Demonic Ascension.

di WritingHobby
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


«Il caos è un mostro divoratore ed un giorno non lontano divorerà il mondo.»

L’oscurità si espandeva ad una velocità assurda ed il pianeta appassiva all’incontro con essa.

La frase pareva essere stata pronunciata dal buio stesso e continuava a rimbombare nell’atmosfera.

 

 

Il rumore assordante dell’ostinata sveglia sembrava di voler trapanare le orecchie della ragazza raggomitolata sotto le morbide e calde coperte.

Mugolò qualcosa di incomprensibile ed alzò un braccio per spegnere il fastidioso oggetto.

Dopo una manciata di secondi strisciò fuori dal letto, il quale era troppo comodo da essere abbandonato, camminò con l’andatura di un cadavere fino al bagno e si guardò allo specchio.

Sbadigliò alla vista di sé stessa e maledisse mentalmente i suoi capelli castani spettanti all’aria.

Agguantò con una mano il suo spazzolino color verde primavera e con l’altra il dentifricio, appoggiando quest’ultimo tra le setole e facendo una leggera pressione sul tubetto.

Lasciò andare il contenitore del dentifricio e mosse la mano con lo spazzolino in modo più che svogliato, facendo scivolare il gusto di menta a destra e sinistra, sotto e sopra tra i suoi bianchi denti.

Successivamente si sciacquò la bocca e si pulì il viso con dell’acqua, riuscendo per qualche secondo ad uscire dal sonno che le stava addosso, come il cielo sopra le spalle di Atlante.

Rialzò lo sguardo al proprio riflesso, realizzando di essere più in disordine di quanto pensasse. Così allungò la mano alla spazzola e la fece passare tra i capelli, cercando di slegare i nodi che le arrecavano dolore.

Poi lasciò la stanza per dirigersi nuovamente alla sua camera da letto, si piegò per cercare il telefono buttato da qualche parte sulle coperte e quando riuscì a trovarlo e sbuffò rumorosamente nel momento in cui lo accese e lesse 7:45 sullo schermo.

Si fiondò, se così si può dire vista la sia lentezza a causa del sonno, al suo armadio e prese i primi capi che adocchiò, ovvero dei jeans neri con strappi simmetrici sulle ginocchia ed una felpa larghissima dello stesso colore.

Passò al cassetto sulla destra e cercò un paio di calzini bianchi uguali, poi, dopo averseli messi, camminò fino al soggiorno, dove aveva lasciato le sue scarpe preferite il giorno precedente.

Vide le sue Vans completamente nere e se le infilò ai piedi, l’unico rumore nell’intera casa erano i suoi lenti passi diretti alla cucina.

Il bicchiere di vetro tintinnò contro la bocca della bottiglia d’acqua e la ragazza portò le labbra al liquido, facendolo scivolare giù per la gola.

Diede un’occhiata all’orario e fece uno scatto verso camera sua per infilarsi la giacca in pelle, rigorosamente nera, e prendere lo zaino turchese, reggendolo con la spalla destra.

Si mise gli auricolari collegati al cellulare e chiuse a chiave il portone ed il cancello.

Lasciò la casa camminando sulle note di “Time Is Running Out” ed arrivando davanti all’edificio scolastico preceduto da un viale costeggiato da alberi di pesche in fiore, colorando l’ambiente di un dolce rosa.

Il venticello muoveva i suoi capelli bruni, facendoli continuamente cadere davanti al viso della ragazza, la quale doveva spostarsi ogni volta la ciocca dietro all’orecchio.

«Buongiorno Laurel.» Una voce acuta strillò il nome della povera ragazza assonnata, la quale per sfortuna stava scegliendo la canzone successiva.

Alzò gli occhi e sollevò il braccio per togliersi le cuffiette, mentre la voce della ragazza si avvicinava pericolosamente.

In quella breve manciata di second non poté far altro che fissare i capelli mossi e chiari della ragazza ed invidiarli dopo averli confrontati con i propri.

«A te Lily.» Rispose Laurel abbozzando un sorriso che sembrava triste in confronto all’espressione allegra sul viso dai lineamenti perfetti e due cristalli color ghiaccio incastonati nella cavità oculare dell’altra.

«Strano non vederti entrare un’ora dopo il venerdì.» Commentò la ragazza dai capelli chiari accennando una risata e volgendo i piedi verso verso l’entrata dell’istituto.

«Ah, è venerdì oggi?» Sbuffò rumorosamente, iniziando ad imprecare in tutte le lingue che conosceva a bassa voce. Era la morte per lei la prima ora del venerdì, non riusciva a reggere la professoressa di fisica alle otto di mattina, le faceva saltare in aria il cervello e non poteva permetterselo per sopravvivere all’intera giornata.

«Ho sentito che c’è una nuova nella nostra classe.» Disse Lily con una leggera emozione che traspariva dalla sua voce, metre le sue gambe salivano le scale per l’ingresso ed il suo sguardo si spostò sull’enorme orologio nell’atrio. «È tardi, sbrigati!» Aggiunse prima che Laurel potesse dire qualsiasi cosa, questa venne trascinata per un braccio al piano superiore e successivamente al corridoio a sinistra, dove era eretta la porta della loro classe.

La campanella posta esattamente dietro di loro suonò con tutta la potenza e le due si coprirono le orecchie addolorate dall’acuto suono.

Oltrepassarono l’uscio e videro i loro compagni di classe senti in cerchio sui banchi, erano particolarmente uniti nonostante le varie differenze tra di loro, e le die ragazze di aggregarono ad esso.

«Speriamo non sia una cessa.» Commentò con la sua voce rude Michael, il più robusto della classe. Sembrava, a prima vista, uno dei ragazzi “tutto muscoli e niente cervello”, ma era il più bravo in matematica. Tuttavia era un ragazzo pieno di pregiudizi, in particolare sull’aspetto fisico delle donne.

«Sempre un piacere assistere alla tua finezza.» Ridacchiò il ragazzo accanto a lui com un tono sarcastico. Scosse la testa per togliersi i capelli biondi dal viso, mentre il resto della classe rideva per la conversazione.

«Buongiorno.» Irruppe con voce potente una donna che nessuno aveva mai visto.

Mormorii sulla presenza della persona al posto dell’odiosa professoressa di fisica tempestavano l’atmosfera dell’aula.

«La professoressa Robinson è malata, io sono un’insegnante di filosofia e devo anche presentarvi una nuova studentessa della scuola.» Annunciò mentre si dirigeva alla cattedra per appoggiare la borsa sulla sedia e cercare un pennarello nero per la lavagna del colore opposto.

«Ah, si. Anche io sono nuova qui, mi presento: Leila Fairwick.» Arcuò le labbra in u sorriso enigmatico mentre scriveva il proprio nome sulla lavagna bianca.

«E invece lei è» Esordì muovendo velocemente le gambe alla porta, aprendola e facendo cenno ad una sconosciuta di entrare.

La ragazza superò il varco sotto gli schizzinosi occhi di tutti gli adolescenti che la scrutavano dalla testa ai piedi, pure l’assonnata Laurel era una di loro, anzi, il suo sguardo correva in un’osservazione mostruosa.

Si soffermò sui suoi capelli corvini che le cavano sulle spalle leggermente più larghe del suo busto e si bloccò per un momento che le parve infinito ai suoi occhi di un grigio che tendeva all’azzurrino.

La leggera camicia in flanella rossa era sbottonata e copriva le sue braccia lasciate scoperte dalla maglietta a mezze maniche completamente nera.

Le gambe erano avvolte da jeans neri stretti e strappati, dopo qualche attimo Laurel pensò fossero uguali ai suoi, ma tornò subito a fissare i suoi occhi dalle iridi affascinanti.

«Alexandra Ritter, ma preferisco essere chiamata Lexa.»

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


«Alexandra Ritter, ma preferisco essere chiamata Lexa.»
La sua voce richiamò l’attenzione della mora che era andata a perdersi tra i dettagli del suo corpo.

Aveva una voce abbastanza calda, era uscita rauca, forse perché era nervosa, o forse perché non aveva ancora parlato tanto fino a quel momento.

«C’è un posto vuoto laggiù.» Indicò la professoressa il banco vuoto accanto a quello di Laurel, che in quel momento maledisse la sua compagna di banco che doveva mancare proprio quel giorno e slittò poco già lontano per l’agitazione che non riusciva a bloccare in una situazione del genere.

La ragazza nuova si avvicinò, lasciando scivolare giù dalla spalla il suo zaino nero e sedendosi quindi sulla sedia, per poi volgere lo sguardo alla mora.

«Piacere, sono Lexa.» Disse con un sorriso enigmatico e porgendo una mano verso Laurel. Quest’ultima cercò di sopprimere il suo nervosismo abbozzando un sorriso e stringendole la mano.

«Mi chiamo Laurel.» Dichiarò rimanendo bloccata in quella posizione, non sapendo esattamente quando lasciar andare la stretta e quindi fissando gli occhi affascinanti e misteriosi della ragazza accanto a lei.

La professoressa prese a spiegare argomenti che la classe non aveva mai sentito ed allora le due ragazze si girarono con le gambe sotto al banco e tirarono fuori un quaderno ed una penna per prendere appunti.

In realtà la mora non sapeva cosa stesse dicendo l’adulta, infatti la sua mano si muoveva per pasticciare disegni senza un apparente senso logico sul suo amato quaderno degli “appunti”, colorato principalmente da figure fatte in matita-

Al contrario la ragazza dai capelli corvini sembrava capire alla perfezione le parole della professoressa e riscriveva le parole sulla carta.

«Ipoteticamente in un universo parallelo a questo, le vite delle persone potrebbero essere completamente diverse e magari addirittura creature mistiche potrebbero popolare le vie delle città.» La donna iniziò a disegnare delle frecce sulla lavagna, aggiungendoci diverse righe e cerchi che teoricamente dovevano rappresentare diverse dimensioni.

Laurel sentì l’interesse apparire improvvisamente nel pensare che se fosse vissuta in un altro universo, magari poteva avere delle ali o essere figlia di un demone ed una ninfa. Era una ragazza da sogni improbabili e le venne da ridere di se stessa nel momento in cui si immaginò di svolazzare in cieli tappezzati da stelle diverse da quelle che vedeva ogni notte.

«E se esistesse veramente un universo parallelo tanto sviluppato da creare portali interdimensionali, potremmo avere l’occasione di incontrare delle specie mai viste.»

Spiegò con una esagerata allegria mentre segnava un collegamento tra gli universi disegnati alla lavagna.

Ormai quella era tutt’altro che filosofia, anzi, la mora pensò che la donna stessa solo parlando di assurdità affascinanti, ma nessuno nella classe osò disturbare la strana lezione, tranne la vicina di banco dai capelli corvini:

«E cosa potrebbero fare in questo universo? Se la loro dimensione è tanto sviluppata, che motivo avrebbero di venire qua? Pura curiosità e spirito d’avventura?»

Laurel la guardò parlare con uno sguardo che le sembrava già divertito che incuriosito, soffermandosi a capire il perché di quella domanda, poiché prendeva in considerazione il fatto che esistesse davvero una dimensione parallela, la quale era addirittura più sviluppata di quella in cui vivevano, il che era più che impossibile secondo la mora.

«Bella domanda Ritter, tu non vorresti, ipoteticamente, visitare un universo parallelo e vedere le diversità in un mondo relativamente simile al tuo?»

La professoressa rispose immediatamente, come se avesse capito al volo la domanda della ragazza prima che finisse di pronunciare le ultime parole e che avesse già preparato la risposta perfetta.

La compagna di banco annuì alle parole con un sorriso indecifrabile sulle labbra e continuò con la mano destra a scrivere parole sul suo quaderno.

Laurel alzò lo sguardo all’orologio appeso al muro, esattamente sopra la professoressa che continuava a spiegare argomenti assurdi, come teorie impossibili per illudere spazio e tempo.

Gli occhi della ragazza rimasero ad osservare le lancette dell’orologio che si rincorrevano ad una velocità che le pareva già che rapida del solito.

Subito dopo l’acuto suono della campanella giunse alle orecchie degli studenti, mentre la donna alla lavagna salutò e se ne andò senza aggiungere niente.

«Da dove vieni?» Chiese Clarissa, colei che si interessava sempre di tutto di tutti e neanche il tempo di mettere via il materiale scolastico, che Laurel si trovò la ragazza insieme ad un mucchio di adolescenti davanti al proprio banco, interessati alla nuova compagna.

«Ho vissuto in Europa negli ultimi sei anni, in stati diversi.» Replicò con una mostruosa tranquillità, al contrario della bruna che sarebbe stata schiacciata da agitazione e nervosismo.

Delle parole di ammirazione ed invidia si diffusero nel gruppo di persone, mentre la ragazza li osservava con un sorriso impassibile, che metteva addirittura inquietudine a Laurel.

La porta venne spalancata e la rumorosa voce del professore di educazione fisica sovrastò le discussioni degli studenti, i quali si sedettero ai loro banchi.

Fece l’appello, mentre la protagonista si preparava psicologicamente a subire due ore consecutive di educazione fisica.

«Ci saranno in parallelo tornei di pallavolo.» Annunciò l’uomo e Laurel tirò un sospiro di sollievo, per la fortuna di non dover fare i test atletici.

La classe, dotata di un animato chiacchierio, scese le scale, divisi in diversi gruppi che discutevano di diversi argomenti.

Laurel venne trattenuta da Alexandra, la quale apparentemente voleva integrarsi e, siccome era la sua vicina di banco temporanea, l’aveva seguita.

«Che carini i tuoi capelli.» Esordì passando una mano tra le ciocche castane dell’altra.

«Grazie.» Replicò leggermente imbarazzata la ragazza, abbassando lo sguardo e trovando all’improvviso particolarmente interessanti i propri piedi.

«Non ti mangio, puoi guardarmi negli occhi.» Ridacchiò Lexa con una voce relativamente sarcastica. Così Laurel alzò gli occhi verso sopra, realizzando quanto la ragazza fosse più alta di lei, erano almeno quindici centimetri ad occhio.

Fissò i suoi occhi che in quel momento sembravano voler sfociare in un dolce verde e volessero davvero mangiare i suoi, che erano così semplici e monotonamente marroni.

«Vedi? Mi piace essere guardata negli occhi.» Sorrise genuinamente la più alta.

La piccola sorrise di rimando, sempre con un leggero imbarazzo, e prese a mordicchiarsi il labbro inferiore.

«Beh, ammetto che hai dei bellissimi occhi.» Rispose a voce bassa, ma abbastanza alta da essere sentita da Lexa.

«Sei adorabile.» Replicò quest’ultima leccandosi le labbra ed allungando il braccio sinistro per circondare le piccole ed esili spalle della mora.

«Sei sempre così piena di complimenti da fare?» Ridacchiò l’altra per evitare di mostrare ulteriormente il suo nervosismo ed il suo immenso imbarazzo.

«No, solitamente no. Penso sia tu.» Disse con una mostruosa tranquillità.

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