Al di là del Limes

di alessandroago_94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Capitolo uno

CAPITOLO UNO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Silva erat vasta (Litanam Galli vocabant),

qua exercitum traducturus erat”.

Tito Livio, Ab urbe condita libri.

(C’era una gran foresta, chiamata Litana dai Galli,

attraverso la quale doveva passare l’esercito).

 

 

 

 

 

 

 

 

Un refolo di vento sfiorò la fronte di Rufillo. Era così che a lui sembrava che la mano di Dio gli stesse facendo una calda carezza, a spronarlo a proseguire nella sua missione divina ed evangelica.

Ma il vento non sfiorava solo la sua pelle; come un incantesimo profondo ed ancestrale, percuoteva con delicatezza le fronde dell’infinità di alberi che lo circondavano.

Il rumore prodotto dal sommarsi di tutti questi fruscii creava un sottofondo che non era affatto piacevole, se sommato al fatto che la natura incontrastata circondava il drappello umano da ogni lato, e nessuno sapeva con precisione quale fosse la sua estensione.

La via Emilia era inghiottita ormai dal verde; dopo secoli di scarso interesse nei confronti delle strade e della viabilità romana, e in virtù del successivo e totale abbandono, tutto era finito in rovina. Restava solo l’indelebile tracciato in pietra sconnessa che attraversava una foresta primigenia, quella che era stata chiamata Selva Litana(1) dagli avi, quand’essi giunsero nelle terre di confine a combattere aspre guerre contro i Galli.

Sembrava infatti che le orecchie del monaco potessero avvertire ancora le grida dei legionari Romani mentre venivano massacrati dai fedeli dei druidi(2).

“E’ una foresta maledetta”, borbottò tra sé Flavio Massimo, il Vescovo di Nursia, che era stato incaricato dal pontefice in persona a recarsi in quelle terre remote, ai confini del ristretto mondo conosciuto.

Rufillo, la sua fedele guida, stringeva i finimenti del cavallo tra le mani e guidava l’animale lungo il percorso deserto, mentre le guardie greche che li scortavano e che li avrebbero dovuti proteggere, in caso di pericolo, apparivano a loro volta molto impressionate.

L’anziano monaco aveva imparato a non avere più paura dell’infinità di rumori agghiaccianti che la natura sapeva offrire all’orecchio umano. Lui aveva scelto di abbandonare appositamente la civiltà, per addentrarsi in territori ormai da lustri interi in mano a quelli che venivano considerati barbari e pagani, dove la scrittura e la burocrazia di palazzo lasciavano spazio ai continui scontri armati, e, talvolta, all’anarchia.

Sapeva ormai che a spaventarlo non dovevano essere piante e fruscii, bensì la parte più incline alla violenza dell’essere umano, per questo stava sempre molto attento, e i suoi occhi, anche se ormai segnati dall’età, si sforzavano in continuazione di perlustrare l’ambiente circostante.

“Invoco il Nostro Signore affinché sia clemente con noi. Temo altrimenti che, senza la Sua guida, non raggiungeremo mai la nostra meta”, tornò a dire il Vescovo, a voce alta, quella volta.

Rufillo non si volse a guardarlo, e si limitò a sorridere in modo benevolo.

“La natura è la casa che Dio ci ha donato, non c’è motivo di temerla”, rassicurò l’anziano amico a parole, senza mai abbassare la guardia.

“Una casa che può essere piena di ospiti, possibilmente violenti. È che non sono abituato a tutto questo, e…”.

Le restanti parole di Flavio Massimo furono portate via dal vento, le cui raffiche sembravano intensificarsi in continuazione. Il monaco si concesse così un attimo di pace, ad occhi aperti.

Lasciò che la sua mente si crogiolasse in alcuni suoi ricordi che lo riportavano a vivere anni di durissime ma volute e desiderate privazioni, in cui il suo corpo martoriato dai digiuni si era finalmente sentito vicino all’ultima ed estrema sofferenza del Cristo Salvatore.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

(1)La Selva Litana era una foresta primigenia che si estendeva, presumibilmente, dall’attuale Emilia fino all’attuale Romagna(probabilmente, all’incirca, da Bologna fino a Ravenna, ma anche oltre, fino a Modena). Essa fu poi quasi totalmente abbattuta a seguito della conquista romana e dell’avvento dell’agricoltura e della centuriazione. Ricrebbe e rioccupò lo spazio perduto dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente.

 

(2)La Selva Litana divenne infatti molto famosa poiché fu teatro di una sanguinosa battaglia(presumibilmente nei pressi dell’attuale Forlì), tra truppe romane e celtiche. I celti vinsero grazie ad un’astuta imboscata, e sterminarono ben due legioni.

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Grazie per aver letto fin qui. Spero che anche i prossimi piccoli capitoli possano essere di vostro gradimento ^^

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Capitolo due

CAPITOLO DUE

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ab intactae ferro barbae longitudine (...) ita

postmodum appellatos.

 Nam iuxta illorum linguam "lang" longam,

"bart" barbam significat.”

Paolo Diacono, Historia Langobardorum.

[Furono chiamati così (...)

in un secondo tempo per la lunghezza

della barba mai toccata dal rasoio.

Infatti nella loro lingua lang

significa lunga e bart barba.]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Guidato dalla Fede, letteralmente. Era così che era giunto a Mutina(1), l’ultimo baluardo conquistato dalla gens Langobardorum(2).

I Winnili(3), varcate le Alpi, avevano conquistato in meno di quattro primavere(4) quasi la totalità dei territori settentrionali della penisola italiana, travolgendo ogni resistenza greca.

Erano riusciti in seguito a far tremare tutta la cultura greco-latina preesistente, addirittura cancellando per sempre anche il ricordo delle precedenti, seppur brevi, dominazioni barbare, rivelandosi grandi conquistatori.

Essi erano giunti in massa, l’intero popolo coeso e pronto ad affrontare assieme le privazioni e le sofferenze di un esodo che, sotto certi aspetti, a Rufillo era parso molto simile a quello di Mosè, in fuga dall’Egitto. Per quello la sua attenzione era stata da sempre attratta da quel popolo; i Winnili, come loro stessi si identificavano, erano giunti in Italia in quanto terra promessa, come Israele lo era per i giudei.

Per questo non appena aveva preso i voti non aveva sprecato altro tempo, muovendosi immediatamente verso i territori da essi occupati. Non gli era mai importato granché della sua famiglia d’origine, a cui aveva dato le spalle per seguire la sua profonda vocazione.

Indubbiamente, ai suoi occhi questo popolo che poteva contare solo sulla forza dei suoi guerrieri esuli era parso come una grande identità da formare ed acculturare, sicuramente benedetto da Dio, ma senza che nessuno ancora avesse illustrato ai suoi componenti quanto Cristo fosse stato disposto a sacrificare per la salvezza eterna dell’umanità. Era perciò importante che rinnegassero in fretta la valanga di tradizioni oscene che si erano portati dietro dai confini del mondo conosciuto.

Rufillo era giunto a Mutina all’età di ventuno anni, quando solo un anno prima era stato cacciato dal monastero presso il quale aveva studiato, dentro le mura di Ravenna; non c’erano fondi, e lui sarebbe stato solo una bocca in più da sfamare.

Era ormai un uomo completamente adulto, e con un mondo intero da evangelizzare, pronto ad accogliere e ad ascoltare il messaggio di Cristo, il lavoro non gli sarebbe mancato. Aveva le idee ben chiare fin dalla più tenera età, quindi si era immediatamente messo in marcia a piedi, con addosso solo un sacco pulcioso donatogli da un conoscente caritatevole, che aveva adattato grezzamente al suo corpo.

Aveva affrontato freddo e gelo d’inverno, e afa d’estate.

Così, per un anno intero.

Poi, dopo aver attraversato le ultime terre romane, era giunto nel caos dei Ducati Longobardi.

Tutti quelli che aveva incontrato lungo il suo cammino gli avevano sconsigliato tale scelta, cercando di farlo desistere; i Longobardi, il popolo dalle lunghe barbe, avevano i visi nascosti da una foresta di peli, gli avevano narrato, poiché non avevano mai conosciuto la lama affilata di un rasoio.

Erano belve che saccheggiavano, uccidevano senza pietà e immolavano i Romani, assieme a tutti quelli che avevano la sfortuna di incontrare quei selvaggi, alle loro bestiali divinità sempre assetate di sangue umano.

Rufillo non si era lasciato spaventare da quelle dicerie, anche se aveva improvvisamente cominciato ad immaginare quegli uomini come qualcosa di non molto dissimile dai cavalieri dell’Apocalisse, gli sterminatori dell’essere umano giunti per proclamare la fine dei tempi.

Tra le mani, il suo umile crocifisso di legno era stato l’unico fedele compagno di viaggio, sul quale aveva versato lacrime, quando si era sentito debole e il suo corpo tremava dalla fame e dal freddo subìto, e sul quale poi aveva snocciolato un’infinità di preghiere assorte e colme di gratitudine, quando le tempeste passavano e il suo fisico provato riusciva a rilassarsi.

“Dio mi dia la forza per parlare della Sua grandezza a tutti coloro che sono affamati della Sua parola! Che lo Spirito Santo scenda su di me e benedica il mio cammino, affinché esso sia privo di ostacoli troppo grandi per questo esile corpo! Che la bontà infinita del Cristo crocefisso possa aiutarmi a non essere mai egoista, e mi permetta di mettere la mia vita al servizio degli altri, dei più poveri e di tutti coloro che ancora non conoscono i testi sacri”, ripeteva continuamente ad alta voce, per farsi compagnia da solo e rinvigorendo sempre più la fede che ardeva dentro il suo cuore, in grado di scaldarlo e di dargli conforto anche nel momento di più estremo bisogno.

Mutina era senza dubbio la città che più aveva bisogno di aiuto, a quei tempi; avamposto di confine dei Winnili, lì la popolazione sottomessa doveva ancora abituarsi agli invasori, ed essi a loro volta dovevano ancora riuscire a trovare una discreta stabilità.

Giunto nell’antica città romana, aveva trovato macerie e rovine, che tuttavia stavano venendo risistemate. Nuove abitazioni avrebbero presto innalzato i rispettivi tetti, seppur con caratteristiche differenti dalle antiche domus, che ormai disabitate e in disuso offrivano il materiale edile necessario ai lavori.

Erano costruzioni molto più umili ed essenziali, come quelle dei romani che ancora vivevano al di là dell’ultimo Limes.

In quella realtà remota Rufillo aveva avuto modo di vedere per la prima volta i guerrieri Longobardi; essi avevano capelli lunghi, spesso molto chiari, ed erano generalmente più alti rispetto ai romani. Vestivano in modo spartano, e vigilavano i loro nuovi sudditi con severità, sempre pronti a punire ogni irregolarità.

Le lunghe barbe confluivano sui petti sempre bardati da guerra, e le loro armi avevano il taglio affilato ed erano molto ben tenute.

Il monaco non aveva avuto timore di quelle persone, quando lo avevano circondato e l’avevano preso di peso, per portarlo di fronte al giudizio di un loro superiore. Non si erano comportati male con lui, indubbiamente non erano cavalieri dell’Apocalisse, e non dimostravano atteggiamenti di molto dissimili da quelli di tutti gli altri barbari che avevano invaso l’Italia in precedenza. E Rufillo aveva avuto modo di tessere contatti con gli Eruli, quand’anche il loro popolo oramai avesse perso prestigio e indipendenza, così come aveva avuto rapporti molto più stretti con i Goti del buon Teodorico, al quale suo padre aveva offerto tutti i suoi servigi, a Ravenna.

Seppur Teodorico fosse stato un gran sovrano, certamente illuminato da Dio, il suo popolo a volte non era stato in grado di eguagliarlo.

Così i Longobardi non erano in grado di aprire i loro occhi verso il Bene Supremo, e parevano spauriti agnelli che avevano perso il loro gregge, immersi in una realtà non loro, che non li riusciva a comprendere, e quindi tendeva a renderli più brutali di quel che realmente erano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

 

(1)Odierna Modena.

 

(2)Come venivano identificati dai Romani e dalla popolazione preesistente.

 

(3)Nome con il quale i Longobardi identificavano il loro popolo.                   

 

(4)Dal 568 d.C. (anno in cui Alboino guida il suo popolo in Italia) al 572 d.C.(anno in cui Alboino viene assassinato)

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Grazie ancora, a tutti.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Capitolo 3

CAPITOLO TRE

 

 

 

 

 

 

 

 

“Erat hoc mirabile in regno Langobardorum: nulla erat violentia,

nullae struebantur insidiae; nemo aliquem iniuste angariabat,

 nemo spoliabat; non erant furta, non latrocinia; unusquisque

quo libebat securus sine timore pergebat”.

Paolo Diacono, Historia Langobardorum.

(C'era questo di meraviglioso nel regno dei Longobardi: non c'erano violenze,

non si tramavano insidie;

nessuno opprimeva gli altri ingiustamente, nessuno depredava;

non c'erano furti, non c'erano rapine;

ognuno andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mentre il vento sempre più forte sferzava il viso di Rufillo, e la Selva Litana ancora non accingeva a smetterla di inquietare gli intrepidi viaggiatori, resi coraggiosissimi solo dal loro importante scopo finale, Flavio Massimo, il Vescovo di Nursia, osservava il volto inflessibile dell’amico d’infanzia.

Che arduo compito che era stato loro affidato! Consegnare un libro sacro a delle creature che lui stentava a vedere come uomini al pari dei Romani. Si affidava tuttavia all’esperto ed anziano amico, sapeva che doveva fidarsi di lui. Era un uomo pio e devoto, mai avrebbe mentito sulla realtà dei fatti.

Socchiuse gli occhi e tornò a pregare, mentre il cavallo proseguiva la sua lenta marcia.

 

Rufillo, ignaro di tutte le perplessità del vecchio amico romano, era invece sereno e la sua mente continuava a frugare tra i ricordi, così da sentirsi meno solo e da avvertire meno freddo, giacché tali pensieri avrebbero senz’altro scaldato il suo anziano animo.

Con una mano guidava il cavallo del Vescovo, stanco e spossato, e con l’altra si attorcigliava di tanto in tanto i peli della lunga ed inselvatichita barba, molto simile a quella di Rhotar, il Duca della fara(1) dei Winnili stanziatisi a Mutina.

Quando, dopo averlo catturato, i suoi fedeli guerrieri l’avevano portato al suo cospetto, aveva capito subito che aveva di fronte a lui un uomo di grande intelligenza. Gli occhi chiari erano vivaci, e dal suo viso non traspariva disgusto per quello che doveva apparire un miserabile e cencioso ragazzo di stalla, conciato com’era.

Il monaco non aveva avuto paura di quello sguardo arguto, ed aveva sorriso, senza prostrarsi al suo cospetto. Era abituato a prostrarsi solo davanti a Dio, sugli altari.

Si era presentato ed aveva spiegato il motivo del suo arrivo in quel luogo ritenuto ormai remoto dalle autorità greche, ed il Duca, contrariamente a quel che si erano aspettati i suoi guerrieri, aveva gradito. O, meglio, aveva accettato che il giovane e strambo romano che aveva dato sfoggio di grande padronanza del latino e delle lingue al di là del Limes potesse restare nelle sue terre.

Ad una condizione soltanto, però; che si fosse dedicato all’educazione dei suoi figli.

Rufillo, quando aveva udito quelle parole, le uniche che il saggio capo barbaro avesse pronunciato, limitandosi perlopiù a lasciar parlare il nuovo arrivato, aveva immediatamente capito che il problema tra i Longobardi e i Romani era basato su semplici incomprensioni; poiché l’uomo sincero che aveva di fronte era qualcuno di mentalmente più aperto rispetto a quasi la totalità dei funzionari dell’Esarca a Ravenna.

Rhotar capiva bene il latino, anche se non lo parlava quasi mai, ed era desideroso che i suoi figli diventassero, un giorno, dei buoni governanti per quei territori da poco conquistati, e chissà, anche re, seppur questo non avesse mai avuto il coraggio di dirlo a voce alta.

Così, per anni il buon monaco aveva seguito la crescita di Agilulfo e Adalberto, primo e secondogenito del Duca.

I due bambini erano separati da soli dieci mesi di differenza, erano nati nello stesso anno del Signore. Ed erano anche orfani di madre, e desiderosi di tutto l’affetto che avessero potuto ricevere dalle persone che li circondavano. Anche se con il padre si sforzavano di dimostrarsi già valorosi e di cuore intrepido, come i protagonisti dei racconti che la sera udivano dai più anziani del loro popolo, prima di andare a dormire.

Rufillo si era sinceramente affezionato ai bambini fin da subito, e Rhotar a lui, poiché scovare un sapiente che sapesse leggere, scrivere ed insegnare era cosa estremamente rara in quei tempi e in quelle lande.

Fiducia e onestà erano stati i capisaldi dei loro rapporti. Il romano non aveva mai visto il Duca comportarsi in modo scorretto con i suoi sudditi, e i suoi figli assieme a lui; i Romani non erano considerati arimanni(2) non erano uomini liberi, e dovevano sottostare alla legge dei conquistatori, tuttavia Rhotar non aveva problemi a punire i suoi stessi uomini, se risultava che si erano comportati in modo indegno.

Per questo tutti coloro che non portavano armi(3) non dovevano subire percosse dai guerrieri, poiché era ritenuta cosa infame infierire su chi non poteva difendersi.

Rufillo quindi visse il momento d’oro di uno dei primi Duchi di Mutina, e crebbe i suoi figlioli nutrendoli con l’adeguata istruzione, essendo già da soli predisposti all’apprendere nozioni con facilità e ad essere scaltri nel ragionare.

Ricordava bene quei giorni floridi, ben lungi dall’idea che avevano i Romani della dominazione barbarica.

Fu la dolcezza di tali ricordi che lo spinse a sorridere tra sé, senza neppure accorgersi di averlo davvero fatto e di aver mostrato a chi lo circondava quanto fosse a suo agio, in quella vita ritenuta così villana dai popoli più antichi ed evoluti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

(1)termine longobardo molto simile al tedesco fahren, con significato di andare, marciare. I Longobardi erano infatti organizzati in fare(gruppi familiari armati) che si spostavano con carri e bestiame, ai tempi del nomadismo. Il sistema delle fare continuò a persistere anche in Italia, quando essi divennero stanziali. A capo di ogni fara c’era un Duca(un condottiero, in pratica), eletto dall’assemblea dei suoi arimanni.

 

(2)termine che indicava gli uomini liberi.

 

(3)la popolazione romana preesistente non poteva portare armi(i Romani conquistati erano chiamati aldii, cioè uomini semiliberi). Solo gli arimanni, e cioè i guerrieri di origine longobarda, potevano avere armi con loro ed essere addestrati e preparati fin dalla più tenera età all’arte della guerra. Questo solo in un primo periodo, poiché in seguito, quando la fusione tra le due culture sarà più avanzata, anche i Romani saranno sottoposti alla leva militare.

Nel racconto, continuerò a identificare genericamente come Romani tutto il substrato italico preesistente all’arrivo dei Longobardi, come tuttavia si faceva già all’epoca.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Grazie mille per essere giunti fin qui. Vi stimo tantissimo!

 

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Capitolo quattro

CAPITOLO QUATTRO

 

 

 

 

 

 

 

 

“I Longobardi erano (…) ancora fieramente barbari

e profondamente germani (…)”.

Gioacchino Volpe, I Longobardi e la storia d’Italia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I giorni di pace erano destinati purtroppo a finire, come ogni cosa.

A Rufillo a volte sembrava di vivere in una civiltà sempre più organizzata; i Winnili non contavano più solo sui loro cavalli, ma si erano insediati ed avevano organizzato quelle che loro chiamavano curtis(1), dove venivano praticati l’agricoltura e l’allevamento, creando quindi piccoli agglomerati molto produttivi.

Lo stesso Duca aveva scelto di non andare a vivere nelle rovine degli antichi palazzi imperiali, preferendo una dimora tutta sua. Presso la sua sala(2), durante le sere d’inverno, i bardi Longobardi si radunavano e raccontavano ai giovani figli di Rhotar tutto quello che c’era da sapere a riguardo di ogni usanza del loro popolo. Al resto ci pensava il precettore romano, come veniva chiamato Rufillo.

Nonostante fosse cristiano e tutti sapessero quale fosse il suo ruolo e il suo credo, tutti lo rispettavano, poiché lui era il primo a rispettare il prossimo.

I guerrieri dei Winnili non erano uomini sanguinari e persecutori dei più deboli, anzi, più le estati passavano più essi erano giusti con i bisognosi, e aggressivi con chi se lo meritava, ladri e disonesti per primi.

I capelli di Rufillo erano diventati bianchi troppo presto, e troppo presto il buon Rhotar aveva cominciato a stare male. Nessuna cura, per lui; sussurrava preghiere nella sua lingua, incomprensibile al romano, e forse anche ai suoi stessi figli, cresciuti parlando perlopiù latino. Poi, qualche giorno dopo i primi segnali della malattia, morì all’improvviso.

Il corpo del povero Duca fu trovato disteso a terra, essendo caduto dal suo giaciglio, e dalla bocca ancora spalancata fuoriusciva una leggera schiuma biancastra, come se si fosse trattato di un conato brutale, interrotto solo dalla morte.

Agilulfo, trovando il suo genitore in quello stato, rimase molto scosso e convocò immediatamente il suo precettore.

Così Rufillo si ritrovò di fronte ad un omicidio molto, molto grave; infatti, non appena scorse lo stato del cadavere, ed ebbe riflettuto sui sintomi strani e improvvisi che l’uomo aveva mostrato nei giorni precedenti al decesso, gli sorse un dubbio brutale.

Rhotar era sempre stato un uomo in forma e in forze, nonostante l’età avanzata, e sicuramente la sua morte già di per sé poteva apparire un po’ dubbia. Ma, non appena ebbe annusato la scodella in cui aveva consumato il suo ultimo pasto, non ebbe più alcun dubbio a riguardo; il suo olfatto abituato all’utilizzo delle erbe si rivelò infallibile, in un caso che fu troppo semplice da risolvere.

Al povero Duca erano stati pestati dei minuscoli ma velenosissimi fiori di cicuta(3) nei pasti, che nel corso degli ultimi giorni dovevano esser stati somministrati in dose maggiore.

Il monaco si era trovato così nei pasticci. Temeva che fosse stato Agilulfo stesso a incaricare tale crimine.

Infatti, il ragazzo era ormai un uomo adulto, un grande guerriero, stimato da tutti. Il suo corpo alto e slanciato era la leggenda di ogni fanciulla, Romane comprese, ed era intraprendente e testardo.

Rivelava le doti tipiche di ogni valido condottiero barbaro, con la sola differenza che lui parlava perlopiù latino(4), come tutti i giovani Winnili della sua stessa generazione, ormai poco avvezzi alle lingue degli avi. E se fosse davvero stato lui, a voler morto suo padre e a favorire il suo avvelenamento?

Il monaco, rimasto impietrito con le prove del delitto tra le mani, non si accorse che il giovane in questione l’aveva raggiunto, a passo felpato. Si accorse della sua presenza solo quando percepì il suo sguardo penetrante che lo fissava alle sue spalle.

“Pensi che sia stato io, vero?”, sibilò Agilulfo, prima ancora che il maturo precettore potesse dirgli qualcosa.

Rufillo appoggiò la scodella incriminata sul pavimento, ad un solo passo dal cadavere freddo e pallido.

“Dovrei, forse?”, sussurrò. Il suo tono non era di sfida, anzi. Era un sibilo amichevole, una pura domanda retorica.

Agilulfo aveva ancora il sangue puro dei barbari che gli scorreva nelle vene, e anche se stava imparando a mentire come un romano, o un greco tentatore, quando era nervoso non era capace di trattenersi. I suoi occhi mandavano, in quel momento, lampi tali da sembrare che al loro interno stessero contenendo tutta la furia di una tempesta estiva.

Si accontentò di riconoscere dal principio che il giovane erede non era mai stato una persona scorretta, ed in più appariva sincero come non mai.

Agilulfo continuò ad osservare con intensità il precettore e maestro, e quando parve che stesse per lasciare andare tutta la violenta rabbia che stava reprimendo, fu Rufillo stesso a recuperare la scodella e a ficcargliela sotto il naso.

Il giovane annusò, per poi afferrarla e scagliarla con rabbia contro l’adiacente parete in legno, cominciando ad imprecare come un folle.

“Devi trovarlo!”, quasi urlò, afferrando Rufillo per le spalle e scrollandolo con forza.

“Devi aiutarmi a trovare chi è stato, così che io possa ucciderlo con le mie mani, e punirlo…”.

“Ragiona un attimo, figliolo”, lo riportò alla realtà il buon maestro, cercando di placare la furia del giovane, “chi è stato a fare questo era una persona che aveva accesso al suo cibo. Qualcuno che gliel’ha avvelenato…”.

Non riuscì a concludere il facile ragionamento.

“Solo un uomo preparava i suoi pasti!”, tuonò. Poi abbandonò a passo spedito la stanza dove le spoglie mortali del padre ancora erano miseramente riverse al suolo, scomposte.

Rufillo aveva scrollato il capo, contrariato dal fatto che il giovane a volte continuasse a mostrare quella sua vena di follia che gli rendeva impedita la mente, e non lo faceva ragionare per bene. La semplicità degli antenati viveva e radicava nel suo cuore, e quella nessun maestro avrebbe mai potuto davvero estirparla.

Chiuse gli occhi al morto, trattenendo qualche lacrima, e si mosse anch’egli verso il grande cortile della sala del Duca, presso la quale il figlio era già entrato in azione.

Con una scenata pubblica, Fabio il cuoco era stato portato fuori dalla stanzetta dove preparava il cibo assieme all’altra fidata serva, Drusilla, che l’aiutava. I due si tenevano stretti l’un l’altra, circondati dagli arimanni armati che erano giunti in fretta in soccorso al loro signore, al quale erano fedelissimi.

“Tu hai ucciso mio padre, assieme alla tua lurida cagna!”, tuonò di nuovo l’arrabbiatissimo giovane, rosso in viso. Quelle parole gridate gettarono nello sconcerto i guerrieri presenti, che strabuzzarono gli occhi e si guardarono l’un l’altro. Il loro amato Duca era morto, ora lo sapevano tutti e ben presto la faccenda sarebbe stata di dominio pubblico.

Udendo tale focosa accusa, gli arimanni allungarono le loro armi verso i due indifesi, ma fu il saggio Rufillo ad intervenire.

“Devono essere sottoposti a processo di fronte all’assemblea degli uomini liberi, solo così potranno essere giudicati, e, se ritenuti colpevoli, anche giustiziati”, sancì ad alta voce, ritrovandosi subito osservato dai guerrieri spumeggianti di rabbia. Lo detestavano in quel preciso momento, lo sapeva bene; lui era pur sempre uno straniero, uno che faceva parte dei Romani a loro totalmente sottomessi, senza diritto di libertà. Ma il monaco ancora poteva contare sull’influenza che aveva sul giovane erede del Duca, che sbollì la sua rabbia ed annuì, bloccando i suoi uomini sul posto.

“E così sia! Che la legge degli antenati sia preservata, in onore a mio padre, uomo giusto da sempre”, affermò ad alta voce. Ordinò poi che il cuoco e la sua aiutante fossero imprigionati immediatamente e sorvegliati fin quando l’intera assemblea del Ducato non fosse stata radunata al completo.

Agilulfo guardò i suoi uomini mentre si allontanavano, e Rufillo ricordava bene il momento in cui, rimasti soli, il giovane gli si avvicinò e gli strinse forte l’avambraccio destro, in segno di amicizia e fiducia.

“Sei più saggio di me, vecchio. E anche più scaltro. Ti ringrazio per il sostegno che mi offri”, ringraziò, per la prima volta in vita sua.

Il monaco accolse il ringraziamento inaspettato, poiché il viziato e lunatico giovane non era abituato di certo a mostrare gratitudine, e fece un leggero inchino. Agilulfo apprezzò il gesto, poiché anche lui era a conoscenza del fatto che il monaco non avesse mai accennato neppure una minima genuflessione verso altri esseri umani.

Ancora molto scosso, andò personalmente ad accudire il corpo del padre, e per una notte e un giorno interi non volle alcun servo e anima alcuna attorno a lui, per custodire il suo dolore, prima che la salma potesse riposare per sempre nella terra, come la tradizione più antica imponeva.

 

Ad averne sofferto di più, fu il giovanissimo Adalberto.

Rufillo sapeva che era fragile, da sempre cresciuto all’ombra del padre e del fratello maggiore. Non era ancora stato svezzato dal mundio(5).

Sedicenne, il suo imberbe viso era spesso segnato dalle lacrime, per questo Agilulfo aveva cercato di tenerlo il più lontano possibile dalla salma del padre, e da lui stesso. Non sopportava gli uomini che piangevano.

Il fratello maggiore fu proclamato Duca dai suoi stessi arimanni, proprio durante la sepoltura del padre.

Il giovane pronunciò parole d’odio e di accusa in vista dell’immediato processo contro l’ipotetico assassino del genitore, e la ragazza che lo aiutava abitualmente.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

(1)strutture simili a fattorie, fondate sulla base degli antichi latifondi Romani. I latifondi erano le grandi proprietà terriere che, per secoli, erano appartenute ai Romani più ricchi ed erano stati il cardine dell’agricoltura nella penisola italiana. Le curtis erano quindi la versione longobarda di questi latifondi, e divennero ben presto realtà del tutto indipendenti dal resto del mondo circostante. Infatti, questo periodo storico che stiamo affrontando fu dominato dall’autarchia, con pochissimi scambi commerciali. In seguito, già solo un cinquantennio dopo, anche i Longobardi si apriranno ai commerci e ciò viene testimoniato da numerosi testi altomedievali giunti fino a noi.

 

(2)sala è un termine longobardo, ancora oggi utilizzato nella lingua italiana. Attenzione; con tale termine però si identificava la casa del padrone, stanziata all’interno della curtis(ripeto; equivalente di grande latifondo), generalmente circondata da boschi e terreni tenuti al pascolo.

 

(3)pianta spontanea in Italia. Facile da reperire, poiché molto presente sui nostri prati, tranne alle alte altitudini. Ingerire alcune parti di questa pianta erbacea può risultare mortale; i fiori e i frutti infatti sono particolarmente velenosi. Pare che basti meno di un grammo di questi piccoli frutti per uccidere un uomo adulto.

 

(4)era identificato come latino, ma non si trattava più del medesimo dei Romani(latino classico); stavano nascendo le cosiddette lingue volgari(che poi si sarebbero evolute nelle odierne lingue romanze).

 

(5)termine di origine germanica, indicante il potere che il padre esercitava sull’intera famiglia. Si trattava, tra l’altro, della base del diritto di quasi la totalità delle popolazioni germaniche. Nella società longobarda, solo le donne restavano sottoposte al mundio per tutta la vita(quando il padre non c’era più, o venivano coniugate, questo potere passava nelle mani del marito, o del fratello, in caso fossero nubili. In caso della morte del marito, potevano essere sottoposte al mundio da parte, addirittura, di un figlio maschio), tuttavia i ragazzi maschi riuscivano a svincolarsi quando venivano considerati guerrieri a tutti gli effetti. Si sarebbero poi sposati e sarebbero stati loro ad esercitare il mundio sulla loro famiglia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Carissime amiche, velocizzerò gli aggiornamenti altrimenti rischio di non riuscire a pubblicare l’intero racconto prima della scadenza del contest ^^

Grazie per l’attenzione e la pazienza.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


Capitolo cinque

CAPITOLO CINQUE

 

 

 

 

 

 

 

“Stettero perciò diffidenti

                                                   e armati per molto tempo(…)”.     

Gioacchino Volpe, I Longobardi e la storia d’Italia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dio, ancora una volta, parve accanirsi contro la famiglia dei Duchi di Mutina, che ormai era retta da giovani cristiani cattolici. Essi erano stati educati dal buon Rufillo, che li aveva preservati, nel tempo, dalla problematica eresia ariana, che ancora dilagava nella maggior parte degli altri Ducati Longobardi.

Il giorno successivo alla sepoltura del buon Rhotar, nonché la giornata precedente al processo di fronte all’assemblea, Agilulfo si stava preparando per andare a caccia con i suoi più fidati arimanni. Eppure, proprio mentre stava per montare sul suo cavallo, una freccia l’aveva colpito in pieno petto, trafiggendogli il cuore ed uccidendolo all’istante.

A nulla erano valse le ricerche effettuate dai fedeli guerrieri; i boschi, le selve e le foreste ricoprivano quasi la totalità del territorio in mano ai Longobardi, e anche tutt’attorno al luogo dell’omicidio c’erano solo alberi e boscaglia. Chi aveva ucciso, era svanito nel verde.

Lo sgomento travolse i Winnili, e tutta la fara fu presto in grandissimo subbuglio. Con due ipotetici assassini incarcerati e controllati a vista, quindi impossibilitati ad agire, ormai pareva ovvio a tutti che ci fosse qualcuno di così tanto malintenzionato da voler sterminare la famiglia ducale.

Una vera e propria congiura, con più persone che stavano cercando di indebolire il recente potere dei nuovi conquistatori.

Questo generò forti dissapori, che Rufillo nella sua infinita piccolezza non poté arginare, giacché i Longobardi se la presero con la popolazione romana. Credevano infatti che la rete di sicari volesse generare problemi ai vertici della comunità barbara della zona, al fine di facilitare una possibile nuova penetrazione greca.

Così numerosi guerrieri armati cominciarono a scorrazzare liberamente per le campagne, spargendo il terrore tra i sudditi, tuttavia senza mai infierire troppo su di loro.

Il soggetto più vulnerabile in tutta la mesta faccenda fu, a quel punto, Adalberto, e Rufillo gli giurò fedeltà estrema. Gli voleva sinceramente bene, gli era stato a fianco fin da bambino e non avrebbe sopportato che anche lui morisse.

Gli arimanni, in preda all’ansia, promisero immediatamente sulla salma del fratello maggiore che avrebbero eletto loro nuovo Duca il ragazzo sedicenne, anche se era giovanissimo, ma il buon sangue non poteva mentire.

Per questo il monaco si fece guardingo, e impegnò le sue meningi per risolvere quel caso che gli stava tanto a cuore. Chi voleva morto anche il suo protetto? Adalberto era un cristiano cattolico, un signore libero che un giorno avrebbe anche potuto aspirare alla carica di Re(1), e doveva assolutamente essere impedita la sua morte.

Se anche lui fosse stato eliminato, si sarebbe aperto un periodo di conflitti tra i Longobardi più eminenti, fino all’elezione di un nuovo Duca di Mutina, che sarebbe potuto risultare benissimo ostile ai Romani e ai cristiani. Non ci si poteva fidare di nessuno, tantomeno dei Winnili più anziani, coloro che bramavano più d’ogni altro al potere.

“Proteggimi, tu che per me sei come un padre. Perché io sono infinitamente debole…”, sussurrava il ragazzo al precettore, in lacrime.

Rufillo vedeva quel giovincello così debole, così sparuto… lui il potere non lo desiderava. Neanche i Romani lo cercavano più, e i Greci erano troppo in affanno per progettare congiure di quel livello e stuzzicare i barbari.

Deciso a voler provare a risolvere il caso, il buon monaco ragionò e comprese che doveva cominciare a tenere d’occhio i Longobardi stessi; era probabile che qualcuno di essi, che si fingeva fedele, facesse il doppiogioco, ed avesse utilizzato alcuni sicari prezzolati per compiere l’eccidio. Suggerì al suo protetto di restare sempre tra le mura della sala che ora era sua, vigilato dai tre arimanni più imponenti e fidati. E si mise in azione.

Volle andare dai due prigionieri, ancora tenuti rinchiusi in una vecchia cantina romana, ben vigilata.

Gli fu permesso dalle guardie d’incontrarli; appena entrò in quell’ambiente buio e puzzolente, chiamò i due disonesti. Essi accorsero immediatamente, sudici, e si gettarono ai suoi piedi, strofinandosi come gatti attorno alle sue caviglie.

“Oh, buon fratello, tu che sei cristiano come noi, abbi pietà e facci liberare!”, esordì il cuoco, in lacrime.

“Sappiamo che sei tanto buono, altrimenti avresti lasciato che gli arimanni ci uccidessero sul posto. Ora metti una buona parola per noi, ti scongiuriamo!”, implorò a sua volta la giovane aiutante.

Rufillo si chinò ed afferrò le loro mani.

“Fratelli, io vi prometto che farò tutto quello che posso per liberarvi, ma a patto che voi siate innocenti. Sono successe cose che vi incriminano, e gettano un’onta che può essere lavata solo con la morte”, sancì.

“Noi… noi non volevamo, ci hanno detto…”.

“No!”, gridò la ragazza, interrompendo la facile confessione dell’altro prigioniero. “Non dire nulla, o ci faranno del male…”.

“Ce ne stanno già facendo, Drusilla! Non ci danno da mangiare, ogni tanto entrano a picchiarci… io non voglio morire a causa loro”.

“Di chi state parlando, fratelli? Se mi dite la verità, io potrò aiutarvi!”, tornò a dire Rufillo, lasciando fluire nell’oscurità le sue parole. Ormai il suo interesse era al culmine, giacché i poveri prigionieri erano all’estremo della sopportazione, ed avevano davvero paura. La prigionia li aveva provati, come anche la consapevolezza della sentenza di morte.

Le mani di entrambi tremavano, tra quelle del monaco, che le aveva ancora strette tra le sue, in segno d’unità e fratellanza.

“Ad avvelenare i pasti del buon Duca, che il Signore l’abbia sempre in gloria, è stato suo f…”. Un singhiozzo lo interruppe e il cuoco non proseguì oltre.

“Noi non abbiamo mai avvelenato nulla. Però, per sette sere prima che il buon Duca morisse, un uomo armato a lui molto legato ci strappava dalle mani i pasti cotti e già nella scodella, per portarli lui stesso al suo signore. C’è caso che… che lui, ad un certo punto, ci abbia messo qualcosa, e… ma noi non sappiamo nulla, eh, se non che siamo innocenti…”.

“Avanti, chi era quest’uomo?”, tuonò Rufillo, indignato.

“Noi… non… ora siamo confusi… ma aveva il permesso del Duca in persona di portargli i pasti, perché non ci voleva vedere, ci aveva detto… che stava male…”, balbettò Drusilla, tacendo poi anche lei, mentre i singhiozzi frammentavano i suoi brevi discorsi.

Rufillo, che non riusciva ad immaginare in quale stato fossero ridotti i loro corpi, dopo le privazioni delle settimane trascorse in quel luogo buio e orrendo, non si lasciò tuttavia pervadere neppure da un vago senso di pietà. Infatti, scelse di insistere, per andare fino in fondo.

“Insomma”, riprese a dire, con decisione, “sapete chi era questa persona. Lo sapete, ma non me lo avete ancora detto espressamente, e nessuno può aiutarmi, tranne voi. Quindi, vuotate il sacco e lasciate che così la vostra anima si purifichi con questa confessione, e le porte del Paradiso Celeste saranno aperte per voi, nonostante il corso della giustizia terrena”.

Ma i due non erano più in loro; si lamentavano e invocavano pietà, chiedevano cibo e acqua. Erano confusi, devastati dal dolore.

Il monaco allora se ne andò, sconsolato, lasciandoli soli, con la promessa che sarebbe tornato a breve.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

 

 

(1)Vi parrà strano, ma i Longobardi non erano abituati ad avere un Re. Quando praticavano ancora il nomadismo, anche durante il loro stazionamento in Pannonia, essi si organizzavano in base al sistema delle fare, quindi i vari Duchi controllavano i loro uomini e le loro famiglie, e questo era l’apice del potere. I Re venivano eletti tra i vari Duchi più abili solo in caso di guerre o di migrazioni di massa(fu il caso del mitico Alboino, ad esempio, che fu eletto proprio per la grande migrazione in Italia), al fine di centralizzare il potere, quindi di avere un comandante in grado di andare oltre i rapporti paritari tra le varie famiglie più nobili. Il Re restava in carica solo per la durata della guerra, o fino al termine della migrazione.

Egli veniva infatti eletto dal thinx, l’assemblea dei Duchi. Allo stesso modo, i Duchi venivano eletti dall’assemblea degli uomini liberi(gli arimanni della loro fara). Generalmente però appartenevano sempre alla stessa linea di sangue, quella ritenuta più nobile e pura all’interno della fara.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

Grazie ancora per essere giunti fin qui ^^

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


Capitolo sei

CAPITOLO SEI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Insomma, il paese è cambiato; la carta dell’Italia romana

e quella dell’Italia medievale mal coincidono,(…)”.

Corrado Vivanti, La frattura dell’invasione longobarda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rufillo era sicuro che il cuoco avesse pronunciato una f. Poi, il suono si era confuso con quello del singhiozzo.

Era ovvio che Fabio sapeva molto più di quel che aveva detto, anche se alla fine aveva taciuto, assieme alla sua compagna; così come appariva ovvio che nel primo delitto ci fosse lo zampino di un qualche longobardo di rilievo, un arimanno traditore. Di conseguenza, anche il secondo omicidio era collegato al primo.

Ma come fare a svelare la cospirazione, prima che anche l’ultimo discendente di Rhotar venisse a sua volta eliminato? Era una corsa contro il tempo, questo Rufillo lo sapeva bene.

Il monaco si mise quindi in azione come poteva, consigliando al giovane Adalberto di non uscire mai dalla sua sala e di restare al sicuro, anche se questo l’avrebbe potuto proteggere fino ad un certo punto. Non si sapeva bene dove fossero giunte le radici del male.

Tuttavia, appariva certo che buona parte degli arimanni adorassero il ragazzo. La sua salvezza era anche nelle loro mani.

Per tre giorni, Rufillo si recò più volte dai due prigionieri, ma essi non si fidavano, imploravano e avanzavano richieste. Proprio quando si stava per scoraggiare, però, giunse una svolta improvvisa.

Era quasi buio, quando si stava dirigendo per un’ultima volta da quei loschi individui, ai quali augurava l’inferno per il fatto di non essersi pentiti dei loro crimini e di non aver confessato. Poco prima di giungere a destinazione, comunque, notò qualcosa che non andava; infatti, due arimanni stavano discutendo animatamente con le guardie.

Con il suo spiccato sesto senso, maturato durante il peregrinare nei boschi e nella natura incontaminata, il monaco avvertì che qualcosa non andava. Si affrettò a nascondersi dietro un folto cespuglio, continuando a seguire la vicenda con i suoi occhietti scuri e socchiusi.

Alla fine, i due guerrieri del Duca l’ebbero vinta, e le guardie si allontanarono.

I primi, rimasti soli, non tentennarono oltre ed entrarono nell’improvvisata prigione, tornando presto ad uscire all’aperto con i due cialtroni miserevoli ben legati mani e piedi. Erano stati imbavagliati in fretta, per far sì che non schiamazzassero.

Rufillo si ritrovò ad essere arrabbiato come non mai; era consapevole che non erano state emesse sentenze di morte, e che non era ancora stata fissata una data alla prossima assemblea dei guerrieri Winnili. E allora, quei due furfanti cosa intendevano fare con gli assassini? Ucciderli, forse, e fare vendetta da soli?

Il monaco fu sul punto di tornarsene indietro e di andare a riferire al suo giovane e recluso signore, in modo che egli potesse far intervenire gli arimanni più onesti, giacché lui non poteva nulla contro gli uomini liberi; ma una strana curiosità lo pervase, e lo spinse a seguire il quartetto.

A passi felpatissimi, li pedinò tra le bassissime fronde, e per fortuna che il bosco appariva sterminato.

Quando finalmente si giunse ad una piccola e remota radura verde, il monaco poté osservare con grande sgomento un buon numero di nobili Winnili, almeno una quarantina, che attendeva solo l’arrivo di coloro che aveva seguito.

A farsi avanti a recuperare i poveri prigionieri fu un uomo che poté riconoscere subito e senza problemi, e cioè colui che chiamavano Wald, l’aristocratico fratello minore del defunto Rhotar. Esso colpì con un randello i Romani, e li piegò in due dal dolore.

“Avete parlato con il cristiano, che altro non è che la spia di mio nipote! Avete tradito il vostro giuramento!”, cominciò ad affermare, con gli altri Longobardi che ascoltavano, silenziosi. Apparivano turbati.

Wald strappò gli improvvisati bavagli di stoffa per obbligarli a parlare.

“Signore, no, lui ci ha tormentato, ma non abbiamo mai riferito il tuo nome! Mai, mai ti abbiamo tradito!”, mormorò una risoluta Drusilla.

“Non ti ascoltiamo, romana. Abbiamo ora paura che l’unico figlio sopravvissuto di mio fratello possa darci dei problemi, per questo anche lui morirà, come l’altro mio nipote”, sancì.

“Sarete sottoposti all’ordalia(1); se non morirete o resterete indenni, sarete innocenti, ed avrete l’onore di ogni divinità. Sarete liberi di andarvene, e mio nipote morirà questa notte stessa. Se non sopravvivrete, vorrà dire che il sacerdote cristiano è già sulle nostre tracce a causa vostra, ed allora dovremmo uccidere anche lui, assieme al ragazzo. E anche in fretta, prima di questa sera stessa”, proseguì, risoluto.

Deciso a proseguire rapidamente, poiché tutti i presenti sapevano che avevano pochissimo tempo a disposizione, l’uomo maturo e possente afferrò le corde che legavano i due esseri minuti e provati dagli stenti. Li scaraventò con forza verso un punto al centro della radura stessa, dove si innalzava del fumo.

Gli occhi di Rufillo erano ormai provati, e faticava a focalizzare gli oggetti distanti, eppure riuscì a vedere distintamente la scia di carbone ardente che stava venendo spianata al suolo, a formare un percorso infuocato.

Ai due Romani furono poi messe tra le mani due lastre arroventate, che furono costretti a stringere con forza, lanciando grida lancinanti. Poi, furono spinti verso l’arduo cammino della prova, i piedi nudi pronti ad affrontare il calvario.

Mentre tutto ciò accadeva e diveniva realtà, gli arimanni presenti e traditori intonarono inni nella loro lingua arcaica, dai suoni gutturali molto differenti da quelli greci o latini.

Tra tutte le parole pronunciate lentamente, Rufillo riuscì a carpire la parola Freyr(2), molto ricorrente, e questo lo atterrì ancora di più. Si trattava di uno dei tanti nomi del demonio, lo sapeva, e la consapevolezza di star assistendo a qualcosa di mostruoso gli fece accapponare la pelle.

Con il cuore che gli batteva nel petto, scelse di tornare indietro, stando attento a non farsi scoprire. Doveva recarsi dal suo protetto, in modo che egli, assieme ai suoi guerrieri più fedeli, potesse cogliere i malintenzionati sul fatto.

A passi felpati, come ben sapeva ancora fare nonostante l’età, tornò indietro e andò di gran fretta dal giovane protetto, e si presentò al suo cospetto sconvolto ed in lacrime.

“Mio giovane signore!”, gemette, atterrito. “Devi vedere coi tuoi occhi coloro che hanno fatto scempio della tua famiglia, e che stanno invocando i demoni del passato nel cuore delle tue terre!”.

“Ora invocano il demonio, poi ti uccideranno!”, gridò poi, quando il giovane parve un attimo perplesso.

Dio, offri la tua forza a questo giovanotto, sussurrò mentalmente il monaco, che si aspettava un po’ di decisione dal giovane.

Il miracolo accadde; Adalberto, il figlio più fragile del defunto Duca, non appena riuscì a concepire l’idea che poteva finalmente smascherare coloro che avevano congiurato ai danni della sua famiglia, prese in mano la situazione, ed uscì dal suo limbo di indecisione. Nei suoi occhi brillò la scintilla che aveva illuminato quelli di Agilulfo, quando la rabbia per la morte del padre l’aveva quasi fatto impazzire.

“Raccogli i tuoi uomini, tutti i più valevoli guerrieri che puoi avere adesso, a completa disposizione. Ma devi fare in fretta, perché se i traditori avranno delle spie a Mutina, saranno presto avvisati dell’allerta, e allora si daranno alla macchia e saranno pronti ad ucciderti”, consigliò il più anziano. Il giovane lo afferrò per un braccio, poco prima di uscire e di richiamare gli arimanni disponibili.

“Prima dimmi chi c’è dietro questa storia, e chi mi troverò di fronte”, disse, risoluto. Rufillo scosse il capo.

“Non c’è tempo, mio signore! Lo vedrai con i tuoi stessi occhi, se sarai scaltro come tuo padre e tuo fratello”, lo spronò.

Spinto da rabbia, nervosismo e curiosità, nonché dal lato più barbaro di sé, il giovane fu lesto ad agire.

Uscì fuori dalla sala che aveva preservato la sua integrità per giorni, e richiamò i suoi più fedeli guardiani, coloro che avevano vigilato la sua breve reclusione forzata. Essi partirono immediatamente per la vicinissima Mutina, e dopo poco fecero ritorno con almeno una cinquantina di arimanni.

Gli uomini liberi erano trafelati, non avevano fatto in tempo a prepararsi adeguatamente ma erano corsi subito in soccorso del futuro Duca in pericolo. Tra le mani, le spade sguainate mandavano bagliori che salivano fin verso il cielo.

I cavalli scalpitavano, nervosi.

“Mi è stato riferito che qualcuno di noi, qualche malfattore, ha radunato i suoi simili nella vicina foresta, evocando i demoni e la mia morte, giacché quella di mio padre e di mio fratello è già stata da loro ordita e impartita. Ora, voi che siete le mie braccia armate, dovete scegliere se essermi fedeli e lavare la vergognosa onta che i nostri fratelli traditori hanno gettato su di noi, oppure unirvi agli evocatori degli spiriti del passato, coloro che ci hanno portato sfortuna e che ci hanno fatto perdere ogni cosa, costringendoci ad un lungo peregrinare”, spiegò Adalberto con enfasi a quella sorta di improvvisata assemblea.

Udendo tali accuse, gli uomini mulinarono le loro armi per aria e giurarono fedeltà al ragazzo.

Rufillo montò a cavallo con il suo protetto, ed essi aprirono la fila e portarono gli altri fin nel luogo dove si stava compiendo il vergognoso rito pagano.

I Winnili traditori udirono all’ultimo il rumore prodotto dagli zoccoli dei cavalli, poiché Adalberto aveva avuto l’arguzia di cavalcare contro il vento crescente, in modo tale che lo scalpiccio veloce fosse portato lontano dalle orecchie che non avrebbero dovuto udire nulla.

Quando fece irruzione nella radura, Rufillo vide i due prigionieri devastati, le carni martoriate, e una puzza acre di bruciato aleggiava ovunque. Lo stesso ragazzo poté notare egli stesso tale strazio.

I congiuranti, radunatisi improvvisamente attorno a Wald, si armarono come poterono; non avevano più paura di nulla, ormai desideravano solo che il loro capo potesse far fuori l’ultimo erede legittimo del Duca, per prenderne il posto. Ma essi erano mal armati.

Quando anche tutti i restanti arimanni videro e compresero la gravità di quel che era accaduto nella radura, non ci fu bisogno di lanciarli contro gli assassini, poiché caricarono da soli, all’unisono, e Adalberto si mosse con loro.

Rufillo scivolò giù dal cavallo, correndo a ripararsi nei boschi. Lui non voleva più saperne di ciò che sarebbe accaduto, anche se pregava affinché la giustizia divina facesse il suo corso.

Combatterono a morte, i Winnili, e si uccisero tra loro, senza pietà; i congiuranti furono leoni, erano perlopiù uomini adulti, maturi e forgiati dalle battaglie, e anche se con loro avevano poche armi, le seppero sfruttare in maniera essenziale.

Wald, l’unico che indossava una corazza di foggia greca, saccheggiata chissà dove e chissà quando, mulinava per aria un martello dal manico lungo. Quella era la sua arma, e con essa sfidò le lame degli arimanni avversari, che nulla potevano contro la sua scaltrezza e la sua sete di sangue, fino a giungere di fronte al nipote.

Adalberto non era al livello dello zio, e nonostante fosse munito della sua spada lunga, non era preparato ad uno scontro così violento. Tra l’altro, Gwald era molto audace e non temeva il ragazzo.

All’improvviso solo contro lo zio, non poteva fare nulla. Gli arimanni fedeli a lui erano la maggioranza, eppure venivano impegnati arduamente dai ribelli. Nessuno di essi si era accorto che, pensando solo ad uccidere gli avversari, facevano solo il loro gioco, sguarnendo il ragazzino e lasciandolo in pasto al mostro.

D’altronde, come il povero monaco notava chiaramente, ai margini dello scontro in corso e al riparo tra le fronde dei cespugli circostanti, i Longobardi combattevano da barbari; il loro scontro in corso era un’accozzaglia disordinata di uomini che si massacravano tra loro, senza seguire alcuna regola o schema(3). Tenere d’occhio il giovane era quindi davvero difficile.

Solo Rufillo lo seguiva con lo sguardo e non lo perdeva mai di vista, e quando fu spinto dalla furia dello zio ai margini dello scontro, in modo che sempre meno guerrieri potessero accorrere in suo aiuto, ebbe un brivido travolgente.

Infatti, Wald incalzava come un folle, eppure senza mai provare a colpire il nipote alla testa e alle parti vitali. Il grande martello mulinava per aria(4), e Adalberto faceva indietreggiare continuamente il suo cavallo, incapace di esporsi.

Non era molto abile con le armi, e anche se in più occasioni aveva dimostrato il suo valore, era ancora piuttosto impreparato ad uno scontro di quel livello, e soprattutto di fronte ad un avversario munito di un’arma così insolita e potente.

Wald ad un tratto mulinò per l’ennesima volta il martello in aria, dopo aver isolato il ragazzo, e lo fiondò con tutta la sua forza contro il cranio del cavallo; la povera bestia collassò a terra in un istante, con Adalberto che cadeva assieme a lei. Il giovane si ritrovò a gridare mentre la sua gamba destra finiva parzialmente schiacciata dal peso dell’animale.

Era totalmente indifeso, ormai.

A quel punto, Rufillo intervenne. Uscì a passo svelto dalla selva che l’aveva protetto e si sfilò il crocefisso che portava sempre con sé, appeso al collo, per lanciarsi contro Wald. Lo mulinò in aria come se fosse la sua arma.

“Vade retro, evocatore di demoni!”, urlò con forza, e gli parve che la sua voce per un attimo sovrastasse anche il rumore della battaglia in corso. “Peccatore, assassino! Lascia stare questo ragazzo, vattene all’inferno!”.

L’uomo focalizzò il suo sguardo su di lui e si affrettò a recuperare la sua arma, ancora impiantata nel cranio del cavallo morto. Col nipote fuori dai giochi e ormai in mano sua, preferì lasciar spazio all’odio che regnava dentro di lui, per affrettarsi a metter fine anche alla vita del monaco. Ma, come Rufillo ben sapeva, il tempo è beffardo, e il Destino anche; forse perché era frutto della mano stessa di Dio, sempre intenta a tessere nuove trame.

Se solo Wald avesse ucciso il nipote immediatamente, lo scontro si sarebbe concluso; sarebbe stato lui il vincitore e l’erede del Ducato. Eppure, l’uomo credeva di avere ancora qualche istante di tempo e si avventò verso Rufillo, che continuava a maledirlo in latino.

Fu così che un arimanno fedele ad Adalberto notò i due uomini in difficoltà e si disimpegnò dal duello che stava affrontando, per passare al trotto a fianco dell’assassino, mutilandogli la mano che impugnava il micidiale martello.

Wald urlò e il suo sangue inondò il terreno, mischiandosi con quello dei suoi compagni, che stavano avendo la peggio.

Quando il capo fu ferito in quel modo irreparabile e potenzialmente letale, i congiuranti superstiti si diedero alla fuga, e Wald con loro, inseguendoli e disperdendosi in un attimo nel bosco circostante.

Nessuno li inseguì, poiché gli arimanni si riunirono attorno al loro giovanissimo signore, per aiutarlo. Spostarono la carcassa del cavallo, impiegando numerose forze per alzarla delicatamente da terra, cosicché Adalberto potesse essere estratto e medicato.

Rufillo si fiondò su di lui e sorrise presto, poiché per fortuna il suo protetto non aveva riportato alcun danno, se non una distorsione lieve al ginocchio; un miracolo, ma per fortuna l’animale era crollato al suolo abbastanza lentamente, e il suo peso non aveva frantumato alcun osso del suo cavaliere.

“Li voglio morti! Voglio le loro teste!”, urlò il giovane, ancora dolorante al suolo.

“Avete visto, miei validi cavalieri, quello che compievano coloro che credevamo nostri fratelli”, continuò ad infierire, e i suoi uomini lo ascoltavano.

Ad uno ad uno, si inginocchiarono al suo cospetto e giurarono di nuovo fedeltà, mentre attorno a loro restava solo la brace e i ferri resi ardenti per l’evocazione. Accorsero presto anche gli ultimi arimanni da Mutina, e in quel bosco senza nome elessero in fretta Adalberto come loro nuovo Duca, e il suo primo ordine fu quello di cercare tutti i congiuranti e ucciderli.

Fu un ordine molto gradito, poiché nonostante i Longobardi fossero barbari, ormai avevano cominciato a convivere con il mondo romano e a condividerne alcuni aspetti. Sicuramente il rito che stava avvenendo lì, lontano dagli occhi delle persone perbene, con l’aggiunta dell’omicidio di ben due capi ai quali era stata giurata fedeltà, creava un insieme di pensieri inconcepibili per ogni arimanno corretto.

Rufillo si era fatto da parte ed aveva lasciato che il suo ragazzo fosse osannato dai suoi uomini, anche se una certa amarezza restava nel suo cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

 

(1)tipica usanza delle popolazioni germaniche europee. Si trattava di una vera e propria prova, come nel caso che sarà qui descritto. Si trattava di una concezione molto pratica del diritto, collegata a pratiche di natura religiosa. Per dirla in parole povere, insomma, quando si riteneva che una o più persone avessero commesso crimini, avessero detto bugie di varia gravita… ecc… allora potevano essere sottoposti a ordalia, al giudizio divino.

Le prove erano difficilissime, tra cui quella del fuoco(camminare su braci accese e/o stringere tra le mani metallo rovente), o la cosiddetta ordalia dell’acqua bollente(immergere le braccia in un profondo recipiente ricolmo di acqua bollente al fine di recuperare qualcosa dal suo fondo). Dopodiché venivano controllate le ustioni e la loro gravità, e stabilita la sentenza in base a ciò.

 

(2)prima di convertirsi al cristianesimo ariano, tutti i Longobardi erano pagani. Freyr è il nome di una di queste divinità(dio della fecondità). Il suo culto era molto popolare tra i Winnili.

Allora; in questo periodo storico, gran parte dei Longobardi aveva già rinnegato il paganesimo. Eppure, qualche sacca di resistenza continuava ancora a persistere, soprattutto nelle campagne e tra i nobili più radicali e vincolati alle antiche tradizioni.

 

(3)amici, amiche, dimenticatevi pure la maestosità delle legioni romane e del loro ordine in battaglia. Gli scontri armati tra barbari erano spesso vere e proprie accozzaglie confuse.

 

(4)l’utilizzo di mazze, asce, lance era di larghissimo uso negli scontri armati di quest’epoca; i guerrieri combattevano spesso con le armi con cui si trovavano più a loro agio.

Anche martelli appositi; sarà testimoniato poi che lo stesso Carlo Marcello, nonno di Carlo Magno, ne faceva uso. Riuscì infatti a fermare l’avanzata araba in Gallia fracassando il cranio del comandante nemico proprio con uno di essi. Da qui il leggendario soprannome che è giunto fino a noi; Carlo Martello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Grazie mille, a tutti ^^

 

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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


Capitolo sette

CAPITOLO SETTE

 

 

 

 

 

 

 

 

“(…)li logorò, impedì loro il compimento della conquista,

fomentò le ribellioni dei Duchi(…), aggravò o impedì che si sanasse

un male organico di quel popolo, cioè la costituzione per gruppi quasi indipendenti,

più che altrove riluttanti al vincolo unitario(…)”.

Gioacchino Volpe, I Longobardi e la storia d’Italia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La radura fu fatta ripulire; i cadaveri dei disonesti furono portati nel folto del bosco, affinché le fiere potessero farne scempio, mentre quelli degli arimanni morti al fine di difendere il nuovo e giovanissimo Duca furono sepolti con tutti gli onori.

I Winnili però non furono affatto placati; quello che era accaduto era stato qualcosa di davvero imperdonabile.

Per un’intera estate la furia dei giusti si abbatté contro chi aveva tramato e ucciso.

La fara era rimasta irrimediabilmente spaccata, con Adalberto che si dimostrava solo assetato di vendetta.

Gli arimanni si diedero la caccia l’un l’altro, finché Wald, rimasto monco, non fu catturato mentre si stava dirigendo verso i territori dei Greci, forse nell’ultima speranza di sfuggire alla persecuzione chiedendo asilo ai più acerrimi nemici del suo popolo.

Fu portato in catene presso il nipote, e con lui anche sua moglie, che l’aveva seguito dapprima nella latitanza, e poi nella fuga.

Adalberto colse l’attimo, così come lo zio, a suo tempo, aveva saputo perderlo; di fronte ai suoi guerrieri, decapitò il traditore senza pietà e senza dire una sola parola. Nulla, se non il suo sangue, avrebbe saziato il disordine interno in cui versava il Ducato da fin troppo tempo.

Dopo lo scontro nella radura, i Winnili avevano combattuto ovunque, e i centri abitati erano stati duramente perquisiti, alla ricerca di fuggitivi(1). I Romani per tutto il tempo si erano limitati a tremare ogni volta che gli zoccoli dei loro cavalli avevano fatto tremare la terra, e a farsi il segno della croce quando uno dei traditori veniva scovato e ucciso sul posto. Così il Duca voleva.

Questo era stato un periodo di relativa pace per la popolazione sottomessa, finché i conquistatori si erano scannati da soli. Ma con la morte di Wald, ogni sacco di resistenza era da considerarsi conclusa, giacché nessun altro, di fronte a tale spietatezza, avrebbe preso il suo posto.

La fara tornò ad essere unita, e alla moglie di Wald, zia di Adalberto, fu salvata la vita. La donna, una discendente dei Gepidi(2), dopo aver assistito alla morte del marito si era gettata al suolo ed aveva implorato pietà.

Si era dimostrata innocente, ed aveva giurato sulla Bibbia che mai si era recata con il coniuge a compiere riti demoniaci nel bosco, né aveva mai pensato male dei suoi nobili parenti.

Rufillo aveva fatto da intermediario; aveva chiesto che il volere di Dio fosse rispettato. Adalberto aveva avuto la sua vendetta e la sua vittoria, ma non doveva infierire oltre sui vinti, se non voleva incorrere a sua volta nella punizione divina.

Così, il ragazzo aveva dato retta e si era limitato solo a mettere sotto sorveglianza la parente, privandola però dei suoi due figli piccoli. Essi furono mandati presso la corte del Duca del Friuli, che ne avrebbe avuto cura e li avrebbe fatti crescere senza rancori, rendendoli suoi fedeli servitori, in modo che dimenticassero tutto e non tornassero mai più a Mutina.

I due prigionieri Romani sottoposti all’ordalia, nonostante le ustioni riportate durante il rito, erano probabilmente riusciti a svignarsela a carponi durante lo scontro, e non erano più stati ritrovati, né erano stati cercati.

 

Anni dopo il monaco aveva ascoltato l’ultima confessione di Romualda, la madre che aveva perso il perfido marito, e i cui figli, cugini di Adalberto, erano stati allontanati per sempre. Il suo cuore era a pezzi, e non era riuscita a sopravvivere molto a lungo dopo la separazione dai bambini.

In punto di morte, chiedendo il segreto, aveva rivelato a Rufillo che era stato Rhotar stesso a richiedere al fratello minore di avvelenarlo, anche se non voleva che nessuno lo sapesse, poiché togliersi la vita era qualcosa di estremamente disonorevole e vile, per un guerriero. L’anziano Duca infatti aveva cominciato ad accusare dolori al basso ventre, e urinava sangue.

Non voleva lasciare che la malattia incurabile lo rendesse uno spettro vulnerabile(3), giacché aveva presto cominciato a faticare a far ogni cosa, e logorava il suo corpo e la sua personalità. Poi, cosa avesse spinto Wald a prenderci gusto e a giungere ad uccidere il nipote maggiore e a tramare contro il minore, portando avanti anche pratiche inaccettabili nel bosco, beh, questo nemmeno lei lo sapeva.

Rufillo invece capiva; era stata la sete di potere ad averlo danneggiato per sempre. L’uomo aveva capito che uccidere un Duca non era poi così difficile come poteva sembrare, e ci aveva preso gusto.

I rituali pagani avevano attratto poi la parte più intransigente della fara stessa, gli arimanni che detestavano la religione dei Romani e la denigravano.

Così, Wald aveva scelto il proprio destino, e assieme ad esso anche un’eterna permanenza nell’inferno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

 

(1)non potevo non inserire una parte di Storia turbolenta, in questo racconto. Ci troviamo infatti nel cosiddetto periodo di interregno(cioè il periodo di tempo compreso tra la morte di un re e l’elezione del suo successore). Il periodo di interregno durò dieci lunghissimi anni(574-584), a seguito dell’assassino dapprima di Alboino, e poi di Clefi. Si tratta del primo periodo di Storia longobarda in Italia, e fu durissimo, non solo per la popolazione sottomessa, ma anche in generale per ogni fara e famiglia; senza più alcuna guida, e in preda alla frenesia per la spartizione delle terre appena conquistate, i Winnili combatterono ferocemente anche tra loro. Molti nobili vennero assassinati, le fare si spaccavano, e a volte non mancavano eccessi di violenza contro i locali. Stiamo rivivendo questo periodo grazie ai fervidi ricordi del nostro coraggiosissimo Rufillo.

 

(2)Cosa centrano i Gepidi, in questo racconto? Per chi conosce bene la Storia longobarda, si ricorderà senza dubbio che essi furono tra i più grandi nemici dei Longobardi stessi.

Ai tempi dello stanziamento in Pannonia, le due popolazioni germaniche erano in continuo alterco tra loro; eppure, entrambe rientravano nell’orbita degli Avari, la popolazione delle steppe orientali che era riuscita a spargere il terrore e a stanziarsi nei territori settentrionali dei Balcani.

I Longobardi, popolo originario dell’attuale Svezia, non possedevano nulla se non ciò che si erano portati con loro dopo una lunghissima migrazione; i Gepidi erano un po’ i tiranni della situazione. Allora, i Longobardi provarono a combatterli(inizialmente con un minimo aiuto dei bizantini) ma tra i due popoli non ne uscirono vincitori.

La mossa disperata dei Winnili allora fu quella di chiedere l’aiuto degli Avari, al fine di sconfiggere per sempre gli acerrimi rivali; furono promesse le loro terre, in caso di vittoria.

Ebbene, le forze coadiuvate di Longobardi e Avari travolsero i Gepidi; alla fine di una rapida campagna militare, questo popolo fu spietatamente sconfitto, e tutti gli uomini capaci di combattere furono massacrati.

Fu una vittoria molto amara, per i Longobardi, poiché il nemico era sì stato sconfitto ed era sparito dalla faccia della Terra, ma c’era un prezzo alto da pagare. Tutte le terre dei Gepidi divennero degli Avari, e i Winnili si ritrovarono di nuovo senza niente ed obbligati a prestare servizio presso i veri vincitori. Questo portò presto all’ennesima e ultima migrazione, con l’elezione di Alboino e l’ennesimo spostamento di massa, proprio verso l’Italia.

Del popolo dei Gepidi, erano rimasti solo vecchi, donne e bambini piccoli; essi furono assorbiti dai Longobardi. In questo racconto, Romualda è una discendente di questi sopravvissuti, naturalmente ormai fortemente imparentata coi Winnili.

Lo stesso Alboino sposò la figlia del re dei Gepidi, Rosmunda. Dopo averla rapita, ed aver partecipato alla sconfitta del padre, decapitò l’uomo e ricavò una coppa dal suo cranio, per poi costringere la donna a berci pubblicamente, prima di sposarla. Rosmunda però si vendicò dell’umiliazione estrema a cui era stata sottoposta, giacché fu proprio lei ad organizzare l’assassinio del marito, evento che genererà la situazione di interregno che già conosciamo.

 

(3)per un guerriero, era grande vergogna morire nel proprio letto, magari malato e debole, il corpo privato delle forze necessarie per combattere o affrontare una campagna bellica. La scelta quindi di morire in questo modo rientra un po’ in un’ottica del tempo; in un caso del genere, essere avvelenati poteva rendere beati agli occhi del prossimo, una morte quasi sacrificale e avvolta da un mistero che avrebbe permesso l’accesso del defunto nel vasto(e ritenuto eterno) limbo delle leggende orali. Rothar ha preferito che il fratello minore lo avvelenasse, piuttosto che morire “con disonore”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ancora grazie, a tutti voi ^^

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


Capitolo otto

CAPITOLO OTTO

 

 

 

 

 

 

 

“Il problema essenziale, nelle questioni

storiche relative alla religiosità dell’alto Medioevo,

è senza dubbio costituito dal grande fenomeno della conversione

alla confessione cattolica romana dei nuovi popoli

venuti ad insediarsi sulle terre occidentali dell’Impero romano;(…)”.

Paolo Brezzi, Le conversioni dei barbari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In questi ricordi ripieni di violenza, di diavolerie e di sete di potere, c’erano state cose che l’acuto monaco non era mai riuscito a capire totalmente. Ma il nocciolo della questione era che l’essere umano era stato plasmato da Dio, ma poi tentato dal demonio, per questo era così imprevedibile e così difficile, a volte, da comprendere fino in fondo.

Eppure tutta questa faccenda perdeva importanza di fronte a quello che stava per accadere. D’altronde, ciò che apparteneva al passato era giusto che restasse nei ricordi, senza influenzare il presente.

Rufillo smise di rimembrare e tornò coi piedi ben saldi sulla terra muschiosa che calpestava a passo spedito, nonostante il peso degli anni si facesse sentire su di lui.

Era finito il tempo in cui i Winnili avevano dovuto affrontare un lungo periodo senza autorità; oramai aveva un sovrano e un’amata sovrana, la cristianissima e cattolica Teodolinda, per la quale pregava ogni notte Iddio affinché la salute la preservasse sempre dalle malattie della carne e degli umori.

Adalberto era diventato un uomo forte e abilissimo nel combattimento, molto stimato ed amato all’interno della sua fara, e tenuto in grandissima considerazione anche dalla regina in persona. Infatti, negli ultimi anni, il ragazzo era riuscito non solo a contenere ogni flebile attacco greco, ma era addirittura giunto a saccheggiare tutti i centri abitati Romani lungo la via Emilia. Si era spinto fin verso il limite ultimo, oltre al quale non sarebbe mai riuscito ad andare, con le sue relativamente esigue forze.

“Dormi in piedi, fratello?”. La voce del Vescovo riportò il monaco alla realtà.

Rufillo neanche lo guardò, attento com’era al paesaggio circostante. La Selva Litana ormai era diventata una foresta che si espandeva dalle coste del mare di Ravenna fin oltre Mutina, e la sua omogeneità primigenia non lasciava sfuggire alcun particolare rilevante all’orientamento. Bastava seguire i resti dell’antica strada consolare, e orientarsi grazie alla conta delle rovine che si ritrovavano lungo il cammino.

Ed ormai il monaco avvertiva gli odori di un grande centro abitato, che dopo diversi giorni di cammino altri non poteva essere se non un avamposto longobardo.

“Fiuto l’aria, fratello”, rispose infine in tono molto confidenziale, “sono divenuto come un cane. Un cane fedele solo a Dio, e al buon uomo che gli allunga un pasto al giorno”.

“Queste terre puzzano solo di barbari. Come fai a distinguere queste belve? Tanto, si sa, compiono riti nella foresta e imprimono marchi infuocati sulla pelle dei prigionieri”.

Il monaco sogghignò amaramente alle parole del Vescovo, e socchiuse gli occhi. Se solo Massimo avesse potuto ripercorrere i suoi ricordi, e scoprire qual era il vero aspetto dei Longobardi… ma lui era un uomo che aveva sempre vissuto tra i Romani, nonostante tutto, e certe cose non poteva saperle.

“Se è per questo, bevono anche nei teschi dei nemici uccisi in battaglia”, aggiunse.

Il vescovo si lasciò sfuggire un singhiozzo spaventato.

“Stavo scherzando!”, ridacchiò il vecchio amico appiedato(1).

“Sono molto più simili ai Romani di quanto tu possa immaginare”.

“Io continuo a pensare che tutto questo sia una follia”, sancì frettolosamente l’interlocutore.

Rufillo non volle correggerlo; non ci provò neppure. Era consapevole che a breve avrebbe incontrato gli uomini dei suoi incubi, i barbari giunti dalle terre ignote per porre fine alla romanità, e quindi anche le sue maggiori paure.

E sapeva che, in qualche modo, la sua opinione su di loro sarebbe radicalmente cambiata.

 

Per il Vescovo di Nursia(2), non esisteva timore più grande di quel che stava per accadere. Anche lui nell’aria percepiva l’odore di qualcosa di nuovo, di sconosciuto e ignoto.

Non era mai andato al di là del Limes Tiberiacus(3), che delimitava il mondo romano da quello barbaro, dove le foreste dominavano ogni paesaggio. Era una realtà da brividi per uno come lui, abituato agli agi della vita ecclesiastica.

Eppure, Rufillo era così tranquillo; forse avrebbe dovuto imparare qualcosa da lui.

L’ansia lo pervadeva, così come essa stessa aveva irrigidito in maniera innaturale i loro pochi accompagnatori armati, che dovevano vigilare sulla loro incolumità, anche se era stato garantito che non sarebbe accaduto nulla.

Non sapeva quanto realmente crederci.

Per questo, l’unica cosa che poteva aiutarlo era parlare, non lasciando spazio al nervosismo e alla tensione crescente che in cuor suo voleva spadroneggiare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

 

 

(1)pare proprio che i Longobardi, durante il lungo nomadismo, perseguissero la tradizione di utilizzare i teschi dei nemici come se fossero attuali stoviglie. Ci ricavavano addirittura coppe. Tale usanza è divenuta ben presto conosciutissima nei territori appena conquistati, diffondendosi rapidamente anche grazie alla vicenda riguardante Alboino(se non la ricordate, consultate le precedenti note).

Comunque, dopo lo stanziamento in Italia, non risulta che i Longobardi avessero continuato a portare avanti tale tradizione; anzi, essi si adattarono molto rapidamente agli usi e costumi della nostra penisola, per questo ancora oggi molti storici li reputano “barbari non troppo feroci”(C. Azzara, L’Italia dei barbari, Il Mulino, 2002).

(2)Norcia all’epoca era già molto conosciuta, per tutto ciò che riguardava San Benedetto(sicuramente il santo che influenzò di più la cristianità in questo periodo storico).

Tuttavia, il centro abitato era qualcosa di davvero esiguo. Dilaniato tra Greci e Longobardi, i secondi l’ebbero vinta. Comunque, il nostro Vescovo era abituato agli agi dell’alto clero, quindi non ha mai realmente conosciuto la vita in queste realtà.

Ho ritenuto importante inserire, di tanto in tanto, brevi frammenti in cui appare qualche suo sporadico pensiero; infatti, il protagonista assoluto e indiscusso della vicenda resta Rufillo, ma mi sono chiesto cosa potesse pensare l’importante compagno di viaggio. Non solo, era anche colui che portava con sé anche un significato simbolico non irrilevante. Ho ritenuto corretto inserire qualche scorcio riguardante il suo pensiero, quindi. Anche per comprendere meglio la differenza di pensiero, tipica dell’epoca che stiamo affrontando.

Il motivo della grande complicità tra i due lo conosceremo a breve.

 

(3)il Limes Tiberiacus era un sistema di fortificazioni che attraversava l’odierna Romagna, separandola dal resto del settentrione, ormai in mano longobarda. L’odierna Faenza era uno dei capisaldi più importanti. Tale Limes si spingeva fin nel cuore dell’odierno Appennino Tosco-Romagnolo.

Sappiamo con certezza che i Longobardi riuscirono a violare molte volte queste fortificazioni, distruggendo intere città e giungendo a devastare anche l’importante porto di Classe(alle porte di Ravenna), però non riuscirono mai a sconfiggere definitivamente i Greci, fintanto che essi riuscirono ad opporre una minima resistenza.

Se andate a consultare una qualsiasi cartina dell’epoca, proposta su un qualsiasi libro di Storia, potrete notare che anche i territori bolognesi sono evidenziati come possedimenti bizantini. È corretto, naturalmente, ma va tenuto presente che, al di là del Limes Tiberiacus, era solo la popolazione locale a combattere contro i Longobardi, non ricevendo all’epoca più alcun rinforzo dai Greci.

Anche Bologna cadrà, poi, più avanti. Ma solo quando non ci saranno più occasioni di riscatto.

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Grazie mille, non finirò mai di ringraziarvi, miei coraggiosissimi lettori ^^

 

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


Capitolo nove

CAPITOLO NOVE

 

 

 

 

 

 

 

 

“Voi tutti che vivete rinchiusi entro le mura del monastero osservate, pertanto,

sia le regole dei Padri sia gli ordini del vostro superiore e portate a compimento volentieri i comandi che vi vengono dati per la vostra salvezza(…).

Prima di tutto accogliete i pellegrini, fate l'elemosina, vestite gli ignudi, spezzate il pane agli affamati, poiché si può dire veramente consolato colui che consola i miseri”.

Cassiodoro, Institutiones.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rufillo non avvertiva altro che il semplice fruscio della natura. Ancora.

“Questi Longobardi”, tornò a dire l’amico a cavallo, “vivono in un regno di boschi e di rovine?”.

Il monaco sapeva che parlava per scacciare le paure, per quello lo avrebbe assecondato. Era poco avvezzo alle parole, bensì più portato per i fatti.

“Stanno ricostruendo le antiche città. Non vivono nei boschi, né nelle rovine, bensì in grandi curtis, una specie di fattorie”.

“Io posso solo chiedermi come abbia fatto un Cassiodoro(1) ad ambientarsi in terre così misere”, borbottò infine il Vescovo, con tono sconsolato.

Per Rufillo, quello risultò quasi un affronto, ed infatti quella pace interiore che lo dominava andò in mille e più frantumi, all’improvviso. Era da tantissimo tempo che qualcuno non gli ricordava il suo passato e la sua vera identità, e tutto ciò parve tornare a piovergli addosso come un macigno.

Il suo vero nome, Lucio, abbandonato per accogliere quello di Rufillo, come il santo ateniese che era giunto dalla Grecia per sconfiggere il drago che spadroneggiava tra Forum Livii e Forum Popili(2). Era un nome da devoto al sacrificio.

Suo padre, conosciuto da tutta Ravenna come Cassiodoro(3), in virtù della gens alla quale apparteneva, era stato un fedele servitore del re ostrogoto Teodorico, e in seguito dei primi Esarchi. Lui, suo ultimo figlio nato durante la sua senilità, era stato destinato a grandi studi, ma aveva scelto di ripudiarli per via della vocazione che avvertiva dentro di sé.

A suo modo, aveva lasciato alle spalle anche la prima parte della sua vita molto agiata, condotta presso la corte di Ravenna, dove anche il padre del Vescovo aveva prestato a lungo servizio. Erano stati molto amici fin da bambini, ma la vocazione aveva sbaragliato ogni altro sentimento terreno, alla fine.

Dio gli aveva dato il dono della vita, e lui l’avrebbe usato al meglio.

Da brivido quell’ennesimo ricordo di un’esistenza passata che aveva cercato di dimenticare in tutti i modi.

“Un tempo ero Lucio, un tempo ero un Cassiodoro. Ora sono solo Rufillo, umile servo del Bene e del Signore”, sancì, infine, a mezza voce.

“Eppure la tua famiglia aveva combattuto contro i barbari…”, tornò ardito il Vescovo.

“Diversi secoli fa, quando la barbarie dei Vandali(4) aveva messo a rischio ogni prospetto di civiltà; ma i Longobardi non sono come quei distruttori senza cuore”, spiegò.

“Sai una cosa, Rufillo? Un giorno gli stendardi della civiltà torneranno anche qui”.

“Nessuno può più difenderci”.

“I Greci…”.

“I Greci sono, per l’appunto, Greci. Le aquile dorate(5) non torneranno mai più, non saranno più innalzate contro il nemico da conquistare”, replicò con immensa freddezza il monaco. Ad averlo spinto a proseguire il dialogo era stato solo il fatto che l’amico era anche un suo superiore, e lui rispettava le cariche predisposte sulla Terra dal Signore, altrimenti non si sarebbe mai azzardato in terreni così scoscesi.

Quelli erano discorsi che lo facevano soffrire e gli davano tormenti troppo terreni, pensieri che andavano al di là delle lodi a Dio, alle quali aveva votato la sua vita.

Mentre si stava irritando più del dovuto, non riuscendo a controllare le proprie emozioni e temendo che il suo lato più barbaro stesse per emergere, quello stesso che era stato stimolato dalla lunga convivenza con i Longobardi, qualcosa interruppe quel concitato momento. Infatti, il rumore di zoccoli in avvicinamento gli fece aguzzare le orecchie, e si immobilizzò sul posto, guardingo.

Dietro di lui, il Vescovo faceva altrettanto, così come i dieci soldati dell’Esarca(6), che sguainarono le armi.

Rufillo si volse verso di loro e fece cenno di rinfoderarle; conosceva i modi di fare dei Winnili, e coloro che si stavano muovendo verso di loro avevano senz’altro intenzioni amichevoli, altrimenti sarebbero stati molto più silenziosi.

La ridottissima guardia armata eseguì con reticenza ciò che era stato ordinato.

Ben presto, un nutrito gruppo di cavalieri apparve in lontananza, e si avvicinò al galoppo.

Il monaco sorrise, quando riconobbe il nobile Duca, che cavalcava davanti a tutti; il suo Adalberto era uomo ormai, ed emanava autorità solo con la sua presenza.

Giunse di fronte al gruppo di stranieri e fermò il suo cavallo, salutando in latino.

“Siate i benvenuti nelle mie terre”, affermò, poi. Sia i Longobardi e sia coloro che provenivano dalle terre al di là del Limes si studiarono un po’, con un Vescovo rimasto impettito e le guardie altrettanto.

Rufillo invece sorrise con sincerità ed andò incontro al suo signore.

“Che Dio vi benedica”, affermò, felice.

Molti Longobardi sorrisero a loro volta; erano arimanni esperti e maturi, ed alzarono i loro scudi, sui quali era stata impressa una croce(7). A quella vista, gli stranieri parvero tranquillizzarsi.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

(1)antica famiglia romana(di probabile origine siriana), una delle più influenti in epoca tardo-imperiale e nei primi secoli dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. I Cassiodoro erano ricchissimi e godevano di grande fama. Ricoprirono numerosi incarichi di immenso prestigio, soprattutto tra il V e il VI secolo d.C.

 

(2)odierne Forlimpopoli e Forlì. Rufillo fu infatti un santo ateniese della chiesa delle origini, che giunse a Forlimpopoli probabilmente attorno al IV secolo d.C.

Si narra che Rufillo(spinto ed aiutato da Mercuriale da Forlì) uccise un drago che si era installato tra le due città, entrambe situate lungo l’importantissima via Emilia. Naturalmente, tutto ciò è una allegoria; il drago rappresenta il paganesimo e le prime eresie. Rufillo, poi reso santo, combatté arduamente contro i movimenti religiosi non accettati dai primi pontefici.

Attualmente, san Rufillo è il patrono di Forlimpopoli, presso cui riposano le sue spoglie.

 

(3)colui che è passato alla Storia come Cassiodoro Senatore. Fu consigliere di Teodorico, prestò a lungo servizio presso la corte di Ravenna con grande talento e carisma. Ebbene, il nostro Rufillo altri non è che il suo figlio più giovane.

Flavio Magno Aurelio Cassiodoro(485-580 d.C. circa) era molto credente, per questo fondò anche un monastero e la rispettiva biblioteca, essendo un grande amante dei libri e del sapere.

                                                                                       

(4)i Cassiodoro entrarono nella Storia grazie alla grandissima resistenza che opposero contro i Vandali durante il V secolo.

Quando questi barbari si stanziarono nel Nord Africa(zona dell’attuale Libia-Tunisia), iniziarono a minacciare seriamente la penisola italiana, unico possedimento rimasto in mano all’Imperatore di Ravenna. L’antenato del nostro Rufillo(conosciuto semplicemente come Cassiodoro) costruì una grande flotta e si mise a difesa dell’Italia, stanziandosi nei porti dell’attuale Calabria. Ottenne l’effetto desiderato; durante il periodo del suo servizio, i Vandali non giunsero mai a saccheggiare Roma o a mettere seriamente a repentaglio l’ultimo lembo di terra in mano romana.

 

(5)simbolo rappresentante le antiche legioni romane.

 

(6)delegato dell’Imperatore d’Oriente al governo dei possedimenti italiani.

 

(7)nonostante la religiosità resti un problema per i Longobardi, in numerose fare(come, ad esempio, questa che ormai ben conosciamo), la religione cristiano-cattolica radicò abbastanza in fretta. In altre fare, invece, l’arianesimo continuò a provocare dissidi per secoli, giacché era ritenuta eresia. Da qui la nascita delle prime spaccature tra pontefici e Longobardi; i primi, nel secolo successivo ai fatti narrati, si ritrovarono a richiedere l’aiuto dei Franchi(cattolicissimi) per riuscire a liberarsi dall’insidia longobarda.

Sono passati quasi vent’anni dai momenti ricordati dal nostro Rufillo nei capitoli scorsi; la mentalità longobarda si è evoluta, si costruiscono armi appariscenti e non solo da battaglia, e sì, si ornano i propri oggetti anche con simboli religiosi, come le croci che appaiono su questi scudi.   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Semplicemente, grazie a tutti ^^

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


Capitolo dieci

CAPITOLO DIECI

 

 

 

 

 

 

 

 

“Non è che la serie dei pontefici romani seguita a Gregorio Magno si distinguesse

per levatura particolare(…).

Ma proprio questa relativa mediocrità vale a confermare la forza e la qualità,

in sostanza il livello accreditato alla Chiesa dall’impulso gregoriano.

La Chiesa post-gregoriana continuava comunque

la via tracciata dal grande pontefice,(…)”.

Maurilio Adriani, L’opera di Gregorio Magno.

 

 

 

 

 

 

 

 

Adalberto accompagnò il ristretto gruppo di Romani fin alla sua stessa curtis, la medesima che era stata di suo padre. Non aveva mai accettato di trasferirsi a Mutina e dar sfoggio del suo potere.

I Winnili della sua fara si erano radunati tutti, donne comprese, e ciò era cosa rara.

L’atmosfera era di festa, molto accogliente. Tutti osservavano i soldati Greci, che ormai non badavano più alle armi ma studiavano le persone che li circondavano, così simili a loro non solo nell’atteggiarsi, bensì anche nel vestirsi. Molte donne indossavano gioielli raffinati(1) e portavano croci al collo, simbolo della loro cristianità, ed erano molto più pudiche degli uomini, sempre pronti a scherzare tra loro.

Con quell’atmosfera informale Adalberto aveva scelto di accogliere gli emissari di Roma e Ravenna, che erano giunti alla loro destinazione finale.

Il grande guerriero fece accomodare gli ospiti nella sala della sua curtis, e lasciò che attorno a lui restassero solo il gastaldo e due dei suoi più fidati arimanni, in abiti così belli e curati da far invidia a gran parte dei nobili Romani. Tutti portavano almeno il simbolo della croce sui loro vestiti.

Era giunto il momento tanto atteso da Rufillo, quello che l’aveva spinto a compiere un viaggio lunghissimo, quasi proibitivo per un uomo anziano e corroso dall’età come lui. Quando dopo alcuni gentili preamboli il Vescovo si fece avanti e finalmente si fece consegnare dai suoi uomini il ridotto forziere riccamente decorato che aveva portato con sé fin da Roma, si commosse e gli venne da piangere.

“Maestro, aprilo tu al posto mio”, disse Adalberto, con il suo portamento regale e placidamente seduto su un grande scranno intarsiato. A Rufillo brillarono gli occhi, non aspettandosi così tanta magnanimità dal suo signore.

Il monaco quindi si avvicinò al piccolo forziere, il cui contenuto gli era stato giustamente precluso per tutta la durata del viaggio, e l’aprì leggermente, con il cuore che gli batteva forte nel petto per l’emozione. Infine, poté mettere le mani sulla magnifica opera che conteneva.

Si trattava di una bibbia degnamente rilegata, la cui pergamena era stata scritta dal pontefice in persona. Un’opera curata dalle stesse mani di papa Gregorio, colui che era già in odore di santità e che veniva onorato dai fedeli con l’appellativo di Magno(2).

Se dapprima egli era stato cauto con i Longobardi, evitando anche la conquista e il sacco di Roma, ora li omaggiava con quel fastoso dono. La Chiesa era aperta a tutti, ormai, e abbattere ogni eresia era ciò che il pontefice voleva, cercando l’unità del Credo.

Rufillo quindi poté toccare con le proprie mani il corposo libro, quel volume che conteneva per filo e per segno ogni opera ritenuta sacra agli occhi della cristianità cattolica. Teodolinda avrebbe ricevuto tale fonte di sapere grazie alle mani del suo Duca più fidato, per il quale stravedeva; e non era l’unica ad apprezzarlo.

Adalberto ormai aveva ai suoi piedi gran parte delle sue suddite, per via del suo bell’aspetto, ed aveva generato con loro una moltitudine di figli. Non avrebbero mai potuto succedere al padre ed essere a tutti gli effetti degli uomini liberi, però avrebbero potuto vantare di avere sangue nobile nelle vene, seppur barbaro(3). Barbaro fin quanto, poi?

Il monaco si rendeva conto che, con quel volume che stava per consegnare a colui che anni prima era stato il suo protetto, lo stesso pontefice di Roma donava il sapere anche ai Longobardi e li equiparava a quel punto anche a tutto il resto della popolazione italica. Finalmente anche i Winnili stavano venendo abbracciati dalla Vera Fede, al di là del paganesimo e dell’arianesimo, e questo era da sempre stato il sogno del buon Rufillo, che dal principio aveva rivisto in quegli uomini lo stesso spirito di Mosè e del Popolo Eletto.

Quella che il pontefice aveva concesso era una sorta di battesimo, coronato con quel grosso volume contenente tutti i testi sacri. Flavio Massimo gliene aveva parlato, ma il monaco non aveva mai creduto che la mole complessiva dello scritto fosse tale. E non c’era altro regalo più prezioso di un libro sacro e scritto da mani così vicine a Dio.

“Grazie, Signore, per avermi concesso tale onore”, sussurrò l’emozionatissimo Rufillo, con le dita impegnate nello sfiorare la superficie irregolare dell’opera scritta.

Adalberto dovette fraintendere, poiché quelle parole erano rivolte a Dio, eppure si lasciò sfuggire un sorriso che passò totalmente inosservato all’emozionatissimo monaco, che riuscì solo a dedicare uno sguardo profondo all’amico Vescovo.

Flavio Massimo lo osservava con un po’ di stupore, ma gli era concesso, giacché per lui vedere un libro sacro e poterlo toccare era una cosa quotidiana; non capiva che l’amico di infanzia erano anni che non riusciva a scorgere parola che non fosse scritta da lui, al fine di aiutare il suo Duca a imparare a comunicare anche attraverso la scrittura. Ma il longobardo era un guerriero, certe cose sembrava che proprio non volesse apprenderle.

Infine, si rese conto con terrore che le sue lacrime piene di commozione avrebbero potuto insozzare o rovinare il grande tomo, quindi strofinò il suo viso sulla tela grezza che fungeva da veste per il suo misero corpo rattrappito, e stando attento a non lasciarsene sfuggire altre, provò a raccogliere il volume per porgerlo al Duca in persona.

Era così tanto scosso che non ci riuscì, e si ritrovò ad alzare il capo con un’espressione sconvolta che si faceva spazio sul suo volto provato dall’età.

“Duca, io non sono degno di riuscire a raccogliere il peso della Parola di Dio. Tu sei uno dei suoi prescelti, assieme alla Regina, che essa sia sempre santificata e che nelle chiese risuoni sempre il suo nome, durante ogni benedizione. Siano le tue mani ad accogliere tale importante raccolta di scritti”, affermò, discostandosi dal prezioso tomo e dal forziere, ancora adagiato a terra.

Allora il Duca in persona si alzò, imponente, e si recò egli stesso ad accogliere il libro tra le mani.

Si chinò e lo afferrò, alzandosi con un profondo sospiro.

“Questo libro è pieno di saggezza; sicuramente è per questo che è così pesante”, sancì a sua volta, con un tono di voce molto serio, “suggerirò alla Regina di custodirlo tra l’oro e le gemme, poiché esso è di valore inestimabile e va conservato a dovere(4)”.

Tornò a volgersi verso il silenziosissimo Vescovo, uomo timido che parlava davvero pochissimo di fronte a chi non conosceva bene, e che sembrava non riuscire a relazionarsi con coloro che aveva ritenuto barbari fino al giorno prima.

“Vi ringraziamo per ciò che ci avete consegnato. La mia Regina è fiera di essere una fedele sostenitrice dei cattolici, ed io lo sono assieme a lei”, ringraziò poi Flavio Massimo, che accolse il ringraziamento con una leggera flessione del capo.

Adalberto, dopo aver rinnovato l’invito a restare alla sua curtis almeno tutta quella notte, se ne andò baldanzoso con il libro tra le braccia, seguito dal gastaldo(5) e dalle sue guardie fidate. Rufillo sapeva che si comportava così da duro solo per far impressione al romano, tuttavia era stato comunque molto cordiale e il Vescovo non poteva aver molto da criticargli.

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

 

 

(1)l’abbigliamento dei Longobardi è tutt’oggi stato ricostruito grazie ai reperti ritrovati nelle tombe.

Al loro arrivo in Italia, entrambi i sessi vestivano in modo semplice e pratico; vesti adeguate alle lunghe migrazioni, al nomadismo e ai periodi di guerra. Ebbene, dopo mezzo secolo di permanenza nella penisola pare proprio che il modo di vestire avesse iniziato a cambiare radicalmente, influenzato dalla civiltà bizantina e romanica(io, nel testo, ho sempre utilizzato il termine Romani per identificare la popolazione preesistente. Al giorno d’oggi gli studiosi invece utilizzano il termine Romanici, poiché la popolazione della nostra penisola stava già mutando cultura, lingua, usanze… ecc. per via delle influenze barbariche. Al tempo i nostri antenati tra loro si identificavano ancora come Romani, quindi ho scelto di mantenere nel mio racconto un linguaggio fedele a quello dell’epoca dei fatti narrati).

I Longobardi inoltre erano espertissimi orafi, sapevano costruire gioielli magnifici e già in quest’epoca pare stesse diventando molto diffusa la produzione di croci(come molti corredi funerari dimostrano).

 

(2)stiamo parlando di papa Gregorio Magno, un pontefice che cambiò la Storia della cristianità. Dapprima si preoccupò molto di organizzare al meglio la Chiesa e i suoi possedimenti(gettò le basi per il potere temporale che andrà a formare lo Stato Pontificio, realtà che resisterà fino all’Unità d’Italia) e diede forte impulso al monachesimo.

Inizialmente, ebbe grosse difficoltà coi Longobardi e ne fu nemico; riuscì tuttavia a sventare ogni offensiva longobarda verso l’odierno Lazio organizzando difese presso Roma e proteggendone la popolazione. I bizantini infatti non avevano fondi né mezzi per poterlo fare, nonostante queste terre fossero formalmente loro.

Poi, in seguito, si avvicinò a loro; e proprio grazie alla cattolicissima Teodolinda, che aprì finalmente le proprie porte al pontefice e permise un’estesa permeazione del cattolicesimo tra i Winnili. Gradualmente infatti si formò anche un clero longobardo, anche se, alla fine del dominio di questo popolo, l’arianesimo e il paganesimo ancora presentavano numerose sacche di resistenza sparse a macchia di leopardo.

 

(3)i Longobardi ebbero tantissimi figli concepiti con la popolazione locale. I bambini nati da una unione tra un/a longobardo/a e un romano/a non avevano alcun diritto, ed erano trattati alla stregua dei sottomessi. Questo solo inizialmente; in seguito, il famosissimo Editto di Rotari sancì che i figli nati da unioni miste dovessero avere i medesimi diritti dei figli nati da coppie longobarde.

Questo però accadde solo quando il graduale impoverimento genetico mise a serio repentaglio l’esistenza dello stesso popolo longobardo; col passare del tempo, infatti, a seguito dello stanziamento in Italia e del miglioramento dello stile di vita, i Winnili iniziarono ad avere sempre meno figli, e lo stesso esercito infine si assottigliò così tanto che, per forza di cose, cominciarono ad essere sottoposti a leva anche tutti i Romani sottomessi.

 

(4)Ehm, qui forse ho voluto un po’ strafare. Chiunque, tra voi carissimi lettori, abbia a cuore la Storia longobarda, ben ricorderà la vicenda riguardante la magnifica coperta dell’Evangelario di Teodolinda; si tratta di una delle opere longobarde più importanti giunte fino a noi, oggi conservata a Monza, nel Tesoro della basilica di San Giovanni Battista. Esso fu infatti assemblato e preparato appositamente(in questo stesso anno) dai migliori orafi Longobardi al fine di contenere e custodire i testi sacri della Regina. Testi sacri che io ho fatto giungere grazie ai nostri personaggi.

Teodolinda in questo stesso anno farà anche battezzare suo figlio, Adaloaldo(passato alla Storia come il Re Pazzo), con rito cattolico. Purtroppo, come potrete intendere dal soprannome che gli fu attribuito, non fu un sovrano fortunato.

 

(5)il gastaldo era l’amministratore del Re. In questo caso, la sua presenza rappresenta simbolicamente la coppia reale longobarda(da ricordare che in questi anni Teodolinda era sposata con Agilulfo, suo secondo marito, dopo l’avvelenamento del primo. Eppure, la Regina aveva così tanto conquistato i Duchi che non compiansero il defunto sovrano e le permisero di scegliere ella stessa il suo nuovo sposo, e la sua scelta ricadde proprio sul Duca di Torino. E’ una vicenda molto interessante perché conosciamo bene la mentalità longobarda a riguardo delle donne; ma Teodolinda sapeva farsi amare da tutti, e soprattutto apparteneva ad una delle famiglie ritenute più nobili dell’intero popolo longobardo), giacché un viaggio verso Pavia(capitale dei Longobardi) sarebbe stato pericolosissimo(se non impossibile) per i nostri. Per cui, il fidatissimo Duca Adalberto(che essendo a capo di un Ducato di frontiera ricopriva un ruolo importante), assieme al gastaldo, hanno preso sotto la loro custodia l’opera e la faranno giungere in tutta sicurezza tra le mani della sovrana.

Teodolinda ricevette molti doni dal pontefice, tra cui anche una croce per suo figlio, a seguito del battesimo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ci stiamo avvicinando al finale. Spero che finora la vicenda sia stata di vostro gradimento.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


Capitolo undici

CAPITOLO UNDICI

 

 

 

 

 

 

 

 

“Noi conosciamo le basi antiche, cristiane e germaniche della cultura occidentale.

Ma nella misura in cui gli elementi di queste derivazioni compaiono

in forma particolarmente intricata influenzandosi reciprocamente,

esse si modificano dando vita ad un qualcosa di nuovo,

che non si può suddividere in quei singoli elementi,

allo stesso modo di un tessuto intrecciato con fili multicolori”.

Otto Brunner, Il medioevo delle libertà germaniche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dormirono entrambi in soffici giacigli, appositamente preparati dalle serve del Duca.

Per una notte, il monaco e il Vescovo condivisero la stanza, com’era usanza presso i Longobardi.

Le guardie greche e romane restarono a vigilare a turno sul loro sonno, poco distanti. Eppure, prima di addormentarsi, Flavio Massimo scelse di abbandonare lo stoico silenzio in cui era scivolato dopo l’incontro con Adalberto.

“Amico mio”, disse, infatti, “in nome del legame che ci unisce, torna con me presso Ravenna, dove ancora soggiornano i tuoi fratelli; a loro farebbe piacere rivederti. Poi, potrai accompagnarmi anche a Roma, se lo vorrai”.

Rufillo sorrise, avvolto dal buio. Sapeva che quella era un’avventura che stava per finire; all’alba del mattino successivo, il Vescovo se ne sarebbe andato, per tornare a rendere conto della sua missione diplomatica e della rispettiva buona riuscita. E sapeva anche che non l’avrebbe rivisto mai più.

Il libro sacro della Bibbia aveva fatto sì che si rincontrassero, e che le loro vite tornassero a camminare, seppur per un breve periodo, l’una a fianco dell’altra. Ma nell’esistenza del Vescovo ben sapeva che non ci sarebbe più stato spazio per lui.

Flavio Massimo si era soltanto lasciato suggestionare da quell’avventura, che forse l’aveva anche cambiato un po’, eppure non appena fosse tornato tra i Romani e gli ecclesiastici avrebbe perso in fretta l’interesse riposto in quell’amicizia lunghissima.

Il semplice monaco non voleva farlo vergognare di fronte ai ricchi prelati, che l’avrebbero visto solo come un reietto appena tornato dalle terre dei barbari, e non come un semplice evangelizzatore.

Il suo posto era quindi con i Winnili, a fianco del suo Adalberto, con il quale ricambiava stima e profonda fiducia. Lì, a Mutina, avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua vita, dimenticato dal mondo civilizzato, ma in pace con sé stesso e con Dio.

Poi, ora che un tomo sacro e benedetto, reso luminoso dalle parole di Dio, era giunto fin in quelle regioni relativamente remote, si sentiva molto meno solo. I Longobardi erano illuminati ormai dalla vera fede, vestivano copiando i Romani e parlavano la lingua bastarda del volgo autoctono; ben presto, sarebbero stati loro i successori dei latini. Era in quelle terre che si stava creando il futuro dell’Italia intera.

Non avrebbe mai abbandonato l’ultima parte della sua missione.

Strinse quindi forte il suo crocefisso tra le mani, prima di rispondere.

“Il mio posto è qui, non tornerò indietro”.

Massimo sbuffò, ma parve accettare la risposta.

“Sono insoddisfatto di tutto questo. Mi aspettavo di vedere la Regina…”, aggiunse poco dopo.

Rufillo tornò a sorridere.

“Mio caro amico, colei che chiamano Teodolinda non l’ha mai vista nessuno, qui, e il viaggio fino a Pavia ci è precluso, per forza di cose(1). Lascia che il tuo animo ceda alla pace del Signore e si lasci andare ad un sonno ristoratore, poiché sono sicuro che il dono di Roma e Ravenna farà felice la Regina… così come la presenza dell’uomo che le consegnerà il regalo”.

Lasciò che le sue parole cadessero in un paradossale silenzio divertito, che il Vescovo non interruppe. D’altronde, pareva che il suo Duca ormai non fosse più il suo protetto, bensì quello della Regina stessa.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

 

 

(1)il viaggio fino a Pavia sarebbe risultato di certo rischiosissimo per i nostri personaggi, e non solo per via della loro età. L’Italia settentrionale era ormai ricoperta di boschi e foreste, le strade erano ormai state spazzate via dalla vegetazione, tranne alcune principali e meglio costruite. Inoltre, non tutte le fare erano amichevoli ed affidabili; quindi si sarebbe corso il serio rischio di dover affrontare gruppi armati ostili. Meglio quindi che ci pensi il nostro amato Adalberto, assieme al gastaldo.

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Amici, amiche, manca solo l’epilogo.

Grazie per essere giunti fin qui. La mia gratitudine nei vostri confronti è pressoché infinita.

 

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


Epilogo

EPILOGO

 

 

 

 

 

 

 

“L’umanità si esprime nella comunicazione, nei rapporti, negli scambi.

Servono ponti (non muri), dialogo (non violenza),

attenzione al punto di vista dell’altro (non prepotenza o fanatismo)”.

Anonimo.

 

 

 

 

“Al tempo di Narsete infuriò una gravissima pestilenza. (…).

Poiché era convinzione diffusa che con la fuga si evitasse l’epidemia,

le case venivano abbandonate dagli abitanti. (…).

Fuggivano i figli lasciando insepolti i cadaveri dei genitori;

 i genitori, dimenticando ogni pietà, abbandonavano i figli in preda alla febbre. (…).

Si sarebbe potuto vedere il mondo riportato al primitivo silenzio;(…).

Le semine, passato il tempo della mietitura, aspettavano intatte il mietitore. (…).

Non c’erano tracce di viandanti, non assassini,

e tuttavia i cadaveri si estendevano a perdita d’occhio;

i pascoli si erano mutati in cimiteri di uomini, e le case degli uomini in covi di fiere”.

Paolo Diacono, Storia dei Longobardi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era solo un bambino quando l’Italia intera era stata percossa dalla pestilenza.

Aveva udito, a Ravenna, le parole dei padri che gemevano alla sciagura. Essi maledicevano i loro figli, poiché si erano piegati alle eresie che i Greci, grazie alla recente riconquista, erano tornati ad introdurre dove il Verbo di Cristo non era mai stato tradito o commentato in modo miserevole e blasfemo.

Aveva visto i figli che abbandonavano i genitori, e viceversa, e il subbuglio che era scaturito da quella sorta di caos primigenio era stata la maledizione di un Dio che si era sentito tradito dalle sue genti(1).

Poi, quando circolava la voce che le città ormai fossero spopolate, e che solo fantasmi battessero le strade che portavano a Ravenna, erano giunti loro, i Longobardi(2), coloro che nel suo immaginario si prospettavano come la salvezza di una realtà in rovina.

Era notte fonda e il Vescovo dormiva, placidamente, ma Rufillo ripensava così ai suoi primi anni. Ai loro primi anni, si corresse, poiché li avevano vissuti entrambi.

Ormai però erano troppo lontani.

L’uomo percepiva le sue ossa stanche… e poi avvertì di nuovo quel dolore che gli trafiggeva il petto da tempo. Sembrava fosse sparito, da quando si era lasciato coinvolgere in quel ruolo di guida, come se Dio stesso gli avesse offerto un lieve sollievo, affinché si riponesse in fretta il libro sacro in mani sicure e battezzate.

E mentre la parola di San Benedetto entrava nella sua mente, prepotente come una nenia, lasciò che entrambe le sue mani scivolassero sul petto, per fare pressione.

Questo l’aveva aiutato in passato a provare sollievo, per qualche attimo. Tuttavia, quella volta non bastò.

Si ritrovò a sussurrare una preghiera di lode a Dio e a tutti i Beati discesi sulla Terra per suo volere, e si mise supino sul suo giaciglio.

Il dolore al petto divenne crampo, s’irrorò tra le sue scarne costole e il poveretto s’inarcò, senza neppure accorgersene. E senza accorgersene spirò, quando il suo cuore smise all’improvviso di battere.

Il buio dell’eternità inghiottì così l’essenza di colui che ormai si chiamava solo Rufillo, un uomo che aveva compiuto il fine ultimo della sua vita stessa, e come quel dono era stato impartito ben oltre mezzo secolo prima, esso era infine tornato tra le sagge mani del Creatore.

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

 

(1)peste di Giustiniano. Dopo i lunghissimi anni durante i quali si era combattuta la guerra greco-gotica(535-553 d.C.), l’Italia intera, appena riconquistata e tornata in mani romane(nell’apice dello svolgersi del progetto di ricostituzione dell’unità imperiale tanto desiderato dall’Imperatore d’Oriente Giustiniano), fu percossa da una durissima pestilenza, che sterminò la popolazione.

Pare proprio, secondo fonti importanti come quelle che vi ho riproposto a inizio capitolo, che questa epidemia mortale generò il caos ovunque nella penisola; si diceva allora che bisognasse fuggire dagli infetti e dalle zone dove la malattia si stava propagando, così le persone abbandonavano le loro case, i loro parenti ammalati e tutto quanto, scappando. Questo generò non solo la rapidissima diffusione del morbo, trasportato ovunque dai fuggitivi, ma anche una situazione caotica e ingovernabile. Quando i Longobardi giunsero in Italia, ancora i segni di questa epidemia influenzavano la vita della popolazione locale; città abbandonate, campagne spopolate e ormai totalmente ricoperte da foreste e boschi, e un’economia praticamente nulla. Il Nord e il Centro Italia furono tra le zone maggiormente colpite, come parte dell’Anatolia e del Medio Oriente, luoghi da cui si era propagata la peste.

 

(2)l’arrivo dei Longobardi in Italia fu qualcosa di davvero incredibile, e di sicuro emotivamente forte anche all’epoca. Immaginate queste carovane; lunghissime file di carri, bambini e vecchi al seguito, animali di ogni sorta.

La migrazione dei Longobardi fu davvero spettacolare soprattutto per il fatto che fu totale, giacché questo popolo varcò le Alpi dopo un durissimo viaggio(iniziato il giorno di Pasqua del 568 d.C.), affrontato proprio assieme alla totalità dei beni posseduti. Ancora oggi possiamo osservare opere dell’epoca raffiguranti le marce dei nuovi invasori, con l’arrivo di uomini armati sconosciuti seguiti da famiglie, carri e bestiame.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Ringrazio chiunque sia giunto fin qui.

Sapete, questo racconto è stato un vero e proprio parto. Non ci crederete, ma è dal 2014 (!) che io volevo scrivere un racconto sui Longobardi. Ci ho provato a più riprese ma nulla mi ha mai ispirato più di tanto. Poi, ecco questo Contest; di certo mi ha offerto un modo per esternare idee e conoscenze che da anni vivono nella mia mente, e che non ero mai riuscito a mettere seriamente su carta. Ringrazio quindi il giudice, perché senza il suo Contest probabilmente non sarei mai riuscito a scrivere questo testo.

Perché proprio i Longobardi? Beh, sono indubbiamente il mio popolo barbarico preferito da sempre. Poi, li considero un po’ come coloro che hanno dato inizio al Medioevo in Italia, e una delle basi della nostra Storia, siccome il loro arrivo crea quella frammentazione che poi continueremo a notare fino all’Unità.

Non solo; ci hanno lasciato tanto a livello culturale (anche parole che utilizziamo ancora tutti i giorni).

Secondo recenti studi parrebbe proprio che una buona parte della popolazione italiana odierna discenda dai Winnili. I Longobardi giunsero in Italia dopo secoli di lunghe e rigide migrazioni, di sofferenze e di privazioni, e vennero nella nostra Penisola per renderla la loro dimora. Ebbene, essi poi furono sconfitti e i loro nomi ad un certo punto sparirono dalla Storia. Ma non dal nostro patrimonio genetico e culturale.

Abbiamo ancora nomi di regioni che discendono da questo periodo tormentoso per l’Italia; la Lombardia, terra dei Longobardi, e la Romagna, terra dei Romani.

Insomma, i Longobardi sono vivi ancora oggi, e sono dentro di noi, in quello che vediamo e in come ci esprimiamo.

Grazie miei fedeli lettori per tutto quanto, non ho più parole per ringraziarvi per la vostra vicinanza e il supporto infinito che mi avete offerto. Spero che questo racconto insolito sia stato di vostro gradimento (non so se avete notato una particolarità che ho voluto provare ad attuare in questo testo, e cioè creare una storia dentro ad un’altra storia; infatti, noi abbiamo seguito la vicenda di Rufillo e dell’amico Vescovo, ma nel frattempo abbiamo anche vissuto, nei ricordi del nostro protagonista, una serie di vicende appartenenti al passato senza l’influenza del presente narrativo).

Grazie, e un grande grazie a Kim, che mi ha sempre detto che avrei potuto farcela e mi supporta in ogni mio momento di profonda crisi con la scrittura.

Ci vediamo presto; spero già questa settimana di riuscire a pubblicare un’altra storia per un Contest, poi torniamo dal nostro principe, spero. Comunque, conto di tornarci sopra entro metà mese.

 

 

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