Io come te

di RYear
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'incontro ***
Capitolo 2: *** Progetto ***
Capitolo 3: *** Esperimento ***
Capitolo 4: *** Hurt ***
Capitolo 5: *** Un nuovo super soldato ***
Capitolo 6: *** See you on Sunday ***
Capitolo 7: *** Imprisoned ***
Capitolo 8: *** Bucky... ***
Capitolo 9: *** Perduta ***
Capitolo 10: *** Fighter ***
Capitolo 11: *** Back to Brooklyn ***
Capitolo 12: *** La verità ***
Capitolo 13: *** Non qui (PARTE 1) ***
Capitolo 14: *** Non qui (PARTE 2) ***



Capitolo 1
*** L'incontro ***


L'INCONTRO
 

Girai e rigirai su me stessa per controllare, per l’ennesima volta, che ogni cosa fosse al suo posto: capelli perfettamente in piega, gonna a balze rossa e un top bianco, eleganti e non volgari. La borsetta color beige si abbinava splendidamente con le scarpe.
Non ero mai stata una maniaca della moda, sia chiaro, ma per una volta volevo essere presentabile e femminile, nonostante stessi andando a una festa controvoglia, costretta da mio padre a partecipare. Ovviamente non sarei restata al suo fianco per tutto il tempo, c’era il mio grande amico James ad attendermi lì e farmi compagnia finché avrei avuto voglia di restare.
Sospirai davanti allo specchio.
Avanti, Elizabeth, vai bene così.
Chiusi gli occhi, presi un gran respiro e girai sui tacchi.
-    Sono pronta, papà – annunciai arrivata davanti alla porta di casa, pronta per uscire.
-    Ce ne hai messo di tempo! Andiamo, tesoro – sorrise divertito.
Misi una mano sotto il suo braccio, pronti per incamminarci verso la fiera non molto distante da casa.
I miei lunghi capelli color biondo platino acconciati in morbidi boccoli ricadevano sulle spalle, il rumore dei tacchi sul parquet riecheggiava nella casa. Ero stranamente su di giri, felice di poter passare una giornata diversa ma incerta su come sarebbe davvero andata. Probabilmente papà non mi avrebbe permesso di allontanarmi troppo per timore di aver bisogno di me in qualsiasi momento.
L’assistente di uno scienziato, eppure sono un’infermiera!

1942 – Festa al parco.
Rimasi incantata a guardare la ruota panoramica quando sentii alle mie spalle qualcuno che mi richiamava.
-    Ciao Elizabeth! – mi salutò Bucky venendomi incontro.
-    Ciao James! Come stai? – chiesi salutandolo calorosamente e lui ricambiò con un baciamano, quale gentiluomo era.
-    Non c’è male. Ti ricordi del mio amico Steve, quello di cui ti ho parlato? – mi domandò facendosi da parte per presentarmelo.
Come dimenticarlo! Bucky parlava in continuazione di lui, ero tanto curiosa di conoscerlo di persona e quando lo vidi rimasi… sbalordita. Era davvero minuto, proprio come mi era stato descritto eppure in quegli occhi brillanti vidi tanta bontà.
Il frastuono attorno a noi era assordante, la gente continuava a gironzolare come niente fosse ma per me, in questo piccolo cerchio di amici, il tempo era come fermo.
-    Sì, mi ricordo. Molto piacere – sussurrai tendendogli la mano.
-    P-piacere mio – balbettò imbarazzato.
-    Allora, siamo pronti per divertirci?! – chiese di punto in bianco James, interrompendoci.
Lo guardai ammaliata e sorrisi divertita.
-    Da cosa vuoi cominciare bambina? – domandò sardonico avvolgendomi le spalle con un braccio.
-    Ehi! – Lo canzonai – Vediamo… mi piacerebbe molto andare sul carosello! – risi.
Bucky sospirò divertito – ti piacciono i cavalli, eh?! E carosello sia!
E così mi trasformai per davvero in una bambina. Per quanto la giostra non fosse poi così entusiasmante, essere in loro compagnia mi mise di buon umore. Il mio cavalluccio era posto in mezzo agli altri due, che avevano un viso meno divertito del mio ma pur sempre sorridente.
Alla mia sinistra potei osservare in tutta la sua bellezza James Buchanan Barners, soprannominato Bucky. Ricordavo quand’eravamo piccoli: all’epoca vivevamo a Shelbyville e le nostre mamme erano come sorelle, il pomeriggio era loro usanza portarci al parco per lasciarci giocare insieme. Diventammo grandi amici da subito, ma dopo qualche anno sua madre venne a mancare e non lo vidi più. Quando avevo sette anni ci trasferimmo a Brooklyn e poco dopo morì anche mia madre, di una malattia a noi ancora misteriosa. Fu un periodo davvero difficile per me e fu dura riprendere la vita di tutti i giorni dopo aver subito un trauma simile ad un’età così tenera.
Intrapresi gli studi come infermiera e, dopo un paio d’anni, rincontrai il mio vecchio amico James. Anche lui si rialzò valorosamente dopo aver perso sua madre e, innamorato della vita militare, intraprese un percorso che lo portò a diventare quello che era: un soldato a tutti gli effetti.
Ci incontrammo quasi per caso, in una caffetteria, e da quel giorno – di tanto in tanto -  trascorrevamo le giornate insieme. Mi raccontò di tutti quegli anni trascorsi lontani, della sua famiglia e del suo amico Steve che mi avrebbe fatto conoscere un giorno.
Inconsapevolmente quel giorno arrivò e la persona tanto agognata sedeva alla mia destra, su un cavalluccio blu: situazione piuttosto buffa, direi!
Lo osservai intensamente: Steve era immerso con lo sguardo chissà dove, in un punto dritto davanti sé. Notai come dal suo corpo gracile trasparisse tutto l’orgoglio che l’ometto aveva nell’animo. Le labbra piene, un naso fine ed uno sguardo sognante e fiero, ma con un velo di rassegnazione celata. Ero curiosa di sapere a cosa stesse pensando, ma l’improvviso fermarsi della giostra mi fece capire che il nostro giro era finito.
Scesi da lì affranta ma con una voglia di divertirmi e al contempo di poter scoprire altro su Steve. Inutile dire quanto le storie di Bucky mi avessero incuriosita ed affascinata, per cui avrei voluto viverle in prima persona.


Camminai con lo sguardo perso su un’attrazione con dei peluche appesi che realizzai poco dopo essere il “Tiro al bersaglio”.
-    Sei attratta da qualcosa in particolare? – Qualcuno a me molto vicino quasi mormorò questa frase all’orecchio. Dei brividi mi percorsero la schiena e, girando lentamente la testa, rimasi sorpresa nel vedere Steve guardarmi intensamente.
La sua domanda mi scosse un po’ mettendomi a disagio.
-    C-cosa? – balbettai imbarazzata.
-    Stai guardando quei peluche da almeno cinque minuti, ti piace qualcosa nello specifico?
Fui stupita da una tale accortezza da parte sua. Annuii distogliendo lo sguardo.
-    Quella carpa koi, non credi sia molto bella? Inoltre l’animale in sé racchiude un grande significato: immortalità e coraggio, forza ed intrepidezza. Si dice che sia in grado di risalire agilmente le cascate e, se catturata, affronti la lama del coltello senza paura.
Mi accorsi troppo tardi di star parlando da sola e che un chioma bionda era fuggita dal mio fianco per avvicinarsi all’attrazione e cercare di vincere quel pupazzetto.
James si allontanò da me per il classico motivo: uomo a caccia donne. Non gli diedi molta corda e mi concentrai ad ammirare Steve.
Dopo vari tentativi – in cui più volte mancò il bersaglio – riuscì nel suo obiettivo raggiungendomi trionfante con il peluche in mano.
-    Ecco a te – sorrise soddisfatto per poi guardarmi dolcemente.
-    G-grazie, non dovevi davvero. Sei stato molto gentile.
Mi regalò uno dei più dolci sorrisi – seppur timido – che mi avessero mai rivolto, e, visibilmente imbarazzato, girò sui tacchi raggiungendo il nostro amico Bucky.
A seguito di quel gesto i miei giudizi su di Steve furono del tutto positivi ed il mio cuore… non ne capiva più un bel niente!

Fu una delle serate più lunghe e strazianti – ma belle al contempo – di tutti i tempi. Bucky ci raggiunse dopo non molto accompagnato da due ragazzine viziate che, per mia fortuna, non mi prestarono la benché minima attenzione, lasciandomi relativamente sola con Steve. Fui felice di aver fatto la sua conoscenza, fui colpita da lui e la sua compagnia mi fece molto piacere. I suoi interventi durante le conversazioni furono davvero rari ma riuscirono sempre a strapparmi un sorriso. Tuttavia era un tipo molto timido e non riuscii ad avvicinarmi più di tanto. Insomma, perché toccava sempre a me fare il primo passo? Forse perché non gli interessavo più di tanto, oppure era semplicemente… imbarazzato.
Lo intuii notando il modo in cui si guardava attorno, come si rigirava tra le mani quel sacchetto di popcorn che gentilmente mi aveva porto e dal quale ne avevo preso una manciata, il tutto senza pronunciar una parola.
Ci rinuncio pensai.
-    Ehi, James – lo richiamai aspettando che si girasse verso me.
-    Ti ringrazio per avermi invitato a unirmi a voi ma… si è fatto tardi e devo raggiungere mio padre, si starà preoccupando di sicuro. E’ stato davvero un piacere.
-    Oh – sembrò sinceramente deluso – il piacere è stato tutto nostro, vero Steve?
-    Sì, certo… - sussurrò.
-    Ci vediamo, ok? Ciao ragazzi – Girai sui tacchi e raggiunsi papà al tendone, chiudendo gli occhi e sospirando.


Ero seduta in un angolo appartato di quel tendone, con la testa appoggiata al palmo sinistro e con la mano destra disegnavo un soldato con alle spalle la bandiera americana, sospirando di tanto in tanto, aspettando che papà finisse con le sue stupide ‘osservazioni’.
-    Non hai capito il senso delle uscite a quattro, dai portiamo le ragazze a ballare.
-    Voi andate avanti, io vi raggiungo – Udii una voce a me familiare parlare non molto distante da qui. Mi aveva seguita? Sperava di vedermi? Mi affacciai vedendo quella chioma bionda darmi le spalle. Il cuore perse un battito.
Bucky sospirò – vuoi veramente provarci di nuovo?
Provare cosa?
-    Beh è una fiera, tento la fortuna.
-    Nei panni di chi? Steve dell’Ohio? Ti scopriranno o peggio ti arruoleranno.
Arruolare? Stava parlando dell’esercito? Steve voleva andare in guerra?
Spalancai gli occhi spaventata, tendendo il più possibile l’orecchio per tentare di ascoltare.
-    Senti… - cominciò Steve a testa bassa – lo so che tu pensi che io non sia all’altezza ma..
James lo interruppe – questo non è ridicolo, è una guerra.
-    Che cosa stai spiando, ragazzina? – la voce di mio padre mi fece sobbalzare e, cercando di mascherare l’imbarazzo, mi girai verso di lui.
-    N-niente papà – mi portai una ciocca ribelle dietro l’orecchio. Abraham mi studiò incuriosito e mi oltrepassò uscendo per i corridoi e guardandosi attorno, cercando di capire cosa stessi udendo. Poi vide due ragazzi intenti a discutere e si appoggiò lateralmente al muro origliando la conservazione. Scossi la testa divertita, “copione” pensai.
Intanto i due continuarono…
-    Lo so che è una guerra.
-    Perché ci tieni tanto a combattere? Puoi fare tanti lavori!
-    Raccatto i pezzi di metallo con il carrettino rosso?
-    Sì! Perché no?
-    Non me ne starò seduto in una fabbrica. Bucky, andiamo; ci sono uomini che sacrificano le loro vite, io non ho nessun diritto di fare meno di quegli uomini. E’ questo che non vuoi capire. Non si tratta di me.
-    Appunto, tu non devi dimostrare niente.
Wow… Incredibile constatare quanta grinta e volontà avesse quel piccoletto. Quale pazzo vorrebbe arruolarsi a tutti i costi nell’esercito rischiando la propria vita?
-    Ehi, sergente, andiamo a ballare o no? – roteai gli occhi al cielo. Una di quelle ochette richiamava a gran voce James.
-    Sì che andiamo – rispose allargando le braccia. Pft, tipico, ghignai.
Poi si voltò verso Steve e, sospirando, gli disse: - non fare nulla di stupido finché non torno.
-    Come potrei, la stupidità te la porti tutta con te.
Ah però, touché! Ben ti sta James, risi. Che caratterino!
Vidi Steve allontanarsi e mio padre seguirlo. Stavano venendo verso di lei.
-    Oh, cielo, devo andar via di qui – mormorai raccogliendo le mie cose e scappando via di lì.  
Nell’uscire di fretta mi scontrai col biondino.
-    Ehi, non dovevi andar via? – abbassai la testa per guardarlo. Era più basso di me di una decina di centimetri ma mi metteva ugualmente soggezione.
-    I-io – mi voltai verso la stanza che era una sala medica improvvisata – non mi sono sentita tanto bene e sono venuta qua ma stavo giusto andando via, tu?
-    Esercito – mi guardò dritto negli occhi, fiero.
Ammiccai un sorriso – buona fortuna, allora. Ciao.
-    Ciao... – sussurrò.
Più avanti c’era papà intento a entrare nella stanzetta.
-    Tesoro dove vai?
-    Torno a casa papà, scusami.
-    Non mi aspetti? Non assisti al reclutamento per il mio progetto?
-    Il tuo progetto? – lo guardai stranita – No, non sto molto bene, devo proprio andare.
-    D’accordo, sta attenta.
Andai via di lì con il cuore a mille e il respiro che non aveva intenzione di placarsi.
Steve, sta attento…

 

Nota Autrice
Salve gente! Dopo tanto tempo sono ritornata anche qui, su efp. Come già scritto nella descrizione della ff, questa storia è presente anche su wattpad e vi invito a seguirmi lì se siete registrati, il mio nome account è "D_Year".
Io adoro la Marvel e in particolare il nostro Capitano *-* per cui non potevo non scrivere una fanfiction dedicata a lui!
Ho grandi progetti per questa storia e spero di riuscire a portarli a termine garantendo il massimo, mi impegnerò con tutta me stessa per farcela.
Detto questo, vi chiedo di dirmi la vostra, ovviamente accetto anche critiche purché siano costruttive.
Al prossimo capitolo! (Che sarà tra non molto ahaha)

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Capitolo 2
*** Progetto ***


PROGETTO


-    Che cosa intendevi con ‘reclutamento per il mio progetto’, papà? Quale progetto? Cos’è questa storia? – chiese davanti ai fornelli della cucina intenta a preparare la colazione. Mio padre, uno scienziato molto importante di quei tempi, mi teneva al corrente di tutto senza mai entrare troppo nei dettagli. Tuttavia questa volta questo suo ‘progetto’ mi era completamente sfuggito.
-    Nulla di terribile tesoro, solo cose belle. Si spera. – quest’ultima frase la sussurrò, nel vano tentativo di non essere udito.
-    Speranza? Ma la tua non è una scienza fatta su precisi calcoli e attente osservazioni?
-    E’ così, infatti, e sei stata tu ad aprirmi la strada questa volta.
-    Io? Cos’è accaduto ieri sera, papà? – chiesi sospirando.
-    Beeeh – cominciò sorseggiando il caffè e leggendo il giornale – hai presente quei due ragazzi che ti ho sbirciato ad origliare?
-    Steve e James? E quindi?
-    Ah, li conosci?
-    Sono miei amici, sì.
-    Credevo fossero semplici estranei la cui animata conversazione era di tuo gradimento.
-    Arriva al dunque, papà.
-    Ho sentito quel ragazzo, il biondino, parlare con tanto orgoglio e volontà nel voler far parte dell’esercito e così gli ho dato una mano. E’ stato un bel gesto da parte mia, non trovi?
Per poco non la ragazza non si scottò con la padella. Era agitata e nervosa, fin troppo.
-    Che cosa hai fatto papà?! – chiesi sul punto dell’isteria.
-    Qualcosa non va, tesoro?
-    HAI CONTRIBUITO AL SUICIDIO DI STEVE! – urlai fuori di me.
-    Ah adesso è così che lo chiami, Steve? – rise – ha un grande potenziale, ne sono certo.
-    Ah si?! E su quali dati scientifici si basa questa tua teoria?! No perché per me, occhio e croce, quel ragazzo l’unica cosa che può fare è stare per aria su un palo a far da bandiera e magari volare anche via. Hai visto quanto è… magro?
-    Non cominciare anche tu con questi pregiudizi, non ti ho insegnato questo. Nella vita bisogna aspettarsi di tutto e credere nel..
-    In cosa papà? – lo interruppi – nella scienza?! Sono stufa – dissi sbattendo lo straccio sul tavolo e sospirando.
-    Nelle persone, tesoro.
-    Di questi tempi?!
-    Non esistono tempi e modi, se ci lasciamo trascinare da queste credenze, da questi pensieri popolari allora sprofonderemo con loro insieme a tutta la negatività. Sarà difficile rialzarci se non cominciamo da qui, se non cominciamo da adesso a credere in qualcosa.
-    Ma sentiti, da quando sei passato da scienziato a cattolico? – risi nervosa.
-    Ascolta cara, ancora non riesco a decifrare se questo tuo comportamento è dovuto ad un fattore di odio nei confronti di Steve oppure di…
-    Preoccupazione papà, sono soltanto preoccupata.
-    Oh, amore allora – constatò a bassa voce sistemandosi gli occhiali.
Arrossii, e non poco probabilmente.
-    D-di amicizia, papà.
Mi sorrise dolcemente.
-    Dovresti credere di più in lui, allora.
-    Lo faccio. E’ una persona splendida, sono soltanto preoccupata che possa andar male qualcosa.
-    Ci penserò io, ok? Interverrò quando sarà necessario se sarà necessario.
Annuii esausta – d’accordo papà. Scusami per… questo, ti voglio bene – lo abbracciai.
-    Anch’io tesoro.



Steve cominciò subito l’addestramento e, come previso, diventò presto lo zimbello dell’esercito. Fu preso di mira e deriso dai suoi compagni, persino il comandante era diffidente verso la scelta di papà. Grazie ad un permesso speciale, io ero sempre in seconda fila al suo fianco, con gli occhi fissi su Steve. Ma lui… lui sembrava molto preso da quella Peggy.
-    Non posso farcela – sussurrai.
-    Cosa tesoro? – domandò papà disorientato, vedendosi strappato ai suoi pensieri.
-    Niente papà, vado a fare due passi.
Mi allontanai da lì col cuore a pezzi.
Davvero mi lascio coinvolgere così facilmente in un rapporto? Lo conosco appena, come può importarmene così tanto? Sospirai.
-    Ehi Beth! – una voce a me familiare mi richiamò strappandomi un sorriso.
-    Dovresti smetterla di cogliermi sempre alle spalle – risi – non dovresti essere ad allenarti anche tu?
-    Sì beh… pausa! – rispose Bucky sorridendo.
-    E quindi il tuo amichetto è riuscito a entrare nell’esercito eh?
-    Già, spero soltanto non faccia nulla di azzardato.
-    GRANATA! – urlò il comandante dall’altra parte del campo nel bel mezzo dell’allenamento.
Ci girammo spaventati e guardammo tutti i soldati correre al riparo. Tutti tranne Steve che si lanciò con tutto il suo corpo sulla granata, pronto a salvare i compagni. Mossi un passo verso di lui pronta a correre in soccorso, stessa cosa che fece anche Peggy. Ma non era questo il momento di provare disprezzo, ero solo e soltanto preoccupata per Steve. Il cuore batteva a mille e le lacrime pungevano gli occhi. James mi trattenne prendendomi un polso e io ero bloccata lì, a metri di distanza con le palpitazioni a mille.
Ma la bomba non esplose e io potei ancora osservare quella chioma bionda giacere viva a terra. Sollevò la testa verso il comandante, con le spalle che si alzavano e abbassavano velocemente nel tentativo di riprendere quel fiato trattenuto finora.
-    Era un test? – chiese ed io sorrisi sollevata.
-    Come non detto – mormorò James alle mie spalle sorridendo anche lui.
-    E’ una testa calda – osservai di rimando – ma ha un gran cuore.
-    L’hai capito subito, eh? – mi scompigliò i capelli e lo guardai offesa.
Dall’altra parte il folle scienziato Abraham – nonché mio padre – guardava con aria di sufficienza il comandante, alzando le sopracciglia in un gesto che sta a dire ‘te l’avevo detto’.
Tipico.

 

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Capitolo 3
*** Esperimento ***


ESPERIMENTO


Inutile dire che passai i giorni a seguire litigando con papà nella speranza che cambiasse idea riguardo quel suo dannatissimo progetto. Ma era del tutto inutile, non mi dava ascolto. Lui sosteneva che amassi Steve, io invece non ne avevo la più pallida idea. Come può esserne così tanto certo lui quando nemmeno io sapevo cosa provassi? Ero esausta.
Poiché non c’era verso di fargli cambiare idea, provai con l’ultima carta.
-    Allora usa prima me, come cavia – dissi quella frase velocemente e ad occhi chiusi.
Eravamo in giardino, dapprima steso sulla sdraio a leggere il giornale e sorseggiare un buon thè, mi raggiunse poi mettendosi di fronte a me con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata dopo quella mia ‘uscita sacrificale’, con il vento che scompigliava i suoi ed i miei capelli.
-    Io sono folle ma tu di più – esordì.
-    Ho preso dal migliore – sorrisi nervosamente.
-    Non puoi chiedermi questo.
-    E tu non puoi fare questo a Steve. Quindi scegli, o rinunci o prendi me.
-    E se prendessi entrambi?
Rimasi interdetta con l’amaro in bocca.
Non credevo che papà potesse spingersi così tanto nella scienza al punto di sacrificare anche sua figlia. Ok Steve con cui non aveva legami, ma io… scossi la testa sospirando, in fondo me la sono cercata.
-    Lo farai a me per prima, nel caso dovesse andar male non oserai toccare un capello a Steve, intesi?
-    No – scosse la testa con energia – non se ne parla – si avvicinò a me prendendomi tra le mani e guardandomi dritto negli occhi, preoccupato – ho già perso tua madre tempo fa, non posso perdere anche te. Beth, il siero è già stato somministrato una volta a… Schmidt e vedi com’è andata a finire.
Questo non me l’aveva mai detto. Fui sorpresa.
-    Sei stato tu a farlo?
-    Sono stato costretto, ma sto cercando di rimediare e Steve è la persona giusta.
-    Io no?
-    Anche tu lo sei ma…
-    Due e meglio di uno, no? – provai a sorridere – ascolta papà, andrà tutto bene. Potremmo fare grandi cose, io e lui. Sconfiggeremmo l’Hydra, salveremmo il mondo. Pensaci! Il siero non era ancora stato perfezionato, hai lavorato sodo e credo in te, ce la farai.
Negò col capo e tornò dentro, in cucina. Non avrebbe acconsentito, ero disperata. Avrei dovuto farlo senza il suo consenso ma… non volevo tradirlo.  
-    Prima lui, poi tu.
-    Papà, tutto quello che voglio, è proteggerlo…
-    Sono certa che lo farai e mi prometterai di tenerlo d’occhio, mi fido di te tesoro, ma dopo che l’avrà fatto lui per primo. L’hai detto anche tu stessa, andrà tutto bene – sorrise.
Lo guardai sorpresa e corsi ad abbracciarlo.
-    Cadrò a questo compromesso, ti ringrazio papà. Dovremmo scrivere quest’accordo su un foglio? – chiesi guardandolo sospettosa.
-    Non serve, hai la mia parola. Te lo prometto.
-    Okay – gli schioccai un bacio sulla guancia e raggiunsi la porta di casa per uscire.
-    Dove vai?
-    Mi vedo con Christine papà, non farò tardi te lo prometto.
-    Ehi, tesoro – mi richiamò a bassa voce correndomi dietro.
-    Si? – mi voltai verso lui sorpresa. Ed ora cosa vuole?
-    Ho grandi piani per te, ma devi giurare di tenere la bocca chiusa. Non devi svelare a nessuno per niente al mondo della tua… ‘trasformazione’. Sarà un segreto che durerà nei secoli, d’accordo?
-    Come riuscirò a controllarlo?
-    Ce la farai, ne sono certo.
Annuii e mi lasciò un bacio sulla fronte.



Ero furiosa. Nonostante il nostro patto, il signor “scienziato Abraham Erskine” aveva vietato a me, sua figlia, l’accesso a quel suo laboratorio segreto in cui quel giorno tanto atteso si sarebbe tenuta la realizzazione del suo famigerato progetto, ritenendomi non pronta a poter assistere a una cosa del genere. Davvero credeva che avrei perso le staffe una volta visto Steve soffrire?
Ok sì, è probabile. Ma davvero credeva che mi sarei arresa così facilmente? Si sbagliava di grosso. Io sono Elizabeth Erskine, non mi arrendo mai.
Silenziosamente lo seguii nelle vesti di un’agente dell’esercito ma, una volta arrivata a quel negozio di libri d’antiquariato che funge da copertura, scoprii che c’era bisogno di una frase in codice o qualcosa del genere per entrare. Sempre ben coperta affinché nessuno potesse riconoscermi, mi appostai al muro esterno del locale e aspettai che qualcun altro entrò.
Di lì a poco, scortato dalla bellissima Peggy Carter, arrivò Steve. Per un soffio non rischiai di farmi vedere, mi accostai il più vicino alla porta e ascoltai ciò che dicevano.
Vidi un’anziana signora uscire dal retro della biblioteca e dire:
-    C’è un tempo splendido sta mattina, non è vero?
-    Sì, ma io porto sempre l’ombrello – rispose con tono sicuro l’agente Peggy.
Di che diavolo parlavano? Non ha senso!
La vecchia si avvicinò al bancone e subito dopo una porta segreta alla sua destra si aprì.
Che stregoneria è mai questa? Quindi quel loro ‘dialogo’, se così può essere chiamato, era la frase segreta? Mi stanno prendendo in giro, di sicuro.
Mi ricomposi spolverandomi i vestiti ed entrai nel negozio a testa alta. L’anziana rifece la domanda cui risposi con la frase detta poco prima dalla Carter. La porta si aprì e feci un cenno riconoscente con la testa verso la signora.
Senza farmi notare oltrepassai la soglia di quel passaggio segreto e proseguii lungo il corridoio. Arrivata alla destinazione, aspettai in cabina insieme a tutti gli altri.
Vidi Steve spogliarsi per poi entrare in una capsula ricoperto da cavi collegati alle macchine. Peggy al suo fianco fu allontanata e chiesto di raggiungere noi altri da qui su alla cabina. Li vidi guardarsi attentamente, ma Steve fu il primo a distogliere lo sguardo. E a ogni loro occhiata il mio cuore perdeva un battito con tante piccole crepe che andavano creandosi attorno ad esso. Ero davvero innamorata e… gelosia? Era questo l’effetto che mi faceva Steve?
Papà diede il via all’esperimento e la capsula fu chiusa. Dall’interno, oltre alle grida di Steve, fuoriusciva un’intensa luce blu dovuta probabilmente ai Vita-Rays.
Cominciai a sudare freddo, ero preoccupata e avrei voluto fare qualsiasi cosa per aiutarlo. Papà sembrò quasi leggermi nel pensiero – nonostante non sapesse che fossi anch’io lì – ed ordinò a Stark di fermarsi ma Steve, dall’altra parte, incitò di continuare. Ci fu un’esplosione di luce e poi il nulla. Tutti allungarono il collo per vedere il risultato fin quando la capsula si aprì e ne uscii fuori… uno Steve completamente diverso, alto e muscoloso. Rimasi a bocca aperta per la sorpresa.
-    Non può essere vero – sussurrai.
Peggy corse giù fiondandosi su di lui per assicurarsi che stesse bene e… ammirare i suoi muscoli, ovviamente. Strinsi i pugni irritata e voltai lo sguardo ponendolo altrove, per la precisione su un individuo al quanto sospetto che era rimasto indietro rispetto al gruppetto che cominciava a scendere giù in laboratorio. Li raggiunsi anch’io avvicinandomi con discrezione ma questo estrasse un qualcosa dalla tasca e, premendolo, diede il via all’incendio alla cabina dov’eravamo poco fa. Mi fiondai su di lui ma fui troppo lenta: estrasse una pistola dalla giacca e sparò in direzione di… papà.
Urlai disperata con le lacrime che sgorgavano dagli occhi. La mia copertura era saltata ma al diavolo! Mio padre era morto ed io non ero riuscita a salvarlo.
Steve, tuttavia, non si accorse di me e, da bravo super soldato qual era diventato, si apprestò a mettere al riparo i presenti.
La rabbia mi ribolliva dentro e corsi più veloce che potei nel tentativo di inseguire il criminale che fuggiva con una fiala del siero, l’ultima secondo i loro calcoli. Cercai di rendermi utile almeno in questo, entrai nella macchina di papà e lo seguii.
Dallo specchietto retrovisore vidi una chioma bionda correre verso di noi ad una velocità supersonica. Più si avvicinava e più riuscii a distinguerlo: Steve. Con le sue nuove doti sovraumane atterrò sulla calotta del taxi giallo in cui c’era il nostro obiettivo.
Ci ritrovammo nella zona di porto, scesi dalla macchina impugnando la pistola che papà deteneva segretamente sotto il sedile del passeggero, e sparai nella sua direzione. Non riuscii a prenderlo – ok lo ammetto, avevo una pessima mira – e finii anche i proiettili. Sorrise verso di me con un ghigno malefico per poi raggiungermi e bloccarmi tenendo un braccio attorno al collo e l’altro sulla vita. Stringeva e faceva terribilmente male, più mi dimenavo più faceva male.
Steve avanzò verso di noi preoccupato.
-    Lasciala andare – urlò ma il tipo dietro di me non gli diede ascolto. Sparò ancora una volta verso Steve che riuscì a pararsi con lo sportello del vecchio taxi.
Il criminale indietreggiò portandomi con sé. Gli morsi il braccio e riuscii a fargli allentare la presa, ma mi spinse e caddi in acqua. Riemersi con il fiato corto e i vestiti che mi appesantivano spingendomi sempre più giù.
Steve si affacciò lanciandomi un’occhiata.
-    Va’, rincorrilo e prendi il siero, me la caverò.
Annuì e scappò via.

Avevo fallito, come figlia e come ‘agente’. Ma non mi sarei mai arresa, bramavo vendett
a.
 

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Capitolo 4
*** Hurt ***


HURT


Il bollitore continuava a fischiare ed io cominciavo a odiare sempre di più quel rumore. Il thè era pronto, ma non avevo sete né tanto meno la voglia di alzarmi da quel divano sgualcito.
Continuavo come un’inetta a trascinarmi nei miei giorni, non m’importava più nulla di niente e nessuno. Steve era diventato il mio unico pensiero, ma leggere di lui sui giornali, vedere come si era ridotto a vendere la sua immagine per qualche banale spettacolino da loro ritenuto come “figura che simboleggia i grandi valori patriottici nazionali e incoraggia le truppe combattenti” era vomitevole. Davvero patetico.
E mio padre si era battuto per quella persona? La sua morte ne era valsa la pena? A quanto pare no.
Avevo perso fiducia in ogni essere, ero disgustata e affranta. Mi ero ripromessa di non lasciarmi andare a me stessa ma cos’altro potevo fare? Ero sola e sempre lo sarei stata.
I raggi di sole che filtravano la finestra mi finivano dritti in faccia aggiungendo fastidio a tutta quella situazione.
-    Dannazione – imprecai a bassa voce alzandomi per chiudere la tenda e versarmi il thè.
Ero ‘impegnata’ a fissare intensamente un punto nel vuoto, immersa nei miei pensieri, quando qualcuno bussò alla porta con insistenza facendomi sussultare.
Sospirai. Non sarei mai andata ad aprire, ma dall’altra parte – chiunque fosse – non era interessato a lasciar stare.
-    Beth so che sei lì dentro, apri la porta per favore.
James.
Sorrisi amaramente. L’unico vero amico che si ricorda della mia esistenza.
Decisi di fare uno sforzo, uno ‘strappo alla regola’ e andai ad aprire.
Mi alzai dalla sedia trascinandola, le gambe di legno che stridevano contro il pavimento. Tolsi il lucchetto dalla porta e la aprii, mostrando la mia figura dimagrita, gli zigomi scavati e gli occhi infossati. Qualche ciocca di capelli che ricadeva ribelle sul viso. La reazione d’altra parte fu del tutto inaspettata: Bucky era solo e mi stringeva forte a se.
-    Mi hai fatto preoccupare tanto – sciolse l’abbraccio e con lo sguardo cercò il mio. Mi accarezzò la guancia con il dorso della mano, poi qualche dolce carezza con il pollice.
-    Posso entrare?
Annuì e mi feci da parte dandogli così modo di passare.
Mi ritrovai di nuovo a sprofondare in quel vecchio divano, con Bucky al mio fianco. La casa aveva l’odore di papà, ma lui non c’era più. I giornali ammucchiati davanti all’ingresso, in un angolo vicino all’appendiabiti; le pantofole buttate alla rinfusa di lato alla scarpiera, l’orologio a pendolo ormai fuori uso che papà aveva promesso di riparare. Non tornerà mai più a funzionare. Nulla ritornerà come prima.
-    Non puoi vivere nel passato per sempre, lo sai vero Beth? – Bucky mi strappò ai miei pensieri, quasi leggendomi nella mente – ascolta, mi spiace molto per tuo padre ma non è colpa tua. Non potevi far nulla, non meriti di vivere con il rimorso.
-    Sono sola… - sussurrai.
-    No, no… vieni qui – mi tirò a sé posando un bacio sulla fronte – non è vero. Non sarai mai sola, io sarò sempre accanto a te.
-    Nulla sarà come prima…
-    Il mondo è in continua evoluzione – rispose con un tono di scherno – niente sarà mai come prima, altrimenti rimarremo all’età della pietra!
Capivo che il suo intento era quello di smorzare la tensione, ma anziché sentirmi più leggera mi sentii soltanto più pesante. L’unica cosa è che ora quel peso non ero sola a portarlo, no. James era dall’altra parte a tendermi la mano per non permettermi di cadere e mollare la presa su tutto, per non lasciarmi sola ad affrontare quel dolore. Lui era tutto ciò che di più prezioso avevo al momento.
-    Io ero lì, l’ho visto morire davanti ai miei occhi. Quel pazzo…
-    E’ morto, se può farti sentir meglio.
Qualcosa si spense dentro me e mi sentii ancor più vuota.
-    C-come?
-    Si è suicidato, davanti a Steve.
-    Avrei dovuto ucciderlo io.
-    Elizabeth guardami – mi prese il viso tra le mani costringendomi a guardarlo – smettila, tu non sei questa.
-    Ho una tale rabbia dentro…
-    Posso immaginarlo – mi rispose con un ghigno divertito sul volto.
-    Steve… papà si è anche sacrificato per lui.
-    E gli è infinitamente grato, credimi.
-    Non lo dimostra. Cosa ne sta facendo del potenziale donatogli? Su poche cose si è sbagliato nella sua vita ma questa è stata la più grave: lui non è degno.
James fece una smorfia di dissenso.
-    Cosa c’è? Non è forse così?
-    Non è come sembra, Beth. Non è colpa sua, non dipende da lui.
-    Ah no?! Bucky, Steve ha la forza di 100 soldati dentro di sé, potrebbe salvarci tutti invece si limita ad andare in giro in una calzamaglia a stelle e strisce, cosa lo ferma?? Lui può tutto ora, ma non fa nulla. Avrei sfruttato meglio io questo potere.
-    Ah ecco, sei una di quelle persone – si alzò infastidito.
-    E come sarebbero queste persone?
-    Una di quelle pronta a puntare il dito contro e a dire “avrei fatto meglio” ma senza mai concretizzare nulla. Siamo tutti bravi a parole, ma sono i fatti che contano e qui nessuno fa meglio di Steve! E’ vero, sta sbagliando ma lo conosco, conosco la sua determinazione e so che ben presto farà ciò che è più giusto. Dategli tempo, dannazione! – imprecò adirato.
Ero tentata di svelargli tutto e dirgli che in realtà un altro siero c’era e proprio io stavo per diventare la prossima ad averlo in corpo.
Ero spaventata, anzi, terrorizzata! Dopo aver visto Steve in quella capsula urlare come un dannato non ero poi così tanto sicura che il mio corpo potesse reggere un dolore simile.
Ma avevo promesso a papà che avrei vegliato su Steve, che avrei combattuto e ora avevo una ragione in più per farlo. E ora l’unica cosa che mi rimaneva da fare per rendergli onore era mantenere la parola.
Mi morsi il labbro inferiore nel tentativo di non lasciarmi scappar nulla, nervosa com’ero.
-    C’era al suo funerale – annunciò guardando fuori dalla finestra e dandomi le spalle.
-    Come? – chiesi confusa.
-    Steve, c’era anche lui al funerale di tuo padre.
Eccolo ancora quel salto al cuore unito a un pugno nello stomaco.
Lui era lì ma non gli era importato nulla di me.
-    Non lo sa – si degnò di girarsi per parlarmi in faccia.
-    Cosa?
-    Non sa che sei sua figlia.
Sembrò quasi leggermi nella mente.
-    Ok – risposi – va bene così. Non voglio che lo sappia.
-    Sei sicura? Infondo non c’è niente di male.
-    E cosa dovrebbe cambiare? – mi alzai anch’io dal divano e lo guardai dritto negli occhi - dovrebbe fingere di interessarsi a me per gentilezza solo perché mio padre gli ha dato un’opportunità? – quasi urlai. Mi girai dandogli le spalle - deve un favore a lui, non a me. Ma ormai lui non c’è più e nulla ha senso. Anzi! – mi voltai tornando a guardarlo - ti dirò di più. Non voglio essere compatita né da lui né tanto meno da te.
-    Beth – mi interruppe – lo so che stai soffrendo ma come ti ho già detto non è questo il modo giusto per affrontare la cosa. Non è sbattendo la porta in faccia alle persone che andrai avanti. Lasciati aiutare – si avvicinò cercando di afferrarmi la mano invano dato che lo scostai da me con uno strattone.
-    Non toccarmi, ti prego – le lacrime mi pungevano gli occhi e volsi lo sguardo da un’altra parte per non farglielo notare. Non volevo mentirgli, non potevo ma dovevo.
-    Non voglio lasciarti sola.
-    Lo so, ma ho bisogno di respirare, ok?
-    Come preferisci – indietreggiò incerto – se hai bisogno sai dove trovarmi – si avvicinò lasciandomi l’ultimo bacio sulla guancia e fui certa della sua assenza quando sentì la porta sbattere impetuosa.
Perdonami Bucky, non voglio metterti nei casini.

 

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Capitolo 5
*** Un nuovo super soldato ***


UN NUOVO SUPER SOLDATO


-    Stark, ho bisogno del tuo aiuto.
Ero nell’ufficio di Stark, o un laboratorio per meglio dire. Avevo oltrepassato il campo di allenamento dell’esercito infischiandomene delle regole e di tutti coloro che mi guardavano strano o mi urlavano contro. Ero andata spedita verso la mia meta, spalle dritte e testa alta, nel mio cappotto color crema e le scarpe dal tacco basso ma elegante, e i capelli biondo cenere raccolti in uno chignon alto. Sapevo del laboratorio ‘segreto’ dove Stark realizzava le armi, un luogo modesto e caotico.
C’erano scrivanie e tavoli da lavoro ovunque – ovviamente - sui quali erano poggiati tutti gli strumenti necessari all’impiego, fogli sparsi ovunque e poster dei vari progetti.
-    Buongiorno anche a lei, signorina Erskine. Lei non dovrebbe essere qui ma chiuderò un occhio, però non si faccia vedere eh! – mi fece un occhiolino ironico – cosa posso fare per lei?
-    Dammi del tu. Hai un minuto per parlare… in privato?
-    Ho molto da fare in questo momento.
-    Sono sicura che tu possa prenderti una pausa di cinque minuti – ero molto determinata, non avrei mai mollato la presa. Ormai ero dentro, non potevo più tornare indietro – per favore Howard, è urgente.
Lo guardai dritto negli occhi con uno sguardo che non ammetteva risposte negative.
Sospirò pulendosi le mani – d’accordo, seguimi.

Mi feci da parte per lasciarlo proseguire poco più avanti di me, verso uno stanzino appartato infondo al corridoio sulla destra. C’era un odore davvero asfissiante.
-    Ma cos’è, allevate topi qui dentro? – mi tappai il naso nauseata.
Stark rise – è la nostra camera per la pausa pranzo, non ti aggrada?
Mi guardò con un sorriso a metà tra il malizioso e il divertito.
-    Siamo in un campo di battaglia, zuccherino – continuò – non facciamo specie su niente. Allora, cosa ti porta qui? Tuo padre mi aveva detto che eri testarda ma… wow, non a questi livelli!
-    Devi aiutarmi.
-    Sì, l’hai già detto – agitò la mano in aria scocciato, come a volermi intimare di continuare – ma per cosa ti servo?
-    Devi rendermi come lui.
Howard mi sorrise dolcemente, si avvicinò come a volermi accarezzare il viso ma si ritirò ricordandosi di aver le mani sporche di grasso del motore.
-    Perdonami – tossì imbarazzato – tuo padre era un grande scienziato, il migliore che io abbia mai conosciuto e gli volevo davvero bene ma… tesoro, tu hai deciso di intraprendere una strada diversa dalla sua, come posso aiutarti io?
-    Cosa? – chiesi confusa. Poi capii il malinteso e scossi la testa divertita.
-    No, non come mio padre. Ciò che intendevo era: rendimi come Steve.
-    Rogers?! – urlò strizzando gli occhi – senti, so che la morte di tuo padre ti ha confusa e rattristita ma questa è una follia!
-    NO! – urlai ma mi ricomposi velocemente e abbassai la voce – smettetela di dire cosa devo o non devo fare o immaginare come io possa sentirmi. Non lo sapete, ma se davvero volete aiutarmi l’unica cosa che tu possa fare ora per me è esaudire un suo ultimo desiderio: farmi diventare come il Capitano. Ecco, tieni – dissi cacciando dalla tasta del cappotto un foglio stropicciato, porgendoglielo.
-    Ne avevo parlato con papà ancor prima che trasformasse Steve, dopo aver insistito a lungo, fu d’accordo con me e questo è un patto firmato da lui a conferma delle mie parole.
Ovviamente era un falso, papà mi aveva detto di credere alla sua parola e così feci, ma per convincere Howard ero certa che non sarebbe bastata una semplice discussione ma una vera e propria conferma scritta. Falsificai la firma di mio padre scrivendo quel foglio con la sua calligrafia.
-    Non mi freghi, zuccherino. Cosa mi dice che questa sia davvero la scrittura di tuo padre?
-    Non eri un suo grande amico? Dovresti conoscerlo.
-    Si ma tu sei sua figlia, non ci sarà voluto molto a farla uguale, no?
-    Sei astuto.
-    Sei furba.
-    Eddai Howard.
-    Ci vorrà molto di più di una supplica.
-    Non verrò a letto con te, se è questo che intendi – lo guardai disgustata.
-    Questa è una cosa positiva, credo. Insomma, non che non mi avrebbe fatto piacere ma non mi sarei mai permesso, e poi significa che tu non scendi a compromessi. Non sei corrotta. Vuoi una cosa chiara e pulita, eh? Ma essendo sua figlia dovresti sapere che quella era l’ultima fiala.
-    E proprio perché sono sua figlia che ho fatto preparare a papà un altro siero appena accordato il nostro patto. Inoltre sono abbastanza informata da poterne replicare un altro, se questo non fosse sufficiente.
Stark mi guardò incredulo – sei proprio come lui.
-    Onorata di sentirlo. Allora, mi aiuterai?
-    Non si ottiene niente per niente, dovresti saperlo.
Sospirai. Stark, il solito.
-    Quanto vuoi?
-    Mille.
-    Solo?
-    L’hai voluto tu – alzo le spalle – duemila, e la certezza che tu lo faccia solo per il bene dell’umanità.
-    Voglio soltanto sorvegliare su Steve e distruggere l’Hydra per vendicare mio padre, Howard. Non vi accorgerete nemmeno della mia presenza.
-    Una piccola ninja, insomma. Sei sicura che funzioni?
-    E’ già andata bene una volta, perché non dovrebbe essere così anche la seconda?
-    Ti sposerei all’istante – rise divertito – ma tu ami Steve ed io non sono un fan per l’amore non corrisposto – detto questo mi fece un occhiolino divertito.
Avvampai all’istante.
-    Io n-non amo Steve.
-    Oh certo, ed io sono il presidente dell’America – rise – non tutti accettano di diventare un esperimento umano sacrificando così la propria vita solo per amore di uno che nemmeno si conosce.
-    Io e Steve siamo amici.
-    Certo, lui lo sa? – mi guardò con un sorriso malizioso – ascolta, non voglio ferirti ma soltanto metterti a conoscenza di ogni cosa. Sai a cosa vai incontro?
-    Sì.
-    E accetti di farlo pur sapendo che Steve civetta con l’agente Carter? – strinsi i pugni di getto.
-    E’ quello che voleva papà.
-    Lui o tu? – chiese poggiandosi al muro con le braccia conserte.
-    Entrambi – sospirai guardando un punto nel vuoto – possiamo non metterlo in mezzo ad ogni frase? Grazie.
-    Scusa. – sospirò dispiaciuto.
-    Quando cominciamo?
-    Sta notte, alle 2:00. Ti aspetto davanti alla villa, verremo qua in auto e percorreremo un tratto a piedi attraverso un passaggio segreto. Dovrò bendarti, tesoro.
-    Top secret?
-    Top secret.
Annuii e mi avvicinai a lui mettendogli una mano sulla spalla – grazie Howard.
-    E non fare così, mi fai sentire un vecchio uomo d’affari!
-    Ma tu sei un uomo d’affari! – risi.
-    Sì, ma non vecchio – un altro occhiolino. Per poco non pensai avesse un tic!
-    A più tardi.
-    A sta notte, vorrai dire.
-    Non è un appuntamento, Stark – e uscii di lì sorridendo, seguita a ruota da lui.
Ci ritrovammo immersi nella confusione del laboratorio, con mille occhi addosso e uno Steve piuttosto perplesso.
Ci avvicinammo a lui imbarazzati.
-    Quale appuntamento? – chiese di punto in bianco.
-    N-niente.
-    Rogers! Cosa ci fai qui? – domandò Stark cambiando discorso.
-    Ho bisogno di un tuo aiuto.
-    Cos’è, vi siete messi d’accordo voi due? – lo fulminai con lo sguardo intimandoli di far silenzio. Si ricompose tossendo.
-    Cosa posso fare per te?
Ammirai Steve di nascosto: i suoi lineamenti diventati più duri ma che trasmettevano ugualmente dolcezza, quei soffici capelli biondi in cui avrei immerso volentieri le dita accarezzando la testa, le labbra piene. Non è cambiato per niente, pensai sorridendo.
E poi quella sicurezza ritrovata, le pose da vero eroe… potei osservarlo finché non voltò la testa verso di me guardandomi con le sopracciglia alzate. Sobbalzai imbarazzata e guardai subito da un’altra parte.
-    V-vi lascio soli, scusate. Grazie ancora Stark – e uscii di lì sentendo ancora lo sguardo del Capitano sulle spalle.



-    Sei sicuro che non verremo scoperti? Ci sono guardie dappertutto – stavo seguendo Stark attraverso quel ‘passaggio segreto’ che tanto parlava, ovvero un’entrata nel campo attraverso una rete semi rotta dal bosco. Per fortuna avevo indossato indumenti pratici e comodi, niente di sofisticato ma opportuno per passare inosservata.
Stavamo percorrendo una stradicciola infangata laterale al laboratorio di Stark.
-    Vengo a lavorare qui ogni giorno, praticamente ci vivo! Conosco ogni centimetro di questo posto.
-    Oook – dissi incerta, sprofondando per l’ennesima volta il piede nel fango, disgustata.
-    E non ne hai parlato con nessuno, vero?
-    Se l’avessi fatto sarei nei guai fino al collo per aver proceduto in una cosa non autorizzata. So di non potermi fidare di nessuno in questi casi. Sta tranquilla Elizabeth, non ne ho fatto parola nemmeno con una formica. Ma dopo spetterà a te non dare nell’occhio. Vieni, ci siamo quasi.
Proseguimmo con le spalle al muro aspettando che la luce del faro puntasse da un’altra parte.
-    Ok, andiamo – sussurrò sgattaiolando via, seguito da me.
Infilò la chiave nella serratura ed entrammo nel suo ufficio, per così dire.
-    Ook, da qui dovrò bendarti.
-    Eddai Stark, con chi vuoi che ne faccia parola?! Già essere qui a quest’ora è una cosa molto sospetta, figuriamoci se andassi a raccontarlo in giro.
-    Sai come si dice…
Roteai gli occhi al cielo.
Poi mi appoggiai su una libreria fin troppo curata, una cosa davvero fuori posto in tutto quel caos. Incrociai le braccia al petto e alzai un sopracciglio divertita.
-    Se vuoi fare un passaggio segreto, per lo meno nascondilo dietro una cosa che non dia nell’occhio, Stark. Vuoi spostare questa libreria o lo faccio io?
Mi guardò con una faccia a metà tra il preoccupato e il sorpreso.
-    Ma cosa diamine sei tu, una spia?!
-    Semplicemente intelligente – risi e lo aiutai a spostare quel grosso mobile.
-    Faccio io.
-    E’ casa tua! – alzai le mani e lo seguii in quello che sembrava essere un laboratorio scientifico.
Mi ritrovai immersa nel passato, a giorni fa in cui papà era vivo e Steve era ancora... il vecchio Steve. Senza perder tempo mi spogliai restando in intimo – ignorando il volto paonazzo e imbarazzato di Howard - ed entrai nella capsula, aspettando che Stark continuasse nelle procedure.
Quando fu tutto pronto e mi chiuse all’interno, mille pensieri mi percorsero la mente.
E’ giusto quello che sto facendo oppure ho perso la testa?
Ne vale la pena?
Sto sacrificando la mia intera vita per cosa? Per chi? Steve? Non sa nemmeno che esisto.
Papà? Sono certa che infondo anche lui era d’accordo con questo, ma aveva paura di perdermi. Ed ora cos’ho da perdere? Lui non c’è più e non mi resta nient’altro.
Confido nell’amore che credo di provare per Steve, ma sono anche molto legata a questa terra e vendicherò mio padre.
Sarà questo il mio obiettivo: distruggere l’Hydra.
-    Sei pronta Elizabeth?
-    Ancora non inizi? Comincio a scocciarmi! – dissi con tono ironico.
-    Aspetta prima di ridere! – disse Stark divertito scuotendo la testa.
La tortura cominciò dandomi forti scosse per tutto il corpo. Tutto quello che riuscivo a vedere era una luce intensa che mi penetrava negli occhi, anche a palpebre chiuse. Era come trovarsi davanti ai fari abbaglianti di un treno, ma con una luce ancor più forte.
Strinsi i denti, mi morsi il labbro ma era davvero difficile restare in silenzio. Cominciai ad urlare mentre il liquido del siero continuava a scorrere nelle vene. Strillai a più non posso, il contatto con la realtà era davvero lontano. Sentii Stark urlare preoccupato chiedendomi se dovesse fermarmi, in un breve istante di lucidità riuscii a dirgli di continuare.
Fu come prendere una scossa elettrica, il corpo in preda alle convulsioni e poi la quiete.
La capsula si aprì ed io feci per lanciarmi a terra sfinita ma Howard fu più veloce e riuscii a prendermi in tempo. Avevo la fronte imperlata di sudore e l’intimo appiccicato al corpo.
Il mio corpo…  non avvenne la stessa radicale trasformazione di Steve, il mio corpo era sempre sinuoso ma con qualche segno di muscolatura in più. Dentro di me, tuttavia, potevo sentire una forza sovraumana possedermi.
-    Vuoi riposarti o ce la fai?
Annuii – posso farcela. Devo… devo tornare a casa.
-    Puoi restare qui per questa notte, se vuoi – propose gentilmente.
-    Certo – sorrisi divertita ma col fiato corto – e cosa racconterai ai tuoi colleghi domani quando mi vedranno qui?
-    Che ho passato una notte davvero intensa con te – sorrise malizioso – siamo giovani, il brivido del pericolo ci piace.
-    Nascondersi in un laboratorio in piena notte contro ogni tipo di legalità? Wow, tu si che sai come divertirti Stark! – risi.
-    Vedo che stai bene.
-    Mai stata meglio.
-    Bene. Rendimi orgoglioso di aver fatto la scelta giusta.
-    Sentirai parlare di me – mi avvicinai lasciandogli un bacio sulla guancia.
-    Avevi detto che saresti stata una ninja.
-    Chi lo sa, magari un giorno diventerò un’eroina! – gli feci l’occhiolino ed uscii di lì ripercorrendo il percorso dell’andata a ritroso.

 

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Capitolo 6
*** See you on Sunday ***


SEE YOU ON SUNDAY


Ancora una volta, a distanza di due mesi, ero davanti allo specchio a fissare la mia immagine.
Stark mi aveva invitato ad un party che si sarebbe tenuto questa sera per, appunto, festeggiare il successo della missione di recupero di alcuni soldati – in cui era presente anche James - in una base segreta dell’Hydra, svolta dal “super Capitano”.
In quel periodo molte cose erano cambiate: inaspettatamente Steve si era risvegliato dall’ intorpidimento e accecamento dovuto alla fama di tutti quegli spettacolini.
Conoscendolo, anche se ben poco, avevo capito che non era ciò a cui ambiva e certamente avrebbe trovato modo per rivendicarsi. Non avrebbe di certo potuto fare il giullare a vita ed era divenuto, finalmente, il super soldato cui era destinato ad essere.
Compiva gesta eroiche ed era bravo ad amministrare l’esercito. Un vero e proprio Capitano.
Man mano che il tempo passava mi accorsi di quanto realmente ero innamorata di Steve.
Cercavo un modo per avvicinarmi sempre di più, ma ogni mio passo avanti equivaleva a 100  in più di Peggy Carter.
Era una battaglia persa in partenza, ma tanto valeva provarci lo stesso.
“Amore non corrisposto” ripensai alle parole di Stark.
Lui sarà il mio accompagnatore alla festa alla quale avrebbe partecipato, ovviamente, anche Steve. Non potevo, perciò, essere impresentabile.
Indossai un abito blu notte a tubino lungo fino al ginocchio che risaltava le mie forme, scarpe bianche col tacco abbinate alla borsetta bianca. Un leggero tocco di trucco e capelli raccolti in uno chignon con due ciocche del ciuffo che ricadevano dolcemente di lato al viso, quasi ad incorniciarlo.
Il mio cavaliere era giù ad attendermi e così, dopo aver dato un ultimo sguardo allo specchio, lo raggiunsi.
Il viaggio verso la meta fu silenzioso ma non imbarazzante. Oramai si era venuta a creare quella sorta di tacita intesa tra noi due che condividiamo il più grande e pericoloso segreto di tutti i tempi. Avevo dato la parola sui miei buoni intenti a papà, avrei vegliato su Steve e protetto l’America se ciò fosse stato necessario, ma il mio obiettivo primario era diventato quello di sterminare l’Hydra.

Arrivammo a destinazione senza accorgermene, Howard scese dal lato del conducente per venire ad aprirmi lo sportello come un vero gentleman. Accettai volentieri il suo braccio come appoggio ed entrammo nel bar.
La prima cosa che vidi furono i manifesti dei tour raffiguranti Steve con su scritto “cancellato”. L’arredamento era molto rustico e… informale.
-    Cavolo, sono davvero fuori luogo – mormorai imbarazzata – vado via.
Stark mi trattenne per il braccio senza stringere troppo.
-    Non se ne parla, sei fantastica così.
-    Potevi avvisarmi, Howard! – pronunciai il suo nome tra i denti, quasi digrignando – credevo saremmo andati ad una festa in un normale locale, non un bar!
-    Rilassati e goditi la serata, ok? E poi non sei mica l’unica! – fece cenno con la testa alle mie spalle.
Mi girai e vidi l’impeccabile agente Carter vestita in un delizioso tailleur rosso. Era stupenda e, per quanto potessi disprezzarla, era l’apoteosi della perfezione sotto qualsiasi aspetto, e io avevo soltanto da invidiare.
-    Oh – sussurrai amareggiata.
-    Non mi sembri sollevata. Concorrenza? – mi punzecchiò sorridendomi malizioso.
-    Non sentirti sola, sono il tuo cavaliere sta sera, ricordi? – chiese dolcemente dandomi un bacio sulla tempia. Annuii riconoscente.
Peggy troneggiava in tutta la sua maestosità davanti a Rogers, che non le staccò gli occhi di dosso nemmeno per un istante.
La pelle sembrò andarmi a fuoco e una morsa allo stomaco mi tolse qualsiasi voglia di mangiare.
-    Testa dritta e cammina valorosa, sei una donna magnifica Elizabeth, non hai nulla da invidiare – mi sussurrò all’orecchio Howard incoraggiandomi.
-    Ti dirò di più, sei un super soldato e se tu volessi, potresti mettere K.O ogni persona presente in questa stanza, Capitano compreso. Per cui seguimi e sii sicura di te stessa.
Annuii riacquistando le forze e, con lui al mio fianco, avanzai verso Steve e Bucky proprio nel momento esatto in cui Peggy si allontanò.
-    Felice di riavervi sani e salvi tra di noi, Capitano! Ottima impresa – esordì sorridente Stark cogliendolo di sorpresa alle spalle. Si strinsero le mani come due veri uomini d’affari. Ero affascinata dalla scena. Quanta virilità.
-    Stark, quale onore! La ringrazio.
-    Posso presentarvi la mia compagna?
Detto questo si fece da parte dandomi la più onorevole ‘entrata ad effetto’.
Inutile dire quanto mi lusingò la reazione di Steve: letteralmente a bocca aperta.
-    Ma noi ci conosciamo già – sorrisi arrossendo – James amico mio, sono contenta che tu stia bene.
Abbracciai calorosamente il mio compagno, che ricambiò piacevolmente il gesto.
-    Anch’io sono contento di rivederti così, Beth – sussurrò all’orecchio. Mi staccai dall’abbraccio e lo sorrisi dolcemente.
-    Steve – porsi la mia attenzione verso di lui richiamandolo mono tono, allungando una mano per congratularmi – sono felice che ti sia deciso a compiere il tuo dovere, ottimo lavoro.
Gli feci l’occhiolino lasciandolo senza parole. Bucky fischiò e io gli sorrisi.
Non m’importava di star giocando la carta della stronza, ma il sangue dentro di me ribolliva al solo pensiero della scena vista poco prima.
-    Capitano, vorrei parlarle di alcune questioni, se non le dispiace – si intromise Howard smorzando l’atmosfera.
-    Certamente – fece per seguirlo ma si fermò al mio fianco, guardandomi intensamente negli occhi e sussurrando – aspettami prima di andar via.
Questa volta rimasi io senza parole.
Annuii dischiudendo le labbra, ammaliata da quell’azzurro intenso delle iridi che troppo presto si staccarono da me.
Presi fiato guardando terra.
-    Posso offrirti da bere?
La proposta di Bucky era allettante e accettai senza pensarci due volte.


Eravamo al bancone del bar immersi nei nostri discorsi strampalati e risate fragorose. Più di un uomo tentò di abbordarmi ma James prontamente lì allontanò.
-    Sono davvero contento che Steve abbia smesso di fare da marionetta e cominciato a fare il vero soldato, ma al contempo sono preoccupato. Potrebbe cacciarsi in cose più grandi di lui.
-    Ha già dato prova di cosa è in grado di fare, James. Devi avere più fiducia in lui.
-    Io credo in lui! – affermò convinto – sono soltanto preoccupato, tutto qui. Gli voglio bene, non vorrei mai gli capitasse qualcosa di spiacevole.
Sorrisi accarezzandogli una guancia.
-    Nemmeno io, ma sono certa che saprà cavarsela sempre.
-    Incredibile pensare a come fosse prima e com’è diventato ora, non è vero?
-    Già – risposi sovrappensiero.  
-    Prima mi ha chiesto di arruolarmi come soldato per la squadra speciale di Capitan America – scosse la testa divertito – io ho risposto che non avrei affiancato quell’individuo, ma il vecchio Steve che conosco sempre a caccia di zuffe nei vicoli di Brooklyn.
Sorrisi divertita.
-    Credo di saper più cose su Steve da ciò che mi racconti e non da ciò che ho imparato conoscendolo. E’ un tipo così… introverso.
-    Si è vero. Ma credo sia cambiato, come lo sei anche tu.
Lo guardai interrogativa, mandando giù un altro sorso di birra.
-    Cosa vorresti dire? – chiesi leccandomi le labbra per togliere il sapore amaro della bevanda.
-    Non saprei dirti ma ti vedo… diversa. Sembri più energica, più forte.
Cercai di nascondere la mia evidente preoccupazione e feci spallucce.
-    Sono rinata dalle ceneri come una fenice! – sdrammatizzai cercando di sviare il discorso. Non avrei mai potuto mentire a James, ma il mio segreto era decisamente top secret per far sì che lo sapessero ben due persone.
Pregai con tutta me stessa che qualcuno venisse in mio soccorso, fosse anche l’ennesimo opportunista della serata, ma avevo necessariamente bisogno di fuggire da quella conversazione divenuta fin troppo scomoda.
La mia supplica venne ascoltata nel migliore dei modi: una mano calda mi sfiorava la spalla toccando un lembo di pelle scoperto dalla spallina.
-    Si è fatto tardi. Posso accompagnarti a casa, Elizabeth? – il mio nome, fuoriuscito da quelle labbra carnose e pronunciato così dolcemente da quella voce soave, mi fece trasognare.
Sobbalzai di poco, sorpresa, pronunciai un flebile “sì” e mi alzai dallo sgabello cercando di non far cedere le gambe per l’emozione.
Sei un super soldato, per la miseria, Beth! Cosa ti prende?!
Mi feci coraggio e alzai la testa verso quei vitrei occhi azzurri, permettendo al mio cuore di accelerare come non mai. La mia pelle fu percorsa dai brividi e Steve sembrò notarlo.
-    Senti freddo? – mi chiese preoccupato e non esitò a togliersi la giacca per poggiarmela sulle spalle.
In realtà non era freddo ciò che provavo ma pura emozione, tuttavia accettai volentieri il suo gesto gentile.
Camminavamo a fianco a fianco in quel lungo viale che portava a casa mia, illuminato dalla flebile luce dei lampioni e qualche insegna qua e là dei locali.
-    Devo ancora chiederti scusa per… un po’ di cose.
Lo guardai interrogativa, rischiando di perdermi per l’ennesima volta ad ammirare il suo volto.
-    Non devi chiedermi scusa di nulla.
-    Oh sì. Innanzitutto per esser stato poco cortese quella volta alla Stark Expo, avrei dovuto accompagnarti a casa e invece ti ho lasciato andar via così senza dir nulla.
-    Steve… - sospirai – non devi, davvero.
-    E poi – continuò ignorandomi – per esser sparito. Mi avrebbe fatto piacere continuare a coltivare quell’amicizia che stava nascendo e invece mi sono lasciato prendere da questa faccenda dimenticando tutto il resto. Ti chiedo scusa. Sono in tempo per rimediare?
Mi regalò il più bel sorriso che abbia mai visto ed io mi sciolsi, letteralmente.
Sospirai divertita.
-    Sei incorreggibile. Steve non devi chiedermi scusa di niente, capisco le tue motivazioni. Sei un uomo d’onore e ora un gran soldato disposto a sacrificare tutto per la propria nazione. Farai grandi cose nella tua vita, ne sono certa. Magari un giorno potrò farne parte, chi lo sa!  
-    Mi piacerebbe fosse adesso, quel momento.
Il mio cuore sussultò e mi fermai sul posto. Lo guardai ammaliata sperando in un gesto romantico ma tutto quel che riuscì a fare fu accarezzarmi la guancia. Apprezzai ugualmente e chiusi gli occhi per godermi il momento: le sue grandi mani erano morbide e per niente sfigurate dal duro lavoro, probabilmente il siero prevedeva anche questo.
-    Non hai ancora risposto alla mia domanda.
-    Quale domanda?
-    Oh no, non far finta di nulla con me, Elizabeth – rise – sono in tempo per rimediare?
Sorrisi – certo.
Annuì divertito e mi diede un timido bacio sulla guancia. Sentii la fronte e le mani imperlarsi di sudore, le gambe molli tremolanti.
-    Eri molto bella sta sera.
“Tu lo sei sempre stato, lo sei e lo sarai” avrei voluto rispondere ma avrei rischiato di sembrar fuori di testa, perciò quel che riuscii a dire fu:
-    Anche tu, caro Steve Rogers – sfoggiando un sorriso dolce.
Appena mi resi conto di quel che dissi, cercai di ricompormi e rimediare l’irreparabile.
-    Voglio dire – provai, tossendo imbarazzata – da quando sei uscito da quella capsula sei diventato il triplo, è difficile non notarti! – stai peggiorando la situazione Beth! – e poi in giro non si fa altro che parlar del grande Capitano, per cui…
Rise divertito.
-    Ho capito, non passo inosservato. Non so se considerarla una cosa positiva o…
-    Positiva – mi affrettai a rispondere – ma infondo per me resti sempre quella testa calda di Steve Rogers oltre il Capitano quale sei diventato.
-    Vorrei fosse così per tutti.
-    Chi ti conosceva prima non credeva in te, ti derideva e non esitava a prenderti a calci e pugni nonostante tu combattessi valorosamente. Ora quelle stesse persone ti acclamano e ti seguono. Non potrai essere apprezzato da tutti egualmente, l’importante è piacere alle giuste persone per quel che sei.
Annuì d’accordo.
-    Hai ragione – sospirò e riprese fiato come se l’avesse trattenuto fino a quel momento e continuò in un discorso che sembrò aver tenuto dentro per tutto questo tempo – avrei voluto poter fare di più fin da subito ma mi hanno incastrato in quei loro… balletti del cavolo, discorsi di incoraggiamento quando con tutto questo potenziale avrei potuto far il lavoro da solo senza perder tempo.
-    Basta rimproverarti Steve, hai rimediato e stai davvero salvando tutti noi. Sei incredibile e vai bene così. Sarai anche un super soldato ma sei ancora un essere umano che sa commettere degli errori.
-    Sai sempre cosa dire, vero? – scosse la testa divertito.
Poco dopo mugugnò portandosi una mano alla fronte, come ad essersi dimenticato di qualcosa.
-    Tu eri lì, quel giorno.
-    Cosa?
-    Il giorno della trasformazione, eri lì e hai inseguito quel criminale… sei stata molto coraggiosa, hai rischiato davvero tanto – si fermò un attimo a riflettere e continuò – E’ stato un piacere per me conoscerti quel giorno alla festa, mi sei sempre stata vicina nonostante fossi davvero impacciato con… con le ragazze – annunciò imbarazzato – ma non mi hai fatto pesare la cosa e mi sono divertito molto in tua compagnia. Mi hai conosciuto prima di diventare questo, e mi sei subito stata vicina, anche se non lo sapevo. Avrei potuto far di più per te.
-    Oh avanti Mr. Rogers, è la serata dei rimpianti questa? – lo canzonai dandogli un pugnetto amichevole sulla spalla. Contenni la forza quanto più potei per nascondere il mio ‘potere’, ma a confronto i suoi muscoli erano impenetrabili da qualsiasi tipo di potenza.
-    Wow… - sussurrai ammirata.
-    Cosa?
-    Difesa d’acciaio – indicai i suoi pettorali – ermetici, eh? – risi.
-    Già, un vero e proprio scudo, non è così? – la sua risata cristallina era davvero contagiosa e così, tra l’una e l’altra, arrivammo davanti casa senza neanche accorgercene. Il bel tempo era finito.
-    Ecco qui, il trenino è giunto a destinazione! – dissi ironica imitando lo sferragliare del treno.
-    Posso almeno ringraziarti per quella carpa?
-    Ah ok, allora siamo pari?
-    Ma come soldato, vuoi saldare tutti i tuoi mancati doveri con un semplice peluche?
-    Come posso rimediare allora? – rise divertito.
-    Non so, magari un caffè?
-    Oppure un bel film – propose partecipe.
-    Cosa ne pensi di un ballo?
-    Un ballo? Sono una frana a ballare – dichiarò imbarazzato.
-    Cosa? Un super soldato, Capitan America per la precisione, non sa fare una cosa? Impossibile! – gli sorrisi compassionevole – lo faremo insieme, impareremo l’uno dall’altra.
Sospirò arrendevole.
-    Allora direi che è una splendida idea. Questa domenica?
-    E’ perfetto.
-    A domenica, allora.
-    A domenica – entrai in casa e richiusi la porta alle mie spalle, sospirando felice.

 

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Capitolo 7
*** Imprisoned ***


IMPRISONED


Nei giorni a seguire Steve continuò con le sue missioni ‘suicide’, o almeno così avevo cominciato a chiamarle. Grazie a Howard che mi informava di ogni suo passo, potei essergli sempre al suo fianco senza farmi notare. In quel modo potevo prendere due piccioni con una fava: tener d’occhio il Capitano come promesso a papà e recepire informazioni riguardanti l’Hydra in modo da poterla sterminare.
Quel giorno l’obiettivo era quello di assalire un treno blindato della famigerata organizzazione terroristica, e così seguii Rogers e la sua squadra.
Con la mappa impressa nella testa, mi nascosi tra le montagne innevate dal quale riuscivo a osservare il binario del treno. Ero certa passasse di lì, ogni mia mossa era precisamente calcolata finalizzando i miei scopi.
Il countdown continuava e i miei occhi erano fissi su quelle rotaie di ferro, con il vento che mi sferzava in faccia scompigliandomi i capelli. Si respirava aria di neve e mare.
Ero sempre rimasta incantata dalla forza della natura: così semplice e infinita, pura. L’inverno era la mia stagione preferita: ero costantemente controcorrente. Nonostante la gente mi ritenesse strana o praticamente fuori di testa, a me non importava. Sapevo distinguermi e per me questo contava molto. Amavo l’inverno, amavo tuffarmi nell’alta e soffice bianca neve, oppure avvolgermi in un cappotto caldo con la sciarpa che mi copre il volto fin sopra al naso, l’aria fresca e pulita, il Natale passato in famiglia tra buoni manicaretti e cioccolate calde.
Ma ora che sono rimasta sola, cosa ne resterà di tutto ciò?
Lo sferragliare del treno in lontananza mi ridestò dai pensieri e, dapprima accovacciata, mi misi subito sull’attenti, pronta a lanciarmi sulla tettoia.
Contai alla rovescia gli ultimi secondi “3…2…1” e mi tuffai.
Quei pochi centimetri di neve posatasi sulla locomotiva attutirono la caduta ammortizzando il suono.
Camminai in bilico nel tentativo di non perdere l’equilibrio e raggiunsi la cabina di guida a me più vicina. Prima di entrare, constatai essere il vagone in cui Steve e Bucky stavano combattendo contro due omoni armati fino ai denti.
Con le spalle alla parete laterale alla porta, sbirciai di tanto in tanto oltre la punta del mio naso per non farmi notare. Più volte dovetti scansare un attacco diretto verso me fin quando la porta non venne scaraventata all’aria e la mia copertura saltata.
Ero ugualmente irriconoscibile, coperta di tutto punto, e così mi decisi a entrare. Colsi di sorpresa uno di loro alle spalle e, sfilando il coltello dalla tasca laterale del pantalone, gli tagliai la gola lasciandolo morente al suolo.
-    Dietro di te! – mi urlò Steve.
-    Questo non l’avevo proprio visto né sentito arrivare – mormorai tra me e me e, abbassandomi, scansai un suo colpo di pistola che purtroppo andò a colpire uno sportello laterale al treno causandone la sua distruzione.
L’aria, con l’alta velocità a cui andavamo, sferzò all’interno portando fuori con se ogni cosa presente sul vagone, perfino… Bucky.
Dovetti mantenere il sangue freddo per non far diventare ogni sforzo vano, per non far saltare all’aria ogni cosa e per potermi difendere.
Per mia sfortuna, nonostante ciò che il siero era riuscito a fare con me, rimasi ugualmente non molto pratica nel combattimento corpo a corpo. Ero in svantaggio, ma dalla mia parte avevo la forza e l’adrenalina. E anche l’incapacità del tipo di fronte a me. Farlo fuori non fu poi così difficile e, proprio quando mi girai sperando che Steve avesse salvato James, vidi il mio vecchio amico perdere la presa al tubo che lo teneva letteralmente in vita e cadere giù dal precipizio.
Trattenere un urlo fu difficile, ancor di più le lacrime. Non ci pensai due volte e, guardando un’ultima volta Steve, – pur sapendo che non mi avrebbe riconosciuta – mi tuffai dal treno senza perdere di vista il punto di caduta di Bucky.


Lo ritrovai pochi metri più in là di quanto previsto, senza un braccio e con una ferita sanguinante alla testa.
Potranno anche considerarmi folle e diversa da tutti quanti, ma amavo l’inverno e la neve che, alta com’era, riuscì ad attutire – anche se di poco – la caduta di James.
Mi affrettai a strapparmi un pezzo di stoffa della maglia per stringerlo attorno al braccio come laccio emostatico e rallentare la fuoriuscita del sangue. Con un altro panno tamponai attentamente la ferita sulla fronte poi, portandomi il suo braccio sano attorno alla spalla, lo sollevai di peso e lo portai al sicuro.
Ma come può mai essere sicuro un posto simile, disperso nella foresta tra animali selvatici e… ancora attentatori.
Riuscivo a sentirli: udivo i loro passi felpati, i loro respiri ansimanti, le dita pronte a premere il grilletto di quelle dannate armi distruttive. Era impossibile contrastarli, da sola contro chissà quanti.
L’attacco arrivò quasi inaspettato, colpendomi con il rinculo della pistola dietro alla testa, riuscendo a farmi perdere i sensi.


Non seppi dopo quanto ripresi conoscenza, e fu altrettanto difficile identificare il luogo in cui mi trovavo. Era tutto distorto, buio, illuminato da una sola lucina esterna a quella che doveva essere una cella. Poco alla volta i ricordi tornarono portandomi alla luce il pensiero di Bucky.
Girai la testa di scatto provocandomi un ulteriore giramento che ignorai e, preoccupata, continuai a tastarmi attorno alla ricerca del corpo del mio compagno. Ricerca che non portò a nulla di buono.
Ero stranamente all’estremo delle mie forze, avevo visto troppo e perso tutto in giro di poco tempo. Una serie di domande mi affollava la mente: “dove mi trovo? Dov’è Bucky? E Steve? Che fine avrà fatto? Che fine farò io? Come faccio ad uscire di qui?”
Domande che non fecero altro che alimentare il forte mal di testa provocato dalla botta avuta chissà quanto tempo prima.
Udii dei passi pesanti ma sicuri procedere verso l’ingresso del cubo in cui mi trovavo, una stanza grigia che mi era difficile descrivere per via della scarsa luminosità.
Sentii delle catene essere aperte e cadere al suolo, un ‘tic’ costante di qualche aggeggio elettronico che monitorava chissà cosa.
La porta si spalancò con un gran stridio e quello che doveva essere l’ennesimo soldato sovietico con cui avevo a che fare, si piazzò di fronte a me con un sorriso malefico.
-    Ben svegliata, miss Erskine.
-    Come fai a sapere chi sono? – sbiascicai tra i denti.
Si chinò verso me e disse:
-    Noi sappiamo tutto.
-    Dove mi trovo? Cosa mi avete fatto? Dov’è Bucky?
-    Una domanda alla volta, prigioniera – sottolineò l’ultima parola con quel dannato accento russo.
-    Ti trovi nel Dipartimento X. Non ti abbiamo fatto nulla, per ora. Per quanto riguarda il tuo caro amico Bucky è al sicuro.
-    In mani vostre niente è sicuro. Cosa gli state facendo? – dissi a denti stretti per la rabbia.
-    Cambierai idea, come anche lui. Sappiamo chi sei, o meglio, cosa sei. Sappiamo chi era tuo padre e cos’ha fatto a Capitan America. In qualità di figlia del grande scienziato saprai senza dubbio duplicare il siero, non è così?
-    No, non so farlo – mentii – ma in qualsiasi caso non otterrete nulla da me.
-    Vedremo – ancora quel maledetto ghigno dipinse il suo volto.
-    Siete troppo fiduciosi, Steve Rogers vi troverà e…
-    Lo sei anche tu. – mi interruppe - In ogni caso: tagli una testa, spuntano due, ricordatelo – si raddrizzò e con lo sguardo fiero, dritto verso un punto davanti a se pronunciò “Hail Hydra” ed andò via lasciandomi sola al buio con ancor più domande e preoccupazioni.

Mi appoggiai al muro portandomi le ginocchia al petto e, con la testa china su di esse, pensai che mai più sarei uscita da lì dentro, mai più avrei rivisto Steve e non sarei riuscita a salvare Bucky. Ero un fallimento totale, incapace di far nulla nonostante fossi un super soldato.  Ogni promessa fatta andava tristemente in frantumi.
Respirai a fatica tra un singhiozzo e l’altro.
Cercai di ripetermi più volte di non arrendermi, ma di lottare e non lasciarmi sconfiggere.
Con il dorso della mano pulii le ultime lacrime che mi rigarono il volto e con uno sguardo che avrebbe fatto paura anche al re della giungla, in quella cella dimenticata dal mondo, mi ripromisi di combattere e andare avanti, per la patria e per mio padre.

 

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Capitolo 8
*** Bucky... ***


BUCKY...


Se avessi saputo fin da subito che mai più avrei rivisto Steve dopo quella festa, che mai più avremmo ballato insieme quella domenica, avrei fatto di tutto affinché accadesse prima.
Avrei perso meno tempo, avrei potuto dichiarare i miei sentimenti e liberarmi di questo peso che mi portavo dentro. Avrei voluto dirgli cos’ero diventata, per cosa l’avevo fatto ma soprattutto per chi. Avrei potuto comprenderlo e condividere a pieno ogni istante della nostra eterna vita.
Ma ciò che di eterno mi aspettava era la permanenza in quella cella isolata, perduta in chissà quale posto, lontano da tutto.
Erano passati quattro giorni da quando ero lì, ne tenevo il conto incidendo delle X sul muro con un sassolino trovato non molto lontano dalle sbarre.
Era l’unica cosa che mi tenesse impegnata e mentalmente attiva, perché restare coscienti in quei casi era davvero un’impresa.
Le razioni di cibo che mi erano consegnate a grande distanza di tempo l’una dall’altra erano davvero poche. La guardia di turno che vigilava l’ingresso di quella che era una prigione a tutti gli effetti – la mia prigione – entrava camminando con un passo pesante, come se svolgere quel compito per lui fosse una gran fatica, o una gran rottura.
Poggiava con poca delicatezza il vassoio ai piedi delle sbarre e lo passava attraverso quello spazio sottile con un calcio.
-    Certo che se continuate a trattarmi così non otterrete alcuna collaborazione da parte mia – pronunciai con voce rauca.
Ovviamente non avrei collaborato a prescindere, ma era divertente innervosirli.
Credevano che dimenticarmi lì dentro mi avrebbe fermata, che se avessero ridotto il cibo e abbandonato ogni tipo di cura e attenzione verso di me, un giorno ne avrei risentito. Probabilmente sarà anche vero, non sono ancora sicura di quanto il siero del super soldato abbia effetto su di me, ma ciò di cui sono certa è che mi garantirà una lunga e impiegabile permanenza qui dentro.
- Non ce la darai di tua volontà, ti costringeremo – rispose con voce rude, dandomi le spalle.
- “Frangar, non flectar” – mormorai per poi sorridere maliziosa.
Per un attimo vidi un ghigno d’irritazione sul volto della guardia, prima di lasciare definitivamente la stanza.
Due giorni fa, dopo aver passato una notte intera a pianificare ogni mossa, durante quella che chiamavano essere la “pausa pranzo” – pausa da tutto quel rumoroso silenzio, forse – tentai di sedurre una sentinella nel tentativo di fargli perdere i sensi e rubargli le chiavi per poi salvare James e sgattaiolare via di lì. Ma tutto ciò era davvero impossibile data la scarsa conoscenza del posto, per cui trovare una soluzione su come uscire da lì era davvero difficile.
Provai persino ad allargare le sbarre per creare un passaggio tra esse, o ancora scassinare la serratura con leggerezza. Ma la mia forza non poteva competere con la tecnologia dell’Hydra, armata di tutto punto anche in casi come il mio.
Incredibile.
E così ciò che ne ricavai da tale azione fu l’ennesima violenza: calci all’addome, pugni in testa e manganellate ovunque. Il dolore al momento era a dir poco atroce, se fossi stata un comune umano a quell’ora, probabilmente, sarei già morta. Ma dalla mia parte avevo l’invenzione del mio caro papà a proteggermi, ancora una volta. Le ferite superficiali, sia le varie fratture, si rimarginarono nel giro di ventiquattro ore fino a tornare sana come un pesce.
Papà.
Non c’era istante che passassi senza pensare a lui, trascorrendo le notti a versare lacrime in sua memoria. In memoria dei giorni di felicità passati insieme.
Poi, da lì, passavano a tormentarmi le infinite domande: se era un super soldato quello che cercavano, perché prendere me allora?
Chiudere occhio era impossibile, soprattutto quando non c’è n’era bisogno.
Ogni singolo istante poteva tornare utile per escogitare un piano.
Ma quanto tempo avrei dovuto trascorrere ancora lì dentro prima che venissero a prendermi con la forza e portarmi dove volevano?
Era necessario non fargli credere di cos’ero capace di fare, ma piuttosto dar da pensare di essere debole e, quindi, di sottovalutarmi.
A meno che, come hanno già detto – se ciò non fosse stato un bluff – non sappiano già tutto di me.

Passarono altri due giorni senza che nessuno si facesse vivo, fino a quel momento.
La solita guardia venne verso la mia cella, senza però lasciare alcun cibo. Piuttosto lo vidi cacciare le chiavi ed inserirle nella serratura per poi aprire la porta e lasciarmi uscire.
Mi alzai da dov’ero, inginocchiata con le spalle al muro, e avanzai verso l’uscita a passo incerto ed un’aria sospettosa.
Venni ammanettata subito e coperta la testa con un sacco, affinché non vedessi il percorso.
Spazientita, accettai di farmi trattare così per far credere loro di avermi sotto mano.
Avrei ispezionato l’ambiente, esaminato ogni loro passo e ogni possibile via di fuga. Poi, al momento giusto, li avrei stesi tutti e sarei scappata da lì. Inevitabilmente tutto ciò sarebbe accaduto nel giro di qualche giorno, se non settimane, ma ci sarei riuscita. Attualmente era il mio unico piano valido.
-    Dove mi state portando? – chiesi indifesa con la voce ovattata dal sacco.
-    Da Vasily Karpov.
-    Chi sarebbe?
-    Lo scoprirai presto.
Continuavano a strattonarmi e spingermi. Più volte caddi a terra e mi rialzai senza il loro aiuto. Udii una porta aprirsi frinendo, poi mi tolsero il sacco dalla testa e mi ci volle un po’ per riadattarmi a tutta quella luce. Dopo aver armeggiato con le manette, mi tolsero anche quelle spingendomi poi verso una sedia davanti ad una scrivania.
Dopo aver messo a fuoco l’ambiente a me circostante, lo esaminai con discrezione.
C’erano alte librerie che arrivavano fin al soffitto, piene zeppe di libri.
Una scrivania con dietro una poltrona in pelle alle cui spalle, appeso al muro, c’era un quadro di teschio rosso. Non era l’unico elemento nazista presente nella stanza: c’erano altre fotografie rappresentanti nazi-fascisti e due bandiere con il simbolo dell’Hydra.
Nulla di tutto ciò mi sorprese, anzi, quasi me l’aspettavo.
-    Vedo che sbandierate letteralmente i vostri ideali. – dissi ad alta voce richiamando l’attenzione dell’individuo che mi stava di fronte dandomi le spalle.
-    E tu invece li tieni tutti per te. – si degnò di girarsi verso di me posando le mani sulla scrivania e guardandomi dritto in faccia.
Feci spallucce senza dargli una reale risposta, cosa che sembrò innervosirlo.
-    Di cosa avete bisogno? Non vi basta quello che avete?
-    Noi non ci accontentiamo mai.
-    Questa vostra bramosia di potere vi distruggerà un giorno – sputai a denti stretti.
-    Ma prima noi distruggeremo il mondo. Ti dispiace seguirmi?
-    Sì, mi dispiace.
-    Il mio voleva essere un modo ‘cortese’ di esordire un ordine, ma se la metti così…
Fece un cenno alle mie spalle e venni riammanettata.
Strinsi la mascella nel tentativo di reprimere la rabbia e uccidere all’istante quell’individuo.
Avrei voluto urlargli contro che era inutile impedirmi di muovermi, sarei riuscita a liberarmi con la forza, ma non volevo che scoprissero ulteriori cose su di me e soprattutto avessero sospetti sulle mie intenzioni. Non misi in dubbio che erano pronti a ogni evenienza contro ogni mia mossa, ma sarei stata scaltra e mi sarei mossa con prudenza. Avrei dovuto soltanto resistere e mantenere la bocca chiusa senza cedere alle loro provocazioni.
Venni portata in una stanza che sembrò essere uno studio medico. Oppure un laboratorio dove si effettuavano esperimenti sulle persone.
Lì incrociai, dopo tanto tempo, lo sguardo con il mio vecchio amico Bucky. Era seduto su una poltrona, con il collo e le braccia tenute ferme da delle cinghie legate ai braccioli.
Tirai un sospiro di sollievo nel rivederlo misto a preoccupazione data la sua condizione.
-    James – sussurrai – cosa ti hanno fatto.
Per un attimo sembrò non riconoscermi lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi quasi neri. Poi lo richiamai col suo soprannome e si ridestò dai suoi pensieri.
-    Beth…
-    Il tuo braccio… - osservai soltanto in quel momento un braccio meccanico al posto del suo vecchio arto, perso dopo la caduta.  
Tentai di avvicinarmi a lui ma le manette mi tenevano ancora legata a quegli esseri.
Gli spintonai dando loro gomitate allo stomaco e testate al naso, permettendomi così di essere libera e avanzare verso Bucky, ma una scossa elettrica mi bloccò sul posto lasciandomi inerme a terra.
-    Beth, cosa ci fai qui?
-    Io ero lì, sul treno – sibilai a denti stretti trattenendo il dolore – ti ho seguito nel tentativo di salvarti, ma loro ci hanno trovati.
Un’altra scossa elettrica mi impedì di continuare.
-    Avete finito, voi due?
-    Che tu sia dannato all’inferno – mi raggomitolai su me stessa per rimettermi in piedi e, una volta riuscita, sputai ai piedi di quell’essere ripugnante.
-    Abbiamo tentato – cominciò camminandomi attorno. Indietreggiai verso Bucky, lanciandomi un’occhiata complice – di prelevargli del sangue sperando di trovare tracce del siero del super soldato. Poi però abbiamo esaminato il tuo dna ed effettuato ulteriori ricerche e, sorpresa delle sorprese, sei proprio tu quella di cui avevamo bisogno, mia cara super soldato.
-    Cosa? – domandò dubbioso James – non sto capendo, Elizabeth come sarebbe a dire ‘super soldato’? Cos’è questa storia?
-    Uh-hu, il tuo migliore amico non era a conoscenza di questo segreto? Come hai potuto! – Vasily si portò una mano al cuore fintamente colpito.
-    Smettila! – urlai seriamente innervosita. Le sue guardie impugnarono velocemente le armi, pronti a spararmi in qualsiasi momento.
Sospirai dandomi tempo per rielaborare tutta la storia da raccontare a Bucky.
-    Come ben tu sai, io sono la figlia di Abraham Erskine, lo scienziato che ha progettato il siero del super soldato somministrandolo a Steve. Prima che lo facesse, stressi un patto con lui affinché lo diede anche a me rendendomi come Rogers, con l’obiettivo di proteggerlo e di salvare il mondo intero dall’Hydra, sterminandolo – dissi quest’ultima frase guardando con odio il nazista al mio fianco.
-    Perché non me l’hai detto prima? – si agitò sulla sedia e lo pregai di star fermo con sguardo supplichevole.
-    Non volevo metterti nei casini, James.
-    Ci sono finito comunque!
-    Non per colpa mia!
-    E nemmeno per colpa mia se è per questo!
Sospirai abbassando lo sguardo, sentendomi terribilmente colpevole.
-    Se è me che volete – dissi rivolgendomi a Vasily – prendete me e lasciate andare lui, non possiede nulla di tutto ciò che voi cercate.
-    Oh no, abbiamo grandi progetti per lui. Ma tu cara mia, sei di vitale importanza. Hai affermato tu stessa di essere la figlia del grande scienziato che ha progettato il siero del super soldato – mi morsi la lingua per aver parlato fin troppo davanti a loro. Che stupida! – immagino tu sappi quale sia la formula segreta.
-    No, non lo so.
-    Bene, allora procederemo col prelevarti del sangue.
Lanciai uno sguardo preoccupato verso Bucky che, di tutta risposta, guardò alle mie spalle come per avvisarmi.
Poi capii: volevano attaccarmi alle spalle per ammortizzarmi e avermi incosciente per i loro stupidi piani.
Abbassai il capo evitando il colpo e mi girai dando un calcio dritto allo stomaco della guardia e una testata sul naso. Considerando la forza con cui assestavo i colpi, perse i sensi all’istante.
Scansai i proiettili che l’altra guardia continuava a spararmi contro, raggiungendola e strozzandola da dietro con la catena delle manette. Una volta assicurata di averla stesa, con un colpo secco mi strattonai i ferri liberandomi definitivamente.
Con la coda dell’occhio vidi quel vigliacco di Vasily nascondersi dietro una scrivania.
Avanzai verso lui per ucciderlo, ma venni fermata dall’ennesima guardia che mi sparò colpendomi alla spalla. Sorrisi malefica e gli storsi il collo.
-    Le vostre armi non mi fanno nulla – passai sopra al suo corpo inerme calciandolo.
Dal corridoio udii i passi di altre guardie arrivare verso la stanza.
Corsi alla porta per chiuderla a chiave e bloccarla mettendo davanti un grosso armadio pesante.
Fatto ciò, mi girai verso Bucky per raggiungerlo e liberarlo, ma dietro di me Karpov mi puntava una pistola alla tempia impedendomi di fare alcun passo.
-    Non muoverti o il tuo cervello schizzerà via come pasto per cani.
-    Avete bisogno di me viva.
-    Ci basta il tuo sangue.
-    Allora ucciderò lui. – feci un cenno del capo verso James – lui vi serve vivo, non è vero?
-    Non se prima sarò io uccidere te.
-    Oppure io a farlo con te.
Ancora una volta, mi abbassai di colpo prendendo il suo braccio e storcendolo, feci cadere l’arma a terra e lo costrinsi a inginocchiarsi.
Impugnai la pistola e gliela puntai alla fronte.
-    Le tue ultime parole.
-    Hail Hydra. – e sparai riducendogli in pappa il cervello.
-    Vaffanculo – mormorai tra i denti e gli sputai in faccia.
Corsi verso Bucky cercando di liberargli i polsi, ma le cinghie avevano una serratura ermetica e c’era bisogno di una chiave per aprirle.
Intanto i passi fuori alla porta erano sempre più vicini ed un fischio stridulo accompagnava il rumore di quella loro marcia.
-    Devi fuggire Beth, salvati. Quelle lì fuori non saranno armate di semplici armi da fuoco, ma di altre molto più potenti e letali, capaci di polverizzarti sul posto. L’ho visto farlo con i miei occhi, fidati. Devi andar via da qui all’istante.
-    Non me ne andrò senza prima averti liberato e portato con te – avevo cominciato a rovistare nei vari cassetti di tutti i mobili presenti nella stanza, fino a posare lo sguardo sul corpo deceduto del nazista. Gli saltai addosso tastando le tasche e trovando le chiavi.
Fuori alla porta cominciavano a tirare i calci e caricare le loro armi pronti a sparare.
-    Beth, ascoltami. Dietro a quello scaffale – disse facendo un cenno del capo in direzione dietro le mie spalle – c’è una mappa di tutta la struttura. Dovrai attraversare questo condotto sopra alla mia testa, in qualche modo ti porterà alla via d’uscita. Prendi la pistola di una guardia e scappa da qui. Io me la caverò, te lo prometto. Infondo hanno bisogno di me vivo, no? – sorrise amaramente con gli occhi lucidi.
-    No James no – cominciai a tremare per la paura mentre le lacrime avevano già cominciato a rigarmi il volto – tu sei il mio migliore amico, ti ho seguito fin qui per salvarti, non me ne andrò via senza di te. Tu non mi hai abbandonato e neanch’io lo farò. – gli presi il volto tra le mani accarezzandolo – cosa racconterò a Steve, sennò? Io li ucciderò tutti, infondo sono un super soldato contro… quanti mai vorranno essere? Cinque? Dieci? Fossero anche un’orda intera armata fino ai denti, ma non voglio lasciarti qui.
-    Beth, so che non vuoi ma devi farlo. Non devi permetter loro di raggiungerti, non sai cosa potrebbero fare con il tuo sangue o la formula del siero. Non pensare a questo vecchio amico legato ad una sedia, ora spetta a te salvare il mondo. Fallo per me, ti prego.
-    James… - chinai il capo sul suo petto singhiozzando – non anche te, ho perso fin troppo, ti prego.
-    So che te la caverai. – mi sorrise dolcemente. Alzai il volto per guardarlo negli occhi un’ultima volta e lasciargli un bacio umido sulla guancia.
-    Mi d-dispiace, p-per tutto.
-    Ti perdono. – annuì con un sorriso triste, le iridi azzurre diventavano pian piano scure, offuscate dalle lacrime.
Annuii e mi staccai dal suo corpo possente.
Corsi a spostare il grosso armadio e strappai la cartina dal muro, la arrotolai e la portai con me stretta in mano.
Trascinai poi una scrivania in direzione del condotto, ci salì sopra e cominciai a tirare la grata. Non ci volle molto data la forza.
Guardai un’ultima volta Bucky e mimai un ‘addio’ con le labbra.
Mi diedi la spinta e risalii lungo il condotto richiudendo la grata alle mie spalle. Cominciai a percorrerlo fino a portarmi in una zona abbastanza illuminata che mi permettesse di leggere la cartina. La esaminai e ne seguii il percorso che mi portava alla salvezza.
Avrei dovuto sbrigarmi prima che venissero a cercarmi in ogni dove.
Da quel momento ero ricercata a vita.

 

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Capitolo 9
*** Perduta ***


PERDUTA


La ferita alla spalla causata dal proiettile si era quasi rimarginata del tutto e non faceva più male.
Il dolore che mi affliggeva ora proveniva da dentro, dal cuore.
Non credevo di essere capace di abbandonare Bucky dopo averlo ritrovato, era contro la mia natura. Eppure l’avevo fatto, per il bene dell’umanità.
Ancora una volta mi ritrovai da sola nel bosco, senza aver il benché minimo dettaglio di dove mi trovassi, con soltanto il sole a darmi l’orientamento. Quale strada avrei dovuto prendere? Quella lungo il fiume, rischiando di essere ben visibile al nemico, oppure quella interna alla distesa verde, incappando in animali selvatici e piante velenose? La natura al momento era il mio ultimo pensiero in qualità di super soldato, il siero avrebbe riparato ad ogni mia distrazione, e la mia forza ed i miei riflessi mi avrebbero protetto da un qualunque predatore, eccetto i soldati dell’Hydra.
Perciò scelsi la seconda opzione e proseguii percorrendo il fitto bosco. Secondo la posizione del sole, mancava poco al tramonto. Avrei dovuto affrettarmi nel procurarmi un’arma e del cibo accendendo il fuoco prima del calar del sole, facendo confondere così la sua luce e il fumo con i caldi colori arancioni del crepuscolo.
Camminando a testa bassa tra le foglie secche e gli arbusti, cercai un lungo pezzo di legno asciutto, privo di qualsiasi nodo e sporgenza. Una volta trovato lo raccolsi e calcolai la sua curvatura naturale; dopo di che cominciai a modellarlo con un grosso masso tagliente trovato lì vicino. Incisi due tacche a ciascun estremo del bastone per poter inserire la corda. Avrei dovuto rischiare e tornare lungo il fiume per trovare del filo da pesca come alternativa per la fune.
Mi affrettai a raggiungere la punta del dirupo per osservare e cogliere un buon punto di discesa.
Sospirai, consapevole che avrei dovuto percorrere l’arrampicata a ritroso, e così feci.
Stando ben attenta a dove mettere i piedi, proseguii nell’impresa facendo un ultimo salto a pochi metri dalla riva. La percorsi per ogni lato finché non trovai quel che cercavo: una canna da pesca un po’ malandata, ma con un buon filo ancora resistente. Lo staccai con forza dall’attrezzo e, arrotolandolo, lo misi in tasca.
Ciò che rimaneva dei miei vestiti era poco più di uno straccio: la canotta era strappata in più punti, la felpa copriva poco e niente e i vecchi pantaloni color kaki erano tagliati ai lati delle ginocchia. Era ciò che quei pezzenti erano riusciti a recuperare per me, per non lasciarmi nuda ai loro occhi, ed era ciò che di sano era rimasto dopo la fuga.
Risalii la roccia a fiato corto e, una volta giunta in cima, presi il mio arco e finii il lavoro.
Intagliai velocemente qualche freccia necessaria per cacciare.
Mancava poco più di un’ora al calar del sole, perciò impugnai la mia attuale arma e, con le orecchie tese e gli occhi vigili, stetti attenta a ogni suono e movimento proveniente dal bosco.
Più volte mi girai su me stessa, ingannata dal fruscio delle foglie. Tutto ciò che riuscii a ricavarne a fine giornata fu un misero coniglietto rinsecchito. Lo legai a un cordoncino appeso in vita e cominciai a cercare dei rami secchi per poter accendere il fuoco.


Come postazione trovai un piccolo ceppo ai piedi di un pino, mi sedetti sopra e, dopo aver infuocato il legno, procedetti alla cottura dell’animale.
Eliminai la pelliccia e, una volta pronto, lo spolpai fino alle ossa. Non mi è mai piaciuto farlo, nessuno mi ha mai insegnato a cacciare, ma da quando il siero scorreva nelle mie vene mi sembrava di conoscere ogni manuale di sopravvivenza a memoria, ogni tattica e metodo di organizzazione, di conoscere tutto ciò da una vita. Tuttavia uccidere un animale e mangiarlo poco dopo non rientrava tra le mie volontà. Non che avessi necessariamente bisogno di rifocillarmi, ma dovevo rinsavirmi e riacquisire le forze.
Gli ultimi attimi di luce li trascorsi a lucidare la pistola recuperata in quello stanzino, ripulendola dalle macchie di sangue e dalle impronte con un angolo della canotta.
Dopo che anche il sole andò via, spensi il fuoco e mi distesi sul ceppo con le braccia incrociate sotto la testa e le gambe piegate. Tra una chioma e l’altra degli alberi, potei osservare qualche stella luminosa, dedicando i miei pensieri alle persone più importanti della mia vita.


I giorni a seguire furono duri.
Riuscii a ricavare una brocca per raccogliere l’acqua e dissetarmi: era passato troppo tempo da quando non parlavo né bevevo, e la mia gola era arsa a causa di ciò.
Ero consapevole di non aver necessariamente bisogno di bere o mangiare, ma il compiere determinate azioni mi permetteva di essere aggrappata a quell’umanità che non volevo completamente perdere.
Dopo minuti, ore, giorni di cammino ero riuscita a raggiungere quella parte di mondo collegata a una città. Percorsi un sentiero selciato sperando mi portasse in una qualsiasi località e, da lì, poi sarei ripartita.
Ma verso dove? La risposta a ciò mi era ancora ignota.
Avrei dovuto trovare un riparo? O fuggire in eterno per il mondo aspettando che l’Hydra scompaia? Oppure decidere di affrontarli uno ad uno ogni qual volta mi si presentavano davanti?
Se non avessero catturato me allora avrebbero usato Steve, e non potevo permetterlo. Mi ero ripromessa di combattere e così avrei fatto.
Ero sempre vigile, sull’attenti, pronta a essere attaccata e attaccare, a essere preda e predatore.
Percorrendo la via trovai un cartello con su scritto “Welcome to Dover”.
-    Dover… - mormorai a me stessa.
-    Ok, vediamo cosa mi offri.

Oltrepassai quel confine invisibile che divideva Dover dal viale percorso finora. Il bosco ai miei lati proseguiva per qualche altro metro prima di dar spazio a piccole casette e negozietti di antiquariato e souvenir. Giunsi in quella città nel tardo pomeriggio – seguendo sempre la posizione del sole – e la prima cosa a cui pensai fu un rifugio. Ricordai di non avere soldi con me, perciò avrei dovuto guadagnarli in qualche modo in quei giorni, oppure derubare qualche benestante sporcandomi l’onore. L’avrei escluso a priori. Anzi, quasi mi sorpresi di aver anche solo formulato un pensiero simile.
Scossi la testa esausta dopo aver affrontato quel viaggio, dopo aver perso fin troppo in così poco tempo. Non avrei mai dovuto perdere di vista il mio obiettivo nonché peggior nemico: l’Hydra.
Guardarsi le spalle e non fidarsi di nessuno in casi come questi era la prima regola di sopravvivenza. Non mi sarebbe risultato difficile, ma non potevo continuare in eterno a fuggire evitando qualsiasi rapporto umano.
Diventerò pazza, un giorno – pensai.
Avevo bisogno di un piano di attacco, ma in quel momento il mio cervello reclamava una pausa.
Avrei tanto voluto tornare a Brooklyn, da Howard, da Steve e da quella normalità che cominciava a mancarmi. Avrei voluto tornare indietro nel tempo e rivivere i miei giorni con papà al mio fianco.
Quasi rimpiansi di essere diventata un super soldato, ma se c’era qualcosa a cui in quel momento dovevo la vita era proprio il siero.

Percorrendo un viale di quella che doveva essere la periferia, mi fermai dinanzi un piccolo locale con la porta usurata e un’insegna decadente con su scritto “ostello”.
-    Meglio di niente. – dissi con voce rauca.
Aprii la porta di quel posto facendo tintinnare la campana a vento attaccata al soffitto. Misi un piede sul tappeto logoro con una vecchia scritta per metà cancellata, il parquet scricchiolò sotto il mio peso.
-    Buonasera! – ad accogliermi era un’anziana sull’ottantina con i capelli grigi legati in uno chignon.
-    Vuole una camera?
-    B-buonasera – balbettai confusa guardandomi attorno – sì, ecco io…
-    Sono dieci penny – mi interruppe sorridendomi.
-    N-non ho nulla con me. – pronunciai a fiato corto – ho dovuto affrontare un lungo viaggio sopravvivendo nel bosco dando la cacciai ai conigli con questo – dissi indicando l’arco in legno costruito da me – è tutto quel che ho.
-    Mi spiace allora, credo di non poter far nulla per lei. – sospirò dispiaciuta.
-    Se non reco disturbo potrei dormire anche qui sui divanetti della hall. – proposi sfacciata.
L’anziana sembrò provar pena per me guardandomi da testa a piedi e sospirò. Girò su se stessa prendendo un mazzo di chiavi appese alla bacheca alle sue spalle.
-    Tieni queste cara, camera 3, spero tu riesca a riposarti come si deve. Se dovessi aver bisogno di qualcosa non esitare a chiedere.
Fui colta di sorpresa da quel gesto di pura bontà e sgranai gli occhi sorridendo riconoscente.
-    Ci sarebbe una cosa, veramente…
-    Degli abiti nuovi? – mi interruppe nuovamente, sorridendo a metà tra il divertito e il compassionevole – posso procurarteli dalla biancheria. Molte persone qui lasciano la loro roba sbadatamente.
-    Non sarebbe male, la ringrazio.
-    Puoi darmi del tu. Chiamami Adelle, se ti va. – mi sorrise dolcemente e io annuii riconoscente – cos’altro volevi chiedermi?
-    Sapresti procurarmi una mappa?
-    Della città? Dover non è poi così grande.
-    C-certo ma sa, ho intenzione di continuare con questo mio lungo viaggio e avrei bisogno di una cartina geografia. Se non è possibile non fa nulla, io…
-    Le trovi sul quel piccolo mobile alle tue spalle – mi interruppe continuando a sorridermi. Credo sia il suo punto forte interrompere le persone.
Scossi la testa divertita – sono sempre state così vicine a me, non è vero? – ne presi un paio e le misi in tasca.
Rigirai le chiavi tra le mani – camera 3 – mormorai tra me stessa e salii le scale.
-    Vengo a portarti gli indumenti tra non molto – urlò Adelle dal piano inferiore.
Solo in quel momento mi accorsi di essere sola in quel ostello, le altre camere erano tutte vuote.
Aprii la porta, anch’essa mal ridotta come il resto del palazzo, e la richiusi alle mie spalle una volta entrata nella stanza.
C’era un letto con le lenzuola color panna, un comodino al suo fianco con sopra una abat-jour, una piccola finestra che dava sulla strada e un’altra porta che dava al bagno: c’era soltanto un lavandino con sopra uno specchio e un mobiletto in cui poter poggiare i propri oggetti, una doccia e un gabinetto.
-    Il minimo essenziale, mi andrà bene.
Mi tolsi gli indumenti sporchi gettandoli a terra e aprii il getto dell’acqua calda della doccia.
Nell’attesa che essa raggiungesse la temperatura ideale, mi dedicai al mio riflesso nello specchio: era il mio viso quello di fronte a me, eppure mi sembrava di vedere un’altra persona, diversa, matura. Gli occhi vitrei non erano trasmettevano più quell’azzurro luminoso, erano opachi, spenti e scalfiti da tutti quegli eventi negativi accaduti fino ad allora. Le labbra secche e screpolate, le ossa delle spalle incavate.
O forse erano soltanto mie sensazioni, perché il siero aveva riparato anche a quell’aspetto di me nascondendo tutto il dolore che provavo e mostrando solo il volto di una vera guerriera.
Eppure dentro di me sentivo ogni cosa rompersi, come tanti pezzi di un vetro che si sgretolano cadendo a terra in frantumi.
“Frangar, non flectar” pronunciai a quella guardia nella cella, e più volte continuavo a ripetermelo per autoconvincermi.
Sospirai entrando nella doccia e lasciando che l’acqua scorresse limpida sulle mie spalle.
Da giorni ormai la mia mente era percorsa da una sorta di rituale masochista: immagini di mio padre, Steve e poi Bucky si susseguivano nei miei pensieri.
Gli incubi erano sempre gli stessi: papà che mi diceva di essere deluso, Bucky che mi implorava di non lasciarlo andare, Steve che camminava lontano da me dandomi le spalle.
Avevo perso troppo, avevo perso tutto e questo mi faceva sentire terribilmente sola e vuota.
James mi aveva promesso di restare al mio fianco, di non abbandonarmi mai e di affrontare con me questa tempesta. Eppure lo stesso James mi aveva implorato di scappare lasciandolo lì da solo.
Avevo promesso a papà di tenere gli occhi aperti su di Steve e di combattere l’Hydra – indirettamente – al suo fianco. Gli avevo detto che l’avrei reso orgoglioso di me, che quella era stata la scelta giusta e che non se ne sarebbe mai pentito. Avevo torto, avevo torto marcio su tutto.
Quanto a Steve… la vita al suo fianco ora non sarebbe così dolorosa.
Piccole gocce di lacrime si univano allo scroscio dell’acqua confondendosi.
Qualcuno bussò alla porta d’ingresso e poco dopo entrò. Supposi essere Adelle che lasciava gli abiti sul letto. Andò via dopo poco, così decisi anch’io di uscire dalla doccia: avvolsi il mio corpo in un telo presente nella stanza e raggiunsi la branda per recuperare i vestiti.
La dolce anziana, oltre a quelli, aveva lasciato anche del cibo e un biglietto con su scritto: “Questi dovrebbero andarti, mi sembravano della tua misura. Prendi anche del cibo, ti servirà per riprendere le forze e affrontare il tuo viaggio domani. Per qualsiasi cosa non esitare a chiedere, mi trovi al piano di sotto. Adelle.”  
Sorrisi riconoscente alla vecchia e indossai quei caldi indumenti che era riuscita a procurarmi.
Non tutto è perduto, mormorai a me stessa.

 

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Capitolo 10
*** Fighter ***


FIGHTER

L'indomani mi svegliai accecata dalla luce del sole e dai strambi rumori seguiti da un urlo acuto, provenienti dal piano di sotto.

Mi preparai in fretta, riponendo il necessario nella sacca, il tutto gentilmente offerto da Adelle.

Raccolsi i capelli in una treccia e scesi al piano inferiore.

- Adelle? - la richiamai, ma della dolce vecchietta non c'erano tracce.

Mi mossi con cautela, mettendo un passo dopo l'altro lentamente.

L'ostello era immerso in un tetro silenzio, un po' sinistro. Ogni cosa sembrava meticolosamente al suo posto, dando un senso d'inquietudine in quel posto vuoto, senza Adelle.

Non c'erano biglietti lasciati frettolosamente che indicassero il motivo della sua assenza. Mi sembrava impossibile che lasciasse questo posto incustodito.

- Qualcosa non quadra. - mormorai tra me e me.

Raggiunsi il bancone della reception suonando inutilmente il campanello. Perfino il televisore era spento.

All'improvviso quel posto aveva smesso di esistere, quasi fosse frutto della mia fantasia, abbandonato a se stesso.

Ma non stavo dormendo né fantasticando, per cui proseguii nella mia ricerca.

Raggiunsi la piccola cucina e, aprendo un cassetto del mobile laterale al lavabo, estrassi un coltello, lungo e affilato.

Tornai in salotto ispezionando quel luogo come non avevo fatto il giorno prima, trovando una porta semiaperta alle spalle del bancone. Udii un verso muto, un urlo soffocato.

Mi posizionai con le spalle al muro, una mano lungo il fianco a impugnare il coltello e l'altra sulla maniglia pronta per aprire.

Chiusi gli occhi e trattenni il respiro, per poi spingere la porta e ritrovarmi di fronte Adelle legata e imbavagliata a una sedia, alle sue spalle due criminali pronti a far fuoco con le loro armi e ucciderla.

Lo sguardo spaventato e preoccupato della dolce anziana mi strinse il cuore.

- Lasciatela andare immediatamente - sibilai a denti stretti - lei non c'entra nulla.

- Tu verrai con noi, e noi lasceremo lei. - parlava a spezzettoni, quasi fosse un robot.

- D'accordo, verrò con voi.

Mi arresi fintamente, riponendo il coltello nella tasca e tenendo le mani ben in vista.

Questi mi scortarono sul retro del locale, convinti di essere riusciti a catturarmi.

Li colsi di sorpresa, ribellandomi: diedi una gomitata al terrorista sulla mia destra, atto che lo fece piegare in due. Mi abbassai schivando il colpo dell'altro per poi colpirlo con un calcio nei "gioielli". Approfittando di questo momento di vulnerabilità, presi una loro arma e sparai in testa a entrambi, o almeno era quello a cui puntavo. Anziché morire dissanguati, essi si dissolsero davanti ai miei occhi diventando nient'altro che cenere.

Mi girai quell'arma fatale tra le mani lasciandola cadere al suolo spaventata e disgustata.

Tornai dentro per prestare soccorso ad Adelle, ma altri attentatori giungevano sul posto.

- Adelle sta tranquilla, va tutto bene. Ci sono io. - le dissi tentando di calmarla, nel mentre che la liberavo dalle corde - ho bisogno che tu ora scappi e vada via. Corri il più lontano possibile, mettiti in salvo e non pensare a me, d'accordo? Fa come ti dico.

Annuì più volte, decisa e spaventata, con gli occhi spalancati per la paura.

- Vai, corri! - urlai e la vidi sgattaiolare via da quel che poteva essere il suo unico vero rifugio.

Ripresi il mio arco e le frecce che il giorno prima avevo barattato in cambio di un posto in cui dormire. Mi nascosi dietro al bancone sbirciando di tanto in tanto per vedere quanti di loro arrivassero.

Potevo contare sui cinque sensi amplificati più uno: la forza di un super soldato.

Udii i loro passi felpati, stando ai rumori potevano esserne quattro in tutto.

Uno di loro mi passò di lato non accorgendosi della mia presenza e così, pronta per attaccare, scoccai la mia freccia mirando alla gola. Morì sanguinante dopo pochi secondi, a circa due metri da me.

Vedendolo a terra, gli altri tre si agitarono, raggiungendomi sul posto.

Non esitai a difendermi e controbattere quando loro lanciarono i loro maledetti colpi laser contro di me.

Rotolai indietro scansando un attacco e poi l'altro, staccai l'anta di un vecchio mobile in legno e la usai come scudo. Inutile dire che dopo poco diventò cenere anch'essa.

Corsi sul retro con l'intento di recuperare l'arma del precedente terrorista, la presi e sparai verso di loro polverizzandoli.

Avevo il fiato corto e il petto si alzava e abbassava velocemente nel tentativo di tornare a respirare regolarmente.

Vidi una motocicletta abbandonata vicino a un palo della luce. Notando i simboli incisi sopra doveva appartenere a uno di loro. Non ci pensai una volta di più e montai in sella, con ancora l'arco e frecce con me e il volto della dolce Adelle impresso nella mente.

Correvo senza fermarmi su quella due ruote a motore, percorrendo la strada di periferia della città. Avevo ucciso sei di loro e non seppi se essere sollevata o terrorizzata da questo.

Tagli una testa, ne spuntano due. Questa frase rimbombava nella mia testa come un cattivo presagio immortalato nel tempo, eterno.

Sapevo di non essere più inseguita, anche il mio sesto senso me lo diceva, ma non riuscivo a fermarmi.

La velocità manteneva viva l'adrenalina, senza di essa avrei perso le forze e sarei caduta nuovamente nella disperazione più totale.

Avevo la cartina geografia impressa nella mente, percui proseguii decisa verso la mia unica meta attuale: Brooklyn.

 

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Capitolo 11
*** Back to Brooklyn ***


La motocicletta mi abbandonò dopo diversi chilometri percorsi, riuscendo a portarmi fino a Londra. Città uggiosa ma piena di vita al contempo, ideale per il mio umore altalenante.
Da lì trascorsi una settimana o poco più, durante il quale riuscii a trovare lavoro come papergirl. Cos'è? Semplice, consegno il giornale porta a porta. Ebbero qualche dubbio sul far svolgere un lavoro simile a una donna, inutile dire che dovetti dare una dimostrazione del mio carattere determinato... e della mia forza. Sì, ammetto di aver un po' forzato la cosa ma senza far del male a nessuno, lo giuro!
Di notte dormivo per strada, accanto ai senzatetto, dopo essere riuscita a recuperare un materasso malconcio al lato di un cassonetto.
E lì che, in uno dei quartieri mal frequentati della città, conobbi un tizio poco raccomandabile ma che 'motivato' con la giusta forza riuscì a procurarmi dei documenti falsi per il viaggio.
Così cambiai identità e mi feci un nuovo passaporto. Da quel giorno per tutti divenni Katharine Price.
Comprai dei nuovi vestiti e una parrucca color nocciola che mi rese il meno possibile riconoscibile alla vecchia Elizabeth.
Durante il week-end lavorai come cameriera in una tavola calda nel quartiere di Soho, la cui paga mi permise di alloggiare in un albergo poco costoso per una notte, l'ultima che trascorsi a Londra prima di affrontare il grande viaggio. Mi diedi una ripulita e perfezionai il mio nuovo aspetto.
Mi sentii così al sicuro, in quella città.
In quei giorni trascorsi in quella località, quasi mi dimenticai di tutti i miei problemi, del perché ero finita lì e come. Appresi la loro lingua, le loro tradizioni e la loro cultura e ne feci cosa mia. Ero completamente assuefatta, come se fossi nata per far parte di quella grande comunità. Mi sentivo rilassata, ma sapevo di non potermi concedere tale lusso e di dover restare sempre in allerta.
L'indomani sarebbe ricominciato tutto daccapo, avrei proseguito con la mia vita in fuga fatta di misteri, bugie, guerra e violenza. Ma con una nuova identità, una nuova me. Ed era quello che speravo di diventare.


 

2 giorni dopo, Brooklyn.

Arrivare a destinazione non fu per nulla facile, ma dopo tanti sacrifici ci riuscii.
Attraversai povertà e miseria cercando di dare il mio aiuto, restituii la giustizia all'ingiustizia della povera gente, contribuendo a conquistare il loro piccolo spazio di relativa libertà.
Il mio obiettivo in quel momento era uno soltanto: indagare a riguardo di mio padre ma soprattutto ritrovare Steve.
Percorsi a piedi la città nelle mie nuove vesti di Katherine Price. Raggiunsi l'ingresso di quella che fino a qualche mese fa era stata la mia dimora. M'inginocchiai dinanzi alla piantina - ormai morente - riposta fuori alla porta, scavai con le unghie nel terriccio secco per ritrovare la chiave di casa.
Casa.
Quanti ricordi mi riportavano in quel posto. Papà... pensai.
Raccolsi l'oggetto con me strofinandomi le mani sporche sul giaccone ormai sfigurato dagli eventi trascorsi fino a quel momento, la infilai nella serratura e aprii la porta.
La casa puzzava di vecchio, polvere e aria viziata. Fui sollevata di notare che ogni cosa era al suo posto.
Ripercorsi l'appartamento a piccoli passi, rivivendo tutte le scene del passato a me care.
Quasi senza accorgermene, arrivai davanti alla porta della camera di mio padre, rimasta chiusa dal giorno della sua morte. Sin da piccola non mi ero mai permessa di entrare in quella stanza, e farlo tuttora mi sembrava una cosa sbagliata. Ma le carte andavano scoperte e dovevo sapere di più su di me e sul siero che scorre nelle mie vene.
Poggiai delicatamente la mano sulla maniglia, abbassandola lentamente e spingendo la porta.
Il profumo rimasto dentro la camera mi inondò le narici portando la mia vista ad offuscarsi per le lacrime. Presi un grosso respiro e vi entrai.
C'era polvere ovunque, specialmente sulla vecchia libreria riposta al lato del letto. Sul comodino vi era un vecchio diario sgualcito: lo aprii e notai che più pagine vi erano strappate per poi ritrovarle spiegazzate alla fine della rubrica.
Sulle prime pagine c'erano scritte le varie formule probabilmente riguardanti il siero, e sulle ultime strappate quelle che dovevano essere le statistiche effettive.
I primi tentativi erano tutti errati, fino agli ultimi tre in cui citava: "Q: Incompleto; R: incompleto" e poi... "siero S: completo!"
Era riuscito a non terminare le lettere dell'alfabeto per accettarsi che tutto fosse al suo posto. Scossi la testa divertita. Poi un dubbio assalì la mia mente. Incompleto.
Quale siero avrà deciso di somministrare a me? Era tra questi? Ma soprattutto, quale avrà somministrato a Steve?
Chiusi tutto e decisi di portare il vecchio libricino con me, riponendolo nella tasca interna del giaccone.
Prossimo obiettivo: Howard Stark.
Prima di recarmi alla base del "geniale inventore", attesi la notte e nel frattempo approfittai per ripulirmi e farmi un bel bagno caldo.
Indossai uno dei miei vecchi abiti che ormai andava largo in alcuni punti, senza però sminuire la mia figura.
Mi ritrovai a ripercorrere quel sentiero 'nascosto' quasi a occhi chiusi, ricordandomi dell'ultima volta in cui misi piede qui. Il cuore si strinse in una morsa al sol pensiero di Steve.
Mi appostai dietro a un cespuglio per analizzare i movimenti della guardi a che vi era di turno fuori al luogo e, dopo esser riuscita a raggirarla, entrai nel laboratorio.
Mi tolsi la parrucca per tornare, soltanto per un attimo, nei panni della vecchia Elizabeth.
Come previsto, la porta dello studio di Howard era socchiusa e lasciava fuoriuscire un raggio di luce che mi fece captare la sua presenza. Dopo essermi accertata che non ci fosse nessun'altro con lui all'interno, bussai alla porta ed entrai senza attendere risposta.
Stark era seduto sulla sua comoda poltrona pieghevole, con i piedi poggiati sul tavolo, a rigirarsi tra le mani un bicchiere di vino. Quando il suo sguardo sorpreso si posò su di me non esitò ad alzarsi e venirmi ad abbracciare.

- Oh tesoro, dov'eri finita? Mi sono chiesto per giorni dove fossi, ero così preoccupato - si staccò dal lungo abbraccio e mi esaminò con attenzione.

Ero felice anch'io di rivederlo, ma questa sua preoccupazione mi mise non poco in imbarazzo.

- Ti trovo splendida, vieni qua - mi prese gentilmente per mano costringendomi a fare una giravolta sul posto, per poi avvicinarsi pericolosamente a me tenendomi saldamente per la vita.

- Cielo Stark, non dirmi che hai bevuto - il suo naso era a un pelo dal mio e il suo alito puzzava palesemente d'alcool.

- Solo qualche bicchiere, niente di che.

Lo scostai non troppo bruscamente da me e mi avvicinai alla scrivania dov'era riposta la bottiglia di vino da litro, vuota.

- Qualche??! Dimmi Stark, per caso questo bicchiere è un calice che possa contenere un litro di vino?

- Probabile. E se non esiste dovrebbero inventarlo. Anzi! - alzò il dito come ad aver avuto un'idea geniale - sarò proprio io a farlo. Sarà la mia prossima invenzione.

- Certo, che ti spedirà dritto tra gli imprenditori falliti.

Sospirai esasperata dopo essersi avvicinato nuovamente a me.

- Dio mio, Howard. Avevo bisogno di te, sobrio.

- E io in questo momento avrei bisogno di te, ubriaca.

- Sai bene che non accadrà mai.

- Potresti almeno far finta.

- Andare a letto con te è l'ultima cosa che voglio, Stark. Tornerò domani sera, ho bisogno di parlarti urgentemente e non ho molto tempo da perdere. Ti prego di farti trovare presentabile.

- Mi porti a cena fuori, mamma?

- E' proprio di una madre che avresti bisogno ora, Stark. - lo feci adagiare sul divano e lo coprii con il suo cappotto grigio topo. - riposati e riprendi le forze, avremo tanto da dirci domani.

- Non vedo l'ora - sbiascicò prima di crollare tra le braccia di Morfeo.

Ancora una volta non avevo ottenuto niente, ma sapevo di essere vicina a scoprire la verità.

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Capitolo 12
*** La verità ***


LA VERITA'


Ero di nuovo lì, nel suo ufficio spopolato a differenza del laboratorio in pieno movimento.
Ero di nuovo lì, a braccia conserte, in piedi di fianco a un Howard ancora abbandonato al sonno dopo una serata da sbronzo.
Cominciai a sbuffare e battere nervosamente il piede a terra.
Beato lui che riesce a dormire così tanto. In alcuni casi, come questi, un po' mi mancava la mia normalità, il riuscire a ubriacarsi e così dimenticarsi le cose per un po', oppure poter dormire così tanto senza pensieri.
Alzai gli occhi al cielo e, stufa, mi decisi a svegliarlo primo scuotendolo dolcemente e poi lasciandolo cadere letteralmente dal divano.
Si rimise in piedi in un attimo, come se avesse sognato di cadere da un grattacielo di 30 piani e di morire schiacciato a terra.

- C-COSA, COSA E' SUCCESSO?! S-SONO QUI - biascicò con uno sguardo allarmato girando più volte su se stesso per accertarsi che fosse tutto ok.

Lo guardai divertita con un sopracciglio inarcato.

- Terra chiama Howard. Sono io, ti ricordi di me?

- Elizabeth sì, ciao. T-tu... - disse indicando prima me poi il divano - c-cosa ci fai qui?

- Non ricordi proprio nulla?

- Mmh no. Da quanto sei qui?

- Non molto, ma sono ritornata.

- Ritornata è vero! Sono così contento di vederti dopo tanto, fatti abbracciare - disse venendomi incontro con i suoi vestiti impregnati ancora d'alcool.

- L'hai detto anche ieri.

- Ieri? Non ricordo di averti vista. Ahia! - esclamò portandosi una mano alla testa. Gli indicai la bottiglia riposta di fianco al divano.

- Ah, ora capisco. Beh, non mi resta che chiederti scusa qualsiasi cosa io abbia fatto.

- Nulla per fortuna, sai che posso essere sobria per entrambi.

- Già, che fortuna! - mormorò sarcastico.

- Che ore sono? - chiese.

- Le otto di mattina.

- E cosa ci fai qui? Come hai fatto a tornare?

- In un laboratorio pieno di uomini, scherzi? Non credi sia scortese far aspettare una donna fuori? Che razza di gentiluomo sei, Stark? - lo canzonai divertita.

- E' chiaro che non ti ci è voluto molto, ovviamente - affermò dopo avermi osservata in rassegna.

- Cosa posso fare per te?

- Spero tanto. Sai già di cosa dobbiamo parlare, vero?

- Fammi indovinare: il siero - prese nuovamente posto sulla poltrona dietro alla sua scrivania.

- Ti prego, non mi dirmi che resti così.

- Così come? - mi domandò sorpreso guardandomi con gli occhi da pesce lesso.

- Howard, detto francamente tra noi... puzzi.

Fece per odorarsi l'ascella ma si allontanò disgustato.

- Caspita, hai ragione. Che imbarazzo.

- Nessun problema. Inoltre sono io ad aver irrotto qui dentro senza un effettivo "preavviso". Prenditi il tuo tempo, ci vediamo a casa mia tra un'ora?

- Anche meno. Devo prenderlo come un appuntamento?

- Non sperarci troppo. Ci vediamo.

Spero davvero che rimandare quest'incontro porti a una buona conclusione.




Avevo preparato del thè caldo accompagnato da qualche biscotto comprato alla pasticceria sotto casa.
Howard sarebbe arrivato a momenti.
Non so se questa è la prima volta che Stark metta piede qui dentro, forse è successo ma ero troppo piccola per ricordarlo. D'altronde, era amico di papà, perciò tutto può essere accaduto.
L'idea di essere chiusa dentro queste quattro mura con Howard Stark mi metteva a dir poco imbarazzo, ma devo ricordarmi di essere un super soldato dal sangue freddo e mantenere un comportamento rigido. Beh non troppo, è pur sempre un incontro informale. Credo.

AIUTO!

Scossi la testa cercando di riprendermi.
Non mi è mai capitato di farmi tanti problemi, sono sempre stata piuttosto sfacciata. Mi ha persino vista in intimo, voglio dire! Cosa c'è che non va?
Forse proprio questo... MI HA VISTA IN INTIMO!
Avvampai all'idea, ripensando a tutto il tragitto percorso per arrivare fin qui.
Ma cosa mi è saltato in mente.
E no, non mi pento della scelta presa riguardo al diventare un super soldato, piuttosto come e davanti a chi! Non dovrei essere sorpresa all'atteggiamento sfacciato di Howard nei miei confronti.
Sospirai.
Fu proprio il campanello a destarmi dai miei pensieri: lui era qui.
Mi alzai nervosa dal divano, continuandomi a girare l'anello tra le dita.
Percorsi a testa alta - seppur con un atteggiamento un po' incerto - il salotto per recarmi alla porta. Il tacchetto delle scarpe riecheggiava sul parquet dandomi un senso di donna tutta d'un pezzo.
Presi un bel respiro e gli aprii, offrendogli uno dei miei sorrisi migliori, cercando di apparire il più disinvolta possibile.

- Prego, accomodati.

- Grazie... - rispose incerto guardandomi stranito.

- Tutto ok, Erskine?

- Certo, magnificamente, come sempre.

- Sembri tesa.

- Vorrei ben dire, chi non lo sarebbe nei miei panni.

Fece spallucce - non ti biasimo.

- Ho preparato del thè caldo e qualche biscotto.

- Li hai preparati tu? - mi guardò sorpreso.

Trattenni il respiro colpita dalla domanda. Avrei potuto farlo, che sciocca.

- No, quelli no. Non ho avuto molto tempo, sai.

- Mi sembra ovvio. Da dove vogliamo cominciare?

- Cosa?? - arrossii. Perché quella stupida domanda mi aveva turbata così tanto?

- Hai detto di volermi parlare urgentemente del siero, di non avere molto tempo e bla bla...

- Ah sì. - che sciocca aver pensato male. Scossi la testa divertita, ma assunsi subito un'espressione seria in volto - Ti prego di sederti, ho molto da raccontarti. Roba pensate, in poche parole.

- Sono tutt'orecchie! - esclamò stupito.

Gli raccontai del treno, di James, dell'Hydra, della mia eterna fuga, di Adelle e delle armi letali, del mio breve - ma più lungo degli altri - soggiorno a Londra e di come avevo fatto per tornare qui.

- Mio Dio Beth, deve essere stato orribile per te.

- Una tortura. Ti prego, chiamami Katherine, è più facile per me. Mi aiuta a cambiare, adattarmi e andare avanti...

- Ok. Dunque, cara Katherine Price... sarai per sempre una fuggitiva?

- Vorrei restare qui per un po', o almeno finché posso e l'Hydra non mi scopre.

- Ma come...

- Non lo so, ma ho paura a fare qualsiasi cosa Howard. Sono terrorizzata, non voglio far del male a nessuno, a quest'ora avrei già dovuto rendere libero il mondo intero da questo maledetto virus criminale, ma non ci riesco. - singhiozzai e mi accolse subito tra le sue braccia.

- Non da sola, almeno - proseguii - a proposito di questo, dov'è Steve?

Howard sciolse l'abbraccio guardandomi dritto negli occhi con un sorriso compassionevole.

- Mentre tu eri via, noi qui festeggiavamo per la libertà. O almeno quel che era prima che tu mi dicessi questo. Eravamo liberi, liberi dall'Hydra, e tutto questo grazie a Steve. Lui... si è sacrificato, Kat, e non sappiamo che fine possa aver fatto.

Il mondo mi crollò addosso.

E così avevo perso anche lui.

Prima papà, poi James e infine... Steve.

Cominciai a pensare di avere una sorta di maledizione, qualcosa che mi impedisse di avere accanto a me le persone che amo.

Non ero capace a tenermi stretto nessuno, non ero capace a lottare. Ero un disastro, un completo fallimento.

- Non è colpa tua, se è quello che stai pensando, Katherine - mi carezzò dolcemente il volto col dorso della mano.

Mi scostai ferita - merito di stare da sola. Non voglio far del male anche a te, non voglio che per colpa mia sparisca anche tu.

- Smettila di pensare questo! Non è certo per causa tua che quel pazzo ha sparato tuo padre, che l'Hydra ha catturato James o che Steve abbia deciso di compiere quel gesto eroico. Spettava a lui prendere la giusta decisione e lui soltanto poteva farlo.

Sorrisi amareggiata - sapevo avrebbe fatto la cosa giusta, sono io che continuo a fare cose sbagliate. Ho deciso di essere un super soldato per difendere il mondo al suo fianco, per sorvegliarlo e proteggerlo, per assicurarmi che intraprendesse la giusta via. Ha fatto tutto questo da solo, c'era da aspettarselo.

- Mi chiedeva ogni giorno di te.

- Cosa? - lo guardai sorpresa, con gli occhi ancora lucidi per le lacrime, e per amore.

- Eri sparita Beth, eravamo tutti preoccupati per te ma per un attimo ti abbiamo messo da parte per continuare a lottare e conquistare la libertà.

- Sono contenta, almeno di questo.

Chiusi gli occhi prendendomi un bel respiro - raccontami cosa mi sono persa, raccontami come il mio Steve ha fatto l'eroe, ti prego - sorrisi tristemente.

Annuì cominciando a dirmi del loro piano, di come aveva accompagnato il grande Capitan America sull'ala volante del temibile Teschio Rosso riuscendo a sconfiggerlo e spendendolo il chissà quale universo. Mi raccontò, poi, di come decise di sacrificarsi per evitare migliaia di vittime e dirottare così verso terra il velivolo, schiantandosi nell'Artico.

- Da quel giorno ho attuato estese ricerche lungo la zona, sono riuscito a recuperare il Tesseract ma non lui. Non c'era traccia del nostro eroe.

Portai le mani sul viso esasperata, lasciandomi andare ad un pianto liberatorio.

Mi alzai di lì per andare in bagno, dandomi una rinfresca al viso cercando di riacquistare un bell'aspetto ma soprattutto di riprendermi emotivamente.

Andai poi in cucina per prendermi un bicchiere d'acqua che bevvi tutto d'un sorso e tornai in salotto.

- Ok - sputai sospirando - è tempo di ulteriori ricerche, Stark.

- Cosa? E' tutto inutile tornare lì Beth, fidati di me se ti dico che non c'è traccia del capitano.

- Non quelle ricerche Stark, ma quelle sul siero. Come ti ho già detto non ho molto tempo e... ho cambiato idea, non credo di fermarmi a lungo qui.

- Dove andrai?

- Non lo so ancora - risposi gettando un'occhiata fuori alla finestra - in qualsiasi posto purché sia lontano da qui.

Howard annuì - posso comprenderlo. Cosa vuoi sapere?

- Aspettami un attimo.

Andai in camera a recuperare le pagine stracciate e le portai al geniale inventore che mi attendeva in salotto.

- Ho trovato questi fogli tra gli appunti di mio padre, tu ne sai qualcosa?

Diede loro un'occhiata veloce guardandoli con un'espressione indecifrabile.

- Un solo siero era completo?!

- Già. Ricordi per caso quale mi hai... si ecco, mi hai somministrato, se possiamo così dire.

- Non vorrei sbagliarmi Kat, ma credo tu abbia in circolo il siero O.

- Cosa significa questo?

- Non ne abbiamo la certezza, infondo tuo padre può aver progettato per te un altro tipo di siero, magari abbiamo frainteso quella 'O' per uno zero.

- O magari ti sei rimbecillito, Stark?!

- Mantieni la calma, Miss Soldato. Non abbiamo dati certi.

- Ma abbiamo la camera di mio padre, tu eri un suo amico lavoravi con lui!

- Si ma non mi intendo di scienza, se permetti.

Mi portai le mani tra i capelli scompigliandoli, lanciando in aria un urlo disperato.

- Cos'ha di incompleto questo siero 'O'?!

- Dove hai trovato questi appunti?

- Nel diario di mio padre, di là in camera.

- Posso andare a dare un'occhiata?

- Mai nessuno è entrato in quella stanza, tantomeno io. E farlo dopo tanto tempo... mi ci è voluto un po', ecco.

- Se lo faccio è solo per te Katherine, posso benissimo fare un passo indietro.

- No ti prego! - lo afferrai per un polso con aria terrorizzata - sei l'unico che mi è rimasto, ho bisogno di te e del tuo aiuto. Scusami, prosegui pure.

Fece un cenno del capo e mi superò.

- Vedo che conosci già la strada.

- Non è la prima volta che vengo qui.

- L'avevo immaginato, ma non ricordavo.

- Eri sempre fuori, oppure una giovane fanciulla per aver memoria.

- Avevo intuito. - lo seguii incerta, osservandolo mentre leggeva quel diario malandato.

Aveva lo sguardo concentrato, le fronte corrucciata e le labbra che ripetevano in un sussurro quel che lì sopra c'era scritto.

Lo trovai affascinante per un attimo, prima di ritornare alla realtà.

- Trovato nulla?

- Sembra dire qualcosa come: forza 60%, longevità 90%, velocità 80%, processi mentali e riflessi a buoni livelli, immune a malattie o controlli mentali 55%, processo di rallentamento per l'invecchiamento 92%. Non male tutto sommato! Sembra quasi il siero per l'eterna giovinezza. Ma... oh.

- Cosa? Cosa c'è Stark? Continua, non tenermi così.

- C'è un'informazione di vitale importanza. I-io non credevo...

- DANNAZIONE STARK PARLA!

- Qui dice: il corpo è capace di sopravvivere anche all'ibernazione, in tal caso il siero fa sì che i fluidi corporei non si cristallizzino. In questo modo l'individuo può sopravvivere per decenni senza invecchiare di un giorno. - concluse quasi mormorando.

- Mio padre...

- Era un genio. Pensi anche tu quello che penso io?

- Steve... Dobbiamo trovarlo ad ogni costo.

- Devi.

- Ti prego Howard, ho bisogno di te.

- No. Tu hai bisogno di te stessa. Dimenticati di tutti questi dati e ricordati di una cosa sola: tu sei un super soldato. Non dar retta a tutti i pensieri che ti frullano in testa, pensa a una cosa sola: tuo padre ha fatto si che tu fossi speciale, non sprecare quest'occasione. Dai valore a quel che hai, è il tuo momento per far vedere chi sei.

Gli sorrisi riconoscente - hai ragione - lo abbracciai forte - grazie infinitamente, di tutto.

- Per qualsiasi cosa io ci sono, piccola testolina.

- Lo so. Ci vediamo presto.

- Lo spero davvero.

 

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Capitolo 13
*** Non qui (PARTE 1) ***


Non qui (PARTE 1)


Decisi di trascorrere altri giorni in quella che nel corso degli anni era divenuta la mia città, il mio posto. Diedi una ripulita alla casa sperando di trovare altre informazioni utili.
Avvisai Howard della mia temporanea permanenza la mattina dopo le nostre ricerche.

- Non avevi detto di essere solo di passaggio? Ricordo che premevi affinché ci vedessimo subito, con una certa fretta di andar via. - mi prese in giro rigirandosi tra le mani un bicchiere di whisky. Eravamo ancora una volta nel suo ufficio, l'unico posto in cui mi sentivo realmente al sicuro al mondo, in quel momento.

- Ho cambiato idea, capita, sai - lo canzonai ironica - ho deciso di trovare James per primo. Lui era il mio migliore amico e saper di averlo abbandonato lì non mi permette di vivere serenamente.

- Nemmeno sapere che Steve sta lì ad aspettarti congelato, però.

- No, nemmeno quello - sospirai sedendomi su quel divano sgualcito, lo stesso dove Stark si era addormentato del tutto ubriaco - ma sapere che ha più chance di essere salvato anche fra qualche anno, mi consola. E poi non voglio recuperarlo da sola, ora più che mai ho bisogno di Bucky al mio fianco, di saperlo vivo e non morto o torturato per colpa mia tra le mani dell'Hydra. Non me lo perdonerei mai.

- D'accordo, ho capito. Ti darò una mano.

Prese posto al mio fianco e lo guardai negli occhi, profondamente grata di esserci sempre anche quando la mia richiesta di aiuto non è poi così esplicita.

- Preparerai un piano con me?

- Meglio, lo studieremo a fondo insieme, poi chiederò al comandante dell'esercito di essere scortata fin lì. Ma sia chiaro: vai, prendi Bucky e torni. Non voglio vittime, dovrete tornare tutti sani e salvi. Specialmente tu.

- E se per caso facessi fuori anche la base Hydra? Visto che mi trovo, sai.

- Non voglio che tu corra rischi, Elizabeth - era raro che pronunciasse il mio vero nome, dopo avergli spiegato la mia nuova identità, ma quando lo faceva era sempre capace di farmi venire i brividi - sappiamo che il nemico è spietato, probabilmente ci sta avanti anni luce. Sanno tutto di noi e ci spiano. Potrebbero sapere anche dei nostri piani e cadreste in una loro trappola. Non voglio che riescano a raggirarti e farti di nuovo loro prigioniera, non voglio che ti facciano altro male.

- Lo vidi torturarsi le mani, dopo aver poggiato quel dannato bicchiere di whisky sul mobile accanto al divano, come se stesse combattendo i demoni interiori.

- Dimentichi che sono un super soldato, Howard.

- Lo eri anche l'altra volta, eppure sono riusciti nel loro intento.

- Se fa così potrei pensare che si stia affezionando a me, signor Stark. - lo provocai scherzosamente.

- E se fosse troppo tardi? - mormorò a un palmo dal mio naso, posando delicatamente la sua mano sulla mia schiena, tentando di avvicinarsi a me.

- Ti direi che stai giocando con il fuoco, Howard. - sussurrai.

- Mi piace il rischio.

Il respiro di entrambi si fece pesante, il mio spinto dall'imbarazzo, il suo da un'apparente attrazione verso me.

- Stark... - mormorai.

Fece un colpo di tosse e si allontanò bruscamente, come se si fosse realmente bruciato col fuoco.

- Vedrò di farvi partire domattina stesso. Preparati e... sii prudente.

Annuii riconoscente per poi uscire da lì a passo svelto, cercando di non sembrare la classica ragazza che corre a gambe elevate per la paura, dopo quanto successo.
Sospirai una volta fuori dall'edificio e ripensai a tutto quanto.
Howard Stark...
Non avrei mai pensato potesse diventare una persona fondamentale nella mia vita, ma neanche che potesse mai provare qualcosa per me.
Magari sto esagerando io, devo avermi immaginato tutto e frainteso... Pensai.
Magari.


Come uomo d'onore che mantiene la parola, Stark era riuscito a procurarmi una squadra che mi accompagnasse nel luogo in cui venni rapita e torturata quel poco che basta per rimanerne shockati.

Le coordinate erano approssimate, calcolate in base al mio senso di orientamento e conoscenza del posto da cui ero fuggita qualche mese fa.
Riconobbi subito la montagna dalla quale Bucky cadde rovinosamente, da quel dannato treno dove vidi Steve per l'ultima volta.
Pochi chilometri più in la avremmo dovuto trovare la base dell'Hydra, o almeno quelle erano le nostre speranze. Tutto ciò che vedemmo al nostro arrivo furono soltanto macerie e cenere.
Ogni cosa bruciava, come se quel posto non fosse mai esistito.

Caddi in ginocchio scontrandomi con la neve che ancora una volta attutì l'impatto.

E ancora una volta qualcosa dentro di me si spaccò. Ero destinata all'eterna solitudine, al non riuscire mai a placare quel senso di vuoto che mi divora dentro. L'ennesimo pezzo di puzzle che non ero riuscita ad inserire per completare il quadro generale della mia vita.

Bucky... L'avevo perso, per sempre.

Un soldato si avvicinò a me poggiandomi una mano sulla spalla.

- Andiamo in ritirata, signorina Price?

Alzai la testa verso colui che mi era al fianco, come se mi fossi destata da un'illusione, con una lacrima che mi rigò il viso.

Poi li vidi, vidi tutti loro: soldati convinti di aver sconfitto il nemico mesi prima, certi di essere i vittoriosi di quella guerra. Gli stessi che erano giunti qui per me senza saper nulla della missione, soltanto perché il signor Stark l'aveva ordinato. Immaginai che ognuno di loro avesse una famiglia o un proprio caro da cui tornare, e allora capii che quella non era la loro guerra ma la mia.

- Voi si, andate pure. Scusate se vi ho fatto perdere tempo. Ho un'ultima cosa di cui accertarmi.

- Siamo qui per lei signorina, possiamo far quel che vuole se lei lo chiede. - questi erano gli ordini del grande inventore. Qualsiasi cosa per me, purché io sia al sicuro. Chiusi gli occhi sospirando.

- No grazie, davvero. Aspettatemi sull'elicottero, arriverò subito.

- E' sicura di voler restare sola? Potrebbe essere pericoloso.

- Sicuro. E' una cosa personale.

- Come preferisce, la sorveglieremo dall'alto allora.

Chinai il capo riconoscente e proseguii a passo spedito verso quel luogo ormai dimenticato.

Se fosse l'ennesima soffiata dell'Hydra, se tutto questo non fosse vero allora molti di loro sarebbero già spuntati fuori per assaltarci. Ma ciò non era accaduto.

Ispezionai ogni punto, ogni maceria, ogni pezzo di legno in fumo. Non c'erano resti di attrezzature ma soprattutto non c'erano tracce di corpi bruciati.

Erano segnate, però, impronte di piedi quasi impercettibili, segnate tra la neve, la stessa che col vento e col tempo stava spazzando via la loro presenza.

- Solo l'ennesima fuga... - mormorai.

Forse una speranza c'era, forse Bucky era ancora vivo.


Di ritorno dalla missione, mi diressi ancora una volta nell'ufficio di Stark.

- Howard, io e te dobbiamo parlare.

- Katherine, per favore, possiamo farlo in un contesto diverso da questo? - alzò le braccia come ad indicare l'edificio - magari davanti a una buona cena e un calice di vino, che ne pensi?

- Soltanto se riesci a rimanere sobrio per tutta la serata - lo canzonai incrociando le braccia.

- Per te questo e altro. Affare fatto allora?

- Ti aspetto sotto casa Stark.

- Alle venti in punto. Non farmi attendere.

- E tu non farmi credere di essere un tipo puntuale - risi divertita per poi andare via di lì.

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Capitolo 14
*** Non qui (PARTE 2) ***


Non qui (PARTE 2)

L'ultima volta che diedi una ripulita al mio aspetto, riuscendo in qualche modo a sembrare una donna rispettabile, è ricollegabile a quando Howard mi invitò per la rimpatriata in quel bar dov'era presente anche Steve. Ricordavo come i suoi occhi erano incollati alla figura dell'agente Carter, ma anche di come ero riuscita a strappare quell'ammirazione posandola su di me. Sentii di essere riuscita ad ammaliarlo, ad aprire una piccola brezza nel suo cuore, uno spazio accanto a quello già occupato da Peggy.

Non provavo rancore o rivalità per lei, era una donna coraggiosa a cui bisognava portare molto rispetto. Era intelligente, affascinante, e non mi stupiva sapere che Steve fosse interessato a lei, ma avrei voluto provasse lo stesso guardando me.

Era bastato un giorno soltanto perché io rimanessi affascinata da quel mingherlino di ometto, tutto orgoglio e onore per la patria, ed era stato il giorno più bello della mia vita. Prima che diventasse un super soldato, prima ancora di aver perso tutto ciò.

Avevo ritrovato quel peluche di carpa koi buttato sul letto della mia camera, lì dove l'avevo lasciato l'ultima volta. In quello stesso momento mille ricordi mi avevano riportato a quell'attimo in cui c'eravamo solo io e lui, Elizabeth e Steve.

Guardai malinconica il mio riflesso nello specchio: avevo raccolto la parrucca dai capelli castani in uno chignon lasciando che un ciuffo mi cadesse ribelle di lato agli occhi, il vestito verde scuro con dei bottoncini sul petto mi abbracciava il corpo slanciando la mia figura, valorizzando le mie forme.

Howard bussò alla mia porta sorprendentemente puntale. Andai ad aprirlo speranzosa, confidando in una serata tranquilla dopo tanto tempo.

Lo vidi lì sulla soglia, perfetto nel suo completino, i baffi tirati e i capelli laccati all'insù.

- Ti avevo detto di essere un tipo preciso. - esordì.

Scossi la testa divertita ed accettai il suo braccio come appoggio, chiudendo la porta di casa alle mie spalle.

Eh già, Howard era proprio un uomo dalle mille risorse e mille sorprese!

Aveva prenotato in un locale molto chic di Brooklyn: nulla di troppo estroso, niente di scadente. In poche parole, il posto perfetto. Solo il meglio per Howard Stark, lui poteva permetterselo.

- Ti piace il locale? Ci ho impiegato un po' per scegliere quale fosse quello ideale, magari avresti preferito qualcosa di più informale. - disse prendendo posto di fronte a me, dopo avermi fatto accomodare da vero gentiluomo.

- Stark... - sospirai prendendogli la mano che teneva sul tavolo - è perfetto, davvero.

- Bene. - diede un'occhiata al menù per sciogliere l'imbarazzo - vuoi qualcosa in particolare o ordino per entrambi?

- Va benissimo quello che scegli tu.

- D'accordo.

Nel mentre che il cameriere prese la comanda, potei osservare l'uomo che mi sedeva di fronte con più minuziosità.

Aveva deciso di indossare un papillon grigio - che si aggiustava ripetutamente nei momenti di imbarazzo, ovvero sempre - in contrasto con lo smoking nero. Doveva aver dato una spuntatina ai baffi, confidandogli un aspetto più pulito, perché qualcosa in lui quella sera mi attirò diversamente dal solito. Distolsi immediatamente lo sguardo quando notai che si stava voltando verso di me, notando il cameriere tornare in cucina.

- Immagino che siamo qui per parlarmi della missione, non è così?

Sembrò quasi deluso nel dirlo, come se si aspettasse qualcosa di più da questa serata.

Annuii dando conferma al suo pensiero.

- Non abbiamo trovato nulla. La base dell'Hydra era letteralmente bruciata, polverizzata.

- Come? Non sapevo avessimo alleati che ci precedessero nelle azioni. - esclamò prontamente. Poi però, come se avesse avuto un lampo di genio, sussultò e assunse un triste broncio, a colpevolizzarsi di aver pensato una cosa del genere piuttosto che... - quindi James...

- No, non è morto, o almeno spero. L'ho creduto anch'io dopo ciò che mi si era palesato davanti, ma dubito che sia morto. Nessuno di loro lo è. Ho voluto addentrarmi di più nella zona del crimine, ma non ho trovato nessun corpo bruciato, ne tanto meno la loro attrezzatura. Il tutto, poi, deve essere accaduto pochi attimi prima del nostro arrivo, come se avessero saputo che noi eravamo lì, come...

- Come a voler cancellare ogni prova della loro esistenza, così da farti sembrare una pazza agli occhi di tutti se tu avessi provato a raccontare della tua permanenza lì da loro. - continuò il mio pensiero.

- Loro lo sapevano - sussurrai sorpresa per non esserci arrivata prima. Soltanto in quel momento, dopo aver esposto il tutto ad Howard, mi resi conto della fregatura.

- Loro sanno sempre tutto, Katherine.

La realtà mi colpì come uno schiaffo in pieno viso. Lo stesso cameriere che arrivò in quel momento con i piatti, sussultò nel veder il mio volto sbiancare.

Ringraziai sperando di congedasse all'istante.

Diedi un colpo di tosse ricomponendomi, per poi guardarmi attorno.

- Date le circostanze dei fatti, credo che abbiamo scelto il posto sbagliato per parlare.

Stark passò in rassegna il ristorante con lo sguardo.

- Forse hai ragione, potremmo star rischiando. Ma d'altra parte... non vorrei sembrare inopportuno se ti proponessi di venire a casa mia.

- Siamo già stati una volta da soli da me, Stark. Cosa ti blocca, adesso?

- Non fare la finta tonta con me, Price. - apprezzavo il suo sforzo nel ricordarsi della mia nuova identità - e in qualche modo pensavo avresti toccato questo argomento, sta sera.

- Tempo al tempo, play boy. - lo provocai, cercando di alleggerire l'atmosfera e cambiar tono della serata.

- Vedo che non ti sfugge nulla, soldato.

Sorrisi maliziosa e continuai a mangiare.

Imprevedibilmente, o quasi, finimmo in conclusione a casa di Howard.

- E quindi questa è casa tua. Credevo vivessi nel tuo studio - lo presi in giro.

- Invece no, vivo in questo modesto appartamento. Benvenuta a casa mia, Katherine. Non era come avevo immaginato, ma... va bene anche così.

Risi imbarazzata - credi cambi qualcosa qui rispetto al ristorante? Non ero mai venuta qui prima d'ora.

- Non ne abbiamo avuto modo, e poi puoi star tranquilla, stiamo parlando dell'appartamento di un genio inventore, abbastanza ricco e importante da non potersi permettere una svista riguardo la sicurezza.

Annuii auto-convincendomi con quel suo discorso.

- E poi - continuò - non dimentichiamoci della tua nuova identità, sarà difficile trovare la vecchia Elisabeth se è morta.

- E' quello che vorrei far credere a tutti, ma dubito ci metteranno così tanto a capirlo. Anzi, credo l'abbiano già fatto, probabilmente saranno sulle mie tracce.

- Non essere così pessimista - tentò di ironizzare prendendo due bicchieri dalla credenza e versandoci dentro del whisky.

- Stark... - lo rimproverai - mi avevi promesso di rimanere sobrio per tutta la serata e, novità delle novità, non è ancora finita. Non puoi rimanere sobrio un altro po'?

- Stai sottovalutando la mia resistenza, tesoro? - allargò le braccia con fare modesto - Allora, ne vuoi uno? - chiese indicandò il bicchiere.

- D'accordo, tanto vinco io - dissi in riferimento alla sfida 'resistenza'.

Sospirai e mi gettai sul divano. Subito dopo l'unica altra persona con me in quella stanza prese posto al mio fianco offrendomi da bere. Buttai giù tutto d'un sorso, sentendo l'alcool bruciarmi la gola.

- Così non vale, tu non sarai mai abbastanza ubriaca per... - si lamentò scherzosamente.

- Per?

- Lascia perdere. Dicevamo?

- Che sarebbe meglio se io finissi in qualche luogo disperso del mondo, lontano da qualsiasi cosa, in modo che nessuno possa rintracciarmi. Anche solo stare al mio fianco comporta un grosso rischio, Stark.

- Sono un amante del pericolo, non lo sapevi? Eppure mi pare di avertelo già detto.

- Non scherzare, è una cosa seria.

- Anch'io sono serio, e non pensavo mai sarebbe accaduto, ma è successo. Non so bene cosa sia, ma ce l'ho dentro. - prese una pausa guardandosi attorno, cercando di elaborare tutto, di trovare un modo consono per parlarmi - se dovessero chiedermi com'è successo non saprei rispondere. Quando? Non lo so, non so nulla. Potrei dire così all'improvviso, oppure da tutta la vita. Tu credi di essere fragile, Elisabeth, ma io vedo soltanto una ragazza matura ormai, una donna a tutti gli effetti, sensibile, forte, coraggiosa. Ti mischi nel pericolo senza pensarci, fai le cose come se fossero di una innata naturalezza, dai il giusto equilibrio alle cose e, anche se sembri essere precipitosa, io credo tu sappia sempre quello che fai, come se ogni cosa fosse calcolata.

Sorrisi amareggiata, cercando di vedermi con i suoi occhi, gli occhi di un uomo probabilmente innamorato.

- E poi - continuò - sei simpatica e intraprendente, al tuo posto credo che in pochi avrebbero accettato un rischio simile come quello di diventare un super soldato. E quando l'hai fatto... eri spoglia davanti a me, a darmi la tua fiducia senza alcun timore. Forse è lì che è cominciato tutto. E no ti prego, non vedermi come il classico playboy, perché ora più che mai sono certo che non si tratti di questo.

Sospirai chinando il capo verso il bicchiere ormai vuoto, consapevole che prima o poi Howard sarebbe scoppiato come un ordigno inesploso.

- Howard... - cominciai sperando di trovare le parole. Adesso toccava a me. - tu sei il grande Howard Stark, il più grande inventore di tutti i tempi. Eri grande amico di mio padre e ora il mio, mi sei stato vicino sin da subito. Ammiro tutto quello che fai e, credimi, vorrei davvero potermi considerare così come fai tu, ma io non sono questa. Non sono perfetta come mi vedi, tutt'altro. Sono sbagliata e complessa, e sono certa che non meriti una come me. Sono una che l'Hydra vuole avere per i suoi esperimenti e poi buttarmi via, come si fa con un sacco dell'immondizia, disposta a sacrificare qualsiasi cosa pur di avermi. Non oso immaginare cosa potrebbero farti se sapessero che tu più di tutti mi conosci, ma sei l'unica persona che mi è rimasta Howard, non voglio perdere anche te. Perciò, a malincuore, devo dirti che - presi un lungo respiro - è meglio finire questa cosa ancor prima che inizi.

- Hai già deciso di vivere così per sempre? Fuggendo e privandoti di ogni cosa?

- Vedi alternative? - alzai il capo guardandolo negli occhi, percependo la sua confusione, il suo tormento, l'insicurezza. Non l'avevo mai visto così prima.

- Hai già una nuova identità, Elizabeth - disse prendendomi le mani tra le sue e pronunciando quel nome a cui già non ero più abituata a sentire - potresti ricominciare da zero, farti una nuova vita.

- Non posso fin quando non saprò che l'Hydra sarà morta per sempre, fin quando non avrò ritrovato James e Steve.

Si alzò dal divano, frustato. Raggiunse la finestra guardando fuori con lo sguardo assorto.

- Pensi sempre a loro, non è così?

- Non posso farne a meno. Ho deciso io di diventare così, loro erano una mia responsabilità.

- Non puoi caricarti il peso di tutto il mondo sulle spalle da sola, cazzo! - imprecò sbattendo un pugno contro il muro.

- Howard... - lo richiamai con voce amara.

- No, non chiamarmi così. Non posso sopportarlo.

- Non voglio farti del male Stark, ma...

- Il tuo posto non è qui, e non vicino a me. Tu ami Steve, lo so.

- Ti prego, non fare così. Non posso perderti.

Sospirò, ritrovando il coraggio di girarsi e guardarmi negli occhi.

- Non accadrà, sai bene che sarò sempre qui per qualsiasi cosa.

Camminai verso di lui, precipitandomi ad abbracciarlo.

- A proposito di questo... - continuò staccandosi da me. Fece un giro su se stesso guardandosi attorno, come a cercare qualcosa.

- Ma dove l'ho messo? - domandò a bassa voce. Poi sparì per un attimo dalla stanza tornando con una scatola tra le mani.

Lo guardai con aria interrogativa.

- Probabilmente avrei dovuto farlo prima e mi sento stupido a non averci pensato da subito, ma credo potranno esserti utili - aprì il pacco mostrando due bracciali di acciaio.

- No, non è semplice acciaio se è quel che stai pensando. E' vibranio, lo stesso materiale di cui era composto lo scudo di Steve. Non sono così pesanti come può sembrare, al contrario sono piuttosto leggeri e sono certo ti serviranno a salvarti la vita qualche volta.

- Howard non so come ringraziarti.

- Vorrei che rimanessi qui ma ho capito di non dover insistere, sei piuttosto irremovibile, per cui un semplice grazie va bene. E' un materiale raro, non chiedermi come abbia fatto ad averlo.

- Li hai realizzati per me?

- E per chi altri sennò? Buona avventura piccola testarda.

Lo strinsi ancora una volta a me, più forte che mai.

- Grazie per ogni cosa. - gli diedi un bacio sulla guancia e uscii di lì.

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