White noise

di Pareidolia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Mischiandomi al buio delle ombre proiettate ovunque dai giganteschi palazzi, scivolavo piano fra le mute vie della città. Alle mie spalle il divario fra il mio corpo in movimento e tutto ciò a cui da sempre ero abituato si faceva più vasto, fino a divenire abissale. Eppure, nonostante la mia camminata fosse rapida e la mia mente conoscesse bene la strada da compiere, le vie sembravano volermi impedire di allontanarmi del tutto.
I marciapiedi sembravano non finire mai, i lampioni continuavano a rincorrersi all’infinito e i palazzi, stagliandosi minacciosi verso il nero cielo, parevano osservarmi severi.
Con crescente disperazione tentavo di allontanarmi dalla luce, dal cemento e dall’asfalto. Cercavo la fresca brezza di una foresta, la luce naturale della luna, fredda e pallida, i suoni ovattati della natura. Ma attorno a me non c’erano altro che i fantasmi di un mondo del quale non volevo più far parte e la tecnologia di una civiltà in cui nemmeno per un istante, dalla mia nascita fino a quel momento, mi ero sentito a mio agio. Un peso oscuro e vecchio mi gravava costantemente sul petto, mozzandomi il respiro ad ogni passo e facendomi a volte pentire di quella decisione.
La strada era dritta, simmetrica nella sua immensità, estesa tanto in altezza quanto in lunghezza e il vento che vi si agitava dentro era un presagio nero, spaventoso.
Ovunque i miei occhi vagassero non vedevano altro che sguardi fissi sui miei passi. Sguardi spaventati, alcuni, altri invece severi o addirittura sconcertati. T6ale era la convinzione che la città fosse perfetta che era impossibile per chiunque credere che qualcuno volesse allontanarsene. Eppure io in quel luogo non possedevo nulla per cui valesse la pena continuare a soffrire, nulla che rendesse la dolorosa lotta chiamata vita uno sforzo valido. Il sorriso da cui ogni sera tornavo negli anni si era spento, il lavoro che per anni, in gioventù, avevo sognato, era diventato solo un ripetersi infinito come quella strada di azioni, parole e decisioni e il cuore, col tempo, mi si era fatto silenzioso. Non parlava più, non sussurrava più alcuna parola al mio animo. E che uomo può mai essere uno il cui cuore non è più capace i parlare? E vale davvero vivere una vita infernale e ormai spenta in un luogo così tetro e triste?
Era proprio per i dubbi che queste domande creavano nella mia mente che, in quel momento, percorrevo la strada che si allontanava dalla città. Per questo volevo allontanarmi da tutto ciò che la mano dell’uomo aveva plasmato. E all’improvviso, quasi come fosse una magia inaspettata, mi ritrovai oltre l’asfalto, oltre il limite marcato dai palazzi e dalla lunga strada vuota. Libero, davanti a me non avevo altro che alberi e oscurità.
Meravigliati, i miei occhi ora non vedevano più sguardi nascosti nelle ombre oltre le finestre, bensì foglie scure e piene di vita, bagnate dell’umidità che regnava delicatamente nella foresta.
Continuai, però, a camminare, quasi senza nemmeno rendermene conto. La mia mente divenne sempre più confusa ad ogni passo e i palazzi ormai si facevano sempre più lontani alle mie spalle, al punto che divennero del tutto nascosti dalle fronde degli alberi scossi dal vento.
Poco a poco una strana nebbia azzurrina iniziò a circondare ogni cosa mentre nell’intera foresta si estendeva un silenzio sottile che sembrava potersi spezzare in qualunque istante, all’improvviso. Sentii di poterlo addirittura afferrare con le dita, quel silenzio, tirandolo verso me come fosse un velo leggero e invisibile. Nel frattempo, però, ero sempre meno conscio dei miei stessi passi.
Ero in grado solo di pensare, il corpo agiva da solo continuando a camminare lungo una linea retta che non potevo vedere, addentrandosi fra gli alberi e la nebbia come se già conoscesse quel luogo oscuro e antico.
Col passare del tempo cominciai a pensare che, forse, mi ero distaccato dallo stato fisico, che il mio spirito pensante si fosse staccato da solo dal corpo e fosse sul punto di volare via, librandosi liberamente nel cielo e facendosi beffe dei comuni esseri umani che non volevano allontanarsi di un solo passo dalla città. Sentii, a quel punto, di essere in grado di compiere qualsiasi tipo di azione, persino volare. Immaginai di ritrovarmi fra le migliaia di stelle nel cielo, di sedermi sulla luna e osservare il mondo intero da lassù, ridendo delle disgrazie dei miei fratelli e delle mie sorelle sulla Terra ma niente di tutto ciò accadde.
Il mio spirito non si era affatto distaccato dal corpo, non ero asceso ad alcuna forma spirituale, bensì una volontà completamente estranea e a me sconosciuta aveva preso possesso del mio corpo, relegandomi in un angolo della mente e ora ne muoveva le gambe e la testa, guardandosi attorno e avanzando in tutta sicurezza nell’azzurrina penombra della notte.
Da dove provenisse quella volontà misteriosa, apparsa non saprei nemmeno più in che momento senza farsi notare, silenziosa come il più temibile dei predatori, non ne avevo alcuna idea. Ormai ne ero una vittima inerme. Pendevo fra i suoi denti affilati e lunghi, incapace di compiere qualsiasi azione che andasse oltre il puro pensiero. In trappola, non potevo fare altro che seguire i movimenti calmi del mio corpo e vedere ciò che il mio sguardo osservava.
Ovunque regnava la nebbia e un debole vento secco che scuoteva appena le fronde scure degli alberi. Gli unici suoni che riuscivo a sentire erano persi nello spazio, nascosti dal pallore azzurrino che aleggiava dappertutto. Si trattava, però, più che altro di fruscii misteriosi e solo ogni tanto qualche verso strano e che non avevo mai udito prima si diffondeva nell’aria.
L’atmosfera nella foresta si fece pian piano più oscura e esoterica, come se nell’aria regnasse qualcosa di vivo o come se tutti quegli alberi, i suoni, la nebbia, il vento e persino la terra umida di rugiada fossero un solo essere vivente che respirava e agiva secondo logiche estranee alla comprensione umana. Forse, cominciai a pensare, la foresta stessa stava guidando il mio corpo verso qualcosa.
Dopo qualche altro minuto, immerso ora nel silenzio più innaturale e assoluto, giunsi davanti a una porta. La superficie di legno, dipinta a mano con lunghe pennellate di rosso, presentava alcuni graffi leggeri sopra alle decorazioni floreali che ne adornavano i lati e gli angoli. Una semplice porta, immobile nel vuoto di una radura il cui terreno era coperto da rami spezzati e bianchi che sembravano ossa lucide sotto la luce lunare. Una porta appena socchiusa e che dava su una stanza che non esisteva, un bagliore quasi accecante ridotto solo a un filo sottile che mi attendeva, mi chiamava. Non sapevo verso dove conducesse quella porta o che tipo di luogo potesse avere così tanta luce ma il mio corpo si mosse comunque in quella direzione, pronto a superare l’uscio.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Una stanza d’albergo, spoglia. Muri dipinti d’un rosa tenue, tendente al bianco e un televisore spento. Luce pallida e spenta, posata piano sul letto ordinato e largo, sul tavolino in legno graffiato e pieno di polvere, sull’unico armadio della camera, vuoto come la mia mente in quel momento. Nel riflesso della luce sui mobili la sporcizia fissa sul vetro creava strane ombre fragili; minuscoli puntini scuri che si moltiplicavano su ogni superficie.
Una dolorosa fitta mi colpì la testa con la stessa forza di un camion a tutta velocità che investe un pedone ma la sensazione contribuì parecchio a svegliarmi del tutto.
In un primo momento pensai con terrore di aver solo sognato la foresta  e, quindi, di non averci mai messo piede. Tutto ciò che apparteneva a quel luogo ormai non era che un ricordo appena sfumati fra tanti altri, eppure l’atmosfera della stanza non si avvicinava minimamente a quella della città. Là l’odore dei tubi di scappamento delle auto colmava l’aria di ogni singolo spazio, persino di quelli chiusi e i dettagli erano sfumati dall’abitudine, dall’eccessivamente ripetitiva routine quotidiana. Lì dentro, però, non c’era altro che silenzio e un odore che non conoscevo ma che mi sembrava vecchio.
Dopo aver osservato con attenzione le macchie che coprivano i muri e il soffitto un tempo color crema e ora nero e gonfio d’umidità, abbassai lo sguardo verso le mie mani, scoprendole diverse da quelle che avevo sempre visto. Mi parvero più giovani e magre, come non erano mai state durante gli anni che avevo vissuto.
Osservai per qualche attimo un brandello di carta da parati ormai ammuffita che giaceva a terra, poco distante da un mucchio di pezzi più grossi e altrettanto rovinati. Proprio mentre il mio sguardo era intrappolato da quel piccolo frammento, un suono echeggiò nell’aria. Un gemito sottile, simile a un sussurro che viaggiava nell’atmosfera nel tentativo di farsi udire da qualcuno e quel qualcuno, forse l’unico, ero io. Non appena udii il gemito sentii l’impulso di alzarmi e mi voltai verso la porta che conduceva al corridoio dell’albergo.
Appena, però, mossi il primo passo, mi accorsi di uno strano peso sotto al braccio destro e, scostando un poco la giacca del completo grigio scuro che indossavo, scoprii sotto l’ascella una fondina di pelle marrone nella quale stava una pistola. Afferrandola ne osservai le decorazioni semplici ma eleganti, il metallo lucido e chiaro della canna, leggermente graffiato verso la punta e l’impugnatura ruvida e spessa. Non ero affatto abituato a quel peso nella mia mano eppure, in quel momento, stringerla mi parve la cosa più naturale del mondo.
Rimisi l’arma nella fondina e tornai a concentrarmi sulla porta.
Su di essa, una superficie ormai grigiastra e rovinata come tutto il resto dell’ambiente, era stata attaccata con uno strato di scotch una mappa del piano ben precisa. Ad ogni stanza era stato assegnato un numero da uno a dieci, preceduto dalla lettera F. Un totale di dieci stanze della stessa grandezza di quella in cui mi trovavo io, si affacciavano su un lungo corridoio che portava a delle scale.
Incuriosito, ruotai la maniglia della porta e la tirai, affacciandomi sul corridoio che scoprii essere anch’esso devastato dall’abbandono e dal passare del tempo. La carta da parati era stata quasi interamente strappata dai muri, i quali erano neri e gonfi d’umidità proprio come quelli della stanza. Il soffitto era in parte crollato e dai buchi sparsi un po’ ovunque gocciolava acqua proveniente dal tetto a causa della pioggia che iniziava a cadere sull’edificio.
Il gemito si fece sentire ancora, diffondendosi nel fievole vento stantio che colmava il corridoio. Proveniva dalla mia destra, più precisamente dalla rampa di scale che si trovava oltre le file di stanze, le cui porte socchiuse facevano intravedere ciò che stava all’interno ma si trattava solo di uno spettacolo che già avevo visto. Fra quelle stanze e quella in cui mi eroi svegliato non c’era alcuna differenza. Gli oggetti presenti erano gli stessi, nelle stesse posizioni. Persino le macchie sui muri e sul pavimento disegnavano gli stessi movimenti liberi e misteriosamente affascinanti. Tante copie di una sola immagine che si ripetevano e ripetevano ancora, all’infinito, mentre lentamente avanzavo lungo il corridoio che pareva non avere alcuna fine.
Più i miei passi si inseguivano attraverso l’intero percorso e più la rampa di scale, una parvenza distante e minuscola, si faceva lontana.
Eppure, il corridoio cambiava continuamente. Non un solo centimetro era anche solo lontanamente simile a quello successivo. Cambiava il colore dell’intonaco, i frammenti di carta da parati che venivano debolmente staccati dal vento e vibravano nell’aria fredda, i fori lasciati da vecchi chiodi ormai scomparsi e le sagome più chiare di dipinti finiti chissà dove. Era come se ad ogni passo mi trovassi in un luogo differente, completamente estraneo a tutti gli altri che componevano l’intero luogo.
In certi punti delle pareti erano ancora appesi grossi dipinti dall’aspetto antico e vagamente distorto. I colori ad olio con cui erano stati realizzati sembravano bloccati in un costante processo chimico che li portava a sciogliersi per poi solidificarsi, mescolandosi costante e creando forme innaturali. Era così che paesaggi vasti e abitati solo dalla natura diventavano fantasmi dai colori accesi e surreali; volti femminili si trasformavano in creature deformi e rossicce; corpi dalle forme armoniose si contorcevano in sagome opache e contorte.
Un mondo in costante mutamento, che non smetteva mai di muoversi, cambiare, spostarsi e che al tempo stesso rimaneva immutato in alcuni dettagli. Non avevo idea di dove fossi finito ma la curiosità e la paura si facevano più presenti e forti, insieme alla consapevolezza che non mi trovavo nemmeno nel mio corpo.
D’un tratto il pavimento cominciò a tremare e, insieme a un rumore profondo e lungo che sembrava un urlo disumano, l’intero corridoio iniziò a muoversi, arrotolandosi su se stesso e deformandosi. Mutando in un enorme scivolo, il corridoio si inclinò verso il basso e la rampa di scale divenne un tunnel che ora, invece di allontanarsi, si faceva vicino mentre scivolavo lungo il pavimento coperto dal rossastro tappeto sgualcito. Caddi verso l’oscurità che inghiottiva le scale ormai appiattite, verso un baratro in cui non riuscivo a vedere niente ma solo a percepirne gli spazi stretti e gelidi. Non toccai terra per molto tempo e, a un certo punto, nemmeno ebbi più l’impressione di stare cadendo ma solo di trovarmi sospeso in un vuoto nero e immateriale, pervaso soltanto da aria fredda e dall’odore di muri mangiati dall’umidità. Un odore talmente intenso che dopo alcuni secondi cominciò a farmi provare un forte senso di nausea, prima che la discesa finisse e cadessi sul pavimento di una stanza nuova.
Riaprii gli occhi in quella che sembrava essere la hall dell’albergo. Una sala larga e spoglia, occupata solo da un bancone in legno, due poltrone abbastanza lunghe in mezzo alle quali stava uno stretto tavolino fi cristallo impolverato e una serie di quadri appesi alle pareti. Dieci dipinti in tutto, ritratti vecchi e realizzati ad olio su una tela che ormai era parecchio rovinata da graffi profondi. Le cornici erano attraversate da crepe che parevano incisioni nella roccia. L’aria era silenziosa, eppure mi sentivo osservato. Voltandomi verso il bancone, dove un attimo prima non c’era nulla, intravidi due figure che poco a poco divennero nitide. Due anziani mi osservavano. L’uomo sorrideva, la donna sembrava, invece, molto triste.
-Benvenuto. Desidera ordinare una camera?- Domandò l’uomo senza smettere di sorridere.
-Abbiamo camere di ogni tipo. Camere vuote, camere piene, camere per l’amore e camere per i pensieri. Abbiamo anche camere in cui è il silenzio a fare compagnie e altre in cui il rumore tiene svegli durante la notte. Che tipo di camera desidera?- Continuò la donna, il viso teso in un’espressione appesantita e malinconica.
Rughe mollicce e pesanti decoravano i loro volti come fossero maschere di gomma sciolta e, facendo estrema attenzione ai dettagli, potei scorgere con precisione i punti in cui la pelle si staccava, lasciando intravedere qualcosa sotto. Gli occhi si muovevano con rapidi schizzi a intermittenza verso direzioni ben distanti da me, come se altre decine di persone fossero presenti nell’enorme stanza eppure là regnava il vuoto.
Dietro le loro spalle svettava una lunga fila di ganci per le chiavi delle stanze ma ognuno di essi era vuoto. Uno soltanto, arrugginito e storto, aveva sopra una chiave minuscola e perfettamente scintillante.
-Ordinare una stanza? In realtà io arrivo proprio da una di quelle ai piani superiori.-
-Al piano F, sì. Eppure, siamo sicuri che lei ora desideri una stanza differente, non è così? E’ normale voler provare una stanza diversa. Prima o poi ognuno desidera spostarsi in uno spazio differente.- Disse l’uomo fissandomi dritto negli occhi, nonostante più volte il suo sguardo schizzasse altrove all’improvviso.
Senza dire nulla l’anziana afferrò la chiave appesa al gancio e me la porse. L’espressione sul suo viso parve farsi ancor più triste di prima mentre mi fissava negli occhi senza distogliere lo sguardo nemmeno per un singolo istante. Deglutendo a fatica afferrai la chiave e la osservai attentamente. Nella mia mano sembrava grande quanto un chicco di riso, quasi. Su di essa era stato incisa la scritta F-00, sigla che indicava la stanza che quella chiave apriva.
Non appena il mio sguardo tornò sui due anziani, l’uomo indicò verso la sua sinistra, là dove una porta che fino a poco prima era un muro ora si stava lentamente aprendo.
 Intimorito dagli sguardi senza più alcuna espressione dei due iniziai quindi a muovermi verso la porta, cercando di ignorare gli occhi silenziosi dei dipinti che ora mi seguivano attraverso la stanza. Superai la spessa porta di legno, la quale mi si chiuse alle spalle con un sonoro scricchiolio e guardai il corridoio che si estendeva davanti a me. Immerso nella penombra e scarsamente illuminato da alcune lampade impolverate, appariva tetro e spaventoso.
Avanzando a passi lenti e cauti, iniziai a scorgere una figura piuttosto alta che come me procedeva piano nell’oscurità. Un uomo con addosso un elegante completo scuro e una maschera a coprirgli il volto spellato in più punti, ridotto ormai a un ammasso rossastro di muscoli e sangue. Quando si voltò a guardarmi, le pupille in parte nascoste dall’ombra dei fori della maschera mi osservarono dal basso verso l’alto mentre la sottile e lunga candela che teneva nella mano sinistra illuminava tutto il mio corpo.
-Un nuovo ospite.- Sussurrò. Una voce che sembrava il soffio del vento più sottile e dolce, cadenzato da vaghe note femminili che risuonarono come un’eco lontano e antico nella mia mente. I movimenti di quella strana figura erano automatizzati, mossi, forse, da un qualche meccanismo nascosto sotto al completo maschile.
-Mi scuso, spero di non averla spaventata. Io sono Le Noir, maggiordomo dell’albergo. Le è stata assegnata la camera F-00, giusto?-
-Sì…sì, esatto.- In quel momento l’essere che avevo davanti mi parve molto più alto di prima e fui costretto ad alzare lo sguardo per vederne il volto coperto dalla maschera.
-Ottimo. Mi segua, allora.- Detto questo si voltò e, illuminando la strada con la candela, mi guidò verso a una rampa di scale che si estendeva verso sia verso i piani superiori che verso quelli inferiori. I gradini per quelli inferiori, però, erano bloccati da una porta di ferro chiusa con un lucchetto parecchio voluminoso e un foglio di carta sulla superficie metallica proibiva l’accesso ai clienti.
-Comprendo la sua curiosità, ma là sotto non c’è nulla che possa interessarle, mi creda. Mi segua, adesso, la condurrò subito verso la sua stanza.- La voce di Le Noir mi parve piatta, rispetto a prima. Seppur ancora fosse abitata da quella nota femminile che ne rendeva incomprensibile il sesso, il tono era diventato di colpo freddo e severo, forse addirittura spazientito in qualche modo dal solo fatto che avessi gettato lo sguardo su quella porta.
Seguii quindi l’enorme figura lungo gli scalini in legno affiancati da un corrimano in ebano scuro e segnato dal tempo. Ad ogni pianerottolo corrispondeva un’alta finestra che, però, si affacciava su una città sbiadita e scura, immersa nella nebbia e nella pioggia che incessantemente scrosciava su ogni superficie. Provai una strana malinconia gettando lo sguardo oltre quei vetri in parte coperti da tende bianche e sottili.
Salimmo in silenzio fino al sesto piano, dodici rampe di scale in tutto. Il corridoio, però, non era nemmeno lontanamente simile a quello che avevo percorso in precedenza. Nonostante fosse malmesso e disordinato, pieno di polvere e col tappeto che ne percorreva il pavimento pieno di buchi, qui erano stati disposti, mantenendo la stessa distanza fra loro, cinque tavolini con sopra un vaso ciascuno, vuoto. Le stanze avevano porte in legno ancora intere e su ognuna stava la propria targhetta numerata.
La F-00 era la prima stanza. Le Noir si avvicinò ad essa e allungò la mano libera verso di me. Subito compresi cosa volesse e misi nella sua mano la chiave della stanza. Con un gesto rapido aprì la porta, senza togliere la chiave dalla serratura e, dopo aver sistemato la maschera sul viso producendo uno strano rumore viscido, mi fece segno di entrare.
-Aspetti, ho una domanda da farle.- Mi affrettai a dire, sempre più abituato a quella voce che non mi apparteneva.
-Mi dica pure, sono qui per questo.-
-Questa era l’unica chiave rimasta, quindi ci sono altri…ospiti, nell’albergo?- Mi fissò per qualche istante senza rispondere, il suo respiro creava minuscoli sbuffi di vapore che si dissolveva all’istante.
-Ogni stanza è occupata, sì. Deve sapere che questo albergo è particolarmente richiesto, il che significa che è per lei una grande fortuna aver trovato una stanza libera. Ora, però, credo lei sia curioso di vederla, questa stanza, o mi sbaglio?- Deglutii senza nemmeno rendermene conto, guardando oltre la soglia l’arredamento della camera. A una prima occhiata mi sembrò ordinato e pulito, di gran classe. Un odore intenso e misterioso viaggiava nell’aria priva di qualsiasi tipo di rumore. L’intera stanza sembrava morta da tempo, abbandonata a una dimensione differente e buia, priva di luci e suoni.
La porta si chiuse alle mie spalle senza alcuna parola di saluto e io, incuriosito e spaventato, mi ritrovai nuovamente solo.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


La sala di un cinema. Sono seduto in mezzo a un oceano di gente il cui lento scrosciare è un brusio confuso e privo di parole interessanti. Poco a poco le luci si spengono, eppure qualche faro nel buio, sparso qua e là fra le poltroncine scomode e troppo alte, rischiara questa oscurità che cala annunciando l’inizio della proiezione. Il silenzio si è affievolito, ma non abbastanza da non risultare un disturbo mentre ovunque si aggirano l’odore e il rumore di pop-corn masticati.
Le prime immagini cominciano a susseguirsi sull’enorme schermo; semplici trailer, poco interessanti e totalmente privi di particolarità. Ognuno ha qualcosa di nascosto, però, qualcosa che vuole emergere ma non sembra riuscire a farlo. Sembra bloccato, questo elemento, sotto palate di particolari discordanti, di errori o, semplicemente, di banalità. Appena finiscono li segue una breve pausa in cui lo schermo si oscura nuovamente, prima di dar vita, poco a poco, a una scena completamente blu.
L’obbiettivo di una fotocamera, dietro la quale si trova la testa dai capelli radi di un uomo dalla pelle leggermente unta e grassoccia, del viso si vede solo la fronte, il resto è coperto dal grosso apparecchio. Sta inquadrando una donna che lo osserva in silenzio, il suo sguardo è immobile e sembra nascondere innumerevoli sentimenti sopiti e contrastanti. Cosa starà pensando? Forse vorrà dire qualcosa o fare qualcosa...eppure continua a rimanere immobile, senza dire niente. Nel suo sguardo si percepisce la rabbia ma anche un sentimento più intimo e ben nascosto.
L’uomo parla ma la frase non è diretta alla ragazza, si rivolge a qualcuno in un altro luogo e in un altro tempo, mentre le foto iniziano a susseguirsi inframmezzate dal suono dello scatto e dal flash che divide le inquadrature della ragazza che si spoglia e quelle dell’uomo che continua a scattare, focalizzandosi su più punti.
Accanto a me è seduta una coppia ma le loro forme non sono che un’indefinita sagoma scura che mi rende difficile comprenderne persino l’età. Nonostante questo, però, il movimento che compiono è chiaro ed esplicito: Scuotono la testa. Non gli sta piacendo ciò che hanno davanti.
Sussurro dell’uomo: “Ma che roba è?
Sussurro della donna: “Non lo so, me lo ha consigliato Francesca. Non so nemmeno di chi sia, sinceramente.
Altro sussurro dell’uomo:”A me sembra solo una porcheria. Dimmi tu se è il modo di iniziare un film.
Comincio a capire che non andrà a finire bene.
Ancora un sussurro della donna: “E io che ne so? Mica sono il regista. Però sono d’accordo, è una porcheria. Io l’avrei fatta diversamente una scena così. E poi cos’è questo blu? E’ orrendo da vedere, assolutamente.
Mi passo una mano sul volto, cercando di far finta di non sentire e concentrandomi su quello che ho davanti. Ora la camera si è recata altrove, in un ufficio dove il fotografo parla con quello che è sicuramente il suo redattore.
Il redattore: “Una nuova macchina e un nuovo flash, giusto?
Davanti a lui si estende una lunghissima e alta pila di fotografie e riviste pornografiche, ammassate le une sopra le altre in un’apparente disordine azzurrino mentre, poco più in là sulla scrivania, sono presenti grossi schermi di vecchi computer, cassetti minuscoli e altri fogli disordinati.
Il redattore continua: “Ah, ho trovato un buon ristorante, dovremmo andarci un giorno o l’altro.” Il suo sguardo sottile e allungato sembra perdersi nel vuoto mentre si solleva dalle fotografie che ha in mano, perdendosi nel vuoto dietro alla telecamera. A sua volta è immerso nel blu, come se l’intero film si trovasse in un mondo subacqueo. Poi, con un sorriso, si posa sul volto del fotografo che lo saluta e si alza, andandosene.
Il redattore posa le fotografie sulla scrivania e quando l’inquadratura torna a mostrarlo a tutta la sala, davanti a lui c’è un altro uomo.
E ancora: “Signor Iguchi, perché non lavora a un nuovo progetto?
Prima che io riesca a scoprire quale sia la risposta del fantomatico signor Iguchi, la coppia torna ad attirare la mia attenzione verso il loro dissenso, questa volta più intenso di prima.
La donna: “Oh no, non dirmi che è quel tipo di film. E’ iniziato da non so quanto e non ho nemmeno sentito un nota di musica.
L’uomo: “Sì, si vede proprio che è gestito male. Come si può apprezzare una roba simile? Non esiste più il cinema di una volta.
Sono apatici nei loro commenti. Il tono delle voci si è fatto più alto ed è stizzito, eppure allo stesso tempo è freddo come un enorme pezzo di ghiaccio che crolla lentamente sull’intera sala. Il nervoso che mi hanno lanciato addosso si è ormai fatto intenso. Sto per voltarmi e urlargli addosso tutta quella rabbia che mi si è addensata nel cuore ma mi fermo a metà dell’azione, impietrito da un improvviso cambiamento nel mondo circostante. Tutto si è bloccato e dallo schermo proviene uno strano rumore intermittente. Mi giro per vedere di cosa si tratti e, nello schermo, vedo innumerevoli persone sedute sulle poltrone di un cinema. Ognuna di esse ha il mio volto ma i lineamenti sono addormentati in diverse espressioni, alcune pacifiche, altre rabbiose e altre ancora sono…strane, contorte in smorfie buffe o inquietanti.
Ci saranno in tutto una trentina di posti, ma solo una ventina sono occupati. Sul lato sinistro, illuminato da una debole luce rossa, ci sono sette mie copie, da quello opposto, tinto di un blu intenso, ce ne sono otto mentre dietro, su una fila unica e totalmente in ombra, le restanti cinque.
Due dal lato sinistro aprono gli occhi, sguardi angelici e bocche leggermente aperte. Mi osservano sorridendo mentre la vista si abitua alla luce circostante ma non parlano, si limitano a fissarmi dall’altro lato dello schermo. Uno dei due afferra una confezione di pop-corn dal sedile accanto e inizia a mangiarli piano. Dal lato opposto se ne svegliano tre, occhi di fuoco, bocche contorte in una smorfia di rabbia che è difficile da prendere seriamente. Digrignando i denti e stringendo furiosamente gli angoli della propria poltroncina, le tre figure mi osservano come cani arrabbiati.
Dalla fila in fondo si sveglia la prima delle cinque figure. Il suo è uno sguardo impassibile. Mi osserva  con le gambe accavallate, le mani sopra le ginocchia e una candela lunga e sottile fra le dita della destra. Piano la alza, avvicinandola al proprio volto e questa si accende all’improvviso, da sola.
-Fine prologo, inizio dell’atto primo. Scena prima, il cadavere sotto la pioggia.- Dice con voce flebile e tutta la sala in cui io mi trovo si oscura, prima di lasciar spazio a una nuova scena. Là, nel rettangolo dello schermo, le figure identiche a me continuano a osservare il film che sta per iniziare.
Scena 1 – Esterno
Il cadavere è steso a terra in mezzo alla strada.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


-Prima registrazione, 15 Maggio 2019. Nonostante la vicenda si sia conclusa ormai da due mesi, il pensiero continua a tormentarmi. Nonostante tutto ebbe inizio qualche giorno prima, ho deciso di raccontare ciò che accadde dal 24 di febbraio, quando io e Kim arrivammo allo sperduto villaggio chiamato Angae[1]. Una manciata di case un tempo bianche ma ora rovinate dall’umidità e dalla poca cura, situata in mezzo alla campagna più vasta e solitaria che avessi mai visto nonostante, durante il viaggio, incontrammo più volte fabbriche altissime e dall’acciaio nero come il fumo che si disperdeva nell’aria. La nebbia ingoiava ogni cosa, rendendoci difficili gli ultimi chilometri del viaggio. Fummo costretti a provare a fermarci più volte, sperando che il muro grigio che ci circondava si disperdesse ma non vacillò nemmeno per un solo istante. Viaggiavamo dal giorno precedente, l’auto macinava chilometri su chilometri ormai da quasi ventiquattrore, con una sola sosta di un’ora scarsa e, quando raggiungemmo le porte della minuscola città, sembrava quasi sul punto di esplodere. Avremmo voluto fermarci di più lungo il tragitto ma la situazione era d’urgenza estrema e ci era stato ordinato severamente di raggiungere il luogo senza alcuna sosta. Un ordine che né io né Kim volevamo eseguire. Appena raggiungemmo il primo edificio di Angae, una sorta di magazzino dalle saracinesche arrugginite e nere di polvere, scoprimmo che lo sceriffo del posto ci stava già aspettando, immobile a fumare una sigaretta, le dita sporche e scure come ogni cosa che riuscivamo a intravedere nella nebbia. Disse di chiamarsi Chan-Yeol, nato e cresciuto in quel posto sperduto, figlio del precedente sceriffo. Spiegò anche, ma di questo a noi importava poco, che in realtà era un normale agente a cui era stata affidata l’amministrazione del distretto; si autodefiniva sceriffo soltanto perché provava un amore spropositato per i vecchi western americani e italiani. Ci scortò alla centrale, un palazzetto sgangherato e triste composto da tre piani: Il piano terra occupato dalla segreteria, quello superiore con gli uffici e il sotterraneo, occupato per metà dalle celle e per l’altra metà dall’obitorio. Lì sotto si trovava il motivo della nostra presenza ad Angae. Un corpo rinvenuto appena qualche giorno prima in un campo deserto, immerso in gran parte nel fango, martoriato tanto dalle ferite inferte dall’assassino quanto dai morsi di animali selvatici. A trovarlo era stato un contadino che, all’alba, era passato di lì a bordo del proprio trattore. Una coincidenza ci aveva portati in mezzo al mare di nebbia che riempiva il villaggio e, in quella mattina fredda e solitaria, ci ritrovammo davanti a quella che per molto tempo fu per noi una prigionia.-
-Il corpo presentava numerose ferite, alcune tanto profonde e potenti da aver spezzato addirittura le ossa. La più evidente, però, era stata causata da un colpo di zappa. Kim osservò il cadavere per un’ora intera, studiandone ogni dettaglio, raccogliendo tessuti da inviare alla sede centrale. Non le fu affatto difficile, grazie agli anni di esperienza accumulati, suddividere innanzitutto le ferite dell’assassino da quelle causate dagli animali passati per il campo in cui era stato abbandonato. Successivamente identificò quelle inferte prima della morte, fra le quali però non si trovava il colpo di zappa. Passata quell’ora di analisi, ci fu evidente di avere fra le mani un caso a cui nessun agente di città è abituato. Qualcosa che non avevamo mai visto se non in televisione o letto sui giornali, un caso che solitamente veniva affidato ad altri colleghi e che, col tempo, veniva abbandonato e dimenticato su qualche scaffale negli archivi. Lo “sceriffo” ci disse che nessuno in tutta Angae sapeva chi fosse quell’uomo. Era stata fatta una sola segnalazione di scomparsa ma risaliva a un mese prima, spiegò poi. La denuncia era stata fatta da Go-Eun, una donna che si rivelò essere un pezzo molto importante di quel puzzle di eventi e misteri. Ci consigliò di andare a parlarle, nonostante lui non ci vedesse alcun legame con la faccenda. Rimandammo, però, la visita al pomeriggio, preferendo prima lasciare i nostri bagagli in albergo.-
-Albergo, poi, si fa per dire, ovviamente. Come tutti gli altri edifici era nero di polvere, abbastanza vecchio e palesemente in disuso che la vernice sui muri era caduta e si era mischiata alla terra secca che faceva da strada fra le abitazioni. All’ingresso ci attendeva un ometto dagli occhiali spessi, gli occhi che saettavano dal mio volto a quello di Kim con l’impazienza di chi sa che sta per arrivare il momento della paga. Ciò era abbastanza per farmi comprendere che fossimo gli unici visitatori da chissà quanto tempo. Dopo essersi infilato in tasca i soldi che gli diedi per la stanza, ci fece salire al piano superiore. Le scale di legno dell’albergo scricchiolavano ad ogni passo ma lui non ci fece minimamente caso. Era troppo impegnato a farci domande sul cadavere e su certi “strani sguardi degli abitanti di Angae, negli ultimi giorni”. Una frase che mi restò impressa nella memoria e non potei fare a meno di segnarla subito negli appunti, sottolineata da più righe rosse tanti erano i giorni che passammo in quel posto. Come sospettavo l’albergo era deserto. Tutt’ora la cosa non mi sorprende, vista la situazione in cui si trovava la nostra stanza e, sicuramente, anche le altre. Polvere ovunque, pavimenti neri e con incrostazioni dal colore poco chiaro, persino la luce si rifiutava di toccarne le superfici. Mi ritrovai a ricambiare l’espressione di disgusto di Kim ma, dopotutto, non potevamo farci nulla. Il gestore dell’albergo ci salutò, lasciandoci soli.-
-Nel primo pomeriggio uscimmo per incontrare Go-Eun, seguendo le indicazioni lasciateci dallo sceriffo per raggiungerne l’abitazione. Un alone di silenzio e tensione riempiva l’aria. L’intera Angae sembrava rimasta immutata nonostante le ore trascorse dal nostro arrivo. Sembrava che quel minuscolo villaggio fosse totalmente staccato dal mondo, impenetrabile da tutto ciò che gli fosse esterno e che avesse deciso, per qualche strano motivo, di lasciar passare soltanto noi attraverso il muro di nebbia che ne faceva da porta. Persino gli abitanti non sembravano voler uscire dalle proprie abitazioni. Su di me sento ancora i loro sguardi curiosi e nascosti fra le ombre di stanze buie e impolverate, piene di cose a me sconosciute. Ebbi, però, un assaggio di quelle abitazioni misteriose poco dopo aver bussato alla porta di Go-Eun. La donna che venne ad aprire mi lasciò imbambolato per qualche istante. La sua schiena era ricurva, facendola sembrare più bassa di quanto fosse in realtà ma guardandola erano evidenti le cose che il tempo le aveva portato via, lasciandole soltanto qualche ruga e una pelle secca, pallida. Si sforzò di sorridere e ci lasciò entrare, allungando una mano verso il baratro oscuro debolmente illuminato da una sola lampada che a malapena riesco a definire casa. Pareva più l’antro di una strega. Ricordo che ebbi proprio questa impressione appena la porta d’ingresso si aprì e il mio sguardo si ritrovò davanti lo stretto corridoio tappezzato di altre porte e che, in fondo, conduceva a un minuscolo salotto. Ci fece accomodare proprio nel salotto, su un divano circondato da sacchi dell’immondizia contenenti rifiuti vecchi che gettavano nell’aria un odore stantio e insopportabile. Lei si sedette di fronte a noi, su una poltroncina antica, afferrando dei lunghi ferri e iniziando a filare la lana con abilità. Non appena le rivela di essere stati mandati lì dalla polizia di Seoul per indagare sul recente omicidio, però, si bloccò completamente, alzando la testa dal piccolo maglioncino di lana e fissandoci a turno negli occhi. Ci fu come una pausa nel tempo e lo spazio che ci divideva dalla donna si fece infinito. Non ci fu alcuna parola, soltanto un gesto che arrivò accompagnato dal pianto. Indicò l’ingresso dell’abitazione, facendoci comprendere subito cosa volesse dirci.-
 
[1] Nebbia in coreano.

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