Le Corde del Cuore #1 Efp Series

di kissenlove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***




























 
A mio padre, a cui dedico ogni pezzo di questa storia












 
Le Corde Del Cuore
Tutti i diritti riservati all'autrice







Era diventata la sua casa, se così si poteva definire una camera di degenza. La 130, per la precisione. Vicino alle scale dove da due anni vedeva scorrere quella vita frenetica, normale, che lei viveva solo in parte. Aveva chiuso in un cassetto il suo sogno di tornare a giocare a lacrosse 1 
Era stata attaccante, e in seguito, anche capitano ma aveva dovuto rinunciarvi a causa delle cure. Il suo corpo non riusciva a reggere i ritmi incalzanti degli allenamenti, e per evitare infezioni era stata ricoverata per un lungo periodo. 
Non potendo uscire all'aperto godeva del calore della luce dalla finestra quasi sempre chiusa. Passava le giornate ad annoiarsi, a gironzolare per il reparto e a chiacchierare ore intere con Megy, l'unica amica e contatto che aveva mantenuto con il mondo esterno, suo nemico. Perché ogni cosa poteva nuocerle e ostacolare la sua guarigione, anche se era da tempo che aveva smesso di crederci.
Megan le faceva spesso visita e le raccontava tutto quello che capitava a scuola, fra quei banchi, che Lauren faceva fatica a ricordare. Mai avrebbe pensato che le sarebbe mancato studiare e andare alle interrogazioni. Non era mai stata una cima a scuola, collezionava solo figuracce e brutti voti. Lauren non era perfetta, aveva tanti difetti, uno di questi era dare tutto e troppo velocemente correndo il rischio di essere delusa. Ma lei era così, aveva il cuore di pastafrolla e il sorriso pronto a spuntare in qualsiasi momento, anche dopo una giornata storta. C'era sempre per gli altri ma mai per sé stessa, e questo la sua amica glielo ricordava sempre. Non poteva però cambiare a diciassette anni suonati e diventare di colpo una persona egoista e spregiudicata. Non era nelle sue corde un simile atteggiamento, era per questo che Dio non le aveva risparmiato la leucemia.
Detta così, faceva paura.
Molta. 
Il male estremo le scorreva nelle vene, la stava divorando, e non voleva dirlo, ma se ne sarebbe andata prima o poi. Perché questo non risparmiava nessuno e la guarigione era come uno spiraglio sottilissimo di luce che vedeva allontanarsi. L'oscurità le strisciava attorno. Si era presa la sua quotidinanità, la sua forza, e presto anche quei capelli color cioccolato che adorava le sarebbero caduti. Forse avrebbe rotto lo specchio nel guardarsi. 
Un mostro divorato da uno più forte, agonia dopo agonia... ma non avrebbe smesso di credere che dopo la pioggia ci sarebbe stato ad attenderla un bellissimo arcobaleno. E lei ci credeva, eccome. Non era la protagonista di una storia a lieto fine. Non aspettava un principe che la salvasse dalle fauci di un drago. Aveva sempre camminato da sola nascondendosi da tutto e tutti, come se fosse stata già un fantasma prima ancora del triste epilogo. Non cercava quelle mani sicuri e forti che l'avrebbero sorretta e messa in piedi. A quel punto della sua vita l'unica cosa che le importava era rendere l'addio il meno doloroso posibile alle persone che amava e che avrebbe amato per sempre.
Non aveva stilato nessuna lista. Voleva andarsene nel punto esatto in cui si era fermata, celando in un angolo remoto della sua testa tutti i suoi desideri. Il presente però era lì, nella sua camera, e al futuro non voleva pensarci. Anche se era convinta non ci sarebbe mai stato. 
Dopo aver mangiato un disgustoso brodo di pollo si mise nel letto a leggere una rivista. Sulla parete, proprio sopra la sua testa, aveva attaccato le mille foto che le ricordavano la sua vita passata. Erano foto fatte con ancora addosso la maglia numero sette e insieme alle sue compagne di squadra, che le si stringevano attorno felici per la vittoria. Ricordava quegli istanti, trattenendo a stento le lacrime, ed ancor di più il momento in cui levò al cielo la coppa. Era davvero felice di aver raggiunto quel risultato dopo anni di allenamento. Aveva segnato il traguardo più importante e si era divertita, al punto che non l'aveva mai sfiorata il presentimento che tutto potesse finire, così, e che non avrebbe più potuto stringere la sua amata mazza. Avrebbe dato qualsiasi cosa per farlo, solo un'altra volta. Solo così avrebbe smesso di darsi della fantasma.
Forse, avrebbe potuto chiedere a Megan di giocare una partita fra di loro vicino a fiume, ma lei era peggio dei medici. 
Eppure le piaceva la sua compagnia, era l'unica persona oltre la sua famiglia che la stava accompagnando nel suo calvario. Si prendeva cura di lei, più di una madre, la faceva ridere e, sopratutto, non la trattava da malata. E Lauren questo l'aveva sempre apprezzato, nonostante fosse questa la sua condizione. 
Era malata terminale, cosa che si poteva benissimo notare dal colorito pallido della sua pelle. 
Poteva essere scambiata per il vampiro Edward nella sua versione femminile. Megan scherzava anche su questo, paragonandosi a Bella. Era brava a sdramatizzare, per questo Lauren l'adorava a tal punto da desiderarla come sorella.
Anche lei giocava nella sua squadra, con la maglia 8 nel ruolo di difensore, e dopo il suo abbandono Lauren l'aveva pregata di prendere il suo posto. Dopo la scoperta della malattia aveva dovuto sottoporsi subito alla cura, se voleva evitare che il male mettesse radici, e così la squadra si era trovata senza una guida alla vigilia di un campionato. 
La ragazza si sentì in colpa e pregò Megy di farle questo favore, cosa che fece, ricordandole che sarebbe stato per poco. Lauren l'abbracciò e si rese conto della straordinaria persona su cui avrebbe potuto sempre contare. 
Alzò gli occhi verso quel mappamondo di scatti e li sfiorò uno ad uno con la punta delle dita. Sentiva fluire una sorta di energia positiva quando pensava che poteva farcela, poteva distruggere quel male e riprendere a vivere. Ma era utopia. La leucemia era lì e non se nè sarebbe andata così facilmente, neanche con tutti i medicinali. E di questo né era convinta. 
Mentre era immersa nei suoi pensieri, dal corridoio udì la voce della sua amaca, i suoi passi energici e vitali, e non si sbagliò quando la vide spalancare la porta. Aveva un sorriso a trentadue denti che faceva contrasto con quel posto bianco e asettico. Salutò brevemente un infermiere che passava di lì per il solito giro, poi chiuse la porta e si fiondò contro il suo letto. 
"Buongiorno, Lauren!" 
"Giorno anche a te, Megy." rispose l'altra, sollevando un sopracciglio e mettendosi seduta al centro del lettino.
La compagna dopo essersi liberata della borsa prese posto sulla sedia di fianco e prese una confezione di yogurt alla pesca, portati quella stessa mattina dalla madre di Lauren. Prese un cucchiaio e cominciò a mangiarlo, sporcandosi il mento sotto lo sguardo divertito della mora. 
"Cosa fai? Quello yogurt è mio!" protestò Lauren. 
"Beh, è squisito." le fece un occhiolino agitandole contro il naso il cucchiaio. "Devi dire a tua madre di portarne altri."
"Certo, così te li mangi tutti tu, dico bene?" replicò, poi alzò gli occhi contro il soffitto incrociando le braccia al petto in una finta posa offesa. 
"Sai.." - iniziò a dire l'altra finendo quella roba, per poi appoggiare la scatolina vuota sul comodino. "Ho sentito che forse ti dimetteranno. Finalmente te ne andrai via da questo posto."
"Come? Ma chi te l'ha detto?" indagò prontamente Lauren a occhi sgranati.
"Non me l'ha detto nessuno. L'ho sentito con queste stesse orecchie..." 
Lauren non riusciva a credere a quelle parole che le suonavano così belle. Le mancava casa sua, l'odore di vernice, i suoi mille peluche a forma di animale, i suoi poster, la sua amata chitarra. Almeno lì non sentiva il suono continuo dei campanelli di emergenza o le rotelle delle barelle quando dovevano spostare qualche paziente. A furia di stare lì dentro però si era fatta piacere anche quella stanza che aveva riempito in qualche modo di sè. Le piaceva lasciare una piccola traccia in qualunque posto andasse. Se avesse potuto avrebbe preso un aereo per andare dovunque il cuore la portasse. C'erano ancora tanti posti che Lauren Castle avrebbe voluto esplorare, o che si limitava a sognare tramite cartoline. Posti sconfinati in un angolo remoto della terra che solo a lei, patita di avventure fin da bambina, potevano piacere. Ma aveva promesso di starsene buona fin quando la malattia non fosse regredita un po', tanto da permetterle di non rischiare una banale influenza, che per una persona sana non era nulla, mentre per lei poteva esserle fatale e condurla alla morte.
Non aveva difese immunitarie per affrontare il mondo esterno, era un pezzo di cristallo che al minino urto andava a pezzi.
"Ho già pensato a cosa faremo quando uscirai..." le disse Megy. 
"A cosa hai pensato?" sospirò Lauren.
"Andare al cinema, cara. Non c'è niente di meglio di un bel film!" esclamò raggiante. Prese il cellulare scorrendo velocemente sul display. Lauren pensò alle cose che poteva fare, e il cinema non era fra queste. Non poteva andare nei luoghi affollati e pieni di germi, ma Megan quando si metteva in testa una cosa la faceva. 
"Cosa ti dice Il Sole a Mezzanotte?" detto questo, le mostrò una bellissima locandina dal sito dell'HappyMaxi Cinema. Sembrava da fuori la classica storia d'amore di turno, l'incontro che cambierà tutto e segnerà una svolta o la fine che dirsi voglia. 
"Bello..." si limitò a dire, osservando i due ragazzi con un pizzico di invidia.
Una cosa così non le sarebbe mai successa.
"Bello?" ripetè l'amica. "Semplicemente stupendo, dovresti dire. Ho già visto il trailer e ti assicuro che sarà un successo nelle sale a marzo. E poi la protagonista, Katie, ti somiglia decisamente."
Lauren inarcò un sopracciglio. 
"Ha la tua stessa passione per la chitarra e scrive canzoni, per esempio.
"Non scrivo canzoni, solo insignificanti pezzi." le ricordò Lauren, girandosi brevemente verso il suo diario poggiato sul comodino assieme alla bottiglietta di acqua. 
"Pensala come vuoi Lauren Castle, ma io non conosco nessuna ragazza in tutta Dublino che sappia suonare e cantare come te. Nessuna!" Lauren stava per aprire bocca, ma Megan la interruppe con un gesto frettoloso della mano.
"Alt, fammi finire."
La ragazza alzò le mani in segno di resa. 
"Non c'entra che tu abbia o non abbia una malattia, niente ti può impedire di fare ciò che vuoi. Quindi, apri bene le orecchie Lauren. Io e te andremo al cinema a vedere questo benedetto film!"
Lauren sbuffò. Era impossibile farle cambiare idea. 
"Sei impossibile."
"Sei tu che ti sei adagiata sulla malattia." affermò sicura Megy, mettendosi il cuscino sulle ginocchia per poi appoggiarvi sopra i gomiti. "Nonostante tutto, la tua vita continua e non devi sprecarla."
Lauren la guardò di sottecchi, riflettendo per un attimo. Poi mormorò. "Sembri mio padre..." 
"Lauren... - Megy si drizzò e prese quelle mani fragili e fredde fra le sue - ti voglio tanto bene, davvero."
"Anch'io, Megy. Non sai quanto..." si strinsero in un piccolo abbraccio. 
Un abbraccio che valeva più della valanga di parole che avrebbero voluto dirsi. 
Non appena si staccarono Megan si asciugò velocemente le lacrime con la manica della maglia e tornò seduta. Pur essendo, lei, una persona di polso si scioglieva di fronte a quegli occhi trasparenti, a cui non poteva nascondere niente.
La ragazza seduta nel letto, il capitano che l'aveva fatta sudare più di sette camicie sotto il sole, la sua migliore amica impegnata in quell'ardua battaglia. Davanti al suo sguardo spento riaffiorava quella fottuta paura di perderla.
Megy non sapeva quanto tempo le rimaneva ancora, se e quando la malattia se la sarebbe portata via. Aveva paura di parlare di futuro, desiderava tanto che il tempo si fermasse in quella stanza, mentre le loro mani si tenevano forti, ma era impossibile. Il tempo scorreva ed il sole sorgeva con la stessa monotonia con cui calava, portandosi via un pezzetto della sua anima così come la malattia si divorava Lauren. Ma Megy voleva essere forte, essere la spalla amica di cui la ragazza aveva tanto bisogno. Solo che non sapeva bene cosa fare per non farsi seppellire dall'angoscia e i brutti pensieri.
"Megy, a cosa pensi?" fu Lauren a distoglierla dai suoi pensieri, spostando le lenzuola per mettere i piedi a terra. 
Si alzò di scatto pronta per offrirle un appoggio. Lauren rifiutò e si mise in piedi da sola.
"Allora?" le ripetè, fissandola dritta negli occhi. 
Megy abbassò il volto. "Nulla."
Lauren lasciò correre e prese la vestaglia per non prendere freddo, sotto lo sguardo incerto della sua amica. 
"Ti va di andare a fare un giretto?"
Megy corrugò la fronte. "E i dottori cosa dicono?"
"Non sono agli arresti." ironizzò la ragazza, aprendo la porta seguita a ruota da Megy.
Fecero un breve giro del reparto, in cui erano ricoverati malati gravi e meno gravi, ma tutti avevano un cancro. Quando si stancarono decisero di sedersi nella sala d'aspetto. Megan comprò un pacchetto di patatine, e Lauren rise per la sua ingordigia che le faceva ingurgitare ogni cosa come se non mangiasse da secoli. 
"Ne vuoi?"
"No. Non posso mangiarle."
"Cosa puoi mangiare, Lauren?"
"Solo disgustose, pappine."
"Che schifo questa malattia!" commentò Megan, facendo increspare un lieve sorriso alla ragazza che le sedeva accanto. I primi tempi era stato diffile rinunciare alle cose che faceva prima. Un colpo troppo duro per un adolescente piena di vita, come sempre era stata Lauren. Ora si sentiva prigioniera della sua malattia. La leucemia rovinava tutti i suoi momenti più belli, e lei provava ribrezzo anche solo sentirla nominare dai medici. Poi ci aveva fatto l'abitudine, col passare degli anni. Come avere una macchia di vernice nera addosso che non si toglieva con nessun detersivo. Era da due anni che aveva scoperto di esserne affetta, e la sua battagia non era ancora finita. Non aveva scritto la parola "fine". Era ancora al centro del ring a tirare pugni e riceverli. 
In silenzio, si misero a guardare la televisione che stava trasmettendo una partita di calcio, commentando le mosse dei vari giocatori, che si muovevano a comando sul campo. La squadrà bianca segnò un goal all'ottantesimo minuto, ed appena il cronista ne annunciò il nome Lauren ebbe un tuffo al cuore, come ricadere nel vuoto mentre stai dormendo.
Adam Clark.
La telecamera zummò su di lui mentre sollevava il braccio muscoloso verso il cielo. Il cronista mandò in onda il replay in slow motion, poi tornò velocemente al gioco. 
"Hai visto che goal!" esclamò Megy. "Adam è sempre il più forte in campo."
Lauren annuì. "Vinceranno anche stavolta."
"Sicuro. Nessuno può battere Adam Clark. Quel ragazzo è una promessa del pallone."
Lauren fece spallucce, ignorando il resto della partita, e si alzò per tornare dentro prima che chiudessero la porta.
"Lauren dove vai?!"
Si voltò. "Sono un po' stanca. Ti dispiace se torniamo in camera?"
Megy le si affiancò subito afferrandole il braccio per accompagnarla. Si rimise nel letto, con Megy sempre al suo fianco, e aspettò che quel pomeriggio passasse come tutti gli altri. 

Verso le sette mezza un'infermiera passò di camera in camera ad avvisare che l'orario delle visite era finito. Megy era dispiaciuta di dover lasciare Lauren da sola, ma capiva che la ragazza avrebbe dovuto riposare. Prese la borsa e, prima di andarsene, le lasciò un bacio sulla guancia. 

Dopo aver mangiato un'altra disgustosa pasta e fatto gli ultimi lavaggi di vitamine Lauren si preparò per dormire. Non si aspettava altre visite, aveva già inviato un messaggio a sua madre dandole la buonanotte e chiesto se in famiglia andasse tutto per il meglio, e lei rispose che poteva stare tranquilla. A un certo punto, la porta si spalancò e il dottor Tognetti, il medico che si stava occupando del suo caso, entrò rivolgendole un sorriso cordiale. Lauren si tirò a sedere e gli sorrise, a sua volta.L'uomo aveva tra le mani il suo refarto e tutti gli esami dei mesi scorsi e la sua faccia diventò seria in un colpo.
Lauren conosceva quello sguardo. Deglutì, stringendo nei pugni chiusi le lenzuola e pregò fossero delle buone notizie.
Il dottore si tolse gli occhiali e lì lasciò ricadere sul petto. "Come stai, Lauren?"
"Bene, dottore." disse, o meglio, sussurrò.
"Ho già parlato con i tuoi familiari. Abbiamo deciso che non c'è più bisogno che resti in ospedale."
"Da-davvero? Posso andare a casa?" chiese, sul punto di scoppiare a piangere.
"Sì." confermò il dottore, e Lauren avrebbe voluto salire sul terrazzo e gridare a tutto il mondo la sua immensa felicità. "Però devi tornare in day ospital la settimana prossima per il ciclo di chemioterapia."
Il sorriso della ragazza si affievolì sempre di più nel ricordo gli effetti devastanti dei primi. Si era sentita un relitto per molti giorni, senza alcuna voglia di parlare, apriva la bocca solo per dare di stomaco nella bacinella.
Il dottore, notato la reazione della ragazza, le pose la grande mano sulla spalla scuotendola.
"Lauren non mollare proprio ora. Ce la faremo, insieme."
La ragazza alzò il viso, incrociando quello del medico, tremando leggermente.
"L-lo so dottore, ma sono stanca. Sto lottando da due anni e non ce la faccio più a tenere duro."
"Non sei la prima persona che sento parlare in questo modo."
Lauren sospirò, abbassando il volto sulle lenzuola e strinse di più i pugni come a darsi coraggio.
"Non è facile questa battaglia. Ma lo devi a te stessa, al futuro che ti aspetta, e alla tua famiglia..."
"Che futuro... posso avere, dottore? Ho un male che potrebbe portarmi via anche domani, o tra una settimana..."
"Lauren, fai bene a sfogarti. Ma non devi dimenticare che le pillole che prendi lo stanno tenendo a bada, quindi abbiamo una possibilità. C'è una minima speranza, ma c'è... e tu devi essere forte e superarla."
Lauren rimase in silenzio a riflettere su quelle parole. Il dottore non attese la sua replica e continuò, sfogliando la sua cartella clinica." La leucemia sta regredendo lentamente. Se andiamo di questo passo potrebbero esserci buone probabilità di non fare altri cicli e continuare solo con le pillole. La cosa positiva è che nel tuo ambiente domestico ti sentirai più a tuo agio e l'affronterai meglio. Inoltre i valori bianchi stanno scendendo..."
"Quando potrò andare via?"
"Lunedì, perciò riposa il più possibile e non andare in giro come tuo solito." le strizzò un occhio, e lei arrossì.
"Va bene. Le prometto che farò la brava."
"Ottimo. Ti auguro buona notte."
Il dottore uscì lasciandola a riposare e pensare che tra due avrebbe dormito nel suo letto, riabbracciando quella realtà che credeva scomparsa.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***





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IN OGNI ATTIMO
– capitulo 2 – 











 
Era lì intrappolata in quel posto e non sapeva nemmeno come uscirne.
Aveva preso sonno faticosamente dopo che il dottor Tognetti le aveva comunicato che la lunga degenza era terminata e poteva tornare a casa, continuando però la terapia in day hospital. Poteva tirare un sospiro di sollievo, anche se piccolo, ma la guerra non era finita.  
Ed ora, dove diavolo era finita?
Non era spaventata, casomai confusa – aveva sempre desiderato esplorare posti sperduti, incontaminati, che non comparivano su nessuna cartina geografica. Si guardò intorno, ruotò in ogni dove lo sguardo. Un profumo soave le solleticò i polmoni. Si avvicinò a un fiumiciattolo che scorreva in quelle vicinanze e si mise ad osservare l'acqua e le pietruzze colorate sul fondo. Forse si trovava – se non la ingannava il senso d'orientamento – in una vallata ai piedi di una montagna. Trattenne il respiro decidendo di seguire il corso del fiume, e intanto sperava di trovare qualcuno in grado di darle indicazioni più precise.
Solo dopo un po’ si arrese all'idea di essere sola e che avrebbe dovuto contare solo sulle sue forze e continuò a camminare, senza sapere che meta seguire. Non aveva visto cartelli indicativi sparsi per il percorso, nella radura o segni sulla corteccia degli alberi che l'aiutassero a uscire da quella strana foresta. Una fitta coltre di rami e foglie faceva da ombra, impedendo al sole di penetrarla. Il fiume diventò un bacino d'acqua all'improvviso, e alzando gli occhi vide una cascata. Non piccola, grande quanto Niagara Falls.
Chiuse gli occhi lasciandosi trasportare dal suo rumore vorticoso, gli zampilli le bagnavano il viso e l'abito candido. Spostò i capelli lasciandoli ricadere sulla spalla opposta e mentre si inginocchiava la sua figura si specchiò nell'acqua. Il viso non era più emaciato e le guance erano più rosse di come ricordava. Doveva essere un sogno, non poteva essere guarita così di punto in bianco.
Si rialzò e prese una balza del vestito improvvisando una piroetta.
Perché non si svegliava? – si chiese, – cos'era successo? Il sogno stava durando troppo.
Prese a pizzicarsi il braccio e si fece male, emettendo poi un sonoro sbuffo.
"C'è nessuno?!" gridò sentendo la voce rimbalzare contro un vetro invisibile e tornare indietro come un frisbee.
Nessuna risposta. 
"Vi prego, c'è qualcuno?" tentò un'altra volta, con il medesimo esito.
Solo il fruscìo delle foglie e il rumore della cascata.
Svegliati, maledizione! – mentre parlava con sé stessa, sentì dei passi alle sue spalle.
Erano leggeri, levitanti dal terreno, e Lauren si immobilizzò. Contò mentalmente fino a dieci prima di girarsi. E se fosse stato... qualcuno venuto a farle del male? Non le era mai piaciuto rimanere sola nonostante il pallino fisso dell'avventura. Non era una fifona che se la dava a gambe, affrontava le sfide a muso duro. Una persona diversa da Lauren con la frase "ragazza, hai un cancro e c'è poco da fare..." si sarebbe buttata da un grattacielo. Lei no, lo sguardo fisso nelle lenti del medico e nessun piagnisteo. Nemmeno con gli aghi conficcati nelle braccia e la bocca amara come il fiele. Il suo corpo poteva sbriciolarsi nel lettino di una sala chemio, ma il coraggio le dava man forte. Stava passando la sua adolescenza così, fra corsie, terapie di ogni genere ed esiti spinosi... non era proprio una bella realtà per una che aveva solo diciassette anni. Ma andava bene, era il destino, a quello nessuno sfuggiva. Arrivò al numero otto e si voltò di scatto incrociando la figura di una donna. Aveva il braccio sollevato a mezz'aria in procinto di appoggiarglielo sulla spalla. Lauren osservò basita la causa vivente dei suoi mali. Restò immobile a contemplarla, poi tremò, scossa dai singhiozzi coprendosi la bocca con la mano. La donna la guardò, a sua volta. 
Lauren strinse le palpebre e le lacrime corsero lungo le sue guance. Quando le riaprì, la donna non si era mossa di un centimetro.
"N-n...onna?" 
La donna annuì e si avvicinò, sfiorandole appena le guance perché Lauren istintivamente si fece indietro.
"Non piangere, tesoro."
Ancora sulla difensiva. "No, no... io non..."
"Non dire niente. Sono io – aprì le braccia – sono tua nonna Lauren."
Lauren si fece coraggio e avanzò piano verso di lei. "Nonna... sei davvero tu?" 
Il suo cuore martellava nel petto. 
"Sì, in carne... ehm, spirito." si corresse, facendo una smorfia.
La giovane increspò un lieve sorriso e lasciò che quelle braccia la stringessero, si avvolgessero attorno alla schiena accarezzandogliela.
Era un miracolo o un'allucinazione post mortem?
Ogni paura svanì nella testa della ragazza. Cinta da quelle braccia non aveva bisogno di altro. Si staccò.
"Com'è possibile?"
"Non lo so, ma che importa adesso?" le fece fare una giravolta. "Ah, sei bellissima. Mi ricordi me, da giovane."
Lauren arrossì a quel complimento. Aveva conosciuto sua nonna solo attraverso i racconti del padre e del nonno e si era sempre sentita orgogliosa di chiamarsi come lei. Era come sentirla vicina anche se non c'era ed era incredibile che fosse esattamente come l'aveva sempre immaginata. 
"Dove siamo?" fu la prima domanda che uscì dalle sue labbra dopo il momento di stordimento.
"Siediti vicino a me – le tese la sua mano, che Lauren afferrò e si mise accanto a lei. In silenzio, guardavano il posto che le circondava, ognuna chiusa nei propri pensieri.
Lauren sentì il respiro cozzarle fra i denti pensando alla morte, e un brivido attraversarle la spina dorsale.
E se era davvero quella la ragione? Se quel fiume era l'accesso al paradiso e sua nonna era lì per farle da cicerone? Infondo era già uno spirito.
No, era un sogno, e presto si sarebbe svegliata nella solita camera, con il flacone affianco al letto. Si sentiva troppo pesante come un macigno e percepiva il suo cuore attraverso la stoffa del vestito. Non si era fermato. Non ancora. Appoggiò la mano sul petto per rassicurarsene, e lo sentì in quello strato di pelle.
"Nonna? Sono... morta? Devo attraversare la luce?" 
"No." 
La risposta la rilassò, ma non del tutto. Forse non era pronta oggi, ma un altro giorno si. Si sarebbe lasciata alle spalle la sua breve vita, e poi? Cosa avrebbe fatto per passare il tempo? Il tempo scorreva come sulla terra? Sicuramente sarebbe stata bene, o forse no. Il pensiero filosofico ed esistenziale che non trovava risposta in nessun libro.
"Non puoi venire. – si voltò nella sua direzione fissandola intensamente – e sai perché?" lasciò la frase in sospeso.
Lauren scosse la testa.
"Hai una missione, laggiù."
"Una missione?" ripetè stralunata. 
"Sì." 
Si guardò attorno. "E questo posto è il paradiso?"
La donna ridacchiò. "No, non è il paradiso. E' un posto frutto della tua immaginazione."
"Nel mio sogno ci sei anche tu?" chiese ancora la ragazza.
"Non hai sempre detto di volermi conoscere?" le ricordò.
Lauren corrugò la fronte. "Eccomi qui." continuò, accarezzandole una guancia.
"Mi leggi nel pensiero, nonna?" ironizzò la nipote distendendo la fronte. 
"So quali sono i tuoi desideri." rispose alzandosi in piedi. "E ti starò sempre vicina." alzò lo sguardo verso l'alto e sussurrò "è ora di andare, ho capito."
Prese a camminare, allarmando la giovane che scattò in piedi. "No, aspetta nonna! Non abbiamo finito di parlare."
"Non posso, tesoro – sbuffò – ho già sprecato molto tempo."
"Ma tornerai, vero?" chiese, speranzosa.
"Tornerò molto presto, te lo prometto."
Lauren la salutò con la mano, di nuovo in lacrime. Sentì il calore di un bacio sulla fronte, poi vide la sagoma svanire nell'aria e il dolore bussare alle porte del cuore.
Rimase a contemplare quel punto finchè qualcosa non la risucchiò come durante una materializzazione. Tornò a sentire la presenza delle lenzuola e le voci degli infermieri di turno fuori il corridoio. Provò a sollevarsi ma il pigiama le si attaccava addosso, era in un bagno di sudore e con il respiro corto. Si girò verso la finestra e notò che non era ancora sorta l'alba. Alzò il volto e vide la sacca già pronta per essere attaccata al cataterino sul suo dorso. Con una mano si strofinò un occhio e si tirò su con l'altra, mettendosi seduta. 
Il signor John dormiva placidamente nel letto di fronte al suo. Spostò le coperte afferrandosi all'asta e accusò un piccolo capogiro e una fitta al collo, a causa della posizione scomoda.
Silenziosamente prese una sedia e sedette al capezzale di John Foster con cui condivideva la camera. Gli accarezzò il mento, ricoperto da una sottile peluria e quel leggero contatto lo ridestò dal sonno. Instintivamente girò la testa e fece un lieve sorriso nella direzione della ragazza. Si tirò su con i gomiti, appoggiandosi con un tonfo al letto tramortito dall'anestetico.
"Come sta?"
"Come uno ch'è stato operato qualche ora fa..." si allungò verso l'interrutore e accese la luce sopra la sua testa. "Non riesci a dormire?"
Lauren fece una smorfia. 
"Lo prendo per un sì." dedusse, cercando di spostarsi e farle un po' di spazio.
"Non dovrebbe riposare?" obiettò la giovane, incrociando le braccia al petto. "E sopratutto non muoversi?"
"Oh, non preoccuparti." 
"Lei è veramente testardo." l'accuso prima di stendersi affianco a lui. John rise, e questo gli costò una sleale fitta.
"Non mi far ridere, piccola. Mi fa ancora male." 
"Così impara."
John sospirò, avvolgendo un braccio attorno alla sua schiena stringendola forte. E in quella posizione Lauren si addormentò.  
Si era sentita a suo agio dall'inizio, nonostante John fosse più grande. Appena entrata in quella camera, visibilmente giù di morale, aveva trovato lui, il suo punto di riferimento, il faro nel buio e una spalla su cui piangere. Come dire? Bisogna davvero cadere per imparare a volare? Non si aspettava di trovare dove non si sarebbe sognata di cercare, e invece, John era lì.
Era sempre stato lì, nella camera 130 di un ospedale oncologico. E l'aveva aspettata per stringerla, come in quel momento, facendole sentire tutto il suo amore paterno. Si mosse appena sentendo i lievi richiami dell'uomo. Si rialzò di scatto guardandolo preoccupata. Lui le indicava le due sacche di urina che penzolavano.
Erano di colore rossastro.
Si chinò per spingerle sotto il letto e prese posto sulla sedia.
"E' normale che siano di colore rosso?"
John afferrò il tubicino e lo strattonò piano. "Non lo so." indicò il lavaggio. "Questa dovrebbe pulirmi."
"Ma cos'hai esattamente?"
John sospirò e spostò lo sguardo oltre la finestra.
"I medici non mi dicono nulla, ma so che se non mi sottoporrò a un altro intervento per me sarà la fine."
"Signor John, non pensi negativo!" esclamò Lauren, prendendogli una mano. 
"Perché dovrei farmi bucare le braccia? Per farmi stare un altro po' qui?"
Lauren chinò la testa. Aveva ragione. Quando scopri di essere malato devi preparati all'inevitabile e non importa quante esperienze o quanti progetti sognavi di realizzare, dimenticali prima che questo ti distrugga ancor prima del tumore.
"Forse deve starci, signor John. Non è ancora il suo momento." profetizzò la giovane, ricordando vagamente il sogno.
"Sono stanco – singhiozzò, stringendo forte la mano di Lauren – Voglio riposare in pace finalmente."
Il suo sguardo si illuminò un istante. "Tu invece hai ancora tanto da dare, piccola. Non ti devi arrendere."
"Anche lei. Usciremo insieme da questo posto." l'apostrofò decisa.
John cambiò discorso. "Ho visto che il dottor Tognetti è venuto a parlarti. Ci sono delle buone notizie?"
"Buone e cattive." fece Lauren.
"Dimmi quella cattiva prima."
"La settimana prossima ho il nuovo ciclo."
"Oh..." si limitò a dire. "E... come ti senti? Bene?"
"Come al solito." minimizzò.
"E la buona?"
Lauren fece un respiro profondo, poi parlò. "Lunedì verrò dimessa."
"Oh, tesoro, che bellissima notizia!" cinguettò, abbracciandola di slancio. Quando si staccò, s'irrigidì e accusando un forte colpo nelle costole svenne, allarmando la povera Lauren che si affrettò a suonare il campanello delle emergenze.

























(...) 

Aveva vinto, di nuovo. Aveva sferrato un poderoso attacco, dopo aver indebolito la difesa avversaria e il pallone era finito dritto nella rete spiazzando il portiere. Il pubblico era esploso in un'ovazione, mentre i compagni gli correvano incontro per sollevarlo fra le loro braccia. Alzò il pugno nel cielo e si tolse la divisa, mentre i muscoli guizzano sotto la sua pelle grondante di sudore. Era quella la sensazione di cui non poteva fare a meno neanche tra un milione di anni. Era la sua valvola di sfogo, lo aiutava a liberare la mente, a sentirsi forte. 
Non nascondeva a sé stesso di desiderare un futuro brillante come calciatore, ma per il momento gli bastava gareggiare nei piccoli tornei scolastici, dopotutto aveva solamente diciotto anni. Guardò in direzione della panchina, vide il mister che esultava e lo applaudiva, fiero delle sue finte e della sua azione in mezzo al campo. Il fischiò ne decretò la fine. 
Adam bevve prima poi si rovesciò la bottiglietta d'acqua sulla testa.
Il mister si avvicinò e gli diede una pacca amichevole sulla spalla.
"Clarke, complimenti. Ti sei superato anche stavolta."
Adam prese l'asciugamano che gli stava porgendo l'uomo e se la mise attorno al collo. "E' stata una bella partita." commentò.
"Mi aspetto altri tre goal la prossima volta." scherzò facendogli l'occhiolino, poi si allontanò dopo avergli dato un'altra manata.
"La prossima volta ti smonta la spalla il mister!" disse Jimmy, il suo amico. 
Adam fece una smorfia. "Probabilmente."
"Tu ci verrai alla festa dopo?" 
"Quale festa?"
"Il mister vuole festeggiare ed ha invitato l'intera squadra in un famoso night club di Dublino."
Adam si grattò la nuca. "Ma domani abbiamo scuola." gli ricordò prontamente lui, accucciandosi a terra per legarsi i lacci delle scarpe.
Jimmy si portò una mano alla bocca. "Oh, diamine! E' vero. Come facciamo? Dobbiamo inventare una scusa e alla svelta."
"Nemmeno se fossi in punto di morte." mormorò all'orecchio dell'altro, per non farsi sentire dagli altri.
Era da quando aveva memoria che la madre gli stava appiccicata come una chewing alla scarpa.
Aveva provato a metterle in testa che ormai era cresciuto e non c'era bisogno che si preoccupasse, ma era tutto inutile. La sua paranoia spesso raggiungeva livelli preoccupanti, tanto che stava pensando di portarla da uno strizzacervelli.
Jimmy battè il piede sul terreno.
"Non puoi semplicemente dire "ciao mamma, non so se te ne sei accorta ma ho diciotto anni non cinque?"
"Sì, ci ho provato. Tentativo fallito." sibilò fra i denti. La spalla risentì di un'altra manata. Adam si voltò per protestare e incrociò il volto del portiere della squadra avversaria.
"Congratulazioni Clarke." una breve stretta di mano, un gioco furtivo di sguardi dall'uno e dall'altro, con Jimmy in mezzo che non aprì bocca.
"La prossima volta vi batteremo." l'americano strinse il pugno, colpendosi il petto.
Adam sollevò il mento.
"Questo è tutto da vedere, Jonson." fu la risposta secca dell'altro, che preso sottobraccio il povero Jimmy, gli diede le spalle e si incamminarono verso gli spogliatoi.

Si trovarono tutti nello spogliatoio, stanchi ma euforici di aver vinto, mantenendo intatto il buon nome dell'istutito. Mentre toglievano scarpini e divise si scambiavano battutine e impressioni sulla partita e sui tre goal segnati da Adam. Quest'ultimo si era infilato nella doccia in compagnia di Jimmy, che era entrato nell'altra.
"Secondo te, dovrei chiederle un appuntamento? Insomma, dovrei fare il primo passo?"
Adam gli passò da sopra la bottiglietta con lo shampoo.
"E chi sarebbe la fortunata?"
In evidente imbarazzo, Jimmy preferì continuare ad insaponarsi.
Ad Adam bastò sollevarsi sulle punte dei piedi per scrutare il suo compagno, che nascondeva la faccia nel ciuffo bagnato.
"So che m-mi prenderai in giro..."
Adam sbattè le palpebre stranito dal suo comportamento. 
"Non ti ho mai preso in giro." gli disse deciso, appoggiandosi con le braccia. 
"Una volta sì, però."
"Avevamo cinque anni, genio." lo corresse Adam.
Jimmy chiuse la manopola e cercò di arpionarsi al muro per raggiungere la faccia dell'altro.
"Giurami che non mi prenderai in giro."
"Lo giuro. E dammi la bottiglietta già che ci sei." – prese il flacone e tornò rapidamente con i piedi ancorati sul piatto della doccia.
"E' una ragazza di quarta. Quella che gioca nel circolo di lacrosse." cominciò.
"Abbiamo pure un circolo di lacrosse?" chiese, togliendosi la schiuma dalla faccia.
"Non te ne sei mai accorto?" proferì incredulo l'altro.
"Ero troppo preso dagli allenamenti." si difese. "A quanto pare voi altri eravate presi da altre.... ehm... cose?" gli fece notare, sentendo poi uno stizzo di tosse provenire dall'altra doccia.
"Comunque – riprese – la ragazza si chiama Megy." poi terminò facendosi scivolare contro le mattonelle fino a terra. "Cosa diamine faccio? A me piace... e... "
"Perché non smetti di far lavorare questo tuo cervello?" 
"Che intendi dire?"
Adam chiuse l'acqua. "Vai da lei e glielo dici."
"Sei completamente pazzo! E se mi respinge? La mia povera autostima ne risentirebbe..." mormorò nascondendo il volto fra le ginocchia.
"Segui il tuo cuore."
"E' facile per te." – sussurrò Jimmy, ottenendo un'occhiataccia dallo specchio. "Ti sei mai innamorato?"
Si sentì pungere proprio lì, nel suo punto debole. Colpito e affondato, ma non era di certo colpa sua se non si era mai preoccupato di rimorchiare qualcuna, casomai il contrario visto che aveva uno stuolo di ammiratrici che tifavano per lui dalla tribuna, ad ogni sessione di allenamento. Non avevano occhi che per lui, si sentiva lusingato da tante attenzioni e dal fatto che si ricordassero persino che il 17 dicembre fosse il suo compleanno e facevano a gara per portargli un regalo. Sembravano delle api accanite sullo stesso fiore, desiderose di assaggiare quel nettere prelibato, e il pensiero lo faceva rabbrividire. Per Jimmy era esilarante, anche lui avrebbe voluto uno stuolo di corteggiatrici, invece l'unica ragazza su cui aveva messo gli occhi non sapeva neppure che esistesse. Adam era concentrato su altre cose per pensare a farsi piacere una ragazza e quelle che aveva gli bastavano. Era troppo stressato e non voleva finire al tappetto per una donna, come Jimmy, che non faceva altro che singhiozzare sulla sua spalla come un perfetto idiota. L'amore rendeva stupidi. 
"Vedendoti no, e lo preferisco." tagliò corto.
"Immagino sia una vera impresa trovare l'anima gemella. Ma è una fortuna essere corrisposti!"
"Ti prego..." 
"No, davvero!" continuò, seguendolo per tutto lo spogliatoio facendo ridere il resto dei compagni.
"Non è che siete...?" s'intromise il portiere, lasciando la frase in sospeso mentre mimava un bacio fra i due.
"Ma che vi siete fumati?!" sbottò Adam, lanciandogli contro un pallone.
Jimmy ridacchiò sinistramente, afferrandolo per il collo e spingendolo contro di sè. "Non sarebbe tanto cattiva come idea."
"Sei fuori – se lo staccò di dosso e preso il suo borsone andò verso la porta.
"Non vieni al club, Adam?" lo richiamò il portiere.
"Vedrò di esserci."
Uscì dalla palestra e raggiunse a passo svelto la macchina. 














Venti minuti dopo inserì le chiavi nella toppa di casa ed entrò.
"Sono tornato!"
La madre stava preparando la cena e suo padre ascoltava attentamente le notizie del telegiornale. Lasciò un bacio sulla fronte alla madre e appoggiò la sua mano sulla spalla del padre, distogliendolo da quello che stava vedendo. Si sedette sul divano dopo aver recuperato una lattina di aranciata dal frigo.
"Com'è andata la partita?" chiese sua madre.
"Abbiamo vinto." disse, mostrando il suo pollice ad entrambi.
Sua madre increspò un sorriso. "Allora vai a farti una doccia che preparo qualcosa per festeggiare."
"Questa sera no." il sorriso della donna si spense e il mestolo le scivolò dalle mani finendo sul pavimento. Si portò una ciocca dietro l'orecchio con fare piuttosto impacciato, come tutte le volte che il figlio le diceva che usciva per andare in qualche locale, dove l'unica cosa che si faceva era ubriacarsi e portarsi a letto qualche "buona donna". Sapeva che il figlio era grande, aveva preso la patente, stava diventando una promessa del calcio giovanile, ma l'idea che facesse qualche cazzata le toglieva la tranquillità. Raccolse il mestolo e lo poggiò sul tavolo sospirando, per calmarsi.
"E' stato il mister. Ci ha invitati a mangiare una pizza per festeggiare." spiegò Adam. 
"E dove andrete?" lo interruppe il padre, azzerando il volume della televisione.
"Un locale, papà."
"Un nigh club, vero?" 
"Mamma..." la richiamò Adam. 
La donna non poteva nascondere la sua preoccupazione, ma prima o poi, il figlio avrebbe lasciato il nido ed era giusto che cominciasse fin da ora ad accettare l'idea. Dopo qualche secondo di silenzio rialzò il volto.
"Ti lascerò la cena, se avrai voglia di mangiare al tuo ritorno."
"Mi lasci andare?" chiese stupito il giovane. La donna annuì in risposta cercando lo sguardo del marito, ancora seduto sul divano. Gli fece un cenno, e l'uomo si alzò disponendosi davanti ad Adam. Si chinò per mettergli le mani sulle spalle e lo guardò fisso negli occhi. "Sei abbastanza grande per prendere le tue scelte adesso. Va' ma scegli bene, perché qui si decide il tuo futuro figliolo."
"D'accordo, papà." rispose corrugando la fronte.
Prese le chiavi sul mobile, salutò velocemente i genitori e si chiuse la porta alle spalle.
Prima di partire prese il cellulare e inviò un messaggio a Jimmy, sperando che riuscisse a leggerlo in tempo – bradipo com'era – prima di raggiungere il suo isolato. 




















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come scritto in precedenza, questo è il mio angolo autrice, La storia la potete trovare anche sul mio profilo wattpad "kissenlove". Questa storia, come ho già scritto, è dedicata a mio padre e a tutti coloro che hanno il coraggio di affrontare e sconfiggere questa malattia. Il personaggio di Lauren, a cui tengo molto, è basato un po' su di me, quello del signor John su mio padre, e quello di Megy sulla mia idea di amicizia. Mi piace anche il fatto di non aver creato Adam, il classico bad boy, ma un ragazzo che non ha mai amato, e che imparerà a farlo quando incrocerà Lauren. Bene, se vi piace lasciate qualche commento. E vi ricordo che potete seguirmi anche su Facebook. Vi prego, inoltre, di non copiare questa storia perché è coperta da copyright, e potreste essere perseguitati dalla sottoscritta. 

Baci. Kiss.






 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***






 
Storia disponibile anche su Wattpad. (profilo @kissenlove)











 
IN OGNI ATTIMO
– capitulo 3 – 



 


 
Sbagliato. Tutto sbagliato fin dall'inizio. 
I suoi genitori avevano atteso con trepidazione la sua nascita, entusiasti di quel pezzettino che si sarebbe unito al loro cuore. Ci avevano sperato e alla fine era arrivata, un angelo da amare e proteggere. Una bambina, poi giovane donna, nelle cui mani avevano riposto la felicità. Così fragile, effimera, destinata a sbriciolarsi. Aveva cercato di comportarsi da buona figlia, non una piaga o un macigno sulle spalle.
Sua madre – poverina – non aveva fatto nulla per meritarlo. L'aveva solo messa al mondo, e così come l'aveva vista nascere, l'avrebbe vista morire lucida delle sue intenzioni e consapevole a ciò a cui stava andando incontro. Era quel salto nel vuoto, nel buio assoluto, a cui la ragazza si rifiutava di rinunciare.
I dottori confidavano nel regredire della malattia e lei, ogni volta, si aggrappava a quelle parole credendoci. Per essere una malata al secondo stadio, i suoi esami non erano poi così terribili; era tenuta sotto controllo e prendeva ogni giorno le medicine. Aveva perso il conto di quanti cicli e biopsie si era fatta, e ogni volta il dolore era tale da trafiggerla e pulsarle all'interno del corpo.
Aveva avuto paura dei molteplici esiti, anche se non l'aveva detto ad alta voce ne a sua madre ne a suo padre e ne tantomeno al signor John. Quel maligno le vorticava nei pensieri constantemente; poi quella parola "negativo" scritta nero su bianco, e la paura strisciava silenziosa.
Se un giorno fosse stato positivo e il cancro si fosse esteso ad altri organi e alle ossa?
Sarebbe finito ogni misero tentativo. Non avrebbe fatto la radioterapia distruggendosi. Non avrebbe fatto nulla, si sarebbe semplicemente arresa lasciando cadere a terra la pistola senza più sparare altri colpi.
Era successo tutto all'improvviso come l'esplodere di una bomba.
Si sentiva a disagio con la mascherina schiacciata sulla bocca e rimpiangeva i tempi felici, in cui segnare in porta la faceva sentire forte, "una stella nascente" come la definivano le più piccole. Una stella che, adesso, non brillava; era diventata un buco nero. 
Il vetro della sua camera d'ospedale la isolava, ma aveva cercato di farsela piacere lo stesso attaccando qualche foto e facendosi portare Billy,– l'orsetto portafortuna con cui dormiva la notte da piccola, ma non aveva funzionato; dentro di sè aveva nostalgia della sua stanza dove dal balcone ammirava il sole guizzare in basso alle montagne, prima della cena. E finalmente avrebbe ripreso a farlo.

Il giorno prima era volato e la visita dei suoi cari l'aveva rallegrata. Il dolore che velava nell'ultimo periodo gli occhi della madre era sparito, sicuramente per la notizia del suo ritorno a casa che faceva presagire una lenta ma probabile guarigione. Quella domenica pomeriggio era raggiante, lasciò le ragazze a chiacchierare e uscì per comprare qualcosa ai distributori automatici. Megy ne approfittò per raccontarle di Jimmy – il ragazzo per cui si era presa una colossale cotta – uno dei giocatori che stava gareggiando in televisione l'altro giorno. Lauren l'ascoltò pazientemente, cercò di darle dei buoni consigli anche se non era la persona più adatta a fare la consulente.
Si era sempre tenuta alla larga, nonostante gli sforzi della sua amica di combinarle incontri su incontri, che lei aveva gentilmente raggirato. Non voleva trascinare in quell'inferno della sua malattia anche quel lui, che si sarebbe preso il diritto di amarla e renderla felice; forse in altre circostanze quel desiderio sarebbe prevalso, ma in quel caso no. Il suo corpo era già malato di suo per dover fronteggiare un'altra malattia, quella dell'amore. Nella sua breve vita aveva avuto solo una cotta, alle medie, per un suo ex – compagno di banco delle elementari. All'inizio non le piaceva e non capiva l'ostinazione delle maestre di farli sedere vicino. Era un po' grassottello ma, in realtà, aveva un buon cuore.
Scoprì solo in seguito che le piaceva, e molto. Anche guardarlo negli occhi era una tragedia e il suo cuore trottorellava come un pazzo. Quella sensazione rimase per molto tempo, finché la cotta non passò, dopo che la ragazza aveva tentato di fargliela capire con un messaggio privato su Facebook.
Lui chiuse definitivamente i contatti con lei, non rispose più risparmiandole la delusione di essere respinta e come se non bastasse sparì dalla circolazione, e non andò più a cantare nel coro della chiesa.
In quel momento capì che non poteva essere una cosa seria, non poteva essere quello che nei libri veniva descritto come "il vero amore". Invidiava la sua amica così energica e piena di vita, che avrebbe avuto un marito e molti figli. Lei no, si sarebbe spenta troppo presto. 
Quando era piccola giocava a fare la mamma con le sue bambole e sognava di diventarlo un giorno, ma le chemio l'avrebbero resa sterile al 90% –, lo immaginava nonostante non avesse avuto il coraggio di chiederlo apertamente al dottor Tognetti. Non avrebbe potuto offrire niente con il suo corpo, era inutile, e nessun bambino sarebbe nato da lei e nessuno le avrebbe messo un anello al dito.
Anche in questo Dio aveva scelto di punirla, togliendole la gioia di creare una creatura col suo corpo che, stremata com'era, si teneva in piedi a stento ancorata al lavandino.
L'unico rumore presente in quel bagno era l'acqua che scorreva nel tubo di scarico. Si sciacquò il viso e rialzandolo si guardò nello specchio. Rivoli presero a scivolarle lungo gli zigomi scarni, mentre si allungava per prendere l'asciugamano.
Aprì il mobiletto e prese la spazzola, poi richiuse.
Spostò i capelli dalle tempie e iniziò a pettinarsi deglutendo quando la spazzola s'impigliava. Fra le dita si trovò ciocche di capelli. Alcune lacrime si persero nella piega del collo, mentre lasciava le ciocche scivolare nel fondo del cestino. Si era preparata a quella realtà poco piacevole, ma si vedeva comunque un mostro come l'essere filamentoso dell'Urlo di Munch
. In quel bagno non avrebbe dato fastidio a nessuno e avesse pianto un po', ma i suoi occhi erano ormai asciutti. Aveva pianto abbastanza per oggi – si disse, prima di sorridere falsamente allo specchio e trovare la forza di aprire la porta. Un moto di ansia crebbe in lei quando vide che il signor John non c'era.
Dov'era finito?

Dopo lo spavento di venerdì era sul filo di un rasoio.
Non poteva andarsene in giro nelle sue condizioni, i medici stavano per cominciare il giro delle visite.
La giovane si avvicinò al suo letto per controllare le valigie e il suo sguardo cadde su quelle miriadi di foto. Lì sfiorò con la punta delle dita. Quel muro era troppo colorato per ritornare apatico, così Lauren pensò di lasciarle lì come una piccola traccia. Si sedette sul letto e aspettò il signor John.


Megy spalancò la porta della camera 130 e travolse in un abbraccio la povera Lauren, che a stento si tenne in equilibrio. Era visibilmente euforica per le sue dimissioni e il suo buon umore riuscì a rilassarla, facendole dimenticare i suoi problemi. Non appena si staccò da lei, abbandonò sulla sedia la borsa.
"Allora, sei pronta per tornare alla vita?" si sedette, ed anche Lauren fece lo stesso.
"Sì, anche se mi ci vorrà un po'."
"Certo." concordò l'altra. Poi le prese le mani. "Ah, non vedo l'ora che tu ritorni a scuola... e anche a giocare. La squadra sente molto la t-tua mancanza." sussurrò con gli occhi ancorati a quelli chiari della giovane, che al posto del pigiama portava una tuta larga.
Non aveva mai perso la speranza che, un giorno, Lauren avrebbe potuto riprendere a giocare a lacrosse, ma dirlo ad alta voce alla diretta interessata le parve precipitoso; in fondo non si trattava di un semplice raffreddore o una polmonite, ma di una malattia grave del sangue.
"Beh, ce la metterò tutta", sibilò l'ex capitano, alzando lo sguardo al soffitto.
Megy annuì, poi le strizzò un occhio.
"Ovviamente, e poi il 23 marzo andiamo al cinema. L'hai promesso, no?"
"Cosa? Non ti ho promesso nulla. Non so se potremo andarci quando comincierò il ciclo."
"Sì invece. C'andremo! Com'è vero che mi chiamo "Megan", chiaro?"
Lauren sospirò, rassegnata.
"Va bene." pose fine alla discussione, guadagnandosi un urlo da parte dell'amica che le si tuffò addosso.
Cercò di staccarsela di dosso ma senza riuscirci. Caddero entrambe sul letto, ridendo e scherzando, com'erano solite fare, in passato, nelle loro camere o sul campo quando sbagliavano i tiri. Finsero una spensieratezza che non le apparteneva, nascondendo in un angolino della loro mente il presentimento che la morte potesse dividerle e distruggere il loro rapporto.
Non erano nella camera di un ospedale, era tutto sparito: quelle mura incolore, l'asta di ferro che torreggiava accanto al letto, il rumore delle barelle e dei campanelli d'emergenza. Le loro risate furono interrotte dal personale medico che trasportava in camera un lettino. Megy le si spostò di dosso e Lauren si rimise in piedi, avvicinandosi, ma restando a distanza per permettere ai due di sistemare il letto a ridosso del muro.
"Signor John, ch'è successo?!"
"Niente. Sono andato al piano di sotto a fare una risonanza."
"Perché?" replicò lei.
Gli infermieri si allontanarono senza accennare altro. L'uomo spostò le lenzuola e si mise seduto.
"Non è niente. Semplici controlli." minimizzò con un gesto della mano facendo ballonzolare il filo del lavaggio. Spostò la testa. "Oh, ciao Megy. Come stai?" 
"Bene. E lei? Ho saputo che venerdì è stato operato."
"Sì." ritornò a guardare Lauren, che aveva le braccia intrecciate e la mascella contratta, aspettando che le desse una ragione convincente sulla sua assenza. Gli occhi di John corsero subito sulla tuta che le fasciava la figura.
"Stai molto meglio senza il pigiama."
"Tentativo fallito."
"Ti porti via Lauren oggi?" si rivolse alla mora. 
"Sì, ovvio. É stata troppo tempo chiusa qui dentro."
"Prenditi cura di lei." disse a voce bassa.
"Non si preoccupi, signor John. Non la lascerò sola nemmeno quando dorme."
"Non ti sembra di esagerare?", si intromise l'altra, guardando ancora nella direzione dell'uomo.
Megy scosse la testa. "No, assolutamente." 
Prese uno dei borsoni e se li caricò sulla spalla.
"Oh, quanto pesano accidenti! Cosa diavolo ci hai messo dentro... mattoni?"
"Quello che mi sono portata, cioè poco e niente." 
Non aveva voluto portarsi molte cose visto che se n'era stata in camera per la maggior parte del tempo in quei due anni di forzata degenza. L'unico oggetto che poteva ricordarle casa era sicuramente il peluche.
"Su, muoviamoci ch'è tardi!" esclamò Megy, distraendola dai suoi pensieri. "Arrivederci, signor John."
Megan si avviò alla porta. Lauren sentì le gambe diventare di gelatina. Aveva paura che quel sogno si smaterializzasse in quell'istante, provò a darsi dei pizzicotti sul braccio ma non successe nulla.
Era ancora in quella camera e ci sarebbe rimasta per poco.
"Megy?"
La ragazza si voltò.
"Ti dispiace aspettarmi fuori? Ci metterò poco."
Megy spostò contemporamente lo sguardo dall'uno all'altra, poi scosse la testa afferrando la maniglia.
"Okay. Ti aspetto qui fuori, non fare tardi." le ricordò prima di chiudersi la porta alle spalle.


Non appena Megy li lasciò da soli, John notò un particolare che, tornato in camera, non aveva visto di fronte al suo naso. "E quello?" chiese additando un punto alle spalle, dove spiccava la parete colorata.
"Ho deciso che resteranno lì."lo informò lei, senza girarsi.
"Come mai?"
"É questo il loro posto. Mia nonna diceva sempre che quando una cosa si stacca poi non si riattacca più." rivolse un breve sguardo a tutte le foto, che racchiudevano i suoi momenti più felici. "E non sentirà molto la mia mancanza quando non ci sarò." aggiunse.
L'uomo fece un sospiro. "Come potrei dimenticarti, piccola?"
"La mente è traditrice." spiegò la giovane.
"Io non potrei mai. Sei stata l'unica, vera, amica che ho avuto da quando sono stato ricoverato qui." un singhiozzo gli spezzò la voce. Si portò la mano contro la fronte, e la ritrasse subito accorgendosi dell'ago-cannula
 che stava per fuoriuscire dalla vena. 
"Anch'io le voglio bene, e sarà per sempre il mio migliore amico."
Il signor John tese le braccia e accolse la giovane in un abbraccio. 
"Ti auguro il meglio, piccolina." gli accarezzò la schiena su e giù e quando la staccò da sé le lasciò un bacio sulla fronte. Il suo cuore arrancò un battito dopo l'altro, gli occhi lucidi, il labbro gli tremava al punto che fu costretto a chinare il mento verso il pavimento.
Lauren se ne accorse, e preso un respiro profondo, afferrò il peluche sul comodino e lo strinse al petto come per proteggerlo. Con lui fra le braccia, quel pupazzo apparentemente insignificante, si prostrò ai piedi dell'uomo e glielo mise davanti, a un palmo dal suo naso.
John l'osservò stranito, ma lo trovò adorabile; come tutti gli orsetti era marroncino, con una macchia bianca sulla fronte e un'espressione dolce. Abbassò gli occhi e vide che tra le mani sorregeva un cuore spezzato, fatto a metà, tradito, illuso.
Come il suo, di cuore, più volte incollato e poi fatto a pezzi.
"Cos'è?" chiese, sollevando un sopracciglio.
"Questo è Billy, il suo nuovo compagno di stanza..."
John fissò prima il peluche e poi Lauren. "E perché lo dai a me?"
"Domanda stupida." osservò la giovane, lasciando andare l'orsacchiotto tra le mani nodose e grandi dell'uomo, che però lo strinsero con delicatezza. "Voglio che lo tenga lei. Ne ha bisogno."
Davvero lo vedeva così disperato da aver bisogno di un pupazzo? – si domandò John, arrossendo vistosamente mentre il pelo morbido gli solleticava la punta delle dita.
Lauren aveva letto nei suoi silenzi che qualcosa non andava, seppur lui si fosse ostinato a non parlare di niente che riguardasse il suo passato.
Credeva che sarebbe uscita, dimenticandosi di lui e dei giorni passati, ma lei non l'aveva fatto. Aveva capito fin da subito ch'era una persona speciale, destinata a qualcosa di grande.
"So che lo conserverà con cura, signor John. Mi fido di lei, e mia nonna sarebbe felice di saperlo nelle sue mani."
John rialzò il capo di scatto.
"No, non posso accettare".
"No. Lo prenda, è suo adesso." rispose la ragazza, costringendolo ad accettare quel "dono", che per altri poteva essere un pezzo di stoffa, ma per lui era la lampada del genio o una pietra preziosa. John la ringraziò con le lacrime agli occhi e la strinse con un braccio.
"Ora vado, altrimenti Megy mi uccide." prese l'altro borsone, più leggero. "Ci vediamo, signor John."
"Ciao, piccola e dolce Lauren."
Quando la vide uscire si lasciò ricadere sul bordo con fra le mani Billy, che avrebbe custodito gelosamente.










Accompagnata dalla sua amica Lauren percorse gli ultimi metri di corridoio, che la separavano dall'ufficio del dottor Tognetti a passi pesanti. Ogni volta che fissava un incontro non c'erano mai buone notizie, casomai il contrario. Si aspettava che, prima di uscire, avrebbe chiarito gli ultimi passaggi dello "straordinario programma", ma in cuor suo Lauren sperava che non fosse niente di grave.
Quando arrivò alla porta bussò due volte, tallonata dalla sua amica. Aprì piano la porta e quando la spalancò si rese conto che oltre al dottore c'era un altro uomo, che le dava le spalle.
Si bloccò inarcando un sopracciglio e facendo scorrere gli occhi sull'intera figura, dalle spalle larghe e prominenti ebbe la strana sensazione di conoscerlo.
I suoi pensieri furono interrotti dal richiamo del medico che con il suo indice le indicava la sedia accanto.
"Siediti pure."
Megy le scivolò alle spalle.
"Che succede?"
Dopo un iniziale sbigottimento chiuse la porta. I suoi piedi cominciarono a muoversi e si avvicinò guardinga. L'uomo doveva essere un altro oncologo? Forse Tognetti aveva chiesto un nuovo consulto, a sua insaputa? – pensò la ragazza, rimanendo a fissare l'uomo che non muoveva un dito e se ne stava in silenzio. Megy si coprì la bocca con la mano. La compagna la fissò, a sua volta.
"Si può sapere che cosa ci trovi da ridere? E chi è quello!" gli puntò l'indice addosso. 
"Sono io, patatina.
" esordì, alzandosi in piedi.
Al sentire quella voce stranamente familiare la giovane si girò di nuovo. 
Una voce, la sua, che poteva appartenere solo a lui. Possibile che fosse tornato dal suo viaggio oltreoceano?
Lauren sussultò sentendo le lacrime salirle agli occhi quando quel nomignolo dolce le accarezzò l'orecchio. Le sopracciglie folte e nere, le labbra carnose e un po' screpolate e gli occhi screziati di verde, brillanti al sole come i campi in primavera.
Era suo padre, il suo amato marinaio, ed il suo eroe che fin da piccola l'aveva protetta da tutti i mali.
Che ci faceva in quella stanza invece che sulla sua nave? E Megy ne era al corrente visto che stava ridendo sotto i baffi da quando avevano lasciato la 130?
Fissò quegli occhi, lucidi come i suoi, e senza chiedersi corse da lui. Lui l'accolse, quelle braccia forti la sollevarono dal pavimento e la strinsero fino a a farle mancare il respiro.
Scoppiò a piangere sulla sua spalla, mentre avvolgeva le mani attorno alla sua schiena. Ricordava quando da piccola cadeva dalla bicicletta sul selciato di casa e lui, tutte le volte, era pronto a consolarla, a dirle che il dolore sarebbe sparito.

Stavolta, papà il dolore rimane, non passerà. Però tu sei qui, sei tornato per me abbandonando il tuo amato mare. E non c'è più solitudine nel mio cuore nè timore che mi scalfisce o paura che mi soffoca.

"Bambina mia... mi spiace tanto per questi mesi... – intensificò la stretta e quando la mise a terra le accarezzò lievemente i capelli; ne ricordava molti di più. – Sono qui adesso, non piangere."
"Papà." sussurrò schiacciata al suo petto. "Mi sei mancato così tanto in questi mesi."
"Anche tu. Non ho fatto altro che pensare a te, giorno e notte... alla mia piccola guerriera in ospedale."
Lauren si asciugò le lacrime con la manica e si staccò da lui. "Ripartirai di nuovo?"
"No. Voglio restare vicino a te e alla mamma."
Sentirgli dire quelle parole la rese felice. Sua madre almeno poteva contare su suo padre, quando lei sarebbe partita per quel viaggio di sola andata. Lauren l'abbracciò di slancio. 
Il dottor Tognetti si schiarì la voce attirando l'attenzione su di sè, rompendo quell'atmosfera familiare.
"Mi dispiace rovinare questo bel momento, signor Castle."
"Non si preoccupi, dottore." si strinsero brevemente la mano. "Io non posso far altro che ringraziarla per l'enorme aiuto che sta dando alla mia famiglia, e soprattutto, a Lauren. Le sarò debitore per sempre."
"Si sieda, prego. Le devo parlare un secondo."
Lauren rivolse uno sguardo interrogativo al padre mentre si accomodavano. Lui le afferrò la mano, i suoi occhi dicevano così tanto, e lei li lesse con il respiro che cozzava fra i denti.

Come quando è la calma prima di una tempesta.















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Note a piè di pagina 

celebre dipinto del pittore norvegese "Edvard Munch" vuole rappresentare il dramma psichico che sta lacerando ognuno di noi, quando gli altri ci abbandonano al nostro destino. Quadro che, personalmente, utilizzai nel mio argomento "il dolore" della tesina per la licenza superiore.

  ago-cannula è un catetere venoso periferico, ovvero un presidio sanitario che utilizzato, esclusivamente da personale sanitario infermieristico e/o medico per l'incannulamento di una vena superficiale periferica, per la fleboclisi o per la somministrazione endovenosa di farmaci.

 soprannome affibbiatomi, da piccola, da mio padre.


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se vi piace lasciatemi una piccola recensione, è sempre ben accetta.










 
 
 





 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 
Storia disponibile anche su Wattpad. (profilo @kissenlove)











 
IN OGNI ATTIMO
– capitulo 4 – 


 
“Non chiudere la porta in faccia ai sentimenti.
Vivi, anche se fosse l'ultima cosa che fai,
in questo mondo.”





 
 
Quella mattina era nei pasticci più degli altri giorni. Era proprio nei guai, ci si era infilato con tutte le scarpe nell'esatto momento in cui i suoi piedi avevano premuto i pedali e l'auto aveva preso a muoversi verso l'uscita. Purtroppo il tempo era poco e Adam non badò a misurare la distanza. In quel momento si sentiva talmente nel pallone, che continuò a fare la retromarcia e si fermò quando sentì lo stridulo rumore, provocato dalla colluttazione tra porta e carrozzeria. Tirò il freno a mano e mise a folle dopo aver portato la macchina al punto di prima. Sbattè la portiera sbuffando ripetutamente e fece scorrere lo sguardo sull'intera carrozzeria sperando in niente grave. Prima di riuscire a tirare un sospiro di sollievo si rese conto di un maledetto graffio – a malapena visibile, certo – alla basse delle ruote. Si rialzò e agitò il pugno in aria. La preziosa audi 8 del suo vecchio che gli era costata più del suo stipendio, orribilmente deturpata. Sospirò, passandosi una mano sulla fronte. Ora poteva dire addio alla possibilità di guidarla ancora. Era stata un'impresa convincere suo padre a lasciargliela, poichè quella della madre era parecchio scomoda nelle manovre, ma era riuscito ad ottenerla promettendogli solennemente che si sarebbe preso cura di lei. I primi tempi l'aveva fatto, se ne era preso cura come se fosse stata sua sorella, stando attento a dove parcheggiarla per evitare... questo.
Quest'orribile striscia bianca, in bella vista sulla carrozzeria blu notte. Alzò gli occhi al cielo e rientrò in macchina, sperando di arrivare illeso a scuola. Per fortuna, suo padre non rincasava prima delle cinque, quindi avrebbe avuto tempo per pensare a una scusa plausibile dopo la scuola.
Mentre guidava in direzione del centro di Kingstown, il cellulare vibrò un paio di volte sul sedile affianco.
Sapeva chi lo stava cercando alle nove e mezza della mattina, in pieno orario scolastico, e senza perdere di vista la strada si sporse per controllare il messaggio appena comparso.

23 febbraio. Jimmy, online... sta scrivendo.
Adam, dove cavolo sei? Il prof sta facendo l'appello, sbrigati!

Non rispose, e continuò a premere l'acceleratore sentendo, di conseguenza, la macchina vibrare. Continuò a guardare dritto davanti a sè, finché non vide una striscia di mare, sottile, che si confondeva e creava un piacevole contrasto con i prati irlandesi. L'aria era più leggera rispetto a quella di città, lo riempì i polmoni e gli donò una sensazione piacevole sul viso, mentre teneva il finestrino leggermente aperto. Si perse per un secondo a contemplare il paesaggio, donato all'isoletta di dun Laoghaire, e per poco non investì un anziano intento ad attraversare. La macchina frenò bruscamente, azionando il multi collision brake, sbalzandolo prima in avanti e poi indietro, trattenuto tenacemente dalla cintura. L'anziano lasciò cadere il bastone, portandosi instintivamente una mano al petto. Sollevò, poi, il bastone da passeggio agitandolo contro il muso dell'auto, imprecando contro la disattenzione dei giovani d'oggi. Adam mimò una "scusa" piuttosto impacciato, e dopo che l'anziano passò dalla parte opposta ripartì, lasciandosi scivolare con sollievo contro il sedile. La giornata non poteva andarmi peggio - pensò, riprendendo a guidare con un ritmo moderato. L'ultima cosa che mancava era un incidente. Dopo dieci minuti di rettileneo e qualche curva, imboccò l'arteria principale, costeggiando il mare. Lo sciabordio delle onde riempì l'abitacolo e l'accompagnò fino ai cancelli della scuola.
Visto dall'esterno, il Sandford Park School somigliava a uno squallido capannone in ferro e vetro, immerso in una radura abbandonata a sé stessa dove l'erba ti arrivava a metà gamba, ma il fatto che si trovasse a pochi passi dall'oceano lo rendeva un posto incantato. Il patio era vuoto, disseminato di tante vetture. Le lezioni dovevano essere iniziate da almeno un'ora, come gli aveva scritto Jimmy. 
Prese la valigetta e il cellulare e si diresse a passo svelto verso l'ingresso. Una schiera di armadietti verde - uno dei colori cardini dello stendardo - chiusi da lucchetti gialli gli si parò davanti, prima di scendere ai piani inferiori, dove per quest'anno avevano posizionato gli studenti del Senior Cycle, quelli a cui mancava un anno per conseguire il diploma. Aprì il suo, nella fila di sinistra, con una strana combinazione di codici e prese il materiale. Quando si trovò davanti alla porta grigio-topo trattenne il respiro e afferrò la maniglia. Una quarantina di occhi lo fissarono dai loro banchi, un inquietante mucchio di giacche verdi, e in più quelli del professore, piantonato alla cattedra. Si sentì terribilmente a disagio e abbassò la testa fissandosi le scarpe, in pendant con la mise orribile. Per un momento, pensò di voltarsi e scappare, poi il suo sguardo vagò nella direzione dei compagni, alla ricerca di Jimmy, il suo amico, e lo trovò scomposto ad infastidire Jade, la sua probabile compagna.
"Signor Clark, finalmente ci degna della sua presenza!" esordì brusco il professore, risvegliandolo senza troppi indugi dalla trance momentanea in cui era piombato.
Niente a che vedere con il dolce rumore delle onde o il verso di un gabbiano, piuttosto somigliava a un'unghia che strisciava contro il lavagna facendoti tremare nelle ossa.
"Quest'istituto non è un albergo ad ore. Non può presentarsi quando le pare e piace. Ci sono delle regole da rispettare." ad ogni frase batteva sempre di più la mano sulla cattedra, facendo tremare gli infissi delle finestre. La classe piombò nel mutismo.
Adam fissò negli occhi l'uomo più detestabile del mondo e si schiarì la voce.
"Non ho sentito la sveglia, signor Python." 
"Per favore, vada a contarlo a qualcun altro. Pensa sia nato ieri?"
"No, signor Pitone." 
"Python, per amor del cielo!" sbraitò.
Un velo di sudore gli imperlava la fronte mentre Adam si tratteneva da prenderlo in giro ancora, e ancora, per quel cognome che gli calzava a pennello. Di certo, non poteva dirgli che sua madre aveva completamente equivocato le parole del giornalista su una scossa, che aveva interessato Dublino a dieci chilometri da Dun Laoghaire, costringendo lui e suo padre a intrufolarsi nell'audi per mettersi al sicuro. E che, uscendo dal garage, aveva rigato la macchina del padre e quasi investito un passante. Non poteva, di certo
"Vada a sedersi. Le risparmio la presidenza per stavolta." esclamò puntando il dito su una fila di banchi. Adam lo ringraziò e si affrettò a percorrere quello stretto corridoio che separava le due file.
"Clark?" lo richiamò, un'altra volta. Si bloccò di colpo voltandosi, e vide il dito dell'uomo indicargli un banco unico, nel fondo della stanza.
"Si sieda lì."
Adam controllò con un rapida occhiata ogni centimetro, tutti occupati. Una volta assicuratisi che quello fosse l'unico libero vi gettò i libri e scivolò sulla sedia. Ormai rilassato e a suo agio, inchiodò gli occhi sugli appunti. Dopo aver concesso abbastanza attenzione a quell'uomo per quasi un'ora, si stiracchiò velocemente e girò il viso in direzione della finestra. Non aveva mai notato questo posto, nessuno l'aveva occupato prima di lui, e il professor Python lo utilizzava, escluscivamente, in caso di punizioni sfruttando la fobia della solitudine. Ognuno cercava di mettersi vicino a qualcuno - persino accanto al peggior nemico- e tutto per non rimanere soli. Si sceglieva la terza fila, una via di mezzo tra prima e ultima, ma perfetta per chi voleva eludere le interrogazioni e passare inosservato.
Qualcosa lo colpì e finì sul pavimento. Adam si voltò e finse di stare attento temendo che Python se ne fosse accorto e si rimise composto riprendendo la penna in mano.
"Pss.. Adam..." lo chiamò a bassa voce Jimmy, sporgendosi dal suo banco, due file avanti.
"Cosa..." arricciò la fronte e trasalì quando il professore alzò di due ottave la voce per farsi sentire anche dagli ultimi banchi. Poi si girò verso la lavagna, continuando la mappa concettuale.
"Vedi cosa ti ho scritto..." bisbigliò, facendo segno alla pallina.
L'altro sospirò. "Mi farai scoprire, scemo." rispose. 
Approfittando che fosse di spalle si chinò per raccogliere quel pezzo di carta arrotolato. Dovette allungarsi a causa della pessima mira del compagno per non rischiare di finire sul pavimento. Lo afferrò e fulminò il mandante da lontano. Quello gli fece un sorrisetto in risposta e scrollò le spalle.
"Maledetto..."
Si tirò su, e senza accorgersene, andò a sbattere contro lo spigolo del banco.
Serrò la mascella in una muta espressione di dolore, trattenendo a stento un'imprecazione. Si accasciò a terra, massaggiandosi la parte offesa, sentendo una protuberanza sotto i polpastrelli. Jimmy si lasciò scappare una risatina, che attirò subito l'attenzione del professore.
"Clark! Cosa cazzo fa per terra? Gioca a nascondino?" 
"Eh, indovini..." scherzò Jimmy.
L'uomo si accigliò, attendendo una risposta dal diretto interessato.
"Può ripetere, Costa? Non ho sentito bene." lo incalzò, impugnando il gesso tra pollice e indice.
Adam restò zitto in attesa che quel dolore passasse prima di ammazzare il suo amico.
"Clarke, ritorni seduto láithreach !" gli intimò l'insegnante, riprendendo la lezione dove l'aveva interrotta, augurandosi di non doversi più fermare per le restanti due ore. Adam si rimise sulla sedia, il dolore si era leggermente calmato, ma la botta gli aveva lasciato un bernoccolo grande quanto una noce. Il suo sguardo cadde inevitabilmente sul bordo del banco, dove vide due lettere l'una accanto all'altra, una L e una C, scritte in grassetto e più volte ripassate con la penna. Le sfiorò tracciandone il contorno, l'inchiostro era secco ormai, chissà chi le aveva scritte. Sollevò il volto e cercò di fare mente locale per ricordare chi avesse occupato quel banco, ma non ricordò nessuno da associare alla L della dedica. Poteva essere stato un vecchio alunno, che si era affezionato a quel banco tanto da volergli lasciare un segno, e lui stava semplicemente perdendo tempo.









"Schema 3, ragazzi!" esclamò il mister da bordo campo, gesticolando con le dita. Adam appena colse il segnale scattò in avanti, posizionandosi ad un metro dalla porta avversaria, dove il portiere lo stava attendendo con le ginocchia flesse. Jimmy manovrò abilmente il pallone evitando le scivolate. Con un fulmineo torcimento del busto passò la palla all'attaccante. Adam pronto a ricevere la fece rimbalzare col petto e prese a correre, incitato dalle ragazze e dai compagni. Uno di loro tentò di braccarlo frontalmente, ma Adam lo scansò con una lieve rotazione del bacino e riuscì a smarcarsi, segnando il terzo goal di giornata e chiuse la partita amichevole. Le ragazze gli lanciavano sguardi trasognati dalla tribuna.
"Sei stato fenomenale!" ribadì il difensore, afferrandolo per il collo.
"Grazie alla tua azione. Sei stato perfetto anche tu."
Il cuore palpitava per lo sforzo e percepiva tensione al livello dei muscoli, ma era soddisfatto del suo percorso. Era quello che desiderava da quando aveva cominciato il calcetto, a otto anni.
"Però non metterci tutta questa forza, in fondo è stato soltanto un'amichevole."
"Non è importante che partita disputiamo, dobbiamo sempre dare il massimo!"
"Hai ragione." alzò le mani, bevendo piccoli sorsi. "Però non esagerare. I muscoli si stirano facilmente in questi casi, e se ti infortuni come facciamo?"
"Non succederà." lo rassicurò il capitano, osservando la fascia gialla che gli cingeva il braccio.
"Sei sicuro?"
"Sì, smettila di fare la chioccia!" Quello scosse il capo, saltellando sul posto. Adam prese un sorso di gatorade, e in silenzio, meditò sulla possibilità di chiedere a Jimmy notizie in più su quell'L.
Forse lui aveva conosciuto quella persona, dato che aveva iniziato gli studi del liceo in quella classe.
Arricciò la fronte, turbato da tutti quei pensieri e decise di concentrarsi sui lacci degli scarpini.
"Perchè non vai dal tuo fan club?" 
"Non mi va." si limitò a dire Adam, balzando in piedi. 
"Ma sono venute per te." continuò Jimmy, indicando il gruppo di ragazze, in cui individuò anche qualche giocatrice di lacrosse. Poco dopo, sentì la voce di Megy e la sua figura longilinea si fece spazio nel suo campo visivo. Le rimproverò e quelle rimasero a testa bassa, limitandosi ad annuire.
Jimmy la osservò incantato per tutto il tempo.
Adam gli schioccò le dita a un palmo dal naso e riuscì a scrollarlo dalla momentanea immobilità.
"Perché non vai a parlarle?" gli appoggiò una mano sulla spalla, scuotendolo leggermente.
Jimmy non rispose, continuando a fissarla mentre le afferrava per i polsi costringendole a schiodarsi dalla balaustra per tornare al loro campo, che si trovava esattamente al lato opposto.
"Troppo tardi." 
"Non importa" fece l'altro.
Mentre la ragazza si allontanava gli rivolse un'occhiata indecifrabile, cosa che per un'attimo aprì tanti interrogativi nella testa di Jimmy. Diede le spalle ad Adam e proseguì a camminare verso i lavandini e, intanto, con la coda dell'occhio sperò di incrociare ancora una volta quegli occhi perforanti.
Adam si appoggiò al bordo a braccia incrociate, il suo viso era rigido. 
"Jimmy, posso farti una domanda?"
"Su cosa? Se vuoi dei soldi, mi dispiace deluderti ma sono al verde."
"Non m'interessa il tuo budget economico." Precisò, facendolo girare automaticamente nella sua direzione, con l'asciugamano attorno al collo e i capelli appiccicati alla fronte.
Adam gli si avvicinò di più. "Senti, Jimmy, tu per caso sai chi sedeva nel banco di oggi?"
Jimmy ci pensò su. 
"Perché t'interessa tanto?" gli domandò.
Il capitano fece spallucce nel vano tentativo di nascondere la curiosità. Era sempre stato un tipo curioso, attratto dai misteri, dalle cose che non conosceva. Si fingeva sempre un pirata a bordo della sua nave alla ricerca dei preziosi forzieri segnati su una vecchia mappa mezza bruciacchiata. Una volta aveva rischiato di dare fuoco al tappetto della sua camera. 
"Non si risponde a una domanda con un'altra." Lo rimbeccò il castano, passandosi una mano fra i capelli. "E poi non sono certo si tratti di una ragazza. Comunque, dimentica quello che ho detto."
Non appena tentò di andarsene il difensore lo prese per un braccio costringendolo a fermarsi.
"Dimenticati quello che ho detto." gli ripetè, di nuovo. 
"No, forse posso aiutarti. Ma a una condizione..."
Adam roteò gli occhi al cielo, sbuffando. "Lo sapevo. Cosa vuoi?"
"Una capatina a quel night club che hanno inaugurato l'altro giorno." 
"Nient'altro?"
"Ho gusti sopraffini." si vantò l'altro mentre sorrideva beatamente, facendo intravedere le fossette ai lati della bocca. "E poi hai bisogno di una ragazza. O hai intenzione di rimanere così a vita?"
"Sono troppo impegnato con il calcio per..." ma Jimmy lo interruppe. "Lo so. Ma cosa c'è di male se una sera ti lasci andare?"
Adam era pronto a ribattere che non gli serviva il suo aiuto per trovare la sua anima gemella, ma l'altro lo zittì. Gli avvolse le braccia attorno al busto e lo trascinò verso la panchina, dove il mister li stava aspettando, sgolandosi da ormai dieci minuti. L'intera squadra dopo poco lo accerchiò e rimase in religioso silenzio, in attesa che il loro allenatore pronunciasse i nomi di coloro che avrebbero disputato il campionato. Un fischio acuto e breve attirò l'attenzione degli ultimi, che tacquero.
Adam trattenne il respiro mentre il suo sguardo correva sulla tabella alle spalle dell'uomo. Si strinse nelle spalle torturandosi un labbro fra i denti. Il mister prese un foglio e lo sventolò in alto.
"Qui ci sono i nomi dei titolari. Chi verrà nominato deve fare un passo avanti. Il resto sarà di riserva."
"Si muova mister, che qui facciamo mattina!" gli gridò di rimando Jimmy. Adam gli diede una gomitata nelle costole, intimandogli di farla finita.
"Okay, a porta Igor. Come difensori laterali ho deciso di schierare Nicolai e Aaron, mentre come centrale Jimmy..." e mentre lo diceva, intercettò lo sguardo del diretto interessato che strinse i pugni contro i fianchi. "Centrocampista Caèl, Luis, e trequartista Finn e Ronald. In prima punta Adam..."
Jimmy gli diede una pacca sulla spalla e il castano gli sorrise, facendo con sommo piacere quel passo in avanti che aveva aspettato praticamente da tutta la vita. "chiudono la formazione Sergio come seconda, e infine Niall come ala." chiuse il foglio. "Bene, vi auguro buona fortuna, e ricordate di tenere alto il nome del nostro istituto, okay?"
Tutti gridarono a squarciagola quell'okay per darsi la carica giusta in vista delle prossime partite.
"Per la vittoria del liceo Sandford Park School!"
Lo seguirono a ruota anche gli altri.










"Basta così, ragazze! Potete andare." disse Megan riunendo in cerchio le compagne, che stremate si accasciarono a terra. Si erano allenate ininterrottamente, concendendosi solo mezz'ora di pausa. Megan stava ricoprendo alla perfezione il ruolo di capitano, le spingeva a dare il massimo come aveva sempre fatto Lauren, e anche se era difficile mantenere il ritmo, tutte tenevano bene in mente che lo facevano principalmente per loro stesse, perchè il lacrosse era una passione non una costrizione. E non avevano smesso per un solo momento di pensare a come stesse Lauren, visto che la ragazza le aveva praticamente estromesse dalla sua vita, dopo la scoperta della malattia. Il neo capitano aveva dovuto fare appello alla sua forza di volontà per guardarle negli occhi e mentire. Aveva cercato di rendere più veritiera la versione aggiugendo che Lauren stesse continuando a sottoporsi alle chemio e a fare controlli approfonditi per stabilire a che stadio fosse giunta la malattia, senza neanche far riferimento alle dimissioni dell'altro giorno, e si sentì terribilmente in colpa. Sapeva che le compagne avevano il diritto di essere informate sulla situazione, ma già abbastanza persone stavano soffrendo, e lei non voleva lanciare altra legna ad ardere. Dopo aver sorriso falsamente e detto un'altra trafila di bugie, si diresse barcollante a bordo campo dove aveva lasciato il borsone. Fece un sospiro e si accasciò sulla panchina, appoggiando la mazza sulle ginocchia. Aveva la pessima abitudine di sfidare i suoi limiti. Correva, tirava fino a sentir le braccia indolenzite e i muscoli implorare pietà. 
Una lattina dietro l'altra. Il suo petto si alzava e abbassava, mentre stringeva al petto la mazza. Continuava ad allenarsi fino agli ultimi sprazzi di luce, non importava che le gambe non la riuscissero più a reggere quella fatica estrema a cui si era condannata per dimenticare... 
Chinò il volto e la osservò, rigirandosela fra le mani. Gliel'aveva regalata Lauren subito dopo che smise di giocare, e da quel momento Megy non se ne era più separata; se la portava sempre dietro ad ogni partita, immaginando Lauren vicino a lei che la spronava a tirare. Si sentiva più forte e decisa di prima, ma non si sarebbe sognata mai di soffiarle il posto di capocannoniere della squadra. Quello sport le scorreva nelle vene, era nata per fare quello, ed era certa che un giorno sarebbe tornata a far tremare le avversarie con i suoi tiri magistrali e impossibili. Avevano sempre costruito le azioni di gioco insieme, lanciandosi occhiate complici da una parte all'altra del campo, e nulla – neanche il cancro – sarebbe riuscito a spegnere quella passione. Anche se il male la stava consumando, se la cera si stava sciogliendo poco alla volta, tanto da far pensare a una fine certa e inevitabile.

Il cellulare squillò riempendo improvvisamente il silenzio che la circondava. Appena vide il display nefasti scenari le attraversarono il cervello. Il suo nome continuava a lampeggiare. Aveva le mani sudate e le dita tremavano mentre premevano quel tasto verde, e un senso di nausea le pungeva nello stomaco come uno spillone. 

Avrebbe voluto dirle così tanto, ma si limitò a un semplice "pronto".

– Cara, sono Claire.

Oh, no... 

– Signora Castle, è successo qualcosa? 

Scattò in piedi come un soldato. 

– No, non spaventarti.

Il suo cuore tornò a battere regolarmente e la voce ad essere meno tremolante, ma il senso di panico restò. 

Si schiarì la voce. – Claire, come sta Lauren?

La domanda da un milione di dollari.

– Non bene, purtroppo. Stanotte ha avuto un tremendo incubo e quando le ho chiesto cosa avesse sognato, non me l'ha voluto dire, ma mi è sembrata scossa.

La donna pareva sentirsi in colpa per i malesseri notturni della figlia. E nonostante ci fosse uno schermo a dividerle, Megy immaginò quel video incresparsi, farsi teso e incupito, come tutte le volte che il dottor Tognetti dice le cose come stanno. Ormai era diventata parte di quella famiglia. Percepiva il loro dolore, lo provava sulla sua pelle, e viveva momenti in cui non si poteva fare a meno di essere incazzati col mondo e altri in cui si provava a sorridere ed essere felice.

–Claire, stia tranquilla. Dov'è ora?

– In camera sua. Ha mangiato poco e niente, poi è andata a letto – spiegò velocemente la donna, quasi colta da un attacco di panico. – Ho paura, Megan. Non voglio che mia figlia torni in ospedale un'altra volta. Non lo sopporterei.

– Non succederà, Claire.

–Non potresti passare stasera? A Lauren farebbe bene vedere la sua amica.

– Va bene, vedrò di venire per le sette e mezza. E non si preoccupi che la rimetterò in piedi a suon di calci.

La donna ridacchiò dentro la cornetta. – Spero tu abbia più fortuna. Lauren sa essere testarda.

–Lasci fare a me e vedrà.

Dopo essersi salutate le due donne chiusero la conversazione.

"Ah, accidenti Lauren! Mi farai morire di crepacuore!" 













Ad aprirle la porta di casa Castle quella sera ci pensò Alvin. Appena vide Megan fermò sullo zerbino rimase a contemplarla, come in catalessi, con la manina ancorata alla porta. Megy si chinò verso il viso paffuto del bambino e gli accarezzò dolcemente una guancia.
"Megy!" esclamò saltando sul posto.
"Ciao Alvin. C'è tua sorella?"
"Si è chiusa in camera." si limitò a dire sbuffando, per il poco interessamento che la ragazza stava mostrando nei suoi confronti. Era da quando Megy era diventata amica della sorella, che il piccolo si stava impegnando con tutte le sue forze per dimostrarle quanto ci tenesse. L'aveva corteggiata, dedicato tante poesie e regalato un fiore di carta pesta fatto ad artistica con le sue mani, ma lei continuava a trattarlo come un bambino di dieci anni – cosa che purtroppo dimostrava ampiamente a livello fisico. Apprezzava il fatto che lo proteggesse e difendesse dalla furia di Lauren, ma questo tra qualche anno gli sarebbe bastato sempre meno.
"Alvin, chi è alla porta?" gridò la signora Castle dalla cucina.
"Megan, mamma." rispose il piccolo, senza distogliere gli occhi da quella specie di angelo.
"Vai a chiamare tua sorella." 
"Perché dovrei chiamare quel ghiro?" ribattè. 
"Alvin!"
"Come ti permetti di darmi del ghiro." tuonò la ragazza sbucando nel corridoio e fulminando il fratello, che ogni volta la ignorava, concentrandosi sulla ragazza con cui sognava un giorno di sposarsi, se fosse stata ancora attraente e senza rughe. Lauren li raggiunse a piccoli passi, stringendosi lo scialle attorno alle spalle, e con una manata spostò il fratello interponendosi fra di loro.
"Scusalo."
"Oh, non ti preoccupare."  si spostò leggermente guardando in direzione del piccolo spasimante, e gli strizzò un occhio. "Alvin, dopo vieni in camera di tua sorella che ti racconto una bella storia."
Il piccolo s'illuminò. "Davvero, posso?" non perse tempo nemmeno a chiedere il permesso alla proprietaria della stanza.
"No, non puoi unirti a noi." il suo entusiasmo si frenò all'istante. 
"Perché? Non mi scandalizzo."
"Perché sei piccolo." 
Alvin mise il broncio, con già le lacrime agli occhi.
"Stai zitto." lo ammonì la sorella.
"Ma parli tu che non hai manco uno straccio di fidanzato!" le urlò contro.
Lauren lo guardò in cagnesco. "Perché non vai ad aiutare la mamma invece di stare qui a fare il cascamorto con la mia amica?"
"Me ne vado, ma prima Megan deve promettirmi che mi racconterà una storia."
"Sì, Alvin. Dopo ti racconterò una storia, ma adesso ubbidisci a tua sorella." 
Alvin batté le mani felice e corse via, strappando un sospiro rassegnato alla sorella che lo seguì con lo sguardo finché non scomparì in cucina. In fondo, stava regalando a suo fratello ogni pezzo della quotidianità che non aveva più. Alvin non sapeva della sua malattia, e i suoi genitori erano stati d'accordo di non dirglielo per non farlo soffrire. Aveva ancora dieci anni ed era meglio che non venisse turbato da questi discorsi, così si erano impegnati per costruirgli attorno una realtà distorta fatta di bugie continue, sorrisi tirati e lacrime ricacciate indietro. I loro litigi davano l'impressione che nulla fosse cambiato nulla. L'unica cosa che voleva Lauren era proteggere quel bambino, impedirgli di scontrarsi subito con la sadicità della vita. Voleva a tutti i costi fargli credere che era bellissimo stare al mondo, anche con gli sbagli, le delusioni, le conquiste e le perdite. La vita era l'unica cosa preziosa a cui ogni essere umano si doveva aggrappare con le unghie e i denti, per non lasciarsi travolgere dallo sconforto. Era una sola, un'unica possibilità e non andava sprecata. Voleva lasciare ad Alvin qualcosa di importante, oltre ai loro litigi che cercava di assecondare il più possibile. Si divertiva a rispondere alle sue frecciatine, ad arrabbiarsi e rincorrerlo per tutta casa. Sembravano due bambini quando si torturavano a vicenda con il solletico, e lei dimenticava per un momento di essere malata.
Stava bene quando Alvin tornava a casa gettando a terra il suo zainetto e facendo una confusione pazzesca. Era così fissato con gli Avengers che aveva costretto la madre a comprargli il vestito di Spider Man, e il giorno di Carnevale si era presentato a casa di Megy fingendo di doverla salvare da un probabile criminale che girava in città, e la ragazza l'aveva assecondato divertita.
Si era guadagnato anche un piccolo bacio sulla guancia e per poco non era finito all'altro mondo – le raccontò il giorno dopo Megy, facendo fare a lei e il signor John un mucchio di risate. Ma non potè fare a meno di maledirsi di star perdendo i momenti di crescita del fratello, e tutto per colpa del destino.
Lui, però, le aveva subito risollevato il morale facendole riscoprire il dolce sapore di casa.
L'affetto e l'ingenuità di quel bambino la curavano più di tutte quelle medicine che assumeva ogni giorno, ad ogni ora. Forse era vero che Alvin era un piccolo eroe e non aveva bisogno della maschera per calarsi in quei panni.
"Un giorno lo cucinerò al forno con le patate."
"Dai, ha solo dieci anni." 
"Di cattiveria." aggiunse, chiudendo la porta. Salutarono brevemente i signori Castle e si diressero verso la camera. Megan ricordava benissimo il motivo che l'aveva spinta a frequentare la ragazza che stava tallonando, al di fuori delle partite e degli allenamenti. Tre anni fa percorse lo stesso corridoio, con fra le mani una cartellina rossa, con all'interno un progetto da finire. La professoressa l'aveva spronata a partecipare al concorso di disegno, e Megy si stupì di ritrovarsi in squadra con la ragazza prodigio. Ci misero l'intero pomeriggio, alternando momenti di svago a quelli di lavoro. Lauren si occupò di realizzare il cartellone, mentre l'altra faceva ricerche in Google trovando immagini che potessero dare l'idea della pace. Si aggiundicarono il secondo posto, con sommo dispiacere degli altri che speravano in un primo posto, ma alle ragazze non importò. Erano soddisfatte lo stesso, felici di quello che avevano realizzato e del legame che stavano pian piano stringendo. In poco tempo, si era creata un'unione indiscindibile che nessuna delle due aveva mai pensato di trovare tra tanta falsità e dopo altrettante delusioni. E invece, tre anni dopo, erano ancora in piedi, a tenersi per mano, e a fottere la vita. Erano cadute così tante volte ed alla fine avevano imparato a volare, a raggiungere un equilibrio. Ogni cicatrice che si portavano addosso, sulla pelle e nel cuore, era il risultato di tutte le battaglie che avevano affrontato. Era lo stemma del loro coraggio, e anche se avevano da perdere tanto, forse troppo... un giorno sarebbero state felici.








 
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Sono contenta di aver scritto questo nuovo capitolo, come avete ben notato si comincia ad entrare nel vivo del libro, ed anche se la narrazione segue un ritmo lento, e non sembra succedere niente di strano fino ad adesso... inevitabilmente vi accorgerete di essere arrivate al punto focale.
Vorrei tanto sapere cosa ne pensate del personaggio di Adam, come l'avete inquadrato finora? Che impressione vi ha fatto? Positiva o negativa?
E' coerente con l'immagine che ho detto gli avrei dato?
 
Ovviamente aspetto i vostri commenti e pareri, e ringrazio sentimentamente dal più profondo del mio cuore chi sta leggendo senza farsi vedere, chi l'ha messa nelle preferite, nelle seguite, e addirittura nelle ricordate! e ovviamente chi mi ha commentato per la prima volta, esponendo recensioni che mi hanno commosso davvero molto. Karen Humbert. 
 
Stavolta non ho previsto note a piè di pagina, ma il termine irlandese significa "subito". 

Vi ringrazio, e spero che continuerà a piacervi. 







 

 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


~Le Corde del Cuore
ISPIRATA A UNA STORIA VERA
amare per vivere


Temere l'amore è temere la vita,
e chi ha paura della vita
è già morto per tre quarti.


                                                       (Bertrand Russel)



– capitulo 5 – 





Camminare per quei corridoi le dava l'impressione che nulla fosse cambiato. Il banco dell'accettazione alla sinistra, la schiera di sedie vuote stipate in fondo al muro, il via vai di infermieri, medici e barelle, gli sguardi vacui di chi non sa se resisterà alla prossima diagnosi. L'ala nord non piaceva a nessuno. La prima volta era stata scortata da un'infermiera molto gentile che, per tutto il tragitto, le aveva raccontato come una favola ciò che avrebbe trovato una volta dentro. Era solo una ragazzina e aveva così tanta paura che le si aggrappò al braccio implorandola di non lasciarla sola. Non aveva avuto il coraggio di dire a sua madre che quello era il primo giorno della terapia, già aveva faticato per accettare la sua malattia e non voleva peggiorare il suo stato emotivo. Per tutto il tragitto si era imposta di essere coraggiosa, ma trovarsi davanti a quella porta fece piombare nel vuoto tutte le sue certezze, e la paura s'impossessò di ogni fibra del suo corpo. Dora le accarezzò gentilmente i capelli e le regalò un sorriso cordiale, prima di prenderle la manina ed entrare. Tutto il suo corpo tremava quando si stese sul lettino, si mordicchiò il labbro e immaginò di trovarsi in mezzo al campo a giocare una delle partite più difficili. Respirò forte e chiuse gli occhi mentre l'ago penetrava più in profondità e quel liquido le scavava le viscere. "Se vuoi vomitare c'è una bacinella vicino a te, tesoro" le aveva ricordato Dora senza smettere di stringerle la mano. Una lacrima le scese giù per il collo. Pensò di aver fatto la cosa giusta, non avrebbe sopportato di vedere l'angoscia sul suo volto. Sua madre si era tranquillizzata quando il dottore le aveva spiegato che con un trattamento adeguato sarebbe potuta guarire e Lauren non voleva spegnere la speranza con quella visione.
Avete presente quando state combattendo contro un avversario più grande di noi e sentite il corpo tramortito?
Così si era sentita Lauren per tanti giorni: lacerata, distrutta fisicamente e mentalmente, anche se Dora aveva tentato di risollevarla (ma invano). Si era sottoposta a quattro cicli, e quello sarebbe stato il quinto, ma questa volta ad accompagnarla sarebbe stata suo padre. Non pensava che lui potesse tornare così presto e non poteva nascondere la sua felicità. 
" Che ne dici di prendere qualcosa?"
"Stai tentando di tranquilizzarmi come farebbe Dora?"
L'uomo negò con la testa e le strinse un braccio attorno alle spalle. "Ti ricordi cosa mi dicevi da piccola?"
Andrà tutto bene, ricordava queste parole, le ripeteva sempre quando qualcuno stava male. Quando il padre rischiò di morire cadendo a una piattaforma di tre metri mentre stava pitturando una parete o quando Alvin fu operato d'urgenza a causa di un'appendicite acuta. Quando tutto era nero e storto riusciva sempre a risollevare il morale a tutti coloro che le stavano vicino, e Peter sapeva benissimo da chi avesse ereditato quest'altruismo; era felice che la sua bambina gli ricordasse sua madre e che una parte di lei fosse rimasta per proteggerli, ma il pensiero di doverle dire addio non lo faceva dormire.
"Andrà tutto bene", e Peter annuì. "Come tutte le volte, papà. Non ti preoccupare."
La ragazza l'afferrò per il braccio costringendolo a fermarsi mentre già si poteva percepire odore di medicinali, ma soprattutto dolore. Altri malati erano seduti ad aspettare il proprio turno per entrare, e a Peter mancò quasi il respiro. L'uomo si scambiò un'occhiata ansiosa con sua figlia, che invece sembrava impassibile, o dava l'idea di esserlo.
"Però preferisco che mi aspetti fuori"
"Perché?"
Le prime volte stare sola le avrebbe pesato, ma adesso conosceva l'intera prassi e i sintomi e si sentiva abbastanza preparata per affrontare quelle due ore.
"Voglio cavarmela da sola."
"Sei sicura, tesoro? Non voglio che tu sia sola", continuò visibilmente preoccupato.
Lauren sorrise mentre il padre la fissava rammaricato. Per mesi aveva preso il largo credendo di potersi lasciare i problemi alle spalle e che l'oceano potesse lenire la sua sofferenza. Era stato egoista a scaricare le sue responsabilità su una bambina di quindici anni, che aveva avuto il fegato di sottoporsi al trattamento da sola, ma era stata l'unica cosa che gli era venuta in mente, anche se sbagliata. Non c'era ombra di quella quindicenne innocente e piena di sogni, ma di una diciassettenne matura e realista.
Le prese delicatamente le mani. "Mi dispiace, piccola. Sono così fiera di te. Hai solo diciassette anni, eppure stai affrontando questa situazione come nessun altro. Sei una donna ormai, e anche se mi hai chiesto di stare qui, io non riuscirei a farlo. Voglio entrare e stare con te, non m'importa di ciò che potrei vedere."
"Lo so che mi vuoi bene ed è proprio per questo che ti ho chiesto di non entrare. Non potrai fare niente per aiutarmi, al massimo potresti passarmi la bacinella quando darò di stomaco", ironizzò Lauren. 
"Lo farò! Ti passerò la bacinella tutto il tempo e sarò forte."
"Grazie papà, ma... non cambierò idea. Voglio affrontare questo da sola", gli lasciò una carezza sulla guancia mentre Peter chinava la testa fissandosi le scarpe.
Improvvisamente una voce maschile richiamò l'attenzione dei due. Appena Lauren si voltò vide una figura a lei familiare venirle incontro. Il suo amico John, un po' malconcio, mentre si trascinava dietro il lavaggio. La ragazza l'anticipò e gli buttò le braccia al collo. John l'accettò di buon grado non riuscendo a celare il tripudio di emozioni, che gli stava torturando lo stomaco. Era trascorsa una settimana da quando aveva lasciato l'ospedale, e nella stanza era rimasto solo John e un peluche, Billy. John era impaziente di poter parlare con la sua amica, l'unica che in tutti quegli anni era riuscita ad aprire il suo cuore, dopo anni di silenzio e sofferenza. E Lauren le somigliava molto in determinati atteggiamenti.
Appena si staccarono, John gli depose un bacio sulla fronte guardandola paternamente."Oggi hai la terapia?"
Lauren smise di sorridere. John ricordava perfettamente in che condizioni stesse il giorno dopo quando faceva il trattamento: o dormiva profondamente oppure vomitava l'anima, o si lamentava costringendolo a suonare il campanello. L'uomo si limitò ad abbracciarla, le parole erano superflue in quel caso, specie se si era un malato terminale.
"Tesoro, chi è quest'uomo?", esordì Peter avvicinandosi.
Lauren si girò nella sua direzione. "Papà, ti presento il signor John Foster. E' stato il mio compagno di stanza," poi si rivolse all'altro. "Signor John, le presento mio padre: Peter Castle."
"Piacere di conoscerla, Peter," si fece avanti John allungandogli una mano. Peter non esitò a stringerla, osservando gli occhi verdi dell'uomo con una punta di curiosità. "Sua figlia mi ha parlato molto di lei durante la degenza. Ero davvero curioso di conoscerla. E' un marinaio nei mari del Sud Carolina, vero?"
Lauren apparì molto stranita da quell'improvviso cambiamento: di solito non era molto espansivo con nessuno, e gli infermieri faticavano molto per farlo collaborare durante la medicazione. Ma con suo padre sembrava che quell'anziano avesse ritrovato la voglia di parlare su qualcosa che non fosse la malattia ai reni.
"Sì, ho solcato anche quelli," rispose. "Anche mia figlia mi ha parlato molto di lei, ed anch'io volevo incontrarla. Deve stimarla molto."
"Certo che lo stimo molto! Lui mi è stato vicino quando tu eri per mare." s'intromise la giovane.
"Tu esageri. Sono io a doverti ringrazire per questi due anni. Sono stato molto bene." 
"Sono io invece a doverla ringraziare. Lei ha sostenuto mia figlia, e io..." Peter aveva gli occhi completamente lucidi e per poco non scoppiò a piangere. "Potrei..." non terminò la frase e si lanciò nelle braccia di quell'uomo che, non sapeva il perché, ma aveva qualcosa di familiare.
L'uomo ebbe un fremito al cuore quando ebbe il viso di Peter a pochi centimetri dal suo viso. Il passato tornò a ondate nella sua testa: rivedeva quella persona passeggiare fra le bancarelle di un mercato durante il solito giro di ispezione. Ricordò che, da quel momento, l'unico dettaglio che avrebbe associato all'Irlanda sarebbero stati quegli occhi verdi. Ricordò di aver chiesto in giro notizie sul suo conto come un povero illuso, ma era troppo americano e poteva attirare l'attenzione dei nemici. John non avrebbe mai pensato che vedere il marinaio gli avrebbe risvegliato ricordi di un passato ormai morto.






John, nonostante le raccomandazioni dei dottori decise di aspettare insieme a Peter la fine della terapia. Mentre Peter sedeva sulla sedia, quest'ultimo preferiva gironzolare continuando a trascinarsi dietro l'asta. Come ogni volta, Lauren entrò da sola nella sala con il corpo pervaso di ansia. Dal secondo ciclo a farle compagnia c'era sempre stata Megy, spinta probabilmente dal bisogno di aiutarla e darle conforto. La sera precedente l'aveva chiamata per chiedere dettagli sulla sessione di allenamento e l'aveva invitata alla partita di prova e la ragazza aveva accettato. Ormai era stata dimessa e, secondo Megy, doveva smetterla di autocommiserarsi e di chiudersi in camera per la paura di morire, anzi avrebbe dovuto uscire e godersi le giornate! E lei aveva deciso di seguire quel consiglio quello stesso pomeriggio.
Si sdraiò sul lettino e chiuse gli occhi, con le braccia sulla pancia, aspettando l'infermiera di turno. Dopo qualche istante vide il paravento muoversi e la figura di una donna farvi capolino con un sorriso di circostanza. Era molto giovane, probabilmente una tirocinante, che non sapeva ancora nulla di cosa succedeva in quella sala a giudicare dalla sua aria spensierata. 
Le mani della donna tremavano mentre trovava la vena, impresa complicata per una alle prime armi. Prima di allontanarsi fece la sfilza di raccomandazioni. Si avvicinò ad un altro paziente. Il primo lavaggio era quasi finito, quanto poteva essere passato? Trenta minuti o un'ora? Il suo braccio cominciò a gonfiarsi, probabilmente l'ago era fuoriuscito. Man mano che il trattamento procedeva, e il tempo passava, aveva cominciato a manifestare nausea e stanchezza a livello muscolare. Tutto nella norma, ovviamente. Quello che le sue vene stavano assorbendo ERA veleno, puro concentrato distruttivo, e lei doveva fare attenzione ai piccoli tagli per non scatenere emoraggie.
Il malessere si era intensificato quando fece il lavaggio di melfalan. I crampi allo stomaco e alla pancia si erano intensificati. Il suo corpo cominciò con gli spasmi, sempre più violenti, e strinse la presa sulla sbarra del letto, mentre afferrava la bacinella e vi buttava la faccia dentro. Una poltiglia amara uscì dalle sue labbra, e quando ebbe finito si lasciò cadere sullo schienale. Era quasi un miracolo se aveva resistito al quinto ciclo, solitamente un paziente non supera il terzo. Quella sensazione viscida restò nella gola. Chiuse gli occhi, immaginando di essere in una radura meravigliosa, dove sua nonna le teneva compagnia come l'altra volta. I suoi pensieri rosei furono interrotti da un'altra infermiera che aveva adagiato sull'altro lettino un altro paziente. Era la prima volta che condivideva le due ore peggiori della sua vita con un altro paziente e questo la rassicurava. Alzò la testa cercando di capire se fosse qualcuno che conosceva.
Aveva la testa pelata, rivolta a destra, e una garza le fasciava il seno sinistro. Il suo respiro era così flebile che a stento lo sterno si sollevava. "Tumore al seno" fu il pensiero penoso che balzò nella testa della castana. Osservandola attentamente si rese conto che doveva stare malissimo, non aveva neppure aperto gli occhi. Lauren cercò di muoversi, stando attenta al tubo del lavaggio.
"Ciao...", era così sottile quella vocina. La ragazza bendata spalancò a fatica gli occhi, a causa anche della luce asettica che troneggiava sulle loro teste. 
"Ciao. Scusami, ti ho svegliato?" L'altra annuì. Lauren la fissò ancora, nella speranza di poterla scrollare da quella posizione. "Numero fortunato? 5."
"Due." mormorò la piccola.
"Come ti chiami?"
"Anna."
Che bel nome, pensò Lauren, sorridendo. "Il piacere è mio. Sono Lauren."
Era incredibile che fosse così semplice per dei malati chiacchierare senza pensare ai tanti modi di porsi. Probabilmente essere malati dava una spinta in più per conoscere persone che, da sani, non noteresti neppure. 
"Che cos'hai?" 
"Tumore al seno negativo. Mi hanno operato un mese fa." 
"Leucemia a cellule capellute."
La piccola regalò l'accenno di un sorriso. "Non possiamo... di certo lamentarci."
"Hai ragione! Sono due malattie veramente toste, ma sai... io non ho paura."
Ed era vero, lei non aveva paura del male. Lei lo voleva affrontare e sconfiggere. Lei voleva vivere, avere un futuro, ed essere normale.
"Quanti..." tossì Anna.
"Anni ho?" terminò per lei Lauren. "Diciassette quasi diciotto, ma ho scoperto la malattia a quindici."
"Io ho quattordici anni." replicò quando la tosse si attenuò.
"Cosa?!" esclamò portandosi una mano alla bocca stupita. Sentire che una piccola vita, come quella di Anna, stava combattendo per sopravvivere le stringeva il cuore in una morsa dolorosa. Pensava ai familiari, cosa stavano provando quando capivano che la terapia non stava dando buoni esiti. Lei lo vedeva lontano un miglio, Anna era debole, incapace di sorridere o parlare, e le faceva tenerezza. Immaginò Alvin, suo fratello, probabilmente se ci fosse stato lui a quel posto lei non avrebbe retto quel peso. Strinse i pugni mordendosi il labbro.
Possibile che non ci fosse nessuna cura in grado di guarire tutte quelle persone! Eppure la medicina aveva trovato una soluzione efficace: le cellule staminili negli embrioni, ma qualcuno aveva pensato bene di tagliare i fondi e reputare pazzo chi avesse pensato fosse questo che avrebbe salvato le vite dei malati di tumore. Che rabbia. Mentre le vite si spegnevano una dopo l'altra, questi grand'uomini pensavano solo a se stessi e alle loro finanze, certo.

Erano trascorse le due ore e anche il terzo lavaggio era finito. Aveva ancora la nausea, del tutto normale dopo tutto quel medicinale che le avevano sommistrato. Anna, intanto, dopo un breve solliloquio con sè stessa aveva finito per addormentarsi, combattendo in silenzio i disturbi della terapia. Chiamò la tirocinante per il lavaggio e si alzò, accompagnata dalla solita stanchezza e tensioni ai muscoli delle gambe e del torace, sintomi normali con cui ci conviveva ogni volta. Prima di uscire, però, si fermò a guardare Anna, la piccola paziente che l'aveva tenuta compagnia. Aveva gli occhi chiusi e il viso rilassato. Forse stava sognando di stare in un altro posto, o in un'altra dimensione. Le si avvicinò, stando attenta a non disturbarla, e le accarezzò la guancia che considerò tremendamente fredda. 
"Anna, ehi, io ho finito e volevo salutarti."
Nessuna risposta. Le toccò la spalla, scuotendola leggermente, ma il suo corpo era freddo; comprensibile visto che aveva solo un pantalocino che le copriva le gambe e il torace era nudo. "Anna, ehi..." le parlò vicino all'orecchio per poi sollevarsi e scorrere gli occhi sul corpo minuto della bambina, fermandosi all'altezza del petto. Una consapevolezza agghiacciante la colpì come un pugno.
"Anna, svegliati. Non è il momento di scherzare." continuò a scuoterla fino a che non la sollevò addirittura dal lettino, ma la testa ricadde all'indietro. "Anna! Anna, mi senti! Dì qualcosa!?"
Forse le stava facendo uno scherzo, provò a convincersi, presto avrebbe aperto gli occhi e avrebbe gridato "bu" mentre lei sarebbe ricaduta sulla sedia ridendo. Forse stava solo dormendo profondamente. Ma tutti quei "forse" furono ben presto cancellati quando le sue urla attirarono il personale medico. I dottori entrarono uno dopo l'altro, con il defribrillatore, occupando gran parte dello spazio mentre Dora si era avvicinata a Lauren per condurla fuori dalla stanza, il più lontano possibile da quella scena drammatica.
"Che cosa succede!? Io le stavo parlando, Dora! E lei mi aveva pure risposto!" urlò più forte la ragazza, mentre la dolce infermiera le faceva da scudo col suo corpo. 
"Lauren, stai calma per favore. Hai finito la terapia?"
"Ma cosa importa della terapia adesso!", tuonò la ragazza perdendo la sua pazienza. "Io voglio sapere come sta!"
"Lauren... tu sai cosa succede in questi casi. I dottori stanno facendo il possibile."
Nonostante la barriera umana di Dora, Lauren riusciva a vedere come i medici stessero praticando il massaggio cardiaco su quel corpo inerme, e alla ragazza colta dagli spalmi venne quasi voglia di piangere. Davanti a lei, stava morendo una persona.
Dora l'afferrò per le spalle. "Andiamo fuori, non è piacevole vedere questo."
Lauren aveva gli occhi puntati sul dottor Tognetti, accorso con la sua equipé per salvare Anna, ma quando l'infermierà posò il debrillatore e il dottore portò gli occhi sull'orario, alla ragazza cedettero le gambe sul pavimento. 
"Ora del decesso. 14:15."
Lauren si tappò le orecchie scuotendo la testa con violenza, mentre la voce della caporeparto era ovattata. Al suo posto, la vocina dolce e infantile della piccola Anna con cui poco prima in quella stessa sala aveva addirittura scherzato. E ora non rimaneva che un cadavere, un corpo ormai privo di vita, a cui bisognava dare sepoltura. 
"E' morta." Fu la prima parola della castana, quando tornò alla realtà e le voci ripresero ad essere nitide. "Perché?"
"Arresto cardiaco, Lauren." spiegò Dora. "Nei pazienti in stadio avanzato la malattia è più aggressiva, e nel caso di Anna già non c'era più nulla da fare." Confessò.
"Ed io? Anch'io farò la sua fine?"
"No, tu no. Tu sei più forte e la leucemia è tenuta sotto controllo." disse accarezzandola sulla spalla mentre la sosteneva col suo corpo per condurla fuori da quella stanza. Lauren si voltò un ultimo volto per fissare il lenzuolo verde posto sul corpo della bambina, e una lacrima scivolò sul suo viso.

Riposa in pace, piccola Anna.











L'esperienza di veder morire una persona avrà effetti devastanti sulla mentalità della protagonista, e mi dispiace molto per aver sacrificato la piccola Anna - che riposi in pace - ma era necessario. Come potete capire, adesso Lauren verrà travolta dai dubbi, e sarò peggio per lei fare tutto ciò che faceva prima della malattia. Riuscirà a superare le proprie paure sulla morte? Nel frattempo, l'incontro è quasi alle porte, e Adam potrebbe essere la soluzione a parecchi tarli mentali...







 

 

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