Requiem

di BereniceStone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cherry Bomb ***
Capitolo 2: *** The Draw ***
Capitolo 3: *** The Bomb ***



Capitolo 1
*** Cherry Bomb ***


Peter Quill 

Cherry Bomb 

https://youtu.be/WNxKpYOOYvM


Ha le nocche rosse, piccoli taglietti a render ruvida la pelle, ma si vanta, Peter, e a chiunque glielo chieda risponde, con l’arroganza d’un ragazzino irrequieto, che l’altro è messo peggio; ma quando l’ha detto a suo madre, lei non ha riso.

Gli ha indicato una sedia, quella arancione, in plastica rosicchiata, schiacciata contro il muro della cucina, la punizione del silenzio dura da almeno mezz’ora e Peter a starsene fermo non c’è abituato, i piedi, distaccati dal suolo, oscillano a seguire il ritmo di canzoni mentalmente ripetute, lo sguardo inchiodato in quello della madre.


“tesoro – lei, invece, non è mai stata molto brava con le punizioni – non è bello litigare con gli altri bambini”


Sbuffa, il figlio, incrociando le braccia al magro ventre, un cipiglio insofferente a storcerne il volto in un ghigno offeso


“ha cominciato lui – sentenzia, ripetendo per la millesima volta la, più che valida a sua giudizio, giustificazione – ha detto che non è vero che mio padre è David Hasselhoff”


Meredith sospira un tiepido sorriso, dolcemente comprensivo, una carezza a sfiorare la nuca ramata, scostando ciuffi dalla fronte, scivolando poi a percorrere la linea della mandibola, posa un bacio, umido, materno, amorevole, alla fronte del figlio.

E la scorge Peter, nelle iridi lucide della madre, una tristezza che detesta vederle, una tristezza che non sopporta, che gli ricorda di sapere quante bugie racconti e quante se ne sia raccontato ad aggirare una verità che non gli piace, che lo fa sentire inferiore, abbandonato da un papà.

Tutti hanno un papà, perché lui non può? Cosa c’è che non va? Perché suo padre se n’è andato senza volerlo conoscere, senza chiedere mai, senza domandare neppure quale sia il nome del figlio? Perché ha lasciato la mamma? Perché la ferita così tanto?

A lei non lo chiede, mai, le lacrime le detesta, soprattutto se bagnano le gote materne ed arrossano lo sguardo, privo di risposte, d’una donna che, per lui, ha fatto di tutto, che è il centro, il pianeta intorno a cui ruota il satellite, lei è quel pianeta ed anche di più e se piange allora piange anche lui e la tristezza, se l’è promesso, non deve esistere nel loro mondo.


“ho un regalo per te – la bozza sbiadita d’un sorriso tenacemente materno – ma devi promettermi che non ti caccerai più nei guai”


Peter annuisce, energico, le ciglia sbattono al ritmo d’ali di colibrì e lo sguardo si dilata nell’attesa della sorpresa, con le promesse è bravo, sa come mantenerle, non è come suo padre, lui la mamma non la lascerà mai sola e non la ferirà, mai, per nessun motivo e se per farla star bene deve, semplicemente, smettere di litigare con gli altri ragazzini allora, con un pizzico di pazienza ed un’enorme quantità di calma, lo farà.

Non sarà difficile, si dice mentre osserva la madre svanire oltre lo stipite della porta, la sente camminare nella stanza affianco ed in quella alle sue spalle, oltre il muro, e drizza la schiena, premendo i palmi al bordo della sedia, nella fremitane attesa del regalo.

Meredith sorride, questa volta s’impegna ad esser più sicura, scaccia la tristezza nella risoluta forza di volontà d’una madre che vede l’universo nelle iridi del figlio e gli porge, senza eccessivi preamboli, una scatoletta, rettangolare, l’azzurrognolo spento riveste l’argentea superficie metallica, frecce disegnate e pulsanti quadrati ne indicano il funzionamento, un filo nero si dirama da un foro minuscolo e prosegue sino a formare due auricolari, spugnosi, soffici, rivestiti di gomma arancione ed una piccola finestrella trasparente lascia intravedere una cassetta, recante la dicitura : Awesome Mix Vol. 1


“ti piacerà – le dita dolci della madre gli stringono delicate la spalla sinistra – ci sono tutte le canzoni più belle, quelle che ci piacciono”


Meredith e la musica, un connubio, un matrimonio riuscito, una collaborazione ed una convivenza che funzionano perfettamente da che Peter ne ha memoria, con il fischiettare continuo della madre c’è cresciuto, con il canticchiare ha imparato a rilassarsi, le dita materne stringono gli auricolari poggiandoli alle orecchie del figlio, ne sfiora il volto in una carezza di confortevole calore familiare e preme, infine, il pulsante d’avvio.

Note dal ritmo serrato, frenetico, energicamente coinvolgente rintonano nei timpani di Peter, lo sguardo s’illumina e la nuca ondeggia a seguirne il ritmo, balza dalla sedia e collide i palmi contro quelli, già tesi ed attendenti, della madre, le gambe d’entrambi s'agitano in una danza scomposta e scoordinata ed all’eco della musica s’unisce la melodia che Peter, più d’ogni altro suono al mondo, predilige : la risata di sua madre, l’unica nota che riprodurrà all’infinito senza stancarsene mai.



 

 
E niente, ho visto Infinity War e...beh neppure troppo sconvolta (l'arte del mentire spudoratamente) 
Le morti me le aspettavo, complice anche la collezione fummettistica che ho, le varie fonti che il Marvel Cinematic Universe ha estrapolato da diverse opere e blablabla; non vi annoio oltre.
Ad ogni modo, finito il film m'è presa voglia di scrivere qualcosa e questo è il risultato. 

Già visto? Probabile.
Noioso? Forse.
Pessimo? Non lo nego. 

In pratica, per dare un contesto, ho ipotizzato come Lady Morte (personaggio preso dai fumetti) possa aver sistemato gli sfortunati, e compianti, eroi, che Thanos ha letteralmente fatto svanire, nel suo Regno (che è, in pratica, una specie di universo a se stante, più o meno, non entriamo nel dettaglio) 

Si tratta di un AU in quanto : perché, l'idea originale è scollegata da trame legate al film o al fumetto (qui c'è sempre il più o meno) e, per di più, mentre scrivevo questa cosa m'è venuta anche voglia di aggiungere varie ship che ho in mente da tempi remoti che rendono molti eventi visti sul grande schermo, quasi, radicalmente differenti (più avanti vedrete, se vorrete) 

Ora, dopo tutta questa pappetta inutile, passo a ringraziare chiunque leggerà e mi darà fiducia nel proseguire. 

Alla prossima, spero 
Berenice 

 

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Capitolo 2
*** The Draw ***


 Stephen Strange 

The Draw

https://youtu.be/RO4I-iWZZuI


Non funziona, è inutile, la mano trema, troppo, vibra instabile come foglie autunnali in procinto di cadere e comporre manto variopinto ai piedi dell’albero, le firme che ricoprono la superficie bianca della liscia carta sono arzigogoli confusi, oscillanti onde di nero inchiostro, incomprensibili scarabocchi, ed è stanco, dannatamente stanco, delle terminazioni nervose danneggiate, compromesse permanentemente, che non rispondono ai comandi dei neuroni.

Lui sarebbe stato in grado di recuperare la corretta funzionalità e manualità, se si fosse potuto operare sarebbe riuscito a ripristinare la normalità, ma è accerchiato da incompetenti, fannulloni e ciarlatani, chirurghi incapaci e neurologhi vergognosamente ignoranti.

E le sue mani, le dita, lo strumento, unico, fondamentale, necessario per consentirgli di lavorare egregiamente, perfettamente, migliore di chiunque altro, non funzionano più, danneggiate e ridotte ad inutili appendici neppure più in grado di impugnare una penna e scrivere una frase, una semplice frase, comprensibile o il suo stesso nome; può maledire se stesso, ma l’egoismo gli impone d’incolpare terzi casuali.

La rabbia, la frustrazione, ribolle nelle vene, avvelena la mente e si manifesta nell’esplosiva distruzione d’ogni singolo oggetto presente nella superficie vitrea del tavolo, fogli volteggiano in aria, l’eco d’un computer portatile frantumatosi al suolo riecheggia nell’ampia dimora e rimbomba nei timpani di Stephen a sottolineare l’ennesimo fallimento, cocci di bicchiere riflettono l’immagine frammentaria d’un uomo che ha perso tutto ciò che aveva, l’unica cosa che aveva importanza.

Cos’è ora?

Chi è adesso?

Se non può più essere Stephen Strange, brillante e geniale chirurgo, allora non è più nulla.

È niente, è nessuno, è solo un corpo che si trascina, che avanza per inerzia in un mondo che ha perduto valore, che è disgusto, ribrezzo, depressione grigia che appanna e acceca la vista.

Il flacone d’antidolorifici lo incanta, nell’arancione della fiala si deforma il volto irriconoscibile di un uomo che non ha più alcun vanto, né prestigio, un uomo che è ombra di ciò che era, la barba incolta, i capelli scompigliati nella più totale e completa forma d’autodistruzione : il rifiuto, la testarda ricerca di qualcosa che non tornerà mai più.

L’afferra, quel flacone d’ammaliante arancione, un richiamo d’intorpidimento emotivo, le pillole cadono come pioggia copiosa nel palmo della tremante mano producono il canto di sirene che ne offuscano la mente nell’insana illusione di poter, ancora una volta, tentare l’impossibile.

Le ingolla vorace, deglutisce e s’alza nello scatto d’una masochistica battaglia contro l’irreparabile, l’indice instabile picchietta violentemente contro lo schermo del cellulare a comporre un numero, ancora ed ancora, arrendersi non rientra nella sua natura, compie il giro del mondo la telefonata e da ogni dove ottiene esiti negativi, incompetenti codardi.

Altre pillole ne accompagnano la frustrazione di rinunce d’interventi, troppo rischiosi dicono i finti esperti, impensabili affermano luminari fasulli, e nell’intossicazione dell’eccesso di farmici la stanchezza, per il tutto e per il niente che gli resta, cattura il corpo, la vista s’appanna e la mente smette di captare stimoli esterni, le conoscenze mediche che affollano la memoria di Stephen suggeriscono l’ovvia constatazione che precede, il prevedibile ed ovvio, svenimento.

E mentre le palpebre coprono la vista, mentre i muscoli si distendono mollemente, ed il fisico cede, scivolando al suolo, la masochistica tenacia di testardo egocentrismo gli ricorda che, al risveglio, ripercorrerà ogni singolo passo, ogni singola azione, ripeterà il rituale; solo gli incapaci s’arrendono e Stephen Strange, incapace, non lo è mai stato, né mai lo sarà, piuttosto la morte che l’esser un fallito privato del meritato, prestigioso, riconoscimento che è suo di diritto.


 

 
Intanto ringrazio i silenziosi lettori, fa sempre piacere averne, e coloro che hanno inserito tra preferite/ricordate/seguite; grazie. 

Detto questo, doveroso, ringraziamento ci terrei a precisare una cosa che, forse, non ho detto. 
Queste one-shot riguardano i ricordi, come li ho immaginati io, chiaramente, di ogni personaggio e sono, quindi, intrappolati nel riveverli per...beh l'eternità. 

E dopo avervi annoiato ulteriormente, mi dileguo con un grazie ancora ed un alla prossiama, se vorrete 

ps: perdonate eventuali e probabilissimi errori/orrori, ma il pessimo vizio di non rileggere...



 

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Capitolo 3
*** The Bomb ***


 Groot 

The Bomb

https://youtu.be/tklQ47Hpfxw
 

Un albero ed un procione, ottima accoppiata direbbe qualcuno, pessimo duo storcerebbe il naso qualcun altro, di certo tutti sono concordi nell’affermare che, ovunque passino loro, quel che si lasciano dietro è confusione ed eco di spari in lontananza.

Groot sta cominciando ad abituarcisi, certo si agita ancora nell’udire le grida che corrono dietro di loro, ma guarda dritto davanti a sé e, di tanto in tanto, lancia qualche insulto a Rocket che stringe, tra le zampe avide, un marchingegno di chissà che genere, ma sicuramente di valore, non si ruba per il puro gusto di farlo è necessario un tornaconto, in denaro, o uno scambio proficuo; la filosofia di vita del procione è ormai chiara.

Quel che non sapevano però, quando sono atterrati nel pianeta KJ-900, è l’ospitalità, completamente assente, degli energumeni giganteschi, dal corpo di bipedi corazzati di spesso rivestimento verde, perfetta mimetizzazione nella fitta vegetazione, fortunatamente per loro le braccia, sproporzionate, troppo esili, rispetto al resto del fisico, non ne facilità la mira, decisamente scarsa, ma la velocità e ferocia con cui li inseguono e, in aggiunta, l’abilità di camuffarsi nella natura rendono la fuga complessa.

Groot, che a differenza di Rocket, non ha esperienza, non molta, sul campo di battaglia si deve arrangiare, ancora una volta, ad imitare le movenze del procione, zizzagando, più goffamente, ma riuscendo comunque ad evitare potenziali trappole e spari d’armi sconosciute che mirano contro di loro; ma soprattutto deve pensare salvarsi la corteccia.

Il compagno d’avventura, o sventura, è il peggiore, e migliore, esempio d’egoistico egocentrismo, guarda solamente alla propria pelliccia, se fosse necessario lasciarsi pesi alle spalle, Groot ne è certo, lo abbandonerebbe lì, a farsi catturare da esseri ostili che lo dimezzeranno, spezzetteranno e bruceranno, come minacciano di fare da ore lanciando frecce infiammate che si conficcano al terreno erboso, sfiorando pericolosamente l’arbusto legno che accelera, per quanto può, nel tentativo di salvarsi ed impreca, con maggior veemenza ed insistenza, contro Rocket, evidentemente troppo impegnato nella fuga per degnarsi di rispondergli; deve aver già deciso di farlo morire tra atroci fiamme.

E Groot deve essersi appena predetto, inconsapevolmente, il futuro perché si ritrova, senza neppure avere chiaro il quadro generale, la punta di una lancia infuocata conficcata nella parta bassa del trono, d’arbusti intrecciati, che forma la gamba sinistra, le diramazioni legnose delle braccia s’agitano a cercare di soffiare via le fiamme che divampano e, prima che possa gridare aiuto, zampette agili ed artigliate gli risalgono il busto ramoso


“ehi ammasso d'idioti – sputa il procione, azionando l’arma rubata – ho una sorpresina esplosiva per voi”


Enuncia ed un fascio d’energia si sprigiona dal marchingegno generando un’onda d’urto paragonabile ad una bomba scagliata a lunga distanza, aprendo un varco nel terreno in cui precipitano, urlanti iracondi, gli inseguitori, il rinculo del colpo lo fa traballare, rametti si sprigionano dalle spalle di Groot ed il procione resta arpionato, a testa all’ingiù, l’arma ancora ferreamente stretta tra gli artigli


“sono groot”

“sì, sì, ho capito”



Sbuffa l’altro, raggiustandosi rapidamente dopo esser stato depositato tra i fili d’erba, il muso a sniffare l’aria ed i piccoli occhietti pece a scrutare l’area circostante


“sono groot”

“woh piano coi termini legnetto – lo ribecca, aggiustandosi l’imponente arma alla spalla – non stai andando a fuoco”

“sono groot, sono groot”


Impreca, ricordando al procione che le fiamme, seppur tenui, continuano a bruciargli terribilmente, annerendo dolorosamente schegge di legno, Rocket rotea lo sguardo al cielo, tastandosi la vita, sganciando dalla scura tuta che indossa una borraccia cilindrica


“smettila di piagnucolare, a nessuno piace la legna molliccia”


Una cascata d’acqua fresca scivola a smorzare la fiammella, Rocket schiocca la lingua ai denti aguzzi e ripone il cilindro vuoto al gancio laterale, nella parte bassa della tuta, assottiglia lo sguardo e s’arrampica nuovamente a risalire il massiccio corpo legnoso, sedendogli, senza chiedere, alla spalla sinistra


“reggimi e corri, veloce – specifica, l’intonazione follemente divertita – adesso! Vai, vai, Groot”

“sono groot”


Un grido, un incitamento a se stesso, gli arbusti inferiori si muovono rapidi, il più possibile, schiacciando l’erba ed avanzano a falcate ampie, azzerando brevemente l’esigua distanza che li separa dalla navicella, ancora perfettamente intatta malgrado il trambusto circostante, rametti e foglione accerchiano il busto del procione.

Ride sgraziatamente, un ghignetto sadico a plasmargli il muso ed un secondo colpo si sprigiona dall’arma, interrompendo l’avanzare degli inseguitori che precipitano, ancora una volta, nella voragine creatasi, nella soddisfazione del momento i due fuggiaschi si fiondano, trattenendo il respiro affannato ed affaticato, all’interno della navicella, Rocket salta giù, gettando l’arma alla superficie metallica, precipitandosi ad armeggiare con i comandi ed in una frazione di secondi il mezzo sfreccia a perforare l’atmosfera e fluttuare nello spazio sconfinato.

Nella ritrovata quiete Groot sospira, ricadendo pesantemente al seggio del vice-pilota


“sono groot”


È un ringraziamento dovuto quello che soffia, infondo, per la prima volta, dopo gli ultimi tre mesi trascorsi a fuggire di pianeta in pianeta, Rocket non solo lo ha aiutato, ma l’ha chiamato con quello che, in verità, non è il suo nome, ma che deve aver supposto esserlo e, comunque, a prescindere dalla correttezza o meno gli si è rivolto, per la prima volta, con una nuova, oserebbe dire, gentilezza


“i compagni – sogghigna il procione, camuffando la serietà  – non si lasciano mai indietro”

“sono groot?”

“non è ovvio – ridacchia, strizzandogli l’occhiolino – legnetto bruciacchiato?”


Che, tradotto, è un sì e Groot emette un suono baritonale, una specie di risata profonda, e lo spazio diventa, da quel giorno, casa e Rocket diviene, da quel momento sino a che avrà ossigeno nei polmoni, più d’un compagno di disavventura.

Amici, questo gli ha chiesto, e l’affermazione implicita suggella, definitivamente, un’alleanza che, per Groot, è nuova ed unica, lui d’amici non ne ha mai avuti, Rocket è solo da che ha memoria, ma adesso è diverso, da adesso fino alla fine, niente potrà dividerli; sono una squadra, sono un duo esplosivo.

Sono amici, una famiglia, fratelli diversi che solcano le galassie a razziare pianeti e niente più può separarli.


 

 
Premessa doverosa questa è la prima volta, in assoluto, che provo a scrivere dal punto di vista di una "pianta" e, com'è facilmente notabile, la cosa non è riuscita affatto; quindi scusatemi per i Groot e Rocket enormemente OOC...

Detto questo grazie a tutti coloro che hanno aggiunto tra preferite/seguite/ricordate la storia e grazie alla recensione a cui, giuro, risponderò.

Spero che il loop in cui è incastrato Groot, un ricordo felice, non sia stato troppo noioso e fuori dai conseuti schemi. 

Grazie ancora,
alla prossima, se vorrete 

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