Viola

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Patti chiari ***
Capitolo 2: *** Che il gioco abbia inizio ***
Capitolo 3: *** Tre prime volte ***
Capitolo 4: *** Mani ***
Capitolo 5: *** Dite cheese! ***
Capitolo 6: *** Sfumature cromatiche ***
Capitolo 7: *** Concetto di famiglia ***
Capitolo 8: *** Non ho più tempo ***
Capitolo 9: *** Pezzi che si rincollano ***
Capitolo 10: *** Come acqua ***
Capitolo 11: *** Continua a ballare, non fermarti ***
Capitolo 12: *** Nodi al pettine ***
Capitolo 13: *** Il giorno non era un problema. La notte lo era. ***
Capitolo 14: *** Lasciami andare ***
Capitolo 15: *** Chi sei? ***
Capitolo 16: *** Comunque provare ***
Capitolo 17: *** Passato, presente, futuro ***
Capitolo 18: *** La sorella che non ho avuto ***
Capitolo 19: *** Lobaye ***
Capitolo 20: *** Sono qui ***
Capitolo 21: *** Vita e morte ***
Capitolo 22: *** Sangue ***
Capitolo 23: *** Risvegli ***
Capitolo 24: *** Tutto è polvere ***
Capitolo 25: *** Riprendersi la vita ***



Capitolo 1
*** Patti chiari ***


Something stupid


 Capitolo 1
"Patti chiari"
 

 
 
«Facciamo un patto!»
Mi disse e alzai gli occhi su di lui, li sentivo gonfi e ancora pieni di lacrime.
«Vattene via, lasciami stare.»
Risposi, nascondendo il viso dietro le mani.
Fra tutte le persone che non avrebbero dovuto vedermi in quello stato, così vulnerabile, così inerme, lui era sicuramente fra i primi della mia lista.
Ma non il primo, assolutamente no!
In testa alla classifica c’erano quei due, quelli che avevano scatenato il pianto e quell’assurdo di dolore al petto. Non credevo che il dolore dello spirito potesse trasformarsi in dolore fisico vero e proprio, ma – ahimè! - dovetti ricredermi.
Al primo posto c’erano quelle due persone che avevo sorpreso abbracciate, a toccarsi il viso a vicenda, a guardarsi intensamente negli occhi, fino a cedere ad un lungo e coinvolgente bacio. A quel punto non ce l’avevo fatta più a guardare la mia migliore amica avvinghiata al mio migliore amico che, però, amavo.
Segretamente, ma lo amavo, e non è vero che i sentimenti non espressi siano meno forti di quelli gridati al mondo. Anzi, se ne stanno lì, a logorarti da dentro come un male incurabile, a rosicchiarti il cuore e la mente e tu spendi le giornate e pensarci su, a sperare di trovare una soluzione, una medicina, mentendo a te stessa che domani andrà meglio. Poi domani arriva e ti accorgi che è anche peggio di ieri.
Proprio loro due, continuavo a ripetermi aggrappata a me, le persone di cui mi fidavo ciecamente mi avevano pugnalata alle spalle.
In realtà, non era andata proprio così …
Forse più di tutti ce l’avevo con me stessa per essere stata artefice indiretta di quella love story. Li avevo presentati io; ero stata sempre io ad insistere perché uscissimo tutti e tre insieme, ed ero stata così contenta di trascorrere con loro - le persone più importanti della mia vita da adolescente - lunghi e caldi pomeriggi d’estate all’ombra di un albero, a lasciarmi gocciolare un gelato lungo il braccio, troppo presa dalle risate e dalla bellezza di quel ragazzo, il mio migliore amico, che conoscevo da quando ero in fasce.
Non avevo mai confidato a lei, la mia Jenny, di amarlo e venerarlo quasi, ma avevo in programma di farlo in quei giorni, dovevo solo trovare il coraggio. Per una persona introversa come la sottoscritta non è facile parlare dei propri sentimenti.
Ed ora era troppo tardi. Non potevo più prendere in disparte la mia amica e dirle:
«Senti, ascolta, io sono innamorata del tuo…» cosa?
Amico?
Ragazzo?
Fidanzato?
Il solo pensare a quei sostantivi mi faceva venire ancor più voglia di piangere.
 
Mentre i miei amici erano presi l’uno dalla bocca dell’altra scappai via, correndo a perdi fiato, fino a quando un dolore acuto nel fianco destro – simile a mille aghi conficcati nella pelle - mi costrinse a fermarmi. Lasciai che la tracolla del borsone di nuoto mi scivolasse lungo il braccio, sentendolo atterrare sul terriccio con un tonfo sordo, allora mi accasciai al suo fianco.
Gli uccelli, che erano ritornati dopo aver trascorso l’inverno in posti decisamente più accoglienti, cinguettavano allegramente e io li odiavo. Il fiume che scorreva ai miei piedi emanava frescura e tranquillità, ma io lo odiavo.
Cos’avevano da rallegrarsi tutti quegli esseri che mi circondavano?
 Avevo il cuore a pezzi, letteralmente! Inoltre l’immagine di Jenny e di lui – del mio lui – che si sbaciucchiavano appassionati proprio non voleva abbandonarmi.
«Facciamo un patto.»
Udendo quella voce mi irrigidii. Ci mancava solo quell’imbecille che vedendomi piangere avrebbe iniziato a prendermi in giro, come faceva ogni qual volta che ci incontravamo/scontravamo, a causa della mia folta chioma infuocata, per non parlare delle lentiggini che mi spiccavano sul naso e sulle gote: “ciao Cappuccetto Rosso” oppure “buongiorno Pel di carota” o ancora “come ti butta Stellina Rossa?”
L’ultimo vezzeggiativo era quello che più di tutti detestavo e, come se non bastasse, il mio nome di battesimo – Viola – spesso e volentieri era un ottimo pretesto per schernirmi, chiedendo perché i miei non mi avessero chiamata Rossa e se poteva farlo lui con il nome di altri colori, quali Azzurra, Rosa, Bianca; poi cominciava con le assurdità: Verde, Marrone, Giallo.
«Facciamo un patto» mi disse, restandosene in piedi, con le mani nelle tasche dei bermuda a quadri.
«Vattene via, lasciami in pace» gli risposi, strofinando gli occhi e tirando su con il naso.
«No, dico sul serio» continuò piegandosi sulle ginocchia per guardarmi in faccia, il suo immancabile sorrisino a fior di labbra. «Facciamo un patto.»
«Senti, oggi non è giornata e non ho proprio voglia di farmi prendere in giro da te» feci per alzarmi, ma mi fermò agguantandomi per il braccio, ricordo che guardai quella mano come se fosse stato un arto alieno.
Perché mi stava toccando?
«Mettiamoci insieme.»
Scoppiai a ridere come una matta.
Fra tutti gli scherzi e gli insulti che quell’idiota mi aveva rivolto nel corso della sua vita, questo era il più assurdo di tutti.
«Fingiamo di essere fidanzati» proseguì con naturalezza, manco mi stesse dicendo la cosa più ovvia dell’universo. Riuscii a liberarmi dalla sua stretta per alzarmi, quindi mi scrollai l’erbetta umida che si era attaccata ai pantacollant neri, sentivo la rabbia crescere:
«Hai un pessimo gusto per gli scherzi, sai?» Anche lui tornò in posizione eretta, sovrastandomi di diversi centimetri e facendomi ombra con il suo corpo.
Improvvisamente mi resi conto che eravamo in un posto appartato, da soli, troppo vicini l’uno all’altra, tanto che se qualcuno ci avesse visti avrebbe sicuramente pensato ad un incontro romantico.
«Pensaci Bianca» ecco che cominciava, pensai. «Il tuo amato potrebbe ingelosirsi vedendoti con me, così si accorgerebbe dei sentimenti che prova nei tuoi confronti e magari lascerebbe la sua attuale fidanzata per mettersi con te.»
Mi strizzò l’occhio mentre lo fissavo a bocca aperta. Ma davvero mi stava dicendo quelle cose? E poi come faceva a sapere di chi fossi innamorata?
«Chi ti dice che io voglia stare con lui?»
Rise:
«Oh andiamo Celeste! Sei scappata via piangendo come una fontanella quando li hai visti amoreggiare. Almeno che non tu non sia innamorata di Jenny…»
«Imbecille!» Finiva sempre così: lui si rivolgeva a me con colori diversi e io lo insultavo. «Fammi capire bene: io e te dovremmo fingere di stare insieme in modo da farlo ingelosire e fargli capire che vuole me e non Jenny?»
«Bravissima! Sei una tipa sveglia, Stellina rossa»
In altre circostanze l’avrei già mandato a quel paese e mi sarei allontanata da lui, eppure quella proposta mi incuriosiva troppo e, soprattutto, iniziavo a vedere la luce in fondo al tunnel:
«E tu quale vantaggio ne trarresti?»
Lui sorrise, radioso:
«Questa situazione lo innervosirà così tanto da far calare il suo rendimento in squadra e io ne approfitterò per guadagnarmi un posto da titolare.»
Sbuffai, tutto ruotava sempre intorno al calcio per i ragazzi. Quei due poi, si erano dati battaglia fin dal primo giorno di scuola, entrando in una competizione personale che quasi emanava scintille elettriche tangibili quando stavano in contemporanea nello stesso posto.
«Cioè vorresti usare me per farlo innervosire e prendere il suo posto in squadra? Hai sbagliato persona. Non gliene frega niente di me!»
«Se ti vedrà con me gliene fregherà eccome, fidati. Allora lo facciamo o no questo patto?» Continuò porgendomi la mano; ci pensai su solo per un attimo, quindi d’istinto e contro ogni mia volontà gliela strinsi, fissandolo dritto negli occhi:
«Niente baci!» Iniziai e lui annuì con un sorriso. «Niente carezze, abbracci o cose così!» Assentì di nuovo. «E, ovviamente, niente sesso!»
«Ci mancherebbe solo che Christian venisse a sapere che Willy e la sua adorata Cappuccetto Rosso hanno fatto sesso. Allora la vittoria per me sarebbe scontata e non mi piacciono le cose facili. Non mi diverto.»
Ritirai immediatamente la mano.
Cosa stavo facendo?
Possibile che l’amore per Christian mi aveva resa una di quelle persone disposte a tutto pur di raggiungere un obiettivo?
Addirittura avevo accettato di diventare la ragazza – seppur fittizia – di quell’imbecille di William solo per i miei frivoli scopi personali?
Credevo che non ne sarei uscita viva…
 

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Capitolo 2
*** Che il gioco abbia inizio ***


Capitolo 2
 "Che il gioco abbia inizio"

 
 
Jenny mi telefonò quella sera stessa.
Rimasi impalata a fissare lo schermo del cellulare per diversi minuti, prima che la voce di mio fratello, dalla stanza accanto, mi ordinasse di zittire quel telefono o lo avrebbe pestato fino a ridurlo in tante parti.
La mia amica partì in quinta a raccontarmi cos’era accaduto quel pomeriggio. Chiusi gli occhi, ripetendo dentro di me che non stava accadendo veramente, che era solo un incubo dal quale mi sarei svegliata, prima o poi.
«Facciamo un patto»
Sollevai di colpo le palpebre. Avevo udito così nitidamente la voce di Willy che ero convinta fosse in stanza. Poi Jenny riebbe di nuovo la mia attenzione di nuovo tutta per sé:
«Viola, ma hai sentito quello che ti ho detto? Cri-Cri mi ha baciato!»
Cri-Cri? E da quando lo chiamava in quel modo orribile?
«Si, Jenny, ho capito» eccome se avevo capito. «Scusa, ma stavo dando una mano a mamma in cucina. Abbiamo ospiti a cena» strinsi il cellulare con le dita.
Mi sentii una persona orribile.
«Oh…» Jenny mi parve dispiaciuta. Molto probabilmente avrebbe voluto passare tutta la sera al telefono a raccontarmi decine e decine di volte del loro bacio, del modo in cui l’aveva guardata e magari cosa le aveva sussurrato dopo che le loro labbra si erano allontanate.
Ok, la situazione stava degenerando, dovevo darmi una calmata. Il problema era che non riuscivo a smettere di pensare alle loro bocche unite.
Fui sul punto di dirle che anche io avevo un ragazzo, solo per il puro piacere di farle sapere che non era l’unica sedicenne sulla faccia della Terra ad avere un fidanzatino da sbaciucchiare. Tuttavia mi resi conto che sarebbe stato ancor più patetico di quanto già non fosse.
Soprattutto perché io un fidanzato vero e proprio non ce l’avevo.
Inoltre Willy mi aveva raccomandato di tenere la bocca chiusa: l’effetto sorpresa sarebbe stato ancor più devastante per Christian. Non avevo idea di cosa gli passasse per la testa allora, però riuscii a mantenere il segreto con Jenny.
 Proprio con lei, di cui sapevamo vita e miracoli l’una dell’altra, o quanto meno così avevo creduto fino a quel giorno.
Chiusi la conversazione e mi lasciai cadere all’indietro a braccia spalancate, ove ad accogliermi trovai il materasso; presi ad osservare le foto appiccicate al muro con alcuni adesivi divertenti e infantili.
Una di queste ritraeva me e Jenny durante l’estate dell’anno precedente, al mare. Io con i capelli sempre scompigliati che alla luce del sole sembravano ancor più arancioni di quanto non fossero, gli occhi strizzati a causa della luce che mi infastidiva, le lentiggini che oramai spiccavano tragicamente sul volto, in canotta blu e shorts abbinati, ai piedi sandali bassi. Jenny mi stringeva a sé, sempre perfetta in ogni suo aspetto. I capelli lunghi e castani erano trattenuti in una coda laterale, gli occhiali da sole sul capo lasciavano scoperti due occhioni castani e il suo sguardo da cerbiatta; il prendisole floreale le scivolava morbido sui fianchi e suoi seni. Come era accaduto a me, una spallina le era un po’ discesa oltre la spalla, ma mentre personalmente non faceva che donarmi un’aria sciatta, a lei la rendeva schifosamente sexy.
Come potevo solo pensare che Christian mi notasse? O che un ragazzo qualsiasi lo facesse?
Jenny era dolce, delicata, sempre sorridente. Io me ne stavo spesso imbronciata e in disparte e - il più delle volte - rispondevo male o sbuffavo alle domande che mi venivano poste, per nulla autoironica o attenta a non proferire parolacce in pubblico. Soprattutto non avevo gusto nel vestirmi, nel truccarmi, nel pettinarmi. In niente. Trascorrevo le mie giornate in tuta, con le scarpette comode, incurante dei capelli crespi o della matita sciolta. Per me esisteva solo il nuoto.
E Jenny.
E Christian.
Poi, all’improvviso, era rimasto solo lo sport.
 
La mattina seguente mi svegliai di buon’ora, non che la notte avessi dormito granché, ma avevo comunque puntato la sveglia alle 6. Ciò che mi premeva maggiormente era evitarmi l’incontro quotidiano con Christian sull’autobus delle otto meno un quarto.
Tra qualche mese la scuola sarebbe finita e forse sarebbe stato più facile per me digerire la cosa.
Che illusa!
L’istituto, a quell’ora del mattino, aveva un non so che di misterioso. Chiacchierai con la bidella storica: Concettina, Tina per tutti noi. Era una brava persona, rimasta vedova troppo presto e con la responsabilità di crescere un figlio da sola, che aveva allevato con amore e spezzandosi la schiena di lavoro, solo per fargli avere un futuro degno e lui, di cui mostrava sempre con orgoglio una foto in camice bianco, sembrava aver ripagato i suoi sforzi diventando un chirurgo.
Quando la prima campanella suonò mi avviai verso la mia classe. Avevo potuto evitare Christian, ma non potevo evitare di star seduta tutto il tempo nello stesso banco con Jenny. La cosa risulta difficile quando si è compagne di banco dalla tenera età di undici anni.
E lei non tardò ad arrivare, più smagliante del solito, felice come una Pasqua. La detestai con tutta me stessa, cosa che mi fece salire le lacrime agli occhi.
Come potevo odiare una persona con cui avevo condiviso di tutto e di più?
Non volevo provare quei sentimenti nei suoi confronti, però non riuscivo a smettere di sentirmi tradita. Lei si era presa l’amore della mia vita. E senza permesso.
Dopo le lezioni fui scaltra a rifiutare il suo invito elegantemente. Le dissi che non potevo prendere un caffè con lei e il suo nuovo ragazzo perché avevo promesso all’istruttore di fare qualche vasca addizionale quel pomeriggio, poiché poco più di un mese dopo ci sarebbero state le gare regionali e io non volevo arrivarci impreparata. Ferii ancora una volta la mia amica, questo era un vero record per me: l’avevo ferita due volte in meno di 24 ore.
Bella merda ero!

La piscina era vuota, l’acqua immobile rifletteva il soffitto e il cielo sgombro di nuvole. Mi sedetti sul bordo e immersi le gambe nell’acqua. Mi sentii subito meglio. Incastrai i riccioli rossi nella cuffia, infilai gli occhialini, feci un respiro profondo e, con uno slancio, mi tuffai.
Che goduria. Che piacere essere accarezzata dal tocco vellutato dell’acqua che mi rinfrescava e sembrava lasciarsi dietro la scia dei miei pensieri negativi.
Dopo quattro o cinque vasche - forse erano dieci, non ha importanza - mi sentii decisamente più rilassata; feci le operazioni inverse: tolsi gli occhialini, sfilai la cuffia e mi immersi di nuovo. Fu solo quando riemersi che lo vidi.
Christian.
Chissà da quanto tempo era lì, seduto sulla panca; a destra il mio borsone, a sinistra il suo; le gambe distese, le braccia conserte, l’espressione seria. Si alzò, afferrando il mio accappatoio rosa e avvicinatosi me lo porse, mentre io me ne stavo a bordo piscina, a testa china e gocciolante come una spugna. Farfugliai un grazie e lo indossai.
«Non ti ho visto stamattina nel pullman» disse.
«Ho preso quello precedente.» Perché improvvisamente era diventato così difficile parlargli? Proprio noi, che fino al giorno prima ridevamo insieme delle cose più buffe.
«Ho bisogno di parlarti.»
“Ecco, ci siamo” pensai, non potevo più sottrarmi dall’affrontare la realtà.
«Devo farmi la doccia e asciugarmi i capelli, se hai da fare…» provai a farlo desistere.
«Ho gli allenamenti fra più di un’ora. Ho tutto il tempo.»
Bella fregatura!
Presi le mie cose e mi accinsi a raggiungere gli spogliatoi femminili. Non volevo sentire quello che aveva da dirmi, non volevo sapere dei suoi sentimenti per Jenny. Non volevo che loro due stessero insieme.
 
Chiusi la zip della maglia, lunga sui pantacollant, attorcigliai i capelli in una crocchia, borsone a tracolla, inspirai profondamente e uscii.
Inizialmente non lo vidi e tirai un sospiro di sollievo. Forse era andato via, forse Jenny gli aveva telefonato all’improvviso, forse l’avevo scampata.
«Viola.»
No, lui era lì, in un cono di luce che lo aveva nascosto alla mia vista. Lo salutai alzando un palmo e abbozzando un sorrisetto. Mi dovetti concentrare per non fuggire via.
«Viola» ripeté il mio nome e io adoravo il modo in cui lo faceva, con quella cadenza che era tipica di lui.
Come potevo non essere io la sua ragazza?
Come poteva avere un’altra?
Mi poggiò le mani sulle spalle, forti e salde, mi sorrise e io mi sentii svenire:
«Sono così felice, Viola!» Eccoci qua, pensai, ci siamo mia cara. «Jenny te lo avrà già detto, ma ci tenevo a farlo anche io. Ci siamo messi insieme, Viola! Ieri finalmente sono riuscito a dirle quanto la amo.»
È come essere trapassati da una spada, credo, non che io sia mai stata trapassata veramente da una spada, ma penso che la sensazione sia più o meno la stessa. All’inizio non si sente nulla, il dolore, lo shock, quelli arrivano dopo. Per un attimo non zampilla neanche il sangue, per un attimo tutto sembra uguale, e invece è una sentenza di morte bella e buona.
Fu quando stavo per balbettare un «congratulazioni, siete due pezzi di merda» che mi sentii afferrare per la vita e stringere forte, mentre due labbra calde si posavano sulla mia guancia.
«Ciao amore!»
Era l’idiota.
Feci per scrollarmelo di dosso, poi il nostro patto mi tornò in mente e, più di tutto, l’espressione di Christian - che da sorriso di felicità si era trasformata in una smorfia di dissenso - mi arrestarono, portandomi a schiacciarmi ancor di più contro di lui.
«Christian» lo salutò il mio finto fidanzato.
«Wi-William» gli fece eco lui, spostando poi il suo sguardo confuso su di me. «Cosa succede?»
«Ah, scusami, stavo per dirtelo» risposi, prendendo a carezzare la guancia di Willy, la barbetta mi solleticò il dorso della mano. «Cris, lui è il mio ragazzo.»
Christian non rispose, rimase a bocca aperta, raccolse il suo borsone da terra e caricandoselo sulle spalle si allontanò, affermando di avere gli allenamenti, ai quali tra l’altro avrebbe dovuto prender parte anche Willy che, tuttavia, non sembrava avere la sua stessa fretta.
 
Quando il mio – ex? – migliore amico fu scomparso in lontananza, sciolsi l’abbraccio che ci legava, voltandomi a guardarlo male:
«Non ti avevo raccomandato niente baci e niente abbracci?»
«E anche niente carezze, se non sbaglio…» controbatté Willy, riferendosi giustamente al fatto che gli avevo sfiorato la guancia per diversi secondi. «Comunque anche io sono felice di vederti, Verdina» roteai gli occhi al cielo. Fra tanti idioti perché proprio lui? «Sembra che il tuo amichetto abbia incassato un bel montante.»
«Che?»
«Un pugno Cappuccetto, un pugno» odiavo il suo modo di fare più della sua consuetudine a sfottermi. «Allora abbracci, baci e carezze sono consentiti ora?»
«Lo faresti in ogni caso, anche se ti dicessi di no» lui fece spallucce, acconciandosi meglio il borsone da calcio e controllando l’orario sul telefonino, quindi gli porsi la più stupida delle domande. «Non dovremmo scambiarci i numeri?»
«Mi stai chiedendo il numero di telefono?» Alzò il sopracciglio sinistro, quello tagliato alla punta. «E domani cosa mi chiederai, Azzurra? Un appuntamento?»
«Sai una cosa? Vai a farti fottere!» Lo oltrepassai e mi incamminai lungo il sentiero costeggiato di alberi, nella frescura della sera che stava calando piano.
«Anche io ti amo, Stellina rossa!»
Gli mostrai il dito medio.

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Capitolo 3
*** Tre prime volte ***


Capitolo 3
Tre prime volte

 
 
Il giorno seguente feci la stessa trafila: sveglia alle sei, autobus semi vuoto senza Christian a bordo, chiacchierata con la bidella Tina.
Entrai in classe quando ancora era deserta. Osservai i banchi sbiaditi dagli anni e dalle scritte marchiate e indelebili sulla superficie, promesse di amori e di amicizie non mantenute, la lavagna pulita, le ampie finestre dalle quali filtrava la luce del sole e s’intravedeva, attraverso i raggi, il pulviscolo librarsi nell’aria.
Mi sedetti al mio banco, seconda fila vicino al muro, e attesi, con l’ansia di dover dare spiegazioni a Jenny sul mio (ipotetico) fidanzato.
Se la sarebbe presa? Sicuramente.
L’avevo tenuta all’oscuro di quella relazione – secondo il suo punto di vista – e questo sarebbe bastato a farla incollerire nei miei confronti.
Sentivo che se avessi continuato su quella rotta avrei perso sia lei che Christian, ma in fondo non li avevo perduti già?
I miei compagni di classe iniziarono a fare capolino oltre la porta dopo qualche minuto. Saluti di rito, poi chini sui libri, ognuno preso dai fatti propri.
Stavo rileggendo il paragrafo di storia (avevo la sensazione che il professore mi avesse interrogato quel giorno, ma il mio istinto fallì miseramente), quando udii il rumore di una sedia trascinata sul pavimento. Alzai gli occhi nel momento in cui Willy vi si accomodava cavalcioni davanti a me, le braccia poggiate sullo schienale, un sorriso ebete sul volto.
«Buongiorno “Anna dai capelli rossi”. Siamo diventati mattutini ora?!»
«Che vuoi?» Gli chiesi, sforzandomi di usare un tono pacato e incurante, senza però alzare gli occhi dal libro.
«Non posso neanche passare a dare il buongiorno alla mia fidanzata?» Rispose, alzando volutamente la voce così che i presenti nell’aula potessero sentirlo, ovviamente il suo piano riuscì alla grande, poiché gli altri si girarono a fissarci.
Chiusi le oltre mille pagine di guerre e rivoluzioni con un tonfo e lo guardai male: il fatto che non si scomponeva mai mi irritava, era come attraversare a gambe nude un campo di ortica. Mi porse un bigliettino ripiegato:
«Cos’è?» Chiesi mentre lo scartavo, poi lessi una serie di numeri scritti con l’inchiostro nero, accompagnati da un cuore ben calcato.
«Il mio numero. Ieri non mi hai dato il tempo di dartelo.»
Avvampai. Ma stava scherzando?
Ripiegai il foglietto e lo feci scivolare sul banco, verso di lui.
«Tu stai fuori! Non so che…»
Jenny arrivò sbattendo il suo zaino sul banco. Entrambi ci voltammo a guardarla e io, di fronte ai suoi occhi castani che lanciavano scintille diventai piccola piccola.
Mi avrebbe ammazzato.
Come il giorno prima, Willy mi lasciò un bacio sulla guancia, chiudendo la mano su quella in cui tenevo il biglietto.
«Tienilo, stammi a sentire, potrebbe servirti» era diventato improvvisamente serio, quel sorrisino sfacciato era sparito, lo sguardo si era addolcito - di sicuro recitava la sua parte meglio della sottoscritta - poi si alzò, salutò Jenny che in tutta risposta lo fulminò con gli occhi, e uscì dalla classe.
La mia amica batté entrambi i palmi sul banco, iniziando a sussurrare in quel modo che sembra ci si stia trattenendo per non urlare a squarciagola. Jenny non amava dare nell’occhio, era sempre molto attenta a comportarsi in modo impeccabile, senza alzare mai la voce, neanche quando litigava. Tuttavia quella mattina sembrava davvero molto arrabbiata.
«Ti sei bevuta il cervello?» Iniziò.
«Ieri stavo per dirtelo, poi tu avevi così tanto da raccontare sulla tua nuova storia d’amore che…»
«Il problema non è il fatto che non tu mi abbia detto niente, Viola!» Si sedette, ora aveva il classico tono compassionevole e io avrei voluto tirarle il librone di storia in faccia. «Capisco che provavi vergogna nel confessarmi i tuoi sentimenti. Anche io non sapevo come dirti che ero innamorata di Cri-Cri» troppe cose insieme, mi sarebbe scoppiata la testa.
E il cuore. E lo stomaco per la rabbia.
Per me il problema era proprio quello invece: i sentimenti che provavamo tutte e due verso Christian e magari se una si fosse aperta con l’altra le cose sarebbero andate diversamente.
Forse.
E poi ancora con quel Cri-Cri! Cos’era? Un grillo?
«Viola, ascolta, sei sicura di quello che stai facendo?» Certo che non lo ero, che domande! «Quello lì …» fece un cenno con la testa verso la porta per indicare “quello che era appena andato via” «… non ha una bella reputazione. Vuole solo una cosa dalle ragazze.»
E io a quel punto non sapevo se sentirmi offesa o tirare un sospiro di sollievo, dal momento che a me quella cosa non l’aveva chiesta.
 
Trascorsi la settimana più brutta della mia vita.
La mia compagna di banco non faceva che ripetermi in quale mastodontico guaio – Jenny sapeva essere molto teatrale quando voleva inculcarti in testa una sua idea – mi ero andata a ficcare diventando la fidanzata di quello lì. Dopo due giorni avevo la lingua tutta dolorante per quante volte avevo dovuto morsicarmela ed evitare di sputargli in faccia la verità. Per non confessarle che l’unico guaio che mi era capitato in quell’ultimo periodo era la storia d’amore che lei stava vivendo con Christian. La mia non era una vera storia d’amore. La mia era una farsa, uno spettacolo messo su da due buffoni di corte.
Il ragazzo che amavo era invece diventato un’ombra nella mia misera esistenza, un fantasma che ogni tanto appariva per baciare la sua bella in pubblico, corrodendo un po’ alla volta il mio cuore, come un male che divora piano.
Era maledettamente doloroso.
La sceneggiata con Willy si era trasformata in una specie di routine. Passava a salutarmi in classe ogni mattina, accertandosi che Jenny fosse presente ed assistesse alla scena, a volte compariva dal nulla quando era certo che Christian potesse vederci mentre ci scambiavamo un bacio ingenuo sulla guancia, una carezza sul viso, un occhiolino di complicità. Il più delle volte, quando ci scontravamo da soli, lo prendevo a male parole e lui mi rimproverava di essere una pessima attrice, che si vedeva che non ero coinvolta, che dovevo fare uno sforzo maggiore se volevo che Chris si ingelosisse a tal punto da capire che mi desiderava.
Pura fantascienza. Più passavano i giorni e più mi convincevo che era tutto quanto così stupido!
 
Come se non bastassero le pene d’amore a mettermi di cattivo umore, era anche il periodo in cui mio padre aveva scoperto di essere un emerito cornuto.
Da giorni mia madre minacciava di andarsene di casa, di fuggire in piena notte con la sua nuova fiamma di dieci anni più giovane. Papà le intimava che prima o poi l’avrebbe soffocata con un cuscino mentre dormiva. A quel punto iniziavano a volare piatti e bestemmie, come in un film di telecinesi. I rancori di vent’anni di matrimonio stavano venendo a galla simili a relitti di una barca dopo la tempesta, mostrando i suoi cadaveri, i tesori che erano sembrati d’oro ma che altro non erano che di bronzo.
Ricordo che quella sera ero appena rientrata, dopo la mia consueta nuotata per distendere i nervi, e rimasi sullo zerbino, con le chiavi ancora in mano e la porta d’ingresso mezzo aperta. Non mi accorsi nemmeno di abbandonare il borsone di nuoto sul pavimento intanto che mi affacciavo in cucina, dove vidi mio padre e mia madre discutere animatamente, accusandosi a vicenda per la loro infelicità. Tornai sui miei passi e uscii di casa.
Il tramonto disegnava pennellate rossastre nel cielo e sulle facciate dei palazzi; camminai senza una meta, forse per chilometri, perché d’improvviso mi ritrovai davanti scuola. Avevo fatto trenta e pensai di fare trentuno, così raggiunsi la costruzione bianca della piscina che distava solo qualche centinaio di metri.
Tuttavia, quando mi accorsi che non avevo nient’altro con me, se non me stessa, mi accovacciai contro la parete laterale, illuminata dall’ultimo barlume di sole che filtrava attraverso il fogliame degli alberi.
Non avevo il costume per fare il bagno, non avevo il cellulare per telefonare a qualcuno (a chi poi?), non avevo soldi per prendere un autobus e tornare a casa. Rimasi così, con le ginocchia tirate al petto e la testa fra le braccia. Forse mi appisolai perché quando riaprii gli occhi il sole era del tutto calato a ovest e i lampioni erano accesi.
«Non dovrò darti un bacio per svegliarti, vero?» La faccia divertita di Willy era ad una spanna dalla mia.  «Tu non sei “La bella addormenta nel bosco”, tu sei Cappuccetto Rosso e Cappuccetto Rosso non si addormenta.»
«’Fanculo, non è aria. Smamma!» Tornai a nascondere il viso, ma lui non si mosse di una virgola, restando piegato sulle ginocchia.
«Cos’è successo Giallina? Ti manca il tuo amato?»
«Ti ho detto di andartene a ‘fanculo!» L’eleganza non era il mio forte, soprattutto quando mi trovavo lui come interlocutore.
«Dov’è la tua roba per il nuoto, Rosa?» Non gli risposi, lo sentii muoversi, forse cercava il borsone che non avrebbe mai trovato. «Dai vieni» lo guardai alzarsi e incamminarsi verso sinistra, poi si voltò di nuovo verso di me e mi invitò a seguirlo con un cenno della mano. Non so per quale motivo lo feci, ma gli trottai dietro come un cagnolino seguirebbe il suo padrone.
 
Entrammo nel campo da calcio attraverso una fessura della rete di protezione. L’erbetta era umida e nell’aria c’era l’odore della terra bagnata. Le luci che si proiettavano tutto intorno erano belle forti e se le fissavi ti accecavano. Non ero mai stata su un campo da calcio. Avevo assistito a tante partite solo per veder Christian giocare, ma ero rimasta rigorosamente sugli spalti o oltre la recinzione.
Willy corse verso un pallone abbandonato a qualche metro dalla porta di destra e lo calciò con forza, spedendolo direttamente in rete. Poi lo ammaestrò con i piedi e lo posizionò su un cerchio bianco dipinto sull’erba, spiegandomi che quello si chiamava “dischetto di rigore”.
«Lo so!» Esclamai facendogli una smorfia. Amavo Christian da così tanto tempo che pur di avere argomenti in comune con lui avevo imparato ogni virgola del regolamento del gioco del calcio.
«Provaci tu adesso» mi disse, facendo un passo indietro e indicando il pallone. Non ero proprio sicura e inizialmente rifiutai, alla fine però riuscì a convincermi, mettendola come sempre sul piano della sfida.
Calciai e la palla rotolò piano al lato del palo. Lui prese a ridere e io mi adirai. Tornai a posizionare la palla sul dischetto e questa volta tirai con maggior decisione, ma il risultato fu anche peggio, poiché la palla balzò contro la recinzione e tornò indietro, recuperata da un intervento di petto da parte sua.
«Prenditela se ci riesci» disse, sfidandomi a duello, mentre si toglieva il giubbotto e restava in T-Shirt verde militare, con un teschio stilizzato sul davanti.
«Io me ne vado» fu la mia risposta, ma quando sentii il pallone rimbalzarmi sul sedere mi girai a fissarlo male, mentre lui teneva un sorrisetto di scherno sul viso e la palla fra i piedi.
Mi ci gettai contro, iniziando a menare calci a destra e a manca, senza tuttavia riuscire a sfiorare mezza volta il pallone, che sembrava scomparire a riapparire fra i suoi piedi.
«Forza Bianca, prenditela!» Diceva e io mi arrabbiavo sempre più. «Forza Rossa, fatti sotto!» Lo tiravo per la maglia, provavo a mettergli lo sgambetto, ma niente. «Avanti Pel di carota!»
Alla fine mi accartocciai nei miei stessi piedi e lo trascinai sull’erba con me, finendogli addosso. Puntellandomi sul suo petto lo vidi scoppiare in una risata fragorosa, mi affrettai a togliermi da lui e a mettermi seduta, cercando di ricacciare indietro il rossore. Un po’perché ero affaticata, un po’ perché avevo toccato un ragazzo per la prima volta.
Lui in ogni caso sembrò non essersi accorto della mia vergogna o del fatto che i nostri copri erano praticamente appiccicati l’uno all’altro.
«Un giorno…» iniziò quando l’attacco d’ilarità passò «… diventerò un calciatore famoso in tutto il Mondo.»
Mi voltai e lo vidi ancora sdraiato, le mani sotto la testa, gli occhi puntati ai primi puntini luccicanti nel cielo brillavano. Mi sdraiai al suo fianco e dissi:
«Io vincerò l’oro alle Olimpiadi negli 800 metri stile libero.»
Restammo così per qualche altro minuto, senza parlare, senza punzecchiarci, semplicemente osservando il cielo, nella frescura dell’erba appena annaffiata e con l’odore di terra bagnata che mi aveva oramai invaso le narici.
 
Percorremmo insieme il tragitto che avevamo in comune per tornare a casa. I negozi in centro stavano chiudendo, le strade iniziavano a svuotarsi, le pizzerie a riempirsi. Avevamo proferito solo qualche parola, lui era tornato il solito di sempre, chiamandomi in tutti i modi possibili, io gli imponevo puntualmente di smetterla. Poi incontrammo Christian e il malumore tornò in un lampo.
In mano teneva la busta della gioielleria dalla quale era appena uscito, contenente un pacco regalo con una grande coccarda rosa e mi venne in mente che da lì a qualche giorno sarebbe stato il compleanno di Jenny.
«Viola posso parlarti un attimo?» Mi disse, come se Willy non fosse presente.
Ero pietrificata.
«L’accompagni tu a casa?» Gli chiese il mio finto fidanzato e Christian non poté che annuire. Ero pronta a ricevere l’oramai classico bacio sulla guancia, anzi questa volta sarei stata io a darglielo, Willy però mi sollevò il mento con le dita e posò la sua bocca sulla mia.
Era il mio primo bacio ed era successo con l’idiota che detestavo, davanti agli occhi del ragazzo che invece adoravo e con cui sognavo di scambiarlo.
Soprattutto, era il mio primo bacio e non era stato per niente come l’avevo immaginato.

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Capitolo 4
*** Mani ***


Capitolo 4
Mani

 
Quando quella sera tornai a casa entrai piano, togliendomi le scarpe all’ingresso per non far rumore e, soprattutto, per non sporcare il pavimento di terriccio da campo di calcio. Dal soggiorno proveniva la luce soffusa della televisione e affacciandomi mi accorsi che mio padre russava sulla poltrona, vedendo il modo in cui si era appisolato fui certa che il giorno seguente il dolore alle ossa non sarebbe stato affar da poco. Spensi la Tv, priva di volume, coprii il mio babbo con una coperta – anche se era primavera inoltrata l’umidità avrebbe finito per peggiorare la situazione – e filai in camera mia.
Distesa nel mio letto, abbracciata al peluche di sempre, quello che portavo a dormire con me da una decina di anni oramai, ripensai agli ultimissimi eventi di quella sera.
Avevo seguito Willy con lo sguardo allontanarsi da noi, intanto che Christian se ne stava immobile di fronte a me e subito mi ero accorta della differenza di altezza tra lui e Willy quando avevamo iniziato a camminare uno di fianco all’altra. Christian era molto più alto e muscoloso, fino a quel momento non mi ero resa conto di quanto fossi piccola rispetto a lui e il fatto che non avesse ancora proferito parola mi metteva un nervosismo addosso non indifferente. Pensai di fare io il primo passo, ma lui mi precedette:
«Lascialo» aveva detto e io lo avevo guardato stralunata, teneva gli occhi fissi sulla strada, il viso contorto in una smorfia di rabbia malcelata.
«Come scusa?»
«Non mi piace il fatto che tu stia con uno come lui» aveva aggiunto. «Non fa per te, ecco!»
Di sicuro Willy non era un angioletto, ma oltre al fatto che non si stancava mai di prendermi in giro per il mio nome o per il colore dei capelli, non mi sembrava una persona pericolosa, come invece Christian e Jenny sostenevano, seppur senza dirlo chiaramente.
«Non ho bisogno del tuo consenso per stare insieme a qualcuno» ricordai di aver risposto, stringendo i pugni e solo allora lui si era voltato a guardami.
«Viola, ti prego, dammi retta, lascialo. Accidenti! Perché non ne hai parlato prima con me? Lo ami così tanto?»
Fui  sul punto di ridergli in faccia. Amarlo? Amavo una persona, si, ma quella persona non era certo il mio – finto – fidanzato.
«Parlartene? Non mi sembra che tu sia venuto a dirmi di Jenny» ecco, la bomba a mano era stata lanciata.
Christian aveva spalancato gli occhi, per lui erano due storie – la mia con Willy e la sua con Jenny - che stavano su pianeti diversi e non riusciva a vederne il nesso. Si arrestò e si posizionò davanti a me, senza neanche accorgermene eravamo arrivati a casa.
«Ma davvero? Davvero stai paragonando la mia storia con Jenny alla tua?»
«E perché dovrebbe essere diverso?» sbottai, rendendomi conto del paradosso. Ovviamente c’era un abisso fra le due love story, ma dovevo mantenere la rotta ad ogni costo. E allora fece una cosa che non aveva mai fatto prima: mi carezzò la testa. Avrei voluto dirgli di non farlo, di non guardarmi come stava facendo, era troppo doloroso, soprattutto quella sera. Soprattutto dopo il mio primo bacio che avevo sempre immaginato proprio così: una carezza, uno sguardo profondo e dolce, poi il tocco delle labbra, ma delle sue labbra, quelle di Christian, magari in un posto magico, romantico, senza altra gente a fare da spettatori non paganti.
E invece…
«É per me, vero?» chiese lui e il mio cuore si fermò. «É per farmi del male? No, perché è proprio quello che stai facendo» la sua mano continuava a muoversi sui miei capelli legati. «Perché proprio lui, Viola? Lo sai dell’eterna rivalità che c’è tra noi, te ne ho sempre parlato e tu mi hai sempre sostenuto, dicendo che lo detestavi per questo, e ora…» sospirò « …ora vieni a dirmi che lo ami?» Non mi sembrava di avergli detto una cosa simile, in ogni caso la sua mano scese fin sulla spalla. «Ma non ti accorgi che ti sta solo usando per colpire me? Lui non si interessa a quelle come te» scacciai la mano con un buffetto, inevitabilmente le guance mi si stavano colorando di rosso, come quello schifo di capelli che tenevo in testa.
«Perché deve sempre ruotare tutto intorno a te? O a Jenny? Perché un ragazzo non potrebbe interessarsi a me seriamente?» Sciolsi lo chignon e i folti riccioli fulvi mi ricaddero sulle spalle. «Forse per questi?» ringhiai tirandone una ciocca. «O forse per queste?» aggiunsi, indicando le lentiggini sul viso. «O perché non metto il mascara? O perché non indosso abiti troppo femminili? O perché non metto in risalto le tette?» finii alzando i seni per dimostrargli che ce li avevo, sebbene non fosse mia abitudine mostrarle a chicchessia.
«Viola, ma che dici? Io non intendevo che un ragazzo non può interessarsi a te perché hai… perché non …»
«Lascia stare» conclusi, recuperando le chiavi di riserva che tenevamo nella cassetta della posta. «Buona notte» e sparii oltre la porta di casa.
Nel buio della mia stanza, con in faccia il pelo indurito dal tempo e quindi non più morbido del peluche, sentivo le lacrime bruciare infondo agli occhi, eppure ero troppo arrabbiata per piangere, troppo delusa. La mia mente rimbalzava come una pallina da tennis da un fatto all’altro: la difficile situazione della mia famiglia e una crisi senza precedenti che temevo potesse sfasciare tutto; le parole di Christian, convinto che Willy si fosse fidanzato con me solo per ferire lui, molto più interessato a questa ultima cosa che non al fatto che io stessi con un ragazzo.
D’improvviso le parole dello stesso Willy mi rimbombarono nel cervello:
«Se ti vedrà con me gliene fregherà eccome.»
Ripensai inevitabilmente al mio primo bacio. Mi era piaciuto? In un certo senso si, anche se non era stato idilliaco come lo avevo sognato e fantasticato, non riuscivo a togliermi dalla testa la sensazione di quelle labbra calde e un po’ screpolate. Le avevo sentite nella loro interezza sulla mia bocca.
Ed era l’emozione che più di tutte mi teneva sveglia.
 
La mattina seguente attesi Willy sulle scale della piscina, dove sapevo sarebbe passato per recarsi agli allenamenti e, infatti, non tardò ad arrivare. Mi alzai a gli andai incontro, la borsa che tenevo a tracolla mi sbatté contro le cosce mentre lo tiravo per il polso fin contro la parete. Lui non si tolse mai quel sorrisino di sfottò dalla faccia, consapevole di quello che avevo da dirgli evidentemente:
«Cosa cazzo ti è saltato in mente?» Gli diedi un colpo sul petto, lo stesso sui cui ero atterrata la sera precedente. «Come cazzo ti è venuto?» Un altro colpo.
«E dai Stellina rossa! Non hai visto che faccia ha fatto il tuo amichetto?» Rise.
«Non me ne frega un cazzo di che faccia ha fatto!» Sbuffò e io mi irritai ancor di più per la sua superficialità.
«Quanto la fai lunga. Manco fosse stato il tuo primo bacio!» Sbiancai e lui per un attimo si fece serio. «Era il tuo…?» Scoppiò a ridere, fino a piegarsi sulle ginocchia, il borsone da calcio toccò il cemento.
Adesso si che mi veniva da piangere.
Perché mi ero andata a ficcare in quel pasticcio?
Mi voltai per andare via, con la testa china, avevo la sensazione che quel giorno nemmeno il nuoto sarebbe bastato a rilassarmi.
«Bianca aspetta!» Mi gridò dietro, potevo sentire l’ilarità ancora nella sua voce. «Suvvia Cappuccetto, ma dove vai?»
Semplicemente lo mandai a quel paese nel modo più sgarbato possibile.
 
Dopo qualche giorno me lo ritrovai dinnanzi all’uscita di scuola. Da quell’ultima sottospecie di conversazione nei pressi della piscina non si era fatto più vivo e avevo dovuto inventare scuse su scuse con Jenny per spiegarle il motivo per cui non passava più a salutarmi in classe, prima dell’inizio delle lezioni.
Dopo due giorni di assoluto silenzio, la mia compagna tutta sorridente mi aveva chiesto se per caso non avessimo rotto. Mi indignai e le risposi di farsi i fatti suoi. Ferire i suoi sentimenti era diventato una specie di hobby per me.
Sotto gli occhi di tutti mi fermai al suo fianco, qualcuno si voltò ad osservarci con insistenza, altri ci oltrepassarono come se fossimo trasparenti, ma tra la ressa generale non potei non notare gli occhi color nocciola di Christian, intenti a fissarci per poi distogliere lo sguardo nel momento in cui li intercettai.
«Posso darti un bacio sulla guancia?» Mi chiese William.
«No» gli risposi, lui sorrise – come sempre – e mostrò i palmi in segno di resa. «Sbrigati perché ho il pullman fra qualche minuto.»
«Ho incontrato la tua amica. Mi ha invitato alla sua festa di compleanno.» Sospirai, Jenny lo aveva già detto a me, sforzandosi di estendere l’invito anche al mio ragazzo. «Come vuoi comportarti?»
Ecco la domanda da un milione di dollari
«Non lo so» anzi, lo sapevo, ma avevo paura. «Io devo andarci per forza…»
«E di sicuro ci sarà anche il tuo amato. Potrebbe essere un’ottima occasione per dargli il colpo di grazia.»
Ciò che non mi piaceva di quella storia, era il fatto che Willy parlasse della messinscena come di un duello, un combattimento, alla fine del quale ci sarebbe stato un vincitore e un vinto. Per forza.
«Va bene. Ma niente cose strane» lo ammonii e lui assentì, peccato che non mi convinse per niente. Lo salutai e, nonostante il mio dissenso iniziale, si sporse a baciarmi una guancia, sfiorandomi il viso con l’indice.
«Il tuo bello ci sta guardando Stellina, meglio fare le cose per bene» mi strizzò l’occhio e mi lasciò andare.
Era quando faceva così che lo detestavo ancor più di quando mi chiamava Bianca, peccato che ero ancora troppo ingenua e giovane per comprendere appieno quei sentimenti.
 
Il giorno del compleanno di Jenny arrivò in un batter d’occhio e io spesi tutto il pomeriggio seduta al centro del letto, a fissare il guardaroba con le ante aperte e indecisa su cosa indossare. Dabbasso le urla dei miei genitori, le minacce di trascinarsi in tribunale a vicenda, quelle di mio padre di portarci (a me e mio fratello) via lontano, senza dare la possibilità a mia madre di vederci, se non accompagnata da un assistente sociale.
Le grida isteriche di lei che gli rispondeva sempre nella stessa maniera: stronzo! Stronzo! Stronzo!  
E poi mi chiedevo da chi avevo preso quando mi arrabbiavo e iniziavo ad inveire con volgarità.
Alla fine, quando l’orario incombeva, afferrai due cose al volo e le indossai: un paio di jeans blu e una felpa, senza cerniera, di un rosa pallido; mi sistemai la fascia sul seno in modo da schiacciare la mia seconda abbondante. Jenny si incavolava come una matta per questo, mi diceva sempre che avrebbe pagato oro per averle grosse quanto le mie e per quel vitino stretto che nascondevo sotto maglie larghe.
Io avrei donato i miei organi per essere come lei. Punto.
Misi un paio di orecchini, mi guardai allo specchio e li tolsi. Allora ne provai un paio di mia mamma, ma fu come andar di notte. Via anche quelli.
Passai ai capelli. Cercai di uniformarli con il gel di mio fratello ma il risultato fu più che altro un ammasso appiccicoso e alla fine li legai, attorcigliandoli su loro stessi. Provai a passarmi un po’ di fard sulle guance, mi osservai da ogni angolazione possibile e quando mia madre aprì di scatto la porta del bagno quasi urlai. Aveva il mascara tutto sciolto sul viso, gli occhi rossi e super gonfi. Si ripulì con un asciugamano, mentre le dicevo che poteva avere il bagno tutto per sé e fu quando le passai affianco per uscire che lei mi trattenne, facendomi sedere sul coperchio del water, prendendo a truccarmi: fard, matita e un velo di lucidalabbra; poi mi sciolse i capelli e li divise in tre parti, intrecciandole fra loro per formare un’unica treccia.
Fece tutto questo in silenzio e io non dissi neanche mezza parola. Avrebbe potuto farmi due gote rosse come Heidi, io non mi sarei lamentata.
Infilai le scarpette da ginnastica, porta cellulare a tracolla, presi al volo il giubbino di jeans appeso all’entrata, il regalo che avevo comprato per la festeggiata e uscii.
 
Quando arrivai al luogo dell’appuntamento Willy non c’era. Mi sedetti sull’unica panchina libera ad attendere. L’aria era dolce e calma, il cielo iniziava a scurirsi e le nuvole della mattina si erano oramai dissolte. Ero certa che lui non si fosse presentato, dandomi buca, invece sbucò alle mie spalle.
«Scusa il ritardo, Rosetta» mi fece il saluto militare e io ruotai gli occhi all’insù.
Ci incamminammo fianco a fianco, chiedendomi cosa dovessimo sembrare da fuori per le persone che ci passavano di fianco e mi resi conto che non volevo conoscere la risposta.
La casa di Jenny non era molto distante dalla piazzetta centrale e vedendola Willy fischiò. In effetti era proprio una bella costruzione, una villa in pieno centro cittadino non era da tutti, ma nulla di impossibile per il padre assessore della mia amica.
La colf che da anni lavorava per la famiglia di Jenny ci venne incontro, salutandomi con un abbraccio. Era una simpatica signora in carne e con i capelli corti che di anno in anno si andavano ingrigendo. Gli presentai Willy, senza riuscire a specificare che fosse il mio fidanzato, tuttavia lo fece lui stesso, presentandosi e stringendole la mano.
Gli lanciai la prima occhiataccia della serata.
 La signora ci indicò la strada per il giardino sul retro, scusandosi se non poteva accompagnarci di persona, ma aveva delle cose da togliere dal fuoco. Le dissi che non doveva preoccuparsi, che conoscevo a perfezione quella casa. Quando il giardino con le decine di persone che già lo popolavano comparve all’orizzonte, Willy sollevò un palmo a mezz’aria:
«Dammi la mano» disse in tono perentorio.
«Che?»
«Dammi la mano ho detto» mosse il braccio per sottolineare la cosa.
«Non ci pensare proprio! Ti avevo avvertito: niente cose strane» continuai quasi sussurrando, oramai l’arcata di pietra che dava sul giardino era a due passi.
«Dammi la mano o ti bacio di nuovo, davanti a tutti, e giuro che questa volta ci ficco anche un pezzetto di lingua.»
Afferrai la sua mano al volo.

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Capitolo 5
*** Dite cheese! ***


Capitolo 5
Dite cheese!

 
L’idea della mano fu una grande trovata, poiché lo sguardo di Christian si posò sulle nostre dita intrecciate ancor prima che su di noi.
Ci avvicinammo piano, Willy non faceva che sussurrarmi di sorridere:
«Sorridi. Sorridi. Sorridi.»
E io mi sforzai di farlo, tanto da farmi dolere la mascella, ma tenni duro. Christian non rispose ai nostri saluti, mentre porgevamo alla festeggiata i nostri migliori auguri e il nostro regalo.
Perché è così che si fa, no? Una coppia fa tutto insieme, tutto diventa al plurale.
In realtà a pensarci fu Willy, fosse stato per me le avrei semplicemente detto: «buon compleanno, Jenny».
Lei era uno spettacolo: un abito chiaro, con la gonna a palloncino, metteva in risalto la sua pelle leggermente dorata, i capelli lunghi e lisci splendevano di luce propria, le ciglia folte incorniciavano il suo sguardo dolce e caldo.
Sentii il trucco che mia madre aveva steso sul mio viso bruciare come acido sulla pelle. Se avessi potuto lo avrei sfregato via con il polsino della felpa, però mi sforzai di sorridere – in ogni caso - anche con lo sguardo indagatore del ragazzo che mi piaceva puntato addosso.
Jenny scartò il nostro regalo e il volto le si illuminò dinnanzi a quel paio di orecchini che aveva visto in una vetrina al centro commerciale qualche mese prima, quando ancora ci divertivamo passeggiando per interi pomeriggi. Mi strinse forte:
«Ti sei ricordata» disse e provai un lieve senso di colpa in fondo alle viscere. In quel preciso istante realizzai che se avessi raggiunto il mio scopo – strapparle il suo Cri Cri – a soffrirne sarebbe stata soprattutto lei e, con il senno di poi, so che non se lo meritava affatto. Ringraziò imbarazzata anche il “mio” ragazzo, poi ci indicò il buffet e, prendendomi di nuovo per mano, Willy mi guidò verso il tavolo imbandito di leccornie. Quando fui certa che lo sguardo di Christian non poteva più scorgerci, lasciai la presa con uno strattone:
«Non riesco a capire se ti imbarazza di più stare mano nella mano con me o è per la presenza del tuo moroso» disse William, versandosi una bevanda rossastra. Il ghiaccio tintinnò contro il vetro della brocca e improvvisamente la mia gola divenne avida di qualcosa di fresco, lui mi porse il bicchiere in maniera spontanea, un gesto gentile e inaspettato, almeno per me:
«È inutile che fai il carino, Christian non ci sta guardando adesso» risposi sarcastica, bevendone comunque un sorso. Era proprio come sembrava: fresca e dissetante. Willy si versò la bevanda per sé.
«Non posso essere semplicemente gentile con la mia ragazza…» fece oltrepassandomi «Pel di carota?» Di nuovo mi prese per mano e ci avviammo verso un tavolino libero.
«Mi terrai la mano tutta la sera?»
«Si, Verdina, ho deciso così. Problemi?»
«Sempre meglio dei baci» risposi facendo spallucce.
«Illusa» sghignazzò. Il drink mi andò di traverso, tossii guardandolo male mentre lui se la rideva di gusto.
 
La croce peggiore quella sera non fu tanto la presenza di Jenny e Christian o praticamente quella di tutti i miei compagni di classe che mi inviavano sguardi di sottecchi in continuazione, facendomi sentire in una specie di reality show, bensì la mamma della festeggiata. Una giovane signora con la fissa per la fotografia e quando ci vide fu l’inizio della fine. Si presentò senza troppi complimenti a Willy, il quale sembrò divertirsi molto nel raccontare dal principio la nostra storia d’amore, commuovendo la padrona di casa che lo ascoltava completamente rapita, di tanto in tanto mi lanciava sguardi di consenso e approvazione. Per tutto il tempo Willy non mi lasciò la mano, portandosela in grembo e accarezzandomela.
Disse che lui era da sempre innamorato di me, ma che sapeva di non avere chance, in fondo chi vorrebbe fidanzarsi con un ragazzaccio che non riesce ad attirare l’attenzione della persona che ama se non prendendola in giro? A quel punto si voltò a guardarmi negli occhi, il suo sguardo era mutato, come sempre quando c’erano dei presenti, aveva qualcosa di affettuoso, e io a volte facevo fatica a capire chi fosse realmente.
La mamma di Jenny si alzò, portandosi la Canon appesa al collo davanti al viso, sbirciando attraverso l’obiettivo:
«Vi dispiace se vi faccio una foto? Siete così belli insieme, un miscuglio di colori» tornò ad osservarci dal vivo. «Tu con questa pelle bianchissima e i capelli di un colore spettacolare» disse rivolta a me che la fissavo terrorizzata, «e tu con la pelle bruna e questi capelli scuri e gli occhi… meravigliosi».
Willy finalmente lasciò andare la mia mano, ma solo per stringersi a me passandomi un braccio intorno alla vita, la signora alzò l’indice come a dire di aspettare un momento, doveva trovare l’angolatura giusta. Lui non perse tempo:
«Sei molto più magra di quel che sembri, Cappuccetto Rosso» esclamò, affondando le dita nella felpa e quando feci per scostarmi, la madre di Jenny ci diede l’OK!
«Dite cheeeeese
Ci mettemmo in posa, con un sorriso di circostanza che personalmente scemò dalle labbra quando alle spalle della fotografa comparve Christian e il suo sguardo torvo.
La donna disse che ce ne avrebbe fatta avere una copia, poi si dileguò tra la folla. Data la presenza di Christian mi venne spontaneo trattenere la mano di Willy intorno al mio corpo,
intrecciando le dita alle sue e lui non reagì male (come invece avrei fatto io). William era capace di far sembrare tutto normale, anche il tocco più intimo.
«Posso?» disse il mio – ex – migliore amico indicando la sedia libera e Willy gli fece cenno di accomodarsi. Per qualche secondo nessuno parlò. Avvertivo una tale tensione fra di noi che avrei potuto reciderla con una lama. Christian di schiarì la voce:
 «Perché non vai a prendere qualcosa da bere, William?»
Per la prima volta sentii il suo corpo irrigidirsi contro il mio, la sua mano mi strinse per effetto della rabbia e compresi tutto l’odio che univa quei due. Spaventata al pensiero che potesse rispondergli a tono gli porsi il mio bicchiere.
«Ti spiace riempirmelo?» Ci fissammo negli occhi e, dopo due settimane che inscenavamo quella farsa, capii che per la prima volta stavamo viaggiando sulla stessa lunghezza d’onda, percependo chiaramente uno le emozioni dell’altra. Prese il bicchiere con sé:
«Certo» sembrava tornato tranquillo, lo ringraziai e lui si allontanò, spedendo un’occhiata all’altro ragazzo seduto a tavolino.
 
Christian fece scivolare la sedia sulla quale stava seduto verso di me, iniziando a tamburellare le dita sulla superficie liscia del tavolo e a muovere la gamba destra su e giù, come faceva ogni volta che era nervoso.
«Mi sale il vomito solo a guardarvi!» sbottò.
«E allora non ci guardare!» risposi. Il modo in cui si era rivolto a Willy mi aveva irritato, poteva essere un’idiota che prendeva la vita in modo superficiale, ma non meritava di essere trattato alla stregua di uno schiavetto.
«Lascialo finché sei in tempo» eccolo che ricomincia, pensai. «Ma non ti accorgi che ti sta solo usando?» Ed era vero, Willy mi stava usando come io stavo usando lui, ognuno per arrivare ai propri scopi personali.
«Ne abbiamo già parlato, Cris!»Lui scosse il capo, quasi schifato.
«Ti sei anche truccata per quello lì» abbassai lo sguardo toccandomi le guance, erano calde e ipotizzai che dovessero essere anche rosse di collera. L’unica persona per la quale mi ero fatta carina ce l’avevo di fronte e neanche lo sapeva. «Perché stai con lui? Ci sei andata a letto per caso?» Sollevai di colpo il collo, gli occhi spalancati. «Gli hai dato la tua verginità?»
Questo era davvero troppo! Come poteva dirmi quelle cose? Come poteva offendermi a quella maniera? E tu? Avrei voluto chiedergli, tu ti sei già preso quella di Jenny?
D’istinto mi alzai, l’unica cosa che volevo era andare via da quel posto, andare lontano da Christian che invece mi imitò. Era alto il doppio di me e il palmo della sua mano grande quasi quanto il mio volto, che sfiorò:
«Scusami. Non dovevo. Il pensiero di voi due insieme mi fa imbestialire» mi veniva da piangere. Cosa significavano quelle parole? «Non farlo, ok? Non darti a lui» da lontano la voce di Jenny echeggiò fino a noi, stava cercando il suo amore per le foto di rito con la torta di compleanno. Christian alzò una mano, la stessa con cui mi stava carezzando fino a un secondo prima, facendole segno che l’avrebbe raggiunta subito. Prima di allontanarsi mi sussurrò una parola che mi avrebbe tormentato per tanto tempo.
«Aspettami.»
In che senso? Feci per chiedergli, ma lui era ormai troppo lontano.
 
Lungo la strada che portava a casa c’era un muretto alto poco meno di mezzo metro. Da bambina mi divertivo ad arrampicarmi su, mantenendo l’equilibrio aggrappata alla mano di mio padre o a quella di mio fratello maggiore. Con mamma queste cose “pericolose” non potevo farle, andava subito in paranoia:
«E se cadi e ti rompi una gamba e finisci sulla sedia a rotelle?» Per lei anche un cono  gelato poteva avere un potenziale bellico, ma a me piaceva salire lassù, mi dava una sensazione di libertà e di forza: ero la più alta, potevo vedere il mio mondo da un’angolazione diversa e tutto sembrava più bello. E facile. Dall’alto ogni cosa si rimpicciolisce e fa meno paura. Anche i problemi.
Quella notte, di ritorno dalla festa di Jenny, ci salii di nuovo.
Erano anni che non lo facevo, di giorno le persone mi avrebbero presa per matta, però a quell’ora tarda non c’era nessuno a testimoniare la mia follia.
Eccetto William, ma tanto lui già mi sfotteva.
Mi rattristai nel constatare che le sensazioni non erano più le stesse di quando ero bambina. Quello che provavo non era altro che una percezione di bilico. Sarei potuta cadere da un momento all’altro e la similitudine con la mia vita non era difficile.
Era tutto quanto instabile in quel periodo della mia esistenza: la famiglia, le amicizie, l’amore.
E se fossi caduta chi mi avrebbe sorretto?
«Quindi Christian ti ha detto di lasciarmi?» La voce di Willy irruppe nei miei pensieri.
«Esatto. Più di una volta» mettevo i piedi uno davanti all’altro lentamente.
«Inizia a dargli fastidio sul serio.»
«A me sembra che gli dia più fastidio il fatto che sia tu il mio ragazzo e non che io sia fidanzata» tenevo le braccia aperte per bilanciare il peso. «Sei riuscito a rubargli il posto da titolare in squadra?» Fui sul punto di cadere, Willy alzò le braccia in automatico, ma alla fine riacquistai l’equilibrio.
«Prima o poi cadrai faccia a terra, Bianchina» disse, ritornando poi sulla mia domanda mentre gli facevo una smorfia. «Il mister ci schiererà tutti e due dal primo minuto domenica. È già qualcosa.»
Un fruscio nell’erba alta che cresceva nel lato interno del muretto – e che chiedeva una tosatura immediata – mi deconcentrò. D’istinto afferrai i palmi che lui mi protese e con un balzo tornai sulla strada, integra, senza neanche un graffio.
«Te l’ho detto che saresti caduta, ma non credevo fra le mie braccia» sogghignò e mi allontanai, senza scenate esagerate, per quella sera evidentemente avevo esaurito le energie utili per arrabbiarmi o controbattere alla sua demenza. La mezza discussione con Christian me le aveva prosciugate, fino all’ultima goccia.
«E poiiii…» prolungai la vocale finale, ancora incerta se continuare o meno quella frase «… mi ha chiesto se eravamo stati insieme… beh, si! Hai capito, no? In quel senso…»
Lui rise, camminandomi di fianco:
«Chissà che coppia saremmo noi due. Sicuramente una di quelle male assortite.»
«E brutta. Bruttissima. Ma tanto si sa, quelli come te non vanno dietro a quelle come me, inoltre tu vuoi solo una cosa dalle ragazze» rise di nuovo.
«O santo cielo! Ma chi te le dice ‘ste cose, Gialla?»
«Si sanno e basta» risposi vaga e lui non approfondì il discorso. Ci restai male, avrei voluto saperne di più.
Rimanemmo in silenzio per un po’. Non mi ero resa conto che eravamo arrivati davanti casa mia finché non me la trovai di fronte. Lo salutai in maniera sbrigativa con un’alzata di mano e mi nascosi ad osservarlo risalire la strada che avevamo appena percorso.
Poi entrai. Le luci erano spente, anche la Tv in salotto, ma scorsi comunque l’ombra di mio padre sul divano. Erano giorni oramai che i miei non dormivano nello stesso letto.
Non lo sentii russare e percepii che era sveglio:
«Buonanotte papà.»
«Buonanotte Viola.»
E, contro ogni aspettativa, lo fu davvero.

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Capitolo 6
*** Sfumature cromatiche ***


Capitolo 6
Sfumature cromatiche

 
Di domenica la piscina raramente era vuota come piaceva a me e per questo motivo difficilmente mi ci recavo. Quella mattina però mi accontentai di fare qualche bracciata in compagnia di altre persone. Non ce ne erano molte, per lo più era gente sommersa di lavoro durante la settimana che veniva a rilassarsi lì nel proprio giorno libero.
Non c’erano voci nella costruzione, nessun rumore se non lo sciabordio delle braccia che si immergevano nell’acqua fresca, cosa che mia aiutò a liberare la mente da tutti i pensieri che l’assillavano.
Di una sola parola proprio non riuscivo a liberarmene. Quell’aspettami quasi sussurrato da Christian, come una specie di urgenza.
Possibile che si riferisse a me?
A qualcosa che sarebbe potuto accadere in un futuro prossimo tra noi?
Il pensiero mi spaventava, più che rendermi felice.
E Jenny, in tutto questo, quale ruolo avrebbe assunto?
Quando i ricordi diventavano troppo insistenti, aumentavo l’andamento e tornavo a svuotare la mente.
Uscii con il sole che era alto nel cielo e qualche nuvola che iniziava ad addensarsi sulle montagne a nord. Avrebbe piovuto. Ogni volta che le nubi arrivavano da settentrione ci faceva visita la pioggia.
Mi stiracchiai, fermandomi a respirare a pieni polmoni l’odore degli alberi in fioritura, quello delle margheritine selvatiche che stavano spuntando nel prato incolto, poi un brusio di voci attirò la mia attenzione.
Nel campo lì vicino, quello dove avevo tirato per la prima volta calci a un pallone con il mio finto fidanzato, stavano disputando una partita e ripensai alla sera del compleanno di Jenny, quando per la via di casa Willy mi aveva confessato che il mister avrebbe schierato sia lui, sia Cris dal primo minuto.
Trottai fino al campetto, diverse persone erano assiepate intorno alla recensione, soprattutto ragazzi. Cercai un angolo libero e vi sbirciai attraverso.
Christian era in campo, la pelle olivastra madida di sudore, lo vidi urlare qualcosa all’avversario, dare indicazione ai compagni di squadra e arrabbiarsi per un passaggio sbagliato, inveire contro sé stesso per aver sbagliato un goal a tu per tu con il portiere.
Ecco il ragazzo di cui mi ero invaghita, pensai sentendo il cuore battere un po’ più forte nel petto, ecco il ragazzo che con il suo carattere forte mi aveva fatta sentire un po’più sicura di me. Non sarei potuta andare lontano senza l’appoggio della sua amicizia, non sarei potuta andare da nessuna parte senza il suo sostegno e improvvisamente compresi che avevo bisogno di lui, assolutamente, con o senza Jenny. L’avrei aspettato, per sempre, sarei diventata la sua “ruota di scorta”, la sua seconda scelta, se fosse servito a non perderlo.
 
L’arbitro fischiò la fine del primo tempo e simile a un corteo, i calciatori scemarono verso le scalinate che portavano agli spogliatoi sotterranei. Mi feci largo tra i tifosi fino a toccare la rete di sicurezza con le mani, il cuore in gola e il nome di Christian che mi rimbombava in testa “girati Cris sono qui, girati Cris” ma a vedermi non fu lui, bensì Willy.
Trotterellò nella mia direzione con un sorriso idiota stampato sul volto:
«Celeste!» alzò un sopracciglio istigatore. «Sei venuta a fare il tifo per me?»
«Tutt’altro» risposi, guardando oltre la sua spalla la figura di Christian rivolto verso di noi
«Ci sta guardando?» chiese William e io annuì. «Bene» si avvicinò ancor di più, facendomi segno di accostarmi quanto più possibile alla recinzione e mi parlò piano, direttamente nell’orecchio «fingi che ti stia dicendo qualcosa che si dicono gli innamorati.»
«Non ho capito» confessai, ed era la verità. Come facevo a sapere cosa si dicono i fidanzati se non lo ero mai stata realmente?
Lui sbuffò.
«Cielo Cappuccetto, usa un po’ la fantasia!» esclamò, pizzicandomi l’addome da sopra la t-shirt di cotone e quando d’istinto sussultai all’indietro lui mi tenne per la maglia. «Fai la faccia di una a cui stanno sussurrando cose… sconce»
Sbarrai gli occhi e lo guardai dritto in viso, teneva quel suo solito sorrisino di scherno che mi faceva andare di matto:
«Ecco, brava! Così può andare» mi sfiorò la punta del naso con l’indice. «Buona domenica, Rosetta!» e fece per allontanarsi, solo allora vidi Christian riprendere la strada verso gli spogliatoi. Nonostante ci fossimo scambiati un’occhiata, nessuno dei due avanzò un saluto.
«Ah, tesoro!» mi chiamò ancora Willy, qualche metro più in là e attirando l’attenzione dei presenti. «Ho fatto un goal! Se fossi stata qui te lo avrei dedicato!» e disegnò con le mani un cuore.
Avvampai e feci dietrofront, oltrepassando un gruppetto di ragazze sghignazzanti come oche e passarvi di fianco fu l’errore più grave, poiché udii qualcosa del tipo: “io con quei capelli mi sarei già uccisa” consensi generali “oddio, ma è una parrucca? Ditemi che non sono veri” altre risa, “santo cielo, è piena di lentiggini!”
Accelerai il passo e scoppiai in lacrime.
Le parole di quelle ragazze mi avevano ferito mortalmente. Non avrebbe dovuto importarmi perché “erano delle estranee, e delle stupide con un cervello da galline. E delle stronze!” (come mi avrebbe detto in seguito l’ultima persona che credevo mi avrebbe consolato), eppure quelle frasi mi colpirono dritto al cuore, come un proiettile, facendo capitolare la mia già precaria autostima.
Cambiare colore di capelli era una cosa che avevo sempre desiderato fare, ma che non avevo mai trovato il coraggio, perciò cercai un supermercato aperto anche di domenica e comprai un tubetto di tintura. Valutai le varie colorazioni e forse accorgendosi della mia incompetenza in materia un’addetta al reparto iniziò a consigliarmi, anche se non glielo avevo chiesto:
 «Hai la pelle lentigginosa tu, non puoi farti un colore troppo scuro».
Uscii dal negozio con una confezione di castano chiaro, una bottiglia di acqua ossigenata, una ciotola di plastica e un pennello.
Quando rientrai nascosi il tutto nel borsone del nuoto e filai in camera mia, cominciando a mescolare gli ingredienti nel dosaggio che mi aveva raccomandato la commessa. Poi le strilla di mia madre che sbatteva la mano contro la porta della camera di mio fratello, ancora addormentato nonostante fossero quasi le tredici, mi fecero sobbalzare e versai qualche goccia di ossigeno di troppo.
Forse parecchie di troppo.
Feci spallucce e presi a mescolare, lasciandolo in posa per tutto il tempo del pranzo.
Quando mi chiusi in bagno era il primo pomeriggio. Diligentemente divisi i capelli ciocca per ciocca e presi a spennellarvi su la tinta, era fredda sul cuoio capelluto.
Attesi per un’oretta circa e quindi sciacquai con acqua in abbondanza.
Quando mi vidi allo specchio per poco non svenni.
 
William mi trovò rannicchiata all’angolo di una vetrina di un negozio.
Nonostante le giornate si fossero allungate con l’inizio della primavera, il maltempo aveva fatto calare la penombra prima del dovuto.
Quando lo scorsi passeggiare con due amici nascosi immediatamente il viso contro le ginocchia, acconciandomi meglio il cappuccio del giubbotto sulla testa, ma fu del tutto inutile, mi aveva già adocchiato. Lo sentii salutare i suoi compagni e lo immaginai avvicinarsi a me.
Sospirò rumorosamente a un centimetro dalla sottoscritta:
«Cos’è successo ora?» Gli dissi di andarsene. Non volevo farmi vedere in quelle condizioni o mi avrebbe preso in giro a vita (come se non lo facesse già!). «Oggi, quando sono tornato negli spogliatoi, il tuo moroso mi ha dato un pugno.»
Alzai di colpo la testa e vidi il suo occhio livido, misi le mani a coppa sulla bocca.
La situazione stava degenerando. Io mi preoccupavo delle parole di quattro cretine mentre Cris prendeva a pugni Willy, senza un motivo valido.
«Oh, tranquilla Stellina rossa! Fa meno male di quanto sembri» minimizzò lui.
«Mi dispiace tanto» mi sentivo una stupida , credevo di conoscere Christian alla perfezione e invece non riuscivo più a capire i suoi comportamenti.
«Non è colpa tua, Gialla! È lui ad essere un idiota, in tutti i sensi e su tutti i fronti» lo fissai con il muso sporgente, pronta a scoppiare in lacrime alla prima occasione, ma lui lo fece di nuovo, mi toccò la punta del naso e non so perché tirai giù il cappuccio e questa volta a stupirsi fu lui.
«Oh mi Dio ma che hai fatto ai capelli? So-sono rosa.»
«Lo so» dissi iniziando a singhiozzare come una bambina deficiente. «Volevo solo togliermi quel colore di merda dalla testa e invece…» mi aspettavo di sentire la sua risata da un momento all’altro, invece si alzò, aprendo l’ombrello per ripararci entrambi dalla pioggia che aveva ripreso a cadere finemente:
«Dai vieni, conosco una persona che forse può aiutarti.»
Mi fidai e lo seguii.

Camminammo a lungo verso la parte opposta della città, dove era sita la mia casa.
Ci inoltrammo in un quartiere che mi era sempre stato negato dalla mia famiglia, il classico quartiere diffamato, con case per lo più fatiscenti, vagabondi addormentati ai bordi dei marciapiedi e ragazzacci fumaioli.
Una leggera pioggerellina ci accompagnò per tutto il tragitto e l’ombrello di William non era grande abbastanza da coprire entrambi, ma l’idea di appiccicarmi a lui non la misi neanche in discussione e lui non si preoccupò di mettere l’ombrello più dalla mia parte che dalla sua. Di tanto in tanto mi lanciava qualche occhiata sbilenca e con un mezzo sorrisetto diceva:
«Ti stai bagnando.»
Io gli rispondevo di non preoccuparsi.
L’acqua era l’ultimo dei miei problemi, prima di tutto veniva il colore fantascientifico dei miei capelli, poi l’occhio nero di Willy, poi il fatto che se mi trovavo in quella situazione era colpa della storia d’amore fra Jenny e Christian, infine la triste realtà che i miei stavano rompendo, senza fare nulla per nasconderlo ai loro figli.
Davanti all’entrata di un pub illuminato con colori fluorescenti se ne stava un allegro gruppetto di uomini di mezza età. Uno di loro, con in mano una bottiglia di vino scadente, un cappotto che sembrava reduce dalla guerra in Vietnam e un cilindro in testa morsicato dalle tarme (o almeno sperai che a mordicchiarlo fossero state le tarme), alzò il braccio verso di noi, raggiungendoci. Il suo alito era pestilenziale e vedendo la sua pelle raggrinzita mi strinsi a Willy, in automatico:
«Yo!» ci salutò «Ti sei trovato proprio un bel bocconcino! Quand’è che ci organizzi un appuntamento?» mi fece l’occhiolino avvicinando il suo viso al mio.
Willy mi circondò le spalle con un braccio invitandomi a riprendere il cammino:
«Jonny, ma se è la mia ragazza come posso darla a te!» sentii l’uomo ridere di gusto, tossendo e ridendo insieme, mentre acconsentiva alla risposta di William che intanto acconciava il braccio sulla mia spalla destra, facendo penzolare la mano oltre la clavicola.
Se fosse stato il mio vero fidanzato avrei potuto/dovuto incrociare le nostre dita, se fosse stato il mio vero fidanzato quel “mia” non avrebbe dovuto stupirmi, invece mi aveva atterrito. Per un attimo un pensiero si affacciò nella mia mente, fugace come una piuma in balia di una bufera: quanto vorrei che fosse vero!
«Jonny non è una cattiva persona» disse e io caddi dalle nuvole. «Se solo bevesse un po’ di meno e smettesse di frequentare quel locale, forse sua moglie lo riaccoglierebbe in casa.» Doveva riferirsi per forza al pub poiché era l’unico locale che avevo intravisto in quelle luride stradine di periferia:
«Sembra un comune locale, in realtà è un night club dove succede di tutto» non intesi pienamente per “tutto” cosa intendesse, ma non osai chiederglielo, era un mondo quello completamente estraneo per me, mi faceva paura e volevo restarne fuori.
Ogni cosa mi faceva paura a dire il vero. Anche il gruppetto di ragazzi che ci accingevamo a oltrepassare, seduti su un muretto per metà crollato e per l’altra metà sudicio di chissà quali schifezze. Intanto Willy mi teneva ancora stretta a sé e io non volevo che smettesse, forse perché era l’unico appiglio alla mia realtà sicura. O forse semplicemente stavo bene.
Un ragazzo, che avrà avuto al massimo la nostra età, con cerchietti d’oro a entrambi i lobi e sul sopracciglio sinistro, lo salutò con il pugno a mezz’aria. Mi guardò ma io abbassai gli occhi, stava fumando uno spinello e mi sforzai di non tossicchiare per la puzza che mi entrava nel naso.
«Resti cinque minuti?»
«Non posso» Willy alzò la mano che teneva adagiata su di me per salutare il resto della comitiva. «Sarà per la prossima.»
«Wiiiilliaaam!!!» era stata una vocina femminile e cantilenante a parlare, perciò d’istinto alzai lo sguardo proprio mentre una ragazza magrissima si avvicinava, mostrando il broncio. «Ma te ne vai già? È una vita che non ti si vede…» ci guardammo in faccia io e lei «… oh, capisco…»
No, avrei voluto sbottare, invece non hai capito un cavolo di niente!
Sentii qualcosa di morbido solleticarmi il viso e troppo tardi mi accorsi che una ciocca rosa pallido era fuoriuscita dal cappuccio, feci per nasconderla, ma invano:
«Ficooo!» era stata di nuovo la bamboccia. «Hai i capelli rosa!» sembrava davvero entusiasta e la fissai senza riuscire a dire altro.
Willy rise, li salutò e continuammo il nostro cammino che sembrava una via Crucis.
«Fico?» chiesi e lui rise.
«Ginetta è fatta così! Tutto ciò che è fuori dal normale per lei è… fico. Qui spopoleresti con questi capelli, saresti vista come una specie di dio, credimi» e la cosa peggiore e che gli credevo.
«Allora li lascio così» farfugliai, studiando un ricciolo dal colore insolito, mentre entravamo nel vialetto di una casa e lui faceva scattare la chiave nella serratura, poi aprì la porta con una botta di reni, guardandomi in faccia e chiudendo l’ombrello.
«Ma a me non piaci così, Stellina rossa» lo guardai male e l’ammonii di non rivolgersi a me con quel vezzeggiativo, rise e mi invitò a entrare.
 
Il corridoio era buio e la prima cosa che sentii furono gli odori: di caffè, di frittata, di ceci cotti, di dolci. Poi la luce si accese e mi ritrovai di fronte ad un breve corridoio, alla fine del quale c’era una scala a chiocciola che partiva dall’interno del pavimento, quindi dal piano inferiore, salendo fino a quello superiore. Da lontano mi giunse la voce di Willy:
«Vuoi del caffè?»
Lo raggiunsi in cucina, la stanza sulla sinistra, dove al centro era sito un tavolo di plastica bianca, attorniato da quattro sedie dello stesso materiale. Sul tavolo si ergeva un vaso con fiori finti; i mobili erano vecchi e le ante degli stipi sbeccati, alcuni perfino inesistenti. L’odore del caffè mi invase le narici e fissai la tazza che Willy mi stava porgendo:
«É caffè americano. Ti piace?»
«Q-questa è casa tua?» chiesi mentre prendevo la tazza tiepida fra le mani e cercavo di calmare il batticuore. Lui annuì bevendo un sorso di caffè. «D-dov’è la tua famiglia?» iniziavo ad avere paura, seriamente. Le parole di Christian e di Jenny mi stavano fottendo il cervello da quando avevamo messo piede in quella casa e la porta d’ingresso si era chiusa alle mie spalle con un tonfo che sapeva di film dell’orrore.
Lui consultò l’orologio appeso al muro, le lancette segnavano un quarto alle otto:
«Dovrebbero essere qui fra poco.»
«Voglio andarmene» dissi tutto d’un fiato e con la voce tremolante. «Perché mi hai portato qui? In una casa vuota? Voglio andarmene!» adagiai la tazza sul tavolo e mi rialzai il cappuccio che avevo tolto entrando. Lui mi prese per il giubbotto:
«Ma che ti prende, Azzurra!»
«Non-mi-toccare!» scandii alzando le braccia e indietreggiando per allontanarmi dalla sua persona, mi veniva da piangere.
«Ok, ok! Calmati, siediti e parliamone.»
«No!» esclamai, non riuscivo più a controllare le mie azioni, le mie parole, niente. «Mi fai schifo! Cris aveva ragione. Jenny aveva ragione! Fai sempre così? Aspetti il momento giusto e poi le porti qui? In un posto sperduto e dimenticato da Dio in modo che tu possa approfittare di loro in piena libertà?» afferrai il cellulare dalla tasca del giubbotto, mi tremavano le mani, lui si alzò e fece un passo avanti. «Non ti avvicinare o giuro che-»
«Fratelloneee!» la voce di un bambino per poco non mi provocò un infarto, poi lo vidi sbucare dal nulla e correre fra le braccia di Willy che lo accolse, prendendo a togliergli il giubbino. Era la sua fotocopia in miniatura.
«Perché cavolo deve piovere ogni volta che decido di fare la spesa!» sulla soglia della cucina apparve una donna, i capelli biondi e corti erano legati in un codino, fra le labbra teneva una sigaretta sottile, trasportava pesanti borse da supermercato e Willy la alleggerì di quei fardelli, issandole sulle sedie. La donna sembrò non avermi neanche vista, al contrario del bambino che mi fissava senza sosta, prendendosi un leggero scappellotto dalla stessa:
«Dani smetti subito di fissare la signorina! Quante volte devo dirti che non si fissa la gente!» La donna si versò del caffè e lo bevve, facendo proprio quello che stava facendo pocanzi il bimbo: mi scrutava, gli occhi erano ridotti a due fessure, eppure notai che erano gli stessi di Willy: scuri, profondi, ma buoni e vivaci.
«Mamma, Lu è in garage?» intervenne William, lei assentì  inspirando a fondo, mentre il bambino correva fuori dalla stanza.
«Hai bisogno di lei?» disegnò cerchi nell’aria con il fumo della sigaretta
«Altroché!» esclamò lui, tirandomi giù il cappuccio e mostrando tutta la mia stupidità. Lo guardai male:
«Accidenti bambina! Ci vuole impegno per fare una stronzata simile!»
Grazie a quell’unica frase capii perfettamente da chi aveva ereditato quel carattere William. Erano fastidiosi entrambi alla stessa maniera.
Lasciammo la cucina e la signora che la governava per discendere lungo la scala a chiocciola e trovarci all’interno di un negozio di parrucchiere. Rimasi come un pesce lesso a fissare i faretti al soffitto, gli ampi specchi, le tende color glicine, i lavabi bianchi, i divanetti e le decine di riviste di moda.
Willy chiamò a voce alta il nome di Lu, udimmo un tono femminile annunciare che sarebbe arrivata subito, ma non in modo proprio garbato. Il possessore della voce si mostrò a noi dopo diversi minuti - cosa che aveva irritato Willy - sbucando da un angolo e, per l’ennesima volta, rimasi a bocca aperta.
La persona che mi stava venendo incontro era una ragazza che avrà avuto al massimo due anni più di me, con la carnagione olivastra come quella di Willy e dell’altro bambino, i capelli liscissimi e nerissimi e un pancione di parecchi mesi.
«Che vuoi?» chiese rivolta a William, prima di guardare me. «Tutto questo casino per presentarmi la tua ragazza?» feci per replicare, i suoi modi di fare mi davano sui nervi e mi chiesi se non fosse un tratto distintivo di quella famiglia.
«Lu puoi fare qualcosa?» aggiunse lui strappandomi ancora una volta il cappuccio dalla testa, mostrando i miei boccoli rosa. La ragazza mi scrutò, afferrandomi per il mento e muovendo il mio capo a destra e a manca come se fossi stata una bambola.
«Ci penso io. Tu vai a dare una mano a mamma, visto che sono impegnata con la tua ragazza» provai di nuovo a contraddirla, ma Willy mi precedette affermando che ci pensava lui, quindi scomparve. «Io sono Ludovica, la sorella maggiore di Will. Ma chiamami Lu o ti ammazzo!»
«O-ok» bisbigliai stringendole la mano e presentandomi. Non riuscivo a togliere gli occhi dalla sua enorme pancia. Mi mostrò un paio di campioncini di ciocche colorate di rosso, chiedendomi quale fosse quello che si avvicinava di più al mio colore naturale. La guardai a disagio, raccontandole che mi sarebbe piaciuto cambiare colore, che era il motivo vero per cui mi trovavo lì con i capelli rosa e quando mi chiese il perché, le raccontai dell’opinione di quelle ragazze e fu a quel punto che mi disse:
«Innanzitutto non avrebbe dovuto importarti del loro parere perché sono delle estranee. E delle stupide con un cervello da gallina. E delle stronze!» abbozzò un sorriso e io mi spaventai per la somiglianza con il fratello. «E poi a Willy piacciono le cose semplici e naturali, sono sicura che non approverebbe un cambiamento» aprii la bocca, pronta a dirle che io e suo fratello non stavamo insieme (per davvero), ma lei mi incitò a scegliere uno dei due colori.
«Sono di otto mesi» mi spiegò ad un tratto e io mi sentii terribilmente in imbarazzo, era come se mi avesse letto nel pensiero. «Il mio ragazzo mi ha lasciato dopo aver saputo della gravidanza, voleva che abortissi, ma mia madre ha detto che lei non è un’assassina e non lo sarebbe stata neanche sua figlia» mi stava separando i capelli a ciocche e io cercavo di non incrociare il suo sguardo nello specchio. «E se ti stai chiedendo quanti anni ho, sappi che ne ho 19.»
Cambiai argomento.
 
Che avesse ragione lei, che il mio colore naturale era l’unico che mi stava bene, lo capii solo guardandomi allo specchio ad operazione conclusa.
Morbidi riccioli mi ricadevano oltre le spalle e fino a metà schiena. Lu mi spolverò un po’ di fard sulle guancie e una spennellata di mascara.
«Willy sprizzerà testosterone da tutti i pori quando ti vedrà»
Arrossii.
«Hai frainteso, io e tuo fratello non stiamo insieme. Inoltre… non ho soldi con me, te li manderò tramite Willy» Lu mi posò una mano sulla spalla.
«Bastava un grazie» disse e la seguii su per le scale, un tantino confusa.
Erano tutti in cucina, la signora a fumare l’ennesima sigaretta e indaffarata ai fornelli, il piccolo Dani sulle ginocchia del fratello maggiore a guardare i cartoni in tv.
«Ah, eccole! Presto o si raffredda!» la donna versò un mestolo di ceci nel piatto e lo mise davanti a William, con il quale scambiai uno sguardo silente.
Per la prima volta vedendomi non proferì sfottò.
«I-io dovrei a-andare» balbettai.
«La tua famiglia ti aspetta?» mi chiese la donna, un altro piatto raggiunse il tavolo
«N-no» ma quale famiglia? Pensai.
«E allora siediti e mangia con noi!» aggiunse e sentii una leggera pressione al centro della schiena, era Lu che mi stava sospingendo a prendere posto al fianco di Willy. Lo intravidi, con la coda dell’occhio, a schernirmi con un sorrisetto:
«Che vuoi?» farfugliai rivolta a lui che fece spallucce, masticando un cucchiaio di legumi
«Sono contento di riavere la mia Cappuccetto Rosso» lo incenerii con lo sguardo, ma lui sembrava immune ai miei attacchi.
Il profumo dolciastro di quella minestra calda mi spalancò lo stomaco e dopo il primo boccone mi accorsi che non avevo mai assaggiato dei ceci così buoni.
 




NdA 
Di solito è una cosa che non faccio mai, ma questa volta i ringraziamenti ad alessandroago_94, mistery_koopa e Spettro94 sono d'obbligo.
Grazie ragazzi ^^



   

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Capitolo 7
*** Concetto di famiglia ***


Capitolo 7
Concetto di famiglia

 
Mi ritrovai lì, a casa di William, a cena con quelle persone, e non sapevo neanche come c’ero arrivata.
Osservando la mamma di Willy e di Lu mi resi conto che doveva essere più giovane di quello che avevo creduto in un primo momento. Al massimo 45 anni. La pelle era chiara, non come quella dei figli, i capelli tinti di biondo raccolti in un piccolo codino, il naso un po’ troppo grande per la forma smilza del viso. Gli occhi castani erano contornati da occhiaie e aveva l’aria stanca di una persona che si ammazza di lavoro.
E il padre, in tutto questo, dov’era?
Mangiai in silenzio quello che mi veniva offerto, ringraziando e partecipando da spettatore non pagante ai loro discorsi famigliari: le clienti di Lu e le loro bizzarre idee sulla vita; la giornataccia della mamma costretta a fare centinaia di caffè al bar e a rimbalzare da un negozio all’altro con un vassoio colmo di tazzine fumanti e traballanti. Poi fu la volta di William, che quasi sotto minaccia raccontò, forse per l’ennesima volta, come si era procurato quell’occhio nero e io mi sentii terribilmente in colpa.
«Te l’ho già detto, mamma!» sbuffò, «oggi, durante la partita, ho litigato con un giocatore dell’altra squadra».
«Come si chiama? Lo conosco?» la donna si alzò per accendersi una sigaretta e scrutò da vicino l’occhio del figlio. «Gli darei una lezione che non scorderebbe più!»
«No, mamma, non è di qui.»
Abbassai lo sguardo sulla mani intrecciate in grembo. Sapevo che avrei dovuto fare le veci della mamma di Willy l’indomani, questa volta Cris aveva davvero passato ogni limite.
Quando rialzai gli occhi mi ritrovai quelli scurissimi di Lu puntati addosso.
«E tu?» mi chiese e io mi guardai attorno spaesata, premendomi il palmo sul petto.
«I-io?»
«Si, tu. Sai chi ha dato un pugno a mio fratello?» abbozzai un sorrisetto, tutti quegli occhi neri mi fecero salire la temperatura e non era difficile immaginare le mie scocche tinte di rosso per il disagio.
«Certo che no. Come potrei?» Lu continuò a fissarmi fino a quando Willy si alzò, bevendo del caffè, quindi disse che era meglio andare via, erano già le nove e trenta passate.
Sollevai un’occhiata meravigliata su di lui, non mi aspettavo che mi avrebbe riaccompagnato a casa, in fondo per quale motivo avrebbe dovuto farlo? Cosa gliene importava di me? Invece sorrise, divertito:
«Non avrai pensato che ti facessi tornare a casa da sola a quest’ora?»
Anche le altre due donne presenti sghignazzarono:
«Oh bambina, la prima cosa che ho insegnato a mio figlio è il rispetto per il prossimo, ma soprattutto a essere un gentiluomo» la donna spense la sigaretta nel piatto dove aveva consumato una fetta di torta di mele e gli carezzò la guancia, baciandogliela e raccomandandogli di non tardare, il meteo portava pioggia in nottata.
Lu si alzò lentamente, tenendosi la pancia e facendo una smorfia, la osservai preoccupata e lei sorrise:
«Dopo cena si mette sempre a buttare calci» suo fratello la sorresse per un braccio e l’accompagnò alla stanza di fronte alla cucina, io li seguì a ruota, ritrovandomi in una camera matrimoniale, con un letto a due piazze, un armadio di legno scadente e una culla. Nient’altro. La ragazza si sedette sul bordo del letto, facendo dei respiri profondi:
«Con tutti questi calci» smorfia di dolore, «mi sa che nascerà con la stessa passione dello zio maggiore» aggiunse e Willy sorrise, felice, quasi sperando che fosse davvero così.
«Lu, ti spiace se prendo il tuo…?»
«Fai pure. È una vita che non lo metto in moto. Le chiavi sono sul mobile all’entrata.»
Salutai e ringraziai più e più volte, per tutto, la signora mi rispose con fare superficiale, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo ospitare una perfetta estranea portata senza preavviso da suo figlio.
Che fosse già accaduto altre volte?
 
Seguii docile docile William sul retro della casa, dove l’unica fonte di luce veniva da un lampione giallo in strada. Con uno scatto secco scoprì da un telo zuppo di pioggia un motorino blu – un vecchio Free a essere precisi - non proprio in pessimo stato, ma neanche nuovissimo. Vi montò sopra  mentre cercava di metterlo in moto, ma il veicolo rombò un paio di volte con scarsi risultati.
«E dai, bello. Accenditi, dai!» farfugliò e io feci un passetto avanti, le dita delle mie mani erano diventate violacee per quanto le stavo stringendo. Mi schiarii la gola a mo’ di introduzione, il motorino morì ancora dopo un altro sussulto.
«Che vuoi Celeste?» cielo e quanto mi irritava quando faceva così, eppure vi lessi una punta di cinismo nella sua voce che non avevo mai sentito prima. Mi feci forza e dissi:
«Credo di doverti delle scuse, io non-»
«Si, esatto!» mi interruppe mentre il rombo del veicolo squarciava l’aria impregnata di umidità e di odore di pioggia. «Mi devi delle scuse, tante scuse in realtà, per tante cose. Innanzitutto per l’occhio nero che il tuo bello mi ha fatto e se non ho reagito, se non l’ho riempito di botte, è stato solo per il posto in squadra, la stessa squadra da cui è stato messo fuori rosa.»
«Fuori rosa? C-che significa?»
«Significa che resterà fuori per tre mesi. Significa che non si allenerà con la squadra per tre mesi. Che non giocherà le prossime partite, fino alla fine del campionato regionale.»
Mi venne un colpo.
Christian doveva essere distrutto per quella situazione e tutto per colpa mia.
Stavo portando alla rovina la persona che amavo.
«Beh, almeno sarai contento di aver raggiunto il tuo obiettivo, no?» mi stavo innervosendo e la rabbia crebbe quando vidi quel sorriso furbetto increspargli le labbra.
«Si, ho finalmente il posto che mi spetta, quello da titolare, così le migliori squadre del mondo potranno vedermi giocare e magari, chissà…»
Era tutto così sbagliato. Cris non avrebbe avuto quella stessa opportunità e a fargliela perdere ero stata io.
«E mi devi delle scuse per avermi dato del maniaco» già, pensai, in effetti avevo fatto proprio una pessima figura e poi come mi era passato per la testa che qualcuno potesse desiderarmi. Come mi aveva detto Christian, quelli come William non vanno dietro a quelle come me, ad una ragazza che si comporta e si veste alla stregua di un maschiaccio e che si tinge i capelli di rosa. Di viola, pensai, avrei dovuto tingermeli di viola e allora si sarei stata lo zimbello del paese.
«Inoltre» iniziò «questa è l’ultima volta che ti do’ una mano, la prossima rivolgiti ai tuoi amici» lo disse tranquillamente, ma mi sentii ferita e improvvisamente mi resi conto di non avere più amici a cui rivolgermi. «Sembra che il motorino si sia ripreso» mi fece un cenno con il capo. «Dai, andiamo.»
Ero già stata passeggera di mio fratello. Sapevo che dovevo mantenermi a colui che guidava per montarvi su e che mi sarei dovuta attaccare al suo giro vita per non rischiare di cadere all’indietro, durante il tragitto. Quindi gli poggiai una mano sulla spalla per issarmi sul seggiolino, lui aspettò che mi fossi sistemata al meglio e si avviò. Mi aspettavo una sgommata o un’accelerazione improvvisa, invece tenne un andamento basso e costante per l’intero percorso. Gli circondai la vita con le braccia mentre uscivamo dal retro di casa sua e ci immettevamo sulla strada.
«Ehi, Verdina, attenta a dove metti quelle mani» sghignazzò e io sentii un gran calore invadermi la faccia.
«Sei un cretino!» esclamai imbarazzata e lui rise, spontaneo e schietto.
Eravamo partiti da poco, stavamo appena uscendo dal quartiere in cui abitava, quando gli chiesi il motivo per cui Christian lo aveva picchiato.
«Mi ha detto che ci aveva visti vicino alla recinzione scherzare insieme e che non dovevo più permettermi di toccarti con le mie “luride e sporche mani”. Ha usato proprio queste parole. Non è molto simpatico il ragazzo.»
Non era da lui, non era da Cris dire certe cose, mentre ripensavo a Willy che mi pizzicava la pancia e mi tratteneva afferrandomi per la t-shirt, sussurrandomi all’orecchio sciocchezze; tuttavia visti da fuori dovevamo sembrare impegnati a dirci chissà quali cose… e in quel momento gli stavo schiacciata contro la schiena.
«Quando gli ho detto che non erano fatti suoi perché eri la mia ragazza e non la sua, a meno che non ti volesse e allora avremmo dovuto batterci a duello come facevano i cavalieri per prendere in sposa la principessa del regno, lui mi ha dato un pugno.»
«E tu?»
«Sono caduto sul pavimento e mi sono messo a ridere, mentre il mister gli intimava di togliersi la maglia e di lasciare lo spogliatoio.»
Adagiai la tesa sulla sua spalla, sentivo la stanchezza invadermi come una droga, troppi pensieri, troppi casi irrisolti, troppe domande senza risposta. Chiusi gli occhi e provai a rilassarmi e, forse annebbiata dal sonno, gli chiesi una cosa molto personale:
«Willy» lui mugolò, avvertii il rimbombo contro le sue scapole. «Dov’è tuo padre?»
«Se n’è andato con un’altra» rispose in tutta tranquillità. «Un giorno è scomparso, portando con sé tutti i risparmi di una vita e l’intero guadagno che ci aveva ricavato vendendo l’appartamento in centro in cui abitavamo» alzai di colpo la testa, improvvisamente vigile.
«Vuoi dire che non hai sempre vissuto qui?» lui rise.
«Certo che no, Azzurrina! Tutte le persone che vedi in questo quartiere ci stanno perché il destino gli ha giocato un brutto scherzo: banchieri sul lastrico, avvocati indebitati fino al collo, ingegneri con il vizio del gioco d’azzardo. E poi ci siamo noi, un’ex direttrice di un albergo a cinque stelle che si è ritrovata in mezzo alla strada con un figlio di due anni, un altro di dieci e una ragazzina di tredici.»
«Tua madre era una direttrice? E perché non ha continuato a lavorare lì?»
«Perché era uno scandalo che non potevano concedersi a quei livelli e con i quattro spiccioli che gli hanno dato dopo averla licenziata ci siamo trasferiti qui, comprando una delle poche case decenti.»
Parlava con una tale naturalezza che mi faceva sentire ancora più triste. Spinta dalla sua tranquillità nel parlare di argomenti così delicati e intimi, gli chiesi di sua sorella Lu.
«Il suo fidanzato non si è voluto prendere la responsabilità del bambino, le aveva detto di abortire o non lo avrebbe mai più visto. Ma mia madre…»
«… ha risposto che non è un’assassina e che neanche sua figlia lo sarebbe diventata. Giusto?»
«Te lo ha detto Lu? È strano, di solito non si confida con chi non conosce. Devi averle fatto propria un’ottima impressione, Cappuccetto.»
Restammo in silenzio fino a quando si fermò davanti casa mia. Lungo il tragitto mi resi conto di quanto fossero distanti le due abitazioni e non feci che pensare a tutte le volte che mi aveva accompagnato e poi doveva aver fatto quei due, forse tre chilometri a piedi per tornare indietro.
Scesi dal mezzo e lo ringraziai con un filo di voce, mi augurò la buona notte e andò via.
 
Appena prima che potessi inserirvi la chiave, la porta d’ingresso di spalancò e per poco mio padre non mi travolse con due borsoni in entrambe le mani. Mia madre era in piedi, al centro del soggiorno, che gli urlava contro e gettava sul pavimento i portafoto che li ritraevano insieme, infrangendosi in mille pezzi.
«Papà, ma che?»
«Me ne vado! Mi dispiace lasciarti qui con questa… questa puttana di tua madre, ma io sono arrivato al limite della sopportazione!» dall’interno arrivò un urlo e un altro tonfo, forse un portafiori, forse quello di ceramica che mio padre le aveva regalato per festeggiare il loro decimo anniversario.
Cercai di fermarlo, afferrandomi al giubbotto, seguendolo fino alla macchina, chiedendogli fra le lacrime di rimanere, di non lasciarmi, avevo bisogno di lui, era uno dei pilastri della mia vita. Con rabbia buttò le valigie nel bagagliaio dell’auto e fece il giro, liberandosi della mia presa con una spinta, quindi si infilò nell’abitacolo, mise in moto e uscì a retromarcia dal vialetto, sgommando e scomparendo al primo incrocio.
«Figlio di mignotta!» mia madre era corsa in strada, i capelli lisci di solito perfetti erano scompigliati e sudaticci. «Sei un figlio di puttana!» 
Nel vicinato qualcuno si affacciò alle finestre, qualcun altro si limitò a sbirciare oltre le tende; presi mia madre per le spalle e la portai dentro, attenta a non calpestare i vetri sul pavimento. Dal piano di sopra proveniva la musica rock a tutto volume di mio fratello, ma di lui neanche l’ombra.
La feci sedere in cucina e le tirai indietro i capelli, scoprendole il viso macchiato di mascara. Mi abbracciò:
«Tu non mi lascerai, vero amore? Tu resterai per sempre con la tua mamma, vero tesoro?»
«Si, mamma, si.»
In quel momento provai pena per lei, odio per mio fratello e rancore verso mio padre che mi aveva lasciato da sola ad affrontare una situazione troppo grande e complicata per una ragazza della mia età.  

 
*****
 
Mi tuffai, prendendo la rincorsa, senza cuffia né occhialini e con i capelli sciolti. Riemersi un metro più in là e iniziai a nuotare come mi pareva: a rana, con lunghe bracciate, sul dorso. Rimasi così, a pancia in su, a fissare il cielo azzurro oltre il soffitto trasparente e la luce del sole che vi sbatteva contro, illuminando la struttura e riscaldando l’acqua.
Quella sarebbe stata l’ultima settimana che avevo a disposizione per prepararmi al meglio e vincere la gara che si sarebbe tenuta domenica.
Era il mio traguardo, il coronamento di un anno di duro allenamento durante il quale il mio istruttore mi aveva chiesto di metterci l’anima. Proprio a me, diceva, ci teneva particolarmente perché avevo bisogno di sentirmi forte “perché lo sei”, affermava, “hai un potenziale che neanche immagini e non sto parlando solo di sport. Impara a volerti bene”, soleva consigliarmi, “impara a contare prima sulle tue forze e poi su quelle degli altri”.
E io cosa avevo fatto? L’esatto contrario.
Avevo diviso la mia anima in tante parti che avevo donato, a loro insaputa, alle persone che mi circondavano e che amavo, ma che - ironia della sorte - si erano allontanate da me, una ad una.
Christian, con cui oramai parlavo di rado e quelle poche volte che lo facevamo i nostri discorsi ruotavano intorno a Willy e al fatto che mi ero messa con lui.
Jenny, la mia migliore amica a cui una volta confidavo ogni passaggio della giornata, ma alla quale non ero riuscita a dire che amavo il suo ragazzo, prima che lo diventasse e fosse troppo tardi.
Mio padre, che avevo visto andare via liberandosi di me con uno strattone, lui che non mi aveva mai neanche sgridato, né proferito parolacce o insulti a sua moglie in presenza dei figli fino a qualche sera prima.
Pensai a Lu, la sorella di William, al suo pancione e alla smorfia di fastidio misto a felicità che vi avevo letto sul volto mentre il bambino all’interno menava calci. Come faceva, mi chiesi, come riusciva ad andare avanti, ad alzarsi ogni mattina e ad affrontare la giornata? Come era riuscita a superare l’abbandono del padre e poi quello del fidanzato? E tutto questo a diciannove anni. Solo tre anni in più di me.
Infine pensai a Willy, che aveva attraversato quelle strade spaventose con una naturalezza ammirevole: l’ubriacone che l’aveva salutato, i ragazzi sul muretto che lo avevano invitato a fermarsi con lui mentre fumavano canne, e a come tutti gli avevano sorriso. Sembrava ben visto, sembrava che gli fossero tutti affezionati e che gli volessero bene.
 «Questa è l’ultima volta che ti do’ una mano, la prossima volta rivolgiti ai tuoi amici.» 
Quali amici? Non avevo più amici e lo avevo voluto io.
Tornai sottacqua e riemersi vicino al bordo, sul quale mi issai. Dovevo asciugarmi e in fretta, fra poco più di mezzora sarebbero cominciate le lezioni e volevo presentarmi in classe almeno alla seconda ora.
Avrei preferito di gran lunga rimanere rintanata lì dentro, lontana dal mondo e dalla realtà che mi spettava fuori, pronta a sbranarmi, ma avevo un dovere da compiere, lo dovevo alla mamma di Willy e a Lu, alla loro gentilezza e ospitalità.
 
Aspettai Cris all’uscita di scuola, ci guardammo negli occhi fino a quando non si parò davanti a me, accanto a lui se ne stava Jenny, gioviale come al solito.
«Viola! Che ci fai qui? Ho visto Willy andare verso la fermata dell’autobus.»
«Scusa Jenny, ti spiace lasciarci soli?» Non distolsi neanche per un attimo lo sguardo dal viso di Christian, né lui lo abbassò. «Dobbiamo risolvere una questione importante.»
Jenny guardò il suo fidanzato, il sorriso era svanito dal suo volto. Lui le sorrise con dolcezza, baciandole il dorso della mano, poi chinandosi per lasciarle un leggero bacio sulle labbra e solo allora distolsi lo sguardo, per non assistere a quella scena.
Ma cosa provavo in realtà?
Fastidio? Gelosia? Invidia?
Forse tutte e tre le cose.
La mia amica mi sfiorò il braccio, aveva le mani fresche:
«Spero non sia nulla di grave.»
«Tranquilla» risposi e mi sforzai di sorriderle. Jenny era come una bambina, aveva sempre bisogno di un sorriso alla fine di ogni frase o la prendeva a male e si incupiva, andando in paranoia.
Senza parlare mi avviai al fianco di Christian lungo la strada, fermandoci nel parco vicino alla scuola, dove gli studenti si nascondevano quando avevano intenzione di marinare le ore di lezione. Lui si sedette su una panchina, le gambe distese e le braccia lungo il bordo di ferro verde e usurato dalle intemperie.
«Il tuo fidanzatino è venuto a piagnucolare da te? Non poteva affrontarmi direttamente? È troppo codardo o ha semplicemente paura del sottoscritto?» Il suo tono era colmo di cinismo.
«Cielo Cris, l’hai picchiato!»
«Hai cambiato colore di capelli…» la voce gli si abbassò e quell’affermazione mi stese, come un pugno in pieno stomaco.
Se ne era accorto…
«Cos’è, al tuo ragazzo non piacevano?» Di nuovo quel pizzico di irritazione nel timbro.
«No, no, no!» Mi coprii il viso, non riuscivo a guardarlo in faccia. Un solo pensiero mi stava fluttuando nella mente: se ne è accorto. «É una storia lunga e sua sorella è stata così gentile da farmi…»
«Sei andata a casa sua?» Christian si protese in avanti, io annuii intimidita dal suo repentino cambio di tono. «Viola sei andata a casa sua? Ma ti rendi conto del rischio che hai corso?»
«Quale rischio?» Avevo voluto affrontarlo per fargli una bella ramanzina su quello che aveva fatto a Willy e invece la situazione si era ribaltata completamente.
«Quale rischio?! Ma hai visto dove abita? Hai notato che sua sorella è incinta a diciannove anni e non ha neanche un fidanzato? E mi chiedi quale rischio hai corso?»
«Sono brave persone, Cris!» Sbottai e mi trattenni dal dirgli che erano sulle sue tracce per ripagarlo pan per focaccia, ma non mi venne in mente di chiedergli come faceva a sapere tutte quelle cose sul conto di William. «E comunque rimane il fatto che gli hai dato un pugno!»
Lui spostò lo sguardo verso l’orizzonte, scosse il capo e abbozzò un sorrisetto nervoso.
«Almeno lo sai perché l’ho picchiato?» Continuava a guardare altrove. «Lo sai il motivo per cui ora sono fuori rosa e posso anche scordarmi di mettermi in mostra davanti a quelli che contano? Mentre il tuo ragazzo ha ottenuto ciò che voleva.»
Quell’ultima frase mi gelò. Possibile che avesse intuito tutto?
«Gli hai detto di non toccarmi più e quando lui ti ha risposto che ero la sua ragazza tu l’hai menato» mi guardò in maniera strana, fra l’incredulità e l’ironia.
«Davvero ti ha detto così? Davvero ha avuto il coraggio di mentirti a questa maniera?»
La testa iniziava a dolermi con tutti quei pensieri mischiati e senza senso. Troppo cose insieme, mi sentivo sempre più confusa.
«Il tuo amore è tornato negli spogliatoi vantandosi con gli altri di come pendevi dalle sue labbra! Di come facevi tutto, e sottolineo tutto, quello che ti diceva. Ti ha paragonato a un cagnolino che corre a prendere il bastone lanciato dal padrone.»
Sentii la rabbia crescermi dentro. Lo avrei ammazzato con le mie mani quell’idiota di Willy se lo avessi avuto di fronte. Mi aveva mentito su una faccenda così delicata, mettendomi in ridicolo davanti al resto della squadra e, soprattutto, contro Christian.
Avevo l’umore a pezzi. Lasciai penzolare le braccia lungo il corpo, la testa bassa a fissare i piedi e gli occhi pieni di lacrime amare, lacrime di odio e disprezzo per quella persona che, in certi momenti di quella stupida messinscena, mi era apparsa diversa, per certi versi sembrava che mi capisse, che mi comprendesse. Invece si era rivelata essere ancor più meschina di quanto immaginavo e, quello che mi procurava più rabbia, era il fatto che ci ero rimasta da schifo. Delusa, triste, amareggiata. Mi ero illusa che potesse essere differente da quello che sembrava, nonostante miei amici mi avessero avvertito.
Eppure la sera prima mi aveva aiutato...
Christian si alzò sospirando e mi abbracciò, gli arrivavo all’altezza dello sterno. Scoppiai in lacrime, stringendomi a lui che mi baciò il capo:
«Mi dispiace Viola. Mi dispiace tanto.»
Ero esplosa. Alla fine tutto il dolore che avevo provato in quelle ultime settimane (il fidanzamento fra Christian e Jenny, il divorzio dei miei genitori, la vergogna per i capelli rosa, e infine la delusione che mi aveva dato Willy) si trasformarono in lacrime, lasciandomi senza forze.  Mi accompagnò sulla panchina e mi scostò i riccioli dal viso:
«Me lo fai un sorriso?» Mi sforzai di esaudire la sua richiesta. «Così va meglio» mi asciugò il volto con il palmo. «Te lo avevo detto, mi pare: aspettami.»
Di nuovo quella parola. Aspettami.
«Non capisco Cris, cosa significa che devo aspettarti?»
Mi guardò le labbra per un tempo lunghissimo, così lungo che riuscii a rendermi conto di come il mio cuore aumentasse a ogni secondo che passava.
In strada non c’era nessuno, non si udivano neanche più le voci degli studenti che probabilmente dovevano essere sulla strada di casa. Posò una mano sulla guancia destra bagnata dalle lacrime, senza smettere di fissarmi la bocca, in tutta risposta adagiai il palmo sul suo dorso, bisbigliando il suo nome:
«Cris…»
E mi baciò.
 
Tutto si fermò.
Ogni cosa smise di esistere, c’eravamo solo io e lui e le sue labbra sulle mie, poi quella sensazione di vertigine mentre lo sentivo afferrarmi per la nuca e spingersi oltre, fin dentro la mia bocca. Durò un attimo, ma tanto bastò per farmi provare decine di emozioni.
Quando risollevai le palpebre mi specchiai nei suoi occhi castani:
«E Jenny?» Chiesi.
«Te l’ho detto, Viola, aspettami. Dammi il tempo…»
«Tempo per cosa, Cris?» Mi carezzò la guancia e nascose un ricciolo dietro l’orecchio.
«Tu non ti preoccupare. L’importante è che lo lasci.»
Ancora con questa storia, pensai, ma avevo la mente annebbiata dalla sensazione del suo sapore per essere razionale, così gli risposi che si, avrei lasciato l’altro e avrei aspettato lui.
Si alzò, nel frattempo che rispondeva al telefono con un “ciao amore, si dimmi”, mi fece l’occhiolino in segno di saluto e si allontanò.
 
Feci la strada fino a casa a piedi. Dovevo riflettere e non c’era niente di meglio di una lunga passeggiata. Certo una bella nuotata in piscina sarebbe stato l’ideale, però in serata avrei avuto l’allenamento con l’istruttore e se mi fossi stancata si sarebbe insospettito e… incazzato.
Avevo bisogno di ragionare su tante cose: sulla bugia che Willy mi aveva detto e che di sicuro non sarebbe passata in sordina. Sul mio primo vero bacio e sul fatto che fosse successo proprio con la persona che amavo, che desideravo, con cui sognavo che accadesse. Peccato che per un attimo, quando le nostre bocche si erano toccate, avevo visto la faccia da schiaffi di William. Mi convinsi che probabilmente era accaduto perché era stato l’ultimo – e il primo – ragazzo che avevo baciato. Anche se non a quel modo…
Dovevo riflettere sul discorso di Christian, il quale mi aveva chiesto di aspettarlo, di dargli tempo. E io ero disposta anche a fare entrambe le cose, ma esigevo di conoscere almeno il motivo per cui lo stavo facendo. Non pensai a Jenny, a quanto avrebbe sofferto se avesse saputo di quel bacio fra me e il suo Cri – Cri.
Tornai a casa e trovai mia madre sul divano a guardare una telenovela, uno dei programmi TV che aveva sempre odiato più di ogni altra cosa. Al suo fianco, sul tavolino, la bottiglia di Whisky di papà. Non c’era lo strimpellare della musica in casa e ipotizzai che mio fratello doveva esser fuori.
Svuotai velocemente la borsa della scuola e, con la coda dell’occhio, vidi un pezzetto di carta toccare il pavimento. Lo raccolsi e all’interno lessi il numero di cellulare che Willy mi aveva dato prima dell’inizio delle lezioni, in una mattina di tanto tempo fa. Il cuoricino nero spiccava contro il foglio bianco. Lo appallottolai con rabbia, ficcandomelo nella tasca del giubbotto, proprio dove tenevo il telefonino.
Mai gesto si rivelò più provvidenziale.


 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Non ho più tempo ***


Capitolo 8
Non ho più tempo

 
L’istruttore mi spompò come un mulo da soma, spremendomi come un limone e trattenendomi un’ora in più rispetto agli altri. Alla fine non mi reggevo in piedi, il mio corpo e la mia mente erano così spossati che non riuscivo neanche a pensare a tutti i problemi di quell’ultimo periodo. Per lo meno un lato positivo di tutta quella stanchezza c’era, ignara di ciò che mi spettava quella notte.
L’istruttore mi attese nella hall per chiudere la struttura, di cui teneva le chiavi, nel frattempo si era messo a sfogliare una vecchia rivista sportiva. Nonostante fosse stata una giornata soleggiata, di sera le temperature calavano sempre un po’ sotto la media stagionale.
Chiusi la zip della felpa fin sotto il mento, acconciandomi meglio la pashmina verde che Jenny mi aveva regalato al mio ultimo compleanno, lasciando aperto il giubbino sistemai il borsone a tracolla a e mi avviai, chiacchierando con l’istruttore fino a fermarmi di fronte alla figura di Willy, appoggiato con il bacino contro il motorino di Lu. Ci fissammo, lui sempre con quel fare superficiale, io fumante di rabbia. Dopo avermi chiesto se lo conoscevo e se poteva quindi stare tranquillo, l’istruttore scomparve nell’abitacolo della sua station wagon e andò via con una suonata di clacson.
William fischiò:
«Quello è il tuo mister? È molto più in forma del mio!» Lo oltrepassai senza rispondergli, senza fargli notare che non era un mister, e lui mi seguì a ruota. «Ehi, Celestina, qualcosa non va? Hai la faccia di una che ha passato un guaio e che ieri a quest’ora aveva i capelli rosa» sghignazzò. Io mi fermai di botto e quasi mi venne a sbattere addosso. Mi voltai, puntandogli un indice contro:
«Sei tu il mio problema! Sei tu il mio guaio!»
«Io? E che ho fatto ora, Cappuccetto, se è da ieri che non ci vediamo?» Allungò una mano e mi sfiorò il mento. «Dì la verità, ti sono mancato tanto…»
«Non ti bastava prendere il posto di Cris e farlo espellere dalla squadra, vero? Dovevi anche metterci contro. A che gioco stai giocando, idiota?» Quell’aria da sbruffone sparì dal suo volto.
«Ehi, ehi, ehi!» Sotto la luce giallastra del lampione il suo livido intorno all’occhio era
ancora più evidente e mi parve anche peggiorato rispetto al giorno prima. «Che stai farfugliando Verdina?»
«E non chiamarmi così! Io mi chiamo Viola!» Urlai e lui quasi trattenne un sorriso. Questa cosa mi mandava in bestia: più mi arrabbiavo e più si divertiva. «Ho parlato con Cris oggi» continuavo a riferirmi a lui con quell’abbreviazione e non riuscivo a fare altrimenti, era come se avessimo instaurato una nuova confidenza dopo il bacio. «Mi ha detto tutto quanto, sai? Cosa credevi, che non me lo avrebbe detto o che non gli avrei chiesto spiegazioni?»
«Ah, e così ti ha detto tutto quanto…» incrociò le braccia sul petto, «e sentiamo, cos’è che ti avrebbe detto?»
«Ogni cosa! Il fatto che sei tornato negli spogliatoi vantandoti di avere un cane e non una ragazza che fa tutto quello che gli dici. Ma tutto cosa?» Sconforto, provavo solo sconforto. «A parte il fatto che non sono la tua ragazza, ma questo gli altri non lo sanno, mi hai fatto fare la figura della cretina!»
«E tu gli credi?» Ecco la domanda che non mi aspettavo e la mia risposta fu delle più scontate.
«Certo che gli credo!»
«Sei una delusione, Vi-ò-la» scandì il nome e dovetti trattenermi dal non picchiarlo. «Proprio una delusione» mi diede le spalle e montò sul veicolo, lo stesso con il quale mi aveva accompagnato solo la sera prima, togliendo il cavalletto con un colpo di tacco e mettendolo in moto.
«Anche tu sei una delusione, sai?» Stava per partire ma si fermò.
«Ah, si? E perché mai sarei una delusione per te, Vi-ò-la?»
«Perché sei esattamente come mi aspettavo che fossi: uno stronzo
Abbozzò un sorriso sbilenco e scosse il capo:
«Io invece ti facevo più intelligente, ma evidentemente l’amore per Christian ti ha reso cieca. E stupida» mi girò intorno con il motorino, fermandosi a meno di un metro da me. «Il nostro patto finisce qui» e partì sgommando.
«Si, bravo! ‘Sto patto del cazzo finisce proprio qui! E la prossima volta che mi vedi fingi di non conoscermi!» Gridai, mentre lo vedevo sparire nella bruma del sentiero alberato.
Ero così arrabbiata che mi veniva da piangere. Ma non volevo farlo, perché in fondo – molto in fondo, non lo avrei mai ammesso, neanche sotto tortura cinese – sapevo che quelle lacrime non sarebbero state solo di rancore. Forse si sentiva proprio così una persona che veniva lasciata di punto in bianco, tuttavia non potevo saperlo con certezza.
Non era stata proprio una lite furibonda, però le sue parole mi avevano ferito in una maniera a me estranea, ma lo avevano fatto. Lo avevo deluso, mi aveva detto, perché il mio amore per Cris mi aveva reso cieca.
Cieca su cosa? Cos’è che non riuscivo a vedere?
Di sicuro non riuscivo a vedere chi dei due mi aveva realmente mentito su quello che era accaduto negli spogliatoi, avrei potuto chiederlo a qualcun altro della squadra, ma non mi andava di andare vicino ad un altro membro e chiedergli cosa fosse successo lì dentro, il motivo vero per cui Christian aveva dato un pugno a Willy.
In cuor mio, in verità, avevo paura di scoprire che dalla parte della ragione c’era il mio ex finto fidanzato e non il mio ex migliore amico.
Tutti ex. Tanti ex.

Entrai in casa e annunciai il mio ritorno.
Quando eravamo una famiglia vera di solito mia madre si affacciava dal soggiorno/cucina e mi dava il bentornato, sommergendomi di domande che spesso mi annoiavano: dove sei stata? Con chi sei stata? Cosa hai fatto di bello?
Mio padre allora le diceva di lasciarmi in pace, ero grande e sapevo badare a me stessa e poi, per tranquillizzare ulteriormente sua moglie, aggiungeva che di sicuro ero stata in compagnia di Cris e Jenny. E con chi vuoi che stia? Concludeva con una risatina.
Quella sera non udii nulla, solo il brusio sommesso di un programma televisivo, eppure la camera era vuota. Chiamai mia madre ma non ottenni risposta, così spensi la TV e mi diressi verso le camere da letto, notando la luce accesa nel bagno di servizio, la cui porta era solo socchiusa. Chiamai di nuovo mamma, bussando con le nocche sul legno scuro della porta che si scostò appena, gemendo sui cardini.
«Mamma?» Aprii piano la porta e il respiro mi mancò.
Mia madre era distesa a terra, faccia in giù; mi inginocchiai al suo canto, urtando la bottiglia di Whisky che avevo notato quel pomeriggio vicino al divano e quasi mi fece ruzzolare sul pavimento. Era vuota, sulle mattonelle a rombo c’era solo una piccola macchia di liquido color ambra.
La voltai su un fianco, era dannatamente pesante nonostante avesse un fisico asciutto. La scossi, prima lentamente, poi con un po’ più di vigore, continuando a invocare il suo nome, a urlarle di svegliarsi. Chiamai mio fratello, pregando che fosse in casa, ma non venne nessuno in soccorso. Mi guardai attorno, avevo la mente offuscata dal terrore, dovevo pensare, pensare, pensare. Poi vidi una boccetta trasparente sul coperchio del water. Allungai il braccio e la urtai con la punta delle dita, facendola rotolare nella mia direzione. Lessi l’etichetta: Prozac.
Antidepressivi.
Ed erano finiti.
La situazione mi fu immediatamente chiara in tutta la sua atrocità.
Smanettai per trovare il telefonino nella tasca del giubbotto e avviai la chiamata rapida. Mio padre rispose dopo svariati squilli, aveva la voce assonnata e non appena la udii scoppiai in lacrime:
«Papà, papà» fu subito sull’attenti. «La mamma è… è… non lo so cos’è! Forse è svenuta!
C’è una bottiglia di liquore vuota e gli antidepressivi sono finiti.»
«Santo cielo!» Esclamò è sentii lo scroscio di coperte scostate. «Chiama il 118, piccola. Io sono a casa della nonna, dammi il tempo di arrivare.»
Tempo. Maledetto tempo. Tutti che mi chiedevano di aspettare, di dargli tempo, ma io non ne avevo più.
Come se non bastasse quello a terrorizzarmi, la casa della nonna distava anni luce dalla mia, di solito andavamo lì per le vacanze di Natale, solo per giocare sulla neve.
Feci notare a mio padre che ero sola in casa, non c’era neanche mio fratello e scoprii che era lì, con lui, che lo aveva raggiunto nel pomeriggio.
«Chiama l’ambulanza, tesoro, sarò da te il prima possibile» tremavo e piangevo. «Mi dispiace amore che devi fare tutto da sola, il tuo papà arriverà appena-»
«Vaffanculo
E gli chiusi il telefono in faccia. 
 
Chinai lo sguardo sul viso di mia madre, asciugandomi gli occhi dalle lacrime che mi appannavano la vista e quello che vidi non mi piacque: il suo colorito era più bianco del normale e le labbra stavano assumendo una preoccupante sfumatura violacea.
Come era già accaduto quel pomeriggio notai una pallina bianca sulle mattonelle, la scartai e composi il numero che vi era riportato all’interno con l’inchiostro nero, abbellito da un cuore ricalcato nell’angolo in basso a destra.
William rispose dopo solo due squilli.
«Aiutami» riuscii solo a balbettare fra gli spasmi del pianto, senza neanche aspettare che lui dicesse qualcosa. In sottofondo c’era un gran vociare, una musica stramba e risa giovani.
«Viola?» Improvvisamente quella baldoria era diminuita, lo immaginai mentre si allontanava.
«Ti prego, aiutami.»
«Ok, ok. Calmati e dimmi dove sei» questa volta il casino era quasi del tutto scomparso, al suo posto il rombo di un motore di piccola cilindrata. Sicuramente il motorio di Lu.
«Sono a casa. Mia madre è come svenuta e sono sola, mio padre è… oddio, ho una gran paura Will.»
«Io sto arrivando, ma tu devi chiamare un’autoambulanza.»
«Non lo so fare, cioè, non l’ho mai fatto, non…» ripresi a singhiozzare mentre con la mano libera lisciavo i capelli di mia madre priva di sensi davanti a me.
«Dammi il tuo indirizzo, lo faccio io.» 
L’autoambulanza arrivò qualche minuto prima di William, che vidi correre per il vialetto e scaraventarsi in casa attraverso l’ingresso aperto. Io ero con le spalle contro il muro adiacente al soggiorno, stretta nel mio stesso abbraccio. I medici erano di sopra con i loro ferri del mestiere e la loro conoscenza ed esperienza. E sperai che ne avessero davvero tanta.
Probabilmente se non avessimo litigato solo poco tempo prima o se Christian non mi avesse baciato e non mi avesse detto la sua versione dei fatti inerenti alla storia dello spogliatoio, forse mi sarei buttata fra le sue braccia e lasciata consolare.
Avrei voluto davvero tanto che qualcuno mi stringesse in quel momento - che lui lo facesse - invece si arrestò a debita distanza da me. Nonostante fosse corso in mio aiuto, quello che
era accaduto tra noi pesava come un macigno.
«Tua madre è...?»
«É di sopra, i medici sono con lei» mi tamponai il viso con il fazzoletto che stringevo nella mano destra. «Mio padre ci ha lasciato ieri sera. Ha fatto le valigie ed è andato via dopo giorni di furiosi litigi e mio fratello ha ben pensato di seguirlo a mia insaputa» tirai su con il naso, senza guardarlo in faccia, non ci riuscivo, provavo vergogna. «Così mia madre si è scolata una bottiglia di Whisky e si è strafogata non so quante pillole antidepressive» ricominciai a piangere, nascondendo il viso dietro i palmi e lui non fece nulla. Restò dov’era, a giocherellare nervosamente con le chiavi del motorino di sua sorella.
I medici mi chiesero se ci fosse qualche adulto da contattare e io risposi che stava arrivando, ma che non sarebbe giunto in città prima di una o anche due ore. Vidi le loro facce preoccupate e mi dissero che allora sarebbe toccato a me seguirli in pronto soccorso, in quanto parente. Io annuii, nel frattempo che mia madre mi scorreva sotto gli occhi su una barella, coperta fino al collo. Li seguii in silenzio, prendendo al volo le poche cose che potevano servirmi (cellulare, chiavi di casa, fazzoletti) e chiudendo la porta alle mie spalle, ma quando feci per salire sull’autoambulanza mi fermarono, dicendo che non c’era posto per me lì sopra e domandandomi se potevo raggiungere l’ospedale con qualche altro mezzo. Stavo per scuotere il capo, poi udii alle mie spalle la voce di Willy rispondere che ci avrebbe pensato lui.
Tutto si mosse come al rallentatore: vidi i dottori annuire, le porte del veicolo chiudersi con un tonfo secco e, voltandomi, Willy che montava sul motorino, azionandolo.
Mi sedetti dietro di lui senza proferir parola, né lui disse alcunché, mi abbracciai alla sua schiena e partimmo all’inseguimento dell’autoambulanza che correva con le sirene ululanti.
 
*****
 
Non sono mai riuscita a capire se mia madre quella sera avesse tentato il suicidio o semplicemente volesse stordirsi per smettere di pensare ai problemi che la stavano distruggendo, e che aveva tessuto con le sue stesse mani. Una tela di ragno nella quale era rimasta impigliata personalmente.
Di sicuro aveva fatto tanti errori nella sua vita, come rimanere incinta a sedici anni di mio fratello e costretta a scappare di casa con il suo attuale marito di circa dieci anni più vecchio. Dopo un altro decennio ero nata io. Tuttavia lo sbaglio più grande era stato tradire mio padre con un ragazzo più giovane. Questa era mia madre: l’incoerenza fatta persona.
Non mi sono mai chiesta se amasse davvero papà quando a soli sedici anni era scappata con lui, spaventata dai suoi genitori troppo cattolici e troppo antiquati, cittadini di un villaggio di montagna, chiusi in sé stessi e ottusi. I figli danno per scontato che i genitori si amino, che si siano scelti e sposati, che niente e nessuno li dividerà.
E invece…
Fra tutte le scelte sbagliate di mamma, quella di tradire mio padre con un ragazzino – a dispetto della sua età – fu la peggiore, poiché non aveva messo in conto il dolore dell’abbandono di una persona con cui si è condiviso una vita intera.
Non so se intendesse uccidersi quella sera, ma so che non sarei riuscita a salvarla se Will non fosse corso in mio aiuto e me ne vergognavo.
Mi vergognavo per quello che gli avevo sbattuto in faccia meno di un’ora prima; mi vergognavo della mia situazione famigliare, con un padre dall’altra parte della provincia, un fratello maggiore inutile e una mamma adultera che aveva tentato il suicidio strapazzandosi peggio di una drogata in astinenza.
Mi vergognavo perché mi sentivo io stessa una traditrice: era come se attraverso il bacio che avevo dato a Cris lo avessi tradito, anche se non stavamo insieme per davvero.
Mi vergognavo perché lui mi aveva portato a casa sua senza preoccuparsi della situazione sociale, di passeggiare a braccetto con me fra i suoi amici, di presentarmi alla sua famiglia e di raccontarmi con umiltà il suo triste passato e il suo difficile presente.
Mi vergognavo perché mi vergognavo.
Giunti in ospedale tentai di seguire mia madre all’interno del reparto di pronto intervento, ma un dottore in camice bianco mi mostrò il palmo, indicandomi un cartello appiccicato a sinistra delle porte scorrevoli: vietato l’ingresso ai minori. Le porte si chiusero con uno sbuffo e l’ultima cosa che vidi fu il corpo inerme di mamma che veniva spostato da un lettino all’altro.
Tornai indietro e lo vidi seduto su una delle sedie di plastica rosse e sudice del pronto soccorso, intento a smanettare con il cellulare. Mi accomodai al suo fianco e lui ripose il telefonino nella tasca dei jeans, intestardendosi a non parlare. Sapevo che dovevo essere io a fare il primo passo, a rompere il ghiaccio, e lo feci con la frase più sbagliata che potessi pronunciare:
«Mio padre arriverà a momenti, puoi anche tornare a casa. O dovunque eri a divertiti.»
«Aspetterò che arrivi e poi me ne andrò» rimase in silenzio per qualche secondo. «E comunque ero all’inaugurazione di un bar di un mio amico.»
«Non ti ho chiesto dov’eri.»
«Dovremmo andarci insieme, sa fare un caffè schiumato che è la fine del mondo!»
Mi veniva da piangere, di nuovo, perché lui era una di quelle persone fastidiose che volevi prendere a schiaffi e rispondere a tono, ma che se fosse andata via avresti sentito un profondo vuoto dentro e intorno a te…
Il paramedico dell’autoambulanza che era venuto a prendere mia mamma si fermò davanti a noi, porgendo a Willy un flaconcino di plastica trasparente. Entrambi lo fissammo confusi:
«Metti questa crema sul livido» Willy prese il medicinale. «Sei andato da un dottore per farti controllare l’occhio?» Lui disse di no. «Ecco, appunto, mettici questa sopra, due volte al dì, comincia da ora.»
«Dottore, mia mamma?» Chiesi.
«È fuori pericolo. Di sicuro la tratterranno qualche giorno per disintossicarla e capire il motivo del suo gesto. Molto probabilmente i medici vorranno parlare anche con te a tal proposito.»
Abbassai lo sguardo sulle mani che tenevo in grembo. Non mi andava di parlare con degli estranei di quello che era accaduto in quel periodo a casa, ma se questo poteva aiutare la salute mentale di mia madre lo avrei fatto senza lamentele.
L’autista dell’autoambulanza si affacciò e chiamò a gran voce il dottore, annunciandogli che avevano un’altra emergenza. Un incidente stradale o qualcosa di simile.
«Mi raccomando, ragazzo, metti questa crema. È miracolosa» gli fece l’occhiolino e si affrettò a raggiungere la sua combriccola.
William si rigirò il flaconcino fra le mani, quindi si alzò e si diresse verso la toilette provando ad aprire la porta, ma una signora si rivolse a lui che le sorrise e tornò indietro, sedendosi pesantemente sulla sedia.
«É fuori servizio» certo, aveva bisogno di uno specchio per spalmarsi la crema sull’intero livido che partiva dalla palpebra e arrivava fin quasi alla guancia. Il giorno prima non era così grande. Gli mostrai il palmo:
«Dai qua» dopo un attimo di incertezza mi passò il flacone, lo svitai e feci pressione fino a farne uscire una specie di vermiciattolo gelatinoso e incolore sui polpastrelli. «Sdraiati» accompagnai l’imperativo con un cenno del capo.
«Scusa?»
«In questo modo ho la luce di spalle e non riesco a vedere bene il livido, quindi poggia la
testa sulle mie gambe…» lui alzò un sopracciglio, quello dell’occhio buono.
«Ti piace farlo strano, eh Stellina rossa?» Ruotai gli occhi al cielo, sbuffando, mentre si muoveva per acconciarsi meglio su di me.
«Idiota!» Risposi mentre mi sporgevo sul suo viso. Avvertivo le sue pupille scure bruciare sulle mie gote o forse semplicemente stavo arrossendo, come sempre mi accadeva quando ero imbarazzata o arrabbiata. Appena prima di poggiare le dita sporche di gel gli chiesi di chiudere gli occhi e lui lo fece, senza contraddirmi. Era già qualcosa.
Presi a passare i polpastrelli sotto l’occhio, piano:
«Ahi!»
«Scusa» sorrisi, c’era qualcosa che mi divertiva e so che era il momento meno adatto per sorridere, ma non riuscivo a trattenermi. Lui era lì con me e non mi passò neanche per la mente di desiderare qualcun altro al mio fianco. Willy aveva il capo adagiato sulle mie cosce, le mani intrecciate in grembo, la gamba destra piegata con la scarpa sulla sedia e l’altra penzoloni. Con delicatezza cosparsi la zona livida di gel, con estrema lentezza.
«Will?» Lo chiamai e lui mugolò. «Grazie» continuai e sorrise.
«”La prossima volta che mi vedi fingi di non conoscermi”, eh?» Era l’ultimissima frase che gli avevo gridato dietro davanti alla piscina, solo un paio di ore prima.
«Beh, potremmo fingere che non ci conosciamo» proposi.
«Abbiamo già finto una volta e non ha portato bene» mi fece notare.
«Perché no? Tu sei riuscito a prendere il posto in squadra che desideravi tanto.»
«Me lo sarei comunque guadagnato, perché sono il migliore!» Su questa faccenda era davvero poco umile e modesto. «Diciamo che abbiamo solo accelerato i tempi. E comunque tu non sei riuscita ad arrivare a quel che volevi, quindi il piano si è realizzato solo al cinquanta per cento.»
Smisi di spalmargli la crema sul contorno dell’occhio, poggiandogli il braccio sul petto, attenta a non sporcarlo con le dita fatte di gel. Sollevai lo sguardo ed espirai profondamente:
«Christian mi ha baciata.»
«Quando?»
«Oggi, dopo scuola.» Rimase in silenzio per un po’, prima di aggiungere:
«Quando stavamo ancora insieme dunque. Sei una pessima fidanzata» lo guardai in faccia e mi accorsi che aveva riaperto gli occhi.
«Non stavamo veramente insieme.» Ci tenevo a specificare quella cosa anche se la sua era stata solo una battuta, in realtà lo feci più per la quiete della mia coscienza.
Si rimise seduto e soppesò gli spiccioli che teneva nella tasca del giubbotto blu notte, quindi si alzò, stiracchiandosi rumorosamente e annunciando che sarebbe andato a prendere un caffè. Feci per chiedergli dove pensava di trovarne uno, poi mi fece notare che alla fine del lungo corridoio c’erano alcuni distributori: uno di bevande fresche, l’altro di caffè e simili, infine uno con le merendine e i crackers.
Tornò con un cappuccino e una brioche imbustata. Presi dalle sue mani il bicchiere caldo che mi veniva offerto e soffiai sulla schiuma marroncino, facendo librare il fumo davanti alla mia faccia. Lui intanto riprendeva posto sulla sedia vicino a quella dove stavo io, scartando il croissant e dandogli un morso. Sorseggiai la bevanda calda, non era un granché, ma perlomeno mi sciolse i nervi.
«Non te lo bere tutto, Cappuccetto, lasciane un po’ anche a me» disse, porgendomi il resto della merenda al cioccolato, che era più della metà. Lo guardai, indecisa se mangiarlo o meno, non avevo fame – e come potevo averne! – ma mi rendevo conto che non avevo ingerito nulla dopo lo spuntino fatto a scuola: l’incontro con Cris mi aveva obbligato a saltare il pranzo e la cena era finita nel dimenticatoio, per non parlare del fatto che avevo bruciato parecchie energie con l’allenamento in piscina.
«Hai baciato Christian, non dirmi che ti fa schifo questa brioche perché l’ho morsicata» gliela strappai l’addentai, rispondendogli a bocca piena:
«Non fai ridere proprio nessuno con le tue battutine, sai?!» Diedi un secondo morso e bevvi un po’ di cappuccino prima che soffocassi, quindi glielo passai a lui scrutò il bicchiere con attenzione:
«Da quale parte hai bevuto? No, perché vorrei evitare di toccarlo» mi guardò di sbieco con un sorrisetto sulle labbra. «Non è per te, ma potresti aver baciato chissà chi e la cosa mi fa ribrezzo» gli diedi un leggero colpo sul braccio, fingendomi offesa.
Lui allargò il sorriso, poi bevve fino all’ultimo sorso.
Non mi chiese più nulla riguardo all’argomento del bacio fra me e Christian e, sinceramente, in quel momento era diventato l’ultimo dei miei pensieri. Mi sembrava accaduto in un’altra vita, quando avevo ancora una mamma mentalmente stabile e una famiglia su cui poter contare. E un finto fidanzato.
Non parlammo quasi più, se non domande di circostanza del tipo “che ore sono?” o espressioni quali “ sono stanca di aspettare!”.
 
Il pronto soccorso quella sera era stranamente vuoto e tranquillo, più il tempo passava e più si svuotava dei parenti in attesa della diagnosi dei dottori e dalle autoambulanze che andavano e venivano.
I minuti scorrevano lenti, ma le ore andavano veloci. Le ventidue. Le ventitre. Mezzanotte. E di mio padre e mio fratello nemmeno l’ombra.
Ogni tanto mi affacciavo in reparto quando le porte automatiche si aprivano con la speranza di captare un segno, seppur minimo, delle condizioni di mia madre, ma puntualmente mi beccavano e mi dicevano di tornare al mio posto.
«Sei troppo piccola per poter entrare!»
Evidentemente ero troppo piccola per entrare lì, ma non lo ero stata quando avevo trovato mia madre sul pavimento del bagno e terrorizzata avevo chiamato prima mio padre, poi Willy, infine mi ero imbarcata dietro un’autoambulanza a sirene spiegate.
In lontananza il suono di queste stesse sirene squarciò il silenzio come un fulmine farebbe con il cielo. Una strana sensazione di paura mi attanagliò lo stomaco e sentii quello che avevo mangiato pocanzi spingere per venire a galla. La guardia giurata fuori dal pronto soccorso urlò qualcosa a quelle dentro che aprirono le porte senza richiuderle, qualcun altro, forse un infermiere, corse in strada, aveva il camice verde macchiato di sangue. Un’autoambulanza frenò proprio davanti ai miei occhi, gli sportelli si aprirono all’unisono e velocemente ne uscì una barella con un uomo che gridava a squarciagola.
Le strilla erano tremende, sembravano entrarmi in testa e corrodermi le pareti cerebrali e i timpani. L’infermiere che avevo visto uscire dal reparto di pronto intervento cercò di sovrastare le urla del malato:
«Mi sente signore? È in ospedale! Adesso ci pensiamo noi! Lei però deve stare calmo! Riesce a sentirmi, signore? Sa dirmi il suo nome?» In tutta risposta l’uomo bestemmiò una decina di Martiri e la Santissima Trinità.
«Sempre siano lodati» mi voltai e William era proprio dietro di me, con gli occhi rivolti verso quel quadretto tragicomico.
Due volontari spinsero la barella verso di noi e quando lo vidi, quell’uomo urlante con al posto del braccio sinistro un moncherino grondante sangue fresco, fui sicura di svenire; invece per mia sfortuna rimasi in piedi. L’infermiere correva dietro di loro con il braccio amputato del paziente che teneva come fosse un neonato.
Poi il buio.
Mi sentii premere sugli occhi il palmo di una mano e, con uno scatto neanche tanto violento ma saldo, voltarmi e schiacciarmi contro l’addome.
Era Willy, non poteva essere altrimenti.
Potevo sentire ancora il vociare di tutte quelle persone, il rumore stridulo prodotto dalle rotelle della barella sul pavimento di linoleum, soprattutto sentivo le grida del paziente che, seppur lontane, mi gelavano ancora il sangue nelle vene.
Mi premetti le mani sulle orecchie per non sentirle più, spiaccicandomi contro il suo petto:
«Stringimi forte» dissi con la voce roca di pianto e Willy mi abbracciò. «Stringimi di più» e lui lo fece.
Nell’istante in cui avvertii la sensazione delle sue braccia che si chiudevano intorno alle mie spalle mi resi conto che non avevo desiderato altro da quando lo avevo visto varcare la porta di casa mia, con quell’espressione un po’ spaurita e preoccupata e il respiro affannoso di chi ha corso per arrivare prima.
Per arrivare in tempo.

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Capitolo 9
*** Pezzi che si rincollano ***


Capitolo 9
Pezzi che si rincollano



 
Come un uragano che passando lascia dietro di sé solo macerie e un tremendo silenzio, così le grida di dolore dell’uomo senza braccio spegnendosi lasciarono uno strascico di assoluto mutismo. Nel pronto soccorso calò una quiete irreale.
Restammo abbracciati l’uno all’altra per qualche altro secondo ancora o forse furono minuti, non so dirlo con certezza: il tempo non ha sempre lo stesso grado di misurazione.
Riuscivo a sentire il suo cuore e il mio, il proprio battito lento e regolare, contrariamente da quello della sottoscritta che non accennava a rallentare. Per un attimo fui certa che sarei scoppiata in lacrime, invece riuscii a ricacciarle indietro, dovevo solo trovare il coraggio di guardarlo in faccia. Di fissarlo negli occhi.
Ero fin troppo conscia di quello che era successo e di quello che avevo detto. Gli avevo chiesto non solo di abbracciarmi, ma di abbracciarmi forte, di abbracciarmi di più, come se non mi bastasse una semplice stretta.
E lui aveva esaudito la mia richiesta. Perché?
Forse per pietà di una stupida con i capelli rossi e le lentiggini sul naso che aveva visto la sua mamma sfiorare il suicidio e che ritrovatasi da sola, con un padre e un fratello dall’altra parte della regione, aveva telefonato all’unico ragazzo che prendeva a cattive parole dalla mattina alla sera.
Qualsiasi fosse stato il motivo per cui io gli avevo chiesto di stringermi a lui e, in tutta risposta, l’aveva fatto, prima o poi avrei dovuto riaprire gli occhi e guardarlo. E mentre cercavo dentro di me il coraggio per farlo, mi prese le mani che tenevo ancora premute sulle orecchie, allontanandomele con delicatezza dal viso:
«Tutto ok?» Mi domandò senza lasciarmi le dita e io alzai su di lui uno sguardo riluttante. Temevo che fosse scoppiato a ridermi in faccia da un momento all’altro, prendendomi in giro per la mia codardia e per avergli fatto quella richiesta inadatta a due come noi. A quello che eravamo e a quello che eravamo stati fino al giorno prima: dei finti innamorati che se si erano sfiorati era stato solo per rendere quella messa in scena un po’ più reale.
Tuttavia, la mia richiesta di un abbraccio – forte, più forte – era stata tutt’altro che finta.
Lo guardai, le sue mani che tenevano le mie erano una presenza pesante, materiale, concreta. Non sapevo cosa fare, né tantomeno cosa dire.
Lentamente vidi le sue labbra allargarsi in un sorrisino:
«Sei proprio una cacasotto, Cappuccetto» la mia espressione si corrucciò, feci per ricordargli che era stato lui il primo a coprirmi gli occhi, a toccarmi, poi un’infermiera veterana si rivolse a noi, chiedendoci se fossimo i parenti della signora che era arrivata incosciente qualche ora fa.
Si, io ero sua figlia.
 
Mi allontanai con un balzo, imbarazzata come due innamorati che vengono scoperti dai genitori a fare cose proibite, credendo di essere soli in casa.
L’infermiera scrutò velocemente l’ambiente, stupendosi di non vedere nessun altro all’infuori di noi due sedicenni con il viso stanco e spossato dalla preoccupazione (e non solo!). Mi chiese dove fosse mio padre e Willy mi precedette nella risposta:
«Sta arrivando. Era a lavoro.»
La giovane donna lo fissò, poi si rivolse nuovamente a me, invitandomi a seguirla all’interno. Feci un passo avanti, annuendo, e William mi si parò davanti afferrandomi per entrambi gli avambracci, scuotendomi leggermente e parlando a voce bassa:
«Non dire che eri sola a casa perché tuo padre se n’è andato» scossi il capo piano, prima a destra poi a sinistra, non capivo.
«Signorina» era l’infermiera, «prego, da questa parte.»
Lui mi diede un’altra leggera scossa:
«Hai capito? Dì che era a lavoro e perciò eri a casa da sola.»
Continuavo a non  capire il motivo per cui avrei dovuto mentire ai medici là dentro, ma mi fidai, in fondo era accorso in mio aiuto e avevo l’obbligo di credergli. Se lo meritava. Solo più tardi avrei scoperto che avevo salvato mio padre da una denuncia certa che non lo avrebbe portato al carcere, solo gli evitai diversi grattacapi. Non solo a lui, ma a tutta la mia famiglia. In parole povere, William quella notte non salvò solo mia madre e me, ma la famigliola per intero.
Raccontai ai medici dell’accaduto, omettendo il fatto che mio padre non fosse in casa perché la sera prima aveva fatto le valigie e ci aveva lasciate. Mi ascoltarono in silenzio, assentendo con il capo senza far trapelare alcuna emozione. La dottoressa di turno, una donna di piccola statura che non avrà avuto più di sessant’anni, con gli occhiali, capelli scuri e ondulati di media lunghezza, si mise in piedi stirandosi il camice bianco per chiedermi con estrema dolcezza se volevo vederla.
Ovviamente si stava riferendo a mia madre.
La seguii fuori dalla camera, a testa bassa, con il cuore che, se possibile, mi martellava nel petto peggio di quando ero stretta a Willy, peggio di quando avevo capito che Christian mi avrebbe baciata.
Mia mamma era distesa su un lettino bianco, le lenzuola tirate fin sotto le ascelle e le braccia di fuori per permettere alla flebo di scorrere fin nelle vene. Aveva ancora il pantalone della tuta, quello che metteva in casa per stare comoda, ma la parte superiore del corpo era nudo, fatta eccezione per il reggiseno di cui potevo scorgere le spalline azzurre.
Era profondamente addormentata, mi chiesi se avesse ripreso conoscenza in quel lasso di tempo che ero stata fuori, di sicuro aveva ripreso un po’ di colore e le labbra, che erano state violacee mentre la tenevo fra le braccia, sul pavimento del bagno, ora avevano una pallida tinta di rosa. Meglio di niente.
«Quanti anni hai?» Mi chiese la dottoressa e le risposi sedici. «Sedici anni…» sembrò soppesare la mia età attentamente. Troppo attentamente, «Ascoltami, tua mamma è fuori pericolo, questo è sicuro, ma lo è solo perché ha ingerito pochi antidepressivi.»
«La boccetta era vuota» risposi, senza riuscire a staccare gli occhi dal viso smunto della donna sdraiata sul lettino che più fissavo, più non mi sembrava mia madre: sempre gioviale, parecchio apprensiva, ma mai scorbutica.
«Sai se ne prendeva regolarmente?» Questa volta guardai il medico alla mia destra e scossi il capo, sentendo le lacrime pungermi agli angoli degli occhi.
«No. Non lo so. Cioè… forse.» Mi coprii il volto e iniziai a singhiozzare come una bambina. Come quel che ero in fondo. Mi sentivo una fallita, delusa da me stessa, ero stata così presa dai miei futili problemi adolescenziali in quegli ultimi tempi che avevo dimenticato di guardarmi intorno. In altre circostanze avrei potuto notare quei campanelli d’allarme in mia mamma che avrebbero potuto cambiare le cose, e invece non avevo fatto altro che chiudermi a riccio e pensare solo ai fatti miei. Ero una pessima figlia.
La dottoressa mi circondò le spalle, aveva dita sottili e affusolate con unghie corte e curate, accompagnandomi fuori dalla stanza e prendendo a passeggiare per il lungo corridoio che portava all’uscita del reparto.
«Va bene così. Aspetteremo il tuo papà per saperne di più.»
Le porte automatiche si spalancarono, piano, e asciugandomi le guance con i polsini del giubbino vidi mio padre e mio fratello. Il primo stava discutendo animatamente con l’uomo dietro l’accettazione. Lo chiamai a gran voce e solo quando si voltò a guardarmi potei leggervi tutta la preoccupazione che lo attanagliava. Sembrava invecchiato di colpo.
Mi abbracciò, sussurrandomi che gli dispiaceva, gli dispiaceva tanto, poi esortato dalla dottoressa la seguii, sparendo dietro le porte che si richiusero con uno sbuffo.
 
Presentai Willy a mio fratello che dopo avergli stretto la mano si isolò dal resto del mondo con le sue immancabili cuffie, mentre William mi chiedeva se avessi visto mia madre e accertandosi delle sue condizioni psico-fisiche, ma non fece parola sulle lacrime.
Scoprii così che, quando voleva, sapeva essere molto discreto e gliene fui grata.
Dopo che ero riuscita a riprendere il controllo delle mie emozioni, gli dissi che poteva tornare a casa, adesso papà era arrivato e non c’era più motivo per restare. Non mi voltai a guardarlo, non osai incontrare i suoi occhi che invece li sentivo puntati addosso come la canna di un fucile. Non so se stava per rispondermi che sarebbe rimasto, oppure che sì, sarebbe andato via, perché appena fece per aprire bocca il suo cellulare squillò e lui rispose a sua mamma:
«Mà… ti ho mandato un messaggio, l’hai letto?» Silenzio. «Si, sta meglio… è qui vicino a me…» mi tornò a guardare a questa volta i nostri occhi si incrociarono e lui, abbozzando un sorriso, mi fece l’occhiolino. «Si, te la saluto… no mamma, non posso darle un bacio da parte tua e di Lu» rise. «È timida» abbassai di colpo il capo e arrossii. Era totalmente deficiente o cosa?! «Ok, tanto sarò a casa tra poco.»
Chiuse la conversazione e ripose il cellulare nella tasca anteriore dei jeans, da cui l’aveva estratto. Rimase muto per un po’, quindi si alzò e io lo seguii con lo sguardo:
«Allora io vado…»
Avrei voluto dirgli qualcosa, ma tutte le frasi che mi venivano in mente mi sembravano stupide e mi sapevano da fidanzati: “vai piano” oppure “stai attento” o ancora “andrai direttamente a casa?” ecco, l’ultima in particolare mi sapeva di fidanzata gelosa. Quindi decisi di fargli solo un cenno di assenso con il capo. Salutò mio fratello seduto diverse sedie più in là e se ne andò, senza aggiungere altro.
 
Mio padre uscì dal reparto di pronto intervento dopo parecchi minuti. Aveva la faccia di un uomo distrutto dal senso di colpa e io non feci nulla per alleviarglielo, nel profondo ero soddisfatta che si sentisse come mi sentivo io: colpevole. Disse che mamma era stata ricoverata e che quindi era inutile rimanere ancora lì. In silenzio e a testa bassa ci dirigemmo alla macchina nel parcheggio deserto, l’aria fredda e umida mi fece stringere nel giubbino, rabbrividendo un po’.
Non mi piaceva l’idea di lasciare mamma da sola in ospedale, mi resi conto che in sedici anni non ci eravamo mai separate e la cosa mi faceva salire il magone, però sapevo che aveva bisogno di cure e che quello era il luogo ideale, anzi l’unico luogo, dove potevano dargliele.
Durante il tragitto di ritorno nessuno osò parlare e quando mio padre vide la bottiglia di whisky sul pavimento del bagno scoppiò in lacrime, battendo più volte il palmo sul bordo della vasca. Feci un passo indietro e usai il bagno di servizio, che raramente utilizzavamo. La doccia calda mi tolse l’umidità della notte e i brutti pensieri, che mi avevano accompagnato per tutta quella sera, iniziarono a sciogliersi, lasciando spazio alla stanchezza. Mi rimboccai le coperte proprio nell’attimo in cui la sveglia sul comodino segnava le tre.
In testa non mi ronzava solo il pensiero di mamma, ma anche quello di William. Mi sentivo responsabile per la sua incolumità, dato che era andato via dall’ospedale a notte inoltrata e su un mezzo a due ruote solo per starmi vicino. Afferrai il cellulare e fissai lo schermo bianco dei messaggi, quindi lo riposi sul comò; passarono pochi secondi e lo ripresi, cominciando a digitare:
“Sei a casa?”
 
Mi feci forza e coraggio per premere “invio”. Ero ormai certa che non mi avrebbe risposto, quando il telefonino vibrò sotto al cuscino, dove lo avevo riposto.
 
“Perché?”
 
Strinsi con tutta la forza il cellulare. Che razza di risposta era “perché?” Mi maledissi, chi me lo aveva fatto fare di inviargli quel messaggio?
 
“Lascia stare. Buona notte”
 
Dovetti sforzarmi di non aggiungere uno degli appellativi che spesso usavo per rivolgermi a lui, un esempio su tutti: idiota.
 
“Tranquilla sono a casa. E tu sei ancora in ospedale?
PS. Buona notte a te Stellina mia :-)”
 
Inevitabilmente il suo messaggio mi tranquillizzò per davvero, strappando alle mie labbra un accenno di sorriso nella penombra della stanza, con l’immancabile beagle di pezza a tenermi compagnia nel letto.
Gli scrissi velocemente:

“Non sono la TUA stellina! E comunque sono tornata a casa.
Mamma è stata ricoverata.”

 
 
Glielo inviai e abbassai le palpebre. Dopo pochi minuti ero già profondamente addormentata.

 
*****
 
Il giorno dopo Christian si arrabbiò molto. Moltissimo.
Quando la mattina aprii gli occhi il sole era già alto nel cielo e potevo udire in sottofondo il vociare della gente in strada e il via vai delle macchine. Mi trascinai in cucina, con le palpebre pesanti e un leggero mal di testa ad intontirmi, qui trovai mio padre a fumare e con il telefonino all’orecchio. Si voltò a guardami: una sedicenne con i capelli scompigliati e il pigiama coi pupazzetti un po’ troppo grande che le scendeva informe sul corpo. Mi rivolse un sorriso smagliante, nonostante le occhiaie sembrava sollevato. Mi porse il telefono:
«É per te» disse e io risposi, incerta, poteva esserci chiunque dall’altra parte del telefono, invece c’era mia mamma. Sentire il tono dolce della sua voce mi fece diventare le gambe molli, tanto che raggiunsi la sedia a tentoni e vi crollai sopra, iniziando a piangere come una cretina. Lei dall’altra parte rise, prendendomi in giro come faceva quando ero bambina, poiché ho sempre avuto la lacrima facile. Piangevo per ogni cosa: di rabbia, di gioia, di dolore.
Innanzitutto si scusò. Disse che le dispiaceva, non voleva farmi penare a quel modo, ma che ora potevo stare tranquilla, era tutto passato, stava bene e forse l’avrebbero dimessa in giornata.
Mamma non uscì in giornata, né quella dopo, bensì dopo una settimana, non perché avesse problemi fisici, ma perché i psicologi volevano vederci chiaro su quel gesto che loro definivano estremo ed evitare che si verificasse ancora. Il problema principale sorse quando rifiutò le cure neurologiche e psichiatriche, continuando a dire che stava bene. Fu solo grazie all’imposizione del primario di psichiatria, seguita da diverse minacce, tra cui quella di internarla in qualche clinica per malati mentali, che si convinse ad accettare la terapia.
Mio padre provò diverse volte ad aprire il discorso, ma io trovavo sempre un modo per svignarmela. Non volevo parlarne ancora, non volevo sentire ragioni. Quel che era accaduto era accaduto e basta, adesso volevo solo guardare avanti, tornare a pensare ai miei stupidi problemi amorosi e alla gara di nuoto che mi attendeva di lì a qualche giorno.

Quel pomeriggio Jenny passò a trovarmi e vedendola sull’uscio della porta, con in mano i compiti assegnati a scuola - saltata bellamente - provai un tuffo al cuore. La felicità per le parole che Cris mi aveva rivolto, lasciandomi intendere che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato tra noi, mi avevano fatto dimenticare la sensibilità di cui era dotata la mia amica. Come avrebbe reagito se solo avesse saputo?
Sedute al tavolo della cucina, le raccontai a grandi linee quello che era successo a mia mamma, mossa da vergogna evitai di incontrare i suoi occhi da cerbiatta; però lei balzò dalla sedia, rischiando di rovesciare il bicchiere d’aranciata che le avevo versato, per abbracciarmi e dirmi che avrei potuto telefonarle, che sarebbe venuta a tenermi compagnia, che lei c’era e ci sarebbe sempre stata per me.
Mi sentii terribilmente in colpa, chiusi gli occhi stringendola forte e chiedendole scusa in cuor mio, ma io amavo Christian e avrei fatto di tutto per averlo. Anche far soffrire una brava persona come lei.
Non ebbi neanche il coraggio di confessarle che mio padre era lontano perché aveva litigato con mamma, usai la stessa scusa suggeritami da Willy in ospedale: in quel momento non c’era per questioni di lavoro. Jenny allora si incuriosì:
«Sei stata tutto quel tempo da sola in pronto soccorso?»
«No, no» la tranquillizzai. «C’era Will con me» e si batté un palmo sulla fronte, sorridendo:
«Ma certo! Il tuo fidanzato! Me ne ero quasi scordata.»
Le sorrisi, nascondendomi dietro il bicchiere di aranciata che non avevo ancora toccato.
 
Christian si presentò a casa mia quella sera stessa, lo raggiunsi all’ingresso e lo vidi di spalle, nel vialetto antistante la casa, con le mani nei jeans e il naso all’insù.
Mi avvicinai piano, annunciando il mio arrivo e fermandomi di colpo: era nero di rabbia. Cominciò a inveire così forte contro di me che dovetti alzarmi sulle punte dei piedi e tappargli la bocca con una mano, mentre con quella libera lo trascinavo all’interno della casa, ma si liberò dalla mia presa appena prima di superare lo zerbino.
«Sono calmo» si acconciò il giubbino di jeans. «Sono calmissimo» un’aggiustatina ai capelli gelatinati. «Ti sei rincoglionita del tutto?» gridò di nuovo.
«Schhhh!» sibilai, con l’indice premuto sulle labbra. «Se alzi di nuovo la voce me ne vado in casa e ti attacchi al tram!»
«Scusa, scusa!» mi adagiò le mani sulle spalle, scrutandomi in volto, poi mi tirò verso di sé e mi abbracciò, passando le dita fra i miei boccoli. «Quando Jenny mi ha detto quello che è accaduto… perché non mi hai chiamato, Viola, perché?»
Come facevo a dirgli che non conoscevo la risposta alla sua domanda?
Come facevo a spiegargli che d’istinto avevo composto il numero di Willy scritto quasi per sfottò su un foglietto di carta, quando io ero la prima a non riuscire a darmi una spiegazione plausibile?
«Non volevo disturbarti» fu l’unica cosa che mi venne da dire e lui tornò a guardarmi in faccia, scuotendo il capo.
«Disturbarmi? Viola, ma che dici!» sorrise e io sentii ogni parte del mio corpo sciogliersi. “Lasciala” avrei voluto dirgli “Lascia Jenny e mettiti con me!”
«Però non hai avuto timore a disturbare l’altro» lo sputò fuori con un pizzico di cinismo.
«Lui … ci eravamo salutati da poco e…» mi incitò a continuare, non sapevo più che pesci pigliare, mi stavo arrampicando sugli specchi. «… e niente Cris, tu stai con Jenny.»
«Ti ho detto di darmi tempo.»
«Non è giusto nei confronti di Jenny e lo sai. Mi sento male solo a guardarla negli occhi.»
«Io voglio te, Viola» mi accarezzò la guancia, addolcendo i suoi occhi color nocciola che sprizzavano affettuosità dappertutto. Erano diversi da quelli di William, benché fossero entrambi castani, quelli di Willy avevano una sfumatura più scura e, anche quando si burlava del prossimo, non perdevano mai quella loro caratteristica bontà mista a ironia.
«L’hai lasciato?» Mi chiese e io caddi dalle nuvole, facendo di sì con la testa.
Mi prese in braccio, letteralmente, cominciando a girare su sé stesso, ridendo e baciandomi dove capitava: sul naso, sulla fronte, sulle palpebre, sulla bocca, sulle guance.
E io non potei che passargli le braccia dietro al collo e stringerlo forte. Era tutto quello che volevo, era tutto quello che desideravo, dopo le numerose sebbene veloci chiacchierate con mamma al telefono, quell’abbraccio finì per incorniciare una giornata in cui i pezzi di un vaso rotto – del mio vaso rotto – si stavano rimettendo insieme, con tanta colla, ma pur sempre insieme.
 
La mattina seguente mi svegliai al solito orario, non più quello che avevo impostato sulla sveglia da un mese circa, quando preferivo buttarmi dal letto all’alba solo per evitare di incontrare Christian nell’autobus. Adesso, finalmente, non vedevo l’ora di risedermi al suo fianco e fare quel tragitto fino a scuola a ridere e scherzare come avevamo sempre fatto. Nel bel mezzo della settimana mi disse che lui è Jenny sarebbero stati insieme ancora per poco, lo sussurrò mentre poggiava una mano sulla mia intanto che il pullman frenava alla sua ennesima fermata per far salire gli studenti, e io gli credei, perché lo conoscevo bene e sapevo quando mentiva e quando no.
Io e William tornammo ad essere quello che eravamo stati prima di tutta quella assurda storia: due conoscenti che si punzecchiavano. L’unica volta che parlammo in maniera “normale” fu durante le ore di educazione fisica, quando le rispettive classi s’incontrarono nell’area adibita allo sport, alle spalle della costruzione. Erano gli ultimi quindici giorni di scuola e i professori, più stanchi di noi, spesso organizzavano passeggiate all’aperto o incontri amichevoli di partitelle di calcio fra i ragazzi, e di pallavolo fra le ragazze.
Io ero appena stata sostituita, non potevo permettermi uno spreco di energie dato che di lì a qualche giorno avrei gareggiato per la medaglia d’oro di nuoto regionale, men che meno un infortunio. Me ne stavo in un angolo all’ombra, seduta sul muretto che divideva il campo di pallavolo da quello di pallacanestro, con il cellulare in mano; ogni tanto alzavo gli occhi al grido delle mie compagne di classe, esultando con loro per un punto conquistato, altre volte mi sventolavo con la mano. Quell’anno l’estate arrivò con un mese di anticipo e se ne andò con un mese di ritardo.
Non lo vidi arrivare, troppo presa a rileggere i messaggi che ogni giorno ormai mi scambiavo con Christian, e quando sentii la sua voce già così vicina per poco non urlai.
«Ciao Pel di carota! Che fai?» Con i gomiti poggiati sul muretto si sporse sul mio cellulare che prontamente nascosi alla sua vista.
«Non sono fatti tuoi!» Esclamai con il viso in fiamme. Sorrise come qualcuno che conoscesse comunque la risposta, poi prese a osservare la partita in corso, anche se la sua attenzione sembrava lontana anni luce.
Lo scrutai con la coda dell’occhio: indossava la divisa da calcio, la maglia blu con i bordi gialli era sporca di terriccio ed erba, del bianco dei pantaloncini vi era rimasto davvero poco tanto erano macchiati di terra, i calzettoni tirati fino al polpaccio e le scarpette sporche di fango. Lui si voltò, dando le spalle al campo e facendo penzolare le mani oltre il muretto per guardarmi in faccia. Prontamente abbassai lo sguardo, pur sapendo che era troppo tardi: si era accorto che lo stavo fissando. Sentii un gran calore salirmi fin sulle guance.
Quanto ero patetica!
«Ti piaccio come sono vestito?» Si avvicinò un po’, abbassando il tono di voce. «Tutto sporco e sudato…» gli diedi una leggera spintarella per allontanarlo.
«Smettila di fare il cretino!» Lui rise e tornò al suo posto.
«Tua mamma sta bene?» mi chiese. Alzai gli occhi per prendere tempo, il cielo azzurro era completamente privo di nuvole.
«Non è ancora uscita dall’ospedale, ma sì, sta meglio, deve solo accettare il fatto che è depressa e di conseguenza le cure che i medici le impongono» non disse più niente per un po’ e poiché mi imbarazzava che se ne stesse lì senza fare conversazione, senza accennare ad andarsene – sembrava di nuovo caduto in trance, con gli occhi fissi sulle proprie mani – gli domandai se anche sua mamma, quando il padre era andato via, era caduta in depressione.
«Chi? Mamma?» sorrise. «Con tre figli piccoli non ha avuto neanche il tempo di pensare alla depressione. Ricordo solo che disse: se quel pezzo di merda di vostro padre si è fatto un’altra vita con una donna da quattro soldi, perché noi dovremmo smettere di vivere? E il giorno dopo uscì di casa alle sei di mattina per cercare lavoro.»
Ricordo che pensai che un giorno sarei voluta essere come quella donna, come la mamma di Willy, che era riuscita a superare lo shock del tradimento e dell’abbandono, la fame e la carestia, senza mai far mancare nulla ai suoi figli.
«Domenica hai la gara di nuoto» quasi sospirò lui e io annuì, quindi si girò completamente verso di me. «Verrò a vederti» sgranai gli occhi, balbettando che non ce ne era bisogno, pensando che sarebbe potuto esserci anche Christian e non mi andava che si incontrassero. Le cose con Cris stavano migliorando da quando gli avevo detto che io e Willy non stavamo più insieme, avevo paura che vedendolo avesse potuto pensare chissà cosa e sarebbe crollato tutto. Ma lui insistette:
«Non vuoi che venga a tifare per te? Avevo anche in mente uno striscione» spalancò le braccia in alto, con le mani aperte, in un gesto plateale. «“Forza Stellina rossa”» gli diedi dell’idiota e rise. «E poi ci saranno un sacco di ragazze in costume» lo guardai male e lui strizzò l’occhio, scompigliandomi i capelli. «Ciao ciao, Celestina!» e trotterellò via.
Notai come alcune delle ragazze che stavano giocando a pallavolo gli lanciassero occhiate di ammirazione, sghignazzando tra loro. Scossi il capo e scesi dal muretto con un balzo, proponendo il cambio a Jenny che sembrava stremata: era troppo delicata per strapazzarsi sotto il sole di maggio. E al diamine la gara di nuoto, avevo bisogno di sfogare quella strana e inaspettata sensazione di ansia.



 

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Capitolo 10
*** Come acqua ***


Capitolo 10
Come acqua
 

Quando ero piccola mio padre mi insegnò un trucco di magia con le carte.
Rimanevo sempre affascinata quando gli riusciva e mi sentivo così orgogliosa se lo faceva davanti agli altri bambini che lo guardavano con due occhioni così, entusiasti da quella che per loro era magia pura. Il mio papà si trasformava nei protagonisti dei loro cartoni animati preferiti.
Io restavo a guardare la scena in silenzio, sospesa tra fantasia e realtà, mentre il bimbo di turno sceglieva una carta dal mazzo, la imprimeva nella sua memoria, poi la riponeva dove l’aveva pescata. E allora aspettavo con il cuore che mi batteva forte nel petto, con la paura che questa volta papà non avrebbe portato a termine il suo incantesimo fallendo miseramente, permettendo agli altri bambini di prendermi in giro. Poi lui mi guardava, mi faceva l’occhiolino, mi regalava un sorriso dolce e io capivo che sarebbe andato tutto bene, tutto liscio.
Non ha mai fallito nemmeno una volta.
Quando crebbi  e mi insegnò il trucco la magia svanì, ma compresi che avevo fatto un salto in avanti, adesso ero al suo pari, quegli stessi bambini avrebbero guardato me come avevano fatto con lui, con un’espressione meravigliata sul volto, e allora mi sentivo importante. Alle feste di compleanno non facevo che pescare proprio la carta che avevano scelto dal mazzo e me la ridevo sotto i baffi. Ero al centro dell’attenzione e ogni volta che la magia riusciva partiva un sommesso applauso, risa e schiamazzi. Ma ciò che più di tutto mi rendeva felice era la soddisfazione sul volto di mio padre.
 
Quella mattina in piscina mi sentivo come in quei giorni, con gli occhi dei presenti puntati addosso, l’attenzione di tutti rivolta su di me e con una sola emozione a farla da padrone: il terrore di non riuscire. Non ero la sola a gareggiare, ovviamente c’erano altre nuotatrici e non c’era motivo per cui tutti dovessero guardarmi, eppure non riuscivo a togliermi quella sensazione che si era annidata nella pancia.
Mio padre però questa volta non era presente. Si era detto dispiaciuto di non potermi accompagnare, di non poter venire a fare il tifo per me, ma la mamma era uscita solo il giorno prima dall’ospedale e le medicine che prendeva la facevano spesso sentire debilitata, stanca e assonnata e, soprattutto, non poteva rimanere da sola, anche se questo non lo disse apertamente.
Quella mattina però non volevo dare soddisfazione solo a mio padre, ma anche a una persona che aveva sempre creduto in me: il coach, e quando credei di averlo deluso, mi sentii così arrabbiata che promisi a me stessa che non avrei mai più messo piede in una piscina. Seduta sulla sedia posta davanti alla corsia numero sette, quella dove avrei dovuto gareggiare, osservai il pubblico delle grandi occasioni, come lo soleva chiamare lui, in maniera ironica ovviamente, giacché c’erano solo i parenti dei partecipanti alla gara, per lo più genitori agguerriti, pronti a dare battaglia ai giudici se il proprio figlio non avesse vinto il primo premio.
Vidi solo tre persone a me note sedute sulle gradinate di ferro, montate appositamente per la gara, ed erano: Jenny, accomodata al fianco di Christian e, dalla parte opposta alla loro, notai Willy, con le braccia conserte. Non appena i nostri sguardi si incontrarono, alzò entrambe le braccia iniziando a salutare come un ossesso, regalandomi uno dei suoi sorrisi migliori. La gente che gli era intorno lo fissò, ridacchiando, io mi feci rossa in viso e abbassai gli occhi.
 
Non vinsi la gara.
Salii sullo scalino più basso del podio, classificandomi al quarto posto. Il presidente di giuria mi infilò la medaglia di legno verniciato, mi strinse la mano e mi consegnò un piccolo bouquet di fiori, così come aveva fatto con le altre ragazze. Ci stringemmo fra di noi, per la foto di rito che sarebbe andata a coprire un posto vacante nel libro delle memorie e, in sordina, mi allontanai dal gruppetto ridente di nuotatrici.
Ero arrabbiata e tanto amareggiata. Avevo atteso quel giorno con una voglia di far bene smisurata, mi ero allenata con l’unico scopo di vincere, facendo più vasche del dovuto, andando anche da sola in piscina, continuando a prendere il raffreddore quando nelle sere d’inverno andavo via con i capelli ancora umidi, accaldata dal vapore che sembrava soffocarmi all’interno dello spogliatoio, ingollando così tante pillole anti congestionanti manco fossero caramelle.
L’istruttore mi aspettava poco più il là con un’espressione indecifrabile stampata sul volto, mi porse l’accappatoio. La piscina iniziava già a svuotarsi poiché i genitori non potevano scendere ad abbracciare le loro figliole: una volta una signora era scivolata sul pavimento bagnato e si era rotta il femore e da allora avevano vietato tale dimostrazione di affetto. Avrebbero dovuto aspettare fuori dalla struttura per stringere a sé le loro piccole campionesse come se fossero eroi di guerra.
Infilai le braccia nelle maniche dell’accappatoio e mi tolsi la cuffia, lasciando liberi i miei riccioli infuocati. Il coach mi circondò le spalle e mi posò un bacio sulla testa:
«Sei stata brava.»
«No, non è vero. Se avessi vinto sarei stata brava.»
«Ma tu hai vinto!» lui indicò la medaglia che mi pendeva sul davanti. Una stupida medaglia color legno. O cacca, come dir si voglia. Mi congedai da lui affermando che volevo fare una doccia, prima che le altre ragazze avessero occupato l’intero spogliatoio.
«Allora ti aspetto fuori, così-»
«No» risposi d’impulso. «Viene mio padre a prendermi» sorrisi mentendo.
Mio padre non sarebbe mai venuto a prendermi, né tantomeno avevo intenzione di fare la doccia. Ciò che volevo era aspettare che la struttura si sfollasse del tutto e fare un’altra nuotata. Sola, con me stessa. Sapevo che le signore delle pulizie avevano la domenica libera e si sarebbero dedicate a ripulire ogni cosa solo il mattino seguente.
L’istruttore attese di vedermi scomparire negli spogliatoi, però prima di chiudermi la porta alle spalle diedi un veloce sguardo all’ambiente della piscina. Cercai con lo sguardo Cris, ma non lo vidi e di conseguenza non c’era neanche Jenny. Cercai Willy, senza trovarlo.
Erano andati tutti via, meglio così. Sperai in cuor mio di non trovarli neanche all’uscita, perciò quando lessi il messaggio che la mia amica mi aveva spedito tirai un sospiro di sollievo:
 
“Scusaci Viola, ma io e Cri-Cri siamo invitati a pranzo
a casa di nonna e lì si mangia a mezzogiorno.
P.S. Sei stata la migliore. Smack”
 
Fui contenta di sapere che erano andati via e quindi avrei evitato le loro facce dispiaciute per il risultato: l’ultima cosa di cui avevo bisogno era lo spirito di compassione. Allo stesso tempo tuttavia sentii una forte rabbia montarmi dentro, non riuscivo a smettere di pensare a loro due, circondati dall’altolocata famiglia di Jenny, annoiati da discorsi facoltosi, mentre si intendevano con uno sguardo o si imboccavano per assaggiare chissà quali piatti prelibati. E poi quel “sei stata la migliore”? Mi sfotteva? Come potevo esser stata la migliore se ero arrivata quarta?
Decisi di non pensarci più e aspettai che tutte le altre nove partecipanti alla gara se ne andassero, nascondendo la voglia che avevo di rituffarmi in acqua e nuotare fino a smaltire la delusione che sentivo corrodermi lo stomaco.
Uscii dallo spogliatoio femminile in punta di piedi, l’ambiente circostante era deserto, l’acqua azzurra della piscina placida e invitante, increspata sulla superficie solo dalla lieve brezza che passava dalle finestre in alto, le cui ante erano state aperte per far circolare l’aria viziata. Mi avvicinai al bordo della vasca numero uno e fissai per un po’ il mio riflesso: i capelli ancora bagnati mi cadevano ai lati del volto, era l’unica volta in cui potevo vederli più o meno lisci, poiché una volta asciugati si arricciavano inesorabilmente. La persona che stavo guardando, specchiata sulla superficie liscia dell’acqua, non aveva lentiggini, né la chioma rossa e mi sembrò quasi carina. Lasciai scivolare l’accappatoio sulle mattonelle, incurante di tutte le ciabatte e dei piedi nudi e zozzi che le avevano calpestate, continuando a fissarmi nell’acqua. Il seno era schiacciato dal costume sportivo e monacale, accollato fino allo sterno, tra la vita e la curva del bacino c’erano solo pochi centimetri di differenza.
Chiusi gli occhi, concentrandomi sul fruscio dell’acqua, che seppur immobile ha sempre il suo dolce brusio di sottofondo, rilassandomi per l’odore rassicurante – almeno per me – del cloro. Mi chiesi cosa potesse trovare in me Christian; se dovessi credergli quando mi diceva di dargli tempo perché Jenny era solo un amore passeggero; domandandomi come potesse preferirmi a lei, così bella, così perfetta in ogni cosa, dal fisico alla voce gentile, al suo essere cordiale e sorridente.
Riaprii le palpebre e sobbalzai. Nella piscina, verso il centro, adesso c’era anche l’immagine di Willy, seduto sulle gradinate alle mie spalle. Mi voltai di scatto, quasi credendo che in realtà avessi avuto un’allucinazione, invece lo trovai proprio lì, dove l’acqua mi aveva suggerito. Se ne stava stravaccato sugli spalti di ferro, le braccia aperte e adagiate sullo schienale che consisteva in una specie di tubo, le gambe spalancate e distese in tutta la loro lunghezza, l’immancabile sorrisetto sul volto.
Mi puntò l’indice contro, formando una specie di pistola con il pollice alzato, e mimò uno sparo:
«Bingo!» esclamò. «Ci avrei scommesso quello a cui tengo di più del mio corpo che eri qui!» ironizzò.
«Che cosa vuoi Will?» Gli chiesi, mentre mi accingevo a raccogliere l’accappatoio per adagiarla su una delle sedie di plastica bianca. «Vattene» aggiunsi, senza aspettare una sua risposta e sfilandomi la medaglia di legno che posai sulla pallottola di cotone dell’asciugamano.
«L’ultima volta che mi hai detto “vattene Will”» si sforzò di ricreare una vocina stridula, «ci siamo messi insieme.»
«Non ci siamo messi veramente insieme» risposi, le nostre voci echeggiavano nella struttura vuota.
«Quindi non ci siamo neanche veramente lasciati» aumentò, se possibile, il suo sorriso da schiaffi.
Roteai gli occhi al soffitto trasparente, il sole aveva raggiunto il massimo del suo splendore, doveva essere mezzogiorno passato. Gli diedi le spalle e mi tuffai, riemergendo poco più in là, lo osservai mettersi in piedi, stiracchiarsi rumorosamente, sbadigliare come un leone e avvicinarsi a bordo vasca, quindi fu attratto dalla medaglia che mi era stata donata pocanzi, se la rigirò fra le mani, scostando l’accappatoio sulla spalliera e sedendosi.
«É molto bella» disse mostrandomela, come se non la conoscessi.
«Bellissima! Una medaglia color merda è sempre stato il mio sogno nel cassetto» lui rise, rise forte:
«Sei una spasso Stellina, giuro!» rimase in silenzio per un po’, mentre facevo la morta a galla. «Sei arrivata quarta su dieci partecipanti, dovresti essere contenta.»
«Se fossi arrivata prima sarei stata contenta! Si gioca per vincere e tu dovresti saperlo, visto che sei uno sportivo» tornai in posizione verticale, muovendo braccia e gambe per mantenermi a galla. «Come ti sentiresti se “quelli che contano”, come li chiamate tu e Christian, non dovessero sceglierti? Se dovessi perdere una finale saresti comunque contento del secondo posto?»
Non rispose, sapeva benissimo di cosa stessi parlando e i suoi tentativi di consolazione finirono ancor prima di cominciare. Si limitò a fissarmi, la sua espressione si era fatta stranamente seria, quasi preoccupata, concentrata. I suoi occhi sembravano volermi leggere nel pensiero o dirmi qualcosa che ancora non sapevo, si sporse in avanti, la medaglia gli pendeva dalle mani, mi parve che le sue labbra si increspassero all’insù, a mo’ di sfida:
«Stasera vieni al ballo con me.»
 
Spalancai gli occhi e per un attimo gli arti smisero di muoversi e rischiai di andare sotto, solo l’istinto più viscerale mi tenne su.
Non avevo preso in considerazione la festa che si sarebbe tenuta quella sera nella zona dei campetti della scuola, alle spalle dell’istituto, per il semplice fatto che fossi sicura non ci sarei andata con nessuno, men che meno con William.
Non mi ero nemmeno illusa che me lo chiedesse Cris poiché era ovvio che lui ci sarebbe dovuto andare con la sua fidanzata – e mia amica – Jenny.
Quell’invito mi spiazzò completamente. Non era stata una richiesta, non era stata una proposta, bensì un ordine, una pretesa. Ciò significava che non si aspettava una risposta, fu per questo motivo che ci tenni a specificare una cosa:
«Non ti aspettare che mi metta l’abito da sera e che mi trucchi gli occhi» lui rise, di nuovo, e si rilassò con le spalle contro lo schienale della sedia:
«Per me potresti venire anche con quello che hai indosso ora. Credimi, non avrei nulla da ridire» mi strizzò l’occhio.
«Idiota!» esclamai. Non riuscivo a capire se le sue parole mi facevano arrossire per la rabbia o per l’imbarazzo dei suoi continui doppi sensi, inoltre non mi era chiaro se le sue frasi fossero dei complimenti mascherati da sfottò, oppure dei semplici insulti simpatici.
Si alzò in piedi, posò la medaglia dove l’aveva trovata e mi disse di rivestirmi, mi avrebbe dato un passaggio fino a casa, ma rifiutai, dicendogli che avrei fatto quattro passi, senza aggiungere che così mi sarei potuta schiarire le idee, o almeno lo speravo.
Si congedò da me, dandomi appuntamento per quella sera: alle otto in piazza. Il luogo lo scelsi io, non mi andava che venisse fin sotto casa, alimentando chissà quali pettegolezzi da parte dei vicini ficcanaso.
Un solo pensiero mi martellò la mente fino all’ora prestabilita: “ho un vero appuntamento con Will”.


*****

Alla fine, sottopressione di mamma e per non darle una delusione  - poiché mio padre mi aveva preso in disparte confidandomi che il dottore gli aveva consigliato di assecondare ogni capriccio di sua moglie dal momento che un rifiuto poteva farle saltare i nervi - mi lasciai vestire passivamente da lei.
Con il senno di poi, so che nessun psicologo o psichiatra dispensa consigli del genere, ma allora ero solo una bambina sovraccaricata dai problemi della vita e annuii alla richiesta dei miei genitori. L’unica cosa su cui mi impuntai furono le gonne: non le avrei mai e poi mai indossate, né lunghe né tantomeno corte. Mia madre si presentò in camera con la sua immancabile e inseparabile trousse di make-up, cominciando a spolverarmi un pennello sulle gote, sulla fronte, sul naso e sul mento, canticchiando uno stupido motivetto sconosciuto al mondo. Mi costrinse ad abbassare le palpebre, poi mi ordinò di riaprirle, e poi di richiuderle, mentre imbrattava le ciglia di mascara. Intanto il mio mantra interiore - “ho un appuntamento vero con Will” – non faceva che aumentare l’ansia e il nervosismo.
Cosa stavo facendo?
Cosa mi aspettavo da quella serata?
Nulla.
Le dita di mamma si impigliarono nei ricci e il dolore mi fece tornare con la mente sulla terraferma, lamentandomi come una bambina mentre lei provava a districarli e definirli con abbondante schiuma.
Un’altra cosa che detestavo era guardarmi allo specchio alla presenza di un’altra persona - senza fare distinzione alcuna - perciò quando lei mi prese per le spalle piazzandomi davanti all’enorme specchio a muro che ritrasse la mia figura per intero, mi ribellai, scrollandomi le sue mani di dosso. Papà mi lanciò uno sguardo di fuoco e per un attimo temetti di aver combinato un macello, invece sentii la risata cristallina di mamma che prendeva in giro la mia scarsa autostima.
«Se non diventi un po’ più vanitosa non troverai mai un fidanzato, Viola» disse.
Avrei voluto rispondere che non volevo un fidanzato, volevo Cris. Mentre mi specchiavo non riuscivo a far smettere quella vocina dentro la testa che mi suggeriva di afferrare la prima cosa comoda che trovavo nell’armadio, le scarpette basse e vestirmi, invece afferrai il giubbino di eco pelle blu notte, infilai la borsetta a tracolla, salutai e uscii, respirando profondamente l’odore degli alberi in fiore.
 
Camminai a testa bassa per tutto il tragitto, con le cuffie infilate nelle orecchie ad ascoltare le mia personalissima hit-parade, fino a raggiungere la piazza centrale. Qualche negozio era ancora aperto e diverse persone si crogiolavano nella frescura serale. Mi mimetizzai all’angolo di una vetrina d’abbigliamento sportivo, la stessa di dove Willy mi aveva trovata in lacrime e con i capelli tinti di rosa. Ero in anticipo di qualche minuto, quindi pensai che se avessi ingannato il tempo a studiare gli abiti sui manichini sarei riuscita a distrarmi e soprattutto a zittire l’ansia e quel vuoto alla bocca dello stomaco.
L’immagine di me si stagliò velata nei vetri alti e brillanti della boutique sportiva: avevo indossato l’unico jeans attillato che tenevo conservato nell’armadio per le grandi occasioni (come quella e come lo era stato il compleanno di Jenny); il resto degli indumenti che avevo addosso non era di mia proprietà, ma di mamma. La camicetta color crema, poiché troppo larga, era stata sblusata all’altezza del bacino grazie a un cinturino beige. Ovviamente il tutto era stato impacchettato – si, proprio alla stregua di un regalo - da mia madre: fosse dipeso da me avrei indossato una felpa con cappuccio. I capelli erano ordinati e cadevano in morbidi boccoli oltre le spalle e lungo la schiena; il colorito lattiginoso era messo in risalto dalle guance colorate di rosa; ai piedi stivaletti di pelle morbida con un po’ di tacco.
Tutto sommato non stavo poi così male.
Controllai l’ora sul cellulare. Le otto erano passate da una decina di minuti e a quel punto capii una cosa fondamentale: la puntualità non era il suo forte. Attesi altri cinque minuti e quella certezza iniziò a lasciare il posto alla paura che non si fosse presentato, che mi avesse preso in giro e che ci fossi cascata come un’allocca.
Proprio quando stavo seriamente pensando di tornarmene a casa, il motorino che ormai conoscevo fin troppo bene frenò davanti a me. William mi strizzò l’occhio mentre lo fissavo a bocca aperta, congelata nel corpo e nella mente dalla presenza di una ragazza che sedeva dietro di lui. Ricordo come la sua lunga coda bionda mi avesse ipnotizzato, come i suoi occhi azzurri mi avessero ammaliato, e il suo sorriso brillante e perfetto fosse stato il colpo di grazia. Passarono due ore o forse furono solo due secondi, non so dirlo con precisione, poi lei scese dal veicolo, ringraziò Willy e salutò la sottoscritta con un “ciao” e un palmo alzato, prima di fiondarsi nel magazzino sportivo dove la intravidi gettarsi al collo dell’uomo dietro la cassa.
Lui dovette rendersi rese conto di come stavo fissando la bionda - con la stessa espressione di un pesce lesso, incapace di schiodarmi dal mio posto - perciò specificò che era un’amica di Lu e che gli aveva chiesto solo un passaggio fino al negozio del suo innamorato. Mi spiegò che una volta era la stessa Lu a farlo, ma da quando era entrata nell’ultimo mese di gravidanza non riusciva neanche più a fare la doccia da sola, figuriamoci a guidare un motorino. Non lo informai che non me ne fregava un cazzo di chi fosse quello schianto di femmina solo perché aveva fatto il nome della sorella, a cui dovevo i capelli e la dignità. Nonostante ciò me la presi con lui comunque:
«Sei in ritardo!» Il suo sorriso ebete stampato in faccia mi fece venir voglia di menargli due pugni sul naso. «Che c’è adesso?» Chiesi senza troppi preamboli, né gentilezza.
Lui fece spallucce:
«Sei carina.»
Dovetti diventare dello stesso colore dei capelli perché mi guardò quasi preoccupato, velocemente salii in groppa al suo destriero – il motorino – e sebbene avessi intenzione di non abbracciarlo più del dovuto, mi resi ben presto conto che se non mi ci fossi appiccicata addosso sarei rotolata sull’asfalto.
 
Non lo sapevo ancora (e come avrei potuto, non ho alcun dono di chiaroveggenza), ma da quella sera la mia vita sarebbe cambiata per sempre, senza che potessi fare qualcosa per cambiare le carte in tavola avrei imboccato un sentiero lasciando quello sul quale stavo camminando, seppur lungo il bordo, scegliendo a un bivio il mio futuro. Chi sarei diventata da grande. Cosa avrei fatto negli anni a venire. Se mi fossi classificata prima alla gara di nuoto, forse spinta sulle ali dell’entusiasmo, avrei chiesto a Christian di venire con me alla festa, rifiutando l’invito di Willy o senza dargli l’opportunità di chiedermelo, tuttavia se avessi rifiutato il suo appuntamento non avrei mai saputo di alcuni piccoli particolari che mi aveva nascosto e che si era ben guardato dal lasciarli trapelare. Quindi non mi sarei mai presentata a casa sua di punto in bianco, trovando la sorella e la mamma alle prese con il parto della prima e non avrei potuto assistervi dando il mio aiuto e scoprendo così la vocazione di aiutare il prossimo nella sofferenza. Di conseguenza non sarei mai diventata quel che sono: un medico.

 

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Capitolo 11
*** Continua a ballare, non fermarti ***


Capitolo 11
Continua a ballare, non fermarti


 
La palestra della scuola era stata adibita a sala da ballo. Quattro fari enormi proiettavano luci colorate a intermittenza, tutti gli attrezzi erano stati rinchiusi negli sgabuzzini e, nell’angolo in alto a destra, un paio di ragazzi diciottenni si divertivano a fare quello che forse amavano di più al mondo: i deejay.
Quando entrammo la musica house impazzava e rimbombava contro le pareti dell’enorme spazio vuoto e nel mio petto. A scatti vedevo corpi di adolescenti muoversi a ritmo, con la testa bassa, le braccia alzate verso l’alto e le gambe larghe, i capelli delle femmine oscillavano e a me vennero in mente degli zombie.
La sensazione della mano di Will sui reni mi ridestò da quell’intontimento, si chinò appena sussurrando all’orecchio di uscire e mi indicò la porta dell’uscita di emergenza spalancata che dava sui campetti. Mi limitai a rispondere di sì con un cenno della testa, senza scacciare le sue dita che si chiudevano intorno al mio polso mi accinsi a seguirlo tra la folla danzante. Da quando aveva frenato davanti a me, in piazza al centro, solo pochi minuti prima, non ero riuscita a scrollarmi di dosso la sensazione che c’era qualcosa di diverso in lui. Lo osservai da dietro: i jeans un po’ larghi che si mantenevano su per miracolo; la maglia di felpa a maniche lunghe con il cappuccio, rigorosamente scura con un disegno astratto sulla parte anteriore; i capelli, spesso ordinati alla poco-me-ne-fotto, erano stati acconciati con il gel e mi parvero anche più corti. Mi chiesi se fosse stata Lu a tagliarli e impomatarli. Alla fine mi convinsi che dovevano essere tutte quelle cose messe insieme – la maglia nera, i jeans hip-hop, i capelli pettinati – a donargli un’aria nuova, una nuova aura. Probabilmente, vedendomi conciata a quella maniera, doveva aver avuto la stessa impressione che lui aveva riassunto in due parole: “sei carina”.
Finalmente all’aperto lasciò la presa sul polso e si voltò indietro, il sorriso gli scemò dal viso:
«Che hai? Non ti senti bene?»
Fece per sfiorarmi le guance arrossate che sentivo ribollirmi, avvertivo contro la pelle l’aria da serata primaverile, quella brezza fresca e umida che si alzava dagli alberi e dall’erbetta sotto i nostri piedi. Arretrai appena, per non farmi toccare, dicendo che stavo bene.
Ad occhio e croce doveva esserci tutta la scuola quella sera, mi parve di scorgere anche qualche professore, alcune professoresse e la vicepreside. Willy continuava a fermarsi per scambiare il cinque con un compagno di classe, due bacetti sulla guancia con qualche ragazza che erano compagne di classe, come mi spiegò senza che glielo chiedessi, cosa mi indignò parecchio, ma mi sforzai di non rinfacciarglielo.
Mangiai rustici e pizzette, patatine e salatini a forma di animaletti e di figure geometriche, (William riusciva a trovare sempre qualcosa di perverso in quelle sagome); risi con lui e lui rise con me per le sciocchezze proferite, ridendo in faccia a quelli che ci oltrepassavano guardandoci in maniera strana per quanto forte sghignazzavamo. Alla fine ingurgitai tre o forse quattro fette di torta, dagli svariati gusti, fino a dover mandare tutto giù con un lungo sorso di coca cola, senza riuscire a trattenere un’inevitabile rutto.
«Scusa» dissi continuando a ridere come un’ubriacona e lui mi fissò sbalordito, mal celando un sorriso:
«Ma quanto mangi?»
«Di solito non mangio così tanto, ma stasera voglio strafare! Non ho più gare di nuoto da vincere e quindi il mio coach non può dirmi “devi tenerti in forma, Viola”» risposi, mimando la voce sempre un po’ rauca dell’istruttore, ringraziando dentro di me mamma per avermi creato quella sblusatura sulla pancia, in modo da nasconderne il diametro.
Passeggiammo senza una meta, saltellando da un buffet all’altro, inconsapevole degli occhi di Christian che da lontano ci scrutavano. Scelsi l’ultimo rustico ricotta e spinaci dal vassoio, lo addentai in un sol boccone e quasi mi strozzai quando Willy mi diede uno scossone:
«La senti?» Domandò a tutti e nessuno. Masticavo con difficoltà e a bocca piena risposi:
«Cosha dovrei shentire
«La canzone! È la mia preferita!» mi afferrò per lo stesso polso con cui mi aveva portata fuori dalla palestra e adesso mi ci stava trascinando di nuovo. «Andiamo a ballare.»
Non feci in tempo a dirgli di fermarsi che eravamo già davanti all’entrata, qui riuscii a impuntare i piedi nel terreno e per il contraccolpo lui tornò indietro e per poco non mi finì addosso. Gli tolsi la lattina di gassosa e la bevvi tutta, direttamente dall’apertura della bibita, proprio dove aveva bevuto lui. Mi pulii con il dorso della mano libera e gli dissi che ero pronta.
 
Volevo divertirmi. Volevo dimenticare tutti i pensieri che mi avevano afflitta in quell’ultimo periodo, volevo rilassarmi dopo il crollo nervoso di mamma, volevo scrollarmi di dosso l’insoddisfazione del quarto posto. Soprattutto volevo spassarmela e non pensare più a Cris, e se questo avesse comportato ballare con l’ultima persona sulla faccia della terra con cui credevo avrei condiviso quel momento lo avrei fatto, perché per la prima volta sentivo di meritarmi un po’ di svago vero, la spensieratezza e la leggerezza tipica dei sedici anni.
Ballammo una canzone latina che proclamò essere la sua preferita, mi disse il nome della band che la cantava e quando gli chiesi chi fossero, scosse il capo ed esclamò che ero proprio un’ignorante, ma prima che potessi replicare a quell’affermazione mi prese entrambe le mani e mi guidò in un ballo strambo e forsennato. Mi lasciai trasportare dal ritmo e dai movimenti del mio partner: una piroetta su me stessa, poi ritornavo faccia a faccia con lui, ridendo come bambini. Quindi due piroette, tre, quattro e di sicuro sarei finita con il culo sul pavimento se ogni volta che ritornavo nella posizione iniziale non ci fosse stato lui ad afferrarmi.
Ballammo come se non ci fossero altre persone intorno a noi; come se fossimo due amici datati, come se non ci fossimo presi a insulti fino a qualche settimana prima; come se non avessimo finto di essere fidanzati. Come se sapessimo tutto l’uno dell’altro. E forse era così, forse ci conoscevamo meglio di chiunque altro avesse fatto parte della nostra vita precedente al patto d’amore improvvisato.
Ballammo il charleston solo per scherzare e ridere di noi stessi, saltammo con le braccia in alto e le dita intrecciate e, tenendoci così, girammo a 360° sul posto, riprendendo con quei passi scoordinati, ma che tanto ci divertivano.
Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dai restanti sensi. L’odore di sudore si mischiava a quello dell’adrenalina, ai profumi maschili forti e a quelli femminili, più delicati. La musica che immettevano gli altoparlanti ci sbatteva addosso e io me la sentivo scoppiare nel petto, o chissà, magari era solo il mio cuore impazzito. Mi sentivo leggera, mi sentivo libera, avevo la sensazione che nulla di brutto sarebbe mai più potuto succedermi, era come tenere il mondo stretto in un pugno, quando nei miei pugni c’erano solo le mani di Will, calde e umide. E non le avrei mollate per nessuna ragione.
Lentamente la musica si addolcì, le luci si abbassarono e sulla pista da ballo rimasero pochi ballerini, per lo più accoppiati. I gruppi di soli uomini si fecero da parte, continuando a ridacchiare su di giri, quelli di sole ragazze si allontanarono a testa bassa, qualcuna lanciò uno sguardo furtivo al ragazzo che le piaceva, pregando un Dio che spesso dimenticava affinché la invitasse a ballare. Io e Willy non appartenevamo né al primo blocco, fatto di coppiette, né al secondo. Lo guardai, i suoi occhi scuri brillavano per effetto delle luci, aveva un’espressione serena e tranquilla e io per un attimo invidiai quella sua naturale calma che dimostrava anche nelle situazioni più imbarazzanti. Senza lasciarmi le mani se le portò dietro al collo in modo che lo abbracciassi e lì le lasciò, calando le sue sui miei fianchi. Non smise di guardarmi e a me scappò un risolino isterico, mentre ondeggiavo sospinta dal suo movimento regolare, impacciata e rigida, simile a un tronco d’albero:
«Mi sento stupida» dissi, per stemperare lo strano silenzio che era caduto fra noi.
«Tu sei stupida, Stellina» lo guardai male, immediatamente l’imbarazzo lasciò il posto all’irritazione, ma la sua voce non era irrisoria.
«Mai quanto te… idiota» risposi fra i denti e lui rise prendendomi per mano.
Finalmente  lasciammo la palestra che d’improvviso era diventata troppo piccola per me.
L’aria fresca fu un vero toccasana per la mia mente, più che per il mio corpo, benché fosse accaldato. Con un balzo salii sul muretto che divideva il campo di pallavolo da quello di basket, lo stesso dove William si era avvicinato qualche giorno prima, sporco e sudaticcio per la partitella di pallone che aveva disputato.
Lo osservai guardarsi attorno e quando adocchiò il signore delle bibite che stava facendo i bagagli, mi disse di aspettarlo lì e che correva a prendere qualcosa di fresco. Gli gridai dietro di evitare cose gassate per me e lui si voltò con un sorriso smagliante, urlando di rimando:
«Puoi scommetterci.»
Risi con lui e fu quando ancora tenevo quel sorriso sulle labbra e il naso all’insù, per contare le stelle e bearmi del vento che si stava alzando piano, che Christian si materializzò davanti a me, come per magia.
Mi mancò il fiato, il cuore prese a pompare in maniera compulsiva, lo stomaco fece un triplo salto mortale. Deglutii e mi riscoprii a provare una nuova emozione in sua presenza: la paura.

 

*****

 
Avevo conosciuto Christian dal parrucchiere, dove mi recavo almeno una volta a settimana con mamma quando aveva necessità di una messa in piega. Un giorno un bambino un po’ grassoccio e con tanti riccioli castani sulla testa sbucò da dietro i fianchi pronunciati di una donna di mezza età: sua nonna. La signora gli ordinò di sedersi sul divanetto, al mio fianco, e di aspettare in silenzio: le sentii dire alla commessa che l’accompagnava al lavabo che era il figlio di sua figlia, la quale lavorava in un supermarket e per questo doveva badare al nipote per mezza giornata, ogni dì.
La mia amicizia con Cris cominciò quella mattina d’estate, quando le scuole erano chiuse e il paese era immerso in una sonnolenza estiva, fra brusii di phon e civetterie di donne. Il destino ci fece trovare in classe insieme alle scuole elementari, qui gli sfottò degli altri bambini - che ci schernivano con l’appellativo di fidanzatini poiché eravamo inseparabili -mi avevano quasi allontanato da lui. Il solo pensiero di non giocare più a rincorrerci o a fare lunghe passeggiate in bici insieme, mi faceva venire la depressione, sicché mia madre andò su tutte le furie, perciò una mattina si presentò in classe, nel bel mezzo delle lezioni (cosa che lasciò la maestra di matematica a bocca aperta), minacciando i miei compagni che se avessero continuato a sminuire l’amicizia che legava me e Christian li avrebbe trascinati davanti al preside, massima autorità dell’istituto e temuto da tutti.
Smisero di insultare il mio rapporto con Cris, ma iniziarono a chiamarmi carota, carotina, carotella. Questa volta non dissi niente a mamma e mi tenni quei soprannomi, iniziando seriamente a odiare il colore bizzarro dei miei riccioli.
Alle medie fu peggio che andar di notte. Il nostro legame era sempre più strano agli occhi degli altri, le mie amiche mi dicevano che era impossibile che non lo amassi (amare a undici anni poi… sai che cosa seria!) o che non provassi niente per lui. Che non lo volessi baciare sulla bocca. Allora io scoppiavo a ridere: come si poteva desiderare di baciare un tredicenne con le fattezze di un bambino, appena più basso di me e brufoloso, sulla bocca? Il solo immaginare la scena mi dava il voltastomaco.
Dopo otto anni di carriera scolastica nella medesima classe, al Liceo le nostre strade si divisero. Come ogni estate anche quella che avrebbe sancito il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, andai a trascorrere i tre mesi più caldi dell’anno a casa della nonna paterna, in campagna e a pochi chilometri dalla costa, dove il mare era perennemente agitato. Quando tornai in città, mi recai al solito posto dove per anni io e Christian ci eravamo dati appuntamento per giocare o andare in bici, tuttavia qui non trovai il mio Cris, ma un’altra persona che gli somigliava vagamente.
In tre mesi Christian era cambiato, mutato, trasformato in un uomo: la voce era diventata più roca, le spalle più larghe e le braccia più sottili, i fianchi si erano ristretti e, soprattutto, si era allungato di non so quanti centimetri. Ricordo che quando mi si avvicinò per stamparmi un bacio di bentornato sulla guancia dovette chinarsi verso di me, che fui attraversata da una scossa elettrica che corse lungo tutto il corpo.

 

*****

 
Rimasi a guardare Christian con gli occhi sgranati, pregando solo che Willy non tornasse in quel momento.
«Ci sei tornata insieme? Con quello lì? Ci sei tornata insieme?» Mi urlò contro, indicando con un braccio spalancato Willy senza però voltarsi a guardarlo. Con un balzo scesi dal muretto, intimandogli di abbassare la voce, che non c’era alcun motivo di gridare. Innanzitutto perché lui non aveva il diritto di aggredirmi a quel modo; in secondo luogo perché non eravamo tornati insieme, avevamo solo pensato di farci un giro alla festa, niente di più.
Christian riportò il braccio lungo il fianco e chinò la testa, sembrava improvvisamente stanco. Fece un respiro profondo e mi disse una cosa che mi fece venire le gambe molli come gelatina:
«L’ho lasciata, Viola, l’ho lasciata per stare con te» alzò gli occhi e fece un passetto avanti. «Ma adesso mi chiedo: tu vuoi stare con me?»
Eccola lì la domanda da un milione di dollari.
Eccolo lì, il bivio della mia vita, il futuro dipendeva dalla risposta che gli avrei dato.
Eccola lì, la scelta che avrebbe potuto rendermi la ragazza più felice del mondo, oppure quella più triste.
Pensai a tante cose in quell’istante. Pensai a quando da bambini ci rotolavamo nei giardinetti pubblici a rincorrere i gatti a cui portavamo gli avanzi del pranzo. Pensai a tutte le volte che ero caduta per rincorrerlo e mi mettevo a piangere e lui tornava indietro per darmi conforto. Pensai alla tristezza che governava il mio cuore quando partivo per le vacanze estive e alla felicità di rivederlo ai piedi dello scivolo, circondato da altri bambini che lo incitavano a giocare con loro, ma lui era impassibile e mi aspettava, perché il gioco dovevamo iniziarlo insieme. Sempre e comunque. Pensai a quando lo rividi quell’estate, totalmente cambiato in ogni aspetto, tranne nei modi dolci che sempre mi riservava, senza paura che gli altri potessero prenderci di mira. Perché a volte i bambini sanno essere dei veri bastardi! Pensai alle emozioni che mi aveva trasmesso quell’innocuo bacio sulla guancia dopo l’ennesima estate trascorsa a casa della nonna, e al vuoto profondo, un pozzo senza fondo, che avevo provato quando lo avevo visto con Jenny, alla sensazione di terrore che avevo sentito al pensiero che non saremmo più potuti essere come eravamo. Pensai all’abisso che avrei provato perdendolo di nuovo e allora capii che questa volta non sarei sopravvissuta, non una seconda volta.
«Sì» dissi con la voce emozionata e gli occhi che brillavano. «Io voglio stare con te.»
L’incertezza e il dubbio sparirono dal suo volto, lasciando il posto ad un ampio sorriso sincero che non gli vedevo da troppo tempo. Si avvicinò e mi accarezzò il viso, la sua mano era grande e confortante.
Intanto William se ne stava immobile a pochi metri ma noi, con le bibite che era andato a comprare in ciascuna mano, il suo viso non lasciava trapelare alcuna emozione particolare. Avrei voluto dirgli che anche io ce l’avevo fatta, avevo raggiunto l’obiettivo iniziale del nostro patto segreto, così come lui aveva raggiunto il suo, seppur a discapito di Christian e di Jenny.
Ero così felice ed egoista che non riuscivo a comprendere il male che avevo fatto alle persone che dicevo di voler bene e, addirittura, di amare.
Fu a quel punto che Cris mi baciò, profondamente e con passione, cercandomi e pretendendomi. Lo allontanai con delicatezza, con un mezzo sorriso, imbarazzata di condividere quel momento così intimo davanti a Will, ma quando mi voltai quest’ultimo non c’era più. Christian riprese a baciarmi, proprio da dove eravamo rimasti.

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Capitolo 12
*** Nodi al pettine ***


 
Capitolo 12
Nodi al pettine

 

Sul tramontare della primavera iniziò la mia storia d’amore con Cris e la fine di un’amicizia che poi si rivelò eterna.
Con la chiusura dell’anno scolastico mi sentii rinascere e quegli ultimi mesi divennero solo un brutto incubo da cui mi stavo finalmente svegliando. Io e Christian riprendemmo a vederci ogni pomeriggio, come facevamo una volta,  con l’unica differenza che adesso sedevamo su panchine appartate per ritagliarci un piccolo spazio d’intimità; passeggiavamo mano nella mano fra la gente, soffermandoci davanti alle vetrine e mangiando ghiaccioli, felici come solo due innamorati possono esserlo.
Quando la sera del ballo tornai a casa scoprii che Jenny mi aveva lasciato un messaggio in segreteria, informandomi che la sua storia con Christian era finita, che l’aveva lasciata dicendole che credeva di amarla, ma che alla fine aveva scoperto di essere da sempre innamorato di un’altra. Invece di provare pena per la disperazione della mia amica, lanciai un urlo di gioia. Tuttavia, passai una nottata insonne e un unico tarlo a martellarmi in testa: avrei dovuto dirle la verità: ero io l’amata del suo ex ragazzo.
Le foto inchiodate alla parete della camera mi accusavano di egoismo e negligenza. Ne staccai una in particolare, quella che preferivo in assoluto, dove Jenny mi abbracciava talmente forte da trasformare il mio sorriso in una smorfia. Conservo questa istantanea ancora adesso, infilata in un vecchio libro di scuola secondaria perché fu scattata dalla mamma di lei proprio l’ultimo giorno di esami di terza media, dopo la prova orale. Non sapevamo ancora cosa ci avrebbe riservato il futuro, né se saremmo finite nella stessa classe alle superiori, ma in quel momento non ci importava di nulla: gli esami erano finiti e l’estate ci attendeva simile a uno scrigno segreto, pieno di sogni e desideri.
Dissi a Cris che sentivo di doverle una spiegazione, di doverle la verità prima che venisse a scoprirla da terzi; sebbene inizialmente lui rifiutasse la mia idea, alla fine capì che avevo fatto la mia scelta, con o senza il suo appoggio avrei affrontato la questione. Quello stesso pomeriggio presi il coraggio a due mani e bussai al portone di casa di Jenny: quell’enorme dimora che un tempo avevo attraversato mano nella mano con William.
Appena mi vide la mia amica scoppiò in lacrime, in mano stringeva già un fazzoletto usato più volte, aveva gli occhi gonfi di una persona che non ha fatto che piangere per ore e ore. Mi chiesi come avessi fatto a confessarle che l’avevo pugnalata alle spalle. Quando l’ipotesi di lasciare Christian per non ferire ulteriormente Jenny si affacciò nella mia mente, la cacciai indietro, inorridita. Fu a quel punto che glielo dissi, senza giri di parole, senza aspettare che fossimo sedute in casa sua, preferii giocare in campo neutro.
Jenny – la dolce e gentile Jenny – cominciò a gridarmi contro tante di quelle oscenità che fino ad allora dubitavo conoscesse. Mi paragonò alle peggiori donne dei sobborghi di città, mi augurò di fare una fine misera, quella che secondo lei meritavo. Non volle sentire ragioni, le mie parole se le prese il vento; senza neanche sapere bene come mi ritrovai a prendere a pugni il portone che Jenny mi aveva chiuso in faccia, a supplicarla di aprire e di lasciarmi spiegare. A pregarla di non fare così.
Jenny non mise più piede nella mia classe, né tantomeno nell’istituto scolastico del Liceo A. Manzoni. Tramite voci di corridoio venni a sapere che aveva chiesto al padre di permetterle di continuare gli studi in un collegio a centinaia di chilometri di distanza. Non ebbi più sue notizie per anni, aveva cambiato numero di cellulare e i suoi genitori non vollero mai darmi l’indirizzo dell’istituto in cui l’avevano iscritta, né il nuovo numero di telefono. Non per propria volontà, si giustificò la mamma mortificata, ma per essere fedele a una promessa che la figlia le aveva strappato il giorno in cui era partita.
«Ha lasciato tutti, Viola» aveva le lacrime agli occhi mentre lo diceva. «Anche sé stessa.»
Eppure la storia mia e di Jenny non era ancora giunta al capolinea…
 
Il senso di colpa per il male che avevo fatto alla mia migliore amica mi avrebbe rosicato viva se il mio fidanzato non mi avesse consolato per pomeriggi interi, fino a spingerlo in fondo alla mente. Trascorremmo quell’estate avvinghiati come due ventose, ansiosi di recuperare il tempo perduto. Ogni tanto cercavo di introdurre un argomento, ma tutte le scuse erano buone per accarezzarci, sfiorarci e riprendere a baciarci. Le nostre bocche sembravano calamite, le nostre mani bramose della pelle altrui, inoltre i suoi attacchi di passione mi costrinsero a portare foulard anche a 30°. Ben presto mamma s’insospettì e con tutta la calma del mondo le spiegai che era l’ultima moda dell’estate annodarsi un triangolo di stoffa alla gola; lei fece spallucce e per gran parte del tempo la vidi indossare foulard che talvolta rubava anche dal mio cassetto.
Quando lo raccontai a Christian rise per una buona mezz’ora.
Un giorno gli chiesi perché si fosse fidanzato con Jenny, cosa l’avesse spinto a dichiararsi proprio a lei, dal momento che in comune avevano davvero poco. Forse solo me. Mi sarei aspettata qualsiasi tipo di risposta, anche la più banale, invece il suo racconto mi sconvolse completamente e mi sembrò di essere tornata al punto di partenza. Di nuovo.
«Solo per entrare nella squadra regionale di calcio» quando lo guardai stralunata lui sorrise timido, vergognandosi di quello che stava per dire. «Tu lo sai che suo zio fa parte dello staff dei selezionatori? É l’uomo più vicino a colui che ha l’ultima voce in capitolo. È quello che può aprirti le porte della carriera calcistica.»
«E tu ti sei messo con lei solo per arrivare al tuo scopo?» Detto da me suonava davvero strano, ma non sapevo come altro chiederglielo.
«Si» affermò dopo un sospiro. «Sapevo di avere una probabilità su cento di essere scelto. Il posto che rimaneva era solo uno ed ero disperato, poiché dalla mia squadra era già stato scelto un altro ed è raro che ne prendano due da una stessa scuola, a meno che sia un vero fenomeno. O non abbia una raccomandazione grande quanto una casa.»
«Cioè… ti sei messo con lei solo per… non l’hai mai amata? Non l’hai mai voluta?» Il suo viso si addolcì, rivelarmi quella verità - che di certo non gli faceva onore - sembrava averlo liberato di un fardello. Mi carezzò una guancia.
«Mai. Provavo qualcosa per te, ma credevo fosse solo un forte sentimento di amicizia. Poi quando ho saputo che ti eri messa con quello lì… oddio Viola, non immagini cosa ho passato. Le notti insonni al solo pensiero che tu stavi con un altro, la bile che mi saliva quando vi vedevo insieme.»
«E l’hai picchiato perché eri geloso, Cris? È per questo che gli hai dato un pugno negli spogliatoi?» Non avevo dimenticato l’episodio del litigio, ciò che mi premeva ancora, dopo tutto quel tempo, era sapere se Willy mi avesse mentito al riguardo. Negli occhi del mio ragazzo lessi la risposta che tanto temevo.
«Si. L’ho menato perché ero cieco di rabbia e folle di gelosia. L’avevo visto avvicinarsi e toccarti» fui sul punto di dirgli che era tutto un gioco, che non stavamo insieme per davvero e che tra di noi non era successo niente di niente, ma rimasi in silenzio.
Davvero non era successo niente?
Ne ero proprio sicura?
«Si era già preso una cosa a cui tenevo tanto, non potevo permettergli di portarmi via anche te, Viola.» Mi baciò, ma un campanellino d’allarme nella mia testa aveva iniziato a strimpellare come un pazzo, il cuore accelerò senza un motivo apparente. Scansai il suo bacio con garbo:
«Cosa si è preso di tuo, Cris?»
«L’unico posto disponibile nella squadra regionale. Perché? Non te l’ha detto?»
No, non me lo aveva detto.
«Quando?» Inghiottii, avevo la bocca asciutta e la gola arsa. «Quando è stato contattato dai dirigenti della squadra regionale?»
«Boh! Gennaio o forse era febbraio. A inizio anno comunque.»
E tutto prese un’altra piega.
A fine marzo io e William avevamo fatto un patto: fingere di stare insieme per i nostri loschi scopi, io conquistare Christian, lui ottenere un posto da titolare nella squadra della scuola in modo da farsi notare da quelli che contano, come li apostrofò egli stesso.
In quell’istante tutto ciò in cui avevo creduto si frantumò, simile a un castello di sabbia. Tutto mutò, fu come se improvvisamente riacquistassi la vista, come se si alzasse il sipario per lasciarmi vedere cosa nascondesse dietro; le immagini furono più chiare, più nitide: ogni cosa, ogni passo che avevamo fatto insieme assunse nuova dimensione e un significato più profondo.
Il bacio sulle labbra che mi aveva dato davanti a Cris; le carezze sulla guancia; i sussurri davanti scuola; i calci dati al pallone in una sera di primavera, sdraiati sull’erbetta umida del campetto di calcio; la sfilata mano nella mano al compleanno di Jenny davanti agli occhi di tutti; il fatto che mi aveva portato a casa sua; il supporto morale in quella dannata sera all’ ospedale; gli abbracci («abbracciami forte» gli avevo detto «abbracciami di più»); l’invito alla festa della scuola e il mio primo lento con un ragazzo. Con lui.
Christian prese a carezzarmi i capelli, acconciandomi una ciocca dietro l’orecchio che mi fece rabbrividire, di rabbia e di eccitazione; d’istinto mi  accomodai cavalcioni su di lui, guardandolo direttamente negli occhi. Ci scrutammo, ci studiammo, poi riprendemmo a baciarci e a sfiorarci il collo, la schiena, il viso, con le mani che correvano affannate.
Percepivo una grande rabbia dentro, mi sentivo presa in giro da quell’idiota, ma volevo fregarmene. Stavo letteralmente addosso all’amore della mia vita, lo stavo baciando come avevo visto fare solo nei film e dovevo essere felice già solo per quello.
Doveva bastarmi quello!
Ed ero felice, davvero. La mia storia d’amore mi sembrava uscita da uno di quei film per adolescenti, dove la più bruttina della scuola alla fine diventa bella solo togliendosi gli occhiali, e il fighetto della situazione se ne innamorava perdutamente. Ed ero contenta sul serio, stare con lui mi trasmetteva tranquillità, ciò di cui avevo bisogno dopo mesi pieni e difficili.
 

*****


Quell’anno non andammo a fare visita alla nonna. Il medico aveva sconsigliato a mia madre lo stress del mare e del sole, quindi papà decise di restare a casa e di fare qualche gita fuori porta, ma non sempre andavo con loro. Fu una mattina di quelle, quando i miei erano via e mio fratello al campeggio, che decisi di mettermi in cammino, diretta alla casa di Willy. Non fu un’idea palesata, sebbene il desiderio di parlargli crescesse giorno dopo giorno, urgeva un chiarimento o sapevo che non avrei potuto godere appieno della mia giovane storia d’amore.
Cielo e se faceva caldo quella mattina di primo agosto!
Passai la piazza centrale, semideserta se non fosse stato per qualche ragazzino delle elementari che giocava a palla o correva in bici intorno alla fontana, le vetrine dei negozi erano aperte, ma nella loro frescura artificiale erano vuoti e sonnolenti.
Camminai costeggiando la statale per diversi metri, con la testa bassa, fingendo di non sentire i clacson delle macchine e gli apprezzamenti degli uomini che mi passavano accanto rallentando, e allora la rabbia che provavo da diversi giorni si trasformò in vera e propria furia. Per il caldo e per le goccioline di sudore che sentivo corrermi lungo la schiena; per il trambusto di quegli automobilisti scemi che giocavano a fare i play boy con una minorenne; per tutta la strada che avevo percorso, che stavo percorrendo e che dovevo ancora percorrere, pensando alle svariate volte che Will mi aveva accompagnato a casa quando era ancora in atto il nostro stupido, stupidissimo accordo, al fatto che aveva camminato lungo quello stesso tragitto per una che non era la sua vera ragazza e che gli inveiva contro una volta no e due sì.
Ero adirata perché non riuscivo a spiegarmi il motivo per cui non mi avesse detto che faceva già parte della squadra regionale. O forse sì, forse lo conoscevo il motivo, lo avevo intuito attraverso le parole di Cris e facendo una carrellata di ogni suo gesto nei miei confronti, dal suo vezzo di rivolgersi a me con il soprannome di Stellina, alle diverse occasioni in cui mi sfiorava le mani. Ero arrabbiata, ero furiosa, e dentro di me sapevo il perché di quella mia collera, ma lo tenni giù, lo ingoiai come si farebbe con un boccone amaro.
All’ennesimo colpo di clacson inveii contro l’auto da cui era provenuto, liberandomi della camicetta e restando in canotta azzurra e fiori bianchi.
 
Il panorama mutò da un momento all’altro. Un attimo prima stavo camminando sulla statale oltre il guardrail, l’attimo dopo mi ritrovai circondata da case con i tetti distrutti e qualche tegola messa a posticcio. Sui marciapiedi c’erano sacchi dell’immondizia e cani che vi rovistavano al loro interno, cosa che mi convinse a continuare la mia marcia sulla strada, sprezzante dei motorini che scorazzavano all’impazzata e delle macchine sgangherate che andavano lente come lumache.
Riconobbi il pub che in realtà un pub non era, come mi aveva spiegato Willy, bensì un night club, con i suoi fedelissimi davanti all’entrata, in mano una birra scadente già di prima mattina. Li guardai, provando a immaginare la loro vita prima di allora, a come ci erano finiti in quel letamaio, dove avevano sbagliato per ritrovarsi un giorno lì, senza una famiglia, né un lavoro. Uno di loro alzò i suoi occhi birbantelli su di me e io abbassai lo sguardo, ripetendomi che era meglio fissarmi i piedi, almeno fino a quando non avessi raggiunto la mia meta. Oltrepassai il muretto imbrattato di disegni e di scritte sull’amore eterno, dove di sera si radunavano gli adolescenti di quella zona. Mi tornò in mente la ragazza che si era accostata a William e che mi aveva guardata con ammirazione notando i capelli rosa. Era una tipa carina, magra come un grissino e gli occhi truccati di nero, mi ritrovai a chiedermi come mai non si fosse invaghito di lei, che sembrava essere la ragazza giusta per quelli come lui.
 Nonostante fossi stata a casa sua solo una volta e di sera, non ebbi difficoltà a riconoscere la costruzione, poiché era la più decente fra quelle che la circondavano, con un cancelletto all’entrata, una stradina fatta di erbetta cresciuta fra le mattonelle del sentiero e la pittura più o meno intatta che ancora non si era scrostata dalle pareti.
L’uscio di casa era aperto, cosa che mi mise in allarme; la penombra in cui era immerso l’interno dell’abitazione mi prosciugò un po’ i quella rabbia che mi era servita a giungere fin là. Più riluttante  che mai e, come dopo ogni cosa che facevo di slancio, di istinto, desiderai essere altrove, di non fare quello che stavo per fare.
Il fratellino di Willy spuntò sullo zerbino, le ginocchia sbucciate e il pollice in bocca. Alzò un indice per indicarmi e, senza togliersi il dito fra le labbra biascicò:
«Muamma scè la fidansciata di  Willy
La donna con i capelli corti e biondi, giovane nonostante la stanchezza che le correva per tutto il fisico, gli diede un buffetto sul dorso della mano:
«Ti ho detto mille volte di non succhiarti il pollice, Dani!» Poi mi guardò e per un attimo nessuna delle due parlò. Indossava una camicia senza maniche e un paio di pantaloni di cotone lunghi al polpaccio, i capelli erano tirati in un codino, tenuti fermi sul capo da una miriade di forcine. Balbettando provai a chiedere se suo figlio fosse in casa, ma in tutta risposta mi chiese:
«Hai mai visto nascere un bambino, cucciola?»
«Scusi, non ho capito bene» e fu in quel momento che dall’interno della casa udii uno strillo animale, più forte di qualsiasi cosa avessi mai udito, fatta eccezione per l’uomo senza braccio che avevo visto in pronto soccorso.
«Porca miseria!» La donna si fiondò dentro la casa e io la seguii a ruota, incurante del piccolo Dani che continuava a ripetere che era arrivata la fidanzata di Willy.
 
Trovai lo stesso Willy immobile sulla soglia della porta della stanza di Lu, da cui provenivano le strilla acute, seguite da varie imprecazioni della medesima. Quando i miei occhi si furono abituati alla penombra della casa potetti guardarlo bene in viso, cosa che lui stava già facendo. Non parlammo, non ci salutammo. Mi avvicinai e sbirciai all’interno della camera.
La ragazza diciannovenne era seduta sul letto, si puntellava con le mani sul materasso, il viso madido di sudore e di lacrime. La parte superiore del corpo era coperta da una canotta striminzita, quella inferiore da un lenzuolo bianco che le lasciava scoperte le cosce nude. Vicino a lei c’era sua madre e altre due donne più anziane che si affaccendavano con pezze imbevute di acqua e bacinelle colme di liquidi colorati.
Will aveva un’espressione greve, di preoccupazione e di paura. Sembrava terrorizzato, spaventato da ciò che non conosceva, sentendosi evidentemente inutile e inadatto. Sua madre si voltò a guardarlo, gridandogli di chiamare ancora una volta la croce rossa. Lui si mosse come un automa, scomparendo in cucina; io entrai nella stanza, dove l’odore di disinfettante era così forte che mi fece lacrimare gli occhi e pizzicò il naso. Solo allora, nell’angolo alle mie spalle, notai che su di una poltrona c’era accomodata una vecchia decrepita, che masticava Padre Nostro e Ave Maria così in fretta e a bassa voce che vedevo muoversi solo le labbra, mentre stringeva fra le mani rattrappite un Rosario. Solo più tardi mi accorsi che era cieca.
«Ludovica» la chiamò la mamma e lei le ringhiò contro di non chiamarla con il suo nome di battesimo. «Ok, Lu. Lu, ascolta, devi partorire qui e ora o il bambino rischia gravi danni.»
«No!» Gridò la ragazza fra le lacrime. «Non ce la faccio ma’, non ce la faccio!»
Fu allora che mi mossi, senza pensarci, feci il giro del letto e vi salii sopra a carponi, fino a raggiungerla:
«L’autoambulanza sta arrivando, Lu» dissi e lei mi guardò, tirando su con il naso. «Sarà qui fra pochissimo, noi però dobbiamo iniziare senza di loro, perché tu sei la sua mamma ed è una cosa naturale partorire. L’hanno fatto tutte, perché tu non dovresti riuscirci?»
Le mie parole si avverarono come una premonizione.
Lu iniziò a spingere, fra urla e lacrime, fra dolore e le incitazioni di noi donne che ci eravamo improvvisate infermiere, con la continua litania della vecchia sulla poltrona. Quelli dell’ospedale arrivarono quando avevamo quasi finito, trovando due donne pronte a prendere il neonato non appena avesse messo la testa fuori, una mamma in pena che pativa le stesse sofferenze della figlia e del nipote, e una ragazzetta di sedici anni e mezzo che si lasciava stritolare la mano mancina dalla neo mamma senza batter ciglia, mentre con quella libera le asciugava il sudore con una pezza umida, confortandola con parole di speranza.
Fu quando sentii i vagiti del piccolo e le lacrime di gioia di Lu che capii di voler fare il medico, anche solo per vedere quella felicità negli occhi della gente, per sentire il calore di una mano stringere la mia e con gli occhi pieni di gratitudine guardarmi e sussurrare un semplice ma immenso grazie.
La stessa Lu disse alla nuova nonna di prendere in braccio il piccolo Matteo (come lo chiamava dal primo giorno che seppe di essere incinta, in onore dell’Evangelista appunto) e di portarlo a conoscere ai suoi zii. Quando la donna tornò mi abbracciò forte, ringraziandomi e complimentandosi con me:
«Sei una donna coraggiosa» disse, quindi mi invitò a rilassarmi con un bicchiere di tè fresco.

Uscii dalla stanza contenta e soddisfatta, dimenticandomi il vero motivo per cui mi trovavo lì. William mi strinse non appena varcai la soglia della cucina, aveva la voce emozionata di chi ha appena assistito a un miracolo:
«Non so cosa farei senza di te!» Esclamò come un lampo a ciel sereno e il mio cuore si rabbuiò. Prima che potessi rispondergli aveva già afferrato il mio viso con entrambe le mani, alzandolo verso il suo, i suoi occhi scuri e vivaci brillavano di felicità. Feci per dirgli che dovevamo parlare, ma mi baciò in fretta; tre baci consecutivi e innocenti sulla bocca.
Il panico mi invase tutta, un solo nome lampeggiò a intermittenza nella mia mente, come un’insegna al neon: Christian. Le gambe divennero piombo; gli afferrai i polsi e lo cercai di tirare via le sue mani dalla mia faccia, che sentivo infuocata e non per colpa del caldo o per il parto di poco prima.
«Ma che cazzo fai?» Sbraitai, dimentica della gente che popolava la casa in quel momento. Lui in tutta risposta mi baciò, di nuovo, e questa volta per davvero.
Feci per spingerlo via, tenendogli i polsi a mezz’aria, ma era ovviamente più forte di me e quella stretta mi si rivoltò contro. Mi schiacciò a ridosso del mobile della cucina e sentii una lieve fitta al livello dei reni, mentre la brocca con il tè e il ghiaccio si rovesciava per lo scossone. Lasciai la presa sui polsi e lui ne approfittò per intrecciare le nostre dita, mentre la sua bocca si muoveva contro la mia, intanto che le lingue si affannavano in una continua lotta.
Ebbi così paura di quel bacio e di quello che stavo provando che lo schiaffeggiai. Solo allora lui si scostò, sembrava tornato in sé, il ragazzo con lo sguardo furbetto che mi prendeva in giro per i corridoi della scuola, e a un tratto pregai affinché davvero tutto tornasse come era prima.
«Sto con Cris adesso» confessai e sentii le sue mani scivolare via dalle mie, il peso del suo corpo, che mi aveva tenuta ferma contro il mobile della cucina, si alleggerì.
Ai nostri piedi si andava formando una pozzanghera beige che si mischiava ai vetri della brocca andata in frantumi, dalla stanza della partoriente una voce femminile mi chiamò. Gli lanciai un ultimo sguardo intanto che si chinava a raccogliere i cocci taglienti.
«Torno subito. Lo mettiamo a posto insieme questo casino che abbiamo combinato» gli parlai come si farebbe con un bambino, con calma e pazienza.
«Non c’è niente da mettere a posto» fu la sua risposta secca. Uscii a testa bassa, senza avere niente da controbattere. Quel macello lì a terra sembrava la metafora di qualsiasi cosa si fosse intessuta fra noi in quei mesi, almeno fino a quel momento.
Quando tornai in cucina lui non c’era più. Anche la macchia di tè era scomparsa, nonostante l’aria fosse impregnata del classico odore dolciastro della pesca. Sul tavolo notai la mia camicetta e la borsa che evidentemente avevo lasciato cadere in corridoio quando avevo visto Lu sul letto, mezza nuda e bagnata di sudore e lacrime. Raccolsi tutto, intenta a tornare a casa, non avevo più voglia di parlare con Willy di quello che avevo saputo da Cris, desideravo solo farmi una doccia e passare il pomeriggio sul mio letto, a fingere che tutto andasse bene. Quando mi voltai per poco non mi venne un colpo, il piccolo Dani era immobile sulla soglia della porta che mi scrutava con i suoi occhietti scuri e il pollice in bocca:
«Willy è alle gioshtre» mi chinai e gli tolsi la mano di bocca.
«Cosa hai detto?»
«Willy è alle giostre.»
«Quali giostre?»
«Più avanti c’è un parco con scivoli e altalene. Lui mi ci porta sempre.»
Alzai lo sguardo e vidi la signora di casa, con la spalla contro lo stipite della porta, si stava accendendo una sigaretta. Rilasciò il fumo e con una pacca sul culetto disse al suo ultimo figlio di andare a giocare e il bambino le obbedì. Mi rialzai e come era suo solito mi studiò in un lungo sguardo silenzioso. Accennai un inchino a mo’ di saluto e lei riattaccò:
«Il mio Willy è un bravo ragazzo e non merita di soffrire» ero con un piede dentro e uno fuori da casa sua, mi voltai indietro e le risposi:
«Neanche io merito di soffrire.»
«Ma lui di più.»
 
Una volta in strada mi incamminai con l’intento di tornare a casa, ma giunta all’altezza del muretto dei ragazzi di quella zona, fra le varie scritte, scorsi il nome Willy seguito da un tratto curvo che finiva con un cuore stilizzato. Riconobbi quella calligrafia e quello steso cuoricino, poiché l’aveva disegnato sul foglietto che mi aveva dato e sul quale c’era il suo numero di cellulare. Lo presi come un segno del destino, senza pensarci troppo tornai sui miei passi e raggiunsi il parco con le giostre che mi aveva indicato Dani pocanzi. Era una piccola villa comunale che probabilmente aveva conosciuto giorni migliori, giacché ai miei occhi apparve triste e sconsolata. Mi trasmetteva un vago senso di abbandono. Il prato cresceva incolto, ricoperto da erbe di ogni tipo, le foglie secche a causa della calura mulinavano per la leggera brezza calda che spirava da sud; sporcizia e bottiglie di diverse dimensione e materiale erano sparse un po’ ovunque. Camminai a grandi falcate, attenta a non calpestare niente di compromettente; poi lo vidi e mi fermai a studiarlo da lontano, come non avevo mai fatto. Teneva sul volto, alzato verso il cielo, l’espressione di uomo adulto tormentato da pensieri, mentre si dondolava piano su un’altalena sgangherata. Alle sue spalle un palazzo di diversi piani, malandato e decadente, proiettava la sua incombente ombra su di lui, facendo sembrare i suoi capelli ancora più scuri del normale.
Una vocina nella mia testa mi disse di andare via, che non gli dovevo nulla, che era stato lui a mentirmi e non viceversa, era lui quello in difetto e non io; eppure sentivo che quella era l’ultima occasione che avevo per parlargli, che non ce ne sarebbero state altre e, in un certo senso, avevo ragione.
Inspirai affondo e lo raggiunsi.






 

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Capitolo 13
*** Il giorno non era un problema. La notte lo era. ***


Capitolo 13
Il giorno non era un problema.
La notte lo era.


 
 
Willy non si girò a guardarmi fin quando calciai involontariamente una lattina di Pepsi che rotolò a qualche centimetro da lui, per poco non caddi come su una buccia di banana, perdendo momentaneamente l’equilibrio. Imprecai e lo vidi scuotere il capo abbozzando un sorrisetto sarcastico, a dimostrazione del fatto che per me non c’erano speranze, che ero una completa imbranata. Non lo disse apertamente, ma intuii i suoi pensieri dall’espressione.
Feci per sedermi sull’altalena vicino alla propria, poi il mio cellulare prese a strimpellare in borsa. Lo cercai fra mille oggetti inutili e scartoffie - scontrini o liste della spesa ormai stravecchie –, quando finalmente lo trovai risposi, allontanandomi di qualche metro.
Era Christian. Mi chiese dove fossi, poiché era appena stato a casa mia per farmi una sorpresa, ma non ero lì, dove invece credeva che stessi. Sembrava infastidito e insieme sospettoso. Gli risposi che ero in giro a fare compere con i miei e che non sarei rientrata prima di pranzo. Mi disse che non glielo avevo detto il giorno prima e continuai a mentirgli affermando che avevamo deciso solo quella mattina di andare per negozi. Accettò l’alibi in modo riluttante, mentre io dall’altra parte del telefono trattenevo il fiato, pregando affinché non approfondisse l’argomento, non in quel momento per lo meno, sentendo gli occhi scuri e indagatori di Willy puntati sulla schiena. Salutai il mio fidanzato con la scusa che dovevo aiutare mamma a provare un abito e che «sai com’è diventata, una bambina capricciosa». Ci congedammo un con “ok” e un “a più tardi, amore mio, tesoro mio, cuore mio”. Mi facevano ancora un certo effetto quelle moine, a volte mi sembrava di vivere in un sogno, altre in una specie di gabbia invisibile. Impercettibilmente Christian era cambiato da quando ci eravamo messi insieme, era diventato meno sicuro di sé e più diffidente nei confronti degli altri. Anche nei miei. Sospirai voltandomi indietro, accennai un sorriso mesto a William che dal canto suo non aveva smesso il sorrisetto di scherno:
«Un rapporto basato sulla sincerità proprio» disse, nel frattempo che mi accomodavo sull’altalena libera. Gli lanciai un’occhiata di rimprovero.
«Credi che sarebbe stato opportuno dirgli che fossi qui?»
«Perché sei con me o perché sei in questa zona di malviventi?» Gli schioccai una seconda occhiata biasimevole. «Bella canotta, Cappuccetto» continuò, indicando il mio abbigliamento da mare. Era chiaro che stava tentando la sua solita tattica per farmi andare su tutte le furie, rivolgendosi a me con i suoi pessimi soprannomi. E ci stava riuscendo benissimo – come sempre.
«Non cominciare Will, ok?»
Perché mi hai baciato, avrei voluto ricordargli, quindi è inutile che fai lo spavaldo, avrei voluto aggiungere; invece mi limitai a fissarlo dritto negli occhi, usando un tono che non ammetteva repliche e lui lo comprese benissimo, abbassò lo sguardo riprendendo a dondolarsi sui talloni e sulle punte.
 
Il silenzio la fece da padrone per qualche minuto. Osservai il cielo azzurro, qualche nuvola bianca si stava addensando all’orizzonte, ma nulla di preoccupante: il meteo aveva garantito una giornata soleggiata e gradi al di sopra della media. Mi diedi una leggera spinta, piegando e allungando le gambe per mantenere un andamento costante; i cardini di ferro cigolarono tristi.
Notai che quella zona della città non era troppo trafficata, non c’erano veicoli in strada, né gente sui marciapiedi, né uccelli in cielo. Mi sforzai di ricordare la prima volta che avevo visto Willy in vita mia e mi resi conto che non lo sapevo. All’improvviso era come apparso dal nulla, come se un giorno fosse spuntato da dietro un angolo e mi avesse teso un’imboscata, facendomi andar di matto con i suoi pessimi vezzeggiativi: Pel di carota, Cappuccetto Rosso, Anna dai capelli rossi, Rosa, Azzurra, Verdina, Stellina rossa e quant’altro. Un giorno era arrivato nella mia vita e l’aveva scombussolata, simile a un tornado aveva spazzato via la noia di un’adolescenza piatta e banale. D’altronde sarei dove sono adesso se non l’avesse fatto? Lui era stato il mio effetto farfalla, il mio battito d’ali che era riuscito a mischiare le carte in tavola, non solo per quel determinato periodo della vita, ma per sempre.
Lo osservai di sottecchi: i lineamenti del viso erano rilassati, quasi malinconici, un po’ di barbetta ispida cominciava a spuntare sulle guance dalla carnagione più scura della mia e di quella di Christian. Rispetto a quest’ultimo aveva un’aria più da uomo, i tratti marcati e meno delicati, eppure c’era una dolcezza recondita che solo allora mi sembrò di notare. 
«Congratulazioni» esclamai all’improvviso. Era giunto il tempo di parlare.
«Grazie. Lu se l’è davvero vista brutta. Meno male che non sono nato femmina» sghignazzò, provando a stemperare l’aria che tirava fra noi con una delle sue solite battute.
«Non mi riferivo alla nascita di tuo nipote» arrestai l’andirivieni dell’altalena piantando i piedi per terra, si sollevò uno sbuffo di polvere. Lui si voltò a guardarmi di scatto, io stavo solo aspettando di incontrare i suoi occhi per affondare il colpo. «Le mie congratulazioni sono per il passaggio nella squadra regionale» lui distolse nuovamente lo sguardo per alzarlo sul cielo. Un aereo trafisse la quiete mattutina con il suo rombo attutito dal muro del suono,  dietro di sé una lunga scia color panna provava a inseguirlo senza mai raggiungerlo.
«L’hai saputo da Christian?»
«Perché non me l’hai detto, Will?» Con una mano afferrai la catena di ferro che legava l’altalena al palo orizzontale sopra le nostre teste, vecchio e arrugginito, arrestando il suo e il mio movimento ondulatorio.
«Non lo so» sospirò e io sentii la rabbia crescermi dentro.
«”Non lo so” non è una risposta» gli ringhiai contro.
Con tutta onestà ignoro il motivo scatenante che lo fece adirare a quel modo - forse il tono della mia voce o il fatto che ormai si trovasse con le spalle al muro - fatto sta che si alzò di scatto, il sedile dell’altalena dondolò violentemente all’indietro.
Non l’avevo mai visto così incazzato.
«Ti sei messa con Christian? Sei contenta di aver raggiunto il tuo obiettivo? E allora che vuoi adesso da me?»
Se c’è una cosa che mi fa imbestialire e quando mi si urla contro, in particolare se so di stare dalla parte della ragione. Balzai in piedi, provando a oppormi con tutti i miei 1,58 cm di altezza.
«Tu mi hai detto una bugia! Sei stato meschino, ti sei preso gioco di me fin dall’inizio!»
«Io volevo solo stare con te!» Mi urlò contro senza pensarci, d’impulso, e capii che quelle parole gli erano sfuggite di bocca perché si coprì il volto con la mano, dandomi le spalle, come se avesse combinato un macello.
Lo aveva fatto?
Forse…
«Perché non me l’hai detto?» Gli chiesi di nuovo, ma con più calma.
Mi volteggiava la testa. Un attimo prima sentivo un fuoco bruciarmi dentro, l’attimo dopo avevo brividi di freddo e la pelle d’oca lungo le braccia nude. Cercai a tentoni il sedile dell’altalena alle mie spalle e mi sedetti di nuovo.
Willy scosse il capo e ridacchiò, amaramente, poi si girò e tenendo la conta con le dita elencò tutti i segnali che mi aveva lanciato per farmi capire i suoi sentimenti. O per lo meno sperando che li comprendessi.
«Ti ho tenuta per mano, ti ho baciato, ti ho asciugato le lacrime, ti ho fatto sorridere quando eri triste, ti ho accompagnata fin sotto casa in piena notte, ti ho accarezzato il viso, ti ho dato il mio numero di telefono, ti ho disegnato un cuore, ti ho tenuto compagnia al pronto soccorso, ti ho abbracciato, ti ho portato a casa mia, ti ho presentato alla mia famiglia mostrandoti la topaia in cui vivo, ti ho raccontato i miei sogni e il mio passato, ti ho chiamato “Stellina mia” e quando tu mi mandavi a ‘fanculo io ti ho risposto che ti amavo. Cosa avrei dovuto fare più? Una dichiarazione in pieno centro cittadino?»
 
Rimasi a bocca aperta.
Mentre lui faceva la lista di tutti quei gesti, gli stessi mi passarono a uno a uno nella mente. Mi rividi al compleanno di Jenny, quando mi aveva minacciato che se non gli avessi dato la mano mi avrebbe baciato davanti a tutti, e seriamente aveva specificato. Mi rividi in quella volta che mi aveva baciato sulle labbra davanti a Cris, dopo che avevamo dato calci a un pallone nel campetto della scuola, quando gli ero caduta addosso cercando di sottrargli la palla e lui era scoppiato a ridere di gusto. Mi rividi all’angolo di una vetrina di articoli sportivi, in una serata uggiosa, con il cappuccio tirato sul capo a nascondere la mia stupida chioma rosa, e lui che con un occhio nero mi diceva di seguirlo, perché conosceva qualcuno che poteva aiutarmi. Mi rividi a camminare per la prima volta su quelle strade di periferia, con addosso lo sguardo indagatore e insieme curioso degli abitanti del quartiere e ricordai la sensazione di protezione che avevo provato quando mi aveva circondato le spalle con un braccio, a mo’ di difesa. Mi rividi a telefonargli disperata perché mamma era distesa in bagno, priva di sensi; ricordai la corsa in ospedale, il suo capo sulle mie cosce mentre gli spalmavo l’unguento che avrebbe dovuto lenire il livido intorno all’occhio che Cris aveva colpito con un pugno; l’ambulanza, le urla dell’uomo sulla barella, il moncherino grondante sangue, il braccio tagliato di netto portato come un neonato dall’infermiera e il nostro abbraccio. La mia supplica di stringermi forte, di stringermi di più. Lo rividi seduto sugli spalti montati per l’occasione in piscina, dopo la gara di nuoto: l’unico a essere rimasto quando tutti gli altri erano andati via, troppo impegnati per chiedermi come stessi, troppo concentrati sulle proprie vite per dare il giusto peso a quel podio e a ciò che aveva significato per me. Tutti troppo presi da sé, eccetto lui.
«Perché non me l’hai detto?» Chiesi di nuovo, simile a una litania, ma in verità stavo parlando più con me stessa che con lui.
«Sarebbe cambiato qualcosa?»
Bella domanda.
«Non lo so» risposi. Mi scoppiava la testa a furia di tutti quei ricordi che vorticavano come un uragano nella mia mente.
«”Non lo so” non è una risposta» mi apostrofò, abbozzando un sorrisetto stentato.
Aveva bei denti, bianchi e dritti, come mai non li avevo mai notati?
«Io… io credevo che mi prendessi in giro. Mi chiamavi in tutti i modi possibili e anche quando mi, cioè, mi… accarezzavi diciamo, sembrava che lo facessi solo per mettermi in imbarazzo.»
«Per certe cose non c’è bisogno delle parole, Cappuccetto, ma non avevo fatto i conti con la tua testolina bacata» lo guardai offesa, esclamando:
«Ecco, vedi!»
Lui sorrise, dolce e triste, poi tornò a sedersi sull’altalena, sembrava stanco, un uomo alla fine di una dura giornata di lavoro.
«Domani parto. Vado a vivere nella capitale» alzai lo sguardo con uno scatto, volevo capire se mi stesse prendendo per i fondelli, come era solito fare. Invece lui tenne gli occhi fissi sull’orizzonte, il sole stava girando e i suoi raggi ci stavano raggiungendo lentamente, in maniera inesorabile. «Un bel salto di qualità direi, vero Azzurra?» Mi osservò di sbieco, con un sorrisetto sempre più stentato.
«Te ne vai per tutta l’estate?»
«No, Cappuccetto, me ne vado per sempre.» Sentii un dolore appena percettibile nel petto, all’altezza del cuore. «Farò parte della Primavera della squadra capitolina, sono di loro proprietà adesso, possono fare di me quel che vogliono» scherzò, ma a me non andava affatto di scherzare.
«Non essere ridicolo. E la scuola?»
«Studierò nel loro istituto. É una società molto importante, che credi!»
Mi veniva da piangere. Dannate lacrime che mi sbucano dagli occhi nei momenti meno opportuni. Mi capita ancora tutt’ora. Le asciugai, fingendo che mi fosse entrata un po’ di polvere, da un periodo a quella parte ero diventata brava a fingere. Avevo finto di essere la fidanzata di Willy per un mese circa, figuriamoci se due lacrime potevano fermarmi.
Lui si alzò e si stiracchiò in maniera plateale. Mi invitò a pranzare a casa sua, affermando che sua madre e Lu sarebbero state felici di avermi come ospite, ma rifiutai la sua proposta, omettendo il fatto che avevo appuntamento con Christian nel primo pomeriggio. Allora si offrì di accompagnarmi alla fermata dell’autobus, che passava di lì ogni ora puntualizzò; senza rispondere lo seguii lungo le strade polverose e, insieme, attendemmo l’arrivo del mezzo pubblico, in piedi e all’ombra di un muro imbrattato di murales e di promesse non mantenute, di amori eterni e amicizie infinite. Nei secoli dei secoli. Amen.
Non parlammo molto, sembrava che non avessimo più nulla da dirci, solo quando vidi il bus giallo spuntare all’orizzonte mi vennero in mente tante di quelle cose che non avrei saputo neanche da dove cominciare. Balbettai qualcosa di insensato con voce tremante, però lui mi fermò ridendo di me, sembrava tranquillo e rilassato, ma aveva gli occhi velati di tristezza.
«Ti auguro tutta la fortuna di questo mondo Will, spero davvero che tu possa realizzare il tuo sogno e di… di…»
«Ehi, ehi, Verdina, frena! Non parto mica per la guerra!» Rise.
Come avrei fatto senza più quel sorriso?
«No, è solo che…» l’autobus rallentò davanti a noi con uno stridio di freni, le porte si aprirono verso l’esterno con uno sbuffo rumoroso e metallico. Salii i gradini uno a uno, piano, sentendomi improvvisamente pesante come un pachiderma. Sentii le ante richiudersi alle mie spalle, mentre mi sedevo nei posti centrali del veicolo, scelsi quello vicino al finestrino per poterlo guardare ancora. William teneva gli occhi rivolti all’insù, verso di me. Ci fissammo per un periodo di tempo breve, troppo breve. Non potevo sapere che quella era l’ultima volta che lo vedevo così, giovane ma con i lineamenti di un uomo e l’espressione di un bambino. Con tutti quei capelli scuri in testa e la pelle bruna del viso sbarbata e liscia. Ricordo ancora la sua T-shirt rossa con una frase scritta in carattere grassetto e blu, il pantalone di cotone lungo fino al ginocchio, i calzini corti e bianchi, le scarpette di tela. Ricordo che alzò una mano in segno di saluto, io sfiorai con le dita il vetro del finestrino, era fresco e umido. Willy mi sorrise, come faceva sempre ogni volta che mi vedeva, solo che io non ci avevo mai fatto caso. Le labbra iniziarono a tremarmi violentemente, le serrai in una fessura che sforzai di trasformare in un sorriso, con la speranza che stessero ferme.
L’autobus partì lentamente, simile a un dinosauro addormentato, e quando lui sparì alla mia vista sprofondai nel sedile e piansi in silenzio, fregandomene delle poche persone che erano a bordo e che mi lanciavano sguardi furtivi.
L’autista dell’autobus era un uomo grasso, sudato e che guidava con il braccio fuori dal finestrino. Quando mi avvicinai per chiedergli di farmi scendere alla prossima fermata, ero ormai in prossimità di casa, lui mi osservò attraverso lo specchietto retrovisore:
«Stia tranquilla, signorina, che la vita è lunga e fa delle belle piroette» mi fece l’occhiolino, rise mettendo in mostra i denti ingialliti dal fumo; mi limitai a ringrazialo e a scendere dal pullman.
In quella afosa mattinata di agosto l’omone alla guida del bus che mi aveva portato via da Will aveva avuto ragione: la vita è lunga e fa delle belle piroette!
La mia strada e quella di William si sarebbero incrociate ancora, ma tanti, tanti anni dopo e quando saremmo stati entrambi adulti, completamente diversi dai sedicenni che si erano conosciuti e sussurrati in segreto un arrivederci. Gli eventi della vita ci avrebbero cambiato nel profondo, sebbene tra i due quello che aveva subito una maggiore metamorfosi fosse lui. E nel senso più negativo possibile.

 

*****

 
Il giorno non era un problema. La notte lo era.
Lo sognavo sempre.
Lo sognavo in continuazione.
Lo sognai la prima notte e seppi, fin dal mattino che mi svegliai, che avrei continuato a farlo per molto tempo. Il più delle volte lo vedevo ritornare da me, ed ero così contenta che gli saltavo al collo quando mi diceva:
«Sono tornato. Sono tornato solo per stare con te
La mattina mi destavo boccheggiando, nella calura che sembrava soffocarmi, accorgendomi di stare nel mio letto, nella mia camera, nella mia casa e che lui non c’era, se ne era andato via e allora affrontare una nuova giornata diventava tremendo.
Quella fu l’estate più brutta e più bella della mia vita. Mi sembrava di vivere una doppia esistenza: di giorno ero la ragazza di sempre, con i boccoli rossi e le lentiggini, soprattutto ero la fidanzata di Christian; di notte ero una persona sola e sconsolata, che si ritrovava a pregare di incontrarlo almeno nei sogni.
La bella stagione trascorse lentamente, sonnecchiante e afosa. Quasi ogni giorno mi recavo in piscina per una nuotata, però durante i mesi estivi la struttura si trasformava in un’attrazione balneare, dove le persone si recavano a prendere il sole e a me infastidiva. Anche perché mi guardavano stranite con indosso il mio costume da nuotatrice blu scuro, severo e accollato; allorché iniziai a correre per scrollarmi di dosso i pensieri che mi portavo dietro dalla notte precedente, ma trovandolo faticoso abbandonai l’idea di scaricare il nervosismo sullo sport e decisi che l’unico modo per distrarmi fosse quello di concentrarmi esclusivamente sulla mia storia d’amore.

Christian non si rese mai conto di niente. O almeno credo. Ci vedevamo anche più volte in una giornata, ma per noi non era una novità, anzi ciò che ci aveva stranito erano state le settimane che ci avevano visti lontani e occupati con altre persone, in altre faccende.
Ormai ci conoscevamo benissimo dal punto di vista caratteriale, dell’uno e dell’altra sapevamo a memoria i gusti del gelato, il colore preferito, le canzoni che ci facevano emozionare; perciò imparammo a conoscerci sotto altri aspetti, per lo più fisici. Tuttavia, quando tentò un approccio decisamente avventato e invadente lo fermai, rossa di vergogna e di calore, lui comprese senza aggiungere altro. Mi baciò la testa e mi tenne fra le sue braccia, consolandomi per una tristezza che tenevo dentro e che lui neanche conosceva.
Quella stessa notte le sembianze di Christian che cercava un contatto azzardato con il mio corpo immacolato furono sabotate da Willy. Lanciai un mezzo urlo strozzato e mi ritrovai seduta al centro del letto, con il cuore che batteva all’impazzata, la fronte imperlata di goccioline di sudore e la notte ancora lunga fuori dalla finestra. Mi tenni sveglia fino all’alba, leggendo, bevendo, camminando come uno zombie per casa, sciacquandomi in continuazione il viso con acqua fresca. Feci di tutto pur di non riaddormentarmi, avevo troppa paura che lui tornasse a popolare i miei sogni.
Per fortuna con l’inizio del nuovo anno scolastico le cose andarono migliorando. La sera ero così stanca che sprofondavo in un sonno senza sogni. La prima notte che non lo sognai tirai un sospiro di sollievo, finalmente era finita; contemporaneamente sentii un gran vuoto pervadermi l’anima.
 
Quel Natale presentai Cris alla mia famiglia in veste di fidanzato ufficiale. Ovviamente lo conoscevano da una vita, ma come mio migliore amico. Papà lo salutò privo della simpatia che aveva sempre manifestato nei suoi confronti, adesso lo vedeva con occhi diversi e provai una gran tenerezza per lui. Mia madre mi disse che l’aveva sempre saputo:
«Non esiste l’amicizia fra uomo e donna, è impossibile!»
Quella notte, la notte di Natale, sognai Will dopo due mesi circa.
Ripresi gli allenamenti in piscina, ma feci sapere all’istruttore che non intendevo partecipare ad alcuna gara quell’anno. Amavo nuotare, amavo l’acqua, e non volevo che quella passione si trasformasse in una sfida perenne. Volevo semplicemente godermi il relax che il contatto con il mio elemento mi trasmetteva. Lui lo capì e smise di torturarmi con le sue sedute pesanti di vasca, bracciate e apnea.
Le cose con Cris andavano bene. Litigavamo poco, quel tanto che bastava, e il più delle volte ero io a sbraitargli contro cose insensate per il macabro piacere di farlo infuriare. Poi mi passava tutto, ridevo a crepapelle e lo abbracciavo. Lui mi scherniva affermando che avevo seri problemi mentali, allora io mi arrabbiavo di nuovo, chiedendogli se per caso non stesse insultando la malattia di mia madre.
Dopo un periodo di calma apparente, mamma ricadde in depressione e sebbene il dottore avesse consigliato un ricovero di poche settimane in una clinica per la cura della mente, mio padre si oppose come un povero diavolo e si sobbarcò tutto il peso della responsabilità di sua moglie. Disse che noi figli avevamo i nostri impegni, la scuola, e non avremmo dovuto preoccuparci di nulla. Mio fratello pensò bene di arruolarsi nell’esercito e di concludere gli studi attraverso l’accademia militare. Io promisi a me stessa che non appena fossi stata in grado di farlo me ne sarei andata via da qualche parte, per iscrivermi a medicina e fare il medico. Non confidai questa mia scelta a Cris però, per non influenzare le sue.
Non gli confessai nemmeno il fatto che io e Willy non eravamo mai stati veramente insieme, né lui mi chiese alcunché sul nostro rapporto. In realtà il suo nome era diventato una specie di tabù e io ne approfittai per non dargli spiegazioni imbarazzanti e – a quel punto - inutili.
Faci l’amore con lui, per la prima volta, l’estate successiva, a casa sua, quando i genitori andarono via per qualche ora. Avevo diciassette anni e nessuna fretta, ma una cosa tira l’altra, una carezza tira un bacio e alla fine ci ritrovammo sul suo letto, abbracciati, ansimanti e nudi.   
Anche i mesi estivi passarono, caldi, umidi, colmi di sospiri e di gemiti trattenuti. Io e Cris facevamo l’amore quasi ogni giorno, approfittavamo di ogni momento per stuzzicarci e amarci, in qualsiasi posto fosse disponibile al momento: casa sua, casa mia, la macchina di suo padre (che a volte gli prestava dopo che aveva preso la patente). Fu un periodo felice e nuovo per me, tutto da sperimentare e da assaporare, con nuove scoperte, nuovi odori, nuovi umori e sensazioni. Se passava un giorno senza vederci mi sentivo mancare l’aria, se non mi telefonava all’ora prestabilita andavo in paranoie. Iniziai a dipendere completamente da Christian, gli chiedevo consigli su cosa indossare per uscire e gli dicevo in maniera perentoria quello che invece doveva mettere lui. Sinceramente non so come fece a sopportarmi, poiché c’erano giorni che mi sarei presa a schiaffi da sola. Una notte, con la mente lucida e senza rumori attorno, dedussi che quell’attaccamento era una diretta conseguenza del fatto che non avevo nessun’altro a cui aggrapparmi, se non lui. Dopo l’amicizia che mi aveva legato a Jenny non riuscii più a entrare in confidenza con nessun’altra ragazza. Mia madre era sempre più squilibrata da sveglia, tanto che papà la imbottiva di calmanti che la facevano stare in uno stato perenne di sonnambulismo. Christian era il mio unico appiglio, l’unico salvagente in mezzo al mare, ma lui aveva i suoi impegni, le sue amicizie: gli allenamenti, lo studio, una famiglia normale a cui dedicare alcune ore della giornata, i compagni di squadra. I suoi genitori tenevano al fatto che, almeno una volta a settimana, tutta la famiglia fosse seduta intorno al tavolo e a pranzare o cenare insieme. In quelle occasioni non erano invitate persone estranee (come la sottoscritta), né erano permessi cellulari e computer. Così, per almeno due ore, capitava che non ci mettessimo in contatto. Fu durante una di queste cene che andai a trovare la mamma di Jenny.
 
Erano trascorsi quasi due anni dalla festa di compleanno di sua figlia, eppure quando la vidi mi sembrò passato solo un giorno. Mi accolse con un sorriso smagliante e una tale gentilezza che la somiglianza con la figlia mi destabilizzò. Solo allora capii quanto in realtà mi mancasse quella ragazza, quanto grande fosse stato il male che le avevo fatto e quanto dovevo averla delusa.
Accompagnandomi per mano lungo il corridoio, sprofondammo in contemporanea nel sofà di pelle fra morbidi cuscini, nel salone più elegante e costoso che abbia mai visto. Chiacchierammo a lungo, bevendo tè e mangiando pasticcini fatti in casa. Gli chiesi di Jenny e lei sospirò, immaginai che dovesse sapere tutta la storia e i motivi che ci avevano portato a quel punto, perciò tra le altre cose apprezzai il suo tentativo di non farmi pesare la mia colpa. Mi rispose semplicemente:
«Sta bene, Viola, adesso sta bene.» 
Mi sentii sollevata.
Mi mostrò con orgoglio le foto che aveva scattato durante il suo ultimo viaggio nei paesi del nord, fra immense distese ghiacciate, leoni marini e pinguini che, mi disse ridendo, adoravano mettersi in posa per lei. Quando rideva sembrava una ventenne. Poi balzò in piedi, la vidi avvicinarsi al mobile della scrivania e cercare nei vari cassetti che la costituivano:
«Ma dov’è? Accidenti, l’ho vista proprio una settimana fa…» la sua mano correva tra fogli, penne, foto ingiallite dal tempo, vecchi rullini Canon. «Ah, eccola!» esclamò, tornando da me e porgendomi una foto.
«Cos’è?» chiesi, prendendola dalle sue mani e osservandola. e da quel giorno ripresi a sognare Willy per i mesi a venire.
Era la foto che la signora ci aveva scattato al compleanno di Jenny, quando io e lui fingevamo di stare insieme. Eravamo seduti ad un tavolino, con due bicchieri vuoti davanti a noi, io ero sporta con il corpo verso quello di Will, che teneva un braccio intorno alla mia vita e la mano poggiata subito sotto il seno; l’altra mano, quella libera, stringeva le mie posate in grembo. Le nostre teste si toccavano, entrambi sorridevamo, io un po’ sforzata, lui sincero. Chiunque avesse visto quella foto ci avrebbe scambiati per due fidanzatini.
La gola si seccò, il cuore prese a battermi forte, le dita con cui tenevo la foto tremavano leggermente, non riuscivo a staccare gli occhi da quel volto bruno, senza barba, i folti capelli scuri e lo sguardo inteso, profondo, che sembrava fissarmi per davvero, come se fosse lì.
«É… è molto bella» dissi, porgendogliela, ma lei scosse il capo respingendola:
«Oh no, no. È tua» bevve un sorso di tè fresco, io tornai a chinare lo sguardo sull’immagine, lei mi osservò di sottecchi. «Era un bel ragazzo e sembrava davvero innamorato di te. Come mai è finita?» mi venne da ridere per quell’affermazione.
Possibile che ero stata davvero l’unica a non accorgermi di niente?
«É andato via, si è trasferito nella capitale» la guardai. «Posso tenerla allora?» la mamma di Jenny mi strofinò la schiena e con un gran sorriso mi rispose di sì, potevo tenerla.
La sera stessa, mentre ero distesa sul mio letto, mentre dalla finestra aperta entrava il frinire dei grilli e delle cicale, studiai l’immagine impressa nell’istantanea nei minimi particolari: il buffet sullo sfondo; le persone che ci circondavano; i miei capelli; ciò che avevo indossato; soprattutto scrutai lui. La mia espressione era cambiata negli anni, rivedevo una sedicenne impacciata e messa a disagio non solo dall’obiettivo della macchina fotografica, ma anche per la vicinanza di quel ragazzo che, più lo fissavo, più mi sembrava un estraneo.
Cosa ricordavo di lui? Poco o niente. Avevo dimenticato il tono della sua voce, così come della sua risata improvvisa, d’altro canto ricordavo vagamente il suo sorrisino di sbieco e lo sguardo da furfante quando si prendeva gioco di me. Chiusi gli occhi e ripensai al bacio che mi aveva dato dopo la nascita del bambino di Lu, alla sensazione di impotenza che avevo provato, con le dita intrecciate alle sue, spaventata da tutte quelle emozioni così incoerenti fra loro. Riaprii le palpebre e lo guardai ancora, alla luce soffusa dell’abatjour sul comò, chiedendomi se, come me, anche lui fosse cambiato, se fosse ancora il ragazzo allegro e ironico che avevo conosciuto. Se ogni tanto gli tornassi in mente.
Il giorno non era un problema. La notte lo era.
 



 

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Capitolo 14
*** Lasciami andare ***


Capitolo 14
Lasciami andare


 
 
Io e Christian ci lasciammo la sera del mio diciottesimo compleanno.
Senza litigare, senza urlarci contro la nostra frustrazione, senza rinfacciarci gli sbagli di uno o le mancanze dell’altra; consci del fatto che il forte legame che ci aveva unito per circa due anni fosse regredito fino a tornare alle dimensioni originali. Da mesi ormai la passione che ci aveva avvolto si era spenta, simile ai resti di una brace di cui non riuscivamo più a ravvivare le fiamme.
Ce lo dicemmo lontani da occhi indiscreti, appartatati nel giardino sul retro del locale che papà aveva scelto per festeggiare il raggiungimento della maggiore età da parte della sua unica figlia femmina.
Ricordo il vento freddo che mi faceva stringere nel cappotto; le foglie ingiallite sparse un po’ ovunque volteggiavano ai nostri piedi, qualcuna si posava sulla fontana dismessa dove un puttino nudo reggeva una caraffa da cui, immagino, sgorgasse acqua durante la bella stagione; i rami degli alberi rinsecchiti somigliavano a dita rattrappite di mani anziane; il cielo nuvoloso e grigio faceva da corredo alle sensazioni che provavo.
Glielo dissi dopo che si era chinato a lasciarmi un bacio sulla guancia, in segno di augurio. Oramai provavamo vergogna anche a sfiorarci le labbra, la nostra intimità si era ridotta all’osso, al minimo essenziale. Feci un respiro profondo, l’aria fredda penetrò fin dentro ai polmoni, la sentii raggelarmi anche il sangue, ma servii a schiarirmi le idee, ad aprirmi la mente. D’un tratto sapevo cosa volevo e come affrontare l’argomento. Trovando le parole giuste gli poggiai un palmo sul braccio, lui s’irrigidì a quel semplice contatto. Senza rancori gli feci notare l’inutilità di continuare quella commedia, di insistere su qualcosa che non era più, dovevamo guardare in faccia alla realtà: eravamo tornati ad essere ciò che eravamo sempre stati, ovvero due buoni – ottimi – amici, ma niente di più.
Lui pianse, spiazzandomi completamente. Si coprì il viso con entrambe le mani e poi mi strinse forte, come non faceva da tempo. Risposi al suo abbraccio, sollevata, e quando Christian mi sussurrò un grazie all’orecchio compresi che quelle lacrime non avevano nulla a che fare con la tristezza di perdermi, ma sapevano di liberazione.  Credo che quella situazione lo stesse uccidendo pian piano, come una tosse non curata bene potrebbe trasformarsi in bronchite, così il nostro rapporto lo stava portando alla rovina.
Insieme prendemmo la decisione di non gridare ai quattro venti la nostra separazione consensuale e per tutta la festa ci comportammo normalmente, cosa che non ci risultò affatto difficile. Sia noi che le persone che ci erano vicine erano così abituate a vederci come amici, ancor prima che come fidanzati, che nessuno notò la differenza.
Quella stessa notte Christian mi telefonò e mi confidò che gli mancavo, che si sentiva solo.
«Ho paura di perderti, Viola. Ho paura che smetteremo di essere amici adesso, che le cose tra noi cambieranno.»
«Ma figurati!» esclamai con un sorriso sincero. «Perché dovrebbero cambiare?»
E, ovviamente, cambiarono.
 
Il processo di mutamento fu lento in realtà, tanto che nessuno dei due si accorse in tempo reale di ciò che stava accadendo, del fatto che ci stavamo allontanando, eppure inevitabilmente accadde.
Anche dopo la fine della nostra storia d’amore continuammo a vederci di frequente. Fin tanto che c’era la scuola a unirci le cose proseguirono sulla stessa rotta, il cambiamento avvenne dopo l’estate degli esami di maturità. Durante un acquazzone di metà agosto ci rifugiammo in un bar e davanti a una coppa di gelato al caffè con doppia panna, mi confidò che fino all’ultimo aveva sperato di entrare a far parte di una squadra di calcio più o meno importante. Tuttavia, la sua grande passione era rimasta relegata alla nostra piccola cittadina di provincia e ai campetti di calcio delle scuole, perciò aveva deciso di seguire il consiglio di suo padre e di studiare per aiutarlo nella gestione dello studio commercialista di famiglia. Mi fece un sorriso amaro, era chiaro che quello non fosse il destino che aveva sognato per sé, ma sembrava non avere la forza necessaria per reagire e cambiare le cose.
Quando gli dissi che invece io mi sarei iscritta a medicina per diventare dottore, lui rimase a bocca aperta, sforzandosi di trattenere un risolino.
«Non sarà una passeggiata passare il test di ammissione» fu la prima cosa che affermò.
«Lo so, infatti sto già studiando da un anno a questa parte.»
«Non mi hai mai detto nulla.» Non sapevo cosa rispondere, perciò non lo feci. «Wow!» esclamò poi. «Scusami Viola se te le dico, ma non ti ci vedo proprio.»
Le sue parole mi ferirono nel profondo, e sarebbero tornate alla mente ogni volta che mi sarei trovata di fronte alle difficoltà dettate dalle scelte obbligate per inseguire la mia vocazione.
Anni dopo papà l’avrebbe incontrato con sua moglie e i loro due figli a spasso per il paese durante la festa patronale, quando chiese di me - attento a non farsi sentire dalla propria consorte - papà gli raccontò che dopo la laurea in medicina avevo preso parte ad un progetto benefico messo su dal dottore De Martino, che era stato anche il mio relatore di tesi, seguendolo in culo al mondo, nel sud del pianeta. Christian, rimasto a bocca aperta come mi riferì papà, stava per porgli un’altra domanda, ma poi sua moglie era tornata e si erano salutati.
Penso che sua moglie mi odiasse già da quando erano fidanzati.
Non ne ho la certezza, però ho questo sentore e io al sesto senso ci credo: se non lo avessi fatto avrei ucciso tanti di quei pazienti e, molto probabilmente, sarei morta io stessa.
Christian e sua moglie Roberta si conobbero quando tutti noi avevamo vent’anni. Io ero al secondo anno d’università e le cose fra noi erano già deteriorate, ci vedevamo poco soprattutto perché io avevo cambiato città. Ci sforzavamo di sentirci almeno una volta a settimana, spesso nel week end o comunque quando lo studio ci lasciava un po’ di tregua. All’inizio ci telefonavamo, poi a poco a poco ci riducemmo a messaggi telegramma e e-mail. Fu proprio in una di queste che mi raccontò della “bellissima ragazza che è venuta oggi pomeriggio allo studio. Aveva bisogno di un consulto per quanto riguarda la compilazione di un modulo di accompagnamento per la nonna disabile. Ha dei capelli bellissimi e lunghissimi, scuri, come piacciono a me. Le ho detto di ripassare domani mattina, quando avrò più tempo da dedicarle. Intanto le ho scritto il mio numero di cellulare su un biglietto. Spero proprio che mi chiami, Viola”.
Dopo aver letto la descrizione di quella fanciulla non potei non pensare che ci fosse una certa somiglianza con la Jenny adolescente, ma non glielo scrissi. Non so precisamente cosa mi infastidii della sua e-mail, fatto sta che mi mise di cattivo umore. La sera stessa le sue preghiere si avverarono e dopo neanche una settimana erano già inseparabili. Tuttavia, quando lei venne a sapere che il suo fidanzato si scambiava messaggi con la sua migliore amica, nonché ex ragazza, si ingelosì e io e Cris ci allontanammo sempre più, fino a raggiungere un punto di non ritorno. Non me lo disse mai schiettamente, ma intuii da alcune sue frasi che fosse stato meglio smettere quello scambio epistolare e, nonostante tutto, nonostante la rabbia iniziale che mi pervase fino a rendermi cieca, fino a farmi tirar fuori dall’armadio la valigia, urlando: «Adesso gliela faccio vedere io a quella cretina!» compresi appieno l’apprensione di quella sconosciuta.
In realtà fu soprattutto merito di Jenny, mia coinquilina durante gli anni universitari, se riuscii a ragionare e a tornare sui miei passi. Jenny mi prese per le spalle costringendomi a sedere al tavolo della cucina, tenevo ancora la valigia stretta fra le braccia. Preparò il caffè e mi chiese:
«Tu saresti stata contenta se io e Christian avessimo mantenuto i contatti anche dopo che voi due stavate insieme?» Sorrise. «Lascialo andare, Viola» disse. «È ora di lasciarlo andare.»
A quelle parole mi alzai trascinandomi nella mia stanza, tirando dietro di me il trolley e togliendovi da dentro le poche cianfrusaglie che vi avevo messo, accorgendomi solo allora di aver dimenticato la biancheria intima.
Così mi resi conto che quella ragazza, Roberta, non aveva tutti i torti: chi vorrebbe che il suo fidanzato continuasse a sentirsi con l’ex?
Io no di certo.
 

*****
 

Incontrai Jenny quasi dopo un anno di università. Mi svelò che si era già accorta di me, un giorno mi aveva notato nei corridoi della facoltà di medicina e da allora aveva fatto di tutto per non incrociarmi, arrivando addirittura a studiare gli orari e i corsi che seguivo per starmi alla larga. Mi aveva evitato senza ritegno.
La prima volta che la vidi fu durante una conferenza, dove lei sedeva al fianco del professore anziché fra noi studenti. Faticai a riconoscerla, era cambiata tantissimo: i suoi lunghi capelli castani - che tanto avevo invidiato a sedici anni – si erano trasformati in un caschetto, così lisci e biondi che sembravano finti; era spaventosamente magra, indossava un tailleur rosa con una camicia di seta bianca e scarpe scollate con un po’ di tacco. Ebbi la certezza che fosse lei solo quando si alzò in piedi, davanti ad una platea di circa centocinquanta studenti universitari della sua età, per elencare i sintomi di una malattia chiamata distrofia muscolare, mentre sulla parete scorrevano diapositive scoraggianti.
Per poco non svenni.
Intorno a me si alzò un bisbiglio sommesso, qualche risolino mal trattenuto qua e là, fra le varie idiozie ne udii una colossale:
«Quella se la fa con il professore.»
«Ma chi? Il professore Andrea De Martino?»
«Per stare lì alla cattedra dopo un anno di corso come minimo gliela deve dare
«Ma quello è una mummia, una palpatina e via, l’esame è dato!»
Tra le risatine maliziose e i commenti che seguirono, non riuscii più a distogliere lo sguardo dal professore che sedeva al centro della cattedra e Jenny, in uno zapping che mi fece venire il mal di testa e di certo non mi aiutò a capire un’acca di ciò che stavano blaterando riguardo alla malattia genetica.
Alla fine della conferenza attesi la mia amica fuori dall’aula magna, dalla quale ne uscì spalla a spalla con il professore De Martino. La chiamai e quando lei si voltò verso di me ogni dubbio svanì. Era proprio Jenny. La vidi dire all’uomo che accompagnava che l’avrebbe raggiunto subito, il tempo di spendere due parole con me. Si avvicinò e mi tremò la voce. Improvvisamente mi ricordai che non la vedevo dal giorno in cui mi presentai a casa sua per confessarle che ero io la ragazza di cui si era invaghito Christian e quindi il motivo per il quale la loro storia d’amore era finita.
«Cielo, Jenny, sei proprio tu, non ci posso credere!» dissi come in trance, lei allargò le braccia. Sembrava più grande di me di una decina d’anni, l’espressione seriosa la invecchiava, lo sguardo dolce si era indurito, sebbene il suo viso giovane fosse sempre lo stesso. Le labbra erano imbrattate di rossetto color mattone.
«Eccomi, in carne e ossa. Alla fine ci siamo incontrate» capì così che lei si era già accorta di me e che evidentemente aveva fatto particolare attenzione per non incrociarmi. Avrei voluto dirle tante cose, tutto quello che per anni era stato taciuto dentro me, ma si congedò con un glaciale «vado di fretta.» Eppure non mi arresi. Mi era già sfuggita una volta e non avrei permesso a nulla al mondo di farlo accadere ancora.
Per tutto il secondo anno universitario feci l’esatto contrario di ciò che aveva fatto lei: la pedinai come uno stalker. Ogni scusa era buona per porgerle domande inerenti agli esami da sostenere e che alla fine si trasformavano in curiosità personali: dove sei stata? Cosa hai fatto? Perché non ti sei fatta più sentire?
Un giorno litigammo con ferocia, ma ci servì per chiudere quel capitolo della nostra amicizia e iniziarne uno nuovo. Ero in mensa, il vassoio del pranzo fra le mani, quando la notai da lontano la raggiunsi. Senza neanche chiederle il permesso mi sedetti al suo stesso tavolo, proprio di fronte a lei, cominciando con una trafila di domande, fino a farla spazientire:
«Senti Viola, è inutile che continui a girarci intorno. Dimmi quello che devi e finiamola qui!» Esclamò, perciò presi la palla al balzo.
«Voglio tornare a essere tua amica» e li si scatenò il putiferio. La lasciai sfogare, mangiando foglie d’insalata e bevendo un succo alla pesca. Mi ringhiò contro che le avevo rovinato l’esistenza, che non era più la stessa persona che avevo conosciuto alle superiori – di questo me ne ero già resa conto da sola – e che non aveva alcuna intenzione di ridiventare mia amica, che tra di noi poteva esserci solo ed esclusivamente un rapporto universitario, perché costretto dall’evidenza, ma niente di più.
«Amavo Christian con tutte le mie forze e non ero veramente fidanzata con Willy.» Jenny sbatté le palpebre un paio di volte, non capiva. «Avevamo fatto finta di stare insieme solo per far ingelosire Cris che, tra l’altro, stava con te perché tuo zio avrebbe potuto farlo entrare nella squadra regionale. Ci volevamo entrambi, io e Christian, ma avevamo scambiato l’amicizia per amore. Ci siamo lasciati dopo appena due anni.»
«Sei una stronza Viola, lo sai?»
«Si, credo di si» e non sai tutta la storia di Will, pensai. «E ti dirò di più, mia cara: il biondo non ti dona, ti fa sembrare scialba, insignificante e vecchia.»
«Vaffanculo, Viola!»
Sorrise e tornammo a essere amiche.
Le voci che giravano su Jenny e il professore Andrea De Martino erano vere. Lei stessa non tentò neanche di nasconderlo quando glielo chiesi, mi guardò con i suoi occhi profondi e disse:
«Si, è vero, e allora? I ragazzi della nostra età sono tutti stupidi e superficiali e non ci sanno fare.»
«Ha quarant’anni più di te» le feci notare trattenendo a stento il disgusto di immaginare le mani del professore su di me. Era di sicuro un uomo attraente che teneva in modo maniacale al suo aspetto, con la barbetta curata e i capelli brizzolati sempre pettinati, ma restava un uomo di oltre mezzo secolo.
«Sono solo trentacinque» puntualizzò e le scoccai un’occhiata di biasimo, ma Jenny fece spallucce e con un gran sorriso ammise: «inoltre potrai ricavarne anche tu dei vantaggi da questa mia storia clandestina con il professore, ci hai pensato?»
No, non ci avevo pensato ovviamente, non ero una che cercava favori, avevo imparato da tempo a cavarmela da sola, in particolare dopo l’aggravarsi della malattia di mamma; in ogni caso Jenny non ebbe tutti i torti. Il professore De Martino, primario del reparto di ortopedia del policlinico del capoluogo, ebbe un ruolo fondamentale nella mia vita e nella carriera medica. Non avevo in mente di fare l’ortopedico, ma accettò di buon grado di aiutarmi a smaltire le ore di tirocinio che mi servivano per chiudere il terzo anno universitario, prendendomi sotto la sua ala protettrice e portandomi nel suo reparto. Era un persona taciturna, molto riflessiva e ben presto mi resi conto di quanto fosse venerato tra i suoi colleghi e pazienti.
In verità fu Jenny, l’anello che ci legava, a insistere affinché lavorassi con lui. Inizialmente avevo creduto che la mia amica si fosse data da fare per il semplice fatto che le avevo confessato di essere preoccupata a causa delle diverse ore di tirocinio che dovevo svolgere, ma che a qualsiasi dottore/professore lo avessi chiesto mi avevano risposto con garbo che non c’erano posti liberi per tirocinanti nei propri reparti. Così, in una grigia sera invernale, era giunta nella mia camera con l’euforia alle stelle: Andrea De Martino, il suo fidanzato, aveva accettato di darmi una mano a raggiungere le ore di tirocinio che mi mancavano. Sbuffando le dissi che odiavo ortopedia.
«Che t’importa! Non devi mica laurearti, si tratta solo di un mese» aveva risposto scacciando le mie parole con un gesto della mano. 
«Sono quasi sei ore al giorno.»
«Ti divertirai» mi aveva fatto l’occhiolino uscendo dalla stanza e lasciandomi imbambolata a fissare la porta che si era chiusa dietro.

Il giorno seguente mi presentai al ricevimento del professore, imbarazzata per la situazione che mi aveva portato lì, ma lui non si scomodò e con il suo fare impassibile, fissandomi da dietro una folta barba e attraverso occhi color ghiaccio, mi diede appuntamento alle otto e trenta del giorno dopo al terzo piano dell’ospedale, qui avrei dovuto chiedere di lui alle infermiere. Mi congedò con un cenno del capo e mi chiesi come avesse fatto Jenny a fare breccia nel suo cuore gelido, solo con il tempo avrei invece scoperto quanto fosse buono e altruista.
Quella notte dormii poco e male. Mi appisolai solamente mentre fuori iniziava ad albeggiare, sognando William che non vedevo da cinque anni circa. Ormai avevo smesso di pensare a lui da così tanto che la sua esistenza era diventata, a sua volta, una sorta di sogno, come qualcosa di impalpabile. Incorporeo.
La sveglia suonò alle 6.30, trovandomi stanca e nervosa. Jenny mi attendeva in cucina, aveva preparato la colazione, accogliendomi con un sorriso smagliante:
«Buongiorno!» esclamò con troppa enfasi, mentre io osservavo il tavolo colmo di vivande: fette biscottate, burro, marmellata, biscotti integrali, cornetti imbustati, succo di frutta all’ace (che detesto!), latte e caffè caldo.
«Ok, che succede?» Chiesi, accomodandomi con sospetto.
«Niente. Non posso preparati la colazione?» La guardai intensamente. «Davvero, proprio niente» si sedette di fronte a me e mangiammo insieme.
Quel “proprio niente” nascondeva un “proprio tutto”.


L’ospedale era enorme, caldo e sapeva di disinfettanti e alcool, di malattie e speranza. Tirai via i guanti di velluto e li riposi in borsa, insieme alla sciarpa e al cappello di lana. A dispetto dei 4°C che c’erano fuori, lì dentro sembravano i tropici. Feci le scale fino al terzo piano, leggendo la didascalia sulla porta: Rep. di Ortopedia.  
L’orologio appeso alla parete mi disse che ero in anticipo di un’ora almeno, ma citofonai ugualmente. Mi accolse un’infermiera bassa e tonda, quando mi presentai disse che il dottore era già in attesa. Nello spogliatoio indossai un camice bianco e trovando un solo armadietto vuoto ne approfittai per riporvi le mie cose.
Il professore De Martino era nel suo ufficio, alcune scartoffie e diverse radiografie  ricoprivano l’intera superficie della scrivania, nella mano destra teneva una tazza fumante di tè. Non feci neanche in tempo a studiare i vari attestati appesi alle pareti che immediatamente Andrea scattò in piedi, doveva sfiorare il metro e ottanta di altezza, il suo aspetto nordico e gli occhi color ghiaccio mettevano soggezione, ciò nonostante sembrava sollevato di vedermi; abbandonò la tazza sul suo piattino, afferrò una busta dal divanetto all’entrata e mi ordinò di seguirlo. Marciò davanti a me per quasi tutto il corridoio del reparto, tinto di verde acquamarina, parlandomi a raffica. Estrassi un taccuino dalla tasca e cominciai a prendere appunti:
«Seguirai un post-operatorio. Non è un caso difficile, lo è il paziente.»
«Ha subito una operazione grave?»
«Di routine» d’improvviso si fermò e per poco non gli finii addosso. Il numero sulla stanza ciatava 432. Lo guardai sospirare mentre prendeva dalla busta alcune radiografie. «Rottura del corno anteriore del menisco. Ho eseguito personalmente l’operazione più di una settimana fa, ma il paziente non si è ancora alzato dal letto e non ha cominciato alcuna riabilitazione…» si fermò, fissandomi intensamente.
«Una settimana fa? Ma il post operatorio prevede al massimo due o tre giorni di risposo» dissi, smettendo di prendere appunti.
«Infatti. Ha fatto i compiti a casa, signorina» sorrise. Allora compresi cosa avesse voluto dirmi pocanzi: non era un caso difficile, il paziente lo era.
«Il degente rifiuta le terapie?» Chiesi, conoscendo ormai la risposta.
«Se non riprende quanto prima a muovere il muscolo, rischia danni irreversibili e mi dispiacerebbe saperlo disabile a vita. Mi serve che lo convinca e che lo segua in questo difficile percorso» aveva bisogno di una babysitter in pratica. «Jenny mi ha assicurato che potevo fare affidamento su di lei. Venga, glielo presento.»
Il professore De Martino aprì la porta della camera dopo avervi picchiato contro le nocche un paio di volte, come fosse stato un codice segreto per annunciarsi. La stanza era in penombra, non riuscivo a vedere niente, a parte le sagome appena accennate del piccolo armadio, di una sedia pieghevole e del letto. L’aria era satura di odori forti, medicinali ma anche di muschio e stantio.
«Buongiorno!» esclamò il dottore con un tono di voce così allegro che faticai a riconoscere. «Dormito bene?» In tutta risposta udii solo un frusciare di coperte. De Martino si chinò a dirmi di tirare le tende e aprire un’anta della finestra. «Non si respira qui dentro» aggiunse, senza preoccuparsi che il paziente potesse sentirlo.
La debole luce del sole d’inverno entrò flaccida e spenta, illuminando la camera, dalla quale si aveva una splendida veduta sulla catena montuosa ricoperta di neve, ai cui piedi si estendeva l’intera città, in tutto il suo splendore. Il freddo mi colpì come un pugno in pieno viso, ma inspirai a fondo: non mi ero resa conto della mancanza d’aria fino a quel momento.
«Verdina!»
Quasi mi venne un colpo.
Era la voce di William quella che avevo sentito? Possibile che fosse proprio quella che credevo di aver dimenticato e che invece ricordavo ancora benissimo. E non era mutata neanche di mezzo tono.
Mi voltai a guardarlo, il cuore batteva così forte che pulsava fin nella gola. Era cambiato, ovviamente, eppure aleggiava nella sua espressione ancora quell’aria da furfante sedicenne e il suo intramontabile sorrisetto di scherno.
«Wi-Will?» balbettai.
«Per servirti, Cappuccetto.»

 

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Capitolo 15
*** Chi sei? ***


Capitolo 15
Chi sei?



Ancora oggi sono sicura che fu il colore dei capelli a dargli la certezza che fossi proprio io. Non ci sono altre spiegazioni, se non il fatto che sapesse che mi sarei occupata di lui durante la sua convalescenza, ma quando glielo chiesi negò stoicamente.
«Dimmi la verità, hai chiesto esplicitamente di me?» gli domandai un giorno, mentre lo aiutavo a muovere i primi passi post-operazione.
«No» rispose a stento, stringendo i denti per il dolore e con il viso madido di sudore, lo asciugai con un panno di cotone.
«Sicuro? No, perché mentirmi è il tuo passatempo preferito» ogni momento e ogni discussione erano buoni per ricordargli di quando avevamo sedici anni e nonostante si spacciasse per il mio finto fidanzato, non mi aveva detto come stavano veramente le cose ed era evidente che non avevo ancora metabolizzato il tutto.
«Sai una cosa Rosetta?»
«Viola.»
«Sei diventata davvero noiosa, una volta eri più divertente» con uno sforzo enorme si sedette sul tappeto che stava percorrendo, mantenendosi a entrambe le sbarre che correvano parallele ai suoi fianchi. Mi strappò via l’asciugamano e si deterse la faccia, il collo e le braccia nude imbrattate di tatuaggi in stile tribale. Io mi piantai proprio dinnanzi a lui, le mani sui fianchi.
«Ehi, che fai? Non abbiamo ancora finito!»
«Invece sì, io ho finito. Chiama gli infermieri e fatti portare una sedia a rotelle.»
«La tua camera è qui di fronte, potresti sforzarti di…» William appallottolò il panno di cotone e lo lanciò con forza contro la parete alle mie spalle.
«Chiama-gli-infermieri ho detto!»
Feci un respiro profondo, provai a contare fino a dieci, ma al tre sbottai:
«Io sarò anche diventata noiosa, ma tu sei diventato uno stronzo!» non rispose, né mi guardò e a me non rimase altro da fare che obbedirgli.
 
Willy era cambiato in tutto, a 360°.
Il primo mutamento che risaltò fu, ovviamente, quello fisico. Alla luce debole del sole invernale notai che il taglio a punta sulla testa manteneva ancora la sua forma originaria, benché urgesse una spuntatina nei lati. Il viso era scavato e tendente al grigio, cosa che quasi mi preoccupò, ma in fondo per un paziente che ha da poco subito un’operazione è normale avere un colorito malsano, inoltre se ne stava rinchiuso in quella stanza 24 ore al giorno, di certo non poteva presentare una bella cera con tutti quei fattori a sfavore. Metà volto era ricoperta dalla barba che, come i capelli, aveva bisogno di essere rasata. Gli donava un’aria da trasandato che non mi piaceva per niente.
Ero sotto shock. Avevo sognato così tante volte quel momento, l’attimo in cui ci saremmo rivisti - se mai ci fossimo rivisti - che mi sentivo come in una bolla d’aria, i suoni si attutirono, l’aria divenne pesante, il tempo fermò la sua corsa. Lui allungò una mano nella mia direzione e io la presi nella mia, muovendomi al rallentatore. La strinse, mi sorrise, la bocca una linea sottile e grigiastra che spiccava fra la barba nera.
«Sei sempre uguale, Cappuccetto.»
No, non è vero, avrei voluto rispondergli, sono cambiata, sono così diversa che stenteresti a riconoscermi, non sono più l’adolescente che hai… abbandonato.
«Tu invece hai un aspetto pessimo» dissi d’impulso e lui scoppiò a ridere, gettando la testa all’indietro; poi il professore De Martino si schiarì la voce e solo allora mi ricordai della sua presenza. Ritirai la mano da quella di Will e mi scusai, ero stata inopportuna, ero desolata, non si sarebbe ripetuto più. Ma con un gesto della mano il dottore fece intendere che andava bene così, affermando che forse ero proprio la persona più adatta a gestire quel caso.
«Sai quanti infermieri e psicologi ha fatto fuggire questo qui?» udendo le parole del professore, Willy si chiuse a riccio, le braccia conserte e la fronte corrugata.
« Le infermiere erano tutte brutte e gli infermieri mi mettevano mani ovunque
«Facevano solo il loro lavoro. Poiché non volevi alzarti dal letto manco per pisciare, non avevano altra scelta.»
Notai subito come quei due fossero in confidenza e, nei giorni successivi, compresi che il dottor Andrea era il suo ortopedico personale, tanto che lo aveva seguito fin dal suo arrivo nella squadra. Dopo quel simpatico siparietto, il professore mi invitò a seguirlo nei corridoi, qui mi spiegò a grandi linee la situazione, chiedendomi del mio rapporto con Will.
Bella domanda, pensai. Cosa siamo?
«Ci conosciamo da tempo» fu la mia risposta vaga e ciò sembrò bastargli.
«Il paziente ha avuto un grave infortunio alla gamba destra che non gli comprometterà la vita sociale, ma la sua carriera calcistica» scossi leggermente il capo, non capivo o non volevo capire. «Non potrà più giocare a calcio» quelle parole mi arrivarono addosso con la stessa violenza di una bomba. Mi portai le mani alla bocca.
« E lui lo sa?»
«Si, gliel’abbiamo spiegato con una troupe di psicologi che lo seguono ancora tutt’oggi. Non ha fatto scenate drammatiche, ha detto che lo sapeva già, lo aveva capito quando aveva sentito l’osso rompersi in campo, e che se non poteva più giocare a pallone tanto valeva evitare tutti i dolori della riabilitazione e restarsene a letto.»
Rimasi sbalordita. Più che dalla notizia in sé dalla reazione di Will. Il ragazzo che ricordavo io aveva superato vicissitudini che avrebbero demoralizzato qualunque essere umano. Il ragazzo che ricordavo io era sempre sorridente, sempre pronto ad aiutare il prossimo, mai sgarbato o maleducato. E ora, a soli venti anni, giaceva in un letto d’ospedale, con i capelli arruffati e un mucchio di peli in faccia, senza voglia di combattere per rialzarsi, senza la voglia di uscire all’aperto per respirare l’aria fresca e sentire i raggi del sole sulla pelle.
«Quando ne ho parlato a Jenny…» sentendo quel nome sussultai: ecco chi aveva progettato tutto. «… mi ha convinto che tu fossi l’unica in grado di smuoverlo dal suo stato di torpore, che saresti arrivata dove anche i psicologi hanno fallito. Tengo in maniera particolare a questo ragazzo, perché è giovane e può vivere una vita normale
Se pensava di rincuorarmi o darmi forza con quelle parole, il professore quel giorno si sbagliò di grosso. Mi stava facendo carico di responsabilità che non mi spettavano: non ero una sua specializzanda che mirava a diventare chirurgo ortopedico, né avevo in realtà così tante cose da spartire con quel paziente a cui, diceva, di tenere in modo particolare.
Si, tra me e Will c’era un passato e alcune cose erano ancora irrisolte, ma non ci vedevamo da così tanti anni che se lo avessi incontrato per strada avrei faticato a riconoscerlo.
Ok, forse lo avrei riconosciuto all’istante, il problema vero era che avevo paura di fallire. Nel bene o nel male avevo imparato a conoscerlo e se a sedici anni era testardo come un mulo, non osai immaginare come fosse diventato negli anni, con una gamba rotta e la prospettiva di dover fare atroci sedute di riabilitazione, pur sapendo che comunque non avrebbe più potuto scendere in campo: la sua passione, la sua vita. Il calcio era il motivo per cui era andato via dalla sua città, da sua madre e da Lu. Era il motivo per cui era andato via da me, lo stesso che però ci aveva fatto ritrovare. Strano a volte il destino. Tornando a casa una sera, mentre ero mezza addormentata con la fronte contro il finestrino della metropolitana, stanca e avvilita, mi tornarono in mente le parole che l’autista del bus mi riferì il giorno in cui io e Will ci salutammo: la vita è lunga e fa un sacco di giri. Non ricordo se la frase fosse proprio così, ma più o meno il senso era questo.
 
Il professore mi fece tornare con i piedi sulla terraferma quando il suo cercapersone prese a suonare. Lo vidi mentre lo estraeva dalla tasca e attraverso le lenti degli occhiali da vista vi leggeva il codice riportato. Quindi mi guardò, annunciandomi che doveva assentarsi per diverse ore, aveva un operazione che lo attendeva. Smise di far strimpellare il cercapersone premendo un tasto e riponendolo dove l’aveva preso:
«É tutto tuo» mi disse. «Puoi anche rivolgerti a lui con insulti e offese se questo servirà a farlo smuovere, hai il mio permesso. E se un infermiere ti rimprovera, digli che te l’ho ordinato io» accennò quello che per lui doveva essere un sorriso e che a me mise i brividi.
Per come si comportò Will in quel mese in cui gli feci – praticamente – da balia, credo che lo avrei preso a cattive parole anche senza il permesso del dottore. In fondo non era una cosa che mi veniva difficile: era una reazione volontaria che riusciva a cacciare fuori il peggio di me, proprio come a sedici anni.
Prima di dedicarmi a lui però, un pensiero non smetteva di darmi pace, perciò scivolai fino agli spogliatoi. Qui presi il cellulare e mi chiusi in bagno, sedendomi sul coperchio del water attesi la risposta di Jenny.
«Si?»
«Sei stata tu? Tu lo sapevi?» le chiesi cercando di non urlare.
«Sorpresa!» esclamò lei con troppo entusiasmo.
«Sorpresa? Jenny ma come ti è venuto in mente?»
«Perché? Non sei contenta?» mi domandò con quella vocina da bambina che faceva quando sapeva di essere dalla parte del torto. La sentii addentare qualcosa, forse una mela.
«Non è una questione di contentezza oppure no. La questione è che avresti dovuto dirmelo che c’era di mezzo lui .»
«E tu avresti dovuto dirmi che c’era qualcosa fra te e Christian» mi rispose con la bocca piena, mentre io, rinchiusa nel bagno dell’ospedale, roteavo gli occhi al soffitto bianco. Ogni volta che voleva evitarsi una ramanzina, Jenny metteva in mezzo quella storia perché sapeva che così facendo avrebbe capovolto la situazione, afferrando il coltello dalla parte del manico.
«Ti odio» le dissi, sconfitta. «E smettila di mangiare!» ringhiai poi, quel continuo masticare mi stava dando sui nervi, già abbastanza provati. Lei ridacchiò, ma perlomeno smise di mangiucchiare.
«Senti Viola, Andrea mi ha raccontato che aveva questo paziente che rifiuta la riabilitazione. I psicologi gli hanno riferito che ha bisogno dell’affetto di un parente o comunque di un amico, di una persona fidata, ma la sua famiglia non può venire a trovarlo e non ha amici se non quelli di squadra, che però sono impegnati con il campionato e altri grilli per la testa. Ci vuole qualcuno che lo conosca bene, che sappia come prenderlo nei momenti più delicati e difficoltosi e io ho pensato a te» ci fu un attimo di silenzio. «Ho fatto male?»
Iniziava a dolermi la testa. No, probabilmente Jenny non aveva tutti i torti, tuttavia restavo convinta del fatto che avrebbe dovuto avvertirmi a cosa stavo andando incontro e che, in ogni caso, mi stavano mettendo addosso una pressione e un fardello che non mi competeva.
Come avrei potuto lavorare serenamente avendo a che fare con lui?
La salutai e lei mi diede l’in bocca al lupo.
Come se mi stessi trascinando un macigno incollato alla schiena, uscii dal mio nascondiglio e tornai nella stanza di Willy, bussando alla porta prima di entrare. Non ebbi risposta, ma l’aprii comunque. Lo trovai a pancia in su, con le coperte tirate fino al petto, le braccia a sostenere il capo e gli occhi, dapprima rivolti al soffitto, si voltarono a squadrarmi.
«Oh Celestina, iniziavo a credere che ti avessi vista in sogno» chiusi la porta e mi avvicinai al letto, ripetendomi in testa una sorta di omelia “è malato, non ascoltare quel che dice, è malato, non potrà più giocare, sii gentile, è malato”. Lui seguì i miei movimenti, tenendo sempre quell’aria da saputello e quel mezzo sorriso che si intravedeva attraverso la barba. La detestavo, lo faceva sembrare una persona diversa, mi sembrava di aver di fronte chiunque altro, tranne che lui. Con la mano destra sfiorò il lembo del camice bianco che indossavo.
«Ti sta bene. Ti dona. Ti conferisce un’aria adulta … e sexy» mi fece l’occhiolino e io risposi con un sorriso, sedendomi sul bordo del letto, attenta a non sfiorarlo neanche per sbaglio. Ci guardammo negli occhi per un po’, ci studiammo, ripensammo a tutto il tempo che avevamo vissuto separati, alle coincidenze del destino che ci avevano fatto rincontrare in simili circostanze.
«Il dottore mi ha raccontato quello che ti è successo» dissi tutto d’un fiato, prima o poi avremmo dovuto affrontare l’argomento, tanto valeva farlo subito e nella calma piatta che era la sua stanza.
«Meglio, mi ha tolto il fastidio di farlo personalmente» la parola fastidio mi disturbò, ma ricordai il mantra (“è malato, non ascoltare quel che dice, è malato, non potrà più giocare, sii gentile, è malato”) e rimasi muta. «Quindi tu, Bianca, saresti l’arma che vorrebbe usare per farmi fare quello che vuole.»
«Mi chiamo Viola e non sono un’arma. Senti Will, il dottore sa che se non ti dai una mossa e cominci le terapie non riuscirai più a-»
«A giocare a calcio?» il suo tono era cambiato, era diventato così tagliente che avevo paura di ferirmi. «Non potrò comunque riprendere a giocare, mi sembrava di aver capito che te lo avesse detto il professorone.»
«Non prenderti gioco di lui, come fai con tutti. È il tuo medico è devi ascoltarlo!» mi alzai con uno scatto, avendo improvvisamente caldo. Lì dentro i termosifoni erano troppo alti, mentre fuori c’erano meno di 10°C.
«Stammi a sentire Cappuccetto: non sarò il tuo cucciolo da salvare, quindi se hai altro da fare puoi anche andartene.»
«Per tua sfortuna il mio unico compito e badare a te, che stai diventando un vegetale, altro che cucciolo.»
«Bene, allora visto che mi farai da babysitter, perché non mi vai a prendere da mangiare, che so… un croissant al cioccolato al bar di fronte. Qua la colazione fa schifo ed è per diabetici.»
Era davvero troppo. Non ero stata chiamata per fargli da governante, ma per aiutarlo a rimettersi in sesto, per stargli vicino quando avrebbe sentito un dolore così forte che avrebbe creduto di morire – che avrebbe preferito morire – e allora avrebbe cercato una mano da stritolare, un paio di occhi nei quali posare i suoi e qualcuno che ridesse o piangesse con lui ad ogni passo avanti.
«Se ti vado a prendere il croissant, poi ti alzi? O perlomeno ci provi?»
«Forse…» rispose lui facendo spallucce, con quella sua aria di disprezzo. Gli schioccai uno  sguardo truce, provando a capire se mi stesse mentendo oppure davvero ci avrebbe provato. Decisi di fidarmi e andai a prendergli la brioche che desiderava. Ne mangiò solo metà, l’altra la diede a me affinché la buttassi. Disse che faceva schifo, che la cioccolata era amara e la sfoglia vecchia. Con un sospiro e ripetendo dentro di me che era malato, dovevo essere gentile, gettai nella spazzatura ciò che restava della brioche, quindi tornai da lui più agguerrita che mai.
«Forza!» lo invogliai con un cenno della mano ad alzarsi, lui mi guardò come se parlassi cinese antico. «Su, forza, iniziamo con il mettere i piedi a terra.»
«Domani, oggi mi scoccio» si girò dal lato opposto al mio e finse di mettersi a dormire, sospirai rumorosamente e feci il giro del letto, cercando di tirargli via le coperte.
«Sono in mutande.» Mi informo tenendo le palpebre abbassate.
«Un paio di mutande non mi scandalizzeranno» non gli avrei creduto neanche se lo avessi visto con i miei occhi, il problema fu che aveva ragione. Quando provai a togliergli le coperte per l’ennesima volta, lui lasciò la presa e per quanta forza avevo messo in quel gesto, barcollai all’indietro. Willy era davvero in slip e d’istinto, tenendo ancora le coperte strette in mano, lo ricoprii alla bell’e meglio, tutta rossa in viso. Lui rise forte, rise di me. Di nuovo, ancora. Credevo che oramai fossi immune ai suoi scherzi, invece mi ritrovai a fumare di ira.
«Senti Will, devi alzarti, devi riprendere a camminare o non potrai mai più farlo. Non vuoi tornare da tua madre e da Lu sulle tue gambe, invece che spinto su una sedie a rotelle?» William tornò serio.
«Non immagini quanto» fu la sua risposta evasiva, la voce tremò appena. Fissò lo sguardo fuori dalla finestra, si era improvvisamente incupito, immerso in un pensiero che lo teneva occupato. Ne approfittai e muovendomi come un felino raccolsi le stampelle ai piedi del letto, porgendogliene una. Lui prima guardò me, poi l’oggetto, mentre io con un sorriso affabile gli dicevo di prenderla, dai forza, piano piano. Avevo il cuore che batteva fortissimo e ancor di più quando afferrò la stampella e la lanciò con violenza e rabbia contro la parete che teneva dinnanzi.
«Te l’ho detto Viola! Non sarò il tuo cucciolo da salvare, quindi se proprio devi stare a farmi da balia, renditi utile e ‘sta zitta!»
 
Chi era quella persona relegata nel letto di un ospedale?
Chi era quell’individuo con la barba sul volto e i capelli senza un taglio definito?
Chi era quello sconosciuto con il volto smunto e grigio, mentre decine di tatoo gli coprivano le braccia, c’erano teschi e figure nere con la falce.
Chi era quel ventenne che preferiva starsene in una stanza spoglia e triste, invece di prendere a morsi la vita?
Se all’inizio avevo creduto che fosse William, il ragazzo di sedici anni che mi aveva proposto di fare un patto in uno dei giorni più tristi della mia vita, scovandomi a piangere disperata perché Cris stava con un’altra;  se avevo rivisto nei suoi occhi color nocciola lo stesso sguardo profondo che mi aveva regalato alla festa della scuola, quando avevamo ballato insieme divertendoci come non mai; se mi era sembrato lo stesso tocco di mano delicato che più di una volta aveva già stretto le mie, beh mi ero sbagliata.
Quell’uomo di fronte a me io non lo conoscevo, non lo avevo mai conosciuto e non avevo intenzione di farlo.
Una cosa però non era cambiata negli anni: quando si arrabbiava era solerte rivolgersi a me con il mio nome di battesimo. Viola.

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Capitolo 16
*** Comunque provare ***


Lettori tutti! mi scuso per essere mancata all'appuntamento da qualche martedì e venerdì, ma ora spero di riprendere regolarmente la pubblicazione di questa long, ringraziando chi legge (non abbiate paura a farmi sapere il vostro parere) e soprattutto devo un grazie speciale a Mistery_Koopa, Spettro94, Alessandroago_94 e Yonoi. Grazie ragazzi!



Capitolo 16
Comunque provare

 
Trascorsi la prima settimana a studiare per l’esame successivo nella camera d’ospedale in cui era confinato Willy. Nello spogliatoio dove mi cambiavo avevo notato una vecchia scrivania abbandonata a sé stessa che nessuno utilizzava più, neanche per poggiarci sopra una tazza di caffè o le buste della spesa che spesso le infermiere si portavano appresso se avevano un turno lavorativo intermedio. Allora chiesi alla capo infermiera – la stessa donna che mi aveva accolto il primo giorno di tirocinio – se potessi spostare il mobile nella stanza del paziente che avevo in cura. La signora mi rispose di sì, a patto che l’avessi fatto da sola, lei era troppo occupata per aiutarmi. Così a piccoli passi spinsi la scrivania lungo il corridoio, ma poiché produceva troppo rumore e rischiavo di rovinare il pavimento di linoleum, alla fine l’infermiera mi aiutò con altri due inservienti e, prendendola di peso, la portammo nella stanza.
Notai il viso barbuto di Willy fare capolino oltre le coperte, scrutava il mobile come fosse una navicella aliena.
«Rilassati Mowgli»  avevo iniziato a chiamarlo così per via del suo aspetto trasandato e lui inizialmente ne aveva riso, affermando che gli piaceva quel soprannome, «serve a me. Perlomeno impiego il tempo a studiare» dissi, mentre adagiavo i due libri e il manuale di anatomia sulla superficie rovinata della scrivania di legno grezzo, che avevo sistemato sotto alla finestra, con la sedia di spalle a William.
«Ottimo» rispose quest’ultimo, tornando a guardare un documentario sulla stagione degli amori delle balene in tv.
Quando il primo giorno di tirocinio giunse al termine, trovai il professore Andrea De Martino in sala d’attesa al piano terra. Si offrì di pagarmi un caffè al bar dell’ospedale, mentre scambiava qualche parola in privato con me. Con il suo solito appiglio imperscrutabile chiese come fosse andato l’incontro con Willy e sospirando rumorosamente, come se avessi trattenuto il respiro fino a quel momento, gli raccontai che nell’attimo in cui avevo insistito un po’ di più, William si era adirato al punto da lanciare una stampella contro il muro. Il dottore scosse la testa, demoralizzato ma non stupito, piuttosto stanco, con l’aria di uno pronto a mollare da un momento all’altro. Sorseggiando il caffè dal bicchierino usa e getta quasi lo supplicai di consigliarmi come o cosa fare per farlo alzare dal letto, perché davvero non sapevo da dove iniziare. Ricordo che il professore scosse la testa, guardando un punto indefinito oltre i finestroni dell’edificio, dove le macchine si trovavano imbottigliate nel traffico nell’ora di punta. La pioggia aveva iniziato a venire giù da qualche ora oramai e pareva non voler smettere più. Andrea De Martino si mise in piedi, senza neanche aspettare che terminassi di bere il mio caffè, affermando che se avesse conosciuto la risposta alla mia domanda non si sarebbe rivolto a me; sarei dovuta essere io la chiave di volta, sempre io a trovare un motivo, uno stimolo che lo spingesse a reagire e ad alzarsi da quel dannato per fargli tornare la voglia di vivere.
Perfetto! pensai.
Tornai al bilocale che in quel periodo dividevo con Jenny più afflitta che mai, ne parlai con lei, accusandola del fatto che se mi trovavo in quella situazione era soprattutto per colpa sua, e che quindi doveva aiutarmi a trovare una soluzione. Sedute sul suo letto, a gambe incrociate, facemmo piani assurdi e tutti di improbabile riuscita, riflettendo, ridendo, bevendo tè e sgranocchiando patatine fino a notte fonda. Ci addormentammo quasi in contemporanea, restando schiena contro schiena come quando andavo a dormire a casa sua durante le vacanze estive, una vita fa. Quella notte sognai un Willy senza gambe, la barba e i capelli così lunghi e folti che erano diventati un nido per pidocchi e insetti vari, al posto degli occhi c’erano due pozzi vacui e bui.
La mattina seguente feci innanzitutto una sosta al supermercato per acquistare schiuma da barba e rasoi, quindi entrai nel bar di fianco per acquistare un croissant al cioccolato e un caffè. Gli andai a fare visita ancor prima di passare nello spogliatoio a cambiarmi. Ovviamente stava dormendo, ma ciò non mi demoralizzò. Nulla più avrebbe potuto farlo. Lo svegliai, tirando su le veneziane e aprendo le tendine: era una splendida giornata di sole, seppur fredda. Lo sentii lagnarsi di voler dormire ancora.
«Ti ho portato un regalino…» dissi, stropicciando il sacchetto che conteneva la brioche e sollevando il piccolo coperchio del bicchierino di plastica. L’odore di caffè riempì con una lentezza esasperante l’ambiente della camera d’ospedale che sapeva di medicine e rassegnazione. Willy si voltò nella mia direzione, sorridendo per quanto una persona possa sorridere appena sveglia e con un macigno enorme sul cuore.
Anzi, un doppio macigno di cui ero ancora ignara.
«Sono settimane che non bevo un caffè» affermò, sedendosi con la schiena contro la spalliera e ringraziandomi quando glielo porsi, intanto che mi accomodavo sulla sedia di fianco al letto. Lo vidi bere un primo sorso, piano, quasi a volerlo assaporare per non dimenticarne più il sapore, poi fissò l’interno del bicchiere e senza guardarmi disse:
 «Senti, volevo scusarmi per ieri, non volevo spaventarti o essere sgarbato, è che…» si passò una mano fra i capelli «… niente, solo questo» finì di bere il caffè e mangiò il croissant fino all’ultimo boccone. Accettai le sue scuse, senza sapere che quel passaggio (scusa-prego, scusa-prego) si sarebbe ripetuto all’infinito, come un saluto quotidiano, una specie di “buongiorno, come stai? Bene, grazie”.
Il sorriso e il buon umore, che evidentemente il caffè gli aveva donato, sparirono così come erano arrivati, in un battito di ciglia, alla vista della schiuma da barba e delle Gillette. La sua espressione serena e un po’ instupidita, con gli occhi ancora assonnati di chi si è appena destato da un lungo sonno tormentato, cambiò in maniera così repentina da chiedermi se fosse sempre lui: il ragazzo che si era appena scusato con aria quasi rammaricata. William si irritò a tal punto che il sorriso di pocanzi si trasformò in una smorfia.
«Non ci pensare neanche!»
«Ma ti sei visto allo specchio di recente? Sembri un senza tetto! Sei un Mowgli!» fu a quel punto che rise, rise forte, come solo un folle farebbe.
«Per caso la tua è una gentilezza che riservi solo a me, Verdina?» Voltai gli occhi al cielo, eccolo che iniziava a girare la frittata e a farmi arrabbiare, cosicché non sarei più stata capace di essere razionale nei ragionamenti e in quel che dicevo.
«Ti devi rasare, guardati!» presi lo specchietto dalla mia borsa e glielo piazzai davanti al naso. Lui voltò il viso dall’altra parte, pur di non vedere la sua immagine riflessa. «Guarda cosa sei diventato, un barbone, un inetto, un…»
«Smettila!» con un colpo prese in pieno la mia mano e lo specchio cadde sul pavimento, andando in frantumi. Quel tonfo mi catapultò a sei anni prima, quando nella cucina di casa sua mi aveva baciata con una tale foga da far rovesciare la brocca di tè fresco – il ghiaccio che tintinnava contro i bordi si vetro… – mentre i vagiti di un neonato mi avevano raggiunto ovattati e lontani, da un altro pianeta.
Strinsi i pugni con forza prima di chinarmi a raccogliere i cocci uno per uno, pensando che non ce l’avrei fatta, che non sarei mai riuscita a trascorrere un mese in sua compagnia in quel clima teso e incandescente, dove un attimo prima andavamo d’amore e d’accordo e l’attimo dopo ci ringhiavamo contro, con specchi rotti e stampelle volanti.
 
Qualche giorno dopo spostai la vecchia scrivania nella sua stanza. Oramai ero così abituata al mormorio della televisione che riuscivo a studiare comunque, anche se era accesa. La mattina gli portavo sempre il caffè, quello era il nostro momento, quando tutto sembrava andare per il verso giusto, quando ci davamo il buongiorno con un sorriso e lui si scusava per un’azione impulsiva che aveva compiuto il giorno precedente. Sotto quegli scatti più o meno violenti e quella folta barba c’era il ragazzo di sedici anni che avevo conosciuto e imparato a rispettare, c’era il suo sorriso dolce e ironico insieme. Insomma, c’era la persona che mi era mancata come l’aria quando era andata via; però, altre volte, quella persona spariva, occultata, sotterrata, dai suoi atteggiamenti testardi e istintivi. I psicologi parlavano di “repentino cambio di personalità” e depressione, curabile con la terapia mentale e, nel caso specifico, fisica. Quando il dottore De Martino mi presentò allo strizzacervelli come la persona che secondo lui – o per meglio dire secondo Jenny – avrebbe potuto prendere il suddetto paziente per mano e accompagnarlo fuori dal labirinto nel quale si era rinchiuso, l’uomo mi chiese soprattutto del passato di Willy, di come e quando ci eravamo incontrati. Imbarazzata dal patto che avevamo stretto, poiché era stata una cosa stupida e infantile, dissi loro che eravamo stati molto amici e che lui aveva confessato di volermi bene quando però doveva partire per la capitale.
«Problemi in famiglia?»
«No» risposi convinta.

William mi parlò delle sue partite di pallone più belle. Mi raccontò di quando aveva segnato un gol all’ultimo minuto da fuori aria, dando alla sua squadra la vittoria che era sinonimo di trofeo; oppure di quella volta che praticamente aveva tolto il pallone da dentro la propria porta, con il portiere oramai fuori gioco e i compagni di squadra lo avevano abbracciato come se avesse messo a segno una rete. Nei suoi occhi vedevo tutta la passione che provava per quello sport e insieme il dolore di sapere di non poterlo più praticare. Tuttavia una passione non è la vita, avrebbe potuto continuare in quel ramo, magari come dirigente o allenare una squadra di giovani. Quando gliene parlai lui s’incupì e disse di voler dormire.
Altre volte chiedeva cosa stessi studiando e mi sommergeva di domande sul corpo umano e sulle malattie. Mi ascoltava quando ripetevo ad alta voce e abbassava il tono della TV al minimo, seguendo talvolta il discorso sul libro o sugli appunti, correggendomi se sbagliavo o dimenticavo un concetto.
In poche parole, se non toccavo l’argomento fisioterapia e barbiere era un vero piacere stargli accanto. I giorni però trascorrevano tutti uguali, senza che le cose cambiassero; anzi, qualcosa stava mutando e in peggio: il muscolo della gamba. Erano trascorsi circa quindici giorni dall’operazione e, come mi aveva confermato il dottore e gli infermieri poi, Willy non si era più scrollato dal materasso dal quel fatidico dì. Urgeva un terremoto psicofisico o rischiava davvero di perdere l’uso della coscia.

 

*****

Un pomeriggio ero completamente immersa nello studio da non accorgermi che Willy aveva spento la televisione da un pezzo e si era addormentato. Voltandomi per chiedergli di ascoltare il capitolo che avevo appena imparato, lo avevo visto docilmente appisolato, con il capo piegato verso di me e le labbra sommerse dalla barba. Distolsi lo sguardo, le guance leggermente arrossate: fissarlo per più di qualche minuto continuava a mettermi a disagio. O forse era il vuoto alla bocca dello stomaco a farmi sentire così, inerme e infantile. Dare un nome alle emozioni che provavo quando si trattava di lui continuava a venirmi dannatamente difficile, probabilmente c’era un passaggio, un indizio, che ancora mi sfuggiva oppure non volevo vederlo.
Mi alzai piano, per non rischiare di svegliarlo e chinandomi proprio su di lui, presi a carezzargli i capelli con la punta delle dita, un ciuffo scuro e ondulato gli sfiorava la fronte. Quello che gli era capitato era un’ingiustizia. Aveva trascorso la sua adolescenza ad allenarsi per diventare un calciatore apprezzato da tutti; per dare un futuro migliore alla sua famiglia; aveva sacrificato tanto, compresa la nostra… cosa?
Amicizia?
Avevamo sacrificato la nostra “amicizia” per il suo sogno e adesso era relegato in un letto d’ospedale, consapevole che quel desiderio si era spezzato, come l’osso della gamba; era andato in frantumi, come la brocca di tè e lo specchietto.
Ma poteva ancora vivere una vita normale e indipendente.
Avevo bisogno di un piano, perché fino a quel momento tutto ciò che avevo tentato si era rilevato un totale fallimento. Scrutai l’ambiente circostante, sforzandomi di farmi venire un’idea: un crocifisso era affisso sopra la spalliera del letto, una sedia, un armadio, due stampelle, la scrivania, un appendiabiti, la porta del bagno. Improvvisamente mi venne in mente un piano, forse non avrebbe funzionato, ma perlomeno ci avrei provato.
In verità era stata Jenny a consigliarmi di fare una cosa simile, pregai rivolta a Gesù Cristo di aiutarmi in quell’impresa – idiota quasi quanto il patto di non-fidanzamento.
Prima di allontanarmi da lui avvicinai la fronte alla sua e chiudendo gli occhi sussurrai:
«Non deludermi, per favore» e non lo fece.
Disattivai l’allarme per chiamare gli infermieri e raggiunsi il bagno con il cuore che mi batteva così forte che dovetti fermarmi e fare dei respiri lunghi e profondi o mi sarebbe venuto un infarto. Una volta lì mi osservai intorno, senza trovare nulla che potesse aiutarmi a realizzare quel piano demenziale, così mi accontentai del cesto d’acciaio dell’immondizia. Lo svuotai nel water, contai fino a tre e lo lasciai cadere sul pavimento. Il suono che produsse fu piuttosto basso. Lo raccolsi da terra e lo gettai di nuovo, mettendoci un po’ più di forza. Attesi con le orecchie tese, ma non udii niente. Lo feci ancora e ancora, mettendoci ogni volta un po’ più di foga. La sesta o forse era la settima volta, finalmente William si svegliò.
«Azzurrina?» non risposi, giunsi le mani e pregai. «Cappuccetto?»
«Wi-Will?» mi uscii un balbettio stridulo, innaturale. Sapevo che dovevo impegnarmi di più se volevo essere convincente almeno un pochino.
«Tutto bene?» sentii il primo allarme nella sua voce.
«Mmm no…» attesi due secondi «… credo di essere svenuta…»
«Come credi? Viola, che hai? Hai battuto la testa?» cominciava a preoccuparsi.
«Non mi ricordo» silenzio. «Mi fa male la testa.»
«C’è del sangue? Cielo, sei un disastro Cappuccetto! Riesci ad alzarti?» Non risposi. Se avessi continuato a farlo lui avrebbe continuato a fare domande. «Verdina?» Uno, due, tre. «Ehi, Rosetta?» Quattro, cinque, sei. «Perché cazzo non funziona questo cazzo di allarme!» Sette, otto nove. «Viola! VIOLA!»
 
Io intanto con le dita intrecciate davanti al volto con così tanta forza che erano diventate bianche e le palpebre strizzate, continuavo o a pregare che andasse tutto bene o non si sarebbe mai più fidato di me. Confesso che quando lo sentii urlare a quella maniera il mio nome fui sul punto di uscire allo scoperto e dirgli che stavo bene, era stato solo un giramento di testa, forse la pressione bassa. L’unica cosa che mi trattenne fu il fruscio di coperte che venivano scostate e i suoi brontolii per quanto fossi stupida e imbranata, seguiti dalle ingiurie contro il dolore alla gamba.
Si era alzato e si stava trascinando da me.
Ce l’avevo fatta, adesso avrei dovuto trovare una soluzione al momento in cui si sarebbe reso conto che lo avevo preso per i fondelli, vedendomi in piedi al centro del bagno con le mani strette e il volto bianco come un cencio.
Si tirò la gamba dietro, a peso morto, aiutandosi con quella buona e cercando appigli ai quali aggrapparsi. Il suo volto in ansia si affacciò oltre la soglia della porta e dopo l’apprensione arrivò la collera: un fiume in piena impossibile da arrestare.
Gli sorrisi, le lacrime agli occhi per la gioia di vederlo finalmente in piedi, seppur affaticato e con il fiato corto a causa del dolore. E barbuto come non l’avrei mai più visto.
«Ce l’hai fatta…» sussurrai emozionata. Lui mi fissò con odio, il viso si contorse in una smorfia che era un miscuglio di rabbia e frustrazione.
«Con me hai chiuso. Vattene, non ti voglio più vedere» feci un passo avanti, sciogliendo l’intreccio delle dita dove riprese a circolare il sangue, le allungai verso di lui per toccarlo, per trattenerlo e fargli capire che io c’ero, che insieme avremmo potuto farcela. Mi fermò appena prima che le mie mani potessero raggiungerlo, puntandomi un indice contro. «Sei una persona meschina! Mi fa schifo, hai capito? Sei una stronza di prima categoria. Te ne devi andare. Ora!» mi diede le spalle e zoppicando si incamminò verso il letto. Visto da dietro ricordava un settantenne in pessime condizioni: gobbo, claudicante e con l’igiene personale ridotta all'essenziale.
«Ti prego Will, devi muoverti o non potrai più usare la gamba.»
«Allora non l’hai capito?» si voltò di scatto e i nostri volti si ritrovarono a una spanna l’uno dall’altro. «Non me ne fotte più di niente, voglio morire in un letto d’ospedale e voglio farlo presto.»
Spalancai gli occhi, quell’ultima frase mi raggelò da capo a piedi. Non poteva parlare seriamente, non poteva voler desiderare davvero di morire, mi convinsi che fosse solo arrabbiato e di sicuro non sapeva quello che diceva. Ci fissammo per un po’ e appena lui tornò a darmi le spalle per riprendere la sua Odissea verso il letto, puntellandosi al muro con il palmo sinistro, lo abbracciai di slancio, fermandolo.
Stretta alla sua schiena potevo sentire il respiro e i battiti accelerati del cuore.
Piansi, ringraziandolo di essere venuto comunque nella toilette ad accettarsi delle mie condizioni, supplicandolo di iniziare le terapie e tutte le cure che gli servivano per tornare il ragazzo che era stato.
«Ti aiuto io oppure scomparirò dalla tua vita me ne vado adesso se vuoi tutto quello che desideri purché ti rimetta in sesto ti prego ti prego ti prego fallo per te che non meriti di stare in un letto d’ospedale fallo per tua mamma che altrimenti dovrà occuparsi di te e si ammalerà nel cuore e nell’anima fallo per Lu e fallo per me perché ho bisogno di sapere che stai bene ho bisogno di saperti felice e che non hai smesso di lottare per quello che desideri perché quando te ne sei andato il pensiero che lo avevi fatto per realizzare i tuoi sogni era l’unica cosa che mi dava forza e il tuo coraggio mi ha permesso di iscrivermi all’università per realizzare il mio sogno di aiutare il prossimo e questo ci ha fatto incontrare e se non riesco ad aiutare te allora non voglio aiutare nessuno e adesso devi desiderare di camminare e di ricominciare d’accapo perché sei una persona forte e non è giusto quello che ti è capitato e perché lo devi fare per te e lo devi fare per me» ripresi fiato. «Ti prego.»
Willy sbuffò in maniera plateale, scuotendo il capo, accennò un risolino.
«Sei proprio una rompi scatole, Cappuccetto» e allora piansi più forte ancora.

 

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Capitolo 17
*** Passato, presente, futuro ***


Capitolo 18
Passato, presente, futuro


 
Si dice che il primo amore non si scordi mai. Che la seconda volta non sia come la prima e così via. Ancora oggi non so dare un volto preciso al mio primo vero amore, che si confonde e si fonde creando una specie di mostro che ha l’altezza di Christian e gli occhietti furbi di William. Ho amato Cris con tutta me stessa, desiderandolo al punto di rovinare la mia amicizia con Jenny e il rapporto intessuto in quel periodo con Willy, ma poi l’amore tra noi si manifestò nella sua effimera natura, niente più di un sentimento di affetto e rispetto, lasciandomi da sola e in balia delle onde emotive che mi sbattevano contro ancora e ancora.
La prima volta non è come la seconda. Sono d’accordo.
Soffrii come un cavallo agonizzante il primo abbandono di Will. La sua lontananza mi portò a confondere il giorno con la notte, a sognarlo e obbligarmi di non pensare a lui almeno da sveglia, quando avevo il pieno controllo della mia coscienza. Di notte il subconscio se ne andava a zonzo per fatti suoi e io non potevo farci niente.
La seconda volta che si allontanò da me fu meno doloroso. Credo che anche io, come lui aveva bisogno di allontanarsi dall’ospedale in cui era stato recluso per quasi un mese, avessi la necessità di disintossicarmi dall’effetto che produceva la sua vicinanza su di me.
A poco a poco ripresi la vita universitaria, a mangiare con regolarità, a dormire per otto e anche nove ore filate; mi immersi nello studio e mi concentrai su un unico obiettivo: la laurea.
Avevo raccontato al professore De Martino il vero tormento di Willy, ossia la morte angosciante della sorella, e lui mi ascoltò in silenzio con la testa fra le mani, affermando solo alla fine che non aveva fatto parola di quell’avvenimento a nessuno: né con lui, né con il team di psicologi. Disse che avrei potuto concludere l’ultima settimana di tirocinio a casa, prepararmi per i prossimi esami e che ci avrebbe pensato personalmente a sistemare le carte burocratiche da presentare in segreteria. Jenny mi tranquillizzò dicendo che potevo fidarmi di Andrea, era un uomo di parola e io decisi di crederle, in particolare perché avevo bisogno di staccare la spina e di non tornare in quel luogo, dove ogni minuzia – dall’odore di caffè agli infermieri – mi parlava di lui.
Un pomeriggio d’autunno, durante l’ultimo anno di università, Andrea venne a casa a trovare una Jenny febbricitante. Fu allora che ci parlò del suo progetto benefico. Con occhi luccicanti raccontò che da tempo stava lavorando a questa idea nata quando ancora doveva concludere il suo internato in Ortopedia; poi, tra un mare di cose da fare, era andata un po’ sbiadendo nei meandri della mente. Inoltre, come se non bastasse, le leggi a tal proposito sono lente e macchinose e i soldi per finanziare quel progetto ambizioso non era mai riuscito a trovarli. Spesso i grandi industriali che avevano promesso di contribuire con somme massicce alla causa, all’ultimo momento si erano tirati indietro. Questa volta però qualcosa si era smosso e finalmente sembrava aver trovato i fondi per far decollare il sogno di una vita. Ci parlò di una importante azienda farmaceutica che possedeva una delle più alte percentuali di fatturato al mondo, la quale aveva stretti legami economici con la Repubblica Centrafricana, la regione alla quale il fidanzato della mia amica Jenny intendeva rivolgere il suo aiuto. Ovviamente non poteva portare il proprio contributo a un paese intero, il suo obiettivo principale era  un piccolo villaggio a sud-ovest della prefettura di Lobaye, dove le donne che morivano di parto erano più di quelle che sopravvivevano e i bambini spesso nascevano con malformazioni che li portavano alla morte dopo giorni di agonia. Il cibo scarseggiava, l’acqua anche, ma ciò che mancava più di tutto erano le medicine: un semplice raffreddore diventava letale e la puntura di un insetto fatale.
Seduto al tavolo nella nostra piccola cucina, mentre ci parlava con quel suo fare perennemente placido, convinse sia me sia Jenny a seguirlo in quell’impresa.
Senza chiedercelo.
Dimenticai la specializzazione, dimenticai l’ansia di dover cercare un ospedale in cui lavorare, d’improvviso esisteva solo la laurea e quel villaggio. La notte, nel letto, provavo a immaginare come sarebbe stato vivere lì: le case, la gente (mi avrebbero accolta con piacere?), i bambini che avrebbero giocato con me, senza pensare neanche per un attimo alla distruzione e alla povertà che vi avrei incontrato.

 

*****


Mi laureai in una calda mattinata estiva.
I miei genitori assistettero alla cerimonia e al discorso di laurea che sostenni, manco a dirlo, con il professore De Martino che alla fine avevo deciso di scegliere come relatore, spinta appunto dalle ali dell’entusiasmo per il progetto benefico. Mia madre pianse come una bambina per tutto il tempo e a niente servirono le Xanax per farla calmare, mentre mio padre aveva i nervi a fior di pelle, preoccupato per la strada del ritorno verso casa, snervato dal pianto isterico della moglie e commosso nel vedere sua figlia trasformata in un dottore.
Mi congedai da loro con un lungo abbraccio e li salutai con la mano fino a quando la macchina sparì in fondo alla strada, soffermandomi per un momento a osservare il sole tramontare oltre le montagne a ovest, stanca ma soddisfatta. Con in testa una corona di alloro e un nastro rosso intrecciato alle foglie che cadeva di fianco al viso, un enorme fascio di rose rosse in braccio ed eccitata di avviare i preparativi per il viaggio, mi incamminai su per gli scalini che precedevano l’entrata del condominio in cui abitavo a quei tempi con Jenny.
Non lo sentii arrivare, non udii le ruote della macchina che frenavano proprio alle mie spalle, occupata a cercare le chiavi nella borsa per aprire il portone.
«Ehi, dottoressa, serve una mano?»
La sua voce limpida, con quella peculiare cadenza irriverente, mi giunse con tutta la sua potenza. Mi voltai con uno scatto, i nastrini rossi danzarono nell’aria. Willy aveva le mani adagiate sulla cappotta scura della macchina, un gran sorriso gli incorniciava il volto. Adagiai il fascio di fiori sul cemento bollente e corsi ad abbracciarlo, lui dal canto suo spalancò le braccia e strinse forte quando gli saltai addosso.
Nella strada deserta non passò nessuno, solo qualche sporadica auto che tuttavia non badò a noi: due ragazzi venticinquenni che si abbracciavano quasi a volersi stritolare e recuperare in una sola morsa i tre anni passati lontani.
Ci separammo giusto il tempo di studiarci l’un l’altra, poi lo strinsi ancora una volta. Stava bene, stava magnificamente bene. Il colorito non era più pallido e tendente al grigio come era stato in ospedale, l’ultima volta che l’avevo visto; al posto della barba incolta aveva una sottile e curata linea di barbetta che correva lungo le mascelle; i corti capelli scuri accennavano a una cresta. Non riuscivo a smettere di sorridere.
«Quando sei arrivato?» Gli chiesi in macchina, dopo che mi aveva detto di montare su.
«In tempo per godermi la tua cerimonia» fu la risposta. «Congratulazioni, hai raggiunto il tuo sogno» posò la mano sulla mia e d’istinto le dita s’intrecciarono. Osservai la città che mi scorreva di fianco, oltre il finestrino, nascondendo un sorrisetto imbarazzato.
Mi confessò che era stato il dottor Andrea a dirglielo, telefonandogli con la scusa di chiedere delle sue condizioni e, fra una cosa e l’altra, gli aveva detto che mi sarei laureata, senza aggiungere di più, sebbene in sottofondo gli fosse sembrato di udire la voce di Jenny che incitava il fidanzato a specificargli ora e luogo.
«Ma davvero stanno insieme quei due?» mi domandò incredulo e quando glielo confermai sghignazzò con malizia.
Chiacchierammo per tutto il tempo. Anche se non sapevo dove fossimo diretti ero tranquilla, mi disse che stava morendo di fame perché aveva saltato il pranzo e che semplicemente voleva festeggiare il mio traguardo.
Mi raccontò che dopo esser uscito dall’ospedale era tornato nella casa che aveva abitato da calciatore, ma la solitudine lo aveva fatto scappare via ed era tornato a casa della mamma, che intanto viveva con suo fratello Dani e con Matteo – il figlio di Lu – in pieno centro cittadino, a pochi metri dalla scuola in modo che anche i più piccoli potessero essere indipendenti. Sua mamma oramai non lavorava più, non ne aveva bisogno grazie all’aiuto economico che gli versava personalmente ogni mese, tuttavia, malgrado la situazione finanziaria fosse migliorata di parecchio, le pareva ormai una donna morta dentro. Willy era sicuro che l’unica cosa a tenerla ancora in vita fosse suo nipote, il bambino di Lu, verso il quale si sentiva responsabile. Inoltre, aveva il timore che non appena il ragazzino avesse intrapreso la via adulta, sua madre sarebbe morta per ricongiungersi con sua figlia in cielo. Notai con quanta calma e distacco parlasse di quegli argomenti e scoprii che solo grazie a due anni di psicanalisi era riuscito a rimettere insieme i pezzi di sé. Mi sembrò molto più forte, non solo fisicamente.
Confessò anche che di tanto in tanto si preoccupava di sapere come stessi e cosa facessi tramite il dottore, soprattutto se soffrissi per la sua assenza.
«Ti credi davvero importante, eh mister modestia?» feci fra l’ironico e il sarcastico. Lui rise. Ricordo che eravamo fermi a un semaforo in un’assonnata serata estiva, i lampioni cominciavano ad accendersi con le loro luci color arancio, intanto che le strade prendevano a popolarsi.
«E dai Stellina, ammettilo che sei da sempre innamorata di me.»
«Ti ricordo che sei stato tu a proporre quello stupido patto con la scusa di aiutarmi a conquistare Christian» rise di nuovo e il semaforo passò da rosso a verde.
«A proposito, che fine ha fatto il tuo amato?»
Sospirai.
«Credo che abbia qualcosa come due o tre figli, una moglie e un cane» lui spalancò gli occhi, non poteva crederci, mi chiese quindi cosa fosse successo fra noi dopo che lui era partito per la capitale. Stavo per confessargli che mi ero disperata e immersa nella malinconia aggrappandomi all’unica persona della mia adolescenza rimasta effettivamente vicino alla sottoscritta, ovvero Cris. Invece dissi:
«Siamo stati insieme per due anni, poi abbiamo scoperto di non essere fatti per fare i fidanzati, eravamo solo dei buoni amici che avevano confuso l’amore con l’amicizia.»
«Vedi!» esclamò lui. «Non lo amavi perché sei sempre stata innamorata di me!» mi lanciò un’occhiata dal posto di guida, aveva l’aria divertita. Io scossi il capo mostrandogli il dito medio, poi risi con lui.


William sembrava tornato quello che era stato in tutto e per tutto. Era allegro, divertente, simpatico, faceva battute che mi facevano ridere, altre che invece mi infastidivano – vedi i soliti appellativi che mi affibbiava – e altri ancora che mi imbarazzavano. Come quando, fissandomi dall’altra parte del tavolino, con una candela a illuminare i nostri volti e due calici che stavano per sfiorarsi nel primo brindisi della serata, aveva detto di trovarmi bellissima. Con le guance rosse gli ribattei di smetterla, perciò lui aveva abbandonato quello sguardo profondo per il suo solito occhietto furbo, bevendo in un colpo solo il liquido chiaro e brioso nel bicchiere:
«Quanto sei divertente, Verdina!» esclamò mettendoci troppa enfasi, facendo voltare la coppietta di innamorati seduti al tavolo accanto al nostro. Willy se ne accorse e fece un cenno di saluto con il capo, io nascosi la faccia a mo’ di tartaruga, rammaricata di non possedere un guscio in cui nascondermi.
Velocemente diedi un’occhiata all’ambiente del ristorante: l’ampia sala arredata da tendaggi di velluto chiaro e da quadri di un noto pittore della città; i tavoli apparecchiati con costose tovaglie e posate d’argento; gli importanti lampadari al soffitto che cadevano in un luccichio di riverberi e cristalli; i salottini di pelle color champagne dove alcune coppie chiacchieravano ebbri d’amore e vino pregiato; il piccolo soppalco sul quale un pianista si stava esibendo con la sua dolce musica, languida ed elegante. Mi chiesi se Willy potesse davvero permettersi quel lusso e me lo augurai anche, poiché avevo il sospetto di avere appena i soldi per pagare la bottiglia d’acqua gassata che il cameriere mi aveva versato nel calice manco fosse oro colato.
«Will» lo chiamai a bassa voce sporgendomi sul tavolo e facendogli segno di avvicinare il viso al mio, lui eseguì incuriosito. «Ma sei sicuro che puoi pagare tutto questo?» Rise di nuovo di me.
«Bianchina, ma sai quanto guadagnano i calciatori professionisti?» risposi di no, che non ne avevo la più pallida idea e allora mi spiegò con tanta pazienza che all’inizio della sua carriera aveva percepito uno stipendio così alto che dopo un anno aveva comprato una casa in pieno centro cittadino e un’altra alla sua famiglia; poi aveva regalato una macchina a suo fratello Dani per i diciotto anni e un’utilitaria  per la mamma e per Lu. Oltre al suo coupé, s’intende. Quando gli feci notare che tuttavia non era più un calciatore professionista, mi rispose che l’assicurazione gli aveva pagato bei soldi per l’infortunio e i danni morali, inoltre la società calcistica gli aveva offerto un posto come secondo allenatore delle giovanili e lui aveva accettato. 
Non mi chiese cosa invece avessi fatto io in quegli ultimi tre anni, poiché Andrea l’aveva tenuto informato per bene, adesso era curioso di conoscere le mie intenzioni per il futuro. Gli parlai del progetto benefico, dell’iniziativa di Andrea di recarsi nella Repubblica Centrafricana, in un villaggio sperduto e dimenticato da Dio, a portare un po’ di sapere medico. Con gli occhi chini sul piatto gli confidai che Jenny l’avrebbe seguito. E anche io. La partenza era prevista di lì a una settimana, massimo dieci giorni. Lui ascoltò con le mani chiuse a pugno sotto il mento, negli occhi vidi riflessa la luce traballante della candela e, un po’ per l’effetto dello spumante al quale non ero abituata, un po’ per la contentezza di trovarmelo di fronte e di potergli finalmente parlare come avevo fatto solo nei miei sogni, mi sentivo la testa libera da brutti pensieri e il cuore leggero come un palloncino.
Non manifestò alcun sentimento riguardo alla mia partenza per l’estremo sud del pianeta, si limitò a dire un’unica frase, prima di cambiare argomento:
«Così questa volta sarai tu ad andartene, Stellina.»
Lui probabilmente non notò mai come il sorriso e l’entusiasmo scemassero dal mio viso di colpo.
Non ci avevo pensato, ma era la verità. Questa volta a dirgli addio sarei stata io, e non sarei sparita solo per qualche anno o allontanatami di qualche chilometro. Questa volta avrei attraversato l’oceano e un continente intero, e semmai ci fossimo rincontrati sarebbe stato per intercessione divina. Non so quale fossero di preciso le sue intenzioni, per quale motivo avesse presieduto alla mia laurea invitandomi poi a cena.
Soprattutto mi domandai cosa significasse lui per me?
Era un ragazzo che avevo conosciuto da adolescente e che sì, avevo imparato a voler bene, ma che non era rimasto al mio fianco per più di due mesi. Quindi quello a cui ero legata era evidentemente solo un pensiero romantico, l’idea che noi due fossimo destinati a stare insieme nonostante le impervietà della vita e i capricci del destino, sebbene le cose stessero per cambiare ci credevo ancora? Avevo scelto di fare il medico per aiutare le persone in difficoltà e un’occasione come quella che mi aveva offerto il professore De Martino non si sarebbe mai più presentata. Di rifiutare non se ne parlava proprio. D’altronde anche lui aveva scelto di andare via per inseguire il suo sogno, perché io non avrei dovuto?
 
Uscimmo dal locale a mezzanotte passata. Dopo quell’ultima frase avevamo parlato poco, entrambi ci stavamo congedando l’uno dall’altra e lo sapevamo fin troppo bene.
Accostò diligentemente la macchina sulla destra, proprio davanti al portone di casa. Il fascio di rose rosse era ancora ai piedi degli scalini, dove lo avevo adagiato ore prima. Il fruscio delle foglie di alloro risuonò nell’abitacolo silenzioso, simili a campanellini. Mi voltai e raccolsi la corona che Willy mi stava porgendo, le foglie si erano già rinsecchite per il caldo, la rigirai un po’ fra le mani. Avevo preso la mia decisione, ovviamente, eppure non riuscivo a lasciare l’abitacolo dell’auto, non riuscivo a separarmi da lui, a salutarlo ancora una volta, la terza volta per la precisione. Willy mi guardò per un po’, mentre io tenevo gli occhi bassi sulla corona, lo sentii sospirare leggermente.
«Devi andare Viola, non puoi rinunciare al progetto di cui mi hai parlato praticamente per tutta la serata.»
«Ti ho annoiato per caso?» gli lanciai un’occhiata dispiaciuta e lui sorrise.
«Annoiato? Mi hai fatto una testa così!» Accompagnò l’esclamazione con un gesto plateale delle braccia e riuscì a strapparmi un risolino, come faceva sempre in fondo…
A sospirare poi fui io:
«Potresti salire a salutare Jenny e Andrea» aggiunsi con troppa enfasi e facendo sembrare quell’affermazione quasi una supplica, indicando la station wagon del professore parcheggiata proprio davanti a noi.
William fissò per qualche secondo il portone di ferro battuto del condominio.
«Se salgo da te finiamo a letto insieme.»
Spalancai gli occhi, era forse uscito di senno?
Scossi il capo con forza, fra l’incredulo e la vergogna, non volevo che pensasse che gliel’avessi proposto per fare chissà cosa, semplicemente non ero ancora pronta a vederlo andare via, a separarmi da lui.
«No, no, hai capito male. Non ti ho invitato a salire per andare, per fare…» balbettai inciampando nelle mie stesse parole, mi presi un attimo di pausa e proseguii «… cioè, io non voglio finire a letto con te.»
«Ma io si.»
Pronunciò quella frase con una tale semplicità che mi disarmò completamente. Immaginai me stessa aprire lo sportello della macchina e correre su per le scale, invece dopo qualche secondo realizzai di essere ancora nell’auto, accomodata sul sedile del passeggero a stritolare la corona di alloro, incapace di distogliere gli occhi dai suoi, avrei tanto voluto aggiungere qualcosa, ma la bocca era completamente asciutta, la gola secca. Non ebbi neanche la forza di reagire con i miei soliti appellativi per nulla gentili, semplicemente continuai a fissarlo con un’espressione da pesce lesso fino a quando sorrise e mi baciò la fronte, spiegandomi - a una spanna dal viso - che se avessimo fatto l’amore quella sera sarebbe stato sbagliato quasi quanto quella volta in ospedale, perché io non sarei più partita e lui non mi avrebbe comunque permesso di prendere quell’aereo. Poi nel tempo gliel’avrei rinfacciato ogni volta che avremmo litigato e lui si sarebbe sentito responsabile e non avrebbe potuto avere ragione della discussione.
Aggrottai la fronte, allontanandomi appena:
«Quindi è questo il punto: non poter avere ragione.»
«Proprio questo!» Mi fece l’occhiolino e scossi il capo, in un modo o in un altro riusciva a cambiare argomento senza troppi giri di parole e ad alleggerire anche le situazioni più intricate. Mi afferrai alla maniglia della portiera e l’aprii:
«Quante volte ancora dovremmo salutarci, Will?»
«Questa è l’ultima» e lo fu davvero.

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Capitolo 18
*** La sorella che non ho avuto ***


Capitolo 17
La sorella che non ho avuto

 

Credevo che la parte difficile fosse quella di rimetterlo in piedi, di spingerlo ad abbandonare il letto e il materasso con il quale era diventato un tutt’uno, invece la parte difficile venne dopo, quando i dolori che la terapia gli causava lo facevano uscire di senno. Imprecava a ogni passetto in avanti nella sala riabilitativa e puntualmente scaricava la sua furia e la sua frustrazione su di me, soprattutto perché dal suo punto di vista era mia la colpa se era costretto a patire quei tormenti.
I primi giorni furono i più duri.
Ogni sera tornavo a casa così stanca e demoralizzata che non avevo né la voglia né tantomeno la forza di mangiare. Riuscivo a malapena a trascinarmi sotto la doccia, indossare qualcosa di comodo per mettermi sotto le coperte e dormire, dormire, dormire. Dimenticare tutto.
Se non fosse stato per Jenny che per quindici giorni filati mi fece da balia, obbligandomi a buttare qualcosa nella pancia e a farmi una doccia, mi sarei trasformata in una specie di zombie puzzolente. Studiandomi con attenzione dall’altra parte del tavolo quadrato, mentre ingoiavo contro voglia ciò che tenevo nel piatto, una sera - quella sera - quando scoppiai a piangere come una fontana, affermò fermamente di voler telefonare al suo fidanzato Andrea De Martino per chiedergli cosa fosse accaduto e di smetterla di farmi assistere Will, perché si era resa conto che la sua non era stata proprio un’idea formidabile, come aveva sostenuto all’inizio. Solo quando cominciai a parlarle, confessandole ciò che avevo promesso mi sarei portata per sempre nella tomba, tornò a sedersi di fronte a me e, alla fine, si alzò per abbracciarmi forte.
Nonostante si fosse rialzato, Willy si ostinava a tenere la barba e i capelli lunghi e incolti. A niente erano valsi i miei sforzi e gli incitamenti a tagliarli, quando lo chiamavo Mowgli rideva e poiché la cosa sembrava divertirlo anziché offenderlo smisi di rivolgermi a lui con tale appellativo e iniziai a chiamarlo Tarzan. In tutta risposta, lui disse:
«E tu saresti Jane o Chita?» lo fulminai con lo sguardo e lui gettò la testa all’indietro e rise a crepapelle. Mentre i suoi soprannomi personalmente mi facevano andare in bestia, come quando avevo sedici anni, i miei al contrario lo divertivano e lo invogliavano a trovare sempre nuovi nomignoli da appiopparmi.  A volte, nei pomeriggi quando soleva riposare mentre io continuavo a studiare, lo beccavo a fissarmi la schiena con un mezzo sorrisetto e, chiedendogli cosa diamine volesse, mi rispondeva che era ancora indeciso se fossi più Jane o Chita. Lo chiamavo idiota e riprendevo lo studio.
Gli attrezzi per la riabilitazione furono spostati sul suo pianerottolo e sistemati nella stanza di fronte. Il primo giorno di terapia si intestardì che non avrebbe lasciato la propria camera d’ospedale se non accompagnato su una sedie a rotelle. Così, sotto gli occhi miei e del professor De Martino che lo osservavamo accigliati e contrariati mentre un infermiere lo spingeva dall’altra parte del corridoio, lui se ne stava a capo alto e schiena dritta, con la stessa aria presuntuosa di un pascià.
L’avrei preso a schiaffi per due ore filate!
Il dottore mi aveva avvisato che non sarebbe stato facile: il muscolo del ginocchio era stato per diverso tempo fermo e i dolori sarebbero stati insopportabili; poi affermò una cosa che mi terrorizzò. Disse che il dolore del paziente sarebbe diventato anche il mio.
In quel momento non compresi appieno le sue parole, eppure quella sera stessa, tornando a casa, sentii come un enorme masso comprimermi il torace togliendomi il respiro. A ogni piccolo passo che lui muoveva, aggrappandosi a quelle due sbarre di ferro come se fossero state un salvagente in mezzo all’oceano in tempesta, pregavo un Dio in cui non credo affinché ne compiesse un altro, un altro soltanto. Le sue lacrime divennero le mie lacrime e le sue sofferenze divennero le mie sofferenze.
Jenny quella sera provò a tirarmi su il morale sussurrandomi che il peso di un fardello condiviso da due persone sarebbe stato più leggero da portare in spalla, dimostrandosi ancora una volta molto più assennata della maggior parte delle nostre coetanee e della sottoscritta. Credo che la vicinanza di un uomo più maturo di lei - molto più maturo - avesse accelerato il processo di maturità e razionalità che l’avevano sempre contraddistinta.
 
Willy alla fine decise: ero Chita.
Non che mi fossi illusa di essere Jane, ma la prospettiva di essere una scimmia non mi allettava e ogni qual volta si rivolgeva a me con quel nomignolo mi adiravo come un animale (appunto!). Spesso lo faceva davanti agli altri, di solito medici o infermieri, perché aveva intuito che così non avevo modo di insultarlo; ma gliela facevo pagare appena restavamo da soli, rimanendo muta per ore intere, senza rispondere alle sue domande né tantomeno dando peso alle sue battute ironiche. Poi si scusava, promettendomi che non l’avrebbe più fatto, non mi avrebbe più chiamato Chita davanti ad altra gente, che avrebbe smesso di mettermi in imbarazzo e io, come un’allocca, ci cascavo sempre.
Eppure le sue scuse, accompagnate dal suo sguardo profondo, sembravano sempre molto convincenti e sincere…
Dopo una settimana di terapie in un certo senso le cose iniziarono a migliorare. Il dolore alla gamba era ancora presente, come mi confermavano la sue smorfie a ogni passetto, tuttavia in Willy qualcosa cambiò: se dapprima non voleva neanche saperne di alzarsi dal letto passando il tempo a desiderare di morire, successivamente io e il dottor Andrea fummo obbligati a tenerlo a bada affinché non esagerasse con gli esercizi per affrettare i tempi. Improvvisamente era diventato impaziente di guarire il prima possibile. Non potevo più allontanarmi da lui né rischiare di addormentarmi sui libri o sarebbe sgattaiolato fuori dalla stanza e avrebbe continuato con gli esercizi, da solo e senza la sorveglianza dei fisioterapisti che lo seguivano.
Fu proprio durante la fine dell’ultima settimana che accadde qualcosa, come un punto di rottura, di non ritorno e la verità nuda e cruda mi crollò addosso, schiacciandomi con tutto il suo peso.
La stanchezza fisica e lo stress mentale che mi causava quella situazione, sommate alle poche ore di sonno, mi gettarono in una specie di coma irreversibile. L’ultima cosa che ricordo fu di essermi accertata che Willy si fosse addormentato. Mi risvegliai non so quante ore dopo (poiché non ricordo neanche a che ora mi fossi addormentata), la mia sola certezza era il fatto che quando avevo chiuso gli occhi fuori c’era ancora il sole, mentre quando sollevai le palpebre il buio aveva ormai inghiottito l’intera stanza di degenza. Scattai a sedere sul lettino d’ospedale di William, chiedendomi come diavolo ci fossi finita lì sopra, la testa ronzava causandomi un certo senso di nausea, la treccia ormai disordinata e il camice bianco stropicciato.
Di lui nemmeno l’ombra.
Quando finalmente riuscii a mettere a fuoco l’intera situazione balzai giù dal letto, rischiando di rotolare nei miei stessi piedi a causa delle vertigini. Mi fiondai nella stanza di fronte a quella in cui stavo, trovandovi proprio Willy, il collo della maglietta bagnato di sudore e i capelli umidi. Mi vide e si arrestò solo dopo altre due flessioni, mise a posto il bilanciere e si deterse il sudore con un asciugamano. Da seduto abbozzò un sorriso, quasi di sfida, e dalla sua espressione compresi che già sapeva che gli avrei sciorinato una bella ramanzina:
«Ben svegliata, Verdina. Hai dormito bene?»
«Che stai facendo?» avanzai con le braccia conserte e lui fece spallucce. «Lo sai che questo attrezzo non lo puoi usare ancora? Non puoi continuare a sforzare la gamba così, le cose vanno fatte con calma e…»
«Si, si, certo» mi interruppe alzandosi, fece una smorfia di fastidio quando la gamba si ritrovò a dover sostenere il peso del corpo, ma avanzò comunque nella mia direzione e io – d’istinto - indietreggiai, spaesata dal repentino cambio espressione.
L’aria divenne improvvisamente irrespirabile per me, e di nuovo pensai che la temperatura dei termosifoni in quell’ospedale fosse troppo alta. Mi sfiorò la base del collo seguendo la catenina d’argento che indossavo, fino ad arrivare al ciondolo di Swarovski a forma di stella:
 «É una bella collana, ho notato che la metti sempre. Chi te l’ha regalata?» mi chiese e io mi ritrovai a balbettare che mi era stata donata dai miei genitori il giorno in cui ero stata ammessa alla facoltà di medicina. «É una stella,» aggiunse tornando a guardarmi negli occhi, sebbene le dita continuassero a sfiorarmi la pelle, «come te, che sei una Stellina» fino a discendere sulla curva del seno sinistro. «Hai il cuore che batte forte» constatò.
Con un gesto repentino scacciai la sua mano sforzandomi di mascherare il disagio che mi attanagliava le viscere e mi faceva le gambe molli come gelatina. Feci un passo indietro senza accorgermi che il tapis roulant con le sbarre era proprio a un centimetro alle mie spalle. Caddi come un sacco di patate, avvertendo una leggera fitta espandersi dall’osso sacro fino a tutta la schiena, simile a una scossa elettrica. Presi a strofinare il punto da cui era scaturito il dolore, senza badare a Willy che intanto si piegava sulle ginocchia per portare i nostri volti alla stessa altezza. Sorrideva con un’aura che non gli avevo mai visto aleggiare sul viso:
«Quanto sei imbranata, Stellina» feci per fulminarlo con un’occhiataccia, sperando di stemperare quella strana atmosfera che si era creata, però quando provai a rimettermi in piedi lui allungò il suo corpo sul mio. Tentai di mantenere almeno la posizione da seduta, ma era troppo pesante e mi ritrovai con la testa sul tappeto, allora cercai di tenerlo lontano schiacciandogli i palmi sul petto.
«Non sei per niente divertente Will» gli dissi, provando a mostrarmi il più naturale possibile.
«E chi vuole essere divertente?» mi baciò il collo mentre la sua mano prendeva a slacciare i bottoni del camice bianco per infilarsi sotto la mia maglia. Lo fece con una certa abilità. La sentii fredda a contatto con la pelle e sussultai. Gli intimai di smetterla, tentando di allontanarlo da me, ma le sue dita continuarono ad arrampicarsi lungo il mio addome, fermandosi solo per giocherellare con il bordo del reggiseno.
 
Cosa stava succedendo? Cosa gli era preso?
Mi sforzai di pensare a qualcosa da fare o da dire che avesse potuto arrestare il suo avanzare. Dopo Christian nessun altro ragazzo mi aveva toccato a quel modo, né tantomeno avevo sentito il bisogno di un uomo al mio fianco, tuttavia la passione che avevo sperimentato con il mio primo e unico fidanzato era rimasta quiescente fino ad allora. Come se quella non fossi io, come se stessi osservando una scena che non mi riguardasse in prima persona, per un attimo – un solo attimo – mi abbandonai a tutte le sensazioni che stavo provando, beandomene. Un misto di paura ed eccitazione mi stava portando alla deriva, facendomi perdere di vista il punto fondamentale dell’intera faccenda: quello era William, il ragazzino sedicenne di cui avevo finto di esserne la fidanzata e che alla fine mi aveva detto di essere innamorato di me.
Davvero desideravo lasciarmi andare e farmi trascinare dalle emozioni intense che le sue labbra sul collo mi stavano provocando? E poi, cosa ne sarebbe scaturito?
Sì, mi resi conto in un ultimissimo barlume di coscienza, lo volevo con tutte le mie forze, ma non potevo. Non così, pensai, non deve accadere così, come se fossimo due animali che semplicemente reagiscono all’istinto primordiale della natura.
Gli afferrai il polso della mano che teneva sotto i miei abiti e riuscì a tenerla immobile, intanto che la sua bocca proseguiva a lasciarmi baci ovunque, dalle labbra al collo, fino a raggiungere le clavicole.
«Sei cambiato, Will» dissi d’un tratto, senza rifletterci, la voce strozzata dalla voglia che avevo di piangere.
«Forse» bacio «così» altro bacio «ti piacerò» ancora baci.
«Preferivo il ragazzino spiritoso e dolce che eri.»
A quelle parole si fermò, cercò i miei occhi, era diventato serio.
«Quel ragazzino non c’è più» il suo tono mi raggelò il sangue nelle vene.
«Cosa gli è successo, Will? Perché io a volte lo vedo ancora in te» si liberò della mia presa sul polso e batté il pugno sulla superficie, appena sopra il mio capo. Strizzai le palpebre per lo scossone e lo spavento.
«Ti ho detto che non c’è più!» esclamò, calando la bocca sulla mia, di nuovo. Mi baciò con una tale veemenza da farmi male e in quel momento ebbi la sensazione che era proprio quello che voleva. Ferirmi, come io avevo ferito lui. Forse anche di più. Provai a scrollarmelo da dosso, ma più mi agitavo e più mi pareva di essere in trappola, simile a un insetto nella tela di un ragno. Con la stessa mano che prima mi aveva infilato sotto la maglia discese fino ai miei jeans, dove iniziò ad armeggiare con i bottoni, dopo aver tirato giù la chiusura lampo in un solo colpo.
Terrorizzata gli mollai un ceffone, supplicandolo di smetterla, di lasciarmi stare.
«Ti prego, Will. Ti prego.»
Ritirò la mano e lasciò libere le mie labbra. Entrambi respiravamo affannati, chi per un motivo, chi per un altro. Senza neanche rendermene conto avevo iniziato a piangere, calde lacrime bagnavano le guance infuocate. Ero arrabbiata e furiosa, mi sentivo tradita, per nulla rispettata, né come amica né come medico che si era presa cura di lui fino a quel momento. Quando non riuscii più a sostenere il suo sguardo gli diedi un secondo schiaffo, anche se meno forte del precedente.
«Cosa pensi di fare, stronzo?» lo spinsi via, ma lui non si mosse di una virgola. «Per chi mi hai preso? Credi che sia come quelle puttanelle che magari ti sei fatto finora?» Lui non rispose, a ogni spinta o colpo tornava sempre a guardarmi in faccia, senza vergogna alcuna e questa cosa proprio non la sopportavo. Gli presi le guance con la mano destra e strinsi con tutte le forze.
«E rasati» cominciai, «che mi sembri un barbone caduto in disgrazia. Hai avuto un infortunio alla gamba, non ti sono state amputate entrambe!»
Afferrò tutti e due i miei polsi e li tenne premuti sul tapis roulant, ai lati della testa, mi sentivo come se i suoi occhi mi stessero osservando nuda e vulnerabile e fui certa che avrebbe ripreso da dove l’avevo interrotto. E sapevo che questa volta non avrei avuto la forza necessaria per fermarlo.
Invece disse:
«Tu non lo sai quello che ho passato, quindi non ti do il diritto di parlarmi in questo modo. Tu non sai niente!»
«E allora dimmelo!» urlai, senza riuscire a muovermi più di tanto.
Ci fissammo negli occhi, ero pronta a sentire per l’ennesima volta la storia dell’osso che si spezzava sotto i tacchetti delle scarpe dell’avversario che gli era finito addosso, quando confessò:
«Lu è morta.»
Inizialmente non compresi quello che aveva appena detto. Non so di preciso a cosa pensai in quel momento, ammesso che qualcosa di sensato mi sia passato per la mente. Lui riprese il racconto e avrei tanto, tanto desiderato che non lo facesse.
«Solo un anno fa Lu è morta» gli si incrinò la voce e scoppiò in lacrime. Le sentì scorrermi sul viso e capitolare lungo la curva del collo, intanto che Willy allentava la presa sui miei polsi e mi si accasciava sul seno, a piangere come un bambino.
Lo abbracciai e lo cullai, piangendo con lui, piangendo per lui, mentre mi tornava in mente la sorella che mi aveva accolto con i capelli rosa senza ridere di me. Che aveva da subito capito i sentimenti del fratello nei confronti di una stupida e infantile ragazzina. Ricordai i suoi lunghi capelli scuri e lisci, la sua pelle ambrata e l’enorme pancione. Ricordai le sue grida quando l’avevo aiutata a partorire Matteo, il sorriso che le avevo visto fiorire sul suo volto stringendo il figlio tra le braccia la prima volta; la sua mano calda e sudata che aveva stretto le mia bisbigliando “grazie Viola, grazie di tutto”.
 
Ludovica – per tutti noi Lu – era morta ammazzata, schiacciata dalle ruote di un tir alla cui guida c’era un camionista ubriaco. Era deceduta sul colpo, davanti agli occhi della madre e del piccolo Matteo, il quale attendeva dall’altra parte della strada, mano nella mano con la nonna, il gelato che la mamma era andata a comprargli. Aveva emesso il suo ultimo respiro sull’asfalto bollente, in un giorno d’estate umido e afoso, con una folla di curiosi che era rimasta ammutolita, fra le imprecazioni del camionista che veniva arrestato e portato via dalla polizia e le urla folli, struggenti, della madre della vittima. La donna si era inginocchiata a scuotere il corpo deformato e sanguinante della figlia, invocando il suo nome, invocando il Signore e supplicandolo di prendere lei, di ridare la vita a Lu e di prendersi la propria. In piedi, al suo fianco, era rimasto Matteo, con lo sguardo fisso sul viso deturpato della mamma, a fissarla per chissà quanto tempo negli occhi aperti e vitrei, fino a quando una giovane donna aveva avuto il buon senso di portarlo lontano da tutto quello.

 

*****


Il giorno successivo entrai nella stanza di Willy a testa china, con una maglia accollata fin sotto il mento e tutti i bottoni del camice chiusi.
La notte precedente avevo dormito poco o niente, per lo più avevo pianto fra le braccia di Jenny che non mi lasciò sola neanche per un momento, rivelandosi ancora una volta una persona e un’amica migliore di me.
William però non era nel suo letto, le veneziane però erano già state tirate su, inondando la camera di luce mattutina. Mi raccomandai di non cercarlo nella stanza delle terapie questa volta, al massimo avrei chiesto a un infermiere di verificare se fosse lì; poi la porta del bagno alle mie spalle si aprì e per poco non urlai di terrore. La barba non c’era più e i capelli erano sistemati all’indietro, scuri e lucidi, ancora bagnati dopo lo shampoo.
«Viola» disse vedendomi, mi sembrò onestamente stupito. Forse non avrebbe scommesso un solo soldo che mi sarei presentata da lui quella mattina. Mi prese le mani e nonostante una vocina in fondo alla testa mi consigliasse di allontanarmi da lui, di non permettergli di toccarmi, lo seguì fino al bordo del letto dove ci sedemmo. Feci scivolare via le mie dita dalle sue, ma lui non protestò.
 «Viola, giuro che quello che è accaduto ieri non si ripeterà più. Scusami. Perdonami se io… io non so davvero cosa mi sia preso. Ti giuro, ti giuro che non accadrà più. Non voglio che tu-» gli sfiorai la guancia, era liscia, e lui smise di parlare, trovandosi spiazzato dal mio tocco.
Era lui, era il mio Will: il ragazzino di sedici anni che mi era mancato come l’acqua nel deserto. Senza la barba a nasconderlo, potevo finalmente vedere il suo volto da adulto, i contorni e i lineamenti che si erano induriti, diventando più marcati, da uomo.
Mi domandai cosa vedesse lui di me? La ragazzina di sempre o una donna?
Mi prese la mano e ne baciò il centro del palmo, questa volta non opposi resistenza né pensai di farlo.
 «Vado via» disse e io mi svegliai come da un sogno a occhi aperti. «Continuerò la riabilitazione in un centro vicino casa. Gli psicologi hanno detto che uscire da qui mi farà bene.»
«Te ne vai di nuovo» sussurrai e lui mi sorrise con dolcezza, come non gli vedevo fare da tanto, troppo tempo.
«Si, e di nuovo ci incontreremo» fu la sua risposta.



 

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Capitolo 19
*** Lobaye ***


Capitolo 19
Lobaye

 
Dopo appena un anno di progetto benefico nella prefettura di Lobaye, nel sud ovest della Repubblica Centrafricana, vennero a mancare i fondi che fino a quel momento ci avevano finanziato, tenendoci a galla con le spese, seppur a stento.
Insieme a Jenny e il suo fidanzato Andrea – con il quale avevo oramai instaurato un rapporto amichevole e confidenziale, tanto da eliminare le formalità, nonostante l’abisso di età che ci separava – spesi intere notti seduta sulla superficie della loro tenda, che era grande il doppio della mia giacché erano in due ad abitarla. Andrea era solito sdraiarsi sul letto, gli occhiali calati sulla punta del naso, l’espressione corrugata nascosta dalla folta barba, intento a rimuginare su come far tornare i conti per coprire le spese delle medicine; dell’acqua potabile che arrivava in quantità limitate dalla capitale per evitare che i batteri si moltiplicassero all’interno delle botti in cui ci veniva rilasciata; del cibo che spesso però, causa le alte temperature, marciva nel giro di qualche giorno; oltre alle numerose siringhe, bende, biberon per i più piccoli e gli anziani allettati, disinfettanti e detersivi vari che utilizzavamo come multiuso.
Io e Jenny ce ne stavamo sedute a gambe incrociate sul pavimento di nylon, unica e sottile superficie che intercorreva fra le nostre chiappe e la terra umida, battendo con l’indice sulle calcolatrici e riportando i risultati sui rispettivi block notes, attente a non consumare troppe pagine e rischiare così di doverne comprare di nuovi. Spesso eravamo logorati dal dubbio: comprare un pacco di aspirine per combattere la nuova influenza o materiali di vario genere, come stoviglie e detergente per lavarci.
 

*****


Durante il viaggio di quindici ore che praticamente mi catapultò su un nuovo pianeta, non feci altro che pensare a Willy e a quello che mi aveva detto il giorno della mia laurea, al suo sorriso e alla sua coinvolgente allegria. La settimana successiva al nostro ultimo incontro mi ritrovai a prendere il cellulare in mano ogni qual volta non ero impegnata, risoluta a inviargli un messaggio per supplicarlo di vederci; per dirgli che se me lo avesse chiesto sarei rimasta con lui, non sarei andata da nessuna parte, ma con la stessa velocità con cui afferravo il telefonino così lo lanciavo sul materasso, come fosse stato un ferro rovente. Allora prendevo il costume e facevo un salto alla piscina universitaria, sfruttando l’abbonamento annuale che mi restava.
Riuscii a resistere una settimana intera, lottando contro la voglia sfrenata di vederlo e ridere con lui, magari prendendo in giro la mia infantilità, nuotando, disfacendo e rifacendo la valigia un giorno si e l’atro pure. Jenny mi osservava da lontano, silenziosa come solo le persone discrete sanno essere, conscia della mia inquietudine. Poi un pomeriggio mi chiese cosa fosse successo fra me e William la sera che andammo a cena insieme.
«Nulla» risposi. «Proprio nulla.»
Lui aveva avuto ragione affermando che se fossimo stati insieme quella notte io non sarei più partita, rischiano di perdere l’occasione della mia vita, un’opportunità che difficilmente si sarebbe ripresentata; d’altro canto c’erano state così tante e palesi occasioni di stare con lui che ero certa di essermele giocate tutte. E male.
Trascorsi l’ultima settimana divisa fra il desiderio di telefonargli e quello di tuffarmi nella nuova avventura che mi aspettava dall’altra parte del mondo. In aeroporto mi guardai in giro, ritrovandolo nei capelli bruni e tagliati a punta dei ragazzi che mi passavano di fianco, negli occhi scuri che incrociavano i miei, nella pelle abbronzata di quelli che mi urtavano per caso. Quando il nostro volo fu annunciato, Andrea De Martino mi prese per le spalle e con quel suo fare che sembrava parlasse tramite telecinesi, quasi senza muovere le labbra, mi disse che se avevo intenzione di tirarmi indietro quella era l’ultima chance che avevo a disposizione. Afferrai il mio bagaglio a mano di peso e con determinazione risposi che ero pronta a partire.
Ovviamente era una bugia. Non ero pronta per niente e non lo sarei mai stata credo, avrei potuto attendere che lo fossi una vita intera, relegata in quell’aeroporto, senza esserlo mai. Pensai a lui, a Will, per tutto il viaggio, da sveglia e da dormiente. Ricordai i miei sedici anni e i suoi, fantasticai su come sarebbero potute andare le cose se lui non fosse partito per la capitale, oppure se mi avesse detto dall’inizio che gli piacevo; mi chiesi cosa ne fosse stato di noi se l’infortunio non ci avesse fatto rincontrare o se avessi continuato la specializzazione in un ospedale della zona, dove lui avrebbe potuto raggiungermi percorrendo solo qualche chilometro di autostrada. Lo sognai da ragazzino, con i capelli scuri e folti; poi da adulto, con la barba ispida, svegliandomi di soprassalto quando mi sussurrò di voler fare l’amore con me, sudata e con il cuore che batteva un po’ troppo forte nel petto.
Tuttavia, non appena misi piede sulla superficie del nuovo continente, dimenticai tutto e tutti. Il caldo umido mi crollò addosso come una campana priva di ossigeno. Il cielo era biancastro, dell’azzurro terso che ricordavo nemmeno l’ombra; le persone camminavano per la strada a testa bassa e i bianchi fra la gente nera si potevano contare sulle dita di una mano, fra questi c’eravamo io, Jenny e il dottore. Il nostro autista si rivelò essere un nativo del posto, tanto alto quanto magro, che parlava a stento l’inglese e che ci accompagnò all’ambasciata del nostro paese, stipati in una vecchia auto senza aria condizionata. Passammo la prima notte nella capitale Bangui, quali ospiti dell’ambasciatore e della sua famiglia. L’ambasciata italiana si rivelò essere un’enorme struttura di marmo bianco sulle cui vette sventolava il Tricolore, spiccando contro un agglomerato di palazzi fatiscenti, mercati caotici e gente dall’abbigliamento colorato. Dormii qualcosa come diciotto ore, stremata dal viaggio, frastornata dal fuso orario e con un pesante scoglio di malinconia al centro dello stomaco.
Il giorno seguente ci accompagnarono al villaggio in cui avremmo dovuto iniziare la nostra nuova avventura - che si sarebbe conclusa dopo diversi anni, nel peggiore dei modi. Enormi zaini, simili a quelli degli scalatori, vennero dati a ognuno di noi tre, spiegandoci che contenevano le tende che sarebbero diventate le nostre case, vettovaglie in generale – pentole, posate, cibo in scatola e pane secco da ammorbidire nell’acqua per mangiarlo, ma che non sarebbe andato subito a male come il pane lievitato –, abiti adatti al clima torrido.
Dal finestrino del bus su cui viaggiavamo vidi case con il tetto di paglia, animali da fattoria in libertà e, soprattutto, donne e bambini. Questi ultimi erano così magri da poter contare gli anelli della spina dorsale e le costole, dai visi tanto smunti che mi sembrava di star guardando dei teschi riesumati. La maggior parte dei bambini era nuda, completamente, solo le ragazzine che avevano raggiunto l’età dello sviluppo si coprivano le parti intime con una sorta di pannolino di stoffa, quelle che avevano un seno piccolo lo lasciavano al vento, le altre, quelle più prominenti, indossavano un abito di media lunghezza, tutto rattoppato. Le donne avevano l’aria afflitta, gli occhi tristi, i capelli nascosti sotto un turbante o acconciati in tante piccole trecce, erano coperte da lunghi abiti colorati, vecchi e sporchi. Dopo diversi minuti di strada sterrata e campi dalla terra così rossa e arida da sembrare sabbia, giungemmo al villaggio, dove mi accorsi che la situazione non era per nulla migliore di quella incontrata lungo il percorso.
Anche qui c’erano in particolare donne e bambini che ci guardavano spauriti, un misto di curiosità e sgomento, i più piccoli si nascosero dietro i fianchi delle proprie mamme.
Gli uomini si presentarono a noi solo nel tardo pomeriggio. Invogliati/costretti dalle guardie che ci avevano scortato, montarono le tre tende: la più grande destinata alla mente di quel progetto benefico, ovvero il dottore, si trasformò nella casa sua e di Jenny, la tenda destinata invece a quest’ultima, grande quanto la mia, fu adibita a pronto soccorso. All’interno vi sistemammo quindi sacchi a pelo e lettini chirurgici, a mano a mano che ci arrivavano dalla città, dove curavamo le partorienti o i malati davvero gravi. La mia tenda aveva solo due reparti, la camera da letto – si trattava di una sorta di brandina dove la mattina arrotolavo lenzuola e coperta di lana che mi fu donata dalla moglie dell’ambasciatore, poiché mi spiegò c’erano notti in cui le temperature calavano sotto lo zero, nonostante di mattina il sole ribollisse in cielo – e un tavolo di plastica che mi fece da scrivania. L’altra stanza era piccola e vi sistemai tutto quello che poteva servire in una toilette. Peccato mancasse l’acqua. Dopo una settimana circa dall’ambasciata arrivò una specie di water, proprio quando mi stavo abituando a fare i bisogni accovacciata come una cagna.
Se dicessi che fu facile ambientarmi e che non abbia mai desiderato o assaporato il pensiero di imbarcarmi sul primo aereo per tornare alla civiltà e alle comodità a cui ero abituata, mentirei. So per certo che a trattenermi lì furono gli occhietti vispi e imploranti dei bambini, i quali dopo avergli somministrato un farmaco per fargli passare il mal di pancia o la dissenteria, correvano ad abbracciarmi, donandomi un fiore raccolto nella campagna o una coccinella, quale simbolo di buon auspicio. Ma fu anche, e soprattutto credo, la gratitudine sul viso delle donne, per le quali ero diventata un vero e proprio punto di riferimento. Mi insegnarono la loro lingua e sebbene all’inizio incontrammo enormi difficoltà di comunicazione, trascorrevo ore e ore in loro compagnia; in particolare di sera, intorno al falò che accendevano al centro del villaggio, dove arrostivano pesce fresco di giornata. Imparammo a parlare a gesti e, nelle ore di tranquillità, quando non c’erano urgenze mediche, insegnai loro a leggere e scrivere, grazie all’aiuto di libri presi in prestito dalla biblioteca dell’ambasciata. Rimanevano estasiati di fronte alle nozioni che davo loro sul mondo, non immaginavano neanche che oltre la propria regione vergine e indomita esistesse un pianeta intero.
Ovviamente non c’era energia elettrica, quindi ogni speranza di collegarmi al web svanì nel giro di poche ore, il tempo di rendermi conto che da quel momento in poi l’unica luce disponibile – una volta calato il tramonto – sarebbe stata quella delle lampade a olio e delle candele.
I bambini all’inizio erano soliti carezzarmi i capelli rossi, un colore che non avevano mai visto in testa alla gente; le donne provarono a tingerseli con impacchi di henné e cassia, senza riuscirci mai. Le bambine presero a disegnarsi sul viso e sulle braccia puntini rossi con i colori che portai loro da un’escursione al mercato cittadino, per emulare le mie lentiggini. Dovemmo lavarle con l’alcool per far andare via il colore.
Una cosa alla quale non mi abituai mai furono gli insetti che mi trovavo ovunque: nei capelli, sotto i vestiti, appiccicati addosso. Per questo motivo presi l’abitudine di cospargermi zone della pelle con un impacco a base di erbe e qualcos’altro che non ebbi mai il coraggio di chiedere. L’odore non prometteva nulla di buono…


Fu durante la seconda settimana che iniziai a scrivere questo diario.
Un giorno l’anziana del villaggio, una sciamana dai poteri soprannaturali che sembrava avere 130 anni, ma che scoprii ne aveva solo 58, mi regalò un diario fabbricato dalle sue stesse abili mani con foglie ricavate da una pianta millenaria. Mi consigliò di riportare su quelle pagine i miei ricordi più belli, ma anche quelli più brutti, le mie emozioni e i miei pensieri, perché il tempo li avrebbe cancellati dalla memoria e quando un giorno sarei stata vecchia e avrei voluto riviverli mi sarebbe bastato sfogliare quel quaderno. Passai diversi giorni a fissare la pagina rigida e color ocra, senza trovare il coraggio di mettere su carta la mia vita. Avevo paura di riviverla, temevo allo stesso modo i ricordi brutti e quelli belli, i dolori e le gioie avevano per me lo stesso peso. Poi una frase mi perseguitò per giorni interi: «facciamo un patto». Era la frase da cui era cominciato tutto, la prima che sentii dopo aver visto Christian e Jenny intenti a scambiarsi baci appassionati, quella che Will mi aveva rivolto trovandomi rannicchiata e in lacrime fra gli alberi del parco dietro la scuola. Era la frase che aveva dato inizio alle “danze” e cambiato per sempre il mio destino. Dopo una notte intera passata a rimuginare, all’alba scarabocchiai sul quaderno le tre parole e così smisero di perseguitarmi. A poco a poco cominciai a dedicare un po’ di tempo alla scrittura del diario; dicevo che lo facevo per rispetto dell’anziana che mi aveva fatto quel dono, la verità però era che mi aiutava molto. Scoprii così che rivivere tutte le sensazioni non era poi così male, talvolta sorridevo alle stupidaggini che avevo combinato, altre mi commuovevo, (come quando ricordai la prima volta che avevo conosciuto Lu, la sorella di Willy). Decisi anche di dargli un titolo e la prima cosa che mi venne in mente fu “qualcosa di stupido” poiché mi sembrava tutto così tragicamente stupido: dallo scrivere quel diario, al patto che avevo stretto con Will, fino a non accorgermi dei suoi palesi sentimenti nei miei confronti, a quante volte ci eravamo salutati e poi rincontrati senza approfittare di quell’ennesima occasione di stare insieme che ci aveva offerto il destino.
Davvero stupido.
Di giorno seguivo le donne fino al fiume Sangha che distava solo qualche centinaio di passi, ove si recavano per fare il bagno e il bucato. Lo facevano di mattina, quando gli uomini erano al lavoro e quindi potevano attraversa il bosco e spogliarsi senza paura di essere osservate o, peggio ancora, violentate. Questo pericolo, mi spiegarono a grandi linee, non erano le donne maritate a correrlo, in quanto un uomo che avesse anche solo posato lo sguardo sulla moglie di un altro rischiava di essere impiccato alla quercia secolare nel centro del villaggio, bensì le ragazzine già donne ma non ancora sposate. Rimasi inorridita. Il solo pensiero di bambine che avevano passato da poco i dieci anni potessero essere violate da un omone mi faceva venire il voltastomaco, inoltre fu la prima volta che compresi realmente in quale stato di regressione sociale e culturale vivesse quella gente.
Verso la fine del primo anno, quando oramai avevo imparato a conoscere i luoghi, le strade, i rumori e le abitudini delle persone che mi circondavano, di sera ero solita recarmi al fiume per fare un bagno e nuotare, per distendere i nervi e svuotare la mente, poi trascorrevo il tempo con la schiena contro il tronco di un albero e le ginocchia tirate al petto, con il diario adagiatovi sopra, continuando a scrivere la storia della mia vita.

 

*****


Nonostante i nostri sforzi i conti non quadrarono mai e ben presto il professore si arrese all’evidenza che se fossimo rimasti nelle mani di un solo contribuente non saremmo arrivati alla fine dell’anno. Smettemmo di fare i ragionieri e ci trasformammo in organizzatori di manifestazioni per scopi benefici. Ben presto però ci rendemmo conto che quella regione era alquanto povera e che per quante serate avessimo programmato, non avremmo ricavato un ragno dal buco. Bisognava inventarsi qualcosa di più grosso, un evento che coinvolgesse tutti i continenti.
Andrea ne parlò con l’ambasciatore, io e Jenny attendemmo fuori dalla stanza, percorrendo in lungo e in largo il corridoio, pregando affinché l’uomo appoggiasse il nostro progetto. Il dottore ne uscì dopo più di un’ora, sembrava invecchiato di colpo. Sconfitto. Ci confessò che l’ambasciatore si era rifiutato di dare il suo ok per la serata di beneficenza che intendevamo organizzare, allora vidi la mia amica Jenny mutare espressione, esclamando di aspettarla lì. Si chiuse la porta dell’ufficio dell’ambasciatore alle spalle e a me e al suo fidanzato di 38 anni più vecchio non rimase che attendere.
Jenny si era fatta crescere di nuovo i capelli, del caschetto biondo dei primi anni d’università non rimaneva che un vago ricordo nella mia mente. Anche della ragazzina dolce e sensibile che era stata nell’adolescenza non era rimasto quasi nulla, solo qualche sporadico attacco di gentilezza che riservava ai più fidati, come la sottoscritta e il suo innamorato, pazienti a parte. Aspettammo qualche minuto, poi la porta della stanza si aprì e Jenny annunciò ad Andrea che il signor ambasciatore voleva discutere con lui di alcuni punti riguardanti il ballo di beneficenza. Quando restammo di nuovo da sole nel corridoio ci abbracciammo e saltellammo come bambine.
Durante il viaggio di ritorno al villaggio Andrea le chiese come avesse fatto a convincere quel grassone dell’ambasciatore a darle retta. Jenny disse che il suo ego era tanto grosso quanto era grasso il suo ventre, quindi era bastato sottolineare i pro che quella festa avrebbe portato alla sua persona e al suo nome nel mondo.
Molto semplice, insomma.
 
Ci vollero diversi mesi per preparare al meglio la manifestazione che avrebbe dovuto attirare l’attenzione del mondo intero, dai media televisivi ai giornali, fino ad arrivare all’orecchio di persone importanti e di spicco, come attori e politici. Insieme ai bambini del villaggio ogni giorno imbustavamo inviti per le varie famiglie facoltose e per i VIP. A causa della mancanza di tecnologie, io e Jenny scrivevamo a mano le lettere e gli indirizzi sulle buste, che poi passavano ai ragazzini per chiuderle a suon di leccate. Si divertirono molto sentendosi importanti, tra l’altro il pensiero che quelle bustine bianche avrebbero sorvolato mari e monti per arrivare ai destinatari li entusiasmava come un film di fantascienza.
La serata si tenne all’ambasciata, dove si trasferirono i migliori cuochi del paese e un vasto numero di ragazzi fra i quindici e i venti anni che fecero un corso accelerato per trasformarsi in camerieri per una notte. In gran segreto le donne del villaggio, incentivate dall’anziana sciamana a cui tutti, io compresa, ci rivolgevamo con l’appellativo di mama, cucirono per l’occasione degli splendidi abiti ispirati alla loro cultura, uno per me e un altro per Jenny. La servitù della famiglia dell’ambasciatore ci aiutò a indossarli, in particolare il turbante: un pezzo di cotone che ci arrotolarono sulla testa dove era trattenuto da una spilla. Entrambi gli abiti cadevano morbidi e flessuosi fino alle caviglie, in un’esplosione di colori e fiori tipici del paese, ma mentre quello di Jenny virava su cromature fredde quali il blu e l’azzurro, il mio era ispirato a colori più caldi, come il rosso. Ai piedi calzavamo sandali bassi di cuoio. Andrea era tutto in tiro in smoking scuro e la cravatta che durante la serata allentò prima di disfarsene completamente.
Prima di entrare nella sala allestita appositamente per la manifestazione e da cui potevamo udire i primi borbottii degli ospiti accorsi, risatine e in sottofondo musica classica, in attesa del più rinomato gruppo pop che si era offerto di rallegrare la serata gratis. Ci stringemmo la mano io, Andrea nel mezzo, e Jenny alla sinistra di quest’ultimo.
«Non è per noi. È per loro» disse il professore e io intuii che si stava riferendo alle persone che in quasi due anni avevamo imparato ad amare: i bambini come i nostri figli, i ragazzi adolescenti come nostri fratelli, le donne come nostre madri, gli anziani come nostri nonni.
Varcammo la soglia dell’enorme portone che ci fu spalancato dalle guardie in divisa blu e, ancora una volta, ebbi la sensazione che la mia vita stesse subendo un ulteriore, radicale mutamento.


 

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Capitolo 20
*** Sono qui ***


Salve gente! 
Dopo un settimana di ferie sono tornata, con la speranza di ricominciare ad aggiornare con regolarità. Questo è un capitolo speciale perché si tratta di una sorta di crossover, ossia la presenza dei personaggi della prossima long che ho in mente e che ho già iniziato a scribacchiare, nonché una delle sue scene cardini. In un certo senso l'idea di questa storia nella storia me l'ha data uno dei miei supporters (sono sicura che a tal proposito il suddetto di riconoscerà...).
Ne approfitto per ringraziare chi mi sta seguendo dal primo capitolo e soprattutto i miei fedelissimi (ai quali si è aggiunta una donna!), ovvero mistery_Koopa, Spettro94, alessandroago_94, yonoi e Fan of the Doors. Grazie ragazzi!


 

Capitolo 20
Sono qui

 

 

La prima cosa che mi saltò all’occhio, entrando nell’enorme sala dell’ambasciata italiana, furono i mastodontici lampadari a goccia che pendevano dal soffitto tempestato di stelle. Solo grazie a uno sguardo più attento compresi che stavo guardando il cielo, quello vero, poiché il soffitto a cupola era trasparente. Cercai la luna, la stessa che avevo visto in pieno pomeriggio così bianca, pallida e abbandonata, ma non la trovai. 
I lampadari erano in stile ottocentesco, piazzati in fila indiana a una precisa distanza l’uno dall’altro. Li fissai rapita. I pendenti di cristallo cadevano su di noi in uno sfavillio di colori, e non potei fare a meno di ricordare quelli che avevo notato la sera della mia laurea, quando William mi invitò a cena, dove solo la luce della candela brillava più dei nostri occhi. 
Sentii la voce del dottor Andrea che mi giungeva da lontano, mentre incitava sia me, sia la sua compagna Jenny, a darci da fare, a essere carine con gli invitati, soprattutto con coloro di cui ci aveva parlato quel pomeriggio. I più ricchi da una parte, accompagnati dalle mogli, suggerendoci di fare leva sulla solidarietà femminile illustrando in particolare le difficoltà delle donne locali nel crescere i loro poveri figli; dall’altra i ricconi scapoli, particolarmente sensibili alla bellezza femminile, ecco perché con questi ultimi avremmo dovuto sorridere e ammiccare, flirtando con loro se necessario. Jenny si indispettì a tal proposito e quando Andrea le rispose che doveva pensare alla causa per cui lo stava facendo, lei rispose che allora avrebbe dato il meglio di sé. Alla fine di quella festa il professore sarebbe stato così geloso del successo riscosso dalla sua amata da diventare rosso da capo a piedi. 
Jenny in effetti richiamò l’attenzione degli uomini presenti in sala non appena vi mise piede. Era così bella che neanche le donne poterono rimanere indifferenti alla sua avvenenza. Si muoveva con la solita grazia che le apparteneva, così come lo sguardo ammaliante e sensuale, i movimenti gentili e civettuoli le scaturivano in maniera tanto spontanea che nessuno pensò che stesse recitando. Sorrideva e rideva in modo garbato, con il dorso della mano sinistra davanti alla bocca e un calice di champagne nella destra che, tuttavia, rimase lì, intatto, per l’intera serata. Quando nessuno la guardava si recava dai camerieri al buffet per chiedere un po’ d’acqua che beveva di nascosto prima di ricominciare la negoziazione con i convenuti. 
Andrea dal canto suo si dedicò alle persone più anziane, vecchi compagni di corso che erano diventati per lo più ministri o importanti pionieri della medicina invasiva.
Alla sottoscritta, quindi, non rimasero che gli ammogliati
.Fu lo stesso dottore a salire per primo sul palco a ringraziare coloro che erano accorsi dalle svariate parti del mondo per sostenere quella nobile causa, quindi invitò le sue assistenti – me e Jenny – a raggiungerlo. I ringraziamenti finali furono invece riservati all’ambasciatore e sua moglie Maria, senza la quale la serata di gala non avrebbe mai avuto vita.
«Perché signori, come mi hanno insegnato i miei colleghi africani, se le donne abbassano le braccia il mondo crolla.» Era un proverbio locale che diverse volte mi era stato rivolto da quando ero lì. Dalla platea si alzò un applauso garbato, poi il nostro posto fu occupato dalla prima band inglese in scaletta, pronta a esibirsi con le loro chitarre elettriche.

Mi guardai attorno, circondata da una marea di persone così diverse tra loro: gente bianca, gente nera, gente con gli occhi a mandorla. Vidi Andrea stringere le mani a un gruppo di ottantenni in formissima, con i capelli rigorosamente bianchi e la barba lunga ma curata; vidi Jenny sorridere a due uomini sulla quarantina, abbronzati e con la pelle del viso così liscia da sembrare quella di un bebè. Fu allora che adocchiai il mio obiettivo: marito e moglie a ore 12! 
C’erano poche donne giovani presenti in sala, se si fa eccezione per le giovanissime che accompagnavano gli amici datati del professore De Martino che, proprio come lui, avevano scelto come compagna di vita – e di letto – una ragazza che avrebbe potuto avere tranquillamente l’età di una loro nipotina. L’età media delle donne invece si aggirava intorno alla sessantina e credo che stravedessero per me: la classica brava ragazza acqua e sapone, semplice negli atteggiamenti e gentile nei modi. Di solito mi accostavo quando erano vicino al buffet, chiedendo loro se sapessero cosa stavano assaggiando, quindi davo il via a una sintetica descrizione della cucina tipica del posto, spiegando le difficoltà delle donne locali nel trovare cibo ai propri figli. Molte si commuovevano ai miei racconti di vita vissuta, perciò intimavano al marito di firmare un assegno che spesso mi consegnavano al momento e personalmente. Non ci potevo credere, infilavo quei pezzi di carta fra i seni, l’unica parte dove potevo tenerli, fra l’altro perché l’abito non aveva tasche, così euforica che più di una volta fui tentata di prendere Andrea e Jenny da parte per confessarglielo, ma ogni volta mi costringevo ad arrestarmi giacché i miei amici erano troppo presi dai loro discorsi.
Ricordo in particolare un uomo sulla cinquantina accompagnato da sua moglie, alto e con i capelli brizzolati pettinati all’indietro, un sorriso così bianco e perfetto che spiccava a metri di distanza. Quando feci per avvicinarmi, Andrea mi prese sotto braccio e con la naturalezza che lo contraddistingueva in ogni occasione, mi accompagnò verso la splendida coppia. Durante i pochi passi che ci separavano da loro, mi raccontò che stava per presentarmi al rettore dell’Università di Milano, nonché il più potente avvocato penalista della nostra penisola.
«Ha evitato la prigione a diversi politici influenti della scena mondiale che non sto neanche a elencarti o scapperesti a gambe levate» mi disse tutto d’un fiato.
«Che?» pur evitando di farmi i nomi cominciavo seriamente a sudare freddo. «Forse è meglio se io…» feci per tornare sui miei passi, ma la sua presa si fece più salda.
«Oh no, no. Lui adora le rosse!»
Guardai il professore con gli occhi sgranati, provando a escogitare un modo veloce per tirarmi fuori da quella situazione, ma un attimo dopo eravamo già di fronte a uno degli uomini più influenti del capoluogo lombardo.
«Achille!» Andrea lo abbracciò, prima di mimare il baciamano alla signora al suo canto. «Susanna. Splendida come sempre.»La donna ringraziò con un sorriso garbato e freddo. Il dottore mi presentò come una delle sue assistenti più capaci e con così tanto coraggio da aver intrapreso un’avventura come quella lì a Lobaye. L’avvocato mi allungò la mano e io gliela strinsi. Aveva una bella presa salda.
«Coraggiosa o folle?» Mi domandò con il suo sorriso bianco e diritto.
«Entrambe. Credo.» Riuscì a strappargli una risata, mentre mi teneva ancora la mano.
«Bella verve, complimenti. E bella stretta soprattutto» tirò via le dita dalle mie. «Anche io da giovane avevo fulgidi capelli scarlatti. Ti ricordi Susy?»
«Come dimenticare» rispose in modo abbastanza pungente sua moglie. Di sicuro non era serenità quella che aleggiava fra loro.
«Come vanno le cose allo studio legale, Achille?» S’intromise Andrea, alleggerendo la sottile tensione che si respirava nell’aria.
«Splendidamente Andrea. Splendidamente.»
Quindi il professore si rivolse a me spiegandomi velocemente che l’avvocato Mori teneva uno studio nel quale lavoravano i più promettenti avvocati dell’Italia e non solo. Essendo lui rettore dell’Università di Milano, aveva permesso ai tanti laureandi stranieri in Erasmus di poter svolgere il praticantato nei propri uffici in via Montenapoleone. Ascoltai assentendo con il capo, intanto che sbirciavo l’espressione compiaciuta di Achille Mori. Ancora oggi non saprei dire se quell’uomo mi piacesse oppure no. Di sicuro suo figlio non mi fece una buona impressione.
«Andrea caro, ti ricordi di mio figlio Daniele?» L’avvocato si rivolse a un gruppo di tre o quattro ragazzi a pochi metri da noi, gli bastò schioccare le dita affinché lo raggiungessero. In particolare passò le braccia intorno alle spalle di uno di loro o meglio, la sua fotocopia più giovane. Il ragazzo si presentò, aveva la stessa presa salda del papà; la pettinatura simile, con l’unica differenza che i capelli del figlio erano color miele e teneva una sottile barbetta curata; gli occhi della medesima tonalità color nocciola erano vispi e le labbra increspate in un sorriso beffardo. Notai soprattutto l’orologio al polso: avrebbe potuto dar da mangiare all’intera regione africana per almeno un anno…
Mentre Achille Mori raccontava la noiosissima vita di Daniele, che da figlio di papà super ricco e viziato era riuscito a superare l’Esame di Stato per l’Abilitazione – manco a dirlo – al primo colpo, i miei occhi si posarono sull’unica ragazza presente tra loro. Ricordo la sua magrezza esasperata, il viso scavato e le occhiaie profonde che avrebbe potuto nascondere con l’accurato make-up ai più, ma non agli occhi di un medico. Anoressia? Bulimia? Forse, ma non ero lì per una diagnosi su un paziente, quindi semplicemente le allungai la mano per presentarmi. Lei sembrò sorpresa, come se fossi l’unica persona a essermi accorta di lei fra mille altre.
«Helena» si presentò, il suo accento la tradì.
«Non sei italiana» dissi sorridendole. Avrà avuto al massimo venticinque anni e uno sguardo profondo, triste e rabbioso insieme, incorniciato da una folta cascata di capelli castani, lisci e lucenti.
«Loro sono i miei più promettenti allievi» s’intromise Achille Mori e di nuovo Helena abbassò lo sguardo sul pavimento. «Eccetto lei» precisò l’uomo. «Lei è la sorella di Aron, studente in Erasmus dalla Croazia. Poi c’è Martino» batté un paio di pacche sulle spalle di quest’ultimo, l’espressione di uno che ha bevuto troppo. «Direttamente dall’Argentina. E infine il nostro turco per eccellenza: Sami.»
Strinsi la mano a ognuno di loro, cercando un ottimo motivo per allontanarmi da quella combriccola che continuava a non convincermi, seppur non riuscivo a smettere di osservare il comportamento della ragazza, in evidente disagio.
In un certo senso compresi il proprio imbarazzo. Neanche io mi sarei sentita a mio agio fra quella gente. Non potei fare a meno di notare con una punta di invidia come il fratello Aron se la tenesse stretta e di come lei si aggrappasse a lui. Inevitabilmente pensai a mio fratello, al nostro rapporto inesistente, a quante settimane fossero trascorse dall’ultima volta che gli avevo scritto un’e-mail. Ok, forse erano passati mesi…
Distratta da quei pensieri però non passò inosservato – almeno per me – lo sguardo d’intesa tra Sami ed Helena, il sorriso dolce di lui e gli occhi di lei colmi di felicità.
Cercai una scusa qualunque e mi allontanai con garbo, sentii d’improvviso il bisogno imminente di bere. Alcol, possibilmente. Presa dall’entusiasmo afferrai al volo un bicchiere di spumante dal vassoio di un cameriere e lo bevvi in un solo sorso. Mi guardai attorno per cercare Jenny, avevo assoluto bisogno di scambiare qualche parola con lei, ma dopo pochi passi qualcuno mi fermò, aggrappandosi al mio abito. Mi voltai indignata, convinta di trovarmi il viso di Andrea a una spanna dal mio, magari arrabbiato perché ero andata via dal suo avvocato del cavolo! Invece mi ritrovai a dover abbassare gli occhi per vedere il volto di un ragazzino imberbe, a occhio e croce sembrava avere circa dodici anni. Lo osservai dall’alto, i capelli gli cadevano in un ammasso di riccioli scuri, la pelle ambrata e quando alzò la testa per guardarmi mi sentii venire meno. 


Gli occhi. Quegli occhi io li avevo già incrociati, da qualche parte, in un’altra vita forse, ma ci avrei messo la mano sul fuoco che li avevo già incontrati. Mi porse un foglietto bianco piegato a due, senza dire una sola parola lo scartai e lessi quello che vi era scritto: sono qui, seguito da un cuore stilizzato con il contorno ricalcato di nero. Questa volta davvero fui sul punto di svenire. Sollevai lo sguardo, ma le parole mi morirono sulle labbra, purtroppo il ragazzino era scomparso. Mossa da frenesia scrutai velocemente tutta la sala, troppo piena per avere una buona visuale, allora mi sollevai sulle punte dei piedi, ma tutto ciò che riuscivo a scorgere erano volti sconosciuti e anonimi. Strinsi quel foglietto come fosse la cosa più cara che avessi. Quella grafia, quel cuore... Non potevano esserci dubbi: Willy era in quella sala e dovevo trovarlo, dovevo vederlo.
Camminai fra la gente, evitando di finirci addosso, scusandomi quando distrattamente urtavo qualcuno. Più volte mi parve di udire la sua voce, eppure di lui neppure l’ombra; altre addirittura ebbi il sentore del suo odore, del profumo che gli avevo sentito addosso l’ultima volta, quando nella macchina mi aveva parlato con la fronte premuta contro la mia. 
E quel ragazzino, chi era? Da dove era sbucato? 
Forse, mi dissi, forse lo aveva pagato solo per fargli adempiere quel lavoretto.
Ciò nonostante quelli erano gli stessi occhi di Will, la sua stessa carnagione, i capelli scuri, mossi e sempre un po’ disordinati che era solito portare da adolescente. 
Alcuni mi fermarono, complimentandosi per l’impegno che una giovane ragazza come me impiegava nel fare del bene verso chi era stato meno fortunato; altri mi stringevano le mani, chiedendomi come facessi a sopportare tutto quel caldo, una ragazza con la pelle così delicata … come se il problema più importante della Repubblica Centroafricana fossero le temperature elevate.
Una signora tutta agghindata mi confessò che aveva un figlio celibe e che le sarebbe piaciuto se fossi diventata la sua sposa, aveva sempre desiderato dei nipotini con i capelli rossi e le lentiggini. Rifiutai la proposta con garbo e fermezza, continuando a spostarmi in lungo e in largo per la sala, con la sensazione di passare più e più volte da una stessa parte. Incrociai lo sguardo perplesso di Jenny che con gli occhi mi chiese cosa stessi combinando. Non potevo risponderle. Tenevo ancora stretto il foglietto in un pugno, ogni tanto tornavo a leggerlo, solo per essere sicura che non mi fossi immaginata tutto. 
Presi le scale sulla destra e incontrai Daniele Mori, il figlio del rettore di Milano. Scattò sull’attenti e si spostò proprio di fronte a me.
«Dottoressa…?» Non ricordava il mio nome e io neanche avevo intenzioni di perdere tempo a dirglielo.
«Queste scale…»
«Portano ai bagni, sì. Ne ha bisogno?» Mi chiese salendo un paio di gradini verso di me.
«No» risposi decisa, tornando sui miei passi. Raggiunsi l’inizio della rampa di scale e mi voltai indietro, lui era di nuovo rannicchiato sui gradini di mezzo a osservare chissà cosa.
Scossi il capo, dicendomi che non erano problemi miei. Avevo altro di cui occuparmi. Lessi ancora una volta le due parole sul piccolo foglio ormai stropicciato, chiedendo a me stessa dove fosse e perché mai non si era ancora fatto vedere, ammesso che fosse veramente in quella stanza. Il desiderio di sentirlo di nuovo vicino, di udire il tono spesso divertito della sua voce, di bearmi del suo sorriso mi stava facendo uscire di senno. Presa dai problemi a cui avevo dovuto far fronte da quando ero giunta in quella nazione, non mi ero resa conto di quanto in realtà mi mancasse.
Poi un leggero tocco di labbra si posò sulla mia guancia destra. D’istinto feci un piccolo saltello in avanti, presa alla sprovvista per poco non urlai, mentre tutto ciò che avevo agognato fino a quel momento si era manifestato a portata di mano. William era proprio lì, davanti a me, sorridente come lo ricordavo.
«Stellina, ma come ti sei vestita?» Gli mostrai il biglietto che mi aveva fatto recapitare.
«E a te questo sembra il modo di annunciarsi?» lui rise.
«Non è stata una mia idea, ma sua» disse, spostandosi di lato quel tanto che bastava per mostrare il ragazzino che pocanzi mi aveva recapitato il messaggio. «Viola» iniziò Will prendendo il ragazzino per le spalle per metterlo proprio di fronte a me. «Ti presento Mattew.» 
«Mattew?» chiesi.
«Sì, Matteo, il figlio di Lu, ricordi? Io lo chiamo Mattew perché è più figo. Gli ho detto che con quel nome non rimorchierà mai nessuna ragazza.»
Lanciai un’occhiataccia a William, intanto che lui se la rideva e io facevo i conti con le mille emozioni che si alternavano in me. Possibile che quel ragazzino – lo stesso che mi aveva ricordato in maniera così vivida il sedicenne Will – fosse suo nipote, nonché il figlio di Lu? Lo stesso neonato che avevo aiutato a nascere? L’ultima volta che lo avevo visto era solo un fagotto di carne giallastra, tutto livido e vischioso, molto più simile a un agnellino che a un essere umano. Lui alzò i suoi occhietti scuri su di me e questa volta non rividi Will, bensì la povera e sfortunata Lu. Gli porsi la mano destra e lui me la strinse titubante, nonostante nelle sue vene scorresse lo stesso sangue della famiglia di Willy, non aveva nulla a che fare con il carattere sfrontato e sfacciato che avevo riscontrato fra i suoi parenti. Di sicuro era un bambino che doveva aver sofferto molto.
Willy indossava un pantalone classico e una camicia blu notte, con le maniche arrotolate, senza cravatta e i primi bottoni aperti, permettendomi di intravedere alcuni tatuaggi, ma non dissi nulla. I capelli erano corti ai lati del capo, la barbetta tagliata a pizzetto. Era cambiato. In due anni tutto sembrava mutato in lui, non capivo in cosa fosse mutato precisamente e decisi che lo era in tutto e in niente. 
Il professor Andrea ci raggiunse, salutò il suo ex paziente, dicendomi che comprendeva la mia felicità, ma dovevo continuare a dialogare con gli invitati, allora sfoderai gli assegni dal reggiseno e glieli porsi. Fu contento, ma dovevo comunque proseguire il mio lavoro, affermando che non aveva dimenticato di come lo avevo lasciato solo ad affrontare la famiglia Mori al gran completo. Mi rivolsi a Willy e subito notai l’espressione beffarda e il suo sguardo posato sulla mia scollatura. Gli diedi un leggero colpo:
«Non fiatare, ok? Non avevo dove metterli.» 
«Il mio biglietto però non è finito lì. Come mai?» sghignazzò.
«Non era un assegno.» 
«Quindi se ti firmassi un assegno, finirebbe lì in mezzo…» finse di soppesarne l’idea e io annuì, stando al gioco. «E se invece diventassi primo finanziatore del progetto? A quel punto… » alzò un sopracciglio, in attesa della mia risposta. Scoppiai a ridergli in faccia.
«Si, certo, come no! Primo finanziatore... » ricacciai indietro il riso e gli annunciai che dovevo proseguire con i convenevoli o il professore mi avrebbe linciata. Lui fece spallucce, tornando a circondare le spalle di Mattew:
«Vai pure Verdina, io non mi muovo da qui» ci scambiammo un lungo sguardo seguito da un sorriso e mi allontanai. 

L’idea di Willy di diventare il primo finanziatore del progetto benefico si rivelò essere tutt’altro che una proposta assurda e senza fondamenta. Me ne accorsi solo a fine serata, quando il dottore salì sul palco, così come aveva fatto un paio di ore addietro, per annunciare a tutti che un giovane ex sportivo aveva deciso di mettere su una ONLUS – che avrebbe finanziato personalmente – da affiancare al progetto benefico di Lobaye. Lo invitò quindi a raggiungerlo e quando vidi William farsi largo tra la folla e salire gli scalini per raggiungere Andrea, afferrai il braccio di Jenny.
«Che significa?» le chiesi senza riuscire a distogliere lo sguardo dai due uomini al centro dell’attenzione di tutti.
«Come non lo sai? Willy ha messo su un’associazione no profit e tutto il devoluto servirà alla nostra causa» risposi che non ne sapevo niente, che mai nessuno mi teneva informata. «Ha chiamato l’associazione “Lu” e secondo Andrea si trasferirà qui.» 
«Qui dove?» questa volta guardai la mia amica, intanto che Will prendeva il posto di Andrea e cominciava il proprio discorso di ringraziamento.
«Al villaggio.» 
Eccolo che ripiombava nella mia vita senza permesso, così come ci era entrato a sedici anni, ricomparendo dopo ben otto anni, completamente cambiato; poi di nuovo il giorno della mia laurea e infine era tornato e, stando alle parole di Jenny, per restare.
Quando Andrea strinse la mano all’ultimo industriale super milionario che fin sulla soglia aveva offerto milioni di dollari pur di sposar Jenny, dicendosi follemente innamorato di lei, erano le quattro di mattina. Solo allora potei notare quanto grande fosse quella sala e, oramai vuota, le nostre voci rimbombarono contro le pareti, finendoci addosso. Mattew era andato a letto molto tempo prima nella camera che era stata riservata a William dall’ambasciatore.
Trovai Willy al buffet, indeciso su cosa mangiare. Mi avvicinai, allontanandomi da Jenny e Andrea che intanto stavano risolvendo i loro disguidi.
«Che significa?» gli chiesi con le braccia conserte e lo sguardo duro.
«Se magari aggiungessi il soggetto alla frase, potrei anche risponderti» disse, scegliendo alla fine una bibita densa e incolore.
«Tutto questo, che significa?»
«La manifestazione? L’avete organizzata voi per…» sciolsi le braccia e girai sui tacchi, sbuffando infastidita. Parlare con lui rimaneva comunque un’impresa in certi momenti.
 «Ok, ok. Stavo scherzando» continuò, piazzandosi davanti a me. «Volevo farti una sorpresa, pensavo saresti stata contenta.»
«Tu non lo sai quello che c’è quaggiù!» esclamai. «Non immagini la povertà e le difficoltà che questa gente deve affrontare per sopravvivere.»
«Hai dimenticato la mia vecchia casa? Il quartiere in cui sono cresciuto? Queste cose non mi spaventano e poi Lu sarebbe contenta di sapere che i soldi della sua morte sono serviti ad aiutare persone meno fortunate» lo fissai senza aggiungere nulla, lui sorrise e mi porse il suo bicchiere. «Ne vuoi? A me non piace, ha un sapore acidulo. Ma cos’è?»
«Spremuta di arance e banane, con un cucchiaio di sperma di maiale sciolto nel burro. No, grazie.» Lui fece una faccia così disgustata che pensai mi avesse vomitato addosso, invece riuscì a trattenersi abbandonando il bicchiere sul tavolo con un gesto repentino, come se si fosse improvvisamente trasformato in un serpente velenoso. «Benvenuto all’inferno, mio caro» sghignazzai andando via.

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Capitolo 21
*** Vita e morte ***


Capitolo 21
Vita e morte

 


La situazione iniziò a degenerare quando il professor Andrea De Martino si ammalò.
Il giorno dopo la manifestazione di beneficenza, una chilometrica macchina nera, con i finestrini scuri e le bandierine Tricolore sventolanti ai lati del muso, svoltò silenziosamente nel villaggio, lasciando una scia polverosa dietro di sé. Mi sollevai dal corpo del bambino febbricitante che stavo visitando, strinsi con forza lo stetoscopio, con il cuore che mi martellava in gola, scambiando uno sguardo d’intesa con Jenny, come a dire “ci siamo”, mentre Andrea si accostava alla macchina per accogliere i nuovi arrivati.
William e suo nipote Matteo fecero capolino dall’automobile, il primo con il solito sorriso canzonatorio sul volto, il secondo titubante e imbronciato. Willy strinse la mano al dottore, discutendo di chissà cosa, intanto che cercava e trovava i miei occhi a qualche metro da lui, poi il pianto del piccolo paziente mi ricordò quale fosse il mio dovere e tornai all’ambulatorio. Jenny mi osservò senza spiccicar parola.
Alle due tende montate un po’ isolate dal resto delle capanne che costituivano il villaggio ne fu aggiunta una terza, grande quanto quella di Andrea e Jenny, dove avrebbero alloggiato Willy e Matteo. Durante i primi giorni della sua nuova esistenza, il ragazzino seguì suo zio come un’ombra silenziosa, fin troppo simile a un cagnolino obbediente; la prima volta che lo sentii parlare fu per la puntura di vaccino contro la malaria - alla quale obbligammo entrambi a sottoporsi. Quando l’ago della siringa gli penetrò nel braccio, Matteo non riuscì a trattenere un ahi e io sorrisi, con Willy seduto su uno sgabello con le rotelle, in fila per la vaccinazione.
«Sei stato bravissimo» gli dissi scompigliandogli i capelli che, irrimediabilmente, mi ricordavano quelli di Will a sedici anni. Matteo se li acconciò nell’immediato con le mani.
«Non sono un bambino!» esclamò, mentre gli tenevo giù il braccio per applicargli il cerotto.
«Ah no? E quanti anni hai, giovanotto?»
«Ne ho già undici» mi rispose e scambiai uno sguardo fugace con suo zio. Quel bambino non aveva ancora la loquacità e la sfrontatezza che avevo riscontrato nella sua famiglia, ma era sulla buona strada, lo percepii dal tono perentorio con cui si rivolse a me quel giorno e – soprattutto - osservandolo in quelli a venire. Dicendogli che avevamo finito, Matteo scese con un balzo dal lettino e prese il posto dello zio sullo sgabello, mentre quest’ultimo mi aveva raggiunto a piccoli passi. Mi fissò con insistenza e con un mezzo sorriso sprezzante intanto che preparavo la medicina, ma finsi di non accorgermene. Distese il braccio quasi a mo’ di sfida e quando gli infilai dentro l’ago da 16 millimetri gridò.
«Ahia! Cappuccetto, mi hai fatto male!»
A stento trattenni una risata.
«Ops! Ssusa, non l’ho fatto apposta» gli incollai il cerotto e lui accigliato si strofinò il braccio.
«Si invece, mi hai fatto male di proposito!»
«Visto zio! Sono più forte io di te!» esclamò Matteo scattando sull’attenti per mostrare i piccoli muscoli che spuntavano dalle braccia mingherline. Gli allungai il cinque e lui senza contestare lo ricambiò: fu l’inizio della nostra amicizia, la quale con il passare dei giorni, e rinforzata dagli accadimenti che scombussolarono il nostro quieto vivere, si trasformò in qualcosa di più profondo. Inizialmente fui una sorta di amica per Matteo, ci divertivamo a ridere, soprattutto prendendo in giro suo zio William; poi divenni una specie di sorella maggiore, dalla quale poter correre a piangere e a tremare di paura nelle notti di tempesta; infine mi vide come una mamma con cui potersi confidare e chiedere consiglio.
Le prime settimane per i nuovi arrivati furono un po’ come lo erano state le mie, anche se mi sembrarono accettare le limitazioni igieniche e sociali che quel piccolo posto offriva meglio e più in fretta della sottoscritta.
Essendo uomini è normale, per una donna è sempre più complicato…
Matteo passò almeno una decina di giorni rinchiuso nella tenda che condivideva con lo zio, leggendo i libri che questi gli comprava in città; non senza difficoltà riuscii a convincerlo a seguire le lezioni scolastiche che Jenny teneva ai ragazzi dai dieci ai venti anni circa.
In particolare un ragazzo non saltò nemmeno una sua lezione, nonostante avesse superato l’età massima e dovesse assentarsi dal lavoro per qualche ora che, in ogni caso, recuperava mentre gli altri erano a cena. Era uno dei nativi più taciturni e imbronciati che avessi mai incontrato da quando ero lì, nella prefettura di Lobaye. Eccetto quando Jenny era nei paraggi. Allora lo si poteva vedere accennare un sorriso e tentare qualche battuta che, tuttavia, capiva solo lui: se ridevamo era solo per non scoraggiarlo. Il suo nome, troppo lungo e complicato per noi stranieri, fu un vero emblema da risolvere per la mia collega e amica, perciò alla fine Will – con il benestare di Jenny – decise di dargliene uno più semplice: Jack, in onore del film Titanic, di cui Jenny è sempre stata una grande fan. Quando tuttavia le feci notare che Leonardo Di Caprio è biondo e bianco, quindi l’esatto contrario del suo allievo, lei rise forte, rispondendo che era proprio questo il lato divertente della vicenda.
Nei rari momenti nei quali restavamo sole, non mancavo mai di farle notare che quel ragazzo di ventitre anni si era preso una bella cotta per lei, ma Jenny era solita sdrammatizzare rispondendomi che aveva solo tanta voglia di imparare la geografia e la letteratura, che purtroppo non aveva possibilità di farlo altrove, che aveva delle abilità davvero sprecate. Spesso mi raccontava anche della preoccupazione di Jack per le sorti della Repubblica Centrafricana. Infatti, dopo il golpe di stato del generale Bozizé del 2002, il Paese sembrava aver trovato una stabilità politica ed economica, benché minima. Secondo Jack però le cose stavano per cambiare di nuovo: lo aveva predetto mamà - che sapeva parlare con il vento e coi morti - e lo si poteva dedurre dai numerosi gruppi di resistenza che spuntavano in ogni angolo della nazione.
L’amicizia fra i due si consolidò giorno dopo giorno, lo percepivamo a occhio nudo; quando il dottore fu trasferito all’ospedale di Bangui, Jack andò con Jenny e rimasero insieme fino al triste epilogo, consolandola più di quanto fui in grado di fare io, che in queste cose non sono mai stata capace.
Un ictus ischemico colpì il professore De Martino mentre si stava recando a fare rifornimento di cibo e medicine nella città di Mbaïki. È probabile che se non si fosse trovato a così tanti chilometri di lontananza da un ospedale ben attrezzato si sarebbe potuto salvare, ma le sue condizioni peggiorarono drasticamente lungo il tragitto e quando qualcuno riuscì ad avvertirci dell’accaduto erano già passate diverse ore.

 
*****


Di sera aspettavo che le luci nelle altre tende si spegnessero per raggiungere il fiume Sangha, dove di giorno mi recavo con le donne del villaggio a lavare il bucato e per fare un bagno. Stendevo una vecchia coperta mangiucchiata dalle tarme sull’erba e con il viso rivolto al cielo chiudevo gli occhi sforzandomi di ricordare la mia vita e ogni piccolo passo che mi aveva condotto dov’ero. Mi bastava un minuscolo pensiero, un avvenimento pure di poco conto e i ricordi iniziavano a defluire senza barriere dalla mia mente, fino a trasformarsi in parole che riempivano le pagine del diario. Non mi sono mai resa conto di quanto tempo passasse mentre ero ai piedi del fiume, rapita letteralmente dal vortice delle emozioni passate; scrivevo fin quando non avevo più nulla da dire, fermandomi solo dopo aver narrato tutto quello che c’era da raccontare in quel momento, finché la stanchezza mi invadeva e le palpebre diventavano pesanti.
Qualche sera dopo l’arrivo di William al villaggio, rientrando da una di queste escursioni notturne, lo vidi avvicinarsi al mio alloggio, sbirciare all’interno e uscirne dopo poco con le mani sui fianchi, studiare l’ambiente circostante e infine scuotere il capo mentre se ne tornava nella propria tenda. Senza fare rumore sgattaiolai dentro la mia casetta e mi coricai, con un enorme sorriso sulle labbra.
La mattina seguente lo incontrai a ora di pranzo, proprio nella piccola radura dove eravamo soliti riunirci – io, Jenny e Andrea prima che si aggiungessero Will e Matteo –, beandoci della frescura del rigoglioso fogliame degli alberi sempreverdi. Mangiavamo cibo in scatola e raramente qualcosa cucinato al momento. Willy prese posto al mio fianco, su di un tronco caduto in disgrazia, rovistando nella sua scatola di latta la brodaglia rossa che fingevamo essere spaghetti al ragù.
«Hai l’aria stanca» disse all’improvviso. «Dormito poco?»
«Ho dormito benissimo invece e non mi sento stanca. Tu piuttosto, mi sembri preoccupato» risposi, continuando a mangiare per evitare di guardarlo in faccia e rischiare di scoppiare a ridere, smascherandomi come una miserabile.
«Tutto benissimo» riprese a frugare nel cibo e non parlammo più.
Quella stessa notte tuttavia la storia si ripeté tale quale alla precedente e quelle a venire: tornando dalla mia passeggiata notturna al fiume mi accovacciavo nella penombra di un cespuglio attendendo che si arrendesse e tornasse nella sua tenda, sempre più scontento, incuriosito e incupito. Durante il giorno non ne faceva parola, i nostri incontri erano solo di passaggio, i nostri sguardi fugaci, ogni tanto mi fermavo a parlare con lui per chiedergli di Matteo, di come stesse e come passasse il tempo rinchiuso nella sua tana. William andava e veniva dalla capitale della prefettura di Lobaye per questioni perlopiù burocratiche, e ogni volta tornava con un regalo per suo nipote. Di solito si trattava di un libro di genere fantasy.
 
(Finalmente) dopo quattro notti che la situazione si ripeteva identica alle precedenti, senza che lui fosse riuscito a scoprire nulla, neanche con le sue rare domande trabocchetto che mi rivolgeva durante il giorno, Willy scovò il mio nascondiglio. Non mi ero neppure lontanamente illusa che alla fine non ci sarebbe riuscito, ma vederlo ogni sera disperarsi perché non ero nel mio letto a dormire mi divertiva da matti!
Sbucò alle mie spalle, come un felino in cerca della preda, e quando vidi la sua ombra allungarsi sul sentiero, mentre i rametti secchi scricchiolavano sotto le suole delle scarpe, inveii con una marea di parolacce che le donne del luogo mi avevano insegnato. Per un attimo avevo temuto che fosse un animale o, peggio ancora, un uomo del villaggio.
«Trovata!» esclamò invece lui.
«Cielo, Will!» Mi portai la mano destra al centro del petto, cercando di regolarizzare il battito cardiaco. Lui si accomodò al mio fianco, sulla coperta lisa e ormai macchiata di terriccio umido.
«E così eri qui...» si guardò attorno studiando la natura che lo circondava, in sottofondo lo sciabordio del fiume, in lontananza lo stridere ovattato degli uccelli notturni, il frinire delle cicale e dei grilli.
«Perché, dove credevi che fossi?»
«Io lo sapevo che tu lo sapevi che ti cercavo, ma non riuscivo a capire dove ti nascondessi. Ho anche pensato che vedendomi arrivare ti andavi a ficcare chissà dove per non farti trovare nella tua tenda».
«Puoi biasimarmi?»
William deviò abilmente la mia domanda abbassando lo sguardo sul quaderno aperto che tenevo in grembo.
«Che cos’è?» mi chiese indicandolo.
«Niente» mi affrettai a chiuderlo, lui alzò un sopracciglio e increspò le labbra. «Ok, è un diario, va bene?!» Sperai che non mi chiedesse cosa ci fosse scritto o di leggerlo. Ovviamente mi porse entrambe le domande.
«E cosa scrivi? Poesie?»
Risi al pensiero di inventare rime baciate e versi stucchevoli.
«Scrivo ricordi.»
«E perché? Stai perdendo la memoria, Verdina?» gli scoccai un’occhiata di rimprovero.
«No, idiota! Mi è stato donato da mamà. Mi ha detto che avrei potuto usarlo per rivivere la mia vita, così quando un giorno sarò vecchia potrò ricordare e risentire le stesse emozioni. È una cosa carina.»
«Posso leggerlo?»
«Assolutamente no!» D’un tratto il suo sorriso si ampliò e mentre stavo per chiedergli cosa avesse da ridere, agguantò il diario con una mossa così repentina che non vidi neanche partire la mano. Seduta sulle ginocchia feci per recuperarlo, ma lui lo tenne lontano, dove non potevo arrivarci, mantenendomi a debita distanza con il braccio destro.
«Faccio parte anche io di questi ricordi, giusto?» Gli intimai di non fare l’idiota e di ridarmi il quaderno. «Giusto Verdina?» continuò lui con un tono più rigido e di conseguenza mi ritrovai a balbettare un timido sì. «Allora ho il diritto di leggerlo.» Mi calmai, mettendo il broncio e sedendomi come un’orientale. «Brava Stellina, stai buona così.» Lui incrociò le gambe e sollevò la copertina rigida e incolore del diario, leggendo ad alta voce la prima frase con cui ho iniziato questo viaggio nel passato: “facciamo un patto”.

Quello che credevo sarebbe diventato una continua e perenne presa in giro da parte sua, si rivelò invece un tuffo mano nella mano negli anni della nostra adolescenza. Passo dopo passo, pagina dopo pagina, mi aiutò a ricordare i particolare che avevo invece dimenticato, ridendo insieme di ciò che a quei tempi mi aveva scosso, come quando mi aveva baciato castamente per la prima volta davanti a Christian, la faccia di quest’ultimo e la mia reazione dopo che Chris era andato via, quando mi ero scagliata contro di lui. Fu un continuo “ti ricordi di quando…” oppure “hai dimenticato di quella volta che…”.
Il suo contributo è stato decisivo per scrivere queste memorie, poiché lui ricordava fatti e avvenimenti di cui mi ero completamente dimenticata, ma che tornavano a galla non appena iniziava a rimembrarli. Ad esempio, mi ricordò del litigio con Christian negli spogliatoi, il pugno che gli aveva mollato – strano ma vero avevo resettato questo ricordo – e smettendo di guardarmi e di sorridere, disse:
«Oramai sono passati tanti anni, potrei anche dirti come sono andate veramente le cose…» trattenni il fiato. La versione che mi aveva dato era che Chris lo aveva minacciato di non toccarmi “con le sue luride mani” e quando gli aveva risposto che ero la sua ragazza, lui gli aveva fatto un occhio nero. La versione di Christian era stata un’altra: Willy si vantava con il resto della squadra di tenere un cagnolino piuttosto che una fidanzata.
A distanza di anni mi sembrava impossibile stare lì, lontana intere galassie dal mio mondo, a parlare ancora di quegli avvenimenti passati. A dire il vero, mi sembrava molto più strano avere Willy seduto al mio fianco a parlare di quelle cose. Attesi che riprendesse la parola e lo fece dopo una manciata di secondi:
«Quando tornai negli spogliatoi Christian mi disse a bassa voce che prima o poi tu non saresti più stata mia, ma sua. Poiché sapevo che non avrei avuto chance contro di lui, lo schiacciai contro gli armadietti, premendogli un braccio sotto la gola. Rideva mentre mi guardava dall’alto, credo che anche lui sapesse di averla avuta vinta su di me un giorno. Gli sussurrai fra i denti che era un farabutto e che prima di allora tu saresti già stata follemente innamorata di me» se non lo conoscessi così bene direi che fosse quasi imbarazzato nel confessarmi la verità. «Allora lui mi chiese come pensassi di farti perdere la testa per me e il mio errore fu di rispondergli “so io come fare, non ti preoccupare”» fece un risolino nervoso. «Probabilmente fraintese le mie parole perché fu a quel punto che mi mollò il pugno.»
Lo fissai con le braccia conserte e gli occhi ridotti a una fessura, il tono accusatorio:
«Sei sicuro che ti fraintese e non capì benissimo quello che intendevi?» lui rise forte.
«Si e no. Certo, non mi sarebbe dispiaciuto…» aguzzai lo sguardo e lui pensò bene di non proseguire ulteriormente quel discorso. «Ah! Ti ricordi del compleanno di Jenny?» chiese all’improvviso, sempre grazie alla sua impeccabile abilità di cambiare argomento in un batter di ciglia.
«Come dimenticare!» esclamai con un sorriso e sciogliendo le braccia estrassi dal diario la foto che ci aveva scattato durante la festicciola la mamma di Jenny e che la stessa mi aveva regalato anni dopo, quando ero andata a farle visita. Lui la studiò a lungo, senza dire niente. «Ero così agitata al pensiero di quella festa e poi ti ci mettesti pure tu a peggiorare la situazione. Mi porgesti il palmo della mano ricattandomi di stringertela o mi avresti baciato davanti a tutti e con un “pezzetto di lingua”» ridemmo insieme, io più di lui.
Quando tornai in me Willy mi stava osservando un po’ più serio, la luce chiara della luna si rifletteva nei suoi occhi scuri, rivolse il palmo destro in su e me lo porse. Lo fissai per qualche secondo che sembrarono minuti, poi rialzai lo sguardo per posarlo di nuovo dentro il proprio. Questa volta rifiutai di afferrargli la mano e quelle stesse dita scivolarono dietro la mia nuca scoperta. Come se ci muovessimo al rallentatore abbassammo in contemporanea le palpebre e le bocche si sfiorarono. Una volta, due volte, poi le lingue si lambirono, prima simili a due sconosciute intimidite, poi come amiche di vecchia data s’intesero alla perfezione.
 
Non era il nostro primo bacio quello, ma fu come se lo fosse.
La prima volta avvenne nella cucina di casa sua, dopo che Matteo era venuto al mondo, ma allora stavo già con Christian ed ero troppo immatura e ingenua per comprendere la grandezza dei miei sentimenti, troppo ottusa per esprimerli e cacciarli alla luce del sole. Fu tuttavia un bacio frettoloso, impulsivo, per troppo tempo agognato. Fu un bacio di addio.
Il secondo accadde in ospedale, in un pomeriggio uggioso d’inverno, quando Will non sembrava più lui e la sua necessità di avere amore e una persona che lo amasse all’istante, senza condizioni né senza aspettative, mi avevano quasi terrorizzato. Diversamente dal primo, quello era stato un bacio colmo di tristezza e di urgenza, di sofferenza e solitudine, intanto che la sua folta barba sfregava contro le mie guance facendolo apparire un mero sconosciuto.
Questo bacio invece era completamente diverso dall’uno e dall’altro. Era un bacio voluto e cercato; un bacio senza fretta, spensierato, divertente e sensuale. Era il bacio che sapevamo avrebbe dato inizio a qualcosa di nuovo e che fino ad allora avevamo solo osato immaginare.
Senza lasciar andare le sue labbra - non lo avrei fatto nemmeno sotto minaccia, troppo spaventata al pensiero di rompere quel momento e di non riuscire più a ricostruirlo così perfetto com’era – mi accomodai a cavalcioni su di lui per tirargli via la t-shirt, prima di fare lo stesso con la mia. Will levò via l’elastico che mi teneva legati i capelli e che sentii ricadere sulla schiena nuda come un manto morbido e setoso. Vi passò entrambe le mani all’interno e di peso mi sdraiò di schiena. Il suo corpo sul mio.
Nessuno dei due ebbe il coraggio di spiccicare la benché minima impressione su quello che stava accadendo o che sarebbe accaduto di lì a poco, oramai inevitabile. In verità non ne discutemmo neanche dopo, come se fare l’amore per noi due fosse stata la cosa più naturale del mondo. Fin dal primo istante i nostri corpi si mossero all’unisono, simili a due amanti consolidati da anni e perciò consapevoli di cosa stava per fare l’altro, rispondendo di rimando, di conseguenza, d’istinto.
Alle fine rimasi aggrappata al suo addome finché avvertii il respiro di entrambi regolarizzarsi, poi facemmo il bagno nel fiume per lavarci via il sudore e la stanchezza; quindi tornammo all’accampamento quando oramai l’aurora si stava affacciando sul villaggio e su quella parte di Mondo. Dormimmo nel mio letto, sprofondando nel sonno, senza che i nostri corpi si staccassero per un solo istante; fino al suono della sveglia, allora mi vestii e uscii, pronta ad affrontare un nuovo giorno piena di energia come non mai.
Stretto alla mia schiena William mi bisbigliò che avrebbe tanto voluto essere stato il mio primo amore. Baciando il dorso della mano che teneva docilmente posata fra i miei seni, gli risposi che in un certo senso lo era. Lui mi strinse ancor di più, immaginai le sue labbra incresparsi in un sorriso compiaciuto.
In fondo non gli avevo mentito del tutto: dopo Chris non avevo avuto nessun altro amante.

 

*****


In quello stesso giorno la vita del professor Andrea De Martino volse al capolinea. Dopo appena qualche giorno di agonia, fra stati di coma profondo e rari momenti di veglia, il suo cuore si fermò. Per sempre.
 

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Capitolo 22
*** Sangue ***


Capitolo 22
Sangue

 
Il professore Andrea De Martino si spense lentamente fra le braccia della sua amata Jenny, in una stanza calda e afosa dell’Ospedale Castor, a 100 chilometri circa dal villaggio di cui io e Willy avevamo preso le redini in quel periodo, e come lui continuò a fare dopo.
Il dottore esalò docilmente davanti agli occhi della fidanzata, più giovane di trentotto anni che sarebbe potuta essere sua nipote. Credo che il rapporto tra loro, sul finire, fosse appunto tale. Andrea non aveva mai avuto una famiglia propria: né una moglie, né tantomeno dei figli. Unico figlio di un noto chirurgo estetico e di una famosa scrittrice francese, era cresciuto nell’agio, ma totalmente solo come un iceberg in mezzo al mare. I genitori, troppo presi dalle rispettive carriere per occuparsi di un bambino, ben presto si erano fatti delle vite parallele nelle quali la presenza del piccolo Andrea non era neanche lontanamente presa in considerazione. La sua unica compagna, in quei giorni di solitudine, fu l’anziana governante: una donnona mulatta che si prese cura di lui fin quando la morte non la sorprese nel sonno, a 89 anni suonati.
La prima notte che Jenny trascorse al capezzale del dottore, dissi a William che quei due dovevano amarsi come un padre amerebbe una figlia e viceversa. Lui mi rimproverò, affermando che non potevo leggere nel cuore della gente e che di conseguenza non sapevo l’affetto che li legava. Lo guardai male e in tutta risposta esclamai che era lui a non capire un’acca! Sapevo quel che dicevo perché avevo notato gli sguardi ammiccanti fra Jenny e il ragazzone nero,  Jack, che la seguiva come un segugio, rischiando di perdere quel già precario posto di lavoro che possedeva per prendere parte alle sue lezioni, e che comunque perse del tutto quando si offrì di accompagnarla all’ospedale.
Il giorno dopo la morte del professore seguimmo alla lettera il suo ultimo desiderio: gettare le proprie ceneri nel fiume che lambiva le coste del villaggio.
Solo qualche ore prima avevo osservato in silenzio il corpo del dottore, coperto da un sudario nero, scorrere nel forno crematorio, senza toglierli un attimo gli occhi di dosso, mentre Matteo se ne stava avvinghiato a me, il suo viso schiacciato contro il mio addome. Rivolsi al professore De Martino il mio ultimo e commosso addio; stringendo ancor di più il nipote di Willy a me, lo ringraziai per tutto. Se non l’avessi conosciuto molto probabilmente non sarei qui a scrivere questo diario, intanto che Matteo dorme beatamente nel lettone alle mie spalle e William di fianco a lui.
Né io, né Willy avremmo voluto portare il piccolo Matteo con noi quel giorno, per ovvi motivi, ma alla fine il ragazzo si aggrappò letteralmente a me, in lacrime, supplicandomi di non lasciarlo solo, promettendomi di non fare il “bambino” e sopportando tutto quanto senza piangere o svenire.
In effetti mantenne la promessa.
Dal momento in cui ci venne porto il vaso contenente quel che rimaneva di Andrea – ovvero una manciata di polvere – Jenny non lo lasciò neanche per un attimo. Viaggiò con l’urna funeraria sulle gambe fino al villaggio, gli occhiali da sole calati su occhi gonfi e rossi, senza dire mezza parola.
L’intera popolazione del villaggio ci stava già attendendo. In corteo scemammo attraverso le capanne di paglia, fra le nostre tende, seguendo Jenny in capo alla fila che portava il cinerario di terracotta trionfante, come si farebbe con lo stendardo di un battaglione da guerra. Subito dietro di lei c’ero io, mano nella mano con Matteo, affiancato dall’altro lato da Willy e, a sua volta, da Jack. Le donne del villaggio intonarono per tutto il cammino il loro canto funebre che mi fece accapponare la pelle, sentii le loro voci struggenti rimbombarmi nella testa fino al giorno dopo. In riva al fiume Sangha la mia amica adagiò un bacio sul vaso, tolse il coperchio e lo rovesciò. Le ceneri si sparsero sull’acqua, qualcuna volò tra le foglie degli alberi, altre si librarono nell’aria, ma la maggior parte fu trascinata via dalla forza del fiume, tanto impetuosa come non l’avevo mai vista.
 
Con la scomparsa di Andrea venne a mancare l’asso della squadra, il nostro punto di riferimento, il collante che teneva su l’intera baracca. Era lui a coordinare ogni cosa, a far rispettare le scadenze burocratiche della nostra associazione, a preoccuparsi degli ordini dei medicinali, del cibo e dell’acqua, a trattare con l’amministrazione italiana e africana, a far combaciare i conti fiscali. Così, di comune accordo, ci spartimmo il lavoro che invece il professore aveva portato avanti da solo, fino a quando aveva potuto. Mentre io e Jenny ci occupavamo di tutto quello che riguardava provviste di vario genere, Willy si occupò del quadro formale, ovvero dei fogli da firmare e portare da un ufficio all’altro. Coinvolgemmo il piccolo Matteo nei lavori più semplici e leggeri, dal scaricare i Pick-up che arrivavano al villaggio colmi di aiuti umanitari, a quello di distrarre i bambini con facce buffe intanto che facevamo loro una puntura.
Nel tempo libero, in particolare di sera, quando il sole calava e il caldo allentava la sua morsa, William mise su una specie di scuola calcio. Dopo qualche giorno quel momento divenne una vera e propria smania fra gli adolescenti e non solo, tanto che sia Matteo, sia Jack, affiancarono il mister per tenere a bada il numero crescente di ragazzini che volevano allenarsi. Femmine comprese, almeno fino all’arrivo dei maschi adulti di ritorno dal lavoro nei campi.
Nonostante in pubblico io e Willy ci comportassimo come conoscenti e nient’altro, legati solo da un rapporto lavorativo, ci ritagliavamo diversi momenti della giornata per stare insieme, scoprirci e amarci. Soprattutto nelle giornate fiacche, quando a preoccupare noi medici era solo un banale mal di pancia, bastava scambiarci uno sguardo per ritrovarci dieci minuti dopo nella mia tenda – poiché nella sua c’era il piccolo Matteo che andava e veniva – con il cuore che martellava in petto e un unico, incessante pensiero nella mente...
Tra un bacio e un altro ci scambiavamo notizie e novità riguardanti l’associazione, cose più o meno importanti che, tuttavia, avevamo dimenticato dopo cinque secondi, completamente presi l’uno dall’altra. Era un vortice di passione, quasi un’esigenza, che aumentava quando percepivo in lui le stesse emozioni che stavo provando io, attraverso un bacio, alle sue mani che correvano sul mio corpo, al desiderio che sentivo crescere fremente.
A fine giornata, quando tutti dormivano, continuammo a vederci in riva al fiume, procedendo nella stesura della mia vita. Dopo aver scritto qualche riga e chiacchierato della giornata – com’è andata a te, com’è andata a me – finivamo di nuovo distesi e avvinghiati, ma il fresco della radura, il frusciare dell’erba alta e lo scorrere perpetuo dell’acqua avevano il potere di placare i nostri animi, permettendoci di familiarizzare con i nostri corpi, stuzzicarci e ridere.

Il primo anno dalla morte di Andrea passò piano. La sua mancanza pesava su tutti noi come un macigno, anche la gente del villaggio non riusciva a dimenticare la sua gentilezza e il suo acuto sesto senso per le malattie. Gli bastava scrutare le pupille per capire al volo di cosa soffrisse il paziente. Io e Jenny eravamo alle prime armi e spesso passavamo intere nottate a consultare libri di medicina e a scambiarci opinioni per arrivare al dunque.
In fondo non ce la cavavamo male.
Fu durante una di queste notti, mentre facevamo una pausa con il tè che l’anziana del villaggio ci aveva fatto ricevere a mezzanotte precisa da sua nipote, che Jenny mi confesso di essere felice per me.
Alzai gli occhi su di lei con fare interrogativo: ero completamente assorta nei miei pensieri da non riuscire a capire a cosa si riferisse. Allora lei me lo spiegò:
«Per te e per Willy, voglio dire. Sono felice che potete stare finalmente – e veramente – insieme» mi sfiorò il braccio sorridendo, alludendo ai nostri sedici anni e a quando io e Will eravamo solo dei finti fidanzatini. Abbassai lo sguardo, parlare di queste cose mi imbarazzava ancora.
«Grazie…» non sapevo se andare avanti, se continuare oppure no la discussione, ma alla fine lo feci, proseguii il mio discorso. «… come va con Jack?»
Jenny ritirò la mano dal mio braccio e guardò fuori, attraverso la piccola finestrella di nylon della tenda che aveva condiviso con Andrea e che adesso pareva troppo grande per una sola persona:
«Va di nascosto, Viola. Va che di giorno dobbiamo sembrare due estranei e poi di notte ci trasformiamo velocemente, recuperando il tempo perduto alla luce del sole.»
Pensai a me e a Willy. Al fatto che ci vedevamo di nascosto per evitare le male lingue del villaggio – una persona particolarmente legata alla sua cultura conservatrice probabilmente avrebbe rifiutato le cure di una donna che stava con un uomo senza essere sua moglie – e, perché no, lasciare quell’alone di mistero e desiderio che si prova per le cose belle ma proibite e che, a volte, accendeva le nostre fantasie.
Quella notte avrei voluto chiedere alla mia amica e collega di raccontarmi qualcosa in più sulla sua nuova storia d’amore, ma lei non mi sembrò disposta ad andare oltre quella minima confessione e decisi di rispettare il suo volere. Quando sarebbe stata pronta a parlarmene mi avrebbe cercata senza sotterfugi.

 

***** 


Un giorno Matteo scomparve e con lui la ventottesima nipote di mamà.
Li cercammo ovunque, per ore, munendoci di lanterne a olio e di pile elettriche a batteria, sebbene il sole fosse appena tramontato e il cielo non ancora del tutto buio, il rigoglioso fogliame del boschetto faceva cadere la penombra in alcune zone del luogo già molto prima del crepuscolo.
Ci dividemmo in gruppi. Da lontano potevamo udire l’eco degli uni e degli altri che invocavano il nome dei due scomparsi:
«Matteo! Dahlia!»
Fui io a trovarli per prima e quando li vidi ringraziai il cielo, sia perché erano sani e salvi, ma soprattutto perché se a trovarli fosse stato qualcuno del villaggio non oso neanche immaginare cosa avrebbe potuto fare ai due ragazzi così, su due piedi.
Matteo e Dahlia dormivano beati sulle sponde del fiume, poco più avanti dal luogo in cui mi recavo a scrivere e dove io e William avevamo fatto l’amore la prima volta. Erano entrambi distesi sul terriccio, lui sdraiato di schiena e lei adagiata con la testa sul suo petto nudo e glabro, lasciato in bella vista dalla camicia sbottonata, i folti e riccioluti capelli di Dahlia lo coprivano quasi per intero, come un mantello funereo. Le braccia di Matteo la cingevano con delicatezza, la somiglianza con lo zio mi tolse quasi del tutto il respiro.
Chiamai Willy che sapevo essere lì vicino, poi mi accostai a loro, tirando un sospiro di sollievo vedendoli, comunque, vestiti. Mi chinai sulle ginocchia e tenendo sempre la pila accesa, scossi piano la ragazzina, per non farle prendere uno spavento. Willy arrivò di corsa:
«Li hai trovati?» disse senza fiato, io mi scostai appena per mostrarglieli.
Una cosa è certa: non ebbe la reazione che mi sarei aspettata.
Si adirò come un folle. Afferrò il nipote per il polso e lo tirò su, costringendolo a svegliarsi di colpo, mentre Dahlia rotolava di lato e si aggrappava a me, riconoscendomi come il medico che l’aveva assistita durante una brutta influenza che l’aveva quasi mandata all’altro mondo.
«TI RENDI CONTO DI QUELLO CHE HAI FATTO?» urlava intanto Willy a un millimetro dal viso di Matteo, il quale in lacrime provava a difendersi dicendo che non aveva fatto niente.
Will sembrava impazzito, continuava a gridargli in faccia di quanto fosse scemo e incosciente, che era solo un bambino idiota e che non immaginava neanche lontanamente quello che sarebbe potuto succedere, continuava a tenerlo per il braccio mingherlino che si perdeva nella morsa della sua mano.
In ginocchio e tenendo Dahlia appiccicata addosso, gli intimai di lasciarlo stare, che gli stava facendo male. Alla fine fui costretta a strapparglielo letteralmente dalle grinfie, proteggendo lo stesso Matteo con il mio corpo. Puntai l’indice contro William:
«Non. Toccarlo. Più.»
«Non avete idea, nessuno di tutti e due, quello che molto probabilmente accadrà a questa bambina. Non ne avete la benché minima idea» solo allora Matteo sbucò da dietro la mia schiena. In un anno si era allungato molto, un altro paio di stagioni e sapevo mi avrebbe superato in altezza.
«Che cosa le accadrà, zio? Io, cioè noi, non abbiamo fatto niente!» la voce gli era diventata stridula, era tornata infantile. Willy non rispose, si passò una mano sul viso e sui capelli rasi. «Non è successo niente!» Matteo rimase in silenzio per un attimo, poi mi guardò, tremante di paura. «Solo un bacio. Ma niente di più, lo giuro!» gli accarezzai il viso, commossa da tutta quella ingenuità. Anche Dahlia confermò la versione dei fatti, entrambi così imbarazzati che pensai che due ragazzini di dodici anni non avrebbero dovuto confessare a due adulti del loro primo e innocuo bacetto.
William si incamminò per la strada del ritorno e io, con Matteo da una parte e Dahlia dall’altra, lo seguii a ruota, silenziosa. Lasciammo il nipote di Willy alle cure di Jenny, che intanto era rimasta all’accampamento in caso fossero rientrati, mentre io e Will accompagnammo Dahlia dalla sua famiglia.
Mi sarei aspettata manifestazioni di affetto per la figlia, la sorella o la nipote ritrovata, invece sua madre la guardò male e il fratello più grande, che faceva le veci dell’intera famigliola poiché il padre era morto poco dopo la nascita di Dahlia, la afferrò per un braccio e la trascinò all’interno dell’abitazione. Quando feci per chiedere un po’ di accortezza per quella bambina che aveva dormito all’addiaccio, spaventata e affamata – gonfiai un po’ la storia, lo ammetto – la nonna della stessa, la mamà che mi aveva offerto in dono il diario, mi spiegò che adesso Dahlia avrebbe dovuto scegliere il suo castigo.
«Qua-quale castigo? Si era persa e…»
«Suo fratello dovrà verificare che sia ancora vergine e quindi idonea a un matrimonio benedetto, o scegliere di subire in pubblico dieci frustate.»
«Sta-» deglutii, la gola secca e le lacrime agli angoli degli occhi. Piango sempre quando mi infurio. «Sta scherzando!?» Willy
mi prese per il braccio, con delicatezza, provando a tirarmi via.
«Dai, andiamo» bisbigliò e mi parve di sentirlo lontano anni luce. Lo spinsi via e ripresi a inveire contro l’anziana donna e alla mamma di Dahlia, quest’ultima rimasta fuori dalla capanna, lasciando che il fratello portasse via la sorellina per chissà quale motivo.
La testa mi esplodeva al solo pensiero.
«MA STIAMO SCHERZANDO? É UNA COSA RIDICOLA!» poiché nessuna delle due donne mi rispondeva, presi a battere i pugni contro la porta di bambù della capanna che l’uomo si era chiuso alle spalle, intenzionata a buttarla giù se necessario. Intanto anche gli altri abitanti del villaggio fecero capolino dalle proprie abitazioni. Nessuno si mosse. «APRI! APRI HO DETTO!»
 Niente.
«LASCIALA STARE, HAI CAPITO?! MERDA! NON TI PERMETTERE DI TOCCARLA O GIURO SU QUANTO HO DI PIU’ CARO AL MONDO CHE CHIAMO L’ESERCITO, LA POLIZIA E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA! ANZI, NO, CHIAMO IL PAPA! MI SENTI, FIGLIO DI PUTTANA! APRI LA PORTA SE HAI LE PAL...» allora Will mi prese di peso e mi portò in spalla fino alla nostra tenda, mi gettò sul materasso e chiuse ogni spiraglio di luce, dalla porta alle finestre. L’aria era irrespirabile lì dentro, mi sembrava di stare sotto una serra. Scesi dal letto e feci per uscire, ma lui mi fermò di nuovo, tenendomi per i polsi.
«Hai capito ora perché mi sono arrabbiato quando li ho trovati al fiume?»
«Senti, per piacere, non dire idiozie pure tu! Ma ti pare una cosa normale? Una ragazzina scompare e la sua famiglia cosa fa? Controlla che sia ancora vergine? Oppure, se non vuole farsi ficcare due dita…»
«Viola!» Esclamò lui con quel suo tono di rimprovero che tuttavia questa volta non servì a riportarmi in me.
«… lì, si becca delle frustate?»
«É la loro religione, la loro cultura e tu non puoi farci niente.»
«E allora vuol dire che hanno una cultura di merda!» mi liberai della stretta ai polsi, iniziando a camminare su e giù per tutta la tenda.
«Ok, ma è comunque la loro cultura. Non puoi arrivare tu da un giorno all’altro e cambiare le
cose. Non è una malattia questa, non puoi curarla.»
«Invece sì, il sapere e la conoscenza possono guarire dall’ignoranza.»
«Viola, devi imparare ad accettare il pensiero degli altri, per quanto sbagliato ti possa sembrare loro non…»
«Io voglio solo che a quella ragazzina non venga fatto del male, per un reato tra l’altro che non ha commesso.»
«Che ne sai? Puoi metterci la mano sul fuoco ed essere sicura di non scottarti?»
«Oh, Will, per piacere. Sono due bambini.»
«Sai cosa significherebbe per quella ragazzina essere reputata dalla sua famiglia non più pura? L’alienazione totale dal suo villaggio e dal resto del Paese. Dovrà portare sulla fronte un simbolo che la marchierà a vita come un’indegna. In poche parole non avrà più un futuro, forse in un bordello, ma nulla di più.»
Ci guardammo per un po’, senza aggiungere altro. Sentivo la rabbia ribollirmi dentro come non succedeva da tempo, la sensazione di impotenza mi scorreva nel sangue e il terrore di quello che la piccola Dahlia stava probabilmente passando in quel preciso istante mi destabilizzava. Senza togliergli gli occhi di dosso mi sfilai la maglietta, le scarpe, il pantalone di cotone e mi infilai a letto. Ero arrabbiata con lui perché lui non era arrabbiato con quelli del villaggio, perché non provava neanche a cambiarle le cose, cercava di comprenderle sebbene fossero sbagliate e io questa cosa proprio non riuscivo a mandarla giù!
In cuor mio sperai che un giorno – non troppo lontano – quell’ignobile del fratello di Dahlia avesse avuto bisogno del mio aiuto medico e io, dall’alto del suo corpo agonizzante, gli avrei fatto scontare le stesse pene patite dalla sorella minore.
Lo giurai a me stessa!
Non so se Willy dormì quella notte, io no di sicuro, anche perché non ero più abituata a non sentire il suo corpo adagiato al mio, a riposare priva del suo calore contro la schiena: per la prima volta da quando ci eravamo ritrovati, dormimmo entrambi agli estremi del letto, senza neanche sfiorarci con le dita dei piedi.
 
Dovetti appisolarmi un po’ verso l’alba, perché quando Matteo entrò nella tenda urlando il mio nome come un pazzo, il sole era già abbastanza caldo. Mi misi a sedere al centro del letto coprendomi con il lenzuolo, un colpo d’occhio veloce e mi accorsi che Willy non c’era già più. Matteo raccolse al volo gli abiti che mi ero tolta la sera precedente e me li lanciò:
«Viola! Vogliono frustare Dahlia! La vogliono fru-sta-re!»
Imprecai perché la maglietta entrava sempre al contrario e perché il pantalone non scivolava sulle gambe come faceva di solito, improvvisamente sembrava che non sapessi più vestirmi. Infilai le scarpe basse senza allacciarle e correndo dietro al ragazzino mi legai i riccioli sulla sommità del capo, senza tuttavia riuscire a trattenerli del tutto.
Lo so che essere frustati non è la cosa più piacevole del mondo, eppure sapere che quella ragazzina aveva scelto le dieci frustate, anziché farsi violare l’intimità, mi aveva alleggerito l’animo.
Nella piazza del villaggio c’era un gruppo di persone, riconobbi alcuni di loro, molti li avevo aiutati a guarire da infezioni varie, tra questi spiccava il volto impassibile e rugoso dell’anziana sciamana e quello impassibile della mamma di Dahlia. Al seguito di Matteo, mi feci largo tra la folla, fino a giungere al centro del cerchio e allora mi resi conto che le persone erano molte di più di quello che avevo creduto a una prima occhiata.
Dahlia era raggomitolata nel mezzo, la fronte schiacciata sul terreno polveroso e secco, le braccia intrecciate a protegger la testa e la schiena nuda ricurva in avanti. L’abito che indossava era aperto fino al bacino, lasciandole scoperto l’intero torso, i piccoli seni spuntavano simili a boccioli. La schiena era purtroppo già stata percossa, la pelle lacerata in un paio di punti e un rivolo di sangue colava fino a sporcare il terriccio.
Su di lei troneggiava lo stesso omone nero che l’aveva trascinata in casa la notte precedente, ovvero suo fratello maggiore, con una frusta di cuoio scuro stretta nella mano destra. Teneva gli occhi chiusi e stava sciorinando una specie di preghiera nella sua lingua antica e incomprensibile. Sembrava in trance. Quando riaprì le palpebre lessi nei suoi occhi un profondo e incomprensibile odio per quella ragazzina chiusa a riccio, così orgogliosa che aveva preferito le frustate all’umiliazione, che non lo supplicava di fermarsi per non dargli soddisfazione. Sentii in sottofondo la voce della mamà intonare una sorta di canto triste, forse un’altra preghiera, e mi tornò in mente la vecchia seduta nella stanza di Lu che borbottava il Rosario. Vidi Lu. Vidi il suo sorriso. Vidi la sua sofferenza e poi sentii la mano di Matteo chiudersi intorno alla mia, mentre il fratello di Dahlia alzava il braccio per schioccare un’altra frustata.
Dahlia gridò. Un grido che mi lacerò i timpani; un urlo di dolore e di mortificazione che mi corse lungo tutto la spina dorsale e mi fece accapponare la pelle.
Mi scrollai di dosso Matteo per fronteggiare l’omone a testa alta e braccia aperte, lo guardai dritto negli occhi, era grosso tre volte me. Lui mi fece cenno di andare via.
«Non me ne vado! Hai capito?!» ovviamente non poteva capirmi, allora chiesi a Dahlia se riuscisse a tradurre lei per me e, con la voce rotta dalla lacrime e dal dolore, lo fece. Suo fratello disse qualcosa e io chiesi alla ragazzina cosa avesse detto:
«Se ne vada dottoressa Viola, se ne vada ora che è in tempo» la sua sembrava quasi una supplica e dubitavo che fosse stato lui a pronunciare quelle parole. Quando le ordinai di dirmi per filo e per segno cosa avesse detto quell’energumeno, Dahlia lo fece con un sospiro. «Che se vuole proteggermi può prendere il mio posto» tossì. «Se ne vada, dottoressa, per piacere…»
«Digli che se non si ferma subito io… oh, ma che fa?!»
Credo che l’omone nero si fosse stufato di non capire neanche una parola di quello che stavamo dicendo io e sua sorella, perché all’improvviso alzò il braccio destro pronto a sferzare ancora. D’istinto coprii il corpo di Dahlia con il mio, ma quella frustata non arrivò mai.
Sentii del liquido caldo e appiccicoso scorrermi per le gambe, chinai lo sguardo e vidi una pozza di sangue allargarsi sotto di me. Dahlia mi guardò preoccupata, acconciandosi come meglio poteva l’abito per nascondere i suoi piccoli seni da bambina. Io le sorrisi e prima di perdere i sensi le sussurrai:
«Visto tesoro? Mio figlio si è sacrificato per proteggerci.»

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Capitolo 23
*** Risvegli ***


Capitolo 23
Risvegli

 
 
Ludovica.
Se fosse stata una femminuccia l’avrei chiamata così, come la sorella di Will, e poi tutti avremmo iniziato a rivolgerci a lei con l’abbreviazione di Lu. E sarebbe stato bello riavere una nuova Lu in famiglia, magari gagliarda e tosta come lo era stata la prima, e non insicura e imbronciata come me.
Invece, se fosse stato un maschietto non avevo la minima idea di come avrei potuto chiamarlo, non ci ho mai pensato in verità, perché ero convinta che fosse una lei. Se il padre di Willy si fosse comportato da tale, probabilmente lo avrei chiamato come lui, ma...
Fluttuando fra sogno e realtà, udendo le voci – quelle vere – che si fondevano alle altre voci – quelle dei morti – mi chiesi come si chiamasse il papà di William, fuggito di casa tanto tempo prima con un’altra donna. Non lo sapevo, non gliel’avevo mai chiesto. Avrei dovuto farlo, mi dissi, non appena avessi avuto la forza e il coraggio di tornare dal mondo etereo e roseo dei sogni, avrei dovuto chiedergli il nome di suo padre.
Ammesso che Will volesse ancora parlarmi.
 

*****

 
Sollevai piano le palpebre, poi le riabbassai, mi sembrava che la luce fosse troppo luminosa, ovunque mi trovassi. All’inizio vidi tutto attraverso un velo bianco che copriva ogni cosa e le rendeva anonime e candide: la finestra sulla parete in fondo; le tende dai pesanti drappeggi scostate di lato; l’armadio a quattro ante di legno massiccio; la toilette con un enorme specchio dalla cornice intarsiata da abile mano; due poltroncine con al centro un tavolino di vetro basso; vasi decorati in ogni angolo; quadri appesi alle pareti; una flebo vicino al mio letto e, infine, il volto di Willy che si affacciava su di me, gli occhi lucidi e il sorriso stanco, ma sempre pronto ad accogliermi.
«Buongiorno Bella Addormentata» mi posò una mano sulla fronte, era così fresca. «Mi sembrava di averti già detto una volta che non sei la Bella Addormentata, ma Cappuccetto Rosso» tolse la mano. Un peccato. «Bene, sembra che la febbre sia calata» mi fissò intensamente negli occhi, senza smettere di sorridermi e a quel punto non ce la feci più.  Il dolore mi colse così alla sprovvista che d’istinto mi coprii il volto con entrambe le mani e scoppiai a piangere, farfugliando qualche parola di scusa:
«Io… io… mi dispiace… avrei… avrei dovuto… mi dispiace tanto.»
«Oh, no no» si sdraiò sul letto al mio fianco, circondandomi le spalle mi cullò, io nascosi il viso contro il suo petto. «Va tutto bene» mi sussurrò. «Va tutto bene» ma io sapevo che non andava bene per niente, sapevo che avevo perso il nostro bambino e che, con tutta probabilità, non avremmo potuto averne un altro in futuro.
Durante i dormiveglia avevo udito una voce maschile e autorevole discutere di complicanze durante l’operazione dovute all’emorragia. A volte la scocciatura di essere medici sta proprio nel sapere le cose in maniera prematura, quando a un paziente qualunque si darebbero le cattive notizie con calma e con il supporto di un psicologo, noi lo sappiamo già. Prima di tutti.
«Avrei dovuto…» il pianto mi rendeva difficile parlare «… avrei dovuto dirtelo, invece…» lui continuò a dondolarmi.
«Va bene così.»
«NO!» gridai scostandomi leggermente da lui per picchiare i miei deboli pugni contro il suo addome. «Non va bene! Perché non te l’ho detto, perché nostro figlio è morto e perché non ne potrò avere più!» credevo che i singhiozzi mi avessero strozzato prima o poi, ma non accadde e io avrei tanto voluto che invece accadesse. «Sono una sterile del cazzo adesso!»
«Mmh no» fece lui, «sei solo sterile» alzai lo sguardo, mi stava sorridendo con dolcezza e, ancora con la voce rotta dal pianto, gli ricordai che non avrei potuto dargli un bambino, non sarebbe mai diventato papà se restava con me. «Sono già impegnato a prendermi cura di te che senza il sottoscritto, modestamente, ti cacci sempre nei guai. Con un bimbo fra i piedi non saprei davvero come fare.»
Mi accoccolai a lui e rimanemmo così, senza parlare, mentre mi cullava e accarezzava i capelli, fino a quando mi addormentai.

Al risveglio era ancora mattino, credevo di aver dormito solo qualche ora, invece avevo dormito un giorno intero. La stanza era sempre la stessa, bella e grande, ma questa volta al posto del viso di Willy fece capolino quello di Jenny. Sembrava stanca, come dimostrava il colorito biancastro e le occhiaie. Si sforzò comunque di sorridermi e di darmi il buongiorno. Scoppiai di nuovo a piangere, come avevo fatto con Will e lei sospirò, sedendosi con la schiena contro la spalliera del letto e prendendo a far scorrere le sue dita sottili fra i miei riccioli rossi. Avevo sempre pensato che Jenny avesse delle bellissime mani.
«Willy mi aveva avvertita che saresti scoppiata a piangere» un altro sospiro. «Dahlia sta bene» smisi di singhiozzare e rizzai le orecchie. «Quando sei caduta a terra, con il sangue che si espandeva intorno a te, l’anziana del villaggio ha scosso il suo bastone e ha picchiato il nipote, cioè il fratello di Dahlia, maledicendolo perché tu eri una protetta degli dei e questi dovevano essersi arrabbiati molto e bla bla bla.
Mattew» (Jenny la pensava come Will sul nome di Matteo: se si fosse fatto chiamare così non avrebbe mai rimorchiato nessuna ) «è corso a chiamarmi. Non appena mi ha detto ciò che era successo ho subito avvertito l’ambulanza e poi Willy. Io e lui abbiamo atteso che tu uscissi dalla sala operatoria per diverse ore, mentre Jack è rimasto all’accampamento a vegliare su Mattew e Dahlia. Adesso lei sta con noi, sai? Il suo villaggio l’ha ripudiata ed è venuta a vivere con me, mi sta aiutando con i pazienti. Taglia le bende, mette in ordine le medicine, ed è molto gentile, potrebbe diventare medico un giorno.
Che stavo dicendo? Ah, si! Quando sei uscita dalla sala operatoria, il chirurgo ci ha detto quello che credo tu abbia già intuito: non potrai più avere figli. Willy ha subito chiesto di te, di come stavi, allora il dottore ha iniziato a spiegargli il motivo per cui la sua donna non avrebbe mai più potuto dargli un erede - ha usato proprio la parola erede, ci credi? - e vuoi sapere Willy cosa gli ha risposto?»
Fermare Jenny quando comincia a narrare è davvero impresa ardua.
«Si è arrabbiato molto, è diventato tutto rosso e ha dato un pugno contro il muro gridando “non me ne frega un cazzo che non potrà più avere figli! Voglio sapere come cazzo sta lei!”» A quel punto Jenny ha riso. «Avresti dovuto vederlo, Viola, ti saresti innamorata di nuovo di lui. Il dottore mi ha guardato, io ho fatto spallucce e lui ha solo detto “bene, sta bene”. Dopo una notte trascorsa nei corridoi, fuori dalla stanza che condividevi con altre cinque donne, abbiamo deciso di accettare l’invito dell’ambasciatore per farti continuare la qui convalescenza, nel palazzo dell’ambasciata, dove hai un’infermiera e un dottore personale.»
Mi sono stretta ancor di più a lei e le ho sussurrato un grazie.

A turno Willy e Jenny non mi lasciarono mai da sola, soprattutto perché non ero in grado di fare niente, non ero ancora autonoma. Mi sentivo come una neonata che non sa neanche soddisfare i bisogni primari senza l’aiuto di un adulto. Dopo due cucchiai di brodo mi stancavo, così con santa pazienza mi imboccavano, e se dicevo che non ne volevo più continuavano a rimpinzarmi di quella brodaglia scura, distraendomi con aneddoti più o meno divertenti. All’inizio vomitavo quasi tutto quel poco che mangiavo ed erano costretti a lavarmi, Jenny con l’aiuto dell’infermiera di turno; Willy semplicemente prendendomi in braccio e posandomi nella vasca, piangendo di vergogna per tutto il tempo del bagno, nuda come un verme e, posso assicurarvi, non c’era nulla di eccitante in questo. Ma lui non smetteva di parlarmi di quando era calciatore, delle avventure amorose di un suo compagno di squadra che finivano sempre in maniera comica, dei bambini al villaggio che amavano il calcio e che chiedevano di me. Ammetto di aver pensato più di una volta che inventasse le storielle di sana pianta solo per strapparmi un sorriso. Quindi mi ripescava dalla vasca, mi asciugava, mi vestiva e riportava a letto, che intanto era stato cambiato con lenzuola pulite, depositandomi sul materasso concludeva il rituale con un bacio sulle labbra. Quindi riprendeva a chiacchierare.
Talvolta Jenny mi coinvolgeva nei casi di malattia del villaggio, portando con sé libri e appunti sul paziente, erano gli unici momenti in cui riuscivo a non pensare alla mia attuale situazione. In ogni caso, per la maggior parte del tempo, dormivo profondamente. Credo che avessero messo una massiccia dose di morfina nella flebo, ma non mi lamentavo per questo, anzi, riposare è una delle migliori cure per chi soffre.
Aiuta a non pensare e a recuperare energia.
O almeno è quello che ci insegnano.
 

*****

Dopo quasi tre settimane tornai al villaggio.
Riabbracciare Matteo mi riempii il cuore di gioia. Prendendogli il viso fra le mani gli stampai un centinaio di baci qua e là. Più indietro, a testa china e con le braccia rigide lungo l’aggraziato corpo, se ne stava Dahlia, in pantaloncini di jeans e una canotta azzurra. Non l’avevo mai vista con indosso abiti occidentali, la trovai in forma smagliante e la cosa mi risollevò il morale. Jenny aveva fatto davvero un ottimo lavoro con lei. Mi avvicinai, di sicuro si sentiva in colpa per quello che mi era accaduto, perciò mi inginocchiai a guardarla dritto negli occhi, le accarezzai il viso e le chiesi come stava. Dahlia scoppiò a piangere e gettandomi le braccia al collo finimmo entrambe sul terreno ghiaioso. Willy fece per aiutarmi a rialzarmi, preoccupato dalla mia smorfia di sofferenza e sorpresa, la ferita all’addome mi dava ancora fastidio, ma lo arrestai con un cenno della mano. Andava bene così.
Dopo l’aborto tutta la passione che aveva coinvolto me e Willy fino a quel momento scemò da me come era defluito nostro figlio.
Dormivamo ancora insieme, abbracciati l’uno all’altra, ma ogni suo tentativo di avviare un rapporto intimo, seppur superficiale, fallì. Lo allontanavo; gli mentivo sulla mia salute in modo da recidere sul nascere qualsiasi idea lussuriosa; singhiozzi isterici mi prendevano alla sprovvista senza riuscire a controllarli se si avvicinava acquattato e mi abbracciava da dietro posandomi un bacio sul collo, quando una volta quel semplice contatto scatenava in me scintille di desiderio. Ogni sua attenzione nei miei confronti, che andava oltre l’innocuo bacio, mi infastidiva e irrigidiva. Alla fine gli chiesi di tornarsene nella sua tenda, con Matteo. Willy mi fissò con un mezzo sorriso nervoso, domandandomi cosa stessi dicendo, che se mi davano così tanto fastidio le sue attenzioni non mi avrebbe neanche più sfiorata, ma io semplicemente non lo volevo nel mio letto, così una sera gli feci trovare le sue poche cose fuori dalla tenda e mi barricai all’interno. Dalla finestrella lo vidi raccogliere la borsa, ci guardammo per un breve istante, poi lui chinò il capo e si allontanò.
Non so perché mi comportai a quel modo con lui che non se lo meritava affatto, d’altro canto non riuscivo a fare diversamente, forse avevo solo bisogno di guarire nel corpo e nell’anima. Sentivo la necessità di rimanere da sola, di pensare e di scrivere.


Un giorno l’anziana del villaggio si ammalò. Sua figlia – nonché la mamma di Dahlia – venne a svegliarmi all’alba. Con fermezza le dissi di rivolgersi a Jenny, ma la donna insistette affinché andassi io: la mama voleva me. Mi vestii in fretta e controvoglia, quindi assonnata e indignata, la seguii fino alla capanna della vecchia.
La casa era composta da una sola stanza, la quale faceva insieme da camera da letto e cucina. Mi chinai sul corpicino tutte rughe della donna, sdraiata su un letto di paglia, auscultando il battito del cuore:
«Sta scrivendo sul diario che le ho regalato?» mi chiese.
«Ogni tanto» mentii dato che lo facevo praticamente tutti i giorni, mentre gli prendevo il polso e contavo i secondi sul mio orologio.
«E cosa scrive?»
«Ricordi, pensieri, quello che mi passa per la testa. Si può girare per favore» la donna si mise su un lato e ascoltai anche le spalle.
«E mia nipote come sta?»
A quel punto capii. Tirai giù il lembo bianco dell’abito da notte, la feci voltare di nuovo verso di me e la guardai, sospirando.
«Lei non ha proprio niente, non è vero? Vuole solo sapere come sta Dahlia» la donna si fece ancor più piccola e vecchia. «Sta bene, mama, ci aiuta con i malati nel pronto soccorso e sta veramente bene adesso. Può venirla a trovare se vuole, sono sicura che sarebbe felice di rivedere sua nonna» mi pare che piangesse, ma non ne sono sicura, perché girò il volto dall’altra parte e disse:
«Sono dispiaciuta per la sua creatura» non risposi, non avevo nulla da dire, se si sentiva responsabile non avevo alcuna intenzione di alleviare la sua colpa. «Ma sarà comunque mamma. La mamma di un bel bambino che ha fatto nascere.»
Non compresi le sue parole, lo avrei fatto solo dopo qualche anno. Decisi che bastava così, non volevo altre illusioni o allusioni al mio stato di donna sterile. Raccolsi le mie cose e le ribadii che se avesse voluto, sarebbe potuta passare a trovare Dahlia quando le pareva.

Dormii da sola per diverse settimane.
Io e William ci parlavamo a malapena, io per evitare l’argomento, lui perché sembrava in collera con me. Certe notti rimanevo sveglia a fissare il soffitto bianco a forma di triangolo, con la paura che un giorno Willy avrebbe potuto trovarsi un’altra donna, anche solo per una notte, anche solo per soddisfare i propri bisogni. Allora prendevo il diario e iniziavo a leggere una pagina qualsiasi e sforzandomi di ricordare come ero a sedici anni, quello che provavo.  Mi resi conto di quanto tempo fosse trascorso da quei giorni, di come fossero cambiate le cose, di come fossi cambiata io. E Will? Lui era cambiato? Con un sorriso sulle labbra e un sollievo nel cuore mi accorgevo che no, lui non era cambiato poi così tanto e questo mi rendeva felice.
Una notte rivissi la festa di fine anno della scuola. Ricordai l’amarezza di aver perso la gara di nuoto, scacciata quasi completamente dall’invito che avanzò William subito dopo. Ricordai di come quel “sei carina” abbia scombussolato ogni mia certezza; la sensazione delle proprie dita intorno alle mie; di quanto ridemmo mangiando come se non lo facessimo da giorni; del lento che ballammo, delle sue mani sui fianchi, delle mie intrecciate dietro al suo collo, l’emozione che mi toglieva il fiato con il suo viso vicinissimo al mio. Quella sera lontana anni luce fu come se il mondo si fosse capovolto, non riuscirei a spiegarlo meglio.
Scivolai dal letto e aprii la cassapanca ai piedi dello stesso, fra le varie cianfrusaglie ripescai il vestito che le donne del villaggio avevano cucito su misura per me in occasione della serata di beneficenza organizzata dal professor Andrea (pace all’anima sua). Lo indossai, mi sciolsi i capelli e li pettinai con le dita, quindi osservai la mia immagine riflessa nello specchio tondo della vecchia toilette. Vidi riflessa una donna di media statura, con lunghi riccioli rossi alquanto spettinati, dall’orlo dell’abito spuntavano i piedi nudi con le unghie dipinte di blu, i fianchi poco pronunciati, il seno messo in risalto dalla scollatura, il viso pallido e sciupato a causa della convalescenza. Avanzai verso quell’estranea per concentrarmi sui particolari del volto: le rughette intorno agli occhi, le lentiggini – che avevo tanto odiato – erano scomparse quasi del tutto con l’età adulta. Feci qualche passo indietro, osservando di nuovo la figura per intero: vidi una giovane donna sola che soffriva d’insonnia e si rifugiava nei ricordi, con la paura che l’uomo amato potesse scocciarsi di aspettarla, perché l’aveva già fatto per troppo tempo.
Vai, mi dissi, fai questi cinque passi e chiedigli se vuole fare ancora l’amore con te.
Non so come, ma mi mossi, al rallentatore, ma lo feci. Uscii dalla tenda e mi arrestai di colpo, il respiro con me.
Willy era seduto intorno a un fuocherello al centro dell’accampamento, dove di solito ci ritrovavamo per cenare tutti insieme, la nostra piccola tribù: io, lui, Mattew, Dahlia, Jenny e Jack.
Si voltò a guardarmi e per un istante – lungo una vita – non accadde nulla. Mi chiesi quante ore avesse trascorso lì fuori, in attesa di un mio cenno, sperando nel mio ritorno. Lo osservai mentre si alzava quasi a fatica, lentamente si avvicinò, sembrava invecchiato.
«Cielo Stellina, quanto sei bella!» mi sollevai sulle punte dei piedi, gli afferrai il viso fra le mani e lo calai sul mio, baciandolo.
Lui chiuse le braccia intorno alla mia schiena, rispondendo al bacio e prendendo fin da subito le redini della situazione. Avanzò e io indietreggiai come se stessimo ballando un tango, le labbra e le lingue impazzite, le proprie mani correvano sull’abito in cerca di una chiusura qualsiasi da aprire, le mie lo accarezzavano ovunque. Arrivando così fino alla tenda scivolammo sul letto, già nudi per metà.
L’intenzione era quella di restare chiusi lì dentro per tutta la vita.

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Capitolo 24
*** Tutto è polvere ***


 

Capitolo 24
Tutto è polvere

 

La guerra civile scoppiò all’alba, con il sole nascente oscurato dal denso fumo grigio che si alzava dagli edifici in fiamme della città. I primi obiettivi a essere colpiti furono quelli che vincolavano i cittadini al suolo del proprio Paese, trasformatosi d’improvviso in un campo di battaglia disseminato di macerie, morti e feriti.
In realtà la rivolta non fu del tutto inaspettata. Jack ci teneva aggiornati sulle dinamiche politiche della Repubblica Centrafricana, alcune persone a lui vicine facevano parte di gruppi di resistenza attivi e sparpagliati per la regione. Così, quando udii il boato che gettò nel panico la capitale Bangui, seppi con assoluta certezza che il presidente allora in carica era stato appena deposto e che i ribelli avrebbero messo a capo del Paese uno dei propri leader.
Uscii dalla tenda allestita a pronto soccorso (giacché quel giorno il turno di notte era toccato a me) e mi guardai attorno spaesata e intontita; alzando gli occhi al cielo vidi una densa nube grigiastra alzarsi da sud-ovest. Willy arrivò con Matteo e Dahlia, spaventati a morte e con la faccia intontita dal sonno; Jenny e Jack ci raggiunsero subito dopo, lei stretta nell’abbraccio del suo uomo. La gente del villaggio cominciò a urlare parole incomprensibili, qualche donna si inginocchiò a pregare, i bambini piangevano, la mama - con l’impassibilità di sempre - affermò con aria solenne che era arrivata la fine del mondo.
Will mi consegnò i due ragazzini, i quali si appiccicarono a me simili a polipi, le braccia come tentacoli, sebbene Matteo mi arrivasse ormai alla spalla e pesasse più di me. William mi baciò velocemente sulle labbra:
«Non muovetevi da qui» si raccomandò.
«Dove vai?» gli chiesi, con la paura che mi contorceva le viscere, mentre lo vedevo intento a scorrere la rubrica sul cellulare, in cerca di chissà quale numero.
«Ce ne dobbiamo andare» disse solo. Lo vidi allontanarsi con il telefono all’orecchio, salire sul furgone e partire sgommando, lasciando dietro di sé un polverone biancastro.
Tutto era polvere quella mattina.
Il cuore si appesantì a tal punto che mi sembrava impossibile tenerlo nel petto. Avevo paura, una paura folle che temevo mi avesse ottenebrato la ragione e immobilizzato le gambe. Avevo paura per quello che stava accadendo, per l’impotenza che sentivo dentro e ora avevo paura per Willy che avevo visto partire spedito, verso Bangui.
Dahlia si staccò da me, tremava come una foglia, a testa china mi ringraziò, ma aggiunse che lei apparteneva a quella terra, a quel popolo, alla sua gente. La osservai senza capire bene, accennò un inchino e corse in direzione del villaggio. Matteo la chiamò forte e le sarebbe corso dietro se non l’avessi fermato. Dopo Dahlia anche Jack si congedò da Jenny, con la medesima convinzione che quella era la sua guerra e che doveva combatterla al fianco dei compatrioti.
Fino a quel momento non mi ero resa conto dell’attaccamento di quelle persone al loro Paese e solo allora un immenso vuoto nello stomaco mi attanagliò, fino a togliermi il fiato: non calpestavo il suolo della mia città, né respiravo la sua aria, né ascoltavo la voce della mia gente, da così tanto tempo che avevo dimenticato tutte le abitudini, gli odori, i suoni, i sapori.
Osservai con un certo disagio - tenendo ben stretto il nipote di Willy al mio fianco - Jenny e Jack darsi il bacio dell’addio, salutarsi per sempre, guardarsi così intensamente come a voler stampare il volto dell’altro nell’anima. La mia amica non pianse, si rimboccò le maniche e disse che avremmo dovuto cominciare a prepararci, non sapevo bene a qual proposito, tuttavia la seguii trascinando Matteo con me.
Infilai in uno zaino tutto ciò che mi sembrava più o meno importante, che valeva la pena di salvare e mi accorsi che avevo poca roba davvero fondamentale. Le cose essenziali della mia vita erano le persone che mi circondavano, fatta eccezione per un oggetto speciale: il diario che l’anziana mi aveva dato in dono.
Matteo mi seguì silenzioso e a testa bassa, ogni tanto gli lanciavo occhiate di sottecchi, sembrava sempre sul punto di scoppiare in lacrime, mentre l’assenza di Willy iniziava a irritarmi e preoccuparmi seriamente.
Ci ritrovammo tutti e tre al centro dell’accampamento, attendendo qualcosa – non sapevamo bene cosa – senza spiccicar parola. Da lontano ci giungevano i canti funebri e le preghiere delle donne del villaggio, gli incitamenti degli uomini che si stavano preparando al peggio. La torre di fumo era ancora visibile nonostante fossero passate un paio di ore, ma dopo il primo boato non ce ne erano stati altri. Mi chiesi cosa stesse succedendo lì fuori, se tra la gente fosse scoppiato il panico come al villaggio.
Il Primo Ministro Bozizé aveva preso il potere con la forza, sospendendo la Costituzione aveva approvato un nuovo Governo, con ministri scelti personalmente, e inaugurato una nuova Legislatura. A nulla erano servite le proteste di rivolta del popolo e soprattutto nessuno aveva creduto alle minacce di rovesciare il governo. Fino a quel giorno.
Nell’attesa di un cenno, di qualcosa che mi facesse capire che era ora di muoversi, osservai Jenny seduta su un tronco tagliato di netto a meno di un metro da me. Teneva gli occhi incollati al suolo, gli stessi occhi color nocciola che le avevo tanto invidiato perché buoni e profondi. Si pizzicava il labbro inferiore con le dita, notai le unghie corte ma comunque ben curate. Studiandola meglio mi accorsi che in lei non c’era più la sedicenne che aveva sempre bisogno di essere rassicurata, né quella figura quasi eterea che sembrava sul punto di dissolversi alla prima difficoltà; ma non era neanche più la ventenne che avevo incontrato all’università, con il caschetto biondo e i fianchi fasciati da gonne attillate, perennemente impeccabile nel trucco. Adesso vedevo una donna forte, coraggiosa e piena di valori morali, capace di restare al fianco del professore Andrea De Martino fino alla fine, quando tutti – io per prima – avevamo creduto che lo avrebbe abbandonato una volta raggiunto il suo obiettivo, ossia una carriera medica in discesa. Invece aveva scelto la salita, ripida e tortuosa, plasmando il suo carattere tutt’altro che debole. La donna che stavo osservando in quel momento era matura e orgogliosa, vestita con abiti comodi e lunghi capelli castani legati in una coda.
Provai a mettermi nei suoi panni, a dire addio all’uomo che amo sapendo di lasciarlo in balia degli eventi e di una guerra civile che si sarebbe dimostrata lunga e terribile; provai a immaginare di dovermi separare da William con quattro parole biascicate e mi venne l’angoscia al solo pensiero.

 
 
La seconda bomba cadde da qualche parte sulla città a metà mattinata. Matteo mi saltò praticamente addosso, nonostante la stazza e l’età – tredici anni – era molto immaturo e pauroso, forse a causa del trauma infantile...
Mi chinai sul suo corpo, sussurrandogli che andava tutto bene, che presto sarebbe finito tutto, senza riuscire a pensare a un modo per far avverare quelle parole. Vidi la mia amica in piedi a fissare con insistenza i tetti di paglia del villaggio, fece per dirmi qualcosa, poi il rombo assordante di un elica e il vento prodotto dalla stessa attirò la nostra attenzione.
Alzai gli occhi, proteggendoli con la mano, per vedere un elicottero atterrare a diversi metri da noi. Aspettammo in silenzio e con il cuore impazzito, infine la portiera si spalancò e Willy ne uscì con un balzo. Ci venne incontro gesticolando e urlando, per farsi sentire al di sopra del frastuono dell’elicottero, di seguirlo immediatamente.
Poiché l’elicottero non poteva posarsi completamente a terra, Will tornò a bordo e dal portellone aperto tese la mano destra per aiutarci a salire, uno alla volta. Matteo fu il primo, poi quando fui sul punto di farlo io, qualcuno emerse dalla nube grigia che ormai stava inghiottendo il villaggio, spinta dal vento. Rimasi come sospesa, un piede sul terreno di ghiaia e l’altro che sfiorava il bordo dell’aeromobile. La sciamana del villaggio se ne stava con la schiena dritta e la sua aura di magia a qualche metro da noi, tenendo Dahlia al suo fianco, quest’ultima piangeva silenziosa. L’anziana donna spinse sua nipote in avanti, fissò i propri occhi rugosi e piccoli nei miei mentre mi chiedeva di occuparmi di lei, perché gli dei avevano deciso di darmi dei figli senza farmi patire il dolore del parto, concluse. Scossi il capo, impietrita, il suo sguardo però non vacillò mai, poi la mama si allontanò così come era giunta: senza lasciare traccia di sé.
Mollai la presa sulla mano di Willy, che mi stava aiutando a salire sull’elicottero, presi di peso Dahlia – mingherlina come una bambina di otto anni – e Willy la issò fin dentro il ventre del veicolo. Da basso vidi Matteo abbracciare la sua compagna, per la quale sospettavo nutrisse sentimenti ben più importanti della semplice amicizia, e lei si lasciò consolare senza porre obiezione alcuna.
Con il supporto di Will mi arrampicai nell’aeromobile, quindi entrambi tendemmo la mano a Jenny, ma lei non ci stava neanche guardando, le braccia lungo il corpo e le mani chiuse a pugno. La chiamai a gran voce, muovendo le dita come a dire “afferrale”, lei le guardò eppure non fece nulla. Notai le labbra muoversi e distendersi in un sorriso triste, ma non sentii niente.
«Me lo dici dopo, adesso muoviti!» urlai, tuttavia lei scosse il capo e indietreggiò di un passo. Il terrore si impadronì di me. «MUOVITI JENNY!»
«Io resto qui» ripeté senza scomporsi.
«CHE CAZZO DICI! NON PUOI RESTARE QUI! MUOVITI STUPIDA!» mi sporsi ancora di più con il braccio teso, Willy mi afferrò al volo impedendomi di cadere al suolo.
Io e Jenny ci scambiammo un’ultima occhiata.
I suoi occhi castani, così dolci e seducenti da farmi provare un moto di gelosia incontrollabile a sedici anni, in quel momento erano tutto; il suo sorriso che forse aveva fatto innamorare decine di uomini e che mi aveva risollevato il morale nei momenti difficili, mi stava uccidendo. Nel profondo delle sue iridi castane vi leggevo un unico nome: Jack.
Le lacrime iniziarono a bagnarmi le guance, scossi il capo pronunciando una serie di no, no, no. La stavo supplicando di ripensarci, di afferrare la mia mano, di venire via con me, di non lasciarmi di nuovo.
«Ti voglio bene, Viola.» Sussurrò a fior di labbra, quindi guardò William che teneva un braccio intorno alla mia vita per evitare che mi lanciassi fuori, gli fece un cenno con la testa, poi lui batté un paio di colpi sulla carrozzeria dell’elicottero gridando al pilota che eravamo pronti, potevamo andare. Emanai un urlo straziante, mentre la figura di Jenny si rimpiccioliva sempre più intanto che prendevamo quota. Quando lui chiuse il portellone gli strillai contro ogni insultopossibile. Gli dissi che era un vigliacco, un bastardo, che lo detestavo poiché aveva abbandonato la mia amica in mezzo alla guerra. Lui frattanto continuò a tenermi stretta, senza controbattere.
 

*****

 
Tutto quello che accadde dopo lo ricordo simile a un sogno angoscioso e ingarbugliato.
L’unica cosa che mi sembrava vera e bruciava come un marchio a fuoco era la scelta di Jenny di restare in quel paese oltraggiato dalla violenza della guerra civile.
L’elicottero atterrò all’aeroporto della capitale, dove ad attenderci c’era un aereo grosso quanto un sommergibile. Matteo teneva Dahlia per mano, proprio come Willy faceva con me. Entrambe ci muovevamo al rallentatore, intorpidite dai pensieri e dall’afflizione, causata dalla convinzione di aver perso qualcosa di importante. All’interno dell’aereo c’era la famiglia dell’ambasciatore al gran completo che, come noi, stavano lasciando la regione africana. Inoltre notai anche diversi bianchi in fuga, gente con addosso abiti costosi che pregava affinché atterrassero il prima possibile in una qualsiasi nazione pacifica e civilizzata.
Il viaggio fu lungo e triste. Forse dormii per parecchio tempo o semplicemente caddi in trance. Non ricordo quasi nulla, se si esclude la presenza costante e discreta di Willy al mio fianco, senza intromettersi mai nei miei pensieri, lasciando che il dolore facesse il suo corso. Chi meglio di lui, che aveva perso una sorella e si era rassegnato ad abbandonare il suo sogno di diventare uno dei calciatori più forti al mondo, poteva sapere come estirpare la sofferenza dell’anima?
L’unica cosa che bisbigliò, rivolgendosi a me e lasciandomi un bacio sulle labbra, fu che Jenny era una persona consapevole, se aveva deciso di rimanere lì, al villaggio, doveva avere un motivo molto, molto valido.
Entrambi conoscevamo la ragione: l’amore per Jack.

La Jenny adulta era una persona forte e coscienziosa, che soppesava ogni scelta come se fosse sempre una questione di vita o di morte, aveva un solo punto debole: s’innamorava senza restrizioni, completamente, donava anima e corpo al suo uomo, non si vergognava dei propri sentimenti, né faceva qualcosa per nasconderli. Per lei amare era naturale come respirare.
Durante la mia convalescenza, dopo l’aborto, tra di noi si era instaurato un rapporto ancora più solido, più indissolubile dell’amicizia. Mi raccontò, tra un bagno e un cucchiaio di pappina, che aveva notato Jack già il primo giorno che avevamo messo piede al villaggio. Allora era stato un ragazzo di diciasette anni e lei una donna di ventisette. Lo sguardo insistente del ragazzo però l’aveva perseguitata per l’intera notte, il suo istinto le diceva di diffidare da quegli occhi nerissimi che si confondevano nella notte, eppure non era riuscita a smettere di pensarlo e nei giorni a venire si era guardata allo specchio e si era presa a schiaffi, ordinando a sé stessa di smetterla o fosse stato meglio fare le valigie e tornare a casa! Ovviamente Jenny aveva rinchiuso in una scatola quelle sensazioni e l’aveva risposta in fondo alla mente, dedicandosi al lavoro e all’amore che Andrea sempre le dimostrava. Ammise, non senza vergogna, che si ritrovò a fare l’amore con il suo compagno a occhi aperti perché, quando li chiudeva, vedeva dietro le palpebre abbassate il volto e lo sguardo di Jack. Fui sul punto di confessarle che era un po’ quello che accadeva a me i primi tempi di fidanzamento con Christian, quando immaginavo di baciare le labbra di Will anziché le sue. Ma lo tenni per me: non mi sembrava il caso di dirle che quando baciavo il ragazzo che le avevo sottratto vedevo quello con cui avevo finto di essere fidanzata.
Quando si era ritrovato Jack alle sue lezioni, che seduto in ultima fila la fissava intensamente senza toglierle un attimo gli occhi di dosso, era stato il periodo più difficile. Aveva avanzato ad Andrea la proposta di non tenere più quelle lezioni, senza però confessargli il motivo per cui voleva smettere, ma lui non glielo aveva permesso, poiché era convinto che aiutassero i ragazzi del villaggio, ed era la verità. Il problema però fu un altro e si materializzò durante un turno di notte, mentre il resto degli abitanti dormiva: Jack era entrato nella tenda adempita a pronto soccorso. Jenny allora era balzata in piedi, il libro che stava leggendo le era scivolato dal grembo, e nella luce traballante della lampadina appesa al soffitto, che dondolava a causa della leggera brezza, il ragazzo si era chinato e, senza togliere gli occhi da dentro i suoi, aveva raccolto il libro e glielo aveva restituito. Solo allora Jenny aveva notato che aveva una parte di viso sporca di sangue rappreso. Si era spaventata credendo, a una prima occhiata, che si trattasse di qualcosa di molto serio; invece, ripulendolo con un panno umido, aveva scoperto che in realtà si trattava di un taglietto sul sopracciglio sinistro. Non c’era stato neanche bisogno dei punti, mi raccontò, quelli sarebbero serviti al suo cuore e scoppiò a ridere: ogni cosa troppo sdolcinata la faceva ridere, ma credo che la imbarazzasse più che divertirla. Gli aveva disinfettato la ferita e gli aveva applicato un cerotto, raccomandandogli di non fare più a botte. Lui aveva fatto una specie di sorriso – sorridere non era il punto forte di Jack – e le aveva confessato che aveva istigato un suo amico per fargli dare un pugno. Jenny gli aveva chiesto cosa stesse farneticando e lui aveva risposto che l’aveva fatto per incontrarla da solo e per sentire cosa si provava a essere accarezzati dalle sue mani. La mia amica si era allontanata, confusa e spaventata dalla situazione e dalla voglia di provare l’inverso, ossia la sensazione delle mani grandi e forti di Jack sul suo corpo esile e delicato. Jenny ipotizzò che avesse pronunciato quel pensiero ad alta voce, giacché lui fece esattamente ciò che aveva immaginato. Le aveva circondato la vita con entrambe le braccia,  poi l’aveva baciata con tale passione che le era sembrato il primo vero bacio della sua vita.
Sconvolta lo aveva cacciato via, ma a nulla erano serviti i suoi tentativi di evitarlo: se lo ritrovava a lezione ogni giorno e ormai non riusciva più a guardarlo in faccia senza che il suo corpo venisse scosso da una serie di brividi al solo ricordo di quel contatto. Si ritrovò a inventare mille scuse per evitare di fare l’amore con Andrea, non perché non volesse, ma perché pensare a Jack durante quei momenti d’intimità con l’uomo, che mi giurò, ancora amava, la faceva sentire colpevole nei suoi confronti.
Dopo giorni di afflizione e sensi di colpa, aveva deciso di accettare i sentimenti che provava per Jack, arrendendosi all’evidenza di amare due uomini in contemporanea, sebbene in maniera completamente diversa.
Jack era tornato a farle visita di notte lamentando forti dolori addominali. Sospirando e con il cuore in gola gli aveva detto di sdraiarsi sul lettino e quando gli si era avvicinata l’aveva trovato senza maglia, con le braccia a sostenere la testa e le gambe incrociate, tutt’altro che dolorante. Jenny gli aveva auscultato l’addome, sentendo il proprio di cuore pulsare in testa al posto di quello di Jack, al contrario calmo e pacato. La sua pelle nera era calda, mi narrò, accogliente e profumava di terra e natura selvaggia. A suo malgrado le si erano risvegliati tutti i sensi. Jack aveva preso la sua mano e l’aveva fatta scorrere lungo i muscoli del torso nudo, dall’incavo del collo passando per i muscoli addominali, fino alla discesa sotto l’ombelico. A quel punto era stato tutto un crescendo, mi raccontò Jenny con occhi sognanti, facendomi scordare per un attimo della mia triste situazione. Jack l’aveva spogliata, si era fatto spogliare guidando ogni gesto perché era stata impacciata come se fosse stata la sua prima volta con un uomo, e le aveva regalato le stelle fino a sguazzarvi dentro. Aveva riso a quella metafora e io con lei, comprendendo pienamente cosa intendesse.
Quello con Jack era quindi diventato un amore clandestino e pericoloso che avevano potuto rivelare al mondo solo dopo la morte del dottore, al quale non lasciò mai intendere nulla, dichiarò con una mano sul cuore.

 

*****

 

L’atterraggio fu spaventoso.
Quando ci trovammo in prossimità dell’aeroporto della capitale, il pilota fu avvertito che era in corso una vera e propria tempesta, ci disse allora di allacciare le cinture e di restare calmi, le hostess erano lì per aiutarci qualora ne avessimo avuto bisogno. Dal mio canto ero così frastornata e stanca che non mi sarei impaurita neanche se ci fossimo schiantati su un’isola deserta.
Scendemmo dall’aereo e ci bagnammo come pulcini, ma ci vennero incontro volontari e persone inviate dallo Stato per accogliere l’ambasciatore, sua moglie e sua figlia, nonché il resto dei passeggeri. Ci coprirono con coperte calde e, una volta al riparo dall’acqua, distribuirono tazze di cioccolata e tè. Accettai il bicchiere che mi veniva offerto senza berlo. Fu mentre fissavo il liquido scuro e denso che la mamma di Willy apparve dal nulla, commossa e invecchiata.
Innanzitutto abbracciò suo nipote Matteo che non vedeva, baciandolo e osservando ogni cambiamento che la pubertà aveva apportato sul suo corpo, dalla peluria dei baffi che iniziavano a spuntare, al mutamento della voce. Quindi strinse Will, accarezzandogli il viso, senza smettere di affermare quanto fosse dimagrito e pallido. Infine si rivolse a me, scorgendomi rannicchiata sulla poltroncina dell’aeroporto, con una coperta gettata alla bell’è meglio sulle spalle e una tazza fumante in mano, più bianca della luna.
«La ragazza con i capelli rosa» disse carezzandomi la testa. Dopo tante ore di frustrazione sorrisi, ricordandomi che al nostro primo incontro avevo avuto i capelli tinti come un personaggio dei cartoni animati. D’istinto mi alzai e l’abbracciai.
Quella donna era stata la mia musa, la persona che sarei voluta diventare “da grande”, ammirandone la forza d’animo e la voglia di vita. Rispose al mio abbraccio senza aggiungere altro.
Sapeva di cibo buono e di famiglia.
Sapeva di casa.


 

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Cari lettori, siamo ormai giunti alla fine di questa long (manca un solo capitolo!).
Quando ho cominciato a pubblicarla non credevo di riuscire ad arrivare alla fine mantenendo un passo regolare con gli aggiornamenti, né di ricevere così tante recensioni, complimenti e quant'altro... So che molti di voi si sono solo limitati a leggere, so che a volte le recensioni sono una specie di impegno (sembra sempre che non si abbia nulla da scrivere, all'inizio...), ma se siete anche autori di EFP saprete quanto siano importanti pur solo due parole spese per chi pubblica. Per questo motivo non smetterò mai di ringraziare alcuni di voi (sapete bene a chi mi sto riferendo!) e altri che si sono aggiunti in corsa (anche voi sapete di chi sto parlando, leggere e recensire una decina di capitoli al giorno non è da tutti!). Grazie "colleghi", grazie per la dedizione! Buona lettura allora, sperando ovviamente in un lietro fine (forse!).
Nina Ninetta



 

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Capitolo 25
*** Riprendersi la vita ***



Capitolo 25
Riprendersi la vita

 
 
La madre di William ci ospitò a casa sua, quella che suo figlio le aveva regalato appena la situazione economica era migliorata. È una casa indipendente, circondata da tanto verde e poche altre abitazioni, con zona giorno al piano terra e tre camere da letto al primo, ognuna con il suo bagno. Ad accoglierci, sulla soglia della porta, trovammo il compagno della donna: Giulio, l’uomo che aveva conosciuto circa cinque anni prima e con cui conviveva da tre, da quando Matteo e Willy erano partiti per la Repubblica Centrafricana insomma. Si erano conosciuti su un sito d’incontri e, sebbene la signora se ne vergognasse, ammise che era stato un vero colpo di fulmine (e di fortuna, aggiunse ridendo). Giulio, che superava già allora la cinquantina, ha i capelli brizzolati, alto e magro, tra l’altro gli occhiali gli donano un’aria da intellettuale che gli si addice benissimo: è un professore di storia dell’arte che si diletta a scrivere poesie.
Dahlia se ne innamorò a prima vista e si appassionò all’arte talmente tanto che nel giro di un anno è in grado di distinguere le diverse correnti pittoriche solo attraverso uno sguardo allo stile e ai colori del dipinto. L’uomo l’avviò anche alla lettura e all’apprendimento della poesia, inoltre alla giovane Dahlia è dato il permesso di leggere i suoi scritti ancor prima che siano conclusi, cosa che la inorgoglisce e non poco.
Giulio si ritrovò quattro estranei che gli piombarono in casa a scombussolare la sua quotidianità, sporchi, stanchi e con il viso funereo. A turno facemmo la doccia e dopo cena, che io e Dahlia lasciammo praticamente intatta nel piatto, chi per assenza di fame, chi perché a quei sapori non era abituata, mi ritirai nella stanza che era stata preparata per me e Will. Matteo avrebbe dormito sul divano del soggiorno, rifiutandosi di dividere il letto con la nonna e il suo compagno, mentre alla ragazzina spettò la terza camera da letto, tutta per lei.
Willy mi raggiunse a notte inoltrata, credo che fosse rimasto a chiacchierare con sua madre per tutto il tempo, trovandomi ancora sveglia e china sul diario che avevo scritto in quegli anni, con la testa fra le mani e le pagine dello stesso bagnate di lacrime oramai asciugate. Mi strofinò la schiena posandomi un leggero bacio sul capo. Restammo per qualche minuto così, a contemplare la notte illuminata dai pali della luce ai quali non eravamo più avvezzi, d’improvviso provai una profonda fitta al cuore ricordando il cielo stellato di Lobaye, adesso infuocato dalla guerra civile.
Nonostante la sua vicinanza rimasi sveglia a fissare il soffitto, abituando gli occhi alla penombra in modo da riconoscere ogni sagoma che abitava la stanza, dai mobili ai quadri appesi alle pareti. Il suo respiro era leggero e regolare, si era addormentato appena aveva posato il capo sul cuscino, credo che fosse stremato più di me poiché si era fatto peso di ogni responsabilità e della nostra incolumità, fino a quando l’aereo non era atterrato e ci aveva letteralmente consegnato nella mani di sua madre. Adagiai la fronte contro la sua, scrutando i lineamenti del volto, inevitabilmente pensai a Jenny, lontana e in pericolo.
Cosa stava facendo?
Stava bene?
Era con Jack?
Sentii la porta scivolare sui cardini e mi parve di udire un leggero piagnucolio. Mi sollevai puntando i palmi nel materasso e scorsi la figura esile di Dahlia, in piedi sulla soglia della camera. Mi fiondai giù dal letto, rischiando di rotolare sul pavimento con i piedi ingarbugliati nelle coperte, ma riuscii a rimanere in equilibrio in modo da inginocchiarmi dinnanzi a lei. Piangeva e si strofinava il viso, più che una ragazzina di tredici anni sembrava una bambina di tre. Le accarezzai i capelli ricci e crespi, credendo di intuire il suo malessere:
«Ehi, sei al sicuro adesso, sei qui con noi: ci sono io, c’è Mattew e  c’è… » lei mi passò le braccia dietro al collo, bagnandomi con le sue lacrime.
«Sto morendo» disse e la scostai da me per guardarla negli occhi, per rassicurarla che non stava affatto morendo. «Morirò dissanguata. Ho un’emorragia interna» emanò uno urlo stridulo e tornò a stringermi.
Allora compresi. Dahlia era diventata donna. Pessimo momento, pensai, di avere il menarca, adesso era costretta ad affrontare anche quest’altra novità. Dahlia ci aveva aiutato a lungo con i pazienti al villaggio e quelle diagnosi “morirò dissanguata” ed “emorragia interna” le aveva sentite da me e da Jenny quando avevamo rischiato di perdere una partoriente che aveva dato alla luce ben tre gemelli.
Di nuovo sciolsi il suo abbraccio e la presi per la mano, portandola fuori dalla stanza, evitando così che Willy si svegliasse e s’impicciasse in cose da donna!
Le spiegai l’intera situazione, cosa significava quello che era accaduto al suo corpo e i rischi che comportava il diventare “grande”. Forse esagerai, perché la mattina seguente, quando Matteo si sedette di fianco a lei durante la colazione, Dahlia si alzò tutta infastidita, annunciando che voleva stare seduta vicino a me o al massimo alla signora, la quale era stata messa al corrente della notizia da subito, trovandoci entrambe addormentate nella stanza riservata a Dahlia. Matteo la prese davvero male, non le parlò per diversi giorni e a nulla servirono i tentativi di Will di fallo rinsavire, l’aveva presa sul personale. Suo zio non poteva riferirgli la verità, non avrebbe comunque compreso il periodo difficile che stava attraversando Dahlia. Le cose cambiarono quando la ragazzina si ammalò, colpa del cambio di paese, dell’inverno rigido a cui non era abituata e al cibo che il suo intestino non riconosceva e quindi espelleva alla velocità della luce. Per tre giorni rimase incollata al letto, febbricitante e deperita. Matteo non si mosse dal suo capezzale e, quando la mattina del quarto giorno si svegliò da quello stato, trovò il suo amico a darle il bentornata con un gran sorriso.
Dahlia se ne innamorò.
Così come lei si era trasformata in una donna, lui stava diventando un uomo. In quei giorni gli era cresciuta la barbetta e i capelli si erano allungati, portandoli scarmigliati. Matteo non è una bellezza rara da togliere il fiato, ma riesco a comprendere quello che vede Dahlia in lui, giacché a sedici anni mi innamorai di suo zio, il quale potrebbe essere tranquillamente il padre o il fratello in fatto di somiglianza. 
 
Qualche giorno dopo andai a trovare i miei genitori nella casa che avevano abitato fin dal primo giorno insieme, la stessa dove ero cresciuta, portando Willy con me. Erano invecchiati entrambi, ma mi sentii sollevata vedendoli: a volte ci si aspetta il peggio e si rimane soddisfatti del risultato, poiché è meno brutto di quello che si immaginava.
Mio padre aprì la porta e lì per lì rimase impassibile, facendo scorrere lo sguardo da me al ragazzo che mi accompagnava. Non mi vedeva da parecchi anni, io ero dimagrita e i miei lineamenti si erano fatti adulti,Will non l’aveva praticamente mai incontrato.
«Papà» sussurrai, quindi mi abbracciò forte, portandomi dentro quasi di peso. In soggiorno c’era mia mamma, seduta sul divano davanti alla TV, a guardare un film senza interessarsi più di tanto, intenta a sferruzzare a maglia. Non era un hobby che le avevo visto fare da giovane, forse si era appassionata negli anni e soprattutto a causa della malattia. Mio padre la chiamò e solo allora alzò lo sguardo per incontrare il mio, commosso e lucido.
«Guarda chi c’è!» esclamò papà facendosi da parte. La donna sul divano, che era rimasta la stessa di sempre, solo con qualche ruga in più e gli occhi sperduti chissà in quale mondo, posò i ferri e la lana, si mise in piedi e aprì le braccia per posarmi le mani sulle spalle e lasciarmi due baci sulla guancia. Si comportava come se ci fossimo incontrate il giorno precedente e non tre anni prima. Di slancio la strinsi forte, inspirando a fondo il suo profumo di mamma.
Mentre lei continuava il suo lavoro, senza badare a noi, io Willy e papà ci accomodammo davanti a una tazza di caffè, cercando di sopperire l’assenza di tutto quel tempo e di metterci al corrente delle cose più importanti. Gli raccontai dell’avventura al villaggio, della morte del professor Andrea e di Jenny, che era rimasta per stare vicino al suo nuovo grande amore. Gli presentai William come meritava, partendo da lontano:
«Tu non te lo ricordi, ma era con me la sera che ricoverarono mamma all’ospedale» mio padre si scusò, però non riusciva proprio a ricordarsi di lui, spaventato com’era. Willy rispose che comprendeva.
Li lasciai a parlare di cose da uomini, di associazioni di beneficenza e dell’infortunio che aveva subito da calciatore. Io tornai in camera da mia madre, mi accomodai al suo fianco e la osservai lavorare ai ferri, ogni tanto mi lanciava uno sguardo accompagnato da un sorriso. Papà aveva confessato che dopo la mia partenza la mamma aveva passato un brutto periodo, nonostante le avesse nascosto che fossi dall’altra parte del mondo, in un villaggio sperso, lei si svegliava di notte piangendo e gridando di aver sognato sua figlia in pericolo. Lo psichiatra gli aveva raddoppiato la dose di sonnifero e le cose erano migliorate.
Mi lasciai scivolare sul suo corpo morbido, posandole il capo sul grembo, le gambe rannicchiate contro il seno. Mamma mi carezzò i capelli come faceva quando ero bambina:
«Non piangi più?» mi chiese.
Da sempre mi prende in giro per questa mia debolezza. Mi commuovo per qualsiasi stato d’animo, piango di felicità, di rabbia, di delusione, di dolore. Mi asciugai – manco a dirlo - una lacrima e risposi:
«Non riesco a non piangere» anche se non la vidi so che stava sorridendo divertita.
 

*****


Nei giorni a seguire provai a mettermi in contatto con Jenny ogni trenta minuti circa. Era diventata una sorta di ossessione, di mania. La chiamavo sul cellulare che, però, risultava costantemente spento, lo feci controllando la mia e-mail e quella di Willy o sbirciando nella cassetta della posta che stava in giardino. Ci tenevamo aggiornati sull’andamento della guerra attraverso il web, la televisione e i quotidiani. Costringevo Will a telefonare all’ambasciata del nostro paese a Bangui per chiedere informazioni sulla mia amica o – esortata da Dahlia – sul villaggio in generale. Quando Will mi confessò che del villaggio non era rimasto quasi niente, non lo dissi alla ragazzina, le mentii fino a convincermi personalmente che le capanne dei suoi famigliari fossero davvero ancora intatte.
Consigliati da Giulio e dopo esserci accertati che Dahlia fosse in regola dal punto di vista burocratico, iscrivemmo i due ragazzini a una scuola privata perché potessero integrarsi nella società, fare nuove conoscenze e studiare. La cosa li aiutò molto, tanto loro quanto noi adulti, avendo finalmente del tempo libero da dedicare alle nostre vite.


Un giorno, di buon ora, io e Will ci mettemmo in viaggio per raggiungere la casa che aveva abitato da calciatore e dalla quale mancava da almeno quattro primavere. L’appartamento era sito al quinto piano di un palazzo dallo stile moderno, così come l’interno della casa, dove i mobili erano ridotti all’essenziale. All’entrata un divano in pelle scura, una parete attrezzata con ante scorrevoli, un televisore di un millimetro di spessore e lo schermo grande quanto il parabrezza di un’automobile, tendaggi pesanti che scostai di lato per lasciare entrare la luce del sole, svelando un terrazzo che si affacciava su un panorama mozzafiato. Seguii Will in cucina, la stanza più piccola della casa, qui trovai un tavolo con due sedie, una cucina con tre fornelli, cinque stipi e un frigorifero. Un’intera camera era riservata allo sport, Willy rise mostrandomi quella che lui chiama “la mia palestra ambulante”. Su diverse mensole erano adagiate le svariate medaglie, coppe e riconoscimenti ricevute durante la sua breve avventura calcistica. Le osservai una a una, leggendo la targhetta che ciascuna riportava e immaginando il dolore provato nell’apprendere che non ne sarebbero state aggiunte altre a quella collezione.
La stanza successiva che mi mostrò fu il bagno, ampio e accogliente, dipinto di una tenue sfumatura verde, con una vasca idromassaggio rotonda e in grado di ospitare almeno due persone. Fissai il marmo immacolato, con il cuore che iniziava a battere più forte. Improvvisamente una rivelazione mi aggredii come un felino inferocito: io e Willy non facevamo l’amore da così tanto tempo che non riuscivo a ricordare l’ultima volta che eravamo stati insieme. Lui continuava a parlare, a mostrarmi i piccoli dettagli della toilette, ma io non riuscivo a smettere di fissare la vasca, coperta da un telo di plastica trasparente. Senza accorgermene lui aveva smesso di farfugliare e mi stava osservando a sua volta. Si avvicinò intrecciando le mani intorno alla vita mi abbracciò, posando il mento sulla mia spalle destra. Entrambi adesso eravamo rivolti verso la vasca, lui prese a baciarmi il collo, scostando i riccioli.
Stava pensando quello che stavo pensando io.
«Funziona?» gli chiesi indicando l’idromassaggio, combattendo contro l’istinto di voltarmi  e afferrargli il viso per baciarlo sulla bocca e perdermi fra le sue braccia.
«Adesso lo scopriamo» si allontanò da me e tirò via il telo che era servito a proteggerla dalla polvere. Azionò la levetta dell’acqua e udii un rumore come di risucchio quando aprì i rubinetti. Attendemmo qualche secondo, poi l’acqua cominciò a sgorgare dai fori della vasca, limpida e calda, iniziando a riempirla.
Willy tornò da me, con un sorriso beffardo dipinto sul volto, si tolse la maglia rimanendo per metà a corpo nudo, mi passò entrambe le mani dietro al collo, attirandomi a lui. La sua lingua scivolò fra le mie labbra, le dita corsero lungo il suo addome dalla pelle olivastra, mentre il fruscio dell’acqua ci faceva da sottofondo.
Dopo aver fatto l’amore ordinammo la cena che consumammo – affamati come dei predatori – sul terrazzo, accomodati sopra il dondolo che lo abitava. Mi sarebbe piaciuto rimanere a scrutare la città illuminata per tutta la notte, stretta a lui, cullata dal dolce dondolio dell’altalena, ma un ingenuo bacio sulle labbra si trasformò in un nuovo e sconcertante attacco di passione che ci trascinò in camera da letto, a suon di sussurri osceni e risatine nervose.  
Ci addormentammo come bambini, abbracciati in un intrico di gambe e braccia, e finalmente dopo tanto tempo mi risvegliai a mattino inoltrato, riposata e di buon umore.


 

Epilogo
 

I mesi sono passati veloci e la primavera è arrivata - come ogni anno - da un giorno all’altro: i fiori sono sbocciati e il sole si è fatto più tiepido.
Di Jenny ancora nessuna notizia, ma non perdo le speranze, so che lei è viva e sta bene, appena ne avrà la possibilità mi telefonerà e già mi ci vedo, a piangere come una fontanella con il cellulare vicino all’orecchio.
Oggi sono andata al supermercato con Willy e Matteo. Tra qualche giorno è il compleanno di Dahlia e le stiamo preparando una festa a sorpresa. In realtà credo che non sappia neanche cosa sia una festa, ma Matteo ha insistito così tanto che non ho saputo dirgli di no. Mentre passeggiavo fra le corsie, alla ricerca di palloncini e decorazioni varie, ho sentito la sua voce che mi chiamava, con quella cadenza interrogativa tipica di lui.
«Viola?!» come a dire “sei proprio tu?”
Mi sono voltata, interdetta, e Christian era a qualche passo da me, con un bambino di qualche anno per mano, biondo e grassottello.
«Cris… » ho sussurrato.
Se dicessi che non ho mai pensato all’eventualità di ricontrarlo un giorno, mentirei. Ci ho pensato, diverse volte, ho provato a immaginare le sensazioni che avrei provato e la sua espressione nel vedermi, ma in quel momento ho scoperto di non provare assolutamente nulla.
Christian non è cambiato poi così tanto: lo stesso sguardo bonario dagli occhi castani; i capelli gelatinati tirati di lato, qualche filo bianco sparso qua e là; la fronte con una ruga in più. Lui mi ha fissata con un’espressione da pesce lesso.
«Come stai, Cris?» gli ho chiesto, più per interrompere il momento imbarazzante.
«Bene, bene» il silenzio è calato di nuovo, ma solo per un attimo, prima che lui proseguisse. «E tu?»
«Io… » non avrei neanche saputo da dove iniziare. Cosa mi stava chiedendo in realtà? Come me la passavo in quel periodo o come fosse andata la vita per me? Poi è sbucato Willy, con il suo fare irriverente di sempre, mentre rideva di Mattew per qualche assurdità che probabilmente aveva detto - in buona fede. Tuttavia, incontrando gli occhi di Christian, il sorriso si è smorzato. Ho provato una sensazione di deja vu così forte che davvero mi è parso di fare un salto indietro nel tempo.
«Ah, Will! Ti ricordi di …»
«Come no!» ha risposto subito lui, tendendogli la mano. Christian gliel’ha stretta e sono rimasti così per svariati secondi, mentre Cris spostava l’attenzione sull’adolescente che ci accompagnava. Si è schiarito la voce e ha domandato:
«É vostro figlio?»
«Oh no, no» ho precisato io, scompigliando i capelli di Matteo che si è ritratto infastidito. «Lui è Mattew, il nipote di Will.»
«Ti somiglia» ha continuato Christian ritirando finalmente la mano da quella di William mentre mi guardava. «Ha i tuoi stessi lineamenti delicati» e io sono rimasta a bocca aperta.
Fin da quando avevo incontrato Matteo, la sera della cerimonia di beneficenza, quando mi aveva lasciato il biglietto scritto da Willy, avevo subito notato che non aveva la stessa sfacciataggine tipica della sua famiglia. Matteo mi era parso diverso, più sensibile e dolce in un certo senso, e Christian ha confermato il mio parere.
In quell’istante le parole dell’anziana del villaggio “ma sarai comunque mamma, la mamma di un bel bambino che hai fatto nascere” si sono rivelate in tutta la loro essenza.
Adesso so.
So che Matteo è mio figlio e che tutto ha un senso. Le nostre scelte, quello che facciamo e quello che decidiamo di non fare, ci portano proprio dove dovremmo essere, nulla accade per caso, alla fine ci troveremo dove ci spetta di diritto. La mamà lo chiamerebbe Fato, qualcun altro karma.
Io la chiamo vita.
Una giovane donna, che avrà avuto la mia età ma che le diverse gravidanze hanno invecchiato visibilmente, è spuntata dalla corsia parallela a dove stavamo noi, con altri tre bambini al seguito, due intorno alla decina, l’altro più piccolo. Era la moglie di Christian, quella fidanzata così gelosa da allontanarci e che in ogni caso non mi ha presentato. Con un cenno del capo si è congedato da noi, da me, per sempre.

William è stato di cattivo umore per tutta la giornata, lamentandosi del fatto che Cris lo aveva guardato in modo strano e con rancore e per farmi indispettire ha iniziato a rivolgersi a me con gli appellativi di un tempo, anche solo per chiedermi le cose più banali:
«Verdina, dove hai messo il telecomando?» oppure «Azzurra, hai visto quella camicia viola» ridendo a crepapelle. All’inizio sono stata al gioco, poi mi sono infuriata e gli gridato di smetterla di fare l’idiota, anche se idiota lo sei, che non avevamo più sedici anni e via discorrendo. Lui ha proseguito dicendo:
«Hai ragione, Stellina rossa, non abbiamo più sedici anni, soprattutto perché allora mi trattenevo dal farti quello che avrei voluto» ha abbozzato un ghigno, mi ha baciata issandomi a sedere sul tavolo della cucina e mi sono sciolta sotto di lui.

 

***** 

Mezz’ora fa è squillato il cellulare di Willy.  Ha risposto, mentre io ero mezzo addormentata sul divano, è tornato e mi ha ceduto il telefono, sillabando che cercavano me. Ho risposto senza troppo entusiasmo, convinta che fosse sua madre, Matteo o Dahlia.
Invece era Jenny!
Proprio come avevo predetto sono scoppiata in lacrime, continuando a farfugliare il suo nome, mentre mi raccontava velocemente le vicende che le avevano stravolto la vita, cose tipo “… ho chiuso centinaia di ferite senza anestesie” oppure “… ho infilato una mano in un buco sanguinante nell’addome di un uomo per fermare l’emorragia” e ancora “… io e Jack stiamo bene”. Mi ha detto che stava chiamando dall’ambasciata, che la guerra è finita, che adesso non sarà facile rimettere in sesto un’intera nazione, ma che faranno di tutto per riuscirci.
«Abbiamo bisogno del vostro aiuto, Viola. Di te e di Willy.»
Ho chiuso la conversazione dopo un’ora circa. Ho guardato Will e gli ho detto che dovevo tornare laggiù, da Jenny, dalla gente bisognosa, ora più che mai. Mi ha fatto un gran sorriso, come piace a me, e ha risposto che senza di lui non vado da nessuna parte e che devo smetterla una volta per tutte di minacciarlo di lasciarlo. Ho riso, ho pianto e l’ho baciato su tutto il volto.
Abbiamo deciso di ripartire dopo aver sistemato le cose qui, soprattutto con Matteo e Dahlia,  Entrambi siamo d’accordo sul fatto che stiano meglio in questo paese che in quello, almeno per il momento. Poi un giorno ci raggiungeranno, se lo vorranno.
 
Sdraiati uno di fianco all’altra, nel grande lettone del suo appartamento, abbiamo pensato di rivivere insieme tutte le vicissitudini che ci hanno visti protagonisti finora, ma con una certa leggerezza nell’anima, poiché adesso conosciamo il finale della nostra storia e sappiamo che sarà un lieto fine.
Partendo da quando facevamo finta di essere due sedicenni che si amavano e si tenevano per mano, condividendo momenti difficili come la malattia di mia madre, comprendendo troppo tardi i reali sentimenti di entrambi, passando per gli anni che ci hanno visti lontani, dall’infortunio alla morte di Lu, seguendo per la sua difficile riabilitazione, fino ai momenti vissuti insieme al villaggio.
Ricominciamo d’accapo allora, dal principio, da dove tutto è iniziato:
«Facciamo un patto.»

 
 

fine

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