Fuggiremo insieme, te lo prometto

di mega n
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Ho bisogno di un'arma... e di un favore ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Bentornato ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Come quel signore laggiù! ***



Capitolo 1
*** Prologo - Ho bisogno di un'arma... e di un favore ***


«Leggi Shakespeare?», domandai sorpresa all’uomo che mi trovai davanti entrando in quel piccolo negozietto all’angolo della strada.

Lo conoscevo, tempo prima ci andavo spesso per passare del tempo quando mi annoiavo o quando rischiavo di uccidere qualcuno dei miei colleghi, in preda alla rabbia per qualcosa che aveva detto. Quella volta, però, era diverso. Nell’esatto istante in cui ero entrata, mi ero resa conto che tutto ciò che avessi fatto da quel momento in poi sarebbe stato condizionante dell’esito della mia missione.

«Me l’hai consigliato tu, ricordi? Qualcosa come due mesi fa… da quanto tempo non ci vediamo!», rispose sorridendo l’uomo, posando il libro sul bancone, «Dimmi solo una cosa e poi mi dici perché sei qui… come va a finire tra Otello e Desdemona?».

«Non voglio rovinarti il finale, d’altronde ti basta leggere le ultime pagine per scoprirlo, non chiedermelo; ora pensiamo agli affari, piuttosto», replicai freddamente, «Ho bisogno di un’arma».

«Un’arma. D’accordo, come desideri; che tipo di arma?», si arrese il mio interlocutore.

«Carter, mi conosci ormai: mi piacciono le cose semplici, ma non devono passare inosservate… dammi un fucile, il più costoso che hai», replicai con tranquillità e leggerezza, guardandomi intorno con indifferenza e disinteresse.

«Un fucile? Parti per una battuta di caccia adesso? Non ti credevo il tipo di persona che ama uccidere animali…», commentò Carter mentre gli porgevo i documenti.

Sorrisi mentre mi passava un catalogo aperto alla pagina dov’erano riportati tutti i tipi di fucili in vendita.

«No, infatti devo uccidere delle persone, mio caro, ma tu fa’ finta che sia andata a caccia…», ribattei ironicamente, «Dammi quello che può contenere più munizioni… e con il prezzo più elevato, almeno mi libero di un po’ di banconote, mi sento il portafoglio troppo pesante», ordinai senza nemmeno dare un’occhiata al catalogo.

«Va bene, un momento solo e te lo porto.», concluse il negoziante scomparendo dietro una porta di legno alle sue spalle.

 

***

 

«Agente Miusov», dissi accostando il cellulare all’orecchio.

Era Coulson; due volte in un giorno, un record!

«Lieto di sentirti; hai ricevuto il rapporto sull’Obelisco?», domandò la gracchiante voce del direttore dello S.H.I.E.L.D., che non lasciava trasparire alcuna emozione.

«Naturalmente, ho appena finito di leggerlo.», risposi freddamente, mentre sfogliavo distrattamente un fascicolo su quel misterioso manufatto alieno dal potere di pietrificare le persone. Piegai la testa fino a toccare la spalla per evitare che mi cadesse il telefono e ripresi a preparare il mio armamento; in realtà avevo appena finito di modificare, caricare e lucidare il fucile, ma poco importava, avevo letto le informazioni che mi sarebbero state utili per la mia missione e ciò sarebbe bastato.

«Molto bene…», mormorò Coulson, e dal tono con cui mi si rivolse intuii che aveva altro a cui pensare, preoccupazioni ben peggiori… dopotutto, ero una delle spie migliori dell’agenzia – parole sue, utilizzate per convincermi ad accettare l’incarico, ma pur sempre vere.

«Ah, Coulson, mi servirebbe un favore…», lo interruppi.

«Perché ogni volta che pronunci questa frase non c’è mai da aspettarsi nulla di buono?», chiese ostentando una certa calma, ma non riuscendo a camuffare la paura che pareva perseguitarlo costantemente.

«Perché sono una spia russa dai metodi non convenzionali?», replicai, citando la frase con cui si apriva il rapporto su di me redatto da Nick Fury in persona.

«Oppure perché ti piacciono le cose costose e durante le missioni mi chiedi soldi in continuazione?», mi provocò il direttore. Più che altro mi divertivo a spendere i soldi in armi costose, era il mio passatempo preferito, come quello di un mio vecchio amico era costruire armature high-tech…

«Tutti hanno bisogno di un hobby, Phil», ammisi divertita.

«Già, ma i soldi sono i miei…», obiettò Coulson contrariato, «E anche se ti ho affidato una missione estremamente delicata, non ti darò altri soldi oltre a quelli promessi».

Scossi la testa ridendo: «Non ti chiederò dei soldi, ho solo bisogno di un favore».

Impiegai diverso tempo per convincerlo ad accettare, ma alla fine, come previsto, cedette senza troppe storie, il che era un bene, considerando che nemmeno io ero molto convinta di ciò che gli chiesi, nonostante mi fosse indispensabile: avevo il terrore degli aerei, era comprensibile che mi credesse impazzita quando udì la mia richiesta, ma fu costretto a fidarsi, d’altronde ero l’unica persona disponibile per un simile compito.

Compito che, sapevo bene, non sarebbe stato per niente facile. Ma ero pronta… e abituata a portare a termine missioni impossibili anche più difficili di quella, naturalmente.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Bentornato ***


Cercavo soltanto un posto a sedere; l’autobus era completamente vuoto, non sarebbe stato un problema: e difatti non lo fu.

Il mio sguardo, che saettava da una fila di corsie all’altra, perlustrando il misero veicolo alla ricerca della posizione ad esso più congeniale, si posò sulla stessa persona che mi fissava, fingendo di leggere seduta su una panchina, fuori dalla stazione.

«Scusami, questo è libero?», domandai indicando il sedile alla sua destra; la donna dai capelli biondi era vicina al finestrino, con ancora il libro tra le mani e la testa china, ma l’attenzione degli occhi, dalle iridi verdi, visibilmente rivolta altrove; mi osservò attentamente per un attimo, e probabilmente una voce nella sua testa le intimava di comportarsi normalmente e con estrema gentilezza e cordialità – certo, nessuno l’avrebbe notato, se non fosse stato abituato ad attuare costantemente lo stesso identico tipo di atteggiamento, cosa che io facevo, naturalmente, ininterrottamente da diversi anni –, quindi mi sorrise, rispondendo con leggerezza: «Sì, siediti». E riprese a ostentare la lettura del volume che aveva davanti.

«Grazie», dissi, e appoggiai la borsa, che fino a quel momento avevo tenuto a tracolla, sul ripiano apposito, sopra le nostre teste, «Ti piace volare, eh?», ripresi.

La mia interlocutrice mi guardò, mostrandosi pateticamente sorpresa: «Come, prego?», come se non capisse – e, ovviamente, sapeva benissimo a cosa mi riferivo.

«Non ho mai capito perché la gente prenda l’autobus invece dell’aereo…», argomentai, appallottolando la giacca e riponendola insieme ai bagagli.

«Disse l’uomo sull’autobus», replicò la finta lettrice ridacchiando, mentre mi sedevo accanto a lei.

«Ho deciso all’ultimo minuto, era l’unico mezzo», spiegai, sorridendo a mia volta; tanto valeva proseguire la conversazione, sarebbe stato più utile che tacere: «Sei qui per scelta?».

L’attrice poggiò la testa sul palmo della mano sinistra per qualche istante, balbettando, come colta alla sprovvista da una richiesta assurda e inaspettata: «Ah, sì, mi godo la vista».

«Ah».

«Non si vede il mondo da sopra le nuvole», seguitò.

«Non lo vedi nemmeno se leggi», obiettai, ammiccando alla pagina, di cui sbirciai il numero di sfuggita: centodiciassette, decisamente, ribadii a me stesso, non stava leggendo.

«È un viaggio lungo, c’è tempo per fare tutto», replicò; sospirai.

«Puoi leggere direttamente la fine».

A quelle parole, la donna rimase un momento in silenzio, con lo sguardo nuovamente fisso sulla carta, come se pensasse ad un modo adeguato di ribattere; la prossima volta si sarebbe dovuta preparare le battute, pensai.

«E perdermi le parti più interessanti?», concluse provocatoriamente.

«Non sembrano interessanti», mi opposi.

«E tu che ne sai?», provò a non tradirsi.

«Perché eri a pagina 117 quando eri qui fuori… e sei ancora a pagina 117», le mostrai, «Quindi, o tu… leggi molto lentamente… o lavori per Coulson».

Si voltò di scatto verso di me: «Chi?».

Sorrisi: «Sono molto colpito… diglielo pure che mi siete mancati», cominciavo a divertirmi.

«Di cosa stai parlando?», la donna non pareva essere della mia stessa opinione, che peccato!

«Sono certo che sai di cosa parlo», dissi gravemente, stringendo con la destra un piccolo detonatore, con un pulsante per l’innesco della bomba, ad esso collegata, sulla cima, e i cavi che uscivano dalla manica della mia camicia, «Se provi a fare, o a dire qualcosa… beh, tutte queste persone salteranno in aria… quindi… continua a leggere il tuo libro tranquillamente, e augurati che abbia un lieto fine».

Era il momento di porre fine a quella sceneggiata, così mi alzai e mi rivolsi all’autista: «Ehi, autista!».

«Sì, signore?».

«Ho sbagliato autobus…», risposi riprendendomi la borsa, «Avrei dovuto… fare un po’ più di attenzione, scusi», afferrai la giacca e mi allontanai dalla mia precedente interlocutrice, che non distolse lo sguardo da me neppure per un momento.

Scesi in fretta e corsi velocemente verso il mio vero mezzo di trasporto

«Ultima chiamata per l’autobus quarantuno-sessantotto per Boston», gracchiava una voce mentre mi affrettavo a raggiungere l’autobus che mi avrebbe condotto in Massachusetts, e l’agente Morse mi fissava dalla strada, rabbiosamente.

«Mi scusi, avevo un bagaglio di troppo», mi giustificai prima di prendere posto

 

***

 

Con passo sicuro, ma con una certa dose di circospezione ormai divenutami indispensabile, mi diressi verso la Goldbrix Tavern ed entrai.

«Ti concedo la scelta: vediamo, cravatta colombiana o pallottola in testa?», mi domandò con voce graffiante il barista, un uomo corpulento e dal lucido cranio pelato, poggiando le mani, chiuse a pugno, sul bancone.

Sogghignai, abbassando per un attimo la testa per non farlo notare, quindi risposi con naturalezza: «Pallottola in testa… con ghiaccio», dunque appoggiai la borsa e mi sedetti.

Il barista mi porse un bicchiere pieno di ghiaccio, lo riempì di un liquido marrone e disse: «Offre la casa. Bentornato».

Lo presi e bevvi con estrema tranquillità, ma la mia mente era altrove – oh, certo, lo era dal momento in cui ero fuggito a quelle guardie incompetenti che, teoricamente, mi stavano impedendo di scappare.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Come quel signore laggiù! ***


«Ah, Miusov, un’ultima cosa: Ward è fuggito, sta’ attenta», quella frase di Coulson continuava a tormentarmi dal momento in cui avevo riattaccato e avevo finito di prepararmi per la missione. In un primo momento non avevo prestato particolare attenzione alle sue parole, ma ora che ero sola con le mie riflessioni non riuscivo a non pensarvi.

Grant Ward era stato il mio più grande amico dai tempi dell’Accademia, avevamo studiato insieme, ci eravamo allenati insieme, avevamo lavorato insieme in molteplici occasioni e ancora ero fermamente convinta che il suo tradimento verso lo S.H.I.E.L.D. fosse solamente una copertura, un modo per ottenere informazioni… e che i suoi compagni non dovevano assolutamente conoscere, o avrebbe rischiato troppo; certo, effettivamente rischiava comunque molto, dato che tutti i suoi vecchi compagni lo consideravano un agente dell’HYDRA e avrebbero anche tentato di ucciderlo, se solo se ne fosse presentata la possibilità, ma quando uno svolge un simile lavoro è necessario che sia preparato ad affrontare il pericolo in ogni circostanza.

Comunque, mi dissi con convinzione, Grant Ward non era un mio problema e non lo sarebbe stato; avevo ben altro a cui pensare, e i miei contorti e infiniti pensieri non riguardavano lui in nessun caso. Per esempio, il luogo in cui mi trovavo in quell’istante: quello era il mio più grande problema in quel momento.

«Sei sicuro di saperlo pilotare? Sei assolutamente certo che non ci schianteremo? O che l’elicottero non precipiterà?», insistetti. Il pilota grugnì, sbuffò e non mi degnò di alcuna risposta.

Ero leggermente terrorizzata; forse non era stata una buona idea chiedere a Coulson un passaggio per il Massachusetts. Decisamente non era stata una delle mie idee migliori, e dovevo certamente essere completamente impazzita quando gliel’avevo domandato.

«Sul serio, non rischiamo di precipitare, vero?», forse, ma soltanto forse – e si tratta un enorme forse –, era stressante qualcuno talmente pressante, per il mio interlocutore, ma non era colpa mia se avevo paura di volare…

«Sì, ne sono assolutamente sicuro, non precipiteremo né ci schianteremo. E sono un pilota, è il mio lavoro volare. Piuttosto, agente Miusov, perché andare in Massachusetts per cominciare la ricerca dell’Obelisco?», si decise a tranquillizzarmi il pilota.

Non risposi, non subito almeno.

Sapevo bene perché il Massachusetts, parola che per me era ormai divenuta sinonimo di un’altra, un tempo una di quelle che usavo più frequentemente; mentre allora, invece, era soltanto il nome di una località che dovevo assolutamente raggiungere.

Non volevo arrendermi e accettare che il mio migliore amico fosse un assassino, ma per qualche strana e poco comprensibile ragione, ero assolutamente certa che avrei trovato agenti dell’HYDRA nei paraggi.

«Come sai dell’Obelisco? Coulson ha detto che è confidenziale!», esclamai sorpresa.

«Perché avrebbe contattato proprio te, agente Miusov, un’esperta spia e una tra i migliori agenti dell’agenzia?», replicò l’uomo nella cabina di pilotaggio, «Tutti allo S.H.I.E.L.D. non parlano d’altro, ho semplicemente dedotto…».

Mi rifiutai di proseguire la conversazione, stava diventando piuttosto imbarazzante. In effetti, non avevo un’idea precisa del perché stessi andando proprio in Massachusetts, ma credo che nemmeno Coulson – che stava basando le sue missioni su dei segni alieni che incideva sul muro o sulla scrivania nel tempo perso, il che non mi pare sia propriamente indice di una grande sanità mentale – avesse ben presente da dove cominciare una ricerca così estesa; inoltre, era probabile che, considerandone l’importanza (e conoscendo il modo di ragionare di pressoché chiunque), ne esistessero parecchie copie, quindi, perché no? Era un così bel posto, o almeno era quello che mi avevano riferito, e non ci ero mai stata!

Certo, con molta probabilità mi sarei imbattuta in gente che conoscevo da tempo – per lavoro, non certo perché mi dilettassi ad essere l’agente dello S.H.I.E.L.D. con più minacce di morte da parte dei nemici!

«Siamo arrivati, agente Miusov. Dove vuole atterrare?», mi distolse dal mio insostenibile rimuginare il mio precedente interlocutore, nonché l’unico delle ultime tre ore; ringraziai mentalmente che quella tortura disumana fosse finalmente giunta al termine, ero certa che, se si fosse ulteriormente prolungata, anche solo qualche di qualche istante, sarei morta.

«Nella foresta, dove nessuno sospetterebbe la mia presenza», furono le mie ultime parole prima di ricadere nel silenzio.

 

***

 

Boston, Massachusetts.

La Goldbrix Tavern non era forse il posto migliore per fermarsi, ma dopo quasi cinque ore di viaggio non mi posi neppure il problema: inoltre, avrei potuto ottenere molte informazioni sull’oggetto della mia ricerca, se solo nessuno avesse smascherato la mia copertura. Non avevo conoscenze particolari tra i membri dell’HYDRA, era vero, ma molti di loro avevano combattuto contro di me – venendo miseramente sconfitti – ed erano stati lungamente torturati, allo S.H.I.E.L.D. affinché si tradissero e fornissero i loro torturatori di ragguagli, anche non necessariamente particolarmente dettagliati, sulla loro organizzazione: almeno la metà degli agenti nemici mi desiderava morta, ma, in effetti, era quasi la norma, per me.

Sistemai per l’ultima volta il mio travestimento, rassettai i capelli ramati, ritinti per l’occasione del loro colore naturale, respirai profondamente e mi avviai verso la mia destinazione con passo sicuro ed atteggiamento tronfio e supponente.

«Salve», mi salutò, quando entrai, la voce del barista, che stava lucidando un bicchiere con uno straccio ormai incapace di lucidare, tanto era sporco; risposi, e mi sedetti di fronte al bancone, come uno qualsiasi degli avventori, «Non credo di conoscerla», disse poi l’energumeno.

«Mi chiamo Bailey Adams, ho lavorato per un po’ sotto copertura nello S.H.I.E.L.D., probabilmente alcuni si ricorderanno di me… la maggior parte, però, no, in effetti… », replicai distrattamente, ed ordinai da bere; notai, alla mia sinistra, a qualche sedia di distanza da me, un uomo con lo sguardo perso nel vuoto; indossava un giubbotto verde scuro, e sotto di esso una sporca camicia a quadri; portava una folta barba e capelli incolti, come se non avesse avuto tempo di recarsi da un barbiere, negli ultimi mesi, nemmeno una volta.

Eppure, c’era qualcosa di strano in lui, qualcosa di sospetto, di misterioso, ma anche di sofferente: come uno strazio interiore che ne dilacerava l’animo in tante piccoli brandelli, più piccoli e numerosi dei coriandoli gettati per le strade durante il Carnevale in Italia, dove solevo recarmi in villeggiatura con i miei genitori da bambina, nei periodi più svariati dell’anno; ed era, tale strazio, talmente tangibile, da risultare quasi inosservabile, tanto era evidente, perché all’occhio umano pare troppo scontato ciò che è banalmente visibile, seppur estremamente rilevante, così lo tace, non vi bada, commettendo un terribile ed imperdonabile errore.

«Come quel signore laggiù», ed accennai all’oscuro individuo, «Che sicuramente si rammenta di me, dato che abbiamo lavorato spesso insieme», ma colui non si preoccupò di rispondere alla provocazione, non di fronte tutta quella gente; ed il barista non domandò oltre.

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