Nestaliena, la sposa sirena

di rekichan
(/viewuser.php?uid=7144)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Come gli anemoni ***



Capitolo 1
*** Intro ***


Nestalienia

La sposa sirena

 

 

Molti secoli fa, Marina era un mondo come un altro; la gente viveva pacifica sulle isole, c’erano scuole, edifici e, soprattutto, c’erano le donne e gli uomini.

Tuttavia, l’intensa attività industriale legata all’energia nucleare portò la popolazione a mutare. Dapprima si trattava solo di mutazioni secondarie: i neonati nascevano con colori di occhi, capelli e pelle insoliti – per esempio azzurri, rosa e viola – ma mantenevano immutate le loro caratteristiche fisiche; col tempo, soprattutto nella popolazione che abitava più vicino all’isola centrale, Chrisma, le mutazioni si fecero più marcate: i bambini cominciarono a nascere con organi genitali ambigui, o con malformazioni embrionali. Alcuni stadi dello sviluppo prenatale sembravano bloccarsi alle prime fasi, rendendo i feti più simili agli anfibi che agli esseri umani; alcuni bambini nacquero con branchie sviluppate, altri con mani e piedi palmati; altri ancora presentarono malformazioni ancora più marcate, come lo sviluppo degli arti inferiori uniti da una sottile membrana cutanea coperta di scaglie, simile a una coda di pesce.

Nel corso dei secoli, l’aumento della radioattività influì sullo sviluppo della civiltà. Dopo l’esplosione della grande centrale di Chrisma, gli elementi mutogeni si divisero in due grandi razze e civiltà: gli esseri umani e le sirene, che tutt’oggi abitano Marina.

Gli umani, discendenti della razza primordiale del pianeta, sono considerati universalmente come “maschi”, sebbene il loro apparato riproduttivo si avvicini a forme di ermafroditismo più o meno marcate a seconda dell’isola abitata e della sua vicinanza a Chrisma. Ciò nonostante, la loro società non differisce molto da quella dei progenitori: l’istruzione viene trasmessa in seno alla famiglia, visto che le scuole rimaste risiedono solo a Chrisma e muoversi per mare per lunghi periodi è sconsigliato anche ai marinai più intrepidi. La principale fonte di reddito e d’alimentazione viene dalla pesca e dalla coltura delle differenti specie di palme presenti sulle isole.

Le sirene, specie esclusivamente femminile, si è evoluta dalle discendenti delle donne mutate in forme anfibie; vivono nei mari attorno alle isole, in città sottomarine governate da piccole monarchie che fanno capi alla Regina, residente nella capitale marina vicino Chrisma.

Come i pesci, depongono le uova, ma come le tartarughe la deposizione avviene sulla spiaggia, in quanto la sabbia fornisce il calore necessario alla schiusa e i cuccioli nascono privi di branchie. Dalle uova possono nascere sia individui maschili, che femminili, ma solo quest’ultime sviluppano la coda e raggiungono la madre nel mare. I bambini maschi, se non cambiano sesso entro due giorni dalla schiusa, restano sulla spiaggia e vengono accolti dalla comunità umana come semi divinità, in quanto non presentano caratteristiche ermafrodite e possiedono colorazioni atipiche, più simili a quelle ereditate dalla madre che dal genitore paterno.

La comunità delle sirene è soggetta a svariate leggi che limitano la loro libertà personale, come il non poter restare con un umano per più di tre mesi, o il divieto di innamorarsi di essi. Questo causa molti problemi alle sirene che subiscono il mal d’amore; difatti, se esse scelgono di restare con l’umano, verranno bandite dalla comunità e non potranno più avvicinarsi all’acqua. In caso contrario, moriranno di solitudine. A prescindere dal caso, qualsiasi sirena si accorga di provare sentimenti forti per un umano, finirà col prediligere il suicidio alla sofferenza.

Sono per lo più creature anfibie; prediligono la vita sottomarina, ma possono uscire in superficie e rimuovere la propria coda per camminare sulla terra. Entro i suoi primi dieci anni di vita, la sirena sceglie l’umano con cui accoppiarsi – a differenza di questi, infatti, non sono fertili tra membri della stessa specie – e lascia trovare la sua coda in un posto a lui visibile. L’umano che la raccoglie, riceve entro due giorni la visita della sirena che giungerà a rivendicare la propria coda.

Terminata questa cerimonia, la sirena tornerà nel mare e si ripresenterà all’umano nel momento in cui questo raggiungerà la maturità sessuale per accoppiarsi e mettere al mondo le proprie uova. Non è raro che l’umano venga scelto, infatti, quando è ancora bambino.

Nella comunità umana, ha preso piede una teocrazia, con al centro del culto il popolo delle sirene, viste dalla maggior parte della popolazione come vere e proprie divinità. Tale culto nega totalmente gli effetti della radioattività e la parte che essa ha giocato nello sviluppo delle due società presenti a Marina. Alle Sirene vengono annualmente lasciate offerte per assicurarsi una tranquilla navigazione e una pesca prospera, mentre ogni quarant’anni, alcuni gruppi di Sirene salgono in superficie lasciando le loro code appese su appositi tralicci, per partecipare alla Cerimonia dello sposalizio col mare (o Nestaliena, la sposa sirena, nella popolazione marittima, dal nome della prima sirena che praticò con nove sorelle questa pratica per la prima volta). Durante la cerimonia, le sirene e gli umani si accoppiano per generare nuove figlie e figli del mare.

La storia che vi voglio raccontare, però, non è quella del nostro mondo, ma quella che mi è stata tramandata da mio padre; una storia che ha il sapore di leggenda, acre come la salsedine, dolce come il riverbero delle onde sulla battigia.

Questa è la storia dell’unico figlio delle sirene nato con la coda e dell’uomo che la raccolse per errore.

È la storia di mio zio tritone Itachi e del suo mal d’amore per l’umano Shisui.

 

 

 

 

 

N/A: a me piacerebbe scrivere one shot, ma a quanto pare la mia testa si ribella. Quindi eccomi qui con una mini-long di non so quanti capitoli (spero di rimanere su un massimo di 5) su ciò che detesto di più: le sirene e il mare.

Però è per una persona che, anche se non conosco di persona, ha contribuito a portare un po’ di gioia in una giornata speciale, oltre che rendere felice giorno per giorno un’altra brutta personcina a cui temo di essermi affezionato, quindi si merita tanto ShiIta e tante storie per il suo compleanno.

Quindi, Kyuukai, accetta questo piccolo regalo da parte mia. Non sarà il massimo, ma spero che possa ricambiare anche solo in piccola parte la felicità che tu hai dato a noi.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Come gli anemoni ***


Nestalienia

La sposa sirena

 

 

«L’amore è una cosa strana. Ti prende e paralizza come i tentacoli delle attinie e ti inghiotte. Ci sono sirene immuni al veleno e altre che finiscono mangiate. Altre riescono a fuggire, ma portano le cicatrici delle ustioni per sempre»

 

 

«Raccontamela di nuovo!»

L’uomo tira la rete sulla barca, con un sospiro leggero. Allunga il collo per osservare le dita grandi e ruvide liberare i pesci dalle maglie e gettarli nella cesta di vimini. Ha visto spesso il padre stendere le reti sulla spiaggia, sedersi lì a riparare filo per filo e gli occhi erano sempre andati alle sue mani, ai movimenti agili, ai piccoli tagli sui polpastrelli. Bruciature, schegge… la pelle arrossata per la vita in mare e corrosa dal sale.

Guarda la propria epidermide iridescente. Il riverbero del sole si riflette sulle piccole squame perlacee, appena disseccandone la superficie. È così diversa dalla pelle del genitore, secca, ruvida, inspessita da anni di lavoro, dal sole e dalla salsedine che non perdona e corrode uomini e scafi.

«Ancora?» domanda l’uomo. Lei annuisce. Vuole sentirla di nuovo, la sua fiaba preferita. Vuole che il padre gliela narri ancora, e ancora, fino alla fine dei tempi. Lo vede tentennare. Temporeggia con la rete, un altro poco, quasi speranzoso che la figlia si dimentichi della richiesta. Finalmente, quando ha sciolto l’ultima maglia, si siede sul pagliolo. Le lancia un cavo da arrotolare e sposta una coda di pesce dalle scaglie rossicce.

«Non lasciare la tua coda in giro» la rimprovera «Rischi che finisca in mezzo al pescato».

«La storia, papà» gli rammenta. Il padre sospira e stende un poco le gambe. Gli occhi brillano di una luce rossastra, mentre guarda le onde schiaffeggiare dolcemente l’orizzonte.

«Sai già come funziona, no? Ogni quarant’anni, si celebra lo sposalizio col mare, la cerimonia che voi chiamate… Nestalana, mi pare…».

«Nestalienia, papà» ride. L’uomo scuote il capo e lo sguardo torna al mare che si stende attorno a loro, l’isola di Chrisma un puntino lontano.

«Sì, Nestalienia. Be’… la storia comincia con uno sposalizio. Non quello in cui sei stata concepita tu, bensì quello prima ancora, circa una sessantina di anni fa…»

 

 

***

 

Quando l’allora principessa delle sirene scelse l’uomo con cui si sarebbe accoppiata durante la cerimonia, lui era giovane, molto, lei già con tanti anni quanti possono coprire due vite umane. Tuttavia, era in quell’età in cui le sirene subiscono il fascino della terra ferma e dell’avventura, così si era sfilata la coda ed era giunta sulla spiaggia di una piccola isola, distante da Chrisma almeno trenta leghe. I granelli di sabbia le accarezzavano le dita dei piedi, insinuandosi tra gli interstizi con un piacevole solletico sconosciuto. Il vento di scirocco soffiava caldo e asciugava dalla sua pelle le gocce del mare. Solo il segno bianco della salsedine e le alghe vermiglie intrecciate ai capelli segnalavano la sua appartenenza al mare. E il corpo, un corpo di donna, dal pube bruno e dalle forme che a pochi uomini è dato vedere nella vita e quei pochi sono benedetti dal mare stesso.

Quel giorno, su una spiaggia deserta, la futura regina intravide un ragazzo, non ancora uomo, ma non più fanciullo. Con solo dei pantaloni stracciati a coprirlo, passava con un pennello di crine la densa pece sullo scafo della sua barca, per impedire al mare di impadronirsene.

Agli spiriti del mare la pece non piace, non apprezzano che gli uomini si addentrino alla scoperta delle onde. Alle barche solide, pescherecci, traghetti… a scafi ben costruiti e al costante lavoro degli uomini per tenere il mare, prediligono le fragili zattere, che consentono appena l’allontanarsi dalla riva quel tanto che basta per la pesca giornaliera. Per questo, il mare è spesso agitato quando gli uomini decidono di affrontare la battaglia con le correnti: sono gli spiriti delle onde e dei venti che, infuriati per essere stati sfidati, sospingono le navi contro gli scogli o nel mare aperto.

Quando un uomo costruisce la sua prima barca, sa che si sta preparando a una battaglia con l’oceano e che deve ingraziarsi gli spiriti. Così ricopre lo scafo, strato dopo strato, di pece con gesto timoroso, umile, per scusarsi della propria impertinenza. Allo stesso modo, dopo ogni pesca si restituisce parte del pescato al mare, così da propiziare la sua benevolenza. Sono rapporti delicati, scanditi dall’umore dei mulinelli e della spuma increspata.

Tuttavia, nei gesti del giovane non c’era tracotanza, né umiltà. Rendeva la barca sana, forte e pronta ad affrontare il mare con un cipiglio severo e orgoglioso.

Guardatemi, spiriti, dicevano i suoi occhi neri come la pece che maneggiava, io non ho paura di voi. Io cavalcherò le onde e i venti.

Ma non fu per la fierezza che la regina lo scelse. Non fu per lo sguardo deciso o per il cipiglio superbo, bensì per il rossore che imporporò le sue gote spellate quando la vide, per il tremolio e il cader del pennello, per la pegola rovesciata sulla sabbia al suo incespicare.

La vulnerabilità di un uomo pronto a sfidare il mare davanti a una donna: fu questo che l’attrasse. Si studiarono a lungo, immersi nell’incanto reciproco di studiare due forme aliene. I corpi dissimili si avvicinarono, si sfiorarono appena. Lui incerto, davanti al concretizzarsi di quella che poteva esser leggenda, lei più curiosa e decisa.

Si dice che le sirene incantino i marinai con le loro voci, che il canto sia così irresistibile da portare gli uomini alla follia.

Che ogni nota sia come il frinire delle onde notturne, pronto a infrangere il silenzio carico e pesante che accompagna l’attesa dell’alba.

 

***

 

«Ma sono voci normali» lo blocca, incerta. Sbatte i piedi a cui non è abituata contro il ponte della barca. Le piace sentire la consistenza levigata sotto questi, un po’ meno le schegge che s’insinuano nella carne. È scomodo camminare, ma osserva suo padre farlo con la stessa scioltezza con cui lei nuota e vuole farlo a sua volta. Vuole sentire come gli esseri umani, percepire il mondo come loro, privo della bambagia dell’acqua marina.

«Sì, sono voci normali» afferma l’uomo. Sorride davanti al tentativo della ragazza di sollevare una gamba e controllarsi la pianta del piede, i lineamenti delicati contratti in una smorfia infastidita. Le afferra la caviglia e controlla la pianta delicata dell’arto. Pelle traslucida, su cui si intravedono piccole scaglie, morbida e candida… si vede che non è abituata a camminare. I riflessi perlacei sono interrotti da un punto rosso e infiammato. «Stringi» le dice, porgendole uno straccio da mordere. La sirena non fa in tempo a metterlo in bocca che il padre sta già premendo. Un piccolo urlo di sorpresa, più che di dolore, e la scheggia è fuori. «Non sono le voci ad attrarci, né le vostre code, né la bellezza incomparabile della vostra specie» continua «Sono i vostri occhi. I nostri sono pieni di terra, solidi, stabili, ma i vostri…» sospira, lo sguardo scuro vaga sulla superficie del mare «Nei vostri si precipita. Come nell’oceano».

 

***

 

Il giovane tritone lasciò cadere i piccoli crostacei tra i tentacoli ondeggianti. I filamenti rossastri del più maestoso tra gli anemoni ghermirono il cibo con voracità predatoria.

Itachi restò a osservare le creature dibattersi. Un paio di fremiti, poi il veleno fece effetto e i crostacei paralizzati vennero fagocitati nelle bocche spalancate delle attinie. Allungò una mano per accarezzare i tentacoli carminio e la ritrasse quando il guizzo del pesce pagliaccio gli rammentò le sostanze urticanti dei propri animali-giardino.

«­Itachi, non hai ancora finito di nutrire gli anemoni?»

Il colpo di coda permise al tritone di voltarsi verso la madre, sua maestà la Regina, Mikoto. I lunghi capelli neri ondeggiavano attorno al volto pallido, simili ai tentacoli urticanti delle attinie, ma più cupi e spaventosi. Nel guardare la madre, a Itachi tornavano in mente i pesci abissali, mostruosi e terribili. Le zanne e la fosforescenza innaturale erano rimaste impresse nella mente del tritone da quando, spinto dalla curiosità infantile, aveva superato la soglia del fondale che segnava la fine del dominio delle sirene e l’inizio di un regno più angosciante e sconosciuto.

La luce della superficie non arrivava a quelle profondità e Itachi si era smarrito nel buio, né aveva colto maggior sicurezza nelle luci spettrali della fauna locale. Zanne e ciechi occhi luminescenti, corpi scheletrici e forme grottesche che odoravano di pericolo e morte. Era stata Mikoto a recuperarlo, raggomitolato e tremante sotto la vacua protezione di uno scoglio. In quell’occasione, Itachi aveva visto la madre brillare della stessa fluorescenza sovrannaturale e la bocca dalle labbra piene che lo baciava prima di dormire deformarsi per opera di file contigue di zanne puntute, nel fronteggiare i predatori abissali. Da allora, non era più riuscito a gestire la sensazione d’irrequietezza che lo coglieva nel trovarsi di fronte Mikoto. Le due immagini, quella della madre amorevole e della sirena abissale, si sovrapponevano e lo spingevano a tenersi a debita distanza.

«Ho terminato ora, madre» replicò, con tono piatto. Anche i suoi capelli fluttuavano come quelli della sirena? Anche lui era in grado di trasmutarsi in qualcosa di terribile? Lanciò un’occhiata alle proprie mani e alla sottile e trasparente membrana che si tendeva tra le dita, quasi aspettandosi di vedere le unghie allungarsi in tentacoli fluorescenti per attirare le prede ignare. «Voleva chiedermi qualcosa?»

La sirena scosse il capo e allungò una mano per carezzare la guancia del figlio. Era un gesto che faceva spesso e, nel mentre, gli scrutava il viso alla ricerca di tratti meno propri e più estranei. Quando si rendeva conto che in lui c’era poco dell’uomo che l’aveva fecondata, si scostava e sorrideva incerta.

«Non lo capisco, Kushina» l’aveva sentita dire una volta alla rossa sirena, guardiana e amica «Non ci sono mai state sirene maschio. Itachi è come il padre, ma non c’è nulla di Fugaku in lui. Nulla, se non che non è una femmina».

«Mal d’amore» lo aveva definito Kushina, alla sua richiesta di spiegazioni. E lo aveva accompagnato con una risata amara. «L’amore» aveva aggiunto, sputando un pezzo d’alga «è una cosa strana, principe. Ti prende e paralizza come i tentacoli delle attinie e ti inghiotte. Ci sono sirene immuni al veleno e altre che finiscono mangiate» gli occhi erano corsi alle finestre della camera di Mikoto «Altre riescono a fuggire, ma portano le cicatrici delle ustioni per sempre».

«Vorrei che tu andassi a conoscere tuo padre».

«Come?» Itachi impiegò tre giri d’onda per riscuotersi e comprendere il senso dell’affermazione. Sebbene poco comune, non era così raro che le giovani sirene salissero in superficie per andare a incontrare il genitore umano; alcune famiglie più tradizionali permettevano l’incontro solo il giorno di Nestalienia, altre ritenevano sconveniente qualsivoglia incontro con i propri fecondatori, mentre altre ancora incoraggiavano le figlie a recarsi prestissimo a conoscere l’uomo che le aveva generate. Itachi non sapeva a quale schiera appartenesse sua madre. In quanto sovrana, era probabile che non potesse sbilanciarci e non aveva mai né alimentato, né scoraggiato la sua curiosità verso il genitore. Semplicemente, il nome dell’uomo non veniva mai pronunciato e se non fosse stato per quella conversazione origliata, Itachi non ne sarebbe venuto a conoscenza. Fugaku, l’essere umano che aveva fecondato sua madre, era solo una presenza ingombrante che aleggiava, invisibile e urticante medusa, tra loro.

«È arrivato il momento che tu conosca tuo padre» il volto di Mikoto si contrasse in un guizzo infastidito, o forse era solo addolorato «Fugaku» pronunciò il nome in fretta a mezza voce «Sono passati vent’anni, è giusto che…» non concluse la frase. I grandi occhi screziati di carminio si posarono su di lui, indagatori. «Devi imparare a sfilarti la coda. E come funzionano gli umani. Prima di Nestalienia».

«Va bene, madre».

«Domani. Andremo domani…»

 

***

 

«Quella notte tuo zio giurò di aver sentito la Regina piangere».

«Noi sirene non piangiamo, non possiamo farlo» la figlia lo blocca. Agita i piedi, muove le piccole dita e osserva la membrana palmata tra loro. Il padre non ce l’ha. Le sue dita – delle mani, dei piedi – sono ben separate tra loro e incredibilmente mobili.

«Voi sirene piangete» replica lui. Prende la sacca di pelle lisa, logorata dal sale e dal sole a picco; la sirena lo osserva mentre vi fruga all’interno e ne tira fuori un involucro di stoffa. La riconosce: è posidonia, il tessuto che ottengono dalle piante acquatiche per coprirsi quando salgono in superficie. Anche gli indumenti che indossava quando è arrivata dal padre erano fatti dello stesso materiale. Quelli attuali no, sono in una stoffa che il genitore ha chiamato lino. Sono ruvidi, per la sua pelle, ma leggeri. Si tende nell’osservare le dita dell’uomo dispiegare l’involucro con delicatezza e svelare alla vista un piccolo mucchietto di perle irregolari dalla sfumatura rosata.

Tentenna, la giovane. Tentenna e deglutisce mentre gli occhi si specchiano interrogativi nelle iridi rossastre del padre, che ora paiono più scarlatte di prima, come a voler riconfermare la sua identità di Sasuke, figlio del mare, secondogenito della Regina Mikoto.

«Quelle sono…»

«Lacrime» mormora «Quelle di tua madre il giorno in cui sei nata».

«Ma sono…»

«Perle. Le sirene non piangono spesso, ma quando lo fanno… piangono perle».

 

 

 

N/A: LO SO. Sono due anni che è ferma al prologo. LO SO.

Mi dispiace, Kyuu, sono lento, sono pigro e tutto ciò che sta sott’acqua mi terrorizza. Perdonami.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3772914