Danish Cub

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'angoscia del cucciolo ***
Capitolo 2: *** L'addio del cucciolo ***
Capitolo 3: *** Il pianto del cucciolo ***
Capitolo 4: *** La lotta del cucciolo ***



Capitolo 1
*** L'angoscia del cucciolo ***


Danish Cub

 

 

 

 

 

Adesso metto fine alla mia vita perché un bucomane porta arrabbiature, preoccupazioni, amarezze e disperazione a tutti i parenti e agli amici. Egli non distrugge solo se stesso, ma anche gli altri. Grazie ai miei amati genitori e alla mia nonnina. Fisicamente sono uno zero. Essere bucomani vuol dire essere l’ultima merda. Ma chi spinge all’infelicità quanti arrivano al mondo giovani, pieni di voglia di vivere? Questa vuole essere una lettera di ammonimento per tutti quelli che si trovano di fronte a questa decisone: che faccio, ci provo? Stupidi: guardate me. Adesso non ho più nessun problema.”

 

(Lettera di Andreas “Atze” Wiczoezk,

estratto da Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, di Christiane F.)

 

 

1. L’angoscia del cucciolo

 

 

novembre 1975,

Londra

 

Ho freddo alle punte dei piedi. Li muovo sfregandone le punte contro il materasso, raccolgo le ginocchia al ventre, e la coperta striscia sul tessuto dei pantaloni che pizzicano la pelle delle gambe. I muscoli pesano come se fossero sacchi di sabbia, il senso di stanchezza mi tiene avvolto in un manto di nuvole che mi ovattano la testa, stordendo i sensi come una fitta inalata di fumo. Ho ancora sonno. Un singolo raggio di luce grigia e fredda attraversa la camera, batte sui miei occhi chiusi, e solletica la punta del naso che prude, fredda anche quella. Il riscaldamento dev’essere rimasto spento, così ha gelato tutta la notte.

Che gran bell’inizio di giornata.

Mugugno una smorfia, strizzo forte le palpebre per non farle schiudere sotto il tocco del raggio di sole, e mi rigiro nel letto rotolandomi dalla parte opposta. Spremo la guancia sulla parte fredda del cuscino, gelida, ma il raggio dell’alba grigia è sempre lì a torturarmi come il volo di una mosca che ronza attorno alle orecchie senza accennare ad andarsene. I primi rumori del traffico cominciano a propagarsi fra le pareti della camera da letto, il ronzio del frigorifero si fa sentire dalla cucina, le lancette della sveglia ticchettano sul comodino, e un ritmico plic-plic scandisce il gocciolio del rubinetto che l’idraulico non è ancora venuto a riparare, anche se l’ho chiamato ben due settimane fa.

Un fascio di nervi comincia a tendersi attraverso il mio corpo ancora intorpidito dal sonno, e la sua pressione pulsa attraverso la fronte. Emetto un sospiro grave e profondo contro il cuscino intiepidito dal calore della mia guancia, stropiccio le palpebre e increspo le sopracciglia in una smorfia d’irritazione. Mi rassegno ad alzarmi anche se la sveglia non è suonata.

Schiudo le ciglia, mi abituo al colore smorto e cinereo del sole annuvolato che passa attraverso il vetro e le tende, arrivando a solleticarmi la punta del naso. La sagoma tonda della sveglia somiglia a un largo faccione che mi dà il buongiorno, la lancetta dei secondi avanza lenta e regolare, passa oltre le braccia fosforescenti più spesse che indicano le sette e ventiquattro.

Frange di lana mi pizzicano il collo, prudono e solleticano la nuca all’attaccatura dei capelli. Distendo il corpo per stiracchiare le gambe, e le punte dei piedi escono dalla coperta. Sono fredde lo stesso, nonostante indossi ancora i calzini.

Un primo dubbio mi fa storcere un sopracciglio, mi scuote come se mi avessero rovesciato un bicchiere d’acqua fredda in faccia.

Ho dormito con i calzini?

Sollevo la guancia dal cuscino, abbandono la chiazza di caldo che si era formata fra la stoffa e la mia pelle, e mi guardo le gambe. Sbatto le palpebre per sciogliere la patina di sonno che mi appanna la vista, e riconosco la coperta di lana a quadri gialli e arancio che tengo nell’armadio. È quella che ho comprato appena mi sono trasferito a Londra, quella che tiro fuori dall’armadio solo in pieno inverno, e che di solito lascio sul divano del soggiorno, e non sul letto. I miei piedi sbucano dall’orlo di frange gialle e sfiorano il fondo del letto. Spingo il peso sul gomito, sollevo le spalle con uno sforzo, la coperta scivola sul fianco e si raccoglie ai miei fianchi, rivelando il maglione che indossavo ieri.

Mi strofino la testa, gratto i capelli dietro l’orecchio strofinando via il prurito trasmesso dalla coperta di lana, e ne ribalto un angolo. Faccio scivolare una gamba fuori dalla lana, agito le dita dei piedi dentro i calzini, e le punte formicolano, riacquistando sensibilità. Sotto la coperta a quadri, il letto è fatto e stirato, solo stropicciato sotto il mio peso, ma senza un lenzuolo fuori posto.

Ieri mi sono addormentato vestito, avvolto in una coperta che non dovrebbe nemmeno essere qui, e senza nemmeno infilarmi sotto le lenzuola. Ma che diavolo è successo?   

Allungo un braccio nella parte destra del letto, verso l’altro cuscino, e apro la mano per tastare il materasso, incontrare il suo viso o la sua spalla, e scuoterlo in cerca di spiegazioni. «Mathias?» La mano preme sul cuscino freddo, sprofonda senza afferrare nulla, se non l’imbottitura.

Mi giro di scatto, e la coperta di lana fruscia sulle mie ginocchia per il movimento improvviso.

Il letto è vuoto. Il lenzuolo tirato, le pieghe del cuscino increspate solo dalla mia manata, e lo attraversa solo il raggio di luce grigia che taglia l’aria come una lama rigonfia della nebbiolina di polvere che sciama dentro.

Sollevo un sopracciglio. Non c’è?

Avrei dovuto immaginarmelo quando mi sono svegliato senza le sue braccia aggrappate ai miei fianchi, senza la sua testa appoggiata sulla mia spalla e senza il tepore del suo respiro lento e insonnolito a soffiarmi dietro l’orecchio. Avrei dovuto immaginarmelo quando mi sono svegliato avvolto solo da una sgradevole sensazione di freddo e di vuoto.

Sfrego le nocche su un occhio ancora intorpidito dalla dormita, stropiccio le palpebre, sbatacchio le ciglia, e scandaglio la camera da letto. Vuota. Fuori dall’appartamento i rumori del traffico si fanno più insistenti, un clacson squilla, la lancetta della sveglia batte i secondi, il lavandino gocciola, il frigorifero ronza, i primi passi degli inquilini di sopra attraversano il soffitto, e il bambino della porta accanto ha già attaccato a schiamazzare. Eppure, la casa mi sembra lo stesso fin troppo silenziosa.

Mi sfilo la coperta di dosso, come se stessi sfogliando la pagina di un libro via dalle mie gambe, e mi sporgo dal letto per sbirciare il corridoio verso la cucina.

«Mathias, sei in cucina?»

Niente. Rispondono le voci ovattate degli inquilini dell’appartamento affianco che hanno già cominciato a litigare di mattina presto.

Sospiro, mi passo una mano attorno al collo, friziono un massaggio sulle vertebre, e qualche giuntura schiocca sotto le dita che premono anche sulle spalle. Chiudo gli occhi, mi isolo dai rumori dell’appartamento, e torno a ieri sera, a quello che è successo prima di andare a dormire.

Ieri sono rientrato in casa alle sette, c’era già buio ma sia le luci del soggiorno che della cucina erano spente. Ho buttato la borsa sulla sedia in corridoio, ho appeso la giacca nell’armadio sentendo già un formicolio di nervosismo corrermi sulla pelle perché la porta non era chiusa a chiave e avrò detto mille volte a Mathias di sigillarla di almeno due giri di chiave quando esce, e ho attraversato il corridoio per cercarlo. Mathias era in soggiorno, seduto davanti alla finestra, le braccia incrociate sul davanzale, il viso affondato fra gli incavi dei gomiti intrecciati, gli occhi scuri immersi nella penombra e rivolti all’oscurità del cielo che permeava attraverso il vetro, e solo una parte del tatuaggio a emergere dal colletto della maglia. Era rosso, se l’era grattato. Era almeno un paio di settimane che gli trovavo il collo sfregiato, gonfio per i segni delle unghiate che si era scavato sulla pelle.

Mathias aveva lo sguardo distrutto, peggio di quando torna a casa dopo tre giorni di vagabondaggio, o dopo una lite, o come le volte in cui lo trovo accasciato sul pavimento del bagno, a rantolare per i dolori al fegato o ad ansimare per un ennesimo attacco circolatorio. Ieri il colore della sera era già pesto, come fosse notte, bagnato solo dalle luci dei lampioni, dei fari delle macchine e delle insegne dei pub affacciati alla strada. Quel buio così denso e lucido si rifletteva nei suoi occhi distanti scavati nel viso smagrito. Occhi che ieri apparivano ancora più grandi e tristi. Mi ricordo solo che l’ho guardato di profilo e tutta la voglia di arrabbiarmi mi è scivolata via dalla pelle. Mi sono avvicinato a lui stando in silenzio, ho teso una mano per raggiungere un suo braccio, e –

Driiing!

Sussulto, il cuore mi rimbalza in gola e mi fa ingollare in ansimo.

La sveglia suona e mi strappa via dal ricordo di ieri sera, le lancette fosforescenti segnano le sette e mezza in punto, quella dei secondi è già avanzata oltre il dodici e sta passando il numero tre.

La spengo sbattendoci una manata sopra, e l’ultimo suo singhiozzo di vita muore in un debole ronzio. La sveglia tace e cade sul fianco, battendo sulla base della lampada spenta.

La mia testa si riempie solo del ronzio dei pensieri che frullano fra le pareti del cranio, e il distante suono del traffico mi riporta a quello che ho udito anche ieri sera. Rievoco ancora una volta il profilo di Mathias affacciato alla finestra, la guancia premuta sulle braccia incrociate, gli occhi tristi, lucidi e sciupati, e il suo viso impallidito colorato dalla luce blu che incavava profonde ombre nere attorno alle palpebre gonfie come se avesse pianto.

Di nuovo torna a scuotermi quel pizzico di paura che punge come il prurito della coperta di lana alla base del collo. Infilo le unghie sotto il bavero del maglione, e mi strofino come se il prurito fosse ancora lì, allontanandomi dai ricordi di ieri sera.

Forse è solo uscito.

Mi alzo dal letto, le molle cigolano, e il pavimento mi scarica una scossa di freddo attraverso i piedi, nonostante i calzini. Non mi preoccupo nemmeno di ripiegare la coperta a quadri e di rimetterla in fondo all’armadio. Imbocco il corridoio, supero il soggiorno, passo davanti alla porta della cucina, dove il ronzio del frigo e il gocciolio del rubinetto rotto si intensificano facendomi formicolare la mano dalla voglia di andare là e far fare a tutti e due la fine della sveglia, e raggiungo il mobile davanti alla porta d’ingresso.

Tuffo la mano nella ciotola di legno, rimesto il contenuto sollevando il fruscio metallico dei mazzi di chiavi che si agitano, simile a quello di un servizio di posate che viene scosso dentro a una scatola di ferro, ed estraggo il primo portachiavi a forma rettangolare che mi passa fra le dita. Il portachiavi a forma di bandiera danese emerge portandosi dietro l’anello a cui sono agganciate le chiavi del cancello e quelle dell’appartamento. Le mie ci sono. Rinfilo la mano nella ciotola, scosto il mazzo con le chiavi del contatore della luce, e pesco anche il ciondolo con la bandiera norvegese. La mano irrigidisce, una piccola scossetta attraversa le ossa, e mi scuote il battito del cuore. Ci sono anche quelle di Mathias. Allora non è uscito.

Stringo di più la presa, le unghie graffiano la superficie in rilievo che delinea la croce blu all’interno dello spazio rosso, il braccio si impietrisce, e di nuovo quel briciolo di timore e sospetto mi ronza nella testa facendomi provare un viscido brivido di disagio lungo la schiena.

Se non è in casa e non è nemmeno uscito, allora dove può essere...

L’occhio mi cade su un pacchetto di sigarette lasciato accanto alla ciotola di legno, vicino alla penna nera privata del cappuccio abbandonata accanto al telefono. Mollo le chiavi, raccolgo il pacchetto bianco e arancio già scartato dall’involucro di plastica e lo porto sotto la luce annebbiata che penetra dalle finestre del soggiorno e attraversa il corridoio rischiarendo l’ambiente. Il marchio delle HB è racchiuso nel triangolo rosso, fra la coroncina dorata e l’insegna “House of Bergmann”, ed è sovrastato dall’immagine di una coroncina.

Mathias non fuma le HB. E comunque, anche se le fumasse, non avrebbe lasciato il pacchetto a casa.

Infilo il pollice sotto il coperchio dell’astuccio e lo apro. Le sigarette ci sono tutte, disposte in due file, più un qualcosa...

Immergo l’indice fra le sigarette, gratto con l’unghia la parete di cartoncino, ed estraggo un foglietto più sottile e ruvido di un colore rosato piegato in due. Lo apro. È una banconota da dieci sterline.

Giro il pacchetto delle HB. La calligrafia di Mathias ha calcato una scritta con la penna nera nella parte bianca dell’astuccio. Solo un nome. “Gilbert”.

Aggrotto la fronte, lo stomaco si torce in un nodo, e la cosa mi piace sempre di meno.

Torno a guardare la banconota, il pacchetto di sigarette marchiato con il nome di Gilbert, e le chiavi di Mathias abbandonate nella ciotola. Tamburello le unghie sull’astuccio di HB. Il formicolio di freddo e disagio con cui mi sono svegliato torna a pizzicarmi la pelle, a scorrere assieme al sangue, e fa pulsare una vena di irritazione.

In che razza di macello è andato a cacciarsi questa volta?

Arrotolo le dieci sterline, torno a infilarle nell’astuccio, in mezzo alle due file di sigarette, e do due colpetti per pareggiarle.

Non è la prima volta che mi sveglio e che trovo il letto vuoto, senza Mathias, e non è nemmeno la prima volta che sparisce senza dirmi niente per poi risbucare in casa tre giorno più tardi, appiccicandosi a me dicendo “Scusa, scusa, scusa”, fino a che non crolla addormentato e dorme per almeno due giorni di fila.

Chiudo l’astuccio delle sigarette, lo rimetto dove l’ho trovato, affianco alla ciotola delle chiavi.

Mathias sarà uscito durante la notte, e si sarà semplicemente dimenticato le chiavi, e si ripresenterà a casa o questa sera o domani, quando avrà fame, o freddo, o sonno, e dovrà aspettare che io rientri per aprirgli il cancello e la porta.

Serro un pugno contro il mobiletto, stropiccio l’angolo del centrino sotto il telefono. Il grumo di nervosismo ristagna fra le dita e il palmo.

Ma io lo lascerò giù per almeno tre ore, fino a che non avrà nemmeno la forza e la voce di chiedermi scusa e di implorarmi in ginocchio. Così vediamo se la prossima volta si dimenticherà ancora le chiavi.

Torno a grattarmi dietro il collo, poi la spalla, lungo il braccio. Infilo le unghie sotto il maglione e sfrego anche in mezzo alle scapole, dove prude di più.

Dovrei farmi una doccia. È da ieri che non mi tolgo questi dannati vestiti di dosso e ci ho pure dormito tutta la notte.

Ripercorro il corridoio, e arrivo alla porta del bagno. Tasto la parete in cerca dell’interruttore, accendo la luce, e per un attimo mi illudo ancora di trovarlo qui, magari accasciato sul pavimento, mezzo svenuto, o aggrappato al water, scosso dai conati di vomito che a volte lo tengono sveglio anche per tutta la notte. Ma niente. Il bagno è vuoto.

Mi sfilo il maglione, lo getto nella cesta dei vestiti sporchi, brividi di freddo si arrampicano lungo la schiena facendomi accapponare la pelle. Finisco di spogliarmi intanto che l’acqua della doccia si scalda, aspetto di vedere le pareti di vetro appannarsi prima di riaprire le ante.

Può darsi che quando io esca lui sia già tornato, distrutto come ieri sera, magari anche con la guancia gonfia dopo aver ricevuto uno schiaffo come quello dell’altro giorno, o anche peggio. Ma non ho motivo di credere che gli sia successo qualcosa di più grave del solito.

Infilo il piede nella doccia, mi tuffo sotto il getto che mi annaffia il viso, i capelli, scende lungo le spalle e riga la schiena, gocciolando fino a raccogliersi in mezzo ai piedi. È bollente. Mi strofino le braccia bagnate, ma i brividi viscidi e freddi non se ne vanno, continuano a strisciarmi lungo le vene e a suscitare un lieve senso di nausea nonostante il tepore dell’acqua calda.

Ma allora cos’è questa maledetta sensazione che non mi dà pace?

 

.

 

Verso il caffè nella tazza, una fumata dal buon aroma di chicchi macinati mi pizzica la faccia appena asciugata dopo la doccia, e torna ad avvolgermi con un tepore simile a quello del soffio d’acqua che mi scivolava lungo le guance. Mi giro a posare la caffettiera sulla panca, accanto alle presine e al barattolo dello zucchero che non ho nemmeno aperto – è solo Mathias a mettere lo zucchero nel caffè o nel tè – e avvolgo la tazza con entrambe le mani, godendomi il calore della ceramica contro i palmi.

L’asciugamano asciutto che ho acciambellato attorno al collo per raccogliere le ultime gocce d’acqua che piovono dai capelli umidi mi dà fastidio alla nuca scoperta, deve farmi sembrare un pugile nell’angolo del ring.

Scrollo il capo, prendo una prima sorsata di caffè bollente, e le labbra restano a toccare l’orlo della tazza. Lascio che il vapore del caffè mi carezzi la fronte e la punta del naso, che le mani strette attorno alla ceramica si scaldino fino a bruciare.

Il rubinetto perde alle mie spalle, la cascata di piccole gocce – plic, plic, plic – affonda nel padellino incrostato di fondi del latte, riempito d’acqua fino all’orlo. Dalla finestra della cucina il traffico si sente di meno, in compenso lo sgocciolio del lavandino picchia lento e costante, e si unisce al pestare dei passi degli inquilini di sopra che si sono fatti più frenetici, alle corse per le scale che rimbombano lungo tutto il condominio, a una porta che sbatte, al brusio di voci che si propaga da dietro le pareti, e alla lancetta dell’orologio sopra il frigorifero che ticchetta i secondi come la sveglia in camera.

Soffio piano sulla superficie di caffè, faccio inclinare il velo di vapore, e riesco a sentire il sottilissimo suono del mio sospiro.

Non mi ero mai accorto di quanto fosse silenziosa la casa senza la presenza di Mathias.

Abbasso la tazza, il velo di fumo appanna la vista, annebbia la cucina e il tavolo vuoto con sole due sedie davanti a me.

L’ombra di Mathias compare come un fantasma. Seduto al tavolo di fronte a me, la sua tazza stretta dentro il palmo, il gomito piegato sull’orlo, le nocche del pugno premute contro la guancia già rossa per il sorriso, il capo leggermente inclinato di lato, e gli occhi che mi guardano attraverso la nebbiolina di vapore.

Discosto lo sguardo, appoggio la tazza di caffè tiepido sul ripiano – all’improvviso mi si è chiuso lo stomaco – e mi do una strofinata alla nuca con l’asciugamano che ciondola dalle spalle.

Lancio un’occhiata all’orologio sopra il frigorifero. Le otto meno dieci.

Mi scollo dalla cassapanca e torno verso il bagno per rimettere a posto l’asciugamano prima di uscire. Scuoto di nuovo la testa, faccio correre le dita fra i capelli ancora tiepidi e umidi, e trattengo una sorsata di fiato che mi fa diventare il viso duro e freddo.

Se dovessi sempre correre dietro alle sue cretinate, a quest’ora sarei ridotto peggio di lui.

 

.

 

Abbottono la giacca fin sotto la gola, la rimbocco sopra le spalle, liscio il tessuto sul busto fino ai fianchi. Agguanto la sciarpa, me la butto attorno al collo facendola ciondolare senza allacciarla, e afferro la tracolla che è sulla sedia del corridoio da ieri, caricandomela sulla spalla. Stanotte non ho toccato libro. È la prima volta in tutto l’anno.

Mi massaggio la fronte e allevio la pressione martellante che pulsa all’altezza delle tempie. I ricordi di stanotte si mescolano, ancora annebbiati, e vengono sostituiti dal risveglio improvviso, dall’incazzatura mattutina, e dal caffè che invece di darmi una scrollata mi ha solo annodato lo stomaco, aumentando l’amarezza che mi ristagna in bocca.

Spengo la luce del corridoio, passo vicino all’armadietto del telefono e pesco le mie chiavi dalla ciotola di legno agguantandole per la bandiera danese.

Le sigarette con il nome di Gilbert sono ancora lì, a giacere accanto al telefono.

Mi fermo davanti alla porta, fossilizzo la mano già posata sul pomello, e getto un’ultima occhiata al mobiletto.

Ora gli unici colori che spiccano nella ciotola di legno sono il bianco, rosso e blu della bandiera norvegese. Le chiavi di Mathias restano immerse nell’argento, il pacchetto di HB è messo in piedi come un soldato che sembra fare la guardia al mazzo.

Serro la mano sul pomello, le unghie graffiano l’ottone, un brivido mi scuote il braccio.

Potrei anche portarle giù e lasciarle nella cassetta della posta. Se Mathias rientrasse potrebbe essere abbastanza furbo da guardarci dentro, trovarle, ed essere in grado di salire in casa prima che io torni. Anche se lo lasciassi giù come mi sono prefissato di fare non imparerebbe niente. Io mi arrabbierei e basta, senza nemmeno parlargli o guardarlo in faccia, lui mi abbraccerebbe restandomi incollato addosso, sfregherebbe la guancia contro la mia, farebbe i versetti da bambino pentito, standomi appeso come se fossi la gonna della mamma, inizierebbe a sbaciucchiarmi dietro l’orecchio, poi più giù, lungo la curva del collo, e finiremmo a letto.

Stringo forte il pugno e resisto all’impulso.

No. Oggi non la passerà liscia.

Apro la porta, lascio entrare un sottile fascio di luce fra l’anta e lo stipite, e mi affaccio al corridoio dove rimbombano le voci di quelli del piano di sotto e i passi degli inquilini che stanno uscendo dagli altri appartamenti.

Di nuovo la viscida sensazione di disagio si accumula alla base della spina dorsale, scava nelle ossa, si insinua in mezzo alle vertebre e risale la schiena, fredda e collosa, arrivando fino al collo e pizzicando l’attaccatura dei capelli.

Stringo le spalle e sopprimo un brivido.

Datti una controllata, Lukas.

Sposto lo sguardo all’indietro, senza muovermi.

Le chiavi e le sigarette sono immobili sul ripiano del telefono. Il fioco raggio di luce proveniente dall’apertura della porta cade sulla rotella forata dell’apparecchio, si concentra nel numero cinque ed emana una scintilla, come stesse strizzando l’occhiolino.

Sospiro. Compio un passo all’indietro e richiudo la porta.

No. Mi rifiuto di rendermi ridicolo a preoccuparmi così tanto per un’idiozia simile.

 

.

 

«Distretto di Scotland Yard.»

Premo la cornetta del telefono contro l’orecchio, la cinghia della tracolla scivola dalla spalla e mi cade sul gomito. Devo darle una spintarella con la scapola perché non finisca a terra. Guadagno un sospiro, rispondo alla voce filtrata dall’apparecchio. «Salve, dovrei...» Sono ridicolo. Completamente ridicolo. Oltre a perdere tempo per star dietro ai disastri in cui si è cacciato Mathias arriverò pure in ritardo a lezione. Mi schiarisco la voce ma suona comunque un po’ rauca. Colpa del risveglio di merda e del fatto che ho saltato la colazione. «Dovrei denunciare la scomparsa di una persona.»

L’agente all’altro capo della cornetta accenna un mugugno di assenso, sfoglia qualcosa, si sente la carta frusciare sopra il brusio di sottofondo sparso da altre voci che occupano la stanza della centrale di polizia. «Da quanto tempo è scomparsa?»

«Da...» Bella domanda. Percorro le pareti del corridoio come sperassi di trovare la risposta sul muro, accanto alla cornetta del ricevitore del cancello e al calendario fermo sulla pagina di novembre. «Da questa mattina.» Credo. «È il mio coinquilino, non ho modo di rintracciarlo e ho bisogno che sia ritrovato immediatamente.»

«Signore, purtroppo le denunce in caso di scomparsa di una persona possono essere attivate solo dopo ventiquattrore dall’ultimo avvistamento.»

Faccio roteare lo sguardo. Serro le dita attorno alla cornetta facendo stridere le unghie sulla plastica. Sono circondato da incompetenti che non sanno nemmeno fare il loro lavoro come si deve, troppo pigri per alzarsi dalla sedia e andare a ripescare un idiota disperso nelle fogne di Londra. «No, non posso aspettare così tanto, lui potrebbe...» Mi mordo il labbro e mi rimangio le parole. Tamburello le unghie sul ripiano di legno, senza toccare il centrino di pizzo disteso sotto il telefono, e il pacchetto delle HB vibra, torna a pizzicarmi con la sua presenza elettrica. Devo dirglielo. Forse potrebbe dargli un incentivo a sbrigarsi.

Inspiro. La voce rimane fredda e piatta come una lastra di ghiaccio. «Il mio coinquilino è un tossico con precedenti, temo che potrebbe causare danni alla quiete pubblica se non lo ritrovate immediatamente.» Il che non è del tutto falso.

La voce dell’incompetente dall’altro capo della cornetta si anima. «Con precedenti, ha detto?» Riconosco una fine punta di allarme nel tono e il cigolio della sua sedia, come se si fosse spostato. «Quindi è schedato?»

«Sì, esattamente.»

Rumore di strascinamento su una superficie di linoleum – forse ha spostato le rotelle della poltrona girevole –, e altri fogli di carta che vengono sfregati fra loro. Il lieve brusio di voci continua a borbottare in sottofondo, l’eco di un telefono squilla in lontananza e una porta sbatte.

«Mi fornisca il nome, prego.»

Torno a schiarirmi la voce. Mi preparo già a causargli problemi con lo spelling. «Mathias Køhler. La acca fra l’aptang e la elle.»

La voce dell’agente si incrina in un tono di dubbio. «La acca fra cosa, prego?»

Alzo gli occhi al soffitto, stringo le labbra per non sospirare direttamente nei pori della cornetta, e mi premo la mano contro la fronte. Stropiccio l’espressione sconfortata massaggiando la radice del naso con i polpastrelli. «La o.» Incompetente e ignorante. «Ci faccia un taglio sopra.»

L’agente sfoglia ancora qualcosa, la sua voce borbotta parole strascinate e poi torna limpida attraverso la linea del telefono. «Mathias Køhler, ha detto?»

Annuisco. «Sì.» Faccio di nuovo tamburellare le dita sul ripiano, e questa volta le unghie lasciano sottilissimi segni bianchi a forma di mezzaluna sulla vernice del legno.

Possiamo darci una mossa?

L’incompetente mormora qualcos’altro, poi la sua voce riacquista un timbro decente e dignitoso. «Sì, effettivamente abbiamo i suoi dati in archivio.» Lo dice con l’aria di un insegnante che sta esibendo la pagella dell’alunno peggiore davanti a tutta la classe, sventolandola sopra la testa come un trofeo. «Mathias Køhler, nato a Copenaghen il cinque giugno del Cinquantuno e schedato qua a Londra a settembre del Settanta. L’ultimo suo arresto risale al tre ottobre di quest’anno per...»

«Sì, conosco i suoi precedenti» lo blocco. Le unghie stridono sul legno, solcano sottili righe bianche, le dita si chiudono a pugno e il braccio vibra leggermente. La mia voce esce bassa e cavernosa, ma calma. «Vi sto solo dicendo che è scomparso e che deve essere ritrovato.»

«Signore» insiste lui, «come le ho già spiegato non è possibile far scattare una denuncia prima di ventiquattrore, chiunque sia il soggetto scomparso.»

«Ma...»

«Però possiamo tenere un appunto.» Il tono dell’incompetente si rilassa, suona quasi apprensivo nei miei confronti. Disgustosamente accomodante. «Se il signor Køhler dovesse essere detenuto in una delle nostre centrali, allora la ricontatteremo noi. In caso contrario, la invito a richiamare fra ventiquattrore per sporgere denuncia.»

Socchiudo le labbra che però si congelano in un mormorio. «Io...» Tengo stretto il pugno e premo le nocche sul legno, dove ho lasciato i segni delle unghie. Guardo di nuovo il pacchetto di sigarette, le chiavi di Mathias con la bandiera norvegese. Lancio un’occhiata al soggiorno in penombra, alla porta socchiusa della camera da letto, e torna ad assalirmi quel senso di disagio che si aggroviglia nel ventre come un gomitolo di ghiaccio. Tutto è così immobile, in ordine, e silenzioso. Sospiro col naso, socchiudo le palpebre. Il pugno stretto sul mobiletto e la mano aggrappata alla cornetta del telefono si rilassa. «D’accordo.» Cedo. Più di così non potrò mai smuoverli.

«Può fornirmi il suo nome, signore?» mi chiede l’agente. «In caso dovessimo ricontattarla.»

Sposto il peso da un piede all’altro – le gambe si stanno intorpidendo –, raccolgo la cinghia della borsa che è tornata a scivolare sul gomito e me la carico di nuovo sulla spalla. «Lukas Bondevik. Entrambi con la kappa.»

L’agente resta qualche attimo zitto per appuntare la nota, e il suo silenzio fa sorgere il brusio di sottofondo, un secondo telefono che squilla, un cassetto scorrevole che viene aperto, una voce di donna che si fa sentire più delle altre, e il cigolio di una porta che viene aperta. L’agente conferma il mio nome. «Bondevik.» Sfoglia qualcos’altro e la sua voce perde la sfumatura di incertezza. «La ringrazio. Ci rimetteremo in contatto con lei nel caso ci fossero aggiornamenti. In caso contrario, chiami domani, d’accordo?»

Faccio roteare lo sguardo. «D’accordo.»

«Buona giornata, signore.» Riaggancia. Il suono della linea interrotta mi pulsa nell’orecchio come una risata di scherno – tuu, tuu, tuu – e resto come uno scemo a guadare il muro davanti a me, con la cornetta ancora incollata alla guancia.

Ottimo. Quindi non muoveranno un dito fino a domani per ritrovare Mathias.

Riaggancio anch’io, sistemo il cavo di gomma nera attorno alla cornetta e raddrizzo il centrino che si è stropicciato sotto il corpo del telefono.

La bocca dello stomaco formicola, i brividi discendono il ventre, punzecchiano le gambe, e mi fanno arricciare le punte delle dita dentro le scarpe. Scuoto il capo, torno a massaggiarmi le tempie e la fronte che pulsa di stanchezza e nervosismo, e già un primo senso di vertigine sale ad appannarmi la vista. Forse farò meglio a prendere un caffè per strada prima di entrare in università. E forse sto diventando peggio di Mathias nel crearmi tutte queste paranoie. Forse hanno ragione quelli della polizia e non c’è motivo di andare a cercarlo, dato che salterà fuori da solo come ha sempre fatto.

Lascio le dita scivolare dalla fronte, le tuffo dentro la ciotola di legno e pesco la bandiera danese con attaccate le mie chiavi di casa.

Esco, chiudo la porta ma non do i giri alla serratura.

Lascio l’appartamento aperto.

 

.

 

La gente per strada muore di freddo. Le persone camminano ammassate sui marciapiedi, si stringono nelle giacche di pelo, si stringono le sciarpe alla gola, immergono i visi dentro i colletti dei cappotti tenendo scoperti solo gli occhi, abbassano gli orli dei berretti di lana fino alle sopracciglia, e sfregano fra loro i palmi protetti dai guanti. Una leggera foschia di smog risale il ciglio della strada trafficata e si disperde galleggiando fra le gambe della folla.

Rimbocco la giacca per non assorbire il gas rigettato dalle auto e mi accontento di tenere le mani in tasca, senza indossare i guanti. Il mio fiato si condensa in una nuvoletta che si squaglia nell’aria davanti al viso. Le folate di vento scompigliano i capelli ancora tiepidi dopo la doccia, bruciano le guance e mi seccano le labbra, ma non mi danno fastidio. Sono abituato a inverni ben più rigidi.

Un uomo vestito in impermeabile nero mi passa di fianco, sguscia in mezzo a una signora con una borsa a fiori e a un ragazzo vestito di pelle, supera un anziano che cammina aiutandosi con un ombrello chiuso, e accelera il passo immergendosi nel flusso di folla che marcia verso la stazione di Tottenham. Le vetrine dei negozi illuminano la stradina sotto i portici, splendono sui volti grigi e ancora mezzi addormentati della gente che procede in fila, accalcata per non finire sotto le auto che formano la doppia carovana sull’asfalto. I gas di scarico addensano una nebbiolina grigia che si infila nei tombini, scivola sul marciapiede e sguscia sotto i nostri piedi. Le auto rombano, un taxi accelera e passa sopra una pozzanghera di acqua nera che schizza ai bordi del marciapiede. La fila di auto e taxi si ferma al semaforo che brilla di rosso. La coltre di smog si inspessisce, risale l’aria e brucia le narici con il suo odore ruvido e aspro.

Agguanto la sciarpa e la tiro anche io fin sopra il naso. Respiro il profumo di casa, del guardaroba dove si mescolano gli odori della naftalina e quelli dei detersivi, e anche quello più dolce del bar dove mi sono fermato prima a prendere il caffè che mi è servito solo a torcermi lo stomaco più di quanto non lo fosse già.

Che giornata di merda.

La folla si divide all’angolo, davanti all’entrata della metro in due flussi: uno che prosegue lungo il marciapiede e l’altro che si immerge nei sotterranei. Due poliziotti di pattuglia avvolti dagli impermeabili neri, in piedi davanti alla colonna portante, guardano la gente sfilare davanti ai loro occhi, si scambiano qualche parola, uno di loro annuisce tenendo le braccia strette dietro la schiena, e l’altro si sistema l’orlo del copricapo davanti alla fronte. Le persone salgono e scendono, si incrociano, si urtano le spalle, e zampettano con le borse e le ventiquattrore strette in mano, affrettandosi a raggiungere le scale che si rovesciano nei budelli della città.

Stringo la cinghia della borsa sopra la spalla, alzo gli occhi seguendo la scritta sulla cornice della stazione “Tottenham Court Road Station”, e una gettata di vento che odora di pioggia mi schiaffeggia la guancia. Mi fa fermare in mezzo alla folla che mi passa vicino come se non esistessi.

I miei occhi indugiano sulle lettere cubitali dell’insegna della stazione, tutto il tanfo trasudato dalla strada torna a pizzicare le narici e a far salire un conato di nausea che ribalta lo stomaco pieno solo di caffè. Lascio scivolare una mano sulla giacca e stringo la stoffa all’altezza della pancia, creo una leggera pressione con le nocche, ma il bruciore non se ne va, sciama nella carne come se avessi bevuto una tazza di mosche ronzanti al posto del caffè. Stringo le labbra, le mordo con gli incisivi per trasferire il bruciore nella bocca, ma non riesco lo stesso a togliere gli occhi dalla scritta.

Le nuvole si infittiscono. Il cielo diventa più buio, reso più scuro dalla nebbia nera dei gas di scarico che si eleva al di sopra degli edifici. Il vento torna a soffiare, mi agita i capelli dietro le orecchie, fa sventolare un lembo della sciarpa, scuote il bavero della giacca e mi ghiaccia la pelle del viso facendo sbiancare le guance. Ho un brivido. Ora sento freddo anch’io.

Il casino del traffico e quello della folla sul marciapiede si affievolisce, i suoni si isolano, il vento che mi sbuffa nelle orecchie mi fa sentire solo il basso gorgoglio delle nubi che trattengono tutta la pioggia da strizzare sopra Londra. Il buio circonda anche l’insegna della stazione. Le parole “Tottenham Court Road Station” si allargano, mi riempiono la vista con il loro bianco, arrestano i battiti del cuore, mi bloccano il respiro facendo svanire la condensa davanti alle labbra, scaricano un brivido costante che mi rosicchia la base del collo e scende lungo la schiena.

La mano stretta alla borsa suda, il palmo brucia, il brusio della strada diventa un fischio ovattato, il formicolio allo stomaco e ai piedi mi sta dicendo di seguire la folla e di scendere le scale della metro anche se devo proseguire dritto.

Qualcuno mi urta la spalla. L’uomo mi supera, si abbassa il cappello lanciandomi un’occhiata da sopra la spalla. «Scusi.» E prosegue. Sguscia in mezzo ad altre due persone, passa davanti ai poliziotti in impermeabile, e si immerge sotto il portico.

Quel lieve colpo alla spalla mi ridesta come se l’uomo avesse spaccato la barriera di vetro cristallizzata attorno a me dai miei pensieri.

Il fracasso del traffico torna a rombare, un clacson suona dietro di me, un’auto sgasa lasciandosi dietro una nube grigia che sommerge il muso di un taxi, e la carovana sull’asfalto procede come quella delle persone sul cemento del marciapiede. Il cielo nuvoloso è tornato grigio, non più nero, il fischio del vento si è abbassato facendo sorgere l’intenso odore di pioggia stagnante, di pozzanghere sporche, di asfalto bagnato, e le lettere sull’insegna della Tottenham si sono rimpicciolite, sono tornate alla misura normale.

Scrollo il capo, abbasso lo sguardo e rimbocco la sciarpa sotto la gola.

Riprendo a camminare, supero l’angolo della stazione lasciando che un ultimo brivido mi scivoli giù dalla schiena, come un cubetto di ghiaccio infilato nel colletto che si scioglie lungo il tepore della pelle, e proseguo a sguardo basso, il capo chino, le spalle strette.

Non giro lo sguardo. Se lo facessi, probabilmente finirei per dar retta al formicolio allo stomaco e scenderei davvero nella metro, senza nemmeno capirne il motivo.

La vista appannata del fiato condensato mi annebbia la mente, offusca i pensieri come questa mattina, quando ero ancora mezzo addormentato e mi sono ritrovato l’improvviso raggio di sole sparato dritto in faccia. Sbatacchio le ciglia, tengo le palpebre socchiuse, e mi lascio guidare dalle gambe delle persone, senza guardare davanti a me e senza pensare a dove metto i piedi.

Ritorna il buio del soggiorno di ieri sera. Il fascio di riverbero blu che entrava dalla finestra, il freddo della stanza lasciata senza riscaldamento tutto il giorno, lo sguardo di Mathias che si voltava verso di me e mi guardava con quell’espressione triste e spenta.

Gli sono andato vicino, senza nemmeno accendere la luce, e lui ha teso il braccio, ha raccolto la mia mano dal fianco e si è aggrappato al mio calore. Aveva la mano freddissima, la pelle ruvida, ma non ho sentito alcun brivido. Mi ha cinto il fianco, abbracciandomi, e mi ha raccolto in grembo, tenendo la fronte rintanata contro il mio petto. Le sue mani mi carezzavano piano la schiena, il viso non si faceva vedere, e il respiro soffiava lento accanto al mio collo, leggermente tremante. Anche quando gli ho chiesto cosa c’era non mi ha detto niente, ha solo scosso la testa e ha stretto di più le braccia.

Ho poggiato il capo sulla sua spalla, e ho sentito il suo respiro intiepidirmi la guancia. Le sue labbra si sono mosse piano, vicino all’orecchio, e ora la sua voce mi sembra l’eco di un sogno che sbiadisce. “Se io non mi fossi mai avvicinato a te...” La mano era salita a carezzarmi la nuca. Carezze tremanti e insicure, quasi avesse paura a toccarmi. Non era mai successo prima. “Se io e te non ci fossimo mai incontrati e se non...” L’abbraccio si era chiuso. Il suo petto vibrante contro il mio, il respiro caldo sulla pelle, la voce rauca, come rotta da un pianto, e le sue mani aggrappate attorno alle mie spalle. “Se non avessimo iniziato a stare insieme... sarebbe stato meglio, vero?” Un brivido aveva scosso anche me, facendomi rimanere immobile fra le sue braccia.

La condensa si disperde e svanisce assieme alle immagini del ricordo, torna l’ammasso di gambe che procede lungo la stradina umida dell’acquazzone di ieri notte. Pioverà anche oggi, di sicuro.

Di nuovo il vento mi soffia fra le orecchie, investe le guance e mi fa raddrizzare le spalle. Sollevo la fronte, passo una mano fra i capelli togliendomeli dagli occhi, e poso lo sguardo davanti all’entrata del Dominion Theatre. La gente è ammucchiata alla fermata pedonale, quattro taxi sono fermi nel parcheggio, e la biglietteria è ancora chiusa.

Ignoro. Ignoro tutto. Ignoro i ricordi di ieri sera, le parole di Mathias, i brividi di freddo con cui mi sono svegliato e che continuano a percorrermi la schiena, la brutta sensazione che mi tiene lo stomaco aggrovigliato, e il formicolio alle gambe che mi dice di tornare indietro alla stazione di Tottenham e scendere le scale.

Mi ficco le mani nelle tasche e vado avanti per la mia strada. 

 

.

 

Alla fine mi sono rinchiuso in biblioteca. Già dopo la prima ora ho capito che oggi non combinerò niente, almeno fino a che non me ne tornerò a casa con la speranza di trovare Mathias già rientrato. Oppure riproverò a chiamare la polizia, o mi presenterò di persona in centrale, insistendo fino a che non si decideranno a darsi una mossa e a cercarlo seriamente.

Piego il gomito sul tavolo, spingo le nocche contro la guancia tenendo il capo leggermente inclinato e gli occhi bassi sul libro aperto. Il riverbero soffuso delle lampade spande una luce scura che assopisce, come il sole al tramonto. Il brusio che regna in biblioteca è sottilissimo, soffice come un sospiro, e non aiuta a restare svegli. Pochi passi camminano lungo il pavimento di marmo, le copertine dei libri che vengono sfilati dai ripiani frusciano fra loro, dita estranee sfogliano le pagine, e la penna del tizio seduto a due sedie da me è da almeno mezz’ora che gratta scritte sulla carta.

Tamburello la punta della matita sull’orlo della pagina, mi concentro sulle ombre delle lampade arancio che si infossano nello spacco tra un’ala e l’altra del volume. Sospiro, ragionando sul fatto che forse non combinerò nulla nemmeno qui. Ho già rinunciato a tornare in aula. L’unica cosa che sono riuscito a scrivere sugli appunti è stata la data, poi mi sono perso e ho passato l’ora a ripensare a ieri e a stamattina.

Abbasso gli occhi e aggrotto la fronte. La matita continua a tamburellare sulla pagina del libro, e il fatto che stia ripassando le lezioni su Kierkegaard che ho già sottolineato e imbrattato di appunti non aiuta. Non riesco a fare altro che guardare il dannato aptang di Søren – “La acca fra l’aptang e la elle”, “La acca fra cosa, prego?”, “La o. Ci faccia un taglio sopra” – ed è da almeno venti minuti che sono fermo sulla stessa frase.

Il tizio vicino a me intanto gira una pagina degli appunti, lancia un’occhiata al libro steso davanti al blocco di fogli, percorre due righe con la punta dell’indice, e continua a scrivere come una macchinetta. Una ragazza che cammina lungo il corridoio stringe due volumi al petto e passa dietro di me, prosegue verso un altro tavolo. Uno dei custodi procede spingendo il carrellino stracolmo di libri, si ferma in uno scomparto, ne raccoglie uno, esamina la copertina e lo infila in mezzo agli altri. Va avanti e il cigolio delle rotelle d’acciaio struscia sul pavimento di marmo, si unisce al suono di una sedia che viene spostata.

Poggio la matita, raccolgo la fronte dentro la mano e tengo il capo chino, quasi stessi per addormentarmi da seduto.

Ieri Mathias stava male. Più male del solito.

Forse è stato il suo silenzio a spaventarmi più di tutto. Il modo in cui mi ha solo tenuto abbracciato, le mani sue fredde, le braccia tremanti, il viso bianco, gli occhi scavati in neri segni di stanchezza. Sembrava un fantasma.

Non mi ricordo nemmeno se abbiamo cenato. Forse siamo andati direttamente a letto, ma non abbiamo fatto niente, ecco perché mi sono svegliato ancora con i vestiti addosso. Le tende erano rimaste aperte, la notte si era infittita, e un raggio di luna bianca come latte sporco era scivolato sul letto insieme a noi, sopra le lenzuola che non abbiamo nemmeno disfatto. Le dita di Mathias hanno continuato a carezzarmi i capelli anche dopo che ci eravamo distesi. Dalla tempia, dietro le orecchie, a disegnare il profilo della nuca, con quei gesti inaspettatamente delicati. Ricordo solo questo, assieme alla sensazione del suo respiro accanto alla guancia e delle sue labbra tremanti che mi sfioravano il collo.

Distolgo lo sguardo dal ricordo, dai suoi occhi ancora più tristi e lucidi sotto il raggio di luna macchiata delle nubi, e lo getto sul tavolo della biblioteca.

Un altro ragazzo si è seduto sul lato opposto del tavolo. Sta già leggendo, una mano sulla pagina e l’altra che stringe la matita, e ha lasciato il suo mazzo di chiavi vicino al portapenne. Ha un portachiavi a forma di palla da discoteca che emana uno sciame di luccichii color argento.

Aggrotto la fronte, la tensione dei muscoli si irrigidisce, e mi torna in mente il portachiavi della bandiera norvegese lasciato a casa assieme al pacchetto delle HB con il nome di Gilbert. E le dieci sterline arrotolate infilate fra le sigarette.

Dieci sterline.

Giro lo sguardo dall’altra parte, resto con la guancia premuta sulle nocche.

Anche quella volta erano dieci sterline.

Abbasso gli occhi, rileggo le prime righe del paragrafo, dove il movimento tamburellante della matita ha spanto una sottile polvere di grafite accanto al muro di testo in cui è incastonata la fotografia del filosofo.

E anche quella volta stavo leggendo Kierkegaard.

Socchiudo le palpebre, mi allontano dalla luce calda delle lampade che riempiono l’ambiente, dal brusio delle pagine che girano fra le dita, dai passi che attraversano il pavimento di marmo, dal cigolio del dannato carrello, e mi sembra davvero di tornare a quel giorno.

 

* * *

 

Quel giorno stavo leggendo Kierkegaard, una delle raccolte delle lettere, anche se al corso non lo avevamo ancora iniziato. Volevo portarmi avanti e avevo ripescato uno dei vecchi libri che mi ero portato dietro durante il trasloco. Era rovinato, le pagine ingiallite e le orecchie della copertina sciupate. Lo avevo già letto quando andavo ancora a scuola, a casa, e c’erano dei vecchi appunti scritti da non so nemmeno chi a bordo pagina.

Camminavo per Chardon Street, di ritorno a Soho, e stava imbrunendo. Aveva piovuto per due giorni di fila, e l’aria era pregna di forte odore di terra bagnata, di germogli, di fiori appena schiusi e di erba fresca. Gli alberi stavano sfiorendo. Le chiome brillanti di un verde acceso, appena nate, creavano un contrasto nitido con il cielo color rosa pompelmo, azzurrino sopra i tetti, e di un arancio acceso dove i raggi del sole ancora brillavano.

Io però non guardavo il cielo. Guardavo il libro. La scia di sole che si stendeva sul marciapiede mi guidava e non avevo bisogno di sollevare gli occhi.

Girai un angolo e voltai pagina con il pollice.

Dei passi mi seguivano, lo avevo già notato da almeno dieci minuti. Non vedevo ombre, il sole era davanti ai miei occhi e le proiettava all’indietro, ma mi accorsi subito che ce n’era più di uno.

La prima delle loro voci che sentii fu quella di Gilbert. «Io butto cinque.» Lo disse sghignazzando, ma il tono era serio, come quello di un amministratore d’aste. Riconobbi subito il ruvido accento tedesco che mi rimase addosso sulla pelle come la ferita di un’unghiata.

«Ma quali cinque!» La voce di Francis era più scandalizzata che ironica. «Uno così ne vale almeno quindici!»

«Fate dieci e non se ne parla più.» Il tono di Arthur sembrava infilato lì senza motivo. Un po’ cinico e scocciato, per nulla divertito, come l’ho sempre sentito anche in quelle volte in cui Mathias mi portava a cena con loro, al pub sulla Carnaby Street. Arthur comunque è quello che mi è sempre piaciuto di più fra i tre. Mi aveva anche prestato un libro, dopo l’uscita al pub, che raccoglieva tutti gli articoli e le testimonianze del Caso delle Fate di Cottingley. Ne avevamo parlato durante la serata.

«Vada per dieci?» La voce di Mathias fu l’unica che mi spinse a buttare la coda dell’occhio alle mie spalle. L’unica voce che mi fece sussultare come un soffice pizzicotto dietro l’orecchio.

Fu velocissimo. Inarcai un sopracciglio, sollevai lo sguardo dal libro, senza smettere di camminare, e lo gettai all’indietro verso le loro sagome rintanate nella penombra.

«Dieci fatta!» esclamò Gilbert, e sentii la sua mano che batteva su quella di qualcun altro e della carta che si stropicciava fra i palmi.

«Ha la sua scommessa, monsieur.»  

«Io non lo farei.» La voce pacata di Arthur placò gli sghignazzi degli altri due. «Per me quello ti sgozza, ha l’aria di uno che gira con il pepe spray o un teaser elettrico.»

«Vorrà dire che lo scoprirò.» I passi di Mathias si fecero più rapidi e vicini, la voce più gonfia e arrogante. «State a guardare un professionista all’opera, pivelli.»

Feci roteare lo sguardo, già un brivido di stizza a pizzicarmi il collo, e continuai a camminare come se non avessi sentito niente. Riabbassai gli occhi sul libro, ma non feci nemmeno in tempo a leggere la prima riga del paragrafo che i passi di Mathias accelerarono, lui si schiarì la voce, e mi corse incontro.

«Mi scuuusiii

Girai solo la coda dell’occhio.

Mathias sventolava il braccio sopra la testa, come una contadinella che corre su una collina fiorita, e aveva un largo sorriso luminoso stampato sulla faccia. Portò la mano libera attorno alla bocca, per indirizzare meglio la voce. «Mi scusi, bel signorino biooondooo

Gilbert e Francis risero. Gilbert dovette poggiarsi al muro con il braccio e nascondere il viso nell’incavo del gomito per non fare troppo rumore. Arthur schiaffò una mano sulla fronte e sospirò nascondendo l’espressione esasperata di chi vuole trovarsi in tutt’altro luogo e in tutt’altra situazione, mentre Francis gli stava appeso alla spalla e sghignazzava anche lui dietro il palmo aperto.

Mi fermai. A questo punto era inutile far finta di non aver sentito, meglio liquidarlo subito.

Senza chiudere il libro, girai lo sguardo, tenni l’espressione piatta, e gli lanciai un’occhiata di ghiaccio, di quelle che fanno allontanare tutti quando non ho voglia di avere gente fra i piedi. Cioè sempre.

«Cosa vuoi?»

Mathias si fermò dopo la breve corsa, ignorò il mio sguardo gelido, piegò un braccio davanti al busto e si inchinò a fondo come un cameriere. Quel sorriso da imbecille sempre lì. «Buonasera, bel signorino. Io e lei non ci conosciamo, ma le offro l’opportunità di partecipare a un importante esperimento sociale di calibro internazionale.»

Gilbert scoppiò a ridere. Si tenne lo stomaco e si piegò in due contro il muro, dando due pugni alla parete. «Pfft!» Ci indicò entrambi. «Non ci credo che lo sta facendo sul serio!»

Francis gli andò vicino e gli tappò la bocca con una mano. «Zitto» gli disse all’orecchio. «Non rovinare tutto!» Guardò anche lui verso di noi e la luce nei suoi occhi cambiò, si animò di una sorta di speranza, e il suo sorrisetto sembrò davvero il più sincero dei tre. Solo mesi dopo mi disse che in quel momento aveva già iniziato a sperare che le cose fra noi due andassero oltre la scommessa.

Io tornai a guardare Mathias. Inarcai un sopracciglio, «Prego?», e tenni la voce fredda e ostile, distaccata come faccio sempre con gli estranei.

Mathias sciolse l’inchino e raddrizzò le spalle. Indicò gli altri tre con un’alzata di pollice da sopra la spalla. Il sole gli batteva proprio in viso e quel giorno aveva un bel colorito sulle guance, luminoso. «Vedi, io e i miei amici laggiù non abbiamo potuto fare a meno di considerare che hai...» Gesticolò con i palmi al cielo, guardò in basso, verso le mie gambe, e tornò sul mio viso, mostrandomi un sorriso sbilenco, da furbo. Le guance arrossirono. «Sì, insomma, proprio un gran bel didietro e...»

La mia fronte si incrinò, fece una crepa nell’espressione di ghiaccio e pensai davvero di poter trapassare Mathias con le schegge che si erano spezzate. Dovetti stringere le dita contro le pagine del libro, stropicciandole, per resistere alla bruciante tentazione di tirargli un pugno sul naso.

Mathias giunse le mani davanti al petto, mimò uno sguardo più dolce, e simulò una preghiera. «Ed ecco, mi chiedevo se vorresti aiutarmi a vincere dieci sterline lasciandomelo toccare per un secondino.»

Gilbert rise di nuovo, si girò contro la spalla di Francis tappandosi la bocca con la mano e sbiascicò qualcosa in tedesco.

Arthur diede le spalle a entrambi levando gli occhi al cielo, si allontanò di un passo e fece sventolare una mano. «Io mi dissocio da questa dannata ridicolaggine.»

Francis lo trattenne per il colletto della giacca. Lui ci guardava con occhi attenti e luminosi, come se fossimo stati due attori sul palco dell’opera.

Ignorai gli altri tre, sollevai un sopracciglio e guardai Mathias negli occhi. Mi tenni freddo. «Vorresti toccarmi il sedere per dieci sterline?»

Lui annuì due volte, allargò il sorriso da guancia a guancia e gli zigomi si imporporarono. «Sarebbe grandioso.» Tenne le mani unite, le accostò alla guancia per nascondere i movimenti della bocca, e chinò le spalle, accostando il viso al mio orecchio. Sussurrò per non farsi sentire dagli altri, e il suo respiro mi trasmise un piacevole solletico accanto all’orecchio. «Ma se hai tempo potremmo fare a cambio e io potrei lasciarti toccare anche un po’ della mia mercanzia, sai», ammiccò, «non so se intendi.»

Ebbi un tic all’occhio. Guardai gli altri tre che mi fissavano trattenendo il fiato, aspettandosi almeno un mio cambio di espressione o un insulto, e poi ruotai gli occhi su Mathias che aveva ancora la guancia a uno sfioro dalla mia. Sospirai a fondo, con calma. «Sicuro.»

Lui strabuzzò gli occhi e sbatacchiò due volte le palpebre, allibito. «Davvero?» Nemmeno lui riusciva a crederci.

Annuii. «Certo.» Chiusi il libro tenendo l’indice fra le pagine e piegai un’orecchia di carta. «Lascia solo che metta il segnalibro.»

Mathias raddrizzò le spalle e si prese le guance fra i palmi. Divenne tutto rosso, gli occhi scintillarono e mi accorsi per la prima volta che erano azzurri. «Non ci posso credere, ha funzionato davvero!» Strinse il pugno e piegò un gomito contro il fianco in un segno di vittoria. Si girò verso gli altri, aprì di nuovo la mano accanto alla bocca, e alzò la voce stendendo un gonfio sorriso di soddisfazione. «Alla faccia vostra, brutti –»

La prima librata gliela tirai sulla guancia, non gli feci troppo male, e la copertina rigida sulla guancia produsse il suono di una sberla secca. Lo feci strisciare di un passo all’indietro e vidi la sua testa ribaltarsi.

Un primo corale gemito di dolore si levò dagli altri tre.

Mathias tornò in equilibrio – la guancia già rossa e gli occhi che non sapevano dove guardare – e io lo agguantai per il bavero della maglia. Misi il libro in orizzontale e gli affondai un colpo con il fianco della copertina contro lo stomaco. Questa volta annaspò. «Ghua!» E sbarrò le palpebre, allacciandosi con le braccia alla pancia.

Gli diedi uno strattone al colletto, gli tirai il viso verso il basso e sbattei la fronte contro la sua. Affilai gli occhi tanto da trapassargli il cervello, mormorai piano da dietro l’ombra che si era creata fra i nostri volti accostati. «Avvicinati di nuovo a me e giuro che ti strappo la mercanzia a mani nude.» Strinsi le dita sulla sua maglia, lo tirai più vicino a me. Volevo che sentisse tutto il ghiaccio della mia voce e del mio sguardo scavargli nelle ossa, fino a paralizzarlo. «Sono stato chiaro?»

Non gli vedevo gli occhi – erano troppo in ombra – ma le labbra di Mathias si inarcarono verso l’alto, nonostante il dolore. Stese un sorriso diverso da quelli che aveva esibito prima, più mellifluo, come la sua voce. «Potrebbe inaspettatamente piacermi, lo sai?»

La mia mano che stringeva sul suo bavero ebbe un fremito, le vene si gonfiarono e pulsarono fra le nocche sbiancate.

Sollevai il libro in verticale e glielo scaraventai sulla testa, affondando l’ultimo colpo.

Mathias cadde di faccia e rimase a terra, spiaccicato sul marciapiede. Gilbert, Arthur e Francis erano arretrati. Sbirciavano la scena da dietro l’angolo di muretto dietro il quale erano andati a nascondersi.

Compii un passo all’indietro, la mia ombra si allargò addosso a Mathias e lo seppellì nel buio. Restrinsi le palpebre. «Stai lontano da me, pezzente.»

Mathias emise un rantolio che rimase soffocato fra le sue labbra e il cemento impolverato, fece strisciare un braccio lungo la pancia e si grattò la testa, nel punto dove l’avevo colpito.

Girai i tacchi e proseguii verso casa, a passo lento, come se non fosse successo niente.

Gli altri tre sgusciarono da dietro il muro, corsero verso Mathias, e il suono dei loro passi valicò i deboli gemiti di dolore che uscivano dalle sue labbra.

«Schieße, che razza di... Domani ti farà malissimo, lo sai?»

Mathias gorgogliò un gemito, aveva ancora la faccia spiaccicata al pavimento. «E secondo te adesso non lo fa?»

«Ma chi diavolo era quello?»

«Secondo voi se lo pagassi lo rifarebbe anche a me?» chiese Francis, e una punta di malizia si insinuò nella sua voce. «Senza vestiti, però.»

«Francis!»

Riaprii il libro alla pagina dove avevo segnato l’orecchietta e buttai un ultimo sguardo all’indietro da sopra la spalla. Tanto per vedere se almeno si fosse già rialzato da terra.

Mathias si era tirato sulle ginocchia, Gilbert lo teneva per un braccio e Francis per l’altro, e aveva ancora il viso basso. Scosse la testa, Francis gli diede una strofinata in mezzo ai capelli, ridendo, sempre nel punto in cui lo avevo colpito con il libro, e Mathias sollevò lo sguardo.

Incrociammo gli occhi e Mathias mi sorrise. Fu un sorriso più ridicolo perché aveva già la guancia gonfia e rossa per il primo colpo che gli avevo sbattuto sulla faccia, ma anche più vero e spontaneo. Non mi sorrideva per accattivarmi. Mi sorrideva perché voleva farlo e basta.

I suoi occhi azzurri apparvero più luminosi di prima, anche rispetto a quando mi aveva chiesto se poteva toccarmi il sedere. Per un attimo mi piacquero. Mi piacquero sul serio, e quella sensazione mi confuse.

Mi girai e affrettai il passo, prima che anche solo uno di loro si accorgesse che la durezza della mia espressione si era un po’ sciolta. Sentii per la prima volta il tiepido calore di quel pomeriggio di primavera toccarmi davvero la pelle, il profumo dei fiori appena sbocciati divenne un sapore buono che mi addolcì la bocca, e i piedi camminarono più veloci e più leggeri.

Non riuscii più a leggere nemmeno una riga.

Arrivai a casa, e la sensazione del petto più caldo mi accompagnò fino a sera.  

 

* * *

                                    

Riapro gli occhi.

Mi è salito il mal di testa, la luce delle lampade sulla scrivania batte un colpo di dolore dritto sulle tempie che fa pulsare tutta la fronte come se avessi ricevuto una martellata sul cranio.

Sospiro e mi stropiccio le palpebre, facendo alternare i lampi bianchi ai lampi neri che scintillano contro le dita schiacciate alla pelle. Schiudo le ciglia, la nebbiolina di fumo nero si dissolve, e lo sguardo mette a fuoco il libro ancora aperto. La pagina è sempre quella, la matita posata nello spacco fra le due ali di carta, e non una sola sottolineatura in più.

Il ragazzo di prima se n’è andato. Ce ne sono solo altri due che si sono sistemati verso la fine della tavolata, il tizio seduto di fronte a me sta rimettendo il suo libro nella borsa, il bibliotecario con il carrello torna a passare alle mie spalle e tutti i volumi che trasportava sono svaniti, rimessi al loro posto sugli scaffali.

Spero di non essermi addormentato in piedi. Ieri sera devo aver proprio dormito male, se è da stamattina che non riesco a tenere gli occhi aperti.

Irrigidisco i polpastrelli contro le tempie, socchiudo le palpebre, la superficie color miele del tavolo si sfoca sotto il riflesso della lampada.

Ieri sera...

Il pesante senso di stanchezza che grava sulle ossa e attorno agli occhi mi torna a risucchiare nel ricordo di ieri, nel buio della camera da letto, steso sul materasso con i vestiti ancora addosso, e senza nemmeno aver disfatto le coperte, nonostante il gelo della camera. Però non sentivo freddo. Un braccio di Mathias mi avvolgeva i fianchi e l’altro mi scorreva sopra la spalla, la mano carezzava delicatamente i miei capelli, pettinandoli dietro l’orecchio. Ogni tanto le dita mi toccavano la pelle e le sentivo fredde e ruvide, ma non mi dava fastidio. Avevamo lasciato le tende aperte. Il raggio di luce che non capivo se fosse quello della luna o quello proveniente dai condomini vicini ci teneva avvolti in un chiaro lenzuolo bluastro e tingeva le ombre sul viso pallido di Mathias steso sul cuscino vicino a me, riempiendo i suoi occhi di una tristezza infinita.

Solo dopo mi è venuto più vicino, mi ha abbracciato più stretto, ha incrociato le braccia dietro le mie spalle, e si è arricciato contro il mio petto. Parlava piano, quasi sussurrando, e la voce tremava come il suo abbraccio. “Io pensavo che tu per me saresti stato così: solo un gioco. Per tutta la vita non ho fatto altro che prendere e buttare tutto quello che mi circondava come se fosse stato un gioco senza rischio.” Le sue mani si aggrapparono a me, come per non farmi scappare. Mathias intrecciò le gambe alle mie e tenne lo sguardo basso, la testa rannicchiata sotto il mio mento. “Non ho mai preso niente sul serio. Sono scappato per starmene lontano dalle sbarre, dalle catene che mi sono sempre sentito imporre, e alla fine mi sono ritrovato intrappolato in un rovo di filo spinato da cui non c’è uscita.”

Ebbi subito l’istinto di toccargli il tatuaggio, di far correre le dita lungo il profilo dell’orologio in rilievo. Era rosso, tutto segnato dalle graffiate che tagliavano in due il quadrante rotondo senza lancette, il groviglio di filo spinato incastrato sugli orli, e la scritta dei Siberian Cubs a riempirne lo spazio. Mathias mi trattenne la mano sul collo. Aprii le dita, gli carezzai la pelle della gola sfregiata, risalii la nuca e l’attaccatura dei capelli. Il suo cuore batteva lento, la vena pulsava sotto la mia mano e mi trasmetteva un vivo senso di calore, nonostante la pelle fredda. Chiusi gli occhi e mi concentrai solo su quel palpito, sul tu-tum che vibrava attraverso il mio tocco, sulla sensazione del suo collo che si muoveva a ogni respiro, sul fiato così flebile che mi intiepidiva il petto, sulla stretta disperata del suo braccio attorno al mio fianco.

Mathias strinse di poco la presa. La voce tornò a vibrare contro il mio petto. “Mi dispiace di averti coinvolto in tutto questo. Perché se...” Non ha mai pianto davanti a me. Quello è stato l’unico momento in cui pensai davvero che l’avrebbe fatto. “Se avessi saputo fin da subito che tu saresti diventato più di un gioco, più di una delle mie stupidaggini, se avessi saputo fin da subito che saresti diventato la prima cosa importante e per cui valeva la pena di vivere, non mi sarei nemmeno mai avvicinato a te.” Mathias slacciò da dietro la mia schiena e la posò sulla mia guancia. “Perdonami se ti sto rovinando la vita.” Mi carezzò. “Perdonami se non sono in grado di proteggerti.”

Sbatto piano le ciglia, e il ricordo mi lascia addosso un fastidioso formicolio che mi fa male al petto.

Proteggermi...

Raccolgo la matita dal libro, la infilo nella borsa senza nemmeno preoccuparmi di tirare fuori il portapenne, chiudo il volume e sposto la sedia per alzarmi e andarmene.

Eppure sento di essere io quello che non è in grado di proteggere lui.

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Capitolo 2
*** L'addio del cucciolo ***


2. L’addio del cucciolo

 

 

È sbucato un po’ di sole, ma il vento non è calato e trascina con sé vortici di aria umida, spazza gli ammassi delle nubi distribuendole nel grigiore del cielo, soffia un’aria secca e gelida come quella che esce dagli scomparti del frigorifero. Forse questa notte non pioverà come credevo questa mattina. Forse ci sarà la neve.

Allargo il bavero della giacca e allento il nodo della sciarpa. Un’ondata di aria fresca mi inonda la pelle, brividi pungenti si arrampicano sotto i vestiti e pizzicano il corpo. Svolto l’angolo, mi immetto nella Charing Cross Road e proseguo in direzione della fermata della metro. Procedo più spedito, c’è poca gente per le strade, e il vento che mi soffia sulla schiena sembra darmi la spinta.

Arrivo davanti alla stazione della Tottenham e scopro dov’è finita tutta la gente che dovrebbe ammassarsi sulla stradina. Un gruppetto di persone è ammucchiato all’entrata, sotto l’insegna blu e bianca “Tottenham Court Road”. Due macchine della polizia sono ferme sulla carreggiata, uno dei poliziotti sta guidando i passanti lungo il marciapiede, un secondo dirige il traffico, fa rallentare le auto per farle immettere in un’unica corsia, e un terzo di loro è piegato sotto il tettuccio della volante, sta parlando al microfono della radio. Un’ambulanza è ferma dietro le due auto della polizia, la sirena è spenta ma ha ancora i lampeggianti accesi. Il poliziotto in piedi sul marciapiede sta parlando ai passanti, sbraccia per farli proseguire lungo il marciapiede e per tenere libera l’entrata spalancata.

Mi fermo anch’io, mi tengo lontano. Restringo gli occhi e mi sollevo sulle punte dei piedi, per sbirciare sotto l’architrave della stazione. Ci sono solo teste imberrettate che si ammassano sotto il portico e che circondano l’ambulanza. Torno a poggiarmi sui talloni. Non riesco a vedere se hanno estratto la barella o se l’hanno già rimessa dentro.

Inarco un sopracciglio.

Che si sia sentito male qualcuno mentre aspettava la metro?

Dei signori stanno parlando con uno dei poliziotti. Lui scuote la testa, risponde qualcosa che non sento e indica l’entrata della Tottenham con un cenno del mento, dice qualcos’altro. Una signora anziana porta la mano davanti alla bocca, si gira mimando un’espressione triste e scandalizzata allo stesso tempo, ed estrae un fazzoletto dalla borsetta. Si soffia il naso, asciuga gli occhi, si posa la mano sul cuore. Un altro signore scuote la testa, mima un’aria raccapricciata, scambia un commento con un altro tizio che ha gli occhi più inorriditi dei suoi, e riprende a camminare. Due ragazzi più giovani si guardano, stupiti, e uno dei due lancia un’occhiata all’ambulanza strabuzzando le palpebre.

Uno dei paramedici esce dall’ambulanza, si tiene aggrappato ai due portelloni spalancati sul retro, tenendo il capo sotto il tettuccio, e fa un cenno al poliziotto. Il poliziotto annuisce, sbraccia ancora per tenere lontani i passanti, li fa circolare lungo il marciapiede, e si dirige verso una delle due auto. Il paramedico chiude gli sportelli dell’ambulanza, il motore si accende, le luci blu brillano sul giallo della carrozzeria, ma la sirena rimane spenta.

Gli agenti salgono sulle loro auto, mettono in moto anche loro, e partono. L’ambulanza si immette fra le due auto che fanno da piccola scorta, e i tre mezzi si aprono la strada nel traffico. Un paio di passanti si scambiano qualche altra parola. Si stringono nei cappotti, rimboccano le sciarpe, e riprendono a camminare. I loro visi sembrano ancora più grigi di quelli addormentati e infreddoliti di stamattina. Il mucchietto si scioglie, la gente scende la stazione, altri proseguono lungo Charing Cross Road e vanno per i fatti loro.

Sollevo gli occhi, torno a inquadrare l’insegna bianca che marchia l’entrata della stazione metro, quella che stamattina aveva scavato un brivido ghiacciato dentro il mio stomaco e che mi aveva stretto il petto in una fitta soffocante.

Il brivido è svanito. L’ho sentito scivolare via da sotto la carne quando è partita l’ambulanza.

 

.

 

C’è qualcuno davanti al cancello dell’appartamento. Tre sagome sono ferme a parlare sul marciapiede, con i piedi fra le foglie secche e il vento a scuotere i colletti delle giacche. Due di loro indossano l’uniforme nera degli agenti di Scotland Yard.

Ho un crampo al cuore. Mi coglie una vampata di calore che torna subito fredda, il vento ghiacciato mi sbatte sul viso e le nuvole si ammassano nel cielo, lo fanno ridiventare buio. Rallento il passo per poi accelerare verso di loro, già aspettandomi di trovare qualcuno che ha riportato Mathias a casa, mezzo svenuto o pieno di lividi dopo una rissa al pub.

I due poliziotti fermi accanto ai bidoni della spazzatura stanno parlando con la signora che vive al piano di sotto, quella che va sempre a bussare alla porta accanto alla nostra per lamentarsi del rumore dei passi e degli strilli del bambino. Lei ha una mano sul cancello socchiuso, un piede sulla stradina che imbocca l’appartamento, e scuote la testa dicendo qualcosa ai due agenti. La signora si stringe nello scialle, rabbrividisce di freddo, una ruga di ansia le ingrigisce il volto, e spiega qualcosa indicando un piano dell’edificio sollevando la punta dell’indice. I due poliziotti si guardano, uno dei due annuisce e l’altro abbassa la visiera del copricapo. Un piccolo cenno per ringraziarla.

La signora dice ancora qualcosa che non sento, annuisce, si posa la mano sul petto, ed entra chiudendo il cancello. Affretta il passo verso la porta d’ingresso, i tacchi battono ritmicamente sul pavimento di pietre, e le frange dello scialle oscillano sotto un alito di vento che investe la sua figura tremante. Il viso pallido come dopo uno spavento e gli occhi vacui.

Uno dei due poliziotti si allontana, cammina verso l’auto parcheggiata accanto al marciapiede – hanno lasciato uno sportello aperto –, e l’altro lancia un’ultima occhiata al condominio.

I miei passi scricchiolano sul tappeto di foglie secche piovute dagli alberi, e richiamano l’attenzione dell’uomo.

L’agente volta lo sguardo, aggrotta le sopracciglia, incrociamo gli occhi, e un barlume di sospetto lampeggia nella penombra del suo viso. Lui si gira verso il collega, fa un cenno col capo indicandomi, e l’altro annuisce.

L’agente che ha parlato con la signora del piano di sotto mi cammina incontro a passo tranquillo, e l’altro richiude lo sportello dell’auto, dà un giro di chiave e la sigilla. Si avvicina anche lui.

Mi fermo a due passi dal cancello, l’agente di polizia mi si mette di fronte. «Mi scusi.» Mi squadra. Il viso in ombra sotto il copricapo, le guance rosse per il freddo e la voce leggermente arrochita dall’aria umida. «Lei è Lukas Bondevik?» Una voce che ho già sentito pronunciare il mio nome con quella pronuncia così rozza.

Scocco un’occhiata a entrambi, aggrotto la fronte, torno a guardare quello che mi si è piazzato davanti. «Sì, sono io.» Agito le dita della mano infilata nella tasca della giacca, sciolgo il formicolio di disagio che mi sta pizzicando la pelle e che mi raggela le ossa.

L’agente allunga il braccio, mi porge la mano aperta, senza guanto. «Salve, sono l’agente Edwards del dipartimento di Scotland Yard.» Me la lascio avvolgere ma non stringo la presa. Lui la scuote. «Ci siamo sentiti questa mattina al telefono, ricorda? Riguardo la scomparsa di Mathias Køhler.»

Ah, ecco. L’ignorante che non conosce l’alfabeto nordico.

Annuisco. «Sì, mi ricordo.» Però non gli avevo dato l’indirizzo di casa, solo il mio nome. Come hanno fatto a raggiungermi qua?

Il secondo poliziotto si avvicina, si mette di fianco a Edwards e lui lo indica. «Il mio collega Lee.»

Anche Lee mi porge la mano aperta. «Salve.»

Ricambio il gesto ma il mio braccio è rigido, la stretta di mano fredda e distaccata.

Edwards solleva lo sguardo sul condominio, gli occhi corrono fino al tetto che si erge contro i nuvoloni di pioggia e tornano su di me. L’agente rivolge un indice all’edificio. «Lei e il signor Køhler vivete qui, presumo?»

Splendido, usano il presente. Per lo meno è vivo.

«Sì.»

Butto l’occhio sull’auto che hanno lasciato parcheggiata sul marciapiede, quasi sperassi di trovare Mathias dentro, ancora incatenato alle manette.

«Ci spiace essere venuti a disturbarla così all’improvviso» mi dice Edwards, e i suoi occhi si fanno più chiari, il viso ammorbidisce i lineamenti. «Ma ci chiedevamo se avesse la cortesia di farci salire per qualche minuto.»

Stringo la mano contro la cinghia della borsa che mi passa sulla schiena, e squadro tutti e due assottigliando le palpebre, rivolgendo loro un’occhiata carica di sospetto. «È successo qualcosa?» Il vento mi passa in mezzo alle gambe, trascina lo scricchiolio delle foglie secche che ho appena calpestato, e uno sciame di brividi si infila sotto i vestiti, mi fa accapponare la pelle.

Edwards accenna un sorriso rassicurante. «Non si preoccupi, le spiegheremo tutto.»

Un brivido sviscera attraverso la schiena, mi fa salire la pelle d’oca all’altezza della nuca, pizzica dietro le orecchie, le dita piantano le unghie nel cuoio della spallina.

Direi che non ho scelta.

Li supero senza guardarli e vado al cancello. «Prego.» Loro si tengono alle mie spalle, Lee piega una piccola riverenza in segno di ringraziamento.

Infilo la mano nella tasca della giacca, scavo fino in fondo fino a che non incontro la consistenza liscia e fredda delle chiavi che tintinnano all’interno della stoffa. Agguanto il portachiavi a forma di bandiera danese, lo estraggo, e faccio scorrere il mazzo fra le dita, in cerca della chiave del portone.

Edwards solleva un sopracciglio, squadra con occhi attenti e sospettosi il portachiavi che penzola fra le mie dita. Lo ignoro, ma avvolgo il ciondolo nel palmo in modo che lui non indugi troppo con lo sguardo sulla bandiera danese. Arrivo alla chiave più lunga e la indirizzo nella serratura arrugginita.

Ora li farò salire e mi diranno che hanno preso Mathias e che è prigioniero da loro, che lo dovranno tenere al fresco almeno per un mese a meno che io non paghi la cauzione che io non pagherò, perché così quell’idiota imparerà una buona volta a tenersi fuori dai guai.

Inserisco la chiave. Giro a destra e a sinistra per assestare l’ingranaggio che è rotto da due mesi ma che il padrone di casa non ha ancora provveduto ad aggiustare. La mano si blocca, un pensiero mi fulmina, e il braccio raggela senza spingere il cancello.

Oppure che è successo qualcosa che riguarda anche Ivan.

Giro a sinistra, la serratura scatta, trasmette una vibrazione alla mia mano che risale il muscolo come una scossa elettrica.

Già, e se Mathias fosse finito nei guai per colpa di Ivan? Questo spiegherebbe il coinvolgimento della polizia. Non ci avevo nemmeno pensato.

Stringo la sbarra screpolata di ruggine, spingo il cancello che si apre con un cigolio dei cardini, e allungo il primo passo attraverso la stradina di pietra.

Comunque, in qualsiasi cosa fosse rimasto incastrato Mathias, questa volta non lo perdonerò per almeno un mese, a costo di lasciarlo a marcire in prigione.    

 

.

 

Ho dovuto girare due volte le chiavi nella serratura di casa prima di ricordarmi che questa mattina avevo lasciato la porta aperta. Ci mancherebbe solo che fossero entrati i ladri, sarebbe la degna conclusione di questa giornata schifosa. Ma almeno avrei già i poliziotti qui.

Avvito il pomello, spingo la porta, e la luce grigia del corridoio ci accoglie trascinando con sé il profumo di casa, l’aria ancora fredda dopo due giorni che non ho acceso il riscaldamento, e il leggero brusio del traffico che passa attraverso i vetri delle finestre.

Faccio entrare prima loro, apro il braccio indicando il corridoio. «Prego.»

Edwards passa per primo e mi fa un cenno con il capo. «Grazie.» Si toglie il copricapo. «Con permesso.»

Passa anche Lee e lo imita. «Permesso.»

Non vanno oltre il mobiletto del telefono. Mi mordo il labbro ed esito sulla soglia, accorgendomi solo adesso di aver lasciato le sigarette HB lì, con sopra il nome di Gilbert. Se Mathias fosse nei guai, quella potrebbe essere una prova contro di lui. Squadro le schiene dei due agenti, ma Edwards si sta guardando attorno, fermo davanti al piccolo quadro del fiumiciattolo in mezzo alle montagne appeso sopra il ricevitore del cancello, e Lee allunga il collo per dare una sbirciata al soggiorno. Non notano nemmeno il pacchetto. Meglio così.

Richiudo la porta. «Volete qualcosa da bere?» Getto le chiavi nella ciotola di legno dove giacciono ancora quelle di Mathias.

Edwards scuote il capo e mi blocca con un piccolo cenno della mano. «Oh, non si disturbi.»

Poso la borsa sulla seggiola, mi sfilo il cappotto e lo butto sullo schienale. In casa fa quasi più freddo che fuori, e una pioggia di brividi mi aggredisce la schiena risalendo fino alla nuca. «Di qua è la cucina.» Faccio strada. «In soggiorno non ho sedie per tre.»

Edwards sorride, ma gli angoli della bocca fanno fatica a tirarsi su, è un sorriso un po’ impacciato. «Grazie.» Mi seguono entrambi, e lui si ferma fuori dall’architrave della cucina, lancia un’ultima occhiata al soggiorno tenendo il capo reclinato. «L’avete arredata voi due?»

Annuisco. «Sì, io.» In cucina indico le sedie accostate al tavolo. Ci accoglie il ticchettio dell’orologio e quello più cristallino del rubinetto rotto che gocciola dentro il padellino del latte sporco e traboccante d’acqua.

«E da quanto tempo vive assieme al signor Køhler?» Edwards non si siede ancora, il suo sguardo circospetto esplora la cucina.

«Da tre mesi circa» rispondo. «Mi aiuta con l’affitto.» Per fortuna che sono davvero in affitto, altrimenti non saprei che scusa inventarmi per giustificare il fatto che viviamo assieme.

Abbasso la fronte e rivolgo un inconscio sguardo d’odio a entrambi.

Dannati poliziotti che si impicciano degli affari degli altri solo per rompere le scatole e mai per fare il loro lavoro.

Edwards annuisce, comprensivo. «Capisco.»

Afferro lo schienale di una delle seggiole e mi siedo prima io, intreccio le mani sul tavolo. Un fascio di luce grigia entra dalle tendine della finestra, taglia in due il frigorifero, scivola sotto l’orologio – sono già le tre e mezza –, batte sul rubinetto del lavello gocciolante, e attraversa la stanza, schiarendola senza bisogno del lampadario.

Edwards e Lee si siedono uno vicino all’altro, mi si mettono di fronte, posano i copricapo sulle ginocchia. «Dunque.» Anche Edwards giunge le mani sul tavolo, stringe le dita, spremendole un paio di volte, e le nocche gli diventano bianche. «Signor Bondevik.» Mi rivolge lo sguardo, fissandomi dritto negli occhi, e socchiude le palpebre, sollevando lievemente le punte delle sopracciglia.

Stringo le mani, sopprimo la pressione che si è creata nello stomaco, come se mi avesse appena dato un pugno alla pancia. Quello sguardo mi è arrivato addosso come una scossetta gelida fra le viscere, la bocca diventa secca e amara, impastata di disgusto come dopo l’orrido caffè di stamattina.

Il lavandino perde, l’orologio ticchetta, batte le tre e trentaquattro, e il ronzio del frigorifero copre il brusio del traffico in sottofondo.

Edwards abbassa di un poco la fronte, ma i suoi occhi non si smuovono dai miei. «Ci rincresce doverle comunicare che abbiamo delle spiacevoli notizie riguardo Mathias» dice, secco, tutto d’un fiato. Anche Lee abbassa lo sguardo e irrigidisce le braccia tenendo i gomiti premuti sul tavolo.

Io sollevo un sopracciglio.

Mathias? E dov’è finito il signor Køhler?

Stringo i pugni, il leggero scricchiolio delle falangi mi fa salire i nervi a fior di pelle, le palpebre si restringono, continuo a fissare il dannatissimo orologio con le lancette fosforescenti che batte regolare sopra il frigo.

Ora mi diranno che è in prigione.

La lancetta passa il numero dodici – tic! –, il giro dei minuti ricomincia – tac!.

Mi diranno che è in prigione e che magari lo hanno anche gonfiato di botte dopo una lite, che dovrà rimanere dentro almeno per un anno, che dovrò rassegnarmi al fatto che potremo vederci solo una volta al mese, che però potrò inviargli delle lettere, e che dovrò trovare qualcun altro con cui “dividere l’affitto”.

Una goccia piove dal rubinetto, crolla nel padellino colmo. Plic!

Ora dovrò pure passare il pomeriggio a cercare la sua roba e a portargliela in prigione. Poi dovrò anche andare a parlare con il padrone di casa, spiegargli che Mathias resterà dentro fino a non so quando, magari inventarmi qualcosa per non tirare di mezzo la droga. E dovrò anche prepararmi a subirmi le lagne di Mathias. Starà appiccicato al vetro divisorio con il telefono in una mano e il palmo schiacciato sulla parete trasparente fra me e lui, la divisa del carcere a fasciargli il corpo, a giustificarsi sul perché non è colpa sua, sul perché lo hanno fregato, su come ha già in mente di sistemare tutto, che quando uscirà di galera sarà in grado di mettersi a posto per sempre, e mi prometterà come fa ogni volta che vivremo felici e contenti in chissà quale casetta di marzapane incantata, circondati dalla foresta degli arcobaleni e dei coniglietti di zucchero.

Le sue solite chiacchiere da disperato.  

Prendo un breve respiro. «Di cosa si tratta?»

Un altro battito di orologio – tic! – e un altro sgocciolio del rubinetto – plic!

Edwards e Lee si scambiano un’occhiata obliqua. Edwards restringe le labbra, come avesse paura a parlare, e le mani intrecciate sul tavolo diventano bianche come le sue guance. Gli occhi di Lee restano freddi. Lee solleva le sopracciglia, quasi stesse ammiccando, ed Edwards annuisce piano mostrando un’espressione di complicità.

Lee mi rivolge lo sguardo. Anche i suoi occhi cambiano, si fanno più lucidi e tristi, più profondi.

«Mathias è stato ritrovato deceduto questa mattina.»

La lancetta avanza – tic! – e si ferma. Una goccia piove dal rubinetto, si schianta dentro il padellino ricolmo – plic! – e l’acqua raggela, immobile come ghiaccio.

Edwards abbassa la fronte. «Ci dispiace molto.»

L’orologio si ferma, il battito tace, il rubinetto smette di perdere e l’eco dell’ultima goccia caduta si propaga fra le pareti della cucina, spegnendosi come un ronzio. Anche il frigorifero tace, il rumore del traffico si spegne, la stanza diventa tutta grigia e le ombre dei mobili si ingigantiscono, riempiono le pareti ingoiandole in un abbraccio di buio.

Ho freddo. Il gelo che mi è entrato dentro stritola lo stomaco e fa salire un conato di nausea. Non riesco a spostare gli occhi dall’orologio che si è congelato sulle tre e trentacinque. Un fremito di rabbia corre nel sangue, scioglie il nodo che mi schiaccia la bocca dello stomaco, e infiamma il ventre. Stringo le mani sul tavolo, le unghie mi entrano nella carne senza che io nemmeno me ne accorga.

Cosa stanno dicendo questi idioti? Mathias è vivo, ieri notte era con me, era sul letto, mi teneva abbracciato, ho ancora addosso la sensazione delle sue carezze che mi sono rimaste appiccicate come impronte. Come può essere morto da un giorno all’altro? Le persone non muoiono da un giorno all’altro.

Mi tremano le labbra. Devo irrigidire il petto e trattenere il fiato per non far accelerare il respiro.

Lui è vivo, incastrato chissà dove, che sta aspettando qualcuno che lo vada ad aiutare, e questi incapaci vengono a dirmi che è morto solo perché non riescono a fare il loro lavoro e cercarlo come si deve, solo perché non vogliono perdere tempo con un tossico. Se solo...

Prendo un primo, breve respiro che mi fa formicolare le guance.

Le ombre si ritirano dalle pareti, l’orologio riprende a battere i secondi, il frigorifero ronza, una goccia d’acqua precipita dal rubinetto, scioglie il tempo che riprende a scorrere.

Mi torna il fiato, il petto si svuota. «Dov’era?» E rimane un buco. Mi è rimasto dentro il gelo, si è fossilizzato nel torso, non riesco nemmeno a percepire il mio cuore che batte.

Edwards e Lee si scambiano un’occhiata perplessa. Forse si aspettavano che mi prendessi il viso fra le mani e che scoppiassi a piangere fino a soffocarmi con i miei stessi singhiozzi.

Abbasso gli occhi dall’orologio, guardo Edwards dritto in faccia. La mia voce è così fredda che mi aspetto quasi di vedere della condensa uscirmi dalle labbra come la nuvoletta bianca di un fumetto. «Dov’era quando l’avete trovato?»

Edwards lancia un’ultima occhiata tremolante a Lee, stringe e riapre le dita intrecciate, guadagna un respiro. Anche lui mi guarda in viso. «In un bagno» risponde. «Nei servizi pubblici della stazione di Tottenham Court Road.» Il suo sguardo rabbuia. «Abbiamo motivo di credere che sia morto per un’overdose da eroina. Aveva ancora l’ago della siringa infilato nel braccio quando è stato ritrovato.»

Tottenham?

Le immagini di questa mattina mi arrivano addosso come se qualcuno avesse agguantato un mazzo di fotografie e me l’avesse sbattuto in faccia, facendo volare gli scatti davanti ai miei occhi.

La gente ammucchiata sotto il portico, l’insegna della metro che mi dava i brividi, la sensazione di freddo e disagio che sviscerava sotto la carne, il formicolio ai piedi che mi diceva di scendere le scale. Le due auto della polizia che stazionavano in mezzo alla carreggiata, l’ammasso di gente ancora più grande, l’ambulanza aperta e ferma sul marciapiede con le sirene che lampeggiavano e che coloravano di blu i profili dei passanti.

Sento un groppo alla gola, come se avessi ingollato un pugno di spiccioli, e la nausea rimonta lo stomaco.

L’ambulanza.

Il paramedico che richiude gli sportelli, l’auto della polizia che si immette nel traffico e che guida l’ambulanza lontano, e la sensazione di gelo e dolore che mi era scivolata via dallo stomaco quando l’ho vista sparire dietro l’angolo.

«Chi l’ha trovato?» chiedo.

Edwards inspira, forse per darsi coraggio. «Un signore, questa mattina. È già stato interrogato ma ovviamente non è coinvolto in nessun modo. Si era semplicemente recato ai servizi e ha trovato la porta del bagno bloccata.» Guarda in disparte, si stringe le spalle, stropiccia lo sguardo e si strofina la nuca. «Poi, quando ha chiamato la sicurezza per farla aprire dall’esterno, noi...» Fa un piccolo gesto con la mano, mi invita a usare l’immaginazione.

Socchiudo le palpebre e guardo il tavolo, i nostri riflessi che si specchiano sul legno lucido. «Capisco.»

Lee si fa più avanti con le spalle. La sua voce è più morbida di quella di Edwards, ma più sicura. «Deve ancora arrivare il referto del medico legale» mi spiega, «ma abbiamo modo di credere che possa essere morto fra ieri sera e questa mattina.»

«Quando ha detto di averlo visto, l’ultima volta?» si intromette Edwards.

L’ultima volta.

Quindi, l’ultima immagine che mi rimarrà di Mathias è il suo viso smagrito e pallido, reso ancora più bianco dalla luce della luna che gli batteva sulla guancia. Gli occhi ingrigiti, tristi e umidi che mi facevano sentire quella fitta di dolore al petto, poi la sensazione della sua fronte accostata alla mia, del suo respiro lento e tiepido che mi sfiorava la gola, le mani tremanti che mi carezzavano la nuca e dietro l’orecchio, le braccia aggrappate al mio corpo, il profumo dei suoi capelli che si mescolava a quello del tabacco. La consistenza ruvida e calda del tatuaggio sfregiato dalle graffiate che passava sotto il mio tocco, il lento e soffice suono del suo cuore che batteva sulla mia guancia quando ho poggiato il viso sul suo petto, prima di chiudere gli occhi. Se solo non mi fossi addormentato, forse...

Un tremito mi scuote la schiena e mi fa vibrare lo stomaco. Torna a salire un altro conato di vomito che reprimo con un breve sospiro. «Ieri sera» rispondo. «Verso le sette o le otto. Potrebbe essere uscito di casa mentre dormivo.» Squadro Edwards con due occhi che potrebbero perforare una lastra d’acciaio. «Gliel’avevo già detto al telefono questa mattina.» Mi bruciano le mani. Vorrei alzarmi e strangolarlo, spremergli fuori dagli occhi le lacrime che a me non vengono, che sento incastrate nel petto, che iniziano a martellare fra le palpebre, e di cui non riesco a liberarmi.

Gli avevo detto di cercarlo. Gli avevo detto che sarebbe stato pericoloso lasciarlo libero per Londra nelle condizioni in cui era ridotto ieri sera, e loro non mi hanno dato retta, non hanno mosso un dito per aiutarlo. Se lo avessero trovato in tempo e gli avessero impedito di...

«G-giusto» balbetta Edwards, distogliendo lo sguardo dal mio. È tornato a sbiancare. Fa la stessa faccia che fanno tutti quando lancio occhiatacce del genere.

Lee tossicchia e torna a rivolgersi a me. «Ovviamente ci siamo già preoccupati di avvisare i genitori di Mathias,» increspa un labbro, «tuttavia è insorto un piccolo problema.»

Inarco un sopracciglio. La rabbia si scioglie pian piano, torna la sensibilità alle mani, e il grumo di pressione sul petto e sullo stomaco si squaglia. Sento il sangue tornare gelido come un flusso di acqua ghiacciata.

Lee si spinge con le spalle più avanti, intreccia le mani sull’orlo del tavolo, e ora assume il tono di un inquisitore. «Lei era a conoscenza del fatto che Mathias fosse danese, giusto?»

Gli occhi di Edwards volano verso la porta che dà sul corridoio. Increspa le sopracciglia come aveva fatto quando ho tirato fuori il mazzo di chiavi appese al ciondolo della bandiera danese. Si massaggia la punta del mento, scettico.

Io restringo le palpebre. «Certamente.»

Lee annuisce. «Vede, i suoi genitori purtroppo non si sono resi disponibili per il riconoscimento del corpo, e lei risulta il contatto più stretto che Mathias aveva qua a Londra.» Lo sguardo assume una velatura imbarazzata. L’agente si passa la mano fra i capelli, increspa la bocca come se stesse impastando le parole sulla lingua, e il suo viso si chiazza di rosso. Gli occhi incrociati ai miei tremolano di indecisione. «Non vorremmo farle pressione, ma...» Fa un gesto con la mano, rotea il polso rimestando l’aria sopra il tavolo, e non riesce a concludere la frase, mi lascia immaginare.

Alzo le sopracciglia. «Devo riconoscere il corpo?»

Edwards mi guarda male e rimane basito davanti alla mia freddezza. Probabilmente starà pensando che io sia un automa con il cuore di piombo.

Lee annuisce. «Sì.» La voce ancora un po’ impacciata. «Sì, signore.» Il suo sguardo vola sopra il frigorifero, nel punto da cui si propaga il ticchettio dell’orologio. Ora sono già le quattro meno un quarto. Lee si sporge leggermente dalla sedia, volge già un piede verso l’uscita. «La accompagniamo noi all’obitorio, se vuole, anche subito.» Il tono si è fatto stomachevolmente gentile e apprensivo, torna ad annodarmi la pancia in un grumo di disgusto.

Restringo il labbro inferiore, la bocca freme fra gli incisivi, qualcosa preme sulle palpebre, brucia le guance, ma ingoio tutto. La voce mi esce in un soffio. «D’accordo.» E il cuore diventa davvero pesante come un pezzo di piombo.

 

.

 

L’auto della polizia ha un buon profumo. Profuma della pelle dei sedili, del cuoio delle cinture, e di stoffa appena lavata lasciata scaldare al sole. Il calore pizzica attraverso il viso, le guance si sono intiepidite e il sangue torna a scorrere attraverso la pelle arrossata dal vento e dal freddo.

Sfioro il finestrino con la fronte stando poggiato sul gomito, la mano chiusa contro la guancia. Fuori sta annuvolando e sta anche scendendo la sera. Le luci dei negozi, dei semafori e dei fari delle auto risplendono in maniera più viva, e il traffico scorre ancora liscio, pochi passanti occupano i marciapiedi. Non c’è ancora la foga delle cinque a intasare le strade.

Lee ferma l’auto a un semaforo. La luce rossa ci abbaglia e riempie l’abitacolo. L’agente alza gli occhi sullo specchietto retrovisore, il suo sguardo mi scruta, incrocia di sfuggita quello di Edwards seduto di fianco a me, e torna a guardare avanti. «Ci rincresce molto tutta questa situazione, signore.» Stringe le dita sul volante, le nocche sbiancano, e le punte tamburellano sul cuoio consumato.

Sollevo lo sguardo, ma non sposto la fronte dal vetro. Piego leggermente un sopracciglio mantenendo un’espressione fredda e distaccata.

Lee non mi guarda più. Tamburella ancora le unghie sul volante e tiene gli occhi fissi sul semaforo che gli tinge le guance di rosso, sulla gente che attraversa passando davanti al muso dell’auto, in mezzo alla luce dei fari. «Si ricordi che il corpo di Mathias potrebbe apparirle molto più pallido del solito.» Ferma il tamburellare delle dita e si gira a guardarmi da sopra la spalla. Un’occhiata di conforto. «All’inizio potrebbe disorientarla un po’ ma non si spaventi, va bene?»

Spaventarmi.

Mi tocco il petto, faccio finta di grattarmi, come se avessi un prurito a soffocarmi da sotto la giacca, e ne approfitto per fare pressione sul battito del cuore. È lento e regolare, non ho male al petto, non sto sudando, non ho il respiro accelerato, non mi bruciano gli occhi e non ho un groppo in gola. Non ho paura, non sono spaventato, non ho niente. C’è solo un buco che non riesco a riempire.

Annuisco. «Okay.»

Scatta il verde. Lee ingrana la marcia e parte, supera l’attraversamento pedonale e prosegue lungo la strada immettendosi dietro un autobus. «Dovrebbe apparire anche l’ematoma del...» Stacca una mano dal volante, fa roteare il polso. «Insomma...» Si rimangia le parole e allontana gli occhi dal riflesso dello specchietto retrovisore, in modo da non incrociare il mio sguardo.  

Edwards tossicchia. Lee torna ad agguantare il volante con entrambe le mani, le nocche diventano bianche, e il suo tono di voce riacquista un po’ di sicurezza, non tentenna più. «Le verrà fornita una cartella clinica, comunque.» Imbocca una curva, stando sempre dietro l’autobus, e rallenta. La strada è più buia in questo punto, una porzione di marciapiede è bloccata da una striscia bianca e rossa che delimita un piccolo cantiere edile.

Lee scuote il capo e la sua espressione s’intristisce. «Non si preoccupi, non ha sofferto.» È più rassegnato lui di me. «In questi casi, la morte arriva di colpo, non se ne sarà neanche accorto.» Scrolla le spalle. Parla con tono amareggiato, come se volesse vomitare le parole. «Dicono che sia come un proiettile alla testa.»

Il petto stavolta si stringe. Una piccola scossa di dolore mi trafigge le costole e arriva come un ago nel cuore.

Grazie per avermi messo in testa l’immagine di Mathias che si spinge una canna di pistola alla tempia. Il pollice alto sul cane, l’indice che trema già infilato nell’anello del grilletto, e gli occhi che lacrimano, le righe di pianto che rotolano fra le labbra torte in un’espressione di dolore e paura che gli sbianca la pelle delle guance.

Confortante.

Mi stringo nelle spalle, sopprimo un brivido, e tiro le gambe più vicino a me, chiudendomi nell’angolo contro lo sportello. Torno a guardare fuori dal finestrino. Non ho intenzione di stare ancora a lungo a sentire le chiacchiere di questi dannati cretini.

«Aah, poveretti» sospira Edwards, accanto a me. Si toglie il copricapo, passa una mano fra i capelli, si massaggia il collo, e il suo palmo resta aperto dietro la nuca. «È già il vent...» Inarca un sopracciglio, lancia a Lee un’occhiata interrogativa. «... unesimo?»

«Sì, ventunesimo» annuisce Lee. L’autobus gira a destra, noi andiamo a sinistra e la nostra via si apre in uno stradone principale che ora non riconosco.

«Il ventunesimo, quest’anno» ripete Edwards. «Per un’overdose.» Si rimette il copricapo e guarda anche lui fuori come me.

Lee scuote il capo, l’espressione amareggiata come il tono di voce. «Poveri ragazzi.» L’auto rallenta, la luce rossa di un altro semaforo ci investe, e l’auto si ferma davanti a un negozio che esibisce l’insegna luccicante della Coca-Cola. Lee apre le mani sul volante, si stringe nelle spalle, e torna a chiudere le dita. «Noi purtroppo possiamo fare ben poco, ma in questi casi devono essere in grado di salvarsi da soli.»

Stringo i pugni. Uno contro la coscia, grattando le unghie sui pantaloni, e uno nella guancia, graffiandomi la pelle. Di nuovo quel formicolio di rabbia si aggroviglia nella pancia, come un serpentello che si dimena e che mordicchia le pareti dello stomaco.

Salvarsi da soli? Mathias non era in grado di cavarsela da solo nemmeno quando preparava la colazione. Lasciava troppo tempo il latte sul fuoco e alla fine traboccava tutto, non richiudeva l’anta della dispensa e finiva sempre per prendersi una spigolata alla nuca, rovesciava la busta di biscotti mentre li travasava nel barattolo di latta, bruciava i toast, non rompeva bene le uova e le faceva cadere nella padella assieme al guscio. Come avrebbe potuto salvarsi da solo in qualcosa di così grande come la dipendenza?

L’auto ingrana la marcia e riparte. Il ronzio del motore attraversa il sedile di pelle mi rilassa, i bollori si raffreddano, la luce più scura e tenue della strada, distante dalle luci colorate fuori dai pub e dai negozi, mi spinge ad abbassare le palpebre.

Un piccolo sospiro mi attraversa le narici. Il vuoto nel petto si allarga.

Chissà chi sarà il prossimo di loro?

Due taxi sfilano nella corsia accanto alla nostra, ci superano, e scoprono la vista del marciapiede. Dei tizi vestiti in pelle nera e cianfrusaglie di metallo appiccate al viso e ai capelli sono in piedi fuori da un pub e chiacchierano, avvolti da una sottilissima coltre di fumo azzurrina sprigionata dalle punte delle sigarette che brillano fra le loro dita. Boccali di birra fra le mani e posacenere pieni sui tavolini di metallo.

Distolgo lo sguardo, spingo le spalle contro lo schienale, poggiando anche la nuca, e incrocio le braccia al petto.

Per me il prossimo sarà Gilbert. Forse Arthur potrebbe farcela, magari sarà abbastanza intelligente da tirarsi fuori prima di fare anche lui questa fine, ma Gilbert no. Gilbert è stupido come lo era Mathias. Mi stupisco solo che non sia morto prima di lui.

Un nodo si raggruma nel petto, riempie il vuoto con una massa nera e appiccicosa che mi fa salire i brividi attraverso la pelle, rende il viso più freddo, e la pressione arriva alla testa schiacciando contro le tempie.

A questo punto avrebbe potuto davvero morire lui al posto di...

«Lei sapeva, dunque, dei problemi di Mathias?»

Edwards ha distolto lo sguardo dal suo finestrino e mi guarda storto, scettico, con una sottile ombra a celargli metà del volto. Le braccia intrecciate al petto.

Gli lancio uno sguardo annoiato e annuisco. «Sì.» Torno a osservare la strada che sfila. Il gomito contro lo sportello e la mano aperta sulla guancia.

«E lo sapeva anche prima che venisse a vivere con lei?»

Prendo un piccolo sospiro. «Sì.»

Edwards torna a sistemarsi con le spalle contro lo schienale, il sedile sbuffa sotto il suo peso che si sposta, e accavalla le gambe. «Audace, a prenderlo come inquilino.» Sopprime una risata che ha il suono di un soffio. «Per di più...» I suoi occhi diventano più scuri, la voce più bassa, aggravata da una punta di sprezzo. «Già vivendo in un quartiere come Soho.»

Un formicolio si annoda nel ventre. Restringo le palpebre, lo fisso con la coda dell’occhio standomene in disparte, e sento la pelle rabbrividire e rizzarsi sulla difensiva. Non avrà forse capito che io e lui...

«Quindi, immagino che vi conoscevate prima di vivere assieme.» Edwards si massaggia di nuovo il collo e allenta il bavero dalla giacca infilandoci due dita sotto.

Prendo un respiro lungo, lo faccio arrivare fino in fondo allo stomaco. Torno freddo come un cubetto di ghiaccio, il tono piatto e indifferente. «Solo da inizio marzo.»

Edwards annuisce. «Capisco.» Gli angoli della bocca si curvano in un mezzo sorrisetto che va a incavarsi nelle guance. «E, se posso permettermi...» Si volta verso di me. I suoi occhi si restringono, si fanno famelici come quelli di un gatto che ha avvistato un topo nell’angolo della cantina. «Com’è che vi siete conosciuti, lei e Mathias?»

Stringo le labbra, trattengo il fiato.

Edwards si massaggia il mento e ridacchia. La sua risata gli fa traballare le spalle. «Anche lei è danese, signor Bondevik?»

Mi scoppia una vena in fronte.

Io danese?

Stritolo i pugni, le unghie si conficcano nella carne, i muscoli fremono, un sottilissimo ringhio di minaccia sguscia fuori dai denti serrati.

«Norvegese.»

La mia voce raggela l’abitacolo. Spegne i rumori del traffico, quelli del motore dell’auto, e l’aria diventa scura, come se fosse comparsa una nebbiolina grigia attorno a me, a rabbuiarmi lo sguardo e a incorniciarmi il profilo con un’aura nera carica di ostilità.

Edwards e Lee smettono di respirare, Lee irrigidisce come un manichino al volante, Edwards sbianca e strozza un sussulto, come se lo avessi strangolato. Scivola sul fianco e si porta più vicino al finestrino, lontano da me, schiacciandosi contro lo sportello. Il suo sguardo si allontana, gli occhi lucidi di paura riflettono i colori delle insegne e dei fanali delle auto che luccicano anche sulle sue guance impallidite.

Così impara a sparare stronzate.

Lee tossicchia chiudendo un pugno davanti alle labbra. «Quindi...» Torna a incollare la mano sul volante e svolta a destra, si ferma a un passaggio pedonale e un mucchietto di persone attraversa la strada. Lui mi squadra da sopra la spalla. «Avevate forse amici in comune?» La sua voce non è provocante come quella di Edwards, ma mi fa comunque salire un fascio di nervi a ingarbugliarmi il petto.

«Questo non è un affare che la riguarda.» Ricambio lo sguardo, fisso il finestrino in modo che possa osservare per bene il riflesso glaciale dei miei occhi. «O sbaglio?»

Lee china la fronte, si stringe nelle spalle. «Mi perdoni.»

La folla sgombera la strada e l’auto riparte con un sobbalzo.

Edwards torna a girare lo sguardo verso di me, senza però spostare le spalle che restano incollate allo schienale. Le braccia intrecciate al petto come per paura che io possa di nuovo trafiggerglielo con una frecciata raggelante. «E il tatuaggio?» chiede, brusco. La sua domanda arriva con la stessa prepotenza di uno schiaffo.

Mi irrigidisco, gli occhi rimangono aperti sul mio finestrino, e il vetro riflette la mia espressione ingrigita, colta alla sprovvista. Un’altra scossa al petto mi trapassa le costole e punge il battito del cuore. Mi giro.

Edwards mi sta di nuovo guardando. L’espressione seria, di pietra, non ha più la sfumatura divertita che prima gli rendeva le guance rosse. L’agente di polizia mi mostra il lato sinistro del collo, sotto il bavero dell’uniforme, e batte sulla giugulare con due dita unite. «Mathias ha un tatuaggio sul collo a forma di orologio.» Solleva le sopracciglia, le dita restano a premere sulla vena. «Ne era a conoscenza?» Ora mi guarda come se io fossi un topolino con la coda già incastrata fra le unghie del gatto.

Inutile mentire, sembrerebbe troppo sospetto.

«Ovviamente» rispondo, glaciale.

Edwards fa scivolare giù le dita dal collo e torna a incrociare le braccia. Guarda davanti a sé, tiene il mento alto, il tono grave di un giudice dell’Inquisizione. «E Mathias le ha mai parlato del perché ce l’avesse e di cosa significasse?»

Un groppo di saliva s’incastra in gola, amaro e asciutto come un boccone di sabbia.

Mi torna in mente la prima volta in cui gliel’ho sfiorato, seduto sulle sue ginocchia, le braccia attorno alle sue spalle, la sua schiena sprofondata nell’imbottitura del divano, la luce rossastra della sera d’estate che gli faceva splendere i capelli come oro. L’aroma delle due birre che avevamo bevuto, le bottiglie sporche di schiuma ribaltate sul tavolino assieme al cavatappi e al posacenere. Il caldo che gli faceva sudare la pelle, il profumo di tabacco che sentivo quando gli carezzavo il collo con la punta del naso, le mie mani intrecciate alle sue ciocche che risalivano la nuca, avvolgendola. Le labbra che si univano, che baciavano a fondo, più a fondo di quanto avessimo mai fatto fino a quel momento, e che assaporavano il gusto dolce della sua bocca, quello più amaro della birra. Le sue mani erano scivolate sotto la mia maglietta. Erano ruvide, un po’ sudate e impacciate, e mi carezzavano la schiena, arrivando fino alle scapole. Gli occhi chiusi, il respiro che accelerava, e il suo petto che fremeva contro il mio, passandomi una piccola scossa elettrica che era scesa fino in pancia. La prima volta che abbiamo fatto sesso sembrava avesse più paura lui di me, anche se sapevo che lui era già stato a letto con altri. Si fermava a ogni mio brivido, a ogni singolo ansito, terrorizzato all’idea di farmi male. L’avevo trovato così dolce e patetico allo stesso tempo. Era un lato di Mathias inaspettatamente tenero che non avevo mai conosciuto e che in qualche maniera me lo aveva fatto amare ancora di più.

Torno con la mente nell’auto, imbozzolato nel freddo invece che nell’aria calda di quella sera d’estate, a udire i battiti e i sospiri del corpo di Mathias unito al mio. L’odore della pelle invece che quello della birra, il colore grigio del cielo annuvolato invece che il rosso sanguineo del tramonto.

«No.»

Dopo eravamo rimasti sdraiati sul divano. Le sue braccia attorno al mio bacino, le gambe intrecciate, la sua fronte che riposava sulla mia spalla, le labbra che mi sfioravano la pelle sudata, inumidendola ulteriormente. Sistemai le spalle contro il guanciale ruvido del divano, districai le dita dai capelli sudati di Mathias e feci scendere il tocco lungo la curva del suo collo. Arrivai al tatuaggio e vi indugiai, percorrendo il bordo di filo spinato attorno all’orologio che sembrava davvero in rilievo, come se emergesse dalla carne. Glielo toccai e Mathias divenne più rigido, il suo abbraccio più stretto, il viso più nascosto nell’incavo della mia spalla. Aprii la mano, gli nascosi il tatuaggio sotto il mio palmo e gli soffiai un piccolo bacio sulla fronte. Mi diceva sempre che, ogni volta che stava con me, era come se sparisse, come se glielo cancellassi dalla pelle.

Mathias sovrappose la mano alla mia, delicatamente, e mi sussurrò piano con le labbra a uno sfioro dal petto, “Devo dirti una cosa riguardo a questo”, la voce tremava leggermente, come aveva fatto fino a poco prima, quando avevo il suo respiro a soffiarmi accanto all’orecchio. E mi raccontò tutto dei Siberian Cubs.

Scuoto le spalle, mi fingo indifferente, e rilasso la schiena contro il sedile. «Ce l’aveva e basta.»

Edwards e Lee si lanciano un’occhiata sbilenca, Edwards solleva un sopracciglio e torce una mezza smorfia con l’angolo delle labbra.

Sanno che non gliela sto raccontando giusta, ma non mi importa. E, secondo me, non importa nemmeno a loro.

 

.

 

I gomiti premuti sulle ginocchia cominciano a spandere due punture di dolore attraverso i muscoli delle gambe. Tengo le mani intrecciate sotto il mento, a reggere il capo, e gli occhi puntati in mezzo ai piedi, a fissare il vuoto nelle piastrelle di linoleum verde a forma di esagono, come le cellette di un alveare. Mi hanno detto di aspettare qui, che verranno a chiamarmi loro. Sono già passate due infermiere ma non mi hanno nemmeno guardato.

Sollevo gli occhi e sporgo le spalle in avanti, verso la prima ala del corridoio da cui mi hanno fatto arrivare quando siamo entrati. Passi ovattati in lontananza, tacchi sulle piastrelle, una serratura che scatta, una porta che si apre, vetri che vibrano, un carrello con le ruote che cigolano come quello della biblioteca, e un soffice brusio di voci che si propaga nel silenzio dell’ambiente.

Torno a guardare per terra e mi strofino il naso guadagnando un respiro profondo. L’odore di alcol e formaldeide mi sta già dando alla testa. Il peso al petto si aggrava e una fitta allo stomaco mi raggela. È da quando mi hanno fatto entrare nell’obitorio che la pancia mi si è chiusa in un nodo, il peso fra le costole si è infittito, il cuore batte lento e forte contro lo sterno, come il colpo costante di un martello sullo sterno. Mi dà la nausea.

Dei passi si avvicinano, battono sul pavimento in linoleum, un’ombra si allarga e mi tocca i piedi. Una voce femminile fa il mio nome. «Signor Bondevik?»

Giro lo sguardo ma le spalle restano chine, la postura immobile. «Sì?»

L’infermiera stringe una cartella al petto, accenna una riverenza abbassando il capo, e mi indica l’ala del corridoio alla sua destra. «Prego, da questa parte. Il dottore la aspetta.»

Un groppo di saliva mi resta incastrato in fondo alla lingua. Ho la gola secca e amara, non riesco a mandar giù il fiato. Mi alzo dalla panchina e un capogiro sbatte sulle pareti del cranio, le luci del corridoio lampeggiano, si offuscano, si macchiano di nero, e tornano a brillare. Scuoto il capo, corrugo la fronte, schiaccio i pugni fino a sentire le unghie spingere sui palmi, e prendo un breve respiro dal naso. Le luci tornano ferme e la testa smette di girare.

Muovo un primo passo. Il piede batte fermo e sicuro, le ginocchia salde e i muscoli rigidi.

Magari ora entro, lo guardo, e non è Mathias. Forse un altro disgraziato come lui l’ha rapinato ieri notte, gli ha fregato i documenti, poi è schiattato nel bagno, e lo hanno scambiato per Mathias solo perché ha la tessera di identità con il suo nome sopra.

Mi porto di fianco all’infermiera che mi guida attraverso il corridoio. È piccolina, la sua testa mi arriva alla spalla e deve sollevare il mento per guardarmi in viso. «Volevamo avvisarla che Mathias non ha ferite pronunciate sul corpo, ma sono visibili ematomi multipli e trombosi lungo le braccia.»

Svoltiamo una curva. Cartellini numerati sovrastano le porte delle sale, l’aria diventa più fredda e stagnante, come quella rigettata da un frigorifero, e la puzza di formaldeide torna a bruciarmi le narici.

L’infermiera lancia un’occhiata alla cartella che stringe al petto e solleva uno dei fogli pinzati da una molla d’alluminio. «Le hanno già detto che lo troverà molto più pallido?» Lo chiede con la naturalezza di chi fa domande del genere tutti i giorni, come la commessa dell’emporio che ti informa che hanno spostato i detersivi al reparto tre.

Annuisco. «Sì.»

Ci fermiamo davanti alla porta contrassegnata dal numero sette. L’infermiera allunga un braccio davanti a me, raggiunge la maniglia e la fa scattare, spingendola in avanti. «Prego.» Arretra di un passetto e mi lascia libero il passaggio.

Luci bianche e fredde riempiono la stanza, si riflettono sulle pareti candide che sembrano esplodere per il chiarore, e mi costringono a sollevare una mano per ripararmi gli occhi. Fa freddo. Un freddo pesante che mi ghiaccia le ossa. Emetto il primo respiro da quando l’infermiera ha aperto la porta e gonfio una soffice nuvola di fiato che si squaglia subito. L’odore di alcol e formaldeide torna a martellare come una mazzata alla nuca. Inspessisce il nodo alla gola, brucia, scende fino allo stomaco, addensandosi, e mi fa venire voglia di vomitare.

Guardo in basso. Qui il linoleum è bianco. La testa mi gira, un anello di vertigini torna a sciamare davanti alla vista.

Tanto non è Mathias.

Stringo i pugni. Il freddo mi scuote, una scossa di brividi fa tremare le braccia.

Ora tiro su gli occhi e non è Mathias. Si sono sbagliati, lui è ancora a scorrazzare per la strada, e me lo ritroverò davanti questa sera quando tornerò a casa. 

«Il signor Bondevik?»

Sposto gli occhi verso l’alto.

Un uomo in camice, un velo di barba bianca a spolverargli le guance, e occhiali spessi inforcati alla radice del naso, mi viene incontro. «Lei è il signor Bondevik?» ripete.

Annuisco. Non apro bocca.

Lui fa un cenno del capo, «Grazie per essersi reso disponibile», e torna in fondo alla stanza dove sono sistemate un paio di barelle vuote che riflettono la luce gettando forti scintille metalliche.

I passetti dell’infermiera tornano a schioccarmi di fianco. Con il freddo, tutti i suoni vibrano con più intensità contro l’orecchio, pulsano fino alla pancia. L’infermiera mi porge la cartella. «Controlli anche questa, per cortesia.»

Ho solo il tempo di sfiorarne l’orlo che il rumore stridente di uno scarrellio trafigge il silenzio glaciale che regna nell’ambiente. Il medico è arrivato in fondo alla stanza, ha allungato il braccio e ha steso qualcosa davanti a lui. Qualcosa di bianco.

Il medico stringe un lembo del lenzuolo, lo fa scivolare lungo la barella, e scopre quello che c’è sotto.

Getto lo sguardo al pavimento e ci manca poco che porti il braccio a tapparmi gli occhi come quando mi sono riparato dalla luce bianca e improvvisa delle lampade. Scappo, non voglio vedere.

La mia mano e quella dell’infermiera restano pietrificate sulla cartella clinica, i miei piedi incollati a terra, come nel ghiaccio, e gli occhi fissi su una delle piastrelle. È incrinata da una sottile venatura che la taglia in due ed è sbavata di nero in uno degli spigoli, forse la strisciata della ruota di gomma di uno dei carrelli.

Inspiro. L’aria brucia le narici, freme attraverso la gola, crea una scia di freddo che discende il petto e si condensa contro lo sterno, come lo spigolo di un mattone.

Espiro dal naso, rilasso le spalle, ma lo stomaco rimane annodato, le labbra sigillate, i muscoli pesanti come cemento.

Stacco la mano dall’orlo della cartella clinica e mi sembra di lasciare la presa di un pilone per gettarmi nel mare in tempesta. Acque nere, fredde come ghiaccio sciolto, e onde che mi arrivano fin sopra la testa, a soffocarmi, a tappare il cielo, circondandomi di buio.

Muovo un passo. L’eco schiocca, rimbalza fra le pareti, e torna indietro come un pugno nella pancia. Ruoto gli occhi verso l’orlo della barella che luccica d’argento e da cui sporge un lembo del lenzuolo bianco, e tengo il viso leggermente girato, in modo da non guardarlo direttamente.

Gli vedo la mano. Avanzo a passi lenti e profondi e mi concentro solo sulla mano.

Le dita immobili riverse tutte sul fianco, a mostrarmi le nocche, sfuggono alla macchia bianca del telo steso sui fianchi che si adagia sul ripiano di metallo. Sotto la pelle grigia corrono spesse vene bluastre che hanno ormai smesso di pompare sangue, le ossa sporgono nelle parti più scarne, e lì la pelle si fa bianca e sottile come carta.

Allungo un altro passo, e riesco a vedere le pieghe del lenzuolo.

Sfumature nerastre sbavano la carne sotto le unghie, evidenziano le lunette bianche. Un taglio che passa di traverso sotto la prima nocca dell’anulare – il taglio della scorsa settimana, quello che si è fatto mentre stava raccogliendo i cocci di un bicchiere che aveva fatto cadere dopo averlo asciugato – non sanguina più. La pelle bianca divisa dalla ferita appare grigiastra sugli orli della slabbratura.

Arrivo vicino alla barella e prendo un altro profondo respiro. Continuo a non guardargli alto che la mano. Mi sento freddo come un blocco di ghiaccio, mi sembra di essere io a riempire la stanza di bui, che sia il mio respiro a condensare tutto questo gelo.

La mia mano stesa sul fianco ha una piccola scossetta che la fa rimbalzare. La sollevo, stendo il braccio, e porto le dita vicine a quelle di Mathias. Gli sfioro una nocca, sento che è ruvida, ritiro il tocco e lo riavvicino. Faccio passare le dita sopra le sue, le infilo nel piccolo incavo formato dal palmo, e stringo. Sono freddissime, dure. Sembra di stringere la mano a una statua di marmo in pieno inverno.

Chiudo leggermente la presa, i polpastrelli fanno attrito, cercano un calore che non trovano. Strofino il pollice sul dorso della sua mano, passo sopra il rilievo delle vene, sulla ruvidezza della pelle ghiacciata come un pezzo di pietra.

Restringo le labbra, mordo la carne, contengo un tremolio.

Questa che sto stringendo è la stessa mano che ieri mi carezzava la guancia, che mi scorreva fra i capelli, dietro l’orecchio, lungo il profilo della nuca, che indugiava posandosi sul mio viso e su cui avevo posato le labbra. Era fredda anche ieri ma tremava, e il battito del suo cuore pulsava attraverso il palmo. Era viva.

Sposto la mano, ma lo sguardo resta dov’è. Seguo il movimento del mio tocco con la coda dell’occhio, e non riesco a vedere Mathias in viso. Meglio così. La mia mano risale il busto, va oltre i fianchi coperti dal telo bianco, oltre il petto, la spalla, e si ferma su un lato del collo. Sulla parte sinistra.

Gli sfioro il tatuaggio con i polpastrelli. Ci sono ancora i segni dei graffi che si è fatto con le unghie, ma la tinta nera dell’inchiostro sembra ancora più scura ora che la pelle è così pallida da sembrare trasparente. Il filo spinato marchia la carne, sale in rilievo arrotolandosi sull’orlo dell’orologio senza lancette. Glielo tocco, spingo piano le pute di indice e medio contro la giugulare. Non c’è battito. Il collo immobile, la pelle di pietra, il sangue fossilizzato.

Percorro con le dita il rilievo del filo spinato, arrivo fino a metà orologio, sul numero nove, dove inizia l’incisione a caratteri maiuscoli. “Siberian Cubs”. La mia mano è ferma, non trema. Sfila lentamente sulle lettere da sinistra a destra, percorre la prima parola “Siberian”, e scende, tocca anche “Cubs”, più tozza e corta, che riempie la metà inferiore del quadrante rotondo.

Non riesco a provare nulla. Mi sento più freddo e morto di lui.

L’infermiera si avvicina alle mie spalle. La sua voce mi desta, buca il silenzio di ghiaccio. «Signor Bondevik?»

Faccio scivolare la mano giù dal collo di Mathias, gli sfioro la clavicola, la spalla, e torno a infilare le dita fra le sue, in quella nicchia di pietra morta in cui mi sembra di affogare. Indugio, stringo la presa. Questa è l’ultima volta che lo tocco. L’ultima volta che lo vedo.

Sciolgo la stretta delle dita e ritiro la mano.

Mi giro.

«È lui.»

Imbocco l’uscita senza aspettare l’infermiera. Voglio andarmene. Mi aggrappo alla maniglia, apro la porta e la lascio socchiusa, marcio attraverso il corridoio verde immerso nelle luci più calde, lontano dal gelo della cella, dal bianco delle pareti, e dall’odore di alcol. Mi stringo la fronte, un capogiro mi fa girare la testa e sdoppia di nuovo le scintille gettate dalle lampade. Colpa della formaldeide.

«Signor Bondevik, aspetti.»

I passi dell’infermiera accelerano e mi inseguono.

Alzo gli occhi al soffitto, sospiro, e sono costretto a fermarmi.

Quando mi volto lei è già dietro di me. Si aggiusta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, le è sfuggita dallo chignon, e torna a sfogliare la cartella di alluminio che regge fra le braccia. «Aspetti, ci sarebbero ancora dei moduli da firmare, e...» Sfila una penna dal taschino del camice a cui ha appeso il cartellino con la sua foto, fa scattare il tappo, gira un altro foglio. «Volevamo avvisarla che...» Solleva gli occhi, restringe le palpebre e mi squadra con una luce diversa e distaccata. «Ecco» balbetta. «Lei e il signor Køhler eravate...»

«Coinquilini.» Bla, bla, bla, dividevamo l’affitto e le spese. «Dividevamo l’affitto e le spese.»

L’infermiera annuisce. Mi rivolge un mite e sincero sorriso di compassione, i tratti del volto si rilassano. «Capisco.» Mi porge la cartella e la penna. «Vuole che le siano consegnati i suoi effetti personali?»

Raccolgo i documenti e scuoto la testa. «No. Non è necessario.»

Non leggo nemmeno quello che c’è scritto. Faccio scorrere lo sguardo fino in fondo alla pagina e mi soffermo su una clausola scritta in grassetto con dei numeretti fra parentesi. Ci sono due spazi delineati da puntini di sospensione. Uno dei due è già riempito con una firma in blu, forse quella del medico legale, l’altra è vuota tranne che per una X segnata con una penna nera. Devo firmare io.

L’infermiera giunge le mani sul grembo. Il suo tono di voce si addolcisce, gli occhi si intristiscono. «Volevo solo informarla che la famiglia di Mathias è stata avvisata. Non si sono resi disponibili per il riconoscimento, e mi rincresce che sia stato coinvolto lei per questo, ma...» Si stringe nelle spalle, mortificata. «Hanno richiesto di riportare Mathias a Copenaghen, vogliono che sia sepolto là. Ci sembrava giusto avvisarla.»

Metto la firma. Viene perfetta, le linee dritte e ordinate, la mano non sta tremando.

Annuisco. «Certo.» Sollevo la pagina, controllo il documento successivo per vedere se ci sono altri spazi vuoti da firmare. Niente.

«Preferisce essere riaccompagnato a casa?» mi chiede l’infermiera. «Desidera magari che la mettiamo in contatto con i genitori del signor...»

«No.» Chiudo la penna con uno scatto, e gliela porgo assieme alla cartella con la documentazione. «Non serve.»

L’infermiera raccoglie tutto e si rinfila la penna nel taschino. Le sue sopracciglia si increspano, lo sguardo attonito, quasi deluso. Forse anche lei, come i due poliziotti, si aspettava che scoppiassi a piangere. Non aspettava altro che io mi prendessi la testa fra le mani, mi gettassi in ginocchio sul pavimento a disperarmi, perché poi mi avrebbe fatto sedere accanto a lei, mi avrebbe battuto una mano sulla spalla consolandomi con tutto il repertorio che le hanno insegnato da quando ha iniziato a lavorare in un posto come questo.

Le do le spalle e percorro l’uscita.

«Non disturbatevi. Prendo un taxi.»

Lei non mi trattiene.

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Capitolo 3
*** Il pianto del cucciolo ***


N.d.A.

Avviso super-velocissimo prima di lasciarvi al capitolo.

Per chi non lo sapesse già, la saga dei London Cubs passa da una pubblicazione mensile a una pubblicazione settimanale alternata ai capitoli del Miele, e sarà così anche per gli altri spin-off. Quindi, dato che questo è il penultimo capitolo di Danish Cub, Siberian Cub non riprenderà più il primo di luglio, ma il tredici di maggio.

Buona lettura e buon proseguimento a tutti! (^-^)

 


 

3. Il pianto del cucciolo

 

 

Mi chiudo la porta di casa alle spalle. Gli schiamazzi dei bambini della porta accanto restano fuori dalle pareti, a echeggiare lungo la tromba delle scale assieme allo scalpiccio dei loro piedi che fanno avanti e indietro attraverso le stanze del loro appartamento, rincorsi dalla voce della loro madre. Premo le spalle alla porta, poggio la testa e sento la sporgenza dello spioncino battermi sulla nuca. Rilasso i muscoli con un lungo sospiro. Le chiavi ciondolano dalle dita, sbattono contro il ciondolo a forma di bandiera danese appeso al mazzo, ed emettono un leggero trillo. Piomba il silenzio. D’ora in poi immagino che dovrò abituarmi all’idea di tornare a vivere perennemente nel silenzio.

Fa freddo e sta calando il buio, prima sono uscito di casa senza aver acceso il riscaldamento. Se aprissi il frigorifero uscirebbe aria più calda di quella che sto respirando adesso.

Chiudo gli occhi, stringo le mani contro la superficie della porta, e uno spuntone del mazzo di chiavi preme fra le dita, trasmette una scossa di dolore e tensione che mi attraversa il corpo. Le gambe si appesantiscono, le ginocchia traballano per la stanchezza, tutta la tensione accumulata sui muscoli brucia all’altezza delle spalle e del collo, un lieve senso di nausea aggroviglia la pancia e stringe un anello di vertigini attorno alla testa.

Non posso rilassarmi, non c’è tempo per farlo. Questa dannata giornata non è ancora finita.

Faccio strusciare la nuca contro la porta e sollevo gli occhi al soffitto. Li sento pesanti e gonfi, le palpebre bruciano come dopo un’intera nottata passata a studiare nel buio, solo con la lucetta della scrivania e almeno tre tazze di caffè vuote accanto ai libri.

Appunto mentalmente una lista delle cose che devo ancora fare. Le scritte compaiono davanti al mio sguardo come se le stessi scribacchiando su un blocco di fogli a righe. Prima di tutto dovrò andare in agenzia viaggi a prenotare il volo di andata e ritorno per Copenaghen, dovrò anche farmi riservare una camera in un ostello dell’aeroporto per la notte che passerò là, poi devo ricontrollare l’agenda e segnarmi quante lezioni perderò nei due giorni che starò via. Probabilmente non molte, e non sarà una gran perdita, anche perché non ne ho mai saltata una. E devo fare una telefonata.

Con un sospiro di fatica riesco a staccare le spalle dalla porta e a reggermi da solo sulle gambe molli come gomma. Mi sembra di avere un grosso sacco di sabbia appeso alla schiena a tirarmi verso il basso, a schiacciarmi le ossa, e a intorpidirmi i muscoli.

Trascino due passi verso il mobiletto del telefono e lancio le chiavi verso la ciotola di legno. Cleng! Le chiavi rimbalzano sull’orlo, mancano la ciotola, sbattono contro il pacchetto delle HB, lo fanno cadere, e atterrano sul centrino del telefono, giacendo immobili. Le lascio lì.

Estraggo il cassetto dal mobile. Scosto due matite consumate, un elastico di gomma verde, tre graffette incatenate fra loro, una moneta da cinquanta pence e due da dieci, e raccolgo l’agendina telefonica. Scorro le lettere con l’indice e arrivo alla E. Apro. C’è un solo numero segnato in cima. “Emil”.

Infilo il polpastrello nella prima cifra all’interno della rotellina del telefono e compongo il numero. Il gracchiare del meccanismo che va avanti e indietro è l’unico suono che interrompe il silenzio dell’appartamento che si sta facendo sempre più buio e freddo.

Arrivo all’ultima cifra, la compongo con l’indice che trema, che formicola come il pesante senso di disagio che mi grava sul petto, e stacco il dito dal telefono.

La linea non squilla nemmeno, una voce mi avvisa che il numero non esiste.

Serro il pugno contro il mobiletto, stropiccio l’orlo del centrino, e le dita aggrappate alla cornetta fanno stridere le unghie sulla plastica.

Il prefisso. Non ho messo il prefisso.

Inspiro, espiro. La gola vibra.

Calmati, Lukas, calmati. Fai le cose con calma e smetti di far tremare quella mano.

Ricomincio da capo inserendo per primo il prefisso dell’Islanda. Il telefono squilla. Traggo un sospiro e ricomincio a respirare, la mano chiusa attorno alla cornetta rilassa la tensione delle dita.

Dall’altro capo rispondono dopo tre squilli. «Háskólinn á Bifröst.»

Mi pizzico il labbro inferiore, abbasso le palpebre, e scavo nel cervello assestando le rotelle sull’islandese. Saranno almeno tre anni che non lo parlo. «Salve, mi chiamo Lukas Bondevik, chiamo da Londra, dovrei mettermi in contatto con uno studente.»

«Come?» La voce della donna dall’altro capo della cornetta si incrina in un punto interrogativo. «Da Londra, ha detto?»

«Sì, chiamo da Londra.» Lenta. Oggi sono circondato solo da persone lente e incompetenti che non sanno fare il loro lavoro. Mi strofino il braccio – non mi sono nemmeno tolto la giacca – e placo i brividi di freddo che si sono arrampicati fino alla spalla. «Ora, sarebbe così gentile da passarmi Emil Steilsson, per cortesia?»

«Solo un attimo.» La voce della donna si allontana, dal sottofondo giungono altri mormorii, due telefoni che squillano, qualcosa di cartaceo che viene sfogliato, e il cigolio di una sedia girevole. «Emil Steilsson, ha detto?»

Annuisco. «Sì.»

«Chi lo desidera, scusi?»

Strofino l’avambraccio e mi massaggio il collo sotto il bavero della giacca. È tutto indurito, i nervi sono un fascio di cavi d’acciaio. «Gli dica di Lukas.» Forse ho fatto male a darle il mio cognome, prima. Ora inizierà a farsi domande sul perché li abbiamo diversi. «Sono il fratello.»

«Attenda.»

Non fa storie. Meglio così.

Premo un fianco al mobiletto per non appesantire le gambe indolenzite, incastro la cornetta fra l’orecchio e la spalla, e aspetto.

Le ombre grigie e blu che riempiono il corridoio si allungano verso la cucina, verso il soggiorno, si infilano nella porta socchiusa, e spariscono dentro la camera da letto. Anche l’ombra di Mathias sfila come un fantasma fra le pareti. La sua presenza è rimasta incollata in ogni angolo della casa, in ogni granello di polvere, in ogni rientranza delle coperte che non ho nemmeno ripiegato sul letto, nel pentolino incrostato di latte che è ancora abbandonato nel lavello a riempirsi sotto il rubinetto gocciolante, nella scodella dello zucchero che da ora in poi non userò quasi più, nei suoi vestiti che sono rimasti appesi nell’armadio, nel suo profumo che rimarrà a impregnare il cuscino per chissà quanto.

Socchiudo le palpebre, mi abituo al buio dopo la tempesta di luci al neon che mi ha abbagliato durante il ritorno a casa, e il mio sguardo scivola verso il divano del soggiorno. Mi torna di nuovo in mente la sera della scorsa estate, l’aroma di birra che mi scivolava in gola mentre ci baciavamo, la luce rossa che scintillava sui capelli di Mathias mentre ci passavo le dita attraverso. I raggi del sole basso e morente brillavano sulla sua pelle imperlata di sudore, le goccioline piccole e trasparenti disegnavano sottili rivoli lungo le spalle, la schiena, raccogliendosi poi attorno al bacino, dove lo stringevo con le braccia. L’odore della pelle del divano e quello delle bottiglie di birra era soffocante, unito al caldo della camera e a quello del suo corpo sudato intrecciato al mio. È tutto un ricordo soffocante che odora di birra e di sudore, che prude come la pelle del divano incollata alla mia schiena nuda, eppure è il più bello di noi due assieme. Un ricordo dove ci siamo io e lui soltanto, assieme al nostro silenzio, ai nostri respiri, al calore dei nostri corpi intrecciati, a una pace e a una serenità che sapevamo entrambi sarebbero state impossibili da raggiungere e mantenere per sempre. Un ricordo che non svanirà mai da questa casa, che vi rimarrà fossilizzato come lo è già il fantasma di Mathias.

Una fitta di nostalgia mi stringe il petto, il cuore si ferma e torna a bloccarmi il fiato.

Ripenso anche a tutte le volte in cui tornavo a casa tardi senza sapere se Mathias sarebbe ancora stato lì ad aspettarmi, o se fosse sparito come al suo solito senza dirmi nulla, o se stesse bene, se si fosse cacciato in qualche guaio. Una delle ultime volte, lui era sparito per due notti di fila, io ero rientrato la sera e lo avevo trovato steso sul divano, crollato nel sonno, con ancora le scarpe e la giacca addosso, le chiavi di casa strette nella mano raccolta accanto al viso, e il ciondolo a forma di bandiera norvegese accostato alla guancia che diventava più scarna e pallida ogni giorno che passava. Di primo impulso avrei voluto arrabbiarmi, scuoterlo, chiedergli dov’era stato e perché non mi aveva nemmeno fatto una telefonata. Ma mi trattenni. Aveva una faccia da far pena anche ai sassi. Mi inginocchiai vicino a lui e gli scostai dalla fronte i capelli che erano pregni dell’odore di strada, di fumo, e di pub. Quando mi addormentavo di fianco a lui, quando Mathias riusciva a trascorrere anche una giornata intera in casa, mi ricordo che aveva sempre un profumo dolce che a volte somigliava addirittura a quello di biscotti.

Il lavandino che gocciola mi riporta con la mente in cucina. Un giorno di settembre, prima che cominciassero i primi freddi, Mathias si era messo in testa che i biscotti li sapeva fare per davvero. Quelli danesi, diceva, con la cannella e la crema di burro, come quelli che sua nonna gli preparava quando era piccolo. Ha bruciato tutto, il forno è andato in tilt facendo saltare anche il gas dei fornelli, la cucina era pregna di fumo, e abbiamo dovuto mangiare solo tonno in scatola, e pane e formaggio per una settimana. A lui piaceva l’idea. Diceva che gli sembrava di essere al campeggio. Poi però alla terza forchettata di tonno doveva sempre correre in bagno a vomitare. Ultimamente non riusciva a mangiare quasi nulla senza dover rigettare.

Se tornavo a casa e lui non era ad aspettarmi addormentato sul divano, allora andavo subito a controllare in bagno. Se ripenso a tutte le volte che l’ho trovato chino nella vasca, o steso per terra, con la faccia grigia e le labbra cianotiche... Ogni volta dovevo schizzargli l’acqua in faccia per svegliarlo e poi lo trascinavo nel letto.

Nel letto. Come l’ultima volta in cui l’ho avuto vicino a me.

“Se io non mi fossi mai avvicinato a te, se io e te non ci fossimo mai incontrati e se non... se non avessimo iniziato a stare insieme, sarebbe stato meglio, vero?”

Stringo un pugno sul mobiletto del telefono, le nocche urtano le chiavi che non ho rimesso apposto e che giacciono accanto al pacchetto di sigarette caduto sul fianco.

“Perdonami se ti sto rovinando la vita.”

È uscito di notte per non farsi fermare da me, è andato in uno dei bagni della stazione perché lo trovassero né troppo presto né troppo tardi, e soprattutto perché non fossi io stesso a vederlo morto.

“Perdonami se non sono in grado di proteggerti.”

Le dita scivolano, afferrano il pacchetto delle HB, le unghie deformano il cartoncino, si infilano nei solchi graffiati dalla penna che compongono il nome di Gilbert.

Mathias non è morto per sbaglio. È andato a uccidersi.

Stringo i denti sul labbro inferiore, assorbo il sapore della carne screpolata dal freddo, dell’amarezza che mi riempie le guance, e la bocca chiusa fra gli incisivi ha un fremito. Il nodo alla gola si scioglie, un flusso di calore risale il viso, infiamma le guance e brucia in mezzo alle palpebre, appannandomi la vista.

È andato a uccidersi solo per colpa...

«Lukas?»

La cornetta del telefono vibra contro l’orecchio, la voce di Emil mi fa sobbalzare, strappandomi ai ricordi.

«E...» Riagguanto il ricevitore scivolato spalla e lo spingo sulla guancia. Mi schiarisco la gola e la voce torna ferma, il viso freddo e le palpebre non bruciano più. «Emil.»

«Lukas, sei tu?» Emil passa al norvegese. Già la terza lingua in una giornata. Entro la fine della serata mi toccherà parlare anche in babilonese antico. «Mi hanno chiamato e sono corso subito.» Il tono è un po’ affaticato, forse ha corso davvero, e scosso da un pizzico di allarme. «Che è successo?»

Scrollo le spalle, schiudo la mano irrigidita attorno al pacchetto di cartoncino, e le sigarette tornano a cadere sul mobile. «Niente.» Appoggio la schiena all’orlo del mobile. «Non posso chiamare mio fratello solo per sapere come sta?»

«Ecco...» Emil tentenna. «Sì, immagino, è solo che...» Esita, come se si stesse strofinando la nuca, guardandosi in giro nello stanzino della segreteria per controllare che nessuno lo stia vedendo. «È insolito.»

Sospiro. «Stavi studiando?»

«No, ero in dormitorio a riordinare gli appunti. Fra un’ora ho laboratorio, quindi...» Non finisce la frase. Forse ha fretta, forse gli sto facendo solo perdere tempo, forse ho fatto un’idiozia a chiamarlo se nemmeno io ho coraggio di chiedergli quello che ho bisogno di chiedergli.

Chino lo sguardo, sospiro un’altra volta e riprendo in mano il pacchetto di HB. Lo rigiro fra le dita, gli spigoli di cartoncino grattano la pelle grigia e infreddolita dal maltempo. «Senti», un brivido attraversa la mano che impugna la cornetta del telefono, «vai a casa per Natale?» La voce rimane fredda come la neve.

«Ehm, sì.» La voce di Emil si fa più chiara attraverso il ricevitore. «Torno a casa il ventuno, viene papà a prendermi in aeroporto.»

Annuisco. «Ho capito.» Il pacchetto di sigarette continua a fare le capriole dentro la mia mano.

«Perché me lo chiedi?» Nella voce di Emil torna la punta di dubbio, un minuscolo briciolo di sorpresa.

«Niente.» Sollevo le sigarette, le rigiro sotto uno dei raggi di luce più chiara, e le scritte scintillano. «Speravo solo che saresti tornato a casa un po’ prima, per non trovarmi da solo davanti a mamma e papà.»

«Da sol...» Emil si blocca, come se si fosse strozzato, le parole incastonate in gola. «Cosa?» esclama, ma la voce torna subito bassa, un mormorio incredulo. «Torni a casa a Natale?» Lo sussurra, quasi avesse paura a pronunciare quella frase.

Abbasso il capo e mi strofino i capelli senza appoggiare le sigarette. La cornetta sta iniziando a prudere contro l’orecchio, così mi sfilo due ciocche di capelli rimaste incastrate sotto l’apparecchio. «Non lo so, devo ancora decidere.» Torno a spalle dritte, testa alta. Faccio ribalzare due volte il pacchetto sul palmo. «In realtà volevo arrivare un po’ prima, stare un paio di settimane a casa, e poi tornare qua.»

Emil esita. Un piccolissimo gemito, forse ha aperto la bocca senza riuscire a dire nulla e ora è raggelato davanti alla scrivania della segreteria. Lo immagino con gli occhi sgranati, le labbra socchiuse, e il telefono incollato alla guancia.

Inarco un sopracciglio. «Che c’è?»

«N-no, niente.» Il brusio di sottofondo sostituisce la sua voce. Ragazzi che schiamazzano, che corrono per i corridoi, e una porta che si chiude sbattendo. Emil si schiarisce la voce, torna a parlare con tono più fermo ma anche più scettico. «E con l’università?»

Alzo gli occhi al soffitto. «Ci sono pochissimi corsi» mento. Lancio di nuovo il pacchetto, lo riacciuffo. «Poi non ho saltato neanche una lezione in tutto l’anno. Un paio di settimane non mi rovineranno il percorso.» Questa invece non è una bugia.

«Ah.» No, non è ancora convinto. «Ma...» Qualcosa scricchiola. Forse ha chiuso una mano attorno alla cornetta, per nascondere il movimento delle labbra, e si è stretto nelle spalle. Sussurra con tono circospetto. «Fai sul serio?»

Stringo le sigarette fra le dita e sollevo anche l’altro sopracciglio. «Uhm?»

«Di tornare a casa a Natale» insiste Emil. «Davvero vuoi tornare a casa?»

Storco la punta del naso. «Perché? Non posso? Se non vuoi resto qui.»

«Lukas, dai, sai che non sono io il problema e che sarei il primo a volerti vedere di nuovo a casa.»

Sforzo un sorriso microscopico, anche se lui non può vedermi. «Che gentile.» Ma sento i tratti del viso farsi deboli, la pelle appesantirsi sotto gli occhi già gonfi di stanchezza, e gli angoli delle labbra che fanno fatica a rimanere sollevati. Penso sia normale quando non si è abituati a farlo.

«Lukas.» Emil non è più confuso, è serio. La voce bassa e grave ha perso ogni cedimento. «Sono più di tre anni che non metti piede a casa, quasi cinque che tu e papà non vi guardate nemmeno in faccia. Così, tutto d’un tratto, mi sembra...»

Alzo gli occhi al soffitto. «Be’, allora facciamo che vengo a casa solo per passare un po’ di tempo con te, d’accordo?»

Emil emette un breve sibilo e resta in silenzio, le sue dita scricchiolano contro l’apparecchio. Si sente solo il lieve fischio della connessione assieme al brusio più quieto della segreteria e dei corridoi. Per un attimo mi viene da credere che sia caduta la linea.

Emil sospira. «Lukas, è...» Un tono preoccupato scivola nella sua voce, come quando era piccolo e si intrufolava in camera mia dopo una delle litigate con papà per vedere come stavo. Rimaneva appeso alla porta, tutto tremolante di timore, con il viso in penombra, e mi chiedeva... «È successo qualcosa?»

Ho una fitta al petto, una vampata di freddo mi aggredisce la schiena, penetra nelle ossa e mi fa girare la testa. Schiaccio le dita sul pacchetto di sigarette, gli spigoli di cartoncino mi pungono la carne. Inalo un sorso d’aria. «No.» Sciolgo la presa della mano. Il sangue riprende a scorrere e a pizzicarmi le guance. Rilasso le spalle. «Cosa sarebbe dovuto succedere?»

«Non lo so» risponde Emil. «Per questo te l’ho chiesto.»

La mia bocca ha un rapido fremito. Mi morsico il labbro inferiore per costringermi a rimanere zitto, anche se la mano stretta alle sigarette ricomincia a tremare, suda, e se il peso fra le palpebre si aggrava ricevendo tutto il dolore bruciante dal petto. Perché non è necessario che Emil sappia, non è necessario che anche lui venga coinvolto in questa situazione e non sarebbe giusto tirarlo dentro. Non dopo tutto quello che lui ha già passato per colpa mia quando eravamo a casa.

Dalle finestre del soggiorno si spargono i rumori delle strade che hanno cominciato ad affollarsi, le auto rombano, un clacson squilla e il brusio del traffico rimbomba fra le pareti del corridoio. Dall’altra parte della cornetta si spargono dei passi, una porta si chiude e un altro telefono squilla, le voci degli studenti schiamazzano in islandese.

Socchiudo le labbra, provo a dire qualcosa, a screpolare il silenzio che si è solidificato fra me ed Emil, ma la lingua resta congelata sul palato.

Emil tossicchia, impacciato. «Ehm, senti.» Qualcosa si muove, forse si sta strofinando una mano fra i capelli o sta cercando qualcosa in tasca. «Se vuoi riesco a tornare a casa una settimana prima del previsto, ma non ne sono sicuro, dipende da come riesco a organizzare i progetti collettivi. Posso portarmi anche del lavoro a casa, ma...» Sfoglia qualcosa, forse un’agendina, e la carta scricchiola in mezzo alle sue dita. La sua voce diventa più chiara. «Non prima del quindici» conclude. «Ho ancora gli orari pieni.»

Scuoto il capo. «Non fa niente. Allora lascia stare.» Sollevo la schiena dall’orlo del mobiletto, torno a spalle dritte, rivolto verso la parete, e già mi preparo a riagganciare la cornetta. «A questo punto non mi fermerò nemmeno io. Era...» Rilasso le dita, il pacchetto di sigarette cade dalla mia mano, si adagia sul mobiletto rivelando il dorso marchiato dal nome di Gilbert, e urta il mazzo di chiavi agganciate alla bandiera danese. Raccolgo il ciondolo. La bandiera è fredda. La rigiro fra le dita ma sono fredde anche quelle. Scrollo le spalle e continuo a fare l’indifferente davanti a Emil. «Era più che altro una scusa per rimettere piede a casa, dato che starò un paio di giorni in Danimarca e pensavo di fare scalo anche a Oslo, prima di tornare a Londra.»

Emil sta zitto per un secondo, poi la sua voce sussurra. «In Danimarca?» domanda. Il tono incrinato da una curva di stupore e confusione.

Sto per rispondergli ma le parole mi rimangono incastrate in gola, come se avessi ingollato un pugno di spiccioli.

L’immagine del portachiavi a forma di bandiera danese racchiuso fra le mie dita oscilla davanti allo sguardo come il giorno in cui Mathias ha portato a casa tutti e due i ciondoli nel sacchetto di carta. Ne reggeva uno per indice, li ha fatti dondolare davanti al mio naso mentre sorrideva come se avesse appena trovato le chiavi per il tesoro di Buckingham Palace.

“Guarda che super carinissimi che sono! Li ho trovati in un negozietto di Portobello, costavano pochissimo e li ho presi tutti e due. Io ho la tua bandiera e tu hai la mia. Così ti tengo con me anche quando non ci sei.”

“Puoi scordarti che io appendo una cosa del genere alle mie chiavi.”

“Ooh, ma dai! È simbolico!”

“No. È patetico.”

“Io sarei il più felice del mondo a portarti sempre dietro come un portachiavi.”

“Ecco. Questo è ancora più patetico.”

«Cosa vai a fare in Danimarca?»

Mi gira la testa, le pareti del corridoio vorticano, le ginocchia cominciano a tremare.

Sorreggo la fronte con la mano che impugna il mazzo di chiavi ma la stanza continua comunque a roteare. Mi mordo il labbro fino a sentirlo bruciare, i battiti del cuore galoppano pulsando nelle orecchie, gonfiano il cuore che spinge sulle costole. I battiti perforano il petto.

“Lei era a conoscenza del fatto che Mathias fosse danese, giusto?”

“Cosa vai a fare in Danimarca?”

“Hanno richiesto di riportare Mathias a Copenaghen, vogliono che sia sepolto là.”

Serro il pugno ancora più forte, il bruciore delle unghie infilate nel palmo si unisce a quello che sale ad annaffiare gli occhi che bruciano agli angoli delle palpebre.

Schiudo le labbra, ma la bocca trema. «Ecco...» Lo sguardo scotta, il groviglio incastrato in gola si srotola.

“Così ti porto con me anche quando non ci sei.”

«Io, ehm...»

Qualcosa si scioglie.

Una singola lacrima si scioglie dalla palpebra destra, non bagna la guancia, precipita dalle ciglia e si schianta contro il mobiletto. Apre un disco trasparente che luccica sotto la luce soffusa del corridoio.

Sgrano gli occhi alla vista della lacrima aperta sul tavolo. Una gelida ondata di panico mi aggredisce il corpo, ghiaccia il respiro come un pugno dato alla bocca dello stomaco.

No, no, no, non deve succedere!

Chino le spalle in avanti, schiaccio la mano appesa alle chiavi contro la bocca, ingoio il pianto con un singhiozzo, gli occhi restano spalancati per evitare che scendano altre lacrime, il respiro accelera, inumidisce le dita.

Il pianto gocciola ancora – plic, plic, plic –, allarga la macchia trasparente sul mobiletto che va a inzuppare l’orlo del centrino sotto il telefono.

Serro i denti, lo smalto stride.

Non posso mettermi a piangere, merda, non posso!

Rabbia e dolore aggrediscono il cuore, affondano un morso violento che pulsa come una scossa elettrica attraverso le costole.

Tolgo la mano dalla bocca, schiaccio il dorso su un occhio, le lacrime scivolano fra le dita e si infilano sotto la manica della giacca. L’altro occhio continua a gocciolare come il rubinetto della cucina. Tappo anche quello, ma il pianto continua a bruciare e scivola lungo le guance fino agli angoli delle labbra. Il petto scotta, i polmoni stanno per scoppiare, sono in apnea. Schiudo le labbra per prendere un respiro e ne esce un singhiozzo tremante, simile a un sussurro. Mi tappo anche la bocca. Copiose lacrime scivolano lungo il dorso della mano, si infilano fra le dita, luccicano sulla superficie del portachiavi incastrato fra le punte delle falangi. Singhiozzo ancora e sento il cuore spaccarsi in due. Un blocco di ghiaccio frantumato che si scioglie lentamente.

«Lukas?» La voce di Emil non riesce a scuotermi.

Scollo la mano dalle labbra e la spingo di nuovo contro gli occhi. Cala il buio, il dolore preme sul petto, affonda un crampo alla bocca dello stomaco e mi fa torcere in due. Piego il gomito sul mobiletto, il braccio trema, chino le spalle in avanti per sorreggermi e il pianto continua a salire, a scuotermi come nel mezzo di una tempesta. Mi mordo le labbra. Deboli gemiti si mescolano ai singhiozzi. La cornetta scivola lentamente giù dall’orecchio e della mia mano.

«E-ehi, Lukas?» La voce di Emil suona più tesa, lui la alza. «Cos’hai?»

Le gambe non reggono, vacillano e cedono. Cado con le ginocchia a terra, i gomiti aggrappati sull’orlo del mobiletto, e la cornetta che scivola fra guancia e spalla. Nascondo la fronte fra le braccia incrociate, soffoco i singhiozzi che mi fanno tremare le spalle e la schiena, raccolgo le mani attorno al viso e la guancia bagnata di lacrime preme sulla bandierina danese. Strizzo gli occhi, tengo le labbra morsicate fra i denti, singhiozzo a bocca chiusa, a bassa voce, ma il petto va in fiamme. Tutto il dolore si scioglie e trabocca, mi svuota l’anima.

La tiepida mano di Mathias sulla mia guancia, la mano fredda del suo corpo sotto le luci bianche dell’obitorio; i suoi occhi azzurri brillanti sotto la calda luce rossa del tramonto d’estate e i suoi occhi tristi e disperati scuriti dal riverbero della nostra ultima notte assieme; il battito del suo cuore accanto al mio orecchio e il suo respiro fra i miei capelli; il suo calore che se n’è andato e che non potrò mai più raggiungere.

La cornetta del telefono vibra, ma la voce di Emil è distante come un eco. «Lukas, ti prego, rispondimi, non mi spaventare.»

Non ce la faccio a rispondergli. Non ce la faccio.

Resto chino, inginocchiato davanti al telefono, la faccia bruciante di lacrime rintanata fra le braccia, le chiavi di Mathias contro la guancia, e i singhiozzi strozzati che mi soffocano il respiro.

«Lukas...»

Il pianto non smette, continua a soffocare i singhiozzi contro i gomiti intrecciati, mi infradicia le maniche della giacca, le labbra strette fra i denti tremano, il dolore pulsa e mi fa scoppiare il cuore.

Solo ora mi rendo realmente conto che Mathias è morto.

È morto e non c’è nulla che possa farlo tornare a casa. Non tornerà mai più.

 

.

 

Mi affaccio al finestrino dell’aereo, lascio riposare la testa tenendo la tempia premuta contro la parete ricurva, e spingo il gomito sul bracciolo. L’imbottitura si è scrostata, lo spigolo preme sull’osso, il sedile vibra e il fracasso delle turbine in azione mi ronza nella testa come il costante risucchio di un aspirapolvere.

Fuori dal doppio finestrino incrostato da sottilissimi cristalli di ghiaccio, una coltre di nuvole nasconde la distesa del mare. Somiglia a un tappeto di cotone, una lunga distesa di ovatta bianca, di quella che si compra in un pezzo intero e non a batuffoli. L’aereo perfora una nube più sottile ed entra in un banco di foschia, il vapore si squaglia contro l’ala, fa traballare l’alettone, e la leggera turbolenza fa dondolare la fusoliera.

Sistemo il peso contro il sedile vibrante e la cintura preme sui fianchi. Sollevo una gamba, provo ad accavallarla, ma il ginocchio resta incastrato nella poltroncina davanti alla mia, schiacciando le riviste infilate nella tasca a rete, tutte stropicciate agli angoli. Quanto detesto viaggiare in aereo.

Riaggiusto le spalle contro lo schienale, rilasso le gambe intorpidite, e sospiro a lungo. Mi strofino la fronte e massaggio le tempie, spalmando il mal di testa lungo i nervi, e chiudo gli occhi, allontanandomi dal paesaggio fuori dal finestrino. Le palpebre pesano, bruciano, e ogni volta che le sbatto mi sembra di ricevere due coltellate nei bulbi oculari. È da due giorni che non dormo. Già due giorni che Mathias è morto.

Il ronzio dell’aereo si affievolisce, diventa un suono più basso e profondo, scava nella testa facendo riaffiorare i ricordi dove emerge il suono della mia voce e di quella di Emil. Il ronzio dell’aereo in volto si trasforma nel brusio della nostra ultima telefonata.

“Non so ancora il giorno del funerale, non me l’hanno ancora detto, non so nemmeno se è già fissato. Ma volevo...” Sospirai. Mi asciugai gli occhi ancora umidi con la manica della giacca. Lo sguardo era tornato freddo, il ghiaccio si era solidificato un’altra volta, e la penombra del corridoio nascondeva il rossore del mio viso. Strinsi la mano aggrappata alla bandiera, non tremava più. Sentivo il petto più leggero dopo aver pianto, ma continuava a fare male come una lama incastrata fra le costole. “Volevo solo andare con lui un’ultima volta.”

“Okay, ascolta, posso andare subito a parlare con il direttore e farmi congedare per un paio di giorni. Mi invento che è morto il nonno, non lo so. Prendo il primo volo per Copenaghen e ti aspetto lì, ti accompagno.”

“Guarda che non sei costretto a venire.”

L’aereo ha smesso di traballare.

Socchiudo gli occhi, il tappeto di nuvole a forma di onde di cotone si stende ancora sotto di noi, ma il cielo sopra i cumuli splende di un azzurro terso, la sagoma luminosa del sole brilla all’orizzonte, i raggi si allungano attraverso l’aria e si raccolgono sul profilo dell’ala, facendola luccicare come uno specchio.

Ding!

Si spegne la spia rossa che obbliga a tenere le cinture allacciate. Lungo le due file di poltroncine si solleva il clangore metallico delle chiusure che si slacciano e che vengono lasciate cadere ai lati dei braccioli. Anche il tizio seduto accanto a me si sgancia la cintura, lascia scivolare sui fianchi le due estremità, e uno dei morsetti va a sbattere sulla mia poltroncina. Il tizio riprende in mano il giornale, lo scrolla, e si rimette a leggere.

Io non la slaccio. Tanto fra venti minuti dovrei tornare a rimetterla, siamo quasi arrivati.

Abbasso la mano dalla fronte, stendo le dita sul viso, riparo gli occhi dalla luce del sole che sbatte sul finestrino, e creo una maschera di buio. Torno a chiudere gli occhi, a far riposare le palpebre su cui sembra che abbiano gettato manciate di sabbia, e mi isolo dai rumori. Di nuovo il ronzio delle turbine che vibrano sotto le gambe mi riporta alla voce sgranata di Emil con cui ho parlato dall’altro lato della cornetta.

“No, voglio venire con te, sul serio. Non voglio che tu vada da solo e...”

“Non piangerò di nuovo, se è questo che ti spaventa.”

“Senti, voglio venire e basta.”

“Va bene, va bene.”

“Solo...” La voce di Emil aveva tentennato. Si era fatta impastata e insicura, come se avesse parlato stringendosi il labbro fra i denti e arrotolando il cavo di gomma fra le dita. “Come lo dico a papà?”

La testa di una hostess, abbellita con un copricapo blu e rosso che tiene fermi i suoi capelli sulla nuca, sbuca in mezzo alle poltroncine. La giovane si gira e tira un carrellino d’acciaio colmo di bottiglie – acqua, aranciate, succhi di frutta e bibite gassate – e di tre pile di bicchierini di plastica bianchi. Una seconda hostess la accompagna, regge il carrello dall’altra estremità e la aiuta a spingerlo lungo il corridoio lievemente inclinato. La prima si china, sorride a uno dei passeggeri e gli chiede qualcosa che non riesco a capire, c’è troppa gente che borbotta e il ronzio dell’aereo è troppo forte. L’hostess raccoglie una bottiglia di aranciata, un bicchiere. Lo riempie e lo porge al passeggero. Un sorriso di cortesia a incurvarle le labbra spalmate di rosso.

Riprendo a guardare fuori e appoggio la spalla e la tempia alla parete ricurva.

Le nubi si dividono. Un lenzuolo di terra frastagliata si getta nella distesa azzurra del mare, rientranze di un blu più scuro evidenziano i laghi e i fiumi che si snodano fra le foreste, divorando il terreno come una rete di budella. Soffi di nuvole grigie sbavano il territorio, gettano ombre nere che rivestono le macchie grigie delle città, incavano le sporgenze delle montagne e le rive dei laghi. La luce del sole si sta scurendo e mi culla in uno stato di piacevole assopimento che mi riempie la testa. Ci sarà brutto tempo sia oggi che domani, probabilmente. Come a casa e come a Londra. Come sempre ai funerali.

La mia voce riecheggia nei ricordi. “Che c’entra, lui?”

“Dovrò...” Emil aveva esitato. “Qualcuno dovrà pagarmi il volo, come faccio per...”

“Lascia stare. Te lo pago io. Tu però non dirgli niente, non deve nemmeno sapere che io e te ci siamo visti, d’accordo?”

Emil era rimasto in silenzio – mi era quasi parso di trovarmi davanti alla sua espressione contrariata – ma alla fine si era arreso con un sospiro. “D’accordo.”

Le ruote del carrellino si avvicinano, rullano sul pavimento dell’aereo e anche la voce dell’hostess emerge dal brusio, disturba i ricordi. «Desidera qualcosa da bere?» Sbircio socchiudendo un occhio. È a tre posti da noi, una delle bottiglie di acqua minerale è giù vuota, la bottiglia di aranciata è scesa a metà, anche quelle delle bibite gassate si sono abbassate di volume. La seconda hostess si china a raccogliere quella dello champagne che tengono nello scompartimento più basso e regge anche una bustina verde con l’immagine di una cascata di arachidi saltati nel sale che ha raccolto dal cesto degli snack.

Giro la testa. Tengo il viso nascosto per metà dentro la mano aperta sulla guancia, copro il mezzo broncio che mi fa aggrottare le sopracciglia. Forse se mi fingo addormentato non verranno a rompermi le scatole.

“Lukas.”

La voce di Emil è vicinissima, sembra che mi stia parlando dalla poltroncina di fianco, e la sgranatura della connessione scricchiola contro l’orecchio.

Presi un respiro profondo, strinsi anch’io la mano contro la cornetta, e la mia voce arrochita dal pianto che tornò piatta e gelida. “Sì?”

“Mi... mi spiace per quello che è successo.” Era sincero. Valse di più quella piccola frase detta da mio fratello che tutti gli sguardi finti e smielati ricevuti da poliziotti e infermiere. “Davvero.”

Un campanello trilla – di-dong! – mi strappa dal buio.

Tiro su la testa, apro gli occhi di colpo. Sono di nuovo tutti ai loro posti, il carrellino e le due hostess sono svaniti, la voce che ci ha accolti al decollo torna a parlare attraverso il microfono.

«Gentili passeggeri, vi informiamo che fra qualche minuto inizieremo le manovre d’atterraggio verso Copenaghen. Vi invitiamo a controllare che i bagagli siano stivati correttamente, che il tavolino davanti a voi sia chiuso, che lo schienale della poltrona sia in posizione verticale con i braccioli abbassati e che le cinture di sicurezza rimangano allacciate fino all’apertura delle porte. La temperatura al suolo è di tre gradi centigradi e il tempo è nuvoloso. Vi ringraziamo per aver volato scegliendo British Airways e vi auguriamo un piacevole soggiorno.»

Passa qualche secondo, e la voce del comandante ripete il messaggio anche in danese.

Premo la nuca contro il poggiatesta della poltroncina, il peso dell’emicrania si affievolisce, ma spinge tutto sulle palpebre che non riescono a rimanere aperte e che si chiudono sprofondando nel buio. La mano che prima tenevo premuta contro la guancia scivola verso il basso, si stende sul fianco e batte sul rigonfiamento della giacca. Stringo i polpastrelli, tasto la forma del pacchetto delle HB che mi sono portato dietro assieme ai nostri due mazzi di chiavi. Scavo nella tasca, le chiavi trillano sbattendo fra di loro, e incontro uno dei due portachiavi a forma rettangolare. Lo estraggo. È quello di Mathias, con la mia bandiera norvegese appesa alla catenella. La sera in cui è morto sono andato fino al Waterloo Bridge portandomelo dietro, volevo buttarlo nel Tamigi, volevo che una parte di lui rimanesse sepolta anche a Londra. Ma alla fine non ce l’ho fatta. Sarebbe stato come imprigionarlo di nuovo nel mondo che lo ha ucciso e da cui è finalmente riuscito a staccarsi.

Chiudo le dita attorno al ciondolo, i dentini delle chiavi mi pizzicano la pelle, i colori della bandiera norvegese svaniscono nel palmo lasciando fuori solo due spigoli rossi. Accosto la mano alla guancia e chiudo di nuovo gli occhi.

“Ci vediamo a Copenaghen.”

L’aereo si inclina, la pressione nelle orecchie diminuisce, le turbine accelerano, e iniziamo l’atterraggio.

 

.

 

Un gruppetto di persone si disperde sotto l’uscita del Gate B16. Un signore vestito con un cappotto a quadri mi supera, accelera il passo, solleva il braccio che regge la valigia ventiquattrore e lancia un’occhiata all’orologio da polso. La valigia a fiori di una signora dai capelli rossi fa una gran confusione quando striscia sul pavimento. Due ragazzi infagottati con zaini da montagna si girano a guardare e la lasciano passare quando zampetta in mezzo a loro. Un bambino stretto fra le braccia di sua mamma scruta la folla che gli cammina attorno, si appoggia alla spalla della donna tenendosi con le mani aggrappate al suo collo, e farfuglia qualcosa in danese. Il padre scambia una parola con la donna, sistema le valige che sta portando da solo, lei annuisce, regge il bambino contro la spalla e ricontrolla le carte di imbarco infilate fra i passaporti.

Qua fuori fa più freddo rispetto all’interno dell’aereo. Mi stringo le spalle, reggo contro il fianco l’unica borsa che mi sono portato dietro come bagaglio a mano, e mi strofino il braccio per placare i brividi. Sta iniziando a fare buio, quando siamo scesi dall’aereo il sole stava già calando, e le luci piantate lungo le pareti del corridoio sono come pugni negli occhi ogni volta in cui sbatto le ciglia.

Io e gli altri passeggeri sfiliamo davanti ai bagni pubblici e due signori si infilano dentro, il resto del gruppetto si disperde accelerando il passo verso l’insegna “Arrivals” accanto alla sagoma di un aereo che atterra.

Il corridoio dopo il passaggio del gate si apre sulla piazzola d’ingresso, delimitata da traversine di ferro che tengono la gente accalcata e distante dall’uscita. Il brusio delle voci, dei richiami dagli altoparlanti e delle valige che trascinano le ruote, si intensifica.

Mi infilo in mezzo alle spalle di due signori e accelero anch’io, inizio a far scorrere gli occhi sulla folla ammassata oltre le traversine, in cerca di Emil.

Un tizio oltre la sbarra si guarda attorno, regge il cartello con su scritto “Mr Orson” e si alza sulle punte dei piedi, continuando a cercare con lo sguardo. Due bambine con i boccoli biondi reggono insieme un cartellone più grande, una di loro sta succhiando un leccalecca, e ogni tanto si girano a sorridere verso una donna. Il loro cartellone è scritto con pastelli rosa e viola, e dice: “Velkommen hjem, far!”, circondato da fiorellini.

Gli odori si mescolano, c’è più caldo. Da uno dei bar mi raggiungono le ventate di aria dolce che profuma di zucchero, quella che puzza del fumo delle sigarette accese, quella acre della candeggina che hanno appena sparso per ripulire il corridoio fuori dai gabinetti, e di tutto questo ammasso di umanità che brulica come un gregge di pecore in un prato.

Una ragazza con una gonnella a righe che le sbuca da sotto il cappotto scamosciato mi supera e corre verso un altro ragazzo, lascia cadere la valigia e si butta fra le sue braccia, lui la solleva e le fa compiere una piccola giravolta. Scivolo più in là, e continuo a passare gli occhi da una faccia all’altra, in cerca di Emil.

Una sagoma si infila fra le spalle di due uomini imbacuccati in giacche nere lunghe fino al ginocchio. Solleva lo sguardo, lo incrocia con il mio, e l’incontro con quegli occhi familiari mi fa sentire una nostalgica fitta al cuore.

Emil solleva il braccio che non regge la sua borsa, sventola la mano sopra la testa, e saltella di un passo in avanti, superando una signora anziana che sta rovistando nella borsetta. Lo sguardo di mio fratello mi resta incollato, le palpebre larghe di preoccupazione, grigie di stanchezza, e un luccichio di ansia che brilla nel lucido degli occhi.

Sospiro e gli vado incontro a passi calmi, senza fretta. Il cuore si svuota di tutta la nostalgia e riprende a battere più lentamente.

Emil lascia scivolare a terra la borsa e mi abbraccia per primo. Mi stringe le spalle, preme la fronte sulla clavicola, i nostri piedi si incrociano, non mi dice niente. Lascio anche io la borsa e lo abbraccio. Gli poso il viso sulla spalla, respiro il profumo impregnato nella sua giacca, un odore diverso da quello che sentivo quando eravamo piccoli, più forte e meno dolce, di altra gente e di un altro paese, ma sempre il suo.

Chiudo gli occhi e lo stringo forte, il dolore preme sul petto ma l’abbraccio mi aiuta a scaricarlo. Sto trattenendo il respiro, mi sono morso il labbro, non voglio farmi vedere in faccia da lui con un’espressione del genere. Però sto meglio. Abbracciato a mio fratello è più facile da sopportare.

Emil stringe le mani sulla mia giacca e mormora contro la mia spalla. «Mi dispiace.» Le vibrazioni della sua voce fremono accanto all’orecchio.

Annuisco. Annuisco e basta.

Resto abbracciato a lui, le borse ai nostri piedi, il fracasso dell’aeroporto che ci ronza attorno assieme all’ammasso di persone che ci ignorano, e non ho bisogno di dire nient’altro.

 

.

 

Infilo le chiavi nella serratura d’ottone, l’ingranaggio gracchia mentre ingoia la dentatura seghettata, il portachiavi con il numero della camera – ottantasette – sbatacchia sulla mia mano mentre do due giri. La serratura scatta. Spingo la maniglia e apro la camera della pensione. L’odore di stoffa pulita, di chiuso e di deodorante per ambiente mi investe e soffoca le narici. È così forte e ruvido che mi dà un capogiro.

Entro per primo lasciando la porta aperta, premo la mano sulla parete e tasto fino a che non trovo l’interruttore della luce.

Emil si infila fra me e lo stipite, scivola di fianco, schiacciandosi come una sottiletta, e mi passa davanti facendo strusciare la sua borsa sulla mia. «Speriamo che non ci siano i topi» si lamenta.

Abbasso l’interruttore e la luce scatta.

Il lampadario che pende sopra i due letti sfarfalla, la lampadina emette uno stridio simile a un’unghia che graffia sul vetro, e si assesta riempiendo la camera di una luce gialla e opaca. Le tende della finestra sono chiuse, tappano il riverbero dei lampioni installati sul tratto di strada fuori dalla pensione che resta incastrato fra le saracinesche. Fra i due letti rifatti a nuovo – le coperte piatte come tavole – si incastra un piccolo comodino con il telefono e una piccola abat-jour. Una scrivania più grande è accostata alla parete assieme a una seggiola accostata all’angolo della stanza.

Scivolo di un passo in avanti, getto lo sguardo a sinistra e scosto la piccola porticina accanto al guardaroba. Un fascio di luce entra nel bagno. C’è solo il water, il lavandino, e la doccia ad angolo.

Scrollo le spalle, mi chino a raccogliere la mia borsa. «Meglio di quello che credevo.» Sfilo le chiavi dalla porta e la chiudo dietro di me.

Emil raggiunge la seggiola all’angolo e vi poggia sopra la sua borsa, si sfila la giacca e getta anche quella sullo schienale. Passa un dito sulla superficie di legno della scrivania, accanto al foglietto plastificato su cui sono segnati i numeri di emergenza e quello della reception, e strofina i polpastrelli. «Per una pensione da aeroporto.» Preme la mano sulla spalla e fa roteare il braccio, le vertebre del collo scricchiolano. «Avremmo potuto prenderci una camera in città, qui dobbiamo anche andarci a cercare un ristorante per la cena.»

Ficco la mano nella tasca esterna della mia borsa, sollevo uno scricchiolio, ed estraggo i due panini al tonno e maionese avvolti nel cellophan che ho comprato al terminal di Londra. Li scuoto. «Quale ristorante?»

Emil si gira e inarca un sopracciglio. Squadra i due panini e sospira, la sua espressione si ammoscia. «Grandioso» brontola. Si sfila le scarpe senza nemmeno slacciarle e si lascia cadere supino sul letto accanto alla finestra chiusa, a braccia spalancate come un crocifisso. Accosta una mano agli occhi e si ripara dalla luce giallognola del lampadario.

Rinfilo i panini nella borsa e vado verso l’altro letto. «Non valeva la pena prendere un albergo in città.» Abbandono la borsa sul pavimento di moquette, vicino all’armadio a parete che rimarrà vuoto. Mi tolgo anche io la giacca, il tepore scivola dalla pelle lasciandomi una maglia di brividi attorno al busto, e la lancio sul materasso. «Tanto domani saremo di nuovo qui per il volo di ritorno. Sarebbe stato uno spreco.» Mi butto anche io a sedere sul letto, le molle cigolano e il materasso sobbalza come una gelatina. Slaccio le scarpe e le sfilo, i piedi si rilassano, un piacevole formicolio risale le gambe. «Qui va benissimo.» Rimbocco il cuscino e mi sdraio sul fianco, la guancia contro l’imbottitura ancora fredda ma morbida, il corpo sdraiato sopra la giacca, e un braccio a ciondolare verso il pavimento, le dita a sfiorare la moquette da cui proviene il profumo ruvido di deodorante per ambiente. Abbasso le palpebre e sospiro. «Non fare lo schizzinoso, dobbiamo solo dormirci.»

Emil sbuffa, ha la bocca schiacciata al cuscino. «Mhf.» Il suo letto cigola, forse si è girato. «Se non altro è meglio delle poltroncine del terminal. Mi è diventato il sedere quadrato a forza di starci seduto tutto il giorno.»

Rispondo con un mugugno. Ho le palpebre pesanti, non riesco a tenerle aperte, sbatto le ciglia e le riapro di poco, la vista si appanna e il respiro rallenta. Potrei crollare anche subito. «Se mi addormento mangia pure il mio panino» sbiascico. «Anzi, mangiatelo lo stesso.» Infilo la mano nella borsa, tasto i due panini e mi soffermo su quello più grosso. Impenno il braccio. «Non ho fame.» E lo lancio dietro di me.

Il cellophane scricchiola, emette il suono di un piccolo schiaffetto perché forse Emil è riuscito ad acchiapparlo al volo. Le dita strappano la pellicola di plastica e la appallottolano, Emil dà un primo morso al pane morbido che non scrocchia e mangia in silenzio. «A che ora ci alziamo domani?» E strappa un altro morso.

Scrollo le spalle, mi rigiro sulla schiena, la nuca affonda nel cuscino. «All’ora che vuoi.» Tengo gli occhi socchiusi rivolti al soffitto, le mani raccolte in grembo, i piedi distesi che non toccano il fondo del letto. Una macchia verdognola si espande dall’angolo del soffitto, dove sottili incrostazioni di muffa stanno aggredendo l’intonaco screpolato. «Il funerale è alle tre» dico, la voce piatta, il tono assente. «Prima ho chiesto alla reception e mi hanno detto che ci vuole mezz’ora da qui per il cimitero, quindi potremmo partire verso le due.»

Emil ha ancora la bocca piena ma parla lo stesso. «Taxi?»

«Sì.»

«Costerà una botta.» Emil divora l’ultimo boccone di panino al tonno e succhia le briciole dalle punte delle dita. Aveva proprio fame. «Se dobbiamo fare andata e ritorno dal centro.»

Sbuffo. «Pazienza.» Premo una mano sulla fronte, massaggio le palpebre schiacciandoci i polpastrelli sopra. «Domani mattina lo faccio chiamare dalla tipa della reception giù. Ora non ci pensare.»

«Hai fatto il cambio di soldi?»

I sol – merda.

Aggrotto la fronte, strizzo le palpebre ed emetto un lungo sospiro che termina in un ringhio. «Porca...» Stringo le dita attorno alle tempie.

Le molle del letto di Emil cigolano, forse si è girato. «Vado io dopo, se vuoi.» Abbassa la voce, diventa un mormorio. «Sei uno straccio.»

Lascio scivolare la mano dal viso e giro la guancia contro il cuscino. «Lavati i denti e le mani prima di uscire, non metterti a dormire se hai ancora la bocca che sa di panino.»

«Va bene, va bene.» Emil fa scricchiolare di nuovo il cellophane che ha strappato dal panino e lo lancia nel cestino accanto alla scrivania. «Dio» si lamenta. «Mi sembri papà.»

Serro le dita sulla giacca stesa sopra le coperte, le unghie grattano la stoffa, restringo le palpebre e la vista appannata diventa rossa. Uno sgradevole ma familiare formicolio mi agita lo stomaco, il sangue ribolle, mi accorgo di star trattenendo il respiro solo quando i polmoni cominciano a bruciare.

La voce di Emil è più fioca. «Scusa.»

Abbasso le palpebre e il nero riempie la vista, fa svanire il rosso. Rilasso i muscoli e il respiro si distende, scioglie il formicolio che bruciava in fondo alla pancia. Mi si è chiuso lo stomaco ed è rimasto un lieve senso di nausea, come quando ero a bordo dell’aereo che traballava fra le turbolenze. Torno a infilare il braccio nella tasca della borsa e afferro anche l’altro panino. Lancio anche quello a Emil. Mi è passata la fame. «Non fare briciole sul letto.»

Il cellophan schiocca fra le sue mani, lo ha acchiappato al volo. Emil scarta il panino, la pellicola stride fra le sue dita, e dà un morso più piccolo e meno vorace di quelli con cui ha divorato il primo. Mastica piano. Nel silenzio mi accorgo che il lampadario ronza, passi si muovono attraverso il corridoio, qualcuno trascina una valigia, una porta si apre, chiavi sbattono contro la maniglia, una voce borbotta qualcosa in una lingua che non conosco. Fuori una gettata di vento sbatte contro le imposte della finestra. L’aria fischia, ulula in lontananza, trascina con sé le nuvole di maltempo che abbiamo attraversato in volo prima dell’atterraggio. Forse domani pioverà.

Emil prende un altro piccolo morso, ingoia prima di parlare. «Sul serio non vuoi dire niente a papà?» Il materasso cigola, si è girato verso di me.

Mi stringo nelle spalle. «Cosa dovrei dirgli?»

«Che io e te ci siamo visti.» Un altro morso. «Che avresti voluto tornare a casa un paio di giorni assieme a me prima di Natale.» Il cellophan scricchiola fra le sue dita.

«Certo.» Sollevo il braccio che ciondola verso il pavimento e lo rannicchio accanto al viso, contro quello già spremuto sotto il cuscino. Le mie labbra parlano contro la stoffa. «E dirgli anche che il motivo per il quale sono vicino a casa è lo stesso che impedisce a me e a lui di guardarci in faccia da cinque anni a questa parte.»

«Capivebbe» risponde Emil, con la bocca piena. Appallottola il cellophan e lancia anche quello contro il cestino dall’altro lato della stanza. Emil si sposta sul materasso, resta seduto. «In questa situazione capirebbe.»

«No» sbuffo. «E non mi interessa che capisca.» Chiudo gli occhi, aggrotto le estremità delle sopracciglia in un’espressione di disapprovazione, storco un angolo della bocca sentendo un sapore amaro, viscido e familiare toccarmi la lingua. «Uno che ti toglie il cognome per un motivo come questo non merita nemmeno di capire» mormoro.

Qualcun altro si muove fuori dalla porta, passi più forti e veloci superano la nostra stanza e il loro eco si perde nelle profondità del corridoio.

Mi giro supino, lo sguardo vola sul soffitto, gli occhi socchiusi catturati dalla debole e scura luce del lampadario sfrigolante. Stendo un braccio sopra la fronte, riparandomi, e resisto al dolore del mal di testa che torna a risalire le ossa facendo pulsare le tempie e battendo contro le pareti del cranio. «Sul serio, mi va bene così» dico. «L’importante è che non lo venga a sapere per te.» Sospiro, chiudo gli occhi. «Ormai io sono il figlio perso, tu sei quello salvabile.»

«Non è papà che ti tiene lontano da casa» ribatte Emil. «Sei tu che non vuoi tornarci.»

«Ormai è Londra la mia casa. È lì che mi sto...» Mi mordo il labbro, la voce tentenna. «Stavo...» Sbuffo e faccio roteare lo sguardo da sotto il braccio. «Sto ricostruendo una vita.» Sospiro e mi giro sul fianco, schiaccio la guancia contro la spalla, la giacca si deforma sotto il mio peso. «Poi se le cose si disintegrano dovunque io metta piede è un altro discorso.» Un rigonfiamento spigoloso proveniente dalla giacca mi preme sul costato. Tasto il gonfiore che cede attorno alla forma dello spigolo, e infilo la mano nella tasca. Le dita scuotono i due portachiavi a forma di bandiera, incontrano il pacchetto delle sigarette HB. Lo tiro fuori, lo rigiro sotto la luce, la carta lucidata scintilla e le ombre si infossano nelle lettere che compongono il nome di Gilbert calcato con la penna a sfera sul retro dell’astuccio. Me lo sono portato dietro senza nemmeno essermene accorto, l’ho ficcato nella tasca della giacca ancora quando ero a Londra e poi mi sono dimenticato di toglierlo. Forse dovrei gettarlo, anche perché non ho la minima intenzione di andare a portarglielo.

Avvolgo il pacchetto di sigarette e lo accosto alla guancia. Il leggero aroma di tabacco si espande dall’astuccio, solletica la punta del naso e mi brucia la gola, gli spigoli di cartoncino mi pungono la guancia. Forse dovrei buttare anche questo nel Tamigi assieme al portachiavi.

«Da quanto...» La voce di Emil tentenna. Giro la coda dell’occhio, sbircio da sopra la spalla. Emil si rannicchia contro la testata del letto, avvolge le braccia attorno alle ginocchia premute sul petto, si dondola avanti e indietro facendo cigolare il materasso. Mi rivolge uno sguardo esitante, tiene la fronte bassa. «Da quanto vivevate assieme?»

Mi assale un gelo al petto, il cuore si stringe, appesantendosi, e diventa di pietra. Sospiro, abbasso le palpebre e allontano lo sguardo, distogliendolo dai ricordi. Ne ho abbastanza di ricordare. «Da tre mesi.» Rigiro il pacchetto di sigarette, l’immagine del marchio HB si alterna al nome di Gilbert. La voce esce piatta e fredda, un sospiro di ghiaccio. «Ma ci siamo conosciuti in primavera.»

Emil si dondola ancora, si ferma con la schiena al muro. «Ma tu sapevi già che lui era...» La sua voce ha un tremore. «Sì, insomma, che...» Stacca un braccio dalle gambe e si gratta la nuca. Movimenti rapidi e impacciati. «Che era dentro a quelle cose?»

Restringo le sopracciglia, le unghie danno una graffiata al pacchetto di sigarette. «Ovvio.»

«E hai lo stesso deciso di stare con lui?» Non sembra indignato o schifato. Solo sorpreso.

Sospiro. Non rispondo. Rigiro il pacchetto di sigarette facendo scorrere il riflesso del lampadario lungo la superficie di cartoncino lucido.

Emil torna a stendersi, fa rimbalzare il letto. «Ammirevole.» Le sue parole sono l’eco di quelle pronunciate dall’agente di polizia nell’abitacolo dell’auto, mentre mi stavano accompagnando all’obitorio. “Audace, a prenderlo come inquilino.”

Serro le dita sul pacchetto. «Non l’ho fatto per pietà.»

«Non ho mica pensato a questo.» Lo sento rigirarsi sul fianco, il materasso sotto di lui torna immobile, silenzioso come la stanza in cui si sente solo lo sfrigolio della lampadina e il soffio del vento contro la finestra. Emil prende un breve respiro. «Però...»

Tendo l’orecchio, lo squadro con la coda dell’occhio e smetto di far rigirare il pacchetto di sigarette fra le dita. Emil si gira dalla mia parte, lascia ciondolare il braccio giù dal letto, spreme la guancia sul cuscino, e le punte della frangia fanno ombra agli occhi che brillano di una luce scura e triste.

«Allora lo amavi davvero.»

Mi irrigidisco.

Un secco colpo al cuore mi fa ingoiare il respiro, schiaccio il pacchetto fra le dita e stringo l’altra mano alla giacca ancora stesa sotto di me.

Mathias me lo ripeteva di continuo. Erano le uniche volte in cui il suo tono di voce diventava più basso, profondo, persino serio. Le labbra si accostavano dietro il mio orecchio e lo mormoravano piano, carezzandomi la nuca, mentre le sue braccia mi tenevano stretto attorno ai fianchi. “Ti amo tanto, sai?” Io alzavo sempre lo sguardo al soffitto, gli premevo una mano sulla faccia, scollandogli le labbra dal mio collo, gli dicevo di piantarla e di rimettersi a dormire.

Un’ondata di rimorso freddo e viscido risale la pancia e si aggrappa al cuore, ci pianta gli artigli dentro spandendo schegge di ghiaccio che cristallizzano attraverso le costole, fermando il battito. È lo stesso rimorso che non mi fa dormire da due giorni, che mi ha impedito di guardare Mathias in faccia per l’ultima volta sotto le luci dell’obitorio, e che mi impedirà di andare da Gilbert a dargli queste dannate sigarette.

Mi avvinghio al cuscino. «Non dire assurdità.» Torno a chiudere gli occhi, le palpebre stanche si uniscono e restano incollate, pesanti come cemento.

Qualcuno sbatte una porta in corridoio, dà colpi sul muro che sembrano quelli di un martello che conficca il chiodo nella parete, e le vibrazioni attraversano anche il soffitto della nostra camera, la luce del lampadario sfarfalla, qualcosa si sbriciola e piove sul pavimento.

Stringo i denti, contengo un tremore di rabbia.

Giuro che se hanno intenzione di andare avanti così tutta la notte...

«È stata un’overdose, hai detto?» La voce di Emil placa il ronzio di nervosismo che mi frulla nella testa.

Sospiro, annuisco, ma resto girato senza guardalo in viso. «Sì, me l’ha detto il medico legale. Un incidente, a quanto pare.» Una punta di amarezza si infila in bocca e inasprisce la voce. «Secondo me si è ammazzato da solo.»

Emil boccheggia. La sua voce ha un cedimento, «C...», poi torna squillante, stordita, «Cosa?».

Rigiro il pacchetto di HB e socchiudo una palpebra, le scritte sull’astuccio sono tutte appannate. «Quando mi sono svegliato lui non c’era.» Infilo l’unghia fra i caratteri calcati a penna che compongono il nome di Gilbert, gratto l’inchiostro nero. «Probabilmente si è alzato durante la notte, e infatti hanno detto che è morto parecchie ore prima che lo trovassero, e non la mattina stessa.» Scrollo le spalle. «Che senso aveva andare fino alla stazione solo per bucarsi? Avrebbe potuto farlo a casa.» Sollevo il braccio e scuoto il pacchetto di sigarette. «Poi mi ha lasciato queste.» Le lancio a Emil come ho fatto con i due panini. «Erano accanto al telefono, le ha lasciate lì perché le trovassi subito.»

Emil acchiappa il pacchetto al volo, lo sento atterrare fra i suoi palmi aperti e rigirarsi in mezzo alle dita. La voce di Emil si incrina. «Sigarette?»

Annuisco contro il cuscino e rivolgo lo sguardo a Emil. «Il pacchetto era aperto ma non ne ha tolta nemmeno una. Ha solo scritto il nome di un ragazzo sulla scatola, e fra le sigarette ha infilato dieci sterline. Probabilmente voleva che glielo dessi io.»

Emil lo gira sul retro, trova anche lui la scritta “Gilbert” e aggrotta le sopracciglia.

Socchiudo le palpebre e guardo per terra, verso la moquette color navy macchiata di aloni più chiari che diventa più spelacchiata attorno alle gambe dei letti. La vista si sfoca, la mente annebbiata torna a un paio di giorni fa, all’ultima volta in cui mi sono sdraiato sul letto assieme a lui. «Era da un paio di giorni che si comportava in modo stra –» Faccio roteare lo sguardo. «Più strano del solito, come se stesse per piovergli il mondo addosso.» Stringo le dita attorno al copriletto, la mia voce arrochisce, le palpebre si assottigliano. «Se solo me ne fossi accorto prima...» Torna a salire il bruciore nel petto, il senso di colpa gonfia il cuore in una sensazione dura e pesante.

Emil solleva lo sguardo dal pacchetto di sigarette, flette le sopracciglia in un’espressione compassionevole. «Non è colpa tua.» Appoggia l’astuccio sul comodino incastrato fra i due letti, sotto la piccola lampada.

Inarco un sopracciglio. «Ah, no?» Rotolo sulla schiena, gli occhi affogano nella luce del lampadario, la vista diventa bianca. Stendo un braccio sopra la fronte e sospiro a lungo, la voce affievolisce. «Eppure, non riesco a pensare altrimenti.»

Il soffitto rimbomba, passi pesanti si spostano sopra le nostre teste e fanno oscillare il lampadario tenuto appeso solo fra due cavi di gomma intrecciati che artigliano l’intonaco.

Ha ragione Emil. Questo posto è una topaia.

«Sai perché si è ucciso?» chiedo di colpo.

«Uh.» Emil scuote il capo. «No.»

Inspiro la fitta e ruvida aria della camera che sa di chiuso e naftalina, di lenzuola appena stirate e di deodorante per l’ambiente. Tengo gli occhi socchiusi, due fessure sbiadite in mezzo alle ciglia nelle quali si specchia il riflesso polveroso del lampadario. «Perché lui era il ponte che mi collegava a loro.» Abbasso il braccio dalla fronte, lo raccolgo sul ventre e intreccio le dita sopra la pancia. Le mani si alzano e si abbassano seguendo il ritmo lento del mio respiro. «Non ha mai voluto che mi avvicinassi agli altri, è capitato solo un paio di volte, ma era sempre terrorizzato. Davanti a me non tirava mai fuori né droga né niente, nemmeno le sigarette.» Sbuffo. «Una volta ha persino litigato con uno di loro.»

«Davvero?» Il tono di Emil si anima di stupore. «Ha litigato per te?»

Annuisco, la nuca sfrega contro il cuscino. «È tornato a casa con la guancia rossa e gonfia. Qualcuno gli aveva tirato uno schiaffo ma non mi ha mai voluto dire chi di loro.» Gli è rimasto lo stampo sulla pelle per due giorni. Era l’impronta di una mano piccola e sottile, come quella di una ragazzina. «Da quella volta ha iniziato a essere sempre più chiuso, sempre più abbattuto, sempre più depresso.» Faccio roteare lo sguardo, inarco un angolo delle labbra verso il basso e la mia voce assume una sfumatura amara. «Mi ripeteva continuamente che avrebbe sistemato tutto, che avrebbe trovato un modo di tirarsi fuori dai guai», sventolo una mano, «che io e lui saremmo fuggiti da Londra, che mi avrebbe dato la vita che meritavo, che saremmo stati felici. Continuava a sognare come uno scemo.» Mi giro sul fianco dando le spalle a Emil e torno a stringere il cuscino sotto l’orecchio. Rannicchio le spalle, raccolgo le ginocchia al petto, parlo con le labbra a sfioro della stoffa imbottita. «Poi ha semplicemente capito che dalla sua sponda non c’era via d’uscita», scuoto le spalle, «e ha fatto saltare il ponte prima che io rischiassi di attraversarlo per raggiungerlo.»

Il letto di Emil cigola, il suo peso si sposta, forse è tornato ad accoccolarsi contro la testata. «Ha voluto salvarti.»

Scuoto il capo. «No, non è lui che ha salvato me.» Stringo le dita, il dolore annoda un groppo nel petto che pulsa e batte bruciando assieme al cuore. «Sono io che ho condannato lui.» Schiudo la mano e mi fisso il palmo bianco, immobile, nemmeno un tremito a scuoterlo. «Mathias si era aggrappato a me perché sperava che io riuscissi a salvarlo. Inconsciamente mi stava chiedendo aiuto, e io non l’ho mai realizzato fino ad adesso.» Torno ad appoggiare la tempia al cuscino, sbatto lentamente le palpebre appesantite dalla stanchezza, e respiro il tanfo di naftalina. La voce si abbassa, scivola rauca e amara attraverso la lingua. «Si è ucciso perché ha smesso di vedermi come la sua unica speranza di uscire e perché la sua fiducia nei miei confronti se n’era ormai andata.»

Emil sbuffa. «La fai molto cinica.» Anche la sua voce è più stanca e fioca.

Scrollo le spalle, le braccia si stringono al cuscino. «È andata così e basta.»

«Ma...» Il copriletto fruscia, Emil si gira verso di me, anche se non lo vedo. «Perché non avrebbe potuto amarti semplicemente?»

Storco un angolo delle labbra e scuoto il capo sfregando i capelli sul cuscino. «Perché queste cose non sono mai semplici.» Chiudo gli occhi, il buio mi inghiotte la vista, le tempie pulsano di dolore e di stanchezza, la pressione spinge sulla fronte e crea una nebbiolina fischiante che mi ovatta la testa. Voglio dormire. «Un giorno capirai» mormoro.

E spero che lui lo capisca prima di quando l’ho capito io.

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Capitolo 4
*** La lotta del cucciolo ***


4. La lotta del cucciolo

 

 

Mi ero pentito di essere venuto al funerale già dopo aver messo piede nella chiesa. Ora proprio non vorrei nemmeno essere partito da Londra, sarei dovuto restarmene a casa.

Capisco che la messa è finita solo quando tutti gli altri si alzano dalle panche e iniziano a svuotare le due piccole navate della cappella, si riuniscono a gruppi, sagome indistinte vestite di nero che si spostano sotto i riflessi colorati dei mosaici attraverso cui passa la luce grigia del pomeriggio, e si dirigono verso l’uscita principale. Ho capito pochissimo di quello che diceva il prete, la messa è stata recitata tutta in danese. Mathias con me parlava poco in danese, solo quando si agitava nel sonno, o insultava qualcuno, o fra un ansito e l’altro quando facevamo sesso.

Scivolo via dalla panca occupata solo da me ed Emil e mi porto verso le navate laterali, evito quella centrale che dà sull’altare rialzato dove si stanno accalcando i gruppetti di persone. Emil mi segue. Mi alzo sulle punte dei piedi, sollevo il mento, getto la vista oltre le teste di quelli che si sono messi attorno ai genitori di Mathias. Sbircio verso l’altare ornato di gigli bianchi e riesco solo a vedere il prete e l’altro sacerdote che scendono dalla gradinata, immersi nella nebbia di vapori d’incenso azzurrino, e che prendono l’uscita sul retro, quella che dà direttamente al cimitero.

I bisbigli delle persone rimbombano fra le pareti della cappella, si uniscono ai passi schioccanti di quelli che stanno già uscendo. Qualcuno spalanca le due ante di legno, un fascio di luce grigia e fredda penetra la chiesetta e percorre il pavimento, l’odore degli alberi fradici e della pioggia che è caduta tutta la mattina spazza via quello pungente dell’incenso, dell’olio santo, delle candele sciolte e dei fiori impacchettati nella plastica. La luce attraversa l’aria polverosa e avvolge le persone che sono rimaste nella chiesetta, sbiadisce il colore dei vestiti neri e stende le loro ombre lungo le pareti e le colonne.

Stringo la manica di Emil e lo tiro dietro di me, sgusciamo in mezzo a due tizi che non guardo nemmeno in faccia, e guido mio fratello verso l’uscita. Lancio un’occhiata al gruppetto di persone davanti all’altare, dove i genitori di Mathias sono ancora fermi, nascosti dal resto della gente. I brusii si intensificano attorno a loro.

Ingoio un aspro conato d’odio che fa tremare le dita strette attorno alla manica di Emil, le mani prudono di calore nonostante il freddo.

Nessuno di loro ha pianto. Hanno tenuto le facce grigie e rigide come maschere di pietra durante tutta la cerimonia, non hanno nemmeno detto una parola, lasciando recitare tutto il teatrino solo al prete. A nessuno di loro è mai importato qualcosa di Mathias quando era ancora in vita, e nessuno si preoccuperà per lui anche adesso che è morto, ed è inutile che adesso si facciano compatire mettendosi in mostra davanti a tutti durante il funerale. Troppo comodo preoccuparsi di un figlio che ormai non è più un tuo problema.

Tengo lo sguardo basso, le dita chiuse sulla manica di Emil, e passo sotto le scaglie di luce dei mosaici multicolori per imboccare l’uscita della chiesa. Emil mi viene più vicino, mi tocca la spalla con la sua, lancia un’occhiata dietro di sé, gli occhi socchiusi e intimoriti, e un brivido di disagio attraversa anche i suoi nervi, lo percepisco attraverso il tocco della manica.

Una figura più piccola, un ragazzino biondo vestito di nero come gli altri, sgattaiola fuori dalla fila di panche, resta a spalle chine, il capo basso, e si dirige anche lui verso l’uscita. Scioglie una mano dal grembo, quella che impugna un fazzoletto di stoffa, e si asciuga gli occhi rossi e gonfi di pianto. Singhiozza, le sue labbra tremano, e il ragazzo più alto che lo accompagna gli posa la mano sulla spalla, gli strofina una piccola carezza lungo l’avambraccio. Il ragazzino tocca la mano che lo ha confortato e la tiene stretta, singhiozza ancora, due sgorghi di lacrime stillano dagli occhi strizzati e scivolano lungo le guance arrossate. Si copre il viso con il fazzoletto e si appoggia al braccio del ragazzo più alto, lasciandosi stringere. Lui gli massaggia la schiena in un gesto di conforto.

Una scintilla di realizzazione mi pizzica il petto.

Ecco di chi erano i singhiozzi che ho sentito durante tutta la messa. Quel ragazzino è stato l’unico a piangere con la sua vocina sottile e singhiozzante, soffocata dal fazzoletto. Ha aggiunto almeno una briciola di pietà in mezzo a tutto questo squallore.

Tengo stretta la manica di Emil e lo porto verso la navata centrale che sgorga fuori dalla cappella. Cammino accanto al ragazzino che sta ancora piangendo. Lui alza la fronte che ha appoggiato sulla spalla dell’altro ragazzo, si sfila il fazzoletto dal viso svelando due grandi occhioni lucidi, gonfi e rossi, e mi rivolge lo sguardo.

La polvere che galleggia dentro i fasci di luce che ci separano si fossilizza, i brusii delle voci zittiscono, i passi che schioccano sul pavimento di marmo si fermano, il mio sguardo raggela.

Gli occhi del ragazzino vacillano, acquosi, le sopracciglia si sollevano in un guizzo e lui socchiude le labbra, come se stesse per dirmi qualcosa. Uno sguardo che mi trafigge, raggiunge il cuore e lo penetra in una sensazione malinconica, addolorata e speranzosa allo stesso tempo. Mi scarica un groppo di brividi che si ammucchia fra le costole come un boccone andato di traverso.

Continuo a camminare, e il ragazzino mi segue con gli occhi. Anche io giro lo sguardo e continuo a fissarlo da sopra la spalla mentre sto uscendo. Il ragazzino sposta un piede in avanti, lo tiene sollevato, ci ripensa, una piega di dubbio gli attraversa il viso, e torna indietro, sempre aggrappato al braccio dell’altro che gli cinge la schiena.

Mi giro. Mi porto dietro Emil e usciamo dalla cappella, ma addosso mi è rimasta l’impronta degli occhi di quel ragazzino, come un marchio fosforescente.

Non mi ha guardato per caso. Mi stava cercando.   

 

.

 

La pala affonda in uno dei due mucchi di terra raccolti attorno alla fossa, taglia una zolla con un secco zac! e si riempie di terriccio soffice e umido puntellato da radici e sassolini. L’uomo fa leva sui muscoli delle braccia, solleva la pala dal mucchio, grani di terra e sassi piovono dagli orli consumati dalla ruggine, e rovescia una prima gettata nella fossa.

Il prete farfuglia ancora qualcosa in danese, la Bibbia foderata di cuoio aperta davanti al viso, la tunica che sventola sotto la brezza d’aria che ha riempito il boschetto immerso nell’odore di pioggia e di erba bagnata. Volta una pagina e continua. Gli altri stanno immobili attorno a lui, le mani giunte sul grembo, gli sguardi rigidi rivolti al suolo, lontano dalla fossa che sta venendo riempita, le bocche mute.

Alzo lo sguardo al cielo, oltre le spalle delle persone che mi stanno attorno, oltre le chiome nere degli alberi che frusciano contro il cielo grigio e carico di nubi.

Il cimitero tace, si riempie solo della parlata danese e borbottante del prete, delle spalate che continuano a tagliare la terra – zac! – e a gettarla nella fossa – frush! Il leggero ma pungente vento che fischia fra gli alberi trascina via i suoni, mi pizzica le guance, agita i capelli contro la fronte. Li porto in disparte, passo le dita fra le ciocche e ne sistemo una dietro l’orecchio.

Un uomo esce dal gruppetto di persone, mi passa affianco strusciando sulla mia spalla, si china a raccogliere una zolla di terra dai mucchietti che si sono già dimezzati, la regge per un ciuffo d’erba e la getta nel buco.

Il suono secco della zolla dura che tocca il fondo mi fa sussultare. È lo stesso tonfo sordo del pesante del mio battito che pulsa nel petto e che grava sullo stomaco. Mi tremano le ginocchia, sento i muscoli deboli anche se rigidi. Stringo i pugni, trattengo il respiro e un calore rovente risale il viso, brucia in mezzo agli occhi appannati. Stupido vento.

Emil mi si avvicina, la spalla contro la mia, e si strofina le braccia, rabbrividendo. Abbassa il viso e nasconde il naso dentro il colletto della giacca, emettendo un sospiro tremante. Un’ondata di freddo aggredisce anche me, si mescola al gelo sollevato dai sensi di colpa che si sono induriti nel petto come un macigno. Non avrei dovuto portarlo qua con me, non avrei dovuto coinvolgerlo in tutto questo.

Mi infilo le mani in tasca, al caldo, e le dita sbattono su un oggetto metallico che tintinna contro le unghie, trasmettendomi una piccola scossa. Inarco le falangi, le infilo nell’anello di ferro e tiro fuori il portachiavi dalla tasca scuotendo anche il pacchetto di sigarette che è rimasto sul fondo. Dalle mie dita dondolano le due chiavi, quella dell’appartamento e quella del cancello, appese al ciondolo a forma di bandiera norvegese. Le chiavi di Mathias, quelle che l’altro giorno non sono riuscito a gettare giù dal Waterloo Bridge.

Abbasso il braccio, la mia vista sorvola le spalle delle persone ferme davanti a me, cade al suolo, sui mucchietti di terra ormai quasi piatti a cui il tizio sta togliendo palate su palate per poi rovesciarle nella fossa che si è inghiottita la sua bara.

Stringo la mano, i denti di metallo delle chiavi e gli angoli aguzzi del ciondolo mi pizzicano il palmo, le dita grigie e screpolate dal freddo hanno un fremito.

Compio due passi davanti, mi apro la strada in mezzo alle altre persone che si scansano, e mi chino a raccogliere una delle ultime zolle di terra raccolte a mucchi. Ne ribalto una da cui sbuca un sasso grande e liscio come un uovo e ne afferro una seconda a cui è ancora appiccicato un quadratino di erba folta e alta. Radici scure e crespe come capelli emergono dal fondo, si intrecciano ai sassolini rimasti incollati al terriccio. Ribalto la zolla rivolgendo la parte di terra verso l’alto, vi indirizzo contro la parte corta della bandiera e ficco dentro l’intero ciondolo, fino all’anello che si unisce alle due chiavi, spezzettando il terriccio nero e umido che emette un suono scricchiolante e denso, simile a quello di una lama che affetta un limone. Stringo delicatamente la mano attorno alla zolla, la accosto al viso tenendo le labbra a uno sfioro dalla terra, e soffio il mio ultimo bacio d’addio.

Mi spingo di un altro passo in avanti e getto la terra con dentro le chiavi all’interno della fossa. Tunf! Il becchino rovescia un’altra palata di terra, sommerge la bandiera, e le chiavi svaniscono per sempre, restano con Mathias.

Arretro, mi spolvero le mani dai grani di terriccio, dalle briciole di ghiaia che sono rimaste incollate alla pelle inumidita, e dai filamenti di radice incastrati sotto le unghie. Abbasso lo sguardo, lo allontano dalla fossa, torno indietro da Emil.

Ora ha le chiavi. Se Mathias vorrà tornare, la porta sarà aperta.

Torno accanto a Emil. Torno a infilare le mani nelle tasche, stringo i pugni sul fondo dove giacciono ancora le mie chiavi e il pacchetto di HB, e resto a fronte china. Il vento mi scuote i capelli contro gli occhi, brucia sulle guance, sulla punta del naso e fra le palpebre. Increspo le labbra che si sono seccate assumendo un sapore di ferro. Un brivido di freddo mi stringe il petto, risale la schiena mordendomi il collo, e una sgradevole sensazione di nostalgia preme contro le costole, all’altezza del cuore, dove il peso del rimorso è ancora vivo e doloroso.

Emil china lo sguardo in avanti, mi cerca, stringe la mia manica fra pollice e indice all’altezza del gomito e dà una piccola tirata. «Tutto okay?» mormora. La voce trascinata via dal vento e nascosta dal frusciare delle foglie sopra di noi.

Volto lo sguardo, incontro i suoi occhi preoccupati, un po’ impauriti, e annuisco. «Sì» mento.

Emil sfila le dita dalla mia manica e lancia un’occhiata bassa e circospetta alle sue spalle. Storce un angolo della bocca, la punta del naso si arriccia in un’espressione di disagio, di quelle che faceva sempre da piccolo, e lui scivola di un passetto più vicino a me, incollando la spalla alla mia. Piega il braccio e mi dà una soffice gomitata sul fianco. «Senti», solleva il mento, indica qualcuno, «ma quei due li conosci?»

Giro anche io la coda dell’occhio, assottiglio le palpebre che stanno aperte a fatica dopo tre giorni passati senza dormire, e la vista si appanna di stanchezza.

Lo sguardo del ragazzino che ho incrociato prima in chiesa preme ancora su di me. Riconosco i suoi occhi rossi e lacrimanti, la mano stretta al fazzoletto accostato alle labbra, le spalle fasciate dal braccio dell’altro tizio che lo accompagna.

Torno a voltarmi, faccio finta di niente. «Quali?» Mi strofino la spalla. Avere il suo sguardo incollato alla mia schiena mi dà la sensazione che la spalla sia ricoperta di bava scintillante che tutti vedono brillare sul nero della giacca.

«Quelli là» ripete Emil, il viso ancora girato. «Quello piccolo e quello alto con gli occhiali.» Scivola ancora di un passo vicino a me, stringe di nuovo le dita sulla mia manica, e mi bisbiglia accanto all’orecchio. «È da quando eravamo in chiesa che il piccoletto non ha fatto altro che fissarti, e – guarda, guarda, lo sta facendo anche adesso.»

Faccio roteare lo sguardo, lo sposto di nuovo dietro la mia spalla.

Il piccoletto si soffia il naso, singhiozza, le sue spalle sobbalzano sotto l’abbraccio dell’altro tizio, gli occhi lacrimanti si increspano e altre righe di pianto rotolano lungo le guance rosse, finiscono assorbite dal fazzoletto. L’altro tizio gli tiene il braccio cinto attorno alle spalle anche quando il piccoletto gira il viso e lo rintana contro la sua spalla, finendo di piangere contro di lui, le dita tremanti contratte sulla sua giacca nera. Lo sguardo del ragazzo più alto vola verso di me, ci incrociamo. Sottili occhi freddi e azzurri come ghiaccio mi scrutano da dietro le lenti degli occhiali, mi lanciano uno sguardo piatto ma austero allo stesso tempo, il cielo scuro crea attorno alla sua figura un’aura cupa e inquietante che mi scarica un brivido di malessere lungo la spina dorsale, come se mi avessero infilato una mano umida e gelida sotto il colletto. È la prima volta che sento su di me l’effetto che di solito io faccio alla gente.

Torno a girarmi. «Io mi preoccuperei più di quello alto.»

Emil inarca un sopracciglio, mi lancia l’occhiata di chi non ha voglia di scherzare. «Lukas.»

Sospiro, levo gli occhi al cielo. «Non li ho mai visti» lo liquido.

Il becchino che ha riempito la fossa livella il suolo con la parte piatta della pala, dà due colpetti alla terra, spalma per bene le ultime dune e le rende lisce come la superficie di una tavola. Il prete dice ancora qualcosa, sputacchia due parole in latino, e chiude il tomo davanti a sé. Alcune persone chinano il capo, rispondono in coro, altre si girano, sistemano i baveri contro le guance arrossate, reggono i cappelli sulle teste, si tengono al riparo dal vento, e si avviano lontano dalla tomba.

Chino lo sguardo in mezzo ai piedi, sull’erba fredda e scura, mi concentro solo sul tocco di Emil sulla mia giacca, sul soffice tepore che sciacqua via il groppo di freddo incastrato in fondo alla gola. Tengo gli occhi bassi, le labbra piatte, la voce ghiacciata come il vento che ci soffia in faccia. «Andiamocene.» Sfilo una mano dalla tasca e stringo anche io la manica di Emil. Lo faccio girare, allungo un primo passo infilandomi fra due tizi, e usciamo dal gruppetto. «Non ne posso più.»

Emil annuisce. Accelera il passo e mi viene dietro, usciamo dal prato indurito dal freddo e pestiamo i piedi nella stradina di ghiaia che scivola in mezzo agli alberi piantati per fare ombra sulle lapidi. I nostri passi scricchiolano, foglie secche si sbriciolano sotto le scarpe, i sassolini emettono lo stesso suono cristallino del ghiaccio che si spezza.

Ci lasciamo alle spalle il brusio di voci, il profumo di fiori freschi e dell’incenso, però la sensazione di disagio mi è rimasta addosso, mi segue come un’ombra, raggela la pelle, e mi aggroviglia lo stomaco.

Piccoli passetti insicuri, come spinti sulle punte dei piedi, scricchiolano dietro di noi, si avvicinano attraversando la stradina di ghiaia, mentre il vento tace e i rami degli alberi smettono di frusciare.

Sbircio con la coda dell’occhio, guardo fra la mia spalla e quella di Emil. Due sagome ci stanno seguendo.

Il piccoletto incrocia lo sguardo con il mio, esita, i suoi occhi umidi e rossi di pianto luccicano, e si ferma in mezzo alla stradina emettendo un piccolo sussulto intimorito fra le labbra schiuse. Stringe il braccio del tizio alto, gli dà un piccolo strattone, solleva lo sguardo come in cerca di approvazione e gli mormora qualcosa tenendo il fazzoletto accostato alle labbra, a raccogliere l’ultima perla di lacrima che gli è rotolata giù dallo zigomo. L’aria trascina via le sue parole, da qui non riesco a sentirle. L’altro annuisce, gli posa una mano sulla spalla, le sue labbra gli dicono qualcosa, un movimento brevissimo, quasi impercettibile, e lo spinge delicatamente a fare un passetto in avanti, come se lo stesse incoraggiando a raggiungerci. Il piccoletto torna a incrociare gli occhi con i miei, il velo di dolore scivola giù dal suo viso, lo sguardo si increspa, assume una luce più forte e determinata. Si asciuga gli occhi con il fianco della mano e affretta il passo, saltella verso di noi con la ghiaia che scricchiola sotto le suole.

Mi giro e accelero anche io prima che...

«Ehm, scusa.»

... ci raggiunga.

Mi fermo. Emil si gira per primo e lancia un’occhiata perplessa al piccoletto che è corso alle nostre spalle.

Mi volto anche io, lo squadro a occhi ristretti, la voce fredda e distaccata. «Sì?» Gli rispondo anche io in inglese.

Il piccoletto compie gli ultimi passi attraverso la stradina ghiaiosa, giunge le mani sul grembo, intreccia le dita che stanno ancora stropicciando il fazzoletto umido di lacrime, e accenna un piccolo ma sincero e dolce sorriso che gli dona un’aria da bambino. «Perdonami se ti disturbo, ma ho visto che te ne stavi andando e...»

«Ci conosciamo?» lo interrompo, un sopracciglio inarcato e un braccio a tenere riparato il fianco di Emil. È un gesto inconscio da parte mia, anche se il ragazzino sembra tutto meno che un individuo pericoloso.

Anche il tizio alto si avvicina, silenzioso e buio come un’ombra. Resta alle spalle del piccoletto e mi squadra con gli stessi occhi freddi e protettivi che ho mostrato io nei riguardi di Emil. Aggrotto le sopracciglia, quasi sfidandolo, ma la voce del piccoletto attira di nuovo la mia attenzione verso il basso.

«Tu sei Lukas, vero?» domanda con tono amichevole, il viso aperto e luminoso, anche se rosso di pianto e ombreggiato dal cielo nuvoloso. «L’amico di Mathias, quello di Londra.»

Il boschetto del cimitero si pietrifica in un insieme di sagome nere e piatte stese contro le nuvole congelate, le cime degli alberi smettono di scuotersi e di gonfiarsi sotto il soffio del vento che è calato, lasciandomi un’impronta di gelo sulla pelle.

Resto immobile, lo sguardo paralizzato sugli occhi annacquati del piccoletto, e trattengo il fiato, il cuore fermo nel petto. Lancio uno sguardo a Emil e lui sgrana gli occhi di rimando, le labbra cadono socchiuse, senza dire una parola. Il viso impallidisce e gli occhi si fanno grigi come pietra.

Torno sul piccoletto, inarco le estremità delle sopracciglia in un’espressione di nuovo ostile e sulla difensiva. «Come fai a...»

Il piccoletto legge la mia diffidenza, ma il suo sorriso si ammorbidisce, si fa più naturale, meno sforzato, e gli occhi brillano di comprensione. Si posa la mano sul petto. «Io mi chiamo Tino.» Rivolge la mano dietro di sé, indica lo spilungone con gli occhiali. «Lui invece è Berwald. Siamo...» Si stringe nelle spalle, torna a unire le mani sul grembo. I suoi occhi guardano a terra e si intristiscono, nonostante la piega delle labbra verso l’alto. «Eravamo due amici di Mathias, di quando viveva ancora qui a Copenaghen.» Il piccolo sorriso si tinge di nostalgia.

Abbasso la guardia, i nervi si distendono, rilasso i muscoli, e sciolgo lo sguardo ostile che mi bolliva in mezzo agli occhi. Dopotutto, lui mi è davvero sembrato il più addolorato in tutta questa farsa che hanno organizzato.

Indico Emil. «Lui è mio fratello Emil. Mi ha accompagnato.»

Emil fa un passetto in avanti restando però riparato dal mio fianco e porge la mano a Tino. «P-piacere.»

Tino gli sorride cordialmente e gliela stringe. «Piacere di conoscerti.»

Emil annuisce e la porge anche a Berwald mostrando uno sguardo più basso e intimorito mentre vede inghiottire la sua mano in quella presa granitica. Scioglie la stretta e torna dietro la mia spalla.

Tino torna a rivolgermi quello sguardo amichevole. «Scusami, so che ti sono comparso così all’improvviso e in un momento così indelicato.» Scuote il capo. «Non volevo essere sgarbato.»

Sollevo un sopracciglio. «Non fa niente.» Dove vuole arrivare?

Tino solleva gli occhi verso Berwald, inarca le sopracciglia nella stessa triste espressione che aveva la prima volta che ci siamo incrociati nella chiesetta, quando si è fatto stringere le spalle da lui per finire di piangere sulla sua spalla. Berwald annuisce, Tino riacquista quel piccolo e gentile sorriso da bambino.

Si rivolge a me, indica l’uscita del cimitero con la punta dell’indice. «Qui vicino c’è un piccolo bar molto grazioso. Sono solo dieci minuti a piedi.» Stringe le mani sul grembo e stropiccia le dita, china il capo di lato. «Possiamo offrirvi qualcosa? Mi piacerebbe davvero scambiare una chiacchierata assieme a te.» Un luccichio caldo gli brilla negli occhi, mi trasmette un tiepido senso di sicurezza e fiducia. Si stringe attorno al cuore assieme al senso di pietà che mi assale davanti al suo sguardo ancora sciupato dalle lacrime, scavato nel dolce e latteo viso da bambino.

Io ed Emil ci guardiamo. Emil inarca un sopracciglio, piega un’espressione scettica, arriccia un angolo del labbro inferiore.

Torno con gli occhi su Tino, sulla sua espressione di aspettativa che scintilla fra le perle di lacrime ancora incastrate fra le ciglia.

Sospiro, annuisco. «Certo.» Cedo per la prima volta.

 

.

 

Il cameriere arriva al nostro tavolo reggendo un vassoio argentato, lo accompagna l’aroma intenso dei tre caffè che abbiamo ordinato assieme al bicchiere di succo di mela per Emil. Raccoglie la prima tazzina, la posa davanti a me, e serve anche gli altri due caffè, uno lo mette davanti a Berwald e tiene l’altro in mano scoccando un’occhiata interrogativa che si sposta da Emil a Tino. Tino sorride cordialmente e solleva la mano, gli fa cenno che è per lui. Il cameriere annuisce, bisbiglia qualcosa in danese, e sistema la tazzina davanti a lui.  

Tino annuisce e stende il sorriso. «Mange tak

Sul vassoio è rimasto solo il bicchiere di succo alla mela infilzato da una cannuccia che ho fatto prendere a Emil. Non voglio che beva caffè prima di prendere l’aereo, rischierebbe di agitarsi troppo e di scombussolare il suo ritmo di sonno.

Il cameriere raccoglie il bicchiere e lo mette davanti a Emil. Emil lo porta più vicino a sé, increspa le sopracciglia, e prova a balbettare quello che ha detto Tino. «Uhm, ta-tak. Mange

Il cameriere accenna una riverenza, sistema il vassoio sottobraccio, e ci lascia da soli.

Lo sguardo di Tino torna a intristirsi, il sorriso sbiadisce. Tino pesca tre bustine di zucchero dalla vaschetta di plastica messa accanto al contenitore di salviette di carta, ne strappa una e rovescia la cascata di cristalli nel caffè. Non mescola, ne strappa un’altra e tuffa tutto contenuto. Gli occhi bassi e malinconici, ancora lucidi, riflettono la macchia bianca che sprofonda nella superficie nera e cremosa. «Mathias aveva già avuto qualche piccolo guaio con la giustizia ancora quando viveva qua in Danimarca.» Strappa la terza bustina, rovescia anche quella, e il volume del caffè cresce. Una piccola goccia stilla dalla tazzina e piove sul piattino. Tino si stringe nelle spalle. «Piccoli furti, vandalismo, possesso di droghe leggere.» Prende il cucchiaino fra quelle dita bianche e sottili come quelle di una ragazzina e mescola facendo tintinnare la porcellana. «In realtà non è che rubasse per necessità, la sua famiglia è sempre stata a posto in questo senso, e aveva anche ricevuto una buona educazione da piccolo. Per questo la sua ribellione è stata così difficile da accettare per i suoi genitori.» Sfila il cucchiaino dal caffè, lo sgocciola sull’orlo, e lo posa sul piattino. Stringe il manico della tazzina, soffia sulla superficie, e prende un primo brevissimo sorso. La sua fronte si increspa. «Tutto quello che Mathias faceva non sembrava spaventarlo, non era mai soddisfatto dei rischi che correva, e si spingeva sempre più lontano.» Torna a posare la tazzina, sospira. Le unghie strofinano il marchio del bar tatuato sulla superficie di porcellana. «Per lui era tutto come un...» Si rosicchia il labbro inferiore, stropiccia una smorfia d’incertezza, e non conclude la frase.

Raccolgo anche io la tazzina, assaggio un sorso di caffè a cui non ho aggiunto zucchero – come Berwald – e tengo lo sguardo fisso sul mio riflesso che si specchia sulla superficie lucida del tavolino. «Come un gioco.» Il caffè è disgustoso. Mi lascia la bocca impastata, come se avessi ingoiato una sorsata di fango.

Tino annuisce, gli occhi brillano di realizzazione anche se restano bassi. «Sì, esatto.» Sorseggia dell’altro caffè e il suo viso si rilassa toccato dal vapore caldo e profumato. Riappoggia la tazzina, incrocia le caviglie sotto il tavolino sfiorandomi un piede con il suo. Un piccolo e tenero sorriso dal sapore nostalgico gli tocca nuovamente le labbra. «Sapete, lui e Berwald sono stati compagni di classe a scuola fin da piccoli.»

Berwald si limita ad annuire, a prendere un sorso dalla sua tazzina e a stare seduto con le spalle leggermente girate verso Tino, come per sorvegliarlo tramite quello sguardo duro e protettivo che mi ha mostrato al cimitero. Non ha spiccicato parola da quando ci siamo incontrati. Forse non parla inglese.

Tino fa tamburellare le dita di entrambe le mani sulla superficie della tazzina, e i suoi occhi tornano a rabbuiare. «Ovviamente Berwald ha sempre cercato di aiutarlo e di stargli vicino in qualsiasi guaio Mathias si cacciasse» spiega. «Litigavano sempre su questo. Berwald era molto in pena per lui, lo faceva per il suo bene, ma Mathias si è sempre rifiutato di ascoltarlo, e la situazione peggiorava man mano che il tempo passava. In realtà si è sempre rifiutato di ascoltare chiunque.» Raccoglie una delle tre bustine di zucchero svuotate e la stropiccia fra le dita, ne arrotola gli angoli e li srotola più volte, spiaccica la carta fra i polpastrelli. Scuote il capo in un gesto sconsolato. «Diceva sempre che se ne sarebbe andato per non tornare mai più, che non avrebbe mai più rimesso piede qui in Danimarca, che non avrebbe mai più mostrato la faccia ai suoi genitori. Ma era ancora minorenne e ovviamente non poteva andare lontano.»

Chino lo sguardo, faccio ondeggiare la superficie di caffè dentro la mia tazzina, lasciandomi pizzicare dal vapore bollente e profumato di chicchi tostati che risale l’aria umida del bar e che intiepidisce le guance. Effettivamente, sembrano proprio discorsi usciti dalla bocca di Mathias.

Emil sfila la cannuccia dal succo di mela e prende due sorsi direttamente dal bicchiere. Gli occhi attenti e un po’ smarriti restano fissi su Tino, la mano rigida attorno al vetro, e le spalle ancora avvolte nella giacca che si è tenuto sulla schiena nonostante il bar sia riscaldato. Anche lui non ha ancora parlato, e probabilmente non si aspettava di finire coinvolto in una storia simile quando gli ho telefonato qualche giorno fa. Forse è vero che non avrei dovuto portarmelo dietro.

Tino riaccenna il sorriso e volge lo sguardo su Berwald. «Poi io e Berwald ci siamo, ehm...» Scosta gli occhi, il sorrisino tremola di imbarazzo, le guance avvampano diventando ancora più rosse, le dita fanno scricchiolare la bustina di carta con movimenti più rapidi e nervosi. Tino si strofina i capelli dietro la nuca e stringe le spalle dondolanti, trattenendo una sottilissima risata. «Conosciuti» dice, con un po’ troppa enfasi.

Berwald gira lo sguardo, anche le sue guance si imporporano, nonostante il viso sembri intagliato nel ghiaccio. Prende un sorso di caffè e l’orlo della tazzina nasconde il sottilissimo tremolio delle sue labbra.

Tino lascia stare le bustine di zucchero stropicciate, prende un sorso del suo caffè e il risolino sbiadisce. Resta comunque il rossore e la luce malinconica a scintillare fra le ciglia. «E allora anche io ho fatto amicizia con Mathias.» Raccoglie il cucchiaino e scava sul fondo, pesca i residui di zucchero che non si sono sciolti. Succhia la poltiglia marrognola e tiene il cucchiaino fra le labbra ancora piegate in quel tiepido sorriso nostalgico. «Credo sarebbe stato davvero bello restare amici come lo eravamo allora, e a volte sentivo che prima o poi avremmo potuto davvero aiutarlo a uscire da questa sorta di circolo vizioso, a mettere le cose a posto, standogli vicino. Noi due eravamo le uniche persone di cui Mathias continuava a fidarsi.» Sfila il cucchiaino dalle labbra. Abbassa le palpebre e sospira, il fiato ancora trema per il forte pianto di prima che gli è rimasto incastrato in gola. «Ma se n’è andato appena diventato maggiorenne» mormora.

Lo sguardo di Berwald rabbuia. Il vapore che sale dalla sua tazzina gli annebbia lo sguardo, ma una sottilissima crepa di dolore attraversa quel viso di pietra, incrina il ghiaccio che prima ha raggelato persino me. 

Tino fa scivolare le mani giù dal tavolino e stringe i pugni sulle cosce. Dondola avanti e indietro con le spalle, come un bambino che è stufo di stare seduto. «Con i suoi genitori non ha mai più voluto parlare, li aveva completamente tagliati fuori dalla sua vita, ma con noi scambiava ancora qualche lettera, e ogni tanto riuscivamo anche a telefonarci.» Si fa piccolo nelle spalle, come nascondendosi. «Sapevamo cos’era andato a fare a Londra, ma ci sembrava che stesse tutto sommato bene e...» Le sue spalle smettono di oscillare. Tino si mordicchia il labbro, gli occhi ancora annacquati luccicano di rimorso, il viso addolorato si piega in un’espressione colpevole. «Fino a quando abbiamo perso completamente i contatti perché lui era...» La voce cede in un mormorio incomprensibile. Tino abbassa la fronte di lato e non riesce a continuare.

Berwald fa scivolare una mano sotto il tavolino e gli avvolge il pugno che ha serrato sulle cosce. Tino gli rivolge un sorriso rassicurante e gli strofina soffici colpetti sul braccio, tranquillizzandolo. L’espressione che dice: “Sto bene, non ti preoccupare”.

Stringo le dita attorno al manico della mia tazzina, allontano anch’io lo sguardo concentrandomi sulle parole di Tino che mi frullano nella testa, assemblandosi come i tasselli di un puzzle.

Hanno perso i contatti con lui dopo che è entrato nei Siberian Cubs, ovvio.

Emil si stringe nelle spalle, avvolge entrambe le mani al bicchiere di succo di mela, e fa dondolare il piede accavallato sulla gamba. «E non avete mai pensato di...» Guarda in disparte, fa tamburellare le unghie sul vetro. Gli occhi incrociano quelli di Tino e lo squadrano con aria interrogativa. «Di andare a Londra di persona per cercarlo?»

Tino sospira e scuote la testa. «Non si trattava semplicemente di cercarlo», sfila la mano dal braccio di Berwald, torna a serrarla contro la coscia sotto il tavolo, «ma anche di convincerlo a ritornare a casa e di fargli seguire una terapia per uscire dalla dipendenza. Quando viveva qua a Copenaghen era impossibile, perché per i minorenni non esistono veri e propri programmi di riabilitazione, e non tutti i centri Narconon sono disposti ad accettarli per le loro terapie. Mathias se n’è andato proprio per sfuggire alla possibilità che i suoi lo portassero in una clinica o in centro di recupero una volta raggiunti i diciotto anni, e...» Tiene dentro il fiato, le parole incastrate fra le labbra, gli occhi indecisi che si specchiano sulla superficie del tavolino. Tino si strofina i capelli dietro la nuca, una piega di afflizione gli attraversa il viso. «Sapevamo tutti che sarebbe stato impossibile fare qualcosa di concreto per lui dopo che...» Un’ombra di timore cala sul suo volto, lo rende buio e freddo. Un fremito gli scuote le spalle e Tino si porta il mignolo fra le labbra, rosicchia la punta dell’unghia in un piccolo tic di nervosismo.

Tino lancia un’occhiata alle sue spalle, il viso basso e l’espressione più buia e rigida, prudente. Piega un gomito sul tavolino, accanto alla sua tazza di caffè, e si gira lentamente a inviare un’occhiata d’intesa a Berwald da sotto l’ombra della frangia. Solleva le punte delle sopracciglia con un guizzo, una scintilla di paura freme nei suoi occhi, le dita premute sulle tempie si stringono leggermente, e le guance prima rosse di pianto sbiancano di colpo.

Berwald mi lancia un’occhiata appuntita e rapidissima da dietro il profilo delle lenti. Il suo sguardo si abbassa, incrocia di nuovo quello di Tino, e lui annuisce con un breve cenno del capo.

Tino rilassa i tratti del viso, prende un respiro profondo, a palpebre chiuse, e si volta verso di me. «Lukas.» Mi chiama con voce ferma, con un tono che non sembra più quello del tenero ragazzino che non ha fatto altro che sorridermi anche mentre stava affogando nelle sue stesse lacrime.

Un brivido mi accappona la pelle, il sangue raggela, le dita stringono l’orlo del tavolino che scricchiola sotto la pressione delle unghie, e i muscoli delle spalle irrigidiscono. I nervi scattano sulla difensiva.

Tino avvicina la sedia al tavolo, spinge le spalle più in avanti, si sporge verso di me, e tiene la mano posata sulla guancia, a coprire metà del volto dagli sguardi degli altri clienti del bar. Gli occhi lucidi brillano nell’ombra, la sua voce diventa un sussurro. «Mathias ti ha mai parlato di...» Prende un respiro più breve, gli occhi si spostano, indecisi, le labbra balbettano e la voce torna a squittire. «Di una, uh, congrega chiamata “Siberian Cubs”?»

Mi scava un vuoto nel petto. Le pareti si tingono di nero, il brusio di voci e passi e tintinnii di posate tace, svanisce il profumo dei caffè, l’aria diventa fredda e mi aggredisce la schiena tramite un’artigliata di ghiaccio che scava fin dentro le ossa. I brividi penetrano i muscoli, chiudono il petto in una morsa che mi arresta il respiro in gola, come un cubetto di ghiaccio andato di traverso.

I ricordi mi risucchiano.

Rivedo la mia mano scorrere fra i capelli biondi di Mathias, le mie labbra posarsi dietro il suo orecchio, scendere lungo la curva del collo e scivolare sopra il tatuaggio bagnato dalla luce rossa del sole. Rivedo anche il mio ultimo tocco che gli ha sfiorato la pelle bianca e fredda come pietra, su cui non splendeva più il sole del tramonto ma le fredde lampade dell’obitorio.

Abbasso la fronte, i capelli ricadono davanti agli occhi, il nero mi riempie la vista. Nero come quel maledetto tatuaggio.

Il rilievo dell’inchiostro spingeva contro la sottile pelle del collo diventato marmoreo, si faceva spazio fra le vene bluastre che serpeggiavano attorno alla giugulare, il filo spinato si intrecciava piantando i suoi spuntoni nel quadrante dell’orologio senza lancette. La scritta “Siberian Cubs” riempiva l’interno dell’orologio, le lettere così gonfie da finire graffiate dai nodi aguzzi del filo spinato. Il filo spinato che ormai ha ferito anche me senza però tenermi intrappolato nella sua morsa.    

Rilasso la tensione dei pugni, distendo le dita ritirando le unghie dalla carne dei palmi, ma il mio viso resta basso. La voce grave. «Emil.»

Emil sussulta, gira lo sguardo su di me.

Gli indico la porta del bar con un cenno del capo. «Esci, lasciaci soli.» Se anche lui venisse coinvolto in questa storia non potrei mai perdonarmelo.

Emil restringe le sopracciglia, indurisce lo sguardo. «No, voglio ascoltare.»

Mi giro con le spalle verso di lui. Assottiglio le palpebre, creo un’ombra attorno agli occhi che diventano freddi come lame di ghiaccio. Incupisco la voce. «Non farmi discutere.» Serro il pugno sul tavolo accanto alla tazzina e le falangi scricchiolano.

Gli occhi di Emil non demordono, non una piega, il viso duro e senza una ruga di paura ricambia lo sguardo di ghiaccio, sostenendo il mio. «Ho detto di no.»

Tino interviene prima che possa farlo io. «Emil.» Stende un braccio lungo il tavolo, sfiora il bicchiere di succo di mela e tocca il polso di Emil. Gli parla con tono morbido e paterno. «Forse dovresti ascoltare tuo fratello.» Scuote il capo. «Non sono bei discorsi.»

Emil mostra uno sguardo più umile, gli occhi perdono la scintilla di testardaggine che mi aveva scagliato contro, ma restano rigidi e determinati. «No.» Scuote anche lui la testa. «Ormai sono qui con voi, e non ha più senso nascondermi queste cose.» Restringe le palpebre in un’espressione offesa e annoda le braccia al petto. «Non sono un bambino.»

Faccio roteare lo sguardo, lo distolgo dal suo. Raccolgo la mia tazzina che ormai non fuma più e la accosto alle labbra. Prendo un sorso minuscolo di caffè, arriccio la punta del naso in una smorfia di disgusto, ma mi costringo a ingoiarlo. La punta di amaro sulla lingua mi rilassa i nervi. «Sì, sapevo dei Siberian Cubs.» Sollevo la mano libera, reclino il capo di lato, e mi tocco con due dita la parte sinistra del collo. «Aveva il tatuaggio sul collo, non me l’ha mai tenuto nascosto.»

Tino annuisce, intreccia le dita davanti a sé e tamburella le unghie sulle nocche. «Ecco, tu...» Una smorfia di disagio gli scivola fra le labbra, il respiro vibra e la voce si abbassa. «Tu sai quello che Mathias faceva, vero? Intendo», torna a coprirsi il volto posando le dita sulla tempia e fa roteare la mano, «non solo il giro di droga, ma anche...» Le guance arrossiscono. Mi lancia un’occhiata che mi implora di capire al volo e di non farlo continuare.

Annuisco. Capisco al volo e non lo faccio continuare. «Sì.» Prendo un altro sorso di caffè.

Tino riprende a respirare, le guance sbiadiscono, gli occhi s’ingrigiscono tornando avvolti dall’ombra. «E sai anche chi c’è in cima a tutto questo?»

Lo sguardo glaciale di Berwald attira il mio. Ci lanciamo un’occhiata sottecchi, e lui mi squadra come se sapesse già il fatto che io so tutto. Questo tizio mette i brividi.

Torno su Tino. «Sì, ma...» Stringo le mani alla tazzina, esito.

Ma non so se dovrei dirlo a te e non so se dovrei pronunciare quel nome davanti a mio fratello, rischiando di metterlo in pericolo.

Tino solleva un sopracciglio, recepisce l’ondata di scetticismo che gli ho lanciato come una fiammata rovente. Mi mostra un piccolo e sincero sorriso, un sorriso di comprensione, e torna a giocherellare con le bustine vuote dello zucchero, le spiegazza fra le unghie. «Tu sei uno studente, vero?» mi domanda con il solito e dolce tono amichevole.

Annuisco, abbasso la fiamma di astio dagli occhi che tornano freddi e distaccati. «Sì» confermo. «Sia io che Emil.» Lo indico piegando il capo verso di lui. «Lui studia biologia marina a Reykjavik, io psicologia a Londra.»

Tino si posa la mano sul petto, come ha fatto quando si è presentato davanti a me sulla stradina del cimitero. «Io e Berwald siamo nelle forze dell’ordine» spiega. «Nella Narcotici.»

Sbarro le palpebre, un lampo di realizzazione mi trapassa la testa, schiocca come un fulmine da tempia a tempia.

Nella Narcotici.

Stringo i pugni, il petto brucia, le dita schiacciate contro i palmi tremano di nervosismo.

Ora comincio sul serio a capire dove vogliono arrivare e perché hanno voluto incontrarmi e parlare con me.

«Davvero?» chiede Emil, strabuzzando lo sguardo. «Sembri molto, insomma», gesticola rimestando l’aria, mima uno sguardo vago e tossicchia, «più giovane.»

Gli do un calcetto al piede.

Emil si stringe nelle spalle, volta il viso e chiude i pugni sulle cosce. «Scusami» borbotta.

Tino ridacchia, per niente offeso. «Il mio aspetto inganna molto, è vero.» Schiude le dita lasciando cadere le cartine stropicciate e poggia le spalle allo schienale della sedia, raccoglie di nuovo le mani in grembo. «In realtà sono dentro solo da un anno, mentre Berwald lavora già da un po’ di anni. Lui e Mathias avevano la stessa età.» Torna con il palmo sul petto e il sorriso assume una sbavatura nostalgica che fa luccicare gli occhi come se si fossero di nuovo velati di lacrime. «Il motivo per il quale sia io che lui siamo entrati nella Narcotici era proprio la speranza di riavvicinarci a Mathias, e di aiutare tutti quelli che avevano i suoi stessi problemi.» Lancia un’altra occhiata di complicità a Berwald, lui annuisce, Tino annuisce a sua volta e prende un lungo respiro, come per incoraggiarsi. Stropiccia le mani che tornano a chiudersi contro le cosce, le nocche sbiancano e le unghie lasciano segni rossi sui dorsi. «In questi anni abbiamo avuto modo molte volte di avvicinarci al territorio di quelli che chiamano “Siberian Cubs”, ma senza mai riuscire a mettere fine all’organizzazione.» I suoi occhi seri e profondi, ancora lucidi e rossi attorno alle palpebre gonfie delle tracce di pianto, mi danno per la prima volta l’idea di appartenere a un adulto. «In questi casi, l’unico modo di porre fine a questo circolo vizioso è estirpare l’origine, la mente a capo, ed è praticamente impossibile considerando chi sia l’uomo con cui abbiamo a che fare.»

Abbasso lo sguardo, spingo una guancia contro le nocche, poggiandomi sul gomito, e rigiro fra le dita il cucchiaino che non ho usato. Mormoro quel nome senza paura, il suono esce liscio, freddo e tagliente come una bava di vento invernale. «Braginski.» Ormai non ha più senso nasconderlo.

Tino annuisce. «Ivan Braginski è attualmente ricercato in Unione Sovietica, Turchia, Inghilterra e in Germania Ovest. E nessuno è mai riuscito a catturarlo, pur essendo sulla lista da anni.»

Emil inarca un sopracciglio, si porta più vicino con la sedia facendo strusciare le gambe sul pavimento, e abbassa la voce che serba un tono sorpreso. «Ha davvero un traffico così espanso?»

«Purtroppo sì.»

Emil tiene le labbra socchiuse e non spiccica parola, sembra che gli si sia fossilizzata la lingua. China lo sguardo, sbatacchia le palpebre in un’espressione stupita. «Non pensavo che le droghe sintetiche avessero già preso un piede così ampio in Europa.»

Aggrotto la fronte e lo fulmino. Cosa significa “non pensavo”? Lui non dovrebbe nemmeno sapere dell’esistenza di queste cose.

«Infatti il suo traffico è iniziato con l’oppio» gli risponde Tino. «Non con l’eroina.» Si rilassa contro lo schienale della sedia e si strofina il braccio. Sospira. «È ricercato dal Sessantadue.»

La stessa occhiata che ho storto verso Emil la rivolgo a Tino. Sollevo un sopracciglio. «Oppio?» chiedo, sentendo una punta di curiosità pizzicare attraverso la voce.

Tino annuisce. «Non da solo, però, e nemmeno di sua iniziativa. Lui e un trafficante cinese trasportavano dall’Est fino in Inghilterra e in altri paesi dell’Ovest.» Guarda a destra e a sinistra, si gira poggiando il braccio sullo schienale della sedia e squadra l’ambiente del bar con occhi cauti. Torna a girarsi, tira in avanti le spalle verso me ed Emil e apre il fianco di una mano sulla guancia, riparando i movimenti delle labbra. Bisbiglia pianissimo. «Si diceva...» Si pizzica il labbro, arrossisce fino alle orecchie, gli occhi tremolano di imbarazzo. «Si diceva che fossero, ehm, amanti o qualcosa del genere.»

Anche Emil diventa paonazzo e si volta, chiude a pugno davanti alla bocca e tossicchia.

Spingo un gomito sul tavolo e premo le dita sulla fronte, mi massaggio le tempie, dove la pressione batte e martella contro il cranio, i polpastrelli scivolano verso il basso e disegnano piccoli cerchi fra le palpebre stropicciate.

Sia maledetta la volta in cui ho deciso di portarlo qua con me.

Tino tira indietro le spalle e si rimette composto. «Circolano un sacco di storie un po’ bizzarre dietro a queste situazioni. Sono immigrati illegalmente a Londra dalla Siberia quando erano ancora giovanissimi. Braginski aveva appena diciassette anni, Wang diciannove. Successivamente siamo riusciti a risalire al periodo in cui lui era vissuto a Hong Kong, e abbiamo scoperto che aveva lavorato in un Opium-Den, cominciando anche a produrre e a trafficare, oltre che a consumare, ovviamente. Poi è vissuto in Siberia, continuando sempre a gestire dall’estero il traffico di oppio. Nessuno ha mai comunque capito perché avesse deciso di trasferirsi in Unione Sovietica. Lì comunque ha conosciuto Braginski e...» Rigira una bustina di zucchero fra le dita e torna a stropicciarne gli angoli. Si stringe nelle spalle e piega le labbra in un piccolo sorriso triste. «Non si può dire che non sapessero come cavarsela anche qua in Occidente. Quando erano appena ventenni, controllavano più di tre quarti del traffico di oppiacei di tutto il Regno Unito, più altre nazioni dell’Ovest. Solo dopo Braginski è passato a raffinare e commercializzare eroina, dopo che lui e Wang si sono, uhm», tamburella un indice sul labbro inferiore, solleva le sopracciglia, «come dire, separati.»

Berwald socchiude le palpebre e allontana lo sguardo, lo rivolge alla finestrella tappata da una tendina che dà sulla strada da cui non passa un filo di luce. Emette anche lui un brevissimo sospiro, ma l’espressione resta immutata, le labbra piatte, la luce negli occhi fredda e indecifrabile, solo assottigliata da una lieve increspatura delle sopracciglia.

«In Oriente ne raffinano a tonnellate, proprio perché si ricava dall’oppio» continua Tino. «Proprio in Turchia è un commercio che si sta diffondendo sempre di più, per la vicinanza con i paesi arabi. È là che crescono le più ampie piantagioni di papavero. All’inizio per loro si trattava solo di rivendere l’oppio grezzo che producevano in Oriente. Wang possedeva alcune piantagioni. Poi, quando Wang è sparito dalla circolazione e l’attività è passata solo nelle mani di Braginski, lui ha anche iniziato a rivendere l’oppio grezzo ai laboratori e alle raffinerie, e successivamente ha anche cominciato a fare da mediatore con i grossisti di eroina pura, per poi rivendere l’eroina tagliata agli spacciatori e ovviamente a farla circolare lui stesso. Questa è stata la sua fortuna, e il traffico di narcotici lo ha fatto diventare ancora più potente di quanto non lo fosse già prima con il commercio di semplice oppio grezzo.» Sospira. Un’aria sconsolata ingrigisce il suo volto già segnato di tristezza e sciupato dai segni del pianto. «È davvero una situazione fuori controllo.»

Io ed Emil ci scambiamo un’occhiata bassa, Emil stropiccia le dita che ha chiuso a pugno sulle cosce, mi lancia uno sguardo preoccupato, triste e confuso allo stesso tempo. Si rivolge a Tino. «E che fine ha fatto il cinese?» gli chiede.

Tino si stringe nelle spalle, abbassa lo sguardo e riprende a giocherellare con le cartine di zucchero che arrotola fra le dita. «C’è chi dice che lo abbiano arrestato, rimpatriato in Cina, e che sia morto lì. Anche se ha vissuto per la maggior parte dei suoi anni a Hong Kong, aveva comunque la cittadinanza cinese. E laggiù c’è la pena di morte per il traffico e il consumo di oppiacei, a causa delle guerre che ci hanno girato attorno.» Scuote la testa, soffia un sospiro sconsolato. «Ma è comunque improbabile che lo abbiano giustiziato. Se cammini di fianco a Braginski, l’unica cosa che può ucciderti è Braginski stesso.» Rilascia le bustine di zucchero, poggia il capo sulla mano aperta, reggendosi sul gomito, e guarda un angolo del soffitto da cui proviene il riverbero delle lampade. Le dita tamburellano sulla guancia. «Girano voci che Braginski lo stia nascondendo ad Amsterdam» continua. «O che lo abbia fatto tornare a Hong Kong. Nessuno lo vede da anni ma non si sta nemmeno scavando a fondo. Molti mettono la coda fra le gambe quando si tratta di Braginski, preferiscono lasciar perdere.»

Già, lasciar perdere come quando un povero tossico scompare e nessuno ha voglia di alzarsi e andare a cercarlo prima che lo trovino accasciato in un bagno pubblico con la siringa ancora piantata nella vena del braccio.

Aggrotto la fronte e stringo i denti. Un nodo di rabbia torna a chiudermi la gola. «Che razza di...»

Tino annuisce senza lasciarmi finire. «Sì», gli occhi da bambino tornano a luccicare di sconforto, «sono situazioni molto tristi.»

Emil china le spalle in avanti per avvicinarsi a Tino e urta il bicchiere di succo alla mela con il gomito piegato sul tavolino. «E il russo?» domanda. «Perché lui non riescono a prenderlo?»

«Perché si muove nell’ombra.» Tino intreccia le dita, tamburella i polpastrelli sulle nocche sbiancate, e gli occhi tristi ma vigili si abbassano sul tavolino. «Non lo hanno mai colto in flagrante, non hanno mai saputo rintracciare il trasporto della, ehm», tossicchia stringendo un pugno davanti alle labbra, «merce» specifica, e il suo viso torna rilassato. «È riuscito a creare attorno a sé una rete di contatti talmente fitta che diventa impossibile arrivare al centro partendo dall’esterno. È un individuo molto astuto.»

Dall’esterno.

La stessa sensazione di frustrazione e rabbia che si era aggrappata ai miei nervi quando Tino mi ha rivelato di essere nella Narcotici torna ad aggredirmi, mi fa salire la pelle d’oca, brividi roventi discendono le braccia e mi fanno strizzare i pugni sul tavolo. Mantengo il viso freddo. La voce gelida e distante. «Quindi...» Lancio a Tino un’occhiata di ghiaccio, arida. «Cosa mi state chiedendo esattamente?»

Tino solleva le sopracciglia di scatto, le guance impallidiscono come se gli avessi premuto una canna di pistola in mezzo alle scapole e lo avessi spinto contro un angolo della parete. Lancia uno sguardo a Berwald – anche i suoi occhi hanno un guizzo di vita – e getta il viso a terra, storce un sorrisino di chi fa finta di non capire e sventola la mano verso di me. «N-niente» balbetta. «Perché do...»

«È ovvio che volevate parlare con me» lo interrompo, «perché io sono la persona che si trovava più vicina a Mathias quando era a Londra e quando era ancora uno dei Siberian Cubs, e lui è un testimone che ormai non può più parlare.»

Tino ingoia un sospiro e si morde il labbro, non emette fiato. Berwald mi scocca un’occhiata ostile in sua difesa ma non dice nulla.

Io ricambio, incupisco la voce che diventa ruvida e profonda. «Non girateci attorno», stringo i pugni facendo sentire lo scricchiolio della pelle, «non mi piace essere trattato da stupido.»

Gli occhi di Tino si macchiano di un’ombra di colpevolezza. Tino si fa piccolo nelle spalle, si strofina il braccio, rimane rigido contro la seggiola e un fremito gli attraversa le labbra. Berwald gli posa una mano sulla spalla, Tino gliela stringe e gli rivolge un’occhiata mite e insicura di chi sta cercando un consenso. Berwald annuisce.

Tino guadagna un profondo respiro di incoraggiamento che riporta un po’ di colorito sulle sue guance. «Hai ragione» mormora. Torna a girare le spalle verso di me ma tiene la fronte bassa. «Ti chiedo scusa.» Fa scivolare la mano di Berwald giù dalla spalla, le dita di entrambi si districano, Tino intreccia le braccia sul tavolo e il suo sguardo ancora afflitto assume una vena di determinazione. La voce che prima tremava torna ferma e sicura. «Ultimamente, siamo riusciti a tracciare i percorsi di alcuni carichi di droga che potrebbero arrivare direttamente a Braginski, ma non possiamo procedere con l’archiviazione delle informazioni, e quindi ogni genere di operazione nei suoi riguardi risulterà sempre impossibile da mettere in atto concreto.» Scuote il capo. «Abbiamo le mani legate.»

Emil solleva un sopracciglio, storce un’aria scettica. «E perché non potete archiviare le informazioni? Avete un indizio, non è già un passo avanti?»

«Verremmo subito scoperti da lui» risponde Tino. «Una volta che la polizia prende possesso delle informazioni», stringe un palmo, lo fa diventare un pugno e acchiappa una manciata d’aria, «è come se cadessero automaticamente nelle mani di Braginski.»

Emil trattiene il respiro, incredulo. «Come può essere?»

Tino rabbrividisce, il suo sospiro trema assieme a lui. Gli occhi si riempiono di un dolore più fitto e intenso che si infossa nel suo sguardo come quando si stava sciogliendo in lacrime durante la cerimonia del funerale. «Un suo collaboratore sa infiltrarsi in ogni archivio» mormora. «Pubblico, privato, cartaceo o elettronico.» Scuote il capo e una lama di afflizione sembra trafiggergli la gola, gli occhi umidi brillano di tristezza e nostalgia. «Non gli sfugge nulla. Forse da quel punto di vista è quasi più pericoloso di Braginski stesso.» Si asciuga una palpebra passandoci sopra il fianco della mano. «C’è stato un periodo in cui era ricercato persino dalla Stasi, proprio perché è in grado di evadere addirittura i loro sistemi di sicurezza e spionaggio, ed è irraggiungibile persino per i loro agenti. E questo ovviamente lo hanno capito mentre le autorità cercavano di arrestare i loro traffici che dovevano per forza passare attraverso la Germania Est.»

Il suo sguardo distrutto mi stringe un nodo allo stomaco. Uno sguardo che riconosco e che sento appartenere anche a me, uno sguardo che ha la stessa ombra di rimorso che mi tengo incollata addosso da tre giorni. Quasi come se Tino...

«Come fai a saperlo?» gli chiedo, secco.

Tino chiude gli occhi, stringe le punte delle sopracciglia per contenere il dolore. «Perché lui è...» Si interrompe, stringe i pugni, le spalle impietriscono, un brivido gli scuote la schiena. Schiude le palpebre, rivela di nuovo quegli occhi afflitti e lucidi come grosse biglie di vetro in cui si riflette la luce del bar. «Era il mio migliore amico» sussurra. Berwald gli posa un soffice massaggio alla spalla, per confortarlo, e Tino torna a stringergli la mano nella sua, contiene un singhiozzo che soffoca in fondo alla gola.

Una botta allo stomaco fa risalire il saporaccio amaro del caffè che ho appena bevuto. Criminali sovietici, trafficanti di eroina, di oppio, Stasi. In che razza di guai mi sono andato a ficcare? Se solo avessi davvero lasciato perdere Mathias dopo avergli stampato Kierkegaard in faccia...

Sospiro, allontano lo sguardo spingendo le nocche contro la guancia. «E io che pensavo che ormai non avrei mai più avuto a che fare con i Siberian Cubs.» Apro le dita contro le tempie, massaggio la fronte, e l’ombra del braccio tiene nascosto il mio mezzo sorriso sbilenco, un sorriso di amarezza. «Deve essere per forza rimasta in piedi qualche fune del ponte.»

Tino mi rivolge un’occhiata interrogativa. «Ponte?»

Sventolo una mano per sviare l’argomento. «Lascia perdere.»

Emil però capisce e si stringe nelle spalle guardandosi le mani chiuse sulle ginocchia, non aggiunge altro.

Tino scioglie la stretta dalla mano di Berwald e intreccia le dita sul tavolo. «Ecco, capite da soli che con Edua – cioè, con quel collaboratore sempre a portata di mano nulla può rimanere segreto a Braginski. Sarà sempre in vantaggio su di noi, ma potrebbe esserci un modo per incastrarlo definitivamente.»

Berwald si gira verso la giacca che ha posato sullo schienale della seggiola e controlla dentro una delle tasche interne, vi affonda la mano, scuote qualcosa che produce uno scricchiolio cartaceo, ed estrae un biglietto ripiegato. Lo porge a Tino che lo prende fra pollice e indice, tende il braccio verso di me, sopra le tazze di caffè vuote, e mi guarda dritto negli occhi. «Queste sono le informazioni necessarie per compiere il primo passo verso la cattura di Braginski.»

Abbasso lo sguardo e anche gli occhi di Emil si posano sul foglietto che mi sta porgendo Tino.

Le luci del bar calano, le pareti diventano buie, i suoni si congelano e le sagome delle persone attorno a noi si trasformano in ombre senza profondità. Il riverbero di una delle lampade si concentra solo sulla mano di Tino, si specchia sul bianco abbagliante del foglietto ripiegato, e infossa delle piccole ombre attorno al pollice che preme al centro della carta.

Trattengo il fiato, sopprimo un brivido di esitazione che penetra fino alle ossa.

Lo sguardo di Tino si fa più profondo, le punte delle sopracciglia si increspano, accendono il colore degli occhi ancora gonfi e rossi di pianto. «Non possiamo partire dalla polizia, ossia dall’esterno, ma partendo dall’interno di questa fitta rete la cosa sarebbe diversa. Certo, avendo due o anche un solo poliziotto dalla parte dei diretti interessati sarebbe tutto più facile e immediato.» Scrolla le spalle, di nuovo quel sorriso triste e speranzoso gli tocca le labbra. «Ma chi prenderebbe mai a cuore uno di loro?» Abbassa la mano, preme il foglietto sul tavolo tenendolo schiacciato con indice e medio, e lo fa strisciare affianco al piattino della sua tazza di caffè. Un angolino di carta mi punge la mano. «Mi rendo conto che è chiedere troppo, ma...»

Ritiro la mano di scatto. Lancio a Tino un’occhiata fulminea. «Che cosa dovrei fare con questo?»

Le pareti del bar tornano chiare, le ombre ridiventano sagome che si spostano fra i tavoli, l’aria riacquista il profumo di caffè, di biscotti, di bibite appena stappate, e del legno laccato delle seggiole.

Tino ritira la mano, fa scivolare all’indietro il foglietto ripiegato, e vi chiude entrambe le mani sopra. Abbassa il capo, tiene lo sguardo chino. «Lukas.»

Tengo un sopracciglio storto, gli occhi ristretti che ghiacciano dentro le palpebre assottigliate in un’espressione diffidente e ostile.

Tino sospira. «Mathias era...» Incontra di nuovo i miei occhi, mi rivolge un sorriso dolce e gentile, le labbra si incurvano verso l’alto con naturalezza, e il suo sguardo torna caldo e luminoso, anche se triste. Mi fa provare un soffio al cuore, leggero e morbido come una piuma. «Era più di un amico per te, vero?»

Sussulto. Le palpebre irrigidiscono e bruciano perché non riesco a sbatterle, mi devo mordere l’interno del labbro per costringere la bocca a restare piatta e immobile. Lancio un’occhiata bassa allo sguardo cupo e freddo di Berwald, poi di nuovo a quello più dolce e tiepido di Tino, e anche a Emil. Emil inarca un sopracciglio, arriccia un angolo della bocca e i suoi occhi indicano con uno scatto sia Berwald che Tino.

Sospiro.

Ha ragione. Di certo non ho bisogno di fingere davanti a loro due.

«Sì.»

Il peso fossilizzato sul cuore si scioglie come un cubetto di ghiaccio che torna acqua, e mi scalda il petto.

Il sorriso di Tino vacilla, e lui si sforza di tenere le labbra nella sottile forma ad arco. «E non...» Gli occhi si annacquano di nuovo, la loro luce vacilla sotto il riflesso delle lampade, le palpebre e le guance si infiammano, la voce cede in un tremore singhiozzante. «Non sarebbe bello se riuscissimo a non far succedere più...» Il labbro inferiore vibra. Tino spinge una mano sulla bocca, china gli occhi per non far vedere che si sono di nuovo riempiti di lacrime. Singhiozza. La voce suona sottile e strozzata. «Succedere più una cosa così...» Gira la mano, preme il dorso sulla bocca, strizza gli occhi, due righe di pianto sgorgano fra le ciglia, si sciolgono lungo le guance, e gli rotolano in mezzo alle dita. Tino singhiozza ancora, si nasconde il viso. «Scusate» sussurra. Tira su col naso e si china verso la sua giacca adagiata sullo schienale, forse in cerca dei fazzoletti.

Sia Berwald che Emil fanno lo stesso, infilano le mani nelle loro tasche e tastano pantaloni e giacca.

Emil trova per primo il pacchetto di fazzoletti di carta, strappa la linguetta e ne sfila uno. Lo porge a Tino.

Tino si strofina gli occhi con la mano e tende le dita tremanti verso il fazzoletto che gli sta allungando Emil. Ha il viso rosso e gonfio di pianto, due occhi umidi e traballanti fra le palpebre sciupate di stanchezza, ma riesce comunque a sorridere. «Grazie.» Raccoglie il fazzoletto e si tampona gli occhi, sopprime un ultimo singhiozzo. Berwald gli stringe la spalla, gli strofina piccole carezze all’altezza della scapola. Tino singhiozza un’altra volta e ingoia un grumo di lacrime, il fazzoletto ancora schiacciato contro gli occhi. «Scusatemi, vi prego.»

Emil torna indietro con le spalle e scuote il capo. Anche il suo viso si intristisce. «Fa niente.» Richiude il pacchetto di fazzoletti e lo rinfila in tasca.

Tino si strofina le guance, si soffia il naso, tampona un’ultima volta gli occhi che spremono fuori le ultime lacrime, e appallottola il fazzoletto fra le dita umide e ancora tremanti, lo stropiccia come aveva fatto con le bustine di zucchero. Mi rivolge lo stesso sorriso di prima, ma le labbra non vibrano più. «Non sarebbe bello se riuscissimo a impedire che accada di nuovo qualcosa del genere e a salvare i ragazzi come Mathias?»

Aggrotto leggermente la fronte. «Salvarli?» Getto lo sguardo in disparte, la guancia premuta alle nocche, il gomito piegato sul tavolo, e stringo la mano libera fino a sentire le unghie spingere sul palmo. «Io non sono stato in grado di salvarne nemmeno uno.» Gli scaglio un’occhiataccia raggelante. «Come puoi chiedermi di salvarli tutti?»

Il viso di Tino si distende. «So che non sarà mai possibile» confessa. «Ma io vorrei...» Si posa sul petto la mano che non regge il fazzoletto. «Soprattutto tenerli al sicuro dagli uomini come Braginski, e fare in modo che tornino liberi se non altro da...» Si chiude nelle spalle. «Da quel punto di vista. So che è difficile, e non voglio assolutamente caricarti di un peso così grande obbligandoti a farlo.» La mano torna a scivolare sul tavolo, mi porge una seconda volta il foglietto di carta ripiegato, ma senza toccarmi. Tino solleva gli occhi mostrando uno sguardo deciso e implorante. «Ma vorrei che tu dessi queste informazioni a qualcuno di cui ti fidi. A uno...» Guadagna un respiro profondo. «A uno dei Siberian Cubs, per tenerle dove Eduar – cioè, dove Braginski non si aspetterebbe mai di trovarle.» Preme indice e medio sul foglietto, lo spinge ancora un po’ in avanti, il foglio stride contro il legno lucidato del tavolino, e un angolino di carta torna a sfiorarmi i polpastrelli. Questa volta non mi sottraggo. Resto con lo sguardo su quello di Tino, sui suoi occhi che si animano di speranza. «Se vorranno davvero salvarsi, sono sicuro che loro troveranno un modo per usare bene queste informazioni.»

Guardo il foglietto. Ne raccolgo un angolino fra le punte delle dita, lo sollevo dal tavolo e lo rigiro fra pollice e indice, sfrego i polpastrelli sulla carta.

Io dovrei salvarli.

Il pacchetto di HB che ho lasciato nella tasca della giacca pulsa, la scritta con il nome di Gilbert sembra animarsi e tatuarsi sulla mia pelle, scava nella mia carne come un marchio a fuoco, ricordandomi l’esistenza dell’astuccio pieno e delle dieci sterline arrotolate che si confondono fra le sigarette.

Sollevo il foglietto davanti agli occhi, lo rigiro altre due volte.

Sento come se fosse Mathias stesso a darmi questo biglietto. Un ultimo sguardo, il suo braccio teso verso il mio, le dita si intrecciano, il palmo si schiude e lascia cadere il foglietto nella mia mano. Mathias solleva l’altra mano e le chiude entrambe come un guscio attorno alla mia. Il suo tocco è caldo, più caldo delle sue mani ghiacciate che ho sfiorato all’obitorio, e ancora più caldo dell’ultima notte in cui mi ha tenuto stretto a sé. Ci guardiamo negli occhi e i suoi sono più limpidi, di un azzurro fresco e pulito, come la prima volta in cui mi ha sorriso, toccato dai raggi del primo sole primaverile. La sua voce suona bassa come un sussurro, “Non abbandonarli”, ma arriva forte al cuore, fa vibrare il battito stringendomi il petto in una intensa ma piacevole sensazione di calore. Le mani di Mathias si schiudono dalla mia, lasciano l’impronta di calore sulla pelle e il peso del biglietto che grava nel palmo a forma di coppa. La sua immagine svanisce, si allontana lentamente, avvolta da una nebbiolina opaca che la inghiotte facendola scomparire come la condensa sui vetri.

Stringo la mano. Il foglietto scricchiola, gli angoli del quadrato pungono sulla pelle. Mathias se n’è andato. Questo però è rimasto.

Emil si sporge in avanti con le spalle, mi scocca uno sguardo obliquo ombreggiato di apprensione. «Lukas...»

Anche gli sguardi di Tino e Berwald premono su di me, gli occhi di Tino si colmano di aspettativa, di speranza.

Stringo il pugno senza schiacciare la carta, lo avvicino al petto e tengo la fronte bassa. Lo sguardo fisso sulle mie nocche flesse, bianche per lo sforzo, attraversate da sottili crepe rosse che il freddo ha tagliato sulla pelle. Il foglietto pesa. Pesa come la responsabilità di cui sto per farmi carico. Inspiro. «D’accordo.» Sollevo gli occhi e incrocio quelli di Tino, larghi e immobili, lucidi di attesa. Annuisco. «D’accordo, lo farò.»

Il viso di Tino si distende, un senso di sollievo gli fa brillare le iridi, il sorriso si solleva, sereno e felice per la prima volta. «Davvero?»

Infilo il foglietto nella tasca della giacca, accanto al pacchetto delle sigarette. «Ma lo faccio solo perché ho un debito con Mathias. Non per gli altri.» Raccolgo la giacca dallo schienale della seggiola, la spiego e me la butto sulle spalle senza infilare le maniche.

Tino solleva un sopracciglio. «Debito?» Sbatacchia le palpebre. Una nota di confusione gli incrina lo sguardo fiducioso.

Mi alzo per primo ed Emil mi segue, infilo le maniche della giacca e sistemo il bavero attorno al collo senza abbottonarlo. Il mio sguardo punta già verso la porta del locale, un piede scivola in avanti, stende il primo passo. «Mi dispiace avervelo riportato in questa maniera.»

«Aspetta, Lukas.» Tino si alza di scatto e mi stringe la mano fra le sue, ancora tremanti e umide di lacrime.

Mi volto a guardarlo. Anche Berwald si è alzato e guarda Tino con i miei stessi occhi interrogativi.

Tino abbassa la fronte, le dita avvolgono delicatamente le mie e mi trasmettono una scossa di dolore e nostalgia che mi punge il cuore. «Sai, Mathias forse poteva sembrare un ragazzo un po’...» Scrolla le spalle. «Un po’ superficiale da fuori, e proprio per questo non si legava così facilmente alle persone tenendole vicino a sé così a lungo. Io però credo...» Solleva la mia mano davanti al petto come se stesse custodendo un tesoro. I suoi occhi mi guardano dentro, mi toccano il cuore sciogliendo la crosta di ghiaccio. Il calore si propaga. «Credo che debba averti amato molto quando era ancora fra noi.»

La mia mano irrigidisce fra le sue dita ma non mi sottraggo, non voglio sottrarmi.

«Ti prego di non prendere il suo come un atto di abbandono nei tuoi confronti.» Tino sorride e piega il capo di lato, come fanno i bambini. «Ma come un gesto d’amore.»

Restringo il labbro inferiore, trattengo un breve fremito, e torno con la mente a ieri sera, disteso sul materasso traballante dell’ostello, a inspirare il tanfo di naftalina incollato alle lenzuola, a sentire l’orecchio prudere contro il cuscino ruvido, a rannicchiare le ginocchia alla pancia e a rigirare il pacchetto di HB fra le dita. “Mathias si era aggrappato a me perché sperava che io riuscissi a salvarlo. Inconsciamente mi stava chiedendo aiuto, e io non l’ho mai realizzato fino ad adesso.”

“Credo che debba averti amato molto quando era ancora fra noi. Ti prego di non prendere il suo come un atto di abbandono nei tuoi confronti.”

“Si è ucciso perché ha smesso di vedermi come la sua unica speranza di uscire e perché la sua fiducia nei miei confronti se n’era ormai andata.”

“Ma come un gesto d’amore.”

Tino china il capo, una piccola riverenza di gratitudine con le spalle che tremano, e sussurra piano. «Grazie per essere rimasto assieme a lui fino alla fine e...» Solleva il viso sorridente, la luce delle lampade gli imporpora le guance, le ciglia brillano e una singola lacrima si scioglie, riga il viso e tocca le labbra inarcate verso l’alto. «Grazie per averlo riaccompagnato a casa.»

Il calore si espande fra le nostre mani. Sciolgo la tensione che tiene rigida la mia, distendo le dita, volto il palmo, stringo quello di Tino, e lui chiude la presa con un gesto delicato. Sosteniamo insieme il nostro dolore.

 

.

 

Richiudiamo la porta d’ingresso del bar facendo trillare la campanella che squilla a ogni movimento dell’anta, i piedi scricchiolano sulla stradina di ghiaia che si immerge nel piccolo giardino scuro e addormentato, sepolto sotto un sottile strato luminoso di ghiaccio che sembra zucchero a velo. Il vento ci soffia addosso. Allaccio gli ultimi bottoni della giacca e stringo il bavero attorno alla gola, batto i denti tenendo le labbra sigillate, e quell’ondata di gelo mi invade il viso, brucia contro le guance. Emil mi cammina affianco e si strofina le braccia conserte, i suoi denti che battono fanno il rumore di una manciata di sassolini di vetro gettati contro una finestra.

Anche Tino e Berwald si abbottonano i cappotti, ma nessuno di loro due trema. Tino si liscia la stoffa lungo i fianchi, unisce le mani sul grembo, e mi rivolge un ultimo e tenero sorriso. «Mi raccomando, tornate a trovarci presto. Ci ha fatto davvero piacere incontrarvi, tutti e due.» Si posa una mano sulla guancia rossa e la sua voce guizza in una sfumatura divertita. «Sapete, penso saremmo stati davvero bene tutti e cinque assieme.»

Faccio roteare lo sguardo. Lascio che un brivido di freddo si porti via la visione di un quadretto del genere. Non oso nemmeno immaginarlo. «Sì.» Infilo le mani nelle tasche, chiudo i pugni. Annuisco. «Immagino di sì.» Volgo lo sguardo oltre le nuvole basse, dove il profilo lontano del boschetto in cui è custodito il cimitero si frastaglia contro il cielo. Non ricordo di aver visto cabine telefoniche. Forse dovrei tornare al bar e chiedere di usare il loro telefono per chiamare un taxi e farci riportare all’ostello.

«Lukas.»

La voce di Tino mi fa voltare.

Tino si stringe nelle spalle, stropiccia le dita sull’orlo di una manica e la sua espressione vacilla, non sorride più. Gli occhi timidi, velati dalla stessa luce di colpevolezza che li rivestiva quando lui parlava di Mathias. «Non...» Scuote il capo. «Non sentirti in obbligo riguardo a quello che ti ho detto, ma promettimi di pensarci.» Inspira. Lo sguardo si accende, nonostante gli occhi riflettano il cielo color ferro che brulica di nubi viola. «E di considerare l’idea che tu potresti fare davvero la differenza per salvare la vita a questi ragazzi.»

Una soffiata di vento gelido che odora di neve e ghiaccio ci passa attraverso, ulula e scuote i capelli e i lembi dei cappotti che si agitano all’aria.

Stringo i pugni dentro le tasche. Le nocche sfregano contro le mie chiavi a cui è ancora agganciato il ciondolo a forma di bandiera danese, contro il pacchetto di sigarette HB e contro il foglietto che mi ha affidato Tino.

Una tasca che pesa più di qualsiasi carico che mi sia mai buttato sulle spalle.

Annuisco. «Te lo prometto.»

Il sorriso di Tino si rasserena, mi rivolge uno sguardo sincero e china il capo. «Grazie.» Si gira verso Berwald, dalla parte opposta alla nostra, e sventola un braccio in aria prima di separarci. «Fate buon viaggio.» Anche Berwald mi guarda. Fa un cenno col mento, un piccolo gesto di approvazione, e anche il suo viso di ghiaccio si intiepidisce, un alone di tepore si trasmette persino dal suo sguardo.

Le mie mani restano sepolte nel fondo delle tasche. Emil solleva la sua, la sventola davanti alla spalla e ricambia il saluto di Tino.

Mi giro. I passi di Berwald e Tino si allontanano, gli scricchiolii della ghiaia si fanno più lontani e deboli. Rimaniamo soli.

Emil sospira e abbassa la mano. «E io che mi preoccupavo tanto di un’eventuale scenata di papà nel caso avesse scoperto di questa cosa del viaggio in Danimarca.»

Non gli rispondo.

Stringo un angolino del foglietto di carta e lo tiro fuori dalla tasca. Lo porto davanti al viso. Il vento lo agita, le mie dita si stringono premendoci sopra con le unghie per evitare che voli via.

Quindi dovrei davvero darlo a qualcuno dei Siberian Cubs.

Emil si gira verso di me. «Si può sapere in che razza di guai ti sei andato a...» La sua voce si blocca, la bocca resta socchiusa, il suo sguardo mi fissa come se mi vedesse per la prima volta. «L-Lukas?» Un brivido di timore e insicurezza gli fa vacillare la voce. Forse nemmeno lui crede che io sia in grado di fare una cosa simile.

Abbasso il foglietto, torno a infilare la mano nella tasca, cerco qualcos’altro. «Forse sto per fare la più grande pazzia della mia vita.» Urto le chiavi e trovo il pacchetto di sigarette, estraggo anche quello. Infilo l’unghia sotto il coperchio dell’astuccio e lo apro, spando l’aroma di tabacco che mi pizzica il naso. Le dieci sterline sono ancora infilate fra le sigarette e la parete di cartoncino. «Ma Mathias l’ha già fatta quando ha deciso di stare con me e di uccidersi per mettermi al sicuro.» Schiaccio le dita contro il foglietto di Tino e lo arrotolo, ci passo sopra con i polpastrelli più volte, gli do una forma a sigaretta. «Ora è il mio turno di essere pazzo.» Ficco il foglietto accanto alle dieci sterline, gli do due colpetti, lo pareggio con le estremità delle sigarette.

Chiudo l’astuccio.

 

 

 

 

- Fine -

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