Nonostante la forza delle sue ali

di Crilu_98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La sconfitta è orfana ***
Capitolo 2: *** In vista di una conquista più alta ***



Capitolo 1
*** La sconfitta è orfana ***


LA SCONFITTA E' ORFANA
 
Arsinoe barcollò per la stretta rude dei legionari, ma riuscì a non cadere: sarebbe stato troppo umiliante crollare ai piedi di chi l'aveva ridotta in catene. E poi che di fronte a lei, in cima a quella tribuna d'onore, ci fosse sua sorella con indosso una veste regale e gioielli scintillanti… Beh quella era la beffa estrema!
Cleopatra ricambiò il suo sguardo con un sorriso ironico, poi i soldati strattonarono le catene che la tenevano legata, costringendola ad inginocchiarsi. Arsinoe, però, non abbassò la testa mentre l'uomo più potente del mondo si piegava verso di lei, studiandola con occhi di ghiaccio; era quasi il tramonto, ma il corteo festante che attraversava tutta Roma non accennava a fermarsi. Era tutto un risuonare di canti, grida, risate per le strade di quella città caotica e disordinata, non certo superba come la sua Alessandria. La ragazza era stata costretta a sfilare con altri nemici vinti per tutto il giorno ed ora aveva il corpo indolenzito dalle percosse e dalle catene che le ferivano i polsi e le caviglie, mentre la mente era stanca. Avrebbe solo voluto consegnarsi ad un dolce oblio, magari grazie all'aiuto di quei veleni che conosceva così bene; se i Romani non l'avessero raggiunta prima, era così che si sarebbe data la morte. Invece aveva dovuto subire il dileggio e l'odio degli invasori, umiliarsi davanti all'arrogante Cleopatra, che a differenza sua aveva vinto tutto, ed ora… Ora fissava inespressiva il volto severo di Caio Giulio Cesare.
"Arsinoe, principessa d'Egitto!" tuonò l'uomo, mentre la folla si zittiva, come per magia. Le voci sul carisma del grande condottiero non erano esagerate.
"Hai cospirato contro tua sorella, Cleopatra, legittima regina d'Egitto, insieme a tuo fratello Tolomeo. Avete devastato il vostro stesso paese nel tentativo di sconfiggere l'esercito del popolo romano, accorso per ripristinare la pace. Tuo fratello è morto per i suoi crimini..."
Arsinoe socchiuse gli occhi e strinse le labbra; Cleopatra era impassibile. Cesare godette di come il popolo di Roma smaniasse per udire il seguito del suo discorso, poi riprese a parlare con tono più benevolo:
"Ma oggi è un giorno di festa! La guerra civile è finita, la pace è tornata a regnare finalmente su Roma: non vorrei irritare gli dei, mandando a morte una ragazzina. Sono certo che avrai tempo per meditare sui tuoi errori, dettati dalla giovane età, dall'ambizione e dall'inesperienza. Perciò la tua vita è salva! Non avrai mai nulla da temere da Roma!"
La folla esplose in un boato di acclamazioni, lodando la famosa clemenza di Cesare; il condottiero, invece, le sorrise e mormorò:
"Domani mattina partirai per la città di Efeso e lì vivrai finché avrai respiro. Che gli dei abbiano pietà di te, crudele Arsinoe."
Le catene cigolarono mentre Arsinoe veniva trascinata via dai legionari. Trattenne a stento le lacrime, mordendosi il labbro inferiore fino a farlo sanguinare:
"Non di fronte a loro. Non di fronte a lei."
Forse era stata Cleopatra ad intercedere affinché non fosse giustiziata, ma Arsinoe non lo considerava un atto di misericordia:
"Prigioniera dei Romani a vita. Privata della libertà per sempre… Un fuscello nelle mani di Cesare, che potrebbe spezzarmi in ogni momento."
Non si fidava della parola di quell'uomo, ma del resto non si fidava di nessuno, neanche dei suoi stessi fratelli: era difficile imparare ad apprezzare la fedeltà e l'onestà in un palazzo in cui erano quotidianamente orchestrati intrighi familiari e complotti sanguinosi.
Osservò con orrore l'ingresso buio delle carceri romane, ma non si perse d'animo: quella notte era la sua ultima possibilità di fuga. Doveva trovare una via d'uscita, perché sapeva che una volta arrivata ad Efeso la sua vita non le sarebbe più appartenuta.
 
La cella era in penombra e da quando il sole era definitivamente calato sopra l'orizzonte Arsinoe riusciva a distinguere a fatica solo i contorni della porta e della piccola finestrella sopra di lei. Non l'avevano incatenata, ma l'intera prigione pullulava di guardie: lei non era stata l'unica prigioniera portata in giro per la città per la gloria di Cesare. Un altro degli sconfitti stava creando non poche difficoltà nel corridoio, la ragazza sentiva i legionari imprecare e delle grida rauche in una lingua che non conosceva. All'improvviso la porta della stanza si aprì e i soldati scaraventarono all'interno un uomo schiumante di rabbia. Sembrava più una bestia che un essere umano, soprattutto per il modo feroce con cui si scagliava contro i legionari, tanto che ci vollero tre uomini per placcarlo e serrargli i polsi ed il collo con delle robuste catene.
Quando i romani se ne andarono, senza averla degnata di una sola occhiata, Arsinoe si avvicinò cautamente al suo nuovo compagno: non aveva mai visto un barbaro del Nord, con quella pelle tanto chiara da sembrare malata. Era a torso nudo e nessuno gli aveva permesso di ripulirsi del sangue che gli impregnava i pantaloni di pelle dall'ultima battaglia, che doveva essere avvenuta diverso tempo prima; la barba era lunga, folta e bionda come i capelli sudati che gli ricadevano sul viso dai tratti marcati.
Quando voltò bruscamente il volto verso di lei, la ragazza venne inchiodata dov'era dalle sue iridi di ghiaccio: la passione disperata e l'ira che vi leggeva l'affascinavano.
Di colpo capì chi fosse il barbaro: la sua fama era giunta fino in Egitto, insieme con il trionfo di Cesare.
"Tu sei Vercingetorige…" mormorò, incespicando su quel nome che le sembrava impronunciabile.
L'uomo la scrutò senza rispondere, respirando malamente per le percosse subite durante la parata: se le dicerie avevano detto il vero, quel barbaro era nelle mani di Cesare da ben sei anni!
Le ferite ed i lividi recenti che spiccavano sul corpo smagrito ne erano la prova.
Le labbra carnose dell'uomo si arricciarono, scoprendo dei denti grigi e spezzati, piegò il capo di lato e la luce della luna disegnò ombre inquietanti sul volto scavato dagli stenti della prigionia. D'istinto Arsinoe si tirò indietro, fino ad appoggiare la schiena contro il freddo muro di pietra della cella.
L'uomo alzò il mento con aria di sfida e la squadrò a lungo con sguardo sornione. Arsinoe si accorse solo in quel momento delle due ombre scure alle sue spalle: uno dei legionari l'afferrò per le spalle, spingendola a terra e chiudendole la bocca con una mano.
"Lasciala pure gridare, Livio" ghignò quello che le stava facendo risalire il vestito lungo le cosce. "A chi vuoi che importi di una puttana straniera?"
L'uomo si chinò su di lei e la ragazza poté sentirne l'alito che puzzava di vino mentre le strattonava l'abito all'altezza dei seni.
"Dicono che tuo fratello ti fottesse dall'età di sette anni… Voglio scoprire se è vero!"
Arsinoe scalciò con rabbia, più per l'orgoglio ferito che per l'oscenità di quell'accusa: era vero, lei e Tolomeo avevano giaciuto insieme, ma non era stata una turpe vergogna da nascondere, come la raccontavano i Romani.
La sua stirpe discendeva dagli dei, suo padre e Celopatra glielo ripetevano sempre quand'era bambina… Ecco perché nella sua famiglia i matrimoni tra consanguinei erano così frequenti: come potevano gli dei mischiarsi ai comuni mortali, seppure nobilitati dal potere e dalle ricchezze?
Arsinoe scalciò e si divincolò ancora, cercando di mordere la mano che le serrava la bocca, disposta ad urlare finché aveva fiato in corpo; anche lei era consapevole, però, che le parole del legionario erano vere. In tutta la città non c'era una sola persona a cui importasse della sua sorte o che volesse venirle in aiuto.
Ad un tratto il legionario che era sopra di lei emise un verso strozzato e cadde all'indietro; come in un sogno, Arsinoe vide sopra di lui l'imponente figura di Vercingetorige, intento a strozzarlo con le stesse catene che gli chiudevano i polsi.
Livio la lasciò cadere a terra per correre in aiuto del compagno, ma la ragazza non riuscì ad emettere un suono; poi, mentre osservava il gallo che atterrava e soffocava senza difficoltà anche il secondo legionario, la prudenza la spinse a tacere, per non attirare attenzioni indesiderate almeno fino alla mattina dopo.
Vercingetorige crollò in ginocchio sul pavimento foderato di paglia sporca, come se la forza sovraumana con cui aveva ucciso i due uomini fosse improvvisamente venuta meno.
Fu perciò Arsinoe ad avvicinarsi ai cadaveri e a trascinarli nell'angolo più buio della cella, lontano dalle fiaccole che illuminavano il corridoio, dove era meno probabile che fossero scoperti prima della sua partenza per Efeso: era scampata ad una condanna a morte solo poche ore prima e non ci teneva a rimanere invischiata in quella storia.
Si accovacciò davanti al barbaro, abbastanza lontano da sfuggire alla sua presa se si fosse rivoltato contro di lei, ma abbastanza vicino per guardarlo negli occhi.
Non aveva mai visto nessuno con gli occhi così chiari.
"Perché l'hai fatto?"
Vercingetorige mugugnò qualcosa nella sua lingua.
"Non comprendo ciò che dici. Puoi parlare in latino?"
L'uomo mostrò nuovamente i denti in una smorfia di scherno:
"Certo che posso parlare in latino. Ma non voglio farlo."
Arsinoe alzò le mani:
"Non vuoi parlare la lingua degli invasori, credimi, ti comprendo molto bene. Ma rispondi almeno alla mia domanda… Te ne prego!"
Vercingetorige sospirò:
"Non credere che l'abbia fatto per te, bambina. Li ho uccisi per tutte le donne del mio popolo che hanno violato e massacrato!"
Arsinoe sorrise a quella risposta: immaginava di essere molto diversa da quelle donne e non solo per l'aspetto fisico o perché era nata dall'altra parte del mondo. Aveva solo quindici anni, ma come sua sorella aveva affinato fin da piccolissima tutte le capacità che servivano per sopravvivere alla corte di Alessandria.
Aveva visto la sua prima esecuzione a tre anni, quando avevano tentato di uccidere suo padre.
Aveva conosciuto la paura a otto, quando sua sorella Berenice aveva tentato di conquistare il potere ed ucciderli tutti.
Aveva ucciso, spiato ed ordito più intrighi di quanti il nobile Vercingetorige, il barbaro che aveva quasi sconfitto Cesare, potesse mai immaginare.
"Non sono una bambina…"
"Di certo lo sembri. Una bambina di cenere, con quella pelle bruciata e i capelli di corvo!"
Arsinoe spalancò la bocca, tremendamente offesa: la sua pelle era sempre stata tenuta al riparo dalla luce del sole e cosparsa di oli e creme, di certo non era scura come quella dei pezzenti su cui aveva regnato!
"Barbaro!"
Sputò quella parola, che i Romani utilizzavano tanto spesso contro di lei, come se fosse il peggiore degli insulti. Con sua grande sorpresa, Vercingetorige sembrò divertito:
"Esattamente come te."
Passò qualche istante di silenzio, poi fu nuovamente lui a parlare:
"Ti ho vista, oggi, mentre ti costringevano ad inchinarti a Cesare. Chi sei?"
E Arsinoe glielo disse. Gli rivelò ogni cosa, raccontandogli tutta la sua storia; gli parlò di Alessandria, del deserto, di tutti gli animali e le piante che Vercingetorige non aveva mai visto.
Lui le narrò della sua terra fredda e selvaggia, della lunga guerra che aveva combattuto, della neve.
Parlarono per tutta la notte in una lingua che odiavano e che non padroneggiavano, aiutandosi con i gesti ed i versi per farsi capire.
Quando vide il cielo rischiararsi oltre la finestra della cella Arsinoe volse lo sguardo verso i due legionari morti ed abbandonati come bambole rotte in fondo alla stanza.
"Ti uccideranno per questo…" mormorò.
"Per essere una strega egiziana non sei molto intelligente, bambina."
"Che vuoi dire?"
Vercingetorige si accarezzò la lunga barba:
"Io sono già morto. Da sei, lunghi anni. Sconfitto, deriso, umiliato e trascinato da una cella all'altra… Non poteva durare per sempre. Vedi, per me non c'è nessuna nave diretta ad Efeso, o in qualunque altro posto: Cesare ha già vinto la guerra civile, mi ha già mostrato al popolo come un orso ammaestrato per celebrare il suo trionfo… Non gli servo più a nulla. Oggi, o domani al massimo, un soldato entrerà da quella porta e mi taglierà la gola. Morirò da solo in una cella maleodorante e sarà la fine dell'ultimo nemico di Roma."
Arsinoe meditò su quelle parole qualche istante, poi si strinse nelle spalle:
"Comunque sia, voglio ringraziarti."
E con quelle parole, lasciò cadere a terra i lembi del suo vestito.
 
Artemision di Efeso, cinque anni dopo
 
Arsinoe li sentì arrivare, mentre una brezza leggera le scompigliava i capelli. Li sentì sguainare le spade alle sue spalle, eppure non si mosse: rimase ad osservare i bambini che rincorrevano una palla lungo il grande prato che si dispiegava tra il tempio di Artemide e la scogliera a picco sul mare.
"Vi manda mia sorella."
Un sussurro che era una certezza, non una domanda.
Cinque anni erano passati e Cesare era morto, ma Cleopatra era ancora potente, soprattutto da quando si era legata ad uno degli uomini più fedeli del generale, Marco Antonio. Dovevano essere i suoi gli uomini che stavano per pugnalarla a morte.
Arsinoe raddrizzò il busto e la testa e si riassettò i capelli e le vesti:
"La mia stirpe è quella degli dei e sarà numerosa come la sabbia del deserto."
Il suo sguardo si fermò su un ragazzino alto, dai capelli scuri e dai vividissimi occhi azzurri.
"O come i fiocchi di neve."
 
 
Cosa c'è di vero:
Arsinoe fu catturata nel 47 a.C. dopo che il suo fratello/amante Tolomeo aveva perso la guerra, mentre Vercingetorige si arrese e fu fatto prigioniero nel 52 a.C.; entrambi furono portati a Roma per il trionfo di Cesare del 46 a.C.
Arsinoe fu davvero esiliata ad Efeso, dove cinque anni più tardi fu raggiunta dai sicari di Marco Antonio, mentre Vercingetorige venne mandato a morte subito dopo il trionfo di Cesare.
 
Cosa c'è di falso:
Mentre è probabile che Vercingetorige fosse rinchiuso nel carcere Mamertino, le informazioni su Arsinoe sono scarsissime. E' quasi impossibile che i due si siano incontrati, se non durante la sfilata per le vie di Roma, ed è poco verosimile che fossero a conoscenza l'uno delle identità dell'altra.
 
 
Angolo Autrice:
Questa storia ha inizio circa otto anni fa. Stavo per iniziare la quinta elementare ed ero già una grande appassionata di storia e sfogliando le pagine del nuovo libro di testo mi imbatto in un'immagine e in una didascalia. La prima raffigurava una giovane donna in catene, circondata dai legionari; la seconda recitava "Vercingetorige, capo dei ribelli in Gallia, ed Arsinoe, sorella di Cleopatra, sfilano per le vie di Roma dopo la vittoria di Cesare."
Due nomi messi per caso nella stessa frase, quando in realtà erano lontani anni luce. Eppure hanno stuzzicato a lungo la mia fantasia e finalmente sono riuscita a mettere per iscritto l'abbozzo di storia che mi ha tenuto compagnia per tutti questi anni.
Le one-shot che faranno parte di questa raccolta (aggiornata solo ed esclusivamente quando l'ispirazione si farà viva :/) saranno tutte ship improbabili e i titoli delle citazioni.
La frase completa in questo caso è "la vittoria ha molti padri, la sconfitta è orfana": una citazione di Tacito, poi ripresa da Keats e Kennedy, che allude sia alle lotte dei protagonisti sia al figlio nato dalla loro relazione.
Prima che mi tiriate verdura marcia contro, sappiate che questo esperimento è più che altro una valvola di sfogo della mia fantasia e del mio amore per le passioni impossibili e per la Storia.
Insomma, l'ho scritta per divertimento, ma mi farebbe comunque piacere sapere cosa ne pensare :)
Alla prossima
 
   Crilu
 

 

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Capitolo 2
*** In vista di una conquista più alta ***


IN VISTA DI UNA CONQUISTA PIU' ALTA 

Casteilleja de la Cuesta, Spagna, 1 Dicembre 1547
 
Il giovane dottore uscì dalla stanza e non fece nulla per nascondere la sua irritazione: era stato mandato a chiamare nel primo pomeriggio, costretto a partire in tutta fretta da Siviglia su un ronzino malandato ed ora aveva la schiena dolorante… Solo per visitare un vecchio moribondo.
"Non c'è nulla da fare!" sbottò, brusco, all'indirizzo di un uomo di mezza età vestito con abiti ricercati - probabilmente era un parente del morto. Quello chinò il capo e si tolse il cappello piumato, rivelando un'incipiente calvizie:
"Scriverò a mio nipote, allora, che si affretti…"
"Scrivetegli che suo padre è morto!" borbottò il medico, riponendo i ferri del mestiere nella sua borsa "Non supererà la notte!"
L'uomo annuì ed uscì dall'anticamera padronale biascicando una preghiera; il dottore rimase da solo con un vecchio servo che in quel momento si stava occupando di spegnere le candele.
"Vi farò preparare una stanza, vossignoria!" disse l'anziano ad un certo punto, ma il ragazzo scosse la testa.
"Sarà questione di ore. Preferisco rimanere qui e ripartire non appena la faccenda si sarà conclusa."
Il silenzio tornò a gravare sulla stanza ormai in penombra; il vecchio aveva le lacrime agli occhi mentre trascinava le ossa stanche e si sedeva su una panchetta di legno. Ogni tanto lanciava un'occhiata verso la camera da letto del padrone, ma non si azzardava ad entrare.  
All'improvviso un lamento soffocato giunse dal letto:
"Padrone!" esclamò il servo, incespicando nell'alzarsi, tanta era la sua agitazione. Il medico fu più veloce e quando entrò nella stanza vide che il suo paziente stringeva spasmodicamente le coltri, aveva gli occhi aperti e spiritati e ripeteva incessantemente una sola parola:
"Malintzin…" balbettava "Malintzin… Malintzin…"
"Che diavoleria è mai questa?" borbottò il ragazzo.
"Il demonio non c'entra nulla, signore" mormorò il servo, pochi passi dietro di lui. "Il padrone invoca la Malinche, la donna che abbandonò tanti anni fa nel Nuovo Mondo…"
Suo malgrado, il giovane dottore sì incuriosì e il malumore lasciò spazio ad un atteggiamento più accomodante:
"La notte è lunga e noi dovremo vegliare il tuo padrone. Raccontami di questa Malinche!"
 
Coste del Nuovo Mondo, 21 Marzo 1519
 
Hernán Cortés socchiuse gli occhi quando vide una delle donne passargli davanti con delle fascine sotto braccio per accendere il fuoco: nonostante le avesse fatte battezzare, in modo che i suoi uomini potessero portarsele a letto senza offendere Dio o il Re, tutte loro continuavano a vestire da selvagge, senza neanche coprirsi il seno.
L'uomo arricciò le labbra in un sorriso d'apprezzamento, continuando a sorseggiare il suo vino sotto la fresca ombra della tenda, cercando di ricordare a chi avesse regalato quella meraviglia:
"Ah sì! A Portocarrero… Fortunato bastardo!"
Lui si era già stancato della concubina che il venditore di schiavi di Potonchan gli aveva regalato una settimana prima insieme ad altre diciotto: i selvaggi pensavano che le donne fossero indispensabili per scaldare il letto ed il focolare e vedendo che gli spagnoli non ne avevano portata nessuna con sé avevano ritenuto opportuno procuragliene qualcuna.
Un rumore di uomini in avvicinamento distrasse entrambi dalle loro occupazioni: Cortés balzò in piedi, afferrando la spada, mentre la ragazza raddrizzò il busto e i lunghi capelli neri sferzarono l'aria quando voltò il capo di scatto verso la boscaglia. Passandole accanto, l'uomo notò che c'era una certa fierezza in lei, un'aria di superiorità del tutto inappropriata in una schiava; poi la sua attenzione fu catturata dai variopinti personaggi che aveva di fronte.
Era evidente che fossero dei nobili tra quella gente, perché indossavano vesti colorate e ricche di ornamenti; Cortés non riuscì a trattenere un sorriso quando vide i pesanti monili d'oro che pendevano dal collo e dai lobi di quelli che con tutta probabilità erano gli ambasciatori del grande regno di cui gli avevano parlato. In tutti i villaggi in cui aveva messo piede gli avevano riferito di un grande impero ad ovest che vessava ogni città che aveva conquistato, comprese quelle sulla costa; già allora la mente dello spagnolo aveva preso a ragionare, chiedendosi se ci fosse un modo per trarre vantaggio dalla delicata situazione politica dei nativi. Nessuno sembrava amare le tasse imposte, ma avevano paura di opporsi all'Imperatore; Cortés avrebbe voluto eliminare quella minaccia per il dominio della Corona spagnola nel Nuovo Mondo, ma con i pochi uomini che aveva a disposizione si sarebbe dovuto limitare ad entrare nelle grazie dell'Imperatore.
Gerόnimo de Aguilar, un naufrago spagnolo che avevano raccolto durante il viaggio e che fungeva da interprete, accorse trafelato e si rivolse ai nuovi arrivati nella lingua degli indigeni.
Ma essi sembrarono non capire.
Dopo qualche altro tentativo inutile, Aguilar si voltò verso il capitano:
"Signore, non parlano la stessa favella dei selvaggi della costa! Non ho idea di come comunicare con loro!"
Cortés sbuffò, irritato dall'imprevisto: i selvaggi, nel frattempo, continuavano a parlare nella loro lingua incomprensibile, tendendo verso di lui monili e altri doni.
"All'apparenza non sembrano ostili, anzi, pare quasi che vogliano la nostra amicizia! Ma come posso esserne sicuro, se nessuno di noi comprende le loro parole?"
All'improvviso udì un rumore di legni secchi alle sue spalle: la ragazza aveva lasciato cadere la fascina e si era avvicinata ad Aguilar, parlando con lui nella lingua dei nativi.
L'uomo sgranò gli occhi:
"Signore! La donna dice che capisce la loro lingua!"
Cortés riportò lo sguardo su di lei, che lo sostenne senza abbassare il capo, ma tenendo la schiena dritta e le braccia serrate sul petto. Una scintilla di ammirazione brillò per un istante nelle iridi astute del capitano:
"Sa parlare lo spagnolo?"
"No, signore, ma credo che possiamo intenderci!"
E fu così che la catena di traduzioni iniziò: i selvaggi parlavano alla donna, che riferiva ad Aguilar che infine riportava il messaggio a Cortés.
Venne in possesso di informazioni molto interessanti: l'Imperatore Montezuma aveva saputo del loro arrivo e in tutto il Paese erano celebrati come gli emissari di una delle loro demoniache entità pagane. Un piano, azzardato e pieno di rischi, iniziò a prendere forma nella mente del capitano; era però un uomo molto cauto e decise di voler prima verificare con i suoi occhi la reale potenza di quell'Impero.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando gli emissari di Montezuma ripartirono, con la promessa di tornare per condurli dall'Imperatore.
 
Quella sera stessa Cortés fece condurre la donna nella sua tenda.
Lei si guardò intorno con circospezione, socchiudendo gli occhi allungati come quelli di una gatta, e rimase in piedi quando lui si sedette su uno scranno.
Anche Gerόnimo era presente, sempre in veste di traduttore:
"Ci sei stata molto utile, oggi…" iniziò Cortés ed aspettò di vedere una sua reazione. La donna però non lasciò trasparire nulla dei suoi pensieri e la sua espressione rimase sospettosa ed indecifrabile.
"Voglio che tu continui a fare da tramite tra noi e loro." Continuò allora il capitano, incapace di distogliere lo sguardo dal suo.
"Che idiota sono stato, a regalarla a mio cugino!"
Infine la ragazza parlò e Aguilar tradusse le sue parole dopo un attimo di esitazione:
"Chiede perché dovrebbe farlo, signore."
Cortés si lasciò sfuggire una risatina, che soprese il traduttore e sembrò soddisfare la nativa.
"Qual è il tuo nome?" chiese ancora.
"Malin… Malintzin? Dice che Portocarrero la chiama Marina."
"Bene, dõna Marina: continua a servirmi come hai fatto oggi ed io ti donerò la libertà. Anzi, farò di più: ti procurerò ricchezze ed un uomo onesto, che ti sposerà e si prenderà cura di te."
Marina rifletté un poco su quella proposta, prima di accettarla. Quando infine annuì, Cortés vide nelle iridi scure un riflesso delle proprie: quella donna era intelligente, cauta e sapeva valutare bene le proprie mosse. Capì di aver trovato un'anima affine.
 
Città di Cholula, Impero Azteco, ottobre 1519
 
Marina correva tra le vie buie della città con quanta forza aveva in corpo. Le parole della vecchia continuavano a risuonarle nelle orecchie, per questo non accennava a rallentare anche se il fiato iniziava a venirle meno.
Molte cose erano cambiate da quando, ormai diversi mesi prima, aveva accettato l'offerta di Hernán Cortés: gli spagnoli, dopo il rifiuto di Montezuma ad incontrarli, stavano marciando contro Tenochtitlán, la capitale dell'Impero. Nel loro cammino avevano travolto chiunque non si fosse alleato con loro: Cortés, di cui Marina apprezzava l'acume e l'ingegno, era riuscito a portare dalla sua parte due potenti nemici degli aztechi, i totonachi e la Repubblica di Tlaxcala.
I suoi sottoposti lo avevano nominato "capitano generale": come lui le aveva spiegato una notte, tra le coltri ancora calde del suo giaciglio, questo significava che sopra di lui ora c'era solo il Re.
La donna aveva accettato quella relazione per ciò che era: un patto tra due menti simili, due persone legate da interessi comuni e da una promessa vantaggiosa per entrambi. Il sesso tra loro era passionale, sì, ma non si trattava altro che uno sfogo degli istinti.
"Allora perché sto fuggendo dalla mia gente per salvarlo?"
La città di Cholula sembrava aver accettato con saggezza l'improvviso squilibrio nella bilancia del potere e si era affrettata ad accogliere gli spagnoli con tutti gli onori, ma se ciò che la vecchia indigena le aveva rivelato era vero, era solo una farsa ben organizzata.
Marina irruppe nelle stanze private di Cortés mentre lui stava discutendo con i suoi sottoposti: il sollievo per essere arrivata in tempo e la fatica di quella corsa notturna rischiarono quasi di sopraffarla, facendola vacillare. Hernan scattò in avanti e l'afferrò per la vita, cercando i suoi occhi mentre l'aiutava a recuperare l'equilibrio:
"Congiura… Imboscata… Stanno circondando… Il palazzo…"
Il condottiero sbiancò in viso e chinandosi verso di lei:
"Sei sicura, Marina?"
"Lo giuro sulla sacra immagine della madonna, signore!"
Cortés la lasciò andare come se bruciasse, affrettandosi ad abbaiare ordini a destra e a manca per abbattere i congiurati; prima di uscire dalla sala, però, si voltò a guardarla, abbozzando un sorriso orgoglioso. E Marina capì di aver compiuto un passo irrevocabile.
 
Tenochtitlan, 18 Maggio 1520
 
Marina aveva seguito gli spagnoli in lungo e in largo per quelle terre a loro sconosciute, aveva assistito a tremende battaglie ed abili sotterfugi, ma mai, in quei mesi, aveva visto Hernan Cortés così adirato. Pareva un demonio, con la pelle delle guance rossa sotto la barba scura e gli occhi iniettati di sangue, mentre si aggirava per la stanza come una belva in gabbia, inveendo contro Alvarado, bestemmiando addirittura!
La donna corrugò la fronte, alzandosi a sedere sul letto in cui lo aveva aspettato tutta la notte:
"Ora basta, Hernan. Non otterrai nulla sbraitando a quel modo!"
"Zitta, donna del malaugurio!" urlò lui, fuori di sé "Tutte le battaglie e le fatiche, tutti gli azzardi… Ogni cosa, ogni cosa distrutta! E' andata in fumo quando Alvarado ha aizzato i suoi uomini contro gli indios, dannazione! E per cosa, poi? Poche once d'oro, quando non distante da qui ci sono miniere che potrebbero fruttare il suo peso in argento! Ma che dico, il peso della sua intera guarnigione!"
L'uomo si accasciò su un tappeto, passandosi una mano tra i capelli scomposti:
"La popolazione è in rivolta, Marina, lo sai, l'hai visto anche tu. Ci hanno lanciato pietre addosso, hanno colpito a morte il loro stesso imperatore… E Cuitlahuac non è bendisposto nei nostri confronti come lo era suo fratello!"
Lei scivolò via dalle coperte, sedendosi a gambe incrociate davanti alla mappa della città che Cortés aveva sotto gli occhi; poi gli passò una mano sul viso, costringendolo a guardarla negli occhi:
"Non potete rimanere qui, Hernan. E' questione di giorni, ormai, prima che le folle si sollevino contro di voi e verrete sconfitti: dopo le battaglie degli ultimi mesi siete troppo pochi per far fronte al loro esercito, anche se la città è stata svuotata dalle malattie!"
"Anche il sovrano è malato. Se morisse, noi…"
"Se morisse" lo interruppe lei, severa "Sareste condannati: i sacerdoti non vedono di buon occhio il culto del Nostro Signore Gesù e non esiteranno a mandarvi a morte appena Cuitlahuac esalerà l'ultimo respiro. Devi arrenderti, Hernan, in vista di una conquista più alta: rinuncia ora, prima che sia troppo tardi, e torna a Tenochtitlan quando sarai in grado di conquistarla una volta per tutte!"
Cortés rifletté qualche istante, poi annuì:
"Va bene, ma non voglio andarmene a mani vuote. Voglio il tesoro di Montezuma e quando sarà in mano nostra ci dirigeremo ad ovest, mettendo quanta più strada possibile tra noi e gli uomini dell'Imperatore!"
Marina studiò la cartina, dubbiosa:
"Sei sicuro che sia la strada più sicura? Il ponte è molto vecchio."
Cortés ridacchiò e la afferrò per tirarsela in grembo. Le baciò dolcemente le spalle ed il collo, sussurrandole all'orecchio:
"Lascia le questioni militari agli uomini, Marina. Io e te conosciamo modi più interessanti per intrattenerci, nevvero?"
La donna non sapeva resistere a quelle braccia che la chiamavano, invitandola a lasciarsi andare, ma un angolo della sua mente continuava a proporle sempre la stessa immagine: un ponte di legno e corda sospeso sull'abisso di un torrente, che cigolava e dondolava sotto la forza del vento…
 
Ovest di Tenochtitlan, la notte tra il 30 giugno e il 1 luglio 1520
 
"Non è vero. Non può essere vero!"
Il giovane soldato tremò davanti allo scoppio d'ira e dolore del capitano Cortés, che lo spintonò da parte e corse verso il fiume alle sue spalle. Davanti ai suoi occhi c'erano i resti di una disfatta: la fuga precipitosa degli spagnoli si era conclusa con un massacro e ovunque si girasse udiva i lamenti dei feriti e dei moribondi. Il colpo mortale, però, fu vedere che il fante aveva detto il vero: il ponte era crollato, trascinando il tesoro di Montezuma nelle acque vorticose del torrente, che lo aveva inghiottito per sempre. E – cosa ancora più tremenda – il cedimento del ponte aveva impedito alla retroguardia di mettersi in salvo, lasciando centinaia di uomini alla mercé degli indios: le grida che si udivano dalla parte opposta erano un chiaro segno della sua ingloriosa sconfitta.
Ma appoggiato ad un vecchio e nodoso tronco d'albero Hernan Cortés non pensava a nulla di tutto ciò; faticava addirittura a capire ciò che lo circondava, perché le lacrime erano talmente copiose da offuscargli la vista.  
"Marina…" singhiozzò, cadendo in ginocchio "Amore mio…"
Rimase lì tutta la notte a piangere e a maledire il destino, i Santi, il ponte, qualsiasi cosa gli venisse in mente. Avvertiva di aver perso una parte di sé, forse la più importante, quella che gli garantiva stabilità anche in mezzo ad una tempesta.
"Signore!"
"Di nuovo quel maledetto attendente! Ora lo strozzo con le mie mani!"
Il ragazzo dovette intuire i suoi propositi omicidi quando si voltò verso di lui, perché si affrettò ad aggiungere, bianco come un cadavere:
"La retroguardia, signore. Non è andata del tutto distrutta! Alcuni si sono salvati!"
Cortés si sentì mozzare il respiro:
"Chi?" ruggì, afferrano il soldato per il collo "Chi si è salvato?"
"Beh, i cuochi e qualche ferito che però è conciato molto male. E gli interpreti, signore, entrambi stanno bene! E poi…"
Ma l'uomo non lo ascoltava più, stava già correndo verso lo sparuto gruppetto di sopravvissuti che si arrampicava a fatica lungo l'argine scosceso del fiume: la vedeva anche da lontano, la sua amante, avvolta in una coperta bagnata, con gli occhi ombrati dalla stanchezza e dalla preoccupazione.
E non gli era mai parsa così bella.
 
Tenochtitlan, 14 luglio 1521
 
Gli ultimi fuochi appiccati dagli invasori spagnoli erano stati spenti nel pomeriggio ed ora solo la luce della luna illuminava le rovine di Tenochtitlan. Cortés stava osservano quei ruderi, che lui progettava di trasformare nella nuova capitale dell'impero spagnolo, quando Marina entrò nella stanza.
"Chuauhtémoc è stato catturato, lo porteranno qui in catene entro domani al massimo. Dopo che è stato fatto prigioniero, ogni resistenza azteca è svanita!" esclamò con un sorriso gioioso, stringendo al petto il piccolo Martin, il frutto della loro relazione.
Cortés aveva il cuore pieno di tristezza: a diciannove anni Marina era bella come una dea, intelligente come nessun'uomo di sua conoscenza e il figlio che gli aveva dato, il suo primo figlio, era sano e robusto. Perciò gli costò molto porgerle la lettera che gli era arrivata quella mattina: aveva combattuto tutto il giorno contro la tentazione di bruciarla, anche se sapeva che non sarebbe servito a nulla. Il sorriso svanì lentamente dal viso della sua amante:
"Che significa?"
"Hai dimenticato l'arte di leggere?"
"Non prenderti gioco di me, Hernan! Qui c'è scritto che tua moglie sta venendo qui!"
"E' appunto di questo che volevo parlarti. Marina, è giunto il momento che tu ti sposi."
"E' un crudele scherzo, vero?" domandò lei con un fil di voce, esterrefatta "Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme… Non puoi darmi in sposa ad un altro uomo!"
"Non posso fare altrimenti!" replicò l'uomo, alzando la voce "Era questo che ti avevo promesso, quando hai iniziato a lavorare per me. Ricchezze ed un buon matrimonio, con un bravo cristiano che ti accetterà nonostante il tuo passato e si prenderà cura di te!"
"Vuoi dire nonostante io sia stata la tua amante! E dimmi, lascerai anche che questo bravo cristiano si prenda cura di tuo figlio? Come farà a farlo passare come suo?"
Lo sguardo colpevole di Cortés fu una risposta sufficiente perché la donna serrasse le braccia attorno al bambino:
"Non puoi farlo, Hernan! Non puoi togliermi Martin!"
"E' meglio così" bisbigliò lui, con dolcezza, avvicinandosi a lei ed accarezzandole il viso "Nessun uomo ti sposerà mai con un figlio a carico, neanche su mio ordine. Martin sarà sempre un figlio illegittimo, ma io mi prenderò cura di lui nel migliore dei modi, te lo prometto."
La donna sembrava troppo turbata per piangere o replicare con la sua solita veemenza: il fuoco che aveva intravisto nei suoi occhi si era bruscamente spento, la forza che l'aveva intrigato fino a fargli perdere la ragione non c'era più.
"Non c'è bisogno di separarsi da lui in questo momento, abbiamo ancora diversi giorni prima che mia moglie arrivi. Marina…"
Lei fece un passo indietro, senza correre, voltandogli le spalle con un portamento degno di una regina.
"Il mio nome non è Marina. E' Malintzin."
 
Casteilleja de la Cuesta, Spagna, 1 Dicembre 1547
 
Il giovane medico lanciò uno sguardo affascinato verso la camera oscura in cui Hernan Cortés stava esalando gli ultimi, faticosi respiri.
"Poi cosa successe?" chiese, voltandosi di nuovo verso il vecchio servitore.
"Oh, la vita andò avanti, signore. Il padrone ricevette molte ricchezze ed onori per ciò che aveva fatto e mise al mondo altri figli, legittimi e non. Ma il figlio della Malinche restava il suo preferito, si sa che i padri hanno un debole per i propri primogeniti! Il giovane Martin è ancora nel Nuovo Mondo, da quel che ne so: il Re gli aveva concesso un pezzo di terra da amministrare."
"E lei? Che fine fece donna Marina?"
"Si sposò con un tale… Vediamo… Jaramillo, mi pare. Un nobile, comunque. Mi ricordo il loro matrimonio, signore, mai visto due sposi più infelici! Lei con le lacrime agli occhi e lui completamente ubriaco: in nessuna altra maniera avrebbe potuto sopportare di vedersi sposato con una selvaggia, una donna svergognata che aveva avuto un figlio da un altro uomo! E il padrone li fissava con lo stesso odio che aveva rivolto verso gli indios traditori…"
Il vecchio si asciugò gli occhi, balbettando:
"Sapete, è così che doveva andare, voglio dire, dove si è mai visto che un nobile sposi una schiava pagana? Però, signor mio, quando ripenso al modo in cui la Malinche gli ha dato le spalle, o al coraggio e alla forza d'animo che dimostrò quella donna formidabile… Per me non poteva essere una serva, nossignore, potrei giurarlo sulla Bibbia! Per me quella donna era una principessa!"
"E' ancora viva?"
"Oh, no, signore. E' morta molti anni fa, tentando di dare alla luce un erede maschio per suo marito. Credo che lui poi si sia risposato, donna Marina gli aveva dato solo una bambina…"
Un gemito strozzato spinse il servo a precipitarsi con passo claudicante al capezzale del padrone. Il medico lo seguì subito, ma ormai era troppo tardi: Hernan Cortés era morto e giaceva scomposto tra le coltri del letto. E tuttavia il giovane avrebbe potuto giurare di aver udito, mentre si chinava ad accertare il decesso, un ultimo sospiro.
"Malintzin."     
 
Cosa c'è di vero:
Malintzin e Cortés ebbero una relazione che durò diversi anni e culminò con la nascita di un figlio illegittimo, Martin, ma è probabile che l'amore tra i due fosse solo un'invenzione letteraria dei cronisti. Più o meno tutte le informazioni sulla conquista dell'Impero Azteco sono corrette. Anche l'episodio del matrimonio di Marina è vero: l'hidalgo a cui Cortés la diede in sposa vedeva di malocchio quell'unione e così faceva gran parte degli spagnoli. La donna morì prima del 1529, perché è in questa data che il vedovo inoltrò alla corte la richiesta del permesso di potersi risposare.
 
Cosa c'è di falso:

Come i ricami romantici sopra al loro legame, anche la storia della congiura di Cholula è una leggenda. Durante la Noche Triste, come viene ricordata la fuga di Cortés da Tenochtitlan, si dice che il condottiero abbia davvero pianto sopra un albero (presente sul sito ancora oggi), ma è probabile che fosse più per l'oro perduto e per i sogni di gloria infranti che per le perdite umane.
 
Angolo Autrice:
 
"Grandezza può essere tanto nella conquista quanto nella rinunzia: ché anche la rinuncia vuol esser fatta in vista di una conquista più alta." (Ugo Bernasconi)
 
Questa è la citazione da cui è preso il titolo della storia e che ho messo anche in bocca a Malintzin. Un personaggio straordinario su cui sono sorte molte leggende addirittura mentre era ancora in vita: si diceva che fosse una nobile venduta come schiava dalla matrigna (e la parte finale del nome, -tzin, sosterrebbe quest'ipotesi), che si impegnò a convertire gli indios al Cristianesimo e che era una dei maggiori artefici del successo di Cortés. E così ho voluto reinventare il loro rapporto alla luce degli scritti di chi li voleva innamorati, oltre che amanti, separati poi dalle classi sociali e dalla distanza di due mondi inconciliabili: anche se non fosse stato già sposato, infatti, Cortés non avrebbe mai potuto tornare in Spagna con un'indigena come moglie.
Perciò ha deciso di sacrificare i sentimenti in vista di una conquista più alta, anche se la grandezza, almeno a mio avviso, non è tra le sue principali caratteristiche…
Alla prossima!
 
 Crilu

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