Happily Ever After di Servallo Curioso (/viewuser.php?uid=57725)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inizio ***
Capitolo 2: *** Svolgimento ***
Capitolo 3: *** Conclusione ***
Capitolo 1 *** Inizio ***
[H]appily
ever
[a]fter
Act.1
- Inizio
Pioveva in un modo
strano quel giorno.
Cadeva una pioggia
fitta e leggermente guidata dal vento. Non era forte, anche se la
rete di gocce creava una specie di muro davanti a me: leggere e
danzanti arrivavano al suolo, rendendomi la traversata veramente
piacevole.
Con il mio banale
completo di jeans e giubbotto, ed imbracciando lo sgargiante ombrello
azzurro, mi decisi a tornare a casa. Mi morsi il labbro
perché
quella pioggia era iniziata all'improvviso, ma mi resi subito conto
che non mi disturbata affatto. Amavo la pioggia, non al pari del
vento ovviamente.
Tra tutti i fenomeni
della natura, si può dire che il vento fosse il mio
preferito.
Quando da piccolo nel cortile dei miei zii materni vedevo volteggiare
le foglie cadute in brevi mulinelli, mi mettevo sempre a sognare.
Immaginavo di essere una foglia e di volare al vento. Crescendo,
questo fenomeno naturale, rimase nella mia mente perché era
il
simbolo del cambiamento. Le giornate ventose, infatti, mi istigavano
a fare qualcosa che rimandavo da tempo, o cambiare qualcosa.
Qualsiasi.
La pioggia invece mi
faceva riflettere. Erano come mille e mille frammenti del mio passato
che cadevano sul mondo; occorreva solo afferrare quelli giusti ed
evitare spiacevoli memorie.
Mentre con lo sguardo
perso nel vuoto pensavo a questo, attento comunque ad evitare le
pozze e tenendo l'ombrello nel verso giusto, sentii dei colpi di
tosse. Forti. Incredibilmente forti. Per un attimo ebbi paura che
l'uomo malato, ero sicuro fosse un uomo, tossisse così forte
da gettar fuori i suoi polmoni.
“Ha bisogno di
qualcosa?”
Per qualche strano
motivo quel giorno non andavo di fretta e avvicinandomi al signore
posi spontaneamente questa domanda.
L'uomo mi guardò
alzando lo sguardo e spostandosi quel candido fazzoletto dalla bocca.
Era sui sessanta anni, mi sentii di azzardare. Forse cinquantacinque,
mi corressi subito. Aveva uno sguardo scuro e desolato, allo stesso
tempo momentaneamente sorpreso per la mia domanda.
Avvolto in un soprabito
che non riuscirei a definire, con un bombetta appoggiata sul capo,
l'uomo mi rispose.
“Non si preoccupi”
scosse la mano. Per qualche attimo rimasi immobile sul fare di
andarmene. Ma vedendolo ancora tossire, mi preoccupai di averlo sulla
coscienza.
Accanto a lui aveva
delle borse, contenevano dei libri a quanto sembrava. Mi avvicinai ad
essi e porsi l'ombrello a quel tipo che ne era sprovvisto.
Ripensandoci adesso, forse non avrei agito con tanta
impulsività.
“Lo prenda,
l'accompagno a casa” Ci fu una pausa tra il tempo che finii
la
frase e quello con cui l'uomo prese quell'oggetto per ripararsi dalla
pioggia. Alzandomi il cappuccio continuai. “Le porto la
borsa”.
Fin da piccolo, avevo
appreso che le persone in difficoltà non andavano ignorate.
Mia madre si era sempre preoccupata molto di questi piccoli
insegnamenti, che alle volte facevano la differenza. Afferrando
quelle borse lo accompagnai a casa. Mi indicò la strada da
seguire e mi ringraziò più volte. Solo alla fine
iniziammo a presentarci.
“Sei stato veramente
gentile” iniziò così il discorso
fermandosi “Il mio
nome è Eduardo -il suo cognome non lo ricordo-, piacere di
aver incontrato un giovane tanto disponibile” porse la sua
mano con
vera classe. L'ombrello teso verticalmente sopra la sua testa lo
proteggeva dalla pioggia, ma a me, l'aveva fatto sembrare fino a quel
momento un'entità a sé. Con un filo di
esitazione,
dettato dalla timidezza, ricambiai il gesto creando una debole
stretta.
“Mi chiamo Isaac”
dissi. Come ogni volta, durante la presentazione, mi passarono
davanti agli occhi: data di nascita, indirizzo, nome ed altri dati
che non avrei condiviso.
“Mi dispiace averti
fatto disturbare tanto...”
“Non si preoccupi”
risposi io. Quelle borse erano abbastanza pesanti.
Solitamente un gesto
del genere l'avrei fatto poco volentieri. Casa sua a quanto pareva
era dalla parte opposta della mia, e portare quel peso non era
piacevolissimo. Ma il suo tono, il suo portamento e le sue continue
scuse mi costringevano, incantandomi, a compiere ogni azione
necessaria.
Abitava in un quartiere
molto grazioso. Le case disposte in fila e indipendenti tra loro,
rendevano l'aria più libera di quanto non fosse. I giardini
perfetti, le siepi tagliate, i muri appena dipinti.
Inizialmente ammaliato
da tutto ciò, tornai me stesso quando il primo pensiero
critico mi passò nella testa. Odiavo tutta quella ricerca
dell'esteriorità.
Mi resi conto della mia
incostanza quando, giunto alla sua abitazione, mi fermai a fissare i
fiori ordinati che, leggeri, dondolavano colpiti dalle gocce.
“Entra per favore. Mi
farebbe piacere sdebitarmi offrendoti qualcosa” la sua voce
mi fece
riprendere.
“Grazie ma non ce n'è
bisogno” anche se desideravo, le parole non vollero uscire.
Mi
persuase ad accettare e varcare l'ingresso di casa sua.
Non era molto luminosa,
ma piacevolmente calda. Mi invitò ad appendere la giacca
bagnata all'ingresso e così feci, trovandomi poi in un
silenzioso salotto. Quell'alone di semi oscurità, sembrava
abbracciare e preservare ogni cosa. Mi trovai alla fin fine in un
luogo non troppo estraneo. Era quasi come entrare in una casa
già
conosciuta. Sedendomi sul divano porpora, davanti a quel piccolo ed
ornato tavolino di legno mi accorsi della tristezza di quella casa.
Ogni oggetto sembrava esserne impregnato.
L'uomo tornò
subito con un vassoio dove erano posate due tazze da tè ed
una
brocca fumante. Non mancava neppure la zuccheriera ed i biscotti.
Presi la mia tazza e evitai di dire che a me il tè non
piaceva. Avevo paura di ferirlo e rendere la casa ancora più
triste. Credo che comunque si rese conto che certe pratiche io non le
avevo mai fatte, e mi guardò sorridente mentre tutto d'un
fiato mandavo giù quella bevanda.
Non avevo la più
pallida idea di cosa parlare. Davanti a un estraneo così,
che
avevo incrociato per strada, il numero degli argomenti che pensavo di
proporre erano pari a zero. Attendendo qualche minuto, ero convinto
di potermi alzare ed andarmene salutando cortesemente. Ma anche se il
tempo passava, scandito dal grande orologio appeso vicino alla cupa
libreria, non trovavo la forza di muovermi.
Fu in quel momento che
lo vidi.
Affacciandosi da un
corridoio buio, quel ragazzo si fece avanti con un passo deciso.
Arrivò accanto al padrone di casa a rimase in silenzio,
guardandomi. Mi costrinsi a ricambiare lo sguardo, come se fosse una
sfida. In quei secondi, dentro di me si era fatta una strana idea
della sua persona.
Chiuso nel suo corpo
perfetto, tra le spalle larghe ed il torace possente, e mascherato
dietro quel volto, liscio ed ornato da due castani occhi, scorsi un
baratro. Tremai nascondendolo alla vista dei due.
Capitava a volte, come
a tutti, che al primo sguardo si intuisse una particolarità
di
chi si aveva davanti. Un'emozione, uno stato d'animo. A me accadeva
abbastanza frequentemente con gli sconosciuti. L'immagine che quel
ragazzo mi trasmise: era quella di una bambola di porcellana. Una di
quelle appoggiate alle mensole, tenute a lucido, con cui i bambini
non possono giocare perché fragili. Forse lo giudicai
frettolosamente, ma al primo impatto fu l'unica cosa che notai.
Tremai nuovamente. Mi
metteva a disagio.
Non potevo negare
comunque, che quell'individuo aveva il suo fascino. Quasi
involontariamente, mi spostai verso di lui, strisciando sul morbido
divano.
“Ha bisogno di
qualcosa?” Chiese solennemente all'uomo che si era accomodato
sulla
poltrona a sorseggiare il tè. Lui rispose di no con la
testa,
ma poi lo invitò a presentarsi. Quasi con uno sguardo
penitente, quella creatura si avvicinò a me. Dovetti
alzarmi.
“Il mio nome è
Hito, piacere di conoscerti” avevo appena allungato la mia
mano
quando la prese e la strinse. Fu Freddo e delicato come la carezza di
un pupazzo. Da un uomo del genere mi sarei aspettato una presa forte.
Artefatto. Aveva un modo di parlare e agire artefatto.
“Isaac, piacere mio”
provai ad essere più formale possibile, ma quella sensazione
non riuscivo a togliermela di dosso. Finito quel momento, me ne
tornai a casa.
L'autunno procedeva
abbastanza bene. La scuola dava i suoi problemi, eppure nulla di
più
rispetto al solito. Quando sentii il campanello suonare stavo finendo
una ricerca. Rimasi qualche attimo ad aspettare, ma sentendo la casa
vuota mi mossi per aprire.
Era triste, eppure
quella casa era ancora vuota. Emanava nel suo insieme qualcosa di
poco differente dalla casa di quel signore che qualche tempo prima
avevo riaccompagnato a casa. Quell'appartamento era malinconico.
Mi incupii leggermente,
mentre afferravo la maniglia. Né chiesi nulla, né
guardai dallo spioncino. Aprii e basta. Fu quella la seconda volta.
Sul fare del
pomeriggio, quel ragazzo tanto apparentemente forte quanto
internamente fragile si era presentato alla mia soglia.
“Che succede?” ero
sul punto di dire. Non posso affermare che avesse un'espressione
sconvolta o trasmettesse qualcosa di particolare. Il suo volto era
impassibile, privo di informazioni da darmi. Mi comunicò un
immenso vuoto; un vuoto che finì per divorarmi.
Ogni volta che torno a
pensarci finisco con il domandarmi di che colore sia il vuoto. Non so
rispondermi. Ma in quel momento sono sicuro di averlo notato. Un
colore che non trasmette alcun sentimento. Esiste veramente?
Apatia.
Con un volto finto mi
porse una lettera. Io dovevo ancora riprendermi da quel vuoto. Non
ero mai entrato in contatto con una persona così. Senza
neppure conoscerlo, già sapevo che non era normale. Non era
un
pregiudizio o un pensiero di quelli che si fanno a volte. Lo sentivo
dentro di me, sentivo che quel vuoto era anormale. Mi fece paura per
un attimo continuare a pensare.
Presi la busta e
scoprii che conteneva una lettera scritta a mano.
“Vieni dentro”
facendolo accomodare in sala, sui miei vecchi divani, chiesi se aveva
bisogno di qualcosa. Il suo 'no' di risposta mi parve stranamente
forzato.
Era una lettera di
Eduardo. Quel signore mi stupì. Le cose che lessi
però,
mi colpirono in maniera maggiore. Stavo forse sognando? Uno di quei
sogni che si fanno durante il sonno profondo? Non me ne resi conto.
Piegandola risi
forzatamente. “E' uno scherzo?” chiesi. Frasi come
“te lo cedo”
o “forse riuscirà ad amarti” mi facevano
pensare ad uno
scherzo di pessimo gusto o alla lettera di un pazzo.
Seduto sul divano che
gli avevo indicato, Hito, mi rispose un 'No' secco.
“Non capisco”
“Il signor Eduardo,
mi ha riferito che d'ora in poi dovrò rendere conto a lei.
Ha
detto che è riuscito solo in metà del suo
esperimento e
che ha notato dentro di lei i colori che servirebbero”
Pensai fossero entrambi
pazzi. Mi balenò l'idea di fuggire, ma contro una persona
così
sarei andato poco lontano. Mi resi conto solo in fondo che mi aveva
dato del 'lei'.
“Colori? Rendere
conto?” chiesi ancora tentando di ragionare.
“Il signor Edward mi
aveva avvertito che forse lei sarebbe stato confuso. Così mi
ha ordinato di spiegarle tutto”
Tutto questo era solo
l'inizio di una lungo storia.
“Il signor Edward è
un alchimista” mentre iniziava a parlare, con un tono
completamente
insensibile, io mi convinsi che erano folli. L'alchimia non esisteva.
“Un giorno, decise di creare un essere umano perfetto. Prese
un
corpo e un'anima per compiere un rituale. Ci mise molto tempo e ci
vollero svariati esperimenti.”
Sicuramente ora dirà
che è nato così, mi dissi tra me e me.
“Io sono nato così”
Tremai, ormai lo facevo
spesso.
“Mi ha detto che dopo
di me si fermò, non aveva più le forze di andare
oltre.
Ma io sono imperfetto. Io non sono capace di provare
sentimenti”
Incredulo alle sue
parole, non riuscii a distogliere lo sguardo. Ignorando il suo
bell'aspetto, mi concentrai su una voce sommessa. Singhiozzi.
Qualcuno stava
piangendo. Se davvero non provava sentimenti di chi era quella voce?
Dalla bambola immobile che era, la mia mente lo inquadrò ora
solo come un bambino che aveva bisogno di aiuto. Mi fido troppo
facilmente, anche se tutto è sorretto da una inverosimile
storia. Quando quella sensazione svanì, mi resi conto che
era
calato il silenzio. Non solo. Mancava qualcosa.
“Cioè. Non ti
aspetterai che ti creda?”
“Il signor Edward ha
detto che lei avrebbe potuto aiutarmi”
“Non darmi del lei”
mi infastidiva quando lo diceva.
“Come volete”
“Neppure del Voi. Tu.
Semplicemente del tu.” Lo trovai veramente folle. Un turbine
di
emozioni contrastanti avvolse il mio cuore.
“Tu puoi aiutarmi.
Per favore” sembrava una macchina; non mi lasciò
neppure il
tempo di comprendere le sue parole “Il mio creatore mi ha
consigliato di dire 'per favore' o 'ti prego'. Perché era
più
probabile che tu accettassi”
Rimasi in silenzio. Era
davvero impedito in certe cose, o fingeva maledettamente bene.
“Non
devi dirmelo però” lo rimproverai. “Per
far si che
funzioni, devi dire semplicemente 'per favore' o cose così,
senza aggiungere che qualcuno te l'ha consigliato. Perde il suo
effetto”
Ci pensò un
pochino. Corrugò la fronte solamente un poco.
“Scusa”
passarono alcuni secondi. Nel silenzio ne contai cinque.
“Ti prego” Sospirò
poi. Come se si volesse correggere.
“Ma no. Non va bene.
Ormai che hai rivelato chi te l'ha consigliato, non fa più
lo
stesso effetto”
“C'è un modo
allora per convincere qualcuno?” tradussi in
curiosità il
bagliore che per pochi attimi pervase il suo sguardo.
“Potresti inchinarti
e dire 'sommo padrone la prego di aiutarmi' forse potresti
farcela”
Non lo prendevo sul serio. Stavo scherzando anche se improvvisai un
tono serio.
Persi ogni sicurezza,
quando si alzò e fece quello che gli avevo appena detto. Si
inchinò e pronunciò quella frase senza esitare.
Sollevandomi dal morbido schienale del divano mi spaventai. Per un
secondo ci credetti. Un secondo abbastanza lungo da far crollare
tutto il castello di certezza che mi ero creato attorno. Dov'erano le
mie ragioni ora?
“Alzati. Stavo
scherzando!” lo rimproverai ancora. Si scusò. Non
era vero
che non provava emozioni. Nei suoi 'scusa' c'era tristezza e nei suoi
'ti prego' c'era una specie di vera sottomissione. Quelle sfumature
apparentemente impercettibili io riuscivo a notarle. Erano piccole,
troppo leggere. Come un sasso gettato nell'oceano. Ma erano una base.
Ancora ora mi chiedo se
al posto mio ci fosse stato un altro. Cosa avrebbe fatto? Se uno al
posto mio non avesse scorto quell'anima disperata che cadeva nel
vuoto senza toccare mai il fondo, come si sarebbe comportato? Posso
dire, adesso, che fu una fortuna che io fossi io e non un altro.
“Dov'è il
signor Edward?” Chiesi.
“Ha detto se ne
sarebbe andato” rispose subito.
“Ho la casa
momentaneamente libera... puoi dormire da me” La casa era
veramente
libera e senza rendermene conto stavo facendo una cosa che tutti
avrebbero considerato una pazzia.
A quel tempo avevo una
vita piuttosto indipendente. Potevo fare, approssimativamente, quel
che volevo. Mio padre lavorava fuori, mia Madre era scappata quando
ero piccolo e mia sorella era morta. La casa piangeva al posto mio
ogni giorno. Con lui, pensai, mi sarebbe sembrato di vivere di nuovo
con qualcuno. Un modo egoistico per sentirmi vicino a una famiglia.
Lo accompagnai nella
camera di mio padre rimasta tale e quale a come l'aveva lasciata.
“Puoi dormire qui. Ma
non toccare o muovere nulla” sarebbe tornato nel weekend, e
per
giorno avrei inventato una scusa. Se Poi si lamentava del letto
sfatto potevo sempre dire che ci ero stato io. Tornando indietro,
lungo il corridoio, scorsi camera di Sarah. La rividi lì,
seduta a gambe incrociate sul letto a sfogliare un libro. Con il suo
fare diretto ma contenuto mi avrebbe detto di chiudere la porta.
Sentii il bisogno di farlo anche rendendomi conto che stavo sognando.
Non riuscivo ad abituarmici. Era sicuramente per quel motivo, che
volevo di nuovo qualcuno dentro la casa.
Quando mi voltai verso
di lui, avendo ancora nel campo visivo quella porta, sentii il mio
petto comprimersi e le lacrime salire agli occhi senza però
uscire. Quando accadono cose di una certa gravità,
ciò
che si prova all'inizio è come la punta di un iceberg. La
sofferenza reale arriva solo dopo, nelle piccole cose quotidiane. Il
senso di abbandono e mancanza; la consapevolezza di non poter tornare
indietro sono bestie che si rivelano in un secondo momento. A me
avvenne quel giorno a più di un anno di distanza.
In un drammatico
istante presi realmente coscienza della morte di mia sorella.
Non so come mi guardò
lui. Ero debole e indifeso dopo aver preso finalmente le redini della
situazione. Mi sentivo come dopo aver scoperchiato un tombino che
puzza. Dopo averlo aperto la vampata è veramente terribile,
ma
piano piano l'odore svanisce mischiandosi all'aria esterna.
Prendersi cura di una
persona è molto difficile. Hito era quasi auto sufficiente,
ma
in relazioni con la società aveva un 'non classificato'. Mi
chiedevo spesso, in quei giorni, come potessi sperare di aiutarlo. Io
che non riuscivo neppure a tenere viva una pianta.
I fine settimana dovevo
dormire con lui. Mio padre tornava la sera tardi e io la usavo come
scusa per nascondere Hito nel mio letto. Mio padre non sarebbe mai
entrato in camera mia nel cuore della notte a vedere, e poi era molto
stanco. Per questo motivo dovetti abituarmi al pensiero di
condividere il mio piccolo letto con un uomo. La Mattina poi, visto
che lui si alzava tardi, inventavo una scusa del tipo “Sai,
questo
amico è venuto stamani a chiamarmi”e ci credeva.
La Notte, però,
mi svegliavo parecchie volte. Ogni volta mi prendeva paura. Appurata
la sua inoffensività, e la sua completa obbedienza, non
riuscivo comunque a fare sogni tranquilli. Non avevo mai dormito con
un estraneo nello stesso letto.
Ah. Poi c'era la storia
che non aveva bisogno di dormire. Non dormiva mai, sembrava che
stesse nel letto solo per farmi un piacere e rimaneva tutta la notte
a guardarmi o guardare il soffitto. Mi metteva in soggezione.
Nell'intimità dei miei sogni temevo potesse rubarmi
qualcosa.
Non qualcosa di materiale, ma qualcosa di mio. Uno dei miei tanti
'colori'. E' stupido a pensarci bene. Ma non potevo fare a meno di
sospettarlo. Così, ogni volta che mi svegliavo di notte, mi
giravo verso di lui in modo serio.
“Hai bisogno di
qualcosa?” oppure “E' successo qualcosa?”
lo chiedeva sempre.
Violando il mio mondo
così era riuscito a toccarmi in profondità. Dopo
un
iniziale disagio tornavo a dormire vedendolo come un cane da guardia.
Era un essere umano al pari degli altri. Me ne convinsi nel
dormi-veglia di una sera. Appoggiato al cuscino, dandogli le spalle,
sentii il ritmo dei suoi battiti.
Faceva anche attività
fisica, o meglio, era portato a farla. Per questo motivo quando non
sapevo cosa fargli fare lo mandavo a compiere qualche lavoro manuale
per la casa o semplicemente a correre per il cortile. Lui non faceva
assolutamente nulla altrimenti. Attendeva solo una mia richiesta o un
mio ordine. Mi sentivo sempre un po' in colpa a fargli fare queste
cose.
Io non ero uno
psicologo o qualcuno che era esperto nel settore. Per aiutarlo feci
quel che potevo. Stargli dietro, mostrare a lui come funzionavano
alcune cose. Il Perché di alcuni comportamenti. Mi rubata
tempo. Tenermi occupato evitava di farmi pensare alla solitudine
della casa.
Una mattina uscii come
al solito per dirigermi a scuola. Era un freddo novembre. Tra le
persone che aspettavano il pullman incrociai una mia vecchia compagna
di scuola.
“Ciao Isaac!”
esclamò. Io Ricambiai.
Tra un discorso e
l'altro notavo che aveva una faccia pensosa, come se si tratteneva
nel dire qualcosa. Sputò fuori tutto in un momento di
silenzio
tra noi.
“Senti... ho saputo
di Sarah. Mi dispiace molto”
Non era il massimo.
Qualcuno aveva detto anche di meglio ma apprezzai il gesto. Anche se
era passato un anno, usciva sempre qualcuno che ne era appena venuto
a conoscenza. Mi chiese anche come stavo. Le risposi che era passata.
Giunto il periodo
natalizio, mi sentii soddisfatto di vedere Hito abbastanza
migliorato. La sua curiosità era crescente, e anche se non
provava nessuna soddisfazione nello scoprire le cose, continuava a
chiedere. Mi stancava ma allo stesso tempo mi rendeva fiero di me.
Le strade in quel
periodo sono sempre addobbate al massimo. Luci, suoni, persone che
passano. Tutto fa sembrare anche la mia piccola città un
luogo
caotico. Faceva buio presto e decisi che stare in casa era noioso.
Iniziò a muoversi dentro di me una strana idea e verso l'ora
di cena mi avvicinai alla sua figura di spalle.
“Hito. Che ne dici di
uscire?”
Lui mi guardò e
rispose “Come desideri”
Mettendomi una giacca e
vestendolo con qualcosa che durante quella convivenza eravamo
riusciti a comprare, scendemmo lungo il viale. L'atmosfera era
sognante e suggestiva, ma lui rimase lo stesso. Ci mettemmo uno di
fianco all'altro e camminammo a lungo. Era abbastanza noioso. Lui non
parlava molto e i suoi discorsi erano oggettivi. Non rideva, non si
offendeva, non aveva malizia. Era come portare a spasso una statua.
Mangiammo due pezzettini di pizza e io bevvi qualcosa.
Giacché
lui aveva un aspetto adulto, poteva anche comprare qualche alcolico.
A me non piacevano, ma feci un'eccezione. Sperai che bevendo un poco
l'uscita sarebbe diventata più sopportabile. Lui invece
rimase
sobrio.
Bevvi una cosa molto
leggera, quella meno costosa, e mi ripugnò a tal punto che
non
cambiò nulla.
Decisi a questo punto,
di ravvivare la serata in un altro modo. Volevo farmi una risata alle
spalle delle agente che c'era là attorno, che mi passava
vicino. Io sono sempre stato il tipo da queste cose. Avvicinandomi a
Hito, mi strinsi al suo grande e solido braccio. Posai il volto su di
lui e continuammo a passeggiare. Era un conforto, mi rilassava. Ma
fin da subito lo sguardo di tutti cadde su noi due. Lui impassibile
non si rese conto del perché e continuò a
camminare. Io
come una ragazzina, mi strusciavo al suo corpo. Trattenni le risate a
stento. Tutti quelli sguardi che mi cadevano addosso, anzi, ci
cadevano addosso. Avevo una gran voglia di ridere in mezzo a tutti.
Mi divertiva davvero vedere come bastava poco ad attirare la loro
attenzione. Lo feci solo perché eravamo arrivati in un
quartiere dove non conoscevo nessuno, e pregai di non incrociare
degli amici o parenti.
Passeggiando, lo portai
in una strada deserta. Il lampioni illuminavano discretamente i bordi
del marciapiede sul quale ci sedemmo. Io ero stanco, lui no. Avevo
voglia di dire qualcosa come “è stato divertente
no? Far
finta di stare assieme. La gente si scandalizza per poco.
Chissà
poi che discorsi faranno” ma non lo feci. Lui non si era
divertito,
lui non provava quel genere di emozioni.
“Perché ci
guardavano tutti?” domandò ad un certo punto,
interrompendo
il canto delle cicale.
Io mi voltai verso di
lui. “Perché eravamo due uomini”
“Non capisco. C'erano
tanti uomini assieme lungo la strada”
“Noi però
eravamo abbracciati”
Sembrò collegare
le cose, ma non era così. “E' una cosa
brutta?”
“C'è chi la
vede in questo modo”
“E tu?”
Mi Grattai la guancia
con un dito. “Non la trovo una cosa brutta, è una
cosa
diversa dalla norma” Non continuai. Sapevo perfettamente che
fare
dei moralismi con lui non aveva senso. Volevo dirgli che
l'intolleranza era una cosa brutta, che occorreva avere rispetto, ma
mi frenai. Non aveva una personalità con cui confrontarsi.
Riprese la parola.
“Perché due uomini dovrebbero
abbracciarsi?”
“Perché si
vogliono bene o si amano. Sia che venga inteso come un amore fraterno
tra amici o parenti, o un amore più classico come in una
coppia”
“E noi ci amiamo?”
Lo chiese senza un tono particolare, ma mi stupì lo stesso.
Non so in quale senso lo intendesse però.
“L'amore è
un'emozione” lo interruppi. Così, dopo averci
pensato
ripropose la domanda sotto un'altra forma.
“E tu mi ami?”
Arrossi leggermente, per
l'imbarazzo di una domanda del genere. “No. L'amore
è
un'emozione molto importante”
Forse, un individuo
normale si sarebbe offeso ad una risposta così. Lui, invece,
sembrò non preoccuparsene e continuò.
“Allora perché
andavamo abbracciati?”
“Era per vedere le
reazioni degli altri. Stavamo fingendo” Ripensandoci quella
frase
in quel contesto era nettamente sbagliata. Fingere presuppone l'avere
un 'sé stesso' da nascondere dietro una maschera momentanea.
Hito non aveva un 'sé stesso' quindi era impossibilitato a
fingere.
Parlammo ancora un po'.
Poi decisi che era giunto il momento di tornare a casa. Stando con
lui, quella sera la mia mente iniziò a muoversi. Mi
tornò
alla memoria un momento lontano, relativamente lontano.
Mia sorella aveva una
figura molto fragile e contenuta, uno sguardo trasparente e dei
lunghi capelli neri. Era veramente bella. Il mio nero, dei capelli,
non è paragonabile al suo corvino. I suoi occhi azzurri
valevano almeno il doppio dei miei tendenti al grigio.
La cosa veramente
toccante di lei, era quella grazia, quell'eleganza che accompagnava
ogni sua azione. Anche se, come ho già detto, aveva un
carattere schietto.
Con i ragazzi non ha
mai avuto problemi. Per la nostra casa passavano centinaia di
fidanzati. Erano tutti passeggeri, duravano pochissimo. Il
più
incostante dei due ero comunque io. Nessuno poteva battermi, e per
questo per me era ancora più difficile fidanzarmi,
giacché
cambiavo troppo rapidamente gusti.
Era sempre molto
gentile con me, si preoccupava sempre di ciò che mi
accadeva.
Ripensandoci, mi viene da piangere. La sua figura che come un'ombra
calava nella mia stanza di notte ed entrava nel mio letto
abbracciandomi forte, è qualcosa di indimenticabile. Aveva
un
sesto senso per i miei sentimenti. Ogni volta ero un po'
giù,
anche se non lo davo a vedere, la notte veniva a farmi visita. Poi
con calma mi stringeva a sé e tornavo felice qualsiasi cosa
era accaduta.
Un giorno di aprile
tornò a casa con delle buste. Naturalmente la casa era
vuota,
ed io con una t-shirt le chiesi cosa aveva comprato.
“Un regalo” rispose
con aria severa. “E' per te!” Posando sul tavolo
quelle borse di
plastica, estrasse vari oggetti. Lì guardai stupito.
“Allora: un libro
perché so che ti piace leggere”
“A me non piace
leggere!” la rimproverai.
“Fa bene, quindi ti
piacerà!” Rispose come se fosse un mio obbligo
“E Una
Piantina grassa”
Guardai quella piantina
minuscola e verde. Fu una splendida idea.
“Ti sfido, se riesci
a tenerla viva per almeno un anno, poi ti aiuto a convincere babbo
per un cane!” Era da tanto che ne volevo uno. A lei non
piacevano
molto, ma sarebbe disposta a tenerlo per accontentarmi. In quei
momenti la vedevo più come una madre che come una sorella.
Una
Madre che non avevo mai avuto veramente.
Una sfida eh? Pensai
subito che l'avrei vinta. Una Piantina non poteva creare
così
tanti problemi. Così mi misi a curarla in tutti i
particolari.
Aveva anche un nome. Cresceva benissimo, si gonfiava e ad un certo
punto mi preoccupai che non entrasse più nel vaso.
Fu il suo ultimo
regalo.
Con poca attenzione,
osservai i giorni passare e arrivò il natale. Quell'anno
andai
un paio di giorni a casa di parenti fuori città per
festeggiare. Facemmo un cenone e cose simili. Hito era a casa, da
solo.
Nel tempo che era
passato aveva anche lavorato un po'. Data la sua natura non poteva
certamente lavorare in modo normale, si sarebbe fatto scoprire. Per
questo fece un servizio di assistenza per le persone cieche. Erano
soprattutto anziani. Lui non doveva far altro che attendere una
chiamata, dove gli veniva data una lista di cose e andarle a
comprare. Faceva, quindi, la spesa per conto loro. Era un lavoro un
po' così. Non doveva però relazionarsi con
nessuno che
non fosse la commessa. Fu la prima idea che ebbi e racimolò
qualcosa. Nei momenti in cui non era a casa, e correndo andava verso
il supermercato, mi sentivo di nuovo oppresso dal silenzio.
Con quel poco che
guadagnava poteva comprarsi qualcosa, sotto mio consiglio ovviamente.
Al nostro ritorno a
casa, mio padre, scappò subito. Disse di avere un'importante
impegno lavorativo o una cosa così. Io dentro di me sapevo,
però, che anche lui si sentiva schiacciato dalla malinconia
della casa.
Stavo rimuginando sotto
le mie calde coperte da solo, mentre Hito era nell'altra camera.
Ragionavo su cosa fare a capodanno o cose frivole così. La
mia
mente era leggera. Mi girai un po' di volta, e quando andai a
lanciare un'occhiata alla porta socchiusa notai qualcosa di strano.
Da quando ero tornato, il pomeriggio, lui sembrava strano. Non volli
chiedere nulla, sapendo che non avrebbe saputo formulare una
risposta. In cuor mio speravo sentisse una qualche emozione.
Era lì, sul
limite della camera a guardarmi con aria sconfortata.
“Che succede?”
Chiesi alzandomi a sedere sul bordo del letto. Ero mezzo addormentato
e probabilmente tenevo anche un pessimo aspetto.
“Posso dormire con
te?” per una qualche strana ragione a quella domanda ripresi
perfettamente coscienza.
“Cosa?” avevo paura
di aver inteso male.
Lui abbassò lo
sguardo. Io sentii di nuovo quel pianto sommesso. “Non
è
importante”
“Per favore ripetilo”
Esitò ancora,
così con lo sguardo glielo imposi come se fosse un ordine.
“Chiedevo se...
potevo dormire con te” No. Non avevo sentito male.
Ero leggermente
perplesso, e vedendomi probabilmente si sentì di dover
spiegare questa mossa azzardata.
“Perché?”
“Da solo non riesco a
stare tranquillo”
Cos'era quella frase?
Forse un principio con cui lui avrebbe iniziato a sentire il mondo
dei colori. Forse un'illusione. Mi convinsi che la casa lo aveva
spaventato con i suoi lamenti. E feci spazio nel piccolo letto. Nel
silenzio che si andava a creare lui mi fece una domanda che ricordo
chiaramente.
“Non sono stato bene”
“Perché?”
Domandai quasi preoccupato.
“Quando mi hanno
chiamato per la spesa, era come se qualcuno mi ordinasse di non
uscire. Come se mi tirassero le gambe” Ascoltai in silenzio,
stringendomi involontariamente a lui per il freddo. “Ho avuto
una
malattia che non conosco. Ogni volta che sentivo una voce dalla
strada, o un rumore, mi affacciavo nella tua stanza sperando che eri
tu”
Ora comprendo meglio la
sua paura. Per una persona che non ha mai provato una cosa come la
solitudine, la tristezza o la paura, anche un semplice accenno
scatena un'enorme preoccupazione.
“Più volte
sentivo la tua voce che mi ordinava di venirti a trovare. Ma sapevo
che non era vero, anche se una volta arrivai fino in fondo alle
scale. Era un ordine molto forte, ma non veniva da te”
Una volta mia sorella
mi disse, che si sarebbe sentita realizzata quando fosse diventata
indispensabile per qualcuno. Lo disse anche a me. 'Quando per
qualcuno diventi importante, è la cosa più
bella'. In
quell'istante, nel letto d'inverno capii le sue parole. Con la mente
le rivolsi una frase commossa, sperando che potesse sentirmi. Sono
diventato abbastanza importante per qualcuno al punto tale da
risvegliarlo da un sonno privo di emozioni. Mi voltai verso quel
forte ragazzo che stava nel mio letto.
“Che malattia era,
Isaac?” Chiese con uno sguardo cupo.
“Nessuna malattia.
Hai provato la Solitudine” risposi, carezzandoli la testa.
Passando
la mano tra i suoi morbidissimi e corti capelli castani o biondi.
Non vorrei avere un
ricordo sbagliato, ma sono quasi certo che quella notte dormimmo
abbracciati. O, in ogni modo, molto vicini.
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Capitolo 2 *** Svolgimento ***
Act.2
Il tempo passava
ignaro
dei miei sentimenti. In uno degli ultimi giorni dell'anno entrai in
una grande libreria dall'aria molto seria. Era grande e possedeva ben
due piani, ma non ci entravo da moltissimo tempo. Ultimamente
facevamo alcune passeggiate e stimolavo Hito per estrarre dal suo
corpo qualche emozione meno vaga e confusionaria.
Lui si sentiva molto
spaventato. Lo percepivo indubbiamente anche dal suo nuovo sguardo.
Quel calore o quel gelo che improvvisamente percuotevano il suo corpo
lo lasciavano senza parole. Ricordai la prima volta che provai un
sentimento, mi inebriava a tal punto da farmi dimenticare del mondo.
Con un calcolo, pensai allora a come doveva sentirsi lui a testare
per la prima volta tutti quanti gli stati.
Lo tenevo vicino a
me,
anche in mezzo a tutti quei libri. Con disinvoltura ne aprivo alcuni,
leggevo qualche breve trama e poi passavo oltre. Era cambiato molto
dall'ultima volta. Quel negozio si trovava vicino casa mia, eppure,
avevo dimenticato molti suoi particolari.
Entrando tra due
piccoli scaffali, dove erano contenuti svariati vocabolari, la mia
mente cadde in trance. Uno stato che durò un secondo ma mi
fece piangere. Mi ricordai che dopo la sua morte avevo evitato tutti
i luoghi la ricordassero.
Lei amava molto i
libri.
I proprietari mi
salutarono distaccatamente, si ricordavano bene il mio volto. Io e
Sarah avemmo una specie di incidente dentro del luogo.
A quel tempo, uscivo
sempre con lei nei momenti di vuoto. Quando sentiva che ero
giù,
o mi annoiavo: lei disdiceva sempre tutto ciò che aveva da
fare e mi portava a giro. Fin da piccoli passavamo molto tempo
assieme.
D'inverno fa sempre
molto freddo. Eravamo tutti bardati, ma entrando nella libreria
iniziammo a sudare. Era davvero molto caldo là dentro. Mi
slegai la sciarpa e tolsi il giubbotto. Nello stesso istante, in
maniera istintiva, tirai su le maniche della felpa, lasciando
scoperti i polsi.
Era dietro di me. Con
un fare preoccupato posò il libro che stava sfogliando e
venne
verso di me afferrandomi.
“Cosa hai
fatto qui?”
Chiese indicando un mio taglio. Non era molto grande e stava proprio
vicino al polso sinistro. Sembrava uno quello che gli aspiranti
suicidi si fanno con le lamette. Nel mio caso era nato diversamente.
“Mi sono
tagliato”
“Con
cosa?”
“Con un
coltello”
“Perché?”
“Perché mi
andava”
Aveva sempre
posseduto
un pessimo senso dell'umorismo. Io, dal canto mio, scherzavo sempre
nei momenti meno adatti. Facendo saettare il suo fragile braccio, mi
colpì violentemente. Uno schiaffo ben piazzato. Quel rumore
ruppe il silenzio del negozio.
“Sei un
cretino!”
esclamò subito dopo quel gesto.
“Te sei
cretina!
Stavo scherzando!” Mi giustificai. Quel taglio me lo procurai
tagliando una qualche verdura. Io non so come si usano i coltelli da
cucina o come si tagliano gli oggetti. In quel momento poi, stavo
anche guardando una scenetta alla TV. Senza accorgermene tagliai
dalla parte sbagliata.
Era comunque una
ferita
di poco conto. Ma Lei ci aveva creduto e si era arrabbiata.
Uscì
dalla libreria in un lampo, senza riprendere neppure la giacca, come
se mi volesse far sentire in colpa. La seguii e le chiesi scusa. Lo
fece anche lei.
Il Modo violento con
cui si era preoccupata per me fu molto importante. Lo era sempre
stato. Lei esternava la sua preoccupazione così, con un
pizzico di rabbia. Mi faceva sentire protetto. Sentivo che il suo
piccolo corpo potesse affrontare per me i più terribili
problemi. È quella la cosa che mi manca di più.
Non è il
fatto
sia morta senza dirmi nulla, senza chiedermi il permesso. E' la
mancanza dei suoi gesti schietti ma eleganti, che crea in me un
vuoto.
Un vuoto che io avevo
vigliaccamente riempito con un essere umano dalla fantasiosa storia.
Sfogliando un
vocabolario, venni a sapere che il nome di Hito non era altro che un
termine giapponese. Significava “essere umano”.
Decisi così
che dovevamo trovargli un nome adatto.
“Ti
andrebbe di
cambiare nome?” Chiesi avviandomi verso l'uscita. Seguendomi
a
ruota guardò un po' in giro pensieroso.
“Le Persone
non
cambiano nome” rispose lui. Con calma, però,
terminò
la frase con la solita formula. “Se così desideri
a me va
bene”.
I suoi modi di fare
non
erano cambiati affatto. Benché ora provasse un minimo di
emozioni, per quanto caotiche e difficilmente riconoscibili,
continuava a sottomettersi in pieno alla mia volontà.
“Voglio
sapere se tu
sei d'accordo” lo ripresi io. Sottolineai quel 'tu' con la
voce.
Doveva iniziare a decidere.
Lui ci
pensò
lasciando trasparire solo una punta di dubbio. Doveva essere scosso.
“Quale nome prenderei?” domandò.
Mi portai una mano al
mento lasciando che in quella tiepida mattina di dicembre il mio
fiato diventasse fumo. “Ne cerchiamo uno che ti potrebbe
piacere”
Non ci fu storia. Per
quanto cercassimo lui non riusciva ad esprimere una preferenza e
così
rimandammo la decisione. Sfogliava in continuazione riviste, pensava
a lungo e alla fine chiedeva sempre a me un'opinione.
Quella stessa sera,
gli
dissi che a capodanno sarei stato con degli amici. Era una cosa un
po' egoistica, ma scelsi così. Spiegando le mie ragioni,
poi,
lo convinsi a rimanere a casa senza seguirmi. Accettò
leggermente cupo. Più volte mi passò per la testa
l'idea di rimandare tutto e rimanere assieme a lui, ma non riuscivo a
metterla in atto.
Così
capodanno
arrivò e io mi ritrovai a festeggiare per la strada di un
paesino lontano. Ridevo e scherzavo, stava accadendo di tutto e si
attendeva la mezzanotte con ansia. Io e una mia amica andammo in una
casetta, che era di proprietà della sua famiglia, a prendere
lo spumante da stappare. Ci sarebbero stati anche i fuochi. Ero
emozionatissimo. Mentre uscivo sentii un odore familiare. Non sono un
cane, assolutamente, ma ho una grande percezione degli odori. Mio
padre una volta mi raccontò che la mia presunta madre
riusciva
a percepire moltissime cose. Perfino a differenziare le persone in
base al loro odore individuale. Anche se non sviluppato come il suo,
avevo un buon olfatto.
Quell'odore
inebriò
l'aria per un poco, con una traccia sottile. Era comunque un odore
che mi giungeva in profondità nel corpo, inebriandomi e
portandomi a seguirlo come facevano i bambini alla musica del flauto
magico. Uscendo dalla casa, con in mano una sola bottiglia, vidi poi
la sua sagoma cercare tra la gente lì attorno. Non era stata
una coincidenza.
“Scusa,
Anna,. Vai
avanti, vi raggiungerò più tardi” Dissi
con
naturalezza. Non lo avevo certo deciso io di dirlo, le parole
uscirono e basta. Quel profumo ormai muoveva il mio corpo.
“Perché? Dove
vai?”
“Devo fare
una cosa
importante. Non preoccuparti...” sparii tra la folla con
quella
bottiglia.
Quando mi vide
arrivargli davanti, probabilmente ebbe paura. Il suo volto si
tramutò
in qualcosa di pallido e per la prima volta vidi una goccia di sudore
accarezzare la sua fronte. Accennò uno scusa. Lessi tra le
righe il suo dispiacere. Una persona normale non si sarebbe
spaventata così. Lui, probabilmente, non riusciva ancora a
controllare quei sentimenti tanto fantastici quando sconosciuti che
lo coinvolgevano fino al midollo. Era tutto elevato al massimo.
Ragionandoci un poco
si
potrebbe non capire di cosa avesse realmente paura. Io in
quell'istante pensai distintamente che avesse paura di essere
lasciato di nuovo solo. Abbandonato.
“Cosa ci
fai qui?”
“Mi
dispiace. Non so
come ma avevo freddo, e poi la casa mi diceva di seguirti. Non dovrei
obbedire alla casa ma c'era qualcuno dentro di me che lo diceva...
e...e...” tentava di giustificare quello che aveva dettato
inconsciamente il suo cuore. Parlava e gesticolava imbarazzato come
un bambino quando deve inventare la scusa migliore per un vaso rotto.
Tra le cose che disse, intuii che stavolta i sentimenti erano
più
nitidi e forti. Tremai. Era un po' che un brivido del genere non
attraversava la mia schiena, partendo dalla fine fino a farmi
rimbombare la testa. Avevo paura che tutte quelle emozioni
così
forti e improvvise l'avrebbero distrutto.
Prendendolo sotto
braccio, senza dire una parola, lo portai via dalla folla. Andammo a
nasconderci dalla gente. Le luci del paesino erano tante, un luogo
fuori città dove però avevamo deciso di andare.
Era una
specie di borgo tipico medioevale, con strade strette e su una
collina. Muovendoci tra quelle vie piccole e tenebrose arrivammo
vicino al verde. Credo fosse un parco abbastanza recente, lontano dal
centro antico.
Era deserto.
Non c'era anima viva,
nessun rumore. Sembrava una scena da film horror. Le altalene si
muovevano un poco al vento. Andammo proprio lì a sederci.
Accomodato su quel
nuovo gioco, con la bottiglia in mano, lo guardai sorridente.
“Sei venuto
a piedi?”
ne era perfettamente capace. Un corpo perfetto come il suo non
sentiva stanchezza nemmeno dopo essere giunto fin qui a corsa. Mi
resi conto del freddo vedendolo in maniche corte.
“Si” era
silenzioso. Non so perché ma pensai così. Di
solito non
diceva molto, però mi sembrò che quel silenzio,
quel
giorno, fosse diverso dalla norma.
“Ho
disobbedito ai
tuoi ordini” aggiunse.
“Non
importa. Hai
obbedito al tuo cuore” mi sembrò tanto una frase
da
ragazzina. Una cosa da storia rosa dove i sentimenti sconfiggevano il
male e le malvagie interferenze. Però, fu la cosa
più
seria che riuscii a pensare in quel momento.
“La
decisione del mio
cuore vale più degli ordini?”
“Vedi,
Hito”
iniziai a gesticolare di sicuro “A volte il cuore ti dice di
fare
delle cose che vanno contro le regole. Contro gli ordini o altre
cosette varie. Devi decidere a quel punto cosa fare”
“E'
difficile
scegliere”
“Beh,
funziona così.
Accade moltissime volte durante la vita. Non solo riguardante questo
argomento. Essere umani comporta fare scelte. Anche se può
sembrare difficile, o perfino impossibile, devi decidere una delle
possibili soluzioni”
“In Base a
cosa?”
“In base a
ciò
che ti fa più piacere, contando anche il piacere degli
altri.
Io ad esempio preferirei restare a casa una sera, ma preferisco
andare a cena con mio padre perché fa piacer a lui. Bisogna
saper scegliere.” Ero confuso anch'io “...insomma
non lo so. E'
difficile”
Non esitò.
Mentre io pensavo e ripensavo, lui partì con un'altra
domanda.
“A te ha
fatto
piacere?”
“Ha fatto
piacere a
te” risposi. Non era una vera risposta. Stavo tentando di
ragionare
con me stesso.
“Ha fatto
piacere a
te?” lo domandò ancora, serio e deciso. Mi
stupì.
“Insomma...
si” non
ne ero convinto. Mi guardava con i suoi profondi occhi e non potevo
stare in silenzio.
“Non
è vero”
Rimasi immobile.
Paralizzato dalle sue parole. Fu la prima volta che mi
contrariò.
Stava diventando capace di ragionare indipendentemente. Inoltre il
suo tono non lasciava vie di fuga.
Prendendo i miei
tempi,
elaborai qualcosa.
“Si. Mi Ha
fatto
piacere. Certo, hai interrotto i miei festeggiamenti, ma hai trovato
la forza di agire per conto tuo. Questa volta mi hai piacevolmente
sorpreso” Mi alzai ed andai vicino alla sua altalena. Con
sincerità
cercai i suoi occhi e fu facile creare un contatto.
“Che ne
dici di
andare a sederci e aspettare la mezzanotte?” domandai
tirandolo per
una mano.
Con fare disinvolto,
andammo su una panchina tra gli alberi. Illuminati da uno smilzo
lampioncino. Pensai molte cose al suo fianco. Seduto su quella
panchina verniciata di verde, mi prese lo sconforto.
Pensai che nel fondo
del mio cuore avevo sperato, fin dalla mia partenza, che lui fosse
venuto lì con me. Mi mancava la sua presenza impassibile.
Che
sentimento era?
Prendendo un po' dei
miei colori, mi aveva dato un po' del suo vuoto e ora non potevamo
sentirci completi se non eravamo vicini. Chi era lo schiavo e chi il
padrone adesso? Lui che cercava me come un alcolizzato cerca la
bottiglia; perché ero la persona che riusciva a farlo
sentire
vivo, oppure io che vedevo in lui un rimpiazzo di mia sorella.
Era una cosa come
l'amore.
La testa fu invasa da
questa idea. Non un'amore normale. Era qualcosa che andava al di
là
dei nostri generi, al di là dei nostri corpi e delle nostre
anime. Non riuscivo ad accomunare quell'amore a nessuno di quelli
conosciuti. Né amanti né fratelli. Amore e basta.
Senza malizia di
sorta,
ero sicuro di poter urlare al mondo che lo amavo nel senso
più
pieno del termine. Mi sentii un po' confuso, forse stavo esagerando.
Posando la mia testa
sulle sue gambe e stendendomi sulla panchina attesi la mezzanotte
discutendo di varie cose. Come un ragno tessevo la mia tela attorno a
lui. Mi resi da subito conto che però era una farfalla
troppo
grande: con le sue ali sarebbe comunque riuscita a distruggere il mio
lavoro e fuggire.
Al di là
dei
miei stupidi ragionamenti, riuscii a cogliere il senso più
profondo della cosa. Mia sorella era morta. E per quanto questa cosa
mi strappasse lembi di cuore non potevo farci nulla. Anche se avessi
vissuto altri cento anni non sarei più riuscito ad
incontrarla. Mi resi conto allora che non potevo fare altro che
proseguire lungo la mia impervia stradina chiamata futuro voltandomi
solo di tanto in tanto, al necessario. Ignorare il proprio cuore
è
brutto, era anche incoerente con ciò che avevo detto prima,
eppure in questa situazione era l'unica scelta.
E' triste doverlo
dire
ma continuando a piangersi addosso le cose non facevano che
peggiorare.
Accomodando la
posizione della mia testa, chiusi lentamente gli occhi. Lui, con la
grande mano mi carezzò la testa. Sarah avrebbe fatto lo
stesso. Ma Lei non era lì e non ci sarebbe più
stata.
Senza piangere, senza pensare alle più immonde tragedie la
rividi traversare la strada salutandomi, come fece la volta prima di
essere investita a morte da qualche folle.
Sentii il suo corpo
sciogliersi ed unirsi ai miei pensieri. Lei non sarebbe stata
contenta di vedermi in quello stato. Così, come regalo di
addio, ripensai un'ultima volta alla sua voce. Sicuramente l'avrei
dimenticata con il passare del tempo.
Forse piansi solo un
poco, ma non ero da solo. Non più.
Gennaio e febbraio
passarono leggeri senza darmi problemi. La Presenza di Hito nella
casa la rendeva più luminosa. Quelle mura non era
più
costrette ad assorbire la mia malinconia, ora lui era sempre euforico
nel provare nuove cose. Ormai stava diventando normale. Che parola
brutta.
Era iniziato marzo da
poco. L'inverno volgeva al termine, e io, volevo passare una giornata
stancante. Ogni tanto mi prendeva un'idea così. Correvo,
andavo qua e là, pur di tornare a casa stanchissimo e
sudato.
Per poi poter dire “Ah, è stato proprio
faticoso”.
“Hito, che
ne dici di
andare al mare?”
Lui mi raggiunse in
camera. “Al mare? Ma non è lontano?”
“Saranno
una
quindicina di chilometri. In un'oretta di bici ce la faremo!”
Ero
entusiasta.
Ultimamente poteva
permettersi di interpretare ciò che sentiva. Quindi a volte
diceva “mi annoio” oppure “è
molto bello”. Aveva la
stessa semplicità di un bambino. Quel giorno mi sorrise con
la
sua grande bocca. “E' una buona idea”.
Non posso vantarmi di
vivere in una città super attrezzata, ma c'era una pista
ciclabile che conduceva al mare passando tra i prati e la campagna.
Imbracciata una bici per uno, presa una giacca e portandoci qualcosa
da sgranocchiare e qualcosa per bere, partimmo. Uh! Il vento che mi
passava addosso, i prati verdastri e gli alberi ai lati della strada.
Ogni tanto incrociavamo una strada, facendo attenzione andavamo
oltre. E' una sensazione fantastica.
Raggiunta la fine di
un
nuovo tratto, vedemmo una strada da attraversare per giungere al
nuovo pezzo. C'era un ponte subito dopo. Proprio lì, tra il
ponte e la strada, in quell'incrocio, erano posati dei fiori.
“Perché ci
sono dei fiori?” domandò lui incuriosito.
“Beh, vuol
dire c'è
stato un incidente”
“E' una
cosa brutta,
accadde anche a tua sorella vero?” lo chiese con troppa
naturalezza, anche se notavo la sua espressione piuttosto cupa. Non
ricordai quando glielo avevo accennato, ma lo era venuto a sapere.
Forse da qualche amico mio che ogni tanto incontrava.
“Si” Rividi la mia
strada della vita. Senza volgere lo sguardo indietro riuscii a
mantenere la mia promessa. Ero sicuro che anche voltandomi l'avrei
solo vista sbraitare dicendo “Ehi! Io mi sono fermata qua, ma
te
prosegui!” la volevo vedere così.
Lui si
avvicinò
un poco, tirando la bici. “Scusa se ti ho fatto ricordare una
cosa
triste”
Risposi posando
solamente la mia mano sulla sua alta spalla e facendo un cenno con il
capo. Non era importante in quel momento.
Avevamo avuto
più
volte l'occasione di passare, ma eravamo impegnati a capirci che la
strada non la notavamo neppure più.
In un'ora giungemmo
sulla spiaggia.
Mi chiese se poteva
fare il bagno. Quando risposi di no, iniziò a lamentarsi.
“Perché non
posso?” domandò. Io mi ero steso sulla sabbia, con
sotto un
telo vecchio. Il vento fresco trapassava le mie vesti giungendo alle
ossa. Guardai il mare che brontolava.
“Perché non
hai il costume”
“E che
importa!”
“Importa,
importa”
“Se da
così
tanti problemi lo faccio nudo” si sistemò vicino a
me, sulla
sabbia tiepida. Mi ricordai che ancora non aveva ben chiaro il
concetto di pudore. Anzi lo sapeva ma non provava vergogna. Anche in
casa spesso sembrava dimenticarsi di queste leggi così
umane.
“E su!
Rimani qui con
me!” feci finta di essere rammaricato e non disse
più nulla.
Facendo spazio lo feci entrare sul telo. Le onde brontolavano un po'
e la spiaggia era deserta. Che pace, che serenità.
Con un rapido gesto
mi
sfilai le scarpe e le calze, ripiegai i pantaloni fino al ginocchio e
corsi verso l'acqua. “Vieni! Mettiamo i piedi a
mollo!” Ripeté
i miei gesti e arrivò al mio fianco guardando l'orizzonte
affascinato.
“Perché fai
così?” mi chiese senza guardarmi. Il suo corpo in
controluce, di profilo, era davvero bello.
“Per
sentire com'è
l'acqua a marzo!”
“D'estate
questa
spiaggia è molto affollata?” Stavo con lui solo da
ottobre,
me ne ricordai in quel momento.
“Si.
Succedono sempre
molte cose” Guardando il mare, con la luce contro, sentii la
sua
tristezza. Il Mare è triste. Le sue onde malinconiche
rilasciano ricordi di qualche estate che non potrà mai
tornare. Eppure, per quante cose abbia visto, per quanta nostalgia
possa provare, il mare è sempre mare e continuerà
a
fare quello che ha sempre fatto.
Hito
sembrò
capire i miei pensieri guardando la mia faccia corrugata. Voltandomi
lo vidi intento a fissarmi e sentii la sua mano entrare nella mia
testa per capire i miei pensieri. Mi sentii caldamente violato.
“Trasmette
qualcosa
di infinito, ma non è classificabile né come
felicità
né come tristezza” Aprì la bocca e
parlò.
“Comunque è bello”
Avanzai un po',
tirandomi su i pantaloni che stavano cadendo verso l'acqua limpida.
L'acqua mi gelò i polpacci, ma era una questione di
principio.
Anch'io di profilo e
in
controluce acquisivo qualcosa di speciale.
Sulla via del ritorno
mangiammo dei biscotti portati da casa. Ci eravamo fermati su dei
tavolini posti a metà pista ciclabile. In solitudine, con il
sole ancora abbastanza alto. Gustammo tutti i biscotti, dal primo
all'ultimo.
Stavo passando uno
splendido anno.
La mia
felicità
spensierata terminò quando iniziarono quelle chiamate.
Una voce femminile
che
non riconoscevo mi chiedeva sempre a orari regolari
“C'è il
signor F.?”
Io rispondevo:
“No,
sono il figlio. Vuole che le dica che ha chiamato?” Oppure
“Mi
dice il suo nome?” o altre cose simili. Riattaccava sempre.
Arrivai a pensare
fosse
la sua amante segreta. Una sciocchezza però. Mio padre non
aveva mai cercato una donna da quando la mamma era scappata. Non
sembrava volerne una. Si era tuffato nel lavoro, tralasciando ogni
altra cosa. Non ricordavo con precisione il suo
viso. Avevo solo dieci anni quando se n'era andata. A differenza di
quella di mia sorella, la voce della donna che mi ha partorito era
indimenticabile. Cantava e scandiva ogni parola come una fata dei
boschi. Tentai di ricordarla ancora una volta, anche se da tanto non
lo facevo.
Assorto in quei pensieri il telefono suonò.
Uno, due, tre
squilli.
Mi alzai per rispondere.
“Vuoi che
risponda
io?” mi chiese Hito, ma con la testa feci di no.
Alzai la cornetta con
delicatezza. “Pronto?”
“C'è il signor
F.?”
Come un bambino che
scopre per la prima volta il sapore delle caramelle, io rimasi
abbagliato da ciò che emanava. Era proprio come la voce che
mi
suonava adesso in testa. Identica ai ricordi. Il suo tono
così
particolare era inconfondibile. Lo so, era azzardata come ipotesi. Ma
da quel momento in poi diedi per scontato la sua identità.
L'atmosfera sognante
che la memoria esercitò su di me, rese tutto molto
drammatico.
Era come se il mio cuore avesse paralizzato ogni suo ricordo per
poterla riconoscere meglio.
“E' una
settimana che
chiama. Lo vuole capire che c'è solo nei fine settimana?
Perché non chiama la domenica?” Fui piuttosto
diretto,
strinsi con forza il ricevitore e urlai. Lo stress di quelle chiamate
fu amplificato dalla sua assenza in quegli anni. Al di là,
nessuna risposta, solo un respiro. “Se continua
così la
denuncio” fu l'ultima cosa che dissi. Ero intenzionato a
riattaccare, ma attendevo con ansia una qualche risposta. Come quando
stai per buttarti da un pendio, ci fu un secondo di
eternità.
Un attimo interminabile in cui pensi a moltissime cose ma non riesci
a concludere nulla.
“Vediamoci
davanti
alla stazione alle cinque” Riattaccò. Che voleva?
Attesi quell'ora con
impazienza e arrivai alla stazione in anticipo. Per quanto avesse
insistito, vedendomi preoccupato, lasciai a casa Hito. Pensavo molto.
Veloce mi sedetti su
una panchina e attesi. Aspettai dieci, venti minuti ma non vidi
nessuno. “che cretino” mi dissi. Non sapevo neppure
come era
fatta. Poteva essere perfino diventata un uomo e non avrei potuto
saperlo. Eppure aveva un'aria nostalgica in quella sua monotona
domanda.
D'un tratto una donna
si sedette accanto a me. Frettolosa e con due grandi occhiali da
sole. Mentre io avevo solo jeans e maglietta leggera, lei aveva un
giubbotto, scarpe con tacco e gonna. Era molto elegante.
“Sei Isaac
vero?”
Chiese con un'aria pacata. Feci di si con la testa. “Ci avrei
scommesso”
Si tolse gli
occhiali.
Aveva un aspetto sciupato nonostante non fosse poi così
avanti
con gli anni. Lunghi capelli biondi e occhi chiarissimi e sottili. Mi
ricordò mia sorella in un modo molto strano. Come un'ombra
sinistra la sua anima si affacciò su di me.
“Ti chiami
Isabella
giusto?” domandai volendo sembrare il più freddo
possibile.
Dovevo farla sentire in colpa. Il suo nome le lo ricordavo abbastanza
chiaramente.
“Si, ma non
importa.
Ero venuta per tuo padre ma ormai mi accontento di te”
“Domenica
non hai
chiamato”
“Non sai
fingere così
bene...” Esclamò. Aveva una voce melodiosa.
Mi fermai a
guardarla.
Trasmetteva un'emozione strana che a descriverla perderebbe tutto. Mi
riportava alla mente vecchi ricordi e le mie promesse sul passato
venivano tutte smembrate solo da quel gelido sguardo.
“Domenica
non hai
chiamato” ripetei.
“Non vuoi
chiedermi
nulla? Dove sono stata tutti questi anni. Mi sarei immaginata un
incontro come quelli dei film”
“Domenica
prossima
puoi riprovare”
“Non
sarò più
in città.” mi interruppe lei accigliata. Fu veloce
nel dare
quella risposta, sfumandola con un po' di amarezza.
“Hai
pensato mai di
tornare a vivere con il babbo?”
Lei cercò
la
mia mano per un attimo. Fui diffidente. “No”
aspettò una
mia risposta, anche solo uno sguardo o forse solo un pensiero per
capire come reagii e continuò:
“Anzi,
qualche volta
si. Però sapevo che non avrebbe funzionato. Non c'erano le
basi sentimentali. Ho deciso di restare nascosta e rifarmi una vita
da zero. La sofferenza iniziale della solitudine era nulla rispetto a
quello che avrei provato alla fine tornando con lui”
Non esitai ad
additarla
come una pessima madre con un commento serpentino. “Anche per
Isaac
e Sarah non c'erano le basi sentimentali?”
Rimasi in silenzio
cercando di capire i suoi enigmi. Non ci riuscii nemmeno un poco. La
sua presenza così evanescente sembrava dover essere portata
via da una folata di vento primaverile. Non mi sarei stupito se fosse
successo davvero. Fu addolorata della mia frase, me ne pentii subito.
Non ero una persona così meschina.
“Tua
sorella non ha
mai voluto incontrarmi. Riuscii a sentirla comunque qualche volta al
telefono o via lettere. Con scarsi risultati ovviamente” Non
era
una risposta.
In quel momento della
mia vita, ormai, era alla stregua di una sconosciuta. La cosa
più
brutta che potessi fare era dirglielo ma evitai. Me ne accorsi
perché
sentivo i suoi sentimenti come in Hito avevo visto il vuoto. Era una
tristezza enorme, ma che il tempo aveva logorato.
“Lei era
molto
arrabbiata con me. Mi impedì anche di contattare te. Era
molto
feroce con me, come se volesse farmi morire solo con delle
parole”
Mia sorella era morta
tenendomelo nascosto. No. Forse me l'avrebbe detto quella sera, o il
giorno successivo. Dopotutto non ha deciso lei di morire
così.
Con il sottofondo scosso dalla gente che si muoveva avvicinai il mio
spirito al suo gracile corpo.
“Hai una
famiglia?”
“Ora si. Ho
anche un
figlio. Forse un giorno ti contatterò di nuovo e lo
incontrerai” Giusto. Lei sapeva di me ma io non sapevo di
lei. Lo
trovai limitante al pari di una cicatrice ben visibile.
“Salutameli
tutti”
“Loro non
sanno che
ti ho cercato. Non ho parlato loro molto della mia vita
precedente”
Mi ferì profondamente ma era meglio così.
“Ops. Ora
devo andare. Il treno partirà tra pochissimo” Si
alzò
il più velocemente possibile. Pensai che sarebbe caduta a
terra per colpa dei tacchi ma mantenne un perfetto equilibrio.
“Non rimani
di più?”
Feci una domanda per volta, legandole però in un'unica
frase.
Lei di risposta mi guardò rimettendosi gli occhiali.
Iniziò ad
allontanarsi. “Addio, anche se spero che in un qualche
momento la
vita ci faccia incontrare di nuovo. Se Fosse per caso risulterebbe
magico” Chiunque fosse, mi aveva rubato qualcosa. Anche lei,
come
Hito, avevano preso da me qualcosa che avrebbe riempito il loro
vuoto. Non la potevo però rimproverare di questo. Quella sua
ultima frase lasciò un buon profumo nell'aria.
La pensavo
così
anch'io. Sorridenti o in lacrime, ad una festa o un funerale, sperai
di rivederla con quel sorriso significativo. Era ormai alle mie
spalle. Io stavo ancora seduto immobile. Seguendo il rumore dei suoi
passi rimuginai un poco.
Anche se non la vidi,
sono sicuro che sorrise. “Bye Bye darling” Trasalii e mi
voltai. Non c'era più nessuno. Solo la traccia del suo
sorriso che svaniva nell'aria di quella stazione affollata.
Andai al cimitero
dove
non tornavo da tanto. Era stata anche lì. Con una traccia
profonda di emozioni e dei bei fiori bianchi, era riuscita a
contrassegnare anche la tomba. Non mi rattristai. Il suo profumo mi
lasciò la bocca amara e secca. Allontanandomi da quel luogo,
fui colto da una sensazione spregevole.
Forse non sarei mai
più
risuscito a vederla. La sua tristezza repressa sarebbe riuscito ad
esaurirla presto.
Quando ti rendi conto
che avevi ragione. Quando sai che non poteva andare diversamente, ma
infantilmente ci avevi sperato. Tutto diventa stranamente
più
pesante.
Una Piuma cadde al di
là della mia finestra. Io ero svegliò sotto le
mie
calde coperte. Da solo.
Non l'avrei davvero
più vista.
Mentre, con calma e
senza rendermene conto, io cadevo sempre di più nel mio
tragico vuoto interiore, il tempo insensibile andava avanti. Ogni
giorno, Hito, mi proponeva qualche cosa.
La sua gioia nel
vivere
ogni giorno in modo frenetico, le sue emozioni così
improvvise
e travolgenti, erano una spiaggia sicura in cui rifugiarmi. Forte
della sua presenza, alleviai la malinconia.
“Tuo padre
un giorno
verrà a scoprire che dormiamo assieme”
Era vero. Durante le
ferie o in un fine settimana dove si svegliava presto sarebbe venuto
a conoscenza di questo segreto. “Vabbè, passeremo
per una
coppia omosessuale”
“Non ti
infastidisce?”
“E' un uomo
che sa
tenere un segreto se glielo chiedo. Passandola per una relazione che
non vogliamo diventi pubblica lui annuirà e non
farà
domande”
Fece spallucce, forse
era imbarazzo o un'operazione troppo difficile. Anche se sentiva
qualcosa dentro, non era definibile al pari degli altri. La
profondità e la sfumatura con cui io sentivo certi
sentimenti
non era paragonabile alla sua, così rozza e improvvisa.
Una miriade di facce
così semplici che mi facevano impazzire ugualmente.
Alcuni pomeriggi mi
accorgevo di come stavo trascurando gli amici di sempre. Uscirci era
diventato più difficile. Ogni volta che andavamo a giro, se
stavo troppo fuori, mi ritrovavo Hito a corrermi dietro. Trattenersi
era un traguardo difficile. Pensai comunque che durante l'estate
avrei preso più tempo per loro e glielo dissi. Mi risposero
che ognuno ha i suoi tempi e che avrebbero atteso. Mi sentii
orgoglioso di avere attorno gente così.
Una sera, con lui,
andai a fare una passeggiata. Una cosa tranquilla, tra gli alberi del
parco giochi. Con un gelato e sopra le teste il limpido cielo di un
dolce aprile, alzammo le nostre anime. La distanza tra quel cielo
scuro ornato di gioielli e la terra sulla quale sedevamo, non
esisteva più.
Ripensando a noi due.
Mi si strinse il cuore.
Forse, scoprendosi
capace di pensare per conto suo un giorno sarebbe uscito per sempre
dalla mai vita. Dicendo una cosa semplice, o un grazie forzato,
sarebbe svanito. Possibile?
Possibile quindi che
mi
avrebbe tradito solamente raggiunta l'indipendenza.
Si
avvicinò a
me, i dubbi svanirono tranciati dal sottile vento notturno.
“Un giorno
mi
renderai libero?” mi ero scordato che fosse ancora il mio
servitore.
“Certo.
Appena sarai
indipendente” Qualsiasi cosa fosse accaduta, io ero
intenzionato a
mantenere quella promessa.
“Tanto
rimarrò
vicino a te”
“Non vuoi
andare, ad
esempio, a cercare il tuo creatore?”
“No. Non
sento nulla
nei suoi confronti”
“E' una
cosa brutta”
Dissi abbassando lo sguardo. Lui si girò verso di me.
Convinto
di quello che diceva.
“Lo
so” Il solo
fatto che se ne rendesse conto era significativo. Mi strinsi a lui
usando le sue braccia come coperta. Ero uscito leggero e avevo
freddo. Un freddo pungente. “Potrei comprare una casa tutta
mia”
“Affittarla
è
meglio. Sarà comunque difficile”
“Troverò anche
un lavoro.”
“Hai delle
certificazioni di studio?”
“Certamente. Il mio
creatore mi ha imposto di fare regolarmente esami privati”
“Così quando
sarò triste, annoiato o mi sentirò solo
verrò da
te” Sentii un piacevole calore.
Lui mi
guardò
stupito, allontanandosi un poco. Ai piedi di quello scivolo le nostre
figure si staccarono un attimo. “Non verrai a stare con
me?” la
sua domanda mi colse improvvisamente inerme.
“Non
funziona proprio
così. Non posso ancora farlo. Devo essere un po'
più
grande” Glielo misi su questo piano. Lui annui e si
riaccostò
al mio piccolo corpo.
“Allora non
cercherò
un nuovo posto fino a che non sarai pronto. Non voglio stare da
solo”
Che sia per il vento
freddo, o per la semplicità con cui pronunciò
quella
frase, il mio corpo si gelò. Mi colpì dentro,
nella
parte più intima ed inviolata del mio animo.
Credo che quel giorno
il mio stato di colori si ricreò, traspirando il vuoto che
avevo accumulato. Hito, ormai lo aveva già gettato via
tutto.
Non gettai via tutto il vuoto incolore che permeava la mia pelle.
Alle persone un po' di nulla, di ignoto dentro di sé, serve.
Sorrisi
addormentandomi
così, fu lui a portarmi a casa. A volte si cambia senza
rendercene conto.
Qualche volta un
'sé
stesso' muore e ne nasce un altro. Ma noi non lo capiamo. Non so,
credo sia così. Non voglio intenderlo come un male,
semplicemente come un cambiamento. Ma cambiare fa paura, soprattutto
se avviene velocemente.
Sentimenti.
Per quanti ne
proverò
ancora nella mia vita, travolgenti o superficiali, rimarranno tutti
nel mio cuore. Ogni piccola sensazione sarà registrata. Non
voglio perdere nulla della mia vita.
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Vorrei sapere i vostri pareri su questa fic ^^
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Capitolo 3 *** Conclusione ***
Act.3
Aveva sicuramente
ragione
mia sorella, quando stringendomi per la maglia mi diceva che per
crescere non basta il tempo e neppure semplici esperienze. Sono le
emozioni, l'amore e la solitudine, la malinconia e la gioia, a far
maturare gli esseri umani.
Un giorno timido di
Giugno, Hito mi portò in un luogo.
Prendemmo un bus, poi
passeggiammo per una mezz'ora buona. Sembra si fosse informato con
cura. Non parlò molto, ma vidi stavamo andando verso il
mare.
Partiti nel primo pomeriggio, giungemmo nel luogo deciso verso le
quattro.
Davanti ai miei occhi
si aprì una bellissima spiaggia. Bianca e silenziosa. Ma
soprattutto deserta. In qualche giornata in cui io ero a trovare
amici, o a uscire con loro, lui aveva fatto un salto al mare.
Chissà
quanto tempo aveva perso a cercare la spiaggia più bella.
“Che posto
è
questo?” Chiesi incredulo.
“Una
spiaggia. L'ho
notata un giorno” Mi rispose “Non sembrava molto
triste questo
mare” Mi colpì molto il modo con cui lo disse. Ci
Credeva
davvero. Benché il mare fosse uno solo, da quell'angolazione
dava una tiepida gioia. Mi aveva fatto portate un costume e qualcosa
da mangiare apposta.
Facemmo un bagno.
Nel tardo pomeriggio
mi
colse un senso di magra stanchezza. Lui si stese accanto a me
lasciandomi riflettere. Aveva capito che avevo dei momenti in cui la
terra scivolava via e la mia mente rimuginava con se stessa. In quei
minuti di imperiale silenzio, dove solo il mare e gli insetti
creavano musica, io mi avvicinavo ad uno strato più profondo
dell'animo.
Mi resi finalmente
conto che i colori che mi aveva rubato non erano stati una sconfitta.
Tutti i miei colori, la mia carica, sopprimevano gli altri. Con il
tempo, mi sarei isolato in un vuoto allegro che mi avrebbe inglobato
come una bolla. Da quando era morta mia sorella, però, quei
colori che sgorgavano dentro di me erano l'unica cosa che mi dava la
voglia di rimanere vivo. Regalandomi un po' del suo vuoto,
ingenuamente, Hito mi aveva reso migliore. Quel vuoto dove ogni tanto
ti perdi e non pensi a nulla, dove non rifletti sui problemi. Quel
nulla di ignoranza che mi rendeva curioso e attento.
In questa storia
avrei
voluto chiamarmi Luce e nominarlo Ombra. Tanto per poeticamente dire
che dentro di me nascondevo un po' di oscurità e lui una
pallida fiaccola di speranza.
Avrei voluto
chiamarmi
ragno e nominarlo farfalla. Per poter ammettere di non essere
riuscito a chiuderlo nella mia tela ma essermi comunque legato a lui
e volato alto grazie alle sue ali.
Ma io mi chiamo Isaac
e
lui Hito. Non c'è nessuna cosa così fantastica
nei
nostri due nomi. Pensandoci, potevo chiamarmi B e lui Y ma non
cambiava la sostanza.
Lui ha una piccola
fiaccola ed io una piccola ombra, lui mi ha fatto volare e mi sono
aggrappato forte. Indifferentemente dal nome.
E' la cosa
più
importante.
Mi ricordo di mia
Nonna
che quando avevo sei anni mi disse, poco prima della sua morte, di
aver rinchiuso la sua anima in un libro. Lo conservo ancora, anche se
l'illusione è sparita continuo a dire qualcosa a quel
vecchio
tomo. E' la magia del cuore che mi permette di farlo. Se mai dovessi
morire, concederò la mia anima a lui ovunque sia.
Mia sorella era
morta,
mia madre scappata, mio padre si nascondeva nel lavoro e lui era con
me. D'un tratto la mia vita sembrò ordinata.
Per quante vite
potessi
provare, quella era quella che mi stava meglio. Per quanto avessi
potuto campare ancora, non avrei mai incontrato qualcuno come lui.
Pensai che un giorno avremmo dovuto confrontarci con il nostro amore.
Decidere in che categoria fosse tra quelli esistenti, se fratelli o
amanti, togliendolo da quell'espressione così pura che aveva
mantenuto.
Il sole iniziava a
diventare rosso e a perdersi nel mare, così pensai di
avvicinarmi a lui e al suo calore. Di sera tendo ad avere le
paranoie.
Ah! Eccone una che
lenta si affacciò alla mia mente. Ma con questi pensieri
sperai di addormentarmi.
Un giorno mi avrebbe
abbandonato. Sentii di esserne sicuro. Anche per questo dunque,
continuai ad approfittare dei suoi caldi abbracci evitando di pensare
a quel fatidico momento. Ed evitando di pensare quanto avrei sofferto
nel vederlo andare via.
Mi strinsi a lui
un'altra volta. Il mio fragile corpo si mischiò alla sua
figura imponente.
Sul finire della
giornata, davanti ad un sole rosso che tramontava, sentii le nostre
anime unirsi. Avevamo trovato un equilibrio di perfetta armonia. Per
un attimo sperai che il tempo si fermasse lì. Senza
più
storie, morti, abbandoni. Nulla di nulla. Desiderai ardentemente di
congelarmi così, in una stasi senza fine.
Ancora una volta,
senza
che me ne accorgessi, frugò nei miei pensieri e
lì
gettò via. Le mie paure erano svanite e sorridevo
tranquillo.
Mi sentivo libero e innamorato. Innamorato di un qualcosa che non
riuscivo a definire.
Voglio portare
quell'emozione nel cuore. Per sempre.
---
La storia è finita.
Spero vi sia piaciuta.
Ringrazzio tutti coloro che hanno inserito questa storia tra i
preferiti o tra le storie seguite, non sapete quanto mi faccia piacere
^O^
Nanako non so cosa rispondere xD La storia è molto breve e
la trama è semplice anche se non riesco sempre a spiegarla
in maniera chiara. Hito è privo di emozioni, Isaac ne ha
troppe. Troppe perché, dopo la morte della sorella, le
emozioni e i ricordi sono l'unica cosa che lo facciano "sopravvivere".
La storia narra del loro incontro, un 'amore' nato tra di
loro che rappresenta il legame che svuota l'uno e riempie l'altro.
Tutto qui ^-^ E' come una ricerca dell'equilibrio.
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