Russia 2018 tra sogno e realtà

di Sanae77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 01 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 02 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 03 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 04 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 05 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 06 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 07 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 08 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 09 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ho il piacere di annunciare che la storia è stata tradotta da Lyra Nym in spagnolo

https://www.fanfiction.net/s/13826347/1/Rusia-2018-Entre-sue%C3%B1o-y-realidad



Bene, eccoci qua con una nuova avventura per i nostri campioni.
Non avrò un giorno fisso di aggiornamento.
Alcune giornate cadranno proprio con le date delle partite in corso d'opera, ovviamente nel mio mondo Russia2018 avrà un Giappone pronto a conquistare la vittoria; Inoltre la nostra amata Italia non è in gara, quindi non ci resta che tifare i nostri eroi.
Ma se il nostro capitano stesse attraversando una profonda crisi? Che ne sarebbe della Golden Combi?
Non ci resta che scoprirlo.
Grazie a chi vorrà seguire questo mio nuovo 'delirio'. :-D
Sanae77


Betuzze mie, dovete sopportarmi anche stavolta.
Grazie, Guiky e Mel <3






Prologo
 
Il cuore pompa nel petto, prepotentemente, come se volesse uscire fuori e spiccare il volo. La sensazione di angoscia m’avvolge, lasciandomi senza fiato. Continuo a correre malamente mentre il fianco sinistro seguita a perdere sangue. La mano destra tampona la ferita oramai aperta e non riesco a respirare bene.
Ma non smetto di correre perché so che questo goal l’ho promesso a Taro. Il dolore al petto mi coglie ogni volta che penso a lui e al suo incidente. Non è ancora sicuro che potrà giocare la finale, ma ci eravamo scambiati una promessa e non sarò certo io a disattenderla.
Continuo a muovermi in direzione della porta mentre sento la chiazza liquida e calda espandersi a sinistra, la sola mano non riesce più a contenere la fuoriuscita di sangue. Il dottore aveva fatto una fasciatura impeccabile, ma i movimenti veloci e gli scatti improvvisi hanno comunque fatto riaprire la lacerazione.
Da questi ultimi minuti dipende il pareggio contro il Messico.  
Sono distrutto.
Kojiro tenta ancora un tiro disperato che Espadas devia in calcio d’angolo. Il tempo è quasi scaduto, la ferita mi rimanda un dolore lancinante che mi spezza il fiato e mi fa piegare in maniera innaturale per non soccombere. Con la coda dell’occhio vedo Aoi che, alla velocità del fulmine, rilancia un calcio d’angolo verso di me.

Ed è un’esplosione d’immagini nella mia mente.
Il pallone, il mio migliore amico.
L’allenamento sulle palafitte in Brasile. L’odore del mare e la potenza delle onde contro le quali ho combattuto, saltando da un palo all’altro. La profonda determinazione che non mi ha mai abbandonato e che mi ha permesso di arrivare fin qua.
No, non mi arrenderò così facilmente.
L’ho giurato.
L’ho promesso al mio migliore amico.
Alla mia metà in campo.
È il patto della Golden Combi: giocare la finale del World Youth insieme.

Raccolgo tutto il fiato possibile nei polmoni. Tento di non pensare al dolore pungente che mi lancia la ferita e con un ultimo, incredibile sforzo dribblo due avversari, mosso da quell’incredibile determinazione che mi ha sempre contraddistinto e che mi ha permesso di arrivare fin qua.
Mi isolo da tutto mentre, ripercorrendo i passaggi fatti in allenamento, mi preparo al mio tiro: lo sky dive shoot.

Sono costretto a una deviazione quando un difensore mi si fa incontro.
Sono costretto a lasciare la ferita per darmi lo slancio con le braccia. Questo mi permette d’innalzarmi fino a rovesciare su me stesso e calciare con tutta la forza possibile verso la porta di Espadas.
La ferita si apre del tutto lasciando che il sangue esca copioso.
Il tiro è potente e preciso, ma Espadas è bravo.
Mancano pochi attimi al fischio dell’arbitro che decreterà la fine dell’incontro.
È fatta, la palla sta per entrare in rete. La vedo anche se sono a testa in giù in piena rovesciata.
Ma il secondo successivo, il portiere riesce a deviare con la punta del dito.
Abbiamo perso.
Però…
Un’ombra da sinistra si eleva verso quella palla in volo.
È Taro, l’altra metà della Golden Combi, la mia metà.

 
Di soprassalto si sollevò nel letto, aprì gli occhi e iniziò a stropicciarli. Aveva il cuore in gola e nelle orecchie; erano mesi che quell’incubo lo tormentava fino a farlo svegliare con la bocca secca e i battiti accelerati. Erano passati quindici anni da quella partita. Ed ora, da qualche mese, alla soglia dei trent’anni, si ripresentava ogni notte come un fottuto incubo. Sapeva benissimo che non si era conclusa in quella maniera la sfida.
Tsubasa si portò istintivamente la mano alla vecchia ferita, in un vago ricordo di dolore che adesso non c’era più. Ma inspiegabilmente il sogno glielo faceva sentire come se fosse vero. Il vero autore del goal, in quell’occasione, era stato Shigo Aoi che, arrivando in volata e sfoderando un prodigioso tiro di testa, era finito in rete insieme alla palla.
La sensazione di smarrimento non lo abbandonò, come la sensazione di calore quando ogni volta si svegliava di soprassalto e l’ultimo pensiero era per Taro e per il suo fottuto incidente di tanti anni prima.
Eppure tutto si era risolto per il meglio a suo tempo.
Perché negli ultimi mesi continuava a fare questo sogno ricorrente?
Perché continuava a provare la stessa angoscia che aveva assaporato all’epoca?
Perché continuava a pensare a quanto avesse sofferto per la notizia dell’incidente di Taro?
Perché continuava a rimuginare sull’estenuante allenamento a cui si era sottoposto e che gli aveva provocato quella ferita al fianco?
Al tempo non aveva dato troppa importanza all’accaduto, ma il sogno aveva risvegliato pensieri sopiti e nascosti, che adesso facevano fatica a tornare nei meandri della mente.
Appena appreso dell’incidente di Taro si era dedicato a perfezione lo Sky Dive Shoot con tutto se stesso. Tanto da farsi male.
O era semplicemente stato uno sfogo dopo aver saputo che il suo migliore amico non avrebbe potuto giocare la finale?
Ogni volta quel sogno lo angosciava e lo accaldava.
 
Con la mano afferrò la coperta e, scansandola delicatamente per non svegliare Sanae al suo fianco, posò i nudi piedi a terra, assaporando il refrigerio regalatogli dal fresco pavimento. Facendo forza sulle gambe si alzò e andò verso la porta per non disturbare la moglie.
Passando di fronte alla cameretta si affacciò per osservare i figli. Hayate e Daibu dormivano beati nelle pose più assurde che avesse mai visto. Neanche le rare volte che aveva dormito con Ryo, aveva mai visto qualcuno riposare in quel modo. Oltretutto i due, inseparabili, finiva sempre che si concentravano in un solo letto. Tanto che con Sanae avevano deciso alla fine di arrendersi e comprare ai gemelli un gran lettone matrimoniale.
Avevano passato quasi nove mesi nella pancia della madre insieme, e chi erano loro per decidere di tenerli così lontani? Si erano arresi all’evidenza del profondo legame tra i due e avevano ceduto alla richiesta fisica dei bambini di avere un contatto reale e duraturo. Avevano solo nove anni, avrebbero avuto tutta la vita per stare separati.
Una fitta al fianco lo riportò indietro nel tempo quando, alle elementari, Taro gli aveva comunicato che avrebbe lasciato Nankatsu per seguire il padre nel lavoro. Memore di questi ricordi non aveva assolutamente voluto che i figli provassero una simile angoscia, quindi aveva assecondato il loro desiderio di dormire insieme.
Tornò a guardarli sorridendo, poi afferrò il cellulare dalla consolle e scattò una foto. Doveva assolutamente farla vedere a Taro, era certo che i gemelli sarebbero diventati la nuova Golden Combi, un domani. L’altra metà in campo popolava i suoi pensieri quotidiani da anni e finora aveva convissuto bene con questo.
Perché, allora, da qualche mese era così in crisi per i sogni che affollavano la sua mente?
Perché si sentiva quasi in imbarazzo a mantenere la stessa confidenza del passato?
Perché, certe volte, si trovava a pensare che avrebbe dovuto diradare i contatti?
Perché il solo pensiero di diradare i contatti gli spezzava il fiato nei polmoni?



Osservò la foto imprigionata sullo schermo e capovolse l’oggetto, sorridendo. Non capiva esattamente quale fosse la testa di Hayate e quale i piedi di Daibu, da tanto che erano incastrati.
Aprì la chat con Taro, ma la richiuse quando, arrivato in cucina, si accorse che erano solo le tre di notte.
Era la quarta volta consecutiva che, quella settimana, si svegliava al medesimo orario, per il medesimo incubo.
Posò il telefono sul pianale, afferrò un bicchiere e lo riempì di acqua. Poi si spostò verso la finestra e, portandosi il vetro alle labbra, osservò la città risplendere sotto di lui.
Barcellona era magnifica di notte. Lo era anche durante il giorno, ma la quiete notturna gli regalava sempre una sensazione di benessere in tutto quel caos.
Restò a contemplare le calde luci e a sorseggiare l’acqua fresca, finché due braccia delicate non lo avvolsero da dietro.
 
“Ancora quel sogno?” chiese Sanae preoccupata.
Erano mesi che trovava il marito in piedi durante la notte in giro per casa. Le aveva sempre detto di aver avuto un incubo, ma che non ne ricordava il contenuto. Aveva la sensazione che non gli stesse raccontando la verità.
Nonostante tutto non aveva insistito, rispettando il suo volere. Tra loro non c’erano mai stati problemi o segreti ed era sicura che quando Tsubasa fosse stato pronto le avrebbe detto che cosa lo turbava tanto.
“Già” rispose lui, intrecciando una mano alle sue esili dita.
Sanae liberò un braccio dalla stretta e con il palmo disteso s’intrufolò sotto la maglia, massaggiandogli la schiena.
“Dai, vieni a letto ché domani devi partire con la nazionale.”
La voce di sua moglie, impastata dal sonno, lo fece sentire in colpa. Non solo per farla destare e preoccupare la notte, ma anche per averle mentito sul sogno.
Non era affatto vero che lui non ricordava niente. Lo ricordava eccome, ma questo gli stava provocando sensazioni troppo contrastanti e non voleva far preoccupare Sanae per nulla. Oltretutto da quando aveva saputo del ritiro con la Nazionale gli incubi erano aumentati e, se possibile, questo lo aveva impensierito ancora di più. Di conseguenza i risvegli erano divenuti sempre più frequenti e i sogni sempre più nitidi. Gli sembrava di rivivere le medesime situazioni, ma sotto altri aspetti, sotto altri punti di vista, sotto pensieri che non aveva mai fatto e che ora, invece, facevano fatica non solo a venir fuori, ma anche a venire accettati.
Doveva confessarlo: questa situazione lo stava mandando fuori di testa e in vista dell’imminente mondiale non era tollerabile. Anche perché doveva condividere, come al solito, la camera con Misaki. E se finora non era mai stato un problema ora lo poteva diventare visto gli incubi avuti in quei mesi.

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Capitolo 2
*** Capitolo 01 ***


Parigi

Era l’ultima sera che trascorreva con sua moglie, poi si sarebbero rivisti a Tokyo per i mondiali, e non aveva davvero intenzione di trascorrere la notte dormendo, lo avrebbe fatto l’indomani sull’aereo. Aveva voglia di sentire il corpo morbido di lei sotto di sé e per questo era la terza volta che la cercava tra le lenzuola.
“Taro, basta, per favore.” Sussurrò la donna quando lo aveva sentito avvicinarsi e le sue braccia l’avevano circondata da dietro, facendole avvertire il sesso turgido.
Con le dita, Taro le scostò i capelli dal collo e prese a baciarla lì, nell’incavo tra la spalla e l’orecchio. I denti sul lobo non le fecero trattenere un ansito di piacere.
“Azumi, staremo lontani almeno un mese, per non parlare poi dei giorni in cui disputeremo i mondiali; è lungo un mese, sai?”
Ridacchiò, continuando a baciarla.
“Qua è già una decina di giorni che stiamo facendo i recuperi e i tempi supplementari, mi pare.” Voltandosi tra le braccia del marito, Azumi lo ebbe di fronte. Al tenue bagliore della lucina di cortesia, che tenevano in camera per essere liberi di alzarsi nella notte, ne intravide i contorni del viso e prese a baciargli le morbide labbra.
“Potremmo tentare i calci di rigore.” Ironizzò lui, continuando a vagare con le dita tra le scapole e il seno. Ne toccò uno delicatamente per poi proseguire la sua corsa verso le cosce e tra di esse.
Quando attraversò la linea della vita lei rise, aveva sempre sofferto il solletico in quel punto. Ma questi si spensero quando la mano raggiunse il centro del piacere e prese a stimolarlo senza tregua.
Poi quel grido improvviso e inconsolabile squarciò la notte.
Azumi s’irrigidì e schizzò fuori dal letto come una scheggia impazzita. Afferrò la vestaglia al volo e, sfruttando la lucina, si diresse nella camera della bambina. Quando Desirée piangeva in quel modo era opportuno intervenire al più presto, se non volevano che anche i vicini venissero destati dalle sue urla.
Taro spalancò le braccia, sbuffando. Quella piccola adorabile canaglia da quattro anni impegnava la loro vita a trecentosessanta gradi. Da quando era arrivata, la loro tranquillità aveva assunto le sfumature del rosa. Desirée era arrivata dopo un anno di tentativi. Ricordò con piacere quel periodo, ringraziando mentalmente la figlia. Ed era stato un periodo fantastico perché, dopo lo Jubilo Iwata, il suo procuratore gli aveva assicurato un ottimo ingaggio in Francia nel Paris Saint Germain, lì aveva incontrato nuovamente Azumi e, dopo essersi frequentati per un paio di anni, avevano deciso di convolare a nozze. Un anno dopo era arrivata la piccola peste.
Si alzò e, dopo aver infilato una maglia e il pantalone della tuta, andò nella cameretta della figlia per vedere se la moglie avesse bisogno d’aiuto.
Quando udì il leggero rumore prodotto dalla sedia a dondolo restò incantato a guardarle, appoggiato allo stipite della porta. Un primo raggio di sole si palesò all’orizzonte. Sollevò il braccio e osservò l’ora. Erano le 6:07 in punto. Desirée era tanto precisa da poter essere utilizzata come sveglia. Sorrise e avanzò verso le sue donne, diede loro un bacio sulla testa e andò a prepararsi; tra tre ore doveva essere all’aeroporto.
Sistemò la divisa ufficiale, qualche tuta e dei completi eleganti dentro la valigia, poi afferrò le cerniere e le chiuse. Azumi gli arrivò alle spalle e lo circondò da dietro, stringendolo al petto.
“Mi mancherai” mormorò, con le labbra incollate al centro delle scapole, poco sotto l’attaccatura del collo.
Il caldo del respiro gli trapassò anche la giacca d’ordinanza, facendolo rabbrividire.
Sciogliendosi da quell’abbraccio, Taro si girò su se stesso e la strinse.
Dopo essersi coccolati per qualche istante, i saluti finali furono inevitabili se non voleva perdere l’aereo.
“Fate le brave” si raccomandò il numero undici della nazionale, indicando con un impercettibile movimento della testa la camera della figlioletta.
“Sai che quando non ci sei non si sveglia mai? Sarà bravissima, ne sono certa.”
“Lo credo bene, dorme al mio posto, la piccola vipera, ma me ne ricorderò quando avrà il ragazzino, stanne certa.”
“Sei geloso, Misaki, confessalo!”
“Da impazzire.” E, regalandole un ultimo bacio, scese per prendere il taxi che lo avrebbe condotto al gate.
Lui e Tsubasa avevano deciso di partire dalla Germania insieme a Genzo.
Nessuno dei tre aveva voglia di farsi il viaggio intercontinentale da solo, così avevano trovato questa soluzione.
Il cellulare iniziò a lampeggiare; in anteprima vide la notifica di Whatsapp di Ozora. Compose la password e aprì la chat. Dovette inclinare prima la testa a destra e poi a sinistra per capire in che diavolo di posizione stessero dormendo i gemelli. Sorrise all’immagine inviatagli dall’amico e scrisse un messaggio veloce.


 

Storse la bocca osservando i messaggi sempre più brevi di Tsubasa. Aveva anche smesso di fargli i vocali, riducendo al minimo le conversazioni. Avevano un mese di fronte a loro e lui ne avrebbe approfittato per sviscerare cosa lo turbasse. Aveva saputo da Azumi, che lo aveva saputo da Sanae, che il numero dieci dormiva male ultimamente. Lui se n’era reso conto invece dalle pagelle calcistiche: c’era stato un declino progressivo e impercettibile. Le immagini dei giornali riportavano sempre un Tsubasa sorridente ma, lui lo conosceva benissimo, quegli occhi cerchiati non gli erano certo sfuggiti.
Sarebbe arrivato circa un’ora prima di Ozora e ne avrebbe parlato con Genzo, voleva capire se anche il portiere avesse avuto le sue stesse impressioni o se lui si fosse semplicemente immaginato tutto.
Quando scese dall’aereo la hostess gli indicò la saletta riservata alla prima classe dove Genzo, era sicuro, lo stesse già aspettando.
Ravvivati i capelli e indossati gli occhiali da sole, per non farsi riconoscere, si avviò verso la nuova destinazione.
Wakabayashi, avvolto nell’impeccabile completo della nazionale, indossava a sua volta un paio di occhiali scuri. Da lontano gli vide alzare una mano in segno di saluto, che contraccambiò con un cenno della testa.
Quando furono vicini, si scambiarono un abbraccio e varie pacche sulle spalle.
“Taro, la vipera come sta?”
“Come sempre puntuale come un orologio svizzero, che vuoi farci?” rispose il numero undici, sollevando le spalle.
“Vuoi farmi credere che tutte le mattine continua a strillare in quel modo alle 6:07?” lo stupore sul volto del portiere fece sorridere Misaki. Immaginò che fosse difficile per Genzo credere che dopo un anno dall’invito a casa sua Desirée ancora non avesse smesso quella bizzarra abitudine. Oramai tutta la nazionale lo sapeva e anche i giornali di gossip, tanto che ne avevano tirato fuori pure un articolo divertente. La viperetta aveva già conquistato il cuore delle cronache calcistiche. Fortuna che Misaki non aveva avuto problemi in campo, altrimenti, era certo, avrebbero dato la colpa alla bambina.
“Già, sembra incredibile, ma è così” il tono contrariato di Taro gli fece intendere che forse era meglio cambiare argomento.
“Capisco. Cosa ne pensi delle convocazioni in nazionale?”
“Ecco, a proposito di questo, volevo chiederti una cosa” e, dopo averlo preso sotto braccio, si spostarono in direzione della saletta privata, mettendosi in attesa di Ozora.
“Hai visto le ultime pagelle di Tsubasa?” chiese, scrutando la reazione di Genzo.
“Sì, le ho viste, sono ottime, ma non eccellenti come suo solito.”
“Esatto, sono mesi che non lo vedo, ma Sanae ha detto che ultimamente non riposa bene; tu ne sai nulla?”
Il portiere scosse la testa. Aveva sentito Tsubasa al telefono e non aveva carpito chissà quali problemi. Infatti tutte le volte che leggeva gli articoli dei giornali calcistici, le pagelle o le varie opinioni poi andava sempre a sincerarsi del tutto, ricercando i video delle partite.
E tutte le volte aveva constatato che quello che veniva detto e votato era esatto. Ozora era un gran talento, come pochi se ne vedevano in giro, ma negli ultimi mesi era sbadato, sempre alla ricerca di qualcosa o di qualcuno in campo. Come se gli mancasse un pezzo.
“Io lo vedo distratto” sentenziò il portiere.
“Mh-mh, non saprei definire il problema, ma è come se gli mancasse qualcosa mentre gioca, non lo avevo mai visto così – con le dita, Taro si massaggiò il mento, pensieroso – comunque ho intenzione di parlarci durante il prossimo volo.” Affermò convinto.
“Ottima idea, sull’aereo non può certo sottrarsi a un buon interrogatorio.”
Taro sorrise per il sarcasmo dell’amico poi gli afferrò un braccio.
“Questo mondiale forse è l’ultimo che giochiamo insieme, vorrei vincerlo e non vorrei che ci fossero dei problemi, il nostro capitano deve essere al massimo della forma.”
“Concordo!” esclamò Genzo convinto. Si alzò e con un braccio indicò verso la porta. “Parli del diavolo…”




Un grazie speciale a Guiky che, seguendo i miei scleri giornalieri, mi asseconda improvvisandosi Tsubasa e scambianto messaggi su WhatsApp con me.
Tocchiamo livelli psicotici altissimi sappiatelo!
Grazie betuccia mia *_*

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Capitolo 3
*** Capitolo 02 ***


Il viaggio era stato breve, ma lui era già stanco come se avesse finito la tratta intercontinentale. Con passo svelto raggiunse la stanza dove erano i compagni. Lo avevano avvisato tramite un messaggio che lo stavano aspettando lì.
 

 
S’irrigidì quando scorse la sagoma degli amici, intenti a parlare animatamente. Trasse un profondo respiro e, stringendo il manico del trolley tra le dita, s’incamminò verso di loro.
Genzo fu il primo a vederlo, Taro era di spalle.
“Toh, parli del diavolo?”
“Cos’è, Wakabayashi, stai già sparlando di me?” ironizzò Ozora, stringendogli la mano che gli aveva offerto.
“Non mi permetterei mai” rispose l’altro, attirandolo a sé e scompigliando i capelli già incasinati.
“Tsubasa, ben arrivato” Misaki lo accolse con un sorriso rilassato e pacato come suo solito. Dopo lo abbracciò d’istinto.  
Il fuoriclasse s’irrigidì quando sentì avvolgersi in quella maniera. Non era la prima volta, ovviamente; erano cresciuti insieme e gli abbracci, anche in campo dopo un goal o una bella azione, non erano mai mancati.
Ma in quel momento il suo calore, il suo odore e la sua vicinanza lo pietrificarono, riportando alla mente un altro sogno, che si era convertito a incubo, del loro incontro a Parigi sotto la Torre Eiffel.
Taro aggrottò le sopracciglia perplesso: non gli era mai capitato di sentire Tsubasa così rigido. Lo allontanò, ma le mani restarono arpionate alle spalle per scrollarlo.
“Ehi, che ci combini? Parlavamo di te e delle tue ultime pagelle: tutto bene?”
Gli occhi nocciola e preoccupati del compagno fecero riscuotere il capitano.
“Sì, tutto ok. Ultimamente la notte dormo male, ma non è niente, tranquilli.”
“Cos’è che ti turba? Non sarai mica preoccupato per il mondiale, vero? Sai che vinceremo a mani basse.” Misaki era il solito ottimista.

-Si prega i gentili passeggeri del volo 568 per Tokyo di avvicinarsi al gate d’imbarco-

“Dai muoviamoci, non voglio perdere l’aereo!” esclamò Tsubasa, sciogliendosi dalla sua presa e imboccando la strada per il gate del volo appena chiamato. Per ora l’aveva scampata, ma il viaggio per il Giappone era lungo e doveva trovare al più presto una qualsivoglia scusa, non poteva certo dirgli che da mesi il chiodo fisso dei suoi sogni era proprio lui.
 
Sono seduto sul bus, il mister mi sta parlando di Taro e la sua riluttanza a partecipare al torneo in Francia. Capisco che dopo tre anni sia difficile trovare l’intesa di un tempo, ma vorrei almeno provarci.
Conosco Taro, e capisco anche che cosa lo freni. La paura di rompere gli equilibri della squadra è più forte di lui. Arriviamo ai nostri alloggi, ma non riesco a stare fermo e buono in camera, così decido di uscire con l’immancabile palla. Ho bisogno di sgranchire le gambe e sgombrare la mente.
Palleggio lungo le vie di Parigi finché non trovo un luogo consono per tirare due calci al mio migliore amico e farmi una corsetta. A furia di correre, scorgo la Torre Eiffel; l’ammiro in tutta la sua grandezza, ne sono affascinato. Sono in progressione con palla al piede, sto per passare sotto la torre, quando da sinistra una sagoma m’incrocia, compiendo i miei stessi movimenti.
Mi blocco! Il pallone rotola in avanti.
Stento a credere a cosa, tale figura, ha ripescato dai meandri della mente. Quei contorni, quel possesso palla, quello scatto. Milioni di sentimenti ed emozioni m’invadono all’istante, facendomi sudare freddo. Passa poco perché riesca a voltarmi e scoprire il sorriso sereno di Taro.
I nostri occhi brillano di felicità mentre, correndoci incontro, lui mi salta letteralmente al collo. I nostri cuori esplodono di gioia nel capire che potremo nuovamente formare la coppia d’oro.
 
Fissava il sedile di fronte con occhi spalancati e fiato corto. Tsubasa si era addormentato al suo posto e, dopo un paio di ore, si era svegliato sudato e agitato.
“Tsubasa, calma hai solo sognato.” La voce rassicurante di Misaki, seduto al suo fianco lato finestrino, non lo rassicurò affatto. Anzi, Ozora fece una sorta di saltello sul lato opposto.
Stavolta il sogno era stato qualcosa di inquietante. Quando Taro gli si era gettato addosso, aveva provato una sorta di eccitazione. Era confuso, frastornato dalle notti insonni e incapace di scindere i sogni da quello che era in realtà accaduto. Davvero non ricordava di quel brivido erotico? Oppure la sua mente lo aveva totalmente rimosso? Oppure adesso andava ripescando sensazioni sepolte? Scosse la testa continuando a fissare Taro senza distinguere se fosse un sogno o la realtà.
Misaki allungò le mani e iniziò ad agitargliele di fronte al volto. Non riusciva a capire se il capitano stesse ancora sognando o se davvero fosse sveglio. Una cosa era certa, la fronte imperlata di sudore e lo sguardo vacuo lo fecero impensierire, tanto da girarsi indietro verso Genzo e dirgli di chiamare una hostess.
Dopo aver fatto cenno, con la mano, alla ragazza, il portiere si alzò e affiancò Tsubasa per aiutarlo. Lo afferrò per le spalle e cercò di scuoterlo: “Tsubasa, sveglia!” incitò.
Il capitano alzò le braccia e si liberò dalla presa esclamando: “Sono sveglio, Genzo, piantala!”
Wakabayashi posò un ginocchio a terra e si abbassò per guardarlo meglio. Con espressione perplessa lo interrogò: “Da quanto hai questi incubi? Basta cazzate, sei distrutto, hai un colorito pallido e stanco. Quindi dicci che diavolo ti tormenta.”
Smarrimento. Questa la sensazione che ebbe quando si sentì messo alle strette. Non bastava il sogno a lasciarlo in crisi, non bastava l’odore di Misaki al suo fianco.
L’odore di Misaki? Che cazzo stava pensando?
Un topo in trappola, ecco come si sentiva. Sollevandosi di scatto, per poco non fece cadere a terra il portiere. “Scusate, vado al bagno” disse superandoli e non voltandosi indietro.
Genzo e Taro si guardarono perplessi mentre Ozora fuggiva alla toilette e chiudeva la porta.
Si appoggiò a questa, prendendo ampie boccate d’aria. Gli venne in mente la moglie di Rivaul e i suoi attacchi di panico. Non ne aveva mai sofferto ma pensò che potesse esserci una prima volta nella vita e che fosse proprio quella.
Ottimo! Un attacco di panico in un loculo di bagno a 10.000 metri da terra. Bravo, Tsubasa, non potevi scegliere posto migliore, disse a se stesso.
Scosse la testa in segno di negazione e, dandosi un leggero slancio, raggiunse il lavabo. Con laute manciate d’acqua si bagnò il viso e il collo finché il respiro non tornò normale. Dopo alzò lo sguardo verso lo specchio, l’immagine che gli restituì non gli piacque per niente. Si toccò le profonde occhiaie sopra gli zigomi. Le massaggiò con i polpastrelli, come se potessero scomparire.
Ancora quel pensiero nella testa.
L’odore di Misaki al suo fianco?
Strappò una salvietta e, asciugandosi il volto, regalò un Vaffanculo al riflesso nello specchio. Questi sogni lo stavano mandando fuori di testa. Si passò una mano su tutto il volto per poi rivolgersi al suo io riflesso che lo guardava preoccupato.
“Come cazzo hai intenzione, Tsubasa, di affrontare un mondiale in queste condizioni?” bisbigliò allo specchio. “Adesso basta! Torni di là e ti comporti come sempre con i tuoi amici.”
Cercò di ergere la sua figura, di darsi un tono, di apparire più rilassato.
Un altro pensiero lo fece sorridere. Non aveva mai parlato al suo riflesso, il livello di psicosi si stava decisamente innalzando.
Prendendo un profondo respiro afferrò la maniglia e tornò dai suoi compagni.
Genzo era tornato al suo posto: da dietro, aggrappato al poggiatesta, parlava con Taro. Quando arrivò non gli dissero nulla, ma appena si sedette fu proprio Misaki, con tono calmo e allo stesso tempo preoccupato, a prendere la parola.
“Ti vediamo stanco, capitano, tutto bene?”
Tsubasa chiuse gli occhi e inspirò prima di parlare; doveva dar loro una qualsivoglia spiegazione o l’avrebbero tartassato fino alla fine dei suoi giorni.
“Non vi preoccupate, sono solo stanco, il campionato mi ha distrutto.”
“Degli incubi cosa ci dici?” indagò il portiere.
“Cosa vuoi che ti dica, Genzo? Li faccio, mi sveglio con l’angoscia, ma non ricordo un cazzo. Quindi, non chiedetemi cosa mi turba perché non lo so.” Gesticolando animatamente si era voltato verso gli amici e aveva detto la frase tutta in un fiato.
Taro l’aveva guardato preoccupato e, annuendo, si era chinato per afferrare le cuffiette dallo zainetto. Poi gliene aveva ceduta una e con un mega sorriso aveva detto: “Ho un po’ di musica rilassante, che ne dici se l’ascoltiamo insieme e proviamo a dormire?” con un gesto della mano lo aveva invitato ad appoggiarsi alla sua spalla.
Non era certo la prima volta che si addormentavano così, appoggiati l’uno all’altro, non era la prima volta che condividevano le cuffiette, non era la prima volta che erano seduti vicini, come non era la prima volta che avrebbero condiviso la medesima camera.
Allora perché il cuore iniziò a battere martellante nel petto? Perché il profumo di Taro era così maledettamente invitante?
Perché ebbe la certezza immediata che su quella spalla avrebbe dormito beatamente fino all’arrivo?
Era stanco.
Stremato.
Combattuto da tutti quei pensieri che si accavallavano e spingevano per uscire. Spense definitivamente il cervello, afferrò la cuffietta, sorrise a Taro e si adagiò sulla sua spalla. Da dietro, una grande mano gli scompigliò i capelli in un gesto di affetto; come se non fossero già abbastanza incasinati.
“Riposati, ne hai bisogno.” Constatò il portiere, tornando seduto.
“Grazie” sussurrò agli amici; poi chiuse gli occhi e l’acqua di colonia di Misaki invase le sue narici.
Sì, poteva confermarlo seduta stante: Misaki aveva un buon odore.
 
Il DLIN, dell’avviso delle cinture di sicurezza, lo fece destare.
“Dove siamo?” chiese stiracchiandosi, in quel momento si sentì riposato come se avesse dormito per tre giorni di seguito.
“Allaccia le cinture, Tsubasa, perché siamo arrivati.” Taro chiarì ogni suo dubbio. Aveva dormito almeno dieci ore. Per questo si sentiva così bene.
“COSA!?” esclamò esterrefatto per aver riposato così tanto e così bene.
“Già, bello addormentato, siamo arrivati.” Rispose Genzo da dietro, allacciando la cintura.
“Tsubasa?”
“Dimmi, Taro.” Ora che aveva dormito e recuperato il sonno, si sentiva molto più lucido e presente. Doveva affrontare questa cosa con Misaki.
Ma cosa? Si chiese tra sé.
Qualsiasi cosa fosse l’avrebbe capita e superata.
“Quant’era che non dormivi, scusa?”
“Dormire dormo, è dormire serenamente il problema.” Con gesti precisi fece scorrere la cintura, fissando la sicurezza.
“Abbiamo un mese da passare insieme, spero di aiutarti a risolvere questa tua insonnia.”
Ozora rispose con una sorta di micro-inchino di riconoscenza e un sorriso.
Misaki c’era sempre stato, per tutti. La sua disponibilità, la sua pacatezza e freddezza di ragionamento, erano sempre stati al servizio della nazionale. Come dopo il grave incidente, che aveva quasi compromesso la carriera.
Non si era mai arreso, arrivando a giocare la finale al suo fianco dolente e sanguinante, come lui del resto. Non a caso loro erano la Golden Combi.
Non si sarebbero arresi di fronte a niente, e se questo problema, esterno al calcio, avesse influito sulle loro prestazioni, andava assolutamente affrontato, insieme.
Che poi Taro ignorasse di essere lui il problema, per ora, era solo un dettaglio irrilevante.
Dettaglio che prima o poi sarebbe venuto fuori. L’aereo iniziò a scendere di quota. Taro gli afferrò un braccio come al solito. L’atterraggio gli metteva sempre un po’ di ansia. E stritolare il braccio del capitano, dopotutto, aveva sempre il suo fottuto perché.
Tsubasa sorrise alle decine di volte che quella scena s’era ripetuta nel corso degli anni.
“Ancora non ti passa questa fobia, vero?” ridacchiò.
“Zitto, sono concentrato ora.” Rispose l’altro, serio.
“Hai ragione, scusa, sia mai che l’aereo precipiti e che la tua potente mente possa evitarlo.” Ridacchiò e stentò a riconoscere il suo stesso tono finalmente rilassato. Sperò ardentemente di essere tornato alla tranquillità e all’intesa di un tempo, senza incubi a minare il loro magnifico rapporto. Perché se la loro intesa si fosse deteriorata, anche la Golden Combi ne avrebbe risentito.
“Piantala!” l’ammonì il compagno, lasciando la presa e mollandogli una gomitata nell’avambraccio.
No. La complicità non sarebbe mai finita. Forse si sarebbe trasformata, si sarebbe evoluta, ma sicuramente non poteva finire.

- Avvertiamo i signori passeggeri che siamo atterrati all’aeroporto Internazionale di Narita. Benvenuti -

Il segnale delle cinture si spense, raccolsero i loro trolley e uscirono dall’aereo.
Un Mikami sorridente si sbracciò dal taxi, invitandoli ad affrettarsi.
I giornalisti si accalcarono all’uscita, ma nulla poterono di fronte al NO COMMENT del capitano Ozora che, insieme ai due compagni, salì sull’auto e scomparve alla loro vista.
A nessuno era dato sapere il luogo del ritiro della nazionale in attesa del trasferimento verso la Russia.

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Capitolo 4
*** Capitolo 03 ***


Avevano iniziato gli allenamenti da due giorni. Come previsto, Tsubasa e Taro condividevano la medesima camera.
Era estremamente difficile per il capitano quella convivenza, trovarselo tutto il giorno nelle vicinanze era diventato un incubo. Non riusciva a parlarci serenamente, visto che i sogni continuavano a tormentarlo, e per paura di parlare nel sonno aveva preso a dormire sempre di meno, peggiorando anche le prestazioni in campo.
L’urlo del mister gli perforò i timpani e si aggiunse al mal di testa che lo tormentava dalla mattina, dopo la seconda notte insonne. I compagni lo scrutavano preoccupati, ma Tsubasa si era rifugiato in un mutismo inquietante e, questa volta, neppure la sua metà in campo era riuscito a trapassare quella coltre scura che si aggirava intorno al loro capitano.
E la squadra senza il suo condottiero si sentiva smarrita. Il gioco ne aveva risentito totalmente. I passaggi non erano più precisi, anzi spesso erano scoordinati e privi di grinta.
“Tsubasa, ti sembrava un passaggio quello? Neppure alle elementari facevi tanto schifo!” urlò il mister in mezzo al campo.
Con le braccia appoggiate alle ginocchia, e il respiro spezzato, il capitano ascoltava il rimprovero senza proferire parola. Non aveva nulla da dire, perché l’allenatore aveva più che ragione.
La squadra sparpagliata nel campo si era bloccata ed era rimasta in silenzio. In tanti anni non avevano mai sentito tanti rimproveri al loro capitano come in quei due giorni.
Ryo calciò stizzito un sassetto. “Il mister sta esagerando, Tsubasa non ha mai avuto di questi problemi, dovrebbe essere più comprensivo, avrà le sue ragioni se sta attraversando un brutto periodo.” Borbottò rivolto al compagno a lui più vicino.
Izawa osservò prima lui e dopo Ozora. Indubbiamente qualcosa non quadrava e loro non erano lì a pettinar le bambole, quindi puntualizzò: “Ryo, siamo qua per giocare un mondiale, non per star dietro ai problemi di Tsubasa.”
L’altro si avvicinò, agitando le mani. “Mamoru! Tsubasa si è sempre sacrificato per noi in ogni campionato e in ogni mondiale o amichevole che abbiamo giocato, se lui sta attraversando questo periodo di merda… beh, sai che penso? Che dovremmo impegnarci ancora di più per compensare i suoi errori e dargli il tempo di riprendersi.”
Incrociando gli sguardi, annuirono convinti. “Dopo cena riuniamo tutti e gli proponiamo la tua idea, Ryo. Che ne pensi?”
“Penso che glielo dobbiamo. Una volta tanto faremo qualcosa noi per lui.”
Scambiandosi un cinque, tornarono ai loro posti, mentre con la coda dell’occhio videro che anche Taro era stato richiamato dal Mister a centro campo e che ora stavano tutti parlando animatamente. Sarebbe stato un lungo mese quello.
Taro ascoltò le parole del mister annuendo solamente. Lui e Tsubasa erano stati convocati nello studio dell’allenatore per discutere una nuova strategia e per cercare di risolvere il problema Ozora. Sbirciò il compagno con la coda dell’occhio: le mani sulle ginocchia e la schiena incurvata nascondevano il volto rivolto a terra.
Avevano dormito due notti insieme e Tsubasa si era sempre girato dall’altra parte, asserendo di esser stanco. Ma lui lo aveva capito che in realtà non stava dormendo: le poche volte che lo aveva fatto, si era sempre svegliato di soprassalto, boccheggiando come un pesce.
Quindi al terzo giorno Gamo li aveva chiamati nel suo ufficio.
La Golden Combi non funzionava più e lui voleva capirne il motivo.
Tsubasa bussò controvoglia; Taro sicuramente era già seduto al cospetto del mister. Lui non sapeva che diavolo inventarsi: avrebbe taciuto in un primo momento e avrebbe ascoltato; solo dopo, se necessario, sarebbe intervenuto.
Dopo aver ricevuto una risposta di assenso per entrare, afferrò la maniglia e aprì.
Misaki, sulla sedia di fronte alla scrivania del mister, si girò leggermente verso di lui e lo accolse con un sorriso.
“Accomodati, Tsubasa.”
“Grazie, Mister.”
Una volta seduto a fianco del compagno, Gamo iniziò.
“Prima di tutto, voglio scusarmi per i miei modi bruschi in campo, ma, anche se sei il capitano, se giochi da schifo io sono costretto a farlo notare. Sei un esempio per tutta la squadra, Tsubasa, e vorrei che restassi tale.”
“Anch’io, mister.”
Gamo incrociò le braccia sulla scrivania, sporgendosi verso i suoi due pupilli.
“Bene, ragazzi, e ora spiegatemi perché la Golden Combi non funziona più.”
Misaki sollevò le braccia in segno di resa, lui erano tre giorni che non ci stava capendo nulla.
“È solo colpa mia, mister, scusate.”
Il tono, stanco e mortificato, pietrificò Taro che allungò una mano per stingergli il braccio in sostegno.
Il solo contatto fece rabbrividire il capitano lungo la spina dorsale. Ne ebbe quasi paura restando immobile.
“Tsubasa, ho guardato tutto il tuo campionato, hai fatto sempre delle ottime partite, ma più il tempo passava più eri distratto, in campo, e le tue pagelle sono scese; dimmi, hai subito troppe pressioni? Sei affaticato, hai problemi in famiglia?”
“Niente di tutto questo.” Specificò convinto, per fugare ogni dubbio.
“Mister, io l’unica cosa che posso dire dopo due notti passate nella stessa camera è che il capitano non dorme quanto dovrebbe.” Taro accentuò la stretta come a voler dire: io ci sono, io so cosa hai, io sono al tuo fianco.
“Hai problemi di sonno, Ozora?” indagò l’allenatore.
“Temo di sì, sono mesi che non riesco a riposare bene svegliandomi di soprassalto. Credo di avere degli incubi, ma che non so decifrare.”

Mentì.
Mentì con tutte le sue forze e con tutta la sua anima. Aveva immaginato che con Taro nella medesima stanza sarebbe stato impossibile mantenere questo segreto. Oltretutto, Sanae lo aveva già detto ad Azumi e la loro convivenza forzata al ritiro ne era semplicemente la conferma.
“Perché non passi dal dottore e ti fai dare delle pillole per dormire?” suggerì l’allenatore.
“Mi ero informato anche a Barcellona, ma… riducono le prestazioni, inducendo il corpo a una sorta di rilassamento, per questo non le ho utilizzate.”
“Meglio rilassato che teso come una corda di violino, Tsubasa.”
“Mister, se lo ritiene necessario, chiederò al dottore.”
“Gliene parlo io e poi vediamo il da farsi, tu intanto cerca di sgombrare la testa e pensare solo al mondiale.” Allungò la grande mano e gli regalò una pacca d’incoraggiamento sulla spalla.
La Golden Combi si alzò e congedò.
“Ah, Tsubasa, vatti a fare una doccia; tra poco ti aspetta il massaggiatore per una sessione extra, ho pensato che un po’ di relax non possa che giovarti.”
“Grazie.” Rispose, inchinandosi e poi uscendo per primo.
Misaki stava per uscire quando fu richiamato dall’allenatore.
“Chiudi un attimo la porta, Taro, devo parlarti.”
Dopo aver fatto come ordinatogli restò in piedi in ascolto.
“Siete amici da tanti anni, vedi di capire che cosa lo tormenta e riportami il vecchio Ozora.” Il tono preoccupato fece impensierire il numero undici della nazionale.
Quindi si affrettò a rispondere per rassicurare il loro mentore. “Certo, Mister, ci proverò.”
E dopo un altro inchino uscì dallo studio per raggiungere la camera.

 
Ritrovò Tsubasa al tavolo, assorto nei propri pensieri. Gli altri starnazzavano come polli e lui pareva non curarsene, immerso nel suo mondo. In altri ritiri il vecchio Ozora non avrebbe mai permesso tanti schiamazzi.
Prima di sedersi al suo fianco, l’osservò per qualche istante. In realtà non stava portando niente alla bocca, la bacchetta non faceva che muoversi lentamente da una parte all’altra del piatto, spostando piccole quantità di cibo.
Taro scavalcò la panca, sedendosi vicino. “Com’è andata con il massaggio?” chiese distrattamente.
“Mh, direi bene.”
“Accidenti, tutto questo entusiasmo non ti farà mica male, Tsubasa?” afferrandolo per le spalle gli dette una scrollata.
Erano praticamente in fondo al tavolo e leggermente isolati dagli altri quindi Misaki la tentò: “lo sai che se hai dei problemi puoi dirmeli, come da più di vent’anni a questa parte, vero?”
“Lo so. Grazie davvero, ma ho solo bisogno di riposare, anzi, sai che ti dico? – soggiunse Tsubasa, nell’alzarsi fece leva sulle braccia, poggiandosi al tavolo – Visto che sono bello rilassato per il massaggio, vado a dormire e tento di recuperare.”
Spiazzato, il numero undici non riuscì a replicare e con la coda dell’occhio lo vide entrare in ascensore per raggiungere le camere. Erano solo le 20:30 di sera. Inarcò un sopracciglio perplesso, quello scatto gli era quasi sembrata una fottuta fuga.

Ma che diavolo aveva il suo amico?

Quando le porte dell’ascensore si chiusero, Tsubasa picchiò un pugno contro di queste, facendo rimbombare la lamiera.
“Cazzo!” imprecò, tenendosi la mano.
Lui e Taro avevano sempre avuto contatti fisici nel corso degli anni.
Sempre.
Allora perché adesso ogni volta che Taro lo sfiorava, toccava o era nelle vicinanze, subiva la sua presenza in modo sconvolgente?
E da quando la sua acqua di colonia gli faceva così effetto, risvegliando strani pensieri?
“Merda!” inveì all’immagine dello specchio poco prima che le porte si aprissero e raggiungesse la camera. Prima che Taro salisse aveva almeno due ore buone di sonno; da solo. Aveva intenzione di sfruttarle tutte al meglio. E dopo?
E dopo fanculo, avrebbe fatto un allenamento extra finché, stremato, non si sarebbe addormentato sul campo da calcio.
Sì, quello era un ottimo piano. O almeno lo credeva.
Il suono metallico della tessera magnetica gli fece tirare un respiro di sollievo, non vedeva l’ora d’infilarsi in quel maledetto letto.
Stizzito sfilò la maglia e i pantaloni e li buttò sul letto del compagno. Con i soli boxer s’infilò sotto le lenzuola, augurandosi almeno due ore di sonno. Dal nervoso gli si era chiuso anche lo stomaco e non era riuscito a mangiare un cazzo! Altro che massaggio rilassante.
 

Taro quando arrivò alla camera cercò di fare meno rumore possibile. Maledisse mentalmente il suono meccanico dell’apertura. Dopo sgusciò dentro come un gatto. La tenue luce del lampione filtrava dalle tende rimaste aperte. Gli cadde un occhio sulla sagoma raggomitolata del suo amico, sembrava dormire placidamente. In punta dei piedi raggiunse il bagno e si chiuse dentro. Una volta pronto, con il medesimo passo felpato, si avviò al suo posto.
Si mise seduto e, scostando i panni di quel disordinato di Tsubasa, gli venne da sorridere. Per quello non era certo cambiato, e la mancanza di Sanae ai ritiri si vedeva nella confusione lasciata dal capitano. Una volta avevano anche bisticciato per questo. Stare in camera con Ozora significava subire continue invasioni di ‘campo’.
 
Sto correndo come un pazzo.
Misaki ci ha appena salutato e ci ha comunicato che dovrà seguire il padre in Francia per via del lavoro.
Corro.
Corro a più non posso mentre il bus lo porta via da noi. Lui, affacciato al finestrino, ci sta salutando, agitando la mano e sfoderando il migliore dei suoi sorrisi. E io vorrei piangere, perché non ho perso solo il mio compagno di squadra, ma ho perso anche il mio migliore amico. Mosso da una sorta di disperazione, per non essere riuscito a dargli in tempo il pallone ricordo con tutte le nostre firme, calcio un potentissimo tiro per far sì che la palla giunga al suo proprietario.
Incredibilmente ce la faccio, adesso è tra le sue mani.
E io sono felice.

 
Un leggero borbottio attirò l’attenzione di Taro. Inginocchiandosi al fianco del letto, avvicinò l’orecchio al compagno per carpire meglio il significato di quelle parole confuse. Magari questo sarebbe servito a risolvere quei fottuti incubi, se lo avesse aiutato a ricordare forse…

“Misaki…”

Il numero undici aggrottò le sopracciglia, perplesso. Tsubasa prese ad agitarsi nel letto; in controluce intravide goccioline di sudore imperlargli la fronte. Ebbe quasi la tentazione di svegliarlo, ma ci rinunciò quando udì la frase successiva.

“non andartene…”

Decise di tentare, il suo compito era tranquillizzarlo, cercare di capire e risolvere il problema che lo affliggeva, quindi gli bisbigliò all’orecchio: “Non me ne vado, Tsubasa, stai tranquillo.”

“Non è vero, andrai in Francia da tuo padre, lontano da noi; lontano da me.”

Il numero dieci era schizzato a sedere sul letto con occhi sgranati nel vuoto e prendendo ampie boccate d’aria. Taro, spaventato dal gesto brusco, cadde indietro sul pavimento. Il suono attutito dalla moquette dell’hotel.
“Tsubasa, ma che diav-” ma non aveva finito la frase, quando aveva incrociato lo sguardo smarrito del compagno, che prontamente stava tentando di districarsi dalle lenzuola per uscire dal letto.
Misaki, ancora frastornato per l’evento, non riusciva a spiccicare parola, mentre velocemente lo vedeva afferrare alla rinfusa i vestiti e infilarli. Si riscosse solo quando sentì la porta sbattere.
Si alzò da terra e prese a girare come un animale in gabbia per la stanza. Ma ogni pensiero possibile, che gli aveva sfiorato le sinapsi, non trovava mai la giusta collocazione della frase udita. Non ce la faceva a vederlo ancora in quelle condizioni, quindi di corsa uscì dalla stanza alla ricerca del suo capitano.

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Capitolo 5
*** Capitolo 04 ***


Non impiegò molto per trovarlo. Il loro albergo offriva poche possibilità. Isolato da tutto, e lontano da qualsiasi distrazione, era dotato soltanto di un centro sportivo in piena regola e un fantastico campo da calcio.
Attirato dal suono di un pallone, scagliato sicuramente contro la rete, alternato al rumore dell’impatto con il palo, seppe dove trovare la sua vittima.
Perché una cosa era certa: lui non se ne sarebbe andato fintanto che Ozora non avesse confessato.
A passo di carica gli arrivò alle spalle. Il pallone venne lasciato rotolare verso di lui. Lo stoppò sotto il piede nudo.
“Ti stavo aspettando, sapevo che saresti venuto.” Tsubasa, di spalle, sembrava arreso.
“Mettiamo subito in chiaro una cosa: io non vado via finché non ho capito che diavolo hai!”
“Comprensibile, se non risolviamo la cosa la Golden Combi non funzionerà più.” Gli aveva risposto, ma ancora non si era voltato. A pugni stretti lungo le gambe toniche leggermente aperte, restava lì, immobile.
Taro incrociò le braccia al petto e iniziò il suo discorso. Non ne aveva certo pensato uno, non ne aveva avuto il tempo, avrebbe improvvisato, non era un dilemma, lui era bravo a parlare.
“Cazzo, Tsubasa, vuoi dirmi qual è il tuo problema? Non riusciamo neppure più a fare il nostro tiro combinato. Che ti sta succedendo?”
Solo allora, il capitano si era voltato. Lo sguardo, che non gli vedeva da tempo, brillò tra le iridi scure.
Tsubasa si era reso conto di essere già oltre e forse finalmente aveva capito. Adesso che aveva accettato la situazione era arrivato il momento di risolvere il problema, perché ne era certo, una volta confessati i suoi sentimenti, il macigno si sarebbe dissolto e loro avrebbero potuto brillare come prima.
O almeno lo sperava. Certo, Taro sarebbe rimasto scioccato, ma ne avrebbero parlato e avrebbero risolto. Come sempre, come ogni qualvolta che avevano avuto dei problemi. Come da diversi anni a questa parte.
I pugni si chiusero tanto da provocargli dolore.
“Taro, sei tu il problema. Non l'hai ancora capito?”
Il tono pacato, tranquillo, di chi ha raggiunto una consapevolezza, investì Misaki stordendolo ancora di più. “In che senso sono io il problema?”
Il sorriso tirato sulle labbra del capitano non ne impedì la risposta: “Sei tu che occupi i miei sogni. Sei tu il mio incubo. Da quando mi sono reso conto di amarti.”
Taro sgranò gli occhi, accompagnando la bocca in un gesto di stupore. Incapace di parlare, in un primo momento, cercò di ripetersi mentalmente le ultime parole. Forse non aveva capito bene.

Da quando mi sono reso conto di amarti.
Da quando mi sono reso conto di amarti.
Da quando mi sono reso conto di amarti.

E dovette ripetersela per almeno tre volte.
Poi fu come se un fulmine lo colpisse in pieno. Una rabbia improvvisa gli montò dal cuore e gli fece ribollire il sangue dalla punta delle dita fino all’ultimo capello.
Prese cinque o sei respiri prima di alzare il braccio e mettere il palmo aperto fra loro come barriera, una sorta di inutile difesa.
“COSA?! No! No! Fermo! Tu vuoi dirmi che dopo tanti anni ti dichiari?” il pallone venne schiacciato sotto la pianta del piede con ancora più forza, tanto da ovalizzarlo.
Misaki sbottò: “Vaffanculo, Tsubasa!”
“Sapevo che avresti reagito così.”
Con uno scatto fulmineo Misaki lo afferrò per la maglia, strattonandolo.
“No! Tu non hai capito un cazzo! Non dopo tutto questo tempo. Non dopo tre figli e due mogli coinvolte. Non dopo tutti questi anni dove ho gettato la spugna, pezzo d’idiota! Ti è chiaro?” un velo di tristezza gli passò nelle iridi nocciola. Ozora lo fissò smarrito, le mani arpionate ai polsi per contenere le scosse che piano piano erano andate affievolendosi, il cervello riuscì però a formulare una domanda di senso compiuto.
“Perché se non ci fossero loro accetteresti tutto questo?”
“Certo che l'accetterei.” Taro gli lasciò la maglia e strattonò le mani per farsi liberare i polsi, dopo indietreggiò, fissandolo. Un braccio disteso e l’indice inquisitore a puntare la sua figura.
“Qui- Quindi anche tu?” frastornato, Tsubasa tentò di prendere coscienza dell’ultima dichiarazione fatta dal numero undici.
“Idiota, sono anni che provo qualcosa per te in segreto.” Un altro passo indietro e il dito ancora contro.
“Perché non me lo hai detto?” domandò ingenuamente il capitano, senza rendersi conto di quanto quella domanda potesse far male. Infatti Taro tornò sui suoi passi e nuovamente lo afferrò per il colletto della maglia, scuotendolo. Dopo fissandolo negli occhi gli vomitò addosso tutta la sua frustrazione.
“Che cavolo ti dicevo, Tsubasa, eh? Spiegami, che dovevo dirti dopo che mi hai chiesto di farti da testimone? Vaffanculo!” e, dopo averlo spintonato via ancora una volta, si volse e corse fino a scomparire.
Il capitano cadde, ginocchia a terra, sull’erba umida; il pallone, lì, solitario, abbandonato da Taro. I palmi, anch’essi a terra, chiusero le dita fino a formare un pugno che strappò l’erba. La bocca spalancata tentò di far fluire più ossigeno dentro ai polmoni. Era un pessimo momento per farsi venire un altro attacco di panico.

Ma davvero era panico, poi?

Se lo chiese a più riprese mentre si sforzava di regolarizzare il respiro. Il cuore però parlava di altro, il battito vivo, veloce e profondo, gli esplodeva in tutto il corpo. Forse aveva confuso il panico con la consapevolezza di un sentimento ricambiato.




Era andato di corsa in camera. Non era ammissibile che dopo tanti anni, Tsubasa se ne uscisse così con una notizia del genere.
Appoggiato alla porta, Taro continuava ad ansimare vistosamente. Un po’ per la corsa, un po’ per l’agitazione e per…

L’emozione?

Improvvisamente fu come se il cuore assumesse una nuova forma e riuscisse ad ampliarsi aprendo quello scrigno segreto rimasto chiuso per tanto tempo.
Tutto quello che aveva provato anni prima, era lì, di nuovo, con tutta la sua prepotenza e batteva per uscire. Stavolta non sarebbe più riuscito a richiudere a chiave quel cofanetto che aveva racchiuso un sentimento così grande. Portò la mano al petto, stringendo la maglia. Fu quasi una sensazione di dolore la presa di coscienza dell’evento appena accaduto.
Iniziò a girare come un animale dentro la gabbia, un animale ferito e furioso. Doveva riacquistare un minimo di lucidità, perché Tsubasa sarebbe tornato in camera, perché Tsubasa era comunque il suo amico, perché Tsubasa era comunque la sua metà in campo e, questo, non lo si poteva ignorare.
Decise di infilarsi sotto la doccia, rigorosamente fredda. Velocemente si spogliò nel bagno e, senza aspettare, si fiondò nella cabina. Non attese neppure che l’acqua diventasse un minimo calda. Aveva bisogno di uno shock, non solo termico.
Era intento a frizionare i capelli quando sentì il leggero suono della porta che si chiudeva delicatamente. A piedi nudi e con un asciugamano in vita uscì dal bagno e fissò il capitano. Quando lo rivide, lo stomaco dette cenni di cedimento. La sensazione di vuoto e le successive farfalle lo fecero imprecare mentalmente.

Quanto aveva atteso quel momento?
 
Tsubasa era come pietrificato; imbarazzato e appoggiato alla porta, non riusciva a proferire parola. Non sapeva che cosa aspettarsi. Non sapeva più cosa dire, ma la situazione andava affrontata ed era per quello che, dopo essersi calmato con una decina di giri di campo, aveva deciso di tornare in camera.
“Fatti una doccia, fredda! A me non è servita a un nulla, ma magari tu sei più fortunato e funziona.” Taro sollevò lo sguardo e accennò una sorta di sorriso sull’ultima frase che gli era uscita.
“Ok, provo.” Disse Tsubasa, muovendo un primo passo in direzione del bagno.
“Eh, no! Dove credi di andare, eh? – Taro lasciò cadere a terra l’asciugamano con cui si stava frizionando i capelli e velocemente lo raggiunse, imprigionandolo contro la porta – Ho sempre avuto un desiderio, e so già che poi me ne pentirò, ma dopo tanto tempo concedimelo: un bacio me lo devi, Ozora! Ho fantasticato su questo per anni prima di arrendermi definitivamente.”
Tsubasa fece solo in tempo a sollevare le mani in segno di difesa, ma queste si scontrarono con i pettorali scolpiti e lì restarono. I polpastrelli si deliziarono della pelle liscia e fresca sotto le dita. Sentirono l’epidermide incresparsi e rialzarsi. Nuovamente, Taro lo afferrò per la maglia. L’impeto del gesto gli fece rimbalzare la testa contro la porta. Poco importò al capitano mentre le labbra del compagno lo baciavano a più riprese, mordicchiando il labbro inferiore e ripetendo frasi sconclusionate, ma tutte dal medesimo significato.
“Me lo devi, Ozora, per tutti questi anni.”
Un sospiro s’infranse sulle morbide labbra che ancora furono lambite e baciate. Taro tracciò con la lingua il margine inferiore prima di afferrarlo tra i denti, tirarlo delicatamente, per poi tornare a premere e cercare l’accesso alla bocca. Non trovò ostacoli nell’arrivare all’interno ed accarezzare la lingua del compagno con la propria.
Del sapore di Tsubasa avrebbe potuto ubriacarsi.
Mentre, per il capitano, Taro era seta sotto le dita quando queste scivolarono giù lungo l’addome, per soffermarsi sui fianchi, afferrarli, e attirarlo a sé.
Misaki si staccò, ansimando e lasciando un capitano smarrito.
“Va’ a farti la doccia fredda, dobbiamo parlare.”
Tsubasa annuì convinto. Non era pronto per tutto questo e sicuramente neppure Taro. Superò il compagno, ma poco prima di entrare in bagno si voltò, soffermandosi sullo stipite della porta.
“Questo vuol dire che siamo gay secondo te?”
Taro sorrise divertito, ogni tanto il capitano riusciva ancora a stupirlo con le sue domande ingenue.
“Non lo so se sono gay ma io sono sempre stato innamorato di te. Degli altri non mi è mai interessato nulla.”
“E Azumi?” domandò perplesso.
“Le voglio bene, la adoro, è la madre di mia figlia, ma… l’amore è un’altra cosa.” Affermò deciso.
Tsubasa annuì convinto e finalmente entrò in bagno. La doccia sarebbe servita lunga e fredda. Fredda, soprattutto.
 
Da circa dieci minuti Taro era seduto sul letto con il cellulare che vagava tra chat e Facebook. Tsubasa era andato a fare la doccia e ancora non si azzardava a uscire da lì.
Guardò verso il bagno perplesso, temendo di doverlo tirar fuori con la forza; si stupì quando aprì la porta e, avvolto in un accappatoio, si sdraiò sul letto al suo fianco.
Il fantasista nipponico sistemò il cuscino dietro la nuca prima di sprofondarci dentro. Taro invece si tirò su, e lasciò il cellulare incustodito sul comodino, per affrontare meglio la situazione. Attese mezzo minuto prima di sospirare e dare il via alla conversazione. Si rese conto che Tsubasa non ce l’avrebbe mai fatta da solo.
“Quindi, raccontami com’è iniziato tutto…”
Il capitano parve sprofondare ancora di più, inglobato dal cuscino, un braccio sollevato a tappare gli occhi. Il suo essere pudico non l’aveva abbandonato neppure a trent’anni, figuriamoci adesso che doveva affrontare un discorso complesso e articolato.
“Tutto è iniziato con un sogno.”
Taro incrociò le gambe sul materasso e, appoggiando il mento sul palmo della mano, si mise in ascolto.
“Esattamente quello in cui mi comunicano che non puoi partecipare alla finale del World Youth perché hai avuto un incidente. Inizio, non solo a ripercorrere gli eventi, ma a vederli sotto altri punti di vista che non avevo mai analizzato prima.”
Anche Ozora abbandonò la posizione supina per mettersi seduto sul letto e osservare il suo interlocutore. Lo voleva guardare negli occhi, lo voleva studiare, analizzare, perché da questa conversazione ne sarebbe dipeso il loro futuro; non solo calcistico.
“Inizio così a percepire la profonda angoscia che mi aveva turbato in quei giorni. Il mio allenamento ai limiti dell’umanità a cui mi ero sottoposto la sera prima della finale. La mia ferita e la mia disperazione nel pensare a te. E sogno dopo sogno sono affiorati ricordi, emozioni e piccoli tasselli di un puzzle che finalmente ha trovato una sua collocazione.”
Taro annuì convinto, si erano sempre capiti, dentro e fuori dal campo. Tra loro bastava uno sguardo, un gesto, un piccolo accenno e la connessione celebrale e fisica si accendeva e infiammava.
“E Sanae?” chiese il numero undici, sollevando le ginocchia, racchiudendole tra le braccia, e portandole al petto.
Il capitano allargò le braccia, arreso.
“Non ho mai pensato troppo ai sentimenti, e ho sbagliato. Sanae ha sempre fatto parte della mia vita fin da piccoli, chiederle di sposarla per me è stata una cosa naturale e scontata; come una storia che è già stata scritta di cui conosci già il finale. Ecco, questa è stata Sanae e lo è ancora. Le voglio bene, ma solo adesso mi rendo conto che amare è un'altra cosa.”
“Ti rendi conto che dopo tanto tempo e con due famiglie alle spalle…”
La frase non venne terminata. Era troppo doloroso prendere coscienza di quella realtà tanto scontata quanto triste. Ozora portò le mani avanti come a volerlo fermare. Lo sapeva, ovvio che lo sapeva.
“Se non fosse accaduto del sogno non te lo avrei mai detto, o forse sì – si passò le mani tra i capelli in un gesto nervoso, neppure lui sapeva più che cosa voleva arrivati a quel punto – non so cosa poteva essere tra noi o cosa potrà essere.”
Taro lo interruppe subito, scuotendo la testa e rivolgendogli un’occhiata vuota e triste.
“Non potrà essere nulla, Tsubasa. Troppi problemi. Abbiamo mogli, abbiamo figli, siamo calciatori famosi e tutto questo non gioverebbe: né alla nostra reputazione, né a quella della nazionale.”
“Lo so, ma dovevo dirtelo, altrimenti la Golden Combi non avrebbe mai più funzionato.”
“Quindi da domani come ai vecchi tempi, giusto?” domandò Taro, porgendogli la mano per sigillare il patto.
“Come ai vecchi tempi!” affermò Tsubasa, afferrando le dita del compagno in una stretta sicura.
Sorridendosi, avevano spento la luce e si erano addormentati. E per la prima notte, dopo mesi, il numero dieci della nazionale dormì sonni tranquilli e ristoratori.

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Capitolo 6
*** Capitolo 05 ***


21 Giungo 2018


Gamo guardava i suoi ragazzi soddisfatto. Non aveva idea di che cosa fosse accaduto, e neppure voleva saperlo, ma la Golden Combi era tornata, ed era in ottima forma. Toccandosi il mento li scrutò a fondo. Erano diversi, più affiatati e millimetrici in ogni passaggio. S’intendevano con un semplice sguardo o un lieve cenno del corpo, qualsiasi parte fosse.
Ancora si stupiva nel vederli saettare insieme verso la porta e sfoderare il loro tiro combinato. Unico in grado di pararlo era Genzo, che tra i pali si era allungato verso la palla pronto ad afferrarla.
Questa, però, alla fine aveva cambiato leggermente direzione, facendosi beffe del portiere e insaccandosi nell’angolo destro della rete.
Il SGGK era rimasto pietrificato, a terra, con la testa girata verso la porta, incredulo. La Golden Combi, al massimo della felicità, si era abbracciata. Ed era lì che la lucidità di Tsubasa era venuta meno. Venire investito ancora una volta dal profumo di Taro era stato un duro colpo al cuore.
Prima la prepotente sensazione di vuoto nello stomaco lo aveva invaso, dopo un leggero formicolio si era diramato ovunque, impedendogli di respirare. Si era irrigidito tra le braccia del numero undici, che avvertendo quel cambiamento lo aveva subito mollato come se scottasse.
Taro aveva mormorato uno: “Scusa” a denti stretti prima di voltarsi e correre verso Genzo per recuperare le palla in rete.
Ed era stato come un innesco.
Un innesco che era stato impossibile spegnere. Il patto che avevano sugellato in quella camera diveniva sempre più confuso e nebuloso. Lo diveniva ogni volta che si ritrovavano in campo, con sguardi complici, lo diveniva quando un sorriso un po’ più marcato faceva accelerare il battito del cuore. Lo diveniva quando ogni scusa era buona per sfiorarsi, o soffermare il tocco un secondo più del dovuto.
I piccoli tasselli giornalieri continuavano a comporre il puzzle, inesorabilmente. Un puzzle iniziato tanti anni prima che forse non poteva più essere fermato nella sua costruzione.
 
 
Tsubasa si mise in fila per il buffet di verdure, aveva fame quella sera, aveva finito la doccia per primo e aveva deciso di telefonare ai bambini dopo cena, quindi si affrettò a riempire il piatto. Allungò la mano per afferrare il cucchiaio della ciotola con le carote quando vide delle dita affusolate compiere il medesimo gesto. Un istante dopo quella mano fu, per un secondo, sopra la sua; i polpastrelli sfiorarono la pelle per poi ritirarsi. Fissava le carote, continuando a riempire il piatto in modo spasmodico. Guardava il cibo ma, in realtà, non lo vedeva. Sapeva di chi era quella mano e il profumo di colonia con il quale venne investito gliene diede la conferma.
“Non c’entrano più, Tsubasa.” Il tono caldo e pacato di Taro gli arrivò da sinistra.
“Cosa?” chiese confuso.
“Le carote, non ci stanno più.”
“Cavolo, hai ragione.” Lasciò andare il cucchiaio e si spostò per lasciare il posto e prendere altre vivande. Taro, sempre al suo fianco, chiedeva le pietanze all’inserviente di fronte a loro. Le braccia complici proseguivano a sfiorarsi a ogni passo, mentre i due ragazzi continuavano a conversare amabilmente con i compagni in fila. La convivenza forzata di quei tre giorni trascorsi insieme e la confessione della sera prima aveva sconvolto le loro certezze.
Sorrisero quando Gamo arrivò come una furia a rimproverare Ryo per il piatto troppo pieno. Tsubasa scosse la testa e, afferrando il vassoio, raggiunse il tavolo. Misaki, finito di comporre il piatto, si osservò un attimo intorno ma, contravvenendo a ogni buon proposito che si era prefisso, con passi decisi raggiunse il capitano. Non poté resistere dal passargli dietro e sfiorargli la schiena con un’anca. L’impercettibile movimento di retrocessione del compagno gli fece intuire che lo sfioramento era stato gradito. Misaki accennò un sorriso soddisfatto, dopo si sedette a destra, come solitamente si disponevano in campo. Ogni volta che osservava Tsubasa da sotto le ciglia, aveva la sensazione di vivere quel momento a rallentatore. Aveva la sensazione che non fossero passati anni da quando si era scoperto innamorato di lui. Aveva la sensazione che il cuore, dopo avere superato il primo terremoto, si fosse stabilizzato su scosse sempre più brevi ma profonde, che andavano minando tutto il suo controllo interiore e anche esteriore, vista la spasmodica ricerca di contatto che si era ritrovato a gestire improvvisamente.
“Puoi passarmi il sale?” la richiesta provenne dalla sua sinistra, l’indice a individuare l’oggetto. Taro afferrò il contenitore di vetro, lo agitò per controllare che non fosse cristallizzato e poi glielo porse.
Le dita si sfiorarono lievemente, godendo del contatto, per poi tornare alle proprie funzioni. La scena del sale si era ripetuta per almeno altre due volte. Entrambi, infatti, ignoravano che sarebbe divenuto un rituale durante ogni cena che avrebbero condiviso in futuro.
Il capitano finì di mangiare e si congedò, asserendo di dover telefonare a Sanae. Taro lo seguì con gli occhi fin quando non sparì dalla sua vista.
Jun richiamò la sua attenzione: “Misaki, possiamo parlare un attimo del nuovo tiro che avete fatto con Tsubasa?”
“Certo, andiamo a prenderci un tè al bar, che ne dici?”
Misugi annuì e si alzò in contemporanea al compagno. Fianco a fianco, ma senza sfiorarsi, si diressero nella sala caffè.
Non era Tsubasa e non aveva la necessità di toccarlo.
Defilato nella zona più remota della sala, notò Ozora intento a ridere divertito al cellulare. Le labbra gli si distesero in un sorriso ripensando a sua figlia, ma non riuscì a mollare il corpo della sua metà in campo per tutta l’attraversata della sala fin quando si sedette, di spalle, sullo sgabello del bar.
 
Ozora parlava al cellulare quando Misaki entrò nella stanza e tutto cessò di esistere. Le parole dei suoi figli, che gli stavano raccontando che cosa avevano combinato in quei giorni, sfumavano a ogni passo compiuto da Taro. Gli incisivi affondarono nel labbro inferiore, ricordando il bacio della sera prima.
L’immagine scorreva lenta nella sua mente, mentre il numero undici a fianco di Jun raggiungeva il bar. La tuta della nazionale era sempre piaciuta al capitano, e sul compagno calzava a pennello, il passo sicuro e le mani infilate nelle tasche della felpa lo fecero deglutire a vuoto.
“Papà, ci sei?” la voce squillante di Daibu, sovrastata poco dopo da Hayate, lo riportò alla realtà.
“Sì, sì, bambini. Dicevate?”
“Ti passo la mamma ché deve parlarti.”
“Ok, fate i bravi.” Rispose, voltandosi verso il muro. Doveva parlare con sua moglie e non voleva distrazioni visive, e Taro lo era diventata.
“Ciao, amore.”
“Ciao, Sanae, tutto bene?” si sentì immediatamente in colpa per non aver risposto alla moglie con lo stesso appellativo. Un brivido gli corse lungo la schiena quando, in un barlume di lucidità, pensò che forse non ne sarebbe più stato capace e che avrebbe dovuto mentire per il resto dei suoi giorni.
Scosse la testa per scacciare quell’ipotesi malsana, doveva esserci un'altra fottuta soluzione.
“Ho preso i biglietti aerei per l’inizio dei mondiali. Partiamo tra dieci giorni, non vedo l’ora di rivederti.”
“Hai fatto benissimo, almeno abbiamo occasione di rilassarci un po’ di giorni prima dell’inizio. Inoltre, non vorrai mica perderti i festeggiamenti d’apertura?”
“Per niente al mondo, sai che i gemelli non vedono l’ora di vedere i fuochi artificiali, non se li perdono mai.” La sentì sorridere attraverso il telefono, poi un leggero spostamento e un tono di voce più basso, più caldo: “Mi manchi.”
Una fitta alla bocca dello stomaco lo sconquassò come un pugno.
Mentì: “anche tu.”
“Mamma, mamma, andiamo. Abbiamo allenamento tra un’ora.”
Ringraziò mentalmente i gemelli per aver interrotto quella telefonata, Tsubasa si sentiva in colpa.
“Vai pure, Sanae, non voglio farti fare tardi.”
“Ci sentiamo tra un paio di giorni, va bene? Chiama tu, sai che non voglio disturbarti o scegliere il momento sbagliato.”
“Ok, ci sentiamo. Ciao.”
“Ciao.”
Aveva premuto la cornetta rossa e riposto il cellulare in tasca, sospirando.
Voltandosi, individuò i compagni e li raggiunse. Quando arrivò, Jun si accorse subito di lui e, girando lo sgabello, lo invitò ad accomodarsi tra loro.
Taro lo guardò e dopo aver battuto la mano sulla pelle rossa della seduta gli fece posto, cedendogli uno spicchio del suo. Misugi non fece caso alla vicinanza dei due. Tutta la squadra era abituata alle loro azioni sul campo e per tutti quella confidenza era scontata. Ozora avvertì la mano del numero undici sfiorargli la schiena per poi proseguire la sua corsa verso la spalliera dello sgabello.  
“Tsubasa, parlavamo del goal di oggi con Taro, ho notato che siete riusciti a dare, alla palla, un effetto che non avevo mai visto prima; è stato un caso? Oppure pensate di riuscire a bissare il tiro?”
Il capitano si voltò leggermente così da avere il volto di Misaki a un soffio.
“Tu che dici, Taro, siamo in grado di riprodurlo?”
“Mh-Mh, non saprei dirti, ma… perché non andiamo a provare? Il campo ora è libero, no?” Taro era balzato giù dallo sgabello, facendo sbilanciare anche il capitano. Lo afferrò per un braccio, per non farlo cadere, e lo trascinò per la sala sotto lo sguardo divertito di Misugi che osservava uno Tsubasa reticente, che si lamentava di dover rifare nuovamente la doccia.
“Jun, vieni a controllare?” domandò Ozora, mentre veniva trascinato praticamente via.
“Non ho intenzione di rimettere piede in campo fino a domattina; siete voi gli stakanovisti della situazione.” Sollevando il tè in segno di saluto, il Baronetto si voltò nuovamente verso il bancone.
 
Inciampò quasi sui suoi piedi mentre Taro, con foga, lo trascinava verso il campo.
“Ma che diavo-“
Tsubasa non riuscì a finire la frase che, superata la porta sul retro dopo aver premuto la maniglia di sicurezza, Taro lo spinse in avanti e iniziò a sproloquiare.
“Ho bisogno di tirare due calci al pallone, ho bisogno di attività fisica o esplodo.” Con passo deciso continuava, imbufalito, la propria avanzata verso il campo da calcio. Superò il capitano, urtandogli la spalla.
“Datti una mossa, Ozora, visto che tutta questa situazione è colpa tua, hai di che farti perdonare.”
“Sì, certo, ora è tutta colpa mia…” con le mani in tasca, Tsubasa rallentò il passo nel vialetto. Forse era giunto il momento di ribadire le regole stabilite la sera prima.
Girandosi su se stesso, Taro lo fissò, inarcando un sopracciglio. Il cono di luce del lampione in prossimità del campo rischiarò i capelli ebano del capitano.
“Ah, questa è buona. Sentiamo: sarebbe colpa mia, quindi?”
“Mi hai abbracciato in campo dopo il goal.”
Misaki inarcò entrambe le sopracciglia e la bocca si spalancò, creando un ovale perfetto, lo stupore fu sostituito da una risposta tanto banale quanto ovvia.
“Ci siamo sempre abbracciati dopo un goal, ‘capitano’!”
“Cos’è?! Ora prendi le distanze dopo che ti sei anche seduto vicino al tavolo? O vogliamo parlare dello sgabello al bar?” le palpebre semi socchiuse e la voce inquisitoria minarono le sicurezze del numero undici. Non riuscì a rispondere alla metà della Golden Combi, restando immobile. Quando Tsubasa si mosse in avanti, sfiorandogli una spalla, udì perfettamente il sussurro rassegnato e stanco del suo capitano: “Piantiamola con questi giochetti, non abbiamo più quindici anni, siamo alla soglia dei trenta, e comportiamoci di conseguenza. Ti aspetto per perfezionare il tiro.”
Il rumore dei passi alle sue spalle gli diede la conferma che era rimasto solo, fermo nel mezzo del vialetto come un idiota.

Aveva ragione.
Cazzo se aveva ragione.


Il pensiero gli esplose nella testa con tutta la consapevolezza di cui era capace. Stava filtrando con Ozora in una maniera indecente, quando lui era stato il primo a dire che la situazione non doveva degenerare e che tutto doveva svolgersi come sempre.
Si voltò di scatto e vedere le spalle ricurve e il passo stanco del compagno gli fece dolere il cuore. Esattamente nello stesso punto che la sera prima aveva stretto tra le dita sotto la maglia della nazionale. Sospirando, allungò il passo e superò la rete metallica. Raccolse da terra il pallone adagiato tra l’erba rasata di fresco.
L’odore del campo gli riempì le narici rilassandolo. Il pallone, bagnato dall’umidità serale, passava da un piede all’altro grazie ai palleggi precisi.
“Pronto per la progressione?” s’informò il numero undici, osservando l’amico poco più avanti sulla sinistra.
“Sono nato pronto…” rispose l’altro, voltandosi leggermente e sorridendo al compagno.
“Bene, partiamo…” disse, lanciandosi in corsa verso la porta.
A nessuno sarebbe mai venuto in mente che pochi attimi prima avevano battibeccato sui loro sentimenti. Forse la complicità calcistica avrebbe compensato i sentimenti fuori dal campo. Non ne avrebbero mai avuto la certezza ma per il momento dovevano accontentarsi di quello. Con il sorriso sulle labbra si avviarono verso la porta e con passaggi millimetrici la raggiunsero attraverso scambi fittissimi, come se i difensori fossero un numero infinito.
Il piede sinistro di Taro si allineò perfettamente al destro del capitano, questo fece sì che il pallone assumesse una forma inconsueta mentre veniva calciato con estrema potenza. Nell’ovalizzarsi e cambiare continuamente forma, mutò la traiettoria, insaccandosi all’angolo sinistro della porta. La mattina c’erano riusciti per la parte destra; stavano migliorando.
“Ottimo!” esclamò Tsubasa, saltando e mostrando un pugno al cielo.
Vederlo felice e rilassato lo faceva star bene. Questo bastò a Misaki, al momento, per rinnovare mentalmente la promessa che si erano scambiati la sera prima.
“Bene, allora proviamo altre volte, così domani facciamo schiantare Genzo!”
Allungò il palmo alzato affinché il capitano schiacciasse il cinque e riprendessero la corsa nella porta opposta.
Continuarono così ad allenarsi finché, nuovamente sudati, stanchi e soddisfatti non si ritirarono in camera per godere del meritato riposo.
 
 
Misaki si fermò contro lo stipite della porta, poggiandovi una spalla. Il cappuccio della felpa in testa e le mani infilate nelle tasche. L’allenamento che Gamo aveva scelto per quella giornata di pioggia stava facendo divertire tutti. Con la rete della pallavolo nel mezzo della palestra e le squadre suddivise in campo in egual misura, stavano giocando da un’ora con i piedi al posto delle mani.
Tra colpi di testa e palleggi, l’obiettivo era, non solo buttare la palla dall’altro lato ma anche non farla cadere a terra. Aveva l’impressione che i suoi compagni si stessero divertendo un mondo. Vedere Tsubasa sorridere rilassato gli fece perdere un battito. Aveva finito la sessione dal massaggiatore e si era soffermato a vedere il buffo allenamento, ma era evidentemente stata una pessima idea.
Niente, non ci riusciva, da quando gli aveva confessato dei sogni era impossibile non pensare a loro e a come avrebbe potuto essere. Non riusciva a non pensare al bacio, alle sue mani sul suo torace. Al suo sapore, al suo odore. Sarebbe stato ore a guardarlo giocare. La musica nelle orecchie lo stava isolando dalle parole dei compagni mentre continuava a seguire i movimenti di Ozora. I muscoli tesi dai movimenti e le goccioline che inesorabili gli rigavano il volto e scendevano sul collo erano una tortura visiva. Istintivamente, Taro si morse il labbro inferiore, poi per un secondo i loro occhi s’incrociarono. Quel guizzo di follia inconscia insita nella mente si palesò all’improvviso: la testa senza alcun comando consapevole si mosse in un gesto inequivocabile in direzione del capitano. Lo scatto del collo altro non voleva dire che: Seguimi!
Taro arretrò di qualche passo, scomparendo dal cono di luce della palestra ed entrando nell’ombra del corridoio che conduceva agli spogliatoi. Lo sguardo fisso sul compagno, che dopo aver detto qualcosa al mister lo aveva seguito senza indugiare.
 
Erano passati un paio di giorni all’apparenza tranquilli, Tsubasa sentiva i suoi occhi addosso, ma cercava di non farci caso. La confessione che aveva fatto al suo migliore amico non era certo una pillola che si poteva ingoiare in un solo sorso. Aveva raccolto la sua salvietta abbandonata sulla panca, l’aveva messa intorno al collo dopo essersi asciugato il viso, e a passi veloci lo aveva raggiunto negli spogliatoi.
La figura scura in controluce del compagno gli fece stringere gli occhi quando entrò. Messa a fuoco la sagoma, si accorse del leggero movimento dovuto sicuramente al ritmo musicale proveniente dalle cuffiette. Taro amava la musica e non se ne staccava mai. Anche in aereo la condivisione delle cuffiette lo aveva aiutato; per non parlare del lungo sonno ristoratore fatto sulla sua spalla. Sorrise nel vederlo a occhi chiusi a canticchiare tranquillo.
Afferrando un lembo della salvietta si asciugò ancora fin dietro al collo e ai capelli, mentre rivolto al compagno domandò: “Che volevi dirmi?”
Misaki aprì gli occhi e sorrise; avvicinandosi, tolse una cuffietta e la mise all’orecchio del compagno. Tsubasa restò un attimo spiazzato dal gesto mentre con bocca leggermente aperta lo fissava senza capire.
“Ti piace?” chiese il numero undici vicinissimo.
“È… è la canzone (Des'ree - I'm Kissing You) che mi hai fatto sentire sull’aereo?” non ne era sicuro ma era la prima cosa che gli era passata per la zucca.
“Già…”
“Che volevi dirmi?” insistette il capitano.
“Volevo dirti che non ce la faccio…”
“A far cosa?” le iridi si fissarono senza che le ciglia sbattessero.
“A rispettare il patto e i buoni propositi.” Taro avanzò leggermente, accorciando ancora di più le distanze. Tsubasa indietreggiò, scontrandosi con la panca retrostante. Il numero undici mosse velocemente in braccio sinistro, portandolo dietro la vita di Tsubasa e attirandolo a sé. Lo sbilanciamento lo avrebbe fatto cadere se Taro non l’avesse afferrato al volo.
“Avevamo detto…”
“Quello che avevamo detto non può essere rispettato.”
La frase del capitano fu interrotta dalla risposta decisa del compagno, mentre l’ultima parola fu sigillata dalle labbra morbide con cui Taro lo investì.
Era già la seconda volta che Misaki osava tanto. Non aveva mai realmente messo a fuoco un rapporto fisico tra di loro. Non lo aveva mai immaginato, non era mai andato mentalmente oltre. Aveva capito di amarlo attraverso gli incubi e le angosce che questi gli avevano trasmesso.
La paura di vederlo infelice, di non poter realizzare il loro sogno gli aveva stretto il cuore in una morsa atroce. Morsa che lo aveva portato ad affrontare la realtà e i suoi sentimenti per lui.
Sentimenti impazziti, stando alla concretezza dei fatti e a quello che stava accadendo per la seconda volta nel giro di pochi giorni. Taro lo stava baciando e sentiva sempre più decisi i suoi contatti fisici. Contatti nei quali si era trovato coinvolto o, più precisamente, travolto. Travolto dalla mano sinistra che, intrufolatasi sotto la maglia, gli stava premendo la carne. I polpastrelli li avrebbe potuti descrivere uno ad uno.
Tsubasa, ritrovando un minimo di equilibrio, sollevò le mani, portandole al viso del compagno. Queste s’infilarono tra il cappuccio e le guance per arrivare fin dietro i lobi. Le dita presero a giocare con i corti capelli dietro la nuca, strappando un gemito di piacere all’altra metà della Golden Combi.
Taro, staccando le labbra da quelle dell’altro, reclinò leggermente la testa indietro per godere del tocco. Il capitano aprì gli occhi; le labbra arrossate e gonfie del compagno gli regalarono un brivido lungo la schiena. Misaki sentì la pelle incresparsi sotto i polpastrelli ancora premuti spasmodicamente sull’epidermide. Vedergli accennare quel sorriso di piacere misto a soddisfazione gli fece perdere un attimo il barlume della ragione, tanto che le mani strinsero la nuca e la bloccarono.
E stavolta fu il capitano che non si fece cogliere impreparato, iniziando a lambire gli angoli della bocca; fino alla scia di baci sempre più incalzanti che dalla mascella scendevano giù lungo la linea del collo. La mano destra di Taro, rimasta in attesa degli eventi, trovò una nuova collocazione nell’esplorare il fianco del compagno.
Quante volte aveva avuto Tsubasa sotto le dita e ne aveva sentito la pelle?
Quante volte si erano medicati a vicenda?
Quante volte avevano saltellato, seminudi, negli spogliatoi, sfiorandosi ripetutamente?
Quante volte, in passato, aveva provato questo desiderio irrealizzabile?
E ora, ora che finalmente era tra le sue braccia, la vita aveva già un suo corso prestabilito dal quale non sarebbero potuti tornare indietro. Scacciò l’ultimo pensiero, tornando a concentrarsi sulla pelle sudata del capitano. Sui suoi baci tremolanti e cauti che andavano intensificandosi man mano che la confidenza cresceva e prendeva coscienza della situazione.
Un improvviso schiamazzo, proveniente dei corridoi, li pietrificò all’istante facendoli sobbalzare e allontanare al tempo stesso. Restarono a fissarsi, increduli e ansimanti, per pochi secondi prima che lo spogliatoio fosse invaso dal resto della squadra.
Taro, sguardo basso e mani nelle tasche della felpa, si diresse verso la porta, contrastato dalla corrente contraria dei compagni.
Tsubasa, voltandosi verso il muro per nascondere il rossore, si tolse in fretta e furia la maglia, sollevando le braccia al cielo e celando il viso agli amici.
“Anche oggi, nonostante la pioggia, Gamo c’ha massacrato.” Il tono polemico d’Izawa fece sorridere Ozora.
“Ah, sei sempre il solito polemico, Mamoru, non puoi dire che non ci siamo divertiti.” Yuzo lo guardava di traverso mentre con un piede sulla panca si stava slacciando le stringhe.
Ryo entrò saltellando, al settimo cielo per il pranzo imminente.
“Ho una fame che non ci vedo.” Puntualizzò mentre in fretta e furia si spogliava, lanciando indumenti a destra e manca.
“Cerchiamo di non invadere gli spazi, Ryo, o giuro che faccio un bel mucchio e te li metto tutti sotto la doccia i tuoi panni puzzolenti.” Genzo entrò subito dopo, lanciando i guanti sulla panca.
Ryo, saltellando su un piede e impegnato a togliere prima un calzino e poi l’altro, appallottolò io pantaloncini e glieli lanciò contro.
Il portiere, con un gesto fermo e deciso, bloccò la palla di stoffa in una sola mano.
“Sticazzi che riflessi!” esclamò Ryo, mentre fuggiva verso la doccia, sapeva che Genzo non era molto incline a certi scherzi, e proprio per questo lui adorava fargliene.
“Ishizaki, soltanto tu sei qua a smacchiar leopardi.” E sull’ultima battuta di Wakabayashi lo spogliatoio esplose in una fragorosa risata. Superata l’ilarità del momento ognuno andò al proprio armadietto.
“Tsubasa, hai visto Taro?” la voce di Misugi lo colpì da dietro, facendolo arrossire come un quindicenne. Era ancora con il viso rivolto verso la parete, per fortuna, quindi afferrò la salvietta e se la portò al volto. Dopo si girò e, mettendosi seduto per slacciare le scarpe rispose a Jun con il volto a terra.
“È appena uscito, ha detto che aveva finito il massaggio e che si avviava verso il buffet.” In realtà non lo sapeva, ma lo sperava o immaginava, visto che Ryo aveva parlato di fame e cibo. Per quanto lo riguardava il suo stomaco era sazio. Sazio di emozioni mai provate, sazio per le farfalle che ancora vi si agitavano senza sosta e inviavano brividi in ogni angolo più remoto del corpo.
L’emozione del bacio proibito non andava scemando.
“Nel pomeriggio vorrei discutere con voi del nuovo tiro e far provare Genzo.”
Senza distogliere lo sguardo dalle scarpe oramai slacciate, Tsubasa rispose con un tono di voce più neutrale possibile.
“L’altra sera siamo riusciti a mettere in pratica anche per l’angolo a sinistra della porta.”
Misugi si sedette vicino, porgendogli dei fogli con sopra degli schizzi.
“Vedi – disse indicando con la matita un punto ben preciso sul foglio – ho pensato che se riuscite a coordinarvi e arrivate in porta non vi resta altro che capire dov’è posizionato il portiere e tentare di ingannarlo.”
“Ehi, non crederete davvero che mi faccio cogliere impreparato un’altra volta dalla Golden Combi, vero?” Il tono misto interrogativo e piccato dell’SGGK fece sorridere Tsubasa che, avvolto l’asciugamano attorno alla vita, si diresse verso le docce.
“Vedremo, Genzo, la Golden Combi quest’anno in campo farà faville!” Ammise Ozora con un sorriso pieno sulle labbra ancora fresche di baci.

E non solo in campo…

E sull’ultimo pensiero aprì l’acqua calda e ci si tuffò dentro, cercando di non pensare al pranzo, all’allenamento, alla cena e alla camera. Avere Misaki vicino e disponibile al 100% era diventata una piacevole e inevitabile tortura.

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Capitolo 7
*** Capitolo 06 ***


I giorni si susseguirono velocemente tra allenamenti, interviste, riunioni e visite mediche. Praticamente erano impegnati ogni santo minuto di ogni giorno e la sera, tornare alla camera strascicando le gambe e la lingua, era diventata una cosa abituale. Così i giorni erano passati tra casti baci rubati e incubi che avevano assunto i contorni più rosei e tranquilli dei sogni. Nessuno dei due aveva immaginato che l’arrivo delle mogli e relativi pargoli potesse essere così traumatico. Unico lato positivo era il fatto che Gamo avesse vietato di dormire con le proprie consorti.
 
Erano arrivate nel tardo pomeriggio, con tanti bagagli e figli al seguito. I bambini erano corsi incontro ai loro padri, attraversando tutta la hall dell’hotel, per poi gettarsi tra le loro braccia. I gemelli tenevano per mano Desirée che faceva fatica a tenere il passo degli amichetti più grandi. Tanto che, per alcuni tratti, si era sentita quasi sollevata da terra. I due uomini, con le braccia dei figli al collo, si erano guardati e avevano annuito. Il patto andava assolutamente sigillato e rispettato. Con i bambini in collo accolsero le mogli con un casto bacio sulla guancia. Dopo i convenevoli, e le varie domande su come fosse andato il viaggio, i ragazzi presero i bagagli e le accompagnarono alle rispettive camere.
“Papà, possiamo venire con te e Taro?” la voce di Daibu si disperse nel breve tratto di corridoio che i ragazzi avevano percorso per andarsi a cambiare nella loro camera.
Il capitano si girò perplesso e incrociò lo sguardo di Taro in cerca di supporto.
“Daibu, lo sai che l’allenatore non vuole che dormiate con noi…” specificò Tsubasa, che, con la tuta di ordinanza e le mani nelle tasche, stava dirigendosi verso la stanza, camminando al fianco di Misaki.
“Ma noi non restiamo a dormire, veniamo solo prima della cena. Dai, papà, vogliamo vedere la camera della Golden Combi.”
Taro sollevò le spalle, arreso; dopotutto non si fermavano a dormire e non ci vedeva assolutamente nulla di male, non erano mica le mogli. Sorrise al pensiero che, se avessero voluto, loro avrebbero potuto contravvenire alle regole base senza che Gamo se ne accorgesse.
Azumi, sulla porta della stanza, fu costretta a far scendere la bambina dalle braccia, con il rischio che cadesse a terra, tanta era stata la foga con cui si era gettata all’inseguimento dei gemelli.
“Desirée, non fare confusione in camera di papà, mi raccomando”
“Desirée brava, mamma…” la bambina rispose convinta mentre, saltellando, raggiungeva il padre.
“Sì, certo, come l’ultima volta che hai voluto mettere in ordine l’armadio di papà, vero?”
Sul volto del numero undici si formò una ruga profonda e perplessa.
“Azumi, non vorrai dirmi che ha nuovamente messo in ordine la mia roba? – chiuse gli occhi e agitò una mano di fronte a sé – Ferma, non dirmelo, non lo voglio sapere.”
“Ottima scelta, Misaki!” esclamò lei, sollevando un pollice verso l’alto.
“Piccola viperetta!” il tono affettuoso e gioviale fece sorridere il numero dieci che osservava come Taro, dopo aver sollevato la bambina, la baciasse nel collo a più riprese, strappandole gridolini di gioia. I suoi due monelli, invece, erano già con la palla ai piedi e con rapidi passaggi stavano raggiungendo l’ascensore.
“Papà, ci porti a vedere prima il campo da calcio?” Hayate non aveva tardato a chiedere quanto Tsubasa aveva già messo in conto, seguito da un più audace Daibu che aveva rincarato la dose, dicendo: “ce lo fate vedere il nuovo tiro che avete fatto con Taro?”
“Sì, dai dai! Lo vogliamo imparare anche noi.” Ed erano tornati indietro, saltellando e circondandoli.
“Che dici, capitano, accontentiamo questi bambini?” Il sopracciglio sollevato e interrogativo di Misaki si scontrò con un segno affermativo di Tsubasa che, voltandosi verso le mogli, disse: “Voi rilassatevi e preparatevi per stasera, ci occupiamo noi dei bambini.”
Le interpellate non se lo fecero ripetere due volte; stanche del viaggio e scombussolate dal fuso orario, non vedevano l’ora di fare una doccia e rilassarsi un’oretta prima di partecipare alla cena di benvenuto.
L’ora passata con i figli sul campo da calcio a giocare, e a far vedere ai bambini il nuovo tiro che avevano pensato, li aveva messi di buon umore e liberato la testa da pensieri confusi avuti nei giorni precedenti.
Mettere la famiglia davanti a tutto era stata la scelta più ovvia e consapevole.
Taro e Tsubasa avevano raggiunto la camera, si erano sistemati, lasciando che i figli saltassero sui loro letti mentre loro, a turno, avevano fatto la doccia e si erano cambiati per la cena. La divisa ufficiale era d’obbligo e Tsubasa, come al solito, aiutò il compagno con il nodo della cravatta. Quando i loro occhi s’incrociarono, il segno di assenso unanime mosse le teste di entrambi. Sì, quella era la soluzione migliore: per loro, oramai, un futuro insieme non poteva esistere. Nessuno dei due, però, aveva messo in conto la possibile gelosia a cui sarebbero andati incontro.
Una volta pronti erano scesi al piano delle mogli e, dopo aver cambiato anche i bambini, tutti insieme erano convogliati nella sala del bar. Appena arrivati, le ragazze corsero incontro a Yoshiko, Yayoi e Yukari. Per l’occasione anche Kumi le aveva raggiunte; si vociferava che tra lei e Genzo ci fosse del tenero, ma nessuno dei due si era sbottonato. Quindi adesso, come da manuale, la poveretta era circondata dalle ragazze che la stavano subissando di domande. I bambini erano tutti con una tata offerta dalla federazione per permettere ai campioni di godersi la festa. Oltre ai figli della Golden Combi, la disperazione della povera donna, era il piccolo terremoto di Ryo, Sachi, monello di sei anni fissato con il pallone, che con i gemelli Ozora se la intendeva alla grande. Venivano in aiuto della baby sitter le donnine della nazionale, tutte eleganti nei loro vestitini impeccabili: le figlie di Jun e Hikaru, rispettivamente Eiko e Kaori, avevano sequestrato la piccola Desirée e l’avevano coinvolta in un finto tè immaginario nella stanzetta dei giochi. La federazione era stata impeccabile, distinguendosi come sempre nella perfetta organizzazione.
Tsubasa, appoggiato alla colonna, a fianco del buffet, era intento a osservare i gemelli giocare con Sachi, quando, con la coda dell’occhio, mise a fuoco Taro abbracciato ad Azumi. Nel momento in cui vide le braccia, che pochi giorni prima lo avevano stretto, cingere la moglie, fu costretto ad allentare il nodo della cravatta per non soffocare. Il fantasista nipponico sapeva benissimo che di aria in quella stanza ce n’era a vagonate, ma il bacio che la sua metà in campo si stava scambiando con la compagna gli fece uscire il fumo dalle orecchie.
La serata era trascorsa tranquilla, in un tacito accordo di non mettersi in difficoltà a vicenda, perché, anche se non se lo erano detto, entrambi erano consapevoli dell’equilibrio fragile in cui si muovevano. Per quello avevano ridotto al minimo le effusioni con le consorti, tanto che Sanae era tutta la sera che lo guardava in maniera strana, non che lui avesse mai oltrepassato qualsivoglia limite in pubblico ma dopo tanti anni un bacio non glielo negava di certo; invece in quell’occasione aveva trovato tutte le scuse possibili e immaginabili per evitare il momento, non voleva far soffrire il compagno, ma visto che lui evidentemente non se ne curava…

Vaffanculo! Pensò.

Nell’intermittenza delle luci della sala da ballo, Taro, ancora incollato alle labbra di Azumi, aprì gli occhi per capire da dove arrivasse la fonte di disagio che sentiva irradiarsi lungo la schiena.
Gli occhi penetranti e profondi del capitano gli trapassarono le iridi, facendo sì che si staccasse immediatamente dalla moglie. Per un attimo restarono a fissarsi ossessivamente.
“Tsubasa, ma mi stai ascoltando?” la voce di Sanae lo riportò con i piedi per terra.
“Scusa, dicevi?” gli occhi ancora a cercare il compagno che aveva ripreso a ballare con Azumi, cingendole la vita.
“Dicevo che queste tartine al salmone sono davvero buone, sei riuscito almeno ad assaggiarle prima che Ryo le spolveri tutte?”

Che stronzo!

Pensò mentre una vena di vendetta si andava formando nella sua testa.

Deve proprio stringerla in quel modo?

“Tsubasa!” la voce incazzosa di Anego lo svegliò del tutto. Quando finalmente la mise a fuoco si rese conto di essersi assentato troppo con i pensieri e non aver seguito alcun discorso.
Poi una malsana idea tornò a far capolino, quindi le cinse la vita, attirandola a sé. Si chinò per baciarle l’angolo della bocca, e mentre Sanae rideva divertita e sussurrava parole al suo orecchio, lui percorse tutto il tratto della mascella fin dietro al lobo, per poi depositarvi lievi baci. Gli occhi sempre fissi in un punto ben preciso. ‘Punto’ che andava via via avvicinandosi a passo sostenuto.
“Anch’io avevo voglia di vederti, capitano…” Sanae glielo aveva sussurrato all’orecchio poco prima che la voce di Taro le arrivasse alle spalle, facendola riscuotere.
“Azumi, vieni, assaggiamo queste tartine!” lo aveva detto a voce alta. Passando aveva sfiorato volontariamente la spalla del numero dieci.
“Oh, scusa, capitano, non ti avevo visto.” Si era giustificato velocemente e aveva proseguito verso il banchetto.
“Mangiamo anche noi qualcosa?” chiese Sanae, prendendolo sotto braccio e dirigendosi al buffet.
Una volta riempiti i piatti, il capitano sollevò lo sguardo al cielo quando vide la moglie dirigersi al tavolo dove c’erano Misaki e Misugi. Non era certo una novità ma quella sera poteva diventare un problema vista la reazione di Taro e la sua.
Sanae si sedette vicino ad Azumi, già impegnata a parlare con Yayoi. Tsubasa, dopo aver superato Taro, si sedette accanto a Jun, convinto che i due stessero parlando di chissà quale schema, ma rimase turbato quando scoprì che la conversazione verteva su altro: cioè i figli.
Le donne stavano dicendo che forse era arrivato il momento di mettere in cantiere un secondo erede, e ora che era arrivata Sanae la stavano interrogando sulla vita a quattro.
Yayoi, intrecciando le mani con il marito, stava già fantasticando sui possibili nomi maschili, convinta che il quarto membro sarebbe stato un maschietto. Jun annuiva convinto e ironizzava sul fatto di poter accontentare la moglie, appena avessero finito i mondiali. Gli altri sorrisero all’allusione di Jun.
“Anche a me piacerebbe tanto un altro bambino, ma se quella viperetta non la smette di svegliarsi la notte sarà davvero una cosa impossibile…” Azumi l’aveva detto in tono triste e rassegnato.
“Io credo che in tre stiamo benissimo, non vedo la necessità di un altro figlio.” Il tono freddo con cui Taro si era espresso aveva fatto calare il gelo su tutto il tavolo. Il modo in cui aveva fissato Tsubasa, per una frazione di secondo, non era stato notato dagli altri, ma il messaggio era arrivato forte e chiaro dall’altro capo.

No, Ozora, non vado a complicarmi ulteriormente la vita adesso che so di noi.

Erano scorsi sguardi imbarazzati tra le coppie presenti, finché Sanae vedendo l’amica in difficoltà cercò di stemperare la tensione con una battuta: “Azumi, se vuoi ti regalo uno dei gemelli per provare, vedrai che dopo ti passa la voglia.”
Avevano sorriso e poco dopo l’argomento era stato abilmente cambiato da Jun, affinché tornasse a discorsi più consoni alla serata: calcio e la prima squadra da affrontare.
Dopo era ripresa la musica e le ragazze avevano insistito per tornare in pista, ed era stato lì che Azumi aveva riaperto il discorso interrotto a tavola.
Abbracciò il marito, stringendolo forte a sé, e iniziò a parlargli all’orecchio: “Davvero non vuoi un altro bambino?” chiese in tono preoccupato, conosceva Taro e se si era espresso in quel modo…
“Stiamo così male in tre?” domandò l’altro, oscillando a tempo di musica e fissandola negli occhi.
“No, ma… ho sempre pensato che volessi un altro figlio, non credevo che volessi fermarti a uno soltanto…”
Azumi non ne aveva colpa, lo sapeva benissimo, ma in quel momento la risposta acida gli uscì ugualmente dalla gola senza che potesse essere fermata.
“Hai pensato male evidentemente.” Lo sguardo distante a cercare l’altro corpo avvinghiato a un'altra donna, dalla quale lo avrebbe staccato a forza se solo avesse potuto.
Il capitano stava baciando Sanae in mezzo alla pista.
La ragione gli sfuggì del tutto mentre, chinandosi su Azumi, le sussurrò prima delle scuse confuse e poi la baciò con foga.
Gli occhi ancora fissi sul duetto a centro pista.
Occhi che si incontrarono con la sua metà in campo.
Occhi che s’incendiarono di rabbia all’istante.
Poi non capì bene il susseguirsi degli eventi, ma una cosa era certa: Tsubasa aveva detto qualcosa a Sanae e si era dileguato.
 
 
Non aveva retto. Vederlo baciare ancora Azumi era stato troppo per il suo labile equilibrio mentale. Trovare la scusa del mal di testa era stata l’unica via di fuga possibile da quella tortura. Tutti i buoni propositi: i figli, il calcio, la famiglia erano andati perduti; incendiati dalla gelosia e inceneriti in un solo istante. Dopo aver chiamato l’ascensore ed esservi entrato, tirò un pugno alla lamiera della porta chiusa. Non sentì dolore, perché quello del cuore superava di gran lunga quello fisico. Gli mancava l’aria e con un gesto secco infilò due dita nel nodo della cravatta allentandolo di scatto. Ma non servì a un cazzo! Sbottonò anche i primi due bottoni della camicia e tolse la giacca. Raggiunto il terzo piano, si precipitò alla porta della camera che divideva con Taro, e, dopo aver imprecato un paio di volte verso la chiave magnetica, riuscì a entrare. La giacca lanciata sul letto di Misaki venne seguita dopo pochi passi dalla cravatta, mentre a grandi falcate raggiungeva il bagno. Aveva bisogno di darsi una calmata e sicuramente un po’ di acqua fredda sul viso avrebbe spento quella gelosia incontenibile, o almeno lo sperava.

Fottuti incubi, non potevate restare tali? Fanculo! Imprecò mentalmente.
 
Taro afferrò la mano di Azumi e la trascinò fino a Sanae dove, rimasta sola in pista, la vide un secondo smarrita.
“Tutto ok?” indagò il numero undici al fianco della moglie.
“Non ho ben capito, Tsubasa ha detto di aver mal di testa forte e che sarebbe andato a letto. Così, improvvisamente.” Sollevò le spalle arresa alla fuga del marito.
“Oggi Gamo c’ha messo a dura prova, magari è solo stanco…”
“Sono preoccupata, Taro, sono mesi che non dorme, che ha incubi continui e forti mal di testa.” Sanae allungò la mano sul braccio dell’amico, rivolgendogli uno sguardo preoccupato che lo penetrava fin dentro le viscere. La metà della Golden Combi deglutì, sentendosi in profondo difetto verso le donne.
“Sì, dormendo con lui posso dirti che gli incubi sono diminuiti, quindi stai tranquilla. Facciamo così, – guardò il quadrante dell’orologio per vedere se poteva sfruttare la scusa dell’ora – sono già le 23:00, mi ritiro anch’io in camera così controllo come sta, va bene?”
Stava giocando sporco, sporchissimo, ma in un solo colpo poteva andare da Tsubasa ed evitare Sanae e sua moglie; ai rimorsi di coscienza avrebbe pensato dopo.
“Grazie” sussurrò la donna, stringendo ancora di più il braccio in segno di riconoscenza.
“Figurati, dovere, ci vediamo domani, notte.” Misaki depositò un flebile bacio sulla guancia della moglie e imboccò il corridoio che lo avrebbe condotto alle camere.
Lo specchio dell’ascensore gli restituì l’immagine di un uomo confuso e stanco. Prima le mani passarono su tutto il volto per poi finire a ravviare i capelli. Allentò il nodo della cravatta, non aveva la minima idea di che cosa avrebbe trovato al di là di quella porta. Avrebbe dovuto aprire con la chiave magnetica oppure bussare per anticipare il suo arrivo? Il suono dell’ascensore lo fece riscuotere, infilò una mano nella tasca della giacca e toccò la tessera magnetica al suo interno. La tirò fuori e la rigirò un paio di volte tra le dita mentre proseguiva lentamente verso la porta.
Quando la raggiunse, appoggiò la mano allo stipite destro e rimise la tessera in tasca, guardò una volta a destra e una a sinistra per assicurarsi che non ci fosse nessuno. Sicuro che se i suoi compagni di squadra lo avessero visto bussare, pur avendo la tessera magnetica, si sarebbero insospettiti e chissà che ne sarebbe potuto venir fuori. No, non aveva voglia di altri problemi quella sera. Constatato che il corridoio fosse libero si decise a bussare.
 
Il suono ovattato della porta lo fece sorridere, solo Taro poteva avere un tocco tanto delicato e discreto. Uscì dal bagno e si avviò verso l’ingresso, prendendo ampie boccate d’aria.
Un ultimo respiro e afferrò la maniglia.
L’immagine di Misaki gli entrò dagli occhi, facendo perdere un battito al cuore. Taro sollevò le palpebre, mentre un sorriso compariva agli angoli della bocca. La mano appoggiata allo stipite della porta fu abbassata e infilata nella tasca dei pantaloni, le palpebre lentamente si chiusero per poi riaprirsi e fissarlo di nuovo. Gli incisivi del capitano affondarono nel labbro inferiore, Taro sollevò le sopracciglia incuriosito dal gesto. Trovare Tsubasa con i pantaloni eleganti della divisa, la camicia indosso, leggermente sbottonata, e bagnata era un attentato per qualsiasi mente lucida, in quel momento; figuriamoci per una mente confusa come la sua. Una sorta di eccitante imbarazzo scorse tra i due. Fu il numero dieci a parlare per primo: “Ciao.”
“Ciao” rispose l’altro, battendo le ciglia e arcuando le labbra. Taro si voltò un attimo attirato da un rumore in fondo al corridoio, ma quando la testa tornò alla posizione di origine, mai si sarebbe aspettato di vedere Tsubasa allungare la mano, afferrarlo per la cravatta e tirarlo a sé facendo sbattere la porta alle sue spalle.

Mai avrebbe immaginato la mano del capitano dietro la nuca che lo attirava per baciarlo.
Mai avrebbe immaginato di desiderare così tanto i suoi baci, le sue mani addosso e le dita a scorrergli tra la chioma.
Mai avrebbe immaginato le proprie dita impegnate con le asole dei bottoni per togliergli la camicia bagnata e lasciarla cadere a terra.
Mai avrebbe immaginato che Tsubasa si sarebbe abbandonato così tra le sue braccia, che la giacca sarebbe caduta per volere suo, seguita dalla camicia.
Mai avrebbe immaginato di discendere la mascella di Ozora e proseguire fin giù, verso il collo, superarlo e arrivare ai pettorali, per proseguire la corsa dei baci mentre le dita lavoravano velocemente con la cintura dei pantaloni.
Mai avrebbe immaginato che i boxer avrebbero raggiunto i pantaloni a terra e che le proprie dita avrebbero giocato con il suo sesso, mentre la bocca assaporava quella pelle ardente.
Mai avrebbe immaginato la propria bocca sul sesso di Tsubasa.

 
Il capitano si svegliò più volte nel corso della notte e tutte le volte che aveva scorto la sagoma del compagno al suo fianco, aveva sorriso e si era addormentato di nuovo. Sentì le dita sfiorargli una spalla, per poi proseguire la linea del collo fin dietro l’attaccatura dei capelli. Un bacio a stampo sulla fronte lo fece sorridere. Con la testa sulla spalla di Taro, sollevò il mento per restituirgli un bacio sul collo. Il letto singolo non era dei più comodi, ma quella notte se l’erano fatto bastare e Tsubasa, dopo tanti mesi, aveva dormito come un bambino, nonostante i risvegli. Risvegli che si erano fatti rassicuranti ogni volta che constatava di avere Misaki al suo fianco.
“Dobbiamo parlare” gli sussurrò il numero undici all’orecchio.
“Mh-Mh” il mugugno misto alla scia di baci sul collo che Ozora gli stava regalando lo fecero stizzire. Il comportamento del compagno lo irritava, quel non voler mai affrontare il discorso.
“Davvero, dobbiamo parlare.” Il tono insistente fece sbuffare il fantasista nipponico che si scostò e alzò dal letto. Ma Taro lo afferrò per un braccio, impedendogli la fuga.
Il capitano si voltò, sollevando gli occhi al cielo, poi iniziò un monologo veloce di risposte preconfezionate: “Cosa vuoi sapere, Taro, di ieri sera? È semplice: odio vederti tra le braccia di qualcun altro anche se è tua moglie. Odio vedere che la baci, e se non erro non è piaciuto neppure a te che lo abbia fatto io – il dito puntato vicino al naso fece incassare il collo tra le spalle a Misaki – quindi arrivati a questo punto cosa credi di fare? Mi pare abbastanza ovvio che siamo nella melma fino al collo.”
L’altro si tirò su, facendo forza sulle braccia e mettendosi seduto. Le mani sollevate e arrese. “Dobbiamo trovare un modo per riprendere il controllo!”
Il capitano aggrottò le sopracciglia perplesso: “E chi ti ha detto che voglio riprendere il controllo?”
“Cos- COSA? Siamo sposati, siamo la Golden Combi, abbiamo delle responsabilità, dobbiamo riprendere il controllo, Tsubasa!”
Ozora si sporse verso di lui e lo baciò a fior di labbra, poi si alzò dal letto e, rubando la leggera coperta di cotone, l’avvolse in vita, avviandosi verso il bagno.
“Credo che siamo abbastanza grandi e maturi da poter far funzionare tutto questo. Le nostre vite potranno proseguire come prima, niente ci vieta ogni tanto di vederci, senza contare i vari ritiri con la nazionale, dovremmo farceli bastare così… per ora.”
“Per ora?” lo scatto fulmineo del numero undici non lo colse impreparato mentre di gran carriera lo sentiva avvicinarsi alle spalle. Anche lui si era coperto grazie al lenzuolo del letto.
Chino sul lavabo, intento a rinfrescarsi il viso, lo osservò dal riflesso dello specchio.
“Sì, hai capito bene, Taro, per ora. Perché abbiamo figli piccoli, famiglia, e ruoli importanti in nazionale. Certo non possiamo fare coming out adesso, ma in futuro…” la sospensione della frase permise a Tsubasa di voltarsi per guardarlo negli occhi. Voleva vedere la sua reazione e la voleva vedere non dal riflesso di uno specchio.
“Come sempre hai già pianificato tutto, vero? Come per il Brasile, per il matrimonio, per la Spagna… Tu pianifichi la tua vita e di conseguenza quella degli altri. Quindi hai già deciso che in futuro potremo stare insieme, giusto?” Le lunghe ciglia sbatterono un paio di volte prima che le palpebre si chiudessero e il fiato venisse rilasciato in uno sbuffo rassegnato. Dopotutto il capitano aveva ragione. Arrivati a quel livello che altro avrebbero potuto fare?
Le mani calde di Tsubasa gli circondarono le guance. Sentì il pollice percorrergli il contorno delle labbra. Aprì gli occhi e vide il brillio vivace in quelli del compagno a pochi centimetri dal suo volto.
“Se tu vorrai, in futuro potremmo, perché no? Non posso farci nulla se ho scoperto ora di amarti.”
Il bacio con cui sigillò l’ultima frase lo lasciò stordito ed eccitato al tempo stesso. L’amore che ci aveva sentito dentro non era paragonabile a niente di quanto provato finora nella sua vita. Il sesso, poi… la notte trascorsa era stato soltanto una piccola goccia di un oceano inesplorato. Entrambi alle prime armi non si erano spinti in evoluzioni sconosciute, si erano fatti bastare i preliminari.
Il numero undici scosse la testa per cancellare la sensazione delle mani di Tsubasa su di lui. Era ancora vivida nella sua mente tanto da fargli rialzare la pelle e creargli delle pericolose aritmie. Si rese improvvisamente conto che voleva ancora quelle sensazioni addosso e con lui.
In campo, come nella vita, Tsubasa era sicuro delle sue scelte, Taro sperò ardentemente che quella via che gli aveva prospettato non fosse così difficile da intraprendere. Spesso la sua metà in campo era troppo ingenua.




Angoletto dell'autrice
Eccoci qua con un nuovo capitolo. Vi comunico che la storia è terminata e che in tutto saranno prologo+16 capitoli.
Per mia immensa gioia -_- (vedete la gioia immensa vero?) questa storia che doveva concludersi agevolmente si è conclusa, ma ha prodotto un Sequel. (che non ho ancora iniziato e per ora non ne ho intenzione ma prima o poi lo farò; ho già le basi per una decina di capitoli)
Ovviamente che c'era bisogno di un Sequel  l'ho scoperto all'ultimo capitolo, mortacci loro. I cristoni che sono volati li sa bene la mia Beta...
Giuky80 grazie per sopportarmi!
Questa settimana aggiornerò due volte, oggi e Sabato 30, poi ci risentiamo Sabato 14 Luglio per la finale dei mondiali.
Grazie a tutti
Sanae77

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Capitolo 8
*** Capitolo 07 ***


30 giugno 2018
 
Finalmente era arrivato il momento di mettere in pratica tutte le prodezze e gli allenamenti estenuanti. La nazionale era partita, con le famiglie al seguito, per i mondiali che si sarebbero svolti in Russia.
Lo scetticismo di Taro tramontò una volta iniziate le competizioni.
Funzionava, tutto stava procedendo per il meglio. Avevano superato molte delle squadre che si erano trovati di fronte ed erano arrivati ai quarti di finale. La Golden Combi era scatenata in campo. Le partite erano state fino ad all’ora la fotocopia l’una dell’altra. Tsubasa e Taro, da centro campo, partivano palla al piede con una progressione di scambi millimetrici e controllati. Arrivavano in prossimità dell’area di rigore, e da qualsiasi angolazione si trovassero, si elevavano in volo, in rovesciata, combinando un tiro perfettamente angolato e carico di effetto. Questo accadeva nei primi cinque minuti di partita. La coppia si abbracciava e ritirava a centrocampo, lasciando spazio ai compagni.
Psicologicamente, infliggere un goal entro i primi cinque minuti era una vera batosta per la squadra avversaria, tanto che il tempo restante diventava molto più facile da giocare. A turno, infatti, nelle varie partite, in molti erano riusciti a segnare una rete. Avevano avuto fortuna nel loro girone, incontrare il Senegal e la Polonia era stato un gioco da ragazzi.
Viste le prodezze dei giocatori, l’allenatore aveva concesso loro un pomeriggio libero con le famiglie, quindi tutta la nazionale al completo aveva invaso le vie di Mosca, disperdendosi tra i turisti intervenuti lì per la manifestazione.
Passeggiavano in centro, soffermandosi ogni tanto a osservare le vetrine. Desirée dormiva placidamente, cullata dal passeggino spinto da Azumi con Sanae al suo fianco.
Tsubasa e Taro chiacchieravano indisturbati con le mogli dietro, mentre i gemelli camminavano di fronte a loro, scambiandosi piccoli passaggi con l’immancabile palla.
Ozora sorrise soddisfatto, osservando le grandi capacità dei figli, tirò una gomitata al collega e lo incitò a guardare di fronte a sé.
“Hanno preso indubbiamente dal padre.” Ironizzò il numero dieci, sfiorando il gomito del compagno con il proprio. Camminare vicini non era così male, dopotutto in un modo o nell’altro potevano comunque toccarsi.
“Ma noi da piccoli eravamo davvero così fissati con la palla?” Taro si soffermò un attimo, abbassando gli occhiali da sole per osservarlo meglio.
“Sai, Roberto ci ordinò di tornare palla al piede a casa, eh?”
“Davvero? Ma era un ordine. Questi dormono, pisciano e mangiano con il pallone, no? Me lo dici sempre. - Da sotto gli occhiali calati sul naso, un sopracciglio si sollevò verso l’alto - Perché tu cosa facevi di diverso da loro?”
“Non ricordo di aver mai pisciato con il pallone francamente…” rispose Tsubasa, osservando le iridi nocciola attraverso lo spazio libero lasciato degli occhiali. Sollevò le spalle con noncuranza, mentre lo sguardo perplesso e curioso di Misaki lo imbarazzò per un momento. Sentì le guance scaldarsi all’improvviso.
Taro, con l’indice, riposizionò gli occhiali nella propria sede e sorrise, poi fece un passo avanti e bisbigliò al suo orecchio: “Ti basta poco, ultimamente… torno subito, vado a prendere una cosa in farmacia.” Indicò un punto indefinito dietro di lui, con un cenno della testa, e, dopo aver sfiorato la spalla con quella di Tsubasa, lo superò in direzione della meta.
Ma il capitano si voltò rapido, afferrandolo per un braccio. Tentò di fissarlo negli occhi anche attraverso le lenti, ma abbandonò l’idea poiché erano troppo scure.
“Non farti venire strane idee” gli sussurrò preoccupato, erano giorni che dormivano insieme, ed erano giorni che volevano andare oltre ma… dopo varie ricerche sui cellulari, cancellando rigorosamente la cronologia, erano arrivati alla conclusione che avevano bisogno di qualcosa per progredire a livello fisico. E fintanto che non avessero trovato una farmacia e che non fossero stati in libera uscita, la cosa si era rivelata impossibile. Ma ora, a giudicare dal sorrisetto sulle labbra di Taro, forse il momento era arrivato.
“Ne ho anche troppe, di idee, in testa” rispose, sfoderando un’espressione al limite della decenza. Si liberò dalla stretta e puntò dritto il suo obiettivo.
“Che confabulate voi due?” la voce di Sanae lo riportò subito con i piedi per terra e perdere istantaneamente tutto il colore che aveva imporporato le guance. Dovevano stare più accorti: erano in ritiro, ma non erano da soli. Si voltò verso le donne e mentì: “È andato in farmacia a cercare dei cerotti, stamattina, agli allenamenti, gli ho fatto un graffio nella gamba con un tacchetto.”
“Ma non l’hanno medicato in infermeria?” Azumi lo guardò perplessa. Domanda più che lecita visto il team medico a disposizione della nazionale.
“Per carità! – i palmi delle mani in modalità difesa - Vuoi che Gamo lo sottoponga a cinquanta visite mediche? Non avete idea di cosa possa essere capace d’inventarsi se sa che ci siamo fatti male.”
Una scusa, aveva bisogno di una fottuta scusa, e quella non gli era uscita tanto male dopotutto. Aveva agitato le mani con apprensione per dare enfasi al discorso.
Quando la moglie di Taro aveva annuito, accondiscendente, il capitano aveva tirato un sospiro di sollievo e, dopo aver afferrato il cellulare dalla tasca della felpa, compose così un messaggio veloce per l’altra metà della Golden Combi all’interno della farmacia.
 


Tutta quella situazione si stava rivelando assurda e imbarazzante.

Da quando lui e Taro erano divenuti così complici e disinvolti?

Pensò alle ultime notti trascorse tra le sue braccia. Una sensazione di vuoto gl’invase lo stomaco nel ripensare alle risate che si erano fatti nell’unire i letti la sera e dividerli la mattina per non farsi scoprire. Uno strano formicolio gli era partito da quel vuoto per poi diffondersi nel petto, facendogli accelerare i battiti.
Dormire con la sua metà in campo era la cosa più bella che gli fosse mai capitata nella vita. Si voltò verso la farmacia appena in tempo per vederlo uscire, tirandosi su il cappuccio della felpa. Era fine luglio, ma con il calare del sole la frescura si faceva sentire. Tsubasa voltò la testa dall’altro lato e scorse le mogli intente a chiacchierare tranquille. Mille domande iniziarono ad affollargli la testa.

Davvero sarebbero stati in grado di affrontare tutto quello?
Di fingere con le due donne per anni?
E poi, per quanti anni?
Tutti i giorni, minuto dopo minuto?
Perché ancora non si sentiva in colpa nei confronti di Sanae?
Forse perché Taro non era una donna?
Ma l’amore era comunque tradito, allora perché non si sentiva in colpa?
Forse era meglio chiedere il divorzio e rifarsi una vita?

 
“Ehi, tutto fatto” la pacca sulla spalla lo fece riscuotere. Taro superò il capitano, arrivando dai gemelli; rubò loro il pallone e poi li scartò uno a uno. Dopo alzò un braccio verso di lui per invitarlo a giocare. Non se lo fece ripetere due volte, mentre con uno scatto in avanti li raggiungeva, osservando il suo compagno: Taro aveva gli occhi che gli brillavano di felicità. Sorrise. Era sicuro che avesse trovato tutto l’occorrente che cercava da qualche giorno e al solo pensiero il vuoto nello stomaco si trasformò in voragine.
 
Erano rientrati in Hotel in tempo utile per la cena, i gemelli scalpitavano già da un’ora per mangiare, per non parlare di Desirée che in collo a suo padre piagnucolava disperata. Quindi quando i camerieri aprirono le porte della sala da pranzo le due famiglie si precipitarono dentro immediatamente.
Il numero undici si precipitò al buffet di verdure e ne riempì il piatto per la figlioletta, Tsubasa lo osservava incuriosito, era davvero tenero e premuroso con lei. Capì all’istante che la scelta fatta era la più logica, abbassò lo sguardo voltandosi prima a destra e poi a sinistra, dove due manine paffute spuntavano dalle sue grandi. I loro figli erano davvero troppo piccoli per privarli così della famiglia.
Seduti al tavolo tutti insieme Tsubasa immaginò quelle persone come una grande famiglia allargata.
 
Forse avrebbero dovuto confessare tutto alle mogli?
Forse avrebbero capito, dopotutto il loro affiatamento era innegabile.


Scosse la testa sovrappensiero, spostando un boccone da un lato all’altro del piatto. Avvertì una leggera pedata sullo stinco, sollevò la testa e due iridi nocciola lo fissavano incuriosito. Taro si assicurò di non esser visto prima di mimare con una bocca un: ‘Tutto ok?’
Tsubasa annuì impercettibilmente, sorridendo, poi il suo cellulare lampeggiò vicino al piatto. Afferrò l’oggetto e dopo averlo sbloccato aprì la chat della Golden Combi
 
 
 
Taro era sicuro, come in campo e in tutta la sua vita; affrontare tanti cambiamenti da giovane e nel corso degli anni lo avevano fatto sempre adattare al mondo in evoluzione.
Per Tsubasa invece la vita era stata un obiettivo continuo. Obiettivi precisi, uno di fronte all’altro, in fila come bravi soldatini.
Mentre per Taro era spostamento ed evoluzione continua; nuovi paesi, nuove culture, adattamento e trasformazione totale e progressiva. Forse il numero undici era più propenso a una nuova dimensione, a una nuova vita, a un nuovo cambiamento.
 
Il richiamo tassativo di Gamo arrivò forte e chiaro alle loro povere orecchie già martoriate. Alle 22:00 scattava il coprifuoco quindi, dopo aver salutato i bambini e le rispettive consorti, tutti i giocatori si ritirarono nelle proprie stanze.
Appena entrati in camera, Taro andò al suo letto e lo avvicinò a quello del capitano, Tsubasa intanto si tolse la felpa e la lanciò sul lato del compagno.
“Tanti anni e non cambi mai, eh?”
“Sei tu il perfezionista della squadra…” con un piccolo balzo, il capitano si buttò sul giaciglio, accese la luce al fianco del comodino e si distese al suo posto, vicino alla finestra. Gambe incrociate alle caviglie e cellulare in mano, stava scrivendo velocemente dei messaggi.
Taro andò al bagno e quando ne uscì trovò l’altro intento a guardare fuori dalla finestra. Si avvicinò e dopo essersi seduto si sdraiò in orizzontale mettendo la testa sul grembo del capitano. Messaggiò anche lui un po’ sul cellulare, mentre Tsubasa, con le dita tra i capelli, glieli accarezzava lentamente. Era oramai abitudine che la sera entrambi scambiassero messaggini con mogli e figli; era fastidioso, ma lo sapevano entrambi di non potersi sottrarre a quel compito per non destare sospetti. Quando il capitano capì che aveva finito iniziò a parlare: “Ti senti mai in colpa?”
Le dita ancora impegnate tra i capelli del numero undici, il movimento lento e cadenzato lo faceva rilassare; in realtà toccarlo lo calmava più di ogni altra cosa. Immaginava che la sensazione fosse reciproca per come ogni volta lo vedeva chiudere gli occhi e rilassare spalle e corpo all’istante.
“Non chiedermi perché, Tsubasa, ma non mi sento in colpa. È come se questa cosa fosse rimasta chiusa in una stanza e ora, aprendola, fosse entrata a far parte della mia… nostra vita.”
“Ho paura.” Ammise il numero dieci.
“Di cosa?”
“Un po’ per tutto: per le nostre famiglie, per le nostre mogli, per la nostra carriera. Anche che qualcuno possa scoprirci, in realtà. Ho timore che, involontariamente, ci possiamo tradire anche per un semplice gesto.”
“A me invece fa più paura pensare a quando finiranno i mondiali e dovremo stare separati. Ora non mi fa paura nulla, anzi, forse una…”
“Quale?”
“Finire prima il mondiale. Se finiamo prima il mondiale non potremmo stare insieme fino al 15 di luglio.”
“Ah, bene e la coppa del mondo?” domandò Tsubasa, sorridendo, e facendo sobbalzare leggermente la testa di Misaki sul suo ventre. Era buffo come le priorità di quel mondiale improvvisamente avessero assunto altre posizioni. Il compagno si issò e rotolò su sé stesso, assumendo una posizione prona.
“La coppa del mondo è un sogno che abbiamo già realizzato in passato, questo andrebbe solo ad ampliare la nostra magnifica carriera. Ma ora…” puntellando le mani si avvicinò ancora di più al suo viso; il braccio sinistro a circondargli il petto mentre il destro sorreggeva la testa sul palmo della mano.
“Ma ora?” domandò il capitano, attendendo che il compagno si avvicinasse ulteriormente per assaporare quel bacio che si sarebbero scambiati di lì a poco.
“Ma ora la priorità siamo noi e lo stare insieme il più a lungo possibile, poi ci saranno le ferie estive e la casa al mare.”
“Fermo, fermo – Tsubasa aveva provato a tirarsi su inutilmente, bloccato sotto metà del corpo di Taro – tu sei troppo avanti e già pensi al futuro.”
Misaki si fece serio, fissandolo negli occhi poco prima di esprimersi: “Avevo rinunciato a te. Mi ero fatto la mia vita, e ora… ora non ho alcuna intenzione di farmela rovinare dalle attese. Quindi sì, Tsubasa, penso alla prossima volta che ci rivedremo o non credo che potrò mantenere una lucidità e una sanità mentale tanto a lungo.”
“Lo so benissimo, io avevo perso il controllo prima di ammettere i miei sentimenti per te.”
Avvertì le mani calde di Taro intorno al volto prima che le labbra si posassero sulle sue. E mentre si perdevano in quel bacio tanto atteso nell’intera giornata, Tsubasa era certo che il suo sapore lo avrebbe accompagnato tutta la notte. Il compagno allungò la mano per spegnere la luce, la luna illuminò la stanza con il suo tenue chiarore.  
“Sono stanco morto…” sbadigliò Taro, accoccolato tra le braccia di Tsubasa.
“Già; stamattina Gamo c’ha massacrato, sono distrutto pure io” il bacio sulla fronte fu il giusto reso di quello ricevuto sul collo; intrecciò le dita con quelle dell’amante e si addormentò sereno.




Angoletto dell'autrice
Auguro buone vacanze a tutti, ci rivediamo per la finale dei mondiali il 14 luglio; dove nel mio mondo, ovviamente, il Giappone sarà presente con la mitica Golden Combi in pienissima forma XD.
A presto.
Sanae77

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Capitolo 9
*** Capitolo 08 ***


Sabato 14 Luglio 2018
 
Contro ogni aspettativa avevano superato i quarti di finale contro Brasile e la semifinale contro Francia. Erano state giornate tese e difficili, colme di allenamenti e riunioni estenuanti. I video che avevano visionato delle squadre avversarie erano stati interessanti. Solo che vedere le medesime immagini per ore intere avrebbe scocciato chiunque, anche dei fissati cronici di pallone come loro.
Fortunatamente il giorno prima della finale Gamo aveva deciso solamente di ripassare gli schemi e di non affaticare i fisici già provati da molti giorni di stress e adrenalina a mille.
Erano carichi, i suoi ragazzi, e lui ne era orgoglioso fino alla punta dei capelli.
Gli aveva concesso un’intima riunione con le famiglie e poi aveva detto loro di andare a letto presto. Sicuro che non lo avrebbero deluso, e che Tsubasa era un ragazzo responsabile, si ritirò nei suoi alloggi salutandoli. Un’ultima occhiata ai suoi due pupilli e gli occhi s’inumidirono per la gioia, e pensare che neppure due mesi prima credeva che non avrebbe superato gli ottavi di finale.
Tsubasa era arrivato stremato dal campionato spagnolo, poi c’erano stati i problemi di sonno, e dopo non sapeva come, ma Misaki aveva risolto tutto. Li aveva visti, la premura del numero undici verso il suo capitano era totale. I due ragazzi parevano gemelli separati in culla. Aveva fatto bene a farsi aiutare da Taro a risolvere il quesito del fantasista nipponico, a lui non interessava come avesse fatto, l’importante era che ci fosse riuscito.
Nel ritirarsi li aveva lasciati intorno ai tavoli, intenti a studiare gli ultimi dettagli.
Sì, era orgoglioso.


Era tutta la sera che la Golden Combi si fissava da lontano, la piccola festicciola riservata alla nazionale e alle loro famiglie si stava per concludere. L’indomani si sarebbe disputata la finale e loro avevano l’ordine di andare a dormire presto. Gamo si era già ritirato circa una mezz’ora prima. Le mogli parlottavano tra loro, divertite, mentre i bambini avevano l’onore di indossare gli stessi indumenti dei loro padri.
Il giorno dopo sarebbero, anche loro, entrati in campo al fianco della nazionale avversaria. Tsubasa parlava degli ultimi dettagli con Jun. I fogli aperti su uno dei tavoli del bar e il capitano con i palmi delle mani appoggiati contro di esso.
Ozora, quella sera, era un attentato alla sanità mentale. Sanità mentale che era andata a farsi fottere insieme al pensiero dell’ultima notte da trascorrere insieme. Inspiegabilmente, la finale dei mondiali non pareva avere tutta questa importanza nella sua testa. Inspiegabilmente era passata in secondo piano, mentre il podio era occupato dal pensiero della loro ultima notte insieme.
I pantaloni della tuta ufficiale, indossati con precisione, fasciavano alla perfezione i muscoli delle gambe e dei glutei. Per non parlare della maglietta a maniche corte e dei bicipiti messi in risalto dalla postura assunta per osservare gli schemi di gioco.
Il discorso di Hikaru improvvisamente sfumò come un pezzo di un brano musicale giunto alla fine. Fu quell’immagine così nitida, tra parole sbiadite, che fece capire a Taro che quella sarebbe stata l’ultima notte insieme. Quando si sarebbero rivisti poi? All’inizio del nuovo campionato, ovviamente. Sicuramente con i ritiri della nazionale, ma i mondiali erano quasi finiti e i prossimi prima di quattro anni non ci sarebbero stati. Senza considerare che non erano certi di poter essere presenti alle future competizioni, non avevano più vent’anni e nei quattro anni di gioco, che li avrebbero attesi, gli infortuni si sarebbero indubbiamente accumulati.
“Taro, mi stai ascoltando?” Hikaru se lo stava chiedendo da qualche minuto vista l’assenza di risposte o cenni da parte del compagno.
“Scusa, sono stanco, credo sia meglio che andiamo tutti a riposarci, vado a dirlo al capitano” non aveva finito neppure la frase e si era diretto verso l’altra metà della Golden Combi.
“Ma sono solo le 21.30…” la protesta di Matsuyama era caduta nel vuoto.
Misaki era arrivato da dietro e, posando una mano sulla spalla di Tsubasa, ne richiamò l’attenzione.
Il capitano si girò di scatto e trovarselo così vicino, inaspettatamente, gli fece scaldare le guance.
“Dimmi, Taro. Fa caldo stasera!” esclamò, tentando di mascherare un imbarazzo involontario scaturito dal tocco inaspettato.
“Penso che sia il caso di andare tutti a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata e una partita importante.” Il guizzo di desiderio nelle iridi nocciola non passò inosservato allo sguardo attento di Ozora che inarcò un sopracciglio perplesso, smorzando un piccolo sorriso.
“Condivido, quindi: ragazzi, è l’ora di ritirarsi nelle nostre stanze, domani abbiamo una giornata importante, siamo in finale e dobbiamo dare il meglio di noi stessi. E non voglio trovare nessuno stanotte ad allenarsi di nascosto, chiaro?!” il tono risoluto e lo sguardo deciso aveva zittito tutti. Sollevando il braccio aveva saluto i compagni e la famiglia; dopo, insieme a Taro, si erano diretti verso l’ascensore.
Mettendosi ai lati opposti delle pareti si scrutavano senza dirsi nulla. Il capitano appoggiato stava con un piede accavallato l’uno sull’altro fissando di tanto in tanto il display dei piani.
“Perché sei voluto andare a letto così presto?” chiese improvvisamente, interrompendo il silenzio.
“È l’ultima notte che passiamo insieme, poi staremo tanto senza vederci.” Un sorriso spento e triste si palesò sulle labbra del numero undici.
Dopo essersi dato uno slancio con gli avambracci e aver fatto un passo in avanti, Ozora arrivò di fronte al compagno, imprigionandolo contro la parete. Le mani a circondargli la vita e la fronte appoggiata all’altra. Un leggero bacio all’angolo della bocca fece rabbrividire Taro, prima che il caldo respiro e le parole di Tsubasa giungessero al suo lobo in un soffio.
“Non pensarci, ci saranno i campionati, i ritiri…”
Misaki chiuse gli occhi per assaporare la delicatezza dei baci con cui Tsubasa lo stava avvolgendo.
“…le vacanze insieme…” Taro lo sussurrò, esalando un sospiro.
DLIN
Il rumore dell’ascensore fece ricomporre i due e mettere tra loro la dovuta distanza, quella che non avrebbe insospettito nessuno. Quando le porte si aprirono Taro prese la carta magnetica dalla tasca dei pantaloni con la speranza di guadagnare anche quei pochi attimi.
Arrivati alla porta la infilò nella fessura producendo uno scatto metallico. Il capitano da dietro si avvicinò all’orecchio e, bisbigliando, chiese allusivo: “Che cosa intendevi per le vacanze insieme? Che strani progetti hai in mente, Misaki?”
Taro si voltò, trovandosi spalle alla porta e Tsubasa a pochi centimetri dal volto che lo fissava.
Accennò un sorriso prima di sollevare gli occhi al cielo e vagare con lo sguardo oltre il capitano. Averlo così vicino era una tortura indicibile, senza considerare che ancora erano nel corridoio e quindi visibili a tutti.
“Ma niente, ho sentito le nostre mogli che hanno prenotato una casa al mare non so dove…”
“COSA? E perché non le hai fermate?” Ozora con le braccia sollevate e i palmi rivolti al cielo era la rappresentazione dello stupore fatta persona.
“Ah, sentiamo, grande fantasista del calcio, cosa avrei dovuto dire loro, esattamente, dopo che da quasi dieci anni facciamo così?”
“Ma ti rendi conto quanto sarà difficile condividere la stessa casa con tutta la truppa e noi che non potrem-…”
La frase non riuscì a finirla visto il bacio con il quale il numero undici gli sigillò le labbra. Attirandolo verso di sé, Taro rimase intrappolato tra il legno e il corpo del compagno. Con la mano destra trovò la maniglia e una volta afferrata la girò per aprire la porta. Dovevano togliersi dal corridoio al più presto.
La porta si aprì piano trattenuta dal braccio di Misaki, mentre a lenti passi scomparivano dal cono di luce del corridoio per piombare nel tenue chiarore della camera illuminata dai lampioni esterni. Le pesanti tende, insieme alla moquette della stanza, ovattavano sagome, passi e il rumore della porta che Tsubasa aveva chiuso con il piede. Ogni bacio, che inesorabilmente li stava avvicinando al letto, era accompagnato da un indumento lasciato a terra.
Che la pelle di Tsubasa potesse essere così liscia lo aveva già constatato, ma ora che sotto di lui s’inarcava affinché i loro sessi fossero sempre più in contatto lo mandava fuori di testa.
Vederlo così eccitato ed essere consapevole del fatto che fosse lui a farlo accendere così era la libidine in terra.
Che gettasse la testa indietro, affondando nel cuscino la folta chioma per scoprire ancora di più il collo e permettergli di baciarlo gli offuscava i pensieri. Non sapeva più cosa toccare e cosa lambire di quel corpo arreso sotto al suo. Abituato ad altre forme non gl’importò di trovare il torace forte e muscoloso sotto le dita.
Gli importò invece di farle scendere lungo il fianco sinistro e sentire la pelle incresparsi sotto il suo tocco. L’altra mano accarezzava la guancia mentre il pollice destro tracciava il contorno delle labbra gonfie di baci.
Il piacere si tramutò in suono quando uscì dalla bocca del capitano, quando il pollice fu stretto tra i denti e tormentato dalla lingua, quando la bocca di Taro discese lungo il petto con una scia di baci continui.
Baci che non cessavano, baci che si facevano sempre più esigenti sulla pelle increspata come le onde dal vento.
Il suono del piacere adesso aveva un nome, adesso che Taro lo aveva sentito dalla bocca della sua metà in campo. Adesso che i loro corpi finalmente erano fusi in un’entità sola, come in campo, come i loro tiri a effetto unici e inimitabili.
Come i baci e i morsi che non riusciva a smettere di dare.
Come le mani intrecciate a quelle del compagno.
Come le gambe strette alla sua vita che lo facevano sentire un tutt’uno con lui. Ne era certo, la loro unione fisica avrebbe influito anche sul campo da calcio. Il movimento cadenzato gli ricordò l’onda del mare sospinta dal vento. L’infrangersi sulla spiaggia e il ritirarsi verso il mare aperto era esattamente come il suo corpo su quello del capitano.
E se averlo sotto di sé era stato bello, sentire il suo fisico pesargli addosso fu il piacere assoluto. Il fascio di luce arancione, filtrato dallo spicchio di tenda rimasto aperto, fece risplendere i capelli corvini del capitano. Ancora i corpi impegnati in un’unione sconosciuta godevano dell’inesperienza reciproca. I sensi ampliati al massimo percepivano ogni singolo muscolo in movimento. Gli occhi pece brillarono, innamorati, tuffandosi nelle iridi nocciola del numero undici. Taro imprigionò il volto del capitano tra le mani e, dopo averlo baciato con ardore, dal cuore oramai aperto provenne un suono che uscì dalla bocca in un: “Ti amo”, soffocato tra le labbra.
 
 
Un raggio di sole penetrò dalle tende. Tsubasa era dalla parte della finestra, prono, con la testa voltata verso il compagno. Taro si svegliò per la luce negli occhi, e dopo un primo momento di stordimento, dovuto al bagliore e al sonno, riuscì a mettere a fuoco la figura controluce di fronte a lui.
I capelli neri come l’ebano brillavano incendiati dal sole. Le lunghe ciglia ancora adagiate sugli zigomi gli fecero capire che stava beatamente dormendo. La bocca socchiusa e il respiro tranquillo gli permisero di restare con una mano sotto la guancia in attenta osservazione.
Che Tsubasa fosse bello lo aveva sempre saputo, ma averlo nudo sopra e sotto di lui era stata la sensazione più forte mai provata nella sua vita. La mano sinistra si mosse contro il suo volere e gli accarezzò prima la testa, per poi discendere sulla spalla svestita e proseguire sul fianco.
Il lenzuolo lo copriva solo dalla vita in giù e resistere a quella pelle candida e liscia era impossibile.
Un suono di protesta uscì dalle labbra di Tsubasa che, sollevando una mano, iniziò a stropicciarsi un occhio.
“Buongiorno.” Bisbigliò Misaki, prima di stampargli un bacio in fronte.
“Che ore sono?” domandò l’altro, stiracchiandosi.
“Le sei.”
“Allora è presto, Gamo aveva detto di scendere verso le otto, tanto la partita è in serata” constatò il capitano, avvicinandosi al compagno e tuffando il viso tra il collo di Taro e il cuscino. I leggeri baci che iniziò a lasciare da sotto l’orecchio lungo tutto il collo lo fecero rabbrividire.
“Cos’è, vogliamo sfatare il mito del sesso pre-partita?” ridacchiò, chiudendo la spalla a mo’ di difesa, gli stava facendo il solletico.
Il fantasista nipponico si sollevò leggermente, reggendo la testa con il palmo della mano sinistra, lo sguardo curioso e malizioso allo stesso tempo annunciarono la domanda: “Vuoi dire che sei sempre stato ligio alle regole?”
Misaki iniziò a ridere di gusto mentre, ripetendo i gesti di Tsubasa, si tuffava nell’incavo del suo collo, baciandolo. “Francamente no, ma…”
“Ma?”
“A così poche ore da un incontro mai.” Ammise, guardandolo dal basso con sguardo finto innocente. Tsubasa si allontanò un po’ per osservarlo meglio.
“Quindi cosa proponi? Di vedere se stasera in campo facciamo faville?”
“Mh-mh, direi che abbiamo il dovere d’informare il resto della squadra.”
“Quindi è da considerare come un sacrificio, giusto?” chiese il capitano, mentre le dita risalivano lentamente la spalla del compagno, fino a giungere alla nuca per afferrarla e attirarla a sé.
“Sì, un ottimo sacrificio.” Rispose il numero undici prima che il corpo dell’altro fosse sopra di lui.



 
Taro sentiva le voci come ovattate, lontane. Era concentrato e impegnato ad allacciare l’ultimo laccio degli scarpini.
Osservava Tsubasa che, vicino alla porta degli spogliatoi, già vestito di tutto punto con la maglia della nazionale, gli scarpini allacciati, le braccia incrociate al petto e un piede appoggiato al muro, ascoltava.
Ascoltava le ultime direttive di Gamo; battere la Croazia non sarebbe stato facile.
Era una squadra tosta, che in campo si era fatta valere e non si era mai fatta cogliere impreparata.
Sulle ultime parole d’incitamento, i compagni iniziarono a uscire dalla porta. Ozora lo stava aspettando. Senza la sua metà non si sarebbe mai mosso da lì. Taro traccheggiò per essere l’ultimo, poi si alzò e raggiunse la porta.
“Andiamo?” chiese, sollevando un sopracciglio.
Per tutta risposta il campione nipponico lo afferrò per la maglia e, attirandolo a sé, gli rubò un bacio a fiori di labbra. La sensazione di vuoto d’aria nello stomaco lo stordì per un secondo: Taro, quel bacio nello spogliatoio, non se l’era aspettato.
“Il bacio è di buon auspicio, e ora facciamogli vedere chi è la Golden Combi!” camminando nel tunnel, che li avrebbe condotti al campo, quella frase, Ozora, gliela aveva sussurrata da dietro, facendolo rabbrividire.
 
Nell’ultimo tratto del tunnel trovarono i loro figli già posizionati con i calciatori della squadra avversaria, questi si girarono e sollevarono il pollice verso l’alto.
Desirée che emozionatissima per mano a un calciatore, era il ritratto dell’immobilità, cosa strana per lei che di solito sprizzava vivacità da ogni poro.
La bambina si girò verso il padre e con il dito indice di fronte al naso indicò al numero undici di fare silenzio. Taro sorrise, era buffissima con quel completino del Giappone miniaturizzato e così tesa per l’ingresso in campo.
La Golden Combi si posizionò e afferrò le paffute manine dei bambini a loro assegnati, pochi attimi dopo le due squadre ricevettero l’ordine di uscire dai tunnel.
Prendendo un profondo respiro, iniziarono a salire i gradini in direzione del campo. Appena i primi giocatori della fila furono fuori, i cori partirono da ogni lato dello stadio.
I bambini si guardavano intorno con occhi brillanti di felicità. Le squadre a centrocampo eseguivano le foto di rito, gli inni nazionali e il lancio della moneta.
Tsubasa, con al suo fianco Taro, aveva scelto il possesso palla. Le squadre si posizionarono in campo e l’arbitro si apprestò a fischiare il calcio d’inizio.
Misaki, a pochi metri, dal capitano lo osservò sul disco del centrocampo, il piede sulla palla nella classica posa d’inizio partita. Il pallone assunse la stessa forma ovalizzata della sera in cui Ozora gli aveva confessato di essere la fonte dei suoi incubi. Il battito accelerò per qualche secondo al ricordo. Il capitano invece era attento e concentrato con gli occhi rivolti alla porta.

Quante cose erano accadute da quel giorno?
Quante complicazioni ci sarebbero state per il futuro?


Il fischio dell’arbitro lo riportò alla realtà mentre scattava veloce verso l’attacco, sapeva che entro pochi metri avrebbe incrociato la palla datagli dalla sua metà.
 
Aveva calciato verso Misaki e senza neppure sincerarsi che il passaggio fosse andato a buon fine progredì in avanti per siglare il primo goal. Voleva subito mettere una distanza con gli avversari e voleva ripetere quello che da anni era stato uno dei suoi goal preferiti, era tanto che non faceva.
Dopo un paio di scambi ai quali aveva partecipato anche Kojiro, si voltò verso destra, trovando Taro pronto al passaggio, quindi si posizionò di fronte alla porta e, avuta la palla a tiro, la calciò con precisione millimetrica. Il portiere si sollevò per toccare la sfera, ma non fu necessario perché questa s’impennò verso l’alto dopo aver picchiato nel palo. Il NO proveniente dal pubblico constatò la profonda delusione di tutti; tutti quelli che non conoscevano Ozora. Taro sorrise quando vide saltare Tsubasa per poi rovesciare su se stesso prima di tirare un bolide che s’insaccò nell’angolo sinistro della rete. Il portiere, pietrificato tra i pali, non si era neppure reso conto di quanto fosse accaduto. Era così che, a tre minuti dall’inizio, il Giappone era già passato in vantaggio.
Misaki era corso dal compagno e lo aveva aiutato a rialzarsi prima di stringerlo a sé, per sussurrargli all’orecchio: “Quindi abbiamo sfatato il mito del sesso pre-partita!”
Tsubasa rise di gusto poco prima che tutti e due venissero travolti dai compagni.
L’adrenalina era a mille e non accennava a placarsi, velocemente si erano ricomposti ed erano tornati a centrocampo per la ripresa del gioco.
Fu Hikaru a rubare la palla agli avversari e spedirla dritta tra le gambe di Kojiro. La Golden Combi si lanciò un paio di occhiate d’intesa, avrebbero seguito le evoluzioni del compagno dalle retrovie. Dopo tanti anni sapevano benissimo che Hyuga andava fatto sfogare, e visto che dopo pochi minuti erano già in vantaggio, lasciarono al compagno spazio libero per tirare i suoi bolidi.
Infatti, consapevoli di questo, sorrisero quando da fuori area videro partire un missile che, per fortuna del portiere, finì alle sue spalle, insaccandosi in rete. L’esplosione di gioia era stata vedere Kojiro saltare più volte, mostrando il pugno al cielo. Poi i compagni arrivati in corsa sommersero anche lui.
Era quasi la fine del primo tempo quando Genzo aveva fatto una delle sue parate micidiali. Gli era anche caduto il cappellino dalla testa e questo poteva dirla lunga su quanto si fosse impegnato per quel tiro.
Infatti, appena l’arbitro fischiò la fine del primo tempo, lui raccolse il berretto; a grandi falcate e imprecando come un pazzo, attraversò il campo picchiandolo sulla gamba.
Fu Taro a intervenire prima che rovinasse l’umore di tutti.
“Rilassati, stiamo vincendo!”
“Se la difesa non mi darà retta la porta non resterà inviolata, cazzo!” aveva guardato oltre Misaki, rivolgendosi a tutti.
A quel punto Ozora intervenne in suo sostegno.
“Ragazzi, dovete rispettare le direttive di Genzo, è lui l’ultimo difensore e sa come fare, forza!”
Mettendo la mano al centro del cerchio incitò gli altri al medesimo gesto d’unione.
Dopo essersi ristorati rientrarono in campo prendendo posizione. Gamo aveva deciso di rafforzare la difesa per mantenere il risultato, ovviamente non era nell’indole della squadra chiudersi a riccio.
Il secondo tempo fu un continuo attacco da parte della squadra avversaria e, nonostante l’impeccabile regia di Genzo in difesa, si trovarono in netta difficoltà.
Lo sguardo che la Golden Combi si scambiò passò inosservato ai più, ma ben presto tutta la squadra capì le loro intenzioni dai fluidi movimenti con cui stavano progredendo in avanti. Avevano deciso di mettere fine a quella partita prima dello scadere del tempo, e assicurarsi il terzo goal a metà della ripresa avrebbe fatto crollare gli avversari e i loro attacchi pericolosi.
Le grida d’incitamento dei compagni provenivano da ogni angolo del campo mentre con disinvoltura e senza problemi si apprestavano a raggiungere la porta avversaria. In una coordinazione millimetrica si prepararono al nuovo tiro.
Taro lanciò la palla in alto, sopra le loro teste, spiazzando la difesa avversaria: tutto si sarebbero aspettati, meno che un tiro del genere.
Insieme saltarono, elevandosi in aria per poi eseguire una perfetta rovesciata. L’effetto datogli fu incredibile, il portiere si buttò esattamente dal lato opposto, ingannato dalla traiettoria che si era modificata all’ultimo minuto.
Lo stadio esplose per la terza magnifica rete. Il commentatore non faceva che urlare ‘GOLDEN COMBI’ ai microfoni. I ragazzi a terra furono sommersi dall’intero gruppo. Si erano assicurati il mondiale e l’agognata coppa.
Per il tempo restante, la squadra si chiuse in difesa. Genzo si rilassò tra i pali in attesa del fischio finale, che quando arrivò portò i compagni alla follia totale dovuta alla vittoria. Misaki e Ozora vennero afferrati e portati in trionfo fino alla curva dei tifosi. Gli allenatori, preparatori e dirigenti invasero il campo raggiungendo i ragazzi per festeggiare.
Dopo aver sfogato tutta l’adrenalina del momento, furono premiati sopra il palco con una pioggia di coriandoli e la musica sparata a tutto volume.
Dal tunnel degli spogliatoi l’accesso fu consentito anche alle famiglie dei giocatori per dar loro modo di festeggiare.
Fu quando videro le rispettive mogli, con le lacrime agli occhi per la gioia della vittoria, che capirono che quello avrebbe siglato la fine della loro vicinanza.
Dopo un ultimo sguardo a Taro, Ozora si asciugò le lacrime con il braccio prima di innalzare la coppa del mondo al cielo.
Era certo che tutti avrebbero scambiato quelle lacrime di tristezza per gioia.


 




Angoletto dell'autrice
Ve lo avevo detto che il MIO mondiale era diffrente... XD

Le vacanze sono prossime, e con loro la futura convivenza, ma siamo così sicuri che saranno così bravi a mascherare il tutto?
A presto.
Sanae77

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Capitolo 10
*** Capitolo 09 ***


Giovedì 19 Luglio 2018

Sapevano che sarebbe stato difficile, ma non avevano immaginato quanto la vita reale li avrebbe messi alla prova.
Tutto era iniziato con due giorni di buio, dove messaggi non se n’erano visti. Fu proprio Taro a prendere l’iniziativa.


Nessuno dei due però aveva fatto i conti con qualcosa di mai provato nella loro vita.
Nessuno dei due aveva fatto i conti con la gelosia che li aveva investiti in pieno come un bus in corsa.
I messaggi si erano via via caricati di domande assurde e scontate, con provocazioni inutili, che la lontananza e il non vedersi accresceva costantemente.
Senza considerare le difficoltà che la vita di tutti i giorni faceva provare loro. Passare la maggior parte delle giornate al cellulare, soppesare ogni parola che si dicevano, se di fronte alle mogli, era snervante.
Entrambi spesso litigavano con le loro donne per il troppo tempo passato al cellulare. Azumi se n’era uscita con una pessima battuta che aveva fatto riflettere il numero undici.
“Cos’è, la vittoria del mondiale ha incrementato le tue fans visto che sei sempre al cellulare?”
Taro aveva buttato la spiegazione sullo scherzo, ma le parole della moglie lo avevano fatto riflettere, senza contare poi l’ossessione che era subentrata nel cancellare i messaggi dalla chat della Golden Combi. Odiava distruggere le parole che si scambiavano nei rari momenti d’intimità che si concedevano, nascosti in bagno o dentro l’auto.
Odiava perdere pezzi della loro storia. Pezzi che non sarebbero più stati recuperati. Ma allo stesso tempo temeva che Ozora scordasse di cancellare e che prima o poi Sanae scoprisse tutto.
Oltretutto finiva sempre che a ricordarglielo era lui… come a quindici giorni dal loro prossimo incontro.


Taro si fermò a riflettere sull’ultima frase del capitano, mentre aiutava la moglie a sistemare la spesa. Lei stava parlando, ma lui era troppo lontano.
Le prospettive di quella frase erano molteplici; includevano la famiglia, i figli, il calcio e il loro delicato rapporto. Se rapporto lo si doveva chiamare, per ora la sola cosa certa era che fossero dei clandestini e che stavano cornificando le loro mogli.
Guardò Azumi intenta a lavare un cespo d’insalata, a breve sarebbe uscita per andare a riprendere Desirée. Da quando era rientrato non aveva più provato ad avere rapporti con lei. Aveva sempre fatto in modo di evitarla, per quanto possibile, ma sapeva perfettamente che non sarebbe durata in eterno quella convinzione. E se non voleva farla insospettire doveva trovare un modo.

Immaginare Tsubasa forse poteva essere una soluzione? Pensò.

Osservando la moglie decise di fare un tentativo. Tentativo che già sapeva non sarebbe andato a buon fine visto l’orario; Azumi sarebbe dovuta uscire a breve quindi non avrebbe mai potuto proseguire e arrivare in fondo.
Era un ottimo escamotage per farsi vedere interessato e allo stesso tempo mettersi alla prova.
L’avvicinò da dietro, cingendola con le braccia, con il naso le scostò i capelli e prese a baciarla lungo il tratto del collo, chiudendo gli occhi. Si concentrò sulla prima volta che aveva incastrato il capitano alla porta. Le immagini gli esplosero nella testa insieme al ricordo dell’odore della sua pelle.
Inalò per assaporarne la fragranza e un altro odore gl’invase le narici riportandolo alla realtà. Azumi lo sentì irrigidirsi, quindi chiuse l’acqua e si girò all’interno delle sue braccia.
Con le mani umide gli afferrò il volto e con occhi preoccupati lo fissò perplessa.
“Taro, che ti sta succedendo?”
Lui la strinse ancora di più a sé, nascondendo il volto tra il collo e i capelli.
“Niente, perché?” domandò, mentendo, mentre tentava di riprendere la scia di baci che era stato costretto ad abbandonare.
La donna non si arrese e, facendo forza con le mani sulle spalle del marito, lo discostò affinché riuscisse a guardarla.
“Guardami invece di evitarmi, da quando sei tornato dai mondiali non sei più te; non mi cerchi più come prima.”
“Non ho niente, Azumi, sono solo stanco e con una tonnellata di adrenalina addosso. Sono certo che la vacanza in Grecia sarà risolutiva, ho proprio voglia di staccare il cervello da tutto.”
La moglie inarcò un sopracciglio sorpresa, lo allontanò da sé e iniziò ad agitare le mani: “No no, fermo: e tu vorresti farmi credere che con il capitano riuscirai a staccare dal calcio? Mi prendi in giro, Misaki?”
“Ehi, non abbiamo deciso noi le ferie insieme, siete state voi donne, come da una decina di anni a questa parte…” protestò, anche se il tono non risultò dei più convinti.
Azumi si voltò scocciata e, afferrando le chiavi dell’auto dal bancone della cucina, si avviò verso la porta.
“Abbiamo provato un anno a fare le vacanze separati, e certo non vogliamo ripetere l’esperienza di portare due cadaveri in vacanza. Vado a prendere Desirée che è meglio…” e uscendo aveva sbattuto la porta.
Taro era rimasto come un idiota a riflettere sulle ultime parole della moglie.

Davvero quando non erano insieme non riuscivano a essere felici?
Da quanto andava avanti questa simbiosi della quale non si erano resi conto?


Sbuffò, afferrando il cellulare e pensando di scrivere a Tsubasa. Rinunciò immediatamente quando prese coscienza del fatto che non riusciva più a baciare e toccare sua moglie come prima e questo avrebbe creato problemi, ne era certo.
Certissimo.
Quella farsa era destinata a essere scoperta prima o poi.




Angoletto dell'autrice
In attesa delle vacanze i nostri 'innamorati' vivono le difficoltà della lontananza, e ci battono ben bene il muso.
A presto.
Sanae77

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Giovedì 26 Luglio

Ricordarsi di cancellare la chat era un problema per lui.
Non aveva mai avuto segreti o, che si voglia, cose da nascondere. Per uno come lui, onesto, leale e corretto, quella situazione lo stava mettendo in seria difficoltà. Senza scordare che era uno sbadato cronico, prima o poi, ne era certo, Sanae lo avrebbe beccato.
Le occasioni per il tradimento in passato non erano certo mancate vista la sua posizione, ma lui non era mai stato interessato, senza contare quanto la vita possa complicarsi quando si intraprendono questo tipo di relazioni.
E lui aveva giurato a sé stesso che mai e poi mai si sarebbe cacciato in simili guai.
Fino a che… i fottuti incubi non lo avevano messo in ginocchio, facendogli non solo scoprire sentimenti sepolti da anni, ma anche facendo calare il suo rendimento. E questo, nella sua concezione lavorativa e professionale, non era contemplato.
Accettare l’amore per Taro aveva sortito l’effetto di un balsamo e lo aveva fatto tornare a giocare come si confaceva a un atleta del suo calibro.
Perché giocare bene significava anche star bene con se stessi, e lui ci riusciva alla grande quando la sua mente era serena e sgombra.
Venne assalito da mille dubbi su quanto sarebbe accaduto con la ripresa del campionato; Sanae non meritava tutto questo. Era sua moglie e lui l’aveva sempre rispettata; fino a un mese e mezzo prima.
I suoi figli non meritavano questo. La sua carriera poteva sicuramente risentire di quelle tensioni famigliari che sarebbero arrivate come un fiume in piena, ne era certo. Al ritiro aveva sottovalutato la cosa, proprio come aveva detto Taro, la lontananza e la ripresa della vita quotidiana erano difficilissime.
Una cosa era certa, era solo una questione di tempo prima che tutto venisse a galla, sarebbe bastato pochissimo perché tutto andasse a puttane.
Il bagliore del telefono lo distrasse dai suoi pensieri. Digitò la password e aprì WhatsApp. Taro, come al solito, proprio non ce la faceva a ridurre i messaggi. Sospirò pensando che la vita da clandestini fosse davvero difficile.
Era così che stava trascorrendo il tempo, in attesa della vacanza in Grecia che li avrebbe visti nuovamente insieme.
E se non era Taro a scrivergli, certe volte, anche lui ci metteva del suo, specialmente se succedevano cose particolari degne di esser raccontate.
 
 
Come poteva solo immaginare di non raccontare il primo tentativo di tiro combinato dei gemelli? Immancabilmente finivano sempre a parlare di altro. Non immaginava minimamente che Taro potesse subire così tanto la situazione.
“Tsubasa, sei con noi?” Sanae glielo stava chiedendo con le mani sui fianchi e leggermente imbronciata.
“Sì, scusa, stavo mandando un messaggio a Misaki per avvisarlo che siamo in ospedale, non vorrei che lo venissero a sapere dai giornali.” Mezze bugie, quelle bianche, anche se oramai non ci credeva più neppure lui.
“Bene, hanno detto che non è niente di grave, gli hanno dato solo due punti di sutura, tra dieci giorni li toglieremo, giusto in tempo prima di partire, è andata bene…”
“Ottimo, allora avviso Taro.”
Lei sollevò un sopracciglio e sarcasticamente rispose: “Mi raccomando, digli anche quante volte sei andato al cesso.”
Stizzita chiuse la porta e tornò dal figlio, mentre Ozora, imbambolato contro la vetrata, spostò lo sguardo su Daibu che sollevò le spalle arreso.
Evidentemente la madre aveva ragione. Suo papà era sempre al telefono con il numero undici, si sentivano in continuazione e la mamma più volte glielo aveva fatto notare.
Il campione si riscosse e, dopo aver scompigliato affettuosamente i capelli al figlio, si appartò per telefonare al compagno. Dopo neanche due squilli la linea venne sostituita dalla voce di Taro.

“Tsubasa, tutto bene Hayate?”
“Sì, sì, tutto ok, non è nulla di grave soltanto due punti di sutura da togliere tra dieci giorni.”
“Meno male che non si è fatto nulla, non vorrei che si rovinasse la carriera.”
“Per fortuna incidente classico senza complicanze.”
“Ottimo”
“Taro?”
“Dimmi.”
“Sanae mi ha appena fatto notare che… ci sentiamo troppo spesso.”
“Immagino, anche Azumi ha iniziato a farmi notare che ho sempre il cellulare tra le mani.”
“Dobbiamo cercare di diradare queste conversazioni…”
“Capisco. Sarà dura, ma capisco!”
“Mancano pochi giorni, godiamoci le nostre famiglie.”
“Non vedo l’ora di essere in Grecia.”
“Anch’io, ci sentiamo.”
“Ciao”

Si erano fatti violenza, ma per il benessere delle loro famiglie avevano diradato l’utilizzo del cellulare, imponendosi soltanto un solo contatto giornaliero.
Entrambi consapevoli che la vacanza insieme non avrebbe risolto i loro problemi; anzi, sarebbe stata solo un contentino che sarebbe finito troppo velocemente. E dopo? Come avrebbero gestito il futuro? Sarebbero stati capaci di vivere da clandestini e vedersi soltanto sporadiche volte? Sarebbero stati capaci di fingere ancora con le loro donne?
Tsubasa sulla sedia vicino al figlio, gomiti sulle ginocchia e viso tra le mani, cercava di riordinare le idee; mentre nella medesima posizione, in un parco di Parigi, Taro osservava la figlia giocare nella sabbiera, immerso negli identici pensieri.
Inconsapevoli protagonisti di gesti e pensieri comuni, che avrebbero potuto sconvolgere per sempre la vita di due famiglie e di due calciatori famosi.


 




Angoletto dell'autrice
Le vacanze sono prossime, e con loro la futura convivenza, ma siamo così sicuri che saranno così bravi a mascherare il tutto?
A presto.
Sanae77

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Giovedì 02 agosto
 

Era passato un fottuto mese. Un mese fatto di messaggi cancellati quotidianamente da WhatsApp. Un mese di pensiero fisso all’ultima notte passata insieme. Un mese a pensare ai loro corpi uniti. Un mese a contare i giorni restanti di separazione.
Ogni giorno era passato con un numero, un conteggio alla rovescia sulla chat della Golden Combi. Un -28 si era trasformato in un -15, poi -13 e così via.
E ogni mattina che si svegliavano, il primo metteva il numero del conteggio alla rovescia; in puro spirito competitivo era diventata una sfida.
E ora che nella chat era comparso il numero 0, messo da Tsubasa scorrettamente alle 00:01, i cuori avevano iniziato a battere all’impazzata nelle casse toraciche. Nessuno dei due era riuscito nell’intento di rispettare l’accordo di un messaggio al giorno. Era stato davvero impossibile, li avevano ridotti ma non erano scomparsi.
Nel tratto di strada che li aveva separati dalla casa in affitto, in Grecia, all’aeroporto i messaggi erano cessati improvvisamente.
Misaki era arrivato due ore prima di lui e aveva ispezionato tutta l’abitazione in attesa di Tsubasa e famiglia.
Era agitato come non lo era mai stato, tanto che Azumi gli aveva lanciato delle occhiate preoccupate, temendo che l’alloggio non fosse di suo gradimento. 
“Taro, la casa l’abbiamo scelta con Sanae, non temere, vedrai che saranno contenti, smettila di consumare il pavimento.”
“La casa è perfetta, tesoro, è che la spiaggia di fronte è bellissima e non vedo l’ora di fare una partita con Tsubasa e i gemelli.” Aveva mentito in parte, la partita voleva farla davvero, magari da solo con il capitano.
Quando sentì la ghiaia rumoreggiare sotto le ruote di una macchina, capì che la famiglia Ozora era arrivata a destinazione.
Si precipitò alla porta e, con il labbro inferiore chiuso tra i denti, la aprì cercando di trattenere l’impeto con cui avrebbe voluto travolgere Tsubasa.
Solo l’idea di sentire nuovamente la pelle sotto le dita gli fece muovere il sesso nei pantaloni. La mancanza fisica era stata una tortura, senza considerare che i rapporti con sua moglie non erano più così importanti e soddisfacenti.
Trovava un sacco di scuse, dallo stress per i mondiali, ai troppi allenamenti, ma Azumi non era una scema e presto o tardi avrebbe fatto domande. Domande a cui lui non sapeva dare risposte. Aveva provato a chiedere consiglio a Tsubasa, senza successo.
 
La luce del sole lo accecò per un istante, sollevò il braccio per poter vedere la vettura parcheggiata vicino alla sua. Anche Tsubasa aveva preso un’auto a noleggio. Il capitano scese dal lato guidatore e puntò il viso nella sua direzione, pochi attimi dopo sollevò il braccio in segno di saluto. L’istinto gli lanciò chiari segnali che dovette ignorare o avrebbe sbattuto il campione nipponico sul cofano dell’auto. La pelle abbronzata risaltava sul completo bianco ed estivo dell’Adidas a pantaloncini corti.
Discese velocemente i gradini dell’ingresso e salutò Sanae, poi strapazzò un po’ la testa incasinata dei gemelli, tali e quali al padre, e dopo si diresse verso il suo amante.
Il capitano chiuse lo sportello dell’auto e sollevò gli occhiali da sole sopra la fronte, per guardarlo senza filtri. Sorrise quando Taro gli si fece vicino con gli occhi che brillavano di gioia.
“Ciao, benarrivati, ti aiuto con le valigie.” Puntualizzò dopo avergli stretto la mano e afferrato una spalla con l’altra.
“Aspetta, facciamo insieme.” Rispose Ozora raggiungendo il retro dell’auto dove Taro aveva già provveduto ad aprire il bagagliaio.
Gli sguardi fissi sulle valige e le mani protese verso di esse, stentarono un attimo quando le braccia si sfiorarono in quel contatto tanto atteso.
“Ho voglia di te” sussurrò Misaki, non riuscendo a staccare gli occhi dai bagagli di fronte a lui.
“Sapevo che questa vacanza sarebbe stata un disastro.”
“Non lo sarà se staremo attenti. All’imbrunire ci dedicheremo a un bell’allenamento sulla spiaggia…”
“Vedo che non perdi tempo, Taro. Hai già pensato a tutto. Bene, e allenamento sia.” Il fantasista afferrò due borse e, dopo aver strizzato un occhio nella direzione dell’amato, si avviò verso casa.
Misaki sorrise soddisfatto del primo tassello inserito per quelle ferie. Ed era certo che non sarebbe stato né il primo, né l’ultimo, quindici giorni non erano pochi. Non voleva certo pensare al dopo, aveva aspettato tanto questa vacanza e voleva godersela appieno, al resto avrebbero pensato poi, quindi afferrò anche lui due bagagli e seguì il capitano.
Entrati in casa e posizionate le valigie nelle relative camere, raggiunsero le mogli in veranda. Entrambe stavano commentando quanto la casa fosse bella e molto pratica.
La veranda era separata dalla spiaggia da soli due gradini. A destra di questi una bacinella ricolma di acqua permetteva di togliere tutta la sabbia senza imbrattare la casa. Sul retro, incastonata in un curatissimo pratino all’inglese, la piscina rettangolare, interrotta dalla vasca idromassaggio, restava placida in attesa dei suoi ospiti.
I bambini, colti dall’euforia, si precipitarono in spiaggia rincorsi da madri urlati e preoccupate per la loro pelle: non avevano neppure fatto in tempo a mettere loro crema protettiva e cappellino.
I due uomini guardavano, sorridendo, la buffa scena d’inseguimento che si stava consumando di fronte ai propri occhi.
“Ci faranno sudare le sette camicie, questi monelli.” Commentò Taro mentre ridacchiava della povera Sanae indecisa su quale dei due acciuffare per primo. Azumi invece aveva già placcato la viperetta.
“Andiamo a dar loro una mano prima che sclerino” Tsubasa calò nuovamente gli occhiali sul naso e, superando Misaki da sinistra, gli sfiorò di proposito la spalla prima di mettersi a correre in soccorso della moglie.
Hayate scorrazzava ancora come un matto prima che suo padre in scivolata lo atterrasse da dietro.
“Fallo” gridò il bambino, rotolandosi nella rena e ridendo come un matto.
Il numero undici, osservando le loro famiglie spensierate e ignare della loro relazione, fu colto da un improvviso senso di colpa. Stavano sbagliando tutto. Scosse la testa, ripensando ai buoni propositi avuti la sera della scoperta nella loro stanza dell’albergo.
Buoni propositi tramontati a causa sua. A causa del suo cuore che non era stato capace di rinchiudere l’amore provato in passato nella scatolina a lui destinata. Si era espanso e non c’era più stato verso di riporlo là dentro.
 
Il cielo si era tinto di rosa e indaco lentamente. Dal lato opposto, invece, un cumulo di nubi plumbee non promettevano niente di buono, i due campioni fermi in veranda, e in completo bianco da allenamento ufficiale, scrutavano perplessi il cielo.
Non conoscevano il microclima della zona e non erano in grado di capire se quelle nubi fossero una minaccia reale o soltanto un rischio passeggero.
Si guardarono un attimo prima di parlare. La voglia di stare da soli, anche per solo dieci minuti, era tanta, troppa.
“Pioverà?” Domandò il capitano perplesso.
“Credo di no; solitamente si sente l’odore della pioggia…” bisbigliò il numero undici con il naso all’insù. Si guardarono e annuirono all’unisono quando decisero di correre il rischio.
Azumi, quando li vide scendere il primo gradino, inarcò un sopracciglio: “Siete sicuri che non pioverà?”
“Francamente no, ma fa ancora molto caldo e comunque il sudore non mancherebbe; quindi ci bagneremo ugualmente.” Ozora le rispose regalandole un sorriso rassicurante.
“Comunque andremo verso destra, così in caso di temporale potremmo ripararci sotto quel pontile che abbiamo visto in lontananza stamattina, Azumi.”
“Ok, ma se vedete che ci sono troppi fulmini rientrate, per favore, non fateci stare in pensiero. Pensare di rimandare l’allenamento a domani è un’utopia, vero?”
La risata che la colse alle spalle la spaventò, Sanae con le mani allo stomaco sembrava divertirsi un mondo.
“Ehi, che hai da ridere?” chiese la moglie di Taro, contagiata dalla risata dell’amica.
“No, vabbè, tu che chiedi alla Golden Combi di saltare un allenamento è davvero comico. Unica soluzione sarebbe spezzargli le gambe.”
“Hai ragione, me misera che non ho pensato di portare una sega elettrica…” li beffeggiò Azumi.
“Ci stanno prendendo in giro?” chiese Tsubasa, voltandosi verso l’altra metà in campo, e non solo.
“Sagace come al solito vedo…” Misaki gli mollò uno scappellotto e si mise a correre.
“Ehi!” protestò Ozora prima di partire all’inseguimento.
Fianco a fianco raggiunsero la battigia dove la sabbia più solida rendeva la corsa agevole, così presero a correre verso il pontile visibile in lontananza.
 
Avevano fatto appena tre chilometri quando un lampo squarciò il cielo e i primi goccioloni, grandi come noci, iniziarono a impattare sulla sabbia.
Affrettarono la corsa cercando di raggiungere il pontile, si erano voltati indietro ma la casa era molto più lontana. Erano giunti quasi a destinazione quando il cielo decise di rovesciargli addosso tutta l’acqua accumulata nelle nubi, lo scroscio improvviso li inzuppò fin dentro le ossa.
La corsa terminò quando, infreddoliti e bagnati come pulcini, posarono entrambi le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
Taro osservava il cielo plumbeo con il naso all’insù. Il viso rischiarato e illuminato a intermittenza dalla luce dei fulmini. Le gocce cadevano una a una, dai corti capelli, per infrangersi sulle spalle già bagnate. La maglia bianca si era appiccicata alla pelle come se lo fosse anch’essa.
Il fiato corto faceva abbassare e alzare il torace ritmicamente.
Era bello.
Questo fu il pensiero di Tsubasa mentre le iridi nere scivolavano dalle spalle, al torace, fin sulle anche e si soffermavano sulla linea dei glutei. Intravide i boxer firmati Armani sotto i pantaloncini bianchi che non riuscivano a coprire più nulla.
Abbandonò quel corpo per osservare il suo, era nella medesima condizione. Quel completino bianco era inutile, anzi, così bagnato dava soltanto fastidio e lo faceva sentire ancora più infreddolito.
Fu distratto dai propri pensieri quando Taro iniziò a parlare: “Mi sa che non sono molto bravo con le previsioni del tempo…” ancora con gli occhi al cielo, scrutava attento le nubi, inarcando le sopracciglia a più riprese.
“Una cosa è certa Misaki, il tuo olfatto è pessimo, lasciatelo dire. Solitamente si sente l’odore della pioggia…” Il capitano ridacchiò, calcando lo sfottò sull’ultima frase.
Il numero undici si voltò con le mani arpionate sui fianchi, ma lo sguardo si trasformò quando gli occhi percorsero i tratti di chi avevano di fronte. Deglutì piano prima di avvicinarsi come un leone alla sua preda.
“Quindi metti in dubbio il mio olfatto, Ozora.”
Tsubasa indietreggiò sorridendo quando capì le intenzioni dell’altro. Un passo indietro per lui, un passo avanti per Taro. Quando si trovò con le spalle contro un ruvido palo di legno, consumato dalle onde, il capitano fu costretto ad arrestare la ritirata.
“Non solo, anche la tua capacità di giudicare il tempo, ma…”  il capitano lo afferrò per la maglia, poco sotto al mento, attirandolo a sé.
“Ma?” indagò curioso dopo aver intrecciato le braccia dietro la schiena del compagno e aver fatto aderire i loro corpi incastrando le gambe l’un l’altra.
“Sai creare ottime occasioni per noi…”
Le parole cessarono quando Tsubasa gli passò le mani dietro la nuca.
Quando la lingua, teneramente, lambì le labbra carnose dell’altro e raccolse ogni singola goccia di pioggia scesa fin lì.
Quando ne cercò l’accesso, mordendo delicatamente il labbro inferiore.
Quando finalmente riuscì a sentire il suo sapore, dopo un mese passato nel tentativo di ricordarlo. E per quanto ci fosse riuscito, e avesse avvertito le farfalle nello stomaco, era niente in confronto all’averlo adesso tra le braccia e sentire la pelle del collo incresparsi sotto le dita. Mentre le onde del mare gli lambivano le caviglie, i brividi si diramavano in ogni parte del corpo. Non seppe distinguere se fossero dovuti all’acqua salata, alla maglietta bagnata o ai baci di Taro che adesso non sapeva smettere.
Di una cosa era certo, il freddo era improvvisamente passato, ed era stato sostituito da un calore incessante che sentiva sprigionare dal suo corpo per mescolarsi all’altro, scambiarlo. Le mani di Taro nel frattempo vagavano libere sui fianchi dopo aver scostato la maglia bagnata appiccicata addosso.
La pelle bruciava sotto i polpastrelli increspati dalla troppa umidità.
Il tempo si era come dilatato, trovando una dimensione differente, solo loro. Una dimensione per una vita parallela che non poteva esistere. Un tuono squarciò il cielo riportandoli alla realtà. Con le fronti appoggiate e il fiato corto, le erezioni pulsarono nei boxer, facendoli sorridere.
“Ok, Ozora, diamoci dieci minuti.”
“Anche quindici…” rispose l’altro, lasciando una scia di umidi baci sul lato destro del collo.
“Così non vale…”
“Neppure portarmi qua vale, se poi non possiamo concludere…” Tsubasa lo guardò con le iridi illuminate dai lampi.
Misaki arcuò le labbra maliziosamente così da tradire il tono innocente della frase. “Non so cosa tu ti fossi messo in testa.”
Si staccò dal compagno, tentando di ricomporsi.
“Sicuramente meno di quanto stai pensato tu, sei tu l’organizzatore di serate.”
Taro si tolse la maglia e la strizzò, “quindi dobbiamo organizzare un incontro, giusto?”
“Giusto” ribadì il capitano, compiendo il medesimo gesto.
“Certo che se iniziamo a spogliarci…” il numero undici allungò la mano e sfiorò un fianco del compagno, la mano si spostò sul retro e fece pressione per avvicinarlo. I toraci nudi si toccarono ancora. La pelle sembrava scottare di più vista la mancanza delle maglie bagnate.
“Ho voglia di te” confessò il fantasista mentre nascondeva il volto nella piegatura del collo.
Taro gli baciò una tempia prima di scostarlo di nuovo.
“Una di queste notti ci organizziamo e torniamo qua, che ne dici?”
“Dico che hai delle ottime idee, ma un pessimo olfatto.” Lo scatto fulmineo, dopo che la maglietta bagnata era stata usata come frusta sul fianco del compagno, colse Misaki impreparato.
Ozora rideva mentre di corsa, affiancati, tornavano a casa dalle loro mogli, consapevoli del fatto che, una volta varcata quella soglia, avrebbero dovuto tornare alla vita reale e alla recita che oramai facevano da più di un mese.
Fingere di amare le proprie mogli come prima era quanto di più difficile avessero fatto in vita loro. Neppure le sfide calcistiche affrontate fino a lì si erano rivelate così ardue. Vivere una vita che non gli apparteneva più era quanto di più assurdo si erano trovati ad affrontare alla soglia dei trent’anni. E se in un primo momento avevano pensato di poter sotterrare tutto, sotto una colata di malta, nessuno dei due aveva fatto i conti con i sentimenti; tanto potenti da scalfire il cemento, incrinarlo e sgretolarlo in polvere fine. Polvere che si era dispersa nel vento lasciandoli nudi e in balia dell’amore che li aveva travolti. I buoni propositi di Ozora, come Misaki aveva immaginato, erano stati troppo ingenui e ottimistici, ne erano entrambi consapevoli.
Nessuno dei due sapeva cosa attendersi dal futuro, nessuno dei due sapeva cosa il destino avesse in serbo per loro, visto che dopo tanti anni aveva già giocato un brutto tiro mancino. Un tiro che in un solo colpo poteva rovinare loro la carriera e la famiglia.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Tre giorni di convivenza e baci rubati, quando possibile, non erano più sufficienti. La voglia di stare insieme cresceva ogni secondo e non era contenibile.
Quel pomeriggio si erano ritrovati in spiaggia e, tutti insieme, avevano deciso di costruire uno stadio per poi giocarci, come spesso accadeva con la pista delle biglie. Nel costruire le pareti, e nel lisciarle più volte, le mani di Taro avevano sconfinato nel pezzo di stadio assegnato al capitano.
Le iridi si erano incrociate dallo spiraglio sovrastante gli occhiali da sole leggermente calati. Gli occhi si erano sorrisi, cercando di non coinvolgere le labbra per non farsi scoprire, mentre le calde mani spesso si erano sfiorate volontariamente senza darlo troppo a vedere, e quanto fosse eccitante sentire la rena bollente e ruvida sotto le mani di Taro, Tsubasa glielo avrebbe detto quella sera. Avevano comunicato alle mogli che sarebbero usciti per pescare in notturna; la scusa aveva retto benissimo.
Utilizzarono una egagropila* come palla ufficiale e ventidue sassi, posizionati in campo, simulavano perfettamente i giocatori.
Si erano divertiti insieme ai bambini in una sfida all’ultimo sangue. Poi era arrivata Desirée che, con nonchalance, facendo finta di passeggiare sulla spiaggia, aveva distrutto un fianco dello stadio.
Daibu si era allontanato imbufalito; Taro aveva sgridato la bambina che era andata a rifugiarsi dalla madre e Hayate aveva coinvolto Tsubasa in una sfida testa a testa a calcio.
Sanae vide arrivare suo figlio a testa bassa e sedersi sotto l’ombrellone.
Lei sollevò lo sguardo incuriosita: “Daibu, che cosa è accaduto?”
“Siamo sempre alle solite, quella lì – disse indicando la bambina piangente tra le braccia di Azumi – ci rovina sempre tutto, ecco!”
“Amore, lo sai che Desirée è ancora piccola per certe cose…”
Sanae allungò la mano sulla testa del figlio, accarezzandola con amore.
Fu Azumi a intervenire.
“Desirée, chiedi subito scusa al tuo amichetto per aver distrutto il loro gioco, muoviti!”
“No, loro ‘ono butti non mi fanno giocare.” Rispose alterata la bambina e guardando Daibu da sotto le braccia della madre. Aveva nascosto la testa tra le gambe della donna, sbirciando di tanto in tanto.
“Però ha ragione, Daibu, non la fate mai giocare…” Sanae tentò una mediazione tra i due.
“Non è che non la facciamo giocare, è che lei è piccosa, vuole sempre vincere e non sta mai alle regole. Uffa, che colpa ne abbiamo noi?” Il bambino in piedi di fronte alla madre stava gesticolando animatamente, dedicandosi a una spiegazione convulsa, ma credibile.
La signora Ozora annuì, accogliendo le proteste del figlio e decise di dargli un piccolo premio: “Facciamo così, per rimediare, la mamma ti fa giocare un pochino con il cellulare, a patto che tu faccia pace con Desirée, e vedrai che quando crescerà questi problemi spariranno… promesso, ok?”
Allargando le braccia, lo accolse tra le sue, coccolandolo dieci secondi, prima che il bambino si staccasse e arrivasse di fronte alla piccola viperetta.
Azumi di conseguenza discostò la figlia e la incitò a scusarsi con Daibu.
Una volta fatta pace, il bambino si sedette all’ombra affiancando la madre con l’ambito premio tra le mani. Era difficile tenere i figli lontano da quegli arnesi infernali, ma con Tsubasa si erano accordati su certe regole e per ora davano i loro frutti.
E questo era uno di quelli; sfruttare il cellulare come piccola ricompensa non era poi così male. Oltretutto Daibu adorava fare le foto e spesso Sanae se ne ritrovava di simpatiche all’interno della galleria.



La sfida tra Hayate e Tsubasa si era conclusa con un nulla di fatto e un capitano arreso sotto al figlio, succube di un incessante solletico da parte del bambino.
Taro, seduto poco distante con gambe allungate e incrociate sulle caviglie, stava sorreggendo il tronco con le braccia tese indietro. Guardò i due sorridendo prima di alzarsi e raggiungere il mare. Aveva caldo ed era arrivato il momento di fare un bel bagno.
Passò poco da che vide Tsubasa sollevare il figlio e, con poca grazia, scaraventarlo in acqua seguito a ruota dal padre.
Vicino a lui iniziarono una battaglia di schizzi, che ben presto lo coinvolse. Si voltò e vide arrivare anche Sanae e Azumi, mentre Desirée imbronciata restava sulla sdraia della madre e Daibu sull’asciugamano con il cellulare.
La battaglia imperversò in mare per almeno dieci minuti; tra varie simulazioni di annegamento e vere boccate d’acqua ingoiata per il troppo ridere.
Le prime ad arrendersi furono le donne seguite da Hayate, che tornò a sistemare il campo da calcio distrutto dalla piccola vipera.
La Golden Combi invece sedette sulla riva in una posizione similare a quella assunta in precedenza da Taro.
I corpi abbronzati risplendevano grazie alle goccioline salate.
Le braccia tese indietro mettevano in risalto i pettorali affaticati dalla battaglia, le mani unite celate dalla sabbia invece godevano di quel tocco inaspettato.
Tsubasa scosse la testa per togliere l’acqua in eccesso, investendo Taro di schizzi.
“Ma grazie, Tsubasa, mi ero già rinfrescato, eh!”
Il capitano sorrise apertamente, snudando il bianco dei denti, poi si avvicinò al compagno, che con il volto rivolto a lui e testa leggermente inclinata, aveva assunto una posizione di totale ascolto.
“Bene, le calure conservale per stasera…” bisbigliò il capitano affinché nessuno li sentisse.
Misaki arrossì improvvisamente mentre tentava di nascondere la guancia nell’incavo della spalla. Dopo sollevò un braccio, e con il palmo della mano lo spinse via per spezzare il momento d’imbarazzo appena provato.
Tsubasa si alzò e raggiunse Hayate per aiutarlo nell’opera di ricostruzione.
Entrambi non vedevano l’ora di essere sotto al pontile come accaduto pochi giorni prima.



“Avete preso il termos con il caffè?”
Taro sollevò gli occhi al cielo e rispose per la ventesima volta alla moglie, che da circa mezz’ora si stava preoccupando, che avessero preso tutto per la serata dedicata alla pesca.
Tsubasa, zaino in spalla e avvolto nella tuta della nazionale, era fermo sulla porta in attesa del compagno.
Le mani nelle tasche della felpa e una gamba rilassata a pesare sull’altra nella classica posa di chi attende di andare via.
“Azumi, non dormiamo tutta la notte fuori, quello che abbiamo preso è sufficiente per quello che dobbiamo fare. Tanto siamo due frane a pescare, non ti aspettare granché al nostro ritorno.”
“Che fiducia, Misaki, che hai nella Golden Combi” ironizzò il capitano, inclinando la testa dubbioso.
“Ho fiducia di noi con una palla in mezzo, non con delle canne da pesca.”
Sorrise. E ogni volta che lo faceva in modo così improvviso e spontaneo era adorabile. Tsubasa amava vederlo così felice.
Taro prese il suo zaino e lo caricò in spalla, infilato anche lui il cappuccio, arrivò da Ozora e dopo averlo preso per un braccio lo trascinò fuori; mentre con la mano salutavano mogli e figli.
“Libertà!” esclamò Ozora mentre fianco a fianco camminavano sulla battigia in direzione del molo. Oramai lontani dal cono di luce della casa, e penetrati nel buio della spiaggia deserta, si rilassarono scaricando la tensione accumulata sulle spalle. Il passo divenne meno rigido e più leggero. Taro prese le cuffiette e come in aereo ne condivise una con il compagno. La musica di Midge Ure – Breathe si diffuse nelle orecchie mescolata al rumore di sottofondo del mare. Tsubasa adorava quella condivisione di note che perdurava oramai da anni. La sua metà in campo aveva questa passione da sempre.
“Ti senti mai in colpa per quello che stiamo facendo?” chiese Misaki, sbirciando il compagno alla sua sinistra. La luna gli restituì un’immagine dai contorni argentei. Osservò oltre quel profilo e notò che il satellite era quasi al culmine; avevano le torce, ma non era stato necessario accenderle.
“Sì, ogni fottuto giorno, ma – emise un sospiro prima di affrontare un discorso che sembrava molto complesso – ho riflettuto su quanto sia stato male prima di riuscire a interpretare quei sogni; quanto ho sofferto senza riuscire a capire quello che mancava nella mia vita. Inoltre non mi sarei mai aspettato una simile reazione da te. Il tuo discorso sulla famiglia e i figli all’inizio non faceva una piega; ero convinto fosse la cosa più giusta da fare.”
“Ma poi i miei buoni propositi sono andati a farsi fottere e ti ho trascinato in un baratro infinito…”
Il capitano lo afferrò all’altezza del gomito per fermarne l’avanzata, adesso l’uno di fronte all’altro si guardavano da sotto i cappucci della felpa.
“Non ti ho mai chiesto che cosa hai provato nel periodo dell’adolescenza, quando avevi capito di esserti innamorato di me.” La mano usata per afferrare il braccio adesso era corsa lungo il fianco per incastrarsi tra lo zaino e la felpa; poi il capitano aveva fatto pressione affinché si avvicinasse a lui.
“A quei giorni sapevo che era una battaglia persa. Anego era l’unica persona che vedevo al tuo fianco sempre e comunque. Vedevo come lei ti guardava, anche se tu non te ne eri reso conto in un primo momento; avevi sempre il pallone in testa – l’indice del numero undici si era sollevato, per premere sulla tempia del compagno – e il giorno che mi hai chiesto di farti da testimone… ecco, lì ho capito definitivamente che non avevo alcuna speranza. La cosa strana è che a quei tempi neppure mi chiedevo se fossi gay o meno, a me interessavi tu e basta. Non guardavo nessun’altro o altra. Poi ho conosciuto Azumi e non c’ho più pensato. Alla fine credevo di aver superato la cosa, ma quando mi hai detto in quel modo, quando hai confessato che ero io il problema dei tuoi sogni, quando hai detto di amarmi…”
Sollevando lo sguardo, gli occhi nocciola brillarono alla luce della luna. Il capitano sorrise prima di baciarlo all’angolo della bocca. Si scambiarono altri baci prima di tornare a incamminarsi verso l’obiettivo.






Quando Ozora gli vide distendere il telo cerato sulla sabbia umida scosse la testa. Taro era davvero un perfezionista. Appoggiato con la spalla a una delle palafitte del pontile, ridacchiava mentre il numero undici preparava una sorta di giaciglio, che di lì a poco li avrebbe accolti.
“Ok, adesso basta!” sentenziò il fantasista nipponico, afferrandolo per i fianchi e spingendolo sul telo. Le mani sotto la felpa iniziarono a muoversi sulle costole facendolo ridere. Il solletico proprio non lo sopportava; Tsubasa lo sapeva e ogni volta se ne approfittava.
Riuscì in qualche modo a girarsi su se stesso e avere il capitano di fronte su di lui.
Rideva con le lacrime agli occhi, contorcendosi.
“Dopo però non lamentarti del freddo o della sabbia.” Protestò Taro tra le risa.
“Non dirmi che hai pensato anche alla coperta per il freddo in piena estate.” Il fantasista, fermo su di lui, con le mani ai lati del volto, si puntellò sulle braccia per guardarlo meglio e non pesargli addosso.
“Ovvio, dopo quasi un mese a litigarsi le coperte, mi pareva il minimo con questa serata carica di umidità. Non abbiamo mica sedici anni Ozora!”
Taro allungò le braccia sopra la testa e dallo zaino tirò fuori una trapunta grande che, con l’aiuto di Tsubasa, celò i loro corpi.
“Organizzazione impeccabile, Misaki. Ma non credo che soffriremo il freddo…” Gli soffiò sulle labbra prima di cercarne l’accesso con la lingua.
Sentì il cuore di Misaki battere forte sotto il torace, adorava sorprenderlo per percepire le vibrazioni. Nel frattempo le mani del numero undici, s’intrufolavano prima sui fianchi per poi discendere all’elastico dei pantaloni, superarlo e introdursi furtivamente sotto ai boxer.
Non si erano resi conto di come fossero riusciti a spogliarsi, la cosa certa era che Taro continuava ad accarezzare, con le dita della mano sinistra, la spalla dalla pelle diafana che spuntava dalla coperta. Tsubasa, con un braccio sopra al suo petto e la testa appoggiata nell’incavo della spalla, stava dormendo tranquillamente dopo l’amore. Lo avvertiva dal leggero soffio che, dalle labbra rosse di baci, s’infrangeva sul lato sinistro del collo, facendogli increspare la pelle. Taro era rimasto sveglio a fissare il cielo, attraverso una fessura nella tavola del pontile. Il satellite che faceva capolino da questa regalava loro una timida luce. I capelli color ebano del capitano avevano assunto i riflessi argentati della luna. Sarebbe rimasto a vita in quella posizione. Alzò il braccio destro per guardare il quadrante dell’orologio; questo segnava le tre passate.
“Vorrei restare così per sempre…” con voce assonnata, Tsubasa si era avvicinato ancora di più contro il corpo nudo dell’altro. Taro di conseguenza aveva posizionato il braccio sotto quello del compagno e lo aveva stretto a lui come a volerlo proteggere.
“Che fai, Ozora, mi leggi nel pensiero adesso?”
“Ultimamente mi resta facile entrare in comunicazione con te, lo ammetto – il capitano portò la mano sotto all’orecchio così da sollevare la testa per guardarlo meglio – come oggi in spiaggia, ho apprezzato quando le mani si sono toccate sotto la sabbia…”
Taro portò il braccio destro in alto, passando le dita tra i capelli in un gesto preoccupato.
“Dobbiamo stare più attenti, non siamo al ritiro, non siamo soli, le nostre mogli non sono delle stupide, e noi…”
“E noi?” chiese Tsubasa aggrottando le sopracciglia.
“E noi stiamo diventando sempre più sfacciati e incuranti del pericolo; ci scotteremo, capitano.”
“Sai che ti dico? Che io adoro scottarmi con te.”
Misaki non pensò più a niente quando sentì le dita del compagno avvolgergli il membro a riposo; dopotutto, avevano ancora un paio di ore prima di tornare a casa e iniziare a fingere di nuovo.


*egagropila (https://it.wikipedia.org/wiki/Egagropilo)




Un grazie IMMENSO a Ciotolina per questa magnifica FanArt, non hai idea della gioia che mi ha regalato il tuo disegno.
SEI BRAVISSIMA!
Grazi grazie grazie
Sanae77

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Non ci riusciva a dormire, si era svegliata e il cervello aveva iniziato a vagare furiosamente. Sanae discostò il lenzuolo e a piedi nudi, sul pavimento di legno, andò nel soggiorno.
La casa presa in affitto era fresca e accogliente. Chiuse la porta che divideva il reparto notte da quello giorno e lasciò andare un respiro di sollievo. Era riuscita a non svegliare nessuno. Incredibile, come fosse lei, da qualche giorno, a non riuscire a dormire; mentre suo marito, da quando era tornato dai mondiali, dormiva sereno. Qualche sera aveva borbottato qualcosa, frasi alla rinfusa nelle quali scovava sempre il medesimo nome: Taro.
Ma non ci aveva fatto caso, immaginando che i mondiali e la loro vittoria gli stessero regalando ancora magnifici sogni.
Però qualcosa non andava, e lo aveva capito subito da che era tornato. Tsubasa era distratto, sempre con la testa tra le nuvole e il cellulare in mano. Oltretutto la loro sfera sessuale aveva subito un’importante battuta d’arresto; non che prima brillassero ma adesso le sembrava strano a dover essere lei a cercarlo, cosa che raramente, e se non per gioco, in precedenza era avvenuta.
Accese la luce della cappa e aprì il frigo. Il caldo nella zona giorno era umido e soffocante. Afferrò il telecomando, dall’isola posta al centro della cucina bianca, e lo puntò verso il condizionatore. Impostò la modalità deumidificazione e con un bicchiere di tè freddo in mano andò sulla terrazza dall’accesso diretto al mare.
Posò la bibita sul tavolinetto accanto alla chaise longue e raggiunse la grata protettiva che separava la casa dalla spiaggia. Il posto era incantevole e deserto, ma la proprietaria si era raccomandata che la sera chiudessero la vetrata, non solo per i malintenzionati ma anche per la possibile presenza di animali.
Restò in contemplazione della via argentata che la luna lasciava sul blu scuro del mare. Il rumore scandito, armonioso e ripetitivo delle onde, l’aiutavano a schiararsi le idee.
Solo cinque giorni che erano arrivati e il capitano aveva perso la testa. Con Taro erano incontenibili, sveglia presto la mattina per la canonica corsa, poi i figli e i giochi in spiaggia, il pranzo, ancora i figli, ancora allenamento serale e infine distrutti nel letto, per non parlare della nottata di pesca.

Quando mai avevano pescato poi? Pensò.

Avevano addirittura noleggiato l’attrezzatura per l’occasione ed erano tornati senza neppure un pesciolino minuscolo.
No, non era così che pensava di trascorrere le sue vacanze, aveva visto anche Azumi storcere varie volte la bocca. Spesso si erano scambiate occhiate perplesse e insoddisfatte. La Golden Combi era inseparabile, non solo in campo.
Ma ora che erano in vacanza tutti insieme, lei si aspettava altro; essere considerata le sembrava il minimo. Invece le sembrava di essere tornata indietro nel tempo, con il capitano dietro al pallone, o più precisamente Taro (in quel frangente) e lei ad attenderlo.

Che diavolo era accaduto?

Questa era la domanda che le aleggiava in testa nell’ultimo mese. Poi due giorni prima aveva per caso notato quella foto sul cellulare.
Fatta da Daibu, quando lei gli aveva permesso di utilizzarlo dopo aver fatto pace con Desirée. Non ci sarebbe stato nulla di strano se, quella foto in particolare, non le avesse fatto provare una strana sensazione di disagio. Neppure l’aveva capita bene in realtà, all’apparenza non aveva nulla di strano, l’unica cosa a insospettirla era stata lo sguardo di suo marito.
Rientrò in cucina e tolse il cellulare dalla carica, dopo tornò a rilassarsi sulla chaise longue. Con la tazza di tè da una parte e il cellulare dall’altra, aprì la galleria usando solo il pollice, e prese a scorrere le immagini.
Tutto normale, lo stadio di sabbia costruito con i gemelli, le risa per le marachelle di Desirée nel tentativo di distruzione, le corse, i giochi e le pause.
Ed era proprio in una di queste pause che suo figlio aveva catturato quell’immagine assurda. I due campioni, di spalle, seduti in riva alla battigia, con le braccia appoggiate dietro a sostenere la schiena, si guardavano sorridendo.
Non ci sarebbe stato nulla di strano se, nella testa di Sanae, non fosse comparsa quella frase: A me non ha mai guardato così.

Ma così come? Si era chiesta.

Perché aveva avuto il desiderio di essere guardata come Tsubasa fissava Taro?
Forse era gelosa della loro intesa?
Ma poi gelosa di cosa?
Della Golden Combi?


Sorrise all’assurdità del pensiero avuto e tornò a fissare la foto, ingrandendo l’immagine con le dita.
“Anche tu non dormi?”
Sanae si voltò di scatto, facendo cadere il cellulare sulle gambe e portando una mano al petto. Il bicchiere era rimasto saldo nell’altra mano per puro miracolo. Si era sentita come colta in flagrante mentre approfondiva i dettagli della foto.
“Azumi, mi hai spaventata, cavolo!”
“Scusa, non volevo. Credevo che tu mi avessi sentita arrivare. Come mai in piedi?” Rispose l’amica, posizionandosi sulla poltrona lì vicino.
“Troppi pensieri per la testa… e tu?” sospirando, Sanae posò il bicchiere e prese nuovamente il cellulare, osservando l’amica di traverso: voleva studiare la sua reazione e magari parlarle.
Azumi, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, si sporse verso la donna. La sottoveste di seta nera ondeggiò seguendo ogni suo movimento.
“Non so, è che mi aspettavo diversa questa vacanza, sono delusa.” Adagiò il viso nei palmi delle mani, così che le guance assumessero una forma strana. Scoglionata.
Sanae, incoraggiata da questa sua confessione, si tirò su incrociando le gambe e mettendosi comoda in posizione di pettegolezzo.
“Anch’io avevo altre aspettative! Mio marito proprio non mi calcola.”
“Allora siamo in due!” esclamò Azumi sorridendo e poi sbuffando tutto il fiato accumulato.
“La Golden Combi collabora anche fuori dal campo.” Sanae sollevò le sopracciglia e i palmi verso l’alto per sentenziare l’ovvietà della cosa.
Azumi liberò una mano da sotto al mento e spinse l’amica per una spalla, come a voler scacciare la sciocchezza che aveva detto; stavano ridendo entrambe, ma sapevano, allo stesso tempo, che la cosa stava diventando seria e che non la si poteva più ignorare.
“Dico sul serio, Sanae, sono preoccupata…” il tono si fece grave e risoluto, mentre l’espressione del volto perse tutta l’ilarità di pochi secondi prima.
“Anch’io. Da quando sono tornati dai mondiali non sono più gli stessi.”
“È vero, Taro sta sempre al cellulare.”
“Come Tsubasa, che avranno da dirsi, poi?”
“Sanae? Dimmi la verità però…”
“Certo Azumi.”
“Secondo te potrebbero entrarci altre donne?”
“Tutto può essere, ma… sono perplessa sul tempo che dedicherebbero loro, visto che sono sempre presenti a ogni allenamento e fanno solo la spola tra casa e calcio; Taro ha altri impegni?”
“A parte lo studio di pittura in casa, no!”
Anego portò la mano al mento e prese a massaggiarlo, stava riflettendo se condividere la sensazione avuta guardando la foto oppure no. Dopo aver cambiato posizione sulla chaise longue, digitò la password sul cellulare e aprì la galleria delle immagini.
“Non prendermi per pazza, Azumi, ti prego. Adesso io ti farò vedere una foto e tu mi dirai solo la sensazione che ne hai, ok?”
L’amica annuì, allungando il collo con curiosità. Sanae girò l’apparecchio affinché vedesse meglio la figura. I volti delle donne rischiarati dal display erano seri e preoccupati.
La moglie di Taro aggrottò le sopracciglia quando l’immagine diventò nitida ai suoi occhi.
Prese respiro per parlare, ma Sanae la stoppò: “Shhh, aspetta, osserva meglio. Cerca di non essere superficiale.”
Azumi annuì convinta. Quindi, invitata e incuriosita, delicatamente afferrò il cellulare e lo portò vicino al volto: Tsubasa sorrideva in direzione di Taro, i bambini sullo sfondo giocavano con la sabbia.
Indice e pollice zumarono l’immagine. Discese con gli occhi dal volto arrossato di suo marito, fino alla spalla dove quasi aveva adagiato la guancia, per ascoltare cosa evidentemente Tsubasa gli stava dicendo. Proseguì sui deltoidi, sugli avambracci fino alle mani che restarono celate sotto la sabbia.
“Sono sempre così affiatati anche fuori dal campo.” Sentenziò la signora Misaki.
“Un po’ troppo…” Sanae la buttò lì, era curiosa di capire la reazione dell’amica.
“Che vuoi dire?”
“Adesso ti faccio una domanda e rispondimi con sincerità: Taro ti ha mai guardata come sta guardando mio marito?”
La mente faticò, cercò, scovò, scavò in ogni meandro senza riuscire a trovare nulla del genere. Ripercorse a ritroso la loro vita in cerca di qualcosa che forse non era mai esistito, qualcosa che aveva visto nei suoi occhi solo rivolto a Desirée. Non ci aveva mai fatto caso, o più semplicemente non conosceva quello sguardo che a lei non aveva mai dedicato. E se gli occhi sono lo specchio dell’anima, la sua, di anima, era certa che quello sguardo a lei non lo aveva mai dedicato. Il cellulare le cadde sulle gambe mentre le mani venivano portate alla bocca per soffocare un verso di stupore. Forse una presa di coscienza improvvisa che metteva in ordine un puzzle, che da oltre due mesi non voleva più saperne di tornare; adesso ogni pezzo trovava una giusta collocazione.
Sanae si passò nervosamente una mano tra i capelli, le lacrime pronte a sgorgare dagli occhi colmi. Se anche la sua amica si era data la medesima risposta, questo voleva dire che la sua non era solo una sensazione ma un dubbio legittimo.
Azumi scosse la testa ancora sconvolta, mentre con voce tremolante parlava: “No, non mi hai mai guardata così. Così… innamorato.”
“Appena avevo visto quella foto avevo provato un senso di disagio, come se fossi stata di troppo e che stessi guardando qualcosa che non dovevo guardare, poi quel pensiero… che Tsubasa non mi avesse mai guardato in quel modo…”
“Quindi vuoi dire che sono…?”
“Non so cosa sono ma in tutti questi anni non li avevo mai visti in simili atteggiamenti. Ok l’affiatamento in campo, gli allenamenti, i giochi, i figli, ma mai come in questa vacanza. No, Azumi, non erano così.”
L’amica prese nuovamente il cellulare e osservò di nuovo la foto.
“Secondo te Taro è arrossito o accaldato dal sole?”
Sanae si sporse per vedere meglio, poi scosse la testa. “Non lo sapremo mai. E hai notato le mani?”
“Sì, spariscono sotto la sabbia, ma la posizione e la vicinanza possono indurre a pensare che, benché celate, siano perlomeno l’una sopra l’altra.”
Zoomò ancora con le dita per osservare il dettaglio.




“Azumi, dobbiamo escogitare un modo per farci dire che cosa sta succedendo, non possiamo vivere con questo dubbio.”
L’amica annuì, sospirando: “Non credo che dovremo impegnarci molto, creiamo l’occasione per la quale possano restare soli in casa e noi torniamo all’improvviso. Sono certa che se sono da soli, e se è come crediamo, ne approfitteranno di certo.”
“Credi che, chiedendoglielo, non ce lo direbbero?”
“Sanae, se fossero stati intenzionati a dircelo lo avrebbero già fatto; conoscendo Taro, avrà sicuramente pensato a Desirée…”
“Anche Tsubasa avrà pensato ai gemelli; per non parlare della carriera. Se venisse fuori uno scandalo del genere, hanno ancora qualche anno prima di ritirarsi.”
“Non possiamo mettere in pratica questa trappola con i bambini, dobbiamo trovare il modo di non coinvolgerli. Anche perché le nostre sono solo supposizioni, e non riesco a capacitarmi se davvero i nostri pensieri trovassero un fondamento.”
La signora Ozora portò entrambe le mani al volto con fare preoccupato, poi afferrò quelle dell’amica e, fissandola negli occhi, chiese con apprensione: “Se fosse vero che cosa facciamo?”
Azumi ricambiò la stretta nel tentativo di rassicurarla.




Un grazie IMMENSO a Ciotolina per questa magnifica FanArt, stupendo e inaspettato.
SEI BRAVISSIMA!
Grazi grazie grazie
Sanae77

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


“Io non posso ancora credere che abbiamo a disposizione la casa tutta per noi e per tante ore…”
L’enorme cucina si apriva a destra con un’imponente isola, mentre sulla parete correva il pianale con il lavello. Questo girava a sinistra e proseguiva con una penisola dove erano posizionati i fornelli.
Tsubasa, seduto sull’isola della cucina, stava sgranocchiando una carota sbucciata dal compagno. In pantaloncini corti, infradito e torso nudo, sceglieva una canzone da YouTube. Le gambe toniche dondolavano leggere. Con le dita scorreva sullo schermo alla ricerca della musica adatta. Con un movimento repentino della testa buttò indietro i capelli affinché non gli cadessero sugli occhi.
“Capitano, metti qualcosa di allegro ché dobbiamo festeggiare questa libertà inaspettata.” Taro, in costume a pantaloncino e maglietta, di fronte a lui, era intento a preparare qualcosa da mettere sotto i denti. Non si era perso nulla dell’ingresso del compagno in casa e della sua spensieratezza nel comunicare che sarebbero stati soli a pranzo. Lui era a fare la spesa, quando le donne avevano detto di uscire e che non sarebbero tornate prima di sera.
“Già, quando ci hanno detto che i bambini erano stati invitati al centro velico, per una festa con le madri, non ci potevo credere.”
“Effettivamente è strana questa cosa, solo le madri – Taro portò le dita al mento, massaggiandolo con fare serio – non pensiamoci e godiamoci queste ore.” Sollevando le spalle con noncuranza, smise di meditare sulla singolarità della situazione.
“Ma parliamo piuttosto della cosa più strana… tu che cucini per me, ma parliamone” puntualizzò Tsubasa osservandolo, di spalle, spadellare cibo a tempo di musica.
Le mani sapientemente stavano componendo gli onigiri per il pranzo che avrebbero consumato sulla veranda. Tsubasa si era preoccupato di apparecchiare con delle semplici tovagliette azzurre, utilizzate per la colazione, sul candido tavolo bianco. La brocca di acqua gelata, trasudava piccole gocce di condensa che andavano a raggrupparsi alla base del contenitore. Le cicale cantavano allegre nascoste sugli alberi del giardino. Il caldo estivo era ovunque.
“Dubito che se tu avessi cucinato saremmo sopravvissuti” scherzò mentre, dopo aver finito di comporre l’ultimo onigiri, affrontava un cestino di fragole da lavare.
Tsubasa balzò giù dal pianale e, abbracciandolo da dietro, fece scivolare le mani dal collo, lungo i gomiti, fino ad arrivare alle dita. Le spalle del compagno si mossero improvvisamente per colpa di un brivido che gli attraversò la schiena. Il capitano appoggiò il mento sul trapezio e, voltandosi leggermente, lo baciò sulla guancia vicino all’orecchio.
“Buono ché devo finire.” Lo rimproverò il numero undici scrollando il corpo per far sì che capisse: non era il momento!
“Voglio solo darti una mano, giuro.” Afferrando le fragole, Tsubasa iniziò a lavarle.
“Non mi pare una posizione abituale di lavaggio fragole.” Ironizzò Taro, lasciando che il compagno lo aiutasse e, benché fosse molto caldo, sentire il torace del capitano sulla schiena gli regalava un sacco di brividi.



“Che hai intenzione di fare ora?”
“La cheesecake alle fragole per Desirée.”
“A-ah, ecco l’unica donna di cui dovrei esser geloso veramente.” Ozora si discostò per permettere a Taro di andare ai fornelli e spezzettare le fragole nel pentolino che aveva preparato sul fuoco. Tornò così a sedersi sul bancone dell’isola.
Voltandosi leggermente per rispondere, il numero undici sospirò vedendo i muscoli delle braccia tendersi nello sforzo di salire.
“Già, è solo per lei che porto avanti tutta questa scena.”

Il capitano prese nuovamente il cellulare e cercò una nuova canzone, mentre osservava il compagno mescolare le fragole con lo zucchero. Non aveva voglia d’intavolare discussioni complicate che avrebbero sicuramente rovinato quelle poche ore a disposizione.
Le note di One direction - No control si diffusero nell’aria.
Taro, battendo un piede a ritmo di musica, utilizzò il frullino a immersione per creare una crema liscia, che poi portò a ebollizione. Successivamente con il pentolino in mano si voltò e, soffiando sul cucchiaio fumante, gli porse la pietanza per un assaggio.
Il capitano si lasciò imboccare divertito, apprezzando il cibo.
“Ottimo!” esclamò, poi allungò un braccio per afferrare un onigiri preparato e in attesa di essere mangiato.
“Ehi, piantala di trafugare gli onigiri o per pranzo non ci resterà nulla… e come tu faccia a mescolare il salato con il dolce, senza problemi, non lo capirò mai” il compagno si era voltato, minacciandolo con il cucchiaio pieno di salsa.
“Ryo lo fa sempre.” Si giustificò il fantasista nipponico, sporgendosi leggermente in avanti e sollevando le spalle con un gesto di noncurante ovvietà.
“Ryo è una fogna, non puoi paragonarti a lui.” Tornò a voltarsi per continuare il dolce, quando una mano ferma gli afferrò una spalla facendolo girare.
“Aspetta, tu non hai assaggiato” Tsubasa gli prese il cucchiaio dalle mani e lo intinse nel pentolino, dopo congiunse le labbra per soffiare.

Le labbra carnose del capitano erano un chiaro invito a baciarlo, che poi, dopo aver assunto la forma di un cuore, fossero ancora più belle non ebbe il coraggio di dirglielo. Ma si gustò il soffio sulla salsa che lo investì con la sua fragranza di fragola. Taro arrossì nell’istante in cui il cucchiaio venne passato sulle sue labbra così da sporcarle.
Sollevò la mano e portò l’indice all’angolo della bocca per far sì che il liquido rosso non colasse sulla maglia bianca ancora candida.
Il capitano sorrise di riflesso per il gesto, così innocente, ma allo stesso tempo estremamente eccitante, quindi si sporse in avanti e, imprigionandogli il viso tra i palmi, ripulì le labbra scarlatte di salsa con la lingua, prima di cercarne l’accesso per sentire il sapore dell’amante.
Alla cieca Taro lasciò il pentolino sul pianale lì di fianco, mentre le mani, finalmente libere, vagavano sulla pelle calda del torace.
Il numero undici lo attirò a sé, facendolo scendere dal bancone; adesso alla stessa altezza le mani si muovevano frenetiche sui corpi accaldati.
Sentì il capitano afferrargli la maglia e sollevarla, quindi alzò le braccia e ne agevolò l’uscita. Tsubasa, intrappolato tra il bancone e il corpo di Misaki, si abbandonò a questo quando il numero undici prese a baciargli il collo e scendere giù lungo i pettorali, proprio come era accaduto la prima sera in hotel. Immaginava già che cosa sarebbe successo poco dopo.

Poi quel suono sordo, ovattato, di qualcosa caduto a terra e di fiato spezzato, all’improvviso li fece voltare verso la veranda.
Accaldati e arrossati restarono immobili a fissare le loro mogli che, sconvolte, avevano lasciato cadere le borse a terra e portato le mani alla bocca, in un’espressione scioccata che non avevano mai visto sui loro volti.


Erano circa quindici minuti che li stavano osservando dalla vetrata aperta della veranda, ma avevano preferito attendere per vedere fin dove si sarebbero spinti. Come da piano prestabilito, avevano portato i pargoli alla festa del centro velico, ma avevano detto una piccola bugia sulla loro presenza obbligatoria. In realtà, il rinomato centro, aveva delle baby sitter esperte e qualificate, quindi, non si erano fatte alcun problema nel lasciare i bambini in ottime mani. Dovevano vederci chiaro in quella faccenda e avevano stabilito che quello fosse l’unico modo.
Bisbigliarono a lungo, addirittura si erano scambiate messaggi sul telefonino pur di non emettere un fiato, avevano dubitato sul momento in cui lavavano le fragole, ma dalla loro angolazione non erano riuscite a vedere benissimo.

Quindi avevano atteso.
Avevano atteso il momento giusto.

Pensavano che fosse arrivato quando Taro aveva fatto assaggiare la salsa, per loro indefinita, al capitano, ma si erano sbagliate; in un primo momento sembrava davvero un semplice assaggio. Finché Tsubasa non aveva afferrato Taro per una spalla e lo aveva fatto voltare.
Lì per lì neppure avevano capito bene cosa stessero facendo, dopotutto erano lontane per vedere nel dettaglio; più che altro riuscivano a vedere la schiena del numero undici e poco di più. Non avevano ben capito che cosa stava accadendo, fintanto che il fantasista non aveva afferrato il viso di Misaki e lo aveva baciato. Avevamo trattenuto un grido di stupore, tappandosi la bocca con le mani. Si erano violentate mentalmente per non credere ai loro occhi.
Ma inspiegabilmente avevano atteso.
Cosa non lo sapevano neppure loro, la cosa però si era svolta tacitamente: il loro ingresso in scena, nel momento più cruciale, era avvenuto in simultanea senza accordarsi.

Momento in cui nessuno avrebbe potuto muovere qualsivoglia scusa assurda e impossibile.
Momento in cui Tsubasa aveva spogliato Taro e toccato senza alcun pudore.
Momento in cui Taro lo stava baciando sul torace e scendendo sempre più in basso per…
Nessuna delle due completò il pensiero.
Nessuna si spinse fino a tanto, perché come molle, scattate all’improvviso, erano entrate in scena spezzando ogni azione che avessero in mente.

Ma erano rimaste talmente sconvolte, che Sanae lasciò cadere la borsa seguita a ruota da Azumi.
I loro mariti assunsero un colore scarlatto violaceo, che fu più chiarificatore di mille parole. Lo scatto fulmineo nell’allontanarsi ne completò l’opera.
Fu Azumi la prima parlare con voce tremante, sull’orlo del pianto: “Che diavolo state combinando?”
Sanae, tolte le mani dalla bocca, con la destra afferrò l’amica per il polso.
Senza distogliere lo sguardo dai loro uomini, che erano passati da un rosso accesso a un bianco cadaverico, constatò quanto pensato: “la sensazione che avevo avuto guardando la foto non era sbagliata.”
Il tono arreso e gli occhi lucidi della moglie fecero breccia nell’animo del capitano, che muovendo dei passi esitanti cercò di avvicinarla.
“C-che foto?” chiese balbettando.

Anche Taro superò la penisola della cucina e si avvicinò agli amici.
“Non osare avvicinarti, Taro, non ci provare. E io che stentavo a crederci quando Sanae mi ha mostrato la foto.”
“Diavolo! Che foto?!” sbottò il numero undici, muovendo animatamente le mani.
La moglie in pochi passi gli arrivò di fronte.
“Che foto? Che foto? Sai il cazzo che me ne frega della tua foto? Dai Sanae – disse voltandosi per pochi secondi verso l’amica – fagliela vedere la foto dove tubano come piccioncini. Fate quasi tenerezza, il capitano ti guarda e tu arrossisci.”
Lo schiaffo partì forte e deciso, colpendolo in piena guancia.
Restò pietrificato dal gesto inaspettato.
Azumi non aveva mai fatto una cosa del genere.
Era altresì vero che non si era mai trovata in una situazione come quella.
Taro la guardò voltarsi di scatto mentre una lacrima, caduta per il movimento repentino, brillò colpita da un raggio di sole. Dopo corse via scendendo in fretta gli scalini della veranda.
La mano che gli afferrò il braccio da destra lo fece riscuotere.
“Va’ da lei, muoviti!” Tsubasa glielo aveva impartito come capitano, come quando in campo dava le direttive a tutti su come posizionarsi. Eccolo il vero Ozora, quello che nei momenti disperati riusciva sempre a prendere in mano la situazione e a uscirne vincente.
Mosse il primo passo incerto, seguito da uno più sicuro, prima di iniziare a correre inseguendo la moglie.
Stavolta però non ci sarebbe stato nessun vincente, di questo ne era certo.



Gli occhi spalancati della moglie lo guardavano smarriti.
“Sanae…” tentò il numero dieci avvicinandosi con un braccio teso.
“N-non… toccarmi.” Le braccia distese e i palmi protesi in avanti sembravano uno scudo invalicabile.
L’uomo lasciò cadere il braccio lungo il fianco insieme alle spalle. La figura dispiaciuta di Tsubasa fece scuotere la testa alla moglie.
Una lacrima solitaria le solcò la guancia arrossata dall’imbarazzo, le tremò il mento prima di riuscire a parlare: “alla fine, se io penso al nostro passato, alla nostra storia, io in cuor mio l’ho sempre saputo. Da quanto va avanti questa storia?”
“Due mesi. Dall’inizio dei mondiali, ricordi gli incubi?”
La donna annuì, le gambe le tremavano quindi, spostando lo sguardo, cercò la chaise longue e si sedette.
Tsubasa la seguì e si accomodò di fronte. Sarebbe stata una lunga chiacchierata. Non aveva la minima idea di come sarebbe finita ma di una cosa era certo, il senso di sollievo dopo lo shock iniziale lo invase dalla testa ai piedi facendolo rilassare.
Finalmente poteva essere sincero con sua moglie e non gli avrebbe più mentito per nulla al mondo.
Lui non ne era capace.




Un grazie speciale a Ciotolina per lo splendido disegno, sei un tesoro.
Grazie
Sanae77

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Il sole li aveva accecati appena lasciata la veranda. Azumi stava correndo sulla spiaggia senza una meta; fu facile per Taro raggiungerla e afferrarle un braccio.
“Lasciami! Lasciami!” gridò, strattonando vigorosamente, ma le dita forti e sicure non mollarono la presa, facendo però attenzione a non farle male.
“Ti prego, parliamo” implorò l’uomo, affondando i piedi nella sabbia calda.
Riuscì a fermarne la corsa facendola crollare a terra sulle ginocchia. La donna nascose il viso nella piega del braccio sollevato per celare le lacrime. Misaki la lasciò libera e s’inginocchiò di fronte a lei, poi le mani si posarono sulle esili spalle scosse dai singhiozzi. Il numero undici l’abbracciò, attirandola a sé.
Non aveva la forza di combattere, arresa all’evidenza si era lasciata avvolgere dal marito nel tentativo di riprendere fiato. Quello sarebbe stato l’ultimo abbraccio che gli avrebbe concesso. Adesso ero troppo stanca per lottare, era come se qualcosa le avesse risucchiato tutte le energie. L’amore che aveva visto negli occhi del marito nei confronti del capitano le aveva assorbito ogni forza.
La foto le esplose ancora una volta nella testa dandole il vigore di allungare le braccia e discostarlo da sé.
“Non mi devi toccare!” disse con occhi traboccanti di rabbia e lacrime. Queste brillarono sotto al sole d’agosto. I capelli appiccicati al volto sudato vennero scostati malamente dalle dita sabbiose, impiastricciandole il viso.
Taro la guardò dispiaciuto poco prima di muovere una mano per spostare la ciocca dalla guancia.
“Ti ho detto di non toccarmi!” la mano colpì con forza quella del marito facendolo desistere.
“Perdonami” una sola parola pronunciata a fior di labbra gli restituì uno sguardo di odio profondo.
“Perdonami?” domandò Azumi, inclinando la testa e storcendo la bocca in una sorta di sorriso nervoso.
“Cosa dovrei perdonarti? Sentiamo? Che mi hai tradito? Che mi hai tradito con il tuo migliore amico? Che è un uomo e io non sapevo nulla delle tue tendenze? Che sei uno stronzo per non avermi detto niente? Che non pensi alla tua famiglia, a tua figlia? EH, DIMMI CHE COSA DOVREI PERDONARTI E IN QUALE ORDINE!” l’ultima frase gliela urlò sul volto facendolo retrocedere.
“Ti prego, rientriamo e parliamone, tutti insieme.” Insistette Taro appoggiando i palmi sulle gambe. Anche lui a terra di fronte alla moglie stava sudando per il nervoso e la calura. Finti specchi d’acqua brillarono sulla rena rovente, il gioco ottico non cessava neppure sbattendo più volte le palpebre.
Azumi rise istericamente prima di rispondere con voce roca prossima a essere spezzata da un imminente pianto. “Cos’è? Vuoi già farmi abituare alla nuova famiglia allargata? Mh? Scordatelo, mi fai schifo!”
Le mani colme di granelli furono portate al volto per nascondere le lacrime che, copiose e inarrestabili, uscivano dagli occhi senza alcun controllo.
“Per favore, Azumi, almeno ascoltami.” Ancora il marito tentò una mediazione inutile. Vide chiaramente le spalle scosse dai sussulti del pianto. La donna non lo ascoltava e il caldo era sempre più insopportabile. L’uomo strinse gli occhi per cercare di ripararsi dal sole, una mano appoggiata alla fronte per tentare di arginare la luce.
Attese semplicemente che Azumi accennasse un rallentamento del pianto a dirotto che l’aveva colta. Conosceva sua moglie e sapeva benissimo che in preda alla collera non sarebbe riuscito a farsi ascoltare.
Il caldo la stava struggendo; le lacrime e il sudore che stava perdendo la facevano sentire sempre più priva di forze. Si passò un braccio sugli occhi e poi tentò di aprirli per capire se Taro fosse ancora lì di fronte a lei, ebbe un giramento di testa quando la luce le trafisse le pupille. Di nuovo sollevò un braccio per ripararsi mentre con l’altro tentò di ristabilire l’equilibrio che sentiva venire meno.
L’ultima cosa che udì fu soltanto il suo nome detto da suo marito. Presto ex.
 
Quando aveva visto la donna instabile sul braccio a terra, Taro aveva subito capito che il gran caldo le stava dando fastidio. Azumi aveva sempre sofferto la calura e non era la prima volta che accusava malori o svenimenti. Per questo evitava sempre di scendere in spiaggia nelle ore più calde, ma oggi nessuno si era preoccupato di questo dettaglio: vista la situazione. La pressione le aveva sempre giocato brutti scherzi. Quindi, quando l’aveva vista vacillare, aveva allungato le braccia per sostenerla, poi, facendo forza sulle toniche gambe, l’aveva sollevata da terra, dopo averla presa tra le braccia, e si era diretto verso la veranda per metterla al riparo e darle dell’acqua.
 
 
Tsubasa osservò la moglie intenta a mordicchiarsi un pollice. Dopo le prime frasi era calato un silenzio imbarazzante tra di loro e Sanae, quando era nervosa, aveva quell’adorabile vizio. Cercò di capire i suoi sentimenti per lei. Forse non era il momento più adatto ma osservarla in un momento di difficoltà gli avrebbe fatto comprendere che cosa voleva dal suo futuro. Improvvisamente gli tornò in mente la frase di pochi minuti prima…

Io, in cuor mio, l’ho sempre saputo.

Quindi facendosi coraggio decise d’indagare.
“Sanae, sono mortificato, ma… prima hai detto una frase: io, in cuor mio, l’ho sempre saputo. Che cosa intendevi?”
La donna sollevò il volto e sorrise stancamente.
“Ho sempre sospettato di te e Taro.”
Ozora sgranò gli occhi incredulo prima di borbottare: “In che senso?”
Sanae allungò le mani, afferrando quelle del marito con fare affettuoso.
“Sei un bravo ragazzo Tsubasa, ma sempre troppo impegnato a pensare al pallone, tanto da non percepire i sentimenti che le persone provano per te. Io ho dovuto faticare per conquistarti, ma evidentemente adesso che hai tutto, il tuo cuore ti sta chiedendo il conto. Taro è sempre stato innamorato di te, solo che tu eri troppo accecato dal pallone per accorgertene.”
“Io… io…” non era in grado di dare una spiegazione plausibile e ragionevole. Possibile che in tutti questi anni Sanae avesse custodito un segreto così grande?
La donna scosse la testa, arresa. Lasciò le mani del marito e giocherellò distrattamente con la fede posta al dito. Sorrise dolcemente guardando l’anello.
“Sei sempre stato un sogno per me, hai sempre vissuto in una fiaba e ho sempre pensato che non ti saresti mai svegliato. Che, con il tuo adorato pallone, la nostra vita sarebbe stata perfetta. E lo era. Mi sono sentita adorata e protetta, ma quando ho visto il modo in cui guardavi Taro nella foto, mi sono resa conto che non mi avevi mai guardata così. Con amore, con venerazione, con passione. Non potrò mai avere quello che provi per Taro. Ti faccio solo una domanda e devi essere sincero. Mi hai mai amata?”
Lo sguardo stanco della moglie si scontrò con il suo smarrito.
 
L’aveva mai amata?
 
Lo pensò in preda al panico. Non c’aveva mai riflettuto.
Velocemente ripercorse le loro prime volte, i primi baci, i primi appuntamenti, il matrimonio, la prima volta che avevano fatto l’amore; e niente di tutto ciò gli faceva battere il cuore nel petto. Se ne rese conto immediatamente nel momento in cui ripensò al primo bacio con Taro e alla prima volta che avevano dormito abbracciati. Lo stomaco gli si trasformò in una voragine dove milioni di farfalle avevano deciso di librare le loro ali tutte nello stesso istante. La sensazione di vuoto lo investì, facendolo rabbrividire e mancare il fiato nello stesso istante.
Sanae, con le lacrime agli angoli degli occhi, sorrise tristemente.
“Il tuo sguardo parla per te, Tsubasa…”
“Perdonami per non averlo capito prima.” Bisbigliò, colpevole, abbassando gli occhi a terra. La moglie allungò la mano, sfiorandogli una guancia. “Sei sempre il solito ingenuo Ozora, non stento a credere che tu l’abbia capito in questo istante, hai una faccia più sconvolta della mia. Ne sono certa.”
Il capitano sollevò la mano e la mise sopra quella della moglie per trattenerla a sé. Erano cresciuti insieme e pensare di non averla più nella sua vita lo fece preoccupare. Ma mai come il panico che percepì per il fatto di non vedersi più con Taro.
“Adesso che cosa facciamo?” domandò, scrutando le iridi nocciola della compagna.
“Capisci che non possiamo più stare insieme, vero?”
“Lo so, ma non possiamo stravolgere la vita dei bambini in questo modo.”
Sanae annuì togliendo la mano dalla gota del marito e lasciandola cadere in grembo arresa all’evidenza.
 
 
I passi concitati sui gradini della veranda li fecero voltare all’istante. Nella luce accecante del sole videro la figura di Misaki accaldata, con la moglie tra le braccia.
Sanae scattò immediatamente in piedi per dare soccorso all’amica.
“Che cosa è successo?” Domandò preoccupata mentre faceva strada al numero undici, togliendo di mezzo le sedie, e indicando la chaise longue; lì avrebbe potuto mettere Azumi.
“Stavamo litigando sotto al sole e ha avuto un mancamento.” Si affrettò a spiegare, mentre adagiava il corpo della donna sulla poltrona.
“Tsubasa, prendi un panno bagnato e dell’acqua, dobbiamo rinfrescarla.” Sanae, abituata da anni a svolgere assistenza a bordo campo, dette all'istante direttive precise per soccorrere l’amica.
Il capitano arrivò con quanto richiesto e la manager prestò le cure necessarie. A poco a poco Azumi iniziò a muoversi lentamente. La moglie di Ozora continuava ininterrottamente a passare la spugna umida sulle tempie e sui polsi, per estendere via via alle braccia, al collo e a tutto il volto.
“Azumi, mi senti?” chiese l’amica vicinissima, regalandole una carezza sulla fronte.
 
Quando aprì gli occhi, Azumi si trovò circondata dagli amici. La mente gli propose istantaneamente tutto quello che era appena accaduto, quindi tentò di tirarsi su, ma la mano di suo marito premette sulla spalla, facendola restare sdraiata.
“Aspetta ad alzarti, sai che il caldo ti fa calare la pressione.”
Con un sospiro si lasciò andare contro lo schienale, rassegnata. Era totalmente inutile sfuggire da quella realtà che prepotentemente era entrata a far parte della loro vita.
Misaki sedette sul bordo della chaise longue, Sanae lì vicino continuava ad assistere la donna, mentre Tsubasa, in piedi vicino agli amici, osservava Taro prendersi cura della moglie.
Azumi, dalla sua posizione, aprì gli occhi passando le iridi su tutti i presenti per osservare le loro reazioni. Incrociò lo sguardo arrossato di Sanae che abbozzò un sorriso tirato. Capì subito che l’amica sapeva qualcosa che lei ignorava, il suo sguardo colpevole lo avrebbe riconosciuto lontano un miglio.
“Devo raccontarti qualcosa, Azumi…” esordì la prima manager, posando la spugna bagnata sul tavolinetto lì vicino.
Taro si voltò verso il capitano con aria smarrita, non ci stava capendo più nulla. Aveva subito la reazione di Azumi, ma non era riuscito a capire la pacatezza e l’arrendevolezza di Sanae.
“Ti ascolto” rispose la moglie di Misaki, afferrandole entrambe le mani. Un gesto che serviva a lei per darsi e dare coraggio, in quella situazione c’erano entrambe e insieme avrebbero provato a uscirci.
Se davvero se ne poteva uscire.
“Ho sempre sospettato che la Golden Combi fosse affiatata anche fuori dal campo…” confessò pacatamente Sanae.
“COSA?!” la voce incrinata e lo sguardo smarrito di Azumi allarmarono i due uomini che non sapevano davvero da dove iniziare.
“Aspetta, fammi spiegare. – chiarì, agitando le mani di fronte all’amica - Il capitano, preso dalla sua passione per il calcio, non si è mai reso conto dei sentimenti che Taro provava per lui. Tuo marito, Azumi, era evidentemente innamorato di Tsubasa, ma ovviamente non era corrisposto, all’epoca. Ho sempre pensato che niente l’avrebbe distratto dal pallone. E così è stato, fintanto che non mi sono innamorata di lui. La mia continua presenza credo che abbia creato una sorta di abitudine. Poi Taro è dovuto partire, e quando si sono incontrati di nuovo la nostra storia era già delineata. Successivamente abbiamo preso ognuno la propria strada…”
“Come lo hai capito?” indagò Misaki in trepidante attesa.
Sanae si voltò verso di lui. “In campo lo hai sempre guardato come nella foto che vi ha fatto Daibu.”
“Quale foto?” chiese Tsubasa alle sue spalle.
“Questa.” Rispose la donna, mostrando loro il cellulare contenente l’immagine.
I due uomini guardarono la foto e poi arrossirono. Azumi fissava sconvolta i tre volti amici che adesso stentava a riconoscere. Tutti sapevano tranne lei, praticamente, e forse Ozora, che non si era reso conto.
“Perché non mi hai mai detto niente, Taro? Da quanto va avanti questa storia?” la voce ferma di Azumi attirò completamente la sua attenzione.
“Non ti ho mai detto niente perché non c’era niente da dire. Era un amore infantile e adolescenziale che non era mai sbocciato. Poi Tsubasa si è sposato e io ho chiuso i miei sentimenti per sempre, ma… quando al ritiro ho scoperto degli incubi, e che la causa ero io: non ho potuto ignorare la cosa. Ho provato. Abbiamo provato – dichiarò, volgendo lo sguardo al compagno – ma non ce l’ho fatta. Non ce l’abbiamo fatta. Non ho potuto più sottovalutare i sentimenti che per tanti anni erano rimasti nascosti. Avevo proposto al capitano, di comune accordo, di ignorare quello che sentivamo ma…”
“Ma?” la sete di sapere per lei era inarrestabile, non si capacitava di come per tanti anni non si fosse mai accorta di nulla.
“Quello che la mente dice il cuore spesso non lo ascolta. E il mio cuore ha totalmente ignorato la mente contravvenendo all’accordo preso. Perdonami.”
 
 
Fingere che tutto fosse come prima era stato difficilissimo, ma il benessere dei bambini era passato avanti a tutto e tutti. Quella vacanza, rovinata per gli adulti, non doveva assolutamente scalfire la gioia dei figli, anche perché sarebbe stata l’ultima che, le famiglie Ozora e Misaki, avrebbero trascorso tutti insieme. Consapevoli del grande cambiamento che li attendeva, avevano accettato di finire quei giorni in Grecia.
Ogni contatto si era ridotto al minimo e la Golden Combi aveva mantenuto le distanze in rispetto alle mogli. Rispetto che non erano riusciti ad avere prima ma ora di fronte all’evidenza dei fatti, e possibili soluzioni future, erano stati costretti tacitamente a non trovarsi in strane situazioni. E se tra Azumi e Sanae c’era sempre stata una sorta di complicità, adesso s’era creata una simbiosi assoluta. Un’alleanza naturale che le aveva portate ad affrontare seriamente il problema: dovevano proteggere i loro figli da questo scandalo.
L’indomani mattina sarebbero partiti, i quindici giorni di vacanza erano finiti, e una volta arrivati a casa ognuno avrebbe intrapreso le proprie scelte e decisioni.
 
Taro dormiva al suo fianco, voltato dall’altro lato quando la sentì muovere e scendere dal letto. Continuò a far finta di dormire, aveva capito che sua moglie e Sanae si trovavano la notte per discutere della situazione. Aveva anche capito l’importanza di quei confronti tra di loro. Come era già consapevole che sua moglie avrebbe chiesto il divorzio.
Aveva altresì capito da Tsubasa, che Sanae invece aveva intrapreso una strada più soft, i gemelli vivevano in simbiosi con il padre a causa anche del calcio, quindi avevano deciso, di comune accordo, di vivere da separati in casa, per il momento. Taro afferrò il cellulare e inviò un messaggio al capitano, quello era l’unico modo con il quale avevano comunicato per i giorni restanti.



 
 
 
In futuro, anche il destino della famiglia Ozora era segnato e deciso.
Avrebbero divorziato.
Il difficile sarebbe stato affrontare la stampa e lo scandalo che ne sarebbe seguito, e non solo per la separazione ma anche per il loro coming out.
Coming out che avevano deciso di non fare assolutamente, almeno per il momento. Consapevoli però del fatto che non avrebbero potuto nascondersi a vita.
 
 
Azumi aspettò l’amica in veranda. Quando sentì i passi lievi dietro di sé si voltò, sorridendole debolmente.
“È finita finalmente, non ce la facevo più.” Sospirò tornando a guardare la distesa grigia di fronte a lei dalle griglie della terrazza.
“Azumi è difficile, ma dobbiamo cercare di restare lucide e unite, ricorda che i nostri figli sono ancora piccoli e non sono pronti per affrontare un tale scandalo.”
“Lo so, ma come tu hai deciso d’impostare la tua situazione proprio non ce la faccio. Non lo accetto che mi abbia tradita, anche se con il suo migliore amico.”
“Ti capisco, per me è diverso, li ho visti bambini prima, ragazzi poi e uomini dopo. Forse ero pronta a questa cosa, ma ti comprendo perfettamente e condivido le tue scelte.”
“Appena arrivati in Francia, Taro cercherà subito un nuovo appartamento, non ce lo voglio in casa. E ovviamente Desirée deve restare nella sua casa, non posso certo spostare la bambina.”
“Taro non è un idiota, lo sa.”
Sbuffò arrendevole; per quanto fosse arrabbiata, Misaki si era trovato in accordo con lei su tutto condividendone le scelte. Sapeva che non era accondiscendenza, ma che, anche per lui, il benessere della loro viperetta era prioritario.
“Mi resta ancora difficile capire e accettare tutto questo: ho bisogno di tempo!”
Sanae si avvicinò all’amica e le circondò le spalle con un braccio.
“Stare con due personaggi di questo calibro non è facile. Abbiamo la stampa addosso, abbiamo l’opinione pubblica che non ci darà pace. Sapevamo che, sposando loro, anche le nostre vite sarebbero state di dominio pubblico.”
“Sanae hai ragione, ma non avrei mai immaginato uno scandalo del genere.”
La signora Ozora, facendo pressione sulla spalla, fece in modo che si girasse, voleva averla di fronte per farle capire l’importanza di quanto stava per dirle.
“Azumi devi promettermi una cosa – lo sguardo serio e penetrante della prima manager attirò totalmente l’attenzione della compagna di sventura – per quanto possibile proteggeremo i nostri figli dallo scandalo che seguirà da tutto questo. Perché potrà non venire fuori adesso ma sono certa che una volta finita la carriera, o in prossimità del loro ritiro, la Golden Combi farà coming out. Noi dovremo solo essere compatti per i nostri figli e per proteggere la privacy di tutti, fosse anche tra dieci anni. Promesso?” chiese, porgendole la mano.
“Promesso!” rispose, sigillando il patto con una poderosa stretta di mano.
Patto che non avrebbero infranto per nulla al mondo. Per gli adulti, i figli avevano una priorità assoluta sul mondo. E da questo volevano assolutamente proteggerli, una volta cresciuti avrebbero capito: o almeno lo speravano.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


… nove mesi dopo
 

“Quando pensi di rientrare?” Chiese la sua ex moglie con la figlia tra le braccia.
“Lunedì nel pomeriggio passo a prendere Desirée” specificò il numero undici, afferrando il borsone e mettendolo in spalla.
Azumi non aveva finito, e lo capì quando invitò la figlia ad andare in cucina e attenderla per la merenda.
“Questa finale di Champions contro il Barcellona cade proprio a pennello, vero?”
Taro abbassò gli occhiali da sole per fissarla senza filtri. Lui continuava a spiegare e lei continuava a punzecchiarlo, ogni volta che ne aveva l’occasione: nonostante i mesi trascorsi, Azumi la questione non l’aveva proprio digerita.
“Ti ho già detto che giochiamo di sera e che restiamo a dormire lì.” Puntualizzò Misaki con tono neutro, non aveva voglia di litigare anche se la figlia non era presente. La situazione era definita oramai, stavano in case separate e avevano avviato tutte le pratiche per la separazione, che avrebbero portato al futuro divorzio. Non riusciva a capire perché la moglie, ex oramai almeno nella realtà, gli facesse sempre tante paranoie ogni volta che doveva andare via. La donna non si era ancora arresa a quella nuova quotidianità.
“Scommetto che andrai nell’appartamento del capitano. Quello nuovo, intendo…”
“E anche se fosse?” il tono gli era uscito troppo sarcastico, ma era stato inevitabile.
“Pensavo che ti fosse bastata la nostra vita sputtanata su tutti i giornali, Taro!” la voce Azumi si era alzata di un tono, involontariamente. Era più forte di lei, non riusciva a capacitarsi di tutta quella confusione, senza considerare quella che sarebbe scaturita se avessero scoperto il segreto della Golden Combi.
“Stavi con un calciatore professionista, Azumi, se ancora tu non te ne fossi resa conto; ci contavano anche quante volte andava al cesso Desirée.” Il borsone gli cadde a terra nel momento in cui le braccia furono sollevate al cielo, impegnate della discussione.
“Quindi rischiare di essere beccato a casa di Ozora e alimentare ancora di più le chiacchiere ti sembra normale?!”
Misaki scosse la testa e afferrò nuovamente il bagaglio. Era consapevole del rischio che stavano correndo. Con Tsubasa erano sempre stati attentissimi le rare volte che si erano incontrati. Ma quel weekend avevano deciso di osare, dopotutto che male ci sarebbe stato se li vedevano insieme? Giocavano nella stessa nazionale, che male c’era se Ozora lo ospitava a casa sua? Dovevano solo stare attenti a non farsi scoprire nel nuovo appartamento, preso dal capitano, del quale anche lui aveva una copia delle chiavi.
“Tanto, presto o tardi, dovrà accadere.” Sentenziò imboccando il vialetto e chiudendo il cancello, il volo non avrebbe certo aspettato lui, quindi decise di troncare lì l’ennesima discussione.
Azumi, infastidita, sbatté la porta sui suoi passi. Era perfettamente consapevole del fatto che prima o poi la storia sarebbe uscita fuori, ma non capiva tutta questa fretta. Volevano rovinarsi anche la carriera, dopo aver rovinato due famiglie?
Mentre saliva sul Taxi, Taro inviò un messaggio a Tsubasa per avvisarlo dell’orario d’arrivo.
 
Avevano di fronte a loro un weekend molto lungo. Il mister aveva acconsentito che dormisse per i fatti propri. Sapeva, ovviamente, che era ospite di Ozora, come era già accaduto tante volte nel corso degli anni, ma si fidava ciecamente dei due ragazzi: nessuno dei due aveva mai rivelato le rispettive tattiche di gioco. Erano due professionisti seri, nonostante la profonda amicizia che li legava.
 
Appena uscito dagli allenamenti, Tsubasa era corso a prendere i figli al campo vicino e si era diretto all’aeroporto. Fermi al Gate d’uscita tutti e tre aspettavano Misaki nella sala d’attesa. I gemelli, palla al piede, si scambiavano passaggi millimetrici senza disturbare nessuno. Eppure, il padre li riprese affinché la smettessero.
Quando voltò la testa, la figura dell’amante gli fece perdere un battito. Sorridendo gli andò incontro, seguito dai bambini.
Arrivati l’uno di fronte all’altro si salutarono con calorose pacche sulle spalle, mentre i gemelli saltellavano intorno alla Golden Combi.
“Andiamo a fare due tiri a casa? Eh, papà?” chiesero all’unisono i bambini.
Tsubasa osservò il compagno e poi sollevò le spalle, arreso: “Che ne dici, Taro? Ti vanno due tiri?”
“Due tiri non si rifiutano a nessuno.” Disse scompigliando le testoline fotocopia del padre.
Tutti si voltarono nello stesso istante in cui quel CLICK sospetto attirò la loro attenzione.
Tsubasa posò le mani sulle spalle dei figli e li sospinse verso l’uscita. Sapeva perfettamente che all’aeroporto i giornalisti erano sempre in agguato, per quello codardamente aveva portato i figli con sé.
Non avrebbe fatto comunque in tempo a passare da casa per lasciarli a Sanae ma, nello stesso momento, non gli era neppure dispiaciuto portarseli dietro per non destare sospetti.
Azumi aveva letto da qualche parte, su Facebook, di strane frasi e insinuazioni su loro due. Inoltre, da quando era comparsa la notizia della separazione del numero undici i riflettori, su di loro, erano aumentati a dismisura.
Saliti in auto, i due campioni si rilassarono contro i rispettivi schienali.
“Non ti danno tregua, vero?” chiese il capitano, afferrando le chiavi e inserendole nel cruscotto.
“No, - rispose Taro, agguantando la cintura e allacciandola – da quando è uscita la notizia del mio fallimento matrimoniale non abbiamo pace.”
“Taro, perché tu e Azumi non state più insieme? Desirée come l’ha presa?” Hayate, da dietro, si era sporto tra i due sedili e lo aveva investito di domande.
Misaki guardò un secondo l’amante prima di rispondere il più coerentemente possibile: “Io e Azumi non ci amiamo più, per quello ci siamo lasciati. Desirée sta bene, è piccola e non si rende conto ancora della situazione.”
“Ma sei innamorato di un'altra donna?” Daibu lo chiese con un’innocenza tale che lo spiazzò, ma nel contempo decise di approfittarne.
“Per ora no, ma chi dice che debbo per forza innamorarmi di una donna?” la buttò lì per vedere la reazione dei bambini, non era la prima volta che affrontavano l’argomento, con Ozora avevano deciso di introdurre l’omosessualità un poco alla volta.
“È vero, Daibu. Hai visto Pablo, quello della 5F, lui ha due padri.”
“Vero, anche nella classe di Desirée, una sua amichetta ha due madri.” Misaki prontamente ne aveva approfittato per estendere ancora di più il ragionamento.
“Oddio, Hayate, - Daibu era scandalizzato, aveva afferrato il gemello e lo aveva tirato indietro - t’immagini due come la mamma? Io non ce la potrei fare a reggere.”
La Golden Combi scoppiò a ridere, dopo essersi scambiati un occhiolino complice, voltandosi verso il parabrezza e lasciando i bambini alle loro elucubrazioni mentali.
 
Sanae era alla finestra della cucina quando sentì entrare l’auto nel vialetto. Vide i figli scendere di corsa e andare verso il campo da calcio. Immaginò che la sfida fosse stata lanciata nel mentre che il carrello dell’aereo scivolava sulla pista. Non sarebbero mai cambiati, ne era certa.
Sapeva perfettamente che Tsubasa sarebbe uscito a cena con Misaki, si volse verso il tavolo già apparecchiato per loro tre, un velo di tristezza le attraversò lo sguardo.
Era difficilissima quella convivenza forzata. I bambini erano già rimasti sconvolti dalla separazione dei coniugi Misaki, avevano fatto milioni di domande e loro avevano risposto pazientemente a tutte; puntualizzando, ogni volta, che ogni famiglia poteva essere a rischio rottura da un momento all’altro.
Molto spesso si ritrovavano ad affrontare l’argomento per abituarli all’idea. Avevano anche iniziato a passare del tempo separati. Piano piano la famiglia Ozora non sarebbe più esistita nella totalità dei suoi quattro membri; era triste, ma era anche la futura realtà.
Quando i due fuoriclasse varcarono la soglia di casa, Sanae li accolse con un semplice ciao. Chiese a Misaki se avesse bisogno di qualcosa e poi si dileguò nella serra dietro casa. Prediligeva evitare imbarazzanti chiacchierate senza senso, già era difficile fingere di fronte ai bambini, quando erano soli preferiva evitare. Quindi di comune accordo si rispettavano in questi brevi convenevoli.
L’amicizia che c’era stata prima era inevitabilmente cessata.  Non puoi andare d’accordo con l’amante di tuo marito, anche se questo era stato in precedenza uno dei tuoi amici; forse con il tempo, ma non era una cosa certa.
I due uomini si misero comodi e raggiunsero i bambini per la partita promessa in aeroporto, all’attico sarebbero andati dopo cena e separati.
 
 
Avevano scelto un ristorante sconosciuto, ma questo non era bastato e un giornalista li aveva comunque raggiunti. Era stato solo grazie all’intervento del padrone del locale che erano riusciti a entrare, mentre lo scocciatore era rimasto fuori. Tanto sapevano perfettamente che all’uscita lo avrebbero trovato ugualmente in attesa delle sue vittime.
Una volta seduti, e certi di essere lontani da orecchie indiscrete, Tsubasa si lasciò cadere affranto sulla sedia. La mano passata tra i capelli ne dimostrò la palese preoccupazione che lo attanagliava.
Posando i gomiti sul tavolo si sporse verso il suo interlocutore, che ne copiò il gesto avvicinandosi per ascoltare.
“Taro, la situazione ci sta sfuggendo di mano.”
“Sono solo interessati alla mia situazione sentimentale, rilassati.”
“Ci sono foto dove spesso ci ritraggono insieme.”
“Tsubasa, c’erano anche prima, solo che ora ci facciamo caso.”
“Pensi che stasera non ci faranno delle foto e che non usciranno sui giornali?” il tono basso e preoccupato fece tenerezza al numero undici. Avrebbe voluto prendergli la mano e stringerla nella sua. Un gesto semplice concesso a tutti e negato a loro, sapevano che sarebbe stato difficile, ma allo stesso tempo non avevano calcolato quanto in realtà lo fosse davvero.
“Quando usciremo, rilascerò una breve intervista, non ti preoccupare. L’unico problema è che dobbiamo andare alla casa separati, ma per il giornalista sarà strano che non andiamo a casa tua. Non so se ci conviene fingere di andare a casa e spostarci dopo.” Taro portò una mano al mento con fare pensieroso. Se fossero andati direttamente alla nuova dimora, era sicuro che avrebbero guadagnato una prima pagina di giornale di quelle epocali.
“È snervante questa situazione, inizio a odiare la nostra notorietà.” Il capitano sollevò entrambe le mani, passando le dita tra i crini neri.
Taro lo guardò preoccupato, quindi, spostando un piede, l’avvicinò a quello del compagno. Aveva scelto ovviamente il lato verso il muro dove nessuno poteva accorgersi del gesto.
“Ehi” disse, regalandogli un sorriso pacato e rassicurante al tempo stesso.
“Scusa” rispose mortificato il numero dieci.
“Senti facciamo così, mangiamo in fretta, ci liberiamo del giornalista e andiamo a vederci il dvd che Genzo c’ha mandato della finale dei mondiali, eh? Che ne dici?”
Durante la risata liberatoria e riservata che Tsubasa gli regalò, il cuore duplicò il battito. Adorava vederlo tranquillo, adorava vederlo felice, adorava passare del tempo con lui. Tempo che si era drasticamente ridotto a causa della loro clandestinità.
“Dico che hai sempre delle ottime idee, Misaki!” esclamò, scuotendo la testa. Il suo compagno lo conosceva nel profondo, non c’era nulla che si potesse fare. Quel legame indissolubile, che si era creato tanti anni prima, adesso era soltanto modificato, evoluto, ma sicuramente rafforzato.
Avevano mangiato in fretta e poi erano usciti dal ristorante; fuori, come immaginato, avevano trovato il giornalista scocciatore in trepidante attesa.
Misaki non si sottrasse e una volta che l’uomo lo aveva avvicinato aveva fatto buon viso a cattivo gioco, sperando che dopo li avrebbe lasciati in pace.
 
“Misaki, mi conceda un paio di domande, grazie.” Aveva iniziato l’uomo, azionando il registratore. Taro aveva annuito e si era fermato con il capitano al suo fianco.
“Domani sera disputerete una partita molto importante nella quale sarete avversari, giusto?”
Il numero undici lo guardò perplesso, era tanto che non impostavano un’intervista sullo sport.
“Sì, domani saremo avversari, e non vedo l’ora di sfidare il mio collega sul campo da calcio; sono rare le occasioni in cui ci scontriamo, solitamente giochiamo nella medesima squadra.”
“Queste cene prepartita vi servono per accordarvi sul risultato?”
Il numero dieci scattò di fronte al compagno e tolse di mano al giornalista il registratore.
“L’intervista è finita e con questo – disse, mostrando l’apparecchio incriminato tra le sue dita – domani riceverà una lettera dai nostri avvocati per una querela. Siamo professionisti e la nostra amicizia non implica accordi di alcunché.”
Voltandosi e afferrando Taro per un braccio lo spinse via. Arrivati all’auto sentirono correre dietro di loro il giornalista.
Tsubasa azionò il telecomando e le frecce dell’auto lampeggiarono, Taro dal lato passeggero stava per aprire lo sportello quando l’uomo lo raggiunse.
“Sa, ho pensato che dovendo mantenere sua moglie e sua figlia due soldi in più non avrebbero guastato.”
 
Il capitano guardò gli occhi sconvolti del compagno e, resosi conto del pericolo imminente, con un balzo fu sul cofano per scivolare dall’altro lato il più velocemente possibile. Taro infatti aveva già afferrato il colletto dell’uomo e lo stava strattonando.
“Se ne vada” intimò il fantasista nipponico, allontanando malamente lo scocciatore, e aprendo lo sportello dell’auto, affinché il compagno entrasse immediatamente per non compromettersi.
Una volta certo del pericolo passato, fece il giro e andò al posto di guida.
Allontanatosi da lì, si fermò in un parcheggio poco distante, dovevano riprendere fiato.
“Che diavolo ti è saltato in testa, Taro? Vuoi essere su ogni giornale?”
Il numero undici, fisso verso il finestrino, restava in profondo silenzio. Consapevole del mutismo che lo avrebbe accompagnato per il resto del viaggio, Tsubasa non si dilungò in altri rimproveri e, accendendo nuovamente la macchina, iniziò a compiere dei giri a vuoto nella periferia di Barcellona.
Dopo mezz’ora, e certo di non esser seguito, prese una decisione incauta puntando verso la nuova casa.
“Sei sicuro di quello che stai facendo?” chiese Misaki, spezzando il mutismo in cui era caduto.
“Allora sei con me.” Ironizzò Ozora, osservando di sfuggita il suo profilo.
“Ti rendi conto di cosa ha detto quello? Ha messo in dubbio la nostra moralità, tirando in ballo la mia famiglia: che infame!”
“Sono giornalisti, Taro, sappiamo che vivono di gossip. Lo sappiamo da sempre. Il problema è che quando va tutto bene un articolo non ti scalfisce, mentre adesso che abbiamo un segreto da nascondere siamo vulnerabili. Dobbiamo stare attenti.”
“Facciamo coming out e togliamoci il pensiero, così ne parleranno per un periodo e dopo ci lasceranno in pace.” Misaki aveva alzato il tono di voce, muovendo animatamente le mani.
Il capitano aveva sospirato, ma non risposto. Arrivati a destinazione piazzò l’auto nel posto, del parcheggio sotterraneo, a lui riservato. Quando scesero dal mezzo, le macchine silenziose li accolsero in attesa dei loro proprietari. Le luci ocra li accompagnarono fino all’ascensore.
Una volta entrati, Tsubasa infilò la chiavetta per accedere al piano dell’attico riservato. Non a caso aveva scelto quell’appartamento, la privacy era pressoché totale: dal sotterraneo nessuno del palazzo poteva vedere chi sarebbe entrato in casa.
“Quando sarà il momento, rilasceremo una dichiarazione ufficiale, non temere.”
Aveva ripreso così il discorso, come se non fosse passato tutto quel tempo. Il capitano osservava il display scorrere lentamente. Per arrivare al decimo piano serviva qualche minuto.
“Quando sarà il momento?”
“Non adesso, devo prima preparare i gemelli, Taro! Devo prima separarmi da Sanae e trovare una stabilità familiare; per non pensare allo scandalo calcistico – le mani tornarono a tuffarsi, preoccupate, nei capelli – è l’ultima cosa che m’interessa in tutto questo, ma non possiamo certo ignorarla.”
Il suono dell’ascensore li distrasse dai pensieri. Aperta la porta metallica l’appartamento li accolse nella penombra.
Taro tolse la felpa, riponendola nell’armadio dell’ingresso, dopo trascinò il trolley fino alla loro camera. Il capitano invece buttò tutto sulla sedia alla rinfusa. L’altro se ne accorse, sbuffando un sorriso. Nel pensare a una convivenza con Ozora immaginava i continui bisticci per la sua mancata precisione.
“Prendo due birre e metto il DVD, ok?” s’informo il capitano mentre apriva il frigo della grande cucina a vista sulla sala. Voltatosi verso la vetrata, Barcellona gli apparve magnifica nello scintillio delle luci notturne. Abbandonando anche i pantaloni sul pianale della cucina, e afferrate due birre gelate, si buttò sul divano in attesa dell’amante. Era stanco, e rilassarsi era diventata una priorità.
Fu così che lo trovò Misaki poco dopo, anche lui aveva indossato una maglietta e dei pantaloncini per comodità. Tsubasa in boxer e maglietta con le gambe accavallate e la birra tra le dita, lo invitò a prendere la sua sul tavolinetto di fronte.
Afferrata la bottiglia, grondante di goccioline di condensa, propose un brindisi al compagno, prima di regalarsi una profonda sorsata.
“Ah, ci voleva proprio questo relax totale.” Disse Taro sprofondando vicino a Ozora.
“Già, doveroso direi, è stata una serata pesante.”
“Per colpa di un’idiota… – puntualizzò, per poi proseguire – Ripensavo a quanto hai detto e ora, a mente lucida, riconosco che hai ragione.”
Il capitano strizzò l’occhio al compagno in segno di complicità. Poi afferrò il telecomando e dette play al DVD. Le immagini di loro in tv e la musica dell’inno nazionale risuonarono per la stanza. Il segno di assenso che Taro gli riservò gli fece capire che per quel weekend non ne avrebbero più parlato. Si vedevano poco e non era plausibile rovinarsi così il tempo rubato.
Risero delle molte azioni fatte e di come Genzo fosse alla fine più fissato di loro: nonostante tutti i video che erano girati per la rete, lui aveva assunto un cameramen professionista e aveva ripreso tutti i mondiali. E ora, che avevano finalmente potuto guardare insieme tale capolavoro, constatarono che ne era davvero valsa la pena.
Un peso sulla spalla destra fece girare il volto di Tsubasa: Taro si era addormentato così, appoggiato a lui. Delicatamente gli sfilò la birra dalle mani e la mise sul bracciolo del divano. Capì la stanchezza sia fisica, per il viaggio aereo, che quella mentale per la complessa situazione familiare.
Si mosse piano affinché il compagno riuscisse a scivolare giù e farlo star più comodo tra le sue gambe. Infatti, nonostante stesse dormendo, le sollevò per distenderle sul divano e scambiare le sue per un comodo cuscino.
Era quello che mancava a entrambi: la quotidianità.
La consapevolezza di non poter avere una vita equilibrata, indipendentemente dalle loro famiglie, lo colpì in pieno nel momento in cui le dita scivolarono tra i capelli castani del numero undici.
Si deliziò del sorriso soddisfatto impresso sulle labbra del compagno, mentre cadenzate carezze continuavano senza sosta. Adorava percorrere con i polpastrelli quel profilo tanto amato, mentre ogni tocco faceva distendere le rughe d’espressione in un volto più rilassato. Evidentemente stava apprezzando. La partita in tv perse tutta l’importanza che avrebbe avuto un tempo.
No, non era mai stato innamorato così di Sanae, tanto innamorato da preferire il profilo del suo uomo alla partita. Sorrise del pensiero avuto e dette voce a una piccola confessione.
“Tu non lo sai... ma c’è qualcuno che appena apre gli occhi la mattina ti ha già nei suoi pensieri e rimani lì fino a sera, fin quando i suoi occhi non si richiudono.”
Taro sorrise facendo sentire Tsubasa come un bambino beccato con le mani nella marmellata.
“Non ti facevo così romantico, Ozora.”
“E io non ti facevo così bugiardo tanto da fingere di dormire.”
Misaki si sollevò, restando a fissarlo negli occhi, scioccato: “Aspetta, sarei io quello che finge di dormire quando al ritiro non hai fatto altro per giorni?”
“Era una situazione diversa” si giustificò.
“Era pur sempre una bugia.”
“Dettagli!” esclamò, iniziando a insinuare le dita sotto la maglia del compagno e tormentando le costole con il solletico.
Taro si contorse sui cuscini, ridendo come un matto.
“Però non vale che tutte le volte mi atterri con il solletico.” Gli urlò dietro mentre il capitano si rifugiava in camera.
 
 
Dormire vicini, abbracciati, era tutto quello di cui avevano bisogno. Sentì il respiro del capitano infrangersi sotto l’attaccatura dei capelli alla base della nuca; il petto nudo che, pacato e tranquillo, si alzava e abbassava contro la sua schiena. Si erano addormentati così, stremati dopo aver scherzato per allentare la tensione della giornata. Il braccio del compagno gli pesava sulle costole, mentre le dita intrecciate alla mano davano segno di sofferenza dovuta alla troppa immobilità. Tentando di non svegliarlo, riuscì a divincolarsi dalla presa. Erano le sei di mattina e dovevano andare ad allenarsi con le rispettive squadre. Sarebbe stato più uno stretching in vista della finale serale, non era previsto un vero e proprio allenamento, la paura di affaticarsi troppo si era palesata in entrambe, per quello avevano optato per riunione e rilassamento delle tensioni muscolari.
 
Svegliandosi, Tsubasa allungò un braccio trovando il letto vuoto. Con il dorso della mano stropicciò l’occhio per tentare di mettere meglio a fuoco la stanza. Tuffò la testa nel cuscino per inspirare ancora l’odore di Taro. Adorava svegliarsi con il suo profumo nelle narici. Alzandosi, afferrò i pantaloncini e, facendo l’equilibrista per tutta la camera, riuscì finalmente nell’impresa di indossarli. A piedi nudi attraversò il corridoio e arrivò nel reparto giorno, dove un invitante odorino di omelette e zuppa di miso lo ricevé.
La luce rosata dell’alba, dalle sfumature indaco, l’accolse quando arrivò alla penisola della cucina. La vetrata su Barcellona, che si stava svegliando anch’essa, lo attirò strappandogli un sorriso; era davvero bellissima.
“Buongiorno, ti ho svegliato?” Misaki, intento a rovesciare le omelette nella padella, ballettava a ritmo della leggera musica in sottofondo diffusa dallo stereo.
“Che prepari di buono?” chiese Ozora, afferrandolo da dietro e posando il mento sul trapezio. I leggeri baci da sotto l’orecchio fino alla spalla lo fecero rabbrividire, mentre il capitano sogghignava soddisfatto.
Misaki sorrise, scuotendo le spalle, ma quando vide la mano del compagno tentare di trafugare un toast la colpì con il mestolo.
“Queste tecniche scorrette di seduzione per rubare del cibo non funzionano.”
“Ahi!” esclamò il numero dieci, facendo un balzo indietro e portandosi due dita alla bocca.
Frizzavano, cavolo!
Quando Taro si voltò trovò uno Tsubasa imbronciato, come un bambino di due anni, intento a succhiarsi le dita.
“È scorretto anche essere così sensuali succhiandosi le dita” lo apostrofò, minacciandolo con il cucchiaio di legno.
Ozora arrossì dalla punta dei piedi a quella dei capelli, e nascondendo un sorriso vicino alla propria spalla lo spinse via superandolo. Taro lo bloccò, rubandogli un bacio a fior di labbra e indicando con un gesto della testa il tavolo lo invitò: “Apparecchia ché tra poco è pronto.”
Il capitano obbedì e poi si sedette in attesa del compagno. Una volta preparata la tavola, anche Taro si rilassò sulla sedia, addentando un toast.
Tsubasa osservò la quantità di pietanze con cui era imbandita la succulenta colazione, poi iniziò a ridacchiare: “Cos’è, una tattica per non farmi fare la rovesciata stasera?”
“Credi davvero che ti permetterei di arrivare a tanto, Ozora?” indagò il numero undici, sollevando un sopracciglio; intanto la marmellata abbondava sulla fetta dorata dal fuoco.
“Sai che ho le mie risorse.” Il tono di sfida non cadde nel vuoto, mentre afferrava l’appetitosa omelette dalla padella. A fianco la zuppa di miso era in attesa di essere divorata.
“Risorse che conosco alla perfezione, capitano.”
“Mh, ti sfido: stasera ho intenzione di fare un goal di rovesciata, prova a fermarmi, se ci riesci.”
 
E c’era riuscito, la discesa in campo dei due campioni aveva fatto tremare lo stadio. Quando più volte il numero dieci era stato fermato dal compagno le ovazioni si erano sprecate.
Tsubasa era felice, la sua gioia nel trovare qualcuno che potesse tenergli testa, e che conoscesse tutte le sue mosse e più impensabili trucchetti lo aveva caricato al massimo, regalando al pubblico perle incredibili. La partita era finita con uno zero a zero meritato da entrambe le parti, ma essendo la finale di Champions il risultato era inaccettabile così vennero giocati anche i tempi supplementari e successivamente i calci di rigore.
Il Barcellona vinse con un goal di scarto, aggiudicandosi la coppa.
Allo scambio di saluti, Tsubasa attirò a sé il compagno abbracciandolo con fare consolatorio. Nessuno avrebbe mai sospettato alcunché. Anzi, avrebbero intitolato i giornali a caratteri cubitali sulla grande sportività dei due connazionali.
 
 
E la ragione gli brillò negli occhi quando trovò Taro al tavolo intento a sorseggiare un caffè mentre leggeva il giornale, soddisfatto. Lui era uscito con la squadra a festeggiare; se non avesse partecipato ai festeggiamenti si sarebbero sicuramente insospettiti.
Misaki aveva deciso di aspettarlo a casa, ma si era addormentato prima del suo rientro e non lo aveva sentito. Solo quando la mattina si era svegliato, aveva trovato Tsubasa con sorriso sulle labbra, beatamente addormentato.
Sicuro che stesse rivivendo lo splendido goal, che aveva decretato la fine dell’incontro, si arrese, con uno sbuffo, e si alzò. Ozora aveva battuto un rigore da manuale, imprendibile al sette. Il portiere nulla aveva potuto.
Quindi, ancora di pessimo umore per la sconfitta, era uscito a prendere il giornale e a comprare due brioches. Aveva fatto il giro di tre isolati prima di rientrare, accertandosi di non avere molesti inseguitori.
Poi si era seduto al tavolo e, sorseggiando il caffè, aveva letto il titolo a caratteri cubitali.
 
IL CAPITANO OZORA SEMPRE AL FIANCO DEL COMPAGNO AVVERSARIO
Nonostante da anni giochino in squadre avversarie, la grande affinità della Golden Combi non ci stupisce. Nelle foto Tsubasa Ozora del Barcellona che consola il compagno di nazionale, Taro Misaki, del Paris Saint Germain.
Un’amicizia che supera le barriere della rivalità.
Tutti dovremmo prendere esempio da questo grande gesto di sportività... (segue)
 
 
Sgranò gli occhi quando un susseguirsi di immagini a scatti ravvicinati mostrarono lui, con la testa nell’incavo del collo di Tsubasa, in lacrime per la sconfitta e Ozora che con il palmo pieno della mano gli stava massaggiando le spalle con fare consolatorio.
Ma gli occhi gli uscirono dalle orbite e il caffè fu ingoiato forzatamente quando una foto li ritrasse ancora una volta in fallo. Come era accaduto per la foto scattata da Daibu in Grecia. Possibile che non si rendessero conto degli sguardi che spesso si scambiavano inconsapevolmente?
“Sembra che tu abbia appena visto un fantasma” constatò, tra uno sbadiglio e l’altro, il capitano mentre si avvicinava stancamente al compagno.
Taro sollevò lo sguardo, osservandolo ciondolare fino a lui.
“Bagordi stanotte, eh?!” ironizzò il numero undici.
“Potevi venire anche tu.”
“Sì, certo. Così la giornalata sarebbe stata ancora peggiore: Misaki tradisce il Paris Saint Germain e festeggia con il Barcellona. Ottimo davvero! Che poi – aggiunse voltando il giornale verso il compagno affinché vedesse l’articolo – forse era meglio di queste foto.”
In un primo momento il capitano sorrise per il titolo, ma quando vide le foto borbottò imprecazioni sottovoce per poi ammettere: “Io non mi rendo neppure conto di guardati così… così…”
“Con amore?” chiese dolcemente Taro, mentre lo scrutava dal basso. Tsubasa era in piedi, con i palmi sul pianale e le braccia tese a sostenere il corpo. Arrossì come una scolaretta colta a guardare il ragazzo prefissato.
“Piantala – lo redarguì, spingendolo per una spalla – siamo due pessimi attori.”
Taro l’osservò passarsi le mani nei capelli, ogni volta che era preoccupato compiva quel gesto. Gesto che lui adorava, come adorava vederlo arrossire o in imbarazzo.
“Pessimi attori innamorati. Bene, non scordarti che dobbiamo andare e vedere i gemelli.”
“Cavolo!” esclamò il capitano mentre in fretta e furia raggiungeva la camera per cambiarsi.
Aveva già scordato che Sanae avrebbe portato i gemelli alla partita, ma che a riprenderli doveva andarci lui. Fortuna che Taro era sempre attento a ogni tipo d’impegno; sostenendo che le mogli non andavano fatte arrabbiare, e doveva ringraziare soltanto lui se spesso gli aveva salvato delle litigate cosmiche con Sanae.
 
 
In fretta e furia arrivarono al campo giusto in tempo per il fischio d’inizio. I gemelli giocavano nelle giovanili del Barcellona, fin da piccoli, distinguendosi subito per il medesimo talento del padre.
“Oggi dovrebbero provare per la prima volta il tiro combinato.” Chiarì subito Tsubasa mentre osservava attentamente il gioco.
“Speriamo che il dottore sia già pronto con ago e filo per ricucire un eventuale polpaccio…”
“Ah-ah simpatico!” lo punzecchio il capitano, toccandogli il fianco con il gomito.
Per loro stare vicini e compiere certi gesti, veniva naturale. Come lo sfiorarsi o l’osservarsi di sfuggita. Taro gli cinse le spalle, attirandolo a sé, poi con la mano gli scompigliò i capelli.
“Io non ho nessun punto di sutura nei polpacci a causa tua.” Sentenziò Misaki, liberandolo dalla presa. Ozora rise ravviando i capelli, poi con fare complice si avvicinò all’amante e, cingendogli con un braccio momentaneamente la vita, sussurrò all’orecchio: “I miei figli sono gemelli mica amanti.”
Misaki con la mano coprì la risata che, fresca e divertita, uscì dalla bocca, erano pur sempre in pubblico, dopotutto. Si guardò un attimo in giro prima di spingerlo via, mimando uno Scemo a fior di labbra.
“Eh, di Golden Combi ce n’è una sola – sentenziò il capitano prima d’invitare, con un gesto della testa, il compagno a seguirlo – andiamo a vedere da vicino questi fenomeni.” Ironizzò, imboccando la porta che li avrebbe condotti sul campo. Inconsapevoli di essere osservati dagli altri genitori presenti.
 
Una delle mamme lì vicino toccò il braccio dell’amica e, una volta attirata la sua attenzione, con un gesto della testa la invitò a guardare nella direzione indicata.
“Hai visto la Golden Combi?”
L’altra annuì silenziosamente.
“Si vocifera che anche Ozora e la moglie facciano i separati in casa.”
“Davvero? Sapevo solo di Misaki che aveva chiesto la separazione.”
“No, no! Pare che la crisi sia arrivata anche per il fantasista, si vocifera anche altro in realtà.”
“Tipo?” domandò curiosa l’altra, disinteressandosi dei figli in campo.
“Guarda qua…” l’amica tirò fuori il giornale, mostrando le foto.
L’altra per tutta risposta storse la bocca, capendo immediatamente a cosa alludeva la donna.
“Che bella coppia che sono.” Concluse alla fine soddisfatta.
“Se lo dici tu.” Rispose poco convinta l’amica.
“Sono argomenti difficili, figuriamoci a certi livelli. Sono certa che sentiremo parlare ancora di loro in futuro e non solo per il calcio.” La donna chiuse l’argomento, non aveva assolutamente intenzione d’iniziare un battibecco inutile con la sua amica; le voleva bene, ma conosceva anche certi suoi pensieri e limiti.
 
 
La partita era finita con la vittoria del Barcellona A, squadra dove militavano i due campioncini in erba e dove, per la prima volta, i gemelli erano finalmente riusciti a fare il tiro incrociato, degno della Golden Combi.
All'esterno degli spogliatoi, i genitori erano in attesa dei propri figli. La donna del giornale notò ancora la coppia di uomini intenta a parlare con l’allenatore. Pochi istanti dopo i piccoli giocatori iniziarono a fluire fuori.
La donna sorrise in un modo tenero e complice a quella coppia appena scoperta. Perché per quanto sembrassero due semplici amici o compagni di squadra, il loro sfiorarsi continuo, il loro cercarsi con lo sguardo, l’inclinazione delle labbra, della testa quando si rivolgevano la parola, parlava un'altra lingua.

Una lingua a lei conosciuta.
Una lingua di complicità viscerale.
Una lingua di tensione erotica e legame profondo.


Chiunque avrebbe voluto parlare e assaporare la loro stessa lingua, che altro non era che quella dell’amore.

I gemelli Ozora si precipitarono dalla Golden Combi, iniziando un racconto concitato di quanto accaduto in campo. Misaki scompigliò la testa di uno dei due, ascoltando interessato e divertito.
Tsubasa invece mimava con le mani ipotetici consigli sull’azione svoltasi. Gli adulti tolsero i borsoni ai giovani, alleggerendone le spalle.
I quattro imboccarono l’uscita, tenendosi per mano, i bambini al centro e i due uomini a lato, come una famiglia, quale evidentemente erano.
La donna invidiò per un istante quella affinità che aveva riscontrato in poche coppie.

Già, coppie.

Come lo era lo Golden Combi ai suoi occhi e che, forse in futuro, lo sarebbe stata anche di fronte a tutto il mondo.




 
Gli incontri più importanti sono già combinati dalle anime
prima ancora che i corpi si vedano.
Paulo Coelho
 


 
FINE





Angoletto dell'autrice
Che dire: GRAZIE.
Grazie a chi ha lasciato una reccina, uno sclero, un messaggio.
Grazie ai lettori silenziosi a quelli casinisti e chi ha messo la storia tra preferite/seguite/ricordate.
Non mi aspettavo un seguito così per una storia yaoi.
Che dirvi se non... il sequel è in produzione, e nonostante la trama generale sia già tracciata, i capitoli si stanno moltiplicando come i pani e pesci.
Insomma, come sempre quando si scrive.
Grazie alle mie due betuzze Guiky e Melanto per sopportarmi e supportarmi con i miei dubbi. Grazie anche a Onlyhope perché, nonostante si sia tappata gli occhi, mi ha dato degli ottimi suggerimenti su Sanae e Tsubasa, (insomma certe cose vanno chieste a mamma , e lei è la mamma dei coniugi Ozora).
Un grazie speciale a Ciotolina che con i suoi magnifici disegni ha reso questa storia una piccola bomboniera.
Sono STUPENDI.
A presto con il sequel. (spero: se non ci smadonnerò troppo :-) )
Sanae77

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