Eriu di Erebor

di Lola1991
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Eccomi! Ci riprovo con un'altra storia, che altro non è che il sequel della mia storia precedente. 
I personaggi ovviamente vanno intesi nel contesto della trama di "From the beginning". 
Vorrei fare una precisazione sulle età (considerate indicativamente come età umane):
- Frerin ha circa 20/21 anni, così come il giovane Thorin.
- Eriu non ha più di 14 anni.

Direi di aver precisato tutto... buona lettura!




Capitolo I
 

« Aspettami Eriu, stai andando troppo veloce! ».
Mi voltai per un istante e vidi la mia sorellina Morud raggiungermi a fatica, con il fiato mozzo. Soffocai un sorriso mentre lei si arrestava accanto a me, una mano premuta sul fianco.
Ci trovavamo sulla parte esterna della fortezza; un vento caldo soffiava tra i nostri capelli e muoveva dolcemente i nostri abiti colorati. Mi alzai in punta di piedi appoggiandomi ai bastioni per vedere cosa succedeva intorno alla montagna.
« Guarda! Si avvicinano! »
Anche Morud allungò il collo per osservare meglio la scena. Poco lontano varie carrozze stavano arrivando, scortate da imponenti soldati e magnifici cavalli.
« Sarà meglio avvertire nostra madre… ».
Morud mi prese la mano e mi riportò all’interno di Erebor. Scendemmo insieme le scale verso gli appartamenti di mia madre. La trovammo lì, seduta accanto al fuoco, intenta a leggere un grosso libro dall’aria polverosa.

« La delegazione dei Colli Ferrosi si sta avvicinando, madre » dissi in sua direzione, facendole un breve inchino.
Lei alzò lo sguardo sorridendo e posò il libro, venendo incontro a me e mia sorella. Il suo sguardo era sempre così tranquillo e pacifico che per un attimo mi rasserenai anche io, e l’angoscia che avevo provato fino a qualche secondo prima parve dissolversi all’improvviso.
« Dobbiamo farci trovare pronte », sussurrò dolcemente, afferrando Morud per la mano e iniziando ad acconciarle i capelli disordinati dal vento. Quando venne il mio turno sentì mia madre sbuffare e tirare la mia lunga chioma per liberarla da tutti i nodi che si erano creati. Quando ci fummo anche cambiate d’abito, guardai il mio riflesso e quello della mia sorellina allo specchio.
Non ci assomigliavamo molto: lei aveva folti capelli ramati, come quelli di mia madre, e io una lunga chioma scura e lucida. Entrambe però avevamo gli stessi identici occhi azzurri, uguali a quelli di nostro padre.
 
Mia madre ci fece affrettare fuori dalla stanza e scendemmo ordinatamente nel salone principale, dove trovammo il re, nostro padre, e i miei tre fratelli. Mio padre ci sorrise e mia madre dispose tutti i suoi figli uno accanto all’altro, in ordine di età, come se fossimo dei soldatini. Il primo era Frerin, il figlio primogenito e futuro erede, imponente e fiero come alla sua età era stato Thorin, mio padre; accanto a lui Gwáyn, con i miei stessi capelli scuri, e poi il mio fratello più piccolo, Alun, biondo come il sole, che mi schiacciò il piede mettendosi al mio fianco. Sentì la mano di Morud stringere la mia e la guardai sorridendo, cercando di sembrare coraggiosa, mentre fissavamo in silenzio il grande portone della fortezza.
 
Prima entrarono le guardie con i mano i grossi stendardi del regno dei Colli Ferrosi; il rumore degli stivali chiodati risuonò terribilmente forte all’interno della montagna, e sia io che mia sorella trattenemmo il fiato. Finalmente arrivò Dáin, seguito di qualche passo da un giovane dai capelli ramati, che doveva essere suo figlio Thorin. Aveva qualche anno in meno di mio fratello Frerin, e lo stesso comportamento composto e fiero.
Entrambi abbassarono il campo rispettosamente all’indirizzo di mio padre e di mia madre, attaccata al suo braccio; la vidi stringere le labbra e serrare più forte la mano di mio padre: una volta mi confessò di non amare particolarmente il nostro parente Dáin, ma per quanto io abbia insistito, non volle mai rivelarmi il motivo della discordia.
Dáin e mio padre parlarono brevemente, stringendosi la mano con fare amichevole; padre e figlio si inchinarono davanti a mia madre, e quindi si rivolsero a noi, mentre nostro padre ci presentava uno alla volta ad alta voce.
« Ti presento il mio primogenito, il principe Frerin », mio fratello abbassò il capo, serrando la mano a Dáin e Thorin.
« Il principe Gwáyn, il principe Alun e le principesse Eriu e Morud ».
Anche io e mia sorella ci inchinammo elegantemente, come ci aveva insegnato mia madre, tenendo con delicatezza il bordo delle gonne. Lo sguardo del giovane Thorin si soffermò più a lungo su di me, e mi mise a disagio. Abbassai gli occhi mentre le guance mi si coloravano di rosso.

Mio padre e Dáin ci congedarono e seguiti dai membri del consiglio si ritirarono nel Grande Salone, mentre a noi fu dato il permesso di allontanarci. Io e mia sorella camminammo per molto tempo prima di poter parlare liberamente di quell’incontro.  
« Non mi piace Dáin. Nostra madre ha ragione a disprezzarlo », sentenziò mia sorella lasciandosi cadere sul bordo del letto.
« Neanche quel Thorin mi piace granché… », ribattei io, riprendendo fiato.
« Tu però sembravi piacergli molto ».
Mia sorella fece un’espressione maliziosa, e per un attimo nella mia mente rividi lo sguardo che mi aveva riservato il giovane principe, e mi trovai improvvisamente a rabbrividire.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II


La delegazione dei Colli Ferrosi si trattenne per qualche giorno, ma dovetti sopportare la compagnia di Dáin e del suo seguito soltanto a cena, perché per il resto della giornata i nani sembravano troppo impegnati nelle loro lunghe trattative.  
Li vedevo uscire e entrare nelle sale del Consiglio, seri e scuri in volto, mentre parlottavano a bassa voce, e io e mia sorella chinavamo rispettosamente il capo, prima di precipitarci un’altra volta fuori dalla fortezza per goderci il sole primaverile.
Non capivo di cosa discutessero così a lungo, e in realtà me ne importava poco; anche mio fratello Frerin partecipava assiduamente a quelle riunioni, in quanto erede al trono, ma quando a sera tarda i miei fratelli lo supplicavano curiosi di dire loro ciò che era stato deciso tra i membri del consiglio, lui alzava le spalle e rispondeva soltanto: « Cose importanti ».

Il giovane principe Thorin, figlio di Dáin e nostro cugino, non era un nano di molte parole: a cena teneva spesso il capo chino e non parlava quasi mai, al contrario del padre, che – specialmente dopo numerosi boccali di birra – diventava irrequieto e molto chiassoso. Una sera lo vidi alzarsi sulla panca della grande tavolata e indire una gara di resistenza, e giurò di consegnare enormi montagne d’oro a chi avesse bevuto di più a quel tavolo senza svenire. Anche mio fratello Gwáyn partecipò, ma la gara non continuò a lungo: dopo tre boccali colmi di birra, Dáin si addormentò pesantemente sul tavolo con un tonfo sordo, e io cercai di soffocare la mia risata nella ciotola di minestra quando vidi l’espressione disgustata sul volto di mia madre.
 
Una mattina il nostro precettore concesse a me, Alun e Morud di uscire all’aria aperta, perché l’umidità estiva era penetrata nel castello e faceva decisamente troppo caldo per studiare.
Afferrai uno dei miei libri preferiti e mi diressi sul tronco basso di un albero all’ombra, mentre mio fratello e mia sorella giocavano poco distanti. Ero così immersa nella lettura che non mi accorsi del giovane che si avvicina e mi si sedeva accanto. Per un attimo pensai si trattasse di uno dei miei fratelli, ma quando finalmente alzai lo sguardo dal libro mi accorsi che i suoi capelli erano decisamente troppo rossi per essere uno della mia famiglia. Era il principe Thorin.
Istintivamente allungai la gonna e mi rassettai la veste. Lui sorrise impercettibilmente: era la prima volta che non lo vedevo serio e composto. Rimasi in silenzio, in attesa che dicesse qualcosa, e mi sistemai meglio sul basso tronco che ci ospitava.
« Ti piace molto leggere ».
La sua non era una domanda, ma un’affermazione. Deglutii senza aprir bocca; la sua presenza mi metteva incredibilmente a disagio e i suoi occhi grigi erano impossibili da decifrare. Lui parve capire il mio imbarazzo, ma rimase ancora a fissarmi qualche istante. Le mie guance erano diventate scarlatte dalla vergogna, e lui le sfiorò con un dito, delicatamente.
« Andrai bene », disse, ritraendo la mano; poi si alzò e si allontanò in fretta.
 
Non capii il senso di quella frase o di quell’incontro, e rimasi parecchi minuti immobile, incapace di parlare, chiedere o fare qualsiasi cosa. Cosa voleva dire Thorin? Qual era il significato della sua frase? Cercai istintivamente lo sguardo di mia sorella, ma lei e Alun non si erano accorti di nulla, presi com’erano a giocare sul prato verde.
Chiusi il libro e corsi dentro la fortezza. Dovevo cercare l’unica persona che avrebbe potuto spiegarmi il significato di quel comportamento e di quella frase: mia madre. Non era nella sala consiglio, e nemmeno nella biblioteca. Mi recai direttamente nella sala reale e puntai dritta nella stanza dei miei genitori. Ancora prima di avvicinarmi, sentii la sua voce urlare, insieme a quella di mio padre. Era chiaro che stessero discutendo animatamente, e mi avvicinai in silenzio alla porta per origliare il motivo di quel litigio.
 
« Non puoi! Ti supplico Thorin, non farlo! ».
La voce di mia madre era isterica e colma di lacrime. Mi si mozzò il fiato: non l’avevo mai sentita parlare così.
« Non abbiamo altra scelta, Laswynn. Sapevamo che questo momento sarebbe arrivato prima o poi », rispose a voce bassa mio padre.
« Ma non da loro! Lui mi odia, lo sai, e suo figlio non sarà tanto meglio. E’ troppo piccola! ».
« Dáin non le torcerà nemmeno un capello, te lo assicuro. Deve andare da loro ».
 
Continuavo a non capire. Di chi stavano parlando? A chi Dáin avrebbe potuto fare male? Sentii mia madre singhiozzare, e dallo spiraglio della porta vidi mio padre circondarla in un abbraccio e baciarle la testa. Continuavo a non capire e mi allontanai di qualche passo. Notai improvvisamente mio fratello Frerin, che mi fissava. Mi aveva visto origliare la conversazione dei nostri genitori, e si premette un dito sulle labbra, intimandomi di seguirlo. Mi trascinò in una stanza poco distante.
« Perché mamma e papà litigano così? Di chi stavano parlando? » chiesi non appena ci trovammo soli, con voce carica d’ansia.
Frerin mi guardò alzando un sopracciglio. « Non hai ancora capito? ».
Lo guardai allarmata, incapace di rispondere e sgranando gli occhi.
« Papà e Dáin hanno firmato un accordo di pace. L’accordo prevede che tu vada sui Colli Ferrosi e che sposi suo figlio, il principe Thorin ».
 
Il mondo mi crollò improvvisamente addosso.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III
 
Non ricordo cosa successe dopo. Mio fratello andò a chiamare mia madre, e le disse che avevo scoperto tutto; lei mi abbracciò e tentò di consolarmi, ma io non riuscivo a comprendere ciò che diceva. Mio padre mi guardò con occhi colmi di tristezza e mi disse che sarebbe andato tutto bene, che io ero una principessa di Erebor, e che il mio futuro sarebbe stato radioso.
Il fidanzamento venne annunciato la sera successiva, a cena; Dáin afferrò suo figlio e pose la sua mano nella mia, mentre la tavolata applaudiva entusiasta. Mia madre si teneva così forte al legno del tavolo che vidi le sue mani sbiancare. Frerin, Gwáyn e Alun applaudirono e fischiarono contenti, mentre negli occhi della mia sorellina Morud vidi solo un grande dolore. Forse capì solo in quel momento che avrei dovuto lasciarla per sempre.
Il principe Thorin, al mio fianco, si limitò a sorridere e a sventolare la mano imbarazzato, mentre il mio viso era di pietra; non mi degnò di uno sguardo e, dopo l’annuncio, continuò a mangiare e bere come nulla fosse.
 
L’accordo tra Dáin e mio padre prevedeva che io restassi ad Erebor per altre dieci lune, perché ero ancora troppo piccola per potermi sposare; una volta passato il periodo concordato, sarei stata condotta sui Colli Ferrosi e vi sarei rimasta per la preparazione alle loro tradizioni, in attesa del matrimonio che mi avrebbe reso moglie del futuro signore di quelle terre.
Quando la delegazione di Dáin finalmente partì, tirai un sospiro di sollievo. Il principe Thorin mi fece un breve cenno del capo prima di allontanarsi, e suo padre mi strinse forte le mano, sussurrando: « Immagino che ci vedremo molto presto ».
Sfiorai con la mano le pareti luminose della fortezza e mi guardai intorno. Erebor era la mia casa, e solo ora che stavo per lasciarla capii quanto fosse importante per me, e quanto mi sarebbe mancata.
Il periodo che precedette la mia partenza fu doloroso e amaro; tutti cercavamo di comportarci come se nulla fosse, ma giorno dopo giorno fremevo al pensiero di dover lasciare la mia famiglia. Cercavo di essere coraggiosa e tenevo la testa alta; ogni tanto, di notte, mia madre entrava silenziosamente nella mia camera e si sdraiava accanto a me e mi accarezzava i capelli come faceva quando ero molto piccola, per farmi addormentare; quelle notti piangevo tutte le mie lacrime e al mattino mi sentivo completamente vuota.
 
Anche mio padre passava più tempo con me: con la scusa di accertarsi del mio rendimento, mi guardava prendere lezioni e mi accompagnava tenendomi sottobraccio per il parco della fortezza, e benché sembrasse molto allegro, riuscivo a scorgere il dolore in quei suoi occhi azzurri, così simili ai miei.
« Mi dispiace molto che tu debba lasciarci », mi confessò amaro un pomeriggio d’autunno, stringendo più forte la mia mano nella sua. Lo guardai meravigliata: raramente mio padre mostrava i suoi sentimenti o confessava le sue emozioni; vedevo nel suo sguardo un affetto sincero e profondo, e improvvisamente ritornai bambina, e ricordai quando mi faceva salire sulle sue ginocchia e lasciava che gli tirassi le lunghe trecce corvine.
« Mi mancherete molto anche voi » risposti mesta, cercando di trattenere le lacrime.
« Tua madre è ancora molto in collera con me ».
Lo guardai meravigliata e alzai un sopracciglio. Lui prese un grande respiro prima di rispondere.
« Vedi, Eriu, ci sono cose che tua madre non vi ha mai confessato. Lei ha vissuto sui Colli Ferrosi, con il suo primo marito ».
Per un attimo boccheggiai. Non potevo credere a quelle parole… per tutta la vita, l’amore tra mio padre e mia madre era stata una certezza, uno spiraglio di luce, un esempio da seguire. Ora venivo a scoprire che mia madre era già stata sposata in precedenza, per di più sui Colli Ferrosi.
« E’ per quello che è così arrabbiata. E’ stato Dáin a combinare il suo matrimonio, e quei due non mai andati d’accordo… ».
« Ma cosa successe al primo marito di amad? »
« Lei venne con lui sui Colli Azzurri, dopo che Erebor era stata distrutta. Allora eravamo ancora molto giovani, e io la amavo da moltissimo tempo, pur sapendola moglie di un altro ». Mio padre prese a fare qualche passo, soppesando e scegliendo con cura le parole del suo racconto.
« Hai studiato con il precettore la battaglia di Azanulbizar… il marito di tua madre partecipò con noi per difendere Moria, e morì trafitto da una spada, nel tentativo di proteggermi. Pensavo di odiarlo, perché mi aveva portato via tua madre, ma non dimenticai mai quel gesto. Mi salvò la vita ».
« Ma… amad lo amava molto? » chiesi con un sussurro.
Lui mi guardò dolcemente e mi accarezzò la guancia. « No, ma gli era molto affezionata. Abbiamo chiamato tuo fratello Gwáyn in suo onore ».
Guardai a terra, sconsolata. Ascoltare il dolore che dovettero sopportare i miei genitori per stare insieme mi fece sentire ancora più triste e amareggiata per quello a cui stavo andando incontro.
Mio padre parve intuire la mia angoscia.
« Non temere, bunnanunê*. Le cose si risolvono sempre per il meglio, alla fine ».
Sperai con tutta me stessa che le parole di mio padre fossero vere.
 
Il periodo concordato passò velocemente e a malincuore mi ritrovai a fare i bagagli e mettere via tutte le mie cose più preziose, pronta – come potevo esserlo a quell’età – a diventare una moglie buona e obbediente.
Non sapevo come comportarmi; non sapevo cosa dovesse fare una buona moglie, né quale fosse esattamente il compito di un marito e futuro signore. Ero una principessa, ma il mio ruolo fino a quel momento ad Erebor era stato del tutto marginale. I miei genitori mi dissero solo di essere prudente e di assecondare il giovane Thorin, e di essere gentile con lui e la sua famiglia; mi vennero date nuove vesti e nuovi gioielli e mi fu insegnato ad acconciarmi i capelli come una donna.
 
Avevo sperato che mia madre potesse accompagnarmi, ma lei aveva giurato che non avrebbe mai più messo piede sui Colli Ferrosi. Mio fratello Frerin si offrì come scorta, insieme a mio cugino Fili.
 
Fu così che una grigia mattina primaverile lasciai la fortezza di Erebor per iniziare una nuova vita. Mia madre e mio padre mi abbracciarono a lungo, e promisero che sarebbero venuti almeno per il mio matrimonio. Diedi un buffetto sulla testa bionda di Alun e una carezza sulla guancia di Gwáyn, e piansi a lungo quando dovetti staccarmi dalla mia sorellina Morud, con cui avevo condiviso tutto da quando ero nata. Salii sulla carrozza e guardai un’ultima volta Erebor e mi si strinse il cuore quando le mani sventolanti dei miei fratelli e di mio padre e le lacrime di mia madre e mia sorella non furono più visibili all’orizzonte.




Eccomi!
Questa storia sta procedendo moooooooolto lentamente, un pò perché la sto scrivendo nei pochi momenti liberi che mi ritrovo, un pò forse per scarso interesse di letture/followers... 

Sono indecisa se terminarla o meno... una decisione che devo ancora prendere!


*'my little treasure'

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV


Il viaggio fu più lungo di quanto mi aspettavo; passammo attraverso paesaggi brulli e terre desolate. Durante il giorno ci riposavamo due o tre volte, per dare ristoro ai cavalli, e il viaggio procedeva lentamente e monotono. Nella carrozza principale stavamo io, Fili e mio fratello; seguivano due soldati di scorta e un secondo carro, che conteneva la mia dote: armi appena forgiate, gioielli splendenti e una cassapanca in legno finemente lavorata, dono personale di mio padre.
Non mi ero mai spinta così lontano e la stanchezza del viaggio si fece sentire molto presto. Fili cercava di distrarmi; lui conosceva meglio di me e Frerin quelle terre, perché aveva accompagnato mio padre in lungo viaggio insieme all’altro mio cugino, Kili, molto tempo addietro.
Eppure non riuscivo a meravigliarmi di tutti quei paesaggi, degli altopiani verdeggianti e delle foreste fitte. Il pensiero di ciò che mi attendeva risucchiava in me ogni briciolo di felicità.
 
Passavamo da un villaggio a un altro, e cercavamo alloggio per la notte nelle taverne degli uomini. Erano abbastanza gentili con noi, eppure la loro presenza mi metteva a disagio: ero cresciuta in un mondo di soli nani, e quei loro modi grezzi e incredibilmente selvaggi mi facevano rabbrividire.
 
Giungemmo sui Colli Ferrosi circa dieci giorni dopo la nostra partenza da Erebor. Mi ero fermata in una locanda vicina e avevo avuto la possibilità di lavarmi il viso, acconciarmi i capelli e cambiarmi d’abito; indossavo una veste leggera di lino azzurro che mi era stata donata da mia madre. Scesi tremante stringendo forte la mano di Fili, mentre i soldati annunciavano il nostro arrivo.
I Colli Ferrosi non erano come Erebor; non era una fortezza, ma un vasto villaggio. Le case erano costruzioni basse, in pietra, e dalle finestre e dalle porte facevano capolino volti curiosi e sorridenti. Cercai di sorridere a mia volta, ma mi sembrava che il mio viso si fosse completamente paralizzato.
 
La casa di Dáin sorgeva al centro esatto delle altre abitazioni; era una costruzione alta, a più piani, e ovunque sventolava lo stendardo di quella famiglia che oramai dovevo considerare come mia. Percorremmo silenziosamente il sentiero di sassi che conduceva all’ingresso. Mio fratello Frerin precedeva me e Fili, e fui presa dall’idea di voltarmi e scappare a gambe levate. Sapevo di non poterlo fare, ma in quel momento mi sembrava l’unica soluzione possibile. Sentii la solita nausea serrarmi la bocca dello stomaco.
Non ero altro che una sposa con il suo corredo: non ero me stessa, ero una proprietà dei Colli Ferrosi.
 
La gente si affollava curiosa intorno a noi e gli abitanti si davano energiche gomitate, indicandoci apertamente e salutandoci con fare gioioso. Dall’entrata dell’abitazione riconobbi la chioma rosso fuoco di Dáin e il suo portamento così poco elegante.
Dietro di lui avanzava il giovane figlio, il principe Thorin, vestito splendidamente di abiti scintillanti. Abbassai lo sguardo nervosa, cercando di nascondermi dietro le spalle larghe di Frerin, come facevo da piccola per difendermi dalle punizioni del nostro precettore.
Thorin affiancò il padre e salutò mio fratello e mio cugino; poi mi si rivolse direttamente: « Mia signora e sposa, benvenuta nella mia casa. Possa tu esservi sempre felice e possa questo giorno essere gioioso per te come per me ».
Aveva tutta l’aria di essere un discorso imparato a memoria, perché non riuscii a distinguere nessun tipo di gioia nei suoi occhi. Presi fiato e risposi a mia volta, alzando la voce:
« Ti ringrazio. Come vedi, ti ho portato la dote promessa: armi e gioielli ».
« Quante armi? » chiese prontamente Thorin, allungando il collo oltre la nostra carrozza.
Feci una smorfia. Era davvero necessario che mi facesse capire che teneva più alle armi che a me? Lui parve capire il mio nervosismo, poiché si affrettò a cambiare argomento.
« Permettetemi di invitarvi dentro. Avete fatto un lungo viaggio. »
 
Lo seguimmo un’altra volta all’interno della casa, e tesi la mano per toccare il muro di pietra. Sembrava una solida costruzione e prometteva sicurezza**. Guardai mestamente Fili che ricambiò il mio sguardo sorridendo e infondendomi coraggio.
Un banchetto era stato preparato in nostro onore, e risi molto quando vidi lo sguardo famelico di mio cugino e mio fratello alla vista di tutto quel cibo dall’aria squisita: durante il lungo viaggio fino ai Colli Ferrosi ci eravamo dovuti accontentare di frutta, noci e qualche lepre, quando avevamo fortuna.
Dáin sedeva all’estremità della lunga tavolata, e vicino a lui stava una nana dall’aspetto burbero, il cui velo non riusciva a nascondere totalmente il viso segnato da profonde rughe. Immaginai che fosse la moglie e mi avvicinai, inchinandomi rispettosamente.
« Raghnaid, ti presento la giovane Eriu, figlia di re Thorin » disse giovialmente Dáin, strizzandomi l’occhio.
Raghnaid non sembrò voler proferir parola e mi congedò con un breve cenno del capo. Aveva occhi identici a quello del figlio, e lo stesso sguardo indecifrabile, freddo come un muro di pietra.
In quel momento pensai che farmi accettare sarebbe stato più arduo di quanto mi aspettassi.
 
Dopo aver mangiato Dáin si alzò – un po’ barcollante a causa di tutta la birra e del cibo che aveva trangugiato – e annunciò nuovamente il fidanzamento; io e il giovane Thorin fummo costretti un’altra volta a fingere di essere estasiati al pensiero di quell’unione. Sicuramente lo eravamo meno degli abitanti dei Colli Ferrosi: il legame con Erebor avrebbe garantito loro protezione in caso di attacco e scambi commerciali proficui.

A nessuno sembrava importare del fatto che io avessi dovuto abbandonare la mia famiglia affinché tutto ciò si avverasse.



** Passo tratto da 'Le nebbie di Avalon' di Marion Zimmer Bradley

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V

 
Frerin e Fili fecero ritorno a Erebor dopo appena qualche giorno, e vederli partire fu per me un enorme dolore: ora ero davvero sola, senza famiglia e senza amici. Li salutai disperata e non feci nessuno sforzo per trattenere le lacrime; ero devastata. La gente dei Colli Ferrosi mi guardava con sospetto e quei volti sorridenti e incoraggianti che mi avevano accolto appena qualche tempo prima sembravano del tutto spariti.
Dáin mi fece sistemare in una delle stanze della grande casa in cui vivevamo, dal lato opposto rispetto alla sua o a quella del giovane Thorin. La stanza era molto più piccola di quella che condividevo ad Erebor con la mia sorellina Morud, e, soprattutto, incredibilmente vuota.
 
I mesi che precedettero il mio matrimonio si protrassero a lungo. Sui Colli Ferrosi non succedeva mai nulla di nuovo, e Thorin raramente mi rivolgeva la parola. 
Mi sentivo una straniera in casa d’altri.
A un istitutore fu imposto di insegnarmi le tradizioni e le leggi del regno; probabilmente si aspettavano di educare una principessina viziata e poco incline allo studio, ma con una certa soddisfazione dimostrai di conoscere molte più cose della maggior parte delle giovane nane della mia età, e probabilmente anche di Thorin stesso.
Non mi era permesso allontanarmi dal villaggio, né passeggiare da sola. La libertà di cui godevo a Erebor era oramai per me un lontanissimo ricordo.
 
Avevo però uno spiraglio di luce: Bronnen. Mi fu affidata per aiutarmi nelle piccole faccende di tutti i giorni, e in poco tempo divenne il mio unico supporto morale. Aveva lavorato per D
áin, e prima ancora per suo padre, per moltissimo tempo, e le rughe che circondavano i suoi occhi color miele certo lo dimostravano. La sua voce era calda e la sua pelle profumava sempre di lavanda; mi trattava come fossi sua figlia, perché lei – come mi raccontò un giorno – non ne aveva mai avuti.
La sua presenza mi confortò nelle lunghe e interminabili giornate sui Colli Ferrosi, quando la mancanza della mia famiglia mi pesava come un macigno sul cuore.
« Perché quello sguardo triste, mia askad? **», mi chiedeva accarezzandomi i lunghi capelli scuri, « Siedi accanto a me a bere un decotto di erbe ».
 
Il giovane Thorin sembrava del tutto ignaro della mia presenza nella sua stessa casa, o comunque non del tutto interessato. A cena, quando la famiglia si riuniva e io mi sedevo accanto a lui, non dava segno di voler conversare con me, e lasciava la tavolata prima che tutti avessero terminato. Il mio matrimonio sembrava destinato a fallire prima ancora di cominciare.
A volte mi chiedevo se Thorin si comportava così perché non mi trovava bella. Un giorno decisi di parlarne con Bronnen.
« Bronnen… credi che io sia brutta? » domandai tristemente, mentre lei mi pettinava i capelli con delicatezza.
Emise uno sbruffo divertito e la sua risata dolce mi calmò all’istante.
« Non dire sciocchezze, bambina. Sei la principessa più bella che io abbia mai visto ». Mi strinse la spalla con fare affettuoso, continuando meticolosamente a districare i nodi della mia chioma corvina.
« Ma il principe Thorin… » inizia mordicchiandomi un labbro.
« Il principe Thorin! » mi interruppe Bronnen, alzando gli occhi al cielo. « Il principe Thorin è troppo impegnato su sé stesso per notare chiunque altro. Dovrebbe ritenersi fortunato a avere accanto a sé una promessa sposa così graziosa ».
 
Doveva ritenersi fortunato, certo… ma non dava nessun segno di volerlo dimostrare.
 
*

Il giorno del mio matrimonio si avvicinava, e notte dopo notte mi svegliavo in preda a incubi terribili. Quando erano entrate nella mia stanze per prendere le misure del mio abito nuziale, le sarte non avevano smesso di parlare della vita coniugale e del ruolo che una buona moglie – secondo loro – avrebbe dovuto ricoprire.
Alcune di loro mi avevano spaventato: mi auguravano sopravvivere alla prima notte di nozze o addirittura di non morire di parto. Non volevo sentire quelle cose, e in cuor mio sapevo che erano solo sciocchezze… ma non potevo fare a meno di pensarci con angoscia. Avrei dato tutto quel poco che mi rimaneva per poter avere accanto mia madre e rifugiarmi al sicuro tra le sue braccia.
 
L’indifferenza del mio futuro marito mi faceva soffrire più di quanto volessi dare a vedere, e il disprezzo che leggevo negli occhi di sua madre Raghnaid non mi faceva sentire meglio.
Sapevo che sui Colli Ferrosi sarei sempre stata una straniera e un’intrusa.
Avevo sperato che la mia vita fosse diversa; mi mancava casa mia, la mia famiglia, la mia fanciullezza spensierata.
 
E più ci pensavo, più iniziava a farsi strada nella mia testa un’idea ben precisa…
 



** Oscurità



Eccomi!
Miracolosamente sono riuscita a pubblicare non troppo tardi questo capitolo... la faccenda si complica, e nella prossima parte finalmente incontreremo il misterioso Vran!
Un grazie speciale a Tielyannawen e AdhoMukha che mi hanno convinta a continuare questa storia con i loro splendidi incoraggiamenti... davvero, grazie infinite!
:)

Lola

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI
 
Una decina di giorni prima del mio matrimonio tentai di fuggire dai Colli Ferrosi.
 
Mi ero preparata meticolosamente. Conoscevo bene la casa di Dáin e sapevo quando le guardie predisposte lungo il perimetro dell’abitazione si sarebbero date il cambio.
Mi ero fatta accompagnare da Bronnen fino alle scuderie del villaggio, con la scusa di prendere una boccata d’aria e un po’ del sole che finalmente brillava sui Colli Ferrosi, e lì avevo adocchiato un pony mansueto, ma che mi sembrava abbastanza forte per percorrere molte miglia. Il maniscalco mi aveva detto che si chiamava Dunas; dolcemente feci scorrere la mia mano lungo il suo manto nero come la pece, e mi tranquillizzai sentendolo calmo al mio tocco.
 
Avevo anche preparato sotto al mio letto un fagotto che conteneva l’essenziale per il percorso che avrei dovuto affrontare: qualche mela, un cambio di abiti e erbe curative. Se il viaggio fosse durato più del necessario, sarei stata in grado di sopravvivere nella foresta che mi separava dalle brughiere che mi avrebbero ricondotta a casa… a Erebor.
 
Il mio piano era semplice, ma mi sembrava abbastanza ingegnoso per avere successo.

L’occasione giusta per metterlo in atto mi si presentò quando meno me l’aspettavo. Una sera dopocena, mentre stavo tornando nella mia camera, il principe Thorin mi fece cenno di avvicinarmi, poiché doveva parlarmi. Ero così stupita de fatto che mi stesse finalmente rivolgendo la parola che lo raggiunsi senza fare troppe domande.
 
« Domani all’alba io e mio padre partiremo », mi disse con fare sbrigativo, « Dobbiamo riscuotere le tasse delle terre ai fittavoli nei villaggi qui vicini. Torneremo tra un paio di giorni, se tutto andrà bene ».
Annuii senza dire nulla, con sguardo interrogativo. Non capivo perché improvvisamente avesse deciso di rendermi partecipe della sua vita, quando per mesi non aveva fatto altro che escludermi da ogni singola decisione.
« Fa attenzione in nostra assenza ». Mi guardò un’ultima volta e sparì oltre il corridoio.
Velocizzai il passo verso le mie stanze, col cuore che batteva all’impazzata. Dunque sarebbe successo l’indomani… sarei ritornata finalmente a casa.
La mia vera casa.
 
Cercai a tentoni sotto il letto il fagotto che avevo preparato, sistemandolo sotto il cuscino. Passai il resto della serata a tritare minuziosamente le erbe che ero riuscita a procurarmi: passiflora, menta e iperico. Sapevo che se assunte in dosi massicce, avrebbero potuto causare un sonno profondo per qualche ora. Me l’aveva insegnato mia madre.
Anche se mi sentivo tremendamente in colpa, le avrei messe l’indomani nella bevanda di Bronnen; sentivo di tradire la sua fiducia, ma non potevo permettermi che mi seguisse o mi ostacolasse.
 
Dormii molto male quella notte, e non appena arrivò l’alba mi affacciai dalla finestra, e vidi D
áin, Thorin e il loro seguito partire sul sentiero principale. Raghnaid era a casa, ma la settimana prima era stata molto malata e da parecchi giorni non lasciava le sue stanze.
Un problema in meno da considerare.
 
Avevo deciso di partire subito dopo mezzodì.
Quando Bronnen entrò per svegliarmi, le chiesi di portarmi altra acqua calda per lavarmi il viso; mentre usciva, versai il preparato d’erbe nel bicchiere e la invitai a fare colazione con me. Feci finta di bere, mentre lei trangugiava la sua parte. Per essere sicura che funzionasse, dovevo somministrarle un’altra dose durante il pranzo.
Rimasi nel salotto principale a leggere, e feci più chiasso del previsto, in modo che tutti gli ospiti della casa potessero dire di avermi vista durante la giornata.
 
Il sole era alto nel cielo, e faceva molto caldo. Chiesi a Bronnen il permesso di ritirarmi nelle mie stanze per riposare, e lei mi accompagnò di buona voglia. Non ci mise molto ad assopirsi; mi assicurai che dormisse profondamente, afferrai il fagotto e me lo misi sotto il mantello.

Il mio respiro si fece più pesante. Ero terrorizzata, ma allo stesso tempo piena di adrenalina. Stavo fuggendo.
 
Sapevo come eludere le mie ombre; avevo provviste, un pony, ed ero riuscita anche a procurarmi un’arma, in caso ne avessi avuto bisogno: era un coltello dalla lama sottile, poco più grande della mia mano, con la robusta impugnatura di legno. Non sapevo bene come utilizzarlo, ma sentirlo tra lo stivale e il calzettone mi diede una sicurezza maggiore.
 
Nella mia testa ripetevo in continuazione le direzioni da prendere.
Superare il magazzino a destra, evitare le cucine.
Percorrere l’ala est; arrivare fino alle scale, a nord.
 
Passai per la porta posteriore che conduceva dritta alle scuderie. Fu difficile convincere Dunas a muoversi: stava dormendo tranquillamente, e non ne volle sapere di essere condotto sotto il sole e di lasciare il suo comodo giaciglio di fieno. Fui costretta a sacrificare una delle mie mele, ma finalmente si mosse.
Non volevo montarlo subito, almeno non finché fossi entrata nella foresta. Lo condussi per le briglie dolcemente, inserendo il fagotto che portavo nelle bisacce laterali.
Proseguii verso nord-est per evitare la sentinella rivolta a sud.
 
Cercai di camminare senza far rumore, e il cicaleccio degli animali attutì i rami che si spezzavano sotto i miei piedi. Mi voltai un’ultima volta e guardai le mura della casa di D
áin: sapevo che non mi sarebbero mancate. Carezzai dolcemente il muso scuro di Dunas e lo montai.
Entrammo nella foresta; sapevo che era pericoloso attraversarla, e che quella era certamente la via più lunga per allontanarsi dai Colli Ferrosi, ma non avevo altra scelta: il rischio di incappare nelle guardie di D
áin era troppo alto.
Dovevo proseguire verso nord-est per almeno cinque miglia; da lì in poi, avrei dovuto arrampicarmi su un albero per vedere in lontananza la Montagna Solitaria e la strada che mi avrebbe ricondotta a casa.
 
Dunas camminava lentamente, e mi lasciai cullare dalla sua andatura. L’adrenalina sembrava essere improvvisamente sparita, e tremavo di paura e stanchezza. Osservai la fitta foresta intorno a me e assaporai l’aria pura e fresca che filtrava attraverso le fronde; era passato così tanto tempo dall’ultima volta che mi ero sentita completamente libera.
Camminammo lentamente per qualche miglia; ero spossata, ma non volevo fermarmi: più mi allontanavo dai Colli Ferrosi, meglio sarebbe stato.
Nel bosco c’erano mille rumori: piccoli insetti, grossi animali… ogni scricchiolio mi faceva sobbalzare, e mi aggrappavo più forte alla criniera di Dunas. Lui sembrava tranquillo e proseguiva come niente fosse.

Erano passate almeno un paio d’ore; la luce cambiava attraverso le fronde, e tuttavia mi sembrava di non aver percorso molta strada. Probabilmente avrei dovuto passare la notte accampata nella foresta, e avrei dovuto accendere un fuoco per scaldarmi… se ne fossi stata capace.
 
Da sola, a cavallo di un pony che procedeva a rilento, le mie certezze cominciarono a sgretolarsi: il mio piano, così meticolosamente congeniato – o almeno, così mi era parso fino a qualche attimo prima – faceva acqua da tutte le parti. Sarei sopravvissuta? Sarei riuscita a rivedere Erebor? Il mondo iniziò a crollare sotto i miei piedi e mi sentii incredibilmente stupida.
Un rumore un po’ più forte mi fece sobbalzare. Era poco distante dalla mia posizione, e questa volta anche Dunas si mostrò irrequieto. Tentai di calmarlo accarezzando la sua criniera corvina, e funzionò, fino a quando un rumore più forte lo fece imbizzarrire. Alzò le gambe anteriori e io caddi a terra in pochi secondi. Tentai di richiamarlo, terrorizzata, ma Dunas galoppava lontano, indietro, verso l’inizio della foresta da cui eravamo partiti.
 
Ci misi qualche istante a capire la gravità della situazione in cui mi trovavo: avevo perso tutto. Il mio pony, le mie provviste, la coperta che mi avrebbe riscaldato. Non avevo altra che il coltello che tenevo – ma che non sapevo affatto usare – tra lo stivale e il calzettone. Rimasi a terra qualche istante, in panico. Sentii un’altra volta il rumore che aveva spaventato Dunas: sembrava un animale di taglia abbastanza grossa. Mi rimisi in piedi ed estrassi il coltellino, tenendolo tremante tra le mani.
 
Serrai gli occhi e girai su me stessa in cerca della bestia: la vidi poco distante. Era un cinghiale bello grosso, e mi fissava. Anche in lontananza, riuscivo a vedere chiaramente le zanne bianche e micidiali con le quali avrebbe sicuramente cercato di attaccarmi. Istintivamente, tentai di scappare.
Il cinghiale prese la carica; continuavo a correre, senza capire dove stavo andando. Inciampai nella radice di un albero e finii lunga a terra, mentre il coltellino mi scivolava dalle mani.
 
Allora è così, pensai in un lampo di lucidità, il mio piano è fallito e sto per morire.
 
Sentivo il respiro dell’animale farsi più vicino e i rumori della sua carica creare un brusio di sottofondo. Ma poi sentii anche qualcos’altro: una sorta di sibilo, come di un oggetto che fendeva l’aria. Improvvisamente non riuscii più a distinguere il rumore del cinghiale. Rimasi a terra qualche istante, e poi ebbi il coraggio di alzarmi.
Mi voltai: la bestia era distesa a qualche passo da dove mi trovavo, con una freccia conficcata nella testa.
Percepii un altro rumore dietro di me, e una voce del tutto sconosciuta mi parlò.
 
« Cosa diavolo pensavi di fare? ».





Eccomi qui! 
Per scrivere questo capitolo mi sono molto ispirata al primo volume del ciclo di Outlander, di Diana Gabaldon, che sto leggendo in questi giorni.
Un uomo misterioso entra nella vita di Eriu... chi sarà mai?
Lo scopriremo prestissimo!

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII
 

Tremavo dalla testa ai piedi, senza riuscire a controllarmi. I miei occhi, spalancati per il terrore, fissavano un punto imprecisato della foresta.
Dovetti fare ricorso a tutto il mio coraggio per riuscire a voltarmi verso la voce che proveniva da dietro di me.
 
Apparteneva a un giovane, che mi fissava con sguardo incredulo. Sicuramente non si trattava di un nano: era un uomo. Sul viso un accenno leggero di barba confermava la sua età non del tutto adulta. I suoi occhi scuri mi fissavano, interrogativi, e le labbra erano arricciate in una smorfia indispettita. Aveva folti capelli colore del miele, in contrasto con la pelle abbronzata. Era vestito semplicemente: una casacca di cotone grezzo, brache maschili e stivali. Tra le mani teneva l’arco che aveva appena usato per uccidere la bestia.
Continuò a scrutarmi; tentò di aprire la bocca per dirmi qualcosa, ma non lo lasciai fare. Ero terrorizzata.
Mi voltai di scatto e corsi all’impazzata, facendomi strada tra una miriade di alberi e arbusti, ignorando sassi, rami, rovi e qualsiasi altra cosa potesse essermi da ostacolo alla fuga.
 
Sentii lo sconosciuto imprecare ad alta voce, dietro di me, e aumentai il passo. Respiravo affannosamente, non curandomi del viso, delle braccia graffiate o della veste sgualcita. Nella mia testa non c’era spazio per alcun pensiero o ragionamento: volevo solo allontanarmi il più possibile da quell’uomo.
Non riuscivo a capire dove mi stavo dirigendo: nella foresta non c’era un sentiero tracciato, o se anche ci fosse stato, l’avevo abbandonato da molte ore. La paura mi fece correre più velocemente di quanto mi fossi aspettata dal mio corpo, ma comunque non abbastanza in fretta perché lo sconosciuto che mi aveva salvato mi raggiungesse.
 
Ero a un punto di non ritorno: davanti a me gli alberi fitti sembravano interrompersi improvvisamente e mi fermai all’ultimo secondo, rischiando di cadere nel rigagnolo che avevo davanti agli occhi. Il mio fiato era pesante, il mio cuore tremava incontrollabile.
Pesanti rumori dietro di me mi fecero intuire che il mio inseguitore mi aveva raggiunta. Mi voltai di scatto, cercando di alzare il volto in un ultimo disperato tentativo di infondermi coraggio.
Se avesse voluto uccidermi, almeno, non sarei morta piangendo di paura come una bambina.
L’uomo si fermò a qualche passo da me, anche lui col fiato mozzo. Mi guardava curioso; tentò di avvicinarsi, ma quando mi vide indietreggiare si fermò all’istante, mettendo le mani avanti.
« Non voglio farti del male ».
Aveva una voce calda, rassicurante, con uno strano accento che non avevo mai udito prima. Mi tranquillizzai, senza però abbandonare la mia posizione di difesa.
« Come ti chiami? » mi chiese, cercando di essere gentile.
 
Decisi di mentire. Se avessi rivelato il mio nome, il mio vero nome, avrebbe potuto scoprire chi ero realmente, o risalire alla mia famiglia. Se fosse stato un bandito, avrebbe potuto facilmente chiedere un riscatto a Dáin, in cambio della mia salvaguardia. Non potevo rischiare.
« Bronnen. Ero in viaggio per raggiungere i Colli Ferrosi, ma il mio pony è scappato e mi sono persa » risposi, alzando appena la voce.
Mi osservò scettico, alzando un sopracciglio. Risposi al suo sguardo con fermezza, e dopo qualche istante il suo volto si rilassò.
« Queste sono terre pericolose. La foresta non è più un posto sicuro, cinghiali a parte », si guardò intorno con tristezza, osservando le fronde degli alberi che ci circondavano come se le conoscesse da molto tempo, « Non è una buona idea viaggiare da sola ».
Deglutii. Nella mia testa continuavo a chiedermi cosa quell’uomo volesse fare di me, e se alla fine me la sarei cavata. Sembrava una persona abbastanza gentile. Forse, se avessi insistito, mi avrebbe mostrato il sentiero per tornare a casa, considerando che avevo totalmente perso la cognizione di quale fosse la giusta direzione da prendere.
 
Ora che avevo smesso di correre e stavo riprendendo un po’ di fiato iniziavo a provare i primi dolori: la testa mi stava per scoppiare, avevo le braccia coperte di graffi e la gonna completamente sgualcita, di cui gran parte era stata probabilmente portata via da un ramo nel corso della mia rocambolesca fuga.
Sicuramente non avevo un gran bell’aspetto.
 
« Sei ferita. »
Seguii lo sguardo dell’uomo, che si era fermato sulla mia gamba destra. Ben visibile anche dalla mia prospettiva, il polpaccio era deturpato da un taglio abbastanza profondo, che lo attraversava completamente, grondante di sangue fresco e rappreso.
Non avevo mai sopportato la vista del sangue, soprattutto se si trattava del mio.
Posai gli occhi un’ultima volta sullo sconosciuto che mi fissava allarmato, e il mondo divenne improvvisamente buio.
 
*
 
Mi svegliai qualche ora più tardi. Ci misi qualche istante ad aprire gli occhi: ero ancora stordita dalla situazione. Tentai di osservare la stanza intorno a me. Giacevo in un letto comodo, appoggiato a una parete. L’abitazione era semplice: il pavimento era coperto di canne e la parete era fatta di rami intrecciati di nocciolo; un fuoco scoppiettava poco lontano, rendendo l’atmosfera piacevole. Una grande tenda di pelle conciata separava la stanza dal resto della casa.
Cercai di alzarmi a sedere, ma fu più difficile del previsto: ogni singolo muscolo del mio corpo mi intimava di stare ferma. Dopo qualche tentativo ci riuscii, ma non ci fu verso di muovere le gambe. Mi resi conto che non indossavo più la veste sgualcita che avevo nella foresta, ma una candida sottoveste di lino che mi arrivava oltre ai piedi.
Lontano sentivo alcune voci di uomini. Cercai di ascoltare ciò che dicevano, ma parlavano in una lingua a me sconosciuta, una parlata secca e per nulla rassicurante. Rabbrividii.
Non sapevo dove mi trovavo, e del giovane uomo che mi aveva trovato nel bosco non c’era traccia.
 
Fuori stava facendo buio, e la notte incalzava. A quest’ora, sui Colli Ferrosi, qualcuno avrebbe dovuto dare l’allarme della mia scomparsa. Ripensai a Bronnen e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Doveva essere molto in angoscia.
« Oh, sei sveglia. »
Trasalii al suono di quella voce. Il mio salvatore, se così potevo definirlo, mi osservava da dietro la tenda, con fare curioso. Abbozzai un sorriso di ringraziamento, mentre questo si avvicinava.
« Per quanto ho dormito? ».
« Non più di tre ore. Ti abbiamo fasciato la gamba… dovresti essere in grado di appoggiare il piede a terra. Fammi dare un’occhiata. »
 
Nonostante le fattezze robuste, esaminò la mia ferita con estrema delicatezza.
« Hai preso una brutta botta: hai urtato la gamba contro la radice di un albero? Credo di si. Ma sei stata fortunata…. Un altro se la sarebbe rotta in almeno tre punti e sarebbe rimasto azzoppato per tutta la vita.**  »
Il polpaccio mi bruciava, e per quanto la ferita non mi paresse grave, mi sentivo incredibilmente stanca.
« Dove mi trovo? » domandai inquieta, riappoggiandomi ai cuscini del letto.
« Nelle terre degli Esterling » rispose l’altro, incurante, mentre mi puliva la fasciatura.
Gli Esterling… ne avevo sentito parlare, molto tempo prima, dal mio istitutore di Erebor. Sapevo che abitavano le terre di Rhûn, e che i loro rapporti con i nani dei Colli Ferrosi non erano mai stati del tutto pacifici… se avessero scoperto chi ero davvero, probabilmente avrei rischiato di morire.
Cercai di ricacciare quell’orribile pensiero, inorridita e terrorizzata dalla situazione in cui mi trovavo.
 
La stanchezza stava prendendo ancora una volta il sopravvento. Il giovane parve accorgersene, perché smise di tastarmi la gamba.
« Dovrei lasciarti riposare ancora qualche ora… hai perso molto sangue. »
Annuii debolmente, mentre le palpebre iniziavano già a farsi pesanti.
 
« Oh, mi sono dimenticato » disse lui, fermandosi prima di sparire oltre alla tenda, « Il mio nome è Vran ». 




Qualche piccolo appunto sul capitolo.
** La descrizione della ferita alla gamba di Eriu, sicuramente non grave come potrebbe sembrare a una prima descrizione, è tratta da "Le quercie di Avalon", di Marion Zimmer Bradley.

Per quanto riguarda la descrizione fisica di Vran, ho fatto soprattutto riferimento al modo con cui Tolkien descrive questo popolo, e in particolare:

"Generalmente essi non sono molto alti ma robusti, hanno la pelle di colore olivastro, e occhi e capelli scuri."

Vran me lo sono sempre immaginata con i capelli appena un pò più chiari, la sola differenza :)
Spero che il nuovo capitolo vi piaccia!
Lola


 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Capitolo VIII
 

Dovevo aver dormito per tutta la notte; quando mi svegliai, scorsi la debole luce dell’alba entrare dalle fessure dell’abitazione. Mi sentivo meglio, fisicamente: la gamba mi doleva molto meno, ma ero ancora terrorizzata. Vran era stato gentile, certo, ma cosa avrebbero fatto gli altri abitanti del villaggio? Mi avrebbero trattata come un nemico, a causa della mia razza?
Ripensai con una fitta di dolore alla mia famiglia, e mi chiesi se li avrei mai rivisti. Rispetto al matrimonio con Thorin, la situazione in cui mi trovavo ora mi si stagliava nella testa come un destino ancora peggiore.
Nella casa regnava il silenzio. Cercai di scendere dal letto delicatamente, senza far rumore. Dovevo andarmene, e alla svelta. Il polpaccio mi bruciò moltissimo quando appoggiai il piede a terra, ma era un dolore che avrei sopportato; inoltre sapevo che i muscoli si sarebbero irrigiditi se fossi rimasta ancora a letto. Mi guardai intorno in cerca di altri indumenti: non avevo altro che la sottoveste candida che mi era stata data; poco distante, appoggiato a uno sgabello in legno, vidi il mantello da viaggio che avevo indossato durante la mia fuga. Era sgualcito in più punti, ma almeno mi avrebbe tenuta al caldo.

Mi allontanai dalla stanza in punta di piedi e scostai tremante la tenda che separava la camera dal resto dell’abitazione. Entrai in quello che doveva essere l’ingresso principale: accanto a un focolare spento c’erano brocche e tinozze di rame. Due o tre sedie coperte da pelli conciate erano disposte tutte attorno.
 
Non c’era nessuno; tirai un sospiro di sollievo e alzai il cardine della porta di legno per uscire. La prima zaffata di aria fresca mi fece sospirare di piacere. Mi guardai intorno: varie dimore di piccole dimensioni dal tetto di paglia formavano un piccolo agglomerato attorno alla casa da dove ero uscita.
Il villaggio era piccolo e semi-deserto, e si trovava a ridosso della foresta che avevo attraversato per allontanarmi dai Colli Ferrosi.
Due stalloni stavano mangiando tranquillamente del fieno accanto a me.
Non sapevo cavalcare un cavallo di quelle dimensioni, ma non avevo scelta, se volevo darmi la possibilità di allontanarmi velocemente dagli Esterling. Per quanto riguardava Vran, bhé… era stato gentile, ma rimanere lì sarebbe stato troppo rischioso.
Scelsi il cavallo che mi sembrava più mansueto e lo trascinai per le briglie verso la foresta. Stava iniziando a piovere; mi tirai il cappuccio sulla testa e camminai senza fare rumore.

Ero appena entrata nel limitare degli alberi quando sentii uno strano rumore.
Pum. Pum.
Era il rumore di colpi simili, poco distanziati tra loro. Decisi di lasciare perdere, non avevo tempo di preoccuparmi di nient’altro.
Svoltai a destra e improvvisamente mi trovai di fronte un uomo. Non era Vran; era vecchio, e aveva un aspetto trasandato. Stava tagliando pezzi di legna con una scure arrugginita, facendola calare con una mano sola, mentre con l’altra reggeva una bottiglia di vino, cosicché emanava un odore inconfondibile di alcool. Arricciai il naso.
Retrocedetti di qualche passo, ma il nitrito del cavallo al mio fianco lo fece voltare.
Dapprima mi guardò con stupore, e poi con grande interesse. Mi si avvicinò barcollando, reggendo sempre con sé la bottiglia. Rimasi paralizzata.
Aveva occhi grigi, freddi come la neve, e la smorfia che mi rivolse rivelò che gli mancavano parecchi denti.
« Onreinn, vok! ».
Sputò ai miei piedi con disprezzo. Non compresi ciò che voleva dire, ma sicuramente non era niente di piacevole. Allungò le mani verso il mio collo, e lo tastò con rudezza.
Non riuscivo a reagire, né a pensare razionalmente. Mi ero cacciata per la seconda volta nel giro di poche ore in un altro grandissimo guaio.
Le mani dell’uomo scesero prepotenti sotto il mantello, andando a sfiorare la sottoveste e il seno. Tentai di ribellarmi; aprii la bocca per urlare, ma non uscì altro che un debole suono rauco. L’uomo rideva, pronunciando parole cariche di disprezzo che non comprendevo.
Udii un colpo alle mie spalle, e l’uomo cadde a terra lungo disteso, con un ematoma ben visibile sulla nuca.
« E’ la seconda volta che ti salvo la vita ».
Mi voltai verso Vran; aveva colpito l’uomo alla tempia con il retro della scure appoggiata poco distante.
 
Ripresi fiato lentamente, premendomi una mano sul cuore. Sentivo ancora l’impronta delle luride mani di quell’uomo. Lo guardai disgustata.
« Vedo che hai conosciuto il vecchio Arran », disse Vran, tirando un debole calcio all’uomo che giaceva per terra. « Di solito è tranquillo, tranne quando beve, il che capita spesso… meglio andarcene da qui, potrebbe svegliarsi da un momento all’altro ».
Mi afferrò per il gomito e prese le redini del cavallo, riconducendoci entrambi verso il villaggio.
 
« Dove stavi andando? ».
Abbassai lo sguardo imbarazzata, fissandomi i piedi mentre camminavamo.
« Volevo prendere un po’ di aria fresca » risposi innocentemente, evitando il contatto con i suoi occhi.
« Con il mio cavallo? ».
« Bhé, ecco, anche lui aveva bisogno di aria fresca ».
Vran mi guardò divertito alzando un sopracciglio. « Ma non mi dire », sogghignò.
Rientrammo in casa e mi fece accomodare su una delle sedie accanto al fuoco, controllandomi la ferita al polpaccio e cambiando la benda.
Rimasi a guardarlo in silenzio, appoggiando la testa allo schienale della sedia.
« Non c’era bisogno di scappare, sai… », iniziò a dire Vran, interrompendo il silenzio che si era creato tra noi due. « Ti avrei riaccompagnata sui Colli Ferrosi non appena la ferita fosse completamente guarita. Domani potremmo partire, se lo desideri ».
« In realtà… », lo guardai imbarazzata, mentre lui alzava lo sguardo curioso, « desidero raggiungere la Montagna Solitaria. Ho dei parenti che vivono laggiù; potresti indicarmi la strada? »
« Posso accompagnarti fino a metà strada, certo. »
Lo guardai raggiante. Era più di quanto mi aspettavo.
Lui parve stupito dal mio entusiasmo e arrossì sulle guance. Continuò a medicarmi la ferita con delicatezza, mentre il fuoco crepitava dietro di noi.
« Vran? ».
« Mmh? » bofonchiò alzando lo sguardo.
« Quell’uomo nel bosco… Arran… mi ha parlato in una lingua che non conosco. Ha detto parole come vok e poi anreinn…  ».
« Onreinn », mi corresse lui, mettendosi a sedere di fronte a me.
« Cosa significano? ».
Vran prese un sospiro. « Significano ‘sporco nano’ ».
Lo fissai confusa. Mi sembrava parecchio imbarazzato, e dal viso era sparito il suo solito sorriso.
« Devi sapere che agli Esterling non stanno, ehm… molto simpatici i nani, specie quelli che vivono qua intorno ».
« Ma perché? ».
« Perché ci sfruttano e prendono le nostre terre, ecco perché! ».
 
A parlare non era stato Vran, ma un uomo entrato nell’abitazione senza che ce ne accorgessimo. Era alto e magro come uno spettro, con i capelli grigi arricciati e gli occhi color nocciola.
Osservando la sua espressione piena d’odio, mi chiesi ancora una volta se sarei mai uscita viva da quel villaggio.
Vran si alzò dalla sedia, mettendomisi accanto.
« Bronnen, lui è Bhreac. E’ il capo-villaggio ».
 
Deglutii, cercando di abbozzare il sorriso. Tuttavia, spaventata com’ero, probabilmente ero riuscita a mostrare soltanto i denti.
« Dunque sei tu la sempliciotta che ha attraversato la foresta a piedi? Vran mi ha raccontato di averti salvata dall’attacco di un cinghiale ».
Annuii senza scompormi.
Bhreac mi guardò con sguardo indagatore, scrutando ogni centimetro del mio volto. Poi il suo viso si distese all’improvviso in un’espressione rilassata.
« Hai fame ragazza? ».
Proprio in quel momento, come risvegliato da un richiamo invisibile, il mio stomaco cominciò a gorgogliare sonoramente. Mi coprii l’addome con le mani, imbarazzata.
Vran e Bhreac scoppiarono a ridere divertiti.
« Non vergognarti… non mangi da parecchie ore », mi disse Bhreac incoraggiante, « vado a cercare della legna per ravvivare il fuoco e poi pranzeremo ».
Mi guardò un’ultima volta e uscì dall’abitazione, chiudendo la porta dietro di sé. Pensavo di trovare in quell’uomo l’ennesimo nemico, e invece si era dimostrato gentile e accogliente. Tuttavia Vran mi aveva detto che era il capo-villaggio, e dopo ciò che mi aveva raccontato dei difficili rapporti tra gli Esterling e i nani dei Colli Ferrosi mi sentivo ancora più timorosa.
 
« Bhreac è tuo padre? » chiesi dopo un attimo di esitazione.
« No, è mio zio. Mi ha preso con sé dopo che i miei genitori sono morti », rispose Vran tranquillo, accendendosi una pipa.
Abbassai lo sguardo tristemente. « Mi dispiace ».
« Non devi. Io non mi ricordo molto di loro e Bhreac è stato sempre buono con me, e mi ha cresciuto bene ».
Mi guardò sorridendo e mi tranquillizzai all’istante.
« Raccontami qualcosa di te… hai fratelli o sorelle? ».
A quella domanda mi infiammai di entusiasmo. Certo, non potevo rivelare a Vran tutta la verità, ma era la prima volta in mesi che nessuno si era mai davvero interessato alla mia vita.
« Oh, si. », risposi contenta, « Ho tre fratelli e una sorella ». L’entusiasmo si spense velocemente e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Mi mancavano così tanto…
« Cosa c’è che non va? », chiese Vran imbarazzato, grattandosi la nuca.
« Oh, nulla », risposi, asciugandomi le lacrime con la manica, « E’ da molto tempo che sono in viaggio e non vedo la mia famiglia, tutto qui ».
Vran mi sorrise incoraggiante.
« I tuoi sono mercanti? Cosa vendete? »
« Gioielli. Come questo, guarda… ». Estrassi da sotto la veste la collana che mio padre mi aveva dato in dono quando ero ancora molto piccola. Era semplice, d’argento, con una gemma di smeraldo.
Vran prese il ciondolo tra le mani, osservandolo curioso.
« E tu cosa fai, Vran? ».
« Sono un cacciatore. O almeno, è quello che Bhreac mi ha insegnato a fare ».
Lo guardai dolcemente. « Ma se potessi cambiare vita… dove andresti? ».
Lui mi guardò stupito. Probabilmente nessuno gli aveva mai posto quella domanda.
« Non saprei… », mosse qualche passo per la casa, soppesando la risposta, « Credo che me ne andrei da questo villaggio », ammise con fare dispiaciuto.
« E perché non lo fai? », domandai dubbiosa.
« Non posso abbandonare Bhreac. Lui è tutta la famiglia che ho, e non ha che me », rispose tristemente, guardandomi negli occhi.
Mi stupii della naturalezza con cui parlavamo. Ero sempre stata riservata e timida sin da piccola, ma ora, con Vran, le cose mi sembravano diverse. Più facili.
Lui rimase qualche istante in silenzio. Sembrava concentrato in mille pensieri. Poi mi si rivolse con sguardo fermo, incredibilmente serio.
« Bronnen… ti è mai capitato di sentirti in trappola? Di non essere libera di prendere le tue decisioni? ».
Annuii timidamente, voltandomi verso il focolare spento.
Non sai quanto, Vran – avrei voluto urlare – non sai quanto.




Eccomi! Pensavo di non trovare tempo di aggiornare questa settimana, invece... detto, fatto.
Spero che questo nuovo capitolo vi piaccia.
Un grazie particolare ancora a chi mi segue e commenta regolarmente i capitoli della storia (vi adoro!), e anche a chi ha aggiunto recentemente la storia tra le seguite (
LaViaggiatrice, m0nica  e mangamylove

:) Grazie mille, davvero!
Alla prossima!

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Capitolo IX

 
Con lo stomaco pieno di zuppa calda mi sentii molto meglio, e Bhreac e Vran si dimostrarono essere una piacevole compagnia; tuttavia sapevo che nutrivano ancora dubbi e sospetti nei miei confronti a causa della mia razza.
Mi intimarono di non uscire dall’abitazione per non creare scompiglio nel villaggio, e Bhreac volle sapere cosa mi era capitato nella foresta e perché mi trovavo lì, da sola, quando Vran mi aveva salvata.
Decisi di riproporre anche a lui la stessa storia che avevo raccontato al nipote.
« Ero con un gruppo di mercanti dei lontani Monti Azzurri, e ci stavamo dirigendo sui Colli Ferrosi per vendere le nostre merci. Durante il cammino nella foresta mi sono allontanata dal mio gruppo per qualche istante; il mio pony è scappato, mi sono imbattuta in un cinghiale e Vran mi ha salvata ».
Lo guardai sorridendo, una sorta di tacito ringraziamento.
Bhreac non disse nulla, ma bevve un lungo sorso di idromele.
 
Il pranzo appena consumato mi aveva provocato un’incredibile sonnolenza, e comunicai ai due padroni di casa l’intenzione di ritirarmi nella stanza che mi era stata concessa per riposare. Mi alzai delicatamente e attesi che Bhreac e Vran fecero lo stesso, come ero abituata, in segno di rispetto.
Loro non si mossero, e mi guardarono confusi. Dovetti ripetermi che non ero più una principessa, almeno non in quel villaggio. Avvampando per l’imbarazzo, chinai il capo e mi diressi velocemente verso la stanza.
Vran mi aveva promesso che l’indomani mi avrebbe accompagnata sulla strada principale che conduceva a Erebor, e con un po’ di fortuna sarei tornata a casa in pochi giorni.
Ero così stanca che non appena la mia testa toccò il giaciglio caddi in un sonno profondo.
 
*
 
Fu il rumore degli stivali chiodati a svegliarmi; mi ci volle qualche istante per recuperare la lucidità della veglia. Vran entrò trafelato nella mia stanza, con lo sguardo teso.
« Resta qui e non uscire per nessuna ragione ».
Non ebbi neanche il tempo di chiedere spiegazioni. Stava succedendo qualcosa nel villaggio, e riuscivo a udire chiaramente voci concitate e bambini piangere.
Afferrai velocemente la veste che Vran mi aveva procurato e la indossai. Scostai la tenda senza far rumore e mi avvicinai alla finestra della casa.
Riuscivo a distinguere chiaramente Vran e Bhreac; il rumore di stivali chiodati che avevo udito altro non era che quello di alcuni nani a cavallo di pony dal manto nero. Lo stendardo dei Colli Ferrosi ondeggiava mosso dal vento freddo della giornata. Riconobbi tra i nani Frang, uno dei soldati della casa di Dain, e trattenni il respiro.
Cosa diavolo ci facevano lì?
Da quello che potevo vedere, i nani stavano radunando gli abitanti del villaggio; donne, uomini e bambini venivano spinti e raggruppati al limitare della foresta. I soldati entravano nelle case vuote e facevano razzia, afferrando tutto ciò che potevano raggiungere: sacchi di grano, riso, galline e perfino una capra.
Sentii ribollire la rabbia dentro di me. Era così che Dain e Thorin trattavano gli abitanti dei villaggi vicini alle loro terre?
 
Frang intimò il silenzio tra la popolazione terrorizzata. Con la coda dell’occhio vidi Bhreac trattenere Vran per il braccio. Il suo volto era livido dalla collera.
« Popolo degli Esterling! », scandì Frang con voce acuta, « Un membro della nostra comunità è scomparso. Abbiamo seguito le sue tracce, e ci hanno portato in questo villaggio ». Mostrò agitandolo davanti agli occhi degli abitanti un pezzo di stoffa, e quando lo riconobbi trattenni il fiato. Era il pezzo della gonna del mio abito, che si era strappato durante la fuga nella foresta.
Erano venuti a cercare me.
 
« Conoscete la legge. Se sapete qualcosa, dovete parlare, altrimenti pagherete le conseguenze del vostro silenzio ». Gli abitanti si scambiarono sguardi pieni di angoscia.
« Cosa ne avete fatto del nano? », intimò un altro soldato accanto a Frang, alzando con collera l’ascia.
Nessuno rispose. Alcuni bambini si misero a piangere più forte, e vidi le madri stringerli al petto con fare protettivo.
« Noi non sappiamo nulla! Non abbiamo visto nessun nano! », disse un uomo con fare coraggioso, avanzando dal gruppo e sostenendo lo sguardo dei soldati.
Frang lo guardò con disprezzo. « Le sue tracce arrivano e si fermano qui. Qual è il tuo nome? ».
L’uomo lo guardò timoroso. « Mi chiamo Alas ».
« Sei coraggioso, Alas. Ma a noi non piacciono le menzogne », gli altri soldati sghignazzarono, « La tua punizione servirà d’esempio a tutti gli abitanti, finché la  verità non salterà fuori. Date fuoco alla prima casa ».
Dagli abitanti si levarono urla disperate, mentre i primi soldati accendevano sbrigativi una torcia e si dirigevano verso le prime casupole.
« Non potete farlo! Siamo innocenti! », urlò Bhreac, avvicinandosi a Frang.
« Taci, uomo, o la tua casa sarà la prossima ».
Ero paralizzata dal terrore, nascosta dietro le tende della finestra. Quella rappresaglia altro non era che causa mia, e sapevo di dover fare qualcosa. Vidi di spalle il soldato avvicinarsi con la torcia accesa alla prima casa, così pericolosamente vicina al fieno che la circondava…
 
« FERMATEVI! »
Ero uscita dall’abitazione senza neanche accorgermene. Gli abitanti mi guardarono trattenendo il fiato, e i soldati si voltarono improvvisamente. Vidi gli occhi di Frang ingrandirsi dallo stupore, mentre alzava un braccio in direzione dell’altro nano per intimarlo a fermarsi.
Vran mi guardò con sguardo terrorizzato.
« Principessa Eriu? Siete voi? » chiese Frang con un sussurro, chinando il capo.
Annuii avvicinandomi e mostrandomi meglio alla luce del giorno.
Vidi Bhreac e Vran sbiancare, ammutoliti da quella improvvisa rivelazione.
« Cosa ci fate qui? Siete ferita? ».
« Mi ero persa nella foresta, e sono stata salvata dagli abitanti di questo villaggio. E’ questo il vostro modo di ripagarli? », chiesi alzando il volto, colma di collera.
Frang parve imbarazzato. « Questi sono gli ordini di Dain, principessa, e del vostro futuro marito… ».
« Allora considera questi ordini revocati. » Stavo usando il mio tono regale, e – infuriata com’ero – la cosa mi venne piuttosto naturale. « Tornerò sui Colli Ferrosi con voi, ma dovete lasciare libere queste povere persone. »
Frang chinò il capo e fece segno ai suoi di ritirarsi. Gli abitanti si allontanarono in fretta, chiudendosi nelle casa e sbarrando velocemente porte e finestre. Erano rimasti sono Bhreac e Vran. Non avevo il coraggio di guardarli negli occhi.
 
Mentre i soldati restituivano, su mio ordine, le cose che avevano sottratto al villaggio, mi diressi verso l’abitazione che mi aveva ospitato. Quando passai davanti a Bhreac, quello abbassò lo sguardo in segno di rispetto. Vran si trovava all’interno, accanto al fuoco.
« Mi dispiace. Non volevo mentirti », dissi semplicemente, guardandolo di spalle. Lui non si mosse e non rispose nulla. Aveva le mani congiunte sotto il mento, e lo sguardo fisso in un punto imprecisato dell’abitazione.
Attesi qualche istante, e poi mi diressi verso l’uscita.
« Bronnen non è il tuo vero nome ».
Mi voltai. Vran si era alzato, e mi guardava con un’espressione che mi fece tremare le ginocchia. « Perché non mi hai detto che sei una principessa? ».
« Avevo paura », dissi tremante, abbassando lo sguardo. Lui venne verso di me.
Mi alzò delicatamente il mento e mi fissò. « Stai per sposarti? Con il giovane principe? ».
Annuii senza dire nulla. Mi sfiorò la guancia, girandomi dolcemente il viso.
« Eriu… », il mio nome, pronunciato per la prima volta dalle sue labbra, mi fece sobbalzare per l’emozione. I miei occhi erano spalancati e colmi di stupore, e trasalii quando mi baciò, ma non mi ritrassi. Sprofondai nella sua dolcezza, totalmente stordita dalla situazione. Impiegai un momento per comprendere ciò che era accaduto, e mi staccai.
Le gote di entrambi erano rosse, e le nostre mani tremanti. Lo guardai un’ultima volta e uscii dall’abitazione, montando insieme a Frang il pony che mi avrebbe condotta verso il matrimonio con un nano che – già sapevo – non avrei mai amato.
 
*
 
Le tre ore di strada che mi separavano dai Colli Ferrosi mi sembrarono le più lunghe della mia vita. Mi sentivo di nuovo come il giorno in cui ero stata condotta per la prima volta nella casa di Dain, con l’unica differenza che questa volta sapevo bene a cosa andavo incontro.
Non facevo altro che pensare a Vran e al bacio che ci eravamo scambiati. A cosa diavolo stavo pensando? Appartenevamo a due razze diverse, troppo distanti, complicate…
Lo conoscevo da due giorni appena, eppure mi sembrava che le nostre anime fossero intrecciate da moltissimo più tempo.
 
Sentivo il corpo massiccio di Frang sbattere sulla mia schiena e il suo alito pesante soffiarmi sul collo. Sospirai di sollievo quando finalmente giungemmo in vista della casa di Dain.
Sul sentiero del villaggio fui salutata gioiosamente dagli abitanti del villaggio, ma sorrisi distrattamente, perché avevo visto in lontananza il giovane Thorin camminare avanti e indietro nel cortile principale. Sul suo volto, sempre così serio e composto, era ben visibile anche a gran distanza un’espressione di assoluta angoscia.
Quando ci vide ci corse incontro e mi afferrò per la vita, aiutandomi a scendere dal pony. Lo fissai ammutolita: non l’avevo mai visto così. Lui mi osservò come se fossi un fantasma, sfiorandomi appena la guancia con una mano.
« Credevo fossi morta », sussurrò, stringendomi più forte la mano.
 
Mi condusse all’interno dell’abitazione, dove vidi Dáin e Raghnaid. Lei non diede segno di volermi salutare e fece solo un breve cenno del capo, mentre lui si avvicinò entusiasta del mio ritorno e del fatto che stessi bene.
Dovetti raccontare per l’ennesima volta ciò che mi era successo, e ovviamente omisi i dettagli della mia fuga.
Raccontai di come mi ero allontanata per una passeggiata nella foresta, e di come facilmente avessi perso il sentiero principale, finendo per essere attaccata da un cinghiale e salvata da un membro del villaggio degli Esterling.
Non dissi nulla di Vran, volevo conservare ogni dettaglio per me stessa.
Thorin insistette perché il guaritore guardasse la ferita alla gamba, ma anche lui convenne sul fatto che era stata ben pulita e che stava guarendo completamente.
Riabbracciai Bronnen quando finalmente la rividi: avrei voluto scusarmi in qualche modo, ma lei non mi fece neanche parlare, e mi strinse come non aveva mai fatto prima.
Sospettavo che fosse a conoscenza della verità e della mia fuga, ma né quel giorno né mai ne fece parola con me o nessun altro.



Eccomi di nuovo qui! C'è poco da dire su questo capitolo; non ero sicura se spezzarlo o mantenerlo come alla fine ho deciso di fare, anche se in realtà mi sembrava troppo lungo... in caso fatemi sapere, chi meglio di voi per consigliarmi ?
Vi lascio a questo nuovo pezzo di storia e vi auguro una piacevole lettura :)
Lola
 



 

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Capitolo X
 

Mancavano due giorni al mio matrimonio, e finalmente potei riabbracciare la mia famiglia. La numerosa delegazione di Erebor arrivò presto al mattino; mi affacciai alla finestra della mia camera e riconobbi lo stendardo della casa di mio padre. Corsi a perdifiato per le scale – non curandomi delle occhiate di sdegno di Raghnaid e dello stesso Thorin – e mi gettai immediatamente tra le braccia di mia madre e di mia sorella. Non erano cambiate poi molto: c’era qualche nuovo filo grigio tra i capelli chiari di mia madre, ma la stessa espressione dolcissima che ricordavo così bene.
Salutai mio padre, i miei fratelli e i miei cugini. Frerin non era potuto venire: sposato subito dopo il mio arrivo sui Colli Ferrosi, era rimasto a Erebor accanto alla moglie, che presto gli avrebbe dato un figlio.
Il primo vero erede di Erebor.
 
Mostrai la casa alla mia famiglia e le stanze in cui avrebbero potuto sistemarsi. Ero così felice di averli con me che dimenticai del tutto l’angoscia per l’evento imminente.
La notte prima del matrimonio dormii con Morud, come ai vecchi tempi, e per un attimo mi sembrò di essere tornata bambina. Eppure così tante cose erano cambiate…
« Morud? Sai mantenere un segreto? ».
Lei mi guardò preoccupata, scostandosi i lunghi capelli dal viso e annuendo curiosa.
« Ho provato a scappare dai Colli Ferrosi. Volevo ritornare a casa ».
Inizialmente non disse nulla, ammutolita com’era da quella rivelazione. La sua bocca si apriva e si richiudeva, senza che nessun suono ne uscisse.
« C-come? Quando? », disse infine, balbettando.
« Qualche giorno fa. Ascolta, Thorin non sospetta nulla. Non ne devi parlare con nessuno, nemmeno con nostra madre! ».
Lei annuì solenne e mi strinse la mano.
« Thorin è cattivo con te? E’ per questo che non vuoi sposarlo? ».
Soppesai la risposta con cura. « Non è cattivo, ma neanche buono. In realtà non credo gli interessi molto di me… ».
Morud mi guardò tristemente.
« Poi… c’è dell’altro », aggiunsi mordendomi un labbro. « Credo di essermi innamorata di un uomo ».
Morud si portò le mani alla bocca.
« Chi? ».
« Non appartiene ai Colli Ferrosi. Abita nel villaggio oltre la foresta e si chiama Vran. Appartiene al popolo degli Esterling. ».
Lei scosse la testa, come se volesse impedirsi di ascoltare quelle parole.
« Oh, Morud… non so cosa fare! », esclamai disperata, coprendomi il viso con entrambe le mani.
Morud mi osservò, facendosi improvvisamente seria in volto.
« Devi sposare il principe Thorin. Non hai scelta, lo sai bene anche tu… sei una principessa ».
« Si, bhè, a volte vorrei davvero non esserlo! ».
 
*
 
Il giorno del matrimonio mi svegliai in preda all’angoscia. Nemmeno la presenza mia sorella, accanto a me, riuscì a farmi sentire meglio.
Stavo per sposarmi. Non potevo tornare indietro.
Raghnaid entrò senza bussare, seguita da una delle sue aiutanti, che tra le mani reggeva l’abito candido che avrei dovuto indossare. Per tradizione, toccava alla madre dello sposo la vestizione della futura moglie, ma non appena Raghnaid mi si avvicinò mia madre si fece avanti, prendendomi la mano.
 
« Se permetti, Raghnaid, vorrei essere io a vestire mia figlia. »
Sia io che Morud ammutolimmo: nostra madre era sempre stata pacata, dolce e gentile; ora sembrava una leonessa che proteggeva i suoi cuccioli.
Raghnaid la guardò con disprezzo, ma non disse nulla. Con poca grazia posò il vestito tra le mani di mia madre e se ne andò sbattendo la porta.
Restammo in silenzio qualche istante, poi scoppiamo tutte e tre a ridere. Per un attimo dimenticai tutte le mie paure.
Anche Morud mi aiutò ad indossare l’abito, leggerissimo e candido, e le mani delicate di mia madre mi aiutarono a chiudere i lacci sulla schiena. Mi acconciarono i capelli, e in cima appoggiarono dolcemente una corona di biancospino.
Ero pronta.
Quando uscimmo dalla stanza, trovai mio padre ad attendermi. Era splendente col suo abito regale e la corona in testa, e mi sorrise dolcemente. Gli strinsi la mano.
La cerimonia si sarebbe tenuta sotto una grande quercia, al limitare della foresta, e come da tradizione tutta la delegazione di Erebor – la casa da cui provenivo e che stavo a malincuore per lasciare – mi avrebbe accompagnata.
Per primi stavano Gwáyn, Alun e Morud, che reggevano lo stendardo di famiglia, seguiti da mia madre; dietro di loro avanzavano i miei cugini, Fili e Kili, con le rispettive mogli e figli. Infine c’eravamo io e mio padre, uno di fianco all’altra.
Gli abitanti del villaggio uscivano dalle loro case e ci lanciavano petali e fiori freschi; i bambini cercavano di avvicinarsi, sorridenti, e ci seguivano lungo il sentiero.
Il mio cuore batteva all’impazzata.
 
« Ho paura padre », confessai in un sussurro.
Lui mi strinse più forte il gomito, salutando educatamente la marmaglia di gente che ci circondava. « Andrà tutto bene. Sono qui con te ».
Vicino alla quercia una piccola folla ci stava già attendendo. Riconobbi in lontananza la chioma rosso fuoco di Dáin e quella più chiara di Raghnaid. Poi vidi anche il principe Thorin: era splendidamente abbigliato d’oro, e sembrava un re. I lunghi capelli ramati erano legati in modo elegante. Sembrava parecchio nervoso per l’imminente cerimonia, e non lo biasimai. Forse entrambi avremmo voluto scappare lontano.
Procedendo lentamente, mio padre appoggiò la mia mano in quella di Thorin, e si ritrasse accanto a mia madre. La cerimonia fu lunga e noiosa, e strinsi appena i denti quando finalmente incisero un piccolo taglio sul polso mio e quello di Thorin, facendoli poi aderire, in modo che il nostro sangue venisse a contatto. Secondo la credenza popolare, la nostra unione sarebbe stata così per sempre duratura e indissolubile.
 
Quando la cerimonia si concluse, Thorin mi si avvicinò e mi diede un leggero bacio, mentre tutti intorno a noi esultavano a gran voce e battevano le mani. Ci trascinammo tra la folla incerti, sconosciuti, ricevendo mille sorrisi e congratulazioni.
Vidi mio padre venire verso di me. La sua espressione era la stessa che avevo visto ogni giorno della mia vita, fin dalla nascita, ma sapevo bene che nel profondo si sentiva commosso.
« Bunnanunê, io e tua madre siamo così fieri del fiore splendido che sei diventata. Ti auguriamo di essere felice come lo siamo stati noi in tutti questi anni ».
Mi abbracciò, stringendomi forte a sé. Oltre la sua spalla vedevo il folto della foresta, dove solo pochi giorni prima pensavo di essermi imbattuta in un nuovo destino, e mi venne chiaro in mente il volto di Vran, così come lo avevo lasciato.
Ma la mia mente doveva avermi giocato davvero un brutto scherzo, perché improvvisamente mi sembrò di averlo visto davvero. Sbattei le palpebre una volta, e poi una seconda. Continuai a guardare; non era la mia immaginazione. Vran era davvero lì, nella foresta, e mi fissava.
Non stavo sognando. Era venuto a vedermi il giorno del mio matrimonio.
 
Non era molto distante, ma era ben nascosto dietro a un folto cespuglio. Rimasi così, immobile, mentre altre braccia – probabilmente quelle dei miei fratelli – mi circondavano.
Vran aveva sul volto un’espressione di assoluta disperazione, e per un attimo condividemmo la stessa, identica, assoluta e insopportabile angoscia.
Udii la voce di Thorin, mio marito, provenire da dietro di me.
« Tutto bene, Eriu? ».
Mi voltai tremante, cercando di ricompormi in quello che poteva essere un sorriso nervoso. Annuii senza rispondere.
« Andiamo dentro. Il banchetto è pronto, e gli ospiti avranno fame ».
Mi lasciai guidare dalle sue mani, lontano dalla quercia e lontano dalla foresta, verso la casa di Dáin. Prima di allontanarmi del tutto, mi voltai un’ultima volta: di Vran non c’era più traccia.
 
*
 
Per quanto quella visione mi avesse sconvolta profondamente, evitai di pensarci. Il banchetto ci tenne occupati per diverse ore, e fu solo a sera tarda che finalmente venni accompagnata verso la nuova stanza che d’ora in avanti avrei dovuto condividere con mio marito. Decisi di ignorare i commenti maliziosi e le occhiate volgari che ricevetti uscendo dal salone del banchetto; abbassai lo sguardo e continuai a camminare come se niente fosse.
Thorin mi avrebbe raggiunto più tardi, per compiere il suo primo, vero dovere coniugale.
La camera era grande e luminosa; stecche di incenso trasportavano un intenso aroma florale, di buon auspicio – secondo la tradizione – per la prima notte di nozze. Lanciai una breve occhiata al letto e alle candide coperte di seta che vi erano state deposte sopra. Il giorno dopo sarebbero state mostrate alla famiglia dello sposo, come prova evidente della purezza della sposa. In quanto alla verginità dello sposo, bhè… su quella nessuno avrebbe sollevato obiezioni.
 
Lasciai che Bronnen mi aiutasse a slacciarmi l’abito sulla schiena, e sospirai di sollievo quando districò i capelli e me li lasciò cadere liberi sulle spalle. Un brusco rumore alla porta ci fece sobbalzare entrambe, e Thorin entrò inciampando. Aveva i capelli in disordine e le guance così rosse che immaginai facilmente il quantitativo di vino che aveva dovuto ingerire.
Si immobilizzò con una mano ancora alla porta spalancata, fissando la mia sottoveste candida. Lanciò uno sguardo veloce a Bronnen e le fece cenno di uscire.
La guardai allontanarsi. Avrei voluto disperatamente urlare di non lasciarmi, di non andarsene, ma invece abbassai lo sguardo. Thorin chiuse la porta dietro di noi.
Si avvicinò con passo incerto, fissandomi. Con poca delicatezza mi alzò il mento, e vidi i suoi chiari occhi appannati di desiderio. La sua lingua si insinuò nella mia bocca con forza, e premette il suo corpo contro il mio. Con una rapidità sorprendente fece scivolare le spalline della mia sottoveste e mi ritrovai completamente nuda, davanti a lui. Mi fissò.
 
« Stenditi ».
Obbedii. Ero troppo impaurita per fare o dire qualsiasi cosa che non fosse obbedirgli. Sdraiata sul letto, lo guardai spogliarsi sbrigativo.
« Io non so cosa devo fare », confessai timorosa.
Lui mi guardò divertito. « Tu non devi fare quasi niente ».
Una volta liberato dagli abiti, mi si sdraiò accanto, facendo scricchiolare e gemere il letto col peso di entrambi. Andò a tastare ogni centimetro del mio corpo, mentre io fissavo il soffitto in attesa che il tutto finisse. Mi baciava con così tanta forza che mi fece sanguinare il labbro.
Tentò di controllarsi, ma iniziava a manifestare senza mezzi termini la propria impazienza. Mi schiuse le gambe e mi guardò indeciso, senza riuscire ad attendere oltre; con un gemito esasperato si lasciò cadere su di me, afferrandomi le spalle, reclamando il premio che probabilmente aveva atteso per tutta la giornata.
Finì tutto in fretta, e per quanto la cosa non fosse stata piacevole, mi aspettavo di provare più dolore.
Thorin scivolò al mio fianco e mi cinse la vita con un braccio, attirandomi verso di sé con fare possessivo. In pochi minuti iniziò a russare.
Ripensai alla giornata, all’esperienza che avevo appena vissuto – e che, sicuramente, avrei dovuto ripetere ancora molte volte – e piansi silenziosamente. Prima di chiudere gli occhi e di addormentarmi, vidi un solo volto stagliato chiaro e nitido nella mia mente.
 
Quello di Vran.


Eccomi! Ne approfitto per aggiungere un altro capitolo.
Bene, alla fine la povera Eriu ha dovuto accettare il suo destino e si è sposata...
Non vi svelo nulla di quello che accadrà dopo, ma dirò solo che dal prossimo capitolo arriverà un personaggio a me veramente molto caro... scoprirete perchè!
Lola

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


Capitolo XI


Per l’inizio dell’inverno ero incinta di tre mesi, e le nausee mattutine non mi davano tregua. Qualsiasi cosa mangiassi il mio stomaco la rifiutava inevitabilmente, e per molte settimane non feci altro che cibarmi di pane inzuppato nel latte, come una moribonda.
Mentre il mio viso perdeva volume, il mio ventre si gonfiava, come se la gravidanza stesse risucchiando ogni briciola di energia dal mio corpo.
 
Thorin aveva mostrato entusiasmo all’idea di diventare padre, e sembrava che anche Raghnaid ne fosse contenta, poiché si informava quotidianamente sullo stato di salute mio e del piccolo. Forse non si aspettava che avrei rispetto i miei obblighi di moglie così presto.
Una volta superato il periodo in cui i rischi di perdere il bambino erano maggiori, iniziai a sentirmi molto meglio. Quando il tempo lo permetteva, mi recavo con Bronnen lungo il sentiero del villaggio, ma non mi avvicinavo mai alla foresta: il volto disperato di Vran al mio matrimonio mi perseguitava ancora come un fardello impossibile da portare.
Mano a mano che la gravidanza procedeva, pensavo a quanto avrei voluto avere accanto mia madre o mia sorella. Ma Morud si era appena sposata, e ora viveva sugli Ered Mithrin; in quanto a mia madre, sapevo che detestava i Colli Ferrosi e che oltretutto Raghnaid non le avrebbe mai permesso di restare.
Ma non ero sola. Informate della mia condizione, le donne del villaggio furono ben liete di riferirmi ogni possibile aneddoto sul parto, in riferimento a quello che era, chiaramente, un vasto repertorio di esperienze terrificanti.
 
Scelta da Raghnaid, mi venne affiancata una levatrice, Rae: aveva i capelli di un biondo splendente, la corporatura robusta e il seno prosperoso. Sembrava competente in materia di gravidanza, e accettò di seguirmi solo se mi fossi impegnata a seguire le sue direzioni in materia di cibo e esercizio. Dopo avermi misurato il ventre e stabilito la data della nascita, mi invitò a condurre una vita attiva, per velocizzare il parto, perché il bambino cresceva velocemente ed era già ben sviluppato. Speravo che non fosse troppo grosso; quando il bambino era troppo grande, l’alternativa era tagliare il ventre della madre… terrorizzata, cominciai a fare offerte a Mahal affinché mi concedesse un parto agevole. **
 
Entrai in isolamento a partire dal sesto mese: voleva dire che io e Thorin non avremmo più condiviso il letto coniugale, almeno non fino alla nascita di nostro figlio. Non me ne dispiacqui. Andavamo piuttosto d’accordo, in realtà più di quanto avessi sperato, ma avevo l’impressione che avesse altro per la testa, e la situazione in cui verteva la Terra di Mezzo certo non aiutava la nostra vita di coppia: ai Colli Ferrosi erano giunte voci, e i messaggeri inviati dai regni intorno a noi portavano notizie di un’oscurità incombente e di nuovi pericoli. Branchi di orchi attaccavano i villaggi, gli uomini insorgevano contro i loro stessi fratelli, e Thorin non era quasi mai a casa con me.
 
Verso gli ultimi mesi della gravidanza, senza curarmi delle prime contrazioni che preannunciavano la nascita imminente, continuai le mie passeggiate con Bronnen. All’inizio dell’estate, nel salire la collinetta per tornare verso casa, scivolai su un ciottolo e caddi a terra, battendo violentemente il bacino. Mentre Bronnen mi aiutava ad alzarmi, percepii qualcosa di caldo scorrermi tra le gambe ed immediatamente capii cosa stava succedendo: mi si erano rotte le acque ed ero entrata in travaglio.
Raghnaid, Bronnen e tutti gli altri ospiti della casa mi si radunarono intorno, in preda al panico, ma io sorridevo soddisfatta, perché era proprio in un incidente del genere che avevo sperato.
Le contrazioni, da subito fortissime, continuarono per tutto il giorno e per tutta la notte. Non riuscivo a camminare, nonostante Rae insistesse, e il dolore era così acuto che la ebbe vinta sulla mia determinazione a non gridare. All’alba del secondo giorno ero finalmente pronta a fare uscire il mio bambino. Spinsi una volta, due, e continuai a spingere, e non mi importava di essere vista mentre gridavo e piangevo disperata.
 
Per un attimo che mi sembrò durare in eterno pensai di stare per morire, perché il mio corpo lacerato stava cedendo inesorabilmente alla stanchezza. Ma poi, con un’ultima, dolorosissima spinta, il bambino fece capolino al mondo. Lo sentii piangere, e ributtai la testa all’indietro. Ce l’avevo fatta.
Quando però Rae me lo mise in grembo, mi accorsi che non si trattava affatto di un maschietto, ma di una bellissima bambina. La presi tra le braccia tremante. Forse non era quello che la famiglia di Thorin si aspettava, ma a me non importava: nel momento stesso in cui i miei occhi si posarono nei suoi, capii che non avrei mai amato nessun’altro con la stessa intensità.
 
Mi accorsi appena che mi pulivano e mi cambiavano; ero ancora totalmente concentrata sulla bambina, che ora dormiva beata al mio fianco. I pochi ciuffi sulla testa si stavano asciugando in un inequivocabile colore rosso, come quelli del padre. Le strinsi una manina sorridendo.
Raghnaid e Dáin entrarono a guardarla, e si congratularono, seppure con meno entusiasmo di quello che avrebbero mostrato se fosse stato un maschio. Un messaggero era stato inviato a chiamare Thorin, che si trovava nei villaggi circostanti.
Poi, con un urlo prepotente, la bambina si mise a gridare per la fame; prima ancora di poterla prendere tra le braccia per allattarla, Raghnaid la afferrò e la consegnò alla nutrice, che la attaccò immediatamente al seno.
La guardai piena di collera. « Desidero allattarla. Sono sua madre ».
Raghnaid mi guardò con rimprovero. « Se la allatti, ci vorrà più tempo perché tu  possa rimanere incinta di nuovo. Ci penserà la nutrice ».
 
Guardai disperata quella sconosciuta nutrire mia figlia, e ancora una volta mi sentii tradita da quella che doveva essere la mia famiglia. Finalmente la piccola smise di mangiare, e mi fu restituita. Ci addormentammo entrambe, una accanto all’altra.
Thorin arrivò solo a sera tarda, e ci misi un po’ ad accorgermi della sua presenza; se ne stava in disparte, al limite della porta della camera, come uno sconosciuto che osserva la vita di altre persone.
Con il capo gli feci cenno di entrare, incoraggiante. Lui mosse qualche passo e guardò la bambina, che ora era completamente sveglia, e muoveva veloce i piedini.
Non la prese tra le braccia, ma sembrava comunque contento che fosse sana e in buona salute, e che il parto fosse andato bene. Non mi aspettavo nulla di più.
« Come la chiamiamo? », chiese dubbioso, sedendosi sul bordo del letto.
La guardai negli occhi, sorridendo dolcemente. « Si chiamerà Aimil ».
 
*
 
Era tradizione che una nuova nascita, soprattutto se avvenuta all’interno di una famiglia importante, venisse celebrata con un banchetto. A un mese dalla nascita di Aimil, D
áin organizzò una celebrazione in onore della nipote, e invitò parenti e amici da tutti i regni a renderci omaggio. Ma molti degli ospiti non riuscirono a venire, perché le strade diventavano di giorno in giorno più pericolose, e gli attacchi di orchi e uomini erano ormai un’abitudine. Avevo sentito parlare di Mordor e dell’inferno che giaceva laggiù, ma così lontana, al sicuro, e con la mia bambina tra le braccia, non ci davo molto peso.
 
La mia famiglia non riuscì a essere presente, ma mia madre mi inviò moltissime lettere per accertarsi della buona salute di Aimil; lo stesso fece mia sorella Morud, che aveva un motivo in più per preoccuparsi della piccola: era incinta di quasi quattro mesi e l’angoscia del parto la tormentava.
Il giorno del banchetto scesi nel salone principale, uscendo dall’isolamento per la prima volta dopo la nascita della piccola. Ricevetti ancora una volta i complimenti dei presenti, e andai a sedermi accanto a Thorin, che mi sorrideva, tenendo in braccio la bambina come se fosse un vaso di porcellana.
La osservai da vicino. In poche settimane era già cambiata moltissimo, e dovetti ammettere a malincuore che il latte della nutrice le aveva fatto decisamente bene: le sue guance erano rosee e floride, ed una zazzera di capelli rossi le incorniciava il bel viso. Il banchetto che D
áin aveva predisposto era sicuramente più modesto di quello che avrebbe organizzato se fosse nato un maschio: il vino che stavano servendo non era diverso da quello che bevevamo tutti i giorni, e non c’erano musicisti nella sala, ma non me ne curai.
Gli ospiti arrivavano in continuazione, e io sedevo con la bambina in braccio a ringraziare sorridente sconosciuti che si congratulavano per la nascita. Aimil continuava a dormire come se niente fosse, e per un attimo la invidiai.
Thorin era un ottimo padrone di casa, e si intratteneva con amici e conoscenti venuti da lontano. Al banchetto erano presenti molte delle razze che popolavano la Terra di Mezzo: nani, elfi e persino uomini.
 
Fu solo dopo qualche istante che mi accorsi che, in realtà, conoscevo bene uno di loro: Bhreac venne verso di me sorridente, con i capelli in ordine, identico a come me lo ricordavo quando l’avevo visto quasi un anno prima. Mi si avvicinò dolcemente, osservando la bambina.
« E’ davvero bellissima ».
Lo ringraziai con un cenno del capo, mentre i miei occhi scrutavano la stanza per capire se fosse venuto davvero solo. Lui parve intuire le mie domande.
« Non è venuto ».
Lo guardai tristemente. « Dov’è, Bhreac? ».
Lui abbassò il capo, abbassando la voce a un sibilo, tanto che dovetti sporgermi dalla sedia per capirlo.
« Non qui ».
Feci cenno alla nutrice di avvicinarsi, e le porsi tra le braccia la bambina. Sapevo che a breve si sarebbe svegliata per reclamare cibo. Bhreac mi seguì fuori dalla stanza, all’inizio del corridoio deserto.
Lo guardai carica d’angoscia, mentre il suo viso si faceva improvvisamente sofferente.
« Vran se n’è andato. Ha lasciato il villaggio subito dopo il tuo matrimonio. Non lo vedo da allora ».
I miei occhi si colmarono di dolore. « Ma dove è andato? ».
L'uomo si guardò intorno, per assicurarsi che nessuno fosse in ascolto. « Non me lo ha detto. Ma credo di avere un’idea… », si fece più vicino, abbassando ulteriormente la voce, « Sono venuti uomini nei nostri villaggi, qualche tempo fa. Reclutavano giovani per combattere… per Sauron ».

Lo guardai confusa. Non capivo di cosa o di chi stesse parlando. Lui parve intuire i miei dubbi; prese un gran respiro e continuò a spiegarmi.
« Nuove forze si stanno radunando a Mordor. Dicono che ci sarà una nuova guerra. C’è un’alleanza tra gli uomini e gli orchi… rispondono a Sauron, il Signore Oscuro ».
« Ma Vran… lui non può combattere con loro, non lo farebbe mai! ».
Lui mi osservò tristemente. « Non lo so per certo. Non lo vedo da diversi mesi, oramai, e altri giovani del nostro popolo sono scomparsi… Se uno dei tuoi dovesse trovarlo, potrebbero accusarlo di tradimento e ucciderlo ».
Aprii la bocca sconvolta. Non potevo crederci. Non poteva essere vero…
Fummo interrotti da un colpo di tosse: Thorin si stava avvicinando e ci guardava curioso. Strinse la mano a Bhreac e lo salutò, mentre questo si congedava da me con un ultimo, disperato sguardo.
 
« Che cosa voleva da te quell’uomo? », mi chiese Thorin, riconducendomi nel salone.
« Nulla. Voleva sapere come stavo ».
Thorin continuò a osservare Bhreac mentre si allontanava. « Stai alla larga da quelle persone », mi intimò, facendosi serio in volto.
« Perché? ».
« Dubito della fedeltà degli Esterling… non so da quale parte stanno. E se avessi anche la minima prova che uno di loro sia in combutta con Mordor, allora, li farei impiccare immediatamente. »
Lo guardai tremante. « Non lo faresti mai ».
Lui mi osservò stupito, alzando il calice di vino. « Siamo in guerra, Eriu. Lo farei eccome ».




Eccomi!
Nuovo capitolo: il personaggio famoso di cui avevo parlato nelle risposte alle recensioni altro non è che Aimil, che - rullo di tamburi - è anche il mio secondo nome!
Ebbene si; la famiglia di mia madre è scozzese e ha voluto a tutti i costi "darmi" qualcosa di quella terra.  Forse è egoista da parte mia, ma in qualche modo volevo inserirmi nella storia ^^

Spero che questo nuovo capitolo vi piaccia, attendo i vostri commenti!
Lola

** Per la descrizione della gravidanza mi sono ispirata alla nascita di Costantino, dal libro "La sacerdotessa di Avalon", di Marion Zimmer Bradley

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Capitolo XII

 
 
Quattro anni dopo
 
Carissima madre,
 
Spero con tutto il cuore che tu e adad stiate bene e che i miei fratelli siano in buona salute.
Quasi non riesco a credere che la figlia di Frerin è ormai abbastanza grande da montare da sola un pony; ti prego di darle un bacio da parte mia. Ho avuto notizie da Morud, pochi giorni fa: lei e il piccolo Bowed stanno bene, nonostante sia nato così in anticipo…
Aimil cresce in fretta ed è identica a suo padre, ma con gli stessi occhi azzurri di me e adad. Dáin la chiama Grainné, perché dice che ha i capelli colore del grano illuminato dal sole più splendente. Quando Thorin è a casa, la vizia e passa molto tempo con lei, mentre io mi occupo delle gemelle. Eara sta finalmente iniziando a gattonare, mentre Lair è più pigra e vuole stare sempre in braccio
Le mie figlie mi rendono felice, madre, ma ho così tanta paura… appena pochi giorni fa alcuni dei soldati sono stati attaccati al confine delle nostre terre, e uno di loro è stato ucciso. Siamo tutti molto angosciati. Sono giunte voci di un pericolo imminente, e Thorin è sempre lontano da casa. A volte vorrei tornare tra le mura sicure di Erebor, e non andarmene più.
Vi mando tutto il mio affetto,
Eriu
 
Sigillai la pergamena e la adagiai con cura sulla scrivania; qualcuno si sarebbe occupato di recapitarla il prima possibile. Mi voltai: al centro del grande letto riposavano le gemelle, simili per aspetto eppure così diverse per temperamento. Accanto a loro, su di una vecchia sedia, sonnecchiava Bronnen, le mani giunte in grembo e il respiro pesante. Sospirai divertita: da quando l’avevo conosciuta, Bronnen non mi aveva mai abbandonata, e ora trattava le mie figlie come se fossero davvero le sue.
Un rumore improvviso ci fece sobbalzare entrambe. Bronnen si alzò, con incredibile rapidità per la sua età, e una volta accertatasi che le bambine non si fossero svegliate, mi raggiunse alla finestra della camera che dava sul cortile. C’era un trambusto evidente al limitare del villaggio, e riuscivano a distinguere un tumulto di persone in lotta. Sembrava che i soldati stessero trascinando alcuni uomini, uno legato all’altro. Il mio cuore prese a correre all’impazzata.
« Stai qui con le bambine ».
 
Mi chiusi la porta della stanza alle spalle e corsi verso l’atrio principale; non ero l’unica a interessarsi della fonte di quel tumulto, e tutta la casa era in fermento. Uscii fuori dal portone, nel cortile esterno, e vidi Thorin accanto al suo pony, in attesa di montarlo.
Lo raggiunsi di corsa, chiamandolo a gran voce perché si accorgesse di me. « Cosa sta succedendo? »
Lui mi guardò con un sorriso trionfante e eccitato, afferrando con decisione le briglie dell’animale.
« Abbiamo preso dei traditori. Uomini al servizio di Sauron ».
Lo guardai sconvolta, mentre la mia testa lavorava velocemente. E se fra di loro ci fosse stato anche Vran?
« Cosa ne sarà di loro? ».
Thorin mi guardò tranquillamente. « Conosci la legge. Verranno giustiziati ».
« Senza processo? Non ascolterai nemmeno ciò che hanno da dire? ».
Lui mi afferrò il polso con forza, colmo di collera: non amava che gli si dicesse cosa andava fatto, e conoscevo fin troppo bene quel lato collerico del suo carattere. « Non esiste perdono per i traditori », sibilò a denti stretti, prima di partire a cavallo del suo pony.
 
Lo guardai allontanarsi col cuore in angoscia. Non potevo fare nulla di più, e comunque non ero sicura che tra quegli uomini ci fosse anche Vran.
Rimasi lì, a fissare la figura di Thorin farsi sempre più piccola, seguita da Frang e dagli altri soldati. Non mi accorsi della manina che mi afferrava la gonna e della figura che si mise al mio fianco.
« Quegli uomini verranno uccisi, amad? ».
Mi voltai verso Aimil, e la osservai colma di tristezza, cercando di ricompormi in un sorriso. « No, tesoro. Adad li perdonerà ».
 
*
 
Non ci fu bisogno del ritorno di Thorin per confermarlo: la notizia dell’esecuzione aveva fatto il giro del villaggio prima ancora del tramonto. Per quanto tutti sembrassero bene informati sull’accaduto, nessuno era stato in grado di dirmi da dove provenissero quegli uomini, o come si chiamassero.
Bronnen intuì la mia angoscia, come faceva sempre. Mi conosceva meglio di chiunque altro.
« Che ti prende, Eriu? ».
Mi voltai attorno per accertarmi che non ci fosse nessuno in ascolto.
« Bronnen… ho bisogno che tu mi faccia un favore ».
 
Così Bronnen si era allontanata dalla casa di Dáin, col volto coperto; le avevo chiesto di informarsi in maniera discreta se il nome di Vran fosse effettivamente presente tra la lista dei giustiziati. Dovevo sapere se era morto o meno, e non avevo altra scelta che chiedere l’aiuto della nana: sapevo che Thorin non mi avrebbe mai detto nulla, se mai avessi osato chiederglielo.
Lei rincasò solo il giorno dopo, il volto contratto dalla smorfia inequivocabile di chi porta brutte notizie: non esisteva una lista dei traditori, e la sentenza di morte era stata eseguita in maniera così frettolosa che l’unica informazione in possesso di Frang e dei suoi soldati era che quegli uomini appartenevano alla tribù degli Esterling, e provenivano dai villaggi adiacenti alla foresta.
Quando Bronnen me lo disse, mi accasciai sulla sedia, tremante e bianca in volto. Non potevo tentare di contattare Bhreac, per avere notizie più sicure su Vran, perché avrei potuto metterlo in grave pericolo, e sapevo di dovergli la mia stessa vita.
Non ero certa che Vran fosse morto, ma non sapevo neppure se fosse ancora vivo… o forse per me era morto da tempo, da quando la mia mano era stata concessa a un altro uomo.
 
*
 
Thorin arrivò nella mia camera a notte fonda. Non dividevamo sempre il letto, e spesso passava le notti lontano da casa, nelle taverne degli uomini; sapevo che a volte passava il suo tempo con altre donne, ma non me ne importava.
Mi voltai stupita nel vederlo entrare di soppiatto: era già molto tardi, e avevo faticato ad addormentarmi. Non facevo altro che pensare a Vran e alla possibilità che fosse stato giustiziato quello stesso giorno.
Riappoggiai la testa sul cuscino e feci finta di nulla; le bambine dormivano in un’altra stanza poco distante, e nella casa di Dain regnava il più totale silenzio. Thorin inciampò nel tentativo di liberarsi dagli abiti e fece un gran baccano, ma decisi di ignorarlo, dandogli le spalle.
 
Richiusi gli occhi, nel tentativo di dormire, ma sentii chiaramente le sue mani sulla schiena e la sua bocca sul mio collo.
Sapevo cosa voleva. Da quando ero rimasta incinta per la seconda volta, aveva sperato nella nascita di un maschietto che gli sarebbe succeduto sui Colli Ferrosi, ed era rimasto deluso quando erano arrivate le gemelle. Era affezionato alle figlie, ma non aveva ancora smesso di pregare per l’arrivo di un maschio.
Da parte mia, sapevo che non potevo obiettare. Ma un conto era concedergli il mio corpo, e l’altro il mio cuore. Lentamente mi voltai supina, in modo che le sue mani potessero arrivare dove lui voleva più facilmente. Il suo alito sapeva di birra e anche al buio riuscivo a intravedere i suoi occhi appannati dall’alcool.
Non dovette sfuggirgli la mia smorfia disgustata a quell’odore, che lui sapeva non avevo mai sopportato, e proruppe in una risatina.
« Dove sei stato? », chiesi con un filo di voce, mentre lui mi scostava la veste senza tante cerimonie.
«  Nella taverna del villaggio ».
Questo spiegava decisamente quel tanfo acre.
 
Abbandonai le braccia lungo i fianchi, immobile, lasciando a lui tutto il piacere del momento. Non disdegnavo la sua compagnia a letto – dopotutto, avevo anche io i miei bisogni – ma quel giorno l’avevo visto prendere una tragica decisione senza battere ciglio, e non potevo fare a meno di pensare che, appena qualche ora prima, aveva probabilmente condannato a morte l’uomo che amavo in segreto.
 
Thorin si puntellò sui gomiti e mi fissò con un sopracciglio alzato.
« Non essere fredda con me, Eriu ». Portò la mia mano sulla sua schiena, e si chinò a baciarmi con foga, mentre il suo corpo si faceva strada nel mio; con le dita mi accarezzava la guancia, aumentando il ritmo dei suoi fianchi.
Avevo chiuso gli occhi e tentato di bloccare anche la mia mente, ma il suo respiro era davvero troppo vicino perché potessi riuscirci.
« Guardami », mi intimò, e sapevo che quello era un ordine al quale avrei dovuto obbedire. Non abbandonava mai il mio sguardo mentre facevamo l’amore, e non mi lasciava mai andare quando – con un ultimo spasmo – si riversava in me.
 
Thorin si discostò dal mio corpo e si mise a sedere, riprendendo fiato; si alzò lentamente per andare ad accendersi la pipa appoggiata alla credenza, un altro dei suoi molti vizi. Afferrai la sottoveste da terra, per rivestirmi.
« Resta così », disse lui, soffiando nuvole di fumo nella stanza.
Lo guardai duramente. Da quando gli ero stata promessa, non avevo fatto altro che assecondare ogni suo desiderio, senza controbattere.
Ma ora mi sembrava che tutto fosse cambiato e avevo paura delle sue vere intenzioni.
 
« Perché hai ucciso quegli uomini, Thorin? », sbottai improvvisamente, incapace di controllarmi, « Alcuni di loro erano soltanto dei ragazzi! ».
Lui continuò a fumare, come se nulla fosse.
« Meritavano di morire », disse infine, riappoggiando la pipa e sfregandosi le mani.
Lo guardai disgustata. « Nessuno merita di morire. Non così ».
Lui fece un passo verso di me, con decisione. « Erano nostri nemici, Eriu! Pensi che loro avrebbero esitato al nostro posto? Pensi che ti avrebbero risparmiata, se ti avessero catturata? ».
Mi morsi le labbra. Avevo conosciuto gli Esterling una volta, e mi avevano salvato la vita. Ma come potevo spiegarlo a lui, che odiava quegli uomini da moltissimo tempo?
« Avresti dovuto almeno ascoltarli, o avere pietà per loro! ». Mi ritrovai ad urlare, con le lacrime agli occhi, liberando quelli che forse erano anni di frustrazione e umiliazione.
Sapevo di aver oltrepassato una linea invisibile: il volto di Thorin era diventato una maschera di rabbia.
« Pietà? Cosa ne sai tu di pietà? », sibilò a denti stretti, facendosi pericolosamente vicino, « Tu hai sempre vissuto in un mondo protetto, Eriu, dove niente e nessuno avrebbe potuto farti del male. Ma là fuori… là fuori, il mondo è diverso ».
Le parole gli morirono in gola e mi diede le spalle, sbattendo il pugno contro il muro. Probabilmente avevamo svegliato l’intera casa con le nostre urla.
Mi risedetti a letto, respirando profondamente, e attesi che si calmasse. Quando infine si voltò, il suo viso era contratto dal dolore.
« Sto cercando di creare un mondo di pace per le nostre figlie, e i figli che verranno dopo di loro. Perché non riesci a capirlo? ».
Lo guardai sconcertata; non si era mai lasciato andare in quel modo - rivelando i suoi tormenti e le sue paure - nei quattro anni di matrimonio che avevamo condiviso. Tentai di afferrare la sua mano, ma lui si scostò, allontanandosi da me.
 
« Io lo so cos’hai fatto, Eriu. So tutto della tua fuga nel bosco ».
Rimasi immobile, incapace di parlare o di fare qualsiasi cosa. Lui sapeva tutto.
 
« Pensavi che non me ne fossi accorto? », mi rimbeccò, esplodendo in una bassa e triste risata, « Fui io a ritrovare il tuo pony: aveva le bisacce piene di provviste e una coperta con il tuo profumo. Capii immediatamente quali erano le tue vere intenzioni, ma non dissi nulla a mio padre. Lui ti avrebbe rispedita a Erebor se avesse saputo la verità, e ci sarebbe stata una faida tra i nostri regni. Non potevo lasciarti andare. Eri mia. Sei mia. »
 
Fissavo i miei piedi in silenzio, incapace di sostenere i suoi occhi; sapevo cosa vi avrei visto: lui voleva che io gli fossi grata e che lo ringraziassi per quello che aveva fatto per me. Ma non potevo. Non quel giorno.
Attese qualche minuto in silenzio, e l’unico rumore che si sentiva nella stanza era il suo respiro pesante. Infine si avvicinò alla porta, pronto ad uscire.
« Dimenticati degli Esterling, non devi loro niente. Il tuo posto è qui, con me e le nostre figlie ».
Si voltò e mi guardò un’ultima volta, serio e composto com’era sempre.
« Eriu… ti ho salvato la vita una volta. Fai in modo che il mio gesto non sia stato vano ».




Eccomi!
Ero molto indecisa se pubblicare questo capitolo; l'ho modificato, cancellato e riscritto più e più volte, e devo ammettere che ancora adesso non mi convince del tutto...
Attendo le vostre opinioni!

PS: Eara e Lair sono altri nomi scozzesi. Eara significa "colei che viene da est", mentre Lair vuol dire "mare".
Come vedete Eriu ha figliato parecchio, ma solo femminucce! "Grainné", invece, deriva dal gaelico gran, ovvero "grano".

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Capitolo XIII


Alla vigilia del solstizio d’estate gli abitanti dei villaggi dei Colli Ferrosi organizzarono, come da tradizione, una piccola celebrazione per festeggiare l’arrivo imminente della bella stagione.
Le bambine erano tristi, perché la settimana il padre era dovuto ripartire insieme ai suoi soldati e allo stesso Dáin, e non sapevamo quando – ne se – li avremmo rivisti.
Decisi quindi di portarle con me: era una giornata frizzante e luminosa, e eravamo tutti contentissimi di uscire. Aimil dava la mano a Bronnen, mentre le gemelle ci precedevano barcollando con passetti ancora incerti, le teste splendenti illuminate dal sole caldo, seguite a poca distanza dall’austera Raghnaid, che non potendo opporsi a quell’uscita aveva deciso almeno di seguirci.
Ero così abituata alla calma e al silenzio della casa di Dáin che la fitta folla presente all’evento mi fece venire un brivido d’angoscia. Aimil era di ottimo umore, e trascinava la povera Bronnen da un banchetto all’altro, esclamando estasiata quando un mercante, riconoscendoci, le offriva in dono un bel fiore profumato.
Sembrava che tutti gli artigiani, i giocattolai, i pasticcieri e i ballerini della Terra di Mezzo si fossero radunati lì a ridere, mangiare e bere, decisi a lasciarsi alle spalle – almeno per una giornata – i problemi del mondo.
 
Ci avvicinammo al centro della radura, accalcandoci curiosi vicino a una piccola folla che osservava un orso bruno legato a un paletto. La bestia aveva muso e zampe anteriori strettamente tenute da una spessa fune, e pensai che aveva un’aria tremendamente infelice, obbligato com’era a dare spettacolo.
« Povero animale », sospirò Aimil, allontanandosi dall’orso con sguardo triste.
Cercai di trascinare lontano le gemelle mentre la folla diventava sempre più fitta. Aprii la bocca per chiamarle a gran voce, ma non ci riuscii, perché un urlo aveva squarciato l’aria quando l’orso era riuscito a liberare le zampe anteriori, facendo quasi uscire il paletto dal terreno. La folla indietreggiò pericolosamente, e tentai di afferrare le mani delle mie figlie, senza successo. Qualcuno mi calpestò la veste e caddi a terra, perdendo l’equilibrio, mentre la folla si disperdeva in preda al terrore.
Mi rialzai e mi allontanai velocemente, ma della mia famiglia, di Raghnaid e Bronnen non c’era già più ombra. Per la seconda volta nella mia vita mi ritrovai completamente abbandonata a me stessa, come lo ero stata quella volta – anni prima – quando ero scappata nella foresta.
Le facce sconosciute che mi circondavano mi riempivano di angoscia e confusione; chiamai ancora una volta il nome delle mie bambine, ma nessuno mi rispose.
 
Quel luogo mutato a causa della fiera mi fece perdere in poco tempo l’orientamento, e non riuscii nemmeno a ritrovare il sentiero che mi avrebbe riportata verso casa, dove – speravo con tutto il mio cuore – Bronnen e Raghnaid avrebbero portato le mie figlie.
Avrei potuto chiedere a qualcuno la giusta direzione, ma non volevo apparire smarrita agli occhi degli abitanti del villaggio; continuai a camminare, cercando di allontanare dalla mia testa pensieri irragionevoli e ansie inutili. Accostai la foresta, coprendomi il volto col velo, perché vidi uomini e nani impegnati a bere quello che mi sembrava un quantitativo davvero notevole di birra.
 
Un altro movimento improvviso della folla mi fece sussultare, e urtai uno sconosciuto dal mantello scuro che mormorò qualcosa in una lingua strana, afferrandomi per le spalle. Quando mi vide in volto, trasalì.
« Eriu! Sei davvero tu? ».
Per un attimo boccheggiai. Stavo guardando negli occhi l’ultima persona che mi sarei mai aspettata di vedere: stavo guardando il volto di Vran.
Gli toccai le spalle e mi aggrappai a lui saldamente, tremando da capo a piedi. Ero così sconvolta da non riuscire a parlare.
« C-credevo… c-credevo fossi m-morto! », riuscii soltanto a balbettare, isterica.
Lui scosse il capo tristemente. « Sto bene. Non avrei mai osato sperare di incontrarti di nuovo… », sussurrò sincero, scostandomi una ciocca di capelli dal viso.
« Stavo cercando di tornare a casa, ma credo di essermi persa. La folla mi ha confusa. »
Lui indicò un punto lontano, afferrandomi per un gomito. « Il sentiero è da quella parte », poi prese un respiro, e mi rivolse di nuovo parola, « Devi andare subito? Sono venuto in questa parte del mondo solo nella speranza di poterti rivedere… ».
Non risposi immediatamente. Le mie gambe erano diventate improvvisamente immobili, come se avessero deciso di non muoversi più.
Soltanto il destino poteva avermi condotta lì, da sola, nelle braccia di Vran. Lo guardai un’altra volta, e vidi molte cose: il ragazzo che mi aveva salvata dalla foresta, anni prima, e che aveva curato la mia ferita; il giovane pieno di energie e di dolcezza, che parlava dei suoi sogni. Ma vedevo anche l’uomo che era diventato, la mascella volitiva, il volto segnato dallo scontento e dell’esperienza. E vidi anche l’ombra del desiderio fare capolino tra i suoi occhi color nocciola che ricordavo così bene.
« No », risposi in un sibilo, « Posso restare ancora un pò ».
 
Non pensai alle mie figlie, né a mio marito, o a Raghnaid. Senza dubbio lei mi avrebbe intimato di allontanarmi immediatamente da quell’uomo, ma per una volta – forse per la prima volta nella mia vita – ero intenzionata a fare ciò che io, e io sola, desideravo fare. E, quale che fosse il risultato delle mie azioni, solo io ne sarei stata responsabile.
« Allontaniamoci dalla folla ». Seguii Vran senza dire nulla; nessuno dei due sapeva dove ci stavamo dirigendo, ma eravamo insieme, e non ci importava del resto.
Ci trovavamo al margine della foresta, all’ombra dei noccioli. Il vociare della folla si era notevolmente affievolito, e gli alberi intorno a noi ci avvolgevano in un’ombra calda. Vran mi si pose davanti, sfiorandomi il volto con entrambe le mani.
 
Per mesi avevo convissuto con l’idea che Vran fosse davvero morto, e che non l’avrei mai più rivisto. Ma ora lui era lì, di fronte a me, e non potevo fare a meno di guardarlo, come nel timore che sarebbe sparito di nuovo da un momento all’altro.
« Cosa ti è successo? », chiesi con un filo di voce, sfiorando con dita tremanti le sue spalle coperte dal mantello, come per accertarmi che fosse tutto vero.
Lui mi sorrise, afferrando a sua volta la mia mano e posando un bacio delicato sulla punta delle dita.
« Da quando ho lasciato Bhreac e il villaggio ho viaggiato molto. Mi sono arruolato con quegli uomini, e pensavo di aver fatto la cosa giusta… ». Il suo sguardo si perse lontano, e non potei fare a meno di notare l’ombra di sofferenza che aveva attraversato il suo bel volto.
« Ho preso parte a una battaglia, Eriu. Ho ucciso altri uomini… l’orrore di quel giorno mi tormenterà fino alla morte. Sono fuggito… non potevo continuare con quella vita ». Mi guardò angosciato, gli occhi colmi di terrore.
« Sono un disertore per la mia gente, e un traditore per la tua ».
 
Gli strinsi la mano con forza, ma lui stava evitando il mio sguardo, e aveva gli occhi lucidi.
« Sono stati giustiziati degli uomini del tuo popolo, tempo fa. Temevo che fossi uno di loro », gli confessai tremante.
Lui scosse il capo, i capelli castani – più lunghi e incolti di come li ricordavo – si mossero leggermente.
« Li conoscevo, ma non ero uno di loro, e non ho preso parte alle loro azioni ».
Per moltissimo tempo mi ero chiesta che cosa gli fosse successo, se stesse bene, se fosse diventato uno di loro, uno dei “cattivi”… solo ora, vedendolo, mi rendevo conto del dolore che aveva passato, degli sbagli che aveva commesso e del senso di colpa che lo faceva soffrire come un pugnale conficcato nel cuore.
Rimanemmo in silenzio ancora qualche istante, uno accanto all’altra, sfiorandoci appena. Lui alzò lo sguardo e mi fissò a lungo, sprofondando nei miei occhi, avvicinando la sua mano alla mia guancia.
 
« Eriu… », sussurrò tremante. Sentii un brivido corrermi lungo la schiena, e il mondo intero parve fermarsi.
Forse era stato davvero il destino a condurci in quell’angolo di foresta, ma ora erano le nostre decisioni che avrebbero cambiato il futuro di entrambi, e probabilmente anche quello di altre vite dopo di noi.
Mi avvicinai, in punta di piedi, e lo baciai con passione, come avevo desiderato fare l’ultima volta che l’avevo visto, come avevo sperato di fare in tutti quegli anni… lui rispose al bacio con gemito, e la sua mano scivolò giù, oltre il mio collo, fino ad accarezzare il seno da sopra la veste. Mi afferrò saldamente per la schiena, attirandomi a sé con fare possessivo, facendo aderire i nostri corpi in maniera completa.
 
Come mossi da una forza invisibile, ci adagiammo a terra, storditi, mentre Vran mi alzava la gonna, mordendomi il collo e baciandomi la pelle nuda sopra il seno. Non avevo mai desiderato Thorin allo stesso modo: era un bisogno del tutto nuovo.
Ero impaziente di sentire Vran dentro di me, e lo spinsi verso il mio bacino, abbassandogli le brache con gesti sbrigativi. Lui mi guardò con occhi accecati dalla passione, e poi si lasciò andare su di me, abbandonandosi dentro al mio corpo, mentre entrambi ansimavamo di piacere.
 
*
 
Restammo abbracciati ancora qualche istante; dopo quella che mi parve un’eternità, mi feci coraggio e mi rialzai, seppur riluttante ad abbandonare le braccia di Vran. Lui mi guardò.
« Non andare. Vieni via con me ».
Ricambiai il suo sguardo, carezzandogli una guancia. « Devo andare, e anche tu. Tu sei un soldato, Vran, e non mi importa per quale parte tu abbia scelto di combattere. Ma come me sei vincolato dai giuramenti che hai prestato. Io ne ho violati alcuni, oggi… ma questo non basta per liberarmi ».
Lui si rivestì velocemente, ributtandosi addosso il pesante mantello da viaggio. Lo guardai immobile.
 
« Cosa farai? ».
« Non ne ho idea », ammise sincero, alzando le spalle, « Se uno dei vostri mi scovasse, mi impiccherebbero di sicuro… credo che sappiano tutto. Andrò da Bhreac, deve sapere che sto bene. Poi mi nasconderò  ».
Una lacrima mi solcava la guancia.
Vran parve intuire la mia angoscia; mi si avvicinò, stringendomi un’ultima volta, affondando il bel volto nei miei capelli scuri.
 
« Ci rivedremo mai? ».
« Se il destino lo vorrà, ci rivedremo sicuramente ».
 



Contro ogni previsione, ce l'ho fatta! Anche questo capitolo, un pò per la sua essenzialità, mi è costato davvero moltissimo tempo e fatica, quindi spero davvero possa piacervi. Per scriverlo mi sono ispirata all'incontro / scontro contenuto nel libro "Le querce di Albion".
Come sempre ringrazio le dolcissime ragazze che commentano ogni mio capitolo e mi incoraggiano ad andare avanti... grazie mille davvero!
A presto, spero,
Lola
 


** L'incontro tra Eriu e Vran si ispira a quello tra Gawen e Eilan, come nel romanzo "Le querce di Albion", di Marion Zimmer Bradley.  

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


Capitolo XIV
 


Quando finalmente ritrovai il sentiero e fui in grado di tornare a casa, scoprii che tutta la mia famiglia si trovava lì, e mi attendevano; raccontai a Raghnaid e Bronnen di essermi persa tra la folla e di averli cercati per la fiera senza successo. Le bambine corsero ad abbracciarmi e mi ci volle molto per tranquillizzarle: avevano avuto molta paura.
Ero stordita dalla situazione; il fatto di aver giaciuto con un altro uomo mi diede molto a cui pensare, e mi aggiravo per casa angosciata, come se mi aspettassi da un momento all’altro che qualcuno venisse a conoscenza del mio segreto e mi accusasse apertamente di tradimento nei confronti di mio marito e della mia razza.
 
Avevo ritrovato Vran, e l’avevo perso una seconda volta. Mi sembrava assurdo che il mondo continuasse a girare come se nulla fosse successo. Tutto era successo, tutto era cambiato.
Ma non potevo continuare a pensare a un uomo che forse non avrei mai più rivisto, per quanto io lo amassi. Le mie figlie avevano bisogno di me soprattutto ora che il loro padre era lontano, a combattere un male che sembrava insormontabile.
I giorni si succedevano, e il consueto equilibrio cominciò a ristabilirsi nella mia vita. Per qualche tempo le mie ansie si placarono, ma mano a mano che l’estate procedeva verso l’autunno, capii che qualcosa era davvero cambiato in me. All’inizio non ci diedi peso perché non avevo mai avuto cicli regolari, ma quando il secondo mese arrivò e passò, capii perfettamente cosa stava accadendo. Dopotutto mi era già successo, e conoscevo molto bene il mio corpo e i suoi ritmi.
La sensazione di felicità istintiva per essere di nuovo incinta lasciò immediatamente il posto al terrore puro. Chiaramente il bambino che portavo in grembo non era di Thorin. Che cosa avrebbe detto se l’avesse saputo? Mi avrebbero cacciata, o peggio… uccisa? E cosa ne sarebbe stato del bambino? Avrebbe avuto il mio aspetto, o quello degli uomini?
I dubbi mi tormentavano e non mi facevano dormire la notte.
Pensavo e speravo con tutta me stessa che nessuno si accorgesse della gravidanza, e passavo le giornate chiusa nelle mie stanze, con le bambine, senza farmi vedere dagli altri membri della casa.

L’autunno era ormai alle porte; non avevamo ancora ricevuto notizie di Dáin e Thorin, né – almeno da parte mia – di Vran. Mentre il mio ventre si ingrossava diventava sempre più complicato nascondere la gravidanza. Di tanto in tanto mi sembrava che Bronnen mi fissasse, ma fu solo un mattino di settembre che me la ritrovai davanti, dopo aver vomitato – per l’ennesima volta – la colazione che mi ero appena sforzata di ingerire.
I suoi occhi indugiarono sulle mie guance scavate e sui miei seni colmi.
« Da quanto stai così? », chiese, tendendomi le braccia. Non risposi, ma mi strinsi immediatamente a lei singhiozzando. Sapevo che non avrei potuto mentirle. Non questa volta.
« Dalla festa di inizio estate… », balbettai, affondando il mio volto nella sua spalla.
Lei mi fissò con tenerezza. « Allora immagino che sia stato quel giovane… Vran. E’ vivo, dunque? ».
Annuii, asciugandomi le lacrime con la manica dell’abito.
« Bronnen, non puoi dirlo a nessuno, giuramelo! », le urlai disperata, retrocedendo di qualche passo.
« Non lo farò, bambina. Ma se l’avessi saputo subito, avrei potuto aiutarti e fare qualcosa. Ora sei già al quarto mese, e sarebbe troppo rischioso ».
D’istinto posai entrambe le mani sul mio ventre, come a proteggerlo da quelle inverosimili parole di minaccia.
Bronnen mi guardò confusa. « Tu vuoi questo bambino? ».
Annuii, senza parlare. Quello era il figlio mio e di Vran, e per quanto la situazione fosse indubbiamente difficile, già lo amavo con tutta la mia anima.
« Allora dobbiamo pensare a qualcosa », concluse Bronnen, stringendomi la mano con fare affettuoso.
 
*
 
Senza Bronnen al mio fianco probabilmente non ce l’avrei mai fatta: fu lei a cucirmi vesti più larghe per camuffare la gravidanza, e disse a tutti che avevo bisogno di molto riposo poiché avevo avuto un tracollo emotivo a causa della lontananza di Thorin. Nel villaggio si diffuse la voce che ero gravemente malata, e che non potevo uscire di casa.
Dalla partenza di suo marito e di suo figlio, d’altronde, Raghnaid sembrava distante e spenta, e questo fu un gran sollievo sia per me che per me Bronnen. Non potevamo però rischiare che Thorin ci sorprendesse tornando all’improvviso e che mi trovasse in quello stato, né che partorissi il figlio di un altro in casa di Dáin. Per settimane pensammo a una possibile soluzione, e mi venne in mente di recarmi dall’unica persona che – sapevo – mi avrebbe aiutata senza fare domande o sollevare questioni: mia sorella Morud.
 
Decisi di recarmi sugli Ered Mithrin all’inizio dell’ottavo mese: la gravidanza era oramai quasi giunta al termine e non potevo rischiare un parto prematuro. Quando comunicai a Raghnaid l’intenzione di allontanarmi dai Colli Ferrosi per qualche tempo – seguita, ovviamente, dalla fedele Bronnen – lei non si scompose: non ci eravamo mai sopportate, e la convivenza, specialmente ora che eravamo sole, metteva a disagio lei quanto me. Le dissi che la decisione di partire era dovuta a motivi di salute, e che l’aria della montagna avrebbe sicuramente giovato al mio spirito malato.
Mi permise di partire, a condizione che fossimo scortate da tre guardie e che non ci allontanassimo mai dalla dimora di mia sorella. Sapevo che in verità non temeva per la mia incolumità, quanto piuttosto per la reazione del figlio se mai mi fosse successo qualcosa.
 
Salutai le bambine con tristezza, perché sapevo che mi sarebbero mancate moltissimo, e io a loro. Eara e Lair erano ancora troppo piccole per capire veramente cosa stesse succedendo, ma lo sguardo duro di Aimil mi colpì nel profondo; quel suo volto così serio e simile a quello del padre mi mise in soggezione.
« Sii coraggiosa, Aimil. Tornerò prima che tu te ne renda conto ».
Lei mi cinse il collo senza piangere, e io affondai il volto nei suoi capelli ramati, beandomi di quel momento e del suo profumo. Mi venne difficile staccarmi da lei, ma sapevo che non avevo scelta.
Montai sulla carrozza coperta dal pesante mantello, tenendo la mano di Bronnen, e feci cenno al cocchiere di avanzare. Accostammo la foresta, e mi sporsi oltre la piccola apertura del mezzo per osservare da vicino gli alberi: lì tutto era iniziato, e tutto era cambiato.
Come allertato dalla mia agitazione, il bimbo prese a scalciare assiduamente e dovetti respirare a fondo per calmarlo.
 
*
 
Il viaggio fu più lungo di quanto inizialmente mi ero aspettata, e decisamente scomodo: i continui sballottamenti della carrozza mi obbligavano a stendermi a occhi chiusi, per evitare la spiacevole sensazione di nausea che quel movimento mi provocava. Fummo però molto fortunati, perché non incontrammo nessun ostacolo o pericolo, e non ci allontanammo mai dal sentiero principale che ci avrebbe condotto – in un giorno o due – nella casa di mia sorella.
Durante il viaggio mi chiesi più e più volte come avrebbe reagito Morud alla mia situazione: avevo deciso di comunicarle il mio arrivo qualche settimana prima, passandolo come una visita di piacere. Anche il marito di Morud era partito per la guerra e lei era rimasta sola con i due figlioletti. A volte sognavo i suoi occhi colmi di collera e disprezzo alla mia vista, e mi ci volevano diversi minuti per calmarmi e far passare quella sensazione di angoscia.
Ma dopotutto, nonostante tutto il tempo in cui eravamo state separate, lei era ancora mia sorella, sangue del mio sangue, e nel profondo sapevo che non mi avrebbe mai tradita.

 
Fortunatamente avevamo pesanti mantelli e scialli con cui coprirci, poiché l’inverno sulle Montagne Grigie arrivava prima ed era molto più pungente di quanto io fossi abituata. Sentivo la carrozza scricchiolare sul sentiero ghiacciato e vedevo il fumo uscire dai comignoli delle case che ci circondavano.
Mia sorella ci venne incontro sorridente, tenendo per il mano il figlio più grande: era la prima volta che vedevo mio nipote.
« Eriu! », esclamò Morud entusiasta, salutandoci  dalla soglia dell’abitazione.
L’abbracciai velocemente: nonostante i vari strati di abiti che mi proteggevano, il mio ventre ingrossato poteva essere facilmente notato da un occhio attento. Mentre le guardie facevano riposare i cavalli, Morud ci invitò ad entrare nella sua casa, che era decisamente più piccola rispetto alla mia sui Colli Ferrosi, ma non per questo meno graziosa. Ci venne offerto un decotto fumante davanti a un bel fuoco caldo, e sia io che Bronnen sospirammo di sollievo dopo il lungo viaggio che avevamo sopportato.
Bowed, il figlio maggiore di mia sorella, era poco più piccolo di Aimil, ma decisamente più biondo; giocava con i suoi soldatini intagliati in legno ai nostri piedi, sul tappeto davanti al fuoco, mentre Bedwyr, il secondogenito – nato appena quattro mesi prima – ora stava riposando in un’altra stanza.
Guardavo Morud impartire ordini e dirigere la casa e mi stupivo di quanto fosse cambiata: ora entrambe eravamo madri, e avevamo dovuto crescere per il bene dei nostri figli.
Per giorni mi ero tormentata al pensiero che Morud mi cacciasse per la terribile vergogna che nascondevo sotto le vesti larghe… così decisi di non indugiare oltre.
 
« Morud, c’è una cosa che devo dirti », le comunicai senza giri di parole, mentre Bronnen, seduta accanto a me, si faceva improvvisamente attenta e silenziosa, mettendosi più dritta sulla poltrona.
Mia sorella mi fissò incuriosita; lanciai uno sguardo eloquente alla giovane serva che stava sistemando i giochi del bambino in un angolo della stanza, e Morud seguì il mio sguardo, intuendo immediatamente la mia tacita richiesta.
« Sianna, porteresti Bowed a fare un bagno caldo? ». La giovane annuì, tendendo la mano verso il bambino, che la seguì obbediente chiudendo la porta dietro di sé.
Morud appoggiò la tazza sul tavolo, congiungendo le mani in grembo e osservandomi impaziente. Presi un bel respiro.
« Bronnen, potresti aiutarmi a…? ». Ma lei era già pronta al mio fianco, e con delicatezza mi aveva aiutato ad alzarmi, sfilandomi lo scialle e allentando il corpetto dell’abito che indossavo.
Morud, ancora seduta, ci osservava confusa; finalmente rimasi in sottoveste, e mi premetti le mani sul ventre, facendolo aderire bene alla stoffa per renderlo più visibile.
 
« Aspetti un figlio, Eriu? Perché non me l’hai detto subito? E’ un’ottima notizia! ».
Mia sorella si era alzata per sfiorarmi il pacione, e sorrideva estasiata al contatto con quella nuova vita. La sua gioia mi fece vergognare e cercai con gli occhi Bronnen, che mi fece un segno di incoraggiamento.
« Morud, non posso avere questo bambino sui Colli Ferrosi. Per questo sono venuta da te. Deve nascere qui, lontano e protetto ».
Morud aggrottò il volto, osservandomi con occhi carichi di dubbi.
« Perché mai? Thorin non sa che sei incinta? », mi chiese a bassa voce.
Mi morsi il labbro inferiore, cercando di trattenere le lacrime. Lei parve capire, perché improvvisamente abbandonò le braccia lungo i fianchi e sbiancò il volto.
« Il bambino non è suo? », domandò con un filo di voce appena, portandosi una mano alla bocca.
Scossi la testa, senza parlare. Vidi mia sorella retrocedere, cercando a tentoni la sedia sulla quale si era seduta, prima di trovarla e di accasciarsi sopra, una mano al petto come per calmare il cuore impazzito.
 
Lasciai che Bronnen mi rivestisse, senza muovermi; i miei occhi erano ancora fissi su mia sorella, in attesa di una reazione – qualsiasi reazione – da parte sua.
Ora eravamo sedute tutte e tre, e l’unico rumore presente nella stanza era lo scoppiettare dei bracieri nel fuoco e il respiro lento e profondo di Bronnen.
Dopo quella che mi parve un’eternità, Morud alzò lo sguardo su di me, e parlò di nuovo.
« Di chi è il bambino? ».
Abbassai gli occhi, colma di vergogna. « Di un uomo ».
« Lo stesso di cui mi parlasti la notte prima del tuo matrimonio? ».
Annuii senza rispondere.
« E lui lo sai che porti in grembo suo figlio? ».
« No… Non posso rivederlo, è troppo pericoloso. E’ un fuggitivo ». Iniziai a piangere silenziosamente, incapace di trattenermi oltre. La mancanza di Vran era accentuata da ogni movimento del bambino nel mio ventre, e mi disperavo per la sua assenza, anche solo parlandone.
Morud si alzò improvvisamente, avvicinandosi e inginocchiandosi di fronte a me, stringendomi le mani con forza.
« Ti aiuterò ad avere questo bambino. Qui sei al sicuro ».
Mi lasciai andare a un pianto disperato, abbracciando Morud come forse non avevo mai fatto nella mia vita, nemmeno quando eravamo piccole. Mi diedi della stupida per aver dubitato di mia sorella: sapevo fin dall’inizio che non mi avrebbe mai abbandonata.   



Eccomi, con un giorno di ritardo dalla pubblicazione. Eh bhé, diciamo che le cose si mettono malaccio per Eriu! 
Nel prossimo capitolo conosceremo (forse?) il bambino/a di Vran, chissà cosa succederà...
Spero che il capitolo vi piaccia!

** Come sempre, riporto l'attenzione alle ispirazioni che mi hanno aiutata in questo capitolo, e in particolare la rivelazione della gravidanza a Bronnen ("Le querce di Albion", di Marion Zimmer Bradley)

Al prossimo aggiornamento,
Lola

 
 

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


Capitolo XV
 

Nelle settimane che seguirono Morud ci fece sistemare in una comoda stanza accanto alla sua; le neve continuava a scendere copiosa sugli Ered Mithrin, e mia sorella aveva detto agli aiutanti dell’abitazione che ero molto malata, e aveva chiesto loro di non disturbarmi per nessun motivo.
Non avevo bisogno di una levatrice per sapere che mancava davvero poco alla nascita del mio bambino, ma non per questo mi sentivo meno angosciata. Avrei voluto avere Vran accanto, e anche le mie bambine. Nei molti momenti liberi di cui disponevo scrivevo loro lunghe lettere, in cui raccontavo quanto fossero belli i loro cuginetti e che presto le avrei raggiunte a casa con graziosi regali per tutta la famiglia.
Mano a mano che il parto si avvicinava diventavo più nervosa e taciturna, e anche il bambino sembrava in preda a uno stato perenne di agitazione: scalciava e si dimenava nel mio ventre – che forse, per lui, era davvero troppo piccolo – e non mi faceva chiudere occhio la notte.
A volte pensavo a Thorin, in guerra, e mi sentivo tremendamente in colpa per il segreto che gli stavo nascondendo, ma sapevo che lui non avrebbe mai capito: le nostre anime, fin da quando ci eravamo conosciuti, erano sempre state troppo distanti.
 
Un pomeriggio di metà febbraio mi trovavo con Morud, Bronnen e Bowed nel salotto, tutti di fronte al camino; Bronnen stava filando, mentre Morud osservava divertita il figlioletto più piccolo che le dormiva beato fra le braccia, mentre Bowed giocava poco distante. Io me ne stavo in disparte: indossavo una veste dismessa di mia sorella, sbiadita e chiaramente troppo stretta sul ventre, che mi faceva sembrare ancora più goffa; avevo le caviglie gonfie ed ero decisamente di pessimo umore.
Morud mi si sedette accanto, appoggiando il neonato nella sua culla, e ammiccando al mio ventre pronunciato.
« Non deve mancare ancora molto », disse, « Penso che potresti partorire prima della fine di questo mese ».
Le risposi con una smorfia stizzita, sentendo il bambino scalciare per l’ennesima volta.
« Attizzo il fuoco », annunciò Bronnen, alzandosi dalla sua poltrona, rischiando quasi di inciampare in uno dei legnetti con cui stava giocando Bowed.
« Bowed, perché non sposti tutta questa robaccia? », sbottò Morud indispettita. Il bambino, che aveva appena quattro anni, proruppe in un grido indignato: i pezzetti di legno con cui stava giocando erano i suoi eserciti.
« E’ quasi notte, Bowed, e i tuoi soldati dovranno rientrare nel loro accampamento », gli disse Bronnen sorridente, tornando a sedere. Imbronciato, il bambino raccolse i suoi giochi riponendoli nelle pieghe della veste.
« Quando sarò abbastanza grande per andare in guerra come mio padre? ».
« Dovrai attendere ancora », gli risposi io dolcemente, carezzandolo in volto, « quando sarai tanto alto da non perderti tra la neve! ».
« Ma io sono già alto! », rispose indignato, tirando un calcio alla sedia. « E poi qui non c’è nessuno con cui giocare, e Bedwyr dorme sempre! ».
« Tra poco potresti avere un cuginetto o una cuginetta con cui giocare », le disse sua madre, prendendolo sulle ginocchia.
Io la guardai allarmata. Aveva senso raccontare a Bowed del bambino, sapendo che non sarei rimasta lì con loro per sempre?
Bowed parve confuso quanto me, e si guardava intorno in cerca di risposte.
« Io non vedo nessun cuginetto. Dov’è? », chiese curioso.
Questa volta fui io a rispondere. « Te lo mostrerò tra qualche settimana, Bowed ».
« O tra qualche giorno », aggiunse Morud, strizzandomi l’occhio.
 
*
 
Mia sorella aveva ragione. Le contrazioni iniziarono due giorni dopo quella conversazione, nel cuore della notte. Allarmata dai miei lamenti, nonostante avessi cercato di camuffarli, Bronnen corse a svegliare e a chiamare Morud. Lei non perse tempo e venne subito nella mia camera, chiedendo a Bronnen di scaldare l’acqua e di portarci delle pezze pulite e asciutte. Il travaglio continuò senza interruzioni fino alle prime ore dell’alba, e Morud disse alle due servette della casa che per almeno due giorni non avrebbe avuto bisogno del loro aiuto, e che quindi potevano considerarsi libere di fare ciò che volevano.
Mandò però Bronnen a chiamare una levatrice che conosceva bene, e di cui – mi aveva assicurato – potevamo fidarci.
Non avevo mai sofferto così tanto, nemmeno quando erano nate le gemelle. Sentivo il bambino contorcersi e spostarsi nel mio ventre, e pensavo che non doveva essere facile nemmeno per lui, incastrato com’era in quel corpo che stava facendo di tutto per cacciarlo fuori verso il mondo.
Camminavo avanti e indietro, fermandomi e appoggiandomi alla sponda del letto quando l’ennesima contrazione mi faceva piegare in due per la sofferenza. La levatrice era molto gentile, e mi massaggiava la schiena con delicatezza, ma niente sembrava aiutarmi. Le ore passavano lentamente, e Morud lasciava la stanza solo per brevi momenti, per assicurarsi che i figli stessero bene o per allattare il piccolo Bedwyr.
Quando venne la sera, e poi la notte, senza che la situazione progredisse, era chiaro che qualcosa non stava funzionando a dovere, e - nonostante io fossi decisamente allo stremo delle forze - non mi sfuggirono gli sguardi angosciati che si scambiavano le tre donne accanto a me.
Vorrei che potesse essere qui!, pensai con rabbia, stritolando la mano di Morud mentre il bambino si contorceva dentro di me, vorrei che ogni uomo potesse vedere quanto una donna soffre per mettere al mondo suo figlio!
 
Sentii vagamente, come in lontananza, le parole della levatrice: « Le contrazioni sono rallentate, e l’utero sembra più chiuso di prima … ».
« Eriu… », sibilò sotto voce mia sorella, facendosi più vicina, « Il padre è molto più grande di noi? Quando un bambino ci mette molto a nascere, a volte, significa che è troppo grosso per la madre ».
Sapevo cosa voleva dire, in realtà, la sua domanda: il bambino non usciva perché era il figlio di un uomo, e il mio corpo non era adatto a lui. O forse era il mio corpo stesso che si rifiutava di liberarlo, perché sapevo che – una volta nato – avrei dovuto separarmene per sempre.
Ma se doveva succedere, io ero pronta a morire per quel figlio, e in un lampo di lucidità afferrai saldamente la mando di Morud nella mia.
« Dovete tagliarmi il ventre e fare uscire il mio bambino, altrimenti morirà… ».
Lei si ritrasse inorridita, con le lacrime agli occhi.
Perché non capivano? La mia sofferenza era diventata insopportabile, e volevo solo che il mio bambino nascesse sano, anche se ciò significava sacrificare la mia vita.
 
Bronnen si fece spazio vicino al letto, prendendomi il volto con entrambe le mani.
« Non morirai, Eriu, e nemmeno il tuo bambino. E’ venuto il momento di lottare… mi hai capita? ».
Il suo volto era stravolto dal dolore, ma vidi lampeggiare nei suoi occhi stanchi la luce della tenacia, e decisi di seguirla.
 
Il travaglio si protrasse per tutto il giorno successivo, e poco prima della fine del pomeriggio la levatrice mi fece inarcare la schiena, poiché diceva di vedere la curva della testa del bambino all’apertura dell’utero.
Sorretta da Morud e Bronnen, seppur sfinita, iniziai a spingere.
« Non ce la faccio! », urlavo disperata, lasciandomi cadere all’indietro.
« Invece si! », esclamò mia sorella, « Questo bambino nascerà, per Mahal! ».
Le mani della levatrice si posizionarono sul mio ventre contratto, e lo stesso fecero quelle più delicate di Bronnen. Spingevano il bambino verso il basso, e per un attimo mi sembrò davvero di sentire l’energia delle due donne attraversare il mio corpo come una scarica elettrica.
« La testa è uscita! ».
 
Digrignai i denti e resistetti alla tentazione di lasciarmi andare. Oramai era fatta: il resto del bambino uscì alla contrazione successiva, e lo sentii piangere e strillare a pieni polmoni.
Alzai il volto sudato per guardarlo e vidi mia sorella piangere: tra le mani reggeva il piccolo insanguinato, e me lo porse avvolto nelle fasce che erano state preparate.
« E’ un maschio! ».
Un maschio!, pensai stordita, mentre mi mettevano il bambino tra le braccia. Era grosso, molto più grosso di quanto era stata Aimil già a tre mesi, e mi fissava con quegli occhi ancora senza colore, mettendosi un dito in bocca.
« Come si chiamerà? », mi chiese Bronnen dolcemente, carezzando la testa del piccolo.
« Il suo nome è Vran, come suo padre ».




Eccomi! Perdono, perdono, perdono per essere sparita! Agosto è un mese incasinato, e temo lo sarà ancora di più Settembre, perché sto organizzando il mio trasferimento all'estero!
Spero di riuscire a mantenere la regolarità degli aggiornamenti... intanto vi lascio a questo nuovo capitolo!



** I momenti precedenti al parto sono ispirata alla gravidanza di Morgana la Fata, nel libro "Le nebbie di Avalon", di Marion Zimmer Bradley. Il parto è tratto dalla "Signora di Avalon", della stessa autrice.
Lola

 

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


Capitolo XVI
 

Il parto era stato così difficile che rimasi a letto senza alzarmi per dieci giorni. Vran stava bene, nonostante tutto, e finalmente potei allattarlo senza nessun ostacolo. Apparteneva decisamente alla razza degli uomini: era lungo e grosso, e mia sorella lo aveva vestito con alcuni abitini del figlio più piccolo, Bedwyr, che all’epoca aveva già quattro mesi, e nel tempo libero di cui disponevano lei e Bronnen cucirono e ricamarono meravigliose tuniche, cosicché il piccolo potesse avere un corredino tutto suo; aveva pochi capelli, ma scuri, e i suoi occhi mi ricordavano quelli del padre, che non vedevo da così tanto tempo.
Lo tenevo tra le braccia e non riuscivo a dormire, anche se ero esausta. Sapevo che avrei dovuto separarmene, ma ogni fibra del mio corpo era fusa insieme a quelle del bambino, e il pensiero di allontanarmi da lui mi trafiggeva il cuore come una lama.
 
*
 
Oramai ero lontana dai Colli Ferrosi da sei settimane, e non potevo restare lì ancora a lungo. Dovevo tornare dalle mie figlie, da mio marito, e anche dalla sua famiglia: avevo obblighi e responsabilità da rispettare.
Ma chi si sarebbe occupato di Vran? Come potevo abbandonare il mio bambino appena nato? Morud sollevò la questione delicatamente, un pomeriggio di inizio primavera, mentre tenevo il bambino attaccato al seno.
« Cosa ne sarà di Vran? », chiese dubitante, sfiorandogli la testolina con dolcezza.
Ricambiai al suo sguardo, smarrita quanto lo era lei.
« Non lo so », risposi sinceramente, fissandolo con occhi colmi di lacrime.
Mia sorella si fece più vicina, appoggiando la schiena alla testata del letto.
« Ti direi di lasciarlo qui, ma non potrei spiegare la sua nascita in nessun modo. E’ uno di loro, Eriu ». Prese un respiro profondo, continuandomi a fissare esitante. « C’è un villaggio degli uomini poco distante. Sono brave persone, davvero. Potrebbero crescerlo loro ».
Spalancai gli occhi, disperata, come se avesse appena proposto di uccidere il bambino.
« Non potrò crescerlo in persona, ma non voglio stare lontana da lui. Non posso, Morud ».
Lei mi strinse la mano, appoggiando la sua testa sulla mia spalla.
Bronnen, che era nella stessa stanza intenta a cullare il piccolo Bedwyr, si fece avanti sedendosi sul lato del letto. Attese qualche istante prima di parlare, sistemandosi meglio il piccolo fra le braccia, prima di guardarmi negli occhi.
« Ho una sorella che abita nel nostro villaggio. Ha già tre figli suoi, ma sono certa che sarebbe felice di crescere Vran… e non farà domande. Possiamo fidarci ».
Rimasi immobile, osservando il mio bambino colma di angoscia e paura. Morud mi appoggiò la testa sulla spalla, sospirando pesantemente. Sapevo che condivideva il mio stesso dolore.
« Ma cosa succederà quando crescerà? Quando diventerà chiaro che… non è uno di noi? ».
« Vran ha un padre », dissi improvvisamente, rivolgendomi a entrambe le donne che mi guardavano confuse, « In realtà è il suo padre adottivo. Potrebbe tenerlo lui, quando sarà più grande ».
Bronnen annuì solenne; il bambino si staccò dal mio seno e prese a sbadigliare vistosamente, sazio di cibo ma non altrettanto di energie. Lo cullai dolcemente, fino a che i suoi occhi si fecero pesanti e si addormentò.
Non riuscivo nemmeno a concepire l’idea di staccarmi da lui, anche se – inconsciamente – avevo sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato, e che avrei dovuto rinunciare a mio figlio, così come avevo rinunciato tempo prima a suo padre, l’uomo che amavo. Almeno sarebbe rimasto nel villaggio, pensavo, non sarebbe stato così lontano da me.
« E sia », sibilai a bassa voce, nel timore di svegliare il piccolo Vran, « Affiderò il bambino a tua sorella, Bronnen ».
Lei mi strinse la mano, accarezzandomi con l’altra la guancia.
« Mi assicurerò che non gli manchi niente ».
Ero certa di potermi fidare di lei: avrei messo nelle mani di Bronnen la mia stessa vita.
Eppure sapevo che nelle sue parole c’era qualcosa di sbagliato. Non era vero che al bambino non sarebbe mancato niente. Al bambino sarei mancata io.
 
*
 
La neve si stava sciogliendo lungo i sentieri degli Ered Mithrin, ed era primavera inoltrata. Vran era fasciato in una spessa coperta di lana e riposava tranquillo, ben coperto dal mio mantello da viaggio, di modo che non desse nell’occhio: i soldati che ci avrebbero scortati fino ai Colli Ferrosi erano troppo distratti per notare qualsiasi cosa, ma non volevo che si chiedessero perché un neonato viaggiava con noi.
Abbracciai mia sorella, facendo attenzione a non schiacciare il piccolo, e lei mi salutò col volto rigato dalle lacrime; non sapevo quando l’avrei rivista, e il pensiero di lasciarla ancora una volta mi tormentava. Entrambe sapevamo di non avere altra scelta. Diedi un leggero buffetto a Bowed, attaccato alle gonne della madre, e li salutai con la mano mentre montavo in carrozza, seguita da Bronnen. Ero ancora dolorante dal parto, e mi lasciai scivolare sul sedile ad occhi chiusi, controllando che Vran continuasse a dormire.
Se avessi potuto scegliere, sarei rimasta con Morud e i suoi figli sulle Montagne Grigie, insieme al mio bambino… ma cosa ne sarebbe stato delle altre mie figlie? Il mio cuore era diviso a metà, incapace di scegliere, dilaniato dal dolore e della perdita.
 
Il viaggio fu lungo e scomodo, come lo era stato all’andata, ma Vran rimase sempre tranquillo; mangiava voracemente, e poi si addormentava tra le mie braccia o in quelle di Bronnen. Spesso mi incantavo a fissare il suo visetto, così perfetto ai miei occhi perché mi ricordava bene quello del padre, e mi emozionava immaginare cosa avrebbe detto Vran se fosse stato a conoscenza dell’esistenza di suo figlio.
Ma come potevo comunicarglielo? Non sapevo dove si trovava, e sulla sua testa, molto probabilmente, gravava la taglia di traditore.
Cercammo di fermarci il meno possibile, rifiutando la possibilità di rinfrescarci il volto lungo i corsi d’acqua e i ruscelli riscaldati dal sole di primavera: volevamo giungere a destinazione il prima possibile, anche se sapevo che ciò significava separarmi dal mio bambino.
All’alba del terzo giorno di viaggio, sporgendomi dalla carrozza, riconobbi in lontananza la sagoma dei villaggi dei Colli Ferrosi, e intorno ad essi il bosco fitto e gli alti alberi. Cominciai a diventare irrequieta, e strinsi più forte contro il mio petto Vran. Lui sbatteva le palpebre e mi osservava confuso, come se avesse compreso la gravità di quella situazione.
Quando fummo più vicine, Bronnen mi fece cenno verso la casa di Dáin, e notai senza difficoltà lo stendardo di famiglia sventolare mosso dal forte vento. Sapevo cosa significava: il signore dei Colli Ferrosi era ritornato dalla guerra, ma non avevo idea delle condizioni in cui era tornato.
Al limitare del villaggio, Bronnen batté la mano tre volte sul soffitto della carrozza, e i cavalli si arrestarono immediatamente. La guardai sporgere il volto per rivolgersi ai soldati.
« Desidero fermarmi qui. La principessa Eriu procederà con voi ».
Sbattei le palpebre terrorizzata, afferrando più saldamente il corpicino di Vran. Bronnen ricambiò il mio sguardo con fare comprensivo.
« E’ ora, Eriu. Dammi il bambino ».
Gli occhi mi si riempirono di lacrime, e guardai Vran colma di angoscia, mentre le mani delicate di Bronnen lo portavano via da me. Piegò con cura la coperta che lo avvolgeva e lo adagiò dolcemente sotto il suo mantello, avvicinandosi all’uscita della carrozza.
Prima di allontanarsi, si voltò a guardarmi un’ultima volta.
« Ti prometto che starà bene. Tornerò da te prima di sera ».
La carrozza riprese il suo lento andare, ma non me ne accorsi affatto. Guardavo le mie mani vuote, riuscendo ancora a percepire il calore del mio bambino, cercando disperatamente di aggrapparmi al suo profumo per non dimenticarlo.
 
Scesi con piedi malfermi dalla carrozza, e mi avvicinai tremante all’entrata della casa. Non riuscivo a pensare razionalmente, e tutto di quella dimora mi appariva estraneo e confuso. Il salone era semi-deserto, e rimasi lì al centro, immobile, in attesa di qualcosa o qualcuno che desse un senso a quegli istanti.
Sentii come in lontananza dei passetti venire verso di me, e mi voltai appena in tempo per riconoscere la chioma rosso fuoco della piccola Aimil. Rimase a fissarmi con quei suoi occhi così profondi per qualche secondo, prima di correre tra le mie braccia.
Scoppiai a piangere non appena la toccai: la sua presenza rendeva l’allontanamento del piccolo Vran ancora più grande. Aimil mi fissava confusa, abituata com’era a vedermi sempre sorridente e di buon umore, e mi accarezzò la guancia con la sua manina delicata.
Udii altri passi provenire dal corridoio, e oltre la spalla di Aimil intravidi le gemelle, ormai sicure nei loro passi, seguite da una figura zoppicante. Quando tutti e tre furono visibile alla luce delle fiaccole del salone, riconobbi Thorin: aveva un braccio appeso al collo, coperto da una spessa fasciatura, mentre un’altra gli ricopriva la caviglia. Ma fu il suo volto colmo di stanchezza e sofferenza che mi lasciò più di tutto senza parole.
Mi alzai, tenendo stretta nella mia la mano di Aimil e accogliendo tra le mie braccia, una dopo l’altra, le gemelle; i loro sorrisi curiosi mi facevano ridere, così come le loro manine paffute che sfioravano ogni parte del mio viso, come se non credessero davvero ai loro occhi.
Thorin mosse incerto qualche passo, trascinandosi il piede malconcio. Con il capo gli feci cenno di sedersi accanto a me su una delle panche del salone, mentre le bambine giocavano tra di loro. Lo aiutai ad abbassarsi, afferrandolo delicatamente per il braccio sano, il suo volto contratto dal dolore.
 
Rimanemmo così qualche istante, uno accanto all’altra, in silenzio, ad osservare Aimil rincorrere le gemelle e fare orribili versi, in quella che era chiaramente la degna imitazione di un drago sputafuoco.
Poi finalmente Thorin parlò.
« Vorrei tornare ad avere la loro età », disse sorridendo tristemente, mentre io lo guardavo stupita. « Quando sono tornato, Eara e Lair piangevano e non volevano che le prendessi in braccio, perché non mi riconoscevano ». Fece una pausa. « Questo non fa certo di me un ottimo padre ».
Deglutii, incapace di consolarlo. Come potevo io dire qualcosa, quando avevo appena abbandonato il mio bambino?
« Le tue ferite sono gravi? », chiesi invece nervosamente, indugiando sulle fasciature.
Lui sospirò. « Guariranno, col tempo. Sono stato fortunato. Ma mio padre… ».
Lasciò cadere il discorso nel vuoto, e vidi che aveva gli occhi lucidi. L’assenza di D
áin e Raghnaid, in un primo momento, mi era apparsa del tutto normale, ma solo ora mi rendevo conto di cosa significasse davvero.
Attesi che continuasse, stringendogli la mano del braccio sano.
« E’ stato trafitto da una spada, ma la ferita non era pulita e gli ha creato un’infezione. Ha la febbre da giorni oramai, e non accenna ad abbassarsi ».
Sapevo cosa significava: D
áin aveva quel tipo di ferita che nel giro di pochi giorni avrebbe messo sicuramente fine alla sua vita. Abbassai lo sguardo, facendomi più vicina a Thorin, osservando da lontano le bambine divertirsi tra di loro.
 
« Perché sei stata lontana così a lungo? », mi chiese infine, alzandomi il mento con la mano.
Sospirai nervosa. « Mi sentivo molto male, Thorin. Avevo bisogno di allontanarmi ».
Lui mi fissò serio, accarezzandomi la guancia. « Capisco. E ora come ti senti? ».
« Meglio », mentii sprezzante, « Molto meglio ».




Ciao ragazze! Scusate l'attesa, e il ritardo :) come dicevo, mancano solo 10 giorni al mio trasferimento, e ogni giornata è più caotica dell'altra!
Spero che questo capitolo vi piaccia, e mi posso solo augurare di riuscire a pubblicare con più frequenza prossimamente!
Buona lettura,
Lola

 

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


Capitolo XVII
 

Correvo a perdifiato nella foresta, inciampando in radici e arbusti, incurante di graffi e tagli alla pelle.
Era buio, e una leggera nebbiolina rendeva il bosco ancora più sinistro di quanto non mi fosse sembrato a prima vista. Indugiai qualche istante sui grossi alberi intorno a me, alzando lo sguardo al cielo: la luna piena era magnifica e si rifletteva tra le fronde della natura, rendendo l’atmosfera quasi surreale.
Sussultai, riprendendo la mia folle corsa. Non potevo fermarmi: sentivo il mio bambino piangere sempre più vicino.
Svoltai in una radura. La luce della luna si rifletteva sulla superficie di un piccolo rigagnolo poco distante, e notai un uomo che mi dava le spalle. Quando si accorse dei rumori della mia presenza, si voltò.
Era diverso dall’ultima volta che l’avevo visto… quasi del tutto irriconoscibile. Il suo bel viso era trasfigurato dal terrore e tracce di sangue gli coprivano il volto e le mani, che teneva distese davanti a sé, come in cerca di aiuto.
Lo guardai confusa, il respiro erratico. « Vran, cos’è successo? ».
Lui mi fissò sconvolto. « Perché l’hai fatto, Eriu? Perché hai abbandonato nostro figlio? ».
Farneticava, buttandosi in ginocchio, nascondendo il volto tra le mani. Cercai di costringerlo a rispondermi, tirando le sue braccia con forza, disperata tanto quanto lo era lui, ma ancora disposta a lottare, ancora piena di speranza.
« Dov’è il bambino, Vran? », gli urlai dietro.
Gli occhi di Vran si spalancarono, e smise improvvisamente di dimenarsi.
« L’ha preso lui ».
Lasciai Vran dove l’avevo trovato. Non c’era più tempo.
Ripresi a correre più veloce di prima; da qualche parte, nel folto del bosco, il bambino aveva ripreso a piangere.
Ma improvvisamente notai che il bosco stava cambiando: il sentiero che percorrevo saliva su una piccola collinetta, ed i lamenti del bambino sembravano provenire da lassù. Salii a tentoni, tirandomi la gonna del vestito fino alle cosce, affinché non mi intralciasse. Ed infine lo vidi: un altro uomo, voltato di spalle, ma più basso e tarchiato di Vran. Stava in piedi, al limite di un dirupo, lo sguardo perso nel vuoto.
Lo riconobbi ancora prima che si voltasse.
« THORIN! ». La mia voce terrorizzata risuonò per tutta la foresta.
Sorrideva, ma era una sorriso strano, perso, maligno. Tra le braccia, avvolto in una coperta candida, teneva il mio bambino. Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
« Io ti ho dato tutto, Eriu. Tutto », ripeteva a bassa voce, fissandomi. Tentai di fare un passo verso di lui, tendendo le mani per afferrare il piccolo. Lui si ritrasse ancora di più.
« Dammi il bambino. Dammi mio figlio! ».
Lui scosse il capo, sorridendo. Guardò il bambino, accarezzandogli il visetto. Poi mi guardò un’ultima volta.
« No. Lui appartiene a me ».
Lo vidi saltare nel vuoto, con il piccolo Vran in braccio che piangeva disperato.
« NOOOOO! ».
 
Mi svegliai di soprassalto, respirando a fatica. Mi ci volle qualche istante per rendermi conto che non era stato altro che l’ennesimo incubo, e che in realtà stavo bene e mi trovavo al sicuro nella mia stanza. Thorin non aveva dormito con me, e forse era meglio così: se avessi visto il suo volto, dopo quel sogno, avrei avuto più difficoltà a riprendermi.
Mi alzai per cambiarmi. La fascia che avevo attorno al seno era ancora bagnata di latte, che – nonostante i miei ripetuti tentativi e le cure esperte di Bronnen – non aveva ancora deciso di andarsene. Pazientemente, mi cambiai la pezzuola e indossai l’abito scuro da cerimonia previsto per il giorno.
Dáin era morto due notti prima, dopo più di dieci giorni, dilaniato da una febbre altissima che lo aveva consumato davanti ai nostri occhi... lui, incapace di riconoscerci e noi, atterriti dal suo volto sofferente. 
Rimasi affacciata alla finestra che dava sul cortile, la pira funebre al centro del villaggio, in attesa del corpo che di lì a breve sarebbe stato deposto. I miei occhi indugiarono per qualche istante sulle costruzione attorno a noi, e come sempre mi domandai dove si trovasse mio figlio in quel momento. Non l’avevo più visto da quando Bronnen l’aveva affidato alle cure di sua sorella, mai lei stessa mi aveva assicurato che il piccolo stava bene e godeva di ottima salute.

Scesi lentamente le scale, recandomi nel salone principale. Thorin stava seduto accanto a sua madre, irriconoscibile e trasfigurata dal dolore, la bocca corrucciata in una smorfia che le trasfigurava il viso pallido. Sfiorai con dita tremanti il gomito di mio marito, mentre lui si voltava per indirizzarmi un breve cenno. Vidi poco lontano Aimil, seguita dalle gemelle attaccate alle gonne della nutrice. Eara e Lair erano ancora troppo piccole per capire cosa fosse successo davvero al nonno, ma per Aimil, che aveva potuto godere più tempo della sua compagnia, e a cui Dáin si era aperto come mai mi sarei attesa, la giornata sarebbe stata dura quanto lo era per noi. Le andai incontro, stringendo la sua manina nella mia in un gesto protettivo; lei vi appoggiò la guancia, il bel visino rigato dalle lacrime.
 
La cerimonia fu lunga, dolorosa e molto meno affollata di quanto sarebbe stata in condizioni di pace: la guerra, che continuava a dilaniare le nostre terre, non aveva permesso ad amici, famigliari e membri della corte di assistere al funerale del signore dei Colli Ferrosi, che per moltissimi anni aveva guidato il suo popolo con saggezza e coraggio.
I pochi presenti si adunarono intorno al corpo di Dáin, sfiorando la spada che giaceva scintillante tra le sue mani fredde, o guardandolo semplicemente in volto un’ultima volta. Thorin rivolgeva cenni del capo a chiunque gli si avvicinasse per mostrargli cordoglio, la madre seduta accanto a lui, incapace perfino di alzare lo sguardo.
Ora sarebbe toccato a mio marito, il giovane erede dei Colli Ferrosi, di assumersi il ruolo che suo padre aveva preparato per lui negli ultimi anni di vita. Condussi Aimil all’interno della grande casa: non volevo che assistesse all’accensione della pira funebre. Lei si lasciò condurre senza fiatare, stringendo la manina calda un po’ più forte della mia. La cullai dolcemente tra le braccia come non facevo da molto tempo, da quando ancora così minuta era stata messa tra le mie braccia per la prima volta. Da addormentata, circondata da una zazzera di capelli scintillante come il sole, aveva la stessa espressione di mia madre, e ripensare alla mia famiglia mi provocò una nuova, intensissima ondata di dolore.
Aimil era addormentata da una decina di minuti, ed io ero seduta accanto a lei quando vidi Bronnen entrare silenziosamente nella stanza delle bambine. Aveva al collo Eara, anche lei profondamente addormentata. Intuii subito dal suo sguardo che qualcosa non andava, ma non dissi nulla: dietro Bronnen entrò subito la nutrice, tenendo l’altra gemella tra le braccia. Rimasi in silenzio mentre entrambe deponevano le bambine nel loro lettino, coprendole con cura; feci cenno alla nutrice di lasciarci, e attraversai rapida la stanza per trovarmi di fronte a Bronnen.
« Cos’è successo? », chiesi immediatamente.
« Ho trovato il tuo Vran. Ho meglio… lui ha trovato me ».



PERDONOOOO!
Lo so, lo so, è quasi da più di tre mesi che non aggiorno... che dire, complice il trasferimento, un nuovo paese, una nuova lingua (e pochissima ispirazione!), non mi decidevo mai a continuare la storia!
Questo capitolo è ovviamente solo di transizione, ma spero di far passare meno tempo per i prossimi :)
Bacio!

 

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***


Capitolo XVIII
 

Ci misi qualche istante prima di comprendere le parole di Bronnen. Non capivo cosa volessero dire… Diceva di aver trovato Vran, il mio Vran. Poteva mai essere vero? Dalla seconda volta che l’avevo perso, da quell’ultima volta, in cui insieme avevamo concepito un figlio di cui lui non era nemmeno a conoscenza, mi ero messa anima e cuore in pace, pensando di non poterlo mai più incontrare, pensando che il destino che ci aveva riuniti alla festa di inizio estate fosse stato troppo clemente, e che non mi sarei potuta attendere nulla di più.
Invece, ancora una volta, totalmente inaspettato, il fato mi aveva riservato un’ennesima sorpresa.
Mi sedetti a bordo del letto, forse un po’ più pallida del solito, sudaticcia per la curiosità e l’adrenalina, pronta ad ascoltare la storia che Bronnen stava per raccontare.
Parlava a bassa voce, per non svegliare le bambine, e io la ascoltavo rapita, fidandomi ciecamente di lei come avevo fatto per tutta la mia vita, da quando per la prima volta, ancora così giovane, avevo messo piede sui Colli Ferrosi.
« E’ successo due sere fa », iniziò a raccontare, accomodandosi accanto a me, « Ero andata a fare visita a mia sorella, e stavo per tornare qui. Era buio, e per tornare più velocemente, ho costeggiato il bosco, passando dalle scuderie. Ho sentito un rumore ed ho affrettato il passo, lasciandomi alle spalle gli alberi ». Deglutì, mentre io con gli occhi la imploravo di continuare, di non fermarsi, attaccandomi ad ogni sua singola parola.
« Mi ha afferrata da dietro ». Sbarrai gli occhi, stordita. Bronnen continuò il suo racconto.
« Sapevo che non era uno di noi… un nano, voglio dire », si corresse al mio sguardo confuso. « Era molto forte e non riuscivo neanche a emettere un suono con la sua mano premuta sulla mia bocca. Mi ha trascinata per qualche metro dentro il bosco. Ho cercato di difendermi, di urlare… Ma poi l'uomo mi ha parlato: Sono io, Vran. Sapevo che doveva essere lui. Tremavo da capo a piedi, ma lui mi ha rassicurata. Non so nemmeno io da quanto tempo fosse lì, in attesa di uno sguardo amico… Credo che mi abbia riconosciuto, e sapeva di potersi fidare. Ti cercava, Eriu ».
 
Sapevo di non poter fare niente per impedire le lacrime che mi bagnavano le guance. Dopo tutte le difficoltà, il dolore, la perdita… Vran non aveva mai smesso di cercarmi. Nessuno dei due aveva rinunciato veramente all’altro.
« Come sta? », chiesi immediatamente, stringendo forte le mano di Bronnen nella mia.
« Non benissimo. Credo abbia affrontato mesi difficili. Mi ha chiesto subito di te… gli ho risposto che stavi bene ».
Sbarrai gli occhi, terrorizzata, incalzando con il solo sguardo la domanda che Bronnen si stava aspettando.
« No », disse semplicemente, accarezzandomi la guancia, « Non gli ho detto nulla del bambino ».
Sospirai e restammo entrambe in silenzio, una accanto all’altra, il solo rumore presente era il rumore del respiro delle mie figlie.
Dopo quelli che mi parvero quasi anni, mi alzai in piedi, fissando Bronnen con serietà.
« Devo vederlo, Bronnen ».
Lei mi guardò dolcemente, sorridendo. « Sapevo che l’avresti detto, bambina. Ti aspetta tra due giorni, al calare del sole ».
 
*
 
Sapevo che rivedere Vran sarebbe stato tanto rischioso quanto lo era stato scappare dai Colli Ferrosi prima del mio matrimonio. Il nostro villaggio, in tempo di guerra, era cambiato: la gente non si fermava più a parlare, a discutere o a ridere: ovunque i volti erano coperti, le porte sbarrate, il silenzio assordante. Dovevo essere estremamente cauta, completamente invisibile, mentre attraversavo il cortile per raggiungere Bronnen, al limitare del bosco dietro le scuderie, proprio lì, dove appena qualche giorno prima Vran l’aveva trovata e le aveva comunicato dove mi avrebbe atteso: la collina delle fate, sul versante nord, un luogo che secondo molti portava sfortuna a chiunque ci si avvicinasse, ma che per me rappresentava l’unica ancora di salvezza per rivedere l’uomo che amavo e che avevo perso troppe volte.
 
Mi tirai più saldamente il cappuccio sulla testa, coprendo la mia chioma corvina, mentre una pioggia leggera iniziava a scendere e a bagnare ogni cosa. Cercavo di non camminare troppo velocemente, per non dare nell’occhio, ma non potevo farci niente: contavo perfino i secondi che mi separavano a quell’incontro.
E c’era una ragione in più che mi spingeva a velocizzare il passo verso Bronnen: il mio bambino mi attendeva insieme alla persona che aveva reso quell’incontro impossibile, pronto ad incontrare per la prima e forse unica volta suo padre, inconsapevole, a sua volta, di esserlo diventato.
Li raggiunsi in poco tempo, guardandomi intorno angosciata, sperando che la pioggia e gli alberi ci proteggessero dagli sguardi indiscreti. Non dissi niente a Bronnen, ma allungai immediatamente le mani, e lei sorridendo mi consegnò il bambino, che dormiva beato, la boccuccia semi aperta e le guance ancora rosse per la vicinanza del petto della nana.
Era cresciuto moltissimo da quando l’avevo visto – e abbandonato – l’ultima volta; con curiosità, ma senza stupore, potei constatare che era davvero un bambino umano, grande com’era per la sua età, con i lineamenti così simili a quelli di suo padre. Sarei potuta restare ore, o intere giornate ad ammirare quel visetto, ma sapevo che il nostro tempo era limitato. Con un breve cenno del capo Bronnen mi fece segno di seguirla, e ci inoltrammo insieme nel folto del bosco, lasciandoci dietro la luce della fine della giornata, facendo scricchiolare i rami sotto i nostri piedi.
 
La collina delle fate non era molto distante; la raggiungemmo in appena dieci minuti. Il piccolo continuava a dormire beato attaccato al mio petto, ben protetto dal mantello che indossavo, al caldo e protetto come avrei voluto che fosse sempre. C’era una capanna diroccata dall’aria abbandonata in cima alla collina, la vecchia casa di un eremita che – secondo le storie del villaggio – aveva vissuto nel bosco molto tempo addietro. Era, per il momento, l’unico rifugio sicuro per Vran. Presi un gran respiro e guardai Bronnen. Lei mi fece un segno di incoraggiamento e bussai cinque volte alla porta.


Eccomi! Altro capitolo di transizione, ci prepara al prossimo, che sarà... bhé, non posso dirvi molto, sappiate solo che sarà intenso!
La storia terminerà del tutto tra tre capitoli :)

Un bacione a tutti quelli che mi supportano e mi incoraggiando a ogni capitolo! Grazie!
Lola

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


Capitolo XIX
 

Allontanai tremante la mano dalla porta, facendo un passo indietro, il bambino ancora stretto al mio petto e coperto dal pesante mantello da viaggio che avevo deciso di indossare. Dietro di me Bronnen tratteneva il respiro: entrambe avevamo sentito i passi dall’interno della casupola farsi sempre più vicini.
Fu questione di qualche secondo, ma a me parvero anni interi. La porta di legno si aprì cigolando davanti a noi e un viso pallido fece capolino, mostrandosi appena. Sapevo che ci stava aspettando, ma questo non impedì ai suoi occhi di riempirsi di sorpresa quando mi vide. Con un piede spalancò totalmente la porta, e quando finalmente riuscii a guardarlo meglio e completamente, trattenni il fiato.
 
Era diverso da come me lo ricordavo, da come l’avevo visto l’ultima volta, poco più di un anno prima: più magro, emaciato, logorato dalla fatica e dalla fame. Il bel viso florido che aveva allietato le mie notti insonni ora era scavato e profondamente segnato, come se Vran fosse invecchiato di almeno dieci anni.
Lui dovette accorgersi della preoccupazione nei miei occhi ed esitò qualche istante, la mano ancora ferma sulla porta, le nocche bianche per la tensione.
Poi mi sorrise, esitante, e bastò quel singolo istante per riconoscerlo, per ritrovarlo. Risposi al suo sorriso, facendo qualche passo verso la casupola, sorpassando la soglia per entrare, il segreto del mio bambino ancora attaccato al mio petto, tranquillo nel suo sonno. Vran lasciò aperta la porta dietro di me, facendo cenno a Bronnen di entrare, ma quella scosse il capo, coprendosi col mantello.
« Resterò qua fuori. Avete tante cose da dirvi ».
 
La guardai dolcemente, mentre Vran accostava la porta e si voltava verso di me. Osservai la stanzetta per qualche breve istante, le braccia conserte a proteggere il piccolo. Dietro di me Vran accese una candela, cercando di rischiarare l’ambiente. Gli sorrisi di nuovo, cercando di ignorare le condizioni in cui era costretto a vivere e che certamente non avevano giovato al suo fisico già scalfito e intaccato.
 
 Si fermò e mi fissò, ancora sorridente. Con due grandi falcate improvvise si avvicinò al mio corpo, nel tentativo di prendermi tra le braccia; spaventata da quel gesto, e timorosa che potesse, inavvertitamente, schiacciare il bambino, retrocedetti andando a cozzare contro il muro. Vran mi guardò incerto, cercando i miei occhi ferito, le braccia ancora sollevate a mezz’aria.
Mi sentii dispiaciuta di avergli dato l’idea di non volerlo toccare, quando stavo letteralmente esplodendo dal desiderio di poterlo anche solo sfiorare, ma c’erano cose più importanti di cui dovevamo discutere… e qualcuno che doveva ancora conoscere.
 
« Vran… », iniziai, continuando a sorridere per rassicurarlo.
Lui rimase dov’era, ancora confuso, ancora mortificato.
Reggendo il bambino con una sola mano, utilizzai l’altra per slegarmi la fibbia del mantello, che mi scivolò velocemente dalle spalle, rivelando il mio corpo e quello del piccolo Vran, il cui respiro profondo riempiva il silenzio assordante della stanza.
Non aggiunsi nulla, consapevole che quella semplice visione non richiedeva alcuna parola, e rimasi in attesa.
Gli occhi di Vran si posarono sul mio petto ed immediatamente sul bambino, e si allargarono ancora una volta per lo stupore. La bocca, seguendo lo stesso gesto di sorpresa, si aprì, senza che nessun suono ne uscisse.
Vedevo lo sguardo di Vran passare dal mio volto a quello del piccolo, più e più volte; sapevo cosa stava pensando: tenevo in braccio il figlio di mio marito, come avrebbe dovuto essere, o quello sconosciuto poteva mai essere… suo?
Lo lasciai pensare, ponderare e analizzare la situazione nei minimi dettagli. Non potevo fare altro che attendere e rispondere alle sue domande, qualora fosse stato pronto per riceverle.

Dopo quella che mi parve un’eternità, finalmente Vran si decise a parlare.
« Non capisco… », blaterò confuso, i suoi piedi immobili come pietra, le mani lungo i fianchi e il volto ancora più pallido di come mi era sembrato una volta entrata nella dimora.
« Non è figlio di Thorin », mi affrettai a sottolineare, fugando ogni suo possibile dubbio.
Continuò a fissarmi, mentre l’idea che non aveva ancora avuto il coraggio di esprimere ad alta voce si faceva strada prepotente nella sua testa e sul suo volto. Sorrisi, trattenendomi dal piangere, sfiorando la manina del piccolo.
« E’ nostro figlio ».

Vran mi si avvicinò tremante, titubante in ogni suo gesto ed in ogni suo movimento. Fissò da più vicino il volto del bambino, quel bambino che portava il suo stesso nome; le palpebre leggere appesantite dal sonno, la boccuccia rosa corrucciata, le ciglia lunghe castano chiaro. Gli sfiorò la fronte, le mani che tremavano incontrollabili, mentre io avida osservavo quella scena colma di orgoglio e commozione.
« E’ nostro figlio », ripeté Vran, ricalcando le mie parole, non più tremante, ma attraversato da una feroce allegria, che sembrava essersi improvvisamente accesa in lui come la fiamma di un falò. Iniziai a piangere pur volendomi controllare, per la prima volta dopo molto tempo un pianto di gioia pura, e non più di dolore e malcontento.
 
Gli consegnai delicatamente il bambino tra le braccia, ridendo appena della sua goffaggine giustificata, mettendomi quasi in punta di piedi per passargli il piccolo. Non mi importava di essere passata in secondo piano: gli occhi di Vran non avevano abbandonato un solo secondo il volto di suo figlio; lo cullava tra le braccia, con una dolcezza così profonda che non mi sarei mai aspettata.
Probabilmente destato da quell’improvviso passaggio, il piccolo Vran si svegliò, ammirando per la prima volta gli occhi profondi di suo padre, che immediatamente gli sorrise di rimando, sfiorandogli la testolina pelata.
« L’ho chiamato come te », sussurrai, avvicinandomi a mia volta e giocando con il piedino che usciva dalla coperta.
 
Non so quando rimanemmo così, uno accanto all’altra, in completa ammirazione di nostro figlio, il nostro segreto più grande ed il migliore, che ora aveva preso a ciucciarsi avido la manina chiusa a pugno.
 
Sapevo che c’erano cose di cui dovevamo assolutamente parlare, questioni da risolvere e decisioni da prendere. Ma non me ne importava.
Come quella volta, quando avevamo giaciuto insieme nella foresta, stavo seguendo il mio cuore, e non la mia testa.
Ed in quel momento il mio cuore era completamente, perdutamente pieno di gioia.





Non posso che cominciare se non con un grande SCUSATE! E' passato moltissimo tempo dall'ultimo aggiornamento, lo so, e questo è ancora un capitolo di transizione: in realtà il capitolo comprendeva anche la parte successiva, fondamentale per la storia, ma il momento in cui Vran conosce finalmente suo figlio mi sembrava talmente importante da poter far passare il resto - almeno per qualche paragrafo - in secondo piano.

Non aggiungo altro, sempre un grazie a chi mi segue pazientemente e ha il tempo di recensire. Grazie mille, davvero.
Spero a presto!

Lola

 

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Capitolo 20
*** Capitolo XX ***


Capitolo XX
 
Non so quanto tempo rimasi ad osservare Vran e suo padre, l’uno in completa adorazione dell’altro, tutti e tre stretti in quella minuscola casupola, al freddo, ma felici.
Mi sembrò dopo un’eternità che Bronnen bussò alla porta per richiamare la mia attenzione; ci eravamo trattenuti più del dovuto, e il piccolo doveva essere nutrito e cambiato. Vran me lo porse tra le braccia con mani tremanti, senza staccare un istante gli occhi dal suo visetto corrucciato. Me lo strinsi nuovamente al petto beandomi di quella sensazione, sapendo che da lì a poco me ne sarei dovuta di nuovo separare.
Io e Vran ci guardammo impacciati per qualche secondo, entrambi in piedi uno di fronte all’altra; poi lui mi afferrò saldamente le spalle, guardandomi con improvvisa serietà.
« Eriu, avevo bisogno di vederti per riprendere finalmente a vivere, perché la tua assenza mi pesava come un macinio sul cuore ». Il suo volto si addolcì, e una mano mi sfiorò delicatamente la guancia.
« Ma c’è un’altra cosa ». Abbassò la voce, guardandosi nervosamente intorno, come se temesse di essere spiato. « C’è molta agitazione tra gli Esterling… ».
Non lo lasciai terminare, scuotendo vigorosamente la testa e sorridendo nel tentativo di tranquillizzarlo.
« Lo so bene, è da molto… ».
Vran mi interruppe a sua volta.
« No, Eriu, questa volta è diverso », prese fiato, abbassando lo sguardo, « Si stanno preparando a un’insurrezione, bada bene, qualcosa di molto violento ».
Mossi un passo indietro, inorridita, mentre moltissime immagini spaventose mi si affollavano nella mente.
« Dovete stare al sicuro, tu e i bambini. Rimani nel castello, assicurati che Thorin abbia raddoppiato le guardie intorno alle vostre terre. Nessuno sa cosa potrebbero fare gli Esterling, ora che la guerra è cominciata ».
Lo fissai sgranando gli occhi, in preda al panico.
« Chi ti ha detto queste cose? E’ stato Bhreac, tuo padre? », chiesi con un filo di voce, pensando all’uomo che non vedevo da anni.
« Bhreac è stato cacciato », rispose mestamente, mentre io spalancavo la bocca indignata. « Si sta nascondendo, come me. Non ho sue notizie da tempo. »
Rimanemmo in silenzio ancora qualche minuto.
« Promettimi, Eriu. Promettimi che rimarrai al sicuro...  E di non correre rischi », aggiunse con una smorfia. Annuii debolmente, mentre Vran sfiorava la guancia del piccolo attaccato al mio petto. « Se vorrai vedermi, non venire da sola. Tieni con te un’arma. Sarà più sicuro. Ora va, si sta facendo buio ».
Lo guardai tristemente. « Te lo prometto », e mi richiusi la porta alle spalle.
 
*
 
Rientrai nella grande casa con la testa ancora piena di pensieri, gli occhi bassi e le braccia serrate, il petto ancora caldo dalla presenza del piccolo Vran, che Bronnen aveva prontamente riconsegnato alla cure amorevoli della sua madre adottiva affinché fosse nutrito. Incrociai il viso trasfigurato dal dolore di Raghnaid, seduta sola, al suo solito posto alla tavola che condividevamo: dalla morte del marito aveva perso sé stessa, e mangiava a stento. Le rivolsi un breve cenno del capo – al quale non rispose – e mi avviai a passo svelto nella camera delle bambine: l’avvertimento di Vran su un pericolo imminente mi aveva messo in un perenne stato di agitazione, e sentivo la necessità di stringere le mie figlie e assicurarmi che stessero bene.
Mi avvicinai velocemente alla loro porta, sentendo le loro voci delicate: per una volta, almeno, sembrava proprio che non stessero litigando. Sorrisi tra me e me, allungando una mano per aprire la porta socchiusa.
« Dove sei stata? Ti ho cercata tutto il pomeriggio ». Mi immobilizzai mettendo a fuoco il voto di Thorin, illuminato dalla torce del corridoio.
« Fuori, nel villaggio », risposi utilizzando il miglior tono che potevo mostrare e alzando il mento, fissandolo negli occhi con severità.
« Resta più spesso in casa. Nessun posto è più sicuro oramai ». Thorin rispose al mio sguardo, addolcendosi un poco e sfiorandomi la guancia con la mano destra, prima di superarmi e sparire nel lungo corridoio, verso il salone.
Sospirai a lungo, appoggiando le spalle contro la parete fredda. Vran e Thorin mi avevano avvertito e messo in guarda dallo stesso incombente pericolo: speravo con tutta me stessa che le mie paure fossero infondate.
 
*
 
I giorni e le settimane si susseguirono velocemente, e un altro inverno passò. Thorin era raramente al villaggio; lasciava il mio letto prima dell’alba, ogni giorno, e vi rientrava prepotentemente la sera, prendendomi senza una parola, il volto trasfigurato dall’agitazione. In quanto a me, non chiedevo nulla; dopotutto non era il compito di una moglie quello di domandare, e sicuramente Thorin si sarebbe limitato a qualche grugnito di risposta. Superavo quelle giornate lunghissime solo grazie alla presenza delle mie bambine, corrucciandomi per Vran, da qualche parte al freddo nella foresta, costantemente minacciato dai nani del villaggio e dal suo stesso popolo, per cui altro non era che un traditore.
 
Quando la bruma gelata iniziò finalmente a lasciare spazio ai primi boccioli di primavera ricevemmo dei messaggeri da Minas Tirith, la città dei Re. Mio padre mi aveva parlato di quella fortezza, del suo popolo e della prosperità che l’aveva contraddistinta.
Ma non erano buone notizie quelle che ci attendevano: la città stava per essere assediata, e Gondor chiamava i suoi alleati alla guerra. Quando il messaggero parlò, trattenni il fiato, sgranando gli occhi e osservando Thorin, seduto accanto a me, che invece rimase impassibile nella sua compostezza. Attesi in preda all’agitazione, e quando finalmente si alzò, seguito da Frang e dai suoi consiglieri più fidati, gli andai dietro a passo deciso, terrorizzata.
Sapevo che non voleva parlare di quella minaccia con me, ma dovevo sapere se ci avrebbe lasciato per l’ennesima volta.
« Thorin! », lo chiamai insistentemente, mentre questo si allontanava a passo svelto verso una delle sale per discutere con i suoi uomini. « Aspetta! », urlai ancora, disperata.
Frang mi sbarrò la strada, ponendo tra me e mio marito con la sua enorme stazza e un cipiglio a dir poco furibondo. « Allontanati donna. Non c’è tempo per le tue domande ».
Lo guardai in cagnesco, le guance rosse per la vergogna e la collera.
Thorin, poco più avanti, si voltò e intervenne. « Basta così, Frang. Andate avanti. Vi raggiungerò tra poco ».
Facendo dietrofront, mi prese per il braccio e mi allontanò dai suoi uomini.
« Cosa sta succedendo? », sibilai con appena un filo di voce, la mano di Thorin ancora serrata attorno al mio gomito.
Lui si guardò intorno con fare sospetto, serissimo in volto. « L’ultima battaglia è iniziata; il destino del nostro mondo sta per essere deciso. Dobbiamo partire. ».
Lo guardai allarmata, soppesando le sue parole. Sapevo che quel momento sarebbe arrivato, ma nemmeno cento anni mi avrebbero preparata a dovere.
« Quando? », chiesi stringendogli la mano.
« Domani, all’ alba ».
 
*
 
Nel corso degli anni Thorin mi aveva stupito come padre: per molti aspetti mi ricordava il mio, che pur non vedevo da moltissimo tempo. Era affezionato alle sue figlie; si assicurava che stessero bene, provvedeva alla loro educazione e si lasciava andare a teneri momenti di gioco quando poteva. Ma ora come potevo preparare le mie bambine? Come potevo far capire loro che il padre sarebbe partito per l’ennesima guerra, ma questa volta probabilmente non sarebbe tornato?
Spiegai con pazienza alle gemelle della partenza imminente del padre, e loro annuirono confuse, una accanto all’altra, con quei capelli rosso fuoco cosi meravigliosi. Non ci fu bisogno di parlare con Aimil: lei aveva già capito tutti prima ancora che potessi aprire bocca, e si occupò pazientemente delle sorelle, distraendole da quel pensiero.
 
Quando infine giunse la notte, dopo un’intensa giornata di preparativi e un viavai continuo di cavalieri e armi, Thorin si lasciò cadere nel mio letto, esausto ma pronto ad affrontare quella che probabilmente sarebbe stata la sua ultima battaglia. Quella consapevolezza così chiara sul suo volto mi fece tremare come una bambina.
Non ci fu bisogno di parlare; facemmo l’amore teneramente, e quando infine mi si mise accanto, affondò la sua testa sulla mia spalla. Rimasi immobile qualche istante, finché non mi accorsi che il suo respiro si era fatto più irregolare. Lo guardai confusa, e il luccichio di una lacrima mi fece realizzare quello che stava succedendo. Non avevo mai visto Thorin piangere.
Attesi che fosse lui a parlare, che si calmasse. Gli asciugai il volto con il pollice, delicatamente.
« Ho paura Eriu », disse infine, dopo quella che mi era sembrata un’eternità. « Ho paura per te, per le bambine. Ho paura per me stesso. ». Fece una pausa, mettendosi più dritto, una mano che passava distrattamente tra la chioma fiammante. « Ho combattuto tante guerre… ma questa battaglia mi terrorizza ».
« Shhh », lo interruppi sussurrando appena, spaventata quanto lui, consapevole che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima notte in cui l’avrei visto.
Si lasciò andare contro il mio seno, e lo cullai come un bambino, finché entrambi ci addormentammo esausti uno accanto all’altra.
 
*
 
All’alba mi alzai in punta di piedi. Thorin aveva già lasciato il nostro letto: potevo ancora sentire la sua sagoma calda vicino a me. Aprii la finestra, tremando per il freddo e stringendomi lo scialle intorno alle spalle; fuori dal villaggio stava lasciando in silenzio il villaggio, il loro signore al comando con la sua armatura scintillante.





Eccomi! Perdonatemi la lunghissima assenza. Ormai siamo quasi alla fine della storia... spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto, e sarà cruciale per il finale.
Un abbraccio
Lola

 

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