Le Cronache della Famiglia Cangramo: il Risveglio dei Lupi

di Il_Signore_Oscuro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La dama di bronzo - (Severo) ***
Capitolo 2: *** Odore di menta e di mare - (Miranda) ***
Capitolo 3: *** Alla luce delle candele - (Arturo) ***
Capitolo 4: *** Il Canto del Metallo - (Carlo) ***
Capitolo 5: *** I segreti di un Conte - (Sebastiano) ***
Capitolo 6: *** Fiori variopinti d'oriente - (Miranda) ***
Capitolo 7: *** L'arte del ferro e del fuoco - (Arturo) ***
Capitolo 8: *** 'La Caccia Selvaggia' - (Sebastiano) ***
Capitolo 9: *** La mano che ti nutre - (Carlo) ***
Capitolo 10: *** Ospiti Importanti - (Arturo) ***
Capitolo 11: *** Il lupo dentro - (Sebastiano) ***
Capitolo 12: *** Una guerra da donne - (Miranda) ***
Capitolo 13: *** Il Sangue e la Furia - (Sebastiano) ***
Capitolo 14: *** Piume di Corvo - (Sebastiano) ***
Capitolo 15: *** Quante cose sa il cucciolo di cane-lupo - (Arturo) ***
Capitolo 16: *** Scacco Matto - (Carlo) ***
Capitolo 17: *** Le foglie d'autunno e i fiori della primavera - (Miranda) ***
Capitolo 18: *** Il lupo e il cinghiale - (Arturo) ***
Capitolo 19: *** Il primo Cangramo - (Sebastiano) ***
Capitolo 20: *** Il ritorno del cavaliere - (Carlo) ***
Capitolo 21: *** Il Pezzo che mancava - (Miranda) ***
Capitolo 22: *** Chiamerai fratello il tuo nemico - (Sebastiano) ***
Capitolo 23: *** Ofelia e il Principe Nero - (Arturo) ***
Capitolo 24: *** Qualcosa che si spezza - (Miranda) ***
Capitolo 25: *** Morire, dormire, forse sognare - (Carlo) ***
Capitolo 26: *** Sulle ali della guerra - (Sebastiano) ***
Capitolo 27: *** Le opere e i giorni - (Carlo) ***
Capitolo 28: *** Il complesso del pedone - (Arturo) ***
Capitolo 29: *** L'altra faccia - (Miranda) ***
Capitolo 30: *** Il lupo - (Arturo) ***
Capitolo 31: *** Un'altra, la mano che ora ti nutre - (Carlo) ***



Capitolo 1
*** La dama di bronzo - (Severo) ***


Capitolo I
La dama di bronzo
(Severo)
 


 
Quando si mette piede nel Valga per la prima volta, ciò che subito salta al naso è l’olezzo di pesce: un odore dolciastro e penetrante. All’inizio se ne è disgustati, fa ribrezzo e cresce la voglia di rifuggirlo in tutta fretta. Ma poi si finisce per farci l’abitudine. Si finisce quasi per non sentirlo più, quell’odore: perché è essenza e respiro che permea la gente della città, le assi dei pontili d’ormeggio, l’aria stessa. Allora il Valga è parte d’una persona come la persona è parte della città, e la città un angolo di terra strappato alle spire del mare.
Un dedalo di baracche affollate l’una sull’altra, spazzate dal vento e dalla salsedine, affacciate su di una banchina a ridosso del Golfo del Cane-Lupo. Mentre la Rocca Grigia, dal suo seggio nell’altipiano, veglia sugli abitanti e il porto sotto il suo dominio. Dall’altipiano la terra cade a picco verso est, affilandosi in scuri artigli di scogli che ripetono il loro monito alle navi di passaggio: il cane è docile, ma sveglia il lupo e pagherai con il sangue.

Severo Cangramo, Conte del Valga, ripeteva fra sé e sé queste parole mentre procedeva verso lo scalo, con il suo primogenito al fianco e un manipolo di soldati a far largo nella folla di curiosi.

«Spostatevi, avanti!»
«Lasciate il passo!»
«Largo! Largo!»

Qualcuno fu preso di peso e levato dalla strada, qualcun altro se la diede a gambe ancor prima d’essere veduto. I popolani, ai lati della strada, squadravano il loro signore. Sulla destra un mercante tutto proteso in inchini e riverenze, con il berretto rosso di velluto che gli danzava sul capo.  In segreto la sua lingua schioccava e i suoi occhi scuri si posavano con troppa insistenza sul farsetto sobrio e gli spallacci d’acciaio del Conte, mentre le dita sferragliavano gli anelli d’oro l’uno contro l’altro. Più avanti, sulla sinistra, una donna dai capelli color miele lo fissava e basta, con le braccia  saldamente incrociate dinanzi al petto, una piccola daga di ferro al fianco. Mentre quella che doveva essere la sua anziana madre teneva china la testa in segno di rispetto, con il volto inciso fin troppo severamente dall’età.
E ancora un mendicante avvolto di stracci grigi se ne stava in piedi sorretto dal suo bastone, nella cornice sconquassata dei capelli e della barba ramata. Egli aveva l’ardire di ghignare, strizzando un poco gli occhi verso il Conte e il suo seguito: il suo occhio destro era avvolto da una spessa nebbia, il sinistro era nero come solo la più nera notte sa essere.
Un ragazzo, con un paio di cicatrici a rigargli il volto butterato, teneva il muso e stringeva i pugni ai lati del bacino. Ma il Conte non lo degnò di attenzione: non aveva tempo per gli sciocchi malumori di un ragazzino.

Altre occhiate strisciavano invece lascive, dispensate però a suo figlio: un tempo non troppo lontano avevano accarezzato anche lui. Ma adesso toccava a ‘Bastiano. Ancora nel fiore degli anni, la natura era stata generosa con il suo erede: spalle possenti, occhi chiari come quelli di sua madre e una folta tempesta di ricci castani, che invitavano le dita  a rigirarseli uno ad uno fra i polpastrelli. Il bell’aspetto non era l’unica delle sue qualità, né la più rilevante: il metro e novanta di altezza, combinato ad una naturale predilezione per le armi, ne facevano un formidabile guerriero. Di contro, la breve esperienza e i pochi anni non avevano ancora smussato la sua avventatezza. “Pazienza” si ripeteva Severo “Gliela inculcherò io un po’ di saggezza in quella sua testaccia calda” e con  questo intento aveva fatto del ragazzo il suo scudiero, così che apprendesse come un Conte doveva comportarsi e gestire i suoi affari. ‘Bastiano avrebbe ereditato i titoli e le terre di suo padre, oltre all’attività di famiglia. Di certo Severo non avrebbe lasciato che fosse tutto mandato allo sfacelo dopo che le sue vecchia membra stanche si fossero adagiate un’ultima volta, per non rialzarsi mai più.
Lasciatisi alle spalle la strada principale, scesero per i moli e camminarono attraverso il pontile centrale. Le assi scricchiolavano al passo degli stivali usurati: la salsedine si era insidiata nel legno, marcendolo e indebolendo le sue fibre. Una smorfia di disapprovazione incrinò la bocca del Conte, facendo il suo volto più aspro di quanto già non fosse. I suoi occhi carezzarono la superficie del mare, sospinta dalla risacca: ah, eccolo il vero volto del mare: una distesa grigia avvampata dai riflessi dell’alba, che faceva capolino in una sfera rosso-sangue ad est. Perché al mare piaceva osservarti e aspettare, aspettare giorni, mesi, perfino anni, fino a quando non ti avrebbe preso e portato giù, lì dove neanche la luce del sole può venirti a cercare. Era stato il destino di suo padre, e del padre di suo padre prima di lui. Forse, un giorno, sarebbe stato anche il suo. “Poco male”, pensava. Non gli importava granché di morire, né come sarebbe morto: aveva vissuto abbastanza a lungo da godere delle gioie che una vita piena può offrire. Tutto il resto non era altro che un ‘surplus’.

Una donna scivolò alla periferia dello sguardo: il suo dito indice era proteso verso ovest. Una donna con il corpo di bronzo e opali tristi al posto degli occhi. Le sue vesti d’argento scivolavano sino alla chiglia nel fondo delle acque, e il suo corpo veniva sospinto in avanti dalla prora in legno di un galeone. I manovali del porto, ligi al loro dovere, assicurarono gli ormeggi ai timpani di piombo che sporgevano dalla banchina. Una rampa fu calata dal ponte verso terra, mentre in sull’albero maestro il blasone degli Orinberga raccoglieva gli sprazzi di vento ostentando la sua fierezza: una corona con croci fiammeggianti ad ogni placca, e un drappo bianco a raccogliere lo scudo.
Il simbolo della Capitale e della Città Santa, entrambe sotto l’egida di un’unica potente famiglia. Le Torri gemelle delle Terre Centrali ricongiunte nel sangue e nella stirpe.
Dalla rampa uomini bardati d’acciaio sfilarono avanti, esibendo le loro cappe porpora, le insegne militari e i vistosi pennacchi. Severo li riconobbe al primo sguardo: Pretoriani, soldati devoti al Culto e che rispondevano ad un unico padrone: L’Alto Sacedote di Utopia. Ma non era certo l’attempato Raminus Orimberga quella che scendeva a passo spedito dal ponte del galeone, né uno dei suoi decrepiti gran funzionari, bensì un uomo giovane e di bell’aspetto.
Statura nella media e pelle olivastra come tutti i Rimli, ma con un paio di insoliti occhi azzurri che danzavano il loro sguardo da un anfratto all’altro di Valga, osservando, valutando, studiando. E quel sorriso, sempre mellifluo, stampato in volto. Le vesti canarine stonavano con le tinte spente della città, così come il viso sbarbato e le zeppe sotto gli stivali, che facevano “tac-tac” ad ogni passo.
Dopo una breve riverenza, l’uomo parlò, con voce calda e piacevole.


«Conte Cangramo, e così questa è la famosa Valga.» Accennò a guardarsi intorno, incrociando le braccia dinanzi al petto.
«Certo più rustica della vostra Capitale.»  Ammise Severo, «ma semplice e sincera come la vedete. Lasciate che vi presenti il mio primogenito Sebastiano, sarà lui ad assicurarsi che i vostri effetti personali siano condotti alla Rocca Grigia quanto prima»
«Saluti, signore. È un piacere fare la vostra conoscenza.» Disse il ragazzo, con parole impostate ma dal tono gentile.
«Il piacere è tutto mio.» Replicò lui, con un gesto del capo.
«Bene, immagino vorrete ristorarvi dopo un così lungo viaggio. A tal proposito, com’è andata la spedizione in Ghermandìa?» Chiese Severo, facendo strada a Vittorio Belgi e alla sua scorta.
«Tutto secondo i piani: i locali hanno acconsentito allo stanziamento di una legione in loco e l’entità del tributo per la difesa della Marche Orientali è stato quanto mai… ragionevole».
«Nessun prezzo è troppo alto per tener fuori dai nostri domini Goliath e i suoi.» Convenne il Conte, posando una mano sull’elsa della spada.
«Vi credo sulla parola. Ho sentito che avete avuto l’occasione di affrontare i Mogul ai tempi della Prima Orda».
«Wulfila non era una minaccia paragonabile a quella rappresentata da suo figlio». Replicò il Conte, voltandosi brevemente verso il Belgi.
«Avete ragione, ma rimango convinto che sia stata comunque una grande impresa»
«Come si dice, ai posteri l’ardua sentenza. Non sta a me lodarmi». Concluse Severo, dissimulando la lusinga. «Goliath ha riunificato nelle sue schiere decine di clan, clan che fino a qualche tempo prima si facevano la guerra l’uno con l’altro. È un uomo astuto e intelligente. Wulfila era presuntuoso e avventato, anche se ammetto di aver stimato il suo coraggio in battaglia»
«Ma il coraggio senza discernimento è semplice follia, mio signore». Lo rimbeccò Belgi, senza perdere il suo consueto sorriso.
«Un punto per te, Belgi.»  Concesse, giungendo finalmente all’uscita occidentale di Valga, dove un sentiero sterrato si rialzava attraverso una fitta foresta i cui alberi svettavano come torri nel verde. 
Ad attenderli un paio di pezzati tenuti d’occhio da un giovane garzone: gli abiti di sudicia iuta avevano lo stesso olezzo di letamaio della sua pelle. I suoi capelli erano una stoppa nera e scompigliata. Il Conte lo congedò con due zecchini d’argento, ringraziandolo per il disturbo.


«Non ho cavalli sellati per i vostri uomini.» Disse il Conte, portando le mani ai fianchi.
«Non si preoccupi, possono seguirci a piedi.»

I Pretoriani storsero il naso, se per l’onta di rimanere appiedati o gli odori del Valga, questo non era dato saperlo. Ciò nonostante non diedero seguito al loro disappunto e silenziosi si disposero in tre file da tre, procedendo di buona leva, mentre il Conte e Belgi li precedevano a cavallo lungo lo sterrato. Il sentiero si inoltrava attraverso la macchia verde che circondava la Rocca Grigia: gli alberi dall’alto delle loro fronde parevano osservare il loro passaggio, mentre il gruppo si faceva strada fra le radici insinuate nella terra e qualche ramo che si sporgeva curioso. Il sole si alzava dietro l’orizzonte inondando di luce dorata le foglie che riempivano i rami.
Vittorio osservò ammirato, il sorriso sostituito da un’espressione stupita.


«Che meraviglia… mi chiedo perché la chiamino Selva Scura.»
«Non l’avete ancora vista di notte… » gli fece notare il Conte.
Il mercante ingollò un consistente boccone di saliva, inquieto tutto a un tratto.
«Ho idea che diventi un luogo non propriamente allegro. È una vera fortuna che sia ancora primo mattino.»
«Anche se fosse notte fonda non avreste da temere. I Kelta delle foreste sono legati alla mia famiglia da innumerevoli generazioni.»
«Ho udito della vostra comune discendenza con i popoli silvani e vi dirò» un ghigno ansioso gli tese le labbra «sono ben contento di questa alleanza»
Severo non poté trattenere un mesto sorriso e guardò al mercante con un pizzico di ilarità nella voce.
«Abbiate pazienza, Belgi. Ancora qualche minuto e sarete al sicuro nella Rocca Grigia»

La pendenza del terreno si fece più marcata sotto di loro, ma questo non sembrò affaticare i cavalli. I Pretoriani, d’altra parte, avvertivano lo sforzo e presero a confabulare tra loro in un dialetto che doveva essere quello della Capitale. Erano soldati d’elitè, abituati a scorrazzare per le strade delle città, certo non in ambienti selvaggi come quello. Inoltre era noto che fra i Rimli e i Kelta delle foreste non corresse buon sangue. Le antiche cronache raccontavano che i primi, giunti come coloni da Ellenia, avessero strappato la terra ai secondi, confinandoli nei boschi e nelle steppe della regione.


«Avrei una domanda, Conte Cangramo.» Esclamò il Belgi, distogliendo l’attenzione dell’uomo dai Pretoriani. «Come avete creato un legame tanto proficuo con questi “selvaggi”?»
«I legami di sangue hanno certo aiutato. Ma mio caro Belgi, voi che siete un mercante dovreste saperlo meglio di me: offri agli altri ciò che desiderano e ne otterrai ciò che vuoi tu. Vedete questi alberi?» Disse, sfiorando una corteccia mentre passava. «Lasciamo che siano i Kelta a tagliarli per noi. Conoscono meglio della gente civilizzata i delicati equilibri della natura e così facendo evitiamo di invadere e guastare le loro terre. Paghiamo il loro legname con una percentuale del ferro estratto dalle pendici del Monsiderio, più che sufficiente perché possano fabbricare le armi di cui hanno bisogno e qualche eccedenza. In seguito ci premuriamo di acquistare quest’ultima e di rivenderla sul mercato orientale, dove i prezzi per le armi occidentali sono maggiorati, in quanto considerate merci “rare”.»
«Questo Clan conosce la forgiatura del ferro?» Chiese Belgi, strabuzzando gli occhi.
«Certo, e non sto qui a spiegarvi quanto siano pregiati i loro prodotti. Niente a che vedere con le comuni forge civilizzate: le loro armi sono più robuste, più affilate e per questo di maggior valore.»
«Caspita,» disse quasi fra sé e sé il Belgi, «ho idea che il mio soggiorno qui riserverà ben più di una sorpresa.»
«Oh, non immaginate quante.» Rispose il Conte, mandando il cavallo dal passo al trotto in vista della Rocca Grigia.

 

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Capitolo 2
*** Odore di menta e di mare - (Miranda) ***


Capitolo II
Odore di menta e di mare
(Miranda)

 
 


E se per un qualche prodigio ti levassi sulle ali di un’aquila di passaggio, guardando verso giù vedresti la Rocca Grigia irta sull’altipiano, oltre la punta dei grandi alberi della Selva Scura. Un cerchio di mura, del colore dei cupi scogli sottostanti. Mura erette a circondare la cittadella, dentellate sull’apice di merli spessi e squadrati, per offrire riparo dalle frecce del nemico alle sentinelle di ronda sul camminamento. Nell’anello di pietra: le tozze case in muratura dei servi della gleba, con i tetti di paglia, acquartierate l’una appresso all’altra. Poco più in là un recinto delimitato da uno steccato, in cui i soldati tirano d’armi con spade smussate, per prepararsi a battaglie in cui mettere in gioco la propria vita. Il clangore del ferro contro il ferro. Le frecce che sferzano l’aria, scoccate da archi riflessi, andandosi a conficcare contro pagliericci immobili, segnati da cerchi rossi a mo’ di bersaglio. A ridosso dei recinti la casa delle guardie, con il suo conglomerato di baracche e mense per le camerate. Il magazzino diroccato con le armi e i viveri.
E infine Castel Cangramo, la casa ancestrale dei Conti del Valga: una poderosa costruzione di roccia marina, ai cui angoli svettano  quattro torri acuminate, una per ciascuno dei punti cardinali intermedi. La torre nord-ovest, più alta e massiccia, costituisce il maschio della struttura e vi si accede seguendo un reticolo di passaggi segreti noti solo al Conte, alla sua famiglia ed eventualmente a qualche membro particolarmente fidato della corte.
L’architettura semplice del castello, senza fronzoli, ma maestosa nella stazza e nella statura reca le insegne della casata in campo azzurro: un cane-lupo nero, con il muso allungato, le fauci in bella vista e una paio di orecchie puntute.
Dai muri, attraverso lo spiraglio di qualche sparuta finestra sulla facciata posteriore, è possibile contemplare lo sconfinato spettacolo del mare franto contro la scogliera, o delle navi che strisciano sulle acque dirette verso il porto.
Sulla facciata anteriore, ove il portale è rivolto verso ovest, sempre per l’occhio d’un paio di finestrelle, si ha  visione del corpo di guardia, dalle cui fauci si alzano e si abbassano i cancelli di pesante ferro battuto, attraverso un complesso sistema di corde e ingranaggi. E proprio intrufolandoti da una di queste ultime finestre, potresti trovarti nella camera di una giovane fanciulla, una stanza arredata di scuro mobilio in mogano e un letto a baldacchino, sovrastato di sete azzurre.
Lungo i muri le torce in attesa della notte, per bruciare ancora un poco. Sul sedile, persa nel contemplarsi, una ragazza ormai diventata donna, con una chioma di fulvi capelli rossi.

Un paio di occhi giada le restituivano lo sguardo nel quadrato lucido dello specchio, uno sguardo coronato nella curva leggera delle sue labbra sottili. Lungo le guance, due piccoli drappelli di lentiggini tempestavano la pelle diafana, mentre il rosso dei ricci era stato domato in uno chignon, avvolto in fil di perle. Quella acconciatura faceva i suoi lineamenti più magri e affusolati di quanto già non fossero.
Scendendo per il collo, una corona di pizzi azzurrini precedevano un seno pieno e sostenuto, divenuto tale solo da qualche tempo. L’abito color del mare, tutto impreziosito da ricami bianchi a tema floreale, come le scarpe di blu satin, che contenevano i piedi di piccola foggia.
Miranda si levò dal sedile, le mani giunte dinanzi al ventre, e si voltò a osservare Mowan: la ragazza appariva buffa, così com’era conciata: braccia alzate e priva dell’armatura in cuoio che soleva indossare. L’arco di corno, con le frecce dal piumaggio grigio, era adagiato sul letto insieme alla spada ricurva, nel fodero in squame di serpente.
La giovane Mogul era adesso nelle mani della sarta e delle sue collaboratrici: una squadra di donne assoldate per cucirle un vestito su misura: niente di troppo appariscente, si intende, un semplice abito verde scuro, senza pizzi né fronzoli che potessero concentrare su di lei l’attenzione.
L’anziana capo sarta, Rebecca, indossava un vestito di velluto rosso, con un corpetto di una tonalità più scura cucito sopra l’abito. I lunghi capelli grigi erano stati pettinati e legati appositamente per entrare nella cuffia bianca che le copriva il capo: non un singolo capello doveva rischiare di ricaderle sugli occhi, mettendo a repentaglio la buona riuscita del suo lavoro. La donna  era una professionista con una lunga esperienza alle spalle, ma sino ad allora si era occupata di principesse e dame di corte. Donne e ragazzine desiderose soltanto di apparire al meglio, così nel privato, così in occasioni pubbliche e ufficiali.
Tuttavia l’espressione di Mowan la diceva lunga su quanto quel compito fosse lontano dalle consuete sfide che Rebecca era solita affrontare. Gli occhi a mandorla fulminavano la sarta ogni tre per due, gli zigomi pronunciati erano tesi in una smorfia insofferente e le piccole labbra carnose erano un continuo agitarsi in sbuffi, lamenti e imprecazioni. Parole in una lingua lontana da quella comune, dura e ruvida come solo le steppe Mogul sapevano essere.
«Tieni su quelle braccia, disgraziata!» Le intimò Rebecca, con fare severo, mentre le legava una fascia di tessuto intorno alla vita.
«Le sto tenendo su…»
«Più su!»
«Maledetta baldrac-»
Uno strattone della sarta mozzò il suo respiro e Mowan le scoccò  un’occhiataccia, prima di rivolgere la sua ira verso una giovane sottoposta.
«E tu fai attenzione con quell’ago! Mi hai forse preso per un puntaspilli?!» Ruggì e la poverina abbassò lo sguardo, terrorizzata.
Le apprendiste di Rebecca erano vestite tutte più o meno allo stesso modo, abiti di stoffa discreti ed eleganti, abbastanza comodi da non interferire con il loro lavoro, ma sufficientemente dignitosi da non attirare il biasimo delle altre donne.
«Le braccia! Le hai abbassate di nuovo!» Si lamentò l’anziana ormai spazientita, redarguendo nuovamente Mowan.
«Ora mi hai rotto, non mi serve una spada  per tagliarti la gola, sai?!»
«Ne ho abbastanza!» Sbottò la donna, con gli occhi che minacciavano di saltar via dalle orbite.  «Padrona Miranda, non posso sopportare oltre di essere minacciata da questa sottospecie di faina dalle fattezze di donna. Chiedo congedo! »

La giovane dai capelli rossi si portò una mano al volto, senza ben sapere se la situazione fosse più tragica o più imbarazzante. Con fare cortese lasciò che Rebecca si congedasse insieme con le sue assistenti, ringraziandole per la loro pazienza. Una volta rimasta sola con Mowan, si occupò lei stessa di completare le ultime rifiniture necessarie per calzare l’abito.

«Ah, Mowan, Mowan. Sei la mia Dama di Compagnia, dovresti sapere quanto questo giorno sia importante per me … per la mia famiglia.»
«Perdonatemi Padrona Miranda, ma dovete sposarlo voi questo Messer Qualcosa, mica io. Non vedo perché dovrei conciarmi come una stupida bambolina di porcellana».

Miranda non poté fare a meno di sorridere. Coprì il risolino con un rapido gesto della mano.

«Immagino che nelle steppe le cose funzionino diversamente, eh?  Ma qui a Clitalia l’apparenza è tutto. Quando si riceve un ospite lo si fa’ indossando gli abiti migliori. Cosa penserebbe il signor Belgi, se al nostro primo pranzo insieme mi presentassi con una Dama di Compagnia armata dalla testa ai piedi? La prenderebbe come una velata minaccia, e questo non sta bene».
«Se è quello il problema posso mangiare per conto mio, c’è un intero castello a disposizione.» Replicò la ragazza, facendo spallucce.
«No, non se ne parla. Sei come una sorella per me, Mowan, e sei parte della famiglia.» Le carezzò una guancia. «Fallo per me, ti prometto che da domani potrai tornare a indossare ciò che più ti aggrada.»

Mowan cacciò un sospiro, abbassando lo sguardo. Con i denti si pizzicò il labbro inferiore, prima di rialzare gli occhi neri in quelli di Miranda.

«E va’ bene, Padrona Miranda, lo farò per voi…»
«Bene».  Disse, prendendole la piccola mano callosa fra le sue. «Un’ultima cosa, non chiamarmi Padrona, sei la mia amica più cara, non una serva» Concluse, mostrando la trafila di denti color latte che le riempiva la bocca.
Un lungo e cupo suono di corno tremò dalle sentinelle in su’ le mura della Rocca Grigia. Con passi rapidi e aggraziati Miranda si precipitò alla finestra, seguita da Mowan che avanzava goffa e sgraziata.

«Maledette scarpette» Imprecò la giovane Mogul.
«Mio padre! Con il mio promesso sposo!» Pigolò Miranda, sbarrando gli occhi chiari, le dita affusolate strette intorno al davanzale e la voce che tremava.
Mowan guardò Vittorio Belgi con un sopracciglio alzato, e la bocca distorta in una smorfia di disapprovazione.

«Caspita, voi sembrate un maschiaccio al confronto.» Gracchiò la Dama di Compagnia.
«Non fare la sciocca Mowan.» La rimproverò Miranda, svoltando tutto a un tratto. «Dobbiamo sbrigarci! Manda a chiamare Arturo, nostro padre vorrà trovarci nella Sala Grande quando rientrerà.»

Miranda si precipitò verso l’uscita, lasciandosi dietro una scia di profumo che sapeva di menta e di mare.  Da quando il menarca aveva tinto di rosso le lenzuola, il primo pensiero di Miranda Cangramo era stato conoscere le gioie di una vita adulta: l’amore, i figli, creare una famiglia tutta sua. A differenza di tante altre ragazze non era rimasta spaventata  quando il ‘primo sangue’ aveva bagnato il suo letto e la sua tunica da notte. Bice, la sua anziana balia, l’aveva preparata a dovere sull’argomento.  Sapeva che il ciclo voleva dire lasciarsi dietro i balocchi e l’innocenza della bambina, per confrontarsi con le sfide poste dinanzi a una donna. Sfide che non la spaventavano. I dolori non erano stati forti come si aspettava, la parte più dolorosa era stata quella che aveva preceduto il primo ciclo: il suo corpo che cambiava sotto i suoi stessi occhi, giorno dopo giorno: i seni che si facevano più grandi e pesanti, i fianchi che si allargavano, le forme che si arrotondavano. Quelle fitte anomale, senza alcuna apparente ragione.
C’erano tutte le avvisaglie del caso …  alle volte suo padre si fermava a guardarla, diceva che assomigliava tanto a sua madre. Di lei parlava poco, c’erano periodi in cui non ne parlava affatto. Miranda non sapeva cosa le fosse successo. Sapeva soltanto che un giorno, passati due anni dalla nascita di Arturo, erano partiti dalla Rocca Grigia per andare chissà dove, ma al ritorno c’era solo suo padre.
Si ricordava la sua voce di bambina che gli chiedeva
«Papà, dov’è la mamma?»
E lui che rispondeva
«La mamma adesso non è qui.»
Nonostante le numerose volte in cui quella domanda era stata posta e ripetuta nel corso degli anni, lui aveva dato sempre e solo la stessa risposta ‘Non è qui’. Miranda era arrivata a pensare che fosse morta durante quel viaggio. Ma allora perché nessuna cerimonia funebre? Perché semplicemente non glielo diceva? Quattordici anni erano un’età più che sufficiente per prendere atto della scomparsa di una persona cara. E invece no, sua madre era semplicemente svanita nel nulla senza alcuna spiegazione, e alla fine Miranda si era anche stancata di continuare a chiedere, tanto la risposta non sarebbe cambiata. Non importa quanto tempo fosse passato.
Ma non aveva voglia di pensare a ciò che aveva perso, in quel giorno, ma a ciò che stava per ricevere. Quand’era piccola nelle sue fantasie ad occhi aperti aveva sognato un principe vestito di un’armatura scintillante, con al fianco una spada. Un uomo forte e gentile, nel corpo e nel carattere. E quei sogni non erano andati perduti neanche dopo il menarca, per questo non aveva nascosto la sua delusione quando suo padre le aveva comunicato che sarebbe andata in sposa a un uomo di ‘basso lignaggio’. Un uomo senza illustri natali, senza sangue nobile nelle vene.
Lei aveva sbraitato, aveva pianto, accusandolo di non avere a cuore l’onore e il bene della sua unica figlia.
L’espressione afflitta di suo padre sarebbe rimasta impressa per sempre nella sua memoria, e sin da subito la giovane si era pentita per la crudeltà delle sue parole, per quanto la rabbia e la tristezza ardessero ancora come fuoco in lei.
Ma pian piano quei sentimenti furono mutati, grazie alla  parole di suo padre: il Conte Cangramo aveva tessuto per mesi le lodi del Belgi, affascinando la figlia con i racconti dei suoi innumerevoli viaggi in lungo e in largo per il mondo,  viaggi che l’avevano portato a vivere esperienze e a contemplare panorami ignoti alla gran parte degli uomini. Spettacoli a cui nulla, se non le parole di chi li aveva vissuti in prima persona, poteva rendere giustizia.
Severo lustrò ed elevò il nome del Belgi, narrando delle innumerevoli amicizie che aveva stretto nei ranghi più alti della società, persino con i grandi e potenti Orimberga. Proseguì nella sua opera raccontando di come, per quanto fosse un individuo di basso lignaggio, grandi famiglie avessero tentato di farlo sposare alle proprie figlie, ricevendone sempre in risposta un garbato rifiuto.
Non di meno aveva reso manifesti i suoi successi e la sua abilità da mercante:  Vittorio Belgi gestiva una compagnia commerciale che aveva l’esclusiva nei traffici con la Ghermandìa e che aveva stabilito i primi vantaggiosi scambi con le terre vergini della Britannia (che mai avevano conosciuto la conquista Rimlica). Inoltre, il suo ingresso nella famiglia avrebbe favorito una coesistenza più pacifica con la stirpe reale, con la quale i conflitti non erano mai mancati nelle passate generazioni. Insomma, dopo che per mesi e mesi suo padre le aveva raccontato di quest’uomo misterioso, di quest’uomo che s’era fatto da solo nonostante le difficoltà, che era più sofisticato rispetto alla media degli uomini, Miranda aveva finito per innamorarsene senza neanche averlo mai visto in volto. E adesso che l’aveva veduto, la bellezza del suo aspetto non aveva fatto altro che alimentare le fiamme del suo fascino, attizzando dentro di lei il sentimento e il desiderio di sposarlo quanto prima.

 

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Capitolo 3
*** Alla luce delle candele - (Arturo) ***


Capitolo III
Alla luce delle candele
(Arturo)
 
 


Fatta la tua carne e le tue ossa della stessa sostanza del fumo, invisibile all’occhio come all’orecchio, strisci all’interno del castello, ti trovi per ampi corridoi: tanto larghi che quattro uomini robusti potrebbero camminare l’uno di fianco all’altro senza impedimenti. Sulle pareti di roccia nuda, le torce vengono ravvivate ogni otto ore e illuminano il tuo cammino. Alla tua destra e alla tua sinistra puoi scorgere numerose porte: alcune semplici, senza neanche una serratura; altre complete di tutto il necessario alla preservazione della propria intimità, ma essenziali nella foggia e nella costruzione; altre ancora, poche queste ultime, incise da mano sapiente di artista e artigiano, recano immagini dalla natura che è al mondo o provenienti dal lontano posto dove i sogni prendono vita. Lì dove l’ebano ritrae una nave che solca le nuvole in una panorama di stelle, il tuo corpo sottile si insinua nel foro dello spioncino: all’interno la stanza è lasciata all’oscurità, le finestre sono state chiuse. L’unica fonte di luce è un cerchio di candele, disposte intorno a un giovane dal corpo esile e una fasciatura intorno al braccio. In grembo alle cosce accucciate dinanzi a sé, un imponente tomo rilegato. I suoi occhi bruni, macchiati con sprazzi di verde, scorrono trasognati fra le righe, mentre le piccole dita affusolate accarezzano una pagina prima di voltarla, mentre prosegue in una lettura silenziosa.
Si era quasi dimenticato del livido violaceo e pulsante che gli correva lungo il braccio, sotto le bende, ma non appena fece per muoverlo la memoria non tardò a ritornare, insieme con il dolore. Arturo frenò a stento il lamento che ne seguì, stringendo forte i denti e serrando gli occhi. Si era ferito durante la lezione di scherma con il maestro d’armi: la spada di legno era calata sul suo braccio rapida e impietosa, quando per l’ennesima volta aveva lasciato scoperta un’apertura nella sua guardia.
Il farsetto trapuntato era di un bel verde scuro, sopra il farsetto un gilet di cuoio conciato che arrivava sino alla vita, cinta quest’ultima da una fibbia di cuoio. Dal fianco pendeva un piccolo pugnale inserito in un fodero di pelle, recante la testa del cane-lupo. L’elsa era grande una volta e mezza la sua mano da bambino. Si chiudeva in una guardia a mezza-luna, da cui proseguiva in una lama corta, troppo spessa sui lati per tagliare alcunché, ma con una punta sottile e affilata.
Sotto il cinturino seguivano i pantaloni di lisa lana nera, inforcati in un paio di stivali logori e impolverati, poiché usati durante l’addestramento nel recinto dei soldati.
Il maestro d’arme Riccardo Villa era stato un valente soldato al servizio di suo nonno, aveva addestrato suo padre quand’era giovane, persino ‘Bastiano e Carlo avevano imparato da lui. Dunque, se le capacità del suo insegnante non erano in discussione, non si poteva dire lo stesso per quelle del suo allievo: Arturo era di costituzione esile, aveva un carattere mite e riservato, sempre intento a tormentarsi le mani l’una nell’altra, sino a farle diventare tiepide e sudaticce.
Quando qualcuno lo redarguiva il suo primo impulso era quello di abbassare lo sguardo, anche se talvolta resisteva ai suoi istinti e si sforzava di guardare negli occhi il suo interlocutore.

Arturo amava raccogliere nella mente le storie e le gesta dei grandi eroi del passato, coltivando in sé la segreta speranza di diventare un giorno uno di loro. Ma i pronostici non lo favorivano … aveva sentito suo padre lamentarsi di lui con ‘Bastiano “Se la forza del suo braccio risiedesse nella sua mente sarebbe poco più che un vegetale”. Le parole di suo padre l’avevano ferito nel cuore e nell’orgoglio, ma non si trattava solo di questo. Un’altra paura sedeva ancora più profonda in lui, alimentata da una lunga tradizione adottata da ogni casata nobile che volesse serbarsi dalla dispersione del proprio patrimonio: se il primogenito maschio ereditava i titoli e le proprietà della famiglia, se le figlie femmine venivano sposate per forgiare nuove alleanze, agli altri figli erano riservate strade ben diverse: la prima, quella intrapresa da Carlo, era la via del cavaliere; mentre la seconda era quella del monaco, o tutt’al più del sacerdozio.
Prendere il saio voleva dire allontanarsi dalla famiglia, da qualsivoglia piacere mondano (compresa la lettura, se non si teneva conto dei testi sacri). Tutto questo per dedicarsi anima e corpo al Culto e alla gloria del Dio Redivivo.
Nei suoi incubi più oscuri Arturo si vedeva in capo la tonsura, i piedi nudi, messo in sella a un ciuco diretto verso il monastero più vicino, sperduto da qualche parte su di una collina. In una forma di tacita protesta per questa prospettiva, il ragazzo s’era lasciato crescere neri riccioli selvaggi sul capo, riccioli che vietava a chiunque di spuntare o anche solo di passare con una spazzola per riportarli all’ordine.
Arturo voltò un’altra pagina, ma stavolta si impose di ignorare il dolore. La faccia rimase immobile, senza né una smorfia, né un cenno di sofferenza a contragli il viso.
Davanti ai suoi occhi vide una creatura impressa nel foglio di pergamena: un essere la cui altezza scavalcava quella delle montagne verdi intorno a lui. Un corpo granitico, antropomorfo, con muscoli che parevano scolpiti del duro acciaio. Nella mano destra stringeva un uomo dalle membra inerti, con un vuoto di ossa e sangue al posto della testa.
Dalle fauci della creatura scivolavano rivoli e brandelli di carne: un tempo dovevano essere di un rosso vivo, ma il tempo aveva sbiadito i colori. La creatura mostruosa aveva un teschio di cervo a coprirgli il volto, con lunghe corna che si diramavano ai lati del capo. Grandi zanne sporgevano dalla bocca allungata, con le gengive messe a nudo dalle labbra troppo sottili. Il petto, le gambe, le braccia, erano parzialmente ricoperte di un fitto vello bruno. Le mani terminavano in lunghi e affilati artigli, da cui il sangue scivolava a gocce, mentre i piedi tridattili parevano le zampe di un uccello rapace.
Sotto l’illustrazione, che occupava un intero foglio, si srotolava una piccola pergamena d’inchiostro, su cui era scritto a caratteri cubitali: WENDIGO. La storia che iniziava nella pagina accanto a quella illustrata prendeva il titolo proprio da questa creatura “La leggenda del Wendigo e la fine dei tempi”

C’era un tempo in cui il mondo era giovane e gli uomini muovevano i loro primi passi attraverso la terra. Gli dei non erano ancora nati, solo gli spiriti esistevano e al loro cospetto danzavano gli elementi. Yggdrasil affondava le sue radici in ogni luogo, le sue radici erano i pilastri che tenevano uniti i mondi e le realtà. Il fiume che nutriva l’albero era il tempo, che per questo scorreva e si consumava a poco a poco. Yggdrasil si levava alto, con la corteccia bianca e dura come la pietra candida. Sulla sua chioma si reggeva il cielo e dai suoi rami pendevano i frutti di luce, che tutti gli uomini chiamano stelle.

E proprio nel ventre dell’Yggdrasil sorgeva la corte degli spiriti, con pareti e pavimenti da cui sgorgava la linfa dell’albero, che era oro puro e colato. Al centro della corte un tavolo rotondo imbandito d’ogni genere di prelibatezza. Intorno al tavolo sei sedie con spessi braccioli. E ad una sedia sedeva il Vagabondo, il dio che sempre erra e varca i confini dei mondi, viaggiando dall’uno all’altro.


“Ma non aveva detto che gli dei non erano ancora nati?” Si chiese il ragazzo, mentre leggeva, ma poi ricordò che non era raro trovare di queste contraddizioni nelle leggende e nel folklore.

Beveva dal corno birra di malto scuro, insieme con i suoi commensali: essi erano gli spiriti che sono al mondo i più potenti e venerati. C’era la silente Kro, il veloce Hirsh, la saggia Sove, l’affamato Ber e l’irascibile Volf. Bevevano, si ingozzavano e intonavano canzoni, perché s’era acceso al mondo il sole, il grande globo di fuoco e fiamme, e la stirpe degli uomini prosperava in pace sotto la sua luce. L’estate e la primavera si avvicendavano, senza che la terra né il cielo conoscessero altra stagione. I venti soffiati dalle ali di Odler, la madre degli spiriti, erano miti e gentili e scuotevano con dolcezza gli alberi e le loro fronde, precipitando sulla terra i frutti dolci e maturi serbati fra i loro rami.

Ma le fila dell’inganno erano state tessute, e a poco a poco le maglie della tela si facevano più strette.  


Di quale inganno andavano mai parlando quelle righe? Si chiese Arturo, mentre proseguiva. Ma la sua lettura fu interrotta dalla porta aperta d’improvviso: Mowan, la Dama di sua sorella, sostava sulla soglia. La luce del corridoio scacciò l’oscurità dalla stanza, rivelandola in una tiepida penombra. Le fiamme tremolarono sulla sommità delle candele.
«Signorino, la vostra presenza è richiesta nella Sala Grande. »
La luce gli ferì gli occhi, ma pur tendendoli socchiusi riuscì a notare l’insolito abbigliamento della Mogul: il vestito verde, di semplice fattura, scendeva a cascata coprendole la punta dei piedi, i capelli color pece erano stati spazzolati a lungo e dietro la testa della ragazza si poteva scorgere un fermaglio d’osso, decorato con ricami floreali.
«Arrivo.» Rispose Arturo, laconico. Facendo forza su un braccio per issarsi in piedi.
Nel giro di qualche soffio estinse gli stoppini e passò attraverso il sottile muro di fumo evocato dalle candele spente. Memorizzò il punto in cui si era fermato durante la lettura e richiuse il tomo sulla propria scrivania. Lungo la copertina era inciso il titolo: Storie e leggende degli antichi Kelta – ascoltate e riportate da Isacco Siribosio.

Il Maestro Sirbosio era stato uno studioso vissuto ai tempi della conquista Rimlica, fatto prigioniero dai Kelta dopo la caduta di una delle prime colonie. Egli si era guadagnato l’amicizia dei suoi aguzzini grazie al suo ingegno e alla sua arguzia. Interessato alla cultura dei Kelta, trascrisse miti e leggende tratte dal loro ricco folklore.
Quando dopo molti anni riottenne la libertà, tornò nella sua patria, la terra delle città-stato note come Ellenia e lì ebbe premura di produrre molteplici copie della sua opera poi diffuse fra i suoi più intimi amici. Di quei tomi antichi si era persa ogni traccia, ma la fortuna aveva voluto che essi fossero ritrascritti più volte nel corso delle generazioni, forse dai suoi figli o da qualche copista che era interessato all’argomento. La copia di cui disponeva Arturo era forse vecchia di un secolo, ma era comunque in condizione abbastanza buone da renderne possibile la lettura e godere del ricco impianto miniaturistico al suo interno.

«Vostro padre ripete sempre che non dovete leggere a lume di candela, signorino. Seguite il suo consiglio: vi fa’ male alla vista»
«Ci vedo ancora benissimo. » Sbuffò il ragazzo.
In realtà i suoi occhi era un poco affaticati, lo sapeva bene.
Suo padre aveva ragione, ma lui non poteva farci niente: amava troppo leggere al lume di candela. Il danzare del fuoco sugli stoppini lo rilassava, e quella luce calda risvegliava sensazioni celate in ricordi opachi. Favoriva il materializzarsi delle immagini, assorbite durante la lettura, lì sui muri d’oscurità di cui si circondava.

«Piuttosto, dimmi, chi ti ha conciato così? »Chiese Arturo, mentre avanzano fianco a fianco per i corridoi del castello.
«Vostra sorella, signorino, insiste che è ‘inappropriato’ presentarmi al suo promesso vestita con la mia armatura. »
Il giovane cacciò una risolino, notando come i piedi di Mowan traballavano e minacciavano di mandarla in fallo ad ogni tre passi.
«Penso che la corazza ti doni molto di più, Mowan. Per non parlare degli stivali…»
«Siamo in due a pensarla così, allora. » Replicò, poggiandogli una mano sulla spalla. Se per dargli una pacca, o perché stava per inciampare, questo non era dato saperlo.

Le stava simpatica Mowan, amava il fatto che fosse ‘diversa’ da tutte le altre fanciulle che aveva conosciuto sino ad allora. Suo padre l’aveva condotta al castello all’incirca cinque anni fa’, dopo la fine della Prima Orda.
All’inizio Mowan era una prigioniera di guerra a cui il Conte aveva risparmiato la vita nel corso della guerra: la ragazza era stata catturata a seguito di un’imboscata finita male. Dapprima la giovane Mogul era stata ribelle e aggressiva, ma col tempo si era affezionata alla sua nuova famiglia, diventando la più intima amica di Miranda, da cui la dividevano due o forse tre anni d’età. In segno di fiducia, il padre di Arturo l’aveva affrancata dalla sua condizione formale di schiava, sebbene non fosse mai stata trattata come tale.
Mowan, pur avendo la possibilità di andarsene, aveva scelto di rimanere con loro. “Magari non era poi così desiderosa di ritornare alle aride steppe della Marca Orientale…” La scelta di liberarla, compiuta da Severo, sarebbe parsa insolita a molti pari-rango del Conte: nel Continente i Mogul erano considerati l’etnia più abbietta che si potesse immaginare, crudeli e spietati in pace come in guerra. Ma ad Arturo quella scelta era apparsa perfettamente normale e sensata, poiché il ragazzo conosceva a menadito la storia dei suoi antenati: i Cangramo discendevano dai Kelta, un popolo libero e selvaggio che ancora oggi conosceva, specie nelle Terre Centrali, il pesante giogo della schiavitù. Molte volte erano stati accusati di cannibalismo, sacrifici umani e altri orrori che a sentirli si stenta a credere che possano essere veri. Queste dicerie rendevano più semplice il lavoro ai mercanti di schiavi, i quali spesso e volentieri concludevano i loro migliori affari svendendo a lanisti e nobili intere famiglie, donne e bambini compresi. Per quanto fossero passate innumerevoli generazioni da che gli antenati dei Cangramo avevano abbandonato le foreste per abbracciare la società civilizzata, Severo e i suoi famigliari non avevano dimenticato le loro origini e, anzi, le ricordavano con orgoglio e fierezza.

«Signorino, che è successo al vostro braccio? » Chiese Mowan, che solo adesso aveva notato le bende che lo circondavano.
«Un piccolo incidente durante l’allenamento, Mastro Villa dice che passerà nel giro di un paio di giorni. » Rispose il ragazzo, prendendo a tormentarsi le mani l’una nell’altra.
«Per il nostro popolo le ferite sono un simbolo di coraggio e onore, le esibiamo come trofei! » Disse Mowan, mentre voltavano l’angolo. «Da noi i bambini imparano a combattere sin da quando la loro testa sfiora l’altezza di una ruota di carro. »
«Uh, davvero? » Chiese Arturo, incuriosito. «Anche le donne? »
«Anche le donne.» Confermò la ragazza. «In tempo di guerra ognuno deve fare la sua parte.»
«E in tempi di pace? » La incalzò.
«Per i Mogul la pace esiste solo in due occasioni. »
«Quali?» Chiese il ragazzo, alzando gli occhi verso la Dama di Compagnia.
«Quando si dorme e quando si muore. » Concluse lei con un sorriso, ma con uno sguardo triste. «Il resto della vita è tutta guerra».
Trovò che Mowan fosse saggia, nonostante la giovane età: una saggezza semplice, schietta, ben lontana dalla pomposa retorica degli intellettuali delle Terre Centrali. Chissà cosa aveva veduto, cosa aveva vissuto, quando ancora la Rocca Grigia non l’aveva accolta fra le sue mura e lanciava al galoppo il suo destriero, nella desolazione delle sconfinate steppe…   

Insieme scesero la scalinata che dal primo piano del castello conduceva alla Sala Grande. Si disposero al fianco di Miranda, che come in posa attendeva il suo promesso. Sua sorella aveva legato i capelli rossi in uno di quelli strani codini a cipolla che le donne usavano per le occasioni importanti. I ricci erano stati domati da una rete di perle bianche come la sua pelle. Era bella, certo, e pure molto elegante. Ma Arturo la preferiva nella sua versione più ‘selvaggia’, quando i capelli rossi le si liberavano tutti intorno alla testa, e facevano brillare i suoi occhi verdi ancora di più.
Tuttavia quel giorno era diversa, non la volle fissare oltre, a rischio di irritarla. E contemplò la Sala Grande del Castello. Ai fianchi del portone d'ingresso due soldati montavano la guardia, dalle cinture di ciascuno di loro pendeva da una parte un corno e dall’altra una spada infoderata in una guaina di semplice legno e stoffa grezza. Vestivano la giubba nera con lo scudo azzurro dei Cangramo, dal colletto sporgevano lembi della cotta di maglia ad anelli serrati e la tunica di lino che proteggeva la pelle da eventuali sfregamenti con il metallo. La spalla sinistra di entrambi era bordata con una coppa d’acciaio rovesciata, luccicante al lume del focolare posto al centro della Sala Grande.

«Perché ci avete messo tutto questo tempo?» Domandò Miranda, con voce insolitamente stridula.
«Perdonami dolce sorella, avevo le gambe anchilosate. Sono rimasto a lungo seduto, immerso com’ero nella lettura.» Rispose il ragazzo, continuando a guardare fisso davanti a sé.

Prima che la giovane potesse replicare o lamentarsi ulteriormente per il loro ritardo, le porte del Castello furono spalancate, i battenti tirati indietro dalla guardia personale di suo padre, richiamata probabilmente per fare un po’ di scena al suo ingresso. Erano gli uomini più valenti della Rocca Grigia, incaricati di accompagnare il Conte in guerra o in qualsiasi occasione venisse richiesta la loro presenza: a differenza dei normali soldati presentavano piastre cucite alla consueta giubba, indossavano elmi ovali con piccoli pennacchi  scuri sulla sommità, e sul pomo delle loro armi era incisa un effige del cane-lupo della casata.
Gli uomini si disposero in due file ordinate, l’una dinanzi all’altra, lasciando lo spazio necessario perché Severo e il suo ospite potessero fare il loro ingresso. All’avanzare di un drappello di nove Pretoriani, tutti loro indietreggiarono di esattamente tre passi.
Per un attimo, la vista delle armature scintillanti di quegli uomini al soldo dell’Alto Sacerdote catturarono tutta l’attenzione di sua sorella, che schiuse la bocca in un’espressione di contenuto stupore. Arturo d’altra parte non ne rimase meravigliato, ma li osservò comunque con una certa curiosità: era la prima volta che vedeva dei Pretoriani. Corazze a piastra e gambali smaltati in oro sui bordi e le estremità, aquile in rilievo su ciascuno spallaccio. Nella mano destra un giavellotto puntuto e, pendente al fianco, una spada più corta e larga di quella d’uso comune: un’arma che riecheggiava di una passato glorioso, la spada degli Antichi Rimli: la gladio.
Else, foderi, impugnature erano ingemmati o composti di qualche materiale prezioso. Il largo scudo di forma rettangolare e convessa, che ciascuno dei Pretoriani impugnava nella mano sinistra, recava l’effige della croce fiammeggiante di Utopia, la Città Santa.
Nel constatare tutta quella ostentazione, Arturo sollevò un sopracciglio: in una vera battaglia un qualunque soldato conciato a quel modo sarebbe stato scannato per primo, anche solo per impossessarsi di un singolo pezzo dell’armamentario che si portava appresso, che certo doveva valere tanto oro quanto pesava. Una vera fortuna per quegli uomini che i Pretoriani non fossero adoperati come truppe di fanteria, ma solo e unicamente come guardie del corpo sotto il diretto comando dell’Alto Sacerdote.
Quello dei Pretoriani era un ordine riservato solo a una cerchia ristretta di importanti famiglie Rimli, le quali si consideravano dirette discendenti degli antichi conquistatori, e privi di qualsivoglia ‘impurità’ all’interno della loro stirpe. Questi ‘veneratori del sangue puro’ facevano accoppiare i loro rampolli solo con uomini e donne di pari lignaggio e trovavano i loro esponenti più influenti e potenti nella casata degli Orimberga.
Al solo pensiero di un’usanza così sciocca, Arturo storse il naso e avvertì dentro di sé una sensazione mista fra compatimento e disgusto. Rivolse poi gli occhi verso suo padre: spada bastarda al fianco e spallaccio a quattro coppe sulla spalla sinistra. Lo scrutò per un poco, e senza accorgersene si prese a passare i pollici sugli indici e i medi di entrambe le mani, come per placare un prurito. Dopodiché abbassò lo sguardo. Attese un istante e lo rialzò verso il Belgi.

Era un uomo di bassa statura, anche se certo di bell’aspetto. Ciò che lasciava interdetto il giovane Arturo era il fatto che non portasse alcuna arma con sé, per quanto si trovasse al sicuro da qualsivoglia pericolo in quelle mura, era comunque da stolti girare disarmati. Forse il mercante credeva che la scorta gli sarebbe bastata in caso di pericolo, ma come diceva sempre il maestro d’armi “Niente può salvare un uomo che non può salvarsi da solo”.
«Mastro Belgi, lasciate che vi presenti Arturo. il più giovane dei miei figli.» Disse suo padre.
Come da galateo, Arturo fece un cenno del capo all’ospite e fece del suo meglio per tener su’ le spalle, nascondendo dietro la schiena entrambe le braccia, ma in particolare quello fasciato. Belgi aveva un profumo misto di arancia e limone che si propagava da ogni poro della sua pelle. In tutta la vita non gli era mai capitato di sentire un uomo che profumasse così. E poi i suoi occhi … in quegli occhi rivedeva qualcosa dei suoi: sempre intenti a studiare chi si trovava di fronte, alla ricerca di chissà che cosa. Eppure c’era una fondamentale differenza nei loro sguardi: il ragazzo era cosciente di avere una naturale tendenza alla malinconia e alla riflessione, questo non poteva che riflettersi nel modo in cui i suoi occhi li muoveva.
Mentre Belgi, forse perché nato in un’ambiente differente o per una diversa storia e famiglia alle spalle, aveva un modo di guardare da cui traspariva giovialità. Era uno sguardo caloroso, che sembrava comprenderti e riscaldarti, complice il sorriso che non smetteva un attimo di abbandonare la sua faccia dai bei lineamenti morbidi.
«Lei invece è la mia dolce figlia, Miranda».
Belgi prese la mano di sua sorella e la baciò lievemente, rivolgendole uno sguardo che pareva brillare tanto era luminoso ed entusiasta. La ragazza, che da sempre era stata attenta a non tradire alcuna emozione durante occasioni del genere, arrossì di colpo. L’uomo le sorrise con dolcezza.
«Le vostre parole non rendevano giustizia alla sua bellezza.» Disse il Belgi, rivolto al Conte, prendendo la piccola mano di Miranda fra le sue, per poi affondarle lo sguardo negli occhi di giada. «Ma non ve ne faccio una colpa, mio signore: neanche la mano dei più talentuosi artisti d’Arcadia potrebbero ritrarre una simile splendore, figurarsi le parole».
Miranda diventò più o meno dello stesso colore dei suoi capelli, forse un tocchino più rossa. Gli occhi intanto si erano fatti umidi.
«M-mio signore, voi siete troppo gentile».
«Non abbastanza mia cara. »  Replicò lui, con un’altra piccola riverenza.
Arturo scambiò un’occhiata divertita con Mowan, prima che il Conte li fulminasse entrambi con lo sguardo, riportandoli alla serietà.
«E per ultimo, la Dama di Compagnia della mia figliola, la nostra Mowan.»
«Mia signora.» Le sussurrò il Belgi, baciando anche la sua di mano.
«Io non-» fece per rispondere la ragazza, prima che un secco colpo di tosse di Miranda le intimasse il silenzio.

«Potrei sbagliarmi,» disse a un certo punto il mercante, rivolto a Severo, dopo aver concluso con le cerimonie di presentazione. «ma non erano forse quattro i vostri figli, mio signore?»
«Non vi sbagliate. Ma il mio secondogenito Carlo non può essere qui presente al momento. Egli serve in qualità di scudiero il Principe Alfonso Argona.»
«Oh,» replicò con rammarico «un vero peccato, avrei voluto avere l’onore di fare la sua conoscenza.» Poi si rasserenò, con una scrollata di spalle. «Ma sono sicuro che presto sarà fatto cavaliere. Potrò stringergli la mano e congratularmi con lui. Come fa’ fratello con fratello.» All’ultima frase rivolse un altro sguardo pieno di calore alla sua promessa.
«Le vostre parole sono gentili, Belgi.» Ringraziò Severo, incrociando le braccia dietro la schiena. «Sono certo che sarà lieto di incontrarvi quando verrà il momento. Adesso, però, vorrete farvi un bagno caldo e cambiarvi gli abiti dopo il lungo viaggio per mare. I miei domestici si premureranno di condurvi nei vostri alloggi. La tinozza con l’acqua è stata già accomodata, insieme a dei vestiti puliti. Fra non molto dovrebbe far ritorno anche mio figlio ‘Bastiano con i vostri effetti personali. Vi manderò a chiamare quando la tavola sarà apparecchiata per il pranzo.»
Un piccolo drappello di uomini e donne in livrea si prodigò per accompagnare il Belgi e la sua scorta verso gli appartamenti. Severo scoccò un’occhiata ad Arturo, osservando il suo braccio fasciato e gli stivali impolverati che s’era dimenticato di cambiare, ma non pronunziò parola. Dopodiché si avviò anche lui verso le sue stanze, forse per indossare abiti più consoni a un banchetto che la giubba scura e gli spallacci da guerra. Ma prima di salire per le scale si fermò dinanzi a sua figlia, le posò una mano guantata di nero sopra la spalla e la strinse con dolcezza, sciogliendo con un velo di tenerezza i suoi lineamenti di pietra.
 
 .



NdA: Spero che la storia vi stia piacendo, miei cari lettori silenziosi, anche se siamo soltanto all'inizio. D'ora in poi pubblicherò i nuovi capitoli ogni domenica, con una cadenza quindi settimanale. Se vi aggrada lasciatemi pure sapere cosa ne pensate della storia, dei personaggi, di quel poco che (per ora) si scorge dell'ambientazione. Come sempre sono aperto ad ogni suggerimento, critica e valutazione.
Un abbraccio,
NuandaTSP

 

 
 

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Capitolo 4
*** Il Canto del Metallo - (Carlo) ***


Capitolo IV
Il Canto del Metallo
(Carlo)
 
 

Immagina che il tempo interrompa il suo ciclo, che il sole si fermi nella sua lenta caduta verso ovest, che il vento quieti il suo soffio che sospinge da qualche parte le bianche nuvole. Insomma, che ogni cosa cessi di muoversi.
Ti avvii verso l’uscita della Sala Grande, magari passando una mano sul fuoco che si consuma sul semi-tronco di roccia del focolare: le fiamme non possono scottarti ora. Come uno spiffero attraversi le fessure del portale, scendi per i sette gradoni in pietra che precedono l’ingresso, fuori dal castello. Cammini nel terreno livellato, fra i contadini di ritorno per riempirsi un poco la pancia. Nel recinto dei soldati due spade smussate impattano l’una contro l’altra, sotto lo sguardo vigile di Mastro Villa.
Giungi ai cancelli della Rocca, come un insetto balzi fra una sbarra e l’altra senza impedimento. Sei subito nello sterrato, che come una biscia si insinua per la Selva Scura. Ma tu l’hai già vista, e sai che verrà il tempo, più in là, per scandagliarne i reconditi segreti, celati fra gli alberi e le fronde.
Non ci metti molto a scoprire che il tuo corpo non ha peso, puoi muoverti attraverso l’aria con un solo pensiero: la terra non è più la prigione dei tuoi passi. Mentre Sali, tutto si fa più piccolo sotto i tuoi piedi, guardando verso giù puoi catturare in un solo sguardo la striscia di legno e roccia del Valga, le alte mura della Rocca Grigia, gli imponenti alberi della foresta, il conglomerato di villaggi nella Val Spurga, ai piedi del Monsiderio, solo l’ultimo di una catena di montagne che attraversa a mo’ di cuspide l’intera Clitalia.
Qualcosa ti chiama a nord, un richiamo più forte di ogni altra musica ma senza voce, e la tua volontà ti scaglia come uno strale dal suo arco proprio in quella direzione: ti muovi come fossi il vento di un uragano, il mondo ti scorre sotto il ventre, neanche i picchi rocciosi possono arrivare a toccarti.
Quando sei abbastanza a nord ti accorgi che qualcosa sta cambiando: uno sbuffo ti smuove una ciocca sul viso, le nuvole riprendono ad arrancare. Le catene che trattenevano il tempo si stanno spezzando una ad una: il gigante riprende a piccoli passi la sua folle corsa senza fine. Il tuo corpo scivola giù come una foglia secca con cui il vento si è stancato di giocare.
E scivoli invisibile come sempre in un accampamento a qualche centinaio di metri dalla corona di montagne che segna il passo fra Clitalia e il resto del continente. Le tende non sono molte, sono anonime e senza vessilli a distinguerle l’una dall’altra. Un ragazzo con i lineamenti squadrati, in realtà familiari, è accomodato su una sporgenza di roccia nel terreno. Riversa sulle sue gambe c’è una spada…


La cote grattava il filo della lama, sputando scintille rosse che si estinguevano a contatto con il terreno arido e duro ai piedi della Corona, le montagne che segnavano il passo fra Clitalia e il resto del continente a nord. Le ombre dei picchi scendevano severe, come dita oscure verso i bivacchi dei soldati animati della solita vita. Un bicchiere di coccio che si rompeva all’ennesima caduta, i sussurri del vino speziato versato nelle coppe, i rumori gutturali di chi buttava l’aria fuori dal corpo in modi non proprio attinenti all’etichetta, le voci di chi intonava sconce canzoni da taverna. Un’orchestra di suoni tanto differenti fra loro, che cozzavano l’uno sull’altro, che si accapigliavano tutti insieme. E poi c’era lui, quell’unico suono che si ripeteva sempre uguale, ogni volta che le scintille fiottavano giù dalla cote. Carlo l’aveva battezzato canto del metallo.
La spada del Principe era un blocco di acciaio forgiato nella migliore fucina di Argonia, con la luce che si scioglieva lungo il piatto della lama in macchie di bianco e d’argento. Quasi non riusciva a immaginarsela incrostata di sangue e budella quella lama. Eppure, nei suoi tre anni da scudiero, le occasioni non erano affatto mancate. Anzi, lui stesso aveva avuto il compito di pulirla e lucidarla alla fine di ogni battaglia.
Nell’acciaio Carlo vide riflesso il suo viso: iridi castane, con un anello di verde a circondagli le pupille. I capelli mogano erano tagliati corti, perché non avessero a crescere in ricci. Solo un filo di barba ispida circondava il mento, simile per le linee squadrate a quello di suo padre.
Giù per il collo, una robusta armatura di ferro opaco copriva il corpo, con l’effige del cane-lupo in rilievo sul petto. Gli spallacci era rivestiti di cuoio borchiato, mentre dalla cintura pendeva l’ascia di semplice fattura e la daga, e quest’ultima sì era singolare, con l’elsa fasciata di sete azzurre e un pomo in osso, le cui sembianze ritraevano il capo di un passerotto. Il fodero, di contro, era una semplice guaina di cuoio senza alcuna traccia di ricami o altre decorazioni.
Una risata sguaiata venne dall’accampamento, forse un uomo già ciucco a quell’ora. Carlo si voltò: era un ambiente tanto diverso dalla austerità della Rocca Grigia. Ci aveva messo un po’ per abituarsi, ma alla fine aveva capito: erano soldati, e i soldati esorcizzavano così la paura della morte. Quell’allegria serviva per far finta che nella prossima battaglia te, e magari il compagno che ti stava accanto, ve la sareste cavata al massimo con qualche ammaccatura, che avreste potuto combattere per un altro giorno ancora, prima della fine. Era un tipo con una stoppa bionda quello che cantava e rideva, saltellando da un piede all’altro mentre raccontava chissà quale storia buffa. Guardandolo, Carlo non poté fare a meno di sorridere, quando uno scalpicciare di passi alle sue spalle lo mise in allerta.
Erano passi famigliari, passi che incedevano sempre a metà fra la corsa e il cammino. Carlo scattò in piedi, lasciando cadere la cote dalla sua mano sinistra, e tenendo con la destra la spada, la cui punta sfiorava il terreno.
«Mio Signore» esclamò il ragazzo, chinando appena il capo.
Alfonso era lì di fronte a lui, una smorfia di disappunto gli tendeva la bocca cinta di barba castana. I suoi occhi erano roventi fiammelle azzurre, incastonate in un viso dai tratti morbidi come una moneta. Una cicatrice bianca correva dal sopracciglio sinistro fino a graffiargli lo zigomo. Era di aspetto gradevole, sembrava ancora più un ragazzo che un uomo fatto e finito, sebbene avesse già vent’anni. La sua altezza sfiorava a fatica il metro e settanta, ma il fisico asciutto lo rendeva agile anche con un’armatura indosso. E che armatura… la corazza era smaltata con un intenso e brillante azzurro, i bordi erano stati placcati in oro, con un passerotto appollaiato su un arco di mezzaluna proprio al centro del petto. Carlo trovava curioso che un uomo della temperie di Alfonso portasse un emblema del genere, ma non era stato lui a sceglierlo, quello era il simbolo che la famiglia Argona aveva adottato da quando avevano lasciato Iberia per approdare sulle coste orientali di Clitalia, e questo era accaduto almeno tre secoli fa.
«Dov’eri finito? Ho dovuto chiedere a uno sguattero di infilarmi l’armatura» lo redarguì il Principe, con evidente irritazione.
«Affilavo la tua spada, mio signore» Gliela porse dalla parte del manico. «Se senza un’armatura potete sperare di sopravvivere, con una spada smussata vi ammazzano di sicuro.»
«Sei impudente, ragazzo.» Notò lui, con voce bassa. «Dovrei farti frustare per questo, la tua lingua ne gioverebbe.»
«Oh, ma così dopo sarei dolorante…»
«È quella l’idea, sì.» Replicò il Principe, col tono di chi non ha voglia di ripetere le ovvietà.
«E poi come lo proteggo il tuo regale sedere dalle mazzate di quei cattivoni lassù?» Disse, accennando con un pollice alle montagne che si ergevano alle spalle del piazzaforte.
Ci fu un teso silenzio: l’espressione di Alfonso era seria, austera, mentre il suo scudiero persisteva in uno sfacciato ghigno di compiacimento. Era una gara di resistenza, chi avrebbe retto di più? Chi si sarebbe arreso per primo?
Poi accadde: l’Argona scoppiò in una risata sguaiata, senza più riuscire a trattenersi.
«Ah, tu, maledetto figlio di puttana! È per questo che adoro voi Cangramo: avete un paio di palle grosse così, e la faccia tosta come nessun altro. Fossero tutti come voi, adesso gli Orimberga non siederebbero sul trono di Arcadia.»
«Non è saggio parlar male della famiglia reale, Alfonso.» gli disse con tono fraterno il suo scudiero.
Il Principe per tutta risposta sputò in terra, mentre rinfoderava nella guaina di cuoio la spada fresca di affilatura.
«Fanculo gli Orimberga e tutto il seguito di leccaculo che si portano appresso. Hanno trasformato la carica di “Re fra i pari” in un titolo ereditario, e le votazioni in una schifosa farsa priva di senso.» Sputò nuovamente, come per rimarcare il concetto. «Quello scranno andrebbe distrutto pezzo per pezzo.»
«Credi non serva più allo scopo?» Chiese Carlo, dubbioso.
«Non da quando gli Ippocrati hanno perso influenza e si sono chiusi nei loro palazzi a sud-ovest. Un tempo erano loro a reggere il gioco, ma quantomeno lo reggevano bene, nascondendo quanto c’era da nascondere. Mentre questi spocchiosi non hanno la benché minima vergogna. Il potere del Re e dell’Alto Sacerdote nelle mani di un’unica famiglia, non ne verrà niente di buono, parola mia.»
Carlo non seppe che rispondere e si morse l’interno del labbro: sapeva che Alfonso non aveva ancora finito di dar voce ai suoi pensieri.
«Ma basta parlare di politica, un giorno sarò il Re della Costa orientale, e quando gli Orimberga mi chiederanno di inginocchiarmi e giurare fedeltà»  sorrise, come se la scena ce l’avesse davanti agli occhi «saprò io cosa rispondere!»
Carlo replicò con un sorriso accondiscendente, senza scomporsi. Alfonso aveva la voce di ferro, come il carattere. E proprio come il ferro il suo carattere si arroventava facilmente, quando le fiamme lo incendiavano. Questo il giovane scudiero lo sapeva bene. Sapeva che Alfonso s’era fatto le ossa fra le compagnie mercenarie della lontana Ellenia, e i mercenari non erano certo noti per la mitezza o le loro parole accorte. Gli occhi di Carlo volsero verso le montagne: dall’Artiglio del Leone scesero giù fino allo stretto che si inoltrava per la Corona in uno spigoloso declivio, da lì vide fuoriuscire un uomo: era vestito di stracci malandati e camminava accompagnato da un bastone, sebbene nulla nel suo incedere suggerisse che le sue gambe avessero qualcosa che non andava.
Marlo, uno dei tenenti del Principe, si avvicinò con un gruppo di altri cinque soldati. I balestrieri tenevano lo strano vagabondo sotto tiro, nonostante fosse evidentemente innocuo. Un garzone fu mandato a chiamare l’Argona, affinché potesse interrogarlo di persona. E Carlo, com’era nel suo dovere, seguì il suo signore.
Per ordine di Alfonso l’uomo fu fatto accomodare vicino a un focolare, gli venne servita una coppa di vino speziato e una ciotola di zuppa appena riscaldata, mentre il giovane Argona cominciava a interrogarlo, mettendosi seduto proprio di fronte a lui.
«Cosa fai da queste parti? Non sai che la Corona è un posto pericoloso di questi tempi?»
«L’ho imparato a mie spese, mio signore.»  Rispose l’uomo, cacciandosi in bocca un cucchiaio di zuppa.
La sua voce era calma e serena, per nulla inquietata dal fatto di trovarsi di fronte a un nobile. Aveva una cascata di capelli ramati e arruffati, proprio come la lunga barba che gli scendeva fino al petto.
«Portavo al pascolo il mio gregge, su’ per le montagne.» Sorrise, guardando Alfonso. «Sapete, è una vecchia tradizione da queste parti. Quando ecco che mi ritrovo circondato da ogni parte da un gruppo di guitti. Hanno preso il mio bestiame, lo giuro, fino all’ultima pecora!»
«E come sei sopravvissuto?» Chiese il Principe, portando una mano a calcarsi il mento.
«Oh, è stato Lucio, il mio cane da pastore: ha azzannato uno dei briganti, guadagnandomi il tempo per la fuga. Ahimè, temo che lo abbiano ucciso quel poveretto… » denegò col capo, come sconsolato. «era un così bravo animale».
“C’è qualcosa che non va’” penso Carlo, ascoltando la storia del pastore. Ciò che lo lasciava dubbioso non era la vicenda in sé: non era raro che mascalzoni d’ogni sorta si divertissero a depredare la gente di passaggio. Ciò che non lo convinceva era il suo aspetto: a una prima occhiata, per com’era trasandato, avrebbe detto che fosse un vecchio sulla settantina. Ma a guardarlo meglio sulla sua pelle non v’era la benché minima traccia di una ruga, né alcuna di quelle macchie che sovvengono con l’età. La sua voce era profonda come quella dei saggi la cui vita sfiora il secolo d’età, ma barba e capelli, per quanto trascurati, avevano ancora il vivo colore della giovinezza. Inoltre il suo corpo era sì asciutto, ma non tremava, non era debole o malfermo, né tantomeno decrepito com’è quello di un anziano.
Uno dei suoi occhi era cieco, ma nell’altro scorgeva il vivido brillio di una non comune intelligenza. Il suo tono, ed era questo l’aspetto che più lo lasciava interdetto, non era quello di uomo che ha paura: troppo calmo per qualcuno che aveva visto la morte in faccia, troppo sereno per un uomo che nel giro di pochi istanti aveva perso tutto ciò che possedeva.
Insomma, Carlo non si fidava. Che forse si trattasse di una trappola o magari di un inganno ordito dal Clan delle Asce?
«Questi guitti di cui parli, avevano degli emblemi?»  Chiese Alfonso, mettendosi a un palmo di naso dal pastore.
«A fatica si possono chiamare così, ma sì, ne avevano: due asce incrociate, disegnate male su drappi più logori e malmessi dei miei, mio signore.» Rispose l’uomo, mettendo da parte il cucchiaio e la ciotola di coccio ormai vuota. Passando a buttar giù consistenti sorsate di vino.
«Da un mese siamo a caccia di questo gruppo di briganti e tagliagole: hanno razziato villaggi, assaltato carovane e ucciso povera gente indifesa. Sono qui con i miei uomini per mettere fine alle loro malefatte una volta per tutte. Dunque dimmi, vecchio, sapresti indicarmi dove erano appostati? Dov’era situato il loro rifugio?»
«Sicuro, mio signore. Conosco ogni anfratto della Corona, sìsì, da quando non ero che un ragazzino.»
«Bene, allora parlane pure con i miei tenenti e abbi cura di non dimenticare alcun dettaglio. Ci sarà utile ogni più piccolo particolare.»
Il pastore rispose con un cenno di assenso e iniziò a descrivere con perizia ogni angolo della Corona. Carlo prese per una spalla il suo Principe, chiedendoli di scambiare una parola in privato. Lontano da orecchie indiscrete. Si distanziarono dal resto degli uomini, facendo attenzione che la voce rimanesse a basso volume.
«Io non mi fido di quello lì.» Sentenziò lo scudiero.
«Perché mai? È un povero vecchio.»  Rispose Alfonso, facendo spallucce.
«Tu credi?» Lo rimbeccò. «Guardalo, potesse colpirmi un fulmine se quella è la faccia di un uomo spaventato.»
«Magari è più coraggioso di quanto pensi.» Lo sfidò il Principe con un ghigno, ma Carlo non aveva voglia di scherzare.
«Sono serio. E se si tratta di una trappola?»
Il viso di Alfonso perse ogni traccia di ilarità e dopo un sospiro esasperato, si portò una mano alla fronte, quasi volesse spremersi qualcosa di sensato fuori dalla testa.
«Non abbiamo comunque alternative migliori. Esistono pochi modi per attraversare una catena di montagne.»
«Mettilo sotto sorveglianza.» Gli suggerì lo scudiero, allargando le braccia. «Che capisca che nel caso si tratti di un’imboscata. noi non saremo gli unici a fare una brutta fine.»
Il Principe non gli pareva convinto: non amava questo genere di “giochetti” e Carlo lo sapeva bene. L’Argona preferiva sempre colpire un uomo, piuttosto che minacciare di colpirlo. Ma alle volte le guerre si giocavano su terreni meno semplici e più insidiosi di quelli di una battaglia. Nonostante tutto alla fine sembrò rassegnarsi, e diede disposizione che il pastore fosse tenuto sotto sorveglianza, che le armi di chi lo vegliava fossero sempre ben in vista, e un paio di minacce, affatto velate, giungessero forti e chiare al suo orecchio.
Andava messo sotto pressione. Ma niente di tutto questo sortì risultati: l’uomo sembrò tanto a suo agio nella prigionia quanto lo era in libertà, non diede segno di aver celato nulla delle verità che sapeva. A quel punto Alfonso non poté che dare disposizioni affinché i suoi uomini si muovessero per la strettoia che si inerpicava attraverso le rocce della Corona, proprio come il pastore gli aveva consigliato.

Nella tenda Carlo agganciò lo scudo al braccio sinistro: una cupola di ferro battuto, rivestita da uno strato di pelliccia e un ulteriore strato di spesso cuoio bollito. Indossò l’elmo privo di celata e si assicurò che l’ascia e la daga fossero ben affilate e pronte a tagliare. Quando nell’accampamento il corno suonò l’adunata, lo sguardo gli cadde su un vecchio tomo che giaceva vicino al suo giaciglio “Storie di guerra, battaglie e altre meraviglie”. Un sorriso malinconico si delineò sul volto dello scudiero: un regalo del suo fratellino. Si avvicinò al libro, la rilegatura in pelle era stata rovinata dai numerosi viaggi in lungo e in largo per Clitalia, ma il titolo in calce si leggeva ancora. Carlo si chinò, e aprì il tomo, sfogliando un paio di pagine: come sempre le lettere tremavano nei suoi occhi. Doveva impiegare tutto il suo impegno, tutta la sua concentrazione perché rimanessero lì dov’erano, e fossero comprensibili alla lettura. Ma le cesellature e le immagini erano belle da guardare, almeno questo. Lo facevano viaggiare con la mente a giorni lontani.
Richiuse il tomo, nascondendolo sotto le coperte. E dopo essersi assicurato che tutto fosse in ordine, si avviò fuori dalla tenda a passo spedito.
Leggere non era mai stata la prima delle sue attitudini né la migliore, ma le storie, sì, quelle gli piacevano. Quando ancora viveva nella Rocca Grigia, c’erano notti in cui chiedeva ad Arturo di raccontargli le parole dei poeti e degli scrittori con la sua voce. Declamandole alla luce del focolare. Arturo sapeva mettere emozione nelle parole, sapeva cambiare le voci dei personaggi dando ad ognuno la sua. Non avesse avuto sangue nobile probabilmente avrebbe fatto l’attore, lo scrittore o qualcosa del genere. E lui? Cosa avrebbe fatto se non fosse stato un Cangramo? Carlo denegò con il capo: probabilmente sarebbe diventato un musicista o un cantastorie, di quelli che campano suonando qui e là per piazze e taverne.
Perché era vero, di lettere non ne capiva molto. Ma la musica, quella gli scorreva dentro.

Raggiunse il drappello riunitosi al limitare del piazzaforte. Alfonso stava dando disposizioni per l’avanzata della colonna. Gli uomini meglio equipaggiati, dotati di un’armatura più o meno completa, avrebbero proceduto innanzi, perché in caso di carica avrebbero potuto reggere un attacco frontale issando gli scudi. Nella retroguardia arcieri e balestrieri, con le loro cotte di maglia e gli elmi ovali incuneati sopra il capo.
Niente cavalli, nessun vessillo: il terreno sarebbe stato impervio, e non dovevano esserci impedimenti nel corso dell’avanzata. Carlo fu posto al fianco del suo Principe: in caso di imboscata avrebbe provveduto a metterlo al sicuro e proteggerlo da qualsivoglia attentato alla sua vita, anche a costa di sacrificare la propria. Era questo il dovere di uno scudiero.
Venne stabilito che una guarnigione di una decina di uomini sarebbe rimasta a sorvegliare l’inconsueto ospite, e avrebbe fornito assistenza nel remoto caso che vi fosse stata una ritirata. Ma chiunque avesse combattuto al servizio del Principe Alfonso, aveva imparato che la resa raramente era una opzione considerata.

La colonna procedette per l’ispido declivio che si propagava dal ventre della montagna. La via era di roccia grigia, irta di spuntoni acuminati ed erba stopposa, di quella che fuoriesce dalle cavità fra un costone e l’altro. Con un terreno così arido nei dintorni, nessuna sorpresa che gli armenti fossero portati attraverso questa pericolosa traversata. Le montagne, per quanto pericolose per animali e uomini, serbavano a più elevate altitudini pascoli e campi erbosi che avrebbero sfamato quattro greggi consistenti per almeno tre stagioni.
Intanto le pareti di roccia si andavano facendo più vicine l’una l’all’altra. La marcia, da quattro uomini l’uno di fianco all’altro, si restrinse e si allungò in una fila indiana di due a due. Nessuno sembrava avere molta voglia di spendersi in chiacchiere, non sarebbero servite ad allentare la tensione. L’aria sembrava essersi fatta più densa, più difficile da respirare e lo spazio ristretto non li aiutava.
Persino Alfonso, solitamente tanto gioviale, aveva assunto un’espressione tesa e guardinga: i suoi occhi azzurri spiccavano spesso verso su’, dove i due costoni erano soltanto a qualche metro dal toccarsi. Ad ogni rumore, ad ogni scalpiccio, ad ogni cader di sassolini, Carlo sentiva un brivido freddo corrergli lungo la schiena, e scuoteva un poco le spalle, sotto le protezioni di cuoio borchiato.
Di fronte a lui c’era il ragazzo dalla stoppa bionda che al bivacco s’era bello che ciuccato. Lo sciocco procedeva a capo nudo nella marcia. “Che inutile spavalderia” commentò Carlo, senza dar voce ai suoi pensieri.
Di lontano, un capriolo-mezzaluna compiva un balzo attraverso una rupe, contando sulla forza poderosa delle sue agili zampe. Il fitto vello sotto il ventre non gli fu d’impedimento, e balzava da una roccia all’altra senza mai cadere in fallo. Arturo gli aveva raccontato che nell’estremo nord c’erano popolazioni che cavalcavano quegli animali, uomini piccoli e tozzi che in sella a quelle bestie potevano travolgere in carica un uomo tre volte la loro statura. Carlo non era sicuro che esistessero, ma certo se esistevano dovevano essere un popolo parecchio ingegnoso…
Sentì qualcosa puntellargli il fianco sinistro, si voltò di scatto verso il suo Principe e notò che lo incideva con una sguardo duro, dritto nelle pupille.
«Ho bisogno di averti qui, resta concentrato.» Disse sottovoce, battendo indice e medio sullo scudo.
Carlo strinse la mano intorno all’impugnatura di corda e replicò con un cenno di assenso, tornando a guardare avanti a sé. Gli occhi li ricaddero nuovamente sul ragazzo con i capelli biondi che aveva davanti. Questo poco prima che un grido giungesse dalla retroguardia e lo schiocco di un quadrello scoccasse verso l’alto, alla sommità dei costoni. Ma era troppo tardi: uno spruzzo rosso e caldo si riversò sul viso di Carlo, mentre un rumore di ossa spezzate seguiva al cranio in frantumi dell’uomo di fronte a lui.
“Poveraccio, non ha avuto il tempo di urlare. Se avesse avuto un elmo, chissà, forse se la sarebbe cavata” pensò, con amarezza, o forse immaginò solo di pensarlo. Perché il primo istinto, quando capì che la colonna era sotto attacco, fu quello di alzare lo scudo per coprire la testa di Alfonso.
Dall’alto dei costoni di roccia, uomini vestiti di tuniche rattoppate, gilet di cuoio e vecchi cenci stavano bersagliando l’intero drappello con ciò che avevano a portata di mano. Il Principe sbraitò ordini, sputando goccioline di saliva dalla bocca spalancata: Avanti! Avanti! Avanti!
Quella che fino ad allora era stata una marcia lenta e silente, si trasformò in una corsa infernale verso la salvezza. Carlo scavalcò il ragazzo che era morto: “pochi centimetri più avanti e il masso buttato giù avrebbe spaccato la mia di testa”, piantandogli l’elmo direttamente all’interno delle cervella.
Le vibrazioni sullo scudo sollevato si ripetevano l’una dopo l’altra, ripercuotendosi contro il braccio: erano sassi per lo più, troppo piccoli per forzare la sua difesa, ma presto ciò che cadeva da lassù si fece più pesante: un’ascia sbeccata che  graffiò appena il cuoio di protezione. E persino un vecchio forcone smangiucchiato in più parti dal rosso della ruggine, che quando calò squarciò in un punto il cuoio, rivelando il castano sbiadito del vello sottostante.

Furono minuti d’inferno, minuti in cui l’aria entrava nella gola a grandi boccate. Carlo si sentiva quasi ubriaco per quanto ossigeno aveva respirato, pieno di quella fastidiosa sensazione d’affanno che si piazza fra il naso e il palato. Il braccio gli doleva, era ormai un quarto d’ora che lo teneva su’ a quel modo, ma non poteva abbassarlo. Doveva resistere, resistere per salvare la vita di Alfonso.

Finalmente la strettoia si allargò in uno spiazzo aperto. Non ci fu bisogno di ordini: la colonna si strinse in un cerchio, mentre dall’alto urla di battaglia seguivano il loro arrivo. Le voci del Clan delle Asce tremavano la terra, balzando da una roccia ad un’altra sino a trasformarsi in un unico ruggente grido di guerra.
Sembravano piovere da ogni direzione, vestiti con abiti malmessi, pelli di animali conciate alla meno peggio, con componenti d’armature in disarmonia fra loro. Sembravano partoriti dal ventre stesso della selvaggia montagna, ma era ad ovest che il loro vessillo sventolava, all’angolo di una spelonca: due asce incrociate, tracciate malamente con pece e sangue sopra un drappo di stoffa grigia e sbrindellata. I pochi sprazzi di vento che riuscivano a insediarsi nella Corona agitavano i lembi del tessuto, facendolo tremare languidamente.
La fanteria pesante fronteggiò la carica del nemico, opponendosi in uno schieramento serrato. Mentre frecce e balestre decimavano gli uomini intenti a scavalcare le rocce. Ma i pochi residui d’ordine si disfecero in fretta, e la battaglia che bagnava di sangue le rocce della Corona, si trasformò ben presto in una mischia furiosa e selvaggia. Carlo stette ben attento a non allontanarsi troppo dal suo Principe, doveva impedire che gli fosse arrecato qualunque danno: era il suo dovere.
Da parte sua Alfonso non credeva di aver bisogno d’aiuto: combatteva seguendo la Via del Colibrì. Si muoveva con grazia e precisione, non arrischiandosi subito ad un attacco ma eludendo quelli del nemico. Uno dei guitti cercò di infilzarlo con un forcone, ma in un passo di danza Alfonso gli scivolò accanto e con la spada disegnò uno squarcio profondo nella sua gola “Tutto nella via del Colibrì è affidato alla prontezza di riflessi”. E non si fermò, “la Via del Colibrì era un movimento continuo, scandito da una musica incalzante”: eluse un colpo di accetta diretto alla sua testa e segnò un taglio nel ventre, da cui gli intestini scivolarono con dolcezza. “Una perpetua scommessa con la morte”. Poi una spallata e la punta si conficcò nel cuore d’un altro guitto, riducendolo poi a brandelli con una secca torsione del polso. “Una danza in cui l’offensiva è rapida, paziente e letale”.
Non vide arrivare il brigante con la clava cosparsa di spuntoni, pronto a mandargli in pezzi la spina dorsale, ma altri occhi vegliavano su di lui: Carlo incassò con lo scudo la mazzata destinata al suo Principe e rispose conficcando la sua ascia in profondità, nel cranio del malcapitato. Il colpo lo fece contorcere per un poco prima di lasciarlo morire. Carlo liberò l’arma con un furioso calcio nel ventre e affiancò il suo signore.
Spalla contro spalla, il Principe e il suo scudiero procedettero come una macchina ben oliata. Come se i loro pensieri si fossero riuniti in un’unica mente, un’unica danza di sangue e acciaio.

«Te l’ho mai raccontata quella storia, del cavaliere e del suo scudiero?»  Chiese Carlo, mentre un rumore di denti spezzati seguiva una sua scudisciata.
«No, non credo.»  Rispose Alfonso, nell’ennesimo dei suoi letali affondi.
«Beh, non penso ci sarà bisogno di raccontarla: la stiamo vivendo.» Disse, sorridendo.
«Come va’ a finire?»
«Che insieme ne ammazzano trenta.»
«Per ora siamo a ventotto.» Contò il Principe, prima che la sua lama attraversasse una bocca spalancata, passandola da parte a parte.« Ventinove.»
«Ho una mezza idea di chi sarà il nostro trentesimo.» Rispose Carlo, voltandosi verso la spelonca, da cui un energumeno faceva il suo ingresso in battaglia.
Raramente a Clitalia s’erano mai visti uomini di una simile altezza. Il suo capo spiccava i due metri. Tutto il suo corpo era un fascio di muscoli rigonfi, segnato di lucide cicatrici e vecchie bruciature incrostate. Girava con il corpo completamente nudo, a parte un cencio di cuoio intorno ai genitali e due logori stivali di pelliccia probabilmente fatti costruire apposta per lui.
I suoi denti erano stati limati e lavorati, uno per uno, fino a renderli affilati come le zanne di un pescecane. Un cordone di pelle secca e cicatrizzata segnava quella che un tempo dovevano essere le sue labbra, labbra inesistenti che mettevano a nudo le gengive di un rosso vivo. Sulla sua fronte era stato marchiato a fuoco un occhio dall’iride vuota, senza pupille.
Fra le sue mani stava stretta una grossa scure, di quelle adoperate per le esecuzioni, la lama era ancora incrostata di sangue rappreso, filamenti di carne e tracce di capelli impiastricciati. La battaglia nello spiazzo della Corona sembrò placarsi al venir fuori di quello strano essere, gli uomini dell’Argona mirarono al gigante con la paura e il disgusto che tremava loro negli occhi, incespicando indietro di qualche passo. Le mani tentate di gettar via le armi e fuggire per mettere in salvo la propria vita.
I briganti del Clan delle Asce, d’altra parte, parvero galvanizzarsi: chi aveva uno scudo batté la propria arma su di esso, chi non ce l’aveva batteva un pugno sul proprio petto. Il coro di voci si riunì in un solo nome che colmò l’aria: Kron! Kron! Kron!
Carlo avvertì il guanto d’arme del suo signore gemere, quando egli strinse la mano intorno alla spada. Lo scudiero guardò alla creatura e dapprima sentì dentro di sé un terrore che non poteva essere descritto: il terrore che prende l’animo quando gli occhi si trovano dinanzi all’ignoto. Ma alla paura seguì qualcosa di diverso: quel Kron un tempo doveva essere stato un uomo, come ce ne sono tanti al mondo, quale oscena volontà poteva trasformare un essere umano in quella cosa? Quali dolori si celavano dietro le bruciature? Le cicatrici? Cosa aveva dovuto patire per diventare ciò che era adesso?
Ma la guerra non lascia spazio alla pietà: il Clan delle Asce era iniziata come una rivolta di schiavi delle miniere di Poro, schiavi che poi avevano coinvolto il popolino. Stando alle cronache, quando un villaggio veniva distrutto agli abitanti maschi erano lasciate due scelte: unirsi al Clan, e comprare così la salvezza della propria famiglia, o opporsi, e veder distrutto quanto di più caro si aveva al mondo. Le Asce si erano lasciate dietro un cumulo di uomini e bambini trucidati, donne violentate e poi sgozzate, e ceneri, ceneri che un tempo erano case, famiglie, villaggi e che adesso respiravano del solo fumo che si levava scuro verso il cielo.

Un quadrello scattò verso la spalla del gigante, ma lui sembrò non farvi caso e proseguì verso il Principe. La battaglia riprese a infuriare e l’Argona raccolse la sfida, mentre Carlo gli teneva dappresso.
Kron si slanciò in un fendente orizzontale, Alfonso si abbassò appena in tempo per salvarsi il collo, e portò a segno un colpo sul polpaccio. La pelle del gigante era più spessa e resistente della comune carne umana, ma comunque sanguinava. Il Principe si arrischiò in un affondo, ma Kron lo bloccò con il manico della scure e gli assestò una botta dritta sul volto, mandandolo a terra. La lama ricurva calò, ma impattò contro il terreno, sollevando una nube di polvere e zolle di terra.
Al gigante fu necessario un minimo sforzo per disincagliare l’arma e mulinarla contro il Principe: non colpì lui, ma la spada, che fu sbalzata lontana dalla sua mano: il tonfo metallico fu tutto ciò che servì perché Carlo entrasse nuovamente in azione. Alfonso aveva un proprio codice di onore, non avrebbe accettato che qualcuno si intromettesse in un duello, neanche il suo scudiero. Ma le leggi dell’onore erano estranee al gigante. Egli non avrebbe esitato a uccidere un uomo disarmato. Lo scudiero afferrò la sua ascia con due mani e la conficcò nella gamba di Kron, lì dove la spada del Principe aveva già indebolito la sua carne.
L’acciaio sceso a fondo, scavò nelle membra, attraverso i muscoli, spostando le ossa, spezzando le giunture. La gamba offesa del gigante non poté che cedere sotto il suo peso e il ginocchio si schiantò sul terreno con un tonfo sordo. Kron non gemette, non si lamentò, cercò soltanto di rialzarsi in piedi, ma Alfonso aveva recuperato la sua spada e lo scontro sarebbe terminato di lì a poco.

Il Clan delle Asce, veduto crollare il suo campione, offrì la propria resa in cambio della vita di quanti ancora non erano già caduti. Lo spiazzo della Corona si riempì del tintinnare del ferro. Delle esultanze degli uomini dell’Argona, felici e sollevati di poter continuare a vivere ancora per un giorno. Ma Alfonso non si unì al sollievo generale, né all’entusiasmo che ne seguì. Il suo sguardo si rivolse duro al suo scudiero, i muscoli del collo rigidi sotto la gorgiera. Carlo rispondeva al suo sguardo col viso ancora impiastricciato del sangue schizzato via al suo colpo d’ascia.
«Mio signore, io…» Cercò di giustificarsi.
«Inginocchiati.» Gli ordinò perentorio, senza più alcuna traccia dell’amicizia che li aveva sempre legati.
Senza spiccicare parola, lo scudiero lasciò che le sue ginocchia tremolanti e provate aderissero al terreno.
Il Principe levò la spada, con la lama incrostata di sangue e viscere. La puntò in direzione del collo del giovane. Appoggiò la punta sulla carne morbida della gola, sfiorandola appena. Prima di tirarla via in un gesto del polso.
«Tutti voi avete visto ciò che il nostro Carlo Cangramo ha fatto quest’oggi…» Esclamò, prendendo a girare intorno allo scudiero inginocchiato.
«Vi ha salvato la vita, mio signore!» Urlò uno dei soldati.
«Puttanate! Questo figlio di una sporca bagascia mi ha strappato una vittoria che doveva essere mia, e mia soltanto. E per quale motivo l’avresti fatto, Carlo? Sentiamo!»
L’allegria dei soldati era durata ben poco, persino i prigionieri osservavano incuriositi la scena.
«L-la vostra vita era in pericolo, mio signore, io-» Protestò Carlo, con le lacrime che già gli bagnavano gli occhi.
«È questo che credevi? È questo che credevi?!» Lo incalzò, con la rabbia che schiumava dalla bocca. «Ti sbagliavi, caro mio, non ero affatto in pericolo!»
«Chiedo perdono mio signore.»  Replicò Carlo, abbassando lo sguardo. Ingoiando ogni protesta come un boccone amaro.
«Pietà, mio signore! Pietà!» Esclamò uno dei suoi tenenti.
«Silenzio, o tu sarai il prossimo.» Gli intimò, con tono che non consentiva risposta. «Come dicevo, hai creduto che il tuo signore fosse in pericolo, insultando la fiducia che ogni scudiero dovrebbe tenere nelle doti del proprio cavaliere. Esiste un’unica punizione per la tua mancanza di lealtà, di discernimento, di disciplina. E che sia di esempio per tutti!» Sollevò la spada.
«Mio signore vi prego!» Protestarono in coro i soldati.
«Per avermi mancato di rispetto, per insubordinazione, per sprezzo dell’autorità. Io, Alfonso Argona, Principe ereditario di Argonia e prossimo sovrano della Costa Orientale. Ti infliggo la pena più dura che possa toccare ad un uomo»  il piatto della lama toccò la spalla destra, Carlo chiuse gli occhi. Il piatto della lama toccò la sua spalla sinistra e Carlo quegli occhi li spalancò. «Ti investo cavaliere del Regno di Clitalia, con tutti gli oneri e gli onori del tuo ruolo. In ogni tua azione perseguirai giustizia. I deboli e gli indifesi saranno il tuo popolo. Non compirai azione che rechi disonore a te o al tuo signore. Ti opporrai al male, in ogni sua forma, fin quando la vita non ti si estingua dentro il petto. Questo è il tuo giuramento?»
«Questo è il mio giuramento.» Confermò lo scudiero, mentre un entusiasmo confuso si faceva strada in ogni centimetro del suo corpo.
Alfonso gli assestò un sonoro ceffone sulla guancia sinistra. Il ragazzo sputò un grumo di sangue e saliva per terra, senza batter ciglio.
«E questo perché te ne ricordi. Alzati, da Cavaliere quale hai giurato di essere!» Gli disse, sollevandolo lui stesso per le spalle.
L’espressione sul volto di Alfonso si disciolse in una risata, mentre la tensione che si era creata andò via via scemando. Carlo tirò un sospiro di sollievo, cacciandosi via un po’ di sangue dalla faccia.
«Ah, figlio di puttana. Io ti devo la vita! Questo qui mi avrebbe tagliato in due.»
«Fosse la prima volta. Facciamo che mi offri una bevuta e siamo alla pari.» Rispose il ragazzo con un ghigno rosso.
«Per il Redivivo, erano anni che non vedevo uno di questi stronzi.» Esclamò, puntellando col piede la carcassa inerte del gigante. «Viene dall’Impero Sasan, nel lontano Est.»
«Era umano » disse Carlo, inquietato nel volgere gli occhi a quell’essere «ma come-?»
«Nessuno lo sa’, molti dicono che siano presi da infanti da una tribù di giganti, altri che siano il frutto di torture e incantesimi. Tutto ciò che è noto è che sono costosi da comprare e sono totalmente incapaci di provare dolore. Ora mi è chiaro come abbia fatto il Clan delle Asce a resistere così lungo.»
«Qualunque uomo sano di mente se la sarebbe data a gambe di fronte a un mostro del genere.» Ammise il cavaliere.
«Già, ma basta cianciare Ser, dobbiamo festeggiare!» Concluse il Principe, rinfoderando la spada e calando una pacca sulla spalla del neo-cavaliere.

Il gruppo si premurò di esplorare il rifugio dei guitti, ma non vi trovò nulla, se non i magri bottini che avevano accumulato nel corso delle loro razzie e scorte di cibo. Durante gli interrogatori, lungo la strada del ritorno, i briganti non seppero dir nulla su un pastore e il suo gregge. Questo portò Alfonso a insospettirsi nei riguardi dell’uomo misterioso che li aveva guidati nella Corona. Avrebbe certamente risposto delle sue menzogne, ma non appena la colonna ritornò al piazzaforte, gli uomini di scorta diedero avviso al loro signore che il vagabondo era sparito.
«Come sparito?» Chiese Alfonso, stupito e innervosito dalla notizia.
«Un attimo prima era lì, nella tenda, io stesso lo tenevo sotto sorveglianza. E poi, in un battito di ciglia, ecco che non c’era più.»
In circostanze normali le guardie sarebbero state punite e redarguite con durezza dal loro signore, ma quello era un giorno di festa. Sebbene il pastore avesse mentito sulla sua storia le sue informazioni si erano, al fine, rivelate essenziali per scovare il Clan delle Asce e mettere fine alle loro scorrerie. Quando la sera scese sul mondo, i fuochi dei bivacchi si levarono alti e i soldati intonarono canzoni e si ubriacarono come mai in vita loro, per quella che sarebbe stata ricordata come la battaglia della Corona.
Carlo, troppo stanco e affaticato per una notte di bagordi, s’era rifugiato nella sua tenda, lavandosi via lo sporco dal corpo, nella tinozza d’acqua calda fatta riempire dai servi. “Una bella novità poter lanciare ordini a destra e a manca, sarà meglio che non mi lasci prendere la mano”.
Terse con cura la pelle, grattò via la polvere e il sangue incrostato che gli riempivano i capelli e chiuse gli occhi, nell’acqua calda che lo avvolgeva. Respirò a fondo: era diventato finalmente un cavaliere. Suo padre sarebbe stato fiero di lui, magari avrebbe sorriso stavolta … era così difficile immaginarsi il solenne Conte Severo Cangramo che sorrideva. Quel pensiero lo divertì, ma uno scalpiccio di passi lo ridestò da quel sogno ad occhi aperti.
Erano passi che conosceva, passi famigliari.
Alfonso Argona si fece largo attraverso i drappi della tenda: il suo corpo asciutto era avvolto da una tunica di lino e i calzoni in morbida stoffa verde abbracciavano le gambe pulsanti di muscoli. Carlo si tirò a sedere nella vasca e si schiarì la voce, senza tuttavia parlare.
«Niente è meglio di un bagno dopo una battaglia, eh? La stanchezza sembra venir via insieme con il sangue e il sudore.»
Il cavaliere rispose con un cenno d’assenso, mentre la sua mente cominciava a correre verso alcune fantasticherie, frenata a stento dalle catene del raziocinio. Alfonso si sfilò la tunica e le braghe, lanciandole malamente in terra. Rimase nudo dinanzi a lui: il corpo magro, con nidi di peluria sule petto e in una striscia per il ventre. Il suo membro era ancora floscio, nel cespuglio crespo del pube. Rimase lì in piedi per qualche istante, prima di infilarsi nella tinozza con un sospiro di sollievo al calore dell’acqua.
Carlo sentì la sua virilità irrigidirsi pian piano, mentre la voce stentava un poco a uscirgli dalla bocca.
«I servi non hanno riempito la tua tinozza?» Chiese Carlo, con un ghigno provocatorio.
«Oh, sì che l’hanno riempita. E l’acqua era calda e avvolgente, cavaliere.» Rispose lui, flettendosi verso di lui.
«E allora perché ti infili nella mia?» Gli chiese, mentre appoggiava le braccia ai margini della tinozza e una mano scivolava verso il su membro, tirandolo con dolcezza su e giù.
«Beh, perché quest’acqua è più calda … più avvolgente.»  Rispose il Principe con un ghigno, e il suo viso si immerse giù, oltre l’acqua opaca.
Mentre la bocca aderiva intorno al pene, Carlo si sentì come preso e risucchiato verso una sensazione fumosa. Le spalle, le ginocchia, ogni giuntura tremava debolmente, mentre il suo respiro arrancava lungo la gola e scoccava rumoroso dalle narici. Il viso di Alfonso riemerse, con le gocce trasparenti che gli scivolavano lungo il naso e le guance magre.
«Cosa direbbe il Conte se sapesse che suo figlio è un sodomita?» Chiese il nobile, inarcando un sopracciglio, divertito. Carlo lo spinse indietro, con lo sguardo fattosi scuro. La bocca tesa in una smorfia di disprezzo.
«Sei un cretino se pensi che si tratti di questo.»  Gli andò incontro, afferrandolo per le guance. «Ho scopato fior fior di puttane, e solo perché mi piaceva il loro corpo.»  Afferrò il membro del Principe, trovandolo rigido fra le dita. « E anche giovinetti inesperti, in lungo e largo per la regione.»  La sua mandò andò su’ e giù, su e giù, con decisione ma senza stringere con troppa forza.« Ma quel che provo per te va’ oltre il tuo corpo, Principe.»
«E di cosa si tratta, allora?» Chiese lui, deglutendo a fatica, con un’espressione di ebete godimento in viso.
«È amore, idiota.»  Disse, baciandolo in un unico, intenso, scambio di lingua.
Alfonso lo spinse indietro, smuovendo l’acqua, cercando di imporsi sui di lui. Ma Carlo lo fermò, premendogli una mano sul petto e tirandoselo di dosso.
«No, non questa volta.»
Alfonso rimase interdetto, ma ben presto la sua aria stupita si mutò in una smorfia di eccitazione. Carlo voltò il Principe di schiena e gli entrò dentro in un colpo secco. Si chinò a baciargli la schiena, iniziò a muovere i fianchi, prima con dolcezza e poi con un po’ più di forza. Prima di accelerare il ritmo, compiva un piccolo moto circolare con il bacino e il Principe stringeva le mani al bordo della tinozza, mordendosi il labbro inferiore e cacciando un sospiro. Continuarono, continuarono per un tempo che pareva non voler finire mai, come loro volevano non finisse mai. Perché l’Amore, se ne ha volontà, può montare catene alla folle corsa del tempo e rallentarla, sino a quando non ritiene d’essersi compiuto appieno.
E così, quando il seme si liberò, seguito da un gemito appena accennato. Carlo si staccò dal suo amato, mentre l’aria gli gonfiava il petto, in prolungati e profondi sussulti. L’acqua si era fatta ormai tiepida, ma il sangue nel suo corpo era tutto il calore di cui necessitava.
Alfonso si levò in piedi, il suo seme premeva ancora per uscire e con esso riempì la bocca del cavaliere, che lo buttò giù di un fiato. Aveva un sapore dolce, mentre scendeva denso per la gola. Avrebbe voluto accoccolarsi con lui, per tutta la notte che sarebbe seguita. Sentire l’odore, il profumo che veniva dal suo petto, e osservare la quiete dei suoi occhi chiusi. Ma non fu così…
dopo essersi asciugati, il Principe fu costretto a lasciare la tenda, salutando il suo amante con un ultimo bacio, intenso ma fin troppo breve per una sera come quella.

Carlo amava, aveva sempre amato. Per lui il corpo non era altro che una forma in cui la bellezza si celava più o meno segreta. A lui stava soltanto di scavare e cercare. E ogni volta era diverso. Ma con il suo Principe non era solo diverso, no, con il suo Principe era anche unico e speciale.
Non sapeva come mai un amore fra due uomini dovesse celarsi segreto, da quanto gli aveva raccontato Arturo gli Elleni potevano amarsi senza distinzione alcuna, in una certa misura lo facevano anche i Rimli prima che i loro molti dei fossero sostituiti dal solo e unico: Redivivo.
Gli faceva male dover nascondere quell’amore, ma non era tanto sciocco da offendersi per questo. Alfonso era il rampollo di una nobile casata, doveva dar vita a una discendenza perché il nome degli Argona non si estinguesse dopo di lui, dopo la morte di suo padre. E certo nessuna donna si sarebbe lasciata maritare a un uomo che era un sodomita, né il Culto avrebbe preso bene quella che considerava come una “perversione”. Tutt’altro, molte voci parlavano di pubbliche fustigazioni per omosessuali ed effeminati, perfino torture e pubbliche esecuzioni in alcuni casi. Carlo era abbastanza sicuro che almeno per quanto riguardava Alfonso, simili minacce non erano all’orizzonte: il suo nome e i suoi titoli lo avrebbero difeso da qualsiasi attacco da parte del Culto. Ma per quanto riguardava lui, beh, non poteva averne certezza. Era abbastanza certo che suo padre l’avrebbe diseredato piuttosto che accettare e difendere un figlio che “reca un tale disonore alla sua famiglia”, pensò, mentre nella sua testa imitava quella voce borbottante che sapeva sempre di insindacabile sentenza.  

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Capitolo 5
*** I segreti di un Conte - (Sebastiano) ***


Capitolo V
I segreti di un conte
(Sebastiano)
 
 

«E muoviti idiota di un mulo!»
Lollo lo Sdentato assestò una sonora pacca sul culo dell’animale, che ragliò in segno di protesta. Ma pure riprese a camminare, tirandosi appresso il carro ricolmo di casse e barili del Belgi. La traversata della Selva si era rivelata un vero e proprio calvario: le ruote del carro si erano incagliate spesso a ridosso delle radici sporgenti, il carico era tanto pesante che il ciuco più di una volta s’era arrestato, rifiutandosi categoricamente di proseguire. Di minacce e tirate di muso ce n’erano state in abbondanza, ma finalmente la Rocca Grigia era in vista: il suo corpo di guardia si stagliava all’orizzonte, incassato nelle mura di roccia marina, con gli stendardi blu e neri che scivolavano sui lati.
‘Bastiano mandò al trotto il suo baio. Dalla guardiola il vecchio muso del Guercio fece capolino, strizzando i suoi occhi di differente forma e colore. Si rimestò la saliva nella bocca e lanciò un urlo da vecchia cornacchia spennata qual era.
«Aprite i cancelli! È Sebastiano!»
La grata di pesante ferro battuto si levò con un cupo lamento metallico, nascondendosi maglia dopo maglia nell’arco di ingresso. Il ragazzo sospirò, sollevato: finalmente quella marcia infernale era finita, poteva sgranchirsi un po’ le gambe giù da quella sella scomoda e dura. Affidò il cavallo al corpulento stalliere Sario, con il testone pelato e la tunica grigia sempre insozzata di qualche nuova macchia variopinta.
Non aspettò il resto del suo convoglio, i soldati sapevano già cosa fare senza che bisogno di impartire ordini a destra e a manca. Li avrebbe anticipati sulla via del Castello: lì avrebbe avuto finalmente un buon pasto caldo e un sedile imbottito su cui posare il culo.
Passò attraverso le baracche del popolo minuto, le strade erano pressoché deserte: i contadini e gli artigiani già mangiavano a quell’ora, una breve pausa per riunire le loro famiglie e ristorarsi prima di riprendere il lavoro. Dalle finestre proveniva l’odore di pietanze semplici, ben lontane dalla gran varietà di aromi speziati e materie prime delle cucine del castello: minestre di verdure scaldate alla fiamma del proprio camino, pasticci con gli avanzi dei giorni precedenti, brodo di pollo con fette di pane duro messe a mollo. Suo malgrado gli venne una certa acquolina, quella cucina senza troppi fronzoli aveva sempre esercitato una certa attrattiva su di lui.

Superate le baracche, fece per deviare verso i sette gradoni che precedevano le porte di Castel Cangramo, quando un cozzar di spade e scudi richiamò la sua attenzione. Nel recinto di terra e sabbia dove si allenavano le guardie, Mastro Villa osservava due imberbi armati, intenti a scambiarsi fendenti con un impaccio tale da sembrare due mocciosi che giocassero con i bastoni.
“Questa non me la perdo” pensò il ragazzo, poggiando i gomiti al recintato, a ridosso dei robusti bracci in legno che lo delimitavano.
Il Maestro d’Armi di Rocca Grigia aveva il cipiglio fiero dei vecchi soldati, un collo taurino e due braccia che avrebbero rotto in due il collo di un orso adulto. La sua faccia era un dedalo di pallide cicatrici che correvano a delimitare chiazze di barba color cenere, e le sue labbra erano tanto sottili da vedersi appena. Con i piccoli occhi di un ruvido grigio sapeva fulminare un uomo con un solo sguardo. Le sue sopracciglia seguivano l’arco della fronte sporgente, ed erano perennemente corrucciate.
Carlo aveva scommesso che l’attempato Villa fosse tanto ignorante di ogni altra espressione facciale da saperne adottare solo una, che tale rimaneva qualsiasi emozione provasse: che fosse felice, triste, arrabbiato o persino innamorato. Su quest’ultima eventualità suo fratello ci aveva messo su’ una canzone intitolata “La fanciulla e il corrucciato”. Era una fortuna che Riccardo Villa non l’avesse mai udita, o li avrebbe riempiti entrambi di legnate. Al pensiero non poté fare a meno di sorridere.
Lanciò un fischio, e il maestro si avvicinò al limitare del recinto, poggiandosi a uno dei pali conficcati nel terreno, senza cessare di squadrare ogni mossa delle reclute in azione.
Che fossero reclute non ci voleva gran occhio per capirlo: uno era uno spilungona con la pelle bruciata dal sole, che ‘Bastiano aveva visto su di un peschereccio non meno di qualche mese fa; mentre l’altro era un ragazzino senza la minima traccia di barba, né sopra il labbro, né lungo il mento “Ha la pelle più vellutata di mia sorella”. Indossava un elmetto cuneiforme più largo del suo capo, che quindi non faceva che scivolargli sugli occhi, coprendogli la vista.
«Come andiamo?» Chiese ‘Bastiano, con un sorriso all’angolo della bocca.
«Ho visto paraplegici combattere meglio. Lo spilungone del Valga sembra avere un dannatissimo ratto nei calzoni.» La sua voce si fece un tuono. «Punta quei cazzo di piedi quando attacchi!»
«E l’altro?» Chiese ‘Bastiano, sedando a stento una risata.
Il ragazzo aveva lo scudo troppo vicino al torace, e quando parò il fendente, il contraccolpo lo sbalzò in terra, facendolo cadere come un sacco di patate. Il giovane Cangramo, ormai incapace di trattenersi oltre, si sganasciò, beccandosi un’occhiataccia dal Maestro d’armi e una smorfia stizzita da parte del ragazzino.
«Vuoi farti una dormita già che ci sei?! Rialza il culo e combatti!» Poi, rivolto a ‘Bastiano. «Quello lì invece viene da Valspurga, debole e impacciato come una ragazzetta.» Sputò un grumo di muco e saliva sulla sabbia. «Farò di questi idioti dei soldati, a costo di spaccargli la schiena.»
«Non ne dubito, Maestro.» Replicò, lanciando un’occhiata al ragazzino che intanto s’andava rimettendo in piedi. «Con noi hai fatto un buon lavoro».
«Tu e tuo fratello siete venuti su’ bene. È il piccolo della cucciolata che mi preoccupo.» Il vecchio sbuffò in una smorfia di disapprovazione. «Troppo magro, troppo gracile».
«Carlo era più secco di lui alla sua età» rispose ‘Bastiano, facendo spallucce. «Crescerà e il suo corpo cambierà col tempo.»
«Sarà meglio per lui, o tuo padre lo spedisce dritto in monastero, non che me lo veda male il piccolo Arturo, con saio e la tonsura. Visto tutto il tempo che passa sui suoi dannati libri…»
«A nessuno piace quella vita. E neanche a lui piacerebbe.» Lo rimbeccò, Sebastiano.
Erano diversi, lui e Arturo, ma era un bravo ragazzo, con un animo gentile e forte in modi in cui ben poche persone sapevano essere.
«Già,» arretrò un attimo il Villa «a te no di sicuro.» Berciò, alleggerendo un poco i toni.
Gli occhi del Cangramo si posarono nuovamente sul ragazzo di Valspurga: lui sembrò notare il suo sguardo. I grandi occhi glauchi tremolarono e la sua faccia si fece paonazza, ma dissimulando il tutto tornò a concentrarsi sull’allenamento. ‘Bastiano rimase un attimo interdetto, ma scelse di non dare voce al suo disappunto.
«Infatti, non mi aggrada» si incupì un poco «ma neanche questa vita mi fa impazzire, con quello che mi aspetta.»
Un velo di tristezza attraversò per un attimo il viso del vecchio Maestro d’Armi di Rocca Grigia, ma il suo cipiglio fiero non tardò a tornare, quando si trattò di dare ordini ai soldati
«Basta così, sacchi di merda! Andate a darvi una ripulita, riprenderete dopo l’ora di pranzo!» Tuonò il Villa, con le braccia imponenti incrociate dinanzi al petto. Voltò poi il capo verso il giovane. «Tuo padre ti sta addosso per una ragione, ragazzo. Sei il suo primogenito ed è a te che toccherà portare avanti il buon nome della famiglia.»
«Lo so, lo so.» Tese la bocca in una smorfia irritata. «Ma capisci, non è una mia scelta. Pensi che me ne freghi qualcosa di buone maniere, precedenze e accordi commerciali?»
Riccardo oltrepassò il cancelletto in legno che li sperava, e poggiò una mano sulla spalla del ragazzo, addolcendo lievemente la perenne espressione corrucciata.
«Io la vedo in te, la furia del lupo. Quel che ti manca è il buon senso del cane.» la pesante mano si spostò dalla spalla al retro del collo «ma la verità è che un Conte ha bisogno di entrambe le cose, che ti piaccia o no. Non hai scelto di esserlo, però ogni uomo ha il suo fottuto posto in questo mondo e questo è il tuo.»
‘Bastiano non poté che arrendersi con un cenno di assenso, in fondo non sapeva se suo padre avesse scelto quella vita, se e quanto gli piaceva. Sapeva soltanto che aveva messo la famiglia al primo posto: sempre, in ogni occasione. Se per lui era una sacrificio, l’aveva compiuto senza mai lamentarsene. Lui doveva fare lo stesso: era la legge del sangue e della stirpe.
«Ti piace combattere, questo lo so, e vedrai che non mancheranno le occasioni per metterti alla prova. Guerre e tornei li hanno inventati apposta.» Gli calò una delle sue sonore pacche sulle spalle. «Ora fuori dalle palle, prima che il vecchio cane-lupo ti mandi a cercare.»
‘Bastiano si congedò con un rapido gesto del capo.

Il Maestro aveva ragione: tutto sommato di che poteva lamentarsi? Suo padre era uno stronzo, certo, ma era un fardello che tutti e quattro i suoi figli dovevano sopportare (tutti meno Miranda: per lei aveva sempre avuto un occhio di riguardo). Almeno nessuno gli avrebbe imposto di votarsi a un dio o a leccare il culo di qualche rampollo viziato. Sì, quando fosse stato Conte avrebbe potuto fare ciò che più gli piaceva. La pressione delle regole, le strigliate, i continui e reiterati ammonimenti erano solo un piccolo pegno da pagare. Ma sì, dai, quasi quasi non vedeva l’ora di posare il culo sullo scranno di Castel Cangramo e sentirsi chiamare “Conte” di qua e “Conte” di là. Eppure, rapido come quel pensiero gli era venuto, così lui lo respinse, perché esso aveva l’amaro retrogusto della morte e della tragedia.
Sì, perché ci può essere un solo Conte, un solo signore di Rocca Grigia e uno ne deve morire, prima che l’altro gli succeda: è la legge del sangue, è la legge della stirpe. Per quanto vi fossero contrasti fra loro, per quanto detestasse l’irremovibilità di certi suoi ragionamenti, ‘Bastiano amava suo padre come pochi figli amano i loro padre, e covava per lui una non-comune ammirazione. Perché, seppure severo e implacabile, egli era giusto, coraggioso e rispettato da chicchessia. Tutto ciò che Sebastiano Cangramo sarebbe voluto diventare, quando un giorno il tempo lo avesse traghettato alla veneranda età.
E con questi pensieri a vorticargli nella testa si diresse finalmente al Castello, i pollici inforcati fra la cintura e il bacino. Salì i sette gradoni spioventi, mentre le guardie di turno, riconoscendolo, spostavano i pesanti battenti del portale.

Il Castel Cangramo era in gran fermento quel mattino: una giovane serva ravvivava il focolare, gettando ciocchi di legno, tagliati di fresco, nelle fauci del fuoco, nel mezzo-tronco di roccia istoriata. Le fiamme sputavano fuori uno sprazzo di scintille arancioni, e guizzava come le chiome di un cavallo imbizzarrito. Altri servitori, sulla cima di scale a pioli, sistemavano gli arazzi sino ad allora serbati e lasciati impolverare nelle cantine, forse per ravvivare di colore il relativo grigiore della Sala Grande. Altri ancora passavano uno straccio inumidito sui corrimano che salivano ai piani superiori. Luigi, l’anziano attendente di suo padre, discuteva animatamente con sua moglie, Bice, la pingue sovrintendente alla servitù di Castel Cangramo e, in precedenza, balia di ‘Bastiano e dei suoi fratelli.
Quei due erano sposati da sempre, da prima che Severo Cangramo diventasse il Conte di Roccagrigia ed era diffusa convinzione che avessero iniziato a litigare dalla loro prima notte di nozze, e ancora, dopo tutti quegli anni, non avevano ancora smesso. Secondo Carlo anche quando dormivano, nel loro talamo nuziale, battibeccavano l’uno con l’altro parlando nel sonno.
Paolo intanto passava la ramazza per il pavimento, scostando la polvere, fermandosi soltanto per passarsi una mano ad asciugare l’ampia fronte grondante di sudore. Indossava umili abiti di feltro, con stivali in cuoio vecchi almeno quanto il Castello stesso, sulla sua testa tonda i capelli bruni lasciavano il passo a una calvizia incipiente. ‘Bastiano gli si avvicinò e lui gli lanciò una delle sue occhiate agitate e cariche d’ansia.
«M-mio signore.» Accennò una timida quanto sgraziata riverenza, con la sua voce balbettante.
Aveva un viso piccolo, con un paio di occhi grigio topo e un naso lungo e stretto come un chiodo. Dai lati della testa le orecchie si facevano largo in un paio di ampie sventole sottili.
«Hai visto mio padre, Paolo?» Gli chiese, lanciando un paio d’occhiate intorno a sé.
«È n-nelle s-sue stanze, m-mio signore.» Rispose, deglutendo a fatica.
«E il pranzo, per che ora si terrà?» Quella domanda parve metterlo ancor di più in agitazione.
«I-io non lo so, m-mio s-signore. Forse tra una mezz’ora da adesso.»
«Bene, allora ti lascio alle tue mansioni.»
«G-grazie, m-mio signore.» Rispose Paolo, grato di poter ritornare a dedicarsi alla sua ramazza..
“Forse avrò il tempo di rilassarmi un poco prima del pranzo” il Conte era stato chiaro quella mattina: “Dovrai avere un manico di scopa su’ per il culo, dobbiamo fare buona impressione”. Va bene, non aveva usato quelle parole esatte, ma il messaggio era quello. E la prima regola del bon-ton era di non far aspettare un ospite. ‘Bastiano si conosceva: avrebbe sicuramente perso tempo e fatto ritardo. “Meglio essere previdenti” si disse, avvicinandosi a Bice, che non si accorse neanche di lui, tanto era impegnata a sbraitare contro il suo segaligno consorte. L’attendente indossava un giustacuore rosso e un capello dalle forme morbide, la sua barba era molto ben curata. Mentre sua moglie raccoglieva i capelli grigi in una cuffia bianca e indossava un busto di cuoio lavorato seguito da una lunga gonna bianca di semplice fattura.
‘Bastiano si schiarì la voce.
«Bice».
«Me ne vado in convento io! Ma chi me l’ha fatto fare a me, per dar retta a quella buon anima di mio padre!» Urlò, agitando la vistosa pappagorgia sotto il mento, la fronte grassoccia incisa da rughe di espressione.
«Tu sei pazza, donna!» Gli rispose l’attendente, sbarrando gli occhi pallidi e alzando le braccia.
Gli anni di matrimonio avevano scavato in profondità le guance dell’uomo.
«Bice!»Ripeté ‘Bastiano, assicurandosi di farsi sentire questa volta.
«Eh?!» Chiese malamente la donna, voltandosi di scatto, mentre suo marito sgattaiolava via, profittando del diversivo.
Il ragazzo cercò di darsi un tono, assumendo un’aria che comunicasse autorità: spalle dritte, petto in fuori e sguardo fisso. Ma aveva dimenticato chi aveva davanti.
«Che c’è? Ho le mie cose da fare giovanotto»
«Ecco, io.» Sospirò un attimo. «Mandami a chiamare quando tutto sarà pronto.» Gli chiese.
«Lo farò e anche con un certo anticipo.» Esclamò, portandosi le braccia al cinto. «E fammi un piacere signorino, mettiti qualcosa di più vivace di questo farsetto tutto scuro scuro, messer Belgi ama i colori vivaci!» Consigliò, pizzicando con le dita un lembo di tessuto.
“Perché diamine dovrei sottostare ai gusti di un mercante?!” si chiese. Ma la risposta era fin troppo scontata e non tardò a uscire dalla bocca carnosa della sovrintendente.
«Vostro padre ci tiene che si faccia bella figura!»
«Se è questo che il Conte mio padre desidera, non lo deluderò.» Concesse.
«Bene, benissimo. Ora va’, va’, che di tempo ne tieni poco.»

Lo congedò con rudezza, agitando le mani e tornando a caccia del suo consorte. Tra tutti gli uomini, che fossero di basso o alto lignaggio, Severo Cangramo era l’unico per cui Bice nutrisse una qualche forma di rispetto e sussiego. Era una donna dal carattere forte, nessuna sorpresa che suo padre l’avesse decisa come balia per tutti e quattro i suoi figli. Se con ogni altra persona era sgarbata, impertinente, irascibile, con il Conte la sua voce si faceva più stridula ed era tutta una danza di inchini e riverenze. Solo un’altra persona riusciva a trasformare in quel modo il carattere difficile della sovraintendente, ed era Loredana Cangramo, la moglie del Conte.
‘Bastiano la ricordava ancora, la sua immagine vivida prendeva forma nei suoi sogni e nei suoi ricordi: rammentava gli occhi dal verde accesso che si posavano su tutto con gentilezza, la voce sottile che pure incuteva rispetto. La ricordava ancora gravida lasciare il Castel Cangramo per non ritornare mai più, l’ultimo bacio che lei gli aveva stampato sulla fronte.
Aveva dovuto attendere anni prima di sapere cosa ne era stato di lei, perché i suoi genitori fossero partiti senza fornire spiegazioni ad alcuno. Perché lei non fosse più ritornata da quel viaggio.
Sì, suo padre aveva aspettato anni prima di sputare il rospo e non aveva ceduto per le numerose volte in cui lui gli aveva posto quella domanda, no, ma solo perché “Ci sono segreti che il Conte di Rocca Grigia deve conoscere…”.
Bastardo… gli aveva fatto giurare di non parlarne mai con nessuno, neppure con i suoi fratelli “è importante che queste parole tu le serbi nel profondo del tuo cuore, chiuse nella chiave del silenzio”. Suo padre adorava usare le parole che si trovano nei libri che Arturo leggeva con tanta foga, ma soltanto quando doveva comunicare cose in cui col cuore non ci voleva entrare, perché magari avrebbe scoperto che anche lui poteva provare dolore in fin dei conti.
Che un uomo, per quanto coraggioso, per quanto forte e prode, soffre come qualunque altro. Aveva quasi sorriso quando se ne era reso conto, sì, quando si era reso conto che anche l’integerrimo Conte Cangramo era un codardo, in un modo tutto suo…


NdA Ogni tanto faccio una piccola ricomparsata qui sotto, alla fine di un capitolo. Spero che la storia vi stia prendendo, per quanto siamo ancora agli inizi, ma non temete: le cose si faranno presto più movimentate! Nel frattempo, prendendo spunto da morgengabe, qual è fino ad ora il vostro personaggio preferito? Chi è il Cangramo che più vi aggrada? E quello che meno sopportate?
Ringrazio morgengabe, Rory Jackson e deianirarouge per le loro recensioni, oltre a tutti gli altri lettori silenziosi che seguono questa storia.

Un abbraccio,
NuandaTSP


 

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Capitolo 6
*** Fiori variopinti d'oriente - (Miranda) ***


Capitolo VI
Fiori variopinti d’oriente
(Miranda)
 
 

Delle numerose sale che componevano Castel Cangramo, nessuna godeva del favore della luce del sole come la sala da pranzo, situata al primo piano della struttura. Fra la torre nord-est e quella di sud-est, quattro finestre a sesto acuto si affacciavano sulla sala. Al centro un grande tavolo di quercia dalla forma rettangolare, ampio abbastanza da poter ospitare due persone a capotavola e altre sei su entrambi gli altri lati. Le sedie erano foderate con cuscini di velluto sul sedile e lungo lo schienale, i bracci si arricciolavano in tondi ghirigori prima di ridiscendere in sinuose anse di legno lucidato. Sul pavimento di roccia era steso un tappeto rosso, reso tenue dal tempo e dall’usura, bordato d’ocra e con frange lanose che si protendevano come dita sgraziate in ogni direzione.
Sui muri erano appesi trofei di caccia: teste di animali imbalsamati, inserite in sobri scudi di legno, privi di ogni decorazione.
Quand’era più piccola, Miranda rimaneva inquietata dagli occhi solenni e senza vita dell’orso sulla parete nord, o da quelli scuri del cinghiatauro sulla parete ovest. E consumava il suo pasto con lo sguardo fisso sul piatto, lasciando la tavola non appena aveva finito. Adesso quelle teste poteva rimanere a fissarle per ore, senza che ciò le suscitasse la minima emozione.
Dalle finestre la luce del sole penetrava generosamente, posandosi sulla superficie in legno del tavolo, spezzandosi in barbagli d’oro sulle ricche posate d’argento ai lati dei piatti di fine porcellana. Di fronte a lei sedeva Vittorio Belgi, indosso portava un giustacuore di uno sgargiante verde foglia, con ricami floreali istoriati in oro e le maniche a sbuffo come petali di una margherita. Il mare giaceva placido alle sue spalle, oltre la finestra. A seguire, accanto al suo promesso c’era Arturo, e poi la cara Mowan, come sempre fuori posto nel suo nuovo abito. Sul lato del tavolo dove sedeva lei, il fratello più grande, Sebastiano, era vestito di un farsetto rosso vivo, con i risvolti ricamati in filo d’argento.
E infine, a capotavola, sul sedile più alto, con il primogenito sulla sinistra e il futuro genero sulla destra, sedeva Severo Cangramo, con indosso una tunica nera con bottoni d’argento e una cintura di velluto stretta intorno alla vita.

Miranda era raggiante, con gli occhi trasognati mentre le parole scivolavano fuori dalla bocca del suo promesso, accompagnate da una gestualità discreta delle mani. Come vele che si gonfiassero a sospingere la sua barca.
«È stato nei giardini di Ishtar che le ho vedute per la prima volta: canini grandi come la lama di una sciabola, tanto da sporgere ai lati della bocca. Un vello nero dello stesso colore della notte, percorso da striature rosse e arancioni, vive come una fiamma.» Il Belgi si rivolse al Conte. «Molto simili alle comuni tigri, ma più grandi! Più possenti!»
«E questo la dice lunga.» Ammiccò Severo.
«Sapete, anche lì vi sono uomini con il coraggio di affrontare simili fiere, proprio come succede nelle nostre arene. Ma si tratta di uomini liberi, uomini valorosi! È una vera disgrazia per la nostra società, che vi sia ancora un male arcaico come la schiavitù.» Il Belgi parve incupirsi.
«Un uomo libero devi pagarlo, uno schiavo fa’ quello che gli si dice e basta.» Sentenziò il Conte, senza guardarlo in viso, ma contemplando il suo calice di vino. «Non è qualcosa che apprezzo, ma che posso comprendere mio malgrado.»
«Forse è come dite.» la bocca del mercante si incrinò «Ma ritengo che la fedeltà di un uomo non si guadagni schiacciando la sua volontà, privandolo della libertà di cui dovrebbe essere il solo e unico padrone.»
«Pensate dunque che possa essere comprata?» Chiese Severo, lanciandogli un’occhiata inquisitoria.
L’espressione trasognante di Miranda andò in mille pezzi, mentre le palpebre si stringevano intorno agli occhi, fissi nel guardare suo padre. “Sai bene che non era questo che intendeva dire” avrebbe voluto dirgli “smettila di metterlo alla prova”. Ma il Belgi non batté ciglio, la sua espressione era quieta e serena.
«Niente affatto,» replicò «la fedeltà viene dal rispetto e dall’ammirazione.»
«E come credi che questo rispetto, questa ammirazione di cui parli, si possano ottenere, signor Belgi?»
“Ancora?!” pensò la ragazza, ad occhi sbarrati.
«Essendo giusti. Adoperare la forza e la clemenza seconda di ciò che richiede la situazione. Fare ciò che riesce a tutti gli uomini, e ciò che invece riesce solo a pochi. Mostrare d’essere ancora comuni e pure straordinari in un solo tempo.»
«Sono pochi gli uomini che sanno fare questo, caro Belgi.» Lo rimbeccò Severo.
«Come del resto sono pochi gli uomini degni di fedeltà» Replicò il mercante, bevendo un sorso del suo vino.
Il Conte mugugnò un assenso divertito e bevve anche lui, smorzando un’espressione compiaciuta. Miranda poté così tirare un sospiro di sollievo: suo padre era un uomo quanto mai difficile da compiacere. Era quel genere di persona che ama metterti alla prova, e da questo trarre le sue conclusioni sulla tua persona. Ma il suo futuro marito aveva scelto con oculatezza le parole da usare, era certo un uomo fuori dal comune, molto più di quanto non lasciasse intendere a un primo sguardo. Si scambiarono un sorriso, velato di un certo sollievo, quando i servi giunsero al tavolo con le prime portate.
Come di consuetudine il pranzo si aprì con un antipasto consistente in due vassoi di pane croccante. Su ciascuna delle fette era spalmato un pestato di prezzemolo e menta. L’odore di quella salsina le solleticò il naso e rinfrescò il suo palato, accendendo la sete. Una coppia di giovani coppieri versò del vino speziato nei calici d’argento che erano stati vuotati. Ad Arturo fu servita una bevanda a base di acqua, miele, arancia e limone.

Quando i vassoi furono svuotati per un terzo del loro contenuto, i servi li portarono via: gli avanzi sarebbero serviti a sfamare la guardia personale del Conte, la scorte del suo ospite e l’esercito di domestici di Castel Cangramo. Il Conte detestava ogni forma di spreco.
Mentre la bacinella per detergere le mani veniva accomodata dinanzi ai commensali, Vittorio Belgi lanciò un’occhiata ad Arturo, che la ricambiò espirando rumorosamente e accigliando lo sguardo. Miranda sapeva quanto il suo fratellino fosse riservato e gli sorrise, in un gesto di incoraggiamento.
«Porti su di te i primi segni di una battaglia a quanto vedo»
Arturo si affrettò a nascondere il braccio fasciato sotto il tavolo.
«Mi sono solo ferito durante l’allenamento,» sì affrettò a giustificare il ragazzo, poi scambiò un’occhiata fugace con suo padre «signore.»
Il Belgi sorrise, con aria comprensiva. Il ragazzo cominciò a tormentarsi le mani l’una nell’altra, Miranda lo intuì dalle spalle inarcate.
«Capita a tutti, non devi vergognartene.» Tentò di rassicurarlo.
Il Conte bevve un sorso, senza proferire parola. Mentre ‘Bastiano interveniva nella conversazione.
«Sai, Vittorio, il mio fratellino ama molto leggere. Pensa che ha solo tredici anni e ha già letto la metà dei libri custoditi nella biblioteca del Castello.»
Il mercante inarcò le sopracciglia stupito.
«Impressionante!»
« Vi ringrazio, signore.» Rispose Arturo, con le guance che si tingevano di rosso.
«Sai, nelle Terre del Fuoco ho potuto visitare la più imponente biblioteca mai eretta dall’uomo.»
Gli occhi del giovane si illuminarono, mentre la voce gli si alzava di un tono.
«Cleandria!»
«Esatto, la biblioteca di Cleandria. Ci sono scaffali alti come le mura della vostra Rocca Grigia. I bibliotecari nel corso dei secoli hanno raccolto manoscritti e pergamene di ogni tempo. Vergati in ogni lingua conosciuta dall’uomo, compreso l’Ellenico Arcaico e il Rimlico Antico. Gli scribi, laggiù, salvano dallo sfacelo del tempo tutto questo materiale, facendone nuove copie quando gli originali iniziano a deteriorarsi. Si dice che il sogno di Alessandro, il leggendario re fondatore della città e della Biblioteca, fosse quello di-»
«Raccogliere in unico luogo tutto ciò che è stato scritto da mani umane dall’alba dei tempi sino ad oggi!» Lo interruppe Arturo, ora che l’entusiasmo aveva avuto la meglio sulla sua timidezza. «Perché niente fosse dimenticato!» Concluse entusiasta.
«Un nobile intento,» riconobbe Severo, fulminando suo figlio con lo scocco di uno sguardo «io stesso sono stato a Cleandria per raccogliere storie sui nostri antenati. Una vera sfortuna che la cultura dei Kelta si tramandi per gran parte attraverso l’oralità. Eppure, nonostante tutto, qualcosa sono riuscito a trovarla.»
«Lasciatemi indovinare, rapporti degli antichi Rimli?»
«Risalenti alla prima colonizzazione e all’invasione della Franchia meridionale.» Confermò il Conte.
«E sappiamo bene quanto possano essere menzognere le parole di un uomo, quando questo parla dei suoi nemici.»
Severo non poté che convenire. Nel frattempo al tavolo veniva servito un trancio di tonno condito con olio e aceto di glassa scura. Come contorno era stato disposto un cerchio di gamberetti in salamoia, velati di pepe e spruzzati con succo di limone. Mentre il Conte si serviva, rivolse una domanda al suo futuro genero.
«Vi piace la caccia, signor Belgi?»
«Certo, mio signore» rispose, servendosi a sua volta «in Ghermandia ho accompagnato il Kaiser in persona nella caccia ai lupi della Steppa orientale.» Uno sguardo venne da Mowan, rimasta taciturna per tutto il corso del pranzo, ma solo Miranda sembrò notarlo
Nel sentire la risposta del Belgi il Conte esibì un ghigno.
«Non cacceremo lupi, Belgi, ma cinghiatauri.»
Per la prima volta il mercante parve esser stato preso alla sprovvista, ma ‘Bastiano non esitò a chiarire i suoi evidenti dubbi.
«Sono come cinghiali, amico mio» aveva una faccia divertita «ma due volte più grossi e tre volte più pericolosi.»
Vittorio Belgi mugugnò un assenso e la sua schiena si spallò alla sedia. Una fila di denti bianchi si aprì fra le sue labbra.
«Sono impaziente di vederne uno dal vivo!»
«Oh, ma lo vedrete, spero non troppo da vicino o dovrete fare a meno delle vostre gambe.» Lo stuzzicò il Conte.
«Andiamo Padre, non inquietate il nostro ospite.» Lo bacchettò Miranda. «Non temete, mio caro, le guardie che vi accompagneranno sono bene addestrate e i cani da caccia vi terranno al sicuro, non correte alcun pericolo.»
«Siete dolce a preoccuparvi.» Replicò il mercante, toccandole un attimo la mano.
Era morbida e asciutta. Calda al tatto, avrebbe potuto stringerla per una vita intera quella mano e se ne sarebbe sentita protetta. Ma dopo pochi secondi la sfilò via con gentilezza e si riempì il piatto. Con la forchetta immerse un gamberetto nell’aceto e nella glassa, lo portò alla bocca e il sapore che sentì le diede voglia di vuotare la sua porzione in fretta e furia, ma “Una signorina deve mantenere i suoi modi, che figura ci farei ad apparire ingorda?”.
Il pranzo continuò fra vivaci conversazioni e le prelibatezze offerte delle cucine del Castello: ai piatti a base di pesce seguirono polpette di cervo in salsa di zucca, con contorno di pancetta tagliata a cubetti; fette di manzo bagnate in acqua di cipolla rossa e funghi fritti; frutta fresca di Valspurga. Miranda adorò come i sughetti della carne le scivolassero nella bocca ad ogni morso e il retrogusto intenso della selvaggina, stemperato appena dalla dolcezza della zucca. La frutta non l’aveva mai gradita troppo, ma ne mangiò a sufficienza per rinfrescarsi la bocca in attesa del dolce.
Un dessert di sfoglie infarcite con crema e cioccolato fuso, che pareva sciogliersi sulla lingua non appena lo si prendeva dalla forchetta. I cuochi di Castel Cangramo stavano dando il loro meglio quel giorno.

Per finire, venne portato un piatto di noci, arachidi e nocciole già snocciolate, accompagnata da una tazzina di liquore scuro, a base di erbe. Persino al giovane Arturo fu concesso di berne un sorso dal suo bicchiere.
 
«Spero il pranzo vi sia stato gradito, signor Belgi.» Disse il Conte, pulendosi la bocca con un tovagliolo di stoffa.
«Raramente ho mangiato così di gusto, mio signore.» Rispose lui, con soddisfazione.
«Bene, immagino vogliate fare un giro per il Castello mentre io accomodo il necessario per la caccia. Sarà la mia dolce Miranda ad accompagnarvi.»
La ragazza sorrise, la pelle che avvampava un poco.
«Non posso immaginare una compagnia più gradita.» Accennò un inchino e porse il braccio alla ragazza, che vi si appoggiò leggera come una piuma.
Mowan, vedendoli avviarsi fuori dalla sala da pranzo, fece per seguirli, ma un’occhiata della sua compagna bastò per farla rimanere lì dov’era, con le mani giunte dinanzi al bacino.

Si inoltrarono attraverso il primo piano, lasciandosi alle spalle i servi intenti a togliere di mezzo le stoviglie e ripulire l’intera stanza. Doveva mostrargli il castello, eppure tutto ciò a cui riusciva a pensare era il fatto che fossero da soli, senza gli occhi del Conte addosso, o quelli della scorta di Pretoriani, al momento intenti a consumare il proprio pasto insieme con le guardie di suo padre.
«Avete vissuto una vita avventurosa, signor Belgi.»
«Chiamami pure Vittorio, mia dolce Miranda.»
Lei sentì le guance colorirsi.
«E sì, ho veduto molte delle cose che sono al mondo, ma so’ di aver soltanto grattato la superficie» Sorrise lui.
«‘Vittorio’, di sicuro avete veduto più di quanto vedrò mai io, che sono una donna» un velo di malinconia increspò le sue labbra «chiusa fra queste quattro mura».
Lui fermò il passo, e impresse il suo sguardo luminoso dentro i suoi occhi verdi.
«Mia cara, avete solo quattordici anni. C’è ancora molto tempo per vedere il mondo e le meraviglie che riserva.» La voce era gentile, premurosa al pari di quella di una madre.
«Ma ditemi, Vittorio, per quale motivo non avete mai accettato di sposarvi?»
Lui rimase un attimo interdetto, con gli occhi sbarrati e le labbra nascoste sotto i denti.
«Mio padre mi ha parlato di voi, sapete…»
Vittorio dissimulò la sorpresa con un diniego del capo.
«Vostro padre non si sbagliava. Ho incontrato donne di illustri natali, che più di una volta hanno chiesto la mia mano»
«Erano forse brutte?» Chiese lei, rimanendo cortese, ma con un pizzicore alla bocca dello stomaco.
«No, erano molto belle in realtà» disse lui, ammiccando «anche se mai belle quanto lo siete voi.»
Alla ragazza sfuggì un risolino. Dopo quella breve pausa ripresero insieme a camminare.
«Allora perché avete rifiutato ogni proposta?» Tornò a chiedere.
«Ebbene, perché avrebbero fatto di me un uomo con radici fin troppo legate alla terra, ed io, sapete, ho l’anima del viaggiatore.
«Dunque quando mio padre vi ha proposto la mia mano cosa c’era di diverso?»
“Forse sto esagerando con tutte queste domande, ma io devo sapere… voglio sapere!” si disse, abbassando un poco lo sguardo al pavimento di roccia levigata.
«Anche i Cangramo hanno radici profonde nella terra. La nostra famiglia è antica quanto e più di molte altre» aggiunse ancora Miranda.
«Questo è vero, mia dolce lady.» Ammise lui. «Ma le vostre radici si insinuano anche nel mare.»  I passi li avevano condotti ad una finestra che dava verso ovest, dove si estendeva la Selva, con il suo brulicante verde. C’era anche il Monsiderio che si intuiva pallido e monolitico in lontananza. «La vostra famiglia è differente dalle tante altre nobili casate di Clitalia: la ricchezza che possedete ve la siete conquistata all’ombra di una vela, come faccio anch’io. O sul filo della spada. Vostro padre ha viaggiato molto, conosce il mondo più di quanto lo conosco io, e so che può capirmi. So che potrà capirmi, quando io gli domanderò di partire in viaggio insieme con voi, una volta che saremo marito e moglie»
Le prese il viso tra le mani con un’attenta tenerezza. I denti erano bianchi come i cristalli di neve. Gli occhi mandavano barbagli di luce, infiammati dai suoi sogni.
«Ti mostrerò terre lontane, dipinte di colori che l’occhio umano può immaginare a stento. Sentirai l’odore di spezie sconosciute e profumi antichi, profumi lontani. Sfiorerai seta soffice come la carne di una nuvola e potrai specchiarti in gioielli il cui bagliore rivaleggia con il sole stesso. E tutto questo sarà per te» le palpebre ricaddero ad assottigliargli lo sguardo, attizzarne la fiamma «per noi!»

Fu allora che lui la baciò. Era la prima volta che un uomo la baciava. Lo conosceva solo per quello che suo padre aveva raccontato di lui, si poteva dire che non lo conoscesse affatto, ma le piacque comunque la sensazione. Si era chiesta spesso come una lingua andasse mossa in simili occasioni, ma tutto le venne inaspettatamente naturale quando fu il momento. Una voce dentro di lei le suggerì di chiudere gli occhi e lei lo fece senza esitare.
L’odore della pelle del Begli sembrò risvegliarsi in quel preciso momento e prendere a danzare in cerchio intorno a lei, turbinando di tutte le sue fragranze: sapeva di limoni d’estate; sapeva di mare, ma non quel mare maleodorante che si portano addosso i pescatori, no, sapeva di quel mare che la brezza ti fa assaggiare quando il grande blu lo vedi baluginare ai raggi del sole; sapeva di fiori variopinti d’oriente, qualunque profumo avessero simili fiori, lui ce lo aveva addosso, lui ce l’aveva dentro. Nella sua bocca avvertiva il sapore di erbe, non ancora fattosi stantio nell’alito.
Fu un bacio lungo, di quelli che rizzano i peli sul braccio. Fu un bacio umido, di quelli che fan sorridere una volta che ci si stacca. E lei sorrideva, sentendosi stupida e felice in egual misura. Gli teneva la mano, volle stringerla un po’ più forte prima di lasciarla andare, allontanandosi con il vestito che le ondeggiava lungo le gambe, accompagnando i passi. E lo sguardo che in tralice spiccava indietro, con un sorrisetto da bambina a sollevarle le gote.



NdA: Hola, sì, lo so che dovrei aspettare la domenica per aggiornare  ma la verità è che ho appena finito la stesura del capitolo IX e volevo festeggiare in qualche modo. Capitolo tranquillo e leggero quest'oggi, con un romanticismo un po' più classico del solito e tanto, tanto cibo (personalmente rileggendolo mi è venuta fame. Spero vi piaccia!

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Capitolo 7
*** L'arte del ferro e del fuoco - (Arturo) ***


Capitolo VII
L’arte del ferro e del fuoco
(Arturo)
 


“E dopo che per sette volte ebbero colmato il loro ventre, e per sette volte ebbero cantato e vuotato i corni, caddero infine in un sonno profondo: addormentati dalla dolce birra di malto scuro. Venne Lapaj: fra tutti gli spiriti il più debole e il meno saggio.
Fra tutti gli spiriti il più astuto e malvagio.
Con le danze dell’inganno egli si insinuò nella mente fatta debole di Ber, e lo spinse a divorare Sove, la saggia, per poi arrampicarsi giù dall’Yggdrasil, nel mentre gli altri spiriti fratelli dormivano intrappolati nei loro sogni ubriachi”.


Arturo emise un mugolio e voltò pagina

“Con grande orrore la silente Kro, il veloce Hirsh e l’irascibile Volf si ridestarono. E versarono calde lacrime nel constatare che più non v’era alcuna traccia del loro fratello e della loro sorella.
Si prostrarono a baciare le ginocchia del Vagabondo, levando alle sue guance le mani e alle sue orecchie pietose implorazioni
«Tu che sei flagello dei giganti. Tu che sai di tutti i mondi che sono, e delle vie che li percorrono. Ti preghiamo: ritrova i nostri fratelli perduti! ».
E allora il Vagabondo il cui cuore era generoso e ricolmo di pietà per coloro che gli erano amici, senza indugiare si mise in cammino: egli errò per il Tartaro, ove i fiumi scorrono con acqua ardente come fuoco, dove la terra non conosce frutto, non conosce germoglio né fiore; errò per i campi elisi ove gli uomini valorosi, che furono e più non sono, combattono battaglie gioiose come una festa, e mai alcuna ferita li farà morti di nuovo; errò nel Regno dei Venti dove dimora Odler, insieme con le sue sorelle. Ma nessuna traccia seppe trovare il Vagabondo, per quanto avesse camminato: i fratelli che erano perduti, perduti rimasero ancora.”


Arturo sollevò un ricciolo ricadutogli sugli occhi mentre leggeva. Con uno sbuffo riprese la lettura.

“Quando fece ritorno all’Yggdrasil e alla corte, egli trovò che gli spiriti s’erano  ubriacati un’altra volta e un’altra volta addormentati. Che troppa l’angoscia, troppo era il dolore per un cuore e una mente che ragiona. Col cuore spezzato e le lacrime a rigargli il viso, l’Errante scoprì che erano rimasti soltanto il veloce Hirsh e l’irascibile Volf, e della silente Kro più non v’era traccia alcuna”

Lo sferragliare dei cancelli risuonò dalla finestra, strappandolo alla storia e alle sue parole. Lasciò il tomo lì dov’era, sulla scrivania di legno della sua stanza, e accorse alla finestra. Accucciato dietro il davanzale, quasi per timore d’essere veduto, sbirciò fuori.
Anche da quella distanza riconobbe Stagno, l’agile cavallo da caccia di suo padre, mandato al passo. Accanto a lui, in sella a una puledra bianca, c’era ‘Bastiano intento a chiacchierare con il signor Vittorio Belgi, che montava un giovane baio pezzato. Al seguito, appiedati, i Pretoriani e la guardia di suo padre; insieme a Casto, con il suo branco di cani-lupo “Più lupi che cani” pensò Arturo, osservandoli incedere silenziosi.
Quando anche l’ultimo degli uomini e degli animali si fu lasciato alle spalle la Rocca, e i cancelli in ferro battuto ricaddero con un sofferente cigolio, il ragazzo chiuse le imposte e si precipitò al suo armadio. Le ante erano incise con gli stessi motivi presenti sulla porta: una nave con la chiglia immersa nelle nuvole. Ma Arturo non aprì le ante: non era ciò che c’era dentro l’armadio a interessargli, bensì ciò che si trovava sotto: un fagotto impolverato e una paio di zoccoli di legno foderati internamente di morbida stoffa scura.
Srotolò dinanzi a sé una tunica che un tempo doveva essere stata bianca: larghe macchie fumose e bruciature percorrevano il tessuto in ogni punto. Con le mani che tremavano un poco, Arturo si cacciò di dosso il gilet di cuoio e il farsetto verdone, per infilarsi in quello straccio di stoffa logora. Ai pantaloni che portava indosso sostituì dei malandati calzoni in sacco di iuta, che legò alla vita con una cordicella dapprima usata per tenere insieme tutto il fagottino. Mise da parte anche le sue scarpe di camoscio, usate durante il pranzo, per calzare gli scomodi zoccoli di legno. Si passò una mano per i capelli, li disordinò il più possibile e poi li legò, avvolgendoli in un fazzoletto usato a mo’ di cuffietta per la fronte.
La sabbia e il terriccio, rimasto sugli stivali dopo l’allenamento con Mastro Villa, lo prese e se lo spalmò sulle mani e le gote, fino a quando entrambe non furono chiazzate di macchie nere e brune.

Nella stanza del figlio minore del Conte Cangramo, adesso c’era un garzone di stalla che non vedeva un bagno e vestiti puliti da almeno una settimana. Tre colpi batterono alla sua porta, distanziati pochi secondi l’uno dall’altro.

“Ecco il segnale, corridoio libero!”. Sgusciò verso la porta e la aprì per uno spiraglio, con cautela: di fronte a lui c’era Mowan, finalmente a suo agio nella consueta corazza di cuoio bollito, con la lama di luna che pendeva al fianco e l’arco di corno di traverso sulla spalla.
«Non capirò mai perché continuo ad assecondarti in questa follia, ragazzino» sibilò lei, guardandosi intorno con circospezione.
In realtà neanche lui lo sapeva, ma era contento che lo facesse comunque. Le rivolse un sorriso birbante e sgattaiolò fuori dalla porta, mentre la Mogul la richiudeva alle sue spalle.
Si avviarono insieme attraverso i corridoi, giungendo a un’anonima porticina che dava su uno scantinato. Senza farsi notare la aprirono e ci si infilarono: dentro solo ramazze impolverate, barili contenenti chissà che cosa e una paio di stuoie che avevano visto tempi migliori, adagiate sul pavimento.
Ma per un Cangramo il Castello riservava segreti oltre i muri e i pavimenti. E il Conte si era assicurato che ciascuno dei suoi figli lo imparasse, mandando a memoria la struttura della loro casa ancestrale. Arturo scostò le stuoie e le cianfrusaglie dal pavimento, rivelando una piccola botola con un anello arrugginito per far presa e sollevarla. Giù per il passaggio si apriva una scala a chiocciola che conduceva  in una stanza al piano inferiore, cui si accedeva per una porta incassata dietro una armadietto a qualche centimetro dal muro: abbastanza distante da permettere il passaggio, stando rasenti la parete, ma non tanto da farsi notare. Arturo e Mowan si trovarono in una sorta di sgabuzzino: l’aria era densa del pungente odore di formaggio duro e carne essiccata, in un cesto c’era un grappolo di aglio circondato di cipolle, mentre dal soffitto pendevano gli insaccati, lasciati lì a stagionare. La Mogul andò in avanscoperta nelle cucine, vuote a quell’ora, se non per Baldino, il cuoco addetto alla cena, con la voce così troppo stridula per la sua imponente corporatura. Con una scusa che Arturo non riuscì a udire, la dama di compagnia attaccò conversazione, dando il tempo al ragazzo per sgattaiolare dalle cucine di Castel Cangramo verso l’esterno, approfittando di una porta di servizio.

Una volta fuori, si prese il tempo per un paio di respiri profondi. L’aria delle cantine era fin troppo spesso viziata e si attaccava alle narici come un’ape al miele. Liberatosi dei cattivi odori cominciò a camminare per le strade della Rocca Grigia “Fuori dalle mura del Castello non mi riconoscerà nessuno” pensava, mentre avanzava con disinvoltura “se un giorno diventerò cavaliere mi assicurerò che anche Mowan sia fregiata del titolo, dovessi investirla io stesso! Sono certo che le sarebbe cosa più gradita che non spazzolare per ore ed ore i capelli di mia sorella, o svuotarle il pitale ogni santa notte” sorrise, in un misto di ilarità e gratitudine.
Rasentò il recinto dei soldati, già rimessisi in attività dopo l’ora di pranzo: un ragazzo dagli occhi glauchi aveva evidenti problemi con il suo arco: non appena incoccava la freccia, questa andava fuori asse, penzolando ad alcuni centimetri dal suo pugno sinistro e poi giù, sotto il livello del braccio, mentre lui la guardava sconsolato. Le risate dei commilitoni non tardarono ad arrivare, e altrettanto le urla del Maestro Villa, così potenti e alte da poter essere udite fin nel Valga.
«Porca puttana! Sei una ciofeca ragazzo, riprova! E voi, mucchio di sterco ambulante, vi ho forse dato ordine di spanciarvi come delle scimmie ubriache?! Al lavoro! »
Riccardo Villa non era certo noto per la morigeratezza nel linguaggio. Arturo alzò il passo: il vecchio l’aveva visto quand’era ancora in fasce, meglio non mettere alla prova il travestimento, o la lavata di testa sarebbe stata senza precedenti.
Con falcate ampie raggiunse i quartieri dei servi della gleba.

Fra i tetti di paglia squadrati, con i di legno, c’era una piccola casupola diroccata: dal comignolo alla sua cima, fuoriusciva un fumo denso e continuo, che andava a disperdersi nel cielo ancora luminoso del primo pomeriggio. Arturo si avvicinò al casolare, passò una mano sul legno vecchio e consunto della porta, e infine la scostò. Non c’era bisogno di bussare, si limitò ad entrare e richiuderla dietro di sé.
L’unica luce offerta dalla bottega era quella del fuoco: linee rosse e arancioni abbozzavano le pareti circostanti e lo spartano mobilio, lame di giallo e di rosso si specchiavano nell’acciaio delle armi appese ai muri e ritagliavano appena la sagoma di Andrea, detto Carne di corda, con il capo chino sulla sua incudine. Il suo martello si schiantava su una billetta di metallo incandescente liberando scintille cremisi, che come una luce a intermittenza rivelavano i suoi tratti scavati. Al primo colpo di martello Arturo scorse il naso esageratamente aquilino e le sopracciglia ormai quasi del tutto bruciate. Al secondo colpo di martello i minuscoli occhi di ghiaccio e acciaio nelle palpebre contuse, e le labbra increspate. Al terzo colpo di martello la luce fu più intensa e vide con chiarezza il corpo emaciato dalla pelle sottile, il capo glabro e la spalla irrigidita che pulsava la vipera nera sopra marchiata.
«Sei in ritardo » disse, senza distogliere gli occhi dal suo lavoro.
«Ho avuto un contrattempo» replicò, astenendosi a stento dallo strofinarsi le mani l’una nell’altra.
Lui gli lanciò un’occhiata in tralice e continuò a martellare. Ogni volta che lo guardava, ad Arturo veniva da pensare che Carne di Corda fosse il risultato di un qualche strano miscuglio fra un uomo, un avvoltoio e una serpe velenosa. Dove la serpe velenosa aveva precedenza sulle altre due parti.
«Non stare lì impalato, va, prendi acqua dal pozzo e riempi la tinozza».
Arturo non se lo fece ripetere una seconda volta e si precipitò fuori, raccogliendo al volo il secchio adagiato vicino alla fornace. Carne di Corda era a pieno titolo il miglior fabbro di tutta Rocca Grigia, anche se in realtà, a parte un maniscalco e qualche maldestro amatore, non aveva poi tutta questa concorrenza. Lui era un uomo del popolo silvano che aveva scelto di essere al servizio del Conte per qualche oscura ragione. Si diceva che fosse stato cacciato dal suo clan per aver ucciso suo padre o suo fratello, la cosa cambiava a seconda di chi riferiva la storia; altri sostenevano che fosse un parente alla lontana del Conte; e i più fantasiosi erano arrivati a pensare che in realtà fosse lo spirito di un serpente celato sotto le false spoglie di un essere umano.

Ad Arturo non importava delle dicerie sul suo conto, tutto ciò che sapeva era che quell’uomo era bravo nel suo lavoro e che lui aveva desiderio di imparare. Il giovane Cangramo aveva sempre nutrito un certo fascino per le armi e la loro fabbricazione. Un pomeriggio, mentre passeggiava con suo fratello, aveva notato la bottega, solitaria fra le altre case nel quartiere. Gli era venuta la felice idea di andare a vedere, per ammirare come una spada potesse prendere vita da un blocco di ferro freddo e inerme.
Si era intrufolato nella fucina di Andrea e l’aveva guardato lavorare, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata. Lui non se ne era mai lamentato, troppo preso dal suo lavoro per far caso a chi lo guardava.
Qualche tempo dopo, diventato ormai un ospite fisso, gli aveva chiesto di insegnarli quell’arte del fuoco e del ferro che sino ad allora aveva soltanto osservato.
E quando ad Arturo era stato fatto notare che “Una forgia non è un posto per un piccolo Lord” lui aveva solennemente promesso di mantenere il segreto, che “Mio padre, il Conte, non lo verrà mai a sapere”.
E così, da allora, una volta a settimana, come da un paio di mesi a quella parte, Arturo sgattaiolava fuori dal Castello, trasformandosi da un esponente di una nobile e potente famiglia, in un umile garzone di bottega. Cosa avrebbe detto Severo se l’avesse scoperto? Arturo non voleva saperlo.

Afferrò la corda  della carrucola con entrambe le mani, cacciando l’aria fuori dai polmoni ad ogni strattone: il braccio fasciato non rendeva quel lavoro più facile o piacevole, ma infine il secchio fece capolino dal cilindro di pietra del pozzo.

“Un giorno forgerò una spada” si diceva, mentre riportava l’acqua alla bottega “Sì, ma che tipo di spada? Una spada lunga magari” e quel dubbio gli fece masticare l’interno della bocca con aria meditabonda “Una spada lunga però può impugnarla chiunque, anche il più scemo dei soldati” . No, Arturo voleva di più “Una spada bastarda! Come quella di mio padre!” e il Conte la adoperava con grande maestria la suddetta spada bastarda: lo aveva visto più di una volta tirare di scherma con ‘Bastiano e il Maestro Villa. Nonostante i suoi abbondanti cinquant’anni c’era ancora forza nel suo braccio, rapidità nei suoi riflessi.
“Se riuscissi a impugnare una lama simile sarei al pari del Conte mio padre” ma perché fermarsi là? Perché non provare a volere qualcosa di più? “Perché non osare di più?!”. La mano si strinse intorno al manico del secchio, un sorriso entusiasta e deciso gli illuminò il viso, mentre rientrava in bottega. L’oscurità lo abbracciò come una vecchia amica, insieme con il fuoco, unico mitigatore della sua cecità.

Quasi mi sembra di averla qui di fronte a me” uno spadone, impugnabile solo e soltanto con due mani. Una lama possente per spaccare scudi e travolgere le lance nemiche. “Un’arma degna di un condottiero! Degna di un eroe!”. Il suo corpo doveva ancora crescere e svilupparsi del tutto, ma facendo due conti: se ‘Bastiano era un mezzo gigante e Carlo, seppure un po’ più basso, era dotato di una gran prestanza fisica, voleva dire che c’erano buone speranze anche per lui! Forse un giorno la sua giovane carne avrebbe smesso di essere così tenera, così debole, così fragile. Sì, un giorno sarebbe cresciuto. Si sarebbe fatto le ossa e i muscoli forti a furia di spaccarsi la schiena negli allenamenti, non avrebbe mollato nonostante tutto il dolore, la stanchezza, la fatica … avrebbe superato tutto questo. “E un bel giorno, contrariamente ad ogni aspettativa, forgerò e impugnerò quella spada. Lo giuro!”.

«Versa quell’acqua! Non dormire ragazzo!!! » Berciò Carne di Corda, risvegliandolo dai suoi sogni ad occhi aperti.
Qualche goccia d’acqua zampillò dalla tinozza sulle sue dita, mentre il flusso trasparente e inodore si riversava dal secchio verso giù: un pallido sollievo dalla calura della fucina. Fatto quanto richiesto si piazzò accanto al fabbro, osservandolo al lavoro, in attesa di nuove mansioni.
Carne di Corda colpiva con vigore: i suoi  muscoli si gonfiavano ogni volta che il suo braccio saliva e ogni volta che discendeva, sebbene fosse molto magro c’era forza nel suo corpo. E quando martellava, lo faceva con energia, senza che nel suo viso si manifestasse qualcosa di dissimile dalla più assoluta calma. Non un lamento per le scintille che ricadevano sulle braccia lasciate nude dal grembiule, né una pausa per passare una pezzuola sulla pelle che grondava sudore, o per spezzare la fatica di ore ed ore di lavoro.

Eppure Arturo poteva comprendere perché non si fermasse mai.
I suoi occhi bruni, macchiati di giada, si posarono sul metallo incandescente: gli sembrò come se qualcosa bruciasse anche dentro le pupille, ciononostante non riusciva a smettere di guardare. “Per Carne di corda dev’essere la stessa cosa, o almeno immagino che sia così”.
«Prendi le pinze e serra la billetta, avanti!».
Gli ordinò e Arturo ubbidì. Strinse le mani intorno alla maniglia di stoffa e le due piccole braccia di ferro si strinsero intorno al blocco incandescente. L’arnese emise un verso rauco come quello di una vecchia cornacchia.
«Tienila ben salda e girala solo e soltanto quando te lo dico io! » gli intimò, levando il martello sopra la testa, già pronto a colpire.
Il ragazzo rispose con un cenno del capo e si preparò a mantenere la presa: il metallo urtò contro il metallo, le scintille si librarono come lucciole impazzite nella notte. Quando il martello colpiva, la billetta incandescente opponeva la sua fiera resistenza: tremava, vibrata nel profondo e Arturo poteva sentire la propria pelle, le proprie ossa vibrare insieme con lei.
«Gira! »
Poteva sentire il fumo delle braci invadergli la pelle e i capelli, appestargli i vestiti e le scarpe con il suo sapore acre, pizzicargli gli occhi fino a spremerne via qualche lacrima. Poteva sentire il sudore scivolare in una gocciolina giù dalla fronte, affacciarsi sul naso, tremolare esitante e infine lasciarsi precipitare: sciogliendosi ancor prima di sfiorare il metallo incandescente.
«Gira! »
Ciò che prima non era altro che un semplice lingotto, adesso, colpo dopo colpo, prendeva sempre più le sembianze di una lama “Ogni colpo fa più forte il ferro, ogni colpo fa più forte anche me!
«Gira! »
“Sì, è così” i dolori residuali nel suo braccio offeso erano ormai svaniti, lontani come se non ci fossero mai stati. Poteva sentire i muscoli gonfiarsi nelle braccia, mentre la pinza stringeva con forza. Le mani erano indolenzite, ma lui non mollava “Non ho alcuna intenzione di mollare”.
A un tratto Andrea lo scostò di malomodo e, presa la billetta, la immerse nell’acqua sino al codolo, in una colonna di vapore che gli avvolse il viso e le braccia.
Quando la cavò fuori il metallo era ancora scuro, sporco, brutto a vedersi. Era evidente che c’era ancora tanto lavoro da fare. Eppure, quando Carne di corda aveva temprato la lama, Arturo aveva provato una qualche sensazione di distensione, come se fino a poco tempo prima avesse trattenuto il fiato e solo adesso lo lasciasse finalmente andare.
“Cos’era quel fuoco?” quel fuoco che gli aveva bruciato dentro? Andrea guardò alla sua creazione con una mesta soddisfazione, per poi rivolgere un occhi al giovane Cangramo.

«Hai fatto bene la tua parte, ragazzo. Stai imparando… »
«Quando mi farai forgiare qualcosa di mio? » Chiese, con gli occhi speranzosi socchiusi dalle goccioline di sudore.
«Quando avrai imparato abbastanza» Rispose laconico, posando il martello sull’incudine.
«Sono quasi due mesi che ti guardo lavorare » le sopracciglia si aggrottarono « io ho già “imparato abbastanza” »
Un angolo della bocca di Carne di Corda si incurvò verso l’alto.
«Sai rubare con gli occhi, questo te lo concedo. Ma avere già imparato? Questo non credo».
«Mettimi alla prova, allora» lo sfidò.
«Bene, perché lavoro al buio secondo te? »
«Ecco-» esitò, ma non ebbe il tempo di farlo più di qualche secondo.
«Perché il metallo deve avere un certo colore prima di essere lavorato. Deve trovarsi fra il giallo acceso e l’arancione. Altre luci possono ingannare l’occhio » Si toccò uno zigomo con il dito, rinsecchito come una striscia di carne secca.
“Mi ha fregato, non mi ero mai fatto una domanda del genere”  pensò, mentre una mano toccava l’altra.
«Cosa si usa per la tempra? » Chiese ancora, deciso a dargli una lezione di umiltà.
“Questa volta ti frego!”
«Acqua, oppure olio» un sorriso appena accennato gli tese la bocca.
«O ancora? » l’inesistente sopracciglio sinistro del fabbro si inarcò, sulla faccia di cuoio vecchio c’era già un primo accenno di trionfo.
“Mi sta prendendo in giro, non c’è nient’altro!” si disse Arturo, mettendo su’ il broncio. Le mani che ormai si strofinavano l’una il dorso dell’altra.
«Urina. » sentenziò Andrea «Come vedi non hai ancora imparato abbastanza. Come ti ho già detto: sai rubare con gli occhi, ma rubi poco con le parole, ragazzo».
Arturo sbuffò, distogliendo lo sguardo da Carne di Corda e da quel suo brutto ghigno da serpente.
«Adesso rimettiamoci al lavoro, milord. » lo schernì, in una cattiva parodia di un inchino « La lama va pulita e affilata…». 
 


NdA: Come forse qualcuno di voi avrà già notato, ho fatto un piccolo restyiling dell'account aggiungendo un avatar e inserendo finalmente una descrizione (che, a proposito, potrebbe risultare interessante per qualcuno di voi, dateci un occhio se vi capita!). In questo capitolo siamo di fronte a un Arturo inedito, che lascia un attimo da parte i libri per dedicarsi a un genere di hobby ben diverso.
L'avreste mai immaginato? Cosa ne pensate del nostro Carne di Corda? Perchè è stato cacciato dalla sua tribù? Saranno vere le storie sul suo conto?
E il nostro giovane Cangramo diventerà un giorno l'eroe che sogna di essere o dovrà fare armi e bagagli e andarsene in monastero?

Un abbraccio,
NuandaTSP

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Capitolo 8
*** 'La Caccia Selvaggia' - (Sebastiano) ***


CAPITOLO VIII
‘La Caccia Selvaggia’
(Sebastiano)
 
 

Grenda annusò l’aria con fare guardingo. Le orecchie le si rizzarono alla sommità del capo, irte a captare un qualsiasi suono, il benché minimo fruscio di foglie. Non sembrò udire nulla e il muso si abbassò al livello del terreno, sondandolo con brevi strizzate del tartufo umido: la terra era un dedalo di radici sporgenti, morbida erba verde e sterpaglie giallastre. Il resto del branco era in attesa: un giovane dal manto bruno e gli occhi d’ambra orinò sul tronco di un albero, mentre un altro esemplare, con le morbide orecchie a penzoloni, andava ad annusare la corteccia appena bagnata, forse riconoscendo l’odore del suo compaCasto sapeva che nessuno dei suoi cani-lupo aveva bisogno di un guinzaglio: quelle bestie avevano nel sangue lo spirito delle fiere selvagge, questo era vero, ma erano cresciute come cani e in quanto tali covavano una piena e assoluta fedeltà nei riguardi del loro padrone.
Casto aveva una ricca barba castana a coprirgli il mento, scendeva per sottili linee villose sino ai margini della gola, fin quasi a sfiorare il suo pomo d’adamo. I capelli corti, ben pettinati, e gli occhi di un blando bruno gli davano un’apparenza assolutamente anonima e comune “Di quelli uomini che ne trovi identici a migliaia, in ogni angolo del mondo”. ‘Bastiano scostò lo sguardo, accarezzando con un’occhiata suo padre, intento a scrutare fra gli alberi alla ricerca di una qualche traccia della preda. Vittorio, d’altra parte, sembrava più interessato alla sperona, e ne saggiava il peso fra le mani guantate di cuoio: la sperona era una lancia compatta, dalla punta quadrangolare e i lati seghettati, l’asta di legno era lunga una volta e mezzo il braccio di un uomo adulto.
«È più pesante di una lancia normale» constatò il mercante, riposizionandola di traverso sulla sella, dove una cinghia di cuoio assicurava che non finisse in terra.
«Già, ma è anche più resistente e pericolosa quando colpisce il bersaglio, amico mio» rispose ‘Bastiano, calandogli una pacca sulla spalla «piantala per bene nel corpo di un animale e non se la scrollerà di dosso tanto in fretta. E credimi, quando ti troverai faccia a faccia con un cinghiatauro vorrai che sia così»
Grenda lanciò un breve latrato per chiamare all’adunata il suo branco e cominciò ad avanzare, con la coda  curvata sulla schiena ricolma di un manto soffice e bianco come la neve. Gli altri cani-lupo la seguirono, sondando il terreno con il muso a pochi centimetri dal terreno. Casto si avvicinò al Conte, distogliendolo dalla sua contemplazione della foresta.
«Mio signore, i cani-lupo hanno trovato una traccia. La tana dev’essere vicina.»
«Molto bene»
replicò Severo, con un assenso.
Bastò un suo cenno perché il gruppo si rimettesse in marcia. L’agile cavallo da caccia li guidò per una via che si discostava di alcuni metri dal luogo in cui si erano fermati. Percorreva una via parallela a quella dei cani, Severo sapeva che l’odore degli uomini e dei cavalli poteva disorientare gli esemplari più giovani e ancora inesperti, correndo il rischio di far loro perdere le tracce del cinghiatauro.

La guardia personale del Conte si mosse insieme con lui, gli uomini si scambiavano battute l’uno con l’altro o chiacchieravano del più e del meno, parevano a loro agio nella selvaggia Selva Scura. Del resto, come pensò ‘Bastiano “Papà va’ a caccia almeno due volte al mese, e alcuni di questi uomini sono al suo servizio da più di dieci anni” lo sguardo gli cadde su Ezio, uno dei soldati più attempati, con strisce di grigio sulla barba nera come la pece. Il naso sembrava una grossa patata che gli era stata attaccata sul viso, visto com’era tozzo e dalla gobba sgraziata per tutte le volte in cui se l’era rotto, in battaglia e nel corso dei duri addestramenti.
I pretoriani di Vittorio, al contrario degli uomini di suo padre, non sembravano altrettanto contenti di essere in un luogo come quello, né con una compagnia come quella. Un giovane con la fossetta sul mento si guardava intorno tremante come una foglia: quasi avesse paura che spiriti e demoni danzanti sbucassero dalla Selva per portarselo all’Inferno. Un uomo dai tratti squadrati e una cicatrice sul labbro sembrava invece alquanto disgustato, per qualche oscuro motivo, dai soldati della Rocca Grigia a cui guardava con gli occhi pieni di disprezzo. Quei rampolli delle Terre Centrali facevano un trambusto della malora, ogni loro passo era uno sferragliare di metallo e agitarsi di pennacchi “Metteranno in allarme ogni bestia nel giro di cento metri”. ‘Bastiano si voltò verso Vittorio: dall’aria serena e ammirata sembrava si stesse abituando in fretta alle terre selvagge e sorrideva mestamente “È davvero un uomo strano, anche se non mi dispiace come cognato. Vorrei solo che si fosse scelto una scorta diversa da quelli là… da tipi come quelli ne verranno solo guai”  ma probabilmente non era stata una scelta del mercante, come il giovane Cangramo non tardò ad intuire: probabilmente quell’accompagnamento gli era stato imposta dall’Alto Sacerdote di Utopia, e al messo del Redivivo in terra non si poteva rispondere con un ‘no, grazie’.

Il Conte che era rimasto in testa all’intero drappello sino ad allora, rallentò il passo abbastanza da farsi affiancare da suo figlio e da Vittorio. Severo gradiva molto stare solo con i suoi pensieri, in questo era molto simile ad Arturo, e durante la caccia questa sua tendenza si amplificava con lunghi silenzi e pause meditabonde. Quasi con la mente volesse immergersi a fondo fra gli alberi e le fronde della Selva Scura, isolandosi da chi gli stava vicino.
«Signor Belgi, a breve dovremo lasciare i cavalli. Vi sentite pronto?» chiese, voltandosi appena verso di lui.
«Sono impaziente, Conte Cangramo!» la sua voce ricordava vagamente quello di un bambino eccitato da qualcosa di nuovo e strabiliante.
«Molto bene, questo è lo spirito che si addice a una battuta di caccia» sorrise lievemente, senza guardarlo negli occhi «Assicuratevi solo di non mettervi mai, e ripeto mai, sulla traiettoria di un cinghiatauro in carica, vi travolgerà prima di fermarsi. Potete starne certo.»
«Non mancherò di ricordarlo» replicò Vittorio, fermandosi quando anche il Conte tirò le redini.
«Ecco la tana…» asserì, smontando da cavallo e sganciando la sperona dalla cinghia che la assicurava.

‘Bastiano e Vittorio lo imitarono, affidando le cavalcature agli uomini della guardia, con le giubbe nere sul petto. La tana del cinghiatauro si trovava più in là, scavata in una collinetta ricoperta di cespugli e alberi contorti. Dalla spelonca un rettilineo si delineava dinanzi a loro, procedendo verso destra. Un tempo doveva aver ospitato un piccolo fiume adesso del tutto prosciugato. Il Conte adocchiò un rialzamento del terreno sulla sponda opposta, offriva una posizione sopraelevata e vantaggiosa per un agguato. Con passo felpato Severo vi si accucciò, la sperona ben salda in una mano e il capo sporto per scorgere il branco di cani-lupo che si apprestava a circondare la tana. Vittorio si posizionò più in là lungo i margini del sentiero, dove un vecchio salice lo copriva alla vista. A ‘Bastiano toccava il primo attacco, perciò si posizionò nelle vicinanze della spelonca, dietro una siepe di cespugli. Un breve tremolio gli si arrampicò su per la spina dorsale, incalzando il suo battito cardiaco: poteva sentire il cuore vibrargli dentro la gola. Strinse le dita intorno all’asta della sperona, come per darsi coraggio. Aveva un ruolo decisivo nella caccia: se il suo tiro fosse stato lesto e preciso, la bestia non avrebbe percorso più di una ventina di metri: bastava un singolo, mortale, colpo e suo padre l’avrebbe guardato con piena ammirazione, senza più pensarlo come un ragazzino privo della disciplina di un vero uomo. “Sì, gli dimostrerò che sono degno di lui” si promise. E con aria concitata rimase in attesa che Grenda e il suo branco facessero la loro parte.
Casto, il guardiano dei cani, li osservava con lo sguardo pieno di premura e la bocca smangiucchiata di una madre che vegli il suo bambino preso dai deliri della febbre.

Dapprima circondarono la tana, gli esemplari più giovani si tenevano un poco più in disparte, limitandosi ad abbaiare languidamente senza avvicinarsi all’apertura. Quelli più esperiti ringhiavano arricciando il pelo sulla schiena e grattavano la terra con gli artigli, ma era Grenda quella che si assumeva il rischio più grande: posizionarsi all’entrata della tana, per sfidare il cinghiatauro a uscirne. Era a lei che Casto guardava con maggiore apprensione, tormentandosi con le dita i filamenti bruni e setosi della barba.
‘Bastiano trovava una certa dignità in quell’anziana cane-lupo “La stessa dignità che dovrebbe avere un capo” non importa di quale razza. Che si trattasse di un uomo, un cane, oppure un lupo. Era tutto lì: esporsi al pericolo più grande perché altri non avessero a farlo al posto tuo.
Dal fondo della spelonca echeggiarono dei suoni gutturali “Presto, presto…” si disse ‘Bastiano, ma poi in lontananza scorse qualcosa, o meglio, qualcuno: una sagoma umana, avvolta da un ampio mantello grigio e accompagnata da un bastone. “Che sia un Kelta?” si chiese ‘Bastiano. Poi denegò col capo e si costrinse ad abbassare lo sguardo “Piantala di fare lo stupido, devi rimanere concentrato!”. I gruginiti si fecero più profondi e rumorosi dalla spelonca, i cani presero ad abbaiare in un coro forsennato, snudando le zanne giallastre.
‘Bastiano lanciò un’altra occhiata, in là nella foresta: la figura s’era fatta più vicina, il viso era celato da un cappuccio. ‘Bastiano ebbe un tuffo al cuore “Come ha fatto ad avvicinarsi così?!”. Uno scalpicciare dal profondo della tana riportò la sua attenzione alla caccia: ancora qualche istante e il cinghiatauro avrebbe fatto capolino. Si sforzò di attendere quel momento.

La pelle iniziò ad ardere sotto i vestiti. Un suono più potente e profondo di qualsiasi melodia lo chiamava, pungolandolo, spingendolo ad alzare lo sguardo un’ultima volta “una sola, ultima volta”.
La figura era a pochi metri da lui, lo guardava fisso. Il suo mantello sbrindellato danzava a un vento che non c’era e all’apice del suo bastone erano legate una piuma d’aquila ed una di corvo. ‘Bastiano credette di scorgere uno scintillio bianco sotto la cappa calata sul viso. La presa sulla sperona si affievolì senza che se ne rendesse conto.

Uno schianto. Il cinghiatauro fuoriuscì dalla spelonca, caricando a testa bassa. Grenda fu travolta: il ventre candido si squarciò come carta, a contatto con la coppia di zanne che facevano capolino ai lati del muso porcino. L’anziana cane-lupo uggiolò sofferente, mentre veniva sbalzata in aria: il suo pelo bianco si colorava di rosso.
Sul sentiero si udì un tonfo sordo, un’imprecazione rauca: ‘Bastiano si voltò di scatto, in un’espressione di puro terrore dipinta sul volto. Suo padre era in terra, il rialzo su cui si era appostato aveva ceduto sotto i suoi piedi e ora il Conte si trovava al centro dell’unica via di fuga che il cinghiatauro avesse a disposizione.
La belva, simile a un cinghiale ma grande come un orso, si lanciò in una carica furiosa. Gli uomini del Conte accorrevano dalla foresta, in soccorso del loro signore: troppo lenti, troppo distanti. I pretoriani rimasero fermi a guardare.
‘Bastiano scagliò la sperona, ma aveva perduto il momento: la sua mira non era stata accurata, la sua presa non era stata abbastanza salda e la punta si piantò nel dorso del cinghiatauro, dove la pelle era più coriacea e gli spessi muscoli dell’animale formavano una corazza naturale. Suo padre cercava di risollevarsi, ma era tutto inutile. Tentava di togliersi dalla strada, ma non abbastanza in fretta, era rimasto ferito nella caduta.
“Morirà, morirà e sarà solo colpa mia” poi un altro pensiero, un pensiero che parlò nella sua mente ancora prima che si rendesse conto di stargli dando voce “ma io sarò Conte…” lo ricacciò indietro: un pensiero così orribile in una situazione come questa. Dagli alberi emerse Vittorio, che ora si frapponeva fra il Conte e la bestia “Dev’essere impazzito, si farà ammazzare!”.
Il mercante puntò i piedi in terra, la sperona era protesa in avanti: l’asta impugnata saldamente con entrambe le mani, parallela al terreno. Quando ci fu l’impatto, Vittorio fu sbalzato in aria come non pesasse nulla, sbattendo contro un albero lì vicino. Il Conte aveva il volto macchiato di sangue. Ad occhi sbarrati fissava la carcassa accasciatasi dinanzi a lui: la lancia conficcata di almeno venti centimetri nel cranio, ricoperto di setole. ‘Bastiano accorse in fretta e furia da suo padre, ma la guardia lo aveva preceduto. Ezio aiutò il suo signore a rialzarsi, mentre qualcun altro issava su’ Vittorio, che a parte qualche ammaccatura sembrava stare bene. Solo allora i Pretoriani si avvicinarono, senza interessarsi al loro protetto: rimanendo a guardare.
«State bene mio signore?» chiese Ezio, battendogli una mano sulla casacca impolverata.
«P-pad-» si accinse a dire ‘Bastiano, prima che un rovescio della mano lo zittisse in un rumore secco e un sapore metallico si riversasse nella sua bocca. Lì dove l’aveva colpito la pelle doleva e bruciava, ma ciò che più lo bruciava era l’umiliazione: l’ultima volta che suo padre l’aveva preso a ceffoni aveva l’età di Arturo, e comunque non era mai capitato in pubblico. Suo padre non spiccicò parola e ‘Bastiano non cercò giustificazioni, limitandosi ad abbassare lo sguardo.
«Belgi, stai bene?» chiese il Conte. Il mercante bofonchiò un lamento, tenendosi il braccio destro «Ho avuto giornate migliori, ma niente di rotto mio signore». Severo gli pose una mano sulla spalla, la stessa con cui aveva colpito il suo primogenito «Mi avete salvato la vita, mettendo a repentaglio la vostra. Di quella carne avrete il pezzo migliore» fece cenno al cinaghiatauro «oltre alla mia eterna gratitudine».
«Sarà un piacere banchettare con la carne del bastardo che ci ha quasi accoppato, mio signore» rispose lui, suscitando le risate dei presenti.
 
Si riunirono dinanzi alla spelonca, dove i cani-lupo si erano fatti silenziosi e guardavano a muso proteso e orecchie basse in direzione di Casto, accucciato sul terreno: la testa di Grenda posata sulle sue ginocchia, mentre uggiolava, versando stille di sangue dalla bocca allungata. Dal suo ventre sporgevano intrichi di carne violacea, squarciati in più punti, dove le zanne del cinghiatauro avevano inferto il colpo.
Le lacrime scorrevano silenziose dagli occhi del guardiano dei cani, mentre carezzava il capo del povero animale, la daga nell’altra mano tremava languidamente.
«Sceglieranno un nuovo capobranco» proferì Casto, con voce lontana, distante, come parlasse dal fondo di un pozzo.
Severo fece una smorfia contrita e sfilò il pugnale dalla cintura, chinandosi sulla cagna.
«No, mio signore» esclamò Casto, come svegliatosi tutto a un tratto. I suoi occhi, gonfi e arrossati erano fissi in quelli del Conte «L’ho allevata da quando non era più grande di un gattino. Devo farlo io». Severo rispettò quella decisione, indietreggiando di qualche passo.
E dopo un’ultima carezza, un ultimo sguardo, la daga cercò e trovò il cuore. Un ultimo uggiolio, più acuto degli altri, e la morte seguì repentina. ‘Bastiano non ebbe il cuore di guardare a quella scena e con gli occhi cercò l’uomo col bastone che aveva scorto fra gli alberi, ma tutto ciò che vide furono appunto alberi. Il verde cominciava a farsi scuro nelle viscere della selva e dell’incappucciato non c’era più traccia alcuna.

Il ritorno alla Rocca Grigia fu silenzioso, senza più alcuna traccia dell’eccitazione della partenza. Un gruppo di uomini trasportava a fatica la carcassa del cinghiatauro: le possenti zampe legate ad un’asta di legno robusto. Persino i casi non emisero un singolo latrato lungo il cammino, ma uno di loro, con il manto grigio, cercò la mano insanguinata di Casto e vi strisciò contro il capo, alla ricerca di una carezza.
‘Bastiano procedeva con la puledra, il passo lento e arrancato, mentre i suoi occhi screziati di verde si avventuravano nel vuoto d’uno sguardo fisso… assente. Tuttavia, il silenzio che dava a vedere fuori, si contrapponeva al rumore che si portava dentro “Ha rischiato di morire, ed è stata solo colpa mia. Mi sono distratto e anche quando l’ho visto in pericolo tutto ciò a cui son riuscito a pensare è stato il titolo, il nome, il potere che avrei ereditato” una lacrima forzò le palpebre, scivolando per la curva della guancia “Sono un mostro… un uomo che lo conosce appena ha messo a repentaglio la propria vita pur di salvarlo, e io… io che sono suo figlio, io che sono il suo primogenito ed erede, sono rimasto fermo a guardare. Paralizzato dalla paura o da chissà cos’altro. Come un bambino sono rimasto incantato da un miraggio della foresta. Non merito nulla di ciò che ho, di ciò che sono: non merito il mio sangue, non merito il mio nome”.
«Ehi, fratello» lo riscosse una voce calda e rassicurante.
«Vittorio, perdonami: ero sovrappensiero» rispose, sforzandosi di sorridere.
«Lo capisco, abbiamo corso un gran bel rischio, ma non fartene una colpa, va bene? Non è stata colpa tua, può capitare a tutti di sbagliare».
‘Bastiano rispose con un gesto di diniego «Non quando il prezzo è così alto…».
«Ascolta, l’avevi ferito quel mostro. Non fosse stato per il tuo colpo mi avrebbe spezzato in due» ‘Bastiano si voltò a guardare il cinghiatauro, la ferita sul dorso era più profonda di quanto avesse pensato e la chiazza di sangue che ne era uscita era scura e copiosa. La cosa lo rinfrancò, impercettibilmente.
«E vedrai che a tuo padre passerà. Lo conosco poco, ma mi sembra un uomo ragionevole».

Vittorio aveva ragione, pensò ‘Bastiano: forse suo padre gliel’avrebbe fatta pesare per una settimana o due, ma alla fine lo avrebbe perdonato. Sono pochi gli uomini che possono ammazzare un bestia delle dimensioni di un cinghiatauro con un singolo colpo. E quei pensieri, quei pensieri orribili che l’avevano attraversato, adesso li vide sotto una luce diversa “pensiamo un sacco di cose turpi e meschine, ma in fin dei conti ciò che conta davvero sono le azioni, no?” e se ne avesse avuto la possibilità, se fosse stato più vicino, anche lui si sarebbe messo in mezzo per salvarlo. “E la mia lancia sarebbe penetrata più profonda ancora, dentro la testa di quel maledetto cinghiatauro”.

«Ti ringrazio,  fratello» gli disse ‘Bastiano, con un sorriso adesso sincero a distendergli le labbra. Vittorio contraccambiò e accelerò leggermente il passo: ormai la Rocca Grigia era in vista. E mentre il cielo si colorava di un sole rosso, con una cappa rosa e arancione, in ‘Bastiano il rimorso veniva vinto. Altre domande facevano il loro corso nella sua testa, scacciando il senso di colpa, seppellendolo negli angoli bui da cui sarebbe riemerso una volta giunta l’ora che attende i sogni. Inizialmente ripensò a quell’ombra nella Selva Scura: che fosse uno spirito, un demone di quelli che popolano le paure dei bambini? Gli pareva di aver scorto una barba ramata scendere sul suo petto. E lineamenti familiari, visti forse di sbieco, in un altro luogo, quando magari non ci aveva fatto attenzione. Ma la mente di un uomo funziona così: cattura tutto ciò che vede, mette da parte e magari tira fuori vecchie immagini dimenticate avvolgendole con la nebbia del “già visto” disciolta in una sensazione. Quel qualcosa di bianco, poi, non riusciva a toglierselo dalla testa.

Ma non era solo lo spirito della Selva Scura ad intrattenere i suoi pensieri, ce n’erano altri che lo pizzicavano, fastidiosi come un prurito. Provava un profondo e totale disprezzo per la mancanza di affezione e fedeltà dei pretoriani nei riguardi del loro protetto. Vittorio Belgi si era quasi fatto ammazzare e loro non avevano alzato un dito! Non si erano neanche sincerati che stesse bene, né avevano snudato le spade quando il cinghiatauro s’era apprestato a caricare il povero mercante. Nel cuore di ‘Bastiano l’effimera calma fu spazzata via da una impetuosa collera, mentre rivolgeva un’occhiata di fuoco a quel mucchio di spocchiosi imbellettati, col viso perennemente imbronciato. “Possono avere armature d’oro scintillanti, ma nel petto hanno un cuore vile e meschino come quello di una serpe velenosa. Una serpe a cui andrebbe schiacciata la testa con la punta di un bastone”. L’uomo con la cicatrice sul labbro ricambiò la sua occhiata con altrettanto astio e ‘Bastiano lo distanziò, con uno sbuffo stizzito.
Il Conte mandava il destriero al passo, poco più in là. Di tanto in tanto si massaggiava la coscia, lì dove uno squarcio nei calzoni lasciava intravedere una porzione della gamba: contusa e sporca di terra. Il guaritore di Castel Cangramo si sarebbe assicurato che non avesse nulla di rotto e avrebbe pulito e disinfettato la ferita con impacchi di erbe e vino bollente.
Vittorio Belgi era al fianco di suo padre, ma procedevano in silenzio, senza spiccicare parola. Stringeva mollemente le redini, le mani macchiate di sangue rappreso.




 



NdA: Avendo appena finito di ricopiare l'undicesimo capitolo ho pensato di pubblicare l'ottavo. Visto che ormai è questo l'andazzo vi comunico il futuro assetto degli aggiornamenti: ci saranno due aggiornamenti a settimana, uno 'fisso' la domenica e l'altro 'a piacere' nel corso della settimana.
Ma passiamo al testo: in questo capitolo ci sono svariati riferimenti a un mito in particolare, vediamo se qualcuno indovina di che mito si tratta eheheh!
Comunque, il nostro Sebastiano è stato distratto da un qualche spiritello della Selva Scura: di chi pensate si tratti? Che vorrà mai questo spiritello? Qualche teoria?
E ancora, secondo voi i pretoriani nascondo qualcosa? Perchè non hanno neanche provato ad aiutare il loro protetto?
Sperando che la storia vi stia piacendo, vi porgo i miei saluti e vi mando un abbraccio grande grande
ci vediamo questa domenica con un capitolo bello ciccione con Carlo come POV.
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IL SIGNORE OSCURO

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Capitolo 9
*** La mano che ti nutre - (Carlo) ***


CAPITOLO IX
La mano che ti nutre
(Carlo)
 
 

Il viaggio di ritorno verso Argonia aveva richiesto due giorni e mezzo, fra lo smantellamento del piazzaforte e la redazione dei verbali per gli archivi. La marcia fu meno serrata rispetto all’andata, non v’era più alcuna preoccupazione nel cuore dei soldati, se non quella di sorvegliare i prigionieri e ubriacarsi una volta ritornati alle loro case. Quando la capitale delle Coste dell’Est fu in vista, il sole di mezzogiorno si stagliava alto in un cielo terso e il suo tocco era gentile e tiepido sulla pelle, sotto le armature. Tutto ciò di cui Carlo aveva voglia era riempirsi la pancia, e stendersi sul letto per lasciarsi cadere in un sonno profondo. Quando si fosse sentito pienamente riposato avrebbe provveduto a scrivere una missiva per suo padre.
Principe e cavaliere procedevano innanzi, tenendo il passo, nell’ampia Via del Sale : una strada che percorreva la costa dell’est in tutta la sua estensione, connettendo fra loro le più grandi città, tutte vassalle del potente re di Argonia.

La marcia proseguiva con relativa calma, i soldati certo chiacchieravano animatamente fra loro, discutendo cosa ne sarebbe stato dei ribelli catturati o se l’impresa sarebbe valsa un aumento di stipendio, c’era ancora chi contava i giorni passati da quando si era sbattuto una baldracca nel bordello. Insomma, i soliti discorsi. Ma poi un gracchiare rauco al ciglio della strada spezzò la quiete,  proveniva da qualche parte oltre un albero contorto. Un odore dolciastro si insinuò nelle narici del giovane cavaliere, preparandolo a ciò che avrebbe visto di lì a poco, mentre la via si curvava lievemente…
due corvi si contendevano un occhio, fu il più grosso ad avere la meglio. Emise un verso trionfante e con Il suo becco scuro si mise a scavare nella pupilla, strappò via l’iride e la mando giù con un solo boccone. Era un banchetto quello che si parava davanti a tutti loro: un banchetto di mosche, vermi e cornacchie; di stralci di pelle strappati via e smangiucchiati; di lembi di carne viva messa a nudo.
Dalla bocca spalancata fuoriusciva la punta smussata del palo di legno, penetrata attraverso il corpo di quel povero disgraziato “Per i sette inferi, gliel’hanno infilato su per il culo…” alla base il legno si era impregnato di sangue ormai secco e macchie di merda scura, miste a ciò che rimaneva degli intestini dilaniati.
«Guardatelo, s’è cagato addosso tanto gli è piaciuto!» si sbellicò uno dei soldati, insieme a due commilitoni. Un cartello appeso al collo del morto recava un’unica scritta, incisa a caratteri cubitali SODOMITA. Carlo guardò ad Alfonso, mordendosi le labbra, gli occhi sbarrati: il Principe fissava il cadavere, sforzandosi di celare qualsiasi emozione gli erompesse dal profondo. Ma il cavaliere sapeva, sapeva cosa agitasse in quell’istante il suo animo orgoglioso
«Voi tre!» tuonò a un tratto «calate giù quel disgraziato e dategli una degna sepoltura».
«Ma, mio signore, vostro padre-» provò a protestare uno dei soldati, con un insulso pizzetto a scurirgli il mento.
«Mio padre» il Principe voltò il sauro dal manto fulvo, la sua voce era ferro rovente «non è qui con un esercito di uomini a cui basterebbe un ordine per metterci te su quel palo» si avvicinò all’uomo, la sua voce era ora come lo schiocco di una frusta «sono curioso soldato: tu e i tuoi amici vi cagherete addosso con un tronco di legno a sfondarvi il deretano?». Carlo provò una certa soddisfazione nel vedere umiliato chi aveva tirato fuori una così infelice battuta, ma ciò che divertiva lui non era un bene per il Principe, non questa volta.
I tre non osarono replicare e munendosi di accette si industriarono per togliere quel morto dalla vista, bofonchiando qualche protesta a bassa voce. Il resto degli uomini ritornò alla marcia verso Argonia, come se nulla fosse accaduto.

Carlo guardava con premura al suo signore. Non vi fu bisogno di parole, bastò uno sguardo perché i due si distanziassero all’unisono dal resto della colonna.
«È stato stupido alterarsi così per una battuta, questo lo sai, vero?» sibilò il cavaliere, lanciandogli un’occhiata in tralice.
Lui non rispose, non subito almeno. I suoi occhi erano lucidi, le labbra serrate in una morsa di teso silenzio.
«Non puoi comportarti in questo modo, non di fronte agli uomini. Avranno sospetti, inizieranno a spargere dicerie sul tuo conto!» quel mutismo lo stava seriamente irritando, ma finalmente Alfonso si decise ad esplodere, facendo ben attenzione che la sua voce non superasse un certo volume.
«A te non fa incazzare?!» ringhiò «Il pensiero che potevo esserci io al posto di quel disgraziato, o magari tu!» il suo labbro inferiore tremolò.
Carlo denegò col capo, sospirando «Abbiamo sangue nobile nelle vene, il tuo più del mio, nessuno oserebbe tanto».
«Non esserne così sicuro, Cangramo.» concluse, con tono acido, cacciando il cavallo al galoppo per i pochi metri che ormai li separavano dalle porte della città. E intanto Carlo rimaneva indietro, sospirando al pensiero di ciò che gli sarebbe toccato fare di lì a qualche ora “Non lascia simili questioni in sospeso, non lo fa mai…”.
Come per allontanarsi dai pensieri oscuri dell’imminente futuro, i suoi occhi si levarono a contemplare Argonia, la magnifica capitale della Costa Orientale.

La città era cinta da un anello di mura di forma ottagonale, con il porto che si diramava in massicce dita di pietra verso est. La roccia candida era rinforzata di placche di bronzo sui merli: in giornate assolate come questa, a Carlo sembravano gli artigli rapaci di un falco predatore. Su le torri di guardia si potevano scorgere le punte oblunghe delle macchine da guerra: scorpioni, i cui dardi avrebbero infilzato cinque uomini disposti l’uno in fila all’altro, completi di armatura e maglia di ferro. Da lontano poteva sentire rumoreggiare il mare. Chiuse gli occhi immaginando la spuma salata insinuarsi fra i ciottoli, quella scena quietò il suo animo.
Rimase qualche istante a contemplare i drappi di tessuto ai lati del portale: recavano il passero d’oro in campo azzurro. Ricordava la prima volta che aveva visto quello stemma, ricordava la prima volta che aveva visto Argonia: non aveva mai potuto credere che potesse esistere al mondo una fortezza come quella, o perlomeno che nessuno fra gli uomini potesse erigerla.
Se Argonia era una ballata epica, musicata dalla melodia di cento e più violini, con fiati annessi, la Rocca Grigia di contro sembrava una canzonaccia da taverna, accompagnata alla bell’e meglio dal ruttare degli avventore ubriachi. “Eppure talvolta mi manca la mia melodia da taverna” pensò, mentre si riuniva ad Alfonso alle porte della città.
Quando giunse anche la colonna, il portale di quercia, con rinforzi in piombo, si spalancò e una folla festante cominciò a bersagliarli con fiori e grida di giubilo. Urlavano di gioia, tutti quanti: dai popolani ai lati della strade ai bambini che intralciavano il cammino dei cavalli, levandosi di mezzo solo all’ultimo secondo; dalle signore sui balconi, alle allegre puttane nei bordelli. “La metà di loro non ha neanche idea di cosa abbiamo fatto là fuori” una margherita dai petali sgualciti gli balzò sulla sella “a loro basta festeggiare e starnazzare: galline in un pollaio!” pensò il cavaliere, lanciando in terra il fiore con un dito. Alfonso d’altra parte aveva mollato il broncio e adesso offriva al popolo di Argonia i suoi migliori omaggi e sorrisi, levando il braccio e salutando trionfante.

Se qualcuno avesse visto Argonia dall’alto, avrebbe certo pensato che somigliasse alla ruota di un carro: otto grandi strade erano i suoi raggi, divisi l’uno dall’altro da file ordinate di abitazioni, attività commerciali e artigianali di vario tipo. Ogni cittadino, dal più umile dei manovali al più ricco dei mercanti, residente ad Argonia, viveva in un edificio eretto in solida pietra. Dal suo arrivo Carlo non aveva mai veduto una singola casa che fosse stata tirata su’ a legno e paglia. Certo, non tutte le abitazioni erano uguali: man mano che ci si avvicinava al centro le dimensioni e la magnificenza cresceva, le case che davano sulla piazza inferiore del Palazzo Reale erano costellate di merli intagliati in forma di grifoni, sirene e altre creature mitiche. Invece quelle a ridosso delle mura erano dotate del solo pianterreno, semplici ed essenziali nell’aspetto e nell’architettura.
Ad un punto la strada iniziò a inclinarsi in una salita, nel frattempo la folla aveva cominciato a ritirarsi e il grosso dei soldati si era disperso, per riunirsi alle proprie famiglie. Alfonso e Carlo smontarono da cavallo e insieme salirono i settanta scalini che attraversavano la Piazza Inferiore e la Piazza Superiore, portando direttamente al cortile su cui si affacciava la porta del Palazzo. Nei giardini tutti intorno, i nobili della corte li osservavano da debita distanza, protendendosi in inchini e riverenze al loro passaggio o a un loro cenno di saluto.
Il vociare della folla era ormai sopito in lontananza, adesso non si udiva che il cinguettio dei passeri e il canto di qualche menestrello nascosto alla vista. Arrivati dinanzi all’ingresso due picchieri si scostarono per lasciarli passare: una cappa cobalto scendeva dalla  spalla sinistra al fianco destro.

Nella sala del trono un gigantesca passero era appollaiato su un ripiano dietro lo scranno. Le piume d’oro e di bronzo delle sue ali si incurvavano come a voler avvolgere il re in un abbraccio, mentre il becco affusolato si rivolgeva verso l’entrata. Ai lati del volto oblungo Carlo vide luccicare i due zaffiri che la statua aveva al posto degli occhi, sostenne il loro sguardo silente senza battere ciglio “Chissà come canterebbe una bestia del genere, che rumore farebbero le sue ali?”. La sua attenzione si rivolse poi al sovrano, il padre di Alfonso e l’uomo a cui il Conte Cangramo aveva giurato fedeltà.
La voce di re Ferrante era acuta almeno quanto quella dell’animale sul suo stemma, c’era chi lo chiamava “Il passero d’inverno”. Dai suoi occhi di un azzurro opaco, quasi grigio, molteplici archi di occhiaie scendevano ad allargargli le orbite contuse. La sua barba del colore della polvere scendeva contorta sul petto leggermente incavato. Gli abiti, una tunica di seta verde mare e la cintura giallo canarino, cingevano un corpo emaciato, tremante come un randagio infreddolito. Quando il re si alzò per accogliere il ritorno di suo figlio, il cavaliere fu convinto di udire le sue ossa scricchiolare.
Accanto al trono c’era un ometto alquanto bassino, il cui abito talare conteneva a stento l’ampia curva del suo ventre.
Quando il re si avvicinò, Carlo poggiò il ginocchio destro in terra e chinò il capo in segno di rispetto.
«Padre» recitò Alfonso, mentre Ferrante gli posava le mani affusolate sulle ampie spalle.
«Mio Re» pronunciò Carlo, baciando l’anello con il sigillo degli Argona.
«Figlio mio, che esito ha avuto la tua spedizione?» chiese il sovrano, giungendo le mani dinanzi al ventre rinsecchito.
«La rivolta del Clan delle Asce è sta sedata. Ho già dato disposizioni perché i prigionieri siano deportati ad oriente» disse Alfonso, scoccando un’unica occhiata all’uomo grassoccio, che non proferiva parola.
«Ben fatto, figlio mio, che siano gli infedeli a sopportare certi piantagrane nelle fila dei loro schiavi» un eccesso di tosse smorzò la sua voce «Hai reso un grande servizio alla nostra casata e ai potenti Orimberga, nostri grandi e magnanimi signori. Dico bene Vicario Toniacci?»
L’uomo fece tre passi avanti e incurvò le labbra in un sorriso mellifluo.
«Certo, mio buon re. Anche se» incrociò le braccia, lanciando un’occhiata incerta al Principe «sarebbe stato meglio che certi uomini, ribellatisi al fato che il Redivivo ha stabilito per loro, fossero stati offerti a lui stesso per essere giudicati»
«Non sono un macellaio, quegli uomini hanno guadagnato il diritto a serbare le proprie vite nel momento in cui hanno gettato le loro spade ai miei piedi» ringhiò Alfonso, accigliandosi.
“Non fare l’idiota… non adesso” pensò Carlo, stringendo i pugni.
«Via, via, non c’è bisogno di alterarsi così» Ferrante allargò le braccia, mostrando un sorriso ebete «i mali che rechiamo agli infedeli sono fonte di letizia per il Redivivo!». A un tratto il re si portò un dito alle labbra e fissò il vuoto per qualche istante «Solo adesso mi rendo conto di non avervi presentati, l’età ormai gioca brutti scherzi alla mia memoria.» la sua espressione si incupì, increspandogli il volto di rughe «Ahimè, il caro Bernardo Picini è passato a miglior vita qualche giorno fa,» si rallegrò nuovamente «ma la Città Santa ha provveduto a rifornirci d’un nuovo vicario, figlio mio. Toniacci, questo è il mio unico figlio ed erede, Alfonso»
«Ho avuto il piacere di sentir parlare di voi, Principe: la vostra fama di condottiero vi precede» esclamò con tono accomodante, porgendo una delle sue mani tozze e sgraziate.
Senza troppo entusiasmo Alfonso la strinse. Uno zigomo del sacerdote sobbalzò, mentre tendeva un sorriso. Quando sciolse la mano dalla stretta, Toniacci se la massaggiò con discrezione: negli occhi vi fu un lampo di stizza.
«Oh, Alfonso» esclamò Ferrante «il Vicario ripoterà ordine e rettitudine ad Argonia. Questa città è, ahimè, piena di peccatori che offendono il Redivivo e il suo Santo Culto. Proprio stamane uno di loro è stato purificato, fuori dalle porte della città».
«Sacra la sua missione, nel nome della Furia» biascicò Alfonso, cavandosi a forza quella formula di rito dalla bocca.
«Che contro il peccatore si scagli implacabile» concluse il Vicario, con voce solenne.
Re Ferrante sembrò tanto entusiasta che poco ci mancava iniziasse a battere le mani.
“Il vedovato l’ha reso demente, in lui non vedo nulla dell’uomo che si dice abbia sfidato il re dei corsari Syrcuzàn” e quel pensiero fu un boccone amaro: la vecchiaia e la pazzia potevano davvero rovinare un uomo.
«E voi Carlo? Vi siete battuto bene, com’è degno della vostra casata?»
Alfonso non gli diede il tempo di replicare
«Mi ha salvato la vita, padre. L’ho insignito del titolo di cavaliere sul campo di battaglia»
«Sono ben lieto di sentirlo!» esclamò il sovrano, scuotendo le spalle del giovane Cangramo «non vi attardate nell’annunciarlo al Conte, ne sarà così fiero! E sì, sì, mandategli i miei saluti!»
«Lo farò al più presto, maestà» replicò Carlo, con un cenno del capo.
«Bene, bene» giunse le mani, volgendo lo sguardo a Toniacci «Vicario, è passato mezzogiorno, volete accompagnarmi al Tempio? Debbo recitare le mie preghiere prima del pasto»
«Fa parte del mio ufficio, maestà» acconsentì l’ometto grassoccio. Senza attardarsi in saluti di congedo, re Ferrante si avviò di gran carriera verso l’uscita del palazzo, seguito a pochi passi di distanza dal sacerdote. Le porte furono richiuse alle loro spalle.

Una volta rimasti soli, Alfonso si guardò intorno per controllare che nessun altro fosse al momento nella sala del trono. Poi i suoi occhi ricaddero pericolosamente su Carlo. Il Principe cavò un sacchetto dalla cotta di maglia e lo lanciò al cavaliere, che pur se preso alla sprovvista lo afferrò al volo, sentendolo tintinnare fra le mani.
«Vai» intimò l’Argona, con tono fermo e perentorio.
«Un’altra volta?!» se lo aspettava, ma avrebbe provato a farlo desistere «Ti scopriranno, razza di idiota, lascia passare un po’ di tempo!»
«L’hai visto quell’uomo alle porte della città, vero? O me lo sono immaginato?!» i suoi occhi lucidi bruciavano di fiamme azzurrine «Vai! Ora!» questa volta arrivò fin quasi ad urlare. Carlo sbuffò, bofonchiando un’imprecazione e si avviò fuori dal Palazzo, lasciando il Principe solo con la sua rabbia e i suoi pensieri.

“Idiota! Idiota! Idiota!” pensò Carlo, assestando un pugno alla parete nel vicolo in cui si era nascosto per tirar su il cappuccio che adesso gli celava il volto “E ancor più idiota sono io che gli vado dietro”.  Un gargoyle lo fissava con i suoi occhi di pietra dall’alto del cornicione di marmo nero, venato di un grigio pallido e fumoso. “Per i sette inferi, capisco che non facile vedere che tuo padre ti vuole morto, ma rischiare una guerra solo per questo?! Quale padre non vuole vedere morto il proprio figlio? Sennò che ci manderebbero a fare nei campi di battaglia? Sì, armati di spada e scudo solo per zittire la loro sporca coscienza”. Melodie oscure si celavano dietro l’accecante bellezza di Argonia “Un re demente e un principe sentimentale” Carlo sputò in terra, avviandosi guardingo verso la casa con i gargoyle di guardia ai cornicioni.

L’abitazione di Lucio Manfredi era la più vistosa fra quelle che circondavano il palazzo reale: l’edificio si sviluppava per quattro piani su una base rettangolare. Pareti di roccia bianca si alternavano a sezioni di marmo scuro, sulle quali erano appollaiate le grottesche creature alate, dai volti cupi e silenti.
Carlo pose la mano sul battente e bussò tre volte, ascoltando il cigolio metallico e il rumore che echeggiava all’interno. Rimase in attesa, passando il pollice sulla testa di passero della daga: in qualche modo sembrava quietare l’ansia che gli si arrampicava su per la gola. Batté la punta del piede sul pavimento, ritmicamente. Fino a quando dall’interno non provenne un rumore di passi e la porta si aprì con un cupo cigolio. Il valletto indossava una livrea nera con i risvolti argentati, aveva la pelle bronzea tempestata di minuscoli nei e lentiggini in corrispondenza del naso. I suoi grandi occhi viola scuro lo fissavano vacui, senza proferir parola.
«Vorrei conferire con il signor Manfredi, è in casa?».  
Il valletto non rispose, il suo sguardo si posò sull’ascia e la daga che pendevano dai fianchi di Carlo. «Oh, giusto» sfilò le armi dai foderi e gliele porse. Il giovane servo le prese senza sforzo e con le mani a ciondoloni lungo i fianchi si avviò per le quattro rampe di scale che conducevano all’ultimo piano di palazzo Manfredi. All’interno la casa era ricolma di opere d’arte provenienti da ogni angolo del mondo: statue bianco latte che ritraevano, con grazia e perfezione, la forma e la consistenza della carne umana; macchie di colore su tela che creavano paesaggi contemplabili solo nei sogni più fervidi e fantasiosi; totem di legno intagliato, recante grottesche facce di animali; vasi talmente antichi che sarebbe bastato un soffio a farli diventare polvere. Non mancavano animali impagliati, con gemme al posto degli occhi: c’erano tigri ombra-fuoco dalle lunghe zanne a forma di mezza luna; maiali di fiume; basilischi dalle scaglie variopinte; insetti grandi come lupi e lupi grandi come orsi; giganteschi uomini scimmia con artigli di ossidiana al posto delle dita.
I pavimenti erano rivestiti da tappeti monocromatici neri in perenne contrasto con il pallore dei muri e delle colonne intagliate.

All’ultimo piano c’era lo studio, ben illuminato dalla luce delle finestre che si ergevano alle spalle della scrivania, un tavolo di legno massiccio ricolmo di spessi tomi rilegati in pelle. Un uomo segaligno ne consultava qualcuno, assiso a un sedile di mogano foderato, e su altri ancora intonsi la sua penna d’oca grattava rapida, tracciando lettere dai contorni aguzzi e spioventi ghirigori. Quando vide Carlo alla porta, l’uomo levò gli occhi di ossidiana e un sorriso d’avorio gli si dipinse sulle labbra sottili.
Una coda di cavallo scendeva per la sua schiena: aveva capelli di un nero lucido, profumato con degli olii, striati d’argento in corrispondenza delle tempie. Il naso si protendeva dal viso aguzzo in una gobba contorta. Indossava una camicia di lino bianco, coperta da un corpetto di cuoio scuro e da un abito di seta scura finissima, mentre il bacino era cinto da una fascia di argento usata a mo’ di cintura.

L’uomo grattò la superficie del tavolo con il ditale d’argento che gli cingeva l’indice “In effetti è più un artiglio che un ditale, a cosa mai gli servirà?”.
«Guarda, guarda chi torna a trovare il buon vecchio Lucio. Se non è lo scudiero del nostro amato principe Alfonso» sibilò l’uomo compiaciuto.
«’Cavaliere’, Manfredi.» lo corresse Carlo, corrucciandosi.
«E cavaliere sia» sorrise beffardo «siedi, siedi, in cosa posso esserti utile?». Il giovane Cangramo si accomodò a uno sgabello sistemato dinanzi alla scrivania, il valletto rimase alla porta, in attesa di ordini.
«Non è a me che servono i tuoi servigi» sbuffò indispettito.
«Andiamo, non tergiversiamo nel puntiglio» lo incalzò l’uomo, sporgendo in avanti il suo muso.
Carlo tirò fuori il sacchetto affidatogli da Alfonso e lo lanciò di malomodo sul tavolo, tamburellandosi poi il ginocchio con le dita. Gli occhi di ossidiana di Manfredi ebbero un luccichio e prese a saggiare il peso del sacchetto. Mugugnò, con un pizzico di stupore.
Sciolse le fibbie che chiudevano la iuta con un gesto del dito e diede un lieve morso a una delle monete d’argento che ne cavò fuori. Il suono dei denti contro il metallo prezioso diede a Carlo un brivido, dovette concentrarsi per allontanare quella sensazione “Mi chiedo se se le morda una per una tutte le volte…”.
«A occhio e croce direi che il nostro Principe vuole morto qualcuno» constatò Lucio «di chi si tratta?»
«Puoi immaginarlo da te, Manfredi» rispose secco il cavaliere.
I suoi occhi si sbarrarono in una sorpresa tanto fasulla, che un attore che si stupisce della morte del suo personaggio nell’ennesima replica di uno spettacolo, sarebbe sembrato più convincente «Sembra che Argonia avrà bisogno di un nuovo vicario. Sai, immagino che Utopia trovi più economico mandarci qui i suoi sacerdoti piuttosto che continuare a pagare i loro stipendi.» Manfredi sorrise, compiaciuto della sua stessa macabra battuta.
Prese fra le mani uno dei registri, lo sfogliò e declamò ad alta voce
«Padre Mattia, avvelenato durante la cena. Padre Giuseppe, incastrato per spionaggio a favore dell’Impero Manide. Padre Benso, linciato in una sommossa popolare. Padre Luca, morto per dissenteria» Manfredi ghignò compiaciuto «quella sì che fu un’idea originale! Stavolta direi di mettere su qualcosa di più ’movimentato’, che ne dici di una rapina finita male?».
Carlo rimase disgustato dal divertimento che si palesava nella voce del Manfredi «Non voglio saperne nulla io, fa quel che ti pare» replicò acido.
«Andiamo Cavaliere, alla fine io e te non facciamo niente di tanto diverso: entrambi ammazziamo uomini eseguendo gli ordini del grande e potente Principe Alfonso, futuro illuminato sovrano di Argonia» lo punzecchiò, con tono mellifluo.
«Io n-non faccio quello che fai tu, io combatto con onore» ricusò Carlo, infastidito da quell’insinuazione «Se qualcuno ti pagasse uccideresti il tuo re o il Principe stesso».
«Non essere sciocco, Cavaliere» ghignò Manfredi «Anche un cane sa che non deve mordere la mano che lo nutre e, modestamente, mi reputo di molto più intelligente di un cane. In ogni caso, puoi assicurare al Principe che il nostro buon vicario non vedrà l’alba di domani».
Carlo grugnì un assenso e si avviò fuori dallo studio, preceduto dal giovane valletto. Il ragazzo si limitò a condurlo all’uscita e lì lo salutò, congedandolo con un gesto del capo, prima di chiudergli la porta in faccia.

«Hm» mugugnò il Cavaliere. Lanciò occhiate intorno per controllare che nessuno lo vedesse e si calò la cappa giù dal capo, riprendendo la via verso il castello. “Quell’uomo si è costruito la sua ricchezza col sangue. È una fortuna che il suo nome sia sul libro paga di Alfonso, altrimenti…” il numero di contatti e relazioni che Lucio Manfredi intratteneva in città, sia nell’alta società che negli angoli più bui dei bassifondi, lo rendevano l’uomo perfetto a cui il Principe ricorreva per disfarsi in modo discreto di certi personaggi scomodi. Gli obbiettivi presi di mira più di frequente erano proprio i vicari: sacerdoti mandati da Utopia, la Città Santa, ogni qual volta un re, o comunque un nobile, ne faceva richiesta per vegliare sulle anime della propria famiglia e del proprio popolo. Non c’era un solo uomo dotato di qualche potere a Clitalia che non avesse un vicario nella propria città. Severo, suo padre, aveva relegato il sacerdote a Valspurga, un conglomerato di villaggi dove l’influenza del messo di Utopia lasciava il tempo che trovava.
Ad Argonia le cose erano differenti: con il sostegno del sovrano il vicario aveva carta bianca sulle punizioni da infliggere ad eretici, blasfemi, atei e sodomiti. Certo non erano mancati uomini miti come l’ormai compianto Bernardo Picini, il quale si limitava a ramanzine e prescrizione di preghiere per il peccatore, ma c’erano anche stati vicari severi e inflessibili, capaci di infliggere le peggiori torture a chi non fosse in linea con il Culto del Redivivo.
Ogni qual volta un vicario violava quel limite che Alfonso aveva ben chiaro nella mente, il Principe provvedeva affinché fosse tolto di mezzo, calibrando la pena alla colpa. Manfredi faceva in modo che tutto sembrasse casuale o dettato da ragioni esterne alla volontà degli uomini. Ed era pagato profumatamente per fare al meglio il suo lavoro (e perché rimanesse al servizio di un solo uomo). Altresì il Manfredi non aveva remore a manifestare la sua ricchezza, inferiore per entità solo a quella della famiglia reale: simbolo più evidente delle sue finanze erano i suoi taciturni schiavi dagli occhi viola. Una volta il Cavaliere aveva chiesto al Principe perché quei ragazzi non spiccicassero mai mezza parola, lui gli aveva risposto che in terre lontane, oltre l’impero Manide, società di schiavisti si servono di stregoni per far di quei ragazzi dei preziosi muti: certo, qualunque uomo poteva provvedere a tagliare la lingua al proprio schiavo, ma certo il padrone che facesse ciò non sarebbe stato benvoluto dal suo sottoposto e un giorno o l’altro si sarebbe ritrovato nel letto con la gola tagliata. Da quel che aveva visto gli schiavi di Lucio Manfredi non soltanto erano trattati con il massimo riguardo dal loro padrone, ma sembravano nutrire per lui una fedeltà assoluta e incondizionata “Eppure sono pur sempre schiavi” pensò Carlo, con un filo di amarezza. La Rocca Grigia non si era mai servita della schiavitù, i servi di Castel Cangramo erano tutti retribuiti e liberi di lasciare la loro mansione, qualora questa non fosse stata più loro gradita.  
 
Carlo era contento di quella scelta che era stata di suo padre e dei suoi avi prima di lui, “Almeno in questo la mia canzonaccia da taverna è più elegante di una ballata”. Un rumore cupo provenne dal suo stomaco: era dall’ora di colazione che non toccava cibo, nelle cucine del castello avrebbe potuto mangiare le migliori prelibatezze di Argonia, ma aveva voglia di un’atmosfera un po’ più allegra e meno solenne. Come per esaudire una sua richiesta silenziosa, nel suo sguardo si palesò un’insegna di legno tenuta su da un’impalcatura di ferro battuto: Il Boccale e la Borsa. Carlo si avvicinò alla porta ed entrò, mentre l’atmosfera della locanda lo attirava sé, come un amante fra le sue braccia: c’era la voce del menestrello che incalzava gli avventori con vecchie canzoni di mare, stringendo e tirando la sua vecchia fisarmonica scassata; c’era il tintinnare dei boccali l’uno contro l’altro; il berciare imprecazioni di un giocatore d’azzardo che aveva appena perso tutto in una giocata quanto mai avventata; lo schiocco di uno schiaffo sulla faccia di un uomo, ad opera di una cameriera a cui era stato palpato il sedere e le risate che ne seguirono; l’aroma della birra che si mischiava al profumo della carne abbrustolita.
«Aye, cavaliere!» lo salutò uno dei soldati che aveva ancora una brutta contusione sulla faccia, lascito della battaglia sulla Corona «Vieni, siedi con noi!» lo invitò, insieme con i suoi compagni d’arme. Carlo accettò di buon grado e dopo che gli ebbero fatto spazio sulla panca si accomodò, cercando con gli occhi la cameriera.
«Come ci si sente, mio signore? Erano anni che aspettavi di diventare cavaliere!» la voce del soldato era resa malferma dalla birra e alla fine della frase sussultò in un singhiozzo.
«Bene, soldato, non che sia cambiato molto, eh» rispose, sorridendo «sempre agli ordini di qualcuno devo obbedire». Qualcuno al tavolo berciò una risata, battendo un pugno sul legno.
«Quello lo facciamo tutti, mio signore. Ma ora puoi tornartene a casa tua, no? Nessuno più ti obbliga a star qui?» poi si affretto ad aggiungere ad occhi sbarrati «Per carità, ci mancherà sul campo di battaglia, ma dico, è solo curiosità»
«Rilassati soldato» lo rassicurò «in realtà potrei tornarmene da dove sono venuto, ma preferisco restare qui: almeno a corte posso trovare un buon partito da sposare, lì da dove vengo io non c’è una nobildonna nel raggio di chilometri» ghignò «se non contiamo mia sorella». Un'altra fiumana di risate seguì alla battuta, Carlo sentì l’ansia che l’aveva preso durante il colloquio con Alfonso sciogliersi pian piano.
Qualcuno dal fondo della tavolata gridò «Senti a me, non ci fai un bell’affare a sposarti! Mia moglie è una tale rompiballe» e un altro rispose «Bartolo, neanche tua moglie ha fatto ‘sto grande affare a sposarsi una faccia da culo come la tua!». Il battibecco che iniziò lasciò a Carlo il tempo per rimuginare sui reali motivi per cui non ritornava alla Rocca Grigia
“Anche se lui non fosse qui, anche se non fosse il mio signore, cosa può offrirmi una terra di cui non sarò mai il Conte? Di cui non deciderò mai le sorti?” quel pensiero gli mise malinconia “Anche per Argonia è la stessa cosa, ma qui posso servire il mio signore e combattere in suo nome. Anche se lui non fosse qui… ma lui è qui e mi manca il suo corpo” la malinconia, e una certa rabbia per quel mondo che non gli consentiva di costruire la vita che realmente desiderava, si mescolarono, alla sponda del bicchiere di birra che ora portava alla bocca, condensandosi in un senso di profonda tristezza. Una melodia che adesso gli si arrampicava su per la gola e batteva forte alla porta, per poter uscire. Si alzò dalla panca e andò verso il menestrello, calandogli una manciata di monete per farsi dare la fisarmonica “Cantare, per fuggire ogni tristezza”.
Quello gli diede lo strumento senza troppe proteste: con quel denaro se ne sarebbe potute comprare altre cinque di fisarmoniche.
Nella taverna calò un silenzio carico di aspettative, qualcuno gridò dai tavoli
«Vai Ser Suonatore! Facci cantare!».
 «E sta’ zitto Calogero, che sei stonato come una campana!» e di nuovo su’ con le risate, ma Carlo non ascoltava, tutta la sua attenzione inseguiva le parole che volevano esplodere.
La sua voce fuoriuscì forte e melodiosa, retta su quel filo d’intonazione su cui solo in pochi sanno camminare: senza mai tremare, senza mai barcollare, senza mai cadere.
«Solo in sta’ notte scura
solo star più non so»
Una donna dagli occhi blu e la scollatura profonda lo guardò e lui pose su di lei lo sguardo mentre cantava.
«Fa’ freddo e le lenzuola
son troppe per un corpo sol»

Lasciò che lo strumento gli desse una pausa, con il suono pieno e fragrante.
«Dimmi amore mio
quando ti sposerò»

Gli avventori ripeterono in coro. Carlo accelerò brevemente il ritmo.
«A tuo padre
per la tua mano
anche la sua taglierei.
Non mi fermeranno
una regina, un duca, né un re»
«Dimmi amore mio quando ti sposerò!»
ripeterono gli avventori insieme, il ritmo della canzone iniziò a farsi più allegro.
«Ma no, ma no! Dimmi amore mio
quando ti potrò montar, che la sacca è piena
ma non di monete sai»
«Non di monete sai!»

Allungò il viso verso la donna dagli occhi blu e quella gli stampò una bacio sulle labbra. Dai tavoli partirono risa ed esultanze.
«Lo faremo al chiar di luna
meglio d’un baio o un palafreno, dai!»

«Aye! Aye!»
Non gradiva particolarmente la piega sporca e volgare che la canzone andava prendendo, ma in una taverna la gente andava divertita. Esaltato, Carlo balzò su uno dei tavoli, calciò via un bicchiere e cantò all’oste «Te li pago io i danni Giampiero, solo fammi ancora cantar. Solo un poco, un altro poco che sarà mai?» quello si accigliò ma poi non poté fare a meno di ridere. Carlo ripeté le strofe una seconda volta, e quando gli avventori le ebbero imparate e presero a cantare al posto suo, sempre più velocemente, battendo i pugni sul tavolo, alzando i bicchieri, lui lanciò all’aria la fisarmonica e prese a ballare con la donna dagli occhi blu lì sul tavolo. Le fissava ballare le tette dietro la scollatura. Gli venne duro e le diede un bacio: la sua bocca aveva il sapore delle spezie piccanti e le sue labbra piene si scioglievano ad ogni morso.
Con gli occhi la donna indicò la rampa di scale che saliva verso il piano di sopra “Non chiedo di meglio”. Fra le risa e gli schiamazzi Carlo lanciò una moneta all’oste e seguì la donna verso su’, mentre urla e allusioni venivano da giù, gridati a gran voce.

La donna dagli occhi blu richiuse la porta della camera, lasciando fuori ogni rumore perché il silenzio potesse avvolgerli. Tre scatti metallici di serratura.
Lei lo guardò in tralice mentre tirava via una stringa della camicetta.
Lui sorrideva ebete, steso sul letto.
La donna aveva un corpo formoso, con il bacino largo e un paio di seni pieni, un poco cadenti per la loro grandezza. Ma il suo viso, quello era perfetto: guance tonde e pelle diafana, con questi occhi blu resi più luminosi dal trucco nero che li circondava. Certo si trattava di una puttana, era risaputo lì nella locanda, ma a Carlo questa volta non interessava. Mentre cantava era a lei che il suo amore era fuggito e per qualche ora l’avrebbe amata, fino alla fine della tenzone.
Un sentimento che si sarebbe disfatto con il seme che fluiva fuori “Si può dire che siamo complementari”.
Quando fu nuda, lei gli slacciò i calzoni e li tirò giù, passando la sua lingua sul membro. Lo strano solletico che ne derivò lo fece fremere. Rivolse gli occhi al soffitto, con un sorriso a distendergli la faccia. Quando il membro fu turgido lei gli salì sopra: aveva la fica più larga dell’ultima donna con cui era stato, ma risultava ugualmente calda e accogliente.
Lui le piantò lo sguardo negli occhi, prendendole una mano e intrecciando le dita alle sue. I suoi movimenti erano fluidi e continui, emetteva solo piccoli gemiti: profondi ma silenziosi. “Sa di certo fare il suo lavoro”. Carlo sentì che sarebbe potuto venire lì in quell’istante, ma non voleva “Lei è solo all’inizio”. La mano destra abbandonò le sue dita, salì dalla coscia per il bacino e il fianco morbido, si strinse sul seno, rigirandosi il capezzolo fra l’indice e il medio.
Con l’altra mano Carlo scese a pizzicarsi la gamba, un piccolo lembo di pelle, stringendo abbastanza forte da sentire un dolore fastidioso, ma sopportabile. Questo lo aiutò a durare, fino a quando i respiri di lei non si fecero lievemente più rumorosi, a breve distanza l’uno dall’altro, fino al gemito finale che venne come un lungo e unico sospiro. In quel preciso istante nessun trucco potette più trattenere il Cavaliere dal venirle dentro, con la sensazione di svuotamento e quel leggero tremolio che gli frustava sempre il ginocchio destro e la punta dei piedi.

Quando ebbero finito, lei si sdraiò accanto a lui e lui si girò di fianco per guardarla.
«Sei venuta?» gli chiese.
Lei fece cenno di sì con la testa, con le labbra leggermente inarcate. “Non saprò mai se è vero o se mi sta mentendo, immagino sia parte del lavoro”. «Sei stato bravo» disse, deglutendo un boccone di saliva.
Carlo cacciò un risolino e sospirò «Sono sicuro che lo dici a tutti».
«Questo è vero,» ghignò lei «ma con te sono seria».
Il giovane Cangramo inarcò un sopracciglio.
«Va bene, dico a tutti anche ‘questo’» risero insieme, fissando il soffitto l’uno accanto all’altra.
«Sai, è questo che manca con la persona con cui sto… la spensieratezza» disse Carlo, portandosi una mano dietro la nuca.
«È di tua moglie che parli, cavaliere?» chiese lei, un po’ stupita.
Carlo trovò divertente pensare ad Alfonso vestito da donna e dovette contenersi per non mettersi a ridere da solo «Diciamo di sì».
«Un rapporto vero e profondo è fatto anche di discussioni,» disse lei, mordendosi un labbro «non può essere sempre spensierato».
Carlo la guardò con un’ombra di scetticismo nello sguardo «Una puttana che mi da consigli in amore?».
Lei gli diede uno schiaffetto leggero sulla guancia, alzando le sopracciglia «Si dice ‘prostituta’ e poi cosa credi, cavaliere, anche io amo e ho amato. E se mio marito andasse a letto con un’altra gli taglierei via le palle».
Carlo si mordicchiò la lingua «Lui non dovrebbe dire lo stesso?».
«Io ci campo con questo lavoro, non provo sentimenti per gli uomini con cui giaccio» replicò lei.
«Mi stai dicendo che non ti piace il tuo lavoro?» chiese Carlo, tirandosi a sedere.
«Questo non l’ho mai detto» rispose, con un altro dei suoi sorrisi «dico solo che io ci porto il pane a casa con questo mestiere».
Il giovane sbuffò, piuttosto scettico «Sarà, ma a me sembra un po’ una scusa…»
«Una scusa che né tu né mio marito potete usare» incalzò lei, divertita.
«Sappi che sostituire la mia coscienza non ti frutterà più denaro» lo punzecchiò, alzandosi in piedi e risollevandosi le braghe.
«Certo» ammise lei «ma il tempo fra la cavalcata e le chiacchiere dopo il sesso sì» si tirò a sedere, incrociando le braccia.
Carlo denegò col capo sfilando dalla sua saccoccia tre monete d’oro e due d’argento (più di quanto avesse mai pagato per una puttana) «Dannata donna, tuo marito è fortunato ad avere una moglie tanto intelligente» lasciò i soldi sulla sponda del letto e si avviò verso l’uscita, rigirandosi uno zecchino d’argento fra le dita. «Dipende dai punti di vista, Cavaliere!» le rispose lei. Carlo sorrise lanciando dietro di sé la moneta d’argento.

Fuori dalla taverna il cielo s’era colorato di un violetto spento, quasi più nessuno girava per le strade quando il crepuscolo veniva al mondo. “Argonia… così bella quando si avvicina la notte, quando è silenziosa” gli sembrava una città tanto diversa da quella che l’aveva accolto nel suo ritorno dalla spedizione sulla Corona. Per terra c’erano fiori e petali calpestati da cento e più passi della gente, dei cavalli, dei carri “quando è la roccia ad essere la protagonista. E il rumore e la carne sono messi da parte”. Non aveva ormai altro da fare se non avviarsi verso il Castello: avrebbe scritto una lettera a suo padre, a lume di candela o magari avrebbe dormito prima. Provò un timido moto di stanchezza e indolenza al pensiero di quanto si sarebbe dovuto concentrare per mettere su carta la buona novella: cercare nelle parole quando andasse posto un accento e quando no, quando mettere una consonante due volte e quando solo una. Le lettere erano state sempre una faccenda tanto complicata “Ma sì, dai, la scriverò domani mattina. Quando sarò al pieno delle mie forze. Per stasera dormirò” poi una vocina nella sua testa lo richiamò ad un altro dei suoi doveri “dovrò ricordarmi di avvisare Alfonso che il destino del vicario è stato segnato, quanto meno si rilasserà”.
Con la mente iniziò a fantasticare su chi sarebbe stato il prossimo messo spedito da Utopia, se avrebbe avuto vita tranquilla come il buon Bernardo Picino o avrebbe fatto una fine orribile come tanti prima di lui. Per il bene del Principe sperò che si trattasse del primo caso: più ne faceva fuori, più si esponeva agli occhi degli Orimberga.
Era sicuro che, non fosse stato per suo padre, Alfonso avrebbe provveduto a scannare con le sue stesse mani i vicari affidati alle cure di Manfredi. Se gli approcci sottili che adottava per i messi della Città Santa avesse avuto la testa di usarli anche in guerra o in politica… avrebbe potuto vincere tante battaglie senza neanche iniziarle. “Manfredi mi disgusta, ma è una indubbia risorsa. Credo sia sprecato utilizzarlo per cose di così poco conto. Se gli chiedesse di assassinare il Re…” la frase di Lucio ritornò rapida alla sua mente: un cane non morde la mano che lo nutre. “Già” rispose, fra sé e sé, “ma se una mano diversa offrisse più cibo, che ne sarebbe del vecchio padrone?”.

Solo dopo qualche minuto realizzò quanto quei ragionamenti fossero disumani: per quanto Ferrante e suo figlio Alfonso avessero i loro contrasti, e le loro abissali differenze, erano pur sempre legati dall’amore che un figlio nutre verso il padre. Anche Carlo amava suo padre, per quanto vi fossero fra loro delle differenze “e mai e poi mai vorrei vederlo morire” pensò con tristezza, mentre delle voci attiravano il suo sguardo in direzione di un vicolo nelle vicinanze del Tempio, a una certa distanza dalle piazze che precedevano il palazzo reale.
«Abbiate pietà! Sono un uomo del Redivivo!» la voce era rotta da un pianto disperato. Carlo si spallò al muro, sbirciando la scena: due uomini tenevano fermo il vicario, mentre un altro con un curioso berretto a tesa larga, con una piuma rossa, si rigirava fra le mani un coltellaccio ricurvo.
«Taci, grassone» berciò l’uomo col cappello, la sua voce era ruvida come un ferro consumato dalla ruggine «dove tieni il denaro?»
«I-io, nella tasca interna d-del saio» balbettò il vicario, con gli occhi e il naso che gocciolavano «prendete ciò che volete, ma lasciatemi vivere».
L’uomo con il coltellaccio cacciò una risata e iniziò a frugare nelle vesti del vicario, cavando fuori un sacco rigonfio «Paga grossa, ragazzi!» esultò il bandito.
«Prendeteli tutti, ve ne prego! Ma lasciatemi vivere, per il Cuore! Per il Cuore del Redivivo!» implorò l’uomo.
«Puoi scommetterci che non ti lasciamo un soldo» replicò, deridendolo «dal tuo dio non ti servirà il becco di un quattrino» avvicinò la faccia a quella del sacerdote, il suo tono sembrò farsi solenne «Manfredi ti manda i suoi saluti».
La lama del coltellaccio aprì la gola da parte a parte e un copioso flusso di sangue si liberò dalle carni, i banditi non si diedero nemmeno il disturbo di aspettare che fosse morto prima di andar via.

Carlo si avvicinò, raccogliendo gli ultimi istanti di vita del vicario. L’uomo grassoccio gli rivolse uno sguardo pietoso, portandosi le mani alla gola, nel vano tentativo di parlare. Carlo incrinò la bocca, disgustato dalla scena e dall’acre odore di merda che riempiva l’aria e i calzoni del Toniacci.
Si chinò sul vicario e parlò sottovoce, perché solo lui potesse sentire
«Anche un passero ha i suoi artigli» sentenziò, prima di sputargli addosso un denso grumo di muco e saliva.
Toniacci strabuzzò gli occhi e fu scosso da un tremore, prima che la morte gelasse l’espressione terrorizzata che gli deformava il volto grassoccio.
“Non saprò mai se ha capito: poco male, non me ne frega poi molto” con il cuore più leggero riprese il cammino verso il Palazzo di Argonia, avvolto ora dalla sera e le sue stelle.
    

    



NdA: Pubblico un po’ prima del previsto perché nei prossimi giorni sarò impegnato e non avrò il tempo per postare. Come promesso il capitolo è più ciccione del solito e bello carico di novità, fra personaggi e relazioni che vengono alla luce. Che ne pensate di quello sciroccato del Re Ferrante? E del misterioso Lucio Manfredi? Pensate che Alfonso stia agendo bene o, come sostiene Carlo, rischia di ficcarsi in grossi pasticci?
E poi vorrei un piccolo consiglio: visto il numero di scene zozze o cruente, sarebbe il caso di alzare il rating o mantengo quello arancione? Fatemi sapere :3

Un abbraccione grande grande
e soprattutto Buon Natale!

Il Signore Oscuro

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Capitolo 10
*** Ospiti Importanti - (Arturo) ***


Capitolo X
Ospiti importanti
(Arturo)
 
 

“Molto si rammaricò il Viandante, che di tutti gli spiriti soltanto Sove avrebbe potuto vedere, quando le stelle fossero state propense, dove erano perduti i fratelli.
Un pensiero oscuro traversò la mente dell’Errante, ma egli non volle dar voce a quelle parole.
Al veloce Hirsh e all’irascibile Volf disse che forse Sove, che più in là d’ogni altro vedeva, era andata alla ricerca della silente Kro e dell’affamato Ber.
E poiché ormai era chiaro che l’Yggdrasil non era più luogo sicuro, il Viandante trovò rifugio per gli spiriti lì dove egli era un tempo nato e vissuto in spoglie mortali: le terre degli uomini. Poiché quale spirito si nasconderebbe mai all’ombra di un uomo?”

Arturo lesse una nota riportata al margine della pagina: nella mitologia Kelta gli dei erano un tempo esseri umani che, guadagnato il favore degli antichi spiriti, avevano ottenuto grande potere e immortalità.

“Credeva così, il Viandante, di poter protegge i suoi amati compagni da qualunque male li andasse minacciando. Presso il villaggio trovarono rifugio, e ben lieti furono gli uomini di offrire riparo a esseri più antichi ancora dei venerati antenati, cui erano dedicate le loro canzoni e le loro danze. Ma Lapaj anche questa volta aveva tessuto i suoi inganni: spinto l’affamato Ber a celarsi nel corpo d’un mortale, poiché nella natura degli spiriti è la facoltà di possedere il corpo degli uomini, entrò in un giovane guerriero umano di nome Karvar e in quelle spoglie catturò e divoro anche il veloce Hirsh: che pur rapido, non corse con sufficiente foga, né così fuggì il suo triste destino”

“La storia si fa interessante”
pensò Arturo, voltando pagina.
Si era sistemato nella sala da pranzo per leggere in santa pace, al momento i servi avevano occupato la sua camera per ripulirla. Ciò che Arturo odiava di più, durante la lettura, era sentire rumori che potessero distogliere la sua attenzione.
Ma proprio quando si apprestava a continuare la porta si aprì di scatto e Miranda entrò con alla mano due rotoli di pergamena e un sacchetto chiuso da una cordicella. Aveva indosso una sobria veste di lino bianco, con ricami verdi sul tronco. Le teneva d’appresso Mowan, con le mani occupate da due imponenti tomi impolverati, e in equilibrio su di essi un calamaio, una penna d’oca, un piccolo stiletto per le incisioni e un piccolo malloppo di fogli di papiro di piccolo formato. La Mogul arricciava il naso infastidita dai batuffoli di polvere che salivano a solleticarle il naso.
Gli occhi verdi di sua sorella strabuzzarono un poco, nel vedere che suo fratello era lì
«Oh, sei qui» notò lei, rivolgendo un’occhiata non proprio entusiasta al libro di Arturo «beh, guarda caso avevo proprio bisogno del tuo aiuto»
«Certo» rispose confuso Arturo, mentre Mowan si sgravava del suo fardello abbandonandolo di malagrazia lì sul tavolo «Dico io, chi diavolo ha bisogno di così tante pagine per disegnare i suoi dannati scarabocchi!»
Con un certo sforzò Arturo tirò a sé uno dei tomi, spostando la polvere dal titolo inciso sulla coperta: si leggeva in chiaro “Casate e dinastie di Clitalia, volume I”. Lo sfogliò brevemente: si trattava di un compendio delle famiglie nobili dell’intero regno. La domanda gli sorse spontanea: “A che le serve un libro del genere?!” e soprattutto “Perché ha bisogno del mio aiuto?”, ma le cose si fecero subito più chiare quando sua sorella srotolò le due  pergamene che portava in grembo: su una c’era raffigurato un ampio rettangolo con rettangoli più piccoli al suo interno; sull’altra una nutrita lista di nomi. Il ragazzo ne sbirciò qualcuno: la calligrafia era quella semplice e spigolosa di suo padre.
«Nostro Padre mi ha fatto mandare un elenco con i nomi degli invitati per le nozze, li ha concordati con Vittorio questa mattina» quando pronunciò il suo nome, la voce della ragazza sembrò alzarsi di un tono e farsi melliflua «In quanto futura sposa spetta a me decidere la disposizione degli invitati ai tavoli. Conosca buona parte di loro, ovviamente, e le famiglie a cui appartengono» civettò soddisfatta «ma non tutte» Arturo alzò gli occhi verso Mowan, le sue labbra erano socchiuse in un sospiro: un’espressione di profonda disperazione le riempiva lo sguardo.
Quando i loro occhi si incrociarono il medesimo pensiero dovette riecheggiare nella loro mente “Che palle”, ma non potevano tirarsi indietro: l’ira di Miranda sarebbe stata funesta e terribile, dunque gambe in spalla si misero al lavoro. I ruoli furono così dispensati: Mowan avrebbe declamato uno ad uno i nomi presenti nella lista; Miranda li avrebbe segnati con una sigla sulle pedine di cera contenute all’interno del sacchetto; mentre Arturo avrebbe provveduto a consultare il compendio per ricercare nomi e casate sui quali sua sorella avesse nutrito qualche dubbio. Bando alle ciance, si misero al lavoro.

I primi nomi erano noti, vassalli degli Argona, parigrado della famiglia Cangramo, conti e contesse visti più e più volte fra le mura di Castel Cangramo.
«Duca Isidoro Biancospino» pronunciò Mowan, imbronciando un poco la bocca. Arturo ricordava quel nome, un tempo la famiglia Cangramo era stata vassalla del duca, prima di emanciparsi ed entrare a servizio diretto degli Argona (di cui lo stesso Biancospino era vassallo). «Biancospino in campo cremisi» ritrovò Arturo sul compendio e Miranda prese a incidere una “D” una “I” e una “B” sulla pedina di cera.
«Contessa Caterina Cornusa» il pollice di Mowan strisciò verso il nome seguente.
«La ultracentenaria signora di Casal-legno» Miranda sbuffò in una risata «sempre se campa fino al giorno delle nozze».
Arturo incurvò un angolo della bocca: era uno di quei rari momenti in cui la vecchia Miranda tornava a farsi vedere. Da quando Vittorio era arrivato a Rocca Grigia sua sorella era cambiata. La sentiva più distante nei suoi riguardi e anche nei confronti di ‘Bastiano. Si chiese da cosa derivasse quel mutamento nella sua persona, se anche da sposata sarebbe stata così o se era qualcosa di momentaneo, o ancora se sarebbe peggiorata con lo scorrere del tempo.
Il primo giorno, quando ‘Bastiano era tornato dalla caccia, non gli aveva parlato per giorni interi per chissà quale ragione, subito dopo la sua rabbia l’aveva rivolta a Mowan, urlandole addosso perché non aveva perso tempo a rimettere i suoi ‘abiti da soldato’ come Miranda li chiamava.
L’unica con cui si mostrava ancora gentile era Vittorio. Per carità, Arturo non aveva nulla contro di lui, anzi, gli stava persino simpatico. Ma iniziava davvero a pensare che il mercante avesse stregato sua sorella con qualche maleficio appreso durante i suoi viaggi nelle Terre Orientali.

«Baronessa Isabella Niverna»
Arturo si ridestò come da un sogno e andò a cercare il nome fra le pagine del tomo, «Cristallo di neve in campo azzurro a fasce bianche».
 
Miranda corrugò le labbra «Ora mi ricordo: una donna di bell’aspetto ma frigida e fredda come il suo stemma» anche nel ragazzo la memoria ritornò: si diceva che la baronessa fosse così dura e severa che persino l’inverno temesse di avvicinarsi a lei. Secondo la leggenda era per questo che nel Picco Turchese la primavera pareva essere presente tutto l’anno.
«Barone Sebastiano Cinghiatauro?» chiese Mowan, insicura.
«Uhm, lui non so proprio chi sia» denegò con il capo Miranda.
«È stato il testimone di nozze di nostro padre» disse Arturo «erano molto amici ai tempi della prima Orda» senza che il ragazzo lo volesse gli occhi caddero sulla giovane Mogul.
Gli occhi a mandorla di Mowan si illuminarono
«Ah, sì, me lo ricordo. Il ciccione a cui a stento entrava l’armatura» Arturo scoppiò a ridere mentre Miranda le lanciava un’occhiata severa, non riuscendo però a trattenersi da un sorriso anche lei.
«Vedi di non ripetere certe osservazioni durante il matrimonio, o al posto di un banchetto nuziale avremo un duello all’ultimo sangue»
Mowan sbuffò, sollevando un sopracciglio «Lo infilzo quanto mi pare un porcello come quello» grugnì sgraziatamente, arricciando il naso tondeggiante. Lo sguardo di Miranda si addolcì, ma le fece cenno di continuare il lavoro.

La faccenda proseguì per una buona mezz’ora. A furia di sfogliare e risfogliare pagine e pagine Arturo cominciava a smascellare la bocca per la noia e gli sbadigli, piccole lacrime gli scesero lungo gli zigomi. “Quando finisce questo strazio?”.
Ma fu proprio allora che un nome riaccese tutto il suo interesse e scacciò via l’intorpidimento che si era insinuato dolcemente dentro di lui.
«Stepanus Orimberga» disse Mowan, con pronuncia incerta.
«Si legge ‘Stefanus’. “P” e “H” danno f» la corresse Miranda.
La giovane Mogul roteo gli occhi verso l’alto
«Stephanus Orimberga, va bene?»
Arturo strabuzzò gli occhi nel sentire quel nome «Orimberga?!» per poco non aveva urlato.
«Esatto» rispose impettita sua sorella «proprio quello Stephanus, il Principe Ereditario di Arcadia! È il protettore di Vittorio, sai».
“Come può un principe esporsi così tanto per un semplice mercante?”
pensò Arturo, confuso “Eppure avrei dovuto immaginarlo, i pretoriani non si mettono al servizio del primo che capita”. Il ragazzo sapeva che essi erano sotto il diretto comando di Raminus Orimberga, l’Alto Sacerdote del Culto, e fratello di Magnus Orimberga, padre di Stephanus e Re fra i pari in Arcadia. Ma c’era qualcos’altro che sfuggiva alla sua comprensione: perché suo padre aveva invitato un esponente della famiglia reale alle nozze di sua figlia? “Da che ricordo nostro padre li ha sempre detestati, e non ha mai riposto nei loro riguardi più fiducia di quanta ne riponesse in un nemico” forse era stato Vittorio Belgi a convincerlo, del resto parte degli invitati erano legati a lui…

Innumerevoli nomi e sfogliate dopo, sdruccioli di cera coprivano ormai il tavolo da pranzo. Agli occhi di Arturo quei brandelli sembravano pezzettini di pelle morta: ne prese uno fra le dita, sgranandolo fra i polpastrelli. Mowan richiudeva il rotolo di pergamena con un sospiro di sollievo “Povera Mowan, non sa che non siamo neanche a un terzo del lavoro”. Fu allora che dalle finestra della sala da pranzo provenne un battito d’ali seguito da un isterico tubare, una piuma bianca scivolò sul pavimento, cullata da una qualche forza invisibile. Arturo si voltò di scatto e notò una colomba dal colore niveo con una piuma dipinta d’azzurro. Alla sua zampa sinistra era lato un piccolo rotolino di papiro.
«Scommettiamo che la becco anche da seduta?» ghignò la Mogul, mettendo mano al suo arco.
«Ferma! Ferma!» pigolò Miranda «Non vedi che è una colomba?»
«E quindi? Non è niente di più, niente di meno che uno schifoso piccione scolorito»
rispose lei, facendo spallucce.
«Quindi» scandì Miranda «colomba sta a significare ‘buone notizie’. È un messaggio che porta buone notizie».
«Ora capisco perché se ne vedono così poche di colombe qui in giro»
constatò la Mogul, riponendo con delusione l’arco. Arturo sorrise alla battuta, mentre Miranda rimaneva seria, incrociando le braccia davanti al petto «Beh, che cosa dice?».
Il ragazzo cacciò un sospiro e, alzatosi in piedi, si avvicinò. Il colombo lo squadrò con un occhio scuro, inclinando il capo. Arturo lasciò che si appollaiasse sul braccio e sfilò rotolino.
Una strana sensazione di frescura gli sfiorò la pelle «Ma che razza di bas-» berciò il ragazzo, cacciandosi via il pennuto dal braccio con un gesto brusco «Mi ha cagato sulla manica» si tolse quella melma bianca con un fazzoletto di stoffa riposto nella tasca e dopo aver imprecato ancora un poco contro l’uccellaccio, tornò a concentrarsi sul messaggio.
Il sigillo in ceralacca azzurra riportava un piccolo passerotto, Arturo alzò gli occhi verso Miranda e Mowan. La prima teneva le mani poggiate sul tavolo, mentre l’altra le stringeva intorno alla bocca, sussultando un poco.
Dopo un cenno del capo il ragazzo si decise a spezzare il sigillo e aprire il messaggio: la grafia era incerta e tremante, con ghirigori e svolazzi sgraziati; c’erano errori di ortografia: un paio di doppie saltate e qualche apostrofo mancato, ma nel complesso nulla che rendesse troppo tediosa la lettura.
«Allora?!» incitò sua sorella, corrugando le sopracciglia.
«S-si tratta di Carlo…» pronunciò dapprima a bassa voce, poi il volume si alzò d’improvviso «Carlo è diventato cavaliere!» un sorriso bianco illuminò il viso di sua sorella.
«Bene, porta il messaggio a nostro padre, sarà felice di saperlo. Lo troverai nella camera del Consiglio di Guerra»
“Sì, ma perché devo farlo io?”
pensò Arturo, mentre un nodo prendeva a torcergli la gola. L’entusiasmo di poco prima sostituito da un peso che andava a piazzarsi al centro del suo petto. Arturo guardò con orrore ai brandelli di ceralacca che ancora rimanevano nei suoi palmi: aveva rotto il sigillo reale senza autorizzazione, “Il Conte ne sarà contrariato.
Ma non fu solo la voce della paura a parlargli dentro, c’era un tono più cupo, fermo, deciso “È solo tuo padre, di cosa ti preoccupi?” strinse la mano intorno al rotolo di carta, “Hai ragione… non sono debole, non sono uno stupido ragazzino!”

Arturo fece un cenno d’assenso e si avviò fuori dalla sala da pranzo, nel frattempo la voce di sua sorella si faceva più lontana «Bene, Mowan prendi penna e calamaio…».

La Camera del Consiglio di Guerra di Castel Cangramo era un androne a pianta quadrata situato al piano terra della struttura. Le pareti di nuda roccia presentavano una torcia su ciascun lato. Al centro della stanza un disco di pietra, incastrato in un ceppo che fungeva da base, faceva da tavolo per le mappe e i piani di guerra. Era una camera ristretta, in cui ci potevano stare comodamente al massimo cinque persone. Non c’era mobilio, se non una piccola teca in cui erano disposti rotoli di pergamene e schiere di piccoli soldatini di legno intagliato, tinti con differenti colori.
Arturo ricordava che quand’era più piccolo e, ancora oggi, in tempi di guerra, la stanza veniva chiusa a chiave, anche se non c’era nessuno al suo interno. Le sedie disposte intorno al tavolo era robuste ma spoglie di qualsivoglia decorazione o imbottitura.
Il ragazzo scivolò attraverso la porta socchiusa: sul tavolo c’era un calamaio e due boccette: l’una con una penna d’oca con la punta incrostata d’inchiostro e l’altra con granelli di sabbia che baluginavano alla luce delle torce.

Vittorio Belgi quella mattina indossava una tunica di un pallido azzurro, con i risvolti d’argento lungo il colletto, i suoi calzoni sembravano esser stati cuciti con le squame di un coccodrillo nero, e scendevano fin nelle scarpe di camoscio, con morbide punte all’insù. La casacca di Severo era invece di un blando grigio topo e sotto indossava pantaloni di cuoio bruno inforcati negli stivali. Dalla cintura pendeva la spada bastarda dal pomo tondo.
Arturo si ritrovò a fissare l’elsa avvolta di garze scure, immaginando di stringerla fra le mani. Ma non le sue mani, no, bensì mani forti e temprate di calli: si figurò il peso e il bilanciamento nella stoccata o mentre mulinava un fendente.
«Arturo» lo richiamò suo padre, scuotendolo dai suoi sogni ad occhi aperti.
Il mercante rivolgeva al ragazzo un’espressione di incoraggiamento, se ne sentì rincuorato
«È arrivata una lettera da Argonia, riguarda Carlo» gli porse il rotolino e Severo lo prese con uno sguardo accigliato, ma senza commentare.
I suoi occhi si avventurarono fra le righe, la bocca si distendeva progressivamente in un mesto sorriso… eppure talvolta le sopracciglia del Conte si incurvavano verso il basso, come se piccole fitte di dolore gli pizzicassero il viso.
Erano sguardi di un momento, che sarebbero passati inosservati a un osservatore poco attento, ma che ad Arturo non sfuggirono.

Nella mente del giovane Cangramo si rievocarono immagini lontane: ricordi dai contorni sfumati e ridefiniti con uno sforzo di immaginazione, a colmarne vuoti e imprecisioni. Era intento a giocare con dei soldati di legno alla luce del camino, mentre Severo discuteva con il precettore.
Al tempo il suo insegnante era il monaco Calenda, un uomo del Culto proveniente dal monastero Dido, ad alcuni chilometri dal Monsiderio.
Un uomo che Arturo aveva sempre trovato detestabile: ricordava che si era opposto quando gli era stato chiesto di istruire Miranda, aveva detto qualcosa come “È contro il volere del Redivivo che una donna apprenda l’arte della scrittura. Le femmine hanno animo debole e mente volubile, con simili distrazioni come potrà occuparsi del focolare domestico?” e il Conte aveva dovuto pagarlo lautamente perché ci passasse sopra, e adesso si andava lamentando anche di Carlo, suo fratello maggiore.
«Vostro figlio non imparerà mai,» aveva detto con aria grave «durante le mie lezione è sempre svogliato e scontroso» i pugni stretti ai lati del bacino e il muso proteso in avanti «Ho il forte timore che sia irrimediabilmente stupido, mio signore».
Arturo rammentava ancora il viso di suo padre che si tendeva in una smorfia, la mascella serrata e la mano guantata che si slanciava in un unico gesto. Il rumore secco che ne era seguito aveva fatto precipitare il soldatino di legno di Arturo giù dalla mano che lo stringeva.
Calenda adesso si teneva la guancia gonfia e arrosata, mentre gli occhi si bagnavano di lacrime; la bocca che tremolava cercando di cavar fuori qualche suono.
«Nessuno, e ripeto, nessuno insulta i miei figli! Sono stato chiaro?!» Arturo aveva iniziato a tremare per lo spavento: la voce di suo padre era imperiosa e tonante come non lo era mai stata «I vostri servizi non sono più richiesti, Calenda. Tornatevene in quel tugurio che vi ha sputato fuori!».
Calenda indietreggiò di qualche passo.
«Ora!» urlò il Conte, prima che il monaco sparisse dalla circolazione, correndo via a gambe levate.
Severo sospirò.
Da che Arturo ne aveva memoria non gli era mai capitato di vedere una simile furia negli occhi di suo padre, né aveva mai udito la sua voce alzarsi oltre un certo tono: sapeva essere freddo, ma i momenti di rabbia erano molto rari. Parimenti non ricordava molti gesti d’affetto da parte sua, ma quella volta, dopo essere rimasto per un poco a fissare il fuoco, si era chinato su di lui e gli aveva baciato la fronte, stringendolo forte a sé. Il calore che Arturo aveva trovato, fra quelle braccia, faceva sembrare il fuoco un timido sole d’inverno.
Quando l’abbraccio fu sciolto, gli sussurrò soltanto
«È tardi Arturo, vai a dormire»
«Padre?»
aveva chiesto preoccupato, mentre lo guardava allontanarsi.

Quel ricordo sfumava, un altro prendeva vita: immagini spiate attraverso lo spiraglio di una porta. La voce di Carlo proseguiva meccanicamente, il suo dito seguiva le parole vergate su un tomo rilegato.
Lo sguardo di suo fratello era fisso sul libro, la fronte contratta da uno sforzo che sembrava disumano.
Severo assisteva a quella scena, proteso verso suo figlio, con il viso denso di apprensione.
«Col-lina» continuò Carlo, alzando gli occhi verso il Conte. Il suo sguardo tremava.
«Continua» gli ingiunse Severo, la voce ridotta a un filo.

«Molto bene» le parole di suo padre lo riportarono al presente «a quanto pare Carlo è stato appena investito cavaliere dal Principe Alfonso per meriti in battaglia»
«Le mie congratulazioni»
asserì il mercante, calcando la spalla del Conte con una mano «sono impaziente di fargli i miei auguri, quando lo incontrerò alle nozze».
Severo rispose con un cenno del capo, prima di rivolgersi a suo figlio «Arturo, tua sorella a che punto è con la disposizione dei tavoli?»
Arturo si irrigidì lì sul posto «Abbiamo controllato rango e dinastia di ciascuno degli invitati, quando sono venuto a portare il messaggio stava iniziando a scrivere gli inviti».
«Allora ci vorrà ancora qualche tempo. Molto bene.»
asserì il Conte «Vittorio, informala che il tutto sia portato nelle mie stanze una volta finito. Adesso devo scrivere una risposta a mio figlio e i miei più sentiti ringraziamenti al Re Ferrante e a suo figlio il Principe» disse, alzando la mano che ancora stringeva il rotolo «e tu» continuò, rivolto ad Arturo «è giunta l’ora del tuo allenamento o sbaglio?»
«Sì, padre»
ammise il ragazzo, abbassando lo sguardo.
Severo mugugnò un assenso e uscì dalla stanza, a passo svelto. Arturo lasciò andare il fiato, come se fino ad allora avesse trattenuto il respiro. Le sue spalle cedettero, rilassandosi.
«Vedo che il tuo braccio sta molto meglio»
Già da alcuni giorni il guaritore di Castel Cangramo aveva rimosso le fasciature, il dolore era ormai quasi del tutto svanito. Solo a toccare la macchia giallastro-violacea sentiva un po’ di fastidio, ma ancora qualche giorno e anche gli ultimi residui del livido sarebbero svaniti.
«Sto molto meglio, Vittorio. Ti ringrazio» rispose Arturo, piegando l’arto per dimostrare che era pienamente funzionante.

I due si avviarono insieme fuori dalla stanza, bloccandosi in corrispondenza delle scale, dove si sarebbero divisi.
«Ti auguro buon allenamento Arturo. Sono certo che ti farai valere» lo incoraggiò con un sorriso, facendo per salire i primi gradini.
«Vittorio…» esclamò il giovane.
«Sì?» chiese lui, con un piede su un gradino e uno su quello a seguire.
«Toglimi una curiosità, perché stilavate la lista degli invitati nella camera del Consiglio di Guerra?» domandò il Cangramo, perplesso da una simile scelta.
Il mercante scoppiò a ridere, mostrando la trafila di denti bianchissimi.
E denegando col capo rispose
«Oh, Arturo, quando sari più grande capirai. Te lo assicuro!»




NdA: Je sais, je sais, capitolo un po' pacco, neanche a me piace particolarmente ma vi assicuro che ci rifaremo con il prossimo. Intanto prepariamo il terreno per uno degli eventi che sarà fra i più importanti dell'intera storia: Il Matrimonio di Miranda. Proprio come in qualsiasi matrimonio contemporaneo ci sono inviti da recapitare e tavoli di cui decidere la composizione. Ma direi che quest'ultimo punto ha una sua importanza quando si tratta di una famiglia nobile, vediamo se qualcuno indovina il perchè :D
Cosa ne pensate di Miranda? Credete anche voi che si sia lasciata 'stregare' dal Belgi? Come avrà fatto il nostro mercante a trovarsi amici tanto potenti? E riguardo Severo? Vi aspettavate che fosse un padre così protettivo nei riguardi dei propri figli?
Per oggi chiudiamo qui, il 31 o forse il primo dell'anno arriverà l'XI capitolo con 'Bastiano come POV

A tutti coloro che mi seguono e mi recensiscono,
un abbraccio
Il Signore Oscuro

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Capitolo 11
*** Il lupo dentro - (Sebastiano) ***


CAPITOLO XI
Il lupo dentro
(Sebastiano)
 
 

“Vedi tu se devo sorbirmi i capricci di una ragazzina” pensò ‘Bastiano, irritato: erano giorni che Miranda non gli rivolgeva la parola dopo che Vittorio era rimasto ferito nel corso della caccia “come se adesso la colpa fosse mia”. Il ragazzo poteva sentirsi colpevole per i pericoli corsi dal padre, non certo per un’iniziativa, per quanto nobile, del mercante.
Era una fortuna che Mastro Villa avesse accettato di buon grado di farsi assistere nell’addestramento delle reclute.
“Gonfiare un paio di questi mocciosi mi aiuterà a distrarmi” gongolò il Cangramo, mentre il pescatore del Volga gli veniva incontro con la spada smussata: il ragazzo muoveva un passo, per poi rimangiarselo subito dopo. La spada che stringeva in pugno sembrava essere nelle mani di un vecchio malfermo.
«Per i sette inferi! Vuoi attaccare o devo mandarti una richiesta per iscritto?!»
Quello tremò un attimo, sbarrando gli occhi. Poi finalmente fece un cenno d’assenso, e si arrischiò in un fendente. ‘Bastiano parò il colpo e lo colpì a su volta con una testata.
Dei passi scalpicciarono alle sue spalle, era il turno del ragazzo di Valspurga: afferrò il giovane dagli occhi glauchi e lo mandò a terra con una presa del braccio. Il suo corpo era leggero come una foglia fra le sue braccia.
‘Bastano lanciò un ghigno divertito a entrambe le reclute, mentre si tiravano in piedi facendo forza sui palmi.

La chiamavano “Mischia dell’orso”, uno stile di combattimento adoperato da chi era dotato di grande prestanza fisica: basato su una difesa aggressiva, che puntava ad annientare l’avversario nel minor tempo possibile, una piccola chicca offerta da Mastro Villa in persona.
La maggior parte dei soldati apprendeva schemi base di attacco e difesa, sempre a metà strada fra la tecnica e l’istinto. I cosidetti stili del combattimento ferino erano a solo appannaggio dei nobili e degli spadaccini più dotati.
«Di nuovo! Attaccate insieme stavolta!» ordinò ‘Bastiano, riassumendo la posizione di guardia: gambe leggermente piegate e punta della spada rivolta di fronte a sé.
I due si rialzarono a fatica: il ragazza del Volga berciò qualche imprecazione, mentre il tipo di Valspurga squittiva, tenendosi il fianco.
«Vedi di non intralciarmi, stupido!» sbraitò il primo, lanciandosi in una carica spericolata.
«Aspetta!» lo avvertì l’altro, cercando di far la voce più grave di quanto in realtà non fosse, seguendolo d’appresso. ‘Bastiano deviò il fendente e spinse via il giovane del Volga contro il suo compare, mandandoli entrambi a ruzzolare nella sabbia.

‘Bastiano scoppiò in una risata, adagiando la spada sulla spalla destra e denegando energicamente col capo
«In battaglia sarete l’uno di fianco all’altro» la sua espressione si fece seria «non sopravvivrete se non imparate a collaborare l’uno con l’altro» li rimproverò.
«Io, collaborare con questa mezza calzetta?!» berciò quello del Volga, battendosi via la polvere dalla casacca di allenamento.
«Dimmi» intervenne Mastro Villa «preferisci per caso ripulire le latrine con la lingua, per imparare a tenerla a freno?» le parole di Riccardo bastarono ad estinguere i bollenti spiriti del soldato, che prese a guardarsi la punta dei piedi, intimorito tutto a un tratto.
‘Bastiano scambiò un’occhiata con il suo maestro: quegli occhi grigi, freddi e duri, sembravano parlargli ad alta voce “Ci vuole polso per tenere in riga gli uomini. Ora mi è chiaro perché non fa altro che sbraitare per la maggior parte del tempo”. In battaglia forse le cose non sarebbero state diverse, forse gli uomini avrebbero dovuto avere più paura di lui che del nemico, quando, con il benestare del Conte, avesse finalmente guidato un esercito.
Eppure nella paura ci aveva sempre creduto poco, bisognava piuttosto dare l’esempio, proprio come diceva suo padre Severo “Se non sei pronto a morire accanto a loro, come puoi aspettarti che loro muoiano per te?” ma c’erano grandi generali che in battaglia non ci scendevano mai. Non era per codardia, ma per esigenze strategiche: come poteva un uomo al centro della mischia indirizzare centinaia di soldati? Era necessario avere una visuale chiara del territorio. E come si poteva averla, se non guardando il campo di battaglia da lontano?
Il Conte era sempre sceso in guerra insieme con i suoi uomini, lottando fianco a fianco con loro, mettendo a repentaglio la sua stessa vita. ‘Bastiano sorrise amaramente pensando al padre: ultimamente non avevano avuto molte occasioni per parlare, il Conte era impegnato con il matrimonio di Miranda: la celebrazione sarebbe avvenuta nei primi giorni di primavera, non appena fosse passato l’Inverno.
Suo padre non ce l’aveva più con lui per quanto era successo nella Selva Scura, eppure il giovane Cangramo sentiva ancora il bisogno di redimersi ai suoi occhi, anche se non sapeva come…

Nel frattempo, all’interno del recinto faceva capolino Arturo. Indossava le protezioni di cuoio bollito che erano state di suo fratello Carlo, una lama era stata adattata al suo braccio e alla sua statura.
I due fratelli si scambiarono un’occhiata, mentre andava incontro a Mastro Villa
«Sei in ritardo»
constatò il vecchio bisbetico, staccando lo sguardo da uno scambio furioso di fendenti fra le guardie personali del Conte.
«Chiedo perdono, Maestro» rispose Arturo, massaggiandosi un braccio con la mano libera «ho dovuto sbrigare alcune commissioni per conto di mio padre»
Prima che il Villa potesse rispondergli fu ‘Bastiano a intervenire
«Maestro, se mi è concesso: vorrei occuparmi io della lezione del mio fratellino, quest’oggi».
Il Villa lo fulminò, una smorfia gli tendeva le labbra «È a me che tuo padre ha affidato il ragazzo» rispose laconico.
“Teme forse che non ci vada abbastanza pesante con lui?”
«Fa’ conto che io sia un’emanazione della tua persona»
rispose con un sogghigno, incrociando le braccia dinanzi al petto.
«Non tediarmi con i tuoi discorsi da filosofo» il Villa alzò le braccia corpulente «fa’ quel che ti pare, ma se il Conte dovesse-»
«Mi assumerò personalmente la responsabilità dell’accaduto»
lo rassicurò ‘Bastiano, con un sorriso che voleva essere rassicurante.

Le sopracciglia di Arturo si distesero e le labbra ebbero pace dal tormento dei suoi denti. I due Cangramo si allontanarono di qualche metro dal resto dei soldati, spade alla mano. Mentre le reclute si riunivano ai loro pari.
«Perché questa cosa?» chiese sottovoce Arturo, alzando blandamente la sua guardia.
«Sistema la tua difesa» ingiunse ‘Bastiano, ignorando la domanda «piedi sulla stessa linea: concedi il minor spazio possibile da colpire. Guardia più alta e la punta della spada rivolta verso di me… no, non così tanto» continuò, mentre Arturo faceva del suo meglio per stare alle indicazioni del fratello maggiore.
«Così?» chiese, con fare incerto.
‘Bastiano provò a sferrare un fendente, Arturo riuscì a pararlo senza difficoltà.
Il giovane sorrise «Sì, così» poi continuò «Riccardo è un buon maestro, ma ha l’assurda pretesa che chiunque possa competere con la sua forza e la sua mole, anche un nanerottolo come te»
«Ehi! Io non son-»
«La stessa pretesa aveva con Carlo»
lo interruppe «e logicamente era un massacro ad ogni sessione»
«Oh,»
Arturo sbarrò gli occhi «non l’avrei mai detto»
«Era più esile di te alla tua età»
gli assicurò ‘Bastiano, con una velo di nostalgia nella voce «ma una sera io e lui ci ingegnammo per trovare una soluzione al problema. Dimmi, hai mai visto combattere nostro padre?» gli chiese.
«Certo» replicò Arturo, facendo spallucce.
«E l’hai osservato? Cosa fa? Come si muove?»
Arturo arrossì «Ecco…»
«Nostro padre si muove attorno all’avversario, lo studia e lo incalza. E quando l’avversario attacca»
ghignò «lui lo fa a pezzi»
«Woh»
replicò Arturo, ammirato.
«Devi sapere che lui utilizza uno stile misto fra la “Mischia dell’orso” e l’ “Agguato del lupo”. Fu su quest’ultimo che io e Carlo ci concentrammo: in breve imparò a sfruttare la propria agilità e a tenere testa a quel vecchio bisonte» concluse, facendo un cenno verso il Villa.
«Voglio imparare anch’io!» esclamò Arturo, con i riccioli che gli tremavano sul capo, tanto era impaziente.
«Imparerai» gli assicurò, mettendosi in guardia «Ma prima legati quei capelli, che non ti cadano sugli occhi».
Arturo obbedì, domandoli con un laccetto di cuoio. Dopodiché l’allenamento ebbe inizio.

«Sei secco come un fuscello, fratellino: devi muoverti se non vuoi che ti spezzino» Arturo fece del suo meglio per seguire le sue istruzioni, senza perdere il contatto visivo «rimani sempre di profilo, bravo, così. Ora, attacca!»
Si protese in un fendente, ‘Bastiano lo deviò inclinando la guardia «L’agguato del lupo predilige gli affondi: punta agli organi vitali»
Arturo indietreggiò e gli rivolse un cenno d’assenso: i suoi occhi erano adombrati dalle sopracciglia incurvate, la fronte lievemente corrugata, le nocche bianche per la presa salda.
“Ha lo sguardo del lupo negli occhi”.
Quando cercò l’affondo il suo corpo seguì il colpo, diretto al cuore. ‘Bastiano lo parò e lo respinse indietro «Attento a non sbilanciarti» lo ammonì «quando non puoi affondare, procedi con fendenti diretti ai fianchi, mai alti. Non hai abbastanza forza per spezzare la guardia. Bracca l’avversario, mettilo in tensione» le lame cozzarono, l’una contro l’altra, la voce di ‘Bastiano si fece concitata «attacca e continua ad attaccare! Fino a quando non si crea un’apertura nella sua difesa e, infine, quando la breccia è aperta» la punta della lama smussata fu all’altezza della sua gola, ‘Bastiano sorrise, fiero di suo fratello «finiscilo.»
Arturo abbassò la spada, mentre gli angoli delle labbra si sollevavano
«Grazie, fratellone»
«E di cosa?»
rispose, scompigliandoli i capelli «ricorda che in te c’è il sangue dei Cangramo» la sua espressione si fece seria, il sorriso di Arturo si spense, mentre il busto si irrigidiva «e ogni Cangramo ha un lupo dentro: lascialo ululare» gli pungolò il petto con l’indice.
Persino gli occhi di Mastro Villa, freddi e duri come scaglie di ghiaccio, si addolcirono impercettibilmente dinanzi a quella scena. ‘Bastiano si chiese se il vecchio bisonte stesse riconsiderando le sue idee sul piccolo della cucciolata come l’aveva chiamato lui.
“Sei forte fratellino, vedrai che un giorno lo capirai anche tu” pensò, mentre muoveva qualche passo indietro
«Continuiamo» rialzò la lama «stavolta voglio vedere movimenti più rapidi e nessuna apertura nella guardia»
«Vedrò di non farti male, fratellone»
replicò Arturo, inarcando un sopracciglio

I fili delle spade grattarono l’uno contro l’altro, in un fiotto di scintille estinto contro la sabbia del campo. I fratelli disimpegnarono le lame, con una agile balzo indietro. Poi ritornarono a scambiarsi fendenti, affondi e parate sempre più veloci, sempre più energici. Poi nuovamente si distaccarono.
Il respiro di Arturo s’era fatto corto e il sudore gli impiastricciava ciocche di capelli scuri contro la fronte. Goccioline salate s’erano raccolte anche nelle sopracciglia di ‘Bastiano, e di tanto in tanto scendevano a pizzicargli gli occhi. Quando abbassò la lama, asciugò il sudore con il dorso della mano libera e sospirò, riavendosi dalla vista annebbiata
«Credo che per oggi possa bastare, fratellino»
Arturo non poté essere più d’accordo «Mi fanno male parti del corpo che non sapevo neanche di avere» replicò, alzando lo sguardo. I due gettarono in terra le spade da allenamento, in un’occhiata di intesa.
«Hai visto che sai combattere?» lo strinse a sé, mentre si spallava alla staccionata «hai solo bisogno di credere in te stesso»
Arturo sorrise, ma senza che l’espressione della sua bocca fosse accompagnata da quella che adombrava i suoi occhi «Il fatto è che nel mentre mi ritrovo a pensare a cosa dovrei o non dovrei fare, ma nel frattempo ho già perso l’occasione di farlo»
«Rifletti sempre prima di agire»
lo rincuorò «e questa è una dote che ti rende migliore degli altri sotto tanti aspetti, ma quando combatti ricorda che pensiero e azione devono andare all’unisono. Devono essere un’unica cosa» si schiarì la voce «è come quando giaci con una donna: lei non può certo starti ad aspettare, mentre pensi al modo migliore in cui soddisfarla. Ti ci butti, magari rischiando un po’»
Arturo arrossì al riferimento, guardando in terra.
“Va bene, non era esattamente l’esempio più calzante” pensò ‘Bastiano, imbarazzato  “è ancora troppo giovane per certe cose”.
«C-comunque capisco quello che vuoi dire»
balbettò Arturo, rialzando lo sguardo al fratello.
«Sì, devi essere sicuro. Proprio come oggi sei stato con me, senza timore» gli assestò un debole pugno sulla spalla «adesso andiamo a darci una ripulita»
Con un cenno della mano si congedarono da Mastro Villa. L’attempato Maestro d’armi li notò a malapena, tanto era concentrato a guidare i soldati negli allenamenti. Si diressero verso il Castello, scambiandosi chiacchiere e commenti su quanto era avvenuto quel giorno, quando una delle sentinelle di guardia ai cancelli venne loro incontro
«M-mio signore» disse, correndo con il fiatone a fiaccargli la voce. Il suo sguardo incontrò quello di Arturo, sbarrò un attimo gli occhi e si affrettò a correggersi «’miei signori’! Il Potestà Capetingi è alle porte della città e richiede urgente udienza presso vostro padre»
I due fratelli si scambiarono un’occhiata allarmata «Mio padre il Conte è al momento occupato, gli daremo noi udienza» replicò ‘Bastiano «Fai strada, soldato»
Quello rimase imbambolato per un poco, indeciso sul da farsi. Ma infine rivolse loro un cenno del capo e ritornò sui suoi passi.
‘Bastiano e Arturo lo seguirono, tenendosi a qualche metro di distanza
«Di cosa si tratta secondo te?» chiese il ragazzino, stringendo ritmicamente la mano affaticata in un pugno.
«Se Capetingi si è dato il disturbo di venire fin qui si tratterà di qualcosa di grave, altrimenti avrebbe mandato un messaggero» ragionò con voce grave, per poi alzare gli occhi al cielo terso: ancora qualche tempo e le giornate avrebbero preso ad accorciarsi. L’autunno si avvicinava.
Arturo avanzava zoppicando leggermente, si mordeva l’interno della bocca, rimestandosi nella testa chissà quali parole “C’è qualcosa che lo preoccupa…”.
Giunti infine ai cancelli di ferro battuto che delimitavano l’ingresso alla Rocca Grigia, ‘Bastiano vide accanto ad alcune sentinelle di guardia  un signorotto dalla vistosa pappagorgia, appena celata da un velo di castana barba ispida, e una coppia di occhi porcini incastonati ai lati di un naso tondeggiante. Sul ventre, avvolto da un farsetto di velluto marrone, era legata una daga in un fodero di legno recante delle iscrizioni. Dalla cintura pendeva un martelletto di ferro, alla cui estremità la piccola testa aveva la forma di un cane lupo con la bocca spalancata, dalle sue fauci sporgeva il timpano per la battitura.

A ‘Bastiano ritornò alla mente la prima volta che era stato a Valspurga, dieci anni prima. Suo padre gli aveva detto “Un Conte deve conoscere le terre su cui si estende il suo dominio”. Ricordava l’impressione che gli aveva fatto il Capetingi la prima volta che l’aveva veduto: mai visto un uomo così grasso in tutta la sua vita.
«Perché un uomo tanto grande porta armi così piccole?» aveva chiesto a suo padre, con la voce ridotta a un filo. Lui gli aveva sorriso con condiscendenza.
«Quelle non sono armi, figlio mio» aveva risposto «cosa possono essere, secondo te? Ragiona».
Lui l’aveva guardato con uno sguardo vacuo, senza capire. Troppo confuso anche solo per provare a dare una risposta. Alla fine suo padre aveva ceduto
«Sono simboli, ‘Bastiano. Un uomo comune ha giurisdizione unicamente sulla sua terra, un uomo comune non può esercitare il proprio potere su altri uomini. Quello è un privilegio e un fardello riservato a chi ha sangue nobile che scorre nelle vene. Quindi, come può un uomo comune, come il Potestà Capetingi, guidare la milizia di Valspurga e amministrare la giustizia?» le cose avevano iniziato a farsi più chiare nella mente di ‘Bastiano.
«Perché tu gli hai dato il permesso» aveva proposto.
Il sorriso di suo padre gli aveva suggerito che la risposta era corretta, se ne era sentito rassicurato «Esatto».
Indicandogli la daga del Potestà con un dito, aveva spiegato
«Quella dice a chi lo incontra “Io ho il permesso del Conte di guidare in battaglia i soldati della milizia di Valspurga”. Mentre il martello dice “Io posso giudicare, se vi sono le prove, che un uomo è colpevole o meno del crimine di cui lo si accusa e, in base alle leggi, posso scegliere la pena più adatta”»
Quella risposta aveva lasciato ‘Bastiano interdetto «Ma se queste sono le tue terre, perché non te ne occupi tu, padre?»
«’Bastiano, dimmi, noi dove viviamo?»
«Nella Rocca Grigia»
aveva replicato, facendo spallucce.
«E dimmi, un uomo può essere in più luoghi contemporaneamente?» gli aveva chiesto, inarcando un sopracciglio.
Lui ci aveva pensato un poco e poi aveva denegato col capo
«Esatto, se un uomo non può essere in più luoghi contemporaneamente non può che affidarsi ad altri uomini. Uomini di cui si fida. Perché venga fatto ciò che è necessario fare»

Era stata solo la prima delle tante lezioni su come funzionasse il rapporto fra un feudatario e i suoi vassalli, e su quanto questa scala fosse ampia, risalendo dall’ultimo dei baroni fino ai grandi Re di Clitalia. Lezioni che col tempo 'Bastiano aveva appreso, pur non senza difficoltà.
Capetingi, comunque, non era solo lì al cancello: al suo fianco spiccava un uomo alto, con capelli biondo sporco, lasciati fluire lisci lungo la schiena, se non per sporadiche treccine chiuse da fascette di cuoio. Il petto nudo era costellato di cicatrici, una delle quali percorreva il capezzolo sinistro.
La sua spalla destra era cinta da una coppa di ferro battuto, foderata in cuoio borchiato e le braccia erano protette da lunghi guanti che lasciavano scoperte le dita, giungendo fino ai gomiti, mentre sul dorso scintillavano lamine di acciaio sovrapposte. Al fianco pendeva un pugnale dal filo ricurvo.
Per poco ad Arturo non cadde la mascella quando lo vide, ‘Bastiano gli rivolse un’occhiata in tralice: il suo fratellino era sempre rimasto affascinato dai Kelta e conosceva a menadito gran parte delle loro leggende e dei loro costumi, una passione in comune con suo padre Severo.
Quando li videro arrivare, il Potestà si prostrò in un profondo inchino, reso buffo e sgraziato dalla mole, mentre il Kelta si limitò a un cenno del capo.
«M-miei signori» esclamò Capetingi, risollevandosi a fatica, con il viso rosso per lo sforzo «l’estate volge ormai al termine e cattive nuove vengono da ovest-»
il Kelta intervenne, smorzando ogni giro di parole: l’accento era quello duro e sibilante del popolo silvano «I miei esploratori parlano di ‘fard-mann’ diretti verso i villaggi» si schiarì la voce «Sono le ultime razzie prima della cattiva stagione»
Arturo si morse il labbro e riferì al fratello, sottovoce «Parla di Hooligans».
‘Bastiano serrò i denti ed espirò lentamente.
«Valspurga è sotto la protezione della mia famiglia, com’è nel nostro dovere invieremo un contingente per difenderla. Di quanti uomini avete bisogno?» chiese, incrociando le braccia dinanzi al petto.
«Mio signore,  abbiamo la nostra milizia villica e Bernas» il Potestà rivolse una fugace occhiata al Kelta «ha messo a disposizione un manipolo dei suoi migliori arcieri»
«Anche il volf-pak, il ‘Branco’, prenderà parte alla battaglia»
asserì Bernas.
«Ripeto, di quanti uomini avete bisogno?» chiese nuovamente ‘Bastiano, un po’ spazientito.
Il Potestà abbassò lo sguardo, scalpicciando il piede contro il terreno
«Cinquanta uomini dovrebbero essere più che sufficienti, mio signore».
Bernas confermò, con un cenno d’assenso.
«Molto bene» rispose ‘Bastiano, abbandonando a penzoloni le braccia «attendente qui, partiremo non appena avrò radunato gli uomini» poi, rivolto a una delle sentinelle «Tu, soldato, preparami un cavallo, adesso!» quello si affrettò a obbedire, correndo verso le stalle.

«Vuoi andare anche tu, non è vero?» chiese Arturo, standogli dietro a fatica, mentre ritornavano al campo d’addestramento.
«Respingere gli assalitori rientra negli obblighi di un Conte» gli rivolse un’occhiata austera.
«Ti ricordo che fino a prova contraria il Conte è nostro padre! Lo sai che ti farà la pelle quando saprà che sei andato in battaglia senza il suo permesso, vero?»
«Appunto per questo sarà meglio non dirglielo finché non sarò giunto a Valspurga»
sorrise ‘Bastiano “Si infurierà, naturalmente, ma sarà l’occasione buona per redimermi e, soprattutto… dimostrargli che non sono più un ragazzino”
Arturo denegò col capo, arrendendosi alla decisione del fratello. ‘Bastiano lo squadrò
«Comunque, tu conosci queste tribù meglio di me, cosa mi consigli di fare?» Arturo si portò una mano sotto il mento, calcandolo con le dita
«Gli Hooligans combattono a cavallo, caricano i nemici direttamente, senza un vero e proprio schieramento»
‘Bastiano mugugnò «E riguardo a questo “Branco” di cui parlava Bernas? Che sai dirmi?»
«Sono gli uomini più vicini al Berserker, uno dei quattro capi del Klan»
«Quindi delle sorte di guardie del corpo o truppe d’elité?»
chiese ‘Bastiano, non proprio sicuro di aver capito.
«Diciamo di sì» concesse Arturo, dopo una piccola esitazione.

Nel campo di addestramento, intanto, i soldati si andavano rassettando dopo la fine dei duri allenamenti. Qualcuno si sfilava l’elmo ammaccato, passandosi una mano sui capelli sudaticci. Altri davano un occhio agli scudi, assicurandosi che fossero ancora integri. Altri ancora si massaggiavano gli arti doloranti.
‘Bastiano si schiarì la voce, petto in fuori, e parlò con voce forte e chiara, levandola sopra ogni altro rumore
«Uomini!»
Soldati e reclute alzarono lo sguardo, mettendosi sull’attenti e lasciando perdere ogni altra faccenda. Mastro Villa si voltò, con un’espressione indecifrabile dipinta in viso.
«Uomini,» ripeté «tribù di razziatori minacciano il complesso di villaggi di Valspurga. In tanti fra voi vengono da quelle terre, hanno lì le proprie famiglie, le proprie case» rimase in silenzio, perché quelle parole si ficcassero per bene nelle loro teste «Quest’oggi chiedo chi, fra voi, è disposto a seguirmi in battaglia, per proteggere non solo le terre della nostra casata, ma le vostre case e quelle dei vostri fratelli?» il ragazzino dagli occhi glauchi fece un passo avanti, le labbra serrate e gli occhi tremolanti.
‘Bastiano fu dispiaciuto di vederglielo fare “quel giovane è solo una recluta… non è pronto per una battaglia, si farà ammazzare, ma non sta a me impedirgli di fare le sue scelte” pensò, con un filo di amarezza. Dopo aver esitato un poco, anche l’altro ragazzo, il pescatore del Volga, fece un passo avanti, storcendo il naso.
Furono i primi, ma non gli ultimi: a poco a poco altri li seguirono.
«Sono in debito, con ciascuno di voi» disse, ammirato « Ora preparatevi. Partiremo a breve» concluse, con voce non più tanto ferma.
I soldati si allontanarono, alcuni fra loro sorridevano, altri guardavano fisso in terra, stringendo i pugni o deglutendo a fatica.
Mastro Villa si avvicinò a ‘Bastiano e Arturo, la bocca contratta in un’espressione seria
«Immagino che tuo padre…»
«No»
rispose il Cangramo, senza aggiungere altro.
«Perfetto» brontolò «glielo dirò io, quando sarai abbastanza lontano da non poterti venir dietro a romperti la testa»
«Grazie, Maestro»
rispose ‘Bastiano, chinando leggermente il capo e porgendogli il braccio.
Il Villa lo strinse con forza, e presolo per il retro del collo avvicinò la faccia del suo pupillo alla sua
«Non farti ammazzare ragazzo, o verrò personalmente negli inferi a romperti il culo» a ‘Bastiano scappò un sorriso.
Riccardo Villa sospirò: per quanto fosse un uomo duro, avvezzo alla guerra e alla morte, non riusciva a non incupirsi al pensiero che il migliore fra i suoi allievi mettesse a repentaglio la sua vita. Nei suoi occhi freddi ‘Bastiano lesse la consapevolezza, la stessa che albergava nella sua mente “Sa’ che non mi terrò lontano dal campo di battaglia…”
«Serve altro?»
chiese il vecchio bisonte.
Bastiano si sfregò l’indice col pollice, mentre un’idea lo illuminava «Lance e scudi, svuota i depositi se necessario, ne voglio il più possibile» esclamò.
Riccardo sbarrò gli occhi e un angolo della bocca si incurvò verso il basso
«Sarà fatto» assicurò con voce dubbiosa
Arturo guardò al fratello, dopo che il Maestro si fu allontanato. Le sopracciglia del ragazzino erano corrucciate
«Cos’hai in mente? A che ti servono tutte quelle lance e quegli scudi?»
«I soldati di Roccagrigia sono addestrati duramente, si allenano ogni giorno. Sai cos’è invece la milizia di Valspurga?»
«Il corpo militare a disposizione del Potestà»
rispose, facendo spallucce
«O meglio un’accozzaglia di contadini che impugnano le armi nel momento del bisogno, per poi tornare a coltivare i propri campi» lo informò.
Lo sguardo di Arturo si smarrì per un attimo nel vuoto, poi le sopracciglia scattarono in un lampo di sorpresa
«Sei un genio fratellone» mugugnò il ragazzo, tornando a guardarlo. Mentre la bocca di ‘Bastiano si curvava in un sorriso soddisfatto “Ha capito al volo…”

 
 
***
 

La Selva Scura li circondava su ogni lato proiettando l’ombra dei suoi alberi sul sentiero; sull’ammasso di corpi in arme che formavano le colonne in marcia; sulle ruote in legno dei calessi trainati dai muli. ‘Bastiano, con il Potestà e Bernas, trottavano in testa.
‘Bastiano lanciò un’occhiata al cavaliere dinanzi a sé: sull’ampia schiena del Kelta era tatuata una testa di cervo, con le lunghe e intricate corna ramificate che gli si arrampicavano fino alle spalle. Ai lati della sua sella pendeva un arco: il più ampio e rigido che ‘Bastiano avesse mai visto. Gli uncini alle estremità erano rivestiti con acuminati spuntoni di acciaio bianco. La corda non era però inserita, ma giaceva arrotolata alla cintura del Kelta “Troppo corta per un arco di quelle dimensioni” pensò ‘Bastiano, affiancandosi al Potestà.
«Chi è questo Kelta, Capetingi?»
I suoi occhi porcini scivolarono verso ‘Bastiano, strizzando agitati «Lui è l’Agrotero. Uno dei quattro Manark, mio signore» il giovane lo guardò con sguardo vacuo, Capetingi si affrettò a chiarire le sue parole «Il Klan dei Kelta è retto da un concilio di quattro Manark, uno per ciascuna delle tribù. Per le rispettive tribù un Manark è, per così dire, l’equivalente dei nostri re e alti sacerdoti. Entrambi riuniti in un’unica figura»
«Capisco»
replicò ‘Bastiano, rivolgendo al silvano più avanti uno sguardo interessato «Gli altri Manark non parteciperanno alla battaglia?»
«Non personalmente mio signore, ma il Berserker ha inviato il “Branco”, come riferito da Bernas. La Coelispex e la Voidvoda hanno provveduto alla manovalanza per la costruzione di difese, e ai cerusici una volta che la battaglia sarà finita»

‘Bastiano mugugnò un assenso. Non capiva il significato di quegli strani termini, avrebbe chiesto delucidazioni a suo padre o ad Arturo, una volta a casa.
Congedandosi dal Potestà trottò innanzi, affiancandosi a Bernas che lo guardò in tralice, con le sue iridi di giada
«Io e la mia famiglia apprezziamo molto l’aiuto che voi, e la vostra gente, ci offrite, Bernas»
Il Kelta sorrise
«Non sono che un solo uomo, Cangramo» ‘Bastiano rimase interdetto «e comunque il nostro sangue non dimentica il vostro, il Klan protegge sempre il Klan»
Severo gli aveva parlato spesso dell’antica discendenza dei Cangramo dal popolo silvano, ma il ragazzo non credeva che il popolo silvano la tenesse in tanta considerazione. Sapeva che normalmente essi non gradivano le genti civilizzate, non dopo i secoli di guerra Rimlica e le terre che erano state sottratte loro
«Perché gli Hooligans ci attaccano? Non sono anche loro Kelta?» chiese, “Adesso che ci penso è piuttosto strano”.
«I ferd-mann non sono parte del Klan» rispose, senza guardarlo in viso «non hanno sangue in comune col nostro, né obblighi nei nostri riguardi, giovane cane-lupo» Bernas sollevò una angolo della labbra «Ferd non è parte del nostro totem e questo ai ferd-mann non è mai piaciuto»
«Questo ‘Ferd’ è il loro dio?»
Bernas contrasse uno zigomo a quella domanda.
«Ferd non è un dio. Ferd è uno degli antichi spiriti del mondo. I nostri dei non assumono forma animale» sembrò ritornare più sereno «i nostri dei erano uomini, Cangramo, in un tempo lontano e per gran parte dimenticato»
«Uhm, e il Klan quali dei venera?»
chiese ‘Bastiano, timoroso di sembrare invadente ma troppo incuriosito per desistere.
«Ogni dio è venerato da chi più lo favorisce, ma sopra ogni altro tutti i Kelta venerano Wotan» ci fu un silenzio solenne a quel nome «egli fu il primo e il più potente fra gli dei. Ma ogni Klan ha il suo dio favorito, il nostro è Boudicca, colei che cavalcò la forma ferina di Volf nella battaglia al Wendigo, la Bestia dalla fame sconfinata»
‘Bastiano rimase impressionato: la mitologia Kelta gli sembrava ben più interessante di quella del Redivivo, la religione di Stato a Clitalia, per buona parte fatta di sermoni e precetti morali. Adesso capiva la smodata passione del suo fratellino per la gente Kelta.
“Voglio saperne di più” «Parlami di questo… Wotan» lo incalzò il giovane. Bernas teneva gli occhi fissi sul sentiero.
Nel cielo uno stormo di corvi si alzò in volo verso ovest gracchiando animosamente. Un’aquila silenziosa volava in cerchio sopra le loro teste.
Bernas sorrise «Magari un’altra volta, Cangramo. Ora siamo arrivati a destinazione e il tempo delle parole dovrà attendere quello della battaglia»
L’Agrotero aveva ragione, già da un po’ il verde degli alberi aveva lasciato il posto al verde smorto delle pianure di Valspurga, attraversate nel loro centro dalle acque del Tams. Il sentiero, come un serpente dalle scaglie di terra, scivolava in anse sinuose verso il groviglio di abitazioni in legno e paglia del Purgamada, il più occidentale dei villaggi di Valspurga.
In lontananza si distingueva ormai chiaramente il profilo frastagliato del Monsiderio: un gigante monolitico, alle cui pendici scavavano le spelonche delle miniere. La montagna era seguita da una coda di altre cime più basse e arrotondate, diramate verso nord-ovest.
La colonna si diresse dunque verso il Purgamada, dove, ai margini del villaggio, falegnami e Kelta si industriavano per piantare nel terreno rostri di legno ad altezza uomo, sembrava quasi che la terra stesse tirando fuori i propri artigli per prepararsi alla battaglia.
Nella piazza centrale del villaggio erano riuniti gli uomini della milizia villica: armature fatte da pezzi in disarmonia fra loro: cotte di maglia sfilacciate, casacche rattoppate. In effetti, non sembravano troppo differenti dal resto dei popolani, appostati all’ingresso delle loro abitazioni. Nei loro occhi ‘Bastiano leggeva la paura della morte, una paura che cercavano di fugare ascoltando le parole del sacerdote.
Don Matteotti, il naso reso rubicondo dalla sua smodata passione per il vino, recitava dal pulpito le parole del Culto «La furia incendi le vostre spade, figli miei! Il Cuore vi guidi quando dovrete scegliere fra la pietà e la salvezza! E il Padre faccia di voi il suo gregge» e intanto benediva con acqua santa gli uomini che gli passavano dinanzi, mormorando «Nel nome del Padre, del Cuore e della Furia».
Bernas sorrise a quella scena e si diresse nel boschetto più a sud. ‘Bastiano lo osservò allontanarsi. In cuor suo sapeva che era compito di un comandante rimanere insieme con i propri uomini durante la benedizione, ma la curiosità fu più forte del suo senso del dovere e, sceso da cavallo, dopo aver rivolto un’occhiata colpevole al sacerdote, seguì il Manark. Solo dopo alcuni metri si rese conto che il giovane dagli occhi glauchi lo stava seguendo. ‘Bastiano lo fulminò con lo sguardo, in un misto di stupore e irritazione
«Cosa c’è soldato? Non desideri la benedizione del Redivivo, nostro signore?»
«Non voglio che i miei genitori mi vedano in armi, mio signore»
rispose, con voce stranamente argentina, poi se la schiarì, sforzandosi di farla risuonare più grave «hanno sempre avuto troppa premura nei miei riguardi».
‘Bastiano denegò col capo, serbandosi dal ridergli in faccia.
«Hanno ottime ragioni per farlo, soldato. Sei sgraziato e tremi come una foglia quando ti mettono una spada in mano»
«Mi dispiace…»
il ragazzo arrossì violentemente, gli occhi gli si fecero umidi mentre accennava a ritornare sui suoi passi
‘Bastiano non poté fare a meno di sentirsi in colpa. “Ma perché piange?” pensò tuttavia stranito, mentre lo richiamava, accomodando un tono più dolce nella voce «Non devi scusarti, soldato, un giorno non avrai più paura, vedrai» gli calò una pacca sulla spalla, sentendola piccola e debole sotto la mano “Troppo gracile per un uomo che si addestra da settimane…”
Bernas si era intanto inoltrato fra gli alberi, ‘Bastiano accelerò il passo.
Un suono profondo e vibrante cominciò a tremare nell’aria. Man mano che si muovevano nel piccolo boschetto, la musica si fece più intesa e rumorosa, scendendo fin nel terreno. Un barbagianni su di un ramo puntò i suoi piccoli occhi neri verso ‘Bastiano, e lo fissò intensamente. Il giovane provò una sensazione di inquietudine, alimentata dai tamburi e da una nenia appena udibile, più in là.

Dopo aver proceduto per alcuni minuti attraverso gli alberi, si trovarono in uno spiazzo erboso,  dove qualcuno ripeteva una litania lamentosa, a voce alta, in una lingua sconosciuta. Qualcosa come
«Vulf forgen mir for blut nut giss»
A recitarla era un uomo possente, con baffi spioventi e la barba acconciata in una lunga treccia bruna. Sulle sue spalle c’era una vistosa pelle d’orso.
Di fronte a lui, altri uomini e donne con mantelle di lupo sedevano in cerchio intorno a un braciere, osservandolo senza proferire parola. Ai loro piedi giacevano scudi rotondi e asce e spade di ottimo acciaio temprato. Il bosco era popolato di giovinetti con indosso tuniche di stoffa bianca, prive di ogni orpello o decorazione. Se ne stavano lì in piedi, come in attesa di qualcosa.
I suonatori di tamburo, nascosti fra gli alberi, erano chini sui loro strumenti e il viso coperto da drappi scuri che ne lasciavano intravedere solo uno spicchio del naso e le bocche contratte dallo sforzo.
Sul focolare era sospesa una ciotola, all’interno una bevanda giallastra e tocchetti di funghi spezzettati.
Bernas assisteva alla scena, mantenendo un’espressione seria, mentre al suo fianco una ragazzina da folti ricci biondi e il sorriso da furbetta se ne stava spallata contro un albero a braccia incrociate “È una bambina” pensò ‘Bastiano, notandone le forme ancora acerbe “potrà avere al massimo quindici anni”.
Intanto una donna dai capelli ramati e un uomo senza un orecchio, entrambi con la mantella di lupo, toglievano il pentolino dal fuoco. E un paio di giovani portava lì una capra dalle corna ricurve, i cui versi di protesta erano coperti dal suono incessante dei tamburi.
L’uomo in piedi interruppe la sua litania e, presa una ciotola di coccio, la posizionò in terra, di fronte alla capra.
Uno dei suoi compagni gli porse un coltellaccio con il manico in osso, foderato di pelliccia.
La litania riprese, più silenziosa e rapida. L’aria era carica di tensione, la tensione che avvolge quei momenti di una certa importanza. Momenti sacri e pregni di significato.
Con uno scatto deciso l’uomo recise la gola della capra, non lasciando alla povera bestia neanche il tempo di provare paura. Lunghi rivoli di sangue presero a svuotarsi nella ciotola, riempiendola nel giro di pochi minuti, mentre i gorgoglii del rosso che scendeva si mischiavano ai lamenti sordi e strozzati del povero animale in agonia. Il rumore dei tamburi si era fatto ormai assordante, tuonava nelle orecchie e picchiava sui timpani.
‘Bastiano era inorridito, ma continuò a osservare la scena. Il ragazzo dagli occhi glauchi aveva distolto lo sguardo più di una volta, per tornare poi a guardare, irrigidendo le spalle.
Quando la capra stramazzò al suolo senza vita, i giovani con la tunica portarono via il suo cadavere, macchiandosi i vestiti intonsi, le braccia e le mani.

L’uomo con la pelle d’orso levò al cielo la coppa e urlò
«Volf forgern mir for blut nir giss!»
«Che sta facendo?»
trovò il coraggio di chiedere ‘Bastiano al Manark. Lui non staccò gli occhi dalla scena, ma rispose, con voce bassa
«Chiede perdono al grande spirito Volf, perché quest’oggi non verserà sangue»
«Mar trer net zeyn blut!»
urlò ancora l’uomo, bagnando le dita nella coppa
«Ma di sangue saranno le mie lacrime» tradusse pedissequamente Bernas, mentre l’uomo si tingeva gli occhi e gli zigomi con il sangue di capra.
«Quindi quell’uomo non combatterà? Perché?» chiese ancora ‘Bastiano, notando che il Kelta dalla lunga barba non mancava certo di prestanza fisica, come il resto dei suoi compagni.
La ragazza con il sorriso da volpe rivolse i suoi grandi occhi verdi a ‘Bastiano «Stai a vedere Cangramo».
Il contenuto del pentolino che era stato riscaldato sul fuoco fu filtrato attraverso un panno, e svuotato in un corno, offerto poi all’uomo delle litanie. Questo lo osservò per un momento, deglutì, e poi lo trangugiò tutto di un sorso: rivoli umidi scivolarono agli angoli della sua bocca, mescolandosi con le strisce di sangue che segnavano il suo volto.
Quando ebbe finito di bere lasciò andare il corno, chiuse gli occhi e respirò profondamente. I suoi compagni, da seduti, afferrarono gli scudi e presero a batterci contro le armi, il suono dei tamburi si era ridotto a un accompagnamento.
L’uomo con la pelle d’orso prese a guardarsi intorno con fare isterico, le palpebre gli tremavano e il corpo si piegava ai primi tremori. Tutto a un tratto si calò le braghe: il suo membro era grosso, rigonfio e dal colore rossiccio, con venature rigonfie. Il ragazzo dagli occhi glauchi distolse lo sguardo mentre il Kelta orinava nello stesso corno da cui aveva bevuto pocanzi.
Alcuni giovani raccolsero il corno prima che l’uomo con la pelle d’orso si accasciasse al suolo, in preda alle convulsioni. Allungarono il piscio con acqua e miele, poi lo porsero ai guerrieri con indosso le pelli di lupo.
Essi ne bevevano un lungo sorso, per poi passarlo all’uomo alla loro sinistra.
«Che schifo» sussurrò il ragazzo dagli occhi glauchi, portandosi una mano alla bocca, forse per quietare un conato di vomito.
«Perché diavolo bevono il suo piscio?» chiese ‘Bastiano, con la bocca contratta in una smorfia disgustata.
«Evidentemente gradiscono il sapore» replicò la ragazzina divertita. Il Menark la zittì con uno scappellotto. Quella si massaggiò il capo, con un’espressione adesso imbronciata.
«Lo scoprirai quando la battaglia avrà inizio, Cangramo» sorrise «lasciamo solo il volf-pak, è tempo che i lupi comincino a ululare».
Vuotato l’ultimo sorso del corno, gli uomini e le donne lupo cominciarono ad alzarsi e cantare canzoni dal suono antico, profondo e selvaggio come gli spiriti che veneravano. Danzavano al percuotere dei tamburi e levavano risate e urla gutturali, isteriche, deliranti. L’uomo che per primo aveva bevuto non sembrava condividere l’allegria dei suoi compagni, tutt’altro, stava vomitando l’anima a ridosso di una radice. La melma fuoriuscita dal suo stomaco era di un pallido colore rossastro. Il poveraccio si reggeva a malapena sui palmi delle mani, sforzandosi di non cadere con la faccia nel suo stesso vomito.
Intanto Bernas e la ragazzina guidavano ‘Bastiano fuori dal boschetto. Ombre dalla forma umana facevano intanto capolino dagli alberi, mettendosi al loro seguito: erano i suoi arcieri. Il tempo di riunire l’armata era ormai giunto, dovevano fronteggiare i cavalieri che giungevano dall’ovest. Il barbagianni che ‘Bastiano aveva veduto lo squadrò un’ultima volta mentre passava, prima di rialzarsi in volo e sparire oltre le fronde.




NdA: Iniziamo questo nuovo anno con l'undicesimo capitolo, il primo in cui vediamo comparire i Kelta di cui abbiamo tanto sentito parlare nel corso della storia. Che ve ne pare? Riuscite a indovinare le civiltà da cui ho preso ispirazione? Scommetto di si!
Mi rendo conto che l'utilizzo di termini particolari e l'introduzione di nuovi contenuti può sempre destare qualche incomprensione o perplessità. Quindi per qualsiasi dubbio non esitate a pormi domande all'interno delle recensioni o tramite MP.
I miei più accorati ringraziamenti a Fan of the Doors, morgengabe, RoryJackson, deianirarouge e al nuovo arrivato Makil per le appasionate recensioni e i loro pareri :3 siete una spinta per mettere ancora più impegno e fervore in questo lavoro

un abbraccio grande grande,
Il Signore Oscuro


 
 
 
 
 




 

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Capitolo 12
*** Una guerra da donne - (Miranda) ***


CAPITOLO XII
UNA GUERRA DA DONNE
(MIRANDA)
 
 
 
Si rigirò fra le dita la pedina di cera solcata dallo stilo. Dinanzi a lei, spiegata sul tavolo, una pianta della sala dei banchetti: ad ogni tavolata corrispondeva un rettangolo; Miranda guardò a quello in prima fila, il più ampio e distante dall’entrata. Sarebbe stato sopraelevato rispetto a tutti gli altri.
Fissando quei disegni tracciati sulla pergamena, la mente della ragazza scivolò indietro, ai giorni della sua infanzia.

Bice stava filando, le sue dita grassocce erano agili e leggere. Sul capo riposava la consueta cuffia di lino bianco, al petto la veste del medesimo colore, con il corpetto in cuoio, chiuso da lacci intrecciati. Miranda cercava di imitare il suo filare, il muoversi delle sue mani. Ma le dita da bambina erano impacciate e s’erano ferite più d’una volta alla punta di quell’ago troppo sottile per star fermo fra i polpastrelli.
«Bice, perché io devo stare qui a filare mentre ‘Bastiano e Carlo possono stare fuori a giocare?»
Senza distogliere gli occhi dal suo lavoro, la donna le aveva risposto «Non stanno giocando, bambina mia, imparano a combattere. Perché un giorno saranno loro a difendere queste terre dai nemici che le minacceranno»
Miranda aveva lasciato andare ago e filo, e aveva incrociato le braccia, mettendo su il broncio «Allora voglio imparare a combattere anch’io!»
Bice l’aveva guardata come si guarda a un pazzo di cui si conoscono a menadito tutti i deliri «Bene, vai, allora» quella risposta aveva lasciato Miranda interdetta «ma prima chiedi il permesso a tuo padre» aveva aggiunto, prima di tornare a filare.
“Mai una volta che mi dia soddisfazione, questa strega” aveva pensato la giovane Cangramo, con uno sbuffo, e puntando gli occhi alle finestre che lasciavano entrare la luce nella sua stanza «Non mi darebbe mai il suo permesso».
«E a buona ragione, bambina mia» le aveva risposto, sorridendo, ma senza guardarla «un giorno sarai una donna fatta e finita. Dimmi, quale uomo vuole una donna con lividi e cicatrici su tutto il corpo? Rimarresti zitella a vita» gli occhi di Bice erano tornati su di lei «Sola a vita» il suo sorriso era scomparso.
Al tempo, quella prospettiva l’aveva spaventata abbastanza da spingerla a raccogliere da terra la sua matassa e riprendere a filare. La sua balia era rimasta in silenzio per un po’, prima di riprendere a parlarle, con un tono che s’era fatto più dolce e caloroso, lontano da quello dei rimproveri
«C’è un’unica grande guerra che combatterai bambina mia»
«Quale?» aveva chiesto lei, stupita.
«Si chiama matrimonio» un sorriso le si era dipinto in volto, ma non aveva raggiunto gli occhi.
«Un matrimonio non è una guerra» aveva ribattuto, accigliata.
«Ti assicuro che lo è, bambina mia. Se sei fortunata ci saranno lunghi periodi di pace, con piccole battaglie. Battaglie che dovrai combattere usando la tua intelligenza e tutte le armi che sono proprie di una donna»
«E quali sarebbero?»
La balia le aveva rivolto un cenno condiscendente di fronte alla sua ingenuità «Il sorriso, la voce affettata e melliflua, le forme del tuo corpo. Tutto questo servirà a piegare qualsiasi uomo. E come ogni guerra, sai da cosa inizia?»
«Da cosa?» aveva chiesto lei, a metà fra lo scetticismo e l’interesse.
«Da una dichiarazione: il giorno delle tue nozze, il più importante della tua vita. Sarà compito tuo scegliere la disposizione degli invitati ai tavoli»
«Quando mi sposerò ognuno si siederà dove si sentirà più comodo!» aveva esclamato lei, provandosi a immaginare quel giorno senza troppo successo. Di matrimoni non ne aveva mai visti, a malapena sapeva cosa fossero.
La balia aveva sorriso, divertita «Non funziona così, bambina mia»
«E come funziona, allora?»>
«C’è un protocollo che va rispettato» le aveva spiegato Bice «al tavolo con te e il tuo sposo siederanno le rispettive famiglie. In quello immediatamente dopo i Principi-»
«E i re dove si mettono?» aveva chiesto lei, portandosi un dito alla bocca.
«I sovrani di Clitalia raramente hanno tempo per i matrimoni, anche se è cosa buona invitarli comunque.» le aveva spiegato, con tono sbrigativo, prima di riprendere il discorso «Come stavo dicendo, dopo i Principi seguono Duchi, Conti, Baroni, e infine i bastardi non riconosciuti dai propri padri, ma interni al loro seguito, e le persone comune senza sangue nobile nelle vene, ma che per un motivo o per l’altro si ritrovano fra gli invitati. Anche nel tuo giorno speciale, ricordalo, che un nobile vorrà avere sempre la precedenza su chi gli è inferiore di rango»
«Ma mio padre è un Conte, eppure siederebbe in un posto più importante di quello di un principe» le aveva fatto notare Miranda.
«Sei una bambini intelligente» le aveva concesso la balia «A questo genere di, uhm, inconvenienti, si rimedia dando la precedenza negli omaggi agli sposi»
«Io… io credo di aver capito» aveva replicato, con un cenno del capo piuttosto incerto.

Miranda posizionò la pedina di cera al tavolo degli sposi, sorridendo con soddisfazione.  “Questo è il posto giusto” pensò, mentre Mowan le porgeva una lettera fresca di vergatura.
Miranda la prese, dandole una rapida letta, per poi porgerla nuovamente alla dama di compagnia
«Isidoro Biancospino è un Duca, non un Conte. La differenza è sottile ma c’è» le disse, inarcando un sopracciglio «Riscrivila. Daccapo.»
Mowan sospirò rumorosamente, accartocciando il foglio di papiro e lanciandolo dietro di sé. Appoggiò la fronte contro il bordo del tavolo da pranzo.
“Non c’è tempo per stare a pensare alle sue poco eleganti esternazioni di noia” e con lo sguardo Miranda passò sulla pedina appena posizionata: la sigla sopra incisa era ‘PSO’, Principe Stephanus Orimberga…

L’aveva saputo da Vittorio solo alcuni giorni dopo la caccia nella Selva Scura, la stessa in cui quello sciocco di ‘Bastiano aveva lasciato che il suo promesso si ferisse. Miranda si era occupata personalmente di cambiargli le bende con fasce nuove e impacchi di erbe mediche
«Ahi» aveva gemito lui, strizzando un occhio.
«Rimani fermo» lo aveva ammonito, con finta severità «è già una fortuna che non ti sia rotto un braccio o il Redivivo sa cos’altro»
«Noi delle Terre Centrali abbiamo la pellaccia più dura di quanto si pensi, mia dolce Miranda» le aveva risposto, guardandola in tralice.
«Fatto, ho finito» aveva stretto l’ultima fasciatura intorno al fianco: abbastanza morbida da non creare impedimento nei movimenti, ma non tanto da correre il rischio che si sciogliesse e scivolasse via.
«Ti ringrazio, Miranda. Sarai davvero la moglie perfetta, la migliore che si possa desiderare» quelle parole le avevano avvampato le guance.
«Sai, sono felice di essere qui, con te» aveva continuato lui «Tu mi piaci e mi piace la tua famiglia» il suo sguardo s’era fatto d’improvviso più cupo, il suo sorriso più amaro «sin da bambino sono stato il protetto di Stephanus Orimberga, tuo padre te l’avrà detto» Miranda aveva confermato, con un debole cenno d’assenso «lui e suo padre hanno provveduto a pagare i miei studi; trovarmi un lavoro dignitoso quando ne ho avuto l’età. Ma è in un orfanotrofio che sono cresciuto» lo sguardo di Miranda si era incrinato, la sua mano ora si stringeva a quella di Vittorio «Nelle Terre Centrali quelli come me li chiamano figli di nessuno, i miei genitori sono morto che ero molto piccolo, e di loro non conservo alcun ricordo… se non qualche immagine sfocata. Sì,» i suoi zigomi avevano avuto un sussulto «ti sembrerà quanto mai curioso che una famiglia prestigiosa e potente come gli Orimberga si interessi alla vita di un trovatello. Non ti mentirò: l’ho trovato strano io stesso. Ma, sai, credo che dipenda dal loro profondo legame spirituale con Redivivo e alla trina manifestazione»
«Il Padre, il Cuore e la Furia» aveva recitato a memoria Miranda, sottovoce.
«Esatto, e il Cuore è proprio questo: fare il bene del prossimo senza aspettarsi un tornaconto. Gli Orimberga l’hanno fatto per me, e per tanti altri orfanelli. Devo a loro tutto ciò che ho, tutto ciò che sono ora» le mani di Vittorio si giunsero su quelle più piccole e vellutate di Miranda «Ma tutto questo adesso non ha importanza. Quando saremo sposati, avrò finalmente ciò che mi è mancato per tutta la vita: una famiglia. E voi sarete la mia»

Un paio di sonori colpi alla porta distolsero Miranda da quei ricordi: dal ricordo della voce incrinata di Vittorio, dai suoi meravigliosi occhi fattisi lucidi per la commozione.
Mowan fece per alzarsi ma Miranda la precedette, andando alla porta lei stessa.
Tirò la maniglia, aprendo solo un spiraglio attraverso cui strisciò un fresco profumo di limone
«Ehi» sussurrò Vittorio, sorridendole
«Ehi» rispose lei, sorridendo a sua volta senza rendersene conto.
Lui cercò di scavalcarla con lo sguardo, ma la giovane Cangramo si tirò in punta di piedi per coprirgli la visuale.
«Posso dare un’occhiata?» chiese, con un sorriso da birbante.
«Ah-ah, non se ne parla» rispose, ammiccando «alla sposa quel che è della sposa, saprai a tempo debito»
«Come desideri, tesoro» si arrese lui, facendo spallucce «Comunque sono passato per conto di tuo padre, ti chiede di recapitargli tutto il materiale una volta che avrai finito»
«D’accordo» acconsentì «glielo farò avere. Adesso va, su. Che qui abbiamo del lavoro da sbrigare» provava uno strano piacere nel fingere un po’ di rudezza nei suoi riguardi.
Vittorio sospirò, stando forse al gioco, e dopo aver guardato a destra e a sinistra si sporse per un fugace bacio che Miranda ricambiò, passandogli una mano sul morbido velo di barba biondo-castano che iniziava a infoltire le guance di Vittorio. Quando lui andò via, la ragazza si maledì per essersi staccata così in fretta “Mi manca di già” pensò, con una voce languida dentro di sé.
Gli occhi a mandorla di Mowan la seguirono, la seguirono mentre tornava a sedersi e persino mentre sospirava mollemente, ritornando a disporre le pedine di cera. Miranda dapprima ignorò la fastidiosa oppressione che si prova nel sentirsi osservati, ma poi sbottò, non potendone più
«Devi dirmi qualcosa, Mowan?» chiese, con tono irritato e un filino acido.
«Eh? No, niente» replicò lei, abbassando gli occhi.
Miranda sospirò “Meglio che sputi il rospo adesso”
«Parla, Mowan» le ingiunse, incrociando le braccia
La Mogul emise un lamento e cacciò un fiotto d’aria dai polmoni
«E va bene… è solo che, Miranda, secondo me devi andarci piano con quello lì, ecco tutto»
La ragazza emise un risolino per nulla divertito «Quello lì, come lo chiami tu, è il mio futuro marito»
«Ciò non toglie che lo conoscete da appena una settimana» replicò Mowan, mettendo via la penna d’oca.
«Io mi fido di ciò che mi dice il cuore» le guance della Cangramo avvamparono di nuovo «io lo amo!» continuò, con un tono più acuto di quanto volesse.
«Beh, dovete prima conoscerlo e poi amarlo. È così che funziona» disse lei, alzando le spalle, come se stesse dicendo un’ovvietà.
«Cosa ne sai tu di come funziona?» la provocò Miranda, alzando un sopracciglio.
«Io-io» arrossì di colpo “Che cosa strana per lei”, tornò a precipitarsi sulle lettere da scrivere «ne so quanto basta…»
Miranda sbarrò gli occhi, la bocca che si apriva un poco.
«Mowan?» la richiamò meravigliata.
La Mogul fece finta di non sentirla, costringendosi a tenere lo sguardo fisso sugli inviti
«Mowan!»
«Che c’è?!» sbottò lei a un punto.
Miranda si sporse verso di lei, un sorriso ammiccante dipinto in volto, gli occhi fissi nei suoi
«Cosa mi stai nascondendo?»
«Io non nascondo niente» sbuffò, ma il colore delle sue guance diceva tutt’altro.
«Stai mentendo» la incalzò
«No che non mento»
«Sì, invece»
«E va bene! Va bene!» si arrese, finalmente, ormai con gli occhi al cielo «Sono stata sposata, una volta»
«Dici sul serio?!» esclamò Miranda, spallandosi allo schienale della sedia.
“Immaginavo che avesse avuto, beh, un qualche genere di esperienze, ma addirittura sposata?!”
«E che è successo? Racconta!» la incitò
«Beh, in teoria sono ancora sua moglie, una delle tante…» disse, guardando un punto imprecisato della parete «ma non abbiamo mai consumato»
«E perché mai?» chiese Miranda, ormai dimentica del suo di matrimonio.
«Beh, io ho dovuto fare a scazzottate con le sue altre mogli» allo sguardo allibito di Miranda riprese «sì, da noi è così che funziona: se una donna desidera che un uomo si interessi a lei deve prima affrontare le sue mogli, per dimostrare la sua forza e la sua tenacia. Quelle ochette ovviamente le pestai bene bene. Quindi celebrammo il nostro matrimonio e lui la prima notte di nozze lui indovina che fa? Si ubriaca con latte di capra e cerca di montarmi come fossi una delle sue puttane, senza garbo né cortesia»
«E tu cosa hai fatto?» chiese Miranda “Questa storia è assurda e strampalata, i Mogul sono davvero gente strana…”.
«L’ho afferrato per quelle sue pallette mosce e gli ho detto che, se mi voleva, doveva prima di tutto meritarmi, come avevo fatto io con lui»
«E lui accettò la cosa?>> chiese Miranda, senza celare un certo scetticismo nella voce.
«Certo, mi dimostrò il suo coraggio in modi che non ti sto neanche a raccontare e così la sua gentilezza. In realtà avremmo anche consumato, ma poi ecco…»
«Poi cosa?»
«Sono finita qui» replicò la ragazza, facendo spallucce.
La bocca di Miranda si incrinò in una smorfia “Avrei sperato in un finale migliore e un po’ più… piccante”
«Sai bene che potresti ritornare dalla tua gente e dal tuo sposo quando lo desideri» si schiarì la voce «qui non sei una schiava, te l’ho ripetuto tante volte»
«Questo lo so» replicò la Mogul, mordendosi il labbro «ma con Wulfila che mobilita le tribù cosa mi assicura che un giorno come un altro mi trovo a dover combattere o assassinare il Conte o magari qualcuno dei tuoi fratelli? Non potrei mai fare una cosa simile, non dopo questi anni»
“Mio padre ha fatto cenno a una seconda Orda” ricordò Miranda
«Beh, potresti rifiutarti di combattere, no?»
A Mowan scappò un risolino, ma le parole che seguirono erano serie come le formule di una preghiera
«Ogni donna, ogni uomo serve l’Orda, combattendo sino al suo ultimo giorno di vita» le disse, con l’amarezza nella voce «Solo ai morti è concessa la pace»
«Ma è disumano, non si può combattere per una vita intera!» protestò Miranda
«Si fanno tante cose per una vita intera» la rimbeccò Mowan «e combattere non è certo fra le più noiose. Può essere crudele, d’accordo, ma almeno una persona vale ciò che riesce a conquistarsi: niente di più, niente di meno. Niente politica o giochi di potere. È tutto lì, di fronte agli occhi. La forza che dimostri è il potere che hai»
“Io un’esistenza così non saprei viverla, al solo il pensiero di spezzare la vita di un essere umano…” denegò energicamente col capo, come per cacciare il brivido che quella suggestione gli dava
«Continueremo il discorso un’altra volta, Mowan. Adesso rimettiamoci al lavoro vorrei finire prima del tramonto» le disse Miranda, con voce gentile. Ma dentro di sé la giovane Cangramo si portava il turbamento di quelle parole, pronunciate dalla sua amica: alle volte tendeva a dimenticare da dove venisse, dove fosse nata e come avesse vissuto prima di loro. Pensare che quelle mani che l’aiutavano a spogliarsi e rivestirsi ogni mattino e ogni notte, si erano macchiate di sangue, tempo addietro, le dava una sensazione di profondo disagio.
Guardò nei suoi occhi a mandorla, ora chini su di un foglio: Mowan era stata un’assassina, una guerriera. Chissà, forse un giorno avrebbe deciso di dismettere i panni della dama di compagnia e indossare quelli della sua gente, per cui la guerra era la sola e unica ragione di vita.
Nella mente, Miranda si figurò la sua amica imbracciare le armi e massacrare gli abitanti del castello e la sua famiglia, al seguito di un’orda di Mogul inferociti… sarebbe potuto succedere, forse, ma in quelle immagini non volle attardarsi ancora con gli occhi dell’immaginazione. E anzi si rimproverò aspramente per aver anche solo pensato ad un orrore del genere.





NdA: Piccolo capitolo di passaggio prima della mambassa che ci aspetta nel prossimo, preparatevi!
Ma intanto: qui si affrontano temi come l'amore e le relazioni. Voi siete più vicini a una visione 'pragmatica' come quella di Mowan o preferite 'romanticismo e colpi di fulmine' come la nostra Miranda che ormai è una pera cotta? Vi ha sorpreso il passato della giovane Mogul? Avete paura che le suggestioni di Miranda diventino un giorno reali o sono solo l'assurdo frutto della sua immaginazione? Fatemelo sapere nei commenti :3

Un abbraccio,
Il SIgnore Oscuro

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Capitolo 13
*** Il Sangue e la Furia - (Sebastiano) ***


Capitolo XIII
Il Sangue e la Furia
(Sebastiano)
 

 
La battaglia di Valspurga avrebbe visto affrontarsi due schieramenti in parità numerica. “Il vantaggio degli Hooligans risiede nei loro cavalli” pensò ‘Bastiano, dando un’occhiata agli uomini disposti in fila sulla sua destra e sulla sua sinistra “un contingente di cavalleria pesante ci avrebbe fatto comodo, ma ce la caveremo anche così… almeno spero”.
I suoi ordini per la battaglia erano stati precisi, gli ufficiali avrebbero provveduto a ripeterli ai soldati al momento opportuno.
‘Bastiano si era assicurato che l’intero schieramento si disponesse negli spazi delimitati dai rostri: evitare un attacco su fianchi era fondamentale per la buona riuscita dell’impresa.
In prima e seconda fila aveva schierato i soldati più esperiti, quelli più robusti e avvezzi alla battaglia; ‘Bastiano stesso si era messo fra loro, al centro dello schieramento. In terza e quarta fila erano schierate le reclute alla loro prima battaglia e coloro che sin da subito si erano dimostrati più semplici contadini mascherati da guerrieri, che veri e propri soldati.
Ancora più in là, appostati fra le abitazioni del Purgamada, in posizioni sopraelevate, c’era l’Agrotero con i suoi Driadi, gli arcieri personali del Manark. Da lì i loro archi avrebbero avuto una visuale chiara e pulita del nemico in carica. Anche il Branco era stato tenuto fuori dai ranghi: troppo animoso e impaziente per rimanere in formazione con altri soldati, ‘Bastiano lo avrebbe liberato solo al momento più opportuno.
“Se ciascuno farà la sua parte tutto andrà bene” aveva detto al Potestà, quando l’aveva interpellato alla ricerca di rassicurazioni. Il Capetingi, che mai aveva combattuto in vita sua, era stato incaricato di trasferire la popolazione nei villaggi adiacenti e di organizzare una rapida evacuazione in caso le cose fossero andate male. Un corvo era stato già preparato perché spiccasse il volo verso la Rocca Grigia in caso di sconfitta, a quel punto il Conte avrebbe scatenato la sua furia sugli Hooligans che avevano ucciso suo figlio.
“Sì, perché se sarò sconfitto, è col sangue che laverò la mia vergogna” aveva pensato ‘Bastiano, figurandosi un’eventuale disfatta. Era nell’uso dei grandi condottieri del passato togliersi una vita quando una grande battaglia era perduta, avrebbe preso la stessa decisione.

«Permesso, fate spazio perfavore. Devo passare» disse una voce famigliare dietro di lui. ‘Bastiano si voltò, seguendo con lo sguardo il ragazzo dagli occhi glauchi, che fra uno sgraziato sorpasso e un paio di spintoni, era arrivato ad affiancarlo.
«Non ti era stato forse ordinato di rimanere in quarta fila?» lo ammonì ‘Bastiano a mezza voce. Quello rispose facendo spallucce.
«Lei è disposto a morire per i suoi uomini. Io sono pronto a morire in prima linea per difendere la mia casa, mio signore»
«Chiamami ‘Bastiano, soldato» sospirò il Cangramo, infastidito da quella insubordinazione ma anche un filo ammirato.
«Bene, ‘Bastiano» replico con un sorriso teso sulla faccia glabra «puoi chiamarmi Gio-» ebbe un istante di esitazione «-vanni, o solo Vanni, se preferisci. Sì, Vanni andrà benissimo.»
«Molto bene, Vanni» rispose con aria perplessa «adesso taci e tieniti pronto».
Quello serrò le labbra indispettito e non spiccicò più parola.
Adesso che ‘Bastiano lo guardava meglio, i suoi lineamenti aveva un che di aggraziato e l’odore che si emanava dalla sua pelle, nonostante il sudore e la fatica degli allenamenti, era tutto sommato gradevole. Le linee del suo viso erano morbide, e qualche ciuffo dei capelli neri faceva capolino dall’elmo, stavolta a giusta misura.
“Non ho tempo per queste cose” si disse ‘Bastiano, denegando col capo e volgendo lo sguardo verso ovest, dove minuscole  sagome avanzavano rapide all’ombra del Monsiderio. Ci furono tre cupi suoni di corno.
Flebili grida di battaglia giunsero alle sue orecchie: i suoni viaggiavano rapidi sulla pianura.
‘Bastiano tirò un profondo respiro, stringendo la mano sinistra intorno all’impugnatura dello scudo rotondo e la destra attorno all’elsa della spada, come se questo servisse a dargli più coraggio.
Le grida si fecero più vicine, più rumorose. Ad ovest le piccole sagome si erano accalcate in un’imponente ventaglio nero, costituito di uomini e cavalli.
‘Bastiano raccolse in sé tutta la voce che aveva e diede l’ordine
«Muro di scudi!»

La macchina dei soldati si mise in moto: la prima fila si accovacciò alzando lo scudo. ‘Bastiano proseguì insieme con la seconda fila e alzò lo scudo anche lui, toccando con il margine inferiore del suo quello del soldato sotto di lui. La terza fila seguì, posizionando gli scudi in diagonale sopra quelli della seconda fila.
Nel giro di pochi istanti un muro di legno e acciaio si era eretto a protezione del Purgamada, pronto ad incassare la furiosa carica della cavalleria nemica.
Attraverso gli stretti spiragli fra l’uno e l’altro tondo, ‘Bastiano scorse i cavalli lanciati al galoppo, da quella distanza poteva distinguere i contorni degli Hooligans in prima fila: la maggior parte di quegli uomini girava a petto nudo o con una leggera armatura in cuoio borchiato, al massimo con un’imbottitura o delle placche di ferro sparse qua e là. Levavano al cielo spade di differente fattura e dimensione; mazze in legno o in ferro battuto, costellate di spuntoni acuminati disposti un po’ a casaccio; asce e scuri dalla testa oblunga. Altri ancora mulinavano cinghie di cuoio o tessuto, con le estremità legate e ben strette in un pugno, come se servissero a tirare qualcosa.
“Andiamo Bernas, cosa aspetti?!” pensò il Cangramo, deglutendo un consistente boccone di saliva. L’aria era densa e calda, tutto intorno a sé ‘Bastiano poteva sentire il respiro concitato degli uomini, lo schiarirsi di una gola, un sospiro agitato. E poi, quella notte artificiale in cui erano calate le prime file, pareva pesare ancora di più degli scudi stessi e dell’armatura, sui loro corpi.

Finalmente dal Purgamada provennero dei sibili, prima uno poi gli altri, a seguire. L’ampio schieramento degli Hooligans perse qualche uomo sui fianchi. Chi veniva colpito cadeva dalla sella, venendo trascinato sul terreno. Il più delle volte era il suo cavallo a finire il lavoro dell’arciere; chi non era infilzato da una freccia, si muoveva verso il centro dello schieramento: ma proprio come Arturo gli aveva detto “la loro carica non si arresta mai”.
Tonfi sordi rimbalzarono contro la parete di scudi, come singoli colpi di tamburo. Erano i sassi scagliati dalle fionde degli Hooligans.
«Serrate i ranghi!»
Ordinò ‘Bastiano, e le sue parole risuonarono nelle voci degli ufficiali più in là. Intanto le grida di battaglia degli uomini a cavallo si erano fatte più vicine, rumorose come tuoni in una notte di tempesta “grida di demoni, demoni che cavalcano dagli inferi. È a questo che devono essere legati i loro successi nelle razzie: la paura che scatenano nel cuore dei propri nemici”.
Ma la paura poteva essere sconfitta, questo ‘Bastiano lo sapeva, poteva essere sconfitta se la si affrontava insieme… a testa alta!

Gli zoccoli dei cavalli mangiavano un metro dopo l’altro, mancava poco all’impatto: il respiro del Cangramo accelerò come il battere del suo cuore, con uno slancio di volontà si impose di regolarizzarlo con lunghe espirazioni. La sua mano destra abbandonò l’elsa della spada, e si pose al fianco. Si sgranchì le dita, preparandosi al vivo della battaglia.
«Lance! Avanti!»
I ranghi si ammorbidirono, giusto il tempo perché lunghe aste con losanghe d’acciaio su un’estremità si facessero largo dalla quarta fila. ‘Bastiano serrò la mano destra intorno al legno, lo indirizzò con un movimento del polso in corrispondenza degli spazi fra gli scudi della seconda e terza fila, all’altezza di un uomo a cavallo.
“Per gli Hooligans è troppo tardi per indietreggiare”.
‘Bastiano sapeva, sapeva che ogni battaglia si combatte in due luoghi: il primo è il campo di battaglia, dove gli uomini si affrontano e si scannano fra loro; il secondo è la mente, dove ogni soldato combatte la sua lotta solitaria e personale contro la paura della morte. Le lance offrivano un vantaggio fondamentale in ogni esercito: potevano fare del più remissivo dei contadini un valente guerriero.
Era un’arma semplice: il nemico poteva essere ucciso ancora prima di avvicinarsi e costituire un pericolo, non richiedeva neanche grandi abilità per essere brandita, se non una presa salda e sicura.

[Ciao lettore, scusa se interrompo la tua lettura. Ma se stai leggendo da computer e se ti va', ti consiglio di accompagnare la lettura del resto del capitolo ascoltando questa canzone: https://www.youtube.com/watch?v=nK-fhA25j3A]

Gli Hooligans infine arrivarono, con tutto il fragore del loro impatto: uomini e cavalli si schiantarono contro gli scudi; le lance penetrarono nella carne, impalando, squarciando, tingendosi di sangue e bile. Qualcuno fu travolto dallo scontro, qualcun altro rimase stordito, ma per buona parte il muro di scudi resse alla carica, sotto gli occhi attoniti degli Hooligans.
“È il momento” pensò ‘Bastiano “lì nella Selva Scura non ho saputo cogliere l’attimo decisivo, fondamentale. Ma qui, adesso, nessuna ombra, nessuno spirito della foresta mi distrarrà dal mio intento. È il tempo di redimermi!”
Con la mano destra lasciò cadere la lancia, spezzatasi nel ventre di un uomo. Sollevò lo scudo, portandolo dietro la schiena dell’uomo in prima fila dinanzi a lui, gli altri soldati lo imitarono. La prima fila si eresse dalla sua posizione accovacciata. Le spade furono sguainate dai loro foderi in gemiti di acciaio contro il cuoio. Il muro di scudi era crollato, per lasciare il posto a qualcos’altro.
«Falange! Ora!»
Fu lo stesso ‘Bastiano a guidare il centro dello schieramento nella punta che penetrò la massa di uomini e cavalli degli Hooligans, in cuor suo il Cangramo sperò che le ali destre e sinistre stessero agli ordini e si richiudessero sui fianchi.
“Ogni battaglia inizia con una partita a scacchi e si conclude in una mischia”. L’ordine dello schieramento si sfaldò: era il segnale, i Kelta potevano scendere in campo, liberi di dissetare nel sangue la loro furia.
Come rivoli d’acqua che spezzano la roccia, il Branco si calò in prima linea: gli uomini e le donne col manto di lupo avanzavano con la schiuma che si riversava ai lati della loro bocca, con i denti mordevano gli scudi o li percuotevano con le armi, mentre incedevano in una corsa forsennata.
La donna dai capelli ramati disarcionò un Hooligan con la sola forza delle sue braccia, gli aprì la gola con i denti e ne tirò fuori un tralcio sanguinolento, per poi sfondargli la testa con l’ascia, continuando a colpire e colpire, mentre schizzi di sangue e brandelli di cervella gli saltavano sul viso o ricadevano nella scollatura. Rideva, rideva in preda al delirio.
Anche Barnas era sceso in battaglia: dal suo arco vibrò una freccia che sbalzò in aria un Hooligan a cavallo; due nemici, appiedati, provarono ad attaccarlo, ma lui infilzò il primo con un rostro dell’arco e tagliò la gola del secondo con un sinuoso movimento della sua daga ricurva. I suoi movimenti avevano un qualcosa di innaturale: più rapidi e precisi di quelli di qualsiasi mortale. Sembrava aver sempre coscienza di ciò che lo circondava e agire di conseguenza.
Non ansimava mai per lo sforzo, né per la fatica. Scoccata una freccia, un’altra era già incoccata prima che la precedente avesse raggiunto il bersaglio.
‘Bastiano distolse lo sguardo: dovevano essere immagini evocate dal copioso flusso di adrenalina che gli scorreva in corpo. Strinse la mano intorno all’elsa, riportandosi alla realtà e si concentrò sulla battaglia: la sua battaglia.

Un Hooligan appiedato gli venne incontro: la caduta da cavallo l’aveva lasciato zoppicante, ma la presa sulla spada era ancora ben salda. Una metà del suo volto era dipinta di blu, mentre sull’altra metà si raccoglievano residui di fango e sangue seccato. Cercò di colpirlo, ma ‘Bastiano bloccò il fendente e rispose con una scudisciata che lo gettò in terra. Il Cangramo si lanciò su di lui e cominciò a colpire con il pomo della spada sugli incisivi, in breve la bocca gli si trasformò in una spelonca di gengive sanguinanti e spuntoni giallastri che gli ricadevano in schegge sulla barba. Senza perdere tempo ‘Bastiano lo sgozzò e si rimise in piedi.
La confusione della battaglia lo circondava, avanzava senza ben sapere dove andare, quando una botta per poco non gli tolse i sensi. Si ritrovò con la schiena al suolo, un paio di zoccoli scuri pronti a pestargli la faccia.
“Non morirò così!”
si urlò dentro, mentre rotolava di lato, in tempo per non rimanere ucciso . Il cavaliere che l’aveva travolto cercò di finire il lavoro, ma ‘Bastiano fu rapido a muoversi sotto il ventre della cavalcatura, e conficcare a fondo la spada nei suoi intestini: un fiotto di sangue caldo si riversò sulle mani del Cangramo, mentre la lama penetrava nella carne fino alla guardia.
Il cavallò stramazzò al suolo, schiacciando sotto il suo peso l’Hooligan che lo montava. “Sono vivo… sono vivo!” gli riuscì solo di pensare, ma la sua spada era ormai perduta e non c’era il tempo di recuperarla “Devo trovare un’altra arma, adesso!”.
Cercò in terra, spostando il corpo di uno dei suoi: un giovanotto con il naso all’insù e gli occhi ormai vitrei, il disgraziato era sceso in battaglia con un’accetta da falegname. ‘Bastiano la prese, saggiandone un attimo la calibratura.
“Meglio di niente” pensò “sarà anche un attrezzo da lavoro, ma uccide comunque. È questo l’importante”.
Un altro Hooligan, un uomo di mezz’età con una testa di cavallo rampante sull’elmo, tentò di caricarlo, lui riuscì a evitare i chiodi della sua mazza. E mentre quello si voltava per tentare un secondo attacco, ‘Bastiano prese la mira con cura, trattenne il respiro e scagliò l’accetta. La testa affilata dell’arma andò a conficcarsi nel viso dell’uomo rovesciandone in terra l’elmo. Il cavaliere stramazzò al suolo con il viso spezzato in due. Il giovane Cangramo raccolse l’arma che gli era caduta.

Mazza alla mano; lo scudo ormai a brandelli; la sete di sangue, il furore per la battaglia pompato dal cuore che incedeva a un ritmo forsennato, ‘Bastiano si diede a far m’abbassa dei suoi nemici: gli spuntoni che penetravano nei crani, sfondando le ossa… quel rumore, quella sensazione, sì, gli dava un qualche piacere perverso e ferino. Qualcosa di violento e ancestrale, come se fosse venuto al mondo solo per fare questo.
Passo dopo passo sentiva il suo spirito farsi più vicino a quello dei guerrieri del Branco, il cui desiderio di sangue si palesava nelle grottesche risa che tendevano i loro volti, quando uccidevano e inferivano sui corpi, fino a fare di una faccia una poltiglia di carne spappolata, per poi proseguire nella loro furia omicida.
Il Kelta con un solo orecchio si era scagliato su uno degli Hooligan, con una mano alla mandibola e l’altra alla mascella, gli disarticolò la bocca e al suo interno ci fece scivolare la spada, rigirandola con una torsione del polso.
Il campo di battaglia era ormai un dedalo di corpi, sangue, grida. E fu lì, fra il clangore del ferro e dell’acciaio, che un barbagianni sfiorò con le sue ali il viso di ‘Bastiano, volando poco sopra la sua testa.
Il giovane lo seguì con lo sguardo, mentre ogni rumore si faceva lontano, mentre la furia nel suo cuore si placava. Con la grazia di una danzatrice il volatile si posò sulla spalla di un uomo che pareva essere spuntato dal nulla: indossava vesti grigie, consunte dal tempo, e una lunga barba ramata gli scendeva fino al petto. Dei suoi occhi il sinistro era nero come solo la nera notte sa essere, mentre l’altro era avvolto di una fitta nebbia bianca.
“Lo stesso spirito della Selva, è tornato a perseguitarmi anche quaggiù…”.
Con la mano sinistra stringeva il suo bastone, una piuma d’aquila e una di corvo legate all’estremità. La mano destra giaceva riversa sul fianco.
Ancora una volta, una voce potente nel cuore di ‘Bastiano lo invitò ad avvicinarsi: qualcosa dentro di lui lo rassicurò che nessun nemico l’avrebbe ostacolato nel suo cammino.
A pochi centimetri dall’uomo vestito di grigio, quello lo guardò con espressione grave, abbassando entrambi gli occhi al corpo che giaceva esanime ai suoi piedi.
‘Bastiano si chinò e notò che si trattava del giovane dagli occhi glauchi, Vanni: il suo volta era scuro di polvere e fango, e una ferita sul fianco cacciava sangue in lunghi rivoli. Il giovane Cangramo sentì gli occhi pizzicare, farsi umidi, e alzò lo sguardo verso quell’uomo vestito di grigio, lo spirito della Selva. Egli gli parlò con una voce profonda, una voce che era antica come il tempo stesso e potente come un fulmine che spezza una montagna a metà, quando la saetta incontra la roccia.
«Tu la salverai» gli ingiunse «la battaglia finisce qui».
Con la punta del bastone colpì il suolo. A ‘Bastiano sembrò che la terra tremasse sotto quel colpo.
Gli Hooligans suonarono la ritirata, il sibilo del ferro contro l’acciaio iniziò a placarsi, lasciando il posto alle urla di dolore dei feriti e degli agonizzanti. ‘Bastiano sbarrò gli occhi, la bocca aperta in un’espressione di stupore e paura, mentre la sua mano era scesa a tamponare la ferita di Vanni.
Guardò all’uomo vestito di abiti grigi e la domanda che gli sovvenne scivolò dalle labbra senza neanche passare per l’anticamera dei suoi pensieri
«C-chi sei tu?» 




NdA: Buonsalve lettori! Woah, questa è la prima volta in assoluto che descrivo una battaglia campale e devo ammettere di essere emozionato. Come me la sono cavato secondo voi? Miraccomando, risposte sincere! Comunque il nostro 'Bastiano si dimostra essere un valido stratega, almeno quando si tratta di affrontare un orda di barbari assetati di sangue. Vi è piaciuto il capitolo? Cosa pensate che voglia lo spirito della Selva e non vi sembra di averlo già visto da qualche altra parte? Perchè ha chiesto a 'Bastiano di salvare Vanni? E secondo voi la nostra recluta di Valspurga nasconde forse qualcosa?
Con la speranza che apprezziate il capitolo almeno la metà di quanto io ho amato scriverlo, vi porgo i miei saluti

un abbraccio,
Il Signore Oscuro

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Capitolo 14
*** Piume di Corvo - (Sebastiano) ***


Capitolo XIV
Piume di Corvo
(Sebastiano)

 


La Storia l’avrebbe ricordata come la battaglia del Purgamada, o di Valspurga a seconda di chi ne avrebbe scritto. Per ‘Bastiano era stata, molto semplicemente, l’esperienza più strana e assurda che avesse mai vissuto. Quando gli Hooligans erano battuti in ritirata, i cerusici dei Kelta si erano messi in azione, trasportando nelle case, svuotate dei loro abitanti, i feriti che necessitavano di cure. Lì avrebbero provveduto a rattopparli alla bell’e meglio.
Vanni fu caricato su una lettiga e portato in una catapecchia alla periferia del Purgamada, ‘Bastiano lo accompagnò. Non dipendeva solo dalle parole dello spirito, in cuor suo sentiva d’essersi affezionato a quel ragazzino impacciato, ma coraggioso come pochi.

Nella casa dal mobilio spartano, fra le poche semplici cose necessarie a una vita umile, c’era una donna dai lunghi capelli corvini e una tintura di colore nero che copriva entrambi gli occhi e parte della fronte. Indossava una mantella di stoffa scura, con piume di corvo cucite in corrispondenza delle spalle. Il suo accento era quello sibilante e duro degli altri Kelta.
Su un comodino accanto al letto aveva sistemato una bacinella con dell’acqua; un’anfora di vino bollente e un sacchetto che, di primo acchito, ‘Bastiano non riuscì a intuire cosa contenesse.
Quando i portantini adagiarono fra le lenzuola il corpo di Vanni, la donna lanciò al Cangramo un’occhiata torva, corrucciando le sopracciglia nascoste dietro il trucco.
«Esci cane-lupo, ho bisogno di solitudine per lavorare»
‘Bastiano si morse un labbro “Non lo lascerò da solo”
«Ti prego» rispose, la voce incrinata e sfinita «voglio aiutare, non ti recherò disturbo».
La cerusica lo guardò per un poco, poi sospirò flebilmente, facendo spallucce.
«E va bene, inizia a spogliarlo. Devo vedere com’è messo»
‘Bastiano acconsentì, con un rapido cenno d’assenso e si adoperò per slacciare le cinghie dell’armatura di Vanni. Quelle vennero via facilmente, con la cotta di maglia fu un poco più complicato: il corpo inerte del ragazzo non aiutava di certo.
Quando non rimase che la tunica di lino, beh, ‘Bastiano si limitò a strapparla rimanendo come un pesce lesso di fronte a ciò che si ritrovò davanti: lì dove c’era il petto di Vanni, in corrispondenza dei capezzoli, v’erano due piccoli rigonfiamenti. “U-una donna” pensò imbambolato, con gli occhi sgranati.
La cerusica lo spostò di malomodo, schioccando la lingua infastidita e prese a toccare la ferita con le dita affusolate ed esperte «Non è profonda, ma andrà comunque ripulita. Dammi il vino e uno straccio. Bene, così.»
Il lembo di tessuto fra le sue mani si colorò di viola a contatto col vino fumante.
Con quello prese a detergere la ferita dal sangue rappreso che la circondava.
Dopodiché tastò la pelle tutto intorno
«Sembra non ci sia nulla di rotto, posso andare avanti» disse, quasi fra sé e sé «Cane lupo» continuò, rivolta a ‘Bastiano «dammi quel sacchetto lì, esatto, proprio quello».
‘Bastiano aveva avuto la sensazione che qualcosa si muovesse dietro la iuta, quando aveva preso il sacchetto fra le mani. Con orrore constatò che non si trattava solo di un’impressione: lì dentro c’era una massa di minuscoli vermi bianchi, tutti intenti a contorcersi con i loro corpi mollicci senz’ossa.
‘Bastiano sentì la sua bocca piegarsi in una smorfia di disgusto. La cerusica lo notò, lanciandogli un’occhiata in tralice: i suoi occhi erano scuri come due perle che riflettono la notte.
«Sono larve, cane lupo» esclamò, mentre ne raccoglieva una manciata e le infilava all’interno della ferita aperta di Vanni.
«A che servono?» chiese ‘Bastiano, figurandosi con un brivido di avere uno di quegli esserini mollicci a spasso nella propria carne.
«Hai mai visto un corpo morto e consumato dal tempo, cane-lupo?»
«No» ammise ‘Bastiano.
La cerusica mugugnò un assenso «Le larve mangiano la morte via dal corpo. Noi cerusiche siamo le adepte della Voidvoda, osserviamo e conosciamo ogni dettaglio di tutto ciò che muore. Apriamo i corpi, li esploriamo pezzo per pezzo, capiamo cosa li ha svuotati della vita»
Una scossa fredda corse a pizzicare la schiena di ‘Bastiano “Il Culto punisce duramente la dissezione: il corpo è un Tempio del Redivivo, profanarlo è un peccato mortale”.
«Ciò che impariamo dai morti lo adoperiamo per salvare i vivi» prese un ago dalla saccoccia che portava al fianco, ne passò la punta sulla fiamma di una candela «È un confine così sottile, sai, si tratta di un’unica, fondamentale differenza: sei vivo» sorrise, mentre si apprestava a riunire insieme i due lembi di carne separati dalla ferita «sei morto».
Quando l’ago penetrò nella pelle, Vanni emise un verso infastidito. I suoi occhi erano ancora chiusi, ma anche nel sonno doveva sentire dolore.

A lavoro finito la cerusica raccattò le sue cose e si congedò, i suoi servizi probabilmente erano richiesti altrove: il lavoro non mancava mai alla fine di una battaglia.
«Adesso devo andare. Veglia su di lei, se il dolore dovesse farsi troppo intenso dalle una di quelle bacche che ti ho lasciato lì sopra» gli disse, indicando una manciata di frutti dal colore rosso vivo.
«Ti ringrazio, senza di te non ce l’avrebbe fatta» ‘Bastiano si guardò la punta dei piedi
«È il mio voto occuparmi dei feriti, cane-lupo» disse lei, non assecondando la lusinga
«Sebastiano» la corresse «chiamami Sebastiano. E comunque, aldilà dei tuoi doveri, hai la mia piena gratitudine» abbozzò un sorriso.
La cerusica sbuffò divertita e si avviò verso la porta, “Che strano” pensò il giovane “le ho detto il mio nome, ma lei…”
«Sonja, io mi chiamo Sonja» esclamò la cerusica, prima di richiudere la porta dietro di sé.
“Se le donne nobili avessero la metà della forza del suo carattere penso che mi sarei sposato già da tempo” sorrise ‘Bastiano, fissando il legno consunto della porta.
Adesso era rimasto solo con Vanni. Dopo un primo imbarazzo coprì il suo corpo nudo con le lenzuola e accomodato allo sgabello attese che si risvegliasse.
Osservò quel volto, sì sentì davvero stupido per non aver capito prima la verità su di lei. Ma la domanda più grande restava una: perché lo spirito gli aveva chiesto di salvarla? Certo, lo avrebbe fatto in ogni caso, ma cosa si nascondeva dietro tutta questa storia? Chi era quello spirito? Perché si ostinava a perseguitarlo? Cosa voleva da lui?
Forse il Redivivo o qualche altra divinità l’avevano votato a un qualche strano destino di cui non era a conoscenza e di cui anche la giovane Vanni faceva parte. Certo, gli riusciva difficile pensare che un angelo (una fra le più gettonate creature che il Redivivo adoperava per comunicare con i mortali) si conciasse come l’ultimo degli eremiti, ma poteva sempre essere. I disegni del Redivivo sono imperscrutabili, le sue vie infinite, gli aveva insegnato quel vecchio bastardo di Calenda “Magari aveva ragione…”.
A un tratto le palpebre di Vanni si schiusero, rivelando la luce che serbavano i suoi occhi glauchi.
«M-mio signore» sussurrò la ragazza, accennando a mettersi seduta.
«No, no, resta ferma. Non devi muoverti» le disse, posandole una mano sulla spalla.
Lei fece cenno di aver capito e sospirò richiudendo gli occhi. Ma passato qualche istante li spalancò. Diede un occhio sotto le coperte e poi rivolse un’occhiata terrorizzata verso ‘Bastiano. Ci vollero pochi istanti perché rimettesse insieme i pezzi nella sua testa. Le labbra si aprirono e presero a tremare.
«V-voi sapete» esclamò, con voce rauca «Ve ne prego» tossì debolmente «lasciatemi spiegare»
‘Bastiano le posò un dito sulla bocca «Non devi preoccuparti di questo adesso» la rassicurò «E non hai bisogno di spiegarmi alcunché: hai combattuto valorosamente, al pari dei tuoi compagni»
Le sue labbra si richiusero. Deglutì, non senza fatica, mentre due lacrime le rigavano le guance. Alzò gli occhi verso il soffitto.
«Sapete, non ho mai avuto la mano buona per filare, cucinare, pulire… insomma, tutto quelle cose che si richiedono a una donna. Volevo provare a me stessa di poter davvero fare qualcosa» si umettò le labbra «provare a me stessa che potevo essere più di quanto gli altri si aspettavano. Per questo mi sono arruolata, sono diventata un soldato, ho imparato a combattere. Dovevo essere io a decidere» i suoi occhi tornarono a rivolgersi a ‘Bastiano «so che la legge lo vieta, che ci sono delle conseguenze per ciò che ho fatto. Ma, nonostante tutto, mio signore, mentirei a me stessa e a voi se dicessi che mi pento delle mie azioni»
«Lo capisco» replicò ‘Bastiano «e hai ragione, una donna non piò rimanere nell’esercito. Non siamo Kelta, ci sono leggi che vanno rispettate»
Vanni sospirò e strizzò gli occhi, sforzandosi di non piangere ancora.
«Ed è per questo» continuò ‘Bastiano «che d’ora in avanti sarai la mia personale guardia del corpo»
«C-cosa?!» chiese la ragazza, incredula.
«La Legge vieta che una donna possa essere arruolata nell’esercito, ma è a discrezione di ciascun uomo scegliere chi possa essere messo a guardia della propria incolumità» ‘Bastiano le rivolse un sorriso carico d’affetto e ammirazione «La cosa sarà ufficiale, una volta che ti sarai rimessa. Non dovrai più nascondere il tuo sesso» gli occhi di ‘Bastiano guizzarono d’una luce furbesca «ma c’è una condizione»
«Quale, m-mio signore?» chiese, tirando su con il naso.
«Voglio sapere il tuo nome, il tuo vero nome».
Le guance le si colorirono di un tenue rosso «Ammetto di non aver avuto grande fantasia nello scegliere un nuovo nome. Mi chiamo Giovanna di Purgamada, mio signore. Ma potete continuare a chiamarmi Vanni, se lo desiderate»
‘Bastiano le rivolse un cenno d’assenso «Adesso ti lascio riposare» le disse, alzandosi dallo sgabelli «rimarrò comunque da queste parti»
Lei sorrise debolmente, prima che le palpebre le celassero nuovamente gli occhi glauchi, precipitandola nel mondo dei sogni.

‘Bastiano si stiracchio, le giunture scricchiolarono mentre tendeva i muscoli. Aveva bisogno di sgranchirsi le gambe dopo essere rimasto seduto tutto quel tempo. Nel Purgamada, buona parte dei Kelta aveva fatto armi e bagagli per ritornarsene nella Selva Scura, lì da dove erano venuti. Anche di Bernas non c’era più traccia. “Peccato” pensò ‘Bastiano “avrei voluto chiedergli di continuare quel discorso”.
Ma ad aspettarlo c’era ben altro che una piacevole conversazione riguardo la religione e la mitologia del popolo silvano: nel Purgamada, difatti, aveva appena fatto il suo ingresso l’ultima persona che il giovane Cagramo avrebbe voluto vedere in quel momento: il Conte, suo padre, accompagnato da un tremante Capetingi che si preparava a mediare fra i due.
Il viso di Severo era stato scavato dall’ansia e le labbra erano contratte, come se trattenessero a stento parole che sarebbero invece volute esplodere fuori. ‘Bastiano scelse di rimanere integro e immobile, spalle dritte e petto in fuori si preparò a fronteggiare il padre.
«Mio signore-» cercò di intervenire il Capetingi, mentre Severo incedeva verso suo figlio.
«Potestà»  lo fulminò il Conte «desidero parlare con mio figlio ‘Bastiano, da solo.»
Il Capetingi non poté che alzare le mani e congedarsi, con un frettoloso quanto grossolano inchino sulle gambe grassocce.
“Devo affrontarlo” si disse il giovane, mentre incontrava lo sguardo di suo padre.
«Ti rendi minimamente conto di ciò che hai rischiato? Potevi rimanere ucciso! Credi che si tratti di un gioco?!» il viso di Severo si era fatto paonazzo, una patina lucida ricopriva i suoi occhi arrossati.
«Certo che me ne rendo conto» ribatté ‘Bastiano, sforzando di non alterarsi a sua volta «ma cosa ti aspettavi? Che rimanessi sempre attaccato alle tue sottane come un bamboccio?!» fece un passo ardito verso suo padre, la collera e il risentimento prendevano piede dentro di lui «Non fai altro che ripetermi che un giorno ci sarò io al tuo posto; che sono il tuo erede; che ho delle responsabilità nei riguardi della famiglia e dei nostri possedimenti. Bene, questo vuol dire che è un mio preciso dovere difenderle quando vengono attaccate» espirò rumorosamente dal naso «anche senza il bisogno di chiederti il permesso»
«Quello è un mio dovere, sai bene che non avevi alcun diritto-»
«Sì che ne avevo diritto padre!» urlò questa volta, ignorando il tremolio che gli gocciolava nelle ginocchia «forse la saggezza devo ancora apprenderla, ma di forza e di coraggio ne ho già abbastanza di per me. Ascoltami padre, cosa penserebbero gli uomini di un uomo che si mette a comandarli a bacchetta senza mai aver dimostrato loro chi è, cosa è capace di fare» riprese un attimo fiato «La battaglia è stata un successo, le perdite minime, e quando sarò Conte loro… » deglutì «loro sapranno chi sono! E così i Kelta e la gente del Purgamada»
Il silenzio di suo padre bastò a cavargli fuori tutto ciò che ancora voleva dirgli
«Non diventerò mai un uomo, se non mi lascerai mettere da parte i panni del ragazzino» per la prima volta da che ne aveva memoria, ‘Bastiano sentì la voce di suo padre incrinarsi
«Io… io non posso perdere anche te» la mascella si serrò, tendendo la pelle del suo viso. ‘Bastiano distolse lo sguardo, ispirando lentamente, riducendo la sua voce a un filo
«Padre, sappiamo entrambi che è stato necessario farlo. Lei era d’accordo…»
«Eppure rimpiango quella scelta ogni notte» sospirò  lui, stringendo il pugno «dal primo istante in cui mi sveglio all’ultimo in cui i miei occhi si chiudono. State crescendo e vorrei fosse qui, accanto a me, a vedervi diventare grandi»
«Manca anche a me, credimi padre» disse ‘Bastiano mentre due lacrime salate gli scivolavano giù dalle guance, quella ferita non era così ben cicatrizzata quanto aveva pensato. Pose una mano sulla spalla di suo padre, stringendo con forza «Ma ad oggi avresti rimpianto di più il non aver fatto quella scelta… lo sai bene anche tu».




NdA: Dopo un esame andato a cacca mi consolo pubblicando un nuovo capitolo. In realtà nella stesura originale il presente doveva essere parte del Capitolo XIII, per questo si ripete il POV di Sebastiano. Questa scelta l'ho presa per non caricare di eventi 'Il Sangue e la Furia'. Intanto rivolgo i miei ringraziamenti ai lettori vecchi e nuovi:
Fan of The Doors, morgengabe, Polx_, RoryJackson, Makil_, deianirarouge e DarkViolet92

un abbraccio,
Il Signore Oscuro

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Capitolo 15
*** Quante cose sa il cucciolo di cane-lupo - (Arturo) ***


CAPITOLO XV
Quante cose sa il cucciolo di cane-lupo
(Arturo)
 
 

Molto si rammaricò l’Errante nell’apprendere che anche il veloce Hirsh era andato perduto. Ma nel dolore egli trovò conferma dei dubbi e dei timori che tanto a lungo l’avevano tormentato: qualcuno stava dando la caccia agli antichi spiriti.
Poiché acuta era la sua mente, e vasto il suo intelletto, il dio che per i sette mondi erra prestò consiglio all’irascibile Volf: che nelle spoglie d’un umano si celasse, fino a quando il pericolo non fosse cessato.
Nel corpo d’un mortale però Volf incontrò una donna, Boudicca: ella indossava vesti di ferro, i suoi capelli bruni scendevano per tutta l’altezza del suo bel corpo, e quando dal braccio scagliava la sua lancia, essa rapida e implacabile colpiva il suo bersaglio. Per la sua forza, per il suo coraggio e la sua beltà, Volf se ne innamorò e per molte notti giacque insieme con lei: riempiendosi gli occhi del suo sguardo, e scaldando nel suo corpo le membra effimere in cui dimorava.
Ma l’inganno l’Ingannatore aveva scovato, e la sua vendetta si scatenò sanguinosa e terribile: ogni notte un uomo, una donna, un bambino era ritrovato dilaniato nel suo letto: le viscere masticate, il cuore strappato via e l’orrore scolpito dentro gli occhi. Passati tre giorni, il morto si scavava fuori della sua fossa e dei vivi faceva la preda per la sua caccia.
Gli uomini presero allora a bruciare i corpi, invece di consegnarli alla fredda terra integri come in vita erano stati


Arturo notò che un numeretto richiamava a una nota a piè di pagina “Siribosio suppone che in questo punto il mito giustifichi il passaggio dall’inumazione dei morti, praticata dai Kelta forse in tempi molto lontani, a quella dell’incinerazione”.

“Lapaj giunse una notte alla tenda di Boudicca e dell’irascibile Volf. Con orrore essi videro che il corpo di Karvar, posseduto da Ber e manipolato da Lapaj, era stato deformato  dal suo peccato mortale: egli era divenuto alto e possente come il più alto e possente degli alberi in una foresta; il suo cranio s’era allungato, divenuto pallido come un teschio; dal suo capo si levavano corna di cervo contorte; le sue mani ormai zampe d’una fiera feroce; i suoi piedi simili agli artigli d’un uccello rapace. Delle sue labbra non v’era più nulla, esse si erano ritirate a lasciar scoperte le gengive umide di saliva e sangue viscoso, con due file di denti lunghi e acuminati come pugnali. Dell’uomo ormai non v’era rimasto più nulla, Karvar era infine divenuto Wendigo, la bestia divoratrice”

Arturo sospirò, vedendo un rimando all’ennesima nota: odiava interrompere lo scorrere della storia sotto i suoi occhi. Ma volle leggerla comunque “Wendigo, sempre per opinione di Mastro Siribosio, è la personalizzazione di un timore molto presente nella civiltà Kelta: è noto che alcune tribù pratichino il cannibalismo, ma solo su nemici uccisi valorosamente in battaglia. Cibarsi dei propri simili, all’infuori di tale contesto, è considerato un peccato mortale. Eppure non era raro che durante rigidissimi inverni, specie nelle zone settentrionali, questo potesse accadere. Siribosio riferisce, con una certa sicurezza, che la creatura chiamata Wendigo funge in questo senso da deterrente”.

“Wendigo, nella sua fame sconfinata, tentò una notte di lambire nelle sue fauci Boudicca, ma fu a quel punto che Volf, spogliatosi della carne di uomo, rivelò le sue fattezze di spirito.
In una lotta furiosa che scosse nelle fondamenta le montagne; che agitò i venti dei sette mondi; che tremò la notte fin nelle stelle stesse; essi si affrontarono, cercando ognuno la morte dell’altro, senza però riuscirvi.
Intervenne allora l’Errante, e con un soffio chiamò una fitta nebbia, oltre la quale solo il suo occhio bianco sapeva scrutare. Portò in salvo Boudicca, e Volf strappò dalla battaglia, conducendo entrambi dove Wendigo non avrebbe saputo seguirli”


Arturo voltò pagina, “Voglio proprio vedere come intendono liberarsi di quel coso…”

“Così l’Errante parlò a Volf e alla bella Boudicca, quando furono in salvo, che nel loro cuore già ardeva terribile vendetta.
«La creatura che avete veduto divorò gli spiriti che al mondo erano i più potenti. E il mio sospetto è che Lapaj, l’Ingannatore, abbia insidiato la mente di Ber perché egli divorasse i suoi fratelli, e quando fu nel regno dei mortali, fece sì che si impossessasse del corpo di un umano, così da passare inosservato»
«Cosa te lo fa pensare? In quell’essere non vi è nulla più d’umano di quanto non ve ne sia in una bestia che abita la selva» gli rispose Boudicca, con nei begli occhi la penombra del suo dubbio
«Io lo penso, poiché più si nutre, più egli si fa forte, esattamente-»
«Esattamente com’è nella natura dell’affamato Ber, il fratello mio che fu perduto» completò per lui la frase Volf, che nel suo volto portava tutti i segni di un’ombrosa melanconia.
«E come affrontarlo dunque?»
Così, l’Errante si portò una mano alla barba ramata e parlò con la voce sottile delle confidenze fatte a pochi intimi «Per quanto possa non sembrare, Wendigo è nel corpo ancora un uomo. Facciamo che ritorni com’era: debole e fragile, com’è proprio della carne dei mortali. Forgerò per te, Boudicca, una lancia che scavi nel suo petto sino al cuore: il dolore lo paralizzerà.
Sarà allora che Volf aprirà il ventre della bestia, ne caverà fuori gli spiriti divorati. Essi non possono essere che vivi, poiché la morte non coglie ciò che è più antico di lei stessa.
Infine, quando sarà debole, svuotato del potere conquistato con l’inganno, divideremo la testa dal collo e di lì caveremo Lapaj, scacciandolo come lo spirito infido che esso è. A quel punto Ber potrà ritornare, in pace, fra i suoi fratelli»

Il piano fu concordato, e per tutto il viaggio del sole sulla volta del mondo, l’Errante forgiò a Boudicca una lancia: sulla punta incise le rune d’un linguaggio antico, in cui alla parola corrispondeva un incanto. Nel ferro infuse il ghiaccio che congela, il silenzio che soffoca la gola e il dolore che spezza e piega. Per l’asta l’Errante utilizzò un ramo, che l’Yggradisl stesso gli diede in dono. Con tre ciocche della sua barba ramata legò la punta di lancia alla sua asta. Con un soffio del suo respiro, del legno e del ferro fece una cosa sola.
Vulf, che non aveva bisogno che alcuna arma venisse dalla sua mano impugnata, ma poiché doveva tagliare e squarciare, scelse d’indossare la forma del lupo. E quando venne la notte, alto si levò il suo canto alla luna.
Boudicca cavalcò Volf per le terre del mondo, fino a scovare l’alta ombra di Wendigo. Con la grazia e la forza che l’era propria, caricò e stese il braccio, conficcando la sua lancia nel cuore della terribile bestia, le cui urla scossero fin nelle viscere la terra stessa. Sul corpo paralizzato di Wendigo si lanciò Volf, reso più potente dalla sua furia, e con le zanne ne varcò le membra: grattò via la pelle, squarciò i muscoli e il suo stomaco aprì in due. Uno ad uno, gli spirti ne scivolarono fuori, storditi da quella prigionia tanto a lungo protrattasi.
Ma non era ancora il tempo della riunione e del sollievo: mancava un fratello e andava liberato. In piedi si risollevò Wendigo, indebolito ma non ancora morto.
Con le grandi mani riportò gli intestini lì ove dovevano stare, cavò la lancia via dal suo cuore e con i nudi artigli affrontò l’irascibile Volf.
Per sette giorni e sette notti si protrasse la loro battaglia, e nessuno ebbe l’ardire di intervenire, per aiutare l’una o l’altra parte, poiché tanta era la foga, tanta era la furia, che sarebbe parso un’ingiustizia se non fosse stato il più forte a conquistarsi la vittoria”


Arturo denegò col capo. “Ecco un’altra assurdità: alle volte questo racconto manca di logica. Wendigo vorrebbe distruggere il mondo, che aspettano a farlo a pezzi?!”.

“Ma infine Volf serrò le fauci intorno al collo della creatura, e il capo recise dalla gola. La testa rotolò via. E su di uno degli occhi l’Errante vi pestò la punta del suo bastone, scacciandone via Lapaj che, stanco e sconfitto, fuggì. Ma prima di andare egli non mancò di giurare terribile vendetta contro gli spiriti antichi e gli uomini loro fedeli

Dopo quella furiosa battaglia i villaggi degli uomini si riunirono in uno solo, acclamando la potente Boudicca quale loro regina.
Poiché nelle guerre che l’avrebbero attesa non sarebbe stato onesto adoperare il potere degli dei, prese la lancia e la riconsegnò all’Errante, che molto ammirò il suo onore.
Boudicca ebbe da Volf numerosi figli, ciascuno dei quali fu benedetto con doni da parte degli spiriti antichi. Così nacquero le cinque stirpi che ancora oggi sono parte del Klan e che insieme prosperano per Clitalia intera.
A lungo visse Boudicca nelle sue spoglie mortali e prima che la morte la cogliesse, Volf le donò l’immortalità, così che da dea ella potesse sempre e per sempre rimanere al fianco del suo sposo.
I figli di Boudicca governarono nella concordia, così i loro discendenti, ancora e ancora. Essi si preparavano alla vendetta di Lapaj, che erano certi, sarebbe un giorno arrivata: terribile e sanguinosa com’era promessa”.


Quando Arturo richiuse il tomo, le pagine impattarono l’una contro l’altra con un tonfo e uno spostamento d’aria che fece tremolare le fiamme sulle candele. Con un soffio estinse del tutto la cera, ritrovandosi avvolto nell’oscurità.
“Che storia” pensò, mentre si avvicinava a tentoni alla finestra. Pur con tutte le sue incongruenze non gli era dispiaciuta affatto. Tirò il chiavistello e spalancò le imposte: quella che entrò era una luce grigia, di quella luce che aspetta la sera.
Suo padre era uscito per correre da ‘Bastiano, il cuore di Arturo accelerò i suoi battiti contro il petto a quel pensiero “Mi chiedo se stia bene, se sia rimasto ferito…” Arturo si strofinò una mano sull’occhio destro, tirando indietro una ciocca di capelli “ Razza di stupido! Ma cosa vai a pensare? Certo che sta bene!” sospirò e i suoi occhi ricaddero sull’armadio, e ciò che era nascosto sotto di esso “Sì, ho bisogno di far qualcosa per distrarmi da questi cattivi pensieri”


La fucina di Carne di Corda quella mattina aveva le finestre spalancate. Il fabbro non era alla forgia: la brace era spenta. Sui tavoli, disseminati nella stanza, erano accatastate le spade forgiate in settimane e settimane di lavoro. La luce pallida del giorno accarezzava debolmente l’acciaio, restituendo solo una macchia biancastra che aveva a stento la forza di rifrangersi sulle pareti.
Carne di Corda era intento a osservare una delle lame, strizzando un occhio e tenendone un altro ben aperto, quando Arturo fece capolino.
«Ah, sei qui ragazzo» disse, senza distogliere la sua attenzione dalla spada.
«Già» rispose Arturo, laconico, spazzandosi un poco di fuliggine dalla tunica logora. Muovendo qualche passo verso il fabbro.
«Visto che sei qui, fammi il piacere, trovami una cote e affila le lame che ti passo. Sai affilare, sì?»
Arturo mugugnò un assenso e si mise alla ricerca della cote: essa consisteva in una pietra di forma rettangolare, abbastanza leggera da essere maneggiata agilmente ma compatta e resistente. Quando finalmente la trovò, fra pinze, martelli e altre cianfrusaglie. Tirò a sé uno sgabello e, presa una spada, cominciò a fare quanto richiesto.
Bisognava tenere l’arma ben ferma e passare la cote sul filo senza far troppa pressione: le scintille che ne venivano fuori, si spegnevano contro il pavimento della bottega. Mentre quel suono costante, quel suono ripetitivo dell’acciaio che canta, lo aiutava a non pensare, a non pensare a suo fratello, al pericolo che aveva corso o che forse stava ancora correndo. I suoi occhi scivolarono verso Carne di Corda, si arrampicarono per le sue gambe secche, su per il ventre, fino al serpente che si mordeva la coda sulla sua spalla.
“Non gli ho mai chiesto se avesse un significato, se se l’è tatuato per qualche motivo in particolare…”. Poteva essere sgarbato fare una domanda del genere, ma dannazione, lui voleva sapere!
«Andrea, non te l’ho mai chiesto, ma» si schiarì la voce «c’è una ragione per cui ti sei tatuato quella vipera?»
Carne di Corda ghignò, senza guardarlo in volto «Perché ti interessa, ragazzo?»
Arturo sbuffò, posando la lama e prendendo ad affilarne un’altra «Niente di che, semplice curiosità».
Finalmente Carne di Corda rivolse a lui i suoi occhi di ghiaccio e acciaio «Curiosità che un giorno ti metterà nei guai, figliolo» per un attimo Arturo immaginò di aver per padre il fabbro. Quella prospettiva non lo entusiasmò «Magari mi piacciono i serpenti e ho voluto tatuarmene uno» emise una breve risata rauca «qualcuno dice che a un serpente ci assomiglio pure»
Arturo sollevò un sopracciglio «O, magari, mi stai raccontando balle. I vostri tatuaggi non sono mai fatti a caso.»
«Quante cose sa il cucciolo di cane-lupo» gli lanciò un’occhiata in tralice, lo stesso ghigno da rettile sul volto «Ti metto alla prova, vediamo se sai questo: qual è la prima legge del  Klan?»
Arturo si calcò il mento con le dita, lasciando per un attimo la cote in equilibrio sulle gambe. Sfogliò nella sua mente in cerca di ricordi che lo assistessero.
«Qualcosa riguardo, ehm, le armi mi pare. Sì! Il fatto che non si possono comprare armi»
Carne di Corda mugugnò compiaciuto, «Ci sei vicino» e poi prese a recitare, come se decantasse fosse una vecchia poesia mandata a memoria tanto tempo fa «Non brandirai arma che non sia forgiata nel sangue o nel sale: il ferro e l’acciaio disdegnano le lusinghe dell’oro. L’Occhio di Boudicca ti osserva. Sai cosa significa, ragazzo?»
Arturo fece cenno di no con il capo. “Boudicca… il libro diceva che era diventata una dea. Per citarla nelle loro leggi dev’essere una figura centrale all’interno della mitologia del Klan”.
«Significa che nessuno nel Klan può possedere o anche solo brandire un’arma che non abbia strappato via a un nemico durante una battaglia. A meno che non l’abbia forgiato lui stesso»
«E tu… tu hai violato la legge?» chiese Arturo, posando la spada a cui aveva smesso ormai di lavorare.
«Precisamente, ragazzo. Avevo la curiosità di scoprire nuove forme in cui il metallo potesse essere forgiato, ma prima di provare dovevo conoscere! Così, quando un mercante venne a raccogliere le eccedenze che hanno fatto la fortuna di voi Cangramo, beh, io gli chiesi di comprare per mio conto delle armi provenienti da terre lontane. Pensa, gli pagai persino la commissione. Non mi importava da dove le prendesse, l’importante era che me le facesse arrivare opportunamente nascoste» lo sguardo del fabbro si piantò negli occhi di Arturo «e così lui fece. Devo ammetterlo, fu discreto. E io potei soddisfare la mia sete di conoscenza: memorizzai la forma delle esotiche sciabole Manidi, le leggendarie lame di luna Mogul, e quelle a uncino delle Terre del Fuoco. Intuì come organizzare la struttura e la composizione del metallo, certo, dopo alcune prove» sbuffò, con un ghigno amaro «ma la mia proverbiale sete mi costò il mio posto nel Klan, ragazzo. Quel posto conquistato con tanta fatica» concluse, battendosi un pugno sul petto incavato.
«Tanta fatica?» scandì Arturo, sgranando un poco gli occhi.
«Già, i nostri riti  per il passaggio all’età adulta sono un po’ più movimentati dei vostri compleanni, fatti di nient’altro che feste, regali e banchetti»
Arturo distolse lo sguardo, sentendo le guance avvampare “Perché me ne vergogno? Non ho scelto io dove nascere. Mi chiedo se i ragazzi della mia età, lì fra i Kelta, sono già considerati uomini” un brivido gli frustò la schiena.
«Mi dispiace» gli riuscì soltanto di rispondere, con un filo di voce.
«Non devi scusarti, ragazzo» rise tetro Carne di Corda «certamente non sei stato tu a mettermi in mente certe strane idee. Anzi, penso tu non fossi neanche nato al tempo. In ogni caso, quando un Kelta viene esiliato dal Klan» si tamburellò con un dito il serpente che si mordeva la coda sulla sua spalla «questo è il simbolo della sua vergogna, del suo tradimento. Il serpente è l’animale totem di Lapaj-»
«Lo spirito ingannatore» lo anticipò Arturo
Carne di Corda denegò col capo, ripetendo «Quante cosa sa il cucciolo di cane-lupo?»
«I-io, beh, ho finito proprio oggi di leggere la leggenda del Wendigo» balbettò Arturo, strofinandosi le mani una nell’altra.
«Molti dei miei fratelli credono a quella favola» sbuffò «Stronzate se vuoi sapere come la penso io. Perché mai uno spirito dovrebbe prendersi la briga di annientarci tutti? Lo facciamo benissimo già da soli»
«Quindi tu credi agli spiriti? Non l’avrei mai detto» notò Arturo, unendo le labbra e abbassando lievemente le sopracciglia.
«Un uomo crede ai suoi occhi, ragazzo-» e a quel punto serrò i denti sulla punta della lingua, ammutolendosi qualche istante. E quando la lasciò andare, la sua voce si era fatta dura e greve come il metallo nelle sue iridi «Adesso taci e rimettiti al lavoro. Abbiamo già perso abbastanza tempo»



NdA: Ehilà, sì, non sono morto (non ancora almeno) è solo che la mole di studio per gli esami ha ridotto drasticamente i miei ritmi di scrittura, ma non vi ho abbandonati quindi 'Don't panic'. Eccoci con il quindicesimo capitolo, un po' piccolino ma che perlomeno conclude la lettura de La leggenda del Wendigo. Piccola nota a proposito di questo: non mi piace proprio com'è uscito, e sarà proprio una di quelle parti che riscriverò quasi del tutto quando avrò finito, dunque scusatemi se fa schifo. Per il resto, se avete domande circa la grande fetta di LORE servitavi in queste cinque paginette sono qui per rispondervi e vi aspetto con trepidazione!
Ringrazio con tutto il cuore _Polx_ (che nella mia testa è ormai la 'maratoneta' di questa storia), Fan of the Doors, morgengabe, Makil_, deianirarouge e Roryjackson.

Un abbraccio,
Il SIgnore Oscuro





 

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Capitolo 16
*** Scacco Matto - (Carlo) ***


CAPITOLO XVI
SCACCO MATTO
(CARLO)
 
 

«Ancora una volta rinnovo le mie congratulazioni per il tuo cavalierato. E approfitto della presente per comunicarti l’invito alle nozze di tua sorella Miranda, nel primo giorno di primavera. Gli inviti ufficiali saranno recati a giorni presso il Principe Alfonso e Sua Maestà Re Ferrante Argona, re di Argonia e della Costa Orientale» Alfonso interruppe la lettura, per emettere un sospiro «con affetto, Tuo p-pad-re. Cazzo…» concluse con un brivido nella voce, serrando le dita d’una mano sui capelli di Carlo e accartocciando il foglio nell’altra.
Un rivolo caldo e denso si riversò nella bocca del cavaliere, mentre i tremori nel corpo di Alfonso si quietavano poco a poco. Carlo si staccò e, dopo essersi rialzato, sputò nel vaso da notte, ripulendosi la bocca con il dorso del braccio. Il Principe non mancò di lanciargli un’occhiata torva mentre rialzava le braghe.
Il giovane Cangramo gli rispose con uno sbuffo
«Mangia più frutta, era terribilmente salato» gli disse, mentre si rimetteva indosso la tunica di lino malamente abbandonata sul letto.
«Sono stronzate» replicò lui, incrociando le braccia madide di sudore.
Carlo sorrise «Tu intanto provaci, poi vediamo» si umettò le labbra «Comunque, parlando di cose serie: sembra che la mia cara sorellina finalmente si sposi»
«Ne sei felice?» chiese Alfonso, legando i lacci del giustacuore.
«Dipende se nostro padre ha scelto un uomo alla sua altezza. È una ragazza di rara bellezza, ma conoscendo il mio vecchio avrà sicuramente preso un uomo degno di questo nome»
«Cosa te lo fa credere?» chiese Alfonso, accomodandosi alla sponda del letto, inforcando gli stivali di cuoio bruno.
«È sempre stata la cocca di papà. Guai a chi gli toccava Miranda! Le buscavi di sicuro» sbuffò di nuovo, denegando energicamente col capo «Credi che tuo padre verrà al matrimonio?»
Alfonso inarcò un sopracciglio, un ghigno gli tese le labbra «Sciroccato com’è, potrebbe anche decidere di venire, nonostante sia contrario all’etichetta» poi aggiunse, con fare più serio «Ma aldilà delle sue intenzioni è troppo vecchio per mettersi in viaggio»
Carlo mugugnò un assenso e si figurò nella mente quel matrimonio lontano ancora dei mesi. Le giornate iniziavano appena ad accorciarsi, sarebbe dovuto passare un autunno ed un inverno prima di rivedere casa. Poteva dirsi ben impaziente di ritornare: aveva nostalgia dei suoi fratelli, di Rocca Grigia, del suo vecchio persino. Immaginò le mura della sua casa farsi largo fra le fronde della Selva Scura e un suono di corno che, dalla guardiola, si levava alto sino al cielo.

Era bello sfogliare quei ricordi per riportarli al presente, maIl flusso dei suoi pensieri venne bruscamente interrotto da tre energici colpi alla porta. Carlo sbarrò gli occhi, rivolgendoli repentini al Principe, che si era portato un indice alle labbra.
«Mio Signore, siete in camera?» Carlo riconobbe la voce di uno dei giovani paggetti del sovrano.
«Sì, ci sono» Alfonso deglutì, dissimulando il tremolio nella voce «Chi mi cerca?»
«Vostro padre, mio signore. Richiede la vostra presenza alla Porta Occidentale. Ha sottolineato l’importanza di recarvi lì al più presto, e vestito come si conviene alle occasioni ufficiali» il paggetto emise un verso informe, come quando si cerca di rimembrare qualcosa «Ah, ha aggiunto che non dovete recare alcuna arma con voi» Carlo e Alfonso si scambiarono un’occhiata allarmata.
«V-va bene. Comunica a mio padre, il re, che sarò da lui quanto prima».
I passi del messo si allontanarono lungo il corridoio, facendosi più tenui poco a poco, sino a svanire del tutto. Solo allora Carlo osò parlare, con la voce densa e pesante.
«Sai questo che significa, vero?»
«Certo che lo so, non sono ancora rincretinito» replicò il Principe, acido, spogliandosi dei vestiti indossati solo qualche minuto prima «Adesso va’, aspettami all’ingresso con due cavalli già sellati«.
Il cavaliere fece per avvicinarsi alla porta, quando la voce di Alfonso lo richiamò «Ah, Carlo»
«Sì?» replicò lui, con una mano già sul pomolo.
«Vieni armato» gli ingiunse, con tono perentorio.    

Il Principe lo precedeva di alcuni metri in sella a una splendida giumenta bianca, con lunghi crini grigio scuro che scendevano sulla parte sinistra del collo possente. La cavalcatura di Carlo era certo più umile: un baio dall’indole mite, che avanzava quieto e silenzioso lungo le vie lastricate di Argonia. Alfonso, come richiesto dal padre, aveva scelto i suoi abiti migliori: un farsetto cobalto con cordoni d’oro all’altezza del collo; una lunga cappa dello stesso colore, con i risvolti in pelliccia maculata, copriva la sua schiena. I calzoni scuri erano inforcati in un paio di stivali di camoscio castano: solo a guardarli a Carlo veniva voglia di sentire sotto le dita la morbidezza vellutata di quel tessuto. Di contro il giovane Cangramo aveva optato per i suoi consueti abiti da guerra, parzialmente coperti da una cappa di stoffa nera. Al fianco, celata dal mantello, avvertiva il peso dell’ascia da guerra. La testa affilata che tante volte aveva conosciuto la durezza di un cranio umano.
Gli bastava pensarci un attimo per rievocare nella mente il suono sordo dell’acciaio contro le ossa: un suono che lo faceva fremere e rabbrividire insieme.
Il suo sguardo si insinuò nella folla che gremiva i lati della strada, la gente era uscita di casa per ammirare il corteo di Re Ferrante, passato da lì non più di un quarto d’ora prima. Adesso seguivano con gli occhi il loro Principe e il cavaliere al suo seguito, qualcuno sorridendo, altri piegandosi in sgraziati inchini.
Ma non c’erano le grida, le esultanze, che poco prima dovevano aver accompagnato il Re Ferrante nel suo cammino verso i cancelli “Avranno perso la voce a furia di starnazzare”. Al posto delle voci c’era un altro suono, un rumore costante che tremava nell’aria: una musica fatta di metallo contro metallo; di zoccoli che scalpicciano al passo sullo sterrato; passi che, al medesimo ritmo, avanzavano in marcia.
Accolti da quella melodia giunsero infine alla porta occidentale, dove il re aveva lo sguardo rivolto verso ovest. Alfonso, come di dovere, si affiancò a suo padre; Carlo allo stesso modo rimase indietro.
“Sembrano così simili visti di spalle” l’unica differenza risiedeva nella corona d’oro uncinata, tempestata di lapislazzuli e zaffiri, posta sul capo canuto di Re Ferrante.
Carlo si sporse da cavallo per sbirciare chi provenisse dalla strada d’ovest: ciò che vide fu un’armata fatta di uomini e cavalli, che insieme avanzavano verso Argonia. I loro passi risuonavano del frastuono di cento e più tuoni riuniti in uno soltanto.
In prima linea una schiera di pretoriani, con aquile in rilievo sugli scudi rettangolari.
“Merda… pessimo segno”.
Procedeva su entrambi i fianchi la cavalleria leggera, dalle tuniche borgogna rinforzate con fasce in cuoio e gli elmi a cupola, coronati da pennacchi piumati e svettanti.
In seconda linea uomini armati con corazze a piastre e lame dalla lunghezza inferiore a quella di una spada lunga, ma vistosamente più ampie nella misura del piatto. I loro scudi, simili nella forma a quelli dei pretoriani, erano tuttavia spogli d’ogni genere di orpello e perciò apparivano sensibilmente più discreti e facili da trasportare. Nel loro equipaggiamento Carlo riconobbe quello dei legionari, le truppe di fanteria pesante arruolate nelle Terre Centrali.
A chiudere la colonna c’erano soldati con tuniche leggere e sandali in cuoio, che marciavano con una lancia serrata fra le dita e l’altra assicurata dietro la schiena.
Un solo uomo a cavallo avanzava al centro dello schieramento: era un individuo dal fisico segaligno, tanto alto che le sue spalle avevano finito per incurvarsi un poco “Non è certo un uomo d’armi” e difatti non recava con sé neanche una misera daga: vestiva il sobrio abito talare dei sacerdoti, il suo viso aveva tratti morbidi e gradevoli allo sguardo. Occhi di un vispo azzurro, che Carlo ebbe la sensazione studiassero tutto ciò su cui avessero a posarsi, ma con una tale leggerezza che, ad esserne osservato, il cavaliere non avrebbe provato alcuna soggezione.
I capelli, di un lucente castano chiaro, vivevano il decorso di una calvizie incipiente e avevano ormai disertato un’ampia zona oltre l’attaccatura della fronte. Quello che rimaneva della chioma era stato tagliato al limite del raso, forse per rendere meno evidente la calvizie stessa.
L’uomo montava un castrato color fumo, dal fisico imponente. Sul corpo del sacerdote, nonostante s’intendesse l’alto lignaggio del suo portamento, non c’era alcun orpello, se non un piccolo anello d’oro che cingeva il mignolo sinistro.
Alfonso e Ferrante, seguiti da Carlo, varcarono i cancelli della città andando incontro a quel viaggiatore che certo non aveva cura di passare inosservato.

I soldati della colonna arrestarono la loro marcia a pochi metri dai cancelli, zittendo in un sol tempo il baccano causato dal cozzare delle loro armature. I pretoriani e i legionari si disposero in due file, abbastanza distanti perché l’uomo a cavallo potesse passare fra loro senza impedimento.
Da quella distanza Carlo notò che sull’anello di quel curioso individuo baluginava un rubino dal rosso intenso.
Prima ancora che li raggiungesse, l’uomo fu anticipato da una densa scia d’odore che si emanava dalla sua pelle: un profumo che sapeva di limone e olio d’oliva.
«Re Ferrante. Principe Alfonso.» esclamò l’uomo, con una voce calda e rassicurante, abbassando leggermente il capo. Carlo si affiancò ad Alfonso, ma quel sacerdote, pur notandolo, non parve degnarlo di alcuna attenzione.
La mano con l’anello fu porta al Re, che baciò il gioiello con solennità, gli occhi che quasi luccicavano. Il Principe fu più restio del suo vecchio a quell’omaggio. Esitava, fissando la croce di rubino incastonata nell’effige a corona dell’anello, ma infine anch’egli cedette a quel costume. Il tocco delle sue labbra fu rapido, privo di raccoglimento.
A Carlo non sfuggì l’oscurità calata negli occhi del giovane Argona.
«Mio signore, è un onore avervi come nostro vicario» esclamò il Sovrano, la voce tremante per l’emozione “Sembra quasi che lo sciroccato stia per mettersi a piangere” pensò Carlo.
«L’onore è tutto mio» rispose l’uomo a cavallo, abbozzando un sorriso.
«I vostri uomini» intervenne il Principe «confido che faranno ritorno a casa, una volta che vi sarete sistemato» la voce di Alfonso era arrochita, non nascondeva il veleno che si portava dentro.
“Qualcosa lo preoccupa, e non fatico a immaginare cosa” pensò il cavaliere, mentre lo sguardo saettava all’anello del nuovo vicario di Argonia e alla grande armata che si era portato dietro
«Buona parte di loro sì, mio caro Alfonso» disse quello, con un ampio sorriso «ma mio zio Raminus crede, nella sua infinita saggezza, che sia nel vostro interesse stabilire in loco una piccola guarnigione di uomini. Anche a fronte della recente dipartita del vicario Toniacci e dei molti che lo hanno preceduto nell’ufficio» fece una pausa a quella frase, Carlo e Alfonso si scambiarono una rapida occhiata «La criminalità è un cancro e, ahimè, affligge tutte le comunità umane e in special modo le più grandi città di Clitalia. È nel nostro comune interesse che si uniscano gli sforzi per debellarla quanto prima» il sorriso dell’uomo si chiuse a mostrare solo le labbra e non più i suoi denti.
«Una guarnigione?! So perfettamente c-» provò a protestare Alfonso, con la voce che già si infiammava, ma suo padre lo zittì seduta stante “Se potessi, bacerei quel vecchio! In questo istante!”.
«Fa’ silenzio, figlio!» le sopracciglia cespugliose di Ferrante si crucciarono sul suo sguardo, prima di tornare a distendersi «Sarà una vero piacere accogliere voi e i vostri uomini con i rispetti che meritate. Non rimarrete delusi dalla nostra Argonia, il gioiello della Costa Orientale!» e, così dicendo, fece strada al vicario. Un sorriso ebete stampato in volto. Mentre Alfonso guardava in terra, sussurrando fra sé e sé chissà quali imprecazioni.

A Carlo servì qualche istante per mettere insieme i pezzi. Raccolse le informazioni che gli erano rimaste in testa dai tempi degli studi sull’araldica e le famiglie di Clitalia “Raminus è l’Alto Sacerdote di Utopia. Suo fratello è Magnus, re fra i pari e signore di Arcadia. Okay, ci siamo” qualcosa si illuminò negli occhi del cavaliere “So che tra i figli di Magnus Orimberga in due hanno preso il sacerdozio: mi ricordo che uno era Iulianus, che serve in quell’ordine di monaci guerrieri… la Furia Crociata! Ma questo qui non porta una spada né altro, quindi non può che essere, sì, Horatius, l’altro gemello! Horatius Orimberga!”
Il suo guardo scivolò verso Alfonso, il suo corpo era un fascio di nervi. Poteva quasi sentirlo digrignare i denti, anche se non gli vedeva la bocca. “Posso solo sperare che questo vicario non sia severo come il precedente. Se Alfonso facesse una cazzata delle sue… io non oso immaginare le conseguenze”.
E mentre queste parole risuonavano nella mente di Carlo, tetre come presagi di sventura, Horatius faceva il suo ingresso ad Argonia. Seguito dal Re e del di lui figlio.
Un tumulto di voci animò la città. Erano le grida trionfanti della folla, ritornata alla propria festa, mentre ammirava le armate delle Terre Centrali con le armature che splendevano, raccogliendo i raggi del sole.



NdA: Salve ragazzuoli, rieccoci con un capitolo che è un po' una chiusa della prima parte di questa storia e che ha tutti i presagi di un casotto come non se ne sono mai visti. Cosa ne pensate di questo nuovo vicario? Perchè Il Culto si è disturbato a mandare un principe-sacerdote in Argonia? Horatius durerà? O magari no? Condividete le preoccupazioni di Carlo per gli eventuali colpi di testa di Alfonso o vi sentite abbastanza tranzolli? Fatemelo sapere :3 e sopratutto fatemi sapere se la storia fino ad ora vi sta prendendo e cosa vi aspettate per il futuro dell'allegra famiglia Cangramo.
COMUNQUE una piccola nota per i capitoli che seguiranno: ce ne saranno tre o quattro abbastanza brevi e che non contribuiranno granchè all'evoluzione della trama, ma che saranno utili per approfondire i personaggi e i legami che intercorrono fra loro

un abbraccio,
Il Signore Oscuro

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Capitolo 17
*** Le foglie d'autunno e i fiori della primavera - (Miranda) ***


CAPITOLO XVII
LE FOGLIE D’AUTUNNO E I FIORI DELLA PRIMAVERA
(MIRANDA)
 
 

Quando qualcuno ti racconta una storia, certo alcune cose vengono omesse o stringate, perché esse non finiscano per occupare in modo esagerato lo spazio di una narrazione. Il tempo, che nella tua vita di tutti i giorni è un gigante senza catene, qui è invece un pesciolino in balia della corrente, sospinto dalle onde. Sì, qui lui è alla mia mercé, non appena l’inchiostro graffia la carta. E allo stesso modo è alla tua, tu che leggi, che da un momento all’altro puoi frenarlo: richiudendo l’una sull’altra queste pagine.

Già da qualche settimana l’estate aveva lasciato il passo all’autunno: le giornate avevano cominciato ad accorciarsi e il sole sempre meno danzava sulla volta del cielo, andando a morire ogni giorno un po’ prima, giù nel ventre della terra.
Quel mattino d’autunno, di buona ora, Miranda e Vittorio avevano deciso di passare un po’ di tempo da soli: lontani dagli occhi guardinghi dei Pretoriani e dell’onnipresente Mowan. Ma per fare ciò, certo non potevano rimanere nella Rocca Grigia. E dunque, riempite un paio di saccocce con il primo raccolto di castagne passate sulla brace, si avviarono a cavallo per la Selva Scura.
La luce del giorno era ancora pallida e grigia sullo sterrato che si insinuava fra gli alberi, la strada era ricoperta da un tappeto di foglie tinte di rosso, d’arancio, di giallo e di bruno. Foglie secche che scricchiolavano sotto gli zoccoli al passo. Foglie secche che avevano lasciato gli alberi spogli, con i rami come nude dita contorte.
Miranda sentiva in sé un latente senso di malinconia, come sempre accadeva quando l’estate lasciava il passo all’autunno. Vittorio invece si guardava intorno, la bocca semiaperta, gli occhi sbarrati persi nell’ammirazione di quanto lo circondava.
«Sai, per la maggior parte della mia vita ho vissuto in città» esordì lui, a un certo punto «Quello è un mondo immobile, un mondo che cambia con lentezza. Non ho mai visto niente del genere». Miranda non poté negare di essere rimasta un po’ stupita da quell’affermazione.
«Credevo avessi viaggiato molto, che una foresta d’autunno ti fosse già capitato di vederla» disse lei, aggrottando le sopracciglia. I suoi occhi azzurri scivolarono verso di lei.
«Certo, ne ho vedute molte» ci tenne a chiarire «Ma non era alla foresta che mi riferivo» rispose lui, abbozzando un sorriso cheto.
«E a cosa?» chiese lei, giocherellando un poco con i crini del suo cavallo, le guance diventate un po’ più calde.
«Mi riferisco al fatto che non sono mai rimasto tanto a lungo in un luogo da vederlo mutare sotto i miei occhi, così, tutto intorno a me» tornò a osservare i rami «certo, ad Arcadia ogni tanto mettono su una nuova casa; buttano giù qualche vecchio tugurio. Ma non è neanche lontanamente paragonabile a questo».
Ha dentro di sé l’anima degli artisti” pensò Miranda, ritornando con lo sguardo sul sentiero “mi sarei aspettata che un mercante fosse estremamente legato alle cose materiali, ma lui no. Lui è stato capace di sorprendermi”. Si ritrovò a sorridere, senza neanche rendersene conto.

Dopo che per quindici minuti il tempo si fu sciolto e diluito intorno a loro, notarono che ad ovest si apriva un piccolo spazio erboso fra gli alberi. Lì una roccia sollevava la sua gobba dal terreno. Sembrava un buon posto dove fare colazione, e scesi di sella condussero i cavalli per le redini fino allo spiazzo, cercando poi un luogo dove tenerli legati.
«Qui, a quest’albero» indicò Vittorio, annodando la corda intorno al tronco «meglio non mettere troppa distanza fra noi e loro. Se si avvicina qualche animale si agiteranno, mettendoci in allarme».
Miranda lasciò che il mercante si occupasse anche della sua cavalcatura, e raccolta una stola color crema, la dispose al suolo lisciandola per bene. Quando finalmente si sedettero, aprirono i sacchi contenenti le castagne prese dalle cucine.
«Sono ancora calde» esclamò la giovane Cangramo, raccogliendone una ed emettendo un gemito di sollievo. Il freddo nell’aria non era troppo pungente, ma come un insetto si insinuava al di sotto dei vestiti, divenendo estremamente fastidioso. Grattava sulla pelle sottile delle nocche e all’altezza degli zigomi, poter riscaldare almeno i palmi era un sollievo non indifferente.
«In orfanotrofio ogni domenica preparavano questo dolce» iniziò a spiegare Vittorio, spingendo con i pollici sull’apertura della buccia «che si chiama castagnaccio. Aspettavo con trepidazione il fine settimana solo per mangiarne una fetta. Ma devo ammettere che anche le castagne da sole, cotte alla brace, non sono affatto male!» e ne cacciò una in bocca.
Miranda lo imitò, masticando con cura e parlando solo una volta che aveva deglutito «L’ultimo giorno di autunno nelle cucine del Castello preparano il Monte Bianco. È anche questo un dolce a base di castagne, sai»
«Oh, vero?» disse Vittorio. appoggiando il mento su di un palmo «e in cosa consiste?»
«È come un pan d’Iberia fatto però con castagne, e poi coperto con cioccolato e panna» la ragazza cominciò a spiegargli per filo e per segno il processo di preparazione: come ottenere la polvere alla base dell’impasto, le dosi e i tempi di cottura. E anche quando ebbero finito di parlare di quel piatto, continuarono a lungo a discutere di cucina e di ricette varie.
Miranda riteneva di intendersela abbastanza in questo genere di cose: negli anni aveva imparato a cucinare. “Il fatto che una donna del tuo lignaggio abbia qualcuno che cucina per lei, non ti autorizza a non imparare” le aveva detto Bice, quando da bambina aveva sollevato le sue obiezioni. Con il tempo la cucina era diventata la componente preferita del suo apprendistato da nobildonna che fosse degna di questo nome.
Questo perché, prima di preparare una qualsiasi pietanza, doveva assaggiarla e così tutte le volte che terminava di cucinare un piatto. Amava mangiare, e spesso avrebbe voluto farlo oltre misura, ma l’etichetta e il contegno propri di una nobildonna condannavano questo genere di eccessi. Le bacchettate di Bice sulle mani gliel’avevano ricordato più volte quand’era bambina “Dimmi, sei una bambina o un porcellino?” e, a quei rimproveri, le prime volte Miranda aveva risposto ponendo alla balia la stessa domanda con una singola variante “E tu sei una donna o un porcellino?” . Le sferzate alle nocche le avevano insegnato che era meglio mordersi la lingua e tenere a freno la sua impudenza.
Anche Vittorio sembrava essere una buona forchetta, ma di cucina se ne intendeva poco quanto niente “Certo, stando sempre in movimento non ha neanche modo di procurarsi il necessario per il più stupido dei piatti” pensò Miranda, “poco male, glielo insegnerò al primo viaggio insieme”.

Mangiarono di gusto, accompagnando le castagne con il dolce vino speziato della borraccia che Vittorio si era portato dietro. Quando furono sazi, il mercante si stese con la testa sulle gambe di Miranda e chiuse gli occhi, assaporando sulla pelle il calore di quel sole sbiadito che saliva rapido nel cielo. Miranda si divertì a intrecciare le dita nei suoi capelli, ripetendo dentro di sé una vecchia poesia che aveva letto tempo fa, reinterpretandola perché calzasse sul suo promesso come un guanto “Ha nel suo corpo ogni stagione: l’Inverno nel gelido azzurro dei suoi occhi. L’autunno nel castano chiaro della sua chioma. La primavera nella voce sempre viva. E l’estate…” inspirò a fondo il suo profumo di limone e oriente “l’estate è il suo odore”.
Lo sguardo di Miranda accarezzò il suo capo, scese giù per le guance velate della sottile barba che si lasciava sul viso, da quando era giunto a Rocca Grigia. Solitamente era lì che si fermava, quando lo contemplava. Ma adesso che i suoi occhi erano chiusi, e nessuno la osservava, volle osare di più. Scese giù per il mento fino alle clavicole, che sporgevano dalla tunica di lana e il gilet di cuoio. Uno strano calore iniziò ad arrampicarsi dentro di lei. Scese più giù per i legacci intrecciati, fino al cavallo dei calzoni che conteneva una forma curiosa: la stessa forma che aveva sentito premere quando alle volte si abbracciavano. Non era una sciocca bambina, sapeva benissimo di cosa si trattasse, solo che non si era mai soffermata a guardarla.
Quel calore che sentiva dentro cominciò a crescere, e pian piano si insinuò in ogni angolo del suo corpo, facendosi ardente fra le cosce. E proprio da qui un formicolio si fece strada in lei, sempre più intenso, sempre più insistente. Aumentò la salivazione nella sua bocca, dovette deglutire. I capezzoli contro il corpetto si fecero turgidi e sorse un assurdo e inspiegabile bisogno di toccarsi lì sotto, o di sfregare il proprio sesso contro qualcosa. “Cos’è questa cosa che sento? Io… io non l’ho mai provata prima” il respiro era come se inciampasse, mentre le scivolava dal naso giù nei polmoni. Cominciò a sentirsi inquieta. Ma non volle muoversi, non voleva arrecargli disturbo
«Caspita, sei una fornace» disse lui, abbozzando un sorriso e aprendo l’occhio destro verso di lei mentre strizzava l’altro «ti usano per riscaldare le sale del Castello durante l’inverno?». Lei deglutì e gli calò un debole scappellotto sulla guancia “Non devo dargli a vedere che non sono serena, rispondi a tono!”.
«Spiritoso, abbiamo il sangue caldo noi Cangramo, che credi?» “Per il Redivivo, se Bice mi sentisse ora mi inseguirebbe con la bacchetta per tutta Clitalia. Razza di stupida! Ora chissà cosa andrà a pensare…”
Ma il mercante si limitò a ridere, rimettendosi seduto «Sì, avevo intuito che in famiglia foste tutti un po’ peperini». Dentro di sé Miranda tirò un enorme sospiro di sollievo “Fortuna che non l’ha intesa in altro modo”.

Poco dopo, raccolte le proprie cose e slegati i cavalli, si rimisero in marcia verso Rocca Grigia. Il viaggio di ritorno si prospettava tranquillo: lungo la strada, qualche sospiro di vento spostava le foglie  dallo sterrato, mandandole a coprire le radici degli alberi, o facendole volteggiare in brevi svolazzi nei meandri della Selva.
«Sai, non vedo l’ora che arrivi il giorno delle nozze» disse a un certo punto Miranda, mentre proseguivano l’una di fianco all’altro.
«Sarà un giorno speciale, vedrai» disse Vittorio, abbozzando un sorriso «può sembrare banale dirlo, ma sarà per davvero il primo della nostra vita insieme»
«Stiamo già vivendo insieme» lo pungolò Miranda.
«Certo, ma sai, ci sono queste» esitò, alla ricerca di una parola adatta «queste limitazioni. E io voglio passare il mio tempo con te, senza preoccuparmi di cosa potrebbe pensare la gente».
“Ha ragione” pensò la ragazza “essere fidanzati significa poter camminare fianco a fianco, ma tenere il massimo contegno sia in pubblico che in privato. E già per uno stupido bacio, o un innocuo abbraccio, dobbiamo fare ben attenzione che nessuno sia nei paraggi” «Vedrai che presto queste limitazioni spariranno, è solo una cosa temporanea» lo rincuorò.
«Ah, lo so» disse lui con un altro dei suoi bianchi sorrisi «è solo che i giorni sembrano non passare mai abbastanza in fretta».
“Mi chiedo se la sua impazienza sia dettata da certi bisogni che sono propri degli uomini” ma subito quel pensiero le parve ipocrita “va bene, magari non solo degli uomini”. Vittorio dovette notare il silenzio della sua promessa, perché si affrettò ad aggiungere, non senza un velo di imbarazzo.
«Voglio poterti prendere e viaggiare per mare, sai, come ci eravamo promessi».
“Di certo non lo ammetterà mai apertamente” e l’evidente imbarazzo nel volto di lui la lusingò, gli ultimi residui della bambina che era stata venivano strappati via poco a poco.
«Anch’io non vedo l’ora, Vittorio. Voglio vedere quei posti di cui mi hai tanto par-» la voce le si ruppe in gola, mentre il suo sguardo veniva risucchiato da cinque squarci impressi sulla corteccia di un albero, ciascuno squarcio alla medesima distanza l’uno dall’altro. Alla ragazza non riuscì di chiedersi il perché quell’immagine avesse stupita così tanto: in una foresta come quella era normale che un animale lasciasse tracce del proprio passaggio. Sull’albero più innanzi, gli stessi segni si ripetevano uguali e identici, e così su di un altro ancor più lontano. Di tronco in tronco gli occhi di Miranda scivolarono sino a una figura solitaria nella Selva: un uomo incappucciato se ne stava seduto su di un masso, con un bastone appoggiato sulla spalla. La ragazza non riusciva a scorgerne il viso, ma una lunga barba ramata gli scendeva dal mento sino a lambire il petto.
«Ehi, Miranda, tutto bene?» la richiamò il Belgi, scrollandola delicatamente per una spalla.
Fu come se la mano di Vittorio l’avesse strappata a un sogno vivido, troppo perché non lasciasse un attimo attoniti il corpo e la mente «Eh? I-io sì, è solo che ho visto qualcuno. Laggiù.» indicò, alzando appena un dito.
«Dove?» chiese Vittorio, seguendo la direzione dell’indice. Ma il tempo di quel breve scambio di battute era stato sufficiente perché la strana figura si dileguasse nel nulla da cui era comparsa, insieme con i segni di artigli lasciati sulle cortecce degli alberi.
«Niente, niente, dev’essere stato frutto della mia immaginazione» esclamò Miranda, con un sorriso che appena le tendeva gli angoli della bocca. Mentre le sopracciglia rimanevano corrugate, sospinte l’una verso l’altra.

Ma l’inquietudine di quella visione non ebbe a turbarla più di qualche minuto da che si era manifestata: i popolani raccontavano spesso di vedere strane cose fra gli alberi della Selva Scura. Era una foresta antica, più antica della stessa Rocca Grigia. E come spesso succede, le cose che da più tempo sono al mondo si caricano di suggestioni che spingono gli occhi a cedere cose che in realtà non sono.

Quando giunse la sera tarda, e Miranda giaceva ormai nel suo letto, immagini e pensieri di ben altra risma occupavano la sua mente. Quando chiudeva le palpebre gli pareva di rivivere una scena risalente a mesi e mesi fa, quando si era occupata di cambiare le fasciature di Vittorio. Era una storia ormai vecchia, già da settimane aveva mollato il muso tenuto con ‘Bastiano e il suo promesso si era ristabilito del tutto senza ripercussioni.
Quel giorno, forse consumata dalla preoccupazione, non aveva fatto caso al petto e al ventre nudo del suo futuro sposo: Vittorio aveva un corpo tonico, certo, meno di quello di suo fratello ‘Bastiano, o di Carlo, ma sicuramente gradevole ai suoi occhi. Riviveva i momenti in cui ci aveva posato sopra le mani: il calore di quel contatto. Un calore che adesso le bruciava le dita, al solo ripensarlo. Il formicolio e le vampate si ripresentarono, lesti e inaspettati come quella stessa mattina. La fantasia di Miranda iniziò a giocare con le immagini, a colorarle di sfumature che tanto a lungo aveva pensato proibite...
Crebbe il calore, il formicolio si fece forte come un prurito. E quel bisogno di sfiorarsi divenne sempre più insistente, quasi irresistibile. Passò alcuni minuti a porsi domande, se fosse giusto o sbagliato cedere a quell’impulso. Se fosse degno di una nobildonna. Se non si trattasse di qualcosa per cui si doveva provare vergogna. Ma pian piano queste paure, queste insicurezze, vacillarono dinanzi all’insistenza del suo desiderio, aizzato dal pensiero rassicurante “Qui, nella mia stanza, non mi vedrà mai nessuno”.

E come quando si placa una sete di lungo corso, all’acqua di un ruscello gelido e incontaminato, con altrettanta foga le dita sottili scivolarono verso giù, fra le cosce strette l’una all’altra, nel suo sesso dischiuso come un segreto.     





NdA: Rieccomi qui con un capitolo che forse non tutti si aspettavano. La nostra Miranda ormai la conoscerete: è una ragazza che vuole essere già una donna ed è proprio in questo senso che ho voluto approfondirla. Per tutta la vita le è stato imposto un modo di comportarsi, le è stato insegnato a mantenere un certo contegno e a controllare i suoi desideri. Qui ho voluto lasciarle un po' più di libertà. Ho voluto osservare una ragazza che, nel suo processo di crescita, conosce il proprio corpo, la propria sessualità. È stato un esperimento che mi ha intrigato parecchio (anche se, certo, avrei potuto svilupparlo meglio). Inoltre è sempre un'emozione vedere i personaggi crescere e maturare davanti ai tuoi occhi :')

Un abbraccio,
Il Signore Oscuro

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Capitolo 18
*** Il lupo e il cinghiale - (Arturo) ***


CAPITOLO XVIII
Il lupo e il cinghiale
(Arturo)
 

 
Dalla Rocca Grigia manipoli di cacciatori erano stati inviati in lungo e in largo per le terre sotto la giurisdizione del Conte Cangramo. Sebben i raccolti di Valspurga e la pesca del Volga assicurassero viveri anche per i periodi più proibitivi dell’anno, era dal consumo di carne che i corpi dei soldati traevano la forza per combattere nel corso della bella stagione: quando le incursioni dei Kelta ostili si facevano più frequenti. Il consumo di carne faceva crescere un ragazzo forte e robusto, mentre si avviava a diventare un uomo.
Non di meno era nell’interesse di tutti che nella natura della Selva venisse mantenuto un costante equilibrio: una popolazione eccessiva di cinghiatauri e cervi sarebbe divenuta una piaga per i campi messi a coltura. Altresì una caccia intensa e smodata avrebbe causato la penuria di prede, e in conseguenza di ciò i predatori affamati avrebbero iniziato a rivalersi sul bestiame e sugli uomini.
“E questo non deve accadere” pensò Arturo, mentre le foglie ingiallite di un cespuglio gli solleticavano il naso. Vanni e Mowan erano in attesa con lui, ansiose di poter contribuire all’approvvigionamento di risorse.
L’occhio del giovane Cangramo scivolò sul corpo esile di Vanni: sulla casacca nera con rinforzi in acciaio, e la coda di cavallo che le sfiorava la spalla. In molti nella Rocca Grigia avevano espresso il loro disappunto sul fatto che l’erede del Conte avesse messo la sua stessa vita nelle mani di una donna, tra l’altro non dotata di particolari capacità belliche. Ma Arturo aveva capito immediatamente gli scopi del fratello: negli occhi glauchi della ragazza aveva rivisto gli stessi di quella recluta tremolante, incapace, fino a qualche mese prima, di scoccare una freccia dal suo arco malfermo.
“A ‘Bastiano non serve una guardia del corpo, questo è palese. Ma a una donna non è concesso militare nell’esercito” aveva pensato la prima volta che l’aveva veduta al fianco di suo fratello, mentre un sorriso furbo gli curvava le labbra.
Nelle mani Vanni stringeva una sperona, la tipica lancia per la caccia al cinghiatauro. Arturo l’aveva osservata attentamente durante gli allenamenti: era goffa e sgraziata con una spada o un’ascia in mano, ma armi come le lance sembravano infonderle tutta la sicurezza e la decisione di cui aveva bisogno per combattere.

La giovane forse si accorse di essere osservata, e mosse lo sguardo ad Arturo, incrociandolo con il suo. La bocca sottile le si contrasse in un sorriso imbarazzato che il giovane ricambiò, mentre l’istinto di strofinarsi le mani l’una nell’altra faceva capolino
“È un’abitudine che devo togliermi” si diceva lui, serrando i pugni.
«Quando avete finito di riempirvi di amorosi sguardi ci sarebbe un cervo da cacciare» li richiamò Mowan, provocando un improvviso rossore sulle gote di entrambi. La Mogul però aveva ragione: più in là, fra gli alberi ormai quasi spogli di tutto il fogliame, c’era un grosso cervo maschio ignaro della loro presenza. Era una bestia con lunghe corna contorte che si levavano dal suo capo come una corona ferina. L’animale scostava il pavimento di foglie secche con il muso, e messa a nudo la ruvida erbetta che sotto vi era celata, cominciò a brucarla con fare quieto. Mowan raccolse una freccia dalla sua faretra, e fece segno a Vanni di avvicinarsi a lei.
«Vedi, è così che si fa: incocchi la freccia, la tendi finché non ti sfiora lo zigomo, e poi la lasci andare, capito?»
«Tutto qui?» chiese l’altra un po’ stupita «Senza mirare o altro?».
Mowan le pungolò il fianco col gomito «Non essere sciocca. L’occhio sa già dove deve andare la freccia. Il tuo corpo farà il resto. Devi solo fidarti!» Vanni replicò con un cenno del capo, troppo debole e incerto per sembrare convinto.
Mowan sospirò, denegando con rassegnazione.
«Sta a vedere»
La Mogul tirò un profondo respiro, ma non espirò, tenendo il fiato. Con la mano sinistra saldò la presa sull’impugnatura dell’arco, con la destra incoccò una freccia dal piumaggio grigio. La tensione non durò che un battito di ciglia, poi lasciò andare la corda con uno schiocco, e solo in quel momento lasciò che l’aria uscisse fuori insieme con la freccia.
La punta di ferro sibilò nel vento, andandosi a conficcare dritta nella testa del cervo. Quella povera bestia stramazzò al suolo senza più muovere un muscolo. A Vanni per poco non cadeva la mascella, ma Arturo non si stupì “Le storie sulla mira dei Mogul non sono solo leggende”.
 
Procedettero in direzione della carcassa muovendosi con cautela, ispezionando con lo sguardo ogni direzione.
“L’odore del sangue può attirare altri animali” pensò Arturo, osservando il rivolo rosso che discendeva sul volto oblungo del cervo.
Le foglie gemevano sotto il peso dei loro stivali, l’aria era resa greve dall’umidità, nonostante il vento la smuovesse con sporadiche sferzate. E fu allora che il giovane Cangramo udì un rumore provenire dagli alberi ad est.
Con lo sguardo iniziò a cercare, mentre quel suono si delineava alle sue orecchie e ogni altro diveniva lontano e ovattato: era un grugnito forsennato, trionfante, che pareva più umano che animale. La scena a cui si trovò ad assistere lo lasciò stranito: un cane giaceva in terra, con il ventre squarciato e gli organi interni che sporgevano per i lembi della sua carne. Sopra di lui si stagliava un cinghiatauro dal manto candido come neve, e macchie rosse che bagnavano setole del suo corpo grasso e villoso.
“Un cinghiatauro albino?! Ma che-“ Arturo si strofinò gli occhi, incerto se ciò che stava vedendo fosse reale o meno, ma quelle immagini non vennero cacciate via dalle sue dita.
Non fu lì che le stranezze trovarono un termine. Ancora da un rialzo di roccia incombeva su di lui il più grande lupo che Arturo avesse mai veduto. Era una bestia di rara bellezza, con la mole di un orso adulto e un manto nero come la notte, e due occhi cremisi come gocce di sangue cristallizzato. Senza far rumore il lupo calò sul cinghiatauro e in un singolo morso ne squarciò la gola. Poi le fauci tornarono a stringersi sulla trachea lasciata nuda, finché le zampe porcine dell’animale non cedettero sotto il peso del suo corpo ormai inerte e sotto quello del suo predatore. Così, mentre il cacciatore divorava la sua preda, lambendo fra le fauci ampi tralci di carne purpurea, fece capolino dietro di lui un uomo avvolto in vesti grigie.
Le sue iridi brillavano di due colori differenti e tanto vividi da apparire innaturali. Sebbene fosse a una certa distanza, Arturo ebbe la netta sensazione che lo sguardo di quell’individuo fosse rivolto a lui. Nella sua mente risuonò una voce che aveva in sé qualcosa di antico, qualcosa di potente come la terra stessa. Quella voce gli disse qualcosa: una singola parola che, il tempo di essere pronunciata, cancellò ogni altro pensiero nella mente del ragazzo. Si scoprì a mimare quel lemma con le labbra, per poi ripeterlo ad alta voce
«Errante
«Eh?» chiese a un tratto Mowan.
Arturo trasalì, come se uno schiaffo si fosse infranto sul suo volto nel bel mezzo di un sonno profondo, ridestandolo all’improvviso.
«Io… niente» il suo sguardo si spostò sulla Mogul, poi di nuovo al punto in cui aveva veduto il lupo divorare il cinghiatauro. Con suo grande stupore, né dei due animali, né dell’uomo in grigio c’era più traccia.
“No, non è possibile” si disse “non posso averlo immaginato. Era così… così reale!” e con un dente si incise l’interno del labbro inferiore.
«Non so che ti prenda, Arturo, ma non ho alcuna intenzione di trasportare questo cervo fin nella Rocca da sola» gli ingiunse Mowan, afferrando l’animale per le zampe anteriori «piantala di startene lì imbambolato e vedi di darmi una mano!» la ragazza cominciò ad annodare una corda attorno alle zampe dell’animale
«Sì, sì, certo» deglutì «scusami»
Arturo afferrò le zampe posteriori, mentre Vanni si occupava di legarle insieme. Le corde vennero poi assicurate a una robusta asta di legno spesso e resistente. Una volta assicurati che l’intera struttura tenesse, Arturo e Mowan si caricarono il cervo sulle spalle, poggiando l’estremità del bastone sulle spalle.
Le braccia del giovane Cangramo si gonfiarono vistosamente per lo sforzo, ma lui non cedette.
Negli ultimi mesi era cresciuto a vista d’occhio, di questo passo entro il prossimo anno sarebbe arrivato a sfiorare col capo le spalle di ‘Bastiano. E insieme con l’altezza si incrementava anche la sua forza: poteva sentirla ribollire dentro sé, come le fiamme che fanno rovente il ferro.
Ogni giorno gli allenamenti sembravano diventare un po’ meno estenuanti del giorno che lo aveva preceduto. La resistenza allo sforzo fisico aveva fermentato la sua sicurezza in battaglia: persino Mastro Villa si era lasciato sfuggire qualche ghigno soddisfatto durante gli allenamenti, mentre un tempo la sua faccia era tutto un complesso di smorfie e sospiri.

Fino a qualche tempo fa aveva temuto che da un giorno all’altro sarebbe stato relegato in un monastero. Ma adesso quella stessa prospettiva gli pareva tanto irreale e distante. Certo, nessuno poteva dargliene certezza, ma almeno adesso era abbastanza sicuro che suo padre non avrebbe sprecato due braccia forti, come quelle di Arturo promettevano di essere, relegandole alle faccende monacali.
Ma al momento qualcos’altro si intrufolava di tutta forza nel novero delle sue preoccupazioni, quella sagoma umana che egli aveva scorto nella Selva. La sua mente poteva aver spinto gli occhi a cedere tanto il passo alla sua immaginazione? Non lo credeva possibile.
Che le divinità dei Kelta intendessero dirgli qualcosa? E se così era, cosa volevano che capisse e, soprattutto, a quale scopo?




NdA: Finalmente mi sono liberato dell'esame che mi perseguitava da settimane :3. Passando al capitolo: non mi piace particolarmente, difatti ho anche carezzato l'idea di cancellarlo (salvo poi lasciar stare). Purtroppo è necessario per sviluppi futuri, scusatemi la bassa qualità (devo anche riprendermi dallo sbattimento di 'sto ultimo periodo. Comunque il prossimo sarà l'ultimo dei capitoli riguardanti "personaggi che crescono", con una chicca che non vi sareste mai aspettati :3

Un abbraccio,
Il Signore Oscuro

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Capitolo 19
*** Il primo Cangramo - (Sebastiano) ***


CAPITOLO XIX
Il Primo Cangramo
(Sebastiano)
 
 
 
‘Bastiano tracciò una linea immaginaria con il dito, attraversando sulla mappa la curva che segnava il confine orientale di Valspurga.
«Qui farei erigere una palizzata» disse, rivolgendosi a Severo che lo ascoltava a braccia conserte «in questo modo avremo stabilito una linea difensiva prima di eventuali incursioni primaverili. Dovremmo farlo adesso, che le temperature non sono ancora proibitive. Tenendoci larghi, avremo lo spazio per costruire un secondo anello di mura in pietra durante la primavera. In posizione arretrata rispetto al primo e più vicino ai villaggi»
Severo mugugnò un assenso «Magari scavando un fossato nel mezzo. Mi sembra una buona idea, ma avremo bisogno di un surplus di legname per questi lavori»
«Richiediamolo ai Kelta, no?» propose
«Già, ma dovresti sapere che nessuno da mai niente per niente, figlio mio» lo ammonì lui «a meno di incrementare il lavoro nelle miniere e-»
«Facciamo così allora, concedi al Klan un piccolo spazio alle pendici del Monsiderio. Abbastanza grande da permettere loro di estrarre il ferro per conto proprio-»
«Ma non tanto da renderli autosufficienti in questo senso» concluse per lui il Conte, celando a stento un’espressione ammirata «si può fare, darò immediatamente disposizioni per cominciare i lavori» approvò Severo, avviandosi verso la porta che dalla Sala del Consiglio potava alla corte.
Ma ‘Bastiano lo richiamò proprio sul ciglio
«Padre»
«Sì?» chiese lui, con la mano già stretta intorno alla maniglia.
«C’è qualcosa di cui vorrei parlarti prima- prima che tu vada»
Severo si voltò e rimase lì, silente e in attesa.
«Durante la battaglia di Valspurga io ho visto… ecco, qualcosa»
«Di che si tratta Sebastiano» lo incalzò, inarcando un sopracciglio brizzolato.
«Ecco, io ho veduto un uomo. Cioè, non sono neanche certo si trattasse di un essere umano» subito si corresse «lo sembrava, sì, nell’aspetto, ma in lui c’era qualcosa di strano. Non saprei spiegarlo. So solo che non era la prima volta che lo vedevo» le sue parole gli sembrarono così sciocche e sconclusionate, incapaci di comunicare pienamente ciò che gli premeva.
Severo però parve accigliarsi, la sua bocca si ridusse a una linea priva del rosa delle labbra
«E quest’uomo, dimmi, com’era fatto?»
‘Bastiano tirò un respiro, per quietarsi. Poi ebbe cura di descrivere con minuzia di particolari lo spirito della Selva. Citò le occasioni in cui gli era capitato di vederlo, e le parole che gli erano state rivolte nel bel mezzo della battaglia.
Lo sguardo di suo padre ricadde in una vuota contemplazione del pavimento, prima di risollevarsi e incidere gli occhi del suo primogenito. La voce di Severo a quel punto uscì sottile come un filo, ma con un’inclinazione che nulla toglieva alla perentorietà del suo tono.
«Seguimi» gli ingiunse, senza aggiungere altro.

I due attraversarono la Sala Grande, e si avventurarono nel sotterraneo del Castello, lì dov’era la biblioteca: decine e decine di scaffali riempivano la sala, ricolmi di libri che raccoglievano polvere da un centinaio d’anni o forse di più “Quelli su cui Arturo non ha ancora messo le mani” pensò ‘Bastiano, seguendo suo padre fino ad un vecchio arazzo scolorito e sfilacciato, le cui immagini erano state ormai sbiadite dal tempo.
Severo scostò il drappo come una mano e rivelò quella che sembrava una piccola serratura incassata nel muro: aveva una forma tondeggiante, con una testa di cane lupo scavata nel suo centro. Il Conte infilò nell’apertura il suo anello e, dopo una torsione del polso, si udì uno scatto metallico nella roccia del muro.
Severo toccò con le dita la terza pietra alla destra della serratura, e facendo una certa pressione con il palmo della mano, la scostò, voltandola di novanta gradi e dandosi così un appiglio per tirare.
Come si trattasse di una porta fatta non di legno, ma di pietre malamente squadrate, questa s’apri giocando su cardini nascosti alla vista.
Ai loro occhi si rivelò una stanza segreta, con numerosi scaffali contenenti decine e decine di tomi ancora più antichi e impolverati di quelli presenti nel resto della biblioteca, insieme con altri sensibilmente più recenti.
Con estrema cura il Conte raccolse il primo tomo nell’ordine, che fra tutti manoscritti pareva il più risalente. Lo pose sul leggio, sfogliandolo con l’accortezza che si riserva a ciò che da un momento all’altro può disgregarsi nella polvere. Dopo un po’ invitò ‘Bastiano a darvi una lettura.
Il giovane, sinceramente incuriosito, si accostò alle pagine vergante d’un inchiostro ormai sbiadito dai secoli. Il loro odore gli ricordò quello che si emana dalla pelle dei vecchi: invitante e sgradevole allo stesso tempo.

“Sono quarant’anni che cammino in questa vita, e solo adesso trovo il coraggio di mettere per iscritto i miei timori. Un tempo Keltalia era la nostra terra, ora i Rimli ce l’hanno portata via.
Hanno ucciso mio padre, decimato la mia gente.
E io, Arverno Kan, ultimo della mia stirpe, ho guidato ciò che rimaneva del mio popolo sino a queste spiagge nell’estremo sud-est. Ho eretto la Rocca Grigia, la casa che sarà dei miei figli e dei figli dei miei figli dopo di loro.
Mi sono dovuto piegare ai Rimli, rassegnarmi a vivere come vivono loro: dietro mura e castelli. Tutto per comprare la sopravvivenza a ciò che resta della mia gente. Me ne vergogno… me ne vergogno profondamente.
Ho già trattato in altra sede di come molti Kelta abbiano abbandonato il Klan a causa delle mie scelte: molti fra loro avrebbero preferito la morte a un pace tanto disonorevole.
Mi hanno maledetto con l’appellativo di ‘gramo’, un marchio funesto che accetto e che perseguiterà i miei discendenti sino all’estinzione del mio sangue. Ma l’ho accettato di buon grado: non sono le maledizioni degli uomini a spaventarmi, bensì quelle di esseri di ben altra sorta.
Non l’ho mai rivelato a nessuno, ma da che fu posata la prima pietra della Rocca, una creatura mi appare nel sonno così nella veglia. È una creatura con le fattezze di uomo, ma che uomo non è più.
Certo ne conosco il nome, ma se persino uno straniero come Ildebrando Siribosio non osò riportarlo per iscritto, tantomeno intendo farlo io.
La creatura non mi rivolge la parola, mi osserva e basta con quei suoi dannati occhi dal colore differente: l’uno della notte, l’altro della nebbia. Mi perseguita. E io non riesco a capirne le intenzioni: non so se egli desidera che io venga distrutto, se voglia punirmi o soltanto ricordarmi ciò che ormai mi sono lasciato alle spalle…”


«Ci sono riferimenti a quell’essere anche negli altri diari» disse Severo, quando ‘Bastiano ebbe finito di leggere.
Uno spasmo gli tremò la mascella “Tutto questo è reale?”
«Di chi pensi possa trattarsi?» chiese.
Suo padre incrociò le braccia «Arverno era l’unico a saperlo con certezza. Dalle mie ricerche in merito dovrebbe corrispondere a una figura presente in numerosi miti e leggende del popolo Kelta. Una figura a cui ci si riferisce con l’appellativo di Errante, almeno per le storie riportate per iscritto. L’Errante, altro non è, se non uno dei tanti nomi con cui viene chiamato Wotan»
«Wotan… il primo e più potente fra gli dei» esclamò ‘Bastiano, rammentando le parole di Bernas «Ma, ammesso che sia lui, cosa può mai volere da noi?» chiese, guardandosi intorno con circospezione, quasi si aspettasse di vederlo spuntare da un momento all’altro.
«Hai letto le parole di Arverno. Negli altri diari c’è chi credeva che il suo intento fosse quello di vegliare sulla nostra stirpe, altri che la sua apparizione fosse funesta e presagio di sventura»
«Una cosa non esclude l’altra» notò il giovane Cangramo.
«Esattamente, ma il tuo caso ha qualcosa di unico, figlio mio: mai Wotan ha avuto un contatto tanto diretto con un esponente della nostra famiglia, o se è capitato in passato, noi non ne abbiamo prova. E questo deve avere una sua importanza»
«Mi ha chiesto di salvare Vanni, anzi me l’ha quasi ordinato. Non riesco a spiegarmene la ragione» sul suo volto si dipinse una smorfia preoccupata.
«Quale che sia, farai meglio a tenertela stretta. Esseri di quella risma non parlano mai a vuoto».
Il giovane avvertì un tiepido calore raccogliersi nelle proprie guance «Lo farò padre» poi aggiunse «e, per la cronaca, non avevo bisogno di un ordine per mettere in salvo uno dei miei»
«Lei in particolare» constatò Severo, con una patina di insolita tenerezza, prima che il rigore tornasse a pesare sul suo sguardo fermo e imperturbabile «Non c’è bisogno che te lo dica, vero?»
“Altri segreti, ancora” sussurrò dentro di sé ‘Bastiano, prima di rispondergli
«No, non ce n’è bisogno»



NdA: E con questo capitolo chiudiamo l'approfondimento, in realtà non poi così approfondito, dei nostri personaggi. Sappiamo che Severo inizia a dare maggior credito al suo primogenito, considerandolo come l'uomo che si sta dimostrando di essere e mettendolo a parte di nuovi misteri che riguardano la famiglia Cangramo. Cosa vorrà mai Wotan/L'Errante dalla nostra piccola famigliola? Pensate che voglia la loro distruzione? Che voglia vegliare su di loro? O che sia niente di più niente di meno che un semplice osservatore degli eventi? Staremo a vedere!

Un abbraccio,
Il Signore Oscuro

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Capitolo 20
*** Il ritorno del cavaliere - (Carlo) ***


CAPITOLO XX
IL RITORNO DEL CAVALIERE
(CARLO)
 
 
 
Mucchietti di neve si scioglievano ai lati del sentiero, sotto la luce di un sole insolitamente mattiniero. Nel bianco freddo che aveva addormentato la natura, un biancospino si prendeva la sua rivincita sull’inverno, scoprendo una corona di candidi petali.
Alle spalle di Carlo, la Casa del Ceppo diventava ormai un puntino sempre più piccolo, da cui gli avventori, sagome indistinte, riprendevano il proprio viaggio dopo una notte di riposo e ristoro.
E così aveva fatto anche lui, pure se il suo sonno era stato inquieto e agitato: il desiderio di rimettersi in cammino non gli aveva lasciato requie. Il cuore aveva percosso il petto come un’asta imbottita sul tamburo.
Le sue ciglia si erano inumidite di lacrime salate, sgorgate mentre le labbra non potevano fare a meno di distendersi in un sorriso di impazienza.
Al risveglio aveva cambiato cavallo: lasciando il suo baio per una giumenta dal manto color sabbia, e un’allegra macchia bianca sul muso. Il freddo, seppure attenuato, aveva ancora la forza per grattare le ossa: era dunque bene che gli animali non si affaticassero oltre misura, a rischio di rimanere appiedati nel bel mezzo del viaggio.

E quando ormai la locanda fu indistinguibile all’orizzonte, ad est si profilò un gigante di roccia, con la sua lancia che affondava la punta a squarciare il ventre dei cumulonembi.
«Perché gli dei hanno il sangue delle nuvole e una montagna è tutto ciò che resta dei titani» recitò Carlo, rammentando lo stralcio di una vecchio mito di Ellenia, raccontatogli una vita fa da una donna dai capelli rossi, di cui non voleva ricordare il nome.
La strada intanto prese a inclinarsi verso l’alto, insinuandosi fra le braccia della Selva: un dipinto di alberi spogli e contorti, sul cui dorso la neve aveva preso il posto delle foglie e, di tanto in tanto, essa cadeva giù. Cadeva a sciogliersi fra i capelli o i risvolti del mantello impellicciato.
Con lo sguardo ad est, fra un tronco e l’altro, Carlo scorse la carne azzurra del mare percorsa dalle prime vele. Mancavano ancora alcuni giorni alla primavera, ma l’inverno andava perdendo la sua morsa di venti capricciosi e i marinai, come altri viaggiatori, si rimettevano in viaggio, salpando dai moli del Volga: pronti a sfidare le acque, impazienti come bambini che anelano ritornare a correre nei campi per rivivere i loro giochi, mettendo da parte i balocchi della cattiva stagione.

E proprio come uno di quei bambini, anche Carlo aveva insistito per uscir fuori
«Vuoi davvero partire così presto? Non siamo neanche alla fine di Marzo»
ma questo non era bastato a mutare la sua risposta. Alfonso l’aveva inciso con una smorfia di disapprovazione.
«Lascia almeno che ti fornisca una scorta»
«No, preferisco mettermi in viaggio da solo» gli aveva sorriso, con la tenerezza dei loro momenti più intimi «starò bene, non preoccuparti»
Convincere Alfonso non era stato affatto semplice: da che il nuovo vicario aveva messo piede ad Argonia, la sua condotta era stata mite e tranquilla; si era limitato a svolgere i suoi uffici sacerdotali senza strafare. Nei fatti non aveva dato alcuna ragione per scontentare il Principe.
Eppure, il fatto di avere un Orimberga sotto il suo stesso tetto aveva reso Alfonso estremamente lunatico: alternava stati d’ira e profonda preoccupazione, ad altri di quiete solo apparente.
Per qualche ragione sembrava convinto che Horatius stesse tramando ai suoi danni, ma pur nella sua imprudenza, persino Alfonso si rendeva conto che attaccare un membro della famiglia più potente di Clitalia sarebbe stata pura follia. Neanche Manfredi l’avrebbe seguito in un’impresa del genere, Carlo ne aveva la certezza.
Dunque al Principe non restava che ingoiare quel boccone tanto amaro e far buon viso a cattivo gioco, mentre a Carlo toccava d’ascoltare i suoi sfoghi in merito. Partire qualche giorno per conto suo era stata una liberazione per il cavaliere: il bisogno di un po’ di sana quiete si era fatto quanto mai urgente.

Dalle cime degli alberi le torri si profilarono, svettanti oltre il cerchio delle mura. Gli elmi delle sentinelle di ronda che brillavano dietro i merli, sfiorati dal sole. Carlo chiuse gli occhi: immaginò il vociare della gleba;  il fruscio della ramazza sul pavimento del castello; la voce di sua sorella Miranda che dava disposizioni qua e là; la lettura a bassa voce di suo fratello Arturo; gli scherni da battaglia di ‘Bastiano. Sentiva le mani tremare, con un deciso colpo al fianco incitò il cavallo al trotto, perché tutto ciò che si era immaginato diventasse innegabilmente reale. E quando dalla guardiola una voce gli intimò di fermarsi, un’altra voce, dentro di lui stavolta, parlò rotta dall’emozione
“Sono a casa”


La stretta di ‘Bastiano per poco non gli rompeva le ossa, mentre i piedi scalciavano a qualche centimetro da terra
«Fratello, so che sei felice di vedermi» disse Carlo, con una voce strozzata «ma non sono tornato qui per farmi seppellire».
Subito lo lasciò andare «Oh, scusami» replicò lui, mettendo le mani avanti.
«Tranquillo, tranquillo» disse Carlo, massaggiandosi il fianco dolorante.
«Beh, ti trovo bene, non te la passi male ad Argonia, eh?»
«Neanche tu sei così sciupato» replicò, con un sorriso «come vanno le cose da queste parti?» chiese, mentre insieme si avviavano verso il Castello.
«La solita noia» replicò ‘Bastiano, facendo spallucce.
«Solita noia un par di palle! Ho saputo delle tue imprese a Valspurga, gli hooligans se la sono filata con la coda fra le gambe».
Suo fratello fece un ghigno divertito «Non è stato niente di che…».
Carlo gli assestò un destro deciso sulla spalla «Il solito falso modesto del cazzo».
Suo fratello stava per replicare, quando alcuni colpi sordi provenienti dal recinto delle guardie attirarono l’attenzione del cavaliere: un giovanotto, un po’ più basso di lui, stava dando filo da torcere al Villa, impegnandolo in uno scambio di fendenti. Talvolta si sbilanciava nell’attacco, e la sua guardia non era sempre impeccabile, ma c’era del potenziale.
«E quello chi è?» chiese Carlo, arrestando il passo.
«Come chi è?! Davvero non lo riconosci?» chiese ‘Bastiano lanciandogli un occhiolino di sottecchi.
Carlo osservò il ragazzo con attenzione: aveva lunghi capelli ricci tenuti legati in una chioccia, il suo profilo aveva ancora i tratti morbidi della fanciullezza, ma qualche traccia di peluria s’era raccolta sopra il labbro. Ma furono gli occhi a suggerirgli la risposta: nell’iride il bruno si mescolava ad un verde vivo.
«No, non ci credo! Il soldo di cacio?» esclamò, a bocca spalancata «Ma che gli avete dato da mangiare?!» si voltò ad occhi sbarrati verso il fratello maggiore.
«Cresce in fretta il bastardello, fino a qualche mese fa non era più alto di un bambino» replicò ‘Bastiano, incrociando le braccia dinanzi al petto.
«Ci metto la mano sul fuoco, tempo qualche anno e ti supera» lo provocò Carlo, con un ghigno sornione.
‘Bastiano si imbronciò, calandogli uno scappellotto sula nuca «Adesso non esageriamo» dopodiché lanciò un lungo fischio acuto.
Arturo e il Villa si voltarono all’unisono verso la fonte del rumore. Le sopracciglia del fratellino si levarono verso l’alto e, mollata sul terreno la spada da allenamento, corse a saltare il recinto con un unico e agile balzo. Il maestro invece dovette aprire la porticina e richiuderla dietro di sé.
Arturo corse ad abbracciare Carlo, una stretta che il cavaliere ricambiò con calore
«Fratello, è passato tanto di quel tempo!» la sua voce era più grave di quanto non la ricordasse e le sue braccia tre volte più forti.
«Troppo, fratellino! Vedi di non crescere più di così, o mi toccherà essere il nanerottolo della famiglia» tutti scoppiarono in una risata.
Ma quella di Carlo fu frenata dalla sonora pacca sulla spalla di Mastro Villa, che per poco non lo mandò a terra. Nei suoi occhi ruvidi c’era un luccichio di fierezza:
«Ti ho lasciato che eri un ragazzino tutto pelle e ossa, e ti ritrovo come un uomo fatto e finito»
«Tutto merito tuo, vecchio bisonte» gli sorrise Carlo, notando le rughe che marcavano il viso del Villa, e quel corpo che la vecchiaia aveva iniziato a rilassare, pur senza privarlo della forza dei suoi muscoli.
«Ho saputo la notizia» intervenne Arturo «sei diventato cavaliere! Sai, nostro padre ne è stato molto felice»
«Mi ha spedito una lettera per farmi le sue congratulazioni» poi aggiunse «ha colto l’occasione per invitarmi alle nozze»
«A proposito» disse ‘Bastiano «come mai sei tornato con tanto anticipo?»
«Non ci crederai fratello, ma avevo nostalgia di questo tugurio» replicò, lanciando un’occhiata che abbracciasse tutto intorno a sè.
«Argonia non ti piace?» chiese Arturo.
«Non gli piace smazzare, ragazzo» rispose per lui il Villa, portandosi le mani ai fianchi.
Carlo si limitò a replicare con uno sbuffo, denegando col capo «Nostro padre dov’è?»
‘Bastiano si calcò il mento barbuto con le dita «Immagino sia nella Sala Grande. Dovresti raggiungerlo, sarà felice di vederti»
Con la promessa di rincontrarsi più tardi, per raccontarsi aneddoti su quegli anni passati lontani, gli uni dagli altri, si congedarono. E Carlo si diresse verso il Castel Cangramo. La sala grande era quel giorno in gran fermento: dovunque volgesse la sua attenzione, Carlo poteva sentire i passi concitati dei servi, intenti a coprire ogni centimetro di pietra spoglia con arazzi e panneggi nero-azzurri; il braciere del ceppo era vivo e scoppiettante, e la sua fiamma scaldava la pelle seccata dall’inverno.
Proprio lì accanto, Carlo rivide suo padre, intento a parlare con un giovane ben vestito: i capelli ormai un'unica distesa di grigio scuro e le occhiaie che affondavano il suo sguardo nelle orbite “Sembra così stanco”.

Non poté negare a sé stesso che il suo primo impulso fu quello di abbracciarlo, ma si ritrovò subito a frenarlo: non avevano mai avuto quel tipo di rapporto padre-figlio. Immaginandosi la scena, Carlo se la figurò come faziosa ai limiti del ridicolo e, in ragione di ciò, si limitò a stringergli il braccio come si usava fare fra compagni d’armi.
«Carlo, figlio mio, non ti aspettavamo così presto» un tipo dai capelli castani e un paio di occhi azzurri lo scrutò con interesse “È un bell’uomo, mi ricorda un po’ il vicario, anche se più giovane”.
«L’attesa mi stava uccidendo padre, non potevo aspettare un giorno di più».
«La tua nostalgia mi rende felice» abbozzò un sorriso «ma lascia che ti presenti il tuo futuro cognato, Vittorio Belgi»
Carlo aveva sentito parlare di lui: un mercante di un certo rilievo nelle Terre Centrali, e strettamente legato alla famiglia Orimberga. Il Belgi gli porse la mano e Carlo la strinse. Si aspettava una presa molle come quella di tutti i mercanti, ma la trovò invece forte e decisa al punto giusto.
I suoi occhi azzurri, poi, lo studiavano, ma con tanta garbata discrezione che la cosa non lo infastidì. E quando parlò la sua voce era calda e allegra come una notte d’estate passata in compagnia davanti al fuoco
«È da quando vostro padre, il Conte, mi ha parlato di voi che desidero incontrarvi» rivelò una trafila di denti bianchissimi «vorrei inoltre farvi i miei più sentiti complimenti per il vostro cavalierato»
«Non è stato niente di che» minimizzò Carlo «ma in ogni caso vi ringrazio» rispose, con un rispettoso cenno del capo.
«Mio figlio propende da sempre a un’esagerata modestia» intervenne il Conte.
«Vostro padre ha ragione. Dovreste essere fiero di voi, e riconoscervi i meriti che vi siete guadagnato» si rivolse poi al Conte «mi scuserete adesso, ma la mia futura moglie avrà bisogno di me nella sala dei banchetti. Con permesso.»
Il Belgi si congedò, lasciando soli padre e figlio, rimasti ora a fissarsi in silenzio per alcuni secondi, finché Carlo non fu imbarazzato da quell’incontro di sguardi e abbassò gli occhi sui suoi stivali. Dopo un’occhiata circospetta, Severo lo prese da parte, dove le loro parole non sarebbero state ascoltate da orecchie indiscrete.
«Dimmi, come vanno le cose ad Argonia?» chiese, con le braccia conserte.
Carlo ritrovò il coraggio di rialzare lo sguardo «Per adesso stabili, padre, ma è successa una cosa» deglutì «Utopia ha imposto un Orimberga quale vicario»
Severo espirò lentamente, senza schiudere le labbra «Horatius»
Carlo replicò con un cenno d’assenso.
«È un uomo astuto e molto scaltro. Temo ciò che potrebbe sussurrare nell’orecchio di Ferrante. Gli Argona sono i soli garanti dei nostri interessi, spero soltanto che Alfonso prenda al più presto il posto di suo padre»
«Se ciò accadesse» Carlo si umettò le labbra «potrebbe scoppiare una guerra, lo sai?»
«Conosco il temperamento focoso del Principe, ho sperato che la tua accortezza servisse a stemperarlo. Siete quasi coetanei.»
«Ci ho provato padre, devi credermi. Ma è un uomo orgoglioso e testardo come pochi. Inoltre manca di discrezione: non fa mistero con nessuno della sua ostilità agli Orimberga»
Severo si portò le mani ai fianchi e mugugnò, masticando un pensiero fra sé e sé «Non ha mai parlato di prendere il potere, vero?»
Carlo denegò col capo «No, nutre un profondo riguardo per alcuni valori e la famiglia risiede fra quelli»
«Questo potrebbe giocare a nostro favore» osservò Severo.
«Cosa intendi fare?» chiese Carlo, avvicinandosi ancor di più a suo padre.
«Ebbene…»



NdA: e qui si compie la riunione della famiglia Cangramo, con un Carletto che finalmente può riabbracciare i propri fratelli e passare dai complotti di Argonia a quelli della Rocca Grigia. Come sempre ogni teoria è bene accetta.
Tenetevi pronti che il prossimo capitolo è quello del matrimonio!
Ringrazio tutti coloro che mi seguono e recensiscono nonostante i tempi stretti della sessione invernale, siete la mia forza!


Un abbraccio,
Il Signore Oscuro

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Capitolo 21
*** Il Pezzo che mancava - (Miranda) ***


CAPITOLO XXI
IL PEZZO CHE MANCAVA
(MIRANDA)
 
 
 
I brividi correvano lesti come lampi in un cielo oscuro, scendendo dai capelli sino alle dita dei piedi. Miranda si sarebbe dovuta sentire esausta, e lo era, dopo le fatiche degli ultimi giorni: decidere la sistemazione di ogni singola stanza del Castello; scegliere arazzi e stole per la sala del banchetto; organizzare le portate e l’ordine in cui sarebbero state servite. Non era stata un’impresa semplice e le aveva portato via molto tempo, tanto da non trovarne un poco per salutare degnamente suo fratello Carlo. Tutto ciò che si era concessa era stato un frettoloso abbraccio prima di ritornare alle sue faccende.
Ma benché si sentisse svuotata e sfinita nel corpo, la sua mente si rifiutava categoricamente di placarsi e assopirsi nei cullanti flutti dei sogni notturni.

Il pensiero non faceva altro che ricamare, come una sarta solerte, le immagini del giorno a venire: declinando ogni variabile nelle decine di migliaia di scenari possibili. E, di tanto in tanto, saltava anche più in là: lasciandosi cadere con l’immaginazione tra le lenzuola di quel letto, accomodato dalla servitù con fiori variopinti posati sulle coperte.
“Cosa proverò quando Vittorio sarà dentro di me? Farà male? Dicono che possa essere doloroso la prima volta” aveva pensato “O forse sarà come quando mi tocco, solo che proverò più piacere e… non sarò sola” fu quell’ultima frase a rincuorarla.
“Non sarò mai più sola”.
Non le era mai mancato l’amore da parte dei suoi cari, ma aveva sempre desiderato che qualcuno fosse lì: lì, capace e aperto a comprendere cosa provava. I suoi fratelli erano troppo diversi da lei. E suo padre, beh, lui era sempre stato troppo distante, troppo in alto perché Miranda potesse aspettarsi che si abbassasse alle paure, alle domande, alle inquietudini di una ragazzina.
Poi, da quando Mowan era entrata a far parte della famiglia, le cose erano andate leggermente meglio. Ma chi era Mowan? Era un Mogul. Prima una guerriera e, solo dopo, una donna.
Più propensa a mettere mano alla spada che a sognare e vivere la propria femminilità.

Con Vittorio era nato un rapporto diverso: un’intesa particolare che si rispecchiava dall’amore per la varietà di cui era intriso il mondo, al decorso dei sentimenti che possono agitare un animo umano.
“Con lui io sento il tempo che si scioglie. Con lui io non ho paura” pensava “non devo convincermi di dover essere in un modo, mi viene semplicemente naturale essere come sono”.
E se pure Vittorio non trovava risposte alle sue domande, con lui accadeva qualcosa di differente e irripetibile: quegli stessi dubbi si svuotavano di significato e il cuore non dava loro più importanza.
Miranda non poteva sapere che tipo di vita avrebbe vissuto insieme con lui, ma era certa “una vita con queste premesse non può poi essere così male” e con la sua immagine al centro della mente, Miranda si addormentò, precipitando in un sonno profondo che non conobbe sogni.


L’acqua nella tinozza accolse il suo corpo nudo nel suo caldo abbraccio. Dalla superficie vapori densi e grigiastri si levavano verso il soffitto, velandole la vista. Miranda chiuse gli occhi.
Bice passava un coltello sulla saponetta all’aroma di vaniglia e miele, disperdendo sdruccioli profumati nell’acqua calda.
Con le sue piccole mani Mowan le portò in avanti la testa, la invitò a immergerla nell’acqua per bagnare i capelli: i lunghi ricci divennero un’unica macchia di colore fulvo. Poggiò la testa sul margine della vasca e lasciò che Mowan la pettinasse con una spazzola, districando i nodi.
Il cuore le batteva forte nel petto e ogni suono giungeva ovattato alle orecchie. Inspirò profondamente, gonfiando i seni sodi “Andrà tutto bene” e poi espirò, fino a svuotarsi i polmoni dell’ultima stilla d’aria che aveva in sé. Nembi di schiuma galleggiavano intorno a lei, Miranda ne raccolse qualcuno e cominciò a passarli sotto le ascelle, sul ventre e fra le gambe, strofinando per bene con le mani.
C’era gente che usava le spugne per detergersi, ma lei aveva sempre preferito sentire il proprio corpo sotto le dita. Conosceva ogni centimetro di sé: dal piccolo neo dietro il polpaccio, al peduncolo strizzato dietro il collo, nascosto dai lunghi capelli.
«Sarete bellissima oggi, ne sono sicura» esclamò Bice «la gente parlerà di questo matrimonio per anni!» le mani grassocce le tremavano vistosamente.
“Ci mancherebbe, con tutto il sangue e il sudore buttato perché tutto fosse perfetto” avrebbe voluto risponderle a questo modo, ma si limitò a un sorriso accondiscendente.
«Te la caverai, vedrai» la rassicurò semplicemente Mowan, a mezza voce.
«Ti sei sforzata piccola faina» la punzecchiò Bice, con una smorfia a tenderle il faccione da luna.
La Mogul la guardò in cagnesco «Ma che cazzo vuoi, nonna?!».
La badante sbuffò «È una vera fortuna che quaggiù non sia uso per la sposa avere delle damigelle: renderesti le cose davvero imbarazzanti»
«Smettetela. Adesso.» sentenziò Miranda, levandosi in piedi tutto a un tratto.
“Sono già abbastanza nervosa di mio, senza che queste due si scannino fra loro”.
«Mi scusi, signorina» replicò Bice, con un profondo inchino del capo. Mowan, dal canto suo, si limitò a brontolare, mettendo da parte la spazzola e porgendole gli asciugamani puliti.
«Mowan, vai a chiamare Rebecca. Che porti qui il vestito» solo dopo aver parlato Miranda si accorse di come il tono della sua voce sapesse di ordine dall’alto. La Mogul però non ci diede peso e si limitò ad obbedire, uscendo dalla stanza e richiudendo la porta dietro di sé.
Miranda infilò la biancheria intima e si accomodò, lasciando che Bice iniziasse ad asciugarle i capelli infradiciati.
«Come vi sentite, signorina?» chiese l’anziana balia, strizzandole una ciocca umida.
«Vuoi sapere la verità? Ho paura, tanta paura» richiuse le palpebre per un attimo, si lasciò andare a un sospiro «Amo Vittorio, eppure sento l’impulso di scappare il più lontano possibile da qui. Provo davvero amore, se penso cose del genere? Una moglie fedele non dovrebbe avere certe cose nella testa»
«Ah, Miranda» sospirò la balia «sei sempre stata una bambina intelligente, più di quanto non fosse sicuro per te stessa. È normale che tu abbia paura: dopo oggi la tua vita sarà completamente diversa. Ci saranno nuove responsabilità, nuovi doveri…»
«Tutto qui?» chiese, voltandosi a tre quarti «Se è solo fatiche in più, perché sposarsi allora?»
«Perché la vita cambia di continuo e non si può rimanere bambini per sempre» le rispose, non senza un cenno di severità «Gli altri non potranno sempre far ciò che dovremmo fare noi. Saranno proprio queste nuove sfide a fare della tua vita qualcosa di pieno, qualcosa che valga la pena vivere».
«Ma-» deglutì «io sarò felice?»
«Felice?» un sorriso ironico distese l’espressione della balia «Sì, di tanto in tanto, se sarai fortunata. Ma non è quello l’importante»
Miranda pensò che forse aveva capito cosa intendesse dire la balia “Gioia o dolore, basta che si tratti di qualcosa di nuovo…” e non si sentiva di darle torto, non del tutto almeno. Da che Vittorio era arrivato a Rocca Grigia non tutti i giorni passati insieme erano stati liberi di tensioni e scontri. Eppure, il fatto che queste costituissero una novità, bastava a colmare di senso quel tempo speso insieme.

Quando Rebecca arrivò, Miranda dovette decidere un’acconciatura per la cerimonia nuziale: molte donne nelle Terre Centrali solevano chiudere i capelli in uno chignon imperlato, ma Miranda non era una donna delle Terre Centrali. No, il suo sangue era lo stesso dei fieri e indomabili Kelta, non era una parte di sé che intendeva lasciare da parte! Così, optò per lasciare la chioma libera da ogni costrizione e farsi porre sul capo una corona di fiori: bucaneve intrecciati a rametti di lavanda, con denti di leone che facevano capolino qui è là.
Rebecca aveva cucito l’abito ormai tempo prima: la seta bianca avrebbe avvolto Miranda, insieme con drappi di pizzo argentato. La scollatura valorizzava il generoso decolté, senza per questo risultare eccessiva o volgare.
Le spalle erano state lasciate scoperte, con solo qualche ciocca riccioluta a velarle allo sguardo.
E mentre la sarta e le sue ancelle davano gli ultimi punti di sutura, Miranda recitò dentro di sé le promesse di matrimonio. Ovviamente esistevano formule classiche e preimpostate, ma “Vittorio non le userà mai, userà parole sue. E io non voglio essere da meno”.
Aveva trascorso intere giornate a mimarle con le labbra, arrivando a sostituirle alle preghiere della sera, le stesse che soleva recitare a bassa voce, quando momenti particolarmente difficili si profilavano all’orizzonte.

La celebrazione si tenne nella Sala Grande, i due promessi sposi si sarebbero uniti al cospetto del ceppo di pietra. Il calore del fuoco le accarezzava le guance.
Vittorio indossava calzoni in pelle di coccodrillo e un farsetto rosso dalle fasce viola in corrispondenza del ventre, sulle sue spalle era adagiato un mantello borgogna, con i risvolti in pelliccia di lupo grigio.
Lui e Miranda si scavavano negli occhi, mentre le voci, gli sguardi, le presenze di tutti gli altri, invitati e parenti, si facevano lontani dalla testa e dal cuore della ragazza.
“C’è solo lui. Lui è tutto ciò che conta”.
Quasi non la sentiva la voce del sacerdote chiamato a celebrare la funzione, il buon vecchio Don Matteotti, con il naso meno paonazzo di quanto fosse stato negli ultimi dieci anni. Con gentilezza li invitò a recitare le proprie promesse, Miranda accennò a parlare ma Vittorio la precedette.
«Di tutto il tempo che ho vissuto in lungo e in largo per il mondo,» non staccava gli occhi da lei mentre lo diceva «non ho mai veduto tanta bellezza quanta ne ho ritrovata qui, insieme con te, mia dolce Miranda. Gli alberi, il cielo, le stelle… è bastata la tua presenza perché brillassero di una luce nuova, di nuovi colori. Chi mi conosce sa che quest’uomo non ha mai avuto radici, che mi sono sempre rifiutato di averne» seguì un istante di silenzio, abbozzò un sorriso «ma quelle stesse radici ora mi legano a te, e non come la cupa costrizione di una prigionia. No, bensì come il germoglio da cui fioriscono nuove ali. Mia dolce Miranda, oggi e per sempre, in me avrai un marito, un confidente, un compagno»
Miranda sentì una lacrima forzarle gli occhi, le labbra tremare in un sorriso imbarazzato. Tirò un respiro, costringendosi alla calma, mentre la memoria richiamava a sé il lungo richiamo delle parole. La sua voce non esitò, fu ferma e potente nelle parole.
«Mio caro Vittorio. Hai nel tuo corpo ogni stagione: l’Inverno nel gelido azzurro degli occhi. L’autunno nel castano chiaro della chioma. La primavera nella voce sempre viva. E l’estate… l’estate è il tuo odore. Così tante persone invocano il Redivivo, perché siano preservate nel loro sentimento. Io non ne ho bisogno, mio dolce Vittorio. In te ho tutto ciò che ho sempre ricercato, che nel corso di questa breve vita ho sentito come il pezzo che mancava. Non ho bisogno di legarmi con una promessa, amarti non sarà mai un dovere. Amarti è la mia propensione naturale. Ho in me la sicurezza di ciò che vivo: per il tempo di questa vita, e anche lì dove i morti sono beati, sarò la tua compagna. Stringerò la tua mano, con la medesima forza, così nelle gioie, così nelle avversità» inspirò a fondo “Non devi commuoverti, stupida”, cercò nei suoi occhi la fermezza per continuare «Io sono tua, tu sei mio. Da ora sino a quando una notte eterna non cadrà sul mondo».
E Vittorio, come uno specchio in cui Miranda sapeva di potersi ritrovare, versò la stessa lacrima che aveva bagnato le sue guance di donna poco prima.
“Tu sei mio, io sono tua” pensò, stringendo le sue mani.
«Ora che le promesse sono state pronunciate. Io prego, prego per voi» Matteotti cominciò a recitare le formule di rito «affinché il Padre vi preservi nella rettitudine e guidi il vostro cammino» avrebbe voluto baciare il suo Vittorio adesso, era stanca di aspettare!
«Che la Furia vi dia la forza per combattere ogni tentazione» lui sorrise, le labbra gli tremavano come le sue.
«Che il Cuore cresca rigoglioso il vostro amore e i figli che ne genereranno. Per il Redivivo. Per colui che è uno e trino. Dichiaro te, Vittorio Belgi, e te, Miranda Cangramo, marito e moglie»

E le catene finalmente furono spezzate: come il fiore che non attende altro se non la primavera, così si giunsero entrambi, in quel bacio che aveva in sé tutto il sapore dell’eternità.  




NdA: Buonasera, eccolo finalmente, IL CAPITOLO del matrimonio! Quello che ho talmente tanto tergiversato prima di scriverlo che dal balcone di casa mia c'era gente con i forconi e le torce. Mi piace la sensazione di essere arrivato a uno dei Checkpoint della storia, non mi resta altro che continuare.

Un abbraccio a Polx, Fan of the Doors, morgengabe, Makil, Rory Jackson, Talia Baratheon e a tutti gli altri che seguono la storia :3
un abbraccio anche ai lettori silenziosi (so che ci siete, se vi va mandatemi un salutino per mp :** )

Al prossimo capitolo,
Il Signore Oscuro

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Capitolo 22
*** Chiamerai fratello il tuo nemico - (Sebastiano) ***


CAPITOLO XXII
CHIAMERAI FRATELLO IL TUO NEMICO
(SEBASTIANO)

 
 
 
Dopo che il sacerdote ebbe pronunciato le parole di rito, gli invitati al matrimonio si erano disposti in coda per porgere i propri omaggi ai due sposi. A ‘Bastiano era parso quanto mai bizzarro che un uomo del rango di Stephanus si lasciasse andare ad atti spontanei e naturali durante una funzione tanto formale. Stephanus era stato ovviamente il primo, avendo la precedenza su chiunque altro: ‘Bastiano l’aveva visto baciare la mano di sua sorella Miranda e stringere in un abbraccio fraterno Vittorio, fermandosi a parlare con entrambi per un buon quarto d’ora. Era un comportamento insolito per qualunque nobile di qualsivoglia rango.
A voler seguire rigidamente l’etichetta, l’omaggio doveva limitarsi in un bacio alla mano della sposa, una stretta di mano allo sposo, e qualche parola di circostanza per esprimere la propria gioia per l’unione appena suggellata.
Quella violazione del buongusto aveva lasciato indifferente il giovane Cangramo, ma aveva altresì irritato altri ospiti, primo fra tutti il Principe Argona, che aveva lanciato nei riguardi dell’Orimberga sguardi d’odio e improperi soltanto mimati con le labbra. Anche il Conte Cinghiatauro, vecchio amico di suo padre, non s’era risparmiato.
«Dannato ragazzino, per quanto ancora ci toccherà rimanere qui ad aspettare che faccia i suoi comodi?!»
«Pazienta, vecchio mio» gli aveva detto Severo, battendo un debole pugno sull’ampio ventre del suo amico «sono certo che finirà presto».
Per fortuna dopo Stephanus la fila aveva preso a scorrere abbastanza celermente, liberando nel giro di un’ora tutti gli invitati da quel noioso obbligo. Intanto, dalle cucine del castello i servi erano giunti a gran frotte, servendo a ciascuno un calice di vino bianco e recando piatti con dei crostini infarciti da filetti di tonno o tritati di verdure così da spezzare la fame che già incalzava. I convitati avevano già preso a discorrere fra di loro, in attesa che nella sala dei banchetti tutto fosse pronto per il pranzo nuziale, destinato a protrarsi fino a sera.
‘Bastiano e suo padre approfittarono per portare fuori dalla Sala Grande il Principe Stephanus e parlargli in disparte.

L’Orimberga era un uomo dai modi irriverenti, e con l’aspetto intrigante di coloro che sono scaltri e non hanno remore a nasconderlo: i suoi capelli erano tagliati corti, a parte un piccolo codino che scendeva sino alla noce del collo. Una piccola chiazza di barba biondo-castana era raccolta intorno al mento e sembrava quasi sorreggere il suo sorriso: un ghigno tagliente come una lama passata per la cote notte e dì.
«Signori, se avete in mente una congiura per attentare alla mia vita, vi sconsiglio di metterla in atto durante un matrimonio» Stephanus ingollò un sorso dalla sua coppa «il sangue porta male il primo giorno di nozze. Anche se, lo ammetto, non avrei speranze contro questo bestione» esclamò, puntellando un dito sul petto di ‘Bastiano.
“Già, potrei spezzarti in due come un fuscello, peccato che non siamo qui per questo” pensò il giovane Cangramo, rimanendo in silenzio.
«Stephanus, ne riparleremo le prossime Idi di Marzo. Nel frattempo mi premurerò di riunire una ventina di congiurati» all’Orimberga scappò un risolino, smorzato con un altro sorso di vino «Nel frattempo, che ne dite di occuparci di questioni più serie e urgenti?» continuò Severo, incrociando le braccia.
«Parla, Conte Cangramo. Hai tutta la mia attenzione» lo invitò il Principe, appoggiandosi con la schiena contro la parete.
«Molto bene» replicò l’uomo, schiarendosi la voce «Avrete sicuramente sentito parlare delle discutibili opinioni politiche del mio signore, il Principe Alfonso Argona»
«Oh, sì» sbuffò Stephanus «se ti riferisci al suo irresistibile desiderio di cacciarci a calci in culo dal seggio di Arcadia per poi darvi fuoco, sì, me ne è giunta voce»
‘Bastiano storse la bocca “Perché lo stai portando sull’argomento, padre?” si chiese, lanciandogli uno sguardo a occhi sgranati.
«Ebbene, per me la stabilità di Clitalia è una faccenda della massima importanza. Da ciò ne deriva la necessità che vi siano buoni rapporti fra i miei protettori e la vostra famiglia»
«Dove vuoi arrivare, Conte?» chiese Stephanus, inarcando un sopracciglio «I nostri rapporti con Re Ferrante non potrebbero essere più rosei» sogghignò lui.
«E tali vorrei che rimanessero, quando Alfonso prenderà il posto di suo padre sul seggio di Argonia. Il sovrano è un uomo ormai anziano e malato, quanto ancora pensate che possa rimanere in questo mondo?»
«Ancora per poco immagino. Dunque cosa suggerisci di fare?» chiese lui, inarcando un sopracciglio.
«Voi avete una sorella ancora nubile, giusto?»
«Sì, la dolce Messalina» rispose lui, aggrottando impercettibilmente le sopracciglia.
«Ciò che suggerisco» disse Severo, espirando lungamente «è di siglare un’alleanza duratura con il Principe Alfonso, per il tramite di un matrimonio. Stephanus, unite le vostre due famiglie. Fatelo per Clitalia».
L’Orimberga si lasciò andare a una risata sguaiata dopo alcuni istanti di silenzio. ‘Bastiano sentì la mano prudergli “In altri contesti forse mi divertirebbe il suo modo di fare, al momento vorrei soltanto prenderlo a sberle” si voltò verso il Conte, deglutendo un boccone di saliva.
A differenza di suo figlio, Severo era rimasto impassibile, in attesa che il principe esaurisse la sua carica di ilarità per tornare ad affrontare il discorso. Quando alla fine si decise, aveva la faccia ancora paonazza e una piccola lacrima gli scorreva lungo la guancia.
«Ah, Conte, devi fare il saltimbanco! Hai un talento per questo genere di cose… ma tornando a far finta di star affrontando un discorso serio: cosa mi assicurerebbe, nella remota ipotesi che accettassi una proposta simile, che la mia dolce sorellina non tornerebbe a casa un pezzo per volta?» replicò il Principe, riacquistando lentamente il suo colore naturale.
A ‘Bastiano ribollì il sangue nelle vene “È una fortuna che non ci sia io al posto di mio padre, questo qui avrebbe già perso la testa”.
«Non prendetevi gioco di me Stephanus, se pensassi che voi foste un ingenuo o uno sciocco non vi avrei concesso di sbeffeggiarmi di fronte a mio figlio con tanta leggerezza» le sue parole erano dure, ma dal viso di Severo non trasparì alcuna irritazione «Sapete bene che il Principe è un uomo impulsivo, ma certo non stupido. Il fatto che non abbiate ancora perduto un fratello è sufficiente a provarvelo. Oltretutto il suo onore gli impedirebbe di torcere un solo capello a una donna» si schiarì la voce «Scrivete a Ferrante, siglate il matrimonio e gli Argona saranno parte della vostra famiglia».
Stephanus mugugnò, sostituendo alla sua espressione irriverente una smorfia meditativa.
«Un punto per te, Conte. Un legame fra gli Orimberga e gli Argona contribuirebbe a quietare gli animi e a dar vita a un regno più forte e duraturo» il ghigno ritornò a palesarsi sul suo volto «scriverò a mio padre, come suggerite. Ma sai bene che tutto ha un prezzo a questo mondo e, caro il mio Conte, dovrai essere pronto a pagarlo quando verrà il momento»
«Naturale» rispose Severo, lasciando che Stephanus si congedasse.

«Come hai potuto permettergli di parlarti così?!» chiese ‘Bastiano, non appena il principe fu fuori portata d’orecchio.
Severo sospirò «Parli delle offese al mio onore, ragazzo? Non c’era nessuno qui, a parte te. L’unico onore che avrei difeso sarebbe stato il mio. E io sono vecchio ormai, il mio nome l’ho difeso abbastanza a lungo. Per quanto mi riguarda la cosa più importante è concedere a te e ai tuoi fratelli un mondo che non sia flagellato dalle lotte di potere e dalle guerre. Ho fatto sì che ti venisse insegnato a combattere e a uccidere, figlio mio, ma questo non significa che voglia vedertelo fare» detto questo gli carezzò la guancia con una mano, e si allontanò, senza aggiungere alcunché.
‘Bastiano si toccò il viso, lì dove Severo l’aveva sfiorato: i gesti d’affetto di suo padre erano rari, e forse proprio perché così rari lasciavano un segno indelebile sotto la pelle. La sua figura svanì lentamente dallo sguardo, immersa nel marasma della gente che occupava la Sala Grande.   

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Capitolo 23
*** Ofelia e il Principe Nero - (Arturo) ***


CAPITOLO XXIII
Ofelia e il Principe Nero
(Arturo)
 
 
 
I tavoli nella sala del banchetto erano già stati apparecchiati con cura. Stole di lino coprivano le superfici in legno e dal muro pendevano gli arazzi con impresso il blasone dei Cangramo.
Per ciascun convitato c’era una coppa e un piatto d’argento, con posate dello stesso materiale.
Ogni portata era stata selezionata personalmente da Miranda, e quando i servi giunsero con vassoi ricolmi delle prelibatezze della cucina del Castello, in sala fu subito una gran festa. Il cerimoniale degli omaggi aveva alimentato la fame dei convitati e i piatti messi al centro venivano vuotati nel giro di pochi minuti da che erano stati serviti.
Le portate degli antipasti erano abbondanti e consistevano in striscette di porco avvolte intorno a fette di melone arancione; gamberetti crudi serviti in salsa di basilico e limone; tartare di tonno crudo in insalata di funghi freschi e pomodorini; mozzarelline ripiene con carne sotto sale, o funghi e olive nere, con contorno di pestato alla menta. Il tutto veniva accompagnato con vino rosso generosamente speziato.
Arturo mangiò tutto con gusto, la tavolata degli sposi aveva il vantaggio che le portate fossero servite singolarmente, e non in comunità come negli altri tavoli. Masticò lentamente, lasciando che i sapori delle pietanze gli colmassero la bocca.
Nella sua coppa il vino era stato addolcito con il miele e il sapore della bevanda fu più gradevole di quanto non lo ricordasse “Forse sto davvero crescendo”. Non aveva mai capito perché agli adulti piacessero tanto quel genere di bevande: vino, birra di malto, liquori aromatizzati, toccavano il suo palato con un sapore che era tutto fuorché gradevole. Anche a lui quel vino adesso piaceva, ma raramente gli uomini addolcivano le proprie coppe con il miele “Che crescendo un uomo cambi i suoi gusti e si ritrovi ad apprezzare cose che prima lo disgustavano?” forse, certo solo il tempo poteva rispondere a questo genere di domande.

Per accompagnare il pranzo a corte erano stati invitati musicisti e saltimbanchi d’ogni leva. C’erano segaligni mangiafuoco; giullari con sette campanelle per ciascuna punta dei loro variopinti copricapo; acrobati che sembravano fluttuare ad ogni loro passo; contorsionisti in grado di entrare in scatole di legno, avvolgendosi su loro stessi e maghi tanto abili da divincolarsi dai più astrusi intrecci di catene.
Arturo li osservò, stupendosi ogni tanto, ma senza che quello spettacolo riuscisse a coinvolgerlo fino in fondo. C’era del magico nella loro arte, non poteva negarlo, ma ad Arturo quella magia appariva tanto artefatta e ricercata da non riuscire a forzare le porte della sua meraviglia. “C’è troppo intorno, non abbastanza dentro” si ritrovò a pensare, accucciandosi con il mento sul dorso delle braccia conserte.
I convitati non parevano essere della sua stessa opinione: erano tutti un concerto di applausi, risa, brindisi e tintinnare di monete lanciate all’artista.
“Forse a loro bastano le luci o magari non vogliono mancare di cortesia” pensò Arturo, ma ben presto si rese conto che non stava a lui giudicare “immagino che ognuno abbia i suoi gusti”. Uno sbadiglio si apprestò a dividergli le labbra, riempì quel vuoto con una sorsata di vino dolce.

Poi arrivò lei: nella mano destra stringeva uno sgabello, nella sinistra una vecchia cetra con le corde in crini di cavallo. La piuma sul suo cappello vibrava mentre camminava, insieme ai risvolti del vestito di semplice stoffa nera, vecchia e consunta. Sistemò in terra lo sgabello e vi si accomodò sopra, emettendo mugolii a labbra serrate. Le sue dita scivolarono fra le corde dello strumento, liberando una melodia dolce e cupa come le poesie di un giovane vedovo.
Arturo poggiò i gomiti sul tavolo, le dita della mano destra fra quelle della mano sinistra e il mento sorretto dalle nocche ruvide.
Strizzò gli occhi, stavolta in piena contemplazione: senza realmente osservare alcunché, ma concentrandosi sulle parole a cui la musica apriva la strada, lente e inesorabili come rivoli d’acqua scura.
«Dove va il mio principe quando la notte si avvicina?
Dove va il mio principe quando per man’ mi prende la follia
Oh, mio principe, assassino di mio padre
oh, mio principe, nero mio principe!

E ora che tanto vicina si fa la follia
ho ghirlande di fiori, addio regina e re.
Ho ghirlande di fiori addio regina e re
addio mio principe! Addio mio principe! »


Arturo bevve un sorso, ma anche mentre le labbra toccavano il margine della coppa, egli non staccò gli occhi dalla suonatrice e dalla sua espressione mentre cantava: era come se quella donna non fosse realmente lì, seduta a quello sgabello, ma in un altro luogo e la sua voce fosse tutto ciò che rimaneva di lei in questo mondo.

«Il fiume scorre lontano, ci bagno un po’ la mano
e la follia mi dice, la follia mi dice
guarda il tuo bel viso, guarda il tuo sorriso
la bocca e il collo
la chioma e la mano
nel fiume scorro lontano»


Dall’altro lato del tavolo il principe Stephanus aveva preso a tamburellare le dita sulla stola. Intanto i toni della canzone si facevano più neri e malinconici

«l’acqua bagna il collo
va giù nel vestito
il mio gioco è finito
e la follia ora tace»


Eccoli arrivare, i versi finali di un’amara nenia

«io son morta
caro mio principe son morta
caro mio principe son morta
Ofelia non c’è più
Ofelia non c’è più
Ofelia non c’è più…»


La suonatrice si lasciò morire le parole nella bocca, lasciando le ultime briciole della canzone alle corde della cetra. “Ofelia e il Principe nero” pensò Arturo, contemplando le ultime stille di vino nel suo bicchiere “una storia delle più classiche, che racconta un amore capace di portare una giovane donna alla follia e infine al suicidio”. Era una storia triste, c’era chi credeva che fosse vera.
Gli applausi furono pochi e cheti mentre la suonatrice abbandonava la sala dei banchetti, quello che si prolungò più a lungo fu quello del principe Orimberga, che proprio per questo attirò su di sé gli sguardi.
Con uno scatto brusco egli tirò indietro la sedia e si levò in piedi. Nella mano sinistra stringeva una coppa da cui zampillava qualche goccia di vino, mentre la destra rivolgeva le parole a tutte le persone presenti all’interno della sala.
E la sua voce risuonò forte, sprezzante di ogni imbarazzo per l’attenzione su di lui concentrata.
«Amici, compagni, vassalli» rivolse lo sguardo al Principe Alfonso.
Persino il Conte Cinghiatauro alzò la faccia dal suo piatto, rimasugli di cibo erano rimasti incastrati fra i fili della sua barba grigio fumo.
«Questo è un giorno di festa. Siamo qui riuniti per celebrare le nozze del mio fratello Vittorio e delle sua splendida lady» il mercante sorrise, stringendo le mani di sua moglie «e vorranno perdonarmi se disturbo la loro felicità con questioni che riguardano, non il gioioso felice amore di due giovani sposi, ma bensì la salvezza di tutta Clitalia!» ci fu un vociare concitato a quelle parole, Arturo si voltò verso suo padre, che assisteva alla scena senza emettere un fiato. In viso un’espressione imperscrutabile.
«Come molti fra voi ormai sanno, i Manidi hanno stabilito da anni avamposti sulle coste settentrionali delle Terre del Fuoco. Sottraendoci territori che erano stati dei nostri antenati. Abbiamo sopportato la loro sfrontata superbia anche quando hanno deciso di stabilire qui un loro emirato, la fortezza nota col nome di Salad» Severo strinse la mano in un pugno «Di fronte al nostro orgoglio abbiamo messo la pace, signori miei. Perché l’Occidente crescesse ricco e prosperasse rigoglioso. Ma adesso, questi infedeli, servi di un falso dio, hanno passato il segno! Ad est, proprio mentre noi ci perdiamo in feste e banchetti, il sultano Soliman raduna una grande armata. Alcune voci riferiscono che il bastardo abbia avuto l’ardire di stringere un’alleanza con il barbaro Goliath, signore dell’Orda Mogul. Tutto ciò allo scopo di dare il via a un ambizioso progetto di conquista» nella folla vi fu qualche sussulto, Miranda aveva abbassato il suo sguardo.
«Non è stato semplice prendere una decisione» continuò il principe Stephanus «ma dopo lunghe e ragionate riflessioni, io e mio padre, Re Magnus, abbiamo scelto di portare la guerra presso l’Impero Manide, prima che esso si scagli contro di noi» attese che l’impatto di quelle parole scendesse a fondo nella testa di ognuno dei convitati.
«Dunque, ora vi chiedo: chi, fra voi uomini di Clitalia, ha il coraggio e la forza d’animo di combattere per la propria patria?!» si voltò verso il Principe Alfonso, incidendolo con lo sguardo «E chi fra voi rimarrà invece seduto a guardare?» sibilò.

La smorfia che vibrò sulle labbra dell’Argona non sarebbe sfuggita neanche agli occhi opachi di un cieco, e quando egli si levò in piedi, Arturo era convinto avrebbe messo mano alla spada per vendicare un affronto tanto sfacciato. Ma l’Argona quell’elsa non la sfiorò nemmeno, tenendo le mani ai fianchi. Un sopracciglio gli tremava sopra l’occhio.
«Non ha di che preoccuparti, Stephanus. Se è necessaria una guerra per la salvezza di Clitalia, Argonia non si tirerà certo indietro» grugnì Alfonso. Ma Stephanus non sembrava ancora soddisfatto.
«Mi sorprendi mio caro Alfonso, credevo che avresti preferito il giogo dei Manidi a un alleanza con quelli che tu chiami» schioccò le labbra «tiranni. Ho sentito dire che più di una volta la tua fedeltà nei riguardi della mia famiglia ha vacillato, vuoi forse esporne i motivi?».
La mano destra di Alfonso tremava, si stava avvicinando pericolosamente alla sua spada.
«Allora? Perché non parli?» lo punzecchiò ancora Stephanus, con un ghigno sul volto. Le sue gambe erano flesse, come fosse pronto a scattare da un momento all’altro.
L’aria sembrava esser diventata di burro, quasi difficile da respirare, e Arturo sentì che il suo sangue scorreva bollente nelle vene “La cosa sta degenerando, se non interviene qualcuno…” ma la provvidenza non aveva ancora dimenticato la casa dei Cangramo e una voce si levò nella sala, forte e chiara.
«Adesso basta, Stephanus» era stato Vittorio a parlare, levandosi dal tavolo «Sei come un fratello per me, ma se intendi portare scompiglio nella mia casa, sei pregato di uscire. Adesso.»
«Stavo solo mettendo alla prova la lealtà di un mio suddito, fratello» replicò Stephanus, accigliato ed evidentemente irritato dall’interruzione.
«Esci o torna a sederti. Non lo ripeterò un’altra volta!» urlò Vittorio, battendo un pugno sul tavolo, facendo sobbalzare le stoviglie.  Nella sala dei banchetti cadde un silenzio di tomba, carico di aspettativa.
«Casa tua, regole tue. Fratello» esclamò Stephanus, e poi rivolto all’Argona «Con permesso» indietreggiò, chinandosi in una deferenza fin troppo vistosa. Il solito ghigno perennemente intagliato sulle labbra.
Arturo si voltò appena in tempo per notare suo padre e ‘Bastiano scambiarsi un’occhiata tesa.
Carlo, da parte sua, pareva voler affondare la faccia nella sua coppa.
Mentre Miranda avvolgeva tra le braccia bianche suo marito, sussurrandogli parole nell’orecchio, forse per tranquillizzarlo.

Nei lunghi mesi da che Vittorio Belgi era giunto a Rocca Grigia, ad Arturo non era mai successo di vedere il giovane mercante adirarsi. Anzi, stentava quasi a immaginare che quell’uomo potesse provare qualsiasi altra emozione a parte l’entusiasmo e la felicità.
“Certo ci sono persone che nascondono meglio di altre ciò che provano dentro” ma non credeva che si trattasse realmente di questo. Il fatto che si fosse adirato gli fece pensare che il suo legame con Miranda, con la sua famiglia, fosse diventato tanto forte da spingerlo a incrinare quella giovialità all’apparenza imperturbabile.
Per non parlare del fatto che la sua rabbia non l’aveva rivolta contro una persona qualunque, bensì contro il secondo uomo più potente di Clitalia, dopo il re Magnus Orimberga. Per quanto fra Vittorio e Stephanus ci fosse un rapporto quasi fraterno, ciò non toglieva che il suo agire doveva aver richiesto una dose non indifferente di coraggio. Erano pochi gli uomini che potevano rivolgersi in quel modo a un principe e sperare di sopravvivere, ma nonostante tutto Vittorio Belgi non aveva esitato neanche un istante.
Arturo sorrise, osservando quello che ormai era diventato suo cognato. E mentre nella sala dei banchetti si ristabiliva un certo clima di quiete e di pace, i servi giunsero portando una cospicua fetta di manzo contornata da purè di patate condito con olio e aceto. In un piatto più piccolo fumavano le fette di pane appena abbrustolito. Il cui solo profumo bastava per far venire l’acquolina.



NdA:
Cosa accade quando metti due personalità borderline in una stanza? Un puttanaio. Ma sembra che il nostro buon Belgi abbia calmato le acque per adesso. E così si conclude questo XXIII capitolo, con una novità non indifferente: l'intera Clitalia scenderà in guerra contro l'Impero Manide. Come ve la vedete? Andrà bene? Sarà uno sfacelo? E i nostri Cangramo avranno un ruolo di rilievo oppure resteranno in sordina? E del Principe Stephanus, ora che avete avuto l'occasione di vederlo in azione cosa ne pensate di lui? E della canzoncina inquietante su 'Ofelia e il Principe Nero'?

Come al solito un abbraccio a tutti coloro che mi recensiscono e mi seguono, Il Signore Oscuro

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Capitolo 24
*** Qualcosa che si spezza - (Miranda) ***


CAPITOLO XXIV
Qualcosa che si spezza
(Miranda)
 
 
 
Come previsto il banchetto cominciato quella mattina si protrasse fino a sera inoltrata. Quando ormai fuori dalla finestra il cielo era divenuto un manto di stelle e oscurità, gli ospiti cominciarono poco a poco a levare le tende. Nessuno fra loro avrebbe intrapreso il viaggio verso casa quella stessa notte. Alcuni avrebbero pernottato nel castello, altri avrebbero raggiunto le prime taverne disponibili nel Valga o, preferibilmente, a Valspurga. Dopo un’intera giornata passata a mangiar meno di quanto avrebbe voluto, alzar le braccia per brindisi in suo onore e a scambiare chiacchiere di cortesia, Miranda avrebbe voluto soltanto crollare nel suo letto e dormire profondamente per almeno una settimana.
Tutta l’ansia, tutto lo stress accumulato in mesi e mesi di preparativi l’avevano abbandonata in una sola volta: lasciandola prosciugata d’ogni stilla di energia.
Ma sapeva che c’era ancora qualcosa da fare e prima di poter dormire doveva adempiere all’ultimo compito proprio di una donna fresca di nozze.

La loro stanza coniugale li accolse con un aroma morbido e dolce, emanato dalle candele color vinaccia lasciate a consumarsi sui candelabri. Drappi purpurei avvolgevano il letto a baldacchino, su cui erano disseminati petali di rosa rossa e bianco vaniglia. L’aria era calda e avvolgeva il corpo come un tenero abbraccio, invogliando a togliersi i vestiti di dosso e adagiarsi lì, fra le coperte.
L’odore dolciastro dei fiori le scivolava nel naso, insieme con il profumo di limone emanato dalla pelle di Vittorio. Adesso, finalmente, dopo tanto tempo, poteva ammirare la sua nudità: il ventre piatto e il membro che si levava dal suo bacino come una creatura viva.
Sulla sua superficie si sollevavano vene rigonfie e pulsanti “È così che è fatto?” si chiese la ragazza, osservandolo incuriosita. Bice le aveva accennato qualcosa, ma solo adesso capiva quanto la descrizione della balia fosse stata generica e poco approfondita. Averlo davanti agli occhi la lasciò un poco sorpresa: era lungo due volte il suo indice e spesso abbastanza da riempire comodamente il pugno di una mano. Immaginarlo dentro di sé evocò in lei un sentimento misto di terrore e desiderio.
“C’è ancora tempo” pensò, umettandosi le labbra e volgendo gli occhi in quelli di Vittorio, che la scrutavano sereni. Di tanto in tanto lo sguardo dell’uomo ricadeva sui seni nudi, per poi risalire repentino al volto, vagamente imbarazzato. A Miranda fece sorridere quell’impaccio, mettendole nella voce una calda tenerezza “lui è mio marito”.
«Come stai?» gli chiese, sottovoce, come per paura che qualcuno potesse ascoltarli.
«Bene,» rispose, accentuando il sorriso che gli distendeva la bocca «sono solo felice»
«Anch’io sono felice» replicò lei, ingoiando un boccone di saliva.
Lui le calcò uno zigomo con il pollice ruvido.
«Amore, non devi temere. Andrà tutto bene» quelle parole le infusero un po’ più di sicurezza.
«Io non ho paura» mentì, prendendogli la mano «so che con te sarà bellissimo» e dopo una breve esitazione, un’ultima stretta, quella mano la condusse fin nel basso ventre, dove Vittorio cominciò a sfiorarla con delicatezza.
Le dita di Miranda, intanto, salirono lungo il braccio, disegnarono l’arco della spalla e andarono giù per il petto, fino al membro ormai turgido. Lei lo strinse, sperando dentro di sé di non star usando troppa forza o troppa poca. D’istinto cominciò a muovere la mano, su’ e giù, seguendo il ritmo datogli dalle dita di Vittorio. L’energia che alimentava quei movimenti doveva essere regolare e progressiva, senza scatti di irruenza “È così che deve cominciare…”.

Il piacere che provava era profondamente diverso da quello che si dava da sola: questo era più autentico, più vorace. Come se il suo corpo fosse trascinato da un fiume, che pure non mancava di tenerla a galla.
Istintivamente sentì il punto in cui le sensazioni che avvertiva si sarebbero intensificate e fu lì che guidò le dita di lui. SI guardarono l’uno nell’altra, le labbra si schiudevano appena, sospinte dai brividi del corpo.
Miranda non sentiva il bisogno di parlare, ma le parole le si arrampicarono lo stesso lungo la gola e si riversarono fuori, come se lei non ne avesse il pieno controllo.
«Ti amo» disse in un sussurro, e prima che lui potesse rispondere affondò la voce di suo marito in un bacio.
Quando lei tentò di distaccarsene, Vittorio portò una mano dietra la sua nuca, tenendola stretta a sé e prolungando l’intrecciarsi della lingua nella galleria delle loro labbra congiunte.
“Un’armonia perfetta”.

La mano di Vittorio carezzò con un dito la spina dorsale di Miranda, vertebra dopo vertebra, posizionandosi sul sedere e saggiandone la carne soda. Con l’altra mano avvolse il seno pieno e col pollice giocherellò intorno al capezzolo.

Lui sospirò in un sussulto, chiudendo gli occhi e alzando il mento. La punta del suo membro cominciava a farsi umida. Miranda capì, capì che quello era il momento di lasciarsi alle spalle una vecchia vita, per spalancare le porte di una nuova.
Una vita da vivere con lui, con il suo Vittorio.
“Sono pronta? Ma certo che sono pronta, stupida! Ho paura, farà male?” ricacciò indietro i dubbi, le esitazioni “Proverò dolore, solo quest’unica volta…”.
Si erse su di lui, guidò il membro di suo marito fino nel suo sesso e lasciò che entrasse. Vittorio cominciò a spingere, era come cercare di infilare ostinatamente qualcosa in un buco troppo stretto. Il piacere provato sino ad allora fu sostituito dal dolore: dapprima un fastidio, poi un bruciore insistente.
“No, no, se ci penso è peggio. Io- io devo concentrarmi su altro. Sì, su quanto questo momento sia importante. Su quanto io l’abbia desiderato. Devo resistere.”
Ma poi qualcosa dentro di lei si spezzò e Miranda gemette, inarcando la schiena. Due gocce salate le si raccolsero negli occhi e un rivolo tiepido si fece strada tra le sue gambe: rosso e viscoso.
Ma Miranda non si lamentò e attese, stringendo i denti, stringendo Vittorio a sé con altrettanta forza. E lui gli ripeteva «Ancora poco e sarà tutto finito, è normale la prima volta». Pensò al calore che condividevano, si concentrò su questo. Fece di questo l’unico pensiero possibile e in quel momento una stilla di piacere cominciò a reclamare il suo trionfo sul dolore. Era certo una forma diversa di piacere, un piacere più lontano dal corpo e più vicino all’anima. Un piacere che sussurrava alla carne “Domani vinceremo insieme”.
Infine suo marito si irrigidì, stringendola forte a sé e il suo seme si riversò dentro di lei.

Adesso che il dolore era un po’ chetato, Miranda baciò il suo amato sulla bocca e trovò la forza di accoccolarsi al suo fianco.
I minuti che seguirono trascorsero silenziosi. Poi suo marito raccolse il viso di lei fra le mani.
«Amore» disse lui, gli occhi un poco umidi, la voce tremante «mi spiace se ti ho fatto male» anche il suo membro si era sporcato di sangue, così come le lenzuola.
«Non è colpa tua» replicò Miranda, sorridendo per rassicurarlo «era necessario farlo».
«Vedrai che la prossima volta sarà diverso» la baciò sulla fronte «è una promessa».
«Io mi fido di te» pose il capo sul suo petto, chiuse gli occhi ed ascoltò il suo cuore.
Dapprima mise a freno quella curiosità che s’era fatta strada nella sua mente, ma le diede infine libero corso «Ma… anche a voi uomini fa male la prima volta?»
“Ma che razza di domande fai?!” si rimproverò, mentre le guance avvampavano.
Vittorio ridacchiò, forse divertito o magari imbarazzato. Il battito del suo cuore accelerò.
«Beh, dipende»
“Dato che mi sono messa in barca tanto vale remare…”
«A te ha fatto male? La prima volta?»
Vittorio balbettò qualcosa di incomprensibile, la ragazza fu divertita da quell’impaccio così inaspettato. Alzò gli occhi verso di lui.
«Andiamo, lo so che non sono la prima» sbuffò con ilarità «sei stato in mezzo mondo e qualche bella fanciulla ben disposta l’avrai incontrata»
«Beh, ecco» tentennò ancora lui.
«Avanti, non sono gelosa» lo rassicurò, con un sorriso disteso sulle labbra «appartiene al passato».
«Va bene, va bene» replicò lui, denegando col capo «Sì, mi fece un po’ male, ma non uscì sangue. Ai maschi non capita così spesso come a voi donne » il cuore di Vittorio sembrava essere diventato un tamburo impazzito.
«Uhm, e lei chi era?»
“Magari sto diventando troppo invadente”
« Una prostituta della Garbata, aveva all’incirca la mia età» rispose lui, distogliendo lo sguardo, con un certo rossore raccolto sulle guance.
«Della Garbata? Nelle Terre Centrali?» chiese lei, inarcando un sopracciglio «Speravo in qualcosa di un po’ più esotico»
«Beh, qualcosa di particolare ce l’aveva» rispose Vittorio, fingendo di mettere il muso.
«Cioè?» cinguettò Miranda.
«Aveva i capelli tinti d’azzurro, non so neanche per quale diavolo di motivo mi attirasse tanto a quel tempo. Non era neanche tutto questo granché quella ragazza, ma il fatto che la sua chioma fosse di quel colore bastò a farmi scegliere lei » Vittorio le passava una mano fra i ricci mentre parlava, inoltrandosi con le dita fra i boccoli.
Miranda si girò su sé stessa, così da poterlo guardare dritto negli occhi. Prendendogli il viso fra le mani.
“Chiudiamo qui la sezione domande imbarazzanti, prima che mi venga in mente di tingermi i capelli di azzurro. Che poi che razza di colore è per dei capelli?!”.
«Giurami, giurami che da ora in avanti io sarò la sola. Che io sono tua e tu sei mio, proprio come ci siamo promessi stamane. Che se anche hai fatto del sesso prima, la prima volta che hai fatto l’amore è stato qui: in questo letto. Con me»
“Per il Redivivo, l’ultima potevo risparmiarmela. Neanche nelle più smielate ballate si dicono cose del genere” pensò Miranda, e certo avrebbe voluto nascondersi sottoterra subito dopo aver pronunciato quella frase. Ma in fondo che le importava? Era con suo marito, nessuno a parte lui poteva sentire ciò che diceva.
«L’ho promesso dinanzi al Redivivo, lo riprometto qui davanti a te: tu sei mia, io sono tuo» le frasi smielate della ragazza non avevano destato l’ilarità di Vittorio, quelle parole le aveva pronunciate con voce seria e sentita.
Penetrandole gli occhi con le sue iridi, luminose come schegge di lapislazzuli.





NdA: I due piccioncini sono talmente adorabili che mi dispiacerà ammazzarli entrambi, ahahah ovviamente scherzo (sul fatto che mi dispiaccia). Beh, sono le tre di notte e non ho granchè da dirvi, se non un giga-grazie per essere arrivati fin qui. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e fatemi sapere cosa ne pensate. In particolare vorrei un parere riguardo il pezzo in cui Miranda perde la verginità, vorrei sapere se a vostro parere sono stato efficace e/o se avete consigli per migliorare.
Al solito un abbraccio a tutti coloro che mi seguono e mi recensiscono :**

Il Signore Oscuro

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Capitolo 25
*** Morire, dormire, forse sognare - (Carlo) ***


CAPITOLO XXV
Morire, dormire, forse sognare
(Carlo)
 
 
 
Camminava avanti e indietro da così tanto tempo che ancora un po’ e avrebbe lasciato il solco sul pavimento. Sul suo petto, la tunica da notte scollata lasciava intravedere il corpo asciutto. Ma Carlo non ebbe maniera di concentrarsi sulla bellezza del suo amato, poiché le parole del Principe eruttavano dalle sue labbra riempiendo la stanza di urla e sbraiti.
«Ti rendi conto?» il suo viso s’era fatto paonazzo, un velo di sudore solcava la fronte «Prendersi gioco di me a quel modo. Come fossi l’ultimo dei baroni!»
Carlo sbuffò, roteando gli occhi e lasciandosi cadere con la testa sul cuscino.
«Un mercante! Mi ha dovuto difendere un mercante!»
«Che ne dici di venire al letto?» brontolò Carlo, la voce arrochita dal sonno incipiente.
«Ma mi stai ascoltando? O sto tenendo un monologo qui?!» rimbrottò lui, con fare acido.
Quelle parole furono fastidiose come una frustata sulla schiena. In Carlo montò un irritazione tale che ciò che aveva da dire, rimestato per giorni e giorni in un autoimposto silenzio, esplose fuori senza che il cavaliere potesse frenarsi.
«Per il Redivivo, non ne posso più delle tue continue lamentele su qualunque cosa accada in questo fottuto mondo! Abbiamo un’occasione per trascorrere in pace una nottata, solo io e te, senza nessuno che possa romperci le scatole. E tu non fai altro che urlare e sbraitare in merito a questa o a quella cosa!»
La faccia di Alfonso era tale che, dire fosse sconvolto sarebbe parso un eufemismo. Carlo non poté negare a sé stesso di provare un certo piacere nell’averlo finalmente zittito. Ma il suo compiacimento non durò più di qualche secondo: sul viso dell’Argona, alla sorpresa si sostituì una rabbia feroce, acuita dalla stizza.

«Oh, scusami grande e nobile cavaliere, non intendevo affliggere con le mie questioncine da niente il tuo bisogno di romanticismo da poemetto per fanciulle».
Carlo sentì gli occhi pizzicare, gli ultimi residui di sonno vennero spazzati via, mentre balzava giù dal letto e un incendio gli montava in corpo.
“Quanto vorrei picchiarlo!”
«Sei un coglione!» urlò «Se mi hai preso per una puttana d’alto borgo da scoparti quando più ne hai voglia e contro cui inveire quando sei adirato, hai sbagliato di grosso caro mio» era una fortuna che le pareti fossero di roccia spessa e i suoni non si riversassero nei corridoi e nelle altre stanze del castello.
In ogni caso, Carlo non sarebbe rimasto lì a farsi insultare, e fece per avviarsi verso la porta. Quando una mano gli bloccò la spalla, con presa salda e sicura.
«Andiamo, non fare così. Stavo scherzando…» disse lui, abbozzando un sorriso, con tono più mite.
«Stavo scherzando un par di palle!» si scostò da quel contatto con una brusca scrollata, trattenere le lacrime richiese uno sforzo sovrumano «Verrà un giorno in cui non potremo continuare a far ciò che più ci pare. Dovrai sposarti, avrai una moglie e dei figli. Qualcosa che con tutta probabilità toccherà fare anche a me. Perché loro vogliono così, perché a questo dannato mondo sembra non ci sia nulla di più importante, a cui interessarsi, di quello che due uomini vogliono fare della propria vita. E il poco tempo che ancora ci rimane tu lo butti via così! Non facendo altro che scaricarmi addosso ogni tua minima frustrazione, ogni minima paranoia che ti fai in quella dannata testaccia che ti ritrovi!»

Il viso di Alfonso si incupì, Carlo non poté negare di provare un po’ di dispiacere per esser stato tanto diretto “ma non potevo evitarlo, mi ha portato all’esasperazione”. Il Principe si passò una mano sul volto e, fermando le dita alle labbra, sospirò pesantemente.
«Non è mica detto che le cose debbano per forza andare così» replicò.
“Sei un illuso”.
A Carlo sfuggì un sorriso amaro «Forse per me, caro il mio Principe. Ma questo non vale per te: è nel tuo destino continuare la stirpe. Tuo padre non permetterà mai che il nome Argona si estingua con te»
«Mio padre è vecchio e malato, non può vivere per sempre» berciò Alfonso in risposta «e non potrà decidere per me quando sarà nell’altro mondo»
«E va bene, forse non tuo padre.» concesse il cavaliere «Ma per quanto credi che il popolo acconsentirà al fatto che, chi lo guida, non abbia eredi diretti? Per quanto credi di poter arginare il rischio di una guerra civile, o quello di congiure per toglierti il potere?!» Carlo deglutì «Io ti amo Alfonso, e proprio per questo non posso accettare che il prezzo di quel che proviamo l’uno per l’altro sia un insensato spargimento di sangue, sangue innocente!»

Lo vide dal suo viso quanto le sue parole lo avessero colpito, nel profondo. Quegli occhi azzurri, che spesso brillavano per l’eccitazione di una battaglia o in preda all’ira, adesso erano illuminati da qualcos’altro. L’ombra di lacrime che Alfonso teneva con tutta la sua forza per sé, dinanzi all’inevitabilità del suo fato, ora così innegabilmente chiaro dinanzi a lui.
Il cavaliere tornò ad adagiarsi sul letto, la voce lasciò la sua bocca con note incrinate
«Adesso vieni qui, dormi accanto a me. Stanotte che ancora possiamo»
Alfonso Argona, uno degli uomini più potenti di Clitalia, principe ereditario della Costa Orientale, si accoccolò tremante fra le braccia del suo cavaliere. Tutti conoscevano l’Argona come un uomo prode, coraggioso e testardo fino all’inverosimile. Un guerriero forgiato nelle compagnie mercenarie di Ellenia, amato e rispettato da qualsiasi soldato avesse avuto il privilegio di militare sotto il suo comando. Fra le centinaia, forse migliaia, di persone che lo avevano conosciuto o avevano sentito parlare di lui, Carlo Cangramo era l’unico ad averne appreso le debolezze. L’unico che accoglieva in sé la bellezza della sua fragilità.
La schiena di Alfonso tremò, scossa dai singulti, dai singhiozzi che aprivano il varco alle sue lacrime, ai suoi lamenti.

“Mi dispiace, mi dispiace Amore mio” e lo strinse ancora più forte, gli baciò le spalle, intrecciando le dita alle sue. “Mi dispiace per tutto, per la vita che saremo costretti a vivere. Mi dispiace per aver contribuito ad anticipare la fine di questo nostro amore. Se solo sapessi, se solo tu sapessi che è stata la mia famiglia a suggerire quel matrimonio di cui ancora non sai nulla… che diritto ho mai avuto di adirarmi con te, quando chi è più in torto qui sono io? Chissà se in un altro luogo, in un altro tempo, saremmo potuti essere felici. Magari una vita in cui né io né te avremmo avuto importanza per il resto del mondo. Saremmo state due persone i cui occhi e i cui desideri sarebbero stati solo l’uno per l’altro. Magari fosse così: da un sogno del genere non vorrei ridestarmi mai”.
Così Carlo sussurrò dentro sé, mentre le lacrime percorrevano anche le sue di guance, insieme a quelle del suo principe. Qualche goccia strisciava sul corpo di Alfonso, macchiandogli la tunica. Altre scivolavano nelle labbra e il cavaliere ne sentì in bocca l’aroma insieme così amaro e salato. E infine il giovane Cangramo si addormentava, sognando un luogo lontano: dove la realtà era un’immagine sfumata, un ricordo presente appena nei flutti della memoria.
Dove Carlo e Alfonso non erano più un cavaliere e un Principe, ma solo due innamorati. Un sogno lontano, da cui non svegliarsi mai.




NdA: Hola chicos, come andiamo? Scusatemi per l'estrema brevità di questo capitolo ma credo che, nonostante sia corto, risulti comunque abbastanza denso. Spero non vi abbia deluso. In realtà mi da un po' al c***o il fatto che i capitoli ultimamente mi stiano uscendo un po' troppo brevi, ma la mia musa sembra volere così. Prometto che cercherò di porvi rimedio!
Potrebbe passare un po' di tempo fino al prossimo aggiornamento (sì, avrete un po' di respiro FORSE) perchè mi aspetta una settimana abbastanza piena e non ho un'idea del tutto chiara di cosa tratterò nei prossimi capitoli: cioè, so dove voglio arrivare, non so come allungare il brodo per arrivare gradatamente. Vedrò di inventarmi qualcosa.

Un abbraccio,
Il Signore Oscuro

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Capitolo 26
*** Sulle ali della guerra - (Sebastiano) ***


CAPITOLO XXVI
Sulle ali della guerra
(Sebastiano)
 
 
 
Dietro le sbarre di ferro battuto il blasone bianco e nero del Conte Cinghiatauro sventolava al ritmo di marcia, facendosi più distante ogni secondo che passava. Severo lo osservava andar via, ritto sul suo posto: le braccia incrociate dietro la schiena e il petto in fuori. Sul viso la barba si raccoglieva in fili di ferro ispido, e i suoi occhi bruni parevano essersi fatti neri in contrasto con la pelle smunta e le occhiaie violacee scavate intorno alle orbite come cicatrici. ‘Bastiano gli si affiancò.
Aveva rimandato quella conversazione sino al giorno in cui anche l’ultimo degli ospiti di Castel Cangramo non fosse andato via. Adesso non c’erano più scuse.
‘Bastiano cercò dentro di sé le parole corrette per sgarbugliare l’intrico dei propri pensieri e mutarlo in un discorso che avesse senso. Ma il Conte lo tolse dall’impiccio, squadrandolo con un’occhiata in tralice
«So cosa intendi dirmi, e prima che tu lo dica: sappi che non è così semplice come può sembrare»
la sua voce, nonostante la palese stanchezza del corpo, non aveva perduto nulla del suo austero vigore. Ma la fermezza del padre non bastò a disgregare i dubbi del suo primogenito.
«Invece a me pare che il tutto sia davvero molto semplice: con quello che c’è in gioco per noi non possiamo permetterci di scendere in guerra. Né tanto meno mettere a rischio i nostri rapporti con i Manidi. O vuoi forse rendere vano il suo sacrificio?»
protestò ‘Bastiano, con sguardo accigliato.
Severo strinse in un pugno le dita della mano destra, e dovette respirare a fondo prima di parlare
«L’emirato di Salad non ha rapporti con la madrepatria da ormai più di un secolo»
‘Bastiano replicò con una breve risata.
«Non essere ingenuo, padre. Sai bene che l’odio nei riguardi dei Manidi, presto o tardi, si riverserà anche su Salad. Un pretesto perfetto perché gli Orimberga possano finalmente mettere le mani sulle ricchezze celate nella fortezza».
Severo serrò la mascella e si voltò verso suo figlio, portando le mani ai fianchi
«Non sono uno sciocco ‘Bastiano, scenderò in guerra io stesso, farò pressione su chi di dovere perché si trovi al più presto un accordo. Forse l’emirato sarà dismesso e la gente che lo abita sarà costretta a ritornare nella madrepatria. Sarebbe fra le condizioni di un eventuale trattato. Ma perlomeno avrebbe salva la vita e questo è ciò che importa»
«Sei troppo ottimista, padre» lo rimbeccò il ragazzo «dovremmo tenerci fuori da questa maledetta guerra e offrire il nostro sostegno ai Manidi nel momento opportuno. Pensaci! Con il loro supporto potremmo finalmente liberarci degli Orimberga e delle loro mire imperialistiche. Se la fortuna dovesse assisterci potremmo addirittura veder cadere Utopia e le sue leggi tanto arcaiche e superate» lasciò un breve silenzio, prima di concludere «E la nostra famiglia finalmente sarebbe libera di riunirsi, una volta per tutte»

Severo denegò col capo, sospirando con una punta di rammarico.
«Io sarò ottimista, figlio mio, ma tu sogni fin troppo. Astenerci dalla guerra equivarrebbe a proclamarci, a voce forte e chiara, nemici di tutta Clitalia. Gli Orimberga non esiterebbero a schiacciarci ancor prima di salpare verso oriente»
‘Bastiano abbassò lo sguardo a quelle parole, digrignando i denti sommessamente “Dunque non si può evitare”.
«Allora sarà la guerra» rispose laconico, in quello che era poco più che un sussurro.
«Non vedo altra soluzione» sentenziò il Conte, con voce grave.
«Dovremo dare disposizioni quindi. Avremo bisogno di navi e di uomini. Manderò falchi a Valspurga e nel Valga, ordinando che dei contingenti siano inviati a Rocca Grigia per un addestramento avanzato» aggiunse dopo un po’ «anche i Kelta potrebbero essere un aiuto prezioso»
«Non contarci, figlio mio. Il popolo della selva è estraneo alla guerra per mare. Hanno sempre combattuto sulla terraferma, sotto un terreno sicuro e immobile»
«Molto bene» rispose ‘Bastiano, avviandosi verso il Castello. Ma percorsi appena un paio di metri la voce di suo padre fermò i suoi passi.
«So bene che vorresti vedere riunita la nostra famiglia, e il tuo desiderio corrisponde il mio. Verrà il giorno in cui ogni Cangramo sarà libero di ritornare al luogo che gli appartiene. Verrà il giorno in cui i poteri ingiusti che dominano la nostra civiltà saranno spazzati via, ma sino ad allora il massimo che possiamo fare è aspettare e resistere»
«Già,» rispose il ragazzo, non troppo convinto «ma vorrei che di tanto in tanto la nostra casata prendesse una vera posizione, invece di lasciarsi trasportare da questa o quella corrente. Come pensi che ci ricorderà la Storia?!»
Severo sbuffò, un sorriso amaro dipinto sulle sue sottili labbra.
«Non mi interessa cosa potrà pensare di me qualche miope studioso fra cento o duecento anni da ora, non mi interessa se mi giudicherà un codardo o un uomo subdolo. Sarò già morto da un pezzo quando la Storia si degnerà di ricordarsi di me, se se ne ricorderà. Ciò che mi sta a cuore, figlio mio, è il coraggio che vedo brillare nei tuoi occhi; la passione che è nello sguardo di Carlo; l’amore che illumina il viso di Miranda e la sete di conoscenza di Arturo. Ciò che più conta, ciò che più mi sta a cuore siete voi e se devo essere un codardo, se devo ingannare e tradire qualsiasi nobile ideale, se devo persino morire perché voi possiate continuare a vivere e prosperare, stai pur certo che lo farò»

‘Bastiano non trovò parole per replicare e non era neanche sicuro che una risposta servisse per davvero.
“Tanti lo chiamerebbero un uomo senza onore, un vile persino” deglutì, mentre le porte del castello si facevano vicine, e Vanni abbandonava il recinto delle guardie per venirgli incontro “ciò che mi chiedo io è se avrei il suo stesso coraggio. Il coraggio di non essere l’uomo che vorrei, per proteggere coloro che più mi stanno a cuore”.

«Mio signore!» esclamò Vanni, cercando di star al passo con le sue lunghe gambe.
«Ti ripeto che puoi chiamarmi ‘Bastiano» le rispose dolcemente, scostando le ante del portone.
«Sì, sì, so che potrei. Ma insomma, da queste parti sembra che l’etichetta abbia una certa importanza» replicò la ragazza, con sguardo confuso.
«Non per la mia guardia del corpo» ghignò ‘Bastiano, mentre saliva le scale, diretto al primo piano del castello.
«Come desidera, ‘Bastiano» si sforzò Vanni «comunque, ci sono novità?»
«Sì, in effetti, i Cangramo scenderanno in guerra»
«Dite davvero?!» chiese lei ad occhi sbarrati.
«Eri nella sala dei banchetti quando il Principe ha parlato, o sbaglio?»
«Beh, sì» ammise lei «ma non immaginavo che anche la vostra famiglia si sarebbe unita»
«E invece pare di sì» replicò il giovane, mentre apriva lo studio di suo padre e si dirigeva alla scrivania. Frugando nei cassetti trovò finalmente ciò che cercava: un mucchietto di fogli di papiro e il necessario per scrivervi sopra. ‘Bastiano si accomodò, stringendo fra le dita la penna d’oca.
«Combatterete anche voi, ‘Bastiano?»
Il giovane Cangramo frenò il polso e le lanciò un’occhiata, inarcando un sopracciglio. Le labbra di Vanni si dischiusero, allargate dalla sorpresa.
«E vostro padre è d’accordo?!»
Al giovane scappò un risolino.
«Oh, beh, lui non lo sa ancora»
«Perdonatemi l’ardire, ma dubito fortemente che ve lo lascerà fare»
«Questo lo so» disse, mentre ritornava a vergare i fogli.
«E come intendete convincerlo a fare il contrario?» chiese la ragazza, appoggiando in un angolo la picca e sgranchendosi le nocche delle mani.
«Nell’unico modo in cui sia possibile convincere un vecchio caprone come mio padre: non lasciandogli alternativa».
Negli effetti non aveva poi una così chiara idea di come portare a termine il suo intento: certo, infiltrarsi su una delle navi come clandestino poteva essere una soluzione, magari non la più comoda. Ma qualcosa, ne era sicuro, alla fine l’avrebbe trovata.

‘Bastiano non ci mise più di tanto a scrivere le lettere necessarie, in fondo si trattava soltanto di richiedere uomini e applicare le firme necessarie da accompagnare con tutti i sigilli del caso. Il giovane passò della sabbia sui fogli, perché l’inchiostro si rapprendesse. Dopodiché lasciò che Vanni arrotolasse le lettere e le chiudesse con la ceralacca, proprio come le era stato insegnato.
Ora che i messaggi erano stati riportati su carta non restava che darli a chi di dovere, perché fossero portati a destinazione. Normalmente il giovane Cangramo avrebbe delegato la cosa a un servitore all’interno del Castello, ma quel giorno voleva avere cura che tutto si risolvesse sotto i suoi occhi. Voleva essere certo che non fossero compiuti errori.

Congedata Vanni, prese i rotoli e li condusse nella torre sud-ovest, dove la famiglia aveva la sua personale uccelliera: la porta di cedro invecchiato riportava disegni raffiguranti un uomo con ali che facevano capolino dalle rotondità delle caviglie. ‘Bastiano udì i versi dei pennuti, quando la mano si strinse attorno al maniglione: c’era il ritmico tubare dei piccioni e delle colombe; il verso acuto e prolungato dei falchi; e il gracchiare grave dei corvi.
Il cigolio dei cardini fu accompagnato da una battere d’ali e un movimento d’occhi rapaci che lo incidevano con il loro sguardo attento. Nella stanza circolare dell’uccelliera, ricurvo sulla poltrona, sedeva un ometto non più alto di un metro e mezzo. Dalle sue dita nodose, ricolme di grano, una vecchia cornacchia mangiava i suoi chicchi. Quando ‘Bastiano entrò, il pennuto si rialzò in volo, andandosi ad appollaiare fra le balaustre sul soffitto, gracchiando rumorosamente in segno di protesta.
L’ometto scattò in piedi e incespicò, zoppicando fino al giovane e lo salutò con una goffa riverenza. ‘Bastiano storse il naso: il suo odore lasciava molto a desiderare e sulla tunica di vecchia iuta si andavano seccando escrementi bianchicci, lasciati come ricordo dai numerosi pennuti all’interno della torre.
«Mio signore» gracchiò l’uccelliere, tirando su con il vistoso naso aquilino.
«Valerio, buongiorno» replicò ‘Bastiano, inquietato da quei grandi occhi da gufo sul volto scarno dell’uomo.
«Come posso servirla?»
«Due falchi devono prendere il volo, verso Valspurga e nel Valga, maestro».
L’ometto rimase un attimo in silenzio, prima di ciondolare la testa in un vistoso cenno d’assenso. Dopodiché, dalle sue labbra increspate lanciò un fischio acuto e due rapaci discesero dalle travi, causando il panico degli altri uccelli che iniziarono a stormire confusi e impauriti. I due falchi discesero con eleganza l’uno sulla spalla e l’altro sul braccio teso di Valerio. Con un trancio di corda l’uccelliere appose i messaggi intorno alle zampe squamate, evitando accuratamente i lunghi artigli ricurvi.
«Inviate falchi mio signore» l’ometto gongolò «c’è forse una guerra alle porte?»
‘Bastiano si limitò a mugugnare un assenso, che a Valerio parve bastare.
Il maestro avvicinò la bocca ai due animali e sussurrò loro parole segrete: le iridi dei falchi si dilatarono e in un istante spiccarono il volo, diretti verso la loro destinazione, senza emettere il benché minimo suono, se non lo strofinio sordo delle ali.

‘Bastiano deglutì. Quello di sussurrare agli uccelli era una magia antica, una magia le cui origini si erano ormai perdute nelle viscere del tempo. Gli unici a cui fossero note quelle segrete arti erano i membri dell’Antico Ordine degli Ornicoltori, un gruppo ristretto a metà fra i monaci e gli stregoni. Di loro si sapeva poco quanto niente e ciascun maestro dell’ordine avrebbe accettato più volentieri la morte, che il dispensare anche solo una briciola dei propri segreti.
‘Bastiano questo lo sapeva bene. Durante gli anni della sua istruzione, gli era stato raccontato che il Culto del Redivivo, negli anni del suo insediamento a Clitalia, aveva ristretto ulteriormente quell’ordine, nel tentativo di estorcerne i segreti (a quanto sembra, senza successo). Alla fine il Culto si era arreso e aveva concesso agli Ornicoltori di continuare ad esistere, purché mettessero quella strana magia al servizio del Culto stesso e delle famiglie nobili di tutta Clitalia.


NdA: Sembra essere passata un'eternità ma rieccomi qui. Ho attraversato un periodo pieno e a tratti difficile, ma ho ripreso un poco le redini e adesso mi sento decisamente meglio :3 Mi auguro che il capitolo vi piaccia!

Un abbraccio,
Il Signore Oscuro



 

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Capitolo 27
*** Le opere e i giorni - (Carlo) ***


CAPITOLO XXVII
Le opere e i giorni
(Carlo)

 
 
 
Le colonne dei due principi, di ritorno verso le rispettive città, si trovarono a incrociarsi quella mattina. Difatti il principe Stephanus, se per caso o volontà propria non era dato saperlo, aveva deciso di lasciare la Rocca Grigia nello stesso giorno e con qualche ora di distacco dall’Argona. Quando Carlo vide l’Orimberga accostarsi ad Alfonso, gli lanciò un’occhiata di sospetto, irritato da quel sorriso sempre sprezzante che Stephanus portava continuamente stampato in volto.
In quel momento Carlo rimpianse di non aver prolungato ulteriormente la sua sosta a casa, di esser stato troppo frettoloso nel suo congedo. Tuttavia l’esperienza gli aveva insegnato che a ritardare un’inevitabile addio non si faceva altro che accrescerne la pena. Ed era dunque meglio toglier via quel dente in un sol gesto, ancor prima di riabituarsi a una vita che, ahimè, ormai non gli apparteneva più.
«Principe Alfonso! Quale piacere rivederti…» disse l’Orimberga, con tono mellifluo.
«Stephanus» replicò lui, in un saluto lapidario e forzato.
L’altro principe sbuffò, in una nota acuta.
«Andiamo, non te la sarai presa per la scenetta dell’altra sera? Avevo forse alzato un poco il gomito e poi, sai com’è, la politica è una questione di facciata. Dobbiamo apparire alleati di malavoglia, perché questo paese rimanga unito».
Il discorso in cui Stephanus si stava addentrando parve stuzzicare la curiosità di Alfonso, che gli rivolse gli occhi senza però muovere il capo. Persino Carlo aguzzò le orecchie, avvicinandosi un poco.
«Non sono uno sciocco, mio caro Argona» sorrise l’Orimberga, in un ghigno freddo «So bene che non tutti apprezzano la mia famiglia e i nostri metodi. C’è sempre bisogno di un’alternativa che stuzzichi gli animi più… più ribelli, ecco. E voi, mio caro Alfonso, siete l’esempio perfetto del principe senza macchia e senza paura! L’uomo che tutti vorrebbero seguire. Il principe che non si ribella in nome della pace della nostra bella Clitalia.»
Una smorfia scompose il viso sino ad allora impassibile e distante di Alfonso.
«Non sono una marionetta, Orimberga. Se insultate ancora il mio onore ne avrete prova sulla punta della mia spada».
La faccia di Stephanus si tramutò in una maschera di accentuata mortificazione.
«Voi mi fraintendete, caro Alfonso. So bene quanto siano veritiere e oneste le vostre qualità, non le ho mai messe in dubbio. Come del resto non è mai stata in dubbio la vostra fedeltà» fece una breve pausa «per quanto a voi scomoda. Dico soltanto che il rapporto fra voi e la nostra famiglia è… complementare e funzionale a un clima di equilibrio . E per dimostrarvi la mia fiducia e il mio rammarico, dispongo ufficialmente che siate voi a raccogliere e guidare la flotta che porrà lo scacco all’Impero Manide. Le navi salperanno dal porto di Argonia e voi ne sarete alla testa! Come loro generale!»
L’espressione sul viso di Alfonso si addolcì in modo impercettibile, ma la sua voce rimase ruvida e velenosa.
«Mi pare più un onere che un onore, quello che mi proponete».
Stephanus fece spallucce.
«Certo comporterà delle responsabilità, amico mio. Ma vi invito a pensare alla gloria che ne otterrete» il Principe Orimberga sfoggiò un sorriso a trentadue denti «Adesso, però le nostre strade si dividono. Sono certo di lasciare il futuro di questa guerra e della nostra Clitalia in buone mani» e senza altro aggiungere Stephanus guidò la sua colonna di vessilli rossi e armature scintillanti verso ovest, dove la strada si inoltrava nell’entroterra, verso Arcadia e Utopia nelle Terre Centrali. “Può essere una buona occasione per calmare le acque” pensò Carlo “eppure… quel sorriso. Sì, Stephanus è il pescatore che sa sempre qual è l’esca giusta perché il pesce abbocchi con tutta la lenza e questa volta non poteva sceglierne una migliore”. E gli occhi del cavaliere si volsero ad Alfonso, che pure in un certo qual modo stranito, sembrava non troppo dispiaciuto dal colloquio con l’Orimberga. “Forse dovrei parlargli, ma dopo l’altra sera” sospirò Carlo “l’ultima cosa di cui ho voglia sono altre discussioni”.
E rinunciando a mettere a nudo i propri sospetti, così il cavaliere, il Principe e il suo seguito proseguirono lungo il cammino per la grande e potente Argonia, la Capitale dell’Est.
La traversata richiese alcuni giorni e non riservò avvenimenti degni di nota, se non l’assalto di alcuni briganti non troppo astuti, che avevano avuto l’infelice idea di attaccare la coda di una carovana con fin troppi armati fra le sue fila. Alfonso aveva avuto cura di occuparsi personalmente dei banditi, decapitando coloro che non erano riusciti a fuggire o che non erano periti durante il breve scontro.

A pochi chilometri dalla meta, tuttavia, avvenne qualcosa che pur non avendo nulla di straordinario, lasciò dentro Carlo una traccia indelebile, fatta di amarezza e disgusto. Ai lati della strada, una donna avvolta di stracci si dirigeva verso un’altura, velata da un boschetto. Ad accompagnarla un vecchio che poteva essere suo padre. Fra le braccia magre della donna si agitava un piccolo fagottino, da cui provenivano piccoli versi acuti.
Quando la contadina passò vicino al principe, gli rivolse una piccola riverenza e così il suo genitore, ma Alfonso tirò dritto senza replicare, con un’espressione grave in viso.
Mentre Carlo, non altrettanto stoico in quell’occasione, tirava le redini della sua cavalcatura e lanciava alla donna e al vecchio una voce.
«Voi!» disse, richiamando l’umile coppia «Dove portate quel bambino?!»
La contadina si irrigidì sul posto e rivolse al cavaliere una lunga occhiata rossa. Con un breve gesto rivelò i ciuffi bianchi raccolti sul capo del suo bambino e senza aggiungere altro proseguì per la sua strada. Carlo fece per seguirla, ma la voce cupa di Alfonso lo richiamò nelle fila.
«Rimettiti in marcia, cavaliere.»
Carlo si voltò incredulo, dischiudendo lievemente le labbra «Vuoi davvero lasciarglielo fare?! Cazzo, si tratta di un bambino!» protestò, guardando la donna e il vecchio sparire fra le fronde degli alberi.
Alfonso replicò, in un filo di voce «Dovresti saperlo, è una tradizione antica. Più antica del Culto stesso e neanche un monarca vi si può opporre».
Carlo si scoprì a non aver parole per replicare, mentre nella sua mente venivano alla luce ricordi opachi e lontani.

Suo padre aveva il viso rivolto verso l’esterno, oltre le sbarre della finestra. Le mani incrociate dietro la schiena e le spalle diritte. I capelli più scuri di quanto non lo fossero ora.
«Risale a un’età in cui i Rimli erano ancora Elleni. A mio dire lo strascico di tempi arcaici e poco civilizzati. Il mito narrava che quando al mondo fossero nati bambini con addosso i segni di un’età più avanzata, questo sarebbe stato il segno che la furia degli dei era in procinto di abbattersi sul mondo, mettendo fine a tutto ciò che conosciamo» suo padre aveva deglutito, rimanendo in silenzio per qualche istante «Dunque, per placare l’ira degli dei, questi poveri infanti dovevano essere sacrificati alle divinità stesse, rimandando così la fine dell’uomo ad un altro giorno, più lontano. Questa tradizione, dagli Elleni è passata ai Rimli e ancora oggi è radicata a Clitalia… sempre più salda secolo dopo secolo. Evidentemente avranno pensato che doveva funzionare».
Carlo aveva storto la bocca, non era stato sicuro di cosa significasse «Come può un bambino nascere già vecchio, padre?».
Suo padre aveva sorriso, con amarezza «Dipende dalle interpretazioni, figlio mio. Dimmi, qual è la prima cosa che associ a un uomo di una certa età?».
Carlo ci aveva pensato un poco prima di rispondere nel più scontato dei modi «I capelli bianchi…».
«Esattamente» aveva replicato Severo «può capitare che alcuni bambini nascano con la pelle e i capelli candidi come neve. Secondo alcuni saggi dell’Impero Manide è una cosa riscontrabile anche in alcuni animali, un evento in armonia con la Natura e i suoi decorsi. Ma noi, qui nell’ovest, vi abbiamo dato un’interpretazione differente» aveva abbassato lo sguardo, per poi rialzarlo verso il panorama offerto dalla finestra: il sole che sprofondava nel tramonto.
«M-ma, padre, non esistono più gli dei… ora ce n’è solo uno. Il Redivivo!».
«Già,» aveva risposto il Conte «ma le tradizioni hanno il potere di mutare forma e nome. La furia di molti dei diventa quella di uno solo, e le storie e le ragioni per cui esiste il mondo cambiano di popolo in popolo, di secolo in secolo. Difficile dire quale sia vera e quale no» solo a quel punto si era voltato per guardarlo dritto negli occhi «Credi pure in ciò che più ti aggrada figlio mio, ma non lasciare mai che la tua fede ti freni dal fare ciò che ritieni sia giusto o che diventi un’imposizione per fare ciò che invece ritieni sbagliato. Questo non permetterlo mai».


Carlo non aveva saputo che rispondere a suo padre quella volta, troppo piccolo per capire il senso profondo delle sue parole, ma adesso gli era chiaro. “Una magra consolazione” pensò, voltandosi un’ultima volta indietro, prima di proseguire. Nelle fronde degli alberi contemplava la sua impotenza, l’inutilità che avrebbe seguito ogni suo ipotetico intervento. Si sarebbe potuto distaccare e correre fra gli alberi, magari per rapire e portare via il bambino… certo, ma alla fine qualcuno l’avrebbe trovato e la sorte di quella creatura sarebbe stata solo rimandata. “Già, padre” pensò “non lasciare che la tua fede ti ostacoli… ma con tutto il resto?”
  



NdA: Ciao, ragazzi. Rieccomi con un nuovo capitolo ahimè piuttosto breve... quest'oggi voglio prendermi un po' più di spazio a fine capitolo per parlarvi un po' di me.
Il mio nome è Marco, ho 23 anni e sono uno studente di Lettere. Scrivo su EFP ormai da qualche anno e come molti di voi avranno notato ultimamente sto bazzicando davvero poco sul sito e gli aggiornamenti e le risposte alle recensioni avvengono con molta più lentezza rispetto a qualche mese fa. Il fatto è che, beh, sono fatto in un certo modo... lasciatemi spiegare. Mi capita spesso di appassionarmi a qualcosa, metterci dell'impegno nel farla con risultati alle volte discreti, altre volte piuttosto mediocri. Questo è il caso delle Cronache, quando ho iniziato a scriverle ero carico di una passione che ad oggi mi accorgo non essere più così intensa e questo, ne sono certo, finisce per riflettersi sul mio lavoro.
Nonostante ciò, queste Cronache non voglio lasciarle andare, voglio portarle a compimento e quei capitoli  un po' a una gamba mi prefiggo di rivederli e rimpinguarli quando la passione iniziale sarà tornata a ricaricarmi. Perchè mi conosco e so che i miei interessi sono ciclici: vanno, vengono, ritornano. E credo di averci messo fin troppo sangu e sudore nella storia dei nostri Cangramo per mollare...
Sì, forse per una questione di rispetto, visto come sono fatto, sarebbe meglio che attendessi di terminare una storia prima di cominciare a pubblicarla, ma la verità è che voi lettoria sapete darmi un punto di vista che non riuscirei ad avere altrimenti. Per questo e per il vostro sostegno vi ringrazio tutti dal profondo del mio cuore.

Un abbraccio,
Marco




 

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Capitolo 28
*** Il complesso del pedone - (Arturo) ***


CAPITOLO XXVIII
IL COMPLESSO DEL PEDONE
(Arturo)

 
 

Arturo assicurò la spada smussata al cinturino, legando stretta la cinghia intorno alla vita. Nel corpo poteva sentire il pulsare dei muscoli che crescevano, giorno dopo giorno. Ormai sentiva di star diventando un uomo.
Strinse le mani, piene di calli, e osservò le nocche sul loro dorso farsi bianche. “Cos’è questa sensazione?” pensò, sorridendo senza neanche rendersene conto “È come se fossi capace di compiere qualsiasi impresa. È come se nulla potesse fermarmi”. Era tutto iniziato con l’allenamento insieme a ‘Bastiano qualche tempo prima, ma era continuata su una strada diversa. Adesso il suo fratello maggiore aveva ben poco tempo per i soldati e per lui, adesso ‘Bastiano si occupava di piani di guerra e strategie insieme con suo padre.
Ciò nonostante, era bastato quell’unico scambio di fendenti perché qualcosa dentro di Arturo cambiasse per sempre: quando si allenava aveva smesso di riempirsi la testa di pensieri, aveva smesso di avere paura… si era semplicemente lasciato andare a quello che soleva chiamare il suo “Lupo Interiore”. E da allora lo sguardo con cui Mastro Villa lo osservava era mutato. Dalla derisione era passato a una qualche forma di malcelata ammirazione. Ammirazione che Arturo non sapeva ben dire da cosa derivasse, se dalla forza che il giovane Cangramo aveva dimostrato nel riscattarsi o semplicemente da quello stile di combattimento tanto differente dal suo.
Ma Arturo non aveva intenzione di fermarsi lì, no, doveva conoscere di più. Doveva sapere di più. Voleva conoscere come combattessero altri popoli all’infuori di Clitalia, lontano dall’Occidente. E una curiosa occorrenza di circostanze e casualità erano venute in suo favore. Difatti, da qualche tempo ormai, i rapporti fra Miranda e Mowan avevano preso a raffreddarsi e sempre più di rado la giovane sposa richiedeva i servizi della sua domestica, che di conseguenza si trovava con una grande quantità di tempo libero che non aveva la minima idea di come impegnare.

Qualcuno bussò alla porta. Tre colpi secchi, separati l’uno dall’altro dallo spazio di un secondo.
Arturo si affrettò ad aprire e dalla fessura poté vedere un occhio affusolato e scuro puntato verso di lui.
«Sei qui finalmente, ti stavo aspettando» bisbigliò il ragazzo, seguendo la Mogul nei corridoi del palazzo.
«Non rimproverarmi per il ritardo, nanerottolo. Non è semplice muoversi in questo palazzo senza che qualcuno mi chieda dove sto andando» rispose lei, voltandosi da una parte all’altra per controllare che la via fosse libera.
Arturo si limitò a sbuffare e senza proseguire oltre in quel battibecco disse soltanto «Andiamo…».
Si mossero furtivi attraverso il castello, strisciando fra le ombre, lontani dagli occhi indiscreti dei domestici e dei membri della famiglia. Arturo notò come i passi di Mowan avanzassero sulla pietra del pavimento senza il benché minimo rumore. “Quella ragazza… quando indossa i suoi abiti da guerra la si potrebbe scambiare per un fantasma. Chissà come si impara a muoversi così…”.
Anche il giovane Cangramo non se la cavava poi così male, ma capitava di tanto in tanto che un suo passo incedesse troppo deciso o il suo corpo impattasse contro qualcosa di non visto, mentre Mowan, beh, pareva aver sempre ben chiaro lo spazio intorno a lei.
Ad una svolta Mowan lo trattenne, con una mano sul petto.
«Che succede?» chiese il giovane, piegandosi sulle ginocchia.
«Un messaggero, credo. Sta entrando nello studio di tuo padre.»
Arturo sollevò un attimo le sopracciglia e si protese lungo il corridoio, dopo che il messo ebbe varcato la porta. Mowan rivolse ad Arturo un gesto allarmato, indicandogli di ritornare sui propri passi, ma il Cangramo, ormai conquistato dalla curiosità, tese il palmo della mano e continuò a camminare. Sino a quando non fu a pochi metri dalla soglia. Tendendo le orecchie poté udire l’araldo recitare ad alta voce il contenuto del suo messaggio, intervallando le parole a piccole pause per riprendere fiato.
«Illustre Conte Cangramo,
ormai da qualche giorno ho fatto ritorno qui nella mia casa, ad Argonia. E mio padre, il Re Ferrante, mi ha annunciato la buona novella: il matrimonio della mia persona, con la bella e nobile Messalina della casata degli Orimberga. Voi, che siete mio fedele vassallo, ben conoscete quali sentimenti nutra nei riguardi della casata reale e quanti contrasti vi siano stati fra le nostre famiglie. Nonostante tutto ho preso la decisione di acconsentire a quest’unione, perché tramite me il nome della famiglia di mio padre sia tramandato alle future generazioni e gli equilibri rimangano stabili nella nostra Clitalia.
Stephanus, mio futuro cognato, mi ha confessato che voi avete preso parte nel progetto di questo matrimonio e a cagion di ciò, poiché mai il vostro onore e la vostra fedeltà furono in dubbio presso la mia casa e tutti i regni dell’ovest, vi chiederei la cortesia d’esser testimone delle mie nozze. Difatti, una cerimonia in pompa magna non sarebbe fattibile dato l’approssimarsi della guerra contro l’impero Manide e si avrà tempo per festeggiare una volta che questa guerra sarà finita.
Apponete in calce a questa lettera la vostra firma e il vostro sigillo, così che nessun uomo possa mai mettere in dubbio che questo sodalizio, fra Argona e Orimberga, s’è celebrato.

Vostro,
Alfonso Argona»

Nello studio di suo padre, Arturo avvertì un teso silenzio, prima che la voce di ‘Bastiano giungesse a spezzarlo.
«Posso vedere la lettera?» ci fu il rumore della ruvida carta tesa e rigirata «Il sigillo è quello della famiglia Argona, ne sono sicuro. E anche la firma sembra essere quella di Alfonso».
«Perché, ne dubitavi Sebastiano?» replicò ferma la voce di suo padre.
«Un dubbio più che legittimo, padre» schioccò lui «trovo quanto mai curioso che una faccenda del genere si sia risolta così, senza rumore».
Dalla bocca di Severo dovette uscire qualcosa di simile a un risolino amaro «Figlio, nessuno in questa stanza può sapere con certezza cosa accade a chilometri da qui. Non sono così sciocco da pensare che non si possa trattare di una messinscena, ma che il matrimonio si celebri secondo o contro la volontà di Alfonso non è affar mio, né tuo. L’importante è che sia celebrato».
«Non lo so, padre…» disse ‘Bastiano, con tono pensieroso.
«In ogni caso, il ventaglio delle nostre possibilità rimane limitato. Poniamo che mi rifiutassi di firmare. Un gesto del genere finirebbe per indispettire qualcuno. Sia che questa lettera sia vera, sia che essa sia un artificio degli Orimberga. E con una guerra alle porte non c’è alcun bisogno di crearsi nemici anche qui a Clitalia» Severo rimase in silenzio per qualche istante «Passami il sigillo e la ceralacca».
Arturo si allontanò dalla porta, il cui legno era inciso con un ampio scudo al cui lato destro si scorgeva una coda nera. Si riunì a Mowan, pronto a riprendere la sua fuga verso un luogo segreto in cui potersi allenare. Dentro di sé, il ragazzo poteva avvertire un sottile tormento che gli grattava dentro con artigli velenosi.

La Mogul mulinò la spada, descrivendo un fendente alto. Quando il giovane Cangramo tentò di parare il colpo, i suoi piedi cedettero e si ritrovò in breve con il didietro al suolo.
«Che vi succede?!» lo imbeccò la ragazza irritata «Siete distratto…».
«S-sì, scusami Mowan. Non è niente, devo solo riscaldarmi».
“Siamo davvero solo questo?” pensò Arturo, facendo forza sulla lama per rimettersi in piedi “Pedine nelle mani di altri giocatori?! La volontà della mia famiglia è realmente così debole da piegarsi al primo vento che ci soffia contro?”. Il ragazzo assunse la posizione di guardia, inclinando leggermente la spada verso Mowan “Che fine ha fatto il lupo? Che senso ha più il monito degli scogli scuri ai naviganti? Siamo davvero niente più, niente meno, che docili cani?” si morse il labbro, chiudendo gli occhi e denegando col capo “Adesso basta pensare, se la mia famiglia ha dimenticato il suo coraggio e il suo onore io non intendo farlo. Devo dimostrare che in me il lupo c’è ancora!”.  

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Capitolo 29
*** L'altra faccia - (Miranda) ***


 CAPITOLO XXIX
L’ALTRA FACCIA

(Miranda)

 
 
Oltre cinquecento armati si riversavano fuori dalle mura di Rocca Grigia, diretti verso il Valga, dove uno stormo di navi li attendeva. Un viaggio da cui forse la metà di loro non sarebbe ritornata. E Miranda osservava l’uomo alla testa di quel manipolo di condannati, suo padre: il Conte Severo Cangramo.
Avrebbe voluto urlargli dalla finestra di non andare, di rimanere lì insieme con lei. Gli avrebbe voluto ricordare che l’ultima volta che era partito le cose erano cambiate, radicalmente.
Gli avrebbe voluto dire… Miranda si toccò il ventre e scostò lo sguardo dalla finestra, trattenendo le lacrime che minacciavano di forzare lo scudo imperturbabile degli occhi. “Quanto sono sciocca. Sono una donna adulta ormai. Ogni essere umano ha il preciso dovere di piegarsi ai propri doveri, altrimenti che sarebbe della civiltà? In che mondo vivremmo?”. Ma il suono di quelle parole nella testa le sembrò così vuoto, così lontano che a stento le avrebbe riconosciute come sue, se le avesse ascoltate dall’esterno ad alta voce.

Fece per uscire dalla sua camera nuziale, quando suo marito fece capolino dalla porta. Gli occhi guizzanti incupiti da un’ombra che non gli apparteneva.
Miranda si inchiodò sui suoi passi, cingendo le mani dinanzi al bacino e corrucciando lievemente le sopracciglia.
«Amore, c’è qualcosa che non va?» si arrese a chiedere lei, avvicinandosi a lui.
Vittorio sospirò con fare sommesso, poi la guardò dritto negli occhi «Tuo fratello desidera parlarci in privato».
“Perché una colloquio con ‘Bastiano lo mette così in tensione? Sa qualcosa che io no so?” ma mettendo da parte le domande, Miranda mise davanti alla sua curiosità l’amore e l’affetto che covava per lui, il desiderio di rassicurarlo.
«Tesoro, vedrai che non sarà nulla di che» gli disse, carezzandogli la guancia e passando il pollice sui fili di barba raccolti sulle sue guance. Lui rimase in silenzio per qualche istante, mordendosi il labbro inferiore e portando la sua mano a carezzare il ventre di lei. Dopodiché negò lieve col capo e finalmente si sfilò la maschera di cupa malinconia per rindossare il solito viso sereno e pacato del Vittorio Belgi che Miranda aveva sempre conosciuto.

Suo fratello ‘Bastiano li attendeva nella sala del trono, il ragazzo ormai uomo sedeva sullo scranno di suo padre con le mani giunte e i gomiti poggiati sulla rotondità delle ginocchia. Quella donna, che per certi versi a Miranda ricordava Mowan, se ne stava diritta accanto a lui: silenziosa e guardinga come una delle torri di Rocca Grigia.
«Mi scuso per avervi chiamato con così poco preavviso, ma la situazione lo richiedeva» ‘Bastiano alzò lo sguardo verso Miranda, per poi spostarlo verso Vittorio «e ancor di più mi scuso per ciò che sto per chiedervi».
«Di che si tratta?» chiese la ragazza, mal celando l’allarme nella voce.
«In quanto erede di Rocca Grigia e futuro Conte della famiglia Cangramo è mio preciso dovere preservare l’onore della nostra casata. Non desidero che in futuro io venga ricordato come l’uomo che rimase al sicuro dietro le mura, mentre la guerra imperversava là fuori» si prese un attimo di silenzio, un attimo che Miranda non si lasciò sfuggire. Conosceva bene ‘Bastiano e sapeva dove stava andando a parare.
«Vuoi partire anche tu?!» chiese lei, avanzando di un passo verso il trono.
Lui sospirò brevemente «Esattamente. Vi chiedo scusa, so che avevate in progetto di mettervi in viaggio ma devo chiedervi di prendervi cura di Rocca Grigia fino a quando la guerra non sarà terminata».
Vittorio abbassò lo sguardo, ma Miranda non aveva alcuna intenzione di chetarsi.
«Come puoi anche solo pensare di chiederci una cosa del genere? Te ne vai proprio mentre siamo più vulnerabili! Gran parte degli uomini sono partiti con nostro padre, chi sorveglierà Rocca Grigia?».
Suo fratello si raddrizzò sullo scranno, stringendo le mani intorno ai braccioli
«Di questo non devi preoccuparti sorella mia, ho inviato una missiva al Conte Cinghiatauro, amico intimo di nostro padre. Provvederà a inviarci una piccola guarnigione di uomini per presidiare il castello e sono sicuro che la famiglia di Vittorio-»
«Stanne pure certo, fratello mio. Non vi farà mancare il loro aiuto» confermò l’uomo, voltandosi preoccupato verso Miranda.
Lei sentì gli occhi inumidirsi e i muscoli della fronte irrigidirsi e vibrare, fino a quando non scoppiò in un grido furioso «Sei un idiota ‘Bastiano! Come al solito lasci che la tua fottuta sete di gloria offuschi le tue priorità» e senza aggiungere altro si avviò fuori dalla sala del trono, troppo infuriata per aggiungere altro e vomitargli addosso tutto ciò che pensava.
Come poteva confessargli che non era la paura dei nemici ad agitarla tanto nel profondo? No, sapeva che l’unica minaccia si trovava da qualche parte ad est, che Clitalia pur con i suoi giochi di potere era un regno forte, un regno. La verità era che il solo pensiero di poterli perdere entrambi, così in una sola volta le spezzava qualcosa dentro. E ciò che più le dava rabbia, era il fatto che suo fratello fosse pronto a gettare via tutti i brevi anni della sua vita solo e soltanto per l’orgoglio.


 

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Capitolo 30
*** Il lupo - (Arturo) ***


Capitolo XXX
 Il lupo
(Arturo)
 



Arturo, accomodato sul calesse, spostò lo sguardo dai suoi stivali e spiò dalla finestra della carrozza Miranda, Vittorio e Carne-di-corda che, disposti in fila, lo osservavano andare via, scortato dai pretoriani di suo cognato, affinché il viaggio potesse procedere tranquillo e sicuro sino al monastero (difatti negli ultimi tempi la guardia personale di Vittorio era stata rimpinguata di nuovi elementi, inviati direttamente dalle Terre Centrali, magari per supplire alla mancanza dei soldati partiti per la guerra).
Fino a poco tempo prima c’era anche Mowan ad assistere, prima che il fabbro le sussurrasse qualcosa nell’orecchio e lei andasse via, recandosi chissà dove.
Arturo si morse le labbra fin quasi a farle sanguinare. Non poteva crederlo, non poteva credere che suo padre avesse infine deciso per quella strada, ma le sue parole erano scritte nero su bianco, e finché Severo Cangramo fosse stato Conte, ciò che decideva era legge in tutta Rocca Grigia e nelle terre sue vassalle. Neanche uno dei suoi figli poteva opporsi al volere del padre.

Aveva creduto ingenuamente che i progressi portati avanti negli ultimi tempi gli avrebbero aperto la strada verso il cavalierato, ma evidentemente il suo futuro era stato già deciso tempo addietro.
Chiuse gli occhi, gli strinse tanto forte da sentire dolere i muscoli del volto. Ma quel dolore gli faceva bene, sì, quel dolore non gli consentiva di piangere.
Una lettera era stata sufficiente per infrangere qualsiasi sogno di gloria avesse coltivato per tutto il corso della sua vita. Era come essere morto, ma una morte viva e dolente. Senza il sollievo dell’incoscienza.

Miranda e Vittorio erano in lacrime quando i cavalli presero a consumare con gli zoccoli il terreno sotto di loro. Le ruote del calesse cigolarono, sussultando un poco. I cancelli si levarono con il loro sussurro metallico, come per salutarlo… come per dirgli addio.
Arturo si avvicinò alla finestrella sulla carrozza e lasciò che almeno il panorama lenisse un poco del suo dolore, che con tanta furia, con tanta rabbia, gli scavava dentro. E mentre avanzavano, mentre si inoltravano per la cupola di alberi della Selva Scura, Arturo ebbe l’impressione di vedere fra i tronchi contorti e silenziosi, un uomo vestito di stracci e con una lunga barba ramata che gli scendeva giù per il petto. Nella mano destra stringeva un bastone, con la mano sinistra carezzava il capo dell’enorme lupo accanto a lui: vello nero come la notte e occhi rossi d’inferno. “Non è la prima volta che li vedo” pensò Arturo, mentre il battito nel suo petto accelerava e l’odio e la rabbia scavavano più a fondo nelle sue vene.
La bestia emise un lungo e profondo ululato: un ululato che aveva la melodia dei suoni notturni, degli incubi e di tutte le ossessioni. Arturo poté sentire il cuore battere più forte, con le unghie graffiò il sedile della carrozza in cui sedeva. Poi l’uomo sorrise  e la carrozza si arrestò.
«Cosa succede?!» gridò Arturo, levandosi in piedi, mentre la furia in sé pian piano si affievoliva.
Qualcuno fece per aprire la porticina della carrozza, ma subito dopo vi fu un sibilo e poi un altro ed un altro ancora, mentre delle urla di terrore prendevano a riempire l’aria. Il ragazzo si avvicinò allo spiraglio della porta, spiando dal poco spazio che s’era ricavato. Un pretoriano giaceva al suolo, la gladio ancora stretta nella mano “Ma sta dormendo…”  gli ci volle un istante per scorgere il corpo sottile d’una freccia sporgere dalla sua gola “No, non sta dormendo. Lui, lui è mor-“ ma non ebbe il tempo di finire quella frase, perché la sua mente si riempì di altro. Si riempì dei respiri mozzati, del sibilare dei dardi e del canto del metallo sguainato vanamente. Suoni, rumori, che si ripetevano incessanti ancora e ancora e ancora, senza voler mai finire. Senza voler mai cessare…


NdA: Ciao, ragazzi. Scusatemi la lunga attesa ma avevo bisogno di riprendermi un attimo dall'esame xD che, a proposito, ho passato! Avvicinandomi un passo di più alla laurea. Ma parlando del capitolo, siamo all'inizio della fine. Ormai si sarà capito, conto di concludere le Cronache nel giro di 5 (o forse 6) capitoli. Mi scuso per la qualità non ottimale, ma quando si riaccenderà in me la scintilla del fantasy sono certo che rimetterò mano a questa storia e le ridarò ciò che le sta mancando ultimamente. 
Intanto vorrei ringraziare tutto coloro che hanno seguito, tutti coloro che hanno recensito fino ad adesso, e in particolare Polx e Fan of the Doors, che fra tutti sono coloro che più stanno credendo nelle Cronache nonostante gli innegabili difetti :)

Un abbraccio,
Il Signore Oscuro

 

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Capitolo 31
*** Un'altra, la mano che ora ti nutre - (Carlo) ***


CAPITOLO XXXI
Un’altra, la mano che ti nutre
-Carlo-
 

 

Alfonso legò stretta la cintura in vita, ponendo la lunga spada all’interno del fodero istoriato con il sigillo della casa Argona. Quando l’acciaio scivolò nel cuoio, il suono che ne derivò parve il fugace pigolio del passero alla luce del primo mattino.
Fuori il cielo s’era colorato delle ombre della sera e sin dal suo risveglio Carlo non riusciva a liberarsi della sgradevole sensazione che qualcosa stesse per accadere. Guardò Alfonso, osservò la sua armatura leggera e il suo cipiglio sicuro “Quando si va per mare le vesti pesanti vanno evitate, mio padre lo dice sempre”. E nel cuore avvertì battere una sorta di nostalgia giunta prima del tempo e immotivata.
Si avvicinò a lui e lo baciò con tenerezza sulle labbra, venendone ricambiato, ma con uno sguardo di sconcerto. In fondo avrebbero combattuto una guerra insieme, non c’era motivo di struggersi nella nostalgia, quasi avessero dovuto separarsi di lì a poco:
«Che ti prende?» chiese lui, carezzandogli la guancia, con la voce fra il tenero e il divertito.
«Io-io non lo so» confessò Carlo, con l’aria che prendeva a mancargli in gola «c-credo di avere paura».
«Non fare così» lo rincuorò lui «sappiamo bene quanto sia difficile ucciderci e non si può dire che non ci abbiano provato. Non saranno i Manidi a riuscire lì dove altri hanno fallito» concluse con un occhiolino.
Carlo si sforzò di sorridere e, lesto, infilò l’ascia al fianco destro e la spada corta al sinistro.
Non erano i flutti del mare a spaventarlo, né le lame ricurve dell’Impero dell’Est, ma qualcosa di più evanescente, più sottile e senza un vero nome.

Un rumore sordo alla porta interruppe i suoi pensieri, mentre la voce di un araldo scivolava all’interno della stanza.
«Mio Signore Argona,» declamò, a voce alta «vostro padre desidera vedervi, immediatamente».
“Quell’accento…” Carlo aprì la porta, trovandosi dinanzi un perfetto esemplare di abitante delle terre centrali: pelle olivastra, capelli corti e curati, viso ben rasato. “Perché mai un araldo delle Terre Centrali?”.
L’araldo ebbe cura di accompagnarli attraverso i corridoi del castello, in silenzio e senza spiccicar parola.
Alfonso incedeva sicuro e tranquillo, negli occhi gli brillava tutta l’eccitazione per la guerra che lo attendeva al di là del mare.
Giunsero in una sala circolare, in realtà distante dalla Sala del Trono. Lì li attendevano dei soldati, armati di tutto punto e con armature pesanti, istoriate con oro e con gioielli. Spade corte e dalla lama larga pendevano dai loro fianchi, mentre sul petto riluceva il blasone degli Orimberga. L’araldo si allontanò da loro, il cerchio dei soldati si strinse.
Adesso il messaggero, pergamena spiegata, recitava ad alta voce un qualche tipo di editto o di giudizio firmato e controfirmato da un’autorità.

«Alfonso Gherardo Argona,
principe ereditario di Argonia e prossimo signore del Regno Orientale, per i crimini di omicidio, veneficio, blasfemia ai danni di un numero imprecisato di servi dell’Unico. I soldati al servizio del Gran Sacerdote Raminus Orimberga porteranno a te la sua giustizia. A cagion di ciò, per l’autorità conferitami dalle supreme autorità della grande Arcadia e della Santa Utopia.
Io, ti condanno a morte»
«Cosa?!» esclamò Alfonso, sguainando la spada e ponendosi spalla contro spalla con Carlo.
«Manfredi, lurido bastardo…» sussurrò il cavaliere, snudando le armi anche lui.
Fu allora che i soldati avanzarono verso di loro, chiudendoli in una morsa di acciaio.
Un soldato col naso storto cercò di colpirlo, staccandosi dai ranghi, ma Carlo deviò il suo fendente e conficcò l’ascia nella sua faccia, per poi distaccarla con un calcio. Alfonso, intanto, aveva fatto scivolare la lama nella gorgiera d’un altro soldato, e quando l’acciaio ne uscì, esso era colorato di un rosso vivo.
“Dobbiamo aprirci un varco, prima che i ranghi si chiudano di nuovo” pensò rapido il cavaliere e, buttata via la lama corta, prese per la mano il suo signore e lo tirò via da quella trappola.
Si avviarono per i corridoi, alla disperata ricerca  di un rifugio, di una via di fuga.
Le mura del castello risuonavano della eco dei lunghi corni d’allarme. Ad un tratto principe e cavaliere sgusciarono in una porticina semiaperta, richiudendola dietro di sé con una sbarra di legno malconcia.

Carlo prese a guardarsi forsennatamente intorno, sul muro c’era una piccola finestra.
«Potremmo fuggire da qui» esclamò il cavaliere, affacciandosi appena «è in alto, ma dovremmo riuscire a scalare».
Ma qualcosa nel viso di Alfonso era mutato, nei suoi occhi non c’era paura, rabbia o timore. I suoi tratti s’erano fatti immobili e un lieve sorriso amaro sporgeva dalla sua bocca.
«Anche se riuscissimo ad arrivare in terra sani e salvi ci troverebbero, Carlo. Lo sai meglio di me».
Carlo tirò un lungo sospirò, denegò energicamente col capo «M-molto bene, a-allora combatteremo. In uno spazio ristretto come questo potremmo avere la meglio, s-sì, ne sono sicuro!».
«Ci stanerebbero con il fumo e con il fuoco» disse Alfonso con aria serena «non è con il sangue né con la fuga che trionferemo oggi».
«E come, allora?» chiese il giovane, mentre gli occhi screziati gli si macchiavano di lacrime.
«Ci sono altri modi» a quel punto Alfonso gli si avvicinò e lo baciò, strinse le sue labbra contro le sue, intrecciò la sua lingua con la sua, pose la fronte sul suo capo «Non credo di avertelo mai detto, Carlo, ma io ti ho sempre amato. Anzi, io ti amo e in un altro luogo, in un altro tempo chissà…».
«Alfonso! Alfonso! Non adesso, non dirmelo adesso» disse Carlo, mentre goccioloni tiepidi gli tracciavano le guance.
«Non c’è tempo per rimandare amore mio, questa è la fine» rispose Alfonso, con una quiete che spezzava l’anima «Questa è la fine, per me».
«No, no, non è la fine. N-noi possiamo ancora cavarcela» dei colpi presero a battere contro la porta.
Alfonso denegò con incredibile lentezza, sfilando la spada dal fodero e posandone in terra la punta. Fu a quel punto che il Principe gli rivolse parole, parole che il cavaliere capiva senza sentirle davvero, parole che non poteva concepire.

Quando la porta venne sfondata di forza dai soldati degli Orimberga, ai loro occhi si presentò uno spettacolo pietoso. Il Principe giaceva in terra, il ventre trafitto da una spada e le mani strette sull’elsa della stessa erano quelle del cavaliere Carlo Cangramo. I cui occhi erano rossi e umidi, la cui bocca tremolava recitando parole mute. L’Argona era lì ai suoi piedi, lo sguardo ormai svanito nella morte e la bocca semiaperta.

Carlo venne trascinato nella Sala del Trono, in catene, il sangue macchiava ancora le sue mani e i suoi vestiti. Ma lì, sullo scranno, non c’era il re Ferrante. Sullo scranno sedeva Horatius Orimberga e al suo fianco, ritto sui suoi piedi, c’era Manfredi, inespressivo e silente come una statua.
«Quello non è il tuo posto» ringhiò Carlo, mentre veniva costretto a inginocchiarsi.
«Lo credi davvero?» disse Horatius, giungendo le mani «Il nostro Re Ferrante è prossimo all’ultimo respiro nel suo letto. La malattia che per tanto tempo l’ha consumato, vince infine sulle sue membra stanche. E ahimè, i terribili crimini del Principe Alfonso pare lo abbiano privato del diritto al trono di Argonia. Ciò nonostante egli ha sposato la mia dolce sorella, entrando a tutti gli effetti nella famiglia Orimberga insieme a tutti i domini che gli sarebbero dovuti appartenere. Ma poiché mia sorella è al momento lontana, sono io a fare le sue veci. Dunque sì, direi che questo è esattamente il posto in cui io devo stare» concluse l’Orimberga, con un vistoso sorriso in volto.
«N-non si è celebrato nessun matrimonio! Lurido cane!».
Horatius strabuzzò gli occhi, fingendo un’aria stupita «Ma come?» un servo gli consegnò un foglio di pergamena «questo documento attesta il contrario e, tu guarda, è persino contrassegnato dalla firma di vostro padre. Notoriamente, uno dei più fedeli amici della casa Argona».
«Voi, voi mentite!» urlò Carlo, con la voce rotta dalle lacrime che non volevano smettere di uscire dai suoi occhi.
«Non sprecherò altro tempo nell’ascoltare gli insulti e il vilipendio di quest’uomo. Soldati» disse, con un gesto che voleva dire una sola cosa.
Ma a quel punto Manfredi, inaspettatamente, intervenne «Mio signore, mio signore» disse, con voce untuosa «questo cavaliere, seppure dalla parte avversa, ha dimostrato più volte il suo valore. E, pensate, è stato capace di redimersi dai suoi errori arrivando a uccidere il suo signore, quando ha compreso quanto costui fosse persona turpe e meschina».
«Questo non lo esime da una punizione esemplare» replicò acido Horatius.
«Certo, certo, ma la fedeltà e il pentimento valgono quantomeno la sua vita. E a proposito di punizioni, perché non costringerlo a un’esistenza che gli sia sgradita, sotto il diretto controllo della vostra famiglia. Sì, che prenda i voti, nella sacra Arcadia! E che sotto la luce dell’Unico venga redento dai suoi peccati!»
A lungo vi ragionò Horatius Orimberga, e sul bilico delle sue dita, della sua decisione, oscillò la vita di Carlo.
Prima che un cenno del capo lo condannasse a continuare a respirare. 

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