La Quercia

di BakemonoMori
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il nuovo ingresso ***
Capitolo 2: *** Sistemazione ***
Capitolo 3: *** Apri gli occhi ***
Capitolo 4: *** Brutti presentimenti ***
Capitolo 5: *** Banale giornata di una banale comunità ***
Capitolo 6: *** Rientro rivelatore ***
Capitolo 7: *** Sesto senso ***



Capitolo 1
*** Il nuovo ingresso ***


Da anni ormai sono stata portata via dai miei genitori, venendo poi rinchiusa in questo luogo chiamato
‘comunità’, ed oggi, sdraiata sul prato del giardino a fissare il cielo oscuro, rammento con un leggiadro velo
di malinconia il momento in cui sono stata trascinata lontana dalla mia vita.

La buia notte senza stelle accompagnava lo straziante momento in cui vidi la polizia arrivare, pensai che fosse strano,
tutto era stato tranquillo ultimamente nel mio quartiere, non avevo motivo di preoccuparmi, o così pensavo, fino a
che non vidi mia madre entrare nella camera in cui mi trovavo, braccia incrociate, serrate al petto, figura rigida e
sguardo freddo come il ghiaccio. Capì subito che qualcosa non andava.

Sentì un forte bussare insistente alla porta e vidi mio padre aprirla, facendo entrare i loschi uomini in divisa all’interno
del nostro appartamento, subito percepì dei brividi lungo la schiena e chiesi spiegazioni a mia madre “Sono qui per
me?” “Ho fatto qualcosa di male?” “Mamma, tu mi vuoi bene, non è così?”

Non ricevetti mai risposta, ma il suo sguardo valse più di mille parole, dando conferma a tutti i peggiori dubbi che
navigavano nel mare in tempesta della mia mente. Appena vidi gli scuri sconosciuti entrare corsi dall’altra parte della
stanza, il più lontano possibile da mia madre; urlai con tutto il fiato in gola, non avevo fatto niente, non poteva essere
colpa mia, piangevo e mi ribellavo mentre con la forza mi trascinarono via da tutto ciò che avevo sempre avuto caro.

Ricordo ancora le ultime parole che dissi tra i singhiozzi “Mamma, papà, io vi voglio bene.”

Mi fecero salire sulla loro auto che puzzava di muffa, le sbarre tra i sedili di fronte e quelli nel retro non fecero altro
che aumentare l’ansia che provai, non riuscì a respirare, mi sentivo nel panico, mi rinchiusi in me accovacciandomi e
premendo con forza la testa sulle ginocchia; non riuscivo a riprendere fiato, era come se ad ogni respiro non
recuperassi ossigeno, dopodiché, di colpo, il buio.

Rinvenni, e con non poca fatica capì di trovarmi in un lettino di ospedale, i medici entrarono assieme ad uno degli
agenti, mi dissero che ero svenuta in seguito ad un attacco di panico, valutarono che era tutto passato e mi dimisero
seduta stante.

Ancora stordita e confusa varcai la soglia d’uscita dell’ospedale, ed era giorno, dovevo aver dormito molto, perciò mi
caricarono nuovamente nell’appestante automobile e riniziammo il nostro viaggio. Passò una quantità di tempo allora
infinito, ed ora incalcolabile, nel quale finalmente giungemmo nell’ignota destinazione.

Struttura esterna totalmente anonima, unita ed indistinguibile dal resto dei palazzi che la circondavano, non c’era
alcun segno distintivo; sul momento non seppi se esserne sollevata o spaventata.

Entrai ed in silenzio seguì la scorta in una piccola stanza poco distante dall’ingresso, ‘ufficio’ recitava la targa di lato
alla porta, così andai oltre, ed appena entrata vidi dinanzi a me quattro persone, che subito mi si presentarono
“Buongiorno Alessandra” disse il primo, un uomo alto e robusto, dal pallido carnato, i corti capelli, rasati ai lati e con
un ciuffo moro che cadeva delicatamente sopra il destro dei suoi bruni occhi, parlava con voce rauca e calda come il
soffice abbraccio estivo; “Buongior…” provai a rispondere, ma venni subito interrotta “Piacere, il mio nome è Jason,
benvenuta nella comunità ‘la Quercia’”. Provai a ricambiare la stretta di mano, ma lo smilzo uomo di fianco a lui si
mise in mezzo “Piacere, io invece mi chiamo Lucio” aveva una voce totalmente diversa, non molto rauca, come quella
di un ragazzo che ha appena cambiato il suo timbro in seguito all’adolescenza, con un bizzarro picco acuto non appena
iniziò la frase; era basso e snello, dal carnato olivastro ed i muscoli visibili perché nulla interferiva tra la pelle ed essi,
corti capelli appena rifatti di un biondo spento ed incolta barbetta rada dello stesso colore, mentre vivace mi guardava
con il suo acceso sguardo dagli iridi color birra. Gli feci un accenno di sorriso prima che la fredda donna, al centro dei
due, parlò “Io sono Irene, lieta di conoscerti” notai una leggera nota di sarcasmo in quella stranamente flebile ma
rauca voce mentre diceva l’ultima parte, era una donna già alta del suo, ma nell’elegante abbigliamento dei fini tacchi
appariva innaturalmente spilungona, la muscolatura del collo e delle gambe appariva ancor più accennata dalla mia
prospettiva, il viso largo dagli zigomi accentuati, veniva reso più fino dalla fronte scoperta dei lunghi capelli castani
scuri, tirati con estrema cura in una stretta coda di cavallo, mentre con i suoi gelidi occhi color ghiaccio mi fissava,
ghignando con quella oscenamente enfatizzata bocca accesa dallo sgargiante rossetto.

Smisi di reagire, sapevo che sarei stata nuovamente interrotta nel mezzo, e quasi come se l’avessi predetto… “Infine,
io sono Antonio” disse l’ultimo dei quattro, un giovane dai ricci capelli castano nocciola, con dei riflessi a volte dorati,
a volte rosso fuoco, occhi verdi costantemente puntati sul cellulare, visibili chiaramente sotto un vasto paio di occhiali
dalla montatura dello stesso colore dei capelli, parlò con tono distaccato a causa del dispositivo che lo intrappolava
come fece il poliziotto al mio fianco con me, con una delicata voce che attraversò la mia mente con la calma dei primi
leggiadri venti primaverili.

Mi fecero subito uscire dall’ufficio, accompagnata da un giovane uomo appositamente chiamato, un ragazzo dai
medio-corti capelli castani, tendenti al bruno, la livida pelle quasi olivastra attraversata da chiare e poco visibili
cicatrici di graffi e ferite chiaramente accidentali, come potrebbe essere una caduta. Quest’ultimo mi accompagnò
attraverso un breve corridoio, varcammo una porta di un leggero legno dipinto di bianco ed entrammo in una stanza,
al suo interno vi erano altre cinque persone sparse nello stretto spazio disponibile a chiacchierare in un paio di limitati
gruppi silenziosi, mentre al centro di essa vi erano sei sedie, disposte in cerchio.

Il mio giovane accompagnatore fece un segno e tutti si sederono, chi più chi meno rapidamente, eccetto un piccolo
ragazzo, che accennò solo un paio di passi, e con estrema lentezza “Nuovo arrivato, diamo inizio alle presentazioni!”
urlò colui che mi aveva scortato, battendo le mani per attirare l’attenzione su di sé.

“Benvenuta nel tuo peggior incubo” disse il misterioso giovane, unendosi a noi sull’unica sedia rimasta, e prima ancora
che potessi ben inquadrarlo, l’uomo che lì dettava legge mi richiamò, facendomi finalmente conoscere gli altri
componenti di quel luogo tanto oscuro.

E fu allora che tutto ebbe inizio.

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Capitolo 2
*** Sistemazione ***


Le presentazioni proseguirono così rapidamente che non ebbi neppure il tempo per inquadrare nessuno, e
nel mentre che arrivai in camera mia già mi dimenticai tutti i nomi ed i volti. Non appena ne varcai la soglia,
ritrovai di fronte a me quella che intuì essere la mia compagna di stanza, ma anche lei si trovava nel luogo
dove ci siamo presentati, quindi come avrebbe fatto ad arrivare prima di me senza che io l’avessi vista?

Finalmente ebbi del tempo per osservarla: era piccola, bassa e magra, dalla pelle chiara come il bagliore
della luna, così che le grandi occhiaie che le incorniciavano gli occhi venissero ancor più enfatizzate. Aveva
lunghi capelli mossi, di un castano scuro che ricordava il mogano, e le faceva sembrare il minuto viso più
piccolo del normale. Occhi color noce con delle appena che visibili striature verde oliva, e dalla pupilla
chiara, che quasi le si fondeva con l’iride; indossava un’enorme felpa nera, dalla cerniera aperta che le
finiva quasi alle ginocchia, sotto la quale si scorgeva una canottiera nera infilata all’interno di un paio di
pantaloncini, che le finivano a metà coscia.

Girava invano sui suoi delicati piedi scalzi, ripercorrendo ancora e ancora quella stretta stanza neutra come
una cella d’isolamento, mentre io mi sedetti pesantemente sul letto, continuando ad osservarla “Perché mi
fissi? Mi fai paura…” mi disse con voce tremante, così da rispecchiare perfettamente il resto della sua
persona. Sgranai gli occhi, per notare che i suoi iridi si erano come incupiti, così per rassicurarla le sorrisi e
mi scusai “Sembri un ragazzo… non mi piaci… non dovresti essere qui” mi disse quasi sussurrando,
lasciandomi allibita, non seppi che risponderle, ma non ce ne fu bisogno, perché scappò pochi istanti dopo.

Rimasi sola nella stanza, senza nulla da fare, stesa sul letto e con lo sguardo perso nel bianco soffitto,
quando di colpo un rumore mi fece trasalire; mi voltai di colpo a sinistra e vidi, sulla soglia della camera,
Jason, che con il solito sguardo inespressivo spinse nella mia direzione una grande borsa sportiva piena
“Questi sono dei vestiti per te” lo ringraziai senza ricevere risposta e subito mi gettai sulla valigia per
svuotarla nell’armadio: due paia di pantaloncini sportivi, quattro paia di pantaloni lunghi, di cui tre jeans ed
uno della tuta, due canotte, tre t-shirts, una maglietta a maniche lunghe e due felpe con la cerniera; nelle
tasche di lato trovai invece dell’intimo, di cui anche i calzini.

Prima ancora che me ne potessi accorgere mi ritrovai nuovamente sola, porta chiusa ed un nuovo mondo
da esplorare, ma esausta da tutte queste nuove esperienze, caddi addormentata nel giro di pochi istanti.

Al mio risveglio, mi ritrovai di fronte al viso lo stesso ragazzo che vidi nell’ombra della stanza delle
presentazioni, era in piedi, chinato sul letto con il viso a pochi centimetri dal mio. Da così vicino potei
chiaramente vedere le sfumature dorate dei suoi iridi nocciola, perfettamente contrastanti con l’ebano
delle sue pupille, le sue livide occhiaie, coperte leggermente dallo scuro carnato olivastro ed il leggermente
accennato rossore delle gote marcate, della punta delle orecchie scoperte e del naso aquilino.

I suoi corti capelli mori si ergevano in vaste ciocche ben pettinate, laccate ed ordinate. Indossava una
pesante giacca nera dall’alto colletto, degli scuri jeans ed un paio di scarponcini bruni; teneva le mani in
tasca e mi fissava come se mi stesse studiando “Vieni con me, devo mostrarti una cosa” mi disse
cupamente allontanandosi, mi alzai lentamente, stropicciandomi gli occhi, ma prima ancora di riuscire a
capire cosa stesse succedendo, mi sentì afferrare un polso e trascinare con forza

Corremmo lungo il corridoio principale, fino ad una piccola porta sul retro, che attraversai un attimo dopo.

Lo spettacolo che mi ritrovai di fronte mi lasciò a bocca aperta…

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Capitolo 3
*** Apri gli occhi ***


Dinanzi ai miei occhi, l’incantevole sipario di alberi e foglie, un piccolo bosco illuminato dai rossastri raggi
solari; vi si trovavano le piante più disparate, cespugli, funghi che abitavano i vivi tronchi dei sempreverde e
dei verdi alberi in fiore, pronti a donare frutti e bacche, mentre tutta la zona era nel pieno dello splendore.
Boccioli di tutti i colori ricoprivano l’intera vegetazione, dovunque guardassi, in alto, sulle fronde, sul prato
sotto i miei piedi.

La vita risplendeva in quel luogo mistico.

Solamente uno sguardo fu necessario per farmi innamorare di quell’antro paradisiaco che, silente, si
ergeva… oltre una grigia rete di gelido metallo.

Ero confinata, non potevo raggiungere l’oasi che si mostrava dalla parte opposta di tale pericolosa barriera.

Una pacca sulla spalla mi fece rinvenire dall’oblio dei miei pensieri; il ragazzo mi guardava sorridendo
maliziosamente ed indicando un punto della rete coperto da un cespuglio “Seguimi, non te ne pentirai”
sussurrò in maniera alquanto soddisfatta. Ero confusa, non mi fidai ed esitai molto, prima che lui mi
strattonasse impazientemente per un polso. Un gesto così brusco mi spaventò, facendomi fuggire un flebile
urlo sommesso.

Sul suo viso si dipinse l’orrore mentre mi guardava, ed inizialmente non capì, quand’ecco che mi lasciò e si
spinse più lontano possibile da me. Mossi qualche passo in sua direzione, fino a che un rumore alle mie
spalle mi fece trasalire; mi girai quando un ringhio mi risvegliò dalla paralisi dell’orrore “Federico!” due
uomini alti quanto larghi comparvero dall’ingresso da cui eravamo passati per raggiungere quel paradiso
terrestre.

Tentò di fuggire ma la lotta non durò molto, in breve tempo uno di loro gli aveva sbarrato la strada,
facendolo afferrare dall’altro per le braccia, appena dopo le spalle, trascinandolo via, sollevandolo quasi da
terra mentre lui si dimenava, dibattendosi e scalciando per ogni verso “Mi fai male stronzo! Lasciami, non
ho fatto nulla di male!” sbraitava tra gli spasmi d’ira.

Io non seppi reagire, rimasi immobile a fissare in silenzio quella scena, mentre sugli occhi di Federico si
formarono delle lacrime, che cercava di trattenere come possibile “Vi prego, non lo farò più, lasciatemi…”
singhiozzò chiaramente.

Piansi, paralizzata, in piedi, fissandolo mentre veniva dolorosamente trascinato verso un’ignota
destinazione. Ero preoccupata di ciò che gli sarebbe successo, ma la paura mi impedì di aiutarlo in ogni
modo.

Che stupida, se solo avessi saputo.

Come ho potuto…

Sono rimasta lì, statica, a guardare la porta, il corridoio vuoto, le porte bianche di ignote camere chiuse, per
un tempo indeterminabilmente dilatato.

Quando mi destai dalla trance delle mie paure, decisi di tornare nella mia stanza e cedere alle costanti
adulazioni del sonno. Mi incamminai, attraversando lentamente l’unico raggio di sole che ricopriva quel
campo recintato, prima di venir coperto anch’esso dal banco di bianche nuvole che, in men che non si dica
aveva ricoperto il cielo soprastante. Varcai l’ingresso e progredì nella mia inesorabile attraversata dello
stretto corridoio, ma ecco che, quasi appena varcata la soglia, dalla camera alla mia sinistra uscì l’ennesima
faccia nota, ovviamente grazie all’ora delle presentazioni.

Si chiamava Angelo, il che rispecchiava di lui solamente il biondo dei suoi capelli, ma certamente non lo
sporco del suo animo. Fu grazie a lui, infatti, che scoprì l’ennesima piaga che rivestiva quel luogo.

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Capitolo 4
*** Brutti presentimenti ***


Angelo, infatti, con il suo metro e ottanta di altezza, ed i suoi, almeno, novanta chili, mi si avvicinò con fare
bizzarro, mi spinse lentamente contro un muro ed avanzò, troppo, decisamente troppo. Attese un attimo,
guardandomi negli occhi con espressione maligna e, in meno di un secondo, mi bacò, posando la mano
sulle mie natiche.

Gli morsi istintivamente un labbro, facendo uscire un furioso «Porco D..!» dai suoi polmoni, permettendomi
una rapida fuga.

Scappando per raggiungere camera mia, finalmente aprii gli occhi, e passando di fronte al paio di stanze
altrui che si paravano tra me ed il mio letto, vidi uno degli innumerevoli lati oscuri di quel luogo. Dentro tali
camere, infatti, si trovavano coppie, in atti poco fraintendibili: le ragazze in intimo, se non senza, di fronte,
sopra, accanto ai ragazzi, o ad altre femmine. In stanza, in corridoio o dovunque capitasse.

«E’ per passare il tempo» mi rivelò in seguito una di esse.

Giunsi finalmente al sicuro tra le coperte del mio letto, porta serrata e finestra chiusa. Dopo quell’infinita
fuga ero finalmente al sicuro.

Così, nel buio di quella solitaria stanza, stremata ma con fatica, riuscii ad assopirmi.

Venni svegliata da leggere percosse, come colpi alle spalle o alla nuca, troppo deboli da farmi del male, ma
abbastanza dirette da infastidirmi non poco.

«Muoviti, è ora di cena.» era Jason, ed appena aprii gli occhi, mi accorsi che già aveva varcato l’uscita.

Neppure sapevo dove dovessi andare, ma seguendo le poche persone che lungo i corridoi trovai, riuscii ad
arrivare alla tavola, dove già tutti sedevano composti, così presi l’unico posto libero, tra due ragazze il quale
nome avevo dimenticato subito dopo essere uscita dalla sala presentazioni.

Il mio sguardo non si posò a lungo su nessuno degli altri otto che circondavano la tavola assieme a me.
Certamente riconobbi i quattro che vidi nell’ufficio, la mia compagna di stanza dal nome assente nella mia
mente ed Angelo, ma degli altri solo un vago ricordo dei volti.

Eppure, osservando attentamente, tra un boccone e l’altro di quella pasta stracotta, notai l’assenza di
qualcuno. L’unico che avrei veramente voluto vedere.

«Dov’è Federico?» fu la domanda che pronunciai senza volere. Tra i ragazzi si alzò un brusio, tra chi si
parlava nelle orecchie e chi si limitava a ridere malignamente, ma gli “educatori” (così gli piace essere
chiamati) si limitarono ad osservare in silenzio, quasi confusi.

«Chi?» esordì Lucio, scocciato «Tre.» rispose Irene, con lo stesso tono dell’interlocutore. E lì la
conversazione ebbe termine.

Non avevo ottenuto risposte, anzi, altri dubbi aleggiavano nella mia mente, come se fosse stata infestata da
spettri. Tre? Cosa voleva dire? Che ci identificassero con dei numeri? E quindi io chi ero?

Sentii la mia identità abbandonarmi, come se non sapessi più chi fossi. Fu terribile, eppure ancora non
sapevo che quello era nulla rispetto a ciò che mi attendeva.

Mi limitai a mandar giù un paio di piatti scarsi di quella pasta flaccida al pomodoro, attesi che gli altri
terminassero, sparecchiai le mie cose e tornai in camera mia, sperando di addormentarmi rapidamente.

Non accadde, faticai tremendamente a prender sonno, rigirandomi tra le ruvide coperte e dilaniandomi
con le mie stesse paranoie.

Ebbi un incubo. Sognai Federico oltre la recinzione, tra quelle piante meravigliose, libero. Ma ad un certo
punto dei serpenti lo circondarono, lo assalirono, lo avvolsero nelle loro spire, ricoprendolo totalmente. Lui
urlava, chiedeva aiuto, ma io non potevo far nulla, ero paralizzata.

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Capitolo 5
*** Banale giornata di una banale comunità ***


02 Febbraio, Giovedì

Mi svegliai di soprassalto in seguito alla brutta notte passata. Tutto era nella norma, il sole già riempiva la
stanza con i suoi raggi e Benedetta stava sistemando.
«Muoviti ad alzarti, sei in ritardo, devi pulire» disse con il suo solito tono inespressivo, sia nella voce che nel
volto «E’ pure il giorno del bucato!»

Mi sollevai lentamente dal letto, e barcollando stordita lo rifeci lentamente, per poi buttarmici ancora una
volta sopra, dopodiché chiusi gli occhi.

La mia parte di stanza era in ordine, avendo traslocato il giorno precedente, perciò non mi preoccupai ad
assopirmi nuovamente.
«Ancora dormi?! Muoviti, è tardi!»

Ma tardi per cosa, continuavo a chiedermi, non è che ci fossero molte attività lì dentro.
«Avanti! Prima che si arrabbi qualcuno!»

All’inizio non ci feci caso, ma presto mi accorsi che quella non era una voce nota, perciò balzai sul letto e mi
svegliai di soprassalto.
«Fortuna che ho dormito vestita.» pensai allora, sedendomi sul letto.

Ancora una volta, il nome del mio interlocutore mi parve sconosciuto, ma ricordavo con particolare minuzia
il suo aspetto, dato che qualche suo dettaglio mi era rimasto impresso nella mente.

Era apparentemente più giovane di me, e ciò faceva di lui il più piccolo della comunità. Aveva dei selvaggi
capelli castani chiari con alcuni riflessi biondi o rosso fuoco, il viso tondo e leggermente paffuto, gli occhi
marroni che parevano brillare di luce propria, un minuto naso a patata e labbra fine, che davano su un
enorme sorriso sdentato – probabilmente in seguito alla caduta dell’ultimo dente da latte –.

La sua pelle presentava molte irregolarità, era scura, olivastra come la mia, ma con delle zone del viso più
chiare.

Saltellando qua e là per la stanza insistette perché io mi alzassi, e così feci. Mi afferrò per l’orlo della
maglietta con una delle sue mani rovinate, cercando di trascinarmi fuori ma senza riuscirci. Tuttavia lo
seguii incuriosita riguardo ciò che voleva mostrarmi.

Camminando lungo i corridoi, erano tutti svegli – o almeno, erano tutti in piedi – e non sapevo che ore
fossero, ma sicuramente era troppo presto per pranzo, eppure eravamo diretti tutti nella stessa direzione:
la cucina.
«Il dolce!!» urlò, prima ancora di varcare la soglia.
«La camera?» rispose una voce femminile.
«A posto!»
«Hai svegliato sette?» che immaginai essere io.. ma alle presentazioni.. non eravamo solo in sei?
«Si! E’ con me!» parve diventare molto orgoglioso di questa affermazione, quasi come se avesse compiuto
un’impresa eroica.

E così, tra chiacchiere e noiose ramanzine sullo svegliarsi presto, mi spedirono a spazzare e passare lo
straccio in camera prima di poter mangiare, ma una volta tornata, il dolce era finito.

Peccato, non ero neppure riuscita a vederlo.

Girai sui tacchi e mi diressi nuovamente in camera, ma appena mi voltai, vidi il bimbo di prima, mentre mi
bloccava volontariamente il passo, masticando – quasi sicuramente il dolce –. Credo di averlo guardato in
modo estremamente confuso, cercando di ricordare il suo nome ignoto, e di capire cosa stesse facendo, ma
lui ricambiò lo sguardo – probabilmente cercando di capire a cosa pensassi –, ma nessuno dei due disse una
parola per una lunga manciata di secondi. Fino a che lui non prese la parola.
«Tieni! Te l’ho tenuto da parte!» allungò, stretto tra le mani, una fetta del dolce, e allargando quanto
possibile quel suo storto sorriso.
«Ehm… grazie…» balbettai cercando con tutte le mie forze di ricordare il suo nome, e fallendo miseramente.
«Enrico!» disse, mostrando un briciolo di intelligenza, più di quanto avrei creduto.

Sorrisi e mangiai. Era soffice e buono, dovetti ringraziare Enrico almeno un altro paio di volte, facendomi
rispondere ogni volta con il suo sorriso, vasto come l’orizzonte.

Chiacchierammo a lungo, ma di nulla di serio. Mi disse che a breve sarebbe tornata una certa Irene – dato
che, ad amplificare la mia pessima memoria, lui tendeva a dire nomi, ignorando se l’interlocutore lo
conoscesse o meno – e che non ne vedeva l’ora, che era una persona fantastica, simpatica, che gli
manava…

Andò avanti dieci minuti buoni parlandone… ma credo di essermi distratta, dato che, finito il suo soliloquio,
già non ricordavo assolutamente nulla, a parte il nome.

Banale pranzo, banale pomeriggio – passato in camera a fissare il soffitto o a dormire –, banale cena e
banale serata.

Ci mandarono a letto, misi il pigiama e mi infilai sotto le coperte, ma avendo dormito tutto il pomeriggio
non riuscii a prender sonno. Così pensai, pensai e pensai, la mia mente vagò e cambiò un argomento dopo
l’altro: «Chissà se domani ci sarà di nuovo il dolce? Non credo, dalle reazioni pareva un evento più unico che
raro.»
«E se domani piovesse? Sarebbe bello, il caldo mi stressa.»
«Vorrei una bella carbonara, e ora che ci penso, ho pure fame.»
«Chissà dov’è Federico… non l’ho più visto ne avuto notizie…»

E fu su quell’ultimo pensiero che mi soffermai – anche se, certo che pure la carbonara era un pensiero
invitante – molte domande mi sorsero, ma continuando a ragionarci, mi addormentai.

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Capitolo 6
*** Rientro rivelatore ***


03 Febbraio, Venerdì

Non ricordai il sogno che feci la notte precedente, ma so che mi svegliai con un forte senso di disagio.
Avevo avuto un altro incubo, e i miei pessimi presentimenti non si decidevano a cessare.

Mi alzai, rifeci il letto, mi vestii e nella speranza di mandar via le brutte sensazioni che mi invadevano andai
in salotto, sperando di trovare qualcuno con cui conversare.

Nessuno. Tra ragazzi ed “Educatori” erano tutti impegnati a chiacchierare in gruppi, a sistemare o a
cucinare per pranzo. Così mi sedetti sul divano, mi appoggiai pesantemente sullo schienale e cercai di
rilassarmi, ma finii per addormentarmi di nuovo.

Nella mia mente passarono solo pochi minuti, nella mia mente ero cosciente, nella mia mente ero tranquilla.

Mi svegliai di soprassalto, fiatone e tachicardia, mi voltai solo per constatare che gli altri avevano finito di
mangiare, alcuni mi guardavano con disprezzo, altri ridacchiavano, altri ancora ignoravano – ed i nostri
aguzzini appartenevano a quest’ultimo gruppo –; mi parve di sentire tra i brusii qualche “Allora è viva” “Che
peccato haha” “Dai, le farà solo che bene non mangiare per un po’” “Guarda che obesa”.

Finsi di nulla, mi alzai, tornai in camera e mi stesi sul letto.

Piansi, piansi tutte le lacrime che avevo, piansi fino a scordarmene il motivo, piansi fino a stancarmi… piansi
fino ad addormentarmi.

Urla, risate, musica alta. Aprii gli occhi, fuori stavano scatenando un pandemonio ascoltando della roba che
non mi è mai piaciuta, affatto. Mi girai e rigirai nel letto cercando di recuperare il sonno, ma niente da fare.
Era perduto.

Sentii le risate aumentare, urla, beffe e non capivo cosa stesse succedendo, così uscii e…
«Federico!»

Era tornato, finalmente non ero più sola…

Ma era strano, distrutto, confuso. Mi guardò spaventato, si osservò attorno come se si fosse appena
accorto di dove si trovasse e scappò.

Mi fiondai verso camera sua senza pensarci, bussai alla porta due, tre, quattro volte, ma nessuna risposta,
né da lui, né da Angelo (suo compagno di stanza), probabilmente in giro ad importunare qualcuna. Aprii la
porta, e come unica reazione ottenni le urla isteriche di Federico, che mi ordinava di uscire.

Era seduto sul letto quando avevo aperto la porta, teneva la testa tra le mani e sussurrava qualcosa…

Appena dopo esser stata cacciata in quel modo brutale, le lacrime riaffiorarono ai miei occhi, corsi verso il
mio letto e piansi ancora, ma senza addormentarmi. Non stavolta. Non potevo passare la mia vita tra le
braccia del sonno.

Mi alzai e frugai tra i pochi libri che ero riuscita a farmi portare, ne presi uno a caso – tanto che tutti erano
nuovi per me – e mi misi a leggerlo.

Finita la prima pagina, mi resi conto che la mia mente era altrove, ancora in camera di Federico, ancora di
fronte ad un ragazzo da chissà quali torture. In pratica dovevo leggere tutto da capo.

Richiusi il libro di scatto e lo lanciai ai piedi del letto. Era tutto inutile, non sarei stata in grado Di fare nulla
quella giornata, così mi stesi sul letto con le lacrime agli occhi. E pensai.

Un improvviso bussare insistente alla porta mi destò dalle mie riflessioni.
«Cena è pronta!»
«Non ho fame!»
«A tavola se non vuoi una punizione!» la conversazione si svolse interamente urlando da una parte all’altra
della porta. C’è da dire che erano diretti almeno, e ricordando ancora una volta lo sguardo di Federico, non
persi tempo ad alzarmi.

Nemmeno il tempo di sedermi che già sentivo le ragazze starnazzare i loro soliti insulti, ma riuscii a fingere
di nulla. La mia mente era già occupata. Non avevo tempo da perdere per questo branco di idiote.

Mi sforzai a mangiare qualche cosa, e finita la cena andai a sistemare le mie stoviglie, subendo sgambetti ed
occhiatacce, riuscendo a non far cadere nulla.

Tornata in camera mi spogliai, e non avendo avuto voglia di mettermi il pigiama rimasi in intimo, buttai gli
abiti nella cesta dei panni sporchi e mi buttai sotto le coperte, ricercando nuovamente il sonno.

Inutile dire che fu tutto inutile. Mi toccò un’ennesima notte in bianco.

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Capitolo 7
*** Sesto senso ***


04 Febbraio, Sabato

Vidi l’alba, e la ricordo bene, una fresca, limpida alba, l’inizio della fine.

Non so che ore fossero – non avendo avuto un orologio – ma so che il sole era appena finito di sorgere.
Qualcuno bussò alla porta così forte da farmi trasalire, ma neanche il tempo di dire avanti, che già era
scappato via. Corsi ad aprire e a sporgermi nel tentativo di beccarlo correre, ma nulla, aveva già voltato
l’angolo.

Mi buttai addosso una t-shirt nera, larga che quasi mi toccava le ginocchia e un paio di pantaloncini corti;
entrambi i capi erano parte del vestiario ricevuto il primo giorno. Varcai la soglia e – barcollando – raggiunsi
la sala da pranzo.

Con la modica cifra di zero ore, zero minuti e zero secondi di sonno, ero più paragonabile ad uno zombie, o
peggio ancora, ad uno studente in sede d’esami, eppure feci colazione fingendo di nulla, tentando di avere
interazioni sociali – ma fortunatamente non ne sono mai stata brava, perciò, nonostante non ci riuscii
miseramente, nessuno ci prestò particolare attenzione – e di non addormentarmi appena seduta.

Come immagino che sia ormai diventato prevedibile, fallii. Crollai in avanti appoggiata sul tavolo e con la
testa sulle braccia, sperando di non russare e cercando anche solo di riposare cinque minuti.

Tanto per cambiare, venni svegliata da urla; alcune eccitate, altre deluse, alcune arrabbiate. Per un po’ non
alzai neppure la testa, fu un tonfo sordo sul tavolo a destarmi dal mio stato comatoso.

Davanti ai miei occhi – poco abituati alla luce – si ergeva una sfuocata torre pendente, che capii poco dopo
essere dei libri, scolastici per di più. Non solo, qualche istante dopo, venni informata che quelli non erano
manuali qualsiasi, bensì i libri che da lì a due giorni avrei usato… a scuola!

Oddio, nemmeno sapevo che mese fosse – nonostante fossi lì dentro da solo pochi giorni – ma mi misero al
corrente che quello stesso lunedì avrei ripreso il primo superiore, ma in una scuola diversa, più vicina a
questa comunità – come se avessi avuto idea di dove mi trovassi.

Alla fine poco male, in quei tre o quattro mesi non è che mi fossi affezionata a qualcuno. Eppure un pochino
mi dispiaque.

Comunque sia, la prima cosa che feci fu impanicare internamente, cercando di non farlo notare, ma non
sono mai stata un granché a mascherare ciò che provo, perciò non posso garantirne che ne ebbi successo.
Subito dopo il panico irruì l’accettazione e la rassegnazione.

Non potrà essere così male, in fondo, una scuola vale l’altra, fino a che l’ansia non decise di
farsi sentire.

E se invece fosse così male? Qui non conosco nessuno. Ma alla fine decisi di chiudermi per le mie,
ignorando tutto e attendendo il giorno fatidico.

Buttai le stoviglie nel lavello, tornai a tavola, presi i libri dandogli appena che un’occhiata e me ne andai in
camera. Li gettai sul comodino e mi stesi sul letto, facendo così tanto rumore da svegliare Benedetta.

Chiusi gli occhi per riposare un attimo, ma eccola all’attacco.
«Che disastro questa stanza. Dobbiamo sistemare!»
«Si, si, arrivo…»
«Dai su, muoviti, è inguardabile così»

Biascicava, aveva gli occhi e la bocca impastati, camminava storta dal sonno ma nulla, lei avrebbe pulito,
costringendo anche me. Cercai di ribellarmi, volevo solo riposarmi un attimo, ma ancora una volta le sue
urla stridule ebbero la meglio. Non si prese nemmeno la briga di vestirsi, rimase nel suo intimo roseo – che
almeno le dava un po’ di colore al carnato cadaverico.

Sistemammo e spazzammo, dopodiché si mise addosso un top attillato e un paio di culotte nere, mi guardò
scocciata, mi ordinò di passare lo straccio e finalmente se ne andò. Fu allora che vidi fu allora che notai che,
sulle sue spalle e lungo la sua schiena, era sparsa di cicatrici, fine ed allungate, ma poco visibili a causa del
pallore della sua pelle.

Feci come Sua Maestà desiderò, non riuscivo a sopportare la sua voce agli ultrasuoni, così dovetti
uscire. Mi diressi in salotto per buttarmi sul divano, ma era occupato, non potei sedermi a tavola perché
stavano apparecchiando, e l’ultima soluzione che mi rimase fu appoggiarmi su di un mobile, accasciandomi
su me stessa, rialzandomi poi con un inenarrabile mal di schiena.

Il pranzo fu una semplice piattata di bocconotti con sugo e pancetta per primo, e ali di pollo per secondo.
Non ebbi di che lamentarmi del cibo, ma Federico non c’era. Stava male, era a letto, io lo sapevo, me lo sentivo.

Me ne fregai delle urla degli aguzzini, presi le stoviglie , le misi a lavare e me ne andai prima che gli altri
finissero di mangiare. Mi scagliai contro la porta della sua stanza e la aprii violentemente.

Rimasi paralizzata, e tra stupore, confusione e paura, anche lui si pietrificò.

Eravamo in piedi uno di fronte all’altro, fulminati. Aveva le maniche della felpa leggera che indossava alzate
sulle braccia nude. Osservava le ferite che ricoprivano l’avambraccio sinistro – quasi contemplandolo –
prima che entrassi io.

Ero senza parole.
«Posso spiegare…» mi implorò.
«Cosa sta succedendo? Fermati ora, sei impazzito?»
«Non è come credi, davvero!»

Mi si avvicinò, trascinandosi giù la manica e nascondendo il braccio. Muovendosi la felpa slacciata si aprì,
incorniciando il suo atletico busto nudo. Cercò di fermarmi, ma io indietreggiai e gli sbattei la porta in
faccia. Non sapendo che fare mi chiusi in camera, presi il libro che avevo gettato l’altro giorno e lessi.

Entrò in camera, quasi sfondando la porta. Disse di volermi parlare ma io non volli; tutte quelle cose
assieme mi avevano confusa e spaventata. Volevo semplicemente rimanere sola.

Il battibecco continuò a lungo, fino a che non me ne stancai totalmente.
«Piantala, non ti voglio più parlare, lasciami in pace!»
«Ti prego, smettila di urlare, prima che mi rimettano in punizione.»

Gli salirono le lacrime agli occhi, ed il peso della situazione fece piangere anche me.

Sentimmo dei passi pesanti lungo il corridoio, Federico tremava, così chiuso in sé che credetti che a breve
sarebbe imploso. Passarono i due energumeni e ci squadrarono ben benino, ma dopo aver appurato che la
situazione era tranquilla, se ne andarono, senza però perderci di vista.

Mi abbracciò senza preavviso , ma ero confusa e preoccupata, perciò, nonostante avessi evitato di farlo
mettere in punizione, lo spinsi via. La situazione non era cambiata per me.

Provò ancora a convincermi che il problema era diverso da come pensassi, che non era colpa sua. Cercò
anche di parlarmi per un po’, ma una volta capito che non avevo intenzione di contrattare se ne andò.
Sentii dei singhiozzi, so che mi comportai come una persona orribile, ma non riuscii a fare altro.

L’ora di cena arrivò rapidamente. Toccai a malapena il cibo, ma nessuno fece domande, a nessuno
importava seriamente. Era tornata la ragazza di cui Enrico mi aveva molto parlato: Irene. Ne ricordai il
nome solo grazie alle infinite volte che venne chiamata a destra e a manca dagli amici per “darle il
bentornato”.

Lei mi guardò storto per tutta la cena, forse per inquadrarmi, forse per giudicarmi, non potevo saperlo. Non
mi importò. Di tutti i problemi, quello era sicuramente il meno importante.

Così tornai in camera a testa bassa, mi buttai a letto nel buio della sera e chiusi gli occhi.

Molti fattori, oltre ai dubbi ed ai pensieri, mi impedirono di dormire quella notte; le urla, la gente che
entrava e usciva dalla stanza – nonostante i vari richiami degli aguzzini – ma soprattutto… Benedetta.

Entrò in camera e strillò, pianse e fece gracchiare la sua fastidiosamente acuta voce. Non ne seppi mai il
motivo e non ne fui mai veramente interessata, mi bastò essere riuscita a sopportarla.

E fu abbastanza per rendermi fiera di me.

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