Prolis perpetua

di scarletRose88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Le Terre aride ***
Capitolo 4: *** Le Terre Perdute ***
Capitolo 5: *** L'Estrema frontiera ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


“Ianumque ab eundo dictum, quod mundus semper eat,
dum in orbem volvitur et ex se initium faciens in se refertur”[1].
 
PROLOGO
Era una vecchia canzone popolare, di quelle che si ascoltavano nelle feste in piazza o dalla bocca di un pastore solitario, una di quelle canzoni che il tempo non poteva cancellare e che diventava così parte della tradizione popolare. La melodia fluiva lenta e malinconica dal flauto traverso, evocando note di selvaggia delicatezza che ricordavano ora i rami oscillanti di un bosco temperato, ora le strade deserte di una città dimenticata. A un certo punto, la voce di una donna interveniva per fondersi in un unico suono a quella base dolente e per raccontare una storia di lotta e libertà. Si trattava di una vicenda indecorosa, che condusse alla messa al bando della sua canzone in molte terre. Il suo messaggio raggiungeva i cuori e le orecchie della gente, sollevando ogni volta un infausto tumulto: era come una dolce ma travolgente ninnananna che assopiva la più radicata paura dell’anima. Nella danza vorticosa delle note, fu un’unica parola a riscuoterlo al punto da farlo sussultare:
«Vendetta».
Aprì un occhio, poi l’altro mentre riacquistava delicatamente consapevolezza dell’ambiente in cui si trovava. Un debole raggio di luna filtrava da una crepa sul tetto granitico di quella che sembrava una grotta. Tese le orecchie verso l’unico suono che riusciva a carpire, lo sciabordio di un corso d’acqua. Così lo colpì violentemente un bisogno incontenibile, un istinto selvaggio. La sete. L’irrefrenabile desiderio di rinfrescare la gola arida e strozzata lo spinse a sollevarsi. Nei suoi cauti e goffi movimenti, avvertiva le membra intorpidite, i vestiti erano luridi e consunti. Si sostenne alla parete rocciosa su cui rifletteva la superficie danzante di una fonte. Allora la vide, l’acqua. Come una dea tentatrice lo invitò ad avvicinarsi cosicché si tuffò nel suo abbraccio refrigerante. Si liberò degli abiti logori e rimase a galleggiare pensoso in quella vasca naturale. I suoi pensieri corsero alla strana canzone che lo aveva svegliato e alla parola che lo aveva scosso. Vendetta. Era stata la sua immaginazione? Eppure sembrava una melodia così familiare. Indossò solo i pantaloni, il resto del suo vestiario era troppo malandato tanto che sembrava vecchio di un secolo. Uscì all’esterno e si ritrovò al cospetto di una pianura sconfinata, avvolta dal solo mantello della notte. Così come lo aveva trafitto l’istinto della sete, adesso c’era un altro impulso a scalpitare incontenibile: la solitudine. Mentre esaminava la distesa silenziosa intorno a sé, diveniva sempre più chiaro il fatto che non solo era totalmente isolato ma che era persino immemore di se stesso. Non riusciva a ricordare chi era, né che cosa ci faceva in quel luogo sperduto. In una situazione come quella neppure l’istinto poteva guidarlo, né un indizio che invece lo conducesse su una pista da seguire. Si gettò sulle ginocchia portandosi le mani alle tempie per massaggiarle e indurre il cervello a collaborare. Doveva esserci un ricordo, un’immagine sfocata del suo passato, un volto, un nome…
«Vendetta».
Eccola di nuovo quella parola, sussurrata sulla base di quella misteriosa e familiare canzone. Allontanò le dita dalle tempie serrando le labbra in un’espressione severa. Era la musica il suo unico indizio e la sua ricerca doveva partire da quella.
 
[1]Il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da se stesso a se stesso ritorna”, Macrobio, Saturnalia, I, 9, 11.

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Capitolo 3
*** Le Terre aride ***


PRIMA PARTE

LE TERRE ARIDE

Aveva camminato per ore prima di imbattersi nel primo cartello stradale. Il legno era spugnoso, consunto, e le lettere incise riportavano il nome di una città: Giano. Nel sentiero che conduceva alla strada maestra, scorse numerosi cippi miliari con iscrizioni e fregi erosi dal tempo. Contenevano per lo più formule sacre che benedivano il cammino dei viandanti. Finalmente, a circa tre miglia a valle, scorse un piccolo villaggio fortificato dove sperò di trovare riparo per qualche giorno. Era stordito, assetato e terribilmente affamato. Ovunque si voltasse non vedeva che pianure desertiche e sporadici arbusti, per lo più rinsecchiti. Non un corso d’acqua, ad eccezione della fonte nascosta nella grotta dove si era risvegliato. Continuava a chiedersi come ci fosse finito, ma non riusciva a ricordare niente. Era esasperante. Non sapeva neppure come avrebbe dovuto presentarsi alla gente dal momento che non ricordava il suo nome.
Alla Porta della cittadella non trovò nessuno di guardia, i bastioni erano aperti. Il silenzio era surreale. Attraversò la strada principale in compagnia di enormi boli di polvere che rotolavano sospinti dal vento. Le porte e le finestre cigolavano, il sordo tintinnio di un campanello echeggiava in lontananza. Era una città fantasma. Si recò nel municipio della città, deciso a scoprire qualcosa di più su quel posto. Anche gli uffici erano deserti, probabilmente il villaggio era stato soggetto a razzie poiché era assente qualsiasi oggetto di valore. Si avvicinò a un registro, forse di una deputazione, e prese a sfogliarlo. C’erano diverse lettere e dispacci, molti dei quali riportavano la data del centodecimo anno imperii. A quando risaliva? La maggior parte riferiva notizie relative a una carestia che avrebbe decimato la popolazione del villaggio.
Alle spalle del municipio si ergeva una piccola chiesa circondata da un peristilio. La brezza prese a soffiare più forte tra le colonne e chiuse gli occhi per ascoltare il suo alitare. Gli parve di sentire risuonare ancora quella musica, come se fosse orchestrata dal vento. Un calpestio di passi però lo riscosse e non poté proibire al cuore di accelerare i battiti. Tornare a sentire suoni umani lo aveva riportato alla realtà, una realtà di cui non ricordava nulla. L’istinto gli suggeriva di essere prudente e si accucciò dietro a una colonna mentre cercava di captare la direzione dell’intruso. Deglutì con il cuore in gola pensando che probabilmente l’intruso fosse lui. Si era imprudentemente introdotto in quel villaggio desolato e probabile covo di sciacalli, non aveva neppure un’arma con cui difendersi, d’altro canto non sapeva neppure se era in grado maneggiarne una.
I pensieri si affollavano farraginosi nella sua mente quando, improvvisamente, qualcosa saettò vicino alla testa. Ansimò, in preda al panico, mentre si voltava a controllare che cosa lo avesse appena sfiorato. L’asta di una freccia oscillava vicino al suo orecchio e le pupille si dilatarono sulla punta di metallo conficcata nella colonna di gesso. Lo stavano attaccando. Si mise carponi e strisciò lontano dalla traiettoria del nemico cercando di soffocare i gemiti. Un’altra freccia si piantò sulla colonna che lo precedeva e capì di essere in trappola, il suo aggressore non era solo. Cominciò a considerare l’idea di uscire allo scoperto con un urlo e di darsela a gambe approfittando dell’effetto sorpresa. La prospettiva più probabile era, però, che lo riducessero a un colabrodo. Sollevò le mani in segno di resa, non poteva fare altro. I nemici si fecero avanti nell’aranciato bagliore del tramonto.
«Chi diavolo sei?» disse uno in tono tutt’altro che amichevole.
Aprì cautamente gli occhi e li vide. Uno, due e tre, erano in tre. Erano tutti armati di arco e frecce, ma recavano anche dei coltelli sulla cintura e indossavano abiti sporchi di fango e sudore. Due erano giovani, uno sui vent’anni, l’altro doveva averne meno, il terzo invece era maturo e la chioma scura rivelava i primi segni della mezza età. Le espressioni erano parimenti minacciose.
«Verità o morte?» minacciò quello più giovane vibrando un coltello.
Scosse ripetutamente la testa mentre sentiva i battiti del cuore ruggire nel petto: “No, no, vi prego. Verità, verità” bofonchiò goffamente. Si sentiva incredibilmente ridicolo ma l’unico sentimento che riconosceva da quando si era svegliato era la paura. Nessun’altra emozione.
«Parla, maledizione!» intervenne il ragazzo più grande facendo un passo avanti. Quello maturo continuava a stare in silenzio, assistendo cupo.
«Sono un pellegrino, ho raggiunto questo villaggio per cercare ospitalità. Lo giuro».
A quelle parole i tre aggressori mostrarono un’espressione incerta, scambiandosi sguardi carichi di scetticismo. Per un lunghissimo minuto non parlarono e il cuore del forestiero fu quasi sul punto di esplodere. Non potendo sopportare oltre quella situazione soffocante decise di intervenire, ma l’uomo brizzolato lo interruppe.
«Da dove vieni?»
Una domanda semplice, diretta, cui seguiva una risposta spontanea, repentina. A meno che non si nascondeva un segreto. Ma come poteva spiegare a quei tre guerrieri che non ricordava niente di sé? Per quanto ne sapesse poteva essere un esiliato politico, un latitante, un debitore in fuga…
«Vigliacco! Sei un Vigilante, vero?» tornò ad accusarlo il ragazzo pungendolo sul torace con la punta del coltello. Le sue parole gli apparvero tanto incomprensibili quanto bizzarre. E la sua espressione interrogativa non doveva essere loro sfuggita dal momento che allentarono la pressione delle minacce rilassandosi leggermente.
«Se non sei un Vigilante e neppure un ribelle, allora chi sei?» riprese più pacato il ragazzo.
«Io… io non lo so. Ve lo giuro, mi sono svegliato ieri con un tremendo vuoto di memoria. Non ricordo nemmeno il mio nome» rivelò in fretta ed esausto.
Quelli ripresero a lanciarsi occhiate, sempre più disorientati. L’uomo brizzolato imbracciò l’arco e ripose la freccia nella faretra. Infine tese una mano senza abbandonare l’espressione arcigna: «Beh, allora dovrai venire con noi, Signor Nessuno» ironizzò.
 
 
La morsa intorno ai polsi lo riportò alla realtà scuotendosi sul pavimento in una raffica di spasmi. Prese ad ansimare, il sudore gli incollava i capelli sulla fronte e i gemiti asfissiavano le corde vocali. La claustrofobia lo strozzò come se gli avesse appena avvinghiato le mani intorno al collo e, ormai al limite della sopportazione, cacciò un urlo tanto acuto che attirò qualcuno nella stanza. Due uomini si fermarono a guardarlo reggendo una candela dalla fiammella danzante.
«Vi prego, lasciatemi andare! Lasciatemi andare!» ripeteva tra un gemito e l’altro.
«Sembra che la prigione sia un’esperienza sconvolgente per te, eh?» ribatté quello che si era avvicinato.
L’altro ridacchiò carico di sarcasmo: «Già, probabilmente si tratta di un’esperienza “pregressa”» e gli mollò un calcio sullo stinco. «Non è così?»
Il ragazzo sussultò di fronte a quell’inaspettata violenza e si rannicchiò contro la parete: «Perché mi tenete qui legato? Io non ho fatto niente» reagì debolmente.
«Questo lo vedremo» conclusero uscendo.
Il buio tornò ad avvolgerlo pesantemente e la testa, sgombra di remoti ricordi, si affollò di funesti pensieri. Dove si trovava e perché la gente era tanto aggressiva? Sembrava che la civiltà avesse lasciato il posto alla brutalità. Non sapeva che cosa pensare, ma le sue riflessioni furono interrotte dalla porta che si riapriva. La candela rivelò un volto per la prima volta familiare: era quello dell’uomo che lo aveva trascinato in prigione.
«Su, vieni con me, Signor Nessuno».
Fu letteralmente sguinzagliato fino a un robusto palo di legno, posto al centro di una piazzetta sabbiosa, cui vennero legate le mani rivolgendo all’esiguo gruppo di persone raccolte le spalle nude. Le gambe tremavano in maniera incontrollabile e la posa curva non gli permetteva di avere il pieno controllo dei suoi movimenti. Finalmente il suo aguzzino iniziò a parlare, rivolto ai compagni.
«Guardate queste spalle. Non un graffio, né una cicatrice, nessuna traccia di una battaglia».
La folla prese a mormorare animosamente e il cuore del ragazzo riprese a palpitare.
«Chi, nelle nostre terre, potrebbe sfoggiare un corpo tanto sano e pulito, più puro di quello di un neonato?»
La folla rispose prontamente: «Nessuno! Nessuno!» ripeteva incattivito.
«Chi, nel nostro mondo, potrebbe sentirsi tanto al sicuro da non aver mai dovuto combattere e guastare la purezza del proprio corpo?»
Alla seconda domanda retorica il pubblico parve compiere un sospiro prima di rispondere, e quando reagì fu più feroce che mai: «I Vigilanti! I Vigilanti!»
Non sapeva perché ma sentiva che quel melodrammatico siparietto si sarebbe presto concluso con una cruenta esecuzione per insaporire lo spettacolo.
«Dunque a chi potrebbe mai appartenere questo corpo incontaminato dai conflitti del nostro tempo se non a un nemico?»
Le voci del pubblico inferocito iniziarono a intonare la parola “morte” accompagnandosi con un pugno rivolto al cielo albeggiante. Decise di accettare il proprio destino, troppo stanco e avvilito per poter reagire. L’aguzzino tornò a parlare dopo aver azzittito il pubblico con un gesto risoluto: «Prima di punirlo è lecito permettergli di pronunciare le sue ultime parole» e si avvicinò al prigioniero afferrandogli brutalmente i capelli fradici che ricadevano sulle spalle. «Le tue ultime parole, Signor Nessuno?»
Lo guardò attraverso gli occhi gonfi per il pianto e cercò di muovere le mani, paralizzate dalla stretta delle corde che premevano sulla circolazione sanguigna. Infine disse soltanto una parola, l’unica che lo accompagnava dal suo risveglio insieme a una canzone, e che doveva appartenere a chissà quale oscuro passato: «…Vendetta».
Il pubblico dapprima rumoreggiante, lentamente si acquietò soffocando gemiti di incredulità. Lo stesso aguzzino lo fissò a occhi sgranati, rafforzando la stretta dei suoi capelli.
«Che cosa hai detto?»
«Vendetta… vendetta» ripeté dolorante ma improvvisamente lucido. Stranamente quella parola sembrava provocare sul suo nemico lo stesso effetto che avvertiva su di sé e tornò a ripeterla di nuovo, più deciso: «Vendetta. Vendetta!»
A quel punto la folla riprese a rumoreggiare unendosi a lui in quel suono, che profumava di proibito ma che concedeva una piacevole sensazione di frenesia a tutti coloro che la pronunciavano. Il clima era cambiato, e di nuovo la paura aveva lasciato il posto al coraggio. Non era più la vittima di quello spettacolo, invece si sentiva come l’eroe di una storia che non aveva mai conosciuto.
 
«Dunque, ragazzo, affermi di aver perso la memoria e di non ricordare neppure il tuo nome. Eppure pronunci una parola bandita da oltre un secolo e che da queste parti è tabù».
Dopo essere stato rilasciato, venne condotto in una casupola del borgo piuttosto malandata dove alloggiava il capo della comunità, Don August. Sembrava un villaggio molto povero ma, a differenza di quello esplorato a valle, era popolato da un centinaio di persone. Per una ragione che ancora non riusciva a spiegarsi, avevano deciso di liberarlo dalle catene ma ciononostante non si sentiva ancora al sicuro. D’altronde neanche lui sapeva se poteva rivelarsi effettivamente pericoloso per quelle persone. «Ho sentito quella parola in una canzone». Preferì non mentire, magari rivelare quel dettaglio lo avrebbe aiutato a scoprire qualcosa sul suo passato.
«Una canzone…?» di colpo le guance scarne e rugose persero colore. Era anziano e mutilato a un braccio, sull’occhio sinistro correva una corposa cicatrice. Di certo poteva sfoggiare gloriosi segni di una battaglia, come amavano dichiarare.
«Sì, io non so dove l’ho sentita per la prima volta ma, quando mi sono risvegliato in quella grotta, c’era questa melodia a cullarmi» spiegò.
Il vecchio si lasciò andare sulla sedia portandosi una mano ossuta sull’occhio sfregiato. «Erano anni che non ne sentivo parlare» riprese sommesso, sembrava in preda a una profonda emozione. Tornò a guardarlo negli occhi, scrutando nelle bizzarre iridi di diverso colore: «Non ho mai conosciuto un uomo come te, sano, incontaminato, ma che nasconde paradossalmente un passato da partigiano» insinuò.
«Partigiano?» non capì.
«Il Governo ha inviato spesso nelle nostre terre i suoi tirapiedi perché si infiltrassero tra la nostra gente e catturassero gli ostinati “traditori della patria”. Ma nessuno di loro ha mai osato pronunciare quella parola, neppure in punto di morte. Inoltre, se proprio posso dirlo, nessuno ha mai compiuto una missione segreta in maniera tanto maldestra» e ridacchiò alzando le spalle.
«Voi… voi pensavate che io fossi una spia?»
«Non c’era altra spiegazione, infondo anche il tuo modo di parlare è diverso. Insomma, guardaci: siamo malati, mutilati, poveri e brutali. Non abbiamo altro scopo se non quello di arrivare vivi alla sera e di portare un po’ da mangiare ai nostri figli. Non ci curiamo più del nostro aspetto o di quello della città, non c’è più alcun sentimento in noi, nessun piacere. Se da qualche parte qualcuno prega, da un’altra parte qualcun altro tenta il suicidio».
Il discorso di Don August cominciò a scuoterlo come sapeva fare soltanto quella parola e strinse forte i pugni lungo i fianchi.
«E quando arrivi tu, alto, robusto, sano e con una sfilza di denti dritti e bianchissimi, come non potremmo insospettirci?» ridacchiò di nuovo e il ragazzo inarcò le sopracciglia mentre si portava inconsciamente le dita ai denti.
«Voglio dire, sei strano. Se non sei un abitante delle Terre Aride, devi obbligatoriamente appartenere allo Stato. Forse ti sei allontanato di tua spontanea volontà oppure ti hanno cacciato, seppure questo non rientri nelle loro modalità» disse andando finalmente al punto.
Stato? Di che cosa stava parlando? Scosse la testa confuso.
«Non ricordi niente eh? Va bene, allora siediti. Ti racconterò tutto» disse indicandogli una sedia.
Le Terre Aride si estendevano intorno al secolare bacino del Mar Mediterraneo, territorio un tempo florido e che aveva ospitato centinaia di popoli. Si raccontava che proprio nel cuore del Mediterraneo, a causa della sua favorevole posizione geografica, era sorta una delle città più antiche del mondo: Roma. Contesa da diversi popoli, la Capitale del mondo - così era chiamata - si affermò con il suo potere fino ad assoggettare tutti i territori che la circondavano governandoli per quasi un millennio. Al presente, quell’Impero non esisteva più, sostituito da una successione di governi fino al compimento di un altro millennio, quando il mondo fu devastato da una epidemia e poi destabilizzato da una inondazione che ne cambiò definitivamente i confini. Molte città scomparvero, la popolazione mondiale si ridusse dell’80% e per circa cinquecento anni la Terra assomigliò a un pianeta disabitato in cui la natura tornò a dominare selvaggia. Agli anni che anticiparono la ripresa della civiltà fu attribuito il nome di “Secoli bui”, poiché non si registrarono né fonti né segni di cultura che fornissero una testimonianza di quel periodo. Quando le comunità umane sopravvissute ricostruirono nuovamente la civiltà, ci si riferì alla Grande Inondazione – e alla precedente pestilenza – come all’evento che aveva funto da spartiacque con l’epoca passata. Di lì a poco venne fondato il primo Stato organizzato della Nuova Europa che prese il nome di Urbia, proprio in onore degli antichi fasti di Roma. La Grande Inondazione aveva spostato il baricentro del potere politico nell’Europa nord-orientale, dove un tempo si estendeva l’antica nazione russa. Le gelide lande del polo nord, sciogliendo i propri ghiacciai, si trasformarono in campi fertili e i territori inesplorati si rivelarono preziosi scrigni di risorse energetiche, come il petrolio e il gas naturale. Il clima mite permise agli abitanti di stabilizzarsi definitivamente e molto presto si rese necessario sottomettersi a rigide regole di controllo per garantire la propria sopravvivenza.
Quando l’economia dello Stato raggiunse tassi di produzione che soverchiarono quelli di consumo, il Governo poté considerarsi fuori dalla crisi iniziale ma temeva che le sue sole risorse non bastassero ad assicurare un ulteriore sviluppo. Manifestò da allora una bramosia che si tramutò in imperialismo. Nell’arco di pochi decenni, Urbia assoggettò le terre del circondario, dove altre comunità avevano fondato dei piccoli stati, riducendole a province e divenendo di fatto un Impero. A nulla erano valsi gli sforzi per ricostruire una nuova vita e una propria identità. Ogni tentativo fu fagocitato dall’insaziabile Urbia, al cui potere nessuno riusciva a resistere, d’altronde era il paese più longevo dalla fine dei Secoli bui e per questo era forte e industrializzato; inoltre vantava un grande alleato nel Papa, vicario di Cristo in Terra ma, più di tutto, detentore di un potere universale, e che decideva le sorti dei traditori o, come loro preferivano definirli, degli eretici. La Chiesa ricostituì persino un Tribunale dell’Inquisizione che condannò a morte molti ribelli. Il nuovo motto divenne “Urbia o Morte”.
«Per questa ragione, ti abbiamo proposto “Verità o Morte”. È una sorta di beffa allo Stato, per noi» intervenne Jacob, lo stesso ragazzo che lo aveva puntato con un coltello quando lo aveva braccato nel villaggio fantasma.
Dopo aver ascoltato la storia Don August sull’Impero che un tempo aveva governato anche le Terre Aride, comprese che quella gente non aveva più niente. Per anni aveva versato tributi e fornito soldati, ma in cambio era stata spremuta dalle tasse e terrorizzata dall’Inquisizione. Malgrado fosse stata ricca di risorse e protetta da un governo fortemente militarizzato, aveva vissuto nella miseria. Le donne venivano arrestate senza comprovate accuse e gli uomini che le difendevano finivano sulla forca insieme a loro. Non restava che una sola soluzione: ribellarsi.
Jacob lo stava guidando in un giro d’ispezione ai confini della cittadella rifilando qua e là qualche informazione. Il villaggio si chiamava Ribera, e si diceva che fosse il residuo di una grandissima città ispanica. Intorno era stata ricostruita una cinta muraria sulla cui cima erano stati conficcati dei bastoni acuminati per impedire agli intrusi di scavalcare.
«Quanto tempo è che siete estromessi dall’Impero?» chiese mentre lo guardava accendere le torce sui bastioni della Porta.
«Saranno più di settant’anni ormai. Io non ero ancora nato al tempo della guerra, però ricordo che quando ero piccolo i miei genitori erano ancora in fuga dai Vigilanti che stavano cercando di sterminarci tutti. Hanno persino rilasciato armi batteriologiche e molti tra anziani e bambini sono morti in preda a orribili malattie» rispose fissando i lapilli che guizzavano dalla fiamma della torcia.
«È terribile» commentò.
«Già, però io sono sempre vissuto in questo modo. Non ho idea di come sarebbe la mia vita al di fuori delle Terre Aride, non ho alcun termine di paragone. Mi comprendi?» riprese voltandosi.
Inarcò un sopracciglio, anche per lui era lo stesso, se non peggio. Non aveva la minima idea di come fosse il mondo, si sentiva come un bambino che stava imparando a conoscere ciò che lo circondava, e quella canzone, quella canzone era la sua mamma, che lo cullava nel sonno…
«A proposito, non so neppure come chiamarti. È un po’ frustrante. Se non ricordi il tuo nome potrei dartene uno io, che ne dici?» disse portandosi una mano al mento.
Fu riscosso da quella proposta inattesa. Da una parte era sollevato di avere finalmente un’identità, dall’altra lo infastidiva l’idea che fosse un ragazzino qualunque a dargli un nome, neanche fosse un cane randagio.
«Che ne dici di Nemo? Significa “nessuno”, mi sembra proprio adatto a te. Qui il latino lo conoscono soltanto gli anziani, era la lingua della Chiesa e di queste terre più di duemila anni fa; si dice che sia tornata a fluire all’interno dell’Impero, tra le classi alte».
«Nemo, eh? Mi sembra davvero un nome stupido» soggiunse colpendo con la punta del piede un sasso.
«Hai un’idea migliore?»
«Direi di no» ribatté mordendosi un labbro, poi riportò l’attenzione sulle informazioni del compagno. «Come siete a conoscenza di ciò che accade nell’Impero? Avete qualche informatore?»
Il ragazzo fece spallucce: «A volte catturiamo qualche Vigilante imprudente, altre volte passa di qui qualche viandante coraggioso che ci porta doni e informazioni in cambio di ospitalità».
«Capisco. Il confine più vicino dell’Impero non è molto lontano da qui, vero?» si chiedeva se non fosse davvero un cittadino dello Stato, in quel caso non sarebbe stato facile tornare a “casa”.
«Le Terre Aride rappresentano quella che un tempo è stata la bellissima provincia d’Hispania, che includeva le tre penisole del Mediterraneo: l’iberica, l’italica e l’ellenica. Dove terminano le Terre Aride, a nord, iniziano le Terre Perdute, che appartengono invece a un’altra ex provincia imperiale, la Gallia, oltre la quale si ergono le mura di una delle più ricche province esistenti: Danubia» spiegò. «Dunque, per rispondere alla tua domanda, no, non direi che il confine sia proprio vicino essendo l’Estrema Frontiera imperiale a più di 1000 chilometri da qui. Inoltre, da queste parti non abbiamo mezzi di trasporto a parte i cavalli» e posò su di lui uno sguardo interrogativo.
«1000 chilometri, eh?» soggiunse con un sorriso di circostanza, sentiva che quella domanda aveva sortito nell’amico qualche perplessità. «Il nemico è piuttosto lontano» aggiunse per cambiare discorso.
«Il nemico può essere ovunque» concluse raggelandolo, allora girò i tacchi e si avviò al borgo.
Il giorno dopo raggiunse la comunità nella piazza centrale per la colazione. Lì ogni mattina era distribuito il rancio alle famiglie prima del secondo e ultimo che avveniva al tramonto. Inoltre si svolgevano piccoli traffici come il baratto o il commercio. Intorno erano dislocati i piccoli quartieri abitati che trovavano nel municipio al centro della piazza un punto di riferimento. Nessuno abitava nello stabile sgangherato e Don August preferiva alloggiare con la sua famiglia nel borgo. La vita trascorreva pacifica in quelle terre ma si respirava un’aria pesante e gli abitanti tiravano avanti trascinando sulle spalle un pesante fardello. Non c’era gioia nei loro occhi, nessun entusiasmo. Nemo si avvicinò alla gente in coda per la colazione, che era costituita da zuppa di mais e purea di patate, tutto rigorosamente insipido. Il sale era un lusso da quelle parti e quando si catturava un animale, la sua carne andava subito lavata e consumata. In ogni caso non sarebbe servito a nulla conservarla, si viveva alla giornata. Nemo non aveva memoria del suo passato ma stranamente ricordava molto bene il sapore del cibo salato. Ed era buono. L’appetito cancellò ogni inspiegabile nostalgia e divorò tutto. Non sapendo come darsi da fare, si avvicinò a un gruppo di manovali impegnati a ristrutturare la colonna portante di un edificio.
Gli uomini si stupirono della sua energia, erano sempre troppo deboli per i lavori pesanti ma lo straniero apparve instancabile ai loro occhi. In effetti Nemo non era mai stanco e, quando al tramonto i lavoratori si ritirarono nelle proprie case, restò per continuare fino all’alba. Il suo unico rimpianto era di non conoscere i trucchi del mestiere. Aveva appreso qualcosa durante la giornata ma aveva bisogno di qualche lezione sulle tecniche di costruzione. Era felice di poter dare una mano, infondo il suo unico desiderio era di avere un posto nel mondo, uno scopo.
Mentre stava rimettendo a posto gli attrezzi da lavoro, udì il vagito di un bambino provenire da una casupola in legno e senza finestre. Come ipnotizzato da quel pianto familiare e al contempo sconosciuto, si avvicinò e scorse una donna che cullava un neonato. Il cinguettio degli uccelli lo ravvisò del sopraggiungere del nuovo giorno. Aveva trascorso l’intera notte a lavorare ma non era stanco. Era solo curioso. Si avvicinò di più quando sentì la donna canticchiare una ninnananna e appoggiò la testa alla finestra sollevando del pulviscolo. Chiuse gli occhi, facendosi cullare insieme al bambino. Voleva essere stretto anche lui fra le sue braccia, voleva sentirsi protetto.
«Che cosa fai lì?»
Si riscosse bruscamente tanto da perdere l’equilibrio e, reggendosi alla finestra, fece crollare il telaio sgangherato.
«Oh, merda. Mi dispiace! Mi dispiace, mi dispiace!» ripeteva mortificato. Doveva essere diventato tutto rosso perché sentiva il calore pervaderlo dal collo in su. Inaspettatamente la donna sorrise, forse tacitamente divertita dalla sua goffaggine, e lo invitò a entrare.
«Puoi farlo anche dalla finestra ormai» disse scherzando sull’enorme varco che aveva provocato.
«Sono un vero idiota… lo rimetterò subito a posto, ho imparato a lavorare la pietra stanotte» la informò ma quelle parole suscitarono altra ilarità nella donna che iniziò persino a ridere.
«Hai imparato questa notte a lavorare la pietra? Allora sarà meglio chiamare Cador se non vuoi combinare altri pasticci» disse riferendosi al capomastro che il giorno prima aveva diretto i lavori.
«No, io l’ho distrutta e io la riparerò» insistette e corse a recuperare gli attrezzi.
La donna era rimasta a guardare Nemo mentre riparava la parete. Il bambino si era addormentato ma non si vide l’ombra di un marito.
«Mi piacerebbe offrirti qualcosa ma non ho niente» disse lei a denti serrati.
«Ma sono io che sto pagando un debito, tu non mi devi niente» la rassicurò asciugandosi la fronte con un braccio.
«Aspetta» si chinò per asciugargli il viso con uno straccio. Quel gesto lo costrinse a fermarsi da qualsiasi cosa stesse facendo e a osservare il viso lentigginoso della donna. Era giovane, molto magra ma graziosa con i suoi grandi occhi ambrati incorniciati dalle spettinate sopracciglia nere.
«I tuoi occhi… sono di colore diverso, lo sapevi?»
La sua voce lo destò dall’intorpidimento: «Cosa?» domandò stupidamente.
«Il tuo occhio destro è grigio-azzurro, come il cielo, e quello sinistro verde-oro, come la terra» riferì affascinata. «Sei cielo e terra…» aggiunse per poi interrompersi, solo allora si rese conto di non conoscere il suo nome.
«Ti ringrazio. Il… il mio nome è Nemo» si presentò incerto.
«Nemo? Che nome strano. Io invece sono Bea» disse con un sorriso. «Dunque, Nemo, sei tu lo straniero smemorato?»
Abbassò gli occhi imbarazzato. Bel modo di presentarsi agli estranei, eppure, da quel che sembrava, la sua storia era già sulla bocca di tutti. D’altronde quella era una piccola comunità. «Non ricordo nulla. Non so che cosa mi sia successo».
Lei lo studiò assottigliando gli occhi poi abbozzò l’ombra di un sorriso: «Ognuno di noi ha un passato, ma quel che conta è il presente. Carpe diem, quam minimum credula postero[1]».
«Cosa?»
Rise alzandosi in piedi: «È la frase di un famoso e antico scrittore, Orazio» spiegò sfilando un libro da una mensola impolverata. «Ecco, tieni» glielo porse stranamente eccitata.
Iniziò a sfogliarlo, era scritto in una lingua strana, lesse “Recueil de poèmes, édition française” sulla copertina: «È un libro di poesie».
«Esatto, di Catullo. Io lo adoro. Raccontano l’amore travagliato fra due amanti, ti piacerebbe leggermene qualcuna?» disse sorridendogli dolcemente.
«Ma non le hai già lette tutte?»
Distolse lo sguardo: «Io non so leggere, era mio padre a farlo per me. Conosceva il latino ed è stato lui a spiegarmi il significato di ogni singola poesia».
Si sentì sopraffatto dalla sua malinconia e si affrettò a sceglierne una per leggerla ad alta voce:
«Vivamus, mea Lesbia, atque amemus
Rumoresque senum severiorum
Omnes unius aestememus assis».
«Questa la adoro» e iniziò a recitarla insieme a lui.
«Soles occidere et redire possunt:
Nobis cum semel occidit brevis lux,
Nox est perpetua una dormienda.
Da mi basìa mille, deinde centum,
Dein mille altera, dein secunda centum
Deinde usque altera mille, deinde centum».
Sollevò il muso dal testo per guardarla. C’era una nuova luce nei suoi occhi. Ripensò alle parole di Don August, al fatto che non ci fosse più alcun sentimento nei suoi compagni, non era vero. Quella piccola scintilla d’emozione c’era, era fievole, ma sempre accesa ed era bastata una poesia per alimentarla. «Di che cosa parla?»
Bea sospirò portandosi una mano al petto, quasi fosse in affanno: «Il poeta esorta la donna che ama a ignorare i pregiudizi, le regole e le convenzioni della gente per abbandonarsi totalmente all’amore» e gli lanciò una strana occhiata, inarcando la bocca.
«Oh, dunque è una poesia sovversiva» commentò ma la ragazza trasalì strappandogli il libro dalle mani.
«Ma che vai blaterando! Voi uomini vedete la Rivoluzione dappertutto» e prese un altro libro riacquistando il buon umore. «Vai a pagina 27».
Nemo inarcò un sopracciglio.
«Conosco solo i numeri, sai, per praticità» si limitò a dire sollevando le spalle.
Nemo trovò la pagina dove si stagliava l’immagine di una succulenta torta con una farcitura di panna e fragole. Non sapeva spiegarselo, ma sapeva riconoscere gli ingredienti di quel dolce che ricordava fosse squisito. Dunque doveva averlo mangiato almeno una volta e sentì salire l’acquolina in bocca.
«Ogni volta che ho i crampi allo stomaco per la fame mi precipito a fissare quella golosa poltiglia di frutta e farina. Spesso ho sognato di prepararla con le mie mani, ma qui è impossibile» la voce si affievolì insieme all’entusiasmo.
Nemo posò il libro su un tavolo e aggiunse con determinazione: «Non preoccuparti, un giorno la prepareremo. Troverò gli ingredienti e ne mangeremo a volontà».
Il volto di Bea si illuminò e si portò le mani al petto come aveva fatto dopo la lettura della poesia. Il quel momento il bambino prese a piangere e si ridestarono entrambi.
«Sarà meglio che vada» disse Nemo per congedarsi e la ragazza gli prese una mano per ringraziarlo.
«Spero di rivederti stasera in piazza, di solito restiamo a suonare e a cantare sotto le stelle prima di andare a dormire» gli occhi tremavano colmi di speranza.
Nemo si sentì strano, come se accettando quell’invito avesse commesso un crimine: «Spero di farcela» si limitò a dire.
A lei bastò perché mostrò un ampio sorriso che arrotondò gli zigomi ossuti.
 

[1] “Cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani”. Orazio, Odi 1, 11, 8.

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Capitolo 4
*** Le Terre Perdute ***


LE TERRE PERDUTE

I giorni trascorrevano lenti ma assai piacevolmente nel piccolo villaggio di Ribera. La presenza di Nemo sembrò condizionare la routine degli abitanti in maniera positiva. Quello “strano ragazzo”, come lo definiva qualcuno, si rendeva utile nella caccia, nelle ristrutturazioni, nella guardia, ma anche nei giochi con i bambini o nelle chiacchiere con gli anziani. Le donne si ritrovavano a bisbigliare negli angoli appartati mentre lo fissavano martellare una roccia sotto il sole cocente. Le più giovani e impudenti si avvicinavano per portargli un po’ d’acqua o per asciugargli il sudore. Si diceva che persino alcuni uomini andassero a spiarlo quando faceva il bagno al lago dell’Ebro una volta alla settimana. Nemo era arrivato all’improvviso, come la pioggia nel deserto delle Terre Aride. C’era però chi continuava a diffidare della sua spontaneità e, per quanto Don August sembrasse fidarsi dello straniero, il resto dei suoi consiglieri continuava a escluderlo dalle missioni più delicate.
Un giorno il piccolo Consiglio politico del villaggio stava discutendo sulla possibilità di intraprendere una spedizione molto rischiosa nelle Terre Perdute del nord. Secondo alcuni informatori, da quelle parti era possibile raccattare alcuni resti utili del passato bombardamento, come batterie, accendini, strumenti medici e armi. Non si erano mai spinti così lontano e tutti quelli che l’avevano fatto non erano mai tornati indietro. Il resto dell’ex provincia imperiale era ridotta a un deserto sconfinato, le rovine delle metropoli si ergevano meravigliose ma spettrali con i verdi rampicanti sulle facciate dei palazzi e la sabbia scintillante sull’asfalto. Le altre città erano scomparse dalle mappe, sommerse dall’Inondazione. E, per quanto fosse ancora possibile rimirare i resti monumentali dell’antica civiltà pre-imperiale, le comunità superstiti preferivano stare lontane dai vetusti centri urbani dacché le fatali pestilenze che avevano decimato la popolazione mondiale erano partite da lì.
«La presenza di Nemo può tornarci utile. È forte e motivato» disse uno.
«Ma non è uno di noi» replicò qualcun altro.
«È una buona occasione per metterlo alla prova» intervenne Don August. «Se tradirà, allora non avrete remore nell’ucciderlo».
«Se prima non ci fa tutti fuori» riprese quello che aveva parlato per primo.
Nemo non si mostrò sorpreso alla proposta di aiutare il villaggio con quella spedizione, e accettò subito, impaziente di mettersi in viaggio. Le donne accorsero numerose a salutarlo, ma Nemo non aveva occhi che per Bea, stranamente ansioso di lasciarla. Lei lo abbracciò dopo avergli legato al collo un fazzoletto rosso che custodiva molto gelosamente. Era appartenuto a suo padre. Nemo lo accettò a patto che avesse potuto restituirlo al suo ritorno. Era una promessa, ed era la prima da quando si era svegliato. Bea aveva un figlio ma non gli aveva mai raccontato del padre, probabilmente perché ciò le evocava ricordi spiacevoli. Una volta gli aveva confidato che avrebbe desiderato essere al suo posto, che avrebbe voluto perdere la memoria anche lei, per non soffrire più. Ma Nemo l’aveva dissuasa da quell’idea, spiegandole che non bisognava mai rinnegare il proprio passato, per quanto doloroso fosse.
«Preferirei piangere i miei ricordi, piuttosto che averli persi per sempre».
«Forse non li hai persi per sempre, forse li riacquisterai un giorno».
 
Partirono all’alba riunendosi in un gruppo di cinque uomini tra i più robusti del villaggio. Proseguivano alternandosi su una carrozza trascinata da un cavallo anziano e su un ronzino, figlio del primo. Inizialmente i cavalli erano quattro ma nel giro di un mese ne morirono due. Fortunatamente la femmina portava in grembo un puledro che si rivelò una manna dal cielo per il villaggio. Sperarono a quel punto che presto madre e figlio avessero concepito un altro cavallo dal momento che erano indispensabili e rari da quelle parti. Il clima arido tendeva ad allontanare gli animali verso nord, dove l’aria era più mite e la flora più sviluppata. Peccato che gran parte del nord fosse dominato dalle Terre Perdute, luoghi da decenni disabitati a causa di un bombardamento atomico da parte dell’Impero circa duecento anni prima. Gli uomini stavano alla larga da quel territorio, timorosi di imbattersi nelle scorie radioattive. La miseria aveva tuttavia spinto la comunità di Ribera a raggiungerlo, non avendo ormai più nulla da perdere. Proseguendo per una decina di ore al giorno avrebbero impiegato circa quindici giorni per arrivare nell’antica città di Notre Dame. La strada maestra era deserta e disseminata di cippi miliari.
Nemo era ansioso di conoscere nuove persone, nuovi posti e nuovi ricordi. Andare a cavallo non gli apparve un’esperienza nuova: guidare il ronzino, anticipare la piccola carovana, indicare la strada, correre al trotto… erano tutti gesti che aveva già compiuto, ne era certo. Dopo circa tre giorni di cammino si imbatterono tra le rovine di una città. Sulla Porta della cinta muraria era inciso il nome “Giano”. Nemo spalancò la bocca per lo stupore. «Non può essere lo stesso villaggio».
«Che intendi dire?» domandò Jacob.
«Il villaggio dove mi avete trovato… si chiamava Giano» precisò perplesso.
Paul, il capo missione, emise un sospiro indelicato e chiarì il malinteso: «Esistono diverse città con quel nome nelle Terre Aride. Probabilmente risalgono tutte al medesimo fondatore».
Nemo sbatté le palpebre sentendosi improvvisamente stupido di fronte alla spiegazione di Paul che, in ogni caso, aveva alimentato ulteriormente la sua curiosità: «E chi sarebbe questo fondatore? È vissuto prima o dopo i Secoli bui?»
«E come potremmo saperlo? Guarda questa città, non sono rimasti che polvere e silenzio. L’Impero e la fame hanno cancellato qualunque residuo di civiltà» intervenne Demeter asciugandosi la fronte con un fazzoletto.
Nemo abbassò lo sguardo, in imbarazzo. Certi discorsi sapevano suscitare il malumore tra gli abitanti di Ribera, anche tra quelli più mansueti. Scorse i volti dei suoi quattro compagni e sospirò, avrebbe evitato di porre altre domande per il resto del viaggio.
Più risalivano verso nord più cresceva la desolazione dell’ambiente circostante. Nelle antiche zone metropolitane erano accatastati resti di enormi edifici, il cemento si mescolava alla vegetazione che dominava incontrollata e grossi stormi di avvoltoi segnalavano la presenza di carcasse di animali. Paul percorse con un dito la mappa e scese da cavallo, gli altri fecero lo stesso senza commentare. Infine indicò un grosso palazzo che ancora integro si ergeva al centro della città: «Raggiungiamolo. Potrebbero esserci archivi o registri interessanti».
Demeter doveva aver letto la perplessità nello sguardo di Nemo poiché lo interpellò durante il tragitto tra i meandri del centro urbano: «Allora? Che ne pensi di questo posto? È molto diverso dai villaggi delle Terre Aride, eh?»
Non poté impedire alla propria voce di apparire incerta: «Sì, in effetti è molto diverso. Questo doveva essere un villaggio ben organizzato» commentò guardandosi intorno.
Il compagno ridacchiò ma aveva un’espressione amara sul volto: «Questo non era un villaggio, ma una metropoli. Guarda gli edifici, le strade, l’impianto elettrico, questo era ciò che l’Impero aveva ricostruito dopo i Secoli bui» concluse truce.
Nemo lo guardò accigliato: «Che cosa è successo?» abbassò la voce «Si sono ribellati?»
Demeter resse il suo sguardo e annuì: «Proprio così, sono stati i primi a farlo avendone i mezzi».
L’antico nome di quella città era Lyon, una delle più grandi della Gallia. L’ex provincia era stata per anni la più importante produttrice di armamenti pesanti dell’Impero, ma duecento anni fa aveva subito un pesante bombardamento dall’Esercito, che andò a colpire una delle sue industrie atomiche, per aver assecondato un movimento nascente di rivoluzionari cui erano stati attribuiti diversi attentati alle sedi dislocate del Governo. Almeno era quello che avevano letto sui giornali risalenti a quel periodo e che erano disseminati all’interno delle abitazioni private.
«Facciamo in fretta, non voglio restare in questo cimitero di radiazioni troppo a lungo» sollecitò Paul.
Il passato bombardamento aveva modificato l’ecosistema del territorio provocando l’estinzione di alcune specie di insetti e al contempo la mutazione di altre. Gli abitanti che riuscirono a sopravvivere al disastro tramandarono alla loro progenie numerose patologie e alterazioni genetiche. Intorno alla zona del bombardamento fu istituita una barricata per evacuare la popolazione locale e prevenire l'ingresso nell’area più fortemente contaminata. Se inizialmente il territorio era sorvegliato dai Vigilanti, a seguito dell’estromissione della Gallia dall’Impero, fu totalmente abbandonato. Esso si trovava in ogni caso fuori dalla portata dei viandanti, seppure la contaminazione apparisse abbastanza diseguale. Punti di elevata radioattività erano determinati non solo dal vento che aveva trasportato polvere tossica durante l'incidente, ma anche da numerosi interramenti di vario materiale ed attrezzature.
Raggiunsero indisturbati il palazzo e lo ispezionarono in fretta. Ad eccezione di qualche registro contabile, non trovarono niente di interessante. Scheletri umani giacevano abbandonati nelle stanze ammuffite, enormi graffiti decoravano il grigiore urbano con motti rivoluzionari e immagini provocatorie. Nemo li studiò, appuntandone qualcuno sul suo taccuino: “Verità o Morte”, “No all’Impero”, “Libertà e Vendetta”. Si arrestò sull’ultima parola, sua compagna fin dal risveglio, e immaginò di ascoltare ancora una volta quella canzone. Le note del flauto traverso accarezzarono le sue orecchie alleggerendogli il cuore.
«Nemo? Sei stato tu?»
Il giovane sobbalzò al richiamo di Jacob e si voltò a incontrare il suo sguardo.
«Sei stato tu a intonare la canzone?»
L’espressione si incupì: «No, io…» proprio allora si accorse che la canzone stava suonando davvero in mezzo a quelle rovine metropolitane. Senza pensarci troppo si mise a correre per raggiungere la sua fonte. Non potevano fermarlo neppure le urla dei suoi compagni e si precipitò nei pressi di un enorme cratere al di là del centro città. Sgranò gli occhi di fronte all’immagine di un uomo abbracciato a un enorme aggeggio di metallo e intento a canticchiare la canzone.
«Ehi!»
Non sembrava neppure essersi accorto della sua presenza. Decise di seguirlo al centro della voragine mentre sentiva che la sua squadra lo aveva raggiunto.
«Nemo! Che diavolo fai? Non avvicinarti, quella è una bomba!» urlò Paul sgomento esaminando la testata atomica confitta nel terreno fangoso.
«Ehi, dico a te! Questa canzone…» gli prese le spalle «come la conosci? Come la conosci?» Solo quando incrociò i suoi occhi si accorse della sua diversità. Era totalmente privo di capelli e sopracciglia, i bulbi oculari si stagliavano asimmetrici sulla testa deforme ed eccessivamente grossa. Balzò all’indietro, inorridito.
«Non temere, non sono un Vigilante, io» e scoppiò in una risata gutturale che si prolungò.
Deglutì imponendosi di non perdere il controllo: «Tu conosci quella canzone» insistette riacquistando fermezza.
Lo strano uomo lo fissò a lungo finché non scoppiò di nuovo a ridere e, quando decise di placarsi, la sua espressione si rabbuiò: «Hanno raso al suolo la nostra terra, hanno segnato la nostra esistenza con bombe, malattie, carestie, hanno cancellato ogni traccia della nostra civiltà… ma la nostra mente, i nostri ricordi, i nostri sentimenti non potranno mai sottrarceli».
Il discorso dello sconosciuto lo turbò tanto che non riuscì più a parlare, la sua anima si riscosse come la debole fiamma di una candela che si animava all’alitare di una brezza. Quella fiamma non si spense, però si agitò, oscillando, allungandosi e accorciandosi senza mai divampare. Restava lì, sul moccolo, nell’attesa che la cera si sciogliesse. A un certo punto, inspiegabilmente, la lingua iniziò a formulare parole nuove, svincolate dalla mente confusa, e dettate da un’emozione repressa, sconosciuta. «Ti sbagli, possono toglierti anche i ricordi, il tuo nome, la tua personalità. Possono privarti di tutto ciò che hai».
L’uomo deforme sbatté gli occhi sporgenti, abbandonando per la prima volta la stretta della bomba e la sua attrattiva verso la morte. «Quella canzone» disse estatico «è nostra compagna da più di novant’anni e come un’amante ci compiace, come una madre ci culla, come un’amica ci conforta…».
«…come una bandiera la sventoliamo, come una preghiera la recitiamo, e al suono di una parola la intoniamo: Vendetta» aggiunse Nemo meditabondo con gli occhi incollati al suolo.
I compagni in cima al cratere assistevano increduli. Lo sconosciuto afferrò le spalle di Nemo scuotendolo bruscamente: «Tu conosci l’Inno dei ribelli? Oh ti scongiuro, cantalo, cantalo per me» e iniziò a piangere.
Nemo apparve sorpreso almeno quanto lo erano i presenti. Aveva iniziato a recitare quelle parole senza pensare, come se fosse sotto l’effetto di un’ipnosi. La canzone dei ribelli lo aveva risvegliato dal suo torpore in quella grotta e lo aveva salvato dalla gente delle Terre Aride quando stavano per ucciderlo. Che cosa gli stava suggerendo stavolta? Perché lo aveva guidato da un uomo deforme e infelice che giaceva al fianco di una bomba inesplosa?
«Perdonami, non so che cosa mi abbia preso. Non volevo importunarti» si alzò per andarsene ma l’uomo lo fermò.
«No! Aspetta» supplicò in preda allo sconforto.
Nemo ribatté senza guardarlo: «Non siamo qui per te, abbiamo una missione da compiere a Notre Dame. Lasciami andare!»
Le pupille si dilatarono: «Notre Dame? No, non fatelo! Anche quella città è intrisa di radiazioni. Non c’è rimasto più nulla, a parte noi Mostri» si affrettò a spiegare.
«”Mostri” è il termine più appropriato per definirvi» soggiunse Demeter in un tono di disgusto.
Gli uomini deformi che abitavano le zone contaminate erano le vittime del disastro nucleare causato dall’opposizione dei ribelli. Duecento anni prima, Urbia punì l’avanzata dei ribelli devastando le due città più popolose della Gallia nella maniera più subdola. Con un solo tremendo gesto l’Impero dimostrò la propria superiorità eliminando la minaccia dei rivoluzionari e, al contempo, innescò il meccanismo del terrore. Da un giorno all’altro si acquietarono le minacce e le insurrezioni anche nelle altre province, nel timore che l’Impero potesse scagliare le sue micidiali armi anche laggiù. Le conseguenze di quella guerra si tramandarono per anni nei sopravvissuti colpiti dalle radiazioni e nei loro figli che, a causa della loro deformazione genetica, acquistarono la definizione di “Mostri”.
«Guardati intorno» sospirò Nemo «anche qui non c’è rimasto nulla. Solo polvere e silenzio» disse scambiando uno sguardo eloquente con Demeter.
«No! Non fatelo! Ascoltatemi!» riprese l’uomo singhiozzando. Si aggrappò a una gamba del ragazzo che allora lo guardò allibito. Si liberò dalla stretta con un certo sforzo e, dopo avergli rivolto un ultimo rammaricato sguardo, si allontanò trafitto dalle sue urla strazianti.
L’incontro con il Mostro sconvolse l’anima di Nemo, già profondamente tormentata dal giorno del suo risveglio. I compagni non fecero alcun commento sull’accaduto ma i loro volti erano cupi e sospettosi verso l’individuo che aveva recitato il testo di una canzone proibita con tale disinvoltura. Il ragazzo non solo li comprendeva ma condivideva persino i loro dubbi, neanche lui riusciva a fidarsi di se stesso. Stava iniziando a considerare l’idea di separarsi dal gruppo e di proseguire da solo. Insieme alla gente delle Terre Aride non aveva fatto progressi e anziché ottenere qualche indizio sul suo passato, finiva per cantare una canzone che non significava niente, eccetto che morte e sofferenza.
Sciolse il fazzoletto di Bea e lo annusò, perdendosi nel tappeto di stelle sopra di sé. Era il suo turno di guardia ma sapeva bene che qualcuno della squadra era vigile perché potesse sorvegliarlo. Forse Bea era stata l’unica a credere in lui, ma quella donna non era una ragione sufficiente perché dovesse andare avanti insieme al popolo di Ribera. Sentiva che non era quella la sua vera missione.
Il mattino seguente, Paul comunicò la loro posizione, informando i compagni che sarebbero giunti a Notre Dame entro la sera. Nemo decise di accompagnarli fino a destinazione, poi se ne sarebbe andato per la sua strada.
Come Lyon, anche la capitale dell’ex provincia si rivelò un cimitero di palazzi, priva di qualsiasi forma vivente. Il silenzio padroneggiava sulle strade polverose e tra le mura diroccate dei grattacieli. Il grigio pallido era il colore predominante e si rifletteva sulle guance smorte dei visitatori.
«Tenete gli occhi aperti, i Mostri abitano queste zone e possono essere pericolosi» li ravvisò Paul imbracciando l’arco.
Nemo lo guardò intristito. Come potevano quegli uomini infermi essere una minaccia? Non erano pericolosi perché deformi, erano pericolosi perché arrabbiati, e avevano tutte le ragioni per esserlo. L’Impero aveva tolto loro ogni bene, compreso l’aspetto umano, come potevano sopravvivere all’insegna della speranza?
«Il diario di Cristopher riferisce che il quartiere orientale è disseminato di mine e fortunatamente ci fornisce anche la loro posizione. Su, andiamo» riprese Paul determinato. Quel diario era uno dei “tesori” conquistati nelle missioni conseguite dagli abitanti di Ribera. Diari, registri contabili, giornali e almanacchi erano un mezzo per scovare magazzini di cibo abbandonati e vecchie armerie, o per evitare zone contaminate e aree sorvegliate dai Vigilanti. Restavano l’unico strumento per potersi districare in un mondo selvaggio.
Attraversarono un sentiero sterrato che conduceva a una vecchia zona di rifornimento di grano. Dopo il bombardamento i sopravvissuti cercarono di ricostruire la città ma l’aria era irrespirabile e la gente troppo debole per aiutare nei lavori. Lentamente ogni tentativo fu abbandonato e l’area si spopolò.
Una strana sensazione spinse Nemo a voltarsi verso un mucchietto di macerie a est dove per un istante credette di scorgere la sagoma di qualcuno. Immaginò che potesse essere qualcuno dei Mostri e istintivamente rafforzò la stretta sull’impugnatura del machete.
«Eccolo, è laggiù» Paul fece un cenno verso un enorme capannone ed esortò a proseguire secondo le sue indicazioni. Iniziò a camminare a zigzag evitando le mine sotterrate ad appena qualche metro dai suoi piedi, il volto era imperlato di sudore ma privo di incertezza. Al contrario, i compagni rimasero impalati nelle loro posizioni, incapaci di muoversi.
«Ehi, che cosa stiamo aspettando? Non andiamo?» disse Nemo attonito.
Emìle, il terzo compagno di squadra, quello che non aveva proferito una parola per l’intero viaggio, si mosse e imitò i passi di Paul senza paura. Jacob e Demeter rimasero a fissarsi inermi.
«Coraggio, dobbiamo andare» tornò a esortarli Nemo.
Nel frattempo, Paul ed Emile avevano raggiunto la stazione ma non appena posero una mano sui sacchi accatastati nello stand improvvisato, l’intera area saltò per aria. Jacob, Demeter e Nemo furono travolti dall’onda d’urto che li scaraventò duecento metri più lontano.
Il primo a riaversi fu Nemo che cercò faticosamente di sollevare la testa, pesantissima. Il paesaggio diroccato roteava intorno a lui inarrestabile e, nella speranza di riacquistare l’autocontrollo, coprì gli occhi distendendosi sul terreno oscillante. Tutto intorno a lui girava, si sentiva come intrappolato all’interno di una sfera rotolante su di un pendio. Iniziò a urlare ma non riusciva a sentire neppure la sua voce, allora aprì gli occhi e distinse una voluta di fumo nero espandersi a pochi metri da sé. Si voltò a guardare alla sua destra e si accorse del volto martoriato di qualcuno. Strisciò fino a poterlo toccare e lo riconobbe, era quello di Demeter. Il sangue si era rappreso su metà del viso e gli occhi immobili erano rivolti al cielo. Pian piano la sofferenza si stava insinuando in lui insieme alla padronanza delle membra scombussolate dal trauma. Pianse il compagno mentre si affrettava a rintracciare Jacob. Era indubbio che Paul ed Emile non ce l’avessero fatta. Lo chiamò a gran voce ma l’area era ricoperta di detriti e fumo. Rivolse lo sguardo all’orizzonte e scoprì la presenza di diversi individui sparpagliati intorno al luogo dell’incidente. La mano cercò il machete sul fianco ma la fodera era vuota. Ricordò che al momento dell’impatto lo stava impugnando, quindi doveva averlo perduto schiantandosi contro il terreno. Le figure scure in lontananza lo innervosivano e l’idea di restare da solo lo faceva impazzire. Improvvisamente udì un suono simile a un singulto. Arrancò in mezzo alla nube finché non inciampò su qualcosa, quindi cadde proprio al fianco di Jacob.
«Jacob! Sei vivo, resisti… adesso ce ne andiamo di qui. I Mostri ci hanno circondato» gli prese un braccio e lo appoggiò sulle proprie spalle, ma a quel punto i rantoli di Jacob si trasformarono in gemiti di dolore. Lo trascinò lontano dalla nube e solo allora si accorse della sua orrenda mutilazione: entrambe le gambe erano state recise e dallo squarcio fuoriusciva un fiume di sangue. Incrociò lo sguardo allucinato del compagno e lo riadagiò per terra. Rimase a guardarlo mentre moriva ascoltando il cuore che gli martellava nelle orecchie.
La sorte aveva deciso di risparmiare solo lui, sottraendogli tutti quelli che conosceva. Era rimasto solo, circondato da una massa di sconosciuti pronti a torturarlo. Per un istante avrebbe voluto morire, magari bastonato dagli stessi Mostri, per smettere di pensare, di soffrire, di sperare; tuttavia l’istinto della sopravvivenza lo spinse a sollevare lo sguardo dall’espressione morente di Jacob e di indirizzarlo a quelli che si stavano avvicinando. La nube provocata dall’esplosione si era quasi diradata e poté individuare il machete che scintillava a pochi metri. Dopo essersene riappropriato, lo puntò verso i nemici urlando: «Avvicinatevi, Mostri! Venite a finire il lavoro se avete il coraggio!»
Si fermarono a scrutare l’unico straniero sopravvissuto alla trappola. Aveva gli abiti stracciati, la pelle annerita, il volto contratto dalla disperazione. Ma non c’era alcuna macchia di sangue a imbrattare il suo corpo, né una ferita aperta. Seppur palesemente coinvolto nell’incidente non ne era stato vittima.
«Tu ci hai chiamato Mostri?» parlò uno del gruppo con voce grave.
Mentre si avvicinava, Nemo poté esaminare il volto privo di naso e labbra che lasciava scoperti i denti, conferendogli un’espressione perennemente minacciosa.
«E cosa saresti tu se non a tua volta un Mostro?» aggiunse fermandosi a pochi passi.
Il ragazzo, ancora scosso dagli avvenimenti degli ultimi minuti, non riusciva a smettere di tremare e si lasciò scivolare sulle ginocchia. «Siete stati voi a nascondere gli esplosivi nel grano. Siete degli assassini» farfugliò in lacrime.
«Anche voi ci avreste ucciso rubando il nostro cibo. Siamo tutti assassini… e mostri» replicò l’uomo.
Lo guardò negli occhi incollerito: «Io non ho mai ucciso nessuno!» urlò brandendo l’arma.
Lo sguardo dell’interlocutore si assottigliò: «È la prima volta in vita mia che incontro una persona cui sta tanto a cuore la purezza della propria condotta. Si uccide per sopravvivere, dunque se non hai mai ucciso vuol dire che hai sempre vissuto nella più totale serenità. Ma se ti trovi a rubare nelle zone contaminate delle Terre Perdute non hai poi vissuto tanto in pace».
Il discorso del Mostro lo annichilì sentendosi come un insetto appena calpestato. Non poteva difendersi, non poteva giustificare l’operato di un uomo di cui non conosceva il passato. Lasciò cadere il machete e si rannicchiò: «Uccidetemi» disse, stanco di combattere per qualcuno che non conosceva, per dei ricordi ormai svaniti, per un mondo vuoto e violento. «Uccidetemi» ripeté.
Il Mostro che gli aveva parlato si inginocchiò al suo fianco, parlandogli placido: «Ucciderti non ci aiuterebbe a sopravvivere, non sei una minaccia adesso» spiegò.
Nemo sollevò il capo mostrando le lacrime: «Che significa? Se non mi uccidete potrei rubare ancora nelle vostre terre o uccidere qualcuno dei vostri compagni! Io sono una minaccia» ribatté straziato e privo di qualunque credibilità.
Scosse la testa: «Anche volendo, non potremmo farlo».
«Cosa? Che significa?»
Si rialzò e parlò ai suoi uomini: «Legatelo, lo portiamo con noi».
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«Svegliati, straniero!»
Nemo riaprì gli occhi, scosso dal tocco gelido di una mano. C’era la fiamma di una candela semi consumata all’angolo di una stanza completamente spoglia. Avvertì la freschezza delle catene che gli circondavano i polsi e rammentò che i Mostri lo avevano preso prigioniero da un paio di giorni.
«Ti ho portato qualcosa da mangiare» e poggiò per terra una scodella colma di zuppa d’avena che, per quanto misera, salì alle narici di Nemo rinfrancandolo. Immerse la bocca nella poltiglia, divorandola in pochi minuti. Neanche ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva mangiato.
«Il nostro capo vuole parlarti» riferì porgendogli anche un bicchiere d’acqua. «Fra un’ora verrò a prenderti».
Quel pasto frugale fu sufficiente a restituirgli la lucidità che aveva perduto dal giorno dell’esplosione, per cui si concesse qualche minuto per riflettere, giusto il tempo per non ricadere nel baratro della depressione. Perché i Mostri non lo avevano ucciso? Che cosa ci guadagnavano a tenerlo in vita e, soprattutto, perché lo avevano definito a sua volta un Mostro? Aveva paura, era terrorizzato e completamente solo in un territorio sconosciuto. Probabilmente la zuppa che aveva mangiato, così come l’acqua che aveva bevuto, erano contaminati dalle radiazioni. Il suo organismo era compromesso, tutto era compromesso.
Il sorvegliante giunse a liberarlo pochi minuti dopo. Immaginò che il capo della comunità fosse lo stesso Mostro dal volto scheletrico che gli aveva parlato la prima volta, e inspirò profondamente alla ricerca della compostezza. In realtà non sapeva che tipo di atteggiamento avesse dovuto mantenere in quella circostanza, allo stato delle cose non sapeva neppure se avesse preferito vivere o morire.
«Benvenuto, accomodati».
Era proprio lui, il capo dei Mostri.
«Il mio nome è Andegor e comando la contea di Notre Dame. Quelli che chiami “Mostri” sono coloro che abitano le zone contaminate, proteggendole dagli intrusi» esordì mettendo da parte una pila di scartoffie.
Era stato condotto all’interno di un ufficio illuminato da un candelabro e assurdamente tirato a lucido. La poltrona su cui sedeva era talmente comoda che stava meditando l’idea di non alzarsi più. Si sentiva come accoccolato su una nuvola dopo aver trascorso interminabili settimane a cavallo.
«Or dunque, qual è la tua origine, straniero?»
La garbata parlantina di Andegor, che evitava i fonemi labiali e fricativi, si adattava in maniera quasi paradossale alla sua espressione digrignata. Quell’uomo sarebbe stato l’individuo più educato e distinto che avesse mai conosciuto se non fosse stato per il suo aspetto decisamente discutibile.
«Ebbene, signore, deve sapere che non ho la più pallida idea di chi io sia. Mi sono risvegliato in una grotta delle Terre Aride, circa tre mesi fa, totalmente privo di memoria. Le persone che mi hanno trovato mi hanno assegnato il nome Nemo» raccontò e a quella rivelazione Andegor parve riscuotersi.
«Ho seguito quegli uomini fino a Notre Dame perché volevo rendermi utile nella loro comunità. So che può sembrare assurdo, ma è questa la verità» aggiunse tormentandosi le dita. Il pensiero di aver appena perduto le uniche persone che poteva reputare amiche lo angosciava.
L’uomo si portò le mani al mento informe riflettendo sulle sue prossime parole. «Ti credo, Nemo. Ma, dimmi, non sei riuscito a ricordare proprio nulla del tuo passato da quando ti sei svegliato? Un’immagine, per quanto sfuggevole, un suono indistinto, un profumo familiare, insomma qualcosa che, oltre all’istinto, ti abbia permesso di avere fede, di credere in te stesso».
Sollevò lo sguardo sul suo interlocutore esaminando le iridi castane, ovvero ciò che di più vicino all’essere umano offriva il suo aspetto, e rispose: «Sì, c’era qualcosa. Una canzone».
Andegor ascoltava senza perdersi un solo movimento delle sue labbra. «Ho scoperto che si tratta di una canzone proibita, nata tra i ribelli che si opponevano all’Impero. Io… ricordo ogni parola del testo» rivelò sottovoce.
Il capo dei Mostri apparve impietrito, le mani incollate sulla scrivania laccata, gli occhi spalancati. Neppure la bocca ringhiante poteva celare l’emozione che improvvisamente lo pervase. Emise un sospiro per placare l’agitazione e tornò a parlare: «Vorrei, vorrei che tu la scrivessi» e gli lanciò un’occhiata severa.
 
Da quel momento, Nemo fu liberato dalle catene e gli venne concesso il permesso di vagare per la zona contaminata dei Mostri purché all’ora del coprifuoco rincasasse nelle prigioni. Ancora una volta era stato salvato da quella canzone, ritrovandosi in mezzo a degli sconosciuti che, tra le altre cose, riportavano le deformazioni di un disastro nucleare. Li sentiva fischiettare la sua canzone o intonarne il testo con assoluta serenità, impavidi del pericolo che correvano divulgandola. Molti erano infermi, qualcuno aveva una sola gamba, qualcun altro ne aveva più di due. I più anziani riportavano estese dermatiti sul viso che dovevano dolere parecchio, tuttavia se ne stavano seduti tutto il tempo in silenzio, forse a pregare. Anche se il suo aspetto non lo dava a vedere, Andegor non aveva più di cinquant’anni. Era molto rispettato nella contea e, dopo aver perso sua moglie per una terribile malattia, si occupava a tempo pieno della comunità. Qualche anno fa i Vigilanti si erano introdotti nella zona contaminata per eliminare i Mostri, in quanto sapevano che abitavano quel territorio malgrado l’elevata radioattività, ma quel popolo coraggioso riuscì a difendersi interrando una fila di mine intorno al villaggio.
Seppure la loro esistenza fosse segnata dalla malattia e dalla miseria, i Mostri erano convinti di essere ricchi. Essi possedevano la conoscenza, bene che nessun altro nelle Terre Perdute, né tantomeno nelle Terre Aride, poteva vantare. I loro villaggi custodivano molti oggetti appartenuti all’Impero e diversi libri. La loro missione era quella di proteggere la cultura degli uomini. Nemo si era affezionato a quegli infelici individui, si sentiva più simile a loro di quanto non lo fosse stato tra gli uomini di Ribera, e non voleva metterli in pericolo con quella stupida canzone. Forse erano dei ribelli anche loro? Eppure sembravano vivere accettando quella condizione, dedicando il tempo alla loro missione. Di fatto erano immensamente colti, tutti sapevano leggere e molti componevano versi o si dedicavano all’astronomia. Erano affascinati dall’ignoto e da tutto ciò cui non riuscivano ad attribuire una spiegazione razionale.
«Dimmi, Nemo, secondo te che cosa ti è accaduto? Te lo sei mai chiesto?» gli domandò un giorno Andegor mentre pranzavano sulla veranda della sua abitazione. I Mostri risiedevano nei casolari di campagna, appena fuori dalla zona metropolitana di Notre Dame. Lì era tornata a crescere la vegetazione e si erano trasferiti molti animali provenienti da sud. Il clima era decisamente più fresco rispetto a quello delle Terre Aride.
«Me lo chiedo ogni giorno, ma non riesco a darmi una risposta. Ero un ribelle? Un prigioniero dell’Impero? Ho persino creduto di essere un disertore dei Vigilanti» rispose fissando il proprio piatto.
«La canzone non fa di te un Vigilante, ma potrebbe averti reso un partigiano» suggerì imboccando un tozzo di pane. «Sai, l’Inno dei ribelli risale alla rivolta che insorse contro l’Impero in queste terre circa un secolo fa. Anche quando la guerra era finita, molti giovani continuarono a combattere portando avanti la causa per anni».
Rimase in silenzio, gli occhi ancora puntati sul piatto. Come poteva condizionarlo l’essere stato un Vigilante o un partigiano? Per lui non contavano niente, non aveva sofferto la fame o pagato tasse esorbitanti che l’avevano spinto a opporsi all’Impero, né aveva servito fra i ranghi dei funzionari di Stato per salvaguardare l’onore di Urbia contro chi cercava di calpestarlo. Era come un soldato incapace di distinguere i colori del proprio vessillo. «Non ha importanza ormai, oggi sono semplicemente Nemo» disse in un sospiro.
Andegor esaminò la sua espressione scuotendo la testa: «Impara, Nemo, per quanto tu non riesca a rammentarlo, dal passato non puoi scappare. Fa parte di te». Sospirò prima di riprendere: «Sarai sorpreso di sapere che non sei l’unico».
«Come?» trasalì.
«Vieni con me e lo vedrai».
Lo guidò nel quartiere nord-orientale di Notre Dame, dove la devastazione sembrava essersi dispiegata anche nel sottosuolo. C’erano resti di bombardieri, impalcature crollate, strade interrotte. A un certo punto, nel silenzio tombale della città, si udì il riverbero di un suono e Nemo prese a guardarsi intorno. Andegor indicò l’uomo che stava spalando vicino a un cumulo di terra.
«Oh, Andegor. Che ci fai da queste parti?» domandò gentilmente. Era un giovane sui trent’anni, molto alto e possente, il corpo madido di sudore rivelava una costellazione di cicatrici.
«Nemo, ti presento Virgil».
Il ragazzo tese la mano e Nemo la strinse pieno di imbarazzo. Perché Andegor gli aveva presentato quel tipo? Che aveva di tanto speciale?
«Vedi, Virgil ci sta aiutando a ripulire la zona contaminata. Se non fosse stato per lui non ce l’avremmo mai fatta da soli. Rimane solo questo quartiere, poi potremo passare alla città di Lyon» spiegò allargando le braccia al paesaggio per mostrare l’operato del compagno.
«Io… io credo di non capire, signore. In che modo vi sta aiutando?» domandò scambiando una fugace occhiata con Virgil che appariva assurdamente divertito dalla situazione.
«Devi sapere, mio caro Nemo, che Virgil ha ben centoventuno anni».
«Eh?!» impallidì voltandosi a guardare con un nuovo interesse l’uomo che aveva di fronte.
Andegor scoppiò a ridere imitato da Virgil.
«Come è possibile? Tu non invecchi?» furono le sue prime parole.
«Beh, no, direi di no» rispose riacquistando compostezza.
«Ma come è possibile?»
Si sostenne al badile serrando i denti, ci mise un po’ a rispondere e Andegor attese i suoi tempi con tacito rispetto. «È stata Urbia. Più di cento anni fa sono stato condannato per un reato, scontando una pena di cinque anni. Poiché avevo perduto tutti i miei beni, ero risultato un cittadino inutile per lo Stato che, a quel punto, ha pensato di usarmi per compiere esperimenti».
«Esperimenti?» i battiti del cuore accelerarono impetuosamente.
«Non so bene di cosa si sia trattato ma le conseguenze di quei trattamenti mi hanno reso forte e sano, cosicché mi hanno destinato all’Esercito».
Andegor sospirò abbandonando lo sguardo all’orizzonte ingrigito.
«Mi è capitato di compiere missioni di istanza in queste aree insieme alle mie truppe. Io stesso ho puntato l’arma contro gli abitanti delle zone contaminate per sterminarli… ed è per questo che mi trovo qui» rivelò sommesso.
Nemo indietreggiò rivolgendo la mente offuscata alle macerie di Notre Dame, le lacrime gli punsero gli occhi.
«Ho giurato a me stesso che avrei messo la mia virtù al servizio del bene, d’altronde erano anni che speravo di liberarmi di quelle sanguisughe» aggiunse incattivito.
«Ma non sono venuti a cercarti?»
«Certo che l’hanno fatto» ridacchiò «ma non mi hanno mai trovato. Avranno creduto che fossi morto».
«Dunque hai preferito vivere con i ribelli piuttosto che con i tuoi concittadini?» domandò sempre più incredulo.
«Persino la morte è un luogo preferibile per me. Insieme ad Andegor sono libero adesso» disse poggiando una mano sulla spalla del Mostro.
Nemo osservò perplesso quel gesto: «Ma tu hai contribuito alla distruzione di questa provincia! Hai messo a repentaglio la loro sopravvivenza!» urlò fuori di sé.
Andegor si allarmò di fronte a quella reazione inaspettata e cercò di calmarlo: «No, Nemo, no. Non è stata colpa sua e poi ha già espiato i suoi peccati aiutandoci a ripulire la città».
«Se il suo esercito non avesse scagliato le bombe contro la città non avrebbe avuto bisogno di ripulirla!» replicò più aggressivo.
Virgil assisteva sgomento, dalle mani scivolò il badile.
«Nemo, ascoltami, non è colpa di Virgil, non capisci? Lui è semplicemente una vittima del sistema! E anche tu lo sei! Anche tu!»
Quelle parole lo riportarono alla realtà e la collera si affievolì senza però abbandonare le sue membra.
«Vuoi sapere cosa penso io?» riprese afferrandogli le spalle. «Io penso che anche tu sia stato una vittima di Urbia. Non so in che modo ma certamente hanno manipolato la tua mente, cancellando ogni tuo ricordo».
«Si chiama Damnatio memoriae» intervenne Virgil attirando l’attenzione di Nemo. «È un lungo processo di tortura. Riducono il cervello del soggetto simile a quello di un bambino».
Sì, era proprio così che si sentiva, come un bambino.
«I ricordi vengono cancellati» continuò, «spesso avviene allo scopo di annientare dei segreti di Stato, come accade con i super soldati, altre volte per dare vita a dei servitori perfetti. Nessuno schiavo potrebbe ribellarsi al proprio padrone se non ha una ragione per farlo. La privazione della memoria è l’annichilimento dell’essere umano».
Le mani di Nemo tremavano e gli occhi irroravano lacrime di rabbia. Rimase in silenzio qualche minuto meditando di scappare, ma prima di andarsene in un filo di voce domandò: «È un processo irreversibile?»
Andegor rivolse un’occhiata affranta all’amico che si preparò a riferire l’amara risposta: «Non conosco l’esatta procedura ma… sì, lo è».
A quel punto cominciò a correre senza più voltarsi indietro.
«Forse non avrei dovuto portarlo qui» commentò il capo della comunità amareggiato.
Virgil rafforzò la stretta sulla sua spalla: «Ha sempre vissuto nel buio e tu gli hai illuminato il cammino. Non abbiamo la certezza che sia stato un esperimento di Urbia ma non c’è dubbio sul fatto che non appartenga a queste terre».
Annuì: «Quando l’ho visto rialzarsi dalle macerie dell’esplosione perfettamente illeso, ho capito che Nemo non è uno qualunque. E se Urbia ha pensato di cancellare i suoi ricordi significa che lo temeva profondamente».
«E se era tanto temuto noi lo aiuteremo a tornare in auge» aggiunse inarcando la bocca.
Andegor non poteva sorridere ma se avesse potuto la sua espressione sarebbe rassomigliata a quella del compagno.
 
Nemo si precipitò nelle prigioni, quasi volesse marcire volontariamente lì dentro per sempre. Improvvisamente fu colto dall’atroce timore che anche lui come Virgil non invecchiasse e allora la prigionia sarebbe stata la peggiore delle condanne. Iniziò a colpire la parete di pietra, una, due, tre, dieci volte ma la sua mano non mostrava alcun segno di frattura. Urlò disperato e prese a percuotere anche la testa, avvertiva il dolore sulla fronte ma nessuna ferita si apriva per sanguinare.
«Perché?! Perché?!» si gettò sulle ginocchia osservando le proprie mani. Ora comprendeva le parole che Andegor gli rivolse la prima volta che si era incontrati.
«E cosa saresti tu se non a tua volta un Mostro?»
Riprese a piangere affondando la faccia sulle cosce e stringendo le mani nei pugni. Che ne era di lui adesso? Qual era il suo posto? Forse doveva affiancare Virgil nei suoi lavori forzati per redimersi di un passato che non conosceva? Un processo irreversibile… che senso aveva vivere come un’ombra, un fantasma che attraversava luoghi e conosceva gente senza mai potersi materializzare? Si sentiva come un viandante, un uomo che viveva sempre di passaggio, sfuggente, irraggiungibile. Ripensò a Bea, alla loro promessa, alla loro amicizia, così vera, così tremendamente vera che temeva di non averla mai vissuta e strinse il fazzoletto ­ miracolosamente scampato all’esplosione ­ per ravvivare il ricordo dell’amica. Che cosa pensava Bea di Nemo? Nemo era nessuno, era un’ombra, un uomo di passaggio.
«Nemo».
Di colpo quel nome fu proferito da qualcuno, relegandogli una consistenza, la parvenza di un significato.
«Nemo?»
Si destò bruscamente mentre lo sentiva pronunciare di nuovo e si voltò verso l’uscio su cui si stagliava la figura orripilante ma rasserenante di Andegor.
«Ascoltami, Nemo, so che sei sconvolto». Si avvicinò alla luce della candela rivelando l’espressione minacciosa che però apparteneva a un uomo saggio e mansueto. «Il mio intento non era quello di convincerti che sei una cavia di Urbia, di questo non possiamo esserne certi. Il punto è che voglio indicarti la via».
Quell’uomo era troppo intelligente e indubbiamente sprecato per un’esistenza atta a ripulire una zona contaminata dalle radiazioni di un’esplosione nucleare.
«Se non puoi riappropriarti dei tuoi ricordi, allora basa la tua vita sull’esperienza che hai vissuto fino a oggi. Concentrati sulle sensazioni che hai provato, impara dalle persone che hai conosciuto. Se decidiamo di prescindere la tua esistenza dalla memoria perduta, quale sarebbe il tuo scopo al momento? Non c’è un desiderio che infiamma la tua anima?»
Ci fu una lunga pausa. Come sempre Andegor rispettò le tacite riflessioni del compagno con placida pazienza.
«Sì, c’è qualcosa… c’è qualcosa» mormorò quasi a se stesso.
«Bene, Nemo, di che si tratta? Dimmelo e io ti aiuterò a ottenerla».
«È la vendetta».

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Capitolo 5
*** L'Estrema frontiera ***


 
L’ESTREMA FRONTIERA
Nemo si presentò nell’ufficio di Andegor di buon’ora. Quando entrò si accorse che c’era Virgil al suo fianco e a stento trattenne il disagio che lo pervadeva ogni volta che se lo ritrovava di fronte.
«Siediti, Nemo. Dobbiamo parlare» lo invitò con la sua contraddistinta calma.
«Che ci fa lui qui?» ribatté ostile senza muovere un passo.
Sospirò attraverso i denti scoperti: «D’accordo, andremo al dunque. Ho deciso di acconsentire al tuo desiderio, Nemo» cominciò «ma a una condizione».
Il giovane si allarmò.
«Virgil ti accompagnerà».
Scattò in avanti brandendo un pugno: «No! Non lo voglio con me, non mi fido di lui».
Silenzioso fino a quel momento, Virgil intervenne: «Posso comprendere la tua diffidenza nei miei confronti, Nemo, ma devi ammettere che hai bisogno di me se vuoi introdurti nelle Terre Imperiali».
Indietreggiò di un passo, abbassando il pugno: «Grazie, ma farò a meno del tuo aiuto» quindi si rivolse ad Andegor «e tu, come puoi fidarti di un ex soldato dell’Esercito imperiale? Non crederai che basti spalare un po’ di cemento perché possa convincerti della sua buona fede?»
L’uomo scosse la testa, come sempre faceva quando era sicuro delle sue idee: «Virgil ha vissuto con noi per quarant’anni. Ha viaggiato per un po’ ma poi è tornato qui. Ha preferito vivere fra i Mostri che fra gli uomini».
«Concedimi almeno la possibilità di accompagnarti fino all’Estrema Frontiera» riprese Virgil portandosi una mano sul cuore.
Ringhiò spostando il peso da una gamba all’altra. Non aveva altra scelta, pare.
 
«Non voglio scoraggiarti ma tutti quelli che hanno oltrepassato il confine non sono mai tornati indietro, eccetto…»
«Eccetto Virgil» lo agganciò lanciando un’occhiataccia all’oggetto della discussione.
«Già, di lui puoi fidarti. È l’unico fra noi che ha conosciuto il bello e il buono dell’Impero, inoltre potrà agevolarti negli spostamenti evitandoti trappole e posti di blocco» spiegò, poi si arrestò pensoso. «Di chi è che vuoi vendicarti, Nemo?»
Sedette, stanco: «Di coloro che mi hanno privato del mio nome» precisò.
«E come farai? Non hai alcun indizio, non hai neppure la certezza che sia stato il Governo» ribatté preoccupato.
Gli prese una mano, era ruvida e scheletrica, come il resto del suo corpo. «Tu mi hai aperto gli occhi, Andegor. Sei stato come un maestro per me, mi hai insegnato a scrivere poesie, a suonare la chitarra, a riconoscere le stelle, a scandire il tempo» strinse le dita affusolate. «Mi hai insegnato a camminare».
«Avrei voluto aiutarti a ricordare» sussurrò.
«No, adesso devo farcela da solo» e si alzò imbracciando la borsa. Prima di uscire dall’ufficio gli si rivolse un’ultima volta: «Perché mi hai chiesto di scriverti la canzone, Andegor?»
Se anche gli era anatomicamente impossibile sentiva di dover sorridere, felice di poter rispondere a quella domanda: «Perché non potessimo dimenticarla. Ricorda: verba volant, scripta manent» recitò e il ragazzo si voltò a guardarlo commosso. «Nessuna Damnatio memoriae potrà cancellarla se saranno i Mostri a preservarla» concluse.
 
Nemo e Virgil iniziarono il loro viaggio diretti all’Estrema Frontiera, un’immensa barriera di granito costruita dal Governo subito dopo la ribellione dell’Hispania, e al di là della quale di estendeva la provincia di Danubia. La muraglia esisteva già come barriera naturale ma lo Stato aveva pensato di rafforzarne la solidità per impedire ai cittadini di emigrare e agli “stranieri” di penetrare. Virgil era stato uno dei pochi a superarla nel tentativo di ritrovare una persona cara per portarla con sé a Notre Dame, tuttavia quando capì che rintracciarla sarebbe stata un’impresa impossibile, tornò indietro.
Nemo provava sentimenti contrastanti per quell’uomo, lo ammirava per il suo coraggio ma lo disprezzava per il suo passato. Andegor una volta gli disse che dal passato non si poteva scappare, chissà, magari Virgil lo aveva accompagnato per affrontare i suoi fantasmi. Infondo tutti avevano una missione da compiere.
«Ho riflettuto a lungo sulla strategia cui dovremo attenerci una volta dentro» disse Virgil interrompendo le sue cogitazioni.
«Strategia?»
«Non vorrai introdurti nella provincia di Danubia senza un piano, spero. All’interno dello Stato tutti sono qualcuno. Ognuno ha il suo posto, il suo ruolo, dunque non esistono mendicanti, senzatetto o clandestini. I controlli sono serrati» spiegò e nel sospingere il cavallo al trotto l’animale sbuffò.
Dopo l’esplosione in cui gli uomini di Ribera avevano perso la vita, Nemo aveva condotto i cavalli nel villaggio dei Mostri per non abbandonarli a se stessi. Adesso erano di nuovo i suoi compagni di viaggio.
«Gli unici a non possedere una vera e propria identità sono i servi o, come preferisco chiamarli io, gli schiavi».
«Schiavi?» si accigliò.
Il Forte dell’’Estrema Frontiera includeva nel suo perimetro un’enorme prigione in cui erano educati gli schiavi. Lo Stato insegnava loro le buone maniere e tutti quei mestieri che erano richiesti dai compratori. Se un ricco borghese necessitava di un eccellente scribacchino pretendeva il massimo nei parametri della velocità e dell’attenzione; una nobildonna, invece, richiedeva una schiava che fosse capace di acconciare i capelli, versare il tè, ricamare e preparare unguenti.
«È come andare al mercato, insomma» scherzò, quindi lanciò un’occhiata beffarda al compagno. «Dì la verità, Nemo, tu che cosa vorresti?» chiese per stuzzicarlo.
Quella domanda lo mandò in confusione e impiegò diversi minuti a rispondere: «Io non comprerei mai un essere umano!»
Virgil schioccò la lingua scuotendo la testa: «Non ci siamo, non ci siamo» e lo guardò con attenzione «non è così che ragiona un uomo dello Stato. Devi apparire cinico, razionale, pragmatico».
Abbassò lo sguardo serrando i denti.
«No, Nemo, no. Un uomo dello Stato non abbassa mai lo sguardo, egli guarda tutti negli occhi» riprese alzando la voce.
Il giovane sussultò irritato: «Insomma il tuo piano è quello di trasformarmi in uomo dello Stato?»
Inarcò le labbra in un sorriso sghembo: «Ti sei mai guardato allo specchio, Nemo?»
Ancora una volta non comprese dove volesse andare a parare. Scosse la testa.
«Beh, devi sapere che sei un bel ragazzo. Un tipo attraente» riprese senza smettere di sorridere.
Arrossì violentemente.
«Già, piaceresti alle donne e molto probabilmente anche agli uomini» osservò compiaciuto.
Incrociò il suo sguardo celando della preoccupazione, non si spiegava il motivo per cui quel discorso lo innervosì.
«La bellezza è un’arma potente e tu ne se in possesso» aggiunse stranamente serio. «Ti apre molte strade».
«Vorresti vendermi per i piaceri carnali di qualcuno?» sussurrò tagliente.
«Perché sei sempre così suscettibile? No, hai frainteso. Sto solamente cercando di spiegarti come funziona. All’interno dello Stato tutti hanno un compito e se vogliamo infiltrarci nel sistema dobbiamo averne uno» ribatté pacato.
Iniziava a capire, Virgil aveva ragione. Se entrambi non avevano un’identità all’interno dello Stato non avrebbero potuto essere altri che schiavi. Strinse le briglie tra le dita. «E se ci uccidono? Se ci beccano all’esterno della prigione credendoci degli evasi?»
Virgil annuì, trovando pertinente quella domanda: «Non voglio mentirti, Nemo. È una possibilità. Ma se vuoi compiere una grande missione devi affrontare grandi rischi».
«Una grande missione?» aveva definito così quel folle viaggio.
Sospirò prima di guardarlo dritto negli occhi: «Io non so chi sei, Nemo, ma sento che tu sei stato qualcuno di molto, molto importante una volta».
I battiti nel petto accelerarono. Il signor Nessuno era stato qualcuno di importante? Quell’idea gli suscitò un’allegra risata cui Virgil reagì distogliendo lo sguardo sopra un sorrisetto sghembo.
«Ridi pure, Nemo. Ma possono essere straordinarie le azioni di un uomo se dettate da un animo puro e da uno scopo valido» si arrestò un momento, poi riprese «sento che per te è stato così».
«E tu perché lo fai?» chiese impedendosi di apparire lusingato da tanta ammirazione.
«Ho centoventuno anni, Nemo. Non posso vivere per sempre spalando macerie, se devo morire prima o poi, voglio farlo per qualcosa di importante».
Si rizzò, colpito, e decise di non aggiungere altro affinché quelle parole potessero ripetersi all’infinito nella sua testa per il resto del viaggio, simile a una silenziosa preghiera.
Il tragitto che li condusse fino al confine fu tranquillo ma inquietante. Nemo ebbe modo di comprendere il motivo per cui le Terre Perdute erano considerate temibili e spaventose. Durante il viaggio aveva avvistato in lontananza branchi di cervi a due teste o uccelli grossi come draghi. In alcuni punti della distesa temperata aveva intravisto un luccichio fluorescente nel bel mezzo della notte buia. La guerra atomica aveva creato il “Mondo dei Mostri”, un luogo bizzarro ma ricco di fascino che Nemo amava paragonare a quello delle favole. Si sentiva infatti come uno di quegli orfani alla ricerca della sua casa, costretto a superare diversi ostacoli in una terra impervia e sconosciuta.
Impiegarono due giorni per arrivare al confine, fermandosi soltanto per dormire qualche ora. Il Forte era sorvegliato dai Vigilanti, appostati nei gabbiotti costruiti sui bastioni, da cui potevano sparare con potenti fucili di precisione. Pertanto, decisero di penetrare di notte approfittando dell’oscurità.
Nemo esaminò turbato i fari che si proiettavano fino a due miglia dalla barriera e sentiva che le gambe tremavano in maniera incontrollabile.
«Non preoccuparti» lo rassicurò il compagno come leggendogli nel pensiero, «ci sono dei punti ciechi e io li conosco tutti». Tirò fuori dalla bisaccia un vecchio modello di AK-47 controllandone le munizioni, quindi lo passò a Nemo. «Sai come si spara, ho notato che te la cavi» disse con il piglio di un sergente che parlava al suo commilitone.
Era vero, proprio come quando salì a cavallo e guidò la bestia al galoppo, imbracciare un’arma si rivelò un’esperienza fin troppo familiare. Si sentiva stranamente a suo agio con un fucile d’assalto di due chili e mezzo in mano, inoltre esercitandosi con Virgil, aveva scoperto di essere anche un eccellente tiratore. Forse, come il suo compagno, era stato un soldato al servizio dell’Impero e quell’idea lo atterrì.
«Ascoltami bene» riprese caricando anche il proprio fucile, un’automatica di fabbricazione pre-imperiale, «adesso dovrai seguirmi come un’ombra, non prendere iniziative personali e cerca di non fare rumore» ordinò perentorio.
Nemo annuiva mentre l’adrenalina fluiva nelle sue vene, le gambe non tremavano più e si sentiva più lucido che mai. Iniziò a correre al seguito del compagno cercando di contenere l’affanno dell’ansia e della fatica. In pochi minuti raggiunsero il muro della barriera mentre le proiezioni luminose dei fari fluttuavano alle loro spalle. Virgil indicò una delle porte di accesso e si appostò a un margine invitando Nemo a fare lo stesso dall’altra parte. Nel momento in cui uno dei Vigilanti fosse uscito per l’ispezione all’esterno, entrambi lo avrebbero sequestrato per sfruttare il suo trasmettitore.
I controlli all’esterno iniziavano all’alba quando la luce rendeva difficile il tentativo dei ribelli di attaccare. Il sole aveva appena fatto capolino dalle montagne oltre la barriera quando i bastioni della porta si aprirono per fare passare due Vigilanti. Nemo e Virgil si scambiarono uno sguardo smarrito nell’apprendere che avrebbero dovuto vedersela con due sentinelle. Nemo scosse la testa in maniera convulsa mentre il sudore gli imperlava la fronte, Virgil, invece, agì in fretta. In due semplici mosse colpì un Vigilante alla testa con il fucile roteando fino all’altro che atterrò con un calcio nello stomaco. A quel punto riprese a colpire sul volto il secondo ancora cosciente mentre urlava a Nemo di impossessarsi dei loro trasmettitori. Il ragazzo obbedì e strappò gli aggeggi che i soldati tenevano allacciati al colletto della tuta antisommossa. Uno dei trasmettitori gracchiò e Nemo incontrò lo sguardo turbato ma lucido di Virgil.
«Passamelo» ordinò in un bagno di sudore. La mano di Nemo glielo consegnò tutta tremante e attese la prossima mossa dell’alleato.
«Vigilante all’esterno, niente da riferire. Passo» disse nel trasmettitore.
Nemo assisteva affascinato ma terrorizzato. Attesero la risposta dei colleghi all’interno ma non arrivò. Virgil apparve sempre più nervoso e Nemo stava considerando l’idea di ritirarsi. Lanciò diverse occhiate al paesaggio sconfinato che si estendeva intorno alla barriera ma Virgil scosse lentamente la testa intuendo il suo proposito.
«Ricevuto» gracchiò improvvisamente il trasmettitore. I compagni si guardarono liberando un sospiro di sollievo, quindi passarono alla seconda fase del piano. Spogliarono i Vigilanti delle loro tute verdi e dei caschi integrali per indossarli sperando nel frattempo che le taglie coincidessero. Quella di Virgil era un po’ troppo stretta per la sua mole gigantesca ma cercò di sopportarla. Ciò che lo infastidiva di più era il cavallo dei pantaloni che decisamente troppo stretto. Abbandonarono le proprie armi in mezzo ai cespugli spontanei che si arrampicavano lungo la cinta muraria e dopo aver indossato i caschi si prepararono a rientrare. Per quanto si fosse rivelato difficile fino a quel momento, la parte più complessa iniziava adesso. La presenza di due Vigilanti aveva permesso ai due compagni di penetrare nell’avamposto militare insieme facilitando le cose. Il piano iniziale prevedeva che solamente uno dei due si camuffasse perché lasciasse entrare il compagno sotto forma di prigioniero. A quel punto avrebbero persino potuto evitare di mischiarsi agli schiavi.
I bastioni di ferro si aprirono e i due finti Vigilanti calcarono il suolo imperiale.
Il Forte, compreso di una prigione e un altoforno in cui erano fabbricate armi e munizioni, presentava un vasto piazzale dove un esiguo manipolo di Vigilanti stava compiendo delle esercitazioni di fanteria. Quando erano in servizio, i soldati evitavano di parlare, vigeva una rigida disciplina che, allo stato delle cose, non poteva che beneficiare la situazione dei due intrusi.
L’esercito imperiale contava diverse forze armate costituite dai Vigilantes, i quali si distinguevano in Vigilanti di Polizia, da Campo e di Frontiera. I primi operavano all’interno delle città nella tutela dell’ordine pubblico, equipaggiati di uniformi bianche e armi leggere; i secondi appartenevano alle unità impegnate in zone di guerra e che svolgevano missioni di breve durata, indossavano l’uniforme mimetica dai toni verdi e marroni armati soprattutto di armi automatiche; i terzi, dalle caratteristiche uniformi verde muschio, erano assegnati ai luoghi di confine o a guardia di mura e passaggi strategici all’interno dell’Impero.
Tra i Vigilanti rientravano, infine, i militari dell’Armata Speciale dei cosiddetti Praesidia, che operavano nelle missioni segrete, svolgendo anche operazioni d’Intelligence, e che spesso erano confinati agli avamposti delle terre in rivolta. Indossavano la distintiva uniforme scura completa di elmetto bianco, equipaggiati di armi ad alta tecnologia, come i fucili a laser o i moschetti incendiari.
Nemo seguì Virgil mentre prendeva posizione davanti all’ingresso delle prigioni. Capì che quei gesti erano familiari per lui e che in passato aveva lavorato anche sulla Frontiera. Restarono lì impalati per ore senza poter scambiare una parola, avevano riposizionato i trasmettitori e ogni parola sarebbe stata intercettata dal nemico. Le gambe di Nemo tornarono a tremare tanto che temette potessero essere visibili a tutti. Virgil appariva invece freddo e compassato nella sua posizione, ma percepiva quanto fosse nervoso.
Il sole era allo zenit quando uno dei Vigilanti si avvicinò accigliato. Differentemente dagli altri, portava una fascia decorata sul braccio, con tutta probabilità si trattava di un Vigilans Maggiore.
«Che cosa state aspettando? C’è la pausa pranzo, oppure volete digiunare tutto il giorno?»
Ai soldati era concesso un solo pasto durante il servizio che durava mediamente dalle 8 alle 12 ore con una pausa di circa due ore. Un mestiere duro ma ben ricompensato, la paga era buona e per i più ambiziosi poteva aprirsi la strada della politica. Il cibo era altamente calorico, costituito da pane, carne e frutta, tutto ciò che forniva le giuste quantità di proteine e vitamine necessarie a svolgere un’attività tanto impegnativa. Dopo essersi sfilati il casco mostrando a tutti il proprio volto, gustarono il rispettivo pasto come se fosse l’ultimo della loro vita, a quel punto il loro piano poteva essere sventato da un momento all’altro. Fortunatamente nessuno fece caso a loro né rivolse a loro la parola.
A un certo punto, però, un giovane soldato si avvicinò al Vigilans Maggiore, parlandogli animoso. Quello accolse la sua informazione con un evidente pallore sul viso e si precipitò nel suo ufficio. Dopo qualche minuto la sua voce rimbombò dagli altoparlanti: «I Vigilanti Kroeger e Algas si presentino immediatamente a rapporto. Ripeto: i Vigilanti Kroeger e Algas si presentino immediatamente a rapporto».
Nemo e Virgil si scambiarono uno sguardo eloquente e compresero di essere in un mare di guai. Il loro travestimento era finito. Sperarono di resistere fino alla fine del loro turno ma qualcuno doveva essersi accorto che i Vigilanti che stavano impersonando non avevano svolto alcune pratiche di routine. Virgil fece un cenno a Nemo e insieme si diressero nell’altoforno. Nessuno considerò insolita la loro presenza lì dentro e proseguirono fino a un magazzino di imballaggi. L’area era deserta.
«Togliti la tuta» ordinò Virgil facendo lo stesso con la propria.
«Cosa? E come usciremo da qui inosservati senza il travestimento?» protestò allarmato da quell’iniziativa.
«Non capisci? Non usciremo mai da qui come soldati! Prima di finire il turno scopriranno dello scambio di persona. Dobbiamo fare sparire queste tute» rimbeccò seccato.
Nemo si arrese e si spogliò della calda e morbida uniforme verde. Si nascosero all’interno del magazzino fino a sera quando, suonata la sirena del cambio di guardia, uscirono dal nascondiglio per dirigersi nuovamente all’altoforno. Virgil appallottolò le tute e le gettò nel fuoco lavico del laboratorio, quindi si diresse verso un’uscita secondaria. Nemo non ce la faceva più a starsene zitto e intervenne per fare chiarezza sulle loro prossime mosse: «Che diavolo stiamo facendo? Dove andremo adesso?»
«Laggiù» rispose l’amico indicando l’imponente palazzo delle prigioni.
«Sei ancora convinto che come schiavi avremo una possibilità?» reagì nervosamente.
La pazienza abbandonò le membra irrigidite di Virgil che afferrò il colletto del ragazzo: «Conosco molto bene questo posto e se dico che come soldati non usciremo mai vivi di qui puoi credermi» allentò la presa. «In questo momento stanno setacciando questo posto alla ricerca dei due Vigilanti scomparsi ma, quando realizzeranno che non v’è traccia né di loro né delle loro tute, crederanno che avranno disertato. Succede spesso».
Nemo parve calmarsi di fronte a quella rapida spiegazione e non poté fare altro che accettare il suo destino.
«Sei pronto, quindi? Tra poco sarai davvero il signor Nessuno» scherzò senza ilarità. «Seguimi senza fiatare» e uscì all’esterno.
Il buio della notte copriva i movimenti e il rumore della marcia dei soldati o degli spari in esercitazione celò i passi. Giunti nel vicolo che li separava dalle mura delle prigioni, Virgil tornò a sciorinare ordini: «Dirigiti nel braccio dei Senza Nome, mi hai sentito?»
Gli occhi del ragazzo tremarono e al cuore mancò un battito.
«Nemo, mi hai sentito?» gli prese una guancia per destarlo e lui parve riaversi.
«Sì, sì, i Senza Nome, ho capito».
«Bene, io sarò dietro di te. Ti coprirò le spalle» concluse e, inaspettatamente, lo abbracciò. «Buona fortuna, amico».
Nemo non ebbe il tempo, né la forza di ricambiare l’augurio, tale era l’emozione che gli riempì il petto.
Ripresero a correre insinuandosi negli stretti e tortuosi corridoi del palazzo fino al terzo piano dove due Vigilanti erano posti a guardia del cancello di ferro. Virgil lanciò un sasso nel corridoio opposto e una delle due sentinelle si allontanò.
«Ehi! Siamo qui!» bisbigliò sotto gli occhi attoniti di Nemo. Il Vigilante svoltò l’angolo e Virgil lo tramortì con una gomitata in faccia. «Andiamo» lo esortò impossessandosi delle chiavi, quindi si introdussero nel braccio dei Senza Nome.
L’altra sentinella tornò al suo posto e a quel punto scoprì il corpo sanguinante del collega riverso a terra. Comunicò qualcosa nel trasmettitore e controllò le porte della cancellata. Sembrava tutto a posto.
«Pare che infiltrarsi in una prigione sia complicato tanto quanto evadere da essa, eh?» commentò Virgil in vena di scherzi.
«E pensare che poco fa mi hai quasi commosso con le tue moine» ribatté Nemo a tono.
Il compagnò si fermò di colpo e assunse la sua espressione bieca: «Non dimenticarti di quell’abbraccio, smemorato. Se sopravvivrai a questa prigione, il mondo che ti aspetta fuori non sarà limpido e puro come quello che hai conosciuto insieme ad Andegor».
Quel nome scatenò in Nemo una tempesta di emozioni.
«Nei momenti di maggiore difficoltà quell’abbraccio ti conforterà, proprio come quella canzone» continuò imperterrito. «Ora più che mai hai bisogno di saper discernere i sentimenti affinché tu possa imparare a capire di chi puoi fidarti e di chi non puoi».
«Ho capito, Virgil. Ho imparato a fidarmi di te troppo tardi» intervenne rassegnato. Virgil abbozzò un breve sorriso e annuì.
Attraversarono il braccio dei Senza Nome, decidendo dentro quale cella preferivano introdursi. D’altronde sarebbe stata la loro casa per chissà quanto tempo.
«Io scelgo questa qui» disse Virgil con le mani sui fianchi. Le persone lo fissavano terrorizzate al di là delle sbarre.
Mentre apriva il cancello per entrare, Nemo iniziò a riflettere sulla piega che avrebbe preso la sua vita a partire da quel momento. Non poteva scegliere la stessa cella di Virgil, rischiavano di destare sospetto fra i prigionieri, però non voleva staccarsi da lui. Proprio quando aveva iniziato a considerarlo un amico, doveva dirgli addio.
«Ci ritroveremo un giorno» lo destò leggendogli nel pensiero come solo lui sapeva fare. «Sarò un eccellente soldato, oppure un buon macchinista. Sappi almeno questo, così saprai da dove iniziare a cercarmi» gli suggerì borioso.
Strinse i pugni lungo i fianchi sul punto di crollare: «E io? Che cosa sarò io? Come mi troverai?» le lacrime bagnarono le ciglia.
«Tu sarai “qualcuno”, Nemo, qualcuno di molto, molto importante. Tutti sapranno chi sei» rispose e dagli occhi del ragazzo scivolarono copiose lacrime. «Adesso vai!» lo esortò.
 
Nel braccio dei Senza Nome i prigionieri, costituiti per lo più da uomini caduti in disgrazia, prostitute, figli di debitori, orfani e “stranieri”, affrontavano una prima selezione perché potessero iniziare il loro “corso di formazione”. La selezione partiva dall’aspetto esteriore per concentrarsi poi sulle rispettive qualità e caratteristiche, basando l’addestramento sulle attività in cui eccellevano di più. Era un percorso lungo e poteva capitare che qualcuno risultasse inefficiente in qualsiasi materia tanto che i scrutinatori potevano decidere di spedirlo alle miniere o di condannarlo alla fucilazione. Nell’Impero di Urbia tutti erano utili ma nessuno era indispensabile, se poi risultava persino inetto si avanzava la pretesa di farlo fuori senza tanti complimenti.
Nemo aveva affrontato la prima selezione scorgendo nei volti degli educatori espressioni che guizzavano dalla meraviglia al compiacimento. Lo avevano totalmente denudato invitandolo a sfilare al loro cospetto. Li sentiva bisbigliare sulla sua altezza, sul peso, sui capelli, sull’incarnato, sul bizzarro colore degli occhi (poiché era affetto da eterocromia) e persino sulla sua voce. Dopodiché lo trasferirono in un altro settore insieme ad altri detenuti, tutti sani e prestanti. Osservandoli nelle loro uniformi striminzite, si rendeva conto di cosa intendesse Virgil per bellezza esteriore. Tutto ciò che appariva superficialmente intatto, come una terra vergine e inesplorata, come una zona “incontaminata”, diventava qualcosa di appetibile e desiderabile. I prigionieri risiedevano in celle comuni ma maschi e femmine vivevano separati, solo a pranzo condividevano la medesima mensa. Quello era l’unico luogo in cui era possibile confrontarsi con l’altro sesso, quello che Nemo gradiva e verso cui si sentiva maggiormente attratto. Era consapevole dell’interesse che suscitava in alcuni suoi compagni di cella ma cercava di evitare i loro sguardi per non cadere in fraintendimenti. Con le donne era diverso, si ritrovava a fissarle, incrociava i loro occhi e godeva dell’elettricità che gli provocava il loro casuale tocco. Aveva già provato una simile sensazione, con Bea: un brivido lungo la schiena, un’inesauribile curiosità. Si chiese se la bellezza fosse una faccenda soggettiva. Per quanto Bea fosse magra e minuta, la trovava indubbiamente più affascinante di tutte quelle che lo circondavano. Quelle prigioniere erano assai proporzionate, avevano gambe lunghe, denti dritti e tanta carne addosso. Una volta Andegor gli disse che “la bellezza era in tutto ciò che ci faceva stare bene”. Forse era per questo che trovava Bea così bella, perché lo faceva stare bene. Dunque la bellezza non era qualcosa che si contemplava ma qualcosa che si percepiva.
Sedette su uno sgabello girevole lasciandosi trascinare dall’inerzia del movimento. Pensava ad Andegor e a quanto gli mancassero i suoi consigli. Rimpiangeva il tempo trascorso insieme ai Mostri che, per quanto breve, lo aveva segnato profondamente. Posò un piede per terra arrestando il movimento della seggiola e tornò con la mente all’abbraccio di Virgil. Era come diceva lui, lo riscaldava nelle notti fredde, lo rassicurava nei momenti di sconforto. Virgil non era stato selezionato per il suo settore e ormai poteva essere ovunque.
La seconda parte della selezione prevedeva un saggio delle qualità dei prigionieri che prescindeva dal loro fascino. Con sua sorpresa, Nemo risultò il più abile nella lotta libera, nella scherma e nelle armi da fuoco. Inoltre dimostrò di possedere un buon senso del ritmo ballando un valzer e accompagnando un cantante con la chitarra. In realtà aveva imparato a strimpellare nel villaggio dei Mostri poiché quella era un’attività indubbiamente nuova per lui, anche nella sua vita precedente.
Spesso temeva di attirare un po’ troppo l’attenzione su di sé per cui qualche volta cercò di apparire maldestro. Voleva evitare che gli educatori gli porgessero qualche domanda sul suo passato ma fortunatamente a nessuno importava chi fossero stati prima i Senza Nome.
Il corso formativo di Nemo proseguì per oltre tre mesi. Aveva imparato attività familiari e sconosciute che lo allontanavano sempre di più dal vecchio Nemo, quello ingenuo e insicuro, che camminava a testa bassa, che non sapeva controllare le proprie emozioni. Era un nuovo Nemo, adesso, pronto per essere acquistato.
Erano davvero in pochi coloro che lo affiancarono nelle celle definitive che, tra l’altro, assomigliavano a delle camere d’albergo. Ognuno aveva la propria stanza con tanto di letto, comodino e tappeto. Un vero lusso rispetto ai tempi della prima selezione.
«Ehi, n. 856» lo chiamò un compagno dalla propria stanza.
Nemo accorse e lo trovò disteso sul letto con le mani sulla testa. Era n. 543, uno tra i prigionieri più affascinanti e gentili del suo settore. Portava i capelli biondi in morbidi riccioli e il corpo asciutto e robusto era levigato come il marmo. Inoltre era un impareggiabile musico e ballerino.
«Ho paura, siamo arrivati fino a questo momento e ho paura» confidò con voce tremante.
«Non devi, hai dimostrato cosa sai fare e sarai premiato per questo» lo rassicurò.
«Davvero?» si sollevò per guardarlo in faccia rivelando le lacrime «Invece potrebbe essere solo l’inizio della fine!»
«Perché dici queste cose?» intervenne scuotendo la testa.
«Saremo schiavi… saremo solo la loro merce. Da domani non saremo qualcuno, domani perderemo per sempre noi stessi» sentenziò singhiozzante.
Nemo ritornò nella sua stanza sconsolato. Comprendeva i sentimenti di n. 543, era normale avere paura, ma per lui era diverso. Era arrivato fino a questo punto per uno scopo, la sua vera missione stava per iniziare. L’indomani sarebbe diventato una parte di quel sistema che voleva distruggere.
 

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