Just in time

di Kemushi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***
Capitolo 4: *** Parte quarta ***
Capitolo 5: *** Parte quinta ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


 Il sole batteva incessante e persistente, sui tetti in legno delle case diroccate, sulla sabbia incandescente del deserto, e si infiltrava con violenza nell’aria fino a renderla quasi irrespirabile. Era da tanto che non sentivo la pelle bruciarmi al calore del mattino, la luce di quella città era inconfondibile a tal punto che brillava diversa dal resto del mondo; era tutto così dolcemente familiare, ma allo stesso tempo tanto lontano e malinconico che mi dimenticai quasi del caldo soffocante. I ricordi riemergevano come a volermi pizzicare la mente, scivolavano come fiumi tra le insidie della mia infanzia..
 Scossi la testa e mi tolsi il cappello, dando respiro ai pensieri affogati nell’afa.
 Mi guardai intorno in cerca di qualche cambiamento, dopotutto venti anni di assenza sono un periodo davvero lungo, e una città può facilmente modificare il proprio aspetto nel giro di qualche ora. Ma niente. Nessuna casa nuova era stata costruita, gli antichi edifici non erano ancora stati abbattuti, nemmeno una panchina era stata distrutta o spostata. Solo l’inesorabile morsa del tempo si era manifestata durante gli anni, trasformando ciò che era impresso nella mia mente in una città dimenticata.
 Non so dire se fu una sensazione piacevole o meno, ma l’idea che tutto fosse rimasto come l’avevo lasciato mi confortava come se fosse una vecchia foto sbiadita.
 Improvvisa come un fulmine a ciel sereno, l’ombra di qualcosa, che a prima vista definii come enorme rapace, mi riportò alla realtà, lasciando sfumare lentamente i miei pensieri. Provai a seguirla con lo sguardo, ma fu molto più rapida di me. La figura atterrò a qualche metro di distanza da dove mi trovavo io, con un frastuono tale che nulla, se non un peso massiccio come l’armatura che vidi, poteva creare. Mi resi conto velocemente che l’unica somiglianza che aveva con un rapace era la forma dell’elmo, che non tardò a togliere; ne uscì una ragazza con due trecce dorate ad incorniciarle il viso, e un fine tatuaggio nero sotto l’occhio destro. 
 La fronte madida di sudore era increspata, non seppi capire a prima vista se per la rabbia o la gioia, e sul volto vi era un’espressione di puro stupore.
 - Ciao Fareeha. –
Le sorrisi, rimettendomi il cappello per evitare un primo sguardo diretto.
 - Sono tornato a casa. –

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Capitolo 2
*** Parte seconda ***


Lo fissai quasi inorridita, al limite tra la gioia e la rabbia. La mia mente non riusciva a comprendere quello che stavo guardando.
Non volevo crederci, non potevo crederci. A prima vista lo avevo scambiato per un pazzo vagabondo in cerca di un tetto stabile nelle città abbandonate, ma l’immagine di quel cappello fece riemergere in me l’ombra di un ricordo che credevo dimenticato, e accese il mio desiderio di atterrare.
Più mi avvicinavo, più avevo timore di scoprire la verità; ma quando lo vidi meglio, la paura , che prima si tramutò in rabbia per l’abbandono, scivolò poi velocemente verso una gioia quasi indescrivibile, e le supposizioni si sovrapposero nella mia mente come in preda a spasmi incontrollabili.
Nel momento di confusione, non ero in grado di descrivere quello che provavo, così come non riesco a dargli un nome ora.
Poi arrivarono i dubbi, domande pesanti cercavano di capire se fosse veramente lui o una semplice illusione dovuta al caldo; l’ansia, che avrebbe generato lo sconforto di sapere che le sue memorie sarebbero potute non riemergere come avevano fatto le mie, inebriò ogni mio muscolo.
Infine mi chiamò per nome, e la testa si svuotò di ogni pensiero. - Jesse.. – gli risposi.. Quel nome suonava come sconosciuto, tanti erano gli anni passati dall’ultima volta che lo avevo pronunciato.
Venti anni.
Venti anni è tanto tempo per cambiare le cose.
Il solo ricordare a quante ore avevo buttato al vento fissando la strada e sperando in un suo ritorno, mi fece mancare il respiro. Erano passati i giorni di paura, le settimane di supposizioni, i mesi di pura malinconia, e gli anni di assoluto vuoto.
Perché?
- Perché.. – sussurrai. Era l’unica cosa che davvero volevo sapere.
Non ero interessata a scoprire quale sogno aveva inseguito per venti lunghi anni, non volevo conoscere la sua interminabile storia o i luoghi in cui aveva abitato; preferii posticipare le domande, avevo tutto il tempo che desideravo per ascoltare le risposte.. O forse no?
E se se ne fosse andato di nuovo? E se fosse tornato solo per salutare qualche vecchio compagno, e non me? L’idea che mi avrebbe potuta abbandonare nuovamente mi risucchiava ogni briciolo di energia.
- Fareeha, mi dispiace.. - Venti anni, e l’unica misera consolazione che avevo ricevuto erano due sole parole, che non rispondevano minimamente alle domande insistenti dei miei pensieri.
- Perché? – chiesi a voce più convinta.
Non avrei accettato altro silenzio, ma fu l’unica risposta che ricevetti.
Lo guardai, sperando che il mio sguardo potesse pesare sulle sue parole.
Ma lui non ricambiò, si teneva come nascosto all’ombra del cappello. Mi rifiutavo di pensare che dopo tutto il tempo in cui mi aveva lasciata da sola, non osava nemmeno guardarmi. - Jesse – le parole uscirono poco convinte, la voce che mi tremava – Guardami. -
Si portò una mano al cappello, dita metalliche si strinsero sul bordo in pelle; decisi che non era il momento adeguato per chiedere spiegazioni riguardo al braccio robotico.
Mi guardò, per la prima volta dopo vent’anni, con gli occhi che sorridevano di malinconia; riuscii a riconoscere, forse solo allora, il ragazzo con cui avevo condiviso tutti i miei ricordi più sinceri. Era nascosto, quasi irriconoscibile, immerso nelle cicatrici di guerre che non osavo immaginare, ma c’era.
E dopo venti lunghi anni, era tornato a casa.

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Capitolo 3
*** Parte terza ***


-Dove sei stato?- mi chiese con voce tanto dolce che per un attimo mi feci sopraffare dai ricordi.
La bambina che conoscevo sembrava sparita; doveva essere cambiata più di quanto non avessi fatto io, e maturata sotto il peso di paure e preoccupazioni che al momento non conoscevo.
Dava l’impressione di avere la mente altrove, immersa in pensieri probabilmente simili ai miei, e lo stesso sguardo di quando, da bambina, sognava ad occhi aperti.
Ricordo ancora le giornate passate insieme, quando i pesi che avevamo sulle spalle erano più leggeri dei nostri pensieri. Ricordo quando mi rubava il cappello e cominciava a scappare, dicendo di voler diventare un’agente della Overwatch come sua madre prima di lei; i nostri sogni erano un semplice gioco da bambini, e non ci eravamo mai curati di cosa effettivamente significasse combattere.
Se ci ripenso ora, mi si spezza quasi il fiato tanto forte è la malinconia.
Se solo potessi tornare indietro, e cambiare le scelte che mi hanno portato qui.. Ma a cosa servirebbe vivere nel rimorso?
- Jesse?- la dolcezza della sua voce cadde in un leggero fastidio. Mi guardò per qualche secondo, poi distolse lo sguardo e si appoggiò alla staccionata di una delle tante case abbandonate. Sbuffò, e si mise a fissare con occhi vuoti il suo elmetto impolverato; a giudicare dalla corazza che indossava, era decisamente riuscita ad esaudire il suo sogno.
-Si, scusami..- sospirai, appoggiando gli avambracci al legno.
Non ero solito raccontare delle cose tanto personali a qualcuno che non fossi io; avevo passato gli anni a tenermi dentro ogni singolo dolore e rimorso, senza lasciar trapelare nemmeno un ricordo. Dopotutto, dovevo tenere alto l’onore da fuorilegge che mi ero costruito nel tempo.
Il tormento della distanza che mi aveva divorato durante gli anni, tuttavia, divenne a mano a mano più forte dell’orgoglio che avevo custodito con tanta cura, e sentii il bisogno di renderla partecipe di ciò che si era persa.
-Dopo che mio padre- e la voce mi si ruppe. I ricordi riaffiorarono nuovamente, e mi travolsero come una doccia d’acqua fredda; ma dopo venti anni di silenzio assoluto le dovevo almeno una spiegazione.
-Dopo che mio padre venne assassinato- ripresi, dopo un lungo e doloroso sospiro –mi venne offerta una nuova vita da dei vecchi amici di famiglia, e venni portato via prima di poter avvisare qualcuno.-
Parlarne mi aveva inaspettatamente tolto un enorme peso dal le spalle, e lo avevo quasi involontariamente condiviso con lei; probabilmente non lo aveva ascoltato come dolore di cui avere timore, ma lo aveva accolto come un nuovo ricordo. E se andava bene a Fareeha, potevo farmelo andare bene anche io.
-Mi avresti salutata?- mi chiese piano, immobile, come spaventata da un’eventuale risposta negativa.
–Intendo, se avessi potuto farlo..-
Sorrisi malinconicamente.
-Se avessi saputo di non rivederti più, non me ne sarei mai andato.-
Intravidi un dolce sorriso illuminarle il volto. Sembrava sorridere a se stessa, ai propri ricordi, al mio abbandono; sembrava voler cacciare le paure, e mostrare al timore che si sbagliava a dubitare di me.
O almeno, mi piace pensare che quel leggero sorriso avesse significato per lei anche una sola di queste cose.
Poi, all’improvviso, come se avesse ricordato solo allora qualcosa di importate, il suo viso si caricò nuovamente di preoccupazioni.
-Cosa hai fatto per  tutto questo tempo?-
La verità mi cadde addosso pesante come un macigno.
-Eh..-  triste, lo ammetto, ma non riuscivo a dire altro.
Mi portai una mano al cappello, mosso più dall’agitazione che dalla vera necessità di proteggermi dal sole.
-Diciamo che mi sono fidato delle persone sbagliate.-
Lei annuì; immagino che per il momento non volesse approfondire, e rimase in silenzio.
Seguii il suo atteggiamento, e non dissi nulla.
E cosa avrei dovuto dire? Come ci si comporta con una persona che non vedi da venti anni? Gli argomenti di cui parlare erano forse l’unica cosa che non avremmo esaurito, ma da dove cominciare? Forse avrei solo dovuto dirle che mi è mancata, ma volevo evitare di essere invasivo; dopo così tanti anni di lontananza, anche dei migliori amici rischiano di perdere un po’ di confidenza.
E certo, anche perché non ne avevo il coraggio, ma un fuorilegge non lo ammetterebbe mai.
-Mi dispiace.- sussurrò, rompendo il silenzio.
Perché mai si sarebbe dovuta dispiacere? Era l’unica che tra i due non si era macchiata di nessuna colpa. Mi girai con sguardo interrogativo, sperando che avrebbe capito senza bisogno di parlare, ma mi accorsi che mi stava già osservando, seppur con discrezione.
-Per tuo padre..- rispose alla silenziosa domanda – Mi dispiace per non averti detto nulla.-
Trovai fin troppo cortese da parte sua preoccuparsi per qualcuno che l’aveva abbandonata per tutto quel tempo.
-Non è stata colpa tua.- le risposi dolcemente –Non te ne ho dato il tempo.-
Sorrise lievemente, e tornò a fissare con sguardo vuoto il suo elmo. Sembrava quasi soddisfatta di essere riuscita a parlarmi di ciò che pensava.
-Volevo solo cominciare a recuperare il tempo perduto.- concluse.
Aveva ragione, non aveva senso stare in silenzio ancora a lungo.
Mi stropicciai prima gli occhi, poi l’intera faccia, come a voler ricordare meglio gli anni passati lontano da lei, e cominciai a raccogliere le parole che ritenevo migliori da usare per riassumere tutto quel tempo perduto.
-Diventai una sorta di fuorilegge.- cominciai, sottovoce. Avevo il timore che una come lei potesse non vedere di buon occhio un bandito, ma mi sbagliavo; si girò verso di me e mi guardò incuriosita.
-Mi insegnarono a rubare per vivere, e ho finito col crescere conoscendo solo quella strada.- continuai. Non credo le importasse davvero se quello che facevo era considerato bene o male; mi guardava come se si curasse solamente di sapere come avevo passato gli ultimi anni.
“Sono passati male, Fareeha, sicuro peggio che a te.” Ma mi sembrò stupido rispondere così.
-Questo..- Allungò leggermente una mano, insicura, come a voler toccare il mio braccio metallico. Poi il timore la persuase e si ritirò. Mi fece tenerezza; allungai a mia volta la mano robotica fino ad avvicinarmi a lei e le sorrisi. Non volevo avesse timore di me, non ora che l’avevo ritrovata. Aprii il palmo, aspettandola.
Lei si fidò, cosa che mi rassicurò non poco. Sfiorò le dita, guardandole quasi incuriosita. Ero certo non fosse una novità per lei vedere o toccare la tecnologia applicata direttamente sulle persone, ma immagino che sperimentarlo da così vicino fosse un’esperienza completamente diversa.
-Suppongo tu sappia bene che alcune guerre siano più dure di altre.- le dissi, cercando di darle una spiegazione convincente –E non da tutte le battaglie si esce illesi.-
-Capisco.- si limitò a sussurrarmi. La ringraziai mentalmente per non avermi chiesto di più a riguardo.
-E poi?- chiese dopo qualche attimo di silenzio, continuando a sfiorare le mie dita di metallo. Cigolavano di un rumore che non avevo sentito spesso, strofinando contro l’armatura dei suoi guanti; era strano ricevere affetto su una mano dalla quale non potevo ormai percepire più nulla, ma era in qualche modo ugualmente rassicurante. Mi era mancata una sensazione simile.
-Ho passato gran parte di questi anni a seguire ideali.. Non esattamente legali.-
Le memorie non mi spaventavano più. I ricordi delle sparatorie passate, di tutte le fatiche che ero stato costretto ad affrontare, caddero in secondo piano. Ero come incantato dal movimento delle due dita, dal sottile stridio che provocavano, dalla luce che riflettevano..
-La mia fama divenne tale che la Overwatch mi notò- continuai, tutto d’un fiato, sperando che il peso del passato non rovinasse la meraviglia di quel presente –Ma rifiutai.-
Le sue dita si immobilizzarono, come bloccate da quello che avevo detto, e cominciò a fissarmi con sguardo vitreo.
Non capivo.. Avevo solo risposto alla domanda che mi aveva posto lei stessa.. Non posso dire di non aver sbagliato nulla nella vita, questo è certo, ma ora..
-Perché?- chiese soltanto.
Quell’espressione mi terrorizzava. Non l’avevo mai vista guardare qualcuno in quel modo, e avevo sperato vivamente che un momento simile non arrivasse mai.
-La.. – Avrei dovuto davvero dirle la verità?
Si, certo, ma l’ultima reazione che ricevetti non fu un gran che.. Ripensandoci a distanza, quale bugia mi sarei dovuto inventare? Non sapevo per quale motivo si fosse bloccata, non capivo quali orribili pensieri avevo risvegliato con quelle semplici parole, non potevo immaginare un rimedio adeguato..
Non potevo far altro che dire la verità. Così presi coraggio per dirle ciò che realmente pensavo, e cercai di alleggerire la pillola.
-Avrei voluto.- le sorrisi amaramente, sperando di poter trovare le parole giuste –Avrei voluto entrare nella Overwatch solo per avvicinarmi di più a te.-
Guardai altrove, quello sguardo accusatorio non mi faceva sentire esattamente a mio agio.
-Ma purtroppo, la Blackwatch offriva più di quanto io avessi mai potuto ottenere prima..- conclusi a bassa voce  –Semplicemente, non potevo rifiutare.-
Silenzio.
Un lungo e terribile silenzio.
Non immaginavo cosa stesse pensando, così mi girai a guardarla.
Non aveva più lo sguardo vuoto, anzi. Non lo avevo mai visto così colmo di rabbia. Forse mi ero sbagliato a credere che non le importasse della delinquenza che caratterizzava la mia vita.. Ormai era fatta.
Non avrei mai potuto dirle altro se non la verità, e avevo imparato a mie spese a non vivere nel passato. Ma più la osservavo, e più mi sentivo piccolo e sbagliato; nemmeno io comprendevo di preciso per quali parole si fosse accesa, ma non importava. Avrei voluto distogliere lo sguardo, guardare altrove e fregarmene come avevo fatto in precedenza in molteplici situazioni, ma con lei non potevo.
-Tu..- sussurrò.
Si alzò, cominciò a camminare guardandosi intorno come se qualcosa potesse aiutarla a capire meglio la situazione.
-Senti io- esitai.
-No!- urlò, girandosi di scatto. Fece per dire qualcosa, ma perse le parole. Rimase zitta ancora qualche secondo, cercando di metabolizzare quello che le avevo detto.. Continuavo freneticamente a chiedermi cosa avrebbe potuto provocare in lei una reazione simile, ma preferii aspettare le sue spiegazioni prima di dire altro.
-Hai.. Rifiutato la Overwatch..- sussurrò, più a se stessa che a me. La rabbia nella sua voce mutò lentamente in triste consapevolezza. –Hai preferito la Blackwatch a me..-
-No, io..- Volevo provare a spiegare. Volevo tentare di trovare parole migliori di quelle che avevo usato fin ora, anche solo per farle capire che aveva frainteso le mie intenzioni..
-Si, tu!- mi rispose secca –Tu hai rifiutato me per unirti alla Blackwatch!-
Mi fissò solo per qualche istante, ma lo sguardo era tanto pesante che sembrò guardarmi per molto più tempo. Poi tornò lentamente ad osservare intorno a se; speravo con tutto il cuore che i ricordi legati a quel luogo non la potessero aiutare ad alimentare il rancore che covava per me.
-Perché sei tornato?- sussurrò infine. Non sembrava rivolgersi esattamente a me.
Presi fiato. –La Blackwatch vuole attaccare il tempio di Anubi.- le spiegai –Volevo provare a proteggerti.-
La rabbia mutò rapidamente in preoccupazione; si prese la testa tra le mani, sussurrando qualcosa tra se e se che non capii. Cominciò poi a controllarsi freneticamente l’armatura, come a voler esser certa che non ci fosse nulla che avrebbe potuto interrompere la sua partenza.
Infine, come presa da un lampo improvviso, si ricordò di quello che le avevo detto solo qualche secondo prima.
-Mi hai abbandonata per venti anni, Jesse. Non ho bisogno di essere protetta da te, ora.-
Mi fissò fredda ancora per qualche secondo, prima di girarmi le spalle e infilarsi l’elmo.
-Aspetta Fareeha..-  Mi alzai di scatto per avvicinarmi a lei. Non potevo lasciarla andare via così, non dopo tutto quel tempo, non con il peso di tutto quello che dovevo dirle ancora sulle mie spalle; ma mi bloccò a voce prima che io potessi fare nulla.
-Mi chiamano Pharah, ora. Abituatici.- e detto questo partì in volo. Non potei fare altro che fissarla inerme sparire nell’orizzonte.
Dopo così tanti anni di assenza, nessuno vorrebbe essere accolto con tale freddezza; ma in fondo, credo di essermelo meritato.
Pensai che Pharah non fosse un nome abbastanza elegante per lei.

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Capitolo 4
*** Parte quarta ***


I motori a propulsione mi vibravano sulla schiena e il suolo cominciò a mancarmi sotto i piedi.
Lui era ancora li, fermo, sorpreso forse, potevo sentire il suo sguardo pesante tentare di ancorarmi e tirarmi giù; lottai contro me stessa per non girarmi e chiedere ulteriori spiegazioni.
Aveva già detto abbastanza, avevo già capito troppo.
Come potevo anche solo sperare che sarebbe tornato per me? Probabilmente non aveva nemmeno mai avuto nessun interesse di sorta nei mei confronti.. E non mi importava. Il Jesse che conoscevo io era sparito, non giocava più a fare il cowboy, non voleva più diventare un agente della Overwatch come me; aveva rinunciato a tutto ciò che io avevo sempre desiderato, e si era unito ad una confraternita criminale.
Dovevo farmene una ragione, e pensare ora a proteggere il tempio.
Eppure era tornato..
Ero convinta che gli anni sarebbero passati senza notevoli cambiamenti, che il tempo avrebbe inibito il pensiero dell’abbandono.
Ma mi sbagliavo.
Ogni mia certezza era crollata alla semplice vista di quello stupido cappello, e si era frantumata davanti a quelle parole cariche di passato come nuvole in crepitante attesa della tempesta.
I ricordi dolevano come una pugnalata al cuore, e la consapevolezza che in lui i nostri momenti di gioia infantile erano probabilmente svaniti non faceva altro che aprire la ferita.
Chiusi gli occhi, respirai a fondo.
Il vento si infrangeva con violenza contro la visiera; l’aria che fischiava tra le pieghe dell’armatura e il frastuono del jetpack mi isolavano da qualunque suono avrebbe potuto circondarmi, e sovrastavano ogni mio pensiero.
Ero sola.
-  Pharah, dove sei? - vibrò la voce di Angela nell’auricolare.
Quasi sola.
Avevo sempre sfruttato il volo come fuga dalla realtà, come mio personale angolo di paradiso, in cui niente e nessuno avrebbe potuto disturbarmi o giudicarmi; finchè non mi installarono gli auricolari e il gps.
Da quel momento, Angela non faceva che chiamarmi dalla sua base di lavoro per ogni piccolo ritardo, per il più insignificante cambiamento di rotta, cercava conferme ad ogni istante e durante ogni mia giornata lavorativa; teneva fede con tutte le sue forze alla promessa con mia madre.
Era irritante.
Ma ormai, questa era la mia quotidianità, era la mia vita, era la corazza che mi ero costruita per sormontare qualunque tipo di dolore. Mi ero allenata duramente durante gran parte della mia vita per avvicinarmi quanto più potevo a ciò che desideravo; avevo lottato con me stessa per accettare il presente e non detestare i miei limiti. Rischiavo la mia vita ogni giorno per puro capriccio, e a nessuno importava. Se non forse ad un dottore come lei.
E dopotutto, era piacevole sapere che, se fossi morta, qualcuno se ne sarebbe accorto.
- Pharah?! - La voce dell’auricolare si incrinò in un fischio stridulo; non tutti i microfoni sopportano uno strillo così acuto.
Un sospiro, e la dottoressa tornò dolce e pacata.
- Dovevi essere arrivata all’avamposto almeno un’ora fa. -
Non sembrava un rimprovero, anche se lo doveva essere.  Non era mai riuscita ad alzare la voce con me, così come non era mai riuscita a farlo con nessun altro; d’altronde aveva il tono troppo delicato anche solo per sperare di urlare a dei guerrieri corazzati. Nonostante ciò, non avevo mai conosciuto nessuno che non la rispettasse, ed era questo che maggiormente ammiravo di lei.
- Dove sei finita? -
Si, giusto, l’attacco della Blackwatch.
- Ho bisogno di truppe al tempio di Anubi. - le risposi secca - Il prima possibile. -
Sentii il suono di un lieve ticchettio , doveva star digitando qualcosa.
- Pharah, tu hai già diverse truppe. - mi informò dolcemente, come suo solito - Di quanti soldati necessiti per proteggere un cumolo di sabbia? -
Sbuffai. - Sai perfettamente che non si tratta solo di sabbia. -
- Io lo so. - mi sussurrò compassionevole - Ma a nessuno importa di cosa ci sia sotto una vecchia piramide impolverata. -
Certo, lei non lo poteva sapere.
- Angela, la.. – Non sapevo come spiegarlo. Avevo paura di generare il caos, di allarmarla esageratamente, non sapevo quali parole sarebbero state migliori di altre per spiegare la situazione..
E se non fosse stato vero? Se Jesse mi avesse lanciato un falso allarme? Forse non avrei dovuto dirlo.
Eppure c’era la possibilità che la piramide del tempio venisse rasa al suolo, e la colpa sarebbe stata solo mia..
Decisi che essere schietta sarebbe stata la scelta migliore.
- La Blackwatch attaccherà il tempio, Angela. -
Silenzio.
Avevo quasi il timore di respirare, per paura che il rumore potesse svegliare la dottoressa dai suoi pensieri. Così attesi, in rispettoso silenzio, sperando avrebbe percepito le mie parole con la stessa importanza che meritavano.
- Come fai a saperlo? – chiese, la voce che tremava debolmente; speravo di non aver risvegliato il lei vecchi demoni sepolti.
Quando ero piccola, Angela era una collega di mia madre; combatteva al suo fianco, insieme agli altri agenti della Overwatch. Avevano lottato, avevano vinto, e si erano perse, cosi come avevano perso molti altri compagni.. Le mie idee non erano chiare come ora, ma chiunque avrebbe sicuramente capito che Ana provava grande fiducia nei suoi confronti, tanto che mi affidò quasi completamente a lei. E mentre mia madre era occupata con le questioni burocratiche dell’organizzazione, io oziavo con la dottoressa. E con Jesse..
- Lo so e basta.. – Non le potevo dire la verità; non aveva mai visto le mie amicizie di buon occhio, non osavo immaginare quanto si sarebbe infuriata nel sapere con quale delinquente avevo avuto a che fare.
Rimase nuovamente in silenzio. Avevo il timore mi prendesse per pazza, o scambiasse il mio avviso per uno scherzo di pessimo gusto.
- Credi davvero che delle normali truppe possano tener testa alla Blackwatch? – La voce di Angela tornò seria e decisa, ero sollevata che mi credesse.
- No. – le risposi con fermezza.
Era un’idea folle, ne ero consapevole, ma era l’unica sensata.
- Necessito degli agenti della Overwatch. – le sussurrai piano come se qualcuno potesse sentirmi, e lentamente per far si che non si perdesse nemmeno una parola.
Quei lunghi attimi di silenzio mi logoravano.
- Fareeha – mi disse con dolcezza, come a volermi alleggerire la pillola – La Overwatch si è ormai sciolta da anni. E lo sai. -
Quelle parole mi si riversarono addosso come una doccia fredda.
Si, lo sapevo. Lo sapevo fin troppo bene.
I miei sogni si erano sciolti insieme all’organizzazione, prima ancora di poter essere chiamata agente. Essere diventata il capo della sicurezza di Giza non era altro che una mera consolazione, che avevo accettato come unica scelta disponibile. Ne avevo fatto la mia vita, il mio diversivo, la mia corazza.
- Come dovrei richiamare all’ordine agenti di cui abbiamo perso le tracce? – mi chiese con tenerezza – Senza nemmeno Jack, senza tua madre.. - esitò sulle ultime parole, ma non ci feci caso.
Aveva ragione, che idea folle.. Cosa pensavo di ottenere? Non avrei mai trovato nessuno che avrebbe accettato di combattere contro la Balckwatch, senza prove concrete del loro imminente attacco, senza il tempo per escogitare un piano..
O forse si?
- Vado io. – spiegai decisa.
- Cosa? – Probabilmente, Angela sperava di aver capito male.
Sembrava attendere  una mia risposta, una qualche parola che la potesse rassicurare sulla mia incolumità.
Rimasi in silenzio, non volevo illuderla.
- Pharah, questo non è un gioco, non è la tua battaglia! –
Continuava a ripeterlo freneticamente, come se la sua convinzione fosse sufficiente per abbattere la mia.
- Ti invio immediatamente tutte le truppe disponibili che ho – si arrese infine – Non fare mosse azzardate! -
Di tanto in tanto gli auricolari fischiavano, le sue parole si perdevano tra il suono ritmico delle sue dita che battevano incessanti sulla tastiera.
- Chiamo immediatamente Winston! E provo a rintracciare Zarya, potrebbe avere uomini disponibili che-
Spensi l’auricolare.
Sapevo cosa fare.
La piramide si stagliava in lontananza, quasi lucente sotto il sole accecante dell’Egitto.
Era la mia battaglia.

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Capitolo 5
*** Parte quinta ***


Il sole calava, e con esso saliva il freddo nel deserto. Mi ricordava incredibilmente Fareeah. La sua pelle aveva lo stesso colore ambrato della sabbia al tramonto..
Mi sembrava di averla conosciuta solo come si conosce il protagonista di un film; vedi ogni suo movimento, senti ogni suo pensiero, conosci ogni suo sogno, ma rimane comunque lontano, irreale, quasi come un ricordo. E così io la sentivo distante, la vedevo solo nei pensieri.
Che stupido sono stato.. Tornare, e sperare che nulla tra noi fosse cambiato, che l’amicizia non si fosse dissolta negli anni.
E ora, non solo non mi considerava nemmeno come il fratello che vedeva in me da piccola, ma serbava rancore, un rancore cieco che avrei preferito non scatenare. Ma come darle torto? Chiunque al suo posto avrebbe reagito come lei, me compreso.
- Smettila di sognare ad occhi aperti, chéri. – scandì con cura l’ultima parola, facendola suonare volontariamente di un dolce stomachevole.
Ignorai l’avviso, continuando a guardare il sole infrangersi dietro al tempio di Anubi.
- Sto solo guardando l’obbiettivo, Amélie. – la provocai.
Bugia. Stavo controllando che non ci fosse nessuno in volo sopra al tempio, ma questo non lo avrei mai potuto dire ad alta voce.
Un fruscio silenzioso, all’altezza dell’addestramento che aveva ricevuto, e il tocco gelido della canna di un fucile che premeva contro la mia guancia.
Veloce, lo ammetto, ma non mi feci battere sul tempo. Sfoderai la revolver non appena sentii la donna muoversi, puntandola al suo volto cadaverico.
- Cherchez vous la mort, cowboy? -
Due figure stanti che sovrastavano il tramonto, ad un passo dalla morte. Sorrisi, immagino fosse unascena teatrale, vista da fuori.
Un’ombra ci apparve alle spalle, da prima sottile come il fumo di una sigaretta, diventando poi un tornado di cenere, formando velocemente una figura solida e consistente.
Widowmaker si lasciò distrarre dall’uomo che apparve dietro la coltre di nebbia scura. Sfruttai l’attimo in cui abbassò la guardia, per spostarle il fucile con la spalla e premerle la canna della revolver sulla fronte.
- Come ci si sente, ragnetto? – le sorrisi, soddisfatto.
Non facevamo sul serio. Il lavoro alla Blackwatch era troppo rigido per i miei gusti; certo, il tempo libero di cui disponevo occupava maggior parte delle mie giornate, ma quando l’azione chiamava non avevo l’opportunità di tirarmi indietro. Pena la reclusione a vita. Non avevo molta scelta.
Se solo Fareeah lo avesse capito..
- Non c’è tempo per i giochi. – ci intimò Reaper, la voce filtrata dalla maschera lo rendeva più minaccioso di quanto non fosse.
Le guance pallide della donna si colorarono di un lieve rossore. Tornò seria nel giro di pochi istanti, scostando la mia arma col dorso della mano. Si inginocchiò, imbracciando il fucile con presa salda, sistemando la sua postazione da cecchino.
Sospirai. Una parte di me era soddisfatta di aver avvisato Fareeah, così che qualcuno potesse difendere il tempio da lei tanto adorato; l’altra parte di me sapeva che lo avrebbe difeso lei stessa, a costo della sua vita. Non potevo far altro che sperare.
- Il cecchino resta qui. – Reaper si avvicinò al bordo del tetto a terrazza in cui ci trovavamo. Guardò tra i palazzi, apparentemente alla ricerca di niente. Sono sicuro ci dovesse essere qualcosa, nascosto nell’ombra, qualcosa che solo uno sguardo consapevole potesse guardare.
- Sombra sta disattivando gli allarmi. – mi spiegò, vedendomi confuso.
“ Non serviranno gli allarmi, se sono pronti ad essere attaccati. “ pensai. Mi sentivo un po’ come un traditore, da entrambe le parti; avevo parlato a Fareeah del nostro attacco, ma avrei comunque combattuto contro di lei. Dopotutto, non avevo nessun legame affettivo con la Blackwatch, una loro sconfitta non mi avrebbe ferito nell’orgoglio. Indipendentemente dall’esito della battaglia, l’unico rimpianto che avrei avuto alla fine dello scontro sarebbe stato quello di non aver potuto parlare più a lungo con lei, di non averla potuta salvare, di non aver potuto trovare parole migliori. Promisi a me stesso che nessun proiettile della mia revolver avrebbe mai colpito Fareeah, per nessuna ragione al mondo.
- Io e te scendiamo sul campo, McCree. – mi sussurrò Reaper – Guideremo le truppe all’attacco. -
Annuii.
Un fischio sordo ci colse di sprovvista, come se qualcuno fosse apparso per magia alle nostre spalle, accompagnato dalla voce di una ragazzina.
- Delle truppe? – chiese la voce, quasi per scherzo – Allora siete davvero ben organizzati! -
Widowmaker si girò di scatto, il dito sul grilletto pronto a scattare. Reaper strinse i denti, impugnando le pistole.
- Amélie, resta sull’obbiettivo.- ordinò deciso – Alla ragazzina che salta ci pensiamo noi.-
Io e la donna annuimmo, pronti ad eseguire gli ordini.
Mi voltai di scatto, per prendere la mira sul nemico.
Tracer? Non l’avevo mai vista da così vicino, ne avevo solo sentito parlare. La Overwatch.. Quindi Fareeah aveva chiamato rinforzi, perfetto.
Le sorrisi. –Sei morta ragazzina. -
- Oh Oh. – La vidi sparire, davanti ai miei occhi, in una spirale azzurra, con lo stesso fischio sordo con cui era apparsa prima. Riapparve a qualche metro di distanza, seguita da una scia di debole luce.
Mi colse impreparato, ma Reaper sapeva perfettamente a cosa andava incontro. Seguì la luce con gli occhi, sparando nel punto in cui apparve prima ancora che lei fosse li; ma appena compariva, non avevo il tempo per cambiare la mira che lei era sparita di nuovo.
Mi sentivo come un bambino spaesato. Tenevo strette le pistole, cercando di seguire il suo movimento, ma ero sempre un passo indietro.
E Reaper uno avanti.
Mi sentivo inutile. Non potevo far altro che seguire la loro danza mortale, Tracer avvolta dalla sua luce azzurra e Reaper da una nube nera. Non riuscivo a seguirli nemmeno con lo sguardo.
Sentii la ragazzina apparirmi alle spalle e ridere.
- E tu chi saresti? Sei nuovo? -
Mi girai, troppo lento per lei, di nuovo. Sparì, per tornare a distrarre il suo vero obbiettivo, Reaper.
Davanti a me, ormai sparito il sole dietro al tempio, si apriva una guerra di cui non avevo assolutamente sentito l’inizio. Delle truppe confuse, di cui non capivo la fazione, si davano battaglia. Ogni tanto il mio sguardo veniva rapito da figure che ero sicuro di aver già visto, guerrieri che proteggevano il tempio da ogni direzione possibile.
Sono sicuro che il piano della Blackwatch non dovesse essere questo.
- La Overwatch?! – urlò Reaper, ansimante. Prese un attimo di tregua per osservare il lavoro delle proprie truppe; non ebbe il tempo di capire se stessero vincendo gli alleati o i nemici, che venne nuovamente rapito dalla danza frenetica delle pistole della ragazzina.
- Merde. – sussurrò Amélie, muovendo freneticamente il mirino verso la folla.
Sentii passi di numerosi piedi avvicinarsi e salire sul tetto in cui ci eravamo appostati.
Ci avevano trovati. Era finita.
- Uh, un uccellino.- sussurrò la donna, con un marcato accento francese.
Un uccellino.. Alzai lo sguardo verso il cielo. Fareeah?
- Personne n'échappe à mon regard. -
Mi buttai su Widowmaker senza pensarci due volte. Non mi importava nulla di chi ci stava raggiungendo, di chi stava combattendo, di chi avrebbe vinto, di quale tradimento mi sarei pubblicamente macchiato. Non mi importava di niente, se non di lei. Non poteva finire così, non lo avrei permesso. Spostai il fucile della donna quanto più velocemente possibile, ma sentii il colpo partire lo stesso.
- Fareeah! -
Il tempo si era congelato. Nei miei ricordi, la battaglia si era fatta silenziosa. Widowmaker mi stava urlando contro qualcosa che non capii, o finsi di non sentire, qualcosa di poca importanza, caduto in secondo piano. Vidi il colpo che volava, ogni singolo centimetro che divorava verso l’obbiettivo. Ricordo di aver sperato che qualcosa deviasse il proiettile. Sentii qualcuno, o qualcosa, prendermi le mani, forse ammanettarmi, ma non aveva importanza. Nei miei ricordi, urlai quel nome per un tempo che sembrò eterno.
Poi il proiettile raggiunse l’obbiettivo, sbagliato, per fortuna; colpì i propulsori dell’armatura, anziché la testa. Cadde giù a picco, come un peso morto.
Ma poteva essere viva; la mia Fareeah poteva essere viva, e io l’avevo salvata. Una magra consolazione, ma pur sempre una speranza.
Ricordo di essermi stampato un sorriso sul volto, mentre mi trascinavano giù dal tetto, ammanettato, inerme.
Pensai che il tramonto fosse troppo bello per partecipare ad una simile battaglia.

Spazio dell’autore ~
Sono tornata! Prima che cominciate a sbranarmi.. Lo so, sono una persona terribile. Sono passati quasi due anni da quando ho cominciato a scrivere questa storia. Non voglio cercare scuse, anche se ne avrei centinaia da elencare; assolutamente mea culpa. Mi è capitato di rileggere vecchie recensioni (sul sito e non), e ho pensato che tutti i commenti positivi non meritavano di restare a bocca asciutta. Tenterò di essere più presente, scusatemi ancora.
Grazie per non avermi sbranata, e spero che vi sia piaciuto!

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