Il giovane delle Terre del Verno

di _Polx_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un muto usignolo ***
Capitolo 2: *** Una scultura d'angelo ***



Capitolo 1
*** Un muto usignolo ***


 
Vi era un giovane appartenente a una boriosa combriccola di pupilli d'alto lignaggio discendenti, tale era la comune convinzione, da genti originarie delle Terre del Verno, ma stabilitesi in passato sul confine di Ponente. I titoli nobiliari avevano da tempo perduto il proprio valore, ma così non era per gli ingenti patrimoni che vantavano e per la grande influenza decisionale di cui godevano su tutte le questioni politiche della regione. Avevano la libertà di agire come più aggradava loro, nel rispetto o nel disprezzo, nel buon senso o nella noncuranza.
Quei protetti godevano di grande rispetto e i locali li onoravano e riverivano. Era chiaro a tutti fuorché a loro, tuttavia, che tale stima mascherasse preoccupazione e soggezione da parte dei popolani, i quali temevano che, per capriccio o diletto personale, essi potessero in qualsiasi momento accanirsi contro i comuni cittadini.
Vi era anche una giovane bella e misteriosa sulla quale lo scapestrato gruppo aveva posato gli occhi con particolare attenzione e proprio quel ragazzo fu scelto perché le si presentasse e giovasse liberamente delle sue virtù, qualsiasi mezzo fosse necessario impiegare per conquistarle.
Tuttavia, per lui non fu difficile. Non dovette abbassarsi né al ricatto, né all'inganno, né tanto meno a costrizioni, poiché era un giovane di bell'aspetto, i capelli dorati e gli occhi turchesi degli uomini del nord, e la fanciulla era sola, isolata da gran parte del mondo a causa delle sue bizzarrie e, per questo, innocente e ingenua.
Non parlava, come fosse muta, pure udiva ogni cosa e lui rideva rudemente mentre la vedeva gesticolare nel disperato tentativo di farsi comprendere, perché ben poco interesse vi era in quel ragazzo per ciò che lei aveva da dirgli. Tuttavia, era splendida e i suoi modi garbati per natura, sebbene fosse cresciuta in un ambiente modesto, non certo logorato dalla terribile povertà che affliggeva taluni contadini, ma altrettanto lontana dal lusso. Solo quindici anni gravavano sulle sue spalle e un paio in più erano quelli che lui portava su di sé. Trascorse ben dieci giorni nella sua piccola e accogliente dimora, come fosse un nobile signore desideroso di sfuggire per qualche tempo agli agi della sua ricca città tra le braccia di una creatura gentile e fragile che subito se ne invaghì, per suo diletto.
Venne accolto a festa dagli amici quando tornò e da quel momento più non si preoccupò della giovane muta, ma in pochi anni cominciarono a spargersi voci insolite, che di lei parlavano e a lui si riferivano, pur dilagando con discrezione, così che il facoltoso pupillo non potesse udire i nomi di coloro che le diffondevano né assistere direttamente ai discorsi che su di esse si concentravano.
Era consapevole di poterle ignorare e, anzi, sarebbe stato per lui tanto conveniente quanto opportuno, ma la curiosità e il dubbio crescente lo convinsero a mettere da parte l'indifferenza e, per la prima volta in tre anni, tornò a bussare alla porta della ragazza senza voce.
Gli occhi di lei si fecero grandi di sorpresa e timore quando lo riconobbero e, quale che fosse il motivo, non desiderava che varcasse la soglia. Nonostante ciò, i gesti della giovane erano contenuti, il suo sguardo inquieto ma rispettoso, sia in nome dell'amore acerbo che ancora provava nei suoi confronti, sia a causa della paura che l'aveva pervasa.
Non fu difficile per lui costringerla da parte e farsi avanti quel tanto che bastava per entrare in casa. Vide così ciò che la giovane nascondeva con tanta apprensione ed era una bambina splendida, di circa due anni, immersa nel gioco nonostante la presenza dell'estraneo, i capelli fulvi come quelli della madre e grandi occhi turchesi che lui riconobbe.
Subito la giovane si frappose a loro e il suo volto era rigato di lacrime disperate, mentre già prefigurava il più crudele dei destini cui la figlioletta avrebbe dovuto far fronte. Gesticolava freneticamente, come preda di un'improvvisa follia, ma non veniva compresa e l'animo di lei si incupì ancor più quando ne fu consapevole. Strinse la piccola a sé e non badò a lui che, senza proferir parola, voltò loro le spalle e se ne allontanò.
La giovane non dormì quella notte, né lasciò la figlia sola per un istante, ma nulla accadde e fu al contempo turbata e sorpresa quando, al tramonto del giorno successivo, lui tornò e rimase per qualche ora in loro compagnia. Poneva domande e cercava di dialogare, ma la ragazza non sapeva come fare e quando le propose di scrivere ciò che desiderava comunicargli, l'espressione sconsolata di lei lasciò intendere che vederla compiere un gesto simile fosse impossibile quanto sentirla cantare.
La nascita della piccola erede illegittima aveva reso il suo isolamento ancor più ferreo. Ciò fu chiaro quando il ragazzo si rivolse alla bambina e comprese che non sapeva parlare o, peggio, non capiva le sue parole, poiché mai ne aveva udite prima di allora.
La condotta che lui mantenne da quel momento in avanti stupì molto la giovane.
Ogni giorno tornò da loro, solitamente all'imbrunire, per andarsene quando la piccola prendeva sonno o, talvolta, per restare fino al mattino seguente e, avendo lui un nome stimato e una libertà negata a molti, mai ciò gli fu impedito.
Imparò il bizzarro linguaggio della fanciulla muta così come insegnò a lei a leggere e scrivere e, poiché era più svelta e arguta di quanto lui stesso non fosse, il giovane finalmente apprese il suo nome quando poté leggerlo sulla carta.
“Brya” disse e gli occhi di lei si colmarono di lacrime, perché da anni non aveva il piacere di udirlo dalle labbra di qualcuno.
La bambina non possedeva un nome: mai Brya aveva avuto modo di insegnargliene uno.
Lui la chiamò Dyré e presto la piccola parlò speditamente.
Quando tra loro vi fu confidenza e il giovane comprese discretamente i gesti di Brya, le chiese come avesse perso la facoltà di parlare e lei mostrò un segno sulla sua gola che lui aveva già notato: una cicatrice spessa e profonda, residuo di un trauma crudele che l'aveva irrimediabilmente ammutolita. L'amministrazione locale le concedeva fondi sufficienti a vivere dignitosamente e la possibilità di risiedere nella dimora dei genitori deceduti, perché non aveva altre fonti di sostentamento e, figlia di artigiani mesti e ordinari senza più dote nonché vittima d'una menomazione che la faceva apparire tonta e ottusa agli occhi di tutti, mai avrebbe trovato marito.
“Non sei affatto ottusa” ribatteva lui “hai anzi molto più senno e consapevolezza di gran parte delle dame che io conosco e che non potrebbero competere con la tua mente, se solo aveste modo d'incontrarvi” ma a quelle parole lei si sbeffeggiava. Mai lui si sarebbe abituato al suo riso, che le illuminava il volto come luce eppure taceva come la più buia delle notti.
Al di fuori del piccolo nucleo, tutti sapevano quanto accadesse, ma nessuno ne faceva parola e il giovane sosteneva con piacere tale indifferenza, per quanto forzata essa fosse. Solo sua madre mostrava con sempre maggior ferocia il proprio disappunto. Lo redarguiva con amarezza e non sopportava il disonore piombato sulla loro famiglia ad opera di una povera campagnola e della sua figliola naturale: “abbi la decenza d'insegnarle a chiamarti signore, in presenza d'altri”.
Tale era la considerazione che aveva della piccola e mai vacillava nell'esprimere apertamente il proprio pensiero, ma a quelle parole il giovane si rizzò rigido come pietra e la guardò con occhi ancor più algidi: “mai Dyré mi ha chiamato signore e mai dovrà farlo” fu la sua risposta “né mi chiamerà per nome: sono suo padre ed è giusto che mi tratti come tale”.
“Perché tu sia suo padre, lei dovrebbe essere tua figlia”.
“E così è”.
“Piuttosto, direi che è la tua bastarda”.
“Non osare” la zittì indignato e più non volle parlarne con lei.
Ne ignorò le insistenze finché gli fu possibile ma, prossimo che fu il quarto compleanno di Dyré, ormai saturo di tanti rimproveri, prese una decisione che molti avrebbero considerato folle.
 

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Capitolo 2
*** Una scultura d'angelo ***


 
 
Brya pianse di stupore e angoscia quando le chiese di sposarlo e pareva persino volerlo cacciare di casa. Era troppo in angoscia per rispondere lucidamente alle sue domande, che insistentemente le chiedevano perché mai ripudiasse con tanta tenacia la proposta. Pur gesticolando freneticamente, un concetto baluginava in continuazione sulle sue labbra mute: “potrei solo essere tua serva, non tua sposa”.
Data la rapidità con cui agitava le mani, lui faticò a coglierne il significato, ma quando infine lo comprese vi si oppose fermamente: “mai sei stata una serva e mai lo sarai. Inoltre desidero che Dyré cresca come una dama e non come una rinnegata”.
Parlarono per una notte intera e il ragazzo disperò di convincerla, ma infine vi riuscì e in lui fu grande sollievo.
Nelle settimane a venire la discrezione del giovane divenne assai meno risoluta, mentre sua madre si faceva sempre più arcigna e ostile nei confronti suoi e dell'orfana di campagna che disprezzava. Più tale astio diveniva palese, più lui ostentava i propri propositi, tanto che cominciò a condurre Dyré nella tenuta di famiglia, dove divenne presto favorita di damigelle e servitù, sia per la bellezza del suo volto che per la dolcezza del suo carattere.
Un giorno ve la lasciò per tornare in tranquillità alla casa di Brya e, prevedendo di dover impiegare grandi doti persuasive e immensa pazienza, convincerla della necessità che lei stessa visitasse e conoscesse la sua dimora.
Ancora camminava per i quieti sentieri che come rigagnoli estivi percorrevano quelle contrade quando, oltre la coltre di faggi, scorse una colonna di fumo ergersi minacciosa contro il cielo plumbeo.
Subito temette che originasse dalla dimora di Brya e vi si precipitò: non solo trovò la casa in fiamme, ma fu accolto da un gruppo di uomini in armatura di cuoio, sulla spalla sinistra lo stemma dei mercenari di Levante. Brya era tra loro, il volto sanguinante e le vesti lacere. Il primo istinto del giovane fu accorrere da lei e trascinarla con sé, lontano dalle mani di quegli aguzzini, e non osava immaginare cosa le avessero fatto fino a quel momento, ma proprio la distrazione della foga gli impedì di scorgere il mercenario alla sua destra, che gli colpì le gambe a tradimento e lo costrinse in ginocchio. Poiché cercò immediatamente di rialzarsi, bastonarono la sua schiena con tale forza da mozzargli il fiato e gli torsero le braccia così da tenerlo prigioniero: tre occorsero per domarlo. Pure, il loro capo rideva di lui e, presa Brya per i capelli, costretta che l'ebbe a chinarsi al suo fianco, estrasse il pugnale dalla cintura e disse: “tardi giungi per unirti alla festa, ma non temere per la tua donna: ha assolto egregiamente al proprio compito. Con piacere ti mostrerò quanti quest'oggi ne hanno giovato, dopodiché la riconsegnerò a te” e pugnalò il ventre di lei sette volte, quanti erano i mercenari che avevano fatto scempio della loro casa. Tali furono l'orrore e lo sgomento nell'animo del giovane che non cercò di opporsi e neppure di urlare: le sue giunture erano di pietra e il suo cuore stretto in una morsa di spine e fuoco.
Poi lo colpirono duramente alla nuca e il buio lo avvolse.
Quando si risvegliò, non era che a pochi passi da Brya, abbandonata accanto ai ruderi della casa, tra il sangue che impregnava la terra e le insudiciava le vesti.
Lui brancolò carponi e il dolore lancinante alla testa gli causò forti conati, ma infine arrancò in piedi e si precipitò da lei, i cui occhi parevano vuoti come vetro sebbene l'avessero a lungo fissato mentre giaceva al suo fianco.
Scoprì che in lei era ancora vita, ma non sapeva che fare: premette con la destra sulle numerose ferite, ma non vi era modo di contrastare l'emorragia e nessun aiuto sarebbe accorso in tempo. Nonostante il panico e la paura cocente, la sua mente era lucida: “senti ancora dolore?” le chiese, sperando che il torpore l'avesse ormai pervasa.
Brya mosse debolmente due dita e tristemente lui vi colse una risposta affermativa.
Sperò a quel punto che le fiamme non avessero toccato ciò che era sotto terra e corse tra le vertigini alla caditoia che immetteva nello scantinato. Fortunatamente, nulla vi era stato guastato e lì trovò presto un vaso in terracotta colmo d'un olio acre che il padre di Brya soleva impiegare sugli animali prossimi al macello o alla morte naturale, così da assopirne i sensi e dar loro una fine serena. Era vecchio, ma conservato con cura e certamente avrebbe assolto al compito.
Lui vi impregnò un panno e tornò da Brya. Stracciato quel poco che restava delle vesti, premette l'unguento sulle sue ferite. Inizialmente lei si contrasse in uno spasmo e dalla sua bocca sarebbe scaturito un urlo tremendo, se solo le fosse stato possibile, ma presto sopraggiunse la quiete e il battito del suo cuore rallentò.
“Va meglio?” le chiese il ragazzo “va meglio, Brya?”.
Di nuovo mosse due dita e lui le si inginocchiò accanto. Pose il capo della giovane sulle proprie gambe, mentre la sua mano madida di sangue stringeva quella di lei.
“Allora non temere, perché io resterò con te” le disse. Fu breve il tempo in cui poté confortarla e alleviare il suo dolore, perché presto lei si spense.
A quel punto, la mente vuota, le mani tremanti, i panni pregni di ferro e porpora, il giovane tornò alla tenuta di famiglia, poiché lì era Dyré e sentiva dentro sé che nessun altro avrebbe potuto riscuotere il suo spirito e rinfrancare la sua ragione.
Tuttavia, quando raggiunse la dimora signorile, una grande calca gli impedì di oltrepassarne i cancelli se non con immenso sforzo. Insinuatosi tra i molti mormorii e i singulti delle donne che fra loro bisbigliavano e pregavano, scorse infine ciò che con tale scalpore e turbamento aveva attratto a sé tanta attenzione. Fronteggiò l'imponente portale di rovere e per lunghi istanti i suoi occhi non riuscirono a strapparvisi, poiché affissa ad esso era una figura esile, il volto intatto e bello quanto una scultura d'angelo, ma le vesti pregne del medesimo rosso intenso che ancora lordava le sue mani. La gola della piccola Dyré era infatti tagliata e molto sangue ne era sgorgato.
Mosso da una forza che non era alimentata dal suo senno, ma che con immensa fatica si districava dalla desolazione che ne raggelava l'animo, la liberò da quella costrizione e la prese in braccio, il capo di lei poggiato alla sua spalla come se lì vi si fosse addormentata. Poi, dimentico della folla, si ritirò nel palazzo.
Giunse al salone di gala, dove i raggi del sole morente inondavano i molti mosaici e alla grande tavola sedeva sua madre: vestiva già a lutto e il suo sguardo era di pietra e tenebra. Lontano da lei fu posato il corpo della bambina e, inumidito un panno, il giovane la pulì dal sangue, poiché la profonda ferita più non ne aveva da versare.
“Ciò che desideravo” disse allora la donna e la sua voce tremava nonostante volesse apparire superba e fiera “era che ti facessero rinsavire. Avevo chiesto perché uno solo di loro giungesse a me e sette hanno invaso la mia casa. Avevo chiesto che solo la donna muta fosse messa a tacere nello spirito oltre che nella voce e loro hanno dato sfogo alla peggiore delle brutalità. Li credevo servitori al mio soldo, invece sono barbari e hanno compiuto ciò che più aggradava loro, prendendosi il denaro che volevano. Non desideravo la morte di mia nipote”.
Il dolore che era in lui non sosteneva il peso di quelle parole, né sopportava di sapere che la madre fosse colpevole, pur indirettamente, di tanto orrore, così le ordinò di lasciarli e il suo fu un sussurro carico di rancore e tormento.
Solo quando lei esitò la collera esplose e con tale furia le impose di andarsene che la donna balzò in piedi e ubbidì docilmente.
Così lui rimase solo e, con la lentezza di un meccanismo prossimo al guastarsi, sedette accanto a Dyré. La guardò a lungo, mentre la mente offuscata si schiariva e i fumi del disorientamento lasciavano spazio all'oblio della consapevolezza. E infine pianse, come mai aveva pianto prima di allora.
Non assistette alle esequie, non vide il corpo di Brya e di loro figlia tumulato nella pietra o perso nei fumi di un grande fuoco. Partì durante la notte e più non tornò in quelle terre.

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