La mafia uccide solo d'estate

di Jawn Dorian
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cento passi da casa nostra ***
Capitolo 2: *** A morte il disertore ***
Capitolo 3: *** Roma Ladrona ***



Capitolo 1
*** Cento passi da casa nostra ***


“Sei una terra così bella” gli aveva detto un giorno “perché ti lasci sporcare così?”
Lovino non aveva risposto. Forse era troppo semplicistico spiegare per l’ennesima volta che se prendi una goccia di veleno al giorno non diventi necessariamente immune al veleno, ma anzi, ecco, diventi velenoso.
“Romà, dimmi una cosa” aveva continuato imperterrito – e chi lo fermava mai a Peppino  – “sei andato a scuola?” chiese, con serietà e una smorfia nervosa.
“Sì…diciamo di sì.”
“E sai contare?”
Italia sorrise, credendo che finalmente fosse in atto uno scherzo.
“Sì, so contare!”
“E camminare…sai camminare?”
“Sì” annuì e camminò sul posto con aria pomposa per farlo ridere. Ma lui non rise affatto.
“E contare e camminare insieme lo sai fare?”
Il sorriso sulle lebbra di Lovino si spense.
“Sì, penso di sì…”
“E allora forza” con una stretta ferrea gli arpionò il braccio “conta e cammina!”
“Peppino-“
“Conta e cammina, avanti!”
“Uno, due, tre…”
 
 
 
 
 

La mafia uccide solo d'Estate





"Cento passi da casa nostra"
 
9 Maggio, 1978
Cinisi
 
La primavera siciliana era come l’estate per il resto d’Italia. Il sole non si era fatto attendere. Picchiava con impertinenza su un individuo impertinente a sua volta, che non sapeva di avere così tante cose in comune col sole. Attraversava a grandi falcate una viottola che l’avrebbe portato a casa, giusto il tempo di svoltare l’angolo. Aveva la giacca in mano, la camicia rossa stropicciata e con le maniche arrotolate fin sopra i gomiti. Non si era preso il disturbo di mettersi la cravatta, quella mattina, e andava bene così.
La spiaggia era deserta. Il rumore delle onde e il canto delle cicale erano gli unici suoni che la facevano da padroni. Per un po’, solo un poco, qualcos’altro poteva capeggiare su Cinisi, ed era qualcosa di dolce e stranamente familiare. Lovino aveva già sentito quel suono, prima di allora. Era un suono che scatenava in lui nefasti presentimenti, ma che allo stesso tempo riusciva a rilassarlo, proprio perché non si trattava di una novità: la sensazione che qualcosa di brutto fosse accaduto non gli procurava ormai alcun moto iracondo, ma solo un muto dolore.
 Le cicale per le vie di Cinisi cantavano più forte che mai una marcia funebre che nessuno aveva mai sentito.
 
 



 
 
“Stamattina Peppino avrebbe dovuto tenere il comizio conclusivo della sua campagna elettorale.
Non ci sarà nessun comizio…e non ci saranno più altre trasmissioni.
Peppino non c'è più, è morto, si è suicidato.”
 
La radio gracchiava più forte del solito. Lovino distolse lo sguardo dalla caffettiera che borbottava sul fornelletto del gas insudiciato dalla ruggine. Era giunto a poche conclusioni nella sua vita, e una di quelle era senza ombra di dubbio che il caffè era uno dei veri piaceri di un uomo libero, anche se lui non si poteva dire propriamente un uomo. Ma non pensò al suo caffè che saliva. I suoi occhi ora erano inchiodati all’apparecchio. Le sue labbra si schiusero e un sorrisetto sghembo e nervoso si fece largo per poi mutare in una smorfia incredula.
 
“No, non sorprendetevi perché le cose sono andate veramente così. Lo dicono i carabinieri, il magistrato lo dice. Dice che hanno trovato un biglietto: ‘voglio abbandonare la politica e la vita’.
Ecco, questa sarebbe la prova del suicidio, la dimostrazione.”
 
Lovino si mosse. Non tremò e non produsse alcun suono. Scelse di essere rigoroso nel suo silenzio e di spostare la caffettiera. Forse avrebbe dovuto spegnere la radio. Non si doveva sapere che stava ascoltando proprio quella stazione. Non si doveva mai sapere niente, mentre stava a Cinisi.
Versò il caffè nella tazzina gialla, che aveva un'unica macchia di caffè incrostato vicino al manico.
Ci aveva provato, a mandarla via con qualche vigoroso colpo di spugna, ma quella era rimasta lì avvinghiata.
E Lovino Vargas era una nazione  che – si sapeva – si arrendeva quasi subito.
 
“E lui per abbandonare la politica e la vita che cosa fa?
Se ne va alla ferrovia, comincia a sbattersi la testa contro un sasso, comincia a sporcare di sangue tutto intorno, poi si fascia il corpo con il tritolo e salta in aria sui binari.
Suicidio.
Come l'anarchico Pinelli che vola dalle finestre della questura di Milano…oppure come l'editore Feltrinelli che salta in aria sui tralicci dell'Enel. Tutti suicidi. Questo leggerete domani sui giornali, questo vedrete alla televisione. Anzi, non leggerete proprio niente, perché domani stampa e televisione si occuperanno di un caso molto importante. Il ritrovamento a Roma dell'onorevole Aldo Moro, ammazzato come un cane dalle brigate rosse. E questa è una notizia che naturalmente fa impallidire tutto il resto.”
 
Le cicale continuavano a cantare. Forse faceva troppo caldo per un caffè. Ma Lovino lo bevve comunque. Tutto ad un fiato, senza i soliti piccoli sorsi, senza il solito peculiare cucchiaino di zucchero. Con un unico movimento secco. Staccò la tazzina dalle labbra, la strinse forte e decise di non domandarsi il perché sentiva tanto il bisogno di farlo. Passò il pollice su quella macchia marrone e solitaria.
Suicidio. Un suicidio. Sì. Rigoroso nel suo silenzio.
 
“Per cui chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia…ma chi se ne fotte di questo Peppino Impastato! Adesso fate una cosa: spegnetela questa radio, voltatevi pure dall'altra parte.
Tanto si sa come vanno a finire queste cose, si sa che niente può cambiare.
Voi avete dalla vostra la forza del buonsenso, quella che non aveva Peppino.”
 
La marcia funebre era per lui.
Lovino strinse la tazzina più forte e si poggiò con il bacino al tavolo della cucina. Ora teneva lo sguardo fisso su quel piccolo oggetto di ceramica. Non osava più guardare la radio. Si sentiva come se il gracchiante apparecchio lo stesse fissando con la stessa intensità di due occhi neri come la pece.
Gli occhi di Peppino.
Due occhi così profondi e sinceri che quasi erano riusciti a ricordargli che gli occhi ce li aveva anche lui, e aveva visto quello che aveva visto e non poteva più fare finta di niente. Che aveva delle orecchie, e spegnere la radio sarebbe stato da codardi.
Che aveva una bocca. E che il silenzio uccide.
Il silenzio uccide.
 
“Domani ci saranno i funerali. Voi non andateci. Lasciamolo solo. E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo! Ma non perché ci fa paura…ma perché ci dà sicurezza!
Perché ci identifica, perché ci piace!”
 
La tazzina si distrusse in mille pezzi contro il pavimento. Anche Lovino si frantumò. Cadde in ginocchio di fronte alla radio e pianse. Che lo sentisse tutta Cinisi.
“Me l’hanno ucciso…me l’hanno…ucciso…Peppino-”
 
“Noi siamo la mafia!
E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso!
 Tu sei stato un ingenuo, sei stato un nuddu miscato cu niente!”
 
“Vi odio! Io- io vi odio! Siete-” strillò dal suo balcone, da una finestra all’altra, che lo sentissero, che chi gli aveva portato via tutto non potesse più togliersi dalla testa le sue parole “—SIETE UNA MONTAGNA DI MERDA!”
Che lo sentissero urlare. Di silenzio ne aveva abbastanza.
Con la bocca ancora impastata dall’amaro del caffè, Lovino pianse tutte le lacrime che si era tenuto per sé nella sua vita di nazione lunga più di un secolo. Il caffè, uno dei pochi piaceri di un uomo libero.
Ma non era propriamente un uomo. Non era propriamente libero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“…Novantatré, novantaquattro, novantacinque, novantasei, novantasette, novantotto, novantanove e cento! Lo sai chi c'abita qua?”
“Peppino, ti prego—“
“Ah, u'zu Tanu c'abita qua! Cento passi ci sono da casa nostra, cento passi! Vivi nella stessa strada, prendi il caffè nello stesso bar, alla fine ti sembrano come te! «Salutiamo zu' Tanu!» «I miei ossequi, Peppino. I miei ossequi, Romano!». E invece sono loro i padroni di Cinisi! Sono i tuoi padroni!”
“Ma io non posso farci niente se il paese—“
“Ahhh, il paese! E mio padre! E la mia famiglia! Io voglio fottermene! Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente! Prima che si prendano tutto quello che hai! Voglio liberarti da loro!”
 
 
 
Prima che sia troppo tardi.
 
 
 
 
 
 
 
 
Parla! La verità è là, non devi negarla
Parla! Chi tappa la falla non resta a galla
Parla! Dalla tua bocca libera la favella
Come una farfalla che si libra dalla calla
Parla! I mutismi sono inascoltabili
Parla! I timori hanno timoni deboli
Parla! Urla termini interminabili
Parla! Perché il silenzio è dei colpevoli
{ Caparezza - Il Silenzio è dei colpevoli }

 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice (IMPORTANTI)
Io personalmente ho smesso di prendere sul serio Hetalia molto tempo fa. E ho smesso anche di tentare di scrivere a riguardo molto prima. Ogni tanto, anche se sono passati anni da quando ero fissatissima (ebbene sì), è ancora divertente guardarsi una puntata e ridere (per non piangere) di come i giapponesi ci considerino dei rincoglioniti.
Ma ehi, sono italiana e sono anche rincoglionita, quindi non farò la predica a nessuno. So perfettamente che Hetalia è quella che i miei amici chiamerebbero una ‘goliardata’, che va presa con le molle e che serve solo per farsi due risate in allegria. Solo che ho voluto creare la mia personale idea del personaggio di Lovino con questa serie, La mafia uccide solo d’Estate (titolo dal film di Pif). Perché io penso che Hetalia sarebbe potuto essere tante cose. Che Lovino Vargas, Romano, o come tutti lo chiamino, potrebbe essere un personaggio propriamente satirico, e non un uno tsundere a caso. Ma nessuno qui critica Himaruya, che probabilmente si è già preso la sua buona dose di cazziatoni. Ma in compenso, ho deciso che se non lo può fare lui, ci posso provare io. Per cui, comincio con speranza questa nuova raccolta tutta incentrata su di Lovino e sulla mia interpretazione personale e forse un po' ottimistica di come rendere il suo personaggio propriamente italiano. Non penso sarà molto lunga, perché tempo e idee cominciano a scarseggiare, ma ci si prova, e sarei felice di vedere qualcuno seguirmi in questa avventura bislacca.
 
Eh, sì, ho scritto una cosa sulla mafia. Non mi ritengo assolutamente in grado di trattare un tema di questa portata, né di osare scrivere il nome’ Peppino Impastato’ con le mie dita così tante volte. Se devo essere sincera, mi sento estremamente a disagio nel pubblicare una cosa simile, ma all’ispirazione non si comanda. Ho scritto qualcosa su Giuseppe Impastato perché I Cento Passi  era un must in casa mia da quando facevo le scuole medie e sono semplicemente storie che non si dimenticano. Badate bene che ovviamente non sto facendo propaganda politica! E’ solo un pasticcio per dare un omaggio a questo splendido film, ad una persona che per quanto mi riguarda è un eroe, a questo pezzo della mia crescita.
Tutte le citazioni fighe che avete letto qui (il pezzo dei cento passi e ovviamente l’annuncio alla radio di Salvo Vitale), sono palesemente estrapolate – e riadattate per l’occasione - dal film I cento passi.
Mi auguro che prendiate con le molle tutto ciò che ho scritto.
Grazie infinite a chi ha letto fin qua.
 
 
 

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Capitolo 2
*** A morte il disertore ***


Italia, Roma, 1940
 
Era nato nazione e se ne era anche fatto una ragione. Uno nasce e sa già di esserlo, era così, era sempre stato così, e di sicuro lui non era mai stata un’eccezione al grande ed inappuntabile disegno delle cose. Anche perché tutti sapevano quanto l’Italia del Sud fosse sempre stata arrendevole. Ma poi arrivava la guerra e Lovino finiva per sognare non di non essere nazione, ma addirittura di non essere uomo. Durante la guerra sognava di sparire, di poter valicare le trincee e scappare lontano, cambiare pianeta o universo. Ma per quanto si scoprisse capace ancora di sognare, o sperare e non essere poi così accomodante nei confronti delle ridicole circostanze che la guerra gli imponeva, i sogni erano comunque cenere nel vento.
 Lovino Vargas era un uomo e una nazione e doveva comportarsi come tale.
“Come ti chiami, soldato?”
La divisa la portavano perché così non potevano distinguersi, perché di fronte alla guerra si era tutti uguali: ricchi o poveri, nazioni o umani. Lui la portava perché così nessuno lo poteva riconoscere come nazione. Non importava a nessuno se era Lovino, Romano, nipote del grande Impero, ora era solo Vargas. Il soldato semplice Vargas.
“Va-Vargas…”
“Non ti sento!”
“V-Vargas, signore.”
“Imbraccia come si deve quel fucile, Vargas, e togliti quell’espressione spaurita dalla faccia.”
Tremava, e voleva tanto non doversene vergognare così tanto. Aveva uno strano dolore, all’altezza del petto. La conosceva troppo bene, quella fitta. Qualcuno, da qualche parte, un italiano, forse un intero esercito di suoi compatrioti, era stato terminato.
“Sìssignore.”
“E smettila di piangere! Nel mio reggimento non si piange!”
“Io…sìssignore.”
“Mettitelo bene in testa: sei un uomo quando sai imbracciare il fucile. Sei un uomo vero quando sei un vero soldato. E’ la guerra che fa di te un uomo.”
 
La mafia uccide solo d'Estate
 

“A morte il disertore”

 
 
Belgio, Bruxelles, 2015
 
Belgio arrivò trafelata con un impermeabile rosso che la faceva spiccare tra la folla. Si era sistemata i capelli con un cerchietto dello stesso colore. Quando lo avvistò, accelerò il passo per venirgli incontro, con un sorriso ed il fiatone.  Era sempre così carina. Era l’unico raggio di sole in quel pomeriggio di Febbraio piovoso, a Charleroi.
 “Roma, petite!” chiamò alzando una mano. Lovino la raggiunse trascinandosi dietro il trolley malandato e piombandole addosso per regalarle un abbraccio travolgente.
“Ti ho già detto mille volte di non chiamarmi petite!” rise.
“Non riesco davvero a togliermi dalla testa di quando eri alto ottanta centimetri” con un sorriso raggiante gli posò due leggerissimi baci sulle guance e agguantò il trolley.
“Com’è andato il volo?”
“Tutto bene. Anche se il pranzo è stato disgustoso- oh, no lascia stare!”  Lovino provò a riprendersi il trolley allungando il braccio, ma Belgio lo scostò con delicatezza. “Lascialo a me, sarai stanco…vieni, ti porto a fare un pranzo decente. “
“Un pranzo decente a Charleroi?”
“Ehi!” protestò energicamente la ragazza “Che si era detto sul manifestare la tua superiorità sul cibo?”
“D’accordo, d’accordo” si arrese Lovi “decida lei, madame.”
“Ecco, così va meglio.”
 
 
 
 
“Spara!”
Il suo compagno, poco più avanti, con un rivolo di sangue che gli usciva dal naso, lo intimò con un ringhio. “Sparagli!”
Davanti a lui un soldato inglese, che ai suoi occhi non era un soldato, non era inglese, non era il nemico e nemmeno un bersaglio. Era nulla di più che un ragazzino appena maggiorenne – esile come suo fratello - , e arrancava con la gamba gravemente ferita, tentando di trascinarsi il più lontano possibile da lui. “VARGAS, SPARA!”
Il ragazzo inglese si era voltato indietro per gettargli un ultimo sguardo disperato. Piangeva.
Che mondo diverso sarebbe, quello in cui le lacrime cambiano le traiettorie dei proiettili.
Non era un soldato e non era un uomo. Era solo un ragazzino. Ma era come doveva essere.
E Lovino l’aveva ucciso.
 
 
 
 
 
Per arrivare nel centro della capitale, bisognava per forza prima passare a Charleroi.
L'aeroporto di Charleroi si chiamava così perché era un aeroporto che serviva la città di Charleroi, una cittadina minuscola nella parte Sud di Bruxelles che altro non aveva che il vanto di un aeroporto – giust’appunto - che collegava il mondo alla capitale belga. C’erano le abitazioni. Un parco. Molti alberghi piuttosto squallidi. E un ristorante. Un singolo ristorante. Minuscolo ma frequentato quanto bastava.
Un ristorante italiano.
Belgio irruppe dentro con al suo seguito un trolley e un ragazzo alquanto incazzato e bagnato.
“Roma, petite, ma quante volte te l’ho detto? Qui piove, non fa lo stesso tempo che da te!”
“Me l’hai detto più meno quante volte io ti ho detto di non chiamarmi petite-“
“Appena arriviamo a casa ti presto un impermeabile. Dio, quanto sei irascibile quando sei affamato!”
Lovino tacque. Non si poteva certo dire che Belgio avesse tutti i torti.
Si sedettero all’estremità di un lunghissimo tavolo di legno massiccio in vecchio stile, da cui dall’altra parte stava un padre con due bambini che scorrazzavano felici come quello fosse stato un parco giochi. Tutti e tre biondissimi e pallidissimi. L’uomo salutò Belgio con un sorriso.
“Marten!” rispose lei cortese “Comme on ca va?”
Fu l’ultima cosa che Lovino capì, prima che i due si mettessero a chiacchierare in francese in modo fin troppo veloce e concitato perché lui riuscisse a seguire. Non comprese nulla finchè Belgio non lo infilò nella conversazione: “Dico bene, Roma?”
“Che? Cosa?”
“Marten adora l’Italia, ti ha riconosciuto! Dice che adora la tua cucina! Gli ho detto che eri lusingato—“
“Ah!” si illuminò “Certo, certo—ehm- Merci, merci!”
L’uomo gli sorrise affabilmente, prima di tornare a concentrarsi sul tiramisù che purtroppo uno dei suoi bambini aveva già finito per spappolare nel piatto.
Ordinarono delle linguine al pomodoro che arrivarono dopo quella che a Lovi sembrò un’eternità. Non erano al dente come lui le prediligeva da sempre, ma non osò neppure accennare alla cosa e divorò tutto. Mangiò avidamente facendo la scarpetta col sugo alla fine.
“Non era così male, eh?” sorrise Emma, compiaciuta come non mai.
“Davvero niente male per un posto come questo.”
Non l’avrebbe mai ammesso, ma il fatto che l’unico ristorante in quel posto fosse proprio italiano lo lusingava da morire.
 
 
“E’ uccidere o essere uccisi, Vargas.”
Il suo fedele compagno di trincea che lo esortava sempre a sparare si chiamava Scaccia.
Scaccia - se lo sarebbe ricordato per sempre - era l’unico dei soldati semplici che lo chiamava con il suo cognome e non con il nome da nazione. Aveva gli occhi chiari e una cicatrice sul mento. Non si poteva dimenticare uno così consapevole della loro uguaglianza di fronte alla guerra.
Si chiamavano solo per cognome. Il suo nome, per un motivo o per un altro, non l’aveva mai sentito, mai chiesto e mai colto. Per lui Scaccia era solo Scaccia ed era solo il soldato che per qualche ragione lo faceva rialzare ogni volta. Non un amico, non un compagno, non un fratello.
Solo Scaccia.
“Ma tu non hai paura?” gli chiese, un giorno.
Scaccia aveva trent’anni e già quattro figli e un moglie stanca che lo aspettava a casa come tutti, e che come tutti non poteva permettersi il privilegio di sperare che sarebbe tornato.
“No. Gli uomini veri non hanno paura della morte.”
“Non della morte” lo interruppe Romano con stizza “ma del fatto che a conti fatti siamo tutti assassini.”
 
 
 
 
 
“Questo meeting è piuttosto importante. Sono felice che l’abbiano organizzato qui da me.”
Belgio entrò in casa con aria soddisfatta. America amava ancora riunire tutti per parlare dell’emergenza inquinamento, ogni tanto. E a Lovino andava benissimo, perché almeno non si trattava di un meeting europeo, e nessuno poteva girarsi verso di lui con sguardo indagatore e domandare “A che punto siete?”, “Che provvedimenti stanno prendendo, i tuoi capi?”, “Hai detto loro che ci state rallentando?”
Fortunatamente ogni tanto c’erano i meeting mondiali, in cui si poteva respirare.
“Tuo fratello dov’è? Non viene?”
Casa di Belgio aveva sempre quel vago profumo di pretzel e birra. Roma mollò il suo trolley di fianco al divano-letto – era lì che dormiva sempre quando era ospite – e ci si abbandonò sopra con un sospiro.
“Aveva del lavoro da sbrigare.”
Emma strinse le labbra con aria pensosa. “Avete litigato di nuovo?”
Romano tirò fuori un grugnito angosciato, pigiandosi un cuscino sulla faccia.
“Roma!”
“Cosa! Non abbiamo litigato, non ci siamo picchiati, né tirati niente addosso, te l’assicuro! E’ stata una semplice discussione come un’altra.”
Belgio sospirò. Si grattò la testa e senza insistere si chiuse in camera per cambiarsi.
“Ah, tra poco dovrebbe arrivare Antonio, gli apri tu?”
Ci mancava solo Spagna per completare la combriccola di gente che non sapeva farsi gli affari suoi. Lovino non fece in tempo a sbuffare scocciato, che il citofono squillò con prepotenza. Aprì, senza controllare chi fosse, perché d’altronde lo sapeva già benissimo. Socchiuse la porta d’ingresso e con aria rassegnata salutò.
“Ciao Spa—“
“Roma, mi querido, cuánto tiempo! Así que estoy feliz de que nos encontremos de nuevo, no puedo—“
“Spagna—“
Antonio gli buttò le braccia al collo. Tra loro due la diplomazia non era mai esistita e Lovino in tutta franchezza aveva sempre fatto a meno di chiedersi il perché. Finse di lamentarsi, ma lo strinse brevemente anche lui. “Ehi, Lovi, cosa avevamo detto? No me llames España, yo soy tu Antonio…”
“Non sono più tuo fratello piccolo da una vita, Antonio…”
“Oh, mi Roma! Sei cresciuto e sei indipendente, todavia te puedo amar!”
In tutto quel trambusto erano rimasti abbracciati. Come al solito non c’era verso di comportarsi da adulti, quando c’era Spagna di mezzo. Belgio uscì da camera sua giusto in tempo per beccarli mentre si staccavano. “Voi due siete imbarazzanti…lo sapete questo, vero?”
 
 
“Mangia.”
Scaccia era un soldato come lui, ma ogni tanto si dava delle arie da Comandante. Era un tipo decisamente indurito dalla vita. O dalla guerra. O da entrambe. L’accento romano lo faceva sembrare ancora più minaccioso. Spesso lo costringeva a mangiare. Lovino aveva questo vizio di digiunare, come in un vano e patetico tentativo di morire.
“Ho detto, mangia” gli ficcò il tozzo di pane rinsecchito in bocca con prepotenza, e Lovi a quel punto iniziò a masticare.
“Non so chi ti credi di essere, Vargas, ma così non impietosisci nessuno.”
Romano buttò giù il boccone e l’esofago bruciò.
“Allora perché mi stai dando da mangiare?” tossì, con aria inviperita.
Scaccia tacque. Un barlume di tenerezza affiorò nel suo sguardo di ghiaccio.
“Finisci e zitto.”
 
 
 
Lovino non ne aveva molti, di amici.
In quelle condizioni era difficile farseli, semplicemente. Se ne stava avvinghiato all’Europa con tutte le sue forze, sentendo ogni giorno sulle spalle il peso del debito pubblico come un macigno.
Il brutto dell’essere una nazione era che la crisi economica equivaleva ad un malanno fisico che poi si trasformava anche in uno mentale, specie se avevi un dannato fratello minore che finiva sempre per darti la colpa di tutto. Non si poteva neanche più litigare in santa pace in casa Vargas senza che Feliciano non gli rivolgesse qualche accusa travestita da innocente costatazione.
Molti pensavano che Lovino fosse una nazione a cui piaceva stare per conto suo. Beh, non era affatto così.
Per questo, quella notte, Lovi mandò al diavolo la sua idea di spazio personale e lasciò che Belgio abbandonasse lui e Antonio al loro destino nello stesso divano-letto.
Entrambi, poco abituati alla brezza notturna belga decisamente più ostile della loro, si tirarono su la coperta fino al naso e in un muta intesa si strinsero più vicini. Le cose erano sempre così naturali, tra loro due, senza il minimo imbarazzo. Lovino non ne aveva molti, di amici. Però aveva Spagna.
“Beh” ridacchiò lo spagnolo “come quando eri piccolo, visto?”
“Quanto sei scemo, Dio mio.”
“¿Por qué?”
“Vivi nel passato.”
“Lovi, guardami.”
Si girò, e anche nel buio della stanza, dove solo qualche raggio di luna illuminava l’interno, gli occhi di Antonio continuavano ad avere quella luce dentro.
“Non sono fermo al 1800, so bene che sei indipendente, adesso. E so bene che è giusto che tu lo sia. Per l’amore del cielo, sono passati secoli. Non è di quello che rivango. Non è quello che mi manca.”
Quel sorriso era ridicolo. Loro erano ridicoli.
“E allora cos’è che ti manca?”
“Tu.”
La sillaba si spense lasciando un sottile eco nella testa di Lovino. Cercò di nascondere lo stupore, passandosi una mano tra i capelli, ma non ci riuscì. Inevitabilmente finì per arrossire un po’, come quando era un ragazzino. Antonio aveva questo particolare talento nel farlo sentire più giovane ma allo stesso tempo più grande, più forte. Gli ricordava il modo in cui un tempo aveva avuto il coraggio di rivendicare la sua indipendenza, ma anche quanto era stato in grado di riscoprire che essere amati e protetti era ancora possibile.
“Ma dai, che cazzate dici?” ridacchiò l’italiano, visibilmente imbarazzato “Sono una delle nazioni più malcagate d’Europa. E non ricordo più quand’è che ho vinto una guerra.”
“Non siamo più in guerra.”
“Beh, se ce ne fossero non saprei affrontarle.”
“Beh, forse non sei fatto per la guerra!”
Lo colse impreparato. Spagna lo fissava dritto negli occhi e non sorrideva più. Non ricordava di averlo mai visto così serio. Gli posò un mano sul polso e strinse un poco, come a volergli donare vigore.
“Non sei fatto per la guerra. Nessuno dovrebbe più esserlo. Non è questione di cosa pensa di te l’Europa come nazione…tu come persona, Lovi, eres tu que yo quiero.”
Lo guardò confuso.
“Non ti preoccupare” sorrise rassicurante Antonio “adesso dormiamo.”
Gli schioccò un veloce bacio sulla guancia come faceva da sempre e posò la testa sul cuscino, mentre Lovi era ancora occupato a lambiccarsi il cervello tra l’eco di quelle parole.
“Buenas noches.”
 
 
 
“Basta.”
Talvolta, c’erano giorni in cui sentiva di non potercela fare. Erano i giorni in cui dovevano marciare e basta, quindi erano soli con i loro pensieri. I giorni  in cui gli tornava in mente che quella non era la prima guerra e che quindi non sarebbe stata l’ultima.  Erano i giorni peggiori, dove piangeva disperato e si vergognava di non vergognarsene. “Basta, non ce la faccio.”
Si accasciò per terra, lasciando che il fango lo insudiciasse, e pianse più forte.
Scaccia lo afferrò per il colletto, facendogli male. “Muoviti. Non ricominciare.”
“Mi manca Feliciano” singhiozzò “voglio tornare a casa.”
“Tuo fratello è al sicuro con Germania.”
“Mi manca Antonio. Non so neanche come sta, non so neanche—“
“Antonio?” gelò l’altro all’improvviso “Ma che ti prende, oggi? Chi è Antonio?”
A quel punto Lovino rifletté, seppure scosso dalle lacrime, se confidarsi o no con Scaccia, che non era esattamente il tipo di persona che amava ascoltare le storie altrui.
“Spagna” grugnì, tirando su con il naso.
“Tirati su, idiota.”
Come volevasi dimostrare. Lo tirò su per un braccio.
Ma poi a Romano si mozzò il fiato: Scaccia lo sorreggeva con entrambe le braccia.
 No, anzi…Scaccia lo stava abbracciando. Lo abbracciava.
“Lo rivedrai. Te lo prometto.”
 
 
 
 
 
 
Il fatto che il meeting fosse di una noia mortale non rappresentava certamente una novità. D’altra parte avevano già detto sull’inquinamento tutto il possibile da dire, in quegli anni. Era comunque doveroso prendervi parte, certo, ma nessuno ormai si vergognava più di sbadigliare. L’aria fuori era umida e fresca. Pioveva ancora, sebbene solo leggermente. La voce bassa di Germania che aveva preso parola ormai da venti minuti suonava quasi soporifera. Grecia non aveva dormito, si notava fin troppo dalle occhiaie, e dalla particolare attenzione che stava rivolgendo al foglio su cui qualche spiritoso aveva disegnato un salvadanaio rotto a forma di gattino. Lovino era seduto di fronte a Cina, e poteva vederlo perdersi nel contare le goccioline che sbattevano contro la superficie della vetrata alle sue spalle. Stava pensando di adottare anche lui quel passatempo, ma arrivò finalmente l’ora di pranzo.
Belgio aveva deciso di pranzare con Olanda e Lussemburgo, e lo aveva spudoratamente abbandonato alla compagnia di Germania – cosa per la quale Lovi non l’avrebbe mai più perdonata.
“Poteva andarti peggio” sbuffò Ludwig incrociando le braccia di fronte alla sua espressione ostile “potevi finire solo con Russia.”
“Russia non mi fa paura.”
“Ah, no?”
“No!” disse, quasi risentito “è il suo capo che mi terrorizza.”
Il tedesco sbuffò. “Almeno tuo fratello è bravo a nasconderla, la paura.”
Romano arricciò il naso nell’espressione più sinceramente offesa che riuscì a tirare fuori e sibilò: “Se ti piace così tanto mio fratello, perché non te lo sposi?”
Dato l’allarmante color porpora che avevano assunto le orecchie del tedesco, Lovino stava quasi per cantare vittoria, ma ancora una volta il crucco si rivelò essere un avversario più tosto del previsto, soprattutto sul fronte frecciatine: “Beh, in ogni caso non potrei, visto quanto da voi siano indietro con i matrimoni tra omosessuali.”
Proprio quando la tensione sembrava aver raggiunto le stelle, Spagna saltò fuori, provvidenziale come sempre: “Lo siento, ma voi due dovete piantarla con queste battutine passivo-aggressive o vi stresserete e vi cadranno tutti i capelli…posso aggregarmi?”
“Che dici” ridacchiò Lovino improvvisamente più di buon umore, rivolgendosi a Germania “lo facciamo entrare nel club esclusivo?”
“Quanto sei antipatico, oggi, Lovi!” lo ammonì Antonio scompigliandogli i capelli con un gesto vigoroso, che l’italiano non riuscì a trovare fastidioso o indesiderato, anche se ci aveva provato. “Che ne dici di una pizza? Per tirarti su.”
“Ma sei matto? Una pizza qui?
“Zuppa?” propose Germania con un sospiro rassegnato “quella qui è buona, no?”
“E zuppa sia.”
Scesero lungo una viottola che Ludwig sembrava ricordare. La guardava con aria nostalgica, un’aria per cui Antonio sembrò provare una particolare empatia. Camminavano a falcate e in silenzio. Nessuno di loro sembrava apprezzare particolarmente la pioggia, sebbene fosse leggera, e si infilarono nel primo locale appetibile senza dirsi nulla, in una mutua intesa forgiata istantaneamente per fuggire dal maltempo.
Li accolse un ambiente spoglio e piuttosto poco accogliente, ma ancora una volta la voglia di starsene al caldo prevalse, e si sedettero senza una parola.
“Ow, Italià!”
Lovino si girò di scatto, sorpreso, e trovò un viso asciutto e pallido che sorrideva gioviale, coronato da capelli biondissimi che non erano molti, per via della mezza età che iniziava a fare capolino.
“Ma…Marten?”
Sperò di aver azzeccato il nome e di non aver fatto una figura barbina. Fortunatamente l’uomo annuì con un sorriso e gli porse la mano. Romano la strinse, lasciandosi andare a sua volta ad un sorriso intenerito.
“Je suis heureux de vous revoir!”
Sono felice di vederti di nuovo.
“Merci!” rispose la nazione, cercando di tirare fuori il suo migliore accento francese. Impresa che si rivelò divertente per Marten, che ridacchiò. Non sembrava una risata per prenderlo in giro, e la cosa lo fece sentire estremamente sereno. “Ah!” si girò indicando Spagna e Germania che nel frattempo erano rimasti seduti “Ici, l'Allemagne et Antonio-“ 
Marten alzò entrambe le sopracciglia. Germania soffocò malamente una risata, mentre Antonio sobbalzò impercettibilmente sulla sedia. Decise di non girarsi per guardare il viso di Lovino che – ne era certo – era diventato di un rosso a dir poco inumano.
“…Espagne!”  si corresse velocemente Romano, ma ormai tutti i partecipanti alla conversazione sembravano aver colto quella scaglia di intimità con cui aveva pronunciato il nome proprio e non lo aveva presentato come nazione.
Proprio quando credeva che l’attenzione di tutti per i successivi minuti non si sarebbe concentrata altro che su quello, un uomo alle spalle di Marten, che era la sua copia più anziana e soprattutto più incazzata, sbraitò qualcosa in francese che a Lovino sembrò incomprensibile.
Marten assunse un’aria imbarazzata e si scusò. “Excusez-moi , est mon père-“
Scusate, è mio padre  tradusse mentalmente Lovi. E non capì il perché delle scuse fino a che non ascoltò più attentamente quel ciancicare ringhiato.
“Yuck, Italien!”  lo sentì berciare. E il resto ancora una volta gli sembrò confuso.
Colse un ‘voleurs’, ladri. Un ‘faible’, deboli.
Si creò istantaneamente un clima di imbarazzo e tensione. Marten biascicò immediatamente altre scuse. Roma indietreggiò verso il suo tavolo con un sorriso forzato. “Fa niente, fa niente” mormorò poco convinto. Germania si grattò la nuca indeciso su cosa fare, mentre Spagna era paonazzo in volto.
L’anziano continuò ad inveire in francese per un po’, nonostante i ripetuti rimproveri del figlio.
Lovino, per qualche motivo, si sentiva stranamente agitato e a disagio. Non era la prima volta che capitava una cosa simile, ma in quelle circostanze tutto sembrava più umiliante del solito. La poca clientela del locale aveva iniziato a notare il trambusto. Germania lo tirò piano per un braccio. “Ignoralo” lo sentì sbuffare “Non perdere la testa e non gli rispondere.”
Romano lo ascoltò. Non seppe come riuscì a non perdere il controllo, ma tirò un un lungo sospiro e fece per sedersi.  Voltò le spalle a Marten e a suo padre, spostando la sedia per prendere posto.
 Ma poi, un ultimo guizzo, un ultimo ringhio, un’ultima frase sibilata senza pietà lo raggiunse.
“Italien…mauvais soldats!”
Italiani pessimi soldati.
 
Lovino si girò e sorrise all’uomo. Un sorriso così bello, caldo e sincero che per un attimo sembrò illuminare la stanza.
“Merci pour le compliment.”
Grazie per il complimento.
 
Il signore si zittì all’istante. Marten prima di riuscire a portarlo via salutò Lovino con la mano, mormorando ancora una volta tutte le scuse esistenti nella lingua francese.
Romano finalmente si sedette a tavola, come se nulla fosse successo, sotto gli sguardi allibiti di Germania e Spagna. Ludwig sfoggiò un mezzo sorriso che per un attimo, solo un singolo attimo, sembrò quasi fiero.
Antonio, dal canto suo, sembrava innamorato, mentre lo fissava.
“Non guardatemi così. La guerra è finita, giusto?”
 
 
 
“Va tutto bene” mentì Lovino con le labbra che tremavano “va tutto bene, starai bene.”
Scaccia, abbandonato come un pupazzo tra le braccia della nazione, annaspava in cerca d’aria.
Continuava a sanguinare e a sanguinare. Il fianco, il petto, ora la bocca…non smettevano di riversare sangue.
“Scaccia, guardami. Stai con me, dimmi qualcosa—”
“Ti leggo il terrore negli occhi, Vargas.”
Lovino non riuscì a trattenersi oltre e lasciò che la prima lacrima gli solcasse il viso.
“Stai piangendo per me. Grazie” lo sentì mormorare.
Lo strinse più forte e iniziò a pregare a bassa voce.
“Credo che le tue lacrime valgano tanto. E credo che se hai paura allora vuol dire solo che tieni tanto a quello che hai lasciato a casa” rantolò.
“Scaccia—“
“Dio— Scusami se non te l’ho detto prima. Avevi ragione su tutto. Su ogni singola cosa. Ho sempre avuto paura. Anch’io volevo tornare a casa.
Questa guerra è insensata. Gesù—
Non è da uomini veri vantarsi d’aver ammazzato dei ragazzini che hanno gli occhi come quelli di tuo figlio.”
“Oh” pianse Lovino “Oh, Scaccia—“
“Antonio.”
“Co— che cosa?”
“Io mi chiamo Antonio Scaccia.”
Romano posò la fronte sul suo petto e pianse ancora più forte. Riuscì a soffocare  i gemiti di dolore solo dopo un paio d’attimi.
“Ti prego, dì ad Annuccia e ai bambini che li amo.”  
 
 
 
 
Un giorno, di sicuro, gli uomini veri sarebbero stati proprio quelli che si rifiutavano di imbracciare un fucile.
 
 
 

 
Scusami se diserto ma preferisco
preferisco ammazzare il tempo,
 preferisco sparare cazzate,
 preferisco fare esplodere una moda,
preferisco morire d'amore,
preferisco caricare la sveglia,
 preferisco puntare alla roulette,
preferisco il fuoco di un obiettivo,
preferisco che tu rimanga vivo!
{ Caparezza - Follie preferenziali }
 
 
 
Note dell’autrice (IMPORTANTI)
Credo di dovervi delle spiegazioni più che altro perché so quanto questa storia possa sembrare molto random e priva di un reale significato.
Lasciate che vi spieghi: mio zio (che si chiama Antonio e che – pensate un po’ – è felicemente sposato con una donna spagnola) lavora in una banca a Lussemburgo. Il Lussemburgo è una nazione incredibile (sul serio, se avete la possibilità di visitarla fateci un salto), dove ci sono un sacco di persone di nazionalità differenti e anche molti italiani. Mio zio un giorno mi raccontò che uno dei suoi colleghi lo apostrofò, uscendosene con qualcosa di molto simile a “gli italiani sono deboli, non sono dei bravi soldati!” e che lui per tutta risposta e con il suo migliore sorriso gli disse solo “grazie.”
Prendendo spunto da questo episodio la storia è venuta da sé, le dita sulla tastiera sono andate da sole.
Questo è il risultato. Un po’ pasticciato e decisamente privo di un vero senso se non puro affetto alla mia concezione di pacifismo. Sono riusciti a darmi dell’hippie in passato, vi dico solo questo.
Forse non rendo Lovino ruvido e scontroso quanto dovrebbe essere canonicamente, ma non riesco davvero a dipingerlo come uno stereotipo…come sapete punto più alla satira, e questo era il mio tentativo di esorcizzare quella parte di popolo italiano ancora convinta che la guerra sia necessaria.
Non so, forse sono io ad essere ottimista, ma mi immagino un Lovino stanco della guerra, stanco della figura di uomo-soldato. E ho fatto sì che fosse Spagna, il nostro Antonio, a tentare di tirarlo fuori dal suo guscio, perché…beh, perché è quello che fa mia zia con me.
Mia zia mi parla dolcemente e mi guarda come se fossi preziosa.
Poi uno mi chiede perché shippo la Spamano.
Non so come ringraziarvi per le recensioni e per i complimenti! Non ho mai il tempo di rispondere, ma se avete domande di qualunque genere sappiate che mi adopererò per bene per rispondervi come si deve.
Grazie a chiunque ha letto fin qua.
Spero davvero di avervi intrattenuto almeno un
po’.

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Capitolo 3
*** Roma Ladrona ***



Non si ricordava neppure come era cominciato. Forse Feliciano gli aveva rubato il telecomando una volta di troppo, o forse era stato lui che la settimana prima gli aveva finito le pizzette. La scintilla che faceva partire l’innesco era sempre così insignificante che prevedere l’esplosione era diventato praticamente impossibile. Erano sempre così, le loro litigate. Erano specializzati nel cominciare discussioni sulle cazzate per poi farle diventare vere e proprie guerre civili. Ogni tanto partiva qualche insulto di troppo. O forse ‘di troppo’ era l’eufemismo più grande che Lovino avesse mai formulato nella sua mente, maledizione.
“Lovi, non è colpa mia se dalle tue parti c’è più disoccupazione che da me!”
“Beh, tu dovresti aiutarmi invece di stare lì a gongolare!”
“Sai una cosa?! Se sei tu che non riesci a stare al passo non vedo perché dovremmo essere tutti e due a venire sempre sgridati da Germania—“
“Ma chi se ne frega di Germania, adesso!”
“Io! Io me ne frego! E tu non fai che rallentarmi!”
Era calato un attimo di gelo totale. La televisione continuava ad emettere un brusio fastidioso. Dalla finestra aperta si sentirono un paio di auto che passavano. “Cosa…cosa stai cercando di dire?” il tono della voce di Lovino si abbassò drasticamente, mentre pronunciava quelle parole “stai dicendo…che ci preferiresti separati?”
“Lovino, non cominciare, non ho detto questo—“
“Vuoi che me ne vada?!” continuò il meridionale, improvvisamente paonazzo in viso “è questo che vuoi?!”
“Smettila di fare il cretino, non ho detto— okay, sì, forse l’ho pensato un paio di volte, ma—“
“Cosa? Tu…l’hai pensato sul serio?”
Feliciano si bloccò di colpo, sentendo un gemito soffocato venire da suo fratello. Notò con orrore che Lovino aveva gli occhi pericolosamente lucidi.
“Lovi, io non—“
“No. Ho capito.”
Romano camminò come una furia, senza voltarsi e senza mostrare la minima esitazione. Feliciano poté sentirlo solo spalancare la porta d’ingresso e urlare: “Vaffanculo!”
Gli corse dietro. Si lanciò al suo inseguimento lungo le scale, correndo sul pianerottolo, gridò il suo nome, lo supplicò di tornare dentro. Ma Lovino era già sparito.
 
 
 
La mafia uccide solo d'Estate
 


“Roma Ladrona”
 
 
Lovino ricordava che il giorno in cui lui e suo fratello diventarono una nazione unita era spaventatissimo. Era inutile prendersi in giro: se la stava facendo sotto. Tutto ad un tratto si sentiva cresciuto troppo in fretta, in un lampo, quasi. Garibaldi l’aveva portato via da casa di Spagna con un’irruenza che l’aveva quasi spaventato. Era quello che voleva, era lì: era una nazione, una nazione vera. Ma forse – si era ritrovato a pensare – quello per lui era tutto troppo. Forse non era pronto. Ma poi, lo avevano portato da Feliciano. Voci grosse, parole pompose, uomini giganti che erano rimasti dei giganti anche nei libri di storia li misero vicini. “Prendetevi per mano” li esortò uno. “Non lasciatevi mai andare” pianse di gioia un altro. “Viva Verdi! Viva l’Italia!”
Ricordava che Feliciano si era girato di scatto e gli aveva mozzato il fiato con un abbraccio. E lui invece era solo tanto confuso. Lo aveva stretto, e si era sentito completo, ma allo stesso tempo irrequieto, con l’urgenza di non mollarlo più. Quante cose erano cambiate.
 
***
 
“Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l'Italia chiam—“
“AH LI MORTACCI TUA!”
Lovino sobbalzò. Doveva ammettere che ubriacarsi a Trastevere non era stata un’idea brillante. Soprattutto non era brillante se finiva a cantare l’inno di Mameli alle due di notte sotto il balcone di un pover’uomo che sicuramente doveva lavorare l’indomani mattina.
“MA CHE TE CANTI?! IO ME SVEJO ALLE SEI DEL MATTINO, PORCO DEMONIO—“
“Scus— mi scusi!”
“Eh bravo ‘mi scusi’— anvedi ‘sto stronzo…ARIA, LEVATE DA QUA SOTTO!”
Lovino si alzò barcollando. Se doveva cantare in effetti sarebbe stata meglio un’altra postazione.
“Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi…”
“Ah Romà…”
L’interpellato si girò, e trovò un volto tondo, decorato da una barba incolta, gioviale e familiare come non mai. “Marcello…”
Marcello era il proprietario di un trattoria che Lovino, per inciso, frequentava da quando Marcello era solo il figlio del proprietario. Una delle poche gioie dell’essere nazione: assistere a generazioni di ristoratori che fanno sempre la stessa cacio e pepe da un secolo.
“Ma che stai a fa qua?” domandò il pover’uomo che – notò Lovi solo in quel preciso istante – aveva anche il volto stropicciato dal sonno. “Ma niente, Marcè…mi sono fatto una bevuta e—“
“Se, vabbè, una bevuta…viè un po’ qua, su, entra che ti do qualcosa da mangiare.”
Lovino avrebbe voluto tanto fare il difficile o rifiutare l’offerta, ma il suo stato da ubriaco disperato era così evidente che, mogio mogio, seguì l’uomo tenendo gli occhi bassi e trascinando i piedi.
Nemmeno venti minuti più tardi era seduto al tavolo del soggiorno di Marcello, con un piatto di gnocchi al sugo davanti e il padrone di casa seduto di fronte a lui che reggeva una tazza fumante in mano. Probabilmente era camomilla. Marcello odiava le tisane.
“Scusa per gli gnocchi un po’ improvvisati, eh.”
“Ma che scherzi?” rispose Lovi tra un boccone l’altro “sono buonissimi…e scusami tu per il disturbo."
A quel punto Marcello prese a sorseggiare la sua camomilla, e aspettò che Lovino concludesse il suo piatto di gnocchi, prima di prendere parola. “Allora, ne vuoi parlare?”
“Di cosa?”
“Di qualunque cosa ti abbia fatto girovagare alle tre di notte a Trastevere con nient’altro che Tavernello in corpo.”
 
 
***
 
Che Ludwig fosse metodico in tutto per tutto non era una novità per nessuno. Teneva il cellulare sempre acceso, anche di notte. Lo considerava doveroso in quanto nazione e in quanto lavoratore e bla bla bla e altre cose che solo chi non era pigro abbastanza da godersi una dormita estrema poteva capire. Il punto era, che quando alle cinque del mattino il suo cellulare squillò, Lud rispose con una prontezza decisamente fuori dal comune.
“Pron—“
“Germania!”
Avrebbe riconosciuto quel tono esagitato tra mille toni esagitati italiani, dannazione.
“…Italia?”
“Germania— è terribile! Ho combinato un casino più grande dell’Oceano Pacifico!”
Lud sospirò sonoramente, passandosi una mano tra ciocche bionde scompigliate.
“Questa sì che è una novità.”
Lud, ti prego, io—“
Germania si irrigidì immediatamente. Scattò a sedere sul letto con un’immediatezza che non usava neppure durante gli addestramenti militari decenni prima. Il suo nome pronunciato in quel modo supplichevole da Italia era sempre una stilettata nel cuore.
Feliciano, calma. Calma, bitte. Spiegami…che cosa è accaduto?”
“Lovino! Stavamo discutendo— io ho solo detto— ho detto—“
“Stavate litigando di nuovo?”
“…beh, sì. Ma il punto è che ho detto— cioè, è lui che è un deficiente ed ha capito—
E’ sparito! Ha lasciato il cellulare qua! E’ da ieri che non torna più a casa, e io-“
Ci fu un breve silenzio, poi un fruscio.
“Feliciano…stai piangendo?”
“N…No, io sto solo—“
A quel punto Germania fu subito in piedi.
“Sto arrivando.”
 
***
 
Lovino era stato in guerra. Così come quasi tutte le nazioni del mondo, Lovino aveva imbracciato armi e bagagli ed era andato al fronte a guardare le persone con cui aveva condiviso un barattolo di fagioli solo poche ore prima morire nel fango, con un’impotenza ormai insita nell’anima.
Per qualche motivo, però, i ricordi della guerra non lo rendevano così irrequieto come l’idea di separarsi da suo fratello. Un sottile eco nella sua testa, una musica canticchiata da un uomo con un sorriso ispirato in volto gli annebbiava sensi e mente ogni volta che qualcuno provava anche solo a parlare dell’argomento. ‘Secessione’ dicevano, e Romano si spezzava, quella voce che canticchiava si faceva più forte, l’immagine dell’uomo diventava più nitida, il sorriso più chiaro.
 
“Dimmi, Roma…ti piace? Ti piace come suona?”
“Tantissimo.”
Il sorriso si era fatto più dolce, lo ricordava come fosse ieri. Gli aveva posato una gentile carezza sulla testa. “Sarà la vostra canzone, Roma. Un giorno sarà la vostra canzone.”
Michele Novaro era morto povero, e non aveva ricevuto molti meriti per aver composto quella tanto sospirata melodia.
Ricordava fin troppo bene le prime notti che lui e Feliciano avevano passato insieme per la prima volta dopo tanto, tantissimo tempo, in casa, da soli. A Lovi mancava un po’ Spagna, ma doveva ammettere che l’idea di essere lì lo elettrizzava in ogni caso. Feliciano accusava un po’ l’assenza della musica di Austria e fu per questo che, accucciati vicini, così piccoli eppure così grandi, mormoravano insieme quella melodia, quella musica composta apposta per loro, solo e solamente loro nel mondo. Li aveva fatti sentire speciali, e importanti. Li aveva fatti sentire uniti.
 
I ricordi dolci si mischiavano in fretta con quelli del sorriso più ampio e ridanciano di un altro uomo, giovanissimo, un ragazzo, fuori di sé dalla gioia con un foglio in mano che metteva insieme parole senza senso e deliranti che diventarono piano piano uno straordinario poema patriottico e che gli esultava di fronte. “Non è meraviglioso, piccolo mio?”
Lovino era toppo intimorito per rispondere, in quel momento, per cui aveva solo annuito.
“Noi siamo da secoli calpesti, derisi—“
“Perché non siam popolo, perché siam divisi!”
“Proprio così, piccolo mio!”
Goffredo Mameli morì a solo ventun anni a seguito di una ferita infetta che si procurò durante la difesa della seconda Repubblica Romana.
Lovi ricordava ancora la copia del testo, l’odore della carta e dell’inchiostro, e come suo fratello – di nascosto – gliela sussurrasse nell’orecchio con aria furba e complice, quando si prendevano la mano per i ritratti a casa di Austria. Non si erano mai sentiti così vicini come in quei momenti. Il popolo lo voleva, loro lo volevano, volevano stare insieme. “Per sempre” gli aveva detto Feliciano, una sera d’Estate “voglio stare con te per sempre.” Ma suo fratello amava riempirsi la bocca di parole troppo grandi, più grandi di loro. Nemmeno le nazioni – che certamente vivevano gli anni come fossero mesi – duravano per sempre. Tanto meno i loro sciocchi sentimenti.
 
***
 
“Ah Romà, però me stai a mette n’angoscia.”
Marcello mescolò un po’ il ragù dentro l’enorme pentola sul fuoco per poi chiudere il coperchio e tornarsene seduto sul suo sgabello adibito a poltrona da psicologo, mentre il suo sventurato paziente sbuffava con un certo disappunto sul tavolo di mogano della cucina. “Non è ancora pronto?” chiese Roma, con le labbra leggermente sporte in avanti, non troppo dissimile da un bambino deluso. “Io lo lascio cuocere almeno cinque ore, ce lo sai” continuò Marcello, implacabile.
“E comunque te l’ho detto, mentre cucino qui non ti ci voglio.”
“Ma c’ho l’angoscia, Marcè.”
“Eh lo vedo che c’hai l’angoscia, me la stai attaccando tutta, però.”
“Scusa.”
Un po’ di silenzio intercorse tra i due uomini, mentre solo il ribollire debole e lento del sugo borbottava dall’interno della sua prigione di metallo. Poi il sospiro di Marcello sciolse la tensione, e tornò a guardare la nazione con aria preoccupata. “L’avrei pure io l’angoscia, se fossi in te. C’hai un bel peso, sulle spalle, Romà. Non ti invidia nessuno, te lo assicuro. Però almeno c’hai tuo fratello, non stai da solo. Perché dovete sempre litigare così?”
“Non ci vuole stare, con me.”
“E a te chi te l’ha detto?”
“Lui me l’ha detto!”
“Lui, o qualche politicante da strapazzo a cui vanno dietro i rincretiniti?”
Romano si zittì. A conti fatti, Feliciano non aveva mai espresso la reale volontà di separarsi da lui. Neppure nel pieno dell’ultima Guerra Mondiale, durante il quale avevano preso posizioni così diverse e distorte: lui era diventato un traditore dell’Asse e della patria, e Feliciano un traditore della giustizia umana. Non si capiva neanche chi dei due avesse tradito di più, eppure sembravano entrambi consapevoli che quell’incubo sarebbe finito e in fondo sarebbero sempre stati una cosa sola di nuovo, e al più presto. Che cosa era cambiato? Niente. Erano solo diventati più sciocchi e superficiali, ecco cosa. Avevano solo cominciato a dare per scontato il sangue versato dai loro fratelli perché loro potessero essere una nazione, perché potessero essere una cosa sola, perché potessero rimanere insieme. Avevano solo dimenticato i sorrisi buoni e quella canzone, quella canzone tutta per loro.
Marcello capì dallo sguardo pensoso del suo amico di aver centrato il punto in poche frasi e sorrise benevolo. “Tra un’ora te ne torni a casa.”
“Non ora?”
“No, ora no. Prima ceni. Il ragù è pronto.”
 
***
 
Quando Lovino aprì la porta d’ingresso il viso paonazzo e pieno di lacrime di suo fratello – seduto sul divano con la stessa camicia stropicciata del giorno prima – lo investì in pieno, e dovette fare uno sforzo sovraumano per non scoppiare a piangere anche lui. Non se la sentì proprio di dare sfogo alla tristezza in quel momento, soprattutto per via della presenza di Ludwig e Antonio, in piedi come sentinelle ai lati del sofà. Come al solito, Feliciano aveva chiamato i rinforzi. Ma in quel momento Roma non ci fece troppo caso, si concentrò solo sugli occhi del fratello che nel vederlo si inondarono di lacrime e di come, senza produrre il minimo suono, Feli saltò in piedi e corse per poi buttargli le braccia al collo. Germania sembrava avere qualcosa da dire, qualcosa che Romano aveva già sentito almeno cento volte da parte sua come ‘Devi delle scuse a tuo fratello’, ma tacque, bontà sua. Spagna sospirò e lasciò libero un sorriso sollevato.
“Fuori” sussurrò appena Lovino, circondando suo fratello per la vita con le braccia, e Antonio colse subito ciò che aveva detto, anche se era stato pronunciato così a bassa voce. “Lovi, yo—“
“Vi raggiungeremo” lo interruppe subito l’italiano, senza prestargli realmente attenzione “adesso andate fuori.”
Nessuno aveva mai eseguito con una velocità simile un suo ordine, doveva dire.
 
***
 
Non si erano staccati. Si erano messi sul divano ma Feliciano aveva ancora il viso affondato sulla sua spalla, e Romano lo stringeva a sé per i fianchi e non accennava a voler lasciare andare.
“Lovi, mi dispiace, mi dispiace tanto.”
“Ho esagerato anch’io. Lo so che non volevi dire quello che pensavo. Ho solo…ho paura.”
“Lo so.”
Il minore si strinse ancora più vicino. Era una pratica che adottavano spesso da bambini e con il tempo avevano un po’ perso. Ritornava quando qualcosa di molto brutto accadeva, e allora regredivano allo stadio di simbiosi che per lunghi anni li aveva accompagnati prima delle Guerre Mondiali. Non era successo niente di grave, eppure in quel momento non riuscivano a staccarsi.
Il vecchio pendolo sopra la televisione scoccò la mezzanotte.
“Lovi?”
“Mh?”
“Buon compleanno.”
“Buon compleanno, Feli.”
 
 
17 Marzo 1861-2018
 
 
All'inizio quel tizio che s'attizza al comizio
Pare un alcolista alla festa di San Patrizio
Parla da un orifizio sporco di pregiudizio
Pubblico in prestito dal museo egizio
Ora capisco quanto aveva ragione
Ora che sono soldato di stato senza meridione
Ora che è finita la carta del cesso ma fa lo stesso
Tanto ci ho messo la costituzione
{ Caparezza – Inno Verdano }
 
 
 
 




Note dell’autore (IMPORTANTI)
Guardate chi è tornato a farvi visita: questa persona completamente fuori dal tempo che cerca di fare della satira con l’anime più cazzone del mondo. Avete sentito la mia mancanza? Nulla mi vieta di assumere di no.
Dunque. Per capire perché ho deciso di riprendere in mano questa raccolta bisogna innanzi tutto comprendere che non sto passando un bel periodo. Già. Ma può capitare, e non è niente di irreversibile. Ma non è per niente per niente un bel periodo. Diciamo dunque che sto facendo l’eremita e al momento sono in ritiro spirituale dove solo poche persone possono cercarmi. Mi sta bene così, innanzi tutto perché un po’ di solitudine e riservatezza mi stanno inaspettatamente giovando, ma soprattutto perché scrivo a tutto andare e concludo cose lasciate in sospeso da molto, moltissimo tempo. Una delle cose che volevo assolutamente continuare era questa raccolta, che ha fatto la sua comparsa su questo sito DUE. ANNI. FA.
Faccio veramente schifo. E dire che avevo progettato una miriade di capitoli per proseguire. Ma niente, in quest’ultimo anno soprattutto moltissime cose sono andate davvero ma davvero storte e nessun climax di ispirazione, nessuna onta di nostalgia è riuscita a smuovermi comunque. Ma adesso eccomi qui.
Su questo capitolo ci sarebbe molto da dire, ma prima di tutto mi scuso per aver utilizzato un tema politico così serio per scrivere questa mini puntata di Occhi del Cuore (ogni riferimento a Boris non è puramente casuale). Devo dire che questo capitolo non mi fa impazzire, mi sono giocato più drammi e cose fighe nei capitoli precedenti, ma per me era d’obbligo un capitolo sui fratelli Vargas e sul il proclamato “secessionismo” da parte di alcuni partiti bifolchi negli anni novanta di cui non farò il nome COFFCOFFCOFF. Ho cercato di giocarmela senza fare nomi o riferimenti troppo pesanti alla così detta ‘Padania’. Avendo parenti sparpagliati per tutta Italia e un padre nel Nord e una madre del Sud posso affermare di aver sempre considerato il cianciare di codesti politicanti la maggior parte delle volte una marea di boiate. Ma – si sa – ognuno ha la sua visuale di veder la cosa, politica o non, e non ho intenzione di discutere su questo. Ma vabbè dai, e anche oggi ci portiamo a casa un bel capitolo smielato e romanzatissimo sui drammi inesplicabili di questo paese. Ah, se ho scritto qualcosa di storicamente inaccurato sentitevi liberi di fare delle rimostranze, sono aperto ad imparare un altro po' di storia, che non fa mai male. Comunque giuro che ce l'ho messa tutte per scrivere robe non così diverse dalla realtà. Ah, e un pochino di GerIta. Oh, qualcuno queste schifezze deve pur farle.
Buon anniversario dell'Unità a tutti. In un ritardo barbino.

 

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