Harramen'l

di Dart Anevon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Dalla sua prigione una ragazza guardava la strada annoiata. Giovane, capelli neri, bell'aspetto per una della sua razza, pelle cremisi e due grandi corna sulla fronte.

Si chiamava Harramen'l. Un mostro, un demonio, un'essere inferiore condannata a vivere insieme ai suoi simili in case luride, in un quartiere ghetto da cui era vietato uscire, pena la morte. Rappresentavano alcuni degli ultimi superstiti di una razza appartenente a un'era del passato di cui non era rimasto più nulla.

Indossava ancora il vestito da cerimonia della sera prima.

Le punta delle sue corna erano nere. Avevano acquisito questo colore qualche settimana prima. Per il suo popolo era il segno del passaggio all'età adulta. Un evento che andava festeggiato in osservanza degli antichi usi e così era stato fatto. Più o meno.

La festa era stata interrotta quando una folla aveva iniziato a gridare dalla strada, a lanciare prima pietre e poi bottiglie incendiare contro la sua casa.

Niente di troppo grave. Questa volta non c'erano stati nemmeno morti. Uno dei partecipanti si era appena ustionato. Non avevano preso nemmeno ad assaltare le case come le altre volte.

Non c'era più confusione adesso comunque.

Guardava la strada e pensava alle persone che venivano e andavano. Avevano tutti una casa che potevano lasciare quando volevano. Una meta. Obiettivi. Libertà.

Guardava fuori e pensava da anni la stessa cosa. Come abbandonare il ghetto. Come arrivare dall'altra parte della strada e poi andarsene lontano. Liberi dalla prigionia che il Regno di Moshinako e gli umani avevano imposto alla sua gente.

Ci pensava da anni e quella sera ci avrebbe provato, anche a costo della vita.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Un rumore, proveniente dal locale in cui si trovava, le fece distogliere lo sguardo dal suo più profondo desiderio. Prese a fissare l'interno della sala comune del dormitorio: una grande stanza lurida con numerose finestre rotte che davano su un mondo tanto vicino quanto irraggiungibile, imbratta di dolore, disperazione e anche da molta ipocrisia. La stessa che spingeva la sua razza a ostinarsi a celebrare qualcosa che aveva oramai perso completamente senso.

E adesso i suoi simili erano lì, a pulire il disastro che quei maledetti umani avevano causato. Un tentativo patetico di sistemare una stanza dalle pareti rosse che cadevano a pezzi e che mostravano ancora le bruciature sia di ieri che di tutte le volte precedenti. Sul pavimento, sopra le assi di legno marcio, tra i segni lasciati dal fuoco c'era anche qualcosa di ben peggiore, repressosi e rimasto lì per quanto si fossero sforzati di levarlo via.

Patetico. Semplicemente patetico.

Li odiava, li aveva iniziati a odiare tanto tempo fa, anche più degli umani stessi. Perché vivere così? Non aveva più senso cercare di fuggire e morire nel tentativo piuttosto che morire ogni giorno, sperando che la prossima volta i loro aguzzini fossero più misericordiosi?

Ma a loro non importava quello che pensava, anzi non gli importava nulla di lei. Per anni aveva vissuto da sola, emarginata nella sua stanza e uscendo praticamente solo quando fosse stato strettamente necessario. Nessuno era venuto mai a cercarla. Nessuno aveva mai provato a darle una speranza di una vita migliore o a consolarla dopo quanto era accaduto ai genitori. Nessuno. Fino a due giorni prima almeno.

Era successo che stava diventando adulta. Un evento che andava assolutamente festeggiato. Era la tradizione. E così la trascinarono a forza dalla sua stanza, del tutto identica a quella dov'era tranne che per le più ridotte dimensioni e un letto di paglia in un angolo.

Non potendo reggere quello spettacolo si alzò e uscì nel corridoio. Rimase a girovagare per l'edificio, che si ripeteva uguale e sudicio in ogni sua parte. Mancava ancora molto all'imbrunire e in ogni caso doveva aspettare che tutti dormissero prima di dare alle fiamme un'ala abbandonata della costruzione.

Sospirò.

Doveva attendere solo un altro po' e poi avrebbe chiuso con quella vita.

In un modo o nell'altro.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Si trovava nella sua stanza. Si era già tolta il Kimono e aveva ripreso a indossare le sue solite vesti che sembravano stracci. Dalla piccola finestra vedeva come il Sole stava quasi per tramontare, lasciando spazio alle tenebre. Di lì a poche ore, si sarebbe realizzato il suo destino. Ad attenderla vi erano solo la libertà o la morte.

Si distese per un'ultima volta sul suo giaciglio. Chiuse gli occhi e iniziò a pensare sul da farsi.
Gli altri si stavano già preparando per andare a dormire. Non si sarebbero accorti di nulla. Né di lei, né del principio d'incendio che aveva provocato. Ci sarebbe voluto un po' per diffondersi abbastanza, ma per i tempi che si era data, sarebbe arrivato al momento giusto sicuramente.

Era un punto importante del suo piano. Suo.
Quel pensiero le provocò un sorriso triste. Lei aveva praticamente solo messo in atto il progetto originale di suo padre: provocare un diversivo per sviare l'attenzione delle guardie e avere così una minima possibilità di andarsene. Tanto semplice, quanto difficile da mettere in pratica.

Alla fine aveva trovato la soluzione. Ma fu troppo tardi.

I suoi genitori erano stati giustiziati qualche anno addietro. Prima il padre, poi la madre. Non avevano commesso nulla in realtà, ma agli umani non interessava, trovavano sempre un motivo per giustiziarti, anche se questo era inesistente.

Gli tornarono in mente le storie che le raccontavano prima di morire, su cosa c'era al di là di quelle mura. Monti, laghi, fiumi, templi, città, così tante cose da non riuscire nemmeno a contarle e poi l'oceano. Un immensa distesa d'acqua e ancora oltre altre terre sconosciute.

Una lacrima le rigò il viso.

Ripensò nolente alle vecchie storie del suo popolo, i "Burakkuhōn" o Cornonero, per lungo tempo vissuto in pace con quello degli Uomini, e alla fine da questi sottomesso e imprigionato come una mandria di bestie. Tutto per sfruttarne la grande forza magica.

Un Cornonero entrava in possesso dei propri poteri dopo aver raggiunto la soglia della maggiore età grazie all'influsso dell'energia generata dall'eclissi lunare. Ogni demone aveva un potere differente e tutta la loro magia risiedeva nei loro corni. Più era elevato il potere magico, più le corna si tingevano di nero.

Da quando avevano perso la libertà, non c'erano più stati Burakkuhōn adulti in possesso del proprio corno. Gli umani poco prima dell’ultima eclissi, provvedevano a strapparglieli via, spogliandoli della loro essenza e privandoli del proprio onore. Venivano lasciati in vita solo per costringerli a mettere al mondo altri giovani Cornonero su cui ripetere l’operazione e poi come bestie destinate al macello, sarebbero stati eliminati nei tempi e nei modi che più divertivano i loro assassini.

Nonostante da qualche settimana Harramen'l fosse ormai sulla soglia della maggiore età, i suoi poteri non si erano ancora manifestati, ma era questione di giorni. Lei lo sapeva bene. Di lì a poco ci sarebbe stata un'eclissi lunare e i suoi carcerieri non avrebbero aspettato ancora molto prima di privarla delle sue corna.

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Angolino dell'autore: riprendendo la pubblicazione della storia dopo appena un paio di ere geologiche, mi sembra giusto fare un pensierino a Alex78 e Florinda.oliviero; due amici di tastiera (?) conosciuti su un sito di scrittura collaborativa ormai estinto e che mi hanno aiutato con i loro suggerimenti. Se mai leggerete queste parole, sappiate che vi ringrazio!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


In passato già qualche suo simile aveva tentato la fuga, ma mai nessuno era riuscito in tale impresa.

Harramen'l era spaventata. Ma era molto più terrificante il pensiero di dover trascorrere il resto dei suoi giorni da prigioniera, privata della propria dignità, in balia di quei orrendi umani.

Qualche giorno prima, una guardia aveva perso una spada proprio ai confini della recinzione del ghetto. Ritrovarsela tra le mani era stato un vero colpo di fortuna.

Nascosta sotto la paglia, avvolta in un piccolo lenzuolo, la sua arma aspettava di essere impugnata.

Aprì gli occhi.

Era arrivata finalmente l'oscurità.

Quella notte la Luna splendeva alta nel cielo, illuminando tutta la valle. Questo non le avrebbe facilitato la fuga, ma non le importava.

Nulla a questo punto poteva fermarla.

Si alzò.

Tirò fuori la lama dal nascondiglio e la mise nel gambale.

Si avvicinò alla finestrella.

Tutti adesso dormivano, nessuna luce era accesa nelle malridotte abitazioni che la circondavano.

Alcune guardie stavano chiacchierando poco più distante, ma le tenevano le spalle. Per fortuna erano troppo prese dalla loro conversazione per guardarsi intorno.

Così la giovane demone ne approfittò per sgattaiolare fuori dalla finestra e salire sul tetto.

Dovevano esserci altri umani di guardia, doveva stare attenta. Fino a quel punto era stato facile, ma non aveva possibilità di sbagliare. Il minimo errore sarebbe stato per lei fatale.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Lungo tutta la recinzione c'erano in totale otto accessi. Oltre che dai soldati di guardia, potevano essere varcati dai normali abitanti purché animati dalla volontà di fare del male ai prigionieri.

Era diretta a quello più vicino, a pochi passi dal dormitorio in cui era stata rinchiusa per quasi sedici anni.

Al di là di quell'ostacolo vi era la strada che per tutto quel tempo aveva sognato di attraversare, la città di Heian-Kyō, poi il resto della valle, la foresta, la libertà.

Avanzava silenziosamente fino alla sua meta, piegata in due per cercare di nascondersi dalla luce lunare.

Un misto di paura ed eccitazione le assaliva i sensi.

Aveva pensato per molto tempo a quella fuga e la scelta della data non era stata casuale. Finora tutti coloro che avevano provato a fuggire, avevano tentato la sorte durante le notti più buie. Logico, se non fosse che era proprio durante quelle notti che la sorveglianza degli umani si faceva più attenta e stringente. Più soldati, più pattugliamenti, più irruzioni e più esecuzioni.

Pensò un attimo al giovane amico dei genitori, giustiziato praticamente sotto la sua finestra, mentre sua madre le stringeva forte le mani sulle orecchie per attutire il rumore delle urla che venivano dall'esterno.

Ma non era solo l'assenza di buio a spingere i carcerieri a diminuire la sorveglianza in serate come quella. Dipendeva anche dal fatto che i Burakkuhōn erano talmente influenzati dalle fasi lunari, che la luce della Luna piena li induceva a una sorta di breve letargo, lungo due o tre giorni.

Ciò valeva per tutti i Burakkuhōn.

Tutti, tranne lei.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Aveva scoperto di essere immune a quel sonno forzato fin da quando aveva memoria. I suoi genitori avevano nascosto anche ai loro simili la sua misteriosa particolarità e, una volta rimasta sola, continuò a fare lo stesso. Si era perciò isolata dal resto della comunità. Il massimo delle sue iterazioni sociali era stato partecipare alla cerimonia della sera prima. Non era un comportamento così insolito, molti avevano scelto di fare come lei per la disperazione e il dolore. Nessuno vi badò, impegnati tutti com'erano a tirare avanti per un altro giorno ancora.

Si fermò bocconi su una tettoia sporca e annerita. Vicinissima all'ingresso e con solo due uomini dall'aria sporca a piantonarlo. Riusciva a sentirne il puzzo di alcol fin da quella distanza.

Meglio delle sue più rosee previsioni.

Fece comunque più fatica di quanto avesse previsto, per via di quella spada, pesante e ingombrante allo stesso tempo. Da quando l'aveva presa, le era venuta difficile da armeggiare o anche solo tenerla rivolta all'insù. La estrasse, pur non avendo dubbi sul fatto che ci sarebbero state ben poche possibilità di sopravvivere in caso di uno scontro.

Per questo si fermò lì, in attesa del momento in cui la guardia si sarebbe distratta. Non seppe dire quanto ma alla fine arrivò ciò che stava aspettando.

Vide un bagliore in lontananza. L'incendio finalmente si era esteso al resto della sua vecchia casa.

Per quanto disprezzasse quei vigliacchi dei suoi simili, sapeva che non avrebbero corso rischi. Ogni plenilunio, tutti abbandonavano i rispettivi letti per chiudersi in una specie di rifugio sotterraneo al sicuro da eventuali incursioni durante il lungo sonno. Se non lo usavano anche durante gli attacchi che subivano da svegli era perché la tradizione diceva che un rifugio simile poteva essere usato per una e una sola ragione. In ogni caso non provò nessun rimorso nel vedere le fiamme levarsi alte e divorare la costruzione. I suoi coinquilini si sarebbero trasferiti in un altro di quei decadenti dormitori.

Sentì con il cuore in gola le discussioni allarmate dei due energumeni e alla fine tirò un sospiro di sollievo.

Entrambi corsero verso l'origine di quel casino.

La porta di accesso al ghetto era adesso libera.

Scivolò agilmente sulla strada e corse.

Corse come mai prima di allora.

Arrivò all'entrata.

La superò.

Era fuori.

Più lontana dal ghetto di qualunque Burakkuhōn fino ad allora.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Sì intrufolò nei vicoli sporchi di Heian-Kyō, in direzione della foresta. Per sua grande fortuna, il ghetto oltre a trovarsi vicino al confine esterno della città era stato costruito in un punto sopraelevato rispetto al resto degli edifici. Probabilmente per mostrare a tutti come trofeo di guerra i suoi abitanti. In ogni caso aveva potuto osservare e studiare per anni il tragitto che adesso stava percorrendo.

Se non fosse stata per quel maledetto recinto, il ghetto sarebbe stato indistinguibile dal resto della periferia. Stessi edifici decadenti e sporchi. Sporcizia e miseria. Entrambi ben lontani dallo splendore del centro, dove risiedevano i padroni di Heian-Kyō.

Non vide nessuno per strada. Sgattaiolò nell'ombra per un tempo indefinito e finalmente, voltata l'ennesima curva, notò che le case cominciavano a scomparire. Poteva vedere la natura iniziare a prendere il sopravvento sull'opera dell'uomo.

Lo avvertì con un attimo di ritardo. Un verso di rabbia soffocato alle sue spalle. Uno spostamento d'aria. Un soldato l'aveva sicuramente inseguita, pronto a mozzarle la testa.

Che fosse per la paura o l'odio verso di loro, non diede tempo al nemico di finirla. Con uno scatto fulmineo che non sapeva di avere, strinse con tutte le sue forze quel pezzo di mortifero metallo che reggeva tra le mani e lo affondò contro l'altro, schizzandosi addosso il suo sangue. Lo fece d'istinto, senza pensarci.

Mise a fuoco l'avversario solo dopo qualche istante. Era giovanissimo, ancora più piccolo di lei. Un contadino forse, anche lui vestito di stracci. Aveva pure la sua stessa espressione di rabbia mista a terrore stampata in volto.

Harramen'l non poteva saperlo, ma il suo primo omicidio non era altro che un ragazzino che sognava di unirsi un giorno alla guardia cittadina come già suo fratello maggiore e che in notti come quella usciva di nascosto per allenarsi dopo aver lavorato la terra di giorno.

«No»

Dopo quello che le parve un secolo lasciò la presa del bastone con cui aveva provato ad attaccarla.

«No no. Ti prego no!»

Il corpo si afflosciò. La spada venne via da sola. Infine il "nemico" cadde in una pozza cremisi.

Rimase lì immobilizzata con le lacrime che le bruciavano gli occhi e l'arma ancora ferma a mezz'aria, grondante di sangue. Non riusciva a realizzare cosa aveva appena fatto. Non riusciva nemmeno più a sentire la fatica nei suoi muscoli.

Dal misero casolare lì vicino si levarono delle voci.

«Chi è lì? Aki?»

«AKI?!?»

Lasciò cadere la spada.

Una donna vestita di abiti logori entrò nel suo campo visivo. Il viso era stravolto dal dolore.

«AKIIII»

Si voltò e fuggì ancora più veloce di prima, con le urla della madre a inseguirla.

Verso la foresta. Verso la salvezza.

Se ci fosse stata una pattuglia di soldati a cavallo dietro di lei, non avrebbe potuto capirlo. Corse ancora e ancora. Per tutta la notte. Cadde e si rialzò più di una volta. Si riempì di lividi ma continuò lo stesso la fuga. Ma verso dove?

Aveva pensato per così tanto tempo a lasciare il ghetto e la città che non si era mai domandata veramente cosa fare una volta che ci fosse riuscita.

Le lacrime si confusero al sangue che ancora aveva sul volto. Con l'ultima goccia di lucidità che le era rimasta, pianse in silenzio per tutto il tempo che rimase sotto i raggi della Luna.

Pian piano la luce della notte lasciò il posto a quella del giorno. L'alba dorata inondò del suo splendore la fitta vegetazione che le scorreva intorno.

E in quel momento lo vide. Un piccolo laghetto nascosto tra gli alberi.

Vi si precipitò, rendendosi conto solo allora di star morendo di sete.

Si buttò sulle ginocchia e infilò la testa nell'acqua gelida.

Bevve come non aveva mai bevuto.

Uscì dal laghetto e respirò l'aria del mattino a pieni polmoni.

Era come se si fosse svegliata da una specie di trance.

La stanchezza, la paura, tutto ciò che aveva fatto e visto quella notte le piombò addosso.

Urlò. Urlò come se non potesse farne a meno. Si interrompeva solo per via dei singhiozzi talmente forti da farle tremare il corpo completamente sfinito.

Quando il Sole aveva ormai conquistato definitivamente il suo posto nel cielo, cedette finalmente alla fatica e al dolore, e svenne.

Rimase lì, fino al pomeriggio del giorno successivo. Non arrivò nessuno a farle del male, non i soldati beffati da una ragazzina, non la madre cui aveva portato via il figlio, né animali di sorta. O quasi.

Una volta ripresasi, si trovò avvolta in una coperta calda e, in ginocchio accanto a lei, un altro giovane umano con addosso un tipo di armatura di cui aveva sentito solo parlare: una Ō-yoroi. Teneva l'elmo tra le mani e la fissava incuriosito.

Si trovava di fronte un guerriero appartenente niente poco di meno che alla casta militare più potente di tutto il regno.

Prima che potesse anche solo pensare alcunché, fu lui a fare la prima mossa.

«Sta tranquilla! Mi chiamo Hoshiko e voglio aiutarti!»

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Monte Hakkyō
Due settimane prima della fuga di Harramen'l
Notte

 

Il rumore delle spade che si scontravano, si confondeva con quello della tempesta.

Ogni fendente era scandito da una saetta che faceva il suo ingresso nel cielo.

Il pendio roccioso su cui cercavano di uccidersi a vicenda era reso scivoloso dalla pioggia che lavava via il sangue versato di ferite non ancora abbastanza mortali.

Due figure si davano una fatale battaglia sotto la pura potenza della natura. L'ultimo atto di uno scontro durato decenni, secoli. I loro lineamenti non si potevano scorgere, avvolti com'erano in terribili armature logore per un duello che si era trascinato troppo a lungo.

Erano allo stremo, lanciati l'uno contro l'altro alla ricerca del fatal colpo che sembrava non giungere mai.

Fu un solo minuscolo errore a decidere il loro destino e quello dell'intero regno. Uno di loro scivolò di poco sulla roccia e l'altro finalmente poté chiudere il combattimento.

Un fendente lanciato verso il petto del nemico, scagliato con tutta la potenza che gli era rimasta in corpo. La Katana tranciò prima un braccio e poi aprì uno squarcio nell'altra armatura, all'altezza del petto.

Un urlo di dolore e rabbia soffocato dai tuoni.

Il guerriero vinto cadde a terra sulle sue spalle.

Il sangue continuava a essere portato via dalla tempesta. Era il segno del destino che attendeva il caduto. Spazzato via insieme al suo clan. Di lui e dell'antico onore della sua famiglia non sarebbe rimasto più nulla.

Il vincitore troneggiava su di lui. La sua armatura, la Ō-yoroi di suo padre era finalmente giunta a esigere una vendetta che aveva atteso tanti, troppi anni.

Impugnò ancora più stretta la lama, assaporando quel momento. Con tutte le forze rimaste la conficcò nel cuore del caduto. Con la punta, spaccò le placche della corazza e la fece penetrare in profondità.

La girò e la rigirò più volte. Gustò ogni singolo rantolo dell'avversario. La estrasse solo quando quel corpo non rimase lì completamente esanime.

Era finita.

Cominciò a vacillare fino a cadere seduto lì accanto.

Sì slacciò l'elmo e se lo tolse. L'ennesima saetta mostrò finalmente i suoi lineamenti.

Era solo un ragazzo. Un giovane con un ciuffo di capelli neri e occhi dello stesso colore. Non c'era spazio per il giubilo in quello sguardo. Chiuse le palpebre e rimase lì fermo con la faccia rivolta verso l'alto.

Le gocce gelide gli picchiavano duramente il viso.

Continuò a starsene immobile, con la mente che vagava lontana da dove si trovava, verso un tempo perduto di felicità e pace.

Di ricordi dolorosi.

Riaprì gli occhi e fu inghiottito di nuovo nella tempesta e nei postumi della battaglia. Aveva vinto, ma le forze lo volevano abbandonare.

Ma non gli importava. Aveva finalmente compiuto il suo destino.

I suoi genitori e la sua famiglia tutta erano stati vendicati. C'erano voluti anni, ma alla fine era riuscito ad annientare il clan rivale, a sterminarli tutti, a porre fine a una faida millenaria. Una lotta che andava ben oltre i normali scontri tra signorotti feudali. Una guerra che era divenuta leggendaria. Sopra vi erano stati scritti poemi epici per secoli.

Tutto il Regno di Moshinako era a conoscenza dell'antica scia di sangue tra il Clan Soga e i suoi nemici giurati, il Clan Nakatomi. In guerra da sempre, i Nakatomi riuscirono quasi a distruggere completamente i rivali quindici anni prima, guidati dal loro capofamiglia, Kamatari. Lo stesso che ora giaceva a pochi passi da lui. L'ultimo di una stirpe che non avrebbe mai più potuto assistere alla fioritura dei ciliegi sacri.

A quello scopo aveva dedicato la sua intera vita e contro ogni previsione era riuscito a ristabilire l'onore della sua casata.

Solo una cosa non avrebbe mai potuto accettare. Morire vicino al mostro che aveva abbattuto.

Sì alzò barcollante, reggendosi poco gloriosamente sulla spada del Clan. E lentamente sì incamminò verso un luogo più degno per raggiungere i suoi antenati.

Ma per Hoshiko Soga non era ancora venuto il momento di lasciare questo mondo.

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