Nestalienia
La sposa sirena
«L’amore
è una cosa strana. Ti prende e paralizza come i tentacoli delle attinie e ti
inghiotte. Ci sono sirene immuni al veleno e altre che finiscono mangiate. Altre
riescono a fuggire, ma portano le cicatrici delle ustioni per sempre»
«Raccontamela
di nuovo!»
L’uomo
tira la rete sulla barca, con un sospiro leggero. Allunga il collo per
osservare le dita grandi e ruvide liberare i pesci dalle maglie e gettarli
nella cesta di vimini. Ha visto spesso il padre stendere le reti sulla
spiaggia, sedersi lì a riparare filo per filo e gli occhi erano sempre andati
alle sue mani, ai movimenti agili, ai piccoli tagli sui polpastrelli.
Bruciature, schegge… la pelle arrossata per la vita in mare e corrosa dal sale.
Guarda
la propria epidermide iridescente. Il riverbero del sole si riflette sulle
piccole squame perlacee, appena disseccandone la superficie. È così diversa
dalla pelle del genitore, secca, ruvida, inspessita da anni di lavoro, dal sole
e dalla salsedine che non perdona e corrode uomini e scafi.
«Ancora?»
domanda l’uomo. Lei annuisce. Vuole sentirla di nuovo, la sua fiaba preferita.
Vuole che il padre gliela narri ancora, e ancora, fino alla fine dei tempi. Lo
vede tentennare. Temporeggia con la rete, un altro poco, quasi speranzoso che
la figlia si dimentichi della richiesta. Finalmente, quando ha sciolto l’ultima
maglia, si siede sul pagliolo. Le lancia un cavo da arrotolare e sposta una
coda di pesce dalle scaglie rossicce.
«Non
lasciare la tua coda in giro» la rimprovera «Rischi che finisca in mezzo al
pescato».
«La
storia, papà» gli rammenta. Il padre sospira e stende un poco le gambe. Gli
occhi brillano di una luce rossastra, mentre guarda le onde schiaffeggiare
dolcemente l’orizzonte.
«Sai
già come funziona, no? Ogni quarant’anni, si celebra lo sposalizio col mare, la
cerimonia che voi chiamate… Nestalana, mi pare…».
«Nestalienia,
papà» ride. L’uomo scuote il capo e lo sguardo torna al mare che si stende
attorno a loro, l’isola di Chrisma un puntino lontano.
«Sì,
Nestalienia. Be’… la storia comincia con uno sposalizio. Non quello in
cui sei stata concepita tu, bensì quello prima ancora, circa una sessantina di
anni fa…»
***
Quando
l’allora principessa delle sirene scelse l’uomo con cui si sarebbe accoppiata
durante la cerimonia, lui era giovane, molto, lei già con tanti anni quanti
possono coprire due vite umane. Tuttavia, era in quell’età in cui le sirene
subiscono il fascino della terra ferma e dell’avventura, così si era sfilata la
coda ed era giunta sulla spiaggia di una piccola isola, distante da Chrisma
almeno trenta leghe. I granelli di sabbia le accarezzavano le dita dei piedi,
insinuandosi tra gli interstizi con un piacevole solletico sconosciuto. Il
vento di scirocco soffiava caldo e asciugava dalla sua pelle le gocce del mare.
Solo il segno bianco della salsedine e le alghe vermiglie intrecciate ai
capelli segnalavano la sua appartenenza al mare. E il corpo, un corpo di donna,
dal pube bruno e dalle forme che a pochi uomini è dato vedere nella vita e quei
pochi sono benedetti dal mare stesso.
Quel
giorno, su una spiaggia deserta, la futura regina intravide un ragazzo, non
ancora uomo, ma non più fanciullo. Con solo dei pantaloni stracciati a
coprirlo, passava con un pennello di crine la densa pece sullo scafo della sua
barca, per impedire al mare di impadronirsene.
Agli
spiriti del mare la pece non piace, non apprezzano che gli uomini si addentrino
alla scoperta delle onde. Alle barche solide, pescherecci, traghetti… a scafi
ben costruiti e al costante lavoro degli uomini per tenere il mare, prediligono
le fragili zattere, che consentono appena l’allontanarsi dalla riva quel tanto
che basta per la pesca giornaliera. Per questo, il mare è spesso agitato quando
gli uomini decidono di affrontare la battaglia con le correnti: sono gli
spiriti delle onde e dei venti che, infuriati per essere stati sfidati,
sospingono le navi contro gli scogli o nel mare aperto.
Quando
un uomo costruisce la sua prima barca, sa che si sta preparando a una battaglia
con l’oceano e che deve ingraziarsi gli spiriti. Così ricopre lo scafo, strato
dopo strato, di pece con gesto timoroso, umile, per scusarsi della propria
impertinenza. Allo stesso modo, dopo ogni pesca si restituisce parte del
pescato al mare, così da propiziare la sua benevolenza. Sono rapporti delicati,
scanditi dall’umore dei mulinelli e della spuma increspata.
Tuttavia,
nei gesti del giovane non c’era tracotanza, né umiltà. Rendeva la barca sana,
forte e pronta ad affrontare il mare con un cipiglio severo e orgoglioso.
Guardatemi,
spiriti,
dicevano i suoi occhi neri come la pece che maneggiava, io non ho paura di
voi. Io cavalcherò le onde e i venti.
Ma
non fu per la fierezza che la regina lo scelse. Non fu per lo sguardo deciso o
per il cipiglio superbo, bensì per il rossore che imporporò le sue gote
spellate quando la vide, per il tremolio e il cader del pennello, per la pegola
rovesciata sulla sabbia al suo incespicare.
La
vulnerabilità di un uomo pronto a sfidare il mare davanti a una donna: fu
questo che l’attrasse. Si studiarono a lungo, immersi nell’incanto reciproco di
studiare due forme aliene. I corpi dissimili si avvicinarono, si sfiorarono
appena. Lui incerto, davanti al concretizzarsi di quella che poteva esser
leggenda, lei più curiosa e decisa.
Si
dice che le sirene incantino i marinai con le loro voci, che il canto sia così
irresistibile da portare gli uomini alla follia.
Che
ogni nota sia come il frinire delle onde notturne, pronto a infrangere il
silenzio carico e pesante che accompagna l’attesa dell’alba.
***
«Ma
sono voci normali» lo blocca, incerta. Sbatte i piedi a cui non è abituata contro
il ponte della barca. Le piace sentire la consistenza levigata sotto questi, un
po’ meno le schegge che s’insinuano nella carne. È scomodo camminare, ma
osserva suo padre farlo con la stessa scioltezza con cui lei nuota e vuole
farlo a sua volta. Vuole sentire come gli esseri umani, percepire il
mondo come loro, privo della bambagia dell’acqua marina.
«Sì,
sono voci normali» afferma l’uomo. Sorride davanti al tentativo della ragazza
di sollevare una gamba e controllarsi la pianta del piede, i lineamenti
delicati contratti in una smorfia infastidita. Le afferra la caviglia e
controlla la pianta delicata dell’arto. Pelle traslucida, su cui si intravedono
piccole scaglie, morbida e candida… si vede che non è abituata a camminare. I
riflessi perlacei sono interrotti da un punto rosso e infiammato. «Stringi» le
dice, porgendole uno straccio da mordere. La sirena non fa in tempo a metterlo
in bocca che il padre sta già premendo. Un piccolo urlo di sorpresa, più che di
dolore, e la scheggia è fuori. «Non sono le voci ad attrarci, né le vostre
code, né la bellezza incomparabile della vostra specie» continua «Sono i vostri
occhi. I nostri sono pieni di terra, solidi, stabili, ma i vostri…» sospira, lo
sguardo scuro vaga sulla superficie del mare «Nei vostri si precipita. Come nell’oceano».
***
Il
giovane tritone lasciò cadere i piccoli crostacei tra i tentacoli ondeggianti. I
filamenti rossastri del più maestoso tra gli anemoni ghermirono il cibo con
voracità predatoria.
Itachi
restò a osservare le creature dibattersi. Un paio di fremiti, poi il veleno fece
effetto e i crostacei paralizzati vennero fagocitati nelle bocche spalancate
delle attinie. Allungò una mano per accarezzare i tentacoli carminio e la
ritrasse quando il guizzo del pesce pagliaccio gli rammentò le sostanze
urticanti dei propri animali-giardino.
«Itachi,
non hai ancora finito di nutrire gli anemoni?»
Il
colpo di coda permise al tritone di voltarsi verso la madre, sua maestà la
Regina, Mikoto. I lunghi capelli neri ondeggiavano attorno al volto pallido, simili
ai tentacoli urticanti delle attinie, ma più cupi e spaventosi. Nel guardare la
madre, a Itachi tornavano in mente i pesci abissali, mostruosi e terribili. Le
zanne e la fosforescenza innaturale erano rimaste impresse nella mente del tritone
da quando, spinto dalla curiosità infantile, aveva superato la soglia del
fondale che segnava la fine del dominio delle sirene e l’inizio di un regno più
angosciante e sconosciuto.
La
luce della superficie non arrivava a quelle profondità e Itachi si era smarrito
nel buio, né aveva colto maggior sicurezza nelle luci spettrali della fauna
locale. Zanne e ciechi occhi luminescenti, corpi scheletrici e forme grottesche
che odoravano di pericolo e morte. Era stata Mikoto a recuperarlo, raggomitolato
e tremante sotto la vacua protezione di uno scoglio. In quell’occasione, Itachi
aveva visto la madre brillare della stessa fluorescenza sovrannaturale e la
bocca dalle labbra piene che lo baciava prima di dormire deformarsi per opera
di file contigue di zanne puntute, nel fronteggiare i predatori abissali. Da
allora, non era più riuscito a gestire la sensazione d’irrequietezza che lo
coglieva nel trovarsi di fronte Mikoto. Le due immagini, quella della madre amorevole
e della sirena abissale, si sovrapponevano e lo spingevano a tenersi a debita
distanza.
«Ho
terminato ora, madre» replicò, con tono piatto. Anche i suoi capelli
fluttuavano come quelli della sirena? Anche lui era in grado di trasmutarsi in
qualcosa di terribile? Lanciò un’occhiata alle proprie mani e alla sottile e
trasparente membrana che si tendeva tra le dita, quasi aspettandosi di vedere
le unghie allungarsi in tentacoli fluorescenti per attirare le prede ignare.
«Voleva chiedermi qualcosa?»
La
sirena scosse il capo e allungò una mano per carezzare la guancia del figlio. Era
un gesto che faceva spesso e, nel mentre, gli scrutava il viso alla ricerca di
tratti meno propri e più estranei. Quando si rendeva conto che in lui c’era
poco dell’uomo che l’aveva fecondata, si scostava e sorrideva incerta.
«Non
lo capisco, Kushina» l’aveva sentita dire una volta alla rossa sirena,
guardiana e amica «Non ci sono mai state sirene maschio. Itachi è come
il padre, ma non c’è nulla di Fugaku in lui. Nulla, se non che non è una
femmina».
«Mal
d’amore» lo aveva definito Kushina, alla sua richiesta di spiegazioni. E lo
aveva accompagnato con una risata amara. «L’amore» aveva aggiunto, sputando un
pezzo d’alga «è una cosa strana, principe. Ti prende e paralizza come i
tentacoli delle attinie e ti inghiotte. Ci sono sirene immuni al veleno e altre
che finiscono mangiate» gli occhi erano corsi alle finestre della camera di
Mikoto «Altre riescono a fuggire, ma portano le cicatrici delle ustioni per
sempre».
«Vorrei
che tu andassi a conoscere tuo padre».
«Come?»
Itachi impiegò tre giri d’onda per riscuotersi e comprendere il senso dell’affermazione.
Sebbene poco comune, non era così raro che le giovani sirene salissero in
superficie per andare a incontrare il genitore umano; alcune famiglie più tradizionali
permettevano l’incontro solo il giorno di Nestalienia, altre ritenevano
sconveniente qualsivoglia incontro con i propri fecondatori, mentre
altre ancora incoraggiavano le figlie a recarsi prestissimo a conoscere l’uomo
che le aveva generate. Itachi non sapeva a quale schiera appartenesse sua madre.
In quanto sovrana, era probabile che non potesse sbilanciarci e non aveva mai né
alimentato, né scoraggiato la sua curiosità verso il genitore. Semplicemente,
il nome dell’uomo non veniva mai pronunciato e se non fosse stato per quella
conversazione origliata, Itachi non ne sarebbe venuto a conoscenza. Fugaku, l’essere
umano che aveva fecondato sua madre, era solo una presenza ingombrante che aleggiava,
invisibile e urticante medusa, tra loro.
«È
arrivato il momento che tu conosca tuo padre» il volto di Mikoto si
contrasse in un guizzo infastidito, o forse era solo addolorato «Fugaku»
pronunciò il nome in fretta a mezza voce «Sono passati vent’anni, è giusto che…»
non concluse la frase. I grandi occhi screziati di carminio si posarono su di
lui, indagatori. «Devi imparare a sfilarti la coda. E come funzionano gli
umani. Prima di Nestalienia».
«Va
bene, madre».
«Domani.
Andremo domani…»
***
«Quella
notte tuo zio giurò di aver sentito la Regina piangere».
«Noi
sirene non piangiamo, non possiamo farlo» la figlia lo blocca. Agita i piedi, muove
le piccole dita e osserva la membrana palmata tra loro. Il padre non ce l’ha.
Le sue dita – delle mani, dei piedi – sono ben separate tra loro e
incredibilmente mobili.
«Voi
sirene piangete» replica lui. Prende la sacca di pelle lisa, logorata dal sale
e dal sole a picco; la sirena lo osserva mentre vi fruga all’interno e ne tira
fuori un involucro di stoffa. La riconosce: è posidonia, il tessuto che
ottengono dalle piante acquatiche per coprirsi quando salgono in superficie.
Anche gli indumenti che indossava quando è arrivata dal padre erano fatti dello
stesso materiale. Quelli attuali no, sono in una stoffa che il genitore ha
chiamato lino. Sono ruvidi, per la sua pelle, ma leggeri. Si tende nell’osservare
le dita dell’uomo dispiegare l’involucro con delicatezza e svelare alla vista
un piccolo mucchietto di perle irregolari dalla sfumatura rosata.
Tentenna,
la giovane. Tentenna e deglutisce mentre gli occhi si specchiano interrogativi
nelle iridi rossastre del padre, che ora paiono più scarlatte di prima, come a
voler riconfermare la sua identità di Sasuke, figlio del mare, secondogenito
della Regina Mikoto.
«Quelle
sono…»
«Lacrime»
mormora «Quelle di tua madre il giorno in cui sei nata».
«Ma
sono…»
«Perle.
Le sirene non piangono spesso, ma quando lo fanno… piangono perle».
N/A: LO SO. Sono due
anni che è ferma al prologo. LO SO.
Mi dispiace, Kyuu, sono lento, sono pigro e tutto ciò
che sta sott’acqua mi terrorizza. Perdonami.