Un attimo ancora

di swimmila
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Maledizione a te, Jeanne ***
Capitolo 2: *** In un mare di guai ***
Capitolo 3: *** I tempi stanno cambiando ***



Capitolo 1
*** Maledizione a te, Jeanne ***


Maledizione a te, Jeanne

“Ahi, non stringere più! Così mi impedisci di respirare”
“Sta dritta! So io come vanno certe cose”
“Che cosa stai facendo ai miei capelli?”
“Sta zitta! E’ così che dovresti pettinarli tutti i giorni.”
Lascio che Nanny mi torturi con i suoi strumenti da aguzzina. Dopotutto sono abituata ai sacrifici. A compiere sempre il mio dovere. Anche quando non vorrei.
Dopo lo scandalo della collana e le famigerate memorie di Jeanne De La Motte i libellisti hanno trovato un nuovo, succoso argomento da spremere con la loro triviale fantasia: la bisessualità della Regina. E così, stasera, per colpa di quella donna irriducibile, non ho scelta. Mi presenterò al ballo a corte vestita da donna.
Un ricordo lontano mi strappa un sorriso sarcastico. A quando mio padre tentò, senza riuscirci, di mandarmi alla mia prima missione vestita da principessa. Chi l’avrebbe mai detto che dopo tanti anni quei merletti e quei pizzi sarebbero stati più opportuni di una uniforme, per compiere il mio dovere?
Maledizione a te, Jeanne De La Motte!
 
“André, vieni a vedere la nostra Oscar vestita da donna”
La voce stridula di mia nonna si intromette nel mio nervosismo.
Oscar vestita da donna. Non posso crederci. Eppure, mentre l’idea prendeva corpo, oggi pomeriggio, nelle scuderie, è apparso subito chiaro ad entrambi che non c’era alternativa. Hai provato a ribellarti. Eri già pronta a sfogare il tuo disappunto nel modo in cui hai sempre fatto, sin da bambini. Ma poi, i pugni già a mezz’aria, ti sei fermata. Mi hai guardato. E la cupezza, nei tuoi occhi, si è dissolta in un sorriso appena accennato. Che mi ha sconvolto. In quel sorriso composto c’era tutta la nostra eterna complicità. La nostra profonda amicizia. La nostra silenziosa capacità di comprenderci. Il nostro legame indissolubile. Il tuo modo di darmi ragione. In quel sorriso c’era il tuo amore per me. E la tua paura a riconoscerlo.
Ho sentito le lacrime lambirmi gli occhi. Ho ringraziato l’incedere dell’oscurità che te le ha nascoste. Ti sei voltata e sei sparita insieme al sole, oltre l’orizzonte. Avrei voluto urlare la mia gioia e il mio dolore. Invece sono rimasto muto. Ho stretto la spugna dimenticata in mano, con cui stavo strigliando Alexander. Grondava inquietudine  e tristezza.
“Si, si, nonna. Arrivo”.
 
Sono senza fiato. Letteralmente.
Sei in cima alle scale. Io in fondo. Il tuo sguardo cerca il mio, prima di iniziare a scendere cauta i gradini. Il mio si incastra nel tuo, a guidarti fino a me. Temo seriamente di morire. Può la bellezza essere così immensa da far scoppiare un cuore umano, incapace di contenerla tutta?
Un velo di imbarazzo ti scalda le gote che non hai permesso a mia nonna di imbrattare col belletto. Stai maledicendo gli eventi che ti hanno portata a doverti vestire in questo modo per te ridicolo, ne sono certo. Io, invece, li benedico, consapevole che non avrò altra occasione, in tutta la mia vita, di vederti indossare un abito come questo. Vivrò per sempre del ricordo di questa visione.
Sei lì, in fondo alle scale. Trovo il tuo sguardo e ci rimango dentro. Perché mi sento così agitata? E’ questo ingombrante vestito che mi innervosisce così? Il disappunto per non aver potuto, per una volta, contare sulla mia divisa per fare il mio dovere? Non sono sicura di non ruzzolare giù per le scale, con queste scarpe ridicole. Vorrei che mi tenessi per mano, André. Ma che sto vaneggiando? Ho affrontato ben altri pericoli che una scala e un paio di tacchi!
Arrivi ad un gradino da me. Attorno a me, un silenzio obnubilato dalla mia mente in panne. Se qualcuno parlasse, in questo momento, non me ne renderei conto. Non sono consapevole di aver alzato una mano e di avertela porta, ma sento le tue dita sfiorare il mio palmo e capisco che ho perso il contatto con la realtà. Apro la bocca per provare a dirti quanto sei bella. Ma non è mia la voce che risuona.
“André, che cosa fai lì imbambolato. Accompagna la nostra splendida Oscar al ballo.”
L’ordine del Generale Jarjayes s’infrange su di me come una secchiata d’acqua gelida. Mi scuoto dal mio stato di torpore. Stringo dolcemente la tua mano nella mia. Mi sorridi. Poi il senso del dovere taglia di traverso il tuo sguardo.
Finalmente sono alla fine di questa dannata scala. La tua mano è lì ad attendermi e la mia è già allungata a mezz’aria che brama quel porto sicuro. Porto sicuro. Ma è questo vestito che mi fa blaterare? Mi scuoto.
“Forza, André, andiamo. Sai che non posso fare tardi quando sono in servizio.”  Finalmente una frase sensata.
 
Sono già in carrozza. André sta per salire a cassetta ma ad un tratto lo sento fermarsi. Senza affacciarmi dal finestrino odo parlare a bassa voce. E’ mio padre. Mi sporgo, nell’istintivo tentivo di cogliere quella conversazione. Qualcosa, nell’atteggiamento di mio padre, mi incuriosisce. La mia curiosità diventa stupore quando lo vedo posare entrambe le mani sulle spalle di André, in un gesto troppo confidenziale per contenere la solita raccomandazione alla mia incolumità. Che mai come questa sera sarebbe fuori luogo. L’unico pericolo che corro, stasera, è di slogarmi una caviglia.
Nel mutismo di André percepisco la sua sorpresa per quel gesto inusuale di mio padre. Ma lui, al contrario di me, sa cosa significa.
 
La contessa Oscar François de Jarjayes.
Quello stupido del primo valletto di sala mi annuncia col titolo nobiliare, invece che col grado militare. Ma cosa crede, che sia qui per divertirmi? Questa sera il Comandante Oscar François de Jarjayes è in servizio e sta compiendo il suo compito di proteggere i sovrani.
Ignoro il coro di esclamazioni degli uomini; i sussurri isterici delle donne. Cerco con gli occhi il solo uomo per cui sono qui. Lo vedo, in fondo alla sala. Mi sta fissando. Il suo proverbiale contegno lotta contro uno sguardo che vorrebbe sgranarsi nella meraviglia, nell’ammirazione. Ricambio quel lungo sguardo. Ma il mio non è quello di una dama che sta per tuffarsi nel vortice delle danze. Lo fisso con occhi militari, con espressione impassibile. Sono in servizio, e non mi è permesso mostrare alcuna emozione. Non me lo hai detto tu, André, quando hai fermato la mia mano che voleva vendicare il tuo occhio?
Le loro maestà, il re e la regina.
Maria Antonietta avanza verso di me con il suo incedere meraviglioso. Sembra che voli, sfiorandolo appena, sul pavimento lucido del salone delle feste. Nessun’altra donna, qui a Versailles, è mai riuscita ad eguagliare tanta leggiadria.
Mi inchino. Per un attimo sto per fare un passo indietro e flettere un ginocchio in avanti, come d’abitudine. Ma mi ricordo appena in tempo che stasera devo muovermi come una donna.
Maledetta Jeanne!
“Oscar. Ma che sorpresa! Siete meravigliosa in abiti femminili.” Le parole della sovrana sono sincere come l’affetto che le brilla negli occhi. Poi, da deliziosa donna qual è non sa nascondere un sorriso civettuolo, dietro il ventaglio “Credo che tutti gli uomini qui presenti stiano morendo dalla voglia di danzare con voi.” E la sua risata, appena accennata, diventa cristallina.
Alzo lo sguardo sulla sua bellezza. Sento l’invidia dei presenti trafiggermi come spade. La regina non ha ancora rivolto la parola ad altri che a me.
“Siete troppo buona, con me, Maestà.”
“E ditemi, Oscar, con quale fortunato cavaliere avete intenzione di danzare, questa sera?” Il suo animo birichino non può fare a meno di giocare con la novità di vedermi in abiti femminili. La guardo e mi sento invadere da un moto di affetto e di disperazione. Perché la Francia non sa di avere un angelo sul suo trono? Perché siamo arrivati a questo punto?
I miei occhi si volgono verso la figura pingue del sovrano, accanto alla mia regina. Solo ora mi ricordo di non avergli ancora rivolto il mio rispetto. E’ un errore. Vedo l’espressione spenta del re allarmarsi di un fremito improvviso. Intuisco i suoi pensieri e non sono sicura di riuscire a spegnere completamente la risata che mi sale in gola.
Mi affretto a rispondere, prima che Sua Maestà Luigi XVI sia colto da malore.
“Maestà, con il vostro permesso non vorrei fare attendere il mio cavaliere.”
 
“Conte di Fersen, devo ballare con voi tutta la sera, e spero capiate il perché”.
Le mie parole, sussurrate a bassa voce, hanno il suono minaccioso di un ordine.
Il mio fortunato cavaliere mi guarda dapprima con divertimento. Poi nel grigio dei suoi occhi si fa spazio la gratitudine. Gli angoli delle sue labbra si alzano in un sorriso. Sembra un brindisi. Ha capito. Non ne dubitavo.
“Vi ringrazio Oscar.” Mi sussurra, sottovoce. Poi, alzando il tono “Sarà un onore per me danzare con voi, Contessa de Jarjayes.”
 
Sono ore che Oscar è nelle braccia di Fersen. La donna più bella di Francia. L’uomo più bello del Nord Europa. Volteggiano leggeri, allacciati in una danza solitaria, circondati dagli sguardi invidiosi di tutti gli invitati. La regina non smette di osservarli. I suoi occhi, quando si posano su Oscar, sono colmi di riconoscenza. Ma sfiorano appena la figura di Fersen, senza indugiarvi troppo per paura di tradirsi. Qui a Versailles gli sguardi sono più pericolosi delle parole.
Io, invece, ti guardo grondando amore.
Mi chiedo cosa stai provando nelle braccia dell’uomo di cui per anni sei stata innamorata. E che forse ami ancora. Forse. So che sei al corrente delle voci che circolano su di lui. Sulle sue numerose relazioni. In patria, come qui in Francia. Sono tutte vere. Ma io non mi sento di biasimarlo. So cosa vuol dire bruciare di un amore impossibile. Ho pensato anch’io più di una volta di stordirmi dell’appagamento di donne consezienti. Ma alla fine ho preferito sempre l’alcol. Tu, invece, ti mostri infastidita quando fai finta di non imbatterti in quei pettegolezzi. All’inizio ne soffrivo. Ma col tempo ho cominciato ad accarezzare la speranza che da quel fastidio trarrai la forza per tirarti fuori da questo amore. A volte, durante le nostre bevute nei locali dove mi chiedi di portarti, o dove mi segui, ti ho vista aggrottare le sopracciglia, arricciare la bocca al solo sentire pronunciare il suo nome. E io non so se è il tuo amore ferito o in guarigione a farti reagire così.
Ti guardo, amore mio. E mi dico che le tue braccia esili e delicate sulle sue spalle fanno parte del tuo dovere di Comandante delle Guardie Reali. Mi dico che se non fossi stata costretta dagli eventi, mai avresti cercato quelle spalle sotto le tue mani. Quelle mani forti sulla tua schiena.
Passa un cameriere con un vassoio di bicchieri colmi di vino. Ne afferro uno al volo. Lo tracanno in un sorso unico. Alla fine, preferisco sempre l’acol.
 
Fersen mi sta stringendo fra le braccia. I suoi sguardi mi stanno accarezzando. Le sue labbra stanno parlando di me, con me, per me. Mi impongo di mantenere un atteggiamento impassibile. Ma ogni tanto cedo. Cedo alla gradevolezza della sua conversazione. Alla prontezza delle sue battute di spirito. Alla vivacità della sua mente. E arrivo a ridere. Apertamente. Come non dovrei mai fare, in servizio. Ma stasera il mio dovere si compie in modo tanto peregrino da autorizzarmi ad eccezioni comportamentali.
“Oscar, se fosse per me dopo questa sera vi nominerei comandante supremo. Nessuno come voi ha mai dimostrato tanta devozione nei confronti dei sovrani di Francia.”
Colgo al volo l’occasione per sdrammatizzare. “Conte di Fersen, state dicendo che è tanto penoso danzare con voi?”
Scoppia a ridere. E mi ritrovo ad adorare la sua risata. Chiara. Limpida. Schietta. Sobria. Eppure, avverto un senso di incompletezza in questa forma di adorazione.
“Spero di no, Oscar. Sto facendo di tutto per essere di vostro gradimento”. Ride di nuovo. Io, invece, mi sento infastidita. Vuoi dire che stai sforzandoti di rendere il mio dovere meno gravoso? Ma chi credi di essere? E poi pensi di essere il solo a desiderare che questo lunghissimo ballo arrivi al termine? Da qualche parte della mia onestà mi giunge l’eco di un pensiero a cui non faccio in tempo ad impedire l’accesso alla mia mente. Cosa sto dicendo? Dunque è proprio vero, questo orribile  vestito sta stravolgendo i miei pensieri, le mie emozioni. È da quando l’ho indossato che non mi riconosco più. E non solo fisicamente.
Maledetta Jeanne!
“Non occorre che vi sforziare, conte di Fersen. In fondo, sono stata a lungo innamorata di voi. Non sarà così spiacevole, stasera, arrivare fino all’alba fra le vostre braccia.”
Stavolta la sua compostezza si frantuma sotto il colpo della mia rivelazione. I suoi occhi grigi sono un unico, gigantesco punto esclamativo. Perde il ritmo, inciampa nei suoi passi. Per poco non perde l’quilibrio. Reagisco prontamente, afferrandolo per un braccio e impedendogli di cadere. Si ferma.
Vorrei esplodere in una risata, ma mi ricordo che sono in servizio. Comunque, temo seriamente di essere impazzita. O rinsavita. È stato così facile confessare questo amore.  E invece di sentirmi imbarazzata sento solo un gran sollievo. Ritorno con la mente alle parole che ho appena pronunciato, e mi rendo conto di aver usato il passato.
“In ogni caso, dovete prendervela con André, conte di Fersen. La mia idea era di indossare l’alta uniforme e danzare con la regina per tutta la sera. Ma André mi ha saggiamente fatto notare che in questo delicatissimo momento in cui la popolarità della sovrana è pericolosamente minacciata, non era il caso di rendere facile la vita ai libellisti.  Cosa avrebbero potuto scrivere, domani, quando avessero saputo che la Regina ha danzato con una donna vestita da uomo?”
Rido con soavità. Riprendo a muovermi a suon di musica, trascinando a poco a poco nel vortice di questa follia il mio ammutolito seduttore.

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Capitolo 2
*** In un mare di guai ***


In un mare di guai

È successo qualcosa. Fersen sembra folgorato. Come se avesse visto un fantasma. E’ bianco come un cencio, mentre Oscar ha tutta l’aria di starsi divertendo. Ma che succede? Vorrei essere una mosca per sapere che cosa si stanno dicendo, quei due, da quattro ore a questa parte. Vorrei stordirmi con fiumi di vino per non essere costretto a vedere la donna che amo nella braccia dell’uomo più affascinante del Nord Europa. Dell’uomo di cui lei è innamorata.
Dio, perché devo essere costretto ad assistere a tutto questo?
Cosa c’era nel tuo sguardo, Oscar, oggi pomeriggio, nelle scuderie? Possibile che abbia immaginato tutto? Che non sia più in grado di leggere nella tua anima? Eppure, mi è sembrato di vedere un mare di amore dentro quei laghi azzurri al tramonto. Ma ora che ti vedo fra le sue braccia mi sento precipitare nella disperazione.
Hanno ripreso a danzare. Fersen sembra aver recuperato un po’ della sua compitezza, ma si vede che è turbato. Oscar, che cosa gli hai detto? Non gli starai ingiungendo di partire per l’America, come quando lo hai rispedito in Svezia, anni fa? No, ma che stupido, non lo manderesti mai al macello. Laggiù si stanno battendo per vivere in un mondo migliore. Partire per l’America significherebbe molto probabilmente non tornare più. E tu moriresti se succedesse qualcosa al tuo Fersen. Al tuo Fersen…..
Mi sento impazzire. I miei pensieri sono come sciami di mosche stordite che vorticano su se stesse. Ho bisogno di prendere aria. Ho bisogno di respirare. Ho bisogno di te, Oscar. Aiutami.
Percorro il lungo salone delle danze con le falcate dello sconforto. La musica giunge sempre più tenue, alle mie orecchie. Esco sul Cortile di Marmo. Scendo di corsa i gradini. Mi faccio sedurre dall’oscurità e mi inoltro verso il Bacino di Latona. Gli zampilli della fontana sono un balsamo per la mia pelle che brucia d’angoscia.
Le luci del palazzo, dietro di me, mi ricordano la follia che si sta consumando dentro. L’onore della regina da difendere. A qualunque costo. Anche quello di farsi male.
Sono un vigliacco. Mentre lei sta compiendo il suo dovere, e Dio solo sa a prezzo di quale sofferenza, io sono qui a cercare di scrollarmi di dosso questo tormento pestilenziale che mi imputridisce l’anima e corrompe la mente.
Perdonami Oscar. Un attimo ancora e torno da te. Un attimo solo.
 
Ho cercato per tutta la sera una scia di brividi sulla mia pelle sfiorata dalla sua.
Ho cercato la corrente che mi scuotesse la schiena al tocco delle sue mani forti.
Ho cercato la voglia delle sue labbra sulle mie.
Ho cercato il desiderio di annullare la distanza fra i nostri corpi.
Ho cercato.
Ma quello che ho trovato è stato sconvolgente come una rivelazione.
Ho risentito i brividi del tocco della tua mano che ha preso la mia, in fondo alla scalinata di palazzo Jarjayes.
Ho risentito la corrente che mi ha percorso la schiena mentre i tuoi occhi guidavano i miei piedi inusualmente calzati.
Ho risentito la voglia delle tue labbra di nuovo sulle mie, come quella volta in cui pensavi che mi fossi addormentata fra le tue braccia, dopo quella sera balorda in osteria.
Ho scoperto in me il desiderio di annullare sempre più spesso la distanza fra i nostri corpi con una carezza, un tocco lieve delle mani.
Ho cercato nella mia anima. E ho trovato te. Ti cerco nella sala. Non ti vedo. Sento una fastidiosa sensazione di urgenza crescermi dentro. E desidero solo che questo interminabile ballo volga al termine.
Da quanto tempo reprimo questa consapevolezza? Quand’è che ho cominciato ad affezionarmi ad un dolore seppellito?
Guardo questi occhi grigi in cui tante volte ho fantasticato di perdermi. E sento i miei pensieri scalpitare.
Dovrei essere io a rimanere senza parole; a perdere il ritmo di questa assurda danza; ad inciampare nei miei passi; a farmi salvare dalla sua presa decisa da una rovinosa caduta. Perché ho capito che questo grigio non tinge più i miei pensieri. Questo fatto mi fa provare una gioia immensa.
Ho voglia di sfilarmi da queste braccia. Di urlare la felicità che sento esplodere dentro. Di assaporare, ingorda, il gusto di questa nuova libertà. Sono libera. Libera dal dolore di un amore storpio che mi ha deformato l’anima sin dall’adolescenza.
Mi costringo a rimanere incastrata in queste braccia. Avvinghiata al mio dovere. Il mio dovere. Fersen. Un dovere.
Oscar François de Jarjayes, se tutto questo è il frutto del maleficio di questo dannato vestito, da domani sei in un mare di guai.
 
Mi tuffo di nuovo negli umori della sala. Fa caldo. C’è odore di stanchezza. Di amori proibiti. Di noia disperata. Di sudore. Di vino.
Trovo l’azzurro dei tuoi occhi. Non lo lascio. Ci guardiamo. E per un attimo tutto sparisce attorno a me. Non ho potuto dirti quanto sei bella, mentre scendevi le scale, a palazzo Jarjayes. Tuo padre mi ha travolto con il suo ordine imperioso prima che potessi aprire bocca. Tuo padre. Ancora non posso credere alle parole che ha voluto dirmi, mentre tu eri già in carrozza. Che diavolo sta succedendo? La mia Oscar in abito lungo, tra le braccia di Fersen. Il Generale Jarjayes che dice che io sono l’unico che saprebbe renderti felice. Mentre lo diceva i suoi occhi già viravano alla malinconia. Quella malinconia di chi sa che non può concludere la frase; di chi sa che la battaglia dentro di sé è ancora furiosa: il suo sconfinato amore per la figlia, da un lato; l’incrollabile senso di lealtà verso le regole di un regime che sta dissolvendoglisi attorno, dall’altro.
Non ho risposto a quel condizionale. Abbiamo fuso le nostre tristezze in un unico sguardo. Poi sono salito a cassetta e ti ho portato qui.
La regina Maria Antonietta ha lasciato il ballo già da un po’. Prima di andare via è venuta a salutarmi. Mi ha sfiorato il braccio con il suo ventaglio, gli occhi colmi di liquida riconoscenza. “Grazie Oscar per quello che avete fatto per noi questa sera. Non lo dimenticherò mai. Ora, se lo desiderate, andate pure a casa. Sarete stanca”.
Mi sono inchinata al suo volere e mi sono congedata da lei. Il mio compito è finito.
Fersen mi ha guardata con un’espressione insistente, mentre prendevo congedo anche da lui. Ha trattenuto i miei occhi nei suoi come se non volesse lasciarmi andare via. “Oscar, vi sarò sempre grato per quello che avete fatto stasera”. Parlano all’unisono, Maria Antonietta e Fersen. I loro cuori sono uniti in un’unica anima. Spero che da qualche parte ci sia posto per la loro felicità. Ma mi sento opprimere dall’agonia che brilla nei loro occhi. Vorrei fuggire da questo abisso di disperazione in cui il mio sguardo è risucchiato. Lasciami andare via, Hans. Lasciami andare. “E’ stato un onore, per me, avervi avuta fra le mie braccia per quest’unica volta”. Sappiamo entrambi che non ce ne sarà un’altra. Fino a pochi mesi fa queste parole mi avrebbero annientata di struggente malinconia. Avrebbero aperto in me una voragine che nessun ricordo avrebbe mai potuto riempire. “Non dimenticherò mai questa serata.” È la verità. Come potrei mai dimenticarla?
Volto le spalle al mio passato. E stavolta ti trovo. Trovo il verde dei tuoi occhi e non lo lascio. Avanzo decisa verso di te. Non mi curo del mio incedere, che torna militare sotto l’urgenza di raggiungerti. Devo essere uno spettacolo grottesco. Gesti maschili in abiti femminili. Non importa. Sei a dieci passi da me. I miei occhi non ti mollano. Le mie labbra si schiudono in un sorriso.
Mi sorridi. Siamo abbastanza vicini da poterci sfiorare allungando un braccio.
“André Grandier. Un ultimo ballo e andiamo via”. Che delicatezza! Il mio è praticamente un ordine.
Per un attimo non capisco. Stai dicendo che hai ancora un ballo da fare con Fersen? Sto per risponderti che va bene, che ti aspetto, come sempre. Ma tu mi prendi le mani, mi alzi le braccia e le modelli attorno a te. Balliamo insieme. Sento tutto il vino che ho bevuto stasera fare improvvisamente il suo effetto. Ho la testa vuota, le orecchie che ronzano, il cuore furioso, le gambe molli, la gola secca. Stai ballando con me, nel salone delle feste di Versailles, davanti alla nobilità, al clero, ai principi del sangue. Solo le loro maestà si sono già ritirate, ma d’altronde, se così non fosse il tuo dovere di stasera ti imporrebbe di danzare ancora con Fersen.
Ritorno l’ufficiale che sono. Guido le braccia di André su di me, perché gli sia chiaro che voglio ballare con lui.
Voglio che il mio ultimo ballo, questa sera, sia con te. Voglio cancellare la scia delle sue mani con il tocco delle tue. Voglio sostituire il suo braccio che ha cinto la mia vita con il tuo. Voglio tingere il grigio dei suoi occhi col verde meraviglioso dei tuoi. Voglio combattere contro questo desiderio di sentire di nuovo le tue labbra sulle mie. So di essere troppo vicina a te, più di quanto le lezioni di danza e la decenza impongano, ma sei sempre troppo distante.
In un attimo i miei dubbi evaporano come sospiri. Si, c’era amore, per me, nei tuoi occhi, oggi pomeriggio. Ora, c’è la gioia di averlo riconosciuto dentro di te.
Oscar François de Jarjayes, se tutto questo è il frutto del maleficio di questo dannato vestito, da domani sei in un mare di guai.

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Capitolo 3
*** I tempi stanno cambiando ***


I tempi stanno cambiando

Siamo seduti a cassetta. Alla fine il buio di quella che sembrava una serata interminabile si è ritirato. La foschia che precede il sorgere del sole ci avvolge come questo mantello che ci unisce. Avevo paura che prendessi freddo. Tu e la tua cocciutaggine. Sei stata irremovibile. Al momento di salire in carrozza ti sei rifiutata di prendere posto dentro e sei salita affianco a me al posto di guida. Mai avevi fatto una cosa del genere. Ho fatto finta di credere alle tue spiegazioni: volevi vedere l’alba. In realtà, vuoi vedere l’alba con me. Vuoi che il contatto dei nostri corpi non si interrompa. Vuoi sorreggere la mia stanchezza. Lo so, perché è quello che voglio anch’io. Non ho avuto la forza di dirti di no. Ti ho fatta accomodare vicino a me. Ho preso il mantello pesante che avevo lasciato in una sacca sotto il sedile, sul fondo dell’abitacolo della carrozza, e ti ho coperta. Hai protestato, volevi dividere quel mantello con le mie spalle, ugualmente esposte al freddo delle prime ore del mattino. Ci siamo rifugiati insieme sotto quell’ala verde. Per un interminabile momento i nostri occhi non sono riusciti a separarsi. Nei tuoi c’è una tenerezza che mi fa tremare l’anima. So cosa stanno dicendo. Mi stanno ringraziando per il mio modo di esserti vicino sempre; di leggere i tuoi pensieri, di intuire i tuoi bisogni. Con discrezione, senza alcuna pretesa se non quella di darti tutto me stesso. Mi stanno ringraziando, e non riescono a fare a meno di sorprendersi ancora.
Non ho alcuna voglia di accomodarmi senza di te sui sedili imbottiti della carrozza di famiglia. Sei stanco quanto me. Ma stasera ci sei solo tu a cassetta. Dunque, se non puoi riposare tu, non riposerò nemmeno io. Fai finta di credere alle scuse dietro cui voglio ancora coprirmi. Voglio sbirciare da questo angolo segreto l’uomo con cui sono cresciuta. Voglio ripararmi in questo nascondiglio inaspettato ed osservare, non vista, i miei sentimenti. Voglio godermi in solitudine, ancora per un po’, il calore di questa emozione. Rabbrividisco. Scendi a terra con un balzo. Apri lo sportello della carrozza. Lo richiudi. Ritorni al mio fianco. Apri il mantello e mi avvolgi nella sua calda pesantezza. Come fai, André? Baratto la voglia di lasciarmi andare a questa tenerezza che mi scioglie il cuore con le proteste che irrompono institive. E tu? Non se ne parla. Divideremo freddo e stanchezza. Mi scosto e allungo il mantello sulle tue spalle. I nostri corpi sono ora più vicini. I nostri occhi, incollati. Sono stregata da quello che c’è nei tuoi. C’è tutta la tranquillità del nostro profondo comprenderci senza bisogno di parole. C’è la limpidezza di un amore assoluto che affonda le radici nell’eternità. C’è la scintilla birichina di una complicità che esclude tutto il resto, attorno a noi. C’è l’intimità di un’amicizia senza la quale non potrei vivere.
Accidenti a questi tacchi. Ho i piedi doloranti. André procede lentamente, per evitarmi scossoni. Mi massaggio le caviglie. Le sento gonfie. Come la tua risata che riempie l’aria. E’ gonfia di allegria che ci fa tornare per un attimo due amici. Non più uomo e donna. Semplicemente, eppure così specialmente amici. Rido con te. “Ahi ahi ahi.  I miei piedi sono due salsicce”. Mi sfilo questi strumenti di tortura e lascio che il freddo del mattino conforti i miei piedi martoriati. Maledetta Jeanne.
 
Ti sei appisolata sulla mia spalla. Non deve essere comoda, sotto la tua guancia. Ma tu sei abituata a dormire ovunque. Il comandante Oscar François de Jarjayes è stato addestrato a trasformare in morbide piume anche i sassi più duri. Ridacchio. Palazzo Jarjayes mi appare all’orizzonte, finalmente. Sono sfinito. Non vedo l’ora di dormire. Ma non so se ci riuscirò. Sono felice. E questa felicità mi terrà sveglio per buona parte del tempo. Non c’è stata una parola, fra noi, ad autorizzare questa mia gioia profonda. Ma le parole, fra noi, non sono mai servite.
Sono abituata a dormire con un occhio solo e quando finalmente arriviamo a palazzo i miei occhi sono vigili già prima che tu fermi i cavalli. Lasci la carrozza al centro del cortile. Gerard verrà a prenderla più tardi. Sarà dura scendere da qui con l’impaccio di questo vestito. Mi infilo di nuovo le scarpe. Ma quelle non ne vogliono sapere di entrare. E’ come se i miei piedi si fossero espansi, una volta liberati da questa gabbia, e ora è impossibile rificcarceli dentro. Maledico queste scarpe che penzolano inutilmente dalle mie mani. Mando accidenti ad ogni dettaglio del mio abbigliamento. Sento André ridere e il mio cuore si sorprende a riempirsi di goia. Lo guardo. È stanco, ha gli occhi cerchiati di sonno. Ma è felice. E questo basta a rendere felice me. Sono già arrivata a questo, André? La tua felicità è la mia felicità. Quando è successo? E come è stato possibile che non me ne rendessi conto?
Ti prendo nelle mie braccia. Non puoi certo camminare a piedi nudi. Rido ancora come un bambino, ma quando ti sento calzare le mie braccia alla perfezione, come se le tue forme fossero state disegnate per le mie, sento le lacrime salire prepotenti. Il riso mi muore in gola. Il sorriso si pietrifica sulle labbra. Mi guardi dapprima sorpresa, poi impacciata. Infine emozionata. Lo capisco dal rossore delle tue guance. Dalla peritanza del tuo sguardo che si abbassa. Dal tremore del sorriso che abbozzi con le labbra.  Avanzo verso la vetrata d’ingresso a piccoli passi. Non sento la pietra del selciato, sotto i miei piedi. Sto volando.
Mentre ancora sbraito contro questo dannato costume, tu sei già sceso a terra. Sono alle prese con la  gonna che non so da dove cominciare a raccogliere, per scendere senza cadere. Lancio le scarpe per terra. Al diavolo, camminerò scalza. E poi sento le tue braccia sollevarmi. Alzo sorpresa lo sguardo su di te, gli occhi sgranati. Mi muore il fiato in gola. Mi stai prendendo in braccio. Stavolta nessuna protesta viene in soccorso delle apparenze. Solo il cuore urla prepotentemente. Ma quello so come farlo tacere. Mi do un contegno. Quante volte mi hai presa in braccio, sin da bambini? Una infinità. Ma ora taccio. È la sola cosa sensata che posso fare. Se parlassi, la mia voce tremerebbe. Se parlassi, dalla mia gola sgorgherebbero parole d’amore. E non sono ancora pronta per dirtele. Ho bisogno di altro tempo per crogiolarmi in questo dolce tormento. Per scoprire le segrete sfaccettature di questo amore che mi ha travolta senza preavviso. Per riprendere il fiato che mi si è mozzato mentre ero fra le braccia di Fersen, stasera, e ho visto te nel mio cuore. Aspettami, amore. Un attimo ancora. Non mi accorgo che siamo in cima alle scale d’ingresso. Mi scuoto dai miei pensieri solo perché sento che ti sei fermato. La tua mano spinge la grande vetrata.
“André”
Qualcosa, nella tua voce, mi blocca.
“Si?”
“Che cosa ti ha detto mio padre, ieri sera, prima che salissi a cassetta?”
Il mio cuore ha un sussulto. Accidenti a te, Comandante delle Guardie Reali. Non ti sfugge nulla. Prendo tempo, increspando le sopracciglia in un dubbio a cui forse non credi nemmeno tu.
“Che cosa ti ha detto mio padre, André?” Ti incalzo.
“Che i tempi stanno cambiando, Oscar”.
 
Li vedo entrare avvolti in una nuvola di felicità. Sono talmente presi l’una dall’altro che non si accorgono di me, qui in cima alle scale. Stavo per scendere in sala da pranzo. Stamattina il mio dovere mi ha tirato giù dal letto molto presto. Per te Oscar, invece, è molto tardi. Vedi, vecchio mio, come tutto sia relativo? Basta voltarsi da un’altra parte per cambiare prospettiva. Presto. Tardi. Due opposti per dire la stessa cosa.
André ti tiene fra le braccia. E lo fa in un modo così naturale, eppure così pieno di rispetto e di dolcezza, che ritorno con la mente alle parole che gli ho detto ieri sera. State salendo le scale. Indietreggio un poco, per nascondermi nell’ombra della colonna. Non ho mai visto quella luce sul tuo volto, Oscar. I tuoi occhi sono fusi in quelli di André. I suoi nei tuoi. Brillate come l’abbraccio di due stelle. Siete in cima alla scalinata. Avanzo e mi porto nel fascio di luce, nel vostro campo visivo. André mi vede per primo. Si irrigidisce, e tu segui subito dopo, allarmata, il suo sguardo. Lo sbatti addosso a me. Mi sento colpito. Mi sento addosso l’imbarazzo dell’ineguatezza; il disagio dell’intrusione; l’onta dell’ostinazione. Restiamo muti in tre per un attimo che sembra eterno. Un attimo in cui tutto sembra possibile.
“Bene, buonanotte.” Sorrido. E i loro visi sembrano sciogliersi come cere al fuoco. Mi avvicino a grandi falcate verso la scalinata. L’attacco con passi imperiosi. Sono già a metà quando mi fermo e mi volto. Loro sono ancora lì. L’una nelle braccia dell’altro. Incapaci di staccarsi. Incapaci di muoversi. Mi dànno le spalle.
“Ah, André” La mia voce è perentoria come un ordine.
“Si?” Si volta, con mia figlia ancora fra le braccia. La mia splendida figlia. La sua amata Oscar. Non scenderà più da quelle braccia. Ed un inaspettato sospiro di sollievo viene a farmi tossire il petto.
“Ricorda quello che ti ho detto ieri sera”.
Guardiamo la figura di mio padre sparire in fondo alle scale e poi nel corridoio che porta alla sala da pranzo.
I tempi stanno cambiando.
 

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