Afterglow

di Malefix
(/viewuser.php?uid=203839)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La felicità è un waffle bruciato ***
Capitolo 3: *** Egida di Sangue ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Buonasera,
inizio col dire che questo è un esperimento, questa è la prima volta che scrivo una storia (e le sue note) prima in inglese e poi le traduco nella mia lingua madre (l'Italiano), per cui è abbastanza sicuro che troverete un sacco di errori, strafalcioni di ogni tipo che potrebbero farvi accapponare la pelle.
A parte questo, mi vorrei scusare fin da ora (non solo per gli errori) ma per la storia in sé. È venuta così all'improvviso, e forse un po' me la sono cercata, l'ho chiamata a me e forse non mi aspettavo sarebbe girata in questa maniera... più o meno a metà della storia vorrete smettere di chiedere a gran voce il mio sangue e la mia testa su una picca (e forse se ignorate questo prologo/capitolo e i tag non vorrete uccidermi da subito). Però, come ho detto, me la sono cercata (e accetterò le conseguenze).
Per cui, senza ulteriori indugi, vi presento Afterglow. Il titolo (perché io sono terribile coi titoli, quindi mi devo far aiutare da qualcuno più bravo di me) viene da una delle mie canzoni preferite dei Genesis, da Wind and Wuthering - una delle canzoni più brevi e dolci che abbiano mai scritto, secondo il mio modesto parere, una storia di amore e perdita. E mi pareva indicata anche per il significato più attuale e "urbano" - se così si può dire - del termine Afterglow, un senso di appagamento, completezza e benessere generale che si prova dopo che gli effetti di una droga psicoattiva sono sbiaditi, che può durare tra un'ora e diversi giorni.
O molto più semplicemente il senso di appagamento dopo un orgasmo.
Questo propriamente in antitesi con questa storia, come potrete vedere.
(Aggiungo prima di lasciarvi alla lettura, che questa storia è pubblicata sia in Inglese che in Italiano anche su Ao3 sotto il mio pseudonimo LaMalefix.)
Buona lettura, ci vediamo alla fine del capitolo






































 

 







Prologo

 

 

Deliziosi fiori bianchi avvolti in una carta grezza nella mano destra, la mano sinistra è nella tasca del cappotto. Il pollice sta continuando a giocare con la sottile fascetta d’argento che gli circonda l’anulare.

Non gli piace questo posto. Non gli è mai piaciuto e mai gli piacerà: il silenzio qui è incredibile, quasi terrificante e a ogni passo che muove è più difficile ignorare il cuore che gli batte dolorosamente nel petto.

Cammina piano nel giardino coperto di neve, i suoi piedi affondano nel mantello soffice e bianco.

È l’inizio della primavera, ma il cielo sopra New York non è molto clemente quest’anno. E un paio d’ore prima di mezzanotte ha cominciato a nevicare copiosamente, coprendo lo skyline in questo bianco etereo.

È tutto così bianco, oggi proprio come quel giorno. Ed è strano perché il bianco è il colore del lutto nel mondo degli Shadowhunters, ed è qualcosa davvero distante da lui.

C’è stato un tempo, qualche anno fa, in cui pensava che poteva abituarsi a quel colore, al cordoglio. Inutile dirlo, quanto si sbagliava. La sua vita, fino a quel giorno, era stata rumorosa, piena di colori e amore. E ora non è altro che bianco e silenzio.

Ed è quasi una presa in giro, non tanto un colpo di fortuna, che questi deliziosi fiori che tiene in mano siano bianchi. Ma sono forti e delicati e, anche se non si è mai troppo interessato a qualcosa di così effimero, sono diventati una specie di costante nella sua vita.

Fioriscono in una cittadina lontano da lì, spuntano in ogni angolo della strada, non in vasi o in campi appositi per la loro coltivazione. Germogliano naturalmente e in linea con ogni fila di case, come se le costruzioni e i fiori crescessero insieme. Loro due, un tempo che ormai sembra quasi un’eternità fa, hanno visitato in quella cittadina, forse in quel viaggio improvvisato poco prima che i bambini piombassero nella loro vita, o forse dopo il matrimonio. Era l’inizio della primavera, la neve indugiava sulle montagne vicine, ma lo squarcio di oceano che lambiva gentilmente la costa rifulgeva di luce arancio.

C’era una leggenda – aveva detto lui, mentre camminavano verso la battigia – che subito dopo un terremoto che distrusse la città, senza avvertire e non diede la possibilità di fuggire alla gente della città che dormiva profondamente, quei deliziosi fiori bianchi cominciarono a spuntare nell’esatto momento in cui la prima casa venne ricostruita. Quei fiori, che prima sbocciavano alla mattina e entro sera appassivano, erano diventati forti e un simbolo di rinascita, la loro vita si era allungata.

E proprio come la storia di quella città, ogni storia, ogni vita si divide chiaramente in un “prima” e in un “dopo”. Anche la sua vita.

 

È quasi lì. Il sole che sta sorgendo si allunga con questo rosa tenue sul candore della città coperta di neve. Ci sono solo le sue impronte sul mantello bianco.

Non ha veramente pianificato di stare sveglio tutta la notte, ma sapere sarebbe stato qui in mattinata per offrire una preghiera l’ha reso insonne. E così ha deciso di fare due passi nella neve, quando la notte era più buia e profonda, lasciando una rapida nota ai suoi figli, come ha fatto l’ultima volta che è stato qui.

Non vive più a New York. Ad essere onesti, non vive più da nessuna parte. Un tempo pensava che la sua casa fosse la sua gente, o i suoi figli, o quella persona, ma è davvero difficile stare a New York ora come ora.

Ci ha provato, si è impegnato davvero, forte come il guerriero che è. Ci ha provato per i suoi figli, per le promesse che ha fatto, per quel giuramento che tortura il suo anulare e gli ricorda continuamente che lui ora è da solo. È stato lì a sufficienza: ha visto crescere i ragazzi, accompagnandoli per quasi otto anni, con quell’assenza sulle spalle che gli gravava addosso feroce. Quando i ragazzi sono stati in grado di stare da soli, li ha affidati ai loro zii ed è partito.

Ha girato il mondo in cerca di vendetta, per trovare una soluzione efficace ed efficiente per quella solitudine inodore che l’ha reso uno spettro. Non trovandola mai, di fatto.

Ci sono due grandi eventi che dividono la Storia in un “prima” e in un “dopo”: uno è qualcosa di enorme come una guerra, un disastro naturale, o un’epidemia. L’altro è qualcosa di più piccolo, come la nascita o la morte di una grande personalità. Un eroe. Un salvatore.

È successo senza preavviso. Proprio come quel violento terremoto che ha aperto uno squarcio nella terra con un rombo, e ha distrutto quella piccola città costiera, uno squarcio silenzioso si è aperto nel suo cuore.

 

Loro quattro vivevano in modo semplice. Felici. La loro casa era colorata e allegra. La loro vita, la vita che trascorreva con la sua famiglia sarebbe dovuta finire un giorno, con la sua morte, vecchiaia e rughe, capelli grigi e ossa scricchiolanti. Tuttavia, questo non era affatto causa di dolore. Lui lo sapeva, lo aveva sempre saputo.

Precisamente perché la sua vita era stata lunga e di conseguenza si era scontrato col dolore di infiniti addii, loro due sapevano fin troppo bene che nella vita di ogni giorno per delle creature semi-umane come i Nephilim non c’è eternità. Impossibilitati ad afferrare l’eternità, gli esseri umani hanno imparato ad amare e proteggere il qui e ora.

Ci ha sperato. Ha sperato di godersi il momento come fanno i Mondani: come ogni altro essere umano. Mordere la vita coi denti, amare e godersi ogni singolo momento. In qualche modo ha sperato andasse così: vivere abbastanza a lungo da avere polvere di stelle tra i capelli; l’incurvarsi della schiena sotto il peso dell’età; osservare nello specchio un riflesso più maturo di se stesso, vecchio con un sacco di rughe per le troppe risate e i problemi causati dai loro figli; e poi una notte andare a letto, al suo fianco, avvolgendolo tutto, e non svegliandosi più, morendo placidamente nel sonno. Non come i suoi simili, che fanno tutto di fretta, si sposano, hanno figli e vivono il più velocemente possibile perché tutti loro muoiono giovani.

Ha sperato di diventare vecchio al suo fianco. Di riuscire ad abituarsi, col tempo, all’idea di lasciare indietro le persone che amava di più.

Ma poi, c’è stato quel giorno.

Lui è morto.

 

La sua vita, come la Storia, è chiaramente divisa in un “prima” e un “dopo”. Forse, potrebbe essere divisa in diversi frammenti come prima e dopo averlo conosciuto, prima e dopo aver adottato i bambini, prima e dopo il matrimonio… ma la sua morte divide tutto nella vita con lui e nella vita senza di lui.

In qualche modo, in un modo che a tratti lo terrorizza, si era abituato all’idea di doverlo lasciare, un giorno, quando fosse giunta la sua ora. Rassicurato dalla sua immortalità, pensava che non sarebbe mai stato da solo; che sarebbe sempre tornato a casa e l’avrebbe trovato lì, ad aspettarlo: i capelli sparati per aria, il sorriso gentile, gli occhi d’oro scintillanti d’amore, baci, commenti smielati, risate, gambe intrecciate sotto le lenzuola, colori, rumore.

L’impossibilità di avere insieme un’eternità, ma facendo del loro meglio per stare insieme il più possibile.

 

La lapide è semplice. Il suo nome scavato nel marmo. Niente di più. Nessuna data di nascita. Nessuna data di morte. Nulla di esuberante. Niente di rumoroso. Niente che potrebbe piacergli.

Lui non era d’accordo, ma qualcuno della sua famiglia – probabilmente sua madre – aveva detto che avrebbe potuto aiutarlo ad elaborare il suo lutto, e avrebbe potuto aiutare i loro figli. Un feretro vuoto, sotto sei piedi di terriccio. E un funerale in cui tutti hanno detto qualcosa di lui, singhiozzando piano. Lui non avrebbe apprezzato neanche quello, in realtà. Magari qualcosa di sontuoso. Qualcosa che urlasse il suo amore per la vita, caotico e luminoso. Magari una festa.

Ma pensandoci adesso, questo gli avrebbe spezzato il cuore più della sua morte.

Ovviamente, non poterono onorare qualcuno come lui, un Nascosto, con un funerale da Shadowhunter. Un onore solo per gli eroi. Eppure, lui era stato un eroe.

 

Si inginocchia davanti alla lapide, poggia i fiori a terra e sospira. Fa freddo. Il sole è pallido e di una sfumatura di rosa e arancio mentre si affaccia tra i palazzi.

È passato un numero vertiginoso di giorni e mesi: anni durante i quali innumerevoli minacce e guerre hanno flagellato il suo lavoro. Ed è quasi assurdo, il suo mondo è finito, eppure il Mondo ha continuato comunque a girare, e vivere. Persone sono nate e altre sono morte, si sono amate e si sono lasciate. Ci sono state gioie immense e dolori altrettanto grandi. Le persone hanno continuato a lottare, a scontrarsi, ma hanno anche continuato ad amare e perdonare.

Questo sarà il decimo anno senza di lui.

I loro figli sono adesso giovani adulti, uno di diciassette e l’altro di diciannove anni, promettenti entrambi sulla strada segnata dai propri padri, come dice la loro nonna.

Non vive più a New York, da quasi due anni ormai. Ovunque nella città c’è qualcosa che gli ricorda Magnus. E l’ha sopportato a lungo solo per quel giuramento che ha al dito e per i suoi figli. Odia il loft perché non c’è più nessuna traccia di lui, anche se tutto grida il suo nome, e c’è il suo odore di sandalo nel bagno, ma il letto è freddo e le lenzuola non sono più così morbide. Odia l’Istituto perché anche solo salire i gradini per entravi gli ricorda che è proprio lì dove lui si è dissanguato, tra le sue braccia, mentre gli sussurrava dolci sciocchezze e parole di speranza, non saluti, in una voce così profonda e calda, i suoi occhi veri, dorati, pieni d’amore e non paura o dolore.

E ora è lì, e non gli piace stare in silenzio lì ché lui era così loquace, così divertente e rumoroso. Ora è lì, inginocchiato davanti alla lapide dell’amore della sua vita, che gli è stato strappato via troppo presto: non sono stati insieme a sufficienza; anzi, sono più gli anni della sua vita in cui non sono stati insieme; eppure, lo sa, lo sa e lo sente nelle ossa e nel suo cuore che lui non amerà nessuno come ha amato Magnus. Non amerà nessun altro dopo Magnus. Perché quelli come lui amano veramente solo una volta nella vita.































 

 





D'accordo, d'accordo, provate a non uccidermi. La storia sarà a capitoli (finché tengo botta!) e vi assicuro che anche a me piacciono i lieti fini (più o meno)...
Mi scuso con tutti, poiché la storia l'ho scritta originariamente in inglese e mi pare che alcune frasi siano difficilmente traducibili in italiano con la stessa forza dell'Inglese. Questo di fatto è un esperimento, come dicevo nelle note di apertura, ragion per cui se trovaste qualche errore gradirei sapere per poter correggere. È la prima volta che scrivo una multicapitolo in inglese per poi tradurla in italiano (e, Dio, è difficile!); così per sfidare me stessa. (per non parlare del fatto che è effettivamente la prima volta che scrivo su questo universo - forse sarà pure l'ultima).
Comunque, sì, mettete da parte i forconi e le torce e presto o tardi arriverà il prossimo capitolo (forse allora potrete mettermi alla gogna).
Ho, più o meno, un piano in mente - tipo una sinossi quasi completa - e non si supererà la dozzina di capitoli - credo - ma penso vi informerò tramite tumblr (se capirò mai come mettere l'url del mio profilo), magari con qualche stralcio dei prossimi capitoli.
Grazie per aver letto fin qui, qualsiasi feedback è più che apprezzato
Arrivederci

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La felicità è un waffle bruciato ***


Salve,
grazie a tutti per il supporto!
Ci sono volute due settimane... scusate l'attesa. Ora, nella mia più febbricitante nota d'apertura, spero che questo piccolo (24 pagine circa) capitolo vi fornirà una giusta introduzione alla storia. Certo, certo avete letto il prologo ma... in effetti... qui cominciano ad esserci le cose serie.
Non rimpiango nulla,
Vi auguro una buona lettura, ci vediamo nelle note conclusive

Buona lettura, ci vediamo alla fine del capitolo






































 

 

La felicità è un waffle bruciato




 

 

 

 

 

 

Era stata una settimana estenuante.

Anzi, a onor del vero Alec aveva propriamente perso il conto di quante sere fosse rincasato così tardi, e di quante mattine fosse uscito prima dell’alba. Forse superavano la decina. Forse non erano neanche passati sette giorni, eppure era così esausto.

Forse, aveva perso l’abitudine. Non essere più in servizio attivo, o per lo meno svolgere un lavoro più sedentario, da ufficio, scartoffie, rapporti e mal di testa annessi, l’aveva fatto disabituare alla stanchezza che spaccava le ossa, al rientrare quando ormai New York cominciava a scivolare nel torpore e rallentare un po’ e la notte si faceva meno caotica e più silenziosa.

Di solito, quando era un attimo meno esausto e sufficientemente in grado di formulare un pensiero che non concernesse il trascinarsi verso il primo cuscino disponibile e dormire almeno tre giorni di fila, riusciva a ricordarsi di togliersi gli stivali e camminare piano, usare la solita leggiadria dei Nephilim per evitare di far scricchiolare il parquet. Era da così tanto tempo, forse due anni, che non si tratteneva tanto a lungo all’Istituto, così continuativamente per più di due o tre giorni. Era così rimbambito, così sfinito, quella sera, che vagava claudicante per l’appartamento coi piedi pesanti, le suole degli stivali che stridevano sul pavimento di legno.

Una piccola parte di lui, chissà quanto dominante e avveduta, voleva raggiungere la camera da letto, spogliarsi di fretta o per lo meno togliere solo le scarpe e schiacciarsi contro Magnus, rubargli le lenzuola e magari svegliarlo, per farsi fare un po’ di coccole finché il sonno non avesse avuto la meglio su di lui. Però, però c’era quel divano così incredibilmente appetibile e confortevole che lo chiamava nella penombra generale del salotto.

Inoltre, la notte precedente aveva trovato i suoi figli raggomitolati ai lati di suo marito. Max che gli sbavava sulla spalla destra, le braccia intorno al collo di Magnus e una gamba intorno alla sua vita; Rafael alla sua sinistra, la testa poggiata nell’incavo del braccio sinistro del suo papà e la faccia nascosta nel tessuto morbido della vestaglia di seta rossa.
Dormivano tutti e tre, Magnus forse stava un po’ scomodo ma non sembrava voler cambiare quella posizione. La luce del bagno era accesa, perché tutti e due i bambini, anche se Rafael non voleva ammetterlo, avevano qualche incubo di notte e si tranquillizzavano a sapere che c’era una luce a tenere lontani i mostri.
E allora Alec si era fatto piccolo piccolo, era montato sul materasso che in realtà aveva spazio a sufficienza per accogliere anche lui e aveva preso il suo solito posto vicino a suo marito. Magnus aveva aperto un occhio e poi l’altro, l’aveva guardato come se avesse visto un miraggio e poi gli aveva lanciato questo leggerissimo sorriso assonnato. E anche Rafael si era svegliato, evidentemente allerta coi suoi sensi da Nephilim, aveva alzato la testa e l’aveva fissato per appena un istante, gli occhi velati dal sonno; aveva lasciato il suo posto al fianco di Magnus e, rotolando sulla schiena, si era accucciato accanto ad Alec.

Ma questo succedeva la sera prima, quella notte, invece, non c’erano luci accese a provenire dalla camera da letto e, sebbene un angolo della sua testa l’avesse notato e gli avesse suggerito di andare a prendersi il posto che gli spettava di diritto su quel bel materasso, non era riuscito a fermare i suoi passi pesanti verso il divano. E forse si era tuffato su quei cuscini spaziosi, forse si era semplicemente lasciato andare e si era addormentato ancor prima di raggiungere il divano, senza neanche togliersi le scarpe, a faccia in giù.

 

Gli era sembrato di dormire per giorni. E aveva però voglia di dormire ancora e ancora.

Non poteva dire quanto tempo fosse passato, perso com’era nel suo sonno, quando qualcosa attirò la sua attenzione, seppur particolarmente rallentata da quella stanchezza estrema che gli annebbiava la testa. In qualche modo, forse più per abitudine insita nel suo sangue, per una questione di sopravvivenza, più che di volontà personale, era riuscito ad aprire gli occhi.

Una luce morbida entrava di taglio nel suo campo visivo dalla porta leggermente aperta della sua camera da letto. Una figura, un’ombra gli alitava addosso, coprendo per lo più l’impudente illuminazione che aveva osato infastidirlo.

Poi qualcosa era scattato nella sua testa: prima aveva riconosciuto quel profumo inconfondibile che ormai associava all’idea generale che aveva di casa, famiglia e tranquillità; poi aveva sommariamente scorto il profilo controluce, la mascella squadrata e le spalle larghe, nascoste dal tessuto morbido e liscio di una vestaglia. Magnus.

Mugugnò qualcosa, Alec. Le parole che gli si impastavano sulla lingua.

«Spero che quel grugnito terribile voglia dire “Scusa se sono tornato tardi, dovevo avvertirti. Lavo io i piatti domani per farmi perdonare”.» bofonchiò suo marito, in una sorta di imitazione dello Shadowhunter.

«Sei ancora sveglio.» disse piano, scrostando finalmente la faccia dal cuscino e girandosi su un fianco per fare un po’ di spazio al glorioso fondoschiena dello Stregone.

«Immagino tu abbia una buona spiegazione, Alexander.» mugugnò con la voce vellutata, mentre prendeva posto vicino a lui. «E spero tu non voglia dormire qui, sarai giovane e bello, e avrai pure sangue angelico, ma rischi di svegliarti col torcicollo ugualmente».

Alec allungò la mano in un gesto che gli ricordò improvvisamente quanto fosse esausto, ma doveva assolutamente raggiungere la guancia di Magnus. «Ciao».

«Ciao a te.» rispose raccogliendo la sua mano e portandosela alle labbra.

Ad Alec sfuggì un sospiro soddisfatto.

«Dovresti venire a letto, lo sai?» mormorò suo marito che intanto cominciava ad accarezzargli i capelli delicatamente con una mano, mentre le dita dell’altra si intrecciavano alle sue.

«Il divano è comodo.» ribatté piano, faceva fatica a tenere gli occhi aperti: le dita leggere di Magnus che gli percorrevano morbide la cute lo stavano facendo di nuovo scivolare in un torpore del tutto allettante. «E poi puzzo. Puzzo da morire».

Magnus soffocò una risata. «Sai? Potrei averlo notato. Voi Nephilim siete dei prodigi della fisiologia, eppure puzzate peggio di certi atleti olimpici. Mi domando come mai l’Angelo nella sua infinita saggezza non si sia inventato una runa contro il sudore.» commentò mentre allargava le braccia a chiamarlo a sé. «Dai, andiamo a letto».

Ci volle tutta la sua buona volontà per trattenersi dall’abbracciarlo. «Puzzerai anche tu.» rispose. «E forse posso chiedere a Clary di provare a creare una specie di runa deodorante. Non credo di doverla convincere: vive con Jace e io profumo di garofani al confronto».

Magnus annuì piano. E Alec poteva immaginarsi lo sguardo vispo e la leggera flessione che assumevano le sue labbra quando sentiva qualcosa di divertente, mentre le stringeva tra loro in un sorrisetto sghimbescio. Un vero peccato fosse controluce.

«Sarà la tua prossima missione, Shadowhunter.» mugugnò. «Per stasera, ti fai una doccia e vieni a letto».

«Non credo di averne la forza, Mags. Non credo neanche di riuscire a stare in piedi.» replicò, monocorde. «Lasciami dormire qua».

«E allora vedi che è una cosa buona che tu sia sposato con un Sommo Stregone?» rispose. «Potrei scoccare le dita e farti tornare magicamente pulito, così le lenzuola e le mie narici non grideranno pietà. Ma domattina dovrai farti una doccia».

E ancor prima che potesse rispondergli, che potesse fargli notare che effettivamente andare in giro ad ammazzare i demoni fosse un lavoro estenuante, soprattutto negli ultimi tempi, la soffice e familiare energia magica di suo marito l’aveva circondato e gli aveva scrostato di dosso, dalla pelle e dai capelli vari strati di stanchezza e sudore.

«Potrei anche spogliarti, ma meglio farlo in camera.»  bofonchiò e conoscendolo stava per aggiungere qualcosa di ambiguo, una qualche allusione.

«Sei tremendo.» gli disse subito, prima che potesse continuare.

«Mi ami anche per questo, e non solo per la mia bellezza» replicò Magnus, affondando verso di lui per poggiargli un bacio sulla tempia.

«Assolutamente, io ti amo per il tuo intelletto.» rispose e gli gettò le braccia al collo. E forse avrebbe potuto dormire anche più tardi, se volevano continuare quel qualcosa che stava cominciando lì. «Dovremmo effettivamente andare in camera».

«Uh! Ideona!» cinguettò Magnus, tutto soddisfatto nel suo orecchiò. «Potrei portarti a guisa di principessa, non me l’hai permesso quando ci siamo sposati, ma oggi mi sembra un’ottima occasione: non sembri avere la forza di opporti».

«Sei terribile.» grugnì di nuovo, ma aveva ragione: era troppo stanco per controbattere.

«L’abbiamo detto prima: mi ami anche per questo.» annuì e, in un gesto fin troppo fluido e istruito, lasciò sgusciare un braccio sotto le sue gambe e uno dietro la sua schiena. «Oh-issa!».

Alec si limitò a stringere meglio le braccia attorno al suo collo. No, non c’era motivo di fare tanti complimenti. «Se Isabelle sapesse».

«Tua sorella non ti darebbe tregua.» rispose cominciando ad avviarsi verso la stanza da letto. «Dovremmo farci un selfie, così potrei usarlo per ricattarti. O potrebbe essere una merce di scambio ideale per quelle tue foto da bambino che voglio vedere da tanto tempo e tu ancora ti rifiuti di mostrarmi. È un’altra ideona offerta gentilmente dal mio intelletto che tu ami tanto!».

Lo Shadowhunter ruotò gli occhi e sbuffò, in un modo abbastanza teatrale. «Primo: ancora non capisco perché vuoi vedere quelle foto. E secondo: hai sufficiente materiale per ricattarmi per i prossimi trent’anni».

Magnus non rispose, ma mugugnò in assenso.

«Sto a pezzi, maledizione.» borbottò stringendo di più le braccia attorno alle spalle di suo marito. «Non credevo sarei mai stato così stanco in tutta la mia vita…».

Lo Stregone tirò un lieve sospiro, e strinse anche lui un po’ più la presa su Alec. «Non sei più abituato. E dormi poco.» mormorò. «E immagino tu abbia una spiegazione ragionevole del perché sono dieci mattine che mi sveglio e sei già andato via e… non abbiamo neanche il tempo di mangiare insieme, mh?» aggiunse, col tono pacato, mentre attraversava coi passi ampi e determinati la porta della camera da letto. «Non mi hai neanche mandato un messaggio».

«Ho avuto dei contrattempi.» replicò rapidamente, sperando di far cadere il discorso.

«Alexander.» lo chiamò piano, appena perentorio e poi l’appoggiò sul materasso in un gesto non particolarmente aggraziato. «Se proprio devi tornare a casa esausto, almeno chiamami che ti apro un portale. Oppure che ne so, chiama un taxi.» brontolò. «Non puoi tornare a casa a piedi, a quest’ora di notte in queste condizioni, mh? Va bene che sei grande, grosso e ammazzademoni… ma uno si può sempre preoccupare».

Alec strinse le labbra e alzò gli occhi per puntarli su suo marito. «Pensavo dormissi.» rispose scrollando le spalle, in un gesto che sapeva gli avrebbe fatto riguadagnare qualche punto.

Magnus si coprì gli occhi con la mano. «Ah! Tu e quel tuo sguardo da cucciolo!».

Lo Shadowhunter non poté trattenersi dal sogghignare soddisfatto. Punto. «Dico solo che avrai avuto una giornata lunga e stancante anche tu… non avevi quella riunione straordinaria al Labirinto a Spirale, e poi non dovevi fare quelle tue cose da Sommo Stregone?» domandò lui ed era un altro chiaro tentativo per deviare il discorso.

«Certo non lunga come la tua, direi. Sei uscito prima dell’alba, anche oggi, e sei tornato ancora più tardi di ieri sera…» gli fece notare.

«Per questo pensavo dormissi. È tardi, sono quasi le tre.» replicò a testa bassa: osservava i suoi piedi fastidiosamente reclusi nella gabbia di lacci dei suoi stivali, e cercava un modo per liberarsene senza troppa difficoltà.

«No. Non dormivo.» rispose Magnus, le braccia incrociate al petto e gli occhi fissi su di lui. «Sono un po’ troppo abituato a dormire con te, che sei una specie di termosifone ambulante. Ho letto un po’, ho giocato a quello strano Tetris che Sherwin mi ha installato sul telefono e a un certo punto mi sono preoccupato perché si stava facendo tardi. Solita routine».

«I bambini?» domandò Alec, cominciando a sfilarsi quei maledetti vestiti. La camicia aveva troppi bottoni per essere semplicemente sbottonata, quindi decise avesse più effetto tirarla via dalla testa, mentre trovò più difficoltà coi pantaloni, le scarpe erano ancora lì.

Magnus venne subito in suo soccorso con uno schiocco di dita, liberandolo finalmente da tutto quell’ingombro di tessuti e scarpe, lasciandolo in mutande. Nel modo meno figurato del termine. In quel momento lo squadrò dall’alto in basso con un sopracciglio alzato, per poi girare intorno al letto per tornare dal suo lato. «Li ho recuperati da Lily verso le quattro. Li ho portati allo zoo di Central Park. Poi siamo andati a cena al Diner sulla cinquantasettesima ovest: Max ha voluto il panino col tonno e le patatine fritte, Rafael il panino col salmone e si è mangiato le mie patatine fritte perché le sue erano quelle con l’aceto… che sono toccate a me. Ovviamente ho riordinato le patatine fritte per me, col mio panino all’aragosta.» raccontò brevemente. «Abbiamo comprato una torta prima di tornare a casa, e ce n’è a sufficienza se domani vuoi mangiarne un po’».

«Avevamo detto niente torte la sera.» lo redarguì Alec.

«Sono stati da Lily tutto il giorno. Si meritavano un premio. Soprattutto perché sono stati bravissimi.» sbuffò Magnus. «Comunque, dormono dalle nove e trenta. Abbiamo visto due puntate dei Pokémon su Netflix. E poi abbiamo letto una storia, ma mi pare chiaro che preferiscano come le racconti tu».

«Ah, ma dai!» replicò Alec senza neanche girarsi. «Tu fai le voci! E poi fai quelle cose con la magia!» aggiunse muovendo le dita per aria, in una brutta imitazione dei suoi movimenti.

Pensava di sentirlo ridacchiare, ma l’aria sembrò stridere tra i suoi denti mentre inalava a forza.

«Non posso certo competere.» mormorò, cercando di incalzarlo.

«Ti hanno vito poco.» disse Magnus, la voce piatta. «Sentono la tua mancanza. Non vuole assolutamente essere un’accusa, ma in effetti quando gliela racconti tu, la storia, stanno lì che ti guardano come se avessi appeso la luna».

Un piccolo nodo gli si strinse in gola. E dovette deglutire due volte per riuscire a scioglierlo. Doveva aspettarsi questo discorso prima o poi: erano giorni che non passava del tempo di qualità con tutti loro. E i bambini erano così abituati ad averlo attorno, che doveva essere estremamente strano per loro non vederlo più tanto spesso. Forse, e questa cosa gli gelò il sangue, potevano sentirsi abbandonati.

Sentì il materasso abbassarsi sotto il peso di suo marito. «Non pensarci troppo, Alexander. Però magari cerca di ritagliarti un pochino di tempo da passare con loro, con noi…» sospirò. «Scusa, non so neanche perché ti sto dicendo tutto questo. Ci sarà di certo un bel da fare ultimamente all’Istituto, sennò saresti qui».

«Magnus,» lo chiamò piano, girandosi di fianco e incrociando gli occhi da gatto dello Stregone che lo guardavano di taglio. «Mi dispiace».

«Non è colpa tua, sono gli oneri e gli onori di essere uno Shadowhunter. Tu sei sempre stato un padre esemplare, molto presente, di certo più di qualsiasi altro genitore Nephilim.» rispose, accennando un piccolo sorriso. «Loro lo capiscono che tu salvi il mondo, ma… sei sempre il loro adorato papi.» si strinse nelle spalle.

«Lo so. E non dovrebbero neanche capirla questa cosa. Dovrebbero essere bambini e basta».

«Certo, un bambino blu, con tanto di corna, che l’ultima volta che si è messo a piangere ha allagato letteralmente l’Istituto… e l’altro che studia il latino e per farsi un toast disegna la runa del fuoco. Tutto normale in questa casa.» aggiunse Magnus, sogghignando soddisfatto. «Adorabili».

Un sorriso leggero gli si stiracchia sulle labbra. «Eravate così adorabili ieri notte tutti e tre».

Lo Stregone sembrò pensarci su e, conoscendolo, stava cercando di evitare qualcosa di sconveniente, di trovare le parole più adatte nel suo vastissimo vocabolario ben calibrato nei secoli. «Adorabili, .» mugugnò poi, il tono più neutro che mai.

Alec che, seppure ben rimbambito ed esausto dalla sua lunga giornata, o per meglio dire settimana, conosceva piuttosto bene suo marito, aveva fiutato il cambiamento decisamente evidente nel tono della conversazione. «Che succede, Mags?».

«Dovremmo dormire, dolcezza. Che tu sei appena tornato e stai decisamente a pezzi.» bofonchiò e si affrettò subito a riprendere posto sotto le lenzuola.

«Magnus, per favore.» mugugnò. «Noi non siamo di quelle coppie, okay? Ci sono problemi?».

Lo Stregone tirò un lungo sospiro. Sembrava qualcosa di antico, quando spingeva l’aria fuori dai polmoni in quel modo, forse un po’ drammatico, un po’ teatrale. Ma sembrava stesse tenendo in testa e nel cuore qualcosa di pesante, pesante davvero. «Non volevo far uscire così il discorso. Voglio che venga messo agli atti, Alexander».

«Cosa succede, Mags?» domandò, mentre con lo sguardo sondava il suo viso. E quasi si stava dimenticando che quella conversazione poteva andare in una strada buia e desolata, perché, anche se tornava a dormire a casa, suo marito gli era mancato da morire. Ma, via, doveva stare attento e non poteva perdersi su quel viso perennemente giovane che aveva smesso di invecchiare secoli prima, su quella pelle ambrata, sulla leggera curva di quei suoi occhi da gatto, sulla mascella leggermente squadrata o sui capelli, che quella sera sembravano incredibilmente morbidi e forse ancora più scuri di quanto si ricordasse. Doveva capire, doveva sapere cosa stesse capitando in quella casa.

Anche Magnus però lo squadrava, in silenzio assoluto. «Non volevo parlartene così.» mormorò poi, sospirando di nuovo. «Ieri Rafael è venuto a chiamarmi nel mio studio: Max ha avuto un brutto incubo, come quella volta che era proprio piccolo piccolo e non riuscivamo a farlo calmare e siamo rimasti svegli tutta la notte con lui in braccio. Quando sono arrivato nella stanza chiamava te. Voleva te. Era sveglio e voleva te».

Alec tirò un sospiro a mascella serrata e le parole gli morirono tutte in fondo alla gola.

«L’ho preso in braccio e gli ho detto che saremmo stati svegli anche tutta la notte se dovevamo aspettarti. Perché di sicuro saresti tornato.» aggiunse poi, la voce calma. «Ho preparato camomilla per tutti, avevo anche valutato l’ipotesi di fare un piccolo incantesimo per farli dormire, ma ho preferito il classico rimedio della nonna camomilla e miele. Poi li ho portati qui, tutti e due, perché anche se Rafael diceva che poteva dormire nella sua cameretta, aveva già cominciato a strofinare tra le dita l’orlo del suo pigiama. Pensa ancora che non sappiamo che lo fa solo quando è agitato. Lo ha fatto anche un po’ con le lenzuola e con la mia vestaglia…» farfugliò. «Ci siamo messi a letto, mi hanno chiesto di tenere la luce accesa in bagno e si sono fatti raccontare un’altra storia. Hanno voluto quella in cui Jace ha rovinato la festa di compleanno di Izzy due anni fa…».

Lo Shadowhunter rimase in silenzio ancora. Il nodo era tornato di prepotenza a stringerglisi in gola. E forse Magnus se n’era accorto, visto che si allungò a poggiare una mano sulla sua.

«Non ci pensare troppo. Erano preoccupati, lo ero anche io. Comunque, per primo si è addormentato Max, e stamattina mi sono svegliato col braccio intorpidito e un litro di saliva sulla mia spalla. E Rafael si è stretto a me ma quando gli ho detto che mi avevi mandato un messaggio e che stavi tornando si è calmato».

Aveva mentito. Aveva mentito ai suoi figli ed era una cosa che avevano giurato di non fare mai.

 Alec deglutì di nuovo, nel tentativo di sciogliere quel nodo alla gola. Anche la sua pancia aveva fatto uno strano salto per nulla piacevole. Senso di colpa. Era senso di colpa.

«Mi dispiace. Volevo affrontare diversamente questo argomento.» ribadì Magnus.

«No. No hai fatto bene a parlarmene.» disse subito, la voce era riapparsa d’improvviso, anche se la sentiva ancora quella fastidiosa sensazione in fondo al palato e alla bocca dello stomaco. «Anzi… vorrei essermene accorto, esserci stato. Questa cosa dobbiamo farla funzionare insieme, non deve essere tutto addosso a te.» aggiunse intrecciando le dita a quelle di suo marito.

Magnus sorrise appena, un sorriso leggero e sincero. «È il tuo lavoro, Alexander. Suppongo anche i Mondani si trovino in situazioni simili. Direi che è ordinaria amministrazione per qualcuno. Almeno cerca di mandare un messaggio la prossima volta.» mugugnò. «Non mi piace mentire alle due scimmiette. Soprattutto se si tratta di te. Stasera mi sono inventato che stavi facendo tardi perché il tuo caro parabatai ha fatto un casino e ha fatto imbestialire Isabelle. Hanno riso. Abbiamo riso. E sono riuscito a deviare la conversazione e hanno dormito per bene tutta la notte.» farfugliò, lo sguardo cupo.

«Magnus.» lo chiamò di nuovo.

«Non mi piace mentire ai nostri figli, soprattutto se non so come stai. E non vorrei mai mentire su di te. Posso mentire su tutto il resto, perché è giusto che rimangano bambini, e quindi va bene Babbo Natale, i Draghi, le fate che sono proprio come quelle delle favole e non come i Seelie. Possiamo essere d’accordo su tutto. Ma io non posso mentire su di te, mh? Io devo sapere se stai bene, se stai tornando a casa. Devo saperlo, hai capito?».

Alec annuì di nuovo, e sentiva quel qualcosa, quella scomoda sensazione alla bocca dello stomaco bruciargli in petto. «Non vorrei mai farti preoccupare, sai?».

«Provaci, allora.» rispose pacato, gli occhi fissi su di lui che tradivano un certo fervore. «Manda un messaggio di fuoco, un sms, una mail, un piccione viaggiatore. Guarda, vanno bene anche i segnali di fumo, ho imparato a leggerli quando sono stato con quegli Stregoni nativi americani quando ancora l’uomo bianco non li aveva decimati tutti».

«Dovrò imparare a fare i segnali di fumo, allora.» bofonchiò.

«Uh! Buona idea, con un po’ di allenamento potremmo fare delle allusioni sessuali sotto gli occhi di tutti senza che nessuno sappia cosa vogliano dire…» farfugliò con un sorriso leggero.

Il tono della conversazione stava tornando tranquillo come al solito.

Alec non poté frenare quella sensazione improvvisa di leggerezza che gli andava invadendo il petto. «Come se ti servisse un codice per fare allusioni».

Magnus mugugnò in assenso. E lo Shadowhunter poté godere di quel piacevole silenzio.

Dopo un paio di minuti decise che forse era ora di espletare certe funzioni fisiologiche, prima di crollare sul materasso. Ma non era molto sicuro di riuscire a convincere il suo corpo a lasciare il letto, e Magnus, e quella luce arancio tenue che riscaldava ancora di più l’ambiente fin troppo confortevole della stanza. Gli si fissò lo sguardo su un qualcosa di non ben specificato nella stanza.

Suo marito si schiarì appena la voce, richiamando la sua attenzione.

«Vuoi dirmi cosa sta succedendo, Alexander? O preferisci che continuiamo questa pantomima? Ho visto sufficienti serie tv e soap-opera argentine e spagnole per poter far finta che non ammazzi i demoni per vivere e che magari invece hai fatto solo un viaggio lontano e sei tornato senza avvertire. Che ne so.» borbottò con calma, alzando un sopracciglio.

Ecco, quello era il segnale per andare in bagno, ci volle un istante a convincere le sue articolazioni stanche a collaborare per flettere le ginocchia e permettergli di alzarsi. «Nulla che ti debba preoccupare per ora, Mags. Vado in bagno, tu dormi intanto.» sospirò barcollando un attimo. Doveva decisamente dormire un po’.

Nei passi che lo dividevano dal bagno aveva potuto sentire gli occhi di Magnus erano stati fissi su di lui, a scavargli la nuca. E forse anche adesso, che la porta è chiusa alle sue spalle, gli occhi da gatto dello Stregone sono ancora fissi sulla lastra di legno.

E con l’acqua a scrosciare nel lavandino, mentre si lavava i denti e cercava di restare sveglio e non ingoiare il dentifricio, cominciò a ponderare il da farsi. Forse doveva parlargli, magari era utile sapere cosa potesse pensarne lui: anche perché presto o tardi Jace avrebbe convocato Magnus per ulteriori indagini riguardo gli attacchi. Tutti quegli attacchi consecutivi all’Istituto, quell’anomala attività demoniaca. D’altra parte, c’era una regola: tenere il lavoro fuori da quella casa quando c’erano i bambini. Magnus vedeva pochissimi clienti a casa, e solo quando lasciavano i bambini nelle sapienti mani dei loro zii, della nonna, di Maia o di Lily Chen, che in effetti si era rivelata col tempo un’ottima babysitter. Magnus andava agli incontri al Labirinto a Spirale, si occupava degli stregoni sotto la sua ala protettrice e controllava le sue attività da Nascosto solo fuori da casa. Così come Alec doveva tenere il suo lavoro e il terribile olezzo di icore fuori dalla porta.

E visto che Magnus negli scorsi dieci giorni era stato piuttosto impegnato con certi problemi che c’erano stati al Labirinto, e Alec non aveva passato molto tempo a casa, non avevano avuto modo di ritagliarsi un momento senza bambini per poter parlare agevolmente. Le regole sono regole.

E questa, in particolare, era entrata in vigore da un po’ di tempo ed erano riusciti a rispettarla al meglio entrambi. Era stato necessario introdurla nel ménage familiare, soprattutto dopo l’incidente di qualche anno fa, pochi mesi dopo l’adozione effettiva di Rafael, quando già il suo era diventato un lavoro quasi sedentario. Era capitato che dovesse invece andare in missione con quel piantagrane del suo parabatai e si era guadagnato due ampi squarci sulla schiena da parte di un grosso demone Shax. Era tornato a casa tardi, aiutato da Simon e Jace, e si era praticamente dissanguato prima di raggiungere il divano. Rafael, che ancora aveva certi terribili incubi notturni era sveglio e gironzolava per casa: i due Shadowhunter che l’avevano accompagnato a casa non erano stati sufficientemente rapidi a deviarlo fuori dalla stanza, mentre Magnus era concentratissimo e più che impegnato nel processo di cura, e la sua scimmietta era andata nel panico. Quel povero bambino non aveva lasciato più Alec da solo per i successivi sette giorni, e anche quando il suo papi era più che in grado di muoversi e andare all’Istituto, non gli levava gli occhi di dosso. C’era voluta tutta la pazienza di Magnus per tranquillizzarlo: con lui Rafael aveva un rapporto particolare, diverso da quello che aveva con Alec, come se Magnus sapesse come sondare gli angoli più cupi del suo cuore e potesse dargli conforto anche soltanto guardandolo negli occhi o tenendo la mano sulla sua piccola schiena. Ed era stata una fortuna che Max era ancora troppo piccolo, sebbene si fosse accorto anche lui che c’era qualcosa di strano.

E così, dopo quello che venne chiamato “L’Incidente”, con la lettera maiuscola, loro due si erano messi a tavolino, come al solito per discutere le regole di quella casa, e avevano deciso che avrebbero tenuto il loro lavoro il più lontano possibile dai loro bambini. Finché Rafael non fosse stato abbastanza grande da avere la sua prima runa. Magnus aveva detto qualcosa riguardo alla maggiore età, ma poi erano arrivati a questo compromesso.

                                     

Quando era tornato in camera, in un paio di pantaloni da tuta estremamente larghi e comodi, Magnus l’aveva osservato a lungo, gli occhi da gatto fissi su di lui, come a volersi imprimere la sua immagine nella testa. O come a volersi sincerare, di nuovo, che fosse tutto intero.

«Alexander.» lo chiamò di nuovo, la voce soffice come una carezza sulla pelle.

«Abbiamo una regola. E non l’abbiamo mai infranta.» rispose sbrigativo.

Magnus sospirò. «Lo so. Dimmi solo se devo preoccuparmi».

«Non devi.» replicò brevemente spostando le lenzuola e il copriletto dal suo lato del materasso. «È solo che Clary è davvero molto incinta e siamo a corto di braccia, visto che Simon è di nuovo all’Accademia per reclutare, la solita solfa».

«Non voglio immaginare cosa sia avere in grembo il figlio iperattivo di Barbie. Con quella testa enorme che si ritrova, sicuramente la genetica non sarà a suo favore, povera Biscottino…» commentò con la fronte corrugata in un’espressione illeggibile.

Alec puntò gli occhi su Magnus, ubriacandosi del suo viso. «Sai? Non posso fare a meno di notare una cosa…».

Suo marito assottigliò le labbra alzando un sopracciglio in una smorfia incuriosita.

«Non mi hai salutato.» replicò avvicinandosi a lui, per poi passargli entrambe le braccia intorno al collo.

«Se è per questo anche le tue competenze sociali non sono delle migliori, Alexander.» rispose lui, sogghignando appena. «Sai vero che sei davvero troppo stanco per fare sesso? E poi ci sono i bambini che sono in quella fase della vita in cui il loro sonno è davvero leggero».

«Scommetto che tu potresti usare quel trucco per insonorizzare la stanza, se lo volessi.» replicò facendo scendere le braccia a circondare i fianchi di Magnus per trovare una posizione un po’ più comoda, le gambe intrecciate alle sue.

Gli occhi dorati di suo marito vibrarono per un istante un’occhiata per niente stupita. «No. Dormiamo insieme da un po’, mio caro, so dove vuoi andare a parare. Vuoi davvero entrare nei miei boxer solo per glissare sull’argomento? Mi sembra ci siano gli estremi per uno sciopero del sesso».

«Magnus abbiamo una regola.» ribadì sbuffando.

«Sì, ma ricordati che io ho la possibilità di veto su quella.» bofonchiò. «È da più di dieci giorni che torni dopo le due del mattino. È una settimana che i tuoi figli non ti vedono al di fuori di quelle brevissime visite all’Istituto che non ci permettete di prolungare. Io mi sveglio la mattina e non ti trovo a letto. Non fai colazione con noi… non ceni con noi e soprattutto non riusciamo ad avere una conversazione perché quando sei qui, sei troppo stanco e di solito è notte e quindi si dorme.» brontolò. «Direi che ho diritto di veto, soprattutto perché tua sorella mi ha convocato per una consulenza all’Istituto perché “Ehi Magnus, scusa se ti disturbo, ma c’è stato un altro attacco”. Un altro, Alexander. Che cosa vorrebbe dire un altro attacco?».

Ecco. Bel casino. Una piccola parte di lui gridò internamente una mezza imprecazione.

«Magnus.» lo chiamò piano. «Per favore, possiamo parlarne domani, magari mandiamo i bambini da Lily e…».

«Alexander, stanno dormendo.» rispose con calma, un sopracciglio alzato. «E il fatto che ci siano stati ripetuti attacchi, direi che si può definire un’emergenza e questa conversazione dovremo affrontarla prima o poi. Ed è già domani, per cui, sputa il rospo».

Alec strinse le labbra.

«Devo sapere se devo preoccuparmi, se devo già pensare a cosa farò senza di te. Se devo cominciare a cercare le parole giuste per dire ai bambini che una di queste sere non tornerai più. Perché c’è stato un altro attacco Alexander. Un altro.» ribadì. e per un momento la voce gli trema. «Sei esausto, io non-».

«Mags.» mormorò dolcemente, allungando la mano ad accarezzargli la schiena, stringendoselo di più addosso. «Non sembra nulla di grave, in realtà».

«Davvero? Ripetuti attacchi all’Istituto non sono niente di grave?!» replicò, e di certo se i bambini non fossero in quella famosa fase del sonno estremamente leggero, qui sarebbero volate parole a voce alta e delle imprecazioni di buon livello. E non cose tipo “razzo”, “fanciullo” e compagnia bella.

Sbuffò. Okay, non poteva farsi pregare tanto a lungo. «Ci sono stati alcuni attacchi all’Istituto, undici per l’esattezza. Per questo torno tardi».

«Feriti?» domandò, alzando gli occhi su di lui.

«Nessuno. Stasera, mi stavo preparando per venire qui, quando abbiamo sentito l’allarme. Le tue barriere hanno retto e quando siamo usciti, armati e pronti ad attaccare… i demoni erano ridotti in polvere. Come le altre volte. Izzy sta analizzando i residui.» mugugnò poggiando un bacio tra i suoi capelli. «Ovviamente ho dovuto dare un’occhiata con Jace e scrivere almeno un breve rapporto».

«Capito.» sospirò.

«Te ne avrei parlato, appena facciamo più chiarezza… siamo stati incasinati, ultimamente. Clary è davvero molto incinta. E Simon è davvero all’Accademia.» aggiunse con un sorriso leggero.

«Me lo ricordo.» annuì Magnus. «L’importante è che non è niente di serio. Ma forse può essere legato a quanto sta succedendo nella comunità degli Stregoni, per cui vorrei che qualsiasi ulteriore aggiornamento mi arrivasse, mh?» mugugnò.

«Cosa sta succedendo nella comunità degli Stregoni?» domandò Alec.

«Undici sparizioni. Sono scomparsi undici Stregoni, a quanto pare.» bofonchiò. «E su per giù è successo poco prima che all’Istituto cominciassero gli attacchi… mi viene da pensare che forse le due cose sono collegate. Se me l’avessi detto prima, avrei mobilitato il Labirinto a Spirale…».

«Magnus… mi dispiace, li conosci?» domandò Alec.

Suo marito sospirò. «Quando vivi a lungo come me, è facile conoscere molte persone. E comunque non potevi saperlo. Tessa ha inviato un messaggio al Console: l’informazione verrà divulgata tra qualche giorno, quando le nostre indagini si saranno concluse».

«Per questo sei lì di continuo.» evinse lo Shadowhunter. «Avevo capito che aveva a che fare con delle prigioni».

Magnus sbuffò. «Più o meno. Uno degli stregoni scomparsi era detenuto nelle nostre prigioni».

Alzò un sopracciglio. «Era detenuto nelle prigioni?». Ancora non aveva molta chiarezza nella testa, e non solo perché era davvero molto stanco, ma perché i Nephilim avevano davvero poche informazioni riguardo al Labirinto a Spirale.

«Alexander, mio caro, lo sai che non posso parlarti ancora di molte cose riguardanti il Labirinto.» bofonchiò. «Appena potrò dirti di più, e solo relativamente a queste sparizioni lo farò: appena avremo notizie più fondate e corroborate da altre, o se mai le stranezze che avvengono all’Istituto hanno un qualche collegamento con quello che è successo a questi undici Stregoni».

Alec, forse complice la stanchezza, annuì e si strinse un po’ di più a suo marito, pelle contro pelle. «Io comunque non ho avuto il mio bentornato.» bofonchiò, il suono leggermente ovattato perché aveva affondato la faccia contro il collo di Magnus.

Lo Stregone sghignazzò, e anche quando era una risata così corposa era comunque melodiosa. «Sei davvero troppo stanco per il sesso, Alexander».

«Tutte cose a nord dell’Equatore, allora.» rilanciò, avvinghiandosi a lui e cominciando a dargli le attenzioni che meritava. Baci su baci incatenati sulla pelle, dalla spalla alle labbra e via di nuovo a seguire lo stesso percorso mentre le mani non riuscivano a stare ferme.

«Comunque, domani ti verrò a trovare all’Istituto, di certo il tuo biondissimo fratello e la sua incredibilmente incinta consorte non possono lasciarti un giorno libero. E potrei anche proporre un bel controllo alle barriere, del tutto gratuito.» bofonchiò lui, rispondendo con un tremolio ai suoi baci.

La testa di Alec guizzò su, a fissarlo accigliato. «Urgh! Niente più lavoro. E non parlare di Jace a letto è strano. Dovrebbe essere inserita tra le nostre regole.» sbuffò, riprendendo a incatenargli baci leggeri sul collo e nell’incavo della spalla.

«Alexander.» lo chiamò di nuovo. «Non è normale che stiano attaccando l’Istituto consecutivamente per dieci sere…».

«Undici, la prima sera ero già a casa quando hanno attaccato. E dobbiamo parlarne davvero? Sono stanco, e voglio solo un po’ di coccole.» brontolò. «Poi voglio dormire fino a tardi domattina, fare colazione con te e i bambini… e magari a un certo punto mandarli davvero da Lily e fare un po’ di capriole tra le lenzuola».

«Alexander.» ripeté, il tono dolce. Le sue mani gli raccolsero il viso. «Dovremmo parlarne prima o poi».

«Domani?» sospirò. «Prometto che starò a casa tutto il giorno».

«E poi ti chiameranno dall’Istituto perché Clary è davvero molto incinta e Jace è davvero molto iperattivo e tua sorella non ce la fa più, e presto o tardi li ammazzerà tutti. Io chiaramente l’aiuterò a trafugare i corpi.» bofonchiò, senza neanche sfoderare il suo tono melodrammatico. Anzi, un lieve sogghigno gli arricciava le labbra mentre l’idea di Isabelle che faceva strage del resto della famiglia prendeva piede.

«Credo di riuscire a convincere Izzy a non ucciderli domani, e penso che tu riesca a sbrigare la tua consulenza in mattinata, così stiamo insieme.» annuì e riprese a dare attenzione alla sua mascella e a quel punto poco sotto l’orecchio, dove la pelle è così liscia e morbida, che lo faceva impazzire.

«È già domani, Alexander.» gli fece notare. «E se poi ti chiamano dall’Istituto, tu non sai proprio dire di no».

«Mags.» provò a dire, ma venne zittito dalla mano di suo marito che gli spremeva la faccia.

«E, sì, tu hai davvero bisogno di dormire. Perché domani la colazione la sceglie Max. E finché non riusciamo a fargli venire a noia quei benedetti pancakes di Elmo, ci toccherà mangiarli tre volte la settimana. E tu, per poterti lamentare tutto il giorno con le mie povere orecchie, hai bisogno di energie, per cui è ora, Alexander. Stavi dormendo faccia in giù, sbavando sul cuscino del divano poco fa…» bofonchiò.

«Mmhpf!» cercò di opporsi, e allora Magnus spostò la mano dal suo viso. «Oddio! Ma io non mi sazio con quelli!» brontolò. «Non è giusto, sono così piccoli!» disse collegando pollice e indice a formare un piccolo cerchio. «Come si fa a saziarsi coi pancakes di Elmo?!».

«È un bambino Alexander, non ha lo stomaco senza fondo che avete voi Nephilim.» replicò Magnus, soffocando una risata, mentre gli abbracciava il collo e lo tirava a sé, per farlo accomodare contro di lui.

«E Rafael allora?» mormorò. «Lui non si sazia, non sono io il problema, sono quei pancakes».

«Se te lo fossi fatto con le tue mani, quel bambino, non sarebbe di certo così uguale a te.» commentò, stringendosi a lui. «Anche Rafael si è lamentato col tuo stesso tono, se non con le stesse parole, di quei benedetti pancakes di Elmo. Comincia a farsi inquietante la cosa…».

«Perché non sono buoni! E sono piccoli!» replicò. «Almeno me lo merito un po’ di bacon e della frutta accanto? Che ne so anche un po’ di panna. Oddio ho già fame!».

«Primo, forse dovresti mangiare di più quando lavori. Secondo, è la regola.» replicò suo marito scrollando le spalle. «E come dite voialtri, la legge è dura ma è legge».

«È una legge stupida.» brontolò. «E voglio metterci un veto. E poi da quand’è che siamo così attenti alle regole io e te?».

«Non ci sono gli estremi per un veto.» sospirò facendogli l’occhiolino. «Appena non guarda ti faccio un panino marmellata e burro d’arachidi, se vuoi. E dobbiamo stare attenti alle regole perché siamo genitori. Non vorrai che escano fuori come Barbie, i tuoi figli?».

«Dio, no.» sbuffò. «Però non sono d’accordo. Deve essere qualcosa di nutriente e abbondante, anche salutare… quei pancakes sono piccoli».

«C’è la frutta dentro. Sono salutari e hanno il giusto apporto di carboidrati e grassi per cominciare bene la giornata, lo dice la confezione!» replicò Magnus tra un bacio e l’altro. «Dai, è la regola».

«È una regola stupida.» ribadì Alec, chinandosi a baciargli le labbra, ancora e ancora. Non si era accorto di quanto di fatto gli fosse mancato anche solo questo: semplicemente lamentarsi della colazione con suo marito, con le gambe intrecciate sotto le lenzuola.

«È stata decisa a tavolino, insieme alla regola della nanna e a quella del bagnetto.» gli ricordò Magnus, il sogghigno di chi la sapeva lunga.

Le regole le aveva decise quasi tutte Alec, in effetti, e Magnus si era opposto all’inizio, preferendo una modalità di educazione un po’ più flessibile. Forse sapeva, che un giorno tutta quella organizzazione squadrata gli si sarebbe ritorta contro. Già lo poteva sentire commentare la questione con un qualcosa di molto simile a “Voi, sciocchi, sciocchi Nephilim”.

«Dovremmo aggiornarle allora.» replicò.

Magnus gli scoccò un bacio sotto al collo, dove passava la giugulare. «Dai che solo per dopodomani ti permetto di scegliere al posto mio: anche se, se decidessi di fare i French toast io sarei felice!».

«Ma toccava già a me dopodomani!» brontolò. «Sento puzza di fregatura!».

Magnus ridacchiò. «No, toccava a te la scorsa settimana ma, ehi, eri ad Alicante. Quindi immagino che tu ti sia divorato un capretto intero a colazione…».

«Sì, mia madre prepara delle colazioni piuttosto abbondanti.» rispose. «Però non vale!».

«La legge è dura, ma è legge.» ribadì a occhi chiusi, mimando la voce di un vecchio.

Alec sospirò profondamente. «Quindi pancakes di Elmo domattina…».

«Non fare i capricci, che sei un po’ cresciutello per lamentarti di queste cose.» ridacchiò divertito e gli poggiò un bacio fugace sulle labbra arricciate. «Per quanto tu sia decisamente adorabile quando fai quella smorfia imbronciata».

«Ma anche Rafael si lamenta.» mugugnò. «Non sono solo io!».

«Rafael è un bambino, Alexander.» replicò. «Un bambino Nephilim, ma comunque un bambino. Quindi può lamentarsi».

«Uffa.» soffiò di nuovo, sfregando la faccia contro il cuscino di Magnus, mentre soffocava uno sbadiglio.

«Dormiamo un po’, va. Che se domani è vero che sarai a casa tutto il giorno, ti serviranno un sacco di energie coi tuoi figli».

 

 

 

 

Dormire con Magnus era sempre stato qualcosa di magico. Certo, Magnus era magico, quindi era facile che tutto ciò che lo concernesse avesse questa specie di alone indescrivibile.

Ma dormire con lui, era qualcosa di così rassicurante e appagante, che poteva anche essere fatto su un letto di tizzoni ardenti e sarebbe comunque stato riposante. Trasmetteva quel senso di appartenenza, quel senso di casa e tranquillità che nient’altro al mondo riusciva a dargli.

Le prime volte, proprio all’inizio della loro relazione, era stato quasi terrificante, alienante. Non riusciva a capire come uno come lui, sempre all’erta, riusciva a cedere con tale rapidità. Forse una piccola parte di lui, quella ancora attaccata al non chiedere non dire dei dettami del Clave, aveva creduto che fosse sotto qualche forma di incantesimo; ma a dormire così bene, con la persona amata accanto, non poteva che dirsi soddisfatto, se anche fosse stato sotto un qualche sortilegio.

E poi era diventato naturale quasi come respirare attraversare isolati interi per raggiungere il loft, sfilarsi gli stivali accanto alla porta e camminare a piedi scalzi verso la camera da letto. Scivolare sotto le lenzuola e prendersi il suo posto vicino a suo marito. Ed era come se i loro corpi fossero stati creati per stare così, intrecciati.

 

La luce di quel mattino era di un tiepido arancione e si stava allungando su quelle lenzuola smeraldo. Gli sbatteva sulle palpebre con una certa insistenza, ma d’altro canto era un piacevole modo di svegliarsi: piano piano aveva percepito tutto, la seta morbida che lo avvolgeva, il calore familiare che era sotto e intorno a lui, Magnus, che lo teneva abbracciato come quando si era addormentato, il suo respiro sul viso.

Alec non aveva poi tutta questa gran voglia di alzarsi dal letto, o di aprire gli occhi in generale. E non soltanto perché sapeva l’avrebbe atteso un piatto di minuscoli pancakes di Elmo a colazione, ma perché gli era evidentemente mancato tutto questo, il semplice poltrire al letto tra le braccia di suo marito.

E d’altra parte, Magnus non stava certo cercando di svegliarlo, le sue dita gli percorrevano la cute, arricciandogli i capelli tra i polpastrelli, l’altra mano gli accarezzava piano il fianco, disegnando un motivo strano, forse una runa.

Greenpoint era già sveglia da ore, così come Brooklyn e tutta New York. Ma il grugnito impertinente del traffico non era che un mormorio, attutito dalle finestre chiuse, dal tendaggio e forse anche da un mezzo incantesimo del Sommo Stregone che divideva il letto con lui. Ma se il sole già era affacciato oltre i palazzi, e le strade pullulavano di pendolari poteva voler dire solo una cosa: i bambini sarebbero stati lì a minuti.

Non ebbe neanche il tempo di formulare questo pensiero, ancora ottenebrato dal fatto che si stava riaddormentando, quando li aveva sentiti, i passi rumorosi e frettolosi di due scimmiette, che avevano la stessa infinita grazia del famoso branco di gnu del film Il Re Leone.

«Dovresti svegliarti, dormiglione.» mormorò Magnus con le labbra contro la sua tempia, prima di sciogliere l’abbraccio che l’accoglieva.

Alec grugnì di malavoglia. «Altri cinque minuti.» protestò appena, scostandosi da suo marito solo per coprirsi la testa col lenzuolo.

«Papà! Papà!» cinguettò Max, spalancando la porta senza mezze misure. «Stamattina pancakes di Elmo!».

Lo Shadowhunter non poté far a meno di sogghignare quando sentì il sommesso borbottio di Rafael. «Dios, Maxie… por favor, perché non provi le omelette? Giuro, è buona la pappa d’avena!», il bambino più grande aveva la voce impastata dal sonno ed era un gran musone la mattina, soprattutto quando suo fratello sceglieva la colazione. E Alec non poteva certo dargli torto.

«Ciao scimmiette. Me lo ricordo, stamattina pancakes di Elmo. Alle fragole e ai mirtilli.» annuì Magnus.

Rafael sbuffò sonoramente. «Comunque, siamo qui per un altro motivo. Il telefono di papi ha squillato. Era l’Istituto».

Alec sentì subito Magnus spostarsi dal letto e abbandonare del tutto le coperte. «Probabilmente è per me, zia Isabelle mi ha invitato a vedere una cosa interessante oggi in laboratorio da lei, la chiamo e vedo se è qualcosa di urgente».

«Avrebbe chiamato te, no? E non papi.» rispose Rafe, la voce seria.

«Vediamo se riesco a far avere la giornata libera a papi.» disse Magnus. «Voi intanto potete stare un po’ qui se volete o vi posso mettere i Pokémon».

Alec stava ponderando l’idea di sbucare fuori dalle lenzuola e aggredire i fianchi dei suoi due bambini per far loro un po’ di solletico, quando sentì Max sospirare.

«Quindi,» bofonchiò piano, la voce bassa bassa, quasi impercettibile. «Papino non rimane con noi neanche oggi?».

E ad Alec si strinse un piccolo nodo in gola.

«Non lo so, Maxie, papà di certo riuscirà a convincere gli zii a lasciarlo in pace lmeno per fare colazione con noi.» gli rispose Rafael. «Lasciamolo dormire, intanto… hai visto che sono tante sere che non ci mette a letto? Deve essere davvero stanco. Se sta con noi oggi, dobbiamo essere super bravissimi».

«Sì! Super bravissimi!» mugugnò Max entusiasta.

«Potremmo andare a lavarci e vestirci, e così stiamo con lui un pochino di più quando si sveglia.» propose poi, il piccolo Nephilim.

E prima ancora che muovessero un passo, Alec tirò fuori la testa da sotto le lenzuola. «Oppure,» disse e due paia di occhi sfavillarono su di lui come se fosse la mattina di Natale e lui fosse l’albero addobbato e tutti i regali. «Potreste salire sul letto qui con me e aspettare papà, che sono sicurissimo riuscirà a convincere zio Jace a lasciarmi stare per oggi».

Max non se lo fece ripetere due volte e cominciò ad arrampicarsi sul materasso, la lingua tra i denti nella sua smorfia di concentrazione più totale. Alec si allungò a raccoglierlo in tutta fretta, il materasso era troppo alto perché riuscisse ad arrampicarsi con facilità.

Rafael invece sembrava ancora un po’ titubante.

«Vieni, Rafe?» domandò piano, mentre arruffava i capelli blu di suo figlio.

«Quindi oggi davvero rimani con noi?» bofonchiò il piccolo Nephilim, squadrandolo coi suoi occhi scuri.

Alec gli fece l’occhiolino. «Lo sai che papà è estremamente persuasivo, vieni dai».

«Uh! Se rimani con noi puoi scegliere tu quello che mangiamo a colazione, eh?» farfugliò Max. «Posso mangiare i pancakes di Elmo un’altra volta».

Rafael si affrettò a prendere posto anche lui sul letto, un po’ più agile di suo fratello, con quella manciata di centimetri in più e il sangue angelico a dargli una spinta in più. «Se siamo tutti d’accordo, si può fare uno strappo alla regola, giusto?».

«Si chiama democrazia.» aggiunse Max annuendo, l’aria da ometto vissuto. «Se siamo tutti d’accordo possiamo cambiare la regola».

Lo stomaco di Alec fece un piccolo salto, piacevole stavolta, sebbene il nodo fosse ancora stretto alla gola: i suoi bambini stavano davvero diventando grandi e dovevano davvero aver sentito la sua mancanza, quasi come lui aveva sentito la loro. «Come buoni, scimmiette! Mangerei voi a colazione!» bofonchiò poi tirandoseli tutti e due addosso e abbracciandoli, coprendo di baci le loro guance.

Rafael aveva cercato di districarsi dalla sua stretta per un istante, protestando piano, ma opponendo ben poca resistenza, mentre Max rideva e si stringeva di più a lui.

«È ora della battaglia del solletico, direi!» annunciò Magnus sulla porta, un sorriso giocoso sulle labbra.

Max e Rafael alzarono gli occhi in attesa, prima di chiedere in una sola voce. «Rimane con noi?».

«Sì, ve l’ho detto che zia Isabelle voleva me.» annuì sorridendo e senza girare intorno al letto, per tornare al suo posto, si fece strada sul materasso dal lato di Alec e si accomodò vicino a lui, gettandogli un braccio intorno alle spalle.

Alec gli scoccò un bacio sulla guancia. «Ve l’avevo detto che sarebbe riuscito a convincere zio Jace a lasciarmi in pace».

I bambini sembrarono ancora più soddisfatti e fieri del loro papà. Anche se forse Rafael aveva borbottato qualcosa su quanto fossero imbarazzanti loro due, quando si scambiavano certe effusioni.

Magnus sorrise. «Oggi starete un bel po’ con papi. E quando torno mangiamo insieme, ci vediamo un film… poi facciamo una bella passeggiata fino da zia Lily, che ha comprato un nuovo gioco che ha trovato e vuole assolutamente farvelo vedere».

Lo Shadowhunter alzò un sopracciglio. E anche il piccolo Nephilim, che gli somigliava in un modo ai limiti dell’inquietante guardò tutti e due di taglio. Ma fu Max a parlare.

«Ci sono problemi?» domandò, la fronte blu corrugata in una smorfia pensierosa. «Quando ci portate da zia Lily vuol dire che non possiamo andare da zia Izzy o da zia Clary… e che voi avete da lavorare».

«È vero perché zia Clary è molto molto incinta e zia Izzy oggi ha molto lavoro da fare visto che Simon non c’è.» si affrettò a rispondere Alec. «Soprattutto perché lo sapete com’è pasticcione zio Jace, no? Quindi servono due supervisori adulti. Giusto, Mags?».

«Esatto. Per questo devo andare anche stamattina all’Istituto… papà non serve, è una cosa che devo risolvere io che sono uno Stregone potentissimo.» rispose Magnus facendo scivolare il lampo blu della sua magia tra le dita per un momento, i suoi occhi da gatto che sfavillavano. «E poi lo sapete com’è zia Lily, quanto è capricciosa! Ha comprato questo gioco e vuole farlo coi suoi piccoli umani preferiti.» aggiunse imitando malamente la vampira.

Alec notò subito lo sguardo ben poco convinto di Rafael e si sbrigò di nuovo ad aprire la bocca. «Allora, riusciamo a fare colazione tutti insieme oggi?».

«Oh, ma assolutamente.» rispose Magnus. «E mi pare di aver sentito uno dei miei ometti preferiti dire qualcosa in merito alla democrazia…».

«Vogliamo cambiare un po’ il menù di oggi!» cinguettò Max. «Insieme ai pancakes di Elmo cosa vuoi papi?».

Alec non dovette pensarci su neanche un momento. «Uova e bacon, a te va bene Rafe?».

Rafael sorrise, due piccole fossette a incavargli le guance. «Però io voglio delle banane, un po’ di panna e le gocce di cioccolato coi miei pancakes. Bisogna mangiare anche un po’ di frutta».

«Panna e cioccolato non sono frutta, Rafe.» gli fece notare Max.

«Però sono buoni.» replicò il fratello più grande, con l’aria di chi la sapeva lunga. «E poi lo sciroppo d’acero!».

«E una spremuta d’arancia!» rilanciò il più piccolo.

«E un po’ di caffè.» aggiunse Alec.

«Uh, una colazione da campioni!» mugugnò Magnus, lasciando nuovamente il materasso e avviandosi verso la porta. «Chi vuole aiutarmi?».

«Vengo io, papà.» si propose Rafael balzando giù dal letto e lasciando così Max e Alec da soli.

Era un silenzio confortevole. Max era ancora tra le sue braccia, la testa poggiata sotto il suo collo, e Alec poté quasi giurare che suo figlio si stesse riaddormentando, quando improvvisamente la testolina riccioluta si tirò su. Gli occhi, due pozzi di un blu di una tonalità appena più scura delle sue iridi, lo fissarono.

«Che c’è, scimmietta?» domandò.

«Sei tornato tardi anche ieri sera.» mormorò. «E ci portate da Lily, stasera».

«Sì, perché zio Jace ha fatto uno dei suoi soliti casini.» rispose con calma. «Ha rotto uno dei microscopi di zia Izzy e per rimetterlo a posto ci è voluta tutta la notte…».

Il bimbo corrugò la fronte. «E non potevi chiamare papà? Lui poteva usare la magia e tu potevi tornare a casa a metterci a letto».

«Lo so, ma papà era con voi. E quindi ho preferito aggiustarlo io. Ho fatto tardi però mi sono guadagnato una giornata libera, sei contento?» sorrise. E quando suo figlio annuì gli scoppiò il cuore di gioia. Detestava dire bugie, ai suoi figli specialmente, ma se questo evitava incubi e preoccupazioni poteva essere definita una buona azione, giusto? E poi effettivamente, Jace aveva urtato un microscopio del laboratorio qualche giorno prima e avevano passato delle ore a cercare un maledettissimo minuscolo montante di una delle lenti. Quindi sì, era una mezza verità.

«Ma non è una vera giornata libera se poi devi andare all’Istituto stasera.» gli fece notare piano piano.

«Prometto che ci metteremo poco: lo sai che la sera zia Lily ha un sacco di lavoro da fare e quindi non potete fermarvi lì, vi verremo a prendere, andremo a mangiarci un gelato e poi vi raccontiamo una storia insieme stasera, che ne dici?».

«Davvero?» bofonchiò, gli occhi che gli splendevano.

«Hai la mia parola d’onore.» annuì e gli pungolò appena la guancia con la punta del dito, facendolo dire di più.

Tornò di nuovo il silenzio confortevole, Max rimase due minuti buoni in braccio a lui senza dire altro, finché non decise che era ora di andare a vedere come procedeva la colazione.

«Forse Rafael e papà hanno bisogno di una mano!» spiegò il piccolo stregone, zompando giù dal letto. «Tu riposati ancora un po’, e poi raggiungici che mangiamo tutti insieme!» aggiunse poi, affrettandosi in cucina.

Non poté far a meno di sorridere, bastava così poco per rendere felice suo figlio e far guizzare i suoi occhi con tanta gioia che non poteva credere quanta fortuna avesse. Bastava essere lì, ed erano tutti felici. Non si poteva certo definire un padre assente, e forse proprio per questo la sua scarsa presenza negli ultimi giorni aveva un po’ sconvolto i suoi figli. E forse anche Magnus non la viveva particolarmente bene, visto e considerato che era da tempo che non faceva così tardi. Anche lui si era disabituato a quella routine, ormai vecchia e dimenticata.

Alec si tirò su dal letto dopo una manciata di minuti. Si infilò in bagno e, specchiandosi per un istante, valutò il suo aspetto. Era visibilmente più riposato, sebbene gli occhi solitamente di un blu acceso e vivace erano ancora velati da una certa stanchezza, rimarcata anche dalle profonde occhiaie. I capelli schiacciati da un lato e arruffati dall’altro necessitavano una doccia vera e propria e una bella spazzolata prima di passare il vaglio di Magnus, di cui già poteva sentire la risata divertita e i commenti rimbombare nelle orecchie.

Si infilò sotto il getto di acqua bollente, col suo spazzolino da denti per sbrigarsi il più possibile. Avrebbe voluto indugiare ancora di più lì dentro, scrostarsi di dosso l’ultima oncia di stanchezza, ma era meglio sbrigarsi. Era abbastanza chiaro che Max avesse ragione, e lasciarli da Lily voleva dire che c’erano problemi, all’Istituto. Non avrebbe avuto neanche stavolta l’intera giornata libera e Magnus era riuscito a ritagliare almeno mezza giornata per permettere ai bambini di fare una scorpacciata della sua compagnia.

 

Quando era uscito si era rivestito di fretta, un paio di pantaloni di una tuta e una maglietta delle meno scolorite che aveva, aveva asciugato i capelli alla buona e si era avviato in cucina.

Magnus era tutto attento ai fornelli, due confezioni di pancakes con il faccione rosso, peloso e sorridente di Elmo troneggiavano sul bancone accanto al frigorifero, ma c’era già l’invitante odore di bacon sfrigolante a invadere le sue narici. Max era seduto sull’isola mentre Rafael, grande a sufficienza per impugnare un coltello senza essere pericoloso, stava tagliando un altro paio di arance.

«Buongiorno.» disse.

«Ciao papino!» cinguettò Max allungando le braccia verso di lui. Gli occhi vispissimi e il sorriso accecante. «La colazione è quasi pronta!».

«Dios gracias, ho una fame!» cantilenò Rafael lanciandogli un’occhiata consapevole.

E forse Magnus aveva commentato sottovoce con qualcosa di molto simile a “Lo stomaco senza fondo di voi Nephilim”, o forse se l’era solo immaginato. Ma gli strappò comunque un sorriso.

«Ottimo, Maxie.» annuì baciandogli i riccioli blu e rimettendolo a terra. «E stai aiutando Rafe con la spremuta? Ma quanto sei bravo!».

«Sì! Gli passo le arance!» annuì con fierezza.

«Vuoi del tè, dolcezza?» domandò Magnus indicandogli il bollitore pronto al suo servizio. «E intanto andatevi a lavare le mani, voi due, che è quasi pronto».

«Sì, papà!» annuì Rafael.

I due bimbi si affrettarono verso il bagno e Alec si avvicinò a Magnus, tutto intento a girare i pancakes nella padella, mentre il bacon sfrigolava in un’altra e le uova strapazzate finivano di cuocersi in una terza.

«Gli sono mancato.» bofonchiò Alec.

«È la prima volta che, anche se sei qui, non ti vedono a sufficienza. Max ha praticamente abdicato in tuo favore… ha rinunciato ai suoi privilegi di scelta della colazione! Una cosa senza precedenti».

Alec sorrise e poggiò un bacio poco sopra la tempia di suo marito.

«Perché lui lo sa che tu sei come Rafe e ti lamenti dei pancakes di Elmo. È proprio un ometto. Ha pure parlato di democrazia. Dovrebbe passare meno tempo con Catarina.» sospirò.

«Quanto crescono in fretta.» commentò Alec recuperando la sua tazza preferita dalla credenza. «Ti serve una mano? Lo so che sono ammesso in cucina solo quando tocca a me fare i French toast, però magari posso rendermi utile».

«Finisci di apparecchiare, magari. Mancano solo i piatti.» farfugliò. «Niente fornelli, non dopo il Grande Incendio dei Waffle di Cookie Monster».

«Esagerato, ne ho solo bruciato qualcuno.» brontolò, riempiendo la tazza con dell’abbondante acqua calda e scegliendo la miscela migliore di foglie da tè per cominciare la mattina. «E sono passati sei anni».

Magnus lo guardò di taglio. «Due scatole, Alec. Io non dimentico. E neanche il Presidente Miao.» bofonchiò facendo cenno al gatto che, da uno scaffale l’osservava sospettoso e forse un po’ lo giudicava crudelmente. «Neanche tutta la magia che ho usato, quella volta è riuscita a far sparire dal suo meraviglioso pelo l’odore di zucchero bruciato e… plastica?».

«Mi ero dimenticato la spatola nella padella.» sbuffò prendendo quattro piatti, tutti diversi, per sistemarli a tavola. «È successo perché poi mi sono distratto. Tu mi hai distratto quella volta».

Suo marito di nuovo lo guardò con un sopracciglio aggrottato e l’aria per niente impressionata. «Certo, ora dai la colpa a me, Lightwood. Tu per poco non dai tutta Greenpoint alle fiamme mentre prepari la colazione. E la colpa è la mia».

«Scusa se il mio allora fidanzato era davvero splendido quella mattina e aveva in braccio il mio bambino meraviglioso.» bofonchiò passandogli accanto, i piatti ancora in mano. «Mi sono distratto. Eravate belli. Potremmo definirla un'attenuante».

«Un’adorabile attenuante.» rispose. «Comunque, dovrai lavare anche i piatti e sistemare la cucina quando abbiamo finito, che devo vedermi con Isabelle per quella cosa. Quei piatti vuoi metterli a tavola o vuoi tenerli in braccio come un pompiere fa con un gattino?».

«Mi sono distratto.» bofonchiò Alec, sistemando finalmente i quattro piatti sul bancone della cucina, le posate erano già lì alla rinfusa su quattro tovagliette di bambù che sembrava avessero visto giorni migliori, coi tovaglioli piegati alla buona e le tazze di plastica di Star Wars dei bambini, regalo gentilmente offerto da zio Simon. «Vedi che mi distrai?».

«Attenuante: sono favoloso.» replicò Magnus, il tono giocoso.

«Sicuro che non servo stamattina?» domandò Alec, un sopracciglio aggrottato.

«No, Isabelle voleva comunque parlare con me. E devo controllare le barriere. Penso tornerò per l’ora di pranzo.» mugugnò. «Puoi ordinare qualcosa, o posso portare qualcosa io tornando a casa. Poi magari mandami un messaggio per farmi sapere che cosa preferite».

Alec annuì. «Ma vado a dare un’occhiata? Mica ci mettono così tanto tempo a lavarsi le mani di solito» farfugliò.

«Ma no, si staranno vestendo. Max ha finalmente capito come allacciarsi le scarpe da solo senza usare la magia. Gliel’ha insegnato Rafael. Ti ho mandato il video, non so se l’hai visto…» bofonchiò Magnus, cominciando a spostare i pancakes dalla padella al piatto da portata.

«Mio dio, mi sto perdendo tutto.» farfugliò prima di recuperare sgraziatamente dalla padella un pezzo di bacon croccante e cacciandoselo in bocca senza batter ciglio.

«Per soli dieci giorni, Alexander? Hai tutta la vita per vederli crescere.» rispose Magnus, un sorriso sulle labbra. «E fammelo scolare, che gronda grasso quel bacon! Va bene che sei giovane e bello e hai sangue angelico, ma le coronarie ce le hai anche tu!» borbottò.

«È diventata una cantilena…» commentò Alec.

«Comunque, Rafael ha capito che c’è qualcosa sotto. Ha fatto quella faccia pensierosa da vecchietto, prima, e mi ha fatto un sacco di domande. Ovviamente ho glissato con la mia solita grazia.» bofonchiò. «Ma cerca di farlo pensare ad altro» aggiunse cominciando a sistemare il bacon su due fogli di carta assorbente.

«Penso che li porterò al parco stamattina. Al parco giochi quello di legno.» farfugliò.

«Il Diana Ross Playground? Ottimo. Così il nostro capitano Barbablù sarà contento.» annuì Magnus. «Pensi di riuscire a mettere le uova su un piatto senza prendere fuoco?».

«Oh! È successo solo una volta! E non ero io o le uova ad aver preso fuoco, ma il panno con cui ho preso la padella!» replicò.

E gli era mancato anche questo, in un modo che ad accorgersene gli faceva girare la testa, gli era mancato bisticciare sulle sue terribili doti culinarie. E Magnus di certo non doveva sapere che, quando era stato in viaggio per lavoro, molti anni prima, delle uova avevano davvero preso fuoco. Insieme a una sua maglietta. E a un paio di rotoli di carta assorbente. No, non doveva saperlo. Forse era anche per questo che il Presidente lo guardava sospettoso quando si aggirava per la cucina.

I bambini erano in effetti vestiti di tutto punto, quando erano ritornati in tutta fretta in cucina, prima ancora di essere chiamati, attirati, forse dal profumo della colazione ormai pronta.

Magnus schioccò le dita e apparvero della panna montata e delle banane tagliate a rondelle in due ciotole, in un’altra le gocce di cioccolato

«Avevamo detto niente magia a colazione.» borbottò Alec.

«Le banane le ho tagliate io, papi!» replicò Rafael prendendo due abbondanti cucchiaiate di panna e una manciata di gocce di cioccolata e coprendo tutti i suoi quattro pancake fino a renderli irriconoscibili. «Dovevano essere messe in frigorifero, sennò erano calde. E non sono buone calde quando mangi i pancakes».

«E poi era solo uno sciocco di dita, non ho preso niente da nessun negozio.» aggiunse Magnus. «La panna ce l’avevamo in frigo da ieri che abbiamo preso la torta e le gocce di cioccolato erano nello scaffale. Volevi farmi fare tutta quella strada per prenderli?! Sei davvero crudele, Alexander».

«Ah, va bene.» sbuffò lo Shadowhunter ruotando gli occhi al cielo.

«Comunque, scimmiette.» bofonchiò Magnus allungandosi a tagliare a pezzetti i pancakes di Max. «Papà ha detto che vi porta al parco. A quello con le giostre di legno».

«Sì! La nave dei pirati!» cinguettò il piccolo stregone, agitando la sua forchetta prima di infilarla in bocca.

«Dovrei riuscire a liberarmi per pranzo, quindi ci vedremo lì. E possiamo pranzare fuori.» aggiunse Magnus, versando recuperando la sua tazza di tè per portarla alla bocca.

«Potremmo andare a mangiare bacon burger a WIlliamsbugh!» propose Rafael.

«Stiamo già mangiando bacon a colazione.» replicò Magnus sconcertato.

«La colazione non conta, lo sai papà.» rispose Alec. «Mi pare un buon piano, Rafe».

«Bene, allora vi raggiungo a Central Park.» annuì suo marito. «Ora mangiamo che si fredda».

 

 

 

Dopo colazione, i bambini aiutarono Alec a sistemare la cucina. Rafael metteva il sapone, Alec lavava i piatti e Max li asciugava. Magnus ci aveva messo un baleno a prepararsi, aveva ridotto visibilmente i suoi tempi di preparazione mattutina avendo due bambini di cui occuparsi, e aveva aperto un portale proprio al centro del soggiorno, per raggiungere l’Istituto rapidamente. Aveva salutato brevemente i suoi figli, baciato Alec con un una certa indulgenza, provocando un brontolio su quanto fossero imbarazzanti da parte di entrambi i bambini, e poi si era lasciato inghiottire dal gorgo di magia.

Alec aveva lasciato le due scimmiette un istante davanti alla tv, una puntata di quel cartone animato che li divertiva tanto, con quei mostriciattoli e le palline in cui venivano imprigionati. Magnus aveva provato a spiegargli che non era una cosa tanto brutta che quei mostriciattoli, i Pokémon?, finissero intrappolati nella sfera, e anche Max e Rafael avevano cercato di spiegargli le dinamiche della storia, ma non era del tutto convinto fosse una cosa istruttiva. Si era infilato in camera e si era cambiato, pronto per una mattinata al parco coi suoi bambini.

 

 

 

All’inizio della primavera, Central Park era una chiazza multicolore di boccioli di fiori e foglie di centinaia di tonalità di verde. Pullulava già di turisti, ma non c’erano molti bambini sugli scivoli e le assi di legno scricchiolanti del Diana Ross Playground, essendo un giorno di scuola. Era uno dei posti preferiti di Max e, anche se Rafael diceva di essere troppo grande (e troppo Nephilim) per poter giocare con quelle cose, in realtà si divertiva anche lui ad arrampicarsi sulla rete e a correre per i ponticelli, a raggiungere lo scivolo a chiocciola e fingere che quell’enorme città di legno a misura di bambino fosse in realtà un galeone dei pirati. C’era stato anche un piccolo incidente, che fortunatamente era avvenuto di sera tardi, quando la maggioranza degli avventori di Central Park erano ormai sulla via di casa, in cui Max aveva effettivamente trasformato tutto il grande archibugio dello scivolo in un veliero, con tanto di bandiera nera con ossa e teschio. La sabbia sottostante era diventata fangosa e poi aveva cominciato a luccicare e a ondeggiare come il mare in tempesta. Magnus aveva riso come un matto mentre faceva sparire la nave e la piccola piscina di acqua salata, ma poi aveva dovuto spiegare a un davvero imbronciatissimo piccolo stregone blu che, no, non poteva ancora diventare un pirata e che queste cose non si possono fare all’aperto, soprattutto non in una zona così vicina a una strada principale.

La cosa che preferiva Alec, perché faceva divertire i suoi figli da morire, era caricare i bambini sul grosso pneumatico che era appeso ai montanti dell’altalena e, di tanto in tanto mentre spingeva le catene, senza attivare rune del vigore e facendo il bravo padre Mondano, affondare le mani sui fianchi dei suoi figli per far loro il solletico. Gli piaceva parecchio anche rincorrerli, sebbene qualche volta avesse ponderato l’idea di attivare la runa della velocità.

Poi, i bambini cominciavano a correre per tutto il giardino, affondando i piedi nella sabbia e sollevando un sacco di polvere. Si arrampicavano, salivano, scivolavano, scendevano e ricominciavano finché uno dei due, solitamente Rafael, gettava la spugna e si avvicinava alla panchina su cui lui li aspettava.

E anche quel giorno, Rafael aveva deciso di lasciare Max al timone del veliero immaginario e aveva raggiunto Alec sulla panchina.

«Allora? Ci sono problemi?» domandò subito, neanche il tempo di sedersi. E sembrava un vecchietto nel corpo di un bambino, con quegli occhi scuri che lo squadravano e l’espressione seriamente inquisitoria.

«Rafe, abbiamo una regola, mh?» rispose Alec, lo sguardo fisso su Max, intento a dare ordini come un vero capitano ai pochi bambini che erano con lui sul pontile di legno.

«La regola è attiva solo dentro casa.» replicò il bambino, impassibile. E forse Magnus non aveva tutti i torti, se l’avessero fatto con le loro mani, non sarebbe stato così uguale a loro caratterialmente. «Andiamo, papi, Max è impegnato a giocare, e io sono abbastanza grande».

Alec ruotò gli occhi al cielo, soffocando una risata.

«Primo, neanche quando avrai la tua prima runa sarai abbastanza grande ai miei occhi, mio minuscolo e adorabile Nephilim.» farfugliò nella sua migliore voce vellutata Magnus, apparendo proprio dietro di loro. «Secondo, non sta succedendo niente, per questo sono andato io all’Istituto e non Alexander».

Rafe reclinò la testa indietro per guardare lo Stregone. «Papà, sono grande, posso sapere le cose che riguardano il Mondo Nascosto.» replicò, relativamente imbronciato.

«Diciamo che decido io che sono vecchio di millenni quando e se saprai le cose che succedono nel Mondo Nascosto.» replicò Magnus, un sogghigno divertito, mentre girava intorno alla panchina.

Alec si stava impegnando con tutte le sue forze per non ridere. Anche coi suoi figli, Magnus non riusciva ad essere onesto riguardo la sua età. Era un gioco divertente, a detta sua.

«Ah, ma dai! Neanche due giorni fa dicevi di avere cinquecento anni. Oggi andiamo per ordine di migliaia?!» brontolò Rafael. «Lo fai solo per cambiare discorso. Fai sempre così! Non sono mica scemo!».

Magnus si accovacciò davanti a suo figlio, e gli poggiò una mano sul ginocchio. Gli occhi verde e oro, senza glamour che emettevano questo calore dolcissimo. Forse una piccola parte di Alec, la più infantile, era un po’ gelosa di quello sguardo che riservava al piccolo Nephilim, perché era qualcosa di assolutamente unico, che riusciva a calmarlo quasi istantaneamente. «Non c’è niente di cui preoccuparsi, almeno non per il momento. Se dovessero esserci degli ulteriori sviluppi, ve lo diremmo, mh? E poi vi manderemmo in un posto sicuro se fosse necessario.» mugugnò, spostando per un momento gli occhi su Alec.

Fu esattamente quello il momento in cui lo Shadowhunter capì che suo marito sapeva qualcosa, qualcosa che lo preoccupava. Allora era vero, non era proprio normale tutto quel numero di attacchi all’ordine dell’Istituto e forse la supposizione di Magnus in merito agli Stregoni scomparsi aveva trovato riscontro. Forse era tutto collegato. Forse c’era da preoccuparsi davvero.

«A quel punto,» disse, lo sguardo di nuovo fisso su suo figlio. «Dovrai essere davvero grande abbastanza, mio adorabile Nephilim in miniatura, perché dovrai proteggere anche tuo fratello, okay?» farfugliò, un sorriso tranquillo appiccicato sulle labbra. Le spalle rilassate, e gli occhi placidi e assorti nel pozzo scuro di quelli di Rafael.

«Quindi non c’è da preoccuparsi, davvero?» mormorò con un filo di voce.

«Per ora no. Quando e se sarà necessario preoccuparsi te lo dirò, d’accordo?» aggiunse sfiorandogli il centro della fronte con un polpastrello. «Ti verranno più rughe di tutti i tuoi zii messi insieme, sennò».

«È difficile non preoccuparsi.» bofonchiò sfregandosi il palmo della mano contro la fronte, come a far sparire le rughe, che comunque non c’erano ancora.

Alec sorrise. «Non succederà niente, ci siamo noi.» gli disse piano. «Siamo bravi in quello che facciamo, vero?».

Non aveva idea di cosa aspettarsi, forse sperava in un cenno col capo, un annuire piano. Forse sperava di convincerlo. Ma Rafael sembrava ancora un po’ titubante. «Puoi promettermelo?».

Alec inalò a denti stretti. Se una cosa doveva essere chiara a suo figlio è che avrebbero fatto del loro meglio per proteggere tutti, lui e Magnus, ma non poteva promettergli nulla.

«Io posso promettertelo, Rafael.» sussurrò Magnus. «Ti prometto che vi proteggerò io, eh? Ti basta la mia parola? Io proteggerò te, Max e Alexander. Proteggerò i tuoi zii, e la tua cara nonnina. Proteggerò le persone che amiamo di più. Ti va bene?».

«Magnus.» lo chiamò Alec, forse nel tentativo di redarguirlo. O forse per scacciare quel piccolo nodo che gli si era avviluppato in gola.

Ma Rafael aveva annuito e si era gettato al collo del suo papà. «Basta che stai attento anche tu».

«Lo sono sempre.» rispose stringendolo forte a sé, tenendo gli occhi su Alec. «Ora, piccolo Nephilim, dovresti andare a chiamare Max, che andiamo a mangiare, che ne dici?».

«Posso fare un altro giro sugli scivoli?» domandò, togliendosi di dosso quell’aria da vecchietto e tornando ad essere un bambino di appena nove anni.

«Certo.» annuì Alec. «Hai dieci minuti. Poi andiamo, che ho una gran fame».

Magnus si accomodò accanto a lui e restò un momento in silenzio, la testa poggiata sulla sua spalla. Osservava i suoi figli in contemplazione, come fossero un prodigio della scienza, un capolavoro di un’arte antica e sconosciuta. Max voleva ancora fare il pirata nella vita, voleva possedere un veliero e una piccola ciurma e, soprattutto, un pappagallo verde che avrebbe chiamato Jolly. Già. E Rafael invece aveva da sempre saputo quale sarebbe stato il suo posto nel mondo, a preservare gli interessi del Mondo Nascosto e a proteggere i Mondani, per quanto sciocchi fossero, e tutte le altre creature.

«Ti ricordi quella volta che ha trasformato gli scivoli in un veliero? A te stava venendo un infarto…» sussurrò.

«Non devi promettere cose del genere, Magnus.» mormorò. «Soprattutto perché c’è qualcosa, vero?».

«Non avevamo una regola, Alexander?» replicò sogghignando.

«Tuo figlio mi ha fatto notare che la regola vale solo dentro casa.» bofonchiò. «Mi somiglia un sacco, ma quando apre bocca è uguale a te».

Magnus sghignazzò. «Li stiamo crescendo proprio bene».

«Mags.» lo chiamò piano.

«C’è qualcosa, sì.» rispose. «Ma, ehi, hai la giornata libera, dovresti godertela».

Alec strinse le labbra, in quella lieve smorfia di disappunto che aveva quando le cose non andavano come diceva lui. «Magnus».

«Okay è complicato.» ammise. «È un bel casino perché abbiamo pochi dati per avere delle certezze: sappiamo che le mie barriere hanno reagito e tenuto lontano quelle creature. Dai video che ho visionato con tua sorella sembrano…».

«Degli scheletri. Qualcosa di negromantico.» mugugnò. «Li ho visti anche io».

«Sì, praticamente.» annuì.

«Qualcuno degli Stregoni scomparsi può essere invischiato, che tu sappia?» domandò.

Magnus sospirò e si strinse nelle spalle staccandosi da lui, ma tenendo ancora gli occhi fissi sui bambini che giocavano. «Tutti gli Stregoni si sono dilettati almeno una volta nella vita nella negromanzia. Non tutti con ottimi risultati, mettiamola così. Ragnor ha avuto un colibrì resuscitato in giro per casa per settimane, prima di riuscire a riacchiapparlo e a lasciarlo tornare tra i morti. Oppure Catarina ha provato con qualcosa di più grande, forse era tipo un opossum… beh diciamo che la tappezzeria del suo appartamento ne risentì particolarmente».

Alec sapeva che quando parlava degli incidenti magici dei suoi amici, Magnus ne aveva combinate di ben peggiori. E forse doveva cedere e chiedergli cosa avesse fatto lui, con la negromanzia. O forse doveva tornare sull’argomento principale. «Tu che hai combinato?».

«No. La negromanzia è una magia molto oscura.» bofonchiò.

Alec alzò un sopracciglio, nella sua migliore espressione poco convinta. «Non mi incanti».

«Okay potrei aver provato a resuscitare qualcosa di piccolo… ma c’è stato un piccolo inghippo con l’incantesimo, ho sbagliato una parola e… diciamo che oltre a resuscitare si è pure moltiplicato. Sia di numerosità che in dimensione.» mugugnò.

Sogghignò e decise che doveva saperne di più. «Cos’era?».

Magnus si coprì gli occhi con la mano. «Alexander… per favore è imbarazzante.»

«Oh, ora voglio saperlo: perché se è una fase della vita di ogni Stregone, devo sapere cosa invaderà casa mia un giorno.» replicò. «Visto che c’è una scimmietta blu molto curiosa che ha già cominciato a fare i suoi pasticci magici…».

«Okay era una lucertola... una davvero piccola.» annuì. «Non so se hai letto nei registri del Clave che a Londra molti anni fa vennero avvistati dei rettili alti quanto un uomo… vennero descritti come draghi.» bofonchiò.

Ci volle tutta la sua buona volontà per non ridere sguaiatamente ma, oh, rise di gusto.

«Osi ridere di me, Lightwood, davvero? Proprio tu che hai bruciato dei waffle a prova di fesso?!» brontolò. «Mi ferisci».

Alec sbuffò. «Il Clave cercò in tutti i modi di intercettarli e studiarli ma erano scomparsi».

«Riuscii a invertire l’incantesimo.» bofonchiò. «Ora possiamo cambiare discorso?».

Alec annuì. «Come siamo arrivati a parlare di lucertole giganti in giro per Londra?».

«Parlavamo degli scheletri che hanno attaccato l’Istituto.» annuì. «Isabelle dice che converrebbe prenderne uno vivo e studiarlo».

«Vivo.» ripeté Alec divertito.

«Sei di buon umore, Lightwood?» brontolò Magnus.

«È Lightwood-Bane.» gli rammentò. «No, è che in teoria se uno è uno scheletro è anche morto. Quindi potremmo vedere se ci sono stati dei corpi trafugati da qualche parte».

«Sai che non è una cattiva idea? Ne parlerò con Isabelle.» annuì.

«Dovresti parlarne con Jace, è lui il capo dell’Istituto.» mugugnò.

«Detto tra noi, Alexander, tua sorella sarebbe stata un Capo migliore di quello squinternato del tuo parabatai.» bofonchiò con un sogghigno. «È equilibrata e comanda a bacchetta per fino me. Mi ha chiesto di abbassare le difese, per questa sera».

«Mica le avrai dato retta?!» farfugliò.

Magnus finalmente voltò lo sguardo su di lui. «Ti ho detto che mi comanda a bacchetta.» ribadì. «E non è una cattiva idea: vuole catturarne almeno uno prima che le barriere reagiscano per poter fare dei test. Per confermare l’ipotesi che abbiamo. E ora lasciamo perdere questo discorso per un po’, e guardiamo i nostri mostriciattoli giocare».

«Magnus.» mugugnò.

«Come ho detto a tuo figlio, lo saprai quando ci sarà da preoccuparsi. Oggi godiamoci la giornata.» annuì prima di tornare a fissare i bambini che avevano preso a rincorrersi sul ponticello di legno: Rafael scappava e Max cercava di acchiapparlo.

«Ma c’è da preoccuparsi.» mugugnò. «Da come hai parlato con Rafe. Non gli puoi promettere che andrà tutto bene».

«Non gli ho promesso questo, Alexander. Gli ho promesso che vi avrei protetto. Ed è quello che farò.» gli disse, un sorriso leggero sulle labbra. «E lo farai anche tu. Quando sarà il momento li manderemo da tua madre a Idris».

«Quindi c’è da preoccuparsi.» ribadì.

«Sì. È preoccupante, Alexander. Perché nessun altro Istituto è stato attaccato con queste modalità. Quindi c’è qualcosa qui che interessa a qualcuno. E dobbiamo capire cosa.» farfugliò. «Ora, per favore. Vuoi lasciar perdere il lavoro per almeno mezza giornata? Stiamo coi bambini, siamo felici».

Alec gli agguantò il collo e se lo tirò a sé. Magnus gli abbracciò i fianchi e tornò a poggiare la testa sulla sua spalla. «Hanno riso come dei matti prima».

«Hai fatto l’agguato del solletico sull’altalena?» sussurrò. «È una delle cose che preferiscono».

«Sì. Ma crescono così in fretta. Ci credi che Rafael ha nove anni? E Max sette?!» bofonchiò. «Presto Rafael andrà all’Accademia».

«Ci vorranno ancora tre anni, Alexander.» gli fece notare Magnus.

Alec sospirò. «Lo sai? Temo il giorno in cui smetteranno di giocare così».

«Perché devi pensare per forza al futuro, adesso?» sbuffò.

«Perché dobbiamo pensare in prospettiva, Magnus. Siamo genitori e i nostri figli saranno grandi in men che non si dica. Già Rafael sembra un vecchietto… quando fa quei discorsi da grande. E anche Max non sembra più tanto un bambino certe volte.» sospirò. «Democrazia».

«Quello è sicuramente colpa di tutto il tempo che passano con Catarina e con Maia.» sospirò. «Lasciamoli più tempo con Jace e vedi come tornano bambini».

«Jace li farebbe diventare dei selvaggi.» rise.

«È il tuo parabatai, te lo sei scelto tu!» replicò divertito.

Ci fu un momento di silenzio, in cui l’aria era riempita solo dal brontolio del traffico di New York e dalle risate cristalline dei bambini che giocavano. La leggera brezza primaverile era ancora piuttosto fredda a tratti, soprattutto quando le fronde degli alberi coprivano la luce del sole.

Magnus sospirò soddisfatto. «Sono felice, lo sai?».

Il suo cuore fece uno strano battito, come se volesse fare un salto nello stomaco prima di ricominciare a battere normalmente. Questo era Magnus: una meravigliosa creatura in grado di dire cose del genere con una voce ferma e profonda, come se niente fosse, come se fosse ovvio. «Dici ora, o in generale?» mugugnò, richiamando a sé tutta la sua fermezza.

«Ora e in generale.» rispose stringendosi di più a lui.

Alec gli poggiò un bacio tra i capelli. «Beh, sono felice anche io».

«No, Alexander, dico sono felice. Sono proprio felice.» sussurrò. «Come forse non lo sono mai stato».

Lo Shadowhunter alzò un sopracciglio. Davvero Magnus? Il matrimonio magari? La prima notte insieme? Quando le adozioni dei bambini sono diventate effettive? Forse doveva sentirsi un po’ offeso.

«Dico, tu mi rendi felice. Da quando stiamo insieme, io sono felice.» farfugliò.

«Perché me lo dici adesso?» farfugliò, le labbra ancora tra i suoi capelli, gli occhi persi sui bambini che stavano fermi all’imbocco dello scivolo a chiocciola e li guardavano.

Magnus sospirò, ancora con una certa contentezza. «Perché ogni tanto è bene ricordarmelo e ricordartelo. Tu mi rendi felice, Alexander. Loro due, quei piccoli mostriciattoli che ci stanno fissando, mi rendono felice. Anche solo stare al parco, qui con voi, mi rende felice».

Il suo cuore fece di nuovo quello strano battito. «Pure i pancakes di Elmo?» domandò, non trovando le parole giuste. E forse avrebbe dovuto urlarlo quanto anche lui fosse felice, quando anche lui fosse soddisfatto della sua vita, malgrado i pericoli, malgrado le preoccupazioni e le notti insonni.

«Anche i famosi waffle di Cookie Monster che hai incendiato anni fa.» annuì.

«Dio Magnus! Una volta, è successo una volta!» brontolò.

Ma sì, era dannatamente felice anche lui.

 

 































 

 





Okay, okay,
preparatevi per cosa succederà dopo. Sapete già un po' quel che vi aspetta, ma... un po' di fluff non si nega a nessuno.
Comunque, la storia è quasi completa su carta, ora bisognerà solo scriverla al pc (e tradurla), eh. Sì, non è stata una buona idea. Proprio no.
Ma, spero abbiate apprezzato questo piccolo capitolo di oggi, fatemi sapere se ci sono degli errori che vi fanno accapponare la pelle (e anche se non dovessero farvi accapponare la pelle, fatemi sapere comunque se dovessero esserci).
Non uso molto tumblr, ma potete venire a farmi un saluto qui @lamalefix
Passate un buon weekend,
Grazie di aver letto fin qui :D

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Egida di Sangue ***


Salve,
Sono passati anni dall'ultimo aggiornamento... scusate per l'attesa (mi sono completamente dimenticata che pubblicavo la storia anche qui, e quindi... mi è passato di mente aggiornare).
Quindi, eccolo qui, spero che un piccolo capitolo (32 pagine) sia sufficiente per scusarmi per l'attesa.
Buona lettura, ci vediamo alla fine del capitolo.





































 

 

Egida di sangue




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se ad Alec avessero chiesto di descrivere la giornata perfetta, neanche nei suoi sogni più rosei si sarebbe avvicinata a questa. Erano riusciti a tenere tutto, il lavoro, l’Istituto e le piccole preoccupazioni lontani da quella piccola bolla.

Avevano gozzovigliato al parco ancora un po’, le risate dei bambini quasi coprivano i rumori del traffico della Central Park West. Poi Alec aveva convinto Magnus, che insisteva di voler aprire un portale, di prendersi una vera e propria giornata da Mondani, e prendere la metro per arrivare a Williamsburg. Fare le cose con calma per una volta non poteva essere tanto male, e infatti non aveva torto.

I bambini avevano gli occhi che brillavano mentre, seduti al ristorante, aspettavano i loro panini, e ogni volta che un cameriere usciva fuori con quei piatti abbondanti, tiravano su le testoline come dei piccoli lemuri a cercare di capire se fossero o meno le loro ordinazioni. Magnus aveva fatto in modo di tenerli impegnati, facendo apparire con uno schiocco di dita un mucchio di pastelli e permettendo loro di disegnare sulle tovagliette di carta marrone del ristorante, premurandosi di chiederne altre due per sostituire i piccoli capolavori a matita prima che i piatti venissero poggiati, tutti unti e straboccanti sul tavolo.

Magnus aveva una certa fissa per i disegni dei bambini. Alec l’aveva scoperta improvvisamente un giorno che stava cercando qualcosa nello studio, qualcosa che aveva a che vedere con il mercato nero, un qualche ingrediente che serviva per una pozione e lo Stregone era troppo impegnato a rimestare nel calderone per poter fare da solo. E un mucchio di disegni gli erano caduti addosso appena aveva aperto l’armadietto. Magnus li custodiva gelosamente, ci scriveva dietro la data e li metteva da parte, come fossero davvero opere d’arte. Alec gli aveva domandato il perché di tanta premura, tutti i bambini, anche i Nephilim, disegnavano molto, tenerli tutti da parte era una pura e semplice follia. Suo marito gli aveva rivolto questo sguardo teatralmente ferito, e aveva borbottato qualcosa all’ordine dell’insensibilità degli Shadowhunter. Ma poi aveva capito: gli anni in cui sarebbero stati così piccoli e così fantasiosi sarebbero stati davvero pochi e bisognava ricordare in qualche modo quell’innocenza che avrebbero perso scontrandosi con la realtà. O forse Magnus era un accumulatore seriale. Probabile, tra l’altro.

Avevano mangiato di gusto, poi. I bambini nel divorare i loro panini si erano sporcati i vestiti costosi che Magnus e Isabelle avevano scelto per loro. Alec aveva provato a far ragionare quei due, a far capire loro che non era necessario spendere centinaia, se non migliaia, di dollari in vestiti per dei bambini tanto piccoli e così facilmente inclini a sporcarsi; e anche quando fossero stati più grandi, si poteva vivere benissimo con delle magliette sintetiche, lui poteva giurarlo.

Per tornare a casa, avevano aperto un portale, ma non prima di aver tentato di smaltire i pesantissimi e untuosissimi baconburgers, facendo una breve passeggiata a McCarren Park.

Appena tornati, si erano tutti e quattro sistemati in soggiorno, seduti a terra a giocare a quella specie di Monopoli di Guerre Stellari, anche questo gentilmente offerto da Simon. Di solito, le partite duravano poco, perché Magnus si annoiava. Magnus, non i suoi figli. Ma stavolta erano i bambini ad essere piuttosto stanchi. Max aveva la testa che gli ciondolava dal sonno ancor prima che finisse il secondo giro del tabellone, e Rafael aveva sbadigliato una decina di volte tra il primo lancio di dadi e il secondo. Magnus aveva colto la palla al balzo e aveva suggerito di interrompere così la partita, l’avrebbero continuata il giorno dopo, e potevano guardare un film invece, sbracati sul divano.

I bambini non se l’erano fatti ripetere due volte, avevano preso il posto sul divano e Magnus si era seduto in mezzo a loro, come al solito, cominciando a cercare nel catalogo di Netflix un qualcosa di adeguatamente tranquillo, optando alla fine per uno dei numerosissimi film dei Pokémon, già visto e rivisto. Alec aveva storto appena il naso, rimanendo seduto a terra, spostandosi solo un poco per poggiare la schiena al divano, la spalla che strusciava contro il polpaccio di Magnus, e la testa reclinata appena all’indietro sul cuscino. Di certo molto meglio guardare suo marito che quei poveri mostriciattoli intrappolati nelle sfere.

Anche lui si sentiva abbastanza stanco, e Magnus non stava certo cercando di tenerlo sveglio mentre gli accarezzava i capelli piano piano, arricciandoseli tra le dita e massaggiandogli la cute. E ci volle davvero poco per sentire le palpebre sempre più pesanti, il respiro acquietarsi del tutto fino a diventare assolutamente stabile. Sentiva in lontananza le voci dei bambini e di Magnus che canticchiavano la canzone di apertura del film e un po’ l’aveva mugugnata anche lui prima che la lingua e le sue corde vocali si opponessero del tutto.

 

Quando si era svegliato era tutto incriccato e già gli sembrava di sentire Magnus con quella sua cantilena “Sei bello e giovane e avrai pure sangue angelico, ma se dormi così ti verrà il torcicollo”.

Ma aveva notato subito che qualcosa era cambiato: suo marito, in tutto il suo splendore, era seduto vicino a lui, a terra e divideva con lui un’ampia coperta, la sua testa, era poggiata nell’incavo del collo dello Stregone che gli abbracciava il fianco in un gesto tremendamente intimo. C’erano due tazze di tè sul tavolino davanti a loro e non ci voleva molto a capire che l’avesse fatte apparire con uno schiocco di dita.

Aveva tirato su la testa per guardarsi intorno, una mano a stropicciarsi gli occhi. Il sole cominciava ad affondare dietro i palazzi, colorando il cielo di questo arancione morbido. La stanza, semibuia se non per la televisione accesa, sembrava ancora più accogliente, con quella luce che proveniva dalle ampie finestre.

E forse Alec avrebbe dovuto fotografare questo momento, l’assoluta normalità, la calma. Tutto gridava casa, famiglia. I bambini erano tutti e due appallottolati sul divano, due copertine su di loro: Max dormiva con la testa poggiata sul grosso cuscino del divano, che era di un blu appena più chiaro della sua pelle, a cui era avvinghiato con gambe e braccia; Rafael invece era rannicchiato dal lato opposto, anche lui con la testa affondata in un cuscino blu, ma le mani sbucavano da fuori la coperta e ogni tanto le dita si muovevano appena; Magnus poi era lì vicino a lui che lo guardava come se avesse appeso la luna nel cielo.

Il film mormorava alla TV come un ricordo lontano, e forse anche lui guardava Magnus in quel modo qualche volta. Sperava di averlo fatto almeno una volta, averlo guardato con gli occhi che tradivano una completa adorazione, e non semplicemente amore, un calore e una devozione indescrivibili, come se gli stessero dicendo che era l’unico al mondo, che esisteva solo lui in quel momento. E non importava quante volte Magnus avesse guardato qualcun altro così, sapeva che tra loro c’era dell’altro. Non solo quel giuramento che portavano all’anulare sinistro, non solo i bambini, c’era altro a cui forse non sapeva dare un nome.

Stare con Magnus era la cosa più facile del mondo. Era così facile amarlo che faceva quasi paura alle volte. Era diventato più naturale di respirare. Era come se una voce nel suo petto gli dicesse che era giusto così, che doveva solamente essere lì, che bastava quello. E di certo sembrava qualcosa di banale, se non completamente cliché. Ma era l’unico modo che aveva per descriverlo, perché stare con Magnus era come perdere le parole e non riuscire a ritrovarle più, e doverle imparare da capo. Come essere al proprio matrimonio e non riuscire più a ricordarsi come si dica “sì”, perché non c’è niente di più ovvio di un “sì”, e non ci sarebbe altro posto in cui vuoi essere. Era come correre in tutta fretta e sbattere contro un palo della luce e ritrovarsi il mondo a rovescio, un piacevole sottosopra che permetteva di vedere qualsiasi cosa in un’altra ottica, nuova e impossibile. Ma era anche semplicemente svegliarsi la mattina riposato anche se aveva dormito solo una manciata scarsa di ore, il letto caldo e le gambe intrecciate. Era il caffè la mattina. Era un bagno caldo per lavare via la stanchezza di un lavoro troppo amaro per dare soddisfazioni durature.

Stare con Magnus era quanto di più semplice ci potesse essere al mondo, eppure lui era qualcosa di così speciale, spettacolare e unico nel suo genere. E forse per questo era difficile trovare le parole, forse per questo lui non riusciva a non essere banale.

Magnus aveva, ora, una leggera espressione curiosa, gli occhi che sondavano il suo viso, come a voler capire cosa stesse pensando.

Non ci volle molto a dimenticare del tutto che c’era un film in TV, quei mostriciattoli che gracchiavano i loro strambi versi, e che suo marito, fino a quando lui non aveva riaperto gli occhi, lo stava guardando con un certo interesse, anche se il volume era al minimo.

Fu Magnus ad avvicinarsi per primo, strusciando il naso contro il suo come un eschimese. Alec si spostò appena per scoccargli un bacio leggero sull’orlo delle labbra e poi un altro e un altro ancora, fino a scendere sul collo, incatenando piccoli schiocchi uno dopo l’altro. Magnus si lasciò sfuggire un mugolato sordo, che costrinse Alec a soffocare una lieve risata nel suo collo.

Ancora così, dopo tutto questo tempo.

Forse, dovevano fermarsi, non era una cosa che un bravo genitore avrebbe fatto nelle immediate vicinanze dei loro figli, soprattutto visto che la situazione poteva scaldarsi presto o tardi. E i bambini erano sempre in quella famosa fase della vita in cui il loro sonno era davvero molto leggero.

Prima ancora che finisse di formulare questo pensiero, un brontolio si levò dal divano.

«Ah, prendetevi una stanza voi due.» ringhiò Rafael stropicciandosi un occhio con il palmo della mano. «Andate in camera vostra a fare le vostre cose, io rimango con Max, visto che qui sono l’unico adulto responsabile».

Alec si bloccò lì, come fosse diventato una statua di granito, mentre suo marito, con una grazia sconcertante, si allontanò da lui ridacchiando.

«Sei solo geloso perché io non ti coccolo abbastanza!» bofonchiò allungandosi sul divano ad abbracciare il piccolo Nephilim.

«Urgh! Siete così imbarazzanti!» brontolò piano, opponendo ben poca resistenza per districarsi dalle braccia di suo padre. Ridacchiava anche lui.

Un leggero sorriso si allungò sulle labbra di Alec, sciogliendolo dalla sua granitica posizione.

«Così mi ferisci, Rafe.» sussurrò Magnus, in tono giocoso. «Forse devo farti un bel po’ di solletico!» decise muovendo appena una mano sotto le sue gambe nella pelle morbida dietro al ginocchio. Il punto debole del piccolo Nephilim.

«Oh, no per favore!» farfugliò ridendo a crepapelle e scalciando appena.

Magnus si fermò e gli baciò i capelli due volte. «Sei così bello quando ridi».

«Lo vedi che sei imbarazzante?!» brontolò ancora, la voce che gli tremava, e anche nella luce ovattata di quella stanza era chiaro che le orecchie del bambino fossero rosse rosse come un pomodoro. «Dico solo che dovreste prendervi un po’ di tempo per voi, una di queste sere. Magari uscire a cena e fare le vostre cose senza che noi siamo nei paraggi.» suggerì. «Così magari sareste meno… imbarazzanti?».

«Non siamo imbarazzanti, ci amiamo e basta.» sussurrò Alec avvicinandosi a loro due e raccogliendo la mano di Magnus e portandosela alla bocca. «E poi papà ha ragione, sei proprio bello quando ridi».

Rafael si imbronciò. «Dios, siete così stucchevoli».

«Ci vuoi bene per questo.» sorrise Magnus.

«Solletico!» cinguettò Max, tirandosi su dal cuscino, l’aria ancora particolarmente assonnata.

«Sei sveglio, eh?» farfugliò Alec recuperandolo e avvicinandolo al resto della famiglia prima di cominciare ad attaccargli i fianchi con la punta delle dita.

«Tra quanto dovete portarci da Lily?» domandò Rafael.

Alec si fermò e i suoi occhi saettarono sul figlio più grande. Sembrava già rattristato.

«Mi ci devo ancora mettere d’accordo, ma penso verrà lei da noi.» sospirò Magnus. «Starà con voi finché non torniamo».

«Sì! Così le faccio vedere il pupazzo del drago che mi ha regalato la nonna. Mi sono sempre scordato di portarlo all’Hotel!» farfugliò Max, soddisfatto.

«Non dovremmo fare troppo tardi, ma probabilmente vi metterà a letto lei, ha un sacco di storie delle sue avventure da raccontarvi.» aggiunse Magnus.

«Perché non potete portarci all’Istituto con voi? Possiamo dormire lì, e poi tu riapri il portale e ci riportate a casa, no?» bofonchiò Rafael.

E bastò quella domanda a far gelare il sangue ad Alec. Magnus gli lanciò un’occhiata veloce, prima di riportare gli occhi sul piccolo Nephilim.

«Cioè, voglio dire, se tanto non c’è niente di cui preoccuparsi… possiamo venire con voi, no?».

«Rafe ha ragione.» mormorò Max, l’aria seria. Anche lui certe volte assumeva questa espressione da vecchietto saggio. «È da tanto che non giochiamo con zio Jace. Di certo farà meno danni con noi in giro…».

«O di più, dipende.» disse Rafael sogghignando. «Dai, papà… possiamo? Ci lasciate domani con Lily…».

Alec deglutì due volte. Doveva trovare le parole giuste. Non voleva farli preoccupare, ma d’altra parte non voleva portarli in un luogo pericoloso come l’Istituto, di questi tempi.

«Sapete che non è una cattiva idea, che veniate all’Istituto con noi?» disse piano Magnus, nella sua migliore espressione rilassata. Ma le spalle erano tese, un chiaro segnale per Alec. «In effetti potreste tenere d’occhio zio Jace, così almeno avrebbe dei complici adorabili per i suoi casini. Fatemi sentire un attimo se gli zii sono d’accordo, però, mh?».

«Magnus?» lo chiamò Alec, a redarguirlo.

«Allora, vediamo un attimo. Io e papi andiamo a parlarne nel mio studio. Eventualmente diamo la serata libera a zia Lily.» sorrise lo Stregone. «Andiamo, Alexander?».

Lo Shadowhunter scattò in piedi, non urtando solo per qualche millimetro il tavolino da caffè su cui erano quelle due tazze di tè fumante, e seguì suo marito nello studio.

Lo Stregone stava già lasciando lavorare la sua magia per insonorizzare la stanza. Il fuoco blu aleggiava come fumo sugli scaffali prima di schizzare in un altro angolo fino a scomparire del tutto, alla fine. La porta si chiuse alle sue spalle.

Alec aveva già alzato il dito, nel suo miglior fare inquisitorio, che tra l’altro non aveva mai funzionato con suo marito, quando Magnus alzò la mano. «Sono d’accordo con te.» gli disse, ancor prima di farlo parlare «Ma non volevo farli preoccupare».

«Lo vedi a mentire?!» ringhiò. E quando l’altro lo guardò con aria colpevole, Alec realizzò cosa stesse pensando: se lui fosse stato più chiaro, sarebbe stato tutto più facile e non ci sarebbe stato motivo di mentire, invece c’era stata poca comunicazione ed era stato necessario dire quelle quattro o cinque minuscole bugie. Aggiustando la realtà per non farli preoccupare. «Non vorrai mica portarli davvero?».

«Se l’attacco dovesse esserci, e se dovesse essere della stessa intensità dei precedenti, non c’è da preoccuparsi, no?» rispose brevemente.

«Mia sorella ti ha chiesto di abbassare le barriere.» gli rammentò e decise che questo discorso non l’avrebbe fatto in piedi, non lì dentro almeno, che qualsiasi cosa poteva essere facile innesco di una maledizione o di una reazione alchemica. Si affrettò quindi a spostare un mucchio di libri e di rotoli di pergamena che avevano l’aria antica, ma inoffensiva, da una poltrona e prese posto. La stanza era in quel solito caos ordinato che contraddistingueva un Magnus particolarmente assorbito dal lavoro e quindi doveva rimettere esattamente dov’era tutto ciò che aveva spostato. Era l’unica stanza in cui i bambini non erano ancora ammessi, troppe cose pericolose in così poco spazio per due bambini che malgrado non fossero proprio dei pasticcioni, potevano comunque urtare qualcosa e come minimo dare fuoco a tutto l’appartamento.

Anche Alec era stato bandito dallo studio, dopo quella volta che aveva urtato la dispensa degli ingredienti per le pozioni e una boccetta di polvere di radice di mandragora si era scontrata, rompendosi, con il vasetto di pasta di barba di drago cinese. Le due sostanze avevano reagito e avevano dato luogo a una piccola esplosione, generando incredibile concatenazione di reazioni chimiche e magiche nella dispensa. E alla fine ci era andato di mezzo il suo solito braccio: che si era trovato mezzo paralizzato e mezzo bruciato. Magnus aveva imprecato senza mezzi termini, e non soltanto per il danno alla sua dispensa di ingredienti, alcune delle fialette avevano subito dei danni irreparabili e aveva dovuto fare un salto in vari mercati oscuri in giro per il mondo per potersi rifornire, ma anche e soprattutto per il terrore di non riuscire a guarirlo. E quindi era stato bandito dallo studio, finché lo Stregone non aveva sistemato gli ingredienti in un luogo più sicuro, “Lontano dalla scarsa grazia di voi Nephilim” aveva detto e poi aveva aggiunto qualcosa di molto simile a “Runa dell’agilità un paio di palle”.

Per cui sì, meglio starsene con le mani in mano e seduto sulla poltrona.

«Troveremo un altro modo.» mugugnò Magnus. «Fammi pensare, mh?».

«No, non se ne parla.» ringhiò e forse già rimpiangeva di essersi seduto, perché in effetti così perdeva tutta la sua autorevolezza, autorevolezza che non gli era mai servita con suo marito. «Non sono come noi, sono dei bambini».

«Non si possono difendere, sì, lo so.» bofonchiò lo Stregone, poggiando le spalle contro la libreria, le braccia conserte. «Gli attacchi comunque avvengono ben oltre il loro coprifuoco… potrei fare un piccolo incantesimo per farli dormire di più e più profondamente, potremmo chiedere a Clary di farli dormire nella sua camera, che almeno li terrà d’occhio e io potrei alzare una barriera ulteriore a protezione della stanza».

Lo Shadowhunter si coprì gli occhi con la mano. «Dio, ci stai davvero pensando!».

«Alexander, vuoi davvero che si ripeta la settimana dopo l’Incidente?» sibilò Magnus. «Non so te, ma io non ho dormito molto in quella settimana perché il nostro bambino, di là, quello che vuole fare tanto l’adulto, era terrorizzato dall’eventualità, abbastanza palpabile peraltro, di perderti. E detto tra noi, anch’io mi sono spaventato parecchio quella volta. Perché sei stato a un soffio, eh? Ti sentivo scivolare via.» replicò, tutto d’un fiato. E quando si perdeva quel fiume di parole, voleva dire solo una cosa: era agitato.

Alec deglutì. Lo sapeva: certo, Rafael era rimasto particolarmente segnato dall’Incidente, ma Magnus aveva profuso quasi tutta la sua energia per curarlo, e anche lui, anche se non l’aveva dato troppo a vedere, era terrorizzato. Perché sì, stava andando via e se n’era accorto anche lui.

«Me lo ricordo.» annuì e cercò in ogni modo di evitare di alzare il tono della voce. «Me lo ricordo.» ripeté, ad occhi chiusi. Aveva imparato che, anche solo ad occhi chiusi, riusciva a recuperare un minimo di calma. Non che accadesse molto spesso ma, quando si trattava della sua famiglia era facile che se la perdesse per strada. «Però è pericoloso, Magnus».

«Saremo lì, con loro.» farfugliò.

«Lo so, ma…» sospirò. «Hai detto che la situazione era preoccupante, e lo hai detto quante, tre ore fa?».

«Sì, ma portarli oggi, ci permetterebbe di avere campo libero i prossimi giorni. Fare avanti e indietro dall’Istituto senza difficoltà, se gli attacchi dovessero continuare».

«Continueranno.» mugugnò Alec, e non era certo una domanda ma un’affermazione, intuendo dove volesse andare a parare Magnus.

«Di certo.» annuì. «Ma finché non capiremo cosa vogliono, non potremo intervenire. Per questo conviene portarli oggi. Perché ancora non sembrano sufficientemente potenti da essere una vera minaccia per l’Istituto e per loro».

«Magnus…» sospirò. Ed era un sospiro carico di richieste e di parole, che non dovevano per forza trovare la via della bocca, bastava quell’emissione di aria. È pericoloso. Pensaci bene. Proteggili.

«Lo so, Alexander.» mormorò. «So che è pericoloso, ma non se siamo entrambi lì, stasera. Praticamente manca solo tua madre e l’Istituto è al completo. Io dovrò abbassare le barriere e rialzarle non appena ne catturiamo uno vivo… però tu potresti restare con loro nella stanza di Clary».

«Piuttosto ci rimane Jace e io sto fuori con te.» replicò.

Magnus strinse le labbra in un’espressione divertita per un solo istante. «Li terrà svegli. E loro si preoccuperanno».

Alec non poté fare a meno di annuire. «Vero».

«E poi siamo praticamente al pieno delle forze: anche se Clary è molto incinta, credo riuscirebbe ad aprire comunque un portale per riportarli a casa qualora fosse necessario. E davvero manca solo tua madre, l’Istituto è al pieno delle forze».

«Sei persone non sono il pieno delle forze per un bel niente.» replicò Alec ruotando gli occhi al cielo.

«Non è colpa mia se l’Angelo, nella sua grande e infinita saggezza, ha pensato bene di far ascendere poca gente.» replicò. «E poi, mi ferisci Alexander. Io sono un Sommo Stregone, siamo più di sei con la mia magia. Io e la mia magia facciamo almeno due persone in più».

Alec non riuscì a fermare il leggero sorriso che gli stava tendendo le labbra. «E da quant’è che tu e la tua magia valete solo per due persone».

«Giusto, ho dimenticato il mio ego! Tre, tre persone.» annuì. «Tre persone, che se invece calcolassimo come Nephilim, beh, saremmo almeno a trenta persone».

«Sei tremendo!» farfugliò e la sua espressione divertita sparì di colpo e sospirò. «Dici che è la cosa giusta da fare?».

«Assolutamente no, per questo dovremmo farla.» rispose suo marito, con uno di quei sorrisi scapestrati e poi ridusse finalmente lo spazio tra di loro, si accovacciò davanti a lui, come aveva fatto tante volte in ben altri contesti, le mani sulle sue ginocchia. «Andrà bene.» disse, la voce ferma e il tono serio. «Andrà bene».

I suoi occhi gli diedero una tranquillità incredibile: caldi e sinceri, come se avesse in mano la situazione, come se fosse certo che se la sarebbero cavata. E forse doveva farsi bastare quegli occhi, così, come rassicurazione.

 

 

In meno di un’ora erano arrivati all’Istituto, delle buste del take away thailandese, a sufficienza per un esercito, tra le mani.

I bambini avevano preparato i loro zainetti infilandoci il pigiama e qualche snack, insomma i beni di prima necessità. Rafael aveva portato il libro che stava leggendo in quel momento, per andare avanti di qualche capitolo prima di mettersi a letto, se Magnus e Alec non avessero fatto in tempo a raccontare loro la storia prima di rimboccare le coperte, e l’avrebbe letto ad alta voce anche perché la storia appassionava anche suo fratello. E Max invece aveva portato il suo drago di peluche, quello che gli aveva regalato Maryse, perché voleva farlo vedere e a tutti all’Istituto.

Appena arrivati, c’era Isabelle, nei suoi tacchi vertiginosi e in un vestito scuro e non particolarmente lungo che faceva risaltare ancora di più quella carnagione diafana che condivideva col fratello. Aveva il sorriso più abbagliante che Alec le avesse visto fare nelle ultime settimane e forse perché c’erano i due nipoti a fare visita, o forse perché Simon era tornato a casa.

Jace, aveva fatto un agguato alle spalle dei bambini e aveva cominciato a rincorrerli dappertutto. Simon e Beatriz avevano dovuto placcare il Capo dell’Istituto e costringerlo a lasciare liberi i bambini ma si erano fatti trascinare anche loro nell’acchiapparella, finché non arrivò l’ora di cena.

Clary si era candidamente defilata dopo una rapida chiacchierata con Magnus in merito alle precauzioni per la serata, la cucina thailandese era troppo speziata per lei, aveva recuperato del riso bianco e si era rinchiusa nella sua stanza.

I bambini avevano cominciato a raccontare la loro giornata agli zii, la bocca piena e i sorrisi stampati sulle labbra. Rafael aveva sottolineato come era riuscito a trovare una scappatoia alle numerose regole di casa Lightwood-Bane, suscitando l’ilarità generale in tutti i presenti.

Alec non era riuscito a godersi il momento, era un fascio di nervi. Certo, i bambini si stavano divertendo come pazzi, e non stavano assolutamente pensando a qualcosa di preoccupante, Magnus aveva ragione, portarli lì adesso avrebbe esorcizzato le loro paure per un futuro imminente. Ma non riusciva proprio a calmarsi.

Evidentemente suo marito intuì qualcosa, a un certo punto, e gli poggiò semplicemente la mano sulla coscia. Il lieve fulgore della sua magia gli attraversò la pelle per un solo istante, e forse un po’ lo calmò, o forse era semplicemente il calore del suo palmo a dargli sicurezza.

Magnus conversava amabilmente con gli altri, raccontava a Beatriz con la sua voce profonda e vellutata un certo aneddoto della sua ultima visita all’Accademia, risalente a qualche mese prima, qualcosa che aveva effettivamente fatto infuriare sia Vivianne Penhallow che Catarina. I bambini lo ascoltavano rapiti e Alec si domandò se suo marito avesse mai notato quello sguardo nei loro figli. Simon annuiva e ogni tanto lanciava un commento, doveva esserci anche lui quel giorno, e tutti gli altri ridevano.

Magnus era sempre stato un buon cantastorie. Anche quando ancora non c’erano i bambini, ad Alec piaceva farsi cullare dalla sua voce, prima di addormentarsi. Si faceva raccontare vecchie storie, alcune erano sicuramente menzogne inventate di sana pianta solo per il suo diletto, altre avevano un sapore antico, sapevano di realtà, di vita vissuta. Era sempre colorito nelle sue storie, ma quando avevano cominciato a raccontarle ai bambini aveva dovuto modificare il suo vocabolario.

Dopo poco, Jace si alzò e gli lanciò un’occhiata d’intesa, facendogli cenno di seguirlo nel suo ufficio.

Alec si era allontanato a malincuore da Magnus e dai bambini, voleva tenerli d’occhio comunque, come se l’allarme fosse già suonato, come se dovesse già proteggerli. E l’unica cosa che poteva essere pericolosa, lì, in quel momento, era Izzy troppo vicina ai fornelli.

«Sei agitato.» gli disse Jace, appena usciti dalla sala da pranzo. «Lo sento, Alec».

«Sì. I bambini qui… non è una buona idea.» sospirò. «Però Magnus non ha torto, portarli adesso può farli tranquillizzare».

«Il piano di Magnus come al solito è stato approvato prima dal tuo stilo e poi dal tuo cervello, vero?» domandò.

«Ehi! Guarda che non sono io quello che per metà della sua vita ha lasciato decidere alle sue parti basse.» brontolò.

Jace non sembrò voler replicare, un sogghigno allusivo sulle labbra e le sopracciglia alzate. La sua classica faccia alla “non mi pento di niente”. «Beh… comunque per una volta abbiamo la situazione sotto controllo, quindi puoi provare a calmarti.» bofonchiò poi, con una certa soddisfazione. «E il Clave ci ha concesso un supporto, se la questione dovesse peggiorare. Beatriz ha già contattato Julie, dovrebbe raggiungerci tra due settimane».

«Magnus pensa ci possa essere qualche connessione con delle strane sparizioni di certi Stregoni.» farfugliò.

«Sì, Izzy mi ha accennato un pochino.» sospirò aprendo la porta del suo ufficio.

Alec si grattò la nuca e sbuffò. «Lo sai com’è Magnus… pensa che Isabelle sia—».

«Veramente, mi fa comodo che ne parli con Izzy.» lo interruppe subito. «Clary ha bisogno delle mie attenzioni adesso, quindi tocca a Isabelle tutta quella serie di rogne, rapporti, informazioni… è noiosissimo fare il Capo.» sbuffò e si sedette dietro la scrivania. «Ora capisco perché ti sei defilato… io andrei a menar le mani nei bar per scaricare la frustrazione».

«Mi sono defilato, come dici tu, per andare a vivere con Magnus.» bofonchiò. «E poi tu sei una testa calda…» aggiunse, sedendosi di fronte al suo parabatai.

«Non è che vuoi fare a cambio?» domandò.

Non ci pensava nemmeno: era una gran scocciatura fare il Capo, nel periodo in cui aveva governato prima l’Istituto di New York e poi quello di Londra si era reso conto che queste cose non facevano per lui e per i suoi nervi. Soprattutto per i suoi nervi. «Potresti prenderti un po’ di tempo quando nascerà vostro figlio. Ti assicuro che è un casino quando hai bambini piccoli… il Clave non ti darà tregua, dovrai approvare i bilanci, stendere rapporti… cioè le cose che di solito fa Clary e che ha velocizzato con il computer ma… non è proprio il lavoro per te, direi…» sorrise.

«Ah, grazie eh!» borbottò. «Ricordami ancora com’è successo che mi sono trovato in questa posizione?».

«Beh, hai messo incinta Clary.» rispose impassibile.

Jace sbuffò sonoramente. «No, dicevo la posizione di Capo, tu eri più qualificato di certo…». E forse sapeva che Alec aveva capito al primo giro e voleva soltanto scherzare con lui.

«Perché io preferisco lavorare coi Nascosti.» replicò. «E poi perché per essere Capo, dovevo vivere qui. E lo sai che a Magnus viene la scarlattina anche alla sola idea di restare qui più a lungo del dovuto. E non è proprio un posto per i bambini, questo. Soprattutto non per bambini che se piangono fanno esplodere cose.» replicò. «E poi Maryse si fida di te, e sei un buon leader. Che non sa scrivere rapporti in modo decente, ma sì. Un buon leader.» annuì. «Fortuna che c’è Clary a fare tutto il lavoro sporco».

Si portò una mano al petto, l’espressione sconcertata. «Mi ferisci, Alec!».

Lui gli lanciò un’occhiata per niente impressionata. «Io sto con il Dramma in persona, non puoi proprio competere».

E il suo parabatai sbuffò sonoramente.

«Allora? Mancano due mesi, eh?» mugugnò. «Non abbiamo mai avuto modo di parlarne. Agitato?».

«Ho una paura matta, lo sai?» ammise, gli occhi di quell’oro pallido sgranati. «Io sono stato cresciuto da Valentine, non so come si faccia».

«Sei stato cresciuto anche da Maryse e Robert…» gli rammentò, la fronte corrugata. E quando Jace gli tagliò un’occhiata sconcertata lui sospirò. In effetti non erano proprio l’esempio perfetto da seguire. «Sì, okay, non vinceranno neanche loro il premio genitore dell’anno… ma erano bravi nel loro essere genitori Shadowhunter. E poi io mi ricordo com’eri con Max, quando eravamo ragazzini. E ho ben presente come sei coi miei figli… ti verrà naturale. E poi sei una brava persona. E non lo dico perché sei il mio parabatai».

«Non è la stessa cosa. Clary è stata cresciuta da sua madre, da Luke… non le hanno fatto mancare niente…» bofonchiò. «Io sono cresciuto con il dettame “Amare è distruggere”, quindi…».

Alec sospirò e reclinò la testa all’indietro, affondando di più nella sua seduta. E forse non era proprio il giorno adatto per affrontare questo genere di discorsi col suo parabatai, ma magari l’avrebbe aiutato a pensare ad altro. Incrociò le braccia e puntò gli occhi su di lui. «Ma sei cambiato no? Per lo sconcerto generale di noialtri, tu sei cambiato. Stare con Clary ti ha reso una persona diversa. Amare non è distruggere, no?».

Jace sembrò afferrare il concetto, annuì piano. «No, infatti».

«E tu faresti di tutto per lei. E faresti di tutto anche per vostro figlio, direi.» replicò. «Sarai un bravo padre, fidati di me».

Il suo parabatai sbuffò di nuovo. «Ah, ma tu sei Alec Lightwood, l’uomo che sussurrava ai bambini, non conti…».

«È Lightwood-Bane, siamo sposati cerca di ricordartelo. E poi, dovresti passare meno tempo con Simon.» commentò un sogghigno sulle labbra.

«Primo, io non ho visto nessuna cerimonia: l’avete fatto in gran segreto. Secondo, dicevo che a te viene naturale…» mormorò. «Non so che fare, Alec».

Alec ruotò gli occhi al cielo, non voleva di nuovo affrontare l’argomento matrimonio: era stata una cosa totalmente estemporanea, pur di non perdere una scommessa con un’ubriachissima Maia che li aveva sfidati a sposarsi, Magnus aveva riso e aveva glissato sull’argomento, come al solito. Non se lo aspettava neanche lui di ritrovarsi con un anello al dito, per quanto tenesse l’anello di famiglia sempre con sé per infilarlo al dito di Magnus al momento giusto. E il momento giusto era stata quella mattina di sette mesi prima; con sua sorpresa, Magnus aveva schioccato le dita e gli aveva mostrato degli incartamenti del Municipio, già compilati, con copie dei loro documenti (che forse aveva fatto apparire nei registri cittadini con un altro schiocco di dita). Era poco romantico, firmare un contratto e ritrovarsi davanti a un funzionario del Municipio che davanti alla legge dei Mondani li dichiarava ufficialmente sposati. Però, le sue parole quel giorno—Meglio non pensarci, sennò si sarebbe sciolto lì, nell’ufficio del Capo dell’Istituto.

Decise di tornare sull’argomento principale. «Beh, a dire il vero la prima volta che hai tenuto in braccio mio figlio l’hai quasi fatto cadere...» mugugnò impassibile.

«Ehi! Aveva fatto tutto da solo!» gli rammentò. «E poi, parli tu? Magnus non aveva una bella cera quando ha capito che volevi tenere Max».

Alec si grattò il collo e scrollò le spalle. «Non c’entra, a noi questa cosa è piovuta addosso: Max non era nei piani. Stavamo insieme da un po’, ma… non sapevamo dove stessimo andando».

«E pensi che io sappia dove stia andando?» domandò.

«Certo. Non staresti con Clary, sennò. E sì, voi siete sposati, runa sul cuore e tutto il resto» replicò.

Jace sembrò metabolizzare quest’ovvietà. Sembrò che la risposta che voleva dargli la stesse ciancicando contro il palato, come a prendere altro tempo. «Mi sto cacando sotto uguale.» ammise alla fine, raccogliendosi la fronte, i capelli biondi che ricadevano sulle dita lunghe da pianista e scure e inspessite da guerriero. «Che posso fare?».

«Intanto, mi sa che è un po’ tardi per tirare i remi in barca,» replicò. «Sai, tua moglie è davvero tanto incinta e… ti ricorderei anche che è addestrata per uccidere, per cui non puoi dartela a gambe. E poi la ami».

Jace rimase un momento in silenzio, la testa ancora tra le mani. Stava rimuginando.

«La ami. E amerai quel bambino. Fine della storia.» ribadì Alec. «Non sarai come Valentine, sei una brava persona».

Il suo parabatai alzò gli occhi su di lui, una strana espressione in viso. Dalla runa arrivava un segnale confuso, di varie emozioni mescolate. «E se non gli piaccio?» mugugnò, e uscì come un sussurro, quasi impercettibile.

Alec aggrottò le sopracciglia, non era sicuro di aver capito. «A chi?».

«Come a chi? A mio figlio! Di quello stavamo parlando, Alec!» brontolò.

«I miei figli ti adorano.» gli disse scrollando le spalle.

«Certo, sono lo zio fico. Quello che di sicuro comprerà la prima birra e li coprirà quando faranno le cazzate!» annuì.

Pregò per un istante che Clary gli inculcasse un minimo di buon senso negli anni avvenire, anche a suon di scappellotti, in modo da non dover dare spiegazioni a Magnus su questo piano diabolico dello zio fico.

«E poi sono grandi,» continuò a dire Jace. «E non sarebbero un mio problema se fossero dei frugoletti che piangono e mangiano come principale attività della loro vita».

Alec sorrise e scosse la testa. «Sei senza speranza».

«Eh! Vedi, lo dici anche tu! E tu sei il mio parabatai, dovresti darmi manforte, consolarmi!» replicò.

«Hai più difetti che pregi, questo è poco ma sicuro.» bofonchiò col suo miglior tono indifferente. «Però tutti, pregi e difetti, sono quello che ti rendono te. Ti adorerà, e non solo perché è tuo figlio, o perché sei una bella persona.» annuì. «Ma perché, semplicemente, lo amerai, ai bambini non importa molto altro. Basta che li ami e che sei lì per loro e il gioco è fatto.» aggiunse e tornò subito serio. «Comunque, volevi parlarmi?».

«In realtà volevo darti la possibilità di calmarti, Alec. Che agiti anche me, e poi Clary si altera… questi ormoni della gravidanza mi stanno togliendo il sonno… e non voglio dormire un’altra volta sul divano.» sbuffò. «Però alla fine mi serviva una chiacchierata con te…».

«Sul divano?» domandò corrugando la fronte.

«Ah, lascia perdere. Ieri sera si è talmente arrabbiata che non l’ho svegliata per aiutare durante l’attacco, che alla fine mi ha spedito sul divano… ti rendi conto? È molto incinta, per l’amor del cielo!».

Alec scoppiò a ridere. «Eh, sono gli ormoni o è perché le rubi tutte le coperte e tiri i calci? Anche io ti caccerei dal letto, fosse così».

«Dovresti passare meno tempo con Magnus, tu.» brontolò, facendogli il verso. «Possibile che tu e lui non litighiate mai?».

Scrollò le spalle. «Siamo una coppia come tutte le altre, Jace. E Magnus non è certo una donna molto incinta in questo momento, però ci sono momenti in cui si sfiorano i drammi veri. Di solito, troviamo sempre il modo per smussare le nostre divergenze. Se può farti sentire meglio, ieri notte ha minacciato uno sciopero del sesso».

Jace alzò la mano ad occhi chiusi. «Ecco, queste sono cose che non voglio sapere, Alec. Grazie, va bene così».

«Per farti capire che comunque dei piccoli diverbi li abbiamo anche noi.» sbuffò sonoramente e finalmente l’agitazione che gli pesava addosso sparì. «Abbiamo passato una bella giornata, grazie di avermi accordato del tempo libero».

«Scherzi? Tuo marito mi avrebbe riempito l’ufficio di anatre, vive, non certo paperelle di gomma… se non l’avessi fatto.» sospirò.

Alec sogghignò. «È molto persuasivo».

Jace sbuffò. «Sei ancora terribilmente stucchevole. Dopo tutto questo tempo… quando parli di Magnus ti brillano gli occhi, come il primo giorno».

«Come se a te non brillassero gli occhi quando parli di Clary.» replicò. «Anche prima che ti lamentavi del divano… lo facevi con una certa soddisfazione».

«Ah, ma stai zitto…».

«Comunque,» bofonchiò cercando di tornare a parlare di lavoro.

«Comunque,» continuò l’altro. «Dovremmo approfondire la pista degli Stregoni, se questa sera Magnus e Isabelle riescono ad analizzare uno di quegli scheletri—».

Ancor prima che Alec potesse assentire o che il suo parabatai potesse continuare la frase, qualcuno bussò alla porta. Un suono leggerissimo, quasi impercettibile.

«Avanti.» disse Jace.

E quando la porta si aprì i due bambini si affacciarono nell’ufficio. Rafael nel suo pigiama coi dinosauri e Max aveva quello con le paperelle, che Magnus aveva comprato solo per infastidire Jace, e di certo non era un caso che l’avesse portato all’Istituto proprio oggi.

«Ehi, scimmiette.» bofonchiò Alec alzandosi in piedi. «Andiamo a letto?».

«Zia Clary ci ha detto che dormiamo in stanza con lei.» annuì Rafael.

«Quindi mi tocca il divano anche stasera.» sbuffò Jace.

«Appena abbiamo terminato il nostro lavoro li portiamo a casa.» replicò Alec ruotando gli occhi e raggiunse i bambini e porse loro le mani. «Erano questi i patti, mh?».

«Sì, però mi avevi promesso che tu e papà ci raccontavate una storia.» mugugnò Max.

«Oh, ma certo scimmietta. Di sicuro papà sarà già pronto per raccontarvi una delle sue avventure.» farfugliò e si avviò nel corridoio, verso la stanza di Jace e Clary.

I bambini camminavano piano, anche se avevano dormito un po’ il pomeriggio, dovevano essersi stancati. Di sicuro, Jace aveva fatto la sua parte, rincorrendoli per tutto l’Istituto, e di certo anche la loro mattinata al parco li aveva distrutti. Max si stava già strofinando gli occhi ancor prima di essere messo a letto e Rafael si era accucciato vicino a suo fratello senza dire niente, il drago di peluche che Maryse aveva regalato al piccolo Stregone tra di loro.

«Papà dov’è?» domandò Rafe.

«Starà parlando con zia Isabelle, lo sai com’è chiacchierone quando si parla di vestiti e capelli e cose del genere…» bofonchiò. «Posso raccontarla io la storia, intanto. E domani ve la raccontiamo insieme, mh?».

«Va bene,» sbuffò Max, senza fare troppi capricci. «Parola d’onore?».

«Parola d’onore. Croce sul cuore.» annuì. «Allora, che storia volete?» domandò.

Alec si ricordava perfettamente la prima volta che avevano raccontato una storia della buonanotte. Max era piccolo, era con loro da appena due mesi e aveva deciso che non fosse un’opzione ragionevole dormire di notte. Alec era distrutto, in quei giorni, stanco oltremisura: non era abituato a fare nottata con un bambino che piangeva perché stava mettendo i denti, e il Clave gli alitava sul collo per certe modifiche alla sicurezza dell’Istituto, per non parlare dei demoni e di Jace che come al solito faceva casini. Alcune volte, Magnus aveva provato a farlo addormentare con la magia, ma anche i suoi piccoli incantesimi, non avevano sortito l’effetto voluto: il piccolo Stregone dormiva qualche ora e poi si svegliava, sbraitando come un’aquila calva. Erano tutti e tre a letto, una sera, Alec era mezzo svenuto, neanche tutte le rune del vigore attivate avrebbero potuto dargli un minimo di vitalità in più, e anche Magnus era abbastanza distrutto, anche se aveva la magia dalla sua ed era ancora decisamente favoloso, passare del tempo con un bambino che si lamentava tutto il giorno aveva provato i suoi nervi. All’improvviso, Magnus decise che era una buona idea cominciare a parlare al bambino che continuava col suo lamento sommesso, mentre teneva in bocca quel giochino da ciancicare che gli dava evidentemente sollievo. Lo teneva in braccio, la mano sulla schiena del minuscolo Stregone blu. E Alec aveva seguito Magnus, parlando piano e continuando la storiella. Una specie di racconto fantastico su Stregoni e pirati e draghi, e, ancor prima di arrivare alla fine, il bambino si era appisolato e aveva dormito tutta la notte.

Oppure anche quando Rafael non era ancora con loro a casa, e loro andavano a trovarlo, in quelle brevi visite che riuscivano a ritagliarsi in Argentina, erano riusciti a legare ancora di più con lui leggendogli libri, raccontandogli brevi aneddoti per farsi conoscere meglio. Lui li ascoltava rapito, gli occhi fissi su di loro. E sapeva già di famiglia, di casa.

Era diventata una consuetudine, ed era uno dei momenti della giornata che Alec custodiva più gelosamente nel suo cuore, e aveva numerosissimi ricordi di serate passate a raccontare storie, con Magnus che faceva dei trucchetti magici per aggiungere un po’ di colore a tutto, per aiutare la fantasia dei bambini e guidarli in dei sonni tranquilli.

Non era arrivato neanche a metà della storia, una delle preferite di Max, con protagonisti principali Elmo, i draghi, i pirati e la magia, che tutti e due i bambini erano sprofondati nel sonno.

Magnus era entrato poco prima, giusto in tempo per salutarli e sedersi vicino a loro. Aveva poi rimboccato le coperte ai due bambini e aveva lasciato guizzare la sua magia su di loro, per farli dormire più profondamente e più a lungo. E poi aveva innalzato un’ulteriore barriera protettiva sulla porta e sulle finestre della stanza, giusto per precauzione.

 

Alec, dopo aver passato ancora qualche minuto seduto sul letto vicino a loro, li aveva affidati a Clary senza aggiungere altro se non uno sguardo di completa fiducia e aveva preceduto Magnus nell’ufficio del Capo dell’Istituto.

Isabelle aveva già preparato tutto. Sugli schermi, fatti installare da Clary poco dopo il suo insediamento come Capo, le riprese degli attacchi delle scorse serate. «Abbiamo almeno due ore, prima dell’attacco» disse lei. «Volevo vedere con voi i video di ieri sera, magari notiamo qualche particolare in più… prima di abbassare le barriere».

«Vuoi abbassare le barriere?» domandò Simon aggrottando le sopracciglia. «Cioè non te la prendere, ma… non mi pare una buona idea, ecco. Magari aspettano proprio questo, ci attaccano in pochi e non sufficientemente potenti e, appena noi siamo più sicuri e abbassiamo le barriere… zac, eccone a centinaia e potentissimi».

Alec lo fissò. Non sembrava un brutto ragionamento. E qualcosa scattò nella sua testa. Non era sensata la dinamica di quegli attacchi, non era finalizzata a qualcosa. Sembrava piuttosto che stessero cercando di entrare nella loro comfort zone, loro avrebbero abbassato la guardia e li avrebbero attaccati con forze ben rimpolpate.

«Ne dobbiamo catturare solamente uno, vivo… cioè, relativamente vivo…» bofonchiò Jace. «Gli altri verranno polverizzati dalle barriere di Magnus».

«È una cattiva idea, sono d’accordo con Simon.» replicò Alec. «E non perché ci sono i miei figli, non solo almeno. Ma perché effettivamente non sembra avere senso tutto questo.» mugugnò a braccia conserte. «Se vogliono attaccarci, perché continuano a farlo con queste cose non particolarmente potenti? Perché non con qualche demone vero e proprio e non queste evocazioni negromantiche che non hanno niente di… minaccioso?».

Cinque paia di occhi lo squadrarono.

«Abbiamo Magnus, oggi con noi. E forse se non ci fossero le sue barriere, non si polverizzerebbero così…» farfugliò Jace.

«E se volessero questo?» suggerì Simon e Alec lo fissò, forse con troppa intensità da congelare l’altro e farlo tartagliare. «Amico non… non che io voglia scatenare il panico in nessuno ma… ma qui l’unica cosa che abbiamo di diverso dagli altri Istituti è proprio Magnus. Le barriere le ha create lui, no?».

Beatriz sembrò concordare, annuiva piano. «Mi sembra un buon ragionamento. Ci stiamo domandando da giorni cosa abbiamo noi di tanto speciale e… sì, è Magnus».

Alec aveva perso le parole. E sì, anche se Simon aveva cercato una perifrasi per non fargli montare il panico, di fatto era tardi. Ma lui era riuscito in qualche modo a tirare su quella che i Mondani chiamano faccia da poker, e quindi magari gli sarebbe venuta un’ulcera prima di mostrarsi visibilmente preoccupato, però lo era. Diamine se lo era.

«Per quanto questo gonfi il mio ego, perché pensate possa essere io e non uno di voi, l’interesse principale del vostro misterioso nemico?» domandò lo Stregone.

«Perché stanno testando le barriere.» mormorò Isabelle, finalmente realizzando dove volessero andare a parare Simon e Beatriz. «Ha senso: a ogni attacco aumentano di poco la numerosità di qualcosa che praticamente si polverizza al contatto con le barriere. Via via però, si impara dagli errori e forse hanno trovato il modo di potenziarli. A pensarci bene le barriere ci mettono sempre più tempo ad annientarli… praticamente è come per prove ed errori…».

Alec spostò lo sguardo su suo marito. Aveva capito. «Sono dei tentativi di superare le tue barriere ed entrare».

«Entrare qui? Ma qui non ha senso abbiamo gli allarmi e—» cominciò a dire Jace, ma poi lo guardò in faccia. Forse, il suo parabatai aveva sentito di nuovo il panico, il terrore che gli stringeva la gola e gli seccava il palato.

«No, l’obiettivo non è l’Istituto.» bofonchiò Simon. «Ma l’altro posto protetto dalle sue barriere…».

Alec sentì qualcosa montargli alla gola, come una nausea improvvisa. Deglutì due volte e cercò di trovare le parole. Senza riuscirci. Volevano entrare a casa loro? Davvero? Era terribile. Quello era il posto più sicuro che conoscesse. «Casa nostra.» farfugliò. «L’obiettivo è casa nostra».

Magnus indietreggiò fino a raggiungere una delle poltrone, si sedette e si raccolse la fronte con una mano.

«C’è qualcosa a casa vostra che potrebbe essere interessante?» domandò Isabelle. «Qualcosa di cui magari il Clave non sa niente?».

Magnus ci pensò in silenzio. I suoi occhi saettavano fulminei, come se stesse cercando di pensare, di ricordare. All’improvviso scattò in piedi e cominciò a osservare i video. Fortuna che Clary a un certo punto era andata contro le regole dei Nephilim e aveva insistito a fare un salto nel ventunesimo secolo, con computer e macchinari vari ed eventuali. «Devo vedere una cosa. Mi mandate una ripresa ingrandita della testa di una di quelle creature? Mi pare di aver visto qualcosa oggi ma non ci ho dato molto peso… ì» mugugnò.

Simon si affrettò alla tastiera e di lì a poco un fotogramma zoomato di uno di uno di quei teschi marcescenti si palesò davanti a loro.

«Certo che sono orrendi.» mormorò Beatriz affacciandosi sullo schermo. «Ma cosa stiamo cercando?».

Magnus recuperò un foglio di carta e cominciò ad abbozzare una figura. Una serie di linee che non sembravano avere senso. «Puoi renderla un po’ più nitida? Annerire quella specie di runa che ha sulla fronte?».

Simon lavorò rapidamente per eseguire l’ordine e sulla pelle putrida si vide un po’ più chiaramente quella che, sì, in effetti sembrava proprio una runa.

«Mags, che cos’è?» domandò Alec.

Suo marito lo guardò con gli occhi sgranati, senza glamour. La pupilla dilatata. «Merda.» sibilò.

«Magnus?» farfugliò Beatriz.

«Hai ancora dei campioni, no?» bofonchiò lo Stregone guardando Isabelle, che annuì. «Quelli che abbiamo analizzato oggi insieme, mi serve che tu cerchi una cosa: sangue di Stregone. Abbiamo cercato tracce demoniache ma non specificamente sangue di Stregone. Il coefficiente di sangue Mondano che lo compone potrebbe non far reagire il sensore, non nella stessa modalità che avviene invece per i residui di demone. Comincia direttamente con quelli di ieri sera, e poi vai ai giorni precedenti…».

«Vado.» annuì Izzy, affrettandosi verso il laboratorio.

«Perché sangue di Stregone?» domandò Jace. «Non è che puoi essere più chiaro? E che cos’è quello?».

Alec incrociò ancora gli occhi di suo marito, scuri e profondi come la notte, di nuovo celati dal glamour. Per un momento gli parve stesse scandagliando la sua anima e poi, lo vide, quel minuscolo guizzo che facevano, quasi impercettibile, quando era turbato.

Gettò un’occhiata al simbolo, allora, sembrava una runa, eppure aveva qualcosa di sinistro: due cerchi concentrici, tre linee che si incrociavano in un segno sghimbescio, molto simile a un triangolo di cui però i lati che componevano il vertice superiore proseguivano e terminavano in due mezzi ghirigori.

«Questa,» cominciò a dire Magnus picchiettando sul foglio con la penna, per poi indicare sommariamente lo schermo dove si vedeva lo stesso simbolo che aveva disegnato, sulla fronte purulenta dello scheletro. «Questa è un’egida di sangue».

«Dovremmo capire cos’è da soli o… ce lo spieghi tu?» domandò Jace. «Cerca di capirmi, non amo la suspense».

Lo Stregone fissò il Capo dell’Istituto per niente impressionato. «È un tipo di evocazione negromantica molto oscura. Magia davvero davvero nera. Pensavo fosse uno Stregone ad averla imposta, ma…» mormorò, e prese a giocare con la fede nuziale, lasciando scivolare il pollice sulla fascetta di metallo. «Si utilizza sangue di Stregone per imporre questa specie di sigillo, o se preferite runa, sui cadaveri, più sono decomposti e meglio è. Permette di governarli a proprio piacimento…» mormorò. «Le mie barriere reagiscono a tutto. Sangue degli Stregoni compreso per cui… si comportano come farebbero con dei vampiri pericolosi, dei licantropi poco amichevoli e dei demoni di qualsiasi razza o dimensione…» aggiunse. «Dovrò ricontrollare tutti i video, ma sono abbastanza sicuro che all’inizio erano semplici evocazioni scheletriche, senza egida… ma l’evocazione è troppo debole, è stato usato quel simbolo per farli diventare più potenti… aumentando la quantità di sangue di Stregone e soprattutto aumentando i donatori, diciamo… riuscirebbero ad entrare qui. O a casa nostra...» si sfregò la fronte col dorso della mano.

Alec si mosse rapidamente verso di lui. «Mags?».

«Casa nostra è ben protetta.» mormorò e, nello spostare  la mano e rivelando gli occhi di gatto per un solo istante. «Le mie barriere lì sono molto più forti di qui: il perimetro è inferiore e ovviamente non devono reggere un glamour tanto potente e ingombrante. Ma se è come penso, o meglio come temo, e le analisi di Isabelle daranno esito positivo, l’egida di sangue è stata creata con il sangue di dieci degli undici Stregoni scomparsi.» farfugliò e indietreggiò per tornare a sedersi. «E siamo nella merda, Alexander. Perché di certo ci vorranno molti Stregoni per superare le mie barriere. Sarà un vero bagno di sangue».

Alec perse le parole, tutte insieme. Era chiaro che Magnus avesse già in mente qualcosa, che sapesse qualcosa di più di loro e che stesse cercando di arrivare al dunque, preparandolo in qualche modo perché se era arrivato a definire una situazione in quei termini, doveva davvero essere preoccupante.

«Casa nostra è ben protetta,» ribadì. «Senza entrare troppo nel dettaglio, la barriera lì è di sicuro più spessa e potente; e non certo perché io non dissipi le mie energie per rafforzare quelle dell’Istituto, ma semplicemente perché è casa mia, e lo è stata per molto tempo, ed è il luogo in cui passo la maggior parte delle mie giornate.» bofonchiò e puntò gli occhi sugli altri presenti. «Per farvi capire: è come se a casa nostra tutto rispondesse alla mia energia, se ne nutrisse e di rimando riflettesse quell’energia magica a rafforzare le barriere».

«Sembra complicato.» mormorò Beatriz.

Alec si schiarì la voce, nel tentativo di ritrovare un minimo il filo del discorso. Si stava parlando di qualcuno pericoloso, di qualcuno che voleva entrare a casa loro. «Pensi sia stato l’undicesimo?».

«Temo c’entri, ma solo in parte.» annuì senza neanche voltarsi e si sfregò l’anulare tra le dita, come a sistemarsi la fede nuziale. «E siamo nella merda per questo. Perché, se fosse come credo, si tratterebbe, sì, del prigioniero del Labirinto a Spirale… ma non solo, questa egida di sangue non è utilizzabile da uno Stregone senza il supporto di un Demone Superiore».

Alec tirò il fiato, a mascella serrata, tanto che l’aria sembrò stridere tra i suoi denti. Un Demone Superiore, c’era un Demone Superiore in città, che cercava di entrare a casa loro. Possibile? Non c’erano state segnalazioni.

«Chi è questo Stregone?» domandò Jace.

«La domanda è sbagliata, Barbie. Non è importante chi è lo Stregone, ma chi è il Demone.» bofonchiò, il tono greve, ma senza la solita vena drammatica che imprimeva a forza in certi suoi discorsi. Era preoccupato, genuinamente preoccupato. «Anche se è presumibile che ad attirare il Demone qui sia stato lui, Barnabas Woe».

«Mai sentito.» dissero tutti gli altri, compresa Beatriz che sembrava quella più informata sulla comunità     degli Stregoni.

Alec restò in silenzio, ad osservare suo marito. Decise che era una buona idea soffermarsi sulle sue mani: l’avrebbe aiutato a concentrarsi sul discorso e a sentire meno la preoccupazione che continuava a montargli in gola. Le dita della mano sinistra sembravano instancabili, il pollice continuava a percorrere il fianco della fede nuziale e a farla roteare intorno all’anulare, le altre dita si muovevano per riflesso assecondando il movimento del pollice; la mano destra reggeva la sua testa, il mento affondato contro il polpastrello del pollice, l’indice a circondargli lo zigomo, il medio sotto al naso a spingere il labbro superiore, le altre dita chiuse sul palmo. Lo smalto nero sfavillava a ogni suo movimento, riflettendo la luce.

Improvvisamente, e forse era passata solo una manciata di secondi, Magnus si raddrizzò sulla poltrona, si passò la mano destra tra i capelli, senza però scompigliarli.

«È normale non ne sappiate niente, il Clave ha un accordo con il Labirinto a Spirale sui suoi prigionieri. Riservatezza assoluta.» mormorò. «E Barnabas è stato un prigioniero del Clave, prima di rientrare nelle prigioni del Labirinto. E… potremmo definirlo un dono del Clave, nel 1962 poco prima della firma dei Settimi Accordi.» bofonchiò prima di sprofondare ancora di più nella sua seduta, la testa reclinata all’indietro.

«Perché? Perché lo definisci un dono del Clave?» domandò Beatriz leggermente confusa.

«Come saprete, con la firma dei Primi Accordi, nel 1872, venne ufficialmente dichiarata illegale la persecuzione degli Stregoni. Gli Accordi garantivano diritti agli Stregoni e il permesso legale di praticare magia demoniaca, in particolare quando si assistevano le indagini e le azioni dei Nephilim.» mormorò e aspettò almeno un cenno di assenso prima di continuare. Simon annuì. «Fu solo però coi Quarti Accordi che le leggi che vietavano la collaborazione tra Shadowhunter e Stregoni e l’uso di qualsivoglia magia ritenuta necessaria vennero ufficialmente revocate».

«E questo era coi Quarti Accordi. La storia degli Accordi la sappiamo eh…» ribadì Jace.

«L’unica cosa degna di nota che avvenne ai Settimi Accordi del 1962, fu che venne vietato ai vampiri di creare soggiogati.» mugugnò Simon.

«Sì, ma il Clave, negli anni, fin dal primo tentativo di siglare gli Accordi, ha sempre cercato di ingraziarsi i potenti. Niente di nuovo…» mugugnò, lanciando un’occhiata consapevole ad Alec. «Solo che non avevano mai effettivamente mosso un passo in tal senso se non modificare a loro piacimento delle leggi che avevano creato loro, peraltro.» sussurrò. «Nel 1962, poche settimane prima della firma dei Settimi Accordi, il Clave propose una mozione di trasferimento dalle prigioni di Alicante a quelle Labirinto.» mugugnò. «Essendo uno Stregone particolarmente oscuro, crudele… non se la sentivano di tenerselo ad Alicante. E poiché era a capo di un ampio manipolo di Stregoni… non vollero rischiare rappresaglie e… lo cedettero al Labirinto.» scosse la testa.

«Praticamente stai dicendo che il Clave ha evitato di ammazzarlo per evitare ritorsioni?» domandò Simon, sconcertato.

«E per non ritrovarsi a dover uccidere decine di Stregoni che seguivano Barnabas ciecamente.» aggiunse Magnus, come fosse un’ovvietà. «Sai com’è? Non è proprio una buona garanzia ammazzare decine di Stregoni, nelle immediate vicinanze di una seduta di aggiornamento degli Accordi».

Niente di nuovo. Ripeté Alec nella sua testa.

«Sarebbe stato contro gli Accordi. Ognuno guarda il suo orto…» farfugliò Beatriz. «Però… perché era stato imprigionato? Cioè se era solo uno Stregone crudele… non c’erano molte differenze con tanti altri, no?».

«Provò ad evocare un Demone Superiore, che come la vedi la vedi è piuttosto illegale anche per gli Stregoni, per quanto sia stata legalizzata la pratica della magia demoniaca e possa essere effettuato in casi assolutamente straordinari sotto il vigile controllo del Clave… però il problema era nella sua magia. Incredibilmente instabile e, a giudicare dalle evocazioni è ancora oggi molto instabile. In buona sostanza, qualcosa andò storto e creò una frattura tra il nostro mondo e una delle dimensioni infernali. Riuscimmo a richiuderla senza troppe vittime, ma giustamente il Clave lo prese in consegna, senza darci la possibilità di annientarlo noi. Volevano capire cosa volesse fare, dove volesse arrivare. Per poi rendercelo successivamente… a quanto pare, questa volta c’è riuscito. È riuscito ad evocarlo…» mormorò e puntò gli occhi sulla porta.

Alec seguì il suo sguardo e la preoccupazione gli montò di nuovo in gola: Izzy era tornata, e anche solo la sua espressione trafelata e attonita sembrava essere una riprova delle preoccupazioni di suo marito.

«Positivo. Dieci marker diversi da ieri sera… si direbbero dieci diversi Stregoni…» bofonchiò lei. «Ho analizzato a ritroso e diminuiscono di numerosità… fino al secondo giorno, in cui c’è solo un marker. Un solo Stregone… era quello che temevi?».

Era la conferma che stavano aspettando.

«Merda.» annuì Magnus, e riprese a sfregarsi l’anulare sinistro.

E Alec non riuscì a non notare come si era tesa la schiena di suo marito, e quanto spesso aveva lasciato ruotare la fede nuziale attorno all’anulare, spostandola piano col pollice. E, forse lo faceva inconsapevolmente, ma lo faceva ogni volta che si agitava, come se la fascetta di metallo gli desse una qualche rassicurazione.

«Ti aggiorno io,» disse subito Simon e si affrettò a ragguagliarla brevemente.

Magnus sembrava sconvolto, e mai, nella sua vita con lui, Alec l’aveva visto così terrorizzato. Neanche quando Valentine aveva tra le mani la Spada dell’Anima. Si avvicinò alla poltrona e gli porse la mano. «Ehi, vieni un attimo con me?».

«Alexander non—» provò ad opporsi ma lo Shadowhunter gli prese la mano e se lo trascinò un momento lontano dagli altri, fuori dalla stanza.

In corridoio, lo trascinò in un anfratto sufficientemente lontano dalla porta dell’Ufficio del Capo dell’Istituto. Lo guardò in silenzio per un momento, prima di raccogliere il viso di Magnus tra le mani e baciargli frettolosamente un angolo della bocca.

«Alexan—» cominciò a dire, ma si interruppe subito: Alec si era affrettato ad abbracciarlo, in silenzio.

Aveva letto da qualche parte, forse in una di quelle riviste da parrucchiere che sua sorella teneva in giro per la cucina dell’Istituto che abbracciare qualcuno che viveva un momento angosciante, una preoccupazione, un po’ d’ansia, poteva aiutare a pensare più lucidamente e a calmarsi. Cosa che in effetti sembrava abbastanza un’ovvietà, a pensarci bene. Continuò a incatenargli piccoli baci sulla mascella, a salire piano sull’orecchio fino a fermarsi tra i suoi capelli e a respirare piano il profumo di sandalo del suo shampoo. E forse non lo faceva solo per lui, ma per se stesso. Aveva bisogno di calmarsi, di sentire suo marito tra le sue braccia.

«Alexander.» bofonchiò, come a richiamare la sua attenzione.

«Un altro minuto.» mormorò piano piano.

Non appena le spalle di Magnus sembrarono arrendersi all’abbraccio, sembrarono sciogliere quella tensione, Alec allentò appena la presa. «Andrà tutto bene, troveremo una soluzione.» disse piano piano, ma forse non era uscito molto convinto quel suono dalla sua bocca.

«I bambini. Dobbiamo mandarli da Maryse. Subito. Non possono stare qui, non se cercano di entrare a casa nostra. Non se quel Demone vuole entrare a casa nostra. È ben protetta. È ben protetta… ma se una sera ti seguissero… potrebbero attraversare le barriere…» mormorò, e poi sgranò gli occhi, ancora di più. «Non posso rischiare la tua vita o la loro. Dio, Alexander è pericoloso anche aprire un portale per l’appartamento, se trovassero il modo di abbattere le mie barriere—se seguissero la scia di un portale…» scosse ancora il capo.

«Ce la caveremo.» annuì lui, ma forse Magnus l’aveva notato quel leggero tremolio nella sua voce. Alec era turbato, forse più di suo marito che aveva sempre conservato quel suo incredibile savoir-faire senza mai scomporsi troppo. E vederlo così, così spaventato, gli aveva stretto la gola. «Ce la caveremo.» ripeté un po’ più convinto. E doveva convincersene perché di certo con Magnus accanto era di certo forte e prestante, per quanto facesse paura la sola idea di dover combattere per proteggere casa loro, nel vero senso della parola.

«Alexander…» sospirò a mascella serrata. «Dobbiamo tornare».

Alec strinse di più la presa su di lui, senza aprire bocca. Cercò di profondere tutto il suo calore, il suo affetto nello Stregone. Cercò di entrargli sotto la pelle, di rassicurarlo per quanto possibile. Non poteva avere tutto sulle sue spalle. «Ehi, pensieri felici. Abbiamo i bambini qui… pensieri felici».

«Pensieri felici.» ripeté Magnus deglutendo appena e cercando i suoi occhi con lo sguardo. Sembrava più rilassato, ora. E forse era merito di quelle due paroline. Pensieri positivi. Era diventato un mantra, quando le cose sembravano volgere al peggio, quando lo stress sembrava divorarli, quando sembrava tutto perduto, avevano trovato il modo di esorcizzare il terrore in questo modo, con quelle due parole.

Lo Shadowhunter si trascinò di nuovo il viso di Magnus sotto al collo, e con la mano all’altezza della noce del suo collo, prese a ondeggiare appena.

«Torniamo dentro.» bofonchiò lo Stregone tirandosi indietro.

«Dammi un bacio.» brontolò Alec riducendo la distanza tra loro due, come se fosse possibile, e appropriandosi delle labbra di suo marito senza colpo ferire. Magnus sembrò titubare per un solo istante e poi si lasciò andare, finalmente rilassò le spalle e ricambiò rapidamente.

Avrebbe voluto che bastasse quello a cancellare quella giornata, che era cominciata perfettamente ma stava diventando via via una bella schifezza.

Magnus affondò di più nel bacio, che si fece pian piano più scivoloso e profondo. Ma poi si ritrasse, come se si fosse svegliato all’improvviso da un sogno, e lo guardò. «Dopo questa storia ci servirà una vacanza.» sbuffò, ma non aveva un tono giocoso, sembrava solo stanco.

«Pensi ce l’abbia davvero con te?» domandò Alec, senza staccarsi del tutto da lui.

«È una storia lunga, ne voglio parlare direttamente con tutti.» sospirò. «Andiamo dentro».

Alec non poté dire altro, si limitò a stare lì fermo, a tenerselo contro ancora per un momento, prima di riaccompagnarlo nell’ufficio del Capo dell’Istituto.

Jace fissò per un momento gli occhi su di lui, appena rientrarono. Aveva evidentemente intuito la sua preoccupazione crescere. E forse voleva dirgli qualche cosa che riuscisse ad allentare la tensione, ma si limitò a offrirgli una sedia, non lontano da lui, che non esitò ad occupare. Non avrebbe affrontato neanche questa storia in piedi.

Beatriz non permise a Magnus neanche di sedersi, e cominciò a tartassarlo di domande. «Perché questo Barnabas voleva evocare un Demone Superiore? E poi ha trovato quello che cercava? E cosa cercava? E ora pensi ci sia riuscito?».

Lo Stregone sospirò e tornò a sedersi sulla poltrona che l’accoglieva poco prima. «Bisogna partire dall’inizio.» bofonchiò.

E forse Alec poté notare il leggero cambiamento nel suo tono, se prima era preoccupato, ora era tornato in modalità cantastorie. La sua voce era severa, sapeva del respiro antico del tempo.

«Barnabas era uno degli apprendisti di Aldous Nix. Aldous l’ha praticamente cresciuto.» mormorò. «Nell’ultima trentina d’anni della sua lunghissima vita, Aldous ha avuto sostanzialmente solo contatti con lui. In senso stretto».

«Aldous Nix?» ripeté Jace.

«Il Sommo Stregone di Manhattan che decise che fosse una buona idea fare un giro a Pandemonium, non il club che è una gran figata tra l’altro, ma la città demoniaca… era un folle.» mugugnò Beatriz, dando libero sfogo alle sue conoscenze sulla comunità degli Stregoni.

«Non lo potrei descrivere meglio, mia cara.» annuì Magnus, la fronte aggrottata mentre muoveva piano la testa di lato in cenno d’assenso.

«Quindi, fammi capire bene,» farfugliò il Capo dell’Istituto. «Questo Barnabas era un apprendista di Aldous Nix. E fin qui ci siamo. E questo Aldous era un matto. Quindi c’è da supporre che pure a Barnabas manchi qualche venerdì?».

«Praticamente sì.» rispose Magnus ridacchiando appena, sembrava finalmente rilassato. «Il fatto è che essendo molto vicino ad Aldous, Barnabas ha seguito le sue idee assurde…».

«Idee assurde?» domandò Izzy.

Magnus scrollò le spalle, come rabbrividendo. «Aldous era incredibilmente antico.» disse, con un tono greve, come se temesse cosa stesse dicendo. «E come tutti gli Stregoni antichi era immensamente potente e altrettanto solo… ha perso il senno con l’età, si è via via allontanato dalla realtà. E a circa duemila anni, decise che fosse una cosa molto intelligente aprire un portale sul Vuoto, per accedere a Pandemonium… e lasciare tutte le stronzate dei Mondani da questo lato del portale.» mugugnò. «Era convinto che Pandemonium fosse il nostro posto di diritto, il luogo in cui gli Stregoni potessero vivere con i loro simili, coi loro progenitori…».

«Riuscì ad arrivarci?» chiese Simon.

«Mio padre disse che in un certo senso aveva raggiunto il suo obiettivo. Venne ammazzato da uno Shadowhunter, non riuscii ad evitarlo. Non riuscii ad evitare che il suo sangue attivasse il portale e…» sbuffò. «E il suo corpo venne inghiottito dal portale».

«E Barnabas?» domandò Isabelle. «Barnabas che c’entra in tutto questo?».

«Oltre ad essere un folle.» rimarcò Jace.

«Era estremamente giovane quando Aldous lo prese con sé, forse anche meno di una decina d’anni… e quindi venne praticamente modellato sulle sue idee. Era così legato ad Aldous, che seguiva le sue assurdità ciecamente. E tra le tante, si era convinto di essere il figlio di un Demone Superiore.» farfugliò.

«Come te.» gli fece notare Simon. «Non vedo perché denigrare tanto questa convinzione…».

Alec alzò un sopracciglio, in attesa di una risposta tagliente da parte di suo marito che, no, non tardò ad arrivare.

«Come me, Sherman, sì.» annuì. «Con la piccola differenza che io e mio padre ci somigliamo, e io ho evidentemente ereditato qualcosa che mi ricorda ogni giorno che sono figlio di Asmodeus.» sibilò Magnus, e fece vibrare i suoi occhi di gatto per un solo istante, prima di farli sparire in quel rassicurante color cioccolato. «Oltre alla sua immensa capacità magica che, chiaramente, scorre anche nelle mie vene».

«Beh, ma poteva essere figlio di questo demone, o no?» borbottò Jace, che sembrava leggermente confuso da questa storia.

«Impossibile. È uno dei figli dell’Ottocento, in quel periodo poiché gli Stregoni venivano ancora perseguitati da voi Nephilim, alcuni di noi decisero di rimpolpare il Labirinto a Spirale, costringendo centinaia di donne ad accoppiarsi coi demoni più facilmente controllabili dalla nostra magia…» lo Stregone sospirò, in un gesto estremamente teatrale, affondando di più nella sua seduta a braccia aperte. «E poi c’è il piccolo dettaglio di Aldous che era riuscito a convincere Barnabas di essere figlio di Belial».

«E non poteva essere?» domandò Izzy.

Magnus si sfregò la fronte. «Sherwin, Catarina ha detto che sei andato bene al corso di Demonologia all’Accademia, ti spiace fare gli onori?».

Simon scosse la testa. «No, non poteva essere. Si pensa che Belial sia apparso un’unica volta ai tempi della Prima Incursione. Quando Sammael cominciò l’Incursione coi demoni: nei registri del Clave non viene fatta menzione di altre sue apparizioni… l’unica cosa che sappiamo di certo, è che Belial era a capo delle truppe infernali, all’epoca».

«Ma a capo c’è Asmodeus.» farfugliò Jace.

«Non è così semplice, Barbie.» sospirò Magnus e riprese a far girare la fede nuziale intorno all’anulare, lasciando scivolare il pollice contro la fascetta di metallo. «È vero, Asmodeus è attualmente a capo delle truppe infernali. Quando ci fu la Prima Incursione, però c’era Belial…» mormorò. «Ma Belial non riuscì a governare i suoi demoni, non rispondevano ai suoi ordini e allora decise che fosse una buona idea vendere la pelle di Sammael per affermarsi a capo delle legioni infernali. L’Arcangelo Michele poté uccidere Sammael per le informazioni che Belial gli passò… si dice che Glorious lo tagliò come burro, soprattutto perché Belial impose un po’ di magia demoniaca sulla lama.» mugugnò.

«Glorious la spada che utilizzò Simon per recidere il legame tra Sebastian e Jace?» farfugliò Izzy.

«Quella.» annuì Magnus. «Ovviamente, gli altri Principi Infernali non furono particolarmente entusiasti della piega che aveva preso la questione… soprattutto perché Belial non riuscì mai a dare ordine alle sue legioni demoniache di attaccare gli Angeli e la Terra… e a continuare l’Incursione. A quel punto subentrò Asmodeus che riuscì ad aizzare i demoni a suo piacimento…» bofonchiò rabbrividendo appena.

«E perché i demoni non gli rispondevano?» chiese Beatriz. «Cioè questo non c’è nei libri di demonologia dell’Accademia…».

«Perché Belial non è un Angelo Caduto dal sangue puro.» rispose Magnus. «A differenza di Lucifero, Azazel, Asmodeus e Sammael… Belial era in origine un sanguemisto. Metà potestà e metà virtù. Non mi ricordo se all’Accademia studiate il De coelesti hierarchia. Se così non fosse, dovrei avere una copia a casa… posso portartela.» mormorò e aspettò una risposta dalla ragazza.

«No. L’ho letto. Ma tutti questi dettagli su Belial non c’erano.» bofonchiò.

«Beh, è un trattato sulle gerarchie angeliche mi pare evidente che non si parli di demoni.» replicò Jace. E cinque paia di occhi lo fissarono sconcertati, Alec compreso. «Cosa? Guardate che non sono solo bello».

Magnus ruotò gli occhi e decise che era meglio soprassedere. «I demoni, che erano ancora più bestiali secoli e secoli fa, non riuscivano a seguire i suoi comandi per via di questo sangue impuro… malgrado da Angelo si fosse affermato come Generale, una volta diventato un Demone Superiore non riusciva più a farsi obbedire. Per questo decise di fare questo accordo con Michele: voleva farsi rispettare e non vedendosi riconosciuto questo rispetto da parte dei demoni, anzi, chiese a Michele l’assoluzione, per poter tornare tra gli Angeli nella sua posizione di comando, in cambio di quelle famose informazioni su Sammael. Era solo assetato di potere».

Alec finalmente trovò le parole. «E quindi cosa è successo?».

Magnus sembrò affondare ancora di più nella sua seduta, mentre spostava lo sguardo su di lui. «Michele non lo assolse, ovviamente. Non poteva: ormai il suo sangue angelico era corrotto… era un Angelo Caduto. Non poteva fare altro che lasciarlo lì dov’era.» sospirò. «Non lo uccise, però. Gli permise di redimersi con le sue azioni, nella speranza di poterlo chiamare tra le schiere angeliche in seguito. Ovviamente non ci fu redenzione alcuna, non provò a modificare la sua vita. E da lì si guadagnò il suo epiteto, “il senza valore”, l’impuro tra gli impuri».

«Solo che gli altri demoni non la presero bene.» farfugliò Jace.

«Affatto.» annuì. «Lilith, vedendosi privata di Sammael, fece attaccare Belial da Asmodeus e Azazel, e penso che anche Baal, Belphagor e Mammon si armarono e lo attaccarono. Lo ridussero a brandelli e Lilith bandì Belial nel Vuoto, senza la possibilità di accedere a Pandemonium per rigenerarsi e senza la possibilità di essere come gli altri Principi Infernali. Non poté mai governare, non ebbe mai il suo regno, non poté mai avere il suo esercito.» bofonchiò.

«Beh, ma non vuol dire sia rimasto nel Vuoto per l’eternità…» mormorò Izzy.

«No, infatti. Riuscì a farsi liberare da uno Stregone…» farfugliò Magnus. «E… non lo so, la conoscete la storia di San Giorgio e il Drago?» bofonchiò.

«Sì, certo.» annuì Simon. «San Giorgio uccise il Drago per liberare una principessa o qualcosa di simile».

«Perché tu lo sai, non eri tipo ebreo?» domandò Beatriz.

«I cavalieri che sconfiggono i draghi piacciono a tutti i bambini.» replicò lo Shadowhunter scrollando le spalle. E Alec non poté dissentire.

«Diciamo che è un’allegoria.» mugugnò Magnus. «San Giorgio non era molto diverso da voi. Era certo apparso molto prima del vostro caro Jonathan Shadowhunter… ma anche lui venne unto dalla grazia degli Angeli. E gli venne affidata un’arma angelica. Ascalot.» mugugnò muovendo le mani appena, in un gesto molto scenografico e fluido. «Una lancia la cui lama era fatta di un metallo bianco e traslucido, liscio come il vetro ma molto più pesante».

«L’Adamas.» farfugliò Isabelle.

Magnus fece un cenno di assenso con la testa. «Era stata forgiata dalla falce dell’Angelo Azrael, l’angelo della morte.» mugugnò. «Appositamente per uccidere il drago».

«E cosa c’entra il drago?» domandò Jace.

«Il drago era Belial.» farfugliò Alec, realizzando finalmente dove stesse andando Magnus col suo racconto.

Suo marito annuì. «Essendo stato sospeso nel Vuoto per secoli, senza la possibilità di rigenerarsi del tutto, aveva assorbito tutte le energie e i residui di altre creature che attraversavano il Vuoto per arrivare a Pandemonium…» mugugnò. «Acquisì il potere di modificare il suo corpo e una volta evocato da questo Stregone…».

«Sarebbe il nostro Barnabas?» domandò Jace.

«No. Barnabas nacque verso la fine dell’Ottocento. A giudicare da cosa disse mio padre, Belial divorò questo Stregone.» sussurrò. «Comunque, nella sua forma di drago, cominciò a portare scompiglio, riuscì a governare alcuni demoni che cominciarono a seminare panico e morte.» mugugnò. «Giorgio, che era un uomo saggio, probo e coraggioso venne unto dagli Angeli. E gli venne affidato il compito di uccidere il drago. E per lui era solo, quello, un drago. E forse anche gli Angeli non credevano fosse Belial.» sospirò.

«Ci riuscì, lo uccise?» bofonchiò Beatriz.

«Certo. Le leggende sono vere, mia cara.» Magnus sorrise e alzò un dito, come quando voleva rimarcare un concetto. «In teoria doveva, come tutti i demoni uccisi, essere catapultato a Pandemonium per recuperare le forze e rigenerarsi, ma…» scrollò le spalle. «Lilith l’aveva bandito… quindi tornò nel Vuoto».

Ci fu un momento di silenzio.

Poi Simon alzò piano la mano. «Questo non spiega perché Barnabas non potesse essere figlio di Belial, cioè sì è a apparso poche volte sulla Terra ma… magari è riuscito a ingravidare qualche donna».

«Certo, è possibile. Ma non ci sono notizie di un’apparizione di un Demone Superiore delle fattezze di Belial intorno all’Ottocento. E poi… Barnabas era completamente aggiogato dalle parole di Aldous Nix, che voleva convincere tutti, per fino me, che fosse una buona idea che gli Stregoni andassero a vivere tra i loro simili a Pandemonium.» mugugnò. «Fu Aldous a convincerlo che poteva essere il figlio di un demone con la forma di drago… ma come vi ho detto, è molto probabile che Barnabas fosse uno dei figli dell’Ottocento, cioè figlio di un demone sufficientemente potente da procreare uno Stregone pericoloso, ma facilmente soggiogabile dalla magia di uno Stregone».

Ci fu un momento di silenzio. Sembrava che tutti dovessero metabolizzare quelle informazioni.

«Belial era il drago. Ma non lo era davvero…» notò Jace.

«Vedo che mi stai seguendo Barbie.» commentò Magnus, e il Capo dell’Istituto annuì con una certa soddisfazione.

«E siamo proprio sicuri non potesse essere figlio di Belial?» farfugliò ancora Simon.

«Okay, è complicato. Diciamo che Aldous non mancava mai di rimarcare che era riuscito a convincere uno dei suoi discepoli di essere figlio di un Demone Superiore.» bofonchiò, scrollando le spalle. «Credeva che, una volta Barnabas avesse acquisito più dimestichezza col suo potere così instabile, e quindi presumibilmente potente, sarebbe riuscito ad utilizzarlo per i suoi piani…» annuì e rabbrividì appena. «Ma, di fatto, presentava alcune caratteristiche del Demone Vetis: collo lungo coperto di scaglie e braccia oblunghe».

Un brivido percorse la schiena di Alec. Doveva essere orripilante, già i demoni Vetis non erano un gran belvedere. Figurarsi qualcuno con delle sembianze più umane con delle braccia oblunghe e simili a serpenti. Orribile.

«E sei sicuro fosse Barnabas?» continuò a dire Simon.

«Era un gran manipolatore, Aldous… molto carismatico. E riuscì a nascondergli l’evidente origine del suo marchio: ti ricordo che lui era praticamente un ragazzino credulone, che come buona parte degli Stregoni, voleva soltanto avere qualcuno accanto...» sospirò. E Alec notò un certo trasporto, come se gli dispiacesse un po’ che questo Barnabas fosse finito tra le mani di uno squilibrato. Oppure, come ogni volta che si parlava di Stregoni, stesse pensando al suo passato e a quello che aveva dovuto sopportare da bambino, lui e moltissimi altri come lui. «Se non ricordo male, Aldous gli disse di lasciare che qualche scaglia di drago si vedesse per bene. In modo da far capire a tutti quale fosse il suo retaggio.» bofonchiò.

Jace sospirò. «L’ha plagiato, sì… però hai qualcosa che possa supportarlo? I marchi degli Stregoni sono tutti molto diversi tra loro, e non tutti rimandano direttamente al demone di origine… per cui può anche essere nato da un altro demone…».

«Sì, è vero… anche Max e Catarina sono entrambi blu ma di certo sono molto diversi nella loro genealogia…» annuì. «Ma ho delle informazioni a conferma: fu Ragnor ad avere la certezza che si trattasse della progenie di un demone Vetis, ti ripeto, Aldous non faceva mistero di averlo plagiato, lo diceva chiaramente.» ribadì.

«E come la ebbe questa conferma?» domandò Beatriz.

«Quando Ragnor insegnava all’Accademia, qualche ragazzino, pensò bene di fare uno scherzo al tuo antenato, Barbie…» mugugnò. «James Harondale, il figlio di Tessa. Il demone finì con l’uccidere uno dei bulli, uno dei Cartwright…».

«Sarà una cosa ereditaria...» commentò Simon sbuffando.

Magnus sembrò mugugnare in assenso. «Per farla breve, il Consiglio Accademico, spinto anche un po’ dal Console, decise di insabbiare un po’ la cosa, riducendo al minimo le notizie… però, il clima nell’Accademia era teso e James non riusciva a smettere di pensare che da un momento all’altro qualcosa di simile ai demoni Vetis, e diciamo che non sono proprio un balsamo per gli occhi, potesse attaccarlo. Allora Matthew Fairchild, un antenato della tua cara e molto incinta mogliettina, chiese a Ragnor un modo per rassicurare il suo futuro parabatai…» mugugnò Magnus. «E allora Ragnor impose un piccolo incantesimo sull’anello degli Harondale… quello che hai al dito, Barbie».

«Uhm?» mugugnò il Capo dell’Istituto guardando per un momento la sua mano.

«L’anello avrebbe cominciato a emettere calore ogni volta si fosse stati vicini al sangue di un demone Vetis. Qualunque forma avesse assunto.» annuì e si leccò le labbra prima di continuare. «Una volta, Aldous e i suoi apprendisti, fecero una lezione di Demonologia all’Accademia. E James ha detto a Ragnor che uno di quegli Stregoni aveva sangue di Vetis.» scrollò le spalle. «Ragnor si confrontò con Aldous che gli disse che sì, era proprio così. Ma che il suo apprendista era convinto di essere il figlio di Belial. E poi cominciò a sproloquiare tutta la sua solita sequela di folli idee sulla destinazione degli Stregoni e sul fatto che Ragnor in qualche modo dovesse effettivamente convincermi ad aprire un portale sul Vuoto. Fortuna che era una persona avveduta, Ragnor, buon’anima».

«D’accordo…» mormorò Jace, finalmente convinto.

«Già. Questo e… e il fatto che mio padre mi disse che Mammon, l’Avaro, potrebbe o non potrebbe aver preso un souvenir… dalle, diciamo…» e gesticolò appena nella zona del basso ventre. «Le parti basse di Belial».

«Ouch! Per l’Angelo!» si lasciò sfuggire Simon, allargando gli occhi e serrano la mascella, mentre si copriva i gioielli di famiglia con tutte e due le mani.

«Già.» Magnus annuì corrugando la fronte.

«D’accordo…» ripeté Jace, ingoiando due volte un groppo che aveva in gola e poi affondando la faccia nei palmi delle mani. «Okay, adesso devo necessariamente lavarmi orecchie e cervello con la candeggina…».

«Sarà solo una leggenda. Spero.» aggiunse lo Stregone.

«Lo spero anche io, in realtà.» commentò Beatriz, una mano sulla bocca.

«Diciamo che Barnabas e Aldous sono due invasati.» concluse Simon, ricomponendosi un pochino.

«Indubbiamente.» annuì e si alzò dalla poltrona raggiungendo la porta. «E non hai idea di quanto io necessiti di un Martini, adesso.» brontolò. «Per cui, se non vi dispiace ne berrei uno, o una dozzina, prima di continuare».

Alec balzò in piedi, e si affrettò a seguire suo marito, lanciando un breve sguardo d’intesa a Jace.

Camminò dietro a Magnus in silenzio.

«Non mi hai risposto prima.» gli fece notare.

E suo marito si bloccò, ruotò appena la testa verso di lui e gli lanciò un’occhiata di taglio. Sembrò imprecasse un momento, all’ordine di quei Nephilim e il loro passo felpato. Ma poi sorrise appena. «Non credo ce l’abbia con me, Alexander. Non direttamente, almeno».

«Tu c’eri però, quando Aldous è morto.» mormorò. «Se l’avesse presa sul personale? Questo Barnabas è uno squilibrato…».

Magnus sbuffò. «Sì, beh… è di certo uno squilibrato ma… Vuole un libro. Vuole un libro di incantesimi che ho io. E che era di Asmodeus.» serrò la mandibola. «Un regalo. Che risale al nostro primissimo incontro».

«Che libro?» domandò.

«Alec, ti prego, ho davvero bisogno di un Martini. Di una dozzina di Martini, in realtà.» farfugliò e si voltò del tutto, aveva gli occhi severi. E a giudicare dal fatto che non lo chiamava praticamente mai così, evidentemente non voleva parlarne, non ora. «Poi vorrei che tu mi abbracciassi e vorrei andare a vedere i miei bambini, i nostri bambini, che dormono. E poi ci toccherà tornare nell’ufficio di tuo fratello e affrontare di nuovo questo argomento, per cui, ho davvero bisogno di fare queste cose, prima».

Alec si sporse verso di lui e di nuovo cercò di profondere tutto il suo calore, il suo amore, in Magnus, per tranquillizzarlo quel tanto che bastava. «Va tutto bene».

«Sapevo che quel libro mi avrebbe procurato un sacco di grane.» brontolò affondando il viso sotto il suo collo e inalando appena.

«Hai un sacco di libri che ti procurano grane, Magnus.» replicò lui, il tono più giocoso che poteva. «Fatti apparire un Martini di quel locale che ti piace, e poi andiamo a vedere i bambini».

«Dov’è finita la tua regola di non far apparire cibi e bevande?» domandò.

«Un ometto oggi mi ha detto che le regole si applicano solo a casa.» bofonchiò baciandogli una tempia. «Dai. Permesso accordato, okay? Schiocca le dita, fai le tue cose da Stregone e beviti il tuo Martini, ti aspetto dai bambini».

 

Alec trovò Clary ancora sveglia, con il carboncino in mano che disegnava un piccolo ritratto dei due bambini addormentati, cinguettava quella che aveva tutta l’aria di essere una vecchia ninnananna. E a vederli lì,  quei due, che dormivano tutti rannicchiati nel letto matrimoniale vicino alla loro davvero molto incinta zietta, per un momento si dimenticò che erano in pericolo.

«Jace mi ha mandato un messaggio.» mormorò Clary, gli occhi verdi nei suoi.

«Dovresti andare anche tu a Idris. Sei incinta e…».

«E lasciare Jace a governare tutta la baracca?» brontolò lei. «Ci farebbe derunizzare ed esiliare tutti in meno di un minuto, come minimo… anzi nella migliore delle ipotesi verremmo condannati all’esilio a Wrangel Island».

Alec ruotò gli occhi e sbuffò, prima di sedersi vicino a lei sul letto, le gambe accavallate. «Clary, lo sai che non è così terribile».

«Lo so.» scrollò le spalle, rabbrividendo appena. «Però stare a Idris…».

«Lo so che Maryse può essere scostante… fidati, lo so, però coi nipoti migliora. E tu sei… incinta, Clary».

«Non me lo ricordare. La mia vescica non è affatto collaborativa e… di certo questo bambino ha ripreso da suo padre scalcia tutto il giorno, maledizione.» borbottò ancora.

Alec non poté trattenere il sorriso leggero che gli stava tendendo le labbra.

«È grave, eh?» domandò.

«Magnus è preoccupato. E lo sai, non è uno che si preoccupa a vuoto… penso ne vada della lucentezza dei suoi capelli o delle rughe…» commentò, senza voler davvero fare una battuta ma strappandole comunque un sorriso. «Per cui sì».

Lei si allungò e gli poggiò la mano sulla sua. «Ce la caveremo, Alec. Come sempre».

Alec annuì e restò in silenzio a guardare i suoi bambini che dormivano, vicini vicini, divisi soltanto dal drago di peluche. Un bracciò di Max gettato sul fianco di Rafael.

E Clary si spostò appena, cercando di trovare una posizione più comoda per la sua pancia, per la sua schiena, per tutto. Imprecò a denti stretti.

«Ho parlato con Jace, oggi.» disse all’improvviso.

«Di questo, immagino» bofonchiò indicando il pancione. «Si sta cacando sotto, vero?».

«Parecchio.» sospirò.

«Per ammazzare i demoni è super coraggioso, fosse per lui, si getterebbe in bocca a un Ravener… ma digli di cambiare i pannolini, e vedi che scappa via a gambe levate…» sbuffò lei.

Alec la guardò, un sorriso sghimbescio sulle labbra. «Lo sai che lo adorerà. Gli piacerà fare il padre… un po’ di sano terrore ci sta. Anche Magnus se la stava facendo sotto quando abbiamo preso Max».

«Me lo ricordo.» disse lei a occhi chiusi facendo un cenno d’assenso col capo.

«Io mi ricordo perfettamente anche il tuo di terrore.» bofonchiò tagliandole uno sguardo eloquente.

«Oh, ma andiamo! Volevate mettermi un minuscolo esserino blu in braccio!» brontolò. «Non ti credere, anche io sono spaventata, ma… diciamo che…» mosse la mano in due cerchi concentrici. «Diciamo che è abbastanza evidente in che casino mi sono cacciata».

Alec ridacchia piano. «Jace è spaventato perché teme di non essere all’altezza. È stato cresciuto da Valentine…» sospirò. «E da Maryse e Robert.» aggiunse.

«Beh, diciamo che tua madre e tuo padre non hanno avuto con voi questo alone di coccole e calore, non so cosa possa essere avere dei genitori Shadowhunter… ma con Max e Rafael sembravano dei nonni Mondani qualsiasi…» sorrise. «Quindi… Maryse dovrebbe superarla, no? La mia relazione con Jace…».

«Se ha superato il fatto che io sto con Magnus. E me lo sono per fino sposato in fretta e furia per una scommessa…» bofonchiò Alec annuendo, il naso arricciato. «E, beh, non so se ti ricordi ma è uno Stregone, e non uno qualsiasi, ma quello che nei file degli Inquisitori è chiamato Araldo della Dissolutezza…» le lasciò intendere.

«Il mio preferito era Guance Dolci… anche se devo ammettere che ci sono molti nickname memorabili su quei fascicoli…» annuì Magnus, sulla porta, un bicchiere da cocktail in mano. «Biscottino, quella maglietta…» bofonchiò storcendo il naso.

«Cosa?» mugugnò guardandosi un momento, effettivamente stava indossando una maglietta ben troppo grande con questa strana fantasia psichedelica. «È comoda.» replicò.

«Sembri un maschiaccio. Prima della rivoluzione Isabelle Lightwood.» bofonchiò.

«Ehi, non credo che Isabelle si metta cose aderenti per andare a letto, uno vorrà pure starsene comodo sotto le coperte o no?» brontolò lei indicandogli la pancia con entrambe le mani. «Riparliamo di stile quando non avrò tutta questa zavorra… sono incinta, quindi posso».

«Può.» annuì Alec facendo cenno a Magnus di lasciarla perdere, poverina. Doveva ricordarsi che aveva in grembo il figlio iperattivo del suo iperattivo parabatai. «Anche se sono sicuro che Izzy vada a letto coi tacchi».

«E non voglio proprio immaginare quanto ne sia contento Sheridan.» replicò Magnus.

«Oddio, dai. Sono mia sorella e suo marito.» bofonchiò inorridendo.

Clary si allungò a coprire le orecchie dei due bambini, sebbene dormissero profondamente. «Ci baci i tuoi figli con quella bocca, Magnus Bane?».

«Ci bacio anche lui.» replicò con una certa soddisfazione.

«Okay, vanno assolutamente aggiornate le regole. Non si parla del mio parabatai a letto, o della vita sessuale delle persone della mia famiglia in generale, d’accordo?» farfugliò Alec. «E questa si applicherà sia dentro che fuori di casa, in presenza o assenza dei bambini».

«Parlate di Jace a letto?» farfugliò Clary che evidentemente non riusciva più a seguirli. «Mi state dando delle cattive vibrazioni voi due, c’è qualcosa che devo sapere?».

«Era per lavoro.» bofonchiò Alec, che sentiva le orecchie bruciare.

«Mi stai dando delle immagini mentali orribili, Clarissa, tante grazie.» brontolò Magnus e poi gettò un’occhiata ai due bambini e il suo viso si addolcì in un modo impossibile.

Alec sentì le ginocchia diventargli di burro a vedere quell’espressione di completa adorazione sul viso di suo marito, e se non fosse stato seduto, probabilmente sarebbe finito a gambe all’aria.

«Come sono teneri.» mormorò, come sovrappensiero e poi guardò Clary. «Biscottino, dovresti andare anche tu a Idris. Lo so che Maryse può essere… particolare, ma…».

Lo Shadowhunter si ritrovò a pensare che “particolare” era una strana scelta di parole per descrivere sua madre. Ma apprezzò che Magnus l’avesse scelta. I loro rapporti erano visibilmente migliorati, certe volte si scambiavano anche degli strani messaggi di fuoco che facevano sogghignare suo marito. E forse una parte di lui trovava tutto questo agghiacciante.

«Dio, voi due… dite le stesse frasi…» bofonchiò lei.

«Ah sì?» farfugliò lo Stregone spostando lo sguardo su Alec, come compiaciuto.

«Ha detto che lasciare tutta la baracca in mano a Jace potrebbe portare alla derunizzazione collettiva di tutti noi… se non all’esilio, in meno di un minuto.» annuì Alec impassibile.

«Sì, in effetti non lo vedo molto avvezzo coi rapporti…» concordò Magnus. «E con questo genere di cose è un momento che dichiari guerra alle Sirene e ti ritrovi con centinaia di migliaia di Mondani morti annegati…».

Clary annuì. «Approverebbe missioni stupide, guardiamo in faccia alla realtà. Lo sappiamo tutti, no?».

Alec sogghignò appena, di quei suoi sorrisi sghimbesci.

«Pensaci, Biscottino.» mugugnò, poi. «Non devi rischiare nello stato in cui sei. E daresti un’occhiata anche ai due diavoletti che dormono lì».

«Vuoi mandarli davvero a Idris?» domandò Clary, spostando fugacemente lo sguardo sui bambini, e poi di nuovo su loro due.

«È la cosa migliore.» annuì Magnus voltando i tacchi e avviandosi verso la porta. «Puoi restare ancora un po’ qui, Alexander, io vado a recuperare un altro Martini e a finire di guardare quei filmati, voglio vedere quando ha cominciato a imporre l’egida di sangue sugli scheletri… Magari cerca di convincere tua cognata a non fare sciocchezze?».

«Non mi ha mai ascoltato nella sua vita.» sospirò lui lanciando un’occhiata consapevole all’altro Capo dell’Istituto. «Tra un quarto d’ora massimo direi che dobbiamo riprendere il nostro discorso, Mags… non abbiamo molto tempo prima del-tu-sai-cosa.» mugugnò, come se i bambini potessero ancora sentirlo, nel sonno profondo in cui si trovavano, supportato per di più dal piccolo sortilegio che Magnus aveva imposto per farli dormire più a lungo. Non si sarebbero neanche svegliati coi bombardamenti, probabilmente, ma meglio essere sicuri.

«Sì, dolcezza.» annuì. «Biscottino.» sorrise facendole l’occhiolino, prima di chiudersi la porta alle spalle.

Alec si alzò e girò intorno al letto per stare più vicino ai bambini. Clary osservava i suoi movimenti, studiandoli, mentre recuperava il carboncino per riprendere il suo disegno.

Stettero in silenzio per qualche minuto. Alec stava cercando di imprimersi anche questo momento, cercando di ignorare il fatto che erano sotto attacco, che presto avrebbe dovuto lasciare i bambini da sua madre,

«È difficile?» domandò lei.

«Cosa?» farfugliò.

«Essere genitore.» mugugnò.

«Non siamo solo io e Magnus ad avere strane connessioni mentali per cui diciamo le stesse cose, vedo…» bofonchiò, allungandosi ad accarezzare i riccioli blu di Max e la testolina mora di Rafael prima di rimboccare le coperte. «Ti verrà naturale, come verrà naturale anche a quel casinista di Jace».

«Dovrò ascoltarti, immagino.» mormorò. «Darai tu un’occhiata a Jace e all’Istituto, se dovessi andare a Idris?».

«Se tu darai un’occhiata a questi due… o forse fai prima a tenere d’occhio mia madre. Affare fatto.» annuì Alec, disegnandosi una croce sul cuore.

«Stai diventando proprio un Mondano.» bofonchiò lei.

«È la genitorialità.» rispose lui. «Immagina Jace al parco… userà di certo delle rune del vigore per farsi bello con le altre mamme».

«Si beccherà un bel calcio nel sedere, in tal caso.» ridacchiò lei accucciandosi meglio.

«Vado. Dai, ti lascio riposare.» mormorò Alec avviandosi verso la porta. «Se suona l’allarme, le barriere di Magnus dovrebbero reggere, per cui non preoccuparti. E se loro dovessero svegliarsi…».

«Dico che va tutto bene, che state lavorando e che tornerete presto.» rispose lei. «Tranquillo».

«Ottimo.» annuì e abbassò la maniglia della porta. «Grazie ancora, Clary».

In corridoio, trovò Magnus con le spalle contro il muro, le braccia conserte e un bicchiere da Martini in mano. Aveva lo sguardo perso da qualche parte, davanti a sé. Gli occhi fissi, come se stesse guardando al passato, a qualche avvenimento antico.

«È solo il secondo.» sorrise appena si rese conto che lui era lì.

«Solo il secondo?» domandò lui, alzando un sopracciglio, un sorriso sornione. «Non ne volevi bere una dozzina?».

«Volevo anche un abbraccio.» bofonchiò a testa bassa. «E poi dobbiamo finire il discorso con gli altri, prima dell’attacco».

Lo Shadowhunter sospirò. «Avevi detto che volevi vedere quei video…».

«Possono aspettare domani.» mormorò la sua voce sembrò tremare un momento.

Alec decise che doveva ingoiare il panico, un panico che in realtà aveva conosciuto solo poche volte e solo relativamente alla sua famiglia. Era sempre stato un buon guerriero, freddo e distaccato all’occorrenza. Ma quando si trattava della sua famiglia, perdeva del tutto il sangue freddo. E forse era meglio così: quando hai qualcosa a cui tieni, hai un motivo in più per combattere, più ferocemente. Allargò le braccia e gli fece cenno di avvicinarsi. «Vieni dai, ti coccolo un po’».

Magnus non se lo fece ripetere due volte, e si avvinghiò a lui sbuffando un sospiro lungo, che forse neanche lui aveva realizzato stesse trattenendo.

Lo Shadowhunter lo strinse a sé in silenzio. E sperò che per un momento il mondo annichilisse, che tutte le preoccupazioni, tutti i problemi restassero lontani da quella piccola bolla.

«Jace è ancora incazzato per il matrimonio.» mugugnò e sapeva che gli avrebbe alleggerito la tensione.

Magnus soffocò una risata nella sua spalla. «Sapevo l’avrebbe infastidito da matti».

«Non è una buona giustificazione per sposarsi, Mags.» gli fece notare, un sopracciglio alzato e le labbra tra i suoi capelli.

«No, infatti la mia giustificazione è che ti amo.» replicò.

Sospirò. «E poi non volevi darla vinta a Maia».

«“Scommetto che non hai il coraggio di sposarti”,» le fece il verso malamente, prima di schiacciare la lingua sul palato. «Tsk! Povera sciocca».

Alec rise, di gusto. «Eravamo molto ubriachi».

«E con questo?» sbuffò. «Volevi perdere la faccia?».

Ruotò gli occhi al cielo e sbuffò sonoramente.

«Come se poi ti dispiacesse, essere sposato con me.» borbottò lo Stregone.

«No, assolutamente. Però forse l’avrei fatto con tutti i crismi…» sbuffò. «In grande».

«In grande, Alexander?» ripeté incredulo. «Davvero, non smetti di stupirmi. Appena questa cosa sarà finita, rinnoveremo le promesse e lo faremo alla maniera di voialtri Nephilim, in oro e con la stregaluce che brucia la pelle e coi Fratelli Silenti che officiano la cerimonia. Da saltare di gioia».

Alec rise e affondò di più la faccia sotto il suo collo per baciargli piano la giugulare, facendolo rabbrividire appena. «Faremo una festa, direi. In grande proprio».

«E non inviteremo Jace appositamente stavolta.» annuì.

«È la volta buona che ti uccide.» bofonchiò stringendolo un po’ di più.

«Che poi di che si lamenta, che abbiamo festeggiato?» brontolò. «E se non ricordo male era davvero sfatto alla fine della serata».

«Forse perché ha bevuto così tanto, non si ricorda…» mormorò e gli scoccò due baci sotto alla mascella. «Dovremmo andare, prima che arrivi qualcuno».

«Tipo Simon? E ci becchi sul più bello, come quella volta all’Accademia?» domandò.

E Alec sentì le orecchie bruciare all’improvviso, il ricordo di quella sera ancora troppo vivido nella sua mente. «Si era detto che avresti evitato di ricordarmelo…».

«La tua faccia quel giorno è indimenticabile, Alexander.» gli rispose prima di poggiargli un bacio a fior di labbra. «Andiamo, dai».

Era riuscito ad alleggerire la tensione. Chissà per quanto però.

 

Jace era impaziente, e non aveva certo evitato di farlo presente a tutti, appena erano rientrati nel suo ufficio. «Finalmente!» brontolò.

Magnus lasciò correre, si accomodò di nuovo sulla poltrona che occupava poco prima e sbuffò, pronto a tornare a raccontare.

«Ma…» cominciò a dire Simon e attirò la sua attenzione.

«Sì, Shamalaya?» bofonchiò Magnus spostando gli occhi su di lui.

«Premetto che non voglio spaventare nessuno,» disse subito e Isabelle ruotò gli occhi al cielo, quando cominciava a dire così c’era solo da preoccuparsi. «Però, Belial potrebbe avercela con te? Che sei figlio di Asmodeus? Cioè tuo padre l’ha esautorato… ed è salito a capo dell’armata dei demoni…».

Alec spostò lo sguardo su Magnus, terrorizzato da una sua possibile risposta.

Lo Stregone, però, non sembrò neanche pensarci. «Dubito.» sbuffò.

«E perché vorrebbero entrare a casa tua, sennò?» mugugnò Jace. «A me non dispiace l’idea di Simon, dovremmo approfondire».

«Dubito. Perché io so cosa vogliono.» mormorò.

«E cosa vogliono?» domandò Beatriz.

«Un libro che mi donò mio padre all’epoca del nostro primo incontro, per dimostrarmi la sua buona fede. Se così possiamo definirla…» mormorò. «È uno dei tanti libri che ho, che permette l’evocazione di truppe infernali, e di Demoni Superiori, e permette di aggiogarli alla volontà dell’evocatore.» mormorò. «È la Terza Chiave di Salomone».

Tutti i presenti lo fissarono in silenzio.

«No, prima che me lo chiediate, non l’ho mai usato. Sarò stravagante quanto volete, ma non sono un pazzo assassino.» aggiunse, gli occhi severi e un sorriso gentile sulle labbra. «Immagino che Asmodeus volesse vedere se fossi così assetato di potere da utilizzarlo… e sì, è un libro proibito, credo che neanche il Clave ne conosca l’esistenza…».

Beatriz aprì la bocca due volte prima di parlare. «E quindi Barnabas lo vuole per evocare Belial?».

«No.» rispose seccamente, schiacciando la lingua contro il palato. «Lo vuole per evocare un esercito per Belial».

«Ma se la Terza Chiave di Salomone permette di evocare e aggiogare i Demoni Superiori…» farfugliò Isabelle.

«I Demoni Superiori che hanno un’ubicazione riconosciuta. Bisogna nominare il regno demoniaco da cui chiamare il demone… qualunque esso sia.» bofonchiò Magnus.

«Roba da Stregoni,» mugugnò Simon.

Magnus fece un rapido cenno d’assenso con il capo. «Belial non è in un luogo accessibile con un incantesimo diretto. È nel Vuoto. E da lì può uscire solo se si aprisse un portale,» farfugliò e poi i suoi occhi si incupirono. «Cazzo».

«Linguaggio.» bofonchiò Alec di riflesso, lo redarguiva così spesso che era diventato naturale, ma poi si rese conto che qualcosa era scattata nella mente di suo marito, un ingranaggio si era incastrato e sembrava essergli arrivata un’idea. «Che ti viene in mente?».

«E Barnabas potrebbe farlo? Potrebbe aprire un portale sul Vuoto…» domandò Jace.

«Potrebbe, sì.» annuì Magnus, gli occhi fissi da qualche parte. «Ma la sua magia è molto instabile…».

Tutti guardarono lo Stregone in silenzio. Alec lo riconobbe quello sguardo, quello che gli vela gli occhi: sta sondando tutte le variabili possibili.

«Perché eri così preoccupato, allora, Quando abbiamo capito che l’obiettivo è casa vostra?» farfugliò Jace.

Il viso di Magnus si contorse in una smorfia, come se avesse appena ingoiato due cucchiai di cannella.

«Abbiamo dei figli, Jace.» brontolò Alec, constatando l’ovvio. «È pericoloso».

«Non solo, questo tizio è praticamente uno squilibrato che ha ammazzato dieci suoi simili per usare il loro sangue per avere più potere ed evocare orribili cosi putridi a metà tra gli zombie e gli scheletri…» bofonchiò Simon. «Sempre perché non voglio agitare nessuno, ma… non credo si faccia problemi a uccidere dei bambini».

Alec annuì, amaramente.

Magnus si coprì gli occhi con la mano destra, mentre il pollice sinistro continuava a far ruotare la fede nuziale all’anulare.

Sembrò bofonchiare qualcosa, forse una mezza imprecazione.

«Mags?» lo chiamò Alec.

«Casa nostra è ben protetta.» ribadì di nuovo Magnus. «È il posto più sicuro che ci sia: la mia magia è dappertutto lì, ogni cosa è vincolata alla mia magia e potrebbe continuare ad essere protetta anche se io morissi.» mormorò gli occhi puntati in un punto non ben precisato, ma stava chiaramente parlando con Alec. «Se io morissi, comunque, tutto ciò che c’è a casa nostra, i nostri figli, tu… sareste protetti dalla traccia magica residua; per l’Istituto funzionerebbe diversamente, robe da Nephilim e protocolli del Clave vari… Sono anni che perfeziono il mio covo, in bella vista, accessibile solo a chi voglio io…».

Aprì la bocca due volte, Alec, nel tentativo di dire qualcosa. Non gli piaceva questo discorso. Non gli piaceva l’idea di ritrovarsi senza Magnus un giorno. Non erano questi i piani: non sarebbe sopravvissuto a Magnus, assolutamente. Non sarebbe stata necessaria la sua traccia magica residua per proteggere anche lui, perché lui sarebbe morto (magari vecchio) prima di Magnus. L’avrebbe preceduto dall’altra parte e probabilmente avrebbe aspettato vanamente il suo arrivo. O forse non l’avrebbe neanche aspettato. La sua immortalità era così rassicurante.

«Ma ci sono modi per aggirarle le mie barriere. C’è una frazione di secondo in cui, se io sono impegnato in un’emergenza, o se qualcuno apre un portale per il nostro soggiorno, o se tu torni a casa ferito, c’è una frazione di secondo in cui le mie difese potrebbero abbassarsi.» mormorò. «Per una frazione di secondo, le barriere potrebbero essere vulnerabili e Barnabas potrebbe riuscire a irrompere a casa nostra per cercare quel maledetto libro».

Un nodo, il solito nodo di angoscia, gli si avviluppò in gola.

Magnus sbuffò. «Per quanto casa nostra sia il posto più sicuro, è l’obiettivo di uno squilibrato.» farfugliò spostando gli occhi su di lui. «I bambini sono in pericolo qui con noi, perché potrebbero diventare delle esche, nella migliore delle ipotesi.» Alec deglutì due volte, non voleva neanche immaginarla la peggiore delle ipotesi. «Dovremo mandarli ad Alicante, da tua madre. E ci toccherà rimanere all’Istituto».

«E il libro?» domandò Beatriz.

Lo Stregone si coprì di nuovo gli occhi con le dita. «Dovrà sparire».

«Non possiamo mandarlo a Idris…» farfugliò Jace. «Non se ci mandiamo i vostri figli».

«E Clary, che è molto incinta.» aggiunse Magnus guardando il Capo dell’Istituto. «No, io pensavo di renderlo al suo legittimo proprietario».

«Salomone?» farfugliò Simon.

«No, mio padre.» replicò. «Potrei scambiarlo delle informazioni utili riguardo Belial…».

«E tu vorresti restituire un libro con un potenziale così distruttivo a un Principe dell’Inferno?!» brontolò Jace. «Non puoi farlo, Magnus».

«Pensaci, Barbie, lo so che abbiamo già chiesto molto al tuo cervello stasera, ma pensaci.» bofonchiò tagliente, o nel tentativo di esserlo, magari solo per alleggerire la tensione. «Belial non può accedere a Edom».

«Tuo padre è pericoloso!» replicò.

E Alec non poteva certo dissentire: Asmodeus era un Demone Superiore, il comandante delle truppe infernali, uno dei Principi dell’Inferno, definirlo pericoloso era il minimo.

«È il male minore.» farfugliò Magnus. «Credimi, non vorrei mai rendergli quel libro, conoscendo quello che potrebbe farne…».

Jace chiuse gli occhi per un momento. «Il male minore è comunque un male».

«Sì, assolutamente.» annuì lo Stregone.

E Alec non poté non rabbrividire: suo marito stava concordando con il suo parabatai.

«Pensiamo a un’altra soluzione per il libro.» farfugliò il Capo dell’Istituto. «Intanto, prepariamoci per l’attacco di questa sera, se ci sarà».

«Vogliamo ancora prenderne uno vivo?» domandò Isabelle.

«No. Non ci serve.» bofonchiò Alec, ritrovando finalmente le parole.

«Tu non riusciresti a tracciare Barnabas con la tua magia?» domandò Beatriz.

Magnus scosse il capo. «No, l’egida di sangue maschera tutto, le tracce magiche dei dieci Stregoni sono tutte mescolate alla sua… non riuscirei a tracciarlo».

«E allora no, non ci serve.» farfugliò Jace. «Magnus, Alec. Vi direi di prendere i bambini e di sistemarvi in un’altra stanza, per questa notte. Non ho intenzione di chiedervi di intervenire».

«Ci metti in panchina?» farfugliò Alec, cacciando fuori l’aria dai polmoni con un sospiro lungo. «Va bene, stasera stiamo in panchina, se serve una mano vengo io».

«Non servirà.» mugugnò Simon. «Ci sono anche io stasera».

«Come se questo dovesse rassicurarli.» brontolò Jace. «Forza! Fuori, voi due. Liberate il mio letto dai due gnometti e prendete possesso dei vostri alloggi».

«Dobbiamo parlare di un’altra cosa.» mormorò Magnus a voce bassa, senza muoversi dalla sedia. «Forse tutti i discorsi di prima vi hanno un po’ confuso, e ci hanno allontanato dal nodo cruciale, qui… c’è un Demone Superiore in giro… che ha imposto l’egida di sangue sulle evocazioni scheletriche».

Alec lo ricordava, dolorosamente se lo ricordava e aspettava da un po’ questo discorso. Sapeva che c’era qualcosa di più, qualcosa che Magnus evidentemente sapeva. Ma gli altri puntarono gli occhi sullo Stregone, come sconvolti; come se effettivamente si fossero persi questo piccolo nodo cruciale: stava sempre parlando di questo, per tutto il tempo. C’era un Demone Superiore, da qualche parte, non troppo lontano da loro. Barnabas doveva essere riuscito a evocare un Demone Superiore per ottenere il suo aiuto e recuperare il libro che era a casa loro. Per dare a Belial una legione di Demoni assetati di sangue. O forse…

Alzò gli occhi su Magnus, scuro in volto. «Io credo… sia—sia Belial».

 

 

 

 

 

 


Quindi,
Spero che questo piccolo capitolo vi sia piaciuto oggi, vi prego di farmi sapere se ci sono degli errori che fanno accapponare la pelle, perché ho scritto tutto in inglese e mi sono ovviamente impelagata in questo casino, poi (urgh)
Come avrete notato, ho introdotto Belial e ho una piccola idea in mente: Belial, uno dei Principi dell'Inferno, non è stato menzionato finora nella serie (sperando che appaia nelle prossime storie), e sì, questo è il nemico principale di Afterglow. E c'è anche un personaggio originale, Barnabas, che... urgh SPOILER, vedrete cosa gli succederà nel prossimo capitolo.
Spero vi sia piaciuto, lasciate un kudo, un commento solo per farmelo sapere!
E, anche se non uso molto tumblr, potete venire a salutarmi qui , nei prossimi giorni potrei pubblicare una breve anteprima per i prossimi capitoli/work in progress su cui ho lavorato.
Buona giornata!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3764266