiungere la loro destinazione. Era un po’ distante, ma non se ne erano davvero accorti: avevano trascorso il viaggio ascoltando musica e parlando di qualsiasi cosa venisse loro in mente. Alla fine, Ivy aveva scoperto che lui da piccolo avrebbe voluto fare il cantante, ma era talmente stonato che non lo avevano accettato neanche nel coro della sua parrocchia, quindi aveva ripiegato sulla scrittura, che odiava gli spinaci e tutte le verdure verdi che dovevano essere cotte – sacrilego! - che amava la musica New wave, in particolare i New Order e Adam Ant.  Henry aveva appreso che lei, invece, prediligeva la musica pop, che il suo cantante preferito era Marc Anthony, che avrebbe voluto frequentare il college e studiare materie umanistiche ma sua madre si era rifiutata categoricamente facendola entrare come stagista alle Belfrey Industries a soli diciotto anni e che sognava di fare una vacanza in Australia. Giunti a destinazione, notarono già un consistente numero di persone, la maggior parte delle quali mascherate. Insieme si diressero nel punto in cui uno zombie e una strega in calze a rete sembravano smistare la folla. Non c’era molta fila e arrivarono presto davanti. La ragazza li condusse in una casa lì accanto, al cui primo piano erano stati allestiti dei camerini e una serie di appendiabiti contenenti costumi di vario genere, dai più semplici ai più fantasiosi. C’erano anche maschere per il viso e parrucche. Ivy non sapeva dove guardare: le sembrava di essere tornata bambina, era tutto fantastico! Henry la guardava divertito: era la prima volta, da quando si erano incontrati quel giorno, che le vedeva in volto una simile espressione. Si riempì di orgoglio, fiero di aver conseguito un simile risultato, quindi decise che era arrivato anche per lui il momento di cercare qualcosa da mettere. Ma in quella stanza c’erano solo vestiti femminili e da bambina. Individuò un cartello che gli diede la soluzione: doveva andare alla porta accanto. Si avvicinò ad Ivy e le toccò una spalla, avvisandola del suo spostamento. La ragazza annuì, per poi tornare a dedicarsi alla sua ricerca: mezz’ora dopo ne era venuta a capo, soddisfatta e stava cercando un camerino in cui poter indossare ciò che aveva scelto. Le ci volle un po’, aveva scelto un costume un po’complesso, ma lo amava: c’erano anche il cappello ed una sfera magica. Nel frattempo, anche Henry si stava dedicando alla ricerca: aveva esaminato diversi capi, ma non era riuscito a trovare niente che lo convincesse. Stava quasi per desistere, quando i suoi occhi si soffermarono su un costume all’apparenza normalissimo: pantaloni, camicia, gilet e mantello con l’interno rosso sangue. Niente di particolare, se non fosse stato per i due affilati canini che erano sistemati all’interno della scatola. Sì, quello era ciò che faceva al caso suo. Togliendoli sarebbe sembrato una persona normale, forse non proprio il cavaliere cui lei aveva alluso in precedenza (gli mancavano una spada e un’armatura serie) ma ci sarebbe andato molto vicino. E mettendoli sarebbe entrato nello spirito della festa, che celebrava streghe e creature della notte. Soddisfatto, si apprestò ad indossarlo, dopodiché si recò nella stanza in cui aveva lasciato Ivy. La cercò con gli occhi senza riuscire ad individuarla: dov’era finita? Controllò il cellulare, per assicurarsi di non essersi perso un messaggio, ma non c’era nulla. Doveva preoccuparsi? Prima che potesse anche solo deciderlo, un movimento proveniente da uno dei camerini lo distrasse. Una ragazza stava uscendo proprio in quel momento: aveva un lungo vestito viola, sicuramente da strega, con la scollatura quadrata, un cappello a punta e un bastone a cui era attaccata una sfera viola. Aveva lunghi capelli castani che le scendevano oltre le spalle, raccolti in una coda bassa. E si stava avvicinando.
«Vlad Tepes in persona! Devo cominciare a tremare?»
Henry sorrise, riuscendo finalmente a dare un nome alla ragazza: «Ivy! Non ti avevo riconosciuta, mi ha fregato la parrucca».
La ragazza sorrise, facendo un giro su se stessa: «Non mi vedrai MAI mettere cerone colorato, ci tengo alla mia pelle… ma ci sono così tante streghe che non è davvero un problema. Io, ad esempio, ho deciso che fingerò di essere Nimue, una strega potentissima e vero amore di mago Merlino. Sai…» proseguì, senza rendersi conto di essersi fatta prendere dal racconto «… inizialmente, lei non era che una semplice umana innamorata di Merlino ma, in seguito all’inizio della loro storia e alla morte della sua famiglia sviluppò una vera e propria ossessione per l’immortalità, desiderando stare per sempre vicina all’uomo che amava. Raggiunse il suo scopo quando un giorno, bevve dal Sacro Graal, un vaso che concedeva l’immortalità. A quel punto cercò l’assassino della sua famiglia per vendicare la loro morte e, non appena l’ebbe in pugno gli strappò letteralmente il cuore e poi lo distrusse con le sue mani, diventando la prima Signora Oscura di cui Camelot e ogni altro regno conosciuto avesse mai avuto memoria… che c’è?»si interruppe, vedendo Henry sorridere apertamente.
«Beh?» lo incalzò, mettendo le mani sui fianchi notando che non le aveva ancora risposto.
Henry scosse la testa, poi respirò profondamente, tentando di contenere l’ilarità. «Niente, è che… tu eri quella a cui non piacevano i bambini… e mi hai appena raccontato una favola!».
Ivy sbuffò, incrociando le braccia sotto il seno: «Cosa c’entra? E poi questa non è una favola, è una delle leggende del ciclo bretone. Ho un sacco di libri sull’argomento e mi sono vista qualsiasi film Adoro First Knight e Richard Gere è veramente figo. E non osare ridere di nuovo, o ti trasformerò in un rospo col mio bastone magico!» lo minacciò scherzosamente.
Henry alzò le mani in segno di resa. «Promesso, sarò buonissimo, lo giuro. Piuttosto… di tutte le streghe, come mai hai scelto proprio lei? Perché non Morgana, ad esempio? O che ne so, la strega di Biancaneve…».
La giovane non aveva bisogno di pensare ad una risposta, era già tutto molto chiaro nella sua mente. «Le favole non mi interessano, sono troppo schematiche: ogni personaggio è solo bianco o nero, mentre quelli di queste leggende sono più sfaccettati e interessanti. E poi… innanzi tutto, lei non è un personaggio molto trattato, nelle varie storie e mi ha sempre affascinato. E questa particolare versione della sua storia è così triste… in pratica, è stata portata a diventare cattiva da tutto quello che le è successo. Neanche l’amore di Merlino ha potuto salvarla ed è proprio questo che mi ha colpito: è la prova che esistono davvero dolori talmente grandi che nulla può cancellare».
Henry la prese per mano. «Però, avevamo detto che per stasera avremmo messo al bando la tristezza, se non ricordo male. Dai, vieni strega, usciamo» la incitò tirandola con sé prima verso il guardaroba, dove lasciarono i vestiti con cui erano arrivati in cambio di un cartellino numerato e poi verso l’uscita. Nel frattempo, molta altra gente era arrivata e il posto si era riempito quasi per metà. Ormai entrati nello spirito della festa, Henry e Ivy si guardarono intorno notando ciò che all’inizio non avevano considerato: c’era un vasto buffet con piatti di ogni genere, rivisitati per essere in linea con la festa e cocktail di ogni tipo, serviti diligentemente da baristi vestiti da zombie. Henry le strinse la mano tentando, nel contempo, di aver ragione della folla.
«Non mi mollare. Con questo casino, se ci separiamo siamo finiti: non sentirò mai il telefono squillare e finiremmo per girare a vuoto come due idioti e rovinarci la serata. E adesso… diamo il via all’Operazione Cena! Vieni con me!» la esortò trascinandola verso il buffet, mentre lei liberava l’ennesima risata di quella serata. «Operazione Cena?»
Henry annuì, serissimo. «Già. Non so tu, ma io, se non mangio qualcosa entro i prossimi dieci minuti, svengo. E tu mangerai con me, o digiunerò anch’io e sarai responsabile del mio malessere. E ti toccherà chiamare un taxi per tornare a casa… la sera di Halloween… quando tra ferie e richieste che aumentano in maniera esponenziale è quasi impossibile trovarne uno…».
Ivy alzò gli occhi al cielo. «Va bene, va bene, ho capito: mi hai convinta. Troviamo un tavolo che non sia pieno di gente e prometto di mangiare. Sei davvero tremendo. È così che mantieni i followers di “H-Town”? Lì ricatti e li sfinisci di chiacchiere finché non ti mettono un like?».
Henry, inizialmente risentito, decise di sorvolare: per quanto intrisa di sarcasmo e pensata al solo scopo di farlo irritare, quella domanda aveva un’altra implicazione a cui, forse, Ivy non aveva dato peso.
«Quindi segui il mio blog? O almeno l’hai letto anche tu…che ne pensi?».
Ivy si bloccò per un istante a bocca aperta: cavolo! L’aveva fregata! Non era da lei farsi trovare impreparata. Boccheggiò, aprendo e chiudendo la bocca un paio di volte, finché il suo cervello non riuscì ad elaborare una risposta soddisfacente. «Ne parlano tutti, sai, anche in ufficio. Così mi sono incuriosita e ci ho dato un’occhiata veloce, ma nulla di più. Non montarti la testa». Figurarsi! Si era già gasato solo perché aveva ammesso di conoscere il suo blog, se gli avesse confermato di non perdersi neanche un post (come in effetti era) chissà cosa sarebbe potuto arrivare a credere!
Henry scosse la testa: era davvero tremenda! Si assicurava, la maggior parte delle volte, di farlo volare basso, senza rendersi conto che a lui non interessava raggiungere vette iperioniche e che quelle ammissioni velate nascoste nelle sue prese in giro (il fatto che tutti i suoi dipendenti ne parlassero, che lei fosse stata abbastanza incuriosita da dedicare del tempo a leggere qualcosa di suo, che se ne ricordasse senza che lui avesse mai avuto bisogno di parlarne) erano già una vittoria sufficiente, specie perché venivano da lei, sempre così restia a dargli la minima soddisfazione. Nel frattempo, avevano raggiunto uno dei tavoli: Henry afferrò un piatto riempiendolo con le prime cose che gli capitavano sotto mano osservando divertito la sua nuova amica procedere al rallentatore: prima aveva preso un piatto, poi aveva esaminato tutte le posate rimaste, dopodiché si era messa ad analizzare ogni singola portata, certamente cercando di stabilire quale tra le tante le avrebbe consentito di non derogare eccessivamente al suo regime alimentare. Doveva ridere o piangere? Attese qualche istante poi, scuotendo la testa, si impossessò del piatto di Ivy, riempiendolo con le stesse cose che aveva scelto per sé. La giovane, inizialmente sorpresa, gli rivolse poi uno sguardo terribile: se gli occhi avessero potuto uccidere, Henry Mills sarebbe stramazzato al suo in quell’esatto momento.
«Oh, andiamo, non guardarmi così! Quante calorie vuoi che abbia questa roba! E poi ci muoveremo, non staremo immobili qui, prometto che smaltirai tutto. Comunque, resto dell’idea che tu non abbia bisogno di alcuna dieta».
Ivy sospirò:«D’accordo, hai ragione. Mi hai portato ad una festa, mi stai salvando dall’affrontare mia madre e hai trascorso tutto il pomeriggio con Lucy e me quando avresti potuto benissimo fare altro. Ti devo almeno di non farti saltare la cena». Si era finalmente convinta e da quel momento la serata trascorse senza ulteriori intoppi. Continuarono a parlare di musica, di H-Town, di come Henry avesse scoperto la passione per la lettura prima e per la scrittura poi grazie ad una delle sue insegnanti. Ad un certo punto, la musica che avevano sentito in sottofondo fin dal loro arrivo, cambiò genere diventando più lenta, quasi una ninna nanna. Ivy chiuse gli occhi istintivamente: amava quella canzone da sempre. E aveva addosso una tale voglia di…  Si sentì prendere per mano e riaprì gli occhi, incrociando lo sguardo di Henry.
«Vuoi ballare, lady Nimue?».
Non poté fare a meno di sorridergli: cos’aveva fatto di così bello per meritare un amico come lui?
«Ne sarei lusingata, lord Tepes» rispose facendo una riverenza e lasciando che lui la guidasse seguendo la melodia della canzone. Il tempo trascorse rapidissimo: la musica si concluse presto e, dopo quell’unica canzone, nessuno dei due ebbe di nuovo il desiderio d ballare. Continuarono a girare per la festa ridendo e scherzando, scattando foto a se stessi o ad altre maschere che li avevano colpiti. Riuscirono a chiedere ad un tizio che incrociarono per caso di scattare una foto ad entrambi ed Henry si posizionò dietro di lei, tenendola per i fianchi e fingendo di morderla con i suoi pericolosissimi denti da vampiro. Ivy rideva di cuore: non si era sentita così rilassata da… da anni, da quando…. Scacciò il pensiero: avevano detto niente cose tristi. Quella serata celebrava la loro nuova amicizia, non c’era posto per nulla che fosse anche solo lontanamente triste. Intanto continuava ad arrivare gente: c’erano migliaia di maschere tra i quali molti ragazzi e ragazze della loro età. Uno in particolare, vestito da stregone, si stava avvicinando ad Ivy che, in quel momento, era da sola, in attesa che Henry, andato da qualche tempo a prendere qualcosa da bere per entrambi, avesse ragione della folla e la raggiungesse nuovamente. Si voltò di scatto, sentendosi mettere una mano sulla spalla: di fronte a lei c’era un ragazzo alto quanto lei, con occhi e capelli scuri che le stava sorridendo.
«Ciao, mi chiamo Julian, ero là con i miei amici e ci chiedevamo come potesse una ragazza carina come te essere qui da sola».
Ivy sbatté le palpebre perplessa: sul serio? Stava succedendo davvero? Non le era mai capitato di attirare l’attenzione di un ragazzo e sinceramente, non le era mai particolarmente interessato: le bastavano le esperienze di sua madre e sua sorella per essere certa di non essere interessata ai maschi, almeno per il momento. E, in ogni caso, non si era mai dovuta porre il problema: sapeva di essere una bella ragazza, ma tutti quelli intorno a lei erano sempre stati troppo intimoriti da sua madre per fare un qualsiasi tentativo. Lì, invece, nessuno la conosceva, nessuno la collegava a sua madre, magari il loro interesse era davvero rivolto a lei come persona. Allungò la mano, stringendo quella che il ragazzo le porgeva: «Ivy, ciao. In realtà non sono sola, soltanto che… mi sa che il mio cavaliere è stato intrappolato nella bolgia infernale del recupero bevande. Dovrebbe essere qui a breve…». Concluse, volgendo lo sguardo nella direzione in cui era sparito Henry.
«Beh, mi sembra una follia. Se io avessi una dama bella come te non la lascerei sola neanche un minuto».
Ivy roteò gli occhi: altro che stregone, quello era il classico galletto! Faceva il figo per fare colpo, era patetico.
«Infatti io sono con lui e non con te. E non sono interessata a proseguire questa conversazione». Fece per andarsene, ma una mano l’afferrò per un polso. Si voltò irritata. «Mollami. Adesso» gli intimò decisa. Per tutta risposta, lui scoppiò a ridere.
«Oh, avanti, non fare la preziosa. Voglio solo ballare, che ti costa?».
Ivy non ci credeva: sapeva che se gli avesse dato corda, accettando la sua proposta, lui avrebbe creduto di poter osare maggiormente. Doveva mettere paletti chiari e ben definiti. Ma dov’era Henry?
«Ho detto che non sono interessata. Devo farti un disegnino? Lasciami in pace». Doveva stare calma e non innervosirsi, non serviva a niente diventare isterica, avrebbe solo ottenuto di farlo insistere maggiormente.
Una voce alle sue spalle decretò la sua salvezza. «Sei sordo? Ti ha chiesto di lasciarla in pace!» Ivy si voltò sorridendo: Henry l’aveva finalmente raggiunta e stava fissando quel tipo come se avesse voluto farlo scomparire.
L’altro ragazzo lo schernì: «Ehi, amico datti una calmata, stavamo solo parlando. Chi sei, il suo ragazzo?».
Henry, intanto, aveva posato le bevande al tavolo vicino, poi aveva avvolto le braccia intorno alla vita di Ivy.
«Esatto. E non mi è piaciuto quello che ho visto finora. Gira al largo».
Ivy non sapeva se fossero state le parole, i gesti o il tono di Henry o forse tutti e tre, ma ottenne il risultato sperato: l’altro ragazzo girò i tacchi, borbottando parole incomprensibili. Henry attese che il tipo si fosse allontanato a sufficienza, poi la lasciò andare: Ivy liberò il respiro che non si era accorta di aver trattenuto fino a quel momento voltandosi verso di lui e appoggiando la testa contro la sua spalla. Era una vera idiota.
«Grazie. Non riuscivo a liberarmene».
Henry annuì. «La prossima volta vieni con me. Giuro, non pensavo di metterci così tanto, ma c’era una calca assurda».
La ragazza annuì, staccandosi leggermente da lui. «Ho visto. In realtà, non avrei mai pensato di avere un problema del genere. Di solito i ragazzi girano al largo per via di mia madre. Ammetto che quando è venuto a presentarsi mi ha fatto piacere: avevo sempre pensato di essere una specie di mostro inavvicinabile o qualcosa di simile. Poi però ha cominciato subito a prendersi troppa confidenza e volevo solo che mi lasciasse in pace».
Henry scosse la testa: non aveva mai sentito tante follie. Era inconcepibile.
«Tu hai serio bisogno di una bella iniezione di autostima. Non ho mai sentito tante sciocchezze quante ne hai dette tu stasera. Prima la dieta, ora questo. Devo portarti fuori più spesso. Forse così riusciamo a raddrizzare la tua visione distorta delle cose».
Ivy arrossì, indignata: «Io non ho una visione distorta delle cose!». Però… doveva ammettere che il proposito di Henry non le dispiaceva. Uscire di nuovo con lui sarebbe stato… interessante. Lui era la prima persona a cui non fosse importato del suo nome, o del suo aspetto o dei soldi di sua madre. Erano amici, senza secondi fini nascosti da nessuna delle due parti. Ok, lei lo trovava carino... e allora? Di tanti ragazzi pensava così, ma questo non voleva dire niente, soltanto che anche lei aveva gli occhi, fino a prova contraria. E poi avevano un sacco di cose di cui parlare, non si era mai annoiata con lui, neanche durante il viaggio in macchina…
«…che ne dici?»
Ivy sobbalzò: Henry le aveva appena fatto una domanda, ma lei non aveva sentito una parola.
«Scusami, non ti ascoltavo. Avevo la testa da un’altra parte». Ammise sinceramente.
«L’ho notato. Dicevo… che ne dici se andiamo? È l’una e mezza e io ho bisogno di dormire almeno cinque ore per essere in grado di connettere domani e dobbiamo ancora riconsegnare i vestiti».
Già, rammentò Ivy di colpo: l’indomani entrambi si sarebbero dovuti recare a lavoro. Annuì, riappropriandosi della cognizione del tempo: «D’accordo. Andiamo».
Ci volle un po’ perché recuperassero i loro abiti civili e potessero rimettersi in macchina. Henry attaccò una playlist a caso, per non rischiare un colpo di sonno, lasciando che le note si spargessero nell’abitacolo. Ivy guardava la strada sfrecciare di fianco a sé, tentando di tenere gli occhi aperti. Voltò la testa, sbirciando di nascosto il profilo dell’amico, che guidava sicuro, attento a non perdere la concentrazione.
«Sono stata bene, stasera. Grazie davvero, Henry».
Lo scrittore le rivolse uno sguardo fiero. «Sono contento. Anche a me ha fatto piacere che siamo usciti: Halloween non è mai un bel giorno per me, mi hai aiutato ad allontanare la mente dai pensieri negativi. E ammetto che proporti questa festa è stata una cosa improvvisata dell’ultimo momento, ma sono contento di averlo fatto».
Ivy annuì. «Anch’io. E..ho deciso che… potete contare su di me…sai, per quello che mi dicevi al “Roni” su mia madre: ho bisogno di smettere di dipendere da lei in questo modo e se non faccio qualcosa di concreto non ci riuscirò mai, quindi… la terrò d’occhio e se vedrò qualcosa di strano, sarai il primo a saperlo. È un patto».
Henry le sorrise: «Grazie. Immagino che non debba essere facile…voglio dire, è pur sempre tua madre. Apprezzo davvero che tu voglia aiutarci. Giro qui, giusto?»
L’ultimo tratto fino alle Belfrey Towers trascorse in un confortevole silenzio. Quella giornata era stata lunghissima ma aveva sancito l’inizio di una nuova amicizia e dato il via ad una serie di eventi che né Henry né Ivy avrebbero potuto mai immaginare e le cui imprevedibili conseguenze avrebbero avuto un tale impatto sulle loro vite da rivoluzionarle completamente.

 
Approfitto di questo ultimo spazio per spiegare, a chi non se ne fosse accorto, che la storia di Nimue è quella presa dalla quinta stagione di Once, ma il vestito l'ho inventato io, basandomi circa su quello di Drizella nella settima stagione.
Quando invece, faccio citare ad Ivy, First Knight, si tratta di un film,che ho visto e stravisto non so quante volte, di cui lessi perfino il libro, che in Italia conosciamo come "Il primo cavaliere" con Richard Gere, Julia Ormond e Sean Connery. Se non l'avete mai visto.. andate a rimediare :P E, un favore: se notate errori di battitura o volte in cui sono andata a capo troppo spesso, segnalatemelo: ho ricontrollato tutto, ma può essermi sfuggito qualcosa e la mia beta non può segnalarmi questi dettagli perché le mando il capitolo in un formato diverso. Inoltre colgo l'occasione per per ringraziare di nuovo chi ha recensito la mia shot su Henry e Ivy "Wish". Chi volesse darle un'occhiata, la trova sul mio profilo

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ricordi ***


Ed ecco un nuovo aggiornamento di questa fan fiction che mi risulta sempre più ostica (e dire che l’ho pensata io… come mi piace complicarmi la vita…) nel giorno in cui vedremo l’ultimissima puntata di Once Upon A Time. Alcune spiegazioni relativamente a quello che ho scritto, le trovate nel capitolo precedente. Avevo dimenticato di dire che Madison Park è un quartiere di Seattle, nella mia testa non molto distante da Hyperion Heigts. Questo è il capitolo che risponde a tutte le domande (o almeno la maggior parte) che vi siete posti finora sulle storie dei nostri personaggi o, almeno, su una parte di esse. Spero che vi piacerà e che mi farete sapere come vi è sembrato.
UPDATE DEL 7/07/2018
Questo capitolo è il primo ad aver subito una revisione: consiglio di rileggerlo perchè è una revisione piuttosto importante ai fini della trama

 
Se c’era una cosa che Victoria Belfrey detestava, era non avere il controllo di ciò che le accadeva intorno. Fin da ragazzina aveva pianificato minuziosamente ogni singolo dettaglio della sua vita, impegnandosi a raggiungere, via via, gli obiettivi che le avrebbero consentito di arrivare a traguardi sempre più ambiziosi. Così aveva studiato, si era laureata, aveva fatto una dura gavetta presso un paio di società e racimolato un bagaglio di esperienza che l’aveva resa un’avversaria temibile anche per concorrenti col doppio dei suoi anni. Eppure, era stata perfettamente consapevole che tutto il suo impegno non sarebbe mai stato sufficiente a portarla alle vette desiderate, solo per via del fatto che era una donna e, fin dal principio, era stata disposta ad accettare qualsiasi compromesso le consentisse una scalata più veloce e sicura. Era stato quello il motivo principale per cui si era lasciata coinvolgere, ormai più di trent’anni prima, da Lucas Vidrio, più grande di lei di ben venticinque anni, già vedovo e con una bambina di due anni da allevare, ma proprietario di una grande impresa di costruzioni che gli aveva fruttato moltissimo e che alla sua morte, due anni dopo, era stata ereditata dalla giovane moglie. Doversi occupare di Jacinda era stato un prezzo necessario che però Victoria era stata disposta a pagare in cambio di prestigio e sicurezza economica. Due anni dopo, aveva incontrato quello che era poi stato l’amore della sua vita: Marcus Belfrey l’aveva amata con tutto il suo essere e lei lo aveva ricambiato allo stesso modo. Non era stato spaventato dal fatto che lei avesse già una bambina di cui occuparsi e, poco tempo dopo, le aveva chiesto di sposarlo, dicendosi disposto a fare da padre a Jacinda. Ivy era arrivata quando Jacinda aveva già sette anni e per un lungo periodo tutto era stato assolutamente perfetto. L’intesa che c’era tra Marcus e Victoria in campo sentimentale si era trasferita anche all’ambito lavorativo, portando i due ad allargare sempre di più il loro giro di affari fino ad avere la possibilità di creare la loro prima agenzia immobiliare e poi, man mano assorbire mobilifici e qualsiasi negozio del vicinato fosse dedicato alla costruzione e all’arredamento di case e uffici. Così erano nate le Belfrey Industries, che, nel corso degli anni, erano poi divenute un colosso nel loro campo. Le avevano guidate insieme per anni, superando innumerevoli difficoltà lavorative e personali, affrontando i problemi e festeggiando i successi, l’ultimo dei quali aveva portato al concepimento di Anastasia, la loro seconda figlia, quando Jacinda ed Ivy avevano già rispettivamente venti e tredici anni. Poi c’erano stati gli ultimi, terribili anni, che avevano assestato a Victoria e alla sua famiglia durissimi colpi: inconcepibili perdite, subite a distanza di poco tempo l’una dall’altra, avevano reso la donna fredda come il ghiaccio, anche nei confronti di persone che fino a poco tempo prima, aveva amato incondizionatamente.
Da questo era scaturita la micidiale propensione al controllo che Victoria esercitava su se stessa e sugli altri: la donna faceva sempre in modo di assicurarsi che il mondo girasse secondo le sue regole e che chiunque incrociasse la sua strada avesse ben chiaro che era lei a comandare. E non solo sul lavoro. Aveva imposto rigide regole anche alla figliastra e alla figlia, costringendole ad adeguarsi alla sua visione del mondo.
 Jacinda si era si era sempre rifiutata e il tutto era culminato, alla fine, in una rottura, che aveva raggiunto il punto massimo quando la ragazza era rimasta incinta quasi nove anni prima in seguito ad una notte di follie con alcuni amici. Si era opposta fermamente all’idea di Jacinda di abortire: la sua famiglia stava passando un periodo terribile e sopprimere una nuova vita avrebbe soltanto peggiorato la situazione. Ma Jacinda non voleva assolutamente quella responsabilità e, costretta dalla matrigna a portare avanti la gravidanza, aveva permesso a Lucy di venire al mondo, intenzionata a darla in adozione. Victoria aveva rifiutato anche quella possibilità: Lucy era un membro della sua famiglia e, se proprio Jacinda avesse continuato a essere decisa a non volersene occupare, l’avrebbe fatto lei. Aveva quindi parlato con un avvocato e preparato dei documenti che la sua figliastra era stata felice di firmare, con i quali la potestà genitoriale di Lucy veniva trasferita da Jacinda a lei stessa. Del padre non avevano mai dovuto preoccuparsi: Jacinda non ricordava neanche chi fosse e nessuno aveva mai voluto riconoscere la bambina. Soltanto tre anni prima, Jacinda era sembrata rinsavire e voler costruire un vero rapporto con sua figlia ma, dal punto di vista di Victoria, era ormai tardi: se davvero la figliastra avesse voluto occuparsi di Lucy, avrebbe dovuto dimostrarlo e non solo a parole. Per questo si era impegnata a metterle i bastoni tra le ruote, volendo testare la sua convinzione che si era dimostrata quantomeno altalenante.
Ivy, invece, era un discorso diverso: fin dal principio, lei e Marcus avevano desiderato che la figlia seguisse le loro orme, che studiasse, si laureasse e prendesse, a tempo debito, il posto che le spettava nelle imprese di famiglia. E lei sembrava felice di assecondare le loro aspettative: era stata una studentessa diligente, che aveva amato lo studio. Ma quando si era trattato di scegliere il percorso finale era arrivato il voltafaccia: non si riteneva portata per la finanza, avrebbe frequentato volentieri il college, ma scegliendo la specializzazione in materie umanistiche. Ovviamente, l’idea era fuori questione: se Ivy fosse voluta andare al college, l’avrebbe fatto alle sue condizioni o non l’avrebbe frequentato affatto.
La decisione era stata presa dagli eventi: durante l’estate precedente al suo test d’ingresso, mentre Ivy era fuori con Anastasia, qualcuno le aveva aggredite causando alla maggiore una seria commozione cerebrale e facendo sparire dalla circolazione l’ultimogenita di casa Belfrey, che all’epoca aveva appena cinque anni, lasciando soltanto una giacchetta strappata. Nove anni dopo, della bambina non si avevano ancora notizie di alcun tipo: il corpo non era mai stato ritrovato e questo induceva ancora qualcuno, come Ivy, a non arrendersi e a sperare che Anastasia potesse essere ancora viva. Ma altri avevano semplicemente guardato in faccia la realtà e si erano fatti una ragione dell’idea che potesse davvero essere morta. Victoria era tra questi ultimi: dopo nove anni non si aspettava notizie di alcun tipo, aveva rinunciato a ogni minima speranza e aveva tentato di andare avanti con la sua vita a modo suo, concentrandosi sulle persone che le erano rimaste. Ringraziava il cielo di aver avuto la lucidità, nei mesi immediatamente successivi all’accaduto, di proibire a Jacinda di abortire e, in seguito, anche di dare Lucy in adozione. Riguardo Ivy, aveva iniziato a disprezzarla vietandole di frequentare il college e obbligandola, da quel giorno, a fare esattamente ciò che lei decideva senza discutere e costringendola a occuparsi di Lucy a ogni occasione disponibile, convinta che fosse l’unico modo per responsabilizzarla. E soprattutto impedendole di esprimere un’opinione contraria alla sua, in ogni circostanza, in particolare riguardo la sorte di Anastasia. Sua figlia era morta e tutti avrebbero dovuto farsene una ragione, esattamente come lei. Aveva cominciato a controllare ossessivamente la vita di chi le stava intorno, in particolare quella della sua primogenita: Ivy doveva renderle conto di ogni respiro e imporle la presenza di Lucy, che lei non poteva sopportare, era il suo modo di farla crescere e inculcarle un po’ di senso di responsabilità. Sua figlia l’aveva sempre assecondata, senza mai ribellarsi schiacciata dal senso di colpa per la sparizione della sorellina. Non accettava la sua morte e non l’avrebbe mai fatto e continuava ad aggrapparsi alla speranza che fosse ancora viva da qualche parte e che sarebbe potuta tornare in qualsiasi momento. I primi tempi era stata tormentata da incubi terribili che tornavano a perseguitarla a intervalli regolari, in cui la bambina la chiamava, chiedendo il suo aiuto o l’accusava del suo rapimento e della sua morte. Le capitava soprattutto durante feste come quella, quando era costretta a circondarsi di ragazzini, senza un attimo di pausa. E non ce l’aveva nello specifico con Lucy o coi bambini, solo che non voleva più rischiare: preferiva non assumersi più simili responsabilità.
Victoria sapeva queste cose, ma non le importava: quella di Ivy era una speranza folle, che non valeva la pena di alimentare. Tutti dovevano andare avanti, crescere e diventare responsabili delle proprie azioni. E per la prima volta dopo nove anni, la sera prima, Ivy aveva trasgredito le regole impostele, ignorando il cellulare e lasciando Lucy con Jacinda senza prima chiederle il permesso. Era letteralmente furiosa: aveva tempestato la figlia di telefonate, anche quando Jacinda l’aveva rassicurata e le aveva riportato Lucy in tempo per la cena. Era rimasta ad attenderla fino a mezzanotte passata, ma non si era presentata. Ma ora ci avrebbe pensato lei, avrebbe ripiantato bene i paletti messi tempo prima e le avrebbe chiarito una volta per tutte quali fossero i suoi doveri. Erano le 7:30 a.m., era ora che si alzasse. A passo di marcia entrò in camera della figlia, spalancando le finestre.
Ivy borbottò, infastidita dalla luce improvvisa.
«Muoviti, avanti, è ora di andare a lavoro! Che razza di assistente sei, se devo essere IO a richiamare te? Devo fare sempre tutto da sola! E che diavolo hai combinato ieri sera? A che ora sei tornata? E perché diavolo Lucy ha la faccia tutta irritata? Rispondi!».
Ivy si passò una mano sugli occhi sbadigliando: cavolo, aveva ancora sonno… ed erano appena le 7:30 a.m.… sbarrò gli occhi, scattando a sedere: le 7:30 a.m.? Merda! Non aveva sentito la sveglia!
«Mi dispiace, farò in un lampo, giuro!» esclamò catapultandosi fuori dal letto e fiondandosi in bagno. Victoria sbuffò: figurarsi, come se non l’avesse conosciuta….  a quanto pareva, quel giorno sarebbe toccato a lei portare Lucy a scuola… o forse no. In effetti, il viso della bambina, dalla sera precedente, presentava un terribile sfogo, causato sicuramente dai trucchi che sua figlia le aveva applicato sul viso. Probabilmente la cosa migliore era tenerla a casa. E, poiché per legge i bambini sotto i quattordici anni non potevano essere lasciati soli neanche a casa, sarebbe toccato nuovamente ad Ivy occuparsene. Soddisfatta, Victoria raggiunse il suo studio: doveva avvisare la scuola che, per quel giorno, Lucy sarebbe mancata. Concluse la telefonata in fretta, dopodiché raggiunse nuovamente sua figlia, trovandola mentre finiva di vestirsi.
«Ci sono quasi, un minuto e sono pronta».
Victoria scosse la testa, afferrando il cellulare di sua figlia prima che potesse farlo lei stessa. «Lascia perdere. Oggi non ho bisogno di te in ufficio. Ti occuperai di Lucy, non ho intenzione di mandarla a scuola in quelle condizioni: che diavolo avevi in testa, per ridurla in quello stato?».
Ivy spalancò gli occhi: prego? Questa poi! Stavolta non sarebbe stata zitta, no affatto! «Io?! Se proprio vuoi saperlo, io non volevo neanche truccarla, va bene? L’ho fatto per non sentirla frignare. Se vuoi prendertela con qualcuno, prenditela con quelle idiote delle tue altre assistenti che non sono neanche capaci di distinguere fra trucco per bambini e per adulti!».
Victoria l’afferrò per un braccio. «Non osare rispondermi, chiaro? Sei capace di leggere, potevi accorgertene ed evitare!».
Ivy alzò gli occhi al cielo, liberandosi dalla sua presa: figurarsi! «E se l’avessi fatto, lei mi avrebbe scocciato tutto il pomeriggio, sarebbe tornata a casa con un broncio lungo un chilometro e ora mi staresti aggredendo per non averla assecondata. Non ti va mai bene niente! Qualsiasi cosa faccia per te è sbagliata, quindi, che importa? E ridammi il mio cellulare!» sbottò, strappando l’oggetto dalle mani della madre.
Victoria non ci vide più: colpì con la mano sinistra la guancia di sua figlia poi, avvicinando il volto al suo, sibilò. «Ogni volta che credo tu non possa deludermi più di quanto hai già fatto, riesci a trovare un modo per cadere ancora più in basso. Che diavolo devo fare con te? Avrei dovuto capire che eri così inutile già nove anni fa: neanche quella gente ti ha considerata, hanno capito prima di me che non vali niente! Sarebbe stato molto meglio se fossi morta tu, anziché lei!»
Ivy si portò la mano libera al volto, sconvolta: sapeva bene che sua madre la disprezzava ma, fino a quel momento non era mai stato così chiaro fino a dove si spingesse quel sentimento. Boccheggiò, incapace di ribattere, svuotata da tutte le energie.
Victoria le rivolse uno sguardo sprezzante, dopodiché, esattamente com’era entrata, uscì dalla stanza. Incapace di trattenersi oltre, Ivy si sdraiò a letto, portando le ginocchia al petto e lasciandosi andare a un pianto liberatorio: perché? Perché doveva finire sempre in quel modo? Perché sua madre doveva sempre tirare in ballo Anastasia? Lo sapeva che era colpa sua se era sparita, maledizione, lo sapeva, non c’era bisogno che le fosse costantemente rinfacciato, faceva già abbastanza male così. E la sua sorellina non era morta, non era morta, non lo era! Avrebbe continuato a ripeterlo finché avesse avuto fiato in corpo!
Nessuna delle due seppe mai che Lucy, sentendo le urla, si era svegliata e, avvicinatasi alla porta, aveva seguito la maggior parte del litigio. La bambina era sconvolta: sapeva che la nonna non era mai molto affettuosa con zia Ivy come, d'altronde, neanche con sua madre, ma non le aveva mai, mai sentito dire cose del genere. E poi, di che gente stava parlando? Cos’era successo nove anni prima? Sapeva per certo che fosse avvenuto qualcosa di brutto, ma non era mai riuscita ad approfondire l’argomento: con Ivy non andava abbastanza d’accordo, alla nonna non si potevano fare certe domande e sua madre… i momenti con lei erano troppo importanti per sprecarli a parlare di qualcosa di diverso dal rapporto tra loro due. I suoi pensieri furono interrotti dal brontolio del suo stomaco: aveva fame, voleva fare colazione ma se fosse andata a disturbare Ivy in quel momento probabilmente sarebbe stata lei a essere mangiata. Indecisa, rimase a fissare la porta per lunghi istanti finché non sentì dei passi avvicinarsi: veloce come un gatto, scattò in direzione della sua stanza, intenzionata a non farsi beccare. Fece giusto in tempo: Ivy uscì dalla stanza, proprio nel momento in cui lei si stava chiudendo la porta alle spalle. I sensi di Lucy continuarono a essere all’erta, terrorizzata che la zia la raggiungesse. Ma la porta che si aprì, fu quella del bagno e quando pochi minuti dopo, la bambina sentì l’acqua della doccia cominciare a scorrere capì di avere ancora un po’ di tempo per calmarsi. Trasse una serie di profondi respiri, nella speranza che il battito frenetico del suo cuore si regolarizzasse. Doveva assolutamente fare la finta tonta: sapeva che mentire era sbagliato, ma quella era una questione di sopravvivenza. E quando voleva, lei era brava a fingere, per cui avrebbe concentrato tutte le sue attuali energie nel raggiungimento di quell’obiettivo. Se Ivy avesse anche solo sospettato che lei avesse sentito tutto si sarebbe certo infuriata. E giacché doveva passare tutta la giornata sola in casa con lei, non aveva proprio voglia di sentirsi rimproverare ogni minuto. In effetti, forse, la cosa migliore, poiché comunque uscire era escluso, sarebbe stato fare il ghiro e rintanarsi a letto: avrebbe giocato col telefono, letto un libro, forse anche fatto un po’ di compiti. Soddisfatta del piano, si raggomitolò sul letto: avrebbe dormito ancora un po’, erano appena le 8… poteva fare colazione più tardi… I suoi pensieri furono interrotti dal suono della porta che si apriva: Ivy entrò nella stanza, osservandola in silenzio. All’inizio era stata troppo presa dal litigio con Victoria per pensarci, poi il suo cervello aveva fatto i dovuti collegamenti e la preoccupazione si era fatta largo in lei: quanto era estesa l’irritazione? Si avvicinò lentamente alla nipote, scrutandola in viso e notando la sfilza di puntini rossi che facevano sembrare la bambina avesse contratto una qualche malattia esantematica. Sospirò: certo che non poteva andare a scuola in quelle condizioni. Ivy sbuffò, scuotendo la testa: si era ripromessa che non si sarebbe preoccupata per lei, per nessuna ragione. Era già stata abbastanza male, non avrebbe permesso ad un’altra bambina di rammollirla com’era successo quattordici anni prima.
«Ana, dove sei…» mormorò chiudendo gli occhi e ricacciando dentro le lacrime. Dalla sua posizione, Lucy rimase perfettamente immobile: chi era Ana? Di chi stava parlando zia Ivy? Forse faceva parte del mistero che circondava la sua famiglia? Della cosa terribile accaduta anni prima? Magari era la figlia di zia Ivy scappata di casa…. Però perché non c’era una foto da nessuna parte? E se lei era scappata di casa, allora… di chi aveva parlato la nonna, quando aveva detto che sarebbe stato meglio fosse morta zia Ivy anziché una certa “lei”?
I suoi pensieri vennero interrotti da una mano che la scuoteva leggermente su una spalla e dalla voce di sua zia. «Non ti alzi, stamattina? Sono le otto passate, non hai fame?».
Lucy alzò una mano a sfregarsi gli occhi: se avesse creduto che si era appena svegliata sarebbe stato meglio per tutti. Borbottò sottovoce. «Mmm… sì, ho fame, possiamo fare colazione?»
«Dai, muoviti, vestiti, io intanto preparo. Niente bar, oggi, anzi, non usciremo proprio, se ti vedessero così penserebbero che ti maltrattiamo. E anche se a volte mi fai venire voglia di prenderti a sberle, non mi sembra di averlo mai fatto»
Lucy scosse la testa. «No. Voglio dire… ho solo fame, non mi alzerò… vengo a fare colazione, ma poi mi rimetto giù, quindi posso anche non vestirmi… cioè…»
Ivy alzò una mano interrompendola. «Ho capito, fai come ti pare. Ti aspetto di là» concluse, uscendo dalla stanza. Le cose erano due, stabilì: o sua nipote si era davvero svegliata da poco o quell’irritazione doveva darle veramente fastidio, perché non era mai stata così tranquilla e accomodante con lei. Non che la risposta le importasse particolarmente, anzi, meglio: si sarebbe goduta il giorno di tregua che aveva deciso di concederle. Si morse il labbro inferiore: magari, prima sarebbe stato meglio trovare qualcosa per farle passare quel rossore… disinfettarla era fuori questione, ovviamente… chissà se in casa avevano qualcosa di utile… o magari sarebbe potuta passare in farmacia, in fondo non aveva nient’altro da fare… ma con chi avrebbe potuto lasciare Lucy? No, meglio di no, meglio verificare prima cosa avevano in casa, poi si sarebbe regolata. Lasciò perdere quei pensieri, concentrandosi sulla preparazione della colazione. Non ci si poteva aspettare granché dalle sue capacità, ma il minimo indispensabile per la sopravvivenza era in grado di garantirlo. Un bicchiere di succo d’arancia e due fette di pane e marmellata per Lucy e una tazza di caffè per lei stessa. Lucy la raggiunse mentre stava portando tutto in tavola, sedendosi al suo posto, di fronte a lei. Da quella posizione Ivy aveva una visione perfetta della condizione del suo viso e non poté evitare di scuotere la testa: ora sì che sua nipote aveva un motivo serio per lamentarsi…. Anzi, era strano che non lo facesse.
Sollevò un sopracciglio, perplessa. «Credevo ti saresti grattata a morte, come la volta che hai avuto la varicella… non ti prude?» chiese, mentre finiva il suo caffè. Lucy fece una smorfia mentre con una mano afferrava il pane e con l’altra il bicchiere di succo.
«Troppo, ma devo resistere, non sono più una bambina piccola»
Ivy soffocò una rispostaccia: sul serio? Solo il pomeriggio prima si era comportata come una mocciosa petulante della metà dei suoi anni ed ora voleva farle credere di essere maturata di colpo? Decise di lasciar perdere, non valeva la pena neanche farglielo notare. Ma una stoccata se la meritava.«Certo che no, guai a chi si permette di insinuare una cosa del genere. Finisci con calma, io intanto vedo se in casa abbiamo un po’ di aloe o qualcos’altro di ugualmente utile. La mamma non ti ha messo niente, ieri?».
Mentre sorbiva il suo succo, Lucy negò. Ivy rifletté, mentre si alzava e si dirigeva poco distante, davanti al pensile in cui conservavano vari medicinali per le emergenze. Lo aprì ed esaminò attentamente tutte le scelte che le si presentavano davanti agli occhi: cotone, disinfettante, cerotti, garze, un termometro… trovato! Era una confezione ancora nuova, il che la faceva ben sperare. Lo girò da ogni lato, verificando la scadenza che, per sua fortuna era fissata per l’anno successivo. Lesse anche il foglio illustrativo, per sicurezza e fu sollevata nel constatare l’assenza di qualsiasi controindicazione. Si voltò verso Lucy, osservandola gustarsi la seconda fetta di pane e marmellata. Ci vollero ancora dieci minuti buoni prima che la bambina finisse, dopodiché, Ivy si sedette, per la seconda volta in neanche ventiquattro ore, di fianco a lei per applicarle la pomata sul viso, borbottando tra sé di bambini lamentosi che se le andavano a cercare. Non appena la zia ebbe concluso, Lucy scappò di filato in camera sua, rintanandosi a letto. Ivy scosse la testa: quel giorno sua nipote era proprio strana… ma questo significava che aveva più tempo per lei. Poteva approfittarne e mettere le foto della sera prima sul suo profilo Instagram. Ne avevano fatte un sacco con entrambi i telefoni, postarle sui social era il modo migliore di averle a disposizione di entrambi. Trascorse praticamente metà della mattina dietro a questo, scegliendo le didascalie e i tag più adatti. Mise una particolare cura nel modificarne una che avevano fatto insieme ad uno zombie, ci perse un’ora buona, perché non era così brava come credeva, ma alla fine, il risultato fu esattamente come lo desiderava: si vedeva Henry alla sua destra e lo zombie alla sua sinistra. E il modo in cui era posizionato il bastone chiariva come i due uomini di fianco a lei fossero soltanto il risultato di un incantesimo che poteva essere interpretato in entrambi i sensi. Osservò ancora per un po’ le foto, chiedendosi quando Henry avrebbe messo le sue: ce n’erano alcune che doveva scaricare assolutamente.
 
Trascorsero parecchie ore prima che Ivy potesse ricevere una risposta alle sue domande: contrariamente a lei, Henry era stato costretto a presentarsi a lavoro e a coprire un turno di mattina. Lo sapeva, ci era preparato e proprio allo scopo, si era presentato con un thermos pieno di caffè. E doveva ringraziare la sua buona stella che nessuno dei suoi clienti fosse contrario ad un po’ di musica, perché altrimenti il caffè sarebbe potuto non essere sufficiente. Ma in fondo, questi erano i rischi che si correvano a voler fare il figo e stare alzato fino a tardi. Beh, poco male: aveva passato una bella serata, era stato bene e questo contava più di qualche ora di sonno persa. Se qualcuno gli avesse detto soltanto il giorno prima che la sera precedente sarebbe finita in quel modo, lo avrebbe preso per pazzo: non usciva con una donna da tre anni e non ne aveva mai fatto un problema, non gli era mancato perché non poteva fare a meno di vederla come una terribile mancanza di rispetto per la memoria di Lauren. L’aveva conosciuta quando erano entrambi due ragazzini, avevano frequentato insieme le scuole superiori e poi il college, finendo per innamorarsi. Si erano sposati a ventitré anni, concluso il ciclo di studi, e due anni dopo era arrivata Abigail. Erano stati incredibilmente felici per anni: lei lavorava come impiegata nello studio di un commercialista, lui era un free lance, collaborava con qualsiasi testata giornalistica fosse interessata ai suoi articoli, Abby cresceva serena e tutto era sembrato assolutamente perfetto. Poi erano cominciati i problemi, i suoi articoli non erano stati più così richiesti e aveva dovuto trovarsi un secondo lavoro: era stato così che aveva cominciato a fare il tassista. Questo gli aveva concesso meno tempo da dedicare alla sua famiglia, portando lui e Lauren a litigare abbastanza spesso. Ma si era sempre assolto, dicendosi che, in fondo, lo faceva per loro, per assicurare alle sue donne una vita tranquilla e dignitosa e aveva cercato di placare sua moglie rassicurandola che quella sarebbe stata solo una fase, che quando i suoi libri avrebbero venduto a sufficienza avrebbe avuto molto più tempo per lei e per Abby. Purtroppo,per quanto nobile, quello era rimasto solo un proposito: un giorno di tre anni prima, la morte aveva bussato alla sua porta. Lui era di turno a lavoro, mentre Lauren era rimasta a casa con Abby che era malata. Non sapeva esattamente come fosse andata, nessuno era stato in grado di dirglielo: l’unica certezza era che qualcosa (il phon lasciato incustodito e acceso?) aveva dato fuoco a un indumento o una coperta. Probabilmente Lauren si era distratta per occuparsi di Abby e si era dimenticata di spegnerlo, così si era surriscaldato dando fuoco al letto e, successivamente alla stanza. L’incendio si era poi propagato per tutta la casa e i fumi sviluppati erano stati più rapidi delle gambe di Lauren, impedendole di reagire in tempo e uccidendo lei ed Abby in un tempo relativamente breve. Lui l’aveva saputo solo quando ormai era stato troppo tardi, da una telefonata dell’ospedale in cui erano state condotte. Si era letteralmente scapicollato per essere lì il prima possibile, ma aveva soltanto potuto constatare che i due corpi distesi nei freddi lettini dell’obitorio appartenevano davvero a sua moglie e sua figlia. Ne era stato letteralmente devastato: per mesi non aveva saputo darsi pace, ripetendosi che, se solo fosse stato appena un po’ più presente, nulla di tutto quello sarebbe mai successo e sentendosi in colpa per essere sopravvissuto. Per settimane, il suo unico desiderio era stato morire con loro. In fondo, cos’altro aveva? Era un orfano, non aveva altra famiglia al di fuori di loro, raggiungerle sembrava l’unica cosa sensata. E quando alla fine, aveva trovato il coraggio di mettere fine alla sua vita, era successo: aveva sognato la sua adorata bambina che lo guardava con i suoi enormi occhi castani pieni di speranza e di gioia e gli chiedeva di finire la favola che aveva cominciato; quella che, il giorno del suo ultimo Natale, le aveva promesso di scrivere dedicandola solo a lei. Era stato per questo che era sopravvissuto, solo per tenere fede a quella promessa e, sei mesi dopo, l’aveva onorata, pubblicando la favola a proprie spese, rifiutando di sottoporla ad un qualsiasi editore perché nessuno mai avrebbe potuto capire ciò che quello scritto significava per lui. Dopo quell’unico libro non ne aveva però più scritti altri, aveva deciso di chiudere per sempre con i libri e, soprattutto, con le favole. Era stato l’incontro con Lucy qualche settimana prima a fargli cambiare idea: lei aveva l’età che avrebbe avuto Abby se fosse stata ancora viva e, grazie a lei,Henry aveva capito che la vita continuava e che, in fondo, era suo dovere andare avanti e continuare a fare le cose che amava, mantenendo viva la memoria delle persone che erano state importanti. E così aveva cominciato una nuova storia e si era impelagato in un’avventura con Roni e il detective Rogers per sconfiggere quella che aveva tutta l’aria di essere la strega cattiva di Hyperion Heigts. Proprio a questo scopo, si stava dirigendo al Roni’s, intenzionato a comunicare alla proprietaria i progressi della sera prima. Aveva mandato un messaggio ad Ivy chiedendole di andare con lui, poiché aveva intenzione di raccontare del loro accordo, ma aveva ricevuto una risposta negativa: a quanto sembrava, Lucy aveva davvero sviluppato una reazione allergica al cerone e lei e sua zia non potevano muoversi da casa finché il suo viso non si fosse sfiammato un po’. Entrò quindi da solo nel bar, accomodandosi al bancone e osservando Roni intenta a lavare i bicchieri della sera prima. Era un po’ presa, a quanto sembrava e lui ne approfittò: doveva ancora caricare su Instagram le foto della sera precedente. Si mise prima a curiosare tra quelle di Ivy, lasciando simbolici cuoricini di apprezzamento alle sue preferite, tra le quali quella che aveva evidentemente modificato quella mattina con lo zombie e selezionando tra le proprie, quelle che non sarebbero state dei meri doppioni. Era talmente concentrato in quell’operazione, che non si accorse neanche che qualcuno si era posizionato dietro di lui e stava fissando lo schermo del suo computer.
«Quindi, ecco cosa stava facendo mia sorella, ieri sera, anziché occuparsi di Lucy. Tipico. E infatti i risultati si sono visti».
Lo scrittore si voltò, trovandosi faccia a faccia con Jacinda. L’aveva conosciuta più o meno lo stesso giorno in cui aveva incontrato Lucy, quando gli aveva riportato il portatile che la bambina gli aveva sottratto e Roni aveva offerto ad entrambi un drink per rompere il ghiaccio. In un primo momento ne aveva avuto un’ottima impressione: era molto carina, sembrava avere ben chiari i propri obiettivi, esattamente come lui e, soprattutto, gli era parsa molto legata alla figlia. E anche in occasione del balletto, quando Victoria aveva intenzionalmente alzato il prezzo del biglietto per tenerla fuori, era riuscita a trovare un sistema per aggirare l’ostacolo pur di passare del tempo con sua figlia. Sì, Henry doveva ammettere che, per qualche giorno, l’aveva ammirata. Poi c’era stata la petizione ed era stato da quel momento che la sua ammirazione aveva cominciato a disegnare una parabola discendente: era sembrata molto decisa all’inizio, per poi farsi abbindolare dalla promessa della sua matrigna di una casa solo per lei e Lucy. Henry l’avrebbe anche capita, se non fosse stato assolutamente certo che quella di Victoria sarebbe stata la classica promessa da marinaio. Non riusciva davvero a comprendere come a Jacinda non risultasse ovvio: insomma, se l’aveva capito perfino lui che all’epoca conosceva quella donna da appena due settimane…. Evidentemente, Jacinda era molto più ingenua di quanto volesse far credere e, anche se non glielo avrebbe mai detto, aveva anche avuto la sensazione che fosse un po’ opportunista e avesse una spiccata tendenza a prendere decisioni basate esclusivamente sul tornaconto personale suo e di sua figlia… alla faccia di chiunque altro. Tuttavia, era ancora disposto a ricredersi, capitava a chiunque di sbagliare e lui sapeva bene di non essere esente da errori. Ma l’osservazione della donna, che nel frattempo si era seduta di fronte a lui, lo indispettì: non aveva il diritto di sparare sentenze senza sapere come stessero realmente le cose. E, fino a prova contraria, non era Ivy la madre di Lucy.
«Ti riferisci all’irritazione che ha sul viso? Se si fosse lamentata meno, forse l’avrebbe evitato, visto che Ivy non voleva neanche truccarla. E queste foto sono state scattate dopo che te l’ha riportata».
Jacinda emise un fischio. «Questa è la storiella che ti ha raccontato? Carina, ma… si vede che non la conosci, Henry Mills: ad Ivy non importa di nessuno, di certo l’ha fatto apposta a farle venire quell’irritazione, perché non le andava di occuparsi di lei. Fidati, non perdere tempo con le storie di mia sorella, non ne vale la pena».
Sul serio? Ora cominciava a capire da dove Lucy avesse tirato fuori tutte quelle teorie sulla zia: se sua madre diceva quelle cose, era ovvio che la bambina le avesse assorbite, si sarebbe stupito del contrario. Scosse la testa, stupefatto. «Ti rendi conto di quello che hai appena detto? Dimmi, Jacinda, dire idiozie è un requisito essenziale per far pare della vostra famiglia? Perché non ne ho mai sentite così tante in neanche ventiquattro ore: tra te, tua figlia e Ivy ho perso il conto. E per la cronaca, quello che ti ho detto, non me l’ha raccontato nessuno, ero presente quando è successo, sono ancora in grado di riferire quello che vedo coi miei occhi. Lucy è stata con noi fino alle sette di sera, poi Ivy te l’ha riportata. Dopodiché ci siamo rincontrati per caso e l’ho invitata» fece una breve pausa, facendo attenzione a rimarcare quell’ultimo concetto «prima a bere qualcosa, poi a venire con me alla festa di cui stai vedendo le foto. Ma tua figlia era a casa con te… o con sua nonna, non so, in ogni caso era al sicuro».  Ok, tecnicamente, lui aveva solo invitato Ivy alla festa e non a bere qualcosa lì da Roni, ma questo a Jacinda non doveva interessare, non era ciò di cui stavano parlando. E, Dio, come aveva potuto penare che lei fosse anche solo minimamente interessante? Forse a condizionarlo era stata la presenza di Lucy: madre e figlia gli avevano ricordato la famiglia che aveva perso e che gli mancava disperatamente, soprattutto in quel periodo dell’anno.
«Io non dico idiozie, Henry Mills» sbottò Jacinda, interrompendo bruscamente le riflessioni del suo interlocutore «questo è un semplice dato di fatto: sono nove anni che a mia sorella non importa più di niente e di nessuno,tantomeno di Lucy. La mamma insiste a costringerla ad occuparsene e non capisce che invece sarebbe molto meglio se permettesse a me di stare con lei, saremmo tutti più felici…».
Henry chiuse il portatile, infastidito: avrebbe continuato dopo il suo lavoro.«Sai una cosa? Non m’interessa, sono cose vostre, non voglio entrarci. È palese che voi non andiate d’accordo, ma se non riuscite a capirvi voi, che vi conoscete da sempre, non sarà un perfetto estraneo a risolvere per voi i vostri problemi. E io ne ho già abbastanza da me, senza farmi coinvolgere in quelli altrui». Probabilmente era stato fin troppo brusco, ma, dannazione, era stato più forte di lui. Più passava il tempo, meno quella donna gli piaceva; non aveva intenzione di avere ancora a che fare con lei, non per quel giorno, almeno. E non aveva intenzione di difendere ancora Ivy sostenendo che, a suo parere, invece, a lei importasse eccome degli altri: se era da Jacinda che Lucy aveva ereditato la testardaggine, allora sarebbe stata una battaglia persa in partenza. Avrebbe ribattuto ad ogni sua affermazione e lui non conosceva ancora abbastanza Ivy per poter sperare di vincere. E in realtà, non era neanche compito suo: Ivy era solo un’amica ed era perfettamente in grado di difendersi da sola da certi attacchi, il sarcasmo non le mancava.
Si alzò, intenzionato ad andarsene, ma fu bloccato da una mano di Jacinda. «Aspetta… per favore. Non mi va di litigare per colpa di mia sorella. Possiamo parlare ancora un po’… magari di un altro argomento, che ne dici?» propose la cameriera sbattendo le lunghe ciglia nere. Stava per caso… flirtando con lui? Augurandosi di essersi sbagliato, Henry si liberò gentilmente dalla sua presa e tornò a sedersi di fronte a lei.
«D’accordo. Di cosa vuoi parlare?».
Proprio in quel momento, Roni raggiunse il loro tavolo, posando davanti ad ognuno un bicchiere con due dita di liquido trasparente. «Rum bianco di una nuova marca. Mi è arrivato oggi. Provatelo, offre la casa».  Entrambi le sorrisero, ringraziandola e sollevando i rispettivi bicchieri in un brindisi silenzioso. Jacinda stava quasi per portare alle labbra il bicchiere, quando il suo telefono squillò. Una rapida occhiata le fece decidere di rispondere e, con un cenno di scusa a Henry e Roni, si alzò, allontanandosi un po’, chiedendosi cosa fosse successo perché Sabine la chiamasse a quell’ora. Roni attese che la giovane donna fosse sufficientemente lontana, dopodiché prese una sedia e si accomodò di fronte ad Henry. «Mi fa piacere vedere che andate d’accordo. Jacinda è una brava ragazza, se la conosci. E non so perché, ma ho una buona sensazione su di voi, credo che sareste una bella coppia».
Henry le rivolse una smorfia; non ne era poi così convinto. «Per ora, l’unica cosa che ho capito, è che non va d’accordo con sua sorella e, sinceramente, come ho detto anche a lei, non sono cose che mi riguardano».
Roni annuì in silenzio: probabilmente Jacinda aveva parlato di Ivy nel tentativo di farla apparire meno interessante agli occhi di Henry e guadagnare qualche punto. In genere approvava queste tattiche, ma quella era stata applicata fin troppo maldestramente. Jacinda avrebbe dovuto essere un po’ più sottile e di certo, se era interessata a lui, avrebbe dovuto cercare di parlare di sé, più che di Ivy, nascondendo tra le righe qualsiasi critica alla sorella e facendo passare qualsiasi osservazione più come commenti causali e involontari che si sarebbero intrufolati nel discorso e, lentamente, avrebbero messo radici, minando la neonata amicizia dei due giovani. Sorrise a Henry, decidendo di aiutare l’amica: se c’era una che meritava di essere felice, quella era lei.«Dai, non posso credere che abbiate parlato solo di questo…»
Henry scrollò le spalle. «Più o meno. Ha visto le foto che ho messo su Instagram, quelle di ieri sera e ha fatto un commento su sua sorella…»
Roni lo interruppe. «Foto? Di che foto stai parlando? Non ho visto niente, eppure ti seguo su Instagram…».
«Non le hai viste perché ho finito di metterle ora. Ieri ho chiesto ad Ivy se le andava di venire con me a una festa a Madison Park, tanto per fare qualcosa. Sono anni che mi arriva la pubblicità, sono stato inserito in una mailing list da un amico di un amico o qualcosa del genere, ma declino sempre perché non mi va di andare a fare l’idiota che sta per conto suo. Se avesse rifiutato, avrei declinato anche quest’anno. Ma non l’ha fatto e ci siamo divertiti, abbiamo fatto un sacco di foto, sia col suo cellulare, sia col mio e stavo caricando le mie su Instagram quando Jacinda è arrivata. Se guardi il mio profilo, ora ci sono tutte… o quasi» borbottò, riaprendo istintivamente il portatile e riprendendo da dove si era interrotto. In effetti gliene mancavano ancora alcune da inserire, si rese conto.
«Me ne mancano un po’, ma guarda pure, non ho niente da nascondere».
E fu quanto Roni fece, mentre lui finiva di caricare gli ultimi scatti.
«Ne avete fatte parecchie… e non solo a voi stessi» commentò, osservando due streghe insieme ad uno zombie ed un fantasma con tanto di catene. «Anche se voi non sembrate molto in tema… tu sembri un lord e lei una specie di principessa, con tanto di scettro… le manca giusto la corona. E in questa» continuò indicandone un’altra «siete stati un po’ eccessivi secondo me: già baciarla in quel modo alla prima uscita mi sembra fuori luogo, ma addirittura farsi fotografare….» Roni non riuscì a continuare la sua frase: Henry l’aveva guardata perplesso, poi aveva fissato lo schermo del computer e… era scoppiato a ridere di gusto.
Proprio in quel momento era tornata Jacinda che aveva evidentemente concluso la sua telefonata. «Roni, hai raccontato una barzelletta senza di me? Comunque, io devo scappare, mi ha chiamato Sabine e poi anche il mio capo per chiedermi una sostituzione a lavoro. Il rum lo proverò stasera, magari. Ciao, Roni. Ci vediamo… Henry Mills».
Il giovane scrittore riuscì a malapena a rivolgere alla donna un cenno di saluto, troppo preso a tentare di frenare lo scoppio di risa. Solo qualche minuto dopo, quando ormai Jacinda aveva lasciato il bar,fu in grado di prendere un profondo respiro e placare l’ilarità, tornando a rivolgersi alla barista con un tono di voce normale. «Hai sbagliato due cose: la prima è che noi eravamo perfettamente in tema. Forse ad un’occhiata rapida può non sembrare, te lo concedo, ma lei era vestita da strega, vedi che ha il cappello? E il suo vestito è molto più stretto di quello di una principessa. E io sembravo un damerino perché il mio costume era da vampiro. E i vampiri non hanno nulla di diverso dagli umani, a parte una pelle più pallida e i denti a punta e in quella foto….»
«…stavi…. fingendo di mordere Ivy? Scusami, sono una vera sciocca» mormorò Roni rendendosi conto del suo errore.
«Precisamente, questa era la seconda cosa a cui mi riferivo. La prossima volta, prima di trarre conclusioni affrettate, chiedi a me. Ti sembro davvero il tipo che si fa fotografare da un estraneo mentre bacia una donna? Non nego che Ivy sia carina, ma… non cerco una storia, né con lei né con nessun altro: l’ultima cosa che voglio al momento è incasinarmi con una donna. Sono capitato qui per caso e quando mi avete parlato della storia della Belfrey, mi ha stuzzicato l’idea di svelare parte del mistero avvolto intorno alla sua figura. Dev’esserci un motivo se vuole così disperatamente comprare ogni angolo del quartiere: voglio capire qual è, ma non c’è altro. Una volta che avremo concluso me ne tornerò alla mia vecchia vita. A proposito…» si era appena ricordato: in realtà era proprio quello il motivo iniziale che l’aveva portato lì «…ieri, mentre eravamo qui, io e Ivy abbiamo parlato parecchio e tra le altre cose le ho raccontato di quello che stiamo facendo io, te e il detective Rogers»
«Henry!» sbottò Roni contrariata. Fantastico, il loro piano era fallito prima di cominciare! «Come ti è venuto in mente? Lo dirà a sua madre e avremo faticato per niente!» Dio, perché i maschi avevano solo un neurone quando c’era di mezzo una ragazza? Tra l’altro Ivy non era neanche così speciale…
Henry, nel frattempo aveva assunto un’espressione decisa: «Non glielo dirà, potrei metterci la mano sul fuoco. Anzi, ha perfino accettato di aiutarci a trovare informazioni sugli affari di Victoria. Volevo portarla qui perché te lo dicesse di persona, ma è dovuta restare a casa con Lucy. E comunque, non potevo non dirglielo: che razza di amico sarei se le tenessi un segreto così?».
La barista non poté evitare di scuotere la testa: «Infatti secondo me è tutta una follia, e parlo innanzi tutto della vostra amicizia. Henry, ho a che fare con Ivy e la sua famiglia da troppo tempo e, fatta eccezione per Jacinda, sono persone di cui non ci si può fidare. Pensi davvero che andrà contro la sua stessa madre? Sei proprio ingenuo».
Henry cominciava a non poterne più: aveva sempre scelto da solo le persone con cui relazionarsi, non avendo avuto due genitori che si occupassero di lui ed ora, a trent’anni suonati, gli risultava inconcepibile dover rendere conto ad una persona che conosceva da un paio di settimane. Ma non aveva voglia di litigare, per cui decise di optare per una risposta diplomatica. «Pensala come vuoi. Io sono convinto di quello che ho fatto. Avremo modo di scoprire col tempo chi avrà avuto ragione. E se dovessi essere tu, non avrò problemi ad ammetterlo. Ora però devo proprio andare: voglio vedere se mi riesce di buttare giù qualche riga. Ci vediamo, Roni» concluse, alzandosi e andandosene, dopo averle rivolto un cenno di saluto.
La barista lo osservò allontanarsi mentre mille dubbi affollavano il suo cervello: avrebbe dovuto insistere? O invece sarebbe stato meglio lasciar correre e riprendere quel discorso in un secondo momento? Senza neanche rendersene conto, i piedi di Roni la condussero sulla soglia del bar di fronte al quale un uomo stava distribuendo alcuni volantini. Ne prese uno, dopo avergli rivolto un’occhiata perplessa: annunciava che, nel giro di pochi giorni, un circo sarebbe giunto in città e vi sarebbe rimasto almeno due settimane. Non aveva tempo per andarci ma… chissà, magari sarebbe interessato ad altri. Si fece dare alcuni volantini, promettendo di distribuirli ai suoi clienti, dopodiché tornò dentro il bar: a breve avrebbe aperto e aveva ancora delle cose da fare.

 
Ed anche questo capitolo è concluso, evviva! Spero che vi sia piaciuto e che vi abbia invogliato a continuare la lettura. Ieri, in America è andata in onda l’ultima puntata di Once Upon A Time. Noi continueremo a vederle ancora per un paio di settimane, ma, in sostanza… con oggi è finita un’era :) Devo ammettere che mi mancherà, specie quest’ultima stagione. Ma ho talmente tante idee per scrivere che avrò modo di consolarmi. Spero che vi piaceranno e che continuerete a leggere anche se non ci sarà più la serie. E soprattutto, che mi farete sapere cosa ne pensate. Io adesso vado a guardarmi il finale di stagione. E per chi non l’avesse ancora fatto… buona visione a tutti!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Tutti al circo! ***


E oggi inauguro il mio primo giorno di ferie postando il nuovo capitolo! Lo ammetto questo e il successivo (perché cerco sempre di essere un capitolo avanti a voi, per non restare bloccata) sono stati un vero parto. Ma ne sono uscita e, dopo aver passato due ore a revisionarlo, vi presento il risultato delle mie fatiche. Se ci sono errori, vi prego segnalatemeli, perché, ora come ora, non sono capace di trovare più niente. Vi lascio al capitolo, buona lettura. Alla fine vi metto alcune note. Per una migliore comprensione del capitolo 
 
Ringraziando la sua buona stella, l’irritazione di Lucy era durata soltanto un giorno e, dal giovedì, Ivy aveva potuto riprendere il suo posto alla Belfrey Industries. Il giorno di pausa le era servito per riflettere: si era chiesta se davvero fosse il caso di onorare la promessa fatta a Henry o se non fosse meglio tirarsi indietro. Dopotutto, anche se i loro rapporti erano tesi al massimo, si stava pur sempre parlando di sua madre, l’unica famiglia che le era rimasta. Era stata tentata più volte di telefonargli e dirgli che aveva cambiato idea, che non poteva farlo, ma ogni volta aveva messo giù il telefono, ricordando le parole sprezzanti che Victoria le aveva rivolto durante la loro ultima discussine. Era palese che sua madre non la considerasse più di un’inutile zavorra, quindi… perché avrebbe dovuto preoccuparsi per lei? Anzi, aveva l’occasione di essere un passo davanti a lei e dimostrarle di non essere affatto una stupida. Ma per riuscirci, doveva tenere occhi e orecchie bene aperti tanto a casa quanto lì al lavoro. Per fortuna non era più stata incastrata con inutili perdite di tempo, quali il babysitteraggio o stupide commissioni, anche se comunque, non era riuscita ad evitare totalmente le scocciature. Stando a letto tutto il giorno, Lucy aveva girato parecchio su internet e aveva presto trovato le foto che lei e Henry avevano caricato della festa di Halloween. Ivy non avrebbe dimenticato facilmente la scenata isterica che ne era seguita: la ragazzina l’aveva raggiunta in soggiorno e le aveva intimato (santo cielo, ancora faticava a credere che una ragazzina di otto anni si fosse permessa di usare un simile tono con lei) di dirle che quelle foto erano uno scherzo. Alla sua risposta negativa era arrivata la scenata: Lucy aveva cominciato a strillare che non doveva vederlo più, che non era per lei, che Henry era innamorato di sua madre, che se ne sarebbe accorto presto e lei sarebbe stata dimenticata… non riusciva neanche a ricordare tutte le parole precise, Lucy ne aveva vomitata una marea nel giro di pochi minuti, facendole salire un terribile mal di testa. Ivy aveva bruscamente chiuso il discorso ricordandole che quelli non erano affari che la riguardassero e rispedendola in camera sua. Una volta sola si era detta che in fondo era meglio così: la strana gentilezza di Lucy della mattina era davvero inspiegabile, e, se doveva essere sincera, si trovava meglio quando sua nipote la odiava come al solito, almeno sapeva come comportarsi. Come piovuti dal cielo, comparvero sopra la sua tastiera, interrompendo il corso dei suoi pensieri, alcuni cartoncini colorati. Li osservò perplessa, prendendoli in mano e rigirandoli sottosopra.                                                                                           «Tre biglietti per lo spettacolo che il circo terrà domenica pomeriggio. Che cosa dovrei farmene, esattamente?». Non era stupida e temeva di averlo già capito ma voleva che sua madre, che era ancora ferma lì davanti a lei, lo dicesse a voce alta.
«Sei davvero stupida. Non è ovvio? Sono per te, Lucy e Jacinda. E vediamo se lei riesce a trovare due ore da dedicare a sua figlia». Oh, fantastico, la mamma era di nuovo in vena di test. Ivy si morse la lingua, trattenendo una nuova domanda di cui sapeva già la risposta: la sua presenza era necessaria per controllare che la sorellastra non si facesse venire in mente qualche strana idea tipo prendere un traghetto e scappare come aveva provato a fare l’ultima volta. Con riluttanza, afferrò i biglietti infilandoli in borsa e limitandosi ad annuire alla volta della madre: magari avrebbe potuto procurarsene un quarto e chiedere a Henry se aveva voglia di andare con loro. Dopo la festa non avevano più avuto occasione di vedersi: lei era stata incasinata tra Lucy e il lavoro e quando gli aveva chiesto se gli andasse di bere qualcosa da Roni, lui le aveva detto che in quei giorni preferiva passare il tempo a casa a scrivere. In un primo momento le era parso strano, soprattutto ricordando il proposito palesato solo la sera prima di uscire più spesso con lei. Ci aveva riflettuto per un po’ e alla fine aveva concluso che quella di Henry era stata solo una battuta o, più probabilmente, un proposito affrettato dettato dalla situazione particolare in cui si erano trovati e aveva smesso di pensarci. Ora le si presentava l’occasione di verificare, ma era davvero una buona idea? Se si fosse sentito costretto ad accettare solo perché era stata lei a proporlo? Sul serio l’hai appena pensato, Belfrey? Scendi dal piedistallo, chi ti credi di essere? Non sei così speciale. Doveva essere un po’ più realista e la realtà le si presentò implacabile alla mente: Henry era il tipo che l’avrebbe fatto, ne era certa, ma non per lei. Avrebbe potuto accettare anche controvoglia solo per non deludere Lucy ed era proprio l’ultima cosa che Ivy voleva. Come diavolo doveva comportarsi? In quell’esatto momento, dallo schermo di fronte a lei, quello che dava sull’entrata principale, intravide un uomo che reggeva tra le mani un pacco e si accingeva a entrare. Scrollò le spalle: se fosse stata una bomba, la sicurezza avrebbe sbattuto fuori quell’individuo nel giro di due millesimi di secondo e se non lo fosse stata… non le interessava cosa ci fosse. Cinque minuti dopo, fu costretta a cambiare idea quando uno degli uscieri la chiamò al telefono, annunciandole che il suo collega stava salendo con un pacco per lei:
«Vuole dire per Mrs Belfrey, mia madre»
«No, signorina: sul pacco c’è scritto il suo nome “Miss Ivy Belfrey”» confermò l’uomo. Ivy era interdetta, mentre cercava di ricordare se per caso avesse fatto qualche ordine online o avesse dimenticato di ritirare qualcosa alla posta… ma no, non ricordava nulla… e poi non dava mai l’indirizzo dell’ufficio… di che diavolo si trattava? Beh, giacché non poteva più fermare il tipo, tanto valeva scoprirlo e, in caso, si sarebbe limitata a rispedire il pacco al mittente. La sua curiosità fu presto soddisfatta: l’usciere arrivò davanti a lei nel giro di dieci minuti, mettendole di fronte un involucro rettangolare. Risolse le formalità nel giro di un attimo e fu ben presto lasciata di nuovo sola, con l’unica compagnia di quello strano pacco: era piuttosto alto, non troppo pesante ma… non aveva proprio idea di cosa potesse essere. Esaminò la busta fino a trovare l’indirizzo del mittente: Henry Mills, 815 Valley View Trail, Seattle. Oh. Perché Henry le mandava un pacco? La sua curiosità raggiunse un nuovo picco, mentre, dopo essersi assicurata di essere sola, lo poggiava sulle ginocchia e si apprestava a togliere l’involucro. Sembrava…. carta… ma cosa…? Rovesciandola, la busta rivelò il suo contenuto: era… un libro, intitolato…. Once Upon A Time il cui autore era… Henry Mills e… c’era un bigliettino, l’aveva visto cadere a terra. Lo raccolse, leggendo le poche parole vergate sopra: Solo per dimostrarti che non tutti i personaggi di tutte le favole sono monocromatici. Sorrise, ricordando di aver usato più o meno quelle parole la sera della festa facendo un paragone tra le leggende di epica e le favole, quindi aprì la prima pagina per infilare dentro il biglietto e trovò una nuova scritta: caspita, anche la dedica le aveva fatto! Alla persona più scettica che abbia mai conosciuto. Henry. Rise di cuore, decidendo di dargli una possibilità: solitamente non leggeva gli autori autopubblicati, le davano l’idea di disperati non abbastanza bravi da attirare l’attenzione di una casa editrice e quindi, non davvero degni dell’attenzione del pubblico. Ma Henry era un amico e ogni regola aveva la sua eccezione. E inoltre, aveva già un’idea di come scrivesse grazie a H Town: i suoi articoli le piacevano, catturavano l’attenzione e costringevano il lettore ad arrivare fino alla fine. Magari il libro sarebbe stato uguale. Realizzò che doveva chiamarlo o almeno scrivergli per ringraziarlo. Afferrò il cellulare, componendo un breve testo: Ho ricevuto il tuo libro. C’è perfino la dedica, sono onorata! A parte gli scherzi, grazie, lo leggerò, promesso. E ti farò sapere se ho cambiato idea sulle favole. Probabilmente in quel momento anche lui stava lavorando, per cui non si aspettava una risposta celere. Ripose il cellulare, tornando a concentrarsi sul lavoro con un nuovo umore: forse, dopotutto, poteva chiedergli se avesse voglia di andare al circo con Lucy, lei e Jacinda. E al massimo avrebbe ricevuto un rifiuto e l’avrebbe elegantemente incassato, come ne aveva incassati molti altri, d’altronde.
 
Henry non aveva mai ringraziato tanto la sua buona stella dell’esistenza dei turni a lavoro: anche nella settimana appena trascorsa aveva avuto il week end libero e gli sarebbe capitata la stessa, piacevole sorte, anche alla fine di quella settimana e chissà per quanto. Probabilmente finché fossero durati i problemi di coppia di Vincent Hawkins. Il collega gli aveva raccontato che, in quell’ultimo periodo, lui e sua moglie litigavano spesso e gli aveva confessato di non avere molta voglia di passare troppo tempo a casa, specie nei week end, poiché solitamente in quei giorni, sua moglie era di riposo e le tensioni aumentavano. Il lavoro era una scusa perfetta e, per quel motivo, gli aveva chiesto di cambiare turno quel sabato e anche quello successivo. A lui andava bene, gli dava più tempo per scrivere, il pomeriggio era particolarmente produttivo, specie in quelle ultime settimane. Dopo la pseudo discussione con Roni era tornato a casa e aveva passato il pomeriggio buttando giù tutto quello che il cervello gli suggeriva. Aveva lavorato due giorni, in ogni ritaglio di tempo e alla fine ne aveva ricavato un mezzo articolo per il blog, ancora da limare e una parvenza di primo capitolo di una storia che non sapeva ancora neanche lui dove sarebbe andata a parare. In una delle poche pause che si era concesso, aveva ricordato la chiacchierata con Ivy a proposito delle favole, così aveva deciso di spedirle una copia del libro che aveva scritto. Non credeva di essere davvero così bravo, ma sapeva che nelle sue favole c’era qualcosa di diverso, rispetto alle altre, ci aveva lavorato parecchio ed era stato certo di essere riuscito a dare ai suoi personaggi quel qualcosa in più che li rendeva più simili ai personaggi di un romanzo o di quell’epica che lei gli aveva fatto capire di preferire. Così le aveva scritto due righe su un bigliettino, una dedica scherzosa sulla prima pagina del libro (insomma, non era da tutti avere un libro autografato con tanto di dedica) e, dopo aver realizzato di non avere il numero civico del suo appartamento, era andato a comprare una busta indirizzando il tutto alle Belfrey Industries. Avrebbe anche potuto darglielo di persona ma, in quei giorni, il suo cervello era talmente assorbito dalla voglia di scrivere, che era già moltissimo che fosse riuscito a escogitare un simile piano. E poi, con il week end di mezzo, probabilmente aveva altro da fare che stare dietro a lui. Quello era il motivo che lo aveva spinto a non farsi più vivo… e anche il fatto che, dopo aver spedito il libro, non aveva in realtà, più rivolto alcun pensiero all’amica, divorato dalla voglia di scrivere e dare una forma a tutto ciò che gli passava per la mente.
Quel giorno, però, era lunedì, il week end era finito e lui era dovuto tornare a lavoro, lasciando incompiuto un capitolo per l’ennesima volta. Poco male, ci avrebbe pensato quella sera, sapeva già esattamente come andare avanti. Verso l’ora di pranzo, si era concesso un break, per non rischiare di svenire dalla fame e, controllando il cellulare, aveva trovato un messaggio di Ivy che lo ringraziava per il libro e prometteva di leggerlo, dicendosi onorata per la dedica. Le aveva inviato una risposta veloce e avrebbe quasi riposto il telefono se non avesse squillato proprio in quel momento: un altro messaggio di Ivy. Pensavo… hai visto che è arrivato il circo in città? Ecco… mi chiedevo se ti andasse di venirci, domenica pomeriggio. Ho solo tre biglietti per il momento: uno a testa per me, Lucy e Jacinda. Ma, se ti va di venire con noi, non avrò problemi a prenderne un altro. Il circo? In effetti, ora che ci pensava, in giro aveva visto di sfuggita qualche nuova locandina… di un circo? Non le aveva lette, le aveva solo intraviste, troppo concentrato sull’evitare di andare a sbattere da qualche parte. Incuriosito, si affrettò a pagare, dopodiché uscì: doveva essercene una poco distante da lì… eccola! La lesse attentamente: in effetti, si parlava proprio di un circo, il cui primo spettacolo sarebbe stato quella sera stessa e che ne aveva organizzato uno per la domenica pomeriggio alle 6 p.m. con un numero a sorpresa. Probabilmente quello era lo spettacolo cui lo aveva invitato Ivy. Aveva voglia di andarci? Non ne era sicuro. Un pomeriggio con Jacinda, dopo il loro ultimo incontro, non era la sua massima aspirazione. Probabilmente, se ci fosse stata soltanto lei, avrebbe rifiutato. Ma non sarebbero stati soli anzi, realizzò, probabilmente Ivy lo aveva invitato proprio per quello, immaginando che la presenza di un membro esterno alla famiglia avrebbe calmato almeno la lingua di Lucy. Era certo che lei fosse in grado di gestire tranquillamente la sorella e la nipote anche da sola, ma se poteva darle una mano non gli dispiaceva. Le inviò quindi rapidamente una risposta affermativa comprensiva di una postilla: Non serve che mi trovi un biglietto, posso procurarmene uno in giornata. Evidentemente era in pausa pranzo anche lei, perché rispose quasi immediatamente: No, per favore. Te l’ho chiesto io ed è già moltissimo che tu abbia accettato. Del biglietto non ti devi preoccupare, ok? Guarda che mi offendo. Quello, però, era un colpo basso: stava usando le sue stesse armi. Henry scosse la testa decidendo di desistere, anche perché la sua pausa era quasi finita e non aveva il tempo di elaborare una risposta decente: avrebbe trovato un altro modo di ripagarla, su quello non c’erano dubbi.
 
Nella sua vita, Jacinda Vidrio aveva avuto poche certezze. Una di queste era che lei vivesse, indubbiamente, in una situazione privilegiata, per quanto difficile. Poco dopo aver perso sua madre, suo padre aveva conosciuto Victoria, innamorandosene e permettendole di non soffrire troppo l’assenza di una figura materna. Ugualmente, Victoria si era risposata con Marcus Belfrey solo due anni dopo che suo padre le aveva lasciate e lui era stato davvero un padre eccezionale, che lei aveva amato con tutto il cuore. Aveva sofferto tantissimo la nascita di Ivy, la cui presenza l’aveva bruscamente scalzata dal posto privilegiato di principessa di casa. Ci aveva messo anni per farsene una ragione, ma alla fine era venuta a patti con la realtà: la sorellina esisteva e non poteva ignorarla, né portarla a perdersi nel bosco come in Hansel e Gretel. Crescendo il loro rapporto era leggermente migliorato: Jacinda si limitava a ignorarla, nonostante Ivy le chiedesse spesso di giocare o di andare fuori. Ma lei era un’adolescente con altri interessi, non aveva tempo di stare dietro ad una bambina piccola. E poiché ai loro genitori interessava solo il lavoro e, quando non parlavano dell’ufficio, discutevano solo dei ripetuti tentativi falliti di avere un terzo figlio (due non bastavano? La seconda, poi, era già sufficientemente irritante, senza che le mettessero tra i piedi un altro moccioso) non aveva mai visto alcun motivo valido per cui avrebbe dovuto curarsi di una piattola di sette anni. Per questo motivo, lei e Ivy non avevano mai costruito un vero legame e, anzi, col tempo erano risultate sempre più diverse: Ivy andava a scuola volentieri e portava a casa spesso ottimi risultati, il voto più basso che aveva preso era una C, una volta che proprio non aveva capito un argomento e ci aveva pianto una settimana. Jacinda incassava tranquillamente anche delle sonore F, certa che comunque, il risultato non fosse importante e che il suo cognome le avrebbe aperto molte porte a prescindere da qualsiasi fosse stata la sua media scolastica.
La sua matrigna le ripeteva continuamente che grande delusione fosse, paragonandola a sua sorella, ma quei discorsi la lasciavano del tutto indifferente: figurarsi, ovvio che Ivy sarebbe stata sempre più brava, ciò che doveva studiare erano cazzate in confronto a quello che toccava a lei. E in ogni caso, Jacinda preferiva avere degli amici, piuttosto che eccellere. A fare amicizia era brava, era sempre stata circondata da un mucchio di persone e, dal primo anno di superiori, con la scoperta dei primi trucchi e l’inizio dello sviluppo erano aumentate notevolmente. Molti ragazzi avevano iniziato a ronzarle intorno e a lei piacevano troppo quelle attenzioni per aver davvero il tempo di concentrarsi su altro. A quindici anni aveva imparato a truccarsi, poi aveva scoperto il fumo: due anni dopo, fumava cinque sigarette al giorno e aveva già preso la sua prima sbronza, cosa per cui la sua matrigna le aveva fatto una scenata eterna. Jacinda si era rammaricata più del tempo che aveva dovuto perdere ad ascoltarla che delle parole in sé e aveva continuato per la sua strada. L’anno successivo, al momento di decidere cosa sarebbe stato del suo futuro, incredibilmente, lei e i suoi pseudo genitori si erano trovati d’accordo per la prima volta: Jacinda non avrebbe frequentato il college, sarebbe stata un’inutile perdita di tempo e denaro per tutti.
Così si era trovata un lavoro nell’azienda di un amico di famiglia, per fare un po’ di gavetta, ma aveva presto capito che quella vita non faceva per lei e si era licenziata. Da quel momento aveva cambiato un lavoro dopo l’altro, ma niente l’aveva mai colpita o, se capitava, era lei a non piacere ai datori di lavoro che la invitavano a cercare altro, sostenendo che fosse sprecata lì con loro e che avesse potenziale da utilizzare che altri avrebbero saputo coltivare al meglio. Jacinda si faceva sempre delle grasse risate, sentendo questi discorsi: che ipocriti! Avrebbero detto qualsiasi cosa per non inimicarsi i suoi genitori!Ovviamente, quella sbagliata era lei: la sua perfetta sorella non avrebbe mai avuto di questi problemi. Ivy appena entrata nel ciclo della scuola secondaria, aveva ottenuto risultati che Jacinda, ai suoi tempi, aveva potuto soltanto sognarsi e di certo, anche in futuro avrebbe continuato così. Quando Victoria glielo faceva notare, Jacinda ribatteva che, in compenso, Ivy era una specie di alieno, che studiava e basta e non aveva lo straccio di un amico e che lei sarebbe morta anziché diventare così. In sostanza, dava l’impressione di non curarsi affatto di quei paragoni. Tuttavia tra sé e sé, sperava che una volta, anche una soltanto, la sua sorellastra fallisse un test: ne sarebbe bastato uno, giusto per dimostrare che non era così perfetta come sembrava. Sarebbe stato anche in linea col clima che si respirava in casa in quel periodo: Marcus e Victoria sembravano sempre più distanti, a malapena si parlavano, troppo concentrati sul loro lavoro. Jacinda era certa che, di lì a qualche mese, si sarebbero lasciati.
Invece, non solo non l’avevano fatto ma, incredibilmente, l’anno successivo, Victoria aveva annunciato di essere incinta. A quasi quarant’anni! Santo cielo! Sarebbe stato più normale che fosse stata lei, Jacinda, a dare una simile notizia. L’universo aveva cominciato a girare al contrario senza degnarsi di avvertirla! E, tanto per distruggere ancora di più il suo mondo, tre mesi dopo quella scoperta, mentre tornava a casa, Marcus aveva avuto un gravissimo incidente d’auto, morendo sul colpo. Jacinda ne era stata devastata: era la seconda volta che perdeva un padre, che diavolo aveva fatto di sbagliato nella vita? Era di certo tutta colpa di quella nuova bambina: sicuramente la vita di suo padre era stata lo scotto da pagare per permettere la sua esistenza. Aveva sperato che, almeno in quell’occasione, Ivy si alleasse con lei facendo capire a Victoria che una nuova gravidanza, in quel momento era assurda: magari, se fossero state abbastanza convincenti, Victoria si sarebbe persuasa ad abortire. Ma le cose, di nuovo, non erano andate come Jacinda si era aspettata: dopo un primo periodo di profonda tristezza e un iniziale rifiuto, Ivy era sembrata davvero felice di quella gravidanza. In fondo, di che si stupiva? Erano sempre state diversissime e poi la sua sorellastra si divertiva davvero un sacco a stare coi bambini, tanto che aveva ribadito più volte che ne avrebbe fatto il suo lavoro. E, infatti, dopo la nascita di Anastasia (che nome di merda, povera bambina, chi si chiamava Anastasia?) aveva perfino allentato un po’ con lo studio per passare più tempo possibile con la sorellina, la faceva giocare e aveva ottenuto il permesso, sotto la supervisione di qualcuno, di provare anche a darle da mangiare. A Jacinda tutte quelle stronzate non interessavano, anzi, meno ci aveva a che fare e meglio stava. I bambini non le piacevano: aveva deciso, fin da ragazzina, che non sarebbe mai diventata madre per nessun motivo al mondo. I cinque anni successivi erano stati relativamente sereni: Anastasia cresceva, Ivy studiava e lei si faceva la sua vita, passando da un ragazzo all’altro e tentando di tenersi un lavoro per più di due mesi. Poi, un giorno, era successa la tragedia, quella che le aveva dato una terribile scossa: avevano chiamato a casa dall’ospedale dicendo che Ivy aveva riportato una grave commozione cerebrale. Solo qualche ora dopo avevano realizzato che Anastasia non si trovava da nessuna parte. Quell’ultimo evento aveva definitivamente minato i già precari equilibri familiari: Victoria aveva preso a odiare visceralmente Ivy, ritenendola responsabile di quello che era successo, Ivy stessa s’incolpava dell’accaduto e Jacinda stava fuori di casa il più possibile per evitare di finire in mezzo a quella guerra silenziosa.
La donna stava ancora riflettendo su queste cose, approfittando di un momento di pausa dal lavoro, quando il suo telefono squillò: un messaggio di sua sorella. La mamma ha preso i biglietti per il circo per me, te e Lucy, per lo spettacolo di domenica alle 6 p.m.. Fammi sapere dove ti fa comodo che ci incontriamo. Tipico, come al solito Victoria decideva sempre tutto. Jacinda non capiva proprio perché Ivy non fosse capace di ribellarsi. Sospirò, mentre il suo cervello tornava indietro di nove anni, all’inizio del periodo più assurdo della sua vita, il giorno dell’incidente delle sue sorelle.
Proprio due ore prima di quella terribile telefonata, Jacinda aveva ricevuto una notizia che mai si sarebbe aspettata: era incinta. Nel giro di nove mesi sarebbe diventata madre. Sul momento era rimasta interdetta e non ne aveva parlato con nessuno, incapace di credere che potesse accadere proprio a lei e convinta che ignorare il problema sarebbe bastato per farlo scomparire. Poi un giorno era svenuta in presenza di Victoria e Ivy e il segreto non era più stato tale. Victoria le aveva fatto una sfuriata epica per essere stata tenuta all’oscuro di una cosa così importante. Aveva voluto sapere ogni dettaglio e all’ennesima domanda, Jacinda aveva sbottato che non aveva alcuna importanza «Tanto mi libererò presto di questo problema, devo solo prendere un appuntamento». Non aveva neanche visto arrivare lo schiaffo che le aveva letteralmente rivoltato la faccia: Victoria le aveva intimato di non permettersi mai più neanche di pensare a un’eventualità del genere. Il bambino sarebbe nato e lei se ne sarebbe assunta la responsabilità. Per tutta la gravidanza l’aveva tenuta sotto stretto controllo, imponendole una dieta rigida e l’astinenza da fumo e alcolici, prendendo lei stessa gli appuntamenti e accompagnandola a tutte le visite. «Sembri tu quella incinta» aveva più volte commentato Jacinda, esasperata.  Ma Victoria non aveva voluto sentire ragioni e le era stata addosso finché, il 14 marzo 2009, Lucy aveva deciso che era tempo di venire al mondo. Quel giorno c’era stata una nuova lite: Jacinda, con il passare del tempo, si era convinta sempre più di non volere la bambina, certa di non essere adatta a fare la madre. Al momento di firmare i documenti si era rifiutata di riconoscere la figlia e Victoria era andata su tutte le furie: non avrebbe mai permesso che sua nipote crescesse lontana dalla famiglia. «Sei davvero un’idiota, non ti basta quello che è successo a tua sorella? Non permetterò che un altro membro della mia famiglia cresca chissà dove!». A nulla era valso ricordarle che loro non avessero, in realtà, alcun legame di sangue. Alla fine erano giunte a un compromesso: Jacinda avrebbe ceduto la sua potestà genitoriale a Victoria stessa, fornendole, per i primi tempi, il latte che si sarebbe appositamente tolta. Dopodiché, terminato lo svezzamento, avrebbe anche potuto andarsene. Ma, aveva aggiunto Victoria, se avesse fatto quella scelta, non avrebbe dovuto azzardarsi a far rivedere la sua faccia mai più, né cercare alcun contatto con Lucy. Jacinda era stata d’accordo e, sei mesi dopo la nascita di Lucy, aveva fatto le valigie e si era trasferita in un appartamento per conto suo, del quale aveva pagato l’affitto attingendo al suo fondo fiduciario. Aveva conosciuto Sabine nel 2013, quando l’amica aveva lasciato la casa della madre per essere indipendente. Lei aveva appena perso l’ennesima coinquilina e la ragazza era capitata nel posto giusto al momento giusto: Sabine si era trasferita e avevano dato inizio ad una solida amicizia che durava da quattro anni. Poco tempo dopo le aveva parlato di Lucy e lei l’aveva spronata a cambiare, a tentare di conoscere la figlia. Era stato grazie al suo incoraggiamento e al suo sostegno che Jacinda era riuscita a telefonare a Victoria dopo cinque anni chiedendole di poter conoscere Lucy. La donna era stata scettica, ricordandole il loro patto, ma il caso era venuto in soccorso di Jacinda. Lucy aveva cominciato a chiedere come mai la sua pelle fosse di un colore diverso da quella di Victoria e Ivy e, a quel punto, si era dovuta smettere ogni menzogna. E così, in capo a un mese, Lucy aveva scoperto che la donna che aveva sempre chiamato mamma era in realtà sua nonna e che Ivy non era sua sorella ma sua zia. A quel punto, a quanto le era stato detto, la bambina aveva messo il broncio e aveva fatto mille storie finché sua nonna non si era convinta a lasciarle incontrare sua madre. Cautamente, ognuna coi propri tempi, madre e figlia avevano tentato, a loro modo, di recuperare quella relazione che avrebbe dovuto essere così naturale ma che, per entrambe, era stato faticosissimo instaurare. Jacinda, a un certo punto aveva capito che il modo migliore di accattivarsi le simpatie della bambina era viziarla e riempirla di regali e quel trucco sembrava funzionare abbastanza: nell’ultimo anno e mezzo, Lucy era stata molto più felice di vederla, sembrava più impaziente di passare del tempo con lei ed era più affettuosa. Da un paio d’anni aveva anche cominciato a farle il regalo per la festa della mamma, riempiendola di gioia. E lei aveva capito che doveva impegnarsi per cambiare e fare di tutto per poterla portare a vivere con sé. Sorrise: l’arrivo del circo le dava un’insperata possibilità di cementare il rapporto, anche se non sarebbero state sole. Ora l’importante era vedere di tenersi libera per quel giorno. Poi avrebbero sempre potuto tentare di convincere Ivy ad andare in giro per conto suo e lasciarle sole fino alla fine dello spettacolo. Rinfrancata da quel nuovo proposito, si rimise al lavoro: se voleva convincere Louis a darle la domenica libera avrebbe dovuto essere super efficiente.
 
La settimana di Ivy era trascorsa in un lampo: tra il lavoro e Lucy aveva avuto pochissimo tempo libero e, quel poco, la maggior parte l’aveva trascorso in camera sua con il libro di Henry tra le mani, assorbita dalla lettura. Detestava ammetterlo, ma le stava piacendo davvero: quei personaggi sembravano veri e reali, molto più sfaccettati di quelli delle classiche favole. Aveva divorato la prima parte, maledettamente curiosa di sapere come se la sarebbero cavata i personaggi delle favole nel mondo reale. Era scoppiata a ridere quando aveva letto il nome di Henry stesso nella storia, nel ruolo del figlio della protagonista che si ritrovava ad avere una madre biologica e una adottiva. Si era chiesta se quella descrizione non rappresentasse in qualche modo la famiglia di Henry: chissà, magari sua madre era lesbica o qualcosa del genere…. Quella riflessione l’aveva scossa: si era resa conto di conoscerlo pochissimo, non sapeva nulla di lui, a parte quello che le aveva raccontato la sera di Halloween e quel riferimento a una bambina di nome Abigail che, se aveva capito bene, attualmente aveva nove anni e che Henry non vedeva da quattro anni… o almeno così le era parso di capire. Quella era la parte che la incuriosiva di più: era divorziato? O forse parlava di una nipote? O magari, chi poteva saperlo, di una sorella molto minore. Scosse la testa, rifiutando quell’ultima ipotesi: no, una sorella no. Da Facebook aveva scoperto che Henry aveva 33 anni, una sorella di 9 avrebbe significato che sua madre aveva avuto un’altra figlia a distanza di ben ventiquattro anni dal primo… no, erano decisamente troppi. Però poteva essere una sorellastra da parte di padre? Una cosa era certa: Henry le aveva dedicato il suo libro, definendola addirittura “luce della mia vita”. Aveva visto la dedica stampata nell’ultima pagina bianca prima dell’inizio della storia e doveva ammettere di essere curiosa. Magari avrebbe indagato la domenica successiva, con discrezione. Quell’ultima decisione aveva placato, almeno temporaneamente, la sua curiosità, permettendole di tornare a concentrarsi sulla lettura… almeno fino a quando non aveva dovuto sopportare l’ennesima scenata. Ma questa, forse, se l’era un po’ cercata, ammise a se stessa: avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione. Invece, il mercoledì pomeriggio, dovendosi allontanare per una commissione, aveva lasciato il libro in salotto, con l’intenzione di riprenderlo appena fosse tornata. Ma sua madre e Lucy erano rincasate prima di lei e avevano trovato il libro e letto la dedica e il bigliettino. Apriti cielo! Al suo ritorno aveva trovato Lucy che gridava istericamente, pretendendo di sapere quando Henry gliel’avesse dato, quando si erano visti e continuando a blaterare che lei dovesse smetterla di frequentarlo perché lui, in realtà, era destinato a stare con sua madre. Era stata talmente nervosa che aveva afferrato il libro e l’aveva gettato a terra. Ivy si era trattenuta dal darle uno schiaffo solo perché sua madre era lì presente e, dopo averlo raccolto ed essersi assicurata di avere con sé tutte le sue cose, era tornata in camera sua, decidendo di ignorarla e lasciandola gridare quanto voleva. Il giorno dopo, aveva fatto in modo di procurarsi il quarto biglietto per il circo, com’era rimasta d’accordo con Henry. Perché ovviamente, sua nipote non era stata punita, se non con una sgridata che le era entrata da un orecchio e uscita dall’altro e l’uscita ci sarebbe stata ugualmente. Inizialmente, visto quello che era successo, era stata tentata di telefonare a Henry e dirgli che non aveva trovato un quarto biglietto: lui non c’entrava niente con loro, era ingiusto che dovesse passare la domenica pomeriggio a sopportare i capricci di una mocciosa di otto anni. Poi aveva deciso di essere egoista e tacere: se proprio doveva stare con sua sorella e sua nipote tutto il pomeriggio, aveva bisogno di qualcuno che la frenasse dallo strozzare entrambe. A proposito di sua sorella… non le aveva ancora risposto. Doveva darle la conferma che sarebbe venuta, ma non l’aveva ancora fatto. Ivy sospirò: che se ne fosse dimenticata? Non sarebbe stata la prima volta. Ma stavolta non le avrebbe fatto da promemoria, stava a lei interessarsi dei propri impegni. Le aveva dato un orario e un giorno, Jacinda non doveva fare altro che muovere le dita e confermare l’appuntamento o chiedere di spostarlo. L’ultima volta che aveva controllato era venerdì e la sorella aveva ancora un giorno per rispondere. Ma il sabato non si era fatta viva e ora era arrivata la domenica mattina, senza ancora neanche una parola. Ivy sbuffò, ricontrollando il cellulare per l’ennesima volta. Proprio in quel momento giunse un nuovo messaggio: forse si era degnata…. No. Era Henry, che le dava conferma e le proponeva di passare a prendere lei e Lucy visto che sono di strada. E poi, col casino che ci sarà, meglio avere meno macchine possibili. Gli mandò una veloce conferma: magari così avrebbero dato più spazio di manovra a sua sorella. Si sarebbero incontrati lì sotto, nel giro di cinque ore. A Lucy non aveva detto niente della presenza di Henry: l’ultima cosa che voleva era scatenare un’altra scenata. Avrebbe lasciato che lo scoprisse all’ultimo momento. Lei, nel frattempo, si sarebbe dedicata a prepararsi, magari cercando un paio di scarpe comode.
 
Alle quattro del pomeriggio, mezz’ora prima dell’orario stabilito, in casa Belfrey cominciava ad accumularsi la tensione: Ivy era chiusa in camera sua, tentando di decidere cosa mettere, Lucy passava da una stanza all’altra continuando a chiedere, alternatamente, quando sarebbe arrivata sua madre e quando sarebbero partite; Victoria chiedeva continuamente che fine avesse fatto Jacinda, che ancora non si era vista e non aveva fatto sapere nulla. Vista l’ora, non c’era spazio per ulteriori indugi e Ivy si arrese, decidendo di chiamare la sorella. La prima telefonata andò a vuoto, strappandole un sospiro rassegnato. In compenso, aveva finalmente deciso cosa indossare: una maglia a girocollo verde scuro e una gonna nera che le arrivava poco sotto il ginocchio. Per le scarpe, alla fine aveva preferito un paio di decolleté neri con un po’ di plateau: già non ci voleva andare, se poi avessero anche cominciato a farle male i piedi, sapeva che si sarebbe definitivamente rovinata la giornata. Anche Lucy aveva quasi finito di prepararsi, notò, vedendola attraversare il corridoio alla volta del bagno. Lasciò che la nipote entrasse per prima, riprovando ancora a chiamare la sorella. Uno squillo, due, tre niente, non rispondeva neanche stavolta. In compenso, cinque minuti dopo, ricevette un messaggio di Henry, che la informava di essere appena partito: di già? Beh… in effetti ci voleva un po’ da casa sua a lì…
«Ma quando arriva la mamma?!» esclamò Lucy impaziente, interrompendo, inconsapevolmente, il corso dei pensieri della zia.
«Già, vorrei saperlo anch’io. Non è che ti sei dimenticata di avvisarla?» Victoria fece eco alla nipote, riservando alla figlia uno sguardo obliquo. Ivy alzò gli occhi al cielo:
«No, mamma, non me ne sono dimenticata, vuoi controllare il mio cellulare per esserne sicura? Provo a chiamarla di nuovo tra dieci minuti. E comunque, manca ancora una persona, non potremmo partire ugualmente». Si godette le espressioni stupite della sua famiglia ma non dette loro il tempo di proferire altre parole, tornando a rivolgersi a Victoria: «Piuttosto, mamma, tu non avevi detto di voler andare a quella mostra? Sono già le 16:15 e, se non ricordo male, tra mezz’ora c’è la presentazione dell’artista. Credevo non volessi perdertela…». Victoria lanciò uno sguardo all’orologio, annuendo:
«Per una volta nella tua vita, hai ragione. Bene, io vado. Stasera è anche probabile che ceni fuori, quindi non state ad aspettare: cenate e poi tu, signorina, alle 21 a letto. Al massimo alle 22, non un minuto di più. Sono stata chiara?» Lucy borbottò un assenso stentato e, soddisfatta, Victoria uscì di casa.
Ivy trasse un respiro di sollievo, dopodiché riprese il telefono componendo, per la terza volta, il numero di sua sorella. Di nuovo, il telefono cominciò a squillare: una volta… due… al terzo squillo sentì il suono familiare di una risposta.
«Finalmente mi degni di risposta… sei in ritardo… tua figlia è impaziente… come? Aspetta che vuol dire che….? Non ci posso credere, e quando pensavi di…. Sì…sì ho capito… no, lascia perdere… certo che… ma certo che ce la porto lo stesso! Abbiamo già i biglietti e non voglio che lei e la mamma mi scoccino più del necessario. No… No! Non hai diritto di parola…. Sì… sì, ho capito, va bene… ciao Jacinda». Ivy sbuffò, alzando gli occhi al cielo e scuotendo la testa: ci mancava solo quel contrattempo. Avrebbe anche dovuto coprirla con la mamma. Guardò l’orologio e, proprio in quel momento, il suo cellulare squillò di nuovo: Henry era appena arrivato. Si rivolse alla nipote:
«Andiamo, è ora. E sappi che tua madre, prima, al telefono, mi ha detto che non verrà. A quanto pare deve lavorare anche oggi e non è riuscita a liberarsi».
«Ma… ma… come…?» balbettò la bambina delusa «Ma allora perché ci andiamo? Se la mamma non viene…?». Ivy si bloccò: era evidente che sua nipote fosse delusa e, per una volta che aveva ragione, era il caso di assecondarla, per quanto poteva. S’inginocchiò di fronte a lei:
«Senti, Luce, neanche a me va particolarmente di andarci. Preferirei fare altro, tipo, stare a casa a leggere il mio libro. Ma la nonna ci ha preso i biglietti, dobbiamo andarci. E poi, anche tua madre ci tiene che tu ci vada. E… non saremo solo tu ed io: ho chiesto a Henry se aveva voglia di venire con noi e lui ha accettato, ci sta aspettando di sotto. E prima che cominci a protestare….» continuò vedendo la nipote in procinto di aprire la bocca «Henry ed io siamo amici, anche se la cosa non ti piace. Cerca di fartene una ragione, perché non ho intenzione di smettere di vederlo. Non permetto alla mamma di decidere per me su certi argomenti e non lo permetto neanche a te, mi sono spiegata?» Lucy annuì, riluttante, quindi, lei e Ivy si diressero verso il portone principale. Il silenzio che regnò tra loro fino a quel momento distese i nervi della bambina, permettendole di elaborare un’idea: in fondo, che importava se c’era Ivy? Poteva ignorarla, come aveva fatto il giorno di Halloween. La cosa importante era che stesse andando al circo e che ci fosse almeno Henry. Raggiunsero l’auto di Henry entrambe più serene. Lui, che le stava aspettando fuori, andò loro incontro:
«Ehi, eccovi! Ciao! Siete pronte? Andiamo?» Le due Belfrey annuirono seguendolo in macchina. Durante il viaggio, che si svolse tranquillamente, Ivy informò Henry che Jacinda non sarebbe venuta quel giorno e sarebbero stati solo loro tre. Il giovane autore tirò mentalmente un sospiro di sollievo: il pensiero di dover passare il pomeriggio a tenere a bada quella donna non lo aveva esaltato. Si era preparato psicologicamente, ma era felice che fosse stato uno sforzo inutile.
«Però, mi raccomando: la versione ufficiale è che oggi eravamo in quattro. Mia madre sarebbe capace di prendersela anche con me per non essere riuscita a convincere Jacinda a mollare il lavoro per due ore. Ma sinceramente, quando mi ha detto che doveva lavorare, non ho voluto insistere: so che ne ha bisogno e non era giusto che mettesse a rischio il suo posto per assecondare gli stupidi test di nostra madre».
«Test? Questa me la spieghi, un giorno. Ok, quindi avremmo dovuto essere quattro, ma siamo tre: abbiamo un biglietto in più... così Lucy può tornarci un’altra volta, se dovesse piacerle».
«Magari con la mamma! E magari potresti venire con noi!» propose la bambina, entusiasta. «Tu e la mamma non siete usciti insieme neanche una volta, ma sareste una così bella coppia!». Lucy stava letteralmente vivendo un sogno ad occhi aperti e non si era affatto resa conto del brivido di terrore che aveva attraversato Henry all’udire la sua idea. Forse, se gliel’avesse proposto prima, avrebbe avuto una reazione diversa: in fondo, quando l’aveva conosciuta, era stato subito colpito dall’aspetto di Jacinda. Non si poteva negare che fosse una donna molto bella e ricordava di aver pensato che gli sarebbe piaciuto uscire con lei e conoscerla meglio. Tuttavia, a distanza di qualche settimana, non era più certo di volerlo: aveva avuto occasione di stare da solo con lei e aveva scoperto lati del suo carattere con cui non era sicuro di voler avere a che fare. Fu per questo che scelse il silenzio, volendo evitare di deludere Lucy. Ivy lo osservò da sotto le ciglia, curiosa: avrebbe voluto che dicesse almeno una parola, giusto per provare a capire cos’aveva pensato dell’idea di sua nipote. Fu proprio l’affermazione della bambina a farla riflettere: aveva detto che Henry e Jacinda non erano usciti neanche una volta… per mancanza di tempo? O magari perché non erano interessati a farlo? Che t’importa di quante volte sono usciti o del perché non l’hanno fatto? Henry può uscire con chi vuole. Giusto, il suo cervello aveva ragione, doveva smetterla di pensare a quello. E poi, erano quasi arrivati, notò, sentendo Lucy emettere un grido di gioia alla vista del tendone del circo. A proposito. «La tua proposta non è fattibile, Henry. I biglietti hanno la data, non si possono utilizzare per un altro giorno. Magari lo regaliamo a qualcuno che deve ancora comprarlo o non so… vedremo». Nel frattempo, avevano trovato un posto per la macchina e, poco dopo, raggiunsero il tendone, dove gli artisti stavano, evidentemente facendo le ultime prove. C’era già una discreta folla alcuni erano fermi alla biglietteria, altri chiacchieravano formando piccoli capannelli. Lucy si guardava intorno estasiata: era tutto così colorato e fantastico! Non vedeva l’ora che lo spettacolo avesse inizio! Chissà se c’erano gli animali? E poi voleva vedere i trapezisti e i funamboli e… Si sentì afferrare per una spalla e si voltò, incrociando lo sguardo di sua zia:
«Non ti allontanare, stai qui con noi. Guarda che casino che c’è». Lucy annuì e, più tranquilli, Ivy e Henry la condussero alla biglietteria, per chiudere le formalità. La gente continuava ad arrivare dietro di loro, allungando la fila e facendoli avanzare sempre di più. Presto, arrivò anche il loro turno e Ivy presentò i quattro biglietti all’addetta che la guardò interrogativa. La ragazza si strinse nelle spalle:
«Noi tre più… la prima persona che ne sia sprovvista, per qualsiasi motivo. Doveva venire un’altra persona con noi, ma non si è presentata ed è ingiusto che vada sprecato. Lo faccia passare come un vostro omaggio o qualcosa di simile, magari per un bambino» Come Ana. Lei avrebbe di certo amato tutta quella confusione e i numeri dei clown. E se lei non poteva goderseli, che almeno un altro bambino ne avesse la possibilità. L’era venuto in mente solo in quel momento, ma era un’ottima idea, riconobbe, stringendosi mentalmente la mano. La ragazza annuì, strappando i tre biglietti che contrassegnavano posti vicini e trattenendo l’altro e il trio s’incamminò verso il tendone, cercando i propri posti.
«Qui!» esclamò Lucy indicando tre palchetti in seconda fila contrassegnati con gli stessi numeri presenti sui loro biglietti. I due adulti annuirono, occupando i posti con le giacche che avevano appositamente portato.
«Figuriamoci se mia madre non fa le cose in grande, perfino i posti nelle prime file ci ha rimediato. Come farsi riconoscere…» borbottò Ivy strappando una risata a Henry.
«Guarda il lato positivo, almeno vedremo perfettamente ogni numero. E… a questo punto… che ne dite di fare un giro?» propose quest’ultimo. «Lo spettacolo comincerà solo fra tre quarti d’ora, abbiamo un po’ di tempo… e io ho una missione da portare a termine prima dell’inizio» annunciò, suscitando due identici sguardi stupiti nelle sue compagne d’avventura.
«Che missione?» la domanda venne da Lucy ma Ivy la condivise silenziosamente. Henry però scosse la testa:
«Mi dispiace, non posso dirtelo o mi boicotterei da solo. Lo vedrai presto, promesso.
Andiamo». Sempre più curiose, Ivy e Lucy seguirono Henry fuori dal tendone, guardandosi intorno. Fuori, lo spettacolo sembrava iniziato: c’erano clown che posavano in foto con bambini, regalavano palloncini a forma di animale e un mago che regalava palline che faceva comparire dietro l’orecchio del bambino di turno. Gli occhi di Lucy erano sgranati dalla meraviglia:
«Posso fare una foto con un clown? Vi prego, vi prego…» propose, congiungendo le mani e facendo gli occhi dolci.
«D’accordo, ma dobbiamo metterci in fila…» notò Ivy, osservando il gruppo di bambini già in attesa per lo stesso scopo. Era meglio muoversi se volevano sperare di farcela entro l’inizio dello spettacolo. Incamminatasi, notò che Henry non le stava seguendo:
«Tu non vieni?» Henry scosse la testa:
«Cominciate ad andare, io vi raggiungo tra poco: ve l’ho detto che ho una missione» ammiccò scomparendo nella direzione opposta alla loro. Ivy rivolse al vuoto uno sguardo perplesso, poi scrollò le spalle: Henry era adulto e vaccinato, poteva tranquillamente allontanarsi senza rischi. E lei e Lucy avevano altro da fare. Si voltò, incrociando l’espressione delusa di sua nipote:
«Andiamo, su, non volevi la foto col clown?». Lucy la guardava indecisa:
«Ma… non aspettiamo Henry?» Non era esattamente nei suoi progetti restare sola con la zia, anzi, aveva sperato il contrario.
«Non ti preoccupare: Henry sa dove siamo dirette, ci troverà. E poi non ci allontaneremo molto, vedi? Dobbiamo avvicinarci di poche centinaia di metri». E fu quanto fecero, andando a chiudere la piccola fila che si era formata. Dovettero attendere un quarto d’ora prima che arrivasse il loro turno, ma alla fine, Lucy ottenne la sua foto e un palloncino a forma di giraffa. Henry le raggiunse non appena ebbero concluso, tenendo in mano tre mele caramellate, ognuna sul rispettivo bastoncino:
«Ecco, signore, mele caramellate per tutte» annunciò fiero, porgendone una a Lucy che cominciò a morderla entusiasta. Ivy, dal canto suo, lo guardò malissimo:
«Scherzi, vero? Io non mangio carboidrati, è fuori questione. Mi ci vorrebbe una settimana solo per smaltirla». Henry sbuffò:
«Come penso di averti già abbondantemente detto a Halloween, non hai bisogno di smaltire un bel niente. E la mia personale missione sarà farti assumere zuccheri e cibi calorici ogni volta che usciremo. E comunque, ormai l’ho comprata: devi mangiarla. Non si spreca il cibo». Ivy sbuffò, accettando il bastoncino:
«A dire il vero, no: potrei sempre regalarla a qualcuno, come ho fatto col biglietto» lo provocò. Henry però aveva la risposta pronta:
«Sai benissimo che è una cosa diversa: nessuno la prenderebbe, temendo che ci siano chissà quali germi. Avanti!» insistette. Ivy sbuffò:
«E non posso buttarla perché sono contraria per principio a sprecare cibo. Né darla a Lucy, perché troppi dolci le fanno male. E, ovviamente, tu non la mangeresti. Mi hai fregata, Autore, ma questa me la segno. Se tutte le volte che usciamo fai così, dovrò considerare di smettere di frequentarti». Le parole di Ivy, dette scherzosamente, fecero illuminare Lucy: davvero sarebbe bastato così poco per spingere quei due a non uscire più insieme? Ma era perfetto! E se Henry non fosse più uscito con Ivy allora sua madre avrebbe avuto una possibilità e lei una speranza di avere una famiglia vera, con un vero padre a cui voleva già bene. Fu in quel momento che Lucy Belfrey decise: avrebbe fatto tutto quanto fosse stato in suo potere perché quella previsione si avverasse quanto prima. Per il momento, si sarebbe goduta il pomeriggio e, nel frattempo, avrebbe escogitato un piano infallibile.
«Dai, venite, sediamoci lì» propose Henry, indicando con lo sguardo una panchina non molto distante. «Abbiamo ancora circa venti minuti prima di dover tornare ai nostri posti, possiamo prendercela con calma. Dunque signore, ditemi un po’: come avete passato questa settimana?» chiese, tanto per dire qualcosa.
«Sono andata a scuola e poi a danza e… oh, giusto…. Come mai zia ha un tuo libro con autografo e dedica? Te l’ha chiesto lei? Non l’ho mai visto in casa». Le era venuto in mente in quel momento ed era la situazione perfetta per indagare: Ivy non avrebbe potuto ribattere troppo bruscamente, se avesse voluto fare bella figura con Henry. D’altro canto, lui non aveva motivo di non risponderle e le avrebbe fornito maggiori spunti per costruire la sua strategia a favore di sua madre. Il suo piano, in realtà non ancora ben definito, aveva avuto inizio in quell’esatto momento e Lucy sperò che andasse tutto esattamente come l’aveva immaginato.

 
Note sparse:
  • l’indirizzo di Henry è semi inventato. Ho cercato in internet possibili indirizzi di Seattle e ho ricavato, tra gli altri questo. Potrebbe non essere giusto, non linciatemi xd;
  • essendo la storia ambientata in America, ho deciso di seguire un consiglio e d’ora in poi gli orari saranno scritti con a.m. e p.m. Correggerò in tal senso anche i capitoli precedenti
  • “C” ed “F” sono alcune delle valutazioni che gli studenti americani possono ottenere nei compiti in classe o agli esami. Il voto massimo è A, che corrisponde al nostro 10, il minimo è F che dovrebbe corrispondere ad un 3 o meno: quindi, in sostanza, Ivy è una secchiona, per cui una C (che sarebbe la sufficienza) è uno smacco imperdonabile. A Jacinda non frega della scuola quindi non si preoccupa dei voti bassi: se li prende e se li tiene senza troppi problemi
 
Bene, anche questo capitolo può dirsi concluso!Spero che vi sia piaciuto e che vi abbia invogliato a lasciarmi un vostro parere. A partire da oggi inoltre, spinta anche dalla chiusura del gruppo “Il Giardino di EFP” creerò una pagina FB in cui pubblicare le mie storie. A breve editerò questa parte finale aggiungendo il link. Edit: come promesso, eccola. L'ho chiamata "Le storie alternative di Veronica". Non sono brava con queste cose per cui questo link fa schifo, ma funziona. Prossimamente studierò qualcosa di meglio

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Turbamenti ***


Ebbene sì, eccomi finalmente a postare il quinto capitolo! I primi sono stati i più semplici ma, più vado avanti più la storia si complica ed ho necessità di rimettere le mani sulla trama generale. Vi basti sapere che ho perso una settimana di ferie (durante la quale praticamente, non dovevo fare altro) a revisionare e sistemare gli APPUNTI di questa storia. In due settimane si sono aggiunti alla trama ben sei personaggi, anzi nove se vogliamo essere fiscali (ma tre teoricamente dovrebbero restare soltanto citati). Alcuni li incontrerete proprio in questo capitolo. Di altri due non ho ancora neanche un volto preciso e a questo proposito… beh, leggete il capitolo, poi, nelle note in fondo vi dico cos’ho pensato. Se avete difficoltà a leggere per via del carattere, posso consigliarvi di usare lo zoom incorporato nel browser? Ingrandire il carattere lo farebbe risultare tanto disordinato....
UPDATE DEL 7/07/2018
Anche questo capitolo è stato pesantemente revisionato, vi consiglio di darci un'occhiata :). Sotto, un'immagine creata per questa storia da Arwen297


Ivy aprì e chiuse la bocca, sconvolta: prego? Stava davvero accadendo? Sua nipote stava davvero chiedendo conto a Henry delle sue azioni?
«Lucy! Falla finita! Non devo rendere conto a te di quello che ricevo ed Henry non è costretto a dare spiegazioni a nessuno su ciò che fa!». Cavolo! Era senza parole! Questo era il risultato dei vizi di sua madre e sua sorella: Lucy era cresciuta nella convinzione che tutto le fosse dovuto e che le cose dovessero sempre girare secondo le sue convinzioni. Se qualcuno non le avesse dato una raddrizzata sarebbe venuta su sputata a sua madre. Ivy represse un brivido di terrore all’idea: una Victoria Belfrey bastava e avanzava, non avevano bisogno anche di una versione in miniatura. Ma chi l’avrebbe fatto? Sua sorella era tutta presa ad accattivarsi le simpatie della figlia, non le avrebbe vietato nulla. A sua madre andava bene che la nipote fosse così, ne andava fiera. Quindi avrebbe dovuto essere compito suo? Non l’avrebbe mai ascoltata, figurarsi!
Henry, dal canto suo era rimasto allibito dall’insinuazione della bambina. «Lucy, ma tu… sei sempre così? Vedi complotti ovunque? Guarda che non è divertente. Ho regalato il libro a tua zia perché ne avevo voglia. Perché siamo amici, ne abbiamo parlato e mi andava che lo leggesse. E la dedica ci stava, visto che gliel’ho regalato perché mi ha detto di non apprezzare le favole classiche. Ma ovviamente, tu non c’eri quando abbiamo parlato e non puoi saperlo». Lucy mise il broncio, delusa: non solo Henry le aveva fatto un mezzo rimprovero, ma quelle ultime affermazioni confermavano i suoi peggiori sospetti. Henry e Ivy stavano diventando amici e questo avrebbe potuto crearle non pochi problemi. Doveva fare in modo che lui uscisse al più presto con sua madre e che si rendesse di quanto lei fosse meglio di chiunque altro. Perché cavolo non era venuta al circo con loro? La nonna aveva offerto loro un’occasione perfetta e lei l’aveva sprecata in maniera davvero stupida! Diede un rabbioso morso alla sua mela rischiando quasi di buttarsene un pezzo addosso.
«Lascia perdere, non c’è motivo di spiegarle: certe volte è solo capricciosa e viziata. Non sai quante storie ha fatto quando ha visto le foto di Halloween, da non credere…». E sì, Ivy lo sapeva: la sua uscita, probabilmente era stata infantile quanto quella della nipote, ma certe volte gliele toglieva proprio di bocca. Sospirò, dando un’occhiata all’orologio.
«Ok, quest’ultima dovevo decisamente risparmiarmela, davvero. Andiamo? Mancano dieci minuti all’inizio dello spettacolo» propose, nel tentativo di cambiare discorso. Henry annuì e anche Lucy si alzò dirigendosi verso il tendone. Raggiunsero i loro posti pochi minuti prima dell’effettivo inizio e qualsiasi idea di conversazione cadde nel vuoto: un uomo di circa cinquant’anni al centro del palco e stava parlando al pubblico, dando le indicazioni necessarie al corretto svolgimento dello spettacolo, soprattutto riguardo il comportamento da tenere con gli animali. Lucy, seduta tra Henry e Ivy ascoltava impaziente. Finalmente, il presentatore lasciò il posto al primo numero: un mimo. Diversi gridolini eccitati proruppero dai bambini presenti, ma l’uomo, evidentemente abituato, non si lasciò distrarre, portando il suo numero fino alla fine senza intoppi e lasciando poi il posto al collega: un mago dal cui cappello fuoriuscì il classico coniglio bianco, e poi bandiere, fazzoletti e un mazzo di fiori che donò ad una donna in prima fila. Toccò quindi a tre clown, che scatenarono risate e applausi a non finire. L’espressione imbronciata di Lucy era solo un ricordo: la bambina aveva gli occhi incollati alla cavea per non perdersi nemmeno un dettaglio di ciò che sarebbe avvenuto. Il numero successivo, venti minuti dopo l’inizio dello spettacolo, attirò definitivamente l’attenzione dell’intero pubblico, compresi quelli che sostenevano di essere lì solo per accompagnare i figli. Fece il suo ingresso un uomo sui trentacinque anni accompagnato da ben dodici cavalli che seguivano i suoi ordini come se stesse parlando con loro. Ivy, che fino a quel momento era rimasta seduta composta con le braccia incrociate, si sporse in avanti: amava i cavalli, da bambina aveva fatto perfino equitazione per un periodo e ogni volta che le capitava di vederne un esemplare si incantava a fissarlo. E lì ce n’erano ben dodici tutti insieme! Preferiva vederli nei maneggi o, ancora meglio, nei documentari ma non poteva certo mettersi a discutere o a fare la schizzinosa. E poi, non sembravano soffrire particolarmente e la frusta del domatore serviva palesemente solo per dare loro le indicazioni, più che per far loro del male. Sorrise, mentre il suo cervello tornava indietro di diciassette anni, alla sua prima lezione di equitazione, il giorno del suo decimo compleanno. Ana non era ancora nata, all’epoca si era da tempo smesso di sperare perfino che sarebbe potuta esistere e i suoi genitori, in quel caldo giorno di metà giugno (il 18 ad essere precisi) l’avevano portata in uno dei maneggi più grandi della città dove aveva potuto ammirare decine di esemplari e perfino cavalcare un pony. Aveva talmente amato quell’esperienza che aveva supplicato sua madre e suo padre di poter prendere delle vere lezioni ed era stata esaudita. Aveva frequentato il maneggio per tutta la durata delle scuole medie poi, con l’entrata alle superiori e la nascita di Ana, aveva smesso per dedicarsi agli studi e passare il tempo libero con la sorellina. Scosse la testa, scacciando quel pensiero: era lì per divertirsi e godersi lo spettacolo.
Rivolse un’occhiata di sottecchi ai suoi compagni: Lucy era letteralmente rapita e Henry… aveva uno sguardo strano anche se da dov’era non poteva esserne certa. Proprio in quel momento si voltò, beccandola: cavolo! Gli rivolse un sorriso di scusa, tornando a concentrare la sua attenzione agli artisti di fronte a lei. Henry, non visto, scosse la testa: forse non era stata una buona idea andare a quello spettacolo, come non lo era stato aggregarsi a Lucy ed Ivy ad Halloween. Ogni occasione dedicata ai bambini gli risultava sempre terribilmente dolorosa. Se ci fosse stata Abby lì con loro sarebbe stato tutto assolutamente perfetto. Era rimasto di sasso quando aveva sentito Ivy dire alla ragazza addetta ai biglietti di regalare quello in più al primo bambino che ne fosse stato sprovvisto: era stato come se gli avesse letto nel pensiero, come se anche Abby avesse potuto partecipare. Mentre lui era preso da quei pensieri, sulla cavea il numero era nuovamente cambiato: erano entrati due elefanti, accompagnati da quattro acrobati, due in groppa agli elefanti e gli altri due che li scortavano. Sugli astanti scese un silenzio stupito, che si accentuò maggiormente quando i due enormi pachidermi scavalcarono con le zampe, senza arrecare loro il minimo danno, i quattro esseri umani distesi a terra e il secondo uscì tenendo le zampe anteriori poggiate sulla schiena del primo, scatenando un applauso scrosciante. Lucy spostava gli occhi a destra e sinistra, non sapendo dove soffermarsi: poteva restare lì per sempre? Era fichissimo e avrebbe voluto continuare a guardare quei numeri ininterrottamente. Sentì un movimento alla sua destra: Henry si era alzato e si stava allontanando. Fece per imitarlo, ma lui scosse la testa, indicandole di restare seduta. Lo vide toccare su una spalla Ivy e scambiare poche parole con lei, poi uscire: che cosa stava succedendo? Il quarto d’ora successivo le passò in un lampo: l’aveva trascorso a chiedersi cosa fosse accaduto, ma non era riuscita a venirne a capo. Il presentatore tornò ad attirare l’attenzione di tutti, annunciando quindici minuti di pausa e invitando i presenti ad usufruire del bar che avevano allestito e che offriva bibite e snack vari. Anche zia e nipote si alzarono e Lucy pose la domanda che aveva trattenuto fino a quel momento:
«Ma Henry? Ho visto che ti parlava, dov’è andato?» Ivy sospirò: avrebbe mai smesso di sbagliare? Di essere egoista e di pensare solo a se stessa? Quella situazione era il risultato delle sue paranoie: se fosse stata zitta, Henry non sarebbe stato con loro e non avrebbe avuto quell’espressione. L’aveva visto bene quando le aveva parlato, le era sembrato profondamente triste: probabilmente quella giornata gli aveva ricordato qualcosa di brutto, forse legato alla bambina di cui le aveva accennato l’ultima volta. Dio, si sarebbe presa a schiaffi! Come aveva potuto essere così insensibile? Se avesse continuato di quel passo, lui avrebbe finito con l’odiarla, altro che amici! Scosse la testa, sentendo Lucy che continuava ad investirla di domande. Stizzita, sbottò. «Non lo so dov’è andato, va bene? Ha detto che andava a fare un giro e tanto ci deve bastare! Finiscila di fare la lagna una buona volta o ti tiro un ceffone che te lo ricorderai per un pezzo!»
«E io lo dirò alla nonna e lei ti darà un’altra sgridata galattica come dopo Halloween!» Lucy, fiera della propria risposta, si portò di colpo la mano alla bocca: cavolo! Ora sì che l’aveva fatta grossa! Lei e la sua linguaccia!
Ivy la guardò malissimo. «E tu che diavolo ne sai di Halloween? Rispondi!» L’aveva svegliata lei la mattina dopo la festa, se lo ricordava benissimo… e ricordava anche che Lucy era stata insolitamente gentile…. «Non dormivi… quando ti ho chiamata, hai fatto finta, vero? Avevi sentito tutto». Maledizione! Ci mancava solo quella! Come avrebbe dovuto comportarsi, ora? Aveva bisogno di pensare, di stare per conto suo e riordinare le idee. Lucy aveva assunto un’espressione colpevole: si era ripromessa che non avrebbe parlato di quel giorno mai, con nessuno, almeno non finché non avesse avuto più informazioni su ciò che era avvenuto nove anni prima. E invece si era lasciata prendere dalla discussione e aveva sbandierato tutto, a sproposito, proprio con l’ultima persona con cui avrebbe dovuto farlo. Si guardò disperatamente intorno: dov’era finito Henry? Perché non tornava? Le avrebbe fatto davvero comodo la sua presenza in quel momento: avrebbe distratto Ivy e le avrebbe permesso di farla franca.
Anche perché, dal tono che usò immediatamente dopo, era chiaro che sua zia stava iniziando ad arrabbiarsi e anche parecchio. «Allora? Cos’è, ci senti solo quando ti pare? Ti ho fatto una domanda ed esigo una risposta, se non vuoi che torniamo a casa immediatamente!» E, Lucy ne era certa, non sarebbe servito a nulla usare lo spauracchio della furia della nonna, se non a farle rimediare un colossale ceffone e a far arrabbiare maggiormente sua zia. Doveva trovare una risposta soddisfacente ma…. Un momento! Ecco!
«Più o meno… voglio dire… ho sentito ma... non ho capito. Ecco… urlavate tutte e due, mi avete svegliata… ma avevo troppo sonno per capire, vi sentivo solo urlare, non so cosa vi siete dette, lo giuro. So solo che la nonna ti sgridava e tu urlavi uguale». Era una bugia plausibile, vero? Non del tutto una bugia, ma in misura sufficiente a far calmare Ivy e ad evitare di farle perdere metà dello spettacolo.
Ivy sospirò, passandosi una mano sul viso: doveva calmarsi, assolutamente. In fondo, a prendere per buona quella spiegazione (che era anche plausibile, avevano gridato parecchio quella mattina, sia lei, sia sua madre), anche quella situazione se l’era andata a cercare, in un certo senso. Annuì, prendendo per mano Lucy senza dire una parola e conducendola al bar a qualche metro da lì, dove ordinò un bicchiere d’acqua, bevendolo lentamente. Lucy la guardava con invidia malcelata: aveva sete anche lei, in effetti, ma non aveva il coraggio di fiatare di nuovo. Guardò con desiderio due bambini poco più piccoli di lei ottenere un succo di frutta a testa, rimproverandosi: se fosse stata zitta prima, adesso avrebbe potuto chiedere ad Ivy di prenderne uno anche per lei. Mentre si stava ancora arrovellando sul da farsi, Henry le raggiunse; in volto un’espressione più distesa di quella con cui si era allontanato.
«Ehi, è già finito lo spettacolo?» Da un lato gli dispiaceva averle lasciate sole in quel modo, ma ad un certo punto, aveva sentito di non farcela più e di avere bisogno di staccare, di fare un giro per conto suo e prendersi un momento, uno solo, per riabbracciare almeno nei ricordi la sua adorata bambina. Era stata proprio lei a spronarlo a tornare: aveva quasi pensato di mandare un messaggio ad Ivy, scusandosi e chiedendo se lei e Lucy potevano chiamare un taxi, ma poi gli era comparsa, come in un sogno, l’esile figura di Abby, i lunghi capelli biondi e i vivaci occhi castani inconfondibili, che lo fissava severa, ricordandogli che non si dicevano le bugie e che aveva fatto una promessa. Così aveva girato i tacchi ed era tornato sui suoi passi, mettendosi a girare senza meta. Era stato sul punto di andare verso il tendone, poi aveva visto che era semi vuoto e, guardandosi intorno, aveva individuato
Lucy e Ivy ferme di fronte al piccolo bar. Sentendo la sua voce, quest’ultima si era voltata.
«Oh, eccoti. Lucy si stava chiedendo dove fossi. Tutto a posto?»
«Sì, non preoccuparti. Anzi, scusate se vi ho mollate così, sono stato davvero pessimo: giuro che di solito, non è da me comportarmi in questo modo. Come posso farmi perdonare?»
Prima che Lucy potesse rispondere, proponendo la sua idea, Ivy scosse la testa. «Non devi. In realtà, forse ho sbagliato io: ti ho invitato solo perché non mi andava di starmene da sola con mia sorella, che, alla fine, non è neanche venuta. E non ho considerato minimamente che magari potesse non essere il caso…»
Henry negò, facendole cenno di fermarsi. «A dire il vero, sono felice che tu l’abbia fatto: prima o poi avrei dovuto comunque fare un tentativo… e chissà quando ci avrei provato, se nessuno mi avesse spinto. Suppongo di dovervi ringraziare. Entrambe. È domenica e non sto tappato in casa davanti al pc o al lavoro. E, credetemi, di questi tempi, è un notevole traguardo. Quindi, se non avete ancora ordinato… che ne dite se vi offro una bibita? O qualcos’altro, insomma… quello che volete»
Ivy scosse la testa «Non devi, non è necessario… e poi, tra poco ricomincia lo spettacolo, dovremmo andare» constatò dando un’occhiata all’orologio. Lucy, invece, aveva preso ad osservare speranzosa il piccolo bar mobile. Henry seguì la direzione del suo sguardo e, senza renderlo troppo evidente, le porse una banconota da cinque dollari che aveva in tasca per le emergenze. Lucy gli regalò un sorriso gigantesco e sfrecciò in direzione del bar, a richiedere, finalmente, il tanto sospirato succo all’ananas. Ivy scosse la testa, osservandola, chiedendosi perché la nipote non le avesse detto di avere sete. Mmm… forse, in effetti, poteva averne una mezza idea. Sospirò, decidendo di soprassedere e, quando la bambina li raggiunse di nuovo, tornarono tutti e tre ai loro posti, pronti a godersi l’ultima parte dello spettacolo. L’ora successiva trascorse ammirando numeri sulle funi, al trapezio e vari esercizi di abilità e corpo libero. Poi, quasi alla fine, il presentatore tornò al centro della cavea, invitando tutti i bambini a raggiungerlo lì per il trenino finale.
Ivy, inizialmente dubbiosa colse lo sguardo supplice di Lucy e annuì, sospirando.
«Ma resta insieme agli altri, non ti allontanare e torna qui appena avete finito, chiaro?» Lucy annuì a tutte le raccomandazioni poi sfrecciò in direzione dei bambini già radunati insieme. Ivy, ancora non del tutto tranquilla, seguì con lo sguardo la nipote, decisa a non mollarla neanche un istante. Quasi non si rese conto che Henry si era avvicinato e le aveva poggiato una mano sul braccio.
«Ehi, tutto a posto?» chiese l’uomo, facendola sobbalzare.
«Henry! Non mi ero accorta che ti fossi spostato. Più o meno. Mi sale sempre l’ansia in questi casi… ma da qui la vediamo abbastanza bene, no?» chiese. In fondo, quello sarebbe stato sufficiente: erano abbastanza vicini per intervenire nel caso fosse successo qualcosa di strano. Venne rassicurata dal successivo cenno affermativo dell’amico che, istintivamente, le prese una mano.
«Sì, abbiamo un’ottima visuale. E… vedi? Lucy è proprio lì. È tutto a posto» Proprio in quel momento, i circensi terminarono di sistemare i bambini in fila indiana, poi cominciarono ad accompagnarli lungo il perimetro della cavea. Henry notò che ogni bambino aveva le mani occupate: con una si teneva attaccato al bambino davanti a lui mentre con l’altra reggeva un lungo striscione, il ringraziamento dei circensi alla città per la calorosa accoglienza ricevuta e per l’eccezionale affluenza di quella prima settimana. Concluso il giro, i bambini lasciarono andare lo striscione e furono fatti salire su una struttura piramidale: da lontano davano l’impressione di essere l’uno sulle spalle dell’altro e di formare una piramide umana: l’effetto era assolutamente grandioso. Quindi, ordinatamente, scesero tutti e, tenendosi per mano, fecero l’inchino ai pubblico rimasto seduto, che li omaggiò di un lungo applauso. A quel punto, gli acrobati presero per mano ognuno uno o due bambini e, ordinatamente, li riaccompagnarono ai propri posti, cominciando dai più piccoli. Quando venne il turno di Lucy, Henry e Ivy non poterono credere ai loro occhi: il broncio sembrava solo un brutto ricordo, la ragazzina aveva un sorriso che le andava da un orecchio all’altro e sembrava incapace di stare ferma. La ragazza che l’aveva accompagnata si rivolse loro informandoli che, se avessero voluto, all’uscita avrebbero potuto ritirare un’immagine della piramide formata dai bambini durante il numero finale. Ivy poté finalmente tirare un respiro di sollievo… almeno finché non guardò l’orologio. «Cavolo, sono già le 8 p.m.! Noi dovremmo proprio andare, Henry, scusa: Lucy deve cenare a breve o la mamma mi fucilerà» esclamò la ragazza alzandosi. Henry annuì, seguendola, mentre Lucy metteva il broncio «Ma… non prendiamo la foto? Dai, prometto di non dire alla nonna che abbiamo ritardato, per favore
Ivy alzò gli occhi al cielo: che ruffiana! Però, se davvero prometteva di tenere la bocca chiusa… «Giura o non se ne fa niente» le intimò.
«Giuro, bocca sigillata» assicurò la bambina mimando il gesto di chiudere una zip.
Ivy sospirò. «A quanto pare, ti faremo perdere ancora un po’di tempo, Henry, scusa. Ma se hai fretta…».
Henry sollevò una mano, scuotendo la testa. «Nessuna fretta: te l’ho detto che non avevo nulla da fare, oggi. Se vuoi, intanto che vi mettete in fila, io vado a prendere la macchina, così ci sbrighiamo prima.»
Ivy assentì e così, mentre zia e nipote ottenevano la foto per cinque dollari, Henry liberava la macchina dal punto in cui l’aveva incastrata. Quindi si immisero nel traffico,alla volta delle Belfrey Towers, con Lucy che decantava le meraviglie dei numeri appena visti, investendo i due adulti di parole.
«Capolinea, signore» annunciò Henry venti minuti dopo, fermandosi davanti ai due imponenti grattacieli.
Ivy gli sorrise grata. «Io… non so davvero come ringraziarti. Sei stato veramente gentile a venire con noi e… fin troppo paziente. Certe volte ho uscite davvero pessime, chiunque altro probabilmente mi avrebbe già mandato al diavolo e me lo meriterei…».
«Beh, ma io non sono “chiunque altro”. Voglio dire… siamo amici, no?» la interruppe Henry, toccandole un polso. «Anzi, a proposito di oggi… neanche io sono stato proprio il massimo e… volevo… ecco… spiegarti se… se hai voglia di starmi a sentire» Davvero lo aveva appena detto? Henry si stupì delle sue stesse parole, consapevole di cosa implicassero. D’accordo, aveva già cominciato in precedenza ad accennarle qualcosa ma… spiegarle, spiegarle davvero avrebbe significato sviscerare di nuovo quella storia, condividerla con lei… coinvolgerla nella sua vita e nei suoi drammi ad un livello forse eccessivo per due persone che si conoscevano da meno di un mese. Probabilmente non era il caso, si rese conto. Forse sarebbe stato meglio ritrattare.
Ma fu Ivy a interrompere il silenzio, prima che lui potesse proferire qualsiasi altra parola.
«Non è necessario che mi spieghi nulla, davvero. Non devi sentirti costretto a giustificarti. Magari non ti piaceva il numero e hai voluto farti un giro; non era un reato capitale, l’ultima volta che ho controllato» Si sorrisero vicendevolmente, meritandosi uno sbuffo scocciato da Lucy, ancora seduta sul sedile posteriore.
«Io ho fame! Andiamo?»Quei due stavano chiacchierando troppo peri suoi gusti! E lei cominciava ad avere fame sul serio!
«Hai ragione Lucy, è tardi. Devo andare a prepararmi qualcosa anch’io. Allora… buona cena, signore» le salutò lo scrittore, osservandole uscire dalla macchina.
«Henry, senti…» si bloccò Ivy, colpita da un’idea proprio mentre era sul punto di chiudere la portiera «ti va di stare a cena con noi? Non che ci sia granché, temo dovrai accontentarti di qualcosa di semplice ma… se ti va, ci fa piacere, vero, Lucy?»
Lucy si limitò ad una scrollata di spalle, indecisa: le avrebbe fatto piacere stare con Henry, certo... ma non le piaceva che lui e sua zia trascorressero troppo tempo insieme. Ed erano già passate tre ore da quando si erano incontrati! Decisamente un lasso di tempo spropositato!
Henry rimase in silenzio per un po’, incerto su come interpretare la reazione della bambina.
«Beh… va bene, grazie, accetto volentieri. Ma non stare a tirare fuori chissà che, d’accordo?»
«Non preoccuparti, non c’è pericolo. Piuttosto… usa il parcheggio sotterraneo. Ti apro. Intanto noi saliamo e vedo di inventarmi qualcosa. Ci trovi al decimo piano, all’interno 350. Non ti perdere, mi raccomando».
 
Quella sera, il turno di guardia toccava a lui, insieme a quell’incompetente del suo collega. Michael Rogers sospirò, osservando il grassone di fianco a sé e chiedendosi perché diavolo un tipo come quello avesse deciso di fare il poliziotto, quando era palese che della legalità e del rispetto delle regole non gli interessasse nulla. Aveva già snobbato due tizi che erano venuti a chiedere il loro intervento per aver subito un furto, sostenendo che chi era così fesso da farsi scippare o, peggio, da permettere ai ladri di entrargli in casa, non meritava il loro tempo. Per sua fortuna, gli era appena venuto un attacco di fame e gli aveva annunciato che sarebbe andato a comprarsi qualcosa da mangiare. Michael sperò che si perdesse, che trovasse una fila pazzesca, che avesse un’indigestione e se ne tornasse a casa… insomma, che decidesse di non farsi più vedere, almeno per quella sera. Aveva messo una pezza sul danno fatto con i due cittadini, accogliendo la loro denuncia e seguendoli a casa loro per dare una prima occhiata. Aveva tentato di raccogliere il maggior numero possibile di indizi, poi aveva chiesto ai due di stilare una lista degli oggetti che mancavano, specialmente se erano preziosi o particolari, così da poter fare attenzione nel caso fossero stati venduti a qualche ricettatore. Ed ora se ne stava seduto lì, in attesa che uno dei due arrivasse con quelle informazioni, così da poter proseguire con le indagini. Nel frattempo sfogliava il suo prezioso quaderno. Lo aveva con sé da quindici anni e non se ne era mai separato. Non c’era scritto granché, in realtà e, se doveva essere sincero, lui non ne conosceva neanche la proprietaria. Sapeva solo il suo nome: Eloise Gardner. Il diario gli era stato consegnato dai genitori disperati, dopo aver scoperto che la figlia era letteralmente, svanita nel nulla: tutti i vestiti, tutte le sue cose, erano rimaste perfettamente in ordine nella camera che la ragazza condivideva con le sorelle Gretel e Tilly, all’epoca rispettivamente di diciotto e dodici anni. Di lei, però, era svanita qualsiasi traccia.
Michael ricordava alla perfezione ogni singola sillaba relativa a quella storia, in particolare la testimonianza rilasciata da Tilly: la ragazzina aveva a suo tempo raccontato che quello stesso giorno, lei e sua sorella avevano avuto l’ennesimo litigio, come accadeva ormai da diversi mesi a quella parte. Nessuno ormai, nella loro famiglia, faceva più caso a quei continui battibecchi e perfino Gretel (che notoriamente era la più paziente e quella che di solito si adoperava a fare da paciere) era giunta al limite, sbottando contro entrambe e intimando loro di farla finita e di evitare di rovinare il suo compleanno, che sarebbe stato di lì a due giorni.
Poi le aveva lasciate sole, decidendo di incontrare le sue amiche per farsi un giro nei dintorni e rilassarsi un po’. Dopodiché, a quanto gli era stato raccontato, Eloise aveva annunciato che sarebbe uscita anche lei e di non aspettarla per cena. Così, quando il resto della famiglia si era messa a tavola, nessuno si era inizialmente preoccupato. Solo quando il ritardo aveva superato la mezzanotte suo padre aveva cominciato ad innervosirsi e l’aveva chiamata al cellulare, senza però, ricevere alcuna risposta.
Il giorno dopo, genitori e figlie si erano recati alla stazione di polizia per segnalare la scomparsa della giovane. Ognuno di loro aveva raccontato, ad un giovane Michael Rogers fresco di addestramento, l’ultima cosa che ricordava di aver detto alla congiunta o che aveva fatto con lei, cercando di fornire quanti più dettagli possibile. Dopodiché gli avevano permesso di perquisire la casa in cerca di indizi di qualsiasi genere e la sua attenzione era stata calamitata dal diario. Aveva deciso di prelevarlo come prova, convinto che lì dentro potesse esserci qualcosa di utile per comprendere le dinamiche dell’accaduto. Ma tutto era stato chiarito pochi giorni dopo: Eloise aveva telefonato alla famiglia, annunciando di stare bene ma, per il momento,di non voler tornare, di essere in vacanza con una persona a cui, parole sue, “era molto legata”. Questo era stato sufficiente al suo superiore per archiviare il caso: si trattava, dopotutto, di una donna di venticinque anni che si era allontanata da casa nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, di conseguenza non c’era nulla di cui preoccuparsi. Michael però, non ne era stato convinto e aveva chiesto loro di poter tenere il diario. Aveva ottenuto il permesso ma erano trascorsi ormai quindici anni da quel giorno e non era venuto a capo di nulla. Aveva solo capito che la ragazza aveva una relazione con un certo M, più grande di lei di diversi anni e ne sembrava perdutamente innamorata. Sosteneva anche che lui la ricambiasse, ma poteva soltanto essersi illusa. Magari quell’uomo era solo un approfittatore senza scrupoli, poteva averla uccisa in seguito ad una lite e aver fatto sparire il corpo.
Quando aveva esposto i suoi dubbi al suo capo, lui gli aveva concesso una settimana per portare delle prove a sostegno della sua tesi con l’impegno che, se non avesse trovato nulla, avrebbe lasciato perdere quella storia e sarebbe tornato a concentrarsi sugli altri casi. Michael aveva acconsentito e, nella settimana successiva si era dedicato anima e corpo al “caso Gardner” senza purtroppo, ottenere alcun risultato utile. Era stato costretto a fare rapporto al Capitano, ammettendo il suo fallimento e gli era stato intimato di chiudere con quella storia. Riluttante, aveva obbedito, ma gli era rimasta la strisciante sensazione di non aver fatto tutto il possibile.
Aveva definitivamente perso le speranze quando aveva visto perfino la famiglia della ragazza smettere di chiedere notizie. La prima a non presentarsi più alla centrale era stata la madre: a detta del marito, anche solo ricordare la figlia era troppo doloroso per lei. Poi era toccato alla sorella che, dopo la sua scomparsa, era diventata la maggiore: aveva conosciuto un ragazzo al college e se ne era innamorata, decidendo di andare a vivere con lui e di lasciare da parte le cose tristi. Da quel che era venuto a sapere quel tizio, un tale August Booth, era un tipo a posto e Gretel si era trasferita in campagna con lui, dove trascorreva una vita relativamente serena, facendo la massaia e vivendo dei frutti del suo orto e di ciò che le derivava dall’allevamento di galline, polli e maiali e dal lavoro di falegname del marito. Se non andava errato, avevano avuto anche un bambino che ormai avrebbe dovuto avere sui sei anni, il cui nome proprio non voleva venirgli in mente. Infine, anche il padre aveva smesso di andare a chiedere notizie, evidentemente preferendo dimenticare. L’unica con cui aveva ancora contatti era Tilly che, puntualmente, ogni mese, più o meno a quell’ora, entrava in stazione rivolgendogli sempre le solite due domande: «Allora? Hai trovato qualcosa di utile?» alle quali lui, invariabilmente rispondeva con un mesto cenno negativo del capo. Come lui, neanche la ragazza, che ormai aveva ventisette anni, aveva abbandonato la speranza di rivedere la sorella, scegliendo di restare nella casa di famiglia e accontentandosi di un modesto lavoro da commessa in una libreria che, almeno, aveva il potere di distrarla dai pensieri tristi per qualche ora al giorno. La osservò avvicinarsi alla sua scrivania e prendere il solito posto di fronte a lui, in una routine collaudata e inalterabile.
«Se solo riuscissimo a capire chi diavolo è questo famigerato M sono sicuro che saremmo molto più vicini alla soluzione. Ma tua sorella non lascia molti indizi, a parte dire che era molto più grande di lei e benestante. E non posso interrogare tutti quelli che hanno una M nel nome o nel cognome. Mi dispiace tanto Tilly, anch’io vorrei venirne a capo, ma non so proprio da che parte cominciare. E poi, sai che non ho i mezzi per andare più a fondo: ufficialmente non è più permesso indagare su questo caso».
Tilly si esibì in una smorfia «Già, perché quel maledetto messaggio è bastato al tuo capo, anni fa, per affermare che non ci fosse motivo di indagare oltre! Incompetente….»
Il detective Rogers sollevò una mano a toccare il braccio della ragazza, che lo scansò bruscamente. Sembrò pentirsi subito di quella reazione, a giudicare dall’espressione mortificata che le si dipinse in viso. «Mi dispiace. Non ce l’ho con te. So che hai fatto tutto quello che hai potuto. Forse è ora che cominci anch’io a farmene una ragione» Sospirò portandosi dietro l’orecchio una ciocca dei lunghi capelli biondi, che la contrassegnava, senza fallo, come una delle tre sorelle Gardner. Lei e Gretel li avevano più chiari e mossi, mentre Eloise aveva sempre sfoggiato un biondo scuro e una cascata di ricci che le aveva sempre invidiato.. Gli occhi, invece, erano uguali per tutte e tre, di un azzurro limpido, l’unico tratto che le accomunava davvero e che permetteva alla ragazza di non sentire troppo la loro mancanza. Forse sarebbe andata a trovare Gretel e August alla fattoria, nel week end. Sua sorella la ospitava sempre volentieri e lei aveva proprio bisogno di prendere un po’ d’aria buona.
«Beh, io vado. Ci vediamo presto, detective. Mi raccomando, chiamami se hai notizie, d’accordo? A qualsiasi ora». Attese il cenno di assenso dell’uomo, poi se ne andò, diretta a casa: si sarebbe preparata un pasto veloce poi si sarebbe coricata. Non aveva neanche voglia di guardare la televisione, quella sera.
 
Le due ore successive trascorsero senza che Henry, Ivy o perfino Lucy, se ne rendessero conto: giunte in casa le due Belfrey avevano scoperto che in dispensa c’era cibo a sufficienza per tutti e tre e, mentre Lucy si rassegnava a preparare la tavola e mettere il pigiama, Ivy aveva tentato di assemblare qualcosa di commestibile: per fortuna c’era ancora l’insalata e un po’ di carne bianca da scaldare e condire. L’aveva invitato così, su due piedi, senza considerare che in realtà… lei non sapeva cucinare neanche un uovo. Sapeva ingegnarsi con cose semplici, quando si trattava di sopravvivenza, ma niente di più. Per sua fortuna, Henry non fece commenti, pulendo il piatto senza esitare o fare smorfie strane. Non ebbero neanche bisogno di accendere la televisione: la conversazione fu fluida e spontanea, soprattutto tra Henry e Lucy.
«Ti sei perso il domatore col leone, oggi, è stato fantastico! E anche i trapezisti, li ho adorati, sembravano volare… ed erano perfetti! E i clown!»
Henry le rivolse un ampio sorriso. «Allora ti è proprio piaciuto! Sono contento. A me invece è piaciuto il numero finale che hanno fatto fare a voi bambini, è stato improvvisato, ma eravate totalmente sicuri, vero? E poi, ovviamente quello con gli elefanti: è vecchio, ma fa comunque impressione ogni volta. Personalmente, non so se avrei il coraggio di stare immobile ad aspettare che due animali così enormi mi scavalchino…»
«Perché dici che è vecchio? È bello!» protestò Lucy, convinta.
«Sì, ma voglio dire… non è una novità. Tu magari non lo sai perché è la prima volta che vedi un numero così, ma credimi, cose del genere, al circo, sono abbastanza frequenti. Sicuramente anche tua zia può confermarlo».
«Ci sei già stato altre volte prima?» continuò Lucy, intenzionata a monopolizzare la conversazione il più possibile e a scoprire eventuali interessi comuni tra Henry e sua madre.
«Sì. Ma parliamo di molti anni fa, in effetti. Da parecchio non ci tornavo, non c’è mai stata l’occasione, per un motivo o l’altro… e devo dire che è un peccato. Andare al circo è una cosa sicuramente diversa dal solito e per niente noiosa. Devo ringraziarvi di nuovo per avermi voluto invitare, sono stato davvero bene». Henry non l’aveva messo in conto, ma quell’ultima affermazione offrì a Lucy un nuovo appiglio.
Prima ancora che qualcuno potesse aggiungere altro o pensare di fermarla, la bambina riprese. «E allora perché sei andato via durante lo spettacolo? Se ti piaceva, avresti dovuto restare a guardare, no?» Insomma, per lei era ovvio! Ma che razza di testa avevano gli adulti? Era proprio circondata da un branco di… meglio lasciar perdere, va…
Sua zia non era dello stesso avviso: rimasta ad ascoltare fino a quel momento, sollevò la testa dal piatto rifilandole un’occhiataccia: «Lucy! Lascialo in pace! Avrà avuto i suoi motivi e non deve rendere conto a noi! E ora finisci di mangiare e zitta!» Anche perché si erano fatte le 9;15 p.m., era supertardi! Non si sarebbe mai addormentata per le 10 p.m., non se avesse voluto essere certa che avesse digerito. Sua madre l’avrebbe uccisa, poco ma sicuro. Henry dal canto suo, si era bloccato, incerto se apprezzare o meno la difesa di Ivy: da un lato avrebbe voluto continuare a tenere quella storia per sé ancora un po’; dall’altro… forse sarebbe stato il caso di rendere partecipe almeno lei. Non ebbe il tempo di soffermarsi su quell’idea perché la padrona di casa si alzò, andando a prendere il cesto della frutta e sistemandolo al centro della tavola.
Quando finalmente, tutti ebbero concluso, Ivy annunciò che era giunto il momento per Lucy di andare a dormire. «Siamo riuscite finora a non farci beccare, non sfidiamo la fortuna. Puoi stare sveglia fino alle 10:30 p.m. stasera, ma in camera tua. E se tua nonna dovesse tornare prima, fai finta di dormire, chiaro? Sarebbe una pessima idea rovinare tutto proprio all’ultimo momento»
«Ma io non ho ancora sonno!» protestò la bambina. Le sue lamentele furono interrotte da un sonoro sbadiglio, che contraddisse ampiamente la precedente affermazione e fece sollevare un sopracciglio ai due adulti.
«Ah no, eh? Avanti, dai la buonanotte ad Henry e fila».
Borbottando tra sé, Lucy obbedì, avvicinandosi ad Henry e dandogli un bacio sulla guancia. Quando la porta della camera si fu chiusa dietro la nipote, Ivy trasse un respiro profondo: «Bene, per stasera ho scampato una lavata di testa infinita. Vuoi un caffè? Poi prometto che ti lascio andare e smetto di scocciarti»
«Grazie, volentieri. Più che altro, dovresti smettere di essere così paranoica: se non avessi voluto restare finora, non l’avrei fatto. E avrei avuto anche una scusa perfetta, contro la quale non avresti potuto ribattere nulla quindi… basta complessi, sono perfettamente inutili»
Ivy lo guardò curiosa, mentre armeggiava con la macchina del caffè: «Davvero? E sentiamo, quale scusa?» Questa voleva proprio saperla.
Henry colse il leggero tono di sfida e sollevò il mento, fintamente indispettito. «Semplice: il mio nuovo libro è a casa che mi aspetta. Devo lavorare e ogni minuto è prezioso»
La ragazza gli regalò un sorriso. «Vuoi dire che… hai ricominciato a scrivere? Ma è bellissimo, Henry, sono davvero contenta per te! Di cosa parla questo nuovo libro?»
Henry, inizialmente travolto dal suo entusiasmo, si bloccò: «A dire il vero… non lo so bene neanche io. Ho cominciato a buttare giù cose a caso, un giorno che ero ispirato e ne è uscito un articolo per il blog… e questa mezza specie di primo capitolo di… qualcosa che non saprei definire neanche io. Per il momento vado a istinto, scrivo quello che mi viene pur di non bloccarmi, poi ci lavorerò meglio. Magari te lo farò leggere, quando avrà maggior senso, se avrai voglia»
Il caffè, intanto, era pronto: Ivy lo versò in due tazzine che poggiò su un vassoio insieme allo zucchero, sistemando il tutto sopra il tavolino di fronte il divano.
«Volentieri, anche se… io non sono una grande critica. Però il libro che mi hai regalato mi sta piacendo; è una storia sicuramente particolare, ne ho letto già più di un terzo. Hai creato un mondo originale e sono curiosa di sapere come proseguirà la storia. E non avrei mai pensato di ritrovarti tra i protagonisti! Solitamente non è sconsigliato?»
«Di solito, sì» annuì Henry mentre aggiungeva un cucchiaino di zucchero al suo caffè e si accomodava sul divano accanto a lei «In effetti, con quel libro mi sono preso molte libertà. Ed è per questo che non ho cercato un editore: sapevo che nessuno lo avrebbe accettato. D’altronde, c’erano delle cose che dovevano necessariamente restare in quel modo. Ma magari ti racconterò meglio quando lo avrai finito, non voglio rischiare di parlarti di cose a cui non sei ancora arrivata».
La giovane annuì concorde. «D’accordo. Ma c’è un punto a cui sono arrivata e su cui ho una curiosità. Pensavo al protagonista: hai detto che ha… due madri se non erro, una biologica e una adottiva e nessun padre… almeno fino a dove sono arrivata io. Come mai? Voglio dire… un padre da qualche parte dev’esserci per forza, no? E di solito, per i maschi è una figura abbastanza importante… almeno così ho sentito dire…» si corresse, prendendo un sorso del suo caffè.
«Un padre salterà fuori, in effetti, ma probabilmente non sei ancora arrivata a quella parte. In ogni caso forse è dipeso dal fatto che… non saprei come descrivere un padre. Non ne ho mai avuto uno. In effetti non ho mai avuto neanche una madre ma le educatrici dell’istituto sono state delle valide sostitute. Per cui posso inventare abbastanza facilmente cose su ciò che vorrei da una madre ma… da un padre non so proprio cosa aspettarmi. A meno di non attingere alla mia esperienza personale, ma quella non mi è di grande aiuto…»
Istituto? Cavolo! Ivy si morse un labbro. «Mi dispiace, non credevo ci fossero motivazioni così personali dietro. Potevi dirmi tranquillamente di farmi gli affari miei, non mi sarei offesa». Eppure non sembrava particolarmente sconvolto e le sue successive parole lo confermarono.
«Non preoccuparti, non è un problema. In effetti c’è una cosa che ci terrei a raccontarti… perché credo dovresti saperla, soprattutto se continueremo ad uscire. Non era esattamente questa ma… è un buon punto di partenza».
Ivy annuì, finendo il suo caffè e poggiando la tazzina sul tavolino: «Ti ascolto».
«Ecco… si tratta del motivo per cui oggi, ad un certo punto vi ho mollate. So che hai detto che non devo giustificarmi, ma il fatto è che… potrebbe ricapitare. E non mi va che vi facciate idee strane. Lo spettacolo mi stava piacendo sul serio e mi sono divertito, su questo non voglio che tu o Lucy abbiate dubbi». Fece una pausa, cercando le parole giuste: diavolo! Era un dannato scrittore, non avrebbe dovuto essere così difficile, giusto? Forse avrebbe solo dovuto cominciare dall’inizio.
«Ok, ricordi quando ti ho parlato dell’ultimo Halloween di Abigail? Sicuramente ti sarai chiesta chi fosse, le ho persino dedicato il mio libro, non so se ci hai fatto caso. Ecco lei è… era… la mia bambina. Ho perso lei e sua madre tre anni fa, a causa di un incendio. Io ero a lavoro e Lauren, mia moglie, era a casa con Abby. Non so bene come sia successo, mi è stato raccontato che probabilmente una coperta ha preso fuoco, poi si è sviluppato un incendio che si è esteso alla stanza e sono morte intossicate dal fumo. Anche la casa ha preso fuoco». Lo disse tutto d’un fiato, poi strinse le labbra, nel tentativo di soffocare un singhiozzo: non ne parlava ad alta voce da troppo tempo, non ricordava facesse così male sentirlo rimbombare. Oh, non l’avrebbe mai dimenticato: Lauren ed Abby sarebbero sempre state una parte fondamentale del suo cuore, ma col tempo si era illuso che il dolore si fosse almeno attenuato. E invece era sempre lì, onnipresente, a ricordargli la sua incompetenza e inettitudine.
Ivy aprì e chiuse la bocca, sconvolta: cavolo! Cosa si diceva in questi casi? Mi dispiace? Forse la cosa migliore sarebbe stata tacere, qualsiasi parola sembrava… così banale. Sapeva che a volte un gesto valeva più di molte parole e forse fu questo che la spinse a chinarsi verso di lui e avvolgerlo tra le braccia. Henry, inizialmente sorpreso, sobbalzò, poi ricambiò la stretta, grato, sentendo finalmente qualcosa dentro di lui sciogliersi. Pochi minuti dopo la stava ancora stringendo, mentre non riusciva, proprio non riusciva a smettere di piangere. Ivy sospirò: che razza di situazione! Ed era stata di nuovo tutta colpa sua! O forse no? In fondo, lei non aveva chiesto alcuna giustificazione, era stata una scelta di Henry spiegarsi. E lui aveva avuto ragione, quel racconto le era stato utile per conoscerlo meglio: ora poteva leggere certi comportamenti sotto una luce nuova, più… corretta, anche se forse non era il termine appropriato. Lo sentì allentare la stretta e tirare un leggero sospiro: forse stava riuscendo a calmarsi un po’. Attese ancora qualche istante, incerta, dopodiché sciolse l’abbraccio lentamente, alzandosi e raggiungendo il tavolo: il bicchiere che lui aveva usato era vuoto. Lo riempì e raggiunse di nuovo Henry, porgendoglielo. Lui lo accettò con un cenno del capo «Grazie» Ivy tornò a sedersi accanto a lui senza una parola e per i successivi dieci minuti entrambi rimasero semplicemente in silenzio, ognuno seguendo il suo personale corso di pensieri. Fu di nuovo Henry a rompere il silenzio, cominciando a sentire l’imbarazzo di quella situazione e facendo per alzarsi. «Forse è meglio che vada. Mi dispiace, non volevo…»
Ivy scosse la testa. «Non hai nulla di cui scusarti. Mi ha fatto piacere che tu ti sia voluto confidare con me. A dire il vero stavo pensando che… avevamo fatto un patto ad Halloween, ricordi? Avevo promesso che ti avrei raccontato quello che mi passava per la testa quando l’avessi fatto tu. Quindi in teoria… ora toccherebbe a me». E, si rese conto d’improvviso, voleva davvero raccontargli tutto: non solo per dimostrargli la stessa fiducia che lui aveva riposto in lei o per mantenere la promessa che gli aveva fatto, ma anche per se stessa. Era troppo tempo che non parlava di Ana: sua madre non le permetteva neanche di nominarla, Jacinda non era interessata a starla a sentire, Lucy non sapeva neanche chi fosse Ana… e, triste ma vero, lei non aveva altri amici con cui confidarsi. Ma di certo non poteva imporglielo. E forse non sarebbe stato il momento giusto. «Ovviamente, se non sei stanco… forse ti sto facendo fare troppo tardi…» borbottò, guardando di sfuggita l’orologio appeso alla parete. In effetti erano già le 11:10 e lui era in giro da più di sei ore, ci stava che fosse stanco e che dovesse…
«Non era per questo che volevo andarmene, prima. Non sono stanco. È che… lo so che non è una bella storia da ascoltare e a volte…le persone sono in difficoltà e…» Henry sbuffò, risentito con se stesso: dannazione, ora cominciava a parlare a rallentatore e a caso! Doveva frenarsi, prima di sparare troppe stupidaggini!
«Può darsi, ma… mi ha davvero fatto piacere che tu abbia voluto condividerla con me. In effetti è il motivo per cui volevo raccontarti di me perché… beh, a questo punto ho la certezza che potrai capire, forse più di chiunque altro»
Henry la guardò, qualsiasi traccia di sonnolenza scomparsa come per magia: «Ok, d’accordo, sono completamente sveglio. Hai stimolato la mia curiosità».
Quel repentino cambiamento strappò un mezzo sorriso alla ragazza al suo fianco «Dammi solo un minuto» chiese lei, alzandosi e dirigendosi verso una porta chiusa poco distante. Ne uscì pochi minuti dopo, mentre anche la porta d’ingresso si apriva, rivelando la figura di Victoria. La donna notò la tavola apparecchiata, poi rivolse un’occhiata al divano, da cui Henry era scattato istintivamente in piedi.
«Buonasera, signora»
«Oh, una visita a quest’ora! Non le sembra di essere quantomeno inopportuno, Mr Mills?»
«Mamma! Henry è un amico. È stato con noi questo pomeriggio e l’ho invitato a cena. Non ci vedo niente di inopportuno, non stavamo facendo niente di male»
Victoria sbuffò scuotendo la testa. «Ho sempre saputo che il tuo giudizio lascia molto a desiderare, Ivy. E che diavolo è tutto questo casino? Quanto a lei, Mr Mills, credevo di essere stata sufficientemente chiara al nostro primo incontro, ma evidentemente non è così. Glielo ripeterò un’ultima volta: stia alla larga dalle mie ragazze. Tutte, nessuna esclusa. Mi sono spiegata? E ora farebbe meglio ad andarsene: la sua presenza non è gradita.»
«Perché devi essere così…?» cominciò Ivy irritata, salvo poi essere interrotta da un cenno negativo di Henry.
«Lascia stare. In effetti si è fatto un po’ tardi, sarà meglio che vada. Domani si torna al lavoro e i miei clienti si aspetteranno che resti sulla giusta corsia».
Ivy strinse le labbra delusa: perché diavolo sua madre doveva sempre rovinare tutto? Erano stati così bene fino a quel momento! E ora… era palese che quella di Henry fosse una scusa. Ma non avrebbe insistito, non sarebbe stato corretto. «D’accordo. Scendo con te, così ti apro il cancello»
«Vedi di darti una mossa, non vorrai lasciare tutto così….» brontolò Victoria accennando alla tavola ancora apparecchiata.
Ivy alzò gli occhi al cielo. «Certo che no, mamma, non preoccuparti. Caricherò la lavastoviglie appena sarò risalita, non sono così incivile. Puoi andartene a dormire tranquilla, domattina sarà tutto perfetto e io sarò tornata a casa sana e salva… per quello che te ne importa». Le ultime parole furono più che altro un mugugno indistinto, dopodiché la figlia maggiore di Marcus Belfrey, afferrato il suo mazzo di chiavi, fece cenno al suo ospite di seguirla. Fu solo quando le porte scorrevoli dell’ascensore si chiusero alle loro spalle che Ivy si permise di accasciarsi contro una delle pareti della cabina passeggeri.
«Io… non so davvero da che parte cominciare a scusarmi con te, oggi: tra le mie reazioni eccessive, le illazioni di Lucy e la scortesia di mia madre mi sembra un miracolo che tu sia stato così paziente finora. A parti invertite, probabilmente, io sarei già scappata»
«Non puoi esserne certa: io non ho una madre. E non ho nipoti con cui beccarmi. In effetti, a parti invertite, tu avresti gioco facile, non ho nemmeno amici rompiscatole… siamo io e me stesso… e i fantasmi di Abby e Lauren»
Ivy sospirò. «I fantasmi sono sopportabili. Ne abbiamo uno anche noi in casa». Da sotto la maglietta estrasse una foto leggermente piegata, mostrandogliela. Henry la osservò incuriosito: c’erano Victoria Belfrey due ragazze e una bambina. Una era Ivy, era fuori di dubbio, l’altra sicuramente Jacinda e la bambina…? Non sembrava Lucy, aveva la pelle troppo chiara.
«Chi è questa bambina? E… Lucy? Non era ancora nata?». Proprio in quel momento l’ascensore si aprì: erano arrivati al parcheggio.
Ivy accese la luce e si lasciò guidare da Henry verso la sua macchina, mentre cercava le parole per spiegare.«Lucy non era neanche prevista, quando venne scattata questa foto. È una delle ultime con Anastasia, la mia sorellina. Qui aveva tre anni. È stata il classico “incidente di percorso”: io e Jacinda eravamo già grandi quando è nata, ma l’abbiamo amata tutti moltissimo. O meglio,quasi tutti. Papà non la conobbe mai, morì quattro mesi prima della sua nascita. La chiamammo Anastasia proprio in sua memoria, aveva sempre desiderato chiamare così una delle sue figlie». La voce le si spezzò solo per un istante a quel ricordo e dovette chiudere gli occhi per ricacciare dentro le lacrime che minacciavano di uscire. Henry, che la stava ascoltando attentamente, nel frattempo si era fermato: avevano raggiunto la sua macchina. Non l’aprì, né diede alcun segno di voler entrare: si appoggiò semplicemente alla portiera dal lato dell’autista e invitò l’amica a fare altrettanto.
Ivy gli si affiancò mentre il suo cervello lasciava riaffiorare tutti i ricordi legati alla sorellina: «Quando mamma ci raccontò di essere incinta, all’inizio io e Jacinda restammo malissimo: lei aveva già vent’anni, io tredici e la mamma ne aveva compiuti quaranta quell’anno. Ci sembrava che volesse fare per forza “la giovane” e non riuscivamo ad accettarlo. Jacinda era certa che se ci fossimo opposte con sufficiente fermezza avremmo convinto la mamma a rinunciare all’idea della gravidanza. All’inizio l’assecondai: mi vergogno di ammettere che ero d’accordo con lei». Il solo ripensarci le faceva male: come diavolo aveva potuto essere così egoista? Aveva preteso che sua madre uccidesse un essere vivente solo per non sentirsi ridicola e non essere presa in giro dalle sue cosiddette amiche. Per fortuna non era stata ascoltata «Ovviamente mia madre ci mandò al diavolo senza mezzi termini e proseguì la gravidanza incurante delle nostre rimostranze. Dopo la morte di mio padre, cominciai a vedere diversamente l’arrivo di Ana e, quando nacque, mi ci affezionai presto, anche perché i bambini mi erano sempre piaciuti. Ti ho detto, no, che avrei voluto frequentare il college per fare la maestra?»
Henry annuì, chiedendosi distrattamente cos’avesse a che fare tutta quella storia con quello che aveva raccontato lui in precedenza. Forse parlarle di Abby le aveva rievocato ricordi legati alla sorella? Magari non la vedeva da molti anni. Poi, di colpo, collegò: Ana… Anastasia…. Anastasia Belfrey, ma certo! I giornali avevano parlato di lei per un lunghissimo periodo nove anni prima quando… cazzo! Ricordava di essere stato molto colpito dalla notizia, il fatto era avvenuto proprio due giorni dopo che lui e Lauren avevano scoperto di stare per diventare genitori. Ne avevano parlato per giorni, chiedendosi come potessero vivere una situazione del genere i familiari della bambina, come avrebbero reagito loro stessi trovandosi nella stessa condizione e ripromettendosi che mai, mai avrebbero permesso alla loro bambina di allontanarsi troppo dalla loro vista. E quando poi la polizia aveva ritrovato quella giacchetta stracciata e Victoria Belfrey aveva confermato che fosse proprio della bambina, si erano sentiti morire anche loro e avevano stretto forte la loro piccola Abby, terrorizzati che al mondo potessero accadere cose tanto orribili a bambini innocenti. All’epoca avrebbe potuto accodarsi agli altri colleghi e ricavare un facile articolo speculando sul dolore della famiglia, ma aveva deciso di evitare, approfittando del fatto di non essere ufficialmente legato a nessuna testata giornalistica. Lauren aveva approvato la sua decisione: non avevano bisogno, aveva detto, di soldi facili ottenuti sul dolore altrui. E adesso, nove anni dopo, aveva l’occasione di conoscere la reale versione della storia da chi l’aveva vissuta in prima persona. Il suo animo da giornalista si risvegliò, subito rimproverato dalla parte di lui che era ancora padre: avrebbe ascoltato e basta, senza commentare.
Quasi come se l’avesse sentito Ivy, rimasta in silenzio fino a quel momento, (probabilmente incerta su come proseguire o se farlo) ricominciò a raccontare: «Beh, facendola breve: Ana nacque e per i primi quattro anni andò tutto bene: lei cresceva, io studiavo, Jacinda si faceva gli affari suoi e ogni tanto litigava con la mamma ma in sostanza eravamo una famiglia normale. Mi ero assunta il compito di passare la maggior parte del tempo con Anastasia, così, quando non studiavo o non ero a scuola, ero io a portarla al parco, a darle da mangiare a farla giocare… Lo so, lo so… sembra incredibile, visto che ti ho detto che non mi piacciono i bambini e non mi va di prendermene cura, vero? Beh, dieci anni fa non era così e le volevo davvero bene. Ho lasciato perfino equitazione per passare più tempo possibile con lei». Henry doveva ammettere, almeno a se stesso, di essere sempre più curioso e non solo riguardo la reale versione del rapimento di Anastasia Belfrey: quella sera, Ivy gli stava mostrando un lato di lei che non aveva mai sperimentato e che gli permetteva di conoscerla molto più profondamente di quanto non avesse fatto fino a quel momento. Un po’ come aveva fatto lui neanche mezz’ora prima, in effetti. Non ebbe il tempo di soffermarsi maggiormente su quel pensiero, perché lei riprese.
«Poi, l’estate precedente al mio esame per l’ingresso al college successe ciò che cambiò tutto. Lei aveva soltanto cinque anni e io l’avevo portata al parco come facevo ogni volta che potevo. Quel giorno poi, era particolarmente felice perché si era ripresa da poco dalla varicella ed era la prima volta che usciva dopo parecchio. Le avevo messo un vestito di cotone bianco e sopra una maglia di quelle aperte, di cotone, con le maniche lunghe, bianca con il disegno di una farfalla rosa, me la ricordo perfettamente» Le sue labbra tremarono al ricordo e lei dovette interrompersi e fare un profondo respiro: cavolo! Ricordava ancora quel giorno nitidamente… «Non so esattamente come successe, ricordo solo un gran male alla testa. Mi hanno detto che ho avuto una commozione cerebrale e sono stata ricoverata in ospedale una settimana, imbottita di sonniferi. E quando mi hanno trovata, Ana era sparita. La polizia l’ha cercata per settimane, senza risultato, mia madre non si dava pace. Poi scoprimmo la gravidanza di Jacinda e la mamma si concentrò totalmente su di lei, per evitare che abortisse. Quando nacque Lucy la adottò lei: ha lottato con tutte le sue forze per impedire che Jacinda la desse in adozione a chissà chi. E da quando è arrivata Lucy… il mondo gira intorno a lei. Mamma cerca in lei la figlia che non ha più e io… io non ci riesco. Mia madre pensa che Ana sia morta, maledizione, quando hanno trovato quella giacchetta stracciata si è detta subito convinta che fosse sua, ma, Henry, ti giuro che Ana non ha mai avuto una giacca del genere, lo saprei, ero sempre io a portarla a comprare vestiti, giocattoli, libri e… qualsiasi altra cosa. Io o la sua governante e nessuno ci ha mai ascoltato, mai. Neanche una volta»
Henry era allibito «Aspetta un attimo… mi stai davvero dicendo che… che tu non pensi che tua sorella sia morta?»
Ivy chiuse gli occhi e tirò un profondo sospiro. «Esattamente. Mia madre ne era convinta, ma io non ho mai voluto crederci. E non ci crederò finché non mi metteranno davanti il suo cadavere. Non l’hanno ritrovato, Henry, NON L’HANNO RITROVATO, dovrà pur significare qualcosa, no?» Sembrava davvero furiosa.
«Certo, però…» Henry era perplesso. «Senti, so di sembrare l’avvocato del diavolo ma… ma davvero credi che tua madre non sia in grado di riconoscere i vestiti di tua sorella? Voglio dire… se lei ne è sicura… in fondo è sua madre… e tu hai battuto la testa, magari… puoi esserti confusa»
Ivy scoppiò a ridere istericamente «Hai letto il copione anche tu? È la stessa identica scusa che ha addotto la polizia per dar retta a mia madre e non a me. Non sono pazza, Henry, maledizione, mia sorella è viva da qualche parte!»
«È che… mi sembra assurdo che una madre non riconosca i vestiti della propria figlia. Lauren riconosceva i vestiti di Abby e anch’io»
Ivy respirò forte, prima di obiettare. «Ma voi eravate due genitori amorevoli. Mia madre scaricò Anastasia poco dopo averla svezzata, tra bambinaie varie. Si assicurava che fosse in salute e al sicuro e tanto le bastava, non faceva caso ai suoi vestiti nuovi o ai suoi giochi. Per questo le è stato così facile trovare una sostituta dopo che è scomparsa. Ma questo non è valso per me. Te l’ho detto, passavo con lei ogni momento libero, riconoscerei perfino le sue cicatrici. Per me Ana è insostituibile e non sopporto che mia madre mi imponga di passare tutto il mio tempo con Lucy.» La voce le si ruppe e le lacrime cominciarono a scorrere sul suo viso senza che potesse fermarle. Henry la guardò, incerto: avrebbe dovuto consolarla? Non era bravo in quel genere di cose. Lei probabilmente, non si era neanche resa conto di stare piangendo, perché continuò. «Non fraintendere… io non odio Lucy… non è lei nello specifico il problema. Mi comporterei allo stesso modo con qualsiasi altra bambina fosse stata al suo posto»
Lo scrittore assentì mentre, senza riflettere, le passava un braccio dietro le spalle, attirandola più vicina e lasciando che si sfogasse. Bastò questo semplice gesto per trasformare il pianto silenzioso della ragazza in singhiozzi incontrollati. Henry sospirò, restando in silenzio e chiedendosi da quanto Ivy si stesse tenendo tutto dentro. Non era sicuro di voler sapere la risposta. Rimase in silenzio finché non la sentì calmarsi un po’ e staccarsi spontaneamente da lui, respirando profondamente per tentare di riprendere il controllo. Ora comprendeva meglio tante cose: dalla volta in cui lei gli aveva detto di non sopportare gli agguati (come diavolo aveva potuto prenderla in giro? Aveva davvero segatura al posto del cervello, maledizione! Dopo quello che aveva passato si sarebbe stupito del contrario) a cosa aveva inteso affermando che lui avrebbe potuto capirla. Ma come avrebbe potuto realmente farlo? Non c’erano dubbi sul fatto che Abby fosse morta e questo gli aveva permesso in un certo senso, di mettersi l’anima in pace, consapevole che non avrebbe potuto fare nulla per cambiare la situazione. «Non ne sono davvero certo. Abby è morta, non ci possono essere dubbi su questo. Rassegnarmi è stata una scelta necessaria ma tu... tu speri ancora di ritrovarla. Ma tua madre? Perché non ti sostiene?»
Ivy liberò una risata sprezzante, la testa appoggiata sulla spalla dell’amico: «Mia madre pensa che la mia sia solo disperazione e senso di colpa. Dice che sarebbe folle assecondarmi, che sono solo deliri. È convinta che debba crescere e prendermi le mie responsabilità.».
Henry sbuffò: «Figurarsi. Ho sempre pensato che tua madre fosse una stronza, ma non avrei mai creduto fino a questo punto. Ho un’altra domanda ma, se non ti va di rispondere, sentiti libera di non farlo, ok? Ecco… non avete pensato a cercarla da sole? Voglio dire, tua madre non è esattamente indigente, può permettersi un investigatore o qualcosa di simile…»
Ivy abbassò lo sguardo: «Non lo so. Dopo essermi ripresa, venni a sapere quello che era successo e mamma me ne disse di tutti i colori, proibendomi perfino di nominare Ana, da quel giorno in poi. Ovviamente mi scordai il college, ma era l’ultimo dei miei pensieri. Mi costrinse a cominciare lo stage alle Belfrey Industries e ad eseguire i suoi ordini senza fiatare. Venni a sapere per puro caso che aveva assunto un detective e provai a capire se avesse scoperto qualcosa. Ma mia madre lo seppe e si infuriò. Mi fece un’altra sfuriata e poi minacciò di sbattermi fuori di casa se avessi continuato ad occuparmi di questa storia. Disse che avevo fatto già abbastanza danni e che non avrei messo a repentaglio i suoi tentativi.» Ricordare quel periodo e quelle parole faceva ancora maledettamente male e Ivy dovette fermarsi e fare una pausa. Solo sentire il braccio di Henry sulle spalle le impedì di crollare del tutto.«Desistetti perché... perché mi era rimasta solo lei: papà era morto, Ana era sparita, Lucy non volevo nemmeno vederla, con Jacinda non c’è mai stato un gran rapporto… così mi piegai, per non restare completamente sola. E comunque, non sono più riuscita a scoprire niente neanche per sbaglio: da quel giorno ha aumentato i livelli di sicurezza di tutte le sue cose personali. Nessuno al di fuori di lei può accedervi. Poi ritrovarono quella maledetta giacca e suppongo che qualsiasi detective venne licenziato. Però… nonostante tutto non riesco a smettere di pensarci: vorrei solo sapere se è ancora viva da qualche parte, se sta bene o se… Dio, non ho il coraggio di dirlo». Ivy strinse le labbra e chiuse gli occhi, mentre il cervello dell’amico lavorava, collegando tutte le informazioni ricevute e traendone le ovvie conclusioni. Ma non era il momento né il luogo per discuterne. Una cosa era certa.
«Non so come fai a reggere, davvero. Al tuo posto, se fosse stata Abby a sparire, sarei impazzito. In un certo senso a me… è andata meglio: convivo con questo senso di colpa, ma… ho sempre saputo dove fosse e so che, fino all’ultimo, lei sapeva perfettamente quanto io e sua madre l’amassimo. Credo sia stato questo pensiero a impedirmi di impazzire in tutti questi anni. Tu mi stai dicendo che tua sorella è viva da qualche parte, mentre il resto del mondo crede che sia morta».  Gli era venuta un’idea, forse, ma doveva trovare le parole giuste per proporgliela. Nel frattempo lei sembrava essersi tranquillizzata un po’ e si era staccata dal suo abbraccio, tentando di asciugare le lacrime senza spargere mascara ovunque. Non le stava riuscendo bene e probabilmente gli aveva anche macchiato la camicia ma quello, al momento, era l’ultimo dei suoi problemi. Riprese:«Non ti fa bene continuare a distruggerti il cervello con questi pensieri. Per cui… pensavo che… se ti va…se ne sei assolutamente certa… domani possiamo partire dall’inizio e provare a cercarla noi. Forse dopo nove anni si rivelerà un buco nell’acqua o forse il fatto di essere in due ci permetterà di accedere ad un numero maggiore di informazioni. Che ne dici? Ci dormiamo sopra stanotte e, se sei d’accordo, domani la pensiamo meglio»
Ivy lo osservava stupita, paralizzata dalla sorpresa: stava accadendo davvero o stava solo sognando? Henry le aveva appena proposto di…«Davvero lo faresti? Pensi sul serio che potrebbe servire a qualcosa? Se perfino mia madre e la polizia hanno rinunciato…» Sarebbe stato un sogno provare e magari riuscire a venire a capo di quella storia, ma Ivy non aveva il coraggio di farsi illusioni.
Henry, dal canto suo, annuì deciso: «Qual è il caso peggiore che può capitare? Forse che scopriamo che è morta come credono tutti gli altri. Scusa» si corresse, notando l’espressione terrorizzata sul volto di Ivy «non volevo essere brusco. Il punto è… che qualsiasi scoperta sarà meglio di niente. Almeno saprai cos’è davvero successo a tua sorella, anziché tormentarti immaginando gli scenari peggiori. E in qualsiasi caso, potrai lottare per lei: per ottenere giustizia o per riportarla a casa. E spero davvero che si avveri questo secondo caso. Se, al contrario non dovessimo scoprire nulla… almeno avrai la certezza di non aver lasciato nulla di intentato».
Ivy lo guardò: poteva essere davvero tutto così semplice? Lo sguardo le cadde sulla foto che reggeva ancora tra le mani: vide se stessa tenere in braccio Anastasia e la bambina rivolgere un sorriso smagliante al fotografo. Le ci volle solo un istante per rendersi conto che…
«Hai ragione. Qualsiasi cosa sia accaduta a mia sorella, anche la più orribile, ho il diritto di saperla e il dovere di scoprirla. E chi me l’ha portata via la pagherà. Davvero mi aiuteresti?» non poté evitare di chiedere, la voce piccola e incerta. Da troppo tempo sentiva la mancanza di qualcuno che l’appoggiasse in maniera tanto incondizionata.
«Certo che sì. Dimentichi che sono un giornalista, i misteri sono il mio pane quotidiano. E questo mi aveva colpito particolarmente, quando io e Lauren sentimmo la notizia in tv. I giornali ne fecero un caso all’epoca, erano i giorni in cui avevamo saputo che saremmo diventati genitori e per un sacco di tempo ci siamo chiesti come avremmo reagito al posto tuo e di tua madre. Sarei felice di aiutarti a venire a capo di questa storia. E chissà, magari scopriremo che hai davvero ragione, che tua sorella è davvero ancora viva e finirà tutto con una buona notizia».
Ivy assentì, rinfrancata. «D’accordo, allora… grazie, accetto volentieri.» concluse, rivolgendogli un piccolo sorriso.
Henry le strinse la mano, per poi sussultare osservando l’orologio «Allora siamo d’accordo. Adesso sarà meglio che vada, è mezzanotte passata e se domani vogliamo cominciare dobbiamo essere lucidi. Tra l’altro, domattina sono di turno col taxi, quindi… buonanotte. Ci sentiamo domani» concluse, entrando in macchina.
«D’accordo. Buonanotte, Henry. A domani» lo salutò la ragazza, aprendogli il cancello, dopodiché rimase ad osservarlo finché la sua macchina non fu scomparsa in lontananza. Alla fine, con la sensazione di essersi appena liberata di un enorme, opprimente macigno, si diresse a casa.

 

 
Cavea: praticamente il “palco” degli artisti del circo, la pedana sulla quale si esibiscono, interna al tendone.
Ok, seriamente, che ve ne pare? Confesso una cosa: nella stesura iniziale, tutta la parte relativa a Rogers e alle tre sorelle Gardner non esisteva nemmeno. Di questi personaggi ne esistevano due, Rogers e una delle sorelle, che però avevano un po’ il ruolo delle comparse. Invece ieri mi sono messa a scrivere e nel giro di poco sono spuntati due genitori, altre due figlie, un genero e un nipote (sì, forse ho sbagliato a contare i personaggi nuovi, perdonate, sono fusa). Per non parlare degli altri personaggi che ancora devo introdurre. A questo proposito, chiedo il vostro aiuto.
Mi mancano due personaggi decisamente importanti: conosco perfettamente i loro nomi, la loro storia, la loro età…. Tutto. Fatta eccezione per il loro aspetto fisico. Vi va di aiutarmi a trovare loro dei prestavolto? Ovviamente, la decisione finale sarebbe mia, ma dato che guardo pochissima televisione e leggo ancora meno riviste una mano non mi dispiacerebbe.
Alcune dritte:
  • Devono essere un uomo e una donna
  • Sono coetanei e hanno 44 anni
  • Necessariamente di razza bianca.
Vi avrò incuriosito? A che mi serviranno sti due? Dai, sono curiosa di vedere cosa mi tirate fuori. Eventuali proposte potete scriverle sulle recensioni o nella pagina FB che ho creato per le mie storie. In basso l'obbrobrioso ma funzionante link.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Fase 1: ricerca ***


Ed eccomi, finalmente, con il sesto capitolo completato!!!! Ci ho messo una marea a postarlo, un po’ perché ho dovuto revisionare il 3 e il 5 e volevo darvi il tempo di mettervi in pari con le nuove versioni, un po’ perché questi capitoli stanno diventando sempre più complessi man mano che ci avviciniamo allo snodo centrale della storia. Io sono più avanti di voi di due capitoli, quindi sono più inguaiata xd ma a partire da questo, anche voi comincerete a farvi un’idea del casino che è questa storia.
Vi lascio al nuovo capitolo. Fatemi sapere che ne pensate!

 
Chi aveva deciso che non si potesse vivere d’aria? Chi che il cibo dovesse essere pagato? Chi aveva deciso che i soldi si guadagnassero e non potessero, casualmente, essere trovati in giro per strada o spuntassero magicamente al bisogno? E soprattutto, chi aveva stabilito che era obbligatorio fare tre pasti al giorno? Queste e altre domande affollavano la mente di Henry mentre guidava il suo taxi per le vie di Seattle tentando di concentrarsi esclusivamente sulla strada da percorrere. Cosa che gli stava riuscendo piuttosto difficile: da quando, la sera prima, Ivy gli aveva raccontato la storia di sua sorella, il suo animo di giornalista e il suo senso di giustizia si erano prepotentemente ridestati. Poteva solo immaginare la sofferenza dell’amica al pensiero che sua sorella fosse chissà dove, che avrebbe potuto perfino essere morta… davvero non comprendeva come facesse a resistere, lui al suo posto sarebbe impazzito! Forse Victoria l’aveva fatta sentire sufficientemente in colpa da convincerla a lasciar perdere, forse, semplicemente, non sapeva da che parte cominciare a chiedere senza che sua madre lo venisse a sapere. Beh, diavolo, era ingiusto! Ora non sarebbe stata più sola, lui era deciso a supportarla, restandole accanto fino alla fine di quella storia. E, se lei aveva le conoscenze, lui aveva le risorse: avrebbe potuto indagare senza che nessuno gliene chiedesse conto: usare internet, fare ricerche nel quartiere… Magari avrebbe potuto coinvolgere Lucy, alla bambina piaceva occuparsi di questo genere di cose e lei sarebbe passata ancora più inosservata di lui, soprattutto se la mascherava come una ricerca per la scuola o simili. E poi….ma certo, che idiota! Perché non ci aveva pensato prima? Di sicuro il detective Rogers gli avrebbe dato una mano. Gli aveva raccontato di essersi già impelagato in un caso irrisolto, di averne fatto quasi la sua ragione di vita… allora perché non occuparsi anche di questo? Avrebbe potuto proporglielo, di certo lui sarebbe stato molto più competente e in grado di scavare più a fondo di quanto avrebbero potuto fare loro due. Forse, però, prima avrebbe dovuto parlarne con Ivy, magari lei non aveva intenzione di mettere in mezzo tanta gente, anche se… scosse la testa: si stava inutilmente friggendo il cervello.
«Ehi, amico, datti una mossa!» Henry sobbalzò, udendo il suono venire dalle sue spalle e tornando di colpo alla realtà: si era fermato al semaforo e non era più ripartito e gli altri, dietro, si stavano spazientendo. Cazzo! Si scusò rapidamente col cliente seduto dietro (che, per tutta risposta, gli rivolse un grugnito scocciato) poi ripartì. Dove sarebbe dovuto andare? Ah, già, il tizio doveva andare a pranzo al ristorante a cinque isolati da lì. Cedendo alla sua deformazione professionale, la mente di Henry prese a cercare la storia dietro quella richiesta: un appuntamento con una donna era escluso, si sarebbe bruciato metà delle possibilità presentandosi in taxi. Appuntamento di lavoro? Uhm, avrebbe anche potuto essere un’opzione plausibile, sebbene non avesse alcuna valigetta con sé. O forse, era solo uno snob a cui piaceva buttare soldi in ristoranti costosi, tipo quello.
Beh, dettagli, era arrivato: «Sono cinquanta dollari». L’uomo storse il naso, poi gli rifilò una banconota sgualcita, allontanandosi. Henry li incassò stringendosi nelle spalle. Un’occhiata all’orologio gli rivelò che anche per lui si stava avvicinando il momento della tanto agognata pausa pranzo. Sarebbe andato a vedere se Roni aveva qualcosa di pronto.
 
Quella maledetta cassa l’avrebbe fatta impazzire, un giorno o l’altro! Roni imprecò, colpendo il registratore e sbuffando. «Ti vuoi decidere a collaborare, dannato affare?» Maledizione!
«Problemi?» Una voce che non sentiva da qualche giorno, la distolse dall’ennesimo, infruttuoso tentativo.
«Henry! Già, a quanto pare oggi la cassa ha deciso che non ne vuole sapere. Mi si blocca in continuazione e a volte non mi prende ciò che scrivo, così gli scontrini escono sballati. Non so che diavolo abbia. Ho provato a ripararla da sola, ma le mie competenze ad un certo punto si esauriscono»
Henry annuì, osservando il bancone e il registratore «Se vuoi provo a darci un’occhiata… anche se non ti prometto niente…»
Roni emise un sospiro di sollievo «Magari, mi faresti un favore davvero enorme! Ma non vorrei farti perdere tempo…»
L’uomo fece uno sbrigativo gesto della mano «Tranquilla, nessun problema. Sono in pausa pranzo e comunque non ho un orario fisso da rispettare»
«Beh, che dire, allora? Grazie mille, accetto l’offerta. Se poi riesci davvero a farla funzionare, ti offro il pranzo» propose istintivamente. Gli si era affezionata in quel periodo, iniziava a considerarlo un amico, l’offerta le era venuta spontanea. Se poi le avesse anche risolto il problema sarebbe stato perfino poco.
«Allora dovrò impegnarmi, non ho ancora mangiato e, in effetti, ero qui proprio per vedere se avevi qualcosa di pronto. Vanno bene anche un paio di tramezzini o… qualsiasi cosa tu abbia. Stamattina non ho fatto colazione, ho sgranocchiato qualcosa mentre giravo col taxi ma sto davvero svenendo dalla fame»
Roni sussultò: «Oh, Henry, mi dispiace, non ti ho nemmeno chiesto… Facciamo così, ti porto un po’ di formaggio grigliato, mi avevi detto che ti piaceva, giusto? E magari anche un hamburger o un hot dog di quelli seri» ecco, sì, quella era una buona idea.
«D’accordo, grazie. Io intanto prendo la cassetta degli attrezzi e vedo se riesco almeno a sbloccare il cassetto. È qui sotto, vero?»  Gli sembrava che gli avesse detto una cosa del genere. Per non perdere tempo era già andato dall’altra parte del bancone e, senza volerlo aveva individuato subito ciò che gli serviva. «Infatti, eccola qui»
«Perfetto, allora… grazie mille. Sarò di ritorno tra qualche minuto col tuo pranzo.»
Allettato dalla prospettiva, Henry si adoperò a sistemare il registratore di cassa… e forse, visto che c’era, avrebbe potuto approfittarne per cominciare la sua indagine. Non ne aveva ancora discusso con Ivy ma… in fondo lei che informazioni avrebbe potuto dargli? Aveva dormito durante i giorni successivi al rapimento e, dato che aveva ricevuto una botta in testa, paradossalmente chiunque altro avrebbe saputo più di lei di quella storia. E Roni era una barista, poteva aver sentito chiacchiere, visto qualcosa di strano a cui sul momento non aveva dato peso. Osservò attentamente la sua ultima sfida: forse aveva capito dov’era il problema. Proprio in quel momento Roni tornò, poggiando accanto al suo braccio un piatto contenente il formaggio e l’hot dog promessi. Il profumo distrasse Henry che si voltò.
«Grazie davvero, il mio stomaco cominciava a fare strani rumori»
Roni si schernì «Figurati, per così poco. Allora, ne sei venuto a capo?»
«A dire il vero, credo di sì. C’è stato uno sbalzo di corrente ultimamente?»
Roni aggrottò le sopracciglia. «Che strana domanda. Ma in effetti, ora che mi ci fai pensare…» Remy le aveva detto qualcosa, se non ricordava male, ma le era passato di mente soprattutto perché nell’esatto momento in cui era successo, lei si era trovata da tutt’altra parte a discutere con un fornitore. «Credo che sia saltata di colpo la corrente circa cinque giorni fa… e in effetti sono quattro o cinque giorni che la cassa da problemi. Vuoi dire che è collegato?»
Henry diede un morso al suo hot dog e deglutì, prima di rispondere. «Credo sia probabile. E, da quel che vedo, l’unico modo per aggiustarlo, è riprogrammarlo. Per tua fortuna ho sempre con me il mio portatile e qualche filo utile, posso sistemartelo anche subito»
«Sul serio? Mi salveresti davvero la vita, grazie»
Senza attendere oltre, Henry si diresse al suo taxi, dal cui bagagliaio estrasse una valigetta.
Raggiunse nuovamente Roni al bancone e l’aprì, estraendone il suo portatile e una serie di cavetti che gli fecero guadagnare uno sguardo stranito dalla sua improvvisata cliente.
«Lo so, lo so, sembra tutto un gran casino, ma ti giuro che c’è un criterio. Senti, piuttosto… ti va di fare due chiacchiere, mentre sistemo qui? Non è complicato, tranquilla, potrei farlo ad occhi chiusi ed è un po’ che non ci vediamo…». Aveva intenzione di prenderla un po’ alla larga: visto com’era finita l’ultima volta, aveva la sensazione che, se avesse fatto il nome di Ivy senza girarci sufficientemente intorno, si sarebbe bruciato ogni possibilità di ottenere una qualsiasi informazione.
«Hai ragione, in effetti è qualche giorno che non vieni a trovarmi, come mai? Massacranti turni al lavoro?»
«Anche, ma non solo: ieri pomeriggio, ad esempio, sono andato al circo con Lucy e Ivy. Avrebbe dovuto esserci anche Jacinda ma ci ha dato buca» aggiunse, onde evitare che rimuginasse troppo su quel dettaglio «però sono stato bene, era un pezzo che non mi capitava di andarci, è stata una domenica… diversa»
Roni storse la bocca, poi si bloccò, ricordando com’era finita la volta precedente «Andate proprio d’accordo, tu e Ivy…»
Henry si strinse nelle spalle, mentre il programma cominciava a lavorare seguendo i suoi ordini. «Siamo amici. Mi ha invitato ad andare con loro e ho accettato.» Premette un tasto, poi un altro e osservò la risposta del computer: perfetto. «Poi, al ritorno, ho cenato a casa sua con lei e Lucy e abbiamo parlato un po’. In effetti mi si è fatto abbastanza tardi, ecco perché ho dovuto chiederti il pranzo: stamattina ho fatto giusto in tempo a fare colazione e a prepararmi il mio thermos di caffè»
«Non devi giustificarti, mi fa piacere che tu venga qui. Potresti anche chiedermi il pranzo tutti i giorni, ne sarei felice»
«Grazie, me ne ricorderò» rispose Henry rivolgendole un sorriso. Poi tornò a fissare lo schermo del computer: era arrivato il momento di introdurre l’argomento che gli stava a cuore.
«In realtà, oggi sono qui anche per un altro motivo. Vedi ieri, prima che tornassi a casa, io e Ivy abbiamo parlato parecchio, anche di cose personali. In particolare, lei mi ha raccontato di quando sua sorella fu rapita, nove anni fa: te ne ricordi? All’epoca era su tutti i giornali: Anastasia Belfrey, l’ultima figlia di Marcus e Victoria Belfrey»
Roni annuì: «Adesso che me lo dici, sì, mi ricordo. Povera bambina, mi aveva fatto tanta pena! Ancora mi chiedo come si potesse essere così irresponsabili…»
«Irresponsabili?» la interruppe Henry «Di cosa stai parlando?»
«Beh, di quello che si diceva all’epoca, no? Che la sorella si era distratta e la bambina era scappata»
Henry trasalì: «Sul serio? Credi ad una frottola del genere? Senti» proseguì sconvolto «capisco che Ivy non ti sia simpatica, sinceramente non ne comprendo il motivo ma non sono affari miei. Ma davvero pensi che possa essersi distratta al punto da perderla? Stiamo parlando di sua sorella, dannazione, non di una perfetta sconosciuta!»
«E allora?» Se doveva essere onesta, Roni non vedeva il problema «Oggi come oggi, succede di peggio: mariti che ammazzano le mogli, figli che uccidono i genitori, genitori che abbandonano o uccidono a loro volta i loro stessi figli… che ci sarebbe di strano in questa storia, esattamente? Mi sembra anche plausibile, conoscendo Ivy»
Henry negò, convinto. «Senti non è proprio possibile, non ci crederò mai. Tu non l’hai vista, era distrutta quando me ne ha parlato. E non provare a dire» continuò vedendola sul punto di obiettare «che stava fingendo per qualche strano motivo che immagini solo tu. Un dolore del genere non si inventa e non si finge. A che pro, poi? Se la pensi così, allora chissà cosa pensi di me e di Lauren, figuriamoci! La casa ha addirittura preso fuoco con lei e Abigail dentro e dormivano entrambe. La gente ne disse di tutti i colori all’epoca, ma sinceramente non pensavo che tu facessi parte di quel genere di persone! Pensavo fossi in grado di guardare oltre le apparenze!» Forse stava esagerando, forse l’aveva presa troppo sul personale e si era fatto coinvolgere eccessivamente, ma… maledizione gli sembrava inconcepibile! Come si poteva giudicare in quel modo senza sapere, senza conoscere, accontentandosi solo delle voci che si erano sentite in giro? Il computer emise un nuovo suono, distraendolo da quei pensieri: bene, aveva quasi finito, giusto in tempo. Premette ancora un paio di tasti, proprio mentre Roni ribatteva: «Io non ho mai pensato niente di male di te, non sapevo nemmeno che ti fosse successa una tragedia simile! Mi dispiace tanto, Henry, dev’essere stato terribile!»
Henry emise un sospiro: faceva ancora male parlarne, ma stavolta l’avrebbe tenuto per sé: la sera precedente era stata sufficiente e poi non gli andava che Roni si arrogasse il diritto di giudicare la sua vita come aveva appena fatto con quella di Ivy.
«Lo è stato, ma non è questo il punto, non avevo intenzione di parlare di me. Il punto è che Abby è morta e per lei non c’è più niente da fare. Ma quella ragazzina, Anastasia, non è mai stata ritrovata, a quanto ne so, né viva, né morta. Quindi potrebbe ancora essere ovunque. Ivy ci spera e io voglio aiutarla a venire a capo di questa faccenda. Ho visto come la polizia tratta le denunce e sinceramente… anche no.» Ricordava ancora la risposta derisoria del poliziotto quando, il giorno stesso del suo arrivo nel quartiere, era andato a denunciare la scomparsa della sua auto. «L’unico poliziotto un po’ serio mi sembra Rogers, infatti volevo chiedergli se avesse modo di reperire qualche informazione in più da cui partire. E oggi, visto che sono qui, ho pensato di chiedere a te: mi hai detto che hai sempre vissuto in questo quartiere, non hai mai sentito strane voci o qualcosa che potrebbe essere collegato a questa storia? Magari non ne hai parlato con nessuno perché non gli hai dato peso…»
Per la prima volta dall’inizio di quella conversazione, Roni si fermò a riflettere seriamente.
Henry non aveva tutti i torti e, a prescindere da ciò che pensava del resto della sua famiglia, quello che era accaduto a quella bambina era profondamente ingiusto. Nessuno avrebbe dovuto essere strappato a forza dai suoi cari. Avrebbe potuto aiutare le ricerche in qualche modo?
«Davvero, al momento non mi viene in mente niente, non mi pare di aver notato niente di strano all’epoca. Magari ci penso meglio e, se mi ricordo qualcosa di utile ti faccio sapere, d’accordo?»
«D’accordo, ti ringrazio. Nel frattempo, il mio computer ha fatto il suo lavoro e la tua cassa dovrebbe essere a posto. Fai uno scontrino di prova, per sicurezza»
Un po’ nervosa, Roni lo assecondò afferrando il quaderno su cui aveva cominciato a segnare gli importi da quando la cassa l’aveva abbandonata e aprendolo. Trovò il primo importo di quella giornata e lo batté sul registratore, incrociando le dita. Il tentativo andò a buon fine e Roni riuscì per la prima volta dopo cinque giorni a battere uno scontrino corretto. Sorrise ad Henry, grata. «Adesso funziona. Non so davvero come ringraziarti Henry, non avevo proprio idea di dove sbattere la testa»
Henry nel frattempo, aveva scollegato il computer, si era ripreso i cavi e stava spegnendo il portatile. «Figurati, l’ho fatto volentieri. Ora però, devo proprio andare, il lavoro chiama. Ci vediamo nei prossimi giorni, Roni» concluse, rivolgendole un cenno di saluto e avviandosi all’uscita. Si voltò poco prima di andarsene «Se ti viene in mente qualsiasi cosa riguardo quella faccenda, scrivimi, mi raccomando. Tanto il mio numero ce l’hai».
Roni gli rivolse un cenno di assenso, poi lo osservò lasciare il locale sentendosi più leggera.
 
Lucy Belfrey aveva ben chiari i suoi obiettivi nella vita. Il primo era, in assoluto, tornare a vivere con sua madre e trovarle un marito che fosse circa della sua età, si chiamasse Henry Mills e facesse il doppio lavoro di tassista e scrittore. Il secondo era capire chi cavolo fosse Ana, il nome che sua zia si era fatta scappare il giorno dopo Halloween. Ed esisteva un modo infallibile per trovare tutte le risposte che cercava: avrebbe chiesto a sua madre. Questo avrebbe significato andare contro tutti i suoi propositi iniziali di fare tutto da sola, ma non poteva fare altrimenti. E poi, se voleva che sua madre fosse felice, doveva trovarle un uomo che le piacesse e che rispecchiasse i suoi gusti. E si era resa conto di non conoscerli affatto. Henry piaceva a lei, avrebbe tanto desiderato che fosse suo padre… ma a sua madre piaceva? Se poi avessero passato il tempo a litigare non avrebbe risolto niente… Rabbrividì a quel pensiero, mentre si dirigeva verso l’appartamento che sua madre condivideva con Sabine: sapeva che quello era il suo giorno libero e aveva detto alla nonna che la lezione di danza sarebbe durata un’ora in più, per avere maggior tempo a disposizione. Quando l’aveva vista allontanarsi era sgattaiolata via dalla palestra e, in breve, aveva raggiunto la sua vera destinazione. In quel momento si trovava seduta sul letto di sua madre, con lei che la guardava come fosse un’aliena.
«Fammi capire, bambolina, hai… mentito alla nonna? Lo sai che se ti scopre finiremo nei guai tutte e due?»
Lucy sbottò: «Non me ne importa! Io devo parlare con te! Perché non sei venuta al circo, ieri? È vero che dovevi lavorare? E poi ci sono un sacco di cose che voglio sapere, per esempio… chi è Ana? Perché Ivy è triste quando ne parla?»
Jacinda trasalì: «E tu che ne sai di Anastasia? Chi te ne ha parlato?»
«Nessuno. Ho sentito Ivy dire il suo nome mentre credeva che dormissi. E la nonna che le diceva che sarebbe stato meglio se fosse morta lei, Ivy, anziché una certa “lei”… sempre questa Ana? Ma cosa sono tutti questi misteri, mamma? Io non capisco!»
Jacinda si produsse in un cenno di diniego. «Ecco, tesoro è… una storia lunga e complicata che risale a prima che tu nascessi ed è… veramente triste». A lei, personalmente, non era mai interessato molto di quella bambina e nei primi anni dalla nascita di Lucy, non le era interessato di altri che di se stessa. Ma poi Sabine l’aveva fatta riflettere e si era resa conto di quanto il suo atteggiamento fosse terribile: in fondo, Anastasia e Lucy facevano parte della sua famiglia. L’idea che qualcuno le tenesse chissà dove e potesse fare loro chissà cosa era… ingiusta e innaturale. Ok, lei aveva voluto dare Lucy in adozione a suo tempo ma questo era di certo meglio di quello che era capitato alla sua sorellastra: se anche fosse riuscita ad andare fino in fondo al suo proposito, Lucy sarebbe stata tra persone che l’avrebbero amata e si sarebbero prese cura di lei, mentre Anastasia… chissà dov’era, cosa le stavano facendo e soprattutto… se era ancora viva. Scosse la testa, scacciando quel pensiero e fissando sua figlia.
«Piccola, sei… davvero sicura di volerlo sapere? Non è una bella storia»
Lucy però non aveva intenzione di demordere. «Certo che lo voglio sapere, non sono più una bambina, sono stanca di tutte queste bugie! E poi, non mi hai risposto all’altra domanda: è vero che ieri non sei venuta perché dovevi lavorare?» E stavolta non avrebbe lasciato perdere finché non avesse ottenuto risposta.
Jacinda dovette capirlo, perché sospirò: «Te l’ha detto Ivy? Comunque, sì, è vero: Luis mi ha chiesto di lavorare anche domenica. Ho cercato di evitare di dirvelo fino all’ultimo, speravo di trovare qualcuno con cui scambiare il turno ma non ci sono riuscita. Mi dispiace tanto, tesoro, ma è l’unico lavoro che ho e proprio non posso perderlo, cerca di capire…»
Lucy assentì: quella spiegazione le bastava, le serviva la conferma che Ivy non avesse mentito e così era stato. Ora doveva solo fugare l’ultimo dubbio, così avrebbe potuto smettere di pensarci e tornare a dedicarsi al suo obiettivo primario: trovare un uomo a sua madre.
«Ok, va bene. Comunque sia, Ivy ha detto di coprirti, quindi la nonna crede che tu ieri sia venuta con noi. Il tuo biglietto l’ha ridato alla biglietteria, dicendo di darlo al primo bambino che non ce l’avesse, quindi non ci sono neanche le prove. E per quanto riguarda questa misteriosa Ana? Si può sapere chi è?»
Jacinda si morse un labbro: come avrebbe potuto fare a raccontarle quella storia? Forse cominciando dalla parte più semplice. Si sistemò meglio sul letto, poi allungò un braccio, tirando la figlia accanto a sé.
«“Ana” è il diminutivo che Ivy usa per Anastasia Belfrey, la figlia della nonna e del padre di Ivy, nonno Marcus. Ricordi che ti ho parlato di lui? Ti ho detto che non era davvero il mio papà, ma che gli volevo bene come se lo fosse stato» Attese il cenno di assenso della figlia, poi continuò «Anastasia è nata il 23 settembre del 2003, quattro mesi dopo la morte di nonno Marcus. Mi sono sempre chiesta perché avessero scelto quel nome terribile, povera bambina, sembra quello di una vecchia. Comunque… in realtà non ‘è molto da dire. Nacque e per un po’ fummo una famiglia normale finché un giorno, nell’estate del 2008, mentre lei e Ivy erano al parco e io in ospedale a scoprire che presto saresti nata tu…. Ecco, qualcuno portò via Anastasia senza che Ivy potesse fare niente per impedirlo. Zia Ivy ha ricevuto una botta in testa che l’ha fatta svenire, poi qualcuno ha preso Anastasia e l’ha portata via. E da quel giorno non sappiamo dove sia.» Jacinda si interruppe: e ora, quale versione della storia avrebbe dovuto raccontare? A quale credeva, lei? Non se l’era mai chiesto. Sospirò. «Qualche settimana dopo, venne ritrovata una giacchetta, che la nonna era sicura fosse di Anastasia. Quindi la polizia sospese la ricerche, dichiarando che era sicuramente morta. Però… Ivy ha sempre detto che… che quella giacca non era di Anastasia. Lei non ha mai creduto che fosse morta. Secondo lei potrebbe essere con delle persone cattive che non le permettono di tornare a casa». Raccontare quella storia le aprì ulteriormente gli occhi: Dio, quant’era stata fortunata, lei? Sua figlia era al sicuro, all’interno della sua stessa famiglia, amata e protetta. Cos’avrebbe potuto chiedere di più? Istintivamente, strinse ancora di più a sé Lucy che la osservò dubbiosa, ricambiando il suo abbraccio: ogni tanto sua madre aveva questi strani, inspiegabili slanci che lei accoglieva sempre volentieri. Nel frattempo, la sua testa lavorava ed era arrivata ad una conclusione.
«Ma allora… allora Ana non è la figlia di zia Ivy… io credevo…»
«Oh no, tesoro, assolutamente no! Chi ti ha detto una sciocchezza del genere?»
Lucy si schernì. «Nessuno, lo giuro. L’ho pensato io, la prima volta che l’ho sentita dire quel nome. Era così triste che pensavo fosse sua figlia che era scappata di casa».
Jacinda annuì: «Beh in effetti, da quel poco che ricordo, Ivy era più legata ad Ana di quanto lo fosse la nonna che era sua madre. Se ne occupava sempre lei, ogni volta che incontravo lei c’era Anastasia che le trotterellava dietro o lei se la portava in braccio da qualche parte. Era sempre lei a farla giocare, a vestirla o a portarla in qualsiasi posto volesse andare. E quando non poteva farlo lei, c’era la governante. Credo che fosse la persona che conosceva Anastasia meglio di chiunque altro Se avesse potuto l’avrebbe portata con lei anche a scuola, ne sono sicura.».
Lucy annuì: cavolo! Che storia triste! Zia Ivy non le stava particolarmente simpatica, però… poteva solo immaginare cosa volesse dire stare lontano dai propri genitori! A lei mancava terribilmente un padre, nonostante sua madre, la nonna e in parte anche zia Ivy cercassero di non farglielo pesare. E quella bambina…. Ana o come si chiamava… forse era morta…o forse veniva tenuta chissà dove, lontana dalla sua mamma e dalle sue sorelle.
Un dettaglio le tornò alla mente. «Quindi… in pratica sarebbe mia zia, giusto? Non c’è una foto da qualche parte? E… hai detto 2003? Quindi ha solo sei anni più di me?»
Jacinda trasalì: non ci aveva mai pensato, non l’aveva mai guardata da quella prospettiva. «Esatto, tesoro. E riguardo le foto… Forse la nonna ne ha qualcuna da qualche parte, ma non ne ho idea. Forse in un paio ci sono anch’io… qualche compleanno o cose del genere… comunque, Ana aveva lunghi capelli castani e occhi dello stesso colore, proprio come Ivy. Sembrava uno spiritello, le piaceva un sacco andare in giro per casa indossando lunghe camicie da notte o gonne piene di volant e fingendo di essere una principessa delle favole. Se Ivy ha ragione e lei è ancora viva, adesso avrà quattordici anni.»
«E tu pensi che ce l’abbia? Potrebbe essere ancora viva? O ha ragione la nonna ed è morta?» Quella domanda le venne spontanea: era, praticamente la cosa più importante da sapere di tutta quella storia. Sua madre le aveva raccontato la versione della nonna e quella della zia…ma la sua?
Jacinda scosse la testa. «Questa è davvero una bella domanda. Non ci ho mai pensato, ad essere sincera, non mi interessava schierarmi. Ma se vuoi davvero la mia opinione… io so una cosa. Io e tua zia possiamo non essere amiche e non andare d’accordo, ma non sono cieca: ho visto quanto voleva bene ad Ana, quanto tempo ci passava insieme e so che la conosceva meglio di chiunque altro. Se lei diceva che quella giacca non era sua, allora bisognava ascoltarla. Se devo schierarmi… allora ha ragione Ivy e Anastasia è da qualche parte, che aspetta solo di essere riportata a casa. Ma la nonna si è arresa e non vuole più saperne quindi non credo sapremo mai chi ha ragione».
Lucy annuì, poi sorrise: finalmente avrebbe potuto smettere di scervellarsi e dare un volto a questa misteriosa Ana. Ed era perfino venuta a capo del mistero in seno alla sua famiglia! Quella era stata, inaspettatamente, una giornata davvero produttiva. Magari avrebbe anche frugato in casa della nonna, alla ricerca di qualche foto… o sul computer! Che stupida, perché non ci aveva pensato? Beh, quel mistero l’avrebbe risolto più tardi a casa, decise: ora ne aveva un altro da sviscerare e aveva ancora solo… mezz’ora! Era pochissimo! Saltò via dall’abbraccio di sua madre e afferrò la borsa della palestra dove, nascosto sotto i vestiti, aveva riposto un quaderno intonso a cui aveva attaccato una penna. Lo aveva chiamato “il quaderno delle indagini” e aveva avuto intenzione di registrare lì tutte le informazioni che le avrebbe dato sua madre… poi era stata distratta dal racconto e dal suo abbraccio e se ne era dimenticata. Lo aprì velocemente e cominciò a stenografare tutto ciò che le era stato raccontato, prima di dimenticarlo: Anastasia Belfrey, figlia della nonna e di nonno Marcus, rapita nel 2008, nata nel 2003…e poi? Alzò la testa, incontrando lo sguardo perplesso di sua madre.
«Ehi, piccoletta, che ti prende? Cosa scrivi? Hai dimenticato qualche compito?»
Lucy negò immediatamente «No, scrivo quello che mi hai detto tu, per evitare di dimenticarmelo. Allora… nome cognome…data di nascita…aspetta… quando hai detto che è nata?»
«Sei un poliziotto? Comunque, se non sbaglio, è nata il 23 settembre 2003. Ed è stata rapita il 13 luglio 2008, questo me lo ricordo bene. Ma a che ti servono tutti questi dettagli?»
Lucy però, non aveva tempo di rispondere «Capelli castani lunghi, occhi castani, pelle chiara… somigliava a zia Ivy? Sai, come quando Sabine ha visto quella tua foto che avevi la mia età e ha detto che ero la tua fotocopia spiccicata…»
Jacinda rifletté: non ci aveva mai pensato. «Non lo so, sinceramente, non mi ricordo com’era Ivy da bambina, non mi piaceva averla intorno e la evitavo il più possibile. Bisognerebbe confrontare due foto: io, al momento, non so aiutarti».
«Però c’è un’altra cosa che puoi dirmi, che non c’entra niente con questa storia… ecco… visto che oggi sono in versione detective… mi descriveresti il tuo uomo ideale?»
Jacinda non poté trattenersi e scoppiò a ridere. «Il mio uomo ideale? Vuoi trovarmi un fidanzato tramite qualche sito internet specializzato?»
Lucy fece una smorfia «E anche se fosse? Da sola non hai trovato nulla… e io vorrei tanto poter venire a vivere con te e avere finalmente un padre! Non mi piace dover stare con la nonna, non fa che mettermi regole su regole e non mi piace dover rispettare degli orari per vederti. In fondo un lavoro ce l’hai no? Se trovassi un fidanzato sarebbe tutto perfetto» Finalmente, finalmente si era sfogata e aveva buttato fuori tutto. Lucy trattenne un singhiozzo e sentì le lacrime pungerle le ciglia.
Istintivamente, Jacinda l’attirò di nuovo a sé, carezzandole piano la testa e la bambina lasciò andare tutto ciò che aveva trattenuto, impregnando di lacrime la maglia della madre.
«Amore mio, mi dispiace da morire, non avevo idea che questa situazione ti facesse soffrire così tanto. Credevo che tutto sommato stessi bene con la nonna…» sospirò Jacinda accarezzando piano la testa della figlia.
La carezza rilassò Lucy che, lentamente, si calmò e si sfregò velocemente gli occhi, nel tentativo di eliminare ogni traccia di pianto: non aveva tempo per questo, ricordò, il tempo a sua disposizione stava inesorabilmente giungendo al termine.
«Non è così male, anche se è sempre molto severa, ma… io voglio una mamma e un papà, come tutte le mie compagne di scuola. O forse… a te piacciono le donne, come alla madre della mia amica Tiffany? Magari hai avuto me e poi hai scoperto che in realtà gli uomini ti fanno schifo. Andrebbe bene avere anche due mamme…credo…» borbottò, assumendo un’espressione dubbiosa. Non aveva mai preso in considerazione quella possibilità ma era plausibile…
Jacinda mosse le mani in aria, allontanando quell’ipotesi «Non ci rimuginare troppo bambolina, a me piacciono gli uomini. Vediamo un po’… come dovrebbe essere il mio uomo ideale? Beh, innanzi tutto dovrebbe essere bello. Mi piacerebbe che fosse moro e avesse gli occhi azzurri. Come Zach Efron: lui piace anche a te, ti ho visto sbirciare le sue foto sulle riviste, sai? Ma l’aspetto fisico non è così importante, mi andrebbe bene anche castano, ad esempio. La cosa davvero fondamentale è che sia buono, gentile e disponibile. Che abbia un lavoro stabile e, soprattutto, che ti voglia bene e che tu ne voglia a lui. Se mancasse quest’ultima cosa, non lo considererei nemmeno, neanche se avesse tutte le altre qualità che ho chiesto»
Jacinda tornò a ridacchiare, osservando la figlia che continuava a scrivere freneticamente.
«Caspita, hai preso proprio a cuore questa storia del detective, mia piccola Sherlock. Ma che te ne farai, poi, di tutte queste informazioni?»
Lucy scrollò le spalle «Non ne sono sicura. Intanto le voglio, poi vedrò. Magari sono solo curiosa. E comunque… cavolo! La nonna mi uccide!» esclamò, dopo un’occhiata veloce all’orologio. «Non mi ero accorta che fosse così tardi, l’orario che le ho detto è passato da un quarto d’ora, non arriverò mai in palestra in tempo!»
«Perché non me l’hai detto? Ci ucciderà entrambe!» saltò su Jacinda mentre sua figlia gettava il quaderno nel borsone e si dirigeva all’uscita, scendendo quattro scale per volta. «Lucy! Non correre così! Ti ammazzerai!» gridò vedendola sparire al di là del portone in pochi istanti. Accelerò il passo, maledicendosi per non essere ancora riuscita a mettere da parte soldi a sufficienza da permettersi una macchina: almeno sua figlia non avrebbe dovuto correre per strada come una vagabonda. Se le succede qualcosa… No, no, no, non ci avrebbe pensato, non sarebbe servito a niente. Raggiunse il portone e guardò a destra e sinistra. «LUCY!» Ma dove diavolo era… eccola! Stava correndo poco distante e una macchina… Dio, non poteva guardare! Chiuse gli occhi, paralizzata dal terrore pronta a sentire il classico rumore d’urto… che non venne mai. Invece uno stridore di freni sull’asfalto la costrinse a riaprire cautamente, prima un occhio poi l’altro. La macchina si era fermata a pochi centimetri da sua figlia. Grazie, Signore! Esultò, allungando il passo nella sua direzione. Il conducente, nel frattempo era sceso e si era inginocchiato di fronte a sua figlia, prendendola per le spalle.
«Lucy! Come ti viene in mente di correre in quel modo per strada? Avrei potuto investirti!»
«Mi… mi dispiace… ciao Henry è che… ecco… la nonna… se la nonna… io… danza… ritardo…» la bambina era senza fiato e dovette prendere un grosso respiro per calmarsi e tornare a parlare normalmente.
Nel frattempo, Jacinda li aveva raggiunti. «Io… Henry Mills… non so come ringraziarti… per fortuna hai frenato in tempo. Eravamo in casa e poi ha raccolto il borsone ed è uscita come un fulmine. Non sono riuscita a starle dietro»
Henry le rivolse uno sguardo obliquo: quindi la bambina era con lei? Sul serio? Trattenne una risposta acida: al suo posto non avrebbe mai permesso che Abby corresse in quel modo per strada a quell’ora e con quel traffico, per di più. E per cosa? Per una lezione di danza? Dopo quello che Ivy gli aveva raccontato la sera prima, Henry era propenso a credere che perfino una maniaca del controllo come Victoria Belfrey avrebbe preferito la nipote sana e salva piuttosto che puntuale ad una stupida lezione. Vide Jacinda parlare con la figlia, ma era così assorto che non colse le parole. Proprio in quel momento, il cellulare della bambina squillò.
«È la nonna» annunciò lei, dopo aver visto il nome lampeggiare sul display. Dopo aver emesso un paio di profondi respiri nel tentativo di regolarizzare il battito cardiaco, accettò la chiamata. «Nonna… sì lo so, scusa è che… è finita prima e…sono andata…a casa di…. Di Winifred, sono tanti giorni che mi invita. Mi porta a casa la sua mamma tra venti minuti, promesso. Sei arrabbiata? Grazie nonna, sei la migliore!»
Henry scosse la testa: che ruffiana. Ma magari la Belfrey era davvero una persona migliore con lei. Aveva senso, considerato ciò che aveva saputo. Gli tornò in mente l’avvertimento della donna la sera prima: lo stava deliberatamente ignorando e non avrebbe potuto interessargli di meno. Quella donna non gli piaceva e non aveva motivo di stare ai suoi ordini. Ma era meglio evitare che Lucy finisse ulteriormente nei guai. Si rivolse a Jacinda. «Riesci ad accompagnarla? Altrimenti lo faccio io. Se non partiamo adesso non arriverà mai in tempo. Ed è già stato un miracolo che ieri tua sorella sia riuscita a coprirti, non intendo sfidare la fortuna»
«E sentiamo, Henry Mills, come dovrei fare ad accompagnarla in mezz’ora da qui, a piedi? Non ero dotata di poteri magici, l’ultima volta che ho controllato!»
Henry annuì, rivolgendosi poi alla bambina. «Dai Lucy, Sali in macchina. Tanto volevo comunque parlare con tua zia, vorrà dire che lo farò faccia a faccia anziché tramite telefono»
«Ma… vi vedete anche oggi?» intervenne la bambina imbronciata: non stava andando affatto bene. Henry l’aveva rimproverata per la seconda volta in due giorni e, proprio come il giorno prima, si stava incontrando con zia Ivy da solo. E chissà di cosa mai dovevano parlare. La sera precedente avrebbe desiderato tantissimo essere una mosca per poter restare nella stanza con loro ed ascoltarli. Invece, non solo era dovuta uscire, ma era crollata non appena aveva toccato il letto. Henry la incitò nuovamente a salire confermando la sua ipotesi e lei obbedì, dopodiché entrambi rivolsero un cenno di saluto a Jacinda immettendosi nel traffico cittadino. Poco dopo, Henry approfittò di una coda per inviare un messaggio ad Ivy, avvisandola che sarebbe presto arrivato con Lucy dopodiché, più tranquillo, tornò a concentrarsi sulla strada.
 
La donna controllò nuovamente lo specchietto retrovisore, accertandosi che nessuno la stesse seguendo. Era ormai più un tic nervoso che una necessità vera e propria: nessuno si sarebbe sognato di farlo. L’immagine che si era meticolosamente costruita intorno non lasciava spazio a dubbi di alcun tipo riguardo la sua integrità morale. E in fondo, se anche qualcuno si fosse davvero preso il disturbo di seguirla, non avrebbe scoperto nulla. Faceva una vita assolutamente normale, che qualunque donna della sua età avrebbe potuto definire di routine. Si alzava, faceva colazione in un bar lì vicino, a volte, se ne aveva voglia, accompagnava la bambina a scuola. Poi si recava in ufficio fino all’ora di pranzo. L’unica cosa che cambiava ogni giorno era il ristorante in cui decideva di consumare il pasto: prima o poi ne avrebbe acquistato uno e voleva assicurarsi di scegliere il migliore. Ma per farlo doveva valutare diversi aspetti e aveva bisogno di tempo. Terminato il pranzo, generalmente tornava a lavoro restandoci almeno fino alle 6 p.m., oltre se non aveva commissioni da sbrigare. Quel giorno, però, come capitava una volta alla settimana, aveva staccato alle 4:30 p.m. Dopodiché si era recata prima in un outlet acquistando due maglie e due pantaloni a basso costo. Poi era stata la volta di un minimarket, dal quale era uscita con salviette umidificate e generi alimentari a lunga scadenza. Sorrise soddisfatta: anche quel giorno aveva concluso e nessuno le avrebbe fatto domande di alcun tipo. Ora doveva solo fare la sua solita consegna. Risalì in macchina: non le restava altro che raggiungere la destinazione finale. Mezz’ora dopo, stava parcheggiando al suo solito posto dopodiché prese l’ascensore, fermandosi al terzo piano interrato, la busta con i suoi acquisti nella mano sinistra. Le porte dell’ascensore si aprirono, dopodiché infilò il suo pass personale nell’apposita fessura: era l’unica ad avere accesso a quella stanza.
Oltrepassò la soglia, poi attese che le porte automatiche si richiudessero alle sue spalle e i suoi occhi si abituassero all’oscurità. La stanza era quasi completamente al buio, fatta eccezione per una luce arancione che proveniva da una parete traforata. Sembrava non esserci anima viva, ma la donna sapeva che qualcun altro la stava aspettando, celato chissà dove. Quella persona aveva provato più volte a prenderla di sorpresa ma ormai, dopo tutti quegli anni, non si sorprendeva né si spaventava più di nulla. Osservò il punto in cui era distesa, prona, probabilmente addormentata. Il trattamento che le stava riservando, dopo più di dieci anni, aveva dato i suoi frutti: quella donna era completamente alienata, fuori dalla realtà ed assolutamente incapace di provvedere autonomamente anche alle più elementari necessità. Sorrise tra sé: ci aveva messo quindici anni, ma la vendetta era un piatto che andava servito freddo e lei l’assaporava ogni volta con maggior gusto. L’olezzo che la raggiunse le fece storcere il naso ma la consapevolezza di essere stata l’unica artefice di un tale stato di prostrazione le diede nuovo vigore.
Il suono dei suoi tacchi rimbombò sul pavimento, causando un movimento nell’essere umano disteso a terra. La vide voltarsi e sogghignò sadica, fermandosi a pochi passi da lei e guardandola dall’alto in basso. Le tirò addosso la busta senza dire una parola, caricando il gesto di tutto il suo disprezzo.
«Il cibo deve bastarti per un’altra settimana e quei vestiti… fai in modo che durino, non ne avrai altri finché non sarò io a deciderlo. E vedi di darti una pulita, la roba te l’ho data, non hai motivo di fare così schifo».
In risposta, l’altra donna le rivolse uno ringhio rabbioso, tentando di aggredirla. Il tentativo fu impedito dalla resistente catena che la tratteneva per la caviglia sinistra, così come era accaduto ogni volta che ci aveva provato in quei lunghi quindici anni.  Victoria si limitò a fare un passo indietro e a scoppiare in una risata di scherno: «Non ti sei ancora arresa, schifosa puttana? Marcirai qua dentro fino alla fine dei tuoi giorni. Una come te non merita niente di meno»
L’altra sollevò il viso, rivolgendole uno sguardo furente e lasciando che i lunghi ricci biondi di cui era sempre stata orgogliosa le ricadessero sul viso: ora non era rimasto nient’altro che un groviglio inestricabile, una massa informe e impresentabile. Una delle vittorie più soddisfacenti di quella che, da quindici anni, era la sua peggior nemica.
«Hai comunque perso. Qualsiasi cosa tu mi faccia, non cambierà mai i fatti: lui voleva me. Stava venendo da me quando ha avuto l’incidente che l’ha ucciso. Avevamo deciso che saremmo presto andati a vivere insieme. Lo so bene e, nel profondo, lo sai anche tu, nonostante ti ostini a negarlo»
Victoria ringhiò, afferrandola saldamente per i capelli e avvicinando pericolosamente il viso al suo. «Hai ancora il coraggio di parlare, lurida sgualdrina? Ti farò passare la voglia di fare l’altezzosa, fosse l’ultima cosa che faccio!»
La donna sghignazzò «Non starò mai zitta, finché avrò fiato in corpo. Per farmi tacere dovrai ammazzarmi!» Non poteva ammetterlo, ma era arrivata quasi al punto di desiderarlo: quella non era vita e tra la reclusione forzata e la morte preferiva indubbiamente la seconda. Almeno sarebbe stata libera. Ci aveva anche provato a farla finita, ma quella dannata le aveva portato via ogni potenziale arma e, quando decideva di provare a smettere di mangiare, la imboccava a forza, costringendola ad inghiottire e restando lì tutto il tempo necessario a farle assimilare anche la più piccola briciola. Così aveva desistito, decidendo di sopravvivere per scappare da lì e poter rivedere almeno le sue sorelle. Trattenne un sospiro: la mancavano terribilmente, specie quella peste di Tilly. Non si era mai resa conto di quanto le volesse bene. Da quando era stata abbastanza grande da riuscire a formulare una frase di senso compiuto, lei e la sua sorellina avevano passato la maggior parte del loro tempo a litigare, facendo impazzire i loro genitori e la povera Gretel. Un sonoro ceffone la riportò alla realtà.
«Ammazzarti? No, mia cara, non credere che sia così misericordiosa. Tu continuerai a stare qui: la solitudine e la sopravvivenza saranno la tua punizione per avermi tolto tutto ciò a cui tenevo. Se tu non fossi mai esistita, nulla sarebbe accaduto e non smetterei di pagarmela finché la prima di noi non scenderà nella tomba. E credimi, non sarai tu, non ti permetterò di riunirti con lui. Questa tua dannata giovinezza dovrà pur essermi utile a qualcosa, Eloise Gardner». Victoria sputò letteralmente le ultime due parole, come se stesse parlando di qualche terribile veleno. E dal suo punto di vista, non si trattava di niente di meno: quella donna aveva avvelenato la sua vita rendendola miserabile, ridicolizzandola, permettendo che gli altri le ridessero dietro perché suo marito aveva scelto una ragazzina più giovane e fresca. Da quindici anni gliela stava facendo pagare, con gli interessi. Ma quella aveva ancora voglia di sfidarla e di ribellarsi e questo la faceva infuriare. Istintivamente, diede un calcio ad alcune delle provviste che aveva portato, allontanandole dal raggio di azione dell’ormai ex rivale.
«Ovviamente…. Questo non mi impedisce di farti sospirare anche per il cibo. Quello lo avrai quando sarò io a deciderlo, non prima. A meno che tu non decida di chiedere scusa, in questo preciso momento». La donna la guardò, senza mai abbassare lo sguardo: non l’avrebbe fatto, non quel giorno.
«Oh, non ho fretta. Lo farai e sarà un’altra delle mie vittorie. Per il momento… fai in modo che non diventi un porcile qua dentro, o la prossima volta sarai costretta ad usare i tuoi capelli per pulire. O magari… la tua lingua». Senza un’altra parola, la donna se ne andò, facendo riaprire le porte dell’ascensore. Eloise attese che le porte si chiudessero poi, inferocita, si scagliò gridando contro una delle pareti. La catena le bloccò il movimento a metà, facendola cadere a terra. Per quel giorno, aveva raggiunto il limite.
«Maledetta! Che tu sia maledetta! Te la farò pagare, brutta schifosa! Troverò il modo di uscire da qui e me la pagherai! Me la pagherai, mi hai sentito?». No, come ormai aveva imparato, né Victoria né chiunque altro avrebbe potuto sentirla: quella stanza era perfettamente isolata, anche acusticamente. Quello sfogo aveva avuto un unico beneficiario: lei stessa. Ma aveva fatto in modo di farsi registrare dalle telecamere che quella maledetta aveva messo per godersi ancora di più la sua sofferenza. Almeno sarebbe stata costretta a vederla, prima o poi. Era una ben magra consolazione, lo sapeva bene, ma era pur sempre meglio di niente. Afflitta, Eloise si rannicchiò in un angolo, abbracciandosi le ginocchia e lasciandosi andare ad un pianto silenzioso. In quegli anni aveva imparato anche a non singhiozzare, pur di non dare la minima soddisfazione alla sua aguzzina. Cercò di riportare alla mente pensieri felici: i giochi con le sue sorelle, l’affetto dei suoi genitori, l’amore di Marcus… erano questi ricordi che le davano la forza di andare avanti. E, con essi, la speranza che prima o poi, quella prigionia sarebbe finita e lei avrebbe ritrovato tutti. E magari, dopo quindici anni, avrebbe potuto cercarsi un altro uomo che l’amasse e per cui essere l’unica. Marcus Belfrey era stato davvero importante, il suo primo amore ma di certo non avrebbe voluto che restasse per sempre aggrappata al suo ricordo. Con questa convinzione in testa, Eloise tentò di rilassarsi e di dormire un po’: per altri sette giorni, almeno, nessuno sarebbe venuto a disturbarla.
 
Eccoci giunti alla fine! Spero di non avervi fritto definitivamente il cervello, perché…le sorprese non sono finite. Nel prossimo capitolo entreranno in scena i due personaggi per i quali vi ho chiesto di aiutarmi a trovare un prestavolto. A lei l’ho miracolosamente trovato oggi, lui mi crea ancora qualche problema. Ripeto: se avete proposte sono bene accette, purché sia un quarantenne di razza bianca.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Fase 2: assemblaggio ***


Allora, allora, questo è stato uno dei capitoli più importanti. Qui saranno presentati i due personaggi di cui vi parlavo da tempo e comincerete a capire il loro ruolo. E ci sarà anche un altro personaggio, di cui non vi ho detto nulla finora per un motivo. Non vi annoio ulteriormente, vi auguro buona lettura e vi aspetto in fondo per le note minime. Un ultimo dettaglio: i personaggi presenti nell'ultima scena sono miei, frutto della mia fantasia e non possono essere usati senza il mio consenso.
 
 
Quella giornata era trascorsa in maniera insolitamente rapida probabilmente, si disse Ivy, perché da quando si era confidata con Henry la sera prima tutto le sembrava migliore. Soffriva ancora moltissimo per la mancanza della sorellina, ma le parole di lui l’avevano come rinvigorita, facendole riscoprire una forza che non ricordava nemmeno di possedere. E non vedeva l’ora di potersene andare da lì per parlargli e cominciare a mettere insieme i pezzi. E anche se i suoi peggiori timori si fossero avverati e si fosse rivelato tutto un gigantesco buco nell’acqua almeno non sarebbe rimasta con le mani in mano a subire passivamente tutto ciò che gli altri decidevano per lei. A ventisette anni compiuti era arrivato il momento di assumere il controllo della sua vita e cominciare a prendere decisioni che la facessero stare bene. L’ennesimo squillo del telefono la fece sbuffare: per una volta che sua madre decideva di togliersi dai piedi presto, ci si mettevano i clienti. Sembrava che mezza Seattle volesse comprare casa proprio quel giorno. O cambiare tutti i mobili di tutte le stanze della propria. Alcune delle migliori dipendenti avevano appuntamenti fissati di lì a tre mesi con clienti facoltosi che avevano espressamente richiesto la loro consulenza. Perfino lei, nonostante le fosse imposto di stare fuori da quel giro ed occuparsi soltanto delle questioni di segreteria spicciola e del coordinamento, aveva dovuto prendersi alcuni appuntamenti per non rischiare che potenziali clienti si rivolgessero alle altre piccole agenzie che ancora non si erano piegate alla loro indiscussa egemonia nel settore. Stava leggendo le mail con le schede di valutazione compilate dai dipendenti più anziani sul periodo di affiancamento dei neo assunti: quella volta le notizie non erano incoraggianti. Nessuno sembrava soddisfare gli standard richiesti da sua madre. Le uscì un sorrisetto sadico: avrebbe dovuto esserne dispiaciuta, ma non ci riusciva. A sua madre non poteva sempre andare tutto bene e chissà… magari quelle mail sarebbero state l’inizio di una lenta spirale discendente. Sbuffò: figurarsi. Una cosa del genere non sarebbe mai avvenuta. Per quanto lei stessa avesse potuto lavorare e tentare di far cambiare il vento affinché soffiasse dal verso contrario a quello in cui stava navigando sua madre, Victoria Belfrey sarebbe sempre caduta in piedi. Fu distratta dal suono del suo cellulare: un nuovo messaggio. Parli del diavolo… nuovi ordini in arrivo: che voleva sua madre, stavolta? Aprì il messaggio, sospirando. Vai a prendere Lucy a casa dei Mackenzie. Tornerò per cena. Ivy sollevò un sopracciglio: che diavolo ci faceva Lucy dai Mackenzie? Non aveva lezione di danza, quel giorno? Controllò il prospetto che aveva salvato sul computer proprio per evitare simili errori. Infatti: danza dalle 4:00 p.m. alle 5:00 p.m. .Il che significava che sua nipote avrebbe dovuto essere a casa da un’ora e mezza… ma sua madre diceva che era dai Mackenzie ed era tranquilla quindi… c’era qualcosa che le sfuggiva… Prima che potesse risponderle per chiederle spiegazioni, il suo cellulare squillò nuovamente e il nome di Henry comparve sul display, accompagnato dall’icona inconfondibile di un messaggio: Sto accompagnando Lucy a casa e pensavo di approfittarne per fare due chiacchiere. Hai tempo? Ho ragionato un po’ su quello che mi hai raccontato ieri. Ivy sollevò un sopracciglio: cosa ci faceva Lucy con Henry? Si sarebbe fatta spiegare tutto al loro arrivo. Se stava guidando, era meglio evitare di distrarlo. Decise di tornare alle sue faccende, la sua mail personale era piena d’inutile spam di cui non riusciva a liberarsi. Anche cancellare le iscrizioni alle liste era inutile, perché ne spuntavano sempre di nuove. Osservò il desktop in cui, inconfondibile, il volto sorridente di Ana la osserva pieno di fiducia. Era una delle ultime foto che avevano fatto insieme, l’aveva scattata Addison, la governante di Ana. E lei era lì, accanto alla sua sorellina, in ginocchio per essere alla sua altezza, il viso vicino e le braccia intorno alla sua vita sottile. Qualcuno avrebbe potuto pensare che sarebbe stato meglio cambiare immagine, ma non le interessava. Quello era il suo computer, nemmeno sua madre aveva il diritto di commentare sul modo in cui sceglieva di personalizzarlo. E anche se le faceva male ogni volta ripensarci, non avrebbe modificatolo sfondo per niente al mondo. Sospirò e cominciò a dedicarsi alla sua posta finché non sentì l’ascensore aprirsi: Henry e Lucy erano arrivati e le stavano andando incontro. Si alzò, raggiungendoli, la testa piena di domande.
«Allora? Cos’è questa storia? Non avevi lezione di danza? Perché la mamma mi ha detto che eri dai Mackenzie?».
Lucy si guardò intorno, incerta se continuare a mentire. Ma non era mai stata particolarmente brava a reggere troppe bugie, lo sapeva, quindi lasciò perdere. «Volevo vedere la mamma, ma la nonna non mi avrebbe mai dato il permesso, così le ho detto che la lezione di danza sarebbe durata il doppio. Poi ho aspettato che andasse via e sono andata dalla mamma. Solo che è passato il tempo, la nonna non mi ha trovato e le ho detto che ero da Wynifred per non farla arrabbiare. Ma ora tu farai la spia, vero?» borbottò sconfortata.
Ivy la guardò: in effetti avrebbe dovuto. Ma se l’avesse fatto… Rabbrividì. «Sei fortunata. Non farò la spia, tua nonna non lo saprà. E non perché non ti meriti un rimprovero ma perché ci andrei di mezzo anch’io. Conoscendola, mi costringerebbe a monitorare ogni tuo singolo respiro e, sinceramente, conosco modi più piacevoli per passare il tempo. Ma» aggiunse avvicinandosi e costringendo la nipote a guardarla in faccia «c’è un punto su cui non transigo, Lucy Belfrey e non mi importa se sono solo tua zia: se fai un’altra volta una cosa del genere, ti disintegro. Mi sono spiegata? Non me ne importa un accidente se salti quelle stupide lezioni ma, se vai da un’atra parte, me lo dici, non ho intenzione di cercarti per tutta la città. Non è necessario che la nonna sappia tutto ma io devo sapere sempre dove trovarti, è chiaro? Hai anche il mio numero su quel cellulare: usalo. Ci siamo capite?»
Lucy annuì, allontanandosi poi di fretta e andando a sedersi nei divanetti poco distanti: aveva un sacco di cose da fare e non sapeva neanche lei da che parte cominciare. Ivy sospirò, chiudendo gli occhi e avvicinandosi a Henry, rimasto in disparte, fino a quel momento.
«Mi dispiace, non ti ho neanche ringraziato per averla riaccompagnata…»
Henry la interruppe, sollevando una mano. «Figurati, non è stato affatto un problema. Ti avrei chiamato per chiederti di vederci stasera da Roni per parlare di tua sorella. Ma giacché siamo qui, se non hai da fare, posso già dirti come credo dovremmo agire.»
«Beh, non so come ringraziarti, davvero, oggi ero proprio incasinata, non sarei riuscita ad andarla a prendere come mi ha chiesto mia madre… e comunque, a quanto pare, avrei fatto un giro a vuoto» borbottò, guardando male la nipote. «Riguardo mia sorella… sono tutta orecchie. Anche se questo non è il posto ideale per parlarne» continuò, abbassando istintivamente la voce «è il regno di mia madre, pieno di spie e telecamere di sicurezza ovunque. E il telefono mi ha dato tregua, ma siamo aperti ancora un’altra ora, meglio non sfidare la fortuna».
Henry approvò: aveva bisogno che lei fosse perfettamente concentrata su quello che le avrebbe detto e non sarebbe potuto succedere se avesse avuto la sensazione di essere continuamente osservata.«D’accordo, allora facciamo dopo cena, così potremmo parlare con più calma. E, hai ragione, qui non va bene. Vieni a casa mia, ti ricordi il mio indirizzo?» Attese il suo cenno di assenso, poi continuò. «E porta una sua foto. La più recente che hai. Deve vedersi bene il viso e lei non deve essere troppo piccola. L’ideale sarebbe che avesse almeno tre anni. E… portane anche una tua quando avevi la stessa età».
Nel frattempo, Lucy aveva lasciato la borsa della palestra a terra e ne aveva estratto il suo quaderno, mettendosi a rileggere le informazioni ottenute fino a quel momento. In particolare, ciò che sua madre aveva detto sul suo uomo ideale: moro, con gli occhi azzurri come Zach Efron…. Le serviva assolutamente un computer. Alzò il viso: quello di zia Ivy poteva andare bene. Le passò accanto, vedendola assorta in una discussione con Henry. All’inizio non li aveva ascoltati, poi avevano abbassato la voce e aveva perso la possibilità di capire qualsiasi cosa. E ora, superandoli, aveva captato solo la risposta di Ivy «Non capisco… a cosa ti serve una delle mie?» Una delle sue… cosa? Beh, non aveva tempo di pensarci, prima doveva togliersi dalla testa l’altro pensiero. Raggiunse in pochi passi la scrivania della zia e si sedette al computer, intenzionata a fare una ricerca su internet… solo per essere bloccata dalla voce della proprietaria.
«Esattamente, ragazzina, cosa credi di fare? Ci lavoro con questo computer, non è uno dei tuoi giocattoli. Scendi, forza!» Le intimò Ivy, arrivando alle sue spalle. Ma Lucy aveva comunque avuto il tempo di osservare la foto che occupava l’intero desktop: una ragazza e una bambina. Dovevano essere per forza zia Ivy e… zia? Doveva chiamare così anche lei, no? Zia Ivy e zia Anastasia, anche se le faceva strano definire con quel termine una ragazzina di poco più grande di lei.
«La ragazza più grande sei tu e la bambina è zia Anastasia, vero?» chiese impulsivamente. Ivy rimase di sasso: da quando Lucy sapeva di Anastasia? Chi gliene aveva parlato? Si morse un labbro, poi sospirò: erano state delle ingenue a credere che non l’avrebbe mai scoperto. La gente chiacchierava e Lucy aveva sempre fatto un sacco di domande, prima o poi lo sarebbe venuto a sapere comunque, era solo questione di tempo. Annuì, anche se la voglia di tirare di nuovo fuori quella storia era praticamente nulla. «Sì, esatto. In quella foto aveva quattro anni e mezzo, ne avrebbe compiuti cinque il ventisei settembre di quell’anno….».
«Il ventisei? No…» Lucy aprì il suo quaderno alla prima pagina «Ecco, vedi? Era il ventitré.» affermò sicura, indicando il suo quaderno e rivolgendolo verso la zia.
Ivy si accigliò, ignorando il quaderno. «Ragazzina, stai per caso insinuando che non mi ricordi il compleanno di mia sorella? Anastasia è nata il 26 settembre 2003 alle 17:54, sotto il segno della Bilancia. Era un venerdì e tua nonna si è fatta due ore di travaglio. È stata una delle poche volte che tua madre è stata collaborativa, mi è venuta a prendere lei a scuola per portarmi in ospedale dalla mamma. Me lo ricordo come fosse ieri».
«Ma… ma la mamma ha detto il ventitré…. Vedi?» insistette la bambina mettendole il quaderno sotto gli occhi.
Ivy lo afferrò accigliata, scorrendo velocemente le parole che c’erano scritte sopra.
«A che ti serve questa roba? Cosa sono tutti questi appunti?»
Ahia. Quel giorno non ne faceva una giusta, si rimproverò Lucy. Prima aveva rischiato di essere investita, poi aveva commesso ben DUE errori tattici con sua zia. Non andava per niente bene. «Il fatto è che… Volevo sapere chi fosse “Ana”. Ti ho sentita dire il suo nome il giorno che hai litigato con la nonna. Credevo fosse tua figlia che era scappata di casa, così ho pensato di chiederlo alla mamma e lei mi ha raccontato queste cose. Perché non ne parlate mai? Era mia zia anche lei, no? La figlia della nonna e di nonno Marcus…»
Ivy chiuse gli occhi. «Non ne parliamo perché tua nonna non vuole. E non farti sentire a dire il suo nome, se non vuoi finire nei guai. Comunque, le cose che ti ha raccontato tua madre sono vere. Ma la data di nascita è sbagliata, a Jacinda il ventisei non stava in testa.  Di foto ne ho un sacco, sul computer e sul cellulare: puoi guardarle ma, se combini qualche casino, ti tiro il collo. E comunque, dovresti andare a mettere via quella roba, tra poco si cena» osservò, indicando con un cenno la borsa della palestra.
Lucy saltò letteralmente in piedi. «Cavolo, è vero! Vado! Ciao, Henry!» Non diede ai due adulti neanche il tempo di rispondere, infilandosi rapidamente in mezzo alle porte dell’ascensore e pregando tutti i santi che conosceva che sua nonna non la beccasse.
Ivy la osservò andarsene, poi tornò a rivolgersi a Henry: «Credevo te ne fossi andato». Invece non l’aveva fatto e, come al solito, lei si era resa ridicola mettendosi a discutere con una bambina di otto anni.
«Stavo per farlo, in fondo ci eravamo detti tutto. Ma non avevo neanche salutato. Poi tu e Lucy vi siete messe a parlare di foto e tempi… e ho ascoltato. Tutte le informazioni che hai dato a lei, sono cose che potrebbero servirci. E se posso usare il tuo computer solo un attimo, forse ci risparmiamo inutili perdite di tempo»
«Ok, ma… che vuoi fare?» Nonostante la perplessità, Ivy non esitò a spostarsi: era certa che non l’avrebbe mai presa in giro, non su una cosa così importante e se davvero aveva un’idea che non era venuta alla polizia gli avrebbe lasciato fare tutte le prove che voleva. Lo vide estrarre una chiavetta usb, che infilò nell’apposita porta. Dopodiché tornò a rivolgersi a lei. «Bene, ora trovami in questo computer la sua foto in assoluto più recente. E due delle tue: una alla stessa età e una a quattordici anni, poi salvale qui dentro»
Ivy riprese il suo posto «Non capisco proprio a cosa ti servano le mie. E poi sono vecchie, non le ho in questo computer» borbottò, mentre diligentemente scartabellava tra le varie cartelle alla ricerca delle immagini più utili.
«Ti spiego tutto più tardi, promesso. Per il momento, fidati e basta».
Ivy si voltò, stranita. Stava per protestare, poi di colpo ricordò: era stata lei a dire, solo una manciata di minuti prima, che non era il caso di essere troppo espliciti, lì. Annuì, tornando alla sua ricerca: la foto che aveva scelto come sfondo sarebbe stata perfetta per mostrare il viso di Ana. E per quanto riguardava la sua… lì avrebbe trovato poco. Doveva cercare in casa, sui vecchi album. Chiuse la cartella e tornò a rivolgersi all’amico. «Fatto. Le mie devo cercarle da un’altra parte, non ne ho digitali»
«Era prevedibile, ma ci ho provato» annuì Henry «Io vado allora, ci sentiamo più tardi»
Ivy gli rivolse un cenno di saluto, tornando a dedicarsi al suo lavoro.
 
Il suo turno, per quel giorno si era concluso. Michael tirò un sospiro di sollievo al pensiero di non dover rivedere il suo stupido collega fino al pomeriggio successivo. Avrebbe voluto starsene in casa a guardare la televisione ma la dispensa e il frigorifero erano pietosamente vuoti e lui aveva una fame da lupi. L’idea di fare la spesa al market non lo allettava per niente quindi sarebbe andato da Roni a prendersi un hot dog o qualcos’altro che non lo costringesse a mettersi ai fornelli. Mezz’ora dopo era in giro per il quartiere, diretto al locale quando la sua attenzione fu attirata da un camioncino con una scritta luminosa “Rollin’ Bayou”
«E questo da dove spunta?» Non ricordava di averlo mai visto, doveva essere un’apertura recente. Chissà chi era il proprietario e, soprattutto, se aveva la licenza.
«Ma sì, diamo un’occhiata». Se i suoi dubbi fossero stati infondati, avrebbe comunque ricavato maggiori informazioni su quel venditore ambulante. E se avesse avuto ragione e si fosse trattato di un abusivo, beh… non gli avrebbe permesso di restare lì un minuto di più finché non si fosse messo in regola: col cibo c’era poco da scherzare. C’erano alcune persone in fila e non si fece problemi a superarle: se quella roba non fosse stata certificata, lo avrebbero ringraziato.
La proprietaria era indaffarata a preparare un’ordinazione e non si era accorta della sua presenza. Si schiarì la voce, deciso ad avere la sua attenzione.
«Sì, un secondo ho quasi… Oh… detective Rogers, è lei!» esclamò sorpresa.
Anche Michael non riuscì a nascondere il suo stupore «Sabine? Da quando fai la venditrice ambulante?»
«Ehm…» esitò la ragazza. Cavolo! Aveva appena realizzato che…. Oh-oh… e adesso? «Da… da qualche giorno: due o tre, circa»
«E sei in regola coi permessi? Immagino che non sia piacevole sentirselo chiedere davanti a potenziali clienti, ma è anche per il loro bene che lo faccio. Questi dolci hanno un profumo delizioso, ma… conosci le regole…» L’uomo fu interiormente sollevato quando la vide annuire. E le successive parole della sua interlocutrice lo tranquillizzarono ulteriormente… almeno all’inizio.
«E le rispetto detective, davvero. Ho fatto richiesta per i permessi il giorno stesso in cui ho depositato il nome del ristomobile, solo che… ecco… ancora non me li hanno rispediti proprio tutti…»
Michael strinse le labbra: quell’ultima aggiunta non era esattamente ciò che sperava. Gli dispiaceva doverlo fare, Sabine sembrava a posto e se avesse venduto qualsiasi altra cosa non si sarebbe fatto problemi a chiudere un occhio o anche entrambi. Ma forse… e solo forse, poteva esserci una soluzione. «Fammi vedere. E.. intanto, puoi servirli…» concesse,, sentendo la gente che cominciava a lamentarsi. Strinse in mano i documenti che la donna gli aveva passato esaminandoli attentamente per quanto gli permettevano i profumi invitanti dei piatti sfornati poco lontano da lui. Sembrava tutto a posto… mancava però un foglio. Ricontrollò due volte per esserne assolutamente sicuro e il suo dubbio trovò conferma. Attese che Sabine avesse finito di servire l’ultimo cliente, poi tornò a parlarle. «Sembra tutto a posto… permessi, licenze…, ma… dov’è il foglio sulla sicurezza? Non lo vedo e se non hai quello devo fari chiudere per forza. Almeno finché non lo avrai ottenuto… stiamo parlando di alimenti, dev’essere tutto perfettamente in regola, capisci?»
Sabine imprecò mentalmente: maledizione! Se l’era sentito che le stesse andando tutto troppo bene! Doveva succedere qualcosa che le mettesse i bastoni tra le ruote! Ma perché, perché era così sfortunata? Lei voleva soltanto cucinare e fare felici le persone facendo il lavoro dei suoi sogni, cosa diavolo c’era di sbagliato in questo? Chiuse gli occhi, sentendo le lacrime affacciarsi pericolosamente: non avrebbe pianto, non si era mai fatta vedere debole da nessuno e non avrebbe cominciato quella sera. Avrebbe risolto quel problema e avrebbe continuato la sua attività, doveva solo crederci. Il primo passo era dirgli la verità: mentire gli avrebbe solo dato l’impressione che fosse in malafede e di certo l’avrebbe maldisposto nei suoi confronti. «Non ce l’ho, non me l’hanno ancora mandato. L’ho richiesto insieme agli altri documenti, ma per questo ci stanno mettendo di più, non ho idea del motivo».
Michael assentì: aveva senso, non era la prima volta che capitava. «Hai una copia della richiesta che hai fatto? Dovrebbero avertela rilasciata, di solito lo fanno».
«Una… copia? Aspetti un attimo…» Poteva essere così facile risolvere quella questione? Davvero? Sabine lo sperò con tutto il cuore, mentre controllava l’interno del ristomobile alla ricerca della cartellina in cui… eccola! E all’interno c’era…. esattamente quello che cercava, constatò con un sorriso. Chiuse gli occhi, tirando un grosso sospiro e incrociando le dita: se fosse andato bene… Tornò fuori, dove il detective Rogers la stava aspettando porgendogli speranzosa il foglio. «Eccola, è questa, spero che basti…»
Michael prese tra le mani il foglio che lei gli porgeva, esaminandolo attentamente, dopodiché annuì. «È esattamente ciò di cui parlavo. Per il primo mese, potrai tenere questa esposta, vedi? È scritto qui, guarda. Entro un mese devono venire a verificare che tutto sia a posto e trasformare questo atto provvisorio in un’autorizzazione definitiva. Se non dovesse accadere non potrai più tenere aperto. Quindi, se entro un paio di settimane nessuno ti contatta, fallo tu. Se leggi bene questi fogli troverai numeri di telefono e indirizzi mail a cui rivolgerti».
«Beh… non so davvero come ringraziarla, agente Rogers, non immagina che pensiero mi ha tolto. Ero terrorizzata all’idea di dover chiudere: questo ristomobile è l’unico modo che ho per guadagnare qualcosa, dopo l’incendio da Cluck».
«Che ne dici di farmi provare qualcuno dei tuoi bignè? In effetti ero da queste parti perché dovevo cenare e non mi andava di andare a fare spesa e poi dover cucinare».
Sabine gli regalò un sorriso «Volentieri: le vanno bene una porzione di bignè e una di gumbo?»
«Mi va bene qualsiasi cosa tu riesca a rimediare: ho così fame che potrei anche addentare il camioncino» ammise senza problemi «E poi, mentre aspettavo, c’era un profumo… ha stimolato il mio appetito»
Oh, le stava indirettamente facendo un complimento! Sabine sorrise, sperando di non deludere le sue aspettative. Sfrecciò dentro il camioncino, mettendo a cuocere l’ultima porzione di bignè della giornata e versando la zuppa ancora calda nell’apposita ciotola. Dieci minuti dopo, la cena del detective era pronta.
«Ecco a lei, e grazie ancora dell’aiuto, davvero».
Michael scosse la testa, mentre addentava il primo bignè. Chiuse gli occhi, assaporandolo. «Complimenti, è squisito. E basta ringraziarmi, diciamo che siamo pari. Io ti ho aiutata a districarti tra le scartoffie e tu mi stai nutrendo, ci abbiamo guadagnato entrambi»
«Ok, d’accordo. Senta… posso farle una domanda un po’ indiscreta?»
«Spara» Michael era tranquillo, non aveva più alcuna fretta di tornare a casa: lì non avrebbe mangiato così bene e, soprattutto, sarebbe stato da solo. Nel cambio ci aveva decisamente guadagnato.
«Ecco…il fatto è che… sono sempre stata curiosa: di cosa si occupa un detective, oltre a verificare le autorizzazioni all’esercizio dei venditori ambulanti?»
Michael le regalò una smorfia. «Sinceramente non lo so ancora bene nemmeno io, mi hanno promosso da pochissimo. Ma posso dirti che quando ero un semplice agente mi occupavo di quello che serviva. Non sono mai stato io, in realtà, a scegliere: è il caso…. O il mio capo. In genere mi occupavo di ordinaria amministrazione: cose tipo la tua o come quando a Henry hanno rubato la macchina. E poi ci sono le questioni di principio, come il caso di Eloise Gardner, hai presente?»
«Come no! Conoscevo molto bene lei e soprattutto sua sorella Gretel: Eloise era più grande di me e io sono più grande di Gretel di due o tre anni, non ricordo. Io e Gretel uscivamo spesso insieme soprattutto durante il suo anno Senior alle superiori. Io frequentavo la scuola di cucina e quando avevamo tempo ci incontravamo volentieri, finendo sempre per parlare di cibo. Anche se, più che di cucina, lei era appassionata delle materie prime con cui si cucina. Poi lei ha scelto di frequentare il college a Washington per cui ci siamo perse di vista, anche se ogni tanto continuiamo a sentirci. So che si è sposata e vive in campagna con suo marito e i figli. Di Eloise non so molto, mi è sempre parsa una tipa strana, molto sulle sue. Oddio!» esclamò interrompendosi di colpo «mi scusi, ho parlato a raffica, non me ne sono nemmeno resa conto!»
Il detective Rogers scrollò le spalle: «Nessun problema. Anzi, non sapevo che Gretel avesse più di un figlio. Ero rimasto che avesse solo un maschio»
Sabine negò. «Affatto. Ha avuto una bambina due anni fa, si chiama Tiffany ed è davvero adorabile. Suo figlio Robert ha sei anni e ha cominciato la prima elementare due mesi fa, circa.»
«Sei più informata di me, dovrei assumerti come assistente o come informatrice».
Quella battuta strappò una nuova risata alla giovane donna. «Al massimo come cuoca personale. In quello sì che me la cavo. Ma per quanto riguarda indagare e informarsi…. forse Lucy sarebbe più adatta di me.»
«Lucy? Intendi la figlia di Jacinda?» Cosa c’entrava quella ragazzina?
Sabine ridacchiò: «Proprio lei. Un paio di ore fa, Jacinda è venuta a raccontarmi che oggi pomeriggio Lucy è passata da lei armata di penna e quaderno per gli appunti e le ha fatto un sacco di domande: sul suo uomo ideale, sul perché ieri avesse dato buca a lei e Ivy per andare al circo... e sulla storia di Anastasia. Non so cosa volesse farci con quelle informazioni, ma Jacinda ha detto che sembrava proprio una piccola Sherlock Holmes, le mancavano solo la divisa e la pipa».
«Allora magari un giorno glielo chiederò. Secondo te Jacinda me la presterebbe? Avrei proprio bisogno di un’assistente efficiente». Entrambi non poterono evitare di ridere al pensiero, immaginandosi Lucy che, tutta seria, faceva domande e prendeva appunti riguardo le risposte.
Fu Rogers a prendere di nuovo la parola: «Prima hai detto… “Anastasia”… perché questo nome non mi è nuovo? Dove l’ho già sentito?»
Oh… cavolo! Era convinta che lui lo sapesse. In fondo, a suo tempo, la polizia si era occupata della questione e… merda! Come ne usciva?
«Ecco, a dire il vero io pensavo che lo sapesse. È un altro caso simile a quello di Eloise, che però coinvolge Jacinda e la sua famiglia e… sa una cosa? In realtà non starebbe a me parlarne. Anzi» continuò dando una veloce occhiata all’orologio «dovrei proprio andare, in effetti»
Ma… ma… «Aspetta!», tentò il poliziotto, poggiandole una mano sul braccio e spingendola a voltarsi nella sua direzione «Adesso mi hai incuriosito. Dai, spiegami. Ti assicuro che non lo racconterò a nessun altro. E poi magari scopriremo che ne so più di te e potrò aiutare Lucy con la sua indagine».
«Beh…» Sabine era incerta. In fondo, lui non aveva tutti i torti. E anche se non fosse stata lei a parlarne, lui avrebbe potuto scoprire qualsiasi cosa avesse voluto facendo una ricerca il giorno dopo in centrale, quindi… che senso aveva non rispondere? «D’accordo, ma io non le ho detto nulla, va bene?»
«Non preoccuparti» la rassicurò Michael «sarò muto come un pesce».
«Ok. Beh, ecco… si tratta della sorellastra più piccola di Jacinda, la seconda figlia biologica di Victoria Belfrey, Anastasia. Lo so» aggiunse notando l’espressione perplessa del suo interlocutore «quando me ne ha parlato qualche anno fa, nemmeno io avevo collegato subito, non mi ricordavo di quella bambina. Comunque, in pratica… nove anni fa, mentre era al parco con Ivy, qualcuno le aggredì.» A quelle parole, Michael indurì lo sguardo, cercando di non fare commenti e di lasciarla continuare fino alla fine. «Ivy svenne ed ebbe una commozione cerebrale, mentre Anastasia, che aveva solo cinque anni, fu portata via. Da quel giorno, non hanno più saputo nulla di lei. Non so chi si occupò della cosa ma… Jacinda disse che nessuno fu in grado di fornire loro alcun tipo di notizia. Poi venne ritrovata una giacchetta, qualche settimana dopo e chi si occupava delle indagini annunciò che la bambina era sicuramente morta. Victoria aveva detto che quell’indumento era di sua figlia. Ma» si interruppe, tentando di riordinare le idee «Ivy la contrastò sempre su questo punto. Jacinda dice che, secondo sua sorella si sono sbagliati, che quella giacca non era di Anastasia,. Dice che Ivy ne è assolutamente certa. Ma Victoria non volle sentire ragioni e impedì a chiunque, specie ad Ivy, di continuare a nominare Anastasia e di formulare qualsiasi teoria diversa da quella che lei stessa aveva accettato. Ecco perché Lucy non ne ha mai saputo niente e, quando per caso ha sentito il suo nome, ha voluto informarsi».
Rogers la guardava allibito. Se tutto quello che gli stava raccontando era vero….
«Mi stai dicendo che una minorenne è scomparsa da nove anni… e i miei colleghi non sono stati capaci di capire dove potesse essere finita? E che hanno dato per buono il fatto che sia morta senza minimamente considerare le parole di sua sorella? È assurdo!» protestò indignato.
«Però è così. Nessuno di noi se lo spiega. Jacinda mi raccontò che lo stesso giorno lei scoprì di essere incinta di Lucy e, due mesi dopo anche Victoria ne venne informata. Ed evidentemente, utilizzò la sua gravidanza per non pensare a ciò che le era successo. La mia parte cinica le direbbe che smise di interessarsi di cercare la figlia quando scoprì che avrebbe potuto sostituirla con un’altra. Da come la racconta Jacinda sembra esattamente così. Poi però mi sento meschina anche solo a pensare certe cose… ma è più forte di me. E se alla sua stessa madre non interessa… non mi stupisco che anche le istituzioni se ne lavino le mani».
Michael indurì lo sguardo. «Aspetta un attimo. Personalmente non ne sapevo nulla. Ora che ne parliamo, ricordo di aver sentito qualcosa a suo tempo, ma il caso venne affidato ad un altro collega. E io avevo altre cose per le mani, ammetto che non mi informai e poi me ne dimenticai. Magari lo farò in questi giorni, voglio capire perché l’ipotesi di sua sorella non è stata minimamente considerata. Quella ragazzina potrebbe essere ancora viva, chissà dove, lontana dalla famiglia… è ingiusto»
«Una famiglia che, fatta eccezione per Ivy, non se ne interessa più di tanto, a quanto pare…» mormorò Sabine delusa. «E mi dà fastidio ammettere che lo stesso discorso valga per Jacinda. Quando la conobbi non si preoccupava più di tanto di quello che sarebbe potuto succederle…. Cazzo, non si preoccupava della sua stessa figlia!» ricordò sconvolta. «Per fortuna poi è cambiata e adesso lei e Lucy si vogliono un gran bene.»
Michael chiuse gli occhi, scuotendo la testa, sul volto un’espressione disgustata. «Ho sempre pensato che fossero i limiti di queste famiglie: ricche di tutto, ma completamente aride di sentimenti. Non fai che confermare quello che già sospettavo. Ma non avrei mai creduto che anche Jacinda fosse così, mi sembrava molto diversa dalla madre e dalla sorella»
«Lasciamo stare. È la mia migliore amica e non voglio parlarne male, ma lei sa benissimo che non ho approvato il suo atteggiamento dei primi tempi. Sono contenta che sia cambiata, soprattutto per Lucy: era giusto che conoscesse sua madre. E di questa storia non abbiamo più discusso, magari ha cambiato opinione e non me l’ha detto. E in ogni caso… da quanto ne so, Ivy ha sempre osteggiato questa teoria: è sempre stata convinta che la sorella fosse viva, chissà dove, ma viva.».
«Beh, comunque» concluse il poliziotto cambiando posizione «hai stimolato la mia curiosità e indagherò. Secondo te, Jacinda risponderebbe a qualche domanda? Giusto per avere una dritta sulla direzione giusta. E magari anche Ivy stessa.»
«Non lo so… ma se vuole posso parlarne a Jacinda»
«Sì, per favore, fallo.» Era un’ottima idea. E, a proposito... «E… chiamami Michael, d’accordo? A meno che tu non abbia imbrogliato, i documenti che ho esaminato dicono che hai solo quattro anni meno di me. Direi che possiamo lasciar perdere le formalità, che ne dici?»
«Beh… perché no? Volentieri… Michael. Dirò a Jacinda di passare in centrale appena può. Ora, sarà meglio che vada a casa, comincia ad essere tardi».
Istintivamente, Michael controllò l’ora «Hai ragione, sono già le 10 p.m. Vuoi un passaggio?» propose, accennando alla sua macchina, posteggiata poco distante.
«No grazie. La mia macchina è qui vicino. Arrivederci.» concluse, allontanandosi velocemente.
Michael Rogers la osservò finché non fu salita in macchina, dopodiché decise che era arrivato anche per lui il momento di rincasare.
 
Se qualcuno, solo una settimana prima, avesse detto a Henry Mills che una ragazza si sarebbe presentata a casa sua quella sera nel giro di un quarto d’ora lo avrebbe preso per pazzo. Invece era stato proprio lui a decidere quell’orario quando Ivy gli aveva annunciato di aver trovato tutto ciò che le aveva chiesto: era impaziente di condividere con lei l’idea che aveva solo abbozzato e di cui, modestamente andava fiero. Giunto a casa, aveva aperto una scatoletta a caso e ne aveva trangugiato il contenuto: doveva solo nutrirsi a sufficienza. Li aspettava una serata impegnativa e sarebbe stata necessaria tutta la sua concentrazione: quella faccenda era troppo delicata, non erano ammessi errori. Controllò per l’ennesima volta che fosse tutto pronto: caffè in thermos, due tazze, niente zucchero (in casi come quello il caffè gli faceva un maggior effetto se evitava di addolcirlo), qualcosa da sgranocchiare… (più per lui che per lei…. erano biscotti al cioccolato, di sicuro lo avrebbe accusato di attentare alla sua dieta… cosa assolutamente vera, ma insomma… erano dettagli). E ovviamente il computer con il router del wi-fi e lo scanner accesi e funzionanti. Bene, è tutto a posto constatò orgoglioso. Ma la sua soddisfazione scemò quando, voltandosi per andare in bagno, si rese conto dello stato in cui era la casa. Merda… che figura ci avrebbe fatto? Ok, aveva avuto modo di constatare, solo la sera prima che lei non si facesse troppi problemi: aveva tranquillamente lasciato i piatti sporchi sopra il tavolo finché lui non se ne era andato, però… almeno aveva avuto la decenza di accoglierlo in una casa in ordine. E quello, in teoria non avrebbe dovuto essere un problema: lui solitamente era un tipo ordinato, lo era diventato in istituto, ma… quando era sotto pressione o concentrato al massimo su un obiettivo come in quel caso, semplicemente tendeva a dimenticare l’esistenza del mondo esterno. Si alzò, deciso a non fare la figura del nerd sfigato, cominciando a raccogliere vestiti e qualsiasi altra cosa fosse rimasta in giro. C’erano perfino calzini… storse la bocca, gettandoli nel cesto dei panni sporchi e decidendo che l’indomani sarebbe stato giorno di bucato. Rivolse un’occhiata alla foto di Abigail sistemata su una mensola lì accanto: la sua adorata bambina lo guardava con un sorriso radioso. «La troveremo, sai» si ritrovò a dirle, «quello che è successo a te è ingiusto e innaturale, non lascerò che un’altra famiglia sia separata da un’altra bambina. E ci deve essere un maledetto motivo se sono sopravvissuto, giusto? Magari è questo, magari devo ritrovare quella ragazzina». Afferrò la cesta e la portò rapidamente in bagno, chiudendola dentro un armadio. Due minuti dopo, il campanello stava suonando: ottimo, aveva evitato una figuraccia per un pelo. Andò ad aprire la porta, trovandosi di fronte il volto perplesso di Ivy. «Mi dispiace, so che non è un grande orario, ma non sono riuscita a sbrogliarmi prima. Ho portato le foto che mi hai chiesto. Ora mi spiegherai a cosa ti servono?»
«Certo. Entra.» la invitò Henry facendosi da parte.
«A proposito, grazie ancora per il disturbo che ti stai prendendo, neanche la polizia, all’epoca, ci mise tutto questo impegno» non poté fare a meno di aggiungere la giovane, entrando.
«Figurati, non dirlo nemmeno. È un tentativo che mi è venuto in mente stamattina, non so se ne caveremo qualcosa, ma provare non costa nulla. Vuoi un caffè?» offrì, mentre la osservava guardarsi intorno.
Ivy gli rivolse un cenno di diniego «No grazie. Ne ho preso uno prima di venire qui.» Non sapeva spiegarsene la ragione, ma si sentiva strana, come se stesse entrando in un luogo sacro o qualcosa del genere. Ma figurati, si rimproverò mentalmente, sei proprio una sciocca Belfrey. Decise di lasciar perdere quei pensieri e si concentrò sull’interno dell’appartamento: era assolutamente spartano, con nulla più delle cose necessarie tranne… la foto di una bambina. Le era capitata davanti agli occhi quasi immediatamente, non si poteva non notarla, era sulla mensola proprio di fronte alla porta d’ingresso. Che fosse…?
 Henry notò la direzione del suo sguardo e istintivamente sorrise, andando a prendere la foto e mostrandogliela da vicino «Miss Belfrey, ti presento la regina indiscussa del mio cuore: Abigail Mills. Avrebbe dovuto compiere otto anni il 24 ottobre scorso».
Cavolo! Si era fatta beccare come una ragazzina! Però… come l’altra volta, Henry non sembrava arrabbiato. Osservò la foto che teneva in mano incontrando il volto sorridente di una bambina dai lunghi capelli biondi, con due occhi castani pieni di vita che salutava la persona che la stava fotografando, probabilmente lo stesso Henry.
«Complimenti, è davvero bella.» Decise di non aggiungere altro: aveva già detto troppo. Quelle situazioni la facevano sentire a disagio, aveva sempre paura di dire qualcosa di sbagliato. Per fortuna, fu Henry a uscire da quell’impiccio.
«Grazie. Sì, lo era. E crescendo lo sarebbe diventata ancora di più. In effetti, le devi un favore enorme: se non fosse stato per lei non mi sarebbe mai venuta l’idea di cui voglio parlarti. Vieni, siediti lì» proseguì indicandole una sedia «e tira fuori le foto che hai portato. Nel frattempo, io ho aperto quella che ho preso dal tuo computer e la mettiamo… qui» continuò, aprendo un programma e facendo in modo che anche lei guardasse. Ivy era rimasta in silenzio, incuriosita: avrebbe voluto chiedergli cosa stesse succedendo, ma non le sembrava il momento. Lo osservò schiacciare tasti e muovere il mouse sicuro, mentre lei, quasi automaticamente, afferrava le foto che aveva recuperato e le poggiava sopra la scrivania. Poco dopo Henry si bloccò, dubbioso, facendola fremere.
«Qualche problema?» non poté evitare di chiedere, nervosa.
Henry esitò solo un istante poi negò. «Affatto. Ero solo indeciso. Scusa un attimo… ecco… adesso scannerizzo anche la tua e vediamo le corrispondenze» continuò, prendendo in mano la foto in cui lei stessa dimostrava quattro o cinque anni.
«Continuo a non capire a cosa…» cominciò la ragazza, salvo poi essere stoppata da una mano di Henry sulla sua. Stava cominciando a diventare un’abitudine, notò la parte posteriore della sua mente, ma non le dava fastidio, né le dispiaceva.
«Lasciami fare solo un momento, poi ti spiego, promesso. Non sono sicuro al cento per cento neanche io di quello che sto facendo».
«D’accordo» approvò lei, sentendo la pressione della mano dell’amico diminuire e osservandola tornare a muovere il mouse. I suoi occhi si fissarono nuovamente sullo schermo del computer: Henry aveva messo la foto di lei bambina nello scanner e la stava salvando sul computer. Poi l’aveva recuperata dalla cartella e incollata sullo stesso programma in cui aveva messo quella di Ana, cliccando in tre punti. Poco dopo, il computer emise un suono e comparve una scritta sotto le due foto: corrispondenza 75%.
«Un ottimo risultato» lo sentì mormorare. E forse cominciava a capire cosa avesse in mente… o forse no, ma lo vedeva talmente concentrato che non aveva il coraggio di disturbarlo per verificare.
Lui continuò a lavorare in silenzio, aprendo un nuovo programma e tornando a metterci la foto di sua sorella. Ivy si sporse un po’, tentando di capire cosa stesse facendo senza disturbarlo. Lo vide selezionare alcune opzioni, tra cui “invecchiamento” e poi “13-15”. Vide la foto di sua sorella cambiare sotto i suoi occhi: non più una bambina, ma una ragazzina adolescente, come avrebbe dovuto essere quell’anno. Era… allibita e senza parole. Non spiccicò una sillaba, colpita, continuando a osservare il lavoro di Henry in silenzio. L’uomo salvò la nuova fotografia, poi la incollò sul programma che aveva utilizzato in precedenza, affiancandola alla sua e scegliendo le stesse opzioni già selezionate in precedenza. Ivy trattenne il fiato mentre il computer lavorava. Le sembrò volerci un’eternità, ma, ad un tratto, l’apparecchio emise un suono e sotto le due foto comparve la scritta che entrambi aspettavano: corrispondenza 70%.
«Ha funzionato!» lo sentì esultare e non poté evitare di sorridere anche lei, quando lo vide voltarsi con un’espressione davvero felice.
«Ok, seguimi, ti spiego cos’ho fatto.» la invitò, facendole spazio in modo che potesse vedere meglio lo schermo.
«Credo di aver intuito qualcosa, ma… spiega, sono tutta orecchi»
«L’applicazione che ho usato per confrontare le foto tue e di tua sorella alla stessa età si chiama Twins or Not e serve appunto per questo. Per quanto riguarda l’altra… devi sapere che tre anni fa, alcuni ricercatori dell’università di Washington svilupparono un software che permetteva di stabilire, partendo dalla foto di un bambino, l’aspetto che quello stesso bambino avrebbe avuto nelle varie fasi della vita, fino agli ottant’anni. L’unico limite è che, nella foto di partenza, il bambino non può avere meno di tre anni, ma noi non abbiamo questo problema, perché nella foto che mi hai dato, tua sorella ne aveva di più». Henry si fermò ad osservare la faccia dell’amica: aveva parlato a raffica, forse troppo, ma era più forte di lui, il computer era la sua seconda passione (la prima era la scrittura) e quel programma la sua droga. Da quando lo aveva scoperto lo aveva sviscerato fin nei minimi dettagli. Lei però non sembrava incerta, quindi si arrischiò a continuare. «Fermami se vado troppo veloce o non capisci qualcosa, d’accordo? Comunque… ricordi prima, quando ti dissi che era merito di Abby se mi era venuta quest’idea? Questo perché il primo esperimento con questo programma lo feci con una sua foto. Ma i risultati li tengo in una cartella riservata del computer, non voglio che altri li vedano. Volevo sapere come sarebbe stata se avesse avuto la possibilità di diventare un’adolescente e poi un’adulta»
Ivy ascoltava in silenzio, tentando di assimilare tutte le informazioni, colpita da tutte quelle novità che fino a poco prima non sarebbe stata in grado neppure di immaginare. Quel programma avrebbe permesso loro di cercare Anastasia coinvolgendo altri nella ricerca, dando loro un’idea di come sua sorella avrebbe potuto essere…. Si dette un pizzico, incredula: oddio, stava succedendo davvero, non era tutto un sogno! Ma se era così semplice…
«Io… non sai quanto vorrei crederti Henry, ma… scusami, non capisco. Se era davvero così semplice, perché la polizia non ci ha mai pensato? Sei sicuro che questo programma sia affidabile? Io lo so che sembro davvero ingrata con queste obiezioni, ma… ecco…»
«Ho fatto altre prove, con mie vecchie foto: è affidabile. Ho preso una mia foto da bambino e l’ho invecchiata fino ai quattordici anni. Ed era identica ad un’altra che avevo a quell’età, fatta eccezione, ovviamente, per i vestiti. E poi, considera una cosa,» continuò Henry «anzi due: la prima è che questo programma esiste da pochissimo e forse, ancora non è molto usato. Mi hanno sempre detto che ero un dannato nerd da ragazzino, il computer è la mia seconda passione dopo la scrittura. Non per tirarmela, ma sono maledettamente bravo a scovare nuovi programmi e a capirli prima della maggior parte della gente».
«E la seconda?»
Henry strinse le labbra «La seconda è che, fatta eccezione per Rogers, i poliziotti in questa città sono una manica di scansafatiche incompetenti. Sapevi che mi hanno rubato la macchina il giorno che ho conosciuto te, Lucy e Jacinda? Sono andato a fare la denuncia alla centrale e l’agente Ryce mi ha risposto “E io che dovrei fare? Cercarla sotto la scrivania?” Lo so che non è la stessa cosa, ma... chi ti dice che non abbiano fatto lo stesso con tua sorella?»
«Vorresti dire che…» Ivy era allibita da quello che l’affermazione di Henry implicava.
«Voglio dire che secondo me hanno fatto un tentativo, hanno visto che non è andato e non si sono sforzati a farne altri. E si sono adagiati sulla pista della giacca che aveva accettato perfino tua madre. Per loro l’importante è lo stipendio a fine mese. La città è piena di casi irrisolti: uno in più… uno in meno… a loro non cambia niente…»
«Ma cambia per me!» sbottò Ivy sconvolta «Maledizione, stiamo parlando di mia sorella! Ed era solo una bambina quando è successo tutto! Io… io credevo davvero che fosse stato fatto tutto il possibile per ritrovarla, ma… Mio Dio, non riesco a crederci! E se hai ragione… Mia madre che ha sempre le mani in pasta ovunque… come ha potuto permetterlo?»
Henry rimase in silenzio riflettendo: si era fatto anche lui quella domanda e non aveva trovato una risposta. «A dire il vero, speravo potessi dirmelo tu. Magari in quel periodo era troppo provata? E se anche fosse stato…. Perché non ha agito in seguito? A questo non ho trovato una spiegazione. E… scusa per prima. Non volevo essere né brusco, né insensibile, mi dispiace.»
Ivy gli rivolse un cenno di diniego «Sei l’ultima persona che deve scusarsi, Henry. Ci conosciamo da quanto? Un mese neanche? E mi sei stato più vicino tu di chiunque altro. Sono le 11 p.m. sono qui da un’ora… e hai fatto più tu adesso che la polizia in nove anni. Non avevo il diritto di sbottare in quel modo».
«Non importa. Comunque… probabilmente, visto l’ipotesi che hanno accettato suppongo sia logico che non abbiano ritenuto di usare questo programma. Per loro era morta, quindi non serviva sapere come sarebbe stata da grande» ecco, l’aveva detto. L’ipotesi che le aveva paventato anche la sera precedente costringendola a rendersi conto di quante possibili strade si snodavano davanti a loro. «Ma noi non siamo la polizia e questa ipotesi avevamo deciso di scartarla. La nostra idea è che, attualmente tua sorella è da qualche parte nel mondo, ha quattordici anni e spera ardentemente di tornare a casa da te e da tua madre. Questo sarà il nostro punto di partenza. Che ne dici?»
Ivy tenne gli occhi bassi per un po’: l’idea che Ana potesse essere morta era… insopportabile, non poteva neanche pensare di considerarla, anche se erano passati nove anni.E finalmente, finalmente qualcuno l’appoggiava e la sosteneva. Rivolse all’amico un sorriso grato.
«Dico che va bene. Per me l’ipotesi che sia morta non esiste. Non voglio considerarla. Non ho mai voluto accettarla e non lo farò mai. Non posso sopportare l’idea che mia sorella sia morta da sola, da chissà quanto e sia chissà dove… no, non ci voglio neanche pensare. Voglio credere che le mie sensazioni siano giuste: che sia viva da qualche parte e che stia solo aspettando di essere ritrovata»
«Bene» approvò Henry, alzandosi in piedi. «Allora domani ripartiremo da qui. A dire il vero avevo pensato di andare ancora avanti già stasera ma… mi è venuto in mente che prima di fare qualsiasi altra cosa dovremmo parlarne con Rogers. Lui è un tipo a posto, potrebbe venirgli in mente qualcosa che non abbiamo considerato. Che ne dici? Ti va di venire con me a trovarlo in centrale, domani in pausa pranzo?»
Ivy non dovette neanche pensarci. «Certo che voglio venire. Voglio sentire cosa ti dice e cosa ne pensa.» affermò sicura, alzandosi a sua volta.
«Va bene. Ci sentiamo domani, allora, per metterci d’accordo. E… pensa a tua sorella. Qualsiasi cosa ti venga in mente su di lei può essere utile alla polizia. E anche alla descrizione che metteremo on line».
Ivy gli sorrise annuendo, più tranquilla per la prima volta in quella giornata. «Lo farò. E… hai ragione, ora è meglio che vada. Ti ringrazio, Henry. A domani.» concluse, sollevandosi appena sulle punte e sfiorandogli la guancia sinistra con le labbra «Buonanotte»
«B… buonanotte» balbettò lui preso alla sprovvista. Non riuscì a fare altro che restare immobile al suo posto, osservandola aprire il portoncino e attraversare l’ingresso, diretta all’esterno. Attese qualche altro istante, poi richiuse la porta, andando a salvare sulla sua pen drive l’immagine che avevano ottenuto e a spegnere tutti gli strumenti utilizzati. Anche per lui era il momento di andare: l’indomani sarebbe stata una giornata impegnativa.
 
«Io non capisco se sei stupida o davvero non ci arrivi!»
«Non ti permettere di usare quel tono con me, stronzo!»
«E piantala di urlare, stupida oca, vuoi che ci senta?»
«Cosa vuoi che me ne importi? Tanto non ha capito niente in tutti questi anni, ormai non può certo arrivarci!»
Kelly Miller sospirò, rinunciando anche alle sue letture: i suoi genitori stavano litigando di brutto quella sera e neanche i suoi amati libri riuscivano ad isolarla totalmente. Di solito era brava ad ignorarli: si metteva al computer, faceva partire un po’ di musica o, alla peggio, prendeva il romanzo di Anna Karenina o Guerra e pace. Quelli avevano sempre il potere di proiettarla in un’altra dimensione, erano complessi e le richiedevano grande concentrazione: grazie a essi riusciva a isolarsi dal mondo esterno. Quella sera però, non stava accadendo. Da giorni aveva troppe cose per la testa: quei dannati sogni erano ricominciati. E la cosa maledettamente fastidiosa era che non poteva parlarne con nessuno. Non sarebbe servito a niente: suo padre si sarebbe limitato a scrollare le spalle, sua madre le avrebbe detto che “erano solo sogni e i sogni non significavano mai niente” cominciando una filippica su qualcosa che inevitabilmente l’avrebbe distratta e le avrebbe fatto perdere il filo del discorso, senza darle mai una vera risposta. E non poteva parlarne con nessun altro: era figlia unica e, non potendo frequentare la scuola a causa della sua malattia, non aveva amiche con cui uscire o confidarsi. Non poteva neanche andare in libreria con la mamma a scegliere personalmente i suoi libri! Ci aveva provato, a otto anni aveva attraversato il giardino, superato il cancello e mosso i primi passi sulla strada. Ma poi era stata incerta sul percorso e sua madre l’aveva pescata poco distante a guardarsi intorno e l’aveva costretta a rincasare. Quando le aveva rivelato quale fosse la sua meta, sua madre era andata su tutte le furie e non ne aveva voluto sapere: le aveva imposto di non permettersi mai più di uscire di nascosto e di togliersi quell’idea dalla testa. Per la prima volta aveva protestato veementemente e, alla fine, erano giunte ad un accordo: lei non sarebbe più uscita di nascosto, ma i suoi genitori le avrebbero comprato un computer, una piccola libreria e tutti i libri della saga di Harry Potter, di quella di Narnia e del Mondo d’Inchiostro. Sperava che in quel modo li avrebbe messi in difficoltà spingendoli a ripensarci: tutte insieme le erano parse una grossa spesa che non tutti i genitori potevano permettersi. Ma pochi giorni dopo la sua richiesta, un camioncino si era fermato davanti casa loro, scaricando tutto ciò che aveva chiesto. C’erano anche due operai e avevano collegato il computer e montato la libreria in men che non si dica.
La pace era stata sancita e lei si era immersa nel mondo fantastico che i libri riuscivano sempre a regalarle senza esitazioni. E anche nello studio, che svolgeva diligentemente con un’insegnante cinquantenne che pretendeva raggiungesse risultati eccelsi. E lei non aveva problemi ad accontentarla, non aveva altro da fare. Inoltre doveva essere perfetta: desiderava ardentemente che i suoi genitori cambiassero idea, dandole più libertà e avrebbe fatto di tutto per meritarla. E dato che non poteva dedicarsi ad altro, aveva deciso che si sarebbe immersa nello studio, facendo in modo di guadagnarsi una meda che non scendesse sotto la B. Per sua fortuna, era una tipa testarda e quando si metteva una cosa in testa andava avanti finché non aveva raggiunto l’obiettivo e a questo teneva particolarmente.
Quella sera però, non riusciva a combinare assolutamente niente, così aveva lasciato perdere ogni cosa e si era distesa a letto, sperando di addormentarsi. Ma neanche questo le era riuscito, anzi, le voci dei suoi genitori arrivavano più forti che mai.
«Prima o poi ci arriverà, credi davvero che sia così idiota?»
«Se continui ad urlare così, sarai tu stessa a sputtanarci, stupida deficiente! E dire che ho fatto tutto questo per te! Come diavolo potrebbe pensare di non essere davvero nostra figlia?»
«Per fortuna ero io la deficiente, eh! Augurati che non abbia sentito, altrimenti stavolta non so proprio come potremo uscirne!»
Kelly, che si era avvicinata alla porta per scendere al piano di sotto, rimase immobile, sconvolta: i suoi genitori avevano appena detto che… ma non era possibile, giusto? Loro erano stati con lei fin da quando era nata, se lo ricordava… dovevano aver detto una sciocchezza, come quando ai bambini si diceva di averli trovati sotto un cavolo. Eppure… eppure c’era qualcosa in quella storia che non le quadrava: se non era vero, perché l’avevano detto? E, se davvero non era loro figlia, chi erano i suoi veri genitori? Forse l’avevano abbandonata da bambina e i suoi attuali genitori l’avevano tolta dall’istituto dopo qualche anno? Poteva essere, questo avrebbe spiegato perché non si somigliassero poi così tanto. Ma se fosse stato così semplice… questa sarebbe stata una cosa bella, per cui li avrebbe potuti amare ancora di più, perché non volevano che lo sapesse? Avrebbe tanto voluto parlarne con loro, ma sapeva fin troppo bene come sarebbe finita: con un silenzio imbarazzato e un invito a non preoccuparsi troppo. Ma lei si preoccupava eccome! C’erano troppe cose strane! Perché non poteva andare a scuola? Perché non poteva uscire o frequentare una palestra? Perché non andavano mai al ristorante o al cinema o da qualsiasi altra parte, fatta eccezione per pochissime volte l’anno? Aveva provato a chiederlo un sacco di volte ma sua madre le aveva sempre rigirato la domanda accusandola di non stare bene con loro. Ma non era quello il punto, accidenti! Lei adorava i suoi genitori, ma sapeva che c’era anche altro! Voleva poter uscire, farsi delle amiche, magari praticare uno sport e, chissà, anche trovarsi un ragazzo! E andare a scuola con quelli della sua età! Eppure sembrava chiedesse troppo! I suoi genitori continuavano a metterle davanti la sua malattia dicevano che era…. Fotosensibile o qualcosa del genere. Aveva cercato su internet il significato di quella parola e aveva scoperto che era una malattia degli occhi e della pelle che non permetteva di esporsi per troppo tempo alla luce solare. Quindi avrebbe, teoricamente, dovuto vivere in casa con le imposte sempre chiuse. Eppure i suoi genitori le tenevano tranquillamente aperte e lei stessa era uscita in giardino senza subire nessun tipo di grave conseguenza. Quindi era una bugia? Stando a quanto aveva letto, era probabile: per tutte le volte che si era esposta al sole di nascosto avrebbe ormai dovuto avere le retine irrimediabilmente danneggiate. Ma perché non volevano che uscisse? Cosa c’era di così orribile la fuori? Kelly sbuffò: perché continuava a pensarci? Non ne avrebbe cavato niente, come al solito. Anzi, una cosa l’aveva scoperta, ricordò. Scattò a sedere e andò ad accendere il computer aprendo il file che aveva chiamato, semplicemente “cose strane”. Rilesse l’elenco che aveva già stilato:
  • Perché somiglio così poco a mamma e papà? Io e mamma abbiamo lo stesso colore di capelli, ma nient’altro in comune: non il viso o qualsiasi altra cosa. E perché sono così bassa rispetto a loro? Loro sono 1,80, perché io misuro appena 1,65?
  • Sogni: in particolare uno. Io da bambina in un parco con una ragazza molto più grande. Non è la mamma, è troppo giovane, e non la conosco, ma sto volentieri con lei e si vede che lei mi vuole bene
  • Fotosensibilità: è vero? Perché allora posso uscire in giardino, di giorno, anche nelle ore più calde?
  • Scuola: perché tutti ci vanno e io no? L’insegnante dice che è perché sono malata ma… vedi punto precedente.
  • Se sono malata, dove sono le mie cartelle cliniche? Ho provato a cercarle e non le ho trovate. E perché non faccio terapie?
  • Joy Thompson: chi è? Perché mamma e papà tengono in casa le sue cartelle cliniche?
Ricontrollò di nuovo l’elenco, aggiungendo la scoperta che aveva fatto quella sera e un ulteriore punto.
  • Mi hanno adottata? Verificare. Cercare documenti
  • Sono tornati i sogni. Voglio vedere il viso di quella ragazza
«Non capisco, non capisco…» sbuffò sottovoce, alzandosi e buttandosi prona a letto, stringendo il cuscino tra le braccia. Perché non poteva avere una vita normale? Il suono del computer attirò la sua attenzione: si stava scaricando, doveva spegnerlo. Salvò il documento e chiuse tutte le applicazioni, staccando la pen drive e infilandola nel doppiofondo del suo cassetto. Poi spense il computer e collegò la presa alla corrente, preparandosi per andare a dormire. Solitamente sarebbe scesa a dare la buonanotte ai suoi genitori, ma quella sera non ne aveva voglia: si sentiva turbata e non voleva che le facessero domande alle quali non era certa di saper rispondere.
Si preparò, infilandosi il suo pigiama preferito: rosa con tanti fiorellini. Era arrivato il momento di spegnere il cervello e riposare. Magari, dopo una bella dormita, avrebbe visto le cose con maggior lucidità. E forse avrebbe anche trovato il modo di venire a capo di uno dei tanti misteri che la circondavano. L’ultimo pensiero, prima di cedere al sonno, andò alla ragazza sconosciuta: chissà se l’avrebbe sognata anche quella notte.
 
Twins or Not: programma che confronta le foto di due persone per stabilirne il grado di somiglianza. Ho cercato di capire come funzionava da Internet e ho supposto che il grado di somiglianza di due sorelle con gli stessi genitori (Ivy e Ana sono nate a molti anni di distanza, ma entrambe da Marcus e Victoria Belfrey) fosse molto alto, essendo anche dello stesso genere. Anzi, forse mi sono tenuta anche toppo bassa.
L’altro programma invece l’ho spiegato nel testo, l’ho trovato cercando ma non so molto di più di quanto ho spiegato nella storia. L’unica certezza è che è assolutamente attendibile, riproduce esattamente l’aspetto della persona a quella età. Ovviamente non può immaginare le scelte della persona, non le cambia il colore di capelli e non le aggiunge tatuaggi o dentiere, ma se Ivy e Henry si mettono a pensarle tutte diventano pazzi.

Dunque, dunque, eccoci qui: piaciuto il capitolo? Che ne pensate dei nuovi personaggi? Che problemi hanno Kelly e i suoi genitori? Fatemi sapere le vostre congetture. Non vi stresso troppo con le note, vi ho già dato abbastanza da leggere.
Al prossimo aggiornamento :)

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Fase 3: ricostruzione ***


Dunque, dunque, eccomi qua, finalmente sono tornata xd. So che ci ho messo un’eternità a postare questo capitolo, ma sono stata parecchio incasinata, tra faccende reali, contest (a proposito, avete letto la minilong che ho messo un paio di settimane fa? I protagonisti sono sempre Henry e Ivy e si parla del what if più grande del mondo, ossia: cosa sarebbe successo se, dopo che la maledizione è stata spezzata, Henry e Ella avessero scoperto che il loro non era Vero Amore? Ma lasciamo perdere l’altra storia, e passiamo a questa. Avevamo lasciato Henry e Ivy che dovevano andare a parlare col detective Rogers, dopo aver modificato la foto di Ana ed aver trovato un indizio su come potrebbe essere la bambina a 14 anni. Poi Sabine, ispirata dalla piccola indagine di Lucy sulla zia, aveva parlato col detective Rogers, destando la sua curiosità e promettendogli di portare Jacinda in centrale, per trovare informazioni su Ana. Il capitolo si era concluso con Kelly Miller che sentiva i suoi genitori discutere e cominciava a farsi un po’ di domande.
A questo punto, vi lascio alla lettura, mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!!

 
Ivy non era mai stata tanto nervosa in vita sua: quel giorno lei e Henry sarebbero andati a parlare con il detective Rogers nel tentativo di compiere un ulteriore passo nella ricerca di sua sorella. E tutto all’insaputa di sua madre. Se la cosa fosse arrivata alle sue orecchie, avrebbe dovuto seriamente cominciare a cercarsi un nuovo lavoro…o quantomeno un nuovo appartamento, perché quella volta di certo, Victoria Belfrey l’avrebbe sbattuta fuori di casa senza farsi troppi problemi. Per fortuna, a suo tempo, suo padre aveva aperto, per lei e le sue sorelle, un fondo fiduciario di tutto rispetto. Quello di Ana poi era stato chiuso e la liquidità in esso riversata in un nuovo fondo a favore di Lucy, che sua madre era l’unica in diritto di gestire. Quella era stata, a suo modo di vedere, l’ennesima ingiustizia nei confronti di sua sorella a cui non aveva avuto il potere di ribellarsi. E come avrebbe potuto? Sua madre l’avrebbe fatta letteralmente a pezzi. E in ogni caso, era lei e solo lei ad essere in diritto di gestire quel fondo. Lasciò perdere quel pensiero, tornando a concentrarsi sul suo lavoro: il telefono, che il giorno prima era stato incandescente, quella mattina sembrava aver deciso di darle una tregua. Così si era dedicata a dare un’occhiata alla sua posta elettronica, sia quella personale, sia quella dell’ufficio. Aveva perso un’ora solo a cestinare lo spam: doveva chiedere agli informatici di mettere un qualche filtro, non era pensabile perdere tempo così tutti i santi giorni. E aveva già sprecato un’altra ora, in precedenza, per portare Lucy a scuola. Incredibilmente, quel giorno la bambina non era stata fastidiosa, se ne era rimasta zitta e buona sul sedile posteriore, poi era scesa limitandosi a un saluto distratto: la scoperta dell’esistenza di Ana e della sua storia dovevano averla colpita più di quanto avesse immaginato. Aveva liquidato la cosa con una scrollata di spalle: poco male, ogni tanto anche lei aveva diritto ad una tregua. Ma forse, solo forse, sarebbe stato il caso di riparlare con Lucy dell’argomento, quella sera. O forse avrebbe fatto meglio a stare zitta e ad attendere l’evolversi degli eventi: magari sarebbe stata lei a farle nuove domande, senza costringerla a scervellarsi troppo. Perché avere a che fare coi bambini era così dannatamente complicato? Non che con gli adulti fosse più facile…. I rapporti con sua madre erano tesi ai massimi livelli, lei e sua sorella si ignoravano la maggior parte del tempo e non aveva amici. Anzi, uno l’aveva. Già e la sera precedente aveva ben pensato di metterlo in imbarazzo. Dio, perché era così stupida? L’aveva sentito balbettare mentre lo salutava, di certo era stata inopportuna. Chiuse gli occhi e sospirò, portandosi la mano sinistra alla tempia: come diavolo avrebbe dovuto comportarsi, ora? Doveva scrivergli per andare in commissariato, dovevano mettersi d’accordo su luogo e ora dell’incontro. O forse, avrebbe fatto meglio ad andarci da sola… Sai una cosa, Belfrey, lascia perdere! Sono le 10, hai ancora almeno due ore e mezza prima di doverci pensare. Non hai proprio nient’altro da fare? In effetti, sì, ce l’aveva: visto che quella era una giornata tranquilla, quasi quasi ne avrebbe approfittato per archiviare un po’ di vecchi faldoni, magari facendosi aiutare dai tirocinanti per trasportarli.
«Ma dove…. Eccola!» Senza quella il suo progetto non sarebbe mai andato in porto: il passepartout in dotazione a lei e a sua madre che le concedeva accesso illimitato a tutte le stanze delle imprese. Si alzò, sicura, dirigendosi verso tre ragazzi seduti sui divanetti dell’ingresso, riconoscendoli come gli ultimi arrivati: due ragazzi e una ragazza.
«Voi tre» li chiamò, spingendoli a scattare in piedi «tu, prendi il mio posto alla reception e voi due» continuò rivolta ai maschi «venite con me. E, ragazzina, quando tornerò mi riferirai per filo e per segno quello che è successo in mia assenza. E se mia madre dovesse cercarmi, dille pure che sono al primo piano interrato». Si assicurò di vederla annuire, poi condusse i due ragazzi con sé. La stanza in cui entrarono era stracolma di faldoni, libri e carte di ogni genere. Quando sua madre era di umore particolarmente nero, la confinava lì, costringendola a mettere tutto a posto. Stavolta avrebbe evitato quel supplizio. Si voltò verso i suoi assistenti improvvisati. «Dunque. In quest’ufficio sono conservati tutti i contratti stipulati da Lucas Vidrio e Marcus e Victoria Belfrey, nonché da tutti i dipendenti che si sono succeduti negli anni. Non ha senso tenere qui cose relative a trent’anni fa, per cui voglio che tiriate giù tutti i faldoni relativi al periodo in cui questo posto si chiamava…. Brick’s Dreams» cavolo, si sentiva ridicola ogni volta che doveva pronunciare quelle due parole… cos’aveva avuto in testa il padre di Jacinda per scegliere un nome così stupido? «e tutti quelli delle Belfrey Industries fino al 2008. Appena ne avrete tirati giù a sufficienza, vi farò vedere dove lasciarli». Attese che si mettessero al lavoro, incrociando le braccia. Poi, le venne un dubbio. Si allontanò e prese l’ascensore fino al primo piano interrato. C’erano tre stanze. La prima, come sapeva non era utilizzabile: era riservata ai libri mastri e a tutti i testi di edilizia e affini, probabilmente inutili, ormai, con l’avvento del digitale, ma comunque preziosi e da custodire. Ma le altre due sarebbero state sufficienti. O almeno, ne fu convinta finché non le aprì. La prima stanza, realizzò: era inutilizzabile: straripava di già, non era possibile aggiungerci neanche un coriandolo. La seconda aveva un po’ più di spazio ma sarebbe bastato a malapena per una decina di faldoni piccoli, a voler essere generosi. Fantastico, avrebbe dovuto lasciar perdere…. O forse no. In fondo quel grattacielo aveva altri due piani interrati.,. anche se lei non ci era mai stata fino a quel momento.
«Avanti, andiamo a vedere com’è la situazione al secondo piano interrato» si incitò. L’ascensore arrivò in un batter d’occhio e, in pochi secondi, le porte si aprirono rivelandole un piano identico a quello che aveva appena lasciato, solo, con cinque porte, anziché tre, ognuna con la sua chiave.  Controllò le varie stanze: ringraziando la sua buona stella, erano tutte vuote. Raggiunse nuovamente il piano dell’ufficio constatando che i due ragazzi la stavano aspettando: ottimo erano già pronti per un primo viaggio e stavano preparando il secondo.
«Venite con me» li invitò, indirizzandoli verso il montacarichi. Poco dopo li aveva portati davanti alla stanza designata.
«Vi ho aperto questa, dovrebbe bastare. Anche perché mancano meno di tre ore alla pausa pranzo. Mi raccomando, mettete i faldoni nello stesso ordine in cui li avete tolti dagli scaffali di sopra. Io mi assento, se ve ne andate prima del mio ritorno accostate la porta che poi ci penso io. Nel caso ci rivediamo alle 3 p.m. qui, per fare il punto della situazione».
I due ragazzi annuirono e Ivy li lasciò lì: ne avrebbero avuto per il resto della mattina. Lei, invece, sarebbe andata a verificare cosa c’era nel terzo piano interrato. Non ci era mai stata e, visto che ne aveva l’opportunità, avrebbe controllato. Anche per rendersi conto degli effettivi spazi a loro disposizione. E poi, voleva approfittare di una volta in cui sua madre non le stava col fiato sul collo. Decisa, chiamò l’ascensore, inserendo la chiave e selezionando il pulsante con su scritto – 3.
La porta si aprì in un batter d’occhio, rivelandole un piano identico a quello superiore.
Anche lì c’era una serie di porte e, provandole una ad una, la giovane constatò che erano, ugualmente, tutte aperte… tranne una. Quell’eccezione la stranì: cos’aveva quella stanza di particolare? Perché era chiusa a chiave, a differenza delle altre? Afferrò il passepartout che aveva usato con le altre porte, ma, contrariamente al solito, la serratura non scattò.
Questa poi! L’aveva inserita dal verso sbagliato? Girò e rigirò la tessera tra le mani, poi riprovò, ma di nuovo ottenne lo stesso risultato.
«Stupida, prova a cambiare verso». Ormai era una questione di principio. Infilò la tessera dall’altro lato, la mise a testa in giù e fece un terzo tentativo, ma niente: ognuno si risolse in un nulla di fatto. Perché sua madre ci teneva tanto che nessuno entrasse in quella particolare stanza? Cosa ci nascondeva? Magari qualche documento che provava affari non troppo puliti? Se così fosse stato, avrebbe potuto passarli ad Henry per le indagini che stava conducendo con il detective Rogers. Ma era inutile anche solo pensarci: se non riusciva ad entrare, come poteva sperare di scoprire qualcosa di più sul contenuto di quel luogo? Sbuffò, scocciata mentre sentiva la suoneria del suo telefono annunciare l’arrivo di un messaggio. Lo aprì: era di Henry. Allora, andiamo in commissariato, poi? Te la senti? Tirò un sospiro di sollievo all’idea che fosse stato lui a cercarla: forse, dopotutto, la sera prima non l’aveva messo così a disagio come credeva. Meglio così, non le andava proprio che si creassero situazioni strane. Inviò immediatamente la risposta: Certo, non vedo l’ora di sapere se il detective Rogers avrà qualche idea. Riesci ad essere alla stazione di polizia per le 13:15? Io finisco di lavorare alle 13:00 e pensavo di togliermi subito il pensiero, se per te va bene.
Non le importava di saltare il pranzo: ritrovare sua sorella aveva la precedenza anche sui suoi bisogni fisiologici. E se qualcuno avesse obiettato che quell’improvviso interesse fosse stato strano… beh, non le sarebbe importato! Aveva sempre desiderato ritrovare sua sorella e se non l’aveva fatto prima era stato solo perché non avrebbe saputo da che parte cominciare. E un detective era una spesa che non sarebbe di certo passata inosservata a sua madre e finché avesse vissuto sotto il suo stesso tetto avrebbe dovuto fare attenzione a come agiva. Ma ora c’era Henry con lei, che la sosteneva e l’aiutava come e più di un poliziotto, senza chiederle nulla in cambio. E presto, forse, ci sarebbe stato anche il detective Rogers. Doveva ringraziare Henry anche per quello, realizzò. Avrebbe dovuto fargli un regalo enorme, a prescindere da come si fosse conclusa quella storia.
Il suo cellulare suonò di nuovo. A dire il vero ho sentito Rogers e mi ha detto che non possiamo andare fino alle 14 quando torna dalla pausa pranzo. Ma possiamo vederci comunque quando esci e andiamo a mangiare qualcosa insieme. Che ne dici?
Ivy si morse il labbro, trattenendo una risposta infantile, tentando di tenere a mente che non tutti erano come lei e che non poteva pretendere che gli altri rinunciassero al cibo solo perché lei aveva fretta. D’accordo, ma non credo che mangerò molto: ammetto di essere un po’ nervosa. Si guardò intorno, rendendosi conto che era ancora immobile lì al terzo sotterraneo senza alcun motivo sensato. Lasciò perdere il telefono e tornò all’ascensore, selezionando il piano dell’ufficio. Riprese il suo posto, mentre la ragazzina che l’aveva sostituita l’aggiornava su ciò che era accaduto in sua assenza: per fortuna sua madre non l’aveva cercata, ma avevano ricevuto due telefonate per chiedere di spostare due diversi appuntamenti. Le comunicò di aver provato a occuparsene, riferendo le domande che aveva posto e le risposte che aveva provato a dare.
«Molto bene. Si vede che cominci a capire come funziona qui. Potrei aver bisogno di essere sostituita spesso in questi giorni, conterò su di te. O il tuo tirocinio era per un’altra mansione?»
«Ecco… ero venuta qui per imparare come funziona la contabilità di una grande impresa, ero con Mr Smith. Ma… a dire il vero, non credo di essere molto portata per questo genere di cose, forse me la cavo meglio con accoglienza e appuntamenti.»
Ivy annuì «Allora resta tu alla reception, io ne approfitterò per occuparmi di altre questioni. Lì ci sono i numeri dei nostri agenti immobiliari e qui» continuò indicando una cartella sul desktop «l’elenco aggiornato dei loro appuntamenti. Sposta i due appuntamenti che ti sono stati chiesti, verifica a chi erano stati assegnati quei clienti e verifica con l’agente la sua disponibilità, poi chiama i due clienti. Se non si riesce a conciliare, qui» disse mostrando una terza icona «ci sono i miei impegni. Puoi dirottarli da me, se il rischio è quello di perdere clienti, ma solo in quel caso, sono stata chiara?»
«Sì, miss Belfrey» annuì sicura la giovane.
«Molto bene. Vado a vedere a che punto sono i tuoi colleghi, poi andrò a pranzo fuori. Sarò di ritorno per le 15. Se mia madre dovesse cercarmi, dille pure di chiamarmi al cellulare. Buon lavoro». Con quest’ultima uscita, Ivy si allontanò, diretta all’archivio. La situazione sembrava sotto controllo: uno dei ragazzi era lì, mentre l’altro no. Ma mancava anche un carrello, probabilmente stava scaricando i faldoni nelle stanze che aveva loro indicato. Soddisfatta, si diresse al piano interrato per controllare e le sue supposizioni si rivelarono corrette. Non aveva nient’altro da fare. Avrebbe svuotato un po’ la posta da remoto in attesa che arrivasse l’ora dell’incontro con Henry.
 
«Ricordami di nuovo perché lo sto facendo»
«Perché se c’è anche solo una minima possibilità che tua sorella abbia ragione, è giusto considerarla. Perché stiamo parlando di una ragazzina di quattordici anni che potrebbe essere tenuta lontana da voi contro la sua volontà e voi avete smesso di preoccuparvene credendo che sia morta»
Jacinda si morse il labbro inferiore, a disagio: messa così suonava davvero terribile e tutti loro apparivano come dei mostri senza cuore. Come forse erano stati scegliendo di bollare le teorie di Ivy come le farneticazioni di una ragazzina disperata. Sospirò, varcando la soglia della stazione di polizia: avanti, fallo: via il dente, via il dolore.
La situazione sembrava tranquilla, agenti entravano e uscivano da vari uffici senza troppa fretta: probabilmente quel giorno non c’erano emergenze. Sabine si diresse sicura alla reception, dov’era seduto l’agente Ryce, intento a smanettare al computer.
La donna si schiarì la voce. «Buongiorno agente. Siamo Sabine Howard e Jacinda Vidrio. Vorremmo vedere il detective Rogers, credo ci sita aspettando, sa per caso dove….»
«Ah, davvero? Ma guarda un po’. E chi credete che sia, io, il vostro maggiordomo?» Prego? Le due donne gli rivolsero un’occhiata sconvolta: certo che, se erano tutti così, non stupiva che le ricerche della piccola Anastasia si fossero arenate. Jacinda strinse i pugni, innervosita dall’idea: era per questo che avevano smesso di cercare la sua sorellastra? Se lei si fosse permessa di non servire un cliente o di trovare scuse, Luis l’avrebbe, giustamente, licenziata in tronco. E invece quella gente poteva tranquillamente fregarsene di ciò che accadeva intorno a loro, della sofferenza di intere famiglie e contare su uno stipendio fisso sicuro. Era profondamente ingiusto.
«Un maggiordomo farebbe meno storie e sarebbe più efficiente di lei. E avrebbe anche un aspetto migliore.» Jacinda non era proprio riuscita a tenere a bada la lingua: cavolo! Ma chi si credeva di essere quel tipo? Se avesse osato rispondere così a Victoria si sarebbe ritrovato a pulire i bagni pubblici con la lingua. E, per una volta nella sua vita, lei non avrebbe avuto nulla da ridire.
«Ma come si permette?! Potrei farla arrestare per oltraggio a pubblico ufficiale!»
Jacinda strinse i pugni: era a un soffio dallo sputare in faccia a quell’essere spregevole. Per fortuna, prima che potesse fare qualsiasi cosa, arrivò qualcuno a trarla d’impaccio.
«Che succede qui, collega? Le signore hanno bisogno? Oh… ciao Sabine! Jacinda, sono contento che tu abbia accettato di venire!» esclamò Michael Rogers, sopraggiungendo proprio in quel momento. «Venite con me, andiamo a parlare da un’altra parte».
Le due donne seguirono il detective senza protestare. Michael le condusse in una stanza vuota poco distante e chiuse la porta.
«Vi chiedo scusa per il mio collega, ha battuto la testa da bambino, non è molto intelligente»
«Spero che non siano tutti così» borbottò Jacinda. Cominciava a non essere più molto sicura che andare lì fosse stata una buona idea.
«Beh, non posso parlare per gli altri… ma spero di non sembrare come lui. Vi assicuro che cerco di fare il mio dovere. E devo ammettere di esserci rimasto davvero male quando Sabine mi ha raccontato le teorie sulla tua sorellastra: com’è possibile che nessuno abbia minimamente considerato la possibilità che possa essere ancora viva? Che magari tua sorella avesse ragione e la giacca che è stata ritrovata non fosse di Anastasia?» Scosse la testa, incredulo: ci aveva rimuginato per ore e non era riuscito proprio a farsene una ragione. «Per favore, aiutami a capire, perché, davvero, non riesco ad arrivarci»
Jacinda rimase in silenzio per un po’, riflettendo: quella non era una domanda semplice, non era nemmeno sicura di avere la risposta, le sue erano solo supposizioni. «Suppongo perché… la mia matrigna era sua madre. Voglio dire… già all’epoca il nome di Victoria Belfrey era conosciuto e rispettato. E Ivy è stata aggredita e ha avuto una commozione cerebrale, dicevano che erano il trauma e il senso di colpa a farla parlare quindi non l’hanno considerata attendibile.»
Michael annuì: aveva senso. «Mentre tua madre era più lucida, in un certo senso. Capisco perché non hanno ascoltato Ivy, probabilmente in quelle condizioni non l’avrei fatto nemmeno io.  Ma se avesse continuato ad insistere, come Sabine mi ha detto che sta facendo, l’avrei interrogata e magari, solo per farla stare più tranquilla, avrei fatto qualche ricerca. Anche perché, da quanto ho capito, non c’è nessuno che possa avvallare questa teoria, no?»
Jacinda fu sul punto di rispondere negativamente, poi si bloccò. «Beh… c’era qualcuno che le credeva, in effetti. La governante di Anastasia: l’ho sentita sostenere con Victoria che doveva ascoltare Ivy perché a suo dire mia sorella aveva ragione. Ma la mia matrigna le ha risposto di tacere, che lei era solo una domestica e non doveva intromettersi in certe questioni.»
Michael rimase interdetto: «Aspetta… mi stai dicendo che… un’altra persona appoggiava tua sorella e che è stata…costretta a tacere?» Jacinda annuì. «Ma questo cambia tutto!» esclamò. «Voglio dire… se c’è un’altra persona che sostiene questa teoria... ma se ne era convinta, perché non ha parlato con la polizia?»
Jacinda scoppiò a ridere «Davvero me lo sta chiedendo, detective? La mia matrigna deve averla minacciata di una denuncia o di qualcos’altro. Aveva confermato pubblicamente che la giacca ritrovata era di Anastasia, smentire l’affermazione l’avrebbe fatta apparire maggiormente come una madre disattenta, che non riconosceva neanche i vestiti della sua stessa figlia. E aveva già fatto una pubblica figuraccia a causa del rapimento, non poteva permettersene una seconda. Chissà, magari le ha dato una somma sostanziosa per farla stare zitta. Ma» continuò
cambiando leggermente tono «quest’ultima è solo una mia supposizione»
Il detective Rogers era allibito. «Fammi capire… hai appena sostenuto che tua madre tenesse più alla sua immagine pubblica che all’incolumità di una bambina? Sua figlia? Ho capito bene?»
«Volendo essere precisi, è la mia matrigna… ma sì, detective, è esattamente quello che ho appena detto» affermò la donna sicura. «La vera madre di Anastasia era Ivy: non biologicamente, certo, ma… le voleva molto bene e Ana le era attaccatissima, era la sua ombra. Per andare a scuola Ivy doveva uscire di nascosto, altrimenti ogni volta erano strilli e pianti inconsolabili. Lo so che sembra impossibile» continuò, guardando il suo interlocutore negli occhi «ma le assicuro che è la verità»
«Posso crederci. Mi è capitato di vedere certe scene tra madri e figli, ma anche tra zii e nipoti, o nonni e nipoti, quindi ho ben presente di cosa stai parlando. Se hai tempo, vorrei farti qualche altra domanda, poi prometto che vi lascio andare. anzi, vi offro il pranzo qui vicino: ci stavo per andare, ormai è quasi ora. Venite con me?»
Le due ragazze non ebbero bisogno di parlare per decidere: uno sguardo e la decisione era presa: «D’accordo, detective, faccia strada» acconsentì Jacinda. Ormai era in ballo e sarebbe andata fino in fondo a quella storia. E finalmente avrebbe avuto la coscienza a posto e la consapevolezza di aver davvero fatto tutto quanto era in suo potere perché la sua sorellastra potesse tornare nel luogo cui apparteneva di diritto.
 
Finalmente era arrivata l’ora di disegno! Lucy esultò tra sé: l’aveva aspettata per tutto il giorno, le mani le prudevano dalla voglia di disegnare e mettere su carta quello che aveva visto la sera precedente. Aveva voglia di fare un ritratto di zia Anastasia.Aveva visto una foto delle sue zie da piccole, sua madre le aveva parlato di zia Anastasia e aveva cominciato a farsi un’idea di come avrebbe potuto essere e a desiderare di averla conosciuta. Ovviamente, quello non era possibile e forse non lo sarebbe stato mai, visto l’atteggiamento della nonna. La sera prima aveva visto zia Ivy chiudersi nella sua camera e cercare tra vari album: forse raccontare di sua sorella le aveva fatto venire nostalgia. Lucy aveva provato a riflettere: come sarebbe stata se, senza un motivo, le fosse stato impedito di vedere sua madre? Avrebbe pianto e strepitato e fatto i capricci come una mocciosa di tre anni, ne era sicura. Come doveva sentirsi sua zia tenuta chissà dove, con chissà chi, senza poter vedere una sorella a cui, sembrava evidente, voleva molto bene? E la cosa incredibile era che zia Ivy sembrava ricambiarla e volergliene altrettanto! Lei aveva sempre creduto che zia Ivy non volesse bene a nessuno, che le importasse soltanto far contenta la nonna e non sentirla lamentarsi. Invece aveva scoperto che aveva voluto bene (e probabilmente ne voleva ancora) ad una bambina più piccola di lei, che se ne era occupata come se fosse stata sua figlia, anziché sua sorella e che aveva sofferto come e più degli altri quando le era stata portata via. Però, c’era una cosa che continuava a non capire: se davvero zia Ivy aveva voluto così bene a sua sorella, se aveva passato volentieri tutto il suo tempo libero con lei… perché con lei stessa (sua nipote, in fondo, non esattamente un’estranea) era sempre così sgradevole? Ok, forse Henry non aveva tutti i torti quando diceva che lei non era esattamente disponibile ad un confronto civile, però… Sbuffò: era una domanda troppo difficile, ci avrebbe pensato un altro giorno. Per il momento sarebbe stato meglio concentrarsi sul disegno e cercare di farlo venire meglio possibile. Dunque… le sarebbe servito il marrone, sicuramente, per i capelli e gli occhi. E il rosa chiaro per il viso. E poi…vabbé, al vestito ci avrebbe pensato dopo. Si concentrò: afferrò la matita e cominciò a tracciare alcune linee: prima il viso, gli occhi, il naso, la bocca, il collo, le spalle, le braccia… no che schifo, cos’era quella roba? Cancellò irritata, ricominciando. Si sentì toccare un braccio e vide un bigliettino rotolare sul banco. Lo aprì: Cosa disegni? Io mamma e papà. Guardò Winifred, poi tornò ad abbassare gli occhi sul suo disegno. Sarebbe davvero venuto bene? Ci sperava. Scrisse sul bigliettino una risposta veloce: È mia zia, l’altra sorella di mia madre, si chiama Anastasia.Poi passò il bigliettino all’amica e tornò a concentrarsi sul suo lavoro: voleva che venisse perfetto. Magari poi l’avrebbe fatto vedere a zia Ivy o alla mamma: loro avrebbero potuto dirle se le somigliava. Poco dopo, il bigliettino tornò a rotolare sul suo banco. Posò la matita e lo aprì di nuovo: l’altra sorella? Ma tua madre non ne ha una sola? Lucy strinse le labbra, riflettendo, cominciando a scrivere la spiegazione… per poi cancellare tutto e buttare il bigliettino. Ne prese un altro: È troppo lungo da spiegare, ti dico dopo. L’aveva appena tirato alla compagna quando un’ombra le oscurò la visuale. Sollevò lentamente il viso: oh-oh… la maestra le stava rivolgendo uno sguardo torvo, mani sui fianchi.
«Belfrey, quale parte del “questa è l’ora d’arte” non hai inteso? Mi aspetto che facciate un disegno, non che scriviate bigliettini. Fammi vedere a che punto sei!» ordinò, prendendole il foglio da sotto le braccia. Lo esaminò, girandolo prima in orizzontale, poi in verticale, osservando il viso e i primi accenni del corpo della bambina rappresentata. Il compito che aveva dato era semplice: rappresentare uno o più membri della propria famiglia, cercando di renderli il più realistici possibile. E quella bambina era un errore: non le risultava che nella famiglia Belfrey ci fosse una bambina, a parte la stessa Lucy ovviamente.
Si produsse in un’espressione accigliata: «Esattamente, chi dovrebbe essere? Mi sembra di ricordare che tua zia non abbia figli e che tu sia figlia unica, sbaglio?»
«Ecco, miss Brown… è vero, ma…» Lucy esitò: doveva spiegarlo? Probabilmente era meglio farlo «…quella è un’altra zia. Si chiama Anastasia e non la vediamo da nove anni. Però… In fondo, anche se non sappiamo dov’è, anche lei fa parte della famiglia… così ho pensato di disegnare lei… non va bene?»
La donna tornò a osservare il foglio, perplessa, poi lo riconsegnò alla ragazzina: «Sei…. Sei proprio sicura di non voler disegnare qualcun altro? Non so, la mamma… o la nonna, ad esempio… o magari il tuo papà» provò a proporle.
«Io non ho un papà, miss Brown. Non l’ho mai visto, neanche in foto. Ma… perché, disegnare zia Ana non va bene?»
Eleanor Brown annui, riluttante, riconsegnando il foglio alla bambina. «Sì… sì certo, suppongo che vada bene…. Vai avanti, finiscilo e non distrarti ancora, mi sono spiegata?» Voleva vederci chiaro in quella storia, era tutto troppo strano. Ma per il momento avrebbe lasciato che la lezione terminasse poi avrebbe valutato come agire.
Lucy riafferrò il foglio, annuendo e riprendendo a disegnare, concentrata: quando fosse tornata a casa, avrebbe chiesto a zia Ivy di poter vedere un’altra foto, per essere certa che il suo disegno fosse minimamente somigliante.
Pochi minuti dopo, giunse finalmente l’ora della pausa pranzo: Lucy ripose delicatamente il foglio dentro l’album. Winifred la stava aspettando per mangiare insieme a mensa.
«Allora? Mi racconti? Chi è la nuova zia?»
«Va bene, ora ti racconto… però non dirlo a nessun altro, va bene? È un segreto»
Winifred assunse un’espressione serissima: «Lo giuro, croce sul cuore»
Lucy approvò, quindi prese per mano l’amica, incamminandosi verso la mensa. «In pratica…»
 
«Patti chiari, amicizia lunga, Mills: tu mangia, io ti faccio compagnia. Ho lo stomaco chiuso, oggi, non riuscirei a mandare giù neanche una briciola di pane. E non sto esagerando». Ivy aveva esordito in quel modo, non appena aveva raggiunto Henry al portone delle Belfrey Industries, strappando una smorfia scontenta all’amico.
«Non dire sciocchezze. Devi mangiare, devi essere lucida e in forze per parlare con il detective Rogers. Se vogliamo che ci dia una mano dobbiamo essere chiari e non dargli alcun motivo per dubitare delle nostre supposizioni. E vederti incerta potrebbe essere uno di questi. Se avrai fame, qualsiasi cosa rischierà di distrarti. Quindi mangerai. Ti concedo porzioni piccole, ma devi mangiare o non usciamo dal locale, a costo di far tardi all’appuntamento»
Ivy sbuffò: certo che, quando ci si metteva, Henry sapeva essere proprio testardo! E ormai aveva imparato che insistere non sarebbe servito a niente, se non a farlo insistere a sua volta. Borbottò un assenso poco convinto, mentre si lasciava scortare fino alla macchina di lui: quel giorno stava cedendo proprio su tutto, aveva anche accettato un passaggio. Ma quell’ultimo punto l’aveva accolto più che volentieri: aveva troppe cose per la testa e non sarebbe stata sufficientemente concentrata per strada, col rischio di mettere anche in pericolo altri. Sperò ardentemente che la visita in commissariato le svuotasse un po’ il cervello: una volta uscita di lì avrebbe dovuto recarsi a prendere Lucy a scuola ed era necessario che la sua soglia di attenzione fosse al massimo, non poteva rischiare di sbagliare strada o peggio, fare un incidente. Si immisero nel traffico e si rivolse immediatamente ad Henry: aveva bisogno di distrarsi un po’, aveva troppe cose in testa. «Non ti viene la nausea a guidare continuamente? Ho sempre creduto che chi fa l’autista per lavoro approfittasse di ogni occasione buona per farne a meno. Non che mi dispiaccia, sia chiaro» si affrettò ad aggiungere, temendo di essere fraintesa «oggi ho troppe cose per la testa, se guidassi io probabilmente finiremmo fuori strada o andremmo a sbattere con qualcuno. Era così… solo curiosità» Giusto per parlare di un argomento neutro e placare, almeno per il momento, tutti i pensieri che le turbinavano nella mente. Sapeva che avrebbe dovuto metterlo al corrente, prima o poi, ma intendeva farlo a pranzo, quando la sua attenzione sarebbe stata tutta per lei e non avrebbe dovuto dividerla con la strada. Le aveva già dimostrato di essere dotato di una notevole capacità di analisi, sicuramente sarebbe stato in grado di aiutarla a sciogliere anche quel nuovo nodo.
«A volte capita, in effetti. Anche per questo ho creato H Town. Certe volte lo uso come un blog: mi sfogo e scrivere lì mi libera da tutto lo stress. E se non basta, apro un documento e scrivo tutto in un foglio di computer a caso o su un blocco. Poi il giorno dopo sono nuovamente carico.  E comunque, a volte, mi distraggo anche mentre sto guidando… solo per alcuni secondi, ovviamente.» si affrettò a specificare, notando l’occhiata storta che lei gli aveva rivolto «E allora penso e mi chiedo quale storia possano avere i miei clienti, perché debbano andare proprio in certi posti e certe volte invento delle vere e proprie storie, basandomi solo su alcuni dettagli della loro vita. Eccoci, siamo arrivati.» concluse parcheggiando. «Da qui ci sono cinque minuti a piedi alla centrale di polizia e qui vicino c’è un posto in cui si può mangiare qualcosa. Ma la tua dieta se ne andrà di nuovo a farsi benedire, perché sono soprattutto panini, patatine… snack, insomma.»
Ivy gli rifilò un’occhiata torva, mentre entravano nel locale e cercavano due posti liberi. «Ma tu mangi sempre così? Avrai colesterolo e trigliceridi alle stelle. Anzi, mi stupisco che tu sia ancora così magro.»
Henry le puntò il dito contro, mentre si sedevano «Attenta a quel che dici, potrei mandarti a casa a piedi. E comunque… sono fortunato: ho un metabolismo veloce, non ingrasso. E, prima le educatrici dell’istituto poi Lauren, si sono assicurate che facessi una dieta decente, per cui, tutto sommato, mi è andata bene»
«A casa a piedi? Ma ho perfino i tacchi! Allora non sei un vero cavaliere!» Esclamò, puntandogli il dito contro e scoppiando a ridere. Nel frattempo, un cameriere era venuto a prendere le loro ordinazioni: Henry optò per un piatto di pasta, mentre Ivy scelse una porzione di verdure cotte, la cosa più leggera che aveva trovato sul menù. Il pasto si svolse in silenzio: entrambi erano concentrati su ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco, sull’incontro con il detective Rogers e sulle parole più giuste da usare per renderlo partecipe della situazione. A proposito… Ivy posò la forchetta, attirando l’attenzione di Henry, che la guardò.
«Ricordi la promessa che ti ho fatto? Che avrei tenuto d’occhio mia madre e ti avrei parlato di qualsiasi cosa strana avessi notato? Beh, oggi è capitata una cosa…» si interruppe, non sapendo esattamente da dove cominciare e abbassando lo sguardo, quasi cercando ispirazione nel suo piatto. Sollevò di scatto la teta: «Ok, non so da che parte cominciare, perciò te lo dico e basta. Il punto è che oggi sono scesa nei sotterranei delle Belfrey Industries: volevo farci portare un po’ di vecchi documenti e cose del genere. Ci sono tre piani interrati. Nel primo non ci sarebbe entrato neanche un coriandolo, quindi sono passata di sotto. Ho trovato il posto che mi serviva, poi ho deciso di andare a vedere anche il terzo piano. Anche lì c’erano tutte stanze libere. Ma soprattutto erano tutte aperte. Proprio come quelle al piano superiore. Poi ho visto un’altra porta, stavolta chiusa. Mi è parso strano, così ho provato a usare il passepartout che ho in dotazione, ma non ha funzionato. E questo è ancora più strano, che senso ha avere una stanza che non può essere aperta?»
Henry non era certo di aver capito bene. «Aspetta, aspetta… mi stai dicendo che tua madre potrebbe tenere lì dentro qualcosa che rischierebbe di metterla nei guai?»
«Beh… è l’unica spiegazione plausibile che ho trovato. Te ne vengono in mente altre? Per quale motivo quella stanza dovrebbe essere diversa dalle altre, se non per il contenuto? Se fosse vuota come le altre, non ci sarebbe motivo di tenerla chiusa»
«No, in effetti no… ma per essere sicuri dovremmo entrarci oppure… non hai detto che avete delle telecamere di sicurezza? Potremmo vedere se arrivano fin lì e cercare di accedere alle registrazioni. Se lo fai tu non è neanche reato; in fondo sei la figlia della proprietaria ed è giusto che voglia assicurarti che sia tutto sotto controllo.»
Ivy sussultò: come aveva fatto a non pensarci? «Hai ragione, che stupida! Non mi è proprio venuto in mente, oggi ho davvero troppi pensieri. Spero che andare alla polizia tra poco serva a qualcosa…»
Henry poggiò una mano sulla sua stupendosi di quanto fosse piccola. Ma non si soffermò su quel pensiero, c’era una questione più importante da chiarire. «Servirà. D’accordo? Devi avere fiducia, non sarà un viaggio a vuoto. Se anche Rogers potesse dirci soltanto ciò che è stato fatto finora, sarebbe un punto di partenza. Ma credo che potrà fare di più: lui si intende di casi come quello di tua sorella, di sicuro avrà qualche idea cui noi non abbiamo pensato. Ma devi esserne convinta o ti porterai sfortuna da sola»
«Hai ragione. Per fortuna ci sei tu, Henry, sei molto più lucido di me. Se dovessi occuparmene da sola non so proprio come farei. Grazie, davvero… per tutto.»
Henry rispose scuotendo la testa «Non devi ringraziarmi. Sai, in realtà… lo faccio anche per me. Per Abby non ho potuto fare niente e non sono mai riuscito a perdonarmelo del tutto.  Se posso fare qualcosa per un’altra bambina, se il mio supporto aiuterà a riportarla a casa… allora farò tutto quanto è in mio potere. Non ti mollerò finché non saremo venuti a capo di questa storia. D’accordo?»
Ivy gli sorrise, grata. «D’accordo, grazie Henry.» Un’occhiata veloce all’orologio le rivelò che mancavano appena dieci minuti all’appuntamento col detective Rogers.
Rapidamente, afferrò la borsa, estraendone una banconota da cinquanta dollari, stoppando le proteste di Henry con un cenno «Stavolta no: l’ultima volta hai pagato tu, hai perfino comprato il succo di frutta a Lucy e ultimamente quando siamo andati insieme da qualche parte abbiamo preso la tua macchina. Quindi, non fare storie Mills, o potrei offendermi. E poi, non mi va di arrivare in ritardo. Andiamo?» concluse, avviandosi verso l’uscita.
Henry sbuffò e la seguì borbottando.
 
Michael era appena tornato dalla pausa pranzo: per la prima volta non l’aveva passata da solo o con qualche collega logorroico ma in compagnia di ben due donne. Gli aveva fatto molto piacere rivedere Sabine e che fosse riuscita a convincere Jacinda ad andare a parlargli: sentiva che era suo dovere occuparsi di quel caso, andare a fondo di quella questione. Se ancora qualcuno era convinto che quella bambina fosse viva da qualche parte, lui avrebbe mosso mari e monti per trovarne le prove, proprio come aveva fatto per il caso di Eloise Gardner. E se quella speranza si fosse rivelata niente più che un buco nell’acqua l’avrebbe abbandonata, ma con la consapevolezza di aver fatto tutto quanto era in suo potere e di non aver lasciato nulla di intentato. Guardò l’orologio attaccato alla parete: le 13:58 a breve sarebbe arrivato Henry con Ivy Belfrey. Si raddrizzò sulla sedia, alla ricerca di una posizione comoda e prendendo in mano un fascicolo a caso, giusto per tenere la mente occupata. Appena cinque minuti dopo, sentì dei passi nella sua direzione: alzò gli occhi e vide Henry e Ivy Belfrey tallonati dal suo collega.
«Ehi, voi due, dove credete di andare?»
Michael si alzò: «Stavano venendo da me, agente Ryce, li aspettavo. Non preoccuparti, è tutto sotto controllo». L’altro uomo sbuffò, poi girò i tacchi, tornando da dov’era venuto. Michael fece segno ai due di accomodarsi. «Perdonate il mio collega, è un idiota. Sono contento che siate qui, stavo appunto valutando di mettermi in contatto con lei, miss Belfrey. Volevo discutere con lei della questione relativa a sua sorella Anastasia».
Ivy trasalì, guardando Henry, poi tornando a rivolgersi al detective. «Ha scoperto qualcosa di nuovo? Noi siamo qui proprio per parlare di questo…»
«No, miss, non ho scoperto nulla. A suo tempo venne presa per buona l’idea che la bambina fosse morta e il caso venne chiuso. Solo ieri ho saputo che lei non crede a questa teoria e che è convinta che sua sorella sia ancora viva, da qualche parte. Ho chiesto a sua sorella Jacinda di rispondere a qualche domanda e lei mi ha confermato che… come ha detto?» Michael andò a riguardare gli appunti che aveva di fronte a sé «Cito parole testuali “la vera madre di Anastasia era Ivy”. Di conseguenza, per quanto mi riguarda, sono disposto a prendere per buona qualsiasi cosa mi dirà. Inoltre ho saputo che lei non è l’unica a sostenere questa teoria, dico bene?»
Ivy era allibita: non avrebbe mai immaginato che Jacinda la sostenesse e fosse disposta ad appoggiarla. Da dove veniva quest’improvvisa solidarietà? Perché non si era schierata prima, quando tutti credevano fosse solo una ragazzina pazza e confusa? Sentì il detective schiarirsi la voce e sussultò nuovamente, rendendosi conto di essersi imbambolata…. Cosa le aveva chiesto? «Sì… sì, è vero, non ero l’unica a pensare che mia sorella fosse ancora viva da qualche parte: anche la sua governante era d’accordo con me, lo fu per giorni. Ma poi, da un giorno all’altro se ne andò, probabilmente fu licenziata perché mia madre non la voleva tra i piedi e non riuscii più a mettermi in
contatto con lei.»
«Capisco» mormorò il poliziotto riflettendo. «Per caso ti ricordi il nome di questa donna e quanti anni dovrebbe avere? Così magari posso cercarla e provare a parlarci»
«Si chiama Addison Moore. Quando si prendeva cura di mia sorella aveva… cinquant’anni, credo, quindi dovrebbe aver superato i sessanta, ormai. Era davvero una brava donna, trattava Ana come fosse la sua nipotina e voleva bene anche a me e Jacinda. Ana la adorava, era l’unica persona con cui accettasse di stare quando io dovevo andare a scuola. Poi a volte non c’era o faceva tardi ed erano urla, strepiti e pianti inconsolabili»
Michael annuì: questo coincideva col racconto di Jacinda. «Partendo dal presupposto che la pista della giacca sia fasulla… c’è qualcosa che puoi dirmi? Ho tutti i dati di tua sorella: nome, cognome, età, data di nascita, aspetto fisico, almeno approssimativo. Aveva qualche segno distintivo? Non so, una cicatrice, una voglia o qualsiasi altra cosa. E sarebbe fantastico se potessi raccontarmi quello che ti ricordi del giorno che è stata portata via.» Istintivamente, afferrò un registratore, inserendoci dentro una cassetta: preferiva avere una testimonianza da poter riascoltare in modo da potersi concentrare sulle espressioni della sua interlocutrice. Fece partire il nastro, cercando di fare meno rumore possibile.
Ivy si prese un momento: quel poliziotto le aveva fatto molte domande. Lei era in grado di rispondere, ne era sicura, ma avrebbe dovuto scegliere accuratamente le parole e l’ordine in cui dare le informazioni.«Sinceramente, non ci ho mai pensato. Forse però…. Sì, eco: aveva tre nei lungo la colonna vertebrale, al centro della schiena. Il dottore disse che erano innocui, ma ci ridevamo tanto perché erano disposti a triangolo, quasi a formare una A, l’iniziale del suo nome. Le dicevo sempre che quello era stato un motivo in più per il quale avevamo scelto di chiamarla Anastasia. Ogni volta che finiva di fare il bagno, si piazzava davanti allo specchio e provava a toccarli, ma aveva sempre le braccia troppo corte per arrivarci… mi scusi, detective, sto divagando» mormorò, chiudendo gli occhi e stringendo l’attaccatura del naso tra pollice e indice: faceva ancora maledettamente male raccontare certe cose. Ad un perfetto estraneo, per di più. Ma doveva andare avanti, lei era l’unica in possesso di un numero di informazioni sufficiente ad agevolare le indagini. «Il giorno in cui me la portarono via era una caldissima giornata di luglio, esattamente il 13. Eravamo andate al parco: lei era stata malata per le due settimane precedenti, aveva avuto la varicella e nessuna delle due era più uscita di casa. Non vedevamo l’ora di prendere un po’ d’aria. Così siamo andate al parco giochi che era lì vicino: lei passava da un gioco all’altro e io le gridavo di non correre o si sarebbe ammalata di nuovo. C’erano pochissime altre persone, ognuno si faceva gli affari suoi. Ad un certo punto è voluta salire su un gioco impossibile: ero terrorizzata che si spaccasse la testa ma lei rideva fortissimo… ed è l’ultima cosa che ricordo. Mi sono risvegliata con un grande dolore alla testa, ma ormai era passata una settimana e Ana non c’era più».
Un pesante silenzio cadde nella stanza, mentre ognuno dei presenti tentava di prendere atto delle informazioni appena ricevute. Michael spense il registratore, riavvolgendo la cassetta: l’avrebbe riascoltata quanto prima. «Ho registrato quest’ultima parte, se per te non è un problema, così non sarai costretta a ripeterla. È la più importante e quella da cui dobbiamo ripartire per le ricerche. Per il momento, non possiamo fare di più, ma siamo comunque molto più avanti dei miei colleghi. Sono fiducioso: se tua sorella è ancora viva, la troveremo».
Ivy trattenne un singhiozzò: di nuovo quell’ipotesi, era… Prima che potesse dire qualsiasi cosa, la voce di Henry si impose sulla sua, mentre il suo proprietario poggiava una pen drive sulla scrivania del detective. «In realtà, possiamo aggiungere una cosa. Come sai, io sono un cavolo di nerd e so usare certi programmi. Ieri sera mi sono fatto dare una foto di Ivy a cinque anni e una a quattordici. Poi ho confrontato la foto di lei bambina con quella di Anastasia alla stessa età, usando un programma che si chiama Twins or Not: sono sorelle, figlie degli stessi genitori e il computer ha rilevato che tra loro c’era il 75% di somiglianza. Poi ho usato un altro programma, che di sicuro conoscete anche voi: quello elaborato dai ricercatori dell’università di Washington che permette, partendo dalla foto di un bambino di almeno tre anni, di vedere l’evoluzione del suo aspetto fisico in varie fasce d’età. Ho fatto una prova con foto di persone che conosco, comprese le mie ed è affidabilissimo. Ieri l’ho usato su una foto di Anastasia ed è venuto fuori l’aspetto che dovrebbe avere attualmente. Scarica il file e usatelo, è dentro la pen drive che ti ho messo qui sopra».
Michael afferrò la chiave, infilandola nel computer e aprendo la cartella. Trovò subito il file e lo spostò nel suo computer. «Conosco il programma di cui parli, ma solo per sentito dire. Io non saprei usarlo e, dato che preferirei non coinvolgere i miei colleghi in questa storia, è un bene che ti sia occupato tu di questa parte. Direi che ci siamo detti tutto, vi farò sapere se scopro qualcosa e voi, ovviamente farete altrettanto con me»
Henry e Ivy si alzarono: non c’era altro da dire. Stavano per andarsene, quando Henry si bloccò: «Ah… noi, ovviamente, la cercheremo alla vecchia maniera. Pensavo di usare la foto che ti ho passato e di mettere un annuncio sul web: sai, i social network, i motori di ricerca… in modo che lo veda più gente possibile. Prima o poi qualcuno dirà di averla vista»
«Henry… sinceramente ve lo sconsiglio: queste cose attirano sempre un sacco di mitomani.  Vi arriverebbero tante segnalazioni fasulle solo perché la gente spera in una ricompensa. Affidiamoci ai classici metodi di ricerca, d’accordo? La troveremo, ragazzi, ve lo prometto.»
«Come ti pare» borbottò Henry poco convinto. Ivy, dal canto suo, non disse una parola, persa nei suoi pensieri. Henry dovette toccarle un braccio per attirare la sua attenzione. «Andiamo? Per il momento non possiamo fare più niente»
«Sì, d’accordo… tra poco devo essere di nuovo a lavoro e poi devo andare a prendere Lucy a scuola…» mormorò, seguendo meccanicamente Henry fuori dalla stazione di polizia. Un primo passo era stato compiuto nella giusta direzione, ma entrambi ancora, non potevano rendersene conto.
 
«…Naturalmente, in occasione del Ballo del Ceppo tutti noi potremmo – ehm- lasciarci un po’ andare disse in tono di disapprovazione. Amo la Mc in questo punto! Come vorrei partecipare anch’io ad un ballo del genere!» Kelly sospirò: chi voleva prendere in giro? Lei non poteva andare neanche a scuola, neanche in una stupida edicola da sola, figurarsi se i suoi genitori le avrebbero concesso di partecipare ad un ballo! Quando arrivava a quel punto del libro le veniva sempre il nervoso. E la scena del ballo ormai la saltava direttamente, per non farsi venire il magone. Tanto poteva permetterselo, lo conosceva praticamente a memoria e poi aveva visto il film. Si sentì toccare una spalla e si voltò, incontrando il volto sorridente di sua madre.
«Kelly, tesoro, vieni a tavola? È pronto». La ragazzina annuì, alzandosi dal letto su cui era distesa e seguendo la madre al piano inferiore. Adorava la sua casa: era grandissima, con un giardino fantastico e disposta su due piani. La sua camera era al piano superiore ed era veramente enorme: aveva una scrivania con annessi computer e stampante scanner/fotocopiatrice, collegamento a internet, un letto a una piazza e mezza tutto per lei, un comodino in cui teneva di tutto, una libreria stracolma di libri, alcuni letti decine di volte, fino a saperli a memoria. E soprattutto, una fantastica cabina armadio con vestiti di ogni genere e di ogni tonalità possibile di rosa. Ovviamente non era così monocromatica, ammetteva anche altri colori, purché fossero chiari: quindi bianco, giallo, celeste, verde chiaro… erano tutti bene accetti. Ma erano assolutamente banditi il marrone e il viola scuro (mentre amava il lilla), per non parlare poi del verde militare! Quello lo detestava con tutte le sue forze! Una volta sua madre le aveva acquistato una maglia di quella tonalità sostenendo che fosse bellissima e “assolutamente perfetta per lei” e si era rifiutata categoricamente di indossarla. Due anni dopo era ancora a prendere polvere nell’armadio, col cartellino del prezzo ancora perfettamente intatto. Avrebbe potuto rivenderla, volendo, almeno sarebbe stata utile per qualcosa e magari sarebbe andata a un’altra ragazza che l’avrebbe apprezzata di più. Si sedette a tavola, dopo aver dato un bacio a suo padre.
«Ciao tesoro. Quando hai finito di pranzare, ho una cosa per te».
Gli occhi di Kelly si illuminarono: non era più una bambina, ma un regalo inaspettato faceva sempre piacere.
«Davvero, papà? Cos’è?» scalpitò.
Suo padre le sorrise. «Abbi pazienza, principessa, lo vedrai presto. Finiamo di pranzare, prima.» Kelly assentì, tornando a concentrarsi sul suo piatto, infilzando il cibo e trangugiandolo il più velocemente possibile, impaziente.
«Mangia piano tesoro, ti strozzerai» la ammonì sua madre.
La ragazzina annuì e prese a masticare lentamente mentre il suo cervello lavorava: che strano, però, perché suo padre le aveva portato un regalo? Non era il suo compleanno, né Natale o un’altra qualsiasi festa. I suoi genitori ogni tanto avevano di questi slanci, ma capitava, di solito, dopo uno scontro di qualsiasi genere. Ma non le sembrava che fosse quello il caso, la sera prima avevano litigato tra loro e….che fosse quello il motivo? Suo padre temeva che li avesse sentiti e avesse capito di essere stata adottata? Sbuffò, trangugiando di malavoglia il resto del contenuto del suo piatto. Aveva già deciso la sera prima che non le interessava, che essere stata adottata sarebbe stata una cosa bella… ma i suoi genitori non sembravano intenzionati a parlarne con lei. E aveva ormai imparato, dopo quattordici anni, che insistere non sarebbe servito a nulla: quando prendevano una decisione non cambiavano idea. Il pasto era quasi finito, per fortuna: sua madre portò in tavola una meravigliosa crostata alla crema poi, dopo aver sparecchiato, suo padre le fece cenno di raggiungerlo in salotto. Guardò implorante sua madre che le sorrise e le diede silenziosamente il permesso: non aveva bisogno di altro per essere, nel giro di due secondi, nella stanza dove suo padre l’aspettava. Lui aveva un pacco rettangolare tra le mani.
«Stamattina avevo un po’ di tempo tra un impegno e l’altro e sono passato davanti ad una libreria. Ho visto questo e mi sei venuta subito in mente, tesoro: dovrebbe essere il tuo genere.»
Kelly afferrò il pacco ammirandolo: la forma inconfondibile lo classificava immediatamente come un libro… ma uno di quelli importanti… sembrava parecchio alto. Eccitata, saltò al collo di suo padre schioccandogli un bacio sulla guancia: «Grazie, grazie papà! Posso andare ad aprirlo in camera mia?»
Jacob le sorrise: «Ma certo, tesoro, vai pure. Ci vediamo stasera»
Senza farselo dire due volte, Kelly schizzò in camera sua e sedette sul letto. La carta che avvolgeva il pacco venne stracciata in pochi secondi e ai suoi occhi si rivelò un libro con la copertina bianca, una cornice dorata e una scritta rossa in eleganti lettere corsive Once Upon A Time. Il titolo era molto… evocativo, le ricordava le favole che sua madre le leggeva da bambina. Ancora più curiosa, lo aprì: il frontespizio conteneva solo poche parole Alla mia piccola Abigail, la luce della mia vita. Ti vorrò bene per sempre. Oh… chissà chi era quella Abigail. Magari avrebbe fatto una ricerca sull’autore, che si chiamava…. Ecco, Henry Mills. Ma adesso non aveva tempo, era troppo curiosa: cosa mai aveva potuto trovare di nuovo, quell’uomo, nelle classiche storie delle favole? Aprì il libro alla prima pagina, intitolata Snow White and the others e cominciò a leggere… finché non fu costretta a fermarsi. Una serie di immagini comparvero rapidissime nella sua memoria, lasciandola senza fiato: di nuovo lei bambina, in una camera molto diversa da quella, con due ragazze profondamente differenti l’una dall’altra, ma che le sorridevano. Poi una, quella con la pelle più scura, le dava un bacio e usciva, mentre l’altra si sedeva sul letto con lei, tirandosela vicina e cominciando a parlarle sommessamente… raccontando proprio la storia di Snow White e Prince Charming come la conosceva lei. Allentò la presa sul libro, lasciandolo scivolare sul copriletto. Quella ragazza era la stessa che continuava a sognare, ne era sicura: aveva la stessa voce e la stessa corporatura e...finalmente aveva visto il suo volto! Scattò a sedere, intenzionata ad aggiornare il suo documento, ma un cerchio alla testa la costrinse a ricadere sui cuscini e a cambiare idea.
«Ok… ok, Kelly, calma. Va tutto bene, non te lo dimenticherai, è troppo importante. Chi è quella ragazza? Perché mi racconta la favole e mi abbraccia? E perché sembra tutto così normale? Dov’era la mamma? Era uscita e lei mi faceva da babysitter?» Si rannicchiò in posizione fetale, cercando di calmarsi e di farsi passare il mal di testa. Sarebbe potuta scendere al piano inferiore a prendere un analgesico: dopo l’incidente che aveva avuto da bambina, sapeva che quelle emicranie erano normali e, anzi, sua madre era sollevata che fosse ancora sufficiente un medicinale relativamente blando per tenerle a bada. Tuttavia, quella sera si sentiva troppo malferma per riuscirci. Piuttosto aveva un altro grande obiettivo: non vomitare. Le capitava spesso e anche in quel momento, sentiva la nausea salire prepotente. Ma quello era un attacco tutto sommato semplice da gestire e ci sarebbe riuscita. Doveva solo chiudere gli occhi e cercare di rilassarsi un po’. Anzi, probabilmente la scelta migliore era cambiarsi e mettersi a dormire. Poi, sicuramente, avrebbe visto la cosa in maniera più lucida. Forse avrebbe dovuto parlarne con la mamma, magari lei avrebbe potuto aiutarla a fare chiarezza. Ma una domanda specifica non avrebbe ottenuto risposta, ne era certa. Doveva girarci intorno. Chiuse gli occhi, respirando profondamente: appena le fosse passato il mal di testa ci avrebbe riflettuto meglio e di certo ne sarebbe venuta a capo.
 
Dunque, il libro che sta leggendo Kelly è Harry Potter e il Calice di Fuoco, ovviamente con le parole dell’ultima traduzione italiana… non sono così ferrata in inglese da potermi permettere di tradurre le frasi. E non sono sicura che corrisponderebbero all’originale, quindi lascio stare. Per il resto… che mi dite? Sì, aveva ragione chi ci aveva provato e a voi posso confessarlo, perché il problema fondamentale non sarà questo ma arrivare al ricongiungimento.  Non l’ho detto prima perché… è triste pensare di essere così ovvia xd. Spero di non metterci più così tanto a pubblicare, prometto che cercherò di essere più rapida. Ma forse potrei passare il tempo scrivendo per una challenge che ho trovato sul forum. Fandom e protagonisti sarebbero sempre gli stessi, ovviamente. Tenete d’occhio la pagina FB, vi terrò aggiornati!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3761064