Castle on the Hill

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 
«Okay, Ace, ho capito. Arriva al dunque» lo ammonisce parlando piano nel ricevitore, il tono piatto che non lascia trapelare nulla. Gli lancio un’occhiata da sopra la spalla, mentre travaso il caffè nella sua tazza termica. Scatta immediatamente quando si accorge che rischio di scottarmi la mano e aggiusta la posizione della tazza sotto la cascata di liquido caldo e scuro, per poi restare alle mie spalle e spostare la mano sulla mia pancia. «Sì, sì mi è chiaro… Ace» lo richiama, più spazientito  e io porto la mano ora libera sulla sua. Immediatamente si rilassa e io mi appoggio al suo torace. Piega appena il capo per soffiare al mio orecchio: «Come va?»
E chiariamo, lo troverei molto dolce, se solo non me lo avesse chiesto quando ci siamo svegliati, mezz’ora fa, quando ci siamo alzati dal letto, un quarto d’ora fa, dieci minuti fa quando mi ha incrociata in camera e cinque minuti fa in bagno. Gli lancio un’occhiata da sotto in su. «Credo sia estremamente precoce. Prima mi ha tirato un calcio» lo prendo in giro. Cos’altro mai potrei rispondere?  
Law mi lancia un’occhiata di mezzo rimprovero, in parte per la battuta scema, in parte perché è al telefono con Ace. Non che ci farebbe comunque caso, impegnato com’è a blaterare non è dato sapere cosa dall’altra parte del filo, ma è comunque un piccolo rischio che mi sono presa.
Abbiamo concordato di aspettare a dirlo, almeno fino a metà del secondo trimestre. E le intenzioni ci sono tutte. il problema è riuscire a evitare che lo scoprano da soli.
Qualcuno vuole fare a cambio con la mia situazione?
Mi libero di malavoglia dal suo abbraccio e mi avvicino al frigo, per recuperare uno yogurt e qualsiasi altra cosa che, messa insieme, possa costituire un pasto vagamente decente e complessivamente sano.
«Non è un po’ poco?» mi domanda, studiando attento le cibarie tra le mie mani. E io gli scocco un’occhiata di avvertimento.
«Prenderò anche qualcosa al bar» gli concedo e intanto gli faccio un cenno che significa che dovrebbe concentrarsi sulla telefonata anziché su di me. Così magari riesco a tirare il fiato un attimo, visto che negli ultimi due giorni non ho praticamente potuto fare un passo da sola.
Ma qualsiasi cosa Ace gli stia raccontando dev’essere, per mia sfortuna, davvero irrilevante. Per dire se possa essere anche poco interessante o meno non ho abbastanza indizi, dato che poche cose, per Law, sono più interessanti di me e del tenermi d’occhio.
Fatto sta che Law minimizza con una scrollata di spalle e si avvicina di nuovo. «Allora domani mattina a che ore?»
Chiudo il frigo e ci rimango puntellata con la mano una manciata di secondi. Dopotutto, non potevo rimandare all’infinito. «Ah già!» fingo di essermene appena ricordata. «Pen mi ha chiamato, ha dovuto spostarmi l’appuntamento a martedì» mi stringo nelle spalle, tornando poi a fare ciò che stavo facendo, come se niente fosse.
Ma il problema è che invece è qualcosa. Qualcosa che a Law non piace e che lo rende molto nervoso. Qualcosa che evolverà in un ulteriore peggioramento della sua mania di controllo.
Un fuori programma.
E indovinate chi dovrà trovare il modo di gestirlo se ci tiene ad avere ancora un padre per suo figlio entro la fine della gravidanza? Io, ovviamente.
«Come scusa?»
«Lui non può esserci domani, così abbiamo rimandato a martedì. Gliel’ho chiesto io, non voglio cambiare cardiologo!» metto in chiaro, prima che possa prendersela con lui. Non è necessario raccontargli anche che il motivo per cui dobbiamo rimandare è che si era dimenticato del suo weekend lungo con Lamy e che, se fosse saltato, probabilmente lei lo avrebbe evirato nel sonno.
So che ho fatto la cosa giusta, so che non era necessario né cambiare cardiologo né fare la gestante isterica e apprensiva che pretende l’esame quando dice lei ma quando vedo qualunque forma di gioia e relax vi abbia mai dimorato abbandonare il volto di Law, un po’ mi pento di aver fatto la persona ragionevole.
Improvvisamente è teso , agitato, pronto a farsi carico del peso del mondo se necessario. C’è solo un particolare. Non è affatto necessario. E non mi piace vederlo così.
«Amore…» sospiro e mi avvicino a lui. «…ti prego, stai tranquillo» gli circondo il volto con le mani «Per te è già un periodo abbastanza stressante al lavoro, sei agitato che oggi torna Sabo, non ti serve preoccuparti anche di questo. È tutto sotto controllo. Gerth ha detto che va tutto bene, io sono comunque sotto terapia e tuo fratello adesso ti sta chiamando a ripetizione da circa dieci secondi» concludo, indicando il telefonino con un cenno del capo.
Law si riscuote bruscamente e torna a concentrarsi sull’apparecchio da cui gli incessanti richiami di Ace escono a intervalli brevi e regolari. Potrei anche sbagliarmi ma, se ho sentito bene, Perona gli ha appena urlato di smetterla se non vuole che gli trapani il cervello e non figurativamente.
«Ace. Ace!» ringhia e la cantilena dall’altro capo del cellulare finalmente cessa. «Ti ascolto…» vibra minaccioso.
Sorrido divertita e torno a preparare la mia sportina e contemporaneamente aggiornare la lista della spesa ma il momento di calma è destinato a durare poco.
«Che? Ace ne avevamo parlato!»
Mi giro a indagare che succede e a Law basta un’occhiata per interpretare la mia muta domanda e mettere in vivavoce.
«…fratello, ragione al cento per cento! Ma ho fatto casino con i giorni e Perona ha preso ferie apposta per andare avanti con il trasloco e non penso mi lascerà uscire di casa finché almeno la camera da letto non sarà montata e finita, tranne che per venire a cena da voi! Mi dispiace, giuro!»
«Okay» Law preme per un attimo il ponte del naso tra le dita, il cellulare a mezz’aria come fosse una bomba pronta a esplodere. «Quindi insomma, tu non puoi andare all’aeroporto» constata e io inarco le sopracciglia.
Tutto questo mi suona vagamente famigliare.
«Oh no! Posso! Se riesco a capire come leggere queste istruzioni in finlandese e metterle in pratica entro le sei e mezza, posso andarci eccome»
«Magari se non le guardi sotto sopra è più facile, amore»
«Oh. Grazie Voodoo!» esclama Ace e io non riesco più a trattenere una risata. «Ehi Koala! Sei tu?»
«No, sono l’amante di Law!» mi avvicino appena al ricevitore, sghignazzante.  
«Piacere di conoscerti! Non è che riusciresti ad andare tu all’aeroporto?! Venerdì lavori solo mezza giornata, giusto?»
«Beh…» comincio, vagliando la possibilità.
«No, lei non può andarci» interviene Law, il tono che non ammette repliche. «All’aeroporto. Da sola» aggiunge, parlando con me ora.
Socchiudo gli occhi e ci sfidiamo silenziosamente qualche istante.
Okay, mi costa ammetterlo ma stavolta ha ragione lui. La mia medicina per il cuore non è l’ideale in gravidanza e anche se Pen me ne ha prescritta e procurata subito una alternativa, non abbiamo ancora nessuna prova provata che sia efficace come la precedente. E dal momento che mi sono resa disponibile a rimandare gli esami pur sapendo cos’avrebbe significato, ora devo far buon viso a cattiva sorte fino a martedì e accettare che Law si preoccupi più del necessario. Che, nel suo caso, è più o meno lo stesso grado di preoccupazione di un sismologo in grado di prevedere un terremoto che frantumerà il nucleo terrestre ma senza alcuna soluzione per impedirlo.
In realtà, con buon senso parlando, dovrei essere preoccupata anche io ma, non essendo nella mia indole sbattere il cranio contro problemi la cui risoluzione non dipende da me – a volte non lo faccio nemmeno per problemi la cui risoluzione dipende eccome da me –, mi limito a essere prudente.
E devo anche finire di preparare la cena.
«Ora proviamo a sentire Robin. Tu stai attento a non inchiodarti la mano a qualche giuntura del letto» lo schernisce Law, con un ghigno più rilassato, mentre il mio cellulare comincia a suonare.
Lancio una rapida occhiata al mittente della telefonata, con una punta di stupore. Parli del diavolo…
«Ci provo ma non posso prometterti niente, fratello. Ci vediamo stasera!»
«A stasera Ace»
«Ehi Robin!» accetto la chiamata nell’esatto momento in cui Law chiude la comunicazione con Ace. «Stavamo giusto parlando di te»
«Cose belle, spero» mi risponde, criptica come sempre.
«Ovviamente. E anche sapere se per caso saresti libera per andare a prendere tu Sabo all’aeroporto» vado dritta al sodo, così da fare subito fuori la questione ed evitare che l’uomo della mia vita perda del tutto il lume della ragione. Lo preferisco in pieno possesso delle proprie facoltà mentali, sapete com’è.
«Nessun problema. Solo posso portarti Eris in anticipo?»
«Certo» mi acciglio, un po’ perplessa. «Franky finisce più tardi del solito?»
«Oh no, affatto. Ma Franky non avrà il permesso di stare da solo con mia figlia per un po’, temo»
Volto le spalle a Law, il più impassibile che riesco.
«Capisco…» mi limito a mormorare, nella speranza che aggiunga altri dettagli senza esplicite richieste. Il problema è che ho sentito distintamente la nota omicida nella sua voce e questo significa che Robin è arrabbiata e, anche se di norma tra di noi non ci sono segreti, Robin non è il tipo che si sfoga, men che meno quando sfogarsi rischia di farle perdere il controllo, cosa molto facile quando è, appunto, arrabbiata.
Perciò, in poche parole, la mia speranza è utopistica.
«Ma comunque, come mai mi chiamavi?» cambio al volo argomento. Chiederle come sta è un rischio al momento e comunque non può avermi certo telefonato per telepatia.
«Ah giusto. Volevo sapere se tuo papà ha ancora quell’appartamento a Sun Bay e se è disponibile o se per caso l’ha affittato a qualcuno»
Aggrotto ancora di più la fronte. Okay, Robin è sempre molto enigmatica ma questa richiesta è davvero molto strana. «Sì ce l’ha ancora»
«È una splendida notizia. Pensi che potremmo andare a starci per un po’? Tutti e tre» aggiunge poi. Perché Robin è Robin ed è sempre un passo avanti a tutti e sa benissimo che il suo intero discorso, più gli altri indizi per me facili da cogliere, mi stavano portando all’inevitabile conclusione che volesse mollare Franky e vuole farmi sapere che il punto non è affatto questo. Il che, ammettiamolo, è un bel sollievo.
«Beh dovrei sentirlo prima di darti una risposta definitiva ma penso che non ci siano problemi solo che… sei sicura? È un po’ piccolino come posto. Cioè, in tre con un bambino ci si sta ma tutta l’attrezzatura di Franky…»
«Oh non ti preoccupare. Non credo sarà un problema. Anzi, direi che Franky starà lontano per un po’ dalla propria attrezzatura, se non vuole che io stia lontana dalla sua»
Ed eccolo di nuovo, il tono lievemente avvelenato con classe, che non posso più fingere di ignorare.
«Robin ma che succede? Mi devo preoccupare?»
«Oh no, Koala, ti prego no. Non è necessario. Dopotutto, quando stai con un aspirante inventore metti in conto che potrebbe saltarti in aria mezza casa, prima o poi» torna al suo tono dolce e rilassato.
Rimango in silenzio. Sbatto le palpebre interdetta. Il mio cervello metabolizza più a rilento del solito.
Ha detto proprio…
«Che cosa?!?!?»
 

 
§

 
«Sono già arrivati» noto con stupore, mettendo la freccia per accostare alla solita piazzola di sosta.
Zoro, occhi chiusi e braccia al petto, ben lungi dall’essere addormentato come sempre cerca di farmi credere, piega le labbra in un ghigno e allunga una mano verso la mia gamba, scartando tra il mio braccio e la leva del cambio. «Mi sa che siamo noi che abbiamo fatto tardi» mi fa notare, solleticando a fior di polpastrelli il mio interno coscia, fastidiosamente reattivo quando si tratta di lui.
Freno dolcemente e intanto mi giro a guardarlo, inclinando appena il capo di lato, gli occhi che brillano, il labbro inferiore incastrato sotto i denti superiori in un’espressione di voglia e ingordigia. Poso la mano sulla sua guancia, accarezzandogli la basetta verde con il pollice.
«Zoro, amore mio…» miagolo mentre porto il mio volto sempre più vicino al suo. «Non credere sia tutto a posto» lo metto in guardia, la voce arrochita nel disperato tentativo di non lasciargli intendere l’effetto che il suo tocco mi provoca e quanto vorrei che salisse più su con quella dannata mano.
Come se non lo sapesse poi.
«Oh ma io non lo credo» mormora, gli occhi puntati sulle mie labbra che un attimo dopo sono intrappolate tra le sue.
Sia maledetto il suo sapore, che non cambierei per niente al mondo. Mi aggrappo al suo collo anche con l’altra mano e poco mi ci manca a scavalcare il freno a mano per sedermi sopra di lui e giocare con la sua, di leva del cambio.
Come stamattina. Mi ha fregato nello stesso identico modo e anni fa mi avrebbe dato fastidio. Anni fa tutto questo non sarebbe che stata una delle nostre insostenibili sfide, per decretare chi dei due sia il più furbo o il più forte. Ma le cose sono cambiate, rispetto ad anni fa. Perché provateci voi, ad ottenere una seconda occasione con l’amore della vostra vita, che credevate perduto per sempre, e non svegliarvi ogni singola mattina al suo fianco senza provare gratitudine.
Vi posso garantire che la voglia di trasformare sempre tutto in una gara passa e la voglia di stare sempre insieme, invece, non scema mai. Nemmeno dopo tre anni di matrimonio e nemmeno dopo dieci o cinquanta, sospetto.
Mi rendo vagamente conto che la macchina forse ha iniziato ad ondeggiare, riportandomi in me per una scarsa frazione di secondo, quando la mia voce interiore mi ricorda che l’ultima revisione delle sospensioni mi è costata non poco ma il ringhio soddisfatto di Zoro la sovrasta e fa tacere.
A differenza invece del picchiettare improvviso contro il vetro, che riecheggia fin troppo intensamente nell’abitacolo e ci costringe e interrompere. Mi giro verso Usopp, quasi stupita – sì mi ero momentaneamente dimenticata che loro fossero già qui –, e socchiudo gli occhi minacciosa mentre Zoro si ributta indietro sul sedile, mugugnando un “guastafeste”.
Abbasso il finestrino, lo sguardo che lancia saette e che Usopp ricambia quasi con altrettanto astio.
«Scusatemi, signori Roronoa, ma noi si dovrebbe andare al lavoro»
«Usopp, anche se per una volta arriviamo con cinque minuti di ritardo, non finisce il mondo»
«Non finirà per te!» ribatte, indignato, tradendo l’agitazione.
«Sei un illuso se pensi che Iva non sia in grado di trovare un’altra scusa per convocarti nel suo ufficio» sollevo un sopracciglio, scettica, ma subito il più che fondato terrore del mio migliore amico nei confronti del nostro capo e dei suoi incessanti tentativi di seduzione a sue spese, passa in secondo piano quando mi accorgo che qualcosa non va.
E badate, non perché stia succedendo qualcosa. È perché non sta succedendo.
«Che fine ha fatto Sanji-kun?» mi acciglio quando realizzo che ormai io e Usopp parliamo da mezzo minuto e non c’è alcuna traccia di urletti entusiastici o sangue sull’asfalto così come vi è totale assenza di minacce rivolte a Zoro per aver osato violarmi così pubblicamente, attentando al mio pudore e alla mia reputazione.
«L’ho chiuso in macchina» si stringe nelle spalle Usopp. Ora che ci faccio caso, questi tonfi ovattati accompagnati da un urlo incomprensibile, che improvvisamente somiglia molto a “Nami-swan” e “Usopp, fammi uscire”, vanno avanti da un po’.
Zoro prova a trattenersi senza successo e sbuffa una risata a labbra stretta. «Sei grande, Usopp. È un vero peccato che non possa fare carpooling con te al posto di quel cuoco da strap… OUCH! Nami! Fa male!» protesta rabbioso quando, senza nemmeno girarmi, afferro i tre orecchini che penzolano dal suo lobo e tiro.
«Sanji è il solo motivo per cui non ti perdi quando vai al lavoro, quindi dovresti solo ringraziarlo!»
Anche perché altrimenti non avrei alternative – a parte giocarmi la sanità mentale a furia di macerarmi nella preoccupazione di non vederlo tornare a casa – se non accompagnarlo io e questo mi costerebbe parecchio tempo in più e, soprattutto, benzina.
«Come se gli costasse tanto! Andiamo dalla stessa parte! E lasciami!»
Mi affretto a mollare la presa visto che il suo lobo sta diventando color amarena, ostentando false alterigia e indifferenza verso la menomazione che io stessa gli ho procurato. E, di nuovo, vengo distratta dalle urla ovattate di Sanji, che ora suonano molto simili a un’implorante richiesta d’aiuto.
«Usopp, credo che dovresti…» faccio per dirgli ma quando mi giro nuovamente verso di lui scopro che non è necessario. Deve essersi accorto anche lui del tono sempre più terrorizzato di Sanji e si sta affannando a ripescare le chiavi della macchina dalla tasca per aprire finalmente le portiere della Kabuto, da cui Sanji si fionda fuori come un fulmine, per nascondersi alle spalle di Usopp .
Tremante, solleva un braccio a indicare il veicolo mentre con l’altra mano stringe la t-shirt di Usopp sulla schiena. «Un… u-un… c’è un… una t-tarantola!» boccheggia, fuori di sé.
Sgrano gli occhi schifata e pigio decisa il tasto per rialzare il finestrino ma Zoro allunga rapido la mano e mi blocca, invitandomi con un cenno del capo ad aspettare. Usopp, dal canto suo, ha assunto la sua solita posa da supereroe mancato, con l’unica differenza che questa è realmente l’unica situazione in cui il più coraggioso di tutti è proprio lui.         
Se si tratta di difendere il suo Sanji poi…  
Senza il minimo tentennamento o tremore – oserei dire che mi sembra anche un po’ eccitato – si infila in macchina con il busto, ravana per un po’, agitando il sedere con Sanji che si muove in simultanea con lui per ostruirci la visuale sullo spettacolino che sta dando – benedetta irrazionale gelosia –, e torna poi fuori con un’espressione che definire atona è un eufemismo.
Sanji si spalma sul cofano della mia macchina, pallido e tremante, quando Usopp avanza, tenendo la mano ben aperta a palmo rivolto verso l’alto.
«Una tarantola?» domanda, il tono piatto.
«N-non, non ti avvicinare con q-quel c-coso!» Sanji gli punta contro un dito.
«Sarà grande quanto l’unghia del mio mignolo Sanji» gli fa presente, prima di superarlo a grandi passi e avvicinarsi al praticello che costeggia l’ex isola ecologica dove ci troviamo ogni mattina, e liberare il ragnetto tra l’erba. «Ecco, amico, vai. Sei libero»
Scuoto il capo, divertita e intenerita, mentre Sanji si rimette dritto e schiarisce la gola, aggiustandosi i baveri della giacca con malcelato imbarazzo. «Dunque Marimo» chiama, strappando un grugnito a Zoro. «Ci diamo una mossa o stiamo qui tutta la mattina a non fare niente delle nostre vite?»
«Guarda che non sono io quello che ha fatto una scenata per un insetto grande quanto il proprio cervello. E comunque io cercavo di avere un po’ di intimità con mia moglie, Epistassi-kun, che è l’esatto contrario di non fare niente»
Sanji si porta davanti al finestrino aperto, inspirando a pieni polmoni. Mi fa ancora strano non vederlo più con la sigaretta in bocca e giuro che non ho ancora capito come Usopp sia riuscito a farlo smettere. Si riavvia il ciuffo biondo, scoprendo per un attimo l’occhio destro e poi, senza preavviso, si butta in avanti, infilando con fluidità il torace dentro l’abitacolo, le braccia tese e dirette al collo di Zoro.
Per sua sfortuna, i riflessi di mio marito sono fin troppo sviluppati e Sanji si ritrova bloccato da una mano di Zoro spalmata in faccia, che oltre a tenerlo a distanza di sicurezza non tanto da lui quanto da me, soffoca anche le sue proteste – e spero soltanto quelle –.
Sospiro, rassegnata. Tutto questo non avrà mai fine, lo so.
Con nonchalance, Usopp torna indietro, battendo insieme le mani in un gesto soddisfatto per aver liberato il ragno, e si avvicina a Sanji, lo afferra per la cintura e lo tira via dalla macchina, avendo cura di prenderlo tra le braccia per ammortizzare il colpo. È rarissimo vedere Sanji così poco padrone di se stesso. L’ultima volta è stato all’Oro Jackson Day di cinque anni fa, al KamaBakka, quando, per essersi dichiarato – mentendo spudoratamente – cento per cento etero si è ritrovato legato mani e piedi, con un gruppo di okama impazziti a svestirlo per mettergli addosso un costume da danzatrice del ventre, nella speranza di fargli cambiare idea sulla propria sessualità – che in realtà era piuttosto di ampie vedute già all’epoca –. Non credo abbia ancora superato il trauma.
Per fortuna, oggi come allora, c’è Usopp, pronto a sfoderare un insospettabile autocontrollo quando si tratta di proteggerlo. È bello vedere come ci sono l’uno per l’altro. È bello sapere che l’uno è pronto a fare tutto ciò che l’altro non riesce.
Sanji soffia dal naso, furente più per la figura appena fatta che non per gli insulti di Zoro, ma si impone subito la calma. «Dai su, andiamo. Abbiamo già perso fin troppo tempo» mastica tra i denti, prima di cambiare totalmente tono ed espressione e voltarsi verso Usopp. Gli circonda la mandibola con entrambe le mani. «Ci vediamo dopo Uso-chan» mormora prima di baciarlo. Alla luce del sole, davanti a chiunque voglia prendersi la briga di guardare.
Sono così fiera di lui. Ma qualunque considerazione di orgoglio io stia facendo sui miei ragazzi viene cancellata dal respiro di Zoro sul mio collo. «Devo andare» mi avvisa e la mia mano è già tra i suoi capelli prima ancora che abbia finito di girarmi verso di lui. Dopo l’exploit di stamattina, oggi mi sarei data volentieri malata per passare l’intera giornata a casa con lui e mi costa lasciarlo andare. Lo bacio avida, mi lascio stringere dalle sue braccia.
«Ci vediamo stasera» soffio, prima di lasciarlo con malcelata reticenza. «Salutami Johnny»
«Sarà fatto» ghigna felice, accarezzandomi una guancia. «A stasera mocciosa» e un attimo dopo e fuori dall’auto, già sotto a discutere con Sanji, non voglio nemmeno sapere di cosa.
Usopp sguscia in macchina e chiude delicato la portiera, lasciata aperta da Zoro appositamente per lui. «Buongiorno!» mi sorride, più rilassato nonostante l’ormai palese ritardo. Mi sa che oggi una convocazione da Iva non gliela toglie proprio nessuno.
«Buongiorno» gli scocco un bacio sulla punta del naso, primo passo del nostro piccolo rituale mattutino. Agganciamo le cinture, io scocco un’occhiata all’anello rosso sangue che brilla la suo anulare sinistro.
È un semplice anello di vetro sfaccettato, identico al mio verde smeraldo in tutto e per tutto tranne che nel significato.
«Bell’anello» ammicco, come tutte le mattine.
Come tutte le mattine, Usopp lancia uno sguardo al suo, poi al mio, poi si accomoda meglio sul sedile, occhi avanti, mentre io metto in moto, alla volta della Ivankov&Co.
«Grazie. Anche il tuo non è niente male»

 
§
 

«E non si sono fatti niente?»
«L’esplosione si è proiettata tutta verso l’esterno, Robin e Eris erano al piano di sopra e la casa è rimasta in piedi» spiego la miracolosa dinamica dell’incidente con una stretta di spalle, mentre Law chiude a tripla mandata la porta di casa nostra.
«Per fortuna» commenta, celando come può il sollievo. «A Franky perdere due dita non avrebbe fatto così male»  
«O tutto il braccio» aggiungo io.
«Quello me lo riservo per Eustass-ya» ribatte e io lo guardo con rimprovero.
Insomma, in fondo Kidd non ha fatto niente, no?  
«L’importante è che stanno tutti bene» decido di sorvolare «E non dirlo a Sabo. Non sarebbe la migliore delle accoglienze, provocargli un attacco isterico da mamma chioccia» aggiungo, posando le mani sui suoi pettorali mentre lui mi circonda la vita.
«Come se potessimo tenerglielo nascosto» commenta scettico. «Adesso mi dispiace ancora di più che Bibi non riesca a venire»
Ridacchiante, scuoto il capo e mi tiro sulle punte. «Andrà bene» mormoro con le labbra già praticamente sulle sue, ma mi esce a metà tra un’affermazione e una domanda.
Law si piega un altro po’ e mi bacia, stringendo le braccia alla base della mia schiena. «Certo che andrà bene» sussurra poi, quasi una promessa. «Andrà tutto bene» si riabbassa per un altro bacio ma il rombo di un motore ormai famigliare e una leggera sgommata sulla strada fuori casa si intromette nel nostro idilliaco momento.
«Ehi, playboy!»
Lancio gli occhi al cielo ma fatico a trattenere una risata mentre Law, con un respiro profondo, si volta lento e omicida.
«Guarda che te la riportiamo entro sera, puoi stare tranquillo»
«Chi mai sarebbe tranquillo a lasciare qualcosa in mano tua, Izou?» domanda asciutto Law.
Izou abbassa appena gli occhiali da sole per guardarlo da sopra le lenti. «È della mia finta ex che stiamo parlando» gli fa notare e sento Law irrigidirsi sotto le mie mani. E non nel senso piacevole.
«Hai deciso di morire oggi?»
«Credo proprio di sì» risponde Marco, piegandosi verso il volante per farsi vedere.
Gli scocco un bacio sul collo e struscio la punta del naso contro la linea della sua mascella. «Devo andare. Ci vediamo stasera» lo avviso ma non rifiuto un ultimo bacio e non ho nemmeno tutta questa fretta di liberarmi dalla sua presa.
«Marco-chan, lunedì mattina ricordami di portarmi un secchiello di pop-corn»
Le pupille di Law si restringono fino a sembrare due capocchie di spillo. «È meglio se vai»
«Sì è meglio» gli do ragione, dandogli una leggera pacca sul pettorale.
È meglio se vado, prima che commetta un omicidio.
Raggiungo rapida la macchina e salgo dietro. «Buongiorno» mi sporgo verso l’abitacolo per salutare con un bacio sulla guancia sia Marco che Izou prima di posizionarmi dietro a Izou e agganciare la cintura, mentre Marco rimette in moto.
 

 
§

 
«Buongiorno a lei» rispondo con un cenno del capo e un sorriso.
La giovane hostess ricambia e ci mette una frazione di secondo in più, rispetto ai passeggeri prima di me, ad allungare la mano, per ottenere la mia carta d’imbarco e quella d’identità. Le studia un attimo mentre io studio lei.
Labbra carnose, tratti delicati, occhi miele e soffici capelli mori raccolti in uno chignon. Qualche ciocca sfugge dal cappellino della divisa, portato un po’ sulle ventitré. È bella e, quando risolleva gli occhi su di me, il suo sorriso è qualcosa di più di semplicemente cordiale. Così come ho i miei buoni motivi per credere che il suo sfiorarmi la mano nel restituirmi i documenti non sia poi così accidentale.
«Buon viaggio, signor Monkey»
«Grazie…» sbircio curioso il nome sul suo badge identificativo «…Viola»
Trolley ben adeso a me, borsone sull’altra spalla, mi avvio lungo il corridoio dell’aereo, alla ricerca del mio posto. Per fortuna sono tra i primi e, quando lo individuo, la zona è ancora abbastanza sgombra da lasciarmi tutto il tempo per sistemare i bagagli con calma. Mi lascio cadere al mio posto e sollevo la tendina per curiosare fuori dal finestrino. Non che ci sia molto da guardare, solo la pista e una bella fila di gente che aspetta di salire.
Sospiro, la mente libera di vagare così come il mio sguardo, senza nessuna distrazione a tenerla impegnata. Viola in cima al corridoio ha ricominciato a controllare i biglietti e dare indicazioni con maggior velocità ed efficienza e questo conferma la mia ipotesi. È bella ed ha anche un bel nome e fino a qualche tempo fa mi sarei sentito non solo lusingato dalle sua attenzioni, ma anche ben propenso ad approfittarne. Le cose però sono cambiate e io non sono più lo stesso di qualche tempo fa. Non mi interessano più i rapporti occasionali, con una hostess o con una ragazza incontrata in un bar, nel bagno di un aereo o a casa della suddetta ragazza.
Ebbene sì, anche se faccio fatica a crederci, io, Monkey D. Sabo, sto deliberatamente e intenzionalmente ignorando le avances di una bellissima ragazza. E la cosa più pazzesca è che va bene così.
Prima di rendermene conto, l’aereo si è riempito e il comandante ci sta dando il benvenuto sul suo volo mentre la spia delle cinture allacciate si accende. Eseguo meccanicamente e torno a guardare fuori dal finestrino, ascoltando il rombo dell’aereo che si lancia sempre più velocemente sulla pista di decollo, fino a staccarsi da terra e proiettarsi deciso verso il cielo terso, direzione Raftel.
Appoggio la nuca al sedile e chiudo gli occhi per rilassarmi.
Si torna a casa.








Angolo dell'autrice: 
Ed eccomi di nuovo! 
Ebbene sì, l'ho scritto davvero. 
Per chi non lo sapesse, questa storia è il seguito di Cloth Tattoo e non è semplice da seguire se non si è letto il prequel per alcune implicazioni collegate appunto alla prima storia. 
Spero che chi ha amato Cloth possa apprezzare anche questa e ringrazio tutti quelli che sono arrivati fin qui. Cercherò di non essere troppo lenta con gli aggiornamenti ma, vi prego, siate magnanimi! 
Un bacione grande a tutti e grazie ancora. 
Page. 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


«Ehi ciao!» saluto alzando appena la voce, quando sento la porta di casa richiudersi.
Passi pesanti e cadenzati che si trascinano nell’ingresso. Ahia. Mi sa che non è stata una buona giornata. Il cucchiaino a mezz’aria, mi volto in attesa verso la porta della cucina, su cui appare dopo pochi istanti. Ghigna, sì, ma è chiaramente molto stanco.
Come temevo, giornata tosta al Castello.
«Zio Law!» esclama Eris, sollevando le braccia e lanciando accidentalmente un po’ di pappa per terra.
Divertito e già più rilassato, avanza in cucina senza ancora proferir parola, fa il giro del tavolo e si ferma accanto al seggiolone. «Mangi al tavolo dei grandi stasera?» le chiede mentre le pulisce la bocca impiastricciata prima di chinarsi a darle un bacio. «Cosa sta facendo zia Koala?» le domanda, poi, dopo avermi lanciato un’occhiata perplessa.
«Da la pappa a Sunny» spiega Eris. «Zio Law, anche Sunny vuole bacio!» lo tira poi per la manica e io non trattengo un sorriso soddisfatto – e forse un po’ sadico –, in attesa. Law assume un’espressione che potrei anche condividere se gli avessero imposto di autoespiantarsi un rene, tenendogli una pistola puntata alla tempia, e io inarco le sopracciglia.
Non vorrà deludere sua nipote così.
Rassegnato, si passa una mano sul volto e ricaccia in gola un sospiro prima di chinarsi per baciare il peluche a forma di leoncino che, per altro, io sto fingendo di imboccare da quasi venti minuti ormai. Eris ridacchia e batte le mani felice e comincia ad agitarsi, segno che è sazia e stufa di stare seduta, così mi affretto a toglierla dal seggiolone e lei subito corre a recuperare un tovagliolo dal suo tavolino basso, dove prima abbiamo organizzato un raffinato the insieme a Sunny, Kiwi – che è veramente il peluche di un kiwi – e Mozu – peluche di un tucano –, per pulire la macchia da terra.
Mi si scalda il cuore a vederla fare queste cose. È così sveglia e così educata che si fa quasi fatica a credere che metà del suo DNA venga da Franky.  Ho cura di posare Sunny sulla sedia, così che sia alla sua altezza e possa prenderlo da sola, prima di raggiungere Law, che si sta versando dell’acqua, e appoggiarmi con le reni al bancone, accanto a lui.
«Ehi?» lo chiamo con calma.
Law prende un sorso – e pare un uomo appena tornato da un lungo viaggio nel deserto tanto mostra di gradirlo – si volta per baciarmi e finalmente mi saluta con uno stanco “ciao” prima di chiedermi, per la “ho perso il conto” volta, come sto e poi informazioni su tutti gli altri.
«Robin e Sabo hanno trovato traffico, così ho avvisato anche Ace e Perona che hanno detto che ne approfittavano per pulire un po’ e ho chiesto a Silk di ritardare, giusto per evitare che Rufy finisca gli antipasti prima dell’arrivo di tutti. Franky è per strada». Gli accarezzo un lato del viso, seguendo con gli occhi il movimento della mia mano per studiare meglio la sua espressione. «Giornata pesante?»
Sospira. «Cora si è slogato una caviglia scendendo dalla macchina. Niente di grave ma mi hanno incastrato per sostituirlo al turno di clown therapy» spiega e già i pezzi cominciano ad andare al loro posto.
Detto così può sembrare che Law sia un misantropo senza pazienza, ma la verità è che, se fanno i turni alla clown therapy del Castello, c’è un motivo ed è che molti di quei bambini sono delle macchine da guerra. Il che è una fortuna, visto che parliamo di bambini ricoverati in un ospedale, ma una fortuna parecchio sfiancante, soprattutto se anche il resto della giornata è stato frenetico.
«…due biopsie non programmate, Ginko è svenuta di nuovo e Dolan è andato in acidosi» finisce di elencare, la mia mano ancora sulla sua guancia.
«Nient’altro?» domando, dopo qualche altro secondo di attesa.
Smette di premersi pollice e indice sugli occhi e mi guarda atono. «Perché, questo non è abbastanza?»
«Cora mi ha chiamato un’ora fa» Law impreca mentalmente, lo capisco da come chiude gli occhi. «Ha detto che sei stato intrattabile tutto il giorno e temeva fosse successo qualcosa a casa»
«Cora che si sloga la caviglia senza fare niente e un bambino di otto anni in acidosi non sono due motivazioni sufficienti? Non posso essermi semplicemente svegliato male?» sibila, tenendo d’occhio che Eris non si avvicini abbastanza da sentirci discutere.
«Law so che è per gli esami» taglio corto e lui mi fulmina «E mi dispiace ma non sono in fin di vita e se ti comporti così non riusciremo a tenerlo nascosto a lungo. È già abbastanza sospetto il fatto che io non venga più a fare i turni di clown therapy» cerco di farlo ragionare.
«La scusa che avete un grosso progetto a cui lavorare è più che valida»
«Non se fai l’ossessivo compulsivo, maniaco del controllo in astinenza solo perché non hai un foglio in mano che dice che la medicina nuova è efficace quanto la vecchia. Così non è sano. Io ti prometto che non farò niente di stancante o potenzialmente stressante ma tu devi fidarti!»
«Koala, io mi fido di te» ribatte asciutto. «Non puoi chiedermi di non preoccuparmi per la mia famiglia»
Sgrano appena gli occhi e piego il capo di lato. Quando dice queste cose vorrei soltanto aggrapparmi a lui e non lasciarlo più andare ma se non gli tengo testa rischia di essere davvero l’inizio della fine.  
«Però posso almeno chiederti di fare il possibile per arrivare sano alla fine di questi nove mesi. Non mi piace vederti così. Questa è una cosa bella» insisto, con un sorriso appena un po’ tirato.
Mi osserva in silenzio per cinque secondi abbondanti prima di abbassare finalmente la guardia. Con un sospiro, appoggia la fronte sulla mia e mi avvolge il viso con le mani. «Ci posso provare» concede con un ghigno e personalmente la considero una grande vittoria. Porto le mani dietro al suo collo e mi comincio a rilassare nel suo calore quando mi accorgo di sentirmi osservata.
Curiosa, mi volto lentamente, inducendo Law a fare altrettanto, e punto lo sguardo verso il pavimento e verso Eris che, praticamente attaccata alle nostre ginocchia, ci fissa da sotto in su con Sunny sotto il braccio.
«Papà dice che i segreti sono come le bugie» annuncia, solenne.
Law sobbalza impercettibilmente, io inarco le sopracciglia.
«Ah sì? E la mamma che ne pensa invece?»
Eris si stringe nelle spalle. «Non lo so»
«Ecco, allora prova a chiederglielo e ricordati che lei ha sempre ragione» la istruisce Law.
«È permesso?»
«PAPÀ!!!» esclama Eris lanciandosi a razzo verso l’ingresso.
«Ecco la mia super-bambolina!!! Suuuuuupaaaaaaaa!»
Law non si astiene dall’esprimere il proprio disappunto verso l’indole chiassosa di Franky, sollevando un sopracciglio, ma non riesce a trattenere un sorriso davanti alla risata e alle urla entusiastiche di Eris.
Un piacevole brivido mi attraversa al pensiero che tra un paio d’anni questi momenti saranno nostri. Mi domando come sarà, se maschio o femmina, se prenderà un po’ da tutti e due o se sarà la copia carbone di uno di noi, come Eris con Robin, se sarà casinista come me o imperturbabile come suo padre. Che sarà un padre fantastico, su questo non ho un solo dubbio. So che quando toccherà a lui, adotterà lo stesso genere di atteggiamento che tanto disapprova in Franky adesso.
Beh, d’accordo, non forse proprio lo stesso identico atteggiamento.
«E destra, e si-nistra! Super destra, poi sinistra!»
«Puoi smettere di sculettare nell’ingresso di casa mia, Franky?»
«Yoh! Tattoo-bro, come andiamo?!»
Rido, mentre mi stacco da lui per controllare a che punto è la cena e cominciare a portare in tavola i piatti dell’antipasto. A breve saranno tutti qui. E non vedo l’ora di riabbracciare Sabo, cavolo!
«Non c’è male. E tu? Tutto bene al lavoro? Qualche nuova idea esplosiva?» domanda, beccandosi una gomitata sottoscritta, che tuttavia non riesce a non sorridergli complice e, di conseguenza, non lo scoraggia minimamente dal continuare a fare il bastardo sarcastico. Sì, quello che amo tanto, lo so.
«Ah quindi Robin vi ha detto!» indaga, con finta spavalderia, che non basta a nascondere né il suo imbarazzo né la tensione.
Il che è un evento più unico che raro. Ho visto Franky piangere come un bambino un numero non quantificabile di volte, svenire come una pera cotta durante il parto di Robin, arrabbiarsi, agitarsi quella volta che pensava di aver dimenticato Sunny al centro commerciale, ma imbarazzato e teso, quello mai.
Robin dev’essere davvero molto, molto arrabbiata.
«Sì e anche del tuo nuovo proposito di usare i pantaloni quando sei fuori casa» cambio prontamente argomento, estraendo una pirofila dal frigo. «Vedo che te la cavi bene!»
«Oh beh, se Sanji-bro ha smesso di fumare…» si stringe nelle spalle Franky, più sereno ora che l’allarme sembra rientrato.
Sembra.
«Papà hai un cannone?» chiede di punto in bianco Eris, improvvisamente pensierosa, ottenendo all’istante l’indivisa attenzione di suo padre.
«Di che parli, bambolina?»
«Mamma dice che non vuole più usare il tuo cannone»
C’è un momento di tombale silenzio, Franky sgrana così tanto gli occhi che mi stupisco che non gli cadano fuori dalle orbite.
Ah Robin. Non ti ringrazierò mai abbastanza per averla fatta così precoce.
«Cosa… Come…»
«Okay, Eris. Vieni ad aiutare lo zio a mettere la tavola» interviene Law, sfilandola dalle mani di suo padre che è ancora immobile in mezzo all’ingresso.
Li seguo con in mano il vassoio dei bicchieri e mi fermo al suo fianco. Lento e rigido come un robot dagli ingranaggi arrugginiti, Franky si volta a guardarmi boccheggiando. «Sono certa che le passerà presto» lo rassicuro prima di procedere verso il salotto.
Law tiene Eris sollevata da terra mentre gira intorno al tavolo, così da permetterle di sistemare le posate di fianco ai piatti.
«Credevo ne avessi abbastanza di bambini per oggi» lo prendo in giro e lui prova a lanciarmi un’occhiata contrariata, che risulta però poco d’effetto, visto e considerato che sta ancora sghignazzando per la biblica figura di merda che Eris ha appena fatto fare a suo padre. Potesse portarsela all’ospedale, non ci penserebbe due volte.
La porta si apre e richiude di nuovo, Franky è ancora in mezzo al corridoio.
«Ehiehiehi! La coppia meno cool del mondo è arrivata! E sapete perché non siamo cool?»
«Ace…»
«Perché siamo hot!»
«Ace, falla finita!» sibila Perona, chiaramente esasperata.
«Ehi grand’uomo! Come te la passi?» Ace da una pacca sulla spalla a Franky mentre lui e Perona entrano e posano le giacche sulla solita poltrona prima di venire a salutarci.
«Che cosa succede a Franky?» mi domanda Perona, indicandolo con il pollice da sopra la spalla, mentre mi viene incontro per un abbraccio.
«Casino con i suoi esperimenti, Robin molto arrabbiata. E a voi?»
Perona sospira rassegnata. «Vuole mettere sul citofono “Fireman e signora”».
«Beh dai…» comincio.
«No, non è carino!» mi stronca sul nascere ma io non riesco a trattenermi dal ridere. «Certi giorni mi domando chi me l’ha fatto fare, di innamorarmi»
«Certi giorni ce lo chiediamo un po’ tutte» la rassicuro mentre qualcun altro entra in casa.
«Ciao Silk!»
«Ehi dottoressa! Congratulazioni!»
«Grazie Ace»
Eris si illumina quando vede Rufy entrare e diventa rossa come un peperone. Vorrebbe gettargli le braccia al collo, ma Law non ha intenzione di lasciarla andare senza essersi prima accertato che Rufy non avesse le dita nel naso fino a un attimo fa e/o si sia lavato le mani.  
Mi avvicino a Silk per congratularmi e intanto Perona recupera il bouquet e il regalo da parte di tutti noi per festeggiare la sua laurea, Ace afferra Rufy per la collottola prima che si avventi sugli antipasti, Franky è ancora fermo in mezzo al corridoio, Law e Eris vanno in cucina a prendere le bottiglie di vino e acqua e la porta si apre e richiude per l’ultima volta.
«Buonasera a tutti» vibra una voce soave e materna prima di diventare fredda e metallica quando aggiunge un distaccato e lievemente omicida: «Oh, ciao Franky»
«MAMMA!»
«Ciao piccola mia!» esclama Robin, prendendola in braccio. «Come stai? Hai fatto la brava con zia Koala?»
«Sì. Abbiamo dato la pappa a Sunny e ora devo fare pipì» afferma solenne, sgambettando per farsi rimettere a terra e dirigersi da sola al bagno, come una vera bimba grande, anche se Robin, ovviamente la segue ugualmente. «Oh a proposito…» si sporge un momento oltre lo stipite della porta con un sorriso dei suoi. «…ho trovato qualcuno mentre venivo qui»
C’è un momento di sospensione del tutto, i rumori, i respiri, persino il tempo, l’aria è intrisa di aspettativa. E poi lui appare sulla porta e tutto riprende vita, in un mondo che è più bello di quello di un attimo fa, perché Sabo è a casa e siamo di nuovo tutti insieme.
«Ehi gente! Vi sono mancato?»
È sempre un’esperienza strana, per me, rivedere una persona da cui sono stata lontana per molto tempo. È difficile da spiegare. Anche se sono preparata e so che sto per rivederla è sempre come se la vedessi per la prima volta. Metaforicamente e letteralmente. Perché subito, seppur inconsciamente, comincio a notare tutti i piccoli cambiamenti che il tempo porta inevitabilmente con sé, e che rendono ogni incontro con qualcuno unico e speciale, e al tempo stesso il mio cervello ha questa singolare e nostalgica abitudine di recuperare il primo ricordo che ho di quella particolare persona insieme ad alcuni tra i momenti più significativi e importanti che ho vissuto con lui/lei, travolgendomi con una valanga di emozioni, trasformando quell’attimo in un nuovo ricordo significativo e importante, archiviato e pronto all’uso per quando se ne presenterà l’occasione.
Contorto, lo so, eppure così semplice.
Semplice quanto la spontanea reazione di Rufy che, non so bene come né quando, è saltato letteralmente in faccia a suo fratello e non sembra molto propenso a lasciarlo andare, non senza il tempestivo intervento di Ace e Law, che lo staccano a fatica da lui. Sabo gli scompiglia i capelli poi porta le mani intorno alla mandibola di Ace per studiarlo in faccia con attenzione.
Non si erano ancora visti di persona da quando Ace, cinque mesi fa, ha rischiato la pelle per recuperare un gatto rimasto intrappolato in un condominio in fiamme. I tg locali lo hanno soprannominato “Fireman” e  Perona lo ha minacciato di morte se si azzarda a farla spaventare così un’altra volta. Io, d’altra parte, mi metto nei panni della padrona di quel gatto. Fosse stato Nekozaemon, sarei stata grata a Ace fino alla fine dei miei giorni.
«È tutto okay» lo rassicura Ace, portando una mano sulla sua nuca per far cozzare gentilmente le loro fronti. «È tutto okay Sabo»
Sabo riapre gli occhi e lo guarda in cagnesco. «Sei un deficiente» sibila prima di abbracciarlo più stretto. 
È il turno di Law, e intanto Robin è tornata dal bagno con Eris in braccio, poi il mio e ci mettiamo a tavola, compreso Franky che ha ritrovato la capacità di deambulare.
«Allora, cosa mi raccontate?!» tiene un braccio sulle mie spalle mentre ci avviciniamo al tavolo. «Il lavoro?» sposta lo sguardo alternativamente da me a Law «Il trasloco?» si gira verso Ace e Perona.
«Abbiamo una piccola divergenza di opinioni sul citofono» racconta Ace con un sorrisone, guadagnandosi un’occhiataccia e un’imprecazione tra i denti.
«Al lavoro tutto bene. Un po’ presi da un nuovo progetto» intervengo, fedele alla nostra recita «I Cloth Tattoo vanno alla grande» sollevo il pollice.
«E al Castello?»
Law si passa una mano tra i capelli e ghigna, come sempre orgoglioso quando si parla del suo prezioso ospedale pediatrico.
E anche di Cora, ovviamente. 
«Non c’è male. Un sacco di studenti e specializzandi vogliono fare il tirocinio da noi e le campagne vanno sempre bene» allunga il braccio e mi accarezza il coppino «Quest’anno, se arriva qualche donazione più consistente, vorremo aprire il reparto neonatale» 
«Ve la siete cavata alla grande anche senza il mio inestimabile genio, insomma»
«La tua mancanza si sente» gli fa subito presente Robin.
«Sì infatti» confermo e Sabo già sta gonfiando il petto con orgoglio. «Non c’è nessuno con il tuo innato talento alla clown therapy, finisce che risultiamo sempre tutti un po’ forzati» lo smonto sul nascere, provocando uno scroscio di risa. 
La cena procede tranquilla, per quanto possibile nel marasma tipico delle nostre cene, con Rufy che cerca di appropriarsi direttamente del piatto da portata, Ace che rischia di addormentarsi e l’aggiunta degli occasionali commenti di Eris, che stasera ha più voglia di stare a tavola con noi anche se ha già mangiato. Lo zio Sabo è qualcuno che ha visto pochissimo e di cui ha più che altro sentito parlare ed è un continuo arrampicarsi sulla sedia libera vicino a lui per osservarlo più da vicino. Anche io lo studio attenta e mi accorgo presto delle occhiaie e del suo continuare a grattarsi la punta del naso, anche se non penso valga la pena farne un caso di stato. Sarà solo stanco.
«Lo zio Sabo è bello» annuncia Eris a un certo punto e il diretto interessato sgrana gli occhi con soddisfatto stupore.
«Vedo che ha buon gusto!» esclama rivolto a Robin, prima di chinarsi verso di lei. «Anche tu sei bellissima, scimmietta» la pizzica sul fianco per farla ridere.
«È stato pesante il volo?» chiede Law, le dita intrecciate e gli occhi che scrutano, e tanto mi basta per sapere che anche lui ha notato che non è nella sua forma smagliante.
Ma Sabo si stringe nelle spalle. «Nella norma. Intendo, nella norma per uno che non ha il terrore di volare» aggiunge poi, sghignazzante e incurante dell’occhiata assassina che Law gli scocca.
«E ad Alabasta come va?» domanda Ace, mentre con la bottiglia di vino fa il giro di tutti i bicchieri, cominciando da quello di Perona. «La signora tutto bene?»
«Alla grande!» annuisce Sabo, accettando volentieri il vino che Ace gli versa. «A Bibi è dispiaciuto un sacco non poter venire ma sapete com’è, sempre presa dalle sue campagne, sempre in giro a cambiare il mondo. Tutto regolare insomma»
«E il tuo lavoro invece? Come ti trovi?» domando io, curiosa di scoprire se si è ambientato nel nuovo ufficio, dove ha iniziato da nemmeno due mesi.
Ma Sabo sembra per un momento colto alla sprovvista, quasi che non sappia di cosa sto parlando. «Ah, oh, s-sì, devo dire che… che…» abbassa gli occhi alle ginocchia, si gratta la punta del naso e questa volta è chiaramente nervoso.
«Sabo?» domanda Law, allertato. «Qualcosa n…»
«Ace, non versare il vino a Koala, non può bere in gravidanza»
La voce soave di Robin taglia l’atmosfera in due, il tempo si ferma, io mi congelo.
Che.Ha.Detto?
C’è un momento di silenziosa confusione e sguardi scambiati e poi…
«È incinta?!» Ace domanda sorpreso a Robin.
«Sei incinta?!» Sabo domanda indagatore a me.
Mi appoggio con un sospiro allo schienale della mia sedia mentre Law cerca di trucidare Robin con gli occhi. Mi giro a guardarla, rassegnata.
«Come?» domando pacata, ignorando le voci che si alzano, un’ottava dietro l’altra.
«Eris mi ha raccontato che oggi continuavi ad accarezzarti la pancia ed è tutta la sera che non tocchi una goccia di alcol» spiega con semplicità, lasciandomi interdetta.
Davvero continuo ad accarezzarmi la pancia? E proprio mentre formulo mentalmente la domanda a me stessa  mi accorgo che lo sto facendo anche adesso.
«Koala, che hai?! Ti fa male?!» si agita Sabo quando se ne accorge. «Perché non hai ordinato delle pizze? Non dovevi sforzarti a cucinare!»
Mio dio. Non ne bastava uno?!
«Non preoccuparti, ti darò tutte le dritte necessarie» Robin mi accarezza i capelli con fare materno.
«Anche come gestire Sabo?»
Sgrana gli occhi blu, appena un po’ sconcertata. «Oh no. Per quello non ho mai capito nemmeno io come fare» aggiunge, con un sorriso soave.
Magnifico. Siamo a cavallo, visto che uno è già in modalità padre isterico da tre giorni e l’altro è entrato in modalità non-padre isterico un istante fa. Sabo mi chiede se ho bisogno di qualcosa, Law gli dice di non agitarsi che peggiora la situazione, si sporge verso di me e mi chiede se ho bisogno di qualcosa, Perona cerca di spiegare a Rufy cos’è successo con la stessa sacra pazienza con cui al liceo gli spiegava le equazioni, Silk si offre di sparecchiare, Franky piange.
E io mi rassegno.
Tanto sapevo che non ci saremmo riusciti, era una certezza quasi matematica e, dopotutto, ne sarei anche felice se questi due non fossero l’ansia e la mania del controllo incarnati.
Non so come farò a sopravvivere con tutti  e due in casa ma devo pensare positivo. Posso farcela. Devo resistere solo una settimana e quando Sabo sarà tornato ad Alabasta mi basterà ignorare una sua chiamata ogni tre. E poi, forse, Law lo ucciderà prima.
Sì, ce la posso fare. In fondo, è solo questione di pochi giorni. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


«Stamattina ho letto un articolo molto interessante!»
«A che proposito, Kaymie-chwan?»  le chiedo sorridente, mentre le verso il vino. Usopp tamburella con le dita contro il proprio bicchiere, in attesa del proprio turno, ma, mi dispiace per lui, prima tocca a Nami.
Il fatto che io abbia scelto di aprire un mio catering non cancella gli esami da maître da me sostenuti e, al di là della mia indole, nulla vince sull’importanza che ha l’etichetta in presenza di una signora. Nemmeno il vero amore.
Senza contare che non ho ancora del tutto sbollito dopo lo scherzo che mi ha fatto stamattina. Certo, non è stato intenzionale. Non mi avrebbe mai chiuso in macchina se avesse saputo che c’era un ragno, il mio Uso-chan non mi farebbe mai una cosa del genere, però…
Un brivido ancora mi percorre la schiena e sono costretto a scrollare le spalle per scacciarlo.
«Rapporti interpersonali. State a sentire, pare che due coppie ogni tre fingano di essere perfettamente in sintonia quando sono in presenza di altre persone, mentre in realtà covano del risentimento o sono nel bel mezzo di una lite irrisolta»
«In altre parole il cinquanta per cento di noi stasera sta solo fingendo che va tutto bene»
«La gallina che canta ha fatto l’uovo, Izou» gli fa notare la bella e saggia Nami-swan, mentre si addossa di spalle al torace del cervello d’alga.
«È un modo pittoresco per confessare, Nami?»
Il sangue comincia subito a ribollirmi nelle vene. Come si permette di dare della gallina a Nami-swan, questo impertinente, arrogante, piccolo…?
La mano di Usopp, che si posa decisa sul mio avambraccio, frena la mia filippica mentale e l’espressione saputa e determinata che mi rivolge, come ad avvisarmi che ci pensa lui, mi manda parecchio sangue alla testa.
«Voi due» li ammonisce deciso. Trattengo il fiato. È dannatamente sexy quando fa così. Sexy e… «non cominciate o lunedì lo dico a Koala»
…paraculo.
Chissà perché mi sono illuso che avesse intenzione di prendere in mano la situazione per davvero. Tuttavia, la minaccia sembra sortire l’effetto desiderato, perché Nami e Izou si fissano in cagnesco ancora un po’ ma poi entrambi desistono. Il che mi provoca sentimenti contrastanti. Sono curioso ma al tempo stesso non sono così certo di voler sapere quale concreta ed effettiva minaccia rappresenta la dolce Koala-chwan.
«Non capisco comunque il punto di quell’articolo. Non è normale mettere da parte i propri problemi di coppia quando si è in presenza di altre persone? È una questione di rispetto e quieto vivere» interviene Zoro, deviando il discorso sull’argomento originario.
«Questo perché tu hai la stessa capacità di gestione emotiva di un babbuino, Marimo»
«Che hai detto, Torciglio?»
«Sanji ha ragione. Una cosa non esclude l’altra, Zoro» si intromette Nami, facendo di me l’uomo più felice del mondo nel prendere le mie difese. «Prendi Law e Koala, loro non hanno mai finto che andasse tutto bene solo perché si è fuori tutti insieme»
«Non tirare in ballo quei due traditori, Nami»
«Izou» lo ammonisce Marco.
«Non Izouarmi, Marco-chan! Sono due paccari! Lo sanno che non si salta la cena mensile!»
«Si può saltare per cause di forza maggiore»
«E un fratello che torna dopo quasi un anno e mezzo di reclusione ad Alabasta è forse una causa di forza maggiore?»
Lo fissiamo tutti increduli per un attimo ma nessuno ha il cuore o la voce per rispondergli.
«Okay, Nami, però questo è perché Law è la persona più orgogliosa dell’universomondo e Koala non perdona facilmente. Ma se fossimo io e Sanji a litigare e io non fingessi che va tutto bene, sarei così depresso che finirei per rovinare davvero la serata a tutti!»
Mi giro a guardarlo a bocca lievemente schiusa e gli occhi che brillano. La sua spontaneità riguardo quello che prova per me mi fa sempre un certo effetto.
«Ma esattamente cosa cercava di dimostrare quell’articolo? Che le coppie litigano o che la felicità è un metro di misura per farsi accettare dagli altri?» si spazientisce Zoro. «Perché a me sembra normale che le coppie litighino!»
«Ehi» Nami si gira quasi preoccupata verso di lui e gli circonda il viso con le mani. «Amore, non te la prendere così»
«Ehi ragazzi, cosa mi sono perso?» Duval quasi ribalta il tavolo nel lanciarsi sulla propria sedia, di ritorno dal bagno.
«Secondo Kaymie, almeno due coppie al tavolo hanno una lite irrisolta in corso» commenta monocorde, Izou.
«Oh» commenta Duval, un po’ interdetto mentre la delicata Kaymie-chwan arrossisce.
«Ma io veramente non…»
«Beh sicuramente non è il nostro caso! Vero, Kaymietesoro?»
Sì, esatto, proprio così, come se fosse una parola sola.
Kaymie lo fissa a bocca aperta, confusa e felice e, per nostro rammarico, Duval ritiene sia il momento perfetto per farle un occhiolino di intesa. Che come sempre finisce per trasformarsi in una lunga e sofferta contorsione facciale di dubbio valore estetico, che comincio a sospettare possa ripercuotersi sull’innervazione del suo cranio, eventualità che spiegherebbe moltissime cose.
Come sempre, tuttavia, Kaymie scoppia a ridere innamorata, gli lancia le braccia al collo esclamando un “Oh Duval” e poi lo bacia.
Sì, non c’è proprio niente da dire. Sono una coppia invidiabile e sicuramente, se quell’articolo è vero, loro non sono due dei quattro presunti litiganti. E dire che non gli avremmo dato due berry quando, tre anni fa, ad appena quindici giorni dal loro primo incontro, complice la decisione di Kaymie di restare a Raftel e lo spavento dell’incidente al KamaBakka, hanno deciso di provare a vivere insieme da subito, lasciandoci tutti perplessi o scettici al riguardo. E invece guardateli adesso.
«Dunque…» mormora Nami, osservandoli perplessa qualche istante prima di distogliere lo sguardo e cercare un argomento di cui parlare, così da non essere costretti a osservare in diretta le loro effusioni amorose. «Allora Reiju arriva settimana prossima?» mi chiede con un sorriso gentile che ricambio sincero.
Sono davvero felice che mia sorella venga a Raftel per un po’. «Venerdì» confermo con un lieve cenno del capo. «E alla fine starà da noi»
«Così Zeff e Sora possono continuare a darci den…»  
«Zoro, è di mia madre che parli!» ruggisco.
Ma quel deficiente del Marimo evidentemente è privo di qualsiasi sentimento figliale nei confronti di quella santa donna che ha avuto le forze e il coraggio di tirarlo adulto, perché mi guarda come se non capisse dove sta il problema. «Appunto! Dovresti essere contento per lei»
«Io quoto Zoro.» interviene Izou. «Il sesso è una cosa bella a ogni età. Infatti io continuo ad avere paura che mia madre possa restare incinta di nuovo, anche se ormai l’incantesimo degli otto anni si è spezzato»
«L’incantesimo degli otto anni?» si acciglia Usopp.
«A quanto pare Laki è rimasta incinta sempre a otto anni di distanza tra un figlio e l’altro. Me lo ha spiegato Aisa la prima volta che sono andato a pranzo da loro» spiega Marco.
«Uh Sanji, falla venire al matrimonio!» esclama Izou, colto da improvvisa eccitazione.
È il mio turno di accigliarmi. «Chi? Mia madre?»
«No!» si acciglia anche lui. «Reiju!»
Sbatto le palpebre, colto alla sprovvista. «Ma non la conoscete nemmeno»
«E allora?» Izou si stringe nelle spalle. «È giovane, sicuramente più intelligente di te e Usopp non fa che tessere le sue lodi. Più siamo, meglio è! E poi non vorrai lasciarla subito così da sola. Che razza di fratello saresti?»
«Izou ha ragione, e poi è una vita che non la vediamo. Dai! Se non ha niente di adatto posso prestarle io un vestito» si offre Nami-swan.
«Così come potrebbe prestare un vestito a ogni singola invitata femm… Ouch!»
«Nessuno ti ha chiesto niente, Zoro!» gli ringhia quasi contro, tirando i pendenti agganciati all’orecchio destro del cervello d’alga.
«Beh allora… allora provo a dirglielo» cedo alla fine. «Grazie!» sorrido ai futuri sposi, grato e felice. In effetti non ero proprio al settimo cielo all’idea di lasciarla già il secondo giorno, tutt’al più che sarà uno dei pochi sabati che non lavorerò.
Non che Reiju abbia bisogno della balia ma è pur sempre della mia sorellina che parliamo. Anche se non posso dare per scontato che accetti – magari decide di sfruttare l’occasione per stare con mamma – ma Izou e Marco sono così gentili a offrirsi di aggiungerla all’ultimo che mi sembra il minimo dar loro una risposta nel minor tempo possibile, così estraggo subito il telefonino per contattarla.
Se non che, quando apro whatsapp, il nostro gruppo “Mugiwara” attira la mia attenzione con una nuova notifica di Rufy, abbastanza breve da poterla leggere senza bisogno di aprire, abbastanza inaspettata da lasciarmi per un lungo attimo interdetto a fissare lo schermo.
«Oh. Ahm… ragazzi» li chiamo, metabolizzando ancora la notizia, ma loro sono già tutti lanciati in una nuova discussione, il cui argomento mi sfugge. «Ragazzi… Uso-chan, è arrivato un messaggio sul gruppo» decido di rivolgermi direttamente a lui, che ha questa meravigliosa capacità di captare la mia voce anche nel mezzo del caos più totale e dedicarmi subito la propria attenzione, qualsiasi cosa stia facendo.
Come si fa a non amarlo?
«Qualcosa di urgente?» si stranisce lui, guardandomi da sopra la propria spalla.
«Non ne sono sicuro» mi tengo sul vago, mandandolo ancora più in confusione. Perplesso pesca il proprio cellulare dalla tasca della giacca e io studio la sua reazione.
Ora, chiariamo, non è che ci sia niente di fantascientifico o innaturale. È una donna adulta, con una relazione stabile. È perfettamente normale che sia successo. A non essere normale è venirlo a scoprire così, con un messaggio di Rufy su whatsapp.
E infatti da accigliato che era, Usopp sgrana gli occhi, così tanto da sfidare le leggi della fisica e poi, senza staccare lo sguardo dallo schermo, allunga un braccio verso Nami e comincia a schiaffeggiare l’aria finché non trova la sua spalla. «N-Nami. Nami. Nami. Nami!»
«Usopp! Che c’è?»   
«Koala è incinta!» solleva finalmente la testa per guardarla.
Segue un lungo momento di silenzio ed è difficile dire se stiano silenziosamente comunicando  con gli occhi o siano semplicemente troppo esterrefatti per riuscire a parlare. Izou sembra aver perso qualsiasi controllo sulla propria mandibola nonché l’uso della parola.
Ma, come quasi sempre accade con Izou, l’apparenza non coincide con la realtà. 
«E lo dice così su whatsapp?!?!?»
Decisamente, non vorrei essere nei panni di Marco stasera. 

 
§

 
«Non vorrei proprio essere nei panni di Marco stasera» commenta Usopp, accendendo la luce dell’ingresso mentre io chiudo la porta per la notte. Mi volto a guardarlo e lui subito abbaia: «Che c’è?» di fronte alla mia espressione scettica.
«Come se tu avessi avuto una reazione normale» gli faccio presente, superandolo per dirigermi in camera nostra, dove Usopp mi segue, per nulla intenzionato a demordere.
«Per un motivo totalmente diverso! Ma tu lo sai quante complicazioni possono insorgere durante la gravidanza? Svenimenti, capogiri, infezioni, spotting, insonnia…»
Lo fisso a occhi sgranati, mentre elenca una quantità di problemi e complicazioni che sembrano non avere fine. «Okay, okay, okay!» lo interrompo sollevando entrambi le mani. «Tutte queste informazioni da dove arrivano?»
Usopp solleva il cellulare e fa spallucce «Internet. Ho dato un’occhiata mentre tornavamo a casa»
Scuoto appena il capo, colto alla sprovvista. «Usopp perché ti comporti come se questa gravidanza fosse tua responsabilità?» indago con calma, alla ricerca del reale problema che, lo so fin troppo bene, si nasconde dietro questa montagna di agitazione.
Lui comunque non sembra dell’idea di collaborare, a giudicare da come sgrana gli occhi prima di ribattere, come se fosse una cosa ovvia: «Beh siamo colleghi! Una qualsiasi di queste cose…» indica il cellulare. «…potrebbero capitare al lavoro e se la capita qualcosa mentre è al lavoro poi chi lo sente Law! Insomma lo conosci, Law, è iperprotettivo, se dovesse anche solo sospettare che io e Nami non eravamo preparati per intervenire potrebbe anche decidere di usarci come cav…» le mie mani sulle spalle riescono a frenare il suo agitato e sfiancante discorso e la maschera comincia lentamente a frantumarsi sotto il mio sguardo comprensivo ma saputo.
«Usopp. Sei preoccupato che possa succederle qualcosa di grave, vero? Tipo, un arresto cardiaco». Deglutisce a vuoto e sobbalza, reazione sufficientemente eloquente per me. Piego lievemente le labbra in un sorriso. «Sei proprio così sicuro che tu e Izou non abbiate la stessa motivazione?»
«Io… So che è s-stupido, sono passati tre anni ma…»
«Ma hai seriamente creduto che ti stesse morendo tra le braccia e non riesci a non essere spaventato. Lo capisco. Ma Koala è in ottime mani e un bambino è una cosa bella. Prova a metterti nei suoi panni, non vorresti che tutti fossero felici per te?»
«Eh» sbuffa una risata, gli occhi al pavimento. «Sì, suppongo di sì» si passa una mano sul volto mentre io scivolo con le mani ai lati del suo collo. «Sono uno sciocco»
Socchiudo le palpebre, in contemplazione. «Solo dolce, Uso-chan» lo bacio sulla punta del naso. «E sarai un bravissimo zio»
Mi guarda di sottecchi, da in mezzo le sue lunghissime ciglia che farebbero morire d’invidia qualsiasi donna, l’espressione tra il divertito e l’indignato. «Come hai detto? Io sarò uno zio eccezionale! Il migliore!» si ringalluzzisce, spingendo il petto in fuori. «Mio caro, tu non ti rendi conto, quello che hai di fronte è “best dad ever material”!» esclama con fierezza, facendomi ridere.
«Beh di sicuro io vedo un sacco di “boyfriend material”» ribatto, avvicinandomelo, un braccio saldamente avvinghiato intorno alla sua vita, le labbra a meri centimetri di distanza. «E sinceramente sono molto curioso di scoprire cosa ci si può fare esattamente con tutto questo materiale di alta qualità»
Usopp sorride, un po’ imbambolato ma non mi sfugge il lampo che gli attraversa gli occhi e che mi manda un brivido lungo la colonna vertebrale. In un attimo la sua bocca è sulla mia e ci stiamo spingendo a vicenda verso il letto.
Uso-chan ha chiaramente bisogno di rilassarsi. Adesso ci penso io. 
 

 
§ 

 
«C’è ancora un’ultima cosa di cui mi raccomando, la più importante di tutte,…»
 

Entro in casa a passo di marcia e districo furente la sciarpa leggera che mi si è attorcigliata al collo. Il sospiro di Marco alle mie spalle, che, per quanto lieve, non mi sfugge, non aiuta affatto.
Chiude la porta, mi supera per appendere la giacca all’attaccapanni e intanto mi lancia un paio di occhiate furtive ma, dopo qualche altro attimo di strenua resistenza, si arrende e si gira ad affrontarmi apertamente.
«Adesso è per Koala o…» lascia la frase in sospeso, non che ci siano molte opzioni tra cui scegliere per completarla.
E infatti io mi limito a rispondere: «O» prima di proseguire verso la camera. Non penserà davvero che sia tutto a posto solo perché ho deciso di non farmi rovinare la serata da lui e dal suo paternalistico atteggiamento.
«Izou» mi richiama, muovendosi ben più rapidamente di quanto non faccia di norma quando discutiamo, dimostrazione che è veramente preoccupato. Anche se non capisco per cosa! Se solo smettesse di fare il superansioso iperrazionale non ci sarebbe proprio niente di cui essere tanto preoccupati. «Tutto questo è ridicolo»
E si ricomincia con il paternalismo.
«Ah! Ovviamente!» esclamo e mi volto verso di lui, i lembi della camicia ora completamente aperta che svolazzano ai lati del mio torace e il mento alzato. «Perché tutto quello che faccio io è ridicolo vero?!»
«Io non ho mai detto questo» squadra la mascella, irritato come sempre dal mio interpretare liberamente. Ma non è paranoia come lui sempre sostiene quando litighiamo pesante. Dice molto più di quel che pensa con il suo modo di fare, è un qualcosa che va al di là delle parole.
Ti conosco troppo bene, Marco-chan.
«Penso solamente che sarebbe stato più corretto parlarmene prima»
«E va bene, sì! Avrei dovuto dirtelo! Hai ragione, d’accordo?!» esplodo, esasperato dal sentirmelo rinfacciare per…. Cosa sarà? La quinta volta? «Ma non sarebbe cambiato nulla, te lo avrei comunicato e basta. La mia decisione è questa!»
Abbassa gli occhi al pavimento ma non mi sfugge il lampo di rabbia che glieli attraversa un attimo prima che chini il capo per cercare di nascondermi il suo stato d’animo. «Quindi è così che la vedi?» mormora, quasi impercettibilmente. «Meno male che settimana prossima ci sposiamo…»
Non è tanto ciò che dice quanto come lo dice che mi colpisce dritto al cuore. Come un proiettile che mi trapassa e mi dissangua. E ora quello agitato sono io.
«Marco, questo non ha niente a che vedere…»
«Iniziamo una vita insieme, Izou» mi interrompe, pacato ma deciso. «Da ora in poi le tue decisioni, così come le mie, si ripercuoteranno su entrambi. Non puoi più ragionare per te stesso e basta»
Lo scruto in silenzio, la bocca appena schiusa per l’incredulità. Lo ammetto, sono ferito. Non riesco a credere che lo abbia detto davvero. E francamente non saprei nemmeno cosa rispondergli.
Attraverso di nuovo la camera e, rigido come una statua di ghiaccio, esco, superandolo senza una parola.
«Izou, dimmi qualcosa…» un’implorazione la sua.
Un’implorazione che, per quanto arrabbiato, non riesco a ignorare.
«Io…» chiudo per un attimo gli occhi e riordino i pensieri prima di dire qualcosa di cui potrei pentirmi. «Abbiamo iniziato una vita insieme sette anni fa, Marco. Non ho mai ragionato per me stesso e basta, neppure per un secondo, in tutto questo tempo! Come fai anche solo a pensarlo?» inspiro a pieni polmoni, per calmarmi. «Questa cosa non riguarda noi, riguarda me e se hai paura che possa cambiarmi… Mi hai sempre detto di essere me stesso, me lo hai chiesto, me lo hai posto come condizione per cominciare una storia! Io sto cercando di essere me stesso e essere me stesso non mi potrebbe mai e poi mai allontanare da te. Mai, Marco!»
Sempre che sia di questo che hai paura…
Difficile dire se abbia fatto centro o meno. Per quanto bene lo conosca, quando si impegna riesce a risultare imperscrutabile anche a me. E al momento si sta impegnando davvero molto.
Ma mentirei se dicessi che non sono sollevato quando, con un ultimo sospiro stanco, si stacca finalmente da quello stipite e si avvicina per baciarmi. Se non che quando ci separiamo, qualcosa nel suo sguardo mi dice che non è ancora risolta.
«Va bene. Ho capito cosa vuoi dire» concede, con un ghigno che non mi bevo nemmeno per un attimo.
Lo hai capito, okay, ma sei d’accordo o no? E cos’altro c’è che non mi stai dicendo, Marco-chan?
«Andiamo a letto?» propone e io lo osservo attento, da vicino, senza però riuscire a carpirgli nulla.
Vorrei continuare a indagare ma il rischio di ricominciare a litigare è troppo e ho ben presente la più importante raccomandazione di padre Gan Forr.
«Sì» gli sorrido il più naturale possibile. «Andiamo a dormire»

 
§

 
«…non andate mai a letto arrabbiati l’uno con l’altro»   
 

«Non riesco ancora a crederci. Koala incinta» mormoro ravviandomi i capelli. «Davvero pazzesco»
Zoro mi lancia un’occhiata di striscio, bisticciando con il mazzo di chiavi alla ricerca di quella giusta. So che tre serrature sono una scocciatura, ma non si è mai troppo prudenti. «Che c’è di così pazzesco? A me sembra una cosa normale»
«Sì certo» sorrido. «Solo che ti fa rendere conto di quanto passa in fretta il tempo» mi giustifico, strappandogli un ghigno che si spegne quando, stufa di aspettare, allungo la mano verso di lui. «Dammi qua, che se aspettiamo te facciamo mattina»
«Sempre così piena di complimenti» ribatte ma fa come gli chiedo e posa le chiavi nel mio palmo, spostandosi di lato.
Trovo e imbrocco la chiave al primo colpo e in tre mandate la porta di casa è finalmente aperta. Purtroppo.
Ci lanciamo un’occhiata incerta, per nulla impazienti di entrare. Sappiamo entrambi cosa succederà appena superata la soglia e richiuso l’uscio. D’altra parte, è inevitabile.
Entro prima di lui e mi fermo al centro dell’ingresso, gli occhi serrati nell’attesa. Zoro sospira prima di chiudere la porta con un assordante, definitivo click.
«Si può sapere cosa ti è preso?!» alzo la voce, girandomi di scatto verso di lui che, dal canto proprio, decide di tirare dritto in cucina.
«Ho avuto le mie buone ragioni, Nami!»
«Le tue buone ragioni?» domando, raggiungendolo in cucina. «Le tue buone ragioni?!?»se pensa di cavarsela così, si sbaglia di grosso! «E ti spiacerebbe condividerle con me, queste buone ragioni, visto che sono tua moglie?!»
Finisce di bere il bicchiere d’acqua che si è versato e lo riappoggia sul tavolo, con un po’ troppa foga. «Il lavoro che ho ora va più che bene. Ed è un lavoro sicuro» afferma, lapidario.
Sbatto le palpebre un paio di volte, sinceramente interdetta. Ho sentito bene?
«Mi stai dicendo che hai rifiutato un posto come istruttore al dojo perché il lavoro al negozio di Johnny va più che bene?»
«Il mio aiuto gli serve e mi piace occuparmi delle spade»
«Non lo metto in dubbio ma Johnny può trovare qualcun altro! Zoro questa era una splendida occasione per te!» insisto, ferma nella mia convinzione che però non sembra essere abbastanza per convincere anche lui.
«Senti, Nami, ma qual è il problema?» chiede, guardando dritto davanti a sé, puntellato con le mani al tavolo. «Ti imbarazza che tuo marito lucidi lame per vivere, per caso?»
Sgrano gli occhi, colpita dalle sue parole peggio che da una pugnalata. Tra me ringrazio di essergli distante o gli avrei sicuramente mollato una sberla prima di riuscire a fermarmi.
«Come hai detto, scusa?» sibilo, gli occhi socchiusi e minacciosi.
«Nami, non…»
«Ti ricordo che mia madre, la donna che stimo di più al mondo, si è sempre guadagnata da vivere raccogliendo mandarini e arance che vende al mercato!»
«Lo so»
«Non azzardarti mai più a…»
«Scusa!» alza la voce per farsi sentire e zittirmi, intento in cui decisamente riesce. «Scusa, non era quello che volevo dire, mi dispiace» si gira a guardarmi, determinato e sincero. «È solo che non capisco, non capisco perché ti sciocca tanto la mia decisione. È così complicato credere che sono felice così?»
Lo osservo senza dire nulla, combattuta e con il cuore in guerra. Come posso rispondere sinceramente a questa domanda? Mi sta praticamente dicendo che dividere la sua vita con me lo appaga così tanto che per essere felice gli basta avere un lavoro qualsiasi che abbia a che fare con le spade.    
E se fosse così semplice, lo accetterei.
Ma non è così semplice, non lo è per niente.
Fatico a credere che dopo aver mollato tutto e aver vissuto in un altro continente per tre anni, solo per imparare tutto il possibile sull’arte della spada, lucidare quelle degli altri possa essere davvero la sua massima aspirazione.   
Ma che posso dirgli? Lo amo e voglio che sia felice, certo, però se lui sostiene di esserlo mi lascia anche senza argomenti a mio favore.
«Sei felice?» domando, giusto per levarmi ogni dubbio. Già so che non servirà comunque a niente.
E ciò nonostante il mio stomaco fa una capriola quando Zoro ghigna, ben più rilassato di quanto non sia stato per tutta la sera.
«Sì, mocciosa. Sono felice»
Prendo un profondo respiro e faccio appello a tutte le mie capacità recitative prima di andargli incontro con un radioso sorriso sul volto.
«Va bene, Zoro. Questo è ciò che conta»
Anche se non ci credo. Anche se continuo a non capire e questo mi spaventa più di ogni altra cosa. Ma siamo entrambi stanchi e abbiamo già discusso stamattina e prima di uscire per la cena.
Adesso è quasi ora di andare a letto e non dobbiamo dimenticarci la raccomandazione più importante di padre Gan Forr.
«Se sei felice, allora va bene»




 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Lancio un’occhiata oltre il bordo del pc e faccio roteare l’anello a forma di sole intorno al mio anulare, prima di riprendere a digitare alla velocità della luce. E con un filo di forza più del necessario, forse.
Ma me li sento, i loro occhi addosso. Anche senza guardarli so che si scambiano occhiate tra di loro e ne lanciano a me, molto poco concentrati sul proprio lavoro.
Provo a ignorarli, con tutta me stessa ma è difficile. È difficile ignorare qualcuno con cui condividi un cubicolo poco più grande di uno stanzino per le scope e quel qualcuno si comporta come se fossi un candelotto di dinamite.
Molto, molto difficile.
«Okay adesso basta!» chiudo di scatto il pc. Usopp sobbalza e soffoca un mezzo gemito. Da Nami nessuna reazione registrata. «Finitela di fissarmi!»
Usopp sgrana gli occhi e improvvisamente sembra incapace di distogliere lo sguardo da me, constatazione che mi strappa una sospiro stanco.
«E-ehi ma io… io stavo notando che hai fatto crescere i c-capelli. Ti stanno bene! R-riesci anche a raccoglierli così?»
«Usopp» lo richiama Nami atona.
«Sentite, era precisamente per questo che non volevo dirlo così presto! Ma ho appena passato un weekend da panico, Sabo e Law non mi hanno lasciata da sola neppure mentre facevo la doccia e non mi illudo che stasera le cose andranno molto diversamente, quindi, vi prego, per favore, almeno mentre sono al lavoro, almeno voi, potete non trattarmi come se fossi una bomba pronta ad esplodere?!»
«Ma è quello che sei, Koala» mi fa presente Nami, pacata e ragionevole e dopo un momento di stupore mi rendo conto che ha ragione, che sono appena saltata in aria come un petardo. Nami sogghigna. «Meglio adesso?»
E io lascio andare un sospiro sollevato, la pressione che diminuisce mentre appoggio i gomiti al pc chiuso e la fronte sui palmi. «Sì. Scusate, è stato…»
«Intollerabile?»
«Da neuro?»
«Il weekend più lungo della tua vita?»
«Una cosa del genere» abbozzo un sorriso. «Non fraintendetemi, so di essere fortunata ad averli nella mia vita però…»mi interrompo, a corto di parole.
Non che servano. Sanno benissimo cosa cerco di dire e mi sorridono comprensivi.
«Tieni duro» mi incita Nami, sporgendosi appena verso di me. «Si calmeranno. Cioè, oddio, Sabo forse no ma tanto sta qui per poco. Mentre Law quando vedrà nero su bianco che è tutto okay comincerà a essere apprensivo solo per il bambino»
«Ah beh…» commentò tra il divertito e lo sconsolato.
«Dai è meglio di niente» insiste Nami con una risata che contagia anche me.
«Okay, okay, hai ragione» concedo, rovistando nella mia borsa alla ricerca di un fazzoletto.
Dopotutto, è come ha detto lui. Non posso pretendere che non si preoccupi per la sua famiglia. Il solo ripensare alle sue parole mi fa sentire come avvolta in una coperta, calda e al sicuro. È strano, non sono ancora riuscita a entrare nell’ottica, a concretizzare il pensiero astratto di me e Law che diventiamo a tutti gli effetti una famiglia.
E non perché finora non lo fossimo stati. Anzi, il punto è che lo siamo da sempre. Dalla casa-affido, attraverso le nostre adozioni, per tutti questi anni, siamo sempre stati una famiglia, in costante espansione. Ma una famiglia ben strana, atipica, senza alcun legame di sangue.
Finora. Ma ora c’è un legame tangibile, una creatura che avrà il sangue di entrambi, metà del mio D.N.A. e metà del suo. Di qui a pochi mesi diventeremo genitori ed è così str… Che… che cos’è?
La mia mano cozza contro qualcosa di rigido e squadrato, che non richiama nulla alla mia memoria tattile. Sembra la batteria portatile del mio cellulare, molto probabilmente lo sarebbe se quella non fosse già sulla scrivania, insieme al cellulare, appunto. Non è nemmeno la confezione di mentine, quella la tengo in una tasca esterna.
Afferro saldamente l’oggetto tra le dita e lo estraggo. Perplessa mi ritrovo a fissare una scatolina rettangolare e nera, con pochi pulsanti e uno schermo a cristalli liquidi stretto e allungato. Sgrano appena gli occhi quando lo riconosco e me lo rigiro tra le mani. Sul retro c’è appiccicato un post-it fucsia con scritto sopra “REPERTO C”.
Chiudo gli occhi rassegnata. Oh Eris! Proprio con il cercapersone dello zio, dovevi giocare all’archeologa?
«Ehi che succede?» domanda Nami.
«Il cercapersone di Law» spiego mentre mi alzo e raccatto i miei effetti essenziali. «Eris me lo ha messo nella borsa, devo portarglielo. Per fortuna oggi inizia dopo pranzo, ma portava Sabo a fare un giro al Castello, quindi devo andare comunque fin là» constato, lanciando uno sguardo all’orologio. «Prendo un’ora di permesso»
«Che?! No!» esclama Usopp, balzando in piedi. «Nemmeno per idea!»
Scambio un’occhiata incredula e sinceramente stupita con Nami che si stringe nelle spalle, altrettanto stranita.
«Perché?»
«Sei incinta! Non puoi nemmeno mettere piede in un ospedale pediatrico, hai idea di quanto sia alto il rischio biologico?!»
Sento i muscoli della faccia contrarsi in una smorfia disperata. Ti prego, anche lui no!
«Usopp…» lo imploro quasi. «Non anche tu…»
«Koala riflettici. Dovresti fare di corsa, ha iniziato già a fare un caldo cane e in un posto del genere basta uno starnuto. Non è saggio»
«Hai paura che Law ti vivisezioni per non averla tenuta qui con ogni mezzo possibile, vero?»
«Certo che sì!» ribatte con il suo tono da “non è ovvio”, lanciando a Nami un’occhiata da sopra la spalla.
«Oh santo cielo» impreco sottovoce, scansandolo per uscire dall’open-space ma ancora una volta Usopp  fa sfoggio delle proprie atletiche capacità e, non so come, mi si para di nuovo davanti prima che io possa andarmene.
«Ehi! No!» mi punta contro il dito, tenendo d’occhio ogni mio minimo movimento. «Non… Koala!»
«Usopp, fammi passare. Posso consegnarglielo anche senza entrare all’ospedale se è quello il problema. E comunque il rischio biologico non è così alto se non entro in contatto con i bambini!»
«Non mi interess… Ehi!» protesta contro il mio ennesimo tentativo di sgusciare via. «Smet… Glielo porto io!» esclama alla fine, prendendomi in contropiede.
Corrugo le sopracciglia. «Davvero?»
Ora, non fraintendiamo. Non mi sarebbe pesato andare al Castello e non è che non mi faccia piacere vederlo. Ma forse, e solo forse, sono lievemente in overdose dopo il weekend appena passato e l’idea di evitarlo fino a stasera e non rischiare un terzo grado anticipato – condito di rimprovero per essere andata al Castello senza precauzioni, in questo, lo ammetto, Usopp ha fatto centro – è più allettante di quanto mi piaccia ammettere.
Tutt’al più che, appunto, oggi portava con sé anche Sabo per fargli vedere i progressi dell’ospedale e, per quanto sia molto, ma davvero molto, felice di averlo avuto intorno e tutto per me per due giorni, se sento ancora un  “Koala non fare questo e non fare quello” potrei seriamente smettere di rispondere di me stessa.
«Certo che sì!» spinge il petto in fuori, le mani sui fianchi. «Non lo sai che ogni parola pronunciata dal grande Usopp Sharpshooter è una promessa?» si pavoneggia.
Ma a differenza del solito e per suo dissimulato disappunto, io, come nemmeno Nami, non mi metto a ridere. «Okay, grazie!» gli schiaffo in mano il cercapersone e torno a sedermi per lavorare alla campagna dei nuovi biscotti per bambini.
Usopp rimane immobile e interdetto, quasi che non capisse cosa gli ho consegnato. «O-okay» si riscuote dopo un attimo. «Allora… allora io vado a consegnare questo a…. a Law che vorrà sapere esattamente come stai e c-cosa stai facendo e me lo chiederà con la sua aria minacciosa, immagino e i-io…»
«Yyyyyy-HA!»
«Ci vediamo dopo!» smette di balbettare, arraffa le chiavi della Kabuto e si precipita fuori dall’open space prima che Iva arrivi a cercarlo.
Io e Nami ci concediamo una risata e scuotiamo entrambe il capo con affettuosa disapprovazione.
«Quando si dice prendere due piccioni con una fava, eh?»
«È un paraculo» ribatte Nami, ancora sghignazzante.
«Senti chi parla!» continuo a ridere.
«Potrei dire lo stesso di te, sai?»
«E lo prenderei come un complimento»
«Eccole qua, le mie tre punte di diam…» Iva fa irruzione nell’open space con la forza di un uragano ma si blocca di fronte alla scrivania vuota. «Che fine ha fatto naso-boy?»
«È dovuto uscire per un’emergenza, Iva»
«Ha detto che poi le segna come ore di permesso» spieghiamo, rilassate.
Ancora mi stupisce come siano cambiate le nostre interazioni da quando le abbiamo salvato posto di lavoro e chiappe, tre anni fa. Non che ce ne siamo mai approfittati, chiariamo, anche se certi giorni penso seriamente che dovremmo.
«Uhm» Iva schiocca la lingua, pensierosa. «Dovrò trovare qualcun altro da importunare allora. Ci vediamo, pasticcine! Yyyyyyy-ha!»
«A dopo Iva!» la saluto, pur sapendo che tanto non ci sta già più nemmeno prestando attenzione, e poi mi rigiro verso Nami, stavolta indagatrice. «E tu invece? Che succede?»
Si irrigidisce appena sulla sedia e fa un pallido tentativo di nascondere lo stupore ma le riesce male con me.
«Solo perché sono esasperata, non significa che non ho notato quanto sei tesa. E sei stata taciturna durante tutta la colazione. Non hai minacciato Izou nemmeno una volta»
Sospira, sconfitta da questa mia ultima, inconfutabile argomentazione. «Non so esattamente cosa succede» ammette e io mi acciglio. «Sono preoccupata per Zoro…»
Inarco le sopracciglia, sorpresa. Questa proprio non me l’aspettavo. Intreccio le dita e poso il mento sulle nocche, sporgendomi appena verso di lei. «Ti ascolto»

 
§

 
Tengo gli occhi fissi sulla strada quando Law imbocca il curvone, una strada che ho fatto tante di quelle volte in bicicletta, sulla terra nuda, zigzagando e annaspando per la fatica quando la mettevamo sulla competizione, pur di arrivare primo.
Ora al posto dello sterrato c’è una gittata di asfalto, per agevolare il transito di macchine e della linea di autobus che il comune di Raftel ha attivato apposta per collegare l’ospedale al centro città, ma, come quasi mai accade, non è una brutta visione. Questa strada è il preludio di qualcosa di così bello da rendere i miei ricordi su questa collina ancora più preziosi. Non sono parole mie, lo ammetto. È una citazione di Koala ma esprime alla perfezione come ci sentiamo tutti – io, Ace, Robin, lei e Law – al riguardo. Grazie al Castello, moltissimi bambini non verranno derubati della propria infanzia, così come non lo siamo stati noi.
«Grazie per avermi proposto di venire»
Law mi lancia una rapida occhiata, lo intravedo con la coda dell’occhio.
«Figurati. Sono contento che ti faccia piacere»
«Non ti ho mai ringraziato per esserti occupato della mia macchina» aggiungo, senza riflettere e stavolta Law si gira apertamente a guardarmi mentre entra nel parcheggio – quello sì sterrato – con la un tempo mia e ora sua Firefist blu.
«Non ti ho mai ringraziato per avermela lasciata» ribatte con un tono che so benissimo nascondere una domanda retorica. “Ma sei scemo?”.
E la risposta è: sì, sono scemo. Mi sto comportando in modo troppo strano, lo so anche io. Per dire, stamattina l’ho ringraziato per avermi lasciato fare la doccia e se continuo così finisce che mi tiro la zappa sui piedi.
Perciò ora, Sabo, è arrivato il momento di darti un contegno. Che nel mio caso significa sfoderare un sorriso smagliante e una faccia da culo e rispondere: «È stata dura separarmi da lei. Ma per te, questo e altro» gli do una pacca sulla spalla, fingendo un’espressione contrita e coraggiosa.
Law mi scruta ancora un istante e poi, per mio sollievo, ghigna. E vai così, che l’abbiamo scampata!
Mi sgancio la cintura che sta ancora facendo manovra e salto giù dalla macchina, gli occhi puntati alla struttura di fronte a me. Rispetto alla strada, il Castello è costruito di spalle, così da nascondere le macchine e non rovinare l’insieme suggestivo e, per poter entrare, dobbiamo fare il giro a piedi. Il giardino lo abbraccia su tre lati, disseminato di panchine e alberi e anche qualche fazzoletto più spianato per permettere a chi ce la fa di giocare all’aria aperta.
La costruzione è semplicemente pazzesca. Di base è come qualsiasi altro ospedale, squadrato, asettico. Ma l’enorme ed ordinato parallelepipedo di stanze e corridoi è infilato dentro una custodia che ha veramente la forma di un castello, con tanto di torri e feritoie, nonché un finto ponte levatoio tra le torri. Tutto finto, nulla di realmente agibile, ma che fa il suo dovere. Mi stupisco ogni volta che lo vedo e se fa quest’effetto a me, chissà a un bambino.
Finisco la panoramica e mi concentro di nuovo su Law, che sta scandagliando attento il parcheggio. Non fosse mio fratello, mi chiederei che gli prende ma, essendo mio fratello, so benissimo che sta facendo. Controlla chi c’è di turno e, molto probabilmente, sta già mentalmente organizzando la giornata sulla base di chi lavora oggi.
Ho sempre pensato che sia un leader naturale.
Sposto gli occhi da lui alle macchine di nuovo a lui, curioso di studiare le sue reazioni e mi accorgo del suo sollievo – perché appunto sono suo fratello – quando posa gli occhi su una Megalo con il cofano e le portiere posteriori a righe nere e panna e il bagagliaio e le portiere anteriori lilla. Corrugo le sopracciglia e il sorriso di scherno che mi spunta sulle labbra stavolta è sincero.
«Chi conosci con una Megalo a righe nere e lilla?» già rido.
Law mi guarda atono, impassibile. «Non siamo un po’ adulti per giudicare le persone dalla macchina?»
Sollevo un sopracciglio insieme a un angolo della bocca, fermandomi di fronte a una Flamingo nera, parcheggiata vicino al camminamento che costeggia il Castello. «Sicuro?» domando, indicando la vettura con il pollice, e poi mi acciglio. «Sono veramente cuori, quelli sul fianco?»
L’espressione impassibile lascia spazio a una soddisfatta. «Eustass-ya ha quasi vomitato quando gli ha chiesto di dipingerli» ricorda, prima di tornare serio. «Sarebbe dovuto rimanere a casa» mormora, pensieroso. «Andiamo»
In pochi minuti abbiamo fatto il giro e stiamo entrando. L’ultima volta che ho visto il Castello è stato alla sua inaugurazione, quando una sua intera ala era ancora in costruzione e, nonostante all’epoca l’atrio fosse già finito, è come vederlo per la prima volta. E no, non sembra un ospedale.
Sì certo, ci sono medici che girano dappertutto, con cartelline in mano, stetoscopi al collo e quelle orribili ciabatte ai piedi, ma le divise sono tutti di colori diversi, un paio di loro hanno in testa una di quelle corone fatte con i palloncini. Le pareti sono dipinte con colori sgargianti, su una c’è un gigantesco murales e sul muro dietro al bancone dell’accettazione una lavagna di sughero a cui sono affissi disegni di ogni genere, da quelli stilizzati a dei piccoli capolavori. Sul bancone dell’accettazione due vasi con dentro quei fiori giocattolo che cantano e dietro ai fiori giocattolo e al bancone, davanti alla lavagna di sughero, in piedi, un plico di fogli in mano, una donna con la pettinatura più strana che abbia mai visto.
E io conosco Franky.
I capelli castani sono raccolti in un gigantesco chignon sul capo e in due ciuffi laterali e cilindrici ai lati che, nel complesso, ricordano il muso di un pesce martello, uno strato abbondante di quella roba per truccarsi le palpebre di un viola acceso e una collana di rose di stoffa. Soggetto singolare.
«Praline» Law si avvicina a passo di carica e io lo seguo a ruota.
Praline, solleva gli occhi dai fogli, vede Law, torna a guardare i fogli, registra anche la mia presenza e solleva di nuovo gli occhi dai fogli, stavolta puntandoli su di me. Sorride e io mi concedo un istante per studiarla, prima di ricambiare. Ha denti particolarmente appuntiti e occhi di un azzurro quasi verde. Dulcis in fundo, una spruzzata di lentiggini sulle guance e ora che la vedo bene, al di là del suo strano modo di acconciarsi, è una gran bella donna. Anche se forse sono di parte perché mi piacciono le lentiggini.
Però sono certo che non sia per colpa delle lentiggini l’impressione che mi stia guardando come se volesse volentieri mangiarmi.
«E lui chi è?» Si appoggia al bancone con un braccio e mi fissa, interessata, così interessata che il mio sorriso diventa incerto e nervoso. No, sul serio, è inquietante. 
«Mio fratello»
«Mh» continua a radiografarmi. «Mingherlino» conclude alla fine e il mio orgoglio ha la meglio sull’inquietudine.
Come sarebbe, “mingherlino”? Sì, è vero, non sono pompato e tutto quello che vuoi ma di certo non sono “mingherlino”! Non lo è Law, “mingherlino”, che è il più asciutto di noi, figuriamoci io! Okay, forse Ace è più grosso di me ma, insomma, lui è un pompiere e…
«Non farci caso, suo marito è palestrato all’inverosimile e ha tutta una sua strana scala di parametri»
«In compenso, grande lato B» prosegue Praline, ora chiaramente intenta ad ammirare il mio sedere con soddisfazione.
«Non fare caso nemmeno a questo» sussurra ancora Law. «Praline, Cora doveva restare a casa oggi»  lo dice quasi come se fosse colpa di Praline ma in realtà so che sta solo cercando di scoprire che succede senza dare a vedere che la cosa lo preoccupa. E forse lo sa anche Praline, che non se la prende minimamente.
O forse è perché è troppo impegnata a sporgersi oltre il bancone per guardare meglio le mie chiappe.
«Sì, lo so, ma dice che la caviglia va meglio e ne approfitta per fare un po’ di lavoro d’ufficio che nessuno vuole mai fare» conclude, ora girata di spalle, la schiena completamente inarcata, guardandoci da sotto in su.
Law si irrigidisce – sono abbastanza certo che non sia perché come me ha appena realizzato che Praline è un caso neurologico – «Lavoro d’ufficio? Intendi negli uffici dove non andiamo mai?»
«M-mh»
«Completamente da solo»
«È un’evenienza molto probabile» si raddrizza finalmente.
Law riflette ancora pochi istanti prima di chiedere: «Si riesce a organizzare una prova antincendio entro il pomeriggio?»
«Si riesce a organizzare una prova antincendio prima di pranzo?» domanda una voce ovattata. Ci giriamo e tutti e due sobbalziamo e, una volta tanto, non mi stupisco che mio fratello abbia avuto una reazione normale perché, nonostante questo è il posto dove qualsiasi cosa può accadere, sfido chiunque a non spaventarsi nemmeno un po’ ritrovandosi faccia a faccia con un dugongo.
Il fatto che sia solo la maschera di un dugongo, marrone con un berretto verde, e che sotto ci sia un corpo chiaramente femminile, con addosso una divisa dello stesso verde del berretto e le mani sui fianchi, rende tutto ancora più surreale.
Ma a differenza mia, che sto ancora cercando di dare un senso a ciò che vedo, Law sembra rimettere insieme i pezzi molto più in fretta e – e stavolta sì che mi stupisco – pare anche fare fatica a trattenere una risata.
«Oh santo…»
«Non t’azzardare» lo ammonisce la voce da dentro la maschera. «Pesa quanto me e caccia un caldo allucinante»
«E dire che sembra così confortevole» commenta bastardo Law.
La ragazza solleva una mano e apre la bocca del dugongo, da cui spuntano due occhi scuri e nient’altro. Due occhi scuri che lanciano saette. «Grazie al cielo il resto del costume non mi va. Ma non si poteva dire ai bambini che il Dugongo Kung Fu si è slogato una caviglia e non poteva esserci. No, perché avrebbero perso fiducia nelle arti marziali!» gesticola nell’aria. «Capisci, Law? Nelle arti marziali! S’è slogato il cervello, altro che la caviglia!»
A questo punto devo trattenere anche io una risata, soprattutto perché sospetto possa trasformarsi in una questione di vita o di morte.
Law si piega sulle ginocchia, mani sulle cosce, per guardarla direttamente negli occhi attraverso la bocca aperta del dugongo, serissimo. «Il tuo sacrificio sarà ricordato, te lo prometto»  
«Ti odio»
«Ma davvero?» sogghigna lui.
«Sì, ti odio ma non ho tempo di dimostrartelo perché devo andare in sala ricreazione. Praline, è ora» annuncia con autorità.  
Praline fa il giro del bancone e si ferma un momento di fronte a noi. «I turni di clown therapy del mese» annuncia, allungando a Law una cartellina. Poi si gira a squadrarmi e la tentazione di indietreggiare è fortissima. Mi squadra e mi si avvicina. «Buona visita» mi augura e rimango di pietra quando mi strizza la chiappa destra. Come se nulla fosse si allontana e raggiunge la ragazza-dugongo in pochi agili passi. Hanno un modo di camminare simile, noto, aggraziato quasi che, non so, che stiano fluttuando come se fossero in acqua.
«Che figata la tua acconciatura!» le dice la ragazza-dugongo, sinceramente colpita. «Come hai fatto?»
Ma non sento la risposta perché mi accorgo che Law è già partito verso gli ascensori e mi sbrigo per recuperarlo in poche falcate. «Ti porto a salutare Cora» mi avvisa quando lo raggiungo.
«Così già che ci sei controlli che non stia facendo danni?» domando e lui mi risponde con un’occhiata eloquente. Le porte si chiudono e ci appoggiamo alle pareti opposte dell’ascensore, io allungo una mano verso Law che, in automatico, mi passa la cartellina.
È più forte di me, mi viene naturale controllare tutto ciò che è in qualche modo organizzato per scoprire da solo i criteri di suddetta organizzazione. Scruto l’elenco di nomi, affiancati a date e turni, evidenziati con due diversi colori.
«Dicevi che usate poco gli uffici» constato mentre il mio cervello elabora.
Ci metto poco a capire che i due colori indicano uno lo staff interno dell’ospedale e l’altro i volontari esterni. Infatti quelli dello staff interno hanno turni molto più frequenti di clown therapy mentre quelli esterni non ne hanno mai al mattino.
«Nessuno di noi ha molto tempo per le scartoffie non strettamente essenziali»
«La burocrazia sarà un bel casino» gli lancio una rapida occhiata.
«Non me ne parlare…»
Adesso che so chi viene da fuori e chi no, sono piuttosto certo di aver anche indovinato alcuni dei soprannomi clown. Non ho comunque dubbi su chi sia Torao e mi azzarderei a dire che Mirtillo e Lenticchia sono Chopper e Ace.
«Chi è Forchetta?» mi acciglio. Magari non lo conosco, è uno degli esterni. Ma da come Law sospira, sono piuttosto certo che, invece, lo conosco – o la conosco – eccome.
«Robin» geme quasi, attirando ancora di più la mia attenzione.
«E perché Forchetta?» domando e già rido. Sento che la spiegazione mi piacerà, almeno tanto quanto non piace a Law l’idea.
«Perché è una persona molto posata…»
Resisto circa mezzo secondo prima di scoppiare a ridere.
«Sai, sapevo che lo avresti trovato divertente eppure non posso fare a meno di domandarmi: come? Perché?!» protesta ma io continuo a ridere e gli passo un braccio intorno alle spalle, mentre usciamo dall’ascensore.
«Dimmi di più sulle scartoffie»
«Beh sono un gran casino. Abbiamo assunto una studentessa di archivistica per qualche settimana per cercare di mettere un po’ d’ordine ma ci manca proprio un modello base da seguire. Me ne occuperei io se ne avessi fisicamente il tempo» si gira a guardarmi con una sincerità che solo poche persone hanno il privilegio di vedere. «Ci vorresti tu»
Rimango per un attimo interdetto, quasi mi manca il fiato. Un lavoro. Questo sarebbe un lavoro per me che…
«Peccato che ti fermi solo fino a domenica»
«B-beh sì però potrei comunque dare un’occhiata e vedere se trovo una qualche soluzione!» esclamo, un po’ troppo in fretta e un po’ troppo agitato. Lo vedo dalla sua espressione e mi schiarisco la gola per darmi, di nuovo, un contengo. «Se vuoi, ovviamente»
«Sarebbe fantastico» mormora piatto Law e continua a scrutarmi anche quando distolgo lo sguardo. «Ma credevo dovessero essere delle specie di ferie»
«Naaaa! Sai che per me è rilassante fare certe cose!» minimizzo, facendo il gradasso.
«E non volevi passare un po’ di tempo anche con papà, Ace, Rufy…» lascia l’elenco in sospeso.
«Senti, fammi dare un’occhiata e io ti dico se posso fare qualcosa senza bruciarmi completamente la settimana dietro al vostro archivio» decido di prendere in mano al situazione, fermandomi in mezzo al corridoio per poterlo guardare in faccia. «Senza impegno. Se non si può fare, te lo dico» lo vedo che è combattuto e gli afferro goliardicamente la spalla. «Ehi fratello, dai. Fatti aiutare» insisto e finalmente si rilassa.
Abbozza un ghigno e ricambia la stretta. «È bello averti di nuovo a casa» lo stomaco mi si contrae fino a quasi fare male. Speravo di sentirglielo dire ma al tempo stesso non so cosa rispondere. «Anche se per poco» aggiunge, levandomi dall’impiccio.
Sorrido, sicuro di me. «Beh, meglio di niente» gli faccio notare, un attimo prima che una serie di tonfi tutt’altro che rassicuranti risuonino nel corridoio.
Ci giriamo verso la fonte del rumore e Law sospira quando una voce che urla a non è chiaro chi che sta bene e di non preoccuparsi. Nonostante sia lontana e leggermente soffocata non faccio alcuna fatica a riconoscere Cora.
«Forse è meglio se andiamo a controllare»
Law sospira di nuovo. «Sì, andiamo»

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Pesto il terreno con la punta della scarpa, le mani in tasca, gli occhi fissi sul tabellone degli arrivi in attesa che esca il binario. Dall’altoparlante si susseguono incessanti comunicazioni a cui non presto la minima attenzione, anche se forse dovrei. Il treno potrebbe essere in ritardo anche se in quel caso mi avviserebbe lei.
Estraggo il cellulare e controllo che non mi abbia mandato qualche messaggio, non si sa mai. Ma non c’è nulla, così rificco il cellulare in tasca e gratto la stoffa interna del pantalone con l’unghia.
In questo momento non so che darei per una sigaretta. Come lo penso, vorrei tirarmi un pugno. Con la fatica che ho fatto per smettere, è proprio da idioti pensare una cosa del genere solo per un momento di nervosismo.
Anzi, è proprio in generale da idioti il mio comportamento.
Forza Sanji, che hai mai da essere tanto teso? In fondo si tratta di tua sorella, santo Roger. La bambina a cui raccontavi le favole della buonanotte, a cui tenevi la mano sulle montagne russe, i cui primi fidanzati hai minacciato di morte per percosse.
Nient’altro che sangue del tuo sangue.
Ma forse il problema è proprio questo. Forse sono tanto agitato perché sono fermo a un’epoca che non c’è più, perché la Reiju che scenderà da quel treno non è la Reiju che mi ricordo io. La Reiju che scenderà da quel treno ora è una giovane donna della cui vita privata degli ultimi anni so molto poco, per non dire niente.
Da quando ha iniziato l’università ed è tornata a vivere stabilmente a casa dell’uomo con cui abbiamo la sventura di condividere parte del nostro D.N.A., tra il catering e i suoi esami, ci siamo sentiti sempre meno e visti praticamente solo a Natale e qualche sporadico weekend in cui, miracolosamente, non lavoravo.
La verità è che ho il terrore di trovarmi di fronte un’estranea. Usopp se n’è accorto, ieri sera.
Figuriamoci.
Come se potessi nascondergli qualcosa.
E dovrei dargli retta, dare retta alla voce nella mia testa che mi ripete che ha ragione lui, che non ho nulla di cui essere tanto preoccupato, che Reiju è quella di sempre e certo lui lo sa perché, porca miseria, la sente più spesso di me.
Mi passo pollice e indice sugli occhi, inspirando a fondo.
«Se non è l’uomo più bello del mondo quello che ho di fronte»
A pochi passi da me, la camicia bianca leggera, un cerchietto nei capelli biondo fragola, una mano infilata nella tasca della gonna-pantalone rossa a vita alta e l’altra intorno alla maniglia del trolley, Reiju mi sorride criptica e perennemente divertita.
Ricambio, prima di riuscire a schiodarmi e andarle incontro. «Che avrai mai da sghignazzare sempre» constato ma non glielo domando per davvero. Più gli anni passano meno sono sicuro di voler sentire la risposta. Poso una mano sul suo fianco e mi piego per salutarla con un bacio sulla fronte. «È andato bene il viaggio?»
«È stata, come ogni volta, un’autentica esperienza» risponde, permettendomi di portare il trolley per lei verso il parcheggio esterno della Central. Dopotutto, Reiju è abituata a essere trattata secondo l’etichetta. Farsi portare i bagagli, aprire la portiera, scostare la sedia al ristorante è normalità per lei. Non aspettatevi nemmeno che faccia anche il più pallido tentativo di opporsi e sappiate che, se non doveste fare una sola di queste cose, ci penserà da sola ma ve lo farà in qualche modo notare e non perché sia viziata o capricciosa. Come dicevo è, semplicemente, abitudine. Ma non è comunque un problema che dovete porvi visto che, prima di uscire con lei, dovrete passare sul mio cadavere. «C’era un delizioso vecchino che continuava ad occhieggiare verso le mie cosce e credo che verso fine viaggio abbia preso il mio educato sorriso come un invito, perché ha fatto anche un tentativo di allungare le mani. Spero di non avergli fratturato il polso» riflette ad alta voce, ignara dell’aura omicida che già mi circonda e che mi affretto a dissolvere con rapidi movimenti della mano.
«In macchina ci avresti messo molto meno, sai?» le faccio notare, fulminando truce un passante che la squadra con interesse mentre le apro la portiera.
«Interessante. Vito mi ha ripetuto la stessa identica cosa per giorni e giorni» sgrana gli occhioni blu, in un’espressione di finta sorpresa, fatta apposta per schernirmi.
«Io intendevo che forse sarebbe ora che prendessi la patente» metto in chiaro una volta salito dal lato del guidatore e chiusa la portiera. «Così da essere indipendente» aggiungo a scanso di equivoci.
«Non avere la patente non significa che non sono indipendente» mi fa pacatamente notare. «Vado comunque  dove voglio e quando voglio, che sia con il treno o con Vito» La faccia mi si contrae in una smorfia di puro disgusto nel pensare a quel buono a nulla di uno chaffeur, capace solo a guidare e leccare i piedi all’uomo che, biologicamente parlando, sarebbe mio padre. «E poi non c’è più spazio in garage, ora che anche Yonji si è comprato la macchina» storco la bocca per trattenere un commento riguardo al fatto che spero che abbia avuto più buon gusto di quello che dimostra con le donne e Reiju sembra leggermi nel pensiero quando aggiunge, in un soffio quasi malizioso: «Una Winch verde del ‘66»
Come immaginavo, una cosina da niente. Sarà costata un rene, come la Electric blu di Niji e la Sparking rossa di Ichiji. «Fottuti bastardi» sibilo, abbastanza piano da concedermi di sperare che Reiju non mi abbia sentito, e poi mi schiarisco la gola. «Comunque come stanno?»
«Bene. Ogni tanto controllano la tua pagina Facebook»  
«Ah. Davvero?» smuovo le spalle un po’ a disagio. Non ammetterò mai, nemmeno sotto tortura, che lo faccio anche io con le loro. A volte. Solo a volte. Molto sporadicamente.  
«E nostro padre?»
Reiju solleva un sopracciglio «Ti interessa davvero?» mi schernisce senza rimprovero.
«Cercavo di essere educato» ammetto con un’alzata di spalle.  
«Sta come al solito, come al solito non ha chiesto di te. Ah e forse Niji viene anche lui in città tra qualche settimana» me la fa breve mentre si accomoda meglio contro il sedile, braccia incrociate sotto al seno. «Ma parlando di cose più piacevoli, come stai tu? Raccontami! Non ho aggiornamenti sul catering da un pezzo, a parte quelli che mi hanno dato Usopp e la mamma»    
Mi rilasso anche io contro il sedile, ora che mi trovo sul tragitto che faccio tutti i giorni per tornare a casa, e sorrido al vento. «Sto bene. Il catering va a gonfie vele e non solo»
Un sorrisetto saputo crepita sulle sue labbra e non mando gli occhi al cielo solo perché sto guidando. La cosa singolare è che è praticamente identico al sorriso di Robin-chwan ma quando è la sua bocca a tendersi in quella meravigliosa e morbida curva senza difetti, la sensazione che provo è totalmente diversa.
Quando lo fa Reiju, anziché provare ammirazione e devozione, mi sento scoperto e messo a nudo in ogni senso possibile tranne che quello letterale. Come se mia sorella fosse in grado di aprirmi il petto e leggerci dentro tutti i miei sentimenti e non è una sensazione facile da gestire.
Posso sembrare senza filtri e senza vergogna quando si tratta di esprimere ciò che provo ma questo accade solo con le donne. Se si parla dei miei veri sentimenti, la faccenda è ben diversa. Forse perché ho passato tanto tempo a reprimerli, finché mamma non ha finalmente lasciato la casa di Judge, portando me e Reiju con sé – non capirò mai perché quei tre idioti sono voluti restare –. Forse perché io stesso quando ho capito di essere bisessuale ho faticato inizialmente ad accettarlo. Forse perché quando si ha una cosa bella come Usopp, la paura di perderla è talmente tanta che essere prudenti diventa questione di sopravvivenza.
E sì, so che ci sono già passato, so cosa ha comportato la prima volta, questa mia paura, e non ho intenzione di permettere che succeda di nuovo. Sto imparando a non nascondermi, a non reprimere ciò che sento almeno nei gesti ma aprirmi a parole è tutt’altra faccenda.
Ci sto provando però.
«Siamo forse pronti per il grande passo?»
«Che?! No!» esclamo, tagliando una curva un po’ troppo dritta. «No, io non mi riferivo a quello» ripeto con tono fermo e deciso. Che non si faccia strane idee e non le metta in testa ad Usopp. Non ho intenzione di perderlo per una proposta di matrimonio che non arriva perché semplicemente non è ancora in programma.
«Beh meno male allora che i tuoi amici sono così generosi. Se aspetto te, per andare a un matrimonio devo sposarmi io!»
Le lancio un’occhiata atona, in parte perché, santo Roger, ho solo trent’anni, in parte perché non penso che mi piaccia affatto l’idea di mia sorella che si sposa con chicchessia. Sarà meglio che, quando verrà il momento, si tratti di qualcuno che se la meriti davvero e questa è una delle poche verità su cui Yonji, Ichiji, Niji ed io ci troviamo in sintonia. 
«Sono stati davvero gentili a invitarmi. Spero che i vestiti che ho portato siano adatti all’occasione»
«Reiju, un qualunque vestito che metti normalmente per uscire il sabato sera con le tue amiche sarebbe già adatto a un matrimonio»
«Ehi!» protesta, accigliandosi con un sorriso «Non esagerare adesso»
«Intendevo solo dire che hai classe» mi spiego, orgoglioso. «Ad ogni modo, per rispondere alla tua domanda, gli affari vanno davvero molto bene. Mi sto anche mettendo in società con la nipote di Zeff, da solo non riesco a gestire tutto»
«Usopp mi ha accennato qualcosa ma non è sceso nei dettagli» annuisce Reiju, alla ricerca di maggiori informazioni.
«Tecnicamente, è la figlia di suo cugino ma ha la mia età quindi per Zeff è come se fosse una nipote. La conosco da tanto e abbiamo lavorato insieme al Baratie per un bel po’, finché non è partita per frequentare una scuola di cucina all’estero. È una cuoca fenomenale, dovresti assaggiare il suo filetto di maiale con aligot. Sublime»
«Dev’essere davvero molto brava. Non è facile sentirti tessere le lodi di qualcuno, quando si parla di cucina» commenta Reiju, senza mostrarsi troppo sorpresa, un sopracciglio alzato. «Ma all’estero dove ha studiato?» domanda poi, come colta da un pensiero improvviso.
Mi acciglio. «Non lo so con precisione. Perché?»
«No nulla, stavo solo pensando una cosa…» riflette e scuote appena il capo. «Comunque, sono davvero molto curiosa di conoscere questa…?»
«Cosette» rispondo alla sua domanda inespressa. E poi mi viene un’idea. «Sai, se vuoi posso presentartela anche ora. La sede è qui vicino e posso prepararti qualcosa da mangiare là, visto che è ora di pranzo. Che ne dici?»
Reiju socchiude le palpebre, gli occhi accesi da una luce che conosco bene. È la luce che glieli accende quando capisce che la vacanza è ufficialmente iniziata, che a partire da ora e per un bel po’ di settimane non dovrà più seguire i dettagliati programmi di Judge che scandiscono le sue giornate, che è libera e che da adesso si può improvvisare anche ogni minuto della giornata. Mi piace vedere quella luce negli occhi di mia sorella. Mi piace molto.  
«Ti dico…» sorride come un gatto del Cheshire. «…yummi»

     
§

 
Picchietto con le unghie sul bancone dell’accettazione, in attesa che l’infermiera finisca di registrare i miei dati per l’esenzione degli esami cardiaci e mi restituisca i documenti. Ho voglia di uscire da qui e prendere una boccata d’aria.
Alla fine per fare tutto è andata via la mattinata ma era necessario e Pen mi ha anche fatta morire dal ridere con quei due aneddoti sul suo weekend con Lamy. Ora che sono di nuovo da sola, però, ho ricominciato a pensare troppo. E non dovrei. So che non dovrei.
Mi hanno chiaramente detto che non c’è alcun bisogno di allarmarsi prima del tempo, che posso stare tranquilla, Gerth si è anche raccomandata che non mi stressi troppo per il bene del bambino.  
Ci vorrà un po’ per avere gli esiti e se comincio a pensare negativo ora, non ne usciamo sani, né io né lui. Fortuna che fino a sabato posso tenere la testa impegnata con il matrimonio oltre che con il lavoro, e dopo si vedrà. Credo che mi butterò a capofitto nel progetto dei biscotti e a programmare la serata di beneficenza del Castello, anche se di tempo ce ne sarebbe ancora. E finito con i biscotti sarà tempo di reclamare una nuova campagna pro-bono. Francamente, non vedo l’ora, anche se Law comincerà di sicuro a dirmi di rallentare e delegare tutto ciò che posso. E suppongo che a un certo punto lo farò. Ma non ancora. Per il momento, ho bisogno di non pensare troppo.
«Ecco i suoi documenti, signorina Surebo» l’infermiera dell’accettazione mi risveglia dalle mie riflessioni, tendendomi la carta elettronica e l’esenzione plastificata. «Passi una buona giornata»
Le sorrido sincera. «Grazie mille. Anche lei» la saluto con un cenno del capo e mi sbrigo ad uscire.
Dovrei andare al lavoro ma ho già il cellulare in mano per chiamare e avvisare che mi serve la giornata libera. Sarebbe comunque inutile andare in ufficio, non caverei un ragno dal buco, non senza aver parlato prima con Law.
Scendo i gradini di corsa e in punta di piedi, mentre scorro la rubrica con una mano e con l’altra chiudo la borsa. E più o meno a metà rampa vado a sbattere contro qualcosa.
Qualcosa che impreca, si scusa e mi chiede subito come sto. Qualcuno.
Qualcuno che mi tende immediatamente una mano per aiutarmi ad alzarmi, una mano callosa. Qualcuno con una voce famigliare. Qualcuno che, scopro quando alzo gli occhi per guardarlo in viso, conosco e anche molto bene.
«Zoro?»
«Koala!» esclama, preso in contropiede, e, nonostante la mano ancora tesa, sobbalza all’indietro, neanche gli stessi puntando contro una pistola. «Ah i-io non ti avevo riconosciuto» mormora e dopo pochi secondi sgrani gli occhi, quando realizza che sono ancora seduta sul gradino dove sono scivolata di sedere un attimo fa. E in effetti lo realizzo solo ora pure io e mi decido finalmente ad afferrare la sua mano. «Mi dispiace, non ti ho visto. Tutto bene?» si informa mentre mi tira su.
«Oh sì tranquillo» indico oltre la mia spalla con il pollice. «Quel gradino è insospettabilmente comodo» sgrano appena gli occhi e abbasso il tono per suonare confidenziale e sorpresa e Zoro sghignazza divertito. «Tu come stai? Che fai da queste parti?»
È una frazione di secondo, un gesto quasi impercettibile, ma non mi sfugge l’occhiata che lancia verso l’ingresso dell’ospedale, anche se fingo di non notarla. «Sono venuto a riportare le spade a un cliente che vive qui in zona»
«Ma dai, fate anche servizio a domicilio? Non ne avevo idea»
«A volte capita» minimizza con un’alzata di spalle. «Dipende dal cliente. N-Nami non lo sa» aggiunge poi e qualcosa dentro di me si destabilizza.
Oh santa merda, Zoro. Cosa stai combinando? E perché proprio io dovevo beccarti?
«Sai com’è fatta? Mi attaccherebbe la pezza per farmi dare più soldi per il servizio, eccetera, eccetera...»
«Posso solo immaginare…» commento e lo studio attenta mentre si passa una mano sul coppino. Ghigna, fiero e bellissimo come sempre, ma è nervoso. Lo vedo bene. È molto nervoso. «E posso chiedere il sesso di questo cliente?» proseguo, abbandonando preamboli, giri di parole e finta prudenza. Fortunatamente Zoro avrà carenze in altri campi ma l’intuito non gli manca.
Capisce cosa gli sto realmente domandando, me ne accorgo da come squadra le spalle, da come mi guarda quasi indignato.
Ma spero possiate capirmi. Dovevo domandare.
«Uomo» risponde lapidario. E anche se so che siamo ben lontani da una risoluzione semplice, provo sollievo. So da sempre che Zoro non la tradirebbe mai, ma preferisco averne avuto conferma e il fastidio con cui mi ha risposto, quasi che lo abbia insultato e offeso, non lascia spazio a dubbi.
Certo, ciò non toglie che ci sia sotto qualcosa e il fatto che Zoro stia cercando così disperatamente una spiegazione che suoni plausibile ne è la prova. Se si fosse perso, si lamenterebbe che non capisce perché ogni due per tre spostano le fermate degli autobus, non cercherebbe una scusa. Non sarebbe da lui, oltre il fatto che è davvero convinto di non essere affatto privo di senso dell’orientamento.
E quello che dice subito dopo, non fa che consolidare i miei sospetti.
«E comunque, già che ero da queste parti, ho pensato di venire a fare un checkup» si stringe di nuovo nelle spalle.
Sorrido.
Certo. Perché per fare un checkup completo basta presentarsi in ospedale quando capita…
«Tenersi controllati è importante» annuisco il mio appoggio. «Poi uno sportivo come te» aggiungo indicandolo a due mani.
E il lampo che gli attraversa gli occhi non mi piace neanche un po’. Per un momento – un brevissimo momento – penso che avrei preferito l’amante.
«E immagino…» proseguo, scegliendo con cura le parole. «…considerato quanto costa una visita completa, che Nami non sia informata nemmeno di questo» mormoro serissima, guardandolo dritto negli occhi. Zoro trattiene il fiato. «Zoro…»
«Non è una cosa grave. Non voglio farla preoccupare» smette di tentennare, torna lo Zoro di sempre, solido come una roccia, fermo nelle sue decisioni.
«Non è grave?» domando per ulteriore conferma. Ora che è di nuovo sincero, ho bisogno che me lo ridica.
«Non lo è» ripete deciso.
Sì, ma devo crederti davvero? Li conosciamo tutti i tuoi parametri, Zoro?
Purtroppo però, per quanto io voglia bene ad entrambi, per quanto Nami sia una delle mie più care amiche, questi non sono affari miei.
Non è qualcosa in cui mettere il naso e non è sicuramente il momento adatto, per me, per preoccuparmi degli affari degli altri. Non sono mai stata una persona egoista ma ora più che mai è necessario che lo diventi. Per il bene del mio bambino, devo imparare ad esserlo.
Non mi renderei neanche conto di aver portato una mano all’addome se Zoro non la seguisse con lo sguardo. «È tutto okay?» domanda con un mezzo sorriso che non posso fare a meno di ricambiare, anche se un po’ tirata.
«Potrebbe esserci qualche complicazione» ammetto. «Dobbiamo aspettare i risultati degli esami»
Non si aspettava questa risposta, lo capisco dalla sua reazione. E non lo biasimo. Nessuno si aspetterebbe mai questa risposta perché, anche se non tutto procede nel modo giusto, si tende sempre a fingere che sia tutto a posto. Il fatto è che a me è bastato mentire sul mio problema cardiaco all’epoca per sapere fin troppo bene che, certe cose, è meglio tirarle fuori che tenersele dentro. Anche se non è facile dirle ad alta voce. Anche se mettono gli altri in difficoltà o li preoccupano.
«Mi spiace» afferma sincero e – gli sono grata per questo – senz’ombra alcuna di compassione. Soprattutto perché non ce n’è alcun bisogno.
«Sì ma non è ancora detto niente eh. Sono solo controlli un po’ più approfonditi»
«Beh certo. Quindi…» torna ad esitare per un momento. «Quindi ora cosa pensi di fare?»
Lo guardo, per un attimo stranita. «Vado a casa e ne parlo con Law» mi stringo nelle spalle. «Che altro dovrei fare?»
Di nuovo, Zoro sembra essere colto alla sprovvista e, se l’ho fatto sentire a disagio, mi dispiace davvero ma per me non è contemplata nessun’altra gestione per questa “crisi”. Ho risposto senza pensare, con onestà.
«Giusto» annuisce, di nuovo nervoso.
«Non voglio farti fare tardi per il tuo checkup» decido di sbloccare la situazione e gli sorrido con affetto. Mi avvicino di un passo, gli occhi socchiusi, e gli poso una mano sulla guancia con fare materno. «Io sto bene, davvero» affermo di nuovo.
«Ci vediamo presto allora»
«Contaci» confermo e lui riprende a salire i gradini. Mi trattengo un momento ancora, giusto per essere sicura che continui fino alla porta dell’ospedale e non cambi direzione di colpo, finendo chissà dove. E mentre lo osservo allontanarsi, agile e perfettamente sano almeno all’apparenza, di nuovo il ricordo di quando io ho tenuto nascosto a tutti il mio problema e di quanto orrido sia stato mi assale. Non parlarne lo aveva reso più grosso di quel che era anche a me. Ho vissuto nello sconforto per non so più nemmeno quanto, convinta di non avere che un timer acceso davanti a me, anziché uno splendido futuro da vivere come qualsiasi altra persona, perfettamente in salute a patto di ricordarmi quella stupida pastiglietta ogni mattina. Un piccolo prezzo da pagare, dopotutto.
E ricordo anche molto bene il sollievo quando l’ho finalmente confessato a Law, la sua determinazione a non lasciarmi andare a fondo, a trovare una soluzione a qualunque costo. La sensazione che, finché ci fosse stato lui, avrei potuto fare comunque e ancora qualsiasi cosa.
Una sensazione per niente sbagliata, a quanto pare.  
«Zoro!» lo richiamo e salgo verso di lui, così da non costringerlo a tornare indietro e annullare i suoi progressi nel conquistare la propria meta. «Senti non sono affari miei e ti credo quando dici che non è grave ma… non sei da solo, okay?»
Zoro mi fissa una manciata di secondi prima di annuire, ringraziarmi e voltarmi di nuovo le spalle per entrare in ospedale. E solo quando le porte scorrevoli si richiudono dietro di lui lascio andare un sospiro.
Decisamente, oggi è meglio se me ne torno a casa.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Angolo dell'autrice
Buongiorno a tutti gente! 
Oggi siamo qui con la rubrica CBCR, dedicata alla piccola e dolce Aisa di Skypeia, del cui aspetto fisico Oda ci ha fornito solo un'immagine nemmeno troppo in HD dopo il salto di due anni. Tuttavia, come qualche anima pia si è presa la briga di notare e condividere con il mondo, c'è una certa somiglianza tra Aisa adolescente e Mousse (la figlia di Calgara, flashback di Skypeia, sacrificio umano... vi ricordate?) adulta. Ragion per cui, se qualcuno di voi ha difficoltà a immaginarla ventenne, sappiate che io me la immagino come Mousse, forse solo con il viso un po' più a cuore e i capelli un po' più viola. 
Detto questo, devo anche ringraziare Zomi e il suo tagliente sarcasmo che mi ha suggerito la minaccia del "prendere a calci qualcuno fino al prossimo sistema solare" e ci sarebbe ancora un'altra cosa. Nelle mie intenzioni questo non doveva essere un angolo dello sfogo ma solo dei chiarimenti. Ma essendo successo per l'ennesima volta, ci tengo a esprimere il mio pensiero. 
So che qualcuno penserà che non accetto le critiche. Non posso impedirvi di pensarlo anche se non è vero. Se ci sono errori grammaticali o ortografici, se cambio il pov senza nemmeno fare pausa, se la trama è incoerente (tipo A ama B e nel capitolo dopo ama C e non si capisce manco come, oppure uccido qualcuno e due capitolo dopo è vivo, etc, etc) ma mandatemi pure tutte le recensioni neutre, negative o anche false positive che volete! Le aspetto a braccia aperte. 
Ma se il problema è che ci sono troppi dettagli e non avete voglia o pazienza di aspettare e vedere come tutto si incastra, se il cambio di pov non vi piace o se, soprattutto, non vi piacciono le shipp di cui scrivo allora, ve lo chiedo per favore, lasciatemi tranquilla. 
Non serve per forza farmi sapere che non leggerete perchè non avete apprezzato il mio stile o le mie coppie. Questo è un passatempo, per staccare e divertirmi. 
Il giorno che inizierò a pubblicare originali sarà di certo diverso ma, fino ad allora, vorrei che restasse tale. 
Pace e bene a tutti. :-*  
Hope you'll enjoy it. 
Page. 




 
«Ragazzi, ci siete?» li chiamo dal corridoio, agganciando l’orologio delle grandi occasioni. «Se facciamo tardi a Izou potrebbe venire una crisi isterica e se lo sento urlare un’altra volta che il fato lo odia, o tocca di nuovo il culo ad Usopp, sarò costretto a prenderlo a calci da qui fino al prossimo sistema solare»
Mi controllo allo specchio dell’ingresso e aggiusto di nuovo il nodo della cravatta, mai perfetto come vorrei, anche se agli occhi degli altri lo sembra. Come la mia cucina e la mia vita.
E non perché io non sia felice di ciò che ho. Semplicemente credo che tutto, come il nodo di questa cravatta, sia perfettibile. E non per questo ci perdo il sonno o l’appetito ma sono quel genere di persona che, come con questo specchio, non si fa scappare un’occasione per migliorare le cose, se ne vede una.
Ad esempio, evitare di farmi incarcerare per aver ridotto in poltiglia lo sposo – uno degli sposi, a essere preciso – nel giorno delle sue nozze, è sicuramente un’occasione per migliorare la mia vita, ancora di più eliminare proprio alla radice la possibilità che Izou si metta a fare scenate per il nostro ritardo, ragion per cui mi vedo costretto a chiamarli di nuovo.
«Ragaz…»
«E tu che gli hai detto?!»
Reiju e Usopp escono finalmente dal bagno, ancora intenti a parlare fitto di non so precisamente cosa. Reiju è piuttosto presa dall’aneddoto e non mi stupisco. Uso-chan è formidabile se si tratta di intrattenere e narrare. Starei ad ascoltarlo per ore.
«Che ci pensava il grande Usopp Sharpshooter e quello mi ha risposto “me lo ringrazi tanto!”!»
«Oddio non ci credo!» Reiju scoppia a ridere, una mano davanti alla bocca, i capelli una volta tanto liberi dal cerchietto che svolazzano quando getta il capo all’indietro.
La osservo e studio, splendida e orgogliosa dei suoi ventuno anni. La camicia bianca sbracciata con una lieve fantasia di sottilissime spirali azzurre, con due maniche drappeggiate che le lasciano le spalle scoperte e partono direttamente dal piccolo colletto, chiuso sul davanti da un laccetto dello stesso blu della gonna a vita alta e…
«Non è un po’ corta quella gonna per un matrimonio?»
Smettono di ridere e si accorgono finalmente di me.
«Sanji…» mi rimprovera piano Usopp.
«Non si sposano in chiesa» fa notare intanto mia sorella, le braccia incrociate sotto al seno e il suo immancabile sorriso furbo sulle labbra. «Dici che ci sarà la Buoncostume a prendere le misure dal ginocchio all’orlo?» domanda, senza la nemmeno più remota intenzione di lasciarmi il tempo di rispondere.
E capisco, non certo dalla sua espressione, ma da come cammina verso di me, si allunga per afferrare la propria pochette sul mobile d’ingresso e mi supera per uscire senza più una parola, che si è offesa. Ignaro di cos’avrò mai sbagliato, mi volto a cercare l’aiuto di Usopp, le braccia allargate e appena distanti dal corpo. Dal canto proprio, Usopp mi guarda, anche lui a braccia conserte, con disapprovazione e scuote il capo rassegnato.
«Ho solo chiesto!»
«Ah Sanji» sospira. «Se mai avessi avuto una figlia femmina, saresti stato il principe dell’incoerenza» commenta criptico, intenzionato a seguire Reiju ma, quando mi passa di fianco, lo afferro per il gomito e lo trascino indietro, obbligandolo a distanziarsi di qualche passo da me per poterlo ammirare.
È una visione, con il completo scuro, giacca alla coreana, camicia di lino fantasia, niente cravatta. Mio dio, se solo ci fosse tempo, lo prenderei e gli farei di tut…
Il suono prolungato dell’inconfondibile clacson della Kabuto mi fa saltare come una molla. Mi giro di scatto per vedere, attraverso la porta rimasta spalancata, mia sorella che, dal posto del guidatore, finestrino abbassato, strombazza a tutto spiano per attirare la nostra attenzione.
«Allora, andiamo o volete fare tardi?» domanda soave, ponendo fine al cacofonico concerto di clacson e ululati di cani in lontananza che, come me, non hanno apprezzato il gesto.
«Ha ragione lei» afferma Usopp. «Non vogliamo che Izou abbia una crisi isterica, vero?» sghignazza, partendo di gran carriera per uscire di casa.
Uso-chan, così mi spezzi il cuore, però!
Se non che il cuore mi torna subito integro quando, nel passarmi accanto, mi palpa a pieno palmo una chiappa, dandomi anche la giusta spinta per uscire dall’empasse. Ringalluzzito, li seguo all’esterno e mi adopero a chiudere casa, mentre Reiju si sposta sui sedili posteriori e Usopp sale al posto del conducente.
«Hai dato da mangiare a Ryuunosuke?» m’informo, prima di chiudere anche la seconda serratura, che da riaprire è sempre un po’ ostica.
«Sì» mi da l’okay per l’ultimo giro di chiave. Veleggiando, li raggiungo rapido e sguscio in macchina, di fianco al mio Uso-chan che mette subito in moto e in poco tempo si immette fluido nel traffico del sabato mattina.
Passano circa dieci minuti di confortevole silenzio prima che io azzardi un’occhiata allo specchietto retrovisore e mi accorga che questo silenzio non è confortevole per niente. Reiju fissa fuori dal finestrino con una serietà che le ho raramente visto in volto e io mi ritrovo a cercare di nuovo l’aiuto di Usopp. Lui sa sempre cosa fare, quando io sono a corto di idee.
Usopp mi lancia un’occhiata saputa in tralice, ne lancia una veloce allo specchietto e poi torna a concentrarsi sulla strada, schiarendosi la gola. «Allora Reiju…» comincia, gioviale. «Come va all’università? Mi hai detto dei tuoi esami ma non ho sentito nulla sulla parte più interessante»
Reiju smette di fissare il panorama, la fronte aggrottata in una muta domanda a cui Usopp mi invita a rispondere con un cenno del capo. Scuoto la testa, spaesato sul momento, ma ci conosciamo da talmente tanti anni e l’alchimia tra noi è talmente affinata che mi bastano pochi secondi per capire dove vuole andare a parare.
Mi sistemo meglio sul sedile, puntando gli occhi allo specchietto.  
«Ma sì dai!» la incito. «Feste, maratone di raccolta fondi, gruppi studio, cazzeggio vario ed eventuale»
«Non farti troppe menate a nascondere i dettagli. Tuo fratello era uno dei peggio cazzari ai tempi nostri»
Lo fulmino con un’occhiata ma so che lo sta facendo per me, per cui mordo la minaccia di farlo dormire sul divano stanotte e vado avanti con la sua strategia. Lo ammetto, tendo a trattarla come una bambina anche se non lo faccio di proposito e a lei da fastidio. Giustamente. A casa di Judge è la norma, almeno quando è qui suppongo le piacerebbe essere trattata per quello che è, una giovane donna.
E non è facile per me ma è ciò che merita e posso almeno sforzarmi.
«Anche Usopp non scherzava, solo che quando si avvicinava la data dell’esame se la faceva talmente sotto che era capace di sparire per dieci giorni di fila senza lasciare la propria stanza. Mangiava e faceva la doccia solo se obbligato»
«E tu non mancavi di obbligarmi a ogni singolo pasto. Rompiscatole» mi apostrofa con uno sguardo assassino che perde d’effetto a causa del sorrisetto che non riesce a trattenere. Reiju ridacchia e solo allora mi accorgo che mi sono incantato a fissarlo.
«È veramente pazzesco che ci abbiate messo così tanto a darvi una svegliata» scuote il capo. Io mi sento improvvisamente accaldato e Usopp diventa color aragosta dalla punta del naso a quelle delle orecchie.
È il mio turno di schiarirmi la gola. «Non dovevi raccontarci?» cambio al volo argomento. Va bene, siamo adulti e con una relazione stabile da sei anni ma farsi fare la paternale da mia sorella minore, che all’epoca era appena diventata adolescente eppure aveva già capito tutto da due anni è veramente più di quanto il nostro orgoglio possa sopportare.
E sono grato, non so se a lei, ad Uso-chan o all’universo, quando Reiju comincia a raccontare, rilassandosi e divertendosi sempre più. Mi mordo la lingua ben più di una volta ma non la interrompo, non ora che la situazione è tornata stabile.
«E ragazzi invece? Bella come sei avrai la fila» domanda quello sciagurato che mi ritrovo per fidanzato e io mi irrigidisco teso. In effetti non ne ha citato nemmeno uno nell’ultimo quarto d’ora e la cosa mi fa piacere da fratello maggiore ma mi preoccupa da persona razionale e in perfetta salute, con una maggior esperienza di relazioni interpersonali.
Reiju si riappoggia al sedile con la schiena, di nuovo bracca incrociate sotto il seno, di nuovo sorriso furbo. «Ne incontrassi uno più interessante del Codice Civile, potrei magari prenderlo in considerazione. Ma tanto poi mi tratterebbe come una bambola e io perderei ogni interesse» si stringe nelle spalle.
Usopp la guarda per un lungo istante dallo specchietto, mentre rallenta in vista del semaforo che sta diventando rosso. «Oggi al matrimonio ti troviamo qualcuno» le fa l’occhiolino, sicuro di sé e io mi giro così di scatto che quasi mi viene il torcicollo.
Cosa sta dicendo, è impazzito? È scemo? Vuole che prenda lui a calci in culo fino al prossimo sistema solare?!
Apro bocca per protestare, non so nemmeno io esattamente cosa e lui solleva una mano per fermarmi, gli occhi che mi ammoniscono di non rovinare tutto così.
Ma io me ne frego delle sue strategie e di quanto è assolutamente meraviglioso nel fare “la madre” della coppia e di quanto sono felice di vedere quanto lui e mia sorella tengono l’uno all’altra.
Non le troveremo proprio niente, men che meno un ragazzo, non a questo matrimonio, non visti e considerati i soggetti single disponibili, non…
I miei occhi continuano a seguire la mano di Usopp che scende sulla leva del cambio, mentre il mio cervello prosegue da solo la filippica, prima di spegnersi per un attimo.
Sbatto le palpebre più volte, interdetto dalla dissonanza cognitiva che ciò che vedo mi procura. Qualcosa nella mano di Usopp non va. Nello specifico il suo anulare. Il suo anulare nudo.
«Usopp…» chiamo con cautela.
Continuo a fissare il dito, come se potesse apparire per magia se non interrompo il contatto visivo. Ma non funziona e la realtà non cambia. Non c’è. Non è dove dovrebbe essere. Non c’è.
«Dov’è… d-dov’è l’anello?»
Dov’è l’anello che gli ho regalato? Quello stupido anello di vetro rosso da quattro soldi che gli ho regalato dopo averlo quasi perso – Usopp, non l’anello –, tre anni fa? Dov’è l’anello della mia promessa?!
Usopp sgasa a tutta birra quando la luce del semaforo torna verde. Forse la sua mano si è stretta con più decisione sulla testa della leva, forse per nervosismo, forse perché deve cambiare marcia ed è normale aumentare la presa, forse me lo sono solo immaginato.
«È a casa Sanji» mi sorride, calmo e sereno. «All’addio al celibato di Izou ho rischiato di perderlo, non volevo rischiare. Non so come arriveremo messi stasera» spiega, perfettamente padrone di se stesso.
A differenza mia che mi do dell’idiota da solo mentre mi riappoggio al sedile e fingo di trovare molto interessante il panorama fuori dal finestrino – dove sempre più alberi e distese verdi stanno lasciando spazio a case e condomini, man mano che ci avviciniamo a Goa – per nascondere il mio sollievo. Mi passo una mano tra i capelli e scuoto il capo, sorridendo appena.
Sì, sono proprio un idiota.
Ovvio che ci fosse una spiegazione più che logica, devo smetterla di avere paura di perdere Uso-chan. Ormai lo so. Non è una possibilità nemmeno contemplabile, finché dipende da noi due.
 

 
§

 
Volto il viso di un quarto verso sinistra, sollevo il mento. Lo volto a destra, ancora a sinistra.
No, decisamente qualcosa non va.
«Eppure non sono convinto» annuncio al mio riflesso.
La sento avvicinarsi fino a fermarsi dietro la mia schiena. Si piega in avanti fino a portare il proprio volto all’altezza del mio e mi osserva dallo specchio, con aria critica.
«A me sembra identico al solito, Izou» mi rassicura, posandomi una mano sulla spalla.
«C’è qualcosa in questo punto che mi sembra strano» insisto, indicando un lato del mio solito e impeccabile raccolto. Aisa sorride, un sorriso affettuoso e infido. Posso leggere nei suoi occhi quanto vorrebbe pugnalarmi con il kanzashi.
«Il tuo cervello è strano» commenta e io la fulmino.
«Quando ti sposerai tu ne riparleremo!» la rimbecco.
«Se mai mi sposerò, me ne scapperò da qualche parte e lo farò con meno gente possibile intorno. Non ho alcun desiderio di ridurmi a un fascio di nervi ambulante come te. Io voglio che sia davvero uno dei giorni più belli della mia vita»
Mi giro a guardarla, incredulo e indignato. «Proprio vero che Madre Natura o ti da il tatto o ti da le gambe lunghe»
Aisa mi osserva, appoggiata accanto alla finestra, e sospira. «Non sto dicendo che non puoi essere nervoso però dovrebbe essere un nervoso diverso. Dovresti essere eccitato e al settimo cielo. Non preoccupato perché ti sembra che due ciocche di capelli abbiano preso una piega strana. È il tuo matrimonio, Izou»
«Appunto! È assolutamente normale voler essere perfetto!»
«Ma lo sei!» sospira di nuovo e si stacca dal muro per tornare da me, si accovaccia ai piedi dello sgabello su cui sono seduto e mi posa le mani sulle ginocchia. «Sei perfetto, lo saresti anche se ti fossi svegliato rasta» ridacchia per la mia smorfia disgustata. «Sarai perfetto qualunque cosa succeda, perché oggi è un giorno bellissimo e tutti lo vedranno»
Combattuto, la fisso alcuni istanti senza parlare. È raro, per me e Aisa, avere una conversazione così aperta ed onesta, cuore a cuore, e tanto basta per sapere quanto tiene che oggi per me sia speciale. E il fatto è che ci tengo anche io. Ci tengo davvero, solo mi chiedo se sia possibile.
«Izou, cosa succede?» mi domanda e lo capisco da come aggrotta le sopracciglia. Mia sorella è preoccupata ed è l’ultima cosa che voglio.
Oggi è un giorno di festa, per tutti.
«Nulla» scuoto il capo e le sorrido. «Solo ansia da prestazione. Ma hai ragione tu, non saranno due ciocche fuori posto a rovinare questa giornata»
Aisa sgrana impercettibilmente gli occhi, presa in contropiede dal mio darle ragione, io che sarei capace di discutere con la coerenza incarnata pur di spuntarla. «S-sicuro?» indaga, socchiudendo gli occhi, incerta.
Annuisco solenne. «Mettimi il kanzashi, così poi puoi andare ad aiutare papà e Momo. Io sono pronto ormai, devo solo vestirmi»
Esita un attimo ancora, prima di annuire a sua volta e alzarsi, mentre io mi volto per permetterle di sistemarmi la fine decorazione in metallo tra i capelli. Posa entrambi le mani sulle mie spalle e accosta di nuovo il viso al mio. «Visto? Lo dicevo che sei perfetto» ribadisce, prima di darmi un bacio sulla guancia e poi avvicinarsi alla porta. «Allora io vado» mi avvisa, incerta. «Chiamami per qualsiasi cosa»
«D’accordo. Stai tranquilla» le regalo un ultimo sorriso e in un frusciare di seta scompare dietro la porta, che resta aperta sul corridoio. 
Osservo il punto dove fino a un attimo fa era ferma mia sorella e un peso sempre più pressante mi si addensa nel petto. Scatto in piedi come una molla, le braccia tese puntellate al ripiano di fronte a me e lo sguardo infossato nello spazio tra le mie mani.
Non ce la faccio. Non ce la faccio. Serro le palpebre, in iperventilazione e l’espressione dura e contrariata di Marco aleggia nella mia mente, mandando in tilt il mio intero sistema nervoso, ma non il tilt piacevole che di solito la vista di Marco mi provoca.
Credevo sarebbe stato dalla mia parte, che mi avrebbe appoggiato. Non ho fatto nulla che richieda a lui un sacrificio, non riesco a capire perché l’abbia presa così.
Come posso… come faccio a sposarlo, io… non ce la faccio.
«Izou?» una voce preoccupata e famigliare mi raggiunge ovattata e distante. Devo sbattere le palpebre e spannare lo sguardo per riuscire a mettere a fuoco la sagoma che mi fissa dalla porta, già pronta per la cerimonia, l’espressione ansiosa, pronta a fare qualsiasi cosa per me. «Izou che hai?»
«Koala… Io… io…» provo a rispondere ma un lampo rosso passa alle sue spalle e la trascina via. Distinguo a fatica le voci di Nami e Koala che discutono sempre più distanti nel corridoio, Koala che le intima di lasciarla andare, Nami che annuncia che non ci pensa nemmeno.
Per un momento è panico puro, mentre la mia unica ancora di salvezza, la mia migliore amica, la sola che aveva forse una possibilità di farmi ragionare, viene trascinata via da me e poi, di nuovo preda di uno scatto incontrollabile, mi schianto contro l’uscio con tutto il mio peso e lo chiudo a piena forza, torcendo la chiave nella toppa.
Mi rigiro verso l’interno della stanza vuota. Sono solo. Completamente solo. Porto entrambi le mani alla fronte e cerco di prendere dei respiri profondi.
Cosa faccio? Cosa?!
La finestra è decisamente troppo alta per calarmi ma poi il punto è: voglio davvero scappare?
Provo a pensare a Marco, a concentrarmi sulle sensazioni positive che il suo pensiero mi trasmette, a come tutta la nostra relazione è iniziata, a tutti quei momenti che sono stampati a fuoco nella mia mente che, pezzo di vita dopo pezzo di vita, mi hanno fatto innamorare sempre più di lui, che tutt’ora mi fanno innamorare sempre più di lui. Ma anche così, nonostante tutto questo, il tarlo che mi mangia dentro resta al suo posto, sussurrando la sua seducente minaccia.
E se non fossimo pronti?
Sono sette anni ormai ma ci sono persone a cui non basta una vita. E se fossimo tra quelle? Se questa fosse tutta una favola che ci stiamo raccontando, in cui vogliamo credere a tutti i costi, per non affrontare la dura realtà, per non accettare la possibilità che forse dovremmo restare liberi, liberi e indipendenti di fare ognuno le proprie scelte senza…
Un lieve clangore richiama la mia attenzione. Osservo con orrore la chiave cadere fuori dalla toppa, ascolto i lievi rintocchi metallici provocati da non so cosa e, dopo una manciata di secondi, fisso impotente il pomello che ruota e l’uscio che si schiude.
Chi diavolo è che sa forzare una serratura?!
«Vai, forza»
«E perché devo farlo proprio io?»
«Perché a quanto pare sei l’unico disponibile e ho promesso a Koala che gli avrei mandato qualcuno» sento Nami argomentare ma non ho capito con chi, sono troppo in panico e confuso per riconoscere le voci.
«E a me che cazzo me ne frega?»
Mi aggrappo al tavolino e cerco di calmarmi. Era… era Kidd? 
«Suppongo nulla ma a Law potrebbe importare, e molto» Robin la riconosco subito e nonostante il momento di angoscia, non fatico a immaginarla con un sorriso soave. Soave e inquietante. «Al punto da divulgare un paio di scatti che ha avuto la fortuna di immortalare all’addio al celibato di Marco. Scatti che confido preferiresti non venissero resi più pubblici di quanto già non siano»
Per un attimo, segue solo silenzio.
«Trafalgar del cazzo» sibila Kidd, spalancando la porta così forte da rischiare di scardinarla. «Questa me la paga!» e la richiude così forte da rischiare di far crollare la casa. «Quella donna è la figlia del demonio» commenta, ancora ignaro di me, ma per poco. Mi mette a fuoco e ci fissiamo di rimando qualche istante, io con il respiro ancora così grosso che mi stanno per esplodere i polmoni ma talmente sotto shock per quello che sta succedendo che non riesco a reagire.
Sul serio mi hanno mandato Kidd?! Di tutte le persone…
«Allora! Che cazzo c’hai, sposina?!»
Ecco appunto.
Ma ora come ora non ho tempo per commentare l’inaspettata, e in realtà preoccupante, povertà di giudizio dimostrata dalla Rossa e da Robin nel scegliere Kiddo-kun per gestire una così delicata crisi. Okay, sarà stato anche l’unico disponibile ma allora era meglio non mandarmi nessuno. Ma la verità è che mi hanno fatto un favore perché, ora che ci penso bene, davvero Kidd potrebbe essere la soluzione al mio problema.
«Non c’è tempo per questo ora» rispondo, concitato. «Presto! Aiutami a calarmi dalla finestra!» sussurro, aprendo di più il vetro. Lui però non si avvicina e, quando mi giro a indagare, scopro che non si è nemmeno staccato dalla porta e che mi fissa incredulo. «Kiddo-kun! Dai!»
«Wowowow! Ferma un po’ lì, principessa. Cosa cazzo stai facendo? Non vorrai mica scappare?!»
Per un attimo torno calmo e padrone di me stesso, mentre mi giro a guardarlo, una mano sul fianco, con un’espressione che chiaramente significa “A te cosa sembra?!”. Kidd si stacca finalmente dalla porta ed esulto dentro di me, sollevato. Tra un attimo sarò fuori di qui e…
«Ma che merda c’hai nella testa?! A parte che se ti cali da qui, come minimo ti fracassi al suolo ma poi cosa ti credi? Di essere in uno di quei merdosi film romantici che pensi di poter scappare dal tuo matrimonio? Cosa pensi di fare, mollare quell’altro coglione ad aspettarti all’altare? Quanti anni hai?»
Alzo le mani davanti a me. «Senti, è complicato» affermo serio e deciso, senza ombra di difensiva nella mia voce.
«Ma va?! Hai una relazione ed è complicato! Cazzo, devi essere proprio il primo a cui capita!»
Socchiudo gli occhi, non so se più infastidito dal suo tono sarcastico o più colpito dalla profondità che, a modo suo, sta dimostrando. Non me l’aspettavo da lui. «Quando sarai più vicino ai trenta che ai venti e scoprirai che puoi e vuoi dare una svolta alla tua vita e il tuo futuro marito ti darà più di un motivo per credere di non essere dalla tua parte ne riparleremo. Ora aiutami a calarmi giù» insisto ma niente, Kidd non si schioda.
«Quindi è questo? State insieme da quanto? Un trilione di anni e tu ti caghi in mano perché non siete d’accordo su una fottutissima cosa? Vuoi farmi credere che non vi è mai capitato prima?»
«Certo che è capitato ma prima non eravamo sposati e questa cosa è importante, veramente importante e c’è un problema di fondo se devo lottare per farla accettare all’uomo che professa di voler passare il resto della propria vita con me, lo capisci?!»
«Stronzate» replica asciutto e io rimango senza parole. «A parte che sposati non lo siete ancora ma poi non raccontiamoci palle, okay? Te c’hai paura che quello ti molli ma lo sai qual è il punto? Che è proprio questo che fa la differenza tra una relazione seria e una scopamicizia o quel cazzo che può essere. Lottare per i propri obbiettivi pur di non dover rinunciare all’altro. A scappare e realizzare se stessi sono capaci tutti, la sfida è farlo insieme a qualcuno che potrebbe anche essere il tuo fottuto opposto e non capire un’acca di quello che vuoi e perché lo vuoi così tanto. Lui non è d’accordo? Okay, tu vai avanti lo stesso ma visto che lo ami davvero resti al suo fianco. È così che funziona»
Non rispondo. Non ci riesco, il mio cervello è in totale blackout. Sono colpito, molto colpito. Non mi aspettavo una simile profondità da Kiddo-kun. E oltre a questo, c’è il pensiero che forse… forse ha ragione… anzi, senza il forse. Ha ragione, è proprio così che funziona.
È proprio questo il senso. Non posso negare di avere paura ma anche se ho paura, proprio perché lo amo così tanto…
«Beh, in effetti io… Kidd che stai facendo?!» mi allarmo quando allunga una mano verso il mio completo di seta avorio, appeso vicino allo specchio, ancora avvolto nella custodia protettiva.
«Cosa ti sembra? Ti do una mano a finire di prepararti, prima che a qualcuno venga un coccolone. Datti una mossa» ordina senza possibilità di replica.
Esito un istante ancora prima di decidermi a tornare verso il centro della stanza, slacciandomi la camicia.
«Prima i pantaloni» decide, sfilandoli dall’appendiabiti per passarmeli. Nel silenzio assoluto in cui ora siamo immersi, rotto solo dagli uccellini che cinguettano e dalle voci lontane dei nostri invitati, sento che sto ritrovando il mio equilibrio.
«Non ti facevo così profondo, sai, Kiddo-kun?» mormoro mentre mi aiuta a infilare la giacca alla coreana. «Beh, almeno non metaforicamente parlando» aggiungo e lui grugnisce.
«Datti una mossa che sei già in ritardo»
«Com’è che non hai una ragazza?» mi acciglio e mi volto a guardarlo mentre chiudo con cura gli arzigogolati bottoni.
«Com’è che non sai farti i cazzi tuoi?» ringhia, muovendosi per uscire dalla stanza. Il suo lavoro qui è terminato e io sto scendendo troppo nel personale ma non posso lasciarlo andare senza nemmeno ringraziarlo per aver appena salvato il mio matrimonio.
Anche se, certo, a modo mio.
«Beh non preoccuparti. Oggi te ne troviamo una» ammicco.
Kidd mi lancia un’occhiata da sopra la spalla, la mano già sul pomello. «Io so rimorchiare, quando voglio. È al biondo che dovresti dare una mano» sentenzia, aprendo la porta.
Mi acciglio di nuovo, stavolta anche più perplesso. «Non mi sembrava che Kira-kun avesse bisogno di aiuto» gli faccio notare.
«Infatti non parlavo di Killer» è tutto ciò che ottengo in risposta, prima che esca dalla stanza, lasciandomi qui a chiedermi di cosa stesse parlando. Ma qualunque cosa fosse, dovrò pensarci più tardi.
Con un respiro profondo mi lancio uno sguardo nello specchio. Mancano le scarpe ma sono ormai pronto e l’insieme di ciò che vedo mi piace. Mi piace soprattutto perché so che piacerà a lui, quando mi vedrà andargli incontro.
Mi passo una mano sul volto e rido, di me stesso e della ridicola situazione in cui mi trovavo un attimo fa. Come ho potuto pensare che fosse meglio scappare?
Ora non sto nella pelle di andare da lui, mi sento come un petardo pronto ad esplodere ma devo cercare di calmarmi o finirò comunque per crollare, anche se di troppa gioia.
Scrollo le spalle e sollevo appena il mento.
Okay Izou, è ora.
Marco ti sta aspettando.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Ci sono cose nella vita che non ti aspetteresti mai di vedere, pur sapendo che possono succedere e succedono. L’eruzione di un vulcano, un gruppo di rapinatori che entra nella tua banca e ti punta contro i mitra, l’esplosione di una supernova.
Sicuramente Marco che balla danze irlandesi con i suoi fratelli, ubriaco perso, rientra nella categoria. Probabilmente, persino Izou è la prima volta che assiste allo spettacolo. E probabilmente domani non se lo ricorderà nemmeno, visto che, non essendo lui incinto, può bere tutto il vino che vuole e qui sembrano aver fatto una missione di vita non lasciarlo mai con il bicchiere vuoto, da quando la festa è iniziata.
Quando lo vedo vacillare per la terza volta in meno di un minuto, mi viene il legittimo dubbio che forse, e solo forse, è il momento di mettere fine alla sfida collettiva del bicchiere sempre pieno. Mollo a metà la conversazione a cui non stavo comunque partecipando con Robin e Bay e lo raggiungo in tempo per evitare che rovini a terra.
«Ehi, ehi! Ma guarda che sposo fashion che abbiamo qui» parto subito con una captatio benevolentiae – so che può sembrare inutile date le circostanze, ma Izou ubriaco è piuttosto capriccioso e molto più propenso a lasciarsi fare se lo omaggi di uno  o due complimenti – e intanto afferro la sedia più vicina e la trascino alle sue spalle.
Con un gesto delicato e deciso lo faccio sedere e gli sfilo il bicchiere prima che possa gocciare il vino rimanente. Osservo con desiderio il liquido dorato e le bollicine che scoppiettano quando raggiungono la superficie. Se solo potessi berne un po’…
«Allora» mi riscuoto, posando il calice fuori dal mio campo visivo. «Come andiamo?»
Mi piego appena in avanti e lui mi imita, sporgendosi ben di più, gli occhi socchiusi, finché non si trova a un palmo di naso dal mio volto. «Io ti conosco» sentenzia e subito mi porto una mano a bocca e naso.
«Già, purtroppo anche io» ribatto, piazzandogli l’altra mano in faccia e sospingendolo all’indietro. «Gesù, Izou. Sembra che tu abbia una distilleria in bocca» protesto ma non so nemmeno se mi ha sentito, perché la sua espressione è immutata e quando lo lascio andare torna nella posizione di un attimo fa, come quegli inquietanti pupazzi gonfiabili che dondolano fuori dalle concessionarie o dai grandi centri di arredamento.
«Sei Koala» esclama dopo un’altra ispezione, puntando il dito contro la mia faccia. «Sei tu, vero?»
«Sì, Izou, sono io» sorrido comprensiva. E rassegnata.
Io sono Koala. E questo è il padrino di mio figlio. Come ho potuto essere così cretina?
«Sono così felice di vederti!» biascica mentre si tende per abbracciarmi e quasi ribalta la sedia. Per fortuna riesco a rimetterlo dritto e stabilizzarlo prima che sia troppo tardi. Non so se sia per un capogiro o un’ondata di nausea ma, per fortuna, scampato il pericolo Izou decide di smettere di tentare uno sport estremo come staccare il sedere dalla sedia e si accomoda per bene. Prende un paio di respiri profondi, scivola più giù, posa la nuca sul bordo superiore dello schienale. «Credo di essere ubriaco»
«È una definizione decisamente molto accurata» confermo.
Izou punta gli occhi al cielo e continua a respirare a fondo.
«Vuoi dell’acqua? O qualcosa da mangiare?» gli propongo ma lui mi fanno segno di no con la mano.
«Sto già meglio» mi rassicura e poi punta gli occhi al cielo, continuando a respirare a fondo.
Lo lascio fare una manciata di secondi prima di avvicinare la mia sedia alla sua, a mia volta scivolare in avanti e posare la nuca al bordo, accostando le nostre teste, anche io gli occhi puntati al cielo e per un po’ ce ne stiamo fermi così, senza parlare, a guardare le stelle mentre il mondo intorno a noi fa casino.
«È una bella festa, vero?» domanda Izou dopo un po’.
«Certo che è una bella festa. La migliore di sempre» lo rassicuro.
Checché si possa pensare data la sua fama di egocentrico patologico, ci teneva davvero che questa giornata fosse perfetta per tutti, non solo per lui. Si è stressato l’anima con i più piccoli dettagli, si è impegnato in prima persona senza pretendere niente da nessuno, ha risolto ogni singolo cavillo senza fare capricci.
E ne è stato ripagato. Non è ancora finita ma penso di potermi ormai sbilanciare nell’affermare che è stata una giornata splendida e indimenticabile.
«Bene» mormora, sempre più lucido. E stanco, lo sento da come espira sollevato. «Sai sono contento… davvero contento di non essere scappato alla fine…»
Per un momento resto immobile, sorpresa. Poi metabolizzo quel che ho appena sentito e lentamente mi giro a guardarlo. «Come?»
Anche lui si gira a guardare me, incuriosito, probabilmente dal mio tono. «Ma sì dai, stamattina. Che ti ho chiesto di aiutarmi a scappare dalla finestra. Grazie per avermi convinto a restare, a proposito»
Sgrano gli occhi, incredula. Scappare dalla finestra?! Per questo era così in panico quando l’ho visto?
«Izou non sono stata i…» faccio per ricordargli ma capisco dal suo sguardo vacuo che ho già perso la sua attenzione. Evidentemente concentrata ora sulla musica che sta cambiando visto e considerato che a un certo punto spalanca occhi e bocca, si illumina ed esclama: «Oddio, la adoro questa!» per poi schizzare via, senza schiantarsi contro niente né nessuno per puro miracolo.
Ancora un po’ stranita da quel che ho appena sentito, lo seguo con gli occhi lanciarsi in mezzo al capannello formato da Marco e i suoi fratelli, che lo accolgono a braccia più che aperte e a cui, in tempo zero, si uniscono anche Satch, Ace, Bay, Halta e Aisa. 
Ridacchio divertita quando si prendono tutti sottobraccio e cominciano a ballare uno strano girotondo scoordinato. Una banda di pazzi.
«Non ti unisci a loro?»
Giro appena la testa e il cuore mi perde un battito. Sono ormai abituata a svegliarmi al suo fianco ogni mattina ma fa sempre una certa scena quando indossa il completo scuro, la cravatta allentata, un ghigno sulla faccia, quel suo fare da seduttore gentiluomo. Mi mordo il labbro inferiore. «Preferisco stare qui» rispondo, squadrandolo con un’occhiata eloquente. Sogghigna ancora di più e prende il posto lasciato libero da Izou prima di tendermi un bicchiere d’acqua frizzante che accetto volentieri.
Lo sorseggio mentre mi passa un braccio intorno alle spalle e io mi appoggio al suo petto, tutti e due attratti da quello che sta accadendo sulla pista da ballo come il ferro dalla calamita. È come assistere a un cataclisma. Non è una cosa piacevole eppure non puoi distogliere lo sguardo. Nemmeno quando Izou saltella al centro del cerchio umano, tentando invano un tip-tap.
«E così…» commenta Law, la bocca vicino alla mia tempia. «Quello è il padrino di nostro figlio»
Non oso girarmi a guardarlo ma non riesco nemmeno a smettere di sghignazzare. «Io…» sospiro, rassegnata. «Non so cosa mi sia preso. Ho parlato d’istinto, senza riflettere»
Law sbuffa una risata tra i miei capelli e mi accarezza il collo e la mandibola a fior di dita. Chiudo gli occhi, in paradiso. «Sono felice che non ti sei trattenuta dal chiederglielo» asserisce, cogliendomi del tutto alla sprovvista. Riapro gli occhi e lo guardo da sotto in su mentre lui porta l’altra mano sulla mia pancia, protettivo. «Perché non voglio farmi rovinare questo momento dall’attesa di esami che sono certo andranno bene» sorrido rapita e porto la mia mano a stringere la sua mentre mi sporgo per baciarlo.
Purtroppo, non è un’attesa facile. Questa settimana abbiamo trovato mille e una scusa per tenere la testa impegnata e, ciò nonostante, continuavo a controllare il cellulare compulsivamente, casomai Pen avesse chiamato in anticipo. Però se ci crediamo insieme, se ci sosteniamo a vicenda, siamo più forti di qualsiasi incidente del destino e nulla potrà andare storto, fintanto che dipende da noi.
«Senti» sussurra quando ci stacchiamo, ancora praticamente sulle mie labbra, e continua ad accarezzarmi collo e viso. «Papà vuole fare un brindisi con tutti. Te, Robin, Perona e Silk comprese. Sai, per festeggiare che siamo di nuovo tutti riuniti»
«Va bene» annuisco senza smettere di sorridere. «Andiamo?»
«Devo ancora recuperare Ace, Perona e Sabo, in realtà. E se non mi do una mossa Rufy potrebbe allontanarsi per andare a prendere altro da mangiare e dovremmo ricominciare da capo» solleva un sopracciglio, strappandomi una risata.
«Facciamo così» propongo, con una pacca al suo pettorale. «Sabo l’ho visto in zona buffet dolci poco fa, vai a chiamarlo tu. Io intanto pesco Ace dal gruppo e avviso Perona»
«Perfetto» mormora e mi omaggia di un altro bacio a fior di labbra prima di staccarsi a malincuore da me. «Sono sulla riva del laghetto. Attenta a non farti risucchiare dal vortice» indica con un cenno del capo il corpo di ballo improvvisato.
Lo osservo allontanarsi, serena. Dopo la crisi di mania del controllo di stamattina, si è rilassato un sacco nell’arco del pomeriggio e sono grata per questo. Non dubito che abbia aiutato anche il vino ma credo sia soprattutto merito di una giornata passata in compagnia della sua famiglia. Quel genere di giornate che ti fanno sentire a casa e al sicuro.
Quello di cui, insomma, avevamo bisogno entrambi.
Mi rigiro per assicurarmi che Ace sia ancora dove l’ho lasciato un secondo fa. E in effetti è ancora lì ma, a quanto pare, un secondo è stato sufficiente perché il degenero si scatenasse indomito sulla pista. Mi sfrego le mani sulle cosce mentre mi alzo e mi dirigo a passo deciso verso di loro, che saltellano in cerchio.
Se spero di tirare Ace fuori da lì, sono un’illusa. Ho una sola possibilità.
Aspetto un paio di giri per prendere il ritmo e poi mi aggrego a loro, avendo cura di infilarmi tra Ace e Deuce.
«Ehi Koala!» mi saluta Ace, che non classificherei come sbronzo solo perché il termine di paragone con Marco e Izou è inarrivabile.
«Ciao bellezza»
«Deuce, non t’azzardare!»
«È la donna di mio fratello!»
«E la madre del mio figlioccio!»
«Okay, okay! Datevi una calmata!» protesta Deuce, prima di tornare a dedicare la propria attenzione ad Aisa, strappando altre proteste ma molto meno convinte a Izou.
Non riesco a trattenere una risata e più saltello in tondo a ritmo di musica, più continuerei a farlo. Meglio se rimango sul pezzo.
«Ace, Dragon vorrebbe fare un brindisi con tutti noi. Dobbiamo recuperare anche Perona» lo avviso e quasi inciampo per la momentanea distrazione, o forse perché hanno aumentato il ritmo, difficile dirlo.
«Che idea geniale!» si illumina lui, mentre, nonostante i fumi dell’alcool, mi stringe al fianco, protettivo. Se questo bambino non crescerà nella bambagia sarà un miracolo. «Ma prima facciamo un altro giro!» esclama ancora e, senza preavviso, inverte il senso del girotondo.
Sgrano gli occhi, per un attimo presa in contropiede, ma mi adatto in fretta al nuovo ritmo e ricomincio a ridere. Mi sa che ci vorrà un pelo di più del previsto, qui.

 
§

 
«Grazie» aggiungo anche un lieve cenno del capo e prendo il calice che il cameriere mi porge. Non ho ancora bevuto un cocktail ma questo vino mi piace troppo.
Ne sorseggio un po’ mentre do le spalle all’open bar, a pochi passi dal buffet dei dolci. È morbido, leggermente muschiato, dolce e delicato. È quello che mi ci vuole in questo momento e sarebbe una bomba con un’altra fetta di quella torta di ciliegie.  
Furtivo, lancio un’occhiata di sbieco verso il buffet. Non è come se qualcuno possa sapere che è la settima volta che ci faccio un giro, nessuno mi ha visto se non a intervalli irregolari. Quasi, quasi…
Sto per rompere ogni indugio e avvicinarmi un altro po’ al coma glicemico ma mi fermo appena in tempo quando una figura appare di prepotenza nel mio campo visivo. Riesco a frenarmi prima di finirle dritto addosso e lei manco se ne accorge.
«Un calice di Chateaux Margaux, s’il vous plaît» trilla, con un sorriso carico di malizia, non so se voluta o involontaria.
La guardo, colpito. Non è una scelta da tutti, non c’è che dire, ma non so se sia un’intenditrice o solo fortunata, almeno finché non ne prende un sorso appena e lo gusta, prima di confermare al cameriere che è soddisfatta, tutto senza accorgersi di me che ancora la osservo.
Intenditrice, decisamente. Anche se è piuttosto giovane. Giovane e bella. Sono pur sempre un uomo e non posso non notare come la gonna le segna il punto vita, come la maglietta avvolge morbida le sue spalle lasciate nude, quasi un invito a morderle, come i tacchi slanciano le gambe già di loro parecchio lunghe. Il viso mi è un po’ nascosto dal ciuffo biondo con sfumature rosa, ma dal poco che riesco a captare del suo profilo, sono certo che sia ben abbinato al corpo. Devo aspettare solo qualche istante per averne conferma, il tempo che le serve per accorgersi finalmente di me e girarsi a guardarmi.
«Ciao Sabo» mi saluta, chinando il capo di lato, la voce un po’ roca.
Ci metto meno di un millesimo di secondo a capire chi ho di fronte, quando mi accorgo del dettaglio delle sue sopracciglia, ma rimango imbambolato e zitto perché non riesco a credere che sia veramente lei.
«R-Reiju?» domando, incerto.
Sapevo che sarebbe venuta ma, per un motivo o per l’altro, non l’avevo ancora incrociata né l’ho notata da quando è iniziata la festa. E ora che la vedo capisco anche perché. Io cercavo una ragazzina, un’adolescente ancora acerba, bella indubbiamente, piena di classe innata ma non affinata. Ma quella che ho di fronte è una donna, giovane certo, ma fatta e finita.
Quando? Quando la sorellina di Sanji è diventata questo?! Come ha fatto a passare così tanto tempo dall’ultima volta che l’ho vista, anni fa?!
«Tombola» mormora senza scomporsi, poi alza il calice come per brindare alla mia e ne beve un sorso, senza smettere di fissarmi, così intensamente che mi fa sentire a disagio.
«Ah, io… io…» mi passo una mano sul coppino, un sorriso di scuse. «Non ti avevo riconosciuto. Sei cresciuta un sacco. Ti sei fatta una donna ormai» affermo, di nuovo padrone di me.
Un barlume si accende nei suoi occhi alle mie parole. «Grazie» sussurra roca, poco sopra il bordo del bicchiere e io mi affretto a bere dal mio perché mi sento la gola un pelo secca.
Sabo, datti un contegno. So che è solo il mio corpo che reagisce in modo puramente istintivo ma so come controllarlo e ne ho tutte le intenzioni. Anni e anni di amicizia con Robin mi dovranno pur essere serviti a qualcosa.
«Anche tu sembri in forma. Forse un po’ smagrito» non lo dice per criticare, è una constatazione oggettiva e nemmeno posso negarla. Mi passo una mano sulle guance, perfettamente lisce da una settimana a questa parte. Non so da quant’era che non mi rasavo con tanta regolarità. Spero solo che, anche se Reiju lo ha notato così facilmente – esattamente come Robin quando è venuta a prendermi in aeroporto, ma chi si stupisce più di lei? –, possa comunque essere passato inosservato a chi è importante che non si accorga di niente.
Non ancora per lo meno.
«È il lavoro» concedo con un piccolo cenno del capo. «E tu?» mi affianco a lei, una mano in tasca, l’altra ancora intorno al calice. «Come va a Giurisprudenza?»
«In un mondo spesso governato da corruzione e arroganza è davvero difficile restare fedeli ai propri principi» risponde criptica.  
«Deduco che il professor Sakazuki continua a traviare giovani menti, imponendo il suo discutibile senso di giustizia»
«Eccezionale intuito» si finge esageratamente sorpresa lei, prima di invitarmi a picchiare il calice contro il suo.
«Molto profonda, comunque» mi complimento dopo aver buttato giù l’ultimo sorso di vino. Ne vorrei già dell’altro.
«Era Lemony Snicket. Ho tagliato “letterari e filosofici” per adattarla all’occasione» confessa, senza girarsi a guardarmi, gli occhi puntati di fronte a sé e concentrati su qualcosa, mentre il cameriere – che probabilmente è telepatico – si avvicina per rabboccare il mio bicchiere. «Sabo, tu sai chi è quel ragazzo?» domanda indicando con la stessa mano che tiene il calice oltre la pista da ballo, dove Koala è appena stata fagocitata da Ace e gli altri.
Forse dovrei andare a controllare che non la facciano stancare troppo, insomma con la gravidanza e tutto…
Reiju si schiarisce appena la gola e io torno alla realtà con un sobbalzo mal camuffato. «Scusa, non ho capito chi» prendo tempo.
«L’armadio a due ante con i capelli rossi che ha l’aria di imprecare senza posa da un quarto d’ora buono» 
«Ah è Kidd» rispondo sicuro di me. Sinceramente non lo vedo nemmeno ma sono sicuro che parliamo di lui.
«Che strano» mormora tra sé, portando il disto con cui lo stava indicando alle labbra. «È da solo»
Mi acciglio, perplesso. «Perché è strano?»
«È da un po’ che lo osservo. Il suo amico biondo sta praticamente facendo un bagno di estrogeni tante ragazze gli ronzano intorno, ma lui non ha fatto nemmeno una mossa. È gay?»
Quasi mi strozzo con il vino. «Che?!» domando tossicchiando e sputacchiando. «Kidd?! Gay?! Credimi, no» rido alla sola idea.
«Beh non capisco perché se ne sta da solo e non ne approfitta, allora» insiste e per un momento vedo riemergere la bambina che ricordavo tanto bene. Ho la sensazione di essere vicino a una qualche illuminazione riguardo i sentimenti altrui, evento più unico che raro per me, ma quale che sia il pensiero che cerca di formarsi nella mia testa, mi sfugge prima che io possa afferrarlo.
Scrollo le spalle. Non che fosse importante. «Beh, anche io ero qui da solo fino a un attimo fa» le faccio presente, con un sorriso da schiaffi dei miei. Reiju mi lancia un’occhiata in tralice, per niente impressionata e prende un altro sorso di vino.
«Vero» concede poi. «Ma lui non ha l’aria di uno che sta disperatamente cercando di scappare da se stesso» mi fa notare, e stavolta, anche se lo dice con un sorriso, è lapidaria in modo intenzionale. Proprio come Robin. Se non fosse fisicamente la versione femminile di Sanji, potrei sospettare un legame tra loro e un’adozione tenuta nascosta da parte dei Vinsmoke.
«I-io… ecco io…» boccheggio in difficoltà.
«Interrompo qualcosa?» domanda una voce calma e quasi metallica.
Mi giro di scatto, il fiato grosso. Law mi scruta nella penombra, senza espressione e lo stomaco mi si contrae fino a fare male. Che, mica starà pensando che ci sto provando con Reiju, eh!
«C-che?!» domando con una risata nervosa. «No, ma figurati! Interrompere, non…» sposto gli occhi da Reiju a lui, agitato. «Non interrompi niente, ti pare?»
«Okay» annuisce Law ma io lo vedo da come sposta gli occhi da me a Reiju che non è convinto. «Papà vuole fare un brindisi con tutti noi. Vieni?» parla asciutto, le mani in tasca. Io sfrego le mie, ora sudate, sui lati dei pantaloni.
«Sì, certo. Scusa Reiju, io devo…»
«Vai tranquillo» mi interrompe lei con un mezzo sorriso. «Ci si vede in giro»
«Scusaci» ripete Law e poi anche lui le da le spalle. Camminiamo fianco a fianco qualche metro senza proferire parola. Sbircio furtivo verso di lui, sembra una maschera di pietra.
Mio dio, se pensa che volessi tradire Bibi…
«Law» comincio, impanicato. Non posso reggere anche il rancore di mio fratello, non ne ho le energie.
«Che ti ha detto?». È tranquillo e la cosa mi coglie alla sprovvista. «Pareva quasi ti avesse schiaffeggiato» chiarisce quando non rispondo.
«Ma... ma no!» nego, forse esagerando un po' troppo il tono. Mi schiarisco la gola «Facevamo solo due chiacchiere» aggiungo. Accelero un po', verso il lago dove ora intravedo papà, Silk e Robin. Di Rufy non c’è traccia.
«Okay» si adatta al mio passo, le mani in tasca e per un attimo mi illudo di averla scampata. È solo un attimo però. «Quindi che hai?»
Alzo il capo di scatto. Merda.
«Niente» ci provo, un tentativo disperato. Che non funziona, lo vedo subito.
Perché Law avrà tanti pregi ma rimane un maniaco del controllo della peggior specie e niente, niente lo manda ai pazzi come capire che qualcosa non va senza capire cosa esattamente non va. Peggio ancora se la “cosa” crea malessere a qualcuno a cui tiene.
Sarebbe stato meglio fargli credere che davvero ci stessi provando con Reiju, magari mi evitavo il terzo grado.
«Sabo. Lo so che qualcosa non va. Non sono deficiente»
Sospiro rassegnato. Inutile negare ancora, prolungherà la tortura e basta.
«Law è solo un brutto periodo» cerco di farla fuori in fretta e continuo a camminare. «E tu hai ben altro a cui pensare che a me, Okay? Non preoccuparti»
«Anche papà è preoccupato. E Koala ha cominciato a notare qualcosa»
E quest'ultimo appunto significa solo una cosa. Non mollerà il colpo finché non avrà una risposta almeno un briciolo concreta per le mani. Mi fermo un momento a fronteggiarlo.
«È-è il lavoro»
«Il lavoro?»
«Sì, il lavoro» ripeto e mi passo una mano sul volto. Ricomincio a camminare, senza nemmeno guardare dove vado. «Al nuovo studio mi trovo male, sto pensando di andarmene»
Aggrotta le sopracciglia.
«Sei lì da due mesi e sei sempre sembrato contento»
Non è convinto. Non è convinto e io comincio a perdere i filtri.
«Fingevo» mi stringo nelle spalle «Volevo vedere se la situazione migliorava!» ribatto, agitato.
«Ehi che succede?» ci raggiunge la voce di Ace, che si sta avvicinando con Perona e Koala.
Oh meraviglioso! Magnifico davvero!  
«Problemi di lavoro, ho sentito bene?»
Mi giro verso papà e con shock mi accorgo che, cammina, cammina, abbiamo raggiunto la riva del lago e tutti hanno sentito l’ultima parte della mia conversazione con Law.
«Problemi di lavoro?» si acciglia Ace. «Che succede?»
«Niente! Non è niente di grave! Cercherò altro e…»
«Forse potresti fermarti a Raftel un altro po’» propone papà e meccanicamente io porto una mano al coppino.
«Beh sì io infatti…»
«Se Bibi è d'accordo» fa presente Law, guardando dritto e un po’ contrariato verso papà. Il cuore mi sprofonda nello stomaco.
«Questo è scontato, Law» interviene Koala.
«Comunque papà ha ragione» riparte alla carica anche Ace. E io sono troppo stanco, ho bevuto troppo vino, mi sento troppo sul punto di esplodere. «Ti conviene approfittarne, se hai passato un periodaccio, cercare di riposarti prima di tornare ad Aluba…»
«Io non torno ad Alubarna!!!»
Il silenzio cala di botto, rotto solo dal rumore distante della festa e dal mio respiro affannato. Ora che l’ho detto la tensione si allenta così tanto che mi gira anche un po’ la testa ma purtroppo non è mica finita qui. Anzi, è solo l’inizio.
«Come non torni ad Alubarna?» domanda Law, sinceramente confuso e come dargli torto? Ma me lo sono tenuto dentro per troppo e ora che ho aperto la diga non riesco a trattenere il flusso. E quell’ultimo bicchiere di vino mi ha dato il colpo di grazia.
«Non torno ad Alubarna e non è vero che ho cambiato studio! Ho solo lasciato quello precedente e ho passato gli ultimi due mesi a Dressrosa a timbrare carte dalla sera alla mattina e ora sono tornato per restare, chiaro?!»
«Dressrosa?» domanda papà. «Che cosa…»
«Fratello calmati» interviene Ace, preoccupato a morte. «È chiaro e siamo solo felici se vuoi restare, davvero ma…» lancia un’occhiata oltre la mia spalla e poi mi guarda di nuovo, con cautela. «E Bibi?»
Sollevo appena il mento. Sono le persone più importanti della mia vita. Quelle che non vorrei mai deludere o preoccupare. Ma non per questo la realtà può essere diversa da quella che è.
Ed è arrivato il momento, anche se fa ancora un male cane, è arrivato il momento di dirlo anche a loro.
«Io e Bibi ci siamo lasciati»

 
§

 
Lancio un’altra occhiata al mio polso nudo e mi maledico per non aver messo l’orologio.
«Koala sono passati solo due minuti dall’ultima volta che hai cercato di guardare l’ora» mi fa notare Robin, seduta sulla poltroncina a fianco alla mia, all’interno di villa Ka no Kuni.
La guardo, mortificata. «Perché non ci ha detto niente?» ripeto per la terza volta e un dubbio mi coglie. «Tu lo sapevi?»
Mi guarda con i suoi occhi quasi trasparenti eppure indecifrabili. «L’ho intuito all’aeroporto. Gli orari coincidevano male con il volo da Alabasta, era troppo abbronzato e non ha usato il cellulare nemmeno una volta, non un messaggio, non una telefonata» si stringe nelle spalle e io mi lascio andare contro lo schienale con un sospiro.
«Fai impressione» le dico, passandomi una mano sulla fronte. «Per questo alla cena hai detto della mia gravidanza. Per distogliere l’attenzione da lui» realizzo improvvisamente.
«Mi spiace, non ho trovato un argomento migliore»
«Figurati. Hai fatto bene» la rassicuro, pur sapendo che se Law mi sentisse non sarebbe affatto d’accordo. La porta della sala adiacente alla nostra si apre e io mi rimetto ben dritta quando Law entra, infilando il cellulare in tasca. «Sei riuscito a chiamarla?»
Annuisce e si avvicina con passo strascicato. Prende posto sull’altra poltroncina e si sporge verso di me, posando una mano sulle mie gambe. «Si sono lasciati poco prima che Sabo mollasse il lavoro. È stata l’origine di tutto»
«Ma come…»
«Lei non era mai a casa. Sempre in giro per le campagne e ormai non funzionava più. Oltretutto Sabo aveva un lavoro al di sotto delle sue effettive capacità, ma questa lo abbiamo sempre saputo»
«Era un compromesso per poter stare con lei» commenta pacatamente Robin.
«Già» conferma Law, con un altro sospiro. «Si sono lasciati di comune accordo però…» sposta gli occhi da me a Robin. «Lei sta bene» lo dice senza sapere esattamente come dirlo.
Sa cosa sembra. Sembra che voglia sottolineare che anche se è stata una decisione comune, la parte lesa è Sabo. Ma in realtà non è questo che vuole dire. In realtà sta solo cercando di giustificare il comportamento di suo fratello e al tempo stesso non vuole dare a vedere che è sollevato nel sapere che Bibi, almeno, è tranquilla.
«Anzi mi è sembrata quasi anche felice»
«Law non c’è niente di male» stringo la sua mano tra le mie. «Succede, anche alle coppie migliori, e sono passati due mesi. Se le cose andavano già male da prima, forse lei era anche preparata»
«Lo so» sospira, afferrandomi una mano per condurmi nell’altra sala adiacente, dove Sabo sta parlando con Dragon da quando siamo entrati. Robin ci segue discreta e con altrettante discrezione schiudiamo la porta e aspettiamo un cenno di Dragon per entrare.
«…’etto, papà. Non è che non voglio tornare a casa a Goa ma per cercare un nuovo lavoro sono più comodo se resto in centro» Sabo si passa una mano tra i capelli e prende a misurare la stanza a grandi passi. Non si scompone – non più di quanto già non lo sia – quando ci vede. Non c’è niente che nasconderebbe a noi tre. Beh, a parte la fine della sua storia d’amore più importante, un licenziamento e un trasferimento in un altro paese. Ma sono dettagli. «Ho dei risparmi da parte, posso permettermi un monolocale»
«Per quanto?» domanda lapidario e dritto al sodo Dragon. Sabo si ferma nel suo vagare per la stanza, stringe le labbra, non risponde. «Non voglio farti i conti in tasca, Sabo, ma come padre non puoi pretendere che non ti voglia aiutare»
«Lo so. Ma ti ho già spiegato che…»
«Può stare da noi» lo interrompe Law.
Sabo si gira sconvolto e Law incrocia subito serissimo il proprio sguardo con il suo. «Puoi stare da noi, per tutto il tempo necessario» ripete.
«Che… Law io…» sussurra Sabo, quasi inudibile. «Non posso, ragazzi. Vi ringrazio ma non posso. Koala è incinta e l’ultima cosa che vi s…»
«Oh andiamo!» lo interrompo, affiancando Law. «Ci serve una mano per sistemare la nursery, non infrangere così le nostre speranze» metto su il mio miglior finto broncio implorante. «Ti prego?»
Sabo mi fissa senza parole alcuni istanti e poi fa una cosa bellissima. Scoppia a ridere. È breve, poco energica, ma è pur sempre una risata. È pur sempre un inizio.
«Ah io…» si passa una mano tra i capelli, gli occhi lucidi. «Siete sicuri?». Io e Law annuiamo insieme e Sabo manda giù a vuoto. «Non so come ringraziarvi» soffia, il groppo in gola.
«Troverai un modo» lo rassicura Law, io sorrido incoraggiante. Tutto torna tranquillo, per un attimo, come se non fosse successo nulla.
Poi qualcuno si schiarisce la gola. «Dunque». Ci giriamo tutti e tre verso Dragon. «Quando pensavate di dirmi che divento nonno?»
Sorrido rassegnata.
E via di nuovo con un altro terzo grado.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


La carta di giornale crepita tra le mie mani mentre srotolo con attenzione la miniatura di un Poignee Griffe, fatta a mano da Robin al liceo. È un capolavoro e mi soffermo a valutare quanto ci si potrebbe ricavare, spacciandola per vera a un qualche collezionista incallito. Se non sapessi quanto Robin ci è affezionata, glielo proporrei per davvero.
«…’po ti do il suo numero, se vuoi chiamarlo»
Robin e Koala entrano in cucina, portando due scatole di dimensioni diametralmente opposte.
«Mi farebbe piacere ringraziarlo a voce per la disponibilità» risponde Robin, posando l’enorme scatolone sul tavolo. «Vivere in albergo con Eris cominciava a diventare complicato»
Koala poggia la sua scatola, più piccola e leggera, e si butta verso quella più grande per iniziare a svuotarla, con lo stesso slancio con cui Rufy si lancerebbe su una grigliata mista di carne. Dopo una settimana con Law e Sabo a tenerla sotto stretta sorveglianza, non le sembrerà vero di poter muovere un po’ mani e gambe. Ancora di più visto ciò che le aspetta, ospitando Sabo fino a data da destinarsi.
«Comunque siete state splendide a rendervi entrambe disponibili, ragazze. Grazie davvero»
«Credimi, sono io che devo ringraziare te» le fa presente Koala, confermando i miei sospetti, mentre si sposta al lavandino per sciacquare un servizio di ciotole.
«Per noi è un piacere Robin» la rassicuro, sincera. E lo penso davvero.
Per me è un piacere aiutarla, al punto che non ho intenzione di chiederle nemmeno dei soldi per ciò che sto facendo per lei. Per quanto riguarda Franky, è un altro discorso, infatti ho con me un quadernetto su cui segno accuratamente ogni volta che estraggo qualcosa di suo da qualche scatola. Dovrei tirare su un bel gruzzolo.
«Se fossi andata da Ace e Perona ad aiutare con il trasloco, a quest’ora sarei probabilmente legata al loro nuovo divano» commenta Koala, mentre insapona le scodelle.  
«O chiusa a chiave nello sgabuzzino delle scope» le fa notare Robin.
«Nah. Sabo non si è mai ripreso dal trauma di quando abbiamo giocato a sette minuti in paradiso la prima volta. Non si avvicinerebbe allo stanzino delle scope»
«Ti ricordi quella volta che Ace si è addormentato sotto al letto mentre giocavamo a nascondino e…»
«... pensavamo fosse sparito!» esclamano all’unisono e scoppiano a ridere. «Quante gliene ha date Dragon quando l’ha trovato?» 
Ridacchio a labbra strette e scuoto la testa. Che manica di pazzi che sono.  
Un rumore dalla stanza accanto attira la nostra attenzione e Eris sfreccia davanti alla porta aperta della cucina, ridendo a pieni polmoni, inseguita da Zoro, che le corre dietro tutto ingobbito.
«Guarda che ti prendo!» la avvisa, facendo il vocione e io rimango imbambolata a fissare il punto dove è appena passato. Non so spiegare l’effetto che mi fa quando lo vedo giocare con lei.
«Zoro è molto dolce con Eris» mormora Robin, riportandomi alla realtà, mentre si gira a guardarmi. «Ma, a proposito, è tutto a posto?»
Mi acciglio, perplessa. «È tutto a posto?» le rigiro la domanda, con un’espressione stranita a metà tra una smorfia e un sorriso.
Mi sento una vigliacca ma non resisto a lanciare una rapida occhiata verso Koala, l’unica con cui mi sono confidata riguardo le mie preoccupazioni su Zoro. Non credo proprio abbia raccontato ai quattro venti i fatti miei e il fatto che continui a insaponare le ciotole, rilassata, lo conferma.
«Zoro mi è sembrato poco in forma»
Il che significa che Robin lo ha intuito da sola – come accade praticamente per ogni cosa – e questo mi agita parecchio, anche se non lo do a vedere. Se è così evidente che Zoro è giù di tono, allora forse la mia preoccupazione non è così infondata.
«Fisicamente intendo» aggiunge ancora Robin e mi coglie alla sprovvista.
«Beh…» gli occhi fissi apparentemente nel vuoto ma in realtà rivolti alla porta, nella speranza che torni indietro all’inseguimento di Eris. «Forse è stanco, sai tra lavoro e allenamenti. Figuratevi che adesso fanno anche consegne a domicilio» lancio una mano nell’aria mentre porto l’altra la fianco. «Ma ve lo immaginate Zoro che gira la città per portare le spade a casa dei clienti?»
Un rumore di ceramica contro metallo riecheggia nella cucina quando Koala si fa sfuggire una scodella che, per fortuna, rimane intatta.
Impreca qualcosa sottovoce, prima di alzare il tono per aggiungere: «Troppo sapone» a mo’ di scuse. «E quindi fanno consegne a domicilio, ora?» chiede conferma, asciugandosi le mani in uno strofinaccio mentre da le spalle al lavello.
Annuisco, stringendomi nelle spalle. «È l’ultima persona sul pianeta che potrebbe svolgere una mansione del genere ma certi giorni sospetto che lui e Johnny non facciano un cervello in due. Probabilmente è stanco perché ora passa le giornate a vagare per Raftel»
Il che, ora che ci rifletto bene, praticamente vanifica i miei sforzi e la mia ben studiata strategia di carpooling per assicurarmi di riaverlo a casa sano e salvo tutte le sere. Non avevo ancora avuto modo di pensarci. La notizia è fresca di venerdì, ieri c’è stato il matrimonio e oggi siamo venuti qui a Sun Bay ad aiutare.
No, non avevo ancora avuto modo di pensarci ma, ora che lo sto facendo, non sono affatto sicura che mi piaccia questa nuova iniziativa che hanno preso.
«Beh, che ne dite di un break?» propone Robin, interrompendo di nuovo le mie riflessioni. «Ho portato tramezzini e limonata»
«Come se si potesse dire di no alla tua limonata, Robin» le fa notare Koala, mollando la ciotola mezza insaponata nel lavandino e anche io abbandono lo scatolone mezzo pieno per unirmi a loro.
«Hai avuto notizie degli sposini?» domando, portandomi alla sinistra di Koala.
«Aisa mi ha mandato un messaggio poco fa per avvisare che sono riusciti a farli imbarcare in tempo, non senza qualche difficoltà. Per l’occasione abbiamo creato appositamente un gruppo con Momo e tutti i fratelli di Marco, chiamato “Smaltimento Rifiuti”» racconta. «E a quanto pare, Deuce l’ha designata come sua futura moglie e donna della sua vita»
«Doveva essere parecchio ubriaco»
«Lo ha fatto da sobrio»
Scoppio a ridere e intanto rifletto. Sarà strano non avere Marco in giro per venti giorni. La sua pregnante e silenziosa presenza è diventata ormai un’abitudine al lavoro per me. Quando sono in ufficio e qualcosa non va, quando ho bisogno immediatamente di sfogarmi e parlare con qualcuno come farei con Zoro, mi basta scendere da lui e già solo entrare nel reparto stampanti mi fa sentire più serena. E anche il sarcasmo tagliente e mai casuale di Izou non guasta, riesce spesso a strapparmi un sorriso e a volte addirittura darmi la giusta prospettiva.
Anche se con questo non sto certo insinuando che mi mancherà Izou! Assolutamente no! Anzi, semmai, per quanto riguarda lui, il prossimo mese sarà un’agognata e attesa tregua. Solo per me, certo. Usopp e Koala possono fare i sostenuti quanto vogliono ma so che sentiranno la sua mancanza.
«…’nvece Sabo?» domanda Robin.
«Non l’ho visto molto, stamattina. Lui e Law sono partiti presto e…»
Discreta, mi allontano. So che non è così, ma mi sento per un momento di troppo. Conosco Sabo da anni, anche io sono molto dispiaciuta per lui e so che Koala si sfogherebbe con me se fosse preoccupata per lui – e probabilmente lo sarà e quando lo sarà si sfogherà – ma, in questo momento, sarebbe come intromettermi tra due sorelle che parlano del proprio fratello.
Per fortuna non devo sforzarmi di trovare qualcosa da fare o di fingere di trovare molto interessante il panorama perché Eris arriva correndo in salotto, come poco fa in corridoio, dritta dritta verso Franky che è appena entrato con l’ultimo carico di scatoloni.
«Scappi papà!!!» urla la piccola, lanciandosi tra le braccia di Franky.
«Se no ti prende!» tuona lui, stringendola al sicuro al suo petto e Eris ride acuta e contagiosa.
Zoro frena il proprio inseguimento, forse un po’ grato che il gioco sia finalmente giunto al termine, e si ritrova a incrociare il suo sguardo con il mio. «Ciao mocciosa» mi saluta con un sorriso storto.
Gli sorrido in risposta ma non mi trattengo dal studiarlo, con occhi indagatori. A vederlo così, sembra il ritratto della salute. Non una perla di sudore sulla fronte, il respiro regolare, la posizione eretta. Forse solo le occhiaie sono un po’ marcate, un indizio che avalla la mia ipotesi, decisamente. 
«Tutto bene?» domanda lui, scuotendo appena il capo, mentre mi accoglie tra le sue braccia.
«Stavo pensando una cosa» accarezzo il suo petto a due mani, guardandolo da sotto in su, suadente.
Un guizzo accende per un attimo la pece dei suoi occhi ma credo proprio abbia capito male, anche se non se ne accorge, neppure quando il mio sorriso si fa più sinistro e un pelo minaccioso. «Non mi piace per niente questa cosa delle consegne a domicilio»
 Subito si irrigidisce, in allerta, e fa un movimento come per indietreggiare, che non ha seguito perché implicherebbe lasciarmi andare. «Nami…»
«Però…»interrompo la sua protesta sul nascere. «Potrebbe diventare interessante se Johnny ti pagasse un extra»
Sospira e io intanto gli accarezzo una guancia. Sì, è decisamente stanco e anche se mi spiace, una parte di me prova un improvviso e infinito sollievo. Non è niente di che. Non è nulla di grave. Zoro, il mio Zoro, sta bene e nulla mai potrà scalfirlo, lo so.
«Sapevo che sarebbe successo, prima o dopo»
«È un servizio chiaramente stancante per te, ricevere qualche soldo in più è il minimo» lo rimprovero mentre intanto non smetto di accarezzarlo. Con un lieve colpo di bacino, richiamo la sua attenzione. «Se vuoi posso parlarci io» mi struscio contro il suo cavallo. «So essere molto persuasiva, quando voglio»
«Detta così…» indica con il dito il punto in cui i nostri bacini si toccano. «… suona molto ambiguo. E tengo troppo a Johnny perciò, prima, proverò a parlarci io»
Per un attimo non mi muovo e sostengo il suo sguardo con sfida. Ma sono troppo felice che stia bene per prendermela, così mi stringo nelle spalle e mi alzo sulle punte per scoccargli un bacio a fior di labbra.
«Va bene» concedo, staccandomi da lui per raggiungere gli altri in salotto. «Ma ricordati…» faccio qualche passo ancheggiando e poi mi fermo per lanciargli un’occhiata penetrante da sopra la spalla, e che ottiene l’effetto desiderato a giudicare da come Zoro deglutisce a vuoto. «…che io alla fine la spunto sempre, Roronoa»
  

 
 §

 
Mi rigiro sul divano letto e ignoro come posso la luce che filtra attraverso la tapparella. La cucina è qui accanto ma i suoni mi arrivano ovattati, distanti, segno che sono ancora nel limbo sonno-veglia e mi basterebbe un piccolo sforzo per riaddormentarmi.
E io non voglio svegliarmi. Domenica è andata piuttosto bene, tra la stanchezza post matrimonio e il trasloco di Ace, utile per tenere la testa impegnata, perfetto per passare del tempo coi miei fratelli. Ma da ieri, ho ricominciato a precipitare in un baratro nero che non sono sicuro abbia il fondo.
Mi ero imposto contegno. Mi ero imposto di reagire. Ma ho ricominciato a non farmi la barba, mi sono risparato le prime due stagioni e mezzo di Breaking Bad e poco ci è mancato che ordinassi una pizza hawaiana formato famiglia. A me la pizza hawaiana non piace, per questo la mangio quando sono depresso. Ma per fortuna Koala mi ha schiaffato sotto il naso una gigantesca porzione di udon al pesce – ricetta originale del padre di Izou con una piccola aggiunta segreta ed esotica di mamma Laki – mettendo a tacere i miei peggiori istinti e risvegliando un appetito che non credevo di poter ritrovare.
Mi sono quasi messo a piangere per la gratitudine e credo che questa la dica molto lunga sul mio stato mentale e forse anche non. Mi sono ripromesso di fare uno sforzo e provare sul serio a riprendermi ma all’alba – almeno credo, non ho idea di che ore siano – del martedì sono punto a capo e per niente convinto di avere le forze necessarie.
Sono indegno. Non mi merito questa famiglia.
Ma nemmeno questo pensiero riesce a farmi staccare dal materasso. Ricaccio ancora di più la testa nel cuscino ed espiro a fondo, pronto a sprofondare, quando succede una cosa molto poco piacevole.
Non è il freddo, perché in realtà fa caldo e io già dormo in boxer e maglia intima. Non è il freddo ma  comunque è tragica la sensazione del lenzuolo che viene strappato via da me e della tapparella che viene sollevata con violenza, la luce che mi investe senza pietà.
«Ma che cavolo…» protesto, portando una mano a schermarmi gli occhi. Mi serve per poco, quando un’ombra si staglia davanti alla finestra. Socchiudo gli occhi e ci metto lo stesso un attimo a riconoscere Law, anche se ovviamente chi altro poteva essere? A meno che Koala non si fosse comprata dei trampoli…
«Alzati e vestiti» mi ordina, apparentemente inespressivo.
Un po’ a fatica, mi metto a sedere sul letto ormai sfatto. «Ma che ti prende?»
«Ho detto alzati e vestiti. C’è del caffè già pronto, latte quanto ne vuoi ma devi sbrigarti. Vieni con me al Castello stamattina»
Il tono non ammette repliche. E in effetti io non replico, sono troppo impegnato a cercare di dare un senso alle sue parole e a sbattere le palpebre interdetto.
«Eh?!»
«Ho detto che vieni con me al Castello» ripete.
Autoritario, impassibile. Certi giorni mi sorge il dubbio che sono io quello che hanno adottato.
«E cosa vengo a fare scusa?»
«Puoi usare uno degli uffici per sistemare il tuo curriculum e cominciare a mandarlo in giro»  
«Ma posso farlo anche da casa. Preparo la cover letter e poi devo fare solo “copia, incolla, invia”, “copia, incolla, invia”, “cop…”»
«Lo so. Ma ben per quello, se ti lascio a casa entro sera avrai iniziato Better Call Saul e non ti fa bene» ribatte prontamente. Per un momento ci fissiamo senza dire niente, poi Law sospira e si passa pollice e indice sugli occhi, prima di fare una cosa che nessuno si aspetterebbe mai da lui ma io sì, perché l’ho già visto succedere parecchie volte nel corso delle nostre vite. Si siede accanto a me sul letto e mi guarda con disarmante sincerità. «Non ti lascio a casa da solo»
 Stringo il lenzuolo tra le dita, per controllare l’impulso di abbracciarlo. «Law senti, state già facendo tanto per me, non posso essere un peso anche mentre sei al lavoro e…»
«Non ti lascio a casa da solo» mi interrompe, ancora più deciso. «Hai bisogno di uscire di casa, vedere gente, fare cose. E non sei un peso, né qui né al lavoro. Ci serve il tuo aiuto per l’archivio e la burocrazia arretrata, puoi occuparti di quello tra un curriculum e l’altro se ti va» conclude così convinto da dare la merda a qualunque arringa io abbia mai simulato durante la mia carriera universitaria.
E, meglio di qualunque arringa io abbia mai sentito durante la mia carriera universitaria e non, c’entra così bene il punto che improvvisamente fatico a tenere ferme le gambe.
Mio dio ho bisogno di farlo, fare qualcosa in cui sono bravo, in cui sono qualificato. Ho voglia di lavorare, lavorare sul serio.
E così schizzo dal letto come una molla, in cucina, in bagno, in camera, in macchina. Il lasso di tempo che mi serve per passare dal letto sfatto al Castello è molto confuso nella mia testa. So solo che quando arriviamo sono eccitato come un bambino e mi prudono le mani per la voglia di fare. Considerato che avevo preparato l’elenco di tutti gli studi legali e le aziende di Raftel in cui candidarmi, non mi ci vorranno più di quattro giorni per mandare il mio curriculum a tutti, otto se decido di usare solo le mattine. La pagina delle offerte di lavoro mi invia notifiche sulla base dei parametri che ho inserito. Il che significa che posso dedicare tranquillamente i prossimi pomeriggi a sistemare il casino che si è accumulato in tre anni nei loro schedari.  Il che rende anche molto più tollerabile l’attesa di venire eventualmente richiamato da qualcuno.
Mi fermo per un attimo a guardare la facciata del Castello, con rinnovato entusiasmo. Oggi sarà una giornata positiva, ho deciso. E domani… beh domani si vedrà, non ci allarghiamo.
 «Andiamo?» mi invita Law e non me lo faccio ripetere due volte, lo seguo a ruota dentro all’ospedale.
Cammino a testa alta, perché non sono più qui come semplice visitatore, e rispondo con uno smagliante sorriso quando Praline mi saluta con un "Ciao, Mingherlino".
La mia giornata ha di nuovo un senso e nulla potrà smontarla.
 «Che hai da sorridere a quel modo?» si acciglia Law mentre saliamo in ascensore.
«Sarà che lui non è un peripatetico mancato» risponde qualcuno – una donna – passando fuori dall'ascensore. Qualcuno che non vedo perché le porte si stanno già chiudendo. E anche se le porte si stanno già chiudendo, mio fratello si sporge in avanti per rispondere. «I peripatetici sono solo quelli che passeggiavano comunque!»
Allibito, mi trattengo a stento dal ridergli in faccia.
«No sul serio, che hai da sorridere?»
«Ma dico ti sei visto? Chi era? Voglio stringerle la mano» incrocio le braccia al petto. 
«Mi manca solo che vi mettete in combutta. Ho già abbastanza da fare con Cora che autosabota la sua stessa esistenza»
Aggrotto le sopracciglia. «A proposito, il Dugongo Kung Fu è tornato in azione?»
«Sì ma non è dato sapere per quanto ancora» ribatte Law, e qui spezzo una lancia per lui perché il suo non è affatto pessimismo ma rassegnato realismo.
L'ascensore trilla quando arriviamo al piano e solo una volta fuori mi accorgo che non siamo saliti come l'altro giorno ma scesi. «Credevo andassimo agli uffici»
«Volevo avvisare Rebecca che rimani» mi spiega, tendendomi intanto un rettangolo di carta plastificata appeso a un cordino. «Ricordati il badge per collaboratori esterni» si raccomanda e io cerco di ficcarmelo in testa una volta per tutto mentre lo aggancio intorno al collo. In un ospedale pieno di bambini, d’altra parte le precauzioni non sono mai abbastanza.   
Camminiamo fianco a fianco lungo il corridoio, più fresco del piano di sopra e con quel tipico odore che hanno gli scantinati, che a me piace da morire, e ci fermiamo di fronte a una porta sulla destra, attraverso cui filtra qualche rumore ovattato.
«Quanto è mattiniera?» domando, ancora colpito dall’abnegazione di Rebecca, la studentessa di archivistica che hanno assunto per dare una parvenza di ordine al macello che c’è qua dentro.
E non è nemmeno la sua unica qualità. Ci ho lavorato insieme per tre giorni, settimana scorsa, dandole dritte che sarebbero dovute servire a farle proseguire il lavoro dopo la mia partenza, e devo dire che è brava e metodica, oltre che entusiasta e curiosa. All’inizio poi era timida e riservata ma si è sciolta in fretta. Spero le farà piacere collaborare insieme un altro po’.
«Ehi Rebecca» la chiama Law, mentre entriamo.   
«Law?» domanda conferma.
«Sì sono io. C’è anche Sabo»  
«Ciao ragazzi!»
«Ciao a te» ricambio, quando finalmente la raggiungiamo nella zona adibita allo smistamento documenti, per il semplice fatto che c’è un tavolo enorme lì. «Tutto bene?»  
«Bene, bene sì! Sto cercando di capire qual è il metodo di classificazione più adatto per questi articoli, ho già cambiato tre volte, sempre secondo le tue direttive» spiega, gesticolando nell’aria con dei fogli volanti in mano. «E mi sono distratta un attimo a leggere questa ricerca epidemiologica» aggiunge sollevando un plico di fogli che Law le sfila di mano per osservare più da vicino.
Solleva gli occhi dai fogli verso di lei. «Sai cos’è il forame ovale pervio?» le domanda, sinceramente colpito.
«No!» Rebecca fa spallucce. «Ma era interessante»
Law e io la fissiamo senza parole per una manciata di secondi, poi ci scambiamo un’occhiata. «O-kay» mormora mio fratello.
«E tu non sei ripartito» nota, posando le mani sui fianchi. Meccanicamente porto una mano al coppino, in imbarazzo.
«Eh già»
«Sabo ha deciso di fermarsi a data da destinarsi» mi leva dall’impiccio Law. «E ho pensato che potevate continuerà a collaborare. Quattro mani sono meglio che due qua sotto»
«Sempre che non ti dia fastidio»
Rebecca mi osserva un pelo interdetta, le guance un po’ rosse, e quando io ricambio inala profondamente dal naso. 
 «A dire il vero» sorride timida. «È un vero piacere per me»
Il mio sorriso si allarga. Le cose stanno andando meno peggio di quanto temessi. 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Profumo di croissant nell'aria, artisti di strada in ogni dove, architettura imperiale, biciclette che scampanellano a ogni incrocio.
Sembra di stare in un'altra dimensione, in una realtà virtuale ma è tutto vero e io, proprio io, sono proprio qui a Marijoa.
Zaino in spalla e naso all'insù non c'è angolo, vicolo o piazza che non mi strappi un sospiro, in questa penultima tappa della nostra luna di miele.
Mi sento regredito ai cinque anni, corro e urlo come un bimbo ogni volta che qualcosa degno di nota o che conosco a memoria da foto studiate sui libri di scuola, ma che mai avrei immaginato di vedere dal vivo, mi si para di fronte. Marco sorride a ogni mio eccesso, comprensivo e soddisfatto, come sempre è stato e sempre sarà, e se qualcuno mi guarda con disapprovazione, mi basta sentire la sua mano nella mia per ricordare che gli altri non hanno alcuna importanza.
Solo lui conta e ancora mi chiedo come ho potuto dubitare, anche solo per un momento, che legare la mia vita alla sua per sempre potesse essere un errore.
Questi ultimi dieci giorni sono stati un idillio e, anche se siamo ormai a metà del viaggio, ho fiducia che una volta tornati a Raftel le cose continueranno a scorrere lisce come l'olio. Non mi illudo che non ci saranno incomprensioni tra noi ma, dopotutto, è come dice Kiddo-kun. Il vero amore non è scegliere ma trovare il modo di far quadrare tutto e io e Marco ci riusciremo, ne sono certo quanto è vero che il nero fa a pugni con il marrone.
Un profumo dolce e fragrante raggiunge le mie narici che fremono e, impietose, ricordano al mio stomaco che, come sempre mi capita quando cambio aria, sono in questi giorni vittima di un pantagruelico appetito. Il suono è inconfondibile, così cavernoso che sembro Ace, e vorrei sotterrarmi quando mi rendo conto che ben più di un passante si è voltato a guardarmi. Ma uno strattone mi distrae, mi ritrovo addossato a Marco che con un braccio mi circonda la vita e china il capo per baciarmi sul collo.
«È ora della seconda colazione» annuncia.
Sospiro contro la sua gola. Ah Marco-chan quanto ti amo. In questo momento quasi quanto i pains au chocolat con il succo al mirtillo.
Lancio un'occhiata al piccolo forno che fa angolo. In vetrina sono esposti croissant e dolci di svariato genere, così belli che sembrano finti, lucidi e fragranti, fanno ingrassare solo a guardarli. Purtroppo il locale è piccolo, la seconda colazione è, a quanto pare, un costume diffuso e la cosa un po' mi scoraggia. Odio stare in mezzo a troppa gente, è uno dei pochi strascichi che mi porto ancora dietro dall'adolescenza e di cui non sono riuscito a disfarmi.
Per fortuna, Marco non ha bisogno di parole, soprattutto con me. «Ci penso io, tu occupa una panchina» mi propone, indicando con un cenno del mento un parchetto al di là della strada.
Fatto curioso, somiglia moltissimo al parco Acacia, sia per la posizione che per l'aspetto, eppure a me sembra molto più figo.
Quasi ballonzolando attraverso e mi guardo intorno alla ricerca della panchina che mi è di maggior gradimento, attento però a restare visibile per Marco-chan. Studio gli alberi e le sedute di legno lucido, gli altri turisti sparpagliati qua e là, le bancarelle di venditori ambulanti che propongono libri e chincaglieria.
Tutto molto utile per contribuire all'atmosfera, nulla che non abbia già visto o in grado di attrarre così tanto la mia attenzione. Tranne una piccola struttura, defilata rispetto alle altre. Una tenda dai colori scuri e discreti, nera e viola, senza fronzoli, con solo un lembo appena scostato, un seducente invito ad entrare –come un sorriso mezzo accennato o una frase lasciata in sospeso – e scoprire "che cosa il futuro ha in serbo per te" con l'aiuto di "Madame Shirley".
Sembrerà un cliché ma sì, per me l'oroscopo è come le previsioni del tempo e non me ne vergogno. Credo nel destino e non nelle coincidenze, credo che la vita ti dia indizi e segnali che, se sei capace di cogliere, possono spianarti la strada. Questo è il genere di cose che mi attira, il brivido di svelare l'ignoto, la curiosità di stare poi a vedere se è vero. Può sembrare una scappatoia, in realtà è come vivere sul ciglio del burrone e chiedere a qualcuno di spingerti giù senza preavviso, per vedere se riesci a mantenere l'equilibrio.
E il fatto che non ci sia un tariffario esposto distrugge anche la mia ultima remora ed è lo stimolo finale di cui avevo bisogno per entrare.
La tenda è piccola, confortevole, un tappeto a fare da pavimento ricoperto di cuscini dall'aria comoda e soffice. L'aria è un po' fumosa ma non c'è traccia di quei profumi intensi e speziati, messi lì apposta per creare l'atmosfera e ovattare il cervello. Ci metto un attimo a individuarla, comodamente seduta su un gruppo di cuscini, quasi mezzo sdraiata.
È una donna mora, senza età, con gli occhi blu dell'oceano e la pipa in bocca. Già solo per la pipa, la mia stima per lei sale a mille punti. Indossa una gonna aderente nera e una specie di felpa, fatta di un tessuto leggero e impalpabile – chiffon o viscosa di certo – il cappuccio tirato su.
Mi guardo ancora intorno, incuriosito dall'assenza di palle di vetro, mazzi di tarocchi o qualsivoglia trucchetto scenografico di cui queste sedicenti veggenti si avvalgono di solito. E il fatto che non ci sia niente di tutto questo, mi piace, mi da l'impressione di una che non ha bisogno di giochetti per distrarti dal reale obiettivo, di una che sa il fatto suo insomma.
«Puoi metterti comodo, se vuoi» mi invita, il tono tranquillo e pacato. Torno a scrutarla, attraverso la coltre biancastra, proprio quando lei, con un elegante gesto della mano, indica un gruppo di cuscini ai miei piedi.
Combattuto, sposto gli occhi dei cuscini alla fenditura nella tenda. Marco non ci metterà molto al forno ma un paio di minuti credo di averli e, se non dovesse trovarmi, mi chiamerà.
Mi accomodo e rivolgo un sorriso alla veggente, che ricambia criptica. Mi sento un po' nervoso e, come sempre quando lo sono, intreccio le dita e mi guardo intorno.
«Allora dunque.... mmmmh...» cerco qualcosa da dire. «Tanto per sapere, quanto mi costa?»
Madame Shirley prende una generosa boccata di tabacco prima di rispondere «Quanto tu riterrai che valga. Non ho un tariffario»
«Ah» mormoro, preso in contropiede. Strano modo di fare affari. «Uhm beh...»
«Procede bene il viaggio di nozze?» Shirley interrompe qualsiasi cosa io stessi per dire – o più probabilmente per non dire – e si accomoda meglio sui propri cuscini. Mi girò di scatto a guardarla, consapevole di quanto eloquente sia la mia reazione.
Andiamo Izou, non puoi farti intortare da così poco, hanno i loro trucchi in fondo, avrà notato qualc...
«Condivido la scelta del viaggio culturale, ma ti consiglio, se puoi, di ritagliarti anche dei momenti di relax visto ciò che ti aspetta al rientro. Cambiare lavoro, anche se lo si desidera, convoglia sempre dello stress con sé»
La mia mascella perde per un momento qualsiasi capacità di rimanere chiusa. Oh mio dio, questa sa farlo veramente!
«Per inciso, non darei così per scontato che i tuoi colleghi siano felici della cosa. Certo ad alcuni non importa affatto ma certi altri paiono non averla presa troppo bene»
Mi rabbuio, per niente colpito dal suo ultimo commento, se non per il fatto che sembra conoscere alla perfezione la situazione in cui mi trovo. Il fatto è che so benissimo chi è che non l'ha presa troppo bene e ripensarci non è piacevole, nonostante tutta la mia risoluzione di poco fa.
«C'è qualcosa che vorresti sapere?»
Di sottecchi, la osservo. So di non apparire molto amichevole in questo momento, il che è ridicolo perché nessuno mi ha costretto ad entrare qui dentro. E anche se spesso lo sono, ridicolo, non significa che mi piaccia esserlo, specie se posso evitarlo. Così mi concentro per rispondere alla sua domanda.
C'è qualcosa che vorrei sapere? Beh c'è una montagna di cose che vorrei sapere ma riguardo a molte, forse, preferisco l'ignoto. Non mi va di scoprire in anticipo se fallirò, se mi deciderò o meno a farmi il tatuaggio che volevo, se gli Assi di Picche vinceranno il campionato.
Su una questione, però, due parole rassicuranti mi farebbero bene.
«Una mia amica... una mia cara amica» specifico – la mia migliore amica, precisa una voce nella mia testa, ma non voglio dare a questa donna più informazioni del necessario. Ne sa già abbastanza di suo – «Lei ecco...Diciamo che avrò un ruolo importante nella vita sua e di suo "marito"» faccio i segni delle virgolette con le mani ma Shirley è impegnata a riempire la pipa e non mi vede. «Sarò all'altezza?»
«Mmmmh» mormora, mentre l'accende. Socchiude gli occhi, come se volesse leggere qualcosa nelle voluto di fumo che impregnano l'atmosfera. «Se resterai fedele a te stesso, lo sarai»
«Oh»
Risposta all'apparenza semplice ma in realtà complicata. Cosa significa esattamente "restare fedele a me stesso"?
Un brivido freddo mi attraversa di colpo, non sono sicuro che mi piaccia la risposta a quest'altro quesito ma se rimango qui non posso poi lamentarmi di venire a conoscenza di qualcosa di cui preferirei restare all'oscuro. Agile, balzo in piedi e infilo le mani in tasca, alla ricerca di una banconota da sette berry. È stata una consulenza notevole ma breve. Ritengo sia un giusto prezzo, per un paio di minuti del suo tempo.
Mi piego per lasciare i soldi nel piattino posato a terra tra noi.
«Grazie Izou» mi sorride, quasi materna e io mi immobilizzo in quella posizione.
Oh per tutti i kami! Non so se sono più esaltato per essere in presenza di una vera veggente o più inquietato. Per fortuna il pensiero che devo tornare da Marco mi leva facilmente dell'impiccio.
«G-grazie a te. Mi spiace ma ora devo andare» indico l'uscita, prima di raggiungerla in due passi e scostare il lembo. Un filo di luce filtra e buca la piacevole penombra.
«Solo un'ultima cosa» la voce di Shirley mi ferma e io la guardo da sopra la spalla. «Lui nasconde un segreto. Sta a te scoprirlo»
Il sangue mi defluisce via tutto da faccia e testa. Che ha detto?? Lui... lui...
Improvvisamente l'aria qui dentro diventa irrespirabile, come se non ci fosse abbastanza ossigeno per entrambi e uscire diventa una questione di sopravvivenza.
Con un gesto secco scosto la tenda e mi allontano a passi decisi e marcati, indietro di nuovo verso il limitare del parco.
Ridicolo. Sei ridicolo a credere a ciò che dice quella che, di fatto, è un'artista di strada.
Sei ridicolo Izou. Marco non ti nasconde niente, non potrebbe mai nasconderti niente. Mai!
«Izou?»
Salto su quando la voce di Marco mi coglie alla sprovvista. Leggo preoccupazione nei suoi occhi, quando finalmente riesco a metterlo a fuoco. Non devo avere una bella cera, sto respirando grosso, forse ho anche i capelli in disordine.
Orrore.
«Izou va tutto bene?» domanda, avvicinandosi a passo di carica, due bottigliette di succo in una mano, un sacchetto di carta alimentare ocra nell'altra.
Spaesato, porto lo sguardo dal sacchettino al suo viso.
«Io... io...»
Non potrebbe mai, Izou. Mai. Non essere ridicolo.
«Sto bene!» riesco ad articolare alla fine. «Forse ho un calo di zuccheri ma ho solo bisogno di sedermi e mangiare qualcosa» sorrido per rassicurarlo.
È una frazione di secondo appena ed è al mio fianco, il braccio intorno alla mia vita. Mentre mi faccio guidare fiducioso a una panchina e mi aggrappo a lui come se fosse la sola cosa in grado di tenermi a galla sento che già comincio a rilassarmi e me lo ripeto un'altra volta ancora.
Non essere ridicolo, Izou. Non potrebbe mai.

 
§

 
Entro di spalle in archivio, tenendo un bicchiere di carta in ogni mano. Avanzo sicuro tra scaffali che  comincio a memorizzare e che hanno cominciato ormai a riempirsi di fogli, riordinati con cura e logica. Può sembrare strano da un tipo come me, tutt’altro che un topo da biblioteca, ma l’organizzazione è il mio regno – che sia concreto e fatto di legno e carta o digitale e fatto di codici e HTML –  e qui dentro mi muovo come un pesce nell’acqua. Fintanto che c’è ancora qualcosa da sistemare, certo. Quando sarà a posto, so già che perderà per me ogni attrattiva e non sentirò più alcuno slancio all’idea di venirci.
Ma ci penserò quando sarà il momento. Per ora cerco di sfruttare il diversivo per non ricadere in depressione e mi godo la compagnia.
«Chi vuole un latte macchiato con tre pallini di zucchero e tanta schiuma?» domando, raggiungendo la maxiscrivania. Rebecca riemerge da una pila di referti, per un momento sorpresa. «Oh Sabo, grazie! Non era necessario» aggiunge mentre prende il bicchiere dalla mia mano.
«Ma figurati, mi fa piacere» le sorrido. Ancora arrossisce ma si è sciolta parecchio nell’ultima settimana.
È piacevole chiacchierare con lei. Ascolta volentieri, parla a macchinetta se l’argomento le piace e lo conosce e, anche se può sembrare molto emotiva e basta, in realtà è una tipa tosta.
In definitiva, mi piace lavorare con Rebecca, anche se non so cosa siamo esattamente. Colleghi è improprio, amici è troppo intimo. Siamo una via di mezzo, immagino. Lei guarda a me come a una persona con molta più esperienza anche se non abbiamo neppure dieci anni di differenza. Probabilmente è così che ci si sente quando si fa l’assistente all’università. Tornando indietro, è una strada che valuterei...
La risata di Rebecca si intrufola tra i miei pensieri. Il bicchierino a metà strada verso la mia bocca, mi acciglio e la guardo da sopra il bordo di plastica. Ride così di gusto che mi sento idiota a non capire cosa ci sia di tanto divertente.
«Sei stato in sala ricreazione?» domanda, coprendo la bocca con il bicchiere quando le scappa un’altra risata.
Per un momento la fisso senza capire, poi realizzo di colpo di cosa sta parlando. «Oh sì! Mi ero già dimenticato» mormoro più che altro rivolto a me stesso, tastandomi la faccia per capire come esattamente mi hanno combinato. Non che sia di alcun aiuto.
Sono salito per inviare ancora un paio di curriculum e prima di scendere in archivio mi sono fermato a metà strada. L’intento era solo prendere qualcosa di caldo alla macchinetta, ma ho fatto l’errore di avvicinarmi per sbirciare proprio nel bel mezzo della clown therapy. Non so neppure chi mi ha tirato dentro ma so che mi sono ritrovato al tavolo del trucco con due teppisti muniti di pastelli e una vena artistica fin troppo sviluppata.
Dellinger e Sugar. Non mi dimenticherò di loro, statene certi.
«Giuro che starò lontano dalla sala ricreazione d’ora in poi» annuncio, senza neppure provare a pulirmi. Rischio di fare peggio che meglio.
Rebecca, torna verso la maxiscrivania e le pile di referti. «Potresti tentare con l’ospedale dei pupazzi. Quando c’è quello sono molto più tranquilli. Il lunedì e il venerdì» mi informa.
«Ti ambienti in fretta» mi complimento. «Sembra che tu sia qui da sempre»
Si stringe nelle spalle. «Ho buona memoria»
Buona memoria, già. Di solito anche io ma è una dote che ho momentaneamente perso. Dove momentaneamente è da leggersi “da due mesi e mezzo a questa parte”.  
«Certo che il tempo vola eh. La prossima è già la mia ultima settimana» aggiunge Rebecca, un po’ malinconica.
Mi avvicino al tavolone e poso il mio caffè in zona strategica, dove non rischia di fare danni quand’anche si rovesciasse. «Non temere lasci tutto in ottime mani» le faccio l’occhiolino.
Non sarebbe stato male un aiuto per più a lungo ma è giusto che le cose vadano così. Rebecca deve studiare per la sua sessione d’esami e dopo è sacrosanto che si goda l’estate. Anche se queste quattro settimane le contano come ore di tirocinio, sono convinto che Law sia stato capace ancora una volta di mettere l’asticella all’altezza perfetta.
«E poi tu devi occuparti di ben più importanti faccende» rincaro quando mi accorgo che il mio commento sembra averla depressa ancora di più. E non era proprio per niente la mia intenzione. «Feste universitarie, vacanze sfrenate, orde di ragazzi da tenere a bada»
Sgrana gli occhi e distoglie lo sguardo. Di colpo, sembra regredita a sette giorni fa, anzi anche peggio, e ricomincia a sistemare i referti, senza un’apparente logica mi accorgo.
«Rebecca? Ho detto qualcosa che non va?» stavolta sono serio, e faccio il giro della scrivania per avvicinarmi.
Mi guarda con la coda dell’occhio, nervosa. «Ah no, i-io…»balbetta, esita, poi posa i referti e si gira verso di me ma continua a non guardarmi. «È che io non sono brava con queste cose»
Batto le palpebre, perplesso. Mi guardo intorno per un altro, la montagna di carte e cartellette che ha cominciato a diminuire drasticamente. «Ma non è affatto vero. Hai fatto un lavoro splendido e…»
«Non l’archivio» mi interrompe, mi lancia una rapida occhiata. Per un momento intravedo quasi del fuoco nei suoi occhi ma subito gira di nuovo il viso. «Quello che hai detto tu. Le f-feste e… e i ragazzi» si abbraccia da sola.
Cerco qualcosa da dire con scarso successo. Non mi aspettavo una risposta del genere e so bene dove rischio di infognarmi se non cambio subito argomento. Ma visto che io non rispondo, ci pensa lei a continuare.
«Non sono molto interessante a quanto pare» mette in chiaro e, se non altro, mi si sblocca il cervello.
«Stai scherzando vero? Ci sarà di sicuro qualcuno che ti viene dietro»
Scuote il capo, sulla difensiva. «Non interesso a nessuno. Sono troppo strana» insiste e io non credo alle mie orecchie.
Strana? Scherziamo, vero? Che cos’avrebbe mai di strano? O i parametri sono cambiati drasticamente o qui abbiamo un problema di terminologia.
Voglio dire, ai miei tempi un soggetto come Perona era considerato strano e Perona era piena zeppa di corteggiatori. Che razza di problema hanno le nuove generazioni?
«Io sono quella che si trova bene nelle biblioteche e nei sotterranei. Sono la tipa noiosa che fa uno sport strano» si stringe nelle spalle, rassegnata.
Lei. Non io. Mi rifiuto di credere a quello che sento, io.
«Che sarebbe?» mi informo, scettico.
«Scherma»
«La scherma è una figata» affermo drastico.
Non voglio sentire certe stronzate.
«Evidentemente lo pensi solo tu»
«Sono certo che lo pensa anche qualcun altro. Dovresti credere un po’ più in te stessa» le faccio notare e una voce nella mia testa fa notare a me che dovrei starmene zitto al riguardo ma che c’entra ora? Non è di me che parliamo.
«Vorrei vedere te al mio posto. Ho le mie buone ragioni per dire quello che dico» si comincia a infervorare e finalmente si gira a fronteggiarmi.
«Secondo me è tutta insicurezza la tua. Dovresti andare là fuori e pretendere dal mondo quello che non ti da, non stare qui a dire che non ci sai fare» e stavolta la voce nella mia mente mi domanda con chi sto davvero parlando ma la scaccio con un cenno secco del capo. Non è il momento. «Con me sei stata tutto fuorché poco interessante»
«Ma davvero?» avanza di un passo, pugni chiusi e braccia tese. «E allora spiegami un po’, tu che ne sai, com’è che nessuno si è mai degnato neppure di baciarmi una volta in vita mia?»
Merda. Sapevo che avrei dovuto cambiare argomento. A questo non so cosa rispondere e sinceramente non me l’aspettavo proprio.
La studio, fiera, bella, giovane. Quanti anni ha? Ventitré? Ventidue? E mai stata baciata.
Sì, decisamente le nuove generazioni hanno un problema.
Mi guardo intorno, alla disperata ricerca di qualcosa da dire. E di nuovo, in mancanza di una risposta, la sua voce viene di nuovo in mio soccorso, nuovamente flebile e cauta.
«Sabo» pigola quasi e io mi giro sorpreso. Di nuovo rossa, di nuovo sguardo a terra. Che sia bipolare? «Tu…» tentenna e poi solleva il capo di scatto. «Tu mi baceresti?»
Oh. Santo. Roger.
Inalo a fondo, cercando di tenere a bada il panico, perché non sono affatto certo di cosa mi sta chiedendo. Forse vuole solo sapere se io la bacerei in via ipotetica, non è detto che mi stia proprio chiedendo di bac…
«È che… che forse mi sentirei meno bloccata se sapessi com’è, baciare qualcuno» avanza di un altro passo verso di me.
Okay, mi sta chiedendo di baciarla.
«Rebecca…» comincio, in difficoltà.
«Non mi aspetto niente. Non è che sono innamorata o cosa però… però tu mi piaci e… e penso che non sarebbe male, per provare, baciare te» prende un bel respiro e mi fissa determinata. «Sabo, dammi un bacio» afferma convinta, chiude gli occhi, stringe le labbra a imbuto.
Immobile e terrorizzato, la fisso.
Oddio, cosa faccio? Non deve esserle costato poco prendere un’iniziativa del genere. E Sabo, sei un coglione però, sei stato pure tu a suggerirglielo! Cosa ti è venuto in mente?!
Esitante, poso le mani sulle sue spalle. Che male c’è, in fondo? Un bacio non ha mai ucciso nessuno. Mi piego su di lei, ma mi fermo a pochi centimetri dal suo viso.
«Rebecca, non posso» sospiro. «Non posso rubarti questo momento. Aspetta» la trattengo quando riapre gli occhi e, delusa, cerca di liberarsi dalla mai presa. «Ascolta! Non intendevo dire questo prima, non intendevo vai e bacia chiunque»
«Ma se nemmeno tu vuoi, allora cosa...»
«Io vorrei!» metto in chiaro. «Ti bacerei, lo farei eccome! Ma non sarebbe vero e non sarebbe giusto. Forse, se non fosse il tuo primo bacio… No, non è vero. Non potrei comunque perché sarebbe solo tanto per»
“Non più” penso tra me e me. E ancora una volta mi domando quando è successo. Quando sono diventato questa persona che non bacerebbe una donna senza almeno un minimo di interesse romantico nei suoi confronti, io che sono sempre stato tutto il contrario.
«Meriteresti di più in ogni caso e la prima volta... Il primo bacio è una cosa speciale. Ed è sopravvalutato, Santo Roger quanto lo è! Il primo bacio è sempre un disastro, un sacco di saliva, nessun senso della misura, versi osceni che rovinano la magia. Non è il bacio a essere speciale è… è il momento»
Porca miseria, ma cosa sto dicendo? Se qualcuno dei miei fratelli mi sentisse, sarei finito.
«È la sensazione subito prima, l’aspettativa, l’eccitazione. Anche se non è con qualcuno che ami, anche se provi solo attrazione, è il momento Rebecca. E qui, ora, con me, non sarebbe speciale. E io non voglio toglierti questo, ti prego credimi. Non sto solo inventando una scusa io…» i zittisco quando si tira sulle punte e mi scocca un bacio sulla guancia. A occhi sgranati la guardo riappoggiare a terra la pianta del piede. Mi sorride e sono ancora più confuso.
«Grazie» sussurra e io la fisso incredulo. «Grazie, sei un amico»
Che ha detto? Sul serio? Io mi aspettavo un ceffone!
«Adesso, io ecco… credo di aver bisogno di uscire un attimo da qui perché, vedi tutto questo è… ecco è stato molto profondo ma anche i-imbarazzante perciò i-io…» indica la porta e comincia a indietreggiare.
«Ma certo! Certo! T-tu vai pure, ci… ci mancherebbe altro…»
«Ecco sì, quindi, ecco torno tra poco magari e… e continuiamo…»
«Vai tranquilla, prendi pure tutto il… tutto il tempo che vuoi» la incito perché in effetti sì, anche io preferirei starmene un pochino da solo.
«Okay! Perfetto!» mi mostra i pollici alzati. «Fantastico! Ci vediamo dopo!»
«A dopo!» la saluto che ormai è già fuori dall’archivio. Il tonfo della porta riecheggia tra le alte pareti.
Rimango a fissare immobile il vuoto con le mani sui fianchi per un po’. Non credo di aver capito bene cos’è appena successo, no.
«Okay» dondolo le braccia avanti e indietro. «Ora vediamo di trovare qualcosa da fare»
      
  
  
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


«Buongiorno Sabo» mi saluta una voce mentre mi trascino in cucina.
È una voce che conosco bene, una voce che spesso mi ha rimproverato negli anni, ancora più spesso mi ha preso in giro. Una voce che, però, non mi aspettavo di sentire  e non tanto perché non dovrebbe essere qui. Voglio dire, dopotutto è casa sua.
«Koala!» esclamo, fermandomi sulla porta. Mi sfrego gli occhi, ancora addormentati. «Che… Credevo fossi al lavoro» giustifico come posso la mia sorpresa, prima di lanciare con una punta di vergogna un’occhiata all’orologio.
Mezzogiorno.
«Iva ha deciso di darmi tutti i venerdì liberi fino all’inizio della maternità. La presentazione della nuova linea di biscotti per bambini sarà a metà dell’ottavo mese e siccome io ci dovrò assolutamente essere sta cercando di pagare pegno anticipato al karma, allungando i miei weekend» spiega a metà tra il divertito e lo scettico. Indossa calzoncini e una maglietta di cotone, una matita dietro l’orecchio, è appollaiata sulla sedia e il tavolo è ricoperto quasi interamente di fogli.
«Però stai lavorando lo stesso»
Mi guarda di sottecchi. «Se Iva vuole che sia tutto pronto per la metà del mio ottavo mese di gravidanza, devo lavorare anche se sono a casa. E poi mi piace di più che fare le pulizie. Oltretutto, non volevo svegliarti» aggiunge, tornando a studiare i fogli.
Sobbalzo, a metà strada verso il tavolo. «Mi spiace, non pensavo di disturbare a stare a letto così tanto, credevo lavoraste tutti e d…»
Koala mi sta guardando di nuovo di sottecchi, stavolta perplessa e con le sopracciglia sollevate. «Pensi davvero che se avessi voluto buttarti giù dal letto non lo avrei fatto?» mi fa notare e la risposta è implicita nel tono della domanda. «Non avevo voglia di fare pulizie oggi e ho immaginato che stessi dormendo per necessità, non per pigrizia. Ti sei sempre alzato di buon’ora, da quando vai al Castello» mi fa notare, senza alcun rimprovero nella voce.
Questa voce che conosco tanto bene e che, ora, nel momento del bisogno, senza compartirmi, è così dolce con me. E io vorrei dire o fare qualcosa ma non so cosa.
«Vieni a vedere» mi invita in un soffio. Faccio il giro del tavolo e mi posiziono dietro di lei, le mani sullo schienale della sua sedia e mi piego in avanti per leggere i fogli.
«Gli amicotti?» chiedo, perplesso.
Koala annuisce. «Biscotti a forma di animali, amici dei bambini. Lo so, è imbarazzante. Però guarda» indica un foglio su cui sono disegnati quattro rettangoli che fanno da cornice a altrettanti disegni, più dettagliati. «Ogni scatola avrà uno sfondo diverso. Quando i biscotti sono finiti, le ali esterne si possono piegare in avanti e la scatola diventa uno sfondo per giocare. Quattro diverse tipologie di scatole e in base allo scenario cambia la forma dei biscotti» con il dito mi indica i quattro rettangoli. «La giungla, l’oceano, la fattoria, il sottobosco»
«Scommetto che l’ultimo lo ha proposto Usopp» ridacchio e lei con me. «È un’idea geniale per non buttare via subito la carta» aggiungo e il cuore mi si stringe fino a farmi male. Perché non è qualcosa a cui avrei pensato fino a tre anni fa, non ci avrei fatto caso. Nella mia testa non è stata la mia voce a suggerire questo pensiero.
«Sai, sono solo scatole di carta. Involucri da buttare, senza utilità» prosegue Koala, posando il gomito sullo schienale e voltandosi a guardarmi. «Ma con un pizzico di fantasia, possono diventare qualcosa di molto, molto più bello e speciale. Tu non credi?»
La fisso per un lungo attimo, sbatto le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, cerco di inghiottire il groppo in gola. La conosco da troppo per non sapere che non parla affatto delle scatole. La conosco da troppo per non capire cosa sta cercando di dirmi. Mi passo pollice e indice sugli occhi e mi sforzo di darle una risposta verbale, anche se roca. «Sì, penso tu abbia ragione»
Senza smettere un secondo di sorridere, si alza. «È praticamente ora di pranzo, che ne dici di due uova strapazzate prima di andare al lavoro?» propone, spostandosi verso il frigo.
Subito scatto in avanti. «Posso fare da solo, non…» ma le basta un’occhiata per interrompermi.
«Sono in grado di cucinare due uova strapazzate e poi ricordati cosa dice sempre Makino. Ogni tanto bisogna anche lasciarsi coccolare»
Disarmato, mi siedo e infosso gli occhi sui disegni davanti a me, progetti per trasformare delle scatole di carta da buttare nell’intero universo di un bambino. E quando Koala, andando verso il piano cottura, si ferma a scompigliarmi i capelli, per la prima volta da quando sono tornato mi sento pienamente, completamente e senza alcun rimpianto, di nuovo a casa.
 

 
§

 
Non riesco a capire.
Davvero non riesco. Non trovo una soluzione che abbia senso.
«…’nji-kun, mi passi l’aceto di lamponi?»
Senza pensare allunga la bottiglia alla dolce Cosette, gli occhi fissi sugli ingredienti davanti a me.
Sono turbato. E non so nemmeno perché lo sono, non è da me attaccarmi così a un oggetto.
Anzi, non dovrei nemmeno pensarci, dovrei concentrarmi su ciò che sto facendo, gli scrigni di fiori di zucca con pesce spada non si preparano da soli, non sono una ricetta da prendere con leggerezza e la fase preliminare è decisamente la più importante.
«…’un»
Ma non riesco a smettere di pensarci, di riflettere, di cercare una spiegazione. Una spiegazione che non c’è.
«…’nji-kun»
O forse c’è. E ha anche senso. E forse è per quello che sono tanto turbato. L’unica spiegazione che ha senso è la più spaventosa di tutte.
Però Sanji, cosa vai a pensare? Uso-chan non farebbe mai niente del genere e anche se fosse non userebbe il tuo pegno d’amore come regalo per un altro. O un’altra.
Un’ondata di nausea mi attanaglia lo stomaco.
Ma allora che fine ha fatto? Se lo avesse perso, perché non dirmelo?
Forse non voleva farmi restare male ma mi rifiuto di credere che abbia davvero pensato che non mi sarei acc…
«Sanji-kun!»
La voce della dolce Cosette, il tonfo del coltello che cade sul tagliere, la sua mano che mi afferra il polso, tutto mi fa sobbalzare e non tanto perché fossi assorto nei miei pensieri quanto per il fatto che non è da lei comportarsi così.
Anche Reiju solleva di scatto la testa dal libro che stava silenziosamente leggendo.
«Cosette-chwan, cosa…»
«Sui fiori di zucca non ci va il sakè, Sanji-kun» mi fa notare, prima di rendersi conto di aver urlato e di trattenermi ancora dal polso. Diventa all’istante del colore dei peperoni che stava tagliando e indietreggia di scatto, lasciandomi andare. «M-mi dispiace, non volevo alzare la voce ma…»
«No» la interrompo con un gesto deciso della mano. Mi giro un momento verso gli splendidi fiori di zucca che abbiamo selezionato con maniacale cura. Stavo per annegarli nel sakè. Se Cosette non mi avesse fermato, sarebbe appassiti nel giro di pochi minuti e sarebbero stati da buttare. «Hai salvato il piatto. È a me che dispiace»
Cala il silenzio, abbasso il capo e sospiro, vedo Reiju con la coda dell’occhio spostare gli occhi da me a Cosette che un momento dopo azzarda un passo verso di me. «Qualcosa non va?» domanda, dolce e comprensiva – ben più di quel che merito – alzando una mano per posarla sul mio braccio, prima di ripensarci e lasciarla cadere nuovamente lungo il fianco.
«No, sì, forse… ah accidenti!» mi passo pollice e indice sugli occhi.
Inutile negarlo, sono preoccupato. Anzi, a chi voglio raccontare palle? Sono proprio terrorizzato.
«Sta succedendo qualcosa…» esito ad alzare gli occhi per guardarle, prima la mia socia, poi mia sorella. «Con Usopp»
Reiju raddrizza le spalle e solleva il mento. «In che senso?» domanda composta ma i suoi occhi già balenano, non saprei dire di cosa.
«L’anello che gli ho regalato, non lo mette più. Al matrimonio mi ha detto che lo aveva lasciato a casa per non rischiare di perderlo, ho pensato si fosse dimenticato di rimetterlo, anche se sarebbe stato strano ma sembra dissolto nel nulla»
Reiju si acciglia. «Intendi dire che lo hai cercato?»
Non rispondo ma lo fa la mia espressione per me.
Reiju sgrana gli occhi. «Hai rovistato tra le cose di Usopp?» di nuovo silenzio, di nuovo troppo eloquente. «Sanji!»
«Mi servivano risposte!»
«E ne hai trovate?»
«No! A meno che Usopp non mi stia tradendo e si dimentichi di rimettere l’anello quando rientra a casa ma questo non può essere» concludo deciso.
Non può essere. Assolutamente. Non può e basta.
Non potrei crederci nemmeno se lo vedessi, Usopp non può farmi una c… cos… che succede?
«Cosette?» la chiamo, cauto, quando mi accorgo della sua espressione. Fissa a terra, si tortura le mani e il labbro inferiore e il suo volto è contratto in una smorfia colpevole. «Cosette che succede?»
Sembra stia per mettersi a piangere e anche se non so esattamente nemmeno io cosa sto pensando, il panico comincia a sopraffarmi.
«Cosette!»
«Mi dispiace Sanji-kun» mormora flebile.
Santo Roger, per cosa le dispiace? La risposta più ovvia è talmente assurda che non riesco nemmeno a formarla nella mia mente. 
Con il fiato sospeso e gli occhi sgranati, la fisso in attesa. In attesa non so nemmeno io di cosa. Che tiri fuori l’anello forse o, o…
«Non pensavo fosse importante, per questo non te l’ho detto ma…» solleva piano il capo e deglutisce a vuoto. «Usopp-kun ha telefonato tre volte la settimana scorsa, per sapere se fossi ancora qui al lavoro. Quando gliel’ho confermato e gli ho chiesto se volesse parlarti ha sempre declinato. La prima volta mi è sembrato strano ma poi ho immaginato che non volesse disturbarti e non ci ho dato  peso. Ora che dici così, però, sembra sospetto e oltretutto era sempre parecchio nervoso anche se, certo, Usopp-kun è spesso parecchio nervoso»
Mi appoggio con le reni e una mano al bancone da lavoro alle mie spalle. Le gambe faticano a reggermi. Non può essere vero, Non può essere che Uso-chan…
«Il fatto è che sentivo sempre dei rumori di sottofondo, come delle urla di bambini e quindi non sembrava una cosa sospetta» aggiunge ancora Cosette, con una mortificata stretta di spalle.
Torno a guardarla ma non è lei ad attrarre la mia attenzione. Anche se sfocata e alle spalle di Cosette, vedo chiaramente le invisibili antenne di Reiju drizzarsi e un barlume di speranza torna a riaffiorare in me. Non so nemmeno io perché, cosa potrà mai sapere mia sorella su Usopp che io non so? 
«Reiju?»
«Hai detto bambini?» domanda conferma e Cosette annuisce docile.
Cerco di trattenermi, la lascio riflettere ma passa un’eternità – probabilmente non più di trenta secondi – e qui c’è in gioco il mio intero universo. «Reiju?» la richiamo.
«Quando lunedì scorso gli ho telefonato per confermargli a che ore arrivava il mio treno, ho sentito distintamente dei bambini che ridevano in sottofondo» snocciola rapida, lo sguardo concentrato nonostante ora  sia rivolto a me. «Credevo fosse normale, credevo fosse al parco di fronte a dove lavora»
Per un momento, mi dimentico del problema quando un nuovo dubbio si fa strada nella mia mente. «Perché hai chiamato lui per avvisarlo dell’ora?»
«Tu ti saresti dimenticato dopo dieci minuti» mi liquida, ricominciando a pensare intensamente.
In effetti, mi sarei dovuto chiedere perché mai Usopp sapesse esattamente l’ora di arrivo di mia sorella in stazione ma credevo se lo fosse segnato sulla sua agenda elettronica. Si segna qualsiasi cosa, persino quando deve fare il bagno a Ryuunosuke.
«Comunque al parco Acacia è raro ci siano bambini, è una zona di uffici» ritorno sul pezzo, ripensando alle poche volte che ci sono stato, quando gli faccio un’improvvisata al lavoro, a metà mattina per un caffè o in pausa pranzo.
«Quindi poteva capitare una volta ma quattro è strano»
«Perciò Usopp-kun va di nascosto in un posto con dei bambini» la segue Cosette e io sposto lo sguardo da una all’altra, scioccato.
Non capisco dove questo discorso vada a parare ma non suona per niente bene, almeno non a me.
«Ehi ma che cosa state…»
«Sssh Sanji!» mi ammonisce Reiju mentre estrae dalla tasca un cordino e si raccoglie i capelli in una specie di coda. «Sto cercando di pensare» aggiunge poi, chiudendo gli occhi. «C’è un dettaglio che…» riapre gli occhi di scatto e stavolta so perché mi sento speranzoso. «So dove dobbiamo andare» annuncia, sciogliendo i capelli e avviandosi verso la porta. Si blocca quando si accorge che non la seguo. «Sanji, dai! Andiamo!»
Vacillo, colto alla sprovvista. Riesco a malapena a tenere le gambe ferme ma al tempo stesso il mio senso del dovere non mi permette di allontanarmi da qui. «Ma devo finire con i fiori di zuc…»
«Ci penso io, Sanji-kun» si offre subito Cosette.
Mi giro a guardarla, un angelo salvatore accorso in mio aiuto nel momento del bisogno. Mi sorride eterea e io sento che potrei affidarle la mia stessa vita e forse, ma solo forse, anche gli scrigni di fiori di zucca ripieni di pesce spada.
Sposto gli occhi da lei ai fiori di zucca, dai fiori di zucca a lei. Posso vero?
«Sanji!»
Okay, devo. Uso-chan vince sugli scrigni di fiori di zucca ripieni.
«Grazie!» le dico, afferrandola per le spalle e scoccandole un bacio sulla guancia. Lei diventa bordeaux, io tiro su la goccia di sangue che minaccia di uscire dalla mia narice e poi volo dietro a mia sorella che in un nanosecondo è di fianco alla macchina e mi aspetta impaziente per salire. Purtroppo la Kabuto non ha l’apertura remota, perciò Reiju deve aspettare finché raggiungo il lato del guidatore e imbrocco il lato giusto per inserire la chiave, al terzo tentativo.
«E allora dove si va?» domando, impaziente, mentre allaccio la cintura.
«Mi ricordo che oltre ai bambini ho sentito una voce metallica, come un messaggio da un altoparlante»
«E cosa diceva?»
«Non lo so. Ma ricordo una parola. “Astanteria”» sussurra, piena di aspettativa ma io la fisso in attesa.
Okay. Astanteria. E allora?
«Sanji, sai cos’è un’astanteria?»
Scuoto il capo, spaesato e Reiju sospira. «Cerchiamo un posto con dei bambini e con un’astanteria» sorride saputa. «Metti in moto, ti dico io dove andare»
 

 
§

 
Roteo lo zaino nell’aria mentre costeggio il lato del Castello, diretto all’ingresso dal parcheggio. Gli occhi mi cadono sulla Megalo a righe. Non ho ancora scoperto di chi è ed è giunto il momento di mettermi seriamente a indagare.
Un nuovo diversivo per tenere la testa impegnata di cui – devo ammetterlo almeno con me stesso – ho bisogno. Per finire con l’archivio, senza l’aiuto di Rebecca, mi servono ancora un paio di settimane ma già i dubbi su cosa farò dopo mi attanagliano. A questo aggiungiamoci la snervante attesa di ricevere una telefonata da qualcuno che sia anche solo lontanamente interessato al mio curriculum.
È stato facile, quando Law mi ha portato qui il primo giorno, vedere tutto bianco – o almeno grigio chiaro – ma avevo ragione a dirmi di prendere un giorno per volta. La botta di adrenalina, la prospettiva di avere qualcosa da fare per un po’. Ma nulla dura in eterno e ho ricominciato a pencolare tra ottimismo e attacchi d’ansia che ho provato a nascondere almeno a Koala.
Ho i miei dubbi di esserci riuscito, dopo la conversazione di stamattina. Mettiamoci pure “l’incidente” di settimana scorsa con Rebecca. Era da tanto che non pensavo così a Bibi ma tutto quel discorso sul primo bacio, sul momento speciale… Non mi sono nemmeno accorto, mentre parlavo, che mi stavo scavando la fossa. E sono tre notti che non faccio una dormita decente, per quello sono rimasto a letto fino a tardi, oggi, per cercare di recuperare un paio d’ore di sonno. Non che siano servite a molto, anzi.  
Perciò la sola cosa migliore che posso fare ora è: addio preoccupazione, benvenuta Megalo a righe. Scoprirò di chi sei, parola di Monkey D. Sabo.
Svolto l’angolo. Devo imparare a vivere la giornata un minuto per volta, la mia vita un passo per volta.
Ha ragione Koala. Per sistemare le cose, mi basta trovare un modo per piegare in avanti le ali esterne. Certo non è semplice ma ce la farò, devo solo darmi tempo e andare con calma. Calma è la parola d’ordine.
Quindi, con calma, ora entrerò al Castello, saluterò Praline che mi chiamerà come sempre “Mingherlino”, prenderò il mio badge, con calma scenderò in archivio e andrò avanti a fare quello che devo. Con calma. E poi, sempre con calma, inizierò a indagare sulla Megalo.
Bene così Sabo, un passo alla volta.
Ma mentre sono qui che cammino un passo alla volta, il primo fuori programma della giornata mi si presenta, sotto forma di un pallone colorato, che rotola fino ai miei piedi. Voci concitate urlano qualcosa verso di me. Sollevo gli occhi verso il gruppetto di bimbi che sta giocando a calcio, una sola porta, delimitata dai loro peluche, come noi facevamo con gli zaini da ragazzini.
Sono in cinque ma riconosco solo uno di loro, un bimbo sui sei anni e dalla parlantina sciolta. Dellinger, quel delinquente che mi ha dipinto mezza faccia alla clown therapy di settimana scorsa.
«Ehi Sabo!» mi chiama, correndo in avanti. «Passa!»
Ci penso su solo un momento poi, con un sorriso a trentadue denti, lascio cadere lo zaino e parto in quarta verso il campetto improvvisato, calciando agile la palla. Mi unisco a loro in un paio di passaggi, li incito, do loro due dritte, li ascolto ridere. Mi dimentico un momento di tutte le preoccupazioni e del casino che è la mia vita mentre corro verso la porta, scarto e passo a Dellinger – non mi è chiaro come siano le squadre, in realtà non credo ci siano affatto delle squadre – che si lancia verso la porta e infila un acclamato gol.
Il fatto che tutti esultano mi conferma che non ci sono squadre e quasi con una punta di orgoglio lo guardo lasciarsi cadere in ginocchio, in un eccesso di esultanza che mi fa sghignazzare. Almeno finché non abbassa le braccia rivolte al cielo e si puntella al suolo, il busto piegato in avanti. Mi acciglio perché a giudicare dai movimenti secchi delle sue spalle sembra che stia piangendo.
«Ehi Dellinger?» mi avvicino, perplesso.
E a pochi passi da lui mi pietrifico. Perché non sta piangendo. Non sta affatto piangendo. E un’altra cosa che non sta facendo è respirare.
«Dellinger?»
«Dellinger, che hai?»
«Ehi, Dellinger»
Gli altri bambini cominciano ad agitarsi e io sono ancora fermo qui a guardarlo boccheggiare disperati tentativi di prendere aria, tutti inutili. Sembra un pesce fuori dall’acqua, la bocca spalancata e il colorito pallido.
Sta soffocando.
Merda, sta soffocando!
I richiami dei suoi compagni lasciano spazio a un silenzio inorridito e due di loro si girano verso di me. Ed è solo allora che riesco a reagire.
Sono l’unico adulto qui, sta a me fare qualcosa. Con uno slancio me lo carico in braccio e prendo a correre verso l’ospedale, abbandonando il mio zaino lì dov’è. Entro come una furia nell’atrio ma con mio sommo orrore non solo non c’è traccia di Praline all’accettazione. Non c’è proprio nessuno. Mi blocco in mezzo all’ingresso e mi guardo intorno.
«Tranquillo piccolo, adesso troviamo qualcuno» sussurro a Dellinger mentre cerco di dominare il panico. «Ci penso io a te» aggiungo e continuo a guardarmi intorno, sempre più febbrile.
Faccio un salto alto così, quando una mano si posa sul mio braccio e quando mi giro, mi ritrovo a fissare due occhi neri che mi guardano di rimando, seri e controllati.
«Che succede?»
Non so chi sia, è la prima volta che la vedo, ma non ho tempo di indagare e tanto mi basta che abbia addosso una divisa dell’ospedale. «Non… Non respira» spiego, parecchio a corto di fiato anche io. «Stava giocando a calcio con gli altri e adesso non respira»
La dottoressa – ?! – lancia una rapida occhiata verso l’esterno del Castello poi si sposta alle mie spalle.
«Dellinger» lo chiama. «Dellinger, tesoro»
Mi sembra che passi un’eternità ma probabilmente non sono nemmeno due secondi, quando finalmente rientra nel mio campo visivo. «Ha una crisi d’asma. Seguimi» ordina e scatta spedita verso un corridoio laterale che non so dove porta. O forse lo so ma non riesco a ricordarmelo ora.
Continuo a seguirla, senza fare domande, Dellinger ancorato al mio petto e stretto tra le mie braccia. Ogni tanto piego la testa all’indietro per provare a guardarlo ma ha il volto infossato nel mio collo. Sento a distanza il rumore di una porta scorrevole che si apre e continuo a seguire la ragazza dentro una stanza munita di due barelle, svariati macchinari e un pc fisso nell’angolo.
«Fallo sedere qui» mi invita lei, indicando la barella più lontana dalla porta e subito faccio come dice.
Indietreggio per lasciarle spazio quando torna indietro da non so dove. Si siede accanto a lui e gli avvicina alle labbra un inalatore. Sussurra qualcosa a fior di labbra e, nonostante la mia confusione generale, capisco che sta contando. Conta e prende il ritmo e schiaccia l’inalatore al momento giusto per far inspirare il farmaco a Dellinger.
Non dovrei stupirmi, è il suo lavoro, ma sono colpito dalla rapidità con cui è riuscita a sincronizzarsi, dalla tranquillità con cui gli parla ora, dal sorriso materno che gli rivolge. Il respiro di Dellinger si calma, si fa sempre più regolare. La dottoressa – ora ne sono certo – posa l’inalatore e afferra lo stetoscopio, per sentirgli il cuore.
«Che battito da leone che abbiamo» gli dice con un buffetto sulla guancia. Poi si alza, recupera uno di quegli affari portatili di ossigeno e sistema la mascherina a Dellinger che sta riacquistando colore. Ci metto un attimo a metabolizzare che sta bene.
Il sollievo mi travolge. Come una sprangata in piena nuca. La stanza comincia a girare e le gambe rischiano seriamente di cedermi, vedo annebbiato e quando mi passo una mano sulla fronte scopro anche di essere sudato fradicio. 
«Non sei il padre di Dellinger» la voce della dottoressa mi arriva ovattata e mi coglie alla sprovvista. «Sei suo fratello?»
«Che? No» balbetto. Non so per quale santo sono ancora in piedi. «I-io, io lavoro qui…»
«Davvero?»
Merda, il badge. Non ho il badge con me. E se pensa che sono un maniaco?
«Io… io…» provo a spiegarmi ma ho una nausea devastante e devo concentrarmi per non rimettere. «Sto all’archivio» riesco a dire alla fine.
Qualcosa mi spinge indietro e mi ritrovo seduto sull’altra barella.
«Ah giusto! Sei il fratello di Law» di nuovo una constatazione e io mi limito ad annuire.
Pessima mossa, perché mi peggiora nausea e capogiri. Mi aggrappo al bordo della barella e cerco un punto fisso davanti a me. E davanti a me c’è lei, il suo viso a pochi centimetri.
«Un bel lavoraccio l’archivio eh» sorride lei. Almeno credo. Non ci vedo molto bene, i suoi occhi sorridono però.
Non sono neri. Sono blu. Blu scurissimo.
«Sì ma… s-sono a buon punto»
Mi sento malissimo, non sono mai stato così in vita mia ma studiare il volto della dottoressa mi aiuta a mantenere la lucidità, così insisto imperterrito a cercare di registrare più dettagli possibile.
Labbra carnose, piegate all’insù. Avevo ragione, sta sorridendo.
Una strana sensazione mi distrae e mi ci vogliono cinque secondi buoni per capire cos’è. Mi sta… mi sta sbottonando la camicia? Mi sta spogliando?!
«E-ehi che…»
«Beh questa è una buona notizia»
Mi irrigidisco quando sento qualcosa di freddo contro il pettorale.
«Fai un bel respiro» chiede gentilmente e io ubbidisco senza pensarci due volte. «Così, perfetto» sorride ancora e io sento di nuovo freddo, stavolta sulla schiena. «Un altro respiro»
E faccio di nuovo come dice.
«Se sei a buon punto non hai fretta di tornare al lavoro giusto?»
«C-che?» domando confuso. Devo lottare per tenere gli occhi aperti e mi concentro su di lei per aiutarmi, sul suo viso vicinissimo. Colgo un dettaglio che il mio corpo approva ma il mio cervello non riesce a elaborare. «No io… io… devo andare…»
Devo andare al lavoro. Ma una nuova spinta mi obbliga a cambiare ancora posizione e stavolta mi ritrovo steso sulla barella, svuotato di ogni energia. Una mano si posa sulla mia fronte, sfiorandola. «Sei a buon punto, non c’è fretta» sussurra al mio orecchio una voce gentile. «Puoi stare qui un po’ e riposare. Sei a buon punto, non devi preoccuparti»
Ansimo tanta è la fatica di restare sveglio. E più ci provo meno ci riesco.
«Non preoccuparti. Chiudi gli occhi»
Il mio campo visivo si restringe fino a diventare completamente nero. Faccio un ultimo disperato sforzo per riaprire gli occhi. Vedo la schiena della dottoressa, una cascata di capelli neri, Dellinger in braccio a lei, con la mascherina sulla bocca e il coso di ossigeno a tracolla, che mi saluta con la mano. Il mio campo visivo ricomincia a restringersi.  
«…’ndiamo a riposare un po’ in stanza, che oggi devi portare Sha al controllo dei pupazzi»
«Ma non sono stanco!» protesta Dellinger.
«Tu no, ma Sha sì, deve riposare»
«Ma dai, ti prego, I…»
E poi è di nuovo tutto buio e io non sento più niente.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Ci sono poche cose che posso affermare di odiare a questo mondo ma il gel igienizzante per le mani rientra sicuramente nella categoria.
Non importa quanto ne metti, una noce o mezza boccetta è sempre un macello farlo assorbire. In questo preciso momento mi sbilancerei quasi a dire che lo odio anche più della maschera da Dugongo.
Forse.
«Ne hai messo troppo» mi fa notare Dellinger dal suo letto. Sposto gli occhi dal punto nel vuoto a lui, senza smettere di sfregare le mani.
Le coperte gli coprono solo le gambe, il suo squalo peluche tra le braccia, ha ripreso finalmente colore – Dellinger, non Sha –. Bello spavento, ci ha fatto prendere. Meno male che c'era il fratello di Law, non mi ricordo come si chiama.
Socchiudo le palpebre e sorrido maligna. «Non sapevo fossi un esperto di gel igienizzante per le mani» mi avvicino al letto, cauta. «Magari te ne serve un po'!» mi slancio in avanti, le mani aperte con l'intento di impiastricciargli il viso.
«Ehi no!» protesta, alzando le braccia per difendersi, e ride, ride di gusto mentre gli faccio il solletico. Adoro sentirlo ridere, adoro sentire tutti i bambini che stanno qui ridere ma smetto quasi subito perché, dopotutto, ha appena avuta una crisi asmatica.
«Come ti senti?» domando, sedendomi sul materasso accanto a lui.
Tutti pensano che lavorare con i bambini sia difficile, perché come fare a spiegare a un bambino malato le sue condizioni?
Beh, si fa come con un adulto. Non volerli  depredare della loro infanzia, non significa trattarli da stupidi. Il fatto che trovino divertente il Dugongo Kung Fu non vuol dire che non possano capire le proprie condizioni. Il fatto che almeno una volta a settimana portino i loro peluche a fare un controllo medico non implica che non sappiano dirci come stanno. Nessuno meglio di loro può farlo. Non ho mai sentito un adulto descrivere i propri sintomi con la precisione con cui lo fa un bambino.
Certo poi ci sono quei momenti in cui è necessario affidarsi alla propria esperienza e prendere con le pinze quel che ti dicono. Perché magari vogliono andare a giocare, vogliono farsi vedere forti da qualcuno o sono preoccupati per qualcos'altro. Nel caso di Dellinger, sono tutte e tre le cose.
«Bene!» esclama, con una stretta di spalle. «Posso andare a giocare?»
«No Dellinger»
«Ma poi Sugar si accorge che non ci sono»
«Beh le diremo che ti stavi occupando di Sha»
«Sabo come sta?»
Mi acciglio. Non ricordo nessun bambino con questo nome.
«Sabo?»
Forse ho capito male ma lui annuisce convinto. E poi mi rendo conto.
«Ah il fratello di Law!» ecco come si chiama. «Sta bene, sta riposando»
«Davvero? E tu non pensi che sia debole perché si deve riposare?» indaga e io trattengo a stento un sorriso divertito.
«Assolutamente no!» esclamo convinta. «Ha bisogno di riposare per essere forte e preparato per la prossima emergenza. Anche gli eroi dormono» lo gratto sulla pancia.
Dellinger sgrana gli occhi. «Quindi lui ti piace anche se ha bisogno di riposarsi?» domanda pieno di aspettativa.
Questi bambini, quanto corrono! Mi prenderei anche la briga di negare se non sapessi che in realtà sta indagando su di sé e Sugar.
«Ma certo che sì» spalanco gli occhi anche io.
«Ah» riflette per un momento. «Sai forse ho un po' di sonno»
«Davvero?» sollevo un sopracciglio, divertita.
«M-mh» Dellinger annuisce.
«Ti vengo a svegliare quando iniziano le visite dei pupazzi?»
Annuisce ancora, con uno sbadiglio e comincia a scivolare per sdraiarsi meglio. Non faccio in tempo ad alzarmi dal letto che già dorme. Scuoto il capo e mi abbasso a dargli un bacio prima di avviarmi alla porta. Ma fatti due passi mi blocco quando vedo nel corridoio un tizio che non ho mai visto prima e dall'aria piuttosto furtiva, diretto verso le camere delle bambine.
Infilo la mano nella tasca della divisa e stringo il cellulare, mentre esco e lo seguo. Mi colpisce che, con il caldo che c'è, indossa giacca e cravatta e mi viene il sospetto che sia un assistente sociale o l'avvocato di un qualche genitore. Ma se così fosse, perché non chiede informazioni, visto che sta chiaramente cercando qualcosa o qualcuno?
Accelero e intanto sblocco il cellulare con l'impronta del mio pollice. Non so nemmeno io se chiamare la sicurezza o Praline. Magari è passato dall'accettazione e ha anche il badge. Forse dovrei chiamare Kidd e tagliare la testa al toro. Mi va anche bene che oggi ha il turno di volontariato.
Tutti i miei dubbi si dissipano quando svolto l'angolo. Il tizio si è finalmente fermato fuori da una delle porte e sta sbirciando dentro.
«Scusi?» lo chiamo istintivamente.
Non che io abbia una voce o un aspetto particolarmente minacciosi ma, evidentemente, non se lo aspettava perché fa un salto di due metri e si gira di scatto, picchiando la faccia sullo stipite.
«Oddio! Scusi, non volevo!» porto le mani alla bocca e copro l'ormai poca distanza che ci separa. «Sta bene?» domando, ora preoccupata e molto mortificata quando mi accorgo che gli sanguina il naso. «Accidenti. Aspetti» mormoro, rovistando nell'altra tasca per vedere se ho un tampone che avanza. Ma lui sgrana il suo unico occhio visibile – l'altro è coperto dai capelli – emette un suono che mai ho sentito prima in vita mia e, a meno di non avere le allucinazioni, la pressione della sua epistassi aumenta di colpo e lui rovina al suolo, privo di sensi.
Lo fisso incredula per una manciata di secondi e poi sospiro, estraendo il cellulare. Ora non ho più dubbi su chi chiamare.
«Katakuri? Puoi venire un attimo al primo piano? Ho un tizio svenuto da portare in ambulatorio»
Santo cielo, che giornata.
  

 
§

  
Questo posto non è normale. Mai, nemmeno per un momento, nemmeno il mio primo giorno, sono stata così ingenua da pensare o sperare che sarebbe mai stato normale lavorare qui.
Ma tra il fratello di Law e il tizio sanguinolento, oggi rischia di essere una giornata record.
Il trillo dell'ascensore che si apre mi riporta alla realtà e raggiungo in pochi passi il banco dell'accettazione. Noto vagamente una ragazza dai capelli biondo-fragola e l'aria apparentemente annoiata, appoggiata al bancone di spalle e che, a una più attenta analisi, si guarda intorno con fare indagatore.
La osservo un paio di secondi, cercando di capire se l'ho già vista o no ma il suo profilo non mi dice nulla.
«Praline» decido di tornare alle questioni più pressanti.
«Buongiorno tesoro» mi rivolge un sorriso appuntito. «Tutto bene? Fatto sesso ieri sera?»
La ragazza bionda volta il viso verso di noi, con evidente interesse alla mia risposta. Io sospiro.
«No, non ho fatto sesso con il tizio della stanza di fronte. E sto bene. Ma c'è un tipo svenuto in infermeria al primo piano e volevo sapere se era passato da qui. Biondo e ben vestito»
La ragazza bionda si gira platealmente verso di noi e intanto Praline si acciglia. «Al primo piano? E quando si è spostato?»
«Non si è spostato, è sempre stato lì» rispondo, perplessa.
«E allora chi hanno visto Tama e Sugar in astanteria?»
«Cosa ci facevano Tama e Sugar in astanteria?» mi informo, anche se ormai sono abituata all'anarchia imperante qua dentro.
Praline si sporge in avanti con il busto, mento posato sulla mano, e ammicca. «Sugar cercava Dellinger, sono andate là e poi sono venute a chiedermi se potevano svegliare il principe con un bacio»
Stento a trattenere una risata e sorvolo sul fatto che Praline le ha sicuramente viste scappare via dalla sala ricreazione e non le ha fermate. So già cosa mi risponderebbe. "Chi sono io per ostacolare un giovane amore?".
«Quello in astanteria è il fratello di Law»
«Il fratello di Law…» ripete Praline, sempre sorridente ma, per il mio occhio ormai esperto, pensierosa.
«Sì, Dellinger mi ha detto il nome ma non me lo ricordo. Dai, quello che sta all'archivio!»
«Ah, Mingherlino» mormora Praline, stirando ulteriormente le labbra.
Mi acciglio, presa in contropiede. Non sono stata granché in sua compagnia ma ho visto a sufficienza per affermare che è tutto fuorché mingherlino. Sto per dirglielo – non so perché, visto che conosco benissimo i parametri di Praline riguardo la massa muscolare maschile – ma non faccio nemmeno in tempo a prendere fiato.
«Buongiorno!» una ragazza mora quasi si lancia sul bancone, parlando non tanto a macchinetta quanto senza pause, come se avesse ripetuto ciò che sta dicendo già settordici volte e sia stufa di farlo ancora. «Sono la sorella di Izou, piacere Aisa. Devo sostituirlo ai turni di clown therapy mentre lui è via con quel sant'uomo che ci ha fatto la grazia di prenderselo per la vita. Qui c'è il mio certificato di partecipazione al corso, qui la mia voglia di essere simpatica» si indica il volto e ci rivolge un sorriso forzato «Se mi dite dove posso andare a cambiarmi, poi mi oriento da sola grazie alle dettagliate indicazioni che mio fratello mi ha ripetuto solo una dozzina di volte»
Io sollevo un sopracciglio, Praline sorride a più non posso e nessuna delle due parla perché ora Aisa si è girata verso la bionda e la fissa. E la bionda non sembra apprezzare più di tanto.
«Scusa che...»
«I tuoi capelli sono una figata» le dice, con un ritorno di entusiasmo. «Io adoro il biondo fragola! Peccato che sono troppo scura, per farlo dovrei decolorarli»
Nonostante non sia la cosa più assurda che abbia mai visto, non posso fare a meno di stupirmi quando entrambe mettono su la stessa espressione disgustata.
«Mio dio, no!» commenta la bionda per poi sorridere, quasi criptica «Grazie comunque. Anche i tuoi sono stupendi, con quei riflessi amarena»
«Uff sì. Ho dei riflessi viola, così ci colo sopra il rosso e vengono di questo colore»
«Ti stanno benissimo»
«Grazie. Dovrei lanciare una nuova moda»
«Porteresti una ventata d'aria fresca»
«Oh lo so, cava. Le pvoposte di haiv styling di quest'anno sono così anni 90 che neanche Pvetty Woman» commenta Aisa, con voce nasale e un esagerato atteggiamento snob e, una dietro l'altra, scoppiamo tutte e quattro a ridere.
«Io sono Reiju, piacere di conoscerti» la bionda le allunga una mano.
«Aisa, piacere mio»
«Se volete...» le interrompe Praline, lanciando al certificato di Aisa un'occhiata persino meno attenta di quelle che riserva di norma al muro quando fa retromarcia con la macchina, prima di metterlo via. «...posso darti un badge visitatori, così puoi andare con lei in sala ricreazione» propone, rivolta a Reiju. «Dopotutto chi sono io per ostacolare una giovane amicizia?»
«Oh beh io...» comincia Reiju, titubante, ma Praline si distrae quando si accorge della mia occhiata.
«Che c'è?»
«Non so perché ho pensato di venirti a chiedere se avevi fatto passare il tizio del primo piano. Mi ero dimenticata che faresti passare persino una banda armata perché in fondo chi sei tu "per ostacolare la carriera di un giovane delinquente"?»
C’è ironia nel mio tono. Troppa. E mi ero ripromessa di non farmi influenzare da lui ma al momento non posso fare a meno di pensare che è pur sempre un ospedale pediatrico e sì, Law sarà maniacale e a volte –  molte  volte – insostenibile, al punto che ci sono dei giorni in cui mi domando come faccia Koala a non aver ancora commesso un omicidio, ma sull’importanza della sicurezza ha ragione.
Pensiero che chiaramente Praline non condivide, almeno così mi pare di intuire dal sorriso che torna a rivolgermi. «Hai scoperto almeno come si chiama?»
Io non ci posso credere.
«No, non ho scoperto come si chiama il tipo con cui non farò sesso e che tanto non vedrò più, Praline!»
Praline sorride, di nuovo, e se non fossimo amiche oserei dire che sembra quasi soddisfatta. «Ci sono sia Kidd che Kira oggi. Se anche non fosse la persona affidabile che sembra, non riuscirebbe a fare granché né andare molto lontano» cambia argomento, indicando con il mento Reiju, che sgrana gli occhi e improvvisamente sembra non stare più nella pelle.
«Sono davvero curiosa di vedere come funziona la clown therapy! Stavo anche valutando di seguire il corso!» interviene.
Ma che le prende? Non era titubante un secondo fa?
«E poi non potete dividerci ormai» le da manforte Aisa. «Siamo destinate a diventare amiche»
«Esatto» conferma Reiju.
«Anzi, grandi amiche. Le migliori di sempre. Vero Reiju?»
«Non avrei saputo dirlo meglio, Aisa» annuisce lei.
«Ecco i vostri badge» le interrompe di nuovo Praline, tendendo loro due cartoncini plastificati, uno per i visitatori e l’altro per i collaboratori esterni. Aisa e Reiju li afferrano e poi si allontanano sottobraccio verso la sala ricreazione, parlando e ridendo entusiaste.
Le osservo alcuni secondi, sinceramente colpita. «Cioè così. Hanno fatto amicizia. Così. Dal niente»
«Perché? Tu non facevi amicizia così a vent’anni?»
Sollevo un sopracciglio, appoggiata con il gomito al bancone. «Io sono amica tua e di Law. Mi sembra sufficiente per affermare che ho un problema che sfiora il patologico per quanto riguarda l’instaurazione di legami interpersonali duraturi e di fiducia»
Non dubito che abbia capito molto bene cos’ho appena detto ma se abbia colto l’implicita critica nella mia affermazione, non è dato saperlo. Anche se sono certa che per lei sia un complimento ma il punto è che, ora come ora, è in fissa su ben altra questione. «Quindi hai trovato dove andare a stare?»
«Per fortuna. L’hotel può andare per qualche giorno ma s…»
«E quindi perché non chiudere degnamente questo capitolo con una bella infornata?»
La fisso per un momento, senza parlare, perché non sono affatto certa di aver sentito bene. Ma la sua espressione non lascia spazio a dubbi e così prendo un profondo respiro prima di parlare.
«Praline senti, negli ultimi dieci giorni ho preso una multa, sono stata stalkerata dal mio ex che, dopo due anni dalla rottura, sostiene di amarmi ancora ed è fermamente convinto che possiamo avere una storia equilibrata e duratura pur vivendo permanentemente in due città diverse e mi si è allagata la casa»
«A dimostrazione che avresti avuto bisogno di rilassarti un po’» non demorde lei.  
«Con la fortuna che sto avendo, se facevo sesso come minimo restavo incinta»
«Poteva valerne la pena» sibila Praline e io non riesco nemmeno più a stupirmi.
«Certo. Senti, io ora vado a visitare il tizio del primo piano. Tu tra un’ora vai a svegliare… coso lì…» schiocco le dita, come se potesse aiutarmi a ricordare.
«Mingherlino?»
«Lui! Grazie»
«Comunque se mi avessi dato retta si sarebbe anche allagato qualcos’altro oltre che la tua casa» ci tiene a ribadire per l’ultima volta Praline, mentre io mi allontano spedita verso le scale.
No, questo posto non è affatto normale. Ma oggi è decisamente da record.
   

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Sospiro rassegnata, mentre mi sistemo per l’ennesima volta la maschera da dugongo che continua a scivolare. Se mi viene il torcicollo, riterrò Cora direttamente responsabile della cosa.
È un capo eccezionale, davvero, e come persona lo è anche di più, solo che alle volte mi domando cosa gli passi per il cervello. Capisco che i bambini ci tengano, capisco che il Dugongo Kung Fu lo vedono poco perché si fa vedere solo durante l’ospedale dei pupazzi. Quello che non capisco è perché devo farlo io che peso cinquantatré chili scarsi per un metro e sessantacinque. 
«Forza tesoro, sei bellissima anche così» mi incita Praline, malinterpretando il mio malumore. Come se mi importasse qualcosa del mio aspetto. Ormai mi hanno vista in tutte le salse qua dentro.
Ha appena finito di spiegarmi come si è fatta quella strana acconciatura e vi garantisco che sembrava più la descrizione di una qualche antica forma di tortura che non una tecnica cosmetica eppure, in questo momento, farei volentieri a cambio con lei dal caldo che sto patendo. Ma tant’è, oggi è andata così, perciò meglio pensare positivo.
«Grazie Praline» le rispondo flebile e faccio per accostarmi alla porta della sala ricreazione, quando, portando in un gesto automatico la mano alla tasca della divisa, mi accorgo che ho dimenticato il cercapersone, probabilmente in caffetteria. «Ah porca vacca…» impreco sottovoce, provando a rovistare meglio ma niente, non c’è. «Ehi, vado a prendere il mio cercapersone, tu magari comincia ad entrare» la invito, allontanandomi di gran carriera. 
Sono a metà dell’atrio, gli occhi fissi sulla mia meta, quando mi vedo obbligata ad arrestare la mia corsa per far passare due carrozzelle lanciate a tutta velocità, inseguite da Brulée che urla invano a Tamaneji e Piiman di fermarsi. Ora, potrei anche aiutarla se non fossi irriconoscibile per via di questa maschera e se non avessi partecipato anche io alla gara su sedia a rotelle indetta da Ninjin, solo settimana scorsa. Mi trattengo ancora un attimo, giusto per accertarmi che non si schiantino da qualche parte, per poi ripartire verso il mio obbiettivo.
Se non che, non faccio neanche in tempo.
«Mi scusi?» mi ferma una voca alle mie spalle.
Un ragazzo dalla carnagione scura, capelli ricci raccolti a coda, un naso così lungo per un momento ho il dubbio che sia posticcio, è appena entrato dalle porte scorrevoli e ha l’aria piuttosto spaesata ma è come se si rilassasse quando vede la mia maschera e una luce gli accende gli occhi neri e profondi. È un bel ragazzo, ora che lo guardo bene e il sorriso che gli sfugge è talmente spontaneo che di colpo mi danno un po’ meno per la maschera, adesso.
Ciò nonostante, per parlarci devo aprire almeno la bocca di questo affare.
«Ciao!» gli sorrido a mia volta. «Ti posso aiutare in qualche modo?»
«Ah, oh, beh ecco io… i-io cercavo Law. Lo conosci?»
«Intendi il medico alto, tenebroso, sempre serio e con un patologico bisogno di avere sempre tutto sotto controllo?»
Solleva un sopracciglio. «Lo conosci»
«Lo conosco» confermo anche con un cenno del capo.
«Ho qui il suo cercapersone. Sua nipote lo ha messo nella borsa di Koala. La conosci Koala vero?»
«Santa donna» mi limito a commentare.
Stavolta si lascia proprio sfuggire una risata. «La conosci. Io sono un suo collega, mi chiamo Usopp» mi tende una mano che stringo volentieri, scoprendo che ha anche una bella stretta.
«Piacere di conoscerti Usopp»
«La tua maschera è una figata»
«La vuoi tu? Te la lascio volentieri»
«Se stai cercando di tentarmi, ti riesce molto bene» ammicca e io ridacchio come una ragazzina.
Ma che sto facendo?!
«Comunque!» mi schiarisco la gola. «Se vuoi lo porto io il cercapersone a Law»
Ora, non so esattamente cosa ho detto di così incredibile da meritare l'occhiata adorante che mi regala. Ma sicuro mi piace molto essere guardata così da lui.
«Davvero?!» domanda incredulo. «Cioè, voglio dire, non che non mi faccia piacere vedere Law, siamo grandi amici. Ma che dico grandi?! Grandissimi! Law sarebbe estasiato di vedermi ma devo tornare al lavoro, insomma... ecco…» sta per aggiungere qualcos'altro ma non lo fa e sgrana gli occhi, chiaramente preso in contropiede da non so cosa.
Non devo aspettare molto per scoprirlo. Quando si volta e sposta la gamba, mi ritrovo a fissare Kaya che, in punta di piedi, lo tira per la camicia di lino grezzo, con l'intento di attrarre la sua attenzione.
Usopp la fissa qualche secondo, interdetto, e io sto per intervenire quando si piega sul ginocchio per mettersi alla sua altezza. «Posso aiutarti?»
«Merry non sta bene» annuncia lei, tendendogli con entrambe le mani il suo peluche a forma di ariete. Usopp sgrana di nuovo gli occhi ma stavolta sta recitando. Anche parecchio bene, mi azzarderei a dire.
«Come non sta bene?!?» si allerta. «Bisogna assolutamente fare qualcosa! Presto, dottoressa, controlli il battito!» Usopp prende in mano la situazione e anche Kaya, afferrandola per i fianchi e tendendola verso di me come lei stava tendendo Merry verso di lui.
Ho un microsecondo di confusione, in cui riesco solo a domandarmi come abbia fatto ad afferrare così in fretta la situazione e calarsi istantaneamente nella parte, dopo di che mi sfilo la maschera da dugongo e infilo il fonendoscopio nelle orecchie per auscultare il peluche.
«Com'è la situazione?» domanda Usopp dopo un attimo, con una preoccupazione che riuscirebbe tranquillamente a imbrogliarmi se non sapessi che sta solo simulando.
Metto su l'espressione più contrita che riesco. «Ha ragione lei dottore. La situazione non è delle migliori. Conosco questo problema»
Usopp e Kaya si scambiano un'occhiata.
«E c'è una soluzione?»
Annuisco serissima prima di rispondere, altrettanto seria: «Merry ha bisogno di coccole»
Usopp e Kaya si scambiano un'altra occhiata poi Usopp se la trascina contro il petto, la fa sedere sul suo avambraccio, da un bacio a Merry e la tende di nuovo verso di me e Kaya sgambetta nell'aria, ridendo a più non posso. «Ora va meglio?»
Ausculto di nuovo Merry. «Un po' sì ma non basta. Bisogna aumentare la dose»
Usopp si ritira di nuovo Kaya contro il petto, seduta sul suo avambraccio e le dice: «Dovrai darmi una mano» prima di cominciare a ricoprire Merry di baci, uno a testa e io sono semplicemente estasiata da quello che vedo. Non ho mai visto Kaya divertirsi così, da quando l'abbiamo ricoverata.
Ci metto un attimo a rendermi conto che hanno smesso e che stanno aspettando un mio verdetto. Professionale, appoggio di nuovo gli auricolari del fonendo alle orecchie e poso l'auscultatore sul corpicino morbido di Merry. «La crisi è rientrata» annuncio solenne e Kaya è così felice che sembra stia per esplodere.
«Grazie!!!» esclama con la sua voce così dolce che viene voglia di mangiarla e non solo a me a quanto vedo. Tenendola in braccio a principessa, Usopp la gira verso di sé.
«Ora devi portare Merry a giocare con gli altri peluche però. Fa parte della convalescenza»
«E se succede di nuovo?»
«Non succederà»
«Ma se succede?» insiste Kaya, io mi copro la bocca con la mano, ridacchiante.
«Allora il dottor Usopp correrà qui e insieme alla bella dottoressa Dugongo guarirà di nuovo Merry»
Kaya si illumina, sembra soddisfatta della risposta e si mette a correre verso la sala ricreazione – non così veloce ed energica come potrebbe correre una bimba della sua età in perfetta salute – non appena Usopp la posa a terra ma, fatti pochi passi si volta di nuovo verso di noi.
«Dottor Usopp, torna a trovarmi!» gli chiede entusiasta e per un momento Usopp resta basito ma subito si riprende, alza la mano per salutarla e le risponde: «Va bene principessa»
In tutto questo, io non so nemmeno​ esattamente a cosa ho assistito. E lo so ancora meno quando Usopp si gira di nuovo verso di me e mi sorride.
«Quindi dove eravamo rimasti?»
 



«E Usopp è tornato a trovarla, tutti i giorni, dopo il lavoro»
Ascolto incredulo il racconto dell’eterea creatura seduta accanto a me sulla barella e intenta a medicarmi, dopo avermi accidentalmente spaventato e fatto svenire con il suo celestiale aspetto.
Non riesco davvero a credere alle mie orecchie. Il sospettato tradimento di Uso-chan ai miei danni è in realtà una bambina ricoverata in ospedale? Questo genere di spiegazione era del tutto imprevista. Chi mai sarebbe riuscito a immaginare una svolta del genere? E perché Usopp non mi ha detto niente?
«Tutti i giorni…» ripeto, nasale a causa del tampone infilato nella narice, come se dirlo ad alta voce potesse aiutarmi a metabolizzare l’informazione.
«Puntuale come un orologio svizzero» conferma la bellissima dottoressa, alzandosi per riporre tamponi, pinze e acqua ossigenata. La osservo senza realmente vederla, una voce in fondo al mio cranio mi insulta e rimprovera per non averle neppure chiesto il suo nome ma ora come ora non riesco a darle retta. Sto ancora riflettendo sul da farsi.
È stata una fortuna incappare proprio in lei, di tutte le persone che lavorano qui, perché è una dea in terra, ovviamente, ma soprattutto perché proprio lei ha avuto il primo contatto con Usopp, assistito all’incontro con la bambina, stretto amicizia con lui e saputo dirmi, di conseguenza, che fine faceva il mio ragazzo tutti i giorni dopo il lavoro.
E questo, in effetti, spiega alcune cose. Spiega i suoi ritardi e le telefonate al catering per accertarsi che fossi ancora là.
«Ma perché non ha più l’anello…» sussurro a me stesso, non poi così a bassa voce probabilmente, perché la dottoressa si gira verso di me, indagatrice.
«Hai detto “anello”?» s’informa e io sollevo di nuovo lo sguardo a lei, mio angelo salvatore, pieno di speranza.
«Sì. Un anello rosso acceso. Lo ha sempre portato e poi, improvvisamente, non gliel’ho più visto addosso»
Con mio sommo sollievo, estasi estetica e concreto rischio di una nuova epistassi, il mio angelo abbozza un sorriso. «Vieni con me» mi invita, avviandosi verso la porta dell’infermeria.
Rapido, balzo giù dalla barella e la seguo, fermandomi quando lei si ferma, sulla porta. «Posso solo chiedere…» domanda a sopracciglia corrugate, come colta da un pensiero inatteso. «…che tipo di rapporto c’è tra te e Usopp?»
Fiero, sollevo il mento. È passato molto tempo dall’ultima volta che mi è stato chiesto così esplicitamente e, per un momento, ripenso a tutte le stupide risposte che inventavo per evitare la verità. Che idiota che ero. «Siamo compagni. Stiamo insieme»
La dottoressa inspira a fondo e sospira: «C’avrei scommesso» rassegnata. Quel genere di rassegnazione pragmatica, però, di quella che non abbatte e infatti torna subito a sorridermi, anche più smagliante di prima. «Dai andiamo» mi invita nuovamente.
La seguo attraverso i corridoi dritti e ben strutturati, senza preoccuparmi di sapere dove stiamo andando. Per quanto ne so, potrebbe anche accompagnarmi fuori dall’ospedale senza che io me ne accorga ma qualcosa mi dice istintivamente che posso fidarmi di lei. Non passa poi molto tempo quando ci fermiamo di nuovo, fuori da una camera di cui intravedo un decimo dell’interno ma che già così è evidentemente ampia.
La dottoressa si accosta alla porta e, silenziosa, mi fa segno di avvicinarmi. Mi accosto a mia volta e sbircio all’interno. Ci sono quattro letti, due vuoti ma disfati, uno vuoto e in ordine e l’ultimo, quello vicino alla finestra sul lato destro della stanza, occupato da una bambina che non può avere più di cinque anni, capelli biondi alle spalle, enormi occhi cioccolato. Seduta e appoggiata con la schiena a tre cuscini, sembra impegnata a fare qualcosa con le mani, sul tavolino mobile che si usa in genere per appoggiare il vassoio del cibo. E su quello stesso tavolino, rivolto verso di lei come un guardiano, il peluche di un ariete.
La dottoressa entra piano nella stanza e io la seguo in modalità autonoma, gli occhi incollati alla piccola. Ma non faccio in tempo a muovere tre passi che una serie di versi simili a quelli dei film coi samurai riecheggiano nella stanza, mentre tre figure saltano fuori da sotto un letto, dietro la porta e dal bagno della stanza.
«Ah!»
«Y-ha!»
«Indietro!»
Sobbalzo appena – non lo ammetterò mai ad alta voce – ma non mi scompongo minimante, proprio come la dottoressa, che si limita a guardare i tre ragazzi appena spuntati fuori dal nulla, per niente impressionata e con uno sguardo di materno rimprovero, le mani sui fianchi.
«Ninjin, Piiman, Tamanegi, si può sapere cosa state facendo?» domanda e mal trattiene una risata divertita.
«Noi non siamo Ninjin, Piima e Tamanegi» annuncia uno dei tre, capelli verde scuro come il cappellino a cuffietta che ha in testa. Spinge il petto all’infuori e si indica il petto con orgoglio e io sgrano gli occhi. Lo ha fatto tale e quale ad Usopp. «Noi siamo la ciurma di Capitan Usopp e siamo qui per proteggere la Principessa Kaya»
«È il Grande Capitan Usopp, Piiman» lo rimbecca l’amico, capelli castani e occhiali.
«Fa lo stesso Tamanegi»
«No, che non fa lo stesso!»
«Sì ma se mi correggi davanti ai nemici perdiamo credibilità, ti pare?!»
Li osservo, senza sapere cosa pensare. Avranno almeno tredici anni, forse Piiman ne ha anche quattordici, quell’età in cui i giochi per bambini perdono attrattiva e mantenere la faccia diventa fondamentale, eppure guardali cosa stanno facendo. Perché glielo ha chiesto Usopp?
Il terzo ragazzo – Ninjin, suppongo –, capelli lilla, fascia rossa, sulla sedia a rotelle con una gamba ingessata e parecchie bende in giro, si fa avanti. «Dichiarate cosa state cercando o sparite. Il Grande Capitan Usopp è magnanimo ma non perdona gli intrusi che disturbano il riposo della giovane Principessa» dichiara solenne.
«Hai visto? Lui lo ha detto!» sibila sottovoce Tamanegi, rivolto a Piiman che manda gli occhi al cielo.
Mi giro verso Kaya che osserva curiosa la scena, incapace di trattenere una risatina divertita, ed è allora che capisco. Lo fanno perché glielo ha chiesto Usopp, probabilmente, ma lo fanno innanzitutto per Kaya. Mi rendo conto, non so come, che questa non è una stanza di ospedale ma il palco di una recita inventata per rendere più facile a quella piccola creatura la permanenza qui. E penso di sapere chi ne è l’artefice, così come ritengo opportuno mettermi d’impegno per non rovinare tutto questo.
Mi inginocchio, voltato verso la piccola, e piego il busto in avanti. «Principessa Kaya, le voci sulla sua bellezza sono giunte fino al mio regno ma non vi rendono giustizia» comincio ma subito mi fermo, quando noto le occhiate perplesse di Ninjin, Piiman e Tamanegi.
La dottoressa ha incrociato le braccia sotto il seno e mi osserva. «È una principessa pirata» viene in mio soccorso con un sussurro.
«Tuttavia…» riprendo, tornando a inchinarmi. «…sono certo che la vostra bellezza è la sola caratteristica che supera la vostra forza»  e Kaya si lascia sfuggire un’altra risatina, lasciandomi senza fiato.
Il cuore mi perde un battito, per un istante non sento altro che la sua risata. So cos’è, io più di molti altri conosco bene questa sensazione.
È amore a prima vista.
E ogni secondo che passa comprendo meglio perché Usopp venga qui ogni giorno.
«Principessa Kaya, questo cavaliere è Sir Sanji del regno di…» s’intromette la dottoressa, guardandomi per un aiuto.
«Germa» rispondo la prima cosa che mi viene in mente, ovvero la marca della mia camicia.
«È venuto fin qui alla ricerca di un prezioso amuleto di cui sospettiamo Vostra Pirateria sappia qualcosa»
Kaya sgrana gli occhi e poi si porta una manina al petto, stringendo qualcosa all’altezza dello sterno, attraverso la maglietta di cotone. Faccio per avvicinarmi a lei ma Piiman e Tamanegi mi si parano davanti a muso duro e io faccio subito ammenda per essere momentaneamente uscito dal personaggio.
«Chiedo il permesso di avvicinarmi alla Principessa» annuncio solenne, guardando verso di lei che, dopo un attimo di esitazione, annuisce. Piiman e Tamanegi si spostano, io mi accosto al letto, il mio angelo giusto un passo dietro di me. Recupero la seggiola lì accanto e mi ci accomodo per essere alla sua altezza, mentre la dottoressa prende posto direttamente sul materasso di Kaya e le scosta qualche ciocca dalla fronte.
Piego il busto in avanti, sorridendo amichevole. «L’amuleto di cui parlava la vostra…» lancio una rapida occhiata alla dottoressa. «…sirena di compagnia» entrambe sghignazzano divertite. «Non sono qui per riprendermelo» metto in chiaro e Kaya allenta la presa intorno a – ormai ne ho la certezza – l’anello, nascosto dal pigiamino. «Fu affidato molti anni fa al Grande Capitan Usopp…» lancio un’occhiata di striscio ai tre paladini ancora fermi in mezzo alla stanza, che annuiscono soddisfatti per il corretto uso del titolo del mio Uso-chan «…con l’ordine di consegnarlo alla persona più degna. Voglio solo accertarmi che si tratti proprio di quell’amuleto»
Ancora un po’ diffidente ma molto più rilassata, Kaya lancia un ultimo sguardo verso il mio angelo che, prontamente, le fa un lieve cenno d’incoraggiamento. Kaya sposta la presa più in alto, intorno ai due lembi del cordino che gira intorno al suo collo e solleva finché un cerchietto di vetro, rosso e brillante come un rubino, non fa capolino dal bordo superiore della maglietta.
Non so spiegare il sollievo che provo. Anche se ormai ne ero certo, anche se non ho mai voluto realmente credere nemmeno un istante che Uso-chan potesse avermi tradito, sapere che lo ha dato a questa meraviglia della natura mi conforta al punto che mi sento per un attimo svuotato di ogni energia.
«Non poteva venire a trovarmi di sabato. Ha detto che aveva un impegno importante» spiega Kaya. Deve riferirsi al matrimonio di Izou e Marco. È stata la prima volta che ho notato l’assenza dell’anello al suo dito. «Mi ha dato l’amuleto per tenere lontani i mostri e proteggere Merry»
La fisso una manciata di secondi, senza sapere cosa dire. Sono diviso tra la voglia di abbracciarla e la voglia di mangiarmela.
«Posso tenerlo?»
Santo Roger, come se si potesse negare qualcosa a quegli occhioni. Ma al di là di questo, non avrei comunque detto di no. Usopp ha deciso di darlo a lei e ha avuto i suoi buoni motivi. Sono solo felice che il mio regalo sia diventato così tanto importante.
«Il Grande Capitan Usopp ha scelto Vostra Pirateria» le dico, inclinando appena il capo in un cenno di rispetto. «E credo non potesse scegliere persona migliore a cui affidarlo»

 
§

 
Gli lancio un’occhiata e non trattengo un sospiro di fronte alla sua espressione adombrata. Santo Roger, quante storie!
«Zoro, non ti sto portando a un campo di tortura» gli faccio notare.
Per niente convinto, solleva un sopracciglio verde «Sicura?» e stavolta mi produco in un sonoro sbuffo.
«Sono cose per casa nostra» gli faccio notare, spazientita. «E se smetti di fare i capricci, ce la caviamo pure in fretta»
«Tu che te la cavi in fretta in questo posto? Ma fammi il piacere, mocciosa» protesta, guadagnandosi un’occhiata davvero molto assassina.
Okay sì è vero, io adoro questo posto. Non è un semplice ipermercato per la casa, è un mondo delle fiabe, talmente bello che non mi fa affatto rimpiangere il vero shopping, quello di vestiti per intenderci. Spendere soldi qui mi da quasi la stessa soddisfazione del comprarmi un nuovo paio di scarpe, nonostante si tratti di oggetti che non posso sfoggiare addosso e, a volte, non posso sfoggiare proprio.
«E comunque saranno anche cose per la casa, ma non sono necessarie e sei tu che le vuoi»
«Per un nuovo cesto dei panni sporchi che ho visto sul catalogo!» lo rimbecco, indignata. «Lo specchio ci serve e il portaspezie per la cucina lo voglio prendere per te. È a te che piace cucinare etnico» gli faccio notare con un’alzata di spalle.
Zoro sostiene il mio sguardo, combattuto tra credere alla genuinità del mio pensiero o rivolgermi una seconda scettica alzata di sopracciglio. E alla fine, opta per la terza opzione. Il rimprovero. «Quando hai detto che avevi bisogno della mia virilità, avevo interpretato in tutt’altro modo»  
Sollevo un angolo della bocca, soddisfatta. Sì, è vero, questa me la sono giocata decisamente bene e ne vado anche fiera. Ammiccante, mi avvicino a lui ancheggiando. «Forse lo intendevo in tutti e due i sensi, chi lo sa?» miagolo. «La giornata è ancora lunga, se ci diamo una mossa»
Non ho alcuna difficoltà a notare il movimento del suo pomo d’adamo, quando manda giù pesante, nonostante il suo disperato tentativo di restare impassibile. Francamente, è una prospettiva che attrae parecchio anche me e sono anche disposta a fare solo un giro veloce, anziché la solita valutazione reparto per reparto di che cosa potrei comprare oltre alle cose che mi servono davvero o per cui, in ogni caso, mi sono recata qui.
«Va bene» gorgoglia alla fine, un po’ scocciato per la sconfitta ma infinitamente più entusiasta all’idea del premio di consolazione che lo aspetta. «Però possiamo andare un attimo alla caffetteria? Ho voglia di un’aranciata»
Sorrido e gli prendo la mano, pronta a guidarlo dove mi ha chiesto. Essendo venerdì pomeriggio, non ancora ora di aperitivo, è tranquillo e per una bibita non ci vorrà più di qualche minuto. Lascio Zoro alla breve coda che sosta alla cassa e mi sposto per dare un’occhiata alla vetrinetta dei dolci. Sono parecchio tentata da un’olandesina ma forse è meglio se mi limito a un succo di frutta e…
Mi schianto contro qualcuno nel girarmi verso il frigo e poco ci manca che finisco a terra, sorte che evita per un soffio anche l’altra vittima dello scontro inaspettato.
«Oh scusi!»
La ragazza di fronte a me, caschetto dorato e occhi nocciola, solleva subito una mano. «No scusi lei, ero distratta»
«Nami, tutto bene?» Zoro si avvicina di gran carriera, nella direzione giusta per mio grande stupore, e sto già per rassicurarlo quando si ferma di botto e le mie parole con lui. Sta osservando la sconosciuta e ha uno strano sguardo. Sorpreso ma anche nervoso. Troppo nervoso per i miei gusti.
Mi rigiro verso la sconosciuta, che a sua volta mostra sorpresa. Solo sorpresa, quanto meno, ma non è una novità che le donne siano ben più capaci a dissimulare rispetto agli uomini – eccezion fatta per Usopp – e, in particolare, rispetto a Zoro.
«Zoro!» esclama e un brivido freddo mi attraversa. Non conosco questa tizia, non l’ho mai vista ma forse è solo perché…
«Margaret»
E non l’ho mai nemmeno sentita nominare. Okay, che sta succedendo?
«Che coincidenza incontrarti anche qui. Come stai?»
«Eh già» Zoro si passa la mano sul coppino e io comincio a emanare lievi scariche elettriche. “Anche”? Che significa “anche”? «Bene, sto bene. Tu?»
«Non c’è male» scuote appena il capo, smuovendo le ciocche bionde e scalate. «E lei deve essere…»
«Sua moglie» mi faccio prontamente avanti, tendendole la mano, lo sguardo che lancia saette.
Ma Margaret non sembra notarlo, o forse semplicemente lo ignora, e continua a sorridere mentre me la stringe. «La famosa Nami. È un piacere conoscerti, Zoro parla continuamente di te»
C’è qualcosa nel modo in cui lo dice, che mi calma all’istante. Non sono una che si fa ingannare dalle bugie altrui. Poco ma sicuro, ho la capacità di cogliere facilmente quando qualcuno mente o, peggio ancora, quando mi prendono in giro con il sorriso. E Margaret non lo sta facendo.
Non c’è scherno nella sua voce, non c’è finzione nel suo sguardo, sinceramente cordiale e luminoso.
«Da quel che sento, è un uomo davvero fortunato»
«Oh beh io… io… presumo sia reciproco…» balbetto, là dove normalmente avrei colto la palla al balzo per autoelogiarmi e sottolineare che sì, eccome se Zoro è fortunato ad avere una come me che lo sopporta, pur sapendo che è il contrario in verità. Ma sono colpita dalle parole di Margaret, dalla scoperta che Zoro parli così tanto di me e, ultimo ma principale, dal fatto che mi sento una schifezza per aver pensato subito male di entrambi.
Brava Nami. Davvero grande capacità di autocontrollo.
La osservo che ancora mi sorride e sì, so che è stupido e anche poco da me, ma sento un bisogno quasi viscerale di fare ammenda.    
«Magari vuoi unirti a noi?» le propongo di slancio.
«No!»
L’esclamazione di Zoro mi esplode nell’orecchio e non fosse che Margaret ha declinato il mio invito praticamente in simultanea alla sua risposta, gli avrei già tirato una centra per il poco tatto e l’atteggiamento maleducato, oltre che per l’attentato ai miei timpani.
Ora, vorrei tanto capire perché la presenza di questa ragazza lo agita tanto. C’è chiaramente qualcosa che mi sfugge e non è la logica spiegazione che si potrebbe pensare, di questo sono certa.
«Voglio dire» riprende il controllo Zoro, parlando come la personale razionale e misurata con cui, di solito, sono sposata. «Lei avrà il suo giro da fare e noi il nostro»
«In effetti io ho già anche finito. Mio marito sta caricando la macchina e io volevo prendere un caffè» interviene Margaret, in suo sostegno, sollevando il bicchiere di carta con tappo che tiene in mano. «Ma grazie dell’invito Nami»
«Ma figurati, anzi. È stato un piacere conoscerti» le tendo di nuovo la mano che lei stringe prima di fare un cenno anche a Zoro.
«Allora buoni acquisti. Ci vediamo al prossimo controllo, Zoro»
«Certo. Buona serata» risponde lui mentre io sono troppo impegnata ad accigliarmi per ricordarmi di darle un ultimo saluto. Passano circa tre secondi di assoluto e totale silenzio, durante i quali entrambi continuiamo a fissare il punto in cui Margaret si trovava un attimo fa. «Quindi mocciosa, tu vuoi qualcosa oppure no?» chiede Zoro alla fine, muovendosi per tornare in coda, ovviamente verso la direzione opposta alla cassa della caffetteria.
Lo afferro per il cappuccio della felpa e lo sospingo nella giusta direzione, senza smettere di rimuginare. «Zoro, cosa vuol dire “ci vediamo al prossimo controllo”?» mi informo, puntando gli occhi su di lui, uno sguardo che sa bene voler dire che o risponde o risponde. «Chi è?» aggiungo per buona misura, incrociando le braccia sotto al seno.
Zoro sostiene il mio sguardo, impassibile. «Nami, non ti fidi di me?» chiede, a bruciapelo.
«Scusa?» lo invito a ripetere. Devo aver capito male.
«Ti comporti come se fossi gelosa»
Sgrano appena gli occhi e inspiro a fondo. Calma. Devo stare calma. Lo stress non fa bene al corpo e allo spirito e non mi lascerò stressare da questo emerito imbecille.
«Quella donna mi ha chiamato “la famosa Nami” e io non sapevo nemmeno della sua esistenza. Scusa se sono un po’ sorpresa e vorrei sapere di chi si tratta!»
«È solo una cliente del negozio Nami» ribatte Zoro. «E lavora in zona, così anche quando non ha da fare manutenzione alla spada, ogni tanto passa per un saluto. Per quello ho avuto modo di parlarle spesso,  anche se ultimamente la vedo solo ai controlli dell’arma» 
«Davvero?» insisto, ancora più perplessa, e mi giro per un momento verso la porta attraverso cui Margaret è da poco uscita. Non sembrava proprio il tipo da spada.
«Davvero» conferma, deciso.
Senza aggiungere più nulla, mi metto in fila insieme a lui per fare lo scontrino. Fingo di studiare i differenti succhi di frutta disponibili ma in realtà ben altri pensieri mi frullano per la testa. Discreta, lancio un’occhiata da sotto in su a Zoro.
Sono certa che non mi tradirebbe mai. Perciò non vedo perché dovrebbe mentirmi riguardo Margaret. Eppure non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che, in tutto questo, c’è qualcosa di strano.  
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Angolo dei ringraziamenti: 
Si ringrazia Zomi per il suggerimento sul bere il caffè senza caffè. Non so che farei senza di te! 
Buona lettura a tutti! 
Hope you'll enjoy it. 
Page. 




Ascolto il soffritto sfrigolare nella padella, rilasciando lentamente nell’aria un profumo acquoso e lievemente dolciastro. Sto osservando i dadini minuscoli di carota, sedano e cipolla saltellare in mezzo all’olio rovente e quasi a punto ebollizione quando mi accorgo che ho messo il tutto in padella senza la più pallida idea di cosa cucinare.
Con un movimento rapido, spengo il fornello. Alzo le mani lentamente e mi afferro le tempie, nervosa, arrabbiata, al limite. Non sono in me, da tutto il giorno e non posso comportarmi così.
È sbagliato ed è ridicolo. Non posso comportarmi così quando il termine ultimo per gli esiti è domani. A cosa serve logorarmi in questo modo già oggi?
Scatto verso il tavolo per raccogliere i fogli del lavoro sparsi in giro per tutta la superficie e intanto cerco di mettere un po’ di ordine anche nella mia testa, così magari riesco a decidere cosa cucinare per cena senza riscaldare ingredienti che potrebbero anche non servirmi.
Dopotutto, sono anche fortunata. Se non potessi contare su Pen, avrei dovuto aspettare fino a lunedì per mettere le mani sui referti. Ma Pen ha detto che non se ne parlava e si è accordato con Shachi del laboratorio analisi, di farli avere direttamente a lui, per avere una risposta il prima possibile, anche se domani è sabato.
Quindi, il minimo che posso fare è stare tranquilla e aspettare la sua telefonata.
Sposto un altro foglio volante, che fruscia e occupa per un momento tutta la mia sfera uditiva, e rimango pietrificata, il foglio a mezz’aria, gli occhi puntati sul tavolo. Il tavolo su cui, in mezzo al marasma da me stessa creato, giace il mio cellulare, in silenzioso e senza nemmeno il vibro ma con lo schermo lampeggiante a indicare una chiamata in arrivo. E un nome cortissimo sul monitor, un nome di appena tre lettere.
Il cuore si ferma, metaforicamente, per un momento dimentico come si respira e come controllare le mie capacità motorie. Poi una voce nella testa mi urla di muovermi e che se non rispondo a breve potrebbe mettere giù e finalmente mi sblocco, allungo il braccio, afferro il telefonino e rispondo.
«Pen! Resta lì un momento» gli chiedo mentre esco dalla cucina.
Per fortuna Law è rimasto dove l’avevo lasciato poco fa, ancora sul divano a rigirarsi tra le mani le prove di colore pantone, da cui dobbiamo scegliere sia il colore per ridipingere camera nostra che la nursery. Forse. Speriamo.   
Non che stia volgendo la minima attenzione alle strisce di carta su cui sono stampati quattro quadrati ciascuna con quattro tonalità diverse della stessa sfera cromatica. Fissa il vuoto ma non ci mette più di un secondo ad accorgersi della mia presenza e che sta succedendo qualcosa. Occhi attenti, sensi all’erta, scatta in piedi.
«Che succede?»
«Pen» sillabo, indicando il cellulare.
Si irrigidisce, io lo raggiungo in quattro passi, appoggio il telefonino sul tavolino basso e mi inginocchio a terra, mentre Law si lascia scivolare di nuovo sul divano.
«Okay Pen. Sei in vivavoce» lo avviso e lancio un’occhiata a Law che, busto piegato in avanti, ha intrecciato le dita e fissa il pavimento con calma imposta.
«Bene ragazzi, ho qui in mano gli esiti degli esami di Koala» ci avvisa e io mi aggrappo con entrambi le mani al bordo del tavolino. Ti prego, ti prego. Ti prego fa che… «Sono splendidi, nulla di anomalo. Il nuovo medicinale funziona alla perfezione e la gravidanza sta procedendo secondo i piani. Nessuna interazione con il feto»
La testa mi gira e la vista mi si offusca. Non sono certa di aver sentito bene ma ho malapena le forze per tenermi dritta così rinuncio al mio desiderio di girarmi per cercare una conferma in Law. «Non…» balbetto con voce roca. «… n-non devo interrompere la gravidanza?»
«A meno che non abbiate cambiato idea sul diventare genitori…»
Il sangue mi defluisce tutto dalla testa, mi aggrappo più forte al tavolino, lascio andare un profondo respiro tremolante, per calmarmi. Law mi afferra per i fianchi, sento le sue labbra premere sul mio capo e mi lascio andare contro di lui, portandomi dietro il cellulare perché c’è una cosa importante che devo dire a Pen.
«Grazie…» sussurro nel microfono.
«E di che? Non ho fatto nulla io, sei tu che sei una leonessa» dice, facendomi ridere.
«Credevo di essere una pesciolina»
«Infatti sei la mia pesciolina. Ma sei anche la leonessa di Law. Che suppongo ora vorrà uccidermi»
Law mi stringe più forte mentre mi accomodo tra le sue gambe, divaricate apposta per farmi spazio. «Sei fortunato che mi hai appena detto che tra qualche mese potrò abbracciare mio figlio, Pen. Se no ti scuoiavo vivo dopo questa» cerca di fare il duro ma io colgo il lieve tremito, e anche la gioia, nella sua voce. Lo bacio sulla guancia, un po’ ispida di barba.
Non sono l’unica che ha passato una settimana lunga e difficile.
«Beh allora buona serata, ragazzi. E mi raccomando, stallone, ricordati che è incinta»
«Pen ma vai a…» si morde la lingua quando il telefono comincia a battere a vuoto. Non c’è soddisfazione così ma io, il viso incastrato nell’incavo del suo collo, non riesco a trattenere un risata, prima lieve poi sempre più forte, finché non arrivo praticamente a contorcermi sul divano e tra le sue braccia, tanta è la felicità ma soprattutto il sollievo.
Non so quanto passa prima che riesca finalmente a calmarmi abbastanza da riuscire a produrre un pensiero di senso compiuto, anche se dal contenuto abbastanza scontato.
«Diventiamo genitori» gli dico, guardandolo sottosopra. Ghigna mentre mi accarezza una guancia e si piega per darmi un bacio.
«Sì» conferma sulle mie labbra.
«Diventiamo genitori!» ripeto e ricomincio a ridere.
Mi alzo dal divano ancheggiando e ondeggiando le braccia, ballando a un ritmo che sento solo io, Law che mi osserva dal divano, più divertito di quel che vorrebbe dare a vedere. «Che stai facendo?» quasi gli scappa una risata e già questo sarebbe impagabile.
«Festeggio!»
Ma nulla batte la faccia che fa quando mi giro verso di lui e, sempre ballando su note di niente, gli tendo una mano per invitarlo a raggiungermi.
«Ma non ci penso nemmeno!»
 

 
***

 
Mi infilo la vecchia maglietta dell’università che uso come pigiama e mi osservo allo specchio con aria critica. Quanto meno, sono meno concio di stamattina. Meno tirato, meno occhiaie. La dormita di oggi, anche se breve, è stata d’aiuto.
Certo, non era precisamente così che avevo pianificato la mia giornata, e non mi riferisco né alla Megalo né a Dellinger. Svenire come una pera cotta davanti a una sconosciuta, andare avanti a dormire secco in infermeria per venire poi svegliato da Praline. Questo non era decisamente nei miei piani ma, per fortuna, io non sono Law e so gestire i fuori programma.
Soprattutto se suddetti fuori programma prevedono me privo di conoscenza. Una figura degna di nota, Sabo, complimenti. Passerai alla storia come “il fratello di Law che è svenuto di fronte a un attacco d’asma”, il che mi fa quasi rimpiangere “Mingherlino”.
Sospiro e un po’ mi scappa da ridere, un po’ mi vorrei sotterrare se rifletto su come mi sono ridotto ma, in fin dei conti, ammettere il problema è il primo passo verso la soluzione. So cosa devo fare. Ricominciare a mangiare come si deve, ritrovare un equilibrio, smettere di pensarmi un fallimento, concentrarmi sul lavoro che ho al momento, fare ciò che mi fa stare bene mentre aspetto. Qualcosa, una svolta, quello che sarà. 
Godermi la mia famiglia. Smettere di collegare tutto a Bibi, compresi i miei pensieri che sono miei e punto. Ovvio che stare con lei mi ha cambiato ma non significa che senza di lei sono niente e prima me lo ficco in testa meglio è.
Mi riavvio il ciuffo sulla fronte e sospiro. Sì, devo essere positivo, devo volermi bene io per primo e lo devo non solo a me stesso ma anche a quelle due anime pie di là, che mi ospitano e probabilmente ora stanno preparando la cena anche per me. Dare una mano mi sembra il minimo, oltre che un buon punto di partenza.
Esco dal bagno, imbocco il corridoio ma non arrivo alla cucina quando il salotto, e soprattutto quello che sta succedendo in salotto, entra nei margini del mio campo visivo. Già ridacchio, mentre torno sui miei passi, ma non sono certo di aver visto bene finché non mi accosto alla porta e scopro che, sì, ho visto bene eccome. Mi appoggio allo stipite, perplesso e divertito.
«Andiamo!» esclama Koala con insistenza, le braccia tese verso Law, mentre sculetta e balla sul posto anche se non c’è traccia di musica qui.
«No» le dice Law e capisco, da come le risponde, che non è il primo rifiuto ma fa anche fatica a non ridere, è sul punto di scoppiare.
«Ehi che succede?» domando mentre mi avvicino. Koala non perde tempo, si gira e mi afferra per i polsi e mi trascina più vicino al divano. Ubbidiente comincio a molleggiare anche io, seguendo il suo ritmo, e oscillo le braccia a tempo con lei. «Cosa si festeggia?» domando, mentre faccio un giro su me stesso.
«Che diventiamo genitori. Ma Law fa il malmostoso» ride lei.
La prendo per una mano, la faccio girare sotto al mio braccio e le accompagno giù in un casquè. «Ha ragione lei, dovresti festeggiare anche tu» gli faccio presente ancora piegato in avanti, prima di rimetterci entrambi dritti.
«E tu da quando sai ballare?» si acciglia mio fratello.
Mi stringo nella spalle. «Mi ha insegnato Bibi» rispondo, facendo il trenino intorno al tavolo con Koala. «Andiamo, ti ho visto fare di peggio!» insisto anche io e quando Koala gli lancia un’ultima occhiata implorante, Law cede e si alza dal divano con un colpo di reni.
Trascina Koala tra le sue braccia e per un po’ continuiamo a ballare a sandwich, quello che non so come né quando è diventato un twist. Law e Koala sono così felici che mi sento euforico anche io, anche se non so spiegarmi questa improvvisa esplosione visto che ormai sanno da un po’ della gravidanza. Ma chi sono io per giudicare? Quando sono io a essere felice, faccio anche di peggio.
E poi tutto questo mi trasmette una certa positività, tanto che mi sento già un po’ meglio, già più ottimista.
Andrà tutto per il verso giusto, troverò una nuova stabilità, un nuovo equilibrio, un nuovo lavoro e una nuova casa. E scoprirò chi è il proprietario della Megalo.
Sì, oggi è il primo giorno della mia nuova vita. Addio passato, benvenuto presente.
Il suono del campanello riecheggia nitido per la casa ma Law e Koala non sembrano farci troppo caso, specie quando mi offro immediatamente di andare io ad aprire.
Cammino all’indietro, strusciando i piedi per terra e disegnando delle onde con le braccia, fino al corridoio. Giro su me stesso, posa da “Febbre del sabato sera”, e poi mi avvio alla porta con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
Apro senza nemmeno preoccuparmi di controllare prima dallo spioncino e mi blocco con la maniglia ancora stretta in mano. Il sorriso mi scivola via per lasciare spazio a un’espressione sorpresa quando metto a fuoco l’ultima persona che mi sarei mai aspettato di vedere.
«Ehi ciao» mi saluta con un sorriso.
Cosa ci fa lei qui?  
«Ciao…»
 

 
***
 

Sono troppo in contemplazione di Law per riuscire ad avere una qualsiasi reazione quando il campanello suona.
«Vado io» avvisa subito Sabo.
Aggancio le mani dietro il suo collo, aderendo di più con il mio corpo al suo.
«A cosa pensi?»
Law ghigna, mi accarezza una guancia con la punta del naso. «Tu a cosa stai pensando?»
Socchiudo gli occhi ma non riesco a mettere su la mia espressione di rimprovero. Normalmente non risponderei, gli farei notare che l’ho chiesto prima io, non gliela darei vinta per il semplice gusto di non farlo. Ma stasera è tutto surreale, siamo tutti e due così felici, il suo odore è intossicante e sono talmente in estasi tra le sue braccia che se potessi fermare il tempo, lo farei ora, in quest’attimo.
«Beh…» sorrido, rassegnata  a non potergli negare nulla, figuriamoci una risposta. Ma un attimo prima di rispondere ciò che stavo effettivamente pensando un secondo fa, un allarme si acc ende nel retro del mio cranio. C’è qualcosa che non torna, qualcosa fuori posto.
«Koala?»
«C’è silenzio» affermo accigliata.
Law mi guarda perplesso, solleva un sopracciglio. «Ho provato per un po’ a farti notare che ballare senza musica è stupido, ma tu non m…»
«No, no!» lo interrompo. «Qualcuno ha suonato ma c’è silenzio»
Sabo è andato ad aprire. Se fosse qualcuno che conosciamo dovrebbe già averlo fatto entrare, in caso contrario avremmo dovuto sentirlo comunque dire qualcosa a chiunque si sia presentato alla porta di casa nostra.
Law capisce al volo cosa mi turba e, mano incastrata con la mia, si dirige verso l’ingresso, guidandomi.
Sabo è fermo sulla porta aperta e non sembra in grado di spiccicare verbo. La fase reattiva mia e di Law è perfettamente simultanea quando avanziamo verso la porta.
«Sabo, tutto okay?»
Sabo sobbalza e si gira, rivelando l'identità del nostro ospite, finora nascosto dalla sua mole. Sorriso trasognato, occhi furbi che brillano, zaino in spalla, trolley al fianco.
«Ish!» esclama Law, moderatamente sorpreso.
Ishley corruga le sopracciglia e piega il capo di lato. «Sapevo che "dopo cena" era troppo generico. Non avete ancora mangiato vero?» si preoccupa e solo allora mi rendo conto che in effetti no, non abbiamo ancora mangiato e che anzi mi sono proprio dimenticata che dovevo cucinare.
Ma niente potrebbe intaccare la mia euforia stasera, neppure un cataclisma. E io adoro Ishley, al punto che non mi pongo affatto il problema che si sia presentata qui munita di valige per un motivo apparentemente sconosciuto.
«Tesoro, entra!» la invito con un sorriso. Faccio per avvicinarmi alla porta ma Sabo non mi da il tempo e quasi si lancia per prendere lui il trolley. «No, non abbiamo ancora mangiato in effetti, tu?»
«Se si può definire mangiare... C'è stata un'emergenza e sono rimasta bloccata in ospedale fino a tardi, Law che hai?» dice in un fiato.
Law, la fronte aggrottata, la squadra dalla testa ai piedi e ritorno. «Cerco di capire»
«Te l'ho detto, si è allagato solo metà appartamento, la camera da letto si è salvata. Non devo girare con l'armadio in valigia» spiega ma mi basta un'occhiata per sapere che non erano affatto le dimensioni dei suoi bagagli che Law stava cercando di capire.
«Beh noi ora dobbiamo andare a preparare la cena» annuncio, afferrandolo per il polso per trascinarlo in cucina. «Ish accomodati pure. Metto un piatto anche per te?»
«Non vorrei disturbare più di quan...»
«Non disturbi» la interrompo e lei mi sorride grata.
«Grazie Koala»
Le sorrido a mia volta, prima di sparire in cucina insieme a Law. «Provo a fare un'ipotesi» inizio, ancora di spalle a lui «A Ishley si è allagata la casa, ti ha raccontato che non sapeva dove andare e tu le hai detto di venire qui» mi volto, le braccia incrociate sotto il seno.
«No» ribatte lapidario.
«Eppure il suo comportamento suggerisce proprio questo»
«Me ne ricorderei»
«Eri preoccupato per gli esami»
«Non a questo punto»
Inarco entrambe le sopracciglia. «L'altro ieri ti sei fatto il caffè senza caffè e non ti sei accorto che stavi bevendo acqua calda finché non te l'ho fatto presente io»
Rimane in silenzio, conscio che sì, potrebbe aver effettivamente invitato Ishley a stare qui. «Vado a spiegarle il disguido» mi gira le spalle per tornare in salotto e io mi allungo e lo afferro per il braccio «Ma che fai? Non puoi dirle di andarsene» lo ammonisco con una mezza risata.
«Non vedo alternative, Koala»
«Può stare in cameretta, tanto è presto per iniziare già a sistemarla»
«Non so se è il caso...»
«Preferisci farla dormire con Sabo?»
Squadra la mascella, alterato, e io sghignazzo, fiera della mia provocazione. È quello il punto, c'è già Sabo, non possiamo ospitare anche lei»
Corrugo le sopracciglia, indagatrice «Non possiamo o non vogliamo?» preciso.
Qualche giorno fa mi ha detto che Sabo voleva conoscere Ish e ha commentato che gli mancava solo che si mettessero in combutta.
«Non possiamo»
«Io dico di sì» insisto con calma.
«Vuoi saltare avanti di sedici anni e passare direttamente a due adolescenti in giro per casa?» mi domanda.
Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Law hanno trentuno e ventisette anni»
«Sicura?» domanda, inarcando entrambe le sopracciglia. Scoppio a ridere e mi avvicino a lui per prendergli le mani, mentre Law sospira. «Dovresti avere un po' di tranquillità in questo momento. Almeno a casa»
«Non è possibile, con la famiglia che abbiamo» gli faccio notare, sgusciando tra le sue braccia. «So che vuoi ospitarla» affermo, guardandolo dritto negli occhi.
So che vuole, lo conosco troppo bene. È protettivo con Ishley, da sempre, tanto che se non sapessi che è come una sorella per lui ne sarei gelosa. E credetemi, il solo motivo per cui non ha proposto di mandare via Sabo e ospitare lei è che ha detto a suo fratello che può stare quanto vuole e Law è fisiologicamente incapace di rimangiarsi la parola data.
«Se non avessi detto a Sabo che può stare quanto vuole...»
«Lo so» ridacchio. «Ma non è necessario. Sarà divertente vedrai!»
Law solleva un sopracciglio scettico, poi si accovaccia e posa le mano sul mio ventre mente io infilo le mie nei suoi capelli. Accosta le labbra al mio ombelico e so che sto assistendo a qualcosa che a nessun altro all'infuori di me sarebbe dato assistere, perciò cerco di fissare nella mente questa immagine, il più indelebile possibile.
«Goditela finché sei lì dentro. Che qui fuori è un delirio»
 

 
***

 
«Ho l'impressione di avere interrotto qualcosa, col mio arrivo» indaga ma ci metto un attimo a metabolizzare le sue parole.
Sto cercando di capire cosa mi sfugge.
«Stavamo ballando» rispondo, a scoppio ritardato, mentre continuo a scrutarla. È lei, so che è lei. Ma c'è altro. «Senza musica»
«Senza musica?» ridacchia lei.
È la dottoressa di stamattina, ma c'è qualcosa che non ha niente a che fare con il suo aspetto e che cerca di riportare a galla un ricordo. Non capisco cosa.
«Peccato che avete smesso» aggiunge, senza ironia. «Ma perché ballavate?»
Occhi blu scurissimo, capelli neri, il dettaglio che ho notato senza registrarlo stamattina è la spruzzata di lentiggini su guance e naso. È lei. Sono nel salotto di mio fratello, con la ragazza di fronte a cui ho avuto un attacco d'ansia da manuale per poi perdere i sensi. E la sto fissando da almeno un minuto abbondante a occhi socchiusi e con una faccia probabilmente da scemo.
«Non ne ho idea, io ho seguito il flusso. Quando ci siamo incontrati?» mi arrendo a chiedere. «Oltre a stamattina, intendo»
Shirley – si chiama così, no? – ci riflette un momento, porta una mano al fianco e con l'altra si scosta una ciocca di capelli dal volto, usando solo la base del palmo. E un interruttore si accende nella mia testa. Ho già visto quel gesto, ora mi ricordo anche perché la sua camminata mi sembrava così famigliare. Spalanco gli occhi e le punto contro un dito, alzandomi dal bracciolo.
«Sei la ragazza dugongo!» esclamo ed è lei, adesso, a sgranare gli occhi, in un modo totalmente diverso dal mio. «Sei tu, vero?!»
Sospira, non sembra propensa ad ammetterlo ma la sua espressione parla per lei. È lei, è la ragazza dugongo. E quindi forse è anche...
«E sei la ragazza del "peripatetico", giusto?»
Addolcisce lo sguardo e sorride, sembra quasi colpita ora. «Beccata» ammette, con un cenno del capo.
Ringalluzzito, le vado incontro a braccio teso. «Volevo troppo conoscerti! Io sono Sabo!»
«Il fratello di Law» sorride ancora, prima di stringermi la mano «Mingherlino» aggiunge e io mi irrigidisco un istante, preso in contropiede.
«Oh, lo sai anche tu» commento monocorde.
Grazie mille, Praline.
La mia mano sta ancora stringendo la sua quando Sheila – è Sheila, vero? – scoppia a ridere, cristallina ma discreta. «Io e Praline siamo amiche, non è che lo dice a chiunque. E poi proprio stamattina abbiamo parlato di te...» spiega, facendo spallucce con una spalla sola.
Le mie labbra si piegano da sole in un tipo di ghigno che da tanto non riuscivo a mostrare con spontaneità. Un ghigno compiaciuto. «Ma davvero?»
«Beh dovevo pur mandare qualcuno a svegliarti» mi smonta, con un guizzo negli occhi. «Ci avrei pensato personalmente ma ero impegnata con altri pazienti. Bambini più grandi»
Rimango per un momento senza parole. Sono colpito e al tempo stesso non mi stupisce minimamente che Law abbia perso la calma per un suo commento, non con la lingua lunga che si ritrova questa ragazza.
«Professionale» è tutto ciò che riesco a elaborare in ben dieci secondi. Un figurone, Sabo. Proprio una bella risposta articolata e sagace da vero avvocato.
Non che Shae ci faccia caso.
«Comunque è un piacere conoscerti, Sabo. Intendo conoscerti come si deve. Io sono Ishley» aggiunge e lascia andare la mia mano.
Ishley. Ecco com'era.
Oh beh, ci sono andato vicino comunque.
Passi famigliari e cadenzati interrompono il nostro scambio di convenevoli -uno scambio un po' lungo, lo ammetto- e un odorino niente male si diffonde dalla cucina.
«Ehi Ish, ti accompagno in camera?» Law arriva in salotto e si dirige subito verso il trolley di Ishley. «Se vuoi rinfresc...» si zittisce di botto e mi scaglia un'occhiata assassina quando mi lancio per la seconda volta e gli levo il bagaglio da sotto il naso, un attimo prima che possa afferrarlo.
«La accompagno io, così tu aiuti Koala con la cena» mi offro con un sorrisone.
«E perché non vai ad aiutare tu Koala?» sibila minaccioso.
Corrugo le sopracciglia, fingendomi perplesso. «Oh no. Non mi sembra una buona idea, finirei per mangiare metà degli ingredienti e poi Koala mi picchia e si arrabbia e non è il caso di farla arrabbiare no? E poi noi stavamo chiacchierando»
«Sabo» mi ammonisce a denti stretti ma non attacca. Non mi farò sfuggire quest'occasione così. Non rinuncerò ai racconti imbarazzanti su mio fratello di primissima mano di cui Ishley non solo è sicuramente stata testimone ma che, sono piuttosto convinto, sarebbe anche ben felice di condividere con qualcuno. E lui lo sa.
«Che c'è?»
«Te l'ho già detto. Mi mancate solo voi due che fate comunella» ripete senza porsi il problema di non farsi sentire da lei. E perché mai dovrebbe? Sembra conoscerlo bene quanto me.
«Mi spiace deluderti, ma arrivi tardi» si intromette Ishley, avvicinandosi a me. Appoggia una mano sulla mia schiena, la posa rilassata, e mi lancia un'occhiata di striscio. «Ci siamo perdutamente innamorati e stiamo già organizzando una romantica fuga»
Law la fissa impassibile per un attimo. «Se l'intenzione è andarvene da qui, a me va assolutamente a genio»
Ishley sorride. Ha un viso d'angelo ma il suo sguardo è diabolico.
«Sabo, tu hai già visto Law alla clown therapy?» chiede, girandosi apertamente verso di me e io non riesco a trattenere un sorriso di pura devozione.
«Non ho ancora avuto il piacere» ribatto, complice.
Law si passa una mano sul volto, sospirando. «Oh santo...» comincia ma un pesante tonfo in cucina lo interrompe e spezza il momento di euforia. C'è un attimo di immobilità prima di schizzare a vedere che succede.
«Mi è solo scivolato un coperchio» ci avvisa Koala, un pelo esasperata, appena mettiamo piede in cucina. Ma gravidanza o non gravidanza è questione di un istante perché ci rendiamo conto. Sta preparando la cena anche per noi, dobbiamo e vogliamo darle una mano. Possiamo accantonare le provocazioni e le prese in giro per più tardi.
«Metto la tavola. Dove sono i piatti?» si offre Ishley, intanto che Law acciuffa il coltello per tagliare i pomodori. Ci penso io a recuperarle le stoviglie e mi appresto a darle una mano, se non che mi accorgo del sacco della spazzatura, in attesa di essere gettato.
«Vado a buttare la pattumiera» avviso, mentre già la padella sfrigola di nuovo.
Esco dalla cucina, attraverso l'ingresso, apro la porta, mi avvio verso il marciapiede e, fatti pochi passi, mi blocco. In uno dei posteggi proprio fuori casa c'è una macchina che prima non c'era.
Una Megalo.
Con il cofano e le portiere posteriori a righe bianche e nere e il resto lilla. La Megalo a righe. La mia Megalo.
Sto a fissarla una manciata di secondi, mi giro verso casa, torno a guardare la macchina, un paio di volte mentre il pensiero si sedimenta.
Prima non c'era. Credo di sapere di chi è. Lancio un'ultima occhiata verso la casa e vedo Ishley dalla finestra della cucina e un sorrisetto divertito mi attraversa la faccia.
Non potrò più investigare al riguardo ma non sono deluso. Si prospetta una serata davvero molto divertente.
«Grazie Universo» mormoro sottovoce, con un'occhiata al cielo.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


 
«E poi cosa succede?» domanda sgranando i suoi occhi già enormi, coinvolta dalla mia storia.
Terribile lo ammetto. Sono veramente pessimo a raccontare storie, anche se non lo ammetterò mai e poi mai con Usopp. Con lui continuerò ad aggrapparmi al concetto che non possiamo mica tutti essere bravi come lui. Che è anche vero ma qui basterebbe essere nella media.
E invece no. Faccio proprio schifo, io. Per fortuna Kaya sembra apprezzare lo stesso.
«La giovane esploratrice si cala nel vulcano di cioccolata calda, incurante del pericolo. Ma all'improvviso...uhmmmm»
«All'improvviso?» si esalta Kaya, piena di aspettativa.
«Ahhh... E-ecco...»
«Fai schifo a raccontare storie, lo sai?»
«Zitto tu!» abbaio, girandomi di scatto verso Ninjin, che mi fissa scettico. «Non sei troppo grande per stare qui a sentire le favole?»
«Credevo fosse una storia dell'orrore» commenta, strappandomi un'occhiata furibonda. «Comunque sono qui perché Brulée mi ha messo in punizione per aver lanciato un'altra gara su sedie a rotelle. E ora che ho sentito cosa stai raccontando, scordati che lascio Kaya da sola con te. Ha già la Kawasaki, non le serve anche un trauma»
Ringhio a denti stretti, ma lo faccio solo per nascondere che mi trovo eccome d'accordo con lui. Senza contare che sono colpito.
Ho sempre pensato che un ospedale pediatrico fosse il luogo dove meno parlare liberamente delle malattie che infettano i suoi residenti. Da quando vengo qui, ho scoperto quanto sono stato stupido a crederlo.
È esattamente il contrario. Proprio perché è un ospedale si parla delle loro malattie, se ne parla eccome, e soprattutto con loro, anche se sono bambini.
Il punto non è tenergli nascosta la loro condizione. Il punto è fare in modo che ciò nonostante abbiano un'infanzia. Il punto è essere onesti con loro senza spaventarli. Dargli una responsabilità sulla propria vita, senza trattarli da adulti prima del tempo.
Ninjin, per esempio, non si è rotto tutto lanciandosi da una scala per dimostrare chissà cosa a chissà chi. Stava semplicemente aiutando sua madre a mettere la tavola, quando gamba, caviglia e braccio hanno ceduto a causa dell'osteoporosi infantile di cui soffre dalla nascita. Ha bisogno di saperlo, perché è necessario per lui conoscere i propri limiti. Ha bisogno di sapere che non potrà mai fare parte della squadra di basket, per potersi spendere in qualcosa di più intellettuale, magari senza nemmeno rinunciare al gioco di squadra.
E al tempo stesso la famigliarità con cui parla della malattia di Kaya è un modo per esorcizzarla. Le cose di cui si parla apertamente non fanno paura. Se non cerco di nasconderti qualcosa è perché non c'è pericolo. E per fortuna è davvero così. Quella di Kaya sarà anche una degenza lunga ma, per fortuna, l'infezione al cuore di cui è affetta non è fatale se curata nel modo giusto.
Ne so parecchio, della sua condizione. Non perché mi sia stato riferito dai medici, qui sono tutti molto professionali e attenti e non sono riuscito a far credere nemmeno a quell'armadio a due ante di un infermiere che gira sempre con la bocca coperta che sono un parente di Kaya. Ma tutti i bambini e i ragazzi qui ricoverati conoscono così bene il proprio stato che ne parlano addirittura tra loro e io sto diventando di casa.
Ormai è quasi una settimana che vengo a trovare Kaya tutti i giorni, rigorosamente al mattino. Non volevo rubare a lei e Uso-chan il loro momento speciale, mi sembrava giusto lasciargli per un po' ancora i loro spazi. Ma oggi ho sentito che era giunto il momento. Oggi ho aspettato le cinque per venire qui e ora, insieme a Kaya – e Ninjin – sto aspettando Usopp.
«E quindi, la giovane esploratrice?»
Mi giro di scatto a fulminare di nuovo Ninjin. Kaya stava aspettando che proseguisse ma quest'angelo di bambina non avrebbe mai osato mettermi a disagio o fretta. Il ragazzino di vetro invece sembra averci preso gusto a giudicare dalla sua espressione e, se non sta molto attento, si ritroverà anche un paio di denti triturati. Ormai è fuori dalla fascia d'età che considero infanzia e, per sua sfortuna, non è femmina.
Ma non mi azzarderei mai a mostrarmi violento davanti a Kaya. «Beh la giovane esploratrice... ahmmmm...» mugugno già in panico, proprio quando una voce risuona nel corridoio, insieme a dei passi che saprei riconoscere in mezzo a una folla impazzita. Quella voce e quei passi che sono la mia ancora di salvezza e la mia inestinguibile fiamma di speranza.
«Ed ecco il grande, inimitabile, insostituibile e, soprattutto, l'ho già detto ma lo ripeto, grande capitan Us...» la voce gli muore in gola quando appare sulla porta e mi vede, senza registrare appieno la situazione per sette o otto secondi abbondanti.
A bocca leggermente aperta, sposta gli occhi da Kaya, a me, a Ninjin, a me, a Kaya, a Ninjin, a Kaya, a me.
«...opp»
I suoi occhi schizzano verso il corridoio e io mi preparo ad alzarmi per placcarlo. Ma rimango dove sono perché, anche se il suo istinto gli sta urlando a gran voce di scappare, lo vedo bene che non ha intenzione di andare da nessuna parte. Non finché Kaya lo fissa con tutta quella gioia negli occhi.
«S-Sanji?» tentenna, con un sorriso nervoso. So che si sta ricoprendo di sudore – non per il motivo che vorrei purtroppo – e, anche se è praticamente impossibile notarlo con la carnagione che ha, io mi accorgo che è impallidito. «Ma che c-coincidenza!»
Gli sorrido a mia volta, con l'intento di rassicurarlo ma a giudicare dalla sua espressione non funziona, forse pensa che il mio sia un sorriso omicida, perché comincia impercettibilmente a tremare.
«Io... i-io... tu...»
«Uso-chan» lo chiamo, allungando il braccio verso di lui e preparandomi ad alzarmi molto lentamente. Se lo faccio di scatto come minimo sviene. «Ascolta...»
«Io p-posso spiegare...»
«Usopp tu la conosci la storia della giovane esploratrice???»
Il tempo si ferma per un attimo. Ci giriamo verso Kaya che osserva Usopp piena di speranza, aspettativa e felicità, Merry stretto al petto. Sorride, come ho mai visto i miei fratelli sorridere solo una volta appurato di aver ricevuto ogni singolo regalo richiesto sulla lista dei doni di Natale. Sorride come se dovesse portare il sole nella stanza, come se fosse nel posto più bello del mondo.
È una meraviglia della natura. È da mozzare il fiato.
«Se conosco la storia della giovane esploratrice?! Ma per chi mi hai preso?? Io conosco qualsiasi storia!» Usopp si indica il petto spinto all'infuori, prima di lanciarsi quasi sul letto di Kaya e sedersi accanto a lei. «A che punto siete arrivati?» le chiede, premendo appena la mano sulla sua pancina.
«Al vulcano di cioccolata calda!» si entusiasma lei.
Perplesso, Usopp solleva il capo a cercare una spiegazione da Ninjin che non perde tempo e mi indica con un cenno del capo. Mento alzato e sguardo fiero, mi preparo a fronteggiarlo. Non ho niente di cui vergognarmi io.
C'è un silenzioso scambio di battute, in cui lo metto in guardia se non vuole digiunare per la prossima settimana, poi Usopp sorride e scuote appena il capo.
«Subito prima della mia parte preferita! La pioggia di meringhe»
E improvvisamente è tutto come deve essere e come se fosse sempre stato così e in pochi istanti mi rilasso e mi metto ad ascoltare Usopp, che riesce a rendere avvincente persino una foresta di stecche di liquirizia. Non so esattamente per quanto va avanti ma so che è solo per l'arrivo del controllo pomeridiano e delle medicine che decide di concludere il racconto. E quando usciamo dalla stanza su richiesta del grande e grosso infermiere con la sciarpa so che non si può rimandare oltre, è arrivato il momento di spiegare come stanno le cose. Persino Ninjin ha l'accortezza di allontanarsi abbastanza da lasciarci la nostra privacy, anche se non ci pensa minimamente a tornare nella propria stanza come gli ha ingiunto Katakuri.
Il click della porta che viene chiusa fa sobbalzare Usopp, che sembra rendersi conto per la seconda volta della mia presenza. Sgrana gli occhi preoccupato e la mia espressione seria, atta solo a non spaventarlo ulteriormente, sembra peggiorare le cose.
«Usopp...» comincio con un sospiro. Non capisco cosa teme, di cosa mai ha ancora paura dopo tutto quello che abbiamo passato?
«S-Sanji io... mi dispiace di non avertelo detto io...» balbetta ma almeno non si sta guardando intorno febbrile, alla ricerca della via di fuga più vicina. Mi rilasso un po'. È preoccupato che io sia arrabbiato per le bugie e la poca fiducia che mi ha dimostrato e questo ci sta ma ha anche intenzione di parlarne da adulti. «A-a mia discolpa non ti ho mentito. Mi sono limitato a omettere»
Incrocio le braccia al petto, ancora serio. «E non capisco perché. Avrei preferito saperlo, piuttosto che preoccuparmi inutilmente per l'anello scomparso»
Usopp si zittisce, preso in contropiede. Dalla sua espressione trapela chiaramente che non ha ben chiaro di cosa sto parlando. L'anello deve essere diventata l'ultima delle sue preoccupazioni quando lo ha regalato a Kaya e non posso certo affermare che non ne capisco il perché. La faccenda va ben oltre quello sciocco – sì, sì ho detto sciocco – anello. Qui si parla di settimane a fingere di essere al lavoro fino a tardi anziché dirmi la verità su dove si trovava e perché.
«L'anello? Il problema è l'anello?» domanda, sinceramente turbato.
Mi avvicino di due passi e piego appena il busto per portare il mio viso all'altezza del suo. Lo studio, a pochi centimetri di distanza, la punta del suo naso che mi tocca la guancia, poi sollevo la mano destra, medio e pollice uniti a formare un cerchio, faccio scivolare l'unghia del primo sul polpastrello del secondo e lo colpisco sulla fronte con un leggero schiocco. «Ovviamente non è quello il problema, nasolungo»
«Ouch!» protesta lui, corrucciato, sfregandosi la fronte con due dita prima di registrare appieno la mia risposta e tornare a preoccuparsi. «Senti Sanji... t-tu eri preso con il catering, avevi i tuoi mille pensieri e io non volevo dartene altri. Sai come sei, avresti iniziato a dire che non dovevo stancarmi troppo e... e... e che l'ospedale era lontano e proprio ora che c'è Reiju da noi e poi... poi...»
Non riesco a trattenere un sorriso di fronte al suo balbettare sconnesso, che lo rende così adorabile ai miei occhi offuscati dall'amore. Mi lascio sfuggire uno sbuffo di risa e scuoto appena il capo.
«Uso-chan» lo interrompo con tono conciliante. «Non mi devi nessuna spiegazione»
Sbatte gli occhi interdetto. «Ah... ah no?!»
«Voglio dire, ovviamente avrei preferito saperlo da te ma ho capito perché non me lo hai raccontato. Era il tuo momento speciale con Kaya e anzi mi spiace essermi intromesso, ti giuro che è stato un caso...»
«Sanji...»
«E guarda il fatto è che capisco benissimo, cioè quella bambina ha conquistato anche me, a prima vista» mi passo una mano tra i capelli e sorrido. «È eccezionale. Mi piacerebbe continuare a venire a trovarla anche se...» mi passo di nuovo una mano tra i capelli, nervoso.
Perché sono nevoso?
«Sanji»
«...certo se non vuoi che ci veniamo insieme, posso capire...» lo stomaco mi si contrae in uno spasmo.
Ho seriamente paura che Usopp non mi voglia con sé in questa stanza di ospedale, di fianco al letto di Kaya. E non sarebbe un problema per me venire a trovare Kaya, potrei farlo in altro momento, ma l'idea che Usopp mi veda come un elemento disturbante e invadente mi terrorizza. Ma perché? Capirei delusione, ma terrore.
«...'nque anche al mattino, con il catering ho orari flessibili e...»
«Sanji!» alza la voce Usopp e io sobbalzo ma mi tranquillizzo subito quando vedo la sua espressione. Mi rilasso nel suo sorriso e sorrido a mia volta. Mi sembra sia tutto quello di cui ho bisogno. Ma poi Usopp aggiunge: «Sono giorni che voglio dirtelo per chiederti di venire con me da lei. Non chiedo di meglio che venire a trovarla insieme» con quella sua disarmante sincerità che mostra raramente e a ben poche persone, e io mi sento per un attimo sopraffatto.
Perché è questo tutto quello di cui ho bisogno.
Il che mi porta a pormi delle domande, come per esempio perché mai allora non me ne abbia parlato prima e sto anche per domandarglielo quando molte cose accadono tutte insieme. La porta si riapre, Katakuri esce e un uomo sulla quarantina, capelli brizzolati e occhiali, ci passa accanto dando un'accidentale spallata ad Usopp. Non si gira, neanche gli chiede scusa e la rabbia mi monta dentro in un attimo.
«Ehi!!!» lo richiamo, voltandomi rigido ma ammutolisco quando il tizio entra nella stanza di Kaya.
Un brivido di inquietudine che mi spiego meno di tutto quello che mi sta succedendo oggi mi percorre la schiena e la mano di Usopp sulla mia spalla non fa che peggiorare la sensazione. Non so perché mi sento così, l'ho visto un nanosecondo, nemmeno so chi sia, magari è il padre di una delle compagne di stanza di Ka...
«Ciao zio Kuro» Kaya lo saluta e mi sento un po' sollevato quando sento che è suo zio. La voce della piccola ha perso un po' di entusiasmo ma magari è solo stanca o magari si aspettava la mamma.
«Con cosa stavi giocando?» le domanda Kuro, glaciale e distaccato. Ho l'impressione che non le abbia nemmeno dato un bacio.
«È solo un ciondolo che ho vinto all'asta dei pupazzi. Mi è costato cinque caramelle»
Il mio cervello torna in allerta. L'unico ciondolo che ho visto a Kaya è l'anello di Usopp, perché dovrebbe mentire al riguardo? Abbiamo i badge, non siamo due man...
La stretta di Usopp sul mio braccio interrompe le mie riflessioni, la sua richiesta di attenzione che vince su qualsiasi altra questione. Lo guardo da sopra la spalla.
«Andiamo a casa?» domanda con un sorriso che non sembra avere nulla di finto. «Non possiamo monopolizzarla e poi è da tanto che non stiamo un po' noi due» mi fa notare, ragionevole e lineare.
Non posso dargli torto né posso negare che, anche se mi spiace andare via senza salutarla, Usopp mi è mancato e ho voglia di lui e di noi da soli. Con un sospiro che tradotto vuol dire "Cosa farei senza di te?" afferro la sua mano e la sposto dalla mia spalla, per intrecciate le nostre dita. Mi sporgo in avanti e lo bacio sulla tempia. «Hai ragione. Andiamo»
Ci avviamo lungo il corridoio e mi fermo solo un istante in cima alle scale, per salutare Ninjin. Usopp lancia un'occhiata lungo il corridoio, concentrato su non so che cosa.
«Ehi Ninjin, ci vediamo domani» lo avviso senza ottenere risposta. Mi acciglio e scuoto appena il capo. «Guarda che se continui a fissare il muro con quell'espressione qualcuno penserà che vuoi commettere un omicidio»
 

 
§

 
Sistemo le pieghe della gonna con una mano mentre porto istintivamente l’altra a toccare il complicato intreccio che mi accarezza l’orecchio. Nojiko ha fatto un lavoro eccezionale con la mia ciocca ribelle, che stasera di starsene spettinata con armonia come fa sempre non voleva proprio saperne. No, stasera lei voleva starsene crespa e sparata nella direzione sbagliata, nonostante l’impacco al frutto del diavolo di oggi pomeriggio, la lacca e i numerosi tentativi di darle un senso con il ferro.
Per fortuna ho una sorella eccezionale, che farebbe qualsiasi cosa per me, saprebbe domare persino un leone e per cui una ciocca di capelli è poca cosa. E infatti, non so come, è riuscita ad arrotolarla in una forma a conchiglia che mi sfiora l’elice e occupa buona parte del lato sinistro della mia testa, in un’acconciatura che forse potrebbe apparire eccessiva per quella che apparentemente è una semplice cena, nemmeno nel weekend.
Ma che sia un qualsiasi giorno infrasettimanale o il bicentenario del primo Oro Jackson Day ha ben poca importanza, perché sono le persone che fanno l’occasione e non il contrario e per me, per noi, questa serata merita il meglio che possiamo dare e ricevere.
E se sono felice di sentirmi bellissima non è per me stessa ma per lui. Da tre anni a questa parte il mio obbiettivo in questo giorno dell’anno è essere bellissima per lui.
Per scrupolo mi osservo nella vetrata del Baratie, attenta che sia tutto come deve, i capelli tirati tutti da un parte, il trucco semplice ma eseguito con cura, l’abito rosso amaranto con il corpetto effetto tattoo che quasi mi scappa da ridere ad aver scelto proprio questo. Proprio il vestito che tre anni fa, sempre qui al Baratie, in occasione della cena di prova di quello che doveva essere il suo matrimonio con Law e che poi è diventato il mio con Zoro, avevo prestato a Bibi. Verrebbe voglia di dire “quante cose sono cambiate in tre anni”, se non fosse che in realtà le cose sono cambiate tutte in pochissimi giorni e poi rimaste parecchio stabili per parecchio tempo.
Come me e Zoro che festeggiamo il nostro anniversario al Baratie, nella data esatta fintanto che ci riusciamo, trovandoci direttamente qui al ristorante, dove per forza di cose arrivo sempre prima io di lui.
Lancio un’occhiata verso il giardino illuminato dalle lanterne appese agli alberi, le panchine disseminate qua e là. Di Zoro non c’è traccia e decido di cominciare ad entrare. Con passo sicuro mi avvicino alla ragazza che sta all’accoglienza, che non ho mai visto prima e a giudicare dall’età probabilmente è una studentessa dell’alberghiera impegnata con l’alternanza scuola-lavoro.
«Buonasera» la saluto e lei si distrae per un attimo a guardarmi con ammirazione. Mentirei se dicessi che non mi fa piacere.
«Ah, b-buonasera» si riscuote dopo un attimo. «Posso aiutarla? Ha una prenotazione?»
Sorrido, annuendo con il capo. «Sì, a nome Ror…»
«Mademoiselle Nami-soir» si intromette una voce, un po’ nasale e discreta. «Che piacere vederla»
«Tamago» lo chiamo mentre mi giro verso di lui. «Il piacere è mio» rispondo mentre gli porgo la mano che lui stringe con galanteria. «Paula non c’è stasera» noto la mancanza dell’addetta al ricevimento con cui ho un’ancestrale battaglia in corso da parecchi anni ormai, da quando accidentalmente le ho sgraffignato sotto il naso l’ultima taglia S di uno dei più bei top che abbia mai comprato in vita mia, duranti i saldi. Purtroppo per lei, quando vengo qui sono cliente e una specie di nipote per Zeff, così non ha il piacere di potermi maltrattare apertamente, anche se cerca di farlo in modo sottile, non senza che io mi difenda altrettanto sottilmente. Purtroppo non è una situazione equa, ragion per cui spero sempre che il karma non esista o so con chi sarebbe costretto a prendersela alla fine.
«Da quando abbiamo Esta con noi, Paula riesce ad avere più sere libere-bon» spiega prima di porgermi il braccio e voltarsi verso la giovane receptionist. «Esta, accompagno io la signorina al suo tavolo, s’il vous plaît» la avvisa e Esta mi augura buona serata con un sorriso e un cenno del capo.
«Anche a te. E buon lavoro» 
Ci avviamo lungo il corridoio, quello stesso corridoio lungo il quale tre anni fa mi sono messa a correre proprio per cercare di scappare da Zoro. Come se fosse mai stata davvero un’opzione. Ci metto un attimo ad accorgermi che Tamago mi sta studiando attento e gli dedico la mia attenzione.   
«E così è già passato un altro anno»
«A quanto pare» sorrido a trentadue denti, emozionata. Sì, è assurdo lo so, ma non riesco a farci niente. Ogni anno in queste ventiquattr’ore rivivo quelle folli settimane e ogni anno di più mi accorgo di quanto sarebbe bastato anche il più minimo gesto compiuto in maniera differente per non essere qui stasera.
Tamago torna a guardare davanti a sé, incedendo fiero. «La trovo particolarmente radiosa stasera. Sospetto che molti degli uomini in sala proveranno invidia per il signor Roronoa-s’il vous plaît»
«Ah» porto di nuovo inconsciamente la mano a toccare il torchon sopra il mio orecchio. Mi sento arrossire appena e non certo per il complimento, che mi ha ovviamente riempito di soddisfazione, ma per ciò che sto pensando e che non ho intenzione di tenermi per me. Non stasera. «Sono sicura che le loro mogli e fidanzate non saranno da meno quando arriverà Zoro»
Stasera, più che mai, voglio mostrare al mondo quanto sono fiera di mio marito e quanto sono grata di essere io la donna al suo fianco.   
Tamago mugugna a labbra strette un riflessivo “mmmh” prima di accennare un lieve sorriso. «Ritengo non debba preoccuparsi di questo-bon. Quella fase è già passata» mormora criptico e mi manda per un momento in confusione ma non faccio in tempo a chiedere delucidazioni che giriamo l’angolo, entriamo nella sala ristorante e trovo da me la spiegazione.
Perché proprio al centro della sala, rivolto verso l’ingresso e verso di me, Zoro mi sta già aspettando, seduto al nostro tavolo. Vestito di nero da capo a piedi, niente cravatta, i capelli freschi di rasatura, se non vedo male i suoi orecchini sembrano appena stati lucidati. Penso sia la cosa più bella che abbia mai visto almeno finché non si accorge di me e ghigna e allora mi rendo conto di quanto mi stavo sbagliando.
Mio. Dio.
Ho il cervello disconnesso. Che nessuno mi salvi, però.
Tamago riprende a camminare tra i tavoli, probabilmente conscio del fatto che in alternativa lo avrei trascinato io. Per tutto il tempo i miei occhi non interrompono il contatto con quelli di Zoro, nemmeno per un istante, nemmeno quando Tamago mi scosta la sedia e mi aiuta ad accomodarmi, nemmeno quando lo ringrazio per la sua gentilezza.
«Vi porto la carta dei vini-soir» si congeda senza aspettarsi nulla di più.
«Grazie Tamago» Zoro si ricorda di ringraziare anche per me, mentre allunga il braccio e mi afferra la mano. Mi accarezza il polso con il pollice, allargando il ghigno in un vero sorriso anche se sempre sghembo. «Buonasera»
«Buonasera» esalo. Ritrovo un briciolo di dignità quando, per miracolo, riesco a mettere su un sorrisetto furbo dei miei.
Gli piace ciò che vede, glielo leggo nello sguardo. Mai, nemmeno sotto tortura ammetterò quanto sono felice di questo, quanto fossi irrazionalmente insicura di non essere abbastanza bella e seducente per lui. Lui che mi troverebbe bella e seducente persino con un sacco di iuta addosso, tra l’altro.
Santo cielo, Nami, che ti ha fatto quest’uomo?
«Ti ho fatto aspettare molto?» mi informo, realizzando solo ora che è parecchio strano, se non quasi sospetto, che sia arrivato prima di me.
«Abbastanza» si stringe nelle spalle con arroganza, ma tanto non me la bevo. Sarà stato qui cinque minuti, o ci sarebbe già un bicchiere di qualcosa al tavolo. Figurati se non perdeva occasione di vantarsi per una volta che non si è perso.
Poso i gomiti sul tavolo e il mento sull’intreccio delle mie dita. «E quale miracoloso allineamento planetario ha portato Roronoa Zoro nel posto giusto all’ora giusta? So che sei stato al lavoro fino alla solita ora, ergo non sei partito in anticipo»
Mi scruta da sopra il romantico centrotavola, posizionato all’altezza giusta per non disturbare il contatto visivo tra i commensali, e si acciglia. «Che fai? Mi controlli?»
«Volevo solo essere sicura che non ti fossi dimenticato. E Johnny mi ha detto che non avevi chiesto di  uscire prima ma che ti eri portato il cambio in negozio»
«Precisamente.  Avevo una consegna proprio qui in zona e Zeff mi ha lasciato cambiarmi nello spogliatoio dei camerieri» ammette, sporgendosi con il busto verso di me.
«A-ah. Ora si spiega tutto» insisto a prenderlo in giro e intanto abbasso le braccia così che possa riafferrarmi le mani. E come io sono poco convincente nel provocarlo lui continua imperterrito a sorridere.
«Buon anniversario, Nami» mormora e un brivido mi percorre la schiena, istintivamente stringo le mani nelle sue.
«Buon anniversario, Zoro» soffio, un attimo prima che Tamago giunga a illustrarci i vini.
Non che gli dia molto retta – a parte quando ci elenca le fasce di prezzo –, lascio fare a Zoro che non mi delude quando chiede del semplice vino della casa. Non ci serve chissà che per rendere questa cena più speciale di quanto già non sia, soprattutto non ci serve spendere un capitale, non dopo il paio di scarpe su cui ho messo gli occhi oggi pomeriggio.
Quasi non mi accorgo del tempo che scorre, attraverso l’antipasto, il primo che solo Zoro prende ma che assaggio un po’ anche io, i secondi consigliati e serviti da Zeff in persona. Mangiamo, scambiandoci forchettate e opinioni, e ci raccontiamo le nostre giornate , proprio come se fossimo a casa perché, non importa dove siamo, basta esserci l’uno per l’altra per fare casa.
Sono nel bel mezzo del mio aneddoto riguardante la mia discesa all’inferno – come ho ribattezzato il reparto stampanti da quando Marco e Izou sono in luna di miele – con conseguente discussione con Jabura, e di come l’ho rimesso al suo posto, quando Tamago ci porta la lista dei dolci e io mi interrompo momentaneamente per dedicarmi alla sacra scelta.
Mi mordicchio il labbro inferiore, indecisa tra la torta al cioccolato e arancia e il sorbetto agli agrumi spolverato di meringhe. La torta so che è spaziale perché è quella del Whole Cake Island ma con questo caldo e tutto quello che ho già mangiato il sorbetto sarebbe decisamente più rinfrescante.
Poi, un pensiero mi coglie. Di certo Zoro vorrà prendere la torta al cioccolato con la crema la rhum ma potrei comunque proporglielo. Non ha problemi a mangiare due porzioni di dolce – al contrario di me – e così potrei assaggiare anche la torta senza rinunciare al sorbetto. Insomma, dopotutto il dolce è la parte più importante della cena, è irrinunciabile.
Prendo fiato e abbasso la lista per fargli la mia proposta ma mi blocco sul nascere. Perché Zoro non sta affatto guardando la lista dei dolci. Sta guardando me. Con uno sguardo e un sorriso che sfiorano la devozione e io sento le guance scaldarsi e il cuore accelerare e un sorriso quasi imbarazzato stirarmi le labbra.
Sollevo la mano a toccarmi il naso e la guancia, poi di nuovo il raccolto laterale. Sembra divertito, magari ho qualcosa di fuori posto che mi rende buffa ma no, è tutto dove deve essere e come deve essere.
«Che… che c’è?» gli domando alla fine.
«Ti amo»
Il sorriso scompare dal mio volto, sostituito da un’espressione che, lo so anche se non mi vedo, non si può che definire rapita. La bocca leggermente schiusa, anche se il fiato mi si è mozzato in gola. Non è per ciò che ha detto. Lo so che mi ama, lo so. È il modo in cui lo ha detto, il modo in cui mi guarda, il modo in cui mi sorride.
Non è semplicemente perché mi ama, è il modo in cui mi ama.
Non so quanto ci metto a riscuotermi, non so da quanto lo sto fissando ma non credo sia molto o me lo avrebbe già fatto notare con qualche arrogante battuta idiota. Sbatto le palpebre e chiudo la bocca.
Cosa… cosa stavo facendo? Ah sì il dolce. Stavo scegliendo il dolce. Il sacro dolce a cui non si può rinunciare.
Ma non riesco nemmeno a pensare da tanto il mio cuore batte e il mio corpo pulsa e c’è anche il problema che non riesco a staccare gli occhi da Zoro che, a giudicare da come mi guarda, sembra non avere alcun dubbio su cosa vuole come dessert e io… io lo amo così tanto… io…
Tamago entra nel margine più periferico del mio campo visivo, la bocca si muove da sola, la lista dei dolci finisce sul tavolo con un lieve tonfo.
«Tamago, il conto per favore!»
 

 
§
 

Gemo incontrollata sulle sue labbra, la sua mano sguscia sotto alla gonna e mi accarezza l’interno coscia, pericolosamente vicina all’elastico delle mutande in pizzo. Mi aggrappo più forte al suo collo quando ruota di centottanta gradi prima che io mi schianti contro il mobile dell’ingresso. Il mio dorso si schianta sul muro e trova per miracolo al primo colpo l’interruttore della luce in entrata, che illumina poco ma ce la faremo bastare, perché da ora in avanti il resto delle mie energie sarà focalizzato sull’unico e fondamentale compito di spogliarlo di ogni singolo indumento.
È stata una tortura resistere fino a casa, non intendo aspettare un secondo di più. Per fortuna Zoro si è tolto la giacca entrando, così che io possa cominciare ad aggredire subito i bottoni della camicia, mentre lui mi accarezza la schiena e il costato a palmi pieni, alla ricerca della lampo e io ringrazio non so bene cosa e chi di aver scelto questo vestito, che si mette per forza senza reggiseno. 
Man mano che gli scopro il petto lascio una scia di baci lungo lo sterno e il solco centrale dei suoi addominali, abbassandomi verso i pantaloni, sopra cui spunta appena l’elastico dei boxer. Una qualche zona del mio cervello, ancora capace di produrre pensieri lucidi, realizza che la cintura è parecchio stretta, sembra quasi essere la sola cosa che glieli tiene su ma non è il momento per preoccuparmi di quando e come lo convincerò ad andare a fare un po’ di shopping per sé.
Strappo l’ultimo bottone della camicia con i denti – glielo ricucirò domani – e mi dedico alla parte più importante. Via la fibbia, via il bottone. Il rumore della cerniera che si apre è un suono tra il paradiso e il nirvana.
Mi rimetto dritta e mentre Zoro sfila le scarpe con il solo ausilio dei propri piedi, apro da sola la lampo laterale del mio vestito senza però spogliarmi. So che vuole togliermelo lui e quando lo fa, quando finalmente le sua mani accarezzano e premono sulla mia pelle nuda è come venire attraversata da una scossa di elettroshock. Il cervello mi va in pappa, rimango con addosso solo slip, scarpe e Zoro. Zoro che mi carica in braccio e mi porta in salotto, mi sdraia sul divano e mi sovrasta, si abbassa su di me, petto contro petto, e mi avvolge con il suo calore, schiaccia il mio corpo nudo contro il suo.
 Infilo una mano tra i suoi capelli e con l’altra mi aggrappo alla sua spalla, baciandogli la basetta e mordendo il lobo su cui i tre pendagli tintinnano il proprio compiacimento. Ringhia sulla mia gola e intanto abbassa le mani per sfilarmi le mutande, quasi arrabbiato per non potermi denudare e continuare ad accarezzarmi al tempo stesso. Sento tutta la voglia che ha di me premere contro il mio pube attraverso i boxer, gli ansimo all’orecchio di prendermi e farmi sua e lui si decide a lasciar perdere le acrobazie e separarsi da me per il tempo necessario a far sparire sia le mie mutande che le sue. Le scarpe le tengo.
A Zoro piace che io tenga i tacchi quando facciamo l’amore.
Sdraiata sul divano, già sfatta, sudata e ansante anche se nemmeno abbiamo ancora iniziato, lo contemplo persa sfilarsi i boxer e restare nudo davanti a me, in tutta la sua statuaria, perfetta bellezza. Contemplo il suo corpo, così rassicurante e solo mio, mordendomi il labbro, e sospetto che la mia visione in questo stato per lui sia altrettanto irresistibile, perché si attarda un istante ad ammirarmi prima di buttarsi, finalmente, su di me.
Se non che, non fa in tempo.
Tre tonfi risuonano alla porta e li sentiamo fin troppo bene da qui. Ci guardiamo perplessi e anche un po’ combattuti. È tardi, chi potrà mai essere a quest’ora? Il sospetto che possa essere qualcosa di importante si insinua inesorabile in noi ma nessuno dei due si muove.
Tratteniamo il fiato, in attesa, l’ardente speranza che sia solo il picchio che ogni tanto viene a fare casino sugli alberi della strada, anche se sappiamo entrambi che è un suono molto diverso.
Ma tutto continua a tacere e noi iniziamo a rilassarci.
«Forse è stata solo un’impr…» comincia lui, speranzoso.
Ma altri tre tonfi lo interrompono. Di nuovo.
«Potrebbe essere solo Moore che ha da ridire di nuovo per…» azzardo e altri tre tonfi stavolta interrompono me.
«Magari non è importante» mormora Zoro. «Possiamo fare finta di non essere in casa. Se è importante qualcuno ci chiamerà al cellulare»
Lo guardo per un attimo colpita da tanta arguzia e poi sorrido, circondandogli la mandibola per attirarlo a me e baciarlo. «Hai ragione» faccio giusto in tempo ad ansare quando un suono di gran lunga più orrido riecheggia come uno sparo nell’ingresso.
La serratura. La serratura che viene aperta da fuori da qualcuno che, evidentemente, sa dove teniamo le chiavi di scorta.
Chi.Diavolo.È?
Non è un posto per niente semplice da scovare, bisogna saperlo e non sono in molti ad esserne al corrente e tra che sta succedendo tutto troppo in fretta e che qualcuno sta per trovarci qui avvinghiati e come mamma ci ha fatti, non riesco a fare un rapido elenco di chi conosce l’ubicazione della chiave.
«Zoro!» lo chiamo sottovoce ma con urgenza.
Non è sicuramente un ladro o non avrebbe bussato.
Zoro coglie miracolosamente al volo e si affretta a sdraiarsi su di me per coprirmi agli occhi di chiunque abbia osato interromperci, io afferro uno dei cuscini più grandi e mi affretto a coprirgli il sedere, bellamente esposto a beneficio di chiunque stia per entrare da quella porta, considerato che potrebbe benissimo trattarsi di una donna.
Potrebbe essere Nojiko, Koala o, il cielo non voglia, mia madre. Dovrei sopportare le sue battute per settimane, mesi forse.
Dei passi risuonano nell’ingresso, io mi irrigidisco ma ho la visuale coperta dalla mole di Zoro.
E poi succede. L’incubo diventa realtà.
«Oh per tutti i kami!»
Non è mia madre. È molto, molto peggio.
«Certo che potreste metterlo come stato di whatsapp almeno!»
Cerco di non credere alle mie orecchie ma è tutto inutile. Zoro sgrana gli occhi, si puntella sulle mani e poi, con una smorfia omicida, gira lentamente il capo per guardarlo da sopra la propria spalla, mentre io sbircio da sotto il suo braccio.
È davvero lui. Perché è qui?! Cosa ci fa?!
«Non so, una cosa tipo “In palestra” con “Palestra” scritto in corsivo o anche “Copulando”» continua imperterrito, ignaro o forse disinteressato ai tentativi di Zoro di incenerirlo a distanza. «Io ho controllato, se ci fosse stato scritto sarei venuto più tardi. Oh scusate» si copre la mano con la bocca. «Il doppio senso non era intenzionale»
«Cosa ci fai qui?» gli domanda Zoro, ringhiando.
«Non sapevo dove altro andare. Voi sapete perché casa di Koala è diventata un albergo per caso? Da letti liberi per tutto il vicinato non gliene è rimasto nemmeno uno» si acciglia e la mia voce interiore geme quando mi accorgo che Zoro si è allungato per recuperare i propri boxer e intanto sta cercando di avvolgermi con una sola mano dentro al plaid invernale che finisce che non mettiamo mai via. È finita. È ufficiale. Niente sesso.
«Oh no, no ragazzi che fate?! Voi continuate pure, io faccio da me»
Mi tiro su a sedere, furente. So che è, ahimè, serio e non ci sta prendendo per il culo ma se non mi da una risposta lo termino.
«Izou cosa ci fai qui?» domando io e non è senza una punta di soddisfazione che lo vedo sobbalzare appena.
Se non che realizzo subito dalla sua espressione che non è a causa del mio tono. Non so come, realizzo dalla sua espressione che a farlo sobbalzare è l’idea di spiegare ad alta voce cosa succede. Improvvisamente preoccupata – anche se mi impongo di continuare a simulare fastidio – mi alzo in piedi.
«Izou…»
Ammutolisco quando allunga il braccio e si tira vicino un piccolo trolley. Che diavolo…
Sposto gli occhi dalla valigia a lui, alla valigia. Non rientravano oggi dal viaggio di nozze? E perché ha parlato di letti a casa di Koala? Cosa sta succedendo?
«Non sapevo dove altro andare» ripete, il tono noncurante ma gli occhi dicono molto di più. «Pensavo di fermarmi qui per un po’»

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Sbuffo sonoramente mentre scorro la schermata a fondo nero ricoperta di fotogrammi cinematografici. Non trovo niente di interessante, ma ho ottime ragioni per credere che sia più colpa mia che di Netflix.
Di norma non sarei così agitato, di norma la prenderei come viene, con autoironia e una buona dose di quella sana arroganza che mi ha permesso di sopravvivere al liceo, all’università e di avviare quella brillante carriera che avevo finché non ho mollato tutto per trasferirmi ad Alabasta. Di norma non sarei preoccupato del giudizio altrui perché so che nella peggiore delle ipotesi potrei cavarmela facilmente con la mia faccia da schiaffi e un sorriso assassino. 
Mi butto indietro sul divano e soffio sonoramente dal naso.
Il problema è che questa non è la norma. Questi sono bambini.
E i bambini, i bambini non sono suscettibili a un sorriso smagliante, non si raggirano facilmente con una battuta cretina che simula noncuranza e disinteresse verso l’opinione che altri hanno di me. I bambini sono esigenti e dicono tutto quello che passa loro per la testa.
Cosa mi è mai venuto in mente?
«Qualcosa non va?»
Con uno scatto, sollevo il volto dalla mano. Ishley mi fissa dalla porta del salotto, è in tenuta da notte con una t-shirt lilla e un paio di calzoncini a righe, i capelli sciolti sulle spalle, lo sguardo indagatore.
«Ehi ciao» la saluto, mettendomi ben dritto. «Credevo avessi in programma di leggere un po’ stasera»
Lascia cadere le braccia lungo i fianchi e avanza verso il divano per venire a sedersi con me. «Quel romanzo è una noia mortale. E poi ho deciso di mollarlo il club del libro. Coi turni al lavoro riesco ad andare a un incontro su cinque e poi stanno sempre a indignarsi per tutto e bevono litri di the» si infervora, lasciandosi cadere sul divano. «Santo cielo, ma che ci trovano le persone nel the?!» spalanca gli occhi, come se questo quesito la stesse ossessionando ed esasperando e forse in effetti è così.
Faccio l’impossibile per trattenere una risata e per fortuna ci riesco. Non voglio che pensi che la sto prendendo per i fondelli quando invece, semplicemente, la trovo adorabile. Non è qui da nemmeno una settimana ma, dal poco che ho visto, ho già capito che è una persona piena di entusiasmo e autoironia, che se ne frega delle apparenze e dice le cose fuori dai denti. Mi trovo bene con lei, a differenza di quelli del club del libro a quanto pare.
«Perché ti ci sei iscritta?» le domando, concedendomi almeno un sorriso divertito per il suo piccolo sfogo.
Si gira a guardarmi e si stringe nelle spalle. «Provare a conoscere qualcuno, fare amicizia»
«Non hai amici al lavoro?» domando senza remore. 
«Essere amici dei propri colleghi e basta vuol dire non staccare mai dal lavoro» spiega prontamente. «Ma penso che preferirei le catene alle caviglie piuttosto che leggere quel mattone»
Stavolta mi concedo almeno una sghignazzata. «E bere litri di the anche» le ricordo.
«Anche» concede, con un sorriso divertito che presto diventa trasognato. «Tu che hai, invece?» domanda di nuovo, chinando appena il capo di lato, le sopracciglia corrugate.
Titubante, la studio qualche secondo indeciso sul da farsi. Ci troviamo in una situazione strana, io e Ishley. Viviamo nella stessa casa ma non siamo coinquilini. “Lavoriamo” – le virgolette sono per me – nello stesso posto ma non siamo colleghi. Siamo coalizzati contro Law ma non siamo amici.
Parliamo tutte le sere a cena ma non abbiamo mai avuto una vera conversazione, e soprattutto non senza Law e Koala presenti, e non conosciamo praticamente niente l’uno dell’altra. So solo che è originaria di Waterwheel, che sarebbe dovuta stare a Raftel solo durante il suo ultimo anno di università ma che ha poi deciso di trasferirsi qui in pianta stabile e che si sta specializzando in chirurgia pediatrica. Mi piacerebbe scoprire qualcosa in più di lei ma suppongo non possa essere uno scambio univoco. Non sarebbe giusto.
«Law mi ha proposto di provare a fare un turno alla clown therapy di gruppo»
«Ah sì, me lo ha detto!» esclama subito lei, cogliendomi alla sprovvista. Intanto sono stupito che Law le abbia raccontato di un dettaglio da lui senz'altro considerato irrilevante. Ma poi mi sfugge cosa le susciti tanto entusiasmo. «Gliel'ho suggerito io. Ti ci vedevo bene» mi sorride, trasognata e io resto senza parole per un attimo.
Glielo ha suggerito lei? Ma mi conosce a malapena!
Il mio prolungato silenzio la insospettisce e il sorriso scompare per lasciare spazio a un'espressione corrucciata. «Ho... Ho fatto male?» si preoccupa e io mi riscuoto.
«Che?! No, no, assolutamente! No cioé io... a me piacciono i bambini e poi così esco un po' dall'archivio, è stata una bella idea. Solo che sono nervoso» ammetto con una stretta di spalle.
«Non sei serio, vero?» si stupisce. «Adorano il Dugongo Kung-Fu e la rubrica di cucina di Praline che riesce persino a bruciare il pane quando lo scongela nel microonde. Ti ho visto con Dellinger, per te sarà una passeggiata»
Pondero un istante le sue parole, ancora colpito da tutta questa fiducia senza fondamento che Ishley sembra avere sviluppato in me. «Beh sì, forse hai ragione... magari è solo questione di non esagerare, un paio di trucchi semplici basteranno...» rifletto.
«Trucchi?» domanda piano lei, quasi che non volesse interrompere il mio intenso pensare. «Fai... fai il mago?»
Mi sembra di cogliere una nota speranzosa nella sua voce e quando mi giro a guardarla lei mi fissa di rimando con aspettativa.
Un moto di divertimento mi coglie e sopprimo appena in tempo un sorriso per mettere su un'espressione serissima e confidenziale. «È un segreto, Ishley» mi guardo intorno furtivo «Ma io sono un mago» mi piego appena verso di lei. «Mago Mingherlino»
C'è silenzio per un momento. Un lungo momento. Troppo lungo.
E quando ormai la mia espressione di finta cospirazione comincia a diventare ridicola, quando sono ormai certo di avere rovinato per sempre qualsiasi buona opinione questa quasi sconosciuta avesse di me, Ishley scoppia a ridere. E la sua risata è come uno scroscio di acqua fresca.
È bella, rigenerante e rilassante. Sorrido, sollevato lo ammetto.
«Mago Mingherlino? Mio Dio ma è geniale!» esclama mentre si scosta una ciocca dal volto nel suo modo caratteristico, usando la base del palmo. «Credimi, non avrai il minimo problema. Quando sarà?»
Anche lei più rilassata, si appoggia allo schienale del divano. Nemmeno mi ero accorto che fosse tesa ma stasera è la prima sera che siamo da soli senza Law e Koala - fuori a cena con un giorno di ritardo per festeggiare il loro anniversario -, da quanto ho capito fa fatica a stringere rapporti e mi accorgo con stupore che, forse, anche a lei farebbe piacere conoscere meglio me e che mi trova interessante​. Tuttavia, nonostante questa improvvisa e inattesa rivelazione, non ho dimenticato la sua espressione speranzosa di poco fa.
«Ancora non lo so. Ma non è detto che tu debba aspettare» ammicco.
Ishley mi guarda interrogativa e sgrana gli occhi quando allungo una mano verso il mazzo Bycicle, appoggiato sul tavolino basso. È chiaro da come si mette sull'attenti che la cosa la interessa. A quanto pare ci ho visto giusto.
«Un trucchetto in anteprima?»
«Sì!» non esita nemmeno.
Decisamente, questa ragazza adora i giochi di prestigio.
Apro la scatolina, sfilo il mazzo. «Mi perdonerai se rimango in borghese» mormoro mentre con mani agili comincio a mischiare, lanciandole un'occhiata di sottecchi, con un ghigno.
Lei sorride – sorride sempre – e ciondola il capo a destra e sinistra. «Mmmmh. Dipende quanto mi colpiranno i tuoi incantesimi»
«Ah» ribatto con il suo stesso tono basso e scherzosamente provocatorio. Non ho ancora smesso di mischiare le carte. «Una sfida insomma. Non potrei chiedere di meglio...»
Con un movimento ben calibrato e teatrale apro le carte in un perfetto ventaglio e glielo porgo.
«Scegline una, guardala e memorizzala» la invito. Ishley non ha ancora smesso di sorridere e fa come le dico. Richiudo il mazzo e ricomincio a mischiare, sempre più impaziente di arrivare alla fine del trucco per stupirla. «Fatto?»mi informo mentre divido il mazzo in due.
Gliene porgo metà quando annuisce e non servono direttive perché riappoggi la carta in cima alle altre. Richiudo con l'altra metà e le allungo il tutto. «Mischia pure»
Esita un solo istante, adesso sospettosa ma anche piena di curiosità, poi lo prende in mano e procede. Io mi trattengo dallo sfregarmi le mani. So che resterà a bocca aperta e non vedo l'ora.
La lascio fare per un po', poi con un gesto gentile la fermo e riprendo il mazzo, lo riapro a ventaglio, lo richiudo e mischio ancora qualche istante, lo divido e ricompongo e a questo punto sono pronto per il gran finale. Tenendolo in un blocco, lo sollevo e giro verso di lei per rendere visibile la carta sul fondo.
«Era questa?» domando, certo della risposta. Che non arriva subito.
Ishley scruta un istante la carta, presa in contropiede. Sembra quasi sofferente quando piega appena il capo di lato per guardarmi. «Ahm... no»
Sgrano gli occhi, rimango immobile per un attimo, poi giro le carte verso di me, fissando deluso la regina di cuori che mi osserva con severità.
Guardo la carta, guardo Ishley.
«Ma...»
Di nuovo la carta, di nuovo Ishley.
«Sei sicura?» insisto e giro di nuovo il mazzo verso di lei.
Sobbalza appena quando si ritrova a fissare la sua carta – l’asso di cuori –, che ha "magicamente" sostituito la regina di fiori. Gli occhi le brillano di stupore e divertimento e io sorrido soddisfatto.
Sì, era esattamente quella l'espressione che speravo di vedere sul suo volto. E le dona anche parecchio.
«T-tu... come... come hai fatto?!» domanda irrazionalmente. Sa che non glielo posso dire e non glielo dirò. «Oddio non l'avevo mai visto questo trucco fatto così!» quasi saltella sul divano, incastrando i piedi sotto le cosce. Poco ci manca che si metta a battere le mani e a me viene da ridere. «Ne hai altri??»
Torno per un attimo serio, colto alla sprovvista. Non era nei miei programmi farle vedere nemmeno questo e da bravo arrogante showman mancato non vorrei certo bruciarmi tutte le frecce al mio arco in una serata.
Ma voglio rivedere quell'espressione, quel sorriso incredulo e quella luce nei suoi occhi. Di colpo, senza preavviso, mi accorgo di quanto meglio mi sento. Oserei quasi dire che mi sento bene.
«Quanti ne vuoi» sogghigno.
E quanto ne vuole lei andiamo avanti, lei che sa fermarsi al momento giusto, lasciandomi ancora qualcosa da svelare. È una che preferisce donare piuttosto che prendere, Ishley. Mi ha dato subito quell'impressione ma ora ne ho la conferma.
«Ehi Sabo» mi chiama dalla cucina, dove sta recuperando la limonata e due bicchieri, mentre io rimetto a posto le carte da gioco.
«Dimmi»
«Secondo te perché Izou non si è voluto fermare?»
Non rispondo subito perché sono stupito dalla famigliarità con cui ne parla, poi mi ricordo che Izou fa volontariato in ospedale ogni tanto e mi domando che criteri usano per scremare chi può e chi non può stare a contatto con quei bambini.
Il tempo di formulare questo pensiero e Ishley sta rientrando in sala con la sua camminata fluttuante e con un vassoio in mano. Mi alzo di scatto per aiutarla.
«Voglio dire... grazie... Ci sarebbe stato posto anche per lui. È vero che i letti sono tutti tecnicamente occupati ma con il futon che si era portato, in cameretta c'era tutto lo spazio»
Poso il vassoio sul tavolino e fingo di riflettere sulla risposta. Fingo perché in realtà la conosco, perché so che la preoccupazione di Izou è la stessa mia. «Immagino non volesse caricare Koala di ulteriore stress. Ci siamo già noi due per casa»
Ishley si acciglia. «Non penso che siamo uno stress per Koala. L'ultima volta che ho controllato ero ancora in grado di lavarmi e mangiare da sola» mi zittisce con una delle sue sagaci affermazioni e io porto una mano alla nuca.
«Sì ma è incinta e tutto il resto...» la voce mi si spegne piano di fronte all'espressione di Ishley.
So di essere esagerato. Lo so. Lo ero con Robin e lo sono con lei ma è più forte di me.
«Voi vi dovete dare tutti una calmata» incrocia le braccia sotto il seno ma dura poco, perché inizia subito a gesticolare ampiamente, un suo marchio di fabbrica a quanto ho visto. «Koala sta facendo una cosa che miliardi di donne, in tutto il mondo, hanno fatto per milioni di anni e un tempo senza nemmeno l'assistenza medica! E lei il medico ce l'ha in casa» aggiunge sedendosi accanto a me.
Io la fisso, senza sapere cosa dire. E dopo averla fissato per un buon dieci secondi, uso la mia miglior strategia.
Cambiare argomento.
«Allora che film guardiamo stasera?» indico il portatile ancora fermo sulla home di Netflix, che aspetta noi. «Ah! Niente commedie romantiche»
Ishley schiude appena la bocca indignata. «Niente sparatutto» replica. »Che hai contro le commedie romantiche?» si informa senza polemica nel tono.
Mi stringo nelle spalle. «C'è sempre una scena in cui qualcuno balla. Non capisco perché devono sempre ballare. Che hai contro gli sparatutto?»
«Non si capisce mai chi spara a chi e spesso nemmeno perché» poi un pensiero la coglie e mi regala un altro dei suoi sorrisi trasognati. «Però mi piacciono i film ambientati in tribunale!»
Lo dice come se avesse trovato la soluzione perfetta per dare una svolta alla serata. E lo sarebbe, eccome se lo sarebbe. La svolta più allettante di tutte e io per un momento mi esalto. Ma dura un momento soltanto.
«Ish io...» esito. «Non posso farti questo» scuoto il capo, costernato. «Guardare con me i legal movie è una tortura. Non sto zitto un attimo» ammetto e sono scioccato da me stesso. È la prima volta che sono io a dirlo. «Ma non dire a nessuno che l'ho ammesso! Soprattutto a Ace!»
Ishley mi guarda un po' incredula e sbuffa una risata. «E chi lo conosce Ace? Ehi e se facciamo la serata a tema?! Mi sembra che su Netflix ci sia quello dei ladri prestigiatori in questo periodo…» spiega e intanto si allunga verso il PC e digita il titolo per trovare conferma alla sua stessa affermazione. «Eccolo!» indica con trionfo il monitor. «Allora che ne dici?»
Ci penso un attimo, le sopracciglia corrugate rivolte all'immagine sullo schermo. Poi mi volto verso di lei. «E se poi mi viene l'ansia da prestazione?!»
«Non dirlo nemmeno per scherzo!» mi ammonisce. Si versa un bicchiere di limonata e si riappoggia allo schienale prima di darmi una lieve gomitata. «Nessuno batte Mago Mingherlino» 

 
§

 
Tiro giù la camicia di Zoro che mi copre al pelo le natiche, mentre mi avvicino al tavolo della cucina per porgergli una tazza di the al mandarino appena tiepido.
È una delle poche cose che abbiamo in comune, io e Izou, la passione per il the al mandarino e il fatto di trovarlo distensivo per i nervi.  
Il mio gesto di coprirmi è puramente istintivo e so che dovrei preoccuparmi molto più di Zoro che, vestito solo di boxer e maglia aderente, si affaccenda intorno al divano-letto in salotto, piegandosi ripetutamente in avanti, con quell’angolazione che Izou tanto apprezza. Non che sembri minimamente interessato allo spettacolo e questo non fa che acuire la mia preoccupazione e designa il the al mandarino come unico punto in comune tra noi, almeno per stasera.
A onor del vero, comunque, Izou ha provato a insistere perché non ci disturbassimo e che avrebbe dormito per terra, sul suo futon da viaggio, ma è più tirato della corda di un arco e una dormita decente è il minimo sindacale che gli serve. Ammesso e non concesso che riesca a dormire.
Scosto la sedia a capotavola e mi accomodo, scrutandolo attenta. Noto con sollievo che la fede brilla lucida e al suo posto sul suo anulare sinistro ma non basta a placare il mio senso di inquietudine. Che sia successo qualcosa lo ha capito persino Zoro, ora il più è scoprire che cosa e il grado di gravità della situazione. Picchietto con le unghie, fresche di manicure, sulla mia tazza di the e mi concedo ancora un ultimo tentennamento prima di rompere il ghiaccio.
«Dov’è Marco?»
Inutile girarci intorno o provare a prenderla larga, con Izou. Se fossi partita dai canonici “come va?” o “è successo qualcosa?” mi sarei dovuta preparare a una lunga sessione di negazione, condita da bugie poco credibili, aneddoti atti a sviare il discorso e un atteggiamento di simulata noncuranza che usarlo per provare a ingannare la migliore amica di Usopp sarebbe come cercare di battere Iva in fatto di cattivo gusto.
Francamente, non ne avevo voglia. Non dopo la brusca interruzione della nostra serata e con tutto il corpo che mi pulsa in protesta alle mancate attenzioni che stava per ricevere – e chissà quando riceverà adesso –.
Anche Izou sembra rendersi conto di non avere  poi molto diritto di protestare, perché inizialmente apre la bocca indignato, poi la rchiude, punta gli occhi sulla propria tazza e dopo un attimo di silenzio risponde monocorde: «A casa».
Non trattengo un sospiro. Anche prendendola di petto non sarà a quanto pare semplice. E ammetto di essere sollevata per la conferma che Marco è vivo e sta, almeno fisicamente, bene. «E tu perché non sei a casa con lui?»
«So che lo troverai incredibile…» sorseggia un po’ di the. «Ma nemmeno io sono in grado di essere in due posti contemporaneamente»
«Izou» lo ammonisco mentre una vena prende a pulsare sulla mia fronte. Ma niente sembra sortire effetto con lui.
«Nami»
«Siete tornati oggi dal viaggio di nozze. È successo qualcosa mentre eravate via?» insisto. Oltre all’ingiustificata invasione del mio spazio intimo adesso si sta sommando anche il nervoso dettato dalla preoccupazione.
Sono pur sempre due dei miei più cari amici e non posso fare a meno di pensare che non è così che dovrebbero stare le cose in questo momento delle loro vite. È tutto sbagliato e non è giusto, ragion per cui mi piacerebbe per lo meno capire.
E forse non ho sparato così nel mucchio con la mia domanda perché Izou si è bloccato con la tazza a mezz’aria, la sta stringendo così forte che non mi stupirei se si crepasse e la sua mano trema leggermente. Ma non sono un’ingenua, lo conosco e non rimango delusa quando si riprende e ricomincia a bere il the come se niente fosse. «È successo qualcosa una volta a casa» risponde, sempre criptico, dopo aver riappoggiato la tazza al tavolo.
Sospiro di nuovo. Così non si va da nessuna parte. Ci vorrebbe Koala, lei saprebbe cosa fare, come prenderlo. Tutto ciò che sono in grado di fare io è tirargli fuori la verità con le pinze. Ci potrebbero volere anche giorni e…
«Lui non è d’accordo con il mio progetto. Stasera finalmente me lo ha detto chiaro e tondo in faccia»
Mi giro a guardarlo incredula. Mi sta dicendo cos’è successo?! Davvero?! E senza che insistessi?!
Mi metterei quasi a gridare al miracolo se questo e il suo tono non fossero conferma che sta veramente molto male. Voglio dire, per confidarsi con me… Anche se non sto capendo esattamente di cosa parla.
«Il punto è che non capisco, è una cosa che mi entusiasma, non ho fatto colpi di testa, economicamente continuo a contribuire eppure lui…» scuote il capo e solo ora mi accorgo che ha gli occhi quasi chiusi e si sta praticamente addormentando con la faccia sul tavolo.
È stanco morto e non credo reggerà per più di qualche minuto ancora. Rassegnata a non poter sfruttare questo raro momento di onestà, mi alzo e lo afferro per il gomito per guidarlo in salotto.
«Mi nasconde qualcosa» biascica, sbattendo rapido le palpebre per cercare di riprendersi. Inutilmente visto che un secondo dopo si schianta contro lo stipite e nemmeno questo riesce a svegliarlo. «Così gli ho lanciato un ultimatum ma per essere credibile dovevo andarmene davvero. Giusto, Nami?» cerca la mia approvazione e io non posso fare a meno di guardare fuori dalla finestra per controllare che il mondo non sta finendo stanotte.
«Marco non potrebbe mai nasconderti niente, Izou» non c’è rimprovero nel mio tono, mentre lo aiuto a sdraiarsi sul divano letto, ringraziando a fior di labbra Zoro per averlo preparato. Izou si sdraia senza tante cerimonie e io faccio il giro per sfilargli almeno le scarpe.
«Sì invece» sussurra con la lingua impastata. «Lo ha detto anche Shirley. E io devo scoprirlo. Devo, Nami» insiste ed è la seconda volta che mi chiama per nome e lo stomaco mi sfarfalla per una qualche ragione sconosciuta. Nemmeno fosse mio figlio che mi chiama “mamma” per la prima volta.
«D’accordo, d’accordo» concedo solo per farlo stare tranquillo. Mi siedo di fianco a lui sul materasso. «Ma a questo penseremo domani, okay?»
«M-mh» riesce solo a mugugnare e io faccio per rialzarmi. «MNami?»
«Dimmi…» lo invito piano, piegandomi verso di lui.
«Graz…» ma il sonno ha la meglio. Beh, per lo meno ci ha provato e per un attimo non riesco a muovermi. Izou mi ha appena ringraziata? Sul serio?
Torno a guardare fuori dalla finestra, poi sollevo gli occhi su Zoro che è rimasto discretamente in disparte ma senza mai lasciare la stanza.
«Mi ha ringraziato!» esclamo sottovoce, indicando Izou che ormai ronfa della grossa. «Cioè quasi»
Zoro sogghigna, con mio enorme sollievo non sembra scocciato. Gli sorrido a mia volta e lui mi tende una mano calda e bronzea. «Andiamo a letto?»
Afferro la sua mano e mi lascio tirare in piedi e contro di lui. Sguscio con le braccia intorno al suo torace, così rassicurante, premo il viso sul suo petto, respiro a pieni polmoni il suo odore.
Potrei restare così per semp…
Un suono cavernoso si leva alle mie spalle e io mi giro incredula verso Izou, che russa come un ippopotamo.
Ommioddio!
Izou russa!
Come un ippopotamo!  
Affannata cerco il mio cellulare e faccio partire veloce una registrazione. Con una cosa del genere in mano, potrò ricattarlo a vita.
Lascio andare il nastro per un minuto scarso e salvo accuratamente il sonoro nella galleria dei contenuti importanti. Poi mi giro verso Zoro, che mi ha lasciato fare senza una protesta o un rimprovero, e annuisco soddisfatta.
«Okay. Ora possiamo andare a letto»

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Spazzo via i granelli di pasta e corn-flakes con un gesto della mano e lancio un’occhiata in tralice a Praline che, imperterrita e apparentemente ignara, continua a sgranocchiare le rose del deserto che le ho comprato, sbriciolando sulle cartelle che sto aggiornando e sui fogli di clown therapy che dovrebbe compilare. Una goccia di cioccolato lascia una strisciata scura nel bel mezzo del riquadro e io la fisso qualche secondo prima di strappare il foglio e ricominciare da capo.
Non vedo l’ora che arrivino i tablet. Il nostro donatore anonimo non smette di farci regali e tutti saremmo ben felici di ringraziarlo, se solo rivelasse la propria identità. Grazie a lui avevamo già tutte le attrezzature necessarie quando ci è arrivata la donazione del senatore Jinbe, che abbiamo così potuto deputare interamente all’avvio del reparto di neonatologia. Law ha quasi sorriso in pubblico, quel giorno.  
«E quindi come va a casa Trafalgar?» domanda Praline mentre sbocconcella il terzo biscotto. Io resto focalizzata sulla cartella.
«Ma molto bene, sai? È piacevole avere dei coinquilini» sorrido, ripensando all’altra sera, almeno finché non mi accorgo dell’occhiata troppo interessata e lievemente perplessa di Praline e mi affretto a cambiare argomento prima che attacchi con un terzo grado. «Anche se ovviamente casa mi manca. Per fortuna mi hanno detto che non ci vorrà poi molto a sistemarla, l’unica rogna è che dovrò ridipingere il salotto e la cucina»
«E certo» commenta lei senza pietà. «Perché li usi così tanto. Hai sempre qualche ospite per casa, tu, ogni settimana»
Sollevo il capo sorpresa e per un momento interdetta, prima di girarmi a guardarla. «Cos’è quel tono giudicante?»
«Io non ti sto giudicando, Ish» sorride, mostrando i suoi denti singolarmente appuntiti. «Io dico solo che un po’ più di vita sociale ti farebbe bene»
«Si può sapere da quando sei diventata guardiana della mia vita sociale?»
«Da quando hai affermato che essere ospite a casa di Law è piacevole»
«Law e io siamo amici» protesto. «E comunque c’è anche Koala. E…»
«Ishley, hai ventisette anni e le uniche persone che conosci lavorano in questo ospedale»
«E che male c’è? A me sta bene, e poi non è come se a Waterwheel avessi chissà quante amicizie!»
«E le compagne della scuola di danza?»
Mi stringo nelle spalle, fingendo di non sentire quella punta di delusione che prova a bucarmi la bocca dello stomaco. «Tutte scomparse quando ho annunciato che sarei rimasta a Raftel. Non le sento da quasi tre anni» Non sono venute nemmeno tutte alla mia laurea. Solo due di loro in “rappresentanza”. «Law si è fatto Raftel-Waterwheel per sentirmi discutere la tesi. Non è il sociopatico che tutti dipingete!»
E i miei genitori ci sono rimasti anche parecchio male quando hanno scoperto che era già preso. D’altra parte, non hanno mai potuto sopportare Drake e se ci ripenso nemmeno io so perché ci stavo insieme, in effetti.
«M ti serve un’amica donna»
«E tu cosa sei?»
«Oltre a me che ho quarant’anni e sono sposata e sono disponibile a portarti per locali ma devo pensare anche a mio marito ogni tanto»
Sgrano gli occhi e soffio dal naso incredula. Ma cos’è? Sta giocando a “troviamo un problema per ogni soluzione”?
«Senti, Pr…» faccio per mettere in chiaro che sono perfettamente in grado di badare a me, che non sento il bisogno di andare per locali e che se il problema alla fine si riduce una volta ancora alla mancanza di attività sessuale nella mia vita allora piuttosto mi compro un vibratore purché la smetta, ma tutto il discorso va a ramengo quando una figura si getta quasi dietro al bancone e ci si nasconde sotto, sgusciando tra le nostre gambe. Perplesse, io e Praline indietreggiamo e abbassiamo gli occhi su Aisa, accovacciata a terra con il fiatone.
«Tutto bene?» le domando, accigliata e lei si limita ad annuire.
Mi scambio un’occhiata con Praline, convinta dalla risposta di Aisa quanto lo sono io, ma non serve dedicare altro tempo ed energie a indagare quando Reiju si avvicina al bancone e con eleganza ci si appoggia con entrambe le braccia. «Aisa è qui?» domanda con un sorriso. Dal suo atteggiamento è chiaro che non vuole sbandierare la posizione di Aisa ai quattro venti, così sia io che Praline ci limitiamo a indicare discretamente verso il basso.
«Ha incontrato l’uomo nero?» domanda Praline con un sorrisetto di scherno.
«No, è solo una tsundere patologica»
«Ehi!» protesta Aisa da sotto il bancone. «Io non sono una tsundere, sono solo una donna indipendente che cerca di difendere il proprio diritto all’indipendenza!»
«Rannicchiandoti sotto il bancone dell’accettazione?» le chiede Reiju sporgendosi appena.
«Questo atrio è spaventosamente privo di luoghi nasc…»
«Sh!» la zittisce Reiju, notando qualcosa da sopra la propria spalla. O meglio qualcuno, scopriamo dopo un attimo, quando Killer e Kidd attraversano l’ingresso, diretti alla sala ricreazione. Li seguiamo con lo sguardo – io non ho ancora capito cosa sta succedendo – e Killer ci sorride e fa l’occhiolino non appena se ne accorge.
«Buongiorno signore»
«Dovresti spostarti prima di salutare, Kira. Dietro al tuo ego non ti si vede» gli risponde Reiju, prima di lanciare a Kidd un’occhiata maliziosa. «Ciao Kidd» soffia un saluto a cui lui risponde con un grugnito e dopo un altro attimo il momento California Dream Men finalmente giunge al termine. Mancava solo la camminata a rallentatore. «Okay sono andati» avvisa Reiju, tornando a un tono normale. «Puoi uscire»
«Resto qui ancora un attimo, per sicurezza» risponde Aisa dal pavimento e Praline si piega in avanti, divertita come non mai.
«Hai un problema con Kira-kun, Aisa?» sorride psicotica.
«Praline, ti prego. Sembri Izou, soprattutto con quel “Kira-kun”» si indigna lei, cambiando posizione per poterci vedere meglio. «Comunque mi spiace se vi ho interrotto»
«Non parlavamo di niente di importante» metto subito le mani avanti io, metaforicamente e non.
«Discutevamo sul bisogno di Ishley di uscire più spesso, visto che trova piacevole stare a casa di Law»
«Uh» commenta Reiju, aggrottando le sopracciglia. «Questo è grave»
Schiudo le labbra incredula. «Ma che…  Io… Sentite non possiamo vederla come “una donna indipendente che difende il proprio diritto all’indipendenza”?» la butto lì, speranzosa.
«Beh questo sarebbe strano perché è la definizione di tsundere e tu non sei una tsundere» spiega Reiju ed è pure seria, mentre lo dice.
«Nemmeno io sono tsundere, Rei» protesta di nuovo Aisa. «Ho un sacco di caratteristiche che le ragazze tsundere non hanno»
«Per esempio?»
«Mi piace fare shopping» afferma con orgoglio e poi si illumina, colta da un’idea improvvisa. «Ehi, andiamo a fare shopping tutte e quattro insieme?»
Un brivido mi percorre la schiena. Shopping. Ha proprio detto “shopping”?
«Ma quest’idea è geniale» commenta Praline, girandosi a guardarmi con lo stesso sguardo della bambola assassina.
No, non è affatto geniale. Non poteva proporre di andare a mangiare un gelato? Io odio fare shopping. E quindi forse sono più tsundere di quanto si pensi, o forse no, perché la verità vera è che non lo so se mi piace o non mi piace fare shopping. La verità vera è che non sono capace di farlo.
E intanto loro sono andate avanti, Praline ha tirato fuori i turni delle prossime settimane e stanno già scegliendo un giorno comodo per tutte e quattro, giorno che trovano facilmente visto che io e Praline abbiamo una marea di turni e riposi coincidenti e che Aisa e Reiju sono in pausa esami. 
«Allora aggiudicato! Va bene, Ish?» la voce di Aisa mi riscuote.
«Ah?! Ah beh, io…»
«Ish, eccoti! Ti stavo cercando»
Santo cielo, ma che è oggi?!
Non registro nemmeno la voce che mi chiama, il cervello ancora troppo impegnato a capire come sono rimasta invischiata in una sessione di shopping selvaggio con due adolescenti – sono appena uscite dalla pubescenza dopotutto – e Praline, ma mi giro d’istinto verso il suo proprietario e mi sorprendo quando lo riconosco.
«Sabo!»
Mi stava cercando? Davvero?  Sono ancora più sorpresa ora, ma non riesco a trattenere un sorriso quando mi saluta con un “Ciao” che ricambio.
«Senti, ho detto a Law che vado oggi io a fare un po’ di spesa. A te serve qualcosa?»
«Oh» mi coglie alla sprovvista e cerco di scandagliare rapidamente lo stato di frigo e dispensa di stamattina. «Credo il latte di mandorla, l’ho quasi finito. Ma devo darti soldi o…»
«No, no tranquilla, c’è ancora abbastanza nel fondo comune» mi interrompe sempre sorridente. «Allora okay. Se per caso ti viene in mente altro mandami un messaggio. Ci vediamo dopo a casa»
«Mi spiace non accompagnarti ma oggi smonto tardi»
«Non ti preoccupare. Vorrà dire che mi aiuterai con la cena» mi fa l’occhiolino e scuoto appena la testa, divertita. «Ora vado. Mademoiselles» saluta con un cenno del capo generale per poi focalizzarsi solo su Praline e ancora più galante mormora un: «Madame»
Nessuna risponde ma Sabo non pare farci minimamente caso mentre si allontana a grandi passi. È di ottimo umore e sembra che l’ansia per il turno di clown therapy sia svanita nel nulla. Sono contenta. Almeno finché non mi accorgo di tre paia di occhi puntati addosso, in attesa di una spiegazione.
Che hanno da guardarmi così? Quand’è che Aisa è uscita da sotto il bancone?
«Che c’è?» domando alla fine, ormai conscia che non saranno loro a fare la prima mossa.
«Fondo comune? Spesa?» domanda Aisa.
«”Ci vediamo dopo a casa”?» interviene anche Reiju.
«Ishley, tesoro, non è che per caso ti sei dimenticata di dirci che anche Mingherlino sta a casa di Law e Koala?»
Sbatto le palpebre, perplessa. «Non è mai capitato di parlarne e prima stavo per dirlo ma mi hai interrotta» non capisco davvero cosa stiano cercando di insinuare. «Mica l’ho tenuto nascosto di proposito. E poi cosa cambia scusate?»
«Cosa cambia, chiede lei» ridacchia Praline. «Tutto cambia, Ish! Ora capisco perché è così piacevole stare a casa di Law» ammicca e io inorridisco.
Aspetta, non starà dicendo che… non penseranno mica…
«Non è per quello!»
«È lui il coinquilino»
«Io e lui siamo i coinquilini perché Law e Koala sono a casa propria. Questo discorso non ha senso! Sabo non mi interessa in quel modo!»
«Eppure il suo nome lo hai memorizzato alla fine» insiste Praline.
«Viviamo insieme da dieci giorni» protesto con ovvietà, rendendomi conto troppo tardi che questo peggiora solo la situazione. «Oh santo…» mi passo una mano sul volto.
«Ish, guarda che è una scelta più che comprensibile» mi rassicura Reiju. «Ha un sorriso che uccide, l’ho sempre pensato»
«No, ragazze, io non…»
«È tutto un piacere per gli occhi, mica solo il sorriso» ammicca anche Aisa, prima di accigliarsi. «Che poi perché “Mingherlino”? A me non lo sembra affatto»
«Ho i miei parametri molto personali» si stringe nelle spalle Praline. «Ma sono certa che a breve avremo informazioni di prima mano sulle sue reali “misure” e…»
Oh per l’amor del cielo! Questo è troppo!
Accatasto le cartelle e rapida sguscio fuori dal bancone, diretta agli ascensori. Mi conviene andare in infermeria al primo piano se voglio combinare qualcosa che rassomigli anche solo vagamente al mio lavoro, oggi.   
L'ascensore è occupato e devio diretta per le scale. Con le braccia cariche di cartelle mi tocca prendere la porta del piano a spallate e anche così riesco solo a socchiuderla. Mi ci puntello con la spalla e mi preparo a usare tutto il mio peso – forse dovrei davvero decidermi a mangiare più di una banana quando faccio le dodici ore – per spalancarla ma mi fermo prima ancora di iniziare a spingere.
«Che cosa vuole?»
È la voce di Law ed è orientata proprio verso questa direzione, oltre che spazientita.
«La sto infastidendo per caso?» domanda un'altra voce, che ho già sentito ma non mi è poi così famigliare.
«Sto lavorando, signor Krahador, non è niente di personale» risponde Law, giusto mentre entra nel mio campo visivo, voltandosi verso il proprio interlocutore con uno svolazzo del camice. Lascio che la porta abbia la meglio su di me e si chiuda un altro po', lasciando giusto uno spiraglio per permettermi di vedere senza rivelare la mia posizione.
In pochi secondi un uomo sulla quarantina, brizzolato, mani in tasca e passo strascicato quanto la sua voce, raggiunge Law e si ferma a pochi passi da lui. È più per l'atteggiamento che per l'aspetto che lo riconosco.
Kuro, lo "zio" di Kaya.
Lo squadra attraverso gli occhiali da vista, prendendosi il proprio tempo, sopprimendo a stento un sogghigno. Vuole fargli perdere tempo di proposito, per farlo innervosire. Sono pronta a intervenire ma so che Law è fatto di ben altra pasta e infatti non mi delude quando prende un bel respiro e a sua volta fa scivolare le mani nelle tasche.
«Dunque mi dica»
«Ritengo che Kaya stia ricevendo visite indesiderate»
Law si irrigidisce, i suoi occhi scattano una frazione di secondo verso il corridoio delle bambine ma riprende subito il controllo.
«Posso sicuramente chiedere a Katakuri di riferirmi qualunque strano movimento ma le dico già che la sicurezza è una questione molto seria per noi. Senza contare che la psicologa non ha segnalato nulla di anomalo nella cartella di Kaya»
«Quindi mi sta dicendo che è sicuro che Kaya non ha ricevuto visite all'infuori di me?»
«Sto dicendo che sono sicuro che non fossero indesiderate» gli tiene testa Law, senza colpo ferire.
Si è anche rilassato, nonostante il giusto fastidio che le insinuazioni di questo tizio gli suscitano. Ma sa di essere nel giusto e poche persone sono in grado di batterlo in una sfida di logica e parole. E in genere si tratta di donne.
Kuro perde per un attimo la sua spavalderia e squadra la mascella, per poi sfilare una mano di tasca e portarla a sistemarsi gli occhiali, gesto chiaramente teso a prendere tempo per ricomporsi.
«Trovo singolare...» ricomincia infatti dopo un attimo «...che un posto che prende tanto seriamente la sicurezza, permetta a dei visitatori che non sono parenti di girare liberamente in un luogo pieno di bambini»
Law solleva un sopracciglio, per niente toccato dalle parole di Kuro. «Noi facciamo la clown therapy qui signor Krahador. E indubbiamente a Kaya sarà capitato di ricevere una visita indiretta dai parenti delle sue compagne di stanza»
Kuro si sfila gli occhiali e con un piccolo panno in microfibra prende a pulirli con perizia. Vuole simulare calma e padronanza della situazione ma i movimenti rigidi tradiscono il suo nervosismo. I ruoli si sono ribaltati.
Law attende paziente, è chiaro il messaggio che vuol far passare. Non sta aspettando perché Kuro ha una qualche autorità su di lui ma perché lui ha deciso di aspettare.
«Quand'è così...» Kuro si rimette gli occhiali. «...ritengo sia meglio spostare Kaya in una stanza singola e sospendere la clown therapy»
Un brivido mi percorre la schiena. Che cosa ha detto?!
Anche Law si sistema gli occhiali. «Non è possibile» risponde e, da come reagisce Kuro, sembra che lo abbia schiaffeggiato.
«Come...»
«Non ci sono stanze a sufficienza per lasciare anche solo un bambino da solo»
«C'è un intero piano inutiliz...»
«Quel piano è destinato a diventare il reparto di neonatologia. Per quanto riguarda la clown therapy la psicologa ha sempre rilasciato referti molto positivi su Kaya e sebbene non possa guarirla dalla Kawasaki le fa senz'altro molto bene...»
«Qualcuno la importuna, le dico. Le fanno anche dei regali»
«...pertanto in quanto suo medico curante ritengo di non poter soddisfare la sua richiesta»
«Chi si crede di essere per ignorarmi così?» sputa avvelenato Kuro e la sua facciata comincia a crollare. Law squadra le spalle. Non ha intenzione di umiliarlo ma credo che per chiarire le cose sarà inevitabile.
«Io chi mi credo di essere?» si acciglia, tranquillo. «Lei non è un parente di Kaya, non ha la patria potestà. È solo il tutore legale, non è medico e comunque non sarebbe il medico della bambina, perché quello è il mio ruolo. Perciò, stando così le cose, finché siamo tra queste mura, il mio parere non è solo quello che conta ma anche quello definitivo. Ora, se non le spiace, ho dei pazienti che mi aspettano. Buona giornata»
Law si gira ma riesce a fare solo due passi.
«Posso pagare» mormora Kuro, d'altronde ignaro che ci sia qualcuno che origlia, convinto di avere solo Law come pubblico. Law si immobilizza ma non si volta a guardarlo. Non ho idea di cosa stia pensando in questo momento. Forse sono anche preoccupata di scoprirlo. «In un normale ospedale una stanza singola costa più di una quadrupla. Ci si potrebbe accordare per aggiungere qualcosa al ticket»
Law finalmente si gira e anche se è calmo, sembra fuori di sé. Ricordo quando l'ho visto così l'ultima volta. La notte del crollo al KamaBakka, mentre cercava Koala in pronto soccorso. Solo che quella volta non sembrava anche pronto a commettere un omicidio.
«Signor Krahador...» comincia, calmo. Poi in due passi torna verso Kuro e si ferma solo una volta invaso il suo spazio personale, torreggiando su di lui. «...non si azzardi mai più nemmeno a pensare che sono corruttibile. E ora se ne vada dal mio ospedale»
Kuro sgrana gli occhi, indignato. «Non può cacciarmi»
«L'orario di visita è finito e lei non è né un parente né un volontario. Se ne vada»
Per un attimo mi aspetto che Kuro gli tiri un cazzotto. Sono pronta a mollare le cartelle e afferrare il cellulare per chiamare qualcuno, Katakuri o Kidd, ma Kuro ci ripensa e indietreggia, non senza un ringhio sommesso. Si sistema la giacca, si ricaccia bene gli occhiali sul naso e si riavvia i capelli prima di tornare a guardare Law.
«Allora buon lavoro dottore» lo saluta. Se qualcuno arrivasse adesso non direbbe mai che si sono appena pestati a parole. «Ci vedremo presto» aggiunge e per la seconda volta rabbrividisco.
Law non si muove di un passo mentre Kuro finalmente se ne va. Quando l'ascensore si richiude alle sue spalle, si gira nella mia direzione e capisco subito che è inutile restare nascosta. Mi ha vista. Non so come, sarebbe più preciso dire che mi ha percepita, ma comunque sa che sono qui.
Spingo con la spalla, la porta si apre lentissima e cigolando appena. Mi ci appoggio di schiena, le cartelle sempre tra le braccia, e ci guardiamo per un lungo istante. Non c'è bisogno di dirlo a parole. So che sta pensando quello che penso io.
Questa faccenda puzza, non è finita e non ci piace per niente.

 
§

 
«Jonnhy lascia lì che vado avanti io con quelle scatole»
Aspetto paziente che Zoro dia segno di essere concentrato sulla telefonata, anche se ha già risposto. Normalmente mi darebbe fastidio, voglio dire, prima di prendere la telefonata finisci di dire quello che devi e poi rispondi. Ma i tempi reattivi di Zoro quando vede che c'è il mio nome sul display sono sempre molto più brevi rispetto a qualsiasi altra delle cose che fa nella vita di tutti i giorni, e mentirei se dicessi che la cosa non mi fa piacere. Così, ferma al semaforo in uscita anticipata dal lavoro, l'auricolare all'orecchio, con la pazienza che riesco a trovare in me, aspetto.
«Nami, eccomi!»
«Ciao!» lo saluto spigliata. Sono così felice di sentirlo. Sono giorni che mi sento stupidamente innamorata e non posso nemmeno ricollegarlo alla notte di fuoco del nostro anniversario, dal momento che non c'è stato nessun fuoco alla fine.
«Ciao» sussurra lui. «Tutto bene? È un orario strano per chiamarmi» mi fa notare e dalla voce sento che è già in preallarme.
«Tutto bene. Sono uscita prima dal lavoro, Iva ci ha chiesto di recuperare qualche ora di straordinario, quindi volevo avvisarti che sto già andando a casa. Ma se serve vengo a prenderti dopo»
«Tranquilla, mi faccio dare uno strappo da Jonnhy» declina ma sento il ghigno nella sua voce. È difficile che io mi offra di fare un favore gratuito e che anzi richiede anche un dispendio di qualche forma di bene –benzina in questo caso – ma per lui farei questo ed altro. E la cosa lo riempie di fastidiosa e tronfia soddisfazione. «Pensi di indagare visto che stai già andando a casa?» mi domanda poi, ora serio.
Svolto sulla via principale che porta al nostro quartiere. «Se lo trovo a casa, vedrò cosa riesco a fare»
Izou è stato latitante per tutto il weekend, al punto che a un certo punto mi ero quasi illusa che l'emergenza fosse già rientrata e lui tornato da Marco. Ma è sempre rientrato puntuale per cena eppure non c'è stato verso di tirargli fuori mezza parola riguardo la sua situazione. Si è aggrappato per tutto il tempo alla scusa che non voleva rovinare i nostri momenti di coppia ma se arrivo a casa più di tre ore prima di Zoro la scusa non sussiste e ho tempo di lavorarmelo ai fianchi. Se veniamo a capo del problema forse riusciamo a trovare prima una soluzione.
«M-mh» mugugna Zoro dall'altra parte e io mi acciglio.
«Cos'era quel mugugno?» indago, il tono è di ammonimento.
«Prendevo coscienza delle tue intenzioni» risponde con nonchalance Zoro.
«Ah-ah. Non era quel tipo di mugugno. Era un mugugno scettico» insisto, per niente incline a lasciar correre. Zoro prova con la strategia del silenzio ma dura poco.
«Mi sembra strano che tu non abbia ancora scoperto qualche informazione in più. Anche se Marco non si è fatto trovare e si è rifiutato di vederti, di solito hai mille risorse per ottenere ciò che vuoi»
«E quindi?»
«E quindi forse Izou ti ha chiamato per nome e ringraziato e avercelo per casa non ti dispiace poi così tanto»
Rimango per un momento senza parole e mi acciglio. «Cosa… stai scherzando, sì?» Insinua che io, io, voglia avere Izou per casa? «Non mi faccio intenerire da così poco! Chi pensi di aver sposato?!»
«Se lo di…»
«Zoro, fai tardi all’appuntamento con Margaret» Johnny lo avvisa, probabilmente passandogli alle spalle a giudicare dall’effetto doppler della sua voce.
Per un momento dall’altro parte del filo il silenzio è assoluto e io rimango in attesa qualche secondo. «Zoro?»
«Mi chiedo quando la smetterà di comportarsi come se lavorassimo in una multinazionale su sette piani, anziché in un negozio di due locali. Come se passando dal retro alla zona clienti ci volesse tanto»
«Oh amore…» mormoro compassionevole. Non ho il cuore di dirgli che è perfettamente in grado di perdersi passando dal retro alla zona clienti e Johnny lo sa, lo sa eccome, per questo si comporta come se lavorassero in una multinazionale su sette piani. E intanto sto imboccando la strada che porta a casa nostra. «Tanto sono arrivata anche io, ci vediamo dopo. Salutami Margaret!»
«Ciao, mocciosa» ghigna ancora, lo so che ghigna e io rabbrividisco mentre spengo il motore e salto giù dal mio amato macinino arancione. Mi fermo sulla porta, le chiavi già in mano e allungo le orecchie per provare a captare qualche rumore ma è tutto molto tranquillo.
Anche troppo considerata l’identità del nostro inquilino, tanto che mi sorge il dubbio non sia in casa nemmeno oggi e così mi affretto a entrare.
«Izou?» chiamo cauta, guardandomi intorno. Il divano è chiuso ma questo non significa nulla. Ho avuto modo di scoprire che Izou è molto ordinato ed estremamente attento alle cose altrui.
Perciò potrebbe avere ripiegato il letto dentro al divano ma essere comunque ancora qui, oppure essersene andato non senza aver fatto partire la lavatrice con dentro le lenzuola.
Poso la borsa al suo posto, lascio le chiavi nella ciotola di legno dipinta a mano sul mobile dell’ingresso. «Ehi, Iz…»
Un rumore fragoroso esplode nel corridoio, fuoriuscendo dalla camera da letto.
La nostra camera da letto.
Cosa sta facendo quell’imbecille nella nostra camera da letto?!
Corro quasi verso la stanza e spalanco la porta. «Izou! Che stai…» mi immobilizzo, le parole stroncate dalla scena surreale a cui mi ritrovo ad assistere. Izou sdraiato a terra, circondato e parzialmente sommerso da stoffe di svariati colori e una macchina da cucire di dimensioni medio-grandi, riversa a terra e mezza smontata.
«Sei tornata prima!» protesta nasale, sollevando il busto e puntellandosi sui gomiti. Avanzo cauta nella stanza, cercando di dare un senso a ciò che vedo. A metà tra dove stava la testa di Izou un secondo fa e i piedi del nostro letto c’è un cesto in vimini che non ho mai visto, le ante della parte di armadio che ho lasciato a Izou per sistemare i suoi vestiti sono aperte, oltre alle stoffe ci sono anche rocchetti di filo e gomitoli sparpagliati ovunque. Mi chino, afferro la macchina da cucire e la studio con occhio critico. È un bel prodotto, il giusto equilibrio tra una fissa e una portatile. Con mani esperte rincastro il coperchio superiore e spingo in dentro il filarello, poi torno a studiare Izou che, in mancanza di una risposta da parte mia, sta lanciando stoffe e rocchetti dentro la cesta alla rinfusa e piuttosto concitatamente.
«Izou, cos’è tutta questa roba?»
«Non è niente okay?» ribatte sulla difensiva. Io, dal canto mio, non ho ancora finito di indagare e scopro presto che gli indizi non sono finiti quando noto un plico di fogli non particolarmente corposo, appoggiato sul letto mio e di Zoro.
Mi avvicino, appoggio la macchina da cucire sul comodino e afferro i fogli, sedendomi sul letto.
«Ehi, rossa, che fai?! Non…»
«Stai imparando a cucire?» domando, sorpresa e accigliata, fissando le istruzioni di base stampate da internet. Tutta roba scontata per me ma probabilmente molto complicata per qualcuno che una nonna sarta non l’ha avuta e che ci si mette all’alba dei trenta.
Sfoglio curiosa, sorda alle proteste di Izou, solo per scoprire che le sorprese non sono ancora finite, quando arrivo a una serie di schizzi che ritraggono abiti di una bellezza indicibile, che vanno oltre la mia immaginazione, di ogni genere. Pantaloni e camice, vestiti lunghi e corti, top, mantelle, cappotti, tutti in qualche modo coerenti tra loro, come se seguissero una linea guida, come se facessero parte di una stessa collezione stilistic…
Oh.
«Izou» mi giro a guardarlo a occhi sgranati. Potrebbero sembrare scarabocchi fatti per ammazzare il tempo ma tutta quella stoffa, che, ora lo so, stava cercando di nascondere, rivela che c’è molto di più. «Stai preparando una collezione di abiti? È questo il progetto?»
«Di un po’, ma ti manca un gene che non riesci a farti gli affari tuoi?» mi rimbecca acido ma io non lo ascolto nemmeno, di nuovo in contemplazione dei suoi disegni. Passo una mano su uno dei fogli, come una carezza leggera, quasi che avessi paura di sbavare la mina della matita. «Sono strabilianti» sussurro a mezza voce, sovrappensiero.
Sorrido, non so nemmeno io perché, nel risollevare gli occhi su di lui e lo trovo che, a sorpresa, ricambia il mio sguardo con l’aria di uno che sta cercando di trattenere le lacrime e la commozione.
«Lo pensi…» si ferma e deglutisce. «Lo pensi davvero?»
«Sono rivoluzionari» confermo. «Non sapevo avessi la passione per il cucito»
«Oh beh» solleva una mano per controllo che il suo come sempre impeccabile raccolto sia tutto al proprio posto. «Lo definirei più un hobby in erba ecco…» cerca di minimizzare ma non mi sfuggono i numerosi cerotti che ha sulle dita. «E comunque non è nulla di c…»
«Spiegami il progetto» lo interrompo e non è per caso che la mia voce esce come un ordine. Izou sgrana gli occhi indignato. Odia prendere ordini, lo so, ma con lui o lo si prende di petto o è fiato al vento.
«Ripeto, ti manca un qualche g…»
«Spiegamelo o puoi anche trovarti un’altra casa dove stare»
Ora è talmente scioccato che devo farmi violenza per non scoppiare a ridere. Boccheggia qualche secondo, probabilmente sta valutando se ha un altro posto dove andare che non sia dai suoi. Farebbe di tutto pur di non cedere a un’imposizione.
«Se me lo dici ti aiuto» aggiungo, suadente ma neanche troppo perché all’idea di mettere mano ad ago e filo di colpo mi elettrizza. «Io so usarla» proseguo, posando una mano sulla macchina da cucire con sguardo eloquente.
Izou prende un profondo e abbondante respiro, le guance un po’ gonfie come un bambino che fa i capricci. «La Baroque Works ha indetto un concorso per stilisti esordienti aperto a tutti. Ho mandato i disegni tanto per ma mi hanno selezionato» esala alla fine.
«Cos… Izou ma è fantastico» esclamo. Non riesco quasi a crederci.
Lui sorride, si stringe nelle spalle un po’ a disagio. Non credevo che avrei mai visto Izou a disagio, per un complimento poi. «L’ho fatto per gioco. La candidatura è stata a Marzo, poi con il matrimonio e tutto non ci ho più pensato. Ma quando mi è arrivata la lettera…» si avvicina e si lascia cadere sul letto accanto a me, sdraiandosi e allargando le braccia. «Oh Nami! Non mi sentivo così vivo, elettrizzato e vivo da così tanto tempo!»
Mi sdraio sul fianco accanto a lui, le braccia piegate vicino al viso, il sorriso che non se ne va, se non quando un pensiero improvviso mi coglie. «Ma perché Marco non è d’accordo?» mi sorge improvvisamente il dubbio.
Se è bello per me vedere Izou così contento, figurarsi lui che lo ama più di se stesso. Non ha proprio senso.
Izou volta il capo nella mia direzione, i nasi che quasi cozzano. «Mi sono messo in aspettativa» soffia il suo piccolo segreto che, in effetti, mi prende in contropiede.
«Che?» domando conferma, piuttosto colpita. Izou adora il suo lavoro, non mi aspettavo una simile decisione. «Alla faccia dell’hobby in erba!»
Stiracchia un sorriso che sembra quasi di scuse. «Da bambino aiutavo mamma con i vestiti di carnevale miei e di Aisa ma so solo infilare aghi e cucire bottoni. Sono indietro rispetto agli altri candidati. Il secondo step sarà una serata di presentazione delle collezioni, che si terrà a Dressrosa tra qualche settimana. Bisogna presentare otto pezzi e i completi spezzati valgono come uno. Ho parecchio da fare e non so nemmeno come si comincia, quindi mi serve tutto il tempo del mondo, non posso farcela lavorando. E probabilmente dovrò comunque rinunciare» conclude con realismo e rassegnazione, agitando le dita incerottate davanti ai nostri visi.
Lo osservo immobile, sdraiata qui sul mio letto che non avrei mai pensato di condividere con nessuno al di fuori di Zoro, men che meno con Izou, mentre un’idea prende forma nella mia testa e solletica i miei neuroni, il mio amor proprio, la mia voglia di lanciarmi e mettermi in gioco. Lancio un’occhiata in tralice alla macchina da cucito.
«Senti… Non ho problemi a insegnarti come si usa la macchina da cucito ma per quello abbiamo tutta la vita. Però, visto che il tempo stringe, che ne diresti di una piccola collaborazione?»
Izou si acciglia, mi studia qualche secondo, cercando di capire l’eventuale secondo fine dietro la mia proposta. Forse non osa crederci. E dopotutto lo da me, che è difficile immaginarmi fare un favore a qualcuno. «Dov’è la fregatura, rossa?» socchiude gli occhi ma io sono così esaltata che, là dove normalmente mi indignerei, scoppio a ridere.
«Nessuna fregatura. Io adoro cucire e il mio è un hobby per davvero. E poi…» mi sollevo con il busto e piego il capo di lato. «…se dovesse andare in porto potresti ringraziarmi con una piccola percentuale»
«Ah ecco!» mi punta contro un indice accusatore ma ora ride anche lui. Santo Roger, perché non mi sono mai accorta che è così divertente stare con Izou? «Rossa subdola e venale che non sei altro»
«Ehi! Non esagerare! E poi accetto anche un pagamento in vestiti» metto in chiaro.
Izou si solleva e si mette seduto sul bordo del letto, lo sguardo perso nel vuoto e la mente in chissà che pensieri. Lo lascio stare qualche secondo prima di imitarlo e posizionarmi accanto a lui.
«Allora…» lo richiamo con una leggera spallata e lui si gira a guardarmi, ancora pensieroso. «Ci stai?» allungo una mano verso di lui.
Izou la osserva, esita, poi sorride e torna a guardarmi in volto, mentre la afferra la mia mano con la propria e stringe appena. «Ci sto!»

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Angolo dell'autrice: 

Buonsalve a tutti gente. Mi prendo giusto due righe per ringrazire, di nuovo, Zomi per avermi permesso di usare Heat secondo la caratterizzazione che lei gli ha dato. 
Sei un genio e un'amica impagabile. Grazie davvero. 
E grazie a tutti voi che leggete. 
Hope you'll enjoy it. 
Page. 









«Buongiorno»
«’Giorno»
«Buongiorno Doc»
«Ciao Sabo»
«Buongiorno» rispondo in automatico, imitando Law che lancia buongiorno in ogni direzione quando entra al Castello, prima di accorgermi che è strano che qualcuno mi saluti chiamandomi per nome. In genere lo fanno di default perché mi vedono con mio fratello ma quasi nessuno sa come mi chiamo, e quei pochi che ormai mi conoscono, usano Mingherlino.
Grazie mille Praline.
Mi giro senza smettere di camminare e mi trovo a fissare Aisa che mi saluta agitando le dita, vicino alla macchinetta del caffè, insieme a Killer e Kidd. Izou non è più tornato a fare clown therapy e lei ormai lo sostituisce ufficialmente. Abbastanza sorpreso, sollevo una mano e ricambio il saluto.
«Buongiorno»
«Buongiorno»
«Ciao Law. Sabo» Reiju mi lancia un sorriso sornione mentre mi passa accanto e io mi giro di nuovo, sempre senza smettere di camminare, per seguirla con gli occhi un momento.
Che succede stamattina?
«Ma che succede stamattina?» domando a mio fratello che sta già studiando la prima della pila di cartelle che Praline gli ha piazzato davanti. Mi scruta di sottecchi, solleva un sopracciglio.
«Lavori qui da un po’ ormai. È normale»
«Eh sì, lo so, ma è strano…»
Il modo in cui mi guardano è strano. E anche il modo in cui mi sorridono. Strano e inquietante.
«Tu sai cosa prende a Aisa e Reiju, Pral… Uh!» salto quasi all’indietro quando, rigirandomi verso l’accettazione, me la trovo a un palmo dal naso, che mi fissa molto da vicino con quella sua espressione famelica.
Parlando di sorriso e sguardo inquietante. Anche tu, Sabo, a chi vai a chiederle certe cose?
«Dormito bene, Mingherlino?»
«Seh. Sono riuscito a non sognarti» ribatto atono e lei fa scattare i denti in risposta, senza smettere di sorridere.
Appoggiato al bancone con un gomito, mi guardo intorno, studiando l’atrio ancora tranquillo a quest’ora e valutando un po’ il da farsi. Vorrei prendere un caffè ma la macchinetta è piantonata dal “Tempo delle Mele” live, con le mie due neo-stalker che continuano a lanciarmi occhiate da brividi, non quelli belli. Sbircio verso Law con l’intento di proporgli di prenderlo insieme al secondo piano ma non voglio distrarlo e a giudicare dalla pila di cartelle ne avrà per un po’. Sto accarezzando l’idea di salire al primo a cercare Ish per proporlo a lei quando noto qualcosa di strano.
Chiariamo. Le cose strane qui sono all’ordine del giorno ma dopo un po’ diventa facile distinguere tra le cose “strane normali” e quelle “strane strane”. Per farla facile, quelle strane strane sono quelle cose strane che non ti è mai capitato di vedere prima tra queste quattro mura.
E per quanto io provi a ricordare, sono piuttosto certo di non aver mai visto quella donna, uno perché è davvero una bellissima donna, due perché sarà almeno un metro e ottanta di gran bella donna e tre perché, se non è la mancanza di caffeina a farmi scherzi, sta pattinando.
«Ehi Law, scusa se ti interrompo ma…»
«Mh?»
«…la vedi anche tu quella donna molto alta che sta venendo da questa parte su dei roller-blade?» gli domando, indicando nella direzione da cui non ho ancora staccato lo sguardo.
Quanto mai accigliato – a dimostrazione che si tratta di una cosa strana strana e non strana normale – Law segue la traiettoria del mio dito e, il tempo di metterla, a fuoco, passa da perplesso a sorpreso.
Ma non un sorpreso sorpreso. Più un sorpreso agitato. Anche se chi non lo conosce lo definirebbe un sorpreso alterato.
Comunque.
«Gerth?» mormora a mezza voce, muovendo due passi verso di lei che con una scivolata degna di un pattinatore professionista, frena a pochi centimetri da noi, mani sui fianchi, sorriso sul volto.
«Buongiorno!»
«Buongiorno» rispondiamo all’unisono mentre io la studio, colpito.
Con le rotelle dei pattini a farle da rialzo è alta praticamente quanto me, capelli di un biondo chiarissimo, occhi azzurro limpido, pelle chiara. Fatico a darle un’età ma penso sia sui quaranta.
«Tutto bene?» ci chiede, spostando gli occhi da me a Law che si riscuote dalle sue elucubrazioni.
«Gerth che ci fai qui?»
«Ho un appuntamento con il dottor Saavedra» corruga le sopracciglia, Gerth. «Mi ha chiesto un consulto per il reparto di neonatologia che volete aprire. Non te l’ha detto? Credevo foste grandi amici»
«E lo avete concordato per oggi, a quest’ora?» domanda Law, secco e sempre più agitato – chi non lo conosce direbbe alterato – «Koala ha il controllo stamattina» le fa notare, dando finalmente un senso alla sua reazione mentre io incasso la notizia con inaspettata calma.
«Lo so, infatti ho chiesto a Narvalo di sostituirmi» ricomincia a sorridere Gerth, flashando anche me che ricambio per gentilezza ma senza perdere di vista mio fratello, il cui sguardo adesso trasmette il picco massimo di preoccupazione a cui è in grado di arrivare. Chi non lo conosce, lo definirebbe omicida.
«Law?» chiamo piano.
«Narvalo» ripete, come se stesse cercando di metabolizzare l’informazione. «Hai affidato mia moglie alla donna che ha un’ossessione per me ed è convinta che Koala sia il solo motivo per cui non apro gli occhi e non mi accorgo che è lei l’amore della mia vita?»
«Ti posso assicurare che se si mette da parte il suo non proprio stabile equilibrio emotivo, Narvalo è una fantastica ginecologa. E poi c’è anche Pen con loro»
«Ah, c’è anche Pen. Adesso sì che sono tranquillo» commenta sarcastico Law. «Scusate, devo fare una telefonata» annuncia, avviandosi verso il giardino, il cellulare già in mano. Io e Gerth lo osserviamo allontanarsi qualche secondo.
«Lo scusi» mi sento in dovere di dire qualcosa, trattandosi di mio fratello. «Di solito è un po’ più educato ma se si tratta di Koala non riesce a ragionare, soprattutto da quando è incinta. Come se poi non fosse una cosa che miliardi di donne, in tutto il mondo, hanno fatto per milioni di anni e un tempo senza nemmeno l'assistenza medica» scuoto il capo, mentre una voce nella mia testa mi domanda se non mi vergogno neanche un po’ ad andare in giro con una simile faccia da culo.
«Eh già» conferma Gerth, tornando a guardarmi. «Ma Law è fatto così, che ci possiamo fare? Comunque. Magari puoi accompagnarmi tu dal dottor Saavedra»
«Ah sì certo» mi guardo intorno, sperando di vederlo svettare da qualche parte. «Praline per caso tu sai dirmi dov’è C…» un tonfo micidiale e metallico rimbomba in tutto l’atrio, chiaramente dall’astanteria. «…ora. Non importa, credo di averlo appena trovato. Prego» le faccio segno e mi avvio, cercando di adattarmi come posso alla sua fluida andatura, mentre mi scivola accanto.
Non so bene di cosa potrei parlare con una quarantenne che gira in roller-blade e a cui a quanto pare è affidata la salute di mio nipote, una scelta su cui mi sentirei di opinare.  Per fortuna però l’astanteria è veramente dietro l’angolo e quando ci arriviamo scopro che di tempo per le chiacchiere non ce n’è, visto che Cora è spalmato a terra, sotto a metà del contenuto della scaffalatura a muro che, non so per quale miracolo divino, è intatta, ancora in piedi e senza nessun segnale di incendio in via di espansione.
Seriamente, devo dare un’occhiata all’assicurazione che hanno scelto per l’ospedale, verificare che copra un range di possibili danni abbastanza ampio e, in caso contrario, cercarne una alternativa. Seriamente.
«Cora, stai bene?» mi precipito verso di lui e lo aiuto a liberarsi di pacchi di garze, cateteri, macchinette per l’ossigeno e un paio di stetoscopi di riserva ancora incartati nel cellophane.
«Ehi Sabo! Come stai, figliolo?» mi saluta entusiasta mentre si rimette in piedi, spazzolando via la polvere dal camice con la mano. «Ti dovevo giusto parlare, se hai cinque min…» si blocca di colpo quando si accorge di Gerth che, ferma sulla porta, osserva la scena molto più che incredula. La bocca leggermente schiusa, Cora la fissa interdetto finché io non mi schiarisco sonoramente la gola e, in uno sbattere di palpebre, si riprende.
Cioè, più o meno.
«Buongiorno»
«Dottor Saavedra?» si informa Gerth, un po’ – un po’ tanto – perplessa. Cora si limita ad annuire, sembra aver perso l’uso della parola. «Sono la dottoressa Semmel» scivola verso di lui il braccio teso per stringergli la mano ma per accorgersene Cora ha bisogno che io gli dia una mezza spallata che, se non altro, ha il potere di riscuoterlo una volta per tutte.
«Ahm sì!» le afferra la mano e la stringe. «Dottoressa Semmel è un vero piacere incontrarla finalmente di persona. Io… io…» balbetta spaesato e gira gli occhi intorno come a cercare ispirazione, finché non li posa su di me. «Ha già conosciuto Sabo?»
«Non ufficialmente» risponde Gerth con un lieve cenno del capo.
«È il nostro archivista. Cioè per il momento ma come stavo giusto per proporgli, vorrei metterlo a capo dell’ufficio legale che attualmente è composto da una persona sola, ovvero lui» mi indica, sorridendo ebete, per rendersi conto solo a scoppio ritardato della mia espressione a dir poco sbigottita. Ho sentito bene? «Oh beh, ovviamente se ti interessa»
«Se mi interessa?» domando, ritrovando l’uso dei miei muscoli mascellari. «Se mi… se mi interessa?» mi sfugge una risata tra l’euforico e l’isterico.
«Sì» si acciglia Cora e una parte del mio cervello riesce a domandarsi quando e come sono diventato io il pazzo nella stanza. Ma chi se ne frega? «Se vuoi pensarci non c’è pr…»
«No! No, no, no! Io non voglio pensarci, io accetto! Eccome se accetto!» stendo il braccio con fare solenne. Cora si illumina sinceramente felice e afferra la mia mano, stringendomi con l’altra la spalla.
«Beh allora benvenuto nel team. Cioè di nuovo» lancia un’occhiata a Gerth e si schiarisce la gola. «Se alla dottoressa Semmel farà una buona impressione la zona che vogliamo adibire a neonatologia ti ritroverai ricoperto di scartoffie prima del previsto. Ma perché questo accada devo prima accompagnarla a fare il giro»
Gerth inclina appena il capo di lato, gli occhi che brillano. «Sono molto curiosa di vedere finalmente quest’ospedale di cui tutti tessono splendide lodi. L’aspetto nell’atrio dottor Saavedra» lo informa prima di pattinare via e Cora la guarda come un devoto la Madonna prima di sospirare.
«È la donna della mia vita»
Che cosa?!
«Cora ma ci hai parlato due minuti» cerco di farlo ragionare.
«Eh?» domanda trasognato.
Seh vabbeh, ciaone.
«Niente. La dottoressa Semmel ti sta aspettando. Su, dai, datti una mossa»
Vai! Vai a procurarmi scartoffie su cui lavorare, forza!
Rimango da solo, circondato da materiale ospedaliero e di primo soccorso di vario genere, cercando di capire cos'è appena successo.
Ho accettato un lavoro.
Ho accettato un lavoro, senza aver visto nemmeno il contratto, sicuramente sottopagato e probabilmente senza garanzie. Ma un lavoro da avvocato e al nostro Castello.
Oh. Santo. Roger.
Devo dirlo a qualcuno, devo dirlo a...
Mollo a terra un pacchetto di garze e un clistere che ancora tenevo in mano e mi lancio fuori in corridoio, di nuovo nell'atrio.
«Praline c'è stato un piccolo incidente in astanteria» avviso, sapendo che tanto non se ne occuperà.
Infilo diretto le scale, faccio i gradini due a due e arrivo slittando al pianerottolo del primo piano, dove mi blocco e guardo intorno per ritrovare il senso dell'orientamento momentaneamente perduto.
Okay, calma e gesso, l'infermeria è...? A dest...
«Uoh!»
Poco ci manca che finisco a terra, inciampando nei miei stessi piedi, quando a sorpresa me le ritrovo davanti. Davanti alle gambe, intendo.
Messe assieme non arrivano a fare tre metri di statura eppure riescono a tenermi inchiodato qui, con i loro occhioni carichi di curiosità. Ma che genere di superpoteri hanno questi bambini?
«Sugar, il principe è tornato!» esclama la testolina mora, gli occhi che brillano.
«Lo vedo Tama» sussurra Sugar, senza staccare gli occhi da me, serissima. «Aspettate, ci parlo io» afferma solenne, avanzando di due passi.
Mi sbrigo a posare un ginocchio a terra, per mettermi più o meno alla sua altezza, e attendo. Sugar mi scruta a lungo, così a lungo che mi acciglio e lancio un'occhiata interrogativa a Tama che, comprensibilmente, si è accigliata anche lei. Poi apre la bocca, la richiude, la riapre. Le sorrido incoraggiante ma niente, non parla, così opto per prendere in mano la situazione.
«Sugar, volevi chiedermi qualcosa?»
Per tutta risposta lei diventa rossa come un peperone, abbassa lo sguardo, mi volta le spalle e torna verso le altre due bimbe.
«Non ho niente da dirgli» mette in chiaro Sugar, il tono alterato.
Senza una parola, la bimba bionda si avvicina piano a me, un peluche a forma di ariete tra le mani, studia il mio viso qualche istante e poi prende un respiro profondo.
«Posso chiederti, oh principe, cosa cerchi in questa l...» si ferma a riflettere, anche piuttosto intensamente​ «Landa desolata!» esclama poi, felice di essersi ricordata le due parole.
Sorrido intenerito. «Cerco la principessa di questo luogo, giovane madamigella»
La bimba si accosta di più e io mi piego per permetterle di sussurrarmi all'orecchio «Sono una fata»
Sgrano gli occhi fingendo sorpresa. «Allora certamente potete aiutarmi!» esclamo e la piccola ride.
«Ma abbiamo bisogno di sapere com'è fatta la principessa per potervi aiutare, vostra altezza» interviene Tama che, a occhio, mi sembra la più grande del trio.
In uno slancio prendo la piccolina bionda in braccio, per farle fare l'aeroplano. «Oh è la ragazza più bella che potete immaginare!» la rimetto giù e subito corre dalle sue amiche, mentre mi accoscio di nuovo alla loro altezza. «Ha lunghi capelli, neri come la liquirizia e splendenti come la seta» faccio appello al lessico imparato dalle favole della buonanotte di Eris e a quel po' di teatro fatto al liceo. Anche se forse l'interpretazione shakespeariana è un pelo eccessiva per il contesto, ma non è come se loro ci facciano caso. Mi ascoltano rapite, Tama e la bimba bionda ridono e saltellano quasi sul posto. «I suoi occhi sono come il cielo di notte e le sue guance sono coperte di lentiggini come... ehm... ecco...» chiudo gli occhi per pensare più velocemente. Non c'è nemmeno una principessa con le lentiggini nei libri di Eris. Che cosa stupida, le lentiggini sono così belle. «Come una spolverata di cacao su una torta!» schiocco le dita e riapro gli occhi, in attesa, soddisfatto quando tutte e tre confermano con un cenno del capo che è un'ottima similitudine.
«E la sua voce?! Com'è la sua voce?!» la bimba bionda comincia a saltellarmi intorno e io la afferro per tirarla tra le mie braccia.
«Sa cantare?!» le da manforte Tama mentre mi salta in spalla.
«Certo che sa cantare! E sa anche ballare, sembra che balla anche quando cammina e quando ride... Quando ride è come acqua fresca» concludo e non mi accorgo subito di avere abbandonato il tono da narratore e essere un po' perso nei miei pensieri. Quando lo realizzo scuoto il capo e mi concentro di nuovo su di loro. «Allora, l'avete mai vista?»
«Anche megl... ops!» Tama quasi mi soffoca quando si aggrappa alla mia gola per non scivolare ma io aspetto paziente che si risistemi meglio sulle mie spalle poi le lancio un'occhiata in tralice. «Dicevo, anche meglio» sorride cospiratrice «Possiamo portarti da lei»
 

 
§

 
Picchietto con il retro della penna sul supporto di cartone, mentre conto con gli occhi le bottigliette di acqua ossigenata. Ogni volta che faccio l’inventario in infermeria non posso non domandarmi come faremmo senza il nostro donatore anonimo.
Alcune di noi lo chiamano “L’Angelo Custode” e non potrei essere più d’accordo.
Gli lancio un’occhiata di striscio prima di segnare il numero sul foglio. È silenzioso, non emette un fiato, ma la sua presenza è incredibilmente pregnante ed è difficile concentrarsi appieno con lui nella stanza che ti fissa.
Quando Law e Cora hanno deciso di assumerlo, più di un collega ha espresso le proprie perplessità e non è che io non riuscissi razionalmente a capirle. Ci serviva una categoria protetta per legge ma ho sempre saputo che per Law e Cora andava al di là e per questo sono stata dalla loro parte senza mai esitare. Ed è una delle cose migliori che abbia mai fatto.
A una prima occhiata Heat fa sicuramente un po’… impressione. Con i suoi grandi occhi neri carichi di eyeliner, il fisico scheletrico, i tatuaggi sul collo e le braccia e la cascata di rasta azzurri. Agli occhi di un adulto fa innegabilmente impressione, soprattutto l’idea che quel soggetto sia a contatto con i loro figli.
Ma i bambini lo adorano e basta dargli cinque minuti di fiducia per scoprirne il perché. È la dolcezza incarnata, li porta sulle spalle, li lascia giocare con i propri capelli. Mentalmente parlando è anche al loro stesso livello, purtroppo, e i trascorsi che gli hanno provocato un simile disturbo post traumatico con deficit del linguaggio sono così osceni che mi rivoltano la bile solo a pensarci ma questo non gli ha mai impedito di svolgere bene il proprio lavoro. Ed ecco perché guai a chi ce lo tocca, Heat. Ed ecco anche perché l’insistenza di Cora e di Law. Non avrebbe mai trovato un ambiente così sicuro altrove, non si sarebbe mai riuscito a integrare come con noi e il suo lavoro non sarebbe stato per lui così pieno di contatto umano come lo è qui.  
Tuttavia, nonostante sia il fratello minore di tutti, anche se gli voglio un bene dell’anima e me lo terrei accanto dalla mattina alla sera, anche se fargli avere contatto umano è imperativo per noi, è appunto difficile concentrarsi sull’inventario con lui che ti fissa con tanta perseveranza.
«Heat, tesoro qualcosa non…» mi blocco quando mi accorgo che in realtà non sta fissando me ma solo nella direzione in cui mi trovo e che i suoi occhi sono saldamente incollati alla scatola di cartone semiaperta, abbandonata da non so chi sulla scrivania. Per puro scrupolo mi sporgo a controllare, scoprendo che contiene ancora quattro o cinque ciambelle intatte.
«Vuoi i donuts?» provo a indovinare e lui sussulta appena. Un lieve sorriso si apre sulle mie labbra. «Ma non li hai già mangiati stamattina?» indago attenta. «Se esageri ti viene mal di pancia, lo sai»  
«Heat li vuole per fratello Mandibola» spiega senza abbassare gli occhi al suolo con aria colpevole, segno che sta dicendo la verità. «Fratello Mandibola è sempre gentile con Heat e Heat vuole fargli regalo»
Mi si stringe il cuore per la tenerezza e lo abbraccerei se non sapessi che ricambierebbe con una stretta trituraossa da cui faticherei poi a liberarmi in tempi brevi e stamattina ho una montagna di cose da fare.
«Oh Heat» lo guardo intenerita e poi gli sorrido. «Prendili pure. Tanto io non li mangio e sicuramente fratello Mand… ehm Katakun apprezzerà tantissimo. Anche se sono iniziati e sono rimasti solo quelli con la glassa al caffè che fanno schifo ma lui li mangia lo stesso quindi… Off!» protesto quando due braccia magre ma dalla forza inaudita mi stringono e sollevano appena da terra.
L’abbraccio trituraossa. Merda. Non dovevo distrarmi.
«Grazie IshIsh! IshIhs è sempre dolce con Heat!»
«Sì certo… Heat!» alzo appena la voce per sovrastare la sua risata. «Heat dai! Devi portare le ciambelle a Katakun o poi si fa troppo tardi per mangiarle» mi invento di sana pianta. Come se Katakuri non le mangiasse anche nel cuore della notte.
Heat smette di stringere ma ancora non mi molla. Si distanzia appena per potermi guardare in volto con espressione interrogativa. «Troppo tardi?» chiede conferma e io annuisco serissima.
«Esatto. Devi andare subito» insisto e con mio enorme sollievo funziona.
Mi rimette a terra e poi afferra la scatola di donuts, uscendo con passo un po’ scimmiesco dall’infermeria, alla ricerca di Katakuri.        
Mi massaggio qualche istante il collo e intanto ridacchio, immaginandomi l’espressione di Katakuri quando vedrà i donuts e l’espressione di Heat quando vedrà l’espressione di Katakuri di fronte ai donuts, prima di tornare a concentrarmi sull’inventario. O almeno provarci.
«…’nello è magico?»
Rizzo le orecchie quando riconosco la voce, che parla con uno stupore troppo eccessivo per un adulto ma che a me capita spesso di usare, perché è invece perfetto per dare la giusta importanza a un bambino.
«Sì! Se lo stringi e pensi forte forte a qualcuno che desideri tanto vedere, ti appare!» spiega Kaya, con quell’entusiasmo riservato a tutto ciò che Usopp le racconta.
«Allora proviamo» 
Incuriosita, mollo penna e cartellina dove poco fa c’era la scatola di donuts e mi muovo per uscire dall’infermeria. Con le sopracciglia corrugate e un sorriso a metà tra il divertito e il perplesso, studio Sabo fermo in mezzo al corridoio, a pochi passi dalla porta dell’ambulatorio.
Kaya in braccio, Tama sulle spalle, Sugar aggrappata alla gamba, ha gli occhi chiusi e stringe in una mano l’anello rosso agganciato al collo di Kaya. Le tre pesti trattengono il fiato quando appaio sulla porta.
«Funziona davvero» mormora sottovoce Sugar e Sabo apre un occhio per sbirciare, mi vede, sorride e apre anche l’altro.
«Che cosa succede?» domando, sempre più perplessa.
«Il principe vi cerca, vostra grazia» mi avvisa Tama, mettendosi un po’ più dritta sulla schiena di Sabo.
«Vostra grazia? P-principe?» provo a cercare delucidazioni, inutilmente. Sabo si muove per coprire la poca distanza che ci separa. Con Sugar aggrappata così è costretto a camminare con la gamba tesa e più che un principe sembra il mostro di Frankenstein, ma quando si ferma di fronte a me non riesco a trattenere un sorriso. Lo guardo in volto, sperando che almeno lui mi dia una spiegazione.
«Mia signora, ho scalato una montagna di garze e clisteri, attraversato l’accettazione, sconfitto il temibile squalo-sirena e affrontato ben una rampa di scale per trovarvi e alla fine, con l’aiuto di queste tre fate, ci sono riuscito» annuncia solenne, con tanto di inchino e baciamano. Lo fisso incredula e anche un filo interdetta per qualche istante prima di scoppiare a ridere di gusto. Scuoto il capo e sposto gli occhi da Tama a Kaya a Sugar.
«Voi tre dovreste essere in stanza per il controllo del mattino» le rimprovero ma con dolcezza. In fondo è normale che si annoino a stare a letto e meno male che è così. «Andate!» le incito e Sabo si abbassa per posare Kaya a terra e permettere a Tama di scendere. Sugar sembra la più riluttante a staccarsi da lui ma alla fine si unisce alle sue amichette, con cui si mette a correre verso la propria stanza.
«Ciao, ciao principe!» si sbraccia Tama prima di sparire dietro l’angolo.
«A presto!» risponde Sabo, che si è rimesso in piedi e, come notiamo entrambi solo quando si gira a guardarmi, non ha ancora lasciato la mia mano.
«Ah scusa» mi lascia andare, un po’ a disagio e io sento le guance più calde.  
«Ma figurati, di… di che?» distolgo un momento gli occhi. «A-allora mi stavi cercando?» indago, in realtà piuttosto certa del senso della scenetta di un attimo fa.
Sabo si illumina. «Sì. Ho una notizia» mi dice, euforico. «Cora mi ha appena offerto un posto come avvocato per l’ufficio legale del Castello!»
«Oh mio dio… Oh mio dio!» esclamo, abbracciandolo per un momento. «Ma è fantastico Sabo!»
«Vero?!» non sta nella pelle. «Cioè, non ho ancora visto il contratto né so quanto mi potranno dare, probabilmente non prenderò molto più di quello che prendo ora ma sai che se ne frega?! È un inizio e posso restare qui, insieme a Law, Praline e insieme a te!»
Rido di nuovo, contagiata dalla sua euforia e forse per quello mi sento un po’ strana. Spingo indietro il ciuffo con la base del palmo, non mi ero accorta che facesse così caldo. «E Law che ha detto?»
«Non ho ancora avuto modo di avv…» un rumore cavernoso lo interrompe. Un rumore cavernoso la cui fonte non è affatto difficile da individuare, visto che si trova proprio di fronte a me, per la precisione all’altezza dello stomaco di Sabo.
Sgrano gli occhi e schiudo le labbra, incredula. «È uno scherzo vero?» gli domando mentre lui porta una mano alla nuca, in imbarazzo, ma non smette di sorridere. «No perché io ti ho visto fare colazione stamattina»
«Quando mi agito mi viene fame» si giustifica, con una stretta di spalle. «E poi, a mia discolpa, stanotte ho sognato di andare da Hachi quindi…» lascia la frase in sospeso, con un’occhiata che lascia intendere che dovrei sapere di cosa sta parlando.
«Quindi?» lo incito a proseguire.
«Beh lo sai, no?»
Socchiudo gli occhi e scuoto un po’ il capo. Sapere cosa? Sabo si irrigidisce appena, mi studia, quasi sospettoso.
«Tu… non sai chi sia Hachi?» domanda, cauto.
«Ehm… no» confermo con una smorfia.
«Ma sei stata all’Octopus, giusto?»
Scuoto ancora il capo. «Non ho idea di cosa sia» ammetto.
Sabo mi fissa a occhi spalancati, sembra che li abbia appena rivelato che conosco l’ubicazione dello One Piece. «Sabo cosa…»
«Sei a Raftel da, quanto, cinque anni e non hai mai mangiato i takoyaki di Hachi all’Octopus?!»
Mi faccio seria e incrocio le braccia sotto il seno. «Intanto sono tre anni e mezzo e poi puoi evitare di dirlo come se fossi un’appestata? Io sono venuta qui per studiare prima e lavorare poi, non ho avuto tempo per scoprire Raftel di fino» metto in chiaro.
“O non avevi nessuno che ti facesse scoprire Raftel di fino” mi fa notare una voce, troppo simile a quella di Praline, nella mia testa che cerco di ignorare ma con scarso successo. La tirata di Praline riemerge nella mia memoria, ora più mortificante che mai.
Forse ha ragione lei, forse non è che non mi sono capitate le occasioni, forse non mi sono impegnata abbastanza e per questo non ho nessuno che…
«Venerdì prossimo non lavori giusto?» mi riporta alla realtà Sabo, che mentre mi parla smanetta sul cellulare. Per un attimo sono colpita che si ricorda i miei turni.
«No esatto ma che…» comincio a domandare ma lui porta il cellulare all’orecchio e mi fa cenno di aspettare un momento.
«Ciao fratello! Come va? Sì, io bene… No… No… Perché sei un cretino… Ma certo quando vuoi! Senti, venerdì di settimana prossima tu e Perona riuscite a prendere la giornata libera… A-ah… Perché c’è quella mia amica, Ishley, ti ricordi che te ne ho parlato…» sobbalzo appena. Sabo ha parlato di me a suo fratello? E ha detto… ha proprio detto “amica”? Forse si accorge della mia reazione perché mi guarda e mi fa un occhiolino che vuol essere incoraggiante. «Ecco, dobbiamo portarla a fare un giro di Raftel. Un giro vero… Ah! Grande! Sapevo di poter contare su di te! Allora poi ci sentiamo per l’ora… sì se puoi facciamo con la tua perché io sono ancora smacchinato e lei, sai, ha una Megalo… Eh lo so che non è una vera macchina, per quello dico se usiamo la tua… Dai perfetto allora! Ci sentiamo presto… Ti voglio bene anche io. Ciao»
Chiude la telefonata e io lo sto ancora fissando e non riesco a trovare nulla da dire. Dovrei essere scocciata perché ha organizzato tutto senza nemmeno chiedermi se ero interessata, eppure sono qui che mi domino a stento dal gettargli le braccia al collo e sono tutta un tremito per la gratitudine. In due minuti scarsi mi ha tirato fuori dalla spirale negativa che stava per risucchiarmi, centrando in pieno la soluzione al mio problema senza nemmeno conoscerlo.
Anche se…
Socchiudo gli occhi e lo pugnalo con lo sguardo. «Non insultare mai più la mia Megalo» lo ammonisco, gli giro le spalle e rientro in infermeria, chiudendogli la porta in faccia. Mi appoggio di spalle all’uscio ed è come se lo percepissi che è ancora fermo lì e che anzi si è avvicinato fino quasi appoggiarsi al legno.
«Allora avrò l’onore di incontrarla ancora tra otto giorni, vostra grazia?» sussurra attraverso la porta, sento il sorriso nella sua voce. Mi giro e apro uno spiraglio, quanto basta per guardarlo.
«Sì. Ma ora devo andare, non posso uscire prima del tramonto» rispondo, entrambe le sopracciglia inarcate.
Sabo scoppia a ridere. «Allora a stasera, principessa»
Anche io sorrido e scuoto appena la testa. «A stasera, principe»

 
§

 
«Ehi ragazzi! Caffè?»
Sollevo la testa dal pc, il mio prezioso Heracles E15, che tengo come una reliquia da quando tre anni fa Koala me lo ha fatto comprare dall’azienda, sostenendo che mi serviva per lavoro, anche se poi io me lo posso portare a casa tutti i giorni e farci le mie cose.
A onor del vero, le mie cose ce le sto facendo pure adesso anche se sono in ufficio ma ho finito tutte le consegne da mezz’ora e, per riceverne di nuove, stavo aspettando appunto Koala, che entra nell’open space con un vassoietto su cui sono incastrati tre bicchieri di paradiso in tazza.
«Ciao!» la saluta Nami mentre io mi butto a pesce sui caffè.
«Il tuo è questo, Usopp» Koala sfila uno dei bicchieri e me lo porge. «Macchiato all’amaretto» sorride e io sento gli occhi pizzicare agli angoli.
«Sei un capolavoro» le dico, schioccandole un bacio in fronte.
«Com’è andata l’eco?» le domanda Nami, accettando il proprio caffè con un cenno di ringraziamento.
Koala posa il resto sulla sua scrivania e si siede prima di rispondere: «Abbastanza bene. Gerth non c’era, mi ha visitato Narvalo» apre il suo portatile e lo accende. «Ha cercato di convincermi a lasciare Law perché secondo lei gli assegni famigliari sono più convenienti dello stipendio di un chirurgo pediatrico. E a un certo punto Pen le ha levato una siringa di mano con una certa veemenza, non ho idea di cosa ci fosse dentro. Comunque!» si porta una mano al ventre che comincia ad arrotondarsi, un rigonfiamento appena accennato, e abbasso lo sguardo mentre lo accarezza. «Il nostro piccolo campione qui sta bene e questa è la sola cosa che conta» mormora, quasi un segreto con se stessa che si è fatta sfuggire per sbaglio e io mi sento riscaldare tutto dentro e il cuore accelera.
Non posso certamente immaginare cosa sia avere una creatura che ti cresce dentro ma il concetto di essere disposto a qualsiasi cosa per la felicità di quella creatura da qualche settimana lo capisco un po’ di più. Lancio una fugace occhiata al progetto a cui sto lavorando da ieri sera, un’illuminazione improvvisa che mi ha colto decisamente troppo tardi ieri sera e che spiega il mio bisogno tossico di caffè di stamattina.
Per farcela in tempo dovrò lavorarci un po’ tutte le sere e dedicarci tutto questo weekend più il successivo e con così poco tempo di preavviso posso anche scordarmi di trovare materiale di seconda mano per costruirlo. Eppure non mi pesa, né spenderci più soldi di quel che potrei né usare tutto il mio tempo libero.
«Che fai Usopp?»
«Oh è solo un piccolo pensiero per il compleanno di Kaya, tra due settimane» rispondo senza riflettere e, questione di millesimi di secondo, la punta del naso comincia a scaldarsi. «Cioè… cioè ovviamente ho finito tutte le consegne residue di ieri e t-ti stavo aspettando per sapere c-cosa… cosa fare or…»
«Law mi ha detto che da quando tu e Sanji andate a trovarla Kaya è come rinata» mi interrompe però Koala, con un sorriso carico di affetto e approvazione.
«Senti, senti» si intromette Nami che, braccia al petto, mi fissa con occhi socchiusi e sorriso sornione. «Papà Usopp, chi l’avrebbe mai detto!»
«M-ma cosa dici, Nami?» balbetto mentre mi si scaldano anche le orecchie. «Le facciamo solo un po’ di compagnia ogni tanto…»
«E cosa le stai preparando?» domanda, sempre affamata di informazioni, la mia migliore amica.   
La fisso qualche secondo  a occhi sgranati. «Non è… non è niente di che, è solo un progetto abbozzato. Ehi!» protesto, chiudendo di scatto il pc quando entrambe si lanciano sulla mia scrivania per sbirciare.
Senza smettere di ridere, per niente colpite né dal mio tono né dal giusto senso di colpa che una persona con il rispetto per la privacy al loro posto ora dovrebbe provare, si rimettono comode ciascuna sulla propria sedia.
«A proposito di progetto, come sta andando Izou?» si informa Koala.
È stato un sollievo per lei sapere che Izou alla fine era approdato a casa Roronoa e una piacevole sorpresa venire a conoscenza del concorso indetto dalla Baroque Works. Certo una soddisfazione macchiata dalla lite che ha scatenato con Marco, che per altro non si fa vedere né sentire da quando sono rientrati dalla luna di miele, ma pur sempre una soddisfazione.
«È bravo, impara in fretta. È un disgraziato, eh. Devo minacciarlo perché si faccia da mangiare quando non ci sono io a controllare che metta giù un pasto decente e non so più come convincerlo ad andare a letto a un orario compatibile con la vita. Poi certo, non mette in ordine neppure a minacciarlo con il fucile spianato»
«Ah sfondi una porta aperta, guarda» la supporta subito Koala. «L’altra sera Sabo è andato a dormire credo alle tre per delle griglie Excel ideate per semplificare l’archiviazione di documenti al Castello e al mattino c’erano fogli volanti dappertutto. Voglio dire, non è per i fogli ma deve riposare oltre che mangiare come si deve»
«Io gli ho già detto che sia dia una regolata, che siamo a casa mica in un albergo. Se continua chiederò a Zoro di parlarci lui»
«Law già ci parla ma è come se gli entrasse da un orec…»
Le osservo incredule, spostando gli occhi dall’una all’altra come se stessero giocando a ping-pong. Ma non sentono quello che dicono? Non si rendono conto?
Sembrano due madri che parlano dei propri figli, in una fascia d’età nemmeno troppo ben definita. Ci manca che si mettano a discutere del corretto apporto proteico di un pasto equilibrato e di quanto in fretta cambiano taglia di vestiti e siamo a posto. E non ci sarebbe niente di male se solo i due figli in questione non avessero trent’anni.
«Perché non passi a trovarlo? So che gli farebbe piacere vederti» dice Nami a Koala e io mi giro verso di lei a fiato sospeso, in attesa di sentirle chiedere se può portare anche Sabo o di affermare che non c’è problema perché tanto c’è la vicina che glielo guarda.
«Anche a me farebbe piacere vedere lui, sono stata così presa ultimamente che l’ho sentito solo su whatsapp» sospira invece e sospiro anche io, di sollievo, visto che sono tornate “normali”. «Domani ho giorno libero, pensi che potrei passare?»
Nami si stringe nelle spalle. «Io sono qui e a me di fastidio non ne dai e anche Zoro è al lavoro. Vai pure» aggiunge con un sorriso.
«Perfetto!» batte le mani Koala. «Ci mettiamo al lavoro o papà Usopp deve finire il progetto per la sua bambina?»
Qualcosa dentro me si rivolta al sentire queste parole. In un modo che definirei osare piacevole ma che non faccio in tempo ad afferrare appieno, travolto troppo in fretta dall’imbarazzo della figura poco professionale che ho fatto.
«Sto scherzando, Usopp» Koala si accorge del mio disagio. «Non preoccuparti, stiamo lavorando benissimo e siamo in anticipo. E poi per una buona causa come questa ne vale la pena, no?»
La fisso un paio di secondi, metabolizzando per bene le sue parole.
«Dai mettiamoci al lavoro» glisso la domanda.  
Ma mentre riapro il pc e mi rimetto a smanettare, stavolta non più su cose mie, una voce nella mia testa risponde che sì, ne vale eccome la pena.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Sospiro e sposto i capelli da una spalla all’altra, come se la loro posizione potesse cambiare le cose, mentre osservo la mia immagine riflessa da ogni angolazione del camerino.
Ma io mi domando, perché? Che io sappia non è necessaria una costante e complessiva visione anatomica per comprare dei vestiti. Ma soprattutto, come? Come sono finita in questo incubo a occhi aperti?  
«Ishley come va?» la voce di Reiju fluttua attraverso la tenda blu, che mi nasconde al resto del mondo in queste condizioni.
Come va? “Un disastro” direi che dipinge abbastanza fedelmente la situazione.
«Non saprei» cerco di prendere tempo, alla ricerca di cosa non mi convince del vestito che indosso.
E il fatto è che niente mi convince. È corto, come corto corto, e praticamente è un foulard gigante a righe bianche e blu che va dal collo al sedere.
Sono ridicola, sembro… non lo so cosa sembro ma sono ridicola. Non è da me. Io me ne sto bene con i miei calzoncini e le t-shirt basiche che stanno comode anche sotto la divisa al lavoro.
No, decisamente non va. Non vale nemmeno la pena farmi ved…
La tenda si spalanca e il viso di Reiju mi osserva da tutte le angolazioni possibili del camerino.
«Ehi ma guardati! Ti cade a pennello!»
Spalanco gli occhi, piuttosto certa che o non sta parlando con me o che ha subito una lesione all’area cerebrale del linguaggio che le fa confondere le parole con il loro contrario.
«Vieni fuori, fatti vedere per bene»  
A passi incerti e solo perché sono ancora troppo scioccata, faccio come Reiju mi dice. È martedì e, proprio su proposta di Reiju, abbiamo scelto di uscire strategicamente a cavallo dell’ora di pranzo, ragion per cui il negozio è quasi deserto e il corridoio dei camerini è in mano nostra.
Fossi una delle commesse, avrei paura. Anzi, a dire il vero ce l’ho anche se non sono una di loro.
Praline fischia, mezzo sdraiata su una delle poltroncine ad uso degli accompagnatori. Quelle che vorrei tanto usare io in questo momento, non perché sia stanca ma perché vorrei essere qui solo per accompagnare appunto.  
«Bimba, sei stupenda» commenta, con un sorriso appuntito che me ne strappa uno piuttosto tirato e a disagio.
«Non lo so…» continuo a tentennare, lanciando solo occhiate di striscio al mio riflesso nello specchio del corridoio. «Non è tanto il mio stile»
«Tu non ce l’hai uno stile, Ish» mi ricorda lapidaria Aisa, da dentro il suo camerino. «Tutte queste stringhe sono un incubo…» aggiunge poi tra sé e sé, quasi un sibilo.
Sto per ribattere che vivo benissimo anche senza uno stile e senza lo shopping quando Reiju mi afferra per  le spalle e delicata mi fa girare frontalmente allo specchio, che ha questa strana capacità di slanciare all’inverosimile e far sembrare la  tua pelle liscia e candida come la panna montata.
Ma dove li comprano questi specchi? Ne voglio uno anche a casa.
«Secondo me questo vestito è perfetto per te, Ish» argomenta Reiju, restando dietro di me. «È versatile, è come te. Portato così, con i capelli sciolti e le scarpe basse è sbarazzino e per tutti i giorni ma se tiri su i capelli e metti dei tacchi...» delicatamente raccoglie le mie voluminose ciocche con le mani a coppa e le ripiega sulla mia nuca, in un raccolto da cui qualche capello sfugge a regola d’arte. «Voilà! Guarda come sei bon ton! Perfetta per una cena intima ma non troppo formale o per un compleanno. O anche per una di quelle occasioni in cui non sai se devi essere sportiva o elegante. Con questo vestito ti basta tirare su i capelli per cambiare letteralmente stile»
Mi sforzo di guardarmi con un po’ più di obbiettività, colpita dalla capacità dialettica di Reiju e dalla sua competenza in termini di look. Okay, non posso darle completamente torto, forse sarà anche che è avvocato però è vero che l’effetto cambia. E io che credevo che spostare i capelli fosse stupido.
Certo, questo non significa che lo prenderò, il problema della lunghezza non si risolve con un’acconciatura diversa e non mi stupisco che lo abbia definito bon ton, considerato quanti chilometri di gambe espone lei di norma. E senza apparire per niente volgare, non ho idea di come ci riesca.
«Uff, porca miseria! Rei, mi aiuti?» domanda Aisa, spalancando la tenda, sconfitta nella sua lotta contro le stringhe del top che sta provando ma prima di voltarsi di schiena, lo sguardo le cade su di me e sgrana gli occhi. «Ish, santo cielo, sei uno schianto!» esclama. «Con un vestitino da quatto soldi sembri uscita da una rivista, ma come fai?! Che invidia!»
Sempre più perplessa e con l’ormai assoluta certezza che quello che vedono loro non coincide chiaramente con quello che vedo io, mi spingo indietro il ciuffo con la base del palmo, i capelli di nuovo liberi sulla schiena.
«Beh comunque non penso di prenderlo» decido di mettere le mani avanti.
«Cosa?»
«Perché no?!» protestano Reiju e Aisa, impegnate a sistemare le stringhe del top di Aisa. Si guarda direttamente nello specchio del suo camerino, fa una smorfia e insieme a Reiju scuote il capo. «No decisamente no. Il top che hai provato prima lo prendi?» chiede poi alla sua amica che, non so per quale capacità comunicativa e intuitiva, capisce esattamente quale sia “il top che hai provato prima” in mezzo alla marea di vestiti che tutte e due hanno portato in camerino nell’iniziale saccheggio selvaggio.
«No, te lo passo. E tu la camicetta?»
«Tutta tua» risponde immediatamente Aisa, allungandosi nel camerino ed estraendo un indumento che giurerei abbia pescato a caso per ficcarlo in mano a Reiju.
Quando richiudono le tende in simultanea io sono ancora qui ferma che le fisso incredula e mi scappa da ridere. Devo ammetterlo, nonostante tutto, mi sto divertendo.
«Quindi perché non lo prendi?» domanda Aisa, infrangendo le mie speranze di essere andate ormai oltre la questione “vestito a righe”.
«Non saprei quando usarlo» rispondo sincera. «E poi è corto»
 Le tende si scostano, Le facce di Reiju e Aisa spuntano accanto alla stoffa blu.
«Corto?» domanda scettica Reiju.
«Te non sai cos’è un vestito corto, Ish»
«Ti sembra corto perché è scampanato e non lo senti nemmeno sfiorarti le gambe ma non è corto. Ti arriva a metà coscia!» continua la propria arringa Reiju.
«Dovresti vedere come si combinano certe ragazze con i vestiti a girochiappa. Quelle sì che sono volgari, tu sembri… non so… una persona famosa in vacanza!» esclama soddisfatta quando trova il paragone. «Ci mettiamo dei begli occhiali da mosca e sei perfetta! Sexy e chic!»
Allibita, mi giro a cercare l’aiuto di Praline, intanto perché ignoro cosa siano degli occhiali da mosca e poi perché non riesco a capacitarmi che stiano parlando di me. Per tutta risposta, Praline, che ora si è completamente sdraiata sul divanetto a schiena inarcata, come fa a volte sul bancone dell’accettazione, stira ancora di più il sorriso.
«Io da qui non ti vedo nemmeno le mutande» sceglie come sempre un pittoresco connubio di parole per confermare che anche secondo lei il vestito non è poi così corto. «Ma spero tu le abbia a righe, perché è una stampa che sembra esistere apposta per te»
Sento le guance calde, quando mi volto di nuovo verso me stessa sto sorridendo e quello che vedo è totalmente diverso da quello che vedevo fino a un attimo fa.
«Okay allora…» faccio un profondo respiro. «Allora lo prendo» annuncio e un senso di euforia, appagamento e immacolata gioia mi pervade.
Quindi è questo lo shopping? Perché se è così mi piace. Mi piace davvero molto.
«E riguardo quando usarlo, puoi metterlo venerdì. Sabo mica ti porta a fare un giro per Raftel?»
Lo stomaco mi fa una leggera capriola. «Beh sì ma…»
«Oh sì, è perfetto per un appuntamento quell’abito»
Lo stomaco mi fa un triplo salto carpiato. A-appuntamento?
«Non è un appuntamento!» protesto, il volto in fiamme.
«Certo che no» mi rassicura Aisa con tono scettico.
«No davvero, non è un appuntamento!» insisto, agitata non so neanch’io perché. «È solo… solo un’uscita tra amici, ci sono anche il fratello di Sabo e la sua ragazza»
«Non hai mai sentito parlare di “doppia coppia”?» si informa Reiju, uscendo dal camerino per vedersi meglio la camicetta.
Io mi giro di nuovo verso Praline – chissà perché –, alla ricerca di un volto amico in mezzo a questo fuoco incrociato ma tutto quello che ottengo è una spiegazione non richiesta. «È quello che fanno loro con i due Kappa» 
Sgrano gli occhi. Non può essere seria! «So cos’è una doppia coppia!» protesto.
«Io e Reiju non facciamo doppia coppia con nessuno!» mette in chiaro Aisa.
«E nemmeno io!» ribadisco.
«Okay, ma il vestito lo prendi vero?» chiede conferma Aisa.
«Sì, certo che lo prendo!»
«Ottimo!» sorride Reiju che, solo ora mi accorgo, è entrata nel mio camerino e sta dividendo i vestiti non so secondo quale logica. «Perciò quello a righe, quello lilla, la gonna lunga celeste e bianca. Quante cose a righe che hai provato, Praline ha proprio ragione!»
Mi strozzo quasi con la mia saliva. Aspetta, aspetta sta dicendo che…
«Non mi servono tutti questi vestiti» provo a ribattere.
«Vuoi davvero farcelo credere dopo che ci hai mostrato il contenuto del tuo armadio?» commenta scettica Aisa.
«Ma se prendo già questo cosa me ne faccio anche di quelli?»
«L’estate è lunga sorella, non penserai di poterla affrontare con un unico vestito socialmente accettabile»  
«Cosa?!» cerco di riprendere il filo, confusa.
«Cosa ne dite di quello lungo?»
«No dai, quello lungo no» le imploro quasi.
«Per me è sì» interviene Praline, rimessasi dritta.
«Ragazze ma cosa me ne faccio di un vestito lungo? Quando lo metto?!»
L’ho provato solo per gioco, accidenti.
«Non c’è mica la serata di beneficenza tra qualche settimana?» mi ricorda Praline e io non mi chiedo più nemmeno da che parte sta. «Magari potresti fare colpo su qualcuno»
«O addirittura andarci già con qualcuno»
«Non è un… mmmmh» mugugno e premo le mani sulla fronte.
Perché spreco il fiato? Cosa parlo a fare? Non mi ascoltano tanto!  
«Ehi ragazze, guardate qui!» Aisa esce dal camerino, distogliendo l’attenzione da me, finalmente e grazie al cielo. Ha addosso un’espressione maliziosa e un vestito dal taglio semplice e stampa etnica, con però uno strano incrocio delle sottili bretelle sul davanti e che sembrano girare anche intorno alla vita, chiudendosi in un fiocchetto laterale. Del “top che hai provato prima” non c’è traccia, non che sia in pena per la sua sorte.
Con lo stesso identico sorriso famelico di suo fratello, Aisa afferra tra due polpastrelli un’estremità del fiocchetto e tira. Le spalline si disfano, ruotano intorno a lei, scivolano sulla sua pelle e in tempo zero l’abito si affloscia sul pavimento e Aisa rimane in intimo davanti a noi.
Scambio un’occhiata con Reiju e Praline e non trattengo un sorrisetto saputo. Hai capito, la piccola Wano?
«Ah però» commenta Reiju, le braccia incrociate sotto al seno.
«Vero?!» chiede conferma Aisa, recuperando l’abito da terra e appoggiandoselo solo addosso, per studiare l’effetto dei colori in contrasto con la sua carnagione leggermente olivastra. «Mi sa che questo lo prendo, chissà che faccia farà Kira quando…» le parole le muoiono in gola, sgrana gli occhi e ci guarda dal riflesso nello specchio, come se l’avessimo colta in flagrante a commettere un reato, le guance rosse.  «Ah io… cioè io volevo dire… non…» balbetta.
«Tsundere patologica» sussurra Reiju sottovoce, ma percepisco l’affetto nel suo tono.
Mi avvicino a lei «Aisa» la chiamo piano.
«No, non… non è come sembra, ho parlato senza pensare…» nega, agitata e non capisco perché anche se forse un sospetto ce l’ho. Non è la prima volta che lo noto, d’altra parte.
Alcuni suoi atteggiamenti, il modo di fare strafottente, il commento su di me poco fa. È insicura, intrinsecamente intendo, anche se è difficile crederlo di una come lei, che ha scelto di studiare e curare la psiche umana e che ha il mondo tra le mani e tutte le carte in regalo per spaccarlo se vuole. E tutto questo mi porta a maturare un legittimo dubbio riguardo il fastidio che sempre dimostra verso le avances di Kira.
«Aisa, a te piace Killer, vero?» le domando, cauta e incoraggiante.
«No!» sorride ma è poco convincente con quegli occhi spalancati e il respiro leggermente accelerato. «Lui non… non è, lui…» si siede sul bracciolo della poltroncina, lo sguardo basso e il vestito stretto al petto come se le servisse per tenersi insieme. «È complicato»
Praline si gira un po’ di lato e le tira indietro una ciocca di capelli. «Prova a spiegarcelo»
Aisa lancia un’occhiata di striscio a Praline, di sottecchi a me, di striscio e sottecchi e Reiju. Tutte e tre sorridiamo, tutte e tre con lo stesso identico messaggio in volto. Siamo qui e va tutto bene.
«Mi piace Kira. Mi piace tanto. Anche troppo» ammette senza alzare gli occhi e a Reiju scappa un colpo di tosse che suona molto simile a un “ma dai?”. «Però…» esita e poi si porta una mano al volto. «È una cosa personale, è così imbarazzante!» prende un profondo respiro. «Io sono vergine» confessa e sbircia le nostre reazioni da cui non trapela altro che attesa.
Non c’è niente di strano, io ho perso la verginità a diciannove anni.
«E Kira mi fa un… uno strano effetto e so che se lui dovesse… che se provasse io non resisterei. Lo so! E io però voglio che la mia prima volta sia speciale, capite?! Per questo lo evito!»
Sorrido materna. Se capisco? È passato un po’ di tempo ma mi ricordo com’è, i vent’anni e il sesso. La sensazione di essere già in ritardo e non sentirsi ancora pronta, volere che sia speciale con la testa ma non poterne più di rimandare con il corpo.  
Mi accovaccio di fronte a lei e le poso una mano sulle gambe. «E cosa ti fa credere che con lui non potrà essere speciale?»
«Perché magari non è quello giusto» protesta Aisa ma è quasi più una domanda che un’affermazione e una gran voglia di abbracciarla mi investe.
«Ma magari sì» rido io.
«Per Izou la prima volta non è stato speciale. Lui dice spesso che tornando indietro aspetterebbe Marco e…»
«Ma la storia di Izou non è la tua. Le esperienze di tuo fratello non sono le tue» la interrompo decisa. «Aisa, Kira è un bravo ragazzo. Si atteggia a playboy ma non credere abbia chissà quanta esperienza più di te. Certo lui sicuramente non è vergine, è che per i ragazzi spesso è diverso però…» le sorrido di nuovo. «…non ti costringerà mai a fare niente che non vuoi e se tu non te la senti non c’è attrazione fisica che tenga» alzo la mano per posarla sulla sua guancia. «Devi vivertela a mente libera, piccola. Non puoi programmare il cuore»
Aisa mi fissa per un lungo istante, gli occhi ancora sgranati ma adesso di comprensione. Poi sovrappone una mano alla mia ancora sulla sua guancia e stringe. «Grazie, Ish» soffia.
«Beh io direi che ora, per non far sentire Aisa a disagio con la sua confessione, dovremmo confidarci tutte una cosa personale» batte le mani Praline e io la guardo allibita, non tanto perché non ho capito cos’ha detto ma perché mi domando da dove le vengono certe uscite. Ancora me lo domando. «Inizio io» decide e si gira a guardare Aisa dritta in volto. «Io metto di nascosto le proteine solubili nel cibo di mio marito»
Io schiudo le labbra, Aisa si acciglia.
«Che cosa?»
«Praline ma che…»
«Mi piacciono molto palestrati, lo sai» si stringe nelle spalle lei.
«Sì ma di nascosto?!»
«Mica gli fanno male con tutto il sollevamento pesi che fa»
«Te sei psicopatica» l’accusa Aisa, che però è già molto più rilassata e non ha più le lacrime agli occhi.
«Io sto prendendo lezioni di guida private e segrete» annuncia Reiju e tutte ci voltiamo a guardarla. Si capisce da come sorride che sta per aggiungere qualcosa. «Da Kidd» soffia infatti.
«E non me lo hai detto?!?!» si indigna Aisa, tirandosi più dritta sul bracciolo.
Reiju scosta il ciuffo dal viso, le guance rosse e un lieve sorriso trasognato, tutti i suoi vent’anni in bella mostra. «Gliel’avevo promesso» mormora come se questo, come se mantenere la parola data a lui, fosse la sola cosa che conta.
«Credevo non ti importasse di prendere la patente»
«Questo è quello che faccio credere a tutti» si rabbuia, incrocia le braccia sotto il seno, fa dondolare una gamba e il ciuffo le ricade sul viso quando abbassa lo sguardo. «Ma la verità è che se mi iscrivessi alla scuola guida a Garuda ci metterei una vita a prendere la patente perché ho paura e so che nessuno mi porterebbe a fare guide. E i miei fratelli non la finirebbero più di prendermi per i fondelli» ammette e suona come se fosse la prima volta che lo racconta a qualcuno. «Così ho chiesto a Kidd, all’inizio non voleva e invece ora…»si ferma e tira i capelli dietro l’orecchio. «Beh diciamo che non mi da solo lezioni di guida» sbircia verso di noi con gli occhi che brillano.
«Wowowowow!»
Praline si mette comoda sul divanetto «Non è che vuoi scendere un po’ più nel dettaglio?»    
«Oh, Praline!» sbuffa una risata a metà tra il divertito e l’imbarazzato Reiju.
«E tu Ish?» chiede Aisa, chiaramente esaltata da questo nuovo gioco. Le lancio un’occhiata, ancora accovacciata ai suoi piedi.
Bella domanda. E io? Cosa posso raccontare io che sia al livello delle loro di confessioni personali?
Ammettere che lo shopping alla fine mi è piaciuto sarebbe una scappatoia. Ammettere che  sono agitata per Venerdì darebbe l’impressione sbagliata perché no, non è un appuntamento, ma è una vita che non esco in compagnia per qualcosa di più di un aperitivo o un cinema e non con colleghi di lavoro.
Cosa posso raccontare io?
Con un sospiro mi siedo sulla poltroncina adiacente a quella di Praline, restando sul bordo. Ce l’ho una cosa da dire, che non ho mai detto a nessuno. Chiudo gli occhi e parlo senza pensarci troppo.
«Io quando ho un orgasmo molto intenso, poi rido»
Riapro gli occhi. Tutte e tre mi fissano, Aisa e Reiju allibite, Praline esilarata.
«In che senso ridi?»
«Scoppio a ridere» gesticolo per spiegarmi meglio. «È un rilascio della tensione, ci sono un sacco di donne che piangono. Io invece rido» mi stringo nelle spalle. Cavolo se è imbarazzante. Eppure sono in un qualche contorto modo felice di averglielo confidato.
«Oh per Nettuno…»
«Spettacolo questa cosa!» sghignazza Aisa mentre Praline appoggia la guancia sulla mano con fare da vecchia zia navigata. 
«Chissà che colpo per il povero Drake la prima volta che ti è successo» commenta e io mi acciglio.
«E chi ha mai riso dopo un orgasmo con Drake?»
C’è un momento di eloquente silenzio, spezzato con cautela da Reiju.
«Ish tu…»
«A volte. Chiariamo non è che ho sempre simulato eh. Mi sarei sparata o lo avrei lasciato molto prima. Solo che non ho mai saputo di non aver mai avuto un orgasmo intenso con lui fino all’anno scorso, quando ho appunto scoperto sia cos’è un orgasmo intenso sia che quando ne ho uno…» piccola pausa ad effetto. «…rido» ripeto in un sospiro che le fa scoppiare tutte e tre.
«E con chi lo hai scoperto?» domanda Aisa, l’adolescente appena diventata donna perfettamente visibile ai miei occhi in questo momento.
«Oh beh…» scuoto il capo, persa nei ricordi. «Non gli ho chiesto il nome. Ci fermavamo tutti e due a Dressrosa solo per quella notte»
Dire che le loro espressioni colpite e basite non mi fanno sentire per un momento, come dice Bonney, “una figa da paura” sarebbe un’enorme bugia.
«Ishley Habena!» esclama Praline e, per una volta – probabilmente la prima da che la conosco –, ho la soddisfazione di lasciarla senza nulla da ribattere che non sia un complimento. Fatto a modo suo, ovviamente. «Tu piccola… sgualdrinella! Non me lo hai mai detto!»
«Te lo sto dicendo ora» ridacchio.
«E io che temevo non sapessi divertirti»
«E invece ti sbagliavi, hai visto?!» le dice Aisa. «Sul divertimento eh. Perché sullo shopping non potrai farlo da sola ancora per mooooolto tempo» mette in chiaro con un’occhiata eloquente che incasso con un sorriso.
«A proposito, che ne dite se andiamo in cassa? Comincio ad avere fame» propone Reiju e io e Aisa annuiamo prima di dirigerci verso i rispettivi camerini. Mi fermo sul limitare, il lembo della tenda già stretta in mano e le sopracciglia corrugate a produrre un pensiero.
Guardo da sopra la spalla le mie… beh credo di poter dire amiche ormai, e decido di dirlo ad alta voce, anche se la giornata non è ancora finita. In fondo meritano di sapere che non è stata poi tutta questa tortura, che sia adesso o più tardi non fa nessuna differenza. «Organizziamole più spesso queste uscite»
 

§
 

«Ma guarda che ci sei quasi, devi solo molleggiare di più e non pensare troppo alle braccia»
«Io non ci sto pensando alle braccia»
Sento distintamente la nota contrariata nel tono di Law. Quel contrariato di quando non riesce a fare una cosa e se la prende con sé stesso.
«Se non stessi pensando alle braccia ti assicuro che ti verrebbe senza problemi» insiste Sabo.
Ma che stanno facendo? Mi accosto di più al muro dell’ingresso e sbircio lo specchio nel corridoio che rimanda un’immagine parziale del salotto, sufficiente però a scoprire che Sabo sta cercando di insegnare a Law una specie di danza country, sforbiciante e molleggiata. Mi porto veloce una mano alla bocca.
Oh Santo Roger! Chissà se riesco a fargli un video?
Mentre rovisto in borsa alla ricercare del cellulare cerco di decidere cosa sia più surreale. Se Sabo che insegna qualcosa di correlato alla danza a qualcuno o Law che si presta. Ma, d’altra parte, con suo fratello è sempre stato più rilassato e malleabile.   
Figuriamoci che l’altro giorno Eris non trovava più Mozu e si sono messi baffi e barba posticci per interpretare “I Due Imbattibili Detective”. Ishley non smetteva più di ridere quando ha visto il video.
La mano si chiude intorno al telefonino e io sto già sorridendo con sadica soddisfazione quando una folata di vento fa sbattere la porta di ingresso, che mi sono dimenticata aperta. Cavolo!
Mi sbrigo ad afferrare il pomello per fingere di essere appena entrata. 
«Ehi?» chiama Sabo dal salotto, il sorriso palpabile nella voce. «Siete tornat…» si blocca sull’uscio e il sorriso scompare. «Koala, sei sola?»
È un’espressione delusa quella?
«Sì» rispondo perplessa. Chi altro si aspettava? Sono andata a trovare di nuovo Izou dopo lavoro, Venerdì vedermi ha scatenato in lui una geniale trovata per aggiungere due capi premaman alla collezione e oggi voleva prendermi le misure, salvo restare deluso dal fatto che la mia pancia è ancora troppo piccola per dei premaman, ma non si aspettavano che lo portassi qui, no? E se anche fosse, perché mai Sabo dovrebbe restarci male per questo?
«E Ish dov’è?» chiede, incrociando le braccia mentre Law lo supera per venire a darmi un bacio e accertarsi che la mia permanenza a casa Roronoa non mi abbia provocato traumi fisici e non. Una preoccupazione comprensibile, concediamoglielo.
«Non te l’ha detto? Andava con Praline, Aisa e Reiju a fare shopping»
«Ah. Sì. Non mi ricordavo che fosse oggi, credevo fosse con te»
«No io ero da Izou»
«Capisco»
«Mi ha scritto prima per dirmi che non sa se torna per cena» aggiunge Law al che Sabo solleva il capo di scatto.
«Come?! Ma è fuori da stamattina!»
«Ma non hai detto che pensavi che fosse con me?»
«Sì ma invece era a fare shopping e mi ricordo che mi ha detto che sarebbero andate sul presto perciò ora ho evinto che è fuori da stamattina» si stringe lui nelle spalle, parlando con inoppugnabile logica. «E voi non le dite niente?!»
Io e Law lo fissiamo senza parole. “Dirle cosa?!” vorrei chiedere ma il buon senso mi suggerisce di lasciar perdere, non indagare. «Ssssì, d’accordo… cominciamo a preparare la cena?» propongo a Law di slancio, in mancanza di un diversivo migliore.
«Prepariamo lo stesso per quattro, al limite la porzione di Ish me la porto domani al lavoro» suggerisce Sabo seguendomi, e poi aggiunge tra sé e sé ma ad alta voce: «Se proprio non rientra»
Mi scambio un’altra occhiata con Law e tanto mi basta per sapere che siamo entrambi d’accordo sul continuare a glissare. Così io scappo a mettermi la roba di casa e quando ritorno in cucina ci lanciamo in un racconto più o meno dettagliato delle nostre giornate, da cui Sabo per fortuna si lascia distrarre. 
«Ah ecco cosa mi sono dimenticato di dirti prima» realizza Law a un certo punto, parlando a Sabo. «Cora mi ha detto che il tuo contratto è quasi pronto. Da Lunedì sarai ufficialmente il primo avvocato assunto dal Castello sulla Collina»
Sabo si illumina, Law ghigna, io mi sento riempire di orgoglio, come un liquido caldo che si spande nel petto. Si vede lontano un chilometro che sono felici e io sono felice di vederli così felici.
«E detto tra noi, lo stipendio non fa nemmeno così schifo come pensavi»
«Beh ragione in più per portarvi fuori a cena per festeggiare» coglie subito la palla al balzo, Sabo, mentre estrae due bottiglie d’acqua dal frigo.
«Avrai bisogno anche di un paio di camice nuove» lo avviso mentre tagliuzzo le zucchine a dadini. «Al lavasecco mi hanno segnalato che due hanno il colletto tutto rovinato»   
«Koala ma ti ho detto mille volte che me le porto io a far lavare!» protesta Sabo.
«Sì lo so, lo so!» alzo le mani in segno di resa. «Ma passavo in zona e già che c’ero…»
Sabo sospira, scuote il capo con un sorriso grato e poi si appoggia al bancone della cucina. «A tal proposito, c’è una cosa di cui vorrei parlarvi» allarga di più il sorriso e risolleva il capo. «Mi sto guardando in giro per un monolocale»
«Come?!»
Il tagliere e la padella cadono nel lavandino in simultanea mentre io e Law ci giriamo di scatto verso di lui.
«Cos… ma… ma perché?» rido nervosa. «Cioè so che il divano-letto è scomodo ma…»
«Che?! Non è quello Koala!»
«Cosa allora?» gli chiede Law, dissimulando molto meglio di me ma non bene come di solito gli riesce.
Sabo sposta uno sguardo incredulo da me a lui, a me a lui.
«Beh io… penso solo sia arrivato il momento di levare le tende, con il nuovo lavoro e uno stipendio migliore, anche… anche se sarà di poco ma ho via dei risparmi, con una corretta gestione delle entrate ce la posso fare e…»
«Non ci dai fastidio» lo interrompe Law, serissimo stavolta.
«E devi considerare che ci sono altre priorità prima. Se te ne vai ti servirà una macchina, devi riaprire la partita iva, le camice che ti dicevo prima…» intervengo anche io, ragionevole e di nuovo padrona della situazione. «Devi fare con calma»
«I lavori a casa di Ishley sono quasi finiti» prosegue Law e lo stomaco mi si stringe. Tra poco tornerà a casa sua, ce lo ha detto ieri. «Puoi spostarti nella cameretta se vuoi, noi non inizieremo a sistemarla prima della ventiquattresima settimana»
«È il sesto mese» chiarisco.  
Sabo ci fissa a bocca aperta e si passa una mano sugli occhi come per cercare di svegliarsi. «Ragazzi ma io non posso continuare ad abusare della vostra ospitalità»
«Sabo non vogliamo che fai il passo più lungo della gamba» affermo senza mezzi termini. Voglio che capisca. Non è che non lo crediamo capace di farcela da solo. «Hai appena ricominciato a stare bene, le cose si stanno sistemando. Dai tempo al tempo»
«Ma voi non…» tentenna, chiaramente commosso. Sbuffa una risata, distoglie lo sguardo, si passa di nuovo due dita sugli occhi, manda giù pesante. «P-però resto sul divano-letto. Non è scomodo» ci avvisa, il groppo in gola.
Law annuisce solenne, io sorrido sollevata, lui si passa una mano sul volto. Faccio per avvicinarmi e abbracciarlo quando la serratura in entrata scatta e spezza l’incantesimo ma, soprattutto, catalizza tutta l’attenzione di Sabo che si dimentica all’istante del trauma emotivo appena vissuto.
«Scusate, so che è tardi! Sono ancora in tempo per la cena?»
«In tempissimo» rispondo e mi porto sulla soglia della cucina per salutarla, non senza una piccola deviazione per dare una materna carezza a Sabo. «Allora com’è and…» mi blocco quando entra nel mio campo visivo, carica di sacchetti di varie marche e dimensioni, in testa un paio di occhiali che sono certa essere nuovi, i calzoncini con cui è uscita stamattina ma un top molto diverso dalle sue solite magliette tinta unita. «È andata bene» mi rispondo da sola.
«Beh sì, credo… credo di sì» conferma lei, sollevando i sacchetti come a mostrarmeli, le guance arrossate, gli occhi che brillano. «Mi cambio e arrivo eh!» mi avvisa, precipitandosi poi verso la cameretta.
«Certo» mi appoggio allo stipite. «Non ti dico di fare con calma solo perché Sabo ti sta aspettando già da un po’»
 

***
 

«Sono a casa!» trilla dall'ingresso, per un momento quasi la scambio per mamma.
«Eccoti finalmente, stavo per mandare le squadre di ricerca» le rispondo senza staccarmi dai fornelli.
«Ah fratellone» appare sulla porta della cucina e, appoggiata allo stipite, scuote il capo con un sorriso tra il materno e il compassionevole. «Solo un uomo potrebbe pensare che delle squadre di ricerca bastino per ritrovare un gruppo di donne in piena sessione di shopping»
Le lancio un paio di occhiate di striscio, le sopracciglia corrugate «Ti sei divertita?»
Ma non so se è esattamente una domanda. Lo vedo che è felice, il solo fatto che abbia trillato come mamma ne è la prova. A lasciarmi perplesso è che per Reiju dovrebbe essere la norma, una giornata di compere con le amiche, almeno da quanto ne so.
Eppure è chiaramente euforica, si vede quando mi si avvicina a passo di danza per darmi un bacio.
«Sembra molto yummi, Sanji» commenta con lo sguardo rivolto alla padella. E se normalmente risponderei con una moina a una donna o con uno scocciato "Avevi dubbi?" a un uomo, se si tratta di mia sorella non mi trattengo dal mostrare soddisfazione. Mi piace, essere il suo eroe.
«Se ci sei preparo i gamberi flambé»
Mi scocca un altro bacio e poi sfrega il pollice sulla mia guancia, per pulirmi dal rossetto. «Il tempo di cambiarmi»
«Vado a chiamare Usopp» annuisco alla sua richiesta.
Mi pulisco le mani e ributto lo strofinaccio sulla spalla, mentre esco dalla cucina e attraverso il corridoio diretto alla nostra camera. La porta è socchiusa, un rumore diverso dal classico ticchettare dei tasti del PC, sotto le dita esperte e veloci del mio Uso-chan.
Mi acciglio. Che starà facendo? Mi ha detto che aveva da fare appena è rientrato dal Castello, ho dato per scontato che fosse lavoro.
«Usopp?» mi annuncio, aprendo cauto la porta.
Per lavorare, sta lavorando, al punto che non mi sente nemmeno. È molto concentrato, ha quello sguardo intenso e focalizzato e quell'espressione seria che mi mandano le sinapsi in corto e se i gamberi non fossero così delicati da rischiare di andare a male appena estratti dal frigo, ora lascerei perdere la cena, mi chiuderei a chiave con lui e gli farei di tutto. Reiju o non Reiju nella stanza accanto.
Ma, a un po' più oculato ripensamento, non so nemmeno se riuscirei a staccarlo dalla scrivania e Reiju è sicuramente molto affamata dopo la lunga giornata fuori. Che razza di fratello e cuoco sarei se la lasciassi a digiunare o, peggio, a nutrirsi di una ciotola di cereali e nient'altro?
A passi lenti e silenziosi mi avvicino. Non voglio disturbare il suo genio anche se non ho idea di cosa stia facendo. Era un sacco di tempo che non lo vedevo armato di cacciavite. Sul ripiano sono sparpagliati viti, un paio di lampadine, fili di vari colori e qualche interruttore e ingranaggio a rotella. Sembra tutto nuovo di pacca, il che è raro perché Usopp in genere punta alla seconda mano per questi suoi piccoli progetti.
In effetti qualcosa di non nuovo c’è.
Ormai a pochi passi dalla scrivania, noto un grosso sacchetto di stoffa posato per terra che contiene una specie di cupola di metallo, un tubo di vernice spray chiaramente non sigillato, maschera protettiva per il viso e una fiamma ossidrica portatile, tutto marchiato con una F.
A volte mi sorge il dubbio che se chiedessi a Franky un razzo o un lanciafiamme, me ne tirerebbe fuori uno senza colpo ferire.
Ancora focalizzato sullo strano - strano per me che ci capisco poco - assortimento di oggetti, porto in automatico una mano sulla sua spalla.
«Ehi Us...»
«UAH!!!» salta come una molla sulla sedia, il cacciavite cade con un lieve clangore sulla scrivania e poi per terra. «Sanji dannazione! Mi hai fatto prendere un colpo!»
«Che stai facendo?» gli domando senza preamboli, ancora accigliato.
Usopp sgrana gli occhi, la punta del naso gli diventa adorabilmente rossa e io non resisto. A occhi socchiusi mi chino e gliela bacio. Lui sobbalza e se la afferra con entrambe le mani.
«Sanji!» protesta, imbarazzato sempre e comunque da questa sua particolare caratteristica fisica che io invece amo tanto. Come ogni suo singolo aspetto e dettaglio, d’altra parte.
«Allora, che stai facendo?» insisto, sedendomi per metà sulla scrivania e prendendo in mano un ingranaggio a rotella.
«È solo una lampada... ti spiace?» mi sfila la rotella dalle mani. Sembra me quando non lo lascio avvicinare ai miei ingredienti e così mi trattengo dal tirargli una centra per il gesto.
«Una lampada?»
«Sì da comodino» specifica, giocherellando con l'ingranaggio, attento a non guardarmi. «È per il compleanno di Kaya»
«Oh» commento, colto alla sprovvista. «Non è un po' piccola per apprezzare un abat-jour?»
A occhi socchiusi, mi scocca un'occhiata assassina. «Non è un semplice abat-jour okay? È speciale!» mette in chiaro, punto sul vivo.
Lo guardo per un momento. Sarebbe più corretto dire che lo scruto, nella solita e sempre vana speranza di riuscire a capire cosa gli passa per quella testa così intelligente e piena di idee.
Conosco Usopp meglio di chiunque altro, posso indovinare cosa sta pensando o addirittura cosa sta per pensare nove volte su dieci ma quel dieci per cento di spazio mentale che mi è precluso è da sempre il più grande mistero dell'universo per me. Intuire i suoi sentimenti e i suoi pensieri non significa riuscire a comprendere ciò che è sempre costantemente in atto nella mente più creativa e versatile che abbia mai conosciuto. Anche se si tratta dell'amore della mia vita.
Quella è la parte del suo cervello che produce storie, progetti e infinite teghe mentali. È la parte che lo rende insicuro ma anche quella che lo stimola e spinge a mettersi in gioco.
È lì che tre anni fa è maturato tutto il rancore e la rabbia e la paura verso il mio modo di pormi nella nostra relazione e che ora sta maturando qualcos’altro. E siccome l’altra volta me l’ha quasi portato via e questa volta gli indizi non mi mancano, forse sembrerà sbagliato, ma solo un idiota resterebbe fermo a guardare al mio posto.
Perché lo so, so benissimo che quella lampada sarà speciale, perché è per qualcuno di speciale. E non mi riferisco al fatto che Kaya è speciale in generale ma al fatto che è particolarmente speciale per Usopp.
Ishley ha detto che la nostra presenza le fa bene, la aiuta, ma ad Usopp la faccenda sta sfuggendo di mano. Kaya non resterà ricoverata per sempre, grazie al cielo, e se tira troppo la corda i suoi genitori potrebbero non apprezzare.
E so che ora mi odierà per quello che sto per dire ma lo faccio per il suo bene, perché più aspetta più sarà dura.
«Usopp, ti rendi conto che stai esagerando?» dico tutto d’un fiato. E che il cielo mi aiuti.
Si irrigidisce, sgrana gli occhi e poi con lentezza esasperante li solleva su di me. «In… in che senso, s-scusa?» sorride ma la sua voce inciampa.
Con nonchalance incrocio le braccia al petto e spero non si accorga che è un gesto per farmi coraggio da solo. «È ovvio che tu voglia farle un regalo ma non bastava qualcosa di già pronto? In un negozio di giocattoli?» cerco di minimizzare con una stretta di spalle.
Usopp ride. Una risata vuota che non mi piace per niente. Non hai ancora imparato che ormai non ci casco più, Uso-chan?
«Non sarebbe tanto speciale così, non ti pare?» cerca di fare il ragionevole e sicuro di sé, sopracciglio alzato ma io vedo che trema, anche se è impercettibile.
«È che non trovo necessario che il tuo regalo sia il più speciale. Né tantomeno giusto»
Ricordo quando da piccolo accompagnavo la mamma a scegliere i regali per quei tre bastardi dei miei fratelli. La fatica, l’impegno, la preoccupazione che non fosse abbastanza, sempre fondata e puntualmente confermata anno dopo anno, perché alla fine i soldi a disposizione di Zeff non sono mai stati paragonabili con quelli di mio padre. Ricordo il suo sorriso tirato e sofferente quando coglieva la differenza di entusiasmo sul volto o nella voce di Yonji, Ichiji o Niji nello scartare il regalo di nostro padre dopo il suo. Una colpa che, dopotutto, non si può imputare a un bambino, neppure se quel bambino fa Vinsmoke di cognome, figuriamoci a Kaya.
Non voglio che sua madre debba vivere la stessa cocente delusione. Per quella donna sarà già abbastanza difficile non poter neanche portare al parco o a pattinare la propria figlia nel giorno del suo compleanno, figuriamoci se Kaya dovesse continuare a parlare della sua nuova specialissima lampada che Usopp ha costruito apposta per lei. E non ho dubbi che succederà. Ho visto come tiene l’anello, come fosse una reliquia.
«E cosa ti fa credere che sarà il più speciale? Può essere speciale senza esserlo più degli altri!» protesta.
«Non se tu fai in modo che lo sia»
Suona quasi come un’accusa e Usopp non la recepisce diversamente, lo capisco da come mi guarda, la bocca appena schiusa, incredulo.
Eppure no, non mi fa la grazia di non chiedermelo, di incassare solo l’insinuazione, di prenderlo come spunto riflessivo e basta. E perché dovrebbe? Io al suo posto non reagirei diversamente. Anzi, la prenderei molto, molto peggio.
«Cosa vorresti dire, scusa?» domanda, pur sapendo la risposta.
È una sfida, non di quelle belle, non di quelle da testardo orgoglioso. È una sfida a dirlo ad alta voce, se ne ho il coraggio.
«Che non dovresti impegnarti così tanto» mi tengo sul vago, gli lascio la possibilità di interpretare.
Sarò un vigliacco ma non posso. Non posso dirgli che non dovrebbe impegnarsi così tanto ad occupare un posto che non è il suo e non gli spetta. Gli spezzerei il cuore e io lo amo troppo, ho troppo bisogno di lui per correre un rischio simile.
«Il grosso l’ho fatto nel weekend» risponde ma il tono non è entusiasta o convinto come dovrebbe quando si parla di un suo progetto o una sua invenzione. «Ora che è tutto sui fogli, con misure e incastri vari, non mi richiederà tante energie»
Lo amo troppo per non lasciargli credere che la mia sia solo preoccupazione per il suo benessere psicofisico.
«Stai tranquillo Sanji» torna a guardarmi, sorride di nuovo, quasi docile stavolta. «So gestirmi»
E lui ama troppo me per non mentire a se stesso e decidere deliberatamente di non capire.
Le mani si stringono più forte intorno ai miei avambracci, lo guardo da sotto il ciuffo, diviso. Diviso tra il viscerale bisogno di proteggerlo da se stesso e il viscerale bisogno di proteggerlo da me e dalla mia totale mancanza di tatto dialettico.
«Usopp…» esito.
Forse dovrei dirgli chiaramente cosa intendo, dovrei aprirgli gli occhi. Sul momento farà male ma poi mi ringrazierà e comunque non è che a fare finta di niente non farà male comunque, prima o dopo.    
«Dimmi» mi invita, il cacciavite di nuovo in mano.
Ed eccolo, con gli occhi che brillano e che, ora che il pericolo è rientrato, pende dalle mie labbra. E mi ci potrei perdere, in quegli occhi e in quel sorriso, mi ci vorrei perdere se non avessi la cena sul fuoco. Come si fa a distruggere il proprio mondo per il suo stesso bene? Non credo di esserne capace.
«La cena è pronta»
Sgrana di nuovo gli occhi e stavolta non è per ciò che ho detto ma per la risposta del suo stomaco alle mie parole, che riesce a strapparmi una risata, non serena quanto vorrei. Mi stacco dalla scrivania e poso una mano sul suo collo mentre mi chino per dargli un bacio, schivando con maestria il suo naso.
«Ti aspetto di là» soffio sulle sue labbra.
Gli lancio un’ultima occhiata quando sono di nuovo sulla porta.
L’attenzione con cui sta riponendo tutto, anche se so che dopo cena ci tornerà a lavorare, la dice molto lunga su quanta cura è ancora e nonostante tutto intenzionato a mettere in questo progetto.
Trattengo a stento un sospiro.
Qui abbiamo davvero un bel problema.
 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Righe o foglie? Righe o foglie?
Mi fisso allo specchio, in camera di Koala e Law, con ancora addosso la mia roba di casa, portando alternativamente davanti al mio corpo i due vestiti.
Righe o foglie?
Ho i capelli già sistemati, un filo di mascara per mantenere la promessa fatta alle ragazze, la piccola tracolla in cui non so nemmeno io come ho fatto a farci stare qualcosa di più del telefonino – pochette sportiva l’hanno chiamata loro – è già pronta e ho già deciso per i sandali comodi.
Sono pronta, in pratica, devo solo scegliere il vestito. Fosse facile.
Righe o foglie?
Non ho la più pallida idea di cosa faremo oggi, ragion per cui, forse, dovrei solo fidarmi dell’opinione di Reiju sulla presunta versatilità del vestito a righe e mettere quello. L’abito lilla a stampa tropicale mi sembra anche abbastanza elegante, troppo per questa occasione ma non è come se io ci vedessi molto di sportivo nell’altro.
Non è che come se io ci capissi qualcosa.
Righe o foglie?
La verità è che, fosse per me, non metterei né l’uno né l’altro. Con sofferenza mi giro verso il muro che divide le due camere. Penso con desiderio ai miei jeans e al vogatore con il gattino stilizzato. Non è che siano più comodi, con il caldo che c’è oggi proprio no. Questo è leggero e freschissimo, largo il giusto. Ma se poi è troppo? Non posso proprio mettermi la mia t-shirt?
Ish quel gattino sembra che stia pensando “Ti troverò e ti ucciderò”.
La voce di Aisa risuona nella mia testa e mi scappa da ridere. Porca miseria, sul momento mi sono indignata però cavolo se ha ragione. Certo, non mi ero mai posta il problema visto che la tengo sempre nascosta sotto la divisa al lavoro.
Righe o foglie?
Forse dovrei mettere la gonna lunga nuova e buonanotte al secchio. Santo cielo! Com’è possibile che a ventisette anni io sia così socialmente disfunzionale da non ricordarmi nemmeno più come ci si veste per una giornata così?   
Metti quello a righe. Ti piace come ti sta.
E se poi è troppo?
Non è troppo! Sembri una persona famosa in vacanza, te l’ho detto. E poi è perfetto per un appuntamento.
«Non è un appuntamento» protesto.
È ufficiale, sto diventando pazza.  
Il rombo di un macchina fuori in strada mi fa sobbalzare, c’è uno stridere di gomme in frenata e poi: «Ma la pianti di fare il deficiente?» Sabo grida dalla cucina verso l’esterno.
«Suonare il clacson per annunciarmi era troppo mainstream, Sabo!»
Oddio sono arrivati. Sono arrivati, devo decidere, devo decidere!
Merda.
«Ehi Ish?»
«Sì?» mi giro di scatto verso la porta, la voce acuta.
Sabo si sporge dal corridoio, incerto se entrare o meno per lasciarmi la mia privacy. Cerco di captare com’è vestito nella speranza che mi dia un qualche aiuto nella scelta.
Bermuda e polo. Cos… cos’è, sportivo? Casual elegante?
«Se vuoi li faccio entrare un attimo»
«Oh no, no, no! Sono… sono pronta!» annuisco convinta. «Devo solo mettermi questo… ecco…» tentenno, sollevando prima il vestito a righe e poi quello con le foglie. Ishley, ma che stai facendo?!
«Quello a righe» risponde senza esitazione. «Cioè secondo me eh. A vederlo così, ho l’impressione che ti stia benissimo» mi sorride e il cuore mi perde un battito.
«Grazie» soffio a malapena.
«Figurati. Allora io…» indica con tutti e due i pollici «…ti aspetto in salotto »
«S-sì» scuoto il capo per tornare in me. «Mi cambio e ci sono» sorrido a mia volta.
Mi rigiro verso lo specchio e porto un’ultima volta il vestito a righe davanti alla mia figura.
“Ho l’impressione che ti stia benissimo”.
Sorrido anche al mio riflesso. «Okay, andata»
 

 
***

 
«Quando ti deciderai a ingrassare un po’?» si lamenta acido, fermo sulla porta, fissando contrariato la mia pancia.
«Anche io sono felice di vederti» gli dico ridendo, facendomi strada da sola in casa di Nami. «Secondo Gerth tra un paio di settimane dovrebbe iniziare a vedersi qualcosa»
Izou richiude la porta e mi si avvicina per darmi un bacio sullo zigomo, circondandomi il collo con il braccio. «Oggi ti riesci a fermare di più?» mi domanda speranzoso. «Come venerdì scorso»
Lo stringo di rimando, facendo sgusciare le mie braccia intorno al suo collo. «Oggi sono tutta tua» gli sorrido, già pronta a godermi la sua reazione che non mi delude quando mette su un’espressione disgustata.
«Oh Koala, ti prego! Non suscitarmi certe immagini, sai che ho una fervida immaginazione e… brrr» scrolla le spalle, come se avesse appena visto una blatta gigante e io non mi faccio menate a ridergli in faccia.
Mi sposto in salotto, dove una brocca di the alla pesca ghiacciato e due bicchieri mi stanno già aspettando, come il mio migliore amico, sullo stesso tavolo dove sono sparsi fogli, gomitoli e dov’è montata la macchina da cucire.
«Ero impegnato con gli esercizi che mi ha dato Nami per imparare» mi spiega, avvicinandosi alla brocca. «Un po’ di the?» propone.
«Sì grazie» annuisco e intanto mi avvicino a sbirciare i nuovi bozzetti. «Vedo che l’ispirazione sta facendo gli straordinari» aggrotto la fronte quando mi accorgo che i fogli si stanno moltiplicando a vista d’occhio. «Credevo dovessi portare solo otto pezzi a Dressrosa»
«Infatti per quello ti ho chiesto di venire qui» mi porge il bicchiere di the. «Devi aiutarmi a scegliere»
Lo guardo un istante, cercando di mascherare lo stupore. Izou non è il tipo da chiedere apertamente aiuto. Ti fa capire se ne ha bisogno, a modo suo, finge fastidio quando accorri e alla fine ti ringrazia in qualche modo, sempre a modo suo. Nemmeno a me, la sua migliore amica, ha mai chiesto aiuto in modo così diretto, tranne il giorno del suo matrimonio, nel bel mezzo di un attacco di panico però, prima che Robin e Nami mi trascinassero via, tra l’altro.
Fingo di studiare i bozzetti. Non è un caso che sia così fervido di idee. Non è semplice ispirazione è anche un bisogno viscerale di tenersi impegnato, di tenere la testa impegnata.
È che gli manca Marco. Lo vedo dai suoi movimenti stanchi e trattenuti, dal sorriso tirato, dalle occhiaie malcelate, dagli schizzi che ho in mano. Sto seriamente per aprire il vaso di Pandora e lanciare la bomba del “perché non lo chiami?” quando mi trovo a fissare il foglio delle idee per gli abiti pre-maman.
Secondo Izou, saranno il suo cavallo di battaglia. Spera, e a ragione, che nessuno degli altri cinque finalisti abbia pensato anche “a tutte quelle future mamme che non vogliono rinunciare a sentirsi sexy e chic”.
Bisognerà scegliere con cura gli indumenti prescelti per non togliere spazio a qualche altro pezzo fondamentale della collezione e, con la stessa deformazione professionale con cui potrei scegliere il font per un logo o un accostamento di colori, mi metto a valutare le proposte di look tracciate da Izou, finché non mi soffermo sull’abito in basso a sinistra, che attira la mia attenzione per due ben precisi motivi.
È l’unico di tutto il foglio che vorrei indossare ed è incoerente con il resto della collezione.
Gli abiti proposti da Izou sono semplicemente spettacolari, sono di un altro pianeta. Li trovo bellissimi ma su di me non renderebbero giustizia al loro creatore. Questo invece, sembra disegnato apposta per me, è nel mio stile ma non perde assolutamente il tocco inconfondibile di Izou. Si capisce che è una sua creazione, o per lo meno, lo capisco io che da qualche giorno ormai studio e valuto i suoi disegni eppure con ciò che vuole presentare a Dressrosa non si amalgama. Purtroppo, perché se dovessi seguire il mio istinto di donna gli direi di scegliere questo senza pensarci due volte.
Ma sono qui in veste di amica e consulente e il mio compito è ben diverso.
«Izou, questo è fantastico ma non c’entra molto» gli faccio notare, cauta quanto basta.
Lui si avvicina perplesso e mi sembra di sentirlo trattenere appena il fiato quando vede cosa gli sto indicando. Mi strappa il foglio di mano. «No infatti quello non c’entra, non… non farci caso è solo un disegno che ho fatto così tanto per…» farfuglia, facendomi preoccupare.
Che gli prende di punto in bianco?
«Izou che cos…»
La porta d‘ingresso che si spalanca mi interrompe.
Entrambi ci giriamo verso la porta aperta del salotto, che da sul corridoio e di fronte a cui appare una figura imponente, sormontata da una testa verde che, ahimé, conosco molto bene.
Zoro apre un cassetto del mobile del corridoio, cerca qualcosa con movimenti concitati, del tutto ignaro di noi finché Izou non si schiarisce sonoramente la gola e lui si immobilizza, raggelato. Come un criminale colto con le mani nel sacco.
Con calcolata lentezza si volta verso di noi, una punta di sorpresa lo tradisce, quando mi vede.
«Oggi che hai dimenticato?» chiede Izou, le mani sui fianchi. «A parte il tuo senso dell’orientamento»
Zoro non stacca subito gli occhi dai miei per puntarli su Izou. Sa. Lui sa che non ho detto niente a Nami dell’ospedale. «Il portafogli» risponde alla fine, stirando un ghigno per la battuta. «Ma vado subito che se no faccio tardi. Ci vediamo stasera Izou. Koala» ci saluta e così com’è arrivato, di fretta e in silenzio, se ne va.
Resto a fissare per un po’ il punto dov’era Zoro un secondo fa, lo stomaco stretto dalla preoccupazione.
«Capita spesso?» domando a Izou che, intanto, si è seduto sul divano e sta cercando di sistemare i bozzetti secondo un qualche criterio. «Glielo hai chiesto come se non fosse la prima volta che torna indietro per qualcosa che ha dimenticato»
«È già capitato due o tre volte» Izou si stringe nelle spalle. «Sinceramente lo trovo un po’ strano ma sai, Zoro è tutto strano!»
«E Nami che ne dice?» chiedo ancora, afferrando il bicchiere di the per poi andare a sedermi accanto a lui.
Lui mi guarda perplesso. «Mica ne parliamo!»
«Cioè non le hai mai detto che Zoro è tornato a casa da solo in orario di lavoro per prendere qualcosa che si era dimenticato la mattina?» pretendo una conferma, accigliandomi.
Non si accorge che qualcosa non torna? Che sembra esserci sotto qualcosa che puzza?!
«Oh ma va che la gravidanza ti fa male!» mi ammonisce mentre mi squadra da capo a piedi. «Nami lo saprà, mica glielo devo dire io e nemmeno sono affari miei» mette in chiaro e un sorriso, mio malgrado, mi piega le labbra.
«Izou Wano che ritiene che qualcosa non siano affari suoi? Che cosa ti è successo?»
«Assolutamente niente, non trattarmi come una pettegola!» si altera lui, la voce nasale. «E comunque non è mica una cosa grave, non è come se Zoro la tradisse… no?!» minimizza ma non fatico a percepire il nervosismo in quel “no” che mi chiede una disperata conferma.
«Ovviamente!» rispondo subito. «Non potrebbe mai.  È pur sempre di Zoro e Nami che parliamo» lo rassicuro e lo penso davvero.
Sono davvero convinta che non sia niente del genere e che non potrebbero mai farsi una cosa del genere l’uno con l’altra. Mi giro di nuovo verso la porta del salotto e prendo un sorso di the per sopprimere un sospiro.
Sono certa che non sia niente del genere.  
Ma allora che cosa stai combinando Zoro?
 

 
***

 
«Eccomi ci s...» faccio per annunciarmi mentre entro in salotto ma mi blocco quando lo trovo deserto.
Strano, ha detto che mi aspettava qui.
Giro su me stessa per sbirciare che non sia magari in cucina e nel farlo una folata di vento mi porta delle risate e due voci maschili attraverso la porta di casa aperta.
Mi avvicino curiosa e un po' tesa. Sabo è fuori che chiacchiera con suo fratello e sua cognata e io mi prendo un momento per studiarli. Ace, mi sembra, è appoggiato di terga alla sua Firefist rossa fiammante, e riesco a vederlo molto bene. Un metro e ottanta e spalle antisommossa, parla con un sorriso strafottente sulla faccia lentigginosa – Anche lui! Pazzesco! – e quell'aria da anima della festa, che è un attimo e si trasforma in coglione del gruppo per averne detta una di troppo. Ha una mano in tasca e l'altra possessivamente avvolta intorno alla vita della fin troppo minuta ragazza al suo fianco. Fin troppo minuta per lui, intendo, mi domando come faccia a non spezzarla.
Perona, se non ricordo male, non è molto più alta di me, ma ha quel fisico longilineo che a quindici anni mi sono rassegnata di non aver ereditato da mamma, senza anche sporgenti e seno esplosivo – non che non mi piaccia, ora, ma ci è voluto del tempo per imparare ad apprezzarmi –. I capelli lunghi fino a sotto le spalle, non una ciocca fuori posto o crespa, di un caldo, uniforme e goloso rosa fragola. Provo un'ondata di puro sollievo quando vedo che anche lei indossa un vestitino nero a pois bianchi e sandali raso terra, sulla spalla uno zainetto di pelle nera incrostato di spille di ogni dimensione.
Sono stupendi. Lei scoppia a ridere per non so cosa ha detto lui e si aggrappa al bavero della sua camicia gialla – con un disegno di fiori e palme così psichedelico che non so come fa a portarla senza sembrare ridicolo, eppure lui ci riesce – e lui si china a darle un bacio sulla fronte e io vorrei avere con me la mia Reflex per immortalare il momento.
Che stupida sono stata a riportarla a Waterwheel l'ultima volta che sono andata a trovare mamma e papà.
Li sto ancora fissando, per provare a immortalare quest’attimo almeno nella mia mente, che Ace gira gli occhi verso di me e mi indica con un cenno del mento, dicendo qualcosa a Sabo. Lui si volta e mi sorride e a passo svelto torna verso casa, si ferma di fronte a me e mi guarda con attenzione dall’alto verso il basso.
«Tutto bene?»
«Certo. Ora ci sono» annuisco e annuisce anche lui, poi si allunga oltre me per chiudere la porta e una zaffata del suo dopobarba mi investe.
Non è un profumo particolare, sa solo di pulito ma a malapena resisto all’impulso di chiudere gli occhi e inalare. Le chiavi schioccano tre volte nella serratura.
«Dai, vieni che te li presento»
Mi aggrappo con le mani al filo sottile della tracolla che mi attraversa il busto in obliquo. Eccolo lì, l’incubo che diventa realtà. Il momento delle presentazioni. Stavolta è la voce di Praline a suonarmi in testa.
“Tu non facevi amicizia così a vent’anni?”
Ho glissato sulla questione quella volta ma la verità è che no, io non facevo amicizia così a vent’anni. Né prima. Né dopo. Io non so come si fa amicizia.
Nella mia vita mi sono sempre trovata in situazioni dove, per forza di cose qualcuno con cui andare d’accordo lo trovato. A scuola, a danza, all’università, al lavoro. Le persone mi sono sempre capitate.
Ma amici su cui contare, a cui raccontare i miei segreti, con cui sfogare le mie paure e le mie delusioni. Con questo genere di cose sono sempre stata un disastro.
Non piacevo nemmeno agli amici di Drake, troppo diretta, dicevano, senza filtri. Un paradosso, non riuscire a farsi amici perché si è troppo socievoli e ci si prende confidenza troppo in fretta. Ripensando poi a come si sono trovate Reiju e Aisa lo capisco ancora meno e mi trovo finalmente incline a dare peso alle parole di zia Cinnamon, quando mi assicurava che il problema era che Waterwheel era troppo piccola e di mentalità chiusa per una come me, che in una grande città sarebbe stato diverso. Ho sempre creduto fosse per tirarmi sul il morale ma ora mi rendo conto che aveva ragione.
Se ripenso al mio primo incontro con Sabo – quello ufficiale, a casa – non posso negare che sia stata la prima volta da tantissimo tempo in cui sono stata me stessa, senza filtri, senza maschere per sondare il terreno prima di azzardarmi, come invece ho fatto con Law e con Praline. Forse anche perché, lo ammetto senza vergogna, dopo che mi era svenuto davanti come una pera cotta cosa si poteva aspettare?
«Eccoci qua» annuncia Sabo, le mani sui fianchi e il petto appena un po’ in fuori. Sembra quasi orgoglioso e io gli lancio un’occhiata perplessa. «Lei è Ishley»
«Finalmente possiamo dare un volto al tuo nome!  Non se ne poteva più di stare a sentire Sabo parlare di te senza nemmeno riuscire a immaginarti. Io sono Perona, comunque» mi tende la mano lei per prima e io ci metto un attimo a reagire, perché non credo di aver capito bene ma forse sta dicendo che Sabo parla continuamente di me?
«A quanto pare dei fratelli Monkey hai conosciuto solo quelli meno affascinanti finora» si fa avanti lui.
«Ace» Sabo lo ammonisce subito ma la mia bocca è già partita a briglia sciolta.
«Sì, non ho ancora avuto modo di conoscere Rufy in effetti» gli sorrido sardonica, mentre stringo la mano anche a lui che rimane per un attimo attonito e senza parole.
Un brivido mi scuote.
Oddio. Oh merda. L’ho fatto di nuovo.
Adesso verrà fuori che non la intendeva come battuta, che il fratello di Sabo non è come lui – anche perché non sono fratelli di sangue, no? – e che si è offeso e io ci tenevo così tanto a piacergli, perché sono i parenti di Sabo e…
«Sono allibito. Neanche dieci secondi e ti ha già messo al tappeto Portuguese» commenta Sabo ancora al mio fianco e intanto un sorriso ammirato si apre sul viso di Ace.
«Ma dove l’hai trovata? Mi piace!»
«Ha battuto qualsiasi record»
«Sentite» prende parola Perona, il tono autoritario e intanto si sposta  accanto a me. «Io mi siedo dietro con lei, Che già non ho voglia di stare in mezzo mentre voi bisticciate a colpi di testosterone e poi noi due dobbiamo conoscerci meglio»
«Esatto!» esclamo e poi faccio un bel respiro. «Anche perché noi due siamo destinate a diventare grandi amiche, giusto Perona?» mi giro a guardarla, spero non si noti lo sguardo implorante.
«Puoi dirlo forte, Ishley» annuisce lei e il primo sorriso rilassato della giornata si apre sul mio volto.
Ace ghigna divertito e rivolge a Perona un’occhiata così innamorata che poco ci manca che mi sciolgo anche io solo ad assistere. «Allora, andiamo!» batte le mani. «Su, senza indugio, salite!»     
Non ce lo facciamo ripetere due volte. Apro la portiera posteriore più vicina a me, il posto dietro al guidatore, mentre Sabo e Perona fanno il giro. «Vedrai, ti piacerà un sacco» mi rassicura Perona, agganciando la cintura. La osserva meglio seduta accanto a me, lei e il suo abbigliamento. Quelli sul vestito non sono pois. Sono teschietti.
Credo di adorarla.
«Hai portato la lista?» chiede Sabo mentre Ace sfreccia lungo la strada, i finestrini abbassati per metà per far girare l’aria.
«È nel cruscotto. Ma le ho portate tutte e due perché non sapevo se serviva quella corta o quella lunga»
Mi sporgo appena, incuriosita. Sabo sta estraendo dal cruscotto due fogli piegati.
«Quella corta, quella corta» conferma Sabo. «Le cose principali da turista le ha già viste»
«E allora è quella lì» Ace indica la mano sinistra di suo fratello. Sabo mette via il foglio che tiene nell’altra mano e apre quello segnalato e poco ci manca che mi strozzo con la mia stessa saliva.
Non è un foglio, sono tre e scritti fittissimi! Quella sarebbe corta?! E poi sono le cose che dobbiamo fare oggi?! Come si fa in una sola giornata?
«Non preoccuparti, loro ci riescono. Credo che abbiano una giratempo nascosta da qualche parte» ridacchia Perona. La studio ancora un momento, gli occhioni neri e languidi, il rossetto rosso e la voglia sincera di saperne di più di lei mi travolge
«E tu cosa fai nella vita?»
«Oh beh io…»
 

 
§

 
«Ma la conosco» faccio presente a Sabo mentre avanziamo nella Piazza del Patibolo. «È l’arrivo della parata dell’Oro Jackson Day» ne approfitto per sfoggiare quel po’ di cultura rafteliana che mi sono fatta in questi anni. E se non fosse per la parata ammetto che non la conoscerei. È piccola, con un nome poco attraente e un vecchio patibolo che è sufficiente vedere da lontano perché tanto alla fine è solo, appunto, un patibolo.
«Sì certo, ma ci sei mai venuta quando non è l’Oro Jackson Day?»
«Sei mai salita sul patibolo?»
«Hai mai provato i ceppi di Gol D. Roger?»
Domandano alternativamente Sabo e Ace. E alternativamente io li guardo, a occhi socchiusi.
«Credevo stessimo facendo un giro di Raftel non registrando uno di quei programmi televisivi presentati da una coppia di esperti che si crede simpatica a fare alla telecamera domande a cui si accinge a rispondere»
«Ah! Due a zero con te» Perona indica Ace, sommamente divertita. «E uno a zero con te» indica Sabo che incassa e poi si dedica di nuovo a me.
«Si dice, qui a Raftel, che se provi i ceppi di Gol D. Roger ti si allunga la vita di sette anni»
«Certo poi per ogni takoyaki di Hachi ti si accorcia di quattro perciò il calcolo non è molto a favore, però…» Ace ondeggia le mani come fosse una bilancia e intanto siamo arrivati alle scale che portano sulla struttura di legno. Quando mi giro per salire mi ritrovo a guardare la mano di Sabo che ha già salito un paio di gradini.
«Allora li vuoi provare?»
Afferro la sua mano, un piede già sul primo gradino. «E me lo chiedi?»
 

 
§

 
«Ecco qua» annuncia Sabo, tornando carico dal chiosco al tavolo che, non so per che miracolo, siamo riusciti a trovare all’ombra.
«Il vassoio per Ishley, quello per Perona, il vassoio della vittoria, Perona te lo affido…» le dice posando un altro contenitore di cartone accanto al suo, per poi sedersi sulla panca, accanto a me di fronte a suo fratello. «E i nostri. Allora…» si scrocchia le dita Sabo. «Sei pronto a farti stracciare fratello?»
Mi acciglio e cerco una muta spiegazione da Perona che mi tende due bacchette di legno e sospira sconsolata. «Fanno la gara a chi finisce per primo il proprio vassoio e chi vince, vince questo…» indica il vassoietto in più che le è stato affidato. «…a spese dell’altro. Eh lo so» sospira di nuovo quando sgrano gli occhi. «Sono anche disgustosi da guardare, mi spiace che tu debba assistere»
«Ma no, mica per quello. È che sono altri trentasei anni di vita in meno quelli» calco il tono scioccato e tutti scoppiano a ridere, me compresa.
«Oh beh ma prima di iniziare, dobbiamo assistere al battesimo della nostra Ish» annuncia Ace con aria solenne e non fosse che mi si è scaldato il cuore per quel “nostra”, troverei forse inquietante venire fissata da tre persone mentre mangio. Oggi sto scoprendo che il Castello non è affatto la massima fonte di stramberie della città. Afferro le bacchette con la destra e scoperchio la mia porzione da sei con la sinistra.
Afferro una polpetta e la studio. Il profumo è buono ma fin qui sembra una banalissima polpetta di polpo. Le do un morso e riesco a fare giusto due masticate prima di portarmi la mano alle labbra.
«Oh mio dio!» esclamo, bocca piena e occhi sgranati per sincero stupore. «Ma sono spaziali!»
Sabo e Ace scoppiano in grida di esultanza, Perona sorride e mi offre la bottiglietta dell’acqua, Sabo mi arruffa i capelli, Ace addirittura si mette ad applaudire.
«È una di noi!»
 

 
§

 
«Ace ma dove ti stai fermando?» si acciglia Sabo quando si accorge che la macchina rallenta.
«Tirate giù i finestrini alla vostra sinistra prego» ci invita Ace.
Guardo fuori curiosa ma non vedo nulla particolarmente degno di nota, c’è solo un piccolo parco che costeggia il marciapiede, nemmeno troppo ben tenuto con un piccolo parcheggio sterrato. «Signore questo è il luogo dove Sabo ha perso la vergin…»
«Ma deficiente di un coglione!» lo apostrofa Sabo, bloccandolo con un centra in piena nuca.
 

 
§

  
Fisso allibita la statua di bronzo che svetta di fronte a me. Santo cielo, non può essere vero. È identica a lui. Identica.
«Ma lui lo sa?»     
«Sì ma lo imbarazza» conferma Perona.
Santo cielo, è identica, è lui, è… è…
«È Usopp!»
«Usoland, il grande esploratore, prego» mi corregge Ace. 
«In realtà Usopp si chiama così in suo onore se non ricordo male» commenta Sabo. «Suo padre ha deciso quando ha visto il suo naso. Però se tocchi la punta del naso di Usoland, ti infonde coraggio mentre se tocchi quella di Usopp…»
«Gli infondi imbarazzo»
Scoppio a ridere e ancora non mi capacito di quanto sono identici, di cosa sto guardando. In effetti il bronzo sull’estremità del naso è molto più lucido. Peccato che non ci arrivo.
«Con permesso, signorina» una voce soffia al mio orecchio e un attimo dopo sono seduta sulla spalla di Sabo che mi solleva verso la statua. Afferro la sua mano con la sinistra per darmi più stabilità e con la destra mi sbrigo a strofinare il naso di Usoland prima che il movimento iperbolico mi riporti giù. Atterro senza troppe difficoltà, complici gli anni di danza e le braccia di Sabo che attutiscono la caduta e tra cui mi ritrovo, girata verso di lui. Solleva la testa e il suo naso quasi sfiora il mio.
Mi schiarisco appena la gola. «Grazie» mormoro, prima di staccarmi da lui.
 

 
§

 
«Quasi tutti vanno alla Sabaody Tower per vedere Raftel dall’alto ma qui dall’Elbaf Tree c’è una vista un po’ più… speciale, diciamo» mi avvisa Sabo mentre esco fuori sulla balconata in legno. Guardo in giù e osservo con occhi attenti, cercando di capire perché, cosa mi da l’impressione di stare guardando un’intera città dall’alto ma abbastanza vicino da captare la vita che la movimenta.
È difficile da spiegare. È come prima a Little Garden, la riproduzione in miniatura di Raftel, solo che questa è la città originale, è quella vera, con persone vere e vive che ci si muovono dentro.
«Tutta Raftel è stata costruita a partire da questo quartiere» mi spiega Sabo, addossato alla balaustra accanto a me. «Strutturalmente l’intera città è un insieme di isolati che riproducono questo, quindi praticamente chiunque sale qui pensa…»
«Ma questo è il mio quartiere» lo anticipo e lui si gira a guardarmi con gli occhi che brillano. Mi stringo nelle spalle. «È quello che ho pensato appena ho guardato giù» spiego.
Sabo annuisce e intreccia le dita. «Mamma ci raccontava che questa torre l’aveva costruita un gigante, per permettere agli umani di vedere il loro stesso mondo come lo vedeva lui»   
Lo guardo sorridere nella luce del tramonto. La voglia di passare una mano tra le sue ciocche in una carezza di conforto è quasi ingestibile ma per miracolo resisto. «Ti manca molto?» gli domando, sapendo già che è una domanda idiota.
Ma lui sorride ancora di più. «Da morire. Ogni singolo giorno. Ma sai…» si gira di spalle alla balaustra, appoggia i gomiti e mi guarda. «…raccontare le sue storie me la fa mancare un po’ meno. Come se fosse ancora qui con me»
Annuisco piano. «Sono storie bellissime. Mi piace tanto ascoltarle»
Mi fissa qualche secondo senza parlare, il vento che ci scompiglia i capelli e per un momento mi toglie il respiro. Sabo allunga la mano. «Andiamo. Abbiamo quasi finito»
 

 
§

 
Osservo Perona che cerca di scappare da Ace e dai suoi tentativi di bagnarla con la canna dell’acqua di proprietà del bar/chiosco di questo parco, ridendo e lanciando di tanto in tanto qualche urlo quando Ace riesce quasi ad afferrarla.
Sono sfinita fisicamente ma mentalmente mi sento ancora piena di energia, euforia, adrenalina. È stata una giornata pazzesca e vorrei non arrivasse mai al termine ma anche l’ultima riga della lista è stata spuntata, da me per sugellare il mio ufficiale benvenuto a Raftel. Con tre anni e mezzo di ritardo, ma che importa?
A non farmi sentire troppo malinconica è il solo pensiero che per ora Sabo e io stiamo ancora nella stessa casa, anche se si tratta di una situazione sempre più vicina alla fine. Mi giro a sbirciarlo nella penombra illuminata dai lampioni, anche lui stanco ma con lo sguardo bello acceso che fissa però il vuoto, perso in qualche pensiero. Mi appoggio allo schienale della panchina.
«Vuoi  dirmi che non hai nemmeno un aneddoto su questo parco, professor Clover?» lo prendo in giro, riferendomi al suo ruolo di Cicerone di oggi. Non c’è stato un solo posto dove mi hanno portata di cui Sabo non avesse qualcosa di interessante da raccontarmi. Un dettaglio, un episodio, un ricordo. Ed è stato stupendo, mi sento così mentalmente sazia e soddisfatta.
Sabo si scanta e si gira a sua volta a guardarmi, un sorriso gigantesco sul volto, recependo con un secondo di ritardo le mie parole. «Come? Oh… ehmmm…» si guarda intorno. «Beh sul parco no ma sulla panchina sì»
«Davvero?» lo provoco, appoggiando il capo sulla mano, consapevole che si sta per inventare qualcosa di sana pianta e ben contenta di starlo ad ascoltare.
«Certo» annuisce lui. «Questa è la panchina di chi aspetta. Se stai aspettando qualcosa e ti siedi su questa panchina e hai la costanza di non alzarti mai, quello che stai aspettando arriverà prima o poi. Ma deve essere una cosa importante e per cui vale la pena aspettare»
Lo studio, concentrata. Non so come fa a inventarsi queste mini-favole così in fretta, da dove le tira fuori. Deve essere il sangue di sua madre. Ed è bellissimo che di tanti aspetti possibili gli sia rimasto proprio questo.
«Uhm…» rifletto, rimettendomi dritta e incrociando le braccia, lo sguardo al cielo. «Secondo te aspettare che il mio salotto si ridipinga magicamente da solo dopo che gli operai avranno finito rientra nella categoria?»
Con la coda dell’occhio lo vedo intrecciare le dita sulla nuca e puntare a sua volta gli occhi al cielo. «Beh sì. Ma per quando avranno inventato una macchina che lo fa, temo che tu sarai morta. Però è figo, potrebbero intestarti la panchina. “Qui attese Ishley Habena, colei che non voleva dipingere”» annuncia con tono solenne e io scoppio a ridere.
«Ehi ragazzi, ragazzi!» Perona ci arriva davanti di corsa.
«Voodoo! Non lasciarmi qui!» chiama Ace. Io e Sabo ci giriamo e sgrano gli occhi quando lo individuo sdraiato a terra e legato come un salame con la canna dell’acqua, che per giunta gli zampilla in faccia.
Ma come ha fatto?!
Sabo mi lancia un’occhiata della serie “non chiedere, non indagare, meglio non saperlo” e tutti e due torniamo a rivolgerci a lei.
«Dicci» la invita Sabo, ignorando gli ululati di aiuto di suo fratello.
«Ho scoperto che al “La Bartad” stasera fanno serata danzante! Ci andiamo?» propone, gli occhi infiammati di entusiasmo. Un entusiasmo che contagia all’istante anche me.
Volevo così tanto che la serata proseguisse, stavo solo aspettando una scusa per proporre qualcosa e… Questa panchina funziona davvero!
Mi giro verso Sabo che si gira verso me e mi basta un’occhiata per sapere che stiamo pensando la stessa  cosa.
Dopotutto, la notte è ancora giovane.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


«Dovrebbero aggiungerlo alla lista» faccio presente a Perona seduta con me al bancone all’aperto.
Il cafè “La Bartad”, che non avevo mai sentito prima, è immerso completamente nel parco del quartiere di Green Bit, un posto magico. Le lanterne appese agli alberi, le magnolie che si piegano gentili sulle panche sparpagliate qua e là. E non guasta questo bel servizio bar estivo, con tanto di musica e pista da ballo ciottolata, che in inverno si trasforma strategicamente in una veranda.
«Ha aperto solo due anni fa» spiega Perona, succhiando un po’ della sua caipiroska alla fragola. «Hanno bisogno di più tempo per decidere se designarlo come luogo da visitare in un vero giro di Raftel» calca sul “vero”, come ricordo bene ha fatto anche Sabo al telefono con Ace settimana scorsa, ma da come lo fa lei è chiaro che sta prendendo per i fondelli i nostri due accompagnatori e il loro “fanatismo” da rafteliani incalliti. Il suo tono è una parte compassione, una parte e mezzo rassegnato e tre parti tanto affetto.
Un po’ come il mio…
«Angelo azzurro!» annuncia il barman e io sollevo appena la mano prima che sotto il mio naso appaia quel che sembra oceano in un bicchiere, decorato con ciliegia, maracuja, fetta d’ananas, una cannuccia verde menta e un ombrellino arancione.
Lo afferro e sollevo verso Perona con un “cin cin” che subito ricambia, facendo tintinnare i nostri bicchieri con un suono cristallino.
Ne prendo un sorso e schiocco la lingua soddisfatta. Una parte di succo di lime, una parte e mezza di vodka, tre parti di blu curaçao. Fresco e dissetante, perfetto per il caldo che si è alzato e mi ha obbligato a tirare su i capelli.
Perciò, stando a quel che dice Reiju, ora suppongo di apparire molto bon ton. Mi metto quasi a ridere da sola per il mio pensiero scemo e anche se non mi fossi fermata per tempo credo che la cosa non avrebbe turbato Perona più di tanto. In un pomeriggio ha già imparato a conoscermi e, credo, apprezzarmi, come io con lei. Forse davvero siamo destinate a diventare grandi amiche.
Almeno spero.
Mi guardo intorno per assorbire l’atmosfera, amici che ridono e scherzano un po’ ovunque, chi in piedi, chi seduto, coppie e gruppetti che si scatenano sulla pista, intravedo anche qualche lucciola tra i cespugli finché i miei occhi non si posano su due volti famigliari.
In piedi vicino a un albero illuminato, in mano i loro bicchieri di invisibile, Sabo e Ace chiacchierano fitto, un mezzo sorriso sui volti di entrambi, di certo non legato a ciò che si stanno dicendo ma al semplice fatto di essere insieme.
Non so quanto tempo abbiano avuto per loro da quando Sabo è tornato, sicuramente meno di quel che avrebbero voluto ma ho l’impressione che, se anche stessero insieme ventiquattr’ore filate, ne vorrebbero ancora. È così che immagino sia, avere un fratello o una sorella.
Eppure anche così, anche preso e assorbito dalla presenza di suo fratello, non mi sfugge come Ace lanci a cadenza regolare furtive occhiate nella nostra direzione. Ci faccio caso una, due, tre volte e intanto chiacchiero con Perona e mi rendo conto che, visto da fuori, stiamo facendo la stessa cosa e può sembrare che stiamo flirtando, soprattutto quando la musica cambia e si addolcisce, diventando un lento che obbliga tutti a stringersi di più.

[Hungry Eyes – Greyson Chance]
 
«Ace non ti molla un secondo» mormoro colpita, tornando a guardare Perona con sincero interesse.
Lei sgrana appena gli occhi. «Lo so, ma non è fastidioso, giuro»
«Non ho mai detto che…» mi affretto a chiarire ma Perona non ha ancora finito.
«Mi fa sentire protetta e credo che un po’ dipenda da come ci siamo messi insieme. Sai, si è svegliato un po’ tardi e credeva di avermi perso contro metà dei miei compagni di classe» ride, con la sua risata caratteristica. Ma non sono così sprovveduta da non sapere che deve esserci sotto molto di più. Un amore così, che dopo otto anni ancora si cerca e si trova come due mani che si sfiorano per la prima volta, mozzando il fiato e dando i brividi persino a chi lo osserva da fuori, deve avere sotto molto di più.
«Dev’essere una bella storia, la vostra» mormoro, appoggiando il mento alla mano, con tono… malinconico?!
Era… era un sospiro quello?! Ishley, ma che ti prende?!
 
I've been meaning to tell you
I've got this feeling that won't subside
I look at you and I fantasize
You're mine tonight
 
«Mi piacerebbe raccontartela» ride roca Perona, strappandomi ai miei interrogativi. Sorrido, piena di aspettativa.
Sì, quando si tratta di me l’amore romantico non mi interessa né tocca più di tanto – almeno di solito – ma quello degli altri mi ha sempre affascinato.
«Mi farebbe piacere sentirla»    
«Perfetto! Allora appena sarai libera te la racconto!» annuisce convinta mentre io mi acciglio perplessa.
«Ma io sono qui, non ho nulla da fare» le faccio presente.
Perona sorride, un sorriso che ha del famelico e del saputo, e si avvicina il bicchiere di caipiroska, guardandomi di sottecchi. «Tra poco lo avrai» mormora piano prima di addentare la cannuccia e indicare con il capo qualcosa di fianco a noi.
 
Now I've got you in my sights
With these
 
Mi giro curiosa e il sangue mi defluisce dalle gambe alla testa, ribaltandomi lo stomaco nel tragitto, quando metto a fuoco Sabo, a pochi metri da noi, con un sorriso sul volto e gli occhi fissi su di me.
 
Hungry eyes
One look at you and I can't disguise
I've got hungry eyes
I feel the magic between you and I
 
Mando giù veloce un altro sorso di angelo azzurro mentre copre la distanza che ci separa e allunga una mano verso di me. Mano che osservo quasi in panico, che ho tenuto stretta non so per quanto solo oggi e ora non ho il coraggio di afferrare.
È come se cervello e corpo si fossero disconnessi. Poi una brezza leggera, risollevo lo sguardo su di lui e i suoi occhi nocciola sono così caldi e rassicuranti che mi ci potrei perdere dentro.
E quando si piega appena verso di me e sussurra: «Posso avere l’onore?» una parte galante, una parte e mezzo speranzoso e tre parti euforico, io non riesco più a pensare.
Mi ritrovo con la mano nella sua, al suo fianco, diretta versa una zona della pista più libera e con Perona che mi fa il pollice alzato.
 
I want to hold you, so hear me out
I want to show you what love's all about
Darling, tonight
 
È l’ultima cosa che vedo prima che Sabo mi faccia girare sotto al suo braccio e mi prenda per il fianco, guidando senza un inciampo e io non posso contenere lo stupore.
«Ma starai scherzando?!» esclamo e lui si mette a ridere.
«Cosa?!»
«Law mi ha sempre detto che non sai ballare!» protesto quasi e intanto mi stringo a lui per evitare una coppia a pochi passi dalla mia schiena. La sua mano scivola sulle mie reni, mi abbraccia quasi.
«Sai non devi credere sempre a tutto quello che ti dice Law» sussurra lui, con aria saputa. «Anche se, questo glielo concedo, fino a tre anni fa ero una chiavica»
 
Now I've got you in my sights
With these
 
Socchiudo gli occhi, divertita e trasognata. «E poi che è successo?»
«Ho incontrato una brava insegnante» si stringe nelle spalle e perde un momento lo sguardo nel vuoto.
Una sensazione di disagio mi sfiora ma la scaccio. «Una persona speciale?» mi azzardo a chiedere e, per qualche motivo, spero non risponda.
 
Hungry eyes
One look at you and I can't disguise
I've got hungry eyes
I feel the magic between you and I
I've got
 
«Una persona importante» mi corregge e poi torna a sorridermi. «Ti sei divertita oggi?» domanda, prima di farmi girare per un attimo lontano da lui e riattirarmi subito a sé.
«Da morire» confermo, aggrappandomi più forte alla sua spalla. «Mi piacerebbe rifarlo, questo giro, quando avrò recuperato la mia Reflex a Waterwheel»
«Appassionata di fotografia?» mi domanda, un po’ sorpreso e io annuisco. Sabo socchiude gli occhi. «Sei piena di sorprese, Ishley Habena»
«Senti un po’ chi parla!» ribatto con una risata.
 
Hungry eyes
Now I've got you in my sights
With those hungry eyes
Now did I take you by surprise?
 
«Tu non eri quello che le commedie romantiche no perché c’è sempre qualcuno che balla?!»
«Certo che sì, non capisco perché ballano nelle commedie romantiche. Ora lo so perfettamente perché stiamo ballando»
Deglutisco piano e cerco di rimanere presente a me stessa. Perché stiamo ballando? E perché vorrei così tanto chiederglielo?
«Lo sai, ci sono un sacco di altri posti da fotografare qui a Raftel, oltre quelli di oggi» mi informa, la sua mano scivola un altro po’. Ormai il suo braccio mi avvolge quasi completamente la schiena.     
«Mmmmh» mormoro a labbra strette. «Questo è interessante ma mi servirà qualcuno che mi faccia da guida»
Aspetta un momento. Sto… sto flirtando?!
 
I need you to see
 
Erano delle fusa quelle?! Sto seriamente flirtando con il fratello di Law?! Mingherlino?! Il ragazzo che mi è svenuto tra le braccia, il mio coinquilino, Sabo?!
Cerco veloce qualcosa da dire, tipo che non lo so, cioè boh, io…
«Avevo ragione comunque»
 
This love was meant to be
 
«Come?!»
«Ti sta benissimo questo vestito. Sei bellissima»
 
Hungry eyes
One look at you and I can't disguise
I've got hungry eyes
I feel the magic between you and I
I’ve got
 
Il cervello mi va in shutdown, la gola si secca, le gambe si bloccano. Mi ha appena detto che sono bellissima e io riesco solo a sprofondare nei suoi occhi e balbettare.
Fai qualcosa, dì qualcosa!
«Anche tu…»
Ishley!
«Tu… tu… tu quindi quando hai il turno di clown therapy, alla fine?»
«La prossima settimana» sorride e intanto siamo ancora fermi. «Vieni a vedermi!»
«Assolutamente…» riesco a dire, quasi in trance. Sbatto le palpebre per riscuotermi. «Cioè non… non mi perderei Mago Mingherlino per niente al mondo! Anche se non sono di turno ci sarò»
 
Hungry eyes
Now I've got you in my sights
With those hungry eyes
Now did I take you by surprise?
With my
 
«Fantastico!» ride e ricomincia a farmi girare. «E poi stavo anche pensando, visto che i takoyaki ti sono piaciuti tanto, anche se ora torni a casa tua… ecco, potremmo trovarci da Hachi tipo incontro fisso. Che so a cadenza mensile»
«O settimanale» rispondo un po’ troppo in fretta e ci immobilizziamo di nuovo.
«Certo» e stavolta è lui che mormora, incredulo e un po’ confuso. Non che non sia parecchio confusa anche io.
E poi le sento, le sue braccia stringersi più forte intorno a me. Sabo si piega in avanti.
«Ish…»
 
Hungry eyes
 
Il cuore mi batte a mille, le sue labbra diventano magnetiche e io non riesco a smettere di guardarle e di cercare di avvicinarmi di più. Sposto le mani sul suo collo e inclino il capo.
 
Hungry eyes
 
«Sì?»
«Io…»
Gli occhi cominciano a chiudersi, comincio a spingere sulle punte dei piedi, sento il suo respiro sul volto e poi…
Un boato risuona attraverso la pista, voci concitate, un fracasso di metallo contro metallo. Sabo mi stringe contro di sé e intanto cerca di capire cosa sta succedendo. Tutti si stanno voltando nella stessa direzione, qualcuno sul limitare della pista scappa indietro.
«Credo che qualcuno si stia pestando»
È Ace a parlare, serissimo, apparso fuori dal nulla accanto a noi con Perona ben appiccicata addosso.
«Meglio allontanarsi» decide Sabo dopo un attimo di valutazione, proprio mentre la folla si dirada e io comincio a intravedere qualcosa.
Toglie le braccia dal mio corpo solo per prendermi la mano, pronto a portarmi via, quando noto qualcosa che attira la mia attenzione. Una sagoma famigliare, una voce che conosco.
«Aisa?» domando al vento, gli occhi sgranati, prima di partire in quarta nella direzione opposta da cui la folla si sta spostando.
Sento Sabo che mi richiama mentre scarto tra la gente.  Quando arrivo davanti alle ultime persone che, per non so quale fine, si sono intrattenute ad assistere alla rissa senza alcuna intenzione di intervenire, la scena che mi si presenta ha poco di edificante.
Killer è riverso a terra con due tizi che lo stanno massacrando di calci e Kidd è troppo impegnato a fare a cazzotti con un altro ragazzo che ha quasi la sua stessa stazza per poter intervenire in aiuto del suo amico. Diversi tavolini sono a terra, il che spiega il boato metallico di poco fa.
Osservo inorridita la scena, Killer che prova a rialzarsi ma viene ributtato a terra, Aisa che singhiozza dei disperati “lasciatelo stare” e Reiju che la trattiene e intanto si guarda intorno, furente, alla ricerca forse di una spranga per intervenire. C’è un’altra ragazza che assiste, inguainata in un vestito giallo e con i capelli rosa che cerca qualcosa nella sua borsa e quando estrae il cellulare, Reiju perde completamente la testa.
«Non t’azzardare, brutta stronza!» le urla contro e tanto mi basta per farmi schiodare. Non so esattamente cosa penso di fare, non è come se stessi ragionando, so solo che devo farli smettere, in qualche modo.
«Ehi!» grido a pieni polmoni, la voce che gratta sulle corde vocali per la rabbia ed è il massimo contributo che riesco a dare perché qualcuno mi sfreccia accanto, così in fretta che quasi barcollo e intanto Aisa e Reiju si girano verso di me e mi riconoscono.
Osservo inorridita Sabo e Ace schizzare verso la rissa e il cuore mi balza in gola – una reazione del tutto irrazionale, visto che volevo intervenire io, lo so –. «Sabo!» lo richiamo già in panico.
È furente e tutt’altro che mingherlino, questo credo di averlo già sottolineato in svariate occasioni ormai, ma è comunque lontano dall’essere pompato come questi tizi e non credo sia abituato a fare a botte, a differenza loro.
«Tranquilla, sanno quello che fanno» la voce di Perona mi tranquillizza, ferma e decisa mentre si ferma accanto a me, gli occhi adombrati fissi su Ace che sta spingendo il tizio in rissa con Kidd contro un albero.
«Ish!» mi chiama una voce disperata e un attimo dopo mi ritrovo Aisa tra le braccia che singhiozza sulla mia spalla e Reiju al suo seguito, chiaramente agitata.
«Ma che è successo?» domando girandomi a guardarle mezzo secondo ma, come loro, non riesco a staccare gli occhi da quello che sta succedendo a pochi passi da noi.
Kidd e Sabo sono riusciti a bloccare i due che stavano pestando Killer e per un momento a volare sono solo grida e insulti.
«È Bellamy, un mio ex compagno di classe. Non mi lasciava in pace e Kira gli ha detto di levarsi dalle scatole e lui gli ha spaccato un bicchiere in testa. Hanno iniziato loro!» si aggrappa a me e non capisco perché sia così disperata.
«La stronza sta chiamando la polizia» mi viene in aiuto Reiju, cercando di incenerire con gli occhi la ragazza in giallo. «Vogliono addossare tutta la colpa a Kira e Kidd. Questi bastardi hanno i papà influenti, si vogliono salvare la fedina» ringhia al limite.
Mi accorgo di Sabo che lancia un’occhiata di striscio verso di noi. Credo abbia sentito. Spero abbia sentito. Anche se non so cosa potrebbe mai fare e forse nemmeno voglio saperlo. Forse voglio solo che si allontani da lì.
«Ehi, perché non metti giù il cellulare e parliamo un attimo?» Sabo allunga una mano verso la ragazza in giallo, parlando cauto, come se stesse negoziando con un pazzo suicida. Killer si è rimesso in piedi e ora, in teoria, sarebbero in vantaggio, quattro contro tre ma nessuno si muove, tutti a debita distanza l’uno dall’altro, che si guardano in cagnesco tra loro in attesa che qualcuno attacchi per primo per ridare il via alle danza.
E Kira è bello concio, mi trattengo a malapena dal correre da lui per esaminargli le ferite, e solo perché sto stringendo Aisa.  
«A noi non frega un cazzo di parlare!» gli abbaia addosso un tizio con i capelli bianco perla fino alle spalle. «I tuoi amici hanno fatto i grossi con le persone sbagliate!»
«Hai spaccato un bicchiere di vetro in testa a Killer, brutto pezzo di merda!»
«Sì e adesso lo sbattiamo anche in prigione insieme a te, figlio di p…» al ragazzo si mozzano le parole in gola e sgrana gli occhi sorpreso mentre si piega in avanti con il busto e colpisce con forza inaudita l’unico tavolino che è rimasto in piedi nella zona dove se le sono date.
Ci metto un attimo anche io a capire che non è stato volontario ma che qualcuno lo ha spinto giù, bloccandolo sulla superficie metallica. E il qualcuno è Sabo, che gli tiene un braccio piegato dietro la schiena e si china per parlargli, l’altro palmo puntellato di fianco alla sua testa, girata di lato per permettergli di sentire e rispondere.
«Cirkeys!» lo chiama il colosso biondo, provando ad avvicinarsi ma Ace lo riblocca contro il tronco, braccio piegato dietro la schiena, come l’amico, “Non ti avvicinare a mio fratello, non t’azzardare”, ed è solo allora che il terzo delinquente fa per intervenire.
«A-ah» Sabo solleva la mano con cui si teneva un puntellato e il ragazzo si blocca immediatamente. «Non ti conviene» gli fa notare e indica con il capo Kidd che ha l’aria di non aspettare altro che una scusa per cambiargli i connotati.
«Lasciami» si agita Cirkeys che Sabo non sembra fare la minima fatica a trattenere con una sola mano, lui che mi sembrava una bestia. «Mi fai male!»
«Ma davvero?!» si stranisce Sabo. «Eppure io non sento niente»
Cirkeys protesta per il dolore, al che capisco che Sabo deve aver aggiunto pressione al suo braccio, prima di girarsi a cercare suo fratello. «No, proprio niente. Ehi Ace, tu senti dolore?»
«Assolutamente nulla fratello»
«Visto? Sei l’unico. Mi sa che è tutto nella tua testa. Ora, lei è la tua ragazza giusto?» domanda con un cenno verso la ragazza in giallo che ha ancora il cellulare in mano ma non si muove, pietrificata, non sa cosa fare e aspetta direttive.
«S-sì»
«Dille di mettere via il telefonino»
«Brutto bas…»
«Il telefonino» ripete Sabo più deciso. Non sta più facendo pressione, lo trattiene e basta ma ora Cirkeys sa che può farlo pentire delle sue arroganti decisioni.
«Muller, metti via il cellulare! Mi hai sentito? Non chiamare la polizia!»
Muller barcolla un momento, spaesata e poi fa come le è stato detto.
«Bene» riprende Sabo. «Adesso tu e i tuoi amici levate le tende come vi era già stato suggerito poco fa, smettete di rovinare questa bella serata e fate in modo che non sentiamo più parlare di voi e io in cambio ti lascio tutte le ossa intatte. E il tuo influente paparino può anche venirmi a cercare, sono l’avvocato Monkey D. Sabo, e tutta questa folla può testimoniare che avete iniziato voi e che il mio intervento è stata legittima difesa nei confronti di un amico e di una ragazza che non gradiva le vostre attenzioni, il che ricade sotto il reato di molestie, tanto perché tu lo sappia, in aggiunta a percosse, schiamazzi e atti vandalici. Tutto chiaro?»
Cirkeys sgrana gli occhi, per la prima volta da minuti si focalizza su tutta la folla riunita qui, si rende conto di aver fatto una stronzata con un bel pubblico ad assistere. Provo ad annuire, dimentico di avere la faccia spalmata su un tavolino. «Sì, sì, ho capito, ora mollami!»
Ho la sensazione che non faranno più i padroni del quartiere per un bel po’.
Sabo e Ace li mollano quasi nello stesso momento e immediatamente Cirkeys, il biondo e l’altro amico schizzano per allontanarsi dal “La Bartad” senza nemmeno aspettare Muller, che li insegue chiamandoli, affondando con i tacchi nella terra più brulla del parco.
Ace e Sabo si scambiano un’occhiata e un ghigno e  buttano fuori un lungo respiro. Non c’è traccia di soddisfazione sui loro volti, solo tanto sollievo e, soprattutto, non un graffio. È solo allora che mi riscuoto.
Stanno bene. Sta bene.
Devo occuparmi di Kira adesso. Aisa si sta già fiondando da lui, mentre Reiju cammina con apparente calma fino a raggiungere Kidd per poi gettargli le braccia al collo e dargli un bacio con lingua epico, che K2 ricambia senza tanti complimenti.
Io devo farmi quasi violenza per staccare lo sguardo da Sabo. Scuoto il capo e mi avvicino a Killer, studiandolo con occhio critico. Passi calmi e misurati fanno scricchiolare l’erba alle mie spalle e un profumo di dopobarba e pulito mi avvolge.
«Tutto a posto?» mi chiede e la voglia di voltarmi e abbracciarlo, di controllare che davvero non si è fatto niente, anche se ho assistito alla scena e so già che è così, è fortissima ma la professionalità ha la meglio.
«Dovrei fargli un esame obbiettivo all’addome» annuncio, parlando più con Sabo che con Killer che tanto non mi ascolterebbe, troppo impegnato a coccolare Aisa. «Ma preferirei non in pubblico e al chiuso, se fosse possibile»
«Possiamo andare da mio fratello» avvisa Reiju. «Lui e Usopp abitano in zona» sospira poi e si passa una mano sul viso. «E adesso chi lo sente quello»

 
§

 
Ringhio a denti stretti mentre metto su il padellino per fare due crepes, da servire con il the. Mi hanno detto che non è necessario ma mi serve qualcosa per tenermi occupato se non voglio cedere all’istinto di andare di là e darlo in testa a Kidd, il padellino.
Maledetto coglione che coinvolge mia sorella nelle sue puttanate. Deve ringraziare che non s’è fatta niente.
«Sanji? Puoi venire un momento?» la voce di Usopp mi riporta alla realtà. È agitato posso capirlo, Killer non ha per niente un bell’aspetto, credo che si terrà l’occhio nero per un po’, oltre al sopracciglio che non smette di sanguinare.
Con un grugnito spengo il fornello e rimetto il mestolo nella ciotola della pastella di farina di castagne. Mi avvio a grandi passi verso il bagno, dove Usopp sta ravanando nel nostro armadietto dei medicinali.
«Non trovo le garze sterili, Ish me le ha chieste»
 Lo osservo scostare scatole di cerotti e l’acqua ossigenata con mani tremanti, gli occhi sgranati, il respiro un po’ teso e nonostante la rabbia che non riesco a placare mi rendo conto che ha bisogno di me. Lo raggiungo e poso una mano sul suo coppino.
«Uso-chan»
Non posso fidarmi del mio tono per trasmettergli che non ce l’ho con lui e che, anzi, sono pronto a fare qualunque cosa di cui possa avere bisogno, così mi affido al nomignolo che gli ho dato. E funziona. Usopp smette di ravanare nell’armadietto e si gira verso di me, lo sguardo sincero.
Francamente, sono preoccupato. È vero che non ama la violenza, ma non è successo nulla di grave e non è come se non si fosse mai azzuffato con nessuno.  
Forse si accorge del mio sguardo indagatore e preoccupato perché prende un profondo respiro prima di confessare, con un sorriso imbarazzato: «Mi sono preoccupato per Reiju»
Lo fisso, senza parole, il cuore mi pulsa in gola. Da quando l’ho affrontato riguardo la questione del regalo di Kaya, le interazioni tra noi sono state artefatte e impostate, caute per non rischiare di scivolare su argomenti ad alto rischio di discussione. Senza dirlo o darlo a vedere, me la sono presa per la sua immaturità e la sua incapacità di mettersi nei panni altrui, la sua caparbietà nel non voler capire, nel volerla vedere solo dalla sua ottica, dall’ottica di un ragazzo che purtroppo una madre non l’ha avuta. Sono arrivato a ritenerlo irrispettoso ed egoista nei confronti dei genitori di Kaya e persino nei confronti di mia madre che ha dovuto gareggiare tutta la vita con un uomo che un padre non è mai stato ma aveva tutti i mezzi per sembrare un genitore migliore.
Come ho potuto? Come ho potuto essere così stronzo e coglione? Come ho potuto pensare una cosa del genere del mio Uso-chan che è la persona più altruista e coraggiosa che conosco? Come?!
Non ho scuse, non ho giustificazioni ma prego il cielo che almeno esista un modo per fare ammenda mentre, d’istinto, lo prendo tra le braccia e me lo stringo al petto. Percepisco il suo stupore da come si irrigidisce di primo acchito, per poi rilassarsi e appoggiare le mani sulle mie scapole.
«Sanji?» domanda, la voce ovattata dalla mia maglietta. È perplesso ma mi lascia fare quando premo le labbra tra i suoi capelli. «Dio, sono così fortunato ad averti» soffio e spero mi senta nonostante la voce incastrata in gola.
Credo di sì, perché si aggrappa più forte a me. Non lo lascio ancora andare, mentre mando giù il nodo che mi ostruisce le corde vocali.
«Usopp» lo chiamo staccandomi appena da lui. «Mi dispiace per… il regalo che stai preparando per Kaya è bellissimo. Ho sbagliato a dirti che non dovevi impegnarti così tanto, quella bambina si merita il meglio» i suoi occhi al cioccolato fondente si illuminano e spalancano alle mie parole. «E poi insomma, non è detto che anche quando verrà dimessa non potremo continuare ad andare a trovarla ogni tanto, no?»
Il sorriso gli si spegne ma è solo un momento.
«Certo che sì!» risponde entusiasta e finalmente, dopo giorni anche io riesco a sorridergli, di nuovo sereno e spontaneo.
«Queste garze ci sono o no?!» la voce della meravigliosa Ishley-chwan buca quasi le pareti di casa. Autoritaria, quasi minacciosa. Non vorrei mai trovarmi in sala operatoria con lei.
Butto un occhio verso l’armadietto, individuo subito il pacchetto di garze ancora sigillato e le afferro per poi schizzare a portarle al mio angelo, non senza avergli scoccato un bacio sulla fronte. Tutto il mio appena ritrovato entusiasmo scompare non appena entro in salotto.
Killer è a petto nudo e non ha ancora smesso un secondo di sorridere, gli occhi puntati per tutto il tempo in quelli di Aisa-chwan per rassicurarla anche a distanza, Ishley-chwan che lo tasta sul torace e sull’addome con mani esperte ed espressione concentrata, Sabo, Ace e Perona-chwan parlano sottovoce di non so cosa sul limitare della porta finestra e Sabo lancia occhiate al mio angelo a cadenza regolare e ravvicinata.
E poi ci sono loro. Lui seduto sulla poltrona che grugnisce come un orso e lei rannicchiata addosso. Eustass Kidd sta palpeggiando mia sorella e Reiju lo lascia pure fare. Lancio saette dagli occhi mentre avanzo per consegnare le garze a Ishley che le afferra con un grazie distratto a cui rispondo altrettanto distrattamente, troppo impegnato a tenere d’occhio il rosso.
Reiju solleva una mano per accarezzarlo tra i capelli, riempendosi le dita delle sue ciocche, ed espira rilassata, Kidd fa scivolare la mano sul suo interno coscia e un suono vibrante risuona in salotto.
«Sanji» mi ammonisce Reiju ma io non la ascolto nemmeno, lo sguardo truce puntato su Kidd.
«Devi appoggiarla proprio così in alto la mano?»
Kidd grugnisce, stringe ancora più possessivo, Reiju abbassa lo sguardo verso le proprie gambe. «In alto? Per i nostri standard è anche abbastanza in basso» commenta con nonchalance e io mi raggelo.
Che.Ha.Detto?
Okay, chiariamo, non è che sono così ingenuo o cretino da pensare che a ventun anni mia sorella sia ancora vergine ma non per questo ci tengo a venire informato nel dettaglio delle sue prodezze sessuali. Disgraziatamente, Reiju ha preso la discrezione riguardo queste tematiche da mamma.
«Okay, non ritengo davvero necessario che stiate così avvinghiati. Non è successo niente, nessuno di voi ha rischiato la vita, perciò Reiju spostati da lì»
«Non ci penso nemmeno» si accomoda ancora meglio tra le braccia di Kidd, mia sorella. «Si sta così bene qui» piega il capo per baciarlo sul collo. Kidd chiude un momento gli occhi per godersi meglio il contatto. Io sento l’omicidio aumentare. «Ohi!» abbaio. «Questa è casa mia»
«Senti, cuoco, ti dai una calmata? Non stiamo facendo niente»
«A differenza del solito» soffia Reiju contro la sua tempia.
«Sto solo tenendo in braccio la mia ragazza»
«La tua che?» lo sfido a ripetere con un’occhiata che potrebbe incendiarlo se fosse umanamente possibile.
«Ragazza!» ripete Kidd. «Hai presente no?! Come il nasone per te»
«E facciamo anche le stesse cose, credo» riflette Reiju a occhi socchiusi, lo sguardo perso nel vuoto, prima di riportarli su di me. «Anche tu avevi aiutato Usopp con le guide quando stava prendendo la patente, no? Quando Yasopp era fuori città per lavoro»
Sgrano così tanto gli occhi che quasi mi vengono i crampi alle palpebre. «Tu le stai insegnando a guidare?» domando indignato e furente a Kidd, indicando mia sorella a braccio teso.
«Sì, qualche problema? Me lo ha chiesto e io le ho fatto il favore»
«E poi io ho fatto un paio di favori a lui»
«Reiju! E dove la porti a guidare?»
«Ma che cazzo è? Un terzo grado?» si innervosisce Kidd.
«Sanji ma che ti prende?» protesta Reiju, parlando seria adesso e tirandosi su con il busto. «Guarda che sono maggiorenne, ho il foglio rosa e Kidd sa guidare, mica mi sta insegnando a fare i rally. E poi non eri tu che insistevi perché prendessi la patente?»
«Sì, ma non ho mai detto che dovessi farti insegnare da lui» abbaio furente.
Reiju si stringe nelle spalle e si abbandona di nuovo contro a Kidd, un sorriso serafico che non mi piace nemmeno un po’. «Ho preso due piccioni con una fava. Mi sta insegnando a usare differenti tipi di leve di cambio» commenta senza vergogna.
Oh Porco Roger! Non lo voglio sapere!
Con uno scatto isterico, torno a grandi passi in cucina, facendo grandi respiri per calmarmi, ma appena metto piede nel mio regno mi blocco. Quando la bella Aisa se n’è andata dalla sala? Non me ne sono neanche accorto.
«Oh» si blocca, il bicchiere di aranciata fermo a mezz’aria. «Scusa Sanji, mi sono permessa di…»
«Hai fatto bene, mia dolce principessa» la rassicuro immediatamente, con un contenuto vortice, dirigendomi poi verso i fornelli. Ho bisogno di cucinare per calmarmi.
Accendo il padellino, aspetto qualche secondo, prelevo un mestolo di pastella e lo distribuisco uniformemente sulla superficie antiaderente, agitando appena la padella per distribuirlo in modo omogeneo. Aisa osserva attenta ogni mio movimento e io la guardo di striscio.
«Vuoi provare?» le chiedo.
Lei mi osserva sorpresa, manda giù un sorso di aranciata e annuisce energicamente. Attendo ancora qualche istante e stacco la prima crepe con la spatola, posandola con cura nel piatto che avevo già predisposto, prima di scostarmi per farle spazio. Ho l’impressione di non essere l’unico a voler trovare un diversivo per tranquillizzarsi e lei sì che dev’essersi spaventata davvero molto, a giudicare dalle condizioni di Killer.
«Okay, quando versi la pastella, ruota il polso per distribuirla circolarmente e intanto con l’altra mano agita appena il padellino. In questo modo la pastella si spande su tutta la superficie e la crepe viene tonda e senza buchi» le spiego e studio attento i suoi movimenti per poterla poi correggere. Il primo disco di pasta le viene un po’ frastagliato da un lato e la sento mugugnare dispiaciuta. «Tranquilla, è normale. Sei già brava» la rassicuro, passandole la spatola. «Stacca prima tutto il bordo e solo dopo spingi più decisa verso il centro, altrimenti rischi che una delle estremità rimanga attaccata e che la crepe si rompa»
Aisa annuisce e, concentrata, fa come le dico, poggia la crepe nel piatto e riafferra il mestolo, in attesa di nuovi consigli per migliorare. Siamo circa alla terza o quarta crepes delle sue quando, occhi fissi sul fornello, mi dice: «Kidd è un bravo ragazzo»
Sospiro e neanche io stacco gli occhi da ciò che Aisa sta facendo. «Lo so» la intravedo sorridere divertita.
«Capisco che ti preoccupi per lei, è normale. Ma Rei sa quello che fa. Però certo è il tuo ruolo» tende la mano, decorata da anelli nel suo tipico stile etnico, l’eredità shandia di sua madre, e io le passo la spatola prima che aggiunga: «Solo, quando verrà il momento di Kaya ricordati che lei ha iniziato la sua vita in ospedale. Non essere troppo severo quando inizierà a uscire con i primi ragazzi»
Mi pietrifico, per niente certo di aver sentito bene. «K-Kaya?»
Ma di che sta parlando? Perché mai dovrebbe essere un mio problema quando Kaya inizierà ad uscire con i primi ragazzi?
«Beh sì» si stringe nelle spalle Aisa, voltandosi per depositare la crepe sul piatto ma quando vede la mia espressione anche la sua cambia drasticamente. «Che c’è? Ho detto qualcosa che non va?» si agita e dopo qualche istante porta una mano alla bocca. «Oddio scusa, Sanji! Io… non avrei dovuto darlo per scontato ma credevo che… insomma a vedervi con lei sembrava proprio la cosa più logica»
Sono confuso, sono davvero molto confuso eppure qualcosa nel bel mezzo di questa nuova confusione sta andando al suo posto, anche se non riesco ad afferrare cosa. Mi servono più dettagli.
«Aisa cosa ti sembrava logico?» le domando cauto.
«Beh che tu e Usopp chiedeste l’affidamento di Kaya»
Lei lo dice come se fosse ovvio, io ho il cervello in tilt.
Affidamento? Perché dovremmo chiedere l’affidamento di una bambina che… che…
Sbatto le palpebre un paio di volte prima di ritrovare l’uso della parola. «Kaya è orfana?»
Ma conosco già la risposta prima ancora che Aisa me ne dia una. E ora tutta ha senso. Perché ci lasciano sempre stare con lei fino alla fine dell’orario di visita, perché non abbiamo incrociato una sola volta i suoi genitori, perché Usopp si sta impegnando tanto per il regalo di compleanno di Kaya, perché prima il suo sorriso si è spento quando ho detto che… che…
Oh porca miseria…
«Orfana?!» Aisa è incredula. «Mi prendi in giro?! Sono settimane che stai al capezzale di quella bambina e non sai che è Kaya Kurami?»
«Kurami?» soffio. «Come l’impresario navale morto insieme alla moglie nell’incidente autostradale di quattro ann… Oh porca troia» impreco tra me e me prima di rendermi conto di aver detto un simile abominio di fronte a una così celestiale creatura. «Oh perdonami mia dolce principessa, non avrei dovuto usare un simile eloquio in tua presenza» comincio a scusarmi ma Aisa mi guarda storto.
«Ma come parli?» mi domanda un po’ nasale, esattamente come farebbe Izou. «Comunque…» ricomincia a versare la pastella nel padellino. «Quella bambina erediterà un impero. Un sacco di persone si fanno spaventare da una responsabilità così ma ci sarà sicuramente anche qualcuno che non vede l’ora di approfittarne. Tu e Usopp è chiaro che lo fareste solo ed esclusivamente per lei, qualsiasi giudice con un po’ di buon senso vi sceglierebbe senza pensarci due volte, però dovete darvi una mossa. Kaya non rimarrà ricoverata per semp… Ehm, Sanji?» sventola la spatola davanti al mio viso, accigliata. «Sei sicuro di stare bene?»
Mi passo una mano sul volto, cercando di darmi un contegno ma è tutto inutile. Le labbra non ci pensano nemmeno a tornare serie e rimangono testardamente piegate all’insù. Sento Usopp, in salotto, raccontare di una qualche nostra rissa adolescenziale, con la partecipazione anche di Zoro e Rufy.
«Sì, sto bene» la rassicuro e lancio un’occhiata verso la parete che divide cucina e sala.
Pensavo avessimo un problema.
Ma, forse, quello che abbiamo è una soluzione.  

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Barcollo a gambe divaricate nell’atrio del Castello, la scatola verde con il fiocco giallo ben bilanciata in mano mentre attraverso il grande spazio aperto e colorato.
«Ciao Praline!» la saluto baldanzoso, una volta tanto non cerco di passare inosservato al suo sguardo a raggi X.
Oggi niente può smorzare il mio entusiasmo, oggi è il grande giorno.
«Ehi Nasolungo. Siamo di buonumore stamattina» Praline mi segue con gli occhi, sento che mi squadra anche senza vederla. «Lo sai che hai un culo da favola?»
«Sì! Grazie Praline!» sculetto mentre aspetto gli ascensori e Praline ulula la sua approvazione, sovrastando anche il trillo delle porte che si aprono. Scuoto il capo divertito e sorridente.
È da quando mi sono svegliato che sorrido e non riesco a smettere.
Oggi è un giorno speciale, dopotutto. Oggi è il compleanno di Kaya e stare concentrato al lavoro ad aspettare le sedici per venire qui non è mai stato così difficile.
Ma ora finalmente ci sono e più niente potrà fermarmi.
L’ascensore trilla di nuovo quando raggiunge il primo piano, io molleggio sulle gambe per stabilizzarmi meglio e riprendo a camminare, impaziente. Non vedo l’ora di arrivare da lei e darle il regalo e vedere, spero, il suo bel visino che si illumina felice.
C-certo, mi spiace che Sanji non sia qui ma non me la sono sentita di chiedergli di accompagnarmi dopo le recenti… incomprensioni che abbiamo avuto. È vero, alla fine sul regalo mi ha dato ragione ma poi…
Mando giù a vuoto nel ripensare alla sua proposta di andare a trovare Kaya ogni tanto quando l’avranno dimessa. Ogni tanto.
Non so nemmeno come faccia a concepirla, una cosa del genere. Ma tant’è. Oggi  è un giorno felice e non mi farò abbattere da pensieri negativi, non io, il Grande Capitan Usopp giunto fin qui con la missione di rallegrare la sua piccola principessa pirata!
«Ehi Capitano!» Piiman mi si affianca, fatti due passi nel corridoio.
«Sei arrivato finalmente!» si aggiunge anche Ninjin, spingendo la carrozzella con maestria con un braccio solo.
Sono così fiero di lui.
«Manchi solo tu!» mi si para di fronte Tamaneji, prima di affiancarsi a Piiman e scortarmi fino alla stanza di Kaya.
Siamo a pochi metri quando la sua risata, mischiata a quella di Tama e di Dellinger, ci raggiunge. Sempre più esaltato, accelero il passo, domandandomi chi ci sia a controllare la piccola festicciola, se Ishley che è riuscita a strappare mezz’ora di tempo o Katakuri con la scusa del controllo pomeridiano. Sicuramente qualcuno dei volontari sarà presente a presidiare per permettere a medico o infermiere di scappare in caso di emergenza.
«Vostra Pirateria, il Grande Capitan Usopp è giunto da terre lontane per festeggiare il vostro compl…» comincio ad annunciare mentre entro nella stanza. «…eanno» concludo, il tono smorzato, quando vedo chi c’è nella stanza.
Tama è seduta ai piedi del materasso di Kaya, Kaya in braccio a Heat gioca con i suoi rasta, Dellinger in ginocchio sulla sedia lì accanto, che continua a lanciare occhiate verso Sugar, sul proprio letto. In braccio a Sanji.
Scuoto il capo deciso per essere sicuro di non aver appena avuto un’allucinazione ma no. È davvero lui, è davvero qui.
Gli angoli degli occhi cominciano a pizzicare, qualcosa di caldo mi riempie il petto e il retro dei bulbi oculari.
È qui. Sanji è qui.
Solleva gli occhi su di me e mi sorride e io mi sento rivoltare dentro. 
«Usopp!»    
La voce di Kaya mi riscuote, mi sposto dalla soglia quando mi accorgo che sto ostruendo il passaggio a Ninjin.
Mi avvicino veloce e appoggio lo scatolone sul suo letto, di fronte a Tama che lo studia con occhi curiosi e attenti ma è abbastanza grande da non gettarsi a pesce nella speranza di poterlo scartare lei anche se non è il suo compleanno, e poi mi giro verso Heat che subito mi porge Kaya perché la prenda in braccio. Le sue manine si aggrappano al mio collo e io le bacio la fronte.
«Buon compleanno principessa» le dico, depositandola subito e a malincuore sul suo letto.
L’avrei tenuta in braccio più a lungo ma si vede che non sta nella pelle di aprire il mio regalo. Beh, suo regalo. Beh insomma il regalo.
Si avvicina allo scatolone, fissandolo con gli occhi spalancati e appoggia due mani sul coperchio, girandosi a guardarmi. «Posso?» chiede il permesso e io annuisco, più impaziente di lei.
Tira il fiocco che si scioglie con facilità. «Tama, aiutami» domanda alla sua amica quando è il momento di spostare il coperchio. Si mette in piedi sul letto per guardare dentro, quasi rischia di cadere nella e quando riemerge so che è giunto il mio momento.
Mi avvicino ed estraggo la lampada sferica, bucherellata su tutta la superficie con precisione millimetrica, seguendo un ben preciso disegno.
«Tamanegi, puoi appoggiare la scatola per  terra? Sottosopra per favore» domando, mentre mi sposto per agganciare la spina alla presa. Sento gli occhi di Sanji addosso che seguono ogni mio movimento.
«Cos’è?» domanda Sugar perplessa mentre appoggio la lampada sulla scatola rivoltata. Le lancio uno sguardo eloquente e misterioso.
«Ora vedrai» le faccio l’occhiolino. «Heat, puoi abbassare le tapparelle per cortesia?»
«Heat può fare tutto per fratello Nasolungo» annuncia solenne.
In pochi istanti la stanza è immersa nella penombra. Mi siedo sul letto di fianco a Kaya, che sgambetta in attesa, sempre paziente, gli occhi puntati sul suo regalo.
«Guarda» le dico, prima di chinarmi e schiacciare l’interruttore più esterno.
La lampadina si accende, la luce filtra dai fori, proiettandosi sulle pareti oscurate come tanti puntini luminosi, raggruppati di costellazione in costellazione.
Kaya trattiene il fiato e si guarda intorno a occhi sgranati.
«Kaya» la chiama piano Tama. «Ci sono le stelle nella stanza»
«Sono bellissime» mormora rapita la mia piccolina e il cuore mi esplode da tanto mi fa felice vederla così. Vorrei solo stringerla a me e non lasciarla andare mai più. Non resisto, cerco Sanji con gli occhi che mi fa un cenno con il capo, che per me vale meno solo del sorriso di Kaya e più di tutto l’oro del mondo e del One Piece. Faccio un respiro profondo, per calmare l’emozione e l’agitazione.
«E non è ancora finita» avviso tornando a guardare a Kaya che si gira verso di me piena di aspettativa. Senza staccare gli occhi da lei e con un sorrisone sul volto, mi piego di nuovo per pigiare l’interruttore più interno.
 

***

 
Sospiro, mentre cerco le chiavi della porta di casa. Casa mia. Quella vera, quella che si era allagata e che hanno finito di mettermi a posto. Quella dove, sinceramente, non avevo più tutta questa fretta di tornare.
Non che mi piacesse vivere a scrocco da Law e Koala, non sto dicendo questo. Ma la compagnia… ecco diciamo che sarà un po’ complicato riabituarmi a vivere da sola, ora.
Magari potrei prendermi un gatto, in fondo a stare da Law e Koala mi sono abituata a Nekozaemon e mi sono anche presa un po’ cura di lui. So che ne sarei in grado. Sì, mi sembra una bella idea, potrei proprio prendere un gatto e chiamarlo… Burdock! Burdock è un nome da gatto, no? Oppure vediamo… uhmmm… Lindbergh!
Sì, Linbergh, Linbergh è perfetto per un gatto anche se non so nemmeno da dove l’ho tirato fuori, forse qualcuno mi ha raccontato qualcosa riguardo un gatto di nome Lindbergh ma ora proprio non ricordo…
Comunque, a pensarci bene non so se è una buona idea, io sono fuori casa spesso, in fondo. Magari piuttosto che un gatto potrei organizzare qualche serata in più in compagnia.
Potrei invitare le ragazze per un film e una pizza o anche proporre una serata a Sabo con Perona e Ace, qui da me.
O anche solo… anche solo a S…
Scuoto la testa, per scacciare il pensiero prima che prenda forma. Ishley, non dire cavolate. Solo perché ti ha proposto un appuntamento fisso da Hachi con cadenza mensile non significa che voglia frequentarti. Il che non è assolutamente un problema, nemmeno io voglio frequentare lui. L’ho detto, no, che l’amore romantico non fa per me? Insomma, certo che non sono cieca e lo vedo che è bello e divertente e anche coraggioso e rassicurante e… e… m-ma alla fine Sabo è un amico, questo è.
Un fantastico amico su cui contare e con cui andrò a mangiare i takoyaki una volta al mese – o alla settimana, non abbiamo più definito quale delle due l’altra sera, con il macello della rissa e tutto il resto – e non voglio rovinare il rapporto per una pulsione fisica, perfettamente gestibile.
Infilo la chiave nella toppa e giro.
Certo, comunque, prima di organizzare qualsiasi cosa dovrò ridipingere quantomeno il salotto e il pensiero mi angoscia al punto di deprimermi. Il fatto è che sono stanca ma non potrò rimandare più di tanto. Gli operai che mi hanno fatto i lavori si sono offerti di prepararmi mobili e parquet con le coperture prima di andarsene definitivamente e non posso vivere in eterno con una stanza avvolta nel cellophane. Ho già anche comprato i pennelli, il rullo e le latte di vernice turchese, bianca e blu su internet, e il tutto dovrebbe essere stato consegnato un paio di giorni fa, proprio agli operai. Appena avrò un paio di giorni di riposo attaccati mi ci dovrò mettere, che la cosa mi vada a genio o meno.
Però non ho intenzione di pensarci adesso, di ritorno da un turno di notte che si è prolungato fino alle sedici. Sono stata così presa che a malapena sono riuscita a passare da Kaya per farle gli auguri e mi dispiace non aver aspettato Usopp per un saluto, già che ormai c’ero, ma ho bisogno disperato di una doccia.  
Per fortuna che queste emergenze non sono all’ordine del giorno.
Avanzo nell’ingresso, avvolto in una piacevole penombra che tiene il caldo lontano, e inspiro a fondo l’odore famigliare di casa e vernice fresca.
Aspetta un momento.
Vernice fresca?!
Riapro gli occhi di scatto. Non sarà mica che a Lulu è venuto in mente di prendere l’iniziativa e dipingermi il salotto. Con quel che mi è costato far sistemare il parquet – e lo shopping folle che le ragazze mi hanno fatto fare – non avrei i liquidi per pagare anche questo intervento, perciò avevo deciso di fare da sola.
Porca vacca!
Avanzo decisa, entro in salotto e poco ci manca che mi prende un colpo quando scopro che non solo è già stato davvero in buona parte ridipinto ma che, soprattutto, non è vuoto. Si gira di scatto quando sente il mio verso spaventato, stranito per un momento, addosso vecchi pantaloni di una divisa da basket o da calcio e una t-shirt bucata sulla manica, il rullo in mano e uno sbaffo di vernice blu oltremare sulla guancia.
«Che ci fai qui?» domanda ed è davvero perplesso.
Ma scherza? Che ci faccio io qui?!
«È casa mia, Sabo! Che ci fai tu qui?!» protesto ma intanto il mio cervello ha pienamente realizzato che è Sabo e che è qui, che Sabo è qui e il cuore comincia a battermi a mille.
Che ci fa qui? Che ci fa qui, sporco di vernice, con il rullo in mano?
«Tu… tu mi stai ridipingendo il salotto?»
Sono senza parole. E senza fiato.
Si passa una mano sulla nuca, imbarazzato. «Doveva essere una sorpresa. E io dovevo aver già finito ma le pareti erano sporche, ho dovuto dare una mano di bianco a tutto prima e anche stuccare in un paio di punti»
Lo ascolto, basita, e giro gli occhi intorno, sulla parete dietro il divano e le colonnine sporgenti già dipinte di un bel blu liquido e avvolgente, e poi sugli altri due muri, quello della finestra e del televisore, che aspettano di essere colorati di turchese ma brillano per la mano di bianco fresca di oggi.
Sorpresa? Voleva farmi una sorpresa?
Alla… alla faccia della sorpresa!
«Come hai fatto a entrare?»
«Sono arrivato prima che gli operai se ne andassero, ho detto che ero il tuo ragazzo per farmi lasciare le chiavi»
Sobbalzo e riporto l’attenzione su di lui. Prima che gli operai… Ma gli operai se ne sono andati stamattina alle sei!
Non riesco a concepire un solo pensiero compiuto, figuriamoci dire qualcosa.
«Tu dovevi tornare da Law e Koala dopo il lavoro» mi accusa quasi, le mani sui fianchi. «Avevi detto che stavi ancora stanotte e ti spostavi domani»
«Io… io…» balbetto, poi scuoto la testa per riattivare almeno il centro del linguaggio. «Ho finito tardi e ho pensato fosse meglio venire direttamente qui così potevo dormire di più domattina e… e…»
E cosa sto facendo?!
«E non devo certo giustificarmi con te!» realizzo di colpo, imitando la sua posa e corrugando le sopracciglia.
«Ah no?» si finge sorpreso Sabo. «Quindi vuoi dirmi che, dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, i trucchi di carte, il giro di Raftel, gli attacchi alla stima di Law, che te ne saresti andata con un giorno di anticipo, senza nemmeno avvisarmi?» avanza verso di me e io ho di nuovo difficoltà a respirare in modo regolare. «Non è gentile, Ish, proprio per niente» continua sottovoce e io sono completamente in tilt.
Okay, Ishley, stai calma. Stai calma, è tutto okay.
Lui si sta solo avvicinando, sta solo cercando di provocarti come… come amico! Stai. Calma.
«Ci tieni ai vestiti che hai addosso?»
E ora ti sta chiedendo dei tuoi vestiti. Va bene, va bene, non è un problema, puoi controllarti, stai calma! Calma e rispondi… qualcosa!
Tocco in automatico il bordo dei calzoncini di cotone da quattro berry che mi metto per andare a fare il turno di notte. Fanno parte della mia infinita schiera di indumenti basici che da un po’ di tempo ormai uso sempre meno, come anche il top, che ora non ricordo esattamente quale sia ma forse è quello del gattino psicotico.
Deglutisco a vuoto. «N-no». Non ho ancora staccato gli occhi da lui e francamente neanche voglio se non che qualcosa mi obbliga a chiuderli e mi fa sobbalzare.
È come uno schizzo d’acqua, uno di quelli potenti tipo scia di gavettone, ma molto più denso dell’acqua e appiccicoso.
Quando riapro gli occhi, sono di nuovo padrona di me stessa. Abbasso lo sguardo verso le mie mani e le mie gambe, i miei vestiti, le scarpe. Tutto è schizzato di vernice turchese, che ancora cola in piccole gocce dal pennello che Sabo tiene in mano, insieme a un sorriso bastardo sulla faccia.
«Mi hai lanciato della vernice addosso?» domando, tra l’incredulo e l’omicida. 
Me la sento anche in faccia, sono certa di averla anche tra i capelli che, per mia fortuna, ho raccolto e, per fortuna di Sabo, dovevo comunque lavare.
«Mi hai veramente lanciato della vernice addosso?!» mi sfugge una risata ma è tra lo psicotico e il divertito.
«Oh dai! Ti ho anche chiesto se ci tenevi a quei vest…»
È il suo turno di sobbalzare e chiudere gli occhi quando gli strappo il pennello di mano e gli restituisco il favore. Rimane immobile qualche secondo prima di rialzare le palpebre, incredulo.
Io sorrido soddisfatta e lui riesce a rimanere serio per circa mezzo secondo, prima di piegare le labbra in un ghigno sadico. «Ah la metti così…» soffia e indietreggia di due passi per afferrare al volo l’altro pennello e puciarlo nella latta di tempera azzurra.
 

***
 

Le risate di Kaya sono quasi degli urletti mentre insegue le stelle che ora ruotano sul muro, grazie al congegno rotante che ho montato sotto alla lampadina. Insieme a Tama e Sugar, cerca di prendere le piccoli luci sul muro, quando arrivano portata di mano e anche quando sono un po’ troppo alte, con l’aiuto di Tamanegi e Heat che le sollevano al momento giusto.
Sono seduto per terra a gambe incociate e sento che potrei restare a guardarla ridere e divertirsi a questo modo anche per sempre.
 Mi azzardo a lanciare un’occhiata a Sanji, ancora sul letto di Sugar. Anche lui osserva attento le bambine, osserva Kaya, e sorride ma c’è qualcosa di fuori posto, una luce nei suoi occhi che fatico a decifrare e non per colpa della penombra.
Sembra quasi sofferenza e credo di sapere da cosa dipenda e vorrei prendere e scuoterlo e fargli vedere quanto è stupido, quanto sarebbe semplice…
No! Usopp, no! Non oggi, non ora!
Oggi è il giorno speciale. Oggi tutto deve essere bello e gioioso, per la tua piccola principessa pirata. Piccola principessa pirata che inciampa nei suoi piedi mentre corre dietro a Cassiopea, per fortuna a pochi passi da me e voltata nella mia direzione. Mi basta sporgermi in avanti con il busto prima che finisca a terra, e afferrarla con il braccio più vicino, a cui si aggrappa mentre me la tiro al petto con il solo intento di rimetterla in piedi, sulle sue gambe. Ma appena sono a portata di braccio, Kaya mi stringe, bloccando il collo tra i suoi gomiti e appoggiando la sua testolina bionda alla mia guancia.
Rimango immobile così, pietrificato per un attimo, ma non mollo la presa su di lei. La sento prendere un respirone contro il mio orecchio e poi…
«Ti voglio bene, papà Usopp»
 

***
 

Non so come sia possibile, non so come sia successo. Fatto sta che, a ventisette anni, sono qui che gioco alla lotta di vernice con il fratello del mio capo nonché migliore amico, il mio ex coinquilino, l’amico che mi ha dipinto il salotto.
E mi sto pure divertendo un mondo!
Né io né Sabo riusciamo a smettere di ridere mentre ci bersagliamo con la vernice azzurra, che a ogni lancio finisce per un quarto su di noi e per tre quarti tutt’intorno. Meno male che hanno messo il cellophane. Una bomba più consistente di tempera si libera dal suo pennello e io faccio l’errore di abbassare la guardia per seguire l’istinto e coprirmi il viso con le braccia. 
«Presa!» esclama Sabo divertito mentre qualcosa mi afferra il gomito. Mi sento trascinare e poi mi ritrovo appoggiata a qualcosa di solido e caldo. Non il muro, decisamente, visto che si muove a ritmo con il respiro di Sabo che mi solletica l’orecchio.
Lo stomaco mi fa una capriola, il respiro mi si mozza di nuovo. E poi il pennello di Sabo entra nel mio campo visivo, grondante di vernice, chiaramente diretto alla mia faccia.
«No!» urlo ridendo e mi dimeno. Riesco per un soffio a liberarmi e do istintivamente un piccola spinta a Sabo che, accidentalmente, colpisce l’interruttore con la schiena e spegne l’unica fonte di luce presente, visto che le tapparelle sono abbassate anche qui per tenere fuori il caldo.
 

***
 

Il cuore non mi ha mai battuto così forte. Mi sono sentito così solo altre due volte in vita mia, la prima volta che Sanji mi ha detto che mi amava e la prima volta che me lo ha detto alla luce del sole, letteralmente alla luce del sole, fuori da GoldenBell, senza preoccuparsi che qualcuno potesse vederci o sentirlo.
Ma anche allora, era un sentimento diverso.
Con Sanji era come se tutto il mio mondo fosse andato a posto, perché in quel momento Sanji era tutto il mio mondo e finché mi teneva tra le sue braccia nulla sarebbe più potuto andare storto.
Ora è come se tutto il mio mondo si fosse capovolto sottosopra e contemporaneamente avessi trovato il mio baricentro. E mentre la tengo tra le braccia sono consapevole che questo mondo sottosopra potrebbe farle del male e che tutto potrebbe andare storto. Ma non voglio lasciare andare.
Tiger. Tiger mi ha raccontato di essersi sentito esattamente così quando ha capito che voleva adottare Koala.
È folle, è spaventoso, è puro panico. È legarsi a qualcuno con cui non puoi proteggerti a vicenda e che se dovesse soffrire ti strapperebbe via il cuore. Ma è quello che voglio.
Lo voglio così tanto che mi terrorizza. L’idea di scegliere mi terrorizza. Se Sanji… Se lui non… Come posso scegliere tra i due pilastri della mia esistenza?
Porto anche l’altro braccio intorno all’esile corpicino di Kaya, me la stringo addosso.
Questa bambina potrebbe essere la mia disfatta. Eppure non voglio lasciarla andare.
«Anche io ti voglio bene, piccola mia»
 

***
 

Osservo a labbra schiuse il muro dietro il divano, che brilla di fronte al mio sguardo sorpreso. Sorpreso come quello di un bambino, non credevo mi sarei più sentita così in vita mia.
Gli schizzi di vernice sono finiti sulla parete blu appena dipinta da Sabo, piccoli cerchi imprecisi, tratti più allungati, tutti turchesi. E fosforescenti.
Non fossi troppo impegnata a farmi rapire dallo spettacolo che ne consegue, andrei a recuperare la latta per controllare ma sarebbe superfluo perché è piuttosto chiaro che, senza accorgermene, ho comprato della vernice fosforescente.
«Ma lo sapevi che era fluo?» mi domanda Sabo ma io non riesco a rispondere.
È troppo bello. La luce che emanano gli schizzi, in contrasto con lo sfondo scuro e denso, sembra di stare sul fondo dell’oceano. È così rilassante e intimo.
Lo adoro.
«Ti piace?»
Inalo rumorosamente quando mi accorgo del suo respiro sul collo, così presa dall’inaspettato risvolto estetico da non essermi accorto di lui che si è avvicinato così tanto che riesco a percepire il calore di tutto il suo corpo sulla schiena.
Giro il capo per rispondergli. È davvero quello il mio intento, rispondergli. Ma è così vicino, la testa piegata per parlare al mio orecchio e sorride. Un sorriso diverso dal solito, un sorriso che va ad aggiungersi a tutti i suoi sorrisi che da settimane ormai classifico in un elenco che sembra non avere fine. Questo è difficile definirlo. È un sorriso “sono felice perché tu sei felice”.
Vorrei davvero rispondergli. Vorrei.
Ma il pennello mi scivola via dalla mano e tutto quello che so un attimo dopo è che le mie dita sono tra i suoi capelli, le sue mani sui miei fianchi, le mie labbra sulle sue.
Non penso, non ci riesco né mi interessa, mentre mi morde la bocca e io sguscio con la punta della lingua a cercare la sua, affamata, me lo stringo addosso. Non so come succede che mi ritrovo con le gambe attorno al suo bacino, le sue dita che premono sulle cosce per tenermi su mentre si muove per casa mia. Non so diretto dove finché non colpisco con la schiena il materasso del mio letto a due piazze ma nemmeno l’impatto mi ferma.
Mi raddrizzo con il busto, lo aiuto a togliermi la canotta, mi sciolgo i capelli, mi aggrappo alla sua maglietta per sfilargliela più in fretta, mi libero del reggiseno e poi scendo giù con le mani, verso i pantaloni e i boxer, mentre lui scende giù verso i miei finché non sono nuda, finché Sabo non è nudo, schiacciato contro di me che mi bacia e mi bacia e mi bacia, ovunque riesce ad arrivare, le mie mani che vagano sulla sua schiena e sul suo petto, sul suo viso e tra i suoi capelli.
È caldo e profuma di pulito e vernice fresca. È caldo, è nudo ed è con me. Le sue carezze mi si infilano sotto pelle, mi fanno fremere in ogni anfratto e rischio seriamente di dire addio alla mia salute mentale quando mi afferra i seni, mi bacia sullo sterno e poi comincia a scendere. Il mio corpo si tende, in attesa, piccoli gemiti mi stanno già sfuggendo mentre Sabo disegna un sentiero umido lungo il mio addome e arrivato all’ombelico lui…
Si… si ferma?!
Sollevo la testa di scatto. Perché si è fermato?!
«Aspetta…» ansima, tornando a sovrastarmi.
Aspetta?! Aspetta che?! Se non aggiunge “che prendo il preservativo” potrei seriamente dare di matto.
Puntella un gomito a lato del mio viso e appoggia il palmo sulla mia guancia. «Ish io… non voglio approfittarmi di te, non…»
Sgrano gli occhi incredula. «No, no, no!» lo fermo, la voce ansante e intrisa di urgenza. «Non ti stai approfittando di me, affatto e tu… se… se anche fosse sono io che voglio che te ne approfitti…» annuisco energicamente, a corto di fiato, scossa dai tremiti.
Mio dio, lo voglio!
«Davvero?!» domanda, anche lui annuendo, anche lui a corto di fiato, la sua espressione che riflette la mia.
«Davvero»
«Grandioso» soffia e mi bacia di nuovo prima di scendere su di me.
Mi afferra le cosce e si fa strada e spazio verso dove il mio corpo ha più bisogno di attenzioni e… e… oh… mio… dio…
Gli occhi mi si riversano quasi dentro alla testa, serro le palpebre, il cervello già un ammasso di neuroni e sinapsi che non connettono. Infilo una mano nei suoi capelli, porto l’altro avambraccio alla bocca per provare a soffocare i gemiti ma lo tolgo quasi subito e mi afferro la fronte, la schiena inarcata.
Oddio, oddio non ce la faccio. È troppo bello, troppo… troppo tutto. Da quanto il mio corpo non riceveva un trattamento così?
«Sabo…» anso come un mantice, conficcando le unghie nel lenzuolo, il corpo contorto dal piacere ma bloccato dalla sua presa ferrea e dai suoi baci, dalla sua lingua su di me.
Non smettere, non smettere, per l’amor del cielo!
«Continua» gemo un preghiera, mentre il formicolio comincia a risalire dalla punta dei piedi fino alla pancia e poi alle braccia, alle mani, alla testa, prima di ricominciare a scendere, più rapido, più liquido, come un’onda, al mio basso ventre.
Sono sudata fradicia, tesa come una corda di violino, i piedi puntellati al materasso, la testa piegata all’indietro e… c-ci sono, io… io…
«Sabo» è l’ultima parola di senso compiuto che riesco ad articolare prima che la mia gola cominci a emettere solo suoni sconnessi e urlati senza pudore né vergogna.
Il mio corpo si tende ancora di più, il mio cervello va per un attimo in totale blackout prima di accendersi di mille esplosioni consecutive.
E poi succede. Mentre già comincio a rilassarmi, mentre la testa si svuota di qualunque pensiero compiuto vi abbia mai albergato, la sento. La sento che risale lungo la gola, mi solletica le corde vocali e vibra sulla lingua e io ci provo a fermarla, provo con una mano sulla bocca, ma la risata esplode lo stesso.
Rido, come mai nella vita, rido tanto che mi viene male alla gola, rido come se fosse appena successa la cosa più bella del mondo. Rido e non riesco a smettere e so che cosa rischia di succedere e ancora ridendo mi sollevo e quello che vedo è precisamente quello che mi aspettavo.
Sabo mi fissa scioccato, in ginocchio ancora in mezzo alle mie gambe. È chiaro che non sa cosa pensare o, meglio, che l’unica cosa che gli viene da pensare non vuole pensarla. E meno male, perché non potrebbe sbagliarsi più di così.
«Sabo» lo chiamo in fretta, mettendomi a sedere per raggiungerlo, qualche scroscio che ancora mi sfugge.
«Ahh io f-forse dovrei…» balbetta e fa per scendere dal letto, palesemente imbarazzato.
«No!» mi getto verso di lui, un po’ in panico anche se è impossibile notarlo da fuori, visto che ancora ridacchio. Maledetto sistema nervoso. «No Sabo, aspetta io…» gli circondo il viso con le mani e prendo un respiro profondo per calmare le risate. «Mi succede sempre quando…. quando è molto… molto, ecco… quando è davvero molto bello e intenso, io dopo rido» spiego senza vergogna, guardandolo negli occhi, perché ho bisogna che mi creda.
Più facile a dirsi che a farsi ovviamente, e infatti subito corruga le sopracciglia, chiaramente poco convinto.
«Tu dopo un orgasmo ridi?» chiede conferma e io annuisco immediatamente.
«Sì! Senti…» sposto un po’ le mani, senza lasciarlo andare. «…so che è difficile crederci, anche gli altri non ci volevano credere, beh gli unici altri due che prima di te ci sono riusciti…» specifico e, non potendo gesticolare, comincio a ciondolare la testa e muovere gli occhi. «… e il secondo non c’è stato proprio verso di convincerlo eh! Ma tanto neanche mi piaceva così  tanto, quindi… Comunque! Non era una risata di scherno, davvero. Io… ah!» cerco le parole, ma come descrivere quello che mi è appena successo? «Insomma eri là sotto no? Penso che tu sia in grado di capire quando a una donna piace quello che le stai facendo» gli sorrido.
E anche lui sorride, è ancora accigliato ma ora sorride e la sua mano è di nuovo sulla mia coscia. «Tu… ridi quando hai un orgasmo» ripete e mentre lo dice la sua espressione si distende e i suoi occhi setacciano i miei.
«Molto bello e molto intenso» gli ricordo, arcuando le sopracciglia ma non so nemmeno se mi sente.
Solleva l’altra mano, mi scosta una ciocca di capelli e, a fior di dita, segue la linea del mio zigomo e della mia mandibola, senza sganciare un solo momento i suoi occhi densi come la cioccolata dai miei. «Dio mio…» soffia appena, rauco. «Ma sei tutta vera?»
Il cuore batte a mille contro la cassa toracica, il sorriso scivola via per lasciare spazio a puro, autentico, estatico rapimento e per un momento sono divisa, divisa dal bisogno viscerale di ricominciare a baciarlo e fargli di tutto e dalla voglia di restare qui ferma a farmi inghiottire dal suo sguardo. Ed è lui a togliermi d’impaccio quando mi trascina verso di sé e ricominciamo a baciarci.
Mi aggrappo alle sue spalle, mi piego a marchiargli il petto, mi immergo nel suo calore quando mi stringe tra le braccia, mi sdraio sul letto trascinandolo con me, su di me. Ne voglio ancora, ne voglio di più. Voglio farlo stare bene come lui ha fatto stare bene me.
«Ehi Ish…» mi soffia all’orecchio, scostandomi i capelli a piena mano. Per tutta risposta io riesco solo a sospirare ma non mi sfugge la soddisfazione nella sua voce. «Ti ho mai detto che adoro sentirti ridere?» 
 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Al risveglio, la prima cosa che percepisco è sempre la sensazione del lenzuolo contro la mia pelle. So di essere sveglia per questo, per il tessuto morbido e fragrante che si arriccia tra le mie dita e si infossa dove stiracchio gambe, braccia e schiena. È la percezione che precede tutte le altre.
In inverno è sui piedi e sulle braccia e sul viso fin sotto al naso tante volte.  In estate arriva fino alle scapole e a metà coscia, dove finiscono più o meno le canottiere che uso come pigiami. 
Ma stamattina la sensazione è totale, completa, arriva ovunque e a questo non ero più abituata da un po’. Era da un po’ che non mi svegliavo nuda perché, in genere, c’è un solo motivo per cui mi sveglio nuda. Muovo un braccio, accarezzando il materasso accanto a me a palmo pieno. È caldo, di quel caldo di qualcuno che ci ha dormito e un odore che non riconosco come abituale in questa casa si leva intorno a me, nell’aria ancora densa per un respiro che non è il mio.
Sì, decisamente stanotte ho fatto sesso.
Inspiro più a fondo, concedendo alla mia coscienza di riemergere, al mio cervello di ricordare e la prima parola che affiora nella mia mente è un nome di quattro lettere.
Sabo.
Corrugo le sopracciglia, sorpresa, nonostante sia ancora nel limbo tra sonno e veglia.
Sabo?
Okay, ora è fondamentale che io mi svegli se voglio riuscire a ragionare con un briciolo di senso compiuto e, anche se una parte di me si ostina a protestare, apro gli occhi, puntati al soffitto.
Sabo. Ho fatto sesso con Sabo.
Lo stomaco mi si contrae piacevolmente insieme a ben altri muscoli, non più così fuori allenamento adesso.
Ho fatto… ho fatto sesso con Sabo!
Le labbra si piegano da sole verso l’alto mentre io porto un braccio sulla fronte e poi scendo ad accarezzarmi il viso con il palmo, per spannarmi gli occhi e le idee, e il mio avambraccio entra nel mio campo visivo. Il mio avambraccio macchiato di vernice azzurra ovunque il mio sguardo, ora accigliato, riesce ad arrivare. Giro gli occhi per controllare, la vernice è anche sulla mano e sale fino alla spalla, anche sull’altro braccio. Sollevo il lenzuolo e c’è vernice anche sulle mie gambe.
E, lo so, anche senza vederlo, sul mio viso.
Oh. Oh! Oh merda!
In parte sono ricordi, in parte è logica ma sono abbastanza certa di aver appena capito cos’è esattamente successo. Io e Sabo abbiamo fatto la lotta di vernice e poi, travolti da improvvisa passione, sesso – e in mezzo a questi due eventi io ho avuto uno dei migliori orgasmi della mia vita – e subito dopo io ho annunciato il mio bisogno di una doccia, con tutte le intenzione di trascinarlo sotto l’acqua con me e farlo ancora, e farlo poi di nuovo anche dopo, e nel mezzo restituirgli anche il favore con cui lui ha dato il via al tutto.
Ed erano davvero quelle, le mie intenzioni. Davvero.
Ma, a quanto pare, quello che è successo è che dopo il primo rapporto – quello c’è stato, me lo ricordo – non sono nemmeno arrivata alla doccia. A dirla tutta non sono manco scesa dal letto. Mi sono addormentata secca, alle sei di sera, e ho dormito tutta la notte, senza nemmeno cenare.
Quello è il mio stomaco che me lo conferma, contraendosi ora in ben altra maniera e producendosi in suoni ben poco attraenti.
Ma tanto che differenza fa? Già così, non brillo per sex appeal.
Mi stropiccio il viso con entrambe le mani.
Dannazione! Al di là del mio corpo che, incontentabile, protesta per i due amplessi auspicati e poi mancati, chissà che avrà pensato Sabo.
Ma tant’è, inutile piangere su latte versato e lui se ne sarà già anche andato, perciò tanto meglio alzarmi, mettere giù qualcosa e adoperarmi a rimuovere tutta questa tempera che, ora che si è seccata, chissà quanto strofinare mi richiederà. Non che sia un problema, oggi sono di riposo.
Apro il cassetto della roba di casa e afferro uno slip e una canotta a caso, che mi infilo pigramente mentre già mi sposto per raggiungere la cucina. Mi arriva appena sotto il sedere ma io sono una che, se capita, gira anche nuda per casa, tanto sono sol…
Faccio un salto di quasi due metri e porto la mano in mezzo ai seni, spaventata a morte, per la seconda volta in poco più di dodici ore, dalla sua inaspettata presenza.
«Ehi buongiorno!»
Come ieri, lo fisso incredula ai fornelli, anche se, rispetto a ieri, il suo essere qui è molto meno dissonante. Ero io che non mi aspettavo che si fosse fermato. Indossa i vestiti di ieri, sporchi di vernice, mentre la sua pelle è pulita, a differenza della mia.
«Sarei venuto a svegliarti tra poco. Sembrava avessi bisogno di una bella dormita» spiega, rimestando qualcosa nella padella e io mio malgrado arrossisco. «Io mi sono fatto una doccia e una panino ieri, spero che non ti dispiaccia»
«Ma no! Hai fatto benissimo!» ribatto e mi scosto il ciuffo, imbarazzata. «Anzi, mi dispiace di essere crollata così, io…»
«Eri distrutta» mi flasha con un sorriso. «E io non sono stato da meno, con la levataccia di ieri sono venuto a letto alle nove. A dire il vero, ti avrei lasciata dormire anche di più ma tra poco devo andare, devo passare da casa di Law e Koala a cambiarmi. Tu sei di riposo oggi, giusto?»
«S-sì» corrugo le sopracciglia. Come fa a ricordarsi sempre così bene i miei turni?!
«Beh meno male» ride. «Ti ci vorrà un bel po’ per levarti di dosso tutta quella roba, se non vuoi usare della soda caustica»
Mi gratto l’avambraccio con la punta delle unghie. «Oh beh…» mormoro mentre mi guardo intorno e i miei occhi si soffermano su un dettaglio che da finalmente un senso al perché Sabo si comporta come se mi avesse svegliato lui.
Sulla penisola è posato un vassoio con sopra un vasetto di marmellata, due fette di pane già tostato, un bicchiere di succo d’arancia e un piatto vuoto. Ci metto un attimo ancora a capire che voleva portarmi la colazione a letto e, per questo, se non ci avesse pensato il mio orologio biologico, a breve mi avrebbe svegliato lui.
Non dovrei più stupirmi, lo so, ma nessuno mai nella vita mi ha mai portato a letto nemmeno una tazza di caffè con dei biscotti, figuriamoci questo.
«Ah sì. Volevo farti i pancake ma non sono molto bravo così ho optato per le uova strapazzate» spiega quando si accorge cosa sto fissando, capisco dal tono che è lievemente imbarazzato. «Spero ti piaccia la colazione continentale» mi guarda speranzoso.
Io sono, ancora una volta – e anche questo non mi è capitato quasi mai nella vita –, senza parole. I pancake? Le uova strapazzate?
Vorrei gettarmi su di lui e baciarlo. Vorrei così tanto che trattenermi è una sofferenza quasi fisica e mai mi ero sentita così con qualcuno prima. Ma non so a che punto siamo né cosa significa per lui cos’è successo ieri, così devio verso la penisola e afferro il bicchiere di succo.
«Se avessi studiato medicina, sapresti che tutto ciò che è commestibili è una possibile colazione» lo rassicuro, prendendo un sorso.
Sabo mi sorride. «Medicina e giurisprudenza hanno degli assiomi in comune, a quanto pare» spadella ancora qualche secondo e poi spegne il fornello. Mi siedo quando si incammina verso la penisola con la padella in mano e con cura versa le uova strapazzata nel mio piatto. Cerca di non darlo a vedere ma, da come attende, credo proprio voglia un giudizio riguardo le sue doti culinarie, giudizio che mi affretto a fornirgli anche perché, appena il profumo di erbe aromatiche e tuorlo rappreso raggiunge le mie narici, il mio stomaco si lancia in una disperata danza spastica.
Ho fame.
E non so se è per questo o perché Sabo le ha cucinate apposta per me, quando metto in bocca la prima forchettata mi sembrano le uova strapazzate più buone che abbia mai assaggiato.
Faccio per dirglielo ma da come mi guarda soddisfatto credo mi si legga in faccia così mi limito a sorridergli e mi concentro sul rifocillare il mio stomaco, prima che si autodigerisca.  
Sabo sistema spatola e padella nel lavello e io sto cercando un argomento con cui fare conversazione quando annuncia: «Io ora vado, Ish»
Una sensazione mi innaffia, sensazione che sulle prime fatico a identificare come qualcosa di molto simile a delusione mentre rispondo con il più brillante possibile “okay”. Lo ascolto trafficare alle mie spalle, mentre recupera le sue cose e si rimette le scarpe. Va un attimo in bagno e io mangio ancora un paio di forchettate prima di fermarmi per spalmare una fetta di pane con la confettura di mirtilli e sbocconcellarla senza troppo entusiasmo.
Mi dispiace da morire di essermi bruciata in modo così stupido la serata di ieri, mi dispiace soprattutto ora che Sabo sta per andare.
«Okay, scappo!» mi avvisa, correndo quasi alla porta. Giro con lo sgabello per salutarlo e quando entra nel mio campo visivo il sorriso che si forma sulle mie labbra non potrebbe essere più solare e sincero.
«Grazie ancora per la colazione e… e tutto il resto» aggiungo, non sapendo esattamente come definire l’insieme di fatti accaduti tra ieri pomeriggio e stamattina.
«Non dirlo nemmeno» risponde Sabo ma manca qualcosa nel tono sempre brillante. «Allora…» tentenna, la maniglia già stretta in mano. «…ci vediamo domani al lavoro!»
«Eh sì» annuisco, il sorriso si spegne un po’.
Giusto. Ci vedremo al lavoro e basta adesso. E quando andremo a mangiare i takoyaki una volta al mese. O forse alla settimana, ma comunque.
«Magari ci prendiamo un caffè insieme domani mattina» gli propongo e lui annuisce e si prepara ad andare.
Lo osservo perplessa quando gira gli occhi sulla porta, aperta di uno spiraglio appena, e la guarda come se fosse un insormontabile ostacolo, prende un profondo respiro come se gli servissero chissà che energie per riuscire a spalancarla, chiaramente combattuto.
Apro bocca per chiamarlo proprio quando, con decisione, la richiude e torna a grandi passi verso di me. Non faccio in tempo a chiedermi cosa gli prende che le sue mani mi avvolgono il viso e le sue labbra sono sulle mie, a darmi quel bacio che prima mi sono vietata di strappargli. Rispondo, aggrappandomi ai suoi polsi, con una certa foga, e quando si separa da me lo guardo confusa anche se lui, ovviamente, sorride.
«Buona giornata» soffia sulle mie labbra, gli occhi accesi da una luce felice che in un attimo si riflette nei miei, mentre sbuffo una risata.
Torna all’ingresso, spalanca la porta e io non ho quasi il tempo per pensare o riflettere. «Sabo!»lo richiamo, prima che esca. «Se ti va stasera potremmo…» scuoto appena il capo. «Che ne dici di venire qui a vedere un film?» domando tutto d’un fiato e senza paura.
Lui sgrana gli occhi, per un attimo preso in contropiede, ma subito torna a illuminarsi come il sole di luglio. «Certo!» esclama  e il suo sguardo si fa intenso, così intenso che rischio di sciogliermi qui sullo sgabello, prima di pronunciare tre parole a cui dovrei ormai essere abituata ma che stamattina mi provocano brividi in ogni dove. «Allora a stasera»
La porta si richiude con un lieve tonfo, io rimango immobile alcuni istanti prima di passarmi una mano nei capelli e scoppiare di nuovo a ridere.
Santo cielo, non ho la più pallida idea di cosa stia succedendo.
 

 
§

 
Lancio un’occhiata a Law che osserva perplesso suo fratello ingollare l’ultima forchettata del terzo piatto di riso basmati con pesce. Non tanto perché sia strano vedere Sabo mangiare come se digiunasse da mesi ma perché stasera ha mangiato davvero a velocità supersonica e quando afferra piatto e forchetta e si alza per sciacquare il tutto prima di riporlo in lavastoviglie, non ho più dubbi.
«Stasera esci?» gli chiedo curiosa, sovrastando lo scroscio dell’acqua.
«Sì!» risponde subito con gli occhi accesi e forse un pelo troppo entusiasta. Non dal mio punto di vista ma dal suo probabilmente sì visto che appena se ne accorge cerca subito di edulcorare. «N-niente di che eh! Vedo un paio di ex colleghi dello studio qui a Raftel, in ricordo dei vecchi tempi»
«Ah» gli sorrido. «Sembra carino»
«Sì infatti» Sabo chiude l’acqua e nemmeno si rende conto che si sta asciugando le mani nei pantaloni, tanto è nervoso. Mi faccio violenza per non scoppiare a ridere. Se ne sta fermo lì, con un sorriso ebete, agitato come un bambino il primo giorno di scuola, in attesa di non so bene cosa.
Forse che qualcuno lo sblocchi. 
«Allora meglio se vai, così non fai tardi»      
Sobbalza e sgrana appena gli occhi. «Oh giusto! Vado a… a cambiarmi e scappo» ci informa mentre lascia la cucina.
Lo seguo con lo sguardo, sommamente divertita.
Un paio di ex colleghi. Certo, come no.
«Solo a me sembra strano?» domanda Law asciutto, il sopracciglio alzato.
Mi alzo e afferro il suo piatto con una mano mentre porto l’altra sul suo viso. «Sabo è sempre strano, amore. Vuoi il bis?»
 

 
§

 
«Respinta? Come sarebbe a dire respinta?! Era più che giuridicamente e deontologicamente valida come obiezione!» si altera e agita alle mie spalle e io non riesco a trattenere lo stupore.
Stasera ho insistito e mi sono impuntata per vedere un legal movie, dopo giorni che Sabo rimbalzava la mia proposta, più curiosa di vedere lui all’opera che della trama del film, lo ammetto. D’altra parte, non sono in grado di seguire storie di una complessità superiore a quella di un cartone animato se me ne sto seduta così, tra le sue gambe e con la schiena contro al suo petto nudo e le sue braccia che mi stringono, una posizione a cui ci rifiutiamo di rinunciare da quattro sere a questa parte nonostante non faccia esattamente freddo.
Ora, devo ammetterlo, credevo che Ace avesse esagerato. È stato tranquillo per tutti i primi quaranta minuti della pellicola, limitandosi a congetturare e incastrare indizi tra loro con una logica invidiabile. Ma appena la trama si è spostata in tribunale ha cominciato a dare di matto e alla quarta esplosione non riesco più a fare finta di niente.
Arrossisce quando si accorge come lo sto guardando e stende un braccio verso il televisore. «Guarda che è vero!»
«Ma ti rendi conto che è solo un film?» gli chiedo ridendo.
«Sì, sì, solo un film, solo un film, poi la gente se li fa sugli avvocati veri i film e pensano di sapere già tutto quando vengono a chiederci una consulenza. E comunque io lo trovo frustrante anche se è solo un film perché quel tizio è esattamente il tipo di avvocato che vorrei essere, che non ha paura di difendere i suoi clienti contro calunnie, anche se rischia un’accusa di oltraggio alla c… mng» mugugna quando premo la mia bocca sulla sua, zittendolo, ma ci mette un millesimo di secondo appena a capire cosa sta succedendo e reagire di conseguenza.
Preme il palmo contro la mia nuca e passa l’altra mano sul mio fianco mentre io scendo a tempestarlo di baci sul torace, fermandomi con calcolata calma subito sotto al suo ombelico. Quando rialzo gli occhi su di lui, ha lo sguardo appannato e soprattutto fisso su di me, solo su di me.
Sorrido soddisfatta e gli slaccio i pantaloni ma quando inizio a sfilarglieli insieme ai boxer non riesco a credere ai miei occhi. Ha il telecomando in mano e sta mettendo in pausa. 
«Che c’è? Voglio vedere come va a finire poi»
«Io e te…» sollevo l’indice. «…non guarderemo mai più un legal movie insieme. Sappilo» lo metto in guardia ma non riesco a trattenere un sorriso quando lui sogghigna. «E non ridere!» protesto ridendo, mentre lui si tira su con il busto e si sporge verso di me per riprendere da dove mi ero interrotta. «Sei proprio sicuro che non vuoi vederlo finire un’altra volta?»
 

 
§

 
«Sì, perché?» mi domanda a sopracciglia corrugate.
«Non lo so, mi sembri distratto e magari non te lo stai godendo» gli spiego, scostandogli un riccio corvino dalla fronte. Vorrei abbassarmi verso di lui e rubargli un bacio, ma non oso.
La guancia quasi mi brucia quando il suo palmo mi sfiora la pelle. Dilato gli occhi, colpito dalla sensazione famigliare di cui però non godevo da giorni.
«Sono solo un po’ stanco Sanji, non ti devi preoccupare» cerca di tranquillizzarmi e io vorrei ribattere.
Vorrei dirgli che ho eccome il diritto di preoccuparmi visto che sono giorni che è freddo e distante, che quasi non mi tocca, che non facciamo l’amore, che passa la maggior parte del tempo assorto in pensieri di cui non mi rende partecipe.
Vorrei dirgli che ho paura. Paura di perderlo di nuovo, paura di avere sempre avuto ragione a pensare che non ero, non sono, non sarò mai abbastanza e che temo che, alla fine, se ne sia accorto.
Vorrei ma lui si accoccola contro di me e mi permette di stringerlo, come non faceva da quasi una settimana, e tutto quello che riesco a fare è ascoltare il mio cuore che torna a battere con calma e sospirare.
 

 
§

 
Sospiro pesantemente mentre richiudo la porta di casa e mi ci appoggio con la fronte.
Mio.Dio.Che.Giornata.
Giro appena gli occhi verso la cucina, dove il rumore dei fornelli che sfrigolano e scoppiettano mi danno la prima buona notizia di oggi. Sabo è già qui. Il che non mi stupisce visto che ormai l’ora di cena è passata da un pezzo e lui sa dove trovare la chiave di riserva.
Quello che non mi aspettavo, ma sono troppo stanca per farmene sorprendere, è trovarlo che cucina. Avevo pensato di prendere una pizza ma il profumo che pervade la casa è parecchio più invitante ma forse è solo perché in questo momento mi mangerei anche le gambe del tavolo.
Ma che ciò che mi aspetta sia meglio o peggio della pizza non ha nessuna importanza perché la pizza non mi avrebbe mai fatto sentire questa sensazione calda e confortante, che mi pervade quando finisco di metabolizzare che Sabo è qui che prepara la cena per me. Che si prende cura di me.
«Ehi?» ride, studiandomi dalla soglia della cucina, ma io ancora non mi muovo, le braccia penzoloni lungo il corpo che forma un angolo di quarantacinque gradi con la parete, sorretto solo dalla mia fronte.
È solo quando Sabo si stacca dallo stipite e si avvicina che ruoto di mezzo giro, senza staccare la nuca dal legno. Lo guardo, quei quindici/venti centimetri più su, sfinita ma anche grata.
«Ma tu da dove sei uscito?» gli chiedo.
Inspira e trattiene un attimo il fiato prima di abbassarsi a baciarmi. Gli circondo le spalle e mi lascio cullare qualche secondo. Ora sì che cominciamo a ragionare.
Si distanza da me ma continua a tenermi tra le braccia. «Giornata pesante?»
 

 
§

 
«Infinita» mugugno, trascinandomi sul letto e sul petto di Zoro pronto ad accogliermi.
«Casini al lavoro?»
«Nah» borbotto, la lingua già impastata, mentre struscio la fronte sul suo pettorale. «È Izou che mi massacra. Almeno abbiamo finito il primo completo spezzato ma sono esausta» mi lascio andare addosso a lui, le membra pesanti.
Mi posa una mano sul capo e io mugugno soddisfatta, il cervello già annebbiato dal sonno.
«Mmmmmh» Zoro mormora a labbra strette. «Così tanto stanca o stanca ma non abbastanza da dire di no a una proposta ind… Nami?»
La sua voce è distante e chiama il mio nome ma io beccheggio ormai nel limbo sonno veglia, il respiro sempre più profondo e pesante, e non trovo le energie per riemergere anche se vorrei.
Dal luogo fatto di ovatta e cose calde in cui mi trovo, riesco percepire una risata sbuffata e un ghigno contro la tempia. E quando, subito dopo, arriva un bacio tra i capelli, anche l’ultimo briciolo di coscienza si spegne e, stretta tra le sue braccia, mi abbandono al sonno.
 

 
§   

 
Sonno. È così che mi sento, come se vivessi in un profondo sonno da cui mi risveglio a intermittenza.
Mi sorprendo sempre più spesso a fissare il vuoto, perso in pensieri che non ricordo quando ho iniziato a fare, che si sommano a velocità folle, perdendo coerenza fino a farmi cadere in questa trance che non sono in grado di controllare.
Anche Sanji se n’è accorto. So che se n’è accorto e come sarebbe potuto essere altrimenti? Mi trova nei posti più disparati della casa a fissare il nulla, quando mi chiede cosa non va gli rispondo di non preoccuparsi e non lo tocco da giorni, tranne l’altra sera che abbiamo guardato un film abbracciati. Ed è stato un maledetto paradiso, semplicemente sentire le sue braccia intorno a me.
Come posso fare? Come posso uscire da questa situazione?
«Usopp?»
Mi irrigidisco, realizzando in un attimo che l’ho fatto di nuovo. Sbatto le palpebre e mi accorgo di essere immobile di fronte alla finestra ma la tenda è tirata. Alzo la mano a massaggiarmi il retro del collo. L’ansia nella sua voce la percepisco forte e chiara e mi accorgo che comincio a non avere più le forze neppure per rassicurarlo che tutto è a posto.
Il fatto è che, a quanto pare, nemmeno lui ha più le forze per chiedere.
«Preparo la cena, okay?»
«Sanji aspetta!» lo richiamo d’istinto, girandomi e muovendo due passi decisi verso di lui.
Lui si immobilizza e si gira a guardarmi, la sua espressione un misto di panico e speranza. Più calmo, percorro la distanza che ci separa e quasi sussulta quando gli arrivo di fronte.
Che cosa gli sto facendo, santo cielo?
Lo studio da capo a piedi e soffermo gli occhi sulla sua mano, stretta a pugno lungo il fianco. Lentamente, allungo le dita ad accarezzarlo sul dorso, solleticandolo per fargliela aprire, così da poterle incastrare con le sue. Faccio aderire il mio palmo al suo, assaporo la sensazione delle nostre pelli a contatto e una scarica mi attraversa.
Ne voglio di più. 
Non mi basta la mano, lo voglio tutto.
Incerto, lo guardo di sottecchi e mi mozza il fiato il modo in cui mi fissa di rimando. Con urgenza e devozione, gli occhi annebbiati e rapiti.
Mio, completamente mio. Corpo, cuore e anima.
Alzo l’altra mano per appoggiarla a lato del suo collo e piego il capo. Non ho intenzione di perdere un solo altro minuto.
 

 
§

 
Anche perché, sono già in ritardo. Mi lancio praticamente in corridoio diretto al bagno, la camicia già mezza slacciata per quando lo raggiungo.
Giusto il tempo di darmi una rinfrescata e mettere una t-shirt a caso e poi schizzo da lei. Questa cosa di non avere la macchina si sta rivelando incredibilmente scomoda.
«Esci?» mi chiede Koala dalla cucina, la voce alta per farsi sentire.
«Sì» rispondo, altrettanto ad alta voce, spostandomi in salotto per recuperare una maglietta.
Law sta leggendo qualcosa, non so se per lavoro o per passatempo, gli occhiali da vista sul naso e lo sguardo assorto ma, evidentemente, non passo inosservato ai suoi supersensi superacuti da supereroe.
«Se vuoi prendere la macchina, io domani ho riposo» mi dice senza sollevare gli occhi.
Mi immobilizzo un istante. «Davvero?» lo guardo, pieno di speranza.
«M-mh»
«Grande!» esulto sottovoce, piegando gamba e braccio, la mano chiusa in un pugno trionfale.
Mi infilo la maglietta che già sto uscendo dal salotto a grandi passi, non corro solo perché con la t-shirt per metà sulla faccia finirei di sicuro per schiantarmi da qualche parte ma, una volta di nuovo in corridoio e con la maglia completamente infilata, mi blocco sorpreso.
Sulla porta della cucina, Koala mi fissa a braccio teso, lasciando penzolare un sacchetto di carta, con un logo a me ben noto sopra, sulla punta delle dita. «Torta del Whole Cake?» domanda, ovviamente retorica. «Due porzioni» aggiunge con un sorriso saputo e io mi irrigidisco una frazione di secondo. Ma è proprio solo una frazione di secondo perché, uno, è stato idiota anche solo illudersi di riuscire a dargliela a bere e, due, ho fretta di andare.
«Sei la migliore» afferro con una mano il sacchetto e con l’altra il suo fianco per tirarmela addosso. «Ti adoro» le bacio la fronte – poco ci manca che aggiungo “mamma” – e poi, in quattro falcate, sono fuori casa, le chiavi della mia fidata Firefist strette in mano.
 

 
§

 
Stringo le mani impaziente. È in ritardo e non è che sia un problema ma stasera, sarà l’ovulazione, ho più libido che sangue.
Mi muovo a scatti per il salotto, gli occhi che continuano a tornare sull’orologio a forma di conchiglia.
Dov’è finito, per l’amor del…
Il trillo del campanello è, per un attimo, il suono più bello del mondo. Come i cancelli del paradiso che si aprono. Mi sposto in ingresso e cerco di darmi un contegno mentre apro la porta.
«Ho portato la tor…» prova a esclamare Sabo, sventolando nell’aria un sacchetto, prima che io gli salti addosso.
E tanti cari saluti al contegno.
Lo trascino verso di me, cercando come una disperata il suo sapore sulla lingua. Non ci vediamo da due giorni e al lavoro non ci siamo incrociati manco per sbaglio.
Quanto.Mi è.Mancato.
Ho il fiato corto quando ci separiamo e la sua espressione è scioccata ma uno scioccato bello, uno scioccato da “non riesco a capacitarmi di quanto ti voglio”, che manda brividi lungo la mia spina dorsale e provoca piacevoli spasmi al centro del mio corpo.
«La torta…» ansa roco. «…può decisamente aspettare»
 

 
§

 
«Sono io o Sabo sta uscendo tutte le sere e dorme pure fuori?» domanda Law dal salotto, riemergendo dalla sua lettura qualche minuto dopo l’uscita a fuoco di Sabo.
Io scruto il mio riflesso nello specchio ad unghia di camera nostra, valutando con occhio critico il mio acquisto di questa mattina. Non so nemmeno perché l’ho comprato ma quando l’ho visto non ho saputo resistere.
Non è come se alla nostra relazione mancasse del pepe ma questo non significa che sia proibito aggiungerne altro, no?
Modestia a parte, le autoreggenti sono un indumento che non mi è mai stato male. Certo, il babydoll non mi calza come alla modella del catalogo ma si divide proprio ai lati della pancia che comincia ad arrotondarsi, giocando al vedo/non vedo, e, anche se mette molto in risalto il seno, non è volgare.
Anzi, lo definirei quasi dolce se il mio obbiettivo non fosse tutto fuorché casto.
«Koala?» mi richiama Law non ricevendo risposta e io lancio un sorriso a me stessa prima di uscire dalla stanza e dirigermi in salotto.
«Non sei tu, è vero che esce tutte le sere» gli rispondo, comparendo sulla porta della sala. Seduto sul divano, gli occhiali da vista sul naso, alcuni fogli tra le mani. «È un problema?»
«Beh no, ovviamente no, mi chiedevo solt…» alza gli occhi per rispondermi e si blocca.
Sì. Era esattamente questa la reazione che speravo di suscitare, quello lo sguardo che agognavo vedere. Mi fissa pietrificato, manda giù pesante e poi appoggia i fogli prima di perdere presa. Si alza, lo sguardo incollato a me e fa per sfilarsi gli occhiali.
«Tienili» soffio, quasi un’implorazione.
È così sexy con gli occhiali – lo è anche senza –, così tanto che quasi mi conficco le unghie nel palmo quando si avvicina, si ferma, mi torreggia sopra, guardandomi come se avesse davanti un reperto di rara bellezza.
«Decisamente…» la voce è ferma ma i suoi occhi tradiscono tutto il disarmante abbandono che prova quando si tratta di me, di noi. «…non è un problema»
 

 
§

 
Lo stringo contro di me, deciso, deciso a non lasciarlo andare, a non farmelo sfuggire tra le mani. Mai più. Mi basta un suo mugugno per passare al livello successivo, stringergli le cosce e obbligarlo a salirmi in braccio per poi dirigerci verso la nostra camera.
Non ci metto la minima cura o delicatezza nel mollarlo sul letto, è troppa l’urgenza di spogliarlo e di spogliarmi, di godermi il contrasto tra la sua pelle color caffè e la mia così tanto pallida al confronto.
Mi è mancato, dio mi è mancato così tanto!
Gli sfilo la t-shirt e mi abbasso a baciarlo mentre slaccio la camicia con dita tremanti, aiutato anche da lui che quasi me la strappa dalle spalle quando anche l’ultimo bottone fugge attraverso l’asola. Mi vuole, con ogni fibra del suo corpo, almeno quanto io voglio lui e quando questa consapevolezza mi colpisce la tentazione di mettermi a piangere è quasi ingestibile.
Una lacrima forse riesce anche a sfuggirmi quando premo le labbra sul suo collo. Le sue mani mi circondano, si aggrappano alle scapole, mi trascinano al sicuro.
«Usopp…»
Non lasciare andare, non lasciarmi andare. Non lasciarmi, ti prego.
«Sanji?» una domanda la sua, una domanda preoccupata.
Sto… sto singhiozzando?
Merda!
«Usopp, ti amo»
La sua mano mi accarezza a palmo pieno, mi asciuga le guance, i suoi occhi cercano risposte e mi curano al tempo stesso. Mi bastano i suoi occhi su di me per essere felice, per sentirmi a casa.
«Sanji, calmati» ora tutte e due le sue mani sono intorno al mio viso, mi scostano i capelli, mi accarezzano mentre cerca di capire. «Sanji, io…»
Non riesco a smettere. Ho paura, ho avuto così tanta paura. Credevo che… che…
Mi ritrovo sdraiato sul suo petto, stretto tra le sue braccia, il viso contro la sua spalla e le sue dita tra i miei capelli. A casa. Ecco dove sono.
«Anche io ti amo Sanji» parla direttamente al mio orecchio e i singhiozzi anziché diminuire aumentano mentre stringo con una mano il lenzuolo e con l’altra il suo braccio. «Sono qui e non ti lascio, Sanji. Sono qui»
 

 
§

 
«Sono qui» lo avviso di ritorno dal bagno, mentre scivolo sul letto e sguscio tra le sue braccia, aderendo quanto posso con il mio corpo nudo al suo. Sabo mi accoglie, mi aiuta ad annullare lo spazio ma io mi tengo un po’ distante con il torace per poter ammirare e accarezzare anche una volta il tatuaggio sul suo pettorale sinistro, il lato del cuore. La testa e l’artiglio di un dragone all’attacco. Faccio scivolare i polpastrelli sulla sua pelle liscia e macchiata d’inchiostro sfumato, seguendo con lo sguardo il mio stesso movimento, ipnotizzata.
«È sexy, sai?» riporto gli occhi sul suo volto.
Chissà quante donne glielo avranno già detto. Ma che importanza ha? Il punto è che io non glielo avevo ancora detto.
«Ha un significato?»
«È dedicato a papà. Quando abbiamo fatto la maturità, io, Law, Koala, Robin e Ace abbiamo deciso di fare un tatuaggio tutti insieme ma ognuno ha scelto il soggetto che preferiva e anche la posizione. Anche Ace ce l’ha sul pettorale sinistro, il segno delle picche, era il portafortuna di zio Roger»
Mi accomodo meglio con il capo sul cuscino, le mani sovrapposte e incastrate tra la mandibola e il suo bicipite, pronta ad ascoltare con attenzione una nuova storia.  
«E Law invece? Qual è dei tanti?»
«La schiena» risponde, premendo il palmo tra le mie scapole, una scusa per avvicinarmi a lui. Sento il seno modellarsi sul suo petto, la peluria del suo pube che mi solletica la pancia. «Cora gli aveva regalato questo orologio giallo, credo ce l’abbia ancora… Comunque sul quadrante aveva una faccina sorridente e Law scelse di farsi tatuare quella. Non doveva essere così grande all’inizio ma lui e Koala hanno finito per lanciarsi una delle loro solite sfide di coraggio e se hai mai visto il suo tatuaggio non serve che ti racconti com’è andata a finire» ridacchio ma non lo interrompo. «E per questo anche Koala ce l’ha sulla schiena. Un sole rosso, il simbolo della tribù da cui discende Tiger» sposta la mano sulla mia spalla e comincia a scendere piano con il palmo lungo il braccio. «Poi come puoi immaginare, Law si è fatto prendere un po’ la mano. I simboli sulle braccia e sulle mani…» mi sfiora l’avambraccio e mi obbliga a sfilare una mano per baciarmi il dorso «…sono disegni Shandia, beneaugurali per chi fa delle proprie mani un lavoro. Risalgono alla vacanza a Skypeia del nostro secondo anno di università. Law e Koala si sono innamorati di quel posto»
«E la scritta sulle dita?»
Delicato mi prende il polso e mi fa aprire la mano, rivolta verso di sé, prima di sovrapporre il suo palmo con il mio. «Quelli hanno un retroscena più triste» mi fa ruotare il polso e studia come le nostra dita si sovrappongono, come il colore della nostra pelle contrasta. Io fisso disarmata le sue dita che scivolano in mezzo alle mie, imprigionandomi. «Se li è fatti fare la prima volta che ha perso un bambino in sala. Per ricordarsi che nemmeno con il bisturi in mano è un dio e che la morte è sempre in agguato»
Giro di nuovo gli occhi, che pizzicano agli angoli, sul suo viso. So di cosa parla, conosco la sensazione, io meglio di lui ma da come parla non sembra. Sembra che lo abbia vissuto lui stesso in prima persona, perché la sofferenza di suo fratello è la sua. Lascia andare la mia mano e io subito l’appoggio sulla sua guancia, mentre lui abbassa il braccio su di me.
«Robin ha un ramo di ciliegio qui, lungo il fianco» continua, accarezzandomi il costato con le nocche. Socchiudo gli occhi, rapita dal suo tocco. «I fiori preferiti di sua madre, il simbolo di quanto la vita sia bella e breve»
Lo accarezzo ancora con il pollice prima di riportare la mia mano dov’era poco fa. Comincia a venirmi sonno ma non voglio ancora dormire.
«Sai, a volte penso di essere un po’ gelosa di Koala e Robin. Non hanno segreti per te né tu per loro»  
Sabo si concentra su di me, setaccia il mio viso qualche istante e, anche se non è che stesse sorridendo, si fa serio come non mai. Appoggia una mano sul retro del mio collo e mi attira a sé, mi bacia a piene labbra, lento ma ingordo, stringendo la presa sulla mia nuca.
«Mai» soffia quando ci separiamo e appoggia la fronte contro la mia. «Tu non dovrai mai essere gelosa di nessuna, Ish, te l’assicuro»
Riprende a baciarmi e io mi schiaccio contro di lui.
No, sono piuttosto certa che non dormiremo tanto presto.  


 
§

 
«Mmmmh» mugugno soddisfatta, sgambettando nell’aria, a pancia in giù, braccia e mento appoggiato al suo petto nudo. «Questa è un’espressione rilassata»
Law ghigna al soffitto, accarezzandomi sulle vertebre a fior di dita, mentre porta l’altra mano al viso per stropicciarselo.
«Ultimamente al Castello è un delirio» confessa e io arcuo le sopracciglia.
«Ultimamente?» domando, sarcastica.
Gira gli occhi su di me, soffia appena dal naso. «Più del solito. Cora continua a far venire su Gerth per dei consulti che a volte non so nemmeno da dove gli escono, alla clown therapy è un degenero…» si strofina di nuovo gli occhi con pollice e indice e io faccio scivolare un palmo su e giù lungo il suo torace. «La verità è che sono preoccupato per Ish. È strana ultimamente, distratta, e oltre alla preoccupazione mi sembra di non avere più nessuno di cui fidarmi al cento per cento» ammette, una confessione che farà solo a me.
E da copione io ora dovrei fargli presente che il problema è tutto nella sua testa, che deve imparare a delegare di più, a non farsi carico di tutto, a non voler controllare ogni singolo aspetto maniacalmente, che non c’è solo Ish. Ma è proprio questo a colpirmi e impedirmi di fare ciò che dovrei.
Ish. Un campanello mi suona in testa, a segnalare non so bene cosa. Non ancora.
«Strana?» chiedo, curiosa e indagatrice.
«Da un paio di settimane è sempre distratta, in un altro mondo» appoggia il polso sulla fronte. «Non la sto criticando, lavora sempre benissimo ed è impeccabile professionalmente parlando,  ma vive sulle nuvole e questo non è proprio da lei»
Credo che il diametro dei miei occhi raggiunga quello di due fondi di bottiglia mentre le parole di Law riordinano e legano insieme pezzi e indizi che avrei già dovuto ricollegare da tempo.
Come ho fatto a non pensarci prima?! E dire che è stato sotto i miei occhi anche per un po’.  
«Comunque sarà solo un momento così e… cos… cos’hai da sorridere a quel modo?» si acciglia.
«Oh no, niente» non riesco a tornare seria ma scuoto il capo comunque. «Assolutamente niente. E comunque stai tranquillo» lo accarezzo sul volto «Sono sicura che è come dici tu»
Se non sbaglio l’innamoramento va dai tre ai sei mesi, dopodiché dovrebbe tornare sul pezzo, almeno fintanto che Sabo non è nei paraggi. 
«È sicuramente una situazione temporanea» 
  
  

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Capita molto di frequente che, da bambini, ci si innamori di qualcuno di adulto. Non è vero amore e nemmeno vero innamoramento. Una volta, non ricordo più chi, me lo aveva spiegato come una prima presa di coscienza che al mondo ci sono altri uomini e altre donne al di fuori dei genitori, un gettare le basi per cominciare a discernere cosa ciascuno di noi trova attraente e cosa no.
È un meccanismo semplice. Si vede una persona bella, che non è tuo padre o tua madre, e la sensazione piacevole che si prova la si chiama “amore”.
In questo senso, il mio primo amore è stato Shanks.
All’inizio, non serve altro. Non si cerca altro che bellezza e un senso di protezione che, normalmente, a sei anni, solo un adulto ti può dare.
Più avanti, in adolescenza, si cerca di più. L’attrazione fisica resta fondamentale, sempre e comunque, in qualunque fase. Ma in adolescenza, nonostante le tempeste ormonali che la fanno da padrone, la ricerca di un’identità gioca il proprio ruolo.
Si vive ancora con i propri genitori e, sebbene si passino venti ore su ventiquattro – le quattro rimanente sono per lo studio o il cazzeggio puro – a desiderare di andarsene, non si è ancora nella vera ottica di una casa propria, di un’indipendenza totale.
Ovviamente l’attrazione fisica resta fondamentale ma, in piena adolescenza, ci si può innamorare sia grazie all’attrazione fisica sia grazie a quella mentale.
È così che Robin è diventata il primo amore, non corrisposto, di Sabo.
E poi certo può accadere che si trovi un partner con cui l’attrazione fisica va talmente bene da farti credere che non serva altro e che quindi è quello l’amore, finché non si incontra qualcuno che, oltre al corpo, ti prende anche la mente e per la prima volta ti fa innamorare davvero.
Per questo Ace stava ancora con Seila, la sua ragazza dell’ultimo anno di liceo, quando ha cominciato a cadere, senza nemmeno rendersene conto, tra le braccia di Perona.
Non che lei sia rimasta più di tanto turbata dalla loro rottura. Erano i classici cheerleader x giocatore di lacrosse, dopotutto, e quando Ace si mise a parlare di cose come convivenza, famiglia e figli si resero conto entrambi che non erano fatti l’uno per l’altra, non per una vita intera.
Perché è questo che accade dopo i venti, si comincia ad andare oltre gli ormoni e la chimica mentale, si cerca anche altro, si cerca qualcuno che possa essere per sempre, si cerca la summa del primo amore infantile e delle prime esperienze adolescenziali. Si lascia davvero la casa di mamma e papà e sotto il nuovo tetto, durante i festini e i gruppi studio universitari, a un certo punto si comincia a desiderare quella sicurezza e stabilità da cui per quasi un decennio si è provato a fuggire.
L’attrazione fisica e mentale non basta più. Che piaccia o meno, diventa fondamentale guardare la persona che si ha di fronte o di fianco e vedere, sentire, di avere di fronte o di fianco il resto della propria vita.
Ed ecco spiegato perché Robin ha lasciato il suo ex storico, giusto un paio di mesi prima di inchiodarsi con la macchina e incontrare Franky.
Me la ricordo, le prime settimane. Mai avrei creduto di vedere Robin così distratta nemmeno fossi campata cent’anni. Con Sabo e Ace c’ero abituata, a Law, semplicemente, non era mai successo ma Robin che sbaglia a fare la lavatrice e sospira al tramonto è un’immagine che credo non dimenticherò mai.
Fu lei a dirmi che l’innamoramento, inteso come quel periodo di farfalle nello stomaco, battiti accelerati e percezione temporale distorta, sarebbe durato massimo sei mesi e poi sarebbe tornata la Robin di sempre, fintato che Franky non fosse stato nei paraggi per lo meno.
La invidiai, ricordo quanto la invidiai. Io non l’avevo mai provato e all’epoca non avevo la più pallida idea che, molto banalmente, era successo senza che me ne fossi resa conto.
Tre anni fa, mi sono innamorata di nuovo di lui, da capo, ma non era come se avessi mai realmente smesso. L’ho sempre amato. So com’è essere innamorata ma non so come sia l’innamoramento perché io, Law, l’ho sempre amato. Non riesco a rievocarlo perché non so quando è iniziato.
A tredici anni, forse, quando l’ho ritrovato dopo le sue due settimane di latitanza, oppure a sei, alla casa affido, la prima volta che è venuto lui da me durante un temporale, per tenermi la mano. Perché a sei anni lui era già ogni cosa per me, era già il resto della mia vita. Neppure da bambina, neppure dopo l’adozione, sono mai riuscita a concepire un’esistenza senza di lui.
Mi sono chiesta spesso, lo faccio ancora adesso, se valga lo stesso per lui. Forse per questo non riconosce i sintomi di Ish o forse è solo perché è un uomo.
Ma non ha poi molta importanza, questo è decisamente secondario, perché anche se non fossi stata la prima quel che conta è essere l’ultima e perché, forte dell’esperienza indiretta altrui, io quei sintomi li ho riconosciuti e ora so da chi va Sabo tutte le sere.
«Koala, sei tra noi?»
La mano di Nami smuove aria davanti al mio viso, riportandomi qui, nel nostro ufficio alla Ivankov&Co.
«Scusa, Nami, ero distratta. Mi hai chiesto qualcosa?»
Lei si appoggia allo schienale della sua sedia ergonomica arancio mandarino e mi scruta curiosa. «Solo che hai da sorridere così» si stringe nelle spalle, le braccia conserte.
Alzo una mano a sfiorarmi le labbra, effettivamente increspate in un sorriso. «È il sorriso essenziale?» mi informo ma Nami scuote il capo.
«No. Per quello ero curiosa» solleva un sopracciglio, mi guarda con malizia. «Law ti ha mandato una proposta indecente via email?»
È il mio turno di scoccarle un’occhiata maliziosa. «Una sola?» la provoco, prima di realizzare che qualcosa non va, farmi seria e aggrottare le sopracciglia. «Che fine ha fatto Usopp?»
«Lo hanno chiamato al cellulare ed è uscito perché prendeva poco»
«Strano» mi acciglio. «Il mio qui prende sempre benis…» mi blocco e stringo le labbra, quando lo stomaco da segni di cedimento.
«Ehi, stai bene?» si allarma subito Nami nel vedermi portare una mano al ventre.
«Nausee» le dico, sbrigandomi a prendere un sorso d’acqua. «Ho cominciato da un paio di giorni, viene anche difficile mangiare»
Nami mi osserva dispiaciuta, quasi un po’ sofferente per me. «Perché non vai a prendere una boccata d’aria fuori?»
La guardo, tentata, e poi butto un occhio al cellulare. Manca un quarto d’ora alla pausa pranzo. «Magari potrei andare a mangiare qualcosa da Momoiro e starmene un’oretta all’aria aperta» considero ad alta voce. Ho bisogno di qualcosa di fresco e leggero, oggi. «Ti va?»
«Purtroppo io oggi devo saltarla, la pausa. Ho bisogno di andare via un’ora prima, per aiutare Izou. Ti avrei accompagnato volentieri» aggiunge, sinceramente dispiaciuta e io le sorrido.
«Ehi ragazze!» Usopp rientra trafelato nell’openspace. «Koala, ho un’urgenza di cui devo occuparmi. Sanji. No, non è niente di grave, tranquille» aggiunge, di fronte ai nostri sguardi allertati. «Aspetto la pausa pranzo ma sicuramente rientrerò un po’ in ritardo, almeno un quarto d’ora»
«Beh Usopp se è un’emergenza...» comincio ma Nami mi interrompe e prende in mano la situazione.
«Okay, vi copro io. Te rientri un quarto d’ora dopo, tu vai via un quarto d’ora prima. Su dai!» esclama quando le scocco un’occhiata perplessa. «Comincia ad andare che sei bianca come un cencio e con tutti gli straordinari che fai da casa il venerdì, quindici minuti non sono niente» mi rimprovera con il tono ma c’è comprensione e complicità nei suoi occhi. Una complicità che mi colpisce con il senso di colpa, dritta allo stomaco, peggiorando la situazione già piuttosto precaria della mia peristalsi.
Per un momento il senso del dovere ha quasi la meglio ma un nuovo spasmo mi fa desiderare una boccata d’aria fresca come… beh come una boccata d’aria fresca.
Afferro lo zainetto, ci ficco dentro la bottiglietta e mi avvicino alla scrivania di Nami. «Grazie» le scocco un bacio tra i capelli e sulla porta dell’openspace mi fermo a darne uno sulla guancia anche ad Usopp. «Ci vediamo dopo» li saluto entrambi e infilo il corridoio di gran carriera.
Raggiungo l’atrio a velocità supersonica, il sole comincia a scaldarmi che non sono ancora neanche fuori dall’edificio e il primo refolo di vento mi rigenera all’istante, calmando i crampi e la nausea. Il che si rivela un’arma a doppio taglio perché, tolta l’urgenza di rimettere, la sensazione che torna vivida e intensa nel mio addome è il senso di colpa.
Dovrei dirlo a Nami. Dovrei dirle di Zoro, che si comporta in modo strano, che l’ho beccato all’ospedale, che non sono così sicura che faccia davvero consegne a domicilio, anzi che sono praticamente certa che non le fa.   
Ma chi sono io per intromettermi così?
Se poi Nami non dovesse più riuscire a fidarsi di Zoro e davvero non era niente di grave? Se davvero Zoro avesse qualcosa e si stesse curando senza farglielo scoprire per non spaventarla?
Fintanto che non la ferisce, io non ho alcun diritto di mettermi in mezzo. E al tempo stesso lui non dovrebbe mentirle così o tacerle le proprie condizioni, per gravi che possano essere. Ma questo è il mio pensiero, non certo una legge scritta.
Dannazione, che cosa devo f…
«Koala?»
La voce è famigliare ma non riesco a collegarla a un viso nel breve tempo che mi serve per voltarmi verso di lei. Quando la metto a fuoco non capisco subito chi ho davanti e non perché non la riconosco.
È che non capisco, non ha senso che sia qui.
Eppure è qui, a due metri da me, e mi sorride.
«Bibi?»

 
§

 
Rallento e mi accosto al marciapiede, inserendo le quattro frecce. Il segnale luminoso lampeggia un paio di secondi prima che il cruscotto della Kabuto si spenga e torni immobile, obbligandomi a tirargli un pugno perché ricominci a fare il proprio lavoro.
Allungo il collo verso il negozio di spade, impaziente. Spero si dia una mossa, che già questa situazione non mi piace ci manca solo che rientro con un’ora di ritardo o che mi becco una multa per lui.
S-senza contare che se Nami mi d-dovesse scoprire…
Un brivido mi scuote all’idea. Non pensarci Usopp, non succederà tanto. Giusto?!
Stringo le mani sul volante e inspiro a fondo per calmarmi quando finalmente lo vedo uscire dal negozio, la testa verde che ruota intorno, alla ricerca della macchina. C’è un’altra vettura accostata al marciapiede dal lato opposto rispetto a me. Ora è vero che un maggiolone verde acido con il cofano bianco non passa facilmente inosservato ma è pur sempre di Zoro che parliamo e io ho pur sempre poco tempo.
Per cui…
«Zoro!» mi sporgo dal finestrino con il busto e mi sbraccio finché quella sua espressione da Moai non assume una parvenza di comprensione, segno che mi ha riconosciuto. Si affretta verso di me e io intanto mi rinfilo in macchina.
«Ohi» mi saluta, aprendo la portiera e comprimendosi sul sedile del passeggero. «Grazie Usopp, non sapevo proprio chi altro chiamare. Di solito mi accompagna Johnny nella pausa ma oggi c’era troppo lavoro e Torciglio non avrebbe mai tenuto il seg…» si blocca quando nota la mia espressione. «Beh?»
Lo fisso intensamente, tentando di fondere lui, quel suo cervello vuoto e forse anche la portiera del mio prezioso macinino. «Io non so cosa stai combinando Zoro» comincio piano e serissimo. «E ci hai preso, non sono Sanji. Ma Nami è la mia migliore amica» sobbalza, forse preso in contropiede dal vedermi così deciso. «Io ti accompagno dove devi andare ma quando hai finito mi spieghi cosa sta succedendo e io valuterò se coprirti o meno» apre bocca per replicare e io gli punto contro un dito. «Se non me lo dici stai pur certo che sarà la prima cosa che racconterò a Nami tornato al lavoro. Chiaro?!»
Non so cosa mi prenda, da dove arrivi tutta questa spavalderia ma si rivela decisamente a mio favore perché Zoro è così scioccato che non gli viene nemmeno in mente di minacciarmi o pestarmi.
Per fortuna.
Deglutisco a vuoto ma mantengo l’espressione dura e il dito rigido di fronte a me.
«D’accordo» afferma Zoro, con l’aria di pensare che sono un po’ esagerato.
Ma non sono affatto esagerato, non questa volta, non quando si parla della mia migliore amica, dannazione!
«Bene» annuisco e abbasso il dito ma, per buona misura, continuo a fissarlo minaccioso mentre giro le chiavi nel quadrante e metto in moto, staccando gli occhi da lui solo una volta che è ora di rimettermi in carreggiata.
 

 
***

 
Devo ammettere che lavorare con l’ufficio vuoto è incredibilmente produttivo. Purtroppo, devo anche ammettere che la colpa non è né di Usopp né di Koala. La colpa è mia che, quando ci sono loro, mi distraggo a chiacchierare.
Il bello di quello che faccio con Izou è che si riesce a essere molto produttivi anche chiacchierando. E non mi ero mai accorta di essere il tipo a cui piace chiacchierare lavorando e nemmeno di quanto sia distraente lavorare chiacchierando.
Fatto sta che, vista l’improvvisa illuminazione di oggi, mi conviene approfittare di questo momento di solitudine per dare il più possibile visto e considerato che, oltretutto, il tempo è denaro. E poi a me piace lavorare, no?!
Certo che mi piace!
Perciò Nami, rimboccati le maniche e al lav…  
«Nami?»
Oh che tu sia benedetto, chiunque tu sia!
«Sì?» sorrido al mio salvatore mentre alzo la testa dal piano da disegno. «Marco!»
Non riesco a contenere lo stupore e nemmeno un sorriso. Una parte di me vorrebbe mettere il broncio e fare la sostenuta, visto che sono settimane che non si fa vivo e ci evita come la peste. Ma è bello rivederlo, inutile negarlo.  
«Ehi, sei sola? Disturbo?» domanda, metà dentro e metà fuori dall’openspace. Sembra agitato e gli faccio cenno di entrare.
«Sì e no» rispondo, un filo perplessa, ma torno subito a sorridergli. «Siediti dai! Come stai?» cerco di nascondere come posso la preoccupazione e non c’è ombra di senso di colpa nella mia voce. Ho tentato di mettermi in contatto con lui in fondo. Non ha voluto saperne.
Si scompiglia i capelli con la mano – come se poi ce ne fosse bisogno – ed espira forte dal naso.
«Sto» ammette senza girarci intorno. E, diretto come sempre, aggiunge. «Ho saputo che stai aiutando Izou con il suo… progetto»
Mi irrigidisco. Continuo a sorridere ma ho percepito chiaramente qualcosa nel suo tono. Qualcosa di simile a fastidio.
«Sì» confermo mentre mi metto più dritta sulla sedia. Vorrei aggiungere dell’altro. Che Izou è bravissimo, pieno di talento, che gli serviva solo qualcuno che lo supportasse ma tutto suona come un’accusa più o meno velata e anche io sono sposata, so bene quanto sia poco corretto mettersi in mezzo in certe delicate situazioni.
Ma Marco non vuole proprio approfittare del mio raro slancio di diplomazia a quanto pare, perché, dopo essersi passato pollice e indice sugli occhi, mi punta con uno sguardo a dir poco accusatorio e con voce gutturale mi domanda: «Perché?» e in questo semplice “perché” c’è talmente tanto rimprovero che in un secondo il sorriso è scomparso per lasciare spazio all’omicidio.
«Prego?» lo sfido a richiedermelo, nello stesso modo e lui, purtroppo, accetta la sfida.
«Perché lo stai aiutando?»
Dilato appena gli occhi, come quando papà prova a rimproverarmi su cose che non lo riguardano più dal momento che non vivo più sotto il suo stesso tetto. «Perché è mio amico» sibilo lenta.
Che razza di domanda è? Che problema ha?
«Se davvero sei sua amica, smetti di aiutarlo» suona quasi come un ordine, che mi obbliga a inalare rumorosamente, un verso decisamente poco femminile.
No sul serio. Che.Problema.Ha?!
«Marco, con il dovuto rispetto perché parliamo di tuo marito, io faccio quello che mi pare, soprattutto se si tratta dei miei amici che, per di più, alloggiano a casa mia» 
Mi fissa un lungo attimo, sospira. «Nami, per favore…»
«Oh adesso chiedi per favore?» lo interrompo, ormai furente. «Ma lo sai che da quando siete tornati dal viaggio di nozze non hai avuto nemmeno la decenza di farti vivo? Con me, ma posso anche passarci sopra, ma con lui dannazione!»
«È Izou che se n’è andato di casa» ribatte a mento alto, in apparenza intoccato dalle mie parole.
«Perché qualcuno gli ha fatto credere che non potesse aspirare a nient’altro che al reparto stampanti della I&Co» non mi tengo più.
Se l’è cercata. Scompare per settimane, ignora messaggi e chiamate, ignora suo marito e adesso piomba qui a farmi la ramanzina? Eh no, bello mio, te non hai capito con chi hai a che fare!
«Ho avuto le mie buone ragioni»
«Aveva solo bisogno di supporto, Marco!» esplodo. Per un momento mi sembra di risentire me e Zoro due mesi fa, la lite riguardo al suo rifiuto per quel posto come istruttore al dojo. Sembra una situazione speculare, questa, ma le “buone ragioni” alla fine le hanno sempre loro che non si fanno sopraffare dalle emozioni, giusto? Perché loro sono quelli razionali e, di conseguenza, non sbagliano mai, vero?!
La differenza è che qui Marco vuole decidere per Izou e che io, alla fine, Zoro l’ho appoggiato anche se non ero d’accordo. Purché fosse felice, perché è questo il senso di un matrimonio e scegliersi per la vita, miseria ladra!
«Aveva solo bisogno di qualcuno che credesse in lui, che gli facesse sentire che poteva essere qualcosa di più, pazienza se non è vero! Avrebbe rinunciato sai? Se fossi stato un pelo più furbo e gli fossi rimasto accanto, avrebbe rinunciato per mancanza di tempo e tecnica. E invece è venuto da me e, ops, guarda un po’, io so cucire. E siccome la persona che avrebbe dovuto farlo sentire capace e speciale gli ha indirettamente dato dell’ordinario e del sognatore folle, quello che ho potuto e voluto fare io è stato dimostrargli concretamente che non è così. E non mi pento di avergli insegnato a cucire né smetterò di farlo perché me lo chiedi tu!»
«Io non ho detto che non devi insegnarli a cucire, io…»
«Tu non vuoi che partecipi al concorso, mi è chiaro!» lo interrompo, non riesco a contenermi. Se penso a quanto stava male i primi giorni, mi si stringe ancora il cuore. «Ma qual è il tuo problema? E non venirmi a dire che è per il lato economico, so benissimo che continua a versare la sua parte per l’affitto anche se vive da noi»
Ma Marco è peggio di Zoro, forse anche peggio di Law. Non si fa smuovere, non da segni di avere incassato i colpi che gli tiro, non risponde.
E allora parlo io, parlo per colmare il silenzio ma anche e soprattutto per Izou, per il male che questa situazione ancora gli fa.
«Ha ventinove anni, è normale che metta in discussione il suo futuro e ciò che vuole fare. Voleva solo mettersi in gioco, porca miseria! Sentirsi elettrizzato e vivo da una nuova avventura, cosa ti costava, Marco? Cosa ti costava accettarlo per quello che è? Non può vincere, non c’è la più remota possibilità, è solo un gioco e aveva solo bisogno che suo marito gli restas…»
«È proprio questo il punto!» si sblocca finalmente Marco. Si sblocca con un pugno alla scrivania che mi fa sobbalzare.
Lo fisso incerta, incredula, basita.      
«Lui può vincere, Nami! Lui vincerà!»
Le mani gli tremano ma non di rabbia. Sembra stia cercando di trattenere qualcosa tanto stringe, ma quel qualcosa gli sfugge comunque tra le dita.
«Mia sorella Bay, ti ricordi che lavora per quella rivista di moda? Ha visto i vestiti di Izou ed è rimasta senza parole. Ha detto che sono rivoluzionari, che una cosa del genere attirerebbe l’attenzione persino se venisse presentata alla settimana della moda di Marijoah, in mezzo a collezioni di professionisti. Figurati al concorso della Baroque Works dove sono tutti esordienti» si decide finalmente a parlare e io, finalmente, capisco.
«Oh mio dio…» e avrei preferito non capire, lo ammetto. «Tu non vuoi che vinca, è questo il tuo problema!»
«Nami ascolta…»
«Che cosa ti aspettavi? Che dopo il matrimonio si annullasse per te?»
«Nami tu non sai cos’ha vissuto Izou prima che arrivassi io!»
Mi alzo in piedi, furibonda. «Marco…»
«Tu mi chiedi perché non posso accettarlo per quello che è ma non sai niente» si alza in piedi anche lui, muovendo un passo verso di me. «Non sai di cosa stai parlando. Per lui è sempre stato un inferno, ogni volta che ha cambiato. Lo sai quando si è annullato davvero? Al liceo e quando ha iniziato a lavorare qui. E ho dovuto farglielo promettere, se voleva davvero stare con me, gli ho fatto promettere che avrebbe ricominciato a essere se stesso. L’Izou che conosci tu non è quello che ho conosciuto io, chiaro? E se cambia, per un ambiente così competitivo poi… Bay me lo ha detto chiaramente, è malsano. Se ne fanno di tutti i colori, si distruggono a vicenda. Non voglio questo per lui!»
Avanzo a mia volta verso di lui, lo spazio qui è talmente poco che ormai siamo uno di fronte all’altra.
«L’Izou che hai conosciuto tu aveva ventidue anni. Era un bambino»
«Non è questo…»
«E allora cosa? Che non c’era Super Marco-chan a salvarlo?» e mi rendo conto di suonare cattiva, di suonare ingiusta. 
«E se fosse davvero quello il nocciolo della questione?»
«Stai scherzando, sì?» sibilo, le mani sui fianchi.
«Se lui vince io non ci potrò essere, non potrò esserci per lui!» sbotta alla fine e io rimango in silenzio un lungo istante.
Non perché sia evento raro che Marco sbotti – anche se lo è – ma perché sto metabolizzando appieno le sue ultime parole. E quando finisco di farlo sono mortalmente calma.
«Ah» commento, tornando verso il piano da disegno per appoggiarmici di schiena. «Perché, ovviamente, nel caso non sarebbe contemplato che tu ti trasferissi a Marijoah con Izou, giusto?» riporto gli occhi su di lui e ora non me ne frega più niente di apparire e suonare accusatoria e cattiva. Ingiusta, sono certa di non esserlo comunque. «Tu qui hai il tuo bel posto di lavoro che tanto ti piace e non sia mai che lo lasci»
Marco sgrana gli occhi. «Che…»
«Ti sei mai fermato a pensare che Izou qui non avrà mai una qualche gratifica a livello lavorativo perché il solo posto che potrebbero dargli per promozione è il tuo? Sei diventato responsabile del reparto a ventotto anni, Tom, da che so io, è andato in pensione a settanta suonati. Izou ha tutte le carte, l’esperienza e l’età per quella posizione ma c’è solo un dettaglio. Ci sei tu che la occupi e la occuperai per i prossimi trentacinque anni e sai una cosa?! A Izou non frega niente! Perché è un lavoro che ami e finché ti vede felice non gli frega niente di non poter avere una promozione perché tanto ha te! Ma non sia mai che si possa desiderare anche qualcos’altro oltre a Marco-chan» porto le mani ai lati del viso in un falso segno di resa.
«Io non ho mai detto questo»
«Quello che tu non hai mai fatto, Marco, è renderti conto di quanto sei fondamentale per Izou. E quando lo capirai, quando capirai che per lui non c’è una vita contemplabile senza di te, quando ti accorgerai che con te accanto può sopportare e affrontare tutto allora riuscirai a farlo tornare a casa» faccio il giro e torno a sedermi  sulla mia preziosa sedia ergonomica e arancione mandarino. «Ora però, se non ti spiace, devo lavorare» lo congedo, il tono freddo quanto il mio sguardo.
Torna subito impassibile, non darà certo a vedere quanto le mie parole lo hanno colpito più di quanto non abbia già fatto. E infatti è senza una parola che mi volta la schiena per andarsene ma si immobilizza un attimo ancora quando aggiungo: «Voleva solo una gratificazione» ma è solo un attimo, prima che ritrovi la coordinazione motoria e lasci l’openspace senza un ripensamento né un saluto.
Solo il rumore del mio respiro grosso risuona nell’ufficio vuoto. Poi il mio pugno entra in collisione con il piano da disegno e matite, gomme e carboncino volano in ogni direzione, cadendo a terra con lieve clangore.
«Voleva solo una gratificazione» bisbiglio ancora, a nessuno. «Una gratificazione da te»

 
***

 
Ogni quartiere di Raftel ha un parco e in ogni parco di ogni quartiere di Raftel, prima o dopo, qualcuno apre un bar o una caffetteria.
Alcuni sono semplici chioschetti, stagionali e non, – come l'Octopus –, altri sono vere e proprie tavole calde che in estate fanno il tutto esaurito a ogni pranzo e aperitivo. Il Momoiro, ubicato nel parco Acacia di fronte alla sede della I&Co, appartiene alla seconda categoria e, per quanto non sia il mio preferito, mi considero fortunata ad aver trovato un tavolo per due senza prenotazione, in ora di punta.
Il nauseante accostamento di fucsia acceso e verde mela e i pizzi e i merletti, che decorano il mobilio shabby chic del locale, sono facilmente tollerabili all'esterno, limitati al tendone che mantiene i dehors all'ombra, ai discutibili portatovaglioli e alle tovagliette usa e getta.
Non che ci avrei fatto molto caso, comunque. La mia attenzione ai dettagli è semplice deformazione professionale, l'abitudine e la necessità di eliminare dal quadro tutto ciò che può ferire l'occhio, la sfida a ogni nuova campagna di trovare la più accattivante soluzione verbale e figurativa per attrarre la mente e calamitare lo sguardo.
Soprattutto quando la causa è pro-bono.
Oggi, tuttavia, nemmeno se la mia stessa carriera dipendesse dall'estetica del Momoiro, potrebbe importarmene un fico secco. Non con ciò che è seduto di fronte a me.
Esteticamente non ha niente fuori posto. I capelli turchesi si sposano cromaticamente senza difetto con gli occhi neri e la carnagione chiara ma non pallida. Labbra e sopracciglia perfette, sorriso dolce e naturale.
No, Bibi non ha assolutamente niente che non vada. Guardarla non ferisce l'occhio e uno sguardo è più che sufficiente per restare folgorati.
Forse anche qualcosa di più che folgorati.
La sola cosa che mi risulta dissonante è la sua ubicazione logistica. Per quanto io viva di immaginazione, non so spiegare perché sia qui. Per quanto sia davvero felice di vedere la mia vecchia amica, nonché mia collaboratrice nella prima campagna raccolta fondi targata Emporio Ivankov, per quanto io voglia aggiornamenti su di lei, il quesito mi tormenta.
Come mai è a Raftel? E come mai la cosa mi agita tanto?
Ci siamo perse di vista nei mesi scorsi ma non per questo siamo in cattivi rapporti. Siamo rimaste in stretto contatto per un intero anno e mezzo a seguito dell'estate di tre anni fa, anche ben dopo la fine della campagna per la bonifica dell'oasi di Yuba.
«Incredibile che tu sia uscita dal palazzo un attimo prima che entrassi. Rischiavo di mancarti per un soffio!» esclama, cristallina come l'acqua che sta versando prima nel mio e poi nel suo bicchiere, inclinando il polso con classe.
«Vero?!» sorrido a mia volta, prima di prendere un sorso per calmare gli spasmi, di nuovo alla carica. Non riesco a trattenere una smorfia mentre riappoggio il bicchiere. «Avrò le nausee telepatiche»
«Nausee?» domanda Bibi, con stupore, e io mi pietrifico per un momento con la mano ancora stretta sul vetro.
Voglio credere di averlo detto così, senza pensare, perché sono tanto a mio agio con lei da parlarne con naturalezza. Voglio crederlo, ma il dubbio che sia il mio subconscio che informa l'ex futura moglie del padre di mio figlio sull’attuale stato della nostra famiglia non è da poco.
E io non sono così, non sono un'insicura possessiva, ma qualcosa mi turba della sua presenza in città. Se solo capissi cosa, sarebbe più semplice.
«Koala» socchiude gli occhi, sempre sorridente. «Sei incinta?» 
Gli occhi mi si illuminano da soli. Lo so perché mi accade ogni volta che me lo chiedono, lo capisco da come Bibi sgrana i suoi e apre la bocca in un respiro sorpreso. «Oh mio dio! Ma veramente?»
«È stato un gigantesco fuori programma» rido e scuoto il capo, distolgo gli occhi per un attimo. È la prima volta che lo ammetto, perché lei è l'unica che capisce davvero questa frase.
«Cielo, sarà uscito di testa» commenta infatti subito, lo sguardo carico di comprensione.
«Non me ne parlare!» mi sporgo in avanti e appoggio i gomiti sul tavolo, stropicciandomi il viso con entrambi le mani. «E poi la mia medicina per il cuore non era compatibile per una gravidanza, abbiamo rischiato di dover valutare l'interruzione volontaria...» le racconto.
Le racconto tutto, a lei che tanto bene lo conosce. Non come me, certamente non più di me ma comunque abbastanza da capirmi, almeno in quegli aspetti che riguardano la vita di coppia.
Alla fine, a un certo punto, ci ritroviamo a ridere a pieni polmoni, non so nemmeno io per cosa.
«Oh cavolo!» inspira forte Bibi per calmarsi, mentre si asciuga una lacrima di divertimento. «Ma sei felice vero?» mi chiede, spiazzandomi per un attimo abbastanza lungo da aggiungere: «Siete felici?»
Sospiro appena. «Non so nemmeno dirti quanto» ammetto, sincera, e non è per arroganza che so che sto parlando anche per Law.
Abbasso gli occhi sul mio piatto e giocherello con due foglie di spinacino prima di decidermi a porle la domanda che tanto mi pressa ma, ancora una volta, mi precede e spiazza.
«E Sabo sta meglio»
Non è una domanda e il cuore mi perde un paio di battiti. La guardo di sottecchi, attenta. Allerta.
«Lo hai visto?»
Dì di no, dì di no per favore!
Ma lei annuisce, un gelo di orrore mi prende lo stomaco, e capisco finalmente cosa mi turba tanto. «Non sapevo lavorasse al Castello, non mi aspettavo di trovarlo lì»
«Sei andata al Castello?» un nuovo mistero delle sue intenzioni che però passa momentaneamente in secondo piano.
Non voglio. Non voglio che succeda questo, che lo faccia di nuovo. È stato così male che se ci penso la mia anima ancora protesta, non è giusto che ora che sta ritrovando un equilibrio lei lo destabilizzi così. E mi rendo conto di quanto è egoista e, per quanto ne so, Sabo potrebbe anche essere stato felice di rivederla, per quanto ne so, Sabo potrebbe essere ancora innamorato e voler riprovare. Ed è proprio questo il punto, e io non voglio perché c’è anche il cuore di qualcun altro in gioco adesso.
«Mi è sembrato felice con lei»
Sollevo di più il capo, mi stiro per bene con la schiena. «Anche io credo che sia felice con lei. Non so se se ne sia già accorto ma lo credo davvero»  
Non mi serve aggiungere altro, Bibi capisce cosa le sto dicendo. Lo capisce perché io e Bibi ci siamo sempre comprese con uno sguardo e perché, come con Law, anche Sabo lo conosciamo bene tutte e due.
«Come ha reagito quando ti ha visto?» indago, cercando di apparire indifferente. Non credo di riuscirci ma che importanza ha? È di mio fratello che parliamo, non è come se non possa capire, anche Pell si è preso una brutta tranvata l’anno scorso.
«Non mi ha visto» scuote il capo. «Non mi sono fatta vedere quando mi sono accorta che c’era anche lui. Ma si vede anche da un chilometro che sta bene. Che stanno bene, anche se fingono di essere solo amici» mi rassicura. So che sa che mi sta rassicurando, anche se non voglio trattarla come una nemica. «La capisco, sai? La tua reazione dico»
Sussulto dentro, mio malgrado.  
«Ho messo consapevolmente il mio lavoro davanti a lui e non mi sono decisa subito a parlargli quando mi sono accorta che non poteva funzionare. Pensavo ci potessimo provare ancora un altro po’, vedere se si sistemavano le cose. Ma poi l’ho dovuto accettare. Non lo amavo più»
La morsa allo stomaco molla il colpo, espiro sollevata, il mio sguardo torna quello di sempre, limpido e affettuoso. Mi lascio andare contro lo schienale, grata. Le sono grata per essere così sincera con me.
Non mi fa piacere sentire di come la storia più importante di Sabo sia andata in frantumi, insieme al suo cuore. Non mi fa bene. Ma mi fa bene ritrovare quell’amica che non mi ha mai nascosto nulla, mi fa bene la sua onestà. Mi fa bene sapere che lo lascerà andare, che lo ha già lasciato andare.
«Come mai eri al Castello?» le chiedo, curiosa e molto più rilassata. Stavolta non è un tentativo di indagare.
«Cercavo Law» allunga una mano verso la sua borsa. «Mi serve la sua firma su questi fogli» estrae una cartellina azzurra ma si ferma con l’incarto metà dentro e metà fuori e mi lancia un sorriso strano per lei, un sorriso quasi malizioso. «E poi ero curiosa di vedere come stanno usando i soldi di papà»
Mi acciglio. “I soldi di papà”?
Mi sforzo di ricordare ma sono piuttosto certa di non aver mai visto nessuna donazione a nome Nefertari Cobra e, certo, non che io ricordi a memoria tutte le donazioni ma il suo nome mi sarebbe saltato all’occhio.
«Ma quando…» faccio per chiedere prima che l’illuminazione mi colga. Dilato gli occhi, la guardo sorpresa. «È lui l’Angelo Custode?» sussurro e Bibi ride.
«Se è così che chiamate il donatore anonimo allora sì, è lui»
«Bibi ma versa sempre un sacco di soldi!» esclamo e mi sporgo verso di lei.
Bibi si stringe nelle spalle. «Sapete come usarli. È un posto meraviglioso, non sembra nemmeno un ospedale» so che è un complimento anche per me e il cuore mi si scalda. «Comunque, il motivo per cui sono venuta fin qui, era per chiederti questo favore» riprende, finendo di estrarre la cartellina per allungarla. «Sono tre moduli, mi serve la firma di Law e poi me li potete mandare scannerizzati, se non è un disturbo» apro il cartoncino azzurro e faccio per mettermi a studiare ciò che contiene. «Ad Alabasta la richiesta di matrimonio non scade. Bisogna fare una richiesta di annullamento se non ci si sposa o viene considerata in sospeso, ma per poterla inoltrare devono essere firmati da entrambi»
«Aspetta ma...» rifletto un millesimo di secondo «...vieni da noi stasera a cena, scusa»
Tanto Sabo sarà sicuramente da Ishley, ormai da casa passa solo per cambiarsi.
«Law sicuramente sarà contento di vederti» sorrido convinta ma purtroppo Bibi scuote il capo.
«Ho il volo di rientro alle diciotto. Finito qui con te devo passare in albergo a prendere la valigia e poi andare all'aeroporto, ho già prenotato il taxi per le tre e mezza»
Sto per dirle che è un peccato che non abbia avvisato e che, a saperlo, qualcuno di noi l'avrebbe sicuramente portata al Tontatta ma oggi sembriamo avere una connessione telepatica che non ha nulla a che vedere con le mia nausee. ­
«È colpa mia, dovevo avvisare. Avrei saputo che Sabo lavorava al Castello e sarei riuscita a incontrare Law. Di passare a salutarti ne avevo l'intenzione in ogni caso» fa roteare appena il bicchiere, provocando uno scoppio di bollicine contro il vetro. «Domani sera abbiamo una serata di beneficenza e devo essere riposata ma volevo risolvere questa questione o sarebbe ritornata in fondo alla lista delle cose da fare e anche Koza era d’accordo…» è il suo turno di bloccarsi e realizzare di aver parlato troppo a ruota libera. Se sia per il troppo agio in mia compagnia o il subconscio che vuole confessarmi tutto, anche qui non è dato saperlo.
Arrossisce, questo è certo, e distoglie gli occhi quando io socchiudo i miei con un sorriso curioso. «Koza?»
«Ah» mormora, passandosi una mano sul volto. «È solo… solo un mio am…»
«A-ah, sì, certo» la interrompo. «Posso ben immaginare come “solo un amico” possa suscitare l’impellente bisogno di annullare una richiesta di matrimonio di cui non ti ricordavi neanche più»
Mi guarda di sottecchi, in evidente difficoltà. «L’ho conosciuto a una campagna. E io… è poco che ci frequentiamo, è stato dopo Sabo» si affretta a mettere in chiaro. Distoglie ancora lo sguardo e si passa una mano tra i capelli. «So che avete passato tutti un incubo per colpa mia. E ora me ne arrivo qui con affrettate e stupide fantasie su un tizio che conosco da tipo tre giorni e…» tartaglia e sussulta appena quando mi allungo ad afferrarle la mano. Si rigira a guardare confusa le mie dita che accarezzano il suo dorso.
Confusa e felice.
«Il fatto di volere il bene di Sabo, il fatto che sia per me prioritario in questo particolare momento, non significa che non possa essere felice per la mia amica» metto in chiaro, guardandola seria nonostante il sorriso.
Bibi trattiene il fiato, lo sguardo lucido e arrossato, e poi sbuffa e rotea gli occhi al cielo per ricacciare indietro le lacrime e io stringo un po’ più forte.
Ma cosa pensavi? Che fosse tutto finito perché ti sei disinnamorata di mio fratello?
«Allora, questo Koza?» 
Mi osserva ancora un momento, ancora incerta, poi prende un profondo respiro e gira la mano per incastrarla con la mia. «Come ti dicevo, l’ho conosciuto durante una campagna…»
Mi riaccomodo contro lo schienale, senza ritrarre il braccio, e ascolto attenta Bibi che racconta.
Che mi racconta ogni cosa.
 

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Si ringrazia Jules per la consulenza medica e non solo.
Hope you'll enjoy it e buona lettura.
 Page. 
 







Il giorno dell’inaugurazione del Castello si annovera senz’altro tra gli eventi più caotici e cacofonici della mia vita. Come spesso accade, ricordo meglio la serie di folli e sfortunati eventi che si susseguirono quel giorno – dalla macchina inchiodata fuori casa per colpa di un fusibile, fino all’epico crollo della torta a piani – di tanti altri aneddoti positivi che mi sono capitati.
Ma ciò non toglie che sia stato anche uno dei giorni più belli della mia vita, e nella mia mente sono marchiati a fuoco anche gli attimi belli e commoventi di quella giornata, primo fra tutti il discorso di Cora.
Credo che, sforzandomi, riuscirei persino a ricordarlo a memoria ma ciò che contava davvero era il nocciolo della sua orazione, il suo significato, la sua anima più profonda. Il Castello sarebbe stato molto più che un ospedale. Sarebbe stato una fortezza dove proteggere l’infanzia e l’innocenza dei suoi pazienti, un luogo dove combattere la morte con il suo esatto contrario. La vita.
E, detto fatto, il Castello è davvero così. Un luogo colorato, allegro, brulicante di speranza e di vita. L’opposto di quel che si immagina quando si dice la parola “ospedale”.
Stamattina mi vedo costretta a ritrattare questa mia ultima convinzione. Dall’ultima volta che sono venuta al Kyros Memorial di Raftel, è passato quella quantità di tempo tale da ricordare dove si trova ogni cosa, dai reparti alle macchinette del caffè, dai bagni di servizio alle astanterie, ma da aver dimenticato com’è l’impatto entrandoci.
Anche qui la vita brulica ma non di certo come Cora intendeva nel suo discorso. Qui sembra di stare in un formicaio tanto è tutto frenetico. Gente che va e viene senza neanche guardare dove cammina, vociare di sottofondo, annunci dagli altoparlanti. Si respira ossigeno e stress, si rilascia anidride carbonica e ansia.
Non me lo ricordavo così!
Scuoto appena il capo. Beh non è un mio problema, in realtà, io non lavoro qui, ma non è che l’idea di esserci come paziente sia molto confortante, anzi.
Mi aggrappo alle maniglie del sacchetto di carta che tengo in mano e mi decido ad attraversare il triage, diretta verso l’infermiera che si trova al posto un tempo di Praline. È una tipa particolare, Il viso è bello ma le orecchie sono un po’ sproporzionate, i capelli metà neri e metà bianchi. A pelle, non mi da una bella sensazione e quando sorride falsamente all’omone corpulento davanti a me rimango sconcertata. Non so come sia possibile ma, improvvisamente, al posto della sua faccia sembra esserci il muso di un cavallo.
L’armadio si sposta ciondolando, segno che è giunto il mio turno e, con un altro respiro e un sorriso abbozzato mi avvicino al bancone.
«Buongiorno» saluto gentile ma l’infermiera neanche mi guarda, gli occhi fissi al monitor del pc, lo sguardo annoiato. «Ehm…» tentenno e mi sporgo un pelo in avanti. Forse non mi ha sentito. «Buong…»
«Ti ho sentito cara» mi interrompe, la voce nasale. «Serve aiuto?»
Sì, sprizza proprio simpatia da tutti i pori.
Mi schiarisco la gola e mi impongo di restare calma. Innervosirmi per una persona poco educata non mi aiuterà a risolvere il mio problema. Trovare Bonney in fretta, invece, forse sì.
«Cerco la dottoressa Jewelry, mi sta aspettando»
«Nome?» domanda ancora, sempre più annoiata, sempre più nasale.
Socchiudo gli occhi.
Ma dannazione!  Ma fa fatica a staccare gli occhi dal monitor?!
Stai calma, stai calma. Non lasciare che il nervoso abbia la meglio.
Armata di autocontrollo, rispondo un piatto: «Ishley Habena»
L’espressione dell’infermiera non cambia, in apparenza continua a fare ciò che stava facendo anche prima ma mi impongo di attendere. Sono piuttosto certa che abbia sentito e, d’altro canto, con quelle parabole al posto delle orecchie non vedo come potrebbe essere diversamente.
Probabilmente capta anche gli ultrasuoni.
Oh Ish, da quando sei così acida? Sapevo che frequentare Praline non mi faceva bene.  
«Io non vedo nessuna Ishley Habena tra gli appuntamenti della dottoressa Jewelry» mi comunica dopo un attesa che a me pare infinita e il primo sbalzo schizofrenico d’umore della giornata mi coglie, spedendomi dritta dritta nel mondo del disagio. Sì, perché in effetti io non ho un appuntamento con Bonney. In effetti, e non ne vado fiera, l’ho chiamata solo ieri, aggirando in blocco il sistema sanitario nazionale, e le ho chiesto se riusciva a inserirmi per una TAC al più presto.
“Domattina, Bimba. Occupiamo la macchina di nascosto però tu ricordati i cornetti”
Non è così che funziona. C’è una lista d’attesa, delle visite preliminari da fare, un parere medico da ottenere. La TAC non è gratis per l’ospedale e non è lì a disposizione della prima ex studentessa che passa. Davvero, non ne vado fiera, ma era un’emergenza. È un’emergenza.
Qualcosa non va, so che qualcosa non va, anche se ho cercato di ignorarlo per due settimane. Da bravo medico, in fondo, sono un pessimo paziente e quando sono scesa a patti con la realtà che, appunto, qualcosa nella mia testa non va, ho ritenuto opportuno metterci una pezza al più presto.
Quando ieri mattina mi sono accorta che non sapevo più che malattia avesse chi tra Dolan e Braham mentre aggiornavo le loro terapie, ho capito che non potevo continuare a ignorare quello che mi sta succedendo.
Credevo fosse stanchezza. Volevo fosse stanchezza e incolpavo la mia ritrovata attività sessuale ma nel profondo ho sempre saputo che non reggeva, non per una come me che, purtroppo o per fortuna, funziona anche con cinque ore di sonno in corpo.
E se anche non fosse, le poche ore di sonno non basterebbero a spiegare perché sempre più spesso comincio a fare una cosa e mi ritrovo a farne un’altra senza sapere come e come mai combino danni anche nelle attività più basilari, convinta però di aver fatto tutto secondo il corretto schema finché il danno non si palesa.
Non è una situazione compatibile con il mio lavoro e soprattutto l’angoscia che mi provoca non è compatibile con la vita. Ne ho già viste tante e studiate anche troppo per non preoccuparmi e anche se so che può succedere a chiunque, anche se dovrei prenderla con stoicismo, anche se è infantile e per niente lusinghiero per un medico fare i capricci su una cosa del genere, non voglio avere qualcosa al cervello. Non proprio ora che sono così felice.
Anche se dopotutto non è detto che io abbia qualcosa, no? Dovrei solo stare calma e fare questo controllo prima di cominciare a viaggiare con la mente e farmi chissà che idee sbagliate e poi anche se fosse qualcosa non è detto che sia grave o senza soluzione e… ora Ishley, datti una calmata!
La prima cosa da fare è trovare Bonney.
«Non ho detto che ho un appuntamento, ho detto che mi sta aspettando» non mi faccio sfuggire l’occasione di sottilizzare con l’infermiera sulle sue pessime capacità comunicative e di ascolto.
«E allora perché non ha un appuntamento?» incrocia le braccia sotto il seno lei e si lascia andare contro lo schienale della sua sedia.
«Sono una sua amica e anche una ex collega»
Più o meno. Ero ancora studentessa ma ho comunque lavorato un anno gomito a gomito con i medici del Kyros. «Ho fatto il tirocinio pre-laurea qui» decido di chiarire.
Quella mi fissa – incredibile, si è girata a guardarmi! – e poi scoppia a ridere. E giuro, non esagero, sembra un nitrito.
La osservo spaesata, non so se per il fatto che stia ridendo o per la risata o per come le si deforma la faccia quando ride. Non riesco nemmeno a offendermi per il fatto che mi sta prendendo in giro tanto sono sconcertata, almeno finché non torna seria e commenta: «E tu saresti un medico? Ma avrai sedici anni!»
Che?!
Sì, okay, so di sembrare molto più piccola di quello che sono, me lo dicono tutti ma, a parte che sedici anni?! Sul serio?!, ma poi sì, certo che sono un medico!
Perché dovrei inventarmelo?!
«Mi scusi…» comincio, qualunque filtro mi sia imposta pronto a scoppiare.
Sono tesa come una corda di violino, potrei avere un tumore al cervello e devo darmi una mossa se voglio evitare un terzo grado di Praline. Non ne ho più.
«Ish!» mi giro di scatto, gli occhi che ancora grondano di omicidio, abbastanza da farlo indietreggiare appena. «E-ehi!» mi sorride, cauto e incerto e sposta gli occhi sull’infermiera, scrutandola un momento. «Tutto a posto?»
«Dottor Haruto!» nitrisc… ehm esclama con occhi adoranti l’infermiera.
Oh mio dio ma non sta bene. Non sta bene per niente.
«Speed, lei è con me. Bonney la sta aspettando» prende in mano la situazione Pen e, oh mio eroe, come vorrei gettargli le braccia al collo ma mi do un contegno.
«Ma certo dottor Haruto» annuisce Speed e io prego che smetta di sorridere perché fatico a staccare gli occhi da quella dentatura.
«Vieni andiamo» mi invita Pen, prendendomi per un gomito per guidarmi agli ascensori.
«Ma che le hai fatto?» domando e inciampo nei miei piedi per cercare di captare ancora un’occhiata del coma glicemico della simpatica infermiera.
«Non ne ho idea, era antipatica da morire anche con me prima, poi un giorno le ho offerto uno spiedino di dango e ora… beh è così» indica con la mano verso l’accettazione che scompare alla vista man mano che le porte dell’ascensore si chiudono.
I rumori di sottofondo scompaiono, resta solo il silenzioso lavorio dei cilindri che ci trasportano giù al meno due e, soprattutto, restiamo soli io e Pen.
«Ehi bentornata» ammicca, senza alcun secondo fine, senza malizia, semplicemente lui è così.
Sorrido felice, mi sento molto più a casa adesso. «Ciao!» rispondo, come se lo vedessi ora all’improvviso, e mi tiro sulle punte per abbracciarlo. Il sacchetto penzola dal mio polso e gli batte sulla schiena e lui cerca di guardare oltre la propria spalla mentre è ancora stretto a me. 
«Sono cornetti?» domanda, speranzoso. Sa che devo vedere Bonney e quindi non fatica a indovinare.
«Precisamente» sollevo un sopracciglio con uno sguardo di intesa.
«Appena in tempo per il caffè» mi fa l’occhiolino. «Che donna da sposare»
«Seh seh» mi giro verso le porte quando mi accorgo che l’ascensore sta rallentando. «Lamy ti evira se ti sente»
Anche Pen si gira e, evocativo, si afferra il polso della sinistra con la destra, incrociando le mani proprio davanti al cavallo dei pantaloni «Mi ha già quasi evirato stanotte ma non in senso brutto» commenta, gli occhi puntati sullo schermo che tiene il conto dei piani e io scoppio a ridere e scuoto il capo. È arrivato lui e l’ansia è già scomparsa. Quella nell’atmosfera, intendo, non quella che provo io, purtroppo.
Le porte si aprono con un trillo, Pen mi fa segno di uscire per prima da vero galantuomo e mi affianca in un passo. «Bonney ti sta già aspettando alla TAC» mi avvisa. «Stiamo portando avanti uno studio insieme e devo catalogare alcuni dati, però se non vuoi che sto lì anche io posso prendere il materiale e andarmene» mi guarda di striscio.
«Ma ti pare?» mi acciglio. «Non è assolutamente un problema» scrollo le spalle, cercando di apparire calma e a mio agio con ciò che sto per fare.
La verità è che se saltasse fuori qualcosa non so se avrei il coraggio di dirlo a qualcuno fuori di qui e l’idea di avere almeno due amici a supportarmi è un sollievo.
«E quindi…» fa scivolare le mani in tasca con fare noncurante. «…Law che dice di questo controllo?»
Le guance mi pizzicano e si scaldano. «Oh. Ahhh… Law non sa nulla» sorrido. «Sai è già molto preso con Koala e il Castello e… e Koala…» le parole scivolano sulla lingua mentre abbasso gli occhi. Pen si ferma di fronte a me, a pochi passi dalla area “rischio radiazioni”, mi studia attento attraverso due ciocche rosse che gli cadono davanti agli occhi, con quella sua aria da fratello maggiore comprensivo che mi fa venire voglia di farmi abbracciare e cullare come se avessi ancora cinque anni e i mostri sotto al letto.
«Ish, io non so cosa sta succedendo né perché hai chiesto questo controllo ma se non stai bene devi dirglielo»
«Lo so…» mi scosto i capelli dal viso. «Non… non so se è qualcosa Pen»
Pen mi sorride incoraggiante e tende una mano verso la spessa porta. «Allora cominciamo a scoprire ques… Ouch!» mugugna di dolore quando la porta si spalanca con forza inaudita e lo prende in piena faccia.
«E insomma ma dov’è finita?!» mastica una nuova voce famigliare mentre Bonney esce dall’area “rischio radiazioni” a passo di carica. Mi vede, si blocca, si illumina. «Bimba! Finalmente!» si lancia verso di me e mi abbraccia, sollevandomi da terra. «Stavo venendo a cercarti!»
«Mi spiace, l’infermiera all’accettazione…»
«Sì, c’ha una scopa infilata nel culo, quella, lasciala perdere» mormora omicida mentre mi riappoggia a terra e subito torna a sorridere. «Come stai? Guarda quanto sei bella. Sei sempre etero?» domanda, tanto per stare sicura, e ammicca maliziosa.
«Sì, Bon, sempre etero» annuisco con finta mortificazione.
«Che sfiga nera» schiocca la lingua e gira lo sguardo, accorgendosi di Pen che mugugna con le mani a coppa sul naso. Corruga le sopracciglia e lo studia un istante, mani sui fianchi, gambe divaricate. «Ma che hai fatto?»
«Sentutoterpillar*!» protesta Pen.
«Eh? Tu hai capito che ha detto?»
«No, ma credo che possa servirgli un tamp…»
«Sì, sì certo» mi interrompe Bonney, posandomi un braccio sulla spalla per guidarmi verso la sala della TAC. «Spero che in quel sacchetto ci sia qualcosa di edibile»
«Sì, io…» rispondo un po’ distratta a controllare che Pen stia bene ci stia seguendo, come effettivamente fa, mentre si stinge forte il ponte del naso, il capo all’indietro, per bloccare un’epistassi a occhio piuttosto lieve, per fortuna. «…ho portato i cornetti»
«Fantastico!» esulta prima di premere il naso contro la mia tempia per parlare al mio orecchio. «Anche se vorrei mangiare te, altro che i corn…»
«Etero, Bon» le ricordo, in tutta calma.
Bonney sbuffa. «Ma neanche un po’ di sperimentazione?!» protesta ma lascia subito perdere. «Allora, Bimba, che succede? Come mai questo controllo?»
Lascio spenzolare il sacchetto dei cornetti al mio fianco qualche istante, mentre racimolo le forze per affrontare questo ignoto problema che tanto mi sta spaventando. Prendo un profondo respiro. «Ho qualcosa che non va» annuncio. «Vuoti di memoria, amnesie improvvise, carenza di attenzione e astenia» sollevo gli occhi su di lei, sincera e disarmata. «Ho paura, Bon. Inverto le terapie al lavoro, mi dimentico cosa sto facendo da un minuto con l’altro, non mi riconosco più e mi è anche calato drasticamente l’appetito. Non dico di avere qualcosa al cervello ma che potrei avercela ecco» ammetto alla fine, distogliendo lo sguardo.
Intravedo Pen affiancare Bonney, immagino lo sguardo che si scambiano, poi due dita mi prendono il mento e mi sollevano il viso. «Vai a cambiarti, la macchina è già pronta» mi invita Bonney.
 

 
§

 
«Okay» annuncia Bonney con la bocca piena di pasta sfoglia, al di là del vetro isolante, i piedi sulla scrivania e le caviglie sovrapposte, mentre Pen seduto al suo fianco smanetta al portatile. «Se sei pronta a entrare nel tunnel delle meraviglie, sdraiati che cominciamo»
Mi sistemo un po’ meglio il camice e smuovo le gambe nude prima di decidermi a sdraiarmi sulla barella mobile, osservando da sotto in su il buco dove stanno per infilarmi per tomografarmi la testa.
«Tranquilla, teniamo il microfono acceso così possiamo parlare» mi avvisa ancora Bonney mentre scivolo all’interno della macchina con tutto il busto. «Eccoci qua! Vediamo cosa c’è in questa bella testolina» mormora Bonney, la bocca sempre piena. Me la immagino masticare mentre fissa il monitor intenta. «Come vanno le cose al Castello, Bimba?»
«Bene» tengo gli occhi puntati in su, cerco di stare il più ferma possibile ma a Bonney potrebbe servire farmi parlare per studiare le reazioni e il funzionamento delle mie camere cerebrali. «Sempre delirante, credo che Cora si sia preso una bella tranvata per Gerth» racconto e tamburello con le dita sul telo sterile sotto di me. «E voi? A che progetto lavorate?»
«Oh non sappiamo ancora se è un vero e proprio progetto» interviene Pen, sicuramente grattandosi il naso e passandosi una mano nel ciuffo. «Potrebbe restare un nulla di fatto, deve ancora decollare»
«Esatto» ghigna Bonney. «Ma sai come siamo noi due, ci piace l’avventura»
«A proposito di avventura, com’è andata con il tuo appuntamento di ieri?»
«Benissimo. Per Ideo» la sento pigiare con forza su un paio di tasti, probabilmente per cambiare prospettiva sul monitor. «Sono rimasta bloccata in sala per un’urgenza e il gran bastardo l’ha rimorchiata al bar. A quanto pare la tipa è bi. Che bell’emisfero destro che hai Bimba»
«Ma veramente?» domanda Pen, chiaramente incredulo.
«Già. Ma non c’è problema, ho già messo gli occhi sulla nuova specializzanda di endocrinologia» sghignazza maliziosa Bonney. «L’avrai vista, capelli blu, occhi miele, sguardo innocente e bisognoso di protezione...»
«Ain?» domanda Pen.
«Com’è che conosci tutte le donne di questo ospedale, dottor Anaconda?»
«Ho buona memoria visiva, Bonney sei una strutturata» le fa presente.
«Senti un po’ chi parla. Tu stai con un’infermiera»
«Beh…»
«E comunque non siamo qui per fare il processo a Bonney e ai suoi ormoni e al suo bisogno di sesso, che tu non comprendi perché chiaramente ieri sera hai scopato manco ci fosse l’Apocalisse e basta guardarti in faccia» va avanti Bonney tra un morso e l’altro, capisco che ghigna dalla voce. «E tu Bimba? Che hai fatto ieri sera?» mi coinvolge di nuovo ma la domanda mi coglie alla sprovvista.
Perché ieri sera ho fatto quel che faccio tutte le sere da non so esattamente quanti giorni a questa parte, ormai – perdita del senso del tempo, altro sintomo da aggiungere alla lista –, e appena Bonney chiede e il mio pensiero corre lì, a me e Sabo nudi e abbracciati sul divano, sul letto, nella doccia, sul pavimento, sulla lavatrice, contro il muro e via discorrendo un liquido caldo mi riempie il basso ventre che si contrae in un piacevole spasmo.
«Niente di spec…»
«Oh»
Mi interrompo quando Bonney emette un suono sorpreso e mi irrigidisco. Ha trovato qualcosa? Lo sapevo, lo sapevo porca miseria!
Come faccio a dirlo a Sabo adesso?
«Pen guarda qui» lo invita e io fatico a restare ferma.
«Bonney?» chiamo implorante dopo poco.
«Ish, scusa, puoi ripensare un attimo a cosa hai fatto ieri sera?»
Sbatto le palpebre confusa. C-che?!
La richiesta è strana ma io sono agitata e devo calmarmi, gli occhi già mi pizzicano e questo è un modo come un altro per fare qualcosa che non sia pensare al peggio perciò espiro a fondo e poi abbasso le palpebre.
Sabo che mi sovrasta, sudato e sorridente, prima di abbassarsi su di me e succhiarmi il collo, mentre io rido senza ritegno, sul divano di casa nostra, mi appare per un lungo, paradisiaco istante.
«Porca miseria, Bimba, ti sei divertita anche più di Pen a quanto vedo! E dire che lui scopa davvero tanto»
Riapro gli occhi di scatto.
«Come?!» domano spaesata. «Bonney!»
Non le ho chiesto di farmi una TAC per farsi un viaggio nella mia dimensione erotica!
«Ehi Bonney» una nuova voce, sempre femminile e sempre famigliare riecheggia dall’altoparlante insieme al cigolio della porta poco oliata.
«Cia’» saluta Bonney, troppo concentrata sulla mia TAC.
«Scusa se ti disturbo, ma i parenti del tumore spinale operato lunedì vorrebbero un consulto congiunto»
«Per chiederci cosa? Se siamo proprio sicure di aver rimosso tutte le metastasi e quanto ci metterà a riprendere le normali funzioni motorie?» domanda acida ma non aspetta risposta. «Va bene dopo pranzo?»
«Perfetto»
«Ohi, ma invece con il tuo osteosarcoma com’è andata a finire?»
La sento sospirare. «Recidivato. Bisognerà amputare la gamba e mi piange il cuore guarda. Un ragazzo così giovane e atletico poi. Ho già chiesto un consulto psicologico a Betty»
«Fatto bene» la prende sul pratico Bonney e, non so come, mi sembra di percepirlo il ghigno che le si apre sulla faccia. «Vieni qui che ti faccio vedere una cosa per tirarti su»
Ma sì! Vieni pure a vedere i recettori neuronali eccitati di Ishley, Margaret! Anzi, chiama pure tutto lo staff medico!
«Santo cielo!» esclama infatti dopo un attimo, colpita. «Ma di chi è questo ipotalamo così sfavillante?»
«Ishley» soffia Bonney con soddisfazione.
Immagino Margaret che si acciglia un momento. «La nostra Ishley?»
«M-mh. Il microfono è aperto»
«Oh. Ciao Ish!»
«Ciao Maggie»
«Tutto bene?»
«A meraviglia»
Ci sono solo tre persone che stalkerano il mio cervello strafatto di dopamina. Va assolutamente alla grande.
«Hai visto come si diverte la Bimba?»
Io non protesto neanche più, mi limito a sospirare.
«Cavolo sì! Non vedevo così tanta gioia di vivere da quella volta che ti abbiamo fatto la TAC mentre giocavi con il vibratore»
«Me lo ricordo, avremmo dovuto fare uno studio su quello» interviene anche Pen.
«Sì ma un cardiochirurgo in quel caso sarebbe stato poco utile» gli fa notare Bonney e io sto seriamente valutando di chiedere di tirarmi fuori quando Margaret interviene di nuovo e anche lei cambia drasticamente tono.
«Bonney ma hai notato?» domanda, più cauta e concentrata ora e il panico torna alla carica.
«Bimba ci stai accecando con l’amigdala» mi rimprovera Bonney. «Stai calma, okay? Cosa dicevi, Maggie?»
«Qui, queste due aree dello striato» me la immagino indicare lo schermo, gli occhi cioccolato focalizzati. «Sembra che giocano a ping-pong»
Segue un lungo attimo di silenzio.
«Ehi che cosa…» provo a domandare.
«Ishley, tesoro» Bonney è stranamente seria e mi chiama con il nome completo. Non va bene. Non mi piace per niente. «La persona con cui eri ieri… era un rapporto occasionale?»
Mando giù pesante e sbatto le palpebre più in fretta. «No» rispondo, nuovamente confusa.
«Okay, allora, potresti pensare un attimo a questa persona senza risvolti sessuali per favore?»
«S-sì» corrugo le sopracciglia. Vorrei chiedere cosa c’entra tutto questo con il mio tumore al cervello ma mi ero ripromessa di sforzarmi di essere una brava paziente, così faccio come mi chiede e richiudo gli occhi.
Certo lo ammetto, non è facile pensare a Sabo e non pensare al sesso. Lo facciamo in continuazione, però…
C’è stato un paio di mattine fa, ci siamo svegliati prima del solito e abbiamo fatto colazione con calma. Stavo leggendo un articolo assurdo su internet e mi sono messa a ridacchiare e lui ha allungato la mano, mi ha spostato una ciocca di capelli e accarezzato il naso a fior di dita e quando ho alzato gli occhi anche lui sorrideva, e mi guardava così… così…
“Hai un’idea di quanto sei bella quando sorridi?”
La sua voce mi riecheggia nella testa. Le dita si riaprono lungo i fianchi, la tensione molla il mio corpo, espiro rilassata.
«Amigdala morta, frontale morto… Okay, Bimba, ti tiro fuori, abbiamo finito» annuncia Bonney, riportandomi bruscamente alla realtà.
La barella scorre di nuovo all’esterno e appena le luci della sala spuntano poco oltre il bordo della TAC mi preparo a ripararmi gli occhi e mettermi seduta. Di nuovo in tensione, osservo Bonney, Pen e Margaret spostarsi dalla sala dei computer alla sala della macchina, e tiro giù le gambe dalla barella, lasciandole spenzolare nell’aria, i pugni stretti.
«Ehi allora?» provo a sorridere con leggerezza. Margaret si ferma sulla porta, si appoggia allo stipite e mi sorride materna, Bonney e Pen mi raggiungono e si siedono ai miei lati. «Trovato qualcosa di interessante?» continuo, girando il capo da uno all’altro.
Cosa cavolo succede?
«Ish» Bonney mi sposta i capelli dietro la spalla. «Perché pensi di avere qualcosa di brutto?»
Scuoto appena il capo. Non… non gliel’ho detto prima? «Io ho… ho vuoti di memoria e amnesie improvvise e…»
«Puoi farmi degli esempi?»
«Beh ecco, ecco io t-tipo ieri mattina avevo in mano due cartelle e non ricordavo più quale dei due bambini avesse la sindrome di Reye e quale la malattia di Lyme. E mi dimentico anche le cose più stupide, faccio scuocere la pasta, lascio aperta la porta di casa, non rimetto lo yogurt in frigorifero ma sono convinta di averlo fatto e poi non riesco più a fare un pensiero coerente e mi distraggo quando gli altri mi parlano, non ho mai avuto problemi a seguire due conversazioni per volta e adesso a malapena ne gestisco una» mi asciugo un occhio, agitata. «Non sono io questa, c’è qualcosa che non va!»     
Pen sorride. «Sì è vero, c’è qualcosa di diverso in te ma non è una cosa che non va»
Mi acciglio perplessa. Non capisco dove vuole andare a parare ma nemmeno riesco a riflettere, sono troppo preoccupata. Sto aspettando che sganci la bomba, perché lo so che una bomba c’è.
«Ish senti, potremmo rifarti questa TAC collegandoti anche a un ECG portatile?» mi chiede ora Pen e io sono al limite della credulità. Ma cosa dicono? Che stanno facendo? «Sarebbe molto utile per il nostro studio»
Mando giù pesante. «Su cos’è il vostro studio?» domando piano.
Pen e Bonney si scambiano un’occhiata.
«Sull’innamoramento, Bimba»
Spalanco gli occhi che fissano il niente per un lungo attimo. Ha detto… Ha… Ha detto… Che?!
Mi giro a guardarla molto più che scioccata. «Come?» soffio a fil di voce.
«Miseria ladra!» impreca Bonney, gettando il capo all’indietro e portando le mani sugli occhi. «Quel deficiente ti ha veramente flippato il cervello! Solo la pupilla di un maniaco ossessivo-compulsivo come Law poteva scambiare una fase di innamoramento acuto con un tumore!»
 Non… Non è possibile, io non… Io… Non è… Non…
«Law non c’entra niente» mormoro.
«Credimi, quel coglione c’entra sempre in qualche modo» commenta lei.
«No» insisto più decisa. «Non c’entra niente, sono io…»
«Sì infatti, questa me la devi spiegare, che cosa diamine ti è preso, mh?!» mi sgrida, severa. So che lo fa perché si è preoccupata, anche se non lo ammetterà mai, e vorrei tanto abbracciarla ma sono così scioccata che non riesco a muovermi. «Come hai fatto a non accorgerti che passi la tua vita a sospirare di fronte a stronzate come il tramonto o le stelle o…»
«Il muro del salotto…»
«O il muro del salotto! Aspetta, il muro del salotto?!» domanda ma ci ripensa subito. «No, non lo voglio sapere. Dimmi solo che ti è preso»
«È che io non avevo idea, non sapevo che fosse così, non mi era mai successo prima» mi giro a guardare Bonney che mi fissa di rimando con una smorfia assurda.
«Che?!»
«Io non mi sono mai innamorata» ripeto decisa e le labbra mi si piegano in un sorriso incredulo mentre realizzo che ho sbagliato tempo verbale e porto una mano alla bocca. «Non mi ero mai innamorata, prima»
Prima di ora. Prima di lui.
«Ehi, piano, ferma lì piccola particella di felicità!» Bonney mi punta contro il dito, parlando con urgenza. «Pen corri a prendere l’ECG portatile e tu…» mi punta di nuovo con l’indice mentre già si alza per tornare nella stanza isolata. «…sdraiati di nuovo e non azzardarti a metabolizzarlo ancora. Abbiamo bisogno di farti i due esami in sincrono prima che afferri appieno e mi diventi una spacciatrice di sorrisi persi e trasognati. Ishley!» mi ammonisce quando le rivolgo un sorriso perso e trasognato, prima di soffiare a mezza voce – ma tanto la conosco abbastanza da sapere che non lo pensa veramente –: «Che schifo l’amore».
 

 
§

 
Strascico i piedi mentre mi trascino su per gli ultimi scalini, lo sguardo basso. Mi sento così stanco e appesantito che non ho nemmeno provato a nascondere il mio stato d’animo entrando e Praline lo ha prontamente fatto notare a tutti quelli che erano a portata d’orecchio.
Non che mi importi, non m’importa di niente. Tutte le mie energie dissimulatorie oggi sono per Kaya e solo per lei.
In fondo, è meglio così. So che la mia è solo una delusione momentanea, fa male ora ma in poco tempo sono certo che passerà, tornerò l’Usopp di sempre e sarò felice, con Sanji. Sì, saremo felici noi due e poi chi lo sa, magari in un futuro nemmeno così lontano saremo felici in tre, ci sentiremo pronti e valuteremo di adottare un bambino, lo valuteremo insieme e sarà bello come con Kaya, anche se non sarà Kaya.
Deglutisco a vuoto.
E… E Kaya troverà una famiglia eccezionale come lei, che la merita e che saprà difenderla dai riflettori e dal peso del nome che porta, che saprà gestire le sue finanze senza abusarne, che saprà amarla per ciò che è e non per i suoi soldi.
Ecco sì. Andrà sicuramente così.
Sicuramente.
Mi faccio forza mentre svolto l’angolo, pronta ad accogliere Ninjin, Piiman e Tamanegi con un sorriso. Oggi è l’ultima volta che mi guarderanno come se fossi il loro eroe, quando mi sentiranno dire a Kaya che “il grande Capitan Usopp” non può più venire a trovarla con la stessa frequenza di prima, che tra non molto non potrà più venire a trovarla del tutto e che, quando starà finalmente bene e potrà lasciare il suo nascondiglio segreto e tornare a guidare le sue navi pirata in tutta la sua gloria e bellezza, che… che non potrà venire a casa con me.
Ma andrà tutto bene, perché lei è speciale e a tutte le persone speciali succedono cose belle.
Andrà tutto bene, andrà tutto bene Usopp.
Dopotutto, devo essere razionale. È giusto così.
Sanji e io abbiamo costruito qualcosa negli anni, siamo diventati l’uno la famiglia dell’altro. C’è un solo Sanji per me a questo mondo mentre Kaya è… è s-solo una bambina come t-tante a-altre.
Andrà tutto bene.
Sono quasi alla stanza di Kaya quando mi accorgo che i ragazzi non si sono fatti vedere e c’è silenzio, troppo silenzio.
Non sento la voce di Kaya che parla con Tama e Sugar o anche solo con Merry e percepisco una strana atmosfera nell’aria. Tensione. Paura quasi. Riesco ad annusarla.
Qualcosa non va.
Scatto in avanti, verso la porta aperta della 123 e quando arrivo sulla soglia tutto si ferma per un momento. Il tempo, il mio corpo, il mio cuore. A occhi sgranati e fiato grosso osservo. Osservo Tama e Sugar, zitte zitte nei loro letti, con il lenzuolo sulle gambe e lo sguardo basso e lucido. Osservo il letto vuoto di Kaya. L’anta del piccolo armadio lasciato aperto. E per finire, con sommo orrore, Merry riverso a terra, al centro della camera.
Inalo per parlare e l’aria mi ferisce gola e polmoni, come fosse fatta di vetro polverizzato.
«Bambine» provo a ridere, una risata vuota e nervosa. «Bambine, dov’è Kaya?»
Sugar solleva di scatto il capino, cercando con gli occhi Tama che tentenna ancora qualche istante prima di dire con voce flebile: «Lui l’ha portata via…»
Il cuore ricomincia a battere a una velocità impossibile, pompando panico nelle mie vene.
«Lui?» domando. «Lui c…»
«Ragazzo, levati di torno» un ruggito si leva dal fondo del corridoio.  
Kuro.
È l’istinto a guidarmi, prima verso il centro della stanza per afferrare Merry e poi fuori, a tutta velocità, lungo il corridoio, verso la voce che ruggisce minacce e sovrasta le proteste di Ninjin, Piiman e Tamanegi e un pianto sommesso che si fa sempre più forte man mano che mi avvicino. Svolto l’angolo dalla parte degli ascensori e mi rendo conto che, se non avessi camminato a capo basso tutto il tempo, lo avrei intravisto arrivare, con Kaya in braccio, quasi penzoloni sulla spalla, che piange disperata, e un borsone nell’altra. Magari il movimento  avrebbe attratto la mia attenzione, mi sarei girato, lo avrei fermato prima, lo avrei fermato io.
E per fortuna ci sono i miei tre piccoli soldati, che stanno prendendo tempo, prendono tempo per me.
«Kaya non vuole andare via!» lo aggredisce Piiman e Kaya singhiozza più forte.
Lo stomaco mi si aggroviglia, il cuore non batte più quando sono abbastanza vicino da vedere la sua espressione contorta dalla sofferenza.
Brutto bastardo, cosa stai facendo?! Cosa stai facendo alla mia bambina?!
Nemmeno il suo peluche preferito ti sei ricordato di prendere!
«Ehi!» ruggisco, furioso come mai nella vita, sento le vene premere sulla pelle tanto sono teso e arrabbiato. «Ehi tu!»
Kuro si gira, mi squadra con disgusto e prende a marciare deciso verso l’ascensore che si sta aprendo proprio in questo momento, con a bordo i parenti di non so chi.
Merda! Merda perché nessuno interviene?! Dove sono tutti?!
«No!» urlo quando Kuro prende a correre verso l’ascensore e mi metto a correre anche io.
«Papà Usopp!»
«Lasciala! Kaya!»
No, no, no! Lei è mia!
È speciale perché è la mia bambina!
«Papà!!!»
«Merda!» impreco quando Kuro riesce a entrare in ascensore mentre già le porte si richiudono.
Con uno scatto cambio direzione e continuo a correre a più non posso diretto ora alle scale, Merry sempre stretto in mano. Lancio una veloce occhiata verso Piiman, che si sta rialzando con l’aiuto di Tamanegi e ha l’aria di essere solo un po’ scosso, mentre mi schianto sulla porta tagliafuoco e mi butto giù per i gradini.




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*"Sei un fottuto caterpillar!"

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


La vita è veramente strana.
Passi anni a studiare il corpo umano nel dettaglio, in tutti i suoi aspetti, il suo sviluppo, le sue disfunzionalità, le reazioni più svariate ai più svariati agenti esterni. Arrivi a conoscerlo con precisione maniacale, a immagazzinare molte più informazioni di quante fisicamente la scatola cranica potrebbe effettivamente contenerne se fossero tangibili e avessero un peso e un volume. I sintomi diventano pezzi di un puzzle da ricomporre, un gioco a cui si diventa sempre più affinati, e ogni reazione apparentemente incomprensibile è un indizio che avvicina alla soluzione. Tutto ha una spiegazione logica e la razionalità è perfezione.
Poi una mattina ti svegli e tutto quello che sapevi non conta più nulla. Il corpo reagisce senza alcuna coerenza, è disfunzionale contro ogni legge fisica, i sintomi non hanno più logica e la spiegazione è la più semplice e irrazionale di tutte.
Amore.
Studiato sul libro di neurologia, impossibile riconoscerlo quando sei tu a esserne affetta. Un insieme di reazioni fisiologiche e picchi ormonali che cambia ogni cosa e rende i colori più vivaci, il sole più caldo, l’aria più fragrante, il cioccolato poco interessante.
Il più incoerente dei sentimenti umani.
E, pur essendo la razionalità perfezione, non c’è niente di più bello – e spaventoso – che essere illogicamente, irrazionalmente, incoerentemente innamorati.
Ora lo so. Sono dovuta arrivare a ventisette anni per scoprirlo e mi sento anche abbastanza scema ma, mentre veleggio verso il banco dell’accettazione e Praline, non riesco a smettere di sorridere e non scambierei il mio stato d’animo con quello di una persona razionale per niente al mondo.
È bello essere innamorati. È bello essere innamorata di Sabo.
«Ehi Ish, cos’è quello sguardo perso e trasognato?»
Meno bello, il terzo grado di Praline.
«Eh?» salto su e scuoto il capo. E sì che ho fatto un quarto d’ora di prove nella Megalo per non apparire persa e trasognata. «Ma di che parli? Sono solo contenta» metto le mani avanti perché, e ho provato anche quello, le labbra si rifiutano di rispondere ai miei comandi e di smettere di stare piegate all’insù non vogliono saperne.
«E il tuo ritardo e la tua contentezza hanno la stessa motivazione?» ammicca con un sorriso saputo e languido Praline.
«In realtà…» la guardo apertamente, lasciando luccicare gli occhi. Non ho intenzione di nascondermi, tanto non è che possa arrivarci come per magia alla verità. Io e Sabo siamo stati molto attenti a non lasciar trapelare nulla, in queste settimane, comportandoci da semplici amici per tutto il tempo qui al Castello. «…è proprio così. La macchina non partiva ed ero già rassegnata a restare a piedi quando è resuscitata per miracolo e nel frattempo mi sono anche mangiata un cornetto spaziale al bar vicino a casa mia» mento senza pudore e sollevo pur un po’ il mento, per sfidarla a mettere in dubbio il mio racconto.
Cosa che ovviamente fa arcuando le sopracciglia, la guancia appoggiato sulla mano ma, incredibilmente, non indaga e mi da corda.
«Dovresti fare l’abbonamento al Merry Go Round»
Aggrotto le sopracciglia, perplessa. Non ha mica senso pagare per il servizio di carsharing messo a disposizione da Raftel, che consente il libero uso di macchine utilitarie di proprietà del comune, a fronte di una tariffa oraria e di un piccolo abbonamento mensile.
Comodo e utile, certo, ma per chi la macchina non ce l’ha.
«Ma mica mi conviene, sono automunita» le faccio notare.
«E ti darei ragione se non avessi una Megalo»
La fisso atona, gli occhi socchiusi. «Ma si può sapere che avete tutti contro le Meg…» provo a protestare ma un pianto improvviso mi interrompe.
Non che qui i pianti siano cosa rara, è pur sempre un ospedale pediatrico e i bambini piangono quando arrivano e, a volte, anche se molto raramente, quando se ne vanno. Ma quello che riecheggia nell’atrio non è un pianto normale. È un singhiozzare disperato, accompagnato da passi pesanti che arrivano dagli ascensori.
Mi metto dritta e in allerta e faticherei ad afferrare la situazione se non riconoscessi all’istante il signor Krahador che marcia verso l’uscita con Kaya in braccio. Ma, trattandosi del signor Krahador, so immediatamente che, qualunque cosa stia succedendo, non è una situazione né bella né normale.
E infatti Kaya si dimena sulla sua spalla e lui le urla di stare ferma e smettere di frignare e io sento qualcosa dento me tendersi.
Che cosa crede di fare questo emerito pezzo di merda?!
Una seconda eco rimbomba nell’atrio, un tonfo stavolta, della porta tagliafuoco che chiude le scale, seguito da passi veloci e un “Fermo!” urlato con disperazione.
Usopp arriva di corsa e si piazza tra Kuro e la porta, le gambe divaricate, il respiro grosso e Merry stretto in mano.
«Non fare un altro passo» lo minaccia Usopp, tremando di rabbia e di paura.
«Levati moccioso»
«No! Non la porterai via!» Kuro ruota gli occhi al soffitto, ricomincia a camminare e supera Usopp che gli afferra la spalla per bloccarlo e il mio corpo si muove da solo. «Kaya non è ancora guarita, non puoi portarla via!!!» protesta, le lacrime agli occhi.    
«E chi me lo impedirà, mh? Avanti, stupido moccioso, dimmi chi!»
«Io!»
La mia voce suona irriconoscibile persino a me, nel silenzio totale che è sceso sull’ingresso del Castello. Sembra un ruggito, gratta in gola e sul palato e, se potesse uccidere, questo bastardo sarebbe già caduto stecchito. Non so quando esattamente mi sono piazzata davanti alla porta, non so quando ho preso dal banco dell’accettazione il foglio che stringo in mano, di un esame a caso da una cartella a caso di un bambino a caso, ma poco importa. Conta solo che se vuole uscire di qui con la bambina, questo infame dovrà farlo sul mio cadavere.
E Kaya che continua a piangere cercando in ogni modo di buttarsi in braccio ad Usopp non fa che aumentare la mia determinazione. Il foglio si accartoccia nella mia mano, quasi lo buco con le unghie.
«Signor Krahador…» avanzo decisa. «…qualcuno le ha forse detto che Kaya è pronta per essere dimessa?»
«Se sarà necessario la porterò in un altro ospedale» ringhia. «Levati ragazzina»
«Lei non ha capito» rimango immobile dove sono. Con me non ci prova a scartarmi e tengo duro. «Non può portarla via se non ha il mio permesso»
«Prego?»
«Sono la dottoressa di Kaya e…»
«Il dottor Trafalgar si occupa di Kaya»
«Il dottor Trafalgar è il mio diretto superiore, tutti i suoi pazienti sono anche pazienti miei e secondo il mio parere medico Kaya non può essere dimessa»
«Non può impedirmelo!»
Con un gesto secco sollevo il foglio. «La sua ultima conta leucocitica è troppo alta, potrebbe avere un’infezione in corso, se le succede qualcosa…»
«Firmo le dimissioni contro il parere medico!» ci prova, Kuro. Ci prova e io mi prendo un attimo per alzare un sopracciglio con esasperante lentezza. Mio dio, ora so perché a Law piace così tanto farlo.
«Ma quello possono farlo i parenti, signor Krahador» avanzo ancora. «Lei è solo il tutore legale e se porta via Kaya adesso io la denuncio per rapimento di minore. Quindi o esce da quella porta senza Kaya, o esce da quella porta senza Kaya e con le manette ai polsi» soffio. «La sicurezza è già stata allertata e ci sono un po’ di testimoni presenti. Faccia lei»
Kuro si guarda intorno, il suo volto non tradisce nient’altro che fastidio ma è chiaro che sta soppesando cosa gli conviene fare davvero. Non che con tutti questi occhi addosso abbia davvero un’alternativa.
«Tu…» sibila, tornando a guardarmi. Io non tentenno, sostengo il suo sguardo.
«Ora, prima che vada in acidosi per il troppo stress, la lasci e se ne vada. Heat, prendi Kaya» alzo la voce e in tempo zero Heat appare al mio fianco e finalmente la leva dalle luride mani di questo essere immondo.
Kuro lo lascia fare, non si oppone, non distoglie lo sguardo da me un solo momento e nei suoi occhi non c’è più traccia di rabbia o fastidio. C’è altro, qualcosa che mi scuote e fa tremare dentro ma non vacillo, non mi muovo, non do alcun segno di cedimento neppure quando lascia cadere il borsone a peso morto sul pavimento e io vorrei sentirmi libera di sussultare ma non lo faccio. C’è sete di vendetta.
«È davvero molto professionale, dottoressa» dice Kuro, avvicinandosi a me fino a invadere il mio spazio intimo e sovrastarmi. Lo vedo chiaramente lanciare una lunga occhiata al foglio che tengo in mano. «L’ospedale è fortunato ad averla»
Stringo i denti e trattengo il fiato quando calca su “fortunato” con una luce meschina nello sguardo.
Mi costa ammetterlo ma quest’uomo mi fa paura. E lui lo sa.
Non si è ancora spostato né sembra intenzionato a farlo tanto presto e quando faccio per chiedergli di levarsi dai piedi la voce mi viene meno, proprio nel momento in cui una mano gli arpiona una spalla e un’ombra appare accanto a noi.
«Okay amico, ti è molto grata per il complimento ma ora allontanati» sibila, calmo solo in apparenza. Appena Kuro si rimette a ringhiare Sabo lo spinge indietro e si piazza davanti a me. «Ti ho detto: allontanati da lei» ripete, i pugni stretti.
Vorrei prenderlo per il polso e assicurarmi che non faccia qualche stronzata che lo farebbe passare dalla parte del torto ma sono pietrificata.
Si sfidano in silenzio ancora qualche istante e poi, finalmente, Kuro si decide a levarsi dalle scatole e nel superarci da una spallata a Sabo, che lui incassa senza reagire, facendogli fare la figura del cretino, mentre io ricomincio a respirare. Sabo si gira verso di me e mi studia serissimo, fa anche per circondarmi il viso con le mani ma io mi sposto per appoggiarmi al bancone, prima di collassare a terra per la tensione e lo spavento.
Mi passo una mano tra i capelli e giro gli occhi su Usopp, pallido e tirato, che culla Kaya e le sussurra qualcosa all’orecchio, mentre i suoi singhiozzi diminuiscono rapidamente.
«Ish…» Sabo mi chiama e il mio stomaco si lancia in una serie di capriole.
«Sto bene» cerco di tranquillizzarlo nonostante l’ondata di nausea che mi obbliga a chiudere gli occhi prima ancora di averlo messo a fuoco davanti a me. Due braccia forti mi avvolgono l’addome e mi sollevano da terra.
«Sabo…» provo a protestare ma ho il cervello in pappa e il cuore a mille. E comunque ho l’impressione che non mi avrebbe dato retta.
Mi trascina alla fila di seggiole più vicina, tenendomi stretta contro il suo petto, schiena contro torace, e si accovaccia davanti a me non appena il mio sedere tocca la sedia. «Stai bene?»
Annuisco, ancora scossa.
«Tieni bevi un po’ d’acqua» estrae una bottiglietta dalla propria tracolla e, nel porgermela, sorride con orgoglio. «Sei stata un drago» appoggia la mano sulla mia guancia e le sinapsi vanno in corto. È inginocchiato qui davanti a me, che mi accarezza e mi sorride, dopo avermi difesa, e io riesco solo a pensare a quanto vorrei sprofondare tra le sue braccia e baciarlo e a quanto… a quanto lo a…
«Usopp! Ish!»
«Ish!»
Mi riscuoto e, ancora confusa, mi giro verso Reiju e Aisa che si stanno avvicinando di corsa. Praline dall’accettazione fissa con sguardo eloquente e sorrisetto saputo me e Sabo e agita le dita nell’aria in un gongolante saluto, che faccio del mio meglio per ignorare.
«Ish stai bene?» mi chiede Aisa mentre Reiju si avvicina ad Usopp e posa una mano sulla schiena di lui e una sulla schiena di Kaya, chinando il capo per parlarle e tranquillizzarla a sua volta.
«È tutto a posto Aisa» la accarezzo sul volto ma so fin troppo bene che non è così.
So fin troppo bene cosa cercava di dire Kuro e che non era una minaccia a vuoto e la nausea torna alla carica. Mio dio che ho fatto?
Mi chino in avanti, mano sulla bocca, e Sabo si sporge verso di me, preme la fronte contro la mia e posa le mani sulle mie braccia per tenermi su, in ogni senso possibile. «È tutto a posto, piccola» mi sussurra ma io scuoto il capo, gli occhi che pizzicano.
Non è tutto a posto, non lo è.
Le porte dell’ascensore si aprono con un trillo, Law e Cora escono di corsa, Gerth pattina al loro fianco, tutti e tre preoccupati e ignari, ancora ignari di cosa davvero dovranno preoccuparsi.
A fatica mi alzo e mi avvicino ad Usopp. «Dobbiamo riportarla in stanza» gli dico, posandogli una mano sulla spalla. «Magari può pensarci Reiju…?» la guardo speranzosa e lei subito annuisce. «Noi dobbiamo andare su» mi rivolgo di nuovo ad Usopp ma mi giro verso Law e Cora, gli occhi pieni di colpa. «Dobbiamo parlare»
 

 
§
 

Terra e polvere si sollevano intorno alla macchina quando Nami sterza nel parcheggio sterrato del Castello. L’auto non è ancora ferma che Sanji sta già aprendo la portiera e io riesco a malapena ad aspettare che si immetta nel posteggio libero prima di imitarlo.
Non ho capito molto dalla telefonata di Law, credo sia perché nemmeno lui aveva tutti i dettagli ancora, ma ho capito abbastanza da sapere che è successo qualcosa con Usopp e Kaya e da capire che non avvisare Nami e Sanji sarebbe stato imperdonabile.
Le portiere schioccano a distanza ravvicinata e ci avviamo decisi e compatti per aggirare la struttura e raggiungere l’ingresso principale, passo veloce e bocche chiuse. Law ci sta già aspettando sulla porta quando svoltiamo l’angolo e appena lo raggiungo mi tende una mascherina, prima ancora di salutarmi.        
La afferro e lo accarezzo sul volto, teso e preoccupato, ma non gli chiedo ancora che è successo, cerco di pazientare e lo seguo dentro al Castello e su fino al piano degli uffici, lasciando scivolare le mie dita tra le sue.  Quando entriamo nello studio di Cora, lo troviamo già abbastanza affollato.
Cora e Gerth in un angolo che parlano sottovoce, Ish vicino alla finestra, guarda verso il giardino ma la postura è rigida, tesa, Sabo è seduto alla scrivania con le dita intrecciate strette, è chiaramente arrabbiato ma ogni volta che lancia un’occhiata a Ishley – con una certa frequenza – la sua espressione vira a un misto tra il sofferente e il preoccupato, e, per finire, Usopp è seduto su una sedia praticamente al centro dello studio e fissa il vuoto, come in trance.
Sanji si getta all’istante verso di lui, seguito a ruota da Nami e, con più calma, da me, che mi premuro di cercare un contatto visivo anche con Sabo e devio per andare ad abbracciare Ishley.
«Uso-chan» Sanji gli prende il viso tra le mani come se fosse fatto di vetro e lo obbliga a sollevare su di sé gli occhi, che si riempiono di lacrime nel momento in cui lo mettono a fuoco.
«S-Sanji» geme piano Usopp per poi alzarsi dalla sedia di scatto e gettarsi tra le sue braccia, travolto da un pianto disperato.
Sanji lo stringe di rimando, l’espressione sconvolta. «Che è successo?» prova a domandare, non so precisamente a chi.
«Sì infatti, qualcuno ci spiega?» si spazientisce Nami.
«Krahador ha cercato di portare via Kaya» interviene Law, addossato alla porta chiusa. «Usopp e Ishley lo hanno fermato ma secondo Ish il figlio di puttana tenterà una qualche via legale contro il Castello»
Il cuore mi sprofonda nello stomaco, vedo Cora con la coda dell’occhio appoggiarsi alla parete con movimenti stanchi, Ishley mi stringe più forte e io stringo lei di rimando.  
«Che?!» esala Nami, occhi e bocca spalancati.
«O era quello o era una minaccia alla mia persona» spiega Ish a fior di labbra e Sabo scatta in piedi, il viso deformato dalla rabbia.
«Deve solo provarci, a toccarti»
«Pare che Krahador non sia estraneo a questo genere di azioni legali» interviene Law. «Kaya è una bambina a quanto pare molto cagionevole ed è spesso entrata e uscita da differenti ospedali in differenti città del paese. Un’altra volta lo hanno fermato come voi oggi e lui è passato per il tribunale, ottenendo di poter portare via la bambina contro il parere medico pur non essendo un parente» sospira e si passa una mano sul volto. «La reputazione di quell’ospedale non ne ha risentito, vista la situazione se ottenesse solo di far dimettere Kaya prima del tempo per noi sarebbe il male minore»
«Il male minore?» Sanji lo fulmina con un’occhiata.
«Non sto dicendo che mi piace l’idea che se la porti via, sto dicendo che c’è in gioco anche di più»
Ishley si stacca da me e si sposta al centro della stanza, le lacrime agli occhi ma la testa ben dritta. «Dovete licenziarmi» 
Law si limita a emettere uno sbuffo incredulo mentre Cora si stacca dalla parete. «Ishley ma cosa dici?»
«È stata colpa mia»
«Tu hai fatto quello che dovevi» la interrompe Law ma lei continua a scuotere il capo. Sembra in panico e Sabo si affretta a fare il giro della scrivania, chiamandola con urgenza.
«Io ho fatto un casino. Gli ho detto che la conta leucocitica di Kaya all’ultimo esame era altissima ma avevo in mano gli esami di un altro paziente e Kuro se n’è accorto!»
«Possiamo farle un esame subito e cambiare la data» Cora non si pone il problema di parlare davanti all’avvocato. E, d’altra parte, l’avvocato sembra pronto a spaccare il mondo per lei.
«E se la conta leucocitica è bassa?»
«E se non lo è?» ribatte Law.
«Ma se lo è?! Se denuncia l’ospedale e cerca di colpirlo tramite me, non solo si porterà via Kaya ma infosserà la reputazione del Castello e chissà cosa ci vorrà per risollevarla» si asciuga le guance con le mani, Ishley .
Law le si avvicina, le posa le mani sulle spalle. «Ishley…» la chiama, piegando il capo per guardarla in volto.
Non mi sfugge come Sabo stringa i pugni, quanta violenza si stia facendo per non toglierla a Law, prenderla tra le sue di braccia e stringerla, tenerla al sicuro contro di sé.
Fallo, cretino! Tanto c’è solo una persona in questa stanza che non ha capito!
«E allora giochiamo d’anticipo» annuncia Sabo, mortalmente calmo e tutti ci giriamo verso di lui. «Voi tutti sospettate che Kuro sia un pessimo tutore per Kaya e che abbia dei secondi fini. Se riceve una denuncia al riguardo, il suo citare l’ospedale in giudizio sembrerà un ridicolo tentativo di salvarsi»
Per un attimo nessuno parla, tutti riflettiamo sulle sue parole e, chi per scetticismo, chi per stanchezza, credo di essere l’unica a trovarla la soluzione ideale, se non che io non sono di certo qualcuno che può prendere una simile decisione per il Castello.
«Facciamolo» è Sanji a spezzare il silenzio, staccandosi da Usopp solo per muovere un passo verso Sabo. «Lo denunciamo noi»
«Sanji-kun quell’uomo è riuscito a vincere una causa contro un ospedale già una volta» cerca di farlo ragionare Nami.
«Ma infatti io non parlo del Castello. Ci penseremo Usopp ed io. O anche solo io se sarà necessario»
«E come pensi di vincere?» insiste Law, per niente convinto.
«Metterò in mezzo gli avvocati di mio padre. Sono abituati a gestire cause ben più difficili e pericolose di questa» si stringe nelle spalle Sanji.
Io e Nami lo guardiamo incredule, Usopp trattiene il fiato.
«Sanji-kun, quando dici “mio padre”, intendi…»
«Judge» annuisce fermo lui.
Usopp barcolla in avanti. «Ma Sanji…» sembra che persino parlare sia difficile e doloroso per lui in questo momento e il cuore mi si stringe. «Tu odi chiedere favori a tuo padre» e infatti non credo gliene abbia mai chiesto uno negli ultimi venticinque anni e forse neanche prima. Ne sono piuttosto certa in realtà.
Ma Sanji non tentenna, non vacilla. Si gira a guardare Usopp, con sguardo fermo ed espressione seria. «Non ha importanza. Io farò quello che tu non puoi fare e tu farai quello che io non posso fare. Te lo ricordi? Ce lo siamo promessi»
Gli occhi di Usopp si riempiono di nuovo di lacrime che lui però trattiene con tutto se stesso. «Io non posso chiederti di fare questo per me!» protesta ancora.
«Non lo sto facendo per te, Usopp, lo faccio per la nostra bambina!» ribatte Sanji. «Un padre fa quello che un padre deve fare, chiaro?! Non ho intenzione di lasciare che ce la porti via!»
Usopp barcolla di nuovo e stavolta Sanji se ne accorge e lo tiene su. «La nostra… La nostra bambina?» domanda piano Usopp, ricominciando a piangere, gli occhi socchiusi nella speranza di vederci qualcosa. Vedere il sorriso che si apre sul viso di Sanji, per esempio, un sorriso così innamorato e pieno di affetto.
«Voglio adottarla Usopp. Voglio che la adottiamo» si corregge subito. «I-insieme ovviamente, non intendevo che voglio adottarla da solo, io non…» farfuglia finché Usopp non si aggrappa al suo collo e lo bacia con trasporto e il doppio delle lacrime.
E io, che sono ormai in piena tempesta ormonale da giorni, sono costretta a cercare due fazzoletti nello zainetto, uno per me e uno per Cora.
«Purtroppo non è così semplice» interrompe però l’idillio Sabo, abbassando per un attimo lo sguardo. «Perché la strategia funzioni, sarebbe meglio che la denuncia arrivasse dal Castello. Ci sono anche più possibilità di vittoria dal momento che Kaya è ricoverata nella struttura da parecchie settimane e il Castello non le ha mai fatto pagare nulla in più del ticket minimo, come a tutti, nonostante la sua grande eredità. Il tempo che Kaya ha trascorso qui rende più legittimi i dubbi di chi ci lavora nei confronti di Kuro e il disinteresse verso il denaro della bambina da maggiore credibilità alla testimonianza. Voi avete passato più tempo di chiunque altro con Kaya ma non siete né volontari per il Castello né parenti, se vi muovete da soli siete destinati a perdere. O forse potreste vincere la causa ma la genuinità delle vostre azioni verrebbe compromessa e diventerebbe molto improbabile ottenere l’affidamento, figuriamoci l’adozione» Sabo guarda con sincerità e fermezza Usopp e Sanji ancora abbracciati. «Mi dispiace»
«È una mossa molto audace» gli fa notare Gerth. «Se il Castello perde…»
«Sono in grado di vincere questa causa» ribatte Sabo, con una eccesso di sicurezza di cui, io lo capisco perché lo conosco molto bene, si vergogna subito ma cerca di non darlo a vedere. «Io… io posso farlo» riafferma, girandosi a guardare Ishley. Perché è chiaro, se lei è dalla sua parte niente potrà fermarlo.
E il modo in cui lei lo guarda, così piena di speranza, come se fosse il suo eroe… Mio dio è mai possibile che Sabo non si sia accorto di cosa prova per lui?! Perché gli uomini sono così lenti?!
«Io mi fido di Sabo» interviene finalmente Law, interrompendo la dichiarazione d’amore visiva e facendo sussultare suo fratello per la sorpresa. «Cora?»
Cora, di nuovo appoggiato al muro, si passa una mano sul volto. «Ho fatto dell’aiutare i bambini la mia missione di vita» annuncia. «Non mi perdonerei se lasciassi Kaya nelle grinfie di quel bastardo» si stacca dal muro e si avvicina a Sabo, per posargli entrambi le mani sulle sue spalle e guardarlo dall’alto dei suoi due metri di statura. C’è un momento ancora di silenzio, carico di aspettativa, poi Cora gli sorride cospiratore. «Facciamogli il culo a strisce, Sabo»

 
§
 
 
Lascio cadere la borsa in ingresso e intreccio le dita dietro al collo, muovendolo a desta e sinistra in un tentativo di scaricare la tensione che mi ha oppresso tutto il giorno, dopo l’episodio con Kuro. Law ha cercato di mandarmi via e appiopparmi due giorni di ferie ma non esisteva proprio che li lasciassi nei casini, oltre al fatto che qui sarei stata sola e a stare da sola mi viene l’angoscia. Sabo è rimasto nel suo ufficio tutto il giorno a lavorare alle carte preliminari del caso e non è ancora rientrato. Non l’ho comunque visto per tutto il turno, ma sapere di essere nello stesso posto mi ha permesso di affrontare più facilmente la giornata.
Forse sono un po’ patetica ma non me ne importa un fico secco.
Lancio un’occhiata all’orologio-conchiglia. Le diciassette e quaranta. Sabo potrebbe averne ancora per un po’, meglio se trovo qualcosa con cui tenermi impegnata. Forse potrei tirare fuori il vecchio libro di ricette della nonna e provare a… a fare che? Dare fuoco alla cucina, probabilmente.
Chiariamo, non sono una cuoca pessima e nemmeno mediocre, direi che me la cavo anche piuttosto bene ma con la testa che ho in questo periodo mi ci vuole il cento per cento della concentrazione persino per tostare il pane. No, direi che “il cuoco in provetta” è assolutamente scartato come diversivo.
Okay Ish, cosa potresti fare? Pensa, pensa, pens…
Mi giro sorpresa quando il campanello trilla e mi acciglio. Che strano. Ormai sono settimane che Sabo usa la chiave di riserva e non suona più, ergo non è lui.
Oh merda. Chi cavolo è? Nessuno viene mai a casa mia senza un invito. Non è che… un brivido mi scuote. Corro in cucina e mi armo di mestolo e poi, cauta, torno in entrata e mi avvicino alla porta, con passi lenti e misurati.
«Sì?» domando a fil di voce.
«…’verso tra usare un preservativo alla mela verde e uno normale, scusate?»
Mi acciglio ancora di più. Ho sentito bene?
«…’mente niente, bambina, a parte che avete vent’anni e se certe cose non le fate ora non le farete più»
«Sì ma se il massimo di perversione è usare il preservativo alla frutta, allora preferisco restare vergine!»
Ma che cosa…
Mi rimetto dritta e afferro la maniglia, il mestolo che penzola al mio fianco.
«Oh questo non lo pensi sul serio, Aisa!» sta ridendo Reiju quando spalanco la porta. Le fisso perplesse, armate di teglie e bibite e sacchetti del supermercato. «Mangi la zuppa con questo caldo?» si sorprende Reiju lanciando un’occhiata stranita al mestolo, che io stupidamente nascondo dietro la schiena con un movimento secco.
C’è da lavorare sull’impulsività, Ishley.
«Che fate qui?» decido di glissare la questione delle mie discutibili abitudini alimentari estive. «Non eravamo d’accordo per questa domenica per la serata film e chiacchiere?»
«Abbiamo pensato di anticiparla!» annuncia Aisa con entusiasmo, superandomi senza troppe cerimonie per entrare in casa, seguita da Reiju che la segue in cucina.
«No aspettate un momen…» provo a protestare ma nemmeno mi ascoltano.
«E comunque dubito che con Kira le perversioni si fermino ai preservativi alla frutta ma non vorrà spaventarti, dagli tempo e fiducia»
«Sorpresa, sorpresa» sussurra al mio orecchio Praline e io sobbalzo, per poi mandare gli occhi al cielo.
Perché deve essere sempre così inquietante? Cos’è?! Uno stile di vita di un qualche guru invasato della cui setta segreta fa parte senza averci mai detto niente?!
«Oh andiamo, tesoro, fai un sorriso alla zia Praline. Siamo qui apposta per te» continua melliflua mentre scivola in casa a sua volta.
«Praline ma che succede?»
«Non volevamo lasciarti da sola dopo quello che è successo stamattina» si stringe nelle spalle lei. «Ti spiace?» chiede, lasciandomi interdetta.
Se mi dispiace? Mi sta chiedendo se mi dispiace avere delle amiche così incredibilmente meravigliose da venirmi a fare da guardie del corpo solo perché un pezzente figlio di buona donna mi ha fatto una velata mezza minaccia?
Più che altro vorrei chiedere chi devo ringraziare per una cosa del genere ma il problema al momento è un altro e anche abbastanza urgente. Perché, sì certo, certo che sono felice e non mi dispiace affatto che siano qui però…
«No, assolutamente!» le rispondo e lei mi rivolge un appuntito sorriso.
«Oh bene» commenta spostandosi in cucina a sua volta.
Io rimango qui ferma ancora un momento, ancora frastornata dall’inattesa invasione, prima di riuscire a riscuotermi e seguirle, per ultima, dove hanno democraticamente deciso di riunirsi.
«Abbiamo portato prosciutto e melone, del cibo spazzatura di vario genere e il tiramisù alla frutta di Sanji» mi avvisa Reiju, aprendo il frigo. «Cavolo! Praline ma non è vero che ha il frigo sempre vuoto! Vieni a vedere che roba!»
«Ahhhh ragazze» cerco di attirare la loro attenzione agitando il mestolo. «S-scusate, non voglio che fraintendiate, sono felice che siate qui ma non credo sia il caso che… ecco… non è necessario, io…» tartaglio agitata.
Non le voglio mandare via ma Sabo potrebbe arrivare da un momento all’altro e come lo spiego? Abbiamo deciso di tenerci la relazione per noi e già queste tre sono peggio del KGB quando si tratta di ormoni e sesso! Figuriamoci se lo vedono entrare bello bello e da solo, come se fosse routine. Che poi in effetti lo è ma il punto è un altro.
«Ci stai mandando via?» si indigna subito Aisa, puntando le mani sui fianchi e io per miracolo riesco ad ammortizzare il sussulto.
«Cosa?! No! Ma cosa dici, Aisa?!» rido nervosa ma non credo se ne accorga visto come mi sorride, felice e sollevata.
«Okay, ho sistemato tutto in frigo» annuncia Reiju, battendo le mani tra loro come per pulirle dalla farina. «Andiamo a scegliere che film spararci stasera?» propone.
«Oooohhhh!» applaude Aisa, saltellando. «Rei che soddisfazione! Hai sentito Praline?! Ha detto “che film spararci”!» si esalta mentre tutte e tre si spostano in salotto. Come se fossero a casa loro praticamente!
Ma fate pure eh! Questa non è assolutamente casa mia, tranquille!
Le seguo, ormai rassegnata a venire fagocitata dal loro spirito di iniziativa e, in fondo, non posso certo dirmi triste per questo. Sto già quasi per mettermi a sorridere quando noto tre cose in entrata, che prima mi erano proprio sfuggite. Uno zaino e due borse tipo da palestra.
E io sarò anche socialmente disfunzionale ma non così socialmente disfunzionale da non sapere cosa vogliono dire, cibo, film, tre amiche fuse e tre borse nell’ingresso.
«R-ragazze?» chiamo con voce flebile. «Vi fermate a dormire?»
Dite di no, dite di no!
«Ma certo che sì» sorride imperterrita Praline – forse ha una paresi –, appollaiata nella sedia a uovo, regalo di laurea dei miei. «Stasera si mangia, si ride e si fanno gossip. Originale, il muro così» indica la parete schizzata di azzurro con un cenno del capo.
Okay. Okay, questo è un problema.
«Ma non ho molto spazio…»
«Una nel letto con te e le altre due sul divano»
«Non preoccuparti Ish!» mi fa l’occhiolino Aisa. «Non ti lasciamo sola dopo quello che è successo stamattina»
«Oh Aisa» la chiamo con una mezza risata isterica «Ma io sto bene, davvero!»
E voglio dormire con Sabo. Contro il suo petto, tra le sue braccia.
Dai Ish, non essere ingrata!
Però ne ho bisogno, ne ho davvero bisogno.
«È che tecnicamente, anche se non dormiste qui, non mi lascereste sola, ecco» la prendo larga, pasticciando le dita tra loro e loro mi fissano di rimando, tra l’atono e il perplesso.
«Hai preso un gatto?»
«Ti riferisci ai vicini?»
«Il peluche non vale»
Spalanco gli occhi, incredula. Oh ma sul serio?! La possibilità che io abbia un amante non le sfiora nemmeno?! Grazie tante! E dire che mi sembrava di aver dimostrato che non sono precisamente illibata!
Inspiro a fondo e cerco di darmi un contengo ma l’orgoglio ferito prende il sopravvento sul buon senso e porto le mani ai fianchi, il mento sollevato. «A dire il vero…» comincio ma mi interrompo quando un ravanare noto risuona alle mie spalle.
Sbianco e lancio una rapida occhiata verso la porta d’ingresso, nella cui toppa qualcuno sta infilando le chiavi. E c’è solo una persona, oltre a me, che conosce l’ubicazione delle chiavi di riserva e che, soprattutto, le usa ogni giorno per entrare.
«Ish» mi chiama all’erta Reiju.
«Nascondetevi» le imploro, sottovoce.
«Che?!» si acciglia Aisa e intanto Sabo è riuscito a imbroccare il senso giusto e inizia a girare.
Uno, due, tre, prima di cambiare serratura.
«Per favore» giungo le mani, parlo a denti stretti.
Reiju, Aisa e Praline si scambiano una serie di occhiate e poi, per mio grande sollievo, si alzano in fretta e furia e slittano dietro al divano, giusto un secondo prima che la porta si apra e Sabo scivoli in casa.
«Ehi» mi saluta, con un sorriso felice, nonostante la stanchezza, tutto per me.
«Ciao» mi sciolgo all’istante, aprendomi in un sorriso anche io mentre gli vado incontro.
È la prima volta che siamo soli da quando ho avuto la grande rivelazione. Anche se non siamo soli, tecnicamente, ma è un dettaglio che non riesco a tenere in testa. Ha ragione, Bonney, sono completamente flippata nel cervello ma non per colpa di Law. E Sabo non mi è mai sembrato così perfetto come ora e io non ho mai sentito così tanto il bisogno di lui.
E forse Sabo legge anche nel pensiero perché appena sono a portata di braccio mi afferra, mi trascina contro di sé e mi bacia fino a togliermi il fiato. «Stai bene?» domanda, ora serissimo, quando ci separiamo, tenendo i nostri visi vicini e accarezzandomi con una mano.
«Sì…»
«Bene» annuisce, più sollevato, e, mio malgrado, cede alla forza di gravità e mi lascia scivolare qualche centimetro lontano da lui. «Ish, io devo andare da Law a discutere del caso stasera. Abbiamo già fatto partire la denuncia e lunedì c’è la presa visione con il giudice dei capi d’accusa»
Annuisco, dispiaciuta solo in quella parte del mio cervello che si è momentaneamente dimenticata delle tre unne nel mio salotto, che al momento però, predomina.
«Non preoccuparti»
«Probabilmente starò fuori anche per cena ma torno appena riesco»
«Va bene. Ma se sei troppo stanco, fermati da loro per stanotte»
Sabo nega deciso con il capo. «Voglio dormire qui a casa con te»
Il cuore mi perde un battito e sono costretta a deglutire per riuscire ad articolare un semplice: «Okay», il tutto senza staccare un momento gli occhi dai suoi. Mi tiro sulle punte e cerco di nuovo le sue labbra con le mie e lui non ci pensa due volte ad accontentarmi.
È dura, staccarmi da lui, è dura non cedere alla tentazione di trascinarlo in camera e convincerlo a desistere dai suoi nobili intenti. E lo so che ci sono Praline, Aisa e Reiju in salotto ma la porta ha una serratura funzionante. Per fortuna, Sabo ha più autocontrollo di me e a malincuore separa la sua bocca dalla mia, ma solo di pochi millimetri.
«Devo andare» è quasi sofferente e alzo le mani ad accarezzargli il viso.
«Ti a…» sgrano gli occhi e mi mordo la lingua appena in tempo. Con un movimento brusco indietreggio di scatto. «A-aspetto! Ti aspetto! Dopo! Più tardi! Quando… quando torni!»
Che cosa stavi per fare, Ishley?
«Okay» risponde Sabo, perplesso ma anche, sembra, divertito dalla mia reazione. «Allora buona serata» mi saluta brillante.
«A te! Cioè…» scuoto il capo e chiudo gli occhi. «Buon lavoro! Ciao!» agito le dita nell’aria mentre lui si richiude la porta alle spalle e solo quando sento la serratura scattare lascio andare un respiro di sollievo, mentre mi infilo le mani nei capelli.
Stavo per dichiararmi, stavo seriamente per dichiarar…
«A-ehm!»
Sussulto e spalanco gli occhi.
Sì, stavi per dichiararti e pensi davvero che fosse quello il grosso problema, Ish?!
Lentamente, le dita ancora incastrate tra i boccoli, mi volto di centottanta gradi, verso di loro che mi fissano dalla soglia del salotto. Reju è appoggiata allo stipite, il ciuffo non riesce a coprire il sorrisetto malizioso e saputo, così simile eppure così diverso da quello di Praline, le braccia incrociate sotto al seno, mentre Aisa sembra quasi indignata, mani sui fianchi e sopracciglio alzato è la fotocopia di suo fratello.
«Devi dirci niente?» domanda e io non trattengo un sospiro.
Davvero. Grandioso.
Mi trascino in salotto, sconsolata e rassegnata, non provo nemmeno a ripararmi dal bombardamento di domande.
«Ma da quanto va avanti?! Come è iniziata?!»  
«Io l’avevo detto» gongola Praline.
«Vuoi dire che è cominciata quando stavate ancora da Law e Koala?» sgrana gli occhi Aisa per poi socchiuderli. «Gli sei saltata addosso la prima sera, dì la verità, sgualdrinella!»
Apro la bocca indignata ma non ne esce alcun suono.
«Aisa» ridacchia Reiju. «Ma che fai? Imiti Praline?»
«Oh Reiju, lasciala fare, è così brava»
Con un sospiro disperato mi lascio cadere sul divano e mi pasticcio la faccia come fosse fatta di pongo. Perché? Perché a me?
«Chissà quante barelle del Castello hanno battezzato!»
«Oh! Vuoi dire he lo hanno fatto lì la prima volta?!»
«Chi lo sa?»
Reiju si siede nella sedia a uovo e io la guardo di striscio lanciarmi un’occhiata compassionevole.
«Ehi magari è stato durante il giro di Raftel! Tipo alla Sabaody Tower!»
«O sotto il Patibolo di Roger!»
«Ma siete serie?!» sbotto, allontanando le mani dal viso. «Qui, qui, lo abbiamo fatto qui la prima volta e anche tutte le altre volte, qui a casa nostra e no, Praline, prima che tu lo chieda, no, non lo abbiamo fatto al Castello e la risposta alla domanda successiva è perché volevamo tenerlo segreto e voi tre mi avreste fiutato addosso il sesso a due piani di distanza!» sbrocco per poi lasciarmi andare contro lo schienale del divano ed espirare, più leggera lo ammetto.
Un po’ perché mi sono sfogata, un po’ perché in fondo, una qualche parte di me con evidenti problemi mentali, è felice di aver confessato alle mie amiche la cosa più bella della mia vita. Peccato che le mie amiche abbiano il pessimo vizio di fissare.
Sospiro di nuovo. «Che cos…» faccio per domandare ma stavolta è Praline a precedere me.
«Casa vostra?» chiede e io le rispondo con un’occhiata perplessa. «Hai detto “qui a casa nostra”» mi fa notare. Anche senza vedermi, so di attraversare in meno di un secondo tutta la gamma di sfumature che vanno dal bianco al rosso passando per il rosa acceso.
«Ah io… io… è stato un lapsus io…»
«E anche Sabo ha detto “qui a casa con te”» mi interrompe di nuovo mentre Aisa sprofonda nella poltrona-sacco. Praline si accovaccia e mi guarda da sotto in su, seria e materna e io non riesco a non controllare che non ci sia una pioggia di meteoriti fuori. «Ish, a che punto siete esattamente?»
La guardo per un istante che sembra infinito, immobile, e poi mi butto sdraiata a pancia in su, una mano a tenermi la fronte. «Non lo so… è da qualche settimana che va avanti e abbiamo pensato di non dire niente finché non capivamo che piega prendeva esattamente ma non è che facciamo grandi discorsi filosofici per capire che piega sta prendendo. Per lo più facciamo l’amore ovunque e lui ormai vive qui…».
«Perché non ufficializzate la cosa e vedete come va?» domanda Reiju, lasciando penzolare una gamba fuori dalla sedia a uovo, che rolla leggermente sul suo gancio.
Mando giù piano. Già, non è una domanda stupida. Perché non ufficializziamo?   
«Beh perché… perché è presto, insomma  ve l’ho detto, sono poche settimane, magari poi non funziona, magari facciamo su casini per niente, e poi è… è presto! E lui fa un lavoro impegnativo, io faccio un lavoro impegnativo ed è… è…»
«Presto?» domanda Reiju alzando un sopracciglio.
Mi copro gli occhi con le mani e sbuffo. Perché è così complicato?! Reiju ha ragione, dovremmo ufficializzare e basta, però…
«Ish?»
«Mh?» mi giro d’istinto verso Aisa.
«Tu vorresti ma non osi chiederglielo per paura che lui si spaventi e si tiri indietro e non vuoi rischiare di perderlo perché ti sei innamorata, vero?»
Occhi e bocca si spalancano e, se fosse fisicamente possibile, la mascella mi cadrebbe al suolo. «Come… come hai…» balbetto a fil di voce.
Aisa si stringe nelle spalle. «È evidente»
Evidente? Evidente?! Ma se fino a stamattina non lo sapevo neppure io?!
«Ish, è vero? Lo ami?» si sporge in avanti Reiju.
«Che c’è di strano?» lo difendo d‘istinto e Reiju si fa sfuggire una risata.
«Niente!» esclama. «Però allora dovresti dirglielo»
La guardo sottosopra, inarcando appena il collo. “Dovresti dirglielo”. Sì, certo, fosse così semplice.
«È complicato»
«Ma no che non lo è!»
«Sì, credimi lo è! Tu hai vent’anni, ti garantisco che a trenta è molto più complicato»
«Non ne hai ancora trenta!» protesta Aisa.
«Sì ma non ne ho più nemmeno venti»
«Io Al l’ho conosciuto a trentatré» fa notare Praline, studiandosi attenta le unghie, appollaiata sul bracciolo del divano. «E prima mi sono divertita un sacco» aggiunge, con un occhiolino per Reiju e Aisa, che ridacchiano.
Mi tiro su a sedere e lei subito scivola al posto lasciato libero dalle mie gambe, scrutandomi attenta e – che ve lo dico a fare? – sorridente. «O-okay però voi due avevate le stesse esperienze!» anso, agitata e mi passo una mano sul volto. «Io penso che Sabo si sia lasciato una storia alle spalle»
Praline solleva un sopracciglio. «Tesoro, io penso che si sia lasciato ben più di una storia alle spalle» mi fa presente senza pietà. «E innumerevoli cuori spezzati, scatole di preservativi smaltite non correttamente, chissà magari anche un figlio…»
«Parlo di una storia importante Praline!» non è che me lo ha detto ma ho avuto questa percezione, più di una volta. «Una di quelle che ti cambiano la vita»
«Ed è un problema?»
«No certo che no ma questo ci mette su due piani totalmente diversi perché… perché…» sospiro rassegnata a confessare tutto. Tanto peggio di così. «Per me è lui. È lui la storia che ti cambia la vita» ammetto tutto d’un fiato. «È il mio primo vero amore»
E se dipendesse da me sarebbe pure l’ultimo. Abbasso gli occhi sul divano, credo di rasentare il bordeaux ormai, e per rendere la situazione meno imbarazzante nessuna di loro fiata per un tempo che sembra interminabile. Quando termina, mi rendo conto che era meglio se continuavano a non parlare.
«Aaaaaaawwwwwww» 
«Ma quanto sei dolce?!?»
«Ma cucciola!»
Mi trovo invischiata in un abbraccio a quattro che, mio malgrado, non riesco a non ricambiare e mi fa anche scoppiare a ridere. Mio dio, quanto vi voglio bene ragazze!
«Ish, Ish ascolta» Reiju mi prende per le spalle, il viso a pochissimi centimetri dal mio. «È proprio per questo che glielo devi dire» trattengo il fiato, divisa tra la voglia di cedere e il panico. «E so che stai pensando “e se poi va male?” ma sai che c’è? Se va male, non è niente che tu non possa affrontare, ma se va bene… ah se va bene…» sospira con gli occhi che brillano.
Conficco le unghie nel cuscino del divano. Se va bene. Non oso immaginare se andasse bene cosa significherebbe. «Okay» prendo un profondo respiro. Okay, ma con calma. «Sentite io l’ho scoperto solo stamattina e adesso c’è in ballo questo casino del processo… Appena sarà tutto finito gli parlerò» le guardo una ad una, sincera, e sorrido. «Parola di giovane marmotta»
Scoppio di nuovo a ridere quando si lanciano in urla di giubilo e applausi e mi ritrovo di nuovo sommersa dai loro arti.
«Okay, ora che l’angolo del dolce cuore si è concluso, parliamo di cose serie» afferma Praline, sdraiandosi praticamente su di me, la testa sul mio grembo. «Dicci, Ish. Quanto è effettivamente mingherlino, Mingherlino?»
Per un attimo valuto di protestare. Per un attimo penso sinceramente di darle uno spintone e buttarla giù dal divano. Ma è, appunto, solo per un attimo.
«Oh Praline» socchiudo gli occhi con malizia e lei sorride con altrettanta malizia. «Proprio per niente»







Angolo dell'autrice: 
Dov'è?! Sara dove sei?! 
Devo stringere la mano a te e alla tua preveggenza! Ormai non basisco neanche più ma è un piacere quando giungo al punto in cui la storia va come avevi sospettato, almeno quanto è un piacere sorprenderti. 
Ne aprofitto per ringraziare tutti voi che mi seguite e leggete e supportate. 
Spero vi sia stata gradita la lettura. 
Un bacione. 
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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Mi riavvio i capelli, studiando il mio riflesso con occhio critico.
Camicia bianca, a posto. Cravatta portafortuna della mia laurea, a posto. Barba rasata, a posto. Occhiaie… per quelle non posso farci niente ma ho la fortuna di essere maschio e faranno una buona impressione. Ho l’aria di uno che ha lavorato sodo, così. Anche se forse qualcuno capirà che in realtà non ho semplicemente chiuso occhio per la tensione.
La mia carriera nell’avvocatura ha subito tante svolte e frenate nel giro di pochi anni ma l’aula di tribunale è sempre stato il mio vero habitat. Sono eccitato e terrorizzato al tempo stesso all’idea di rimetterci piede, dopo così tanto tempo. L’ultima volta è stato poco prima dell’estate di tre anni fa, poco prima di Bibi.
Bibi.
Sembra passato un decennio, altro che pochi mesi. Ma forse in una qualche dimensione parallela che interferisce con la nostra, pochi mesi sono davvero un decennio perché io mi sento così diverso. Mi sembra come se il mio mondo fosse sempre stato questo. Io che vivo da mio fratello e la mia migliore amica, lavoro per il Castello, faccio la spola tra qui e casa di Ishley.
Ishley.
È lei a tenermi sano in mezzo a questa follia. È lei che mi da l’impressione che sia così da sempre perché è lei che mi sembra esserci da sempre. Stamattina mi sono svegliato con il suo nome sulle labbra e mi è venuto così naturale stringere il nulla accanto a me, convinto nel dormiveglia di trovare il suo corpo contro il mio. Non mi piace, dormire lontano da lei, svegliarmi senza neanche il suo profumo a farmi compagnia. Quando fa il turno di notte, mi basta quella mezz’ora tra il suo arrivo e la mia sveglia che suona per iniziare bene la giornata ma ieri ho pensato mi convenisse partire direttamente da qui per il tribunale. È più vicino e Law viene con me, così ci andiamo con la Firefist e non ho corso il rischio di non trovare nemmeno una macchina del Merry Go Round nelle vicinanze, tutt’al più che Ish ne ha approfittato per organizzare un pigiama party con Praline, Aisa e Reiju e Perona che si è aggiunta all’ultimo.
Un brivido mi scuote all’idea di quelle tre in assetto da guerra. Punto tutto su mia cognata per sperare di riaverla indietro incolume.
Fatto sta che per quanto positive le mie intenzioni fossero, alla fine ho passato una notte infame ma ora eccomi qui, pronto ad andare a fare qualcosa che mi elettrizza, sicuro di me e delle mie capacità come non mi sentivo da un pezzo, agitato sì, ma per l’adrenalina, non più per la paura di non ritrovare il mio posto nel mondo. Quello credo di essere quasi sul punto di capire dove sia e oggi è il primo passo verso la conferma.
Okay, Sabo, sei pronto. È il momento di andare.
Con un'ultima rassettata a capelli e colletto, esco dal bagno e mi dirigo in cucina. Ovviamente, ho una fame pantagruelica ma dovrò mangiare in macchina dal momento che ci hanno fissato l'udienza al primo orario disponibile.
Considerato che c'è solo la lettura dei capi d'accusa ho in programma la seconda colazione dopo che avremo finito.
«Buongiorno!» mi accoglie una voce solare e inattesa.
«Che fai sveglia così presto?» domando a Koala mentre accetto la tazza di caffè che mi tende, ravvivando il dilemma che mi logora da settimane. Come fa a maneggiare il caffè con così tanta serenità senza poterlo bere?
«Non riuscivo a dormire per il caldo e ho pensato di fare i waffle» si stringe nelle spalle e torna verso il bancone su cui è posata la piastra.
La fisso, senza parole. I waffle. Mamma mi faceva sempre i waffle a colazione nelle giornate importanti, quelle che è riuscita a vedere. Il primo giorno di scuola, la prima partita della stagione di basket, la mattina di Natale, il giorno del mio compleanno.
Sì, mamma mi faceva sempre i waffle nei giorni importanti, Makino ha continuato la tradizione e se dovessi affermare che i waffle sono i miei dolci preferiti sarebbe impreciso. I waffle di mamma e di Makino sono i miei dolci preferiti, e da oggi, ne sono certo, anche quelli di Koala.
Ancora immobile, la osservo sbloccare la piastra ed estrarre i quadrati di pastella rappresa con una spatola.
«Guarda che si fredda» mi fa notare, lanciandomi un’occhiata da sopra la spalla e io sobbalzo prima di portarmi la tazza alle labbra e sorseggiare un po’ di caffè. Koala finisce di trasferire i waffle su un piatto e poi si gira a guardarmi con occhi guizzanti. «Sei agitato?» domanda e lo stomaco risponde per me, facendola ridacchiare quando mi porto una mano alla nuca, in imbarazzo. «Forse dovresti mangiare qualcosa»
«Mangerà in macchina, non abbiamo molto tempo» Law appare sulla porta – o forse era lì già da un po’ a giudicare dalla posizione rilassata con cui è appoggiato allo stipite – impeccabile nel completo scuro. Lui ha l’aria di non avere affatto fame. «Tra poco dobbiamo muoverci» avvisa  e lo fa guardando Koala che, per tutta risposta, mette su un’espressione enigmatica prima di avvicinarsi al tavolo e sollevare dalla sedia un sacchetto chiaramente regalo di cui non mi ero reso conto. Stranito, la guardo appoggiarlo sul tavolo e farlo scivolare verso di me. Sposto gli occhi dal sacchetto a Koala, al sacchetto a Koala e Law, che si è avvicinato e fermato alle sue spalle, ancora al sacchetto, di nuovo a Law e K…
«Non si apre da solo» mi fa notare mio fratello, già sulla buona strada per spazientirsi.
Con mani incerte stacco le graffette e ravano nella carta velina che crepita mentre estraggo la più bella ventiquattrore che abbia mai visto. In pelle blu, morbidissima, due fibbie e una tracolla removibile per poterla portare anche solo dal manico, una striscia di cuoio al naturale al centro, giovanile e professionale al tempo stesso.
Sarà costata un rene.
«Ragazzi…»
«Sappiamo che sei affezionato alla tua tracolla…» dice Koala, riferendosi alla mia borsa di cuoio vissuta, che risale al primo anno di università. «…ma abbiamo pensato che per le udienze potesse servirti. Ed è anche personalizzata»
Ancora più spaesato riporto veloce gli occhi sulla ventiquattrore e la setaccio attento finché non le trovo, discretamente incise di fianco alla fibbia sinistra, tre lettere, M. D. S. e il cuore mi perde un battito per poi accelerare all’inverosimile.
«Ti piace?» domanda ancora Koala, in un sussurro e io non trovo le parole, gli occhi che pizzicano.
«Se mi…» distolgo lo sguardo e sbuffo una risata. «È stupenda» mando già a vuoto e per qualche istante ce ne stiamo fermi qui, a guardarci in faccia e sorridere – o ghignare – come tre deficienti, finché io non mi riscuoto.
Con cura, poso la ventiquattrore sul tavolo e mi avvio verso la porta. «Aspettate un momento» chiedo prima di precipitarmi in salotto e recuperare il piccolo pacco regalo che giace da giorni ormai nel mio zaino, in attesa del momento propizio per venire consegnato. Torno rapido in cucina e, imitando, Koala, faccio scivolare la confezione malconcia e impacchettata alla meno peggio verso di loro.
Koala mi guarda con sospetto e divertimento mentre armeggia per staccare i pezzi troppo grandi di scotch, avendo cura di non strappare la carta stropicciata. Forse avrei dovuto mettere l’orgoglio da parte e chiedere a Makino di aiutarmi a incartarlo, ma ormai.
Stringo lo schienale della sedia in tensione quando Koala finisce finalmente di scartare e trattiene il fiato nel prendere in mano il contenuto del pacchetto.
Il pupazzo di un gatto con un cappello a cilindro, occhiali da aviatore, giacca e fazzoletto al collo.
«Lindbergh» mormora Koala senza fiato. «Sabo ma… ma…» balbetta mentre Law respira così piano che sembra in apnea. Perché non si tratta di un pupazzo qualunque e lo sanno bene, loro.
«È per lui» indico con un cenno del capo la pancia ora più sporgente di Koala.
Lindbergh è stato il mio primo peluche, il più vecchio regalo di mamma.
«O lei, non lo so» mi stringo nelle spalle e mi passo una mano tra i capelli. «Lindbergh mi è stato accanto tanti anni e mi ha insegnato tante cose. Ma ora sono cresciuto e a lui serve un nuovo bambino» li guardo alternativamente, immobili di fronte a me. «Sarete due genitori eccezionali. Voglio dire…» sorrido «…guardate cos’avete fatto con me!» allargo appena le braccia e respiro a fondo. «Vado a mettere la giacca, Law, così possiamo andare» avviso poi, prima di lasciare la cucina con passo baldanzoso ma mi fermo al centro dell’ingresso quando riconosco un singhiozzo alle mie spalle.
Che cosa…?
«Oh e piantala di ghignare!» protesta Koala, con voce nasale. «Che ti sei commosso anche tu!»
«Però io non sto piangendo perché il mio amico di trentun’anni è diventato grande e va in tribunale a combattere i catt…» lo sento esalare una mezza risata seguita dal tonfo di qualsiasi cosa Koala gli abbia tirato dietro. Spero non la piastra dei waffle. Mi lascio andare contro il muro, restando in ascolto.
«È colpa di tuo figlio se ho gli ormoni a palla!»
«Quale dei due?»
«Quello adolescente!»
Mi lascio sfuggire una risata anche io, soffocandola con la mano. Mio dio, mio dio sono così fortunato…
«Ora vado o gli faccio fare tardi» ascolto Law avvisare Koala e lei rispondergli con un “okay” appena sussurrato prima di rubargli un bacio e solo allora mi riscuoto,  sbrigandomi a recuperare la giacca in salotto e tornare in cucina per prendere la ventiquattrore, la tracolla sulla spalla.
«Faccio il cambio in macchina» sorrido a Koala e spero che non sia troppo evidente sulla mia faccia quanto mi sento emotivamente scosso, anche se è una bella sensazione. Lei per tutta risposta mi tende un sacchetto di carta che emana profumo di waffle.
«In culo alla balena» mi sorride materna.
La osservo un istante, così piccola eppure così forte, la più forte di tutti noi, e, senza indugio, mi avvicino per scoccarle un bacio sulla fronte.
«Speriamo che non caghi» mi stringo nelle spalle, prima di affrettarmi dietro a Law, fuori casa e alla volta del tribunale.
 

 
§

 
«Stai bene?» domanda Law con una faccia molto poco convinta, mentre accartoccio e massacro il sacchetto dei waffle ora vuoto.
Sollevo gli occhi di fronte a me, lungo la breve scalinata, su verso le grandi porte e le colonne di marmo che sostengono il frontone con scritto, a caratteri cubitali, “La legge è uguale per tutti”.
Il tribunale di Raftel, nel quartiere di Pangea, un luogo che da bambino mi faceva schiacciare il naso contro il finestrino quando ci passavamo per caso, e che da adolescente era diventata meta obbligata, tutti quei giorni quando studiare o incassare l’ennesima ramanzina di papà senza scappare di casa mi sembrava troppo intollerabile, per ricordarmi cos’era davvero importante, per ricordarmi il mio obbiettivo, per cosa mi sforzavo tanto, dove mi ero ripromesso di arrivare un giorno. Ed ora eccomi qua, per la prima volta come primo avvocato.
«Sto bene» annuisco, lanciando il sacchetto sul sedile posteriore, vicino alla mia vecchia tracolla, che giace sgonfia, vuota di tutte le carte che ho trasferito nella mia nuova ventiquattrore, il cui manico stringo come se fosse la mia salvezza.
Prendo un profondo respiro e apro la portiera, scivolando fuori dalla macchina in simultanea con Law. È una bella giornata, come sempre, calda e limpida ma con il completo sto bene. Senza giacca penso che avrei freddo, segno che, in realtà, sono morto di agitazione anche se non me ne rendo conto. Tutto ciò che percepisco in questo momento è determinazione e una punta di dispiacere per l’importante operazione che oggi Ishley ha in programma. Non è la sua prima volta in assoluto come primo operatore ma per questo particolare e delicato tipo di intervento sì.
E avrei voluto essere là a sostenerla, almeno quanto egoisticamente la vorrei qui con me a sostenermi.
Per fortuna c’è mio fratello con me, sono sicuro che andrà tutto bene. È solo la lettura dei capi d’accusa.
«È solo la lettura dei capi d’accusa» sembra leggermi nel pensiero, Law.
«Quando apri un bambino per solo un’appendicite non trovi mai sorprese impreviste?» domando, senza staccare gli occhi dall’edificio, ai piedi della scalinata.
«Capita» si limita a rispondere atono.
«E cosa fai se succede?»  
«Faccio quello che so fare, come lo devo fare»
Rifletto un momento sulle sue parole e annuisco. «Direi che è un’ottima strategia» concedo, posando il piede sul primo gradino.
«Signor Monkey, signor Monkey!»
Sorpreso, mi giro verso la voce in rapido avvicinamento e aggrotto le sopracciglia quando individuo un tizio correre verso di noi, sbracciandosi, vestito in giacca e cravatta e con una tracolla molto simile alla mia vecchia che penzola dalla spalla. Si ferma a due passi da noi e posa le mani sulle ginocchia, busto piegato in avanti, mentre cerca di regolarizzare il respiro.
Lo studio, perplesso. Avrà non più di venticinque anni, capelli rosa. Non l’ho mai visto in vita mia.
«Posso aiutarla?»
«Sono C-Coby… Vessel…» ansima tra un respiro e l’altro, una mano posata al petto.
Coby Vessel? Dovrebbe dirmi qualcosa? Non conosco nessun Coby Vessel i… Oh. Oh! Certo!
«Sei il tirocinante!» esclamo, colto da improvvisa illuminazione e lui annuisce energicamente.
«Mi scusi per il ritardo, signore»
«Ma di che parli?» gli do una pacca sulla spalla. «Sei arrivato preciso» certo, correndo, ma dettagli.
Me lo ricordo bene cos’è essere un tirocinante, gli orari allucinanti, i cambi programma dell’ultimo minuto, soprattutto al mio vecchio studio, dove Coby fa appunto il praticantato. O almeno così sospetto, visto che ho chiesto l’altra sera a Joe se aveva qualche giovane volenteroso da mandarmi per aiutarmi con la mole di lavoro che la causa richiederà. Un messaggio poteva anche mandarmelo per avvisarmi che qualcuno lo aveva effettivamente trovato, ma non me la prendo, Joe è fatto così e probabilmente a Coby lo hanno detto stamattina, il che rende ancora più incredibile il fatto che sia arrivato in tempo.      
«È troppo gentile signore. Grazie dell’opportunità» si inchina quasi e io riporto il piede giù dal gradino per piazzarmi per bene di fronte a lui.
«Coby, dobbiamo entrare là dentro e dare l’impressione di una squadra unita e cazzuta. Lascia perdere il “signore” e dammi del tu»    
Coby sbatte le palpebre sorpreso. «Come… come vuole, signore»
«Sabo» lo correggo. «E dammi del tu»
«V-va bene… ehm… Sabo?» 
Sorrido sodisfatto. «Ecco, così va meglio» sposto gli occhi poco sopra la sua spalla e mi accorgo di un gruppetto di persone che si avvicina compatto e che non ci metto molto a riconoscere.
Sanji, Usopp, Reiju, Aisa e Robin e dietro di loro – e il cuore mi perde un paio di battiti – Dadan e papà, a braccetto con una bella donna bionda che non ho mai visto prima, tutti ben vestiti e impeccabili.
«Ehi!» esclamo, rivolto soprattutto a loro due, mentre bacio Robin sulle guance. Non sono così tanto sorpreso per gli altri, anche se devo farmi violenza per non chiedere ad Aisa e Reiju com’è andato il pigiama party, se Ish è incolume e se al Castello c’è almeno Praline con lei, in questa importante giornata. «Che… che fate qui?» sorrido a Dadan e a papà, con sguardo interrogativo e un impercettibile cenno del capo verso la donna agganciata al suo gomito.
«Siamo venuti a controllare che non combinassi danni, moccioso» mi apostrofa Dadan, tirando su con il naso. «Sei ancora un ragazzino, non credere di essere diventato grande solo perché vai in tribunale come… c-come primo a-a-a-avvocato…»
«Tieni Dadan»
«Grazie tesoro» singhiozza Dadan, mentre Law le offre il suo fazzoletto di stoffa prima di imitarmi e posare gli occhi su papà con una certa insistenza. Lui si porta la mano libera alla bocca e si schiarisce la gola, chiaramente in imbarazzo, chiaramente per noi due che lo conosciamo come le nostre tasche e ci scambiamo pure un’occhiata divertita. Avanza verso di noi.
«Ragazzi, questa è Betty. Lavora al Kiros Memorial ma credo che non vi siate mai incrociati» dice, guardando Law che nega appena con il capo. «Betty, loro sono Sabo e Law»
«Ho sentito molto parlare di voi, è un piacere conoscervi finalmente di persona» ci tende la mano Betty e noi la stringiamo con cortesia e divertita sorpresa.
Hai capito papà?!
«Piacere nostro»
«Sabo spero non ti risulti invadente il mio essere qui in questa giornata così importante. Ci tenevo a darti il mio supporto e sono sicura che troverai il modo per raddrizzare questo torto e dare giustizia e quella bambina» annuncia solenne e io mi sento improvvisamente più carico e sicuro che mai.
«Grazie Betty!» esclamo sorpreso, più dall’effetto che le sue parole hanno su di me che per il discorso in sé.
«Allora siamo pronti?» domanda papà e io giro gli occhi su Reiju, ai margini del mio campo visivo, che parla educatamente con Coby e cerca chiaramente di tranquilizzarlo. La studio un istante, colto da un pensiero.
«Quasi» rispondo, avvicinandomi a loro. «Ehi Rei»
«Ciao Sabo» mi sorride, serafica come sempre.
«Ciao» lancio un’occhiata verso il tribunale e poi torno su si lei. «Ti va di assistere in prima fila?»
Corruga appena le sopracciglia, sorpresa. «In che senso?»
«Ci sono tre posti disponibili per gli avvocati per ogni parte in causa» le sorrido sghembo e lei mi fissa ancora un momento, poi sgrana gli occhi e spalanca la bocca.
«Dici sul serio?» soffia incredula.
Mi stringo nelle spalle. «Non sei iscritta all’albo e nemmeno laureata. Puoi fare solo da portacarte ma sarai lì con noi e se ti venisse qualche idea…» mi interrompo quando mi si avvicina e, con espressione decisa, mi afferra per le spalle. Mi guarda per un lungo istante, con un’espressione di affetto che mi lascia alquanto perplesso. «Grazie» vibra e per un attimo ho l’assurda sensazione che non mi stia ringraziando solo per la causa ma anche per qualcosa che non c’entra proprio niente ma la scaccio subito.
«In realtà sei tu che fai un favore a me» ammetto, serio.
In questo lavoro, l’apparenza fa la sua parte, una squadra unita e cazzuta fa la sua parte. Non è per intimorire nessuno, non sono così ingenuo, non dopo che ho saputo chi si è potuto permettere Krahador. Ma posso giocare su quel po’ di credibilità in più che avere un’autorità, per quanto relativa, mi conferisce.
Non ho intenzione di farmi trattare come un pesce rosso nella vasca degli squali.
«Bene» annuisco, spostando gli occhi sui miei due inattesi colleghi. «Ora andiamo» annuncio e comincio a salire le scale, seguito dagli altri.
«…’etto niente?» sento Law chiedere a papà in un soffio.
«Mi sembrava presto, volevo essere sicuro, insomma, sai… che fosse una cosa seria»
Trattengo a stento una risata. Raramente ho sentito papà tentennare e parlare senza il suo autoritario cipiglio ma è un classico di noi Monkey. Quando ci innamoriamo sveliamo dei lati che a volte sono sconosciuti persino a noi stessi.
Restiamo in assoluto e concentrato silenzio per tutto il tragitto e quando arriviamo all’aula la troviamo occupata solo da due persone, già posizionate dal lato della difesa. Le file della giuria sono vuote, questo è un caso per cui è sufficiente il verdetto del giudice. E visto chi ci è capitato come giudice, devo ancora capire se è un bene o un male.
Per quanto riguarda l’avvocato difensore, sono certo che sia un male.
Mi avvicino alla bassa ringhiera che divide il pubblico dall’area dove si svolge il processo e lascio passare Reiju e Coby prima di me, senza mai staccare gli occhi da loro. Kuro si gira a fulminarmi ma lui continua imperterrito a studiare le proprie carte, labbra strette, postura tranquilla, capelli raccolti sulla nuca come sempre quando viene in tribunale. So che ci ha visti ma non ci lancia nemmeno un’occhiata. Non siamo degni della sua attenzione.
Basil Hawkins.
Il profeta, lo chiamano. Non ha mai perso una causa e tutte quelle che ha rifiutato sono diventate il fallimento di chi le ha accettate. Se sia perché è un fuoriclasse o se perché è capace di fiutare la vittoria e la sconfitta nel momento in cui i clienti mettono piede nel suo studio, non è dato saperlo. Probabilmente, un miscuglio delle due cose. Fatto sta che lui non è precisamente il genere di figura professionale per cui ho seguito la strada dell’avvocatura nella vita, non è il tipo di avvocato che io ammiro, il guadagno è il suo primo pensiero, ma non posso negare che, in tribunale, sia una maledetta rockstar.
Contro chi mi sono andato a mettere? E come ha fatto Kuro a permettersi la sua parcella?
«Sabo!» mi richiama Reiju sottovoce e io mi accorgo solo ora che sono ancora fermo qui, gli occhi ancora su di loro in un tentativo di incenerirli, e che, intanto, l’agente deputato ad annunciare il giudice è uscito dalla porta sul retro della cattedra.
Con passi ampi e rapidi raggiungo il mio posto, poso la ventiquattrore e mi ritiro su appena in tempo, le mani a lisciare i baveri della giacca e la cravatta.
«Il Castello sulla Collina contro Kuro Krahador» annuncia con voce stentorea. «Lettura dei capi d’accusa, presiede il giudice Hina Keji. Tutti in piedi»
Alle mie spalle giacche e gonne frusciano appena e un brivido mi scuote. Potrebbe essere di aspettativa ma punto di più sul terrore quando lei esce dall’ufficio e si porta sull’alto scranno, la toga impeccabile e i capelli sciolti sulle spalle.
«Grazie mille, agente Fullbody» si accomoda con movimenti solenni e si prende un attimo per scandagliarci tutti, probabilmente per decidere a chi risucchiare l’anima o mangiare il cuore per primo.
No, Sabo, no! Niente battutacce! Te lo sei ripromesso.
«Signori. Signor Krahador» saluta con un cenno del capo. «Avvocato Hawkins. Avvocato Monkey!» abbozza un piccolo ghigno e io subito muovo la testa in un impercettibile inchino. «Che piacere rivederla dopo tanto tempo»
«Il piacere è tutto mio, Vostro Onore»
«Non credo di conoscere i suoi aiutanti» si allunga appena con il busto, posando il mento sulla mano, in attesa.
«Loro sono l’avvocato Vessel e la signorina Vinsmoke, che sta finendo di laurearsi in giurisprudenza e ha colto al volo l’esperienza formativa che le si è presentata» li indico con la mano.
«Se sarà formativo dipende da quanto durerà il processo. Due udienze hanno poco di formativo» fa notare Hawkins, tanto per cominciare con il piede giusto e avvisare che ha intenzione di stracciarci domani, al primo giorno di processo.
Ma questo è tutto da vedere.
«Avvocato Hawkins, la prego di tenere a bada il suo testosterone nella mia aula» lo ammonisce il giudice Keji, senza staccare gli occhi da Rei. «Apprezzo molto il suo zelo, signorina Vinsmoke. È encomiabile che si porti avanti già da adesso, anche se questo non le sconterà la gavetta che l’attende dopo la laurea. Ma sappiamo bene entrambe quanto sia dura essere donne a questo mondo» lo dice quasi come una confidenza, a cui Rei, prontamente, annuisce e io devo trattenere un sorriso.
Non male, come inizio.
«Bene. Ora accomodatevi, tutti tranne lei, avvocato Monkey, e procediamo con la lettura dei capi d’accusa»
Mi sbrigo a recuperare la ventiquattrore e sfilare l’unico foglio che mi servirà oggi, mentre tutti intorno a me si siedono composti e silenziosi. C’è solo un problema. Non riesco a trovarlo. Il sudore comincia a imperlarmi la fronte mentre ravano come un disperato, spostando cartelline varie che non so nemmeno perché mi sono portato dietro, per fare scena suppongo. Insomma, si è mai visto un avvocato con un solo foglio nella ventiquattrore?
«Mi scusi solo un momento Vostro Onore, io…»
La risata sbuffata di Kuro mi trapassa come un proiettile, ferisce dove fa più male, nel mio orgoglio, nel mio desiderio di apparire almeno rassicurante e professionale, nel mio ruolo di ambo rappresentante legale e delegato del Castello, e io non riesco a non girarmi verso di lui, che mi guarda apertamente con compassione, mentre Hawkins mi fa per lo meno la cortesia di restare impassibile, lo sguardo fisso di fronte a sé.
La ventiquattrore mi scivola dalle dita quando Reiju la tira verso di sé, se la porta sulle gambe e, in due secondi esatti, trova quello che sto cercando. La guardo incredulo. Se non fosse come una sorella minore – e se non fosse per Ishley soprattutto – la bacerei.
«Grazie» le sussurro e lei sorride in risposta, un sorriso incoraggiante. Prendo un profondo respiro per calmarmi.
Forza, Sabo, forza.
«L’accusa ritiene il signor Kuro Krahador colpevole di abuso della sua figura di tutore nei confronti della signorina Kaya Kurami, negligenza verso gli obblighi che il ruolo richiede e disinteresse per la salute della sua assistita» annuncio e mi vorrei picchiare da solo quando mi rendo conto che gli appunti nemmeno mi servivano.
«Come si dichiara l’imputato?»
«Non colpevole, Vostro Onore» si alza brevemente Hawkins, come da copione.
«Molto bene» annuisce il giudice Keji, impugnando il martello. «La prima udienza è fissata per domani alle dieci e trenta. Buona giornata a tutti» ci congeda e noi ci alziamo e cominciamo a uscire ordinatamente.
Law mi lancia un’occhiata orgogliosa, Aisa mi fa il pollice alzato, Reiju e Coby mi affiancano e io allento la presa sul manico della ventiquattore, l’agitazione che diminuisce a ogni passo.
È andata. Law aveva ragione, è stata davvero solo una lettura dei capi d’acc…
«Kuro Krahador contro Ishley Isabel Habena. Lettura dei capi d’accusa, presiede il giudice Hina Keji. Tutti in piedi»
La scarica di tensione fa vibrare l’aria mentre passa da me a Reiju, Law, Aisa, Sanji e Usopp. Ci immobilizziamo uno dietro l’altro, non che mi renda molto conto di cosa succede intorno a me.
Che cosa ha detto? Ho… ho sentito male, vero?
«Dov’è la signorina Habena?»domanda il giudice e io mi giro lento e omicida.
Che cosa credono di fare?
«Non è presente, Vostro Onore»
«Capisco. Penso si possa comunque procedere con la lettura dei capi d’accusa, tanto immagino che l’imputata si sarebbe dichiarata non colpevole»
Il flusso sanguigno quasi mi si blocca nel braccio tanto stringo la borsa mentre osservo Hawkins alzarsi in piedi e Kuro sorridere con soddisfazione.
Maledetto bastardo.  
«L’accusa ritiene la dottoressa Ishley Isabel Habena colp…»
«Sabo» mi richiama papà ma le gambe si muovono da sole.
«…’evole di negligenza sul lavoro e abuso della propria posizione…»
Non credo proprio!
«…ai danni del mio ass…»
«No!» tuono mentre supero di nuovo la ringhiera.
«Sabo!»
«Avvocato Monkey, cosa sta facendo?»
«La dottoressa Habena non è stata informata della denuncia a suo carico e non è stata messa nella condizione di difendersi dalle accuse…»
«Per caso l’avvocato Monkey si occupa della difesa?» s’informa Hawkins ma non mi faccio intimorire.
La balena ha cagato ed è un mare di merda, ma è la sorpresa nascosta sotto all’appendicite e io devo fare quello che so fare e come devo farlo. Non c’è spazio per l’insicurezza.
«Lo farei se la dottoressa Habena avesse avuto tempo di contattare un avvocato anziché cadere vittima di questo sotterfugio…»
«Avvocato Monkey, sta accusando il suo collega»
«La dottoressa Habena ha spacciato un esame di un paziente sconosciuto per un esame della signorina Kurami con il preciso intento di imbrogl…»
«Il signor Krahador stava mettendo a rischio la salute della signorina Kurami e la dot…»
«Avvocati! Ora basta!»
«…’toressa Habena ha agito di conseguenza come richiesto dal suo ruolo e c’è più di una persona che può testimoniarlo!»
«Avvocato Monkey!»
«Se insistete con questa accusa posso garantirvi che la sola conclusione di questo caso sarà una denuncia per diffamazione ai danni del signor Krahador che mi sembra avere già abbastanza capi d’accusa pendenti sulla testa»    
«Avvocato Monkey sta rischiando l’arresto per oltraggio alla corte, l’avviso» mi richiama il giudice quando avanzo verso il banco della difesa ma, anche se la sento forte e chiaro è come se non capissi il senso di quello che dice. Non ho ancora finito e non mi posso fermare.
Non mi voglio fermare.
«Vostro Onore» mi volto verso di lei. «La dottoressa Habena ha commesso un errore, un errore in buona fede in un momento di stress e tensione, in cui il suo primo pensiero andava alla sua giovane paziente e al suo benessere» avanzo verso la cattedra, senza paura. «Quest’accusa è ridicola, è sicuramente una deposizione che dovrà già visionare per il caso precedente. La condotta della dottoressa non merita un simile trattamento, il vero abuso di potere lo sta perpetrando l’avvocato Hawkins»
Ecco fatto. Bravo, Sabo. Un rientro in tribunale con tanto di arresto per oltraggio alla corte, nemmeno alla prima udienza ma alla lettura dei capi d’accusa.
Sei davvero un fuoriclasse, Monkey.
Immetto aria nei polmoni, pronto a sospirare sconfitto.
«È praticamente lo stesso caso e io sono il giudice di entrambi» riflette ad alta voce il giudice Keji, senza staccare gli occhi da me e, non so come, io riesco a controllare il sussulto. «Ritengo sarebbe una perdita di tempo e denaro pubblico mantenere due azioni legali parallele che tanto facilmente si intersecano, ragion per cui seguirò il suggerimento dell’avvocato Monkey e ascolterò la deposizione della dottoressa Habena e dei testimoni oculari riguardo la sua condotta quando arriverà il momento durante il caso contro il signor Krahador. Se riterrò poi di dover prendere provvedimenti al riguardo, tuttavia, non esiterò a farlo, avvocato Monkey, questo sia molto chiaro»
Annuisco secco, i polmoni quasi mi esplodono per il sollievo e l’aria trattenuta, ma non lo do a vedere. Ce l’ho fatta. Ho fatto saltare l’accusa contro Ish, e farla scagionare all’interno del caso del Castello sarà molto più fattibile che non in un’azione legale dedicata.
Il pensiero che ho praticamente sconfitto Hawkins con un’arringa improvvisata arriva in ritardo e non mi da nessun tipo di soddisfazione. Intanto perché non è nemmeno una vera sconfitta visto che la causa non è arrivata neppure alla lettura dei capi d’accusa ma, soprattutto, perché non ho fatto niente che non avrebbe fatto chiunque nei miei panni.
Questo infame ha provato a prendersela con la mia ragazza e io l’ho rimesso al suo posto.
Mi fermo a pochi passi dalla ringhiera, a pochi passi dal banco a cui sono ancora seduti e lancio un’occhiata assassina a Kuro, che per lo meno ha smesso di ghignare e almeno questo, sì, un po’ di soddisfazione me la da. «Ti avevo detto di starle lontano» sibilo e non so nemmeno se mi sente e non mi importa.
Non voglio respirare la sua stessa aria un minuto di più. Purtroppo il giudice ha altri programmi.
«Avvocato Monkey» mi richiama e quando mi volto lo stomaco mi fa una capriola di fronte al sorriso che mi rivolge. «Se posso darle un consiglio, cerchi di distrarsi stasera e recapiti lo stesso consiglio alla dottoressa Habena. Sono certa che gioverà a entrambi»
Sgrano appena gli occhi ma mi impongo contegno.
Dannazione anche a lei, perché deve sempre fare così?! Farsi amare e poi odiare da un minuto con l’altro!
«Grazie del consiglio Vostro Onore» taglio corto prima di precipitarmi a passo sostenuto fuori dall’aula e dal tribunale.
Il caldo cocente di ormai metà mattina mi coglie impreparato. Sfilo la giacca e mi lascio scivolare sul primo gradino in alto della scalinata, disfando veloce il nodo della cravatta.
Altro che seconda colazione, mi viene da vomitare.
Arrotolo i polsini e mi prendo la testa con le mani e non so quanto tempo passa esattamente quando mi accorgo che gli altri mi hanno raggiunto e sono tutti in piedi intorno a me e tutti intenti a fissarmi, con espressioni che vanno dallo scioccato al serafico, passando per il perplesso e l’orgoglioso.
«Beh?» protesto.
«Ma ti sei accorto di cos’hai fatto?» domanda Usopp.
«Sabo! È stata una figata pazzesca!» esulta Coby prima di arrossire per l’imbarazzo.
«Sei stato incredibile!» saltella Aisa, intorno a Coby, mentre Law si siede di fianco a me e mi stringe la spalla. Scambio un’occhiata e un sorriso stanco con mio fratello e poi mi giro a guardare tutti gli altri, uno ad uno.
«Non diteglielo» chiedo. «Non ditelo a Ishley» mi soffermo più a lungo su Reiju, che annuisce, e Aisa, che invece spalanca la bocca incredula.
«Non vuoi farle sapere che hai passionalmente lottato per lei, lancia in resta, rischiando anche di farti mettere dentro?» chiede indignata.
Io sgrano appena gli occhi, pietrificato.
È… È questo che ho fatto?
Mi giro rapido verso Law che, però, per mio sommo sollievo, fissa Aisa con l’aria di uno che, a differenza mia, non sa assolutamente di cosa stia parlando.
«Esatto» annuisco deciso mentre mi rimetto in piedi. «Si sentirebbe in colpa e deve essere concentrata per quando dovrà deporre» Non permetterò che le rovinino la carriera. Non permetterò che la feriscano in alcun modo. «Dobbiamo trovare un posto per lavorare» annuncio poi. «Il mio ufficio al Castello non tiene tre persone più tutte le carte» perdo un momento lo sguardo sul parco di fronte al tribunale, cercando di mettere ordine nella mia testa per capire a quale, tra le mille cose che devo fare, dare priorità.
«Potete venire al catering se volete» offre Sanji. «C’è tanto spazio ed è un posto tranquillo»
Cerco con gli occhi Reiju e Coby per ottenere il loro consenso, prima di annuire a mia volta. «Okay» sospiro, avviandomi giù per le scale. La giornata è appena iniziata.
 

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


Angolo degli avvertimenti:
Attenzione, attenzione! Questo capitolo contiene un'alta dose di OC, ben quattro! 
Oltre a Eris che giò conoscete ci sono altri due bambini inventati di sana pianta e prima che vi scervelliate per trovare il corrispettivo personaggio minore in One Piece, Hana non esiste nel manga e nemmeno nell'anime. E' un personaggio frutto della fantasia mia e di Zomi. 
Detto questo, spero che il capitolo vi piaccia e vi auguro una buona lettura. 
Hope you'll enjoy it. 
Page. 














«Che cosa?!» domando, senza parole, gli occhi fissi su Robin mentre allungo le braccia per afferrare Eris al volo, quando cade a seguito dell’ennesimo tentativo di arrampicarsi sulla testa di Zoro.
Non ho capito perché ha voluto restare a casa. Visto che tanto sono tappato qui dalla mattina alla sera a cucire come un forsennato per finire in tempo tutti i capi da presentare al concorso, potevo pensarci io alla bambina mentre Robin era in tribunale a dare sostegno morale a Sabo. E ad assistere anche all’inatteso sboccio del biondissimo, a quanto pare. Da pubescente ad avvocato in una mattina. A saperlo andavo anche io, avranno fatto il bagno nel testosterone, porca vacca.
Comunque, tornando a Zoro, ho più di un motivo per sospettare che la sua decisione sia dipesa dal fatto che non si fida di me e, non fossi troppo impegnato a manifestare tutto il mio sincero stupore per il racconto di Robin, mi premurerei di fargli vedere quanto la cosa mi indigna. Ormai vivo qui da due mesi, aiuto come posso e faccio sistematicamente la lavatrice.
«Ve lo garantisco, per un attimo non l’ho quasi riconosciuto. Da scoppiare di orgoglio» asserisce Robin, con lo stesso tono e lo stesso apparente coinvolgimento con cui potrebbe comunicare a una terza media che l’acqua raggiunge il bollore a cento gradi centigradi.
«Non è da lui fare una cosa così imprudente» riflette Zoro, braccia incrociate al petto. Non sembra neanche accorgersi di Eris che gli spalma una mano in faccia e con l’altra si aggrappa la suo orecchio per cercare di non cadere di nuovo. «Di norma rifletterebbe accuratamente su come agire. Chissà che gli è preso»
Incrocio lo sguardo sornione di Robin e tanto mi basta per sapere che pensiamo la stessa cosa.
Eh già, chissà che gli è mai preso!
Aisa mi ha raccontato che c’era dell’attrazione tra Biondissimo e Lentiggini anche se la cosa mi sembra ben oltre ormai. Zoro, d’altra parte, non ha informazioni di prima mano come me e, anche se le avesse, è un uomo ed è etero. Non si può pretendere.
«Comunque si è trattato di un risvolto imprevisto che cambia tutte le carte in tavola» Robin scavalla le gambe e si porta sul bordo della poltrona, in procinto di alzarsi. «Ora la condotta di Ishley è sotto processo anche se non ufficialmente e anche Aisa sarà chiamata a deporre» aggiunge guardando dritto verso di me e io annuisco piano, appuntandomi mentalmente di chiamare mia sorella più tardi. È anche da un po’ che non ci facciamo una bella chiacchierata. «Okay, piccola mia, andiamo?» chiede a Eris che storce la bocca in una smorfia.
«Ma di già?!» si lamenta, mogia.
«Sei qui dalle sette e mezza e sono le quattordici» le fa notare Robin, senza scomporsi.
«Infatti! Sono solo sei ore e mezza, è poco più di un quarto di giornata!» ribatte e la mia mandibola perde per un attimo qualsiasi capacità occlusiva.
Va bene essere sveglia e precoce ma così è inquietante! Ha solo tre anni, kami del cielo!
«Hai ragione. Allora vado da sola dalla nonna» annuncia, alzandosi in piedi e recuperando la propria borsa, lancia un’occhiata sopra la propria spalla con un enigmatico sorriso. «Mi aveva detto che oggi faceva la torta al rabarbaro. Che peccato! La mangerò io anche per te»
Per mia somma incredulità – credevo di avere raggiunto l’apice per oggi ma, evidentemente, mi sbagliavo – Eris si illumina e poi si irrigidisce, chiaramente in lotta con se stessa. Sposto gli occhi da lei a Robin, di nuovo a lei.
Torta al rabarbaro? Sul serio?!
Io credevo fosse sconvolgente quando Momo a otto anni usava correntemente il termine “oltraggioso”!
«Allora impiastro. Guarda che la torta al rabarbaro di nonna Olivia è troppo buona per stare lì ad aspettare te» le dice Zoro, facendole perdere l’equilibrio per prenderla in braccio. Le ghigna e lei ride mentre Zoro le fa il solletico sulla pancia. «La vuoi o non la vuoi?»
«La voglio!» strilla Eris, contorcendosi così tanto da rischiare di cadere dal divano, ma è un rischio astratto. È perfettamente al sicuro tra le braccia di Zoro. «Voglio la torta!» stende le braccine sopra la testa, in segno di esultanza.
«Perfetto!» esclama Zoro mettendosi in piedi per accompagnare Robin alla porta e restituirle la bambina.
«Ciao ciao Izou!» mi saluta agitando una manina e io la imito.
«Ciao piccola! E ricordati cosa ti ho insegnato sui ragazzi all’asilo!» mi raccomando, facendola annuire solenne e guadagnandomi un’occhiata assassina da Zoro.
Mi lascio andare contro la testata del divano e piego il capo all’indietro per sbirciare in entrata. Zoro mette Eris in braccio a Robin, bacia la bimba tra i capelli e la mamma sulla fronte.
«Grazie ancora, Zoro» gli sorride Robin e lui scuote appena il capo.
«Ma va. Salutami zia Olivia»
«Sarà fatto» lo rassicura Robin prima che la porta si chiuda alle sue spalle.
Incrocio le braccia al petto, il sorriso sornione e saputo quando Zoro rientra in salotto. Si blocca, mi squadra chiaramente infastidito. «Beh?!» abbaia e prosegue verso la cucina, senza aspettare risposta.
Con un colpo di reni mi alzo in piedi e lo seguo. «Bene, bene, Roronoa. Che baby sitter fantastico che sei, non avrei mai creduto fossi così bravo con i bambini»
Con un colpo secco Zoro apre la lavastoviglie da vuotare e risponde con un mugugno.
«È un peccato che tu abbia rifiutato il lavoro al dojo» mi stiracchio e mi approprio del cestello per occuparmi delle posate. «Saresti stato bravo ad allenare tutte quelle giovani menti nella sacra arte del kendo» oscillo con il capo a destra e a sinistra, sorridendo sornione. «Cavolo dai! Saresti bravissimo! Non ci vuoi proprio ripensare?» mi avvicino a lui per sbirciare la sua espressione. «Eh, papà Zoro?»
Il movimento è calibrato e contenuto e io non sono così a portata di braccio ma indietreggio lo stesso, gli occhi sbarrati, quando si volta di scatto con un coltello da carne in mano rivolto verso di me.
«Vuoi farla finita?» sibila, furioso. «Vivi sotto al mio tetto, dormi sul mio divano, usi la mia lavatrice e monopolizzi mia moglie da due mesi. Che altro vuoi da me?»
«Zoro» lo chiamo con un filo di voce e sobbalzo quando sbatte il coltello sul tavolo.
«No, non voglio ripensarci. Non voglio il lavoro al dojo» avanza verso di me e io continuo ad arretrare ma non per paura. Questo è Zoro, non importa quanto sia arrabbiato, non mi farebbe mai del male ma io continuo lo stesso ad arretrare perché sto cercando di capire, capire che gli prende. «E tu faresti meglio a pensare ai cazzi tuoi che ficcare il naso in quelli degli altri perché a questo mondo non sono tutti pazienti come me con una checca blaterante e fastidiosa del tuo calibro e a tal proposito, e di cazzi tuoi parlando, fossi in te farei un serio pensiero sul tornare da Marco perché difficilmente troverai mai qualcun altro disposto a tollerarti per tutta la vita»
Sbatto con le reni contro il bordo del bancone e sobbalzo per il colpo, proprio nel momento in cui Zoro nomina Marco. Il sangue mi brucia nelle vene ma non provo dolore. Non mi sento ferito dalle sue parole perché so che non lo pensa davvero. A bruciare così è la preoccupazione. Questo Zoro non è lo Zoro che conosco io, non è lo Zoro di cui Nami è innamorata, non è il mio amico che ringhia quando qualcuno mi da del finocchio.
Questa persona io non la conosco e vorrei tanto pendergli il viso tra le mani, riportarlo qui e chiedergli cosa c’è che non va, che gli prende, perché è così strano stamattina ma non penso che sia una buona idea. Non penso che mi risponderebbe. E, ora che ci rifletto bene, non è solo stamattina.
Gli occhi ancora socchiusi a cercare una risposta che non c’è, sul suo volto deformato dalla rabbia, scivolo di lato.
«Io…» cerco le parole, la voce è roca, il respiro teso. Mi rendo conto di apparire spaventato, soprattutto quando gli rivolgo un tirato sorriso ma in fondo è vero. Lo sono. Sono spaventato per lui, non da lui. «Io credo di dover andare a prendere una boccata d’aria»
Una lunga boccata d’aria.
Zoro è ancora immobile, le braccia così premute sul bancone che vene e nervi sembrano sul punto di esplodere a fior di pelle, quando io recupero il mio zaino e ripasso davanti alla cucina per uscire.
Mi chiudo la porta alle spalle con un tonfo e mi avvio lungo la strada senza voltarmi indietro, senza fermarmi finché non raggiungo il parco del quartiere. È solo allora, vicino ad un cedro, che mi concedo di frenare la corsa, riprendere fiato e provare a riorganizzare i pensieri. Provare a mettere insieme i pezzi, le poche informazioni che ho, se solo avessi prestato più attenzione, se solo avessi dato più peso al suo comportamento strano.
Piego appena il busto in avanti e prendo aria a grandi sorsate quando un pensiero mi colpisce.
Koala. Lei sa qualcosa, quella mattina che era qui e Zoro è rientrato ha avuto una strana reazione.
Sa sicuramente qualcosa, figuriamoci, lei sa sempre tutto! 
Devo andare a parlare con Koala. Okay Izou, almeno hai qualcosa da cui iniziare.
Mi rimetto dritto e ricomincio a camminare, scuotendo appena il capo.     
«Che stai combinando, Zoro?»
 

 
§

 
«Eccomi!» annuncio, entrando in casa, e non mi impressiono nemmeno quando mi accorgo di aver cantilenato come mamma.
Sono felice. Quest’oggi io, Nami Cocoyashi, sono assolutamente, totalmente, al cento per cento felice. E mi prudono le mani dalla voglia di cucire, non vedo l’ora di mettermi al lavoro.
Lo ammetto, è quasi imbarazzante come mi fa sentire questo riscoperto hobby. Mi sono scoperta a urlare estasiata insieme a Izou, a disegnare sovrappensiero bozzetti per nuovi vestiti, e mi sembra di essere tornata a quando ero bambina e mamma mi spiegava come faceva a trasformare almeno un po’ i vestiti di Nojiko prima che passassero a me.
È lei che mi ha insegnato tutto e io la stavo ad ascoltare e ci profondevo tanto impegno solo per tenermi impegnata e non arrabbiarmi. Perché sì, mi faceva rabbia, tanta rabbia che io dovessi avere sempre tutto di seconda mano.
È stato solo con Chopper che mi sono resa conto. Quando lui aveva sei anni io ne avevo dodici, ero ancora una bambina ma ero già abbastanza grande per capire, ed ero già abbastanza cicala e fissata con i soldi da accorgermene. Accorgermi quanto costava stare dietro alle taglie di pantaloni e numeri di scarpe in continua evoluzione di mio fratello, accorgermi quanto costasse.
Ricordo bene papà che arrivava a casa con sacchetti straripanti di vestiti smessi dei figli dei suoi colleghi, mamma che si accordava con la vicina di bancarella al mercato per comprare con un po’ di sconto gli abiti difettati, che poi avrebbe sistemato, Chopper che girava con felpe troppo grandi, sostenendo fosse una scelta di stile, solo perché l’indumento potesse continuare a calzargli per almeno un biennio. Non c’è mai stato bisogno di chiederlo né di dirmelo, per sapere che anche con Nojiko avevano fatto così e che con me, la figlia di mezzo, avevano solo comprensibilmente scelto una strada più facile per reperire un guardaroba.
Nessuno di noi ha mai avuto abiti firmati. Dubito che mamma ne abbia mai avuti anche semplicemente di nuovi. Se una gonna o una camicetta la colpivano, tornata a casa studiava come modificare quelle che possedeva già.
No, non abbiamo mai avuto abiti firmati o costosi ma abbiamo avuto amore. E senza quello il mio attuale sacro guardaroba non avrebbe alcun valore. E così è da qualche giorno che mi solletica un’idea, un’idea che non riesco a mettere a tacere. Una collezione alla portata di chiunque, un servizio con piattaforma solo online di restauro e riparazione di vecchi abiti da rivendere a prezzi contenuti, eliminando un’importante fetta del costo della materia prima.
Un passatempo che potrebbe fruttare qualcosina ma soprattutto sistemare un pezzettino di vita a tante persone e regalare una gonna nuova a una madre con tre figli. Sono piuttosto certa che Koala ci metterebbe cinque secondi a creare una campagna ad hoc per raccogliere quanti più vestiti usati da riparare. E se la cosa decollasse, una percentuale si potrebbe anche devolvere in beneficenza, anche se, chiariamolo, lo farei solo per Koala questo.
Mio dio.   
Da quando mi è venuto in mente, nel cuore della notte settimana scorsa, non riesco a pensare a nient’altro. Non ho intenzione di lasciare il lavoro, ovviamente, ma amo così tanto cucire che non sarebbe un peso occuparmene alla sera o nei weekend. E se Izou avesse voglia di aiutarmi sarebbe molto più che fattibile.
E sono così euforica che in tre notti avrò dormito quattro ore ma non m’importa.
Mi sento così elettrizzata, elettrizzata e viva. Ora so esattamente come si è sentito Izou quando ha ricevuto la lettera dalla Baroque Works. E se non fosse stato per lui, per la sua irruzione in casa nostra, per la sua pregnante presenza, non sarebbe mai, mai, mai successo. Non avrei mai riscoperto questo antico amore, non ci avrei mai pensato.
Ho voglia di abbracciarlo, abbracciarlo e dirgli che razza di meraviglioso rompipalle sia.
«Izou?!» chiamo, veleggiando verso il salotto e mi blocco stranita quando non ce lo trovo. Alzo subito gli occhi verso la porta del bagno ma è spalancata e dentro non c’è nessuno. Torno sul tavolo, ricoperto di fogli colorati a pastello, non quelli dei suoi bozzetti per fortuna, e su cui giace la cesta contenente la stoffa, i rocchetti e i gomitoli. La macchina da cucire è fissata al bordo del tavolo e il metro da sarta giace lì accanto insieme a un rotolo di tessuto macramè. Sembra quasi che abbia preparato tutto ma non abbia mai iniziato. «Izou?» riprovo, accigliata.
Non ha senso. Dov’è? Non sarebbe mai uscito se non per un’urgenza, non quando manca così poco al concorso e tutto il suo tempo dev’essere speso nella collezione perché sia perfetta. Lo ha detto lui, non sono parole mie.
Mi muovo per controllare il resto della casa. «Iz…»
«È uscito»
Sorpresa, mi volto verso la cucina, sulla cui porta Zoro mi osserva e io lo fisso, presa in contropiede un solo istante, prima di illuminarmi. «Amore!» gli vado incontro con un sorriso, entusiasta, di nuovo così simile a mamma quando saluta papà. No, oggi davvero non mi riconosco ma non me ne importa niente. «Ciao! Sei uscito prima?» mi allungo per un bacio.
Zoro scuote secco il capo. «Non sono andato al lavoro. Robin ha portato qui Eris» mi ricorda e i fogli colorati acquistano subito senso. Giusto, io non ricordavo fosse oggi ma in ogni caso non mi torna qualcosa.
«E quindi? Izou ha detto che l’avrebbe tenuta d’occhio lui»
«Non mi fidavo» taglia corto Zoro ma non sogghigna come farebbe normalmente nell’insultare più o meno velatamente Izou. Perché può fare il duro quanto vuole ma è evidente che gli vuole bene, che si vogliono bene, e in questi due mesi il loro rapporto è, volente o nolente, cresciuto. E infatti… «E poi Izou doveva lavorare ai vestiti e Eris ha bisogno di attenzioni, quindi sono rimasto a casa» lascia intendere che lo ha fatto per Eris, ma io so che lo ha fatto per Izou, e non trattengo una mano che sale ad accarezzarlo sul volto, guardandolo innamorata.
«Okay. Ma ora dov’è?» insisto.
«Non lo so» mormora piano e leggermente rauco.
«Non ti ha detto dove andava?» aggrotto le sopracciglia. «Non hai sentito se ha ricevuto una telefonata, un messaggio… qualcosa»
E ora sembro papà quando uno di noi usciva e lui non sapeva dove fossimo. Magnifico davvero.
Però c’è qualcosa di strano, me lo sento di pancia. C’è qualcosa di strano in Zoro, nella sua espressione e nel suo modo di parlare, c’è qualcosa di strano nell’assenza di Izou, c’è qualcosa di strano nell’aria.
«No, non lo so. Non ne ho idea» ripete ma non demordo.
«Non sai se c’entra Marco?» è la sola ragione che mi viene in mente per cui metterebbe da parte il progetto a così pochi giorni dal concorso per anche un solo minuto della propria giornata. «Magari lo ha chiamato o Izou ha deciso di torn…»
«Nami ti ho detto che non lo so!!! Non lo so dannazione!!!»
Sobbalzo per il suo urlo e la mia espressione vira subito all’omicida. Che ha da gridare a questa maniera? Ho solo chiesto dov’è sparito Izou, non è normale che non sappia dov’è!
«Ehi! Vedi di darti un po’ una calmata eh!» lo rimetto subito a posto, la mano che si stringe in automatico in un pugno ma qualsiasi velleità di colpirlo svanisce quando Zoro si stacca bruscamente da me e, mano al volto a stringersi il ponte del naso, si sposta in salotto dove prende a camminare come una belva in gabbia.
A occhi socchiusi e labbra appena aperte lo osservo qualche istante prima di accostarmi alla porta, scossa dentro da una bruttissima sensazione. Non sembra semplicemente irrequieto, sembra proprio disperato.
«Zoro…» chiamo piano, tornando seria e determinata, il meno alzato. «…è successo qualcosa con Izou?» Ma lui non risponde, continua a fare avanti e indietro, si riavvia i capelli con gesti compulsivi e trema vistosamente e io comincio a spaventarmi. Entro in sala e mi dirigo decisa verso di lui. «Zoro» non mi degna nemmeno di uno sguardo. «Zoro calmati. Che cos’è successo?» allungo una mano per afferrargli la spalla e lo obbligo a girarsi verso di me. «Zor…»
Neanche il tempo di un respiro e mi ritrovo senz’aria, quando si getta su di me e preme deciso e violento la sua bocca sulla mia. Mi morde il labbro, mi stringe ai fianchi fin quasi a farmi male, mi bacia con trasporto e con disperazione e quando si separa da me un ansito scioccato lascia le mie labbra. «Zo…» provo a chiamare ancora. Si riavventa sul mio collo, mordendomi la gola senza pietà, le sue mani si muovono frenetiche sulla mia schiena, lungo il mio costato, cercano i miei seni e le mie cosce.
E io vorrei fermarlo, farlo sedere, capire cosa gli prende, perché è chiaro che ha qualcosa di strano, ma non riesco a pensare. Riesco solo a rispondere ai suoi baci, ad ansimare al suo orecchio. M abbandono tra le sue braccia quando scende verso la scollatura del vestito e succhia la curva del senso che spunta, mentre una mano sguscia sotto la gonna e sale a solleticarmi sull’inguine.
Non ho nemmeno la lucidità di ringraziare il cielo per essermi fatta la ceretta giusto ieri.
Mi ritrovo a cavalcioni del suo bacino, sul parquet di fronte al divano, le sue dite immerse nei miei capelli che mi stringono possessive e Zoro che mi riempie e completa. Scosse elettriche attraversano il mio corpo, secondo il ritmo dettato dai suoi movimenti.
Santo cielo, cosa… non… non ha mai fatto così, i-io…
«Nami…» soffia il mio nome come una preghiera e io abbasso gli occhi a guardarlo ma non riesco a fermarmi, lui non riesce a fermarsi e io non voglio, non voglio che si fermi.
Con un braccio mi avvolge i fianchi e la schiena e mi tiene giù, più giù che può contro di sé, fino in fondo. Fa quasi male ma ne voglio ancora.
«Nami…» chiama con voce rotta e si sporge a baciarmi lo zigomo.
Il contrasto tra la dolcezza del gesto e ciò che mi sta facendo mi mozza il fiato. Arrancando per un po’ di lucidità, mi sollevo dal suo petto nudo e gli afferro il volto con una mano. Mi sforzo di prendere aria tra un gemito e l’altro e porto il viso di fronte al suo, avvolgendolo in una nuvola rossa e infuocata.
«Zo…ro…»
E sembra quasi non voglia farmi parlare quando aumenta il ritmo e mi trascina per un attimo in un nuovo vortice di passione e, mentre lo fa, continua a baciarmi il viso con delicatezza.
«Z-Zoro…» anso ancora e lui mi ruba un altro bacio all’angolo della mia bocca. È solo allora che mi accorgo. Mi accorgo che non mi sta semplicemente baciando ma che sta asciugando con la bocca le lacrime che mi rigano le guance. Mi accorgo che sto piangendo. Piego appena le dita della sua mano posata sulla sua guancia. «Ti amo… Io… Io ti amo…» un solo singhiozzo lascia le mie labbra, sostituito subito da nuovi gemiti.
Mi premo su di lui, alterno gli ansiti al suo nome, la mano sale verso i suoi capelli e avvicino la bocca al suo orecchio.
Non posso, non posso.
Io non posso.
«Non posso vivere senza di te»
Ti prego, non portarmelo via. 
«Non posso vivere sen…» ripeto ma Zoro si gira e mi bacia con disperazione, bevendo le mie parole, e smette solo per lasciare libero sfogo alle mie grida quando raggiungiamo insieme il paradiso.
Non allenta la presa, anzi l’aumenta, quando sudata e sfinita crollo su di lui, abbandonando le mani ai lati del suo capo e del mio. Mi sento svuotata di ogni energia e non riesco a controllare i tremiti del mio corpo che crescono a dismisura quando Zoro mi accarezza a palmo pieno sulla schiena e posa l’altra mano sulla mia nuca, per stringermi a sé, quasi inglobarmi in lui.
Non lasciarmi. Non lasciarmi mai.
«Zoro…» giro piano il viso verso di lui, riportando la mano sulla sua guancia. Perché mi sento così spaventata? Come se dovesse scomparire da un momento all’altro? Nami, controllati per l’amore del cielo! «Zoro è tutto a posto?»
Stai bene? Dimmi che stai bene.
La punta del suo naso mi accarezza la guancia mentre rotola sul fianco, tenendomi contro di sé.
«Sono qui Nami» mi bacia piano. «Sono qui»

 
§

 
L’ho fatto davvero. Kami, non posso credere che l’ho fatto davvero!
Izou Wano, tu vuoi morire. È la sola spiegazione sensata per giustificare un gesto folle come rubare la macchina di Nami. La preziosa, piccola e rombante Mikan arancione di Nami a cui è così affezionata che, quando deve fare la revisione, prende l’intera giornata libera per controllare che i meccanici non facciano qualcosa di cui potrebbero poi pentirsi. E se si considera che da ormai tre anni i meccanici in questione sono Kiddo-kun e Kira-kun è ancor più evidente quanto tiene a questa macchina.
E io gliel’ho rubata e sono in viaggio da trentacinque minuti, diretto a Leftover.
Quando sono tornato a casa, alle ventidue, e li ho trovati già addormentati sul divano non ho potuto farmi sfuggire l’occasione. Rovistando nel cassetto dei vestiti sportivi di Zoro, sono saltate fuori le carte dell’ospedale, a conferma – come se dopo aver parlato con Koala ce ne fosse stato ancora bisogno – che ha chiaramente qualcosa che non va a livello di salute.
Purtroppo io però non sono medico e non ci capisco niente, a parte che c’entra la gamba, ma non avrei avuto un’altra chance del genere per andare in fondo alla questione. Chiedere a Law non era contemplato, il fatto di stare ficcando il naso negli affari di Zoro non significa che non mi faccia un cruccio a sbandierarli ai quattro venti con chi lo conosce bene. Può non sembrare ma tutto questo lo sto facendo per lui e per Nami.   
E così eccomi alla volta di casa dei miei suoceri, che non vedo dal matrimonio, a causa del casino che ho combinato con Marco.
«Non ora cervello!» lo metto in guardia, mentre taglio una curva con un po’ troppa veemenza e le sospensioni gemono una protesta quando sono costretto a inchiodare. Lancio un’occhiata alla casa, le finestre aperte e le luci accese, e resto un momento in ascolto di voci allegre e divertite, con sottofondo musicale, che riecheggiano per la strada.
Mi acciglio e scuoto appena il capo prima di accostarmi al marciapiede che corre di fronte alle villette del quartiere, parcheggiandola a pochi metri dal cancelletto di quella di Edward e Hana. Un cancelletto sempre aperto, come un braccio teso in un invito a percorrere il vialetto e bussare alla porta, senza paura.
Questa è casa Newgate, casa mia, una delle tante che ho la fortuna di avere.
Scende dalla macchina e le voci si fanno più distinte e famigliari alle mie orecchie. In una remota parte del mio cervello un allarme comincia a suonare a tutto spiano, ma l’urgenza di venire a capo della questione è troppa e con le carte strette in mano mi precipito alla porta e mi lancio sul campanello. Neanche mi accorgo di rimanerci attaccato con il dito, né delle voci che cessano all’improvviso, finché una di esse torna a risuonare con perplessità.
«Arrivo, arrivo!» la porta si apre di fronte a me. «Ma chi cav… Oh. Izou!»
Mi guarda dal basso del suo metro e sessanta scarso l'unica dei Newgate ad aver preso da sua madre, i capelli lunghi giusto per coprirle le orecchie. Quella sua bellezza androgina, difficile da capire e vedere a diciannove anni, è esplosa ora che ne ha ventisei e, nonostante lo stupore di trovarmi qui sulla porta, i suoi occhi mi accolgono con calore, come sempre fanno quelli di Hana.
Non si aspettava di vedermi ma ne è felice. E il sentimento è del tutto reciproco, perché è come una sorella per me ma soprattutto​ perché non mi aspettavo di trovarla qui.
«Halta?!» la richiama Deuce dal salotto e intanto il sottofondo musicale è ripartito. Un pianoforte, ergo c'è anche Vista.
E tanto mi basta per capire, ormai, che ci sono anche Rakuyou, Deuce e Bay, con rispettivi partner e figli, chi ne ha. Una riunione di famiglia in piena regola. Una riunione di famiglia a cui non sono stato, comprensibilmente, invitato. Una riunione di famiglia, quindi...
«Marco non c'è» mi informa Halta, leggendomi con facilità, lo sguardo complice e un sorriso. «Ehi gente!» inarca appena la schiena. «C'è Izou!»
C'è un momento di sospensione e poi è il delirio. Urla di giubilo e applausi, Vista riprende a suonare con ancora più gioia e mi ritrovo sua figlia avvinghiata alla testa, mentre il criminale decenne nato dai lombi di Rakuyou quasi mi leva i pantaloni. 
«Zio Izoooooou!!!!»
«Marmocchio sgancia la presa!» barcollo per mantenere l'equilibrio.
«Pip no!» lo richiama sua madre proprio quando la cintura inizia a cedere e appena se lo riprende io riesco finalmente a concentrarmi per staccare Sofia dalla mia faccia e caricarmela in braccio.
«Ehi principessa» le sorrido, soffiando poi via un paio di ciocche crollate dallo chignon, che mi penzolano davanti al volto. «Che fate tutti qui?» lo chiedo a lei, perché è più facile nascondere la mia delusione a Sofia che non ad Halta, ma la domanda va ben oltre mia nipote, raggiunge mia cognata che mi scruta con un sopracciglio alzato e non fa comunque in tempo a rispondermi.
«Zio Douma è tornato da Zou e siamo tutti qui per lui» mi informa Sofia con fare solenne e il cuore mi sprofonda completamente nello stomaco.
Douma è tornato da Zou? Hanno organizzato una riunione di famiglia per salutare e passare giustamente un po’ di tempo con lui che torna tre volte l’anno dalla giungla – questa volta quattro per via del nostro matrimonio – e Marco non mi ha detto niente?
Okay, va bene che non vuole vedermi, ma Douma è mio cognato e non importa se sono passati solo tre mesi dal nostro ultimo incontro, avevo tutto il diritto di sapere che fosse qui, faccio parte anche io di questa famiglia per la miseria!
Un tremito mi scuote dentro quando un pensiero mi colpisce.
E se Marco fosse così arrabbiato da avermi tagliato fuori di proposito? Fatico anche solo a immaginarlo fare una cosa tanto meschina, non lui, non il mio Marco-chan eppure… s-se fosse?
Mi focalizzo su Sofia, tra le mie braccia, appesa al mio collo, sui suoi occhi verdi quasi trasparenti e i capelli biondi, la fotocopia di sua madre. Da Vista, grazie al cielo, ha preso solo lo spirito passionale.
Non ho mai affrontato con Marco l’argomento figli. Non so se ne avremo mai, forse nemmeno li voglio, sinceramente. Mi è sempre bastato lui, ci siamo sempre bastati a vicenda ma non posso negare che essere zio di queste teppe aiuti e molto. Compensa, riempie quello spazio vuoto che ogni tanto magari sembra un po’ troppo ampio per non provare a colmarlo con qualcosa. Uno spazio che, ripeto, non voglio necessariamente chiudere con un figlio ma che diminuisce fino ad annullarsi quando entra in gioco un concetto molto semplice.
Famiglia.
E io ho mamma e papà, Momo e Aisa, ho una famiglia eccezionale per colmare quel vuoto ma anche questa, anche loro sono diventati troppo importanti. I miei cognati, i miei suoceri, i miei nipoti. Non voglio stare senza di loro.
Non mi sono mai fermato un momento in queste settimane a pensare – non mi sono proprio mai fermato in nessuno senso in queste settimane – cosa potrebbe significare se le cose tra me e Marco non si potessero più sistemare. Intanto perché non ho mai contemplato l’ipotesi di una separazione definitiva e poi perché non voglio nemmeno pensarci.
Ma ci penso ora e per un attimo mi manca la terra sotto ai piedi. Perderei tutto e non parlo solo di Marco. Perderei anche Sofia e Halta, non vedrei più Douma, nemmeno le già poche tre volte all’anno, non potrei più spettegolare con Bay né contare sull’aiuto di Hana, non potrei più parlare con Edward.
Kami, no! Non può succedere una cosa del genere!
Non voglio che Marco mi lasci, non potrei amare mai più nessuno così, ma ora che ho pienamente realizzato mi accorgo che non è più la sola cosa che mi fa paura.
Ed è già iniziata. Qui, stasera, con questa selettiva riunione di famiglia che accoglie tutti tranne me. Proprio come accadeva alla I&Co prima che lui arrivasse, che mi cambiasse la vita, che mi restituisse il sorriso.
«Izou!»
Un sorriso.
Un gioviale, perennemente divertito sorriso è la prima cosa che vedo quando torno in me. Sofia non è più tra le mie braccia e ciò che stringo sono le carte dell’ospedale di Zoro. Il mio intero campo visivo è occupato dalla mascella squadrata e importante, il naso dritto e i folti baffi bianchi di Edward, il padre di Marco, il padre di tutti noi. Anche il mio.
«E-Edward» sbatto veloce le palpebre, un po’ spaesato. A giudicare dalla cadenza con cui mi ha chiamato, quando finalmente l’ho sentito, deve averci provato per un po’ prima che rispondessi.
«Figliolo, eccoti finalmente!» mi saluta con una risata cavernosa e una pacca spaccaossa. «Che bello vederti! Alla fine ce l’hai fatta!»
Ancor più basito, cerco di riprendere il controllo di me. Ce l’ho fatta? Alla fine? In che senso?
«Noi abbiamo già anche bevuto il caffè ma c’è ancora un po’ di dolce se… ti va…» la sua voce si fa sempre più calma e il suo sguardo sempre più indagatore man mano che parla e si accorge del mio respiro grosso, della mia stretta spasmodica sulla busta bianca, dei miei occhi carichi di rimpianto ma, sopra ogni cosa, preoccupazione. «Izou stai bene?»
«Io… Edward io avrei bisogno di parlare con Hana… S-se è possib…?»
«Edward, amore?» chiama Hana, quasi che mi avesse sentito, e spunta dal salotto dove le risate e la musica non accennano a diminuire.  La osservo, questa piccola grande donna, senza età proprio come la mia mamma, biondissima e bellissima, dolce e comprensiva. E medico.
Soprattutto medico.
E sarà per questo che con occhio clinico le basta uno sguardo per accorgersi che non sto bene.
«Edward, in cucina!» ordina. «Subito! Fallo sedere!»  
Quando Edwardi mi afferra saldamente per le spalle e mi spinge in cucina mi accorgo che le gambe tremano, che sono sudato fradicio e che ho la testa annebbiata. Mi ritrovo con il sedere su un morbido cuscino, un bicchiere d’acqua davanti al naso e Hana che preme i polpastrelli contro le mie tempie e il mio collo, per ristabilire un normale flusso sanguigno e ridonarmi un minimo di autonomia motoria e cognitiva.
Scuoto il capo e sollevo piano la busta.
«Hana…» chiamo, ancora un po’ ansante. Non mi ero accorto di avere un attacco d’ansia, accidenti. «Mi spiace di essere piombato qui senza preavviso ma… Potresti dare uno sguardo a questi resoconti ospedalieri? Sono di un mio amico e io… beh ecco…» tentenno.
Oh Izou, non hai pensato nemmeno a una scusa?! Sul serio?!
Ma per fortuna non serve. Questa meravigliosa donna, che ha messo al mondo l’amore della mia vita, non ha bisogno di scuse né chiede motivazioni per fare un favore ad un figlio. Con un sorriso mi tende la mano, afferra la busta e sbricia al suo interno, estraendo di pochi centimetri il foglio lucido e scuro di una lastra. Si sposta ai fornelli e accende la luce della cappa mentre Edward si siede accanto a me, ostruendomi completamente la visuale su sua moglie. 
 Mi osserva, curioso e accigliato, le dita intrecciate e le mani posate sul tavolo.
«Piombato qui senza preavviso» soppesa le mie parole, i baffi fremono mentre le ripete. «Izou, tu non sapevi niente di questa cena vero?»
Boccheggio un paio di secondi, con una mano mi aggrappo al bordo del tavolo. «Oh beh… io…Ah!» un singolo scoppio di risata isterica mi esplode in gola. «Insomma, saperlo saperlo ecco… d-diciamo che… che…» afferro il bicchiere con l’altra mano e bevo, più che altro per prendere tempo, e intanto mi guardo intorno in panico.
Dov’è Halta, quando ho bisogno di lei?!
Mando giù e riappoggio il bicchiere, la bocca mi fa quasi male da tanto mi sforzo di sorridere, sperando che sembri almeno spontaneo anche se ho i miei seri dubbi. Ma quando Edward continua a scrutarmi, per nulla convinto, scopro di essere troppo stanco e sfinito per avere in corpo la forza di continuare a mentire.
«No» sospiro, tornando serio. «Non lo sapevo»
«Porco Roger» impreca sottovoce Edward, dando un lieve pugno al tavolo.
«Edward» lo richiama Hana, un dolce ammonimento.
«È come temevo allora. Qualcosa non va tra te e Marco»
Spalanco gli occhi, ormai al limite della credulità. Cosa significa “qualcosa non va tra me e Marco”? Lui non… non gli ha detto niente?! Io credevo si dicessero tutto!
«Marco si guarda bene dal confessare situazioni in cui sa di essere in torto» mi spiega Edward dopo avermi chiaramente letto nel pensiero e il mio cuore trema. «Anche Halta lo ha detto subito, “vedrai che ne ha combinata una delle sue”, nemmeno cinque minuti al telefono e lo aveva colto in flagr…»
«Ho la mia parte di colpe!» ritrovo la voce e la determinazione. Qualcosa si rivolta in me, il bisogno, nonostante tutto, di difenderlo. Abbasso per un momento gli occhi alle mie ginocchia e poi li riporto su Edward. «C’è una cosa che devo fare. È importante… È importante per me. Ma quando avrò finito, io lotterò per Marco, per riportarlo da me. Non importa quali colpe abbia chi, non rinuncerò a lui»
Edward ascolta attento le mie parole, dette con ben più passione e coinvolgimento di quanto avessi in programma e per un momento ho il dubbio di essere stato villano, di essermi rivolto con spocchia e poca educazione a mio suocero che però spazza via le mie paure con un ghigno. «Per questo Marco ti ha scelto per la vita» mormora quasi fosse un segreto e il cuore mi perde un battito. «Non sarà necessario, tuttavia Izou, voglio che sia chiaro…» trattengo il fiato quando Edward punta i suoi occhi chiarissimi nei miei. «Qualunque cosa accada, comunque vada a finire tu fai parte di questa famiglia» Edward solleva un sopracciglio, non ha ancora smesso di sorridere. «D’accordo?»
«Io… io…» esalo, travolto da un sollievo improvviso. Non so cosa rispondere né cosa dire.
Ma per fortuna, non è necessario. Hana ricompare da dietro l’ampia schiena di suo marito, un sorriso così rassicurante sul volto che sento la paura dissolversi. «So cos’ha il tuo amico» mi comunica, venendo a sedersi sull’altra sedia accanto a me. Allunga una mano per posarla sulla mia guancia. «Ma dopo ti fermi un po’ con noi? Deuce ci ha presentato ufficialmente la sua ragazza stasera»
Deglutisco piano e mi lascio cullare un istante dal calore del suo palmo e quando nel sorridere socchiudo gli occhi, mi accorgo che sono pieni di lacrime. «Ma certo…» annuisco e mi asciugo rapido le ciglia, sicuramente sbavando l’eyeliner. «Certo che mi fermo»
Dopotutto, sono a casa.

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


Mi piacerebbe sapere da dove nasce l’impulso, quando ci si trova in una situazione spinosa e non si sa come uscirne, di sbattere la testa contro una superficie più o meno dura. Mi piacerebbe scoprire qual è il meccanismo che innesca la reazione, mi piacerebbe capire che tipo di giovamento per il corpo il subconscio si illude di trarne.
No perché io lo sto facendo da cinque minuti e tutto quello che ho ottenuto è male alla fronte.
«Sabo» mi chiama Coby e io mi fermo solo per appoggiare la guancia al tavolo dove mi stavo fracassando la testa con abnegazione. Lo vedo piegare il busto verso di me. «Amico dai. Non… non è così grave….» prova a rassicurarmi ma la voce gli muore quasi in gola e si gira a cercare l’aiuto di Reiju, che sta tornando insieme a Cosette, un torta e del caffè.
«Non grave?» domando con una guancia ancora spalmata sulla superficie, che mi deforma la faccia e la voce. «Non grave?» ripeto, rimettendomi dritto. «No hai ragione, non è grave. È un’autentica tragedia!» esplodo, prendendomi la testa con le mani.  «Scusa Coby, io non…» sbuffo rassegnato, stropicciandomi il viso con una mano.
Un disastro, la deposizione di Law è stato un autentico disastro, una disfatta.
E dire che eravamo partiti così bene!
Mi aspettavo un colpo basso da Hawkins, ma così basso proprio…
«Se non avesse tirato fuori Heat…» commenta Reiju, sedendosi all’altro mio lato, mentre Cosette versa il caffè e taglia la torta.
«Ma va?! Chissà come mai lo ha usato allora!» commento sarcastico e subito mi mordo la lingua. «Scusa Rei, io…»
Scuote il capo decisa, interrompendomi. «Lo capisco. Capisco come ti senti. Ha strumentalizzato tuo fratello, dopotutto. Io starei esattamente come te, anche se non lo darei a vedere così lapalissianamente o comunque decisamente con più classe» ci tiene a mettere in chiaro mentre accetta una tazza di caffè e, accavallando le gambe, se la porta alle labbra.
Lo stomaco si contrae, non per fame e nemmeno per bisogno di caffeina che in realtà mi esce dagli occhi tanta ne ho ingurgitata negli ultimi giorni. Si contrae perché ciò che ha detto Reiju è vero, è precisamente quello che è successo, quello che Hawkins ha fatto. 
Dopo averlo innervosito per bene con una serie di inutili domande su Heat – da me obiettate ovviamente, ma che Law ha comunque sentito – ha rigirato la questione sul piano dell’etica, finché non ha strappato a Law quell’unica, singola frase che per noi significa sconfitta.
Detta con voce calma e misurata, come sempre lui si mostra agli estranei anche quando è furibondo, detta con freddezza e distacco ma chiaramente sulla scia della rabbia del momento, senza riflettere né soffermarsi sulle conseguenze.
“Un bravo medico fa quello che deve se c’è di mezzo la salute di un paziente”.
Ho già capito dove vogliono andare a parare. Hawkins ha largamente dimostrato nell’arco dell’udienza di oggi che Ish è la pupilla di Law, che il loro modus operandi è simile e fortemente interconnesso, il tutto ponendo domande che sembravano atte a comprendere se le cure fornite a Kaya fossero adeguate.
È un fottuto prestigiatore, altro che profeta!
E così facendo, si è spianato la strada per l’accusa a Ishley, che ora abbiamo una possibilità su novemilacinquecentoquarantadue di scansare.
L’attuale scenario più probabile per la fine di questo processo?
La carriera di Ishley rovinata, la credibilità del Castello seppellita così in profondità da raggiungere il nucleo terrestre e Kaya di nuovo nelle mani di Kuro, che se ne andrà incensurato da Raftel.
Una meraviglia, un primo processo da primo avvocato assolutamente impeccabile. Per non parlare poi della mia relazione, che già così sta andando a ramengo e dopo oggi è probabilmente giunta al punto di non ritorno.
Da dieci giorni ormai torno a casa talmente tardi che Ishley è già a letto o comunque troppo stanco per fare qualsiasi cosa. Abbiamo litigato pesante già due volte mentre le facevo provare la sua probabile futura deposizione e oggi, quando Law ha terminato, se n’è tornata a casa senza nemmeno salutarmi, avvisandomi con un asettico messaggio.
A puttane. Sta andando tutto a puttane, tutto quello che ero riuscito a ricostruire, tutto quello che volevo proteggere.
«Non vinceremo vero?»
Allargo le dita senza staccare le mani dalla faccia, puntando lo sguardo su Sanji, seduto di fianco a Rei, che fissa il contenuto della propria tazzina con espressione rassegnata e un sorriso amaro. «Ho sempre saputo che sarebbe stato quasi impossibile, anche mettendo in mezzo mio padre. Kuro è un tutore statale, è sottoposto a continui controlli» si passa una mano tra i capelli, liberando per un attimo l’occhio che tiene sempre coperto. Aspetta! Ma i riccioli alle sopracciglia sono tutti e due dalla stessa parte!
Mi giro verso Reiju e, ora che la guardo bene, mi accorgo che vale lo stesso per lei. Non me n’ero mai reso conto.
«Sono un codardo. Non ho avuto il coraggio di dire ad Usopp la verità e per regalargli qualche giorno di speranza, l’ho illuso»
 «Sanji-kun» lo chiama Cosette, accanto a Coby, allungando una mano verso di lui come a volerlo confortare nonostante la distanza che li separa.
«Sentite, io ho una proposta» Reiju riappoggia la tazzina e si mette ben dritta, i palmi posati sul tavolo. «Prendiamoci la giornata libera. Ci rilassiamo, stacchiamo la testa e tiriamo il fiato e domattina presto ci troviamo qui e lavoriamo sulla prossima giornata di udienze»
Che deve per forza andare bene aggiunge la mia voce interiore. Le prime tre giornate si sono chiuse con un pareggio ma è stato semplice finché le domande vertevano sull’organizzazione del Castello e resoconti medici provabili nero su bianco. Oggi, il primo giorno in cui si è sconfinato più nel personale, Hawkins non solo ha rimontato ma ci ha anche fatto mangiare la polvere.
E non solo le ultime due giornate che mancano al verdetto saranno decisive ma a breve sarà il turno di Ishley di deporre. E dopo oggi non mi sento affatto preparato. Dopo oggi non credo di poter vincere. E per questo la proposta di Reiju mi sembra assurda e sensata al tempo stesso. Dovremmo usare ogni secondo a nostra disposizione per impostare una strategia vincente ma che senso ha dannarsi l’anima e sfinirsi se tanto non c’è soluzione e la nostra sconfitta è già segnata?
E dal momento che non voglio rispondermi, tanto per distrarmi e non dover decidere, opto per fare una domanda a lei.
«Per caso Kidd oggi è libero?» indago con un sorrisetto bastardo a cui Rei risponde con ancor più bastardaggine. Entrambi ignoriamo deliberatamente l’occhiata funerea di Sanji.
«Solo perché ho una vita sessuale sana e attiva, non significa che penso solo a quello, sai?»
«Ma non lo neghi nemmeno?» protesta, Sanji solo per venire ignorato. Di nuovo.
«Sicura? Io me lo ricordo com’è il sesso a vent’anni, non ci sarebbe niente di male»
«Perché?» si sporge appena verso di me, il sopracciglio alzato. «A trenta è molto diverso? Tu mi sembri sempre bello pimpante» insinua e io sobbalzo. E deglutisco.
Insinua e io cerco di non diventare color pomodoro per quanto mi sia possibile controllare il mio flusso sanguigno. «Sono bello pimpante di carattere» scrollo le spalle, avventandomi sulla torta, tanto per fare qualcosa.
La vedo con la coda dell’occhio riappoggiarsi allo schienale e, dopo una frazione di secondo, sbuffare. «Sanji smetti di guardarmi così, non lo proponevo per passare la giornata a fare sesso con Kidd okay?»
«Perché hai passato giornate intere a fare sesso con lui?»
Mi rimetto dritto, perplesso dall’indignazione di Sanji. «Guarda che è normale che Reiju faccia sesso tutto il giorno con il suo ragazzo» gli faccio presente, a costo di farmi uccidere.
«Con chi è che fa sesso Reiju?!»
Sorpresi, ci giriamo tutti verso la porta del catering, da cui la voce inattesa proviene, solo per scoprire che uno ha parlato e tre ci osservano. Tutti e tre biondi, tutti e tre con pettinature assurde. Due con gli occhiali da sole sul naso, uno con un ghigno da scemo sotto.
«La tua vita dev’essere un inferno» le dico, sporgendomi appena verso di lei ma senza distogliere gli occhi dai nuovi arrivati.
«Pensa se fossi una da rapporti occasionali» ribatte lei, il tono basso quanto il mio.
«Ichiji?» Sanji domanda piano e lo sento, alle mie spalle, alzarsi in piedi. «Yonji?»
Non bastassero i nomi evocativi, quando mi accorgo delle sopracciglia non ho più dubbi. La famiglia Vinsmoke è praticamente tutta qui e non ho idea di come si chiami il terzo fratello ma andando per esclusione suppongo…
«Niji-kun?»
Per un attimo il tempo si ferma. Poi, con mio sommo divertimento, tutti ci giriamo lentamente verso Cosette che si è alzata in piedi e si tiene coperta la bocca con una mano, troppo tardi perché ormai ha parlato e l’abbiamo sentita forte e chiaro dire il nome del fratello  di Sanji con ben più trasporto di quanto se ne usa normalmente per chiamare un conoscente.
«C-Cosette?»
E lui non è da meno.
«Cosette-chwan?» Sanji fa per avanzare verso di lei, dimentico del tavolo tra loro, finché non ci si scontra con le gambe. «Tu conosci questo imbecille?»
«Ehi!» abbaia il fratello Niji, facendo scattare i denti.
«A me sembra piuttosto evidente che lo conosce» studio attento il modo in cui Cosette guarda Niji e aggrotto le sopracciglia. «Probabilmente anche in senso biblico» aggiungo e ridacchio e non perché io sia solito ridere delle mie battute ma perché questa è proprio un’uscita da Ish, è un po’ come se l’avesse detta lei e se l’avesse davvero detta lei mi sarei ammazzato dal ridere e poi avrei avuto sicuramente voglia di prenderla, baciarla e farle di tutto e…
Sussulto quando sento la patta dei pantaloni iniziare a tirare e quasi gemo, di sofferenza purtroppo. Porca miseria, non lo faccio da dieci giorni.
Stringo i pugni con determinazione. 
Sabo, datti un contegno! Pensa a cose poco eccitanti!
Rufy che si scaccola, Praline che flirta con me, Dadan che si fa la ceretta.
Okay, va bene, non così poco eccitanti! Non serve arrivare a tanto.
«Ma… Ma…» sta ancora boccheggiando Sanji, spostando gli occhi da lei a lui, a lui a lei, a lei a lui. «C-come?! Quando?!»
«Durante i quattro mesi di lavoro a Greenstone, questo inverno» è Reiju a rispondere, con un sorriso sicuro e le braccia intrecciate sotto il seno. «È lì che frequentavi la scuola di cucina, vero Cosette?»
Cosette sobbalza, la mani ancora sulla bocca e si gira a guardarla come se le avesse mosso un qualche genere di accusa. «Come… Come…» prova a domandare, ma le esce più che altro uno squittio.
«Come fai a saperlo?» la leva d’impaccio proprio Niji, avanzando di un passo verso la sorella.
«Oh andiamo! Sul serio?! Sei stato l’ombra di te stesso per tre settimane dopo che sei tornato da quel viaggio, sospiravi dalla mattina alla sera e continuavi a chiedere filetto di maiale con aligot che, so da fonti certe,…» indica Sanji con la mano aperta e il palmo verso l’alto. «…essere il cavallo di battaglia di Cosette» indica Cosette e poi porta la mano sul fianco, aggrottando le sopracciglia in uno sguardo di rimprovero per il suo fratello numero due. «Ti ha fatto credere di essere di Greenstone quando ha saputo che saresti tornata a Raftel, vero Cosette?»
Gli occhi pieni di lacrime trattenute, Cosette annuisce piano. Non ha ancora staccato gli occhi da Niji un secondo e non sono nemmeno sicuro che abbia sbattuto le palpebre, il che sarebbe sorprendente ammettiamolo. Almeno quanto Reiju che si sta rivelando una detective di serie A e di fronte a cui non c’è una strada spianata verso una brillante carriera ma proprio una prateria.
«Sei un cretino» fa schioccare la lingua Reiju e trovo ironico che il fratello senza ciuffo sghignazzi, visto che è il primo aggettivo che mi è venuto in mente per lui. «Tu e la tua paura di impegnarti. Tu e la tua paura di innamorarti. Guardala! Guarda che le hai fatto!» tende un braccio verso Cosette.
Niji ringhia e non si gira verso Cosette. «Io non ho paura di un accidente e non sono innamorato di nessuno»
«Oh» Reiju sgrana gli occhi, fingendo sorpresa. «Oh ma davvero? Quindi non ti importa se Yonji ci prova con lei»
«Rei per chi mi hai preso?» protesta fratello senza ciuffo. «Non ci provo con la donna di mio fratello»
«Ma non è la sua donna, giusto, Niji?» lo provoca Rei.
«Davvero?» si acciglia Yonji, e poi sorride borioso. «Beh allora ci provo sì, è un tale bocconcino»
«Non azzardarti a toccarla, Yon!» lo fermano due voci, in sincrono.
Io mi guardo intorno con simulato interesse. «Ma guarda, hanno acceso il dolby surround» sogghigno, imitato da Reiju che non nasconde la propria soddisfazione.
Perché se per Sanji è pura e semplice abitudine a difendere il gentil sesso da chiunque e qualsiasi cosa la reazione di Niji è ben più eloquente, come anche il fatto che ancora si ostina a non guardarla.
Reiju si alza e fa un passo verso di lui. «È da aprile che ti struggi come un sedicenne» non ha la minima pietà per la reputazione di suo fratello. Diventerà un grandissimo avvocato. «E vivete a quaranta minuti di macchina e, per un qualche miracolo che nemmeno io comprendo, lei non ti odia, nonostante quel che hai fatto. Vuoi veramente perderla perché sei troppo zuccone per ammettere che ti sei innamorato?»
Niji indietreggia di un passo, sembra che Reiju lo stia minacciando con una fiamma ossidrica più che parlargli con comprensione, ma forse nel suo immaginario è così. Forse attraverso le lenti dei suoi occhiali Reiju è un drago sputafuoco che attenta alla sua virilità e indipendenza.
«Ma allora sta con te oppure no?» protesta Yonji, in fervente attesa di capire se può o non può sfoderare le sue armi seduttive con la socia di suo fratello.
«N-Niji-kun?» pigola speranzosa Cosette, un singhiozzo le sfugge e Niji cede, girandosi a guardarla.
Si guardano, in assoluto silenzio, rotto solo dai profondi respiri che Cosette prende per calmarsi. Si guardano. Si guardano ancora. Ancora…
«E allora?!» non riesce più a tenersi Yonji e Ichiji soffia dal naso.
In due passi, Niji è di fronte a lei. La guarda dall’alto verso il basso e lei china il capo, tremante, le mani strette tra loro a torturarsi a vicenda. Con un sospiro, Niji sfila gli occhiali e torna a vedere le cose come tutti noi in questo mondo, sfila gli occhiali e vede Cosette per quello che è. Una donna innamorata che è stata male per dei mesi e non osa sperare che lui sia davvero qui.
«Cosette» la chiama Niji, nonostante tutto suona quasi un ordine e io sgrano appena gli occhi. Da chi ha preso Sanji? Sul serio, da chi ha preso?! «C-Cosette» ci riprova, stavolta più incerto e le posa una mano sotto al mento per farle sollevare il viso. La guarda, di nuovo per un lungo istante, e, di nuovo ancora, sospira. «Mi dispiace…»
Con mani tremanti, Cosette si aggrappa alla sua camicia e sorride, sorride tra le lacrime, sorride felice come non l’ho mai vista mentre Niji si piega verso di lei.
«Mi sei mancato tanto»
«Anche tu»
Li guardo baciarsi e aggrotto le sopracciglia, perplesso. Ma a cosa ho esattamente appena assistito? A giudicare dall’espressione di Sanji, non lo ha capito bene neanche lui ma, se per me è tutto molto bello e luccicoso, Sanji sembra sul punto di implodere e autodistruggersi.
«Dobbiamo metterci al riparo?» domando indicandolo, rivolto a Reiju e Sanji scatta ma non per la mia battuta. Il suo unico occhio visibile si gira a lanciare pugnalate al suo stesso sangue, quando Yonji si mette a ridere.
«Attento SanSan, ti esce il fumo dalle orecchie!» lo schernisce e Sanji ringhia incattivito e, lo vedo bene, confuso riguardo chi indirizzare il proprio istinto omicida, se a Niji che ha caricato Cosette sul tavolo e continua a limonarla a fuoco, obbligando Coby ad avvicinare la sua sedia alla mia, a Yonji che lo deride o a Ichiji che, a meno di non essermi distratto, da che è arrivato non ha ancora fatto niente.
«Che cosa fate qui?» domanda con uno schiocco di lingua – curiosamente lo stesso suono che emette Niji quando si stacca per un attimo da Cosette – mentre, mani in tasca, si sposta verso il bancone da lavoro e recupera tre piattini e tre forchettine da dolce.
«Reiju ha fatto avere a papà un invito per la serata di beneficenza al Castello sulla Collina» spiega Ichiji, senza alcun apparente coinvolgimento.
«Ma il grand’uomo non aveva voglia di venire e ha ritenuto che per compensare la sua grande assenza servissimo tutti e tre»
Sanji li scruta da sotto il ciuffo uno ad uno, ringhia quando posa l’occhio su Niji e Cosette, prende due dei tre piattini con sopra una fetta di torta e li porge a Ichiji e Yonji. «La serata di beneficenza è tra alcuni giorni»
Yonji mugugna qualcosa, la bocca già strapiena di dolce e Sanji e Ichiji lo colpiscono con un calcio sulla testa. «Non si parla con la bocca piena, fogna!» lo ammoniscono in simultanea. «Comunque abbiamo pensato di farci una breve vacanza in città» traduce Ichiji mentre si siede a sua volta.
«Non vi facevo tipi da serate di beneficenza. Caffè?» offre Sanji, tornato al suo posto, ma Yonji e Ichiji negano con il capo. «Niji e allora! La finiamo?» protesta poi, battendo una mano sul tavolo ma non credo che Niji lo abbia nemmeno sentito, o forse sì, perché si prende Cosette in braccio e le chiede dove possono stare un po’ soli e tranquilli, richiesta alquanto interessante visto che ci troviamo sostanzialmente in una gigantesca stanza con quattro muri portanti ma forse c’è un passaggio segreto di cui non so nulla, perché dopo qualche secondo sono effettivamente spariti.
«È per il bene dell’azienda» Ichiji allenta appena il nodo alla cravatta. «La nostra presenza alla serata gioverà alla sua reputazione»
«E io voglio scopare»
«Vivevamo bene anche senza saperlo» lo informo con un sorriso e non sono sicuro abbia capito che lo sto pigliando per il culo.
«Dovete anche fare un’offerta per quello lo sai vero?» Sanji sogghigna rivolto a Ichiji, il quale però rimane impassibile.
«Mi occuperò personalmente del bonifico» lo informa e Sanji annuisce, quasi solenne. Ho la sensazione che si stiano dicendo molto più di quel che sembra a parole ed è un modo di comunicare che io capisco molto bene. 
«Sì ma io voglio scopare! Ci saranno delle belle ragazze a questa serata?»
«Se anche fosse, non ti lascerei avvicinare a loro nemmeno da morto» lo informa Sanji e Yonji fa scattare i denti ma torna subito a sorridere con boria.
«Ehi Rei! Potrei invitare quella tua nuova amica medico, che ne dici? Tanto lei alla serata ci va per forza, sarà felice di farsi accompagnare da tutto questo ben di dio»
Una scarica mi attraversa e mi irrigidisco, il mio sguardo si fa vitreo. Amica medico? L’amica medico di Rei? Non parliamo di quella amica medico, vero?
«Ishley?» domanda Reiju e il ghigno di Yonji si allarga sul suo volto, come l’istinto omicida nel mio petto. «Perché no? Penso che le farebbe piacere»
«No» mi giro a guardarla, incredulo. Farle piacere? Ma scherza, vero?
E poi di cosa stiamo parlando, non è questione di farle piacere o non farle piacere! Se deve andarci con qualcuno alla serata, ci viene con me!
Reiju aggrotta le sopracciglia e un sorriso perplesso le piega le labbra. «No?»
«No» confermo, il tono duro, le mani strette a pugno.
«Sabo stai parlando con mia sorella» mi ricorda Sanji ma non gli do ascolto e nemmeno Reiju.
«Perché no?» indaga, curiosa.
«Perché ci va già con qualcuno» ribatto senza pensare, l’agitazione che mi torce lo stomaco.
Ma che mi prende? Sabo, calmati, non è successo niente! Non è come se qualcuno l’avesse invitata davvero!
«Che strano, a me non risulta proprio» riflette Rei. «Non che mi stupirebbe, insomma Ishley è una perla, era ora che qualcuno si facesse avanti con lei. Non mi spiego neppure come facesse a essere single quando ci siamo conosciute»
Mi fissa, mentre lo dice, mi fissa con un’espressione che oserei definire a metà tra il sadico e l’eloquente e, anche se non né Law né Ace, incredibilmente la comunicazione non a parole va a buon fine.
Ora so cosa significa l’espressione “fulmine a ciel sereno”. È ciò che provo quando di punto in bianco capisco, che Reiju sa tutto, che non sta parlando a caso e che ha detto quel che ha detto con un preciso obbiettivo.
Perché è vero, Ish è meravigliosa e non posso pretendere che rimanga mia se non lotto per lei e non marco il territorio. Sono già fortunato che non me l’abbiano portata via prima ma, fino ad adesso, non mi ero mai reso conto di quanto il pericolo fosse concreto.
Sono stato graziato dal cielo ad averla trovata sulla mia strada e come un idiota ho continuato a puntare tutto solo sulla mia buona stella, che certo qualche straordinario me lo doveva, ma se non ci metto del mio sono destinato a perderla.
Ripenso agli ultimi dieci giorni, la stanchezza, le due liti, a come si è dileguata stamattina. È già iniziata, si sta già allontanando, e io non so nemmeno a che punto siamo, se devo preoccuparmi o no, se posso ancora definire il suo trilocale “casa” e questo solo per colpa mia, perché non ho voluto ufficializzare prima, perché, da bravo figlio di mio padre, voglio essere sicuro che sia davvero una cosa seria anziché vivermela senza pensieri e vedere come va e, nonostante tutto, mi sento ancora il fiato del fantasma di Bibi sul collo.
Ma io sto bene con lei, lei sta bene con me e… Che senso ha?
«Io devo andare!» annuncio, alzandomi di scatto. Reiju segue i miei movimenti con gli occhi. «Approvo… approvo la mozione “giornata libera”, ci vediamo domani io… devo andare»
Afferro la ventiquattrore e la giacca e quasi faccio cadere la sedia, le mani mi tremano mentre cerco di trovare la Merry Go Round più vicina. Sono pronto anche a farmela di corsa, comunque.  
«Sabo» Reiju mi richiama che sono ormai sulla porta. Mi giro a guardarla, con urgenza. «Gigli. Viola»
Inalo e qualcosa che non è ossigeno mi riempie il petto.
È determinazione.
È voglia di lei.
È anche gratitudine.
Le sorrido, un piede già fuori dalla porta. «Grazie Rei»
 

 
§

 
Fisso confusa il foglio excel aperto di fronte a me, ignara di cosa stessi facendo al pc.
Oh giusto. Il foglio presenze per il direttore di specialità, ecco cosa stavo facendo. Non so nemmeno perché, probabilmente per tenermi impegnata, visto che entro la fine della settimana non avrò più né un direttore né una specialità.
È fin troppo evidente qual è l’obbiettivo dell’avvocato difensore di Kuro. Io in fondo per lui sono solo un numero, uno strumento per vincere e non posso nemmeno lamentarmene, mi sono messa in questo casino con le mie stesse mani.
Brava Ishley, brava davvero.
Sospiro e mi massaggio il retro del collo.
Finirò i miei giorni a compilare ricette per anziane signore che accusano mal di schiena, in uno sperduto paesino di montagna, con un cane pastore a farmi compagnia e una targa accanto alla mia laurea in medicina che recita “Qui giace l’ambizione di diventare chirurgo e medico pediatrico di Ishley Isabel Habena”.
Sospiro di nuovo.
Se fosse solo questo poi, non starei nemmeno così male ma non è solo della mia carriera né solo della mia reputazione che parliamo. Il Castello rischia il fallimento e Sabo… si è esposto così tanto in questo processo, tutti i giornali di Raftel lo stanno seguendo con attenzione, se Hawkins lo asfalta pubblicamente, come sembra intenzionato a fare, ci metterà anni a ricostruirsi una credibilità e non ci saranno più nemmeno i fondi per rinnovare il suo contratto come legale del Castello.
Santo Roger, vorrei così tanto fracassarmi la testa sul tavolo ma non serve a nulla, non so nemmeno perché si prova un impulso simile, va contro ogni istinto di conservazione e senso logico. Dovrebbero farci uno studio.
Gli occhi vagano furtivi e con desiderio verso il cellulare, abbandonato accanto al laptop. Dovrei chiamarlo, almeno scrivergli. Dopo aver assistito alla disfatta della deposizione di Law, me ne sono andata senza una parola, non avevo le forze di vedere la sua espressione sconfortata  e delusa, non di nuovo, non quando non sono nemmeno capace di simulare una deposizione decente e finisco per urlargli addosso per colpe che non ha.
È già successo due volte ed entro questa settimana sarà tutto finito. Il problema è che temo non sia solo il destino del processo.
Cosa faccio? Cosa devo fare?
Okay, dai, lo chiamo.
Afferro il cellulare e lo guardo implorante.
Sì, va bene, lo chiamo e cosa gli dico? “Mi manchi e mi dispiace di averti rovinato la carriera, ti prego non lasciarmi”?
Riappoggio il cellulare come se scottasse.
No, meglio non chiamarlo.
Però magari un messaggio, solo per sapere come sta e dov’è e se torna a casa stasera e…
Ishley, per favore. Sei patetica così.
La voce di Reiju mi richiama all’ordine prima che induca al suicidio la mia dignità e io scuoto il capo. Okay, okay, hai ragione. Riprendo in mano il cellulare, stavolta decisa ad andare fino in fondo e avere una civile e normale conversazione con lui, da donna adulta e matura quale sono. Mi scuserò per l’atteggiamento dei giorni scorsi, gli chiederò per che ore riesce a rientrare e stasera a cena affronterò la questione della sua carriera e del mio senso di colpa. Da donna adulta e matura.
Faccio un salto alto così sullo sgabello quando sento la chiave nella toppa e mi giro verso l’ingresso, spaesata.
È già qui? Cos… Cosa ci fa già qui? È da più di una settimana che arriva alle sette passate! E io… mio dio, io sono impresentabile, devo farmi la doccia, ho i capelli tirati su con cinque matite e gli occhi ancora pesti per la crisi di pianto di prima!
Ma va bene, non posso farci niente anche perché, il tempo di andare in panico e lui è già entrato. Si guarda intorno, come se cercasse qualcosa e improvvisamente ricordo. Ha dimenticato il portafogli, l’ho visto prima e gliel’ho messo lì all’ingresso, sarà tornato sicuramente per quello e spiega anche perché sembrava così in anticipo.
Ha senso, assolutamente senso. E allora perché mi sento così delusa?
«È lì sul mobiletto» lo avviso e lui si gira di scatto verso la cucina. «Il portafogli, dico» specifico ma l’unica reazione di Sabo è prendere a camminare verso la cucina, il fiato grosso come dopo una corsa.
Quando arriva sulla porta, barcollando leggermente, mi accorgo che è sudato ma non riesco a chiedere cosa sia successo perché il modo in cui mi guarda, come se mi vedesse per la prima volta dopo tanto tempo, mi mozza il fiato e accelera i battiti. Non necessariamente in modo positivo.
«Ish…» esala e si ferma di fronte a me, a un passo dallo sgabello.
Mando giù a fatica e aspetto, divisa.
Non voglio che dica quello che temo voglia dirmi ma l’attesa mi uccide molto di più e sto per chiedergli di parlare, per l’amor del cielo, quando sotto al mio sguardo incredulo e scioccato, si inginocchia davanti a me, allunga il braccio che teneva dietro la schiena e mi porge tre gigli.
Tre gigli viola.
I più belli che abbia mai visto in vita mia.
Forse è il profumo intenso che mi stordisce ma non riesco a muovere un muscolo, nemmeno per prenderli, nemmeno per chiedere cosa sta… cosa sta…
«Stavo riflettendo sul caso e sulla nostra praticamente certa sconfitta e mi sono detto, cavolo Ishley dovrà cambiare città per continuare a esercitare e anche io dovrò cambiare città, e così ho pensato ehi, potremmo anche andarcene insieme, sarebbe bello, sarebbe… molto più facile. Sarebbe facile andare ovunque con te» stringo le mani sul bordo e sullo schienale dello sgabello, per non cadere ma anche per essere sicura che sia tutto vero. È… È tutto vero? «Mi dispiace di non esserci stato, mi dispiace di essere stato stronzo, Hawkins ti metterà alla gogna e volevo che fossi preparata»
«No, Sabo non…»
«Aspetta» me lo chiede con la voce ma anche con gli occhi e non è come se io non volessi starlo a sentire. Ne voglio ancora e di più e lui mi da ciò che voglio. «Oggi voglio stare con te, solo stare con te. Voglio recuperare gli ultimi dieci giorni e voglio portarti fuori a cena stasera, al Baratie. Se vuoi» specifica e io fremo. Al Baratie? Ma è un posto da coppie e c’è un sacco di gente che lo conosce lì! «E se vuoi, se… ah...» prende un profondo respiro. «Ish, vuoi venire con me alla serata di beneficienza? Ufficialmente? Come coppia?»
I polmoni non immettono aria per un lungo momento e gli occhi mi si riempiono di lacrime e quando sono al limite con entrambe le cose devo scegliere, o ricomincio a respirare o ricaccio indietro le lacrime. Purtroppo, respirare è imprescindibile e appena la prima lacrima mi graffia la guancia Sabo sgrana gli occhi, agitato.
«Ish che… che c’è? Che hai?» lo sguardo gli cade sui fiori, ancora stretti nella sua mano. «Non ti piacciono? Io pensavo ti piacessero i gigli e lo so, sono solo tre ma non avevo il portafogli e ho dovuto fare con gli spiccioli che avevo in tas…»
«Credevo volessi lasciarmi» riesco finalmente a parlare, la voce rotta, interrompendolo. Porto rapida una mano ad asciugare le guance e la fermo sulla bocca, ricacciando giù i singhiozzi.
«Che?! Perché avrei dovuto lasciarti?» domanda sconvolto. «Ishley» mi arpiona la coscia con la mano libera.
«Perché ho fatto un casino! Con… con la mia geniale trovata, ora Hawkins dimostrerà che ho mentito deliberatamente e perderemo la causa per quello e tu avrai terra bruciata intorno»
«Cosa?! No, Ish…»
«E non sono nemmeno capace di fare una deposizione decente!»
«No!» ripete, più fermo, alzandosi su entrambe le ginocchia per prendermi il viso con le mani. I gigli mi sfiorano l’orecchio e la clavicola. «Non è affatto vero, niente di quello che hai detto. Sei bravissima a deporre, sei fantastica, gestisci benissimo lo stress e mi dispiace se ho esagerato di proposito. E non è colpa tua, tu hai fatto la cosa giusta, hai fatto quello che avrei fatto anche io. Io… Sono così fiero di te» sorride e scuote piano il capo, come se non riuscisse a credere a quello che ha davanti agli occhi. «Così fiero della mia Ish»
Non resisto più. Scivolo giù dallo sgabello, tra le sue braccia, e mi concedo qualche minuto per piangere, per sfogare tutta la tensione, la rabbia e la paura, per il futuro, per un sospetto che non è diventato realtà. Sabo mi stringe, seduto per terra sul pavimento della nostra – sì, nostra – cucina, mi stringe e quando finalmente mi calmo sono mezza sdraiata su di lui, il suo braccio che mi tiene su la schiena e i gigli che mi ha regalato posati in grembo.
«Sono bellissimi…» sfioro uno dei petali con il polpastrello. «A differenza mia. Se vuoi portarmi fuori a cena devo farmi una doccia» ridacchio e lui si china a baciarmi la fronte.
«Hai ragione» conferma e io lo guardo indignata. «Che c’è? Tanto se ti dico che sei bellissima non ci credi e poi ti pare che ti dissuado dal fare la doccia? Al massimo posso dirti che ne ho bisogno anche io e per il bene del pianeta dobbiamo farla insieme!» protesta e io scoppio a ridere felice.
Sono così felice, santo cielo.
«Allora è sì?» mi domanda e io mi fermo ma non smetto di sorridere. I suoi occhi cioccolato tradiscono l’agitazione, nonostante le labbra piegate all’insù.
Come se potessi dargli una risposta diversa.
«Sì. Voglio andarci con te. Ufficialmente» prendo aria. «Come coppia. E non solo alla serata di benefic…» provo a dire ma lui si butta sulle mie labbra e quando se ne appropria non oppongo resistenza.
Non è tempo di parlare, non adesso. Ho l’impressione che ne avremo comunque tantissimo in futuro.

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


Controllo per l’ennesima volta l’orologio, il piede che batte contro l’asfalto. Dire che sono teso è un eufemismo quanto affermare che la storica Guerra dei Vertici sia stata una scaramuccia.
Sono molto più che teso.
Sono tragicamente vicino a un crollo del sistema nervoso che potrebbe scaturire in un concreto attacco psicotico con annesso massacro. Perché di tutti i giorni che l’universo poteva scegliere per mandare in tilt il sistema di apertura e chiusura tecnologicamente avanzato delle Merry Go Round ha scelto proprio oggi.
Lo stesso giorno in cui il mio operatore telefonico è in blocco e la linea inesistente, tranne che per le chiamate d’emergenza – e ho seriamente fatto un pensiero sul chiamare i vigili del fuoco nella speranza di ricevere risposta dalla divisione di Ace ma il mio spirito di bravo cittadino me l’ha impedito – e l’autobus è in ritardo. Lo stesso giorno della deposizione più importanti del processo dopo quella di Ish. Il giorno della deposizione di Kuro.
E l’autobus. È. In ritardo.
Lancio un’altra occhiata all’orologio e un’altra al fondo della strada ma nulla di nuovo si intravede all’orizzonte. Forse dovrei andare a piedi, ma c’è un caldo desertico e io sono vestito fino ai denti e se arrivo in tribunale da strizzare potrei non fare una bella impressione al giudice Keji e non ho un cambio con me, perché sono uscito di casa con l’intenzione di  raggiungere la destinazione in macchina, prima di scoprire che le Merry Go Round non funzionano, che il mio cellulare non funziona e che l’autobus è in ritardo.
La sola cosa positiva è che da programma del giorno prima di Kuro dovrebbe deporre Praline, l’ultima testimone oculare da sentire riguardo l’accaduto in oggetto, prima di passare alle deposizioni riguardanti solo ed esclusivamente la condotta di Ishley, che culmineranno con la sua, nell’ultima giornata di processo, ovvero domani. E Praline è abbastanza furba e mi vuole abbastanza bene da fare qualunque cosa Reiju gli dirà di fare per prendere tempo e non farmi apparire un totale incapace, ritardatario ed inefficiente avvocato di quartiere.
Ma in tutto questo c’è una cosa che vorrei veramente sapere.
Dove diavolo è l’autob…
«Sabo?»
Mi giro d’istinto e l’asfalto che fissavo con occhio vitreo smette di fondere per qualche istante mentre metto a fuoco una macchina accostata a mezzo metro dal marciapiede, una Corrida color senape, e la sua conducente che mi osserva attraverso il finestrino abbassato e con un sorriso sul volto.
Ci metto un momento a riconoscerla e quando ci riesco, resto comunque molto sorpreso. «Rebecca!» esclamo, studiandola rapido ma preciso.
Sono passati tre mesi scarsi dall’ultima volta che l’ho vista eppure c’è qualcosa di diverso in lei. Da ex  seduttore del genere femminile, in perfetto Sanji Style ma senza cuori e con il fine ultimo di raggiungere un amplesso, non mi sfuggono i piccoli dettagli estetici quando vedo una donna a distanza di un tempo più o meno breve.
Ho notato che solo con Ish non mi succede. Quando vedo lei è come se riuscissi a concentrarmi su ogni singolo dettaglio e contemporaneamente sul quadro completo e questo mi fa sentire confuso ma anche in perfetto equilibrio. Non so cosa sia, non mi era mai successo prima ma so che è una bella sensazione.
Ma Rebecca non è Ishley e noto le piccole differenze , la frangia è sparita, per lasciare spazio alla fronte e due ciocche che le sfiorane le tempie, dandole nel complesso un’aria molto più adulta, il viso, a ricordo dell’ultima immagine che ho memorizzata di lei, mi sembra un po’ più pieno, forse ha messo su un paio di chili e, francamente, le ci volevano.
Anche Ish dovrebbe fare uno sforzo e mangiare qualcosina di più. Cioè non che così non sia bellissima ma è per il suo bene e io sto divagando di nuovo.
A colpirmi più di tutto, però, sono gli occhi. I suoi grandi e caldi occhi cioccolato che brillando di una luce tutta nuova, spigliata, allegra. Matura. Matura in quel senso.
«È tutto a posto?» aggrotta le sopracciglia preoccupata.
«Sì, sì!» mi affretto a rispondere, alzando le braccia e facendo ondeggiare la ventiquattrore al mio fianco. «Cioè, andrebbe meglio se l’autobus arrivasse ma sai come sono, questi mezzi» ridacchio e il suono che mi esce è palesemente isterico, cosa che a Rebecca credo non sia sfuggita a giudicare da come socchiude gli occhi.
«Dove devi andare?»
«Pangea, al tribunale»
«Salta su!» esclama senza esitazione, con tanto di cenno del capo. «Ti porto io, così facciamo anche quattro chiacchiere»
La guardo a bocca aperta per una frazione di secondo ma subito mi riscuoto, perché non ho veramente tempo da perdere, e aggiro veloce la macchina per salire dal lato passeggero. Universo, sei sulla buona strada per farti perdonare.
«Grazie» le dico, mentre allaccio la cintura e lei già riparte sfrecciando.
«Figurati! È un piacere vederti!» ride appena, più spontanea che mai e io sento un bel calore piacevole al centro del petto. È bello vederla così rilassata. «Ho letto della causa. Oggi è una giornata decisiva? Sembravi molto nervoso»
«Sono successe un po’ di cose tutte insieme stamattina» mi giustifico, assorbendo il fresco del climatizzatore, che riporta la mia temperatura corporea a livelli compatibili con la vita. «Ma sì, oggi è una giornata importante. Tu invece scoppi di salute eh! Sei in formissima!»
«Ah sì» per un attimo rivedo la Rebecca che ho conosciuto all’archivio, quando porta una mano verso la fronte per appiattire la frangetta che non c’è più, un’abitudine che non ha ancora perso, e le guance le si arrossano appena, ma il suo sorriso è sicuro, come anche il suo sguardo. «Devo ringraziare te per questo. Ho seguito il tuo consiglio» ammette, gli occhi che luccicano, mentre imbocca una curva.
«Ma davvero eh?» ridacchio senza scherno, gli occhi puntati sulla strada di fronte a noi. «Hai conosciuto qualcuno?»
«Sono andata a un paio di feste, mi sono… divertita ecco» il rossore aumenta. «Niente di troppo avventato eh!» mette subito in chiaro quando si accorge di come suona. «Ma mi sono lasciata un po’ andare anche se dirti che ho incontrato qualcuno è una mezza verità» si stringe nelle spalle. «Insomma qualcuno l’ho conosciuto ma nessuno di davvero interessante, non per me almeno»
La ascolto, sincera mente interessato e mi colpisce che bravo fratello maggiore sarei potuto essere per un sorella femmina. Non avrei fatto nemmeno il geloso! L’apprensivo, forse ma il geloso no.
«…’nsomma non è che voglio il principe azzurro, non dico questo, ma una persona con cui avere ogni tanto una conversazione un po’ più di spessore non mi dispiacerebbe. Sai quella via di mezzo tra il futile e i massimi sistemi? E poi mi sono accorta che mi piacciono tanto le persone con un forte senso di giustizia, lo trovo attraente! Cioè mi ci vorrebbe qualcuno simile a te! Oh…»si gira a guardarmi senza imbarazzo. «Non ci sto provando, davvero. Quella volta, non so proprio che mi sia preso…»
«Rebecca, tranqu…»
«Insomma, ho detto qualcuno simile a te non te, non potrei mai provarci con te o stare con te» calca il “te” per ben tre volte e io sto cominciando a pensare che dovrei sentirmi ferito nell’orgoglio o per lo meno un po’ indignato, quando con un’ultima sterzata Rebecca comincia a rallentare e parcheggia.
Il sollievo mi travolge. Siamo arrivati e ci abbiamo messo pochissimo, il che è un miracolo perché sono comunque a tanto così dall’essere in ritardo.
«E se venissi anche io?» mi domanda Rebecca, adesso sì lievemente imbarazzata, mentre slaccio la cintura. «A vederti intendo»
«Beh se vuoi…» apro la portiera, colpito lo ammetto. «Non hai da fare?» mi preoccupo ma lei si stringe nelle spalle.       
«Commissioni che possono aspettare» mi affianca sul lato destro quando attraversiamo la strada e mi lancia una rapida e divertita occhiata. «Vedo che certe abitudini sono dure a morire» commenta e io le lancio solo un’occhiata perplessa.
Devo sbrigarmi, dai, dai, dai.
«Comunque non ti saresti persa niente di che» l’avviso mentre saliamo le scale di gran carriera, la mano sale da sola ad accarezzare il retro del collo.
«Io non credo» afferma convinta lei e intanto entriamo. «Secondo me ti sottovaluti, guarda che hai fatto con me» mi prende in contropiede, con una rivisitazione di ciò che le ho detto io, quel giorno di due mesi e mezzo fa, quando mi ha chiesto di baciarla.
Ma non ho modo di ribattere quando svoltiamo nel corridoio che porta all’aula dove si tiene il nostro processo una voce si leva a chiamare il mio nome.
«Sabo finalmente!» Coby mi corre incontro. «Tutto a posto? Abbiamo provato a chiamarti per mezz’ora ma ci dava sempre staccato e… e t-tu, tu…» incespica Coby e no, anche se per un attimo lo sospetto, non sta facendo il rumore del telefono che suona a vuoto. Guarda Rebecca e sbatte le palpebre, confuso e frastornato. «Io…» esala e contrae rapidamente le sopracciglia prima di riuscire a soffiare: «Ciao»
Rebecca sussulta e la vedo con la coda dell’occhio afferrarsi una ciocca di capelli con entrambe le mani, mentre lo guarda dal basso verso l’alto e sussurra, altrettanto coinvolta: «Ciao»
«Vi conoscete?» domando, indagatore e tutti e due scuotono il capo, senza staccarsi gli occhi di dosso. Un sorrisetto mi stira le labbra. Ma che…? «Coby…» mi porto al suo fianco con entusiasmo. «…questa è Rebecca, una mia amica. Rebecca, lui è Coby, il secondo avvocato del processo e un braccio destro prezioso» gli do una pacca sulla spalla che lo fa ondeggiare appena sul posto. «Brillante e con uno spiccatissimo senso di giustizia» ammicco verso di lei, non che mi stia guardando né che abbia bisogno di altro per sentirsi attratta a giudicare da come lo fissa ipnotizzata.
Ma che succede a tutti in questi giorni? Non dovrebbe essere la primavera la stagione degli amori?
«P-piacere» le tende una mano Coby e Rebecca diventa ancora più rossa quando gliela stringe, non senza una piccola esitazione.
«Piacere mio…»
«Beh prendetevi pure un attimo per conoscervi» stringo la spalla a entrambi e mi allontano, lungo il corridoio e verso Reiju che mi viene incontro decisa.
«Sabo!»
 «Ehi Rei»
«Ma che fine avevi fatto?» mi rimprovera, fermandosi a pochi passi, le braccia strette sotto il seno. «Sono già tutti dentro»
Mi blocco stranito e per un momento mi verrebbe voglia di domandare un aspro “Tutti chi?”, visto che oggi potevano venire solo Sanji e Usopp e, ovviamente, Praline, ma mi trattengo e opto per lanciare un occhio all’orologio. «Mancano ancora cinque minuti»
«Hawkins lo ha fatto apposta» sibila, arrabbiata come la sera della rissa. «Quel bastardo, sono dieci minuti che fa del sarcasmo sulla tua assenza» stringe i pugni e io la studio e un moto di affetto per lei mi travolge.
L’ho notato, in queste due settimane di stretta collaborazione, piccoli gesti accorti che valgono più delle parole. Come il bicchiere di acqua che si riempiva magicamente ogni volta che lo svuotavo, gli appunti fino a un attimo prima dispersi che apparivano dal nulla in cima al resto di tutte le altre carte, e per finire l’altro ieri, tutto in silenzio, senza mai farsi notare, senza aspettarsi nulla in cambio.
Avrei potuto dubitare che lo avesse fatto solo per Ishley se non mi stesse dimostrando da giorni ormai l’affetto e la stima che ha per me. Se non mi stesse dimostrando che è il mio angelo custode.  
Faccio un passo e la abbraccio. Si irrigidisce, presa in contropiede, ma dopo un momento si rilassa.
«Grazie Rei»
Se fossi una persona più egoista, ora le chiederei di diventare mia assistente dopo la sua laurea, con ben quattro/cinque anni di anticipo. Ma lei è destinata a volare in alto, molto più in alto di me.
Sbuffa una mezza risata contro la mia mandibola e me la immagino sorridere serafica. Le sua braccia scivolano intorno ai miei fianchi e stringono appena. «Spero che almeno abbiate passato una bella serata»
«Non credo tu voglia i dettagli»
«Non da te» ribatte pronta e maliziosa, mentre ci separiamo. Mi fissa con evidente divertimento, un’espressione così simile a quella di Robin che quasi fa impressione e che presto, tuttavia, vira al perplesso. Perplessa e focalizzata sulla mia guancia. «Ma che hai fatto?»
«Che ho fatto?» ripeto e alzo la mano a sfregare la guancia.
«No, no!» mi ferma Reiju, afferrandomi il polso. «Così fai peggio!»
«Ma peggio cosa?»
«Non ti sei accorto che hai la faccia tutta impiastricciata?» mi domanda e io la fisso come se avesse appena parlato in Bantu o in Shandia.
La faccia… Ma che… Oddio no.
No.
Dimmi che non è quello che penso.
Dimmi che Eris, nei venti minuti che è stata da Law e Koala stamattina e dove io ho dormito stanotte perché tanto Ish era di turno – anche se mi è costato rinunciare alla nostra mezz’ora –, dimmi che non ha usato la mia faccia come foglio da disegno.
Ti.Prego.
Ecco di cosa parlava Rebecca.
«Hai uno specchietto?» le chiedo, implorante, ricominciando a sfregare ma Reiju mi blocca di nuovo.
«Sabo fai un disastro così» mi forza giù il braccio e ridacchia, mentre mi studia la guancia. «Hai quasi ucciso il gatto» afferma con finta serietà e intanto rovista nella propria borsa, alla ricerca di non so cosa.
«Non è un gatto» specifico con un sospiro. «È Sunny, il leoncino di Eris. Il suo peluche preferito»
Lo so anche senza vederlo, che è lui.
«E come fai a dirlo?»
«Perché Eris mette Sunny in tutti i suoi disegni. Ogni tanto mette anche Kiwi e Mozu ma solo quando non disegna il momento del caffè, perché il caffè si serve con la torta al rabarbaro e Kiwi è allergica al rabarbaro, allora in quel caso disegna solo Sunny, Mozu e Zanbai» spiego mentre Reiju mi pulisce con una salviettina umida.
«Però!» esclama lei, sinceramente colpita. «Incredibile quante informazioni apparentemente superflue il cervello immagazzina quando c’è di mezzo un bambino a cui si tiene eh? Ed è solo tua nipote, figurati se fosse tua figlia» ridacchia ancora e il mio stomaco fa una capriola. No, non per il riferimento a una mia probabile futura figlia, che voglio, eccome se la voglio, ma per qualcosa di molto ma molto più meraviglioso vista la situazione in cui ci troviamo. Perché se quello che sto pensando può funzionare avere una figlia, in un futuro prossimo o anteriore che sia, sarà molto più semplice e bello se prima avrò salvato la carriera di sua madre e la reputazione del posto in cui lavora e, soprattutto, la bambina per cui ha rischiato tanto. «Ho detto qualcosa che non dovevo?»
«Oh no! No, tutt’altro» soffio, la voce rotta dall’adrenalina. «Andiamo» la afferro per il gomito e mi precipito verso la porta dell’aula. «Coby, andiamo!» alzo appena il tono per farmi sentire ma non aspetto che ci raggiunga, sono troppo elettrizzato e terrorizzato da quello che ho appena deciso di fare.
«Sabo non ho finito di pulir…»
«Non importa»
«No, Sabo! Aspetta, c’è una cosa che devi saper…»
Il primo flash mi acceca quando entriamo nell’aula ma non barcollo e ci metto un attimo a recuperare la vista e accorgermi che l’ala di pubblico dalla parte di Kuro è zeppa di giornalisti.
«Hawkins?» domando a Reiju che si limita ad annuire mentre Coby e Rebecca ci raggiungono.
Prendo un profondo respiro.
Va bene, Hawkins ha invitato un nugolo di giornalisti ad assistere alla giornata di oggi, certo della propria vittoria, giornata in cui ho deciso di tentare una pazzia, con la faccia imbrattata di pastello e appena tre persone dal nostro lato dell’aula a sostenerci.
Non importa.
Non cadrò vittima dei suoi subdoli trucchetti, non mi farò agitare o intimorire.
Sono un professionista, io, anche con la faccia imbrattata di pastello.
«Ragazzi» ricomincio a camminare. «Facciamoci onore»
 

 
***

 
Stacco i pezzi di macramè intagliato in precedenza sul bordo della gonna, con gesti meccanici e la testa altrove.
Glielo dico.
Non glielo dico.
Mi basterebbe dare una spintarella a Nami nella giusta direzione, per mettere Zoro spalle al muro e obbligarlo a parlarle. Sarebbe la cosa più equilibrata da fare, ben più giusta che spifferarle tutto io, meno giusta che continuare a farmi gli affari miei.
Glielo dico.
Non glielo dico.
Se non le dico nulla, però, la mia ingerenza nella loro privacy, con tanto di coinvolgimento dei miei suoceri, perderebbe ogni significato. Lo avrei fatto solo per dormire sonni più tranquilli, una speranza vana, oltretutto.
Glielo dico.
Non glielo dico.
Glielo dico.
Non glielo dico.
Che poi non riesco a capire. Nami è così scaltra di solito. Si accorge di ogni minimo dettaglio, com’è che possibile che non…
«Ahi!»
Sollevo il capo dai ritagli di macramè in tempo per vedere Nami portarsi un polpastrello alla bocca, un ago nell’altra mano. Succhia qualche secondo e quando lo toglie dalle labbra non mi sfugge la piccolissima goccia di sangue che stilla, così come non mi sfuggono i segni di altre mini punture sullo stesso dito.
La fisso, perplesso.
In tutte queste settimane, non ho mai visto Nami pungersi o faticare per inserire il filo nella cruna e ora sembra si sia punta ripetutamente nell’arco di solo stamattina. Inalo a fondo.
Si è accorta. Si è decisamente accorta e ora che la guardo bene noto quanto è tirata. Non sta affatto bene.
Porca miseria.
Glielo dico.
Non glielo dico.
Glielo dico.
Non glielo dico.
Perché proprio a me? Perché di tutte le persone a questo mondo dovevo scoprirlo proprio io?
 
«C'è qualcosa che vorresti sapere?»
«Una mia amica... una mia cara amica… Lei ecco...Diciamo che avrò un ruolo importante nella vita sua e di suo "marito". Sarò all'altezza?»
 
Aggrotto le sopracciglia quando riconosco nella mia testa la mia assurda conversazione con Madame Shirley a Marijoa. Perché mi viene in mente ora? Che c’entra con tutta questa storia? Io…
Il respiro mi si mozza.
 
«Lui nasconde un segreto. Sta a te scoprirlo»
 
Oh…
Oh.
Oh Kami del cielo! Non parlava di Marco! E… E nemmeno di Law! Io non le ho mai detto che l’amica in questione era la mia migliore amica, non ho voluto dirglielo e sì, è vero che quando ho detto la parola “marito” ho fatto i segni delle virgolette ma Shirley non mi guardava in quel momento, lo rammento bene, come se fosse appena accaduto!
Lei… Lei parlava di Zoro.
«Izou, è tutto a posto?»
Lo sguardo perso, mi giro vero Nami che mi fissa di rimando preoccupata.
Cosa faccio? Cosa dovrei fare?
 
«Sarò all'altezza?»
«Se resterai fedele a te stesso, lo sarai»
 
Fedele a me stesso…
«Izou ehi!» la mano di Nami si posa sulla mia schiena e sfrega appena, in una ruvida e materna carezza. «Non ti agitare, abbiamo praticamente finito e gli abiti sono tutti perfetti»
 
«Izou Wano che ritiene che qualcosa non siano affari suoi? Che cosa ti è successo?»
 
Stavolta è la voce di Koala a venire in mio aiuto e, come sempre, lei sa dirmi qual è la cosa giusta da fare, direttamente o indirettamente che sia. Faccio un profondo respiro.
«Sto bene, Nami» le sorrido. Spero di essere bravo anche solo la metà di Naso Sexy a dissimulare. «Mi è solo venuto in mente che devo andare a ritirare oggi i biglietti che la Baroque Works ci ha fatto avere per il concorso» mi alzo in piedi e mi guardo intorno, alla ricerca della mia crocchia e del mio zainetto.
«E ci vai ora?» si stupisce lei ma io mi stringo nelle spalle.
«Così non ci penso più» argomento, raccogliendo rapido ed esperto i capelli. «Lo hai detto anche tu no? Abbiamo praticamente finito»
Non le do quasi il tempo di ribattere e le volto le spalle, avviandomi per uscire ma fermandomi volutamente sulla porta del salotto. Faccio un profondo respiro. Ora o mai più Izou.
«Ah Nami! Mi stavo dimenticando!» mi rigiro, battendo una mano sulla fronte. «Che sciocco. Ha chiamato l’ospedale, hanno detto che devono spostare la visita a Zoro e di richiamarli al centralino per concordare un momento adatto per lui»
La guardo, irrigidirsi, puntare per un attimo lo sguardo nel vuoto, trattenere il fiato. La guardo e mi odio.
«O-Ospedale?» esala e subito scuote il capo per simulare noncuranza. «Di che visita parli?» ridacchia nervosa e io mi stringo nelle spalle.
«Ah boh. Io ho solo detto che avrei riferito. Insomma, se non lo sai tu che sei sua moglie…» lascio la frase in sospeso con un’altra stretta di spalle e poi mi impongo di sorridere, sorridere finché non mi fanno male le guance. «Allora io vado eh! Ho un altro paio di commissioni da fare poi, magari rientro direttamente stasera» la avviso ma non credo mi senta.
Voglio lasciarle campo libero per mettere la casa a soqquadro e trovare tutte le carte, che io ho rimesso al loro posto dopo l’altra sera. E per quando arriverà Zoro, preferisco non essere presente.
Con un movimento silenzioso, scivolo fuori di casa e richiudo la porta, appoggiandomici con la schiena. Non posso nemmeno pensare a come deve sentirsi Nami in questo momento. Tradita, ferita, spaventata. La sola idea mi lacera dentro ma non posso starle accanto ora.
Questa è una cosa che devono risolvere insieme e senza nessuno in mezzo.
La mia parte l’ho fatta.
«Kami del cielo» sospiro. «Vi prego, ditemi che ho fatto la cosa giusta»

 
***

 
«Il Castello sulla Collina contro Kuro Krahador. Quarta udienza, presiede il giudice Hina Keji. Tutti in piedi»
Le mani artigliate alle mie stesse cosce scivolano lungo i fianchi mentre ci mettiamo in piedi e io ne approfitto per provare a distendere corpo e polmoni. Lancio un’occhiata a Sabo che si sistema il nodo alla cravatta mentre mia sorella gli controlla il colletto con una furtiva occhiata che diventa sofferente quando si posa sulla guancia del nostro amico.
È sporca di pastello e, per un qualche motivo, quando Reiju ha provato a finire di ripulirlo lui l’ha fermata. “Ormai mi hanno fotografato così” l’ho sentito dire prima di aggiungere: “Mi è venuta un’idea”.
Un’idea.
Se bastasse un’idea per uscire vincitori da questa situazione, ora sarei più sollevato. Ma non basta un’idea, lo so bene, lo vedo in che unica e ormai irrevocabile direzione è andato questo processo. Io e Usopp ci siamo mossi lo stesso, abbiamo fatto la nostra parte, se però Kuro riesce a mantenere la custodia di Kaya sarà stato inutile, perché la porterà via e noi non la vedremo mai più, non la stringeremo più, non la sentiremo più ridere, non le racconteremo più storie orribili o meravigliose.
«Sanji»
La mano di Usopp si intreccia con la mia e quando mi giro a guardarlo, il cuore perde un battito. Sorride, con così tanto coraggio e così tanta dolcezza che mi sento lacerare dentro da quello che provo per lui. Come fa? Come fa a sorridere così e a darmi così tanta forza? A me, che non riesco a dargli nemmeno una speranza e riesco a ricambiare solo con un flebile mezzo sorriso?
«Non è ancora finita, Sanji» mi ricorda, stringendo appena.
«Potete accomodarvi» annuncia la bellissima giudice, un’eterea creatura che ha in mano la nostra futura felicità.
«Ehi ragazzi» sussurra una voce alla mia sinistra e io mi volto mentre ci risediamo, per vedere Koala, Law, Cora e Gerth scivolare lungo la fila di sedie fino a noi. «Ce l’abbiamo fatta» sorride Koala, allungando una mano ad accarezzare Usopp sulla guancia, materna e piena d’amore per tutti. 
«Che bello rivederti Rebecca»
«È un piacere anche per me, Cora-san»    
«Avvocato Monkey» il giudice Keji lo chiama, autoritaria, e Sabo subito si alza in piedi. «Procediamo con la prima deposizione di oggi»
Sabo annuisce, si sistema i baveri della giacca e prende un profondo respiro. «Chiamo a testimoniare il signor Kuro Krahador»
Un lieve brusio si leva tutto intorno, principalmente dall’ala della difesa dal momento che di qui ci siamo solo noi, Kuro aggrotta le sopracciglia stranito e Hawkins solleva il capo dai propri appunti. «Mi scusi, Vostro Onore» si alza appena dalla sedia il Profeta. «In programma per oggi c’era prima la deposizione della signora Shark»
«Vostro Onore secondo l’articolo 46, secondo paragrafo, comma 3 non vi è alcun obbligo a seguire l’ordine previamente concordato a meno che non vi siano impedimenti fisici come l’assenza del teste chiamato a deporre e purché il teste chiamato dovesse già, da programma, deporre nella data corrente» si alza subito Coby, ed è la prima volta che lo vedo reagire con così tanta verve e ribattere con così tanta convinzione. «Ci sono tutti gli estremi per il mio collega per richiedere prima la testimonianza del signor Krahador» conclude si risiede e io mi scambio un’occhiata sorpresa con Uso-chan.
Chissà che gli è preso.
«Quand’è così…» il giudice Keji intreccia le dita. «Signor Krahador, la prego di accomodarsi alla sbarra. Non sono una a cui piace perdere tempo» lo informa e, non versassi nelle condizioni emotive in cui verso, io ora mi lancerei in un turbine di cuori.
Quando si alza in piedi e si sistema il nodo alla cravatta, Kuro ha l’aria di uno che ha appena ingoiato un rospo, mentre Hawkins rimane impassibile e studia attento Sabo che si porta al centro dell’aula.
«Ma che ha sulla guancia?» domanda Koala, le sopracciglia aggrottate. Io e Usopp ci stringiamo nelle spalle e scuotiamo appena il capo.
«Dal poco che vedo, sembra opera di Eris» si sporge in avanti Law, posando gli avambracci sulle cosce.
Sabo si schiarisce la gola e si avvicina alla sbarra. «Signor Krahador, lei sa che io ho una nipote?»
«Obiezione, Vostro Onore» interviene immediatamente Hawkins, il tono annoiato.
«Accolta. Avvocato Monkey, la prego di attenersi a domande coerenti con il caso»
Stringo i pugni ma Sabo non si scoraggia e sorride al giudice Keji. «Ma Vostro Onore, volevo chiedere al signor Krahador se conosce un modo efficace per rimuovere tracce di pastello dalla mia faccia. Vede?!» gira il volto a mostrare la guancia e io socchiudo gli occhi.
Non capisco cosa sta facendo ma voglio fidarmi di lui. Tutt’al più che Aisa sta riprendendo con il telefonino perciò probabilmente Sabo non si sta arrampicando sugli specchi come mi verrebbe voglia di pensare.
«Avvocato Monkey…»
«Ho capito, Vostro Onore» alza le mani Sabo in segno di resa e poi torna verso la sbarra. «Signor Krahador, è mai capitato che Kaya le abbia disegnato in faccia?»
Kuro allunga un braccio verso la ringhiera di fronte a sé e appoggia il palmo sul legno, mostrandosi volutamente esasperato.
«No, avvocato Monkey, non è mai accaduto»
«Mh» si acciglia Sabo. «Dunque non le è mai capitato che Kaya le abbia pasticciato in volto con i pastelli in quattro anni che Kaya è sotto la sua custodia. Sono quattro anni giusto? Kaya ne deve compiere cinque, è corretto? O li ha già compiuti?» domanda e Kuro si irrigidisce. È impercettibile ma io lo vedo e vedo come Kuro cerca Hawkins con gli occhi.
Che… che sta succedendo?
«Signor Krahador?» lo incita Sabo.
«Li deve compiere» risponde un po’ troppo in fretta e Uso-chan trattiene il fiato, indignato.
«Ah. Che strano, mi era parso di aver capito che l’avvocato Hawkins avesse definito… com’era Reiju?» si gira verso mia sorella, gli occhi socchiusi nel finto sforzo di ricordare.
«Invadente e inopportuno»
«Invadente e inopportuno il gesto del signor Sharpshooter di potare a Kaya un regalo per il suo compleanno. Evidentemente ricordo male» minimizza Sabo ma Kuro ringhia di fastidio e Hawkins non fissa più i suoi appunti.
Trattengo il fiato. Credo di aver capito cosa vuole fare.
«Quindi, mi conferma che non le ha mai pasticciato la faccia?»
«Vostro Onore!»
«Avvocato Monkey!»
«Signor Krahador lei sa qual è il colore preferito di Kaya?» ricomincia Sabo e io stringo più forte la mano di Usopp, incastrata nella mia.
Kuro sbuffa e agita una mano in aria. «Il rosa, immagino»
«Immagina» alza le sopracciglia Sabo. «Interessante. E Kaya cosa vuole fare da grande?»
«Non ne ho idea»
«Quindi suppongo che chiederle qual è il peluche preferito di Kaya e il suo nome sarebbe inutile, signor Krahador»
«Obiezione. L’avvocato Monkey sta insinuando»
«Accolta. Avvocato Monkey…» lo richiama il giudice e il cuore mi perde un battito quando sorride a Sabo, e non perché abbia un sorriso celestiale. «…ponga la domanda al signor Krahador così che possa risponderci»
«Subito Vostro Onore» annuisce Sabo. «Signor Krahador sa indicarci qual è il peluche preferito di Kaya e il suo nome?» si avvicina alla sbarra, mani in tasca e sorriso in faccia, con il preciso intento di provocare Kuro.
E ci riesce. Oh se ci riesce.
Kuro squadra la mascella, cerca Hawkins con gli occhi ma quello non fa una piega.
«Signor Krahador, risponda alla domanda» ordina il giudice.
«Non ce l’ha un peluche preferito, va bene?!» esplode Kuro, contenendosi a stento dal picchiare un pugno sulla ringhiera. È la prima volta che non lo vedo freddo e distaccato.
«Non ce l’ha?» sgrana gli occhi, Sabo. «Ma davvero?» sfila una mano dalla tasca e si sposta rapido verso il tavolino della stenografa. «Signorina, posso chiederle gentilmente le trascrizioni della deposizione del signor Sharpshooter, del dottor Trafalgar, del signor Charlotte e della dottoressa Jailer?» tende un mano e afferra i fogli che gli vengono tesi, studiandoli un paio di secondi prima di riprendere. «Dunque, cito testualmente. Dalla testimonianza oculare del signor Sharpshooter:  “Sono entrato nella stanza e il letto di Kaya era vuoto, così come l’armadio. C’era solo Merry, il suo peluche preferito, per terra al centro della stanza”. Il dottor Trafalgar ha invece dichiarato: “Anche se non dobbiamo farci coinvolgere, arriviamo a conoscerli come se fossero nostri. Tutti sanno che Kaya e il suo ariete peluche sono inseparabili, per esempio”. Dopodiché abbiamo il signor Charlotte Katakuri: “Kaya è una bambina espansiva e altruista. Le uniche due cose da cui non si separerebbe mai sono il suo anello rosso e il suo ariete di peluche, Merry”. E per finire, la dottoressa Jailer, la psicologa del Castello afferma: “Kaya è una bambina equilibrata per le numerose degenze ospedaliere che ha subito. Come tutti i bambini ha un colore preferito, una fiaba preferita, un peluche preferito, nella fattispecie un piccolo ariete di nome Merry”» Sabo riporta gli occhi su Kuro che ormai ha la faccia deformata dalla rabbia. «Non ce l’ha signor Krahador? O lei non conosce affatto Kaya?
«Come le dicevo, io ho una nipote di tre anni e in tre anni non ho passato insieme a lei nemmeno due mesi. Ma so che il suo colore preferito è il viola, che il suo peluche preferito è un leoncino di nome Sunny e che da grande vuole fare l’archeologa. La mia ragazza…» prosegue Sabo e io mi giro perplesso verso Law.
«Ha una ragazza?» domando ma Law resta impassibile. «Così pare» si stringe nelle spalle mentre Koala sorride enigmatica.
«Ma da quando?»  
«Oh sì» gongola Praline, seduta tra Usopp e Aisa. «Ce l’ha eccome»
«…, con cui sto da neanche due mesi, sa anche lei tutto questo e che è allergica alle fragole e io so che adora la torta al rabarbaro e addirittura che uno dei suoi peluche, Kiwi, è allergico al rabarbaro e quindi non la può mangiare. Io so tutto questo di mia nipote, una bambina che ho vissuto pochissimo e con un sacco di zii mentre lei, signor Krahador, lei che è tutore e unica costante adulta nel mondo di Kaya da ben quattro anni, non sa nulla di lei e nemmeno ci ha mai davvero giocato insieme. Perché? È un bravo cittadino che fa il proprio lavoro? E allora mi domando, perché si è tanto battuto e opposto alle tre richieste di affidamento che Kaya ha ricevuto negli ultimi quattro anni? Può rispondermi signor Krahador?»
«Non erano idonei…» ringhia Krahador a denti stretti.
«Ma esistono giudici apposta per decretare l’idoneità, signor Krahador. E poi, così poco idonei da sentire il bisogno di cambiare città ogni volta nonostante la salute cagionevole di Kaya?»
«Obiez…»
«Deve tenere davvero molto a questa bambina ma allora perché non è mai capitato che le abbia disegnato in fac…»
«Quella gente non saprebbe cosa farsene dell’eredità di Kaya, è chiaro?!?! Sono tutti degli insulsi, romantici smidollati che le lascerebbero decidere cosa fare di un patrimonio immenso una volta raggiunta la maggiore età!! Ma non io, io so cosa fare, io so pensare in grande!!!»
Sabo fa un passo indietro, non si scompone, sfila anche l’altra mano dalla tasca. «Vostro Onore, io ho concluso. Il teste alla difesa» informa il giudice e io mi accorgo di essere in apnea.
Uso-chan mi stritola la mano e un boato quasi si leva dal gruppo di giornalisti, un vociare che obbliga la bellissima giudice a usare con violenza il martelletto.
«Silenzio!!! Voglio silenzio nella mia aula!» ordina, prima di rivolgersi al Profeta. «Avvocato Hawkins, vuole controinterrogare?» gli domanda e quello raccoglie le sue carte in un unico plico e le picchietta sul tavolo. «Non credo sarebbe in alcun modo utile, Vostro Onore. E so che non ama perdere tempo» annuncia, recuperando la propria ventiquattrore.
Aspetta un attimo. Che sta succedendo? Che significa?
«Hawkins, cosa diavolo fai?» sibila Kuro quando Hawkins si alza in piedi, ma non lo guarda nemmeno di striscio e si rivolge nuovamente al giudice Keji. «Attendo il verdetto per rispetto nei suoi confronti, Vostro Onore»
«Molto bene» annuncia lei e vedo con la coda dell’occhio Sabo che torna al tavolo, Reiju che gli porge un bicchiere d’acqua e Coby che gli fa le feste e lo riempie di pacche sulle spalle.
Cosa succede, dannazione! Cosa?!      
«Alla luce dei recenti avvenimenti credo di poter decidere senza troppe riflessioni. La corte dichiara il signor Kuro Krahador colpevole di negligenza nel suo lavoro di tutore legale e revoca la custodia della signorina Kaya Kurami al sopracitato soggetto nonché la sua nomina a tutore statale»
«Cosa?! No!»
«Il signor Krahador potrà fare ricorso per il secondo verdetto, per quanto riguarda la signorina Kurami, le sarà assegnato un nuovo tutore legale in mancanza di richieste di affidamento, in caso contrario si valuteranno i richiedenti affidatari, con il fine ultimo di raggiungere un’adozione definitiva. La corte si ritira» il giudice Keji picchia di nuovo il martelletto e io ricomincio a respirare.
Ce… ce l’ha fatta? Abbiamo vinto?
«Sanji…»
«Abbiamo vinto…»
«S-Sanji…» mi richiama Usopp e quando mi giro a guardarlo mi accorgo che ha le lacrime agli occhi. Non solo lui. Gli circondo il viso con le mani. «Abbiamo vinto Usopp» soffio con voce rotta e poi scoppio a ridere «Abbiamo vinto!» ripeto baciandolo con quanto fiato ho in corpo.        
Ommioddio, abbiamo vinto!
«Avvocato Hawkins, una dichiarazione!»
«Avvocato Hawkins è la sua prima sconfitta in anni, vuole lasciarci un comm..» un paio di giornalisti lo inseguono fuori dall’aula, seguiti a ruota da Kuro che si ferma un solo momento di fronte a noi, apre bocca, la richiude, solleva il mento e se ne va e io torno ad abbracciare Usopp. Non è finita, non è affatto finita ma, mio dio, ce l’abbiamo fatta! Sabo ce l’ha fatta!
«Le sto mandando il video» vedo Aisa smanettare al cellulare, addossata contro Praline. «È stato sexy da morire, secondo me stasera si fa trovare nuda con solo il tocco della sua laurea in testa e gli fa vedere i fuochi d’artificio»
Mi piego verso di loro, portando Usopp con me. «Ma chi è? Noi non sapevamo niente!»
«Dottor Trafalgar, Signorina Surebo, potrei conferire un istante con voi nel mio studio?» domanda dall’alto scranno il giudice Keji e, mentre Law e Koala sgusciano fuori dalla fila per raggiungerla, aggiunge: «Qualcuno dovrà avvisare la dottoressa Habena che la sua deposizione non è più richiesta e la sua condotta non più sotto processo»
«Ci penso io!» risponde prontamente Sabo, estraendo il cellulare e avviandosi lungo il corridoio. «Vado fuori a chiamarla» mormora passando davanti a noi.
«Le ho mandato il video» lo avvisa Aisa. «Preparati a una notte di fuoco, avvocato!»
Le fisso a occhi sgranati, lei e Praline. «Ish?» domando, incredulo. «Sabo e Ish?» specifico, giusto per andare sul sicuro e Aisa si stringe nelle spalle.
«Lo sapevo!» sussurra vittorioso Usopp e io gli lancio un’occhiata basita. «Oh dai! Era evidente»
«Ma evidente cosa?» protesto.
«Ehi Principe, dovresti essere contento» mi fa l’occhiolino Praline. «Adesso che c’è Mingherlino, Ish non fa più gli occhi dolci a Nasolungo»  
Se fosse possibile, la mascella mi cadrebbe al suolo. «Che cosa signif…»
«Una dichiarazione?» un registratore compare sotto al mio naso, interrompendomi e io lo fisso con sguardo truce finché Praline non afferra il polso del giornalista e lo abbassa alla propria altezza. «Ti do un consiglio per il titolo dell’articolo, dolcezza. “Il Mago batte il Profeta”. E ora vai, va a scrivere e rendi fiera zia Praline, su» lo liquida prima che un forte tonfo risuoni in aula.
«Silenzio in aula per favore!» richiede l’agente in carico e poco per volta il forte brusio si calma fino a spegnersi. «Richiesta di affidamento della signorina Kaya Kurami da parte dei signori Sanji Benjamin Vinsmoke e Usopp Timotheus Sharpshooter. Prima udienza, presiede il giudice Hina Keji. Tutti in piedi»
Io e Usopp tratteniamo il fiato, riportati bruscamente alla realtà. Alzo le mani alla mia cravatta, stringo il nodo e poi controllo veloce quella di Usopp e gli circondo di nuovo il viso con le mani.
«Andiamo» lo bacio sulla punta del naso.
No non è affatto finita. Per noi è appena iniziata ma con la mano stretta in quella di Uso-chan, non ho paura di niente.

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


Prendo un profondo respiro e sento Usopp tremare appena accanto a me, mentre Reiju stringe la spalla a entrambi e insieme a Coby va ad accomodarsi tra il pubblico.
Ci siamo. Adesso inizia la vera battaglia per noi.
«Signor Vinsmoke, signor Sharpshooter, buongiorno. Accomodatevi pure» ci accoglie il giudice Keji con un cenno del capo che ricambiamo, prima di sederci. «Vi rappresentate da soli o avete scelto un legale rapprensen…»
«Eccomi, Vostro Onore» Sabo la interrompe, rientrando di gran carriera e correndo lungo il corridoio per raggiungerci e occupare la sedia all’estrema destra, accanto a me.
«Avvocato Monkey! Ma che piacere!» esclama con ironia il giudice e Sabo ridacchia.
«L’onore è tutto mio, Vostro Onore» china il capo in un piccolo inchino. «Tuttavia devo purtroppo informarla che, nel corso di questo caso, non avrà molto modo di sentire la mia voce»
Vostro Onore aggrotta le sopracciglia e così facciamo anche io e Uso-chan. «Cioè?» chiede delucidazioni e Sabo estrae un cartellina trasparente dalla ventiquattrore.
«Vostro Onore, se è vero che una persona si giudica da coloro che ha intorno, allora chiedo il permesso di comunicarle l’elenco di chi ha accettato di deporre in favore dei richiedenti affidatari» annuncia solenne, estraendo un foglio dalla cartellina. «Informandola che si tratta di un elenco scremato per non incorrere in conflitto di interessi, da cui pertanto sono stati eliminati tutti i dipendenti del Castello sulla Collina che hanno comunque chiesto di poter deporre in favore dei signori Vinsmoke e Sharpshooter»
«Prego, avvocato Monkey. Devo dire che è bravo a mettermi curiosità»
Sabo sorride, sembra quasi che il giudice gli abbia fatto chissà che complimento, e poi prende fiato e abbassa gli occhi al foglio.
«Akagami Makino, Akagami Shanks, Charlotte Pudding…»
Già i primi tre nomi mi colgono alla sprovvista e mi metto più dritto sulla sedia, chiedendomi quando Sabo li abbia contattati, dove abbia trovato il tempo.
«…Cocoyashi Bellemere, Cocoyashi Chopper, Cocoyashi Genzo, Cocoyashi Nami, Cocoyashi Nojiko, Curly Dadan, Cuttyflam Franky…»
Mi giro verso Sabo quando mi accorgo di una breve pausa e lo vedo sbuffare una risata carica di affetto prima di riprendere.
«…Donquijote Monet, Eustass Kidd Kornelius…»
Ha detto “Monet”? Mi giro verso Usopp, non certo di aver sentito bene,
«…Fisher Tiger, Hook Crocodile…»
Gli occhi di Usopp si fanno tondi come due fondi di bottiglia, io faccio fatica a respirare.
No, sul serio.
«…Hook Baby…»
Quando li ha contattati? E loro hanno accettato? Tutti?! Per noi?!
«…Melville Satch, Monkey D. Dragon, Monkey D. Rufy, Murphy Kaymie…»
Un’altra breve pausa e stavolta Sabo prende un bel respiro.
«…Nefertari Bibi, Nefertari Pell, Newgate Marco, Ohara Nico Robin, Portuguese Monkey D. Ace, Redfoot Sora…»
Mi passo una mano sul viso, cercando di ingoiare il groppo in gola. Sento come una corda tendersi dentro di me, man mano che Sabo legge i nomi di tutte le persone che ci amano e sono dalla nostra parte in questa battaglia. E anche se solo poche di loro sono qui, quest’aula di tribunale improvvisamente non mi sembra più così vuota.
«…Redfoot Zeff, Rosylife Duval, Roronoa Perona, Roronoa Zoro, Rumbar Brook, Sharpshooter Yasopp William…»
Genitori, amici.
«…Surebo Koala, Thernadier Cosette, Vessel Coby, Vhoores Killer…»
Fratelli.
«…Vinsmoke Ichiji Remus…»
Il cuore mi si ferma, il cervello va in corto.
«…Vinsmoke Niji Benedict…»
Mi giro a cercare con gli occhi mia sorella ma non la trovo seduta con gli altri, bensì due file più indietro, insieme a quei tre coglioni dei miei fratelli, che non so quando siano arrivati. Ichiji impassibile, Niji incazzoso – sicuramente perché è senza Cosette –, Yonji ghignante.
Avevano detto… avevano detto di essere qui per la serata di beneficenza…
«…Vinsmoke Reiju Penelope…»
Maledetti bastardi. Quanto…
«…Vinsmoke Yonji Geronimo…»
Quanto cazzo vi voglio bene.
La corda dentro di me si spezza e mi giro di scatto, esalando piano.
«…Wano Aisa…»
«Sanji?» la mano di Usopp torna a stringere la mia, come ha fatto per tutta la mattina. «È tutto okay?»
«…e Wano Izou»
Annuisco piano e mi giro a guardarlo, con gli occhi lucidi ma un sorriso felice. «Lo sai quanto ti amo, vero Usopp?»
Trattiene il fiato ma poi subito mi sorride e si piega appena verso di me. «Sì, lo so»
«Inoltre tre degenti del Castello sulla Collina, di anni tredici e quattordici, hanno chiesto anch’essi di poter deporre in favore dei miei assistiti» annuncia Sabo e Usopp trattiene il respiro, alzando gli occhi.
«Ninjin, Piiman e Tamaneji» soffia, a nessuno in particolare, per poi tornare a guardarmi.
Quasi mi perdo nei suoi occhi, alzo una mano e la poso sulla sua guancia e Usopp ricomincia a sorridere ma anche lui sembra litigare con qualcosa che gli blocca l’esofago.
«Avvocato Monkey, potrei vedere anche l’elenco dei testimoni scremati?» s’informa il giudice e io mi impongo di tornare in me, alla realtà, nell’aula di tribunale.
Con fatica mi stacco da lui e mi rimetto dritto, senza rinunciare al suo mignolo, che intreccio con il mio, mentre Sabo estrae un altro foglio dalla cartellina e si avvicina all’alta cattedra. Vostro Onore afferra il foglio, lo studia con sguardo concentrato alcuni istanti e borbotta qualche nome a fior di labbra.
«Il dottor Trafalgar naturalmente, la signora Shark…» si sofferma più a lungo su una riga e mette su un sorrisetto tra il divertito e il saputo. «La dottoressa Habena. L’ha avvisata, avvocato Monkey, dell’esito del precedente caso?» gli domanda e il sorriso con cui Sabo risponde a quello del giudice Keji ha tutto un altro significato ora, per me.
«Sì, Vostro Onore»
«Era felice?»
«Molto, Vostro Onore»
E quando Sabo per un attimo soltanto si concede di rievocare quel che Ishley deve avergli detto poco fa al telefono, quando vedo la sua espressione sorrido anche io perché so, con assoluta certezza, che il mio angelo custode è in ottime mani. Anche se ovviamente è una creatura troppo celestiale per qualsiasi uomo, nessuno la merita ma se proprio qualcuno deve averla, allora Sabo sarebbe anche la mia prima scelta.
«Beh, non credo ci sarà tempo per sentire testimoni che richiederebbero poi ulteriori controlli per il conflitto di interessi ma sappia avvocato Monkey che mi aspetto di sentire deporre la dottoressa Habena prima o poi» lo informa, restituendogli il foglio con una strana occhiata.
Ho l’impressione che gli stia dicendo molto di più senza parlare, di quel che gli ha detto effettivamente a parole, una capacità di comunicazione che condivido con i miei fratelli ma che in conversazioni altrui, come questa, mi è incomprensibile. Sabo annuisce appena, quasi impercettibilmente e torna accanto a me e il giudice Keji si gira a guardare me e Usopp.
«Molto bene. Devo ammettere che parto già molto ben disposta. Sarà meglio iniziare il prima possibile»
 

 
§

 
Guardo i cereali ammassarsi nella ciotola senza vederli realmente. Se riesco a fermarmi prima che strasbordi è solo perché non sento più la ceramica tintinnare.
Non che abbia fame ma mi gira la testa e ho decido di fare un piccolo sforzo. Non mangio niente da stamattina, lo stomaco contratto nel dolore, la mente occlusa dalla delusione, il tavolo della cucina ricoperto di carte ed esami ospedalieri.
Che non so leggere.
Che teneva nel cassetto della roba sportiva, l’unico che mi rifiuto di sistemargli io.
Che mi nasconde da sette mesi.
Non so cosa sia peggio, se sapere che sta male, che non mi ha voluto accanto o che, molto più banalmente, mi ha mentito. Perché non c’è modo che abbia svolto controlli così serrati e ravvicinati senza raccontarmi qualche bugia e se anche non fosse, anche se avesse solo omesso, sarebbe comunque una cosa troppo grossa da perdonare facilmente.
Avrei potuto chiamare Law, chiedere un suo consulto, farmi spiegare da lui ma non ho voluto. Lo sto aspettando, per metterlo alla gogna, perché dopo avermi fatto una porcata del genere, non gliela faccio di certo facile. Deve essere lui a spiegarmi ogni cosa e deve farlo guardandomi in faccia.
Io sono Cocoyashi Nami, se pensava di potermi prendere per il culo ha sbagliato donna.
Sbatto le palpebre e mi ritrovo a fissare una ciotola piena di cereali. Al mio cervello servono quattro secondi per processare che l’ho riempita io e che volevo mangiarli. Lo stomaco protesta ma io lo ignoro e, caparbia, recupero un cucchiaio dal cassetto e mi avvio per tornare in sala.
Il tavolo sembra un campo di battaglia, non c’è un centimetro libero, e le gambe si fanno molli, le mani tremano. Quanti sono? Quanti esami sono?
Cosa… Cosa gli sta succedendo? Perché non me l’ha detto?! Lui… Se… Se lui…
La ciotola mi scivola di mano e cade con un forte clangore al suolo. Non si rompe ma i cereali schizzano dappertutto e io mi accascio per un momento, sfinita, le braccia a sostenermi con fatica e i capelli davanti al viso. Con rabbia, ricaccio indietro le lacrime e mi mordo il labbro.
No, non piangerò.
Non piangerò per un bastardo maledetto che mi ha presa in giro, tradendo la mia fiducia quando invece io… io per lui…
Okay, Nami! Ora basta!
Con un gesto deciso mi scosto i capelli dal volto e mi rimetto in piedi, respirando a fondo, prima di armarmi di scopa e paletta e tirare su i fiocchi d’avena e i riccioli di frutta disidratata e cioccolato.
Non andare mai a letto arrabbiati, questo ci ha consigliato padre Gan Forr ma non so se riuscirò a tenervi fede questa sera.
Nella buona e nella cattiva sorte.
In salute e in malattia.
Finché morte non ci separi.
Stringo il manico azzurro della scopa fino a farmi venire i crampi alle mani, a scheggiarmi le unghie. Non ci posso pensare. Non può essere una cosa così grave, non è possibile, lui non può…
Ti prego…
Mi blocco quando sento la chiave infilarsi nella toppa e lancio una rapida occhiata all’orologio. Non mi ero accorta fossero le cinque ma lo sono e Zoro è già qui. Niente false consegne a domicilio oggi, a quanto pare. Niente esami.
«Ciao»
Sì è già qui e io non so se sono più spaventata o più impaziente di venire a capo di tutta questa storia. Di certo sono arrabbiata. Senza quasi farlo consapevolmente, svito rapida il manico della scopa e lo separo dalla spazzola.
«Ehi c’è nessuno?» domanda Zoro, stranito, fermo sulla porta del salotto, di spalle a quella della cucina. Di spalle a me.
Muovo un passo nel corridoio e con quanta forza ho in corpo, calo il manico al centro della sua schiena. Non gli faccio quasi niente, lo so, ma Zoro sobbalza e si gira in allerta, lo sguardo omicida finché non realizza che sono stata io e spalanca gli occhi, tra lo stupito e il preoccupato.
«Nami? Ma che ti pr… Ehi!» protesta quando ricomincio a menare fendenti e Zoro indietreggia e si copre con le braccia e cerca di bloccarmi ma io sono una furia impazzita.
«Brutto bastardo!» lo apostrofo, fuori di me. «Bugiardo traditore!»
«Nami, ohi! Ehi mocciosa! Nami! Smettila, basta!» alza le mani per bloccarmi ma io sono più veloce e afferro il manico in orizzontale, con entrambe le mani e lo spingo fino al divano, dove crolla all’indietro, rimbalzando appena sui cuscini.
«Ma ti dai una calmata, pazza isterica?! Che cosa ti prende?!» protesta Zoro, gli occhi sgranati e le narici dilatate.
Io credo che potrei alimentare l’elettricità dell’intera cittadina se mi attaccassero a un generatore in questo momento. «Cosa mi prende?» domando, avanzando ancora e sovrastandolo. «Cosa mi prende?! Mi prende che ho trovato le tue carte dell’ospedale, Zoro! Tutte!» gli vomito addosso, indicando a braccio teso la cucina.
Se fosse fisicamente possibile, gli occhi gli cadrebbero fuori dalle orbite, ma passa da incazzato ad agitato in meno di un secondo, saetta con gli occhi verso la cucina e poi torna a guardare me, l’aria colpevole.
«Nami…» deglutisce rumorosamente e poi, cauto, si mette a sedere senza perdermi di vista. «…ascolta posso spiegar…» allunga una mano verso di me ma io calo decisa il manico sul suo arto.
«Non toccarmi» sibilo, avvelenata. «Sarà meglio che tu possa spiegare, Zoro, anche se non vedo davvero come tu possa giustificare di avermi tenuto nascosto il tuo stato di salute chiaramente non sano per sette.fottuti.mesi!» alzo la voce sulle ultime tre parole e scuoto il capo appena gli occhi osano pizzicarmi. «Che hai, mh? Cosa c’è che non potevi dirmi? Cosa succede da arrivare a una cosa subdola come inventarti le consegne a domicilio e mentire a me!!! A me, Zoro!!! Sono tua moglie, cazzo!!!»
«Nami ti prego…» si alza in piedi e prova ad avvicinarsi ma io lo respingo di nuovo, lo faccio ricadere sul divano e poi mi avvento su di lui e con il manico colpisco, colpisco e colpisco ancora, la testata del divano vicino alla sua spalla. Perché non importa quanto io sia arrabbiata e frustrata e al limite.
Non posso fargli del male, non ci riesco perché lo amo.
Io lo amo… così tanto, santo cielo!
Lo amo, lo amo! Non posso stare senza di lui!
Io… non posso perderlo… non posso… non…
«Stai morendo…» un singhiozzo ribelle riesce a fuggire dalla mia gola, mentre mi accascio, priva di forze. «…vero?»  
Zoro mi sfila il bastone, le sue mani salgono a liberarmi il viso da lacrime e capelli e si posano sulle mie guance, per obbligarmi a guardarlo. Non riesco a respirare, il cuore forse non batte neanche più quando apre la bocca per rispondere.
«Non sto morendo, Nami. Non morirò per parecchio tempo, fintanto che dipenderà dalla mia salute»
Le lacrime tornano alla carica ma stavolta le asciugo prima che possano scendere a graffiare le mie guance e le sue mani, mentre mi lascio andare sul divano, accanto a lui. Mi sento così sfinita, ho la nausea e non riesco a smettere di tremare. Vorrei solo sprofondare tra le sue braccia ma resisto e mi metto a sedere, le gambe piegate di lato.
«Voglio sapere cos’hai» non lo chiedo, lo pretendo, e sostengo fiera il suo sguardo. Zoro mi fissa alcuni istanti, altrettanto orgoglioso ma anche sofferente per il dolore che legge sul mio volto, finché la luce nei suoi occhi non cambia e tutto ciò che ne rimane è mortificazione. Li punta alle proprie ginocchia, dove tiene appoggiate le mani, strette in pugni tremanti.
«Non ti ho mai detto perché sono tornato da Kuraigana» comincia, la voce distorta, in un suono che non ho mai sentito e che mi fa contorcere l’anima. «Non fraintendere, casa mi mancava e tornare da te è stata la cosa migliore della mia vita ma sarei dovuto restare ancora due anni in teoria» prende un respiro profondo. «Solo che mi sono rotto il ginocchio. Crociato anteriore e posteriore. Avrei potuto vivere anche così, non pregiudica uno stile di vita normale e sano ma non avrei potuto continuare il kendo a livello agonistico, così mi sono fatto operare e poi sono tornato per la riabilitazione. Qui a Raftel c’è una delle migliori fisiatre del mondo»
«Margaret» esalo mentre i pezzi cominciano ad andare a posto.
Zoro annuisce. «Ti avevo detto che dovevo fare fisioterapia ti ricordi? I primi mesi dopo il matrimonio»
«Sì ma… non mi hai mai detto che fosse riabilitazione»
Zoro si stringe nelle spalle. «Non volevo preoccuparti. All’inizio è andata bene. Ho ripreso gli allenamenti qui, mi stavo preparando per il sesto dan…» la voce gli si spezza e la mia mano scatta da sola sul suo viso. Lo obbligo a rialzare gli occhi a guardarmi. Non voglio perdermi niente di lui, nemmeno una briciola, nemmeno di quello che lo fa stare male.
Nella buona e nella cattiva sorte.
«Poi sette mesi fa ha ricominciato a farmi male il ginocchio. Sono tornato da Margaret e… è andato Nami» si passa una mano sul volto, gli occhi lucidi ma ancora si oppone, resiste, lotta contro le lacrime, che gli farebbe tanto bene buttare fuori. «Hanno sbagliato qualcosa quando mi hanno operato, io l’ho sovraccaricato senza saperlo e si è rotto anche il menisco. Mi hanno rovinato la gamba, non posso più fare kendo, nemmeno a livello dilettantistico e non… non potrò mai ottenere il decimo dan» la prima lacrima cade come una piccola bomba che esplode senza rumore, ferendo il mio cuore e il suo.
Non fosse per Zoro, non saprei neppure cosa sia, un dan. Zoro al liceo ne parlava sempre ma non si potevano vendere né comprare e tanto bastava per non importarmi, almeno il mio primo anno, che era il suo secondo. Ma ora del mio terzo eravamo amici, forse già più che amici, e lui doveva conseguire il terzo di questi dan e decidemmo di andare a fargli il tifo tutti insieme e io mi documentai per non sembrare troppo ignorante.
E Il decimo dan è il più alto riconoscimento per un kendoka, un livello di abilità che una manciata di praticanti in tutto il mondo raggiunge. Per Zoro, il sogno di tutta una vita.
Ci vogliono quarant’anni per ottenerlo se si fa tutto nei tempi esatti e ci si dedica anima e corpo alla disciplina, ci si sacrifica la vita. Quello, insomma, che ha fatto Zoro per poi restare con un ginocchio rotto, l’amaro in bocca e un sogno irrealizzabile nel cassetto. Se tutto fosse andato come doveva, a quest’ora gli mancherebbero solo diciassette anni per arrivarci.
«Ci deve essere qualcosa che si può fare» insisto. Perché no, assolutamente no, mi rifiuto di arrendermi così. «Se loro hanno sbagliato qualcun altro te lo può aggiustare magari»
Mi rifiuto di credere che Zoro, il mio Zoro, si faccia frenare così, senza combattere per ciò che ama, come ha fatto con me.
«Mi sono informato e sì, qualcuno c’è. Un ortopedico di Punk Hazard sarebbe in grado di sistemarmi secondo Margaret, e poi dovrei affrontare una riabilitazione lunghissima e anche dolorosa e comunque dovrei sempre usare un tutore apposta per il ginocchio, riconosciuto anche dalla federazione»
Il cuore mi si fa più leggero ma al tempo stesso mi sento ancora più confusa. «E allora perché…»
«L’operazione e il tutore… M-mi sono informato e… costano troppo, non ho abbastanza risparmi da parte» ammette e scoppia a piangere, stringendosi il ponte del naso. E io non credevo che avrei mai visto Zoro piangere ma soprattutto non avrei mai potuto immaginare, nemmeno nel peggiore dei miei incubi, nemmeno in una febbricitante allucinazione, che potesse fare così male. Non ci sono nemmeno le parole per descriverlo e le lacrime ricominciano a sgorgare anche dai miei occhi, ma non abbasso lo sguardo e porto anche l’altra mano sul suo viso. «Per questo ho rifiutato il lavoro al dojo, perché da Johnny guadagno un po’ di più, anche se sono quattro spiccioli ho pensato che… che magari… E non ti ho completamente mentito sulle consegne a domicilio. Le quattro sere a settimana in cui tu credi che mi alleni, in realtà lavoro per uno speedy pizza ma anche così non credo che riuscirò mai… c-che…»
Gli asciugo il viso con i pollici. «Perché non me lo hai detto?»
«Mi vergognavo. Cos’avresti pensato? Una donna come te merita un marito migliore» scuote il capo ma io non mi stacco da lui. Non mi lascerò allontanare, non questa volta. «Al mio ultimo controllo da Margaret c’era un ragazzo con me che ha un tumore alle ossa. Gli amputeranno la gamba e sai io… sai cos’ho provato?» ride amaramente. «Invidia. Sarei voluto essere al suo posto perché lui riceverà una protesi in fibra di carbonio perfettamente funzionante e gliela passerà il sistema sanitario e io invece… T-ti rendi conto, Nami? Sono arrivato a invidiare un ragazzo con il cancro! Quando io alla fine non ho niente, tutto per uno stupido pezzo di carta, io… io…» la voce gli muore in gola, annegata in una nuova scarica di singhiozzi.
«Basta» soffio, determinata, scivolando verso di lui. «Ora basta dire stronzate, Zoro. Non è solo uno stupido pezzo di carta, è il tuo sogno, è quello a cui hai dedicato la tua intera esistenza e per te è importante, per te ha valore. Non è una vergogna stare male per questo. E sai cosa penso di te? Che sei un idiota. Dovevi dirmelo. Io di risparmi ne ho sicuramente abbastanza»
Sgrana gli occhi mentre esala un respiro tremolante. «Ma sono tuoi, io…»
«Siamo sposati. Non esiste il mio o il tuo. Non esisterebbe neppure se non lo fossimo. I miei soldi non hanno valore se non posso neanche usarli per una cosa così importante» lo accarezzo sulla testa. «Zoro, tu te la senti di affrontare la riabilitazione? Anche se è lunga e dolorosa?»
«Sì, non è quello» si sfrega il viso, frastornato.
«Perfetto, allora ecco cosa faremo. Domani stesso ci informeremo per prendere contatti con questo ortopedico e per il tutore, poi tu andrai a vedere se c’è ancora quel posto disponibile al dojo e se c’è, lascerai lo speedy pizza, concorderai con Johnny di andare da lui a giorni alterni, accetterai il lavoro come istruttore e ricomincerai ad allenarti e a prepararti per il sesto dan» elenco sicura di me, perché so che è quello che vuole. E lo voglio anche io. Per essere davvero felici, dobbiamo essere felici entrambi. «Affronteremo l’operazione e la tua riabilitazione e tu otterrai il sesto dan  e poi il settimo, l’ottavo, il nono. E, dovessi metterci quarant’anni da ora, otterrai anche il decimo. E quando questo accadrà e io sarò una signora di classe con i capelli tutti bianchi ma ancora bellissima, io sarò lì, tra il pubblico, a pungolare il povero malcapitato di fianco a me e ripetergli all’infinito che quello, quello è mio marito, che non si è mai arreso per il suo sogno e che io sono così orgogliosa di essere sua moglie»
In salute e in malattia.  
«Nami…» mi chiama piano, dice il mio nome quasi come una preghiera e io mi avvicino ancora di più e me lo stringo addosso. «Ti amo» mormora contro la mia spalla mentre si aggrappa a me e ricomincia a piangere, stavolta senza remore, buttando fuori tutto. Lo stringo, finché i singhiozzi non si calmano, finché non smette di tremare.  
Quando mi stacco appena da lui, per poterlo guardare, del suo bel ghigno non c’è ancora traccia ma il viso è molto più disteso. Finisco di asciugargli il volto con le mani e lui preme la fronte sulla mia, stringendomi con possessione.
«Ci sarà da andare a Kuraigana, lo sai?»
«Alla I&Co le ferie me le danno ancora» ridacchio « E poi vorrà dire che mi pagherai tu i biglietti» mi stringo nelle spalle e finalmente un angolo della sua bocca si alza con un guizzo.
Bentornato, amore mio.
«Come hai fatto a scoprirlo?»
«Beh…» comincio ma la porta si apre con un lieve cigolio.
«Ehilà?» risuona cauta la voce di Izou e io sogghigno quando Zoro fa due più due e manda gli occhi al cielo.
«Ficcanaso» borbotta sottovoce.
«Siamo qui Izou» lo chiamo, asciugando gli ultimi rimasugli di pianto anche dal mio viso.
«Oh eccovi! Allora com… Oh» si blocca sulla soglia e ci studia, per un momento nervoso quando vede le nostre facce poi subito più rilassato quando nota invece le nostre mani intrecciate. «Tutto okay?» sorride cauto e io tiro su appena con il naso e annuisco. «Tutto okay»
«Oh bene» annuisce anche lui, con un po’ troppa veemenza. «Bene davvero» si porta una mano alla bocca dello stomaco ed espira sollevato. «Bene! Io… i-io sono andato a ritirare i biglietti per Dressrosa e ce n’è uno che avanza siccome Usopp non viene più, perciò Nami se conosci qualcuno che vuoi invitare, non s…»
«Posso venire io?» lo interrompe Zoro e Izou sgrana occhi e bocca. Non che io sia da meno.
«C-come?» gli domanda, sulla difensiva.
Zoro si alza in piedi, prende un profondo respiro, sfrega le mani sulle cosce e avanza di un paio di passi. Io mi accoccolo sul divano e sorrido, osservandoli attenta.
«Posso venire a fare il tifo per te?» ripete Zoro, il mento alto, le braccia tese lungo i fianchi, determinato.
Izou socchiude gli occhi, lo scruta come se fosse pazzo o una persona che non conosce e proprio quando, lo vedo bene io, Zoro sta per spazientirsi per l’esame oculare che sta subendo, Izou si butta in avanti e lo abbraccia con tutta la forza che ha in corpo.
«Sei un cretino» lo apostrofa, la voce acuta e rotta. «Mi hai fatto morire di paura!»
Zoro sussulta appena ma è questioni di pochi istanti, si rilassa subito e lo abbraccia a sua volta. Le gambe ancora un po’ molli per lo shock emotivo dell’ultima ora, mi alzo anche io e mi avvicino a loro. Zoro sta ghignando e Izou non sembra intenzionato a staccarsi tanto presto, al punto che per girarsi a guardarmi struscia la fronte e la guancia sul petto di mio marito. «È davvero tutto a posto?»
Mi avvicino di un altro passo e lo accarezzo tra i capelli. «Sì. Ed è tutto merito tuo»
Izou esala un verso a metà tra una risata e un singhiozzo maltrattenuto e un braccio di Zoro mi arpiona il fianco e mi trascina verso di loro, così che ci ritroviamo con me che abbraccio Izou e Zoro che ci abbraccia entrambi.
E io mi lascio andare tra loro, mi lascio cullare dal calore di Zoro e dalle risate e dal pianto sollevato di Izou, e sento che potrei starmene così, in questo perfetto Nirvana tra le braccia dell’uomo che amo, per sempre. Anche con Izou in mezzo alle palle, se necessario.  
Finché morte non ci separi.  

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


Scivolo dentro al "Tenryuumon", il bar nel parco di Pangea, il sorriso che va da un orecchio all’altro. Stamattina non sono di buonumore, no. Sono molto, molto di più.
Non so bene come descriverlo. Suppongo si potrebbe dire che sono di umore splendido o sulla nuvola Speedy o addirittura sulla Luna.
Gli ultimi giorni sono stati una giostra di inattesi avvenimenti e frenetiche emozioni e anche se ho tanta di quell’adrenalina in corpo che dormo tre ore per notte, sto bene. Anzi, molto più che bene.
Sono al settimo cielo e non credevo che mai mi sarei sentita così nella vita. Tra il sollievo per il buon esito del processo, la soddisfazione per il figurone che ha fatto Sabo e la svolta nel nostro rapporto sono così euforica che mi sembra di essermi drogata e di vivere con la testa staccata dal corpo.
Quando poi stamattina ho visto il titolo in prima pagina “Il Mago batte il Profeta” ho rischiato seriamente di diventare una mina vagante, ho per miracolo resistito alla tentazione di saltare su una panchina e informare i passanti che quello, il Mago, è il mio uomo e che lo amo con ogni fibra del mio corpo.
Sì, io, Ishley Habena, sono follemente, perdutamente, irrimediabilmente innamorata di Monkey D. Sabo, il Mago, conosciuto ai più intimi come “Mingherlino”. Lo sono e non ho più paura di dimostrarlo, a me, al mondo o a lui.
E oggi ho intenzione di dirglielo e intendo dirglielo per davvero, a parole. Vada come vada il verdetto, con la fine di tutta questa storia voglio iniziare un nuovo capitolo di noi.
Mi concedo una piccola giravolta, quando devo scansarmi per evitare un cameriere, che fa lievemente gonfiare la gonna scampanata del mio abitino a righe. Quello che a Sabo piace tanto, che ho messo apposta per essere bella per lui, oggi che sono qui non più per deporre, come inizialmente sarebbe dovuto essere, ma per supportarlo, applaudirlo se finirà bene, consolarlo se non finirà come speriamo.
Oggi che sono qui per lui, insomma.
Mi guardo intorno alla ricerca di un tavolo da cinque/sei con una bella posizione sul parco, vicino alle grosse finestre a scorrimento aperte, per goderci il clima estivo senza crepare di caldo fuori al sole, quando Praline, Aisa, Reiju e Perona arriveranno per fare colazione tutti insieme, prima di andare in tribunale. Il solo fatto che mi sia venuto in mente di proporre un’attività che rientra nel “mondano” come una colazione in compagnia la dice lunga sul mio stato d’animo.
Aisa pensava mi fosse reincarnata, Reiju ha dato la colpa a una forma acuta di meningite – non so bene secondo quale logica – e Praline ha detto che ho raggiunto troppi orgasmi consecutivamente. Ho rinunciato a cercare di classificarle in ordine di idiozia.
«Signorina, posso aiutarla?» la voce gentile di un cameriere mi riporta con i piedi rasoterra, il tempo strettamente necessario a riuscire ad avere una comunicazione normale con un altro essere umano per chiedere un consiglio su quale tavolo occupare.
Mi giro con un sorriso. «Ah buongiorno! Sto aspettando  delle amiche ma intanto vorrei chieder…» gli occhi mi cadono per caso poco oltre il ragazzo che mi ascolta attento e pronto ad aiutarmi, su un altro ragazzo, seduto a un tavolino più piccolo e defilato, in mano una tazza di caffè e gli occhi puntati al giornale.
Sulle prime non sono così certa che sia lui, il nuovo look che sfoggia un po’ mi confonde. Capelli a spazzola rasati ai lati, stile marine, i bicipiti ben più tonici di quel che ricordassi, lasciati in bella vista dalla camicia a maniche corte rosso ciliegia, un braccialetto di cuoio al polso. Ma non posso sbagliarmi, quello sguardo innocente da eterno bambino lo riconoscerei tra mille.
«Mi scusi» faccio un piccolo cenno al cameriere e gli rivolgo un altro sorriso prima di avvicinarmi a lui e sedermi sulla sedia di fronte. Neanche mi vede, tanto è concentrato sul quotidiano e io mi prendo ancora un istante per studiarlo.
Sono passati tre anni ma sembrano molti di più. Quando è partito ho salutato un ragazzo ma ora ho di fronte un giovane uomo, il fisico più solido, le spalle più larghe, i tratti del viso più marcati. Dimostra qualcosa di più dei suoi ventiquattro anni, forse è l’universo che compensa la sua tragedia di averne dimostrati diciassette per un lustro.
«Credo di essere affetta da una grave malattia infettiva, dottore» sovrappongo le mani e inclino appena il capo di lato mentre lui si blocca nella lettura e, sorpreso, solleva gli occhi di un viola profondo su di me e li sgrana appena quando mi riconosce.
«Ish!» si apre in un sorriso. 
«Chopper» lo saluto con una risata ed entrambi ci alziamo a metà sulle nostre sedie, per sporgerci e abbracciarci sopra al tavolino. «Non sapevo fossi tornato!» mi risiedo e poggio il mento sulla mano.
«È stata una decisione dell’ultimo minuto. Sabo mi ha contattato per chiedermi di deporre in favore di Usopp e Sanji per una richiesta di affidamento. Io nemmeno sapevo che volessero adottare un bambino, figurati!» ride e ripone il giornale, mostrandomi di nuovo il mio titolo in prima pagina preferito e un nuovo moto di orgoglio mi assale. «Alla fine non ho deposto ma già che mi ero informato sui biglietti del treno, ho deciso che non potevo perdermi la serata di beneficenza» mi fa l’occhiolino e, lo ammetto, non mi trovassi nella situazione in cui mi trovo, mi farebbe un certo effetto. «E neanche la conclusione del processo. Sei qui anche tu per quello?» si informa, portando la tazza alle labbra.
Annuisco. «La bambina che Sanji e Usopp vogliono adottare è una paziente del Castello». E io sto con Sabo. «E poi faccio il tifo per loro». E per Sabo. Giro gli occhi sul quotidiano e la voglia di mettermi a saltare torna alla carica. Mi schiarisco la gola, imponendomi un minimo di contegno. «Sei in formissima. E poi che look sofisticato, quasi non ti riconoscevo» lo prendo un po’ in giro, anche se è vero. Non riconoscevo quasi il ragazzino che si è laureato con me, ad appena ventun anni, che tutti snobbavano per la sua giovane età tranne me, che si sentiva sempre fuori posto. «E questo braccialetto è bellissimo» picchietto un’unghia sulla fascetta di pelle spessa non più di tre centimetri, su cui sono incisi due serpenti che si intrecciano intorno a un bastone e qualche petalo di ciliegio sparso intorno.
«Me l’ha regalato Shirahoshi al nostro primo anniversario» racconta, colorandosi di rosso sulle guance e annegando strategicamente nella tazza.
«Ehi ma…» mi acciglio, annusando l’aria davanti a me. «…è latte alla fragola!»
«Mascherato da bevanda per adulti» solleva appena la tazza verso di me, come in un brindisi e io scoppio a ridere divertita.
«Va tutto bene con lei?» domando poi, socchiudendo gli occhi.
«Non potrebbe andare meglio» ammette Chopper, senza incrociare il mio sguardo. 
«E Drum com’è?»
«Piccola e fredda» ciondola il capo a destra e a sinistra. «Ma infettivologia è un paradiso lì, Ish. Non puoi capire. Ho imparato così tanto! Non vedo l’ora di tornare e Raftel e mettere in pratica tutto ciò che ho appreso!» esclama con il suo caratteristico entusiasmo. «Mi spiace solo aver lasciato Shirahoshi da sola fino al weekend, non c’è molto per svagarsi, se non fosse venuta con me non so se sarei riuscito a restare sano di testa per cinque anni. Ma purtroppo non è riuscita a tornare a sto giro. Mi toccherà venire solo soletto alla serata di beneficenza» si stringe nelle spalle e poi schiude appena la bocca, colpito da un pensiero improvviso. «Ehi! E se ci andiamo insieme io e te? Cioè, come amici eh! Non voglio fare gaffe, Lamy mi è bastata e avanzata per tutta la vita!» mette in chiaro, grattandosi imbarazzato la voglia color mirtillo sulla punta del naso.
«Ah Chopper…» esito, presa in contropiede, mentre mi accarezzo la fronte con due dita. «Non fraintendere, mi farebbe piacere ma in realtà io…»
“Ci vado già con qualcuno”. Questo sto per dirgli ma non sarebbe proprio vero. Non ci vado con “qualcuno”. E sono anche stanca di nasconderlo, voglio dire ora stiamo insieme ufficialmente e l’altra sera al Baratie e sulla via dell’andata e del ritorno mi ha tenuta stretta tutto il tempo, mi ha anche presentato a Sora e Zeff. Non ho più ragione di omettere una cosa che muoio dalla voglia di gridare al mondo intero.
«…ci vado già con Sabo»
C’è un attimo di sospensione, Chopper mi fissa come se avessi parlato una lingua straniera e poi, molto lentamente, spalanca occhi e bocca. «Aspetta, aspetta! Tu…» mi indica e poi stende il braccio verso la finestra aperta, in direzione del tribunale. «…e Sabo?»
«M-mh» annuisco e non riesco a trattenere un sorriso che nascondo senza troppo impegno dietro a due dita.
«Voi… Insieme?»
«Sì!» rido e Chopper quasi salta su come una molla.
«Oddio! Ma è una notizia stupenda!» si esalta. «Ma che bello! Ma da quanto?»
«Ufficialmente da due giorni» distolgo gli occhi e mi riavvio i capelli. «Di fatto un paio di mesi e poco più»
«Ma che bello! Cioè no, davvero, io… Ma che bello! Sono troppo felice per lui! E… E anche per te, per voi!» si agita e ondeggia sulla sedia e io cerco di fermarlo ma ormai è partito a ruota. «Ma soprattutto per lui, insomma Nami mi ha detto di lui e Bibi e immagino non sia stato semplice, ma a quanto pare ha ripreso in mano la sua vita e ha trovato te e… e… Ma che bello!»
Un campanello comincia a suonare nel retro del mio cervello prima ancora che io abbia metabolizzato le sue parole e quando riapro bocca non mi sono concessa nemmeno un istante per riflettere e arrivarci da sola.
Perché non ha senso. Che cosa intende con… con…
«Lui e Bibi?» scuoto appena il capo, il sorriso ancora sulle labbra nonostante la perplessità. «In che senso lui e Bibi?»
E poi, parliamo di quella Bibi?
«Beh sai che si sono lasciati poco prima dell’estate e con tutto il retroscena della loro storia sicuramente Sabo ci aveva investito tanto. Cioè si era anche trasferito ad Alabasta!» Chopper continua, entusiasta e felice, davvero felice per lui e per me ma io non riesco più a registrare nulla. «… e c’eri qui tu che lo aspettavi! È una storia pazzesca ed è veramente troppo bello! Ehi Ish? Tutto bene?»
Andata. Scomparsa.
Tutta la mia felicità ed euforia non ci sono più. Esplose come un palloncino troppo gonfio che mi ha squarciato il petto.
Sabo e… Bibi? Sabo stava con Bibi, quella Bibi, la Bibi di Law, che doveva sposare suo fratello.
E io neanche lo sapevo. Non me lo ha mai detto e non è che io non gli abbia mai chiesto cosa facesse ad Alabasta prima di tornare qui ma lui… lui non me lo ha mai detto. Non me lo ha voluto dire.
«Ishley? Ehi, mi fai preoccupare»
È lei. Lei è la storia che gli ha cambiato la vita e sapevo che c’era stato qualcuno di davvero importante prima di me ma questo… questo è troppo. Questa non è una storia “davvero importante”, è di più. Era la donna di suo fratello, per l’amor del cielo! Cos’ha rischiato per lei, quanto era pronto a sacrificare, io… io non…
Mi passo una mano sul volto ora imperlato di sudore, il cuore mi scalpita nel petto. 
Non l’ha dimenticata. Per questo non me ne ha voluto parlare, sa benissimo che non lo avrei mai giudicato, conosco la versione di Law, so che lui non l’avrebbe sposata comunque, che è sempre stato innamorato di Koala.
Non me lo ha detto perché non l’ha dimenticata.
«Ho detto qualcosa che non va?»
Mando giù e non so come faccia la saliva a superare il nodo che ho in gola e scendere. Mi impongo di sorridergli e cerco febbrile una scusa per giustificare il mio improvviso calo di entusiasmo e l’espressione tirata che sono certa di avere.
«Assolutamente no, Chopper. Anzi, è come dici tu! Ero proprio qui ad aspettarlo» rido e ne approfitto per ricacciare indietro le lacrime. Che cretina. «Ma scusa, sono andata per un attimo in panico perché mi sono appena ricordata che devo fare una commissione importante e non posso rimandarla, e se non mi do una mossa non riuscirò mai a tornare per il verdetto. Che scema eh?» mi invento di sana pianta, alzandomi in piedi.
Sì, decisamente una scema sono.
«Sono cose che capitano» annuisce comprensivo Chopper. Così dolce e innocente nonostante tutto, il nostro piccolo Chopper. «È l’amore!» sorride, gli occhi che brillano e io mi impongo di ridere.
Hai ragione Chopper. È proprio l’amore.
«Allora io scappo, scusa tesoro» mi avvicino rapida a lui e lo bacio sulla tempia, posando una mano su quella opposta. Lo sento piegarsi appena verso di me e ho la tentazione di trascinare il suo capo contro il mio seno e stringerlo ma so che se lo facessi scoppierei a piangere. Sto per lasciarlo andare quando le sue dita si stringono intorno al mio gomito, per trattenermi, e lui solleva il capo a guardarmi. «Sei sicura che è tutto okay, Ish?» mi domanda, serio e preoccupato, i suoi occhi viola pieni di calore e affetto.
No, non è tutto okay. Non c’è niente di okay. Mi fa male ogni cosa, la gola, gli occhi, il cuore, la mente, l’anima. Tutto quello che appartiene a Sabo fa male. Ogni fibra del mio essere fa male.
«Certo!» annuisco con un sorriso e gli spettino i capelli che tornano al loro posto, perfettamente plastici. «Ci vediamo presto» gli faccio un ultimo occhiolino prima di staccarmi da lui e andare.
Devo andare, via da qui e in fretta, prima che le ragazze arrivino e mi vedano e capiscano, io… devo andare… devo pensare…
Mi sposto in pieno sole ma non scalda e io tremo come una foglia, ferma qui in mezzo al parco del quartiere di Pangea, da dove vedo il tribunale, il tribunale dove stavo andando, il tribunale dove Sabo attende, dove pensavo di incontrarlo e dirgli che lo amo. Quante cose cambiano in una sola mattina.
Ma non ho tempo per riflessioni filosofiche, ora, devo andare e, con passo incerto, mi avvio nella direzione opposta, portandomi una mano al petto.
Il mio cuore non ha mai battuto così piano.
 

 
§

 
«Richiesta di affidamento della signorina Kaya Kurami da parte dei signori Sanji Benjamin Vinsmoke e Usopp Timotheus Sharpshooter. Seconda udienza, presiede il giudice Hina Keji. Tutti in piedi»  
Faccio scivolare la sedia dietro a me mentre mi alzo, le mani sulla cravatta per tenerla ferma. Mani che tremano di tensione e paura, mani che fremono per poter di nuovo abbracciare e stringere la bambina che, vada come vada il verdetto, non posso non considerare mia figlia.
Non ho mai pensato di essere tipo da figli. Voglio dire, ovviamente l’idea di avere un giorno una piccola principessa a cui dare il bacio della buonanotte, da consolare e rassicurare e a cui raccontare le favole mi ha sfiorato qualche volta intorno ai vent’anni, ma erano solo fantasie di un adolescente appena entrato nell’età adulta. Non ci ho mai pensato sul serio, non mi sono mai fermato a chiedermi se ne sarei stato all’altezza e dopo essermi scoperto bisessuale e molto gay per Usopp, dopo essermi innamorato di Usopp, non mi sono più posto il problema.
Non mi sono mai chiesto se un giorno avremmo adottato, non ne ho mai parlato con lui. Non dovendo procreare noi, a trentun anni avevo ancora parecchio tempo davanti per prendere una decisione di questo tipo. Kaya ha completamente ribaltato le carte in tavola, sconvolto il nostro mondo e le mie convinzioni. E proprio perché è stato così improvviso, imprevisto e istintivo, sono convinto con tutto me stesso che stiamo facendo la cosa giusta. Mai, nemmeno per un secondo, durante la frenesia di queste settimane, ho temuto di non essere all’altezza del compito. Lo sarò. Amo e voglio quella bambina nella mia vita e quindi troverò il modo di essere il padre che merita. Con accanto Uso-chan so che posso farcela. Lui è già un padre eccezionale, può insegnarmi e lo farà e io sono un bravo allievo.
Spero che il giudice Keji la pensi come me.
«Buongiorno a tutti. Prego accomodatevi»
Il frusciare alle nostre spalle è più intenso rispetto a ieri, perché oggi tutti quelli che sono potuti venire sono qui. Ci sono Cora, Rebecca e Coby, mia sorella con il coglione rosso e il coglione biondo che non stacca le mani da Aisa-chwan nemmeno per sbaglio, Izou, Praline e Perona, i miei fratelli e Cosette, mamma, Zeff e Yasopp, Rufy, Franky, Brook, Robin, Nami, Zoro e persino Chopper, tornato da Drum ieri sera tardi. Ci sono Kaymie e Duval, Shanks e Makino, Dadan, Dragon con la sua nuova fiamma, e, un po’ più in disparte, seduti insieme  a Katakuri, ci sono addirittura i genitori di Tama, Sugar e Dellinger.
E poi loro tre. Loro tre, li abbiamo voluti in prima fila, insieme ai miei fratelli, ai miei genitori e a Yasopp. Loro tre, quando li abbiamo visti arrivare, è stata davvero dura non mettersi a piangere. Ninjin, Piiman e Tamanegi, che è stato dimesso ieri, sono seduti esattamente dietro di me, Usopp e Sabo. I tre guerrieri venuti a scoprire il futuro della loro principessa pirata.
«Dov’è Ish?» sento Sabo bisbigliare e mi giro, come lui, verso mia sorella che con espressione dispiaciuta si stringe nelle spalle. «Non l’abbiamo vista» spiega e io faccio di nuovo una veloce panoramica sulla marea di persone alle nostre spalle.
È vero, non c’è. Che strano.
«Signor Vinsmoke, signor Sharpshooter» la voce del giudice Keji mi fa sobbalzare come uno sparo e mi rigiro di scatto e, più lentamente, Sabo mi imita. «Ieri è stato un pomeriggio alquanto intenso ma, come potete immaginare dalla celere convocazione che avete ricevuto, molto fruttuoso. Sarò onesta con voi, la situazione della signorina Kurami mi sta molto a cuore. A causa di un tutore che non è stato tenuto d’occhio a sufficienza, Kaya ha perso tre papabili famiglie in passato. Di queste tre famiglie, tuttavia, non sappiamo chi avesse davvero in animo di crescere la bambina per amore e chi puntasse solo al suo denaro. Forse nessuna delle tre, forse tutte quante. Inoltre, il dottor Trafalgar ieri è stato così gentile da riferirmi che Kaya è pronta per essere dimessa in capo a pochi giorni. Ho fretta, signori Vinsmoke e Sharpshooter, fretta di dare a quella bambina ciò che merita, prima che qualcun altro arrivi e provi a rubarle ciò che è suo. Per questo non ho ascoltato tutti i testimoni in elenco e mi scuso con quelli presenti oggi per essere stati in qualche modo “scartati”.
«Chi ha potuto, è stato ascoltato ieri pomeriggio, e il quadro che ne ho ricavato è stato sufficientemente completo da farmi decidere. L’avvocato Monkey ha fatto uno splendido lavoro di selezione, voglio che sappiate che vi siete rivolti a un vero professionista» concede un piccolo cenno del capo a Sabo che si riempie di orgoglio e stupore per il gesto. Ma un orgoglio e uno stupore edulcorati, frenati da qualcosa. Dall’assenza di Ishley che non è qui a sentire e assistere alla sua vittoria. Spero almeno che sia una vittoria. Fino a qui lo sembra.
«Le persone si giudicano da chi hanno intorno e io sono molto colpita da quante persone avete intorno e dalla bellezza di ciascuno di loro. Vi fa onore, signori. Vi dipinge per ciò che siete davvero e non dubito che il vostro amore per Kaya sia puro e incontaminato. So che siete qui per lei e non per il suo denaro» il giudice Keji intreccia le dita delle proprie mani e io intreccio le mie con quelle di Usopp. «Mi siete stati descritti come due uomini responsabili, capaci e caparbi, con lavori stabili, passioni e grande capacità di amare. Il signor Charlotte Katakuri, l’unico dipendente del Castello che ho voluto sentire, ha detto che non avete nulla da invidiare ai genitori biologici degli altri bambini ricoverati sul piano di cui è responsabile. E la vostra relazione sembra essere solida. Il signor Sharpshooter piace a tutta la famiglia del signor Vinsmoke, il signor Vinsmoke è come un figlio per il padre del signor Sharpshooter. Tuttavia…» trattengo il fiato, il cuore si stringe in uno spasmo. Tuttavia?
«Ho evinto dalle deposizioni che state insieme da sei anni ma avete ufficializzato solo tre anni fa e i vostri amici, sotto giuramento ve lo ricordo, mi hanno spiegato che è stato un decorso lungo e, a tratti, doloroso. Non sono qui per giudicare le scelte di nessuno e non mi permetto di affermare di conoscervi dal poco che so di voi e che ho visto ma non mi è sfuggito, nell’arco di queste udienze, come il signor Vinsmoke sembrasse non riuscire a muovere un passo senza il signor Sharpshooter…» vedo con la coda dell’occhio Usopp voltare il capo di scatto verso di me e mando giù a vuoto, ringraziando con ogni fibra del mio corpo di non essere uno che arrossisce. «…e come il signor Sharpshooter faticasse a parlare durante la deposizione se perdeva contatto visivo con il signor Vinsmoke, senza necessariamente che il signor Vinsmoke lo stesse a sua volta guardando, tra l’altro» è il mio turno di girarmi incredulo verso Usopp, che distoglie lo sguardo, la pelle delle guance e sulla punta del naso più scura, dove il sangue si è accumulato. «Questo può essere indice di un grande amore o sintomo di una forte interdipendenza tra voi. Nel primo caso, nulla da eccepire, nel secondo, però, io ci ho visto anche una costante paura di perdersi. E in questo senso, non sono certa di potervi considerare idonei per l’affidamento.
«Ho affrontato molti casi di affidamento, signori, la maggior parte legati a divorzi di coppie che avevano messo al mondo figli in un disperato tentativo di aggiustare un rapporto ormai rotto. Non ho alcuna certezza che non vi troviate in una simile situazione, non posso essere sicura che questo desiderio di adottare Kaya non sia in realtà un disperato bisogno di assecondarvi a vicenda. Ne avete parlato? Avete un progetto di vita? Come vi vedete da qui a dieci anni? Potrei chiedervelo ma le parole dicono meno dei gesti» il giudice si sporge appena avanti con il busto, ci guarda con serietà. «C’è un modo in cui possiate convincermi, signor Visnmoke, signor Sharpshooter, che siete davvero così sicuri l’uno dell’altro da voler iniziare una famiglia per costruire qualcosa di nuovo e non per rattoppare qualcosa di vecchio?»
Il cuore mi sprofonda nello stomaco. Mi sento così disarmato che perdo persino presa sulla mano di Usopp e il braccio scivola senza energia lungo il mio fianco.
È colpa mia. È tutta colpa mia e delle mie sciocche paure, se siamo a questo punto e diamo quest’impressione. Colpa mia e del mio rifiutarmi di fare coming out, colpa mia e del punto a cui l’ho portato per esasperazione tre anni fa, colpa mia e del mio egoismo. Non avrei mai immaginato che gli strascichi di quella vicenda si sarebbe ripercossi fino a qui e non potevo sapere all’epoca che in capo a tre anni avrei voluto adottare una bambina di fronte a un giudice-psicologa-comportamentista. Ma ho sempre saputo, sapevo anche allora, che Usopp viveva nella paura di perdermi e dopo che mi ha lasciato ho cominciato a farlo anche io. Lo faccio ancora. Ha ragione lei, è questo che facciamo, viviamo nella paura di perderci a vicenda e il dubbio del giudice è legittimo e fondato, per quanto sia fuori strada.
Solo, non vedo come dimostrarle il contrario.
Il rumore della sedia che struscia sul parquet mi fa voltare senza verve verso Usopp, che si alza in piedi lentamente, le mani appoggiate al tavolo e il fuoco della determinazione negli occhi. Sobbalzo dentro. Che gli prende? Non l’ho mai visto così… così… così! Ed è una visione che mozza il fiato e mi incendia il sangue nelle vene. Che gli prende?
«Uso-ch…»
«Vostro Onore, chiedo il permesso di parlare» la sua voce risuona decisa e limpida, non un’esitazione, non fosse per il tremito alle gambe, non lo riconoscerei.
«La prego, signor Sharpshooter» lo invita il giudice Keji e lui si stacca piano dal tavolo per portarsi al centro dell’aula, gli occhi puntati su di lei e le mani strette in pugni.
«Vostro Onore, io e Sanji ci conosciamo da tantissimi anni. Diciannove per la precisione e per più di metà del nostro rapporto siamo stati solo amici. Quando siamo diventati più di questo, le giuro che mai, nemmeno nei miei sogni, mi sarei potuto aspettare che Sanji Vinsmoke potesse essere attratto da un uomo e che quell’uomo fossi proprio io. È stato solo sei anni fa, Vostro Onore, quando è successo credevo di conoscere tutto di lui, credevo che Sanji non avesse segreti per me. In questi sei anni ho conosciuto dei lati di lui che mi erano sempre stati preclusi e, ripeto, ero certo di conoscerlo come le mie tasche» abbassa gli occhi e si gira appena, il necessario perché io riesca a vederlo per un quarto, perché riesca a vederlo sorridere.
«Se mi chiedesse cosa mi aspetto da noi da qui a dieci anni, non saprei risponderle, perché io sono sicuro che c’è ancora tanto che non so di Sanji, c’è ancora tanto da scoprire. E per paura di scoprirci ci siamo fatti tanto male, Vostro Onore, ce ne siamo fatti a vicenda, non si è sbagliata» stringo i denti e squadro la mascella ma non distolgo gli occhi da lui. «Ma che il nostro rapporto sia rotto, questo no. So che l’amore non basta, Vostro Onore, ma io e Sanji  ci siamo fatti una promessa. Ci siamo promessi che io farò tutto quello che lui non potrà fare e lui farà tutto quello che io non potrò fare. E per crescere un figlio questo è fondamentale. Io so quanto è fondamentale» si gira per un momento verso suo padre, gli occhi pieni di gratitudine. «Ci sono genitori che da soli fanno grandi cose ma io non voglio fare questa cosa da solo, voglio farla con Sanji. E sono sicuro che per lui è lo stesso, io sono sicuro al cento per cento di Sanji e anche di voler scoprire tutto di lui» annuisce convinto e il cuore minaccia di scapparmi via dalle costole.
«Vostro Onore, le hanno detto che sono un codardo?» domanda e io mi irrigidisco mentre il giudice Keji scuote piano il capo. «Gentilmente, tutti voi miei cari amici e parenti, potrebbe alzare la mano chi di voi mi reputa un codardo?» si rivolge al pubblico Usopp, battendo un paio di volte le mani.
Sento un gran frusciare alle mie spalle e comincio a fumare quando mi volto e mi ritrovo a fissare una marea di braccia alzate. Solo i genitori di Tama, Sugar e Dell si sono astenuti, Ninjin, Piiman e Tamanegi hanno alzato addirittura entrambe le braccia, così come Yonji.
«Ehi!» abbaio ma una mano di Sabo sulla spalla mi ferma. Certo non mi aiuta quando mi accorgo che la mano, l’altra, l’ha alzata anche lui. Eppure, incomprensibilmente, Usopp sembra soddisfatto a giudicare da come sorride.
«Io sono un codardo, Vostro Onore e lei è brava a capire la gente. Spero si renda conto che se non fossi sicuro di Sanji, sicuro davvero, non avrei mai potuto trovare il coraggio di fare questa cosa, qui e ora» mi acciglio, sempre più confuso quando si gira verso di me, con uno strano, indecifrabile sorriso. Ma di cosa sta parlando, Santo Roger? «Sanji Benjamin Vinsmoke» prende un profondo respiro. «Certi giorni sei una vera palla al piede, tanto quanto lo sono io per te, ma…» cuore e polmoni smettono di funzionare quando, di fronte ai miei occhi sgranati e vitrei, Usopp si inginocchia su una gamba. «…ti va di essere la palla al piede l’uno dell’altro per il resto delle nostre vite?»
Guardo senza realmente vedere la scatolina che Usopp tiene in mano, ora aperta, con dentro una semplice banda in acciaio che riluce. Sento senza ascoltare il mormorio alle mie spalle. E senza sapere esattamente né quando né come ho aggirato il tavolo – potrei anche averlo saltato via – mi ritrovo inginocchiato davanti a lui, le mani strette ai baveri della sua camicia, la mia bocca sulla sua.
Ommiodio.
Oh… mio… dio…
Sì, Usopp sapeva e sa esattamente quanto lo amo ma io non avevo capito quanto lui amasse me prima di ora. Mi ha chiesto di sposarlo. Mi ha seriamente chiesto di sposarlo, lui a me, davanti a tutta questa gente, in un’aula di tribunale! E, sì, okay, dovevo essere io a chiederlo a lui, avevamo un tacito accordo al riguardo ma non me ne potrebbe fregare di meno in questo momento e zittisco la fastidiosa voce del mio orgoglio, che mi ha già fatto fare abbastanza danni.
Mi stacco da lui ma non lascio la sua camicia e non riesco a smettere di sorridere come un idiota. «Sì» annuisco frenetico. «Sì, mi va»
Esala una risata sollevata, gli occhi lucidi e manda giù a vuoto prima di tendermi la scatolina, che trema come tutta la sua persona manco ci fosse un terremoto. «Preferisci metterlo da solo immagino»
«Sì, meglio» confermo subito, prendendo il contenitore dalla sua mano per estrarre l’anello e infilarlo all’anulare sinistro. Lo fisso incredulo alcuni istanti, finché la sua mano non si posa sulla mia guancia. «Non è ancora finita» mi ricorda in un sussurro e sempre senza smettere di sorridermi. E di tremare. Ci guardiamo per un momento, una muta comunicazione passa tra noi e poi ci alziamo in piedi e con calma, senza toccarci ma abbastanza vicini da non farci separare, ci giriamo verso il giudice Keji, che ci osserva impassibile da dietro le dita intrecciate per un lungo, interminabile istante.
«Signori» parla alla fine, scostando le mani. «Ho solo un’ultima domanda da porvi. In caso tutto vada per il verso giusto…» solleva gli occhi a guardarci e sorride. «…quando l’affidamento diventerà automaticamente adozione tra dodici mesi, che cognome volete mettere alla bambina?»
Usopp trattiene un gemito e lo vedo di striscio barcollare. Ora che è finita e ce l’abbiamo fatta davvero, ora che sta mollando il colpo, la tensione lo travolge e la mia mano sale sicura a stringergli una spalla, per sostenerlo e tenerlo su. Ci guardiamo e non servono parole. So che posso parlare anche per lui e non sbaglierò a rispondere. «Entrambi, Vostro Onore. Vorremmo che fosse Kaya Vinsmoke Sharpshooter, se è possibile» e quando il giudice Keji annuisce, un boato esplode alle nostre spalle.
Fischi, urla, appalusi e risate, soprattutto risate, soprattutto la risata di Usopp che si butta su di me e mi abbraccia, e anche, incredibile ma vero, la risata del giudice Keji che solleva il martelletto e lo batte piano sullo scranno. «La seduta è tolta. La corte si ritira» mormora senza cercare di interrompere i festeggiamenti che rischiano seriamente di diventare pericolosi per l’incolumità pubblica e per la preservazione della struttura. «Signori, andate a festeggiare con la vostra famiglia mentre io conferisco con l’avvocato Monkey nel mio studio alcuni minuti»
Sabo che annuisce prima di scivolare fuori da dietro il tavolo e superarci è l’ultima cosa che vedo prima di venire trascinato insieme a Uso-chan in un vortice di abbracci e pacche sulle spalle, di cui ho i miei dubbi che ci riusciremo a liberare tanto presto.
Ma non è come se fosse un problema.

 
***

 
Sguscio dentro lo studio di Vostro Onore, che non è davvero lo studio di Vostro Onore ma semplicemente lo studio adiacente a quest’aula di tribunale, usato come appoggio da qualunque giudice debba presiedere un’udienza qui. Per questo è spoglio, anonimo ed essenziale, ma è sufficiente la sua presenza per riempirlo, dargli una personalità, farlo sembrare quasi piccolo per due persone.
Lei è così, è sempre stata così. Autoritaria, intimorente eppure a suo modo dolce. Come il miele, che se esageri ti brucia la gola.
«”Il Mago batte il Profeta”» annuncia, piegata appena su un quotidiano posato sulla scrivania, e io porto una mano al coppino ma non riesco a non sorridere, fiero del mio successo. «Come primo processo da primo avvocato, hai tenuto un basso profilo» ironizza ma anche lei sorride.
Mi stringo nelle spalle. «Non mi dirai che è un problema»
«Problema? La zia non è mai stata più fiera di te, nemmeno quando hai passato diritto internazionale a pieni voti» stringe le braccia sotto al seno e io ridacchio.
«Credevo avessi smesso di parlare di te stessa in terza persona» le faccio presente.
«Con i miei nipoti parlo come mi pare, Sabo»
«E li convochi anche nel tuo studio per farlo» inarco le sopracciglia.
«Tuo fratello è tremendamente laconico al telefono, non potevo farmi sfuggire l’occasione di parlarci di persona. Senza contare che la zia voleva aggiornamenti sul suo primo bis-nipote. Sì, Dragon me lo ha detto e Koala comunque continua ad accarezzarsi la pancia» mi fa l’occhiolino e io sghignazzo di nuovo.
È una grande osservatrice, zia Hina, proprio come lo era la mamma. Ed è bello che papà abbia sempre continuato a trattarla come una sorella, anche dopo la sua morte. «Non ti sfugge mai niente»
«No, mai» avanza verso di me. «Infatti non mi è sfuggita nemmeno l’inspiegabile assenza della dottoressa Habena»
Lo stomaco si stringe e rogna. Non riesco a capire nemmeno io perché Ish non sia qui, mi aveva detto che non vedeva l’ora di assistere, che dopo avrebbe dovuto parlarmi, ieri sera sembrava così euforica e contenta. Sono preoccupato che possa essere successo qualcosa, ma magari gli si è solo bloccata la macchina. Cioè, dopotutto è una Megalo.
Voglio chiamarla, e so che mi basterà sentire la sua voce per calmarmi, ma la vediamo così poco, zia Hina, sempre divisa tra cause e lezioni a Marijoa. Così poco che chi non è parte del nucleo famigliare più stretto, Robin e Koala escluse, non ha mai saputo né sa tutt’ora del nostro legame di parentela, così come, nonostante siano anni che si frequenta in gruppo la gelateria di Kuzan, nessuno sa che è nostro zio e che è un ex avvocato che ha appeso la toga al chiodo. Nessuno lo sa perché zia Hina non ha mai voluto rischiare che questo pregiudicasse in qualche modo la mia carriera.
Non ha avuto torto, all’università ho avuto le mie belle gatte da pelare per il semplice fatto di essere suo nipote, fatto noto a qualche professore. Come Sakazuki, l’ex storico della zia, che me lo ha fatto penare quell’esame di diritto internazionale, anche se alla fine mi ha dovuto dare anche la lode.
Come facesse a stare con un tipo del genere, non me lo spiego tutt’ora, nonostante sia poi rinsavita, quando ha conosciuto zio Kuzan, di cui va fin troppo fiera, di lui e della sua missione di rendere il mondo un posto migliore un cono gelato alla volta. Allo stesso modo in cui va fiera di me, Ace, Law e Rufy, delle nostre conquiste, grandi e piccole, e così come scoppia di orgoglio per Perona, Silk e Koala e sostiene di aver sempre saputo che Law aveva solo bisogno di aprire gli occhi.
Sì, nonostante ci sia poco, zia Hina tiene tanto a noi, alla sua famiglia e so dove stiamo per andare a parare. So che vuole sapere se è già il momento, per lei, di incontrarla e chiudere la rosa delle sue quattro nipoti acquisite. 
«Sei tale e quale a mamma, lo sai?» vorrebbe suonare una critica ma il tono mi esce quasi trasognato. Perché io amavo la mamma, con tutto me stesso.
«È lei che era tale e quale a me, visto che io sono più grande» argomenta, da brava ex avvocato. «Da sorella maggiore, ho sempre voluto proteggerla ed è normale che ora io voglia continuare a proteggere quello che aveva di più prezioso, anche se ci vediamo poco. Sabo, alla lettura dei capi d’accusa hai rischiato tantissimo e non è perché sei mio nipote che non ti ho fatto arrestare. Avessi detto un’altra parola ero pronta a dare l’ordine a Fullbody e un’accusa per oltraggio alla corte non è poca cosa per un ragazzo che ha come obbiettivo finale quello di diventare, un giorno, giudice» mi rimprovera severa «Perciò ora, tesoro, la zia vuole capire cos’è questa ragazza per te?»
Batto le palpebre, confuso. Cos’è Ishley per me. È una domanda semplice con una risposta semplice. È la mia migliore amica, la mia confidente e la mia fidanzata.
«Noi stiamo insieme da un…» da un paio di mesi. «…da un paio di giorni» affermo ma, per un qualche motivo, questa risposta sembra giusta ma suona sbagliata. «E ci frequentiamo da un paio di mesi» aggiungo ma la sensazione non cambia né migliora. Quasi che zia Hina non mi avesse chiesto affatto questo. «Mi trovo bene con lei, è divertente, ci confidiamo e… e…» deglutisco a vuoto e mi sento sotto esame.
Non in senso metaforico. Mi sento letteralmente come quando sostenevo un esame all’università e cercavo disperatamente una risposta che sapevo di avere ma si fermava sulla punta della lingua. Il coppino sudato, le mani scosse da un leggero tremito, la percezione di aria più rarefatta intorno a me.
Ma qual è la risposta che sto cercando? Perché il mio corpo reagisce come se dovessi averla? Le ho detto cosa è Ishley per me.
«Sabo, sei un avvocato e devi essere razionale nel tuo lavoro ma sei anche figlio di tua madre. Sei sempre stato capace di vedere oltre alle cose, come lei, cerca di guardare anche oltre alla mia domanda. Cos’è Ishley Habena per te?» ripete e io scuoto appena il capo, quasi cedo alla tentazione di sbottare che per una volta sia più chiara, che non è sempre tutto un gioco di deduzione e interpretazione, che ormai sono avvocato e può anche smettere di mettermi sempre alla prova.
Quasi cedo ma resisto. Perché so che ci resterebbe male, perché la  rispetto e la ammiro e perché qualcosa mi dice che capire il vero senso di questa domanda è davvero una cosa che devo fare da solo. È importante che lo faccia io, fondamentale.
Che cos’è Ishley per me?
Che cos’è?
Lei beh… Lei è… Cavolo ma è quello! La mia migliore amica, la mia confidente e la mia fidanz…
Sgrano appena gli occhi quando qualcosa fa click nella mia testa.
No, questo non è quello che Ishley è per me. È quello che rappresenta, è un modo per spiegarlo al mondo, quasi un’etichetta. Come quando stavo con Bibi e chi sapeva diceva che era la ex di mio fratello, lo diceva con disprezzo e con giudizio, ma Bibi non era questo per me. “La ex di mio fratello” era ciò che gli altri vedevano, una rappresentazione distorta, ma Bibi era la mia voglia di migliorare, il coraggio di fare un salto nel buio, una vita che ho provato ad apprezzare anche se non la volevo davvero.
Non mi pento di niente, tutte quelle scelte mi hanno portato qui, mi hanno portato a Ishley.
E Ishley è… lei è… la mia voglia di ricominciare, il coraggio di credere in me stesso e di essere l’uomo che ho sempre desiderato essere, il sogno di un futuro insieme. La vita che ho sempre voluto e che farei qualsiasi cosa per avere.
Non mi ero mai sentito così per Bibi, non ho mai pensato a Bibi come alla madre dei miei figli in tre anni e l’ho pensato solo ieri di Ishley dopo tre mesi che la conosco, con una naturalezza che neanche me ne sono accorto. Ed è presto, lo so anche io, ma non sto dicendo che voglio farci un figlio domani, non è questo il punto.
Il punto è che Ishley… io la amo. Santo Roger, la amo! La amo e credo anche di voler passare il resto dei miei giorni con lei.
Il cuore accelera così di colpo che quasi mi spara in avanti, a fatica sento la voce di zia Hina, le orecchie che rimbombano di battiti.
«Beh se le cose stanno così allora valeva davvero la pena di rischiare quell’accusa di oltraggio» commenta zia Hina e per un attimo soltanto mi coglie il dubbio di aver parlato ad alta voce per tutto il tempo ma no, so che mi ha letto tutto in faccia. «Ovviamente la zia si aspetta di conoscerla presto»
Riesco di nuovo a vedere zia Hina ora, che sghignazza soddisfatta, ma respirare è sempre difficile e il cuore è bloccato in gola. Stranamente, riesco comunque a parlare. «Beh prima devo… prima devo… dirglielo»
«E infatti non ho capito cosa fai ancora qui» torna seria e severa e io sono scioccato da come, in due giorni, due donne che sulla carta di me sanno molto poco, mi abbiano aperto gli occhi sulla stessa importante questione, dando una svolta alla mia vita.
E se Reiju mi ha fatto sentire un cretino, zia Hina mi sta facendo sentire un coglione. E c’ha pure ragione, porca miseria!
Per un attimo, vedo con chiarezza cosa diventerà Reiju, la vedo qui di fronte a me, con un sorriso serafico, niente sigarette in tasca e innata classe in ogni gesto che compie. Sì, decisamente è destinata a volare molto alto.
Quello che ora deve volare, però, sono io. «Quindi posso andare?»
«Muoviti prima che la zia ti prenda a calci nel deretano» mi sorride, miele puro che brucia la gola appunto, e io scatto in avanti per baciarla su una guancia e poi scatto indietro per uscire dallo studio. L’aula è vuota, sicuramente li hanno spediti fuori a calci nel sedere ma poco mi importa in questo momento.
L’attraverso a passo deciso, il cellulare stretto in mano, determinato come mai in vita mia.
Felice come mai in vita mia, al punto che mi metto a ghignare all’aria.
Arrivo, Ish.
Arrivo, amore mio.

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


«A cosa pensi?» allungo una mano ad accarezzarlo sulla guancia e lui subito gira il capo per baciarmi il palmo, fermo immobile al posto di guida, le mani ancora sul volante nonostante abbia finito di parcheggiare.
«Dovremmo comprarla» risponde, puntando poi gli occhi fuori dal finestrino, verso casa nostra. «Quando ci scade il contratto d’affitto, dovremmo fare un’offerta per comprarla» soffia appena dal naso. «Lo so che avevo detto di volere un giardino più grande per il pergolato ma qui c’è abbastanza spazio per un albero a cui appendere l’altalena e Franky ha detto che secondo lui, se non usiamo il garage, ci possiamo allargare anche di lì e tirare fuori un’altra stanza e…» non lo lascio finire e me lo trascino addosso per baciarlo.
È raro sentire Law parlare a raffica e farfugliare, quando lo fa lo trovo così adorabile che mi risulta irresistibile. Anche se questa è una diretta conseguenza di molte cose che Law fa. Oggi, però, non parla solo a raffica. Oggi è felice e in modalità “non odio poi così tanto il mondo” e non riesce a smettere di ghignare.
È andato tutto bene. Il Castello è salvo, Sanji e Usopp hanno ottenuto l’affidamento di Kaya, Sabo è con ogni probabilità l’avvocato più in voga del momento e l’ecografia di stamattina era perfetta. E tra sollievo e stanchezza, anche lui ogni tanto diventa euforico, al punto che il razionale, attento, maniacale Trafalgar Monkey D. Lawrence, mi parla di case da comprare e di altalene da appendere agli alberi. Non potrei chiedere di meglio, non posso chiedere di meglio di Law che continua a sognare un futuro con me che, in fondo, stiamo già vivendo, ma lo conosco e so che domani potrebbe accorgersi di un improvviso risvolto che non aveva considerato, ripensare a quel che mi ha appena proposto e non trovarlo più così aderente alle nostre necessità e questo darebbe il via a una lunga e dettagliata spiegazione perché, se c’è una cosa che Law odia, è rimangiarsi la parola.
Se penso che quest’uomo ha scelto me il giorno prima del suo matrimonio con un’altra il cervello mi si impalla per dissonanza cognitiva.
«Il contratto scade tra più di un anno» mormoro quando mi stacco da lui, senza lasciar andare il suo viso. «Ne riparliamo più avanti e, se saremo ancora dell’idea, per me va bene. Il pergolato sta benissimo nel giardino di Dragon e non pensare che i nostri figli trascorreranno poco tempo là. È un luogo dove siamo stati troppo felici, come questa casa» indico con un lieve cenno del capo anche io fuori dal finestrino e Law ricomincia a ghignare e mi ruba un altro bacio.
Cosa posso fare per averlo così tutti i giorni? Ditemi che c’è un modo, vi prego!
«Andiamo» mi invita con un ultimo bacio ancora prima di scendere. «Quindi Usopp ha fatto faville in tribunale?» chiede conferma e io annuisco, rievocando il vocale di Nami di un paio di minuti fa.
«Ha anche chiesto a Sanji di sposarlo davanti a tutti» ridacchio e Law solleva un sopracciglio.
«Però!» scuote appena il capo mentre estrae le chiavi. «Chissà che prende a tutti in questo periodo…» mormora e le infila nella toppa, dove si bloccano dopo mezzo giro. Law le riporta alla posizione iniziale e ci riprova ma niente, si bloccano di nuovo.
Lui si acciglia, io mi acciglio. «Ma che…» fa per domandare e io mi sporgo appena e abbasso la maniglia, solo per scoprire che la porta è già aperta.
«Non abbiamo chiuso?» domando, perplessa, perché mi sembra abbastanza impossibile, sinceramente. E anche a Law lo sembra e punta gli occhi davanti a sé, sulla porta, senza realmente vederla, osservando con l’occhio della mente il corridoio.
«Koala resta qui» ordina, abbassando la voce e poi cauto allarga lo spiraglio ma io allungo la mano e gli artiglio il polso. «Tu non entri se c’è il dubbio che qualcuno ha scassinato la serratura e potrebbe ancora essere in casa» lo informo in un sibilo, lo sguardo vitreo.
Mi fissa serissimo e impassibile, il suo modo per dire che sa quello che fa, e sto quasi per cedere – sì anche questo è irresistibile per me – quando Nekozaemon si produce in uno dei suoi teatrali miagolii strappacoccole e una lieve risata si leva dalla cucina.
«Non ne hai mai abbastanza vero?» domanda una voce famigliare e io e Law ci scambiamo un’occhiata, stupiti e con lo stesso dubbio disegnato in faccia.
Che ci fa qui Ishley e perché non ci ha avvisati?
Svelti entriamo in casa e non richiudiamo neanche a chiave, raggiungendo la cucina in quattro passi. Ishley  coccola Nekozaemon, sdraiato a pancia in su sul suo sgabello preferito, in procinto di cadere se fa un movimento di troppo, le orecchie schiacciate sotto il capino peloso. Venduto infame di un gatto. Quanto lo amo.
Ma l’attimo di sconfinato affetto per la palla di pelo ha vita breve quando poso gli occhi su Ishley, che ottiene subito la mia indivisa e preoccupata attenzione, perché, se già la sua presenza qui aveva qualcosa di strano e la sua voce mi è subito sembrata priva della verve che la contraddistingue di solito, quando vedo il suo sorriso non ho più dubbi. Qualcosa non va.
Non c’è luce nei suoi occhi, il viso è tirato, le labbra piegate appena, nulla più che un gesto cortese, neanche Nekozaemon potesse offendersi. Cioè oddio, in realtà si offende eccome ma solo se si ride di lui, non se gli si fanno le coccole con espressione truce. Altrimenti dovrebbe essere offeso con Law perennemente.
«Ish?» avanzo in cucina mentre Law rimane qualche passo indietro e la studia con attenzione, la studia sobbalzare e voltarsi verso di noi, per un attimo sorpresa, quasi si fosse dimenticata di essere a casa nostra. «Tesoro, che succede? È tutto a posto?»
Il sorriso scivola via dal suo volto e si rimette dritta, evita i nostri sguardi, le mani pasticciano con il bordo del vestitino a righe. «Scusate, non volevo essere invadente ma non mi andava di aspettare fuori e avevo ancora la copia delle chiavi attaccata al mio mazzo» spiega, il tono piatto e la voce roca.
Mi avvicino ancora e la osservo meglio. «Hai pianto» sussurro e non è una domanda ma io e Law aspettiamo. Le diamo il tempo perché sappiamo che se è qui ha certamente intenzione di spiegare e non serve farle pressioni. E infatti, dopo aver girato gli occhi al soffitto e sbuffato un respiro teso, riporta lo sguardo su di noi. Su Law.
«Perché non me lo hai detto?» soffia a fatica. Lascia andare il vestito e stringe i pugni lungo i fianchi, gli occhi pieni di frustrazione ora. «Perché non mi hai detto che l’uomo con cui si è messa Bibi dopo la vostra rottura era Sabo?» trattengo il fiato e sollevo appena il mento, afferrando in una frazione di secondo la situazione e il problema ma Ishley non se ne accorge, gli occhi fissi su Law, cammina verso di lui e io resto dove sono. «Mi hai raccontato tutto di quella vicenda, ogni singola cosa, e ti è sfuggito questo dettaglio?» si ferma di fronte a lui e lo fronteggia a denti stretti.
Law la osserva, nulla trapela dal suo volto, in questo momento è illeggibile anche per me ma nell’istante in cui si sfrega gli occhi con pollice e indice so che sta male a vederla così. E so anche che il suo cervello sta mettendo insieme tutti i pezzi, con voluta lentezza perché non vuole capire, non ha mai voluto capire. Non vuole sapere che alla fine è successo, che alla fine due delle persone che più ama a questo mondo stanno per farsi male a vicenda.
«Ish, qual è il problema? Che differenza ti fa?»
«E a te?» ribatte subito, ferita. Capisco perché Law ha trovato subito un punto d’intesa con lei. È una che lotta Ish, lotta per ciò che ama e lotta contro le sue stesse emozioni, che, ho avuto modo di scoprire, sono  travolgenti e in costante cambiamento. Purtroppo non sempre vince. «Se non era rilevante perché non dirmelo? Sai così sembra tanto che volessi proteggere la reputazione di tuo fratello, neanche avesse fatto qualcosa di brutto»
Law solleva un sopracciglio. «Perché? Non lo avresti pensato, che aveva fatto qualcosa di brutto?» sembra quasi accusarla e io avanzo di un passo.
«Law» lo richiamo con calma, inascoltata. 
«No! Non l’ho mai pensato di te e Koala, perché avrei dovuto pensarlo di loro?»
«E allora perché ora sei tanto arrabbiata?»
«Perché meritavo di saperlo, okay? Meritavo di sapere in cosa mi stavo infilando! Meritavo di sapere la verità su Sabo!»
«E fammi indovinare, qual è la verità?» socchiude gli occhi Law, che inizia a spazientirsi. È pronto a tutto per difendere suo fratello ma sta male per la sofferenza di Ishley. Le due cose, purtroppo, sembrano inscindibili. «Che mio fratello è un approfittatore che si è gettato sulla mia futura moglie non appena è diventata la mia ex?»
«Law adesso basta»
Non sono parole sue e sa che non potrebbero mai essere di Ishley. Ma qualcuno lo ha detto, più di qualcuno e più di una volta e Law si mette sulla difensiva per carattere quando si mettono in mezzo coloro a cui tiene. Sulla difensiva per gli altri, mentre lui attacca.
Solo che Ishley non è “qualcuno” e se Law fosse lucido e razionale si renderebbe conto che rientra nell’elenco delle persone che normalmente difenderebbe a spada tratta. Non può uscire niente di buono da questa situazione. A cominciare da Ishley che passa in un attimo da frustrata a indignata e poi sofferente per l’ingiusta accusa.
«Io non penso niente del genere! Non potrei mai pensare una cosa del genere di lui! Lo conosco, so com’è davvero, io lo amo porca miseria!» protesta con le lacrime agli occhi e la voce rotta.  
Espiro piano dalle labbra, mi uccide vederla così. Vederli così. Law è rigido come un tronco ora e ha lo sguardo vitreo di chi non può più fingere di non capire. Parlava di altalene e alberi solo dieci minuti fa.
Ma, si sa, al peggio non c’è mai fine e la porta che si riapre arriva prontamente a ricordarmelo proprio quando stavo per muovere un passo e intervenire.
«Law? Koala?» chiama la voce di Sabo dall’ingresso e io impotente osservo. «Ragazzi sapete niente di Ishley? Non mi risponde al telefono e la sto cercando dappert… Ish! Eccoti!»
Lo osservo arrivare sulla porta della cucina, bloccarsi, illuminarsi per un secondo e spegnersi un attimo dopo. «Che succede?» domanda, preoccupato, quando si accorge dei suoi occhi rossi, delle labbra gonfie, delle guance chiazzate. Quando si accorge, insomma, che Ishley sta male. «Ish, piccola…» fa per avvicinarsi, agitato, ma lei avanza decisa, lo ferma e lo zittisce di nuovo con un’occhiata.
Lo vedo chiaramente, come quel pomeriggio al Castello di tre settimane fa, che si fa violenza per non trascinarla tra le sue braccia ma a frenarlo non è più la nostra presenza. Fosse quello, non gliene fregherebbe niente. Non si sta più nascondendo. Ma so che gli è insopportabile come Ishley lo sta guardando, con dolore e rabbia e, suo malgrado, accusa e tutte le energie di Sabo sono concentrate per non andare in pezzi.
«Non me lo hai detto»
Sabo sbatte le palpebre sinceramente interdetto. Non ha idea di cosa stia parlando.
«Ti ho chiesto come mai il trasferimento ad Alabasta e avevo capito che avessi una donna in quel periodo ma credevo l’avessi incontrata là! Non che avessi mollato tutto per lei! Per Bibi, dannazione!» si asciuga gli occhi con rabbia e mi sembra di sentirlo, lo stomaco di Sabo che si contrae fino a fare male. «Mi hai detto che era stato per lavoro! Mi hai mentito!»
 Sabo manda giù pesante, gli occhi lucidi. «Ish…» avanza di un altro passo ma lei si scosta bruscamente.
«No!» si allontana ma glielo leggo in faccia che vorrebbe solo aggrapparsi a lui e non lasciarlo mai più e qualcosa nel mio petto si allenta.
Li osservo con occhi nuovi, che mi fanno stare peggio nell’immediato ma mi danno conforto sul lungo termine. Riesco a vedere risvolti nuovi con questi nuovi occhi, non da amica ma da mamma. E non perché sono incinta ma perché li ho avuti sotto questo tetto con me in un momento complicato per entrambi. Quello di Sabo, che andava avanti da pochi mesi, di aver perso tutto ciò in cui aveva investito. Quello di Ishley, trascinato per una vita, di sentirsi sempre fuori posto. E sotto questi occhi, che hanno tutta un’altra percezione, li ho guardati rimettere insieme i pezzi, aiutandosi, sì, ma anche e soprattutto con le proprie forze, per poi alla fine alzare lo sguardo e trovarsi.
Non si sono innamorati perché hanno bisogno l’uno dell’altra. Si sono innamorati perché hanno avuto entrambi il coraggio di provare di nuovo.
L’amore non è necessità. L’amore è scelta.
Anche se, certo, in questo momento fa un gran male, proprio qui al centro del petto.
«Ish… ti prego…»
«Io mi fidavo! Io…» la voce le si spezza, abbassa gli occhi e scuote il capo. «Io mi fidavo di tutti e due…» soffia e parte a passo di carica per andarsene e Sabo fa un debole tentativo di inseguirla.
«Ishley no! Aspetta!» la porta si apre, si chiude, si riapre, passi veloci e poi il motore di un’auto – come abbiamo fatto a non notare una Megalo metà a righe e metà lilla? – gomme che stridono sull’asfalto.
Silenzio.
Totale e assoluto silenzio, rotto solo dalle fusa di Nekozaemon che, ignaro di tutto, si è acciambellato e messo a dormire, finché passi stanchi e strascicati seguono il rumore della porta che si chiude ancora, più definitiva stavolta. Sabo riappare sulla soglia della cucina, si aggrappa con una mano allo stipite. Svuotato di ogni cosa, energie e sentimenti che non siano dolore.
Law non si è ancora mosso, come neanche io, e sembra concentrato per non esplodere, le mani strette in pugni lungo i fianchi, il respiro grosso, gli occhi nel vuoto, le spalle a suo fratello.
«Sabo…» faccio per avvicinarmi a lui ma a malapena riesco a staccarmi dal bancone e sciogliere l’intreccio delle mie braccia sotto il seno.
«Proprio lei?» domanda Law, la voce distorta. Io e Sabo ci voltiamo a guardarlo mentre anche lui si gira verso di noi e i miei occhi balenano di avvertimento e urgenza. «Di tutte le donne che ci sono in quel maledetto ospedale, proprio lei dovevi portarti a letto?»
«Law»
«Portarmela a letto?» reagisce all’istante Sabo, solleva gli occhi pieni di lacrime e rabbia, i denti stretti come una bestia ferita che vuole ancora combattere. «Pensi davvero che sia questo?»
«Oh mi scusi, signor playboy, che cos’è allora?!» ribatte Law, con sarcasmo e veleno.
Sabo si stacca dallo stipite, avanza, lo affronta, stringe i pugni. «Lei è speciale, ecco cos’è!» indica verso l’ingresso a braccio teso.
«Sì, infatti, e io lo so bene. Meritava di meglio che diventare il tuo strumento per dimenticare Bibi»      
È un istante, il tempo di un battito, quello che il mio cuore salta quando Sabo si scaglia con un ringhio su Law e lo afferra per la maglia. «Non osare!»
Apro la bocca ma non ne esce alcun suono, non fa in tempo che Law ha già reagito alla stessa maniera, prendendo Sabo per i baveri della camicia e sospingendolo all’indietro, schiena al muro.
«Tu non osare!»
«Law!» rompo ogni indugio e mi lancio in avanti, non so come riesco a infilarmi tra loro e spingere via Law, perché si lascia spingere via quando capisce che nella zuffa ci sono anche io, che rimango ferma e immobile a fare da scudo a Sabo.
È fuori di sé, neanche si accorge di quanto è furente, mentre Sabo, anche se per un attimo ha reagito, è svuotato, disarmato, indifeso. Normalmente Law non sarebbe riuscito a respingerlo con così tanta facilità e se facesse male a suo fratello, anche solo per sbaglio, so che non se lo perdonerebbe mai.
Non che in questo momento lo capisca. Non capisce e glielo leggo negli occhi il fastidio che prova, che si sente tradito. Non capisce, ora, che lo sto facendo per tutti e due.
«Bene» esala, sistemandosi la maglietta con un movimento secco, prima di avviarsi a grandi passi fuori dalla cucina. Mi passo una mano sul volto e scatto quando sento la porta d’ingresso che si apre. Scatto e lo rincorro, fermandolo sul vialetto, a due passi dalla soglia, le chiavi dell’auto già in mano.
«Law!» mi paro di fronte a lui. «Dove vai?»
«Ti fa differenza?» domanda piatto. Ignoro il pugno allo stomaco. Non lo fa per ferirmi ma non è mai stato bravo con le emozioni.
Allungo una mano e la poso sul suo braccio e lui non mi respinge. «Andiamo» insisto, ragionevole. «Sabo ha bisogno di te»
Law distoglie gli occhi e sbuffa una risata vuota «Beh francamente, Koala…» li riporta su di me, di nuovo mortalmente serio. «Mi sembra ve la caviate molto bene anche senza di me. Mi levo dai piedi, così potete stare da soli e godervi la vostra reciproca compagnia»
Una scarica mi attraversa. Sollevo il mento e piano faccio un passo indietro, ritraendo la mano, senza staccare gli occhi da lui, che sostiene il mio sguardo ancora una manciata di secondi prima di scrollare le spalle e superarmi per andarsene. Rimango ferma sul vialetto, di spalle alla strada, finché non sento il motore della Firefist rombare e la vettura sfrecciare via.
È solo allora che mi concedo un sospiro e, scosso il capo per snebbiare la testa, rientro in casa. Sabo non si è mosso dalla cucina, ma ora è seduto su uno sgabello, le mani a coppa sulla bocca e gli occhi pieni di panico. Su tutto il suo viso c’è scritto chiaramente “Cos’ho fatto?”.
Con un sorriso comprensivo e incoraggiante, mi avvicino cauta a lui. «Sabo» lo chiamo mentre gli afferro le mani con le mie e, delicata, gliele sposto dalla bocca. «Non lo pensa veramente. Law non pensa veramente quelle cose di noi. Ehi!» gli accarezzo una guancia quando non da quasi segni di avermi sentito. «Andiamo, lo conosci. Ha solo bisogno di sbollire»
Ma lo so, non è solo per Law e per la conversazione che sono certa abbia sentito che sta così. Il panico dipende da quello ma il dolore che gli blocca il cervello ha ben altra origine. E vorrei conoscere Ishley bene quanto Law, vorrei potergli dire che anche a lei serve solo qualche ora.
«Io… io…» balbetta, perso. «Abbiamo vinto» mormora, senza un’apparente logica.
«Lo so» annuisco e Sabo riporta gli occhi su di me, si ricorda che sono qui ma mi guarda ancora sperso.
«Credevo di aver imparato a fare le cose giuste. Per una… per una volta che ne facevo una giusta…»
«Sabo» lo fermo, portando di nuovo le mani, stavolta entrambe, sul suo viso. «Ma cosa dici?» continuo a sorridere. «Tu hai sempre fatto cose giuste anche con le tue scelte più sbagliate, o non saresti l’uomo che sei ora»
«E cosa sono?» soffia con il groppo in gola, a metà tra una domanda retorica e una vera richiesta. «Il Mago che ha battuto il Profeta? Perché non mi interessa, non  è quello che voglio essere. Io… s-senza Ishley, io…»
«Si risolverà» affermo, convinta. «Sabo non è successo niente di irreparabile. Andrà tutto a posto»
Lei ti ama.
Il cuore mi si stringe quando si prende il ponte del naso tra le dita e preme sugli angoli degli occhi ma continuo a sorridere. Il suo braccio mi avvolge la vita, le mie dita scivolano sul suo collo quando abbassa il capo per appoggiare la fronte alla mia spalla.
«Puoi piangere» gli dico, spostando una mano sulla sua nuca ma lui nega piano, sfregando contro la bretella del mio top. «Vuoi che ordiniamo la pizza hawaiiana stasera?» un altro diniego.
«Non posso far mangiare una simile porcata a mio nipote» mugugna senza alzare la testa, premendo la mano sulla mia pancia, più tonda ora che sto per entrare nel quinto.
«Vuoi dire a tuo fratello» lo correggo e il cuore un po’ si scalda quando sbuffa una mezza risata. «Pizza normale?» propongo ancora e lui annuisce. La mia mano scivola piano sulla sua nuca, in una materna carezza, mentre gli sfioro la tempia con le labbra. «E pizza normale sia»
 

 
§

 
Non sono molto convinta.
Fisso il contenuto del mio cassetto e non sono molto convinta.
Forse avrei dovuto scegliere un altro criterio di divisione dei vestiti, forse avrei dovuto ordinarli per tipologia dallo sportivo all’elegante, come ho fatto nell’armadio, e non per colore, forse ha avuto poco senso fare questo lavoro adesso, visto che nel giro di tre settimane dovrò iniziare a tirare fuori il guardaroba autunnale, forse le ragazze mi porteranno a fare un altro giro di shopping con la nuova stagione, forse potrei dare un’altra passata al bagno, non è mai troppo pulito il bagno, forse… Forse dovrei cercare di rallentare prima che mi esploda il cervello.    
Sono ore che pulisco. Ho sistemato persino i cassetti del mio comodino, abbandonati ad uno stato di caos primordiale da così tanto tempo che stavano per evolvere in un nuovo universo.
Ho scoperto di avere un separa-tuorli, uno schiaccianoci a forma di fungo e un portastuzzicadenti natalizio. Ho scovato abiti la cui provenienza mi è sconosciuta e il costume di scena di “Ventimila leghe sotto i mari”, uno dei saggi della scuola di danza di Waterwheel, che ho indossato al primo e unico Oro Jackson Day a cui mi sia mai mascherata e a cui abbia mai partecipato in quattro anni, il cui corpino mi ero ripromessa di usare come sottogiacca sexy e invece non ha mai lasciato l’armadio.
Non è stato catartico ma almeno mi ha tenuto impegnata. Avrei preferito non avere a che fare con i vestiti di Sabo nel cassetto del comò, ma li ho già messi da parte e li terrò lontani dalla vista fino a lunedì, quando li porterò al lavoro per smollarli a Law.
Lui non voglio nemmeno incrociarlo.
Se penso che questo era uno dei primi weekend in cui avevo tutti e tre i giorni liberi. Se penso a come avrei voluto passarlo, se penso a tutti i film che mi ero fatta, se penso a lui…
No, Ishley, non devi. Non devi pensare a lui.
Non devo pensare a lui.
Fosse facile. Fosse facile non pensare al centro del mio mondo, al primo nome che mi affiora sulle labbra quando mi sveglio, al volto che vedo non appena chiudo gli occhi.
Fosse facile.
Non mi mancasse almeno così tanto, non avessi sentito il suo odore sulle magliette che ho messo via prima, non provassi una sofferenza quasi fisica dal bisogno che ho delle sue braccia.
Innamorarsi. Che cosa stupida, innamorarsi. Che cosa stupida mettere tutti se stessi nelle mani di un’altra persona, fidarsi ciecamente, perdere ogni capacità di giudizio. È contro ogni spirito di conservazione eppure è la base per la perpetrazione della specie.
Che cosa stupida.
Che cosa incomprensibile, l’amore.
Forse, dopotutto, aveva ragione Aisa a non volersi lasciar andare con Kira, forse le ho dato un consiglio idiota e se alla fine lui le spezzerà il cuore non me lo perdonerò mai, forse dovrei chiamare Kira e fargli un discorsetto.
Sobbalzo quando tre tonfi risuonano alla porta, riscuotendomi dai miei pensieri. Le gambe si muovono meccaniche e mi portano fuori da camera mia prima che il cervello realizzi che potrebbe anche essere Sabo e io mi pietrifichi al centro dell’ingresso. Fisso la porta con paura mista a speranza.
Non voglio vederlo, non voglio parlare di Bibi e stare a sentire che non me l’ha detto per chissà quale ridicolo motivo, non voglio farmi incasinare la testa ancora di più.
Ma ti prego, ti prego fa che sia lui.
«Ish?» una voce cauta e famigliare mi raggiunge, ovattata dal legno, mi avvolge come un abbraccio. «Ish, siamo noi»
Sono loro. Sono loro e sono qui e non so come facciano a saperlo ma non ho mai avuto più bisogno delle mie amiche come in questo momento.
Mi aggrappo alla maniglia e quasi scardino la soglia per aprire. Con loro c’è una ragazza che non conosco ma non riesco a farci caso, troppo concentrata sui loro volti che sanno di casa e famiglia.
Aisa, Reiju, Perona e Praline, con gli occhi pieni di calore e le braccia cariche di sacchetti. Arrivate, come al solito, al momento giusto.
«Koala ci ha avvisate» spiega Perona con un sorriso affettuoso e comprensivo.
«Già stamattina in tribunale ci siamo preoccupate che non ti abbiamo vista. Ma poi non rispondevi nemmeno al cellulare. È tutto il giorno che proviamo a chiamarti!» protesta Aisa e io realizzo che è ancora nascosto tra i cuscini del divano, dove l’ho infilato dopo averlo messo in silenzioso alla settima telefonata di Sabo e alla seconda di Law, da me ignorate. Sto per scusarmi quando Aisa avanza e allarga appena le braccia. «E quindi, eccoci qui!»
Le lacrime tornano alla carica ma le ricaccio subito indietro.
«Abbiamo portato cibo spazzatura, dolci e un po’ di alcool» interviene Reiju.
«Oh e lei è Halta, mia cognata» si ricorda improvvisamente della quinta ragazza Aisa. «Spero non ti dispiaccia, avevamo già in programma di vederci prima che subentrasse il codice “cuore infranto”, così l’ho invitata a venire con noi»
Ridacchio e scuoto appena il capo. «Macché dispiacere e dispiacere. Sei la benvenuta» le dico e mando giù per provare a scacciare il groppo in gola. «Entrate dai» mi faccio poi da parte.
Invadono la casa con il loro solito entusiasmo, Aisa porta Halta a fare il giro del trilocale manco fosse casa sua, Reiju e Perona si dirigono più pragmaticamente in cucina, solo Praline si trattiene sulla soglia, si avvicina e si ferma di fronte a me.
Sorride come sempre, Praline, ma nei suoi occhi non c’è aria di scherno o ironia, solo tanto amore da lasciarmi senza fiato. Non dice una parola, sorride e basta, e io piego il capo per premere più forte la guancia sul suo palmo quando la sua mano ci si posa sopra in una carezza. Sovrappongo la mia alla sua per tenerla lì. Il calore che emana è uguale a quello della mia mamma.
Riapro gli occhi e la guardo e anche lei mi guarda e tanto ci basta, non servono le parole, è scritto sui nostri volti a caratteri cubitali. “Ti voglio bene”.
Vi voglio bene, ragazze.
«Ish, ma  che hai fatto?!? È tutto pulitissimo!» domanda Aisa, sinceramente sorpresa.
Mando giù un’altra volta «Dai andiamo» la incito, la voce gratta sulle corde vocali.
Non so esattamente come, mi ritrovo con in mano una fetta di torta al limone e un bicchiere di un non meglio identificato intruglio alcolico che però è buonissimo e va giù che è una meraviglia. Forse anche troppo. A un certo punto non siamo più in cucina ma in sala e io non so nemmeno quanto tempo è passato ma un po’ di sicuro perché, nel frattempo, le telefonate senza risposta di Sabo sono diventate nove e il mio cellulare giace ignorato con gli altri, sul mobile del televisore, ho scoperto che Halta è la sorella del marito di Izou , fa la giornalista e ha le palle cubiche e che Killer andrà a Dressrosa per il concorso di non mi ricordo assolutamente il nome della casa di moda, insieme ad Aisa e io probabilmente mi sono preoccupata per niente perché per uno come Killer, andare ad una serata del genere, insomma deve tenerci davvero molto a lei.
Spero che non le abbia nascosto qualche vecchia fiamma di fondamentale importanza e anche che ci sia ancora un po’ di questa roba, perché è davvero spaziale. Non so nemmeno quanti bicchieri ne ho bevuti. Sei? Sette?
Magari loro lo sanno.
«Ehi ragazze…» le chiamo e mi blocco. Cosa dovevo chiedere? «…ma voi vi siete mai domandate come fanno le balene a saziarsi con il plancton?»
«Cavolo!» esclama Aisa, in botta, alzandosi con il busto e puntellando i gomiti sulle gambe di Halta. «Ma sai che hai ragione? Non ci avevo mai pensato!»
Aggrotto le sopracciglia perché non sono affatto certa di aver affermato qualcosa su cui si potesse avere ragione o torto ma sono troppo concentrata a restare in equilibrio seduta sul bracciolo e, al contempo, continuare a intrecciare i capelli di Perona con uno dei nastri che ho recuperato prima per Praline, che ha fatto i codini ad Aisa.
«Sono le balene che sono monogame?» domanda Reiju. Aisa si gira a guardarla beccheggiare nella sedia a uovo, con movimenti sconnessi rotola giù dal divano e, annunciando che vuole dondolare anche lei, si lancia letteralmente tra le braccia della sua migliore amica e Reiju la accoglie senza esitare e si rannicchia per farle posto. 
Comincio a pensare che abbiamo decisamente esagerato con l’alcool.
Ne ho conferma quando Perona piega il capo all’indietro e mi guarda da sotto in su, con i suoi grandi e languidi occhi scuri, per dirmi: «Io adoro i tuoi capelli comunque. Sono un sacco carini»
«Non penso che le balene siano monogame» riflette Halta, perfettamente a proprio agio in mezzo al nostro delirio, nonché l’unica lucida, oltre a Praline che però non conta perché a Praline non serve l’alcool per essere socialmente disturbante.
«Gli squali di sicuro non lo sono» sghignazza infatti la mia più vecchia amica e Aisa grugnisce, cerca di sporgersi dal nido di vimini della sedia a uovo, la fa dondolare così forte che per un attimo ho sinceramente paura che rigetteranno sul pavimento del salotto, prima di riuscire a esprimere a parole quello che pensa. «Sapete io questa cosa della mogonamia nel regno animale non la capisco»
«Monogamia» la corregge Reiju.
«Esatto» annuisce Aisa. «Cioè voglio dire, è una cosa istintiva per gli animali, sono gli essere umani che scelgono di avere un unico partner anche se magari di istinto ne vorrebbero più di uno»
Fermo la treccia sulla testa di Perona, come se fosse un cerchietto, scivolo sul cuscino e puntello i gomiti sul bracciolo. Perona si rilassa tra le mie braccia e contro di me e Halta rivolge un sorriso sibillino ad Aisa. «Un discorso interessante per una che non è nemmeno pro-matrimonio»
«Ehi! Io non ho mai detto che sono contro il matrimonio» si indigna, come sempre quando qualcuno le mette in bocca parole non sue. «Io dico solo che non so se sentirò mai la necessità di sposarmi. Tanto mica dici di sì quel giorno e la scelta per la vita è fatta, no?! La scelta di stare sempre con la stessa persona la devi fare ogni giorno, che differenza fa? Cioè lo capisco se uno vuole figli magari o ne ha, però il matrimonio di per sé è una cosa che… boh. Senza offesa Praline»
«Io sono molto convinta di avere sposato Al e molto convinta di non essere diventata madre» spiega pacata Praline mettendo su uno dei suoi inquietanti sorrisi. «Ma questo non significa che non voglio diventare zia, perciò, bambine mie, vi dovete mettere d’impegno» ci osserva oltre i polpastrelli giunti delle sue dita. Perona, tra le mie braccia, viene colta da un tremito.
«Non preoccuparti, non glieli lasceremo comunque mai senza supervisione» la rassicuro, schioccandole un bacio tra i capelli. Potrebbe dare loro delle proteine solubili nell’omogeneizzato.
«…’ntro il matrimonio» sta ribadendo Aisa con Halta. Arrossisce ma non abbassa gli occhi, mentre argomenta fiera: «Se lo fossi davvero non saprei che preferisco il rito Shandia, con lo scambio degli oggetti anziché delle promesse, e come mi immagino la proposta di matrimonio perfetta, no?» solleva appena il mento.
«Tsundere patologica» soffia Reiju e io mi ritrovo a sghignazzare con Praline.
«Ma davvero?!» mormoro, maligna. «E come la immagini sentiamo?»
«Beh…» cerca di appollaiarsi sui propri piedi ma perde l’equilibrio, cade addosso a Reiju e la sedia ricomincia a ondeggiare pericolosamente. «Sulla spiaggia e con i fuochi d’artificio personalizzati» fa spallucce dalla posizione semisdraiata in cui si trova.
Per un attimo c’è solo un basito silenzio prima che una dietro l’altra scoppiamo a ridere incredule.
«Che? Che c’è?!»  
«Alla faccia!»
«Ma sulla spiaggia per forza? La sabbia è fondamentale?» la prende in giro Reiju e Aisa la guarda spiazzata
«Oh andiamo ragazze!» ironizzo con un sorrisetto che è una parte alcool, un parte e mezzo divertimento e tre parti bastardaggine. «E che sarà mai. Sono solo fuochi d’artificio personalizzati. Quale uomo innamorato non lo farebbe?»
«Ehi ma sentite un po’!» protesta Aisa, sdraiandosi di più su Reiju, contagiata dalle nostre risate, disinibita dall’alcool. «Succederà mai? Chiaramente no! Perciò è un sogno e a me hanno sempre insegnato che se si deve sognare, tanto vale farlo in grande»  
Praline la indica con il dito indice, strizzando un occhio. «Parli la mia lingua, dolcezza!»
«Praline la tua proposta è stata come la immaginavi?» chiede Perona, tirandosi un po’ su con la schiena, contro di me.
«Sarebbe stato difficile. La proposta perfetta per me prevedeva le spiagge di Amazon Lily e una grotta marina segreta ricoperta di fiori tropicali. Insomma, non so nemmeno se esiste una grotta del genere»
«Praline» la chiama Reiju ridendo. «Questo tuo lato nascosto non me l’aspettavo! Non ti facevo così romantica!»
«Si era detto di sognare in grande no?» sorride famelica. «Ma Al si è impegnato, è stato comunque molto romantico. E dopo che ho detto sì anche molto prestante»
«Io vorrei riceverla subito dopo la vittoria alla finale dei mondiali di rugby dei Blue Reindeer, direttamente dal centro del campo e da Dolton Juggernaut» racconta senza vergogna Halta, ritrovandosi tutti gli occhi addosso.
«Cioè intendi che vorresti che Dolton Juggernaut ti facesse la proposta per conto del tuo ragazzo o che proprio Dolton Juggernaut ti chiedesse di sposarlo?» chiedo conferma.
«La seconda»
«Lo conosci?» si esalta Aisa.
«No, ma sto sognando in grande» si stringe nelle spalle Halta prima di sporgersi a dare il cinque a Praline.
«E tu, Rei?» fa dondolare ancora la sedia Aisa, riversando il capo all’indietro per guardare in faccia la sua migliore amica. «Tu come la immagini?»
«Non la immagino» risponde subito, sollevando un nugolo di proteste da tutte noi, che la fanno ridere. «No davvero! Non me la immagino perché non voglio sposarmi. Per davvero, io. Ho la stessa visione delle relazioni che ha Aisa ma io non sono tsundere, quindi…»
«Cioè vuoi dirmi che non te la sei mai immaginata, nemmeno da bambina?» insiste Aisa.
«Beh sì!» ride ancora. «Ma non ricordo e comunque dubito che una qualsiasi di quelle fantasie sarebbe applicabile a Kidd» sorride sorniona come sempre ma anche innamorata.
«E che ne sai che sarà Kidd per sempre?»
«Diciamo che sperare che sarà lui per sempre è il mio modo di sognare in grande. In tutti i sensi» aggiunge con eloquente malizia, guadagnandosi un giro di “Ohoooh”, “Uuuuh” e fischi che si trasformano in risate senza vergogna né ritegno.
Che brutto effetto ci fa l’alcool.
«Io però la capisco» ammette Perona, stendendo il braccio al soffitto, quando riesce a calmarsi. «Cioè io ho creduto per un sacco di tempo che il mio amore per Ace sarebbe sempre stato a senso unico. Aveva questa ragazza storica, lui, e se anche avesse messo gli occhi su un’altra non avrei mai creduto che sarei stata io. E tenevo talmente tanto a lui che non ci ho mai nemmeno provato per davvero, preferivo amarlo in silenzio che perderlo come amico. In realtà non so nemmeno come ho fatto a farlo cadere tra le mie braccia» scuote il capo con un sorriso mentre si passa una mano sul lato del volto, persa nei ricordi di quei giorni e io provo un moto di affetto cosi forte nei suoi confronti che me la mangerei. «Quello che voglio dire è che, so che suona sdolcinato e mieloso e cariadenti, ma per me il sogno è svegliarmi ogni giorno accanto a Ace» le guance le prendono fuoco.
«Aaaaawwwwww» si agita Aisa, facendo agitare anche la sedia sospesa.
Perona punta il dito verso di lei, ricominciando a ridere. «Segnatevelo perché non me lo sentirete ripetere mai più!»
«Ish manchi solo tu» mi fa notare Reiju, stringendo la sua migliore amica per tenerla ferma ed evitare che le faccia capottare a terra una volta per tutte.
Punto per un attimo gli occhi al soffitto in riflessione. «Beh io non ho mai avuto un luogo o un momento particolare in testa però una cosa c’è» ammetto, riportando lo sguardo alla loro altezza. «Dovrebbero esserci tipo cinquecento gigli cuore blu sparsi ovunque» allargo le braccia, le mani stese, a indicare tutto lo spazio del mio raccolto salotto. «Anzi, cinquecentocinquantacinque»
«Gigli cuore blu?» si acciglia Halta.
«Sono gigli bianchi con la screziatura e il pistillo turchesi. È la mia varietà preferita, quando ce ne sono tanti creano l’effetto di un fondale marino e nella penombra brillano quasi, sono spaziali. A Waterwheel li trovi pure nelle crepe del marciapiede e te li tirano dietro, ma in qualunque altro posto sono rarissimi. Se provi a comprarli qui a Raftel ti chiedono un rene»
«E perché cinquecentocinquantacinque?»
Mi stringo nelle spalle. «È un numero carino» ribattiamo simultaneamente io e Perona. Le sorrido quando i nostri occhi si incrociano. Sono così a mio agio, come non sono mai stata in vita mia. Non credevo che mi sarei mai sentita così in presenza di altre donne. Non ho un solo filtro in questo momento, e non solo per l’alcool. Se dico cose che mi fanno sembrare strana non importa, loro non mi giudicheranno, mi vogliono bene per come sono. E io sono a mio agio, molto a mio agio. «È palindromo» continuo ad argomentare. «Sabo è fissato con i numeri palind…» il tempo per il mio cervello di metabolizzare quello che sto dicendo e la voce mi si spezza.
Sono troppo a mio agio. Così tanto che ho dimenticato di tenerlo chiuso fuori, lui, il suo nome, tutto ciò che me lo ricorda.
Non riuscirò mai a farlo. Ma il cuore deve farmi proprio tutto questo male ogni volta che lo nomino o ci penso anche solo per sbaglio?
«Ah scusate» mando giù pesante e mi scosto da Perona per alzarmi in piedi e andare di là un momento a… a fare cosa non lo so nemmeno io. «Ragazze andiamo!» sorrido e scuoto il capo quando noto le loro occhiate, attente, preoccupate, comprensive. «Non guardatemi c-così, io…»  la voce trema e qualcosa mi sfiora la guancia. «...io sto bene» alza la mano per grattare via ciò che mi solletica la guancia ma ciò che mi solletica la guancia è liquido e si infrange contro la mia unghia.
Una, due, tre volte finché non perdo il conto e capisco che questo suono spezzato di sottofondo che sento non sono altro che i miei singhiozzi. Che questo caldo improvviso sono braccia che mi stringono, più di quante riescano effettivamente a raggiungermi, eppure le uniche che vorrei non ci sono.
«Mi manca…»
Mi manca così tanto. Io… io non so cosa sto facendo ma forse le lacrime mi sono arrivate al cervello e occludono ogni canale di pensiero perché non riesco più a formulare una sola riflessione coerente.
E così lascio andare, smetto di provarci, smetto di tenere dentro tutto il male e do libero sfogo a tutto, finché la gola non brucia e gli occhi non pungono.
Finché non fa così male che la sola cosa che mi tiene insieme sono le braccia delle mie amiche a cui mi aggrappo come ad una boa che mi tiene a galla.
A quanto pare Bonney aveva ragione.
L’amore fa schifo.

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 ***


 
«Okay gente, abbiamo un sacco di cose da fare!» batto le mani, entrando in camera di Nami e Zoro diretto alla finestra. Alzo la tapparella, incurante della morte e del pericolo. «Rivestitevi e risorgete! So che è sabato mattina, so che ieri sera lo avete fatto a lungo e sfrenato, vi ho sentiti e, piccola parentesi, non ci tenevo, ma sono le dieci e mezza e oggi è l’unico giorno di quest’anno più importante di Natale!» afferro il lenzuolo a due mani e lo faccio volare via, non importa se rischio di vedere Nami nuda. Brrr, che brividi. Però magari a Zoro una sbirciatina… No, Izou, no! Non c’è tempo! «Il caffè è già pronto» li avviso mentre esco dalla stanza, sordo alle minacce di morte di Nami e al ringhio di Zoro.
Sfrego i palmi tra loro, guardandomi intorno. No, non c’è un minuto da perdere. Dobbiamo ancora finire di impacchettare tutti i capi e il salotto sembra un accampamento, con tutti i manichini in giro, carta cellophane sparpagliata ovunque, i bagagli per il weekend.
Kami del cielo, sono così elettrizzato! E terrorizzato. Ma soprattutto elettrizzato. E anche abbastanza terrorizzato.
Questo rischia di essere davvero il più fenomenale weekend della mia vita!
E quando sarà finito…
Quando sarà finito dovrò affrontare Marco.
Dovrò trovare il modo per aggiustare le cose con lui. Se ci sarà ancora qualcosa da aggiustare dopo tutto questo tempo…
Ma ora non è assolutamente il momento di pensarci! Assolutamente no!
Recupero il foglio su cui ho segnato tutto ciò che non possiamo assolutamente dimenticarci di portare a Dressrosa ma per questo importante lavoro di controllo mi serve aiuto. Torno sui miei passi, attraverso di nuovo il corridoio. 
«E insomma, ci alziamo o n… Uoh! Ma sei matta?! Un tacco dodici mi hai tirato?!?»

 
***

 
«Law, mi passi quella lanterna?» la voce di Cora taglia in mezzo ai miei pensieri, riportandomi alla realtà, al grande atrio del Castello che stamattina più che mai pullula di bambini. Ma non quelli ricoverati qui, purtroppo. Loro sono nelle loro stanze o al massimo invadono i corridoi del primo piano.  
Ma mettete insieme Cora, Eustass-ya, Sanji e i suoi fratelli al completo, Rufy, Franky, Chopper, Usopp e Brook, il marito di Praline e Wadatsumi, aggiungete materiale decorativo, strenne, accessori e tutto il necessario per trasformare l’ingresso di un ospedale pediatrico in una foresta incantata, tema scelto per la serata di beneficenza, e vi posso garantire che il Big Bang vi sembrerà una stronzata. Il tutto sotto la stretta supervisione di Gerth che pattina in giro, distraendo Cora. Come se ce ne fosse bisogno.
«Figliolo?»
«Mh? Oh sì, certo. Scusa» mugugno, allungandogli il gingillo di carta da appendere ai rami ritorti e tempestati di piccole luci, disseminati per tutto l’atrio. Mi fissa qualche istante, prima di afferrarla e adoperarsi per appenderla senza al tempo stesso cappottarsi dalla scala.
Già. Per quanto perennemente distratto e ormai palesemente in fase di pieno innamoramento per Gerth, nonché impegnato in un’attività che, visto il soggetto, rientra nella categoria “sport estremi”, Cora trova il tempo e l’attenzione per accorgersi che qualcosa, in me, non va.
E non solo non mi stupisco ma nemmeno posso lamentarmene.
Lui è il solo ad avermi visto al mio vero peggio, a un soffio dal toccare il fondo e poi, dopo essere piombato senza preavviso a casa sua ieri sera, senza nemmeno un cambio ed elemosinando un posto per la notte, forse soltanto Rufy non avrebbe capito che mi trovo in una situazione che con le rose ha in comune solo la principale fonte di concimazione.
Una bella situazione di merda.   
Non sono tornato a casa e non ho avuto il coraggio di andare a Goa da papà, non dopo aver aggredito Sabo. Può darsi che io sia un codardo, fatto sta che non sono passato da casa nemmeno stamattina.
So che Ace e Rufy sono là con lui perché me lo ha detto Robin, che, come suo solito, ha aggiunto informazioni non richieste né necessarie. Come, ad esempio, che Koala è con Izou ad aiutarlo con gli ultimi preparativi per Dressrosa.
 

 
***

 
«Che hai fatto?» si acciglia Koala con un sorriso quando apro la porta di casa.
«Nami è più violenta quando fa sesso. Di solito è il contrario» ribatto acido, sfregandomi al centro della fronte, dove la scarpa della mia ormonale amica mi ha colpito in pieno, per fortuna dal lato del plateau e non del tacco. Koala sghignazza e, scuotendo il capo, entra in casa. «Tu non hai fatto sesso» constato quando mi passa davanti.
Lo sento nell’aria, che non ha fatto sesso. Ma non è che semplicemente non ha fatto sesso perché non ce n’è stata occasione.
«È successo qualcosa?»
«Abbiamo finito i profilattici» minimizza con una stretta di spalle, portandosi in salotto per fare il punto mentale della situazione.
«Capisco…» annuisco comprensivo e poi mi acciglio. «Aspetta, ma tu sei incinta!»
 

 
***

 
«Sei sicuro che funziona, Bro?»
«Se usiamo il giusto spessore per l’elastico assolutamente sì!»
Mi avvicino silenzioso e Franky e Usopp che per un motivo a me sconosciuto – e che non sono certo di voler conoscere – stanno prendendo la misura dello spazio tra due degli alberi decorativi che abbiamo affittato. Normalmente, non mi intrometterei e li abbandonerei all’autodistruzione. Sono un convinto seguace della selezione naturale, dopotutto.
Ma questa serata è troppo importante, la programmiamo da tempo, abbiamo invitato molte figure di spicco e puntiamo a ottenere ben più di qualche fondo, per generoso che sia, da investire nel reparto di neonatologia e ostetricia. Ci tengo, come tengo a questo posto.
Ci ho investito tanto e, se sarà necessario alla sua sopravvivenza, investirò anche questi due. Con la macchina, in retromarcia, a notte fonda. Sono sicuro di essere abbastanza freddo e calcolatore da riuscire a uscirne pulito.  
«Cosa state facendo?» domando, il sopracciglio sollevato.
Usopp si irrigidisce all’istante e lo sento deglutire a vuoto.
«Yoh! Costruiamo una Suuuuuuuper-fionda, Tattoo Bro!»
Credo che Franky non riconoscerebbe la morte neppure se gli apparisse davanti con mantello, cappuccio, falce, un cartello identificativo e si presentasse con “Piacere, sono la Morte”. Ancora una volta, mi domando come faccia a stare con Robin ed essere ancora illeso. Ancora una volta, mi domando che le ha fatto questo emerito imbecille alla mia amica.
«Una fionda?»
«Ma è s-s-s-solo un’i-idea, Law… Non la c-costruiamo per d-d-davvero, eh!» ridacchia Usopp, voltandosi di centottanta gradi in blocco, come un ciocco di legno.
«Perché no? Potrei usarla per spararvi in orbita» mormoro pacatamente e Usopp sobbalza con uno squittio mentre Franky si avvicina a darmi una pacca sulla spalla.
«Questo è il mood giusto! Sapevo che passare del tempo con il Biondissimo ti avrebbe fatto bene, fratello!» ride roboante e io mi irrigidisco. «Sicuramente a Sabo-bro piacerà»
Indietreggio per sfuggire alla sua presa e scrollo le spalle.
«Beh mi spiace deludervi ma Sabo non ci sarà stasera» li informo, superandoli senza voltarmi indietro.
 

 
***    

 
«La gonna-hakama?»
«Cielo»
«Il trench con le frange?»
«Cielo»
«Okay. I biglietti per entrare al concorso?»
«Già presi»
«Perfetto. Profilat… Profilattici?!» Nami solleva la testa dall’elenco di “cose da non dimenticarsi assolutamente a Raftel” e mi guarda basita. «Perché i profilattici?»
«Per Kira-kun» allargo appena le braccia. Non è ovvio? «Lui e Aisa passeranno la notte insieme in una camera del Colosseum Plaza, credi che non ne approfitteranno? Deflorarla sarebbe anche ora ma incintarla è ancora presto. Io voglio bene a mia sorella!» mi indigno. 
«Sì ma non pensi che se li sia procurati da solo?»
«Credimi Nami, quando avevo ventidue anni e c’era odore di ormoni nell’aria, i profilattici diventavano l’ultimo dei miei pensieri»
Mi fissa a bocca aperta ancora qualche secondo, cerca con gli occhi Koala che sta finendo di impacchettare con cura gli abiti e si limita a sorriderle e fare spallucce. Nami si prende il ponte del naso tra due dita e stringe. «Dovevo farmi pagare solo per lo sforzo di interagire con te» mormora e poi scuote il capo. «Okay, andiamo avanti. I nostri vestiti per la serata? Io ho già preso il mio e quello di Zoro»
«Tu cosa metti Izou? Ti sei fatto un completo su misura?» domanda Koala e io mi scambio uno sguardo di intesa con Nami, che annuisce piano con un sorriso.
Prendo un profondo respiro e mi passo i palmi lievemente sudati sulle cosce.
«Vieni che ti faccio vedere» la invito.
 

 
***

 
«Law, posso parlarti un momento?» si avvicina a me Chopper, occhiando furtivo la macchinetta.
«C’è anche il latte alla fragola se vuoi» lo avviso. Dopotutto, è un ospedale pediatrico. Estraggo il bicchierino di carta variopinto con dentro il mio caffè nero con una spruzzata di caramello e mi giro verso di  lui che ora raggiunge quasi la mia altezza. A occhio è alto almeno quanto Sabo. «Dimmi»
«Io… ecco io volevo solo sapere se per caso hai parlato con Ishley ieri o oggi» infila le mani in tasca, un po’ a disagio e chiaramente preoccupato. Lo stomaco si contrae in protesta. «Perché vedi, ieri l’ho vista, prima dell’udienza in tribunale e credo di aver detto qualcosa di sbagliato perché poi è andata via, dicendo che faceva una cosa e tornava e invece poi non l’ho più vista. E ho avuto proprio la sensazione di aver fatto o detto qualcosa di sbagliato e mi chiedevo se tu magari sapevi se…» si blocca quando allungo una mano a stringergli una spalla.
«Non sta molto bene. Ha un po’ di influenza fuori stagione, infatti purtroppo stasera non ci sarà. Ma non è colpa tua, è lei che non rallenta mai» annuisco deciso, per restare fedele alla mia recita, anche se l’istinto sarebbe di scuotere il capo per scacciare la voce della mia coscienza, che mi fa notare che sono proprio una gran bella faccia da culo. 
Chopper sgrana appena gli occhi. «Oh! Oh capisco. Cavolo però! Sabo sarà dispiaciuto, dovevano venire insieme stasera» si dispiace Chopper, sempre così empatico e attento alle emozioni altrui.
Non capirò mai come lui e Nami possano avere la stessa mappa genetica.
Stringo appena prima di lasciargli la spalla. «Sì» confermo mentre gli offro la mia chiavetta per il latte alla fragola. «Sabo in effetti mi è sembrato parecchio dispiaciuto»
 

 
***

 
«Beh ammetto che è una scelta alquanto audace...» mormora Koala, riflessiva. «Cioè, sai che sono di ampie vedute e ormai assuefatta a Iva ma… sei proprio sicuro?» si informa, sorriso divertito ma sguardo perplesso che rimpalla da me all’abito, a me, all’abito.
L’abito lungo chiaro, con una delicatissima e sottile fantasia di rami e fiori, la gonna con i volant sullo spacco laterale, la schiena nuda, la vita morbida. Un abito innegabilmente mio ma con dettagli e caratteristiche che mai avrei amalgamato se nella mia mente non fossero state la rappresentazione di una ben precisa persona, in un ben preciso momento della sua vita.
Nello specifico, la persona che sto fissando ora a sopracciglio alzato.
«Fai sul serio?»
«Non so cosa mi stai mostrando!» ride lei, con una stretta di spalle per poi, mani sui fianchi, girarsi di nuovo verso il vestito e scrutarlo a occhi socchiusi. «Ma mi sembra di averlo già visto» si avvicina appena. «E questa fantasia sembra fatta a apposta per il tema della serata al Cast…» si blocca e si irrigidisce e io aspetto, continuando a simulare fastidio per nascondere la tensione.
Fa che le piaccia, ti prego dai, ci ho messo così tanto impegno.
«Era tra i tuoi schizzi» mormora allungando la mano verso l’impalpabile chiffon della miglior qualità, scelto solo per lei. «Era quello che ti avevo sconsigliato di portare al concorso, Izou…» si gira a guardarmi, gli occhi lucidi. Oh, lo dicevo io che gli ormoni le fanno un brutto effetto. «…lo hai fatto per me?»
«Non devi sentirti obbligata a indossarlo» scrollo le spalle, le mani in tasca. «Insomma, di sicuro avrai già preso qualcosa e… off!» esalo quando mi butta le braccia al collo, mozzandomi il respiro. «Koala te l’ho già detto! Sei poco femminile quando fai così!»
«Ma chissenefrega! È bellissimo!» soffia e io la prendo per i fianchi – solo ed esclusivamente perché è incinta – e mando giù a vuoto –  solo ed esclusivamente  perché fa caldo e ho la gola secca –. «Lo metterò sicur… Izou stai piangendo?!» cerca di staccarsi per guardarmi in viso, stranita.
«È tutta colpa dei tuoi ormoni!»
 

 
***

 
«La mia futura mamma preferita come sta?» Gerth mi scivola vicino e si addossa al banco dell’accettazione, dove sto cercando di mettere un po’ di ordine. Come fa Praline a lavorare in questo macello?!
Provo anche a raccontarmi che sia per il casino e non per il pensiero di Koala che mi si accartoccia lo stomaco quando Gerth domanda. Piacerebbe anche a me sapere come sta.
Non che non lo sappia in generale ma non lo so in questo specifico momento e invece vorrei. Vorrei chiamarla o mandarle un messaggio e chiederle come sta, dirle che mi è mancata stanotte, che mi manca in generale.
Ma il mio orgoglio è una gran bastardo e non è come se non fossi ancora arrabbiato per ieri.
«Come all’ultima eco» scrollo le spalle, restando sul vago, non che con Gerth attacchi.
Inarca entrambe le sopracciglia e mi fissa finché non sollevo gli occhi a guardarla apertamente.
«Che c’è?»
«Assolutamente niente» sorride dolce. «Chiederò direttamente a lei, stasera»
Soffio dal naso e con fastidio mi stacco dalle carte per aggirare il bancone e uscire proprio mentre anche Cora si avvicina, agganciandosi a Gerth con un braccio intorno alla sua vita. La cosa non mi frena, comunque. Ho bisogno di un altro caffè.
«Ehi di che si parla?» domanda Cora, mentre Gerth si piega a dargli un bacio prima di rilassarsi contro di lui.
«Del fatto che Koala stasera non ci sarà» vibro un ringhio senza voltarmi.
Mi sembra di sentirmele nella schiena, le occhiate incredule e perplesse di Cora e Gerth ma non mi fermo. Le cose non cambiano solo perché loro non ci credono.
Sabo non ci sarà.
Ishley non ci sarà.
Koala non ci sarà.
Già.
Gran bella serata di merda.
 

 
§

 
Io a Aisa siamo sempre stati e sempre saremo quel genere di fratelli che si dimostra il proprio reciproco affetto a suon di insulti e, nonostante gli otto di differenza, il nostro rapporto ci obbliga a vivere una prolungata adolescenza.
Tutto ciò che per me è bianco, per lei è nero. Quando per lei è sì, per me è no. Se uno dei due chiede all’altro quanto fa due più due, siamo capaci di rispondere “cinque” per non darci ragione.
Questi siamo noi, siamo fatti così e sappiamo entrambi che finché questo non cambierà, ci saremo sempre l’uno per l’altra, io il suo punching ball, lei il mio, per sopravvivere in questo mondo che spesso ci ha fatto sentire tanto sbagliati.
Siamo così simili, io e Aisa. Al punto che, nonostante tutto, alla fin fine, in realtà, la pensiamo uguale sul novanta per cento delle cose e, ogni tanto anche se raramente, lo ammettiamo anche.
Stasera è una di quelle volte.
«È strabiliante» soffia, guardandosi intorno con tanto d’occhi e io sorrido soddisfatto.
Mi sento così fiero, ad averla portata qui, ad averle regalato questa elettrizzante serata fuori dagli schemi. Mi sono tanto impegnato e alla fine il mio impegno mi ha permesso di essere anche un bravo fratello, di dimostrarle una volta ancora e come sempre senza parole, che le voglio bene.
E ha ragione, è davvero strabiliante.   
La sala per conferenze e cerimonie Royal è stata tramutata in un Paese delle Meraviglie, futuristico, eclettico, irriverente, com’è lo stile della Baroque Works stessa.
Torri di frutta, fiumi di champagne, palle a specchio e faretti colorati appesi lungo tutto il soffitto, un gigantesco calice trasparente, con la forma di quelli del margarita, dentro cui una ballerina contorsionista si esibisce senza posa, come anche gli artisti circensi su palchi piazzati tutti intorno e a diverse altezze, abbigliati con eccentrici costumi.
Siamo in un’altra dimensione.
Giro gli occhi sui miei accompagnatori, appurando con sincera soddisfazione come nessuno di noi stoni affatto, con i look che il sottoscritto, naturalmente, ha scelto per ciascuno. Aisa è bellissima e fresca con il top macramè e la gonna di seta lilla, i capelli raccolti tutta dallo stesso lato, subito sotto l’orecchio, a parte le due ciocche tagliate più corte e dritte che, insieme alla frangia, le incorniciano il viso. Nami esplode di femminilità nel suo tubino bordeaux che le avvolge la gola e non copre un centimetro di schiena, completamente a vista grazie all’elaborato chignon di trecce che doma la sua cascata di capelli. Zoro e Kira-kun non hanno dovuto fare altro che mettersi il loro completo migliore con camicia bianca, dimenticando volontariamente la cravatta e io non mi sono certo guardato dall’osare. Ho riadattato la casacca in seta del mio matrimonio, ci ho abbinato un gilet e un paio di pantaloni scuri e non mi sono mai sentito tanto a mio agio in vita mia in un luogo così chiaramente al di fuori della mia portata e del mondo a cui appartengo.
Sono quasi sul tetto del mondo. Lo sarei di certo se non fossi l’unico del mio gruppo ad avere la mano non stretta in quella di qualcun altro.
Scuoto il capo per scacciare via i pensieri negativi. Stasera non è per i rimpianti e i ripensamenti. Stasera è per vivere un’esperienza unica e, forse, irripetibile.
Chi avrebbe mai detto che sarei arrivato fino a qui?
«Hai visto?» Nami mi parla direttamente all’orecchio. Con i tacchi non deve nemmeno stendersi sulle punte per arrivarci. «Ti avevo detto che ce l’avresti fatta» soffia con la tipica saccente soddisfazione di chi ama affermare “te l’avevo detto”.
Però è vero. Lei. Lei lo aveva detto.
«Che ce l’avremmo fatta» la correggo, guardandola di striscio e sorridendo sghembo. Sgrana appena gli occhi ma poi sorride e annuisce.
«Champagne?» un cameriere ci porge un vassoio con sopra sei flûte, uno in più di quanti siamo, e Zoro non si fa un cruccio ad afferrare anche quello che avanza.
«È una figata pazzesca, vero Kira?!»
«Ammetto di non capirci un accidente di moda, ma questa festa è veramente cazzuta» osservo divertito mia sorella diventare lievemente viola quando Kira-kun le fa l’occhiolino con tanto di schiocco di lingua e ghigno annesso. «Ci divertiremo, piccola» le assicura proprio mentre un lieve gracchiare crepita nell’aria.
«Ma-Ma… prova, prova… Ma-Ma-Ma… Buona sera a tutti, signore e signori e benvenuti al sedicesimo concorso per stilisti esordienti della Baroque Works» annuncia una voce maschile da baritono, amplificata, e io subito mi unisco al giro di dovuti applausi che l’annuncio suscita. «Il signor Hook e la sua famiglia sono lieti di darvi il benvenuto e in attesa dell’inizio della sfilata a cui seguirà poi la scelta del vincitore di quest’anno, vi segnaliamo che nella stanza qui accanto sono esposte le collezioni vincitrici delle precedenti quindici edizioni»
«Ehi?» Kira richiama l’attenzione di mia sorella con una stretta di mano, tirandola appena verso di sé. «Vuoi andarle a vedere?» le propone e Aisa sgrana gli occhi e tiene il fiato. «Davvero?!» domanda, un po’ incredula. Kira le sorride. «Per la mia piccola questo e altro»
Scuoto il capo e sbuffo appena mentre li osservo allontanarsi tra la folla. Esibizionista. Ma non posso non sorridere al pensiero che la sto lasciando davvero in ottime mani.
«Hai visto quanta gente famosa c’è?!» Nami mi butta un braccio intorno al collo, l’altra mano saldamente ancorata a quella di Zoro che sta tracannando credo il quinto calice di vino.
«Gente famosa?» domanda lui, abbandonando il bicchiere vuoto sul vassoio di un camerieri di passaggio. «Credo di avere bisogno di qualcosa di più forte»
«Sì, guarda» Nami se lo tira addosso e lui, ben felice, cambia presa, avvolgendola da dietro con entrambe le braccia, e appoggia il mento sulla sua spalla, incastrando la testa muschiata tra la mia e quella della rossa. «Quella tipa laggiù, per esempio, è Amande Moiselle, la redattrice capo di Gold, la rivista di moda della Baroque Works e la ragazza con cui sta parlando è Myu Kuru, una delle stiliste più in voga del momento. Ha vinto il concorso due anni fa. Il mio abito da sposa… beh quello di Bibi, in realtà… comunque, è una sua creazione» racconta Nami e io mi mordo la lingua a ogni commento che mi sale alle labbra perché è così bello rivederli finalmente così uniti e, per tutti i kami del cielo, Zoro sta seriamente ascoltando l’elenco di ogni soggetto legato al mondo dell’alta moda, di cui potrebbe fregargliene di meno solo se, anziché essere Zoro, fosse Law, presente in questa sala. E non sono pochi eh!
Mio malgrado gli lancio un’occhiata e un ghigno.
Hai avuto paura di perderla, eh, Roronoa? Ascolta, va! Che magari impari un po’ di buon gusto nel vestire, Mr. Tutone!
«…i gemelli Leo e Wikka Dwarf, hanno vinto l’anno scorso, e quello laggiù… beh quello è la superstar della serata dopo Crocodile. Donquijote Doflamingo» punta il dito verso un uomo gigante, sarà alto almeno due metri, vestito di rosa e con un indecente boa sulle spalle che pure lui riesce a sfoggiare con classe, mi domando come faccia.
«Il padre di Monet?» chiede conferma Zoro e Nami annuisce. «È un mecenate e adora prendere esordienti sotto la propria ala protettrice e…» si acciglia e scruta qualcosa, lasciando la frase a metà.
«Nami?» la chiamo, perplesso.
«Izou, ma non sono i Mihawk quelli?» mi rigiro verso il punto dove poco fa Nami stava fissando intenta e, nel marasma generale, ci metto qualche istante a riconoscere due delle sette teste che formano il consiglio di amministrazione delle I&Co.
Sono così belli da essere quasi fastidiosi, lei sembra una dea senza età, nonostante non sia più esattamente di primo pelo, lui comincia a ingrigire appena sui lati e il pepe e sale lo rende ancora più affascinante. Mano nella mano parlano amabili – o meglio Boa è amabile, Drakul pare abbia una scopa infilata nel culo – con Lulis Ningyo, la modella.
«Sì, sono loro!» esclamo e continuo a fissarli.
A pensarci bene, non è così strano che siano qui, visto che Boa è una ex modella. Ma anche se la loro presenza non mi stupisce poi molto, non riesco a smettere di fissarli con tutta la bellezza la sexytudine e l’amore reciproco che emanano. Possono sembrare due freddi e distaccati calcolatori che si sono sposati solo per essere bellissimi insieme per sempre ma è evidente, a chiunque si prenda la briga di studiare cinque minuti in più le loro interazioni, che si amano.
E io sto qui a fissarli amarsi per così tanto, che a un certo punto i supersensi di Mihawk captano il mio sguardo su di sé, lui si gira e, senza colpo ferire né una sola esitazione, mi individua al primo tentativo.
Sussulto appena, non tanto perché si tratta di Mihawk – ma chi voglio prendere in giro? Quell’uomo farebbe venire i brividi a chiunque! Ed è pure il mio capo! – quanto perché mi sono fatto cogliere in flagrante a fissare e mamma mi ha insegnato che è cattiva educazione fissare.
Ma Mihawk fa una cosa che mi stupisce al punto da impedirmi di distogliere lo sguardo. Tira appena per il braccio sua moglie, che intanto sta salutando Lulis Ningyo, ci indica con un cenno del capo e poi si avvicina insieme a lei.
«Stannenendoui» mormoro a denti stretti.
«Eh?!» protesta Nami, con quel suo modo acido di protestare che mi fa sempre perdere le staffe.
«Stanno venendo qui!» ripeto, altrettanto scocciato.
«Ma chi?»
«Drakul e B…»
«Buonasera» saluta Mihawk e io sobbalzo.
Ma hanno usato il teletrasporto?!
«Buonasera!» rispondo con forse un po’ troppo entusiasmo al saluto piatto e inespressivo di Mihawk. Se si scoprisse che Law è suo figlio illegittimo, giuro, non mi stupirei.
«La signorina Cocoyashi, dico bene?» domanda girando lo sguardo su Nami che mostra solo una vaghissima punta di sorpresa.
«Sì esatto»
«Non si stupisca» che lui ovviamente nota. No ma dico, come fa?! «È difficile non restare impressi quando si salva l’azienda trasformando un pessimo investimento nel più grande introito monetario dell’ultimo triennio»
Nami sgrana appena gli occhi, le guance le si fanno lievemente più rosee e si schiarisce la gola con fierezza. «Oh beh sa…» comincia e io per un attimo provo un moto di lealtà un po’ troppo forte. Non vorrà mica prendersi tutto il merito, insomma! «…la signorina Surebo è molto piena di risorse, è facile lavorare con lei che coordina» prosegue Nami e subito rilasso le spalle. Ecco, così va meglio. «Certo è impegnativo, ma ne vale la pena. E in ogni caso non avremmo mai risolto senza il fondamentale suggerimento di Izou. Lo conoscete Izou?» mi indica e io non ho nemmeno ancora metabolizzato che mi ha nominato, figuriamoci presentato. «È uno dei tecnici del reparto stampanti, un prezioso collaboratore e un caro amico. Ma stasera siamo qui a fare il tifo per lui come uno dei finalisti del concorso»
«Ma davvero?» Boa mi studia interessata.
Sarebbe stata un’agente fantastico, Nami.
«Con quale collezione?»
«Kintsugi» rispondo prontamente con il nome che ho scelto per la mia collezione.
«Uhm» mormora Mihawk a labbra strette. «L’arte giapponese di riparare con l’oro. Un concetto interessante»
«Io…» esito ma poi mi metto ben dritto e sollevo appena il mento. «Ho usato molto materiale di recupero. Ho voluto dare nuova forma a tessuti considerati “vecchi” solo perché erano già stati tagliati e cuciti e magari indossati una volta soltanto o addirittura mai» spiego con orgoglio la strategia usata per risparmiare e investire la stragrande maggioranza dei soldi che avevo a disposizione per questo progetto nell’acquisto della macchina da cucire, i gomitoli che mi servivano per forza, il rotolo di macramè, il materiale per il trench con le frange e, ultimo ma non meno importante, la stoffa per l’abito di Koala.
Non me ne vergogno. Anzi. Mamma è stata così fiera della mia trovata e anche Nami. Lei si è quasi messa a piangere – anche se ha provato a nasconderlo – quando le ho spiegato la mia strategia, e devo ancora scoprire perché ora che ci penso.  
Ma mentre Boa non ha staccato gli occhi da me per tutto il tempo e ancora non li stacca, Mihawk ora fissa, da non so esattamente quanto, Zoro, con anche una certa insistenza. 
Che ha da fissare? La mamma non gliel’ha insegnato che non è buona educazione, fissare?
«Ragazzo io ti conosco» afferma e non è una domanda.
Nami si gira sorpresa verso Zoro e poi di nuovo verso Mihawk. «Lui è mio marito, signor Mihawk, Zoro Roronoa» glielo presenta prontamente e Mihawk aggrotta la fronte.
«Roronoa? Come il kendoka
Io e Nami ci scambiamo un’occhiata sorpresa mentre Zoro solleva semplicemente un sopracciglio. «Sono io. Segue il kendo?»
«Da ragazzo ho fatto parte della Kitsune-bi a Kuraigana, proprio come te. E ora mi sto preparando per ottenere il decimo dan» spiega e Zoro trattiene il fiato.
«Io purtroppo mi sono fratturato il ginocchio e ho dovuto lasciare la scuola» spiega e Mihawk socchiude gli occhi.
«Capisco. Ma non hai intenzione di smettere, giusto? Sei stato una stella per la Kitsune-bi da quel che ho visto alla televisione»
«Oh» si corruccia Zoro. «Beh io…»
«Dovranno operarlo ma no, non ha intenzione di smettere, signor Mihawk. Conclusa la riabilitazione, riprenderà la preparazione per il sesto dan» interviene nuovamente Nami.
Mihawk la studia qualche secondo, poi torna su Zoro e con espressione e tono gravi gli si rivolge, autoritario. «Vieni con me, ragazzo. Ti offro da bere»
Zoro non se lo fa ripetere due volte e, rubato un bacio a Nami, segue Drakul verso l’open bar, come anche Boa che però si limita a farlo con gli occhi per poi sospirare con fare melodrammatico. «E per stasera, sarà irreperibile» commenta, prima di piegare le labbra in un famelico sorriso. «Mi vedo costretta a chiacchierare con voi dell’indiscussa protagonista di questa serata»
Io e Nami ci scambiamo un’altra occhiata, stavolta di striscio, e tesa.  
Allarme rosso, allarme rosso! Non si capisce se sta parlando di sé o cosa e non dimentichiamo che anche lei è il capo! Figura di merda alle porte, allarme rosso!
«Che sarebbe…» faccio lo gnorri, fingo di pendere dalle sue labbra per una risposta e prego. Prego perché, se stava davvero parlando di sé, la mia domanda basta e avanza per finire nel suo death note.
«Ma l’alta moda, miei cari» annuncia, per mio sommo sollievo.
«Oh grazie ai kami» esalo portandomi una mano al petto e Nami mi fulmina. «Che vuoi?!» 
Boa ci prende sottobraccio, le mani saldamente ancorate ai nostri gomiti. «Venite, vi presento un po’ di gente interessante»
La guardo con tanto d’occhi ma quando iniziamo a camminare non trattengo un sorriso salace.
Okay. Potrei seriamente iniziare ad adorare questa donna.

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Capitolo 34
*** Capitolo 34 ***


Angolo Alert: 
Buongiorno, bella gente! 
Okay devo dirvi un sacco di cose oggi, infatti troverete anche un angolo giù in fondo. Ma cominciamo da qui. 
Punto numero uno, questo capitolo gronda di OOC, vi avviso. Preparatevi, sapevatelo, brace yourselves. 
Un'altra cosa importante è che c'è uno spoiler di Grey's Anatomy se qualcuno lo segue e non è ancora arrivato alla nona stagione ed è nel frattempo riuscito a mantenersi intonso dagli spoiler, cosa che trovo più improbabile di un incontro ravvicinato con un vero unicorno, ma io credo nei miracoli perciò vi ho avvisato. 

Detto ciò, per chi tra voi coraggiosi ha deciso di leggere comunque, un piccolo "nelle puntate precedenti" per non incasinarvi con i personaggi. In Cloth Tattoo a un certo punto c'è una riunione con il consiglio di amministrazione della Ivankov&Co. I membri di suddetto consiglio sono: 
-Drakul Mihawk
-Boa Hancock
-Jinbe Walvishaai
-Iceburg Tomworker
-Magellan Delegastix
-Bartolomhew Kuma
-Tsuru Dai Sanbo 
 
Bene, detto questo lascio scoprire a voi perché il piccolo ripasso e vi ringrazio di cuore per il sostegno e l'ammmmore che state dando a questa fic! Mi spiace per il rallentamento negli aggiornamenti, purtroppo al lavoro è un periodo di fuoco ma voi abbiate fede, io resto qui! 
Hope you'll enjoy it. 

 
Page. 








 
«Ho detto no» ripeto piatto, immobile davanti alle porte dell’ascensore, intoccato dal tentativo di assedio che Sanji e fratelli stanno cercando di perpetrare ai miei danni.
«Levati dalle palle, Trafalgar» ringhia Niji e io sospiro, lanciando un’occhiata verso l’ingresso principale.  Gli ospiti cominciano ad arrivare alla spicciolata ma sono già passate le nove quindi...
«No» torno su di loro, l’espressione grave. «L’avete già vista oggi»
«Ma non eravamo così fighi oggi!» protesta Yonji e se non temessi che basterebbe un attimo di distrazione per vedermeli schizzare davanti agli occhi su al primo piano, ora mi spalmerei una mano sulla faccia. Perché a me? «Deve vedere com’è bello il suo zio Yon con il completo»  
Sollevo un sopracciglio. «Sul serio?» Io non posso farcela. «Sono le nove passate, se non sta già dormendo poco ci manca e comunque non è in stanza da sola. Inoltre, anche se stasera qui c’è una festa, su al primo piano c’è gente che lavora e io non vi lascerò disturbare i miei colleghi e i miei pazienti fuori orario di visita perché siete quattro egocentrati, con un distorto ordine delle priorità e i polsini inamidati. Che poi, voglio dire, chi inamida più i polsini?!» esplodo quasi.
Oh merda. Devo darmi una calmata. Ma è difficile, sono così teso. È difficile, porca miseria. È difficile senza Koala.
«Tutto bene, doc?» domanda una voce profonda mentre una mole, decisamente proporzionata al timbro, si posiziona di fianco a me, davanti agli ascensori. «Che vogliono?» li indica Katakuri con un cenno del capo e Sanji, Yonji e Niji abbaiano un “ehi” sincronizzato.
«Salire da Kaya»
«A quest’ora? Non credo proprio» afferma, intrecciando le braccia al petto mentre li squadra uno ad uno, soffermandosi più a lungo, molto più a lungo, su Ichiji che lo fulmina con un’occhiata, mentre gli altri tre continuano a piagnucolare.
«Ragazzi, ma che state facendo?»  Reiju si avvicina perplessa, insieme a Cosette e ad Usopp.
«Il dottore non ci lascia andare a salutare Kaya» si lamenta Yonji «Diglielo, Niji!» cerca il supporto di suo fratello che però ha abbandonato la lotta per la presa dell’ascensore e fissa Cosette, nel suo bell’abito a fiori, squadrandola dalla testa ai piedi e ritorno.
«C-Cosette…» la chiama, avvicinandosi a lei come guidato da una forza superiore e io continuo a fare l’elenco mentale di tutti i disturbi, emotivi e non, mentali e non, che affliggono questa famiglia.
«Niji-kun?» arrossisce lei.
«Sei… sei bellissima» esala Niji.
E il fratello numero due si è autoeliminato.
Non sono più così sicuro che sia stata una buona idea spingere perché un soggetto con una simile mappatura genetica adottasse Kaya. Per fortuna, c’è Usopp.
«Sanji! Deve riposare!» lo sgrida.
«Ma Uso-chan! Solo un saluto della buonanotte! Piccolo piccolo!» implora Sanji.
«Infatti! Non ce lo puoi impedire!»
«Ohi! Che succede?» un’altra voce profonda e io riesco pienamente ad afferrare la gravità delle mie condizioni solo ora, che non solo non provo alcun fastidio ma anzi quasi apprezzo l’arrivo di Eustass-ya.
Quasi.
«È tutto apposto?» domanda, posando una mano sulla spalla nuda di Reiju.
Yonji si mette più dritto e si fa improvvisamente serio, osservando Kidd con occhio critico. Ichiji smette di giocare a chi ride per primo con Katakuri, Niji di sbavare addosso a Cosette e Sanji di provare a convincere Usopp a sgattaiolare con lui da loro figlia con ogni mezzo possibile, e tutti si accostano al fratello, tutti fissando Kidd.
«Quindi è lui» commenta Ichiji con freddezza.
Kidd li studia di rimando, le sopracciglia aggrottate e la presa più salda sulla spalla di Reiju. «Dimmi la verità» si gira a cercarla con gli occhi. «Sei stata adottata?»
Non riesco a trattenere un ghigno quando i quattro Vinsmoke cambiano tutti simultaneamente espressione, tutti con la stessa indignazione dipinta in faccia, Ichiji compreso, ma è Yonji ad avanzare di un passo, i pugni stretti. «Senti un po’, brutto ammasso di muscoli e testoster…»
«Law-kun! Eccoti finalmente! Ti ho cercato dappertutto, ho assolutamente bisogno del tuo aiuto! Cora-san e Duval insistono per portare dentro loro la torta e non so più come tenerli lontani!»
Mi passo due dita sugli occhi. Senza esagerare, nell’ordine delle catastrofi, questa è inferiore solo a mio fratello minore che decide di andare a prendere a cazzotti un drago di Komodo perché sì e mi obbliga a valutare di abbandonare la mia postazione e affidarla a Eustass-ya. Preferirei tagliarmi il braccio e solo il pensiero che poi non potrei più operare mi frena.
Mi giro verso Pudding, che mi osserva di rimando con le mani sui fianchi e le guance gonfie, gli occhi, uno ambra e uno verde, che balenano di repressa furia omicida, i capelli raccolti in due codini come sempre ma niente grembiule per stasera, bensì un vestito lungo a fiori, come tutte le donne presenti. Se distruggono la torta, e questa è praticamente una certezza, andrà su tutte le furie e potrebbe non rispondere più delle proprie azioni. 
«Ora arrivo, Pur» le assicuro, dissimulando come posso la nota lievemente disperata nella mia voce.
È tutto il giorno che non faccio altro che trovare soluzioni a problemi così futili che non sono nemmeno degni di essere definiti tali. Adesso pure la torta?
Se ci fossero state Ishley e Koala, ci avrebbero sicuramente pensato loro. Anche Sabo sarebbe stato un aiuto prezioso. Porco Roger, quand’è che fare tutto da solo è diventato così complicato?
«…’so aiutarti io, se vuoi» borbotta una voce, incerta e io mi giro sorpreso verso Yonji, che parla così piano che mi stupisco di averlo sentito. E infatti Pur si avvicina di un passo, piega appena il busto in avanti e, sinceramente curiosa, domanda: «Come?»
Yonji dal canto suo, occhi al pavimento e mani in tasca, si schiarisce la gola e dondola da una gamba all’altra. «Ho detto che se vuoi posso aiutarti io» ripete più forte, guardandola furtivo.
Pur lo squadra con tanto d’occhi per qualche secondo, impossibile dire cosa le passa per la testa, finché non si accende in un sorriso dolce. E per me, che conosco i suoi sbalzi di personalità, anche piuttosto inquietante. «Davvero? Grazie!» esclama e gli tende la mano. «Io sono Pudding! Chiamami Pur!» si presenta e Yonji afferra titubante la sua mano.
«Io… Io s-sono Yonji»
«Piacere di conoscerti» annuisce convinta per poi voltarsi appena quando qualcosa attira la sua attenzione. «Oh c’è Ace-kun! Vado a chiedere a lui così tu puoi continuare a fare qualunque cosa stessi facendo, Law-kun!» decide in uno slancio di entusiasmo, staccandosi da Yonji che barcolla lievemente in avanti quando si ritrova la mano vuota. «Ti aspetto fuori nel parcheggio, Yonji-kun!» lo avvisa mentre si allontana di gran carriera.
Yonji la guarda confuso e sbatte un paio di volte le palpebre. «Ma che è successo?» domanda e Sanji gli batte una mano sulla spalla con un ghigno divertito. «Si chiama “colpo di fulmine”, fratello»
«E noi Vinsmoke a quanto pare ne siamo patologicamente affetti» aggiunge Reiju, il sorriso serafico e io sento che sto veramente per raggiungere il punto di non ritorno.
E sapete che c’è? Non me ne frega niente se non è più necessario il mio intervento per la torta, se questo è il mio ospedale e i quattro imbecilli biondi attentano alla serenità dei miei pazienti.
Ho bisogno di depressurizzare e ne ho bisogno ora.
«Eustass-ya, a te il presidio dell’ascensore insieme a Katakuri» lo informo e prima che possa replicare mi avvio di gran carriera verso l’uscita frontale.
Mi serve aria.
E aria è quello che ottengo quando supero le porte automatiche a scorrimento, che per stasera abbiamo bloccato perché restino aperte. Aria tiepida e frizzante, aria estiva che entra nei polmoni e rigenera almeno il corpo, se non la mente. Quella resta occlusa e appesantita.
Mi prendo il ponte del naso e premo, premo forte nella speranza che mi scoppi il cervello così che almeno smetta di pulsarmi a questa maniera,  e intanto mi sposto lateralmente nel giardino del Castello, verso un punto lievemente in pendenza, l’altra mano sul retro del collo.
Cazzo, mi sento così stanco! Non ho chiuso occhio ieri notte ed è tutta colpa mia.
Non imparo mai. L’ho fatto di nuovo, di nuovo ho ferito la mia famiglia, parlando a sproposito, e di nuovo sono scappato da Cora e, di nuovo, me ne sto qui sulla Collina del Sole a cercare un po’ di serenità che però non riesco a trovare.
No, non riesco, non da solo, non senza…
«…’nciate pure a entrare, io arrivo tra poco»
Alzo la testa di scatto quando la sua voce mi raggiunge grazie a una folata di vento e sgrano gli occhi. Non so se sia perché non mi aspettavo che sarebbe venuta, perché ancora una volta e come sempre è arrivata esattamente al momento giusto o perché, molto più semplicemente, è bella da togliere il fiato. Sorride a Tiger e alla donna che lui tiene sottobraccio, una donna non più alta della mia, bionda, di classe e senza età.
«Di nuovo piacere di conoscerti, Otohime» le dice Koala e lei annuisce e sorride, accarezzandole una guancia. «Il piacere è tutto mio, bambina»
Tiger si piega a baciarla sulla fronte e poi si avviano per entrare e io sono ancora qui immobile e pietrificato, gli occhi solo per lei che, dopo averli osservati incamminarsi per qualche metro, prende un profondo respiro e, senza smettere di sorridere, si gira verso di me.
Hai capelli mossi e una coroncina di foglie a decorarglieli, in tinta con il bracciale dorato che le avvolge l’avambraccio, le scarpe, il ciondolo. E l’abito che indossa sembra glielo abbiano dipinto addosso, accompagna morbido ogni suo movimento e, oh Santo Roger, si gonfia alla perfezione sotto il suo seno, e segue perfettamente la linea della pancia tonda, non ancora così ben visibile sotto alle camicette che indossa di solito.
Quando piega il capo di lato e socchiude appena gli occhi posso affermare che sia la cosa più bella che abbia mai visto. E sta camminando verso di me.
 
[Perfect – Ed Sheeran]
 
I found a love for me
Darling, just dive right in and follow my lead
 
Non riesco a muovermi né a parlare mentre la osservo venirmi incontro, mentre osservo la storia che si ripete, a diciotto anni di distanza, e, quando si ferma davanti a me, non ho ancora trovato nulla di intelligente da dire.
Così, dico qualcosa di molto ovvio.
«Sei qui» commento e mi rendo conto che la mia voce suona vuota, una mera constatazione, nonostante il vortice di emozioni che in realtà sto provando.
Brutto vizio imparato negli anni. Brutta abitudine e volermi sempre nascondere.
 
Well, I found a girl, beautiful and sweet
Oh, I never knew you were the someone waiting for me
 
Ma Koala mi conosce troppo bene e non si fa frenare dalla mia espressione in apparenza dura.
«E dove altro dovrei essere?» domanda spigliata.
Le mani cercano i baveri della giacca, li sistemano con un movimento che nasconde il mio nervosismo. «Credevo andassi a Dressrosa con Izou» ammetto e un lampo le attraversa gli occhi mentre si fa seria.
 
'Cause we were just kids when we fell in love
Not knowing what it was
I will not give you up this time
 
«Ma davvero?»
«È una serata importante per lui» mi giustifico, fermo nella mia affermazione ben più di quanto lo sia nelle intenzioni.
Koala copre un altro passo tra noi. «Stasera stanno avendo luogo due avvenimenti molto importanti per due persone per me molto importanti. Ho dovuto scegliere» un altro passo e solleva il mento, fiera, a guardarmi.
 
But darling, just kiss me slow
Your heart is all I own
And in your eyes you're holding mine
 
«E ho scelto di essere al fianco della persona più importante, come ho promesso di fare ogni giorno, sulla spiaggia di Skypeia, neanche tre mesi fa» trattengo il fiato mentre alza una mano e la appoggia sul mio petto, a cercare, sotto la camicia e la cravatta, il ciondolo che mi ha regalato quando ci siamo sposati con il rito shandia, di punto in bianco, senza preavviso, mentre eravamo in vacanza. E anche lei indossa quello che io le ho regalato, nascosto nella scollatura del vestito.
 
Baby, I'm dancing in the dark
 
«Accanto a mio marito, al nostro Castello, sulla nostra collina» soffia e ricomincia a sorridere.
 
With you between my arms
Barefoot on the grass
Listening to our favourite song
 
«Non è stata una decisione difficile»
E io non resisto più.
«E comunq…» prova ad aggiungere ma le mie mani salgono a circondarle il viso, la bocca scende a tappare la sua.
Aria, fresca e prorompente, che entra nella gola e rigenera la testa, la libera, la svuota di ogni pensiero negativo, che mi resetta. Non la lascio andare quando mi separo da lei, e le sorrido storto.
 
When you said you looked a mess
I whispered underneath my breath
But you heard it,
Darling, you look perfect tonight
 
«Balla con me» soffio spostando la presa sui suoi fianchi. Koala sgrana gli occhi, scioccata.
«Come?» esala in una risata mentre me la tiro addosso e subito si aggancia al mio collo, lasciandosi guidare. Dondola e gira qualche secondo con me prima di guardarmi furba. «Credevo fosse stupido, ballare senza musica» mi fa notare.
Mi piego per accostare le labbra al suo orecchio, la bacio piano prima di sussurrare: «Ma la musica c’è. Non la senti?»
 
Well, I found a woman, stronger than anyone I know
She shares my dreams, I hope that someday I'll share her home
 
«E poi, te l’avevo promesso…» sento la sua presa aumentare. «…che avremmo fatto il nostro primo ballo al Castello»
Scoppia a ridere e getta il capo all’indietro, sicura tra le mie braccia, guidata dai miei movimenti. «Oh mio dio! Ma chi sei tu e cosa ne hai fatto del mio migliore amico?!»
Scuoto appena il capo senza fermarmi. «Ah non lo so. Io non ho fatto niente» la guardo più serio, ma decisamente meno serio del mio solito serio.
 
I found a love to carry more than just my secrets
To carry love, to carry children of our own
 
«È lui che ha perso la testa» la guardo negli occhi e lei esala appena, prima di appoggiare la fronte al mio mento. Sono sicuro che ha chiuso gli occhi da come si rilassa.
«Ora la sento, la musica»
Sfioro i suoi capelli con il naso e prendo un profondo respiro. «Mi dispiace per ieri»
«Anche a me» sospira e solleva gli occhi a guardarmi. «Stai bene?»
«Ora sì» non smetto di dondolare nemmeno quando salgo con una mano ad accarezzarle la guancia e il collo.
 
We are still kids but we're so in love
Fighting against all odds
I know we'll be alright this time
 
«Ma dopo che domani avrò parlato con Sabo starò anche meglio» le confesso le mie intenzioni e lei sorride e annuisce. «Tu come stai?»  
«Bene» scuote lievemente il capo e abbassa un istante gli occhi. «Stanotte ho sentito come delle bolle nella pancia. Credo cominci a muoversi» mi sorride e io sgrano gli occhi. «Tranquillo. Non si sente ancora nulla. Per i primi calci dovremo aspettare due o tre settimane ancora, credo» accompagna una mia mano tra noi, sulla pancia. «Non ti sei perso niente» mi rassicura.
 
Darling, just hold my hand
Be my girl, I'll be your man
I see my future in your eyes
 
Me la tiro di nuovo contro e per un po’ nessuno dei due parla, ci godiamo solo di essere insieme e le lievi folate di vento che ci investono di tanto in tanto.
«Sai stavo pensando…» rompe a un certo punto il silenzio Koala e i miei occhi scendono all’istante a cercare i suoi, tutta la mia indivisa attenzione per lei. «Non dovremmo dirlo che ci siamo, tra virgolette, sposati? Insomma, il rito shandia non ha nemmeno valore qui, non potranno prendersela perché non li abbiamo coinvolti»
 
Baby, I'm dancing in the dark
With you between my arms
Barefoot on the grass
Listening to our favourite song
 
Inarco le sopracciglia e metto su un’espressione eloquente. «Izou mica è mezzo Shandia?»
Chiude gli occhi e sospira. «Oh hai ragione. Comincerebbe a dire che era suo completo diritto essere presente, trattandosi della cultura dei suoi stessi avi e… Santo Roger, okay, no! Fingi che non l’abbia nemmeno detto, ho già fatto abbastanza chiedendogli di diventare padrino di nostro figlio» scoppia a ridere e io con lei, per poi concedermi un sospiro rilassato quando accosta le labbra al mio collo. 
 
When I saw you in that dress
Looking so beautiful
I don't deserve this
Darling, you look perfect tonight
 
«Da dove arriva questo vestito? Non te l’ho mai visto» le chiedo mentre la faccio girare sotto al mio braccio per vederla meglio.
«Oh perché è un pezzo unico. Me lo ha fatto il padrino di tuo figlio» i suoi occhi guizzano maliziosi. «Un autentico Izou Wano»
Mi concedo un momento per ammirarla, senza lasciar andare la sua mano. «Sei bellissima» non riesco a trattenermi e lo vedo dalla sua espressione che il cervello le va un attimo in tilt. Giusto il tempo per riappropriarmi completamente di lei.
«Abbiamo pubblico» mormora sulla mia gola appena è di nuovo tra le mie braccia.
Perplesso, mi giro verso il Castello e li vedo subito, nonostante la penombra. Ninjin e Piiman, con in braccio Kaya e Sugar, Dell e Tama aggrappati al davanzale, che ci guardano dalla finestra.
Delinquenti.
Dovrebbero già essere a dormire.
«Beh…» sollevo un sopracciglio ma non riesco a smettere di ghignare come un deficiente mentre mi giro di nuovo verso Koala. «…allora diamo loro qualcosa da guardare»
 
Baby, I'm dancing in the dark
With you between my arms
Barefoot on the grass
Listening to our favourite song
 
«Che…» fa per chiedere quando la trascino e la faccio volteggiare, una mano sul suo fianco, l’altra stretta con la sua.
«Non dire a nessuno…»
«Me lo porterò nella tomba» promette ridendo.
È la donna della mia vita. Lo è da quando abbiamo circa otto anni ma, come dice sempre Cora quando realizza qualcosa a scoppio ritardato, meglio tardi che mai, no?
 
I have faith in what I see
Now I know I have met an angel in person
And she looks perfect
 
La faccio girare due volte sotto al mio braccio, mi piego in avanti e la obbligo a inarcare la schiena all’indietro, sostenendola tra le mie braccia, per poterla baciare. Passerei l’intera serata a baciarla, se si potesse.
 
I don't deserve this
You look perfect tonight
 
Ma non si può e quando ci separiamo, lanciamo un’occhiata verso il Castello. Tama, Dell e Sugar, smorfie disgustate in faccia e lingua di fuori a simulare un conato di vomito, scappano via, mentre Kaya ride e batte le mani felice, sotto gli sguardi attenti di Piiman e Ninjin.
Ridacchiante, mi rimetto dritto insieme a lei e la abbraccio, senza più muovermi, godendomi solo il suo calore e la sua presenza.  
«Ti amo» le bacio la fronte e lei chiude gli occhi.
«Ti amo anch’io»
«Ehi piccioncini!» cinguetta una voce che mi strappa un’imprecazione per il semplice fatto di essere quella voce. Per fortuna Koala compensa la mia totale mancanza di tolleranza con il suo amore per il mondo e inestinguibile entusiasmo.
«Praline! Sei bellissima!»
«Anche tu sei uno schianto, mammina» la scruta attentamente dopo averla baciata e si sporge di lato con il busto a guardarmi, un sorriso psicopatico in faccia. «Non te la meriti DOC» dove DOC sta per “disturbo ossessivo-compulsivo” e non certo per “dottore”. Voglio dire, è di Praline che parliamo dopotutto.
«Ne sono consapevole» ribatto con distacco. Praline incrocia le braccia sotto al seno e ci studia qualche secondo. Tutto ovviamente senza smettere di sorridere. «Come state?» si informa, occhiando la pancia di Koala che, mano stretta alla mia, si gira a scambiare uno sguardo con me.
«Noi bene, adesso» ci affianchiamo a Praline e, con la mano libera, Koala la prende sottobraccio. «Ish invece?»
«Quando sono venuta via da casa sua era quasi alla fine della prima stagione di The Guardian» le accarezza la mano agganciata al suo interno gomito. «Sabo?» gira la domanda e io rizzo le orecchie.
«Grey’s Anatomy. È partito dalla quarta stagione» sospira Koala e io aggrotto le sopracciglia.
Quindi Ishley si sta devastando di legal drama e Sabo di serie TV su finti medici. C’è della coerenza in questo. Io apprezzo la coerenza.
«Devono parlare» scuote il capo Praline. «Ma perché la quarta?»
«A quanto pare, Lexie gli ricorda Ish» si stringe nelle spalle Koala.
«Lo sa che poi muore?»
«Non ancora. L’obbiettivo è farli chiarire prima che lo scopra» annuncia Koala mentre entriamo al Castello che ora pullula di persone.
Oh bene. Quanta gente è arrivata mentre io ballavo con Koala, senza musica? Quanti ci avranno visto?
Gerth sta aiutando Cora a fare gli onori di casa, Cosette e Pur distribuiscono i cocktail di benvenuto agli ospiti, indirizzati verso di loro da Reiju e Robin.
Non sono un uomo particolarmente dedito all’altro sesso, mai stato. Di norma e regola trovo eccezionale solo Koala, e Ishley e Robin a giorni alterni, ma stasera mi tocca ammetterlo: senza donne saremmo fottuti.
«Lei è Otohime»
«Piacere di conoscerla. Mi perdonerà se non mi alzo in piedi» una voce famigliare mi raggiunge, seguita dalla roboante risata di Tiger e quando mi giro non riesco a trattenere un sussulto, che fa girare di scatto anche Koala.
«Amore che cos… Oh»
«Vecchio amico mio, non cambi mai» scuote il capo Tiger alla battuta di Cobra, che sarebbe stata di pessimo gusto se quello in sedia a rotelle non fosse proprio lui.
«Ehi che succ… Ooooh!» esclama Praline, un’inflessione del tutto diversa da quella di Koala. «Interessante» mormora e tanto mi basta per sapere che l’ha riconosciuta, in piedi di fianco alla carrozzella di Cobra, che conversa con Tiger e Otohime, agganciata al braccio di un ragazzo castano con occhiali da vista e gli occhi carichi di affetto per il suo genitore. «Nefertari Bibi»
Sicuro come che la succlavia è collegata all’aorta, hanno cercato qualche sua immagine su internet.
Mi sento di giudicarle per questo? No, affatto.
Sono felice perché so che Ish ha la miglior squadra di supporto che si potrebbe desiderare per lei? Sì, lo ammetto.
«Okay, Bibi non deve sapere di tutto questo casino» metto in chiaro. «Se ne farebbe una colpa»
«Ma mi togli tutto il divertimento così, DOC?» si lamenta Praline per poi sghignazzare quando, omicida, la fulmino. «A te ti eccita quando ti guarda così, dì la verità» domanda a Koala mentre ci avviciniamo al piccolo gruppo.
«A me mi eccita anche solo se respira nella mia direzione, ultimamente» risponde Koala e io ignoro gli spasmi al basso ventre che suddetta risposta mi suscita, soprattutto quando Cobra alza gli occhi verso di noi e si illumina.
«Law, figliolo! E Koala, tesoro, sei splendida!» ci accoglie allargando le braccia e le mi precede, lo bacia, gli presenta Praline, si sposta ad abbracciare Bibi, insieme facciamo la conoscenza di Kozha, poi Koala ci presenta a Otohime e, in due minuti esatti, il ghiaccio è già rotto.
«Le decorazioni sono veramente eccezionali» afferma Bibi, guardandosi intorno, agganciata a Koala e Praline che le ha già strizzato le guance almeno tre volte, ripetendole che è così bella che se la mangerebbe. A meno che non intenda letteralmente, devo rivedere la mia opinione sulla miglior squadra di supporto.
«Mi ha fatto veramente piacere ricevere l’invito da parte di Sabo» afferma Cobra, cogliendomi quasi alla sprovvista se non fosse che difficilmente io lascio trasparire qualcosa. Sabo non mi ha detto niente ma mi colpisce soprattutto che abbia mandato l’invito anche per Bibi. L’istinto mi dice che non l’ha certo fatto per qualche secondo fine e, anzi, se conosco bene mio fratello, per prendere una simile decisione doveva sentirsi davvero molto sereno nei confronti di quello che c’è stato tra loro. «Ma dov’è? Non lo vedo»
«Doveva lavorare»
«È a Waterwheel»        
«Aveva un impegno inderogabile»
Io, Koala e Praline parliamo tutti insieme e uno sopra l’altro, per poi scambiarci un giro di occhiate a cui si aggiunge quella perplessa di Cobra.
«Cioè…»
«È a Waterwheel per un inderogabile impegno di lavoro» lo interrompe con gentilezza Koala.
«Waterwheel» si acciglia Bibi. «Waterwheel non è dove viveva quella tua amica e collega, Law? Non mi ricordo come si chiama»
«Intendi Ishley?» domanda con un ghigno sadico Praline.
«Ishley, esatto! Non credo di averla mai vista ma me la ricordo di nome. L’hai conosciuta quando siamo tornati per il matrimonio, tre anni fa. È ancora qui a Raftel o è tornata a casa?» mi domanda e io lancio un’occhiata al contenuto del mio bicchiere prima di aprire bocca.
«Beh a dire il vero…»
«Tiger?» si intromette una voce profonda e un po’ liquida. Sembra quasi una persona che parla sott’acqua. «Vecchio mio sei tu?»
«Jinbe!» esclama Tiger, voltandosi sorpreso, per poi abbracciarlo con goliardia. «Per Nettuno, quanto tempo! Sei in splendida forma»
«Eh magari!» ride lui. «Mi è cresciuta la pancia dopo la leva. Tu invece ti conservi sempre uguale, vedo» gli stringe una spalla.
«Tutto merito di qualcuno che mi ha obbligato a tenere l’alimentazione regolata» ammette Tiger. «A proposito, ti ho mai presentato mia figlia?» gli domanda, indicando Koala al mio fianco, che non respira e gonfia lievemente le guance per la tensione.
Jinbe si gira a guardarla, non trattiene un’espressione sorpresa e poi, pur restando serio, il suo sguardo si ammorbidisce. «Difficile dimenticarsi della signorina Surebo» dichiara e io mi concedo un ghigno orgoglioso.
Koala, dal canto suo, schiude le labbra in un silenzioso “oh” e le guance le si fanno rosse. «Signor Walvishaai» lo saluta con un lieve cenno del capo.
«Vi conoscete?» si acciglia Tiger.
«La signorina Surebo ha dato prova di sé in una splendida presentazione tre anni orsono, risultata nell’approvazione di un progetto commerciale senza alcuna ricerca statistica alla base, né solide prospettive future, che si è rivelato il più grande investimento mai attuato dalla Ivankov&Co nell’arco dell’ultimo decennio»
Neanche Koala riesce a trattenere più un sorriso, mentre si scosta una ciocca dal volto. «Senza la collaborazione del signor Sharpshooter e della signorina Cocoyashi sarebbe stato alquanto difficile ottenere un simile risultato» divide subito il merito in parti identiche, senza tenersene nemmeno una briciola in più per sé. «E anche il signor Wano ha avuto un ruolo fondamentale»
«Beh certo» annuisce Jinbe. «Il team è fondamentale»
«Non le dia ascolto, signor Walvishaai» interviene Bibi, abbracciandola per le spalle. «Nami e Usopp sono eccezionali ma Koala è una fuoriclasse. Dovrebbe vedere che splendido lavoro ha fatto con la campagna di sensibilizzazione  per la bonifica dell’oasi di Yuba»
«Ma davvero eh?» Jinbe sposta un paio di volte gli occhi da mia moglie alla mia ex futura moglie e ritorno. Mio dio ma quanto è surreale questa situazione? «In realtà, mi piacerebbe proprio vederlo, il materiale di questa campagna signorina Nefertari» afferma, fermando lo sguardo su Bibi, che, insieme a Koala, sgrana gli occhi impreparata.
«Oh» si acciglia Bibi. «O-Okay, certo!»
«Mi cadesse una trave in testa se non è proprio Jinbe, uscito dalla sua tana»
«Ogni tanto le pubbliche relazioni toccano anche a me» risponde prontamente l’interpellato. «Per te ormai sono all’ordine del giorno, signor sindaco»
«Oh ti prego, almeno tu, continua a chiamarmi Iceburg!» ride il nuovo sindaco di Raftel. L’uomo che abbiamo invitato con la speranza che restasse colpito da quello che facciamo qui.
L’ospite d’onore, la superstar della serata.
«Come vanno le cose?»
«Non c’è male, non c’è male. E a te? Vi manco almeno un po’ alle riunioni aziendali?»
«Da quando non ci sei più tu la disciplina è totalmente scomparsa» scuote il capo con rassegnazione Jinbe. «E poi quello nuovo, quell’Oden, non spiccica mezza parola, muto come una tomba. Oh ma te la ricordi la signorina Surebo?» gli dice poi, prendendolo per una spalla e indicando Koala a braccio teso.
Iceburg squadra Koala un istante, si sofferma un secondo in più sul pancione e poi, affascinante da far schifo, le sorride. «Ma certo che sì. È un piacere rivederla signorina Surebo e in questa splendida forma, poi»
«Il piacere è tutto mio» gli stringe la mano, impeccabile, l’altra ferma sul pancione. «Signor sindaco, posso presentarle mio marito, il dottor Trafalgar Law»
«Trafalgar Law? Come il socio del dottor Saavedra?»
«Sono io» confermo, stringendogli la mano a mia volta. «È un onore averla qui, signor sindaco»
«L’onore è tutto mio, questo posto è veramente eccezionale» si guarda intorno Iceburg e qualcosa di frizzante ribolle nella mia pancia. «Ricordo l’inaugurazione, una festa abbastanza indimenticabile in effetti, ma non vi avevo più messo piede e in tre anni devo dire che avete fatto grandi cose. Vi seguo molto e assiduamente, sono anche iscritto alla vostra newsletter»
«Che sentimentale che sei diventato, Iceburg» lo prende in giro Jinbe.
«Disse il filantropo di professione»
Prendo aria, consapevole che è il mio momento, che si tratta dell’occasione perfetta. Devo solo invitarlo a vedere il futuro reparto di neonatologia, presentarlo a Cora, trovare una scusa perché Gerth venga con noi così da evitare che Cora dia fuoco a qualcosa e, una volta soli, fargli la nostra proposta.
Se il comune ci riconosce come struttura ospedaliera e non come clinica specializzata, se ci permettono di avere un reparto di chirurgia pediatrica e uno di medicina pediatrica, disgiunti, i fondi raddoppieranno. Potremo fare grandi cose, senza dover contare sempre e solo sulle donazioni, generose è vero, di Jinbe e di Cobra. Potremo ampliarci, lavorare completamente pro-bono per chi non può permettersi nemmeno il ticket, aumentare il personale, investire di più nelle campagne raccolta fondi.
Un domani, forse, chissà, addirittura aprire altri Castelli in altre città.
In tre parole, fare del bene.
E due reparti significa due primari. Con Ishley molto più orientata al lato medico che non chirurgico, la mia presenza non sarebbe più un ostacolo alla sua carriera.
«Signor sind…» comincio ma no, evidentemente non è ancora il momento perché Iceburg si distrae con qualcosa che sta passando alle sue spalle, che guarda prima di striscio e poi apertamente, prima di esclamare. «Ace, ragazzo mio! Anche tu qui?!»
«Ehehi signor sindaco! Come stai?!»
La mia espressione torna piatta quando Ace si avvicina a braccia larghe, per stringersi goliardicamente con Iceburg. Okay, com’è che qui tutti conoscono qualcuno di spessore e io al massimo ho a che fare con i fratelli Vinsmoke?!
Senza nulla togliere a Cobra, chiariamo.
«Conosci il cofondatore del Castello, il dottor Trafalgar?»
Atono, giro gli occhi su Ace. Il sindaco mi sta presentando mio fratello.
No dico, il sindaco mi sta presentando mio fratello.
«È mio fratello» avviso Iceburg, parlando insieme a Ace che, ovviamente, lo esclama con entusiasmo.
«Ah sì?» Iceburg ci guarda, confuso. «Non vi somigliate»
«Sono adottato» taglio corto, perché se Ace decide di scendere nel dettaglio del nostro legame di parentela, ci finiamo la serata a spiegarlo e parlarne.
«Beh allora immagino che sarai fierissimo del nostro Ace e del suo senso civico» gli stringe una spalla e io un po’ mi rilasso, sogghigno, annuisco con il capo, le mani in tasca.
«Sei troppo buono, signor sindaco! Dovresti vedere cosa fanno loro qui dentro! Ehi, Law ti ha già portato a vedere il futuro nuovo reparto?» si informa e Iceburg inarca le sopracciglia.
«C’è un futuro nuovo reparto?» si illumina Iceburg, interessato. Molto interessato e la cosa frizzante ricomincia a ribollire.
«Vuole vederlo?» mi faccio avanti cogliendo la palla al balzo. «I lavori sono ancora in corso» lo avviso.
«Oh non vorrei essere invadente…»
«Ma che invadente e invadente! Law adora mostrare l’ospedale a perfetti sconosciuti» Ace lo prende per una spalla e lo comincia a guidare verso gli ascensori e io mi affretto dietro di loro, non senza uno sguardo a Koala che mi sorride radiosa e incoraggiante. Rispondo con un ghigno e in pochi passi raggiungo Iceburg e Ace che conversano animatamente, ma non li ascolto.
Sono troppo impegnato a controllare che nessun Vinsmoke sia nei paraggi e provi a intrufolarsi in ascensore per salire da Kaya. Per fortuna, non sembra esserci traccia.
Più rilassato, mi avvicino alle porte metalliche che si aprono immediatamente appena pigio il pulsante. Invito Iceburg a salire e, con una scrollata di spalle, lo seguo.
Un altro ghigno mi nasce spontaneo mentre le porte si chiudono lente sull’atrio addobbato a regola d’arte. Il pensiero che con Koala è tutto a posto spadroneggia incontrastato nel mio cervello.
Non so se ad Iceburg piacerà il reparto o valuterà la nostra richiesta. Ma vada come vada, questa serata sarà comunque stata eccezionale.








Angolo dell'autrice: 
I'm back! 
Okay, lo so, scusate, ho ceduto anche io a Perfect e al fascino di Eddie. Inflazionata, sdolcinata, tutto quello che volete ma io amo questa canzone, mi piace proprio al di là del significato però, sul serio, il testo pareva scritto apposta per loro, per come li ho impostati in questa storia. 
Perciò, insomma, sì, volevo solo dire che non mi pento di niente. Ho amato scrivere questa scena per loro. 

Grazie ancora a tutti, spero abbiate apprezzato. 
Un bacione e a presto. 

Page. 
#canzonifantasticheedovetrovarle #sorrynotsorry #crackshipistheway

 

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Capitolo 35
*** Capitolo 35 ***


«E allora gli ho detto: “Ma come fai a non distinguere una baschina da un volant? Sei uno stilista o un sarto?!”»
Ascolto a occhi sgranati questa tizia che da mezz’ora racconta aneddoti riguardanti moda e abbigliamento senza sosta, ascoltata con rapito interesse da questo altro branco di tizi che, i kami mi aiutino, paiono più noiosi di lei.
Santa pace, ma dove sono finito? Non ero nel Paese delle Meraviglie poco fa?!
«Izou, io capisco che non sia il massimo di divertimento ma potrebbe essere prova di grande diplomazia se ti levassi quell’espressione dalla faccia» mi sibila Nami, a denti stretti, nascosta dietro il suo flûte.
«Ti prego, dimmi che non sono solo io che vorrei tagliarmi le orecchie per smettere di ascoltare» la imploro, senza smettere di fissare allucinato la tizia. «Sono tre quarti d’ora che va avanti senza quasi prendere fiato!»
«Izou siamo qui da neanche dieci minuti e comunq… Oh Boa!» sorride Nami, affascinante, quando la nostra personale guida torna a prenderci.
«Venite miei cari, Myu Kuru si è finalmente liberata e possiamo andare a parlarci. Scusate se vi ho abbandonato qui con questi pusillanimi ma era necessario» aggiunge sottovoce mentre, finalmente, ci trascina via dall’angolo della noia.
Oh mia Imperatrice! Meno male che ci sei tu!
Cammino rapido e fiero al suo fianco, più concentrato sull’allontanarmi dal campo minato di dozzinali aneddoti che su dove ci stiamo dirigendo. Quando mi rendo conto, siamo ormai a pochi passi e il cuore mi perde un battito nel riconoscere Myu Kuru in carne e ossa a un braccio da me, me ne perde anche cinque quando mi rendo conto di con chi sta amabilmente conversando.
«Ma è Victoria Cindry quella?!» boccheggio, in iperventilazione da fangirlamento spietato. Quella Victoria Cindry, la Victoria Cindry di Notting Hill, la mia attrice preferita?!
Davvero.
Davvero?
Davvero?!?
«È precisamente lei. Su venite» ci incita, autoritaria, prima di voltarsi verso le due donne. «Vicky, Myu, che piacere vedervi!» esclama con entusiasmo, un po’ troppo per non farmi sorgere almeno il dubbio che sia tutta una posa e in realtà vorrebbe bruciarle vive entrambe.
Rivalità tra donne, che brutta cosa.
Non ringrazierò mai abbastanza mamma per avermi fatto uomo e gay.
«Posso presentarvi le mie due nuove perle?» ci fa cenno di avvicinarci e poco mi frega della sensazione ormai imperante che Boa ci stia trattando come due chihuahua che è tanto fiera di mostrare a chiunque. Se questo significa parlare con il mio idolo anche solo cinque minuti, sono disposto a fare anche di peggio. E io odio i chihuahua «Nami Cocoyashi e Izou Wano, uno dei finalisti di quest’anno» 
«Oh un collega!» esclama subito Myu Kuru, la voce squillante ma armoniosa, come un flauto traverso.
Le stringo la mano, esitante, nonostante il sorriso sicuro che esibisco sul volto. Collega? Myu Kuru mi ha definito un suo “collega”?! Sto per morire di felicità, credo. «Piacere» riesco giusto a esalare, dopodiché perdo l’uso della parola e l’espressione mi si congela quando mi giro verso Victoria Cindry.
«È un piacere conoscerti Izou. Immagino sarai in tensione per la sfilata ma quanto è emozionante?» mi fa l’occhiolino, con un sorriso incoraggiante e comprensivo. La sua voce è come una tazza di cioccolata calda e vellutata.
Oh per tutti i kami, per tutti i kami…
«Io… io… io ti amo!» urlo quasi. «Cioè metaforicamente, perché io sono gay, ma sei la mia attrice preferita, so a memoria tutta la tua filmografia nonché ogni singolo dialogo di Notting Hill! E i tuoi vestiti Myu, i tuoi vestiti sono la vita! Non si vedeva una roba del genere dai tempi di Toki Kozuki e… e…» mi agito quando Lulis Ningyo si avvicina, incuriosita. «E io ucciderei per vedere una tua creazione addosso a…» faccio per indicarla ma all’ultimo mi rendo conto di cosa rischio e cambio al volo direzione al mio braccio, stendendolo alla mia sinistra. «Addosso a Boa!» la indico ma lancio un’occhiata a Lulis Ningyo e spero capisca che in realtà volevo indicare lei. E se lo capisce o meno rimane un mistero ma sorride, gli occhi che brillano.
«Miseriaccia ma è simpaticissimo!!!» esplode, trillante e allegra. Il campanello di una bicicletta. «Ti siedi con noi alla sfilata?!?» mi arpiona quasi il braccio Lulis e io mi giro spaesato ed estatico verso Nami che mi osserva piena di orgoglio e divertimento.
Oh quanto le voglio bene! In questo momento, s’intende!
«Fufufufu, come sempre circondata dalle superstar della situazione, Boadicea» una nuova voce si aggiunge, melliflua e un po’ appiccicosa, come i marshmallow sciolti. «Come si addice alla superstar di qualsiasi situazione»
«A dire il vero, mancavi ancora tu Doffy» Boa si gira verso il nuovo arrivato, le braccia incrociate sotto al seno. «Ma non dovevi crucciarti tanto, compensavo con la mia bellezza»
«Avrei detto con il tuo ego» sghignazza lui e io lo osservo a bocca aperta. Questo è veramente Donquijote Doflamingo, è veramente qui di fronte a me, indossa veramente un boa di piume rosa ed è veramente… veramente grosso!
E inquietante.
Sì, con quel sorriso e la stazza sovrastante è inquietante a bestia.
Senza alcuna pietà per la mia reputazione ormai defunta e sepolta, cerco la mano di Lulis posata sul mio braccio e mi ci aggrappo e lei subito ricambia la stretta. Lo sto ancora squadrando, affascinato dal vederlo per la prima volta senza occhiali, e dal vivo per giunta, che si accorge del mio sguardo e si gira apertamente verso di me. Si avvicina, si china e io mi piego all’indietro con la schiena, Lulis imita il mio movimento per non lasciarmi andare, quasi finiamo a terra entrambi.
«Così lui è il tuo nuovo protetto?»
«Sta indietro» mi si para davanti Boa. «Non ti lascerò giocare con lui solo perché è carne fresca. È pieno di esordienti qui, vatti a cercare qualcun altro» gli sibila contro, come un serpente a sonagli.
Le guance mi si scaldano di imbarazzo, un po’ perché Boa Hancock mi sta difendendo, un po’ perché mi sento in colpa per aver pensato che Boa ci stesse usando solo come due trofei.
«Ah ma a me sembra interessante lui» insiste Doflamingo, piegandosi ancora di più e Boa imita me e Lulis ma, a differenza nostra, riesce a mantenere intatta la propria classe persino quando si incurva così tanto all’indietro da ritrovarsi a guardare il soffitto anziché il proprio interlocutore, nonostante l’indice puntato contro di lui.
«Ti ho detto stai lontano!»
«Ma come fa?» domando a occhi sgranati, mentre io e Lulis indietreggiamo perché più piegati di così non siamo fisicamente in grado, noi due.
«Me lo chiedo sempre anche io» ammette, lo sguardo che luccica.
«Ma-Ma-Ma… Signori e signore, prego, vogliate accomodarvi. La sfilata sta per iniziare» annuncia nuovamente al microfono la voce profonda di prima e percepisco una seria di microesplosioni dentro di me.
La sfilata. Oddio, la sfilata. È ora. È ora!
Di già?! Oh merda! Sono semplicemente… terrorizzato!
«Izou, ricorda come ti ha insegnato a respirare Koala» mi dice Nami mentre mi afferra per il gomito e, con l’aiuto di Lulis, mi sospinge verso dove tutta la folla di invitati sta defluendo.
«Oh ma che idiozia! Ancora con la storia della respirazione?!» protesto, cominciando a soffiare breve e intervallato, le labbra a imbuto. «Mica sono incinto, io!»
Però cavolo, funziona!
Non che abbia intenzione di ammetterlo con Nami o con Koala o con il primo sconosciuto che potrei incontrare per strada e che non rivedrei mai più.
Non so come e quando né con quali tempi, arriviamo alla sala dove la passerella è stata allestita, ricoperta da un morbido tappeto verde, in contrasto con le tende dorate che coprono l’ingresso e l’uscita delle modelle, che portano al camerino sul retro dove, al momento, qualcuno da me accuratamente addestrato questo pomeriggio poco dopo il nostro arrivo, si prepara a far indossare gli abiti della mia collezione a tre differenti ragazze, da me scelte secondo precisi parametri estetici.
Una castana con i capelli corti per la linea premaman.
Una rossa con i capelli lunghi per gli abiti ispirati al Giappone.
Una mora con tratti esotici per gli abiti ispirati alla tradizione Shandia.
Prendiamo posto nel frenetico marasma intorno a noi, Lulis alla mia destra, Myu accanto a lei, e Boa si piega a parlare a me e Nami, seduta alle mie spalle. «Mi tocca andare a sedermi con i grandi, miei cari» fa schioccare la lingua, scocciata. «Ci vediamo dopo» annuncia e scompare in un turbinio di capelli corvini e setosi.
La seguo con gli occhi raggiungere l’altro lato della passerella, nella sezione dedicata ai giudici e il cuore mi balza in gola. «L-Lulis» la chiamo, in panico. «Boa fa parte della giuria?» sudo freddo.
«Certo! Non lo sapevi?» si acciglia perplessa.
Io mi limito a scuotere il capo perché sono troppo impegnato a insultarmi mentalmente. Non posso crederci, mi sono autoeliminato così. Boa mi ha portato in giro e presentato a tutti per tutta la sera, ora crederanno che sono raccomandato e vorranno evitare casini. Se già le mie probabilità di vincere erano scarse, si sono appena nullificate del tutto.
Bravo Izou, davvero una mossa geniale!
«Izou tranquillo, è normale in questi ambienti. Anche con gli Oscar succede molto spesso che candidati e giurati si conoscano, a volte ci sono anche legami di parentela» Victoria, accanto a Nami, si sporge in avanti per rassicurarmi e, dopo il primo momento di surreale spaesamento che mi coglie perché, signori, Victoria Cindry mi chiama per nome, mi stringe la spalla e mi tratta come un vecchio amico, sento il sollievo innaffiarmi da capo a piedi.
«D-davvero?» deglutisco, incerto e lei annuisce, gli occhi dolci e sorridenti che brillano.
Così materni, affettuosi, rassicuranti. Mi ricordano tanto… mi ricorda tanto Koala.
E la tensione scompare, le sorrido e annuisco e mi racconto, ancora mi racconto, che non sia il pensiero della mia migliore amica, che non l’avrei voluta disperatamente qui con me. Ma è giusto che sia dove ha scelto di essere, al fianco della persona che ama.
È così che dovrebbe essere, dovrebbe essere così anche per me. Mi rigiro e prendo un profondo respiro, largo con i gomiti a occupare entrambi i braccioli, come sempre faccio anche al cinema, ma sono costretto a liberarne uno quando qualcuno si accomoda alla mia sinistra. 
«Scusa» mormora una voce bassa e vibrante.
«No ma figur...»
E famigliare.
Mi giro lentamente verso di lui. «Marco?» esalo in un tremito. Lo fisso con gli occhi fuori dalle orbite, non oso sbattere le palpebre per paura che scompaia, paura di scoprire che non è davvero lui, che non è davvero qui, che mi sto immaginando tutto.
Paura che si dissolve quando mi rivolge uno dei suoi bei ghigni storti. L’effetto che mi fa immaginare quel ghigno non è mai e mai sarà paragonabile all’effetto che mi fa vederlo.
È davvero lui. È davvero qui.
«Ehi, ciao»
Non riesco nemmeno a rispondere al suo saluto, riesco solo a guardarlo e tremare e aggrapparmi a due mani al bracciolo che ho appena lasciato libero per lui.
Marco è qui, qui accanto a me, a un soffio di distanza. E ci sono così tante cose che vorrei dirgli, così tante cose che dovrei dirgli ma non riesco nemmeno a pensare, figuriamoci a parlare, io…
Inalo a fondo quando porta la mano sulla mia guancia, non resisto e chiudo gli occhi un istante.
«Sei agitato?» mi accarezza piano con il pollice. «Vedrai che andrà alla grande»
Sbatto forte le palpebre per ricacciare indietro le lacrime e non riesco nemmeno a sovrapporre la mia mano alla sua. «Marco io…» ma non riesco a trovare le parole, non faccio proprio in tempo quando Marco mi afferra deciso la mano, lasciando scivolare le proprie dita tra le mie, e se la porta alla bocca, sfiorandomi le nocche con le labbra.
«Dopo. Adesso godiamoci il tuo momento»
E io fremo, fremo per ogni secondo che la mia mano resta incastrata a quella di Marco e se già questa serata mi sembrava surreale, ora lo è ancora di più. Fremo come la prima volta che mi sono ritrovato a respirare il suo odore così vicino, in una stanza immersa nella penombra, con un secchiello di pop-corn a farci da tramite. Fremo per il pollice di Marco che mi accarezza il palmo, leggero e caldo e rassicurante.
Io con quest’uomo ho fatto l’amore per sette anni eppure nulla mi ha mai tolto il respiro come la sua capacità di tenermi per mano. La gente sottovaluta quanto può essere paradisiaco tenersi per mano, con qualcuno che sa farlo.
E Marco mi tiene per mano, non mi molla un solo momento e io nemmeno sento la voce, non più maschile e profonda, ma femminile e roca, che annuncia i nomi dei miei rivali e delle loro collezioni. Alla terza mi accorgo di Bay, seduta dal lato opposto della passerella, insieme agli altri giornalisti, nella zona vicina a quella dei giudici. Alla quinta mi concedo una sbirciata alle spalle e, oltre ad accorgermi che Zoro, Aisa e Killer sono tornati, mi ritrovo Halta, Deuce, Hana e Edward che mi salutano dalla fila dietro. Alla settima, sto per vomitare.  
Faccio per dirlo a Marco, nella speranza che mi accompagni al bagno perché no, non ce la posso fare, proprio no.
«Izou Wano, con la collezione Kintsugi. Una commistione di esotico e orientale, coniugato in uno stile sobrio e semplice, un omaggio alla grande Toki Kozuki»
Poco ci manca che svengo sulla sedia quando mi paragonano a Toki Kozuki e il vomito diventa l’ultimo dei miei pensieri mentre osservo sfilare il trench con le frange, la gonna-hakama, la casacca-kimono premaman. E la stretta di Marco si fa sempre più salda, così tanto che a un certo punto lo guardo e scopro di avere vinto in anticipo. Perché il modo in cui fissa le mie creazioni, sinceramente colpito, davvero interessato, come se stesse ammirando una cosa bella è l’unico premio di cui potrei mai avere bisogno.
Forse sono stato un idiota a fare il sostenuto per così tanto ma, per tutti i kami, era esattamente questo ciò di cui avevo bisogno e non potrei chiedere nulla di più né nulla di meglio. Quando le luci si riaccendono, io sto ancora fissando Marco ed è solo l’applauso che mi riscuote, applauso a cui mi unisco staccando di malavoglia la mia mano dalla sua. Mi alzo in piedi e registro vagamente tutte le modelle in fila sulla passerella, con addosso i tre pezzi segnalati come “migliori” da noi stilisti, di ciascuna collezione.
Molte mani mi raggiungono sulle spalle, Nami, Lulis e Aisa mi stritolano in un abbraccio e Myu mi si para davanti, emanando particelle di euforia. «Dio Izou ma sono strepitosi!»
Sorrido, spaesato e stanco, ma non riesco a godermi le feste e il momento, non con Marco al di fuori del mio campo visivo. Quando riesco a individuarlo di nuovo, è la sua schiena che vedo, che si allontana dalla sala della passerella senza guardarsi indietro.
«S-scusate, ragazze, devo andare un momento di là, io…» mi libero dall’abbraccio di gruppo, porgendo scuse e sorrisi nervosi, per poi precipitarmi dietro a lui. Lo perdo di vista in mezzo alla folla e mi fermo un paio di volte, allungando il collo, cercando tra le migliaia di teste che sono tornate al buffet e alla festa.
Il cuore mi accelera per il panico. Non può essersene andato così.
Andiamo! Non può!
«Izou?»
«Sì, arrivo, arrivo, sto solo cercando Mar…» mi giro per la seconda volta verso di lui. «Marco!» allargo le mani. «Eccoti qui!»
Lui mi fissa di rimando con un sopracciglio alzato e mi tende un flûte di champagne. «Per festeggiare» spiega e fa cozzare il bordo del suo calice contro il mio. Beviamo qualche istante senza parlare e io mi guardo intorno, a disagio e alla ricerca di qualcosa da dire. «Pensavi che me ne fossi andato» mi leva dall’impiccio lui, mettendomi subito in un altro però.
Perché la sua non è una domanda.
«Ma no figurati!» corrugo le sopracciglia. «Ma che dici?!» rido, con troppa verve per essere credibile.
Marco sospira, si passa una mano sul volto. «So di essermi comportato da stronzo» comincia e io ritorno mortalmente serio.
«Marco non…»
«Ma stasera sono venuto qui a fare il tifo per mio marito e non ho intenzione di andarmene prima della fine di tutto»
La mano trema e lo champagne ondeggia contro il vetro finemente temperato. Normalmente quel “la fine di tutto” mi avrebbe terrorizzato. Ma il modo in cui ha pronunciato la parola “marito”, il modo in cui mi sta guardando non lascia spazio a dubbi. È qui per me e non ha intenzione di lasciarmi andare.
Eppure io… c’è una cosa…
«Sono stato dai tuoi» ammetto, distogliendo lo sguardo. «Quando c’era Douma» e torno subito a guardarlo. So che suona un’accusa, forse lo è. Per quanto fossimo in silenzio stampa, tagliarmi fuori dalla riunione di famiglia è una cosa abbastanza comprensibile da non rinfacciarla e abbastanza grossa da avere dei legittimi dubbi sulle sue intenzioni per il nostro futuro.
Marco lo sa.
Marco apre e chiude la bocca e nessun suono esce. Poi si passa una mano sul volto e sospira.
«Mi sono spaventato» confessa alla fine. «Bay ha detto che per farcela in questo campo il minimo sarebbe stato che ti trasferissi a Marijoa. E non mi piace questo ambiente, non mi piace quanto si mangiano tra loro, da come Bay me lo ha descritto sembra peggio del reparto stampanti alla I&Co prima che arrivassi io. Non volevo che lo rivivessi di nuovo e da codardo, anziché dirtelo chiaramente, dirti che non ti credevo all’altezza di affrontare questa sfida, sono scappato. Pensavo che avresti scelto me e che così ti avrei risparmiato altra sofferenza. Che importava se facevo la figura dello stronzo?» si stringe nelle spalle e io vibro dentro a vederlo così disarmato. Non si mostra mai così se non a me, ma ora lo sta facendo in una sala piena di sconosciuti che, certo, non lo degnano di uno sguardo, ma è comunque un atteggiamento che va in contrasto con il suo carattere e lo sta facendo per me.
Per spiegarmi.
Per non farmi attendere un minuto di più. 
«Ma non ho scuse. Avrei dovuto dirti chiaramente cosa pensavo e starti accanto nonostante tutto. E poi, ti ho sottovalutato» la sua mano torna sul mio viso, la mia guancia si preme di nuovo sul suo palmo. «Tu sei così forte. Forte come io non sarò mai» lo guardo con occhi appannati. Ma di che sta parlando? «Però voglio provarci, voglio almeno provare a essere l’uomo che meriti perciò…» prende un profondo respiro «…perciò sono disposto a seguirti ovunque tu vorrai andare per intraprendere questa carriera perché, Izou, questa è la tua strada. Hai costruito qualcosa di eccezionale dal niente e io sono così fiero di te che non trovo nemmeno le parole per esprimerlo»
Lo fisso a bocca aperta, per un lungo istante. Non riesco a credere alle mie orecchie.
Che ha detto?! Che ha… lui… lui ha detto…
«Si può sapere di cosa caspita stai parlando?!»esplodo, posando brusco il calice per avere entrambe le mani libere di gesticolare nell’aria. «Marijoa? Trasferirsi?! Chi lo ha mai detto?! Io non voglio lasciare Raftel!»
Marco si acciglia, scuote appena il capo. «Ma… il tuo sogno, il tuo progetto, tutto… tutto questo»
«Anche se vincessi stasera, non diventerò famoso domani e anche se fosse, non ho intenzione di lasciare la mia città per questo. Kami! Ho tutto a Raftel! La mia famiglia, i miei amici, tu, Koala, il bambino! Che razza di padrino sarei a distanza? E non penserai che lascerò Aisa nelle mani del cappellone senza tenerli d’occhio, vero?!»mi indigno al solo pensiero, poi prendo un profondo respiro e ricomincio con calma: «Mica tutti si trasferiscono, Marco. Boa ha passato a Raftel tutta la sua vita, anche quand’era all’apice della carriera, Myu vive a Melice, Lulis a Waterwheel, e poi…» distolgo gli occhi in imbarazzo. «…so che dopo tutto quello che ti ho fatto passare sono un bastardo a dire una cosa del genere ma io non ho ancora deciso» risollevo gli occhi, deciso. «Non so se voglio fare questo! Cioè no, ovvio che vorrei, mi piace, mi è piaciuta questa serata e mi piacerebbe partecipare ad altre ma non ogni settimana come fanno a Marijoa! Non ho ancora deciso che tipo di stilista voglio essere, se voglio che sia a tempo pieno o un secondo lavoro o che resti un hobby. È stato tutto così improvviso e ho le idee ancora confuse ma so che troverò una quadra, poco per volta e con criterio e nel frattempo non lascerò la I&Co, non ancora. E mi piacerebbe cambiare mansione intanto ma va bene anche il reparto stampanti perché alla fine, Marco, io avevo bisogno di fare questa cosa, sono felice di averla fatta ed è solo l’inizio, non so ancora di cosa ma è solo l’inizio, ma in tutto questo l’unica costante che mi serve davvero…» espiro e sono finalmente io a portare le mani al suo volto. «…sei tu»
Marco mi fissa, non parla per alcuni interminabili secondi e quando sto per protestare che almeno dica qualcosa, mi prende per i fianchi e mi trascina verso di sé, baciandomi con trasporto.
Mi ero dimenticato quanto fosse diverso immaginare di stare tra le braccia di Marco e starci davvero. È come il mondo che si ribalta, un’onda che mi investe, come attraversare i fuochi d’artificio, ricoprendosi di colori e luci.
È bello baciare Marco, quasi poetico. Trovo quindi ironico che l’atto mi finisca sempre per suscitare pensieri molto mondani e poco cortesi. Ma mentre mi stringo Marco addosso e una mia mano scivola per sbaglio sulle sue chiappe, mentre lo cerco con il corpo e con il cuore, dell’ironia dei miei sensi me ne frego altamente. Ho visto una specie di anfratto dietro uno dei palchi prima che sarebbe semplicemente perfetto per…
«Izou!»
Mi stacco da lui con un sobbalzo. Mi ero dimenticato che siamo in mezzo a un centinaio di persone.
«Che… che c’è?» mi giro sperso verso mia sorella. Aisa mi osserva con le mani sui fianchi e il sorriso famelico di quando l’ho beccata a limonare la prima volta in veranda.
«Volete una stanza?»
«Non sarebbe una cattiva idea» risponde Marco baciandomi la tempia e attentando alla mia sanità mentale.
«Marco-chan…» gemo piano, aggrappandomi ai baveri della sua giacca.
Aisa alza entrambe le mani ai lati del viso. «Okay, okay, calmate i bollenti spiriti sposini. Ci sono le premiazioni prima»
Ben ancorato a Marco e senza nessuna intenzione di lasciarlo andare, aggrotto le sopracciglia. «Di già?» domando perplesso e Aisa si stringe nelle spalle.
«Secondo Myu i giudici si sono fatti un’idea molto unanime già durante la sfilata e hanno avuto bisogno di discutere pochissimo. Meglio così, no? Almeno ti levi il pensiero e ti godi il resto della serata» ci fa l’occhiolino da sopra la spalla mentre torna nella sala della sfilata, sotto al mio sguardo fisso e vitreo.
Il cuore mi batte a mille per la tensione e credo di stare inzuppando la giacca di Marco con il sudore delle mie mani ma poco importa.
«Aisa ha perso la verginità?» domanda Marco, scrutando mia sorella che si allontana. Lui è fatto così, non ci va molto per il sottile, con me men che meno.
«Io spero di sì ma se anche non fosse la perderà stanotte. Ho fatto un discorsetto a Kira al riguardo» sospiro.
«Aisa sta con Kira?» si gira di scatto a guardarmi Marco e io gli sorrido, portando le mani intorno alla sua mandibola. «Hai un po’ di arretrato da recuperare, Marco-chan» lo informo con un bacio. «In tutti i sensi»
Sghignazza sulle mia labbra e alza una mano a intrecciare le mie dita con le sue. «Ora ci sono le premiazioni» mi ricorda e io sbuffo, nonostante il battito accelerato e mi lascio guidare. La sala è già nuovamente gremita ma tutti hanno ripreso i posti della sfilata ed è quindi facile, per me e Marco, ritrovare il nostro gruppo. Mi avvicino con un nervoso sorriso e subito Lulis mi fa “pat pat” sulla testa, Myu mi mostra il pollice alzato e, non appena mi siedo, Victoria mi stringe una spalla, inducendomi un quasi svenimento.
«Pronto?» domanda Nami, sporgendosi appena in avanti con il busto e io stritolo la mano di Marco mentre mando giù. «Pronto» confermo, non troppo convinto.
«Signore e signori, stilisti esordienti, bentornati» riprende la voce sensuale e femminile che ha fatto da sottofondo a tutta la sfilata. «Eccoci giunti al momento tanto atteso. La Baroque Works e la giuria vogliono complimentarsi con tutti voi per le magnifiche collezioni presentate…» intravedo Boa schioccare la lingua con fastidio. «…e augurarvi l’in bocca al lupo per le vostre future brillanti carriere. Ed ecco ora l’elenco dei classificati dal quarto all’ottavo posto»
Trattengo il fiato, rigido come un tronco.
«Al quarto posto, con la collezione Tatabasco, Cotton Scout»
Lievi applausi si levano tutti intorno, ai quali però non riesco a unirmi.
«Al quinto posto, con la collezione Red Beans, Dai Fuku»
Okay, dai. Adesso sì, adesso posso iniziare a sperare. Vero?!
«Al sesto posto, con la collezione Origami, Kumadori Tekkai»
Il primo sospiro deluso lascia le mie labbra. Speravo almeno nel sesto posto, cavolo. Marco si gira a guardarmi, perplesso.
«Al settimo posto, con la collezione Crochet, Carol Masterson»
Chino il capo ed è solo per non attirare l’attenzione che non mi passo una mano sul volto.
«All’ottavo posto, con la collezione Modigliani, Jo Scarpone»
Rialzo il capo di scatto quando il mio nome non viene annunciato al microfono. Che cos’è successo? Perché nessuno mi ha ancora chiamato? Si sono persi la mia iscrizione?! Mi sono momentaneamente addormentato?! Che cosa… Non è possibile che io sia tra…
«…i tre finalisti. Al terzo posto con la coll…»
La testa comincia a ronzare e io non sento più niente.
Finalista? Sono uno dei finalisti?! Non… non è possibile, dev’esserci un errore, forse è uno scherzo, sì ma che scherzo di pessimo gusto però!
Okay non importa, so come cavarmela! Riderò con sufficienza e scrollando il mio impeccabile chignon affermerò che ho sempre saputo che si trattava di una candid-camera e che la mia arte è troppo complessa per dei comuni cervelli mortali. Sì, così è perfetto! Boa approverà, mi chiederà anche di insegnarle a ondeggiare i capelli con così tanta classe ne sono cert…
«Izou!!!» Nami urla praticamente nel mio orecchio e mi accorgo di un lieve senso di nausea alla bocca dello stomaco, senz’alto da imputare al fatto che Lulis mi scuote vigorosamente per il braccio, facendomi ciondolare a destra e sinistra. Sbatto le palpebre e scuoto energico la testa per ritrovare un briciolo di lucidità, abbastanza da accorgermi che coriandoli dorati stanno scendendo lievi dal soffitto alla passerella, su cui un nutrito numero di persone è ora riunito, ad abbracciare e innaffiare con lo champagne quello che sospetto sia il vincitore di questa edizione del concorso, la cui identità mi resta ignota.
«Ehi, Izou» Aisa mi chiama più calma, accovacciata di fronte a me, le braccia appoggiate alle mie gambe e un sorriso tra il preoccupato e il comprensivo. «Stai bene, fratellone?»
«Izou credimi, meritavi il primo posto, qualcuno deve essersi messo di traverso» interviene Myu, sporgendosi oltre Lulis che non mi ha ancora lasciato il braccio.
«Mi dispiace, Izou-chan» mi guarda con i suoi giganteschi occhioni. «Ma non abbatterti. Questo è comunque un magnifico trampolino di lancio!»  
La guardo, boccheggiando e sposto poi gli occhi su Myu, li giro verso Aisa, verso Marco. Mi volto verso Nami e intravedo alle sue spalle Zoro e Kira che parlano ma mi lanciano preoccupate occhiate, poi dall’altra parte verso Victoria che si sta presentando a Hana, Edward, Halta e Deuce, con una mano stretta sulla mia spalla per farmi sentire la sua presenza. Li guardo e percepisco tutti, tutti qui per me, tutti qui con me e qualcosa nella mia anima si tende fino a rischiare di spezzarsi. Ma non lo fa e io getto un braccio in avanti verso mia sorella e uno indietro verso Nami e me le stringo forte addosso.
«I-Izou?» si allarma Nami. «Che hai? Cosa…»
«Sono felice» la interrompo in un soffio. «Kami sono così felice!» getto il capo all’indietro e rido, due lacrime mi scivolano giù lungo il viso. «Il mio obbiettivo era non arrivare ultimo ma addirittura tra i primi tre! Io non… non pensavo, non…»
«Se non fossi arrivato tra i primi tre sarei andata a chiedere ai giudici che problemi mentali hanno!» si indigna Aisa, il tono nasale come il mio quando mi altero, e io mi zittisco, la guardo un istante e, in un secondo slancio, lascio andare Nami e mi stringo mia sorella al petto con entrambe la braccia.
Chiudo gli occhi e porto una mano sulla sua nuca come quando la stringevo da bambina dopo un incubo, fremo appena quando lei ricambia la stretta. Non ci abbracciamo spesso, io e Aisa, ma non ho dubbi, anche se ci abbracciassimo sempre, questo sarebbe comunque un abbraccio molto speciale.
«Ti voglio bene, Izou» mormora al mio orecchio.
«Anche io ti voglio bene, stramaledetta rompiscatole» struscio il naso contro la sua guancia e nel farlo capto lo sguardo di Marco, fisso su di noi. Mi giro a ricambiare il suo ghigno storto, ma ancora non mi separo da mia sorella che, a sua volta, non sembra avere fretta di separarsi da me. «Grazie» li cerco di nuovo tutti con gli occhi. «Grazie davvero, a tutti voi» prendo un bel respiro, pronto a dare libero sfogo ai miei pensieri e alle mie emozioni, una volta tanto senza barriere difensive e, per come mi sento al momento, sono certo che ne uscirà un discorso bellissimo, strappalacrime e carico di significato. In fondo fa bene, ogni tanto, mettere gli altri al primo posto e non pensare sempre a se stessi no?! «Non so dirvi quanto grande sia stato il vostro supporto, e se pensate che con alcuni di voi ci siamo conosciuti solo stasera è davvero pazz…» mi blocco e acciglio, colpito da un pensiero improvviso che mi resetta la testa e mi fa dimenticare tutta la mia bella orazione. «Ehi ma… quindi come mi sono classificato alla fine?!»   
 Beh dai, almeno per qualche secondo sono stato concentrato su di loro, no?!

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Capitolo 36
*** Capitolo 36 ***


Io non sono un misantropo.
So che posso sembrarlo, soprattutto a chi mi conosce poco, ma non lo sono.
Non sono intollerante verso chiunque, disprezzo solo chi lo merita e nonostante tutto riesco a trovare ancora, dentro di me, una pallida scintilla di fiducia verso il genere umano.    
Quindi no, non sono un misantropo. Non è la gente che odio.
Per esempio, l’ammasso protocellulare che sta mettendo radici sul nostro divano, con addosso ritagli di cotone e acetato, che un tempo sono stati vestiti con una forma, una taglia e, soprattutto, una dignità, e si nutre solo di fibre e un discutibile mix di carboidrati, grassi e ananas, per qualche incomprensibile motivo, lo amo più della mia stessa vita.
E non glielo dirò mai, perché sono un sociopatico anaffettivo ma anche e soprattutto perché, tra fratelli, certe cose non si dicono, si dimostrano.
Tollerare la sua visione in suddetto stato, permettergli di vivere in salotto, lasciargli monopolizzare la tivù mi sembrano tutti segnali molto espliciti che sottolineano il mio affetto per lui. Perché, appunto, non è la gente che odio.
Quello che odio è ciò che il genere umano, con tutti i magnifici strumenti naturali e non che ha a disposizione, si abbassa a creare per poi propinare tali creazioni a menti prive di colpe, che vorrebbero solo vivere ignorando cosa sia Grey’s Anatomy.
Come la mia, tanto per dirne una.
Già solo il gioco di parole del titolo mi provoca istinti sadici. I personaggi farebbero salire il nazismo pure a Ghandi. Quando si passa alla trama, la distruzione di massa dell’intero genere umano sembra essere la sola strada percorribile.
In due parole, sono le complessate storie di un gruppo di chirurghi di un ospedale che attira disgrazie come la merda le mosche. Per un qualche calcolo statistico assolutamente distorto, due casi su cinque che suddetti chirurghi devono smazzarsi hanno quel grado di rarità per cui, nella vita vera, un chirurgo normale se ne vede uno in tutta la carriera può considerarsi beatificato. E suddetti casi rari e ai confini della realtà vengono gestiti da suddetti chirurghi tra reiterati coiti e pene d’amore, che portano a cambi di coppie così frequenti che nemmeno le alleanze a Risiko.
In tutto questo, la protagonista è più depressa di me in piena adolescenza e quindi mi viene spontaneo domandarmi perché mai mio fratello, quello con cui ho un rapporto come se fossimo gemelli, il mio compagno di tante stronzate, l’avvocato che vuole diventare giudice e non si fa frenare da niente, il ragazzo intelligente con cui stavo su a parlare di qualsiasi cosa fino alle tre del mattino quando vivevamo ancora a Goa, abbia pensato che questo potesse essere un buon passatempo per tirarsi su.
E la risposta è una sola. Non vuole affatto tirarsi su e la sua è stata una oculata e masochista scelta per crogiolarsi meglio nella depressione e in un per niente commisurato senso di colpa. Conclusione rafforzata dalla presenza di un personaggio che, a suo dire, ricorda tanto Ishley. 
Con un sospiro, mi stacco dallo stipite e mi trascino verso il divano. Mi lascio cadere nel posto vicino al bracciolo di destra, anche perché gli altri due cuscini sono occupati da Sabo, mezzo sdraiato e con il gomito puntellato per tenere su il busto. Non mi guarda quando mi siedo, continua a fissare lo schermo e io mi prendo un momento per studiarlo, i capelli arruffati, il velo di barba, le occhiaie marcate.
Per il cielo, ci si può conciare così?! Per cosa poi?!   
Torno a guardare lo schermo, su cui figure si muovono senza un senso per me, che non ho nessuna intenzione di concentrarmi sullo svolgimento dell’episodio. Per questo sussulto appena quando Sabo si decide finalmente a parlare.
«Vedi? È proprio come lei» indica la tele con il braccio libero dal sostenersi. «Dolce, bellissima, divertente ma con un pessimo radar per gli uomini. Lo sanno tutti che Karev è uno stronzo ma lei ci casca lo stesso»
Ruoto gli occhi al soffitto.
Oh per l’amore di dio, dammi la forza! Ha veramente appena detto “Lo sanno tutti che Karev è uno stronzo”? Lo ha detto davvero?! E chi è Karev?!
«Sabo, stai esagerando» lo affronto di petto, senza tanti preamboli, come sono io. Per la prima volta da stamattina, quando mi ha lanciato una fugace e furtiva occhiata a colazione per chiedermi come fosse andata la serata di beneficenza, Sabo porta lo sguardo su di me. E mi fulmina.
«Non la pensavi così l’altro ieri» accusa senza pietà e questi sono i momenti in cui ricordo perché, se mai commettessi un omicidio, vorrei lui a difendermi.
«L’altro ieri non ero in me e comunque non ho mai voluto questo» indico lo schermo a braccio teso.
«Beh ma è quello che mi merito!»
A-ah! Allora anche lui pensa che questa roba sia una tortura! C’è ancora mio fratello da qualche parte, là sotto!
Celo la mia rara nonché momentanea esplosione emotiva, mantenendo lo sguardo impassibile e fisso su di lui. «Stai esagerando» ripeto.
«Papà ci ha insegnato a prenderci le nostre responsabilità» taglia corto e si rigira verso la tivù.
«Sì, le responsabilità, non colpe infondate. E ci ha anche insegnato ad agire»
Come ho fatto io. Ho agito, ho accusato Sabo di qualcosa che non aveva e non avrebbe mai fatto. Come sto facendo ora. Mi prendo la responsabilità delle mie azioni e cerco di aiutarlo dopo averlo mortificato.
Ormai il danno l’ho fatto, sentirsi in colpa per questo non è di aiuto a nessuno dei due.
«Ho provato a chiamarla» mormora dopo un paio di minuti, gli occhi ancora puntati sulle immagini ma non segue più il telefilm. Grazie al cielo.
«Non ha risposto neanche a me» annuisco piano. «Ma non esiste solo il telefono»
«È chiaro che non vuole parlarmi»
«È chiaro che anche lei ha esagerato. Non eri tenuto a dirglielo, non l’hai mica trad…»
«E invece sì!» si tira su a sedere con un ruggito. «Non avrò tradito lei ma ho tradito la sua fiducia! Le ho mentito, Law! È stata colpa mia e non infondata!» espira e china il capo, di nuovo abbacchiato dopo la breve esplosione. Si passa una mano tra i capelli e io lo guardo, in attesa. «Una sera, tre settimane fa, ci siamo raccontati tutto. Tutte le nostre storie passate, quelle rilevanti per lo meno. Ci siamo promessi di dirci tutto senza patemi. Le ho pure confessato che sono stato innamorato di Robin per quasi un anno» ride amaro mentre rialza il capo per guardarmi. Manda giù pesante, inala tremulo un po’ d’aria e ricomincia. «A un certo punto mi ha detto di questo tipo di Dressrosa, con cui ha avuto una storia di una notte e, a quanto pare, non si sono nemmeno presentati, quindi lei non sapeva il suo nome e io mi sono agitato, mi stavo anche arrabbiando perché credevo che non me lo volesse dire perché era in qualche modo importante, che lo era stato e che lo fosse ancora» si passa due dita sugli occhi. «E quando lei mi ha chiesto di Alabasta sai cosa le ho risposto? “Sì, ho avuto una relazione, niente di serio insomma è capitato. Alla fine mi sono trasferito per lavoro, una storia non era certo il mio primo pensiero”»
Sabo solleva appena il mento e ci guardiamo fissi per dieci interminabili secondi.
«Sei un coglione»
«Sì, lo so» soffia sofferente. «Riesci a immaginare come si sarà sentita? Io ho quasi sclerato per un tizio di cui lei davvero non sa neanche il nome e che ha visto una sola volta in vita sua, cos’avrà pensato quando ha capito che era Bibi?! Che provo ancora qualcosa per lei, che non l’ho dimenticata!»
«E non è così?» domando piano, atono, impassibile. Lo provoco, di proposito e la sua reazione non mi delude.
«No! Assolutamente no!» ribatte in fretta e poi si morde la lingua, colpevole. Distoglie lo sguardo, esala dal naso. «Io voglio bene a Bibi, gliene vorrò sempre. È stata un pezzo importante della mia vita, ed è una persona a cui tengo tutt’ora. Ma se ti dicessi che quando è finita le ho augurato il meglio, ti direi una bugia. Ci ho messo due mesi a scendere a patti con la realtà che non era colpa di nessuno. E quando ci sono finalmente riuscito, ho ritrovato il coraggio per tornare a casa e lei era qui e non appena ha messo piede nella mia vita non avere più legami, non avere più Bibi, mi ha reso felice perché ero libero di avere lei, almeno provare, sperarci» china il capo sconfitto e lo scuote. «Non è mai stato per dimenticare Bibi. Mai. Qualunque dubbio avessi ancora di aver fatto la scelta sbagliata a tornare, qualunque dubbio che forse sarei dovuto rimanere e lottare ancora, anche contro l’evidenza, è svanito quando lei è arrivata con quella ridicola maschera da Dugongo a dirti che ti odiava. Quello è stato il momento in cui ho capito che io appartengo a questo posto e a questa famiglia» si asciuga gli occhi lucidi e io nego pure a me stesso, e lo negherò anche di fronte al creatore in persona se necessario, che anche i miei hanno iniziato a pizzicare. «Ma ho rovinato tutto come un coglione. L’ho persa ed è solo colpa mia»
 Manda giù pesante e la prima lacrima sfugge al suo controllo. China di nuovo il capo, preme forte agli angoli degli occhi, cerca di trattenersi ma Koala ha detto che è due giorni che si tiene dentro tutto e io lo conosco abbastanza bene da sapere che a lui, tenersi dentro le cose, non fa bene per niente.
Allungo il braccio, poso la mano sulla sua nuca e tiro. La sua fronte trova subito la mia spalla e i singhiozzi cominciano a uscire. Me ne sto zitto così, ad ascoltare mio fratello che piange e si sfoga, conscio che non posso fare niente se non stringerlo e mi odio per questo. Non so quanto è passato quando i singhiozzi diminuiscono. Premo una guancia contro la sua tempia, la mano sempre stretta sulla sua nuca.
«Tu appartieni a questa famiglia e a questo posto. Non hai rovinato tutto. Né con noi e…» prendo un profondo respiro perché se gli sto dando false speranze, non me lo perdonerò mai. Ma ho parlato tanto con Koala ieri e, tra l’idea che si è fatta lei e per come conosco io Ishley, la conclusione a cui siamo giunti è una soltanto. «…non hai rovinato le cose nemmeno con lei. Sabo» lo chiamo e mi scosto per guardarlo. Alza il viso verso di me, martoriato e sfinito e io serro la mascella. Non sopporto che stia così male. «Tu la ami»
Non è una domanda e solo un idiota potrebbe ancora dubitarne. Lui la ama.
La ama tanto.
«Da morire…» ammette e trema appena. L’altra mia mano sale al suo braccio, vittima di un’irrazionale paura che possa andare in pezzi qui davanti a me.
«Va a dirglielo» lo guardo serissimo. «Cosa stai aspettando? Non è da te questo! Mangiare solo schifezze, drogarti di telefilm, che, detto tra noi, ne potevi scegliere anche uno meno insulso» stringo di più il suo braccio. «Che fine ha fatto il ragazzo che è riuscito a far istituire a scuola il venerdì del taco, che ridicolizzava i professori alla radio dell’università, che ha preso il massimo a diritto internazionale, che mi faceva fare figure di merda per chiedere il numero a sconosciute perché una di loro poteva anche essere la donna della sua vita, che ha affrontato tutte quelle malelingue e un salto nel buio per stare con Bibi? Ti arrendi adesso che l’hai trovata davvero, Sabo? Va da lei, vai a prenderla»
Sabo mi fissa a occhi sgranati, il fiato grosso, soppesa le mie parole e la sua mano sale a stringere il mio braccio proteso verso di lui. Preme con i polpastrelli fino all’osso, cercando la forza che da due giorni gli manca per reagire.
«L’ho trovata» afferma piano, quasi che lo stesse realizzando ora. «È lei, Law» annuisco secco. «Vado… vado a prenderla» prende un bel respiro e si raddrizza con il busto. «Vado a prenderla» ripete più convinto.  
Si alza in piedi e afferra il bordo inferiore della maglietta a due mani, tirandolo con decisione, la schiena ben dritta. Fa per muovere un passo ma subito esita. «Forse prima dovrei darmi una rinfrescata» considera. «E rasarmi e… e cambiarmi. Vero?» cerca conferma alla sua riflessione e io alzo un sopracciglio.
«Fai tu»
«Okay, sì» annuisce e prende un bel respiro. «Giusto» si avvia verso il bagno ma due passi e torna indietro. «Ma a te piaceva il venerdì taco?» mi domanda a sopracciglia aggrottate e io fisso il vuoto con occhi vitrei per poi girarmi lentamente verso di lui.
«Ti sembra rilevante in questo momento?»
«No! Macchè, rilevante? Pfff figurati, è solo che… che ecco, potrei essermi diciamo un po’… un po’ vantato, ecco…» si gratta la nuca. «…con Ish di questa cosa e ora temo che sia stata una cazzata, essermene vantato intendo non il venerdì taco!» mette in chiaro alzando le mani.
«Ora come ora entrambe le cose mi sembrano una cazzata» ribatto lapidario e Sabo si irrigidisce. Sposta gli occhi al pavimento, poi alla televisione, senza realmente vederla. Sospiro, rassegnato. Rassegnato a farmi sempre scombinare da questi fusi di testa che però, porca miseria, sono tanto importanti. «Però i taco sono buoni. E a Ishley piacciono un sacco» lo informo e sembra che gli abbia rivelato l’ubicazione dello One Piece da come si illumina.
«Oh! Oh o-okay… bene!»
Lo continuo a fissare, atono e in attesa, e mi schiarisco sonoramente la gola quando non si muove, facendolo sobbalzare. «Rinfrescata e vado! Giusto!» si mette quasi sull’attenti prima di decidersi, finalmente, a schizzare in bagno.
Mi lascio andare all’indietro contro il divano, appoggio la nuca alla testata e sprofondo di più nel cuscino. Mi drenano le energie. Io l’ho sempre sostenuto. Amare è faticoso.
Ma, devo essere onesto, è una fatica che faccio volentieri.
Con un ghigno di scherno per me stesso, mi rimetto dritto con il capo e lascio vagare gli occhi sullo schermo piatto a qualche metro di distanza, collegato al pc portatile di Koala. Gli insulsi dottori continuano a parlare insulsamente dei loro insulsi problemi, mentali e medici, personali e altrui e io cerco a tentoni il telecomando per spegnere almeno lo schermo.
Dovrei alzarmi per fermare tutto, direttamente dal computer, ma dopo stanotte e stamattina ho le gambe un po’ indolenzite. E non è come se fosse un problema comunque.
Afferro il telecomando e tendo il braccio, ma all’ultimo mi trattengo. Una delle “dottoresse” più giovani sta parlando a macchinetta e mi basta guardare come gesticola per capire che è lei la tipa che ricorda Ish a mio fratello. La studio attento, curioso di scoprire quanta somiglianza effettiva c’è, il braccio ancora teso, il dito fermo sul tasto di spegnimento/accensione.
In qualche misura la ricorda anche a me, non lo posso negare, ma non riesco ad afferrare completamente e mi impunto. La parlantina veloce, il gesticolare ampio, la conoscenza vasta…
Sono così assorto – perché odio non capire, non è  affatto perché mi manca – che neanche recepisco la porta che si apre e chiude, annunciando che Koala è rientrata dalla sua passeggiata con Robin. Non me ne accorgo, finché la sua voce non mi raggiunge nonostante la mia profonda concentrazione.
«Stai guardando Grey’s Anatomy?!»
«Assolutamente no!»
 

 
§

 
Mi sfugge un gemito quando, rientrati in casa, poso gli occhi sullo stato del salotto. Sembra che un esercito di unni, guidati da Rufy affamato e in cerca di cibo, sia passato per di qua, abbia conquistato quello che doveva conquistare e poi sia tornato a fare baldoria.
È un bordello e io mi odio, mi odio davvero per essermi illusa che fosse una buona idea sistemarlo dopo Dressrosa. Non che l’altro ieri quando siamo partiti ci sia stato tempo per riordinare. Ma non mi ero resa conto e nemmeno capisco. Voglio dire, abbiamo svuotato la casa portando via tutti i vestiti della collezione di Izou, da dove arriva tutto questo caos?!
Cellophane in giro, gomitoli srotolati in ogni dove, i manichini sparpagliati ovunque, il metro da sarta, metà del bagaglio di Izou, svuotato all’ultimo sul divano per fare spazio a scampoli di stoffa per i ritocchi dell’ultimo minuto perché “non si sa mai”.
Ora, c’è solo un piccolo dettaglio. Avevo deciso di sistemare poi perché non c’era tempo, perché non avevo voglia e perché, soprattutto, Izou avrebbe dovuto aiutarmi al rientro.
Perché sarebbe dovuto tornare qui con noi, al rientro.
Ma c’è, appunto, un piccolo dettaglio. Izou non è qui.
«Ti fa proprio schifo la nostra intimità eh» commenta con voce strascicata.
«Fatti passare il mestruo, Roronoa!» abbaio, parcheggiando a viva forza il trolley. «Sono felice di riavere casa mia ma devo forse credere che mi aiuterai a sistemare quel macello di là?»
«Non ci penso nemmeno» risponde pacato. «Non l’ho causato io e sono due mesi e mezzo che aspetto di potermi fare una pennica come si deve, senza Izou che si mette a ululare le canzoni di Mika in giro per casa» mi informa, portando il borsone fino in camera. «La casa è rimasta così per due giorni e può aspettare ancora. Se sei in grado di rimandare a più tardi ti aiuto se no, buon lavoro» mi augura sparendo oltre la porta e io rimango qui a fissare il punto dove si trovava un attimo fa, fumante di rabbia e mani sui fianchi.
«Tu ti approfitti troppo del fatto che ti amo!» sbotto, pestando un piede a terra ma non ottengo nemmeno un grugnito in risposta.
Stronzo di un Roronoa.
Rassegnata, mi rimbocco le maniche e comincio almeno a raggruppare per categoria il ciarpame che dilaga ovunque, dove piazzarlo lo valuterò più tardi.
E comunque non è giusto! Izou mi doveva dare una mano! Nemmeno se lo ricorda, secondo me, oppure ha fatto apposta finta di niente quando ci ha avvisati che tornava a casa e che sarebbe passato a recuperare le sue cose nei prossimi giorni.
Bella mossa, lasciar da fare tutto a me, da sola, senza nemmeno due chiacchiere a tenermi compagnia, immersa nel silenzio totale.
Forse… Forse potrei mettere un po’ di musica. Magari qualcosa di Mika.
Mi strozzo con la mia stessa saliva quando mi rendo conto di cosa ho pensato. Ma che mi prende?!
Scuoto il capo e decido insindacabilmente che no, l’idea della musica non è comunque una soluzione. Mi distrarrebbe e non è come se mi mancasse chiacchierare con Izou o sentirlo cantare a squarciagola. Anzi, sono sicura che così, totalmente concentrata su quel che devo fare, ci metterò molto meno. Mi rimbocco le maniche e comincio a pulire e lancio orgogliosa un’occhiata all’orologio quando una parte del salotto comincia a tornare visibile. Sono certa di averci messo pochiss…
Venti minuti?! Sono passati venti minuti?! Ma ho messo a posto quattro cose! A un’occhiata superficiale il salotto è praticamente come quando ho iniziato! Non è possibile!
Con Izou in venti minuti ribaltavo la casa!
A guance gonfie e rinnovata determinazione, raccolgo tutto il cellophane in un unico mucchio che mi riempie le braccia, decisa a disfarmene in un’unica volta. Adesso ti faccio vedere io, orologio!
Il problema è che, per quanto non pesi nulla, si gonfia tra le mie braccia ad ogni passo, ostruendomi la visuale e io devo andare a memoria e tentoni per non uccidermi, camminando anche molto cauta nel mini-labirinto che è al momento il mio salotto. Giro intorno al divano, calcio via due gomitoli.
È il rocchetto di filo a fregarmi. Riesco a malapena a imprecare quando mi preme nella carne della pianta, che quello rotola e io scivolo all’indietro, le mani incartate nel cellophane e inutilizzabili per frenare la caduta.
Merda! Izou questa me la p…
Mi sorprendo quando qualcosa mi frena e mi avvolge. Qualcosa di caldo, forte e rassicurante. Qualcosa che il mio corpo identifica all’istante come le braccia di mio marito.
«Sei proprio una mocciosa» mormora al mio orecchio e so, anche senza vederlo, che sta ghignando. «Ti lascio da sola cinque secondi e quasi ti uccidi?»
«Mpf» mugugno, scrollando le spalle e slittando con i piedi per rimettermi dritta. Operazione complessa senza l’uso delle mani e con Zoro che non sembra propenso a lasciarmi andare. Non che io voglia stare qui, contro il suo caldo e muscoloso petto. Assolutamente no. Provo a girarmi e mi spalmo con la guancia contro il suo sterno, il battito del suo cuore mi scalda il viso e sarebbe molto poetico se io non avessi la faccia deformata e l’espressione truce.
«Ti spiace aiutarmi?» mugugno con solo mezza bocca e lo so, anche se da questa posizione non lo vedo, lo so che ghigna il bastardo.
«Così puoi tentare nuovamente il suicidio?»
«Magari sono più interessata a un omicidio» lo metto in guardia ma non riesco a non fremere quando sfrega i palmi sulle mie braccia prima di afferrarle per rimettermi in piedi.
Scrollo le spalle e, fintamente scocciata, riprendo la mia marcia verso il giardino, per andare a gettare il cellophane, ma mi fermo quando mi accorgo che Zoro si è appropriato del cestino di vimini e sta raccogliendo i gomitolo e i rocchetti sparsi in giro. «Non dovevi dormire?» domando, sinceramente stupita.
Zoro non rinuncia mai alla pennichella e ieri è stata una serata intensa. Intensa in tutti i sensi.
Si stringe nelle spalle, senza smettere di fare ordine. «Non riesco a prendere sonno»
«Come?». Si blocca e gira il capo a guardare me, che lo fisso di rimando a bocca aperta. «Roronoa Zoro che non riesce a prendere sonno?»
«Capita» prova a minimizzare, distogliendo di nuovo gli occhi.
«Sì, alle persone normali. Non a te»
«Capita anche a me se la mia mocciosa non è capace di mettere a posto senza fare casino»
«Ehi!» mi indigno, il fumo che quasi mi esce dalle orecchie. So che è una sua tipica provocazione ma il dubbio di averlo davvero disturbato mi assale, fastidioso. Sono stata attenta apposta! Ha guidato lui per lasciarmi dormire, stamattina. «Non ho fatto nessun casino. Anzi, non so da quanto non c’era tutto questo silenzio in ca…» mi blocco, colpita da un pensiero, ed emetto un lieve verso di sorpresa e improvvisa comprensione. «È questo» sorrido tronfia e avanzo verso di lui, tornando sui miei passi. «Non riesci a dormire perché c’è troppo silenzio». Zoro continua imperterrito la propria attività, senza alzare la testa. Purtroppo per lui, per quanto riesca a nascondere le emozioni che non vuole esternare, quando si imbarazza le orecchie gli diventano rosse. E quello non può controllarlo, che gli piaccia o no. «E quindi…» continuo ad avanzare e il sorriso diventa sornione. «…senza gli ululati canori miei e di Izou, come li chiamavi tu, non riesci a dormire eh?»
«Questione di riabituarmi» taglia corto ma borbotta. Strascica le parole, se le mangia quasi. Come quando deve dire qualcosa che in realtà lo fa stare male. O comunque non lo fa stare proprio benissimo.
Il sorriso si spegne all’istante, l’agitazione prende corpo dentro di me. Dopo lo sfogo emotivo di qualche giorno fa, dopo aver scoperto cosa si è tenuto dentro e per quanto, sono particolarmente protettiva e all’erta con lui. E qualsiasi cosa lo turbi, che siano sciocchezze o problemi seri, devo scoprirla, capire di cosa si tratta e fare quanto in mio potere per sistemarla.
«Zoro che cosa c’è?» mollo a terra il cellophane e cammino più rapida e decisa ma mi fermo quando si tira su, gli occhi puntati alla finestra, le mani in tasca.
«Non è nulla»
Mio dio, sembra Sanji quando è a disagio. Non l’ho mai visto così, ma che gli prende?!
«Te l’ho detto, mi riabituerò, dammi un paio di giorni»
Se fosse fisicamente possibile, la mandibola mi cadrebbe al suolo. Non è quello che penso vero? Insomma dai non può… Dovrebbe essere al settimo cielo, non ha senso, non per lui…
Ma mi basta un attimo di riflessione per accorgermi che la mia convinzione non ha fondamento. Perché no? Perché lui non dovrebbe sentire questo vuoto, questa sensazione di qualcosa fuori posto? Perché a lui no?
«Ti manca Izou…»
«Ma che dici, mocciosa» ribatte subito, scrollando le spalle. «Figurati se mi manca quella zecca! Solo perché fa dei pancake spaziali?» si passa una mano sulla nuca. «So farli da me i pancake. E a Tekken posso giocare contro il computer, non mi serve un avversario, soprattutto uno che commenta ogni mossa e da nomignoli idioti agli avversari» continua, le orecchie ormai viola, e io ricomincio ad avanzare. «E se voglio sentire ululare qualcuno dovrei avere in giro un fischietto da ultrasuoni per aizzare il cane del vicino»
«Giusto. E i selfie possiamo farceli anche senza di lui e possiamo lasciare il salotto in disordine apposta per dare alla casa un’aria vissuta anche quando siamo fuori tutto il giorno. Poi però pulisci tu» metto subito in chiaro, puntandogli contro l’indice.
Zoro si gira a guardarmi e sbuffa una risata lieve, concedendosi un ghigno. «Non avrebbe molto senso, mettere in disordine per poi riordinare»
«Lo so» mi stringo nelle spalle e incrocio le braccia sotto il seno. «Ma forse è questo. Dava un “non-senso” alle nostre vite» lo guardo di sottecchi.
È dura, per due orgogliosi come noi, ammettere che ci manca. È dura ammettere che era bello avere un tornado per casa.     
È dura confessare che non vogliamo rinunciare all’imprevedibilità che Izou ci dava.
Ma anche ammettendolo, che potremmo mai fare? Adottarlo?! Non è mica un…
Il pensiero arriva così, come un fulmine a ciel sereno, mi esplode nella testa e mozza il respiro.
«Zoro tu…»
Incenerisce i filtri cervello-bocca.
«…tu vorresti…»
«Mocciosa, facciamo un bambino»
«…fare un bambino?»
Il fiato sospeso, mi giro di scatto verso di lui, che mi osserva ghignando per dieci secondi buoni prima di renderci conto entrambi e scattare appena.
«Cioè io…»
«Non… non intendevo immediatamente» metto le mani avanti, in tutti i sensi. «Insomma prima c’è la tua operazione e la riabilitazione e…»
«Infatti. Cioè non è che sarei contrario a farne uno anche subito ma potrebbe non essere conciliabile e…»
«No ma infatti, appunto! Appunto! Una cosa per volta però ecco io…» mi acciglio appena e torno e poso le mani ancora alzate sul suo petto. «…non ci avevo mai pensato seriamente prima d’ora»
Non mi sono mai fermata a chiedermi se volevo dei figli. Che fosse con Zoro o con qualcun altro, intendo. Non mi ero mai posta il problema, perché io e Zoro per me siamo già famiglia. Ma è bello sapere che lo voglio. Che lo vogliamo entrambi.
È bello sapere che investiremo anche in questo, anche se non subito.
Zoro ghigna di nuovo e si piega su di me, le mani ai miei fianchi, il bacino premuto contro il mio. «Se ci stiamo pensando seriamente…» soffia lascivo sul mio collo e io rabbrividisco tra le sue mani. «…dobbiamo seriamente iniziare ad allenarci»
Sorrido con malizia contro la sua mandibola mentre le mani cominciano a vagare su e giù lungo i suoi muscolosi pettorali. «Allenarci?»
«Sì» conferma, sadico, marchiandomi il collo e io non trattengo un vergognoso gemito. «L’allenamento è la base di tutto, non lo sai»
Rido e mi aggrappo al suo collo.
«Sei fissato» lo accuso, la voce rauca da tanta è la voglia e il cuore che accelera quando mi stringe.
«Ti garantisco Nami…» gorgoglia con voce profonda mentre si affretta verso la nostra camera, scartando tra cellophane, manichini nudi e gomitoli. «…che dopo oggi diventerai fissata anche tu»     

 
§
 

Fisso immobile la porta, studiandone ogni venatura e graffio. Quella porta che non mi sono mia soffermato a guardare, troppo impaziente di varcarla, che fosse per andare da lei o arrivare prima e prepararle la cena.
La porta che chiude un appartamento che, senza nemmeno rendermene conto, definivo ormai casa mia.
Casa nostra.
La stessa porta che ora mi separa da lei. Dalla donna che amo. Da Ishley.
Fermo qui da dieci minuti buoni, ripenso senza sosta a quello che ci siamo detti con Law, e che è giunto il momento di metterci una pezza. C’è solo un problema. Non so se è possibile.
Law ha detto che non ho rovinato le cose con lei ma nella mia testa, tra le frasi incoraggianti e rassicuranti di mio fratello, continua a filtrare il ricordo della sua espressione quando ha scoperto la verità. Si fidava. Si fidava di me e delle mie parole, non ha messo in dubbio nulla di ciò che le ho raccontato e io me ne sono approfittato così.
Sono un cazzone.
Sono un cazzone che è venuto chiedere alla donna più meravigliosa che abbia mai conosciuto di perdonarmi, innamorarsi perdutamente di me e passare il resto dei suoi giorni con, appunto, un cazzone.
Però, non è egoismo. Non è come con Bibi, che non sapevo cosa stavo facendo, che ho assecondato un desiderio di pancia per poi crollare quando le cose non sono andate come auspicavo.
Stavolta è diverso.
So che posso rendere Ishley una donna felice, darle quello che merita. So come fare e sono pronto a tutto per farlo. Se non ne fossi più che certo, ora non sarei qui, ragion per cui, non ha senso tornare a casa senza averci nemmeno provato per paura che la risposta di Ish non sia quello che spero.
Non sarebbe da me, non sono il tipo che abbandona il campo senza combattere. E lei è davvero la cosa più preziosa per cui abbia mai lottato.     
Deve saperlo. Devo dirglielo, mi costasse lasciarci il cuore su questo zerbino.
Mi avvicino e, con un ultimo profondo respiro, chiudo gli occhi e suono il campanello. Conto i secondi ma niente sembra muoversi oltre la porta, all’inizio. Poi lo sento, il parquet scricchiolare e il cuore mi perde tre battiti.
Sta arrivando, sta arrivando!
Ma una volta all’ingresso i passi si bloccano e io attendo cinque secondi prima di farmi sentire.
«Ish?» busso piano. «Ish sono io»
Un tonfo di qualcosa che cade e poi di nuovo silenzio assoluto. Trattengo il fiato, concentrato per captare il suo respiro anche se so che il legno è troppo spesso per lasciarlo arrivare fino a me.
«Ishley, puoi aprirmi per favore?» la prego ma non risponde e nulla più si muove.
Le mani prudono e il petto mi sta andando a fuoco. Non ce la faccio. Dio, non ce la faccio! È qui, a cinque passi da me, così vicina da poterla afferrare eppure così lontana, arroccata dietro questa porta e una barriera invisibile che se esiste, tra noi, è solo colpa mia. Così lontana che basterebbe un soffio di vento a portarmela via e io non posso lasciare che accada.
Frenetico e determinato, mi guardo attorno. Ma del vaso dove nasconde la chiave di riserva, quella che ho sempre usato io per entrare, non c’è traccia. Né di quello né di altri ninnoli che potrebbero fungere da nascondiglio.
Con lo stomaco accartocciato, mi accosto di nuovo alla porta. «Ish…» chiamo, il corpo scosso dall’agitazione. «Ti prego, mi servono solo un paio di minuti» busso di nuovo. «Ish!»
Ancora niente e io serro le palpebre disperato, mi stacco violento dalla porta, mi passo le mani sul volto e tra i capelli.
No. Non così. Non finirà così. Con lei no.
«Va bene, okay» torno verso la porta e mi ci spalmo praticamente sopra. «Non è necessario che tu mi apra o mi veda, basta che… che mi ascolti» ti prego, amore mio, ti prego. Ascoltami. Credici. «Sono stato un coglione, Ish, non ho scuse, non… non dovevo mentirti. Mi fa male anche solo a dirlo e tu potresti dirmi che però quando ti ho raccontato quella palla non mi sono fatto tanti problemi e avresti ragione!» alzo le mani in segno di resa. «Non ho giustificazioni ma parlare di Bibi… è dura per me. È dura ricordare quello che è successo, quello che ho fatto. Non lo rinnego e non voglio fare il martire. So che lei e Law non si sarebbero sposati in ogni caso ma è dura lo stesso. È mio fratello, era la sua donna, mi sono innamorato di lei che stavano ancora insieme!» chino il capo e appoggio la fronte al legno. «So che non vuoi sentire questo. Pensi che non te lo abbia detto perché lei è ancora importante e non posso negare che lo sia. È importante, lo è stata. Ma non è speciale, non lo è più, non come lo sei tu» esalo. «Tu sei importante e speciale. Tu e lei… Tu…» sei il mio “ogni cosa”, Ish. Alzo le mani tremanti e le poso ai lati del viso. «Non posso fare un confronto tra di voi, non posso! Non sarebbe giusto, siete due persone diverse, che ho vissuto in due momenti così diversi della mia vita, non posso mettervi su una bilancia e basta. Ma per te farei qualsiasi cosa e non è una cosa che dico è una cosa che sento, la sento qui nel petto perché tu, rispetto a lei… No» scuoto il capo con decisione. «Non è rispetto a lei. Bibi era il mio passato. Tu sei il mio presente e sì anche  lei allora è stata il mio presente però è diverso perché anche se lei era importante e speciale e ho attraversato mezzo continente per stare con lei con te è diverso! Con Bibi non ho mai avuto, mai, nemmeno una volta, la chiara sensazione di avere tra le braccia il resto della mia vita!»      
Mi addosso alla porta, sfinito. Ti prego, ti prego, ti prego. Non ce la faccio senza di te, non so che direzione devo prendere, dove andare.
Non riesco a vivere, senza di te.
«Ish» provo un’ultima disperata volta, allontano la mano per colpire la porta ma all’ultimo mi fermo e appoggio solo il palmo in un gesto rassegnato. «Ish…»
Chiudo gli occhi rassegnato. Non c’è davvero niente che posso fare? E li riapro subito, realizzando che una cosa c’è. L’unica che posso fare, in effetti.
«Io capisco che tutto questo è inaspettato» rialzo la voce, ricomincio a parlare. So che è lì e mi sente. «E non pretendo una risposta adesso né che mi perdoni, non senza farmela penare. Hai ragione e sono pronto a tutto per dimostrarti che non erano solo parole. Quindi tu…» faccio un profondo respiro. «…tu prenditi il tuo tempo. Io ti aspetterò Ish. Aspetterò, mi hai sentito?»
Ovviamente non mi risponde né mi da segni ma va bene così, lo accetto. Accetto il suo silenzio, anche se non è da lei. Accetto di aspettare. Per le cose davvero importanti si aspetta.
Il corpo che pesa una tonnellata, mi stacco dall’uscio e mi allontano con passi strascicati. Ne faccio tre prima di fermarmi e voltarmi di nuovo verso la porta. Forse dovrei salutare, augurarle la buona notte. Forse…. Forse dovrei tornare indietro, riprovare, chiederle di nuovo di…
No.
No, devo lasciarle tempo e spazio. Devo essere paziente. Quasi rido, mentre riprendo a camminare, al pensiero di quello che commenterebbe Ace se gli dicessi che ho deciso di essere “paziente”. Avrebbe ragione, non sono mai stato bravo ad esserlo. 
Ma per lei, per lei ne vale la pena.  

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Capitolo 37
*** Capitolo 37 ***


Alle volte, nel mio lavoro, quando turni lunghi ed emergenze si cumulano in una sadica giostra karmica, si può avere la netta impressione di vivere all’ospedale.
Operazioni che si protraggono più del previsto o impreviste nella loro totalità, ricoveri dell’ultimo minuto che necessitano di una diagnosi in fretta e subito, terapia da modificare, aggiustare, sostituire che non possono aspettare il giorno successivo né il medico che sta per entrare in servizio.
Ci vuole abnegazione, ci vuole vocazione, ci vuole adattamento.
E io, per fortuna, sono altamente adattabile ma, nella mia adattabilità scado a volte nell’abitudinario. Come, per esempio, volere sempre il letto di sopra nella stanza che usiamo per il riposo durante i turni notturni, prendere il caffè alla macchinetta dell’atrio perché secondo me è più buona e consumarlo poi nell’ambulatorio del primo piano, una paradisiaca fetta di calma e silenzio.
Non mi ero mai accorta di queste mie piccole fisse, o comunque non le avevo mai identificate come tali, prima degli ultimi tre giorni. Ultimi tre giorni in cui sono andata a cercarmi emergenze che non c’erano e interventi non poi così necessari, pur di prolungare all’infinito il mio turno fino a poter arrivare ad affermare che non è come se vivesse al Castello.
Ci vivo proprio.
E il letto di sopra nella stanza del riposo è diventato di mia proprietà, la macchinetta dell’atrio il mio angolo cottura, l’ambulatorio del primo piano il mio soggiorno.
Vivo qui da tre giorni, quattro ore e trentasette minuti e ho lavorato ogni minuto di veglia per tenere la testa impegnata. Quando mi sono svegliata, domenica mattina, all’idea di vedere solo un’altra puntata di The Guardian, mi è venuto da vomitare. Così sono venuta qui anche se non ero di turno e da tre giorni mi sto nascondendo da Law e Praline, al punto che non so nemmeno com’è andata la serata di beneficenza.
Ma non posso farmi vedere, noterebbero le occhiaie, comincerebbero a farmi il terzo grado per scoprire da quanti giorni sono qui, la metterebbero sul legale e conforme secondo la legge. E sentire parlare di legge mi fa piangere come una fontana, perché, d’altra parte, ho talmente poco sonno in corpo che la mia sensibilità emotiva ha raggiunto le altitudini del Giant Jack e crollo per un nonnulla. E più rischio di crollare, più lavoro per tenermi impegnata.
Non ne verrò mai fuori.
Ne ho la conferma e riprova quando, attraversando l’atrio per raggiungere la mia macchinetta di fiducia, passo davanti al banco dell’accettazione.
«Ciao Praline» alzo la mano distrattamente e, quando la riabbasso, mi blocco a occhi sgranati. Che ho fatto?!
Avevo detto che dovevo evitarla, vero?!
Sì, sì l’ho detto.
L’ho evitata?!
No, non l’ho fatto.
Complimenti Ishley! Davvero complimenti vivissimi!
«Ehi, ehi, ehi! Piccolo fiore di loto!» mi richiama melliflua e io chiudo gli occhi rassegnata ed esito, valutando un istante se sia il caso di provare a darmela a gambe, se il gioco vale la candela.
Sono in privazione di sonno, il cuore spezzato, in astinenza da caffeina – motivo per cui mi sono recata qui –, in sovraccarico cognitivo e non esco dall’ospedale da tre giorni. A un’analisi superficiale, non sono nemmeno sicura che riuscirei a imbroccare l’uscita.
«Ehi!» mi giro, mettendo su il sorriso più entusiasta che mi riesce. «Non ci vediamo da un po’!»
Ah sì. Sì questo era decisamente il modo migliore per non addentrarsi nel territorio del “che hai fatto negli ultimi tre giorni”.
«Oh beh questo è sicuramente vero per te ma per quanto riguarda “me che non ti vedo da un po’”, le foto nel mio telefonino di te che dormi in posizione fetale dicono il contrario» sorride sadica e io sussulto e sbianco.
«Scusa?!» mi allarmo e poi indigno. «Mi hai fotografato mentre dormivo nella stanza del turno di notte?!» e non che Praline mi risponda ma basta guardare come allarga il sorriso e un tremito mi scuote. «Tu… Santo cielo, Praline! È inquietante e… e psicopatico! Sto pure nel letto rialzato!»
«È bastato chiedere in prestito la scala all’inserviente» minimizza con una stretta di spalle. «Volevo recuperare anche un faretto della lavagna radiografica per creare un effetto di luce angelica ma non c’è stato tempo. Oh non guardarmi così, dormi come un bebè, non ti saresti svegliata»
Ma, anche se non ho idea di come io la stia guardando “così”, non smetto affatto di guardarla “così”. Questa è la tua migliore amica, la donna a cui metteresti in mano la tua stessa vita.
Sei autodistruttiva, Ishley.
Ora capisco tante cose.
«E quindi, che hai fatto negli ultimi tre giorni?» mi sistema una ciocca di capelli dietro la spalla. «Come sta l’avvocato più sexy del mondo?»
«Ah io, io… io ho smesso di guardare The Guardian» scrollo le spalle e distolgo lo sguardo. «E non ho fatto nulla in part…»
«A-ehm»
Un’ombra compare ai margini del mio campo visivo. Un’ombra di bassa statura ma che riesce a essere pregnante nella sua ridotta e compatta imponenza. Capelli bianchi raccolti in uno chignon severo quanto la sua espressione, labbra strette e occhi limpidi e penetranti. È vestita impeccabilmente, bianco e beige, e stringe con entrambe le mani la testa a forma di gru del proprio bastone.
«Ma guardala, è tascabile» sorride Praline e la signora la fulmina.
«Praline» la ammonisco in un sibilo prima di rivolgermi alla nuova arrivata. «Possiamo esserle d’aiuto?»
«Mi spiace molto interrompere il vostro amichevole colloquio ma mi chiedevo se ci fosse un luogo qui dove sia possibile bere del vero tè e non quella brodaglia solubile della macchinetta»
«Oh» non trattengo una lieve sorpresa e scambio una rapida occhiata con Praline che inarca le sopracciglia. «Beh c’è la caffetteria» indico verso le porte a vetri interne che separano il bar dall’atrio. «Dovrebbero avere il tè in bustina e…»
«Non mi serve il tè, mi è sufficiente una tazza di acqua calda e ho ancora, incomprensibilmente, abbastanza fiducia nell’umanità da credere che in una caffetteria siano in grado di prepararmene una» mi interrompa e annuncia la vecchina, cominciando ad avviarsi mentre ancora parla. «Grazie mille per l’informazione»
La guardo allontanarsi con passo sicuro e per nulla claudicante, non il passo di qualcuno a cui diresti che serve un bastone, e mi verrebbe anche da ridere se non stessi inseguendo un pensiero che mi fa accigliare e parlare senza riflettere.
«Aspetti! È la nonna di Tama, vero?» avanzo di due passi, dietro di lei.
Non che l’abbia mai vista prima in visita, anche se è venuta a trovarla spesso, Tama me lo ha raccontato. E non è nemmeno qualche dettaglio nei racconti di Tama, come sarebbe potuto essere il bastone a forma di gru. È qualcosa, che nemmeno io riesco a identificare, nel suo sguardo, nella sua andatura, nel suo modo di parlare anche, così simile a sua nipote.
La signora si blocca e si volta, scrutandomi severa ma anche colpita. «Lei è…?»
«La dottoressa Habena. Mi occupo di Tama e…»
«Lo so» mi interrompe, continuando a squadrarmi. «È proprio vero che i pazienti non sono numeri ma persone in questo ospedale, mh? Mia figlia, a quanto pare, non esagerava». Non so cosa ribattere e rimango sempre più perplessa quando torna a voltarci le spalle e riprende a camminare. Ma, fatti due passi, parla ancora «Vieni con me, ragazza. Ti offro una tazza di tè»
Sgrano gli occhi, stupita e colta alla sprovvista, e mi giro verso Praline a… a fare cosa non so. Vorrei poter dire “a cercare consiglio” ma, per l’amor del cielo, si è fatta dare una scala dall’inserviente per potermi fotografare mentre dormivo con il sedere all’aria! Potrei cercare il suo consiglio se volessi commettere un omicidio e uscirne intonsa, quello sì.
Fortunatamente, non sembra esserci molto da porsi il problema di cosa fare e cosa non. È come se alla richiesta di questa donna non potessi resistere e corro leggera per raggiungerla, adattandomi poi al suo passo quando le sono a fianco.
«Io non bevo il tè» ci tengo a informarla, gli occhi fissi davanti a me ma lo sento, che si volta a guardarmi un istante.
«C’è sempre una prima volta»
 

 
§

 
Il tè è una bevanda che si ricava dall’infusione delle foglie fermentate della camelia sinensis.
Il tè può essere di cinque colori diversi, sulla base della fermentazione a cui le foglie sono state sottoposte, e il contenuto di trimetilxantina varia, a seconda della fermentazione, della temperatura e della durata dell’infusione.
Il tè è la bevanda più diffusa al mondo dopo l’acqua e ha una tradizione millenaria. Le modalità di preparazione e assunzione sono tante quante le culture che ne hanno fatto un rituale sacro e conviviale.
Il tè è qualcosa che non ho mai capito né apprezzato.
Il tè non mi piace.
O almeno, così credevo.
L’acqua sporca che ci propinavano al club del libro, preparato senza cura e di fretta, scadente e messo lì per una qualche non chiara convinzione di non so chi che facesse molto più intellettuale di un succo d’arancia o di una gassosa, quello non mi piaceva.
Ma ora, mentre osservo Tsuru dosare i germogli esiccati e trasferirli con sacra perizia negli infusori, che porta sempre con sé insieme a del tè in foglie, non vedo l’ora di assaggiarlo.
Non so nemmeno se per il tè in sé.
È la cura che mette in ogni passaggio, l’eleganza di ogni gesto che compie. Quello che per lei deve essere un’abitudine reiterata tre volte al giorno, se non di più, ai miei occhi appare come un sacro rituale, che questa sconosciuta sta regalando a me, Ishley Isabel Habena, per il solo merito di conoscere il nome e il volto di sua nipote, prima della malattia che la affligge.
«Mi sono rassegnata alla dilagante globalizzazione del tè in bustina. Un tempo ero più flessibile, ma gli anni passano anche per me e non ritengo di avere più così tanto tempo da poter rinunciare anche solo una volta a una tale prelibatezza» racconta mentre posa la pallina di maglia nella mia tazza e me l’allunga. «Un paio di minuti saranno sufficienti»
Me l’avvicino, afferrandola dal piattino, e lo faccio girare un paio di volte. Non ho mai bevuto qualcosa che avesse bisogno di attesa una volta giunto al tavolo.  
«Dunque signora Dai Sanbo…» comincio ma subito mi areno, a corto di argomenti di conversazione. Potrei aggiornarla sulle condizioni, per altro ottime, di Tama ma non è detto che voglia parlarne. I parenti di questi bambini vivono spesso con il costante pensiero dei loro pargoli chiusi qui dentro, e solo dopo una visita si concedono qualche minuto per svuotare la mente e pensare ad altro, o non pensare a nulla, magari davanti a una tazza di tè. «…ehm…» picchietto le unghie contro la ceramica variopinta.
«Tu chi sei? Qual è il tuo nome clown, intendo»
Per un attimo rimango a bocca schiusa, colta alla sprovvista, ma subito abbasso gli occhi e li rialzo dopo un istante con un sorriso. È normale che sappia queste cose e le ricordi. Gliele ha raccontate la sua nipotina. «Liquirizia» porto dietro l’orecchio una ciocca corvina scappata alla treccia e mi stringo appena nelle spalle. «Non è sicuramente il più originale dei nomi che si sentono qui ma…»
«Calza» mi frena Tsuru, con tono asciutto e un cenno solenne del capo. «E un nome più originale quale sarebbe?»
«Oh beh, per esempio…» Mago Mingherlino. «Forchetta!» esclamo con tono un filo troppo alto e subito mi schiarisco la gola. «È una delle migliori amiche del dottor Trafalgar, il mio…» migliore amico, fratello non di sangue, mentore. «…capo e ha scelto forchetta perché è una persona… beh, molto posata» la voce mi si spegne un po’ quando mi accorgo, ormai troppo tardi, che questa non sembra affatto una donna in grado di apprezzare una simile freddura.
E infatti quando azzardo una sbirciata, Tsuru mi sta osservando con l’espressione più piatta che abbia mai visto, fa un baffo persino a Law, e lo sguardo severo. «È pronto» si limita a ignorare ciò che ha appena sentito, indicandomi la tazza con la testa della gru, prima di posare nuovamente il bastone per dedicarsi al proprio tè.
Subito la imito, grata del diversivo, e alzo la tazza alle labbra, fermandomi un istante ad annusarlo. Il profumo è squisito e mi bagno appena la labbra, degustando attenta.
È amaro, ma non troppo, amaro il giusto e pieno, inonda le papille e riscalda il palato, la gola e il cuore, lasciando sulla lingua un pungente e rinfrescante retrogusto di mandarino.
Mi piace. Mi piace e, senza quasi accorgermene, sospiro e mi appoggio allo schienale della sedia, per un momento rilassata.
«Molte poche cose non si possono risolvere con una tazza di tè» riapro gli occhi e li punto in quelli di Tsuru che mi fissa da sopra il bordo della propria tazza. «Di queste poche cose, ce n’è una che una tazza di tè non può curare ma può indubbiamente aiutare a parlarne» riappoggia la tazza ma non toglie le mani e io mi acciglio.
«Cosa…»
«Lui chi è?»
La domanda è così diretta che non mi colpisce neanche al cuore. La tazza si agita appena nella mia mano e lo stomaco si rimescola per un attimo, insieme al tè.
«O lei. Sono una donna di larghe vedute per quanto non concerne il tè»
Boccheggio e mi guardo intorno, cercando una via di fuga che, di fatto, è ovunque e quindi mi chiedo perché sono ancora seduta qui. «Ahhh io… è… è… è un lui» confesso e prendo rapida un sorso di tè tanto per fare qualcosa. Scende caldo giù per la gola, ammorbidisce le corde vocali, calma lo stomaco, allarga un po’ il cuore. «Lavora qui come avvocato ma non è qui che l’ho conosciuto. Cioè sì, la primissima volta che l’ho visto sì, ma io avevo una maschera da dugongo e…»  mi blocco con le mani a mezz’aria, intente a gesticolare, quando noto l’occhiata di Tsuru. Rapida abbasso le braccia e mi aggrappo alla tazza. Troppe informazioni non richieste. «Si chiama Sabo» soffio il suo nome come un segreto. «E io ho rovinato tutto»
Prendo un respiro, un altro sorso di tè e, non so nemmeno io come, comincio a raccontare. Le parole escono una dietro l’altra, in una stringa continua, senza esitazione, precise, scendono nei dettagli, quelli essenziali, confessano tutto senza remore né inutili giustificazioni che mi racconto da giorni. Con lei non mi servono scuse. Con questa tazza di tè tra le mani, riesco a mettermi a nudo.
I minuti scorrono, insieme a qualche lacrima, e ordiniamo dell’altra acqua calda.
«Perciò…»si appresta a ricapitolare Tsuru mentre picchietta sul bordo della tazza il secondo infusore. «…lo hai lasciato perché ti ha mentito e non ti fidi più di lui?»
«No!» rispondo di getto e Tsuru si acciglia. «Sì, forse, non… non lo so…» esalo.
Mi passo una mano sul viso. Non mi riconosco, santo Roger.
«Ti fidi ancora di lui?» riprova Tsuru.
«Sì» rispondo di nuovo di getto ma stavolta non esito. «Sì, io mi fido di lui»
Mi fiderò sempre di lui.
«Perdonami, ragazza, ma, se ti fidi di lui nonostante la bugia che ti ha raccontato, se nemmeno questo ha minato la base del vostro rapporto, perché lo hai lasciato?»
La fisso a fiato sospeso e occhi sgranati.
Perché l’ho lasciato?
La verità è che da quattro giorni mi pongo questa domanda. Perché l’ho lasciato?
Non conosco la risposta o, meglio, sì, credo che sforzandomi appena sarebbe anche facile trovarla ma non voglio. Non voglio dirla ad alta voce, perché qualcosa mi dice che farebbe malissimo.
Eppure alla fine si riduce tutto a questo.
Perché l’ho lasciato?
Perché?
«Faccio un’ipotesi» mi avvisa Tsuru e non aspetta il mio consenso per continuare ma si concede comunque un momento per bere un sorso di tè. Avrei tempo di controbattere, volendo. Di chiederle di non immischiarsi, alzarmi e andare via. Potrei. Se davvero non voglio ascoltare, dovrei. Ma il punto è: davvero non voglio ascoltare? Perché allora i pochi istanti che le servono per posare la tazza mi sembrano durare un’eternità? Perché mi sento pendere dalle sue labbra? «La bugia in sé, non è un problema, me lo hai appena confermato. Non è averti mentito su una delle sue donne passate. È che ti ha mentito su questa donna in particolare, su Bibi» le unghie grattano contro la ceramica mentre ascolto attenta. Ascolto i miei pensieri prendere finalmente una forma, la verità che so da quattro giorni venire verbalizzata da una voce non mio. «Perché è dura reggere il confronto con una simile scelta, una simile storia. Quanto deve averla amata per rischiare il rapporto con suo fratello? Per mollare tutto e seguirla? Per infischiarsene delle malelingue?» distolgo gli occhi, che ora pizzicano e pungono e bruciano di lacrime mal represse. «E quanto deve amarla ancora, per decidere di nascondertela. Giusto?» Basta. Non voglio più stare a sentire. Non ha nessuna importanza, il motivo. È finita, ormai. «Ma quanto deve amare te, per venire meno al suo più grande principio, per paura di perderti?»
Le mani, strette al bordo del tavolo, e pronte a fare leva per spingere indietro la sedia e permettermi di alzarmi, allentano la presa. Torno a guardarla mentre lo stomaco si stringe, per la prima volta da giorni, in uno spasmo che di doloroso non ha nulla.
«Come?» esalo piano.
«Mi hai detto che è corretto alla nausea, che per lui la giustizia è fondamentale, che detesta le menzogne. Un cavaliere senza macchia, così lo hai definito. E per quanto, essendo umano, dei difetti li ha per forza anche lui e sono convinta che qualche bugia la racconta da sempre e sempre la racconterà, perché avrebbe dovuto mentirti su un dettaglio tanto importante e rilevante? Per tenere il piede in due scarpe? Ma a che scopo? Un ragazzo tanto bello, divertente e simpatico. Ha davvero bisogno di impegnarsi come ha fatto per tenersi una donna con cui fare sesso?»
Schiudo le labbra sotto shock. È come venire investita da un maelstrom, neanche Praline è così distruttiva.
«Perché non cercarla altrove? Anzi, perché non riprendere un aereo e tornare ad Alabasta, anziché portarti in giro per la città, ridipingerti casa, regalarti fiori e, in generale, fare quanto in suo potere per conquistarti? Lo aveva già fatto una volta»
«Io forse gli davo più sicurezza…» borbotto, ma non ci credo molto.
«Tu? La pupilla del fratello con la cui ex futura moglie ha avuto una relazione? Oh sì, hai ragione, le probabilità che tu non lo venissi a scoprire anche solo per sbaglio erano proprio a favore di Sabo. Ed eri senz’altro la scelta migliore per chiudere fuori quella storia per sempre ed eliminare qualsiasi anche remota possibilità che gli tornasse addosso come uno tsunami. Infatti è precisamente ciò che non è successo, giusto?» domanda retorica Tsuru.
Santo cielo.
Non mi sono mai sentita più stupida in vita mia.    
Ma non so se perché le parole di Tsuru suonano così logiche che non capisco perché non ci sono arrivata prima o se perché mi sto facendo convincere.
Ci voglio credere. Così disperatamente. Troppo per non domandarmi se la logica c’è davvero o voglio vederla io.
«Vorresti prendere il posto di Bibi?»
Sussulto appena al mio posto. Non so come faccio a capirlo, succede e basta. Non mi sta chiedendo semplicemente se voglio essere la donna di Sabo, questa domanda implica molto di più.
«No!» protesto «No, non potrei mai, Bibi… lei è stata troppo importante per lui, è parte di quello che è, della sua storia, io… i-io… se picchiasse la testa e la dimenticasse, sarei la prima a fare di tutto per fargliela ricordare!»
E non sono parole di circostanza. Perché io amo Sabo, sono sicura che lo avrei potuto amare anche prima di Bibi ma io mi sono innamorata dell’uomo che è ora, l’uomo dopo Bibi, e non cambierei una sola virgola di ciò che è, del suo presente o del suo passato.  
«Ebbene, ti fidi di lui, sei pronta ad accettarlo così e, anche se ti fa paura non essere per lui ciò che lui è per te, sei già scesa a patti in cuor tuo che non puoi essere il suo primo grande amore» sussulto appena e una lacrima mi graffia la guancia. Ma Tsuru sorride e si sporge verso di me. «Quindi, bambina, cosa ti impedisce di essere l’ultimo?»
Non ho mai compreso la frase idiomatica “avere le fette di salame sugli occhi”. Per quanto evocativa, mi sono sempre fermata a chiedermi perché proprio il salame. Non è qualcosa che metteresti sugli occhi. Delle fette di cetriolo avrebbero senso. O dei dischetti di cotone. Ma il salame sugli occhi, proprio no.
Quale che sia però l‘opinabile scelta lessicale il concetto non mi è mai stato così cristallino. Per quanto avrei ben più di una rimostranza contro l’eventuale insinuazione di me che ne vado in giro con una fetta di salame su ciascun occhio, al momento riesco solo a pensare a quanto sono stata cieca.
Ha ragione Tsuru.
Non posso sapere con certezza se Sabo abbia mentito su Bibi perché mi ama ma con certezza posso affermare che non lo scoprirò mai se non glielo chiedo. E se anche non mi ama, per il momento, mi basta che non ami più lei. Se il suo cuore è libero, farò qualsiasi cosa perché diventi mio. Farò tutto quello che posso per essere il suo ultimo grande amore.
«Ragazza, ti ho fatto una domanda» mi fa sobbalzare con il suo tono tagliente Tsuru.
«Non era retorica?» mi acciglio ma le basta un’occhiata per ottenere ciò che vuole. «Io» ammetto, con un lieve spasmo allo stomaco. «Io me lo sto impedendo»
Tsuru mi osserva un istante e poi annuisce solenne. «Sei intelligente. Le persone intelligenti apprezzano il buon tè» dichiara proprio ne prendo un altro sorso. L’ultimo. Devo andare.
«Tsuru io… non so come ringraziarla per… per il tè e per i consigli, la chiacchierata e…» saltello quasi sulla sedia, tanta è l’impazienza di andare.
«Ragazza, mi obblighi a rivalutare la mia ultima deduzione? Credevo fossi intelligente ma allora dovrebbe esserti chiaro che sono io che ho voluto ringraziare te per tutto ciò che hai fatto e fai per Tama» mi interrompe e mi lascia interdetta, senza parole e, per un attimo, immobile. Solo un attimo però. «Vai!» picchia il bastone a terra e io sobbalzo. «Cosa aspetti, vai da lui, bambina» mi sorride. «La vita non è poi così breve ma per il tè e per l’amore a volte neanche l’eternità è abbastanza. Vai, su» ripete ed è l’ultima volta.
Sorrido a mia volta e, con rinnovate energie, annuisco, mi alzo in piedi e scatto di corsa verso la porta della caffetteria.
Devo recuperare le mie cose, trovarlo, parlargli, scusarmi. Soprattutto scusarmi. Tipo ora, subito, immediatamente. Okay, Ish, cerca di essere razionale. Diciamo… entro un’ora, ecco! Sì, un’ora mi sembra un tempo ragionevole.
«Ehi Ish!»  
«Non ora Praline!» la fermo, alzando una mano e poi mi giro verso il banco dell’accettazione senza fermarmi e con un sorriso da un orecchio all’altro. «Devo correre dall’avvocato più sexy del mondo!»
Praline sorride e scuote appena il capo. «Sei una sgualdrinella!» mi avvisa tornando a suddividere le cartelle secondo non so quale criterio e io fingo che non lo abbia appena detto ad alta voce nel bel mezzo dell’atrio.
Addio per sempre, mia amata reputazione!
«Permesso, permesso, permesso!» entro in scivolata nello spogliatoio, preannunciando il mio arrivo, non che ci sia nessuno che rischio di urtare. È vuoto, tranne che per una sola persona.
Per un momento, il sangue mi si gela nelle vene, per la precisione nel momento in cui, grazie al mio discreto ingresso, solleva il capo, il cellulare all’orecchio, l’altra mano in tasca, e punta i suoi occhi grigi su di me.
«Aspetta, è appena entrata, chiedo a lei» si avvicina a grandi passi e io lo osservo, pietrificata. «Ish, Sabo andava da qualche parte oggi, che tu sappia?»
Lo guardo basita. A parte che non dovrebbe nemmeno volermi rivolgere la parola dopo la mia piazzata ma è proprio la domanda che non ha senso, oltre al fatto che si comporta come se tra me e Sabo fosse tutto a posto.
«È in malattia» rispondo confusa. Lo è da lunedì, Cora se l’è accidentalmente lasciato sfuggire.  
Law solleva un sopracciglio. «Credevo fosse una specie di codice e che stesse lavorando da casa. Sai per recuperare, domenica era bello pesto quando è venuto da te»
Il cuore mi sprofonda nello stomaco. Da me? Domenica?
«Non ero neanche a casa, domenica» esalo piano, gli occhi persi nel vuoto.
«Che vuol dire che non eri a casa» si allarma Law, nel suo modo molto composto di allarmarsi, mentre io comincio a tastarmi ovunque alla ricerca del cellulare. Dov’è?! Dove?! Devo chiamarlo, ora! «Credevo fosse rimasto da te, sono tre giorni che non torna a casa» socchiude gli occhi, quasi che fosse colpa mia se Sabo non è dove lui credeva.
Il cuore mi perde tutta una serie di battiti mentre avvio la telefonata, senza neanche rispondere a Law. Cosa potrei dirgli, dopotutto? È davvero colpa mia.
Lo squillo cadenzato risuona lugubre nelle mie orecchie, risucchiandomi il respiro a ogni “tuut”. Dai rispondi. Rispondi, rispondi. Sabo, amore, ti prego rispon…
«Pronto?»
Mi irrigidisco e sgrano appena gli occhi. Che cavolo…
«Chi parla?»
«Potrei farti la stessa domanda, pesciolina» risponde una voce ansante e che da tutta l’aria di stare slinguazzando a risucchio mentre parla.
Chi diamine è ora questo?!
«Posso parlare con il proprietario del cellulare che ho chiamato, per favore?» comincio ad alterarmi.
«Oh ma lo stai facendo. Questo cellulare è mio. Sono Caribou»
E chi se ne frega!
«Lo hai rubato» mormoro cauta. Non è un’accusa ma nemmeno una domanda.
«Oh no! L’amico biondo me lo ha lasciato»
«L’amico biondo?» ripeto, lo stomaco mi fa una capriola.
«Sì. L’amico biondo e generoso. Gli ho chiesto il cellulare e mi ha dato il cellulare. Gli ho chiesto le scarpe e mi dato le sc…»
«Dove?» lo interrompo, determinata. «Caribou, dove?»
«In un parco. Non ricordo quale»
E grazie tante! Dire “un parco” a Raftel è come dire “un geyser” in Islanda!
«Era depresso, il mio amico biondo» continua a blaterare lo slinguazzone. «Depresso e triste. Gli ho detto che se voleva tirarsi su, potevo accompagnarlo in un posto o due dove divertirsi» ride ansando e io stringo il cellulare così forte che rischia di accartocciarsi nella mia mano.
«Divertirsi in che s…»
«Ma lui ha detto che non poteva, che sta aspettando»
«Come?» esalo senza fiato, scossa da uno strano presentimento.
«E io ho provato a dirgli che poteva aspettare anche altrove ma lui ha detto che no, che doveva restare sulla panchina e non poteva alz…»
Chiudo brusca la telefonata, gli occhi nel vuoto, il respiro grosso, il cuore che batte a mille. So dov’è. So in quale parco. So dove andare.
«Ish…» si avvicina Law ma lo ignoro, lo spingo quasi via per raggiungere il mio armadietto, liberarmi del camice e recuperare la mia borsa. «Ishley»
«Non ora, Law!» lo fermo sul nascere, schizzando più veloce che posso fuori dallo spogliatoio. «Devo andare! Io… ti scrivo più tardi, ti faccio sapere!» prometto, accelerando a ogni passo fino a mettermi a correre.
Corro, senza guardare in faccia nessuno. Corro veloce, attraverso l’atrio e fuori dal Castello, nel parcheggio, dritta dritta alla mia Megalo e giù, lanciata verso Raftel. Giù, lanciata verso Sabo, pronta a tutto, a qualsiasi cosa per riportarlo qui, insieme a me, sulla nostra collina.

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Capitolo 38
*** Capitolo 38 ***


Ogni quartiere di Raftel ha un parco e in ogni parco di ogni quartiere di Raftel, prima o dopo, qualcuno apre un bar o una caffetteria.
I bar e le caffetterie sono luoghi molto più utili di quello che si possa valutare a una riflessione poco approfondita. Sono luoghi di ristoro per turisti assetati, inestinguibile fonte di indicazioni stradali se ti perdi e, se hai girato tutta Raftel in una caleidoscopica visita e non ti ricordi più qual era il parco e il quartiere dove il tuo non-ancora-all’epoca-ragazzo ti ha fatto innamorare, con una mezza fiaba su una panchina e l’attesa di un sogno, basta cercare su Google Maps il caffè che ha sede nel medesimo parco, che invece ricordi per il suo evocativo nome.
Bar Tispenno.
Non fatico a capire perché mi sia rimasto impresso, nonostante la quantità di informazioni di cui il mio cervello è stato bombardato quel giorno. È certo che se non mi fossi ricordata il nome del bar, non so se avrei mai indovinato il parco giusto, tanti ce ne sono in questa benedetta città.
Ma ora sono qui, che avanzo a passo di carica sull’erba e sotto il sole, diretta non so bene dove visto che evidentemente quella famosa sera ero così stanca che ora come ora non riesco a individuare neppure la panchina giusta. Il punto è che non sono tante e sono tutte vuote e la delusione mi attanaglia al pensiero che, alla fine, Sabo deve essersi stancato di aspettare.
Mi sposto ancora di qualche passo, allungando il collo verso l’ultima seduta a tre posti che rientra nel mio campo visivo, ma anche su quella non c’è nessuno ed è con un profondo respiro che mi lascio cadere sulla panchina a me più vicina. Mi viene il legittimo dubbio che forse, dopotutto, Caribou il cellulare glielo ha davvero rubato, e dovrei agitarmi e cercarlo come una pazza per paura che lo abbiano aggredito ma la mia parte razionale ha subito la meglio, e mi fa notare che nessuno è così idiota da rispondere a un cellulare sottratto con la forza e pure presentarsi.
Neppure Caribou, che sembrava parecchio scemo a onor del vero.
Mi abbandono con la schiena contro la panchina e inclino spalle e testa all’indietro, gli occhi chiusi per godermi l’effetto rigenerante dell’ombra e della brezza estiva, un attimo di pace, prima di ripartire con la mia ricerca. Giro il viso di lato e apro gli occhi, squadrando la struttura del bar, un po’ nascosto dagli alberi. Potrei andare a chiedere ma non so esattamente che domanda porre per non sembrare completamente pazza. Forse potrei fare come nei film polizieschi, mostrare loro una foto di Sabo e chiedere se lo hanno visto. Magari mi scambieranno per una detective. Sarebbe stato figo fare la detective.
Chissà perché non ci ho mai pensato. Certo la mia vita sarebbe stata totalmente diversa e forse mi sarei anche dovuta inventare un’identità alternativa.
Sto ancora riflettendo su possibili nomi e su come le cose sarebbero potute andare se fossi entrata in polizia anziché a medicina quando la vedo. Una panchina, a pochi metri dal bar, nascosta quasi completamente da un albero, spunta una spanna appena. E insieme alla spanna di panchina, due piedi scalzi e un pezzo di gamba nuda.
Il cuore mi si ferma mi giro anche con il busto, afferrando la testata di quella su cui sono seduta io.
Oddio, oddio ti prego, fa che…
Mi alzo, già lanciata in avanti e pecorro di corsa i pochi metri che mi dividono da lui.
Se è effettivamente lui.
Per favore dimmi che è lui, dai deve essere per forza…
«Sabo!» lo chiamo appena entra nel mio campo visivo, steso sulla panca, un braccio a coprirgli gli occhi e il resto del corpo inerme. Mi viene il dubbio che stia dormendo ma appena chiamo il suo nome sposta l’arto e mi guarda e appena i suoi occhi incrociano i miei piego il busto e gli circondo il viso con le mani. Non che lui dia segni di riconoscermi ma ora non ho tempo per questo. «Ehi, stai bene?» porto due dita al suo collo, sulla carotide e con l’altra mano scendo a tastargli il petto. Ha l’aria tirata e sfatta, lo sguardo un po’ vacuo e le labbra screpolate. «Sabo? Mi senti?! Da quanto sei qui e… e che fine hanno fatto le tue scarpe?!?!»
Non so nemmeno io perché mi focalizzo su un dettaglio così stupido in un momento del genere ma, ehi, non è mica normale che non abbia le scarpe!
E poi, inspiegabilmente, la domanda sembra sbloccarlo.
«Mh? Oh» si acciglia e solleva il capo a guardarsi i piedi coperti solo da un paio di fantasmini. «Oh sì!» si ricorda tornando a sdraiarsi completamente. «C’era un tizio, una con una lingua lunghissima, una roba pazzesca giuro, sembrava retrattile o una roba del genere, comunque questo tizio mi ha chiesto il cellulare ed è stato supereducato e mi faceva brutto non darglielo e poi mi ha chiesto anche le scarpe e siccome gli avevo già dato il cellulare gli ho lasciato anche le scarpe. Insomma mi sembrava carino e poi è stato davvero davvero gentile. L’ho già detto che è stato supereducato?» si copre gli occhi con le mani, come se la luce lo infastidisse, forse ha mal di testa.
Osservo attenta, ascolto come parla strascicato.
«Sei ubriaco o…» spalanco appena gli occhi, occhiando di nuovo le sue labbra rotte. «…disidatrato. Sei disidratato!» capisco e, agitata, avvicino le mani alle sue tempie. «Hai mal di testa vero?!». Potrebbe essere un principio di insolazione e il medico che è in me prende il sopravvento. «Okay, arrivo subito» decido, muovendomi decisa verso il bar. «Prendo dell’acqua e poi troviamo un posto fresco, tu non muoverti da qui» ordino prima di voltargli le spalle per entrare.
«Non c’è pericolo… Io sto aspettando…» mugugna e io mi domando dove cavolo lo porto in queste condizioni e senza neanche le scarpe.
È il caldo a colpirmi appena metto piede nel bar. Non si muove una foglia, ce n’è quasi più che fuori e per un attimo mi domando se gli avventori seduti all’interno, nonostante i tavolini esterni siano tutti vuoti, non siano masochisti. C’è un signore con capelli bianchi e lunghi al bancone che legge il giornale e lancia occhiate insistenti alle due cameriere, che si danno almeno trent’anni se non trentacinque l’una con l’altra, due tizi seduti a un tavolino che giocano a carte e una coppia accoccolata su una panca, lei si da lo smalto alle unghie dei piedi e lui fa le parole crociate.
Mi basta una rapida occhiata per capire. Il loro atteggiamento, addirittura la loro posa me lo dicono. Non sono semplici avventori, sono gli habituè. Quelli che non è che semplicemente lo frequentano, quelli per cui questo bar è una seconda casa, un appuntamento quotidiano, un pezzo di vita.
Non che al momento le dinamiche logistico-sociali di questo bar siano un primo pensiero per me. Non sono neppure un terzo o un quarto.
«Buongiorno» avanzo rapida al bancone mentre apro la zip della mia piccola tracolla in cerca di spicci. «Vorrei una bottiglietta d’acqua naturale, per favore» ordino alla cameriera più anziana, una bella donna mora sui cinquanta, forse cinquantacinque, che mi guarda con occhi liquidi e un sorriso saputo. «Subito dolcezza. Fredda?»
«Temperatura ambiente» scuoto subito il capo. Fredda non va bene se è disidratato. La cameriera si volta e piega e io intravedo mio malgrado il signore di una certa che posa il mento sulla mano e occhia platealmente il didietro della mora. Abbasso gli occhi e sorrido.
Insomma, buon per loro!
«Ecco qua. Sono quattro berry e cinquanta» annuncia e io quasi mi strozzo con la mia saliva.
«C-come?»
«Quattro berry e cinquanta, cocca»
«Ma non…» rido nervosa, lievemente accigliata. Non è da me tirare sul prezzo e non dovrei perdere tempo per questo ma... «…non è un po’ tanto?»
La cameriera giovane mi lancia un’occhiata urgente e scuote impercettibilmente il capo ma ormai è tardi. La mora posa la bottiglietta sul bancone senza lasciarla andare e si piega verso di me. «Mia cara, immagino tu non sia ben informata su quella piaga conosciuta come “privatizzazione dell’acqua”. Se vuoi, posso aiutarti a colmare la lacuna»
«Oh ti prego Shakky, no!»
«Jude non contraddirla»
«Ma Pete, non ne posso più di sentire sta tirata ogni volta!»
«Fate silenzio voi o volete che smetta di farvi credito?» li riprende la mora, Shakky se ho capito bene, prima di tornare su di me, ancora in attesa della risposta. «Ebbene?» mi sorride materna e, in qualche modo, inquietante. Non il materno-inquietante di Praline, però.
Spaesata, cerco con gli occhi la cameriera giovane che di nuovo mi fa un lieve cenno di diniego con il capo.
«Non per mettere il becco ma fossi in te le risponderei» interviene anche il vecchio signore, indicandomi con un cenno del capo e un sorriso gentile Shakky, e io mi volto a guardarlo presa in contropiede.
«Ah ecco, i-io…»
«Ma sono lentiggini quelle?» si piega appena verso di me.
«Ray, vecchio marpione, distanza di sicurezza» lo riprende Shakky ma c’è una nota maliziosa e giocosa nella sua voce. «Che altro che il becco vuoi mettere e so io dove» aggiunge e io punto gli occhi nel vuoto. Che ha detto?! «Allora, bambolina, la privatizzazione dell’acqua?»
«Ne so abbastanza» annuisco convinta. «Ecco qua cinque berry, tenga pure il resto» le allungo una banconota e afferro la bottiglietta, voltandomi con impazienza per tornare fuori.
«Grazie mille tesoro. Rica, puoi andare a controllare Sabo per favore?»
«Subito Shakky»
Mi blocco a metà strada verso la porta, così di botto che la ragazza che si sta dando lo smalto alza gli occhi, curiosa, su di me.
«Come ha detto?» mi rigiro verso Shakky.
«Mh? Oh nulla! Non so se lo hai visto ma c’è un ragazzo sdraiato sulla panchina qui fuori e…»
«Da quanto è qui?» torno indietro in tre falcate, guardandola con urgenza. «Da quanto non beve? Credo abbia preso un’insolazione ma potrebbero anche averlo aggredito e io… sono un medico!» chiarisco alzando le mani. «Mi serve solo sapere da quan…» la voce si spegne quando mi accorgo di come Shakky mi sta guardando, con un sorriso famelico, come se avesse trovato l’ubicazione dello One Piece. «Che?»
«Quindi sei tu»
«Sono io cosa?» domando confusa mentre Rica, la cameriera giovane, si porta una mano alla bocca e mi guarda con occhi brillanti.
«Oh mio dio, è arrivata davvero. Enishida, Enishida è lei!» saltella e io mi volto sempre più spaesata verso la ragazza dello smalto, che si è alzata in piedi e mi fissa a occhi sgranati.
«È davvero lei?»  
 «Sì, sì!»
«Sono io cosa?!» ripeto.
«Sabo è arrivato qui un paio di giorni fa» spiega Shakky.
«Domenica per la precisione!» si avvicina ancora Enishida, con euforia. «Vero, Duck?!» cerca poi conferma dal proprio ragazzo che risponde prontamente “sì, sì” con l’aria di uno che non sa nemmeno a cosa sta rispondendo.
«Domenica?»
«A-ah» riprende la parola Shakky. «Si è seduto sulla panchina ed è rimasto lì per tre ore»
«Io avevo proposto di chiamare la polizia» interviene Ray a cui lancio, mio malgrado, un’occhiata assassina.
«A un certo punto ho provato a chiedergli se potessi essergli d’aiuto, perché aveva proprio l’aria di essere in attesa ma anche di essere non so… perso» abbassa gli occhi Rica ma quando li rialza, portando le mani alle guance, brillano. «Ed è allora che ci ha raccontato la sua storia»
«Storia?» 
«Ci ha detto ogni cosa» continua Rica, trasgonata, e comincio a chiedermi se non sia il caso di marcare il territorio. «Del Dugongo, dei giochi di prestigio, della Megalo a righe, il giro di Raftel, la lotta con la vernice»
«È andato avanti un bel po’» interviene uno dei due tizi che stavano giocando a carte.
«Credo che mi si siano cariati quattro o cinque denti» sogghigna Ray.
«E com’è possibile? Sono tutti finti, vecchio!»
«Comunque alla fine ci ha detto della panchina. Che non si sarebbe mosso di lì, non importava quanto ci sarebbe voluto» Shakky comincia a svuotare la lavastoviglie, estraendo tazzine del caffè ancora fumanti sotto il mio sguardo scioccato.
«È così romantico» sospira Enishida per poi girarsi verso Duck, le mani sui fianchi. «Tu non fai mai niente di così romantico per me!» lo accusa e in altre circostanze lo troverei anche piuttosto comico ma ora come ora c’è una sola cosa a cui riesco a pensare. 
«Sabo è sulla panchina da quasi quattro giorni?» domando quasi con sofferenza.
«Non preoccuparti, mia cara» Ray mi guarda sornione, piegando il capo contro il proprio pugno. «Esistono gli piscofarm… ouch» protesta e sghignazza quando Shakky si allunga a malmenarlo sul coppino.
«Quattro giorni, bambina. Senza mai levare le chiappe dalla panchina. Una persistenza e una fiducia impressionanti» commenta parlando più con se stessa che con me. «Comunque. Ovviamente lo abbiamo subito adottato e ci siamo presi cura di lui. Colazione, pranzo e cena, acqua a intervalli regolari e lo abbiamo anche lavato due volte con la canna. Non so che fine abbiano fatto le sue scarpe» alza le mani a sottolineare la propria estraneità con il fattaccio. «Per dire che non penso sia un’insolazione. Tutt’al più ha bisogno di fare una dormita decente e di qualcuno che si prenda cura della parte non fisica del suo malessere» mi guarda eloquente. «Qualcuno nello specifico»
«Io sono Ishley» ribatto, senza logica.
Shakky scuote il capo. «Non ha mai fatto nomi. A parte il proprio»
«La storia era “Mago Mingherlino e Liquirizia”»spiega Rica e mi scappa da ridere. È la cosa più idiota e stucchevole e… e tenera che abbia mai sentito.
«A onor del vero non eravamo nemmeno certi che Liquirizia fosse una donna» annuisce saputa Enishida.
«Eh?!»
«Io ero sicuro fosse gay »
«Ray»
«Quindi vi ha detto che aspettava “Liquirizia”?» insisto ignorando i continui lievi litigi della coppietta stagionata e felice.
«No» nega ancora Enishida, strappandomi un sospiro. «Ci ha raccontato la storia per passare il tempo, intrattenerci un po’. Che stava aspettando è stata la prima cosa che ci ha detto quando ci siamo avvicinati» spiega e io pendo letteralmente dalle sue labbra. «Ma non ha fatto nomi nemmeno lì. Ha detto solo che stava aspettando il resto della sua vita»
Il cuore accelera, i polmoni si allargano e ricomincio a respirare.
«Okay» annuisco, appena un po’ frastornata. «Okay» ripeto, avviandomi con determinazione per uscire.
«Ehi aspetta, dove…»
«Va da lui»
«Ma certo che va da lui»
«Oh com’è romantico!»
Non sento quasi i loro commenti mentre esco dal bar, di nuovo nel parco, e raggiungo la panchina. Apro la bottiglietta e mi accovaccio accanto a lui. «Sabo, bevi» gli chiedo con calma e lui non si fa pregare. Afferra la bottiglietta, butta giù una bella sorsata, poi un’altra e torna a sdraiarsi con un sospiro stanco.
«Grazie Rica» sorride a fior di labbra e apre gli occhi, che si spalancano come due fondi di bottiglia. Tossicchia per una goccia d’acqua andata di traverso, solleva il busto, mi guarda come se nemmeno fossi vera e io mi sento ribollire la pelle, come pastella nell’olio. Potrei morire sotto questo sguardo. «Ish…» soffia quasi che avesse paura che io possa scomparire da un momento all’altro, se, per dire, anche solo sbatte le palpebre. «Sei arrivata davvero…» allunga un braccio, la mano tesa verso la mia guancia, ma quando realizza cosa sta per fare lo ritrae. Scatto con la mia di mano, gli prendo il polso e guido il suo palmo sul mio viso.
«Ciao» lo saluto con un sorriso. «Mi hanno detto che sei qui da un po’»
Muove il pollice contro la mia pelle, mi studia e manda giù. «Ishley, io… mi dispiace per Bibi, io…»
«No» lo fermo decisa e sussulta appena. Mi inginocchio tra l’erba per potermi avvicinare. «È a me che dispiace. Sono andata nel pallone perché non mi era mai capitato prima, ho pensato… non lo so cos’ho pensato, io…» mi interrompo e faccio un bel respiro. «Avresti dovuto dirmelo. Ci siamo detti tutto. Ma io non avrei mai dovuto lasciarti per un motivo così idiota»
«Non era idiota, non…»
«È il tuo passato» lo interrompo e gli accarezzo il volto. «E per quanto vorrei possederlo, non posso. Volevo conoscerlo ma non può essere mio, io non c’ero e questo non può cambiare. Non voglio il tuo passato, non voglio essere il tuo passato. Voglio essere il tuo presente, p-possibilmente…» abbasso gli occhi e scuoto il capo. Questi discorsi non sono da me, se Law mi sentisse mi disconoscerebbe e quasi mi scappa da ridere. «…possibilmente per il resto delle nostre vite»
Registro vagamente un brusio alle mie spalle e una serie di “awwww” esalati sottovoce. Le dita di Sabo scivolano sotto al mio mento, fanno leva per sollevarmi il volto.
«Ish, tu…» esala e abbassa gli occhi, un sorriso malinconico e tirato. «Hai tolto le chiavi di riserva» non un’accusa ma una presa di coscienza.
La paura che volessi davvero chiuderlo fuori per sempre, una paura che ancora non lo abbandona.
«No» scuoto forte il capo. «Non sapevo dove altro nasconderle ma ho dovuto togliere il vaso perché il nuovo gatto dei vicini ci continuava a fare pipì dentro e, per inciso, riesce a entrare dalla finestra della cucina, la apre proprio e me lo ritrovo ogni due per tre in casa! È inquietante, fa scricchiolare il parquet, sembra che ci sia qualcuno in casa, tipo presenza, e invece è lui! Ma non era un qualche messaggio in codice per te. Io… non ero nemmeno a casa domenica» Sabo mi guarda con occhi pieni di speranza, incredulità e amore. «E non ho mai pensato sul serio di chuderti fuori dalla mia vita, e questo mi rende anche più capricciosa e infantile, lo so, ma se pensavo a te stavo male però se pensavo di non vederti più stavo anche peggio, mi mancava l’aria e mi sentivo morire, proprio qui, al centro del petto, perché tu sei tutto, tutto per me, e io ti amo» dico tutto d’un fiato, puntando gli occhi nei suoi.   
Sabo mi fissa. Con un’espressione indecifrabile. Mi fissa con un’espressione indecifrabile così a lungo che mi sorge il dubbio di non aver detto affatto “Ti amo” ma qualcosa del tipo “Sono un’ermafrodita e non ho ancora deciso se voglio essere un uomo o una donna”. E quando apro bocca per richiamarlo e chiedere per davvero – perché ora il dubbio mi attanaglia sempre più – che cosa ho effettivamente detto, uno spostamento d’aria mi zittisce prima ancora che possa emettere alcun suono e mi ritrovo a fissare gli stinchi nudi di Sabo.
«WOOOOOOOOOOOHOOOOOOOO!!!»
Scioccata, alzo gli occhi di scatto verso di lui,  in piedi sulla panchina, le braccia al cielo, la schiena un po’ inarcata mentre urla, di felicità e sollievo, un urlo liberatorio.
«Sabo cos…» mi alzo rapida.
«SONO IL RE DEL MONDO!!!»
Mi ritrovo i polsi bloccati tra le sue mani che mi sollevano di peso per farmi salire in piedi sulla panchina insieme a lui. «MI AMA!!! Ragazzi, ragazzi!!!» chiama verso il Tispenno e il gruppo riunito subito fuori dalla porta, mentre mi tira su. «Ha detto che mi ama!!!»
«Awwwwwwwwww!»
«Ha bisogno degli psicofarmaci anche lei»
«Ray!»
Io a malapena li sento, fisso senza parole né fiato Sabo che si passa le mani sul volto e poi nei capelli, e cerca di riprendere il filo della situazione, dei suoi pensieri, della sua vita. «Ommioddio, ommioddio, io… io, tu…» mi prende il viso tra le mani e io sorrido, e sento qualcosa dentro di me che si tende, si tende, si tende e poi…
«SONO IL RE DEL MONDO!!!» la mia voce riecheggia nel parco e quando riapro gli occhi Sabo mi fissa più allibito ma anche più felice ed euforico che mai e scoppia a ridere insieme a me, e insieme ai nostri amici del bar e insieme, credo, a tutto il mondo o almeno per me è così quando finalmente mi attira verso di sé e mi bacia fino a togliermi, di nuovo, il fiato.
«Prendi la canna dell’acqua Rica, credo che dovremo spegnere i bollenti spiriti tra poco»
«Ray!»
Mi separo da lui ridendo, senza davvero lasciarlo andare. Mi è mancato così tanto, mi sembra passata un’eternità, e non intendo solo emotivamente. Mi è mancato tutto.
«Andiamo a casa?» propongo, prendendogli il viso tra le mani e sì c’è poco di casto nella mia proposta ma c’è anche tanta voglia di cominciare subito questo resto delle nostre vite.
Sabo trema appena, manda giù a vuoto e prende fiato. «Quale casa?»
«La nostra» rispondo senza esitazione. «Il frigo fa un ronzio strano, dobbiamo capire se chiamare il tecnico  o cambiarlo e ho sistemato i cassetti e l’armadio, ora c’è tutto lo spazio per i tuoi vestiti, possiamo anche appendere tutte le tue giacche in ordine cromatico, con le cravatte già abbinate se vuoi…»
«Se voglio io?» si acciglia Sabo a sottolineare che sono io quella con le fisse strane.
«Oh e devo avvisare Law! Facciamoci un selfie!» esclamo euforica.
«Sì dai, selfie mentre ti limono, così vede che è tutto a posto»
«Sabo!» scoppio a ridere.
Quando torno su di lui, il modo in cui mi guarda mi mozza il fiato. Sospira e si passa una mano tra i capelli. «Cavolo, mi sa che sono fregato a vita» scende con il dorso di due dita ad accarezzarmi il naso. «Non penso di poter sopravvivere se non vedo questo sorriso almeno una volta al giorno»
Il cuore si ferma, il cervello va in corto, mi ributto su di lui, tra le sue braccia, sulle sue labbra, vagamente consapevole, mentre lo limono per davvero, che questi schiocchi di sottofondo sono gli spennati che ci paparazzano. Me ne farò girare una da mandare a Law. E forse darò a Shakky il numero di Praline.
Il bacio si fa meno impetuoso, più lento e dolce, mica che a Ray venga in mente di bagnarci con la canna dell’acqua – la stessa con cui, realizzo di colpo, Perona aveva legato Ace –, e quando ci separiamo abbasso gli occhi. «E dove andiamo che non hai le scarpe» soffio, ancora aggrappata a lui.
«Duck può prestargli le sue!»
«Cosa?!? Chi ha mai detto che gliele presto?!»
«Io!»
Sabo scoppia a ridere tra i miei capelli, io lo imito, appoggiando il viso al suo petto. «Posso farmene portare un paio di riserva da qualcuno. Da Robin» propone Sabo, baciandomi tra i capelli. «O camminare scalzo, tanto sto volando»
«Ish, Ish! Ci racconti la tua versione di “Mago Mingherlino e Liquirizia”?» Rica si avvicina praticamente saltellando.
«Di nuovo?!»
«Così mi si caria anche l’altra metà di dentiera»
Guardo il gruppo che ricomincia a battibeccare e sarà l’estate, sarà che sono tra le braccia dell’uomo che amo, sarà ancora l’effetto benefico del tè di nonna Tsuru, ma mi sento così rilassata e serena che potrei anche addormentarmi in piedi qui sulla panchina.
«Chiama Robin» decido, rimandando la nostra rinconciliazione completa. «Non ci metterà molto, conoscendola…» per fortuna. «…ma c’è un po’ di tempo e ho proprio voglia di una limonata» sorrido a Rica.
«Ah ma basta dirlo!» esclama Sabo, riavventandosi sulle mia labbra.
Sgrano gli occhi, colta alla sprovvista ma subito li richiudo e rispondo, e mi aggrappo a lui, e mi perdo.
Ah cavolo. Mi sa che sono fregata anche io.
Se è questo il “resto delle nostre vite”, non penso di poterne più fare a meno.

 
§

 
«È pazzesco! Avrebbe potuto chiederti un rene con i prezzi che ha e tutta l’acqua e il cibo che ti ha dato e invece ti ha fatto tutto a credito!» esclamo, ancora incredula, mentre svoltiamo verso casa, mano nella mano.
Alla fine al Tispenno ci abbiamo passato il pomeriggio, Robin ha portato le scarpe a Sabo e si è fermata per un caffè, caffè che Shakky non le ha fatto pagare perché “gli amici dei miei amici sono miei amici e io agli amici faccio tutto a credito”.
«Mi ha anche ridato i cinque berry della bottiglietta!»
«È generosità selettiva» si stringe nelle spalle Sabo. «Spenna i passanti e coccola gli habituè»
«Basterebbe far pagare tutti e potrebbe tenere un listino normale»
«Eh ma poi dovrebbe cambiare il nome al bar» mi fa notare Sabo, mentre si ferma e mi fa voltare verso di sé. Mi guarda intensamente, con un sorriso e gli occhi socchiusi, così intensamente che rischio di sciogliermi ai suoi piedi.  «Sei stanca?»
Abbiamo lasciato le macchine a Sabaody, si sta così bene che era un crimine non approfittarne per una passeggiata una volta sceso un po’ più di fresco, per quanto possa essere fresco in questo periodo. Ma no, non sono stanca anche se abbiamo camminato praticamente un’ora e mezza.
«No» soffio tirandomi sulle punte a reclamare l’ennesimo bacio.
Si sta così bene. Si sta così bene così con Sabo, a camminare, ridere, baciarci perché sì. È come quando da bambina andavo al mare e con papà facevo le escursioni subacquee. Mi sono sempre sentita così a mio agio in acqua e con Sabo è la stessa cosa ma anche meglio. È come essere sommersa in acque limpide senza neanche bisogno di trattenere il fiato.
Sono nel mio elemento.
«Siamo arrivati» mi avvisa quando si stacca da me e guarda oltre la mia spalla e io mi giro e trattengo il fiato, quasi non mi aspettassi di vedere un’immobile là dov’è sempre stato.
Casa. Siamo a casa e questo significa che finalmente potrò riaverlo tutto. Solo a pensarci il mio corpo pulsa in ogni fibra, vena e cellula. Gli afferro la mano e marcio decisa verso la porta, mi metto quasi a correre e lui si mette a ridere ed è il suono più bello del mondo.  Suono più bello del mondo che viene bruscamente interrotto quando, una volta davanti alla porta, dei rumori da dentro casa ci zittiscono.
Da dentro casa.
Mi scambio un’occhiata con lui e ci accostiamo di più al legno, gli occhi bassi e le orecchie tese ad ascoltare, le sue braccia che mi circondano, pronte a proteggermi.
«Non sembra Lindbergh» bisbiglio quando un nuovo rumore risuona oltre la porta.
«Lindbergh?» mi guarda corrucciato. «Hai dato un nome al gatto dei vicini?» mi fa girare appena verso di lui. «Gli hai dato il nome del mio peluche?»
Ecco dove l’avevo sentito!
«Te l’ho detto che vive da noi!» protesto con una stretta di spalle. «Che avrei dovuto fare? Chiamarlo “gatto”? È impersonale e si è guardato tutto The Guardian insieme a me»
«Sì ma… hai guardato The Guardian
«Due stagioni e mezzo» affermo fiera, facendo anche il segno con le dita. «E non cambiare argomento. Il gatto resta!»
Sabo sgrana gli occhi incredulo e apre bocca per dire qualcosa che però non fa in tempo a lasciare le sue labbra quando un nuovo rumore, stavolta un bel tonfo, ci fa scattare e ricorda perché siamo ancora qua fuori e parliamo sottovoce.
Precisamente come chi è dentro.
«Aisa ma che fai? Attenta!»
Perona?!  E Aisa? Che cosa stanno…
«E scusate! Mica è colpa mia se questa casa è un campo minato! Credevo che il mal d’amore l’avesse resa più ordinata, io!»
«È durata poco» sospira Reiju e io sgrano gli occhi indignata.
Io non sono disordinata! Sono… sono… entropica!
«Ehi, ehi, che succede? Non obbligate la zia Praline a intervenire. Ish sta per arrivare e dobbiamo essere pr…» Praline si blocca quando infilo le chiavi nella serratura. «Arriva, arriva! In posizione!» continua a bisbigliare.
Come se ormai potessi non sentirla!
Chissà che cavolo avranno in mente! Nessuno degli scenari che riesco a immaginare è confortante, se devo essere sincera. Se non che quando apro nessuno degli scenari che avevo immaginato mi si para davanti.
«TA-DAN!!!»
«Preparati Ish!!! Stasera si fa fes… Oh! Sabo!»
Le guardo allibita, in posa nell’ingresso. Perona con codini, lecca lecca e occhiali a cuore con le lenti rosa, Reiju stupenda con il top a frange e la fascia con la piuma, Praline con un atroce boa viola che credo arrivi dalla clown therapy e Aisa in calzoncini, fascia nei capelli, top corto e…
«Sono le mie luci di Natale quelle?!»
«Le ho trovate in una scatola qui in ingresso» si giustifica Aisa, sistemandosi meglio addosso il filo luminoso, a mo’ di accessorio. «Cosa ci facevano all’ingresso tra l’altro?»
«Erano nell’armadio e le ho tirate fuori per portarle in cantina»
«E quando pensavi di portarle in cantina?» si informa Sabo.
«Dopo Natale!»
Che domande! Mancano solo cinque mesi, che senso avrebbe metterle via?
«Ah ecco»
«Ma che ci fate qui? E come siete entrate?»
«Praline ha fatto un calco delle tue chiavi l’ultima volta che siamo state qui e si è fatta fare una copia da un tipo losco che conosce lei»
Sbatto le palpebre interdetta. Che cosa?!?!?!
«E volevamo portarti fuori a divertirti, così ti tiravi su» spiega Rei, scostandosi il ciuffo. «Ma mi sa che hai altri programmi» sorride maliziosa, mentre alza gli occhi su Sabo.
«Praline perché non ci hai detto che stava arrivando con lui? L’hai tenuta d’occhio dalla cucina!»
«Non l’ho notato» si stringe nelle spalle Praline, con un sorriso inquietante che quando dice le cose con quel sorriso non ci può credere nessuno.
E infatti Aisa solleva il sopracciglio mentre Perona abbassa gli occhiali sulla punta del naso, per guardarla da sopra le lenti Solo Reiju sghignazza, ormai assuefatta alle stranezze della nostra amica.
«È quasi un metro e novanta ed è così biondo che brilla al buio» ribatte un po’ acida Perona.
Mi giro verso Sabo e lo guardo, innamorata. Perona ha ragione, è così biondo.
Oddio, ma che sto facendo? Devo essermi bevuta il cervello.
«Beh, ora che abbiamo visto con i nostri occhi i piccioncini di nuovo riuniti che ne dite di…»
«Oh si andate pure, non voglio trattener…»
«…passare una bella serata a farci raccontare da Mingherlino tutti i dettagli che Ishley ha omesso?»  
Sgrano gli occhi e Perona e Reiju con me quando Aisa si illumina e commenta: «Ehi è una grande idea!»
«Anche no!» protesta Perona, afferrando il suo zainetto e la borsa di Praline con una mano e il polso di Praline nell’altra mentre Reiju sospinge Aisa, sorda alle sue proteste.
«Ehi aspet…»
«Noi andiamo allora! Divertitevi!»
«…ta, Rei! Sono settimane che voglio fare il ter…»
«Passate una bella serata!»
«Domani ti chiamo per i dettagli Ish»
«…zo grado a Sabo e…»
La porta si chiude con un tonfo, lasciandoci qui fermi e allibiti a fissarla.
Queste sono le mie amiche. Le mie migliori amiche.
E cos’era quella di Praline – “ti chiamo domani per i dettagli” –, una minaccia?! 
Sul serio, queste sono le mie migliori amiche?!
Io… io…
«Ish? Amore, tutto bene?» 
«Sabo scusami solo un momento»
... le amo alla follia!
Spalanco la porta e la lascio aperta alle mie spalle, mentre mi precipito in strada dove le trovo a discutere, più che altro Perona con Aisa, ma non presto nemmeno attenzione a quello che si stanno dicendo, mi butto verso di loro, le abbraccio tutte e quattro come posso, avendo solo due braccia.
«Ish?»
«Ehi che succede?»
«Tutto bene?»
«Vi voglio bene ragazze»
Non so cosa farei senza di voi.
Percepisco il sorriso di Reiju contro la tempia, sento Aisa trattenere il fiato, Praline si produce in un verso intenerito che sa un filino di presa per i fondelli e Perona mi risponde che anche loro mi vogliono bene.
Quando ci separiamo, nonostante il buio, ho l’impressione di non essere la sola ad avere gli occhi un po’ lucidi.
«Ma visto che ci vuoi bene, perché non vieni con noi e lasci a casa Sabo con il gatto» prova a propormi Aisa ma io subito scuoto il capo.
«Ah no»
«Eddai Ish! Dai!»
«No no» insisto, indietreggiando verso casa. «Stasera, la qui presente Ishley Isabel Habena farà tanto, sano, agognato, rumoroso, prestante amore, signore mie» le informo, incurante di dirlo a voce molto alta in una strada molto silenziosa.
«Oh! Quindi Sabo è tornato?» domanda una voce da una casa vicina e io mi immobilizzo, viola in faccia e con un fervido desiderio di prendere una pala e darmela in testa senza neanche pormi il problema di scavare prima una buca.
Ci penseranno le ragazze.
«Buonasera, signora Sandersonia»
«Buonasera a te, semmai, tesoro» risponde Sandersonia, facendo sghignazzare le ragazze talmente tanto che alla fine cedo e mi unisco a loro, sventagliando poi un ultimo saluto prima di rientrare in casa.
Chiudo la porta e mi ci appoggio, soffiando via i capelli dal viso, prima di focalizzarmi di nuovo anima, mente e cuore su Sabo, che mi guarda divertito, appoggiato allo stipite della porta del salotto.
Di nuovo noi due, insieme qui, dove tutto è iniziato. Emozioni vecchie e sempre nuove mi pervadono, mi fanno fremere e brillare.
Lo amo.
Lo amo e lo voglio. 
Lo amo così tanto.
«A cosa stai pensando?»
«Ti amo» rispondo senza esitare, lo ripeto e i suoi occhi balenano un istante. Si stacca dallo stipite e si avvicina. «E tu?» chiedo, deglutendo per inumidire la gola.
«Sto pensando…» mi raggiunge, mi inchioda alla porta. «…che voglio sentirti ridere» le sue mani si posano decise sui miei fianchi, mi guidano tra le sue braccia, al suo torace, a un metro da terra, fisicamente e non. Mi stringo a lui, fronte contro fronte, le gambe a circondarlo, i cuori che battono in sincrono. Sento il suo contro il mio seno. Sono certa che lui sente il mio contro il suo petto. «Voglio sentirti ridere per il resto della nostra vita, Ish»

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Capitolo 39
*** Capitolo 39 ***


Una delle più grandi lezioni di vita che papà mi ha insegnato è che “casa” non è tanto un luogo, quanto uno stato mentale.
Non sono semplicemente quattro mura e un tetto, ma il colore delle pareti e ogni crepa nel soffitto. Un luogo diventa casa quando ne riconosci ogni macchia e sfumatura, ogni piastrella sconnessa, ogni rigonfiamento causato dall’umidità, ogni zigrinatura nel vetro.
Casa sono odori, colori, sensazioni.
Casa è anche chi la abita.
Casa per me, sarà sempre il trilocale di zio Ty, la villa a Goa, il mio vecchio appartamento con Nami e la casa dove vivo attualmente con Law, anche se dovessimo un domani andarcene. Casa è uno stato mentale, sono tutti quei luoghi dove sono stata e dove sto bene.
La Ivankov&Co, anche, è casa per me.
Il minuscolo open-space condiviso con Usopp e Nami, le macchinette del caffè, luogo di incontro con Izou, l’ascensore di sinistra che prendiamo tutti insieme la mattina, anche se poi Izou e Marco devono tornare giù al reparto stampanti, persino l’ufficio di Iva.
Sono luoghi che conosco bene, di cui ricordo ogni scanalatura, zoccolo e spigolo.
Lasciare casa, in genere, non è facile. È un cambiamento e i cambiamenti non sono facili, per quanto inevitabili. Lasciare un luogo sicuro, che ti fa sentire a tuo agio, protetto, come dietro a uno scudo, come se nulla di male potrebbe mai accaderti.
È curiosa, la nozione di casa. Per quanto poco materiali si possa essere, lasciar andare un luogo, da sempre malinconia.
«…di fianco a Victoria Cindry! Vi rendete conto?!»
Sogghigno insieme ad Usopp, le mani ad accarezzare il pancione, mentre Nami ci racconta del weekend a Marijoa. Per me è già il secondo dettagliato resoconto, avendomi Izou telefonato domenica per dirmi ogni cosa ma c’è da dire che Izou tende ad aggiungere pittoreschi dettagli perciò, insomma, è come sentire una storia diversa. Anche se certe cose che avrei detto essere frutto della sua fantasia, a quanto pare sono vere.
Sono colpita.
«Ah ragazzi, che bello potervi finalmente raccontare tutto» si stiracchia sulla sua poltrona ergonomica Nami. «Davvero non sapete quanto mi mancava lavorare tutti e tre insieme»
«Lavorare…» commenta Usopp, alzando un sopracciglio per poi scambiarsi un’occhiata con me e sorridere un po’ tirato.
«Ma come?» sogghigno appena. «Che fine ha fatto Nami “non disturbate la mia creatività con le vostre voci” Cocoyashi?» la prendo in giro ma lei si limita sorridermi soddisfatta.
«Si è evoluta. Ora le piace lavorare in compagnia» smuove i capelli a mento alto ed è solo in nome della nostra amicizia che evito di sottolineare che in realtà è evidente che è sempre stato così ma non lo ha mai voluto ammettere. E anche perché sembra quasi che lo facciamo apposta a dirglielo adesso, ma d’altra parte non ha nessun senso rimandare. «Ehi» si allerta e ci guarda a occhi socchiusi. «Che sono quelle facce? Dovete dirmi qualcosa?»
«D-d-d-d-dirti qualcosa?! N-no! Perché m-m-mai lo p-pensi?!» si comincia ad agitare subito Usopp, insospettendola ancora di più e strappandomi un sospiro. «È un b-bene che tu sia più a-aperta alle r-r-relazioni sociali ed è una bella cosa che ora ti p-p-piaccia lavorare in compagnia, c-che sia con n-n-n-n-noi o q-qualcun a-a-altr…»
«Usopp» lo richiamo con un sorriso.
«Wowowowowo! Fermi tutti! Cosa significa “che sia con voi o qualcun altro?”» fissa minacciosa Usopp che sobbalza e trema come una foglia.
«Ma n-niente, niente! Era rif-f-ferito a Iz…»
«Ci sono un po’ di cambiamenti in atto, Nami» intervengo, parlando con calma, in aiuto di non so nemmeno io se Usopp, che esala sollevato di non aver più in mano lui la patata bollente, o Nami, che mi fissa scioccata ma ha per lo meno abbandonato qualunque velleità omicida.
«Che… che genere di cambiamenti?» tentenna, spostando lo sguardo da me ad Usopp e ritorno. «Ve ne andate?»
Abbasso per un attimo gli occhi al pancione e li rialzo subito su di lei «Sì e no»
Nami boccheggia, annaspa in cerca d’aria e quando una vena prende a pulsare sulla sua fronte mi preparo all’esplosione. Mi preparo psicologicamente, non come Usopp che si nasconde dietro la sedia. «Che vorrebbe dire sì e no?! O ve ne andate o non ve ne andate, non esiste la via di mezzo!!!» ruggisce, i denti a squalino, e si alza in piedi di scatto, con il chiaro intento di mettersi a camminare, se solo lo spazio non fosse inesistente qui dentro. Così, per sopperire, gesticola. «Ma bene bravi!  Begli amici che siete!» Usopp mi guarda in panico e io gli sorrido rassicurante. «Voi progettate le vostre cose, vi candidate per nuovi lavori e tutto alle mie spalle, senza dirmi niente, senza discuterne prima?!»
«Discuterne?» mi acciglio.
«Dopo tutto quello che ho fatto per voi! Dopo tutte le volte che vi ho prestato gli spicci per prendere il caffè alla macchinetta!»
Usopp solleva un sopracciglia e si azzarda a sbirciare da dietro la sedia. «Ce li hai sempre chiesti indietro con gli interessi»  
«Zitto tu!» lo aggredisce e poi incrocia le braccia sotto al seno, fingendosi scocciata. «E quindi?! Dove andate?! Vi hanno preso in coppia?! Non c’era posto anche per me?! Chi sono?! È la Baroque Works?! Baby e Bibi hanno messo una buona parola, mh?! No?! Allora la Mad Treasure, ho sentito che cercavano ma non credevo ci interessasse un’azienda come quella! Santo cielo! Hanno un’accusa di sfruttamento minorile pendente! Davvero volete lavorare per loro?! Vi facevo più etici, sinceramente!»
«Senti chi parla…»
«Che hai detto, nasolungo?!»
«Nami, non è la Mad Treasure»
«E dove allora?!» mi abbaia contro ma non mi sfugge il lampo sofferente nei suoi occhi. E lo capisco. Siamo sempre stati un team, sempre noi tre. È dura cambiare, l’idea di ricominciare da zero spaventa. Ma a piccoli passi, ce la caveremo alla grande, noi tre e non solo, ne sono certa.
«Qui Nami. Sempre qui alla Ivankov&Co» annuisco piano e lei mi fissa interdetta e a occhi sgranati per trenta secondi buoni, durante i quali Usopp si azzarda a riemergere da dietro la sedia, fissandola preoccupato.
«Ehmmm, N-Nami?»
«In che senso qui alla Ivankov&Co?! Cosa significa?!»
«Ti va di risederti così ti spieghiamo e Usopp non si fa venire un attacco cardiaco?» le propongo, sperando accolga il mio suggerimento. Cosa che, per fortuna, fa, intrecciando le dita delle mani tra loro, ancora diffidente.
«Vi ascolto»
Prendo un profondo respiro e lancio una rapida occhiata ad Usopp, mentre rifletto rapida da dove partire.
«Ricordi tre settimane fa che hanno chiamato Usopp a sostituire un collega in informatica tanto erano disperati?» decido di partire da lui e Nami gli lancia un’occhiata ma torna subito su di me e poi annuisce. «Ecco, sembra che il nostro Usopp sappia come lasciare il segno. Gli hanno proposto di diventare data analyst. In pratica fare quello che fa normalmente per noi ma a vantaggio dell’intera azienda. Già era una leggenda per la sua analisi preventiva per i cloth tattoo, che era basata sul niente, quando lo hanno visto all’opera, sono caduti tutti ai suoi piedi» lo guardo con orgoglio.
«Oh» commenta Nami, rigida sulla propria sedia. Non le piace non avere il controllo della situazione, non le piace essere lei che dipende da altri e darlo a vedere. «Non sapevo volessi un lavoro simile»
«È un lavoro in cui sono bravo» si stringe nelle spalle Usopp, un sorriso umile sul volto, il suo sorriso più vero. «E come data analyst migliorerei la mia posizione, otterrei un aumento e soprattutto…» prende un profondo respiro, che è anche di sollievo. «…soprattutto posso lavorare da casa due giorni a settimana, così da poter gestire meglio Kaya, stare con lei e avere la certezza di passare i controlli con gli assistenti sociali» ammette, puntando gli occhi in quelli di Nami, speranzoso che possa capirlo che la sua migliore amica sia dalla sua parte.
E Nami capisce. Ovviamente capisce e vuole solo il meglio per lui, vuole che realizzi i suoi sogni, vuole vederlo felice.
«Okay» concede, ancora restia a lasciarsi andare, ancora incerta e diffidente. Come una gatta in cerca di affetto. «E tu?»
Inspiro a fondo. Non ho ancora pienamente metabolizzato che sia davvero successo. Mi sembra ancora così surreale, eppure è accaduto sul serio.
«Jinbe ha pattuito con Iva di aprire una sezione permanente dedicata esclusivamente al probono, finanziata di tasca propria e… Mi vuole a capo del team» sorrido e mi stringo nelle spalle, gli occhi che pizzicano di emozione.
C’è un attimo di sospensioe e poi, senza preavviso, mi ritrovo tra le braccia di Nami. «Koala è il tuo sogno» sussurra al mio orecchio, mentre la stringo di rimando.
«Lo so»
«Sono così felice per te» aumenta la presa e io chiudo gli occhi. «Ma come farai con…» si accovaccia e posa le mani sul pancione.
«Pare che ci sia un po’ di gente in giro per l’azienda nelle mie stesse condizioni, così Bartolomhew ha proposto di aprire un asilo aziendale. Anche l’universo sta facendo gli straordinari, a quanto pare. Pensa che a quanto pare Tsuru ha minacciato Iceburg se non riconosce il Castello come struttura ospedaliera anziché clinica privata. I fondi impenneranno.» mi asciugo le guance. «Comunque la sezione probono non è ancora pronta. Aprirà che io sarò già in maternità e Jinbe farà le mie veci finché non rientro. Mi vuole a qualunque costo a quanto pare»
«Santo cielo» si passa le mani nei capelli Nami, gli occhi sgranati e troppe informazioni tutte insieme. «Santo cielo, è veramente… voi… Cavolo!» protesta. «Begli amici che siete davvero! Mi mollate da sola e mi obbligate anche a essere felice per voi!» sorride a Usopp, che sghignazza e scuote il capo. «Beh almeno non dovrò più preoccuparmi delle vostre voci che disturbano la mia creatività» scrolla poi le spalle, con fare superiore. «Sperando che il direttore artistico che ti sostituirà, Koala, non sia uno stronzo totale. O una stronza totale. Il fatto di non esserlo, è una delle tue migliori qualità»
«Temo che invece lo sarà eccome» commenta Usopp, il sopracciglio alzato, facendo accigliare Nami.
«Perché? Sapete già chi sarà?»
Io e Usopp ci scambiamo un’occhiata e poi torniamo su di lei, non riusciamo a non sorridere mentre la fissiamo con insistenza, in attesa che ci arrivi da sé.
«Perché mi guardate così? Mi volete dire chi è e basta così mi preparo psicologic…» sgrana gli occhi e la voce le muore in gola quando finalmente il pensiero raggiunge l’area cerebrale dedicata alle deduzioni logiche, qualunque essa sia. «…amente» finisce suo malgrado e rimbalza con gli occhi tra di noi un paio di volte.
«È stata una conditio sine qua non perché accettassi di lasciare il team. Meriti anche tu una promozione e soprattutto, meriti questo posto» la guardo con infinito affetto.
Nami Cocoyashi, direttrice creativa e responsabile marketing.
Suona bene e, a giudicare dalla sua espressione tronfia e sorniona, lo sta pensando anche lei.
«Beh immagino che fosse l’unico modo per lasciare le campagne che ci pagano gli stipendi con tranquillità, metterle in mano mia intendo» smuove i capelli con una mano, sospirando. «Certo ora dovrò anche scegliermi dei nuovi collaboratori. Dovrò sceglierli io, personalmente. Ah, che rogna» sospira, fintamente rassegnata.
«A dire il vero uno te l’ho già trovato» mi guardo le unghie con noncuranza.
«Che?!»si mette dritta di scatto. «M-ma guarda che per me non era un problema scegliermeli eh. Cioè, certo sarebbe stata una cosa in più ma sarebbe stata la mia prima decisione da cap…»
«Okay, okay, dove posso piazzare tutta questa meravigliosa e stilosa roba?!» entra nell’open space, armato di scatolone, finta strafottenza e un sorriso che mi fa venire voglia di abbracciarlo.
Gli voglio bene. Gli voglio così bene e sono pronta a tutto per mettere a tacere le malelingue che potrebbero emergere quando si verrà a sapere della sua inattesa promozione, non solo a una nuova mansione ma proprio a  un nuovo reparto.
Perché lo merita, perché è un genio visionario e so che farà grandi cose, per la moda, per l’azienda e anche  e soprattutto per mio figlio.
E comunque nessuno tocca il mio migliore amico.
«Izou?»
«Ehi rossa!»
«Izou?!» domanda ancora Nami, alzandosi in piedi, ma stavolta non chiede conferma della sua effettiva presenza, semmai chiede conferma di aver capito bene il motivo del suo arrivo. E so che lo negherà fino alla tomba, ma riesco a registrare l’esatto momento in cui la consapevolezza che, sì, Izou sarà suo collega, il suo braccio destro, la Nami della sua squadra creativa prende forma nella sua mente da come gli occhi le brillano felici.
«Sì, rossa, sono io!»
Non che Izou sia da meno e non me la deve nemmeno provare a raccontare. So benissimo che non è solo per la promozione.
Nami assottiglia gli occhi, la vena prende a pulsare sulla sua fronte e incrocia le braccia sotto al seno. «Guarda che io sono il tuo superiore ora. Devi chiamarmi “capo”» solleva il mento e io mi scambio un’occhiata eloquente con Usopp che si alza e scivola verso di me, porgendomi il braccio.
Izou posa lo scatolone sulla prima scrivania che gli capita a tiro, trucida Usopp con gli occhi, controllando che mi maneggi con cura e mi sostenga correttamente, e poi prende Nami per le spalle e la fa sedere dov’ero io un attimo fa. «Perfetto, capo»si siede sulla scrivania e piega appena verso di lei. «Allora mettiamo subito i puntini sulle i. Devo potermi allontanare almeno tre volte al giorno per andare a fare sesso con Marco-chan e poi…»
Sghignazzo mentre io e Usopp ci alziamo per uscire dall’open-space, io devo andare da Iva e lui dal suo nuovo responsabile e un lieve spasmo mi prende lo stomaco.
Malinconia. La malinconia e i cambiamenti, a volte sono necessari.
«Ah» torno sui miei passi proprio sulla soglia, alzando appena l’indice. «Io non so cosa voi due abbiate in mente, ma Boa Hancock ha mandato stamattina un’email al mio indirizzo che doveva essere per voi, in cui dice che sarebbe interessata a finanziare non ho capito che progetto online di abbigliamento» li guardo e sorrido soave. «Io non so cos’avete in mente voi due, ma se la produzione della squadra cala non pensate che io non abbia più diritto di venire qui a farvi il contropelo» 
Anche perché probabilmente saranno loro a finanziare noi.
«Sì capo»
«Okay boss» rispondono prontamente, più di quanto osassi sperare, in realtà e nascondo la sospresa dietro a un’espressione soddisfatta che fa sghignazzare Usopp quando lo raggiungo in corridoio.
«Allora è fatta eh?» mormora quando mi fermo a un passo da lui e annuisco.
«È fatta»
«Nami l’ha anche presa meglio del previsto»
«Oh Usopp, eri tu che avevi paura della sua reazione, io sapevo che sarebbe stata felice. Insomma con l’aumento di stipendio…» giro gli occhi e Usopp ride, pizzicandomi una guancia tra due nocche prima di puntare gli occhi oltre me, il sorriso mezzo congelato sul volto e gli occhi pieni di nostalgia che osservano il nostro open-space, che sarà sempre nostro, ma guardano oltre, guardano il nostro futuro con speranza e curiosità.  
«Andrà tutto bene vero?»
Sorrido e mi tiro sulle punte, prendendogli il viso tra le mani per abbassare il suo sguardo su di me, gli occhi che guizzano, spero rassicuranti. «Sta già andando tutto bene, Usopp»
 

 
§
 
 
Tre anni dopo
 
Sospiro mentre ricontrollo di nuovo il cellulare. Credo sia la settima volta da quando sono uscita dal Castello al tempo di arrivare davanti casa e parcheggiare. I semafori sembravano essersi messi tutti d’accordo per rallentarmi stasera ma ho sfruttato le soste per verificare che avesse letto il mio messaggio su WhattsApp.
Inutilmente.
Le spunte sono ancora grigie e sì, lo so che ci siamo sentiti all’ora di pranzo, ma doveva farmi sapere per che ore rientrava dalla trasferta fuori Raftel, per parlare non ho capito con che cliente non ho capito di quale di questione. Fatto sta che sono le otto e di Sabo ancora nessuna notizia.
O spunta blu se è per questo.
E no, non sono apprensiva, so benissimo che probabilmente sta guidando, che si sarà dimenticato di avvisarmi che partiva, che boh non lo so e non sarei così in aria se solo oggi non mi avesse informata a fine telefonata che stasera avrebbe avuto bisogno di parlarmi.
Onestamente, lì per lì non ci ho nemmeno fatto caso ma più si avvicinava la fin del turno più ho cominciato a metabolizzare e diventare consapevole di alcuni dettagli che avevo registrato solo nel mio retropensiero.
Come le risposte schive sul cliente e in generale il motivo della sua trasferta. La risata nervosa con cui mi ha salutato. L’insistente bisogno di sapere con precisione per che ore avrei smontato più o meno. Che poi è una contraddizione in termini e glielo devo far notare, al signor avvocato.
Di cosa mi vuole parlare? Perché la cosa mi agita tanto? Dove si è cacciato da non aver mezzo secondo per visualizzare il mio stupido messaggio?
Okay, Ish, okay.
Calma.
Tutto questo non è da te e tu non sei la sorella perduta di Law. Non di sangue almeno. E ci può stare un po’ di apprensione a saperlo in viaggio stanco morto, ci sta tutta la voglia di riabbracciarlo, non ci sta per niente il panico e il pensiero irrazionale che voglia parlarti per un motivo astruso come tipo, ecco, lasciarti.
Certo se solo non fosse stato così strano e irrequieto queste ultime due settimane, con quel fare circospetto e una sacra isteria all’idea che mi avvicinassi al suo cassetto delle mutande…
Va bene, stai pensando troppo ora.
Sii zen. Respira.
Cosa ti direbbe Praline ora?
Sfoga tutto con il sesso, bimba. 
Sì, ragionevole ma non molto utile. Pessima scelta, Ish. Okay, okay proviamo con Aisa.
Pedinarlo. Dobbiamo pedinarlo. Cimici nella borsa del lavoro, un geolocalizzatore nel caffè così lo ingoia e…
Scuoto la testa e mi picchio la fronte con il palmo. Rei?
Sono uomini Ish. Avrà le mestruazioni o sarà preoccupato per qualche gabola al lavoro. 
Di cui sarei al corrente visto che lavoriamo nello stesso posto.
A volte anche Ace ha dei momenti così, l’ultima volta ho seriamente valutato un rituale Voodoo. 
Okay, basta. Inutile stare ad arrovellarsi così, ora entro, mi do una rinfrescata e poi cerco di capire a che ore arriva e di rilassarmi un po’ mentre lo aspetto per parlare. Devo anche preparare qualcosa da mangiare, avendo ormai bandito il take-away dalle nostre vite.
Lo sento come il clack della porta schiocca all’ingresso, il lieve rombare tremolante che mi accoglie in una fusa miagolata, un trattorino a quattro zampe che reclama cibo o coccole o entrambe. E che stasera sembra parecchio agitato.
«Lindbergh. Ehi che ti prende?» scivolo veloce in casa, gli occhi fissi su di lui che si struscia sul mobile dell’ingresso, la schiena inarcata e la coda dritta che vibra nell’aria. Mi accovaccio un momento e gli permetto di strusciarsi su di me, grattandolo sulla testa, ma quando vedo che non si calma, che annusa l’aria con insistenza arricciando il nasino rosa con un puntino marrone, che mi viene voglia di mangiarlo, che fa scattare la schiena, capisco che non è semplice fame la sua, ma che c’è qualcosa in casa che chiaramente lo turba. Avrò qualcosa da fare mentre aspetto Sabo.
Mi rimetto in piedi per sfilarmi la giacca, non prima di aver lanciato le chiavi nell’apposito contenitore sul mobile dell’ingresso e… E… Aspetta un… Cosa…
Mi acciglio, studiando a bocca schiusa i tre mazzi di fiori, o meglio i tre giganteschi mazzi di fiori, disposti sul mobile, spaventosamente ordinato per farci stare i tre vasi, così straripanti che mi domando come ho fatto a non notarli immediatamente, così come il profumo marino tipico dei gigli cuore blu.
Oh santo cielo…
Ma cosa…
Li studio come un gatto, cauta e spaventosamente curiosa, attratta dalla lieve luce bluastra che i pistilli sembrano emanare nella penombra, dando l’impressione di trovarsi sul fondo dell’oceano. Ora che ci penso, da dove arriva questa luce fioca?
Ma quest’altra questione diventa momentaneamente l’ultimo dei miei pensieri quando mi accorgo di tre foglietti identici posati in mezzo ai fiori su ciascun mazzo, con al centro scritto in grande, in azzurro e bella grafia il numero 25.
Venticinque. Venticinque.
Mando giù con il cuore che batte all’impazzata e sono abbastanza confusa e bacata da poter pensare che si tratti di una specie di rompicapo se una parte di me, molto recondita, non avesse già iniziato a capire. E so all’istante che venticinque è il numero di fiori in ogni mazzo, per un totale di settantacinque che schizza a centoventicinque quando mi accorgo di altri due mazzi identici sull’altro mobile, quello con lo specchio a figura intera, e sulla scarpiera.
Davvero, come ho fatto a non notarli, come?!
Senza riuscire a pensare a qualcosa di sensato, mi sposto di pochi passi, notando la luce soffusa anche in cucina, dove alternati da piccole lanterne bianche, altri cinque vasi fanno bella mostra di sé, sul bancone e sul piano di lavoro.
Venticinque fiori per mazzo.
Duecentocinquanta.
Duecentocinquanta gigli cuore blu.
Non è possibile. Non lo è. Sto sognando per forza.
È una follia!
Entro con passo felpato in salotto, quasi timorosa di spezzare l’incantesimo del mio Mago, gli occhi lucidi non certo per la fatica di mettere a fuoco nella meravigliosa, accogliente, delicata luce che le lanternine disseminate ovunque emanano, aiutate dalla vernice fosforescente che schizza la parete dietro al divano, a illuminare altri quattro mazzi sul tavolino, quattro di fianco alla televisione, due sopra al pensile, due sotto alla sedia-amaca. Dodici mazzi da venticinque.
Duecentocinquanta più trecento.
Cinquecentocinquanta.
Le mani mi tremano, non è certo per il profumo che permea l’aria che faccio fatica a respirare e sento pure una musica di sottofondo nel mio cervello perché insomma questo numeo è troppo vicino, troppo simile a un ricordo che si fa improvvisamente vivido nella mia mente, di una serata di assurdità in un momento di sconforto, in compagnia di un malassortito gruppo di donne con cui non ho niente in comune, che, casualmente, sono le mie migliori amiche.
Ma non riesco a concretizzare quella che continua a sembrarmi una dissonanza cognitiva perché non può averlo fatto davvero, andiamo! È impazzito! Non può, gli saranno costati un patrimonio, non può! Per me! Non può aver davvero comprato…
«Era centocinquantacinque, giusto?»
La sua voce alle mie spalle è musica, come il canto di una sirena, che mi stordisce e mi fa ritrovare lucidità. Mi giro verso di lui, camicia bianca e pantaloni blu, i miei preferiti, quelli con le cuciture bianche. Mi guarda con occhi carichi di emozione, riflesso dei miei che brillano per le lacrime incredule che mi ostino a non versare.
Sei un pazzo.
Un romantico pazzo senza speranza.
E io ti amo così tanto.
«Sì…» esalo, immobile mentre lui si avvicina, passo calmo e sorriso sul volto, un braccio dietro la schiena. «Dove sei stato?»
«Waterwheel. Scusa per la bugia, non potevo dirti cosa stavo davvero andando a fare»
Mando già a vuoto. Waterwheel. È andato apposta fino a Waterwheel a prenderli.
«Come stai?» mi accarezza con la mano libera e io vorrei chiudere gli occhi, abbandonarmi al suo tocco ma sono così in aria, e confusa, e… e… felice!
«Io… io non…» balbetto e sorrido come una scema allargando appena le braccia a indicare intorno a me. «È troppo bello» ammetto con un fremito, che è il massimo di movimento che il mio corpo mi concede.
«M-mmh» mormora, unendo la sua fronte alla mia, puntando i miei occhi con i propri. «Però quanti sono?»
«Cinq… cinquecentocinquanta…»
Il cuore protesta quando si separa da me ma si lancia in una serie di acrobazie quando Sabo si mette in ginocchio. «Oh cavolo…» esalo a fatica, la gola annodata per l’emozione mentre tira fuori da dietro la schiena gli ultimi cinque gigli ed è solo il baluginio che riesce a farmi staccare gli occhi da lui e posarli per un momento sull’anello che luccica, incastrato tra i pistilli del giglio centrale.
Pazzo.
Sei pazzo.
Almeno quanto io lo sono di te.
«Ishley Isabel Habena…» prende un profondo respiro, la voce ferma nonostante l’emozione evidente sul suo volto. È così bello che non so nemmeno come fa a essere mio. «…vorresti sposarmi?»
«Sì» Non c’è esitazione, solo una risata che brilla sulle mie labbra umide. «Sì, Sabo, sì!»
Sì che voglio. Voglio sposarti, essere tua per sempre. Da qui fino alla fine dei miei giorni. Da qui fino alla fine del mondo.
«Ora…» deglutisco a vuoto. «S-se vuoi mettermi l’anello, potresti? Perché ho davvero tanto, tanto bisogno di baciarti»
Sussulta appena, come se si accorgesse solo ora di essere ancora in ginocchio, di avere le braccia troppo vuote e prima che io capisca come, i gigli sono sul pavimento, l’anello al mio dito, io tra le sue braccia, le sue labbra sulle mie.
Lo cerco con il corpo, con le mani, con la bocca e con il cuore, a casa, al sicuro sul suo petto, e faccio leva per saltargli in braccio e farmi portare sul divano. E anche se è una dinamica frequente per noi e se quella volta era la camera da letto, mi fa ripensare sempre alla prima volta che abbiamo fatto l’amore, sporchi di vernice e in una casa che era ancora solo mia.
Ne abbiamo fatta di strada in tre anni. Così tanta che mi sembra che lui ci sia sempre stato. Se penso che ho temuto volesse lasciarmi…
«Ish…» mi chiama con voce roca, nella penombra e io gli sto già aprendo la camicia, sto per chiedergli di prendermi, tutta, farmi sua adesso e per sempre, le sue mani che si intrufolano sotto i miei vestiti, quando una serie di suoni molto disturbanti si levano dal suo cellulare e dal mio cercapersone.
Gli ignoreremmo anche, se solo i messaggi in entrata per Sabo non fossero così a raffica da addirittura sovrapporsi l’uno all’altro e non fosse strano, per non dire anormale, che il mio cicalino suoni a nemmeno un’ora dalla fine del mio turno.  
Ci guardiamo per un momento ma non si sposta da me, mi riprende in braccio prima di mettersi in piedi e, continuando a baciarmi, raggiunge l’ingresso dove abbiamo abbandonato i cellulari. Mi stringe e sostiene con un solo braccio mentre allunga l’altro ad afferrare e poi controllare il proprio telefonino, mentre io mi esibiscio in uno slancio di contorsionismo per cui devo ringraziare i miei anni di danza, piegandomi con il busto fino a raggiungere il cercapersone.
Osservo il messaggio lampeggiante, mentre Sabo continua a scorrere, con una calma che me lo rende irriconoscibile vista la notizia.
«Perona…»
«Sì. Ci siamo» confermo con un sorriso, aspettandomi di vederlo schizzare da un momento all’altro, il tempo di metabolizzare appieno.
«Ace è parecchio agitato» lancia di nuovo un occhio allo schermo, scivolando su e giù lungo la schermata della chat con suo fratello. Ma niente. La calma incarnata. Lo fisso, incredula, cercando di capire se lo hanno clonato gli alieni «Ma in fondo, Perona sta solo facendo qualcosa che migliaia di donne prima di lei, per millenni, hanno fatto e un tempo senza nemmeno l’assistenza medica. No?»
O forse è solo una gran faccia da culo. Ma non posso fare a meno di preoccuparmi. Che gli prende?
«Voglio dire, un travaglio dura… dura parecchio, no? C’è tutto il tempo…» sonda il terreno, cecando i miei occhi con i suoi, e il sangue abbadona di nuovo il mio cervello.
Oh.
Oh!
Okay, è questo?! Si beh, non potrei essere più d’accordo io…
«Tutto il tempo» confermo un po’ ansante, incapace di staccare gli occhi da lui.
La sua presa su di me aumenta, c’è giusto un altro istante di sospensione e poi mi sta nuovo mordendo le labbra, e io le sue, e ricomincia a camminare stavolta verso la camera.
E sì, c’è tempo, c’è assolutamente tempo.
Tipo, il resto della nostra vita.
 

 
***

 
«Oddio ma guardala?! Mi sto sciogliendo!»
«È da mangiare» sorride famelica e Ace indietreggia impercettibilmente, stringendosi al petto il piccolo fagotto. «Oh tranquillo Spalle Larghe, dicevo metaforicamente. Forse»
«Praline smettila di spaventarlo» la richiama Perona seduta nel letto, stanca ma soddisfatta, gli occhi che brillano di una luce unica e non perdono di vista un solo istante Ace e la loro bambina.
«Hai fatto tanta fatica?»
«Diciamo che non me l’ha fatta semplice. Ma appena me l’hanno messa in braccio… Non lo so io…» scuote il capo e io le sorrido, passandole un bicchiere d’acqua.
«Conosco la sensazione»
«Decisamente la conosci» sorride, occhiando alla mia pancia di cinque mesi. «Quindi femmina?»
«A quanto pare…» accarezzo il lieve rigonfiamento sotto la casacca. «La forza non scorre così potente nel cromosoma Y di Law. Non come in tutto il resto» le lancio un’occhiata eloquente, strappandole una risata.
«Povero Deimos! se la vedrà brutta, circondato da soli estrogeni»
«Cosa sono gli estrogeni, papà Usopp?»
«Qualcosa che tra qualche anno ci farà diventare pazzi»
«Usopp!» lo richiama Sanji e lui sgrana gli occhi come a domandare che avrà mai detto – e non posso non appoggiarlo – ma Sanji non gli risponde e si piega verso Kaya, premendogli un dito sul nasino. «È una cosa di cui non ti dovrai mai preoccupare, Principessa»
«No, infatti al massimo ce ne dovremo preoccupare noi»
«U-sopp» lo ammonisce di nuovo a denti stretti e lui sospira e scuote il capo e lo ignora deliberatamente, sorridendo piuttosto a sua figlia quando lei lo cerca, eccitata e spaesata al tempo stesso di fronte alla proposta di Ace di prendere in braccio la neonata.
Ha quasi dieci anni, adesso, Kaya, ed è la bambina più dolce che conosca. Ed è felice, così felice e coccolata, a volte forse troppo dal suo papà Sanji. Ma non c’è pericolo che diventi viziata, per la sua indole certo, ma anche grazie al suo papà Usopp che la guida per mano, insegnandole il mondo e che non bisogna per forza saper fare tutto ma nemmeno bisogna arrendersi di fronte a quelli che sembrano ostacoli troppo grandi.  
«Vuoi provare, amore?» le chiede e Kaya esita solo un altro momento prima di annuire convinta.
Qui al Castello, si sente sempre a casa. Che sia per un controllo, per una normale visita pediatrica o, come oggi, per accompagnare papà e papà a conoscere la nuova arrivata. Qui al Castello, Kaya si sente invincibile. È e sempre sarà, per lei, il regno della principessa pirata, detentrice del magico anello di rubino.  
«Non siamo un po’ in troppi?» considera Reiju, guardandosi intorno. «Cioè, non dovrebbe esserci tipo un numero massimo di visitatori?»
«Oh non preoccuparti» veleggia per la stanza, Praline. «Io sono qui come infermiera…»
«Hai smontato da un’ora, Praline» prova a farle notare Aisa.
«Il papà non si considera un visitatore, Kaya è piccola e non conta perché al limite si può nascondere da qualche parte e Sanji e Usopp sono un’entità singola. Quindi, no» appoggia il mento alla spalla di Reiju e le sorride. «Non siamo troppi»
«Non sono affatto sicura che questo abbia un senso» mormora impassibile Reiju, ormai assefuatta alle sue stranezze. Come tutti noi del resto.
«Ma se anche fosse poi, chi mai potrebbe venire a dirci niente?»
«Un soggetto o due mi vengono in men…» la porta che si apre interrompe Usopp, lasciando filtrare una vocina entusiasta che mi porta via il cuore ogni volta, insieme alla sua proprietaria, in braccio all’uomo più bello del mondo.
«Parli del diavolo…»
«Mami!» mi chiama appena mi vede, gli occhi azzurri che brillano. «Mami, guadda! Ho la maccherina, come papà e come te!»
«Lo vedo, amore! È la supermascherina che ti protegge da tutto» le dico andandole incontro per prendermela e spupazzarmela un po’, aprofittando del fatto che Law sembra troppo impegnato a contare in quanti siamo per accorgersi che sua moglie incinta si accinge a sollevare dodici chili e provare a impedirglielo.
«Siete in troppi» sentenzia, lasciandomi Lux senza proteste.
«Oh dai Torao. Non fare il guastafeste» prova a rabbonirlo con un sorriso mellifluo, Praline. Come faccia a pensare sia una buona idea usare il suo nome clown per farlo è per me un mistero al pari dello One Piece.
«Non faccio il guastafeste, è contro il regolamento dell’ospedale, siete in tr…»
«Eccoci eccoci! Siamo arrivati, ce l’abbiamo fatta!» entra a razzo in camera Izou, il tono melodrammatico, sistemandosi i capelli con piccoli tocchi accorti, seguito a ruota da Sabo e Ish.
«Magnifico»  
«Tio Izou!» esplode di gioia Lux e gli corre incontro barcollante dall'entusiasmo.
«La mia Principessa» Izou se la carica in braccio e la fa roteare in aria.
«Oh ehi! Eccoti! Ci chiedevamo che fine avessi fatto!» esclama Aisa, gli occhi su Ishley che sembra brillare di luce propria mentre io mi avvicino a Kaya che culla la piccola, insieme a Izou e alla mia bambina.
«Ah io mi sa che lo so che fine aveva fatto» Praline la prende per i fianchi, tastando a mani piene dove il busto rientra con una sinuosa curva, simile a una clessidra.
«Cosa stai facendo?»  
«Prendo le misure»
«Per cosa?» domanda Perona, sinceramente perplessa e Ish sospira, rassegnata.
«Non so se voglio saperlo e... Ehi! Praline, insomma! Posso andare a salutarla?!» protesta, senza perdere d’occhio Sabo che abbraccia Ace e bacia Perona sul capo e, ora che lo guardo bene, anche lui brilla e sorride senza riserve. 
Do un bacio in testa a Lux, osservando attenta, mentre lei ascolta con la stessa attenzione qualunque cosa Usopp stia raccontando, e non trattengo un sorriso soddisfatto quando noto un cerchietto in oro bianco all’anulare sinistro di Ish e il petto mi ribolle di una sensazione calda e piacevole. Alzo gli occhi su Law, per vedere se anche lui si è accorto, non so per quale slancio di fiducia, ma è troppo concentrato a tenere d’occhio me, Lux, Kaya e la piccola. 
«Ma come l’avete chiamata alla fine?» domanda Sabo.
Ace e Perona si scambiano un’occhiata innamorata e lei si mette più dritta, schiarendosi appena la gola. «Il suo nome è…»
«Suuuuuuupaaaaaaaaaa!!!»
«Oh è interessante» annuisce Izou, scostandosi dalla porta che si spalanca con forza inaudita. «Ma c’è l’onomastico?» s’informa, rischiando di morire incenerito dalla neo-mamma. Non che gli importi un granché visto che insieme al trio degli inferi è arrivato anche Marco.
«Deimos, fa il bravo» tiene d’occhio il piccolo demone dai capelli bianchi, Eris, responsabile e coscienziosa sorella maggiore, che se la guardi negli occhi troppo a lungo rischia di pietrificarti. «Guarda che ci sono Kaya e Lux. Ciao zii!»
«Okay, adesso siete veramente in troppi» sentenzia Law e Robin si gira a guardarlo eterea.
«Ho una piccola sorpresa» mormora, indicando con un cenno del capo il portatile sotto al suo braccio.
Lascio andare Lux, che corre a tutta velocità da Izou e Marco, per farsi prendere in braccio e, sì, okay, forse è davvero il caso di uscire adesso, pensiero che condivido telepaticamente con Usopp. «La restituiamo alla mamma e al papà adesso, che ne dici?» propone a Kaya, prendendo la piccola dalle sue braccia e portandola da Ace proprio mentre Robin apre il pc su una videochiamata.
«Buzzurro svegliati! Siamo in linea!»
«Mh, eh… ohi Nami! Ouch! Non stavo dormendo!!» 
«Come no… Saluta tua sorella, piuttosto» 
«Ehi!» si illumina Perona. «Come va a Kuraigana?»
«Tutto bene» risponde laconico Zoro.
«Tuo fratello è agitato da morire per l’esame»
«Nami!»
«Che c’è? È vero! Oh ma la piccola? Possiamo vederla?» si emoziona la zia Nami mentre silenziosi scivoliamo fuori uno dietro l’altro, lasciando solo Robin con loro, per sollievo e soddisfazione del dottore.
Il reparto di ginecologia e neonatologia sembra un angolo di paradiso all’interno di quella che è comunque un’oasi di felicità, per quando la tranquillità non sia esattamente di casa. Al terzo piano del Castello, dipinto di un rilassante azzurro-grigio, stanze insonorizzate, profumo di lavanda in ogni dove. L’orgoglio di Gerth, che ci si aggira in pattini, spuntando senza preavviso da qualunque angolo, spesso in compagnia di Cora, fin troppo spesso per i gusti di Law.
Se solo sapessero che Praline tiene un registro di tutti i posti che secondo lei sono stati battezzati da questa o quella coppia.
«Mami, papi! Vado con Deimos a cecae Heat!» ci saltella intorno nostra figlia. «Posso?»
«Gli accompagno io» ci avvisa subito Eris, parlando più che altro con suo zio, mentre anche Kaya si avvicina.
«Vengo con voi, Eris, è da tanto che non vedo Heat e Katakun»
«Non andate più giù del secondo piano» si raccomanda con le più grandi Law, per poi tendermi la mano e raggiungere insieme a me tutti gli altri.
«E allora le ho detto “Boa, amore mio, tu sei sempre bellissima ma diciamo che l’arancione su di te sta più che come un tramonto sul mare, come il topping al mango sul gelato”»
«Ma come fa a essere ancora vivo?» mi bisbiglia Law all’orecchio, abbracciandomi da dietro e io ridacchio, abbastanza da attirare l’attenzione di Izou.  Socchiude gli occhi, indagatore, sporgendosi appena verso di noi.
«Ehi, ehi, ehi! Cosa confabulate voi due?»
«Law si chiedeva come fai a essere sopravvissuto alla selezione naturale vista la tua totale mancanza di filtri» mi stringo nelle spalle ma lui non appare molto convinto.
«E nient’altro?»
«Nient’altro» conferma mio marito.
Izou sposta lo sguardo da me a lui un paio di volte «Sicuri?»
«Izou…»
«Non Izouarmi! Devo forse ricordarti che una volta ci è bastato distrarci mentre eravate in vacanza e vi siete sposati! No dico, sposati, senza di noi! Hai sposato la mia Kay e io non c’ero neanche!»
«Non è tua»
«Izou cosa potremmo mai stare tramando, andiamo» cerco di farlo ragionare, con scarso successo.
«Un secondo matrimonio magari! Visto che sembrate convinti che sia una faccenda assolutamente personale!»
«Izou, il matrimonio è una faccenda personale»
«Oh ma davvero Reiju? Dillo a tuo fratello che ha detto di sì davanti a un’aula di tribunale p-i-e-n-a! È così che si fa! Si danno ad amici e parenti segnali chiari ed evidenti, come una proposta plateale o un anello al dito almeno per qualche mese prima della cerimonia! Come Ishley!» conclude di slancio, sollevandole la mano sinistra dal polso e lasciandoci più o meno tutti senza parole.
Lo dico sempre, Discrezione è il suo secondo nome. Il mondo sarebbe così noioso senza di lui.  
Mi basta un’occhiata per sapere che anche Marco, oltre me, se n’era già ovviamente accorto. Il resto di noi fissa Ish come se fosse una creatura mitologica, Sabo fissa Izou come se lo avesse appena privato della sua virilità, Ish fissa noi con un misto di esaperazione e gioia.
«Sorpresa!» prova a esclamare quando il silenzio si protrae troppo a lungo e poi si gira a sibilare a Izou che deve imparare a ingoiare la lingua, un attimo prima di venire travolta da Aisa.
«Oddio ma che bella notizia! Chebellochebellochebello!» ondeggia con lei Aisa. «Ma quando?! Quando glielo hai chiesto avvocato?!»
«Ieri sera» risponde Sabo, con un sorriso bellissimo e pieno di devozione per la sua Ish.
«Ah l’ho detto io che odoravate di sesso da proposta»
«Per l’amor del cielo, Praline, cos’è il sesso da proposta, adesso?»
«Oh è una cosa che… ma che te lo spiego a fare, tanto tu non vuoi sposarti» sventola una mano in faccia a Rei con fare sadico. Un fare sadico che non abbandona riportando l’attenzione sulla coppietta di neo-fidanzati. «Ad ogni modo tu hai avuto uno splendido tempismo Mingherlno ma sarà meglio che vi sbrighiate a organizzare se non vuoi prendere un abito premaman, Ish»
Sbatto le palpebre un paio di volte mentre gli occhi di Sabo si fanno tondi come due fondi di bottiglia e Ishley si gira a guardarla con un sorriso nervoso. «Ma che stai dicendo?!» ride, più acuta del normale, un filino forzata forse. Per poi diventare di colpo mortalmente seria quando Praline continua a sorridere con l’aria di una che sa qualcosa che tu non sai. «Praline che stai dicendo?»
«Perché credevi ti stessi prendendo le misure?» inarca le sopracciglia lei, provocandomi un brivido lungo la schiena, che fa sì che Law mi stringa più forte, soprattutto quando Izou e Sanji esplodono in contemporanea.
«Congratulazioni!»
«Oh Ishley-chwan che notizia divina! Tu sei divina e con il pancione sarai divina e tu non pensare di scamparla facilmente per aver violato il mio angelo custode anche se sarà divina!»
Ishley riesce a malapena a distogliere lo sguardo pietrificato da Praline giusto per fulminare Sanji quando minaccia Sabo, che normalmente si difenderebbe da sé se solo non fosse impegnato a cercare di capire cosa sta succedendo. «Oh oh, ma basta! Calmatevi, quali congratulazioni?» alza la voce Ishley. «Praline stai bluffando»
«E chi lo sa?» schiocca la lingua lei.
«E come fai a saperlo che non lo so nemmeno io?» porta le mani ai fianchi, Ish, mentre noi spostiamo gli occhi dall’uno all’altra, come se giocassero a ping-pong.  
«Ho corrotto Shachi perché usasse il tuo campione di urina per il controllo annuale per fare un test»
Mi giro appena verso Law, studiando il suo viso impassibile, in cerca di una risposta. Non può essere seria. Andiamo non può. Eppure dalla faccia di mio marito e da quella di Ishley e anche dal sorriso malefico di Aisa, può esserlo eccome. E se prima lo sospettavo ora lo so: Praline è la consorte del demonio e molto probabilmente per questo Cora l’ha voluta come capoinfemiera.  
«Stai bluffando» ribadisce Ishley, per niente intenzionata a farsi travolgere dal panico, a differenza di Sabo che già iperventila.
«Ish, amore…»
Ma persino lei vacilla quando Praline di nuovo schiocca la lingua.
«Forse. Forse voglio solo metterti fretta perché non vedo l’ora che andiamo a sceglierti il vestito, forse l’ho fatto davvero» canticchia. «Dopotutto ho fatto un calco delle chiavi di casa tua una volta»
Ishley sgrana gli occhi, le ci vuole mezzo secondo per elaborare, ricordare, concludere che non è così impossibile affatto che Praline abbia corrotto l’analista di laboratorio e trafugato il suo campione di urina, chiedersi per quale istinto suicida e masochista l’ha scelta come migliore amica e, infine, venire afferrata da Sabo per il polso e farsi trascinare lungo il corridoio.
«Sabo, cosa…»
«Andiamo a cercare un test di gravidanza» annuncia, imboccando le scale a passo di carica sotto i nostri sguardi attoniti, che si fanno ancora più attoniti quando Praline sospira sonoramente.
«Ah l’amore» scivola lentamente via dal cerchio, «Che meraviglia, non trovate? Io adoro scegliere gli abiti da sposa.  E ora vado giù a controllare le bambine. Ciao ciao!»
«Ehi tu!» si riscuote Usopp. «Non penserai di avvicinarti a Kaya senza nessuno che ti sorveglia!» le va dietro a grandi passi, seguito a ruota da Sanji. E poi da Izou che deve assolutamente cominciare a disegnare qualche idea per IshIsh, non può mica lasciarla alla mercè dei dozzinali produttori di abiti da sposa in serie.
Scuoto il capo, mentre Marco sospira con rassegnazione e Aisa si lancia in una filippica così contorta riguardo a come sono moralmente obbligate a fare da supporto a Ish in un momento del genere, che riesce  persino a convincere Rei, che ricordiamolo non solo è un avvocato ma anche la sua migliore amica e per questo ben conscia del patologico problema di curiosità congenita ossessiva che affligge la piccola Kozuki.
Fatto sta che nel giro di due minuti esatti, io e Law ci ritroviamo da soli in mezzo al corridoio e, se tanto mi da tanto, mio marito sta ancora cercando di mettere insieme tutti i pezzi. Ruoto tra le sue braccia e lo guardo puntare gli occhi verso le scale e gli ascensori. So che non è preoccupato per Lux, glielo leggo in viso, come leggo ogni sua microespressione, come un libro che ormai conosco a memoria.
«Non è incinta» sentenzia.
«E questo lo dici perché lo pensi davvero o per convincere te stesso, siccome Ish ai tuoi occhi è ancora la ragazzina di ventiquattro anni spaesata e in procinto di laurerarsi?» non resisto alla tentazione di provocarlo almeno un po’, anche se so che se Ish fosse davvero incinta, sarebbe solo felice per loro, così com’è felice per il matrimonio.
E infatti non mi guarda con scetticismo o con rimprovero. Mi ghigna intrigato, si abbassa a baciarmi. «Sarebbero un po’ troppe cose tutte insieme, non credi?»
«Lo credo. E credo anche che Praline voglia portarla all’atelier già oggi pomeriggio se riesce» ridacchio, strusciando il naso contro il suo. «Ma, ehi, non dimenticare che in questo posto tutto è possibile» gli ricordo, guardando intorno a me, quello che un tempo era solo un pergolato decadente, su una collina che qualcuno voleva radere al suolo.
Dove siamo diventati una famiglia, dove guardavamo il tramonto, dove Robin mi ha confessato di essersi innamorata di Franky, dove Cora mi ha riportato Law, dove Law mi ha fatto ritrovare me stessa, dove Ace ha detto il primo “ti amo” a Perona, dove Sabo ha incontrato Ish, dove Ish ha incontrato Sabo, dove Kaya ha trovato i suoi papà, dove io ho stretto per la prima volta Lux, dove Perona ha stretto per la prima volta la sua bambina – chissà se l’hanno chiamata Hope o Naminé alla fine –, dove Dellinger ha regalato un grappolo di uva a Sugar, dove Cora ha trovato l’amore, dove tanti bambini ridono ogni giorno, ricordando di essere solo dei bambini.
«Beh, okay, hai ragione» mi stringe più forte Law, avvicinandosi di nuovo e stavolta, lo so, reclama un bacio vero. Che io sono ben disposta a dargli. «Dopotutto, è il nostro Castello sulla Collina»
Sorrido, portando le mani sul retro del suo collo, appoggio la punta del naso sulla sua guancia. E prima di annullare la distanza tra noi, non mi resta che una cosa da dire:
«Banane»
 








 
Angolo dei ringraziamenti dell'autrice ultra in ritardo:

"Banane" era la parola d'ordine da usare per poter accedere al Castello-Pergolato (Il Pergotello o il Castellato), quando erano bambini, dettaglio di Cloth Tattoo che non mi aspetto vi ricordiate, non tutti almeno. 

Che dire mai? Io sono stata senza internet per dei MESI, e ora sono di nuovo qui e questa storia è finita, finita davvero stavolta, e io devo salutare questo mondo dove mi sentivo così a casa e non so come ringrazire tutti voi che avete aiutato a costruirlo con le vostre recensioni e la vostra silenziosa presenza. 

E quindi grazie a Harry Fine, Sarathepoo, Annapis, NickyChan, Kira_76, Law__, Arcadialife, Emychan89, Jules e, immancabilmente, Zomi.  
Grazie davvero perché ogni parola, ogni piccolo passo di questa avventura è stato più prezioso di quanto possa esprimere. 

Spero di avervi regalato anche solo la metà di quello che voi avete regalato a me. 
A presto e sempre vostra, 
Page. 

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