What kind of world does this?

di Fenio394Sparrow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** OO || Prologo ***
Capitolo 2: *** O1 || La morte è soltanto l'inizio ***
Capitolo 3: *** O2 || Ricordanze ***
Capitolo 4: *** O3 || Max ***



Capitolo 1
*** OO || Prologo ***


Prologo
 
                                                                                     “Vagavo solitaria come una nuvola”


Rachel aprì gli occhi.
Il cielo terso si estendeva sopra di lei, infinto e capovolto.
Capovolta… era così che si sentiva. L’infinità del firmamento non più stellato le dava il capogiro, perché non aveva confini, scivolava ben oltre il suo campo visivo, le sembrava di cadere…
Come se precipitasse.
Precipitava verso qualcosa di losco e di sinistro, qualcosa da cui non avrebbe avuto via di scampo, qualcosa di così irrimediabile e definitivo da non poter tornare indietro …

Si alzò di scatto, nel panico.
I suoi occhi si mossero febbrili alla ricerca di un appiglio, un dettaglio, un particolare, un dannatissimo qualcosa che potesse dirle dove fosse.
Un sospiro di sollievo le sfuggì dalle labbra.
Conosceva quel posto.

Gli alberi, la spazzatura, la recinzione che circondava la discarica … quello era il suo posto speciale. Una parte molto nascosta, in realtà, ci andava di rado, però la conosceva. Era il posto più adatto per liberarsi di qualcosa che non doveva essere mai più trovato.
Si alzò con l’intenzione di correre via, verso il buco nella recinzione, ma un conato di vomito la costrinse a terra.
Il suo corpo tremava e la testa le girava in maniera incontrollabile; si ritrovò a carponi sulla terra appena smossa, aggrappandosi con tutte le forze a qualche filo d’erba che la mantenne a contatto con la realtà, mentre tentava in ogni modo di capire cosa avesse potuto scatenare quella reazione.

I ricordi apparvero come fotogrammi discontinui e rovinati dal tempo, frammenti confusi bruciati dalla memoria.
Luci.
Le luci erano ovunque.
Bianche, accecanti. Non c’era sopra e sotto.
C’era solo il freddo, il freddo fuori, il freddo dentro, nel cuore, l’oscurità alle sue spalle… e la rabbia.
L’ira. Le velenosa consapevolezza di essere in trappola e di essere stata tradita, la furia di una bestia messa all’angolo da chi aveva tradito la sua fiducia.
Ansante, aprì gli occhi. I polsi e le caviglie le bruciavano: erano rossi e doloranti. Un regalino della notte precedente.

Quello stronzo l’aveva rapita e legata come un animale!
«Io lo ammazzo.»
 Io lo ammazzo io lo ammazzo io lo ammazzo io lo ammazzo
Si alzò, ancora frastornata.
La crisi sembrava essere passata. La nausea non se ne era andata, ma riuscì a zoppicare fino ad una catasta di legna lì vicino.

Era da poco passata l’alba.
I primi raggi del sole filtravano prepotentemente tra gli alberi, aranciati, e per un attimo Rachel scambiò l’alba per il tramonto. Ma era fine aprile, era normale che il sole fosse forte anche di mattina. Un corvo gracchiò da qualche parte. Le ombre si allungavano come dita in un cartone animato, un cattivo presagio, ma Rachel cercò di non farsi suggestionare, dando la colpa alla strana energia che quel posto nascosto sembrava emanare. Quante volte lo aveva detto a Chloe, che quello era un posto magico?
Chloe…
Allungò la gamba per poter osservare il proprio polpaccio. Il dragone rosso tatuato campeggiava fiero e rampante come sempre, attorcigliato in segno di protezione e orgoglio, l’amicizia fra lei e Chloe fatta inchiostro.
Ovviamente aveva fatto quel tatuaggio insieme a lei. Rachel aveva scelto il dragone sulla gamba perché poche cose la rappresentavano bene come quella bestia feroce e bellissima ma pericolosa; sul braccio di Chloe invece fiorivano rose, petali verdi, farfalle azzurre in volo, un teschio d’avorio e un nastro che percorreva tutta la composizione. Forse quella di Chloe era stata una scelta inconscia, ma Rachel era perfettamente in grado di leggere tutta  la travagliata storia, la personalità spezzata e il conflitto che accompagnavano quel tatuaggio. Inoltre apprezzava le piume sparse fra gli steli, perché quelle rappresentavano lei. L’orecchino che portava sempre. Chloe non solo si era esposta agli occhi del mondo sul proprio braccio: aveva incluso Rachel con sé, perché era parte di lei. Rachel non aveva fatto nulla di tutto questo. Rachel aveva rappresentato solo sé stessa.
Sicuramente Chloe la stava cercando.
Mentre accarezzava il tatuaggio e sentiva l’amore per la ragazza invaderle mente e corpo, si rese conto di una cosa profondamente sbagliata. Accarezzava la pelle nuda delle gambe. Nuda.
Non aveva i pantaloni.
A parte il drago, non c’era niente a proteggerla dal mondo esterno, neanche un lembo di tessuto, solo fragile pelle umana e inchiostro.
Gli slip le coprivano le parti intime e aveva una maglietta a maniche corte nera a fasciarle il busto, ma per il resto era completamente nuda.
Un altro conato rischiò di inchiodarla lì per sempre.
L’avevano legata, tradita, usata … e abusato di lei quando era incosciente?
All’improvviso le sembrò di vedere tutto doppio.
Sentì il gelo avvolgerla. Effettivamente aveva dei lividi sulle gambe … e anche fra le cosce.

No no no no no ti prego no...
Si alzò barcollante e corse più velocemente che poté verso la recinzione, con un unico pensiero in mente: devo avvertire Chloe, devo avvertire Chloe …
Il treno merci per Arcadia Bay sarebbe passato di lì a poco, sarebbe salita, corsa a casa a lavarsi – doveva liberarsi da quel senso di sporcizia e lerciume che sentiva addosso – e poi assieme ai suoi genitori e a Chloe li avrebbe presi, oh sì, li avrebbe presi e li avrebbe fatti pentire amaramente di averla torturata e scaricata come spazzatura in una discarica…
Ma si reggeva a malapena in piedi, ce l’avrebbe fatta a correre e a saltare nel vagone aperto, anche se il treno andava a bassa velocità? Ancora una volta, il pensiero di Chloe le diede la forza.
Sì. Certo che sì. Come l’aveva fatto a lei, avrebbe potuto farlo a chiunque altro.
Non dovette attendere troppo. Riuscì a correre e a saltare: rotolò sulle assi del vagone e giacque a testa in su, i capelli biondi sparsi come un’aureola. Era circondate da casse da morto, o così parevano.
I suoi genitori la stavano cercando, ne era certa, ma Chloe doveva averla chiamata e lei non aveva potuto rispondere, si sarebbe incazzata da morire con lei, lo sapeva, ma sarebbe bastato farle gli occhi dolci per farsi perdonare, e poi non aveva potuto rispondere, l’avevano legata, cazzo, l’avevano legata e riempita di flash e spogliata e
NO
Violentata? Violentata mentre era incosciente?
Perché quei flash? Fotografie?
Ma lei era stata consenziente.
No, no, non era vero
(lo avrebbero detto a Frank)
No, no, Frank, lo giuro, io non volevo…
( la gelosia di Chloe sarebbe stata incontenibile )
Glielo volevo dire, lo giuro
Oh, Rachel, sei una tale delusione, continui sempre a guardare dalla parte sbagliata … ma non preoccuparti, abbiamo tempo …
B A S T A !
 
Tempo per cosa, eh? Sporcarla, mutilarla, ferirla, violarla e abbandonarla in una discarica come spazzatura? Cazzo, come una bambola rotta?
Quell’orribile senso di perdita che l’attanagliava era impossibile da contrastare. Si ritrovò in posizione fetale, le mani strette al petto non per combattere il freddo, ma per cacciare quel qualcosa di diverso. Quel qualcosa di sbagliato che non riusciva ad identificare.
Non erano i ricordi dei baci sul collo, del pizzicore della barba, delle mani strette con troppa forza sui fianchi. I brividi non erano di piacere. Eppure ricordava con certezza di aver agognato il suo tocco, di essersi abbandonata come la più lussuriosa delle amanti, di aver a lungo cercato una persona come lui… E adesso il ricordo delle sue mani fra le cosce, dei suoi denti sulle spalle, della sua lingua in bocca… per poco non vomitava.
Rachel non era casta  pura. Per niente.
Quante volte era andata a letto con Frank? Innumerevoli.
Quante notti avevano passato assieme nel camper a ridere e scherzare e a fare l’amore?
Troppe. E avevano sperimentato molto più rispetto a quello che aveva fatto con Chloe. Chloe, che faceva tanto la dura e che invece si era aggrappata con disperazione al suo petto in quell’unica notte che era stata loro, le lacrime agli occhi e le mani intrecciate sotto le stelle.
Rachel aveva sempre usato il proprio corpo a piacimento, e non si era mai fatta problemi ad andare con persone più grandi di lei se queste avessero potuto tornarle utili in qualche modo.
Forse era per quello che si era infatuata di Mark Jefferson, perché quell’insegnate di fotografia avrebbe potuto portarla via da quella città maledetta.
Non perché la legasse e la usasse come la sua bambola gonfiabile.
Un flash.
Rachel che posava guardando dritta davanti a sé, una mano fra i capelli lunghi e l’altra sul ventre, le dita aperte in un cenno vagamente sensuale.
Rachel che urlava, i pugni contratti e l’ira incontrollabile, in lotta contro l’uomo molto più forte di lei.
Rachel legata, l’umiliazione, quell’angoletto in cui si era rintanata, l’obiettivo che la rincorreva come un segugio e fiutava tutto la sua dignità violata.
Soffocò un singhiozzo. Quindi l’avevano fotografata. Legata e tradita e sbeffeggiata, la sua debolezza immortalata come un trofeo di cui vantarsi.
 
 Il treno rallentò fino a fermarsi. Animata dall’odio e dal desiderio di vendetta, scese dal vagone e si diresse verso casa sua, senza riuscire però a trattenere le lacrime. Com’era possibile che si fosse innamorata di lui? Come poteva essere successo? L’aveva violentata! Posseduta mentre era incosciente, e chissà quanto ci aveva goduto! Ah, sì, che bello stare con una che non può opporsi,  ah ah, meraviglioso! Legata! Umiliata! Gettata in una discarica come spazzatura!
Oh, ma abbandonarla lì senza pantaloni e cellulare non l’avrebbe fermata. Proprio no.
Stava giocando con la stronza sbagliata.
E mentre il sole si faceva sempre più alto e i corvi volavano sopra il cielo della cittadina, la ragazza si diresse a passo spedito verso casa sua, senza domandarsi perché i piedi nudi non le dolessero o perché l’aria frizzantina non la facesse rabbrividire, né perché nessuno si fermasse per soccorrere quella ragazza seminuda dai polsi e dalle caviglie arrossate.
Gli abitanti di Arcadia Bay non videro nemmeno l’ombra di Rachel Amber.
Forse perché Rachel, l’ombra, non ce l’aveva.  



 

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Capitolo 2
*** O1 || La morte è soltanto l'inizio ***


Capitolo Uno
 
                                                                             "C’è un suono col quale hai convissuto tutta la vita.
                                                                                                                    Hai imparato ad ignorarlo."

 
 
Rachel giunse a casa quando il sole era già alto.
Ovviamente la porta era chiusa: che fosse per lavorare o denunciare la sua scomparsa, James e Rose Amber non erano all’interno.
Ma non era un problema. Si chinò per prendere le chiavi, nascoste sotto il tappetino, e le sue dita lo attraversarono come fossero fumo.
«Ma che cazzo …»
Riprovò di nuovo, e riprovò ancora, provò un’altra volta, provò quasi all’infinito e ogni volta che, sempre più febbrile, attraversava il tappeto come non esistesse, un verso disperato le sfuggiva dalle labbra.
Ma che sta succedendo?
L’unica cosa che capiva era che non riusciva a prendere le chiavi, ma doveva entrare in casa, doveva, anche a costo di buttare la porta giù a spallate.

Rachel indietreggiò.
Corse verso la porta, pronta all’impatto … che non avvenne. L’attraversò punto e basta, senza alcuna resistenza.
Cadde sul pavimento dell’ingresso per lo slancio, il fiato corto per il terrore.
Com’era possibile attraversare la porta? Era già aperta? Aveva immaginato tutto?
No. Non se l’era immaginato. I suoi singhiozzi la precedettero nella camera da letto, dove c’era un telefono. Si avventò su di esso e le mani lo attraversarono. Non sentì niente: né la superficie fredda della cornetta, né la durezza del tavolo – le mani ci erano sprofondate, nel tavolo – solo l’orrore e un altro gemito che non era riuscita a contenere, mentre il panico la investiva come un treno in corsa.
«Ma com’è possibile …»
Iniziò ad afferrare tutto ciò che era alla sua portata: penne, matite, trucchi, libri … ma le sue mani scivolavano attraverso gli oggetti ogni volta, senza che lei percepisse alcunché, soltanto il panico crescente e le lacrime sulle guance.
Rachel iniziò ad urlare e provò a gettare tutto per terra, la rabbia che guidava i movimenti delle braccia.
«Cadete! Cadete, cazzo, fate qualcosa!»
Si avventò sul riflettore delle stelle, sull’orso di peluche abbandonato a terra, sul cestino rivoltato, sullo specchio vuoto.
I capelli biondi, lo sguardo impertinente, il drago sul polpaccio… non c’erano.

La superficie liscia rifletteva la sua camera perfettamente in ordine con i libri al loro posto sugli scaffali, le penne in riga come soldatini, i poster diligentemente appesi alle pareti.
Non rifletteva nessuno nella stanza. Nemmeno Rachel.
Scivolò a terra come al rallentatore, seppellendo il viso fra le mani e sciogliendosi in lacrime. Non capiva cosa stesse succedendo e forse nemmeno le importava. A cosa sarebbe servito? Non era in grado di controllare niente, nemmeno il proprio pianto, a quale scopo comprendere la realtà delle cose se non aveva potere su di esse?
Il tempo passava molto velocemente o molto lentamente, Rachel non ne aveva idea. Il petto tremava e la gola bruciava, le lacrime che le rigavano le guance quasi facevano il solletico, i singhiozzi che le spezzavano il fiato avevano un qualcosa di diverso difficile da identificare, forse il suono, che percepiva fin troppo nitidamente. Ma non aveva importanza. Essere estremamente emotivi ha il rovescio della medaglia, e quello è il percepire ogni dannatissima cosa il doppio, come graffi sulla pelle. E l’impotenza che provava in quel momento le dilaniava le carni.

Qualcuno entrò in casa. Udì distintamente le chiavi girare nella toppa e dei passi concitati fare la propria entrata, seguiti da parole sconnesse e spaventate.
Rachel voltò la testa di scatto. «Mamma? Papà?»
Si alzò a fatica precipitandosi verso le scale, corse verso l’ingresso urlando a pieni polmoni: «MAMMA! PAPÁ! Sono a casa, aiutatemi!»
Piombò in salotto a braccia aperte, aspettandosi un abbraccio stritolatore – desiderando un abbraccio stritolatore – ma i suoi genitori la ignorarono: James stava accompagnando Rose, in lacrime, a sedersi sul divano, e le passarono accanto, così, senza degnarla di uno sguardo.
«E’ scomparsa da più di ventiquattr’ore, abbiamo già sporto denuncia alla polizia. Lo sai che il commissario è mio amico, sono già sulle sue tracce.»
La donna singhiozzava senza ritegno, probabilmente perché non aveva udito una sola parola del merito.
Anche Rachel era in lacrime, nonostante ciò non riuscì a non domandarsi ancora una volta come potesse essere caduta così tanto a lungo nel loro inganno.

Rose Amber somigliava a Rachel tanto quanto un bruco somiglia ad un corvo. Non v’era rassomiglianza fra i capelli scuri della donna e quelli dorati della ragazza, né fra gli occhi castani e gli occhi verdi, e neanche nella corporatura robusta   e quella sottile della figlia.
Biologicamente, infatti, non aveva alcuna parentela con la ragazza. Legalmente, ed affettivamente, era tutta un’altra storia.
Della madre biologica Rachel sapeva solo il nome, Sera, e che era una tossicodipendente. Chloe non era riuscita a trovare altro su di lei, e suo padre, che era suo padre sia legalmente sia biologicamente, non aveva intenzione di farle sapere altro. Ma una volta che se ne fosse andata da Arcadia Bay… Rachel l’avrebbe cercata.
Trovò stupefacente la portata del proprio disprezzo, anche in quello stato di profonda e totale autocommiserazione. Immagino di aver preso da te, papà. Sono una grandissima traditrice. Una che ti ama per tutta la vita e  che ti mente senza ritegno guardandoti dritta negli occhi.

Suo padre era in cucina adoperandosi per preparare una camomilla e intanto  rassicurava Rose dicendo che Rachel stava bene.
«E se fosse morta?» domandò Rose fra i singhiozzi «E se fosse morta e non ci fosse più niente da fare?»
James prese la tazza di camomilla, la posò sul tavolino davanti a lei e l’abbracciò. «Rachel non è morta. Potrebbero averla rapita per ricattarmi, lo sai che ho tanti nemici. Se vogliono un riscatto sanno che deve essere viva, sana e salva.»
«Che cazzo di sogno di merda» mormorò Rachel. Non le piaceva la piega che stava prendendo. La rabbia stava montando dentro senza un motivo particolare, ma le mani strette a pugno parlavano chiaro. Vaffanculo.
Quel sogno – perché non poteva essere altro che un sogno, un incubo – la stava facendo incazzare sul serio.
Soffriva nel vedere sua madre in quelle condizioni, ma soffriva ancora di più nel vederla al sicuro fra le braccia di suo padre, perché nonostante tutto il disprezzo che provava per lui,  nonostante tutte le bugie e le parole non dette, lui era comunque suo padre, l’uomo che l’aveva protetta per tutta la vita e accompagnata dai primi passi fino ad allora, rendendola la persona che era.
Se questa fosse una cosa buona, Rachel non avrebbe saputo dirlo.
Che stesse sognando per un motivo?
Per combattere ed estirpare il risentimento che talvolta l’assaliva solo al pensiero delle bugie del padre?
 

Per rendersi conto che a James importava veramente di lei e che tutto quello che aveva fatto lo aveva fatto solo per proteggerla?
Rachel osservò i propri genitori cercando di fare ordine fra i propri pensieri.
Cosa avevano fatto, se non cercare di proteggerla da ciò che consideravano un pericolo?
Cosa avevano fatto, se non quello che faceva lei stessa ogni giorno, mentire guardando dritto negli occhi, sorridere ed occultare la verità, senza rimorso alcuno e per motivi molto più futili?
Non avevano mica provato ad uccidere Sera, no?
La situazione in famiglia non era male. Non era affatto male.
L’affetto non le era mai mancato: l’amore e il supporto reciproco erano stati il pane quotidiano a casa Amber; forse era per quello che quando la verità le era stata sbattuta in faccia aveva sentito il suo cuore andare in  pezzi come uno specchio rotto. Nonostante ciò credeva di essersi messa il cuore in pace perché era … felice? Serena? Poteva affermare di non aver sofferto così tanto … o almeno così si ripeteva.
Ma odiava quella città. Odiava Arcadia Bay con tutto il cuore. Odiava quella città sperduta dell’Oregon che non aveva niente da offrirle e che le andava stretta.
Sospirò. Era ora di svegliarsi.
Lanciò un’ultima occhiata ai genitori, incerta sul da farsi.
Chiuse gli occhi e iniziò a contare fino a tre.
“Se ti renderai conto di essere in un incubo, non aver paura.”
Uno.
“Basta contare fino a tre e dire «Svegliati»”
Due.
“Ti sveglierai al sicuro nel tuo letto”
Tre.
Aprì gli occhi.
I suoi genitori erano ancora lì, e lei non era nel suo letto.

Non entrare nel panico.
(Panico panico panico panico)
Indietreggiò spinta dall’orrore e attraversò le pareti senza sforzo, il sole pomeridiano che non gettava ombra sulle pareti, nemmeno la sua.
Rachel non riusciva a respirare. L’aria non entrava nei polmoni, la gola bruciava come d’inferno, era come se avesse un macigno sul petto, i respiri che si obbligava a fare non erano di alcun conforto…
E all’improvviso, così com’era cominciato finì. Cadde in ginocchio con le mani alla gola, tossendo con forza. Respirare non faceva differenza, ma la crisi, a qualsiasi cosa fosse dovuta – e Rachel sospettava fosse un attacco di panico – passò.
Notò che il luogo in cui si trovava era cambiato.
Era sul limitare della foresta, una delle tante zone verdi di Arcadia Bay, appena fuori città. Era lì che lei e Frank andavano per passare un po’ di tempo da soli.
I pini crescevano alti e rigogliosi, tanto da rendere quasi impossibile vederne la punta, ma fra le fronde si poteva intravedere qualche batuffolo di nuvola o un picchio nascosto nel proprio nido, al sicuro.
Prestando attenzione si riusciva a udire le macchine che passavano, intervallato dal lungo silenzio ricco di suoni del bosco. I cinguettii delle ghiandaie, le strida dei gabbiani e le onde che si infrangevano sulla scogliera, metri e metri più giù.
Addentrandosi nella foresta l’odore salmastro anticipava la veduta immensa e specchiata dell’oceano, dai riflessi dei flutti tanto luminosi da sembrare finti. Da quell’altezza le onde parevano statiche e dipinte da una mano esperta ma pretenziosa, che aveva deciso di aggiungere qui e là delle barchette di carta.
Il panorama da cartolina era completato dal faro rampante sulla scogliera.

Il camper di Frank era parcheggiato alla sua sinistra. Rachel bussò con forza alla porta chiusa, ma la mano vi passava attraverso, perciò si fece forza e attraversò volontariamente la soglia, entrando nel domicilio dello spacciatore.
Perché sì, Frank era uno spacciatore.
Un uomo di buon cuore che si nascondeva sotto una facciata di burbero pragmatismo, ma bastava avere degli occhi per capire che tipo di persona fosse davvero. E gli occhi di Rachel avevano la vista acuta.
Erano anni che Frank abbonava l’erba a Chloe – ed ormai il debito della ragazza era molto alto – e c’era molta gente che gli doveva più di qualche spicciolo, ma lui continuava a fornire a tutti roba di prima qualità.
Per non parlare di come avesse sistemato le cose quando, tre anni prima, lei e Chloe si erano invischiate in affari che non le riguardavano con Damon e Rachel ci aveva quasi rimesso il braccio, se non la vita.
E poi … aveva salvato Pompidou dai combattimenti ed ora il cane era il suo inseparabile compagno, fedele a lui, e, ovviamente, a Rachel.

Proprio Pompidou le saltò addosso, ma sbattè il muso sulla porta chiusa.
Questo non lo fermò: si voltò verso di lei e le abbaiò festoso e scodinzolante.
«Pompidou?» esclamò Rachel. «Puoi vedermi?»
Pompidou abbaiò eccitato.
Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre si chinava per abbracciare il cane che aveva visto crescere e che sembrava l’unico in grado di vederla. Non riuscirono a toccarsi, ma fra le parole sconnesse della ragazza e i versi del cane riuscirono a comunicare.
Il fatto che solo Pompidou potesse vederla la inquietava. La terribile sensazione di perdita – perdita di cosa – che fino a quel momento aveva ignorato si stava facendo strada dentro di lei ancora una volta, come una lunghissima ombra che le accarezzava malignamente la schiena.
Quel sogno era durato fin troppo. Ma era davvero un sogno? A  Rachel venne in mente solo un modo per esserne sicura.
Negli specchi non c’era riflesso e quindi non poteva controllare una seconda volta, ma Frank aveva un orologio appeso sopra il letto.
A volte capita di essere quasi se non addirittura del tutto consapevoli di trovarsi in un sogno; nel caso sorgesse il dubbio le cose da fare per confutarlo sono due. Studiare il proprio riflesso allo specchio e trovare le incongruenze – cosa non fattibile per lei – o controllare l’ora due volte.
E’ scientificamente provato che la seconda volta l’ora sarà completamente diversa rispetto alla prima, e quella è la conferma dello stato onirico in cui ci si trova.
Rachel si alzò, lo sguardo fisso sulla porta chiusa che conduceva alla camera da letto improvvisata. Avanzò a pugni stretti, Pompidou alle spalle. Attraversò la porta con gli occhi fissi davanti a sé. Pompidou raschiava le zampe sul legno senza poterla raggiungere.
Le quindici e quarantacinque.
Rachel chiuse gli occhi e contò fino a tre.
Uno, due, tre.
Le quindici e quarantacinque.
 
Scivolò lungo la porta, improvvisamente senza forze.
Quando le succedevano cose del genere – quando le dicevano sei stata adottata, ti hanno violentata, nessuno può vederti e non sei in un sogno – tutti i suoni si facevano vacui e non vedeva più nulla.
L’unica cosa che percepiva era il battito frenetico del proprio cuore che rimbombava senza posa.
Ma quella tachicardia non c’era.
Il suono con il quale aveva vissuto tutta la vita, il suono che aveva dato così per scontato e al quale era così abituata da ignorarlo … non c’era.
Non c’è battito, Rachel.
Prese il polso destro, poi il polso sinistro, anche il collo – so prendere il battito, so prendere il battito – ma non percepiva pulsazioni.
Morta.
Il senso di perdita che provava …  era la morte. Aveva perso la vita.
Non persa, non persa, rubata, rubata, rubata! Portata via!
Jefferson non l’aveva lasciata nella discarica.
Jefferson l’aveva seppellita nella discarica.
Inutile dire che urlò e scoppiò a piangere.
Pompidou raschiava le zampe e abbaiava nel tentativo di raggiungerla, ma Rachel restò lì, a lasciare che i singhiozzi compensassero le pulsazioni mancanti.
 
All’improvviso Frank entrò nel camper.
«Pompidou! Che problema c’è? Perché tutto questo casino?»
Ovviamente il cane non rispose, ma Rachel si asciugò le lacrime e si alzò per andargli incontro.
Frank era un uomo giovane segnato dalla droga, eppure la sua faccia era sorprendentemente tranquilla per uno spacciatore, quasi pacifica.
Pompidou stava ancora abbaiando nonostante l’uomo si fosse abbassato ad accarezzarlo. Ovviamente abbaiava in direzione di Rachel.
«E dai, stai buono! Non c’è niente là!»
«Ci sono io» mormorò la ragazza. Allungò la mano tremante in sua direzione, sperando in un miracolo. Le sue dita attraversarono la guancia di Frank, invece di accarezzarla.
«Mi dispiace» sussurrò lei senza sapere a cosa si riferisse in particolare.
C’erano molte cose per cui essere dispiaciuta.
L’ultima volta che aveva parlato con Frank aveva aspramente discusso con lui. Per usare un eufemismo.
 
«Se mi amassi veramente molleresti tutto e tutti e mi porteresti a Los Angeles!»
«Non è così semplice, Rachel! Sto cercando di chiudere il giro e riabilitarmi!»
«NON ME NE FREGA UN CAZZO!» Con una mossa del braccio buttò giù piatti, bicchieri e posate dal tavolo.
«Sono anni che vivi in questa topaia e che non ti curi di niente se non del tuo cane!»
«Lascia stare Pompidou!»
Rachel rise sguaiatamente, senza gioia, quanto più falsamente possibile, perché voleva fargli del male.
Voleva farlo sentire di merda, proprio come si sentiva lei.
«Lo vedi? Perfino il tuo cane è più importante di me!»
Frank stava quasi balbettando: «Rachel, lo sai che no-»
«Non so nemmeno perché io continui a frequentarti.»  
Era rimasto a bocca aperta, le parole perse nel vuoto e gli occhi lucidi, e una parte di lei si odiò per averlo colpito così nel vivo.
L’altra si congratulò.
«Allora … forse dovresti andartene.»
Rachel lo guardò dritta negli occhi, con l’espressione più truce che potesse avere, e sbattè la porta del camper dietro di sé, ma fece in modo che Frank potesse udirla.
«Vaffanculo.»
 
Era stata proprio una stronza.
Però aveva scritto una lettera in cui si scusava, per fare ammenda, l’aveva nascosta nel camper, Frank l’avrebbe trovata, ne era certa …
«Mi dispiace …» mormorò ancora una volta.
Frank alzò gli occhi, non più concentrato su Pompidou. Tremava appena lì dove le dita di Rachel tentavano di sfiorargli la guancia: aveva la pelle d’oca.
«Frank?»
«BOWERS, APRI LA PORTA!»
L’attimo sospeso nel tempo scoppiò come una bolla di sapone. E la corrente fredda che l’aveva investita  si chiamava Chloe Price.
Rachel osservò desolata l’uomo che amava andare ad aprire la porta alla donna che amava.
Chloe fece la sua entrata come faceva ogni cosa nella vita: con impeto, incurante delle conseguenze, dritta per la sua strada.
«Dove cazzo sta Rachel!?»
«Stai calma, Price! Non lo so nemmeno io, capito? Levami le mani di dosso!»
Spinse Chloe fuori dal camper, chiudendo dentro Pompidou che abbaiava rabbioso. «Buono, Pompidou.» Rachel accarezzò la testa al cane ed uscì anche lei, improvvisamente più spaventata che mai.
Omettere parte della verità a Frank – e non metterlo al corrente della relazione con Jefferson – era una cosa … mentire a Chloe era un’altra.
Non che lo avesse fatto, sia chiaro – non ancora, e probabilmente mai più – ma Chloe non sapeva di lei e Frank, sebbene sospettasse qualcosa. Averli entrambi davanti a sé, le due metà del suo cuore, che si guardavano in cagnesco e che sembravano pronti a saltarsi alla gola… le fece desiderare di sprofondare.
Ops, sei sprofondata. Nella discarica. Che burla.
Non stava prestando attenzione alle parolacce che i due si stavano scambiando, si era estraniata. La luce era così aranciata e il cielo così terso e la visuale così libera … allora perché Chloe non la stava guardando?
Chloe era la persona che la amava più al mondo, Chloe dipendeva da lei, e se anche Frank avesse fatto parte alla Congiura-Fingiamo-Che-Rachel-Sia-Morta, Chloe non l’avrebbe mai, mai, mai fatto. Non le avrebbe mai fatto questo.
Se davvero Chloe non la vedeva, allora era la conferma. L’ennesima.
La ragazza dai capelli azzurri gesticolava febbrilmente, nera in viso come una tempesta, mentre Frank le rispondeva altrettanto animatamente, agitando i pugni e scoprendo i denti come un predatore …
 
Un flash.
«Non ti azzardare a toccarmi, porco!»
Mark Jefferson rideva. «Ieri non eri di questo avviso, vero, puttanella?»
Un bruciore sul collo, la voce che le moriva in gola, poi più nulla.
 
Rachel tornò in sé barcollando, la terra che le mancava sotto i piedi. «Chloe, aiutami …» Chloe diede una spinta a Frank e gli intimò qualcosa di incomprensibile. Rachel si diresse verso di lei, senza forze, tendendole le braccia, e Chloe passò attraverso di lei senza degnarla di uno sguardo. Un gelo glaciale si impossessò della ragazza – fantasma – che cadde a terra, tremante, e diede voce a tutto il suo dolore.




 

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Capitolo 3
*** O2 || Ricordanze ***


 Capitolo Due
 
“Vi ho amati, vi ho amati e vi ho perso
Ed è come un inferno”

 
 
Rachel non aveva mai studiato Dante Alighieri, né tantomeno le sue opere. Ma, a differenza di quanto si potesse pensare, Rachel era una persona abbastanza acculturata e curiosa per natura: da quando avevano avanzato l’ipotesi di mettere in scena la Divina Commedia con il club di teatro si era informata e appassionata all’universo creato dal poeta fiorentino, che nulla aveva fatto se non dedicare l’opera cardine della letteratura italiana all’amore della sua vita.
All’epoca si era domandata che erba si fosse fumato per immaginare cose tanto coerenti nella loro assurdità, ora invece si chiedeva se avesse davvero avuto un’esperienza di pre-morte o roba simile, perché quella che stava provando in quel momento Rachel non poteva essere nient’altro che un girone dell’Inferno esclusivamente a lei dedicato.
 
Vuoi fare la modella?
Immortaliamo i tuoi ultimi momenti e rendiamoli il premio del tuo assassino.
Vuoi essere ammirata, adorata, venerata?
Facciamo in modo che nessuno sappia della tua morte, rendiamola un segreto, un incubo dal quale non puoi fuggire.
Vuoi che tutti pendano dalle tue labbra?
E noi ti riduciamo al silenzio.
 
Chiusa in una pallina di vetro scossa a piacimento da Mark Jefferson, che amava vedere la neve vorticare sulla vittima e l’acqua annegarla.
La cosa che faceva più male? Che l’aveva sconfitta. L’aveva uccisa in ogni modo in cui una persona può essere uccisa e non avrebbe mai pagato – non sarebbe mai stato nemmeno  sospettato – per i suoi crimini.
Voleva ucciderlo. Voleva ucciderlo, torturarlo, strappargli gli occhi dal cranio e darli in pasto ai cani, ridurlo al silenzio e ridere della sua debolezza per fargli sapere che era stata Rachel Amber a porre fine alla sua schifosa vita …
Una cappa d’oscurità era scesa su di lei. Rachel non poteva vederla, però poteva percepirla. Come un’aura che la circondava, una parola che risuonava nella sua mente senza posa, stormi d’uccelli neri che preannunciavano il suo violento intento.
Vendetta.
 
Un corvo gracchiò alle sue spalle e la ragazza si girò per guardarlo.
Lui la fissò di rimando, guardò proprio dritto verso di lei, confermando quel che già sapeva. Il corvo poteva vederla.
«Il famiglio della strega» mormorò la ragazza. «Un presagio di morte.»
Quella di Jefferson, oh sì. Lei era già morta, non preannunciava niente per lei, non costituiva alcun pericolo per lei. Che finezza, che eleganza, che squisito modo di mandarle un messaggio: il corvo lo devi rispettare, ma non ti devi mai fidare.
Allungò la mano per accarezzarlo e quello gracchiò, senza tuttavia spaventarla. Ammirò il piumaggio nero come il buio  e lucido come inchiostro appena rovesciato. I riflessi bluastri le ricordavano l’oceano a mezzanotte. Il fatto che solo gli animali riuscissero a vederla le dava da pensare. Che il corvo fosse lì per guidarla?
Il misticismo della foresta e dei suoi abitanti non era cosa nuova per gli abitanti di Arcadia Bay. Tutti sapevano che la città sorgeva sui luoghi acri dei nativi americani – alcuni erano stati addirittura profanati, altri no – e la loro influenza, dicevano alcuni, non si era estinta con la colonizzazione.
 
«Sei qui per aiutarmi?» chiese curiosa.
Il corvo chinò la testa e la guardò con aria interrogativa – poteva giurarlo, era perplesso. Gracchiò due volte prima di librarsi in volo verso al città. Dove si trovava Jefferson. Oh, Mark. Il tuo presagio di morte mi guida verso di te. Sono la tempesta che spazza via la città. E sto venendo a prenderti.
 
Convinta che il corvo fosse una benedizione per il suo intento omicida Rachel si diresse verso la città, verso la Blackwell, per spiare il suo assassino. Ovunque andasse vedeva la propria faccia sorriderle dai volantini che domandavano a gran voce “MI AVETE VISTA?” oppure che urlavano “SCOMPARSA”. Gli studenti si radunavano a gruppetti e ogni singola conversazione riguardava la misteriosa, se non addirittura leggendaria, scomparsa di Rachel Amber. C’erano persone assolutamente certe che Rachel avesse preso baracca e burattini e si fosse piazzata sulla prima corriera per Los Angeles, stufa di essere bloccata in quel buco di città, e addio a tutti.
Altri temevano che avesse fatto un tuffo non programmato dalla scogliera per via della droga di cui abusava, oppure che fosse inciampata in qualche fosso. Dov’era andata, dunque? Beh, nel posto dove finiscono le persone che scompaiono senza lasciare traccia.
 
Rachel osservava tutto ciò con tristezza crescente, soprattutto perché lei non aveva bisogno di scomparire – e di morire – per essere sulla bocca di tutti. Ed in tutto questo, nei giorni che seguirono la sua misteriosa scomparsa e che si susseguivano senza differenza alcuna, il suo banco nell’aula di fotografia – e in ogni altra aula – restava vuoto. Agli occhi degli altri.
Rachel sedeva sempre alla propria postazione, lasciata religiosamente intatta dai suoi compagni, prestando un’attenzione maniacale alle lezioni del professore, in attesa che si tradisse, che sprecasse una parola di troppo su qualsiasi argomento, che si guardasse attorno allarmato e insinuasse il dubbio nelle menti dei suoi studenti …
Ma non accadde.
Non accadde a fine Aprile, quando la sua scomparsa era sulla bocca di tutti; non accadde a fine Maggio, quando era ormai convinzione diffusa che si trovasse a L.A. a vivere il proprio sogno; non accadde a fine Giugno, quando gli esami tenevano tutti troppo occupati per preoccuparsi ancora di Rachel Amber.
Presto i suoi volantini vennero sommersi da inviti al ballo di fine anno e comunicazioni scolastiche, risultati degli esami e ammissioni all’anno successivo, mentre lei osservava tutto con una certa freddezza.
 
Oh, certo, la faceva imbestialire il fatto che tutti vivessero bene senza di lei – Victoria Chase si sentiva finalmente la regina dell’alveare e Mark Jefferson continuava ad insegnare con impeccabile professionalità – ma Rachel riusciva a non farsi toccare più del necessario da queste cose, a non lasciare che la consumassero come l’incendio che aveva appiccato tre anni prima alla foresta che circondava Arcadia Bay perché era arrabbiata. Ora non poteva, ma se avesse potuto …
Se avesse potuto Rachel avrebbe appiccato mille incendi e avrebbe bruciato mille foreste e  consumato l’ossigeno di mille città per vederli tutti morti soffocati, guardarli tutti contorcersi e respirare fumo nero e accasciarsi al suolo esattamente come aveva fatto lei. Non era giusto che loro vivessero e lei no.
Non era giusto che le loro miserabili vite vissute facendosi trascinare dalla corrente continuassero, mentre la sua, la sua vita piena di progetti e ambizioni e sogni di gloria fosse solo un ricordo. Che i suoi polmoni non respirassero più, che il vento non le accarezzasse la pelle, che i profumi non le solleticassero le narici … non è giusto. Non è giusto, cazzo.
Ma, come aveva detto, riusciva a non farsi consumare troppo da questi pensieri.
 
L’unico che come lei sembrasse avere uno scopo nella vita era proprio il suo assassino, e con orrore di Rachel non agiva da solo.
«Nathan, è ora di cercare un’altra modella» disse un giorno.
La stanza si restrinse tutt’attorno a Rachel. Nathan?
Nathan non poteva essere suo complice. Nathan era suo amico, cazzo. Nathan le voleva bene, Nathan non poteva aver partecipato al suo assassinio …
«Non ce la faccio» rispose il ragazzo nascondendo il viso fra le mani. «Non dopo Rachel, no …»
«Brutto bastardo» mormorò Rachel sconvolta. Lo schiaffo partì senza che se ne rendesse conto, ma ovviamente invece di lasciare il segno delle cinque dita sulla guancia di quel pezzo di merda la attraversò come se fosse fatta di fumo. Il ragazzo tremò quando lo attraversò con la mano, come se l’avesse percepita in qualche modo.
Jefferson lo osservava con espressione indecifrabile, ma Rachel sospettava che sapesse che quel momento sarebbe arrivato, ma forse non così tardi. Dopotutto era morta da due mesi, Nathan aveva mantenuto il profilo basso per tutto quel tempo, era ora che desse di matto, no?
«Nathan, so come ti senti. E so anche che per te è stato così orribile che hai rimosso tutto ciò che è successo quella notte. Ma la verità è che è stato un incidente.»
«Non credo proprio!» esclamò Rachel furiosa, eppure fermò la sua mano, tanto non avrebbe fatto differenza. E poi … pendeva dalle sue labbra. I buchi nella sua memoria stavano per essere riempiti?
«Rachel si è offerta volontaria per posare per noi»
«Per te» lo corresse a denti stretti. «Per te, stronzo. Non sapevo nulla di Nathan.»
«Si è offerta volontaria per noi, ignara che prediligiamo un altro tipo di servizio fotografico.»
Nathan annuiva ogni tanto, debolmente, come se cercasse di convincersi di quello che gli diceva.
Rachel invece sputò ai suoi piedi. «Mente, lo schifoso bastardo. Nathan non c’era mentre mi scopavi, vero? A te non piace condividere le bambole.»
«E quindi le abbiamo dato la solita dose che usiamo sulle ragazze per far in modo che siano perfette, esattamente come le vogliamo noi.»
Le altre ragazze?
«Solo che tu» e sottolineò il tu sorridendo impercettibilmente al sussulto del ragazzo «solo che tu, questa volta, hai sbagliato la dose. Gliene hai data troppa.» Incurante dei tremiti di Nathan, Jefferson andò avanti nel suo orribile racconto. «Purtroppo ce ne siamo accorti troppo tardi: il servizio era già finito quando abbiamo capito che non c’era più battito. Sei svenuto per l’orrore. L’ho seppellita dove nessuno la ritroverà mai più e mi sono occupato di te.»
Le lacrime solcavano il viso stremato di Nathan, così come quello di Rachel. Allora era così che era morta? Una siringa, qualche goccia in più e lei era dolcemente scivolata in un sonno profondo e senza sogni?
Per colpa della negligenza di Nathan?
Questo voleva dire che se lui fosse stato un pochino più attento …
«No …» scosse la testa. La gola le bruciava. Sarebbe stata ancora … viva.
Nathan piangeva a meno di un metro da lei.
No, no, no, c’era qualcosa che non andava. Andava tutto in pezzi, compreso il suo cuore che sebbene non battesse sembrava molto più incline a spezzarsi di quanto lo fosse mai stato in vita.
Cercò di dominare l’impulso di urlare e fare a pezzi ogni cosa perché c’erano troppi dettagli che non quadravano.
Capisci cosa è successo. Distingui la verità dalle menzogne. Jefferson stava ancora parlando, ma Rachel comprese solo l’ultima parte della conversazione, quella che le diede i brividi e le fece capire, per la prima volta in mesi, che per lui era stata meno di una scopata veloce. Che quando dava segno di non star pensando a lei, era perché effettivamente non stava pensando a lei. Una mosca molesta calpestata.
«Rachel ormai è acqua passata. E’ la tragedia della vita. Voleva essere adorata, voleva schiere di persone che l’ammirassero, voleva diventare un’icona ed un’immagine a cui ispirarsi e a cui aspirare. Ora, gli unici che l’apprezzeranno nella sua prematura dipartita saremo io e te. Non capisci che dono ci ha fatto, morendo?»
Nathan alzò gli occhi.
«Non capisci che questo ha dato senso alla sua vita? Per due mesi è stata perennemente nei nostri pensieri, sulla bocca di tutti, miticizzata e adorata, le sue presunte gesta rese leggenda ... Ma ora basta. E’ ora che Rachel Amber torni ad essere quello che Los Angeles l’avrebbe comunque resa: una stellina spenta ancor prima di brillare.»
Nathan, che aveva preso a scarabocchiare parole illeggibili su un foglietto di carta sospirò. «Vuoi dire che la dimenticheremo? Che la dimenticheranno?»
«Con il tempo» annuì Jefferson «se siamo fortunati e manteniamo il profilo basso.»
Nathan parlò con aria assente.   «E’ ora di riaprire la camera oscura?»
«E’ ora di riaprire la camera oscura.»
 
Distingui la realtà dalla finzione. Distingui. La realtà. Dalla finzione.
Fatto certo: Jefferson mentiva. Mentiva sempre. Mentiva bene.
Altro fatto certo: l’aveva legata e violentata e fotografata. Prima si era offerta volontaria lei, poi quando aveva iniziato a comportarsi in modo strano, a toccarla dove non doveva, a guardarla con quella luce ferina negli occhi, a spaventarla, fino a culminare nella lotta in cui aveva perso i sensi …
Poi le cose si facevano troppo confuse per poter dare un senso logico. A volte, come da appena sveglia – appena morta – aveva avuto l’impressione che non avesse agito da solo, ma non ricordava di aver visto o sentito qualcun altro. Da lì quindi si addentrava nel mondo delle ipotesi.
Rachel lasciò perdere il pedinamento di Nathan e Jefferson e si diresse verso il belvedere sulla scogliera, tentando di non teletrasportarsi. Aveva scoperto quell’abilità dall’inizio – una figata assurda, peraltro – e in quei due mesi si era esercitata. Certo, era molto figo, tuttavia avrebbe preferito essere viva. Ma non si può avere tutto, eh?

Doveva riflettere, riflettere lucidamente, e teletrasportarsi la distraeva troppo. Camminare per Arcadia Bay non era diverso dal camminare per i corridoi della Blackwell: l’unica differenza era che anche le macchine la attraversavano, non solo le persone. Non si disturbava a camminare sui marciapiedi: non tollerava che i pedoni rabbrividissero al suo tocco, né sopportava gli sguardi incuriositi dei loro animali domestici. Da quando il corvo si era manifestato due mesi prima non aveva ricevuto altre visite. Si era insinuato in lei il dubbio che mormorava forse il corvo non voleva aiutarti nei tuoi progetti di vendetta, forse il corvo ti voleva ricordare che morta sei e che morta rimarrai e che i morti non possono creare altri morti. Morta morta morta.
 
Un ringhio frustrato le sfuggì di bocca senza che riuscisse a controllarlo. I suoi tentativi omicidi non erano andati a buon fine. Il massimo che fosse riuscita a fare era stato buttare giù qualche oggetto dal tavolo, e con molto sforzo. Si domandò quanto sforzo ci fosse voluto per Nathan per ucciderla. La sensazione di puntura combaciava con la storia della droga e della dose, quindi ci credeva. Accarezzò i due lati del collo con la punta dei polpastrelli e la trovò, sul lato destro. La cicatrice di un minuscolo foro.
Passò oltre la senzatetto ignorando che la seguiva con lo sguardo, la meta fissa nella sua mente. Le occorsero venti minuti a passo svelto per giungere sull’altura ai piedi del faro. Era lì che lei e Chloe avevano iniziato a legare, era lì che avevano visto suo padre baciarsi con quella che all’epoca aveva definito l’altra donna, quella che era la sua madre biologica. Ed era stato quel bacio ad innescare la reazione furiosa alla discarica, qualche ora dopo, che aveva portato all’incendio che aveva bruciato la foresta. Ah, che bei tempi.
 
Si prese un momento per apprezzare la bellezza del paesaggio, una delle poche cose che aveva ancora il potere di scaldarle il cuore. I colori del tramonto avvolgevano l’aria e la coloravano dei toni delicati dell’arancione e del giallo, guidati dal vento fresco che spirava dal mare, una costellazione di riflessi argentei del sole che dolcemente si immergeva, caldo nonostante tutto. Il lento infrangersi delle onde sulla spiaggia cullava placido qualche barca a largo, mentre degli uccellini zampettavano sulla panchina a ridosso della scogliera. Non erano soli.
 
«Chloe!» esclamò felice Rachel. Si avvicinò verso la ragazza seduta di spalle, intenta a fumare una sigaretta. Sedeva scomposta, a gambe aperte, i gomiti poggiati sulle ginocchia e l’espressione desolata e abbattuta, anche se nascosta sotto le sopracciglia inarcate che le conferivano un’aria perennemente incazzata. Ma Rachel conosceva troppo bene Chloe per non riuscire a leggere oltre il libro aperto che per lei era il suo viso. Vederla così abbattuta le stringeva il cuore. Era da un po’ che non la andava a trovare. Non poterla toccare le faceva male. Non poterla baciare le faceva male. Non essere vista le faceva male. E doveva ammettere che se l’era un po’ presa quando l’aveva sentita chiamarla “puttana”.
Ah, la coerenza di Chloe. Difendeva a spada tratta il suo onore davanti a chiunque – chiunque anche osasse insinuare che potesse essere morta, chiunque la chiamasse battona, chiunque facesse commenti poco carini su di lei – ma Chloe si sentiva perfettamente in diritto di darle della puttana quando si sentiva abbandonata.
Proprio come in quel momento.
 
«Vaffanculo» mormorò espirando il fumo della sigaretta. «Non è scomparsa, mi ha abbandonato, quella puttana.»
«Smettila» rispose Rachel chiudendo le mani a pugno. «Sono morta, non ti ho abbandonata. Mi hanno uccisa.»
«Scommetto che se la passa bene a Los Angeles, vero? A fare la bella vita, a scoparsi chi le pare, a darla a qualsiasi produttore la possa aiutare nella sua scalata per il successo, a ridere di me nelle lenzuola di qualcun altro!»
Gettò a terra il mozzicone in un gesto rabbioso e lo spense con una tale cattiveria da sollevare una piccola zolla di terra con lo stivale. «’Fanculo anche a te.»
Il vento le scompigliava i capelli azzurri e le faceva venire la pelle d’oca sulle braccia, ma non era per questo che Chloe tremava. Rachel si avvicinò tanto da poter contare le pagliuzze più scure dei suoi occhi, tanto da poter vedere le lacrime che minacciavano di rigarle le guance pallide e incavate. Da quanto non faceva un pasto che comprendesse più di una bottiglia di birra? Chloe, ti stai distruggendo.
Vide il labbro tremante e allungò la mano per accarezzarla e darle un po’ di conforto. Si impegnò affinché non oltrepassasse la sua pelle ma la sfiorasse semplicemente, per fare quello che da mesi le era negato: toccare qualcuno, sentirlo fra le dita, trattenerlo per ancorarsi alla realtà e non fluttuare più come un palloncino alla deriva. Per un momento, per un solo momento, riuscì a sentirla, sentirla veramente.
Anche Chloe dovette sentire qualcosa. Il suo tremore cessò e sospirò bruscamente, senza più riuscire a trattenere i singhiozzi. Non appena sbatté le palpebre e le lacrime rotolarono giù per le sue guance, il contatto si interruppe e le dita di Rachel attraversarono le sue labbra come se fossero foschia.
Chloe scosse la testa. «Mi hai abbandonato.»
La voce era incrinata dal dolore e vederla così, raggomitolata su stessa e così terribilmente sola le fece sentire così male che se avesse potuto si sarebbe strappata il cuore dal petto, pur di non sentirlo più. Soprattutto perché in parte si sentiva colpevole. Sentirla parlare a lei direttamente, poi, era mille volte peggio.
«Te ne sei andata, te ne sei andata come se vanno tutti! Mio padre, Max, adesso tu … E’ colpa vostra se la mia vita è una merda! Se non faccio un cazzo dalla mattina alla sera! E’ colpa vostra!» asciugò con forza le lacrime, si alzò in piedi e si diresse verso il bordo della scogliera, le mani che tremavano ancora.

«Rachel …» mormorò Chloe al mare. Osservava le onde sotto di sé con la stessa disperazione che Rachel aveva visto solo tre anni prima, nei primi giorni che si erano conosciute. Alla discarica, quando Chloe le aveva detto che quello che provava per lei era qualcosa di più di una semplice amicizia, e Rachel le aveva voltato le spalle. Io non voglio rovinare questo nel modo in cui rovino tutto, Rachel! Oggi è stato il giorno più bello da quando … da quando mio padre è morto. Quello che c’è fra di noi, qualsiasi cosa sia, è speciale.
Ma Rachel era troppo concentrata sui proprio problemi per prestarle veramente attenzione, no? Nonostante ciò le aveva accarezzato la guancia e asciugato le lacrime sul viso, proprio come aveva fatto qualche istante prima. Nel cuore di Rachel Amber c’era sempre stato un posto speciale per Chloe Price.
Per questo, quando disse: «Se adesso mi buttassi, nessuno sentirebbe la mia mancanza» catturò completamente la sua attenzione.
Chloe sembrava di star veramente ponderando quell’idea. E Rachel, invece di sussultare con orrore, si avvicinò ammaliata da quella possibilità.
«Sì, fallo. Buttati, Chloe.»
Era così vicina che se avesse voluto l’avrebbe potuta spingere lei stessa giù dalla scogliera. Chloe mormorò ancora non importerebbe a nessuno, e tirò su col naso.
«A me importerebbe, Chloe. A me importerebbe. Buttati adesso. Buttati e vieni con me.»
 
Non sarebbe più stata sola. Non avrebbe vissuto più nella solitudine più totale, non sarebbe più passata inosservata agli occhi di una delle persone che contavano più per lei, non avrebbe più sentito quegli artigli che le laceravano il petto. Sarebbe bastato che Chloe facesse un passetto più in là, e tutti i suoi problemi sarebbero svaniti. Anche quelli di Chloe.
«Saremmo una squadra di nuovo, Chloe, pensaci. Io e te, Chloe Price e Rachel Amber contro il mondo. Potremmo infestare questo buco di città insieme, potremmo farne quel che vogliamo, potremmo vendicarci su tutti, potremmo farlo insieme …»
Si avvicinò così tanto da avere le labbra praticamente sul suo orecchio, da sussurrarle con lascivia tutti i segreti che in vita non aveva avuto il coraggio di dirle, rivelarle ogni promessa non mantenuta, confessarle ogni più piccolo peccato e  condividere tutti i sogni di gloria che aveva in mente per loro due: «Devi solo fare un passo avanti, Chloe. Non devi neanche buttarti. Ti aiuterò io.»
Poggiò la mano sulla sua schiena. E stranamente, non poterla toccare non sembrava più un problema. Non era un impedimento. C’era una forza, percepiva un cambiamento nell’aria, qualcosa di non visibile che si agitava attorno a lei. Chloe ne sembrava avvolta. Allungò il piede, lo tenne sospeso nel vuoto, singhiozzò ancora una volta.
«Coraggio, Chloe.»
Chloe trattenne il fiato, avanzando appena … e un corvo gracchiò. Chloe si spaventò e cadde all’indietro, trascinandosi istericamente lontano dalla scogliera.
 
Rachel scosse la testa, all’improvviso esausta. Per un momento, aveva riavuto tutto. Per un momento l’aveva sentita, per un momento erano state dalla stessa parte del vetro, per un momento la realtà era stata la stessa. Adesso era di nuovo dall’altra parte. I palmi di entrambe poggiati sullo stesso punto, ma non potevano toccarsi. L’aveva vista per un momento, poi aveva scosso la testa e se ne era andata.
Rachel ne aveva abbastanza di quei momenti. Ne aveva abbastanza di sperare in essi, di provare con tutta la propria forza a farli accadere, di vedere i propri tentativi fallire miseramente. Era arrivata ad istigare al suicidio la sua migliore amica, cazzo.

Per questo i giorni iniziarono a scorrere tutti uguali come se fossero un fiume in piena e lei una roccia erosa dalla sua forza. All’apparenza resisteva, imperturbabile mentre i vermi le mangiavano le guance e gli occhi, sepolta sotto terra, ma in realtà buchi profondi si aprivano sulla superficie, buchi che la riportarono alla Blackwell, verso la fine di un’estate passata a vagare come l’anima in pena qual era.
Non era più andata a trovare Chloe. Non dopo quello che aveva fatto. Se ne vergognava, ma se ne avesse avuto l’occasione … l’avrebbe rifatto.
Per questo non andava a trovare più nemmeno Frank o Pompidou. Non sia mai che la sua aura negativa li mettesse l’uno contro l’altro.
E aveva perso ogni interesse nello spiare Jefferson o Nathan, che non biasimava per la sua morte. Poteva averla uccisa lui come no, poteva averle inferto l’iniezione fatale o meno, ma era stato Jefferson ad ucciderla, in ogni modo in cui una persona può essere uccisa. Lui aveva vinto. Rachel aveva perso. L’aveva battuta, e non poteva fare nulla per evitarlo. Parlare ai corvi, ai cervi, agli scoiattoli e alle farfalle che le si avvicinavano era l’unica cosa che l’aiutava a mantenere un po’ di sanità mentale. Era morta, certo, ma il suo dolore non era diminuito.
 
Un giorno si era ritrovata ancora una volta a vagare per i corridoi affollati della Blackwell. La scuola era appena iniziata – cinque mesi che era morta, tre da quando aveva quasi portato Chloe con sé – e tutto il mondo sembrava ignorarla completamente, così come aveva fatto per tutto quel tempo, quando, distratta da un poster particolarmente vistoso, sbattè contro una ragazza.
La sorpresa fu tale che cadde all’indietro, sbalordita. Non era stato un impatto violento, ma sentire, toccare veramente qualcuno dopo così tanto tempo di solitudine era stato un colpo tale da lasciarla a bocca aperta.
La ragazza aveva capelli corti e castani, deliziose lentiggini sul viso e occhi talmente innocenti da potersi specchiare e vedere l’invisibile. Rachel poteva giurare di scorgere il proprio riflesso all’interno.
«Oddio, scusami» mormorò la ragazza togliendosi gli auricolari dall’orecchio. Le note di una canzone indie si diffusero nell'aria. Si abbassò al proprio livello e le toccò la spalla – le toccò la spalla – per assicurarsi che stesse bene. L’aiutò a tirarsi su in una profusione di scuse. «Mi dispiace, ero distratta, ti prego perdonami, non volevo farti cadere …»
Rachel la fissava, esterrefatta. Quando la sua interlocutrice finalmente la guardò negli occhi, Rachel riuscì a pronunciare solo una frase, la voce roca dal disuso.
«Tu puoi vedermi.»









NdA:
scusatemi per l'attesa, anche se ho dimezzato rispetto all'ultima volta! Devo dire che è stato molto difficile scrivere questo capitolo, considerando quanto è corposo. Ma sono soddisfatta: lo stile che sto usando è molto discontinuo proprio per enfatizzare il trascorrere indifferente del tempo, la giovane età di Rachel e l'aria mistica che avvolge la nostra cara cittadina. O per lo meno ci provo!
Buon compleanno in ritardo a Rachel, che ieri avrebbe compiuto 24 anni! (Se la memoria non mi inganna)
E con questa cliffhanger finale, vi lascio e vi do appuntamento alla prossima volta. Come al solito, perdonate eventuali errori.
Feniah <3

EDIT: 02/03/2022

 
 

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Capitolo 4
*** O3 || Max ***


  Capitolo Tre
 
“La vendetta è solo un’altra preghiera al loro altare.
E io sono stanca di inginocchiarmi.”

 
 
«Tu puoi vedermi.»

Certo che posso vederti, fu il primo pensiero di Max. Stava per esprimerlo ad alta voce, ma ecco che la ragazza si avventò su di lei e l’abbracciò talmente stretta da farle mancare il fiato. Abbastanza inquietata, ricambiò l’abbraccio. «Tutto … tutto bene?»
«Sì» la ragazza tirò su col naso «E’ solo che è passato così tanto tempo dall’ultima volta che qualcuno mi ha rivolto la parola …»
Max le accarezzò una spalla, a disagio. Evidentemente c’era qualcosa che non andava. Iniziò a notare le occhiate che le lanciavano le persone che passavano per il corridoio, sentendosi immediatamente a disagio. Abbassò lo sguardo sulla testa bionda della ragazza. «Capisco che tu sia molto … provata, ecco, ma che ne dici di parlarne? Magari ti farà sentire meglio.»
«Oh, sì, hai ragione.» La ragazza si staccò da lei e si asciugò le lacrime dal viso familiare. Max la osservò per bene. Capelli biondi, zigomi pronunciati, labbra carnose … Era la ragazza scomparsa.

«Rachel? Sei Rachel Amber?»
La ragazza sgranò gli occhi, come se fosse passato tantissimo tempo dall’ultima volta che qualcuno avesse pronunciato il suo nome a voce alta e avesse dimenticato il suono di una domanda rivolta a lei personalmente. Ma questa Rachel era diversa. Non ammiccava come nella foto, i suoi occhi non la inchiodavano sul posto facendole sentire le farfalle nello stomaco. Pareva spenta. Ed era seminuda, santo cielo.
«Sì, sono Rachel Amber. Vogliamo … vogliamo entrare in quella classe vuota?»
Max non aveva idea di come facesse a sapere che fosse vuota, ma annuì alla sua proposta, chinandosi per raccogliere gli auricolari caduti nella colluttazione. Ancora una volta non le sfuggirono le occhiate dei passanti e arrossì imbarazzata, abbassando lo sguardo. Aveva qualcosa sulla faccia? O forse la biasimavano perché non stava riportando immediatamente Rachel a casa o all’ospedale?
La porta dell’aula era chiusa. La aprì  e trovò la ragazza in piedi a braccia incrociate, il piede nudo che tamburellava impaziente sul pavimento. La caviglia era arrossata e la pelle pulita, che strano.

«Finalmente» esclamò la ragazza sorridendole nervosa «Credevo che non venissi più.»
«Stavo raccogliendo le cuffiette, mi erano cadute per terra.» Le sventolò per mostrarle di aver detto la verità e le sorrise anche lei, indugiando sul posto. Cosa si diceva ad una ragazza scomparsa da mesi? Bentornata? E’ bello fare la tua conoscenza?
«Ti va di dirmi dove sei stata e cosa è successo? Sembra che tu ne abbia passate tante.»
«Non tante» mormorò abbassando lo sguardo. «Solo una, in effetti.»
Max tacque, indecisa sul da farsi. Rachel sembrava sul punto di scoppiare a piangere o di abbracciarla di nuovo, quindi decise di riprovare ancora, per andare in fondo alla faccenda. «Ti sei smarrita nel bosco?»
«No. Sono morta.»
Oh. Max sgranò gli occhi. A lei non sembrava morta.  Aveva sentito le sue lacrime sulla guancia e la forza delle sue braccia, non poteva essere morta. Camminava e parlava. Forse era pazza, disturbata, dato che ciò che diceva non aveva senso, ma non morta.
«Se ti senti morta, possiamo parlarne con qualcuno che può aiutarti. Ora che sei tornata sarà molto più semplice, vedrai.» Le sorrise con dolcezza, sperando vanamente di poterla convincere in qualche modo, ma la ragazza scosse la testa. Sorrise anche lei, ma di un sorriso talmente triste che le spezzò il cuore. Stava piangendo, e anche Max, suo malgrado, sentì le lacrime rigarle le guance.
«Non mi “sento morta” perché ho subito un trauma. Non sarà più semplice nemmeno se ne parlerò con qualcuno. Io sono morta.»

Forse aveva battuto la testa, anche se non vedeva segni. E di sicuro aveva subito più di qualche trauma. Notò che Rachel restava in piedi, dondolandosi sui talloni e asciugandosi invano le lacrime, perciò le indicò la sedia. «Devi essere stanca, vuoi sederti?»
«No, mi ci vuole troppa concentrazione per non sprofondare nella sedia.»
«Ah.»
Questo sembrava mettere fine alla conversazione. La ragazza davanti a lei rise appena e la guardò in un modo che le fece tremare le gambe. Per un istante tornò ad essere la Rachel Amber vivace di cui tutti parlavano, quella di cui tutti avevano grande nostalgia. Se fosse arrivata alla Blackwell pochi mesi prima, era certa che le sarebbe venuta a dare il benvenuto per non farla sentire un’estranea a casa propria.
«Tu non mi credi» e poi sparì.
A Max mancò il fiato per la sorpresa. Uno, due, cinque secondi, e riapparve nell’esatto punto in cui era sparita. Mosse una mano verso il tavolo e lo attraversò come un sospiro. «Adesso mi credi?»
Max arretrò fino a cadere su una sedia, lo sguardo perso nel vuoto. «Capisco perché piangi.»
«Oh, no! Non piango perché sono triste» Rachel si inginocchiò davanti a lei e prese le mani di Max fra le sue. «Piango perché sono felice. Perché ti ho incontrata.»

Max la osservò a bocca aperta. Sembrava affamata di contatto umano. Da quando l’aveva vista, non faceva altro che cercare un motivo qualsiasi per toccarla. Max non era abituata a questo genere di contatto, ma non le dispiaceva. Rachel sembrava una ragazza che fa la proposta di matrimonio all’amore della sua vita. Emanava un’aura di pura luce impalpabile, pura luce che illuminava gli occhi verdi e le labbra dischiuse in una ritrovata speranza. Max deglutì.
«Ma è tutto sbagliato, tutto sbagliato … Sento la tua pelle sulla mia, mi hai abbracciato stretta, tanto da farmi mancare il fiato …»
«E’ un talento naturale.»
«Come puoi essere morta?»
Aveva paura, aveva paura perché le credeva ma non lo accettava. Non l’aveva mai sentita respirare nemmeno una volta, nemmeno quando l’aveva abbracciata per quegli interminabili secondi.
«Mi hanno uccisa.»
«Chi ti ha ucciso?»
Rachel scosse la testa. «Ti prego, non mi abbandonare. Non lasciarmi da sola, sei l’unica persona che può vedermi, che può parlarmi, che può toccarmi …»
«Non lo farò.»
Rachel la squadrò per un istante, poi annuì come se avesse deciso di potersi fidare di lei e le sorrise. «Allora, tu sai il mio nome, ma io non conosco il tuo.»
«Max. Max Caulfield.»
«Max? Diminutivo di Maxine?»
«Regola numero uno: Max, mai Maxine.»
«Ricevuto, capo.» Rachel le fece l’occhiolino, per il qualche chiunque avrebbe fatto carte false. «Diventeremo migliori amiche, ne sono certa.»
 

Evidentemente essere migliori amiche per Rachel significava restarle appiccicata come la glassa ad una ciambella. Da quel giorno di settembre, iniziò a seguirla ovunque. Perfino in luoghi in cui avrebbe preferito mantenere la propria privacy. Un giorno, quando se la ritrovò appena fuori dalla doccia quasi scivolò sul pavimento bagnato per la sorpresa, e da allora il fantasma sembrò ridimensionare un pochino la sua presenza, che da costante divenne quasi costante. A Max piaceva veramente tanto Rachel: la trovava una compagnia esuberante e più furba della fame, inoltre la faceva sentire meno sola. Tornare alla Blackwell non aveva avuto il sapore di casa, quello che Arcadia Bay era stata per lei in un tempo remoto, ma con Rachel … con Rachel aveva iniziato a pensare di aver fatto la scelta giusta.

Rachel, dal canto suo, adorava Max. Non solo perché poteva finalmente parlare ed interagire con qualcuno, no, la adorava perché era lei. Le era bastato poco tempo per imparare a conoscerla, nonostante le rivelasse poco o niente della sua vita, perché Max era fatta così: si nascondeva sotto le spalle ricurve, osservava il mondo attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica, domandosi se ne avrebbe mai veramente fatto parte. Aveva attaccato alla parete della sua stanza una serie di fotografie, tutte molto introspettive e leggermente malinconiche. Rachel si ritrovava a perdersi fra gli scatti, la testa poggiata allo stipite della porta, sentendosi trasportata in quei luoghi magici immortalati per sempre sulla carta. A volte ne riconosceva alcuni, e senza pensarci si ritrovava sulla spiaggia al tramonto o nel bosco di sera, i rumori della foresta che la circondavano. Appena accadeva Rachel tornava immediatamente da Max, terrorizzata all’idea di rimanere sola ancora una volta. Rachel viveva solo per lei. Se solo l’avesse incontrata qualche mese prima, se solo i loro destini si fossero intrecciati in anticipo … l’avrebbe trovata rosa di rabbia e quanto mai prona alla vendetta. Ma ora si sentiva svuotata da quel genere di emozioni. Ora sentiva il cuore palpitare solo per lei, la sua amica.

«Chi ti ha ucciso?» era la domanda che Max le rivolgeva più frequentemente. Rachel aveva deciso di non dirle niente di Jefferson e Nathan. Conosceva la ragazza da poco, ma era abbastanza abile da capire che se le avesse detto la verità il suo atteggiamento nei confronti dei due sarebbe cambiato, attirando su di sé la loro attenzione, e questo non era un rischio che era intenzionata a correre. Avrebbe protetto lei Max. Nessuno le avrebbe torto un capello. Si sentiva rinvigorita dalla sua presenza, più forte, tanto da riuscire a spostare gli oggetti se si concentrava davvero e Max la incoraggiava con qualche trucco da nerd che aveva visto in un anime o letto in un fumetto.
«Non importa chi mi ha ucciso, saperlo non mi riporterebbe in vita. Ma non bevi neanche un po’?» Rachel era seduta per terra di fronte a Max, anche lei sul pavimento, con la schiena poggiata sul letto dalle federe gialle. Max storse le labbra in una smorfia. «E’ vietato bere alla Blackwell.»
«Ma è una serata fra ragazze!»
«Non sviare il discorso, Rachel. Non smetterò di chiederti chi ti ha ucciso. Io ti voglio aiutare. Voglio sbatterli dietro le sbarre.»
Alzò gli occhi al cielo. «E cosa dirai alla polizia? Che il fantasma di Rachel Amber è tornato dalla terra dei morti per avvertire te, una completa estranea, che una misteriosa figura l’ha uccisa? Io potrei ancora venire a trovarti in una cella imbottita, ma la camicia di forza mi metterebbe a disagio.»
«Ah, ah. Sei molto divertente, davvero.»
«Sono anche bellissima.»
«E modesta» Max le lanciò il cuscino che le passò attraverso e rimbalzò sull’armadio, atterrando sulle sue gambe. «Oddio, che impressione, levalo!»
Rachel alzò gli occhi al cielo. Effettivamente vedere il cuscino fra le sue gambe evanescenti faceva un certo effetto. «Io non ci riesco, genio. Sei tu quella che ha una consistenza solida, ricordi?»
Max spostò il cuscino e scoppiò ridere contagiando anche Rachel. Si stiracchiò, allungando le gambe e Max osservò curiosa il drago tatuato sul polpaccio. Timidamente, allungò la mano per accarezzarle la pelle, e Rachel tremò sotto il suo tocco. Senza potersi fermare si allungò verso di lei e le si sedette accanto, poggiando la testa sulla sua spalla. Max sobbalzò, sorpresa, ma la lasciò fare. Rachel le accarezzò anche la mano, persa nella sensazione del ritrovato calore umano.
«Mi chiedo perché funzioni solo con me» mormorò Max.
«A me sembra abbastanza chiaro» rispose Rachel «Perché tu puoi vedermi.»
«Già, ma perché posso vederti? Perché io? Da quando ho questo potere?»
Rachel fece le spallucce. Era curiosa anche lei, tremendamente curiosa, ma la sua tremenda curiosità non era niente rispetto al menefreghismo che quella domanda comportava. Fintanto che Max fosse riuscita a vederla e a toccarla, la curiosità sarebbe passata in secondo piano. «Quando Dio ti fa un dono non chiedi perché, lo accetti e basta.»
Max sorrise: «Non ti facevo credente.»
Rachel invece non sorrise affatto. «Però è vero. Io non mi sono mai posta delle domande esistenziali, non me ne è mai fregato un cazzo del perché fossimo qui, l’unica cosa che mi interessava era vivere. Cazzo, se vivevo. Avevo dei piani. Avevo accettato il mio dono.»
«Il dono della vita» mormorò Max. «Sono certa che vivessi al massimo. Manchi a tutti qui.»

La ragazza dai capelli castani strinse le ginocchia al petto, affondandovi la testa. Rachel perse la presa sulle sue mani ma mantenne la testa sulla spalla. A differenza di Rachel, Max questo genere di domande se lo poneva. Non trovava risposte che la convincessero del tutto, però da quando aveva scoperto di essere in grado di vedere gli spiriti – per lo meno lo spirito di Rachel – la sua mente aveva iniziato ad aprirsi a nuove possibilità. O questo o la pazzia. Sono una novella Melinda Gordon, pensò con una punta di sarcasmo, la Melinda Gordon di Arcadia Bay. Melina Gordon aiutava i fantasmi a passare oltre, ovunque fosse, e sinceramente le sembrava una cosa corretta da fare, ma era sicura che Rachel non avesse intenzione di andare avanti. Non poteva nemmeno  tornare a vivere tanto intensamente come prima, però. E Max come viveva? Attraverso la lente dell’obiettivo, a distanza di sicurezza.

«Sono certa di mancare a tutti.» Il disprezzo nella voce di Rachel le fece alzare la testa, ma ciò che vide le fece desiderare di non averlo fatto. Si allontanò da lei istintivamente, lanciando un piccolo urlo.
La faccia di Rachel era decomposta.

Pallida come un fantasma, quasi traslucida,  le vene viola che si diramavano sul collo e sulle guance – sulla guancia. Metà del suo viso aveva ancora una parvenza di vita, della pelle abbronzata che da qualche settimana a quella parte era diventata parte integrante delle sue giornate, mentre l’altra metà sfumava nel grigio di un cadavere dimenticato, la guancia scavata e brulicante di vermi. L’occhio era coperto da una patina lattiginosa, inespressivo, immobile, le labbra strappate a morsi, i vestiti stracciati.
Si voltò verso di lei lentamente, permettendole di osservare le metà speculari del suo corpo: la sinistra – sana, splendente, amichevole – e la destra, morta, decomposta, spezzata come una bambola di porcellana gettata in uno scantinato.
Riusciva a vedere le larve bianche annidate nel costato …

«Sentono tutti la mia mancanza, eppure nessuno è venuto a cercarmi» Le parole inciampava una sull’altra, la voce distorta da quella metà del viso che non si muoveva,  tutto il rancore di Rachel che sembrava in procinto erompere come un fiume in piena. «Il mio corpo giace ancora in quella maledetta discarica dimenticata da Dio! Avvolto in un telone di plastica, sotterrato a pochi centimetri di profondità, straziato dai parassiti!»
La guardò e vide l’orrore sul viso di Max, gli occhi azzurri sgranati dal terrore, le lentiggini come spruzzi di sangue sulle guance impallidite. La rabbia fluì via, sostituita dall’autocommiserazione.
«Ogni tanto li sento, sai?» mormorò guardando in basso.
Appoggiò quel che rimaneva della mano sulla guancia brulicante di vermi quasi sovrappensiero, la voce un sussurro. «Sento i vermi che mi strappano la pelle dalle ossa. Le larve che si nutrono della mia carne, l’immobilità dei miei muscoli … A volte apro gli occhi e vedo tutto nero, sento il terreno umido sopra di me che mi riempie la bocca e striscia nei polmoni … E vorrei gridare aiuto, urlare e scappare … Ma non ce la faccio. Non c’è forza nelle mie braccia. Non c’è nessuno che possa tirarmi fuori. Sono intrappolata nel mio corpo.»
Lentamente, il suo viso tornò sano ed in salute, così com’era stato al momento della sua morte. Quando le mosche smisero di agitarsi sull’incavo del collo, Max notò un piccolo foro rosso. Puntura di un ago.
«Ti prego, non farlo mai più.»
«I miei genitori hanno smesso di cercarmi due mesi dopo che sono morta» continuò imperterrita Rachel, senza dare segno di averla udita. «Due mesi dopo la mia scomparsa. Loro non potevano sapere della mia morte, non potevano, eppure hanno smesso di cercarmi. Due mesi dopo! Solo due mesi! Quale genitore smette di cercare suo figlio dopo così poco tempo?»
Max combatté contro i brividi che le correvano lungo la schiena e si avvicinò verso il fantasma. «Mi dispiace, mi dispiace tanto.»
Rachel scoppiò in lacrime fra le sue braccia, mentre Max la stringeva forte e le accarezzava i capelli e piangeva con lei. «Se potessi riavvolgere il tempo per salvarti la vita, lo farei. Se potessi salvarti, se potessi avere quel potere, lo userei. Mi dispiace …»
«Lo so» singhiozzò Rachel. «Lo so. Raderesti una città al suolo per salvare qualcuno che ami …»
 
Era uno degli ultimi giorni di settembre e l’aria era croccante e dorata come una mela appena colta. Max osservò il cielo terso sorridendo, cercando di indovinare le forme delle nuvole, ma erano sbuffi troppo sottili per potervi trovare un’immagine soddisfacente. Rachel non era lì, e la cosa la inquietava un po’, ma non dover tenere l’auricolare nell’orecchio per parlare con lei fingendo di avere una chiamata in corso non le dispiaceva. Anche quel piccolo istante di solitudine tutto per lei non le dava fastidio. Aveva bisogno di prendersi del tempo per sé stessa, ogni tanto, ma non aveva il cuore di dirlo alla ragazza, nemmeno quando la mattina appena sveglia la ritrovava a fissarla dallo stipite della porta. «Veglio su di te» le diceva sempre, e Max ingoiava il rospo.

Kate passò accanto a lei e la salutò con un sorriso, diretta versa il dormitorio delle ragazze, e anche Max la salutò con la mano. L’occhio le cadde sulla croce che portava al collo e all’improvviso si rese conto che Kate era una cristiana credente e che sicuramente ne sapeva molto più di lei riguardo spiriti e angeli e conti in sospeso. Si sistemò la borsa e partì all’inseguimento. «Kate, aspetta!»
La ragazza si voltò sorpresa: «Posso aiutarti in qualche modo, Max?»
«Sì, ehm …» Non ci posso credere che sto per farlo «Kate, tu … tu credi ai fantasmi?»
Kate si fece piccola piccola. «Vuoi prendermi in giro?»
«No, no! Lo sai. E’ solo che tu sei molto credente e ultimamente mi sono posta queste domande e pensavo che non ci fosse persona migliore di te per rispondermi e … ehm …»
La ragazza la osservò guardinga, prima di deglutire e rispondere. «Sì, io credo negli spiriti dei defunti. Penso che siano anime tormentate intrappolate fra questo e mondo e l’aldilà.»
«Sono peccatori?»
«Siamo tutti peccatori, Max.»
«Ma si può fare qualcosa per aiutarli? O la loro anima è persa?»
Kate ci pensò un po’ prima di rispondere. «Non so darti una risposta certa. Penso che siano persone che hanno dei conti in sospeso, persone strappate alla vita prima che si compisse il loro destino. Non si possono aiutare da soli, quindi … beh …» Arrossì violentemente e lasciò cadere il discorso. Max aveva bisogno di risposte, quindi la incalzò con gentilezza. «Quindi?»
«Ti sembrerà stupido, ma … Io prego per loro. Prego per le anime smarrite e spero che Dio possa aiutarle.»
«Non mi sembra stupido per niente, Kate» mormorò Max stringendole la mano. «E per quanto riguarda le persone che possono vederli? Esistono?»
«Io credo di sì, sono persone molto speciali. Forse solo loro possono aiutarli a risolvere i loro conti in sospeso e a passare oltre.»
Max meditò su quest’ultima frase, tentando di non pensare troppo a Melinda Gordon, e annuì. «Ti ringrazio, Kate.»

Kate le chiese come mai questo improvviso interesse per la materia. «E’ che credevo di aver capito che tu non credessi a queste cose, mi chiedevo cosa ti avesse fatto cambiare idea. Ti vedo … strana, diversa in questo periodo. Non in una brutta maniera, però …»
«Capisco cosa intendi» la rassicurò la ragazza «Anche io mi sento diversa. Ultimamente … è successa una cosa che mi ha fatto dubitare di ciò in cui credevo di credere. Ha senso?»
«Sì, lo ha. Max?»
«Dimmi.»
«Pregherò per te.»
Max le sorrise. «Ti ringrazio, Kate.»
 
Quello stesso giorno rubò uno scatto particolare e lo stampò non appena tornò alla Blackwell, pregando che nessuno entrasse per vederlo. Corse in camera sua e chiuse la porta a chiave. Precauzione inutile, dato che Rachel sarebbe entrata comunque, ma Rachel era colei che la preoccupava di meno. Sedette sul letto a braccia incrociate e lo osservò per bene. Il fitto del bosco era ancora verde, e nella radura aveva immortalato un corvo appollaiato su un ramo e un cervo – forse era femmina – adagiato sugli aghi di pino, la testa poggiata sulle gambe di una ragazza. La ragazza aveva i capelli biondi e i polsi arrossati, una piuma azzurra come orecchino e la mano intenta ad accarezzare il muso dell’animale. Max non aveva idea di come fosse possibile, si sarebbe aspettata che la fotocamera digitale esplodesse o altre cazzate simili, invece no, aveva stampato Rachel come qualsiasi altro soggetto, senza alcun difetto. Ma poteva vederlo solo lei? Non voleva scoprirlo. Si domandò cosa sarebbe accaduto con la macchina fotografica istantanea che tanto desiderava, ma scacciò via il pensiero.
«Quella sono io» mormorò Rachel accanto a lei.
«Sì» rispose Max allungandole lo scatto per vederlo meglio. Rachel si contemplò in silenzio, rivedendo dopo mesi un’immagine di sé stessa. «Sono ancora una bellezza.»
«Certo che lo sei.»









NdA:
Ehilà! Non fatemi pensare che fra 4 giorni è settembre perchè mi metto a piangere. Il capitolo in teoria doveva finire molto più in là, ma sarebbe stato troppo lungo e quindi ho deciso di terminare qui, che mi sembra un ottimo punto. Perdonate eventuali errori, ho controllato molte volte ma sono certa che mi sia sfuggito qialcosa. La citazione ad inizio capitolo è tratta da Westworld, non mi ricordo quale episodio della seconda stagione. Il capitolo mi piace molto, mi sono divertita ad alternare i POV, ma non sono completamente sicura di aver centrato bene il carattere di Max e di averla resa IC. Mi sono resa conto che mi risulta più semplice muovere Chloe e Rachel, ma spero di aver fatto un buon lavoro. Come al solito, il capitolo è dedicato alla mia Sensie, con la quale faccio intense sedute di brainstorming dalle quali poi mi discosto sempre ahaha
Buona lettura e fatemi sapere cosa ne pensate!
Feniah <3
EDIT: 02/03/2022

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