Dust of Life.

di KH4
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


E se solo potessi
farei un patto con Dio,
e farei in modo che lui invertisse i nostri ruoli,
risalendo per quella strada,
risalendo quella collina,
risalendo quell’edificio.
Se solo potessi…
Running Up That Hill / Placebo.
 
Qualcosa doveva esserglisi incastrato in gola.
O attorcigliatosi attorno le corde vocali, il che rimaneva ugualmente un’opinione valida sebbene non fosse una sua conclamata consuetudine balbettare note taciturne, per di più in totale balia di un’incredulità che perdurava a sgorgare copiosa dalle sue labbra. Il flebile astrarsi dei suoi sospiri ondeggiava fra le pieghe dell’aria più a lungo di quanto potesse sopravvivere in una comune stanza.
L’aveva osservato a lungo, troppo, rimproverandosi dell’impudenza da cui si lasciava trascinare al frangersi del buon senso, e pareva che la sua attuale debolezza, ormai abitudinaria, quasi si concedesse spontaneamente al morboso spiare da egli  perpetrato
Fremeva alla sua vista benchè non ci fosse una ragione intrinseca, un arcano potenziale, nel regolare aggrottarsi della fronte spavalda o nel puntellare i gomiti sul legno consunto del banco, la testa china con un lembo di madreperla a distinguersi incantevole dal colletto della camicia, ma era proprio il delicato stemperare la matita incastrata fra le labbra, l’autentico mistero purpureo, a non concedere ai suoi soffi il liquefarsi nell’ignoto.
La bocca incapricciata di Noise versava nell’inclinazione a pronunciare offese taglienti se disturbata, abbiente del colore delle succose ciliegie ritrose a lasciare spazio laddove potevano intrufolarsi disutili fastidi; apparteneva a quella razza di persone che discernevano l’atarassia prima che la condensa dei dettami sociali ne appannasse la finestra appositamente ritagliata, e che l’irretire degli occhi ferini su una cornice d’alabastro obnubilasse sensi aleatori secerneva un silente aborrire di giustificata gelosia.
Sotto il profuso calore pomeridiano, assoggettato al cortese vezzeggiare della carta, pagina dopo pagina, recalcitrava il febbrile stropicciarsi della fronte per l’indiscussa lontananza impostasi. Procedeva linearmente, abbastanza da ponderare con lucidità tutte le amare ripercussioni del suo corpo, tuttavia sapere della soffusa foschia di quelle mani etere, ornate da un accenno di cioccolato che Noise umetteva con la punta della lingua, lì, ad un passo dalle palpebre discinte, ridefluiva nell’anacronistica raucedine induritasi nella gola.
- Noise è un bel ragazzo. - Ma pur dicendoselo, accostando la lignea rigidità del proprio raziocinio, era come se la sacralità dei suoi impalpabili confini gli si abbandonasse in grembo. 
Carta disattesa nella tacita malinconia contro cui l’unico senso logico si gettava nel reiterarsi di iridescenti anfratti, incasellati nella torbida pulsazione che faceva scempio del suo essere. Voltò una pagina, un’altra, e un’altra ancora.
- Noise è un bel ragazzo. - Di nuovo.
Era bello, sì, difficile svellere la vermiglia voluttà dello sguardo quando si arrotolava di oblique intenzioni, concentrarsi quando l’occhio cadeva sui muscoli asciutti, pronti per lo scatto dei cento metri o mostrare indolenza per gli aurei capelli di seta fusa.
- E’ bello, va bene? Se lo penso vorrà pur dire qualcosa? -
E la domanda permaneva in un garbato rinfocolare, sporgendo appena nella titubanza che ne rendeva tremanti le ambizioni, contrariamente a quelle del biondo, seppur in talune occasioni le avesse scorte assorte nell’indecifrabilità di fisime mentali.
Era bello, sì.
Chiuse il libro nell’afferrata realtà di quel disastro che presentiva essere la sostanza del suo sentimento, violento e sicuramente precipitoso. Non sussisteva viticcio alcuno che li accomunasse se non il condividere la classe, per non parlare delle inchiavardate parole pressochè inconcepibili per la penuria di un qualsivoglia dialogo. Noise vantava un troneggiare inconscio su tutti quelli che ricamavano ammirazione per il suo piacente profilo, mentre in lui la trasparenza si era cristallizzata a dato di fatto.
Lasciò la biblioteca che realizzò di avere giusto un’oretta per ripulirsi e andare al locale.
In un modo o nell’altro, forse non oggi o non domani, sarebbe riuscito a impedire che quella sua fissazione gli mangiasse il ventre.

Note di fine capitolo.
Ed eccomi, con la mia prima opera originale. Anticipo da subito che non sarà lunga, giusto cinque capitoli: non perché non voglia scrivere roba più lunga, ma perché tale opera è nata per essere concisa, senza troppe pretese. La storia è completa, mi mancano soltanto gli accorgimenti per l’ultimo, quindi spero di non impiegarci molto, soprattutto nel rispetto delle mie altre storie, che sono ancora in corso. Mi auguro sinceramente che possa piacere, sarei felice di conoscere i vostri pareri. Alla prossima!

 
 

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Capitolo 2
*** II ***



Lui - una parola,
io - una parola,
e incalza l’autunno.

Takahama Kyoshi.
 
Se osservato con la solerzia di un umore scrupoloso, quel suo corpo, così niveo da rivelare una disarmante trasparenza qualora baciato dalla casualità di un lucore, poteva rivelare molto più che una oggettiva gentilezza; si celavano anfratti, nei palmi discinti, che recati sul volto ne avrebbero deturpato la linearità.
Aprì gli occhi e il mondo filtrato dai sordidi sensi gli apparve come quando lo aveva lasciato, con la differenza che si stava dipanando nell’impercettibilità di un crepuscolo insonnolito.
Sospirò con la testa nullificata, gli arti ad affondare flessuosi nelle lenzuola che, nonostante tutto, conservavano il proprio ordine nel bacio essiccato dell'aria rafferma.
E’ mattina eppure l’odore del Rainbow gli illividisce ancora la pelle. Ha quella subitaneità che discetta persino un pontenziale tumultuare del sangue minimizzandone l’importanza.
- Sei carino -, giunge da un profondo recesso della sua mente.
A quel punto certificherebbe la sua moralità in un frusciare incolto, ma la consistenza delle banconote infilategli nel taschino del gilè non cade vezzeggiata in una cornice licenziosa.
Serviva ai tavoli, nulla di più. Sarebbe stato un azzardo da parte sua esternare un qualche piacere in ciò: semplicemente, quella misura da egli caldeggiata su un piano esistenziale diverso dal personale non aveva ancora trovato la maniera di uniformarsi al suo respiro.
Forse il suo non era il medesimo orchestrare danzante che i ballerini compivano intorni ai pali, poichè conscio del poco fascino serbato da mere copie se messe in confronto a coreografie sbocciate fra sprazzi di ardente sudore, ma anche la geometria dei propri passi perseguiva una ieratica delicatezza.
Doveva ringraziarne la connatura accortezza, altrimenti quel disegno non tracciato nella giornata precedente ne avrebbe rimpinguato la concentrazione oltre un limite tremebondo...

- Perché mi fissi? -
Giunse solitaria quella luttuosa discrepanza, uscita dalla concatenazione di giornaliere ripetizioni che incastravano la biblioteca in un laido angolo nell’incessante stridere dell’anno scolastico. Quale tempio della cultura, era abbandonato a un’incuria smussata da minimali precauzioni, vergata da scaffali di metallo e una pallida tinteggiatura che il paglierino lucore del pomeriggio scoperchiava di tutte le imperfezioni agevolanti il paragonarlo a uno sciatto magazzino.
Noise gli arrivò addosso con la consistenza delle nuvole sostituitasi a quella dei piedi, intangibile a dispetto della sua presenza di inaspettata eccezione in un luogo dove l’ovattarsi della luce si cuciva in base a regole che rifulgevano distaccate dai troppi aneliti. Seduto di fronte a lui, i pugni piantati nelle guance e gli occhi rutilanti, impegnati a sbattere le finissime ciglia, alimentavano la ragionevole illusione di una puerile innocenza che usufruiva della curiosità come maschera.

- Perché ti reputo un bel ragazzo. -
Metabolizzato il profilo del proprio interlocutore, non si era neppure premurato di chiudere il libro prima di rispondergli senza ponderare sull’effettivo peso di parole che avrebbero potuto relegarlo in una scomoda effigie. Inintelligibile alle sue previsioni, in un istante quiescente, era successo che Noise avesse raccolto il suo silente osservare con tiepido sorriso.
- Solo per questo? -
Doveva aver pensato - ma non ne era del tutto certo - di suscitare in lui la medesima espressione che cattura il volto di un bimbo scoperto con la mano infilata furtivamente nella biscottiera. Invece era stato a sua volta ricambiato da una preparazione dettata da un’eventualità messa in conto.
- Se fossi stata una ragazza saresti giunto da solo alla risposta che ti ho dato, ma io, che sono un ragazzo, avrei dovuto agire diversamente. -
- Eppure non l’hai fatto. -
- No, non l’ho fatto. -
Perché di annodarsi la carne con complicazioni che la sua vista non concepiva sapeva di superfluo, più del carpirne la mutevolezza d’animo impostatasi in una conversazione dall’indefinibile sfumatura.
- Oh...Però! -
- Cosa? -
- Sei schietto. A vederti dai l’impressione di una persona che preferisce girare intorno alle cose piuttosto che dirle per come stanno realmente. -
- E io potrei affermare che ti reputavo più incline a rispondere a questo genere di scoperte con un pugno piuttosto che stupirtene, ma il punto rimane che non c’è una ragione valida per la quale debba crearmi problemi con una semplice constatazione. Sì, penso tu sia un bel ragazzo, lo pensano tutti, ma per ciò che mi concerne la questione non va oltre. -

- Quindi non ci sarebbero problemi se ogni tanto anch'io ti osservassi. -
- Io...No. Non credo. -

 
Note di fine capitolo:
E riesco nuovamente a infrangere la mia promessa di aggiornare presto sebbene questa sia una storia già bella che scritta. A chi segue Hell’s Road non disperi: dei miei lavori sarà il prossimo, ritengo di esservi stata sin troppo lontana. Passando subito al sodo, voglio ringraziare tutti i commenti, i voti e il sostegno di chi ha dato un’occhiata a questo mio esordio originale. Davvero, sono contenta che abbia riscontrato pareri positivi, anche se soltanto con un capitolo. Si comincia a delineare qualcosa, ma non il nome di uno dei due protagonisti, con giusto un po’ di dialogo fra i due; come struttura è semplice, lo ammetto, ma soltanto perché mi sono concentrata sulle descrizioni. Spero ugualmente che possano essere di vostro gradimento e che non ci siano errori. Un bacione e alla prossima!

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Capitolo 3
*** III ***


Quale dita toccheranno
in futuro
quei fiori rossi?

Matsuo Basho.
- Quindi, tu...Vorresti solo dormire. -
Doveva star pensando che fosse strano, il cervello conciato a poltiglia da un mistico cocktail di pasticche e mancato buon senso. Unico avrebbe riscosso il giusto impatto alla reazione da lui simulata, ma Noise aveva già tenuto da conto la precocità della sua stessa pretenziosità.
In principio, luoghi come le discoteche ne scorticavano la pelle per l’atonia di una serata fissatasi nell’esclusivo bere senza limiti, ma sottilizzare i gusti personali di Roy rientrava come passaggio ultimo di una concatenazione che quella sera aveva deciso di abbandonare in un punto impreciso del proprio raziocinio.
Con le mani affondate nelle tasche e i piedi a strisciare mollemente, aveva boccheggiato l’agrodolce essenza di una trama attecchitasi allo stomaco per quel rosa non dissimile a una cicca masticata, dove mugolii concitati danzavano fra ombre astruse. 
Il suo non era un metro oggettivo ponderato da mani divine, tuttavia l’apparenza non rimaneva che una facciata laminata a cui era sufficiente una piccola pressione per incresparsi di tutte le fratture abili a rivelarne la condizione disastrata; le leggi del Rainbow non si sarebbero allontanate più di tanto da quel genere di schematismo, seppur gli interni evidenziassero un’ambrata accuratezza nel cancellare l’abbacinante fastidio stroboscopico dentro cui le persone danzavano madide di follia. Quanto meno, Roy sapeva scegliere in base anche alle sue preferenze e ciò non poteva che fortificare l’ego di quest'ultimo in un lavorio di chiacchiere che avrebbe aggiunto ai ricordi da misurare con spregiudicata soddisfazione.
Stava giusto guardandosi in giro, in cerca della sua testa rossa, quando si lasciò distrarre da un’immane casualità che, osservata esternamente, si sarebbe concretizzata in un nulla.
Quel cameriere che stava servendo a qualche tavolo più in là, con un cravattino a chiudere la camicia bianca spezzata da un gilè scuro che, dannazione, lo fasciava senza innalzare piega alcuna, lui lo conosceva.
Conosceva il platino gentile di quella chioma che imprigionava il sole pomeridiano in una posa discinta nell’impressione divenuta consapevolezza di essere a sua volta scandagliato. Inizialmente lo aveva squadrato come a volersi accertare che dietro la vellutata maschera di fondotinta - che non dissimulava la pelle insonne - ci fosse veramente lui; forse non poteva avanzare la pretesa di padroneggiarne le intime preferenze, ma pur nell’assenza di effettive mescolanze Noise attribuiva a quelle iridi d’acquamarina, frastagliate d’agata infusa di puro smeraldo, la sapienzale arte di abitare il ciglio del mondo senza che la sua posizione ascendesse totalmente a una mera timidezza.
- Ho pagato per fare con te quello che voglio e siccome sto crollando dal sonno possiamo farlo insieme. - Le labbra del biondo assaggiarono poi un altro sorso di rum e cola, schiuse nell’irrisorio valore di un tempo sospeso sopra il proprio immobile asse.
Il privè occupato da entrambi gli aveva richiesto un mese e mezzo di fittizie dissertazioni prima che la decisione di noleggiarlo fosse definitiva; Silver serviva sostanzialmente ai tavoli, ma ciò non aveva esentato Noise a fantasticare su come le sue dita sarebbero state abili a disegnare archi luminescenti semplicemente carezzando l’aria con la medesima premura con la quale la sfiorava. Soltanto puntandovi il proprio interesse si era reso conto di come egli gli fosse sempre, in qualche maniera, sfuggito: pareva perlopiù un’ombra di gioventù a cui capitava ogni tanto di calpestare la luce.
L’essenza, invece, era quanto più bramava e neppure la disposizione di evidenti ostacoli lo aveva spinto a desistere.
- I camerieri non sono sul listino prezzi. -
- Te ne darò mille per tutte le volte che chiederò di lui. Ovviamente l’offerta include che stia con me per tutta la notte senza altri eventuali incontri, la tua disponibilità a salvaguardarlo dai poco di buono e la mia promessa a non fargli nulla che ti valga il posto di lavoro. Se non ti sembra equo sono pronto a contrattare. -
- Mille? Per il piccolo Silver? -
- E’ il suo nome? -
- Ti sembro uno a cui interessa sapere il nome di un moccioso? Comunque con mille potresti scoparti chiunque fino a mattina, a patto che sia consenziente. -

Con la mente a governare i sensi laddove altre si rendevano oblique, Noise aveva subito adocchiato Beast come possibile filtro al suo progetto. Il buttafuori del Rainbow conosceva le regole e sapeva distinguere chi si adeguava ad esse da chi tentava di aggirarle, ma non sdegnava la categoria di chi era in grado di ammorbidirne le maniere con lauta mancia - purchè riuscisse a carpirne le intenzioni -.
Aveva inquadrato Noise prima ancora che gli fosse del tutto davanti, categorizzandolo fra i volti accesi di brioso fervore, e gli erano occorse le sere successive per comprendere come la sua mente fosse allenata ai giochi di potere - oltre che una sostanziosa gratifica versatagli nella tasca dei pantaloni -. I suoi erano il genere di occhi dentro cui si ravvisa un’imprevedibilità nota solo ai petali rutilanti, tanto delicati nel loro oscillare da rendere il tempo d’attesa una tortura. E come anch’essi, possedevano un suolo che li costringeva allo stesso modo di una catena.
- Ehi, fiocchetto, sei richiesto. - Il gracchiare del gigante non si era scomposto dal suo suono grottesco quando aveva richiamato l’attenzione dell’albino, additandogli con lo sguardo il suo tavolo, dove egli lo aveva salutato con un cenno della mano.
- Niente cazzate, biondino. - Era stato infine il suo implicito monito mentre il fracasso del locale si allontanava e con lui il polso del ragazzo chiuso nel suo palmo.
- Perché? -
- Te l’ho detto: ho sonno. Anche tu ne hai, e un bel po’ anche. Pensi forse che non me ne sia accorto osservandoti? -
- No, io intendevo… -
Perché mi osservi? Questo lesse fra i viticci che annodavano la sua incomprensione. Perché me?
- Perché ti reputo un bel ragazzo. E perché hai detto che non era un problema. -

Note di fine capitolo:
Terzo capitolo postato, finalmente diamo la parola a Noise e scopriamo il nome del misterioso ragazzo! Lentamente i pezzi si congiungono, ma siamo ancora un poco distanti da averli tutti in mano! Come sempre ringrazio i miei amatissimi lettori e recensori! Un bacione!!!

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Capitolo 4
*** IV ***


Nobiltà di colui
che non deduce dai lampi
la vanità delle cose.
Matsuo Basho.

- Dunque? -
- Dunque cosa? -

Lo sentì sospirare. Lo vide sospirare, in nome di una ragionevolezza prossima ad assopirsi che Noise sapeva di star snocciolando, accostando alla sua divertita sorpresa il rumoroso succhiare del cocktail incastrato nei cubetti di ghiaccio.
- Ti pregherei di non trascinarmi in una conversazione senza senso e dirmi cosa vuoi -, precisò Silver.
- Perché pensi che questa sia una conversazione senza senso? - E Noise corrucciò la fronte non comprendendo per davvero la questione per come la ravvisava l’albino.
- Forse perché ritengo che tutta questa faccenda non abbia un senso, comprese le tue incursioni durante il mio orario di lavoro e il mio ruolo in tutto ciò. Se è un gioco posso ammettere tranquillamente di non averne afferrato la motivazione, ma ti sarei grato di finirla qui. -
- Non lo è -
Noise comprimette tutta la sua anima affinchè la negazione scorresse limpida e incontestabile, come la bellezza dei diamanti intersecati nei capelli di Silver - Se lo fosse, un gioco intendo, avrei fatto e finito senza sprecarmi più di tanto. -

Non sussistevano radici che sporgessero al dì fuori del viluppo creatosi fra loro e le mura ramate del Rainbow. 
Il bisogno di un accordo era scemato nella naturalezza con il quale entrambi si distaccavano dalla luce del sole, come se questa, in qualche modo, potesse corrompere la riserbatezza di ciò che condividevano.
Scoprendo l’orecchio, Noise fu in grado di presagire lo stroboscopico rimbombo del club che avviluppava la notte; la sua inopportunità sapeva solleticarne le viscere con lo stesso fastidio di un liquido vischioso che correva sulla pelle, ma lasciò che filasse indisturbata poiché non era mai stato il tipo di persona pronto a spellarsi per un briciolo di sonno.
Oramai poteva affermare che quel privè fosse suo e fintanto che la fedeltà di Beast possedeva come base il futile denaro, ogni sua nottata con Silver non sarebbe incorsa verso una qualche forma di consunzione.
Il visetto pallido di quest’ultimo, adagiato fra guanciali serici, gli dormiva a fianco con il fioco riverbero della bajour a ronzare sul viso; Noise fu grato alle ombre circostanti per la loro totale incapacità di esprimere rumore alcuno che potesse spezzarne l’incanto.
Quell’attimo che durava tutta la notte era in realtà fragile e traballante.
Egli stesso temeva l’aridità di un simile circolo ripetitivo, ma una volta riuscito a ottenere il beneplacito dell’albino, discettando che nella sua ottica non scorgeva alcun tipo di male a dormire insieme - dormire e basta -, l’universo intero era passato in secondo piano.
- Ehi, fiocchetto. Il tuo principe è venuto a prenderti. -
Ogni volta non gli riusciva di spianare i tratti del suo volto in un sorriso deliziato d’innanzi al roseo aspergersi che accaldava le guance del cameriere quando uno zufolìo contrariato ne aggrottava la fronte. La voce di Beast lo annunciava stentoreo e sullo strascico si lasciava facilmente carpire una nota sardonica.
Così aveva iniziato a cogliere il levigato rifulgere del suo silenzioso osservatore.
Silver era il genere di ragazzo nato senza alcun riguardo per la propria salute e qualora ne prendeva coscienza le sorrideva con garbato diniego, conformandosi a una creatura vergata dell’incondizionata e perfetta solitudine che discioglie l’anima in pioggia; Noise lo aveva realizzato al ritagliarne il profilo nel semplice sistemarsi la targhetta metallizzata quando le braccia non erano occupate dal vassoio, nell’inarcarsi della bocca in un espressione soppesata davanti allo specchio, il luccichio negli occhi per un qualche detto che il biondo voleva possedere per esserne a sua volta artefice.
Gesti intrappolati nella mascella delicata, una moltitudine verso cui era nato spontaneo domandarsi se qualcuno avesse mai detenuto il privilegio di vederne la camicia slacciata o ne avesse carpito i pensieri immersi in una trama di ossequiosi silenzi.
Quanto più egli corrompeva d’ossessione la curiosità di Noise, tanto più quest’ultimo lo carezzava, lisciando con polpastrelli furtivi l’avorio corrotto della sua pelle laddove il gambo sforbiciato della lunga cicatrice ne ingabbiava il lato destro del collo. Il tocco poi si spostava ai capelli, a cui ogni tanto strappava, infingardo e con bacio recondito, il sapore della luna, solleticando le ciglia ricamante di neve che fungevano da serti filiformi agli occhi di limpida giada.
Sarebbe esistito un nome per eternizzare quella cosa? Magari con quella inattuabilità che egli serbava dietro l’argentea rinomanza?
Dio solo sapeva quanto si fosse fatta doviziosa la voglia di dissotterrare dal tessuto cicatrizzato quel segreto, quel nome che si lasciava presagire sotto una spuma sempre più bollente.
- C’è solo una ragione se qualcuno preferisce nascondersi dietro uno pseudonimo: il suo vero nome deve fare schifo. -
Roy che masticava la cicca della sigaretta con la chiostra dei denti a balenare fra i minuscoli nembi della nicotina era prassi fondata quanto la scontatezza delle sue risposte gettate al vento.
Gli occhietti nocciolati svettavano su connotati che si inasprivano al minimo contrarsi della fronte, quel cipiglio sfrontato e spigoloso che dava l’impressione che un’emicrania perenne si stesse divertendo a fare dei suoi neuroni una poltiglia ributtante.

- Io invece dico che deve avere un bel suono. -
- Tsk! Sempre a sparare stronzate, tu. - Roy si staccò dal muro stiracchiandosi le braccia scoperte - Se ti ossessiona tanto, spiegami perché di punto in bianco hai smesso di indagare. Sappiamo entrambi che hai i mezzi di tutto questo fottuto mondo per aggiudicarti quello che ti passa per la testa. -
- Non ho smesso. - Noise sottolineò quella che per lui era un’evidenza sotto la quieta benevolenza delle nuvole - Ho soltanto deciso di non sciuparmi la sorpresa. -
Era sovente cingere i suoi interessi con sfumature che eliminassero il supplizio dell’ignoto, quasi l’esistenza di una sola membrana smorzata lo gambizzasse, ma quando aveva ammiccato alla rappresentante di classe per un piccolo aiuto - una tipina non troppo abituata a interagire con la gente per come mangiucchiava le parole -, il registro di classe aveva risposto alle sue speranze con le ormai già note sillabe fittizie.
Silver occupava le pareti del registro, l’intonaco incrostato delle aule, e il peso superficiale delle chiacchiere. La sua identità è la sbavatura che deturpa un quadro, polvere opaca che pizzica il naso.
La bocca degli insegnanti non scuciva null’altro che un cognome da cui, effettivamente, il biondo avrebbe potuto trarre la direzione giusta, ma si era fermato dall’infradiciare la muta richiesta già conquistatasi imparagonabili sottigliezze.
L’acqua, ad esempio. Silver non era in grado di destreggiarsi fra i suoi flutti.
I suoi stessi occhi si erano fatti testimoni di come egli sollevasse con i soli vestiti indosso una riguardevole distanza dal cloro che schizzava sulle piastrelle del bordo piscina, ma anche di una disponibilità delle gambe ad affondare languide appena al dì sotto delle ginocchia, i pantaloni arrotolati e il collo reclinato verso l’alto, sovente favoriti dall’impossibilità della biblioteca nell’accoglierlo.
La frangia esercitava una morbida violenza su di uno sguardo che oscillava fra due mondi, quello terreno e uno esule dagli ordinari principi cartacei.
Una scrupolosa concentrazione vergava la scelta del libro a partire dalla copertina stessa.
Gli piacevano gli Haiku. Basho, in particolar modo, la sua metrica poetica che catturava la vanità dell’attimo con parole che ne trascendevano l’immediatezza innalzata a eterno paesaggio.
Mai, inoltre, ne avrebbe immaginato la predilezione per i cornetti al pistacchio. La crema semplice era l’alternativa. Niente marmellata, integrali o vuote. Sul cioccolato non verteva un’opinione estremista.
Infine, il tabù che spandeva ferocia, sopra cui l’umanità ubriaca di curiosità di Noise era già trabboccata quel tanto che bastava per strapparne un frammento concupiscente.
Detestava, anzi, odiava come si poteva odiare qualcuno abbastanza da sbattergli il cranio contro il pavimento, chiunque provasse ad appropriarsi della tenerezza della cicatrice appena visibile oltre il colletto della camicia.
Ci aveva provato uno proprio quella sera, alticcio nell’umore voglioso e con i calli nascosti sotto i dorsi irti delle mani.
Noise ne aveva colto troppo tardi le dita tozze agguantare il collo di Silver - forse scambiandolo per quello della bottiglia finita sotto il tavolo - senza nemmeno ponderare sul disgusto della sua successiva lappata a danno della pelle del ragazzo; prima che lui o Beast intervenissero, era stato preso e sbattuto a terra con la mano dell’albino a farne rimbalzare la testa pelata al centro di una macchia sparsasi sul pavimento.
Soltanto bloccandone le braccia contro il petto, la schiena fissa sull'addome, il biondo si era reso cosciente di come quei pallidi arti non avrebbero mai potuto opporsi a tale maniera se non stimolati da un attacco isterico. Il velo lattiginoso riverberato fra le screziature marine che vivacizzavano gli smeraldi di Silver non era altro che puro panico che gli aveva fatto espellere una volta chiusisi nel privè
In tutto ciò, il nome continuava a rimanere secretato nella coerenza di scalfitture appena percepite.
La testa si appoggiò sull’avambraccio, a sua volta schiacciato contro il cuscino; non aveva paura che quanto venuto a galla svanisse con l’ingerenza del sonno, ma certamente non avrebbe negato a se stesso come l’inusualità di Silver, nell’azionare involontariamente i meccanismi del destino, fosse simile al digradarsi del suo ego a un soffuso empito.
- Mi accontenterei di un tuo sussurro se è tutto quello che puoi darmi*. -

Note di fine capitolo:
1*: Jason Walker, Echo.
E siamo quasi – e sottolineo quasi – giunti alla fine. Sono consapevole di impiegarci molto, quindi non sorvolo su quanto potrebbe occorrermi per l’ultimo capitolo e vi lascio a questo, sperando come sempre che sia di vostro gradimento. Alla prossima! (Come sempre mi auguro che non ci siano errori!)

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Capitolo 5
*** V ***


Uno di questi giorni il cielo si romperà e tutto fuggirà, e saprò. 
Uno di questi giorni le montagne cadranno nel mare,
 e sapranno
che io e te eravamo fatti per questo.
Io ero fatto per assaporare un tuo bacio. 
Eravamo fatti per non allontanarci mai.
Non allontanarci mai.

Letters from the sky /Civil Twilight.

Un sospiro strappato dall’oblio, nota di un accordo nascituro che sugge l’aria di languidi confini. Un sapore che si astrae. Incede, si ritrae e infine fa ritorno nel baluginante vibrare di una argentea effige radicata in profondità che asseconda baci donatagli per deliziarne la pelle in un nebuloso crescendo. Ha quelle mani di cui appena tratteggia l’affusolata sicurezza sulle proprie spalle, la loro stretta attorno un foglio di carta o fra i capelli che si flettono inermi.
- Va tutto bene. -
Mentre la coscienza diviene sempre più remota, il peso pari a una piuma cullata dall’oscillare del tempo profusosi a infinito, quella promessa proibita penetra Silver sin dentro le vene; ogni centimetro di Noise filtra un arte sapiente che calca oltre le sue puerili barriere applicandovi una disarmante delicatezza.
Aveva atteso così tanto per potersi obliare nel nulla, Silver, da dimenticare come riempire la singolarità degli istanti; ogni respiro arrochito della sua voce si era votato ad accorciare una distanza che mai lo aveva dichiarato padrone di qualcosa che non fossero le sue cicatrici.  
Possedeva la limpidezza della fragilità, la tenerezza della solitudine fattasi a muro per l’anima screpolata, e di quella consapevolezza Noise se ne era appropriato per cancellarne gli ingiuriosi segni.
Il gocciolare del rubinetto corrompe lo spazio, la crepa che corre lungo lo specchio restituisce la medesima distorsione che lo intontisce.
- Fai schifo. - La voce strascicata di suo padre quando sapeva di puzzo d’alcol prima che lo schiocco vetroso della bottiglia lo trovasse. 
Il punto era irrilevante. Gli bastava prostrarne il corpo a terra; allora la guancia si appiattiva contro le mattonelle quadrate del bagno. Una volta spezzato tutto si riammorbidiva in una piega di profonda quiete.

Non era sempre stato così, ma dacchè non gli era mai riuscito di andare a ritroso più del bollente pulsare che gli attanagliava il cuoio capelluto, Silver era giunto alla conclusione che la violenza fosse un risonare innato della sua nascita.
- Va tutto bene. -
L'albino trasalì, intrappolato negli specchi rubicondi di Noise mentre dalla gola si pronunciava la gioia vischiosa di un suono solerte all’oblio.
Le carezze articolavano un languire che non concedeva capienza alcuna al disagio, ornavano la debolezza dei brividi appartenente a un calore traslucido che sapeva dove incasellarsi.
- Fai schifo. -
Quando il biondo gli vezzeggiò la cicatrice attorcigliata attorno alla carotide, percorrendola in tutta la sua interezza, la malattia del ricordo inibì contorni serici e il loro bruciare ne subissò le palpebre.
Galleggiando a brandelli, le ferite si reiterano nel baluginare del suo profilo scrostato.
Può vedersi a sette anni,
quando la mamma lo prendeva per le braccia dicendogli che bimbo bellissimo e puro fosse, e bruciare nel marcescente interstizio senza trovare risposta all’arcano che ha mutato in rassegnazione.
E’ diverso, lo è sempre stato, pennellato da un’ottica che possedeva tutte le sfumature della sua sguincia alma, e crescendo aveva semplicemente scoperto che il glabro sapore dei baci maschili gli piaceva più di quelli femminili.
- Fai schifo. - Non sussiste suono o battito al piantarsi del pezzo di vetro nella pelle, il sangue a sbocciare dal suo collo in un liquida corona che allunga petali asimmetrici su tutto il pavimento.
Quello con il padre era il genere di rapporto destinato a ripiegarsi sotto una sutura rozza, capace di pungere chiunque vi si avvicinasse, il passato dimentico e il presente a crogiolarsi nell’inerzia di un’incarnato che, sul volto del genitore, si era addirittura fatto di cuoio dal momento che ogni reprobo impulso ne aveva guidato l’esistenza in un’auspicabile recesso, schiusosi nella proliferazione di una ragione impelagata a demonizzare il figlio.
Silver preferiva chiamarla così - ragione - seppur da una tale nomea si dipartissero idealizzazioni che contrastavano fra loro per la numerosità dei principi implicanti, ma l’importanza oramai si era consumata nella condanna. Gli occhi quiescenti della madre non tremolano più nel suo cuore, ciò che culla il rimasuglio di una donna, per lui bestia mansueta nell’averlo abbandonato, si sciorina in un improperio che ha smesso di invocare con bramosia un ritorno inconcepibile.

- Fai schifo. -
E’ polvere che rifugge dalla vita, la sua anima, una manciata di coriandoli che del colore non conoscono definizione o consistenza; quello che ne resta, sgocciola dell’amaranto asperso nelle lacrime che implorano di essere contraccambiate, ma se anche urlasse l’emozione segreta non trasparirebbe.
Perché Noise dovrebbe volersi insabbiare insieme a lui?
Soppesa il suo nome con le proprie labbra senza che queste lo pronuncino, assaporando con lui un reliquiario d’ambrosia mentre l’immagine di quelle osservate ridondano di ansiti voluttuosi.
Come poteva qualcosa di così bello procurare tanto dolore? Non indugiare laddove i corvi banchettavano con le anime dei caduti, soffermarsi tanto a lungo da credere che dalla melma si ergessero pallidi steli che della vita acquisivano giusto la mera transitorietà?
- Perché ti reputo un bel ragazzo. E perché hai detto che non era un problema. -
Deglutisce per un solo istante, provando a delimitarsi finchè nel buio che potrebbe persino odorare di carbone i polpastrelli azzardano un tocco.
Erano perfette. Le labbra di Noise era semplicemente perfette.
Deliziose e sapienti da suggere le sue discrepanze al dì fuori del proprio atteggiamento, risolute nella quieta euforia che le allargava.
- Toccami -, si era ritrovato a blandire Silver - Ancora, ancora… -, ripeteva a ogni pensiero, e quel dolce lambire ne fan balzare il cuore dalla gioia al punto da farne boccheggiare il bisogno di non lasciar schiarire la disperazione dai contorni cagionevoli.
- Fai schifo. - Si ripercuote, ancora. 
Inutile negarsi l’odio del genitore, era il solo tratto che ne dominasse l’inospitalità mossa da un residuo mnemonico ben attecchito, voce della coscienza che gli lasciava segni freschi.
Ma per quella notte è un eco insignificante.
Noise lo afferra per l’anima, non lo lascia cadere, con espressione densa induce al silenzio quella sensazione che ha goduto nell'erodere la persona che amava come se ella fosse l’incarnazione del suo medesimo respiro.
E sapere di essere lui, quella persona verso cui protendeva le braccia, curandosi della sua corazza di pelle, lanciò la sua voce in un tremito rarefatto.
- Soul. -
- Che cosa? -
- Il mio nome. E’ Soul. -

Note di fine capitolo:
E dopo tanto attendere siamo giunti alla fine. La mia prima Opera Originale completa. Ammetto che avrei potuto fare di più su certe parti, specie sul finale, ma mi sono detta che sarebbe bello lasciare ai lettori il piacere di spaziare con la fantasia su Noise e Silver, anzi Soul: il suo nome alla fine il caro biondino l’ha ottenuto ^^. In cuor mio, ci ho messo l’anima e sono orgogliosa di come l’opera sia riuscita. Quella vera e propria, un’altra originale che ho iniziato molto prima di questa, è, ahimè arenata, da tempo, ma con la speranza di riprenderla in mano è scrupolosamente conservata in attesa che, un giorno, io riesca a darle le giuste attenzioni. Prima di lasciarvi, voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno seguito! Kh4 vi saluta immensamente! A presto!

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