Door to Fastoon - L'Impero, i Ribelli e la Creatrice

di Iryael
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** | Prologo | La Storia fino a noi ***
Capitolo 2: *** | Interludio | Riflessioni di un lombax sull'esistenza di un dio ***
Capitolo 3: *** | Capitolo Primo | Il piano semplice si complica ***
Capitolo 4: *** | Capitolo Secondo | Libera finché sorvegliata ***
Capitolo 5: *** | Capitolo Terzo | Le parti in gioco diventano tre ***
Capitolo 6: *** | Capitolo Quarto | La cena va a monte ***
Capitolo 7: *** | Capitolo Quinto | Scatta la trappola ***
Capitolo 8: *** | Capitolo Sesto | Il valletto salva la situazione ***
Capitolo 9: *** | Capitolo Settimo | Geoffrey indaga, Silver racconta ***
Capitolo 10: *** | Capitolo Ottavo | In caccia ***
Capitolo 11: *** | Capitolo Nono | Silver fa una scoperta ***
Capitolo 12: *** | Capitolo Decimo | Nel mentre, a Villa Darkwood... ***



Capitolo 1
*** | Prologo | La Storia fino a noi ***


La Storia fino a noi
Prologo
Per millenni le galassie avevano vissuto secondo equilibri indotti dai commerci, dagli accordi, dall’indifferenza o dalle guerre.
Per millenni la Storia aveva seguito lo stesso tracciato circolare, come una ruota di mulino mossa lentamente dallo scorrere del tempo.
In ogni epoca erano apparse guerre, malattie, innovazioni. Gli abitanti delle galassie erano poco a poco venuti a conoscenza gli uni degli altri e si erano mischiati, dando vita a un lento ma costante flusso che mescolasse non solo i geni, ma anche le risorse e le conoscenze.
 
Poi, però, il Tempo portò un ostacolo alla ruota della Storia, che cambiò il suo corso.
 
Epicentro di questo cambiamento fu un pianeta di Polaris, segnato sulle mappe stellari con il nome di Reepor.
Si trattava di un pianeta riarso, fatto di rocce scure e acque tempestose; luogo natio dei cragmiti, creature tenaci che il tempo aveva reso pragmatiche e ambiziose.
 
Il cambiamento cominciò in sordina, con una delle tante piccole guerre di conquista che la Storia vedeva da sempre. Protagonisti di un attacco bellico potente e fulmineo, i cragmiti sottomisero l’intero sistema di cui faceva parte il loro pianeta.
I sottomessi presero il nome di alleati e la Storia continuò il suo corso tra l’indifferenza generale del resto dei popoli.
 
Poi, però, il nome dei cragmiti cominciò a circolare sempre più spesso. Il sapore della conquista piacque a quelle genti che, generazione dopo generazione, si fecero sempre più spregiudicate.
 
Battaglia dopo battaglia, i guerrieri sottomisero dapprima i sistemi planetari adiacenti, poi l’intero settore. Una volta in mano ai cragmiti, quello che fino ad allora era conosciuto come il Settore di Praxus divenne noto come l’Impero.
Quando Talkat I s’incoronò imperatore sul sacro suolo di Meridian City, la Storia uscì definitivamente dal suo tracciato. Venne stabilito un nuovo Anno Zero e si aprì una nuova epoca: quella dell’impero cragmita.
 
Con una serie di campagne commerciali che rispecchiava l’indole aggressiva e pianificatrice del popolo di Reepor, l’Impero divenne pian piano un cancro per Polaris. La sua gente era facoltosa, i suoi possedimenti ricchi di materie prime, l’economia solida. Tenerlo fuori dai mercati galattici era impensabile. Così, nei suoi primi secoli di vita, la fame di conquista dell’Impero si mosse per la via del commercio, legando a sé una per una tutte le compagnie di spicco della galassia.
Solo quando l’imperatore fu certo della totale dipendenza di Polaris dalle sue compagnie, riprese la via delle armi. Tuttavia il suo obiettivo non era la galassia cui apparteneva, ma la vicina Solana.
 
Contemporaneamente nacquero i primi contrasti interni.
I cragmiti erano dominatori risoluti e ci fu chi disprezzò pubblicamente i loro modi, sia tra i cosiddetti alleati sia tra coloro ch’erano ormai satelliti dell’economia cragmita. Ciò nonostante, di questi personaggi si persero presto le tracce in modi più o meno cruenti. I dominatori erano convinti che, mostrando un inflessibile pugno di ferro, le proteste sarebbero cessate.
Ma le proteste non cessarono.
Si fecero sussurrate agli angoli delle strade, tra gli amici o con altri avventori scontenti nei pub. Sparirono dalla bella vista, semplicemente.
E ciò non impedì all’esercito di conquistare Solana, esattamente come secoli prima aveva conquistato il Settore di Praxus.
 
Solana fu colta totalmente impreparata e cadde in meno di due secoli. Era il 705 quando l’allora imperatore Talkat XXII, durante un discorso agli sconfitti, pronunciò la celebre frase “Noi respiriamo la guerra e la viviamo come fosse la nostra stessa anima. È così da sempre e così sarà per sempre. Vincere era un’ovvia conseguenza della nostra superiorità bellica.”
La frase entrò nella Storia, così come l’attentato che la seguì tre giorni dopo. La dinastia dei Talkat, dopo ventidue generazioni, si estinse il 4 giugno 705.
 
Nei secoli che seguirono le campagne militari non cessarono mai, come aveva predetto l’ultimo dei Talkat. Succedettero al trono imperiale altre due famiglie, gli Auchyos e i Romenon, sotto i cui domini, durati fino al 1250, vennero sottomesse Bogon e la Via Lattea.
Ma queste famiglie, il cui pugno di ferro non era solido quanto quello adoperato dai Talkat, videro nascere il morbo dell’Impero, cioè i Ribelli.
I sussurri contro l’Impero erano lentamente sfociati nella nascita di piccole associazioni. Queste, inizialmente autonome e divise, nacquero nelle grandi città e si sparsero a macchia di leopardo, raccogliendo consensi con piccole operazioni di boicottaggio. L’Impero si rivoltò pesantemente contro di loro sia sotto Auchyos V che sotto Romenon II, riducendole allo stremo. Fu allora che, da tante piccole, divennero una più forte. I Ribelli cominciarono ad agire coordinatamente, a fare proprie le armi del nemico e a combattere l’Impero con la guerriglia.
 
Con la salita al trono di Tachyon I (1250) e quella del suo primo discendente (Tachyon II), per far perdere consensi ai Ribelli, l’Impero attuò una politica volta al benessere dei cittadini. In quel periodo vennero erette strutture per l’educazione e l’aggregamento, vennero istituite leggi per ridurre lo sfruttamento dei lavoratori (ponendo un tetto massimo di ore giornaliere), vennero aggiunte festività al calendario. Insomma, i primi due Tachyon lavorarono per dimostrare che tenevano ai cittadini molto più di quel che i Ribelli sostenevano. Con questa strategia l’Impero ottenne consensi, ma non quanti se ne aspettava.
Tachyon IV ruppe l’idillio, sterminando l’intera razza umana come monito per i Ribelli. La Terra stessa – pianeta natale della razza antropica – venne ridotta a una nube di polvere cosmica. Ciò scatenò una reazione violenta sia tra i dissidenti che nell’intera Polaris, che cominciò a non fornire più le risorse di cui Reepor aveva bisogno.
 
Forti delle loro armate, allora, i cragmiti cominciarono una nuova campagna galattica, questa volta alla definitiva conquista della loro galassia.
L’ultimo baluardo della resistenza cadde nel 1786, quando Fastoon fu ufficialmente annesso all’Impero con tutti i pianeti del suo protettorato. Tachyon IX completò l’opera cominciata quasi milleottocento anni prima da Talkat I, sottomettendo alle leggi imperiali la razza lombax, già precedentemente sorvegliata per la pericolosa ingegnosità dei suoi appartenenti.
 
 
 
Passarono 25 anni. Arrivò l’11 gennaio 1811.
Fastoon, spezzato e costantemente sorvegliato, stava per cambiare governatore per la dodicesima volta. Alister Azimuth, esponente di spicco dei Ribelli, uccise il nuovo funzionario inviato da Reepor. L’assassinio avvenne nella piazza centrale della capitale, dove i cittadini erano radunati per assistere all’investitura. Purtroppo per Azimuth, la sua fuga venne tagliata sul nascere ed egli fu condotto alla 147sima caserma dell’esercito imperiale, in attesa di essere torturato e giustiziato.
 
Quella notte il gruppo ribelle affiliato ad Azimuth, capeggiato da Kaden (altra figura di spicco), permise ad Alister di evadere. Gli esponenti della fazione imperiale sembrarono impazzire per lo smacco.
Ma piani di ben altra natura erano in corso...

 

 

 

 

 


Salve a tutti!
Anzitutto grazie per aver aperto questa storia; spero che sia all'altezza delle vostre aspettative. In ogni caso vi invito a lasciare una recensione, sia che abbiate apprezzato sia che no (in questo caso, però, vi pregherei di dirmi cosa non vi ha sfagiolato).
In particolare, è d'obbligo dire che questa storia è dedicata a DarkshielD – nonché SilverWingsDevil. (Con un epico e non trascurabile ritardo...è il mio modo di darti il benvenuto tra noi vecchietti arrestabili *abbraccio*.)
Gran parte dei personaggi che vedrete sono frutto della sua fantasia, e di alcuni non ci si può non innamorare. Vi consiglio di fare una capatina (oltre che sul suo profilo di EFP) sul suo account deviantART, perché il suo stile è veramente apprezzabile (e anche perché un'immagine rende sicuramente meglio di una descrizione verbale).
 
Detto ciò vi lascio.
A presto!

 

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Capitolo 2
*** | Interludio | Riflessioni di un lombax sull'esistenza di un dio ***


Riflessioni di un lombax sull’esistenza di un dio
Interludio
Siamo tutti figli della mente di qualcuno che risiede in un altro universo. Qualcuno che sicuramente non ha intenzione di farci del male, ma per il quale non siamo che passatempi; figli di un momento di noia.
Quel qualcuno che noi comunemente chiamiamo Creatore, colui o colei che chiamiamo divinità, ha a sua volta qualcuno da chiamare dio; perché il multiverso è un cerchio infinito di creatori e creature.
 
E noi che ci basiamo sulla scienza, noi che siamo un popolo di rinomati ingegneri e costruttori, più volte ci siamo chiesti: ma esiste davvero qualcuno da chiamare dio? Oppure è un’invenzione degli antichi per spiegare ciò che era loro ignoto? Vale la pena sperare in una sua esistenza o l’unica cosa su cui dobbiamo contare è il nostro genio?
Ce lo siamo chiesti perché – per quanto possiamo avanzare con la nostra tecnologia – non riusciamo a trovare una prova in favore dell’esistenza del Creatore.
 
Ma allora perché continuiamo a credere in un essere superiore, se non esiste alcuna prova tangibile della sua esistenza?
Ebbene, la risposta è tremendamente semplice: perché nessun Creatore è mai riuscito ad oltrepassare la barriera invalicabile che lo separa dalle sue creature.
 
E quand’anche la cosa diventasse possibile, quand’anche il dio arrivasse da noi, per preservare l’ordine non dovremmo mai venire a conoscenza del suo vero nome, poiché ciò lo renderebbe vulnerabile oltre ogni dire. Chi non vorrebbe avere il potere di un dio al proprio fianco?
 
Così, crogiolando nell’ignoranza, ci chiediamo: quali immensi segreti porta con sé l’anima del Creatore? Quali gioie? Quali dolori?
Non possiamo saperlo.
Forse è proprio per questo che siamo così irrazionalmente risoluti a trovarlo.
 
 
[ Anonimo, «Riflessioni di un lombax sull’esistenza di un dio» ]

 

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Capitolo 3
*** | Capitolo Primo | Il piano semplice si complica ***


Il piano semplice si complica
Capitolo Primo
“Guarda che non sarà facile.”
La sua interlocutrice aveva fatto una pausa.
“Se scopriranno il tuo nome – e intendo il tuo vero nome – sarai nei guai fino al collo. Fai attenzione.”
 
 
Quelle frasi si ripetevano nella mente della ragazza mentre studiava la cella in cui era stata rinchiusa. Era la 147sima caserma dell’esercito imperiale, ne era certa. Ciò significava che quelle pietre salivano per dodici livelli, quattro visibili e otto interrati. Era una struttura squadrata, dall’aria imponente studiata apposta per suscitare timore. Chiunque la vedeva doveva provare una sensazione di rigore, per quello erano state incise catene e fucili sopra le porte d’ingresso. Qualche luminare l’aveva definita architettura «parlante», ma dentro era un posto austero.
La sua cella, ad esempio, era un bugigattolo maleodorante con il soffitto incrostato di muffa. Ciò significava che era negli interrati più profondi, altrimenti non ci sarebbe stata sufficiente umidità per la muffa.
Chiusa in quella cella buia, era assillata dalla sensazione di essere già stata lì dentro. Il ché era un fatto di per sé impossibile: come avrebbe potuto, lei, entrare fisicamente nel mondo che lei stessa aveva inventato? Come avrebbe potuto varcare la soglia tra realtà e fantasia?
 
Eppure aveva avuto l’opportunità. L’aveva ricevuta per posta qualche ora prima, a casa sua, sotto forma di dvd. Sopra c’era scritto il suo nome sia in caratteri latini che in caratteri lombax, e tanto le era bastato per accendere la scintilla della curiosità. Così aveva sloggiato la tartaruga dalla tastiera, si era seduta al computer e aveva dato il disco in pasto alla macchina. Aveva provato inquietudine ed eccitazione nel chiedersi chi avesse spedito il dvd, ma si era calmata pensando che doveva essere una burla dei suoi amici.
La ventola del computer era partita ronzando, come per installare un programma. Il monitor si era fatto blu per alcuni secondi, poi aveva cominciato a trasmettere l’immagine di una stanza in penombra. La ragazza aveva trovato quella schermata inquietante. Era scura e leggermente sgranata, ma abbastanza nitida da vedere una serie di casse e degli scaffali. Si sentiva del brusio. Sembravano frasi sovrapposte, ma erano irriconoscibili. A tratti erano eccitate, a tratti erano serie, a tratti erano inconfondibilmente risate.
Alla ragazza era tornata in mente la trama del poliziesco visto la sera prima, dove il criminale aveva mandato al detective una mail con un video dove torturava un suo caro amico. Ripensarci le aveva instillato inquietudine, ma la curiosità di sapere l’aveva tenuta incollata allo schermo e alla fine l’aveva premiata.
D’un tratto era apparsa una sagoma femminile sulla porta. Aveva esultato con una voce che alla ragazza era suonata familiare e sconosciuta al tempo stesso, poi si era avvicinata alla videocamera.
«Ah, Creatrice, finalmente sei in linea!»
«Occavoli...»
La ragazza aveva guardato lo schermo con tanto d’occhi: quella che aveva davanti era innegabilmente una lombax. E non aveva bisogno di strappare il foglio appeso dietro al monitor per sapere chi aveva di fronte, ripresa da qualche videocamera. Quella lombax rispondeva al nome di Evelyne Angel Mary Ann Taylor, ed era il suo primo outfit character.
Ed era in un video sul monitor, un video non realizzato né con l’animazione né in 3D.
Non è possibile!
Aveva pensato che doveva essere un cosplay, e aveva fatto mentalmente i complimenti a chiccheffosse sullo schermo. Ma chi poteva essere? Qualche fan impazzito di Endless Empire, forse? O era opera di qualcuno che voleva semplicemente prenderla in giro nel giorno del suo diciottesimo compleanno? Di sicuro qualcuno che la conosceva bene, perché quella che aveva davanti era la riproduzione perfetta di Evelyne: ogni movenza, ogni inflessione nel tono della voce, ogni piccolo gesto era esattamente come l’aveva immaginato lei. Ma a chi aveva parlato così tanto di Evelyne da spingerlo a fare una cosa del genere, riprodotta con così tanta cura?
«Creatrice, stai bene?»
«Ma tu chi diavolo sei?» aveva chiesto.
«Sono io, Evelyne!»
Sì, grazie, lo vedo... avrebbe voluto rispondere. La lombax aveva colto al volo l’espressione scettica della ragazza, perché si era affrettata a dire: «Evelyne Angel Mary Ann Taylor, lombax di tua creazione, veggente e cameriera alla locanda della Volpe Bianca.»
Dopodiché aveva detto che non c’era tempo da perdere e si era lanciata in un monologo accennante l’opportunità di raggiungere lei, Sacha, Reginald, Nencer e tutti gli altri a Fastoon. Evelyne le aveva dato poche semplici istruzioni: se non ne vuoi sapere chiudi il video, se vuoi raggiungerci collega il cellulare al computer, apri il prompt dei comandi e crea il seguente programmino che si insedierà nel tuo telefono.
Lì per lì aveva pensato si trattasse del delirio di qualche matto, ma aveva deciso di stare al gioco.
In fondo, si era detta, più che buttare il telefono non avrebbe fatto. Cosa mai sarebbe potuto succedere?
Ma quando poco dopo aveva attivato Door to Fastoon, il mondo le si era smaterializzato attorno. Si era sfatto come un puzzle digitale e si era ricomposto in un piazzale, dove lei era comparsa in un bagliore luminoso. Le sue orecchie erano state brutalmente invase da una serie di allarmi, le sue narici erano state inondate da odori nuovi e gli occhi si erano riempiti della visione di un viavai oscuro di soldati, tutti rigorosamente lombax, cazar o cragmiti. Questo subito prima che un colpo alla nuca la spedisse nel regno dell’incoscienza.
Quand’era rinvenuta aveva mugugnato qualcosa circa la sua tartaruga. Poi aveva aperto gli occhi e si era resa conto di essere stesa sul pavimento umidiccio di una cella. In un angolo giaceva la perdita di un tubo sul soffitto; mentre su uno dei lati più lunghi si trovava un tavolaccio con su un pagliericcio. La ragazza si era messa carponi e aveva provato ad alzarsi. Dopo un primo momento di instabilità aveva raggiunto il pagliericcio e si era sistemata meglio. Sentiva freddo fin nelle ossa: nel suo spazio-tempo era agosto, ma su Fastoon era il dodici gennaio. Shorts e canottiera non erano affatto adatti alle basse temperature, così si era raggomitolata su sé stessa per tenersi un po’ più caldo.
Per di più sentiva ancora la testa spaccata in due, non solo per la brutta botta. Da una parte era il silenzio più totale, il timore, l’incertezza; dall’altra una nebulosa di nozioni e sensazioni ingarbugliate e senza senso.
Per esempio: sapeva di essere in una cella del secondo seminterrato e sapeva chi fossero i poveracci nelle celle vicine alla sua. Sapeva la composizione del metallo che formava le sbarre e conosceva ogni centimetro dell’impianto d’allarme. Sapeva che, in barba a tutto, in quel momento era in corso l’evasione di Alister Azimuth e sapeva che Ratchet stava per prendere una delle peggiori musate della sua vita. Percepiva in fondo a quella metà di cervello tutta la sua preoccupazione e la sua frustrazione.
In effetti sapeva tutto, ma non serviva a niente. Cercando di non cedere ad una crisi isterica si rannicchiò sul pagliericcio, in attesa che arrivasse qualcuno. Se davvero era finita nel suo universo alternativo, doveva averne la conferma...e se così fosse stato Evelyne avrebbe dovuto come minimo farla uscire dalla melma in cui l’aveva tirata.
* * * * * *
 
Ore 05:30 circa
Sud-est cittadino, quartieri della media borghesia
 
 
Chiusa nella locanda, Evelyne si chiese se la Creatrice non avesse preso in antipatia i ribelli.
Lei le aveva fornito i mezzi per arrivare fin lì dopo aver fatto una fatica inimmaginabile...e quell’altra si materializzava nella caserma proprio in piena evasione!
Eppure glielo aveva detto chiaro e tondo: quando attivi Door to Fastoon pensa a un luogo sicuro! Pensa a un negozio, un bagno pubblico, un qualunque servizio alla cittadinanza.
«E cosa va a pensare? Al carcere!» mugugnò arrabbiata, sbattendo sul bancone il boccale che stava pulendo. «Così se rivela la sua abilità agli imperiali siamo fritti.»
«Guarda che mica si chiama Percival.»
Dalla porta della cucina si affacciò Roger, imbragato nel grembiule sporco di varie salse. Era un anziano che guardava benigno alla ribellione sin dalla sua genesi. Per fare la sua parte, aveva messo a disposizione la sua locanda come base per le operazioni, come nascondiglio o come luogo dove ricevere o scambiare le informazioni. La clientela tra cui mimetizzarsi non mancava mai, era solito dire, ed era così grazie alla posizione strategica della locanda – che era vicina agli uffici imperiali, volta ai quartieri della media borghesia ma non troppo distante dalle zone industriali.
Lui ed Evelyne si consideravano parenti indiretti: il lombax anziano aveva preso a servizio la ragazza quand’era ancora bambina e l’aveva cresciuta facendo la parte del nonno. Anche per quel motivo, nel momento in cui le rifilò quel rimbrotto, la ragazza non poté trattenere uno sbuffo di divertimento.
«Cosa ridi! Guarda che sono serio...»
 
Roger le aveva raccontato tante volte dei tempi in cui i lombax erano un popolo libero e i cragmiti una minaccia lontana. Tempi che sembravano remoti, ma che si erano conclusi appena venticinque anni prima, quando l’allora Imperatore Tachyon IX aveva siglato gli accordi di annessione di Fastoon; dopo che un cragmita di nome Percival aveva venduto i loro progetti militari più segreti in cambio dell’adozione nella famiglia imperiale.
Evelyne, di riflesso alle emozioni impresse nei racconti, aveva imparato a odiare l’Imperatore e apprezzare lo sforzo della ribellione, attiva da venticinque anni sul pianeta e da secoli nel resto dell’Impero. In pratica, c’era entrata senza nemmeno rendersene conto: dapprima riferendo ciò che si dicevano i soldati della 147sima Caserma e del Centro di Sviluppo; in seguito aiutando il gruppo d’azione con le sue particolari doti di chiaroveggente. Da quando aveva sviluppato la sua dote, ogni volta che una visione la coglieva, correva a riferirla subito e senza riserve, spesso obbligando i ribelli a cambiare strategia per riportare la pelle a casa.
 
Nell’ultimo anno le visioni si erano fatte sempre più frequenti, e sempre più spesso aveva visto una ragazza di una specie che non conosceva, con i capelli biondi per lo più legati. L’aveva vista a scuola mentre ignorava bellamente una lezione, a casa mentre parlava con una tartaruga chiamandola Larry; l’aveva guardata mentre disegnava lei e tutti i suoi amici uno dopo l’altro, mentre davanti a un computer scriveva che lei, Evelyne Angel Mary Ann Taylor, era il suo primo personaggio e ne andava fiera. L’aveva sentita parlare e aveva visto e udito i suoi pensieri: era stato allora, collegando i pensieri di quella ragazza ai fatti che accadevano a Fastoon, che si era fatta l’idea di avere a che fare con la Creatrice. Di conseguenza l’idea di usarla come arma per sconfiggere gli imperiali – o quantomeno di potersi muovere sempre un passo avanti a loro – era germogliata e cresciuta in fretta.
Ne aveva parlato con Clock, un ribelle che lavorava al centro di sviluppo tecnologico, e lui l’aveva resa in grado di poter attuare il suo piano coinvolgendo i macchinari del suo luogo di lavoro. L’unica condizione che aveva posto per la riuscita tecnica dell’operazione era la presenza di particolari radiazioni nell’universo della Creatrice...radiazioni di cui non era possibile verificare la presenza. Sostanzialmente, l’azzardo più grosso di tutta l’operazione.
Quando aveva esposto la sua idea al gruppo d’azione non aveva ricevuto un gran sostegno, ma nemmeno l’ordine di lasciar perdere. Kaden, che tolto Roger era il più anziano, le aveva concesso di portare avanti la sua operazione in parallelo alla loro, purché non li intralciasse.
 
«Oh, accidenti!» esclamò la giovane. Roger, con la sua protesi sbuffante alla gamba, si avvicinò e le tolse il boccale di mano per paura che si facesse male. «Kaden vorrà la mia testa...»
«Non dirlo neanche per scherzo, cara.» la ammonì il vecchio. «Vedrai che presto la Creatrice sarà al nostro fianco.»
* * * * * *
Ore 06:00 circa
Zona est della città, quartieri militari, sotterranei della 147sima caserma dell’esercito imperiale
 
 
La porta della cella cigolò sui cardini. La ragazza alzò istintivamente lo sguardo e si trovò davanti un cazar in divisa nera.
Enrique, pensò. Automaticamente seppe che l’altro era curioso nei suoi confronti, ma scocciato di essere lì, a doverla interrogare dopo aver passato la notte in bianco. La ragazza si chiese quante ore fossero passate dacché lui aveva spento gli allarmi nella camera di controllo, mentre i ribelli guidati da Kaden facevano evadere il pericolosissimo Alister Azimuth. Sapeva che lo aveva fatto attorno all’una, ma non aveva idea di quanto tempo fosse passato.
Il cazar si avvicinò tenendo le spalle ben aperte e le mani intrecciate dietro la schiena, in quella posa formale e distaccata che era il suo marchio di fabbrica. La porta venne richiusa e le due guardie che lo avevano accompagnato si misero ai lati della cella.
«Ma bene.» esordì il cazar, squadrandola con i suoi profondi occhi verdi. «Voi siete la signorina...?»
La ragazza si ricordò delle parole di Evelyne sul suo nome. Visto cos’era successo con la trasgressione della regola ‘pensa a un luogo sicuro quando attivi la Porta’, decise di darle retta e improvvisare.
«Silver.»
La prima parte del suo nickname di deviantART le era parsa un nome plausibile.
«Silver...? Non avete un cognome?»
Sì che ce l’ho, ma non vengo di certo a dirtelo! pensò con stizza. Pensò se usare il resto del nickname suonasse credibile, ma optò piuttosto per quello usato su EFP.
«Il vostro cognome, signorina.» ripeté il cazar, più autoritario.
«Darkshield.» Enrique annuì e annotò nome e cognome su un piccolo taccuino scuro.
«Cosa ci facevate ieri sera nel cortile della caserma?»
Bella domanda...
«Siete forse coinvolta nella fuga del criminale Alister Azimuth?»
«Cosa? Chi? No!» la sua risposta secca non piacque al cazar.
«Quindi potete spiegarmi cosa facevate nel cortile della caserma, durante l’evasione del suddetto criminale?»
Silver decise di raccontargli una mezza verità. Se non doveva dire il suo nome perché avrebbe dovuto dire cosa ci faceva davvero nel cortile della caserma? E anche volendo, non avrebbe saputo dire cosa faceva lei lì, anziché essere in camera a giocare con la tavola grafica.
«Io...io ero in casa mia, oggi, va bene? Poi di colpo c’è stata una forte luce bianca e il mio mondo mi si è sfatto attorno.» spiegò. «Quando tutte le particelle si sono rimesse a posto ero in mezzo a tutto quel tranvai, e credo di aver ricevuto un colpo perché poi mi sono risvegliata qui...»
Enrique annuì e annotò il tutto.
«È chiaramente un fenomeno di teletrasporto.» obiettò. «Qual è il vostro punto di partenza, signorina Darkshield?»
Dubito fortemente che tu conosca l’Italia, cocco.
«La Terra...» rispose, incerta.
Il cazar alzò un sopracciglio: «Prego?»
«La Terra...» ripeté con finta ingenuità. «Sai dov’è il Sistema Solare...? ...La Via Lattea?» chiese davanti alla faccia impercettibilmente stranita di Enrique. E di fronte al suo rifiuto chinò la testa ed emise un gemito di sconforto.
Nella saga di Ratchet e Clank non si era mai fatto accenno alla Via Lattea, quindi era presumibile che fosse un posto che per i personaggi della saga non esistesse nemmeno. Però nel quarto capitolo di Endless Empire ne aveva parlato.
Occavoli...
Enrique aveva tutte le ragioni per essere perplesso: la Terra era stata uno dei primi ricettacoli dei ribelli dell’Impero, e per quello era stata resa polvere cosmica tre secoli prima per ordine dell’imperatore Tachyon IV. All’epoca era stato definito come un monito, ed eliminare il pianeta e gli umani non era stato troppo difficile. La razza antropica non si era sparsa molto in giro per l’Impero, e tutti coloro che non erano stati portati in tempo sul proprio pianeta madre erano stati comunque giustiziati per concorso in alto tradimento. In meno di un decennio l’intera specie si era completamente estinta.
Quindi lei era l’unica umana in un universo dove la Terra nemmeno esisteva più, e aveva detto l’esatto opposto.
«Suppongo quindi che voi non siate una markaziana...» osservò il cazar. Silver denegò e lui disse: «Posso chiedervi a quale specie appartenete?»
«...a quella degli umani...» mormorò a disagio, guardandosi intorno.
«Umani...» Enrique annotò anche quello sul taccuino, poi rilesse le risposte ottenute: di certo non erano la confessione che si aspettavano i suoi superiori. «Suppongo che le cose siano diverse da quello che credevamo. Parlerò con il tenen...il maggiore e vedremo il da farsi.»
La ragazza seppe che si riferiva al teracnoide Emerald Yerzek, e immediatamente seppe anche che era sei piani più su, nel suo ufficio, furioso per la fuga di Azimuth e la figuraccia fatta davanti a Sindegar Heanp. Frattanto Enrique si voltò per andarsene, e per fermarlo Silver si sporse un poco verso di lui. «Aspetta!»
Il cazar si fermò e la guardò di sopra la spalla. La ragazza si sentì così stupida, con quel braccio teso in avanti, che lo ritirò di scatto.
«Insomma...te ne vai così? Non puoi dirmi chi sei, perché sono in cella e così via?» chiese. Chi sei lo aveva chiesto per conferma, cosa facesse in cella perché proprio non lo sapeva.
«Potete chiamarmi Enrique, signorina. E siete in cella perché siete ritenuta complice dell’evasione di Alister Azimuth.»
Chiaro, semplice e stringato.
Servita con una risposta senza appigli per chiedere altro, Silver non poté far altro che guardarlo uscire e avviarsi di nuovo verso gli uffici.
 
Il cazar salì fino al quarto piano ripensando a quello che gli aveva detto la ragazza. Il suo superiore, l’ex tenente colonnello Yerzek, lo aveva spedito da lei con la speranza che le cavasse tutte le informazioni possibili sui ribelli «perché non è possibile che non sia una di loro!!!»
Invece è possibile eccome, viste le risposte, si disse. Ammesso e non concesso che dica il vero, la signorina dovrebbe essere l’unica esponente di una specie completamente estinta da tempo. Dov’è stata lasciata la falla? Dove non sono stati eliminati a dovere tutti gli umani? Comunque, la faccia dell’Impero potrebbe ristabilirsi se ora l’imperatore perdonasse pubblicamente la specie umana e lasciasse che si rigenerasse: se quell’idiota di Yerzek non si accorge delle opportunità offerte dall’occasione può anche buttarsi giù da un ponte.
Raggiunse l’anticamera e l’attraversò, incurante degli sguardi malevoli e dei grugniti di disapprovazione dei funzionari che vi lavoravano. Ruotò la maniglia della porta ed entrò con discrezione nell’ufficio di Yerzek. Il teracnoide era impegnato in una discussione con Ratchet, e non appena lo vide sembrò illuminarsi per il sollievo.
«Un plauso al tuo tempismo, Enrique. Stavamo parlando giusto della markaziana catturata oggi...»
«Ha confessato qualcosa sui piani dei ribelli?» domandò Ratchet, molto più direttamente. Enrique si avvicinò alla scrivania e aprì il suo taccuino.
«No signore. La signorina sostiene di chiamarsi Silver Darkshield, di appartenere alla specie umana e di provenire dal pianeta Terra, nel Sistema Solare sito nella Via Lattea.» snocciolò. «Stando a quanto dice, è capitata nel cortile della caserma per puro caso in seguito ad un fenomeno di teletrasporto.»
«Così dice.» replicò gelidamente il lombax.
«Sì signore. Non ho rilevato segnali che stesse mentendo, e considerate le sue fattezze particolari e gli abiti inusuali, ho creduto che fosse meglio fare rapporto prima di procedere in qualunque modo.»
«IDIOTA!!!» sibilò invece Yerzek. «È palese che sta mentendo! Quella razza è stata completamente cancellata da tre secoli! E come può provenire da un pianeta che è ridotto a una nube di frammenti?! E se anche fosse, sarebbe finita qui proprio durante l’evasione di Azimuth???»
«Maggiore, calmatevi.» intimò freddamente Ratchet, provando un sottile piacere nel ricordare al teracnoide il declassamento subito in seguito all’evasione. Yerzek non lo ricordò con lo stesso piacere, dacché divenne purpureo in faccia.
«Volete prendere per vere le parole della prigioniera, dunque?» chiese con calma stentata.
«Voglio parlarci di persona.» replicò il lombax, prima di rivolgersi a Enrique: «Falla portare in una cella delle torture.»
Il cazar presentò il saluto e sgattaiolò rapidamente fuori dalla stanza. Nell’ufficio, di fronte allo sguardo interrogativo di Yerzek, Ratchet spiegò: «Se la ragazza stesse dicendo la verità, sarebbe segno di una grave imperizia dei funzionari dell’Impero. Se stesse mentendo, invece, sarebbe già pronta per la sua punizione. In ogni caso, l’intera faccenda deve rimanere nelle mie mani.»
Il teracnoide annuì. Il lombax davanti a lui faceva parte della Guardia Pretoriana, che era un corpo militare molto più prestigioso dell’esercito. Dirgli di no sarebbe equivalso a tagliarsi ulteriormente la carriera.
«Certo, signore.» grugnì a denti stretti.
Ratchet si alzò e lasciò la sala con la voglia di prenderlo a bastonate. Chiunque dicesse che era un idiota aveva pienamente ragione. Non c’era da stupirsi che non avesse saputo trattenere il famigerato generale Azimuth: anche l’umile Enrique sarebbe stato certamente un direttore migliore di lui. Ma all’Impero conveniva di più avere gente stupida nei posti strategici, così che fosse meglio manovrabile: la 147sima ne era un esempio lampante.
Camminando per i corridoi si massaggiò distrattamente la guancia, laddove il ribelle noto come Kaden lo aveva ferito durante l’evasione.
Orgoglioso del fatto che ho tentato di fermarlo. Stronzo! pensò con rabbia bruciante.
Raggiunse la scalinata e macinò i gradini uno dopo l’altro. L’aria si fece più umida e fredda ad ogni piano che oltrepassava, e quando finalmente arrivò al salone dei cubicoli il suo fiato si condensava in piccole nubi di vapore. L’unica cella attiva era quasi in fondo al salone, e la raggiunse facendo ticchettare il bastone sulle pietre umide del pavimento. Notò che non c’erano guardie davanti alla porta e pensò che il cazar le avesse congedate.
Il suo arrivo catalizzò lo sguardo di Silver, legata alla sedia con le cinghie di cuoio spesso e consunto. La ragazza non poté impedirsi di sgranare gli occhi e spalancare la bocca: un conto era immaginarsi il personaggio, un altro era averlo in carne e ossa davanti a lei.
Il lombax girò attorno alla sedia scandendo i passi, in silenzio, e studiò la ragazza. Poi tese il palmo della mano verso Enrique, unico altro occupante del cubicolo.
«Dammi una lente.»
Subito il cazar si avvicinò a uno dai tre banchi appoggiati alle pareti e frugò tra i cassetti.
Ma che diavolo fa??? si chiese Silver. Quando poi l’altro ritornò con una spessa lente d’ingrandimento e Ratchet prese a studiare i suoi lineamenti con quella, la ragazza si allontanò d’istinto per quel tanto che le consentiva il collo.
«Sta’ buona...» ordinò il lombax con voce assorta, scrutando ogni centimetro quadrato di pelle. Si soffermò in particolar modo sui lineamenti, sul naso e sulle orecchie, cercando minuziosamente le tracce di eventuali interventi chirurgici. La sua ricerca si rivelò inutile e, alla fine, diede la lente ad Enrique.
«Ebbene, signore?» domandò il cazar.
«Non ci sono cicatrici.» sentenziò Ratchet. «È davvero un’umana.»
«Certo che sono un’umana!» replicò Silver. «Pensavate che avessi mentito?»
«Gli umani sono estinti da tempo.» replicò il maggiore. «Come potevamo credere che qualcuno fosse sopravvissuto e si fosse riprodotto?»
«Estinti? Ma se siamo più di sei miliardi!» protestò lei. Dopo essersi resa conto delle gaffe commesse durante la chiacchierata con Enrique, aveva capito che l’unico modo per sopravvivere alla prigione era disorientare il nemico. Disorientarlo, o altrimenti farsi prendere per pazza. Una delle due, era indifferente quale.
Dopo aver affermato quelli che erano i dati effettivi del suo spazio-tempo, seppe di aver colto i due completamente di sorpresa.
«E su quale pianeta?» domandò ancora Ratchet, pericolosamente vicino all’esplosione.
«Ve l’ho detto, la Terra.»
Il lombax tirò un violento colpo di bastone alla mascella dell’umana, così forte da farle venire in bocca il sapore del sangue.
«La Terra non esiste più! Sono tre secoli che la Terra è stata distrutta assieme a voi umani!»
«La Terra esiste tanto quanto esisto io!» replicò testardamente Silver, guadagnandosi un secondo colpo.
Prima quello stronzo che profetizza la fine dell’Impero, ora quest’umana che sostiene l’esistenza della Terra! pensò rabbiosamente. A farlo infuriare non era tanto la frase sostenuta, quanto la sicurezza che le brillava negli occhi, la stessa che aveva trovato nello sguardo di Kaden appena qualche ora prima. Era ferma e irremovibile, del genere che non si sarebbe ritirata nemmeno davanti alla morte.
A che ne sapeva lui, quanto affermato dalla ragazza era impossibile. Però la sua presenza dimostrava il contrario: era lì ed era un’umana senz’ombra di dubbio. Quindi non rimaneva che pensare che non tutti gli umani fossero stati sterminati sotto Tachyon IV.
Poi un’idea lo colpì: i superstiti umani, in segreto, dovevano aver trovato e colonizzato un pianeta lontano chiamandolo come il loro pianeta madre. Se avessero chiamato con i vecchi nomi anche il sistema e la galassia di cui il pianeta-colonia faceva parte, allora avrebbero avuto ragione entrambi e quello sarebbe stato un inutile e logorante muro-contro-muro.
E lui non aveva bisogno di logorarsi oltre, per quella giornata.
«Parlami del tuo arrivo qui, avanti.» ordinò.
Silver, il cui viso pulsava dolorosamente, non si sentì di contraddirlo ancora. Ma dentro di sé cominciava ad odiarlo, e quella metà di mente non impegnata a sapere ogni dove, come e perché, in quel momento avrebbe voluto scrivere di un morte atroce.
E chissenefrega se è la stella dello show!
Rimase per alcuni istanti a fissare l’avversario, in silenzio. Poteva farla polverizzare in qualunque momento e lo sapevano tutti, ma lei sapeva anche che in quel momento nulla poteva far infuriare il maggiore più dello sguardo che aveva trovato sulla faccia di Kaden.
Quel suo piccolo atto di ribellione le costò un ceffone secco. La testa si torse a lato con un gemito di dolore e la guancia prese a bruciare come se nei capillari scorresse del fuoco, ma non per quello avrebbe mollato la sua versione dei fatti.
«L’ho già detto: c’è stata un’onda bianca, il mondo mi si è sciolto intorno e quando si è degnato di ricomporsi mi sono ritrovata in mezzo ad un grosso viavai di soldati. Qualcuno mi ha colpito e mi sono risvegliata in una cella.» biascicò lentamente, forzandosi ad ignorare il dolore del viso.
«Ti sei teletrasportata?» domandò ancora Ratchet.
«No.»
«E allora come ci sei finita qui?»
«Ma qui dove?»
«Chi ti ha mandato?»
«Ci sono finita e basta!»
Enrique ringraziò la lungimiranza del maggiore, per aver deciso che la ragazza andava interrogata lì. Se non l’avesse fatto, in quel momento tutta la caserma avrebbe saputo che c’era un’umana in cella, e la cosa non avrebbe fatto altro che riaprire vecchie ferite e aggiungere scalpore all’evasione di Azimuth.
«Qual è il tuo scopo qui?» domandò di nuovo il lombax. Silver, dopo quella fila di domande, si lasciò travolgere dall’isteria e dalla paura. Conosceva bene le potenzialità belliche dei due nel cubicolo con lei – oh se le conosceva! – e l’ultima cosa che le serviva in quel momento era che uno dei due le mettesse le mani addosso come aveva immaginato per Alister.
«Voglio tornare a casa, va bene??? Voglio tornare a casa e buttare quel fottuto disco che ho ricevuto per posta, quello che mi ha messo in contatto con questo schifosissimo posto!!! È uno scopo sufficientemente alto secondo te???»
La risposta colse di sorpresa i due imperiali.
Un disco che l’aveva messa in contatto con la caserma...e un presunto teletrasporto accidentale.
«Un disco?»
«Sì, un disco!!! Un coso tondo e piatto come lo chiamate qui, una pagnotta???»
«Chi te lo ha inviato?»
«Non lo so!!! Sopra c’era scritto il mio nome e basta!!!»
Per fortuna le domande si fermarono lì, perché a quel punto piangeva per il dolore alla faccia.
Ratchet annuì, mentre un barlume d’idea gli si formò in mente.
«Soldato, vieni.» ordinò. Il cazar lo seguì senza fiatare all’esterno della stanza, dove il lombax lo prese da parte.
«Credo di aver capito il gioco dei ribelli...»
«Sarebbe, signore?»
«Andiamo per assurdo.» introdusse il maggiore. «E immaginiamo che una piccola nave di superstiti umani sia riuscita a colonizzare un nuovo pianeta chiamandolo Terra. In tutto questo tempo all’Impero il fatto è sfuggito, ma i ribelli ne sono venuti in qualche modo a conoscenza. Hanno pianificato la fuga di Azimuth in modo da screditare gli alleati dell’Impero, e quindi in aggiunta hanno organizzato l’arrivo qui di un umano perché l’Impero stesso venga screditato. Il fatto stesso che non tutti gli umani siano stati eliminati sotto l’editto di Tachyon IV indica una grave imperizia, ma pensa a cosa succederebbe se tutte le notizie di oggi venissero a galla contemporaneamente. Già oggi snidare i ribelli è un’impresa, ma pensa se avessero una speranza. Se davvero i ribelli – ma non solo loro – intravedessero una speranza di poter rovesciare l’Impero e tutto quello che rappresenta, sarebbe una guerra civile di dimensioni mai viste finora.»
«Quindi avrebbero adescato la signorina al solo fine di farla diventare un simbolo?» domandò Enrique.
«Esattamente.» replicò il lombax, infervorato dal ragionamento. «Ovviamente è tutto da verificare, a partire dalla locazione di questa nuova Terra, ma dobbiamo trovare il modo di ribaltare questa situazione in modo da averla a nostro favore. Un simbolo, sì, ma non più per i ribelli.»
«Vogliate perdonare l’azzardo signore, ma ci stavo ragionando prima. Se l’imperatore perdonasse pubblicamente la razza umana, ciò potrebbe tenere a bada l’opinione pubblica.» riferì il cazar. «Tachyon IV è ricordato come il Sanguinario, invece Tachyon X potrebbe essere ricordato come il Giusto, se riconoscesse l’atrocità ordinata dal suo avo e perdonasse pubblicamente la razza umana, concedendole di rientrare nei confini dell’Impero.»
Sapevano entrambi che, se un’idea del genere avesse preso corpo, sarebbe stata solo una facciata. L’Impero avrebbe trattato gli umani di nuovo come servi, senza chiudere un occhio per i crimini commessi in precedenza contro di loro. Tuttavia, Silver rischiava di diventare qualcosa di terribilmente pericoloso con la sua sola esile presenza.
«Se gli umani rientrassero sotto il controllo dell’Impero, a favore di Tachyon, questo sarebbe uno schiaffo secco per i ribelli.» ragionò Ratchet. «È questo che dici?»
«Esattamente, signore.»
Il lombax si strofinò appena le labbra, assorto nell’immaginare come avrebbe potuto svilupparsi una situazione del genere.
«È una buona idea.» disse infine. «Tra due settimane l’imperatore o chi per lui verrà a Fastoon per nominare un nuovo governatore. Io cercherò di ottenere il permesso per un incontro, tu intanto ti occuperai di tenere nascosta la qui presente signorina fino ad allora.»
La fronte di Enrique si corrugò per la sorpresa.
«Come dite, signore?»
Il sorriso che si dipinse sul volto di Ratchet aveva un ché di inquietante.
«Ti sto dando una licenza di due settimane affinché tu possa offrire ospitalità alla signorina, vegliare sulla sua buona salute e garantirle assistenza in ogni qualsivoglia momento.» disse innocentemente. «E ovviamente, veglierai anche sul fatto che non si scopra in giro che è un’umana.»
Il ché significava che da quel momento in poi lei sarebbe stata chiusa in casa sua con lui.
«Ma signore...»
«La prenderei in custodia io, ma non posso.» e si lisciò la cappa della divisa per far intendere perché non potesse. Enrique annuì, comprendendo il motivo. «Yerzek è troppo in vista al momento, quindi devi occupartene tu.»
Certo, si disse il cazar, erano in tre a sapere della giovane. E due di essi erano nell’occhio del ciclone: a chi sarebbe potuta toccare la custodia se non a lui?
«Sì, signore.» capitolò.
«Provvederò personalmente a mandarti un medico di fiducia, domani, che mantenga la cosa riservata. E farò in modo che le vengano riconsegnati i suoi beni seduta stante.» disse ancora Ratchet, prima di massaggiarsi le tempie con aria stanca. «Io ho un bisogno terribile di dormire, quindi me ne vado a casa. Tu falla calmare, che sicuramente il mio trattamento l’ha scossa, e poi uscite da qui.»
«Sì signore. Altro?»
«No, Enrique. Buonanotte. E porgi le mie scuse alla signorina.»
Detto quello il maggiore si allontanò stancamente dalla cella, facendo ticchettare il bastone e con il fiato che si condensava più densamente rispetto a quando era sceso. Enrique lo osservò per qualche secondo, pensando a quanto quella giornata si fosse rivelata piena. Poi rientrò nel cubicolo e affrontò gli occhi lucidi e lo sguardo ferito di Silver, che dall’interno della stanza non aveva sentito nulla del loro ragionamento.
«Il maggiore si scusa per le sue maniere.» riferì.
«...e infatti manda avanti te.» rispose piattamente la ragazza. «Da noi li chiamiamo vigliacchi.»
«Onestamente, dispiace anche a me per il trattamento che vi è stato riservato.» ammise il cazar. E Silver seppe che era vero. «Ho ricevuto l’ordine di liberarvi e accompagnarvi fuori dalla caserma. Avete un posto dove andare?»
E lo sai che non ce l’ho...cosa lo chiedi a fare?!
Ma anziché esternare il pensiero si limitò a fare un cenno negativo con la testa.
«Vorrà dire che sarete mia ospite, allora.» disse Enrique, dissimulando così l’ordine ricevuto. Dopodiché si avvicinò alla sedia e cominciò ad aprire le pesanti fibbie che chiudevano le cinghie. Silver gli fu grata di averlo fatto, e la prima cosa che fece non appena le braccia furono libere fu sfiorarsi con delicatezza il viso. Probabilmente, se fosse stata a scrivere quello che le stava succedendo e al suo posto ci fosse stato uno qualunque dei suoi personaggi, Enrique avrebbe fatto una brutta fine. Ma lei non aveva l’abilità bellica, strategica o sovrannaturale dei suoi personaggi, quindi doveva accontentarsi di quello che arrivava.
«Prometto che domattina leverò le tende alla svelta.» disse.
«E dove andreste, senza denaro e senza riferimenti?» replicò lui, svelto. «Lasciate che vi ospiti per tutto il tempo che vi servirà ad ambientarvi, poi sarete libera di andare dove vorrete.»
Strana insistenza per uno come Enrique, riconobbe la ragazza, che si chiese se non ci fosse un piano premeditato dietro.
Quale che fosse, lo avrebbe scoperto presto. Nel frattempo aveva guadagnato una via di fuga dal carcere – che era il suo obiettivo primario – e aveva intascato anche una possibilità concreta di avvicinarsi alla locanda della Volpe Bianca, quindi a Evelyne e gli altri.
Non poteva lamentarsi, visto come stavano andando le cose fino a pochi minuti prima. Non poteva proprio lamentarsi.

 

 

 

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Capitolo 4
*** | Capitolo Secondo | Libera finché sorvegliata ***


Libera finché sorvegliata
Capitolo Secondo
12 Gennaio 1811, ore 11:00 circa
Zona sud della città, quartieri della borghesia medio-bassa
 
 
Fu un’aria riprodotta al grammofono a svegliare Silver.
La ragazza inspirò a fondo l’odore di pulito che emergeva dal cuscino e si stirò come una gatta, mugolando per il piacevole tepore offerto dalle coperte. Si accorse che stava ancora stringendo il suo cellulare, che aveva spento poco prima di addormentarsi per evitare che rimanesse completamente scarico. L’aveva spento, ma aveva deciso lo stesso di tenerlo con sé, essendo comunque una tecnologia al di fuori dello steampunk.
Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu la tappezzeria marroncina che s’inerpicava fino al soffitto. Si rese conto di guardare il muro contro cui il letto era appoggiato, così si mise a sedere. Oltre la pediera del letto inquadrò il cassettone scuro e un piccolo mobile da toeletta nell’angolo della stanza, il cui specchio rifletteva la porta chiusa. Sopra il cassettone facevano la loro bella figura alcune scatole che Silver non ricordava di avere visto la sera prima. Su tutte faceva bella mostra di sé un biglietto con la scritta “Alla signorina Darkshield”.
Incuriosita, l’umana si avvicinò a passi leggeri al cassettone, quasi come se i piedi scalzi non toccassero nemmeno il pavimento. Per poter avere le mani libere infilò il telefono nella tasca degli shorts – non avendo ricambi si era buttata a letto con gli abiti del giorno prima – e si concentrò sui contenitori. Sfiorò i bordi di cartone lucido con i polpastrelli e ammirò le coccarde variopinte, poi prese con trepidazione la prima scatola e l’aprì. Era la più grossa del gruppo, e al suo interno vi trovò un lungo abito pieno di nastri, in viola.
Questo è un dettaglio che non avevo previsto, pensò con un certo sconcerto. Ma del resto non aveva previsto nemmeno che sarebbe finita a dormire nella stanza degli ospiti di Enrique dopo essere stata trasportata a Fastoon.
Aprì anche le altre scatole, immaginando cos’avrebbe potuto trovarvi, e non sbagliò di molto: in una c’erano un paio di stivali, in un’altra un cappello con dei nastri da legare sotto il mento e nell’ultima campeggiavano delle calze con giarrettiere e un corpetto.
Silver guardò quest’ultimo capo provando un misto fra l’imbarazzo e l’ammirazione. Si immaginò con il capo candido addosso e si sentì avvampare nell’immaginare qualcuno che le diceva «Quanto sei sexy, tesoro...»
Ma stiamo scherzando? Pensò, impietrita. Non posso mettermelo sul serio!
Poi però si chiese quando mai avrebbe potuto rimettersi un vero corsetto vittoriano, di quelli con le stecche di fanoni di balena.
Perché, da quando su Fastoon ci sono le balene?
Da qualche parte aveva letto che i corsetti erano accessori strettamente personali perché finivano col prendere le forme delle loro proprietarie, accentuando col tempo la forma a clessidra del busto. Da qualche altra aveva letto un commento su quanto quegli accessori fossero simbolo di grazia e femminilità.
Fatto sta che quando si guardò allo specchio e appoggiò il corsetto su di sé, pensò che in fondo non avrebbe fatto altro che aggraziare il suo fisico, che per lo spazio-tempo da cui veniva non rasentava la perfezione.
L’entrata improvvisa della cameriera le fece emettere un urlo strozzato. Si voltò di colpo, incrociando lo sguardo di una lombax di mezz’età che si spaventò del suo spavento.
«Signorina, state bene?» chiese subito.
«I-io…sì, non mi aspettavo che entrassi.» si giustificò. «Ehm…tu sei?»
«Camille, signorina. Sono la cameriera di casa.» rispose con aria affabile la donna. «Enrique mi ha detto che siete poco pratica dei nostri costumi, gradite che vi aiuti?»
«Sì, sarebbe magnifico…»
No che non lo è! Preferirei continuare a tenere i miei shorts e la mia canotta! Anche se fa un freddo cane!
L’espressione della cameriera, quando si avvicinò, si fece accigliata.
«Oh, ma cos’abbiamo qui?» domandò, afferrandole il viso tra le mani per osservarlo meglio. Quando passò le dita sulle guance, seguendo una linea che andava dalle gote fino alla curva della mascella, Silver sentì dolore e si ricordò della notte appena passata. Pensarci le fece sentire un orrendo misto di paura, rabbia e disgusto, e la cameriera se ne accorse. «Enrique me ne ha parlato – con discrezione, s’intende. Mi rincresce che un viso così grazioso sia stato ridotto in questo stato, ma penso che possiate perdonare il gesto del maggiore.»
«Stai scherzando!» sbottò Silver. «Perché ho detto la verità quello stronzo ha avuto il coraggio di prendermi a bastonate! Poi è sparito come se niente fosse successo, mandando avanti quell’altro a chiedere scusa! Come cazzo faccio a perdonarlo???»
Immediatamente seppe di aver scandalizzato la povera Camille. Da una parte per il linguaggio, dall’altra per il contenuto e la veemenza infusi nella frase; ma del resto non sarebbe riuscita a calmarsi. Già si odiava per non essere riuscita a fare niente, se poi avesse anche perdonato Ratchet così a cuor leggero avrebbe solamente accentuato il senso di umiliazione.
«Voi non lo sapete, ma i ribelli farebbero qualunque cosa pur di causare danni all’Impero. Vi hanno evidentemente invischiata senza il vostro consenso e vi hanno trascinata in qualcosa più grande di voi. La reazione del maggiore è stata brutale e disonorevole, ma dettata da un senso di diffidenza che i ribelli ci hanno innescato con il tempo.» spiegò la lombax, modulando la voce in modo che velasse il rimprovero. «È naturale che si sia comportato così; per quel che sappiamo noi gli umani non esistono più da secoli. E non potete biasimarlo: con la vostra sola presenza avete sovvertito decadi di convinzioni sociali.»
Silver guardò allo specchio i lividi violacei che le macchiavano le guance e trattenne le lacrime che premevano agli angoli degli occhi. Perdonare Ratchet senza biasimarlo...non ci pensava neanche. E di discuterne con la lombax non se ne parlava, se quelli erano i suoi punti di vista.
Su quel punto sarebbe stata irremovibile: se Ratchet voleva convincerla a non preparare un capitolo con la sua morte atroce avrebbe dovuto sudare sette camicie e umiliarsi quanto aveva fatto con lei.
Camille interpretò il suo silenzio come frustrazione e decise di passare oltre: «Venite, è pronto un bel bagno caldo. Vedrete come starete meglio dopo aver tolto gli ultimi residui della vostra disavventura...»
Così Silver fu trascinata in un piccolo bagno dove la vasca in ottone troneggiava rialzata da buffi piedi ricurvi. Di fianco si poteva vedere un grosso cilindro di ottone alto fino al soffitto, rivestito fino ad una certa altezza di porcellana, con alcuni piccoli indicatori posti a diverse altezze. Produceva un gorgoglio cupo e sommesso, quasi come se qualcuno avesse infilato una cannuccia in un bicchiere d’acqua e vi soffiasse in continuo. La ragazza si avvicinò a scrutarlo per la curiosità, e scoprì che era collegato mediante un tubo sottile al rubinetto dell’acqua calda della vasca. Altri tubi della stessa dimensione si allungavano come zampe di ragno in direzione del rubinetto del lavandino e addirittura dentro il muro, diretti chissà dove.
«Non avete mai visto uno scaldabagno, signorina?»
«Ehm...diciamo che da noi hanno altre forme...»
La sua voce era ancora arrochita dalle urla cacciate poco prima, e il tono era incerto. Sapeva di aver in qualche modo ferito la cameriera, che evidentemente teneva tanto al padrone di casa quanto al lombax della Guardia Pretoriana.
«Enrique non ha mai tempo per poter mettere a scaldare l’acqua, così è stato costretto a comprarsene uno. In effetti non è una bella visione, ma è molto funzionale.»
«Se non esplode come una pentola a pressione...» commentò scetticamente Silver. Camille si diede ad una risata.
«Esplodere? Suvvia signorina, non avete proprio nessuna fiducia nelle tecnologie moderne!» disse allegramente.
Non ne avresti nemmeno tu al mio posto, credimi.
La donna lombax aprì il rubinetto dell’acqua calda, e presto sul fondo della vasca si formò uno strato d’acqua fumante. Silver fece finta di nulla ed aprì il rubinetto dell’acqua fredda mentre la donna era girata, e nel frattempo dissimulò il gesto chiedendo: «Quindi è stato Enrique a procurarmi quel vestito?»
Camille sembrò entusiasta dell’argomento.
«Oh sì! È una persona così cara!» trillò. «Pensate che mi ha chiesto di prendervi le misure mentre dormivate, così da non sbagliarsi nell’acquisto. Anche se temo che con il corsetto sia rimasto comunque in imbarazzo.»
«E perché mai?»
Non ricordava di aver creato un personaggio tanto gentiluomo da imbarazzarsi per una cosa del genere. A dirla tutta, non si ricordava nemmeno di aver creato Camille o la casa di Enrique.
«Ma come!» la cameriera sembrò scandalizzata. «Da voi è forse costume che i mariti comprino la biancheria per le mogli?»
«Hnn, diciamo che lo fanno solo quando si sentono molto...creativi.» rispose la ragazza, guadagnandosi un’occhiata perplessa dalla cameriera. Vedendo che l’altra non aveva afferrato il concetto, aggiunse: «No, di solito nemmeno da noi si prendono l’iniziativa.»
Camille emise un rumoroso sospiro di sollievo, a indicare quanto quella risposta l’avesse rincuorata.
«Per un momento mi avete fatto preoccupare!» disse, chiudendo il rubinetto dopo che l’acqua ebbe riempito metà della vasca. «Venite che vi aiuto a lavarvi!»
«...ah, no grazie! Ce la faccio da sola...»
Ma il sorriso che accompagnò la gentile declinazione non bastò a convincere la cameriera, che la prese per le spalle e la costrinse a girarsi.
«Suvvia, non farete i capricci come i bambini!» la ammonì allegramente, sfilandole la maglia. «Che corsetto strano che indossate! Non vi da fastidio alle spalle, con quei lacci?»
«No, nessun fastidio...da noi questi sono la norma.» spiegò Silver. «I corsetti come i vostri sono usati solo come arma di seduzione.»
Di nuovo, seppe che Camille era scandalizzata e dovette cambiare discorso: «Ma hanno le stecche in fanoni di balena?» chiese innocentemente.
«Oh no, sono di scheletro di leviathan: leggero e resistente, e dopo appena una settimana prende le forme della proprietaria.» decantò la donna.
«...ah.»
Leviathan. La balena di questi posti, in pratica, si disse. Nel corso della saga videoludica aveva combattuto contro diversi – parecchi – di quelle bestie enormi. Li aveva maledetti quando l’avevano battuta e aveva goduto quando al nuovo tentativo li aveva visti accasciarsi al suolo e scomparire. Ma non pensava che lì impiegassero l’esoscheletro di quegli animali per farne corsetti. Forse ne mangiavano anche la carne? Magari ne facevano una pietanza tipica.
«E lasciatevi dire, signorina, che voi non siete affatto brutta. Con quell’abito addosso attirereste l’attenzione di più di un gentiluomo.»
Silver fece per rispondere che tanto in strada non poteva andarci, ma la cameriera riprese: «Ma di che tessuto è il vostro corsetto? È strano...sembra seta ma ha un’altra consistenza...ed è così elastico!»
La ragazza attinse al suo Sapere e si rese conto che lì non esistevano tessuti sintetici. Come glielo avrebbe detto?
«È...una tela ottenuta con processi particolari, non ti so dire come...però è davvero comoda.» improvvisò. «È un effetto collaterale del nostro sviluppo tecnologico.» aggiunse poi, con più sicurezza.
«Ma certo, dimentico che vi siete dovuti riadattare su qualche altro pianeta. Nuovi posti, nuove risorse, nuove tecnologie. E nuovi costumi, mi pare di capire.»
Di nuovo il Sapere suggerì a Silver che i suoi shorts e le scarpe a tennis non rientravano nel panorama modaiolo di quell’universo, dove mostrare le caviglie era considerato da sgualdrine. E lei metteva in bella mostra tutta la lunghezza delle gambe: cosa doveva essere considerata?
Quando si era trattato di uscire dalla 147sima, qualche ora prima, Enrique l’aveva coperta con il suo cappotto rimanendo a prendersi il freddo di gennaio. E dire che nel suo spazio-tempo era agosto, terribilmente caldo e afoso.
La cameriera, comunque, non diede segno di voler riprendere il discorso e si rimboccò le maniche. Promise di non essere troppo invasiva e così fece, limitandosi a lavarle la schiena e la testa. Erano attenzioni che Silver non riceveva da anni, e in una certa misura le fece piacere sentire Camille che la strigliava canticchiando un motivetto allegro.
Poi la avvolse in teli messi a riscaldare contro lo scaldabagno e le asciugò i capelli con minuzia, pettinandoli spesso. Ci volle quasi un’ora per ottenere l’effetto voluto dalla cameriera, ma alla fine Silver si ritrovò acconciata con un gibson roll, semplice ed elegante, e si rese conto che un effetto del genere da sola e senza phon non lo avrebbe mai ottenuto.
«Sei bravissima...» commentò, osservando il suo riflesso sullo specchio del lavabo. «La mia parrucchiera manco ti allaccia le scarpe.»
«Oh, non dite sciocchezze. È il minimo che si debba saper fare per mantenersi in ordine.» si schermì. «Aspettatemi, vado a prendere i vostri abiti e ritorno.»
Silver annuì, e nell’attesa andò a sedersi sul coperchio del water. Lo scaldabagno, oltre a fare da boiler per l’acqua, emetteva anche il calore sufficiente a riscaldare l’ambiente raccolto della stanza.
Chissà che caldo che deve fare, d’estate.
In realtà sapeva che non faceva poi così caldo nella bella stagione.
Grugnì di disapprovazione, perché per l’ennesima volta il Sapere era venuto fuori senza che lei lo avesse interpellato. Camille rientrò con tutto il vestiario in una scatola e un sorriso inquietante in volto.
«Avanti signorina, è ora di vedere se il viola vi dona come promette.»
 
Quando scesero al pian terreno dell’abitazione, a Silver non parve vero di essere sopravvissuta alla vestizione. Il corsetto sembrava fatto apposta per far vomitare gli organi interni, tanto era stretto, gli stivali stringevano i piedi e con l’abito che frusciava a mezzo centimetro da terra si sentiva incerta a muovere ogni passo. Certo, aveva scoperto una piccola tasca segreta dove poter nascondere il cellulare, però dovette girare più volte le maniche attillate affinché non tirassero troppo e per le scale dovette tirarsi su la gonna, o sarebbe inciampata ad ogni gradino. Quell’abito era bello, ma non era affatto comodo. Tuttavia, quando entrarono nel salotto ed Enrique si alzò rispettosamente in piedi, Silver si sentì bella.
«Signorina Darkshield...» salutò cortesemente il cazar.
«Ciao Enrique.»
«Venite, accomodatevi.» e indicò la sedia di fronte alla sua nel tavolino ovale. La ragazza si avvicinò e lui le scostò la sedia, permettendole di sedersi più agevolmente. Non abituata a tanta attenzione Silver si sentì in imbarazzo, tuttavia il lieve rossore fu mascherato dai lividi.
«Spero che Camille non sia stata troppo invadente. È una persona bravissima, ma alle volte...»
«Stai scherzando! È stata davvero un’ottima compagnia. E grazie per i vestiti.»
«Quelli? Considerateli un regalo del maggiore Ratchet, signorina. Io mi sono limitato ad essere un esecutore materiale.»
...ah. Ridatemi shorts e canotta, allora! Non li voglio se vengono da quello stronzo!
«Spero che abbiate dormito bene stanotte.» disse poi il cazar, cercando di intavolare una discussione.
«Oh sì, non ti preoccupare. Piuttosto, mi stupisce che né tu né Camille mi facciate domande sul mio mondo. Da dove vengo, come vivo, quali sono i nostri usi e costumi...»
«Sarebbe magnifico se voleste parlarne. Ma non vi provocherà nostalgia?»
«Nostalgia? E perché mai... - »
Ci arrivò da sola alla risposta: perché non aveva la più pallida idea di come poter tornare a casa. Di colpo il suo volto s’incupì, mentre lei pensava a quanto fosse stata idiota a dare retta ad Evelyne. «No, hai ragione. Scusami, ma è meglio se non ne parlo.»
Enrique annuì, accondiscendente.
«E...senti, vorrei che mi dicessi una cosa. Senza dire bugie, intendo.» proseguì la ragazza. Questo suo nuovo atteggiamento prese in contropiede il cazar, che annuì ma senza convinzione.
«Dipenderà dalla domanda che mi farete.»
«Cos’avete confabulato ieri sera tu e quell’altro? Cos’avete deciso di fare di me?» di fronte allo sguardo sorpreso di Enrique, Silver si sentì in dovere di aggiungere: «Perché il vostro atteggiamento nei miei confronti è cambiato troppo in fretta, e mi sembra strano che quell’altro se ne sia andato firmando le carte della mia liberazione dopo l’interrogatorio...e adesso mi fa mandare anche dei vestiti nuovi e le sue scuse. Non ha senso! Non ci credo che lo fa solo perché è dispiaciuto!»
La sua parte onnisciente in realtà lo sapeva, il perché, ma la sua parte razionale voleva una conferma.
Enrique, dal canto suo, si sentì letteralmente messo all’angolo dalla sua coscienza.
«Signorina, a prescindere da quello che accadrà voglio che sappia che non mi da alcun fastidio averla ospite in questa casa. È dovere di ciascun buon cittadino accogliere parenti o conoscenti all’arrivo da un lungo viaggio.» disse, prendendo il discorso un po’ alla larga per affrontarlo al meglio.
«Ma io per te non mi posso classificare nemmeno come conoscente...»
«La vostra storia è un capitolo a parte, signorina Darkshield, per questo vi chiedo di approfittare della mia disponibilità finché ne avete l’occasione. Al di là del fatto che, come avrete capito, ospitarvi qui è un ordine diretto del maggiore, dal mio punto di vista è un modo per dimostrarvi che non siamo tutti rozzi e crudeli, e sinceramente non mi sentirei in pace con me stesso se vi lasciassi in strada sapendo che qui non avete nessun posto dove stare.» replicò pacatamente il cazar, mettendo così a tacere la sua coscienza. «Quanto al resto, per quanto non ritengo che sia il momento opportuno per parlarne, non ho nemmeno la possibilità di tacere su cosa vi sarà riservato.»
Silver pendeva letteralmente dalle sue labbra.
«E sarebbe?»
«Potreste diventare un anello molto importante della catena della nostra storia, signorina. Tra una decina di giorni arriverà l’Imperatore a nominare un nuovo governatore, e se il maggiore otterrà il permesso vi introdurrà alla sua corte.»
Tachyon! pensò Silver, allarmata. Quante volte lo aveva maledetto, durante le partite al videogioco? Mille? Un milione? E stava per essere introdotta proprio alla corte di quel piccolo nano tronfio.
La notizia la lasciò a bocca aperta.
«Stupita, signorina?» domandò Enrique. «Ovviamente non c’è nulla di certo, ma voi potreste davvero rappresentare una svolta per l’Impero. Pensate a una riconciliazione fra il vostro popolo e il nostro...non pensate che sarebbe magnifico?»
Il sorriso sincero del cazar mise in difficoltà l’umana. Non poteva di certo dirgli come stavano davvero le cose, conoscendo la smania di conquista dei cragmiti. Se fossero riusciti a organizzare le cose per raggiungere il suo spazio-tempo, le cose si sarebbero messe male. Molto male.
«Beh, non so se...se sia il caso, ecco.»
«E perché mai?»
Silver improvvisò ancora una volta: «Da noi si dice che l’Impero ci ha resi una fenice: ci ha uccisi, ma ci ha fatto rinascere liberi. Dopo quello che è già successo dubito che i capi di stato accetterebbero mai di unirsi all’Impero.»
«Forse è passato troppo poco tempo, ma ritengo che valga la pena tentare...»
«Ma io non voglio andare da lui! E se il vostro imperatore non volesse saperne di me? Se desse l’ordine di cavarmi le informazioni su dove si trova la Terra e poi uccidermi?»
Altra eventualità possibile, considerato chi era l’imperatore. Quella per Silver era una prospettiva ancora più cupa del doversi fare ambasciatrice tra il cragmita e un popolo inesistente. Ma Enrique vedeva le cose da un altro punto di vista e le rivolse un sorriso incoraggiante.
«E a che pro?»
«Boh. Intrighi politici, vattelappesca.»
La risposta colse di sorpresa il cazar, che reagì soffocando una risata.
«Signorina, lasciatevi dire che la vostra mente è davvero fantasiosa.» commentò. «E l’intercalare è molto originale. Usa molto dalle vostre parti?»
«Lascia stare! Sto parlando sul serio: come faccio a sapere che, vedendomi, non tiri fuori una pistola e mi uccida?»
L’altro tornò serio.
«Su, signorina, non vi crucciate. Di sicuro non rinuncerà all’opportunità che voi rappresentate. Piuttosto, stavo ragionando su come potremmo ingannare il tempo nell’attesa del pranzo e poi anche in quella che il dottore arrivi a visitarvi. Avete qualche desiderio?»
«Temo che non sia realizzabile...»
«Perché?»
«Perché visto che sono qui, vorrei visitare la città.»
L’espressione cordiale di Enrique si gelò per un istante.
«Avete ragione, signorina Darkshield, temo che non sia possibile. La giornata è impegnata, ma non è detto che nei prossimi giorni non potremmo uscire a visitare i quartieri cittadini.» mediò, ottenendo che il morale di Silver risalisse alla velocità della luce.
«Davvero?»
«Certamente.» asserì il cazar. «Dopotutto dovete ambientarvi, se dovrete riportare le condizioni di vita dell’Impero.»
Per tutti i santi! pensò la ragazza. Portami alla Volpe Bianca, ti prego!
* * * * * *
Ore 16:00 circa
Quartieri della media borghesia, locanda della Volpe Bianca
 
 
Le campanelle sopra la porta della locanda tintinnarono. Evelyne non si voltò nemmeno, presa com’era dal non far cadere la pila di piatti che portava in mano.
«Siamo spiacenti, ma la locanda è chiusa...»
«Anche per un vecchio amico assetato?»
La giovane lombax riconobbe subito la voce e cambiò tono all’istante.
«Oh ciao, Clock! Accomodati pure nel retro, io appoggio i piatti e arrivo!» trillò. Il nuovo arrivato, un lombax sulla trentina, dal pelo color betulla e gli occhi scuri, si tolse la bombetta e si avviò dove indicato. Passò oltre il bancone, attraversò un corto corridoio ed entrò in un salotto microscopico ma ben arredato. Pizzi e trine pendevano da ogni mobile, e i vetri erano lucidi. Una volta in camicia e gilet, si sedette su una poltrona ed attese che Evelyne lo raggiungesse, cosa che accadde poco dopo.
«Alcolico o molto alcolico?» chiese allegramente, posando un vassoio con diversi tipi di liquori sul tavolino.
«Decisamente forte, mia cara: dobbiamo festeggiare la riuscita del tuo piano, no?»
Il viso della giovane si incupì. Come al solito, gli occhi si fecero più scuri e spenti di quello che erano.
«Evelyne?» chiamò Clock, sporgendosi in avanti. «Qualcosa è andato storto? Io ho visto solo che le macchine si sono attivate, quindi ho pensato che il piano fosse riuscito.»
«È riuscito.» rispose senza inflessioni la giovane. «Ma la Creatrice si è materializzata al carcere.»
La notizia colpì l’uomo, che capì immediatamente cosa significasse.
«Pensi che gli imperiali sappiano chi sia?»
«È un’umana, Clock. Tanto basta perché la uccidano sul posto.»
«Con l’evasione di Alister di cui preoccuparsi? Non credo proprio.»
In quel momento le campanelle sulla porta tintinnarono di nuovo. Il rumore della gamba sbuffante di Roger li raggiunse e la ragazza sparì di nuovo nel locale per aiutare il vecchio. Quando ricomparvero, l’anziano lombax si sedette lamentandosi per gli acciacchi.
«Oh Clock, ragazzo mio, perdona le mie farneticazioni.» disse quando si accorse della presenza dell’altro.
«Figurati, Roger. Quando il corpo si fa sentire è giusto esternare.» replicò cordialmente lui.
«Sai, proprio a te pensavo.» proseguì il vecchio. «Tua sorella Madeleine che dice? Se la caverà Alister?»
Dopo la fuga, la banda guidata da Kaden si era rifugiata nei depositi sotterranei di una vecchia acciaieria. Quello stabile era relativamente vicino alla casa dove abitavano Clock e Madeleine, che lavorava come medico all’ospedale intitolato all’imperatore Tachyon I.
«Il generale avrà bisogno di una gamba nuova dal ginocchio in giù, purtroppo.» riferì Clock. «Gli imperiali l’hanno conciato davvero male, per quanto il laccio emostatico che gli hanno messo i nostri probabilmente gli ha salvato la vita.»
«Ah, capisco.» rispose il cuoco. «Ma se conosco Alister, tra poco sarà di nuovo all’attivo. E una gamba nuova di zecca non gli cambierà niente, tranne forse renderlo meno avventato. Con tutti i rumori che fanno!»
L’ultima frase fece ridere tutti e tre.
«Piuttosto, Evelyne, hai più avuto premonizioni sulla Creatrice?» domandò Roger.
«No, purtroppo.» rispose lei a capo chino, portandosi le mani fra le ginocchia. «Mi dispiace.»
«Hai avuto modo almeno di parlare con Kaden?» domandò Clock. La giovane annuì.
«Sì, ieri sera. Mi sono trattenuta troppo poco per sapere come stesse Alister, ma abbastanza da parlare con Kaden.»
«E cosa ti ha detto?»
«Prima ha imprecato, poi ci ha fatto i complimenti. Infine ha dato ordine che, finché non ho una premonizione sulla sua sorte, non ci si muova.»
Clock annuì.
«Giusto. Con tutto il polverone che hanno alzato, adesso è bene essere prudenti.» convenne.
«Ti fermi a cena qui?» domandò Roger. «Stasera verranno sicuramente molti funzionari della 147sima, e se ci fai il favore di cercare di captare quel che si dice sulla Creatrice, ti diamo la cena gratis.»
«Vorrei proprio, ma devo badare al piccolo Timmy.» si giustificò l’uomo, alludendo al nipotino. «E questo mi rimanda all’altro motivo per cui sono venuto qui. Timothy va matto per la tua zuppa gialla; me ne potresti preparare un po’? Stasera sono da solo in casa con lui, e la mia cameriera ha lasciato il pasto pronto solo per me.»
«Ma certo che te la faccio.» rispose il vecchio. «E la metto sul conto di tuo cognato, già che ci sono.» aggiunse allegramente, facendo ridere l’altro.
«Grazie, sei un vero amico. Non so come avrei fatto, sennò!»
«Avresti accettato l’invito di Roger, lo avresti portato qui e avresti ottenuto la cena gratis per due.» rispose allegramente Evelyne.
«Ah ah! La prossima volta, magari. Timmy ripete troppo le frasi dei suoi genitori, immagina che scandalo sarebbe in mezzo ad una sala piena di imperiali.»
«Oh per l’amor del cielo!» esclamò il vecchio. «La locanda mi serve ancora, non posso chiuderla! Faremo un’altra volta, allora.»
«Sicuro. Domani sera sono di turno, ma se per voi va bene dopodomani sono libero.»
«Allora dopodomani verrai qui alle sette, ti scroccherai una cena coi fiocchi e farai il pieno di notizie.» decretò Evelyne. «Ci contiamo, Clock.»
«E vedrai che non ci deluderà.» concluse Roger, alzandosi con uno sbuffo della protesi. «Adesso vado a preparare la zuppa a quell’adorabile peste.»
* * * * * *
Ore 16:30 circa
Quartieri della borghesia medio-bassa, casa di Enrique
 
 
«No, signorina, il re non può muoversi per più di una casella.»
Silver emise un lungo sospiro.
«Avanti, provate a ripetere la sequenza.»
Enrique era senza dubbio un insegnante paziente, ma la ragazza non pensava che intendesse sottoporla ad una prova di memoria quando le aveva proposto di insegnarle a giocare a scacchi.
«Allora...questo è un pedone.» e indicò il piccolo pezzo di legno. «Ce ne sono otto, si muovono solo di una casella e mangiano in diagonale. Poi c’è la torre, che si può muovere quanto vuole avanti e indietro o di lato. Il cavallo si muove a “L”, due caselle in avanti e una di lato. È l’unico pezzo che può saltare gli altri. L’alfiere è simile alla torre, ma si muove solo in diagonale. La regina viaggia in lungo e in largo, avanti e indietro, di lato e in diagonale. Il re, invece, si muove come la regina ma una casella per volta
«E non due come avete detto prima, giusto.» replicò lui. «Adesso potete dirmi in che ordine si schierano i pezzi?»
La ragazza sospirò di nuovo e si concentrò sulla scacchiera fra lei e il cazar.
«La fila davanti sono tutti pedoni.» disse incerta. «Dietro, da sinistra a destra, ci sono la torre, il cavallo, l’alfiere, il re, la regina, l’alfiere, il cavallo e la torre.»
Alzò lo sguardo, e le bastò incrociare la faccia sconsolata di Enrique che diniegava lievemente per capire che aveva sbagliato ancora una volta.
A quel punto Silver si lasciò cadere all’indietro, contro lo schienale della poltrona.
«Ci rinuncio.» decretò guardando la scacchiera con l’intenzione di polverizzarla. Perché, se aveva il Sapere, non riusciva a posizionare gli scacchi sui quadrelli? Cos’era, un’onniscienza che funzionava a modo suo?
«Riprovateci, piuttosto.» la esortò il cazar. «Possono sembrare noiosi, e indubbiamente all’inizio lo sono, ma gli scacchi sono il gioco di strategia per eccellenza. Che ambasciatrice sareste, se non riusciste a guardare più in là della mossa successiva dell’avversario?»
«Ti ho già detto che le probabilità di successo sono praticamente nulle...» replicò scetticamente la ragazza.
«Perché non provate a disporre i pezzi mentre elencate lo schieramento?» domandò Enrique, ignorando il commento di Silver. «Forse la pratica vi mostrerà dove sbagliate.»
La ragazza invocò silenziosamente aiuto, e in quel momento si udì il campanello di casa. Camille si precipitò ad aprire la porta e dopo alcune brevi frasi di cortesia accompagnò l’ospite in salotto.
«Signore, è arrivato il dottor Saak, per conto del maggiore Ratchet.» annunciò prima di farsi da parte e far entrare il medico, un cazar di mezza età avvolto in una spessa giacca scura. Enrique si alzò immediatamente in piedi, seguito a ruota da Silver, e dopo i saluti si accomodarono di nuovo sulle poltrone. Saak lasciò cilindro e cappotto a Camille per poi sedersi di fronte a Silver, sulla poltrona di fianco ad Enrique. La ragazza notò che il medico aveva una protesi sbuffante all’avambraccio sinistro, che si muoveva agilmente quanto il destro. Il Sapere le suggerì che era una protesi automatica, di quelle moderne collegate ai nervi del paziente, e le suggerì anche che nella mano artificiale conteneva un numero tale di bisturi e altri attrezzi da poter competere con Edward Mani di Forbice.
«Dunque» cominciò Saak. «Il maggiore mi ha caldamente invitato alla segretezza circa questo incontro, potete spiegarmi perché?»
Enrique gli mise una mano sulla spalla e parlò come se stesse illustrando una nuova tecnologia: «Signor Saak, vi invito a osservare con attenzione la paziente.» disse enigmaticamente indicandogli Silver con un cenno dell’altra mano.
Il medico, pur controvoglia, eseguì. Puntò il suo sguardo duro su Silver, facendola sentire simile ad un batterio sul vetrino del microscopio.
«È un’umana.» commentò infine, senza far trasparire alcuna sorpresa.
«Infatti.» disse il padrone di casa. «È la prima umana che mette piede a Fastoon dai tempi di Tachyon IV. Potete fare qualcosa per il suo viso? Temo che il maggiore sia stato meno delicato del solito con lei.»
«Vedo. Di solito non alza le mani sulle signore.» rispose seccamente. «È stato un eccesso di diffidenza o la fatica della giornata di ieri a indurlo ad un’azione del genere?»
«Non ne ho idea, purtroppo.»
«Hn, tanto non cambia i risultati.» il medico si alzò e si avvicinò a Silver. Le osservò il volto, poi le pose due dita sotto il mento e le alzò il viso. Glielo fece ruotare in ogni angolazione possibile e le tastò i lividi valutando le reazioni della ragazza.
«Scusate la domanda, signorina, ma questi sono gli unici danni che il maggiore vi ha provocato?»
«Tzé! Lo dici come se non fosse niente...»
«È una domanda di rilevanza medica. Se non ci sono altri danni vi prescrivo quanto devo e me ne vado.»
«Non ci sono altri danni, no.» confermò Silver.
«Bene. Fa piacere saperlo.»
Non si sarebbe detto dal suo tono ruvido, ma il Sapere suggerì a Silver che, in effetti, l’uomo davanti era piuttosto competente in campo medico. Seppe anche che aveva una moglie che lo tradiva e due figli, una casa ampia nel quartiere dell’alta borghesia e uno slugha goloso di ciambelle.
Sì sì, il mio Sapere lavora come gli pare. Che me ne frega se questo ha uno slugha?
Tornò a concentrarsi sulla discussione in casa.
«...uscire? Enrique, ve lo sconsiglio vivamente. Un viso come quello della signorina si noterebbe subito nella folla.»
«Ma voi non lo avete notato.»
«Solo perché ero concentrato sui lividi per badare ai lineamenti.»
«Se la signorina indossasse un cappello che le coprisse almeno le orecchie? Voi che dite?»
«Uno di quelli in voga tra le donne kerwaniane indubbiamente vi aiuterebbe a confonderla meglio. Ma la forma fisiognomica del naso è inconfondibile.» obiettò il medico. «Date retta a me e tenetela chiusa in casa. Non potrà farle che bene.»
«Ma anche no!» protestò Silver. «Stare chiusa in casa? Io voglio vedere, girare, conoscere!»
«Signorina, non siate capricciosa. Nelle vostre condizioni non è proprio il caso.» sentenziò Saak.
«Ma così sarà esattamente come stare in prigione, solo che sarà una prigione con le coperte morbide e un bagno caldo al giorno!»
Il medico affilò lo sguardo.
«E allora siate grata che non sia la prigione della 147sima.» replicò in tono definitivo. Poi si voltò verso l’altro uomo. «Enrique, date retta a me e non fatevi impietosire. Adesso devo proprio andare; tra quanto vi potrò rivedere in caserma?»
«Due settimane, dottor Saak. Ci rivedremo tra due settimane.»
Il medico fece un cenno del capo ad Enrique ed uno a Silver, quindi si avviò all’uscita. Camille lo aiutò a rivestirsi e gli aprì la porta.
«Se non lo conoscessi oserei dire che è una fortuna che se ne sia andato.» commentò il padrone di casa una volta che il portone fu chiuso. «Quell’uomo è davvero di vecchio stampo.»
La ragazza trattenne un commento affilato e spostò lo sguardo sul tavolino, dov’era comparso un foglio manoscritto vicino alla scacchiera. La calligrafia fortemente inclinata era difficile da leggere, ma il foglio era indubbiamente una ricetta medica. Enrique attese che Silver lo rimettesse sul tavolo prima di prenderlo a sua volta e porgerlo a Camille.
«Camille, so che è tardi, ma potreste andare a reperire questi medicinali all’ospedale?» chiese.
«Ma certo.» rispose la cameriera. «Avete una preferenza?»
«Ma no, state tranquilla. Basta che riusciate ad ottenere quelle medicine, poi va bene un qualunque ospedale.»
Camille annuì rispettosamente e si diresse all’uscita della casa, ubbidiente. Una volta soli, Enrique accennò con una mano alla scacchiera.
«Bene, dov’eravamo rimasti?»
Le spalle di Silver si abbassarono di colpo.
Qualcuno mi dia una lametta, per favore!

 

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Capitolo 5
*** | Capitolo Terzo | Le parti in gioco diventano tre ***


Le parti in gioco diventano tre
Capitolo Terzo
14 Gennaio, ore 19:00 circa
Quartieri della media borghesia, locanda della Volpe Bianca
 
 
Ad accogliere Clock nella locanda ci pensò una Evelyne eccezionalmente allegra. Il giovane si spiegò il suo cambio d’umore dicendosi che doveva essere successo qualcosa d’incredibile, e allargò un sorriso caldo in direzione di quegli occhi vivaci. Si accorse che, per l’occasione, aveva lasciato che due ciocche di capelli biondi le incorniciassero il volto anziché essere raccolte nella solita crocchia.
«Ehi, è successo qualcosa?» domandò, mentre lei lo accompagnava al tavolo che gli avevano riservato. «Stasera sembri davvero in vena di festeggiare.»
«Oh, è così! L’ho vista, Clock!» rispose Evelyne. «È straordinario! Devo assolutamente parlarne agli altri!»
Il giovane lanciò uno sguardo tutt’attorno, nella sala che cominciava a riempirsi. C’erano diverse divise nere presenti e ciò lo allarmò.
«Certo, certo...ma non sarebbe meglio parlarne più tardi?» disse a bassa voce. Evelyne si accorse dell’errore ed abbassò il tono, imbarazzata.
«Mi accompagni, dopo?» chiese, facendo fatica a trattenersi.
«Ma certo, sarà un piacere.»
Roger, che si era sporto dalla cucina per chiamare la ragazza, al vedere la scena sbuffò con aria divertita.
Giovani. Hanno troppa energia!
 
La serata trascorse abbastanza tranquillamente all’interno del locale. Al tavolo vicino al suo due funzionari parlavano dell’improvvisa assenza di un loro collega, tale Enrique Beauford, commentando che fosse strano vista l’inclinazione stacanovista del cazar. Uno dei due ipotizzò addirittura che gli fosse venuto un colpo per il troppo lavoro, l’altro gli rispose che più probabilmente si era ravveduto sulla vita sociale. Ma fu l’ipotesi ventilata subito dopo che richiamò l’attenzione del lombax: «Magari è scappato con la markaziana di due giorni fa.»
«Quella che è apparsa nel cortile all’improvviso?»
«Ho sentito che Yerzek ha mandato lui a interrogarla, e già l’altroieri mattina non c’erano né lui né lei. Lo trovo piuttosto strano, tu no?»
«Io ho sentito che è stato il maggiore Ratchet a farla rilasciare.»
«Davvero? Smithers dice che è apparsa dal nulla, non è un po’ troppo sospetto per rilasciarla subito?»
«Mah, lo sai che il maggiore non è del tutto...presente, a volte.»
Dopodiché la conversazione cadde nel fantasioso e finì per tornare ai danni causati dalla fuga di Alister Azimuth. Clock si diede al suo piatto con la solita scarsa attenzione, ma stavolta dovuta alla convinzione che avesse appena pescato un’informazione preziosa.
Alla fine della serata, Evelyne ottenne il permesso di uscire senza effettuare il solito giro di pulizie, visto che aveva lavorato più alacremente del solito e smaniava per poter andare. Clock l’aiutò ad indossare il cappotto e le assicurò che i capelli fossero a posto prima di lasciare la Volpe Bianca.
 
Camminarono fianco a fianco finché non sbucarono in Kerwan Street, la via principale del quartiere residenziale. Clock porse il braccio ad Evelyne, che lo accettò senza discutere. Non si poteva mai sapere se c’erano dei runners in ascolto, e passare per una coppia avrebbe reso molto più improbabile che le loro conversazioni fossero origliate.
I runners erano arrivati venticinque anni prima, quando Fastoon era stato assoggettato all’Impero. Il loro nome ufficiale era Reepor Runners, e in teoria erano semplici poliziotti. In pratica, però, erano soldati camuffati con un’altra divisa. Non era raro che il loro manganello nascondesse una lama a scatto, per quanto la legge lo vietasse, ed era ben nota la violenza con cui si accanivano su coloro che giudicavano criminali.
Sapere di condividere la strada con loro aveva sempre incusso in Evelyne un profondo senso di timore sin da quando era bambina, quando Roger la metteva in guardia dicendole «Che se non stai attenta loro ti prendono e ti fanno sparire!». Quando lo aveva confessato a Clock, un pomeriggio mentre stavano affrontando proprio Kerwan Street, lui aveva fatto finta di nulla e le aveva porto il braccio. Si era giustificato dicendo «Così non desteremo sospetti.» e da allora era diventata la loro copertura ufficiale. Quella sera, però, sarebbe stata da aggiungere alla lista delle volte in cui erano stati fermati.
La strada era ingombra solo di qualche carrozza e pochi passanti, e i senza tetto si riparavano negli anfratti delle strade vicine, gettando ombre inquietanti alla magra luce dei lampioni. Clock ed Evelyne camminavano sul marciapiede di sinistra, parlando dei fiori più adatti per un bouquet. Conoscendo le difficoltà dell’amico, la ragazza lo stava consigliando sulla composizione più indicata da presentare alla sua fidanzata. Il discorso era quieto e allegro, ma l’aria gelò immediatamente non appena si accorsero del mezzo scuro fermo all’incrocio con Cobalia Street. Due runners infreddoliti li stavano puntando con lo sguardo, ed era chiaro che li avrebbero fermati. Evelyne gemette per il disappunto.
«Tranquilla, andrà tutto bene.» sussurrò l’altro per rassicurarla. Quando furono vicini, il runner più anziano alzò la mano nel tipico ordine di fermata. Com’era accaduto in passato, prima rivolsero un cenno di saluto alla ragazza e poi si rivolsero a Clock.
«I vostri nomi.» ordinò il runner più anziano, sfoggiando un’arroganza consumata.
«Clock Evans; e lei è la signorina Evelyne Taylor.»
Nelle mani del runner più giovane comparve un taccuino e i loro nomi vennero annotati.
«Datemi le vostre piastrine.»
Evelyne si aggrappò con più forza al braccio dell’amico. Non aveva bisogno di fingere per mostrarsi intimidita. Non avevano mai chiesto le loro piastrine in precedenza.
«Messere, con il vostro comportamento state turbando la signorina.» protestò Clock con risolutezza. «Possiamo sapere il motivo di questa condotta brutale in mezzo alla strada?»
«Ringraziate i vostri beneamati ribelli se ora siete qui.» replicò aspramente il cragmita. «Il livello di allerta è aumentato, e questi controlli così conturbanti non sono altro che un modo per evitare che quei cani non si infiltrino tra la popolazione leale a sua maestà. E adesso datemi le vostre piastrine.»
Quando un pianeta veniva annesso all’Impero, a tutti i suoi abitanti venivano date delle piastrine da portare sempre con sé. Erano una sorta di carta d’identità metallica da appendere al collo o cingere al polso a mo’ di braccialetto, e perderle comportava il pagamento di una multa salata. Sopra c’erano incisi alcuni dati essenziali della persona, ed erano fatte di una lega segreta che mai nessuno fino a quel momento era riuscito a contraffare. Per valutare se la lega fosse quella vera, quando Clock ed Evelyne consegnarono le rispettive piastrine, il runner più vecchio le appese al gancio di un macchinario di medie dimensioni posto sulla vettura.
Il gancio faceva cadere i monili tra due sfere d’ottone ricoperte da filamenti di rame, i quali si inoltravano nei cilindri che sostenevano le sfere. Quando il runner mosse in contemporanea due leve, un ronzio cupo provenne dalle sfere. Dopo alcuni secondi la mano del runner si spostò su una manopola e a poco a poco aumentò l’intensità del ronzio. Clock ed Evelyne videro il metallo farsi di una cupa sfumatura verde, poi assumere i toni del viola. Durò sì e no trenta secondi, poi il runner rese loro le piastrine grugnendo qualcosa di somigliante a una frase di scuse. I due giovani lasciarono il crocevia e imboccarono Cobalia Street verso nord, scossi ma soddisfatti.
«Non sapevo che usassero un macchinario del genere per valutare le piastrine.» ammise il tecnico, una volta che furono a distanza di sicurezza. «Quando ci requisiscono le piastrine al lavoro, non ci permettono di guardare.»
«Hai mai visto un macchinario del genere?» chiese la ragazza.
«Dev’essere un emettitore di onde di qualche tipo.» ipotizzò lui. «È il primo che vedo, ma non ci giurerei che al centro di sviluppo non ce ne sia qualcun altro.»
Arrivarono alla fine di Cobalia Street ed entrarono in un vicolo che li condusse nell’area industriale stretta fra la zona militare e il centro cittadino. Quella zona era l’area esterna più simile ad Undertown: tutta un groviglio di vicoli maleodoranti dove i barboni si riscaldavano attorno al fuoco nelle latte. Urina e petrolio impestavano l’aria in egual misura, assieme al latrato dei cani. Inoltrarsi nelle Dark Alley non era piacevole né sicuro, ma era un passaggio obbligatorio per raggiungere la vecchia acciaieria.
Alla fine uscirono in una piazzetta squadrata. Davanti a loro c’era un muro lungo con un unico portone tenuto appena meglio del resto: Clock bussò due volte ed aggiunse un terzo colpo più forte. Una manciata di secondi dopo si aprì una fessura ad altezza d’occhi e una coppia di lucenti iridi azzurre si affacciò.
«Messere, il Decimo ci ritiene pezzenti e ci ha cacciato.» disse Evelyne.
«Il Decimo è solo un cragmita tronfio.» rispose l’uomo al di là della porta.
«Pagherà ogni colpa, statene certo.» completò la ragazza. Dopo aver enunciato l’ultima frase della parola d’ordine, i due sentirono gli scatti di una fila di chiavistelli e poco dopo entrarono nell’edificio. Il lombax che li aveva accolti, dall’accecante vello bianco e grigio, salutò Clock e abbracciò Evelyne subito dopo averli fatti entrare.
«È bello vedervi!» disse accompagnandoli attraverso i sotterranei della vecchia acciaieria.
«Reginald, alla Volpe ci mancano le tue risate.» disse la ragazza. «Quando esci dalla reclusione?»
«Appena il grande capo ci da il via libera.» rispose lui. «Il colpo di Azimuth è stato senza dubbio grandioso, ma uscire adesso non è esattamente furbo.»
«Grandioso? Non si parla d’altro!» esclamò Clock.
I tre entrarono in un magazzino minore dell’ex acciaieria. Era uno degli ambienti più piccoli, dove si conservavano le carpenterie. Sulle scaffalature al muro c’erano ancora i grossi contenitori pieni di viti, ribattini e rivetti di tutte le misure. A terra c’erano grossi teli ripiegati e ovunque si poteva vedere uno spesso strato di polvere. La corrente elettrica era presente ed il posto era illuminato meglio dell’esterno, anche se in quella sala le luci erano state fasciate per evitare che fuori si accorgessero che l’impianto era in funzione.
Reginald guidò gli altri due ad una sala più interna dove Sacha e Tarx giocavano a carte. Il primo era simile a Reginald, anche se aveva gli occhi di due colori diversi, mentre il secondo era un cazar piuttosto massiccio.
«Ehi, galantuomini, abbiamo compagnia.»
I giocatori alzarono gli occhi e li salutarono allegramente.
«Menomale che si vedono visi nuovi. Non avete idea della tristezza che mette vedere Sacha tutti i giorni.» commentò Tarx.
«Ma se siete qui da tre giorni!» protestò Evelyne.
«Questo la dice lunga sulla tristezza che mette, no?»
La ragazza ridacchiò.
«Piuttosto, ditemi che avete delle sigarette. Non ne posso più di fregarle a Nencer.» proseguì il cazar.
«Veramente è Nencer che non ne può più di vedersele rubare da te.» precisò Sacha, incolore.
«Le prime parole vere che ti sento dire.»
All’ingresso della sala comparvero Nencer e Kaden. Appoggiandosi a braccia conserte contro la scaffalatura che faceva da porta, il selker dal pelo bianco aggiunse: «Ci chiedevamo cosa fosse questa cagnara.»
La ragazza non si fece pregare e si affrettò a dire: «Ho avuto un’altra visione. Ho visto la Creatrice.»
«Ma è grandioso! Dai, che forse riusciamo a far girare qualcosa per il verso giusto!» commentò Reginald mentre Clock, non visto, passava un pacchetto di sigarette a Tarx. Il cazar si fece svelto a far sparire il pacchetto in tasca.
«Ma anche con la fuga non ce la siamo cavata male.» obiettò Tarx.
«Infatti ora non ci da la caccia nessuno.» asserì sarcasticamente Nencer. Evelyne notò che Reginald si fece di colpo serio. Tarx lo vide serrare i pugni.
«Quantomeno abbiamo portato la coda a casa.» replicò a difesa del loro informatore. «Vedila così.»
«Oh, certo. Questo è irreplicabile.» commentò il selker, alzando le mani in segno di resa.
«Giusto. Siete tutti interi, siatene felici.» commentò Clock. «E Alister come sta?»
«Giusto, c’è stato qualche miglioramento rispetto a due giorni fa?» rincarò Evelyne. Il lombax dagli occhi dispari si strinse nelle spalle.
«No, nessuno.» rispose scuotendo la testa.
«Madeleine è con loro anche adesso, ma il generale è messo male comunque. Ci vorrebbero delle cure migliori...» tentò di spiegare Reginald.
«O almeno un medico che ci sia sempre, non uno che viene quando può.» commentò Nencer.
«State dicendo che mia sorella è incompetente?» s’inalberò Clock, guardando minacciosamente i due.
«Per carità, Madeleine è bravissima.» si spiegò il selker. «Ma il punto è che lei da sola non basta e noi siamo immobilizzati qui, totalmente incapaci di muoverci. Se ci pescano in questo posto con Azimuth siamo come dei topi in trappola, e allo stesso modo se anche si riuscisse a impiantare una protesi al generale, poi c’è la fase della ripresa da affrontare.»
«E Alister è l’osso più duro di tutta la ribellione, sono sicuro che ce la farà in tempi brevi.» la voce tranquilla e autorevole di Kaden mise fine al discorso. «Evelyne, è un piacere vederti. Clock, grazie per averla scortata.»
«Figurati. È stato piacevole come al solito.»
Kaden annuì e passò lo sguardo sui presenti.
«Immagino che ci siano delle novità di cui discutere. Venite, parliamone prima in privato.»
 
Il lombax li accompagnò in un altro magazzino minore che odorava ancora di solventi.
«Qui possiamo parlare in pace.» disse. «Sedetevi su quelle casse.»
Evelyne si lisciò il vestito prima di cominciare a parlare, come faceva ogni volta che era carica.
«Ho visto di nuovo la Creatrice.» esordì, eccitata. «È libera, ci credete?»
«Libera?» domandò Clock, incredulo.
«Sì, è libera. L’ho vista in una casa borghese in compagnia di un cazar in divisa da imperiale. Fra tre giorni il cazar si vestirà da borghese e usciranno a passeggiare lungo Kerwan Street. Lei cercherà di andare alla Volpe, ma lui non ce la porterà. Però quella sera una carrozza andrà a prenderli per portarli alla villa del maggiore Ratchet, per una cena di gran classe.»
«E non si sono accorti che è un’umana?» domandò Kaden.
«No, lo sanno anche loro che è un’umana, ma per qualche motivo non l’hanno giustiziata...» rispose la ragazza. Poi si fece mogia. «Spero che non si siano accorti di chi è lei. Pare che non abbia rivelato la sua natura, ma se gli imperiali l’avessero intuita e cercassero di farsela amica?»
«Se l’avessero intuito, poco ma sicuro l’avrebbero legata e rinchiusa nella segreta più oscura della 147sima. Stai tranquilla che non sanno chi è...» la rassicurò il capo dei ribelli.
«Aspettate un momento.» li interruppe Clock. «C’erano due imperiali alla Volpe, e parlavano di un cazar. Hanno detto che Yerzek lo ha mandato a interrogare una markaziana comparsa dal nulla e che già l’altra mattina non c’erano né lui né lei. Quegli imbecilli fantasticavano su una fuga d’amore, ma magari questo Enrique Beauford è incaricato di trattenere la Creatrice.»
Il nome citato dal tecnico fece accendere una lampadina nella mente di Evelyne.
«L’ho già sentito.» disse di getto. Kaden e Clock si voltarono contemporaneamente.
«Ne sei sicura?» domandò il capo dei ribelli. Lei annuì: «Non mi ricordo dove, ma l’ho già sentito.»
«Magari nella locanda...» ipotizzò il tecnico.
Kaden concordò: «Plausibile. È uno della 147sima, magari lo hai servito qualche volta.»
Evelyne arricciò le labbra con fare pensieroso, poi si strinse nelle spalle. «Non saprei. Se mi viene in mente ve lo dico.»
Kaden si risistemò la benda sull’occhio destro. «Intanto puoi dirci qualcosa in più su di lei?»
La ragazza mise da parte la faccenda del nome e rispose: «Ha dei lividi in faccia, ma con un cappello non si riconosce a un primo sguardo.»
«Ah. Probabilmente conteranno su quello per farla uscire.» commentò Clock. «Ma non ha senso...»
«Già, non ha senso.» convenne Kaden. «Riassumiamo: si sono resi conto che è un’umana ma la tengono praticamente in libertà, affidata a un cazar che presumibilmente si chiama Enrique Beauford ed è un soldato imperiale. Tralasciando ciò che succederà fra tre giorni, ho dimenticato qualcosa?»
«No, niente.» e anche Evelyne denegò.
«Tutto ciò è strano...è come girare con una bomba innescata in tasca.» andò avanti il ribelle. «Cos’avranno in mente?»
«Se non sanno delle sue potenzialità, l’unica cosa che possono fare è dimostrare che gli umani non sono fantasie.» rispose Clock.
«Non la terrebbero in vita se non avessero un secondo fine.» Kaden si alzò. La velocità con cui era saltato in piedi tradiva uno scatto di nervi. «Vado a chiamare gli altri. Si prospetta un monte da scalare e abbiamo solo tre giorni per riuscirci.»
 
Quando furono tutti presenti nel piccolo magazzino-studio, Kaden prese la parola.
«Evelyne e Clock ci hanno portato delle buone nuove. La Creatrice non è solo viva, ma anche fuori dalla 147sima.»
Nello stanzino si sentirono espressioni più o meno colorite, ma tra tutte fu la voce di Tarx a dominare.
«Perdinci! Com’è possibile?»
«Ce lo chiediamo anche noi, ma tant’è.» replicò sbrigativamente il lombax dal vello biondo. «Evelyne ha previsto che fra tre giorni lei e il suo presunto carceriere, un cazar di nome Enrique Beauford, usciranno per andare nientemeno che alla villa del maggiore Ratchet. Potrebbe essere la nostra occasione per sottrarla all’Impero. Non sappiamo perché andrà a quella cena né se ci andrà di sua spontanea volontà, ma è chiaro che c’è una motivazione. Il mio timore è che vogliano farne un capro espiatorio per le nostre azioni, e a quel punto potete ben immaginare l’impossibilità di un nostro nuovo ingresso nelle carceri della 147sima.»
«Ma perché portarla alla cena?» obiettò Nencer.
«E se fosse una fregatura?» borbottò Tarx.
«Già, quali sono i dettagli?» domandò Reginald.
Evelyne si fece avanti e si schiarì la gola per attirare l’attenzione.
«Saranno in tre: la Creatrice, il cazar e l’autista. Il cazar ha il vello bruno chiaro ed è alto all’incirca come Roger. So che sfoggerà una cravatta viola e un cappotto scuro. Lui sarà costantemente vigile, e con lui ci sarà la Creatrice. Lei sarà vestita interamente di viola. Il cappello le coprirà in parte i lineamenti umani, ma se le guardate il naso non dovreste avere problemi a riconoscerla. Inoltre farà un sacco di domande.»
«Non hai visto qualcosa di più concreto?» chiese Nencer. «Qualcosa di più simile alle tue solite visioni?»
«Beh, sì...» rispose lei. «Ma a quel punto la visione era annebbiata. Ho visto qualcuno fermare il mezzo e ho visto il cazar fare a botte, ma non so con chi. So solo che si batterà con tutte le sue forze e dimostrerà un’agilità straordinaria. Ma anche la Creatrice non sarà da sottovalutare: userà uno stile di combattimento decisamente insolito, ma efficace. Vi converrà usare l’etere per renderla inoffensiva subito.»
«Il che significa che potrebbe essere chiunque di noi a vedersela con il soldato.» disse Kaden. «E significa anche che bisognerà studiare un modo per fermare il mezzo.»
«Bisognerà tenere conto anche dell’autista, se li vanno a prendere. Sarà sicuramente un soldato anche lui.» asserì Tarx. Sacha annuì.
«Ci serve sapere che strada faranno.»
«E anche se saranno scortati.» aggiunse Nencer.
Kaden mise una mano davanti alla bocca e tossicchiò. «Che mi dici del tuo contatto, Reginald?»
«Fuori discussione. Ha fatto anche troppo l’altra volta.» asserì acidamente Nencer, con un gesto secco della mano.
«Neanch’io mi fido di lui.» concordò il lombax dagli occhi azzurri, sventolando la coda come un fustino.
Kaden non si perse d’animo. «E non hai nessun altro aggancio utile?»
L’altro portò una mano al mento e si fece pensieroso. «Ho un conoscente fra i domestici del maggiore, in effetti. Magari stasera riesco a cavargli qualcosa.»
«Ciò implica che dovrai uscire da qui.» Kaden indicò la porta della stanza «Sei sicuro?»
«Sarà solo un incontro casuale nell’atrio del suo bordello preferito.» assicurò l’altro. «I rischi sono minimi. Se mi sbrigo dovrei fare in tempo.»
«Come sai che stasera è al bordello?»
«È una sua abitudine. E comunque è l’unica occasione che ho per incontrarlo, a meno di non farmi assumere dal maggiordomo personale del maggiore.»
«Va bene, esci e divertiti.» dichiarò Kaden. «Ma vedi di tornare con qualcosa.»
«Sì, certo, almeno poi ci fai una recensione sulle ragazze.» buttò lì Tarx. Reginald mostrò un sorriso ambiguo e rispose: «Spiacente, certi commenti li tengo per me.»
* * * * * *
Ore 22:00 circa;
Quartieri della borghesia medio-bassa, casa di Enrique.
 
 
Silver era in salotto in quel momento. La cena era stata abbondante, e le aveva dato modo di scoprire che la carne di leviathan si mangiava. A tavola aveva avuto l’idea di chiedere prima di assaggiare cosa fosse la pietanza in tavola, così aveva avvicinato con diffidenza lo spezzatino che la cameriera aveva preparato. Prima di mangiare il primo boccone aveva accuratamente saggiato la consistenza e l’odore emanato dalla carne, attirando uno sguardo incuriosito dai commensali, che invece masticavano senza farsi problemi. Poi aveva scoperto che il leviathan aveva una carne tenera e dal sapore dolce, e allora aveva spazzolato il piatto senza più alcun tipo di problema, strappando un sorriso a Enrique e un sospiro di sollievo a Camille.
Nel dopocena il cazar si era messo a curare la corrispondenza e Silver era rimasta senza far nulla. Così, lottando con il corsetto che le stringeva sulla cassa toracica, si era accasciata sul tavolino con la testa infossata fra le braccia.
Che palle...chissà se a casa si sono preoccupati.
Ma il Sapere le disse che era impossibile: ogni giorno che passava su Fastoon corrispondeva ad un minuto nel suo spazio-tempo.
Nah, impossibile che si preoccupino per tre minuti. Però potrei sfruttare questo cambio orario quando ho un compito in classe. Se in dieci minuti guadagno dieci giorni, altro che sufficienze!
Il pensiero la fece sorridere. Già si vedeva sparire al suono della campanella, rintanarsi in bagno e attivare l’applicazione del telefono, arrivare lì, studiare e poi ripresentarsi bella fresca di nozioni in tempo per il saggio. Oppure, se voleva farla più sporca, scriversi le domande su un foglietto, sparire a Fastoon, scrivere delle risposte simili a trattati e poi riportarle sul compito.
E con l’esame di maturità? Il tanto temuto spauracchio finale della scuola dell’obbligo? Aveva sempre detto «se ce la faccio, bene; sennò amen», ma con un’arma del genere in suo possesso era impensabile non farcela.
Eh eh eh...
Poi arrivò l’urlo, tanto forte da farla sobbalzare.
«Signorina Silver!» rimproverò Camille. La ragazza scattò ritta sulla sedia e si guardò attorno.
«Eh?»
«Ma vi pare il modo, una signorina dabbene come voi!»
«Che cosa?»
«Accasciarvi così sul tavolo! Mettervi in mostra in maniera così spudorata!»
«Ma mi annoio a morte...» protestò. «E non mostro proprio niente. Più che altro mi addormento.»
La lombax ignorò bellamente la seconda parte e andò avanti.
«Perché non vi esercitate in qualcosa? Non vi dilettate in un’arte? Che so: cucito, canto, disegno...»
Accetti la risposta «arti marziali»?
La ragazza sbatté un paio di volte le ciglia e decise che in quei giorni aveva scandalizzato fin troppo la povera cameriera per dirle anche che in teoria sapeva combattere a mani nude. Così optò per un’altra verità.
«Disegno...»
«Ah, disegnate!» Camille sembrò rincuorarsi subito. «Cosa usate di solito? Matita, carboncino, colori a olio...?»
Silver si costrinse a non scuotere la testa: di certo non poteva dirle che usava tablet e computer. Però con le matite riusciva a cavare qualcosa di buono.
«Matita.» rispose. «Di solito uso le matite colorate.»
«Mi dispiace, quelle non le abbiamo.» Camille abbassò lo sguardo, dispiaciuta. Ma da mortificata tornò subito arzilla. «Che ne dite di disegnare qualcosa in bianco e nero? Mi piacerebbe vedervi all’opera!»
Silver si sentì presa tra due fuochi. Non ne aveva voglia, ma le sarebbe dispiaciuto non accontentare quella donna. Da quando aveva messo i piedi in quella casa non aveva perso una sola occasione per cercare di farla sentire a suo agio.
«Ma io non so se...insomma, alla fine sono solo degli scarabocchi...»
«Eddai, non fatevi pregare!»
Occavoli...
«Beh, sì ma...non ho il materiale.»
«Sono sicura che Enrique non si arrabbierà se userete un foglio dal suo blocco per la corrispondenza. Matita e gomma ve li fornisco io, aspettate solo un momento.» e sparì oltre il salotto. Quando tornò aveva una serie di matite, una gomma biancastra e qualche foglio bianco da lettera. Li dispose ordinatamente sul tavolo e andò a sedersi di fronte a Silver, che guardò i fogli e si fece pensierosa.
E mo’ che gli schizzo? Mica posso fare Sacha o Alister!
Già, che disegnare? I suoi soggetti preferiti erano praticamente tutti fuori discussione!
Ebbe l’impressione che il foglio la guardasse e le chiedesse: e adesso? Così afferrò una matita e pensò ad un motivetto a caso. Nella sua mente si diffuse un motivo dei Nightwish e Silver si chiese cos’avrebbe pensato un telepate se fosse riuscito a captarle i pensieri. Probabilmente sarebbe scappato via in preda al terrore, considerando che in quell’universo l’ultimo ritrovato erano musica classica e grammofoni.
Per qualche motivo la scena la fece sorridere, e trovò la voglia di schizzare quello che si era appena immaginata, con la canzone in testa che la isolava dal resto del mondo. Certo, non era come avere l’mp3 attaccato alle orecchie, ma era un buon surrogato nel silenzio serale.
Le linee si susseguirono una all’altra sul foglio, sporcandolo e riempiendolo con quelle che Silver definiva schifezze. E così alla fine, presa dalla concentrazione, riempì il foglio con schizzi e schizzetti: un lombax in fuga, una gamba meccanica, Camille con una padella in mano, il braccio meccanico del dottor Saak, alcuni chibi negli spazi vuoti tra i vari disegni e infine Enrique che leggeva il giornale, appollaiato sulla poltrona.
Quando rialzò la testa vide che le sue schifezze avevano attirato l’attenzione degli altri due.
«Uno stile particolare, senza dubbio. Spigoloso e longilineo, ma gradevole.» commentò Enrique. «A quale corrente fate riferimento?»
«Ehm...nessuna in particolare.» rispose Silver.
«Signorina, avete davvero un’ottima mano!» commentò entusiasticamente Camille, puntando il dito sullo schizzo che la raffigurava. «Questa sono io, vero? Siete stata così carina! E anche Enrique è stato ritratto splendidamente! È sempre così concentrato quando legge, e voi fate trasmettere concentrazione al disegno!»
«...Mah, se lo dici te...» replicò la ragazza, osservando con occhio critico le linee abbozzate frettolosamente, tutt’altro che fini e aggraziate.
«Siete modesta. Molti desidererebbero saper disegnare come voi.» rincarò Enrique. «Io per primo, se me lo concedete.»
«Ma no, ce n’è di gente che disegna meglio di me...comunque grazie. Fa piacere sentirselo dire!» e sorrise caldamente. Enrique rispose con un cenno del volto e si sedette al tavolo.
«A proposito, noto con piacere che i vostri lividi stanno migliorando a vista d’occhio. Se lo desiderate, fra due giorni potremmo uscire a visitare un poco la città.» disse. Silver si illuminò per la felicità.
«Dici davvero? È magnifico! Non vedo l’ora!»
A Enrique scappò una risata.
«Sarà un onore e un piacere accompagnarvi.» disse, facendo luccicare gli occhi a Camille. «E poi, fra tre giorni saremo ospiti del maggiore Ratchet per una cena importante. Ho appena scritto la lettera in cui confermo la nostra partecipazione, e domani la farò recapitare. Pare che vi parteciperanno anche due alti funzionari della corte imperiale, così da poter valutare con discrezione l’intera faccenda.»
La notizia smorzò l’allegria di Silver, che si ritrovò a pensare all’assurdità della sua situazione.
«Quindi è proprio deciso, diventerò un ambasciatore che lo voglia o no.» disse, puntando uno sguardo quasi triste in faccia al cazar.
«È esatto, signorina.» confermò lui. «Diventerete una grande opportunità per l’Impero e per la vostra specie, quindi non rattristatevi.»
Rattristarmi? Sono disperata! Il mio popolo è in un altro universo, e Tachyon vorrà la mia testa entro venti secondi. E allora sì che ci sarà da ridere.
Ma a Enrique mostrò un sorriso che, per quanto debole, lo rincuorò.
«Via, via, vedrete che una volta a corte passerà la vostra insicurezza. Dovrete solo ambientarvi.»
Silver pensò che sarebbe stata dura.
«Ma sarò sola come un cane.» protestò. «Se ti portassi con me? Dopotutto non so una cippa di voi e di tutte le vostre manie.»
Era una bugia colossale, ma tra tutti i personaggi che aveva creato non le veniva in mente nessuno più delicato del cazar che aveva di fronte. Non voleva ritrovarsi da sola tra i mostri.
«Ah ah! Signorina, che parlata interessante!» replicò Enrique. «Ebbene, a me non dispiacerebbe davvero. Sarebbe un salto economico e sociale davvero notevole, senza contare che con voi ci sarebbe da apprendere sempre. Ne parleremo al maggiore, e sentiremo cosa ne pensa.»
«Evvai!»
Forse è un po’ troppo schietto, ma nell’andare tutto a puttane sarebbe grandioso se non mi lasciasse da sola. Quantomeno per lui non sono un animale da esibizione!
Quanto a Eve, giuro che me la paga. Tirarmi di qua con tre mezze regole senza darmi l’uscita di emergenza! Diamine! Questo è giocare sporco!
* * * * * *
Ore 22:15 circa,
Periferia est della città, quartieri militari.
 
 
Il pub del Beone era di poca strada rispetto alla 147sima. Emerald Yerzek lo sapeva, e capitava spesso che si fermasse a bere qualcosa quando usciva tardi.
Quella giornata era stata un altro susseguirsi di intoppi. Il sostituto governatore chiedeva continuamente novità sulla ricerca del criminale Azimuth, Ratchet era sparito accollandogli tutte le responsabilità della direzione e il suo fido collaboratore Enrique aveva una licenza medica di due settimane.
Senza dire una parola Yerzek zampettò dentro il Beone e si godette la folata di aria calda che lo investì all’ingresso. Ai tavoli vide alcuni dei suoi dipendenti, e gli sembrò che lo guardassero con scherno o rimprovero. Distolse lo sguardo e cercò un posto vuoto tra i tavolini.
Il teracnoide si sentiva addosso le attenzioni del governatorato e delle alte cariche dell’esercito imperiale, primo fra tutti quello viscido di Sindegar Heanp. Il cragmita era un tagliagole, e non si sarebbe fatto di certo scrupoli nei suoi confronti. Emerald temeva i suoi giudizi, e continuava a venirgli in mente l’asprezza con cui lo aveva messo a tacere durante la fuga di Azimuth. Quanto avrebbe impiegato Heanp a sostituirlo?
Zampettò fino in fondo al locale, dove gli era parso di vedere un tavolo vuoto. In realtà, si accorse solo quando fu là che il tavolo era occupato, e l’avventore era nientemeno che Orion Saak.
Quando si parla di coincidenze, pensò Yerzek con sarcasmo. Durante la giornata si era chiesto più volte quale malattia avesse costretto Enrique a casa per due intere settimane, in un momento del genere. Il referto che aveva nel suo ufficio era piuttosto vago in merito.
Saak aveva gli occhi lucidi e svariati boccali vuoti davanti a sé. L’odore dell’alcol era forte.
«Signor Yerzek...» articolò. «Prego, sedetevi.»
Siccome il cazar non era palesemente ubriaco, sarebbe stato scortese rifiutare. Il teracnoide prese posto davanti al medico e scostò un paio di boccali.
«Signor Saak, non mi aspettavo di trovarvi qui.» disse. «Ci sono forse dei problemi?»
«Oh, niente di particolare. Stavo decidendo che fare con mia moglie.» rispose con voce cupa. Yerzek intuì che non si riferisse ad una gita in campagna.
«Non vi soddisfa?» azzardò.
«Preferisce soddisfare uno degli scrittori del suo salotto, quell’ingrata!» Saak si trattenne dal battere il pugno meccanico sul tavolo. Yerzek considerò che la frustrazione e l’essere alticcio non giovassero né a lui né alla sua faccia davanti alla società. Sentì di dover fare qualcosa alla svelta per non esserne coinvolto, e l’unica cosa che pensò fu di portare il discorso altrove. Non era difficile, vista la sconvenienza dell’argomento.
«Gradite parlarne?» chiese accuratamente. Come previsto l’altro fece un chiaro segno negativo.
«Non oserei mai tediarvi con i miei problemi.» spiegò. «E poi, la decisione in fondo l’avevo già presa tempo fa. Mi serviva solo una prova.»
Yerzek annuì e nascose un sospiro di sollievo.
Almeno un problema me lo sono scampato.
«Certo, vogliate perdonare la curiosità.» il suo volto mostrò una finta espressione contrita cui Saak credette. «A dire il vero, vorrei approfittare del nostro incontro e farvi una domanda.»
«Ditemi pure.»
«Sarei curioso di sapere di cos’è malato il mio segretario personale, Enrique Beauford. Il vostro rapporto è piuttosto scarno, e non vorrei che... - »
A interromperlo fu la risata scettica del medico.
«Ma che male e male, il vostro collaboratore è sano come un pesce.» confessò, influenzato dall’alcol. «L’umana che è con lui, invece, ha qualche problemino; ma niente che non si possa gestire se lui trattiene gli istinti.»
Yerzek ignorò l’insinuazione sugli istinti, ritenendo il suo segretario troppo integerrimo per caderne vittima. Pertanto si concentrò sul resto della notizia.
«Oh.» commentò. «Non ne sapevo nulla.»
«Strano, Ratchet mi ha assicurato che vi avrebbe avvisato personalmente.»
Calò un breve silenzio. Il direttore della 147sima decise di prendere con cautela le parole del medico, dal momento che era alticcio. Però decise di portare avanti lo stesso il discorso. Il medico aveva la lingua sciolta, ma non sembrava aver raggiunto il punto di dire castronerie a vanvera.
«Magari non ne ha avuto il tempo, chissà.» ragionò pacatamente. «Ma aspettate, avete detto un’umana?»
«Sì, la signorina che è sbucata dal nulla in piena evasione è un’umana. Ne sono certo, non ho visto i segni delle suture da nessuna parte. Non è una markaziana operata chirurgicamente. È un’umana.»
«Ma gli umani sono estinti da secoli!»
«Eh eh, si direbbe di no...» replicò il medico. «Lei è vera quanto me. Ci sarà da ridere sabato, davanti agli imperiali. Ve lo dico io: il maggiore Ratchet è impazzito. Azimuth gli deve aver fatto del male psicologico, perché altrimenti non cercherebbe di portare quell’umana alla corte imperiale.»
«Signor Saak, la vostra sobrietà sta venendo meno se dite una frase del genere. Il maggiore non commetterebbe un errore che potrebbe costargli la carriera in questo modo.»
Ma il medico non gli diede nemmeno ascolto. Richiamò l’attenzione di una cameriera e ordinò altri due boccali, uno per sé e uno per Yerzek.
«Già...ma allora non ha senso che la faccia nascondere dal signor Beauford.»
«L’editto di Tachyon IV non è stato ancora abolito: nascondere un umano è ancora reato da pena capitale.» obiettò il teracnoide. Saak si strinse nelle spalle.
«Sarà, ma le cose stanno così. E vedrete che quando arriverete a casa troverete anche voi la lettera d’invito per la cena di sabato.» poi alzò il boccale. «Alla salute!»
* * * * * *
Ore 23:35 circa
Sud-ovest del centro cittadino, quartieri residenziali dei militari
 
 
Yerzek rientrò nella sua abitazione con le idee confuse dalle rivelazioni e dall’alcol.
Quella che lui pensava essere una markaziana era un’umana.
Enrique non era davvero malato ma nascondeva l’umana in casa sua.
Ratchet aveva voluto che le cose rimanessero in mano sua e lo aveva tenuto all’oscuro di tutto. Perché?
Nessuno fa niente per niente, diceva spesso suo padre. Yerzek aveva scoperto presto quanto fosse vero, quindi gli veniva da chiedersi cosa ci guadagnasse ad infrangere un editto che avrebbe potuto costargli la carriera e la vita. Quale poteva essere la contropartita di un rischio così grosso?
L’unica risposta che gli venne in mente fu: conquistare un potere altrettanto grosso.
Se insediare a corte l’unica umana esistente – anche solo come animale da esposizione – gli avesse portato la fiducia dell’imperatore Tachyon X, allora avrebbe potuto commettere qualunque azione e sarebbe stato protetto dall’ala benevola del sovrano.
 
Gettò il cappotto su una poltrona e si diresse difilato nel suo studio. Il maggiordomo di solito gli lasciava la corrispondenza sullo scrittoio, e fu lì che trovò un plico di lettere.
Si sedette e si impose autocontrollo.
Vedrai che troverai quell’invito, si disse per incoraggiarsi. Poi guardò le varie buste e si fece scettico: Come no. Vogliono farmi fuori il prima possibile, e Ratchet mi detesta. Non ci sarà.
Come pensava, non c’era nessuna lettera per lui che lo invitasse ad una cena privata.
Si lasciò ricadere contro lo schienale della sedia. Si sentiva leggermente confuso, era stanco, stufo della sua situazione incresciosa e deluso dal modo in cui Ratchet aveva cercato di tenerlo all’oscuro di tutto.
L’Imperatore non sa come si sono svolti i fatti. Non sa che Azimuth è riuscito a scappare perché Ratchet non è stato in grado di fermare i ribelli. Se lui se lo ingraziasse, le sue colpe sarebbero tutte cancellate. Gli rimarrebbero solo gli onori per aver stanato un’umana e a me rimarrebbero tutti gli oneri del fallimento.
Provò un moto di rabbia profonda.
No, no, NO! Non deve andare così! Se c’è uno che si è fatto il mazzo per far funzionare la 147sima, quello sono io! IO merito gli onori, non lui! IO entrerò nelle grazie di Sua Maestà, non lui!
«E così riconosceranno chi ha lavorato da sempre per il bene dell’Impero e chi con le sue azioni lo ha danneggiato! Gli farò vedere io cosa significa prendermi per scemo!» esclamò con decisione, volgendo poi uno sguardo infervorato fuori dalla finestra, laddove sapeva esserci i caseggiati militari e poi ancora oltre, verso la campagna dove erano state costruite le ville nobiliari. Con uno scatto secco chiuse la tenda.
Aveva già un’idea su cosa fare. Una volta tanto l’insonnia non gli parve un nemico, ma il migliore alleato per la trama che stava per progettare.
«Vuole la guerra? Che faccia! Non sarà la mia testa a saltare, nossignore!»
* * * * * *
15 Gennaio, ore 02:40 circa
Sud-est del centro cittadino, quartieri industriali, ex acciaieria
 
 
Reginald rientrò con aria soddisfatta nel covo. Come previsto aveva rintracciato senza sforzo il domestico e aveva intavolato una discussione proficua.
Oltrepassò a passo felpato il magazzino dove i suoi compagni dormivano e si diresse nello scantinato che Kaden aveva eletto a studio. La luce era accesa, e quando entrò lo trovò chino su una mappa della città. Non attese che gli chiedesse alcunché: «Missione compiuta.» riferì.
Kaden mostrò un sorriso stanco: «Bene, allora siediti e vuota il sacco.»
Reginald eseguì. Si sedette comodamente su una cassa e si tolse il cilindro. «Il cielo benedica il pettegolezzo.» esordì. «Se fosse uno sport non ci sarebbe speranza per chi non fa il domestico.»
L’altro rise. «Che ti ha detto?»
«Sabato 17 ci sarà la cena in questione, che comincerà alle 20:00. Il trasporto sarà organizzato a carico del maggiore; e gli ospiti saranno lady Phyronix con la rispettiva guardia del corpo, il nostro signor Beauford con la Creatrice e due funzionari della corte imperiale.» il nome degli ultimi ospiti pesò come una sentenza. Le iridi di Kaden si allargarono e si restrinsero impercettibilmente.
«Stai scherzando, spero.»
Reginald denegò. «Era tutto eccitato per le visite in arrivo, non credo che mentisse.»
«Se ci sono anche due cragmiti della corte la villa sarà blindata. Dobbiamo impedire che la Creatrice entri in quella casa.» decretò cupamente il capo ribelle. Ignorava che, chino sul suo scrittoio, Yerzek avesse appena raggiunto la stessa conclusione.
«Bel lavoro, Reginald. Vai pure a riposare.»
Il lombax dagli occhi azzurri afferrò il cilindro dalla cassa. «Tu non dormi?» domandò.
Kaden scosse appena una mano. «Ho ancora un paio di cose da sistemare.» si giustificò. «Piuttosto, Evelyne ha ricordato dove ha sentito il nome del nostro cazar?»
«No, non se lo è ricordato. Mi ha detto di dirti che si scusa.» dopo la risposta mascherò uno sbadiglio e si alzò in piedi. «Buonanotte capo.»
«Buonanotte.»
Attese che l’altro uscisse, e guardando la grande mappa cittadina non poté fare a meno di ripetersi le informazioni ricevute.
Che se ne fanno di un’umana alla corte imperiale?
Gli venne in mente il timore di Evelyne.
Sanno davvero chi è? Così fosse, saremmo in grossi guai.
Riguardò la mappa.
Non arriverà a quella villa. La fermeremo prima.
E puntò il dito sulla strada che usciva dalla città, l’unico punto obbligato del percorso.

 

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Capitolo 6
*** | Capitolo Quarto | La cena va a monte ***


La cena va a monte
Capitolo Quarto
17 Gennaio, ore 10:30 circa
Quartieri della borghesia medio-bassa, casa Beauford
 
 
Enrique si risistemò la cravatta e la fermò con la spilla a forma di tridente. Il cappotto buono era pronto all’uso su un manichino, assieme al completo più elegante che aveva. Camille, fuori dalla stanza, cinguettava una canzone, eccitata per quello che attendeva «i suoi due giovani», e il cazar doveva ammettere che tutta quell’allegria era contagiosa. Mentre la cameriera aiutava la ragazza a prepararsi, lui canticchiava sulle stesse note. Silver, invece, era presa a brontolare più del solito, e di tanto in tanto cacciava qualche urlo.
Quando scese al pian terreno, una mezz’ora dopo, dopo essersi perso a leggere un libro, il cazar non dovette aspettare molto prima che la ragazza si presentasse. Camille invece era già in cucina, come testimoniava l’odore delle frittelle che permeava l’ambiente.
«Buongiorno, signorina Darkshield.» salutò con calma, studiando di sottecchi l’effetto che l’abito nuovo faceva sulla ragazza.
«’giorno.» borbottò lei a mezza voce. Enrique non espresse il pensiero ad alta voce, ma gli parve che fosse uscita da un vero campo di battaglia, quella mattina più delle altre.
«È successo qualcosa?»
La ragazza si puntò il pollice alla bocca dello stomaco: «Questi cosi chiamateli con il loro vero nome. Non sono vestiti, sono strumenti di tortura.»
Enrique ridacchiò. «Non siate così intollerante, quest’abito vi dona. Vi aggrazia molto più di quello viola.»
«Sarà anche, ma ho gli organi tanto stretti che fatico anche a respirare. E poi non c’è solo il corsetto! Nossignore, troppo facile! Vogliamo parlare dei mutandoni, la sottoveste, la sottogonna, la gonna...e poi vogliamo metterci scialle, cappello e cappotto? Cristo santo, è inverno e questi li capisco, ma perché devo portarmi addosso venti chili di vestiti quando basterebbe un paio di jeans???»
Calò un improvviso silenzio. Enrique distolse lo sguardo e Silver si rese conto di averlo messo in imbarazzo quando lo vide sfregarsi le mani, poco dopo.
«Signorina, ecco...» cominciò a dire, incerto, sempre guardando altrove. Poi le piantò lo sguardo negli occhi e borbottò velocemente: «La biancheria intima è come un segreto. Gli altri non devono conoscerne l’esistenza.»
Poi aggiunse, a mezza voce per riprenderla: «Non si parla di corsetti, sottovesti, calze, giarrettiere e tantomeno dei tubi della decenza. Si può chiedere un consiglio con discrezione al negozio, ma per il resto non se ne parla con nessuno, soprattutto con gli uomini. E agli uomini non si parla mai delle loro camicie! Mai, ricordatevelo. È maleducazione discorrere dell’intimo.»
La ragazza si chiese cosa fossero i tubi della decenza, e il Sapere venne in suo aiuto, suggerendole che era il nome attribuito ai mutandoni che era stata costretta ad indossare, più simili a pantaloni che ai modelli cui era abituata.
Memore dell’espressione scandalizzata di Camille quando aveva visto le sue la prima volta, Silver si affrettò a dire: «Okay, okay...dicevo per dire. È che non sono abituata a questi strascichi e...accidenti, dalle mie parti nessuno si fa problemi a parlare di mutande per la strada.» e si strinse nelle spalle.
Al ché lui le scoccò un’occhiata a metà fra lo scandalizzato e il perplesso, e dopo aver alzato un dito con fare incerto disse: «Ecco...credo che sia meglio andare in salotto. Facciamo colazione, intanto vi istruirò sulle maniere da usare fuori da queste mura.»
 
Venti minuti e alcune nozioni dopo, Enrique si decise ad affrontare la parte più difficile.
«Ci sarebbero inoltre alcune cose, molto più importanti del bon ton.»
Silver, che avrebbe risposto con una frase annoiata, percepì che sarebbero stati argomenti seri e si fece attenta: «Sarebbero?»
«Portandovi a passeggio andremo contro gli ordini del maggiore.» cominciò a dire lui. «Ma il vero problema, se scoprono la vostra natura, è un editto dell’imperatore Tachyon IV che concerne lo sterminio della vostra specie. Stabilisce che ogni cittadino scoperto a nascondere un umano venga giustiziato assieme all’umano in questione, e purtroppo è un editto ancora in vigore.»
Il Sapere suggerì a Silver quale fosse il contenuto dell’editto in questione, e le suggerì anche la faccenda delle piastrine. L’umana sentì il sangue gelarsi.
«E tu vuoi portarmi lo stesso a passeggio?» domandò con tono incerto.
«Suona folle, lo so. E ammetto che avrei dovuto parlarvene prima, ma non volevo smorzare il vostro entusiasmo. Quindi ho pensato ad un compromesso: usciremo, ma se incontreremo qualcuno lascerete che sia io a parlare. Agli occhi del mondo voi sarete una mia eccentrica cugina markaziana che per seguire la moda capitolina si è operata chirurgicamente. Chiaro?»
Silver sbatté più volte le ciglia, sorpresa. «Certo...» balbettò incerta. «Cercherò di parlare il meno possibile.»
«Saggia scelta. Con la vostra ignoranza attirereste per certo l’attenzione.» Silver lo guardò di traverso. «Non intendo offendervi, ma non siete pratica e le conseguenze, come avete sentito, sarebbero pessime per entrambi.»
«Già.» convenne amaramente la ragazza. Camille, che si era avvicinata al tavolo mentre il cazar esponeva il suo piano, poggiò le mani sulle spalle della ragazza per darle sostegno.
«Enrique, dovreste essere un po’ più delicato. Come farà ora a godersi la sua prima uscita se la spaventate così?» e si rivolse alla ragazza. «Quanto a voi, signorina, se vi mostrate così depressa attirerete per certo l’attenzione. Cercate di affrontare le strade con naturalezza e nessuno farà troppo caso a voi.»
Silver sapeva che la lombax stava mentendo, anche senza attingere al Sapere. Qualcuno l’avrebbe sicuramente notata, non poteva essere altrimenti. Tuttavia volle credere in quelle parole e alimentare la speranza che fossero vere. Ne sentiva il bisogno.
«Ho...ho bisogno di andare a sciacquarmi la faccia.» dichiarò, alzandosi alla svelta. Non attese una risposta prima di allontanarsi, diretta al piano superiore.
Enrique rimase nel salotto con Camille, che lo guardò con aria di rimprovero.
«Troppo diretto, secondo voi?» domandò.
La lombax sospirò sonoramente, poi disse: «Io lo so che non siete un rude dentro, ma non potete parlare con così poco tatto ad una signorina.»
«Camille, per favore...»
«Le avete detto che chiunque vi veda può farvi ammazzare.» gli fece notare la cameriera. «Chiunque vorrebbe rinchiudersi in casa a vita, a questo punto. Oltretutto non ha nemmeno le piastrine: e se i runners vi fermassero?»
Il cazar sventolò una mano con noncuranza: «Per quello penserò a qualcosa, non temete.» poi prese un biscotto dal piatto e lo mangiò, approfittando di quegli istanti per pensare. «Vedrò di scusarmi adeguatamente, più tardi. Avete qualche suggerimento?»
I lineamenti di Camille si addolcirono. «A voi non dispiace la compagnia della signorina, vero?»
Enrique si accigliò di colpo. «Cosa state insinuando?»
«Solo una curiosità. Non attaccherò con il solito discorso, ve lo assicuro.»
Il “solito discorso” per Camille riguardava il suo essere scapolo. Come ogni volta che la cameriera toccava la sua sfera personale, il cazar si fece riluttante a rispondere.
«No, non mi dispiace.» disse cautamente.
«Ebbene, la signorina ha dato segnali che le piacerebbe farvi amico, no? Provate ad avvicinarvi a lei. In questi giorni avete lavorato per migliorare il suo futuro di ambasciatrice – il che è ammirevole, davvero – però non avete mai tenuto conto di lei come persona. Fatele sapere che non le siete vicino solo per un ordine del maggiore. Confrontatevi con lei pensando che è viva, sono sicura che lo apprezzerà.»
Enrique annuì pensieroso, poi Silver si ripresentò sulla porta. Non era dell’umore, ma si sforzò egualmente di sorridere. Mentre si era rinfrescata la faccia aveva capito quale fosse la tensione cui erano sottoposti i suoi personaggi.
«Andiamo.» disse. «Vediamo quanto è forte la mia faccia di bronzo.»
Il cazar si alzò, ancora indeciso se seguire o meno il consiglio di Camille. Indossò cappotto e bombetta, dopodiché fece strada a Silver.
 
La strada era trafficata. Sembrava un giorno di fiera: i pedoni erano talmente tanti che perdere qualcuno nella folla non sarebbe stato difficile. Enrique porse il braccio per cortesia, e mano a mano che si addentravano nel centro cittadino prese confidenza con la curiosità di Silver, trovandola a tratti un po’ ingenua. La ragazza scoprì che se si concentrava su qualcosa interveniva il Sapere, mentre se chiedeva a cuor leggero dipendeva totalmente dalla risposta del soldato.
Il presagio che prima d’uscire l’aveva attanagliata scemò pian piano, mentre prendeva confidenza con gli usi dell’epoca. Ad esempio, imparò a rivolgere cenni delicati di saluto quando, per caso, incrociarono un ex commilitone di Enrique. L’altro cazar accennò a togliersi il cappello e lei d’istinto gli rispose smozzicando un salve, causandogli un moto di sorpresa. Enrique provvide subito a spiegarle a denti stretti che doveva accennare un inchino con la testa, e quando si avvicinarono per scambiare due parole la scusa fu che era una nuova moda. Al momento di salutarsi di nuovo, tuttavia, Silver si avvide di aggiungere un cenno d’inchino al «buona giornata» che augurò. Dopodiché, non appena furono abbastanza lontani, si concesse di sghignazzare.
Quando il suo accompagnatore chiese spiegazioni, cominciò un lungo confronto tra i modi umani del 21esimo secolo e quelli imperiali del 19simo. Il discorso scivolò pian piano in una frivola gara a quale dei due universi avesse i modi migliori, e finì in un muro contro muro inoffensivo, ma istruttivo per entrambi.
Alla fine quella follia non si era rivelata così pericolosa, concordarono poco prima di rientrare in casa.
* * * * * *
Ratchet e Sasha erano in uno dei salotti, assieme al padre di lei. Calligar Phyronix era un cazar piuttosto tracagnotto, a differenza della figlia, che si presentava longilinea e aggraziata. Gli occhi, di un vivido blu scuro, stavano studiando le palle da biliardo, poste in modo nettamente svantaggioso per lui. La mente, invece, era decisamente più tesa alla serata in arrivo che alla partita in corso.
«Non saprei, onestamente.» disse, prima di poggiare la mano sul velluto e far scorrere la stecca, colpendo con decisione la biglia bianca. Seguì il suo percorso fortunato, che gli fece segnare un punto, e poi si spiegò: «Più ci penso e più questa vostra idea di presentare un’umana alla corte imperiale mi pare un azzardo.»
«Però è giustificato, se si pensa che la contropartita è dare una speranza ai ribelli.»
«È vero. Forse, se gli umani tornassero a fregiarsi della protezione imperiale, i ribelli non avrebbero tanta baldanza, ma purtroppo non possiamo dirlo con certezza. Venticinque anni sono troppo pochi per dimenticare le ragioni per cui si combatte.» ammise il capo dei Runners di Fastoon. Prima che parlasse nuovamente, fece correre la stecca contro la biglia bianca e osservò gli effetti del suo colpo, unici rumori che si poterono udire nel silenzio che era calato.
La guerra di conquista di Fastoon si era conclusa ufficialmente venticinque anni prima, ma da allora era cominciata la guerriglia operata dai ribelli, che si erano uniti al resto combattenti contrari all’Impero. Solo sul piccolo Fastoon, da quando la guerra era finita, c’erano stati decine di attentati a funzionari imperiali, tre grandi sabotaggi ai sistemi centrali dei Runners e l’esplosione di una caserma dell’esercito. L’ultimo atto clamoroso era stato l’assassinio del neo-governatore operato dal ribelle Alister Azimuth, cui era seguita la sua incarcerazione e la sua incredibile evasione.
Calligar valutò che l’ultimo non fu un tiro buono come il precedente, ma lasciava un campo decisamente spinoso per l’avversario. Quindi riprese a parlare: «La prima generazione, che ho affrontato io, sente ancora addosso l’umiliazione della sconfitta; la seconda, che stai affrontando te, è cresciuta con l’odio e il sapere della generazione precedente, assorbendo la loro volontà e le loro conoscenze. Ci vorrebbe ancora una generazione perché la tua strategia funzioni con sicuro successo.»
«Perché?» domandò Sasha.
«Perché la terza generazione crescerebbe conoscendo solo il punto di vista dell’Impero, senza sapere quanto, cosa e come il sistema ha insabbiato o cancellato. Molti direbbero: “hanno portato qui un’umana, e allora?”. Il massacro, che già ora giustificato nei testi scolastici, sarebbe cancellato dall’atto di riammissione; la seconda generazione non troverebbe grandi consensi e la prima sarebbe ormai troppo vecchia per partecipare attivamente alla ribellione.»
«E fine dei giochi.» concluse Ratchet. «Calligar, siete sicuro di non voler fare il politico?»
«Per carità, ho ancora un minimo di buonsenso!» rispose prontamente l’uomo, causando le risate. «Comunque, non nego che questa situazione sia difficile. Ora come ora tutto sta al grado di apertura mentale dei messi imperiali. Se sono più conservatori, non è impossibile che vi chiedano di giustiziare la giovane.»
Le orecchie di Sasha ebbero un fremito. Giustiziare. Era una donna forte, ma certi gesti non li comprendeva. Dissimulò il brivido di paura e orrore sedendosi rigidamente su una poltroncina.
Giustiziare.
Si chiese che bisogno ci sarebbe stato di farlo e quanto sarebbe stata probabile una richiesta del genere. Si chiese anche, per assurdo, se non sarebbe stato possibile aggirare l’ordine in qualche modo.
«A proposito, ella è al sicuro, vero?»
La domanda del padre fece saettare nuovamente l’attenzione di Sasha sul volto del suo fidanzato.
«È a casa del soldato Beauford.» fu la risposta di Ratchet. «Non è un caveau, ma di certo è più al sicuro che nella 147sima.»
«Ma Beauford non è il tirapiedi di Yerzek?» domandò la cazar. «Il suo superiore come l’ha presa?»
«Yerzek non sa niente. Per lui il soldato è malato e l’umana in mano alla Guardia Pretoriana. Non andrà mai a disturbare il vecchio Darkwood, codardo com’è.»
Eseguì un tiro di sponda. La biglia scorse velocemente sul velluto, riflettendo la sicurezza con cui aveva parlato. Mandò una palla in buca e fece disperare le probabilità di vittoria di Calligar.
* * * * * *
Ore 18:30 circa
Quartieri della borghesia medio-bassa, casa Beauford
 
 
Enrique si lisciò la cravatta e scelse una spilla a forma di onda per fermarla. Osservò la sua figura nello specchio: i pantaloni neri, le scarpe lucide con le ghette, il gilet verde muschio che avrebbe fatto il paio con l’abito di Silver. Mancavano solo il frac ed il cappotto, che avrebbe indossato di lì a poco. La carrozza che doveva portarli alla villa del maggiore avrebbe dovuto essere già passata da mezz’ora, ma avevano mandato un galoppino ad avvisarli di un contrattempo per cui avrebbero tardato.
Dall’esterno provenivano suoni non dissimili a quelli della mattina: Camille che parlava, Silver che rispondeva e a tratti cacciava qualche urlo. Se tanto gli dava tanto, Enrique immaginò che si trattasse del corollario da indossare assieme al vestito. Si concesse una lieve risatina, poi finì di vestirsi e scese per intrattenere l’ospite inatteso.
Era a metà delle scale quando sentì suonare alla porta. Si chiese chi potesse essere, poi immaginò che si trattasse dell’arrivo della carrozza. Finì di scendere le scale e andò ad aprire.
«Buonasera...» ma il resto della frase gli morì in gola.
I visitatori erano tre soldati imperiali.
«Enrique Beauford?» domandò il primo, un cragmita. Dietro venivano due teracnoidi.
Enrique li squadrò con lo sguardo. «Posso fare qualcosa per voi?»
La bocca quadrata dell’arma del cragmita gli premette contro il ventre. «Puoi farci entrare, tanto per cominciare.»
 
Silver stava per mettere piede in salotto quando sentì il primo sparo e il rumore di stoviglie in frantumi. Un brivido le corse lungo la schiena.
Seguirono altri due colpi e un urlo strozzato. Il galoppino si riversò a terra con una rosa di sangue nel petto.
Camille gridò. I teracnoidi si voltarono.
Silver incrociò i loro sguardi.
L’editto.
Erano lì per lei, lo Sapeva. Era certa di non sbagliarsi.
Cadde anche il cragmita, colpito da un proiettile che gli trapassò il cranio. Silver Sapeva. Sapeva che Enrique era stato costretto a far entrare quella gente. Sapeva che aveva usato la pistola che teneva in cucina per difendersi.
Un teracnoide spianò le armi nella loro direzione, l’altro si voltò di nuovo verso la cucina. Fu la paura a muovere la ragazza, a spingerla a correre su per le scale da cui era appena venuta, scalando i gradini a due a due trattenendo alti i lembi delle gonne. Mentre si rifugiava nel bagno udì altri spari e Seppe che Camille era appena stata uccisa da tre proiettili alla schiena. Chiuse la porta a chiave e sentì le lacrime agli angoli degli occhi.
Fuga. Aveva tanta confusione in testa, ma quel pensiero spiccava su tutti gli altri, forte e chiaro.
Nel momento in cui si affacciò alla finestrella per valutare il salto, sentì passi pesanti salire per le scale. Guardò istintivamente la porta e le venne voglia di chiudersi nell’armadio; poi si rese conto che in quel posto non c’era un armadio e tornò a guardare fuori.
Ce la faccio?
Sentì Enrique che gridava: «Scappa!» Un urlo roco, truce, che dissonava totalmente dal tono sommesso che usava abitualmente. Fu abbastanza per convincerla.
Salì sul water, mise lo stivaletto sul davanzale e si lanciò nel vuoto.
Il terreno l’accolse un secondo dopo con un abbraccio duro. Un sonoro strap le fece capire di aver rotto il vestito e anche qualche pianta di cavolo. Non che a Camille sarebbe più importato del piccolo orticello.
Altri spari. Silver si sforzò di rimettersi in piedi, nonostante gli arti doloranti e gli abiti scomodi. Individuò subito il viottolo che portava al giardino frontale dell’abitazione posta di spalle a casa Beauford e lo imboccò. C’era una finestra aperta, di cui si accorse solo quando ci passò davanti. Due paia di mani guantate uscirono dall’oscurità e la trascinarono a forza verso l’interno, serrandole la gola e le spalle. Silver urlò, urlò con una voce tanto acuta da parere un’aquila, ma non valse a niente. Ci furono alcuni istanti in cui alle narici giunse forzosamente un odore acre, poi il cervello si scollegò dal corpo. I muscoli si rilassarono e le grida si smorzarono. Si sentì trascinata di peso oltre la finestra, all’interno della casa. Le sembrò di vedere zampe da cragmita e divise nere, poi il mondo si perse nell’oscurità dei sensi.
* * * * * *
Ore 20:30 circa
Aperta campagna, villa di Ratchet
 
 
Un servitore si avvicinò con discrezione al padrone di casa, intento in quel momento a parlare con Sasha.
«Vogliate perdonare, signore...» disse. «È arrivata la carrozza che avevate mandato in Vapedia Street...»
«Era ora!» sbottò il lombax.
«Signore, c’erano altri ospiti all’interno.» disse più sommessamente il servitore. «Li ho fatti accomodare nel salotto verde.»
Ratchet scambiò un’occhiata con Sasha.
«Che significa altri ospiti?»
«Due Runners, signore. Vogliono parlare con voi, ma li ho convinti a non venire qui perché non turbassero la cena.»
Il lombax annuì e gli fece un cenno con la mano: «Vai pure, adesso ci penso io.»
Il servitore si dileguò alla svelta e Ratchet lo imitò, seguito da Sasha, in direzione del salotto citato dal servo. Era poco più avanti sul piano e vi entrò dopo pochi secondi. Come predetto, trovò al suo interno due Runners, che non appena videro la cazar si alzarono in piedi e si tolsero il cappello per educazione.
«Buonasera, signori.» esordì Ratchet alla spiccia. «Mettetevi pure comodi.»
Si sedettero tutti. I Runners occuparono il divano e i due fidanzati le poltrone antistanti. La domanda, nascosta all’ultimo da quel guizzo di buone maniere, era lampante nello sguardo del padrone di casa: cosa ci fate qui?
I due erano un markaziano e un cazar. Fu il primo a parlare: «Sarò diretto: c’è un incendio all’indirizzo in cui avete mandato la carrozza, signore.» Lo sguardo di Ratchet e Sasha parlò chiaro: e gli abitanti della casa? Di fronte a quell’allarme neanche minimamente velato, dovuto alla sorpresa, il markaziano andò avanti: «Non ci sono notizie degli inquilini, ma testimoni riferiscono di aver sentito degli spari. Presumiamo che siano morti.»
Il lombax fece presto ad arrivare alla conclusione che fosse un incendio di copertura. Dovevano esserci arrivati anche i Runners, se esprimevano quella congettura. Quindi Ratchet andò dritto al punto: «Avete già dei sospetti?»
«Nessuno, signore. La casa sta ancora bruciando e non possiamo entrare.»
«Ma quando potrete farlo il fuoco non avrà lasciato più niente.» obiettò duramente.
«Le squadre antincendio sono al lavoro da almeno un’ora, signore.» intervenne il cazar. «Sono arrivate che, però, il rogo era alto, e adesso fanno del loro meglio.»
«Aspettavamo quei due per cena.» raccontò Sasha, immaginando che stessero per chiedere che relazione ci fosse tra loro e gli inquilini di casa Beauford. Decise di giocare d’anticipo: «Il signor Beauford e Ratchet sono amici di lunga data, sapete, e lui non vedeva l’ora di farci conoscere la sua futura moglie...»
Magicamente comparve un taccuino nelle mani del cazar, che cominciò ad annotare. Ratchet si trattenne dal lanciare un’occhiata stranita a Sasha per le bugie esternate; così da reggerle il gioco.
«Certo...» commentò il markaziano. «Cosa potete dirci di loro? Avevano nemici?»
«Non che io sappia.» affermò il lombax. «Enrique è sempre stato un buon lavoratore, un po’ riservato ma benvoluto all’interno della 147sima.»
Il nome della caserma fece fremere le code di entrambi gli ospiti, effetto della fuga di Azimuth.
«E...conoscete il nome della signorina che avrebbe dovuto presentarvi?» proseguì il markaziano, facendo finta di nulla.
Di nuovo Sasha anticipò Ratchet: «No, voleva che fosse tutto una sorpresa. Sappiamo solo che era una markaziana di buona famiglia.» mentì seraficamente. «Credo che una volta il signor Beauford si sia lasciato sfuggire che provenisse da Kortog.»
«Un’ultima domanda: sapete se viveva da solo, o se avesse qualche domestico fisso, o altri oltre alla signorina temporaneamente presente?» volle sapere il markaziano. «Sapete...per il conteggio delle vittime e per l’identificazione.» borbottò poi, in imbarazzo.
«Credo che avesse una domestica, ma non ne sono sicuro.» rispose il lombax. «È...era una persona riservata, come vi ho detto.»
«Ci dispiace di avervi rovinato la cena.» asserì il cazar, chiudendo il taccuino. «Provvederemo ad informarvi sugli sviluppi, se gradite.»
«Sarebbe magnifico.» replicò Ratchet, alzandosi in piedi. La conversazione ormai era conclusa. Quando aprì la porta, ci pensò un servitore ad accompagnare i Runners all’ingresso, così lui rimase da solo con la cazar.
«Perché quelle menzogne?» domandò dopo qualche istante. «Almeno il nome potevamo dirglielo.»
«Ma avrebbero potuto accusarti di qualunque cosa, se avessero scoperto che Silver Darkshield non esiste in nessuno schedario. Così sarai al sicuro dalle insinuazioni, che sai che ci saranno, e con le informazioni che riceverai potrai indagare per conto tuo.»
«Già, quanto sono volenterosi questi Runners...» ironizzò il lombax.
«Beh, non possono entrare in casa di un personaggio in vista, interrompergli la cena con notizie ferali e non offrire niente in cambio.» rise Sasha, che si era avvicinata e gli aveva preso le mani. «Adesso dobbiamo solo tornare di là e spiegare la situazione agli ospiti.»
Ratchet abbassò le orecchie, sconsolato. «Tu guarda, do una cena ogni dieci anni e puntualmente qualcosa va storto. Proprio un bel modo di chiudere, stasera.»
La cazar gli carezzò il volto e lo tirò a sé per un bacio leggero, che sapeva di consolazione e d’affetto. Anche quando tornò alle distanze imposte dal buon costume, non smise un solo istante di fissare le iridi verdi del lombax e sorridere con dolcezza. «Qualsiasi cosa tu scelga di raccontare, ti reggerò il gioco. Vedrai che non avranno niente da ridire.»
Ascoltandola, il lombax non riuscì a pensare una frase che non fosse la devo sposare al più presto. Per la sua bellezza. Per l’acume. Per la sincerità schietta con cui lo ricambiava. Per mille altri motivi che venivano tutti prima delle rispettive posizioni sociali.
Si lasciò riaccompagnare nella sala principale, dove gli ospiti erano stati fatti accomodare a tavola. Fece sedere Sasha, prese posto a capotavola e cominciò a parlare delle ultime notizie.
* * * * * *
Ore 21:45 circa
Quartieri della media borghesia, locanda della Volpe Bianca
 
 
Quasi nessuno sapeva perché la prima porta cittadina, quella che dava verso le ville dei nobili, si chiamasse Porta Valle d’Oro. Kaden qualche volta se l’era chiesto, ma in quel momento non poteva importargli di meno.
Era uscito di persona, sotto le mentite spoglie di un mendicante, a sbirciare ogni carrozza che usciva dalla città. Si era acquattato contro i possenti bastioni delle vecchie mura e aveva atteso, coperto di stracci lerci. Ogni volta che aveva udito il ronzio tipico del levitatore e il rumore degli zoccoli delle chimere trainanti, si era fatto attento. Gli era stato detto il nome della compagnia che aveva scelto il maggiore, e sapeva più o meno che modello aspettarsi. La Shoo-Koien era nota per avere carrozze tutte nere, spaziose ma dalle forme semplici, con l’emblema inciso in oro sulle fiancate. Erano le carrozze impiegate dai funzionari dell’Impero e da chi volesse fare bella figura.
Kaden aveva atteso a lungo, cercando di reprimere il nervosismo dietro la convinzione che doveva esserci stato un contrattempo, forse un guasto al levitatore o forse un ritardo degli ospiti. Quando infine aveva visto una carrozza che corrispondesse a quella che cercava, era quasi scattato in piedi con un colpo di reni. Ma la freddezza del soldato lo aveva artigliato giusto in tempo, riportandolo con gelido rigore all’interpretazione del povero mendicante di strada. Allora si era avvicinato a piccoli passi alla fiancata lucida. Aveva sbirciato all’interno cominciando con la litania da mendicante, ma aveva ricevuto lo sguardo accigliato di due Runners. Il cazar aveva borbottato qualcosa su una scommessa persa e il markaziano gli aveva allungato qualche moneta. Kaden si era ritirato dopo qualche ringraziamento sommesso.
Dopodiché non era passata più alcuna carrozza della Shoo-Koien.
Aveva atteso lo stesso, speranzoso, ma la prima visita che destò il suo interesse fu quella di un finto benefattore di nome Clock Evans. La sua visita era stata breve, ma incisiva. Circa un’ora prima Evelyne aveva avuto una visione, tanto forte da farla crollare in mezzo al salone. Era stata portata in camera sua e quando si era ripresa aveva preteso di parlare con lui. Ragion per cui Clock era andato a “fargli la carità”.
In quel momento Kaden si muoveva fluidamente nei vicoli della sua città, seguito dall’amico. Erano vicini alla Volpe Bianca e ad ogni passo la sua curiosità aumentava. Lungo la strada aveva approfittato di alcune file di bucato umido e si era cambiato, abbandonando a lato della strada ora il gilet, ora la camicia, persino i pantaloni. Clock non aveva chiesto niente. Non era la prima volta che lo vedeva compiere un’azione simile: sapeva che, finché si fosse tenuto in movimento, il calore della giacca e dei muscoli non avrebbero permesso all’umidità dei vestiti di nuocergli.
E poi, in quel momento il freddo non era capace di sentirlo mentalmente. I pensieri erano concentrati in parte sul fallimento, in parte sulla salute di Alister, in parte sulla visione di Evelyne. In parte anche sulla ramanzina che avrebbe immancabilmente rivolto a qualcuno dei suoi, sebbene fosse una parte molto più piccola delle altre. Era certo che qualcuno fosse a zonzo, anche solo per le Dark Alley o le vie maleodoranti di Undertown.
Non poté fare a meno di ripensare alla carrozza con i due Runners e al crollo di Evelyne. Si chiese se i due fatti fossero collegati, in qualche maniera.
 
Ebbe la risposta quando entrò nella camera della ragazza. Clock era rimasto fuori assieme a Madeleine e insieme parlottavano di quello che fosse successo. Le loro voci, all’interno della stanza, erano solo sussurri sfumati.
Evelyne era seduta sul letto, con indosso un soprabito sulla camicia da notte. Teneva la testa china sulle ginocchia, cinte dalle braccia. Gli occhi erano ancora lucidi.
Con un gesto più paterno che da commilitone, Kaden si sedette sul materasso e la abbracciò. Era convinto che l’unico modo per svegliarla dalla paura che la ghermiva fosse quello di farle sentire calore, e poco dopo sentì la risposta della giovane, che si aggrappò a quell’abbraccio come se andasse della sua vita.
«Siete tutti al sicuro, vero?» domandò con un filo di voce. «Perché se c’è qualcuno fuori dall’acciaieria, è nei guai. I Runners sembreranno vespe impazzite d’ora in avanti.»
Kaden passò in rassegna la sua squadra. Era praticamente certo che qualcuno fosse in giro, ma si guardò bene dal dirlo alla ragazza. Qualsiasi cosa avesse visto, l’aveva sconvolta.
«Sono al sicuro, sì.» mentì. Evelyne bevve la bugia senza chiedere altro.
«Ho visto il passato.» rivelò, aggrappandosi con più forza all’uomo nell’istante di silenzio che seguì. «È stato spaventoso.»
«Il passato?»
Kaden non riuscì a nascondere la sua meraviglia: non era mai successo che la giovane vedesse fatti già accaduti. Fino a quel momento aveva visto sempre e solo frammenti di futuro.
«È stato terribile.» ripeté con la voce che cominciava a spezzarsi. «Era tutto contornato di fumo nero. Era come...come se io fossi la Creatrice. Ho visto coi suoi occhi. Tre soldati imperiali sono entrati nella casa, c’è stata una lotta... ho sentito i suoi pensieri, ho percepito la sua paura. Ed è stato lancinante...»
Le lacrime ricominciarono a scorrere lungo le guance. Trattenne un singhiozzo a stento mentre Kaden le carezzò la schiena.
«Era pronta per andare alla cena. Odiava il vestito. È scesa in salotto e ha visto morire un galoppino e un soldato. Qualcuno sparava da dietro il muro della cucina. C’era una cameriera, ha urlato e uno dei due soldati rimasti ha puntato l’arma contro di loro. È scappata al piano di sopra, in bagno. Ha tentennato, poi qualcuno le ha gridato di scappare e si è buttata dalla finestra, ma la aspettavano nella casa di dietro. Altri due soldati l’hanno presa e credo che l’abbiano sedata.» raccontò. «Poi è cambiata la scena. Ero qualcun altro, ma non so chi. Guardavo con orgoglio il cadavere del cazar che la custodiva. Poi cercavo i lumi d’emergenza: quando li ho trovati li ho vuotati sulle tende e sui mobili e ho dato fuoco. Poi la scena è cambiata ancora. Ero qualcun altro e mi sfregavo le mani, pervasa da una orrenda soddisfazione. Guardavo un baule e...e sapevo che dentro c’era la Creatrice, e non potevo fare a meno di essere felice di averla in pugno. Attorno c’erano i cadaveri di chi me l’aveva portata, li ho avvelenati perché non parlassero e i loro occhi...i loro occhi vacui erano sorpresi e terrificati...il mio animo gridava vendetta e invocava umiliazione per chi mi aveva umiliato...»
Evelyne si sentì improvvisamente stanca dopo quel fiume di rivelazioni e si chiuse nel silenzio. Di tanto in tanto un respiro più profondo degli altri ruppe il silenzio.
Kaden attese che la ragazza si tranquillizzasse un pochino, non riuscendo a capire se ad averla spaventata tanto fosse stato quello che aveva visto o se fosse stato il fatto stesso di aver visto il passato.
«Come ti senti adesso?»
La ragazza si accoccolò ancora di più. «Ho paura...guardare i morti in faccia è terribile...»
L’uomo cercò di tranquillizzarla carezzandole la testa. Non poteva negare che la ragazza avesse ragione. La prima volta che aveva ucciso era stato poco prima della caduta di Fastoon. Erano passati quasi trent’anni, eppure ricordava con dolorosa nitidezza ogni istante del suo primo omicidio, dalla paura che lo aveva attanagliato all’espressione di sorpresa e smarrimento del defunto quando il proiettile gli aveva trapassato il cuore. I primi tempi erano stati un susseguirsi di incubi atroci, misti a un’irrazionale paura che gli amici del defunto lo avrebbero cercato per ottenere vendetta. Poi, però, gli omicidi erano diventati una prassi. I nemici si erano tramutati in voci da spuntare dalla lista degli obiettivi abbattuti; l’angoscia aveva scemato fino al silenzio; l’anima si era abituata allo stillicidio dei buoni principi che ogni madre insegna.
Kaden sentì di non poter fare nulla di fronte al terrore istintivo della giovane, tranne parlarle con onestà: «È vero, è terribile, ma non sono morti né per te né per mano tua, quindi non hai motivo per soffrire. Non ti verranno a cercare.»
Evelyne volle aggrapparsi a quelle parole con tutta sé stessa. Continuò a ripetersi che lui sicuramente aveva ragione; tuttavia dentro di lei c’era l’idea fissa che quella notte sarebbe stata tormentata dagli incubi o, peggio, da altre visioni.
«Hai allargato i tuoi orizzonti.» sussurrò Kaden, mostrandosi fiducioso. «Non può essere successo per caso, e sicuramente non può essere qualcosa per cui tu debba sentirti male.»
La ragazza annuì, ma poco convinta. La Creatrice era una divinità e lei l’aveva insultata parecchio in quei giorni. In uno slancio pseudo-religioso si chiese se non fosse stato quello che l’aveva spinta a darle la visione del passato.
«E se fosse una specie di punizione?» domandò la ragazza, dubbiosa.
«Non conosco il perché, cara. Qualunque sia, però, tu ora sei una veggente che vede sia il passato che il futuro, e per noi questo è un dono.»
Un dono da sfruttare con cura, si disse, perché conoscere il passato potenzialmente significava diventare dei testimoni scomodi. Si ripromise di parlarne con lei, quando si fosse calmata un pochino.
Nessuno, in quel momento, avrebbe potuto demolire la sua convinzione che tutto ciò che fosse avvenuto quel giorno fosse collegato da un filo invisibile.
Che lui avrebbe trovato.

 

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Capitolo 7
*** | Capitolo Quinto | Scatta la trappola ***


Scatta la trappola
Capitolo Quinto
19 Gennaio, ore 11:00 circa
Sud-est del centro cittadino, quartieri industriali, acciaieria in disuso
 
 
Ad appena quaranta ore dall’avvenimento, l’incendio di casa Beauford era passato dalla prima alla quinta pagina del quotidiano locale.
Il caso aveva scosso un po’ tutti, e per i ribelli chiusi nella vecchia struttura aveva rappresentato un allettante modo per passare il tempo. Le edizioni del giorno precedente – quella del mattino e quella della sera – erano squadernate sul tavolo, mentre l’ultima uscita era in mano a Kaden. Gli altri, assiepati intorno a lui, ascoltavano in silenzio mentre leggeva l’articolo sul caso.
 
Non v’è dubbio alcuno che questo crimine sia stato perpetrato dai Ribelli. Gli investigatori hanno infatti rinvenuto tra le ceneri i resti di una piastrina, la quale, dopo i primi accertamenti, è risultata appartenere al già noto criminale Tarcis Bennett, di cui potete vedere la foto.
 
Il lombax biondo abbassò il giornale, così da mostrare l’immagine. Quattro paia d’occhi studiarono prima la foto in bianco e nero, poi il cazar. Non c’erano dubbi: era lui.
«Sul serio ti chiami Tarcis?» domandò Nencer.
Tarx, in un’altra occasione, sarebbe scoppiato a ridere e avrebbe risposto: «Già. Orrendo, non trovi?», ma in quel momento la sua attenzione era tutta rivolta all’articolo. Persino la sigaretta, l’ultima del pacchetto, quella che si era chiesto tante volte se accenderla o aspettare i rifornimenti, pendeva dimenticata dall’angolo della bocca.
Kaden, alzato il giornale, riprese.
 
Costui, frutto di un evidente disagio sociale, è come tanti figlio della guerra. Ma, a differenza della moltitudine di cittadini ligi a Sua Maestà, la sua mente è irrimediabilmente corrotta. A sostegno di ciò, il dottor Howard Abbott – che alcuni anni fa l’ha avuto ospite nella sua clinica – ha affermato che egli non è in grado di gestire razionalmente la sua rabbia.
Non è un mistero che i Ribelli accolgano chiunque manifesti dissenso verso l’Impero: dunque, è ormai chiaro che Bennett ha trovato rifugio presso questi, “che hanno irrimediabilmente compromesso le sue capacità di tornare sulla retta via” – testuali parole di Abbott.
 
Sembravano tutti aspettarsi che Tarx esplodesse. Mano a mano che l’altro aveva enunciato l’articolo, la linea della sua bocca s’era girata verso il basso. L’occhio sano aveva assottigliato lo sguardo. La sigaretta, diventata di troppo, era stata gettata in terra e calpestata.
«Vai avanti.» ordinò.
Kaden eseguì.
 
La domanda che sorge spontanea è: per quale motivo il soldato Beauford è diventato vittima della rabbia incontrollata di Bennett? Cosa lo ha spinto ad un gesto sì tanto efferato?
A rispondere è stato Calligar Phyronix, capo della divisione fastooniana dei Reepor Runners: “Le nostre sono solo supposizioni, ovviamente, ma i contatti con l’esercito ci danno modo di credere che il soldato Beauford, nello svolgere le sue mansioni la notte in cui Azimuth è evaso, sia venuto in contatto con Bennett. Il ribelle deve aver pensato di essere stato riconosciuto, e dunque ha fatto la sua mossa.”
La domanda successiva è stata: perché aspettare cinque giorni?
“Non lo sappiamo. Probabilmente si è informato sulla vittima; oppure ha aspettato che le acque si calmassero un poco.”
Giusto, perché Tarcis Bennett – secondo le indiscrezioni dei soldati – ha partecipato alla recente evasione di Alister Azimuth. Diversi di essi hanno asserito di ricordare bene la sua presenza nella caserma, quella notte.
“Non sappiamo dove sia, ora, ma non possiamo escludere che compia un altro gesto simile” ha concluso Phyronix. “Per questo motivo chiediamo che, chiunque sappia qualcosa, lo condivida con noi. Se le notizie sono fruttuose, la ricompensa sarà di 50 bolt; se ci porteranno direttamente a lui, invece, saremo lieti di offrire un premio di 250 bolt. Come vedete, è nell’interesse di tutti scovare quest’uomo. È nostro dovere fermarlo prima che la sua scia di sangue si allunghi.”
Vi è poi un’oscura analogia con un altro delitto...
 
Kaden s’interruppe. Lesse tra sé alcune delle righe seguenti, dopodiché chiese: «Volete anche le speculazioni più improbabili o vi basta questo?»
La risposta – bofonchiata – venne da Nencer: «È sufficiente.»
Tarx, sotto lo sguardo di tutti, si prese la testa fra le mani.
«Buon Creatore. A ‘sto giro m’hanno fottuto.»
Lo disse senza una tonalità vera e propria. Più che altro, era la somma finale di tutte le constatazioni pensate mentre Kaden leggeva.
«Beh, vedila così: finché sei nella Tomba sei al sicuro.»
Tarx guardò Reginald come per dire “fammi il favore”. Poco oltre, Sacha annuì con un gesto accennato. Difficile capire se dava ragione a uno o all’altro: conoscendolo, poteva essere un cenno relativo a pensieri propri.
«E poi lo sappiamo che non puoi essere stato tu.» intervenne Nencer, che, in un raro gesto di conforto, lo afferrò per il gomito con fare rassicurante. «Al di là che siamo chiusi qui da una settimana, tu le piastrine le hai perse anni fa.»
«Grazie, ma non è questo il punto. Guarda dove siamo. Le persone che abitano qui intorno, al massimo, guadagnano due bolt al mese. Pensi davvero che ci sia qualcuno che rinuncerebbe a dieci anni di paga?»
«Ecco...»
«Appunto.» rimbeccò Tarx. «Mi gioco l’occhio buono se non c’è qualcuno pronto a dire “io l’ho visto”.»
Per quanto riluttanti ad ammetterlo, gli imperiali avevano fatto leva sull’unica cosa che avrebbe smosso anche gli animi più filo-ribelli. Rimanere nascosti sarebbe stato più difficile senza un appoggio certo della popolazione.
«Se anche fosse, nessuno sa che sei qui.»
Kaden appoggiò il giornale sul tavolo con noncuranza. Il suo gesto, assieme al tono convinto, decretarono la fine del discorso.
«Ne sei sicuro?»
Il lombax biondo alzò il mento di un poco e guardò Sacha dritto negli occhi. Quella domanda, per quanto banale, comportava una mancanza di fiducia. E la fiducia, per Kaden, era uno dei valori che non doveva mai venir meno.
«Ha portato Alister con me, e in seguito non è mai uscito. Siamo passati dalla superficie. Nessuno di Undertown ci ha visti.»
Parlò con asprezza, sfidando il giovane a smentire le sue parole.
Sacha fece un cenno di assenso, rinunciando a qualunque risposta. L’altro proseguì: «Tarx, senti, hai due scelte. La prima, se vuoi, è rimanere. Se ritieni meglio andartene, invece, ti indicherò una via per le miniere ad ovest. In ogni caso, oggi non uscirà nessuno. Pensaci.»
Nencer tornò a sedersi. Lanciò un’occhiata priva di interesse al mazzo di carte e si mise a pensare a un modo per uscire dalla situazione. I suoi pensieri, così come quelli di Reginald, Tarx e Sacha, non avevano niente a che vedere con quelli degli altri, che, pure, cercavano una soluzione allo stesso problema.
Solo Kaden aveva la testa su una visione più ampia del quadro. Non aveva aperto bocca sulla nuova abilità di Evelyne, né su ciò che Madeleine le aveva riferito la sera precedente.
 
Madeleine Evans, sorella di Clock e moglie del dottor William Harcourt. Kaden la considerava un alleato prezioso, al pari con Evelyne. Ella, infatti, era una delle poche donne ammesse nel corpo degli infermieri. Lavorava come assistente del marito, sia all’ospedale Tachyon I che per i Ribelli. Era lei che, sin da quando avevano attuato l’evasione, si occupava di Alister. Le sue doti di guaritrice, per l’evaso, erano state provvidenziali quanto la bravura di suo marito come chirurgo.
 
La sera precedente, dopo essere stata alla Volpe Bianca, aveva portato una brutta notizia: Evelyne era crollata. Da quando aveva cominciato a vedere anche il passato, non trascorreva più di mezz’ora tra una visione e l’altra. Era terrorizzata da ciò che vedeva e Roger aveva dovuto metterla a riposo. Anche così, però, le immagini si accavallavano nella sua mente.
Con Alister che doveva stare fermo ancora tre giorni, Evelyne fuori controllo e Tarx in costante rischio di denuncia, la situazione era decisamente giù per i coppi. Senza contare che la Creatrice era sparita.
Kaden analizzò i fatti basandosi su ciò che conosceva: i dati colti di persona, quelli ricevuti tramite spie e anche quelli appresi dai giornali, dando loro più o meno credito. Le conclusioni a cui giunse non gli piacquero. Pensandoci bene, nelle ultime tre settimane Evelyne aveva visto cinque futuri diversi, e neanche uno si era verificato. Informazioni errate, le condizioni di Alister, la fuga rocambolesca dal carcere, e in ultimo la sparizione della Creatrice. Evelyne aveva perso la sua abilità? I suoi futuri erano stati falsati da coincidenze?
No, rifletté. Era convinto che il problema non risiedesse nella veggente, e – allo stesso tempo – dopo trent’anni di guerra e guerriglia non credeva più nelle coincidenze.
Dunque, in conclusione, la partita doveva prevedere un terzo avversario.
Il suo umore scese ancora più in basso.
 
L’atmosfera cupa della stanza venne interrotta dall’ingresso di Madeleine. La sua presenza fu colta solo quando i tacchi risuonarono nella stanza, causando più di un sobbalzo.
«Scusate...» mormorò.
Portava un vecchio vassoio bombato, su cui il bollitore e alcuni bicchieri stavano in equilibrio precario.
«Ho preparato una tisana. Ho pensato che avrebbe potuto aiutare anche voi.» aggiunse, quasi per giustificare cosa facesse al di fuori della stanza di Alister.
La lombax era in piedi da quasi un giorno e mezzo. Gli occhi e la voce erano segnati dalla stanchezza; ma quanto quelle ore l’avessero sfiancata divenne visibile quando, dopo aver poggiato il vassoio sul tavolo, riunì le mani sul vestito. In quel momento non riuscì a trattenere un lieve tremore delle dita. Come volevano le usanze fece finta di nulla, ma la sua debolezza non sfuggì agli occhi più attenti del gruppo.
Kaden, che come gli altri aveva apprezzato l’interruzione del momento cupo, non perse l’occasione.
«Maddie, cara, dovresti riposare.»
La lombax rispose con qualche istante di ritardo. Lo sguardo, che carezzava le ammaccature sul bollitore, tradiva la quantità dei suoi pensieri.
«Sì, lo so. Ho voluto arrivare al limite, ma...ho pensato che avrei potuto farvi un ultimo favore, prima di coricarmi.»
«È un pensiero gentile.» intervenne Reginald.
La donna fece un cenno con il capo.
«Se non è di troppo imbarazzo, potrei usare una delle vostre brande?» domandò. «Non credo di resistere fino a casa.»
«Se non crea imbarazzo a te.» replicò Kaden, memore delle minacce non troppo velate di William. «Fai pure senza remore.»
Madeleine annuì.
«Allora mi accomiato. Grazie per la disponibilità. Svegliatemi se dovesse succedere qualcosa.»
Leggera com’era arrivata, voltò le spalle al gruppo e sparì in direzione del camerone.
Tarx osservò la sua figura che sfumava nel corridoio, poi si versò un bicchiere di tisana.
«Maddie è troppo buona.» borbottò. «Fa più ore qui che all’ospedale.»
Nencer colse l’occasione per cercare di cambiare discorso.
«Finché William la copre...» e alzò le spalle con indifferenza. «Credo che ufficialmente sia data malata. Non credo che la cercheranno fino alla prossima settimana.»
«Sì, ma a furia di starci dietro le verrà davvero un malanno.»
«Non desisterà fino alla completa guarigione di Alister.» commentò Kaden, che imitò Tarx e si versò un bicchiere di tisana. «Lo sapete com’è fatta. Però dovremmo pensare a un modo per sdebitarci, una volta finita.»
Ma non finirà mai, di questo passo. Il pensiero attraversò in un lampo le menti di tutti.
«Ci dobbiamo riprendere la Creatrice, per quello.» obiettò Sacha. «Ci serve.»
«Vero.» commentò Reginald che, prima di sorseggiare, portò il bicchiere al naso. «Nh, agrumi. La sua miscela preferita.» aggiunse. Centellinò un sorso della bevanda, dopodiché chiese: «Secondo voi dove le trova le erbe di questo periodo?»
Rispose Tarx, per nulla colpito dall’improvvisa frivolezza dell’argomento. «In ospedale ne hanno a casse. Nessuno dice niente se ne porta via un po’ a scopo personale.»
Kaden drizzò le orecchie. Osservando il colore della tisana, così simile a quello delle piastrine, percepì che era scattato un interruttore.
Ne hanno a casse. Nessuno si lamenta.
Simili alle tessere del domino, le idee si concatenarono in un nuovo quadro, più inquietante ancora dei precedenti.
«Loro sanno che è un’umana...» si ripeté, sconcertato.
«Sì, lo sappiamo.» fece notare il lombax dagli occhi bicromi. Kaden non lo ascoltò.
«No, voglio dire: non l’hanno uccisa perché è un’arma delle più comode. Forse non sanno delle sue capacità, ma basta la sua presenza per fucilare qualcuno.»
«Ma allora perché entrare in casa di un loro alleato, farlo secco e poi incolpare noi?» obiettò Nencer.
«Per farla sparire.» replicò l’altro, concitato.
«Non spiega comunque il numero di cadaveri rinvenuti.» disse Reginald, alludendo all’articolo del giorno precedente. «Ci sono due civili e cinque soldati. Posso capire il galoppino della Shoo-Koien e la domestica, ma i militari? Perché mai il maggiore ne ha tirati in ballo così tanti?»
«Infatti non è stato il maggiore.»
Quattro paia d’occhi l’osservarono stralunati.
«Prego?»
«Noi diciamo “il maggiore” per partito preso, perché è indubbiamente l’imperiale più accanito degli ultimi tempi, ma non credo che sia stato lui.»
Più di un sopracciglio schizzò verso l’alto, a delineare un’espressione scettica.
«Stai dicendo che è una vittima?» domandò Nencer. Kaden alzò una mano, zittendolo.
«Dico che è improbabile che sia il colpevole. È diverso.» spiegò. «La Creatrice è stata fatta uscire dal carcere ed è stata affidata a Beauford dietro autorizzazione del maggiore – Clock ha dato una letta ai documenti. Sembra che si conoscessero da qualche tempo, stando ai giornali. Ora, non so voi, ma non farei uscire qualcuno d’in galera affidandolo ad un conoscente per poi ammazzarlo e dare la colpa a terzi. È troppo contorto anche per i nobili di corte. Se il maggiore avesse voluto far sparire la Creatrice, avrebbe potuto farlo direttamente dal carcere. Sono convinto che lui e Beauford avessero in mente qualcosa, che è andato a puttane.»
«È plausibile.» commentò Sacha, senza alcuna inflessione.
«Quindi stai insinuando che qualcuno abbia scoperto le trame del maggiore e gli abbia rovinato la festa, tirando poi di mezzo noi altri?» domandò Tarx.
Kaden alzò le spalle, allargando le braccia. «Di certo non è l’imperiale più amato della caserma.»
«Quindi gli tirano lo scherzo e poi lasciano le piastrine di Tarx per depistarlo.» intervene Reginald, posando il bicchiere sul tavolo. «Supponiamo che sia così. Come si spiegano le morti dei militari?»
«Col vantaggio di mettere le mani su un’arma più unica che rara e non doverla condividere con altre cinque persone, che potrebbero accoltellarti alle spalle quando meno te l’aspetti.»
«Ti ricordo che le mie piastrine dovrebbero essere nell’archivio criminale della 147sima, però.» obiettò il cazar.
«Anche le erbe di Maddie dovrebbero essere in ospedale.»
«Ma...»
Stava per dire “e questo cosa c’entra?”, quando il punto focale di tutto il discorso divenne chiaro. Allora la bocca si spalancò in una “O” muta.
Immerso in un silenzio surreale, Kaden non riuscì a trattenere la soddisfazione. Poco professionale, ma tanto spontaneo per lui, che gioiva di ogni progresso, infimo o immenso che fosse.
«Non ho idea di chi sia stato, ma l’incipit è il più plausibile che abbiamo. Al ché poi ci sono altre domande: hanno davvero riconosciuto Tarx dentro la 147sima? Se la risposta fosse sì, al di là del “chi è stato?”, possiamo presumere che abbiano scelto intenzionalmente le sue piastrine, ma...»
«A caso o no poco importa.» replicò il cazar, stringendo i pugni tanto forte che emersero le vene sugli avambracci. «Se trovo quel figlio di puttana lo scuoio. E senza fargli il favore di ucciderlo prima.»
* * * * * *
Ratchet e Sasha, passeggiando a braccetto, imboccarono Vapedia Street. Quasi a metà della via, tre o quatto incroci più avanti, si vedevano le corde di barriera. Le funi, spesse e di colore sgargiante, si srotolavano tutt’intorno ai resti di casa Beauford, impedendo l’accesso ai curiosi. Due runners piantonavano l’ingresso.
«Sasha, sul serio, non dovresti farlo.»
«Sono la figlia del loro capo. Una malaparola mia e saranno cacciati a pedate: non mi rifiuteranno niente.»
«Sì, ma che mi dici della tua guardia del corpo?»
Lanciò una rapida occhiata alle sue spalle. A qualche passo di distanza, vestita di una livrea bianca, c’era una lombax con una lunga treccia di capelli rossi. Era la guardia del corpo di Sasha e li aveva seguiti sin dal loro incontro.
La cazar non sentì il bisogno di guardarsi alle spalle.
«Mio padre non saprà nulla da Lilith. È una buona amica.»
«Ma lavora per tuo padre.»
«No, lavora per me. E mio padre è convinto che stiamo amabilmente chiacchierando a spasso per Kerwan Street, o seduti al tavolino di un caffè di Central Plaza; cosa che sarà la versione ufficiale per tutti alla fine della giornata.»
Passeggiavano da un’ora circa e lei, trovando irrequieto il suo gentiluomo, aveva deciso che quel giorno la passeggiata avrebbe nascosto la loro indagine personale. A Ratchet – quando aveva scoperto dove stavano andando – l’idea non era piaciuta, per quanto avesse apprezzato lo sforzo della cazar.
«Non sarà un bello spettacolo. E poi mi spieghi da quando sei così spietata?»
Sasha finse di ammirare un’abitazione per un lungo istante.
«Sono fidanzata da un tempo che comincia ad essere lungo; devo sopravvivere alle chiacchiere in qualche modo. Lo sai che non c’è niente di più efficace per distruggere una persona.»
Il lombax si sentì colpire dall’accusa indiretta.
«Ne abbiamo parlato, cara...» tentò di giustificarsi.
«Però non siamo gli unici ad averlo fatto. Aspettare non mi pesa, ma le insinuazioni che si mormorano nel frattempo sono quanto meno disagevoli.»
Ratchet aggrottò le sopracciglia.
«Quali?»
«Andiamo, caro, quali vuoi che siano?» lo riprese lei. «Siamo fidanzati da molto, eppure vieni più spesso per parlare con mio padre che per vedere me, sei sempre preso dai ribelli...»
«Quindi dicono che ti trascuro.» concluse lui.
Sasha denegò lentamente, poi lo corresse: «Quindi dicono che non sono abbastanza interessante, che sono problematica per la mia posizione sociale, che sono poco fresca per un militare di bella presenza come te. E che è più che lecito che tu...come dire, cerchi intrattenimenti diversi.»
«Che sciocchezze!» Ratchet impugnò più rigidamente il bastone. «Me ne occuperò al più presto, vedrai. Ma prima di chiedere la tua mano c’è una cosa che devo chiarire, ed è estremamente importante.»
Sasha fece un cenno col capo, nascondendo appena in tempo l’espressione amareggiata che le era comparsa in viso. Era da quando l’aveva conosciuto che doveva risolvere una questione importante, ma quale fosse era un mistero da anni.
E aspettare, con un fidanzamento sempre più arido e l’età in cui l’avrebbero bollata come zitella sempre più vicina, era tutt’altro che leggero.
 
Casa Beauford era un cumulo di macerie annerite. Gran parte di esse era stata spostata in quattro grandi mucchi, ma si riconosceva ancora dove sorgeva l’abitazione. Lì c’era un cumulo più scomposto, da cui spuntava la sagoma cilindrica di un boiler, ora tutto ammaccato.
Non era un bello spettacolo, ammise Sasha. Ratchet aveva già avuto a che fare con quella desolazione e, sapendo cos’avrebbe visto, non rimase impressionato.
Uno dei runners – un cazar più largo che lungo – alzò una mano con fare imperioso.
«Non potete entrare qui, signori.» asserì pacatamente.
Il lombax, già pronto per dichiarare guerra, si accorse della casa retrostante quella di Enrique, e un istante dopo disse: «Sono il maggiore Ratchet, della 147sima. Potete dirmi chi abita in quell’edificio?»
Sasha spalancò gli occhi per la sorpresa, chiedendosi da dove venisse fuori la domanda. Osservò lo stabile: piccolo, di mattoni scuri, con la facciata verso casa Beauford annerita dalla fuliggine.
Il runner si voltò per un istante. «Oh, quella.» disse subito dopo. «Il suo proprietario è Theodore Turner. Ci vive con la moglie. Se ha intenzione di interrogarli, signore, sappia che non erano presenti la sera dell’incendio.»
L’altro fece un cenno d’assenso. Ricordava di averlo letto sulla relazione del giorno prima, ma fece finta di non saperlo. «Capisco. E gli altri vicini?»
«I signori Etbeth si sono nascosti per la paura. I Rockwell, invece, hanno avuto il buonsenso di chiamare aiuto, per quanto sia stata un’azione tardiva.» avrebbe voluto essere più esaustivo, ma il bon ton gli impediva di scendere nei particolari più cruenti. Maledì tra sé la presenza di Sasha e concluse: «In ogni caso potete chiedere tutti gli aggiornamenti alla nostra caserma, signore. In teoria non potrei parlarvene.»
Ratchet annuì, prestando attenzione come se udisse quelle notizie per la prima volta. Al rimprovero, poi, mostrò una faccia dispiaciuta.
«Certo, capisco, ci andrò sicuramente. Grazie soldato, e buona giornata.»
Fece dietro front e si diresse verso casa Turner. Il primo passo fu tanto deciso che Sasha incespicò nell’abito e per poco non cadde.
«Oh, perdonami.» si affrettò a dire Ratchet, aiutandola a rimettersi dritta. Il runner si stupì della libertà di linguaggio, mentre si chinava prontamente a vedere se ci fosse bisogno d’aiuto – ottenendo peraltro due occhiatacce; una di Ratchet e l’altra di Lilith.
Il maggiore lo allontanò con un cenno di mano e poco dopo riprese a passeggiare con Sasha. Lilith attese che la oltrepassassero e, ripresa la giusta distanza, si mise loro in coda.
«Temo di aver combinato un altro pasticcio sociale.» mormorò lui, ghignando divertito.
La cazar si sforzò di sorridere. «Temo anch’io. Il tuo patrigno ti farà un’altra lavata di capo.»
«Il mio patrigno è inutilmente formale. Se ti chiamo per nome, perché darti del Voi?» obiettò lui, conducendola pacificamente lungo Vapedia Street. «Però, davvero, scusami. Non volevo... - »
«Scuse accettate, signor Adler.» lo interruppe lei. «Solo, d’ora in poi, per evitare altre chiacchiere spiacevoli, vi chiedo di trattarmi col rispetto richiesto dal galateo, quando siamo in pubblico.»
Ratchet sembrò ingoiare un rospo. Lui e il galateo avevano un rapporto quanto meno singolare, per non dire difficile.
«Ciò comporta che dovrò lasciarvi per qualche tempo, signorina Phyronix. Ho intenzione di andare a parlare con i signori Turner, e non vorrei annoiarvi o, peggio, disgustarvi.» asserì, irrigidendosi.
A meno che non fosse un ambito militare, ogni volta che doveva esprimersi con l’ampollosità richiesta dal cerimoniale, si sentiva in perenne difficoltà. Era la frase giusta? Avrebbe offeso il tale davanti a lui? L’errore era sempre in agguato, e la società sembrava vivere degli errori altrui.
A giudicare dalla reazione di Sasha, però, non aveva commesso sbagli. La cazar chiamò la sua guardia del corpo con un cenno e, una volta che si fu avvicinata, disse: «Accompagnatemi a Central Plaza, Lilith. Il signor Adler ha da fare, ma siamo d’accordo di rivederci al Caffè Jandrix tra un’ora.»
Si salutarono brevemente, dopodiché Ratchet andò di gran carriera verso casa Turner.
 
Ad aprire fu un maggiordomo dall’aria snob, che tuttavia – dopo i dovuti annunci ai padroni di casa – lo fece accomodare nel salottino e gli chiese di attendere. Ratchet fece tempo a criticare l’intero completo di trine che ornava i mobili, prima che una lombax pingue apparisse sulla porta e si presentasse come Mildred Turner.
«So che i miei colleghi sono già venuti ad interrogarvi, signora, ma vorrei lo stesso che rispondeste a qualche semplice domanda.» disse dopo le prime frasi di circostanza.
Mildred studiò la persona davanti a lei con poche occhiate. Seduta sul bordo della poltrona, non poteva fare a meno di muovere nervosamente le dita.
Ratchet aveva imparato a riconoscere i vari stati emotivi nel corso della sua carriera. La donna davanti a lui – giovane e dalle forme piene – sembrava aspettare che qualcuno la salvasse.
«Vi prego di considerarla come una visita ufficiosa.» continuò, cercando di non risultare troppo militare. «Il signor Beauford era un mio conoscente, e mi preme fare luce sulla sua scomparsa prematura.»
La frase ottenne l’effetto sperato: Mildred si rilassò un poco – complice il fatto che il maggiordomo rientrò in salotto – e trovò la forza di obiettare: «Ma non posso aiutarvi. Theodore è un cancelliere del tribunale, sapete, al servizio del giudice Dowdale. Dopo il caso Rigsby, il giudice ha voluto premiare mio marito consentendoci di trascorrere qualche giorno come ospiti di un club a Brecon City. Siamo tornati ieri mattina.»
Il lombax annuì. Il caso Rigsby era stato famoso subito prima del caso Azimuth. Solo che, a differenza del primo, il secondo si era risolto rovinosamente.
«Non è una testimonianza diretta che sto cercando, state tranquilla.» asserì. «Quello che mi interessa è: avete trovato la casa in ordine, al vostro rientro? Intendo: esattamente come l’avete lasciata?»
La domanda colse la donna di sorpresa. Aveva letto i giornali; era aggiornata sulla vicenda. E quella frase aveva un’unica interpretazione. «Intende dire che i ribelli hanno usato la nostra abitazione come rifugio?»
«È una congettura che, purtroppo, non possiamo ancora screditare.»
Mildred sbiancò.
«Beh...no, in effetti lo studio era piuttosto in disordine.» ammise, intrecciando le dita così strette da far impallidire i polpastrelli. «Il tavolo era fuori posto e il tappeto sotto la finestra era sporco di muffa, però non c’era nient’altro. Non l’abbiamo ritenuta una cosa importante.»
«Potrei dare un’occhiata?» domandò lui. La donna annuì con fare nervoso e lo condusse attraverso il corto corridoio fino allo studio del marito.
La prima cosa che colpì Ratchet fu il quadro della finestra. Contrariamente a quanto si aspettava, non dava sul giardino interno; ma sul lato. Aprì i vetri e si sporse a guardare: da una parte c’erano il giardino interno e i resti di casa Beauford; dall’altro la parallela di Vapedia Street. La finestra dava sul viottolo che li collegava.
Corrucciò le labbra e richiuse le ante. Sotto i suoi piedi il tappeto – con i corti pelucchi annodati in fantasie floreali cupe – confermava la versione della signora Turner. I segni che la pesante scrivania aveva lasciato su di esso dimostravano che il mobile era stato spostato; mentre sul bordo qualcosa attirò l’attenzione del maggiore. Si chinò per osservare meglio e riconobbe il tentativo non completamente riuscito di pulire il tappeto dalla muffa. Essa, per quanto sfregata, rimaneva tenacemente attaccata ai pelucchi, disegnandovi microscopiche macchie verdoline.
La linea delle macchie, lungo il bordo, continuava per quasi mezzo metro. Ratchet vi passò un dito sopra e la sfarinò tra i polpastrelli, prima di guardare bene il resto del tappeto.
Dopo un tempo che gli parve soddisfacente, si rialzò in piedi e guardò la signora Turner dritta negli occhi.
«Vi ringrazio, signora, ho finito.» disse. «Se permettete...»
«Oh, sì, certo!» Mildred sembrava rinata per il sollievo. «Prego, l’ingresso è di qua.»
* * * * * *
Ore 17:45 circa
Central Plaza
 
 
Il Caffè Jandrix si adagiava sulla parte sud-est della piazza, ostentando gli sfarzi dei suoi interni con grandi finestre e una cupola di vetro ricamata d’ottone.
Al suo interno, al secondo piano, Ratchet si fece accompagnare da un cameriere al tavolo occupato da Sasha e Lilith.
«Buon pomeriggio, signorine. Mi è concesso sedere con voi?» domandò. Lilith si alzò subito in piedi e porse un inchino rigido.
«Buon pomeriggio a voi, signore.»
Si mise un passo dietro Sasha nel momento in cui la cazar si alzava e salutava con: «Sono spiacente, signor Adler, stavamo per avviarci verso casa. Ma, se voleste, potreste accompagnarci. Che ne dite?»
Ratchet annuì. «Volentieri, signorina Phyronix.»
Sasha sorrise. Attese che Lilith l’aiutasse ad infilare il cappotto, dopodiché s’avviò a braccetto del suo gentiluomo.
 
Alcuni minuti più tardi, dopo aver occupato una carrozza del servizio pubblico, riprese la conversazione. Fu Sasha ad esordire.
«Penso che tu mi debba delle spiegazioni.» disse, una volta appurato che nessuno fosse a portata d’orecchio (nessuno tranne Lilith, che era abituata al loro modo altamente informale).
L’altro si guardò intorno. Una volta concluso che nessuno li stava spiando, disse: «La casa dietro quella del soldato era vuota la sera dell’omicidio; mi è tornato in mente quando siamo giunti alle funi di barriera. Ho pensato che potesse aver avuto un qualche ruolo, e credo di aver fatto centro.»
«Ossia?»
«C’è uno studiolo che da sul viottolo tra il giardino interno e Morklon Street. Il tavolo è stato spostato all’insaputa dei signori Turner, che hanno rinvenuto una macchia di muffa verde sul tappeto. Ora. Questo tappeto ricopre quasi tutta la stanza, e le tracce rimaste della macchia mi fanno pensare ad un oggetto grande di forma rettangolare.»
«Un mobile?» domandò Sasha.
Ratchet denegò. «No, se avesse avuto i piedi il tappeto sarebbe rimasto segnato. Era qualcosa a struscio. Qualcosa non tanto pesante, dal momento che il tappeto non è rovinato.»
«Un baule, dunque, o qualcosa di simile.»
«...Un mobile per cui potrebbe essere necessario spostare il tavolo e che potrebbe avere il fondo ammuffito, certo!» il lombax sembrava essere stato folgorato. «Cara, sei un genio!»
Dopodiché partì a tutta velocità: «Immagina di essere il colpevole e di voler far sparire qualcuno. Se organizzassi la scena a dovere potresti indurre la preda a scappare nella direzione in cui vuoi tu; quindi basterebbe semplicemente aspettarla! Ma sì, ma sì, certo! Ecco come hanno fatto...hanno sfruttato la casa dei Turner, hanno atteso che il loro obiettivo cercasse una fuga dal retro e l’hanno attirato nel salotto, dove però l’hanno chiuso nel baule e fatto sparire! Ecco come...ecco, dev’essere andata così...»
La cazar dissimulò un colpo di tosse. «Siamo in pubblico, caro. Cerca di non urlare.»
Ratchet storse il naso. «Sì, è vero.» ammise, annotando a sé stesso di prestare più attenzione. «Dannate manfrine.»
«Lo so. Abbi pazienza.»
«Comunque.» grugnì. «C’è da dire che non ha un granché lo stile dei ribelli. Enrique era un obiettivo troppo piccolo per una mossa tanto eclatante.»
«Hanno trovato le piastrine di quel Bennett, però, e gli unici altri a conoscenza della signorina Darkshield sono proprio i ribelli.»
«Al contrario: c’è anche il dottor Saak.» la corresse, giocando con il bastone. «L’ho mandato a casa di Enrique a visitare la signorina il giorno dopo l’evasione di Azimuth.»
Sasha si portò una mano davanti alla bocca. «Oh, allora il segreto potrebbe essere stato svelato.» rivelò. Poi riportò la mano in grembo e spiegò: «Ho sentito il valletto di mio padre raccontare di aver visto il dottor Saak al Pub del Beone, qualche sera fa. Era piuttosto alticcio, pare.»
Ratchet sgranò gli occhi. Era convinto che il dottore fosse astemio; lo aveva scelto anche per quello.
«Sai se era da solo?» domandò, allarmato.
«No, il valletto ha detto che parlava con un soldato teracnoide.»
Il maggiore coprì gli occhi con una mano. Passò un lungo istante di silenzio.
«Diamine, ora sì che sono guai. Solo il Creatore sa che casino c’è dentro la 147sima. Darkwood è dovuto rientrare di corsa ed è infuriato a morte. Doveva esserci lui al comando della caserma, la sera in cui Azimuth è evaso, e gli stanno facendo pressioni dall’alto. Se venisse fuori anche questa storia, io avrei già il cappio al collo. E quei dannati ribelli si sono ripresi l’unica prova di tutta la trama.»
Sasha si chinò a risistemargli il bavero del cappotto. «Dunque credi anche tu che siano stati i ribelli?»
«Non è il loro stile, te l’ho detto; anche se le prove non mi aiutano.» replicò lui. «Per ora mi limiterò a sostenere la versione ufficiale, ma se Saak ha parlato non posso escludere che ci sia qualcun altro dietro.»
Ma chi, però?
Ci fu un altro breve silenzio, durante il quale ciascuno dei presenti osservò qualcosa di diverso. Ratchet guardò fuori dal finestrino; Lilith si ostinò a tenere gli occhi fuori dall’altra parte, e Sasha scrutò i ricami della tappezzeria. La fantasia intessuta nel broccato scuro ricordava le volute del fumo: un susseguirsi di ombre indefinite. Ogni curva nascondeva una figura diversa, disegnando un gioco enigmatico che somigliava allo svolgersi dei fatti recenti.
Quanto male avrebbe portato la faccenda in cui avevano scelto di imbarcarsi?, si chiese. Provava una strana angoscia quando pensava all’umana. Pena per lei e timore per loro.
Scacciò i suoi pensieri prima che si facessero cupi. Divisa tra dare e chiedere conforto, Sasha prese una mano di Ratchet e la strinse fra le sue.
«Promettimi che farai attenzione.» disse sottovoce. «Stai ballando su un campo minato.»
Il lombax si trattenne a stento dal dire “lo so”.
«Ci proverò.» rispose. Ma non era sicuro di riuscirci.
* * * * * *
Ore 19:15
Aperta campagna, villa di Ratchet
 
 
Villa Adler era stata donata a Ratchet dall’uomo che lo aveva adottato. Il suo patrigno – un militare con il pallino per l’onore – l’aveva fatta costruire pensando alla sua discendenza, e quello era stato uno dei punti critici della loro relazione. Poi, però, i rapporti si erano raffreddati di colpo: il patrigno si era trasferito su Reepor, al servizio del Gran Consiglio Militare, e Ratchet aveva dovuto cominciare a prendersi cura della casa e dei suoi affari.
Kreegan, il governante, era l’unico a conoscere tutti i segreti di quelle mura. Nemmeno Daniel, che era il valletto di Ratchet, ne sapeva quanti il governante. Il lombax stesso non conosceva tutti gli anfratti della casa, anche se ci era cresciuto. D’altra parte non gli era nemmeno mai interessato conoscere l’esatta ubicazione di tutte le cantine e dei sotterranei.
Quella sera, però, se ne pentì amaramente.
 
Dopo aver riaccompagnato Sasha e Lilith alla villa (con quest’ultima sempre vigile verso ciò che succedeva all’esterno), si fece portare fino alla propria abitazione.
Una volta passato il cancello, tuttavia, fu subito visibile che qualcosa non andava. C’era troppa luce intorno all’edificio. Ratchet si sporse dal finestrino, vedendo almeno mezza dozzina di uomini fare avanti e indietro, dentro e fuori dal portone.
«Ferma!» gridò al vetturino. «Ferma la carrozza!»
Scese di corsa, ignorando le proteste per il mancato pagamento, e raggiunse l’ingresso. Tre militari – tre teracnoidi, tra cui Emerald Yerzek – stavano parlottando tra loro.
Gli tornarono in mente le parole di Sasha: parlava con un soldato teracnoide. Tuttavia l’irritazione vinse la prudenza. Afferrò uno dei tre per il braccio e lo costrinse a girarsi.
«Cosa diamine succede?!» ringhiò. «Cosa fate a casa mia?»
La ferita in viso, complici la luce particolare e le orecchie abbassate, trasfigurò il suo volto donandogli un’espressione molto vicina alla furia. Il militare ebbe un fremito.
«U-una soff-soffiata, signore.»
Qualcosa fece pressione sulla mano con cui Ratchet stringeva il soldato. Quando abbassò lo sguardo notò un bastone. Lo reggeva Yerzek, che in quel momento mostrava più autorità di quanta Ratchet gliene avesse mai vista.
«Maggiore Adler, mettete giù le mani.» scandì. «Non peggiorate la vostra situazione.»
Quanti riguardi per uno che mi disprezza.
Non fu proprio un pensiero formulato. Fu una sensazione, più che altro. Fu quello che fece svaporare un po’ d’irritazione in favore della diffidenza, in modo da mantenere la guardia alta.
«Peggiorare?»­­
«Sì maggiore, peggiorare.» confermò Yerzek. Uno strillo alla sua destra gli fece voltare la testa. Ratchet si rese conto che Kreegan e Daniel erano stati portati in un angolo del giardino. In quel momento lo guardavano con aria perplessa e – sotto sotto – spaventata. Portavano i segni di una colluttazione, il ché non contribuì in favore dei militari, agli occhi del padrone di casa. Uno sparo, in alto, seguito da grida di paura, lo fece rendere conto che gli altri domestici erano stati radunati nel salotto verde. Tante paia d’occhi lo scrutavano dalle finestre, imploranti. Il lombax pregò che stessero tutti bene, mentre una specie di insofferenza rabbiosa prendeva corpo dentro di lui.
«Ci sono giunte voci sul vostro conto.» proseguì Yerzek, che si era interrotto quando l’altro aveva distolto lo sguardo. «Voci che parlano di voi e di un umano
La coda del lombax frustò l’aria. La schiena s’irrigidì, le spalle si aprirono appena. Lasciò andare il teracnoide balbuziente e affrontò apertamente il suo parigrado. Il terzo militare, segnato da un grosso livido in faccia, fece finta di sentire un richiamo e si allontanò in direzione della villa.
«Questa è una menzogna!» esclamò Ratchet. «Grande come un pianeta, per giunta! Come potete essere tanto imbecille da darvi adito?!»
«Già, perché mai il figliastro di Arthur Adler, generale di punta del Gran Consiglio Militare, dovrebbe disonorare così la casata dell’uomo che l’ha sottratto alle miserie di una vita da pezzente?»
Scandì ogni parola a voce alta, come se desiderasse essere ascoltato da tutti. Ratchet lo trovò disgustoso.
«Ditemelo voi.» sputò. «Siete venuto qui senza alcuna autorità, avete oltraggiato la villa e i domestici, e adesso uscite con questa falsa accusa, sporta da non si sa chi per calunniarmi!»
«La legge non è ancora cambiata, signor Adler.» lo rimbeccò Yerzek. «Nascondere un umano è tuttora reato. Potreste essere il figlio di Sua Maestà, ma per quest’accusa verrei lo stesso a frugare in casa vostra.»
In quel momento, puntuale come una disgrazia, il teracnoide con il livido in faccia zampettò di corsa fuori dalla villa.
«Maggiore!» esclamò trafelato, attirando l’attenzione su di sé. «Maggiore, l’abbiamo trovata!»
«Dove?» domandò Yerzek.
«Nelle cantine, signore. In un vecchio baule.»
Baule. La parola echeggiò nella testa di Ratchet, assieme ai ragionamenti compiuti con Sasha. Gli tornò in mente casa Turner, con il tavolo dello studio spostato e le tracce di muffa sul tappeto.
E poi la visita di Yerzek, che mostrava una spavalderia sospetta.
Parlava con un soldato teracnoide.
 
In quell’istante due soldati portarono fuori un grosso baule. A seguire, incespicando tra le gonne, Silver fu strattonata all’esterno da un cragmita in uniforme. Nonostante le mani legate e la minaccia di un’arma, la ragazza cacciava insulti ad ogni passo.
Yerzek assaporò l’espressione incredula di Ratchet, pregustando il momento di gloria. Stava per farlo a pezzi davanti alla servitù. La gente avrebbe parlato. Doveva solo attestare che quella ragazza era un’umana, e avrebbe vinto su tutta la linea.
Erano cinque giorni – da quando Saak gli aveva confessato della sua esistenza – che bramava di arrivare a quello. Era il motivo per cui, quando se la trovò davanti, dovette compiere uno sforzo di volontà per fingersi sorpreso.
Silver, invece, non ebbe bisogno di sforzi per mostrarsi arrabbiata. «Tu!» sputò in faccia a Yerzek. «Figlio di puttana! Sei stato te!»
Al ché fu costretta a inginocchiarsi e fu saldamente tenuta giù per le spalle. L’abito da sera mostrava impietosamente la sua pelle d’oca, e il fremito che l’attraversò nel momento in cui toccò il ghiaino gelido amplificò l’immagine di quanto fosse fragile, a dispetto dell’indole.
«Potete spiegare, maggiore Adler?» domandò il teracnoide, indicandola.
Ratchet strinse i denti. L’impressione che una tagliola l’avesse appena morso fece presa dentro di lui.
«Non ho nemmeno idea di chi sia.» mentì.
Yerzek tese una mano al collega – quello cui il lombax aveva quasi stritolato una spalla – e ordinò: «Il vademecum.»
Il militare balbuziente estrasse di tasca un libriccino e glielo consegnò. Era una vecchia guida al riconoscimento degli umani; un cimelio risalente all’epoca di Tachyon IV.
«Non vi dispiacerà se facciamo qualche controllo. Sarete curioso anche voi di capire, immagino.»
Ratchet lo fissò con aria incarognita, venendo ignorato deliberatamente, e cominciò a studiare una possibile via di fuga.
Non in casa, si disse.
L’altro aprì la guida con un gesto sicuro, ad una pagina segnata da una fettuccia di stoffa.
«Allora...leggendo i punti salienti del capitolo sul riconoscimento: “Egli è riconoscibilissimo per l’assenza di coda, ali o altre appendici”
Il militare che minacciava Silver, dopo aver controllato, replicò: «Non ne ha.»
Ratchet, fingendo insofferenza, si guardò intorno. C’erano i due del baule, quello con l’umana, Yerzek, il collega balbuziente, i tre che sorvegliavano Kreegan e Daniel, almeno altri tre nel salotto verde con il resto della servitù.
«“Egli poi presenta una pelle liscia, priva di voglie o maculazioni, le cui tonalità sono riportate di seguito”
«Corrisponde.» osservò il militare, zelante.
Quindici militari sicuri, pensò il lombax. Non ho visto nessuno al cancello.
Silver ruotò gli occhi. È perché non c’è nessuno, avrebbe voluto dirgli. Vogliono ucciderti prima che tu ci arrivi, al cancello.
«“Il padiglione auricolare presenta l’elice di forma circolare e un piccolo lobo tondeggiante. Si può dire che la forma di un orecchio umano somigli ad un’elegante lettera B rovesciata”
Il militare ruotò la testa della ragazza in una posizione anomala, strappandole un gemito per il dolore. «È conforme.»
Ratchet sentì la certezza che, qualsiasi cosa fosse successa, per lui si sarebbe messa male. Non avrebbe mai avuto una scappatoia verbale, non con la ragazza trovata dentro casa sua. Non con Yerzek che, per riottenere punti agli occhi di Darkwood, avrebbe fatto qualunque cosa pur di dimostrarsi irreprensibile.
«“Si potrebbe osservare che i markaziani hanno una particolare predilezione verso l’aspetto estetico di questa razza; e non è raro trovare individui – soprattutto di sesso femminile – che si sono fatti operare chirurgicamente per somigliare agli umani. In tal caso si distinguono per il lobo cicatrizzato sul bordo e l’elice molto rigida e non perfettamente curvata verso l’interno.”»
Silver aveva i denti serrati dal braccio del militare. Ciò, tuttavia, non le impedì di borbottare alcune parole, di cui Ratchet colse solo «venti», «carrozza» e «fregati».
«Signori, abbiamo un traditore.» affermò Yerzek, chiudendo il libro con aria trionfale. «Per l’editto emanato da Sua Maestà Imperiale Tachyon IV, Ratchet Adler, siete condannato alla pena capitale.»
Ecco il momento che aspettava.
I due che avevano portato fuori il baule gli bloccarono un braccio per uno e lo misero in ginocchio senza troppo sforzo.
«La condanna è da eseguirsi in questo luogo e in questo momento, come stabilito dalla legge.»
Silver strabuzzò gli occhi.
Perché? – si domandò. – Per quale motivo Ratchet non si è ancora ribellato?
Nella sua idea originale Yerzek era un mero idiota arrivista, mentre Ratchet era una specie di giustiziere solitario, che prima agiva e poi chiedeva, ma comunque gli andava bene. Perché, invece, si trovava con una iena dalla mente politica e un tardone che rimuginava più di un filosofo? Perché ciò che aveva ideato stava andando tutto a puttane?
 
Il teracnoide si chinò verso di loro, con un ghigno malefico, e si rivolse a Ratchet.
«Sfruttare Enrique per scavalcarmi è stata una pessima idea. Magari, nella prossima vita, assicurati di non prendere sottogamba il resto dell’universo.»
E sfoderò l’arma.

 

 

 

 

 


Ah, beh, eccoci qui. Nuovo capitolo, nuove emozioni (?), nuovi personaggi (??).
Yerzek si porta avanti coi piani e quegli altri non ci hanno capito una mazza. Bravo Emerald! Vai così, stai guadagnando vantaggio!
Peccato che non sia riuscita ad arrangiare meglio il finale. Avevo così tante idee che, alla fine, nessuna mi è andata davvero a genio. Ho appena riletto l’intero capitolo e mi sembra che il finale, nonostante la scena, manchi di tensione. Mah. Sarà la mia mente bacata. Sarà che sto ascoltando a nastro Mind Heist (ost del trailer di Inception) e Hope of a Nation (Immediate Music).
 
Ho un appello da fare: SILVER, NON UCCIDERMI! PER FAVORE...
Lo so, avevo lasciato intendere una comparsa di Geoffrey Darkwood, ma alla fine ho optato per rimandare. Ci sarà, è sicuro, ma prossimamente. Non pensavo di evolvere tanto nessuna delle scene qui presenti.
Ah, le idee! Ne ho una che mi piace, e mentre la sviluppo su word...tac! Ecco che si evolve da sola, nella mia testa, diventando qualcosa di più complesso (assai difficilmente mi si semplificano LOL). In questo caso ho optato per complicare leggermente le cose al tuo giustiziere. E a Lilly.
 
RIUSCIRANNO I NOSTRI EROI A RECUPERARE IL VANTAGGIO CHE EMMY SI È PRESO SU DI LORO?
 
Per la risposta, purtroppo, vi toccherà aspettare i prossimi capitoli.
Intanto chiudo ringraziando tutti coloro che si prendono la briga di seguire la storia, con un abbraccio a DarkshielD, Poldovico e TooSixy, che hanno commentato il capitolo precedente.
Già che ci sono, vi metto anche il link alla cartella di deviantArt dedicata a DtF. Non aggiorno spesso, ma qualche schi(fo)zzo lo potete trovare.
 
Alla prossima!
Iryael

 

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Capitolo 8
*** | Capitolo Sesto | Il valletto salva la situazione ***


Il valletto salva la situazione
Capitolo Sesto
Daniel Coogan era diventato il valletto di Ratchet in maniera singolare.
Al cazar non era mai capitato di sostenere il colloquio direttamente con il padrone di casa, men che meno in un luogo riservato agli ospiti di un certo lignaggio.
Ratchet l’aveva ricevuto nel salotto verde, senza nemmeno guardarlo, mentre era intento a studiare una malconcia lista di domande che – solo in seguito – aveva saputo essere preparate dal governante. Gli aveva chiesto chi fosse, da dove provenisse e se avesse già avuto esperienze come valletto. Poi aveva accartocciato la lista e cambiato totalmente discorso, lasciando perdere i precedenti luoghi di lavoro, quali referenze avesse e se avesse effettuato degli studi.
Già quello aveva fatto intuire a Daniel che la persona davanti a lui fosse un po’ sui generis.
Non che gli creasse dispiacere. La famiglia per cui aveva lavorato fino a quel momento l’aveva licenziato perché non riusciva ad essere un perfetto maggiordomo, con tutte le minuzie del mestiere, e lui aveva giurato di non voler più lavorare per gente così tanto legata alle quisquilie.
Ratchet, per contro, pur essendo dello stesso lignaggio, dava l’idea di essere tutto fuorché ampolloso. E quello aveva messo Daniel a suo agio, nonostante la situazione bizzarra.
Se non ché, durante il colloquio, il maggiore si rivelò estremamente diretto nell’esporre la situazione: «C’è gente che venderebbe la madre, se ciò gli garantisse la certezza di uccidermi. Potrebbero verificarsi situazioni spiacevoli; per cui il mio valletto deve conoscere almeno i rudimenti del combattimento. Come te la cavi?»
Al ché Daniel, per un istante, aveva pensato di mentire, o di rifiutare il lavoro e andarsene, ma poi ci aveva ripensato.
«Per un certo periodo ho lavorato nel genio militare, signore. Anche se non sono un esperto, mi hanno insegnato le basi.»
Le orecchie di Ratchet avevano guizzato, dimostrando il suo interesse.
«Sei stato geniere? In che divisione?»
La domanda lievemente frettolosa aveva fatto sorridere il cazar. Nessuno, di solito, voleva un ex militare per paura che potesse fare del male a qualcuno. Però, ironia della sorte, ciò che altri consideravano un demerito, in quel momento sembrava una fortuna.
Fu con una certo orgoglio che rispose: «Esplosivi, signore. Allestimento, posizionamento e smantellamento.»

Un paio d’ore dopo il cazar era rientrato a casa con l’accordo di cominciare la settimana seguente. Da allora era diventato l’ombra solerte del maggiore.
E quella sera, dopo tre anni, assolse lo scopo per cui era stato assunto.
* * * * * *
Sempre 19 gennaio 1811, ore 19:35
Valle d’Oro, aperta campagna, villa di Ratchet
 
 
Mentre Yerzek estraeva l’arma Silver si accorse che Daniel – il valletto – poteva essere la soluzione al loro problema. Il Sapere la rese conscia delle sue armi nascoste che, se giocate bene, avrebbero potuto essere provvidenziali.
Daniel stesso stava già caricando la molla del suo orologio da taschino, segno che aveva intenzione di usarlo. Gli serviva soltanto qualche secondo in più.
Un po’ di tempo, si disse, glielo poteva fornire.
Raccolse il coraggio, cercò di non balbettare per il freddo e disse: «Emerald.»
Il teracnoide non le prestò attenzione. Silver percepì il senso di trionfo che gli permeava il cervello e lo trovò oltremodo stucchevole.
Un soffio di vento sferzò sulla villa, facendo rabbrividire tutti. La ragazza si richiuse su se stessa, gemendo: stare ferma, con solo un abito da sera indosso, era come fare il bagno nell’azoto liquido. Le mani erano già insensibili, e stava perdendo la cognizione delle braccia. Quando rialzò lo sguardo si accorse che Ratchet era effettivamente a un soffio dall’essere giustiziato.
«Cazzo, Yerzek, ASCOLTAMI!»
L’urlo ottenne l’effetto sperato. La ragazza ebbe la sua attenzione, per quanto mista a insofferenza.
Il ché contribuì a cacciare un alto po’ di paura in favore dell’irritazione.
«So che ti sembra giusto e so che sono la scusa perfetta per togliere di mezzo tutti quelli che ti rompono i coglioni, ma usa il cervello, per favore. Ora ti andrà sicuramente bene; ma il prossimo è Darkwood, e sei davvero convinto che lui rimarrà fermo a farsi sparare come questo qui?» e accennò al lombax di fianco a lei, in ginocchio. «È Geoffrey Darkwood, per la madonna!»
Daniel la ringraziò in silenzio per avergli racimolato quegli ultimi secondi. Erano tutto ciò che gli serviva.
Sotto lo sguardo dei militari, convinti che caricare a oltranza il cipollotto fosse una reazione alla paura, il cazar sfilò la molla dall’alloggiamento. Tolta la spoletta, ebbe giusto il tempo di lanciare l’orologio contro Yerzek.
«Eruzione!»
Il piccolo ordigno esplose ancora in aria, schizzando sul teracnoide una mistura di gelatina infiammabile. Tra gli altri, alcuni schizzi lo raggiunsero in faccia, ustionandolo. Il militare cominciò a gridare e, in preda alla paura, zampettò di corsa dentro la villa in cerca d’acqua.
Daniel e Ratchet approfittarono dello scompiglio. Il primo scattò in avanti, rigirò l’arma del soldato e uccise lui e il collega più vicino. Il terzo crollò svenuto, dopo che Kreegan smosse telecineticamente una pietra contro la sua testa. Ratchet scattò in piedi e stordì il militare alla sua sinistra con un pugno in faccia.
Lasciando i militari ai militari, Kreegan si avvicinò a Silver, che si era rannicchiata di nuovo a terra.
«Venite, presto.» disse, aiutandola a rialzarsi. Gli spari aumentarono quando Ratchet s’impadronì di un’arma. Il lombax cacciò un urlo al suo valletto, poi arrivarono altri soldati. Alcuni spari fracassarono le finestre dall’interno, costringendo Ratchet e Daniel a ritirarsi dietro un paio di statue.
Silver vide i due sporgersi e rispondere al fuoco, prima che Kreegan la facesse entrare attraverso la porticina di una rimessa. La luce ronzava e i rumori dello scontro rassomigliavano ad una raffica di tuoni.
«La porta in fondo, signorina.»
«E gli altri?»
Sapeva che la situazione fuori non buttava bene. Yerzek si era portato dietro il tirapiedi e diciotto soldati, di cui solo sei erano stati messi fuori gioco. E il teracnoide stava tornando a dare ordini, ustionato e più inviperito che mai.
«Ce la faranno.» rispose Kreegan, risoluto. Aprì la porta che le aveva indicato, introducendola in un capanno che sembrava la bottega in miniatura di un falegname. C’erano un tavolo con gli attrezzi, una mensola e una catasta di legna. «Sono tre anni che si preparano a un’eventualità del genere.» spiegò, sprangando l’entrata con sei chiavistelli.
«Sapevano che Yerzek avrebbe tentato di ucciderli?»
«Il signorino aspettava i ribelli, a dire il vero.» spiegò lui, andando al tavolo. Impugnò una grossa tronchese e si avvicinò alla ragazza. «Ora vi libero. Non muovetevi.»
Tagliò la catena con due colpi decisi, si liberò dell’attrezzo e andò alla mensola, da cui prese una sacca di pelle. Sotto la mensola, appese a chiodi ricurvi, c’erano delle chiavi. Ne scelse una e la buttò nella bisaccia senza esitare.
«Eccovi degli abiti e il necessario. Adesso ascoltate: la botola dietro di voi è un passaggio sicuro. Scendete e contate tre porte a destra. Quella via vi porterà a sud, nei pressi di una strada. Se camminerete di buona lena, da lì arriverete in città in mezz’ora.»
«Va bene.»
Altri spari. Silver Seppe: sette militari caduti, Yerzek che sbraitava ordini, i servi in rivolta nel salotto verde, i caricatori di Ratchet e Daniel pieni per metà, la disposizione in continuo mutamento dei soldati ancora in piedi. Si focalizzò su di loro per pochi istanti, finché non ebbe formato una specie di radar mentale.
«Li stanno accerchiando!» esclamò. «I soldati...»
Incontrò lo sguardo di Kreegan. Il markaziano era consapevole di quanto stava accadendo.
«È l’unica strategia possibile, senza armi pesanti, con la conformazione attuale del giardino. Il signor Arthur l’aveva previsto. E il signorino lo sa.»
Un colpo più forte degli altri li fece girare verso la porta. Kreegan si voltò nuovamente verso Silver.
«Andate, forza. Vi raggiungeremo a casa Coogan, in Kronos Street.»
Aprì la botola sfruttando la telecinesi. Silver ebbe a malapena il tempo di inoltrarsi al suo interno che il battente venne richiuso sopra la sua testa. Altri colpi scossero la porta sprangata, mentre la voce scura di un militare intimava di aprire. Stretta attorno alla scala a pioli, Silver combatté con l’istinto di fuggire a gambe levate. Sopra, Kreegan creò una nube di oggetti appuntiti. Sotto, Silver si morse il labbro e gridò con tutto il fiato: «SONO IN DUE!!!»
Guardò la botola, sperando che il governante l’avesse udita. Due colpi in rapida sequenza le fecero intuire che l’avvertimento era andato a segno, e allora riprese a scendere con l’anima un po’ più leggera. Quando mise i piedi a terra, si rese conto che dal buco dov’era si dipanavano sei cunicoli. Tra un cunicolo e l’altro c’erano delle mensoline con delle lampade a olio. Era una di esse a dare un po’ di luce allo stanzino. Silver fece per prenderne una e accenderla, ma si rese conto di non essere in grado di controllare i tremori per il freddo. Aprì la sacca che le aveva dato Kreegan e pescò una giacca di lana. Non aveva tempo per cambiarsi del tutto, ma sentire spalle e braccia coperte la fece sentire meglio.
Arraffò un lume e combatté con i tremori finché non riuscì ad accenderlo. Alla rinnovata luce si accorse di avere le dita violacee, ma un colpo proveniente dalla botola la fece sobbalzare.
Non c’è tempo.
Imbroccò il terzo cunicolo a destra della scala e si incamminò.
 
Poco più di mezz’ora dopo sbucò in un capanno. Durante la camminata, dopo essersi accertata di non essere seguita, s’era cambiata. Nella sacca che le aveva dato Kreegan c’era un completo necessario alla stagione fredda, un coltellino, una pistola, qualche moneta e la chiave, aggiunta per ultima.
In quel momento la sacca pendeva dalla sua spalla, più gonfia di quando l’aveva ricevuta. Aveva legato i capelli alla meglio, con un nastro del vestito, prima di infilarlo nella borsa assieme alla sottogonna. La chiave, con la presina ovale, giaceva nella tasca destra dei pantaloni. Il cellulare – unico segno del suo spazio-tempo – le era venuto in mano mentre si cambiava, e aveva trovato posto nella tasca sinistra.
Sebbene le mancasse il cappotto, Silver non sentiva più freddo. Provava solo una sorta di fastidio per le manette ai polsi, ma sapeva di non poterci fare nulla. Non in quel momento, almeno.
Uscì dal capanno e si voltò verso nord, dove doveva sorgere villa Adler.
È stato giusto scappare?
Spostò lo sguardo sulla città, che brillava pallidamente. Il cielo era nero da un pezzo, e quella notte non si sarebbe vista una stella.
Il lume ad olio, che aveva rischiarato il cunicolo, all’aperto sarebbe stato deleterio: non avrebbe illuminato la strada e l’avrebbe resa facilmente individuabile. Silver masticò un’imprecazione e lo abbandonò nel capanno.
Il Sapere la raggiunse ancora, spietato come al solito, per portarle nuove informazioni.
Lo scontro alla villa aveva generato altri tre morti. I militari vivi si erano ridotti a dodici, di cui cinque svenuti. Tre dei sette rimasti erano intrattenuti dalla servitù inferocita, decisa a vendicare la morte di due servitori che avevano provato a trattare. Kreegan era morto e i passaggi erano stati scoperti. Gli altri quattro soldati erano stati mandati in esplorazione. Ratchet e Daniel erano riusciti a raggiungere la carrozza che aveva portato il maggiore e stavano fuggendo su quella, inseguiti da Yerzek e il collega balbuziente.
Ma cos’avrei potuto fare? – si chiese nel tentativo di placare i sensi di colpa. – Se non mi so difendere, è meglio che usi le gambe.
Arrivò un aggiornamento non richiesto: uno dei soldati aveva trovato chiuso il tunnel che aveva imbroccato ed era tornato indietro per infilarsi in quello usato da lei. La ragazza si rese conto di avere dalla sua solo la mezz’ora di vantaggio.
Non sprecò altro tempo e s’incamminò verso le luci della città.
Se la sarebbe fatta bastare.
* * * * * *
La carrozza sfrecciava verso Porta Valle d’Oro, sbuffando a tutt’andare.
Solo le carrozze dei più benestanti erano trainate da chimere. Le compagnie meno abbienti avevano dovuto ovviare agli animali con degli antiestetici motori esterni, che rendevano il mezzo pesante e di equilibrio instabile, essendo il motore direttamente sotto il sedile del vetturino.
Seppur con questi svantaggi, Ratchet e Daniel sapevano di avere una possibilità. Infatti condividevano gli stessi handicap dei loro inseguitori.
Il cazar era seduto alla guida; mentre il lombax era metà dentro e metà fuori, totalmente concentrato a cercare di abbattere il motore della carrozza inseguitrice.
Avrebbe dovuto cercare di abbattere il teracnoide alla guida? Probabile. Però non gli aveva dato un vero motivo per sparargli. Non era colpa sua, dopotutto, se Yerzek l’aveva scelto per fargli da tirapiedi al posto di Enrique.
Invece Yerzek...anche senza contare la reciproca antipatia, gli aveva fornito una cascata di motivi per sparargli; l’ultimo dei quali era stato quel raid assurdo. Però, a differenza loro, viaggiava su una carrozza blindata. Quindi a Ratchet rimanevano due opzioni: fermargli il mezzo o imbroccare il momento giusto per aprirgli un buco in testa. Data la sempre più carente quantità di munizioni a sua disposizione, aveva deciso di mirare al motore.
Quello finché la strada non cominciò la sua serie di saliscendi.
«Cerca di tenerli a distanza, Daniel!» strillò, accorgendosi che i militari li stavano avvicinando.
«Sono al massimo! Devo disattivare il limitatore!»
«Fallo!»
Il cazar guardò la strada davanti a sé. Fastoon non era ricco di pianure; era un susseguirsi di altipiani e strapiombi. La strada correva sul ciglio di un precipizio, e la prospettiva di un tuffo non lo allettava.
«Ma i tornanti di Doulverry...»
«FALLO!» tuonò Ratchet. «O ci sarà la tortura cragmita!»
Intravide una buona opportunità quando si presentò uno dei rettilinei più lunghi. Si sporse e, quando l’altra carrozza comparve dalla curva, ricominciò a sparare. Si accorse dell’aumento di velocità nello stesso momento in cui vide del fumo biancastro provenire dal motore avversario.
* * * * * *
Silver, che camminava di buona lena, si bloccò.
«No...» mormorò. «Non è possibile...»
Sentì un peso calarle sullo stomaco e si voltò a guardare verso nord-ovest.
«Non può...Daniel...i tornanti...»
Boccheggiò un istante. Sapeva come sarebbe andata a finire, era perfettamente immaginabile.
Eppure loro lì ci vivevano; dovevano sapere a cosa andavano incontro. Ne erano consapevoli?
, suggerì il Sapere.
Al ché alzò un pugno al cielo e ringhiò: «Siete due abelinati!!!»
* * * * * *
E infine eccoli, i tornanti di Doulverry. Le quattro curve più infide che un essere senziente avrebbe mai potuto concepire. Daniel non aveva mai visto curve così strette, dove la strada lasciava passare a malapena una carrozza per volta.
Avrebbe voluto rallentare – la sua coscienza glielo stava gridando – ma Yerzek era ancora alle loro calcagna. Evidentemente il danno arrecato dai proiettili di Ratchet non aveva sortito abbastanza effetto.
Osservò la strada con attenzione. Vide le curve avvicinarsi. Pensò a come prenderle. Frenò un pochino, per avere una possibilità in più. Deglutì a vuoto.
Non gli restava che tentare.
* * * * * *
 
Ore 20:56
Sud-est del centro cittadino, quartieri industriali, acciaieria in disuso
 
 
La grande figura della fabbrica troneggiò sopra Silver.
Ce l’aveva fatta, anche se ci era voluto più del previsto. Per non imbattersi nei runners aveva dovuto compiere alcune piccole deviazioni.
Aggirò il muro di cinta fino all’entrata principale. Anche se le luci erano accese non ebbe bisogno di controllare le garitte: nessuno faceva la guardia quel posto da quando aveva chiuso, sebbene certi delinquenti lo considerassero ottimo per i loro affari.
Strofinò le mani sui pantaloni, più per il nervoso che per il sudore, e cominciò una goffa scalata al cancello. I suoi movimenti si fecero incerti; soprattutto perché gli appigli su cui mettere i piedi erano a distanze scomode. Ogni volta, prima di caricare il peso su un piede e salire, si assicurò che l’appiglio reggesse, perché la ruggine dava un’impressione terribile alla luce fioca delle lampade.
Alla fine, quando si ritrovò seduta sulla cima, scoprì di avere il fiatone.
Vantaggio sul soldato inseguitore? – si chiese.
Il Sapere le mostrò che stava girando per il quartiere, in una via che non era troppo distante.
Merda!
Optò per scendere con un unico balzo. Il cancello non era altissimo, per cui non le fu difficile trovare il coraggio di darsi la spinta. Guardò il terreno e si lanciò.
Toccò terra con entrambi i piedi, ma lo slancio le fece perdere l’equilibrio e cadde a faccia in avanti, sbucciandosi le mani.
Se qualcuno fosse passato di lì in quel momento, avrebbe riconosciuto la sua estraneità solo sentendo la fila di bestemmie che usciva dalla sua bocca.
Si rimise in piedi e cominciò a destreggiarsi tra gli stabili che formavano l’acciaieria. La sabbia si era depositata sopra le sbucciature, facendole sentire fastidiosi bruciori. Passò nuovamente le mani sui pantaloni, togliendo alla meno peggio la sabbia e ottenendo una fitta.
Cercò di non badarci e si concentrò sul bisogno di entrare nella fabbrica. Il Sapere arrivò subito in suo soccorso, indicandole dove passare per raggiungere una porta sempre aperta.
Non le disse della trappola, però.
 
Quando la ragazza ebbe varcato la soglia – peraltro avendo cura di passare in uno spiraglio e richiudere la porta dietro di sé – ebbe a malapena il tempo di fare un passo che qualcosa la sollevò di peso, strappandole un acuto.
Subito dopo si sentì avvolta da qualcosa di informe e pieno di buchi.
Dopo il carcere, la casa e il baule, in quel momento era imprigionata in una rete.
Sentì la determinazione e il senso di sicurezza che venivano soppiantate dalla paura, in un primo momento. Poi, subdola, arrivò la rassegnazione, che la pervase usando la fatica come anestetico. Silver ridacchiò nervosamente per la sua condizione assurda, pur essendo a un passo dalle lacrime.
Per una volta, la prima da quando era piombata lì, la testa non era più bipartita. La metà razionale e onnisciente era stata ingoiata da quella irrazionale, che strepitava per urlare, ridere, piangere, chiamare aiuto, implorare pietà e tutta una serie di azioni incoerenti.
Si prese la testa fra le mani. Se non l’avessero fermata, avrebbe cominciato a canticchiare.
«Non urlare o sparo. Identificati.»
Una voce simile a un sibilo. Non alta, non bassa. Ferma.
Silver pensò che fosse di qualcuno che conosceva – come la maggior parte di quelle che aveva sentito da quando era su Fastoon. Fidarsi? Non fidarsi?
Aveva davvero scelta?
«Credo di chiamarmi Silver.» rispose semplicemente. «Non sono ribelle, non sono imperiale, sono finita qui per colpa della mia idiozia perché volevo conoscere certi personaggi che nel mio mondo li vedo solo se li disegno. Credo di essere la Creatrice, ma parecchie cose mi sfuggono e non so come ma finisco sempre per essere intrappolata da qualche parte. » e ridacchiò di nuovo.
Seguì un silenzio lungo. La ragazza udì il rumore dei passi quando ormai erano lontani.
Continuò a ridacchiare con aria svagata. Doveva solo aspettare.
 
Qualche tempo dopo, quando quel qualcuno ritornò, non lo fece da solo. Qualcun altro reggeva un lume elettrico, che rischiarava ampiamente l’area attorno a sé.
«Porca troia, è davvero lei?»
Nencer.
«Così dice.»
Sacha.
«Vediamolo.»
Reginald.
Sacha, che guidava il gruppetto, indirizzò il lume in faccia alla ragazza. Lei si riparò gli occhi con una mano, mentre tre paia d’occhi la studiavano.
«Una domanda.» asserì Reginald. «Come sei arrivata su Fastoon?»
La ragazza lo fissò con un ghigno sulle labbra. «Questa è facile! Clock mi ha mandato un programma. È stato una settimana fa. Credo che fosse una specie di teletrasporto. Solo che ho fatto un po’ di casino. Sono finita dentro la 147sima.» spiegò. «Adesso, Reggie caro, potresti liberarmi? Ho i nervi a pezzi e il mio protagonista vuole tentare il suicidio. E oh – a proposito – ciao Nencer, ciao Sacha. Non vedevo l’ora d’incontrarvi. Anche se non l’avrei fatto in un modo assurdo come questo.»
«È lei.» dichiarò l’altro. «Nencer, Sacha, tiratela giù. Io avviserò Kaden.»
Si allontanò a lunghe falcate, mentre il selker borbottava quanto fosse scansafatiche.
 
La prima persona che Silver si trovò davanti fu Madeleine.
La memoria a breve termine doveva aver dato forfait, dal momento che non ricordava come avesse fatto ad arrivare in quella stanzetta, da sola con la guaritrice e senza più traccia delle manette.
Gli occhi della donna si erano illuminati di una gioia dolce, che si tramutò in divertimento quando la sentì commentare: «Puzza di topi morti qui.»
«Perché è vecchio e poco areato, cara.» rispose con calma. «Ma è il luogo più nascosto della fabbrica. Il più sicuro.»
Silver ci pensò per un momento, perdendo lo sguardo sul pavimento.
«Ehi, è vero.» disse con un sorriso. «Lo so. È tornato il Sapere, evviva
Madeleine si sforzò di mostrare un po’ di contegno. La ragazza sorrideva meccanicamente, con una lacrima che scendeva lungo una guancia e lo sguardo perso. L’avrebbe abbracciata seduta stante, per cercare di confortarla in qualche modo, se fosse stata sicura che sarebbe bastato a curare il suo evidente stato di shock.
«Come ti senti?»
Silver alzò di scatto la testa verso la porta. «Sai che gli altri stanno origliando, vero? Nencer brontola. In effetti Nencer brontola sempre. Mi sa che Sach lo farà secco presto. Specie se lo sente ridire che lui e Reggie sono gay. E Reggie ride, giuuusto
«Sì, ma tu come stai?»
La ragazza spostò lo sguardo su di lei, dandole i brividi.
«Uno schifo. Stanca. Confusa. Stufa.» rispose a scatti, sempre con quell’aria assente. «Mi serviranno barili di tranquillanti nei prossimi giorni. Non sedativi. Tranquillanti.»
Madeleine le prese una mano e cominciò a impiegare piccole dosi della sua abilità. Non poteva dar sollievo al suo stato emotivo, ma poteva alleviare la confusione.
«Li avrai.» affermò. «Tutti i barili che servono.»
«Com’è che non mi dai del Voi?»
La lombax spostò lo sguardo sul pavimento. «T-Vi da fastidio?» sussurrò. «Evelyne mi aveva detto che è un vostro uso...»
Silver Seppe di averla messa in imbarazzo. «Ma no. Nessun fastidio. Fai pure.» Poi, come un fulmine a ciel sereno: «Resti a dormire con me?»
 
Fuori dalla porta, la voce spazientita di Kaden intimò di andarsene seduta stante. Seguì un leggero trambusto, dopodiché la testa bionda del lombax fece capolino.
«Ciao.» salutò Silver alzando mollemente una mano. Il capo ribelle ebbe l’impressione che fosse squilibrata. Si sforzò di sorridere pacatamente e rispondere con un cenno simile.
«Ho detto che devo stare da sola con lei per almeno dieci minuti; in quanto infermiera e in quanto donna. Vale anche per te, sai?» lo apostrofò Madeleine, con un raro cipiglio battagliero.
«Ma va bene. Benissimo. Lui deve fare una cosa. Subito.» intervenne l’umana. «Qualcuno deve andare alle curve Doulverry. C’è da recuperare un cretino suicida. No, due a dire il vero. Mi servono. Ratchet di sicuro. È un co-protagonista. Non può crepare prima della battaglia contro Tachyon. Lì può. Forse. Prima no.»
Kaden spalancò la bocca per la sorpresa.
«Cosa?»
Silver allargò un altro sorriso meccanico. «Hai capito bene.»
Il capo ribelle la squadrò da capo a piedi. Non era sperduta e indifesa come se l’era immaginata, no. Era indifesa, forse, ma appariva totalmente fuori fase. Però era la Creatrice.
«Sei sicura?»
Alzò uno sguardo verso Madeleine, che era sorpresa quanto lui.
Silver annuì. «Sennò vincerà Tachyon.» spiegò.
Sapeva che era una spiegazione troppo scarna per poterlo convincere. Sapeva che la vita dei suoi compari era importante, per lui, per metterla a rischio senza sapere niente. Però non era disposta a seguire altre mozze che non fossero quelle da lei pianificate. Così giocò un ultimo colpo, diretto e spietato: «E poi non sei curioso di conoscere tuo figlio?»

 

 

 

 

 


Wiii! Daniel è un dinamitardo, altro che valletto casa-e-doveri!
E non ditemi che «fa tanto Kuroshitsuji». Lo so già da sola, grazie. Però vi assicuro che il parallelismo mi è venuto più o meno alla terza rilettura; dopo aver steso per intero la prima parte.
Forse avrei dovuto riscriverla, ma...onestamente non ne avevo voglia. E poi, analizzando bene le cose, ho concluso che le situazioni sono diverse, perché Ratchet non assume i suoi domestici per fingersi tali, per cui dovrebbe andare bene così. Credo.
...Oh, sì, e poi mi domando come mi vengano le seghe mentali di Re e il modus narrandi di Lys. =_= Ho bisogno di un medico.
 
Bon, basta tediarvi con ‘sta roba. Passiamo ad altro: il dialetto. Ho usato due termini dialettali, ebbene sì.
Il primo è "abelinato", che è un’accezione tutta ligure del dialettale belìn. Quando si da dell’abelinato a qualcuno, s’intende che è uno stupido.
Il secondo è "mozza", che è inteso come "storia, lagna, manfrina".
Forse lo sapevate, forse no, ma per chiarezza esplico.
E ho chiuso anche con la fase "dialetto".
 
Vorrei ringraziare tutti coloro che seguono la storia, ma in particolar modo DarkshielD, che ha lasciato un commento al capitolo precedente, e TooSixy che mi ha dato una mano a scovare gli errori. GRAZIE.
 
Alla prossima!

 

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Capitolo 9
*** | Capitolo Settimo | Geoffrey indaga, Silver racconta ***


Geoffrey indaga, Silver racconta
Capitolo Settimo
Geoffrey William Darkwood era una di quelle persone che a pelle venivano definite pericolose.
Non era solo il vello scuro, o il volto spigoloso, o lo sguardo da predatore. Era il modo in cui socchiudeva gli occhi mentre osservava, la freddezza con cui ragionava, l’impassibilità con la quale agiva. Ogni gesto evocava le voci che si sussurravano alle sue spalle; storie di favori, di ricatti e di morte.
Era raro che desse apertamente di matto, ma quando succedeva i corridoi adiacenti alla sua posizione si svuotavano all’istante. Dopotutto si diceva che una volta avesse ucciso un segretario perché aveva cercato di rabbonirlo.
 
Aveva una reputazione da mostro, Geoffrey, e nessuna intenzione di smentirla. Incutere timore era sempre utile, lo aveva imparato osservando la crudeltà cragmita ai tempi della guerra.
La rigida educazione paterna gli aveva inculcato i valori del silenzio e dell’osservazione; mentre la resistenza contro i cragmiti gli aveva insegnato a lottare sempre con tutte le forze. La disfatta del 1786, invece, gli aveva mostrato che il fervore aveva bisogno della scaltrezza per portare buoni risultati.
Da lì in poi non aveva fatto altro che raffinare gli insegnamenti ricevuti. Aveva lavorato sodo, si era sporcato le mani per i nuovi padroni, aveva accomodato e mediato le richieste più disparate, sempre e solo in cambio di piccoli favori.
Dopo venticinque anni di piccoli favori Geoffrey era diventato un alto graduato della Guardia Pretoriana, nonché direttore della 147sima caserma dell’Esercito Imperiale, nonché creditore presso molte persone delle più varie estrazioni sociali.
La sua rete di informatori, unita alla velocità e al pugno di ferro con cui agiva, gli avevano costruito attorno una nomea forte, che le voci avevano ingrandito e sparso nel corso del tempo. Si poteva tranquillamente dire che, all’interno della città, avesse il potere e l’influenza di un gerarca cragmita.
Ma è risaputo: tanto più si sale, tanto più male ci si fa quando si cade.
 
L’11 gennaio, giorno dell’investitura del nuovo governatore di Fastoon, Geoffrey era su Terachnos. Arthur Adler lo aveva informato di importanti novità di cui occorreva discutere con discrezione, e lui ci si era precipitato.
Era partito due giorni prima senza dare una motivazione precisa. Tuttavia, vista l’evenienza particolare, aveva previsto che i Ribelli avrebbero colto l’occasione; quindi, prima di partire, aveva lasciato istruzioni precise per colui che avrebbe preso il suo posto.
 
Fosse dipeso da lui a sostituirlo sarebbe stato un suo parigrado della Guardia Pretoriana, ma il sostituto governatore – forte del suo sangue cragmita – aveva prediletto il secondo in comando all’interno del carcere, Emerald Yerzek.
Era stato un disastro totale.
I Ribelli avevano assassinato il nuovo governatore. Sembrava che i soldati avessero rimediato allo smacco catturando il loro capo, ma quella stessa notte i suoi colleghi lo avevano fatto evadere dalla 147sima.
La sera del 12 la notizia dell’assassinio era sui giornali; la mattina del 13 c’era l’aggiornamento sull’evasione di Alister. Geoffrey era dovuto letteralmente scappare da Terachnos e, una volta raggiunto Fastoon, aveva scoperto di essere indagato per una possibile responsabilità nell’evasione; ragion per cui era stato sollevato dal comando della 147sima.
Oltraggiato dalla faccenda, si era ritirato nel suo ufficio alla Guardia Pretoriana, in attesa che le indagini finissero.
 
Era arrabbiato, Geoffrey. Molto. Per questo chi lavorava all’interno della Guardia evitava accuratamente il corridoio dove si trovava il suo ufficio.
Ma il destino aveva in serbo per lui un’altra spallata, che arrivò quando, nel pomeriggio del 20 gennaio, lesse un rapporto scritto e firmato da Emerald Yerzek.
L’ufficio fu scosso da urla terribili, e pochi minuti dopo un attendente corse alla 147sima, pregando di trovare l’uomo che aveva fatto esplodere la rabbia del Demonio.
* * * * * *
Un ringhio: «Spiegamelo.»
Geoffrey, seduto alla scrivania, sbatté la mano sul rapporto. Yerzek, il cui viso era fasciato quasi interamente, dovette misurare bene i tempi di andata e ritorno dello sguardo dal lombax al dossier, perché la tentazione di tenere lo sguardo fisso su di lui fu molto forte.
«Significa che vi siete allevato un fuorilegge, Darkwood.» asserì fingendo sicurezza.
«Infamie.»
«Ratchet Adler ha ospitato un’umana.» incalzò il teracnoide. «Senza contare il suo comportamento più che sospetto durante l’evasione di Azimuth.»
«Non ci sono prove.»
«Ci sono eccome. Sono tutte lì, basta mettere gli indizi in fila.»
«Quelle che ho letto sono testimonianze vaghe, fraintendibili o costruibili.» sputò Geoffrey. «Non c’è nulla che assomigli vagamente a una prova concreta.»
«Queste sono diffamazioni!» esclamò offeso Yerzek.
Il lombax serrò la mascella. «Allora convincimi di quello che stai dicendo.» disse a denti stretti.
Il teracnoide deglutì. Eccolo lì, davanti alla sua prova del nove. Se fosse riuscito a fargli credere la sua versione dei fatti, allora avrebbe superato l’ostacolo più grosso.
«Va bene, vi illustrerò come sono giunto alle mie conclusioni.» asserì, conscio di avere dalla sua il vantaggio dell’assenza di Geoffrey. «Torniamo alla sera dell’undici. Azimuth era in carcere, interrogato da Sindegar Heanp, il signor Marcus e il signor Adler.»
Heanp, annotò mentalmente il lombax. Gli avrebbe chiesto informazioni in seguito.
«Quando i due ufficiali hanno lasciato la stanza per gli interrogatori, Azimuth era ancora al suo interno. La fuga è avvenuta pochi minuti dopo, non appena la carrozza su cui erano Heanp, Marcus e Adler si è allontanata dalla 147sima. Adler parrebbe avere un alibi sicuro, ma sappiamo con certezza che si è scapicollato dentro la caserma non appena udito l’allarme. Sappiamo inoltre che non ha chiesto informazioni, dunque la prima domanda è: come sapeva con così tanta sicurezza dove andare?»
«Azimuth era un prigioniero importante. Avrà immaginato che si trattasse della sua evasione.» obiettò Geoffrey.
Yerzek fece una smorfia di insofferenza. «Ha intercettato i Ribelli nel corridoio che loro avevano pianificato di usare per la fuga. Come faceva a sapere che avrebbero usato quel cunicolo?»
Lo sguardo di Geoffrey si assottigliò. «Non ne ho idea.» ammise.
«Appunto, è strano. Ma non finisce qui, perché dopo essere stato apparentemente sconfitto e oltrepassato, ci ha comunicato la cella attraverso la quale i ribelli sono evasi. Anche qui si direbbe che il comportamento del maggiore sia stato irreprensibile, eppure quella galleria in seguito è crollata, proprio mentre al suo interno vi era la squadra guidata da Heanp, accorsa in seguito alle indicazioni del signor Adler. Non vi sono dubbi che sia stata fatta esplodere.»
«Ma la sua buona fede è stata dimostrata.» obiettò nuovamente Geoffrey, il cui dito scorse rapidamente sulla pila di cartelle sulla scrivania. Ne scelse una quasi in cima, la estrasse e la sbatté sul tavolino. «Ecco una copia del rapporto di Marcus che la attesta. Il ragazzo non sapeva che la galleria fosse minata.»
Yerzek allontanò il dossier con indolenza.
«Potrebbe aver mentito. So che gli riesce naturale.»
Disse la seconda frase con malcelato disprezzo, si umettò le labbra e aggiunse: «Dopotutto Marcus aveva altre priorità, e con le proprie azioni il signor Adler era in una posizione perdonabile.»
«Le “altre priorità” erano le trasmittenti trovate in giro?»
«Esatto.» rispose Yerzek, impaziente di proseguire. «Dunque il maggiore è stato dichiarato in buona fede...ma quella che da un lato è buona fede, dall’altro può essere un inganno velato. Una messinscena ben congegnata, realizzata in un momento in cui avevamo molte priorità sovrapposte...per ovvie ragioni non avremmo potuto indagare a fondo come avremmo fatto altrimenti. Ma il signor Adler ha avuto modo, quello stesso giorno, di fermarsi in ognuno dei luoghi in cui sono state rinvenute le trasmittenti a frequenza anomala. Oserei dire che è sospetto.»
La bocca di Geoffrey s’incurvò verso il basso, ma non si aprì. Yerzek sentì la tensione allentarsi. Se l’altro non rispondeva era indubbiamente buon segno.
«Nel mentre è successo un fatto curioso.» andò avanti. «Una giovane donna, in pieno allarme, è comparsa nel mezzo del piazzale. La stessa è stata internata immediatamente, e di lei se ne sono occupati il mio defunto segretario Enrique Beauford e il signor Adler – una volta appurata la sua cosiddetta buona fede, s’intende. Dopo un interrogatorio il signor Adler ha firmato le carte per la sua liberazione. Cosa si siano detti è ignoto, dacché vi era solo Beauford ad assistere. Tuttavia (e ciò lo definirei rilevante) cinque giorni dopo Beauford è stato ucciso dai ribelli e la sua casa è stata data alle fiamme.»
«Ho letto i rapporti.» tagliò corto Geoffrey. «Vai avanti.»
«Due giorni prima che i ribelli uccidessero il mio segretario ho incontrato il dottor Saak. È stato un incontro fortuito e, nel parlare, ci siamo fermati a bere qualcosa. Suddetto dottore si è lasciato sfuggire alcuni argomenti interessanti: il mio segretario – che dal certificato medico inviatomi risultava malato – era invece in perfetta salute; mentre la giovane donna che custodiva in casa, di cui non avrei dovuto sapere nulla, è una esponente della razza umana. Il dottor Saak ha ingenuamente confessato di essere stato a casa di Beauford per controllare il suo stato di salute; dunque mi sono chiesto: perché mai avrebbero dovuto macchinare alle mie spalle? Non c’è un nesso logico, in apparenza, ma poi mi sono detto: cosa succederebbe se venisse fuori che gli umani non sono stati tutti sterminati ai tempi di Tachyon IV?»
«Scoppierebbe un gran bel putiferio.»
«Esatto.» Yerzek faticò a trattenere un fremito. «E immaginatevi cosa accadrebbe se a dare la notizia fossero i Ribelli...»
«Sarebbe comunque un putiferio.» replicò Geoffrey, senza entusiasmo. «E dunque a quali conclusioni sei giunto?»
«La giovane è stata teletrasportata, Adler l’ha fatta uscire e Beauford l’ha nascosta. Solo che qualcosa dev’essere andato storto. Il giorno dopo la sua morte ho ricevuto una lettera di Enrique, in cui mi avvisava di quello che stava succedendo. Parlava di un incontro coi ribelli a villa Adler, che doveva avvenire ieri sera, durante il quale Ratchet Adler avrebbe consegnato l’umana ai ribelli.»
«Il tuo fedele segretario ha fatto il doppio gioco, quindi.»
Il teracnoide annuì con un cenno. «Beauford non è mai stato un traditore. Dato l’inspiegabile quantitativo di stranezze, non mi stupirei se fosse stato costretto e poi ucciso per la sua fedeltà alle istituzioni.»
«E dopo la vostra rovinosa sortita di ieri sera cos’è successo?» domandò Geoffrey, tagliando sul nascere discorsi pieni di giudizi soggettivi.
«Il maggiore Adler e il suo valletto sono riusciti a fuggire su una vettura pubblica, signore.» rispose Yerzek. «Li abbiamo inseguiti io e il mio attendente, però l’inseguimento si è concluso con la caduta della loro vettura ai tornanti di Doulverry. Con un volo del genere posso solo presumere che siano morti entrambi.»
L’espressione di Geoffrey s’indurì.
«Dunque non hai controllato.»
Yerzek fiutò guai. «No signore.»
La tensione, che man mano era scemata, aveva ricominciato a tendergli i muscoli. Geoffrey se ne accorse.
«E non hai nemmeno mandato nessuno a controllare in seguito.»
Il teracnoide percepì di stare arrivando con le spalle al muro. Per un attimo balenò l’idea che il lombax fosse sul punto di smontare pezzo a pezzo la sua ricostruzione. Deglutì e rispose in un soffio: «No signore.»
«Ecco perché gli idioti dovrebbero rimanere al fronte.»
Il teracnoide si sentì oltraggiato dall’insulto. Stava per minacciare il lombax di ritorsioni, quando l’altro lo precedette: «Cosa consegnerai al padre, una carcassa sbranata dagli sciacalli?»
Yerzek gonfiò il petto, livido sotto le bende. «È il destino che Tachyon IV prescrisse ai traditori. Quell’inutile lombax non merita altro.»
La coda di Geoffrey frustò l’aria con stizza. Fu l’unica dimostrazione di offesa, poiché si prese il mento e soppesò la frase in silenzio. Il tono, le parole, il loro uso.
«Lascia che ti dica una cosa, in qualità di amico di Arthur.» asserì, scandendo ogni sillaba in modo che il suo ruolo fosse ben chiaro. «Quell’inutile lombax era la persona più cara al generale e tu gli stai mancando di rispetto. Quindi adesso prendi il tuo fantasioso cervello e corri a scrivere una lettera che spieghi la faccenda con molto tatto, perché così, magari, Arthur non deciderà di reciderti la testa. Consegnerai la lettera a me, che la consegnerò a lui assieme a questo tuo rapporto. Dopodiché preparati a sparire in qualche prigione di quarta categoria, perché con ciò che hai avviato è il minimo che ti possa succedere.»
Il teracnoide digrignò i denti, ma non osò ribattere. Se ne andò sbattendo la porta, lasciando Geoffrey a rimuginare.
Indubbiamente Yerzek nutriva del risentimento nei confronti di Ratchet. Tuttavia, Geoffrey si sentì in dovere di ammetterlo, le sue illazioni non erano totalmente distorte dall’astio. Attenendosi ai rapporti pervenuti, il quadro da lui dipinto non rasentava l’impossibile.
Anche se.
Conosceva Ratchet sin da quando Arthur lo aveva adottato; sapeva come ragionava. Un tradimento aperto era da escludere.
E allora cos’è successo? – si chiese.
Aveva mandato via Yerzek dicendogli che avrebbe affrontato lui il patrigno. Forse il teracnoide, nella sua ristrettezza, avrebbe pensato che avesse intenzione di coprirgli le spalle, ragionò. Ma no, non era Darkwood il Pio. Erano altri i motivi per cui aveva assunto l’onere, primo fra tutti la prevenzione un governo marziale.
Se il rapporto fosse giunto su Reepor in quello stato, quasi certamente si sarebbe levato il grido “i lombax hanno riportato gli umani!”. Sarebbero stati visti come una minaccia tangibile e il pugno di ferro, già rigido, si sarebbe indurito ancora. Vivere sarebbe diventato impossibile per chiunque appartenesse alla razza lombax. Nella peggiore delle ipotesi c’era la possibilità che Tachyon X, nella sua smania di essere ricordato per qualcosa di grandioso, ripetesse i passi che il Quarto aveva compiuto nei confronti degli umani. Dopotutto lombax e cragmiti erano nemici dalla notte dei tempi: lo sterminio degli uni avrebbe sancito la totale supremazia degli altri. Se il Decimo avesse cercato la gloria eterna presso il suo popolo, allora avrebbe potuto vantarsi di aver debellato i nemici naturali della propria razza.
Ma era per se stesso che Geoffrey si preoccupava, non per la sua specie. Aveva impiegato venticinque anni per creare il suo orto di potere e non era disposto a perderlo in quel modo.
No. – decise. – Il rapporto non lascerà l’ufficio prima che io abbia appurato i fatti.
* * * * * *
La mattina dopo Geoffrey si recò ai tornanti di Doulverry.
Prese in prestito uno xuth, lo caricò e si inoltrò lungo la via per la Valle d’Oro. Il suo segretario insistette fino all’ultimo istante, ma il lombax non volle nessuno con sé.
Quando raggiunse il luogo menzionato da Yerzek il sole non era ancora a picco, ma era abbastanza alto da illuminare la gola sottostante.
La staccionata che costeggiava lo strapiombo aveva uno squarcio. Geoffrey tentò di far passare la cavalcatura vicino al ciglio, ma quella puntò le zampe, allungò il collo da cammellide, nitrì e scosse le gobbe. Il lombax gli carezzò la cervice, sussurrandogli qualche parola per calmarlo, ma la creatura minacciò di impennarsi e disarcionarlo. Allora tirò le briglie e lo voltò verso la parete di roccia: quando l’animale vide il rossiccio della pietra smise di agitarsi e vi si avvicinò.
Dopo aver legato lo xuth ad uno sperone di roccia il lombax tornò alla staccionata. I paletti erano inclinati verso l’esterno, mentre le tavole erano state strappate.
Sporse la testa a guardare di sotto: trenta metri di rocce cadevano a strapiombo con i loro spigoli ruvidi. Sul fondo, grande come un pacchetto di fiammiferi, la carrozza giaceva su un fianco.
Guardò a destra e sinistra, alla ricerca di sentieri che scendessero, ma non ce n’erano. Sbuffò.
Pazienza. – si disse. – Farò le cose alla vecchia maniera.
 
Tornò dalla cavalcatura e scaricò l’attrezzatura da arrampicata. Mezz’ora dopo posò i piedi sul fondo della gola, dove il sole arrivava a stento.
Ad attenderlo c’era una corrente che soffiava da nord. Il freddo penetrava i vestiti con una facilità disarmante e fece pentire Geoffrey di aver sudato durante la discesa.
Decise di chiudere l’indagine alla svelta.
 
Subito notò che la carrozza era intonsa.
Si aspettava di vedere un ammasso di lamiere piegate, ma rimase deluso. La vettura non presentava i segni di un volo di trenta metri. Le lamiere erano a malapena bombate, come se il mezzo fosse stato condotto lì e ribaltato sul fianco in seguito.
La seconda cosa che notò fu la totale assenza dei corpi.
Si era immaginato di trovare sicuramente il vetturino in una pozza di sangue secco, con magari i segni dei morsi degli sciacalli, invece non c’era nulla che lasciasse intendere la sua presenza.
Che sia saltato giù prima della caduta? – si chiese Geoffrey. – Ma in quel caso sarebbe stato sicuramente catturato da Yerzek.
Ispezionò brevemente l’esterno della carrozza e poi usò il telaio come scaletta per potervi entrare. La portiera era già aperta e l’interno era a malapena sottosopra. C’era un’unica traccia di sangue sul vetro che toccava terra, segno che qualcuno fosse all’interno al momento della caduta, ma nulla di più.
Il lombax si rannicchiò ad esaminare la macchia di sangue. Era oltremodo piccola; di sicuro non lasciava intendere una ferita letale.
Alzò lo sguardo alla portiera che aveva trovato aperta. Qualcuno doveva averla spalancata. Possibile che Ratchet avesse lasciato la vettura sulle sue gambe?
Ora come ora sì. Mancano sia lui che il valletto e l’assenza di sangue indica che se ne sono andati per conto loro. Ma dopo un volo del genere dovrebbe essere impossibile! Che sia passato qualcuno a pulire la scena?
Annusò attentamente l’aria. Se qualcuno avesse pulito quello spazio, l’odore del detergente sarebbe rimasto in sospensione. Ma l’aria non aveva odore, dunque nessuno aveva pulito nulla.
Possono sempre aver rimosso i corpi. Sono punto e a capo.
Si arrampicò nuovamente all’esterno e saltò giù.
Successe una cosa strana: i piedi sprofondarono nel terreno fino alle caviglie, dopodiché il suolo si riportò lentamente alla sua conformazione originaria, liberandolo. Proprio come se la roccia fosse stata elastica.
Geoffrey fece un passo indietro.
«Che diavoleria è questa?» sussurrò.
Guardò la carrozza, poi il punto dov’era atterrato.
Però se è successa a me...
Provò a saltare sul posto. Non successe nulla. Osservò gli stivali, scornato. Dimentico del freddo, scalò nuovamente il telaio della vettura e saltò giù come aveva fatto poco prima. Il terreno lo inghiottì fino alle caviglie e lo liberò con la grazia di un bocciolo che si schiude.
Decise di fare un’ulteriore prova. Estrasse la pistola e sparò tre volte contro il suolo. La prova del nove: normalmente i proiettili avrebbero dovuto comprimersi. Ma quello era evidente che non fosse un suolo normale. I proiettili gli vennero resi tutti e tre quasi senza deformazioni. Un po’ come la carrozza.
Si portò una mano alla testa e lisciò un orecchio, con la mente alla ricerca di un nesso tra quello che aveva appena sperimentato e ciò che era accaduto due sere prima.
 
Concluse che doveva fare delle ricerche.
* * * * * *
Ore 17:30 circa
 
 
Quando Ratchet riprese conoscenza, le prime sensazioni vennero dall’olfatto. Riconobbe la polvere, lo stantio, la terra umida.
Aprì gli occhi lentamente. La vista gli rese l’immagine sfumata di una stanzetta in penombra. Una striscia di luce, evasa dalla stanza di fianco, descriveva una L attorno alla porta e delineava i contorni di una cassapanca e uno scaffale. Difficile dire se ci fosse stato altro.
«Non rompere, Nencer! Non è colpa mia se non sai giocare!»
Lo sguardo del lombax corse alla porta.
La conosco quella voce.
Il timbro profondo che borbottò qualcosa subito dopo gli era sconosciuto, ma quello squillante era convinto di averlo già sentito.
«Niente mozze! La verità è che mi devi tre penny!»
Quella pronuncia limpida, la marcatura delle erre...
Sgranò gli occhi.
L’umana?
L’aveva persa di vista dopo ch’era cominciata la baruffa. Possibile che fossero stati ricatturati?
No, si disse, giudicando il tono della ragazza troppo ilare per l’eventualità.
E allora?
Fece per incrociare le braccia, quando si rese conto che ce la faceva a stento. Una mano era libera, l’altra no. Tastò cosa lo tratteneva e scoprì di essere ammanettato a un anello nel muro.
S’impose calma e riconsiderò la situazione. Era disteso sotto coperte calde. Non si sentiva debilitato. Ragionava lucidamente. Erano segni sufficienti per dedurre di essere ben trattato. Allo stesso tempo, però, era ammanettato alla parete, segno che era ritenuto pericoloso.
«Reggie, non ci provare! Quei soldi mi serviranno se dovrò pagarti una colazione!» rimproverò l’umana, contrariata. Subito dopo, a voce più alta, aggiunse: «Ehi, Danny! S’è svegliato! Gli dai una mano che è confuso? – REGGIE RIDAMMI QUEI BELÌN DI SOLDI!!!»
Il lombax trasalì.
Ma se non ho fiatato!
Si tirò a sedere, accogliendo il freddo della stanza con insofferenza. Subito dopo la porta si aprì. La luce, molto più intensa di quella che filtrava clandestinamente, gli diede fastidio. A suo beneficio venne acceso un lume ad olio, che gli rivelò – tra le altre cose – il sorriso pacato del suo valletto.
«Lieto che siate di nuovo tra noi, signore.»
Ratchet lo fissò con aria confusa. Perché sorrideva? E cos’erano quell’aria sbattuta e il braccio appeso al collo?
«Daniel?»
Il cazar annuì. «Proprio io.»
«Cos’hai fatto al braccio?»
Seguì un breve silenzio. Il valletto avvertì la voglia di chiudere le mani attorno al collo del suo datore di lavoro. «Devo proprio ricordarvi che mi avete ordinato di affrontare i tornanti di Doulverry a tutta velocità su una carrozza a motore?»
Ratchet disegnò una O muta con le labbra.
Gli tornarono in mente gli ultimi istanti: la curva passata per un soffio, lo struscio contro la protezione della controcurva, il ribaltamento, l’adrenalina, il cuore in gola.
Il respiro accelerò. Sgranò gli occhi e strinse più forte la coperta.
«...Dove siamo?»
«Non ci è dato saperlo.»
Ratchet si strofinò gli occhi con una mano. «E per quale motivo, di grazia?»
Il valletto prese fiato per parlare, ma si bloccò.
Come glielo dico?
«Daniel?» ammonì Ratchet.
«Non ne sono sicuro.» improvvisò, affrontando uno sguardo sospettoso.
Il lombax decise di girare intorno alla domanda. Mostrò il polso ammanettato e la catena tintinnò.
«I nostri ospiti.» disse. «Chi sono? Hanno paura che me ne vada senza ringraziare?»
«Ecco...oserei dire che temono che ve ne andiate e basta, signore.»
Ratchet gli rivolse un’occhiata torva.
«Finiscila con gli indovinelli. Se non sei sotto diretta minaccia di morte vuota il sacco.»
Un lampo passò negli occhi del valletto. Alzò un angolo della bocca e l’espressione pacata divenne ironica.
«Oh, beh, come volete.»
E che non gli sbraitasse contro accuse per le notizie che stava per sentire.
«Dopo la caduta siamo stati raccolti e accuditi dai Ribelli. Questo è uno dei loro rifugi. Le manette sono un presente della signorina Darkshield.»
«Un pensierino per ricambiare la sera in cui ci siamo incontrati. Non serve che mi ringrazi, l’ho fatto col cuore.»
Daniel si scostò e mise in mostra la figura di Silver, appoggiata contro l’uscio. Aveva ancora l’aria sfasata di quand’era arrivata in fabbrica, gli abiti di Kreegan e una tazza in mano. La portò alla bocca e bevve un sorso d’infuso, prima di rivolgersi al cazar.
«Pensavo che sarebbe partito con qualcosa di più facile, abbi pazienza. Questa parte lasciala a me, così non ti sclera addosso.»
Come nelle ultime ore il suo umore cambiò in un istante. Si rabbuiò: afferrò il mento e arricciò le labbra. Subito dopo chiese dubbiosa: «Te l’ho già detto che significa sclerare, vero?»
Daniel mostrò un lieve sorriso, diverso da quello ironico che aveva rivolto a Ratchet. «Sì, me lo avete spiegato. Vi sono grato per l’evitarmi le spiegazioni.»
«Non c’è di ché. Anche perché, obiettivamente, hai bisogno anche tu di sentirle.»
Ratchet passò gli occhi alternativamente tra lui, lei e la porcellana nelle mani di lei. I pensieri si susseguirono freneticamente nella sua testa: voleva sapere dove fosse, cosa fosse successo, quanto tempo fosse passato. Voleva decidere come comportarsi e cosa fare per tornare indietro, a togliersi di dosso le accuse di cui Yerzek lo aveva caricato.
La ragazza Seppe cosa il lombax pensava e scosse la tazza. «Un tranquillante.» spiegò. «Ne vuoi un po’ anche tu? È buono, sai? E poi hai un brutto bernoccolo; ti aiuterebbe a sopportare la storia che sto per raccontarti.»
Ratchet aveva già pronta una risposta al vetriolo, ma Silver lo anticipò: «E non t’azzardare a mandarmi in culo, caro. Mi hai sfondato la mascella: che tu sia ammanettato è il minimo sindacale. Sei pericoloso. Dopo il volo che gli hai fatto fare anche Danny dovrebbe pensarlo, solo che è troppo buono per dirti le cose come stanno.»
Il lombax abbassò le orecchie. Il pelo su di esse si fece ispido. «Non sono io quello pericoloso qui.» ringhiò.
Lo sguardo era oltre la figura di Silver, piantato su Reginald che sorrideva allegramente e lo salutava con la mano.
«Sì che lo sei. E smetti di insultare tutti. Sento i tuoi pensieri, non lo sai? E lo so che sei incazzato e confuso, è per questo che ti ho chiesto se vuoi il tranquillante.» andò avanti l’umana. Poi il tono rasentò la ripicca infantile: «Però adesso fai senza, perché tanto lo butteresti via. Maddie ci si è messa d’impegno e tu lo sprecheresti. Lo sai che ci vogliono sei ore per ottenere un tranquillante che funzioni bene?»
Ratchet ringhiò qualche parola incomprensibile all’orecchio. Ma Silver, che aveva ancora l’attenzione focalizzata su di lui, capì il messaggio per intero. Insulti, minacce, intenzioni.
Se fosse stata lombax, avrebbe rizzato il pelo per la rabbia.
«Signorina, vi prego...»
Daniel cercò di fermarla, ma si ritrovò con la tazza cacciata in mano, mentre la ragazza raggiunse Ratchet a grandi falcate. Lo tirò a sé tenendolo per il bavero della camicia e alzò la mano, desiderosa di affibbiargli uno schiaffone. Lo avrebbe fatto, se il Sapere non le avesse suggerito il modo migliore per trattare con lui.
Ma l’orgoglio bruciava ancora. Rinunciò all’uso della violenza, ma non a strigliarlo.
«LA FINISCI DI FARE LA PRIMA DONNA?!?! CI STO RIMETTENDO LA SALUTE MENTALE A STARE QUI E TU FAI IL SOSTENUTO?! MA IO T’ACCOPPO PERSONALMENTE, ALTRO CHE FARTI SALVARE PERCHÉ DEVI UCCIDERE TACHYON!!!»
Ratchet l’afferrò per la giacca.
«Dovrei fare cosa?! Tu sei pazza!»
«Non prendermi per il culo! Io so, cazzo, sono la Creatrice! So tutto! Non puoi nascondermi quando devi andare al cesso, figurati l’intenzione di seccare un bastardo come il tuo Imperatore! E avevo deciso che ce la facessi, porca merda, ma visto la persona che sei mi sa che ti lascio a marcire qua dentro e faccio fare l’eroe a Geoffrey, che è una merda ma mi piace di più!!!»
Approfittò dello stupore del lombax per divincolarsi e tornare a distanza di sicurezza. Riprese la tazza e si sedette su una cassa vicina alla porta. Bevette un sorso d’infuso e si chiuse in silenzio.
Scoccò un’occhiataccia al suo indirizzo e ordinò: «Taci. Smetti anche di pensare, la tua voce mi dà la nausea. Parlerò con Danny, che almeno conosce le buone maniere.»
Il valletto si sentì tirato a mezzo e non seppe come rispondere. Si ritrovò lo sguardo accigliato della ragazza puntato negli occhi e decise di rimanere in silenzio. Silver apprezzò.
«Mi hai chiesto dove siamo.» disse in tono lugubre. «È una base ribelle, è vero. Ma è anche un pezzo di storia di Fastoon. Cinquant’anni fa qui c’era un laboratorio, uno dei tanti di Ardou Leverre.»
«Detto Il Folle.» intervenne Ratchet. «Tutti i lombax conoscono la sua storia.»
«Beh, lui è un cazar. E ti ho detto di stare zitto.» puntualizzò lei, prima di tornare a rivolgersi a Daniel. «Ardou Leverre era un genio incompreso. All’inizio fu acclamato per le idee brillanti; ma in seguito fu allontanato con l’accusa di esperimenti immorali sui suoi collaboratori.»
«Signorina, ma...» obiettò il valletto.
Silver lo precedette: «Sono stata teletrasportata da un posto lontanissimo, è vero, ma sono la Creatrice. Tutto quello che riguarda questo universo io lo so. È per questo che sono qui. Ed è per questo che ho potuto dare indicazioni precise a Kaden su dove recuperarvi.»
Il nome causò un motto di repulsione in entrambi i suoi ascoltatori.
«Comunque dicevo: Ardou Leverre. Quando fu radiato dall’ordine non si arrese. Era convinto di avere delle idee valide e realizzò una serie di laboratori segreti in cui continuare i propri esperimenti. Questo è uno, ma il più importante era quello nascosto lungo la strada per Valle d’Oro. Proprio lì ci fu l’incidente in cui morì, e proprio a lui furono nominati i tornanti che sovrastano il luogo dove si trovava il laboratorio. Il nome è cambiato un pochino nel corso del tempo, e per comodità oggi i tornanti Ardou Leverre si chiamano - »
«Doulverry?» domandò Ratchet, sorpreso. «Ma va’. Sapevo che Leverre fosse semplicemente scomparso.»
«È morto come un topo nel suo laboratorio invece, e ringraziate che stesse seguendo quell’esperimento o sareste morti spiaccicati in fondo alla gola.» replicò Silver, piccata.
«Di cosa si occupava?» domandò Daniel.
Silver depose la tazza sulla cassa e si mise a gambe incrociate. «Voleva creare un siero che rendesse la pelle antiproiettile.» disse. «Non irrigidirla, al contrario: renderla così elastica che il proiettile entrasse senza perforarla, venisse fermato e rigettato all’esterno senza che il soldato colpito ne risentisse.»
Il cazar storse il naso. «Un’idea quanto meno bizzarra.»
«È geniale, invece.» lo riprese lei. «Anche perché stava studiando un siero che non avesse effetti permanenti. Però ci fu l’incidente. Si sviluppò un incendio e il laboratorio crollò. C’era una gran quantità di questo siero sperimentale, che con il crollo andò disperso nell’ambiente. Oggi tutto il terreno sotto i tornanti è imbevuto di quella roba.»
«Ma non doveva essere dagli effetti temporanei?»
«In teoria sì. Però...da una parte il composto si è mescolato con altri che erano nel laboratorio e ha reagito con essi, rafforzandosi. Dall’altra invece era il punto su cui Leverre stava lavorando: il siero sperimentale aveva un effetto permanente che lui voleva rendere temporaneo.»
«Quindi il suolo ci ha praticamente assorbito, ha smorzato la nostra energia cinetica – così che le ossa e i nostri organi interni non si sbriciolassero – e poi ci ha “risputato” fuori.»
Silver abbozzò un sorriso e annuì. Ecco il geniere che spuntava fuori in quell’energia cinetica.
«È così fortunoso che ha dell’incredibile.» commentò il valletto.
L’espressione dell’umana s’illuminò. «Vero?»
Ratchet li lasciò confabulare e si lasciò ricadere sul materasso. Quella storia aveva del surreale.
Lo stesso ruolo che si era data era inverosimile. Creatrice. Ce n’erano di titoli altisonanti, ma lei aveva scelto il più alto.
Probabilmente, – si disse – condivide il sangue con un certo imperatore di taglia ridotta.
 
«Signorina? State bene?» domandò Daniel, preoccupato.
Silver aveva smesso di parlare a metà della frase. Le mani si erano fermate a mezz’aria e l’espressione si era disciolta in una smorfia.
Il cazar la vide digrignare i denti e voltarsi verso il letto.
«Non è a me che mancano venti centimetri per raggiungere l’altezza media.» sputò. «Se non fossi certa di chi ti ha messo al mondo direi che sei tu quello imparentato col nano.»
Ratchet drizzò le orecchie e sbarrò gli occhi.
Eh?
Si mise nuovamente a sedere. «Ehi, aspetta!»
Ma la porta sbatté dietro le spalle di Silver, lasciandolo solo col valletto.
Dalla stanza vicina arrivarono commenti goliardici. Dopo alcuni istanti divenne chiaro che la ragazza non sarebbe rientrata.
Il lombax si costrinse a stendersi di nuovo.
Ha detto che ne è certa. – pensò. – Non può essere. Non può saperlo. Doveva fingere, non c’è altra spiegazione. E io ci sono cascato in pieno!
«Signore, permettete un appunto?» domandò Daniel, che si sforzò di non iniziare la frase con un insulto.
Ratchet incrociò il suo sguardo e capì. Il suo valletto era piccato da come si era conclusa la conversazione. Immaginò cosa stesse per dirgli, però lo lasciò fare lo stesso. «Dimmi.»
«Dovreste usare un po’ più di tatto. Ripaga, sapete?»
E come al solito arrivò lo scorno: «Ah, ma sta’ zitto!»
* * * * * *
Quando Silver uscì dalla stanza trovò Nencer, Tarx e Reginald seduti casualmente al tavolino. Non ebbe bisogno del Sapere per sapere che avevano seguito con interesse tutta la conversazione.
«Guarda com’è impettita!» commentò il selker. «Brutto sentirsi rifiutare dal proprio eroe, eh?»
«Nencer taci.» ringhiò al suo indirizzo.
«Tecnicamente non è che le ha dato picche.» obiettò Reginald. «Fa così con tutti.»
«Povera donna quella che se lo vedrà propinato.» asserì Tarx, l’occhio buono socchiuso e le carte in mano che gli conferivano un’aria paterna.
«Una santa.» convenne Nencer, calando teatralmente un due di picche. «Teh, giusto per rimanere in tema.»
«Chi, la figlia di Phyronix? Ha una pazienza da vendere.» Reginald, stravaccato sulla sedia. Osservò a malapena le carte in tavola e decise di accaparrarsi i punti gettati da Tarx. «Ne ho sentite di ogni su di loro. Sono fidanzati da secoli e solo il Creatore sa perché non si siano ancora sposati.»
A quel punto drizzò le orecchie e si rivolse apertamente a Silver: «Appunto: perché?»
La ragazza, che si era accucciata su una branda, abbracciò le ginocchia e rispose con un mugugno a malapena comprensibile.
«Come scusa?»
Silver ripeté le sue parole esattamente come prima. Solo l’ultima parte divenne chiara. «Oh, quel nano di merda. Ma gliela combino io la sorpresa, oh, se gliela combino!»
Reginald storse la bocca, scontento per non aver ricevuto una risposta.
«E con questo ci siamo giocati anche la Creatrice. Siamo di nuovo col culo a struscio.» dichiarò Nencer in tono definitivo. Tarx calò la sua carta e il selker fece una smorfia, trovandosi a dover scendere per forza con dei punti. Ma era più scontento di dover perdere altri due penny.
* * * * * *
Ore 21:00 circa
Zona est della città, quartieri militari, archivi della Guardia Pretoriana
 
 
Geoffrey chiuse l’ultimo libro e lo poggiò sulla pila traballante.
Fuori dalla finestra entravano solo le luci riflesse dei lumi stradali. Erano passate quasi otto ore da quando era entrato in fretta e furia negli archivi.
Aveva consultato molti libri alla ricerca dell’imbeccata giusta. E alla fine l’aveva trovata: Ardou Leverre.
Le ultime ore erano volate cercando tracce degli ultimi esperimenti dello scienziato. Anche se non aveva ottenuto dettagli che gli spiegassero il fenomeno cui aveva assistito quella mattina, aveva scoperto che era esistito un suo laboratorio proprio lì.
Saperlo aveva rafforzato la sua convinzione che i fuggitivi si fossero allontanati vivi da quella gola. E, visto che il luogo toccava proprio Leverre, decise che sarebbe andato a importunare un suo vecchio conoscente.
 
Raccolse i dossier e gli appunti. Mentre batteva il piccolo blocco sul tavolo l’occhio gli cadde sull’edizione serale del quotidiano. Aveva dimenticato che la custode degli archivi gliel’aveva consegnata. E dimentico dell’ora poggiò le sue cose e cominciò a sfogliare il giornale alla ricerca di notizie su quanto successo a villa Adler.
Lesse avidamente l’articolo sul caso. Riga dopo riga il suo sguardo si fece sempre più scuro.
Arthur non sarebbe stato contento.

 

 

 

 

 


Piccole precisazioni dialettali.
Non l’ho mai specificato nella storia, ma Silver è ligure (LIGURE, non genovese), dunque la sua parlata assume qualche tratto di quella reale un po’ grossolana ma tanto popolare tra i fanti (i ragazzi).
Abelinato – idiota.
Belìn – organo genitale maschile. Nel genovese (ma più in generale in tutta la Liguria) viene usato come intercalare. In questo caso può assumere sfumature diverse, dall’ironia («Hai visto quell’elefante rosa?» «Belìn, due!») alla sorpresa («Belìn, che bello!») ad altre (che semmai specificherò più avanti).
Belina! – variante di belìn, usato solo come intercalare.
Mozza – non sta per mozzarella. Sta per lagna, manfrina, storia (in senso dispregiativo).

 

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Capitolo 10
*** | Capitolo Ottavo | In caccia ***


In caccia
Capitolo Ottavo
22 Gennaio 1811
Sud-ovest cittadino, quartieri residenziali della media borghesia, casa Prunett
 
 
Margot Prunett, al secolo Leverre, si presentava come una lombax di mezz’età, col volto tondeggiante e lo sguardo sveglio. Sedeva con eleganza al centro di un divanetto di velluto e fissava Geoffrey con sincero stupore.
«E così adesso v’interessate agli esperimenti del nonno?»
La voce non tradì nervosismo, ma la mano scorse velocemente sulla gonna. Troppo perché fosse semplice noncuranza. Poi portò una mano al volto e spinse indietro gli occhiali, scivolati sul tartufo. «È...inaspettato. So di suonare scortese, ma mi domando se sia un interesse di natura personale.»
Geoffrey intrecciò le mani, per nulla contrariato dalla domanda. «È il lavoro che mi conduce qui.» affermò. «Avrete sentito di quanto accaduto a villa Adler, immagino.»
Margot annuì lentamente.
«Valle d’Oro ha un posto d’onore nei pettegolezzi cittadini. E poi il giornale ha dedicato molto spazio alla vicenda.» concesse con cautela, non capendo a cosa girasse intorno.
«In tal caso presumo che conosciate la sorte dei fuggitivi.»
Una scintilla vivace animò lo sguardo della lombax. «Oh, andiamo. Conosco la versione ufficiale, signor Darkwood. Non pretenderete mica che sappia la verità.»
L’ombra di un sorriso arcuò le labbra del militare. «Siete arguta come ricordavo, signora.» asserì. «Come avete intuito, questa è una frottola mediatica. La fuga in carrozza è vera, ma la verità è che il giovane Adler e il suo valletto sono precipitati dai tornanti di Doulverry.»
Margot si portò una mano davanti alla bocca, sconcertata. L’altro andò avanti: «E purtroppo, per come vanno le cose, ho ragione di credere che vostro nonno li abbia salvati.»
La donna sentì il sangue defluire dal volto.
Salvati. Dal nonno.
«Voi...» esalò «State scherzando.»
Geoffrey scosse la testa. Poi, imperturbabile, si chinò a prendere la tazza di tè che lo aspettava sul tavolino e ne sorbì un sorso. «La carrozza è proprio davanti all’ingresso dell’ormai dismesso LabSei. Sapete cosa comporterà, non è vero?»
Il volto di Margot si adombrò. «Riesumerete il caso del nonno. Avrò di nuovo terra bruciata intorno.»
Quel “di nuovo” tradì il riaffiorare di una paura che non l’aveva mai abbandonata del tutto. L’aveva sempre tenuta per mano, da quando gli altri bambini venivano allontanati dalle madri al parco, a quando ai balli non riusciva ad avere un compagno perché era “parente di quello là”, a quando il marito aveva cominciato a ricattarla, minacciando di coprirla anche dello scandalo di un allontanamento.
Era l’esasperazione di una vita passata nel timore di diventare una reietta. E lei n’era sinceramente stufa.
«È questo lo scopo ultimo della vostra visita, signor Darkwood? Avvisarmi che la mia vita sta per essere fatta definitivamente a pezzi?»
Silenzio. Per alcuni istanti si udì solo il ticchettare della pendola, mentre Geoffrey sorbì un altro sorso di tè.
«Al contrario.» disse poi. «Voglio che i segreti di Ardou Leverre restino al sicuro. Tuttavia, se le cose non cambiano, ciò a cui siete giunta non sarebbe che la vostra parte delle conseguenze.»
Poggiò la tazza sul piattino e aggiunse: «Immaginate di guardare i fatti da un punto più alto. Ditemi: cosa potrebbe succedere se i cragmiti mettessero le grinfie su quegli scritti?»
Margot immaginò la scena. Vide i diari nelle loro mani, li immaginò profanarne i segreti con il loro ghigno trionfante ed ebbe un brivido. A quel punto non sarebbe stata una reietta della società; sarebbe stata una traditrice della propria razza. E quel titolo le incuteva più paura di tutte le altre infamie che potevano caderle addosso.
«Non esiste.»
Le mani, in grembo, si strinsero a pugno. «Brucerò i diari prima che quei vermi malfatti ne vedano le copertine.»
Geoffrey si fece cauto. Non era la reazione che si era aspettato; era qualcosa potenzialmente più pericoloso.
«Ammirevole intento.» concesse, nel tentativo di riportare la discussione sui binari che desiderava. «Riconoscerete, però, che sarebbe alquanto drastico. In questo modo perderemmo un patrimonio di idee.»
«Sono segreti di stato.» rimbeccò lei, che si sentiva con le spalle al muro. «Coperti da diciassette ingiunzioni di segretezza e vincolati dalla legge speciale Oukman. Se rivelassi il contenuto dei diari mi spetterebbe la morte. Tacendo, invece, ho il dovere di proteggerli o, in caso estremo, distruggerli.»
Sfoderò un sorriso amaro e sprezzante. «Non ho molta scelta, come potete vedere.»
Geffrey annuì lentamente, percependo un fastidioso senso di allarme in fondo al cranio. Ritenne inopportuno dirle che, se i cragmiti avessero scoperto che li aveva bruciati lei, sarebbe stata giustiziata con l’accusa di essere una ribelle. Non avrebbe giovato alle sue intenzioni.
«Ciò non toglie che sarebbe uno spreco del genio di vostro nonno.» insisté. «E se vi dicessi che è evitabile?»
Gli occhiali della donna scivolarono nuovamente verso il tartufo, ma non se ne curò.
Eccolo, il nocciolo della questione. Stava davanti a lei, ma non riusciva a vederlo.
Irritata, fece un cenno spazientito.
«Ebbene, se avete un’alternativa, spiegatevi.»
Il militare raccontò dello strano fenomeno che accadeva nella gola dov’era caduta la carrozza. Le diede uno dei proiettili che aveva sparato e ne illustrò la lieve deformazione, mentre Margot lo osservava con attenzione, facendolo ruotare tra i polpastrelli. Per ultimo, con poche parole scarne, Geoffrey raccontò di come avesse collegato il luogo al nome Ardou Leverre.
«...E qui interviene la mia opzione.» asserì. «La carrozza è in un posto infausto, per cui è inevitabile che gli imperiali scoprano qualcosa. Quanto, però, dipende da voi.»
La donna spostò lo sguardo su di lui.
«Siete la detentrice dei segreti di vostro nonno, nonché l’unica in grado di decifrarli. Più informazioni mi darete, e meglio riuscirò a tacere loro ciò che è veramente essenziale.»
Margot annuì. Aveva capito cosa intendesse, e rifiutare appariva davvero una scelta insensata. Tuttavia c’era un neo che la preoccupava: il capo archivista, l’unico oltre a Geoffrey che poteva accedere a tutte le informazioni, comprese quelle segretate. L’infrazione che stava per fare alle ingiunzioni di segretezza sarebbe stata vana se i cragmiti – o chi per loro – avessero scoperto dal capo archivista che Geoffrey stava coprendo la verità.
«E del capo archivista che mi dite?»
Geoffrey fece svolazzare la mano. «Non vi preoccupate, la carica è vacante.»
La donna sgranò gli occhi, nuovamente sorpresa.
«Sul serio?» domandò. «Non avete ancora rimpiazzato il mio povero Etienne?»
Geoffrey denegò. «No, signora, il vostro defunto marito non ha ancora ricevuto un degno sostituto.»
La donna percepì il concretizzarsi dell’alternativa propostale. Sorrise, di nuovo con quel brillio vivace nello sguardo. «Dunque le chiavi degli archivi segreti sono solo in mano vostra.» constatò.
«È un bel colpo di fortuna, dovete ammettere.»
No, dissero gli occhi della donna. La vera fortuna è stata commissionarvi l’uccisione di quel bastardo.
«Stando così le cose, signora Leverre, mi concedete il vostro aiuto?» domandò, ormai sicuro della risposta.
Lei annuì. «Avete il mio appoggio, messer Darkwood.» e si alzò. «Seguitemi nello studio: ho già idea di cosa possa esservi utile.»
 
Geoffrey uscì dall’abitazione ch’era ora di cena. L’aria era pregna di odori invitanti, e la prima annusata gli fece rimpiangere di non aver accettato l’invito di Margot.
Per distrarsi, mentre si dirigeva alla propria abitazione, pensò a cosa dire e su cosa tacere. Ma soprattutto: come glissare senza suonare falso.
Da qualunque punto guardasse la faccenda, per tener nascosto Ardou Leverre sarebbe occorsa una generosa dose d’astuzia.
Molta più di quella necessaria a sistemare il markaziano in giacca grigia.
* * * * * *
Il markaziano espirò un tiro di sigaretta. Gettò un’occhiata verso casa Prunett e vide il portone aprirsi. Geoffrey, sulla soglia, rivolse un accenno d’inchino a qualcuno che non riusciva a vedere.
Vecchia cariatide, che hai fatto tutto il giorno lì dentro?
Infilò nuovamente la sigaretta tra le labbra e inalò. Sapore di tabacco e spezie gli invase il palato, prima che il respiro li cacciasse fuori. Il fumo avvolse un taccuino lercio, sulle cui pagine ingiallite il markaziano stava scrivendo “ore 19:00 – esce dall’abitazione”.
Poi lo rimise in tasca e alzò lo sguardo. Il suo bersaglio, ormai in strada, stava armeggiando con un orologio da taschino.
Geoffrey alzò lo sguardo, pensieroso, e poi s’incamminò verso nord. Il markaziano lo seguì, diligente, stando attento a rimanere molti passi indietro.
Lo seguì fino alla sua abitazione, nel quartiere dedicato alle cariche militari. Lo guardò entrare nell’edificio e si appiattì contro un muro dall’altra parte della via, dopo essersi accertato di essere protetto dall’oscurità.
* * * * * *
Geoffrey, in camera, afferrò un libro dalla scaffalatura e si appoggiò alla finestra. Lo aprì dove aveva lasciato il segno e si voltò oltre il vetro. Il suo pedinatore era lì. Non lo vedeva, ma era sicuro che ci fosse.
Heanp, vecchio bastardo. Darmi il permesso e farmi pedinare: com’è caduto in basso.
Ma la domanda è: vuole sfruttarmi perché sa che arriverò a un risultato, oppure da questa mossa imbecille dovrei intuire che lo preoccupo ancora? A chi vuole arrivare veramente: a me o a Ratchet?
 
Tirò le tende e andò a sedersi dietro la scrivania. Sul tavolo c’era un campanellino: non finì di scuoterlo che il suo valletto comparve sulla porta.
«Avete chiamato, signore?»
«Servi la cena il prima possibile, Roman. Devo uscire.»
Il valletto annuì.
«Come desiderate.» disse. «Preparo anche un cambio d’abito?»
«No; vado in uniforme.»
Il lombax assentì con un inchino e se ne andò. Geoffrey, gomiti sulla scrivania, intrecciò le dita.
Non importa a chi sta dando la caccia; starò al gioco.
L’ombra di un sorriso gli arcuò le labbra.
Credo che mi divertirò.
* * * * * *
Ore 19:45
Zona est della città, 147sima caserma dell’esercito imperiale, ufficio del direttore
 
 
Sindegar Heanp stava controllando i registri ereditati da Geoffrey. Come direttore pro tempore era tenuto a conoscere l’andamento della caserma, ma non era ancora riuscito a visionare i dati con la dovuta perizia. La fuga di Azimuth e l’affare Adler non gliene avevano lasciato il tempo.
Il cragmita era sommerso dai registri quando il segretario fece entrare Yerzek. Il teracnoide, impolverato dalla testa ai piedi, fece qualche timido passo in avanti e presentò il saluto, spargendo in ogni dove la polvere fine del deserto fastooniano.
Alla sua vista Sindegar provò un moto di disgusto. Era successo poche volte che si trovasse d’accordo con Geoffrey, ma in quel momento comprese perché il lombax considerasse insulso il suo braccio destro. Era così patetico, stretto nella divisa sporca, e così infantile nello svolgere meccanicamente i suoi incarichi. Era impossibile non pensare che ricoprisse la sua posizione grazie ad una manovra politica, e la cosa pungeva in maniera orribile l’orgoglio di Sindegar.
Il cragmita si fece un appunto mentale: quando fosse diventato direttore in pianta stabile, il suo organico avrebbe avuto una bella risistemata.
Tuttavia, in quel momento, per quanto la sua vista lo disgustasse, depose il registro e lo invitò con un cenno a sedersi.
«Ebbene?»
Yerzek si avvicinò, mortificato.
«Non ci sono tracce né del maggiore Adler né del civile, signore.» riferì.
Sindegar accennò un assenso. «Capisco. Dunque è probabile che siano diventati il pasto di qualche animale.»
«Con il dovuto rispetto, signore, non credo. Praticamente non c’erano tracce in giro, né di sangue né impronte o scie di trascinamento.»
Il cragmita si fece pensieroso per alcuni istanti. Sovrappensiero, passò un dito sul margine del registro e lo richiuse senza badare a dove fosse arrivato.
«Stai suggerendo che qualcuno sia passato a pulire?»
L’altro si irrigidì. Il colletto della divisa, improvvisamente, si fece troppo stretto.
«È...è possibile, sì.» soffiò a fatica. «Non credo proprio che se ne siano andati sulle loro gambe.»
Sindegar gli scoccò un’occhiataccia.
«Credere non è sufficiente.» lo rimbeccò. «Al Gran Consiglio vogliono le prove.»
Yerzek gelò sulla poltrona. «Avete allertato il Gran Consiglio?»
«Ovviamente.» replicò con naturalezza. «Dopotutto è coinvolto il figlioccio di Arthur Adler; informarli che stiamo indagando era d’obbligo.»
Il teracnoide ripensò alle parole di Geoffrey e sentì un brivido percorrergli la schiena. Il timore fu palese per una frazione di secondo, poi lo dissimulò raddrizzando le spalle incurvate.
«E come hanno reagito?»
Sindegar proseguì con noncuranza: «La storia dell’umana li ha messi in allarme. Prima di muoversi in qualunque direzione vogliono le prove che quella donna esista. Se tali prove verranno consegnate, allora si prenderà in considerazione l’idea che, in qualche modo a noi oscuro, i Ribelli siano riusciti a riportare alla vita una specie estinta da secoli.»
Accarezzò con lo sguardo lo spaziogramma aperto sulla scrivania, scartoffia tra le scartoffie, lasciato lì più di due ore prima. Gli ordini erano chiari: trovare il giovane Adler, vivo o morto che fosse, e catturare l’umana.
«Il fatto che il maggiore sia stato fatto scomparire è indubbiamente un segno a favore delle tue teorie.» disse ancora. «Tuttavia serve l’umana perché esse siano incontrovertibili. Trovala, Yerzek, e avrai ragione. Portala qui, viva o morta che sia, e diventerai un eroe dell’Impero.»
 
Eroe dell’Impero.
Al teracnoide bastarono quelle tre parole per ritrovare l’entusiasmo.
«Allerterò le squadre di ricognizione e ordinerò loro di estendere le ricerche, signore!»
«Bene. Questa sera stessa scriverò a messer Phyronix affinché i Runners intensifichino i controlli. Quanto alla Guardia Pretoriana: per ora la escluderemo dalle nostre operazioni. Ce la caveremo con le nostre forze.»
L’ultima frase disorientò il subordinato.
«Ma... signore, perdonatemi, ma avete concesso a Darkwood il permesso di investigare.»
Sindegar liquidò la questione con noncuranza: «A Darkwood, appunto. Non alla Guardia Pretoriana.»
Dopodiché aggiunse: «Disponga subito gli ordini, maggiore. Voglio un’organizzazione efficiente, così da ottenere il massimo risultato già da domattina.»
«Sì signore.»
Presentò un saluto vigoroso, scatenando una nuvola di pulviscolo, dopodiché abbandonò l’ufficio.
Sindegar osservò la porta chiusa per qualche istante, prima di lasciarsi andare contro lo schienale e congiungere le punte delle dita davanti al volto.
«Darkwood, vecchio bastardo...» e svelò un sorriso soddisfatto. «Scalcia finché vuoi, ma stavolta sei finito.»
Due giorni prima era piombato nell’ufficio con un cipiglio che non gli vedeva dai tempi della guerra, e non se n’era andato finché non aveva ottenuto le informazioni che voleva.
Non l’avrebbe ammesso, ma lo aveva impressionato. E si era convinto che tanta determinazione non dovesse andare sprecata; per quello gli aveva dato il permesso e gli aveva messo alle calcagna qualcuno che lo pedinasse.
 
Vuole cercare la verità? Che vada.
Tanto, se Adler è morto, la storia è già scritta.
Se invece, contro ogni aspettativa, il ragazzo è vivo e Darkwood me lo consegna, sarò io stesso a fargli sputare ogni informazione prima di giustiziarlo.
Ma se è vivo e quel vecchio bastardo lo nasconde, avrò la prova che manca per accusarlo di tradimento e mettere la parola fine ai suoi giochi di favori, alla sua carriera e – il Creatore lo voglia – anche alla sua esistenza.
Comunque vada, perderà l’erede spirituale. E in più, se Adler padre dovesse scegliere di non dissociarsi dal figliastro, i Conservatori all’interno del Gran Consiglio lo costringerebbero a dimettersi. A quel punto Darkwood perderebbe anche il suo alleato più influente e, se la notizia circolasse a dovere, sarebbe la società stessa a rinnegarlo.
 
Heh, quasi non ci credo. È paradossale: sono venticinque anni che mi faccio il sangue marcio, e adesso quel vecchio bastardo sta per mettere da solo la testa sul ceppo.
È persino troppo bello per essere vero.
 
Lanciò un’occhiata maliziosa al ritratto affisso al muro, che ritraeva Tachyon X in una posa solenne. Gli rivolse un sorriso sornione e sussurrò: «Lunga vita all’Impero.»
* * * * * *
Dopo aver disposto gli ordini come voluto dal direttore, Yerzek tornò a casa.
Non appena ebbe chiuso la porta alle sue spalle, tuttavia, l’aria seria e operosa che aveva mantenuto fino a quel momento sfumò. Poggiato contro il portone d’ingresso, si portò una mano al volto e si coprì i lineamenti, mentre la voce gracchiava un crescendo di risa sempre più isteriche.
Non poteva credere alla sua fortuna. Voleva rovinare Ratchet, ma i risvolti assunti dalla vicenda si erano rivelati tanto imprevedibili quanto favorevoli ai suoi scopi.
La chiave di tutto era l’umana. Doveva solo trovarla.
 
«Gordon!» chiamò. «Gordon!»
Dal soffitto giunse il rumore aritmico di una camminata claudicante. Non era lenta, ma il teracnoide la giudicò lo stesso inadatta alla sua urgenza.
«Gordon, per la miseria!» esclamò ancora, spazientito.
«Eccomi signore, arrivo!»
Il maggiordomo – un markaziano di mezz’età – giunse dalle scale. Trascinò la gamba un gradino dietro l’altro, sbuffando per la fatica. Non appena ne fu visibile il volto, Yerzek ricominciò a parlare.
«Voglio che tu vada alla taverna dei Sette Gatti. Mi serve sapere cosa mormorano nella Tomba.»
Il markaziano, col battito accelerato per lo sforzo, si affrettò ad annuire.
«A che proposito, signore?» domandò.
«Tutti.» rispose con un sorriso famelico. I suoi lineamenti, alla luce dei lumi, assunsero sfumature malvagie.
«Voglio tutti i fatti strani che vociferano quegli inutili pesi sociali.» ripeté, stavolta ringhiando piano.
Gordon deglutì. Aveva già visto quel ghigno e aveva già udito quel tono bramoso. Non in faccia a lui, ma sul volto di un generale, durante la guerra, prima di una disastrosa azione militare in cui si era ritrovato unico superstite con la gamba piena di schegge.
Attento. Chi troppo vuole nulla stringe, pensò di riflesso, risentito.
La frase corse sulla punta della lingua, ma lì si fermò. Non era una sua pertinenza, si disse. Non era compito suo consigliarlo, a meno di una richiesta esplicita. O gli avrebbe dato un motivo per licenziarlo, e nessuno era bendisposto ad assumere un veterano di guerra.
Amareggiato, il markaziano chinò la testa.
«Come volete.»
E, prese le sue cose, uscì di casa.
* * * * * *
Ore 23:15 circa
Undertown, secondo livello, settore est
 
 
L’ingresso del bordello odorava di chiuso, di profumo stantio e di alcol.
Sembrava un caffè: qualche tavolino, divanetti alle pareti, un bancone. Velluti e stucchi riempivano le pareti, dando all’ambiente un’aria allegra. Ma era un’allegria decadente: gli stucchi presentavano una ragnatela di piccole crepe e i velluti erano lisi.
Non che agli avventori importasse più di tanto. Ad ogni tavolino c’era seduta almeno una donna dallo scollo provocante, impegnata a ridacchiare, chiacchierare o pomiciare.
Geoffrey tirò dritto fino al bancone, su cui era seduta una selker che lo guardava con interesse crescente.
«Guarda guarda chi si rivede...»
«Salve, Norilai.» disse, sedendosi su uno sgabello.
Sulle labbra piene della donna si formò un sorriso carico di sottintesi. I grandi occhi verdi, tagliati a metà da una linea orizzontale, si riempirono di divertimento.
«Suppongo sia successo qualcosa di sconvolgente, se sei tornato da me...» asserì. «Vuoi che ti serva qualcosa di forte?»
«Quello servirebbe al mio amico.» rispose, indicando il portone.
Norilai alzò un sopracciglio.
«Un amico? Tu?»
«Ho intenzione di fargli conoscere Giselle.» continuò. «È libera?»
Norilai alzò lo sguardo e individuò subito la markaziana. Era seduta su un divanetto e parlava con un’altra delle prostitute.
«Sì, è libera. Direi che manca solo il tuo amico all’appello.» disse.
«Il mio amico dovrebbe essere nascosto dall’altra parte della strada, in attesa che io esca...»
La selker corrugò le sopracciglia, perplessa. Aveva una sola spiegazione per quella frase, e non le piaceva. Per sicurezza prese un carboncino e scrisse sul bancone: sei pedinato?
Geoffrey annuì.
«Markaziano, lunga giacca grigia.» disse a bassa voce. «Non mi preoccuperebbe se non dovessi chiederti un favore importante.»
«Quindi non lo vuoi interrogare.»
«So già chi me l’ha messo alle calcagna.»
Norilai annuì con convinzione.
«Lascia fare a me.»
Scese dal bancone e, con una certa maestria dovuta all’esperienza, chiamò a raccolta le prostitute libere e dispose che andassero ad adescare qualche cliente nei locali lungo la via. Dopodiché prese da parte la markaziana di nome Giselle e le diede precise istruzioni, inventandosi una scusa a caso.
Quando le donne si furono disperse oltre la porta d’ingresso, la selker tornò dietro il bancone.
«Ti addebiterò un extra per questo.» disse, pulendo la scritta impressa col carboncino. «Adesso vieni, soldato. In questa caserma gli affari si discutono in camera da letto.»
Geoffrey arcuò le labbra.
«Signorsì, signora.»
 
Quando la porta della camera fu chiusa alle loro spalle, Norilai ancheggiò con eleganza fino alla toeletta, posata strategicamente vicino alla finestra. Sedette sul morbido pouf scarlatto ed intrecciò le caviglie. Con un gesto quasi etereo gli fece cenno di sedersi sul letto.
«Molto bene, caro.» disse, estraendo dal cassetto una cannula di rame e onice. Geoffrey notò l’accessorio e non poté fare a meno di stupirsi.
«Usi ancora quel calumet?» domandò, sedendosi sul materasso duro.
«Non essere sciocco: un Chanunpa di Morklon è fatto per essere eterno.» rispose con noncuranza. «Ma dicevamo. Quale favore vorresti da me?»
«Un incontro con Kaden.»
La selker, che stava attingendo al contenuto di una tabacchiera, si fermò e inarcò le sopracciglia, le labbra leggermente dischiuse per la sorpresa.
«...Adesso?» domandò.
«Adesso, sì.»
«Non sarà un lavoro facile.»
«Non ho mai detto che lo sarebbe stato.» replicò Geoffrey. «Ma il visconte Zogg sta per dare una grande festa e so che è in carenza di intrattenitrici.» aggiunse.
Il nome fece suonare un campanello nelle orecchie di Norilai che, suo malgrado, si ritrovò ad arcuare le labbra alla stessa maniera del lombax.
«Come sai del mio interesse per il visconte?»
L’uomo alzò le spalle.
«Ha importanza?»
La donna valutò la situazione nel tempo in cui invertì l’accavallamento delle caviglie.
«No, suppongo di no.» disse alla fine. «Dopo trent’anni dovrei smettere di chiederti come sai cosa.»
Aprì il lume e usò un bastoncino struccante come cerino per accendere il tabacco nel fornello.
«Giselle è riuscita a stanare il markaziano?» domandò Geoffrey. Norilai tirò una boccata di fumo e guardò oltre il vetro. Nella luce rossastra che le finestre gettavano nel tunnel sotterraneo, la prostituta stava attraversando la strada appoggiata al braccio il markaziano descritto dal lombax.
«Il tuo amico sta entrando adesso. Vado ad assicurarmi che salga.» sentenziò. Si alzò e raggiunse la porta, sempre ancheggiando con eleganza. Quando ebbe la mano sul pomello, colta da un lampo, si fermò.
«Geff.» disse, il tono basso e teso. «Se, per qualunque ragione, ti saltasse in mente di fare come Kaddie e scappare di qui mentre sono di sotto, evita di tornare. Perché se lo fai ti prendo a bastonate.»
Il lombax alzò le mani.
«Mi troverai qui. Parola.»
Norilai sorrise prima di lasciare la stanza. Se le dava la sua parola significava che ricordava ancora le due costole incrinate di qualche anno prima.
Sogghignò. «Bravo Geff.»
Si chiuse la porta alle spalle con un moto d’allegria: senza dubbio, minacciare impunemente Geoffrey Darkwood non era una cosa che chiunque potesse vantare.
Per quello – ma anche per il lieto piacere che le aveva procurato il suo ingresso nel bordello – scese le scale canticchiando.
 
Quando tornò in camera, qualche minuto dopo, lo trovò esattamente dove lo aveva lasciato.
«Giselle si farà un bell’incasso.» decretò. «Sei libero di andartene quando vuoi. Solo, fai attenzione quando passi davanti alla stanza quattordici.»
«Grazie Noreen.» rispose lui, avvicinandosi a lei e alla porta. «Non so cosa farai col visconte, ma sta’ attenta. È molto legato a Reepor.»
«Come tutti i nobili che i cragmiti hanno trapiantato qui, del resto.» replicò. «Stai attento tu, piuttosto. È un momento parecchio sbagliato per una rimpatriata con Kaddie.»
Geoffrey alzò una spalla di malavoglia. «Per quella non c’è mai momento propizio.»
«Vero anche questo.» ammise lei. «Torna fra due sere. Sarà sicuramente qui.»
L’altro annuì e lasciò la stanza. La camera numero quattordici era dall’altra parte del piano, proprio davanti alle scale. Quando la raggiunse fece attenzione a muoversi con leggerezza per evitare gli scricchiolii.
Poco dopo, quando varcò la porta d’ingresso, sul volto c’era un sorriso fuorviante. L’indomani Heanp avrebbe sicuramente saputo della sua uscita: che credesse pure che aveva sfogato la frustrazione andando a puttane. Sarebbe stato dell’ottimo fumo negli occhi.
 
Al piano di sopra, dietro la porta della sua camera, Norilai si portò una mano al mento con aria pensierosa.
«Kaddie Kaddie Kaddie... in quale dei tuoi rifugi ti scoverò questa volta?»
* * * * * *
Notte fra il 22 e il 23 gennaio
Luogo sconosciuto, stanza di Ratchet
 
 
Una fitta alle tempie svegliò Silver all’improvviso. Dopo un istante di smarrimento, la ragazza si portò le mani al volto e massaggiò la zona dolorante, cercando di indebolire lo stiletto che andava da una parte all’altra del cranio.
Era certa di aver sognato, ma aveva la memoria confusa. Qualunque cosa avesse visto, era svanita lasciandole solo la fitta e una sensazione di disagio.
Come se quello non bastasse a metterla di malumore, il Sapere giunse ad aggiornarla, impietoso nella sua schiettezza.
Incrociò le braccia.
«Mai che si possa avere un po’ di pace, eh?» borbottò. «Maledetto branco di rompicoglioni...»
«Che succede ancora?»
Silver s’irrigidì.
Ratchet. Non s’era accorta che fosse sveglio.
Dopo un istante di smarrimento si girò sul fianco, in modo da essere rivolta verso di lui.
«Tanto, troppo casino.» ammise. Poi si chiese come mai l’altro fosse vigile a quell’ora e domandò: «Ti ho svegliato?»
«Col baccano che hai fatto?» fu la replica sarcastica. «Mi meraviglia che non siano tutti in piedi.»
«Ma vaffanculo!» sbottò infastidita. «...e io che mi preoccupo.»
Dalla stanza adiacente, oltre il russare di Tarx, arrivò un mugolio infastidito. Nessuno dei due vi badò.
Silver diede la schiena al lettuccio e si rinchiuse nei suoi pensieri. Tuttavia non ci volle molto prima che il silenzio venisse interrotto nuovamente.
«...che razza di parola è?»
«Un insulto.»
Altro breve silenzio. Poi, a voce più bassa, Ratchet disse ancora: «Senti... Ti devo ringraziare.»
Silver, ancora sul piede di guerra, alzò un sopracciglio con aria scettica. Era sincero o la prendeva in giro?
«Quello che hai detto alla villa... ha permesso a Daniel di avviare la nostra ribellione. Di fatto, senza i tuoi starnazzamenti saremmo morti. Quindi grazie.»
«Ti chiederò un favore in cambio.» sancì. «Anzi, due.»
Fu Ratchet ad alzare un sopracciglio.
Silver aggiunse: «Dimentichi che ho detto ai ragazzi dove venirvi a prendere.»
«Oh, quello. Be’, potevi risparmiartelo.» borbottò.
Altro breve silenzio.
«Pensi di potermi rivolgere la parola, domani?» proseguì lui.
La domanda era talmente assurda che la ragazza si voltò di nuovo, facendo scricchiolare il sacco imbottito che fungeva da materasso.
«Te la rivolgo anche adesso, se per questo.» rimbeccò, un po’ meno dura di prima. «Che ti succede?»
Non visto, l’altro fece spallucce. «Niente.» disse. «Visto che mi ronzi sempre intorno e blateri un sacco con Daniel, domani potrei unirmi a voi.»
Silver impiegò qualche istante a rispondere, non sapendo se prendere la frase come un insulto oppure no.
Il primo istinto fu quello di rispondergli picche e mandarlo al diavolo. Poi, però, si disse che non sarebbe stato molto carino. Anche se il suo atteggiamento lo rendeva poco sopportabile, stava pur sempre per piovergli addosso un bel casino. Un casino di cui lei era l’autrice, sebbene avesse tutte le scusanti per affermare il contrario.
«Non vedo perché no.» concesse.
«Allora buonanotte, miss Darkshield.» disse lui, con un tono di voce che alla ragazza parve sollevato.
Passò un istante di silenzio.
«Aspetta.» disse lei, di getto, prima di tentennare: «Voglio... forse è il caso di giocarmi uno di quei favori che mi devi.»
Percepì il disorientamento del lombax e si diede dell’imbecille. Odiava quella situazione, in bilico tra voler dire e voler tacere.
«Il Sapere, prima, mi ha rivelato un sacco di brutta roba.» confessò. «Ci cercano, vivi o morti. E te... sarà dura, Ratchet, ti aspetta uno di quei periodi che porterebbero chiunque al manicomio. E lo so che è difficile per te, però... ecco... il favore che ti chiedo è la fiducia. Se non vuoi averne in Tarx, Reggie, Sacha o Kaden, abbine in me.»
Ci volle più di qualche istante, al militare, per assimilare tutta la frase della ragazza. Più le parole prendevano significato, più si sentì offeso.
«Proprio tu parli di fiducia?» sputò, infine, sulla difensiva. «Io sono ammanettato al muro perché tu non ti fidi. E dovrei essere io quello che si fida? Di chi, poi? Di una ragazzina che si crede un profeta e batte i piedi sbraitando cose senza senso?»
Silver incassò la testa tra le spalle. Indubbiamente, sulla prima parte aveva un sacco di punti. Ma sulla seconda...
«Sta bene, fa’ cosa vuoi.» replicò, offesa. «Ma verrai a cercarmi, questo è sicuro. E allora raccoglierai quanto hai seminato.»
«Certo, come no.»
Si diedero le spalle e il resto della notte, poi, fu popolato dagli incubi.

 

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Capitolo 11
*** | Capitolo Nono | Silver fa una scoperta ***


Silver fa una scoperta
Capitolo Nono
Il 23 gennaio, nel covo dei ribelli, fu una giornata pesante. Non tanto perché erano rinchiusi in un posto isolato dal mondo, non per il ricircolo appena sufficiente dell’aria, ma per il clima rovente imposto da alcuni occupanti.
Protagonisti e fonte del malumore furono Silver e Ratchet, che cominciarono con le occhiate in cagnesco e finirono per scuoiarsi a parole senza che nessuno riuscisse a rabbonirli. In effetti era una missione impossibile, dato che i due non scucirono una sola parola sul perché del loro comportamento. Così gli altri dovettero ricorrere ad un’altra contromisura: la separazione fisica. Al momento di coricarsi Sacha prese il posto di Silver. Il lombax dagli occhi bicromi andò a dormire nello stanzino con Ratchet, mentre la ragazza fu trasferita in camerata con gli altri. Sembrava la soluzione ottimale, quella che metteva pace agli animi di tutti. Persino lei e il maggiore l’avevano approvata!
Il piacere di un buon sonno ristoratore, però, le fu negato lo stesso. Tra Tarx che russava, Nencer che parlottava e Reginald che espirava fischiando, Silver non riuscì a chiudere occhio. E allora, immersa in uno stato di indolente dormiveglia, lasciò che i pensieri la guidassero.
Era lì da dieci giorni, non aveva ancora parlato con Evelyne, aveva assistito ad un’incursione, era stata rapita e usata come pretesto per uccidere, aveva trovato rifugio presso dei criminali, si era affezionata a qualcuno che aveva ritenuto secondario (che era morto) e avrebbe sputato addosso a colui che avrebbe dovuto essere il protagonista (che invece aveva salvato).
Riassunti così, quei pochi giorni sembravano una serie lineare di eventi, ma in realtà c’era molto – ma veramente molto – di più.
A tenerla sveglia, come se i suoi camerati non bastassero, furono i particolari che scoprì di conoscere. Tonnellate e tonnellate: insignificanti, trascurabili, correlati o importanti. E lei, incapace di addormentarsi, li spulciò uno per uno.
 
Era il cuore della notte quando si mise seduta. La schiena dritta, il mento alto e una strana sensazione dentro il cranio, quasi un formicolio.
Tutti quei dettagli l’avevano portata alla piena consapevolezza della portata del Sapere. Quello che scorreva nella sua mente era un fiume di particolari, su cui i pensieri si stendevano come eleganti pontili in ferro. Concentrarsi su qualcosa era come lanciare una lenza: immediatamente tutti i dettagli inerenti si radunavano intorno al suo amo, informandola di qualunque cosa.
Ma qual era il limite?
La risposta la intuì subito: non c’era. Conoscendo tutto, in teoria, poteva fare qualunque cosa. Ma nella pratica?
La ragazza sogghignò sarcasticamente. Ah, la pratica.
Fino a quel momento tutto il suo sapere non era valso a molto: che fossero imperiali o ribelli, in ogni caso, era stata imprigionata più o meno da chiunque. Però, se proprio voleva mettere i puntini sulle I, allora doveva anche ammettere che non aveva mai sfruttato appieno la propria abilità, per cui doveva spezzare una lancia in suo favore. Non era che il Sapere fosse inutile; piuttosto: doveva metterlo alla prova.
Okay, test numero uno! – si disse, risoluta. – Vediamo se mi sostituisce i sensi.
 
Mise giù un piede, poi l’altro, e attraversò la camera senza fare rumore. Il pavimento era appena sbozzato nella pietra, la stanza era completamente buia, ma la ragazza riuscì lo stesso ad aggirare ogni mobile. Varcò la soglia della camerata e dopo due passi si fermò. La sala comune era piccola, per cui il tavolo doveva essere vicino. Lo cercò con le mani, tastando lentamente l’aria davanti a sé.
Eccolo! – gioì, quando i palmi incontrarono le assi ruvide. – E se questo è il tavolino...
Si affidò al Sapere e andò a colpo sicuro. Una mano sfiorò l’ampolla di vetro del lume ad olio, mentre l’altra si posò sulla scatola dei cerini. Pochi secondi dopo, senz’altro rumore che lo sfregamento del solferino, nella stanza si diffuse la luce dorata della lampada.
Silver si concesse un sorriso.
Perfetto. Allora sistemo un paio di cose e poi via col test numero due. Ora che ci penso: non c’era un rifugio vero nella miniera?
* * * * * *
La luce della lampada si rifletteva sulle rocce colorando di rosso i loro spigoli. Al centro sfilavano i vecchi binari dei carrelli, e di tanto in tanto vecchi architravi impedivano al corridoio di crollare.
All’improvviso la luce illuminò a destra uno spigolo più delineato degli altri. Silver riconobbe un cunicolo e allungò la lampada al suo interno.
«Di qui si scende ancora.» mormorò. «Ardou, te li sei infognati ben bene il LabUno e il rifugio, eh! Perché dunque, se io dal LabUno salissi...» e si concentrò. «Se io volessi uscire, dovrei salire per otto piani. Miseria, se è sotto! Kaden aveva ragione a dire che non ci avrebbe trovato nessuno. Sfido io!» e riportò l’attenzione sul cunicolo davanti a lei. «Però per il rifugio si scende...chissà di quanto, se sono scesa di quattro piani e scendo ancora.»
Imbroccò la galleria in discesa e la percorse fino a che non sfociò in un cunicolo più ampio. Guardò a destra, guardò a sinistra e scelse la prima direzione, segnata da una leggera discesa.
«Che poi mi domando: che senso ha nascondere il rifugio così tanto più in basso, nel cuore della montagna? Mica lavorava allo stargate!» e si azzittì per un istante, rendendosi conto dei soggetti che aveva appena appaiato. «O chissà, magari è così. Ardou era effettivamente un genio.» e immaginò un lombax in camice davanti al gigantesco anello di metallo, una sagoma in controluce sull’Orizzonte degli Eventi.
«Nah, non mi convince.»
Chiacchierando fra sé e sé oltrepassò una serie di corridoi secondari. Ad un certo punto, però, avvertì di doversi fermare. Apparentemente lì non c’era nulla, tranne una galleria laterale sbarrata.
«Cioè, no, dovrei entrare qui?» si chiese. Ad altezza occhi c’era inchiodato il teschio di un brakterbeak. Mancava metà becco e sembrava pronto a polverizzarsi, ma anche così lanciava egregiamente il messaggio di pericolo. «Sul serio, Ardou?»
Sì, sul serio – suggerì il Sapere. E Silver s’inoltrò.
* * * * * *
Rifugio dei ribelli (ex LabUno)
 
 
Nencer aprì di scatto gli occhi.
Buon Creatore, su ’ste brande vengono bene solo gli incubi, pensò passando una mano sulla fronte sudaticcia. Poi, dal russare e dal fischio, si rese conto che gli altri dormivano. In silenzio, allora, allungò un braccio sotto la rete alla ricerca del pitale. Quando fu chiaro che non c’era ricordò che Silver li aveva raccolti tutti in uno sgabuzzino.
Il selker sbuffò sonoramente. Non gli era mai piaciuto alzarsi nel cuore della notte, ma in quel caso la necessità era padrona.
Buttare giù le gambe dalla branda gli risucchiò tutta la volontà di fare altro. Non cercò il cero né si preoccupò di fare poco rumore: andò a tentoni, a tratti bene e a tratti toccando altri oggetti per poi identificarli tra epiteti bisbigliati.
Raggiunse lo sgabuzzino e fece quanto doveva. Poi, com’era arrivato, se ne tornò alla branda. Buon per Silver, di controllare la stanza manco gli passò per l’anticamera del cervello.
* * * * * *
Altrove nella miniera
 
 
La luce della lampada si rifletteva sulla polvere creando un effetto surreale. Infatti, più che in una galleria di miniera, sembrava di stare immersi in una nebbia rossa. O di camminare in uno di quei tunnel infernali da film di bassa lega. Il lume ad olio, di certo, non rilassava l’atmosfera.
Che razza di posto. Fortuna che almeno ho messo gli stivali... – pensò, calcando bene la manica contro il naso. Se avesse potuto, si sarebbe stretta nelle braccia.
 
Era entrata in quel tunnel più o meno un quarto d’ora prima. Inizialmente era sembrato un banalissimo condotto secondario, ma dopo una cinquantina di metri il pavimento si era fatto di cemento liscio e i rinforzi contro i muri si erano rivelati pura avanguardia ingegneristica. Silver aveva fatto in tempo a vederne uno, perché poi era cominciata quella sorta di nebbia... curiosa, senza dubbio. Il Sapere le aveva suggerito che si trattasse per lo più di residui di estrazione.
Percorse ancora qualche metro, poi allo scenario si aggiunse un altro dettaglio, non meno inquietante. Piccole scintille, come lampi in miniatura, che ammiccavano nella polvere sospesa.
E questa roba qui?
 
CLACK.
Il terreno sotto il tallone cedette. Silver s’irrigidì, gli occhi sgranati per l’improvvisa paura.
Tutt’intorno la montagna prese a gorgogliare con voce profonda. La polvere sospesa cominciò a vibrare; le scintille – prima rade – si fecero improvvisamente arzille.
Con un gridolino di paura Silver girò i tacchi e corse a gambe levate per il corridoio da cui era appena venuta. Un tonfo riempì l’aria alle sue spalle: non si voltò a vedere cosa fosse ma accelerò, un piede avanti all’altro, finché non si trovò faccia a faccia col teschio del brekterbeak. Si buttò a sinistra, lungo il percorso dal quale era venuta. Un istante dopo udì lo scricchiolio del legno spezzato e un altro tonfo, stavolta misto al rumore di ghiaia smossa. Poi il gorgoglio cominciò ad allontanarsi. Quando si fermò, però, fu troppo tardi per vedere cosa fosse. Era già sparito seguendo l’altra direzione del cunicolo.
 
Lo realizzò poco dopo, cosa fosse. Lo realizzò mentre, mezza china in avanti, teneva le mani sui fianchi. Era una marzialista, porca paletta, e neppure di livello così avanzato: le corse a rotta di collo non rientravano nelle sue abitudini sportive. In ogni caso, passata la scarica di paura, il Sapere tornò a illuminarla. E allora, anche se aveva il fiatone, trovò la forza di ridacchiare istericamente fra un ansito e l’altro.
Ardou Leverre, indiscusso genio poliedrico, aveva messo a protezione del suo rifugio un masso rotolante.
E l’unico motivo per il quale non l’aveva seguita dopo il cunicolo era per via della pendenza della galleria in cui si trovava in quel momento. Leggera ma sufficiente a gestire il moto del macigno.
Leverre, bastardo... m’hai fatto venire un coccolone!
Aspettò ancora qualche secondo; il tempo di far calare il volume del battito cardiaco nelle orecchie. «Oddio... meglio quello... di una qualche... diavoleria ele... ttromagnetica... eh!..» si disse, rimettendosi dritta. Fece un respiro profondo, dopodiché fece qualche passo avanti e indietro intorno al lume, cercando di ristabilire il fiato. Fatica sprecata.
Decise allora di tornare all’imbocco del cunicolo, là dov’era giaciuto il cartello col teschio del brekterbeak. Raccolse il lume e, col battito del cuore attutito nelle orecchie, si avvicinò per la terza volta all’incrocio. Le assi, assieme al cartello e al suo macabro avvertimento, versavano in pezzi sul pavimento.
Se torno là dentro rischio di far scattare altre trappole, ragionò. Ma non è forse il segno che là c’è qualcosa che Ardou voleva tenere nascosto? Qualcosa che, magari, mi può tornare utile per cavarmi dai guai...
Senza pensare oltre rientrò nel cunicolo. Ritornò là dove cominciava il cemento liscio e si immerse di nuovo nella nebbia di polvere rossa. Solo che stavolta tenne i sensi bene all’erta, così da non farsi distrarre. Il Sapere le fece inquadrare subito la trappola che aveva attivato in precedenza e le mostrò come evitarla. Evitò altri due interruttori e, finalmente, arrivò in fondo al cunicolo. Due rampe di calcestruzzo erano posizionate proprio sotto un gigantesco buco nel soffitto. Il Sapere le illustrò subito come un sistema di molle avesse spinto il masso fuori di là sopra, ma Silver lo mise a tacere concentrandosi sull’ingresso... che comunque era situato in una delle rampe e la obbligava a stare sotto quella bocca vomita-sassi.
Dunque, per entrare... – pensò, tastando velocemente la parete alla ricerca di qualcosa. Tuttavia, dopo poco, il fascio di luce emesso dal lume si affievolì leggermente.
Oh, perfetto, sono anche a corto d’olio. Ardou, dove cazzo hai messo l’interruttore?
* * * * * *
Ci volle una mezz’ora prima che Silver trovasse il meccanismo.
Cazzo di Sapere, un aiutino a trovarlo no???
Quasi come per rimediare, il Sapere le suggerì come attivarlo. E lei non attese altro. Il lume si era fatto decisamente più flebile: entrò sperando di trovare qualcosa per riempirlo.
In effetti quel covo apparve da subito simile a un monolocale: tutto era concentrato nella sala all’ingresso. Individuò subito il cero sul tavolo, poi una stufa e una dispensa. Puntò a quella.
Bingo! – pensò aprendo l’anta. La tanica dell’olio per lampade era sulla mensola più agevole. La portò sul tavolino e con quello che conteneva – grazie anche al lumicino offerto dal cero – riportò a nuova vita la sua lampada.
La luce – ora più forte – delineò l’ambiente intero, rivelando forme e spigoli che stupirono l’umana con la loro familiarità. Per qualche motivo si sentì rilassare, come se lei conoscesse quell’ambiente. E allora si prese un attimo per studiare quel mobilio. Quelle linee pulite, quelle dimensioni così aliene al vittoriano...
Le venne in mente che lei conosceva la provenienza di quei mobili.
«Oh no no... non è possibile!» esclamò, prendendo a studiare meglio la grande libreria che dominava la stanza. «Sarebbe dovuto venire di là! Lui non poteva..!»
Ma un adesivo rimasto sotto una mensola la smentì.
«Ma quando... come..?» mormorò, gli occhi sgranati. «Come c’è venuto all’Ikea?»
Prova di là, suggerì il Sapere. Silver si bloccò, manco le avessero tirato una padellata in testa. Ruotò meccanicamente la testa verso la direzione indicata dal Sapere e i suoi occhi incontrarono un corridoio minuscolo.
C’erano tre porte, una per lato. Quando aprì la prima Silver si trovò davanti una stanza letteralmente tappezzata di relé, e sopra ogni interruttore un’etichetta in fastooniano. Quando aprì la seconda trovò un vero e proprio centralino, munito di tre telegrafi parlanti e posta pneumatica a sei bocche. E nella terza stanza trovò quella che chiunque avrebbe riconosciuto come la versione steampunk della sala teletrasporto dell’Enterprise.
La sua domanda aveva appena trovato una risposta.
* * * * * *
Rientrò nel covo dei ribelli con un vortice di domande in testa. Non aveva sonno ma s’infilò ugualmente sotto la coperta. I rumori tutt’intorno erano invariati: Tarx continuava a russare, Nencer a parlottare e Reginald a fischiare. Non che li sentisse davvero, eh.
Il rifugio l’aveva scioccata. Prima il mobilio svedese, poi le capacità tecnologiche (si era preso un tivù! E ci guardava Indiana Jones!) e infine quelle stanze. Quelle sì che erano interessanti. Ma perché nascondere il tutto nelle gallerie più basse? Cos’era che Ardou Leverre voleva tenere così nascosto?
Ma soprattutto: era il caso di parlarne con gli altri?
 
Facciamo che questo me lo tengo segreto, va’.

 

 

 

 

 


Okay, forse ho superato l’impasse. Chiedo scusa a tutti coloro che hanno avuto finora speranza e pazienza. Silver e soci sono ufficialmente di nuovo in pista.
Alla prossima!
Iryael
 
Ah!
Sto sperimentando con la leggibilità dei caratteri, più precisamente con le unità di misura scalabili. Avete problemi con le dimensioni dei font o con la velocità di caricamento? Un feedback sarebbe davvero utile.
Grazie in anticipo a tutti coloro che vorranno lasciarlo.

 

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Capitolo 12
*** | Capitolo Decimo | Nel mentre, a Villa Darkwood... ***


Nel mentre, a Villa Darkwood...
Capitolo Decimo
Notte fra il 23 e il 24 gennaio
Circa l’una e trenta
 
 
Il fongoid, avvolto nel cappotto scuro, fece scricchiolare le scarpe sul selciato. Il vetturino che l’aveva condotto lì se ne andò per la sua strada, lasciandolo solo con la valigia.
Si tastò il cappotto per l’ennesima volta, controllando che la preziosa lettera fosse ancora nella tasca interna. Sì, era ancora là.
Alzò la mano guantata e, incurante dell’ora, suonò il campanello.
 
Venne ad aprirgli un lombax in veste da letto. Lo scrutò alla luce del lume, attraverso lo spiraglio della porta socchiusa.
«Desiderate?» domandò, professionale ma diffidente.
«Devo conferire con il signor Darkwood.» La voce vibrò, tradendo sia il lungo silenzio che il nervosismo che l’uomo provava.
«Sta dormendo. Tornate domattina.»
Fece per chiudere, ma il fongoid col cappotto infilò lo stivale in mezzo all’uscio.
«Vi prego. Ho una missiva di Arthur Adler. Ho l’ordine di consegnarla adesso e a lui personalmente.»
Il lombax non disse altro. Se era un malfattore avrebbe trovato pane per i suoi denti, si disse mentre scioglieva i chiavistelli. Dopodiché lo accompagnò in un salottino.
«Aspettate qui.»
 
Uscì dalla stanza a passo lieve. Vi rientrò dopo qualche minuto camminando al seguito di Geoffrey. Il visitatore si alzò in piedi. Il pretoriano lo squadrò velocemente.
«Roman, per favore, prepara il caffè e servilo nello studio. Messere, voi seguitemi.»
L’altro, intimidito dal suo fare autoritario, si limitò a camminare dietro di lui fino ad una stanza tappezzata di verde.
«Signor Darkwood...» disse, incerto, mentre il padrone di casa aggirava la grande scrivania. Non gli fece la cortesia di invitarlo a sedere. Restò in piedi. «Vogliate perdonare l’ora, ve ne prego, ma ho ricevuto istruzioni precise.»
«Da chi?»
«Arthur Adler.»
Ci fu un attimo di silenzio. Il fongoid si sentì intimidire al punto che quasi dimenticò cosa facesse lì. Poi, di colpo, si riprese. «Ha detto che sarei dovuto venire subito da voi, non importava quale ora fosse, e che avrei dovuto consegnarvi questa.»
Con scatti nervosi infilò la mano nel cappotto e ne estrasse una busta bianca. La porse a Geoffrey, che prima di aprirla perse un istante ad osservare il sigillo che la chiudeva. Era quello degli Adler.
«Ha detto altro il tuo padrone?»
«Solo di riferire che ha trovato simpatica la vostra ultima missiva.»
Il lombax alzò un sopracciglio. «Ha davvero usato il termine “simpatica”?»
L’altro si strinse nelle spalle. «Testuali parole, signoria.»
Allora e solo allora Geoffrey accennò la sedia al suo ospite. Mentre quello si sedeva, lui avvicinò il lume ai fogli.
* * * * * *
Reepor, 22 Gennaio 1811
 
 
Geoffrey, amico mio,
si profilano tempi duri. Le notizie giunte da Fastoon sono quanto di più nefasto potesse capitarmi. Mio figlio, accusato di trattare coi ribelli. Di fare il doppio gioco per loro. Di essere coinvolto con un’umana!
Oh, quale ignominia.
 
Ratchet difetta di disciplina, lo sappiamo entrambi, ma sappiamo altrettanto bene che non tradirebbe mai né la famiglia né l’Impero. Su questo ha una tenacia adamantina.
Dunque vi chiedo: stategli vicino. Lo farei io stesso, ma – come potrete immaginare – la situazione per me ha preso una brutta piega.
Coloro che da sempre osteggiano la mia scelta di adottarlo hanno colto l’occasione. Quest’oggi, davanti al Gran Consiglio, ho dovuto difendere me stesso dall’accusa di alto tradimento. Il generale Winterson ha presentato una mozione pubblica in cui attesta il sospetto che io spalleggi il mio erede. Ovviamente non è così. Tuttavia, con le poche e frammentarie informazioni di cui disponiamo, i miei avversari hanno ottenuto che io rimanga confinato nell’abitazione di famiglia. Così non fosse sarei già arrivato a Fastoon.
 
A proposito.
Non ho vergogna nell’ammettere di aver seguito da vicino l’evoluzione delle vicende che vi affliggono da quando avete abbandonato Terachnos. Avete tutta la mia comprensione; tuttavia c’è una domanda che mi è d’obbligo porvi: c’è forse una nuova mente dietro le azioni dei Ribelli? Forse Kaden è stato destituito?
Perché, mi pare di ricordare, egli ha sempre fatto in modo che nessun esponente della vostra razza rimanesse infangato dalle sue azioni. Che ora tutto ricada sulle spalle di un lombax è assurdo quanto incoerente con la sua condotta.
 
Tenete con voi il servitore che vi ha consegnato questa missiva. Affinché partisse ho dovuto licenziarlo e spergiurare di essere in debito con voi di un uomo della servitù. E perdonate la rozzezza con cui ho scritto queste parole, ve ne prego. So che non amate certi trucchetti, ma la mia lettera non vi sarebbe mai giunta se non l’avessi scritta qui, sul retro delle referenze, con l’inchiostro simpatico.
 
Possano le stelle condurvi a porti sicuri,
Arthur Adler.
 
 
 
Poscritto.
 
Perdonate anche questo bruttissimo poscritto, vi prego, ma è urgente.
Sono passate poco più di due ore dalla redazione di quanto sopra e c’è stata una complicazione.
Ho appena ricevuto una comunicazione urgente da parte del Gran Consiglio. Hanno rettificato gli ordini del giorno di domani, e tra di essi è stata inserita la discussione su quanto sia saggio che il mio legame con Ratchet perduri. Credo sia stata un’idea del generale Conley per fornirmi una scappatoia da questa situazione a dir poco incresciosa.
Chiunque sia l’ideatore, comunque, domani sarà una giornata difficile. Se riconoscerò Ratchet come mio figlio mi aspetta l’alto tradimento. Ma d’altro canto, se lo disconoscerò, come potrò presentarmi davanti a lui?
Oh, che angoscia.
Qualche che sia la strada che imboccherò, vi chiedo ancora di fare il possibile per aiutare e proteggere il mio giovanotto, e di spiegargli come stanno realmente le cose. Se anche dovessi giungere a ripudiarlo legalmente, affettivamente e spiritualmente sono sempre suo padre.
 
Vi ringrazio in anticipo,
Arthur.
* * * * * *
Geoffrey sbuffò. Lo sapeva. Lo sapeva che la situazione si sarebbe messa male, ma non credeva che un cragmita di alto lignaggio come Arthur Adler avrebbe potuto rischiare tanto.
Gettò i fogli sulla scrivania. Oltre, seduto sul bordo della sedia, il nuovo uomo della servitù stava letteralmente cuocendo nell’ansia.
«È messa così male per il mio padrone?» domandò, guardandolo negli occhi con l’espressione angosciata.
«Come ti chiami?»
«D-dwiley, signore. Dwiley Urian.»
«Bene, Dwiley. Punto numero uno: da adesso tu lavorerai per me. Arthur ti ha mandato qui per questo, a livello ufficiale, e questo farai. Punto numero due: sì, è una brutta situazione. Ma a quella ci penso io.»
Domani, cominciando con una bella chiacchierata con quel bastardo di Kaden.

 

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