La torre di luce

di Lidzard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Matrioska

Ero seduto in treno al solito posto vicino la finestra, stavo andando via di nuovo, ed ogni volta era come cadere.

Ritrovarsi soli in un abisso, sapere di star per schiantarsi, senza appigli, il pensiero di non poter risalire il baratro.

Oblìo. Assenza di speranze o di alcun tipo di luce. Mi dicevo che dovevo farlo, poi sarebbe tutto finito, in un paio di giorni l'accademia non sarebbe più stata la mia meta.

Come al solito era tutto buio. No.. spento. Era tutto spento e le luci al neon insopportabilmente forti rendevano ogni colore più freddo, e gli occhi azzurri già sensibili alla luce mi pizzicavano, infastiditi. Mi sentivo spossato, perso. Avevo ormai percorso così frequentemente quel cammino, all'andata ed al ritorno, senza mai tornare abbastanza, mai del tutto, perdendo a poco a poco pezzi di me, che oramai avevo perso me stesso.

Mi sentivo un corpo senz'anima. Iniziai a dubitare persino di averne mai avuta una. E non vedevo luci, non vedevo nessun colore.

È incredibile quanto profondamente ci si può sentire persi, non bisogna sottovalutare i treni in questi casi. Seppure siano posti piuttosto scomodi, sporchi e rumorosi, i treni continuano a muoversi, mentre tu sei fermo all'interno, come un amico che fa le cose per te quando tu sei troppo rotto per farle da solo.. con una sola differenza. Ai treni non importa chi sei e cosa fai per loro, loro si muovono sempre, ti portano dove devi andare, non si aspettano nulla da te e non ti aspettano mai.

I treni seguono un percorso prestabilito che è quello e non muta con te. Potrai sentirti perso ed arrivare comunque a destinazione, magari lasciando in treno una parte di te, negli occhi di uno sconosciuto, nel riflesso ghiacciato di un vetro rotto abbandonato in un angolo polveroso, nel sorriso sfuggente di uno scolaro abitudinario che ti sorprende, perché affascinato dalla tua divisa.

Non c'è niente di affascinante nella guerra, o nell'istituzione militare. Non ho mai avuto l'ardire di dar voce a questo mio punto.. ma è tutt'ora un pensiero martellante nella mia coscienza, o nei brandelli che ne sono rimasti.

Ero lì seduto con gli occhi puntati fuori; ogni tanto perdevo la concentrazione e la vista mi si sfocava, lasciandomi cieco e confuso. Gli occhi aperti, nessuna immagine impressa nella retina. Ero tanto stanco.

Mi sentivo un cadavere, era come se avessi perso infine anche l'ultimo pezzo.

Un tempo ero una matrioska, ma una volta salito sul primo treno, involucro dopo involucro, ho dovuto buttar fuori tutte le copie che contenevo. Fuori sembravo a strati, un oggetto interessante e misterioso, ma dentro non c'era che aria fredda vorticante nel buio. Non un emozione, non un colore, non uno spiffero di paura fra le fessure dell'anima.

Non c'è bellezza in questo.

Osservai meglio il profilo di alberi spogli corrermi via da sotto lo sguardo, man mano che il «tram tram» aumentava. Il brusío si acquietava.

Ma sì, il rumore era micidiale.

Il fracasso delle rotaie e degli ingranaggi del treno rispecchiava ormai il suono dei miei pensieri, essi erano assordanti, continui, forti, implacabili. Pensai di essere all'inferno, mentre un lieve e rivelativo lamento mi risaliva in gola.

"Non essere recidivo"

Le dita abbandonate in grembo in procinto di ridisegnare i contorni del mio viso esangue, fino ad avventurarsi nella foltezza del biondo che mi accomuna ai miei fratelli, anche noi frutto di una creazione in serie. Evidentemente nostro padre ci fece con uno stampino.

Lo sentivo chiaramente, quel significante brandello di me, sgretolarsi e lasciarmi, l'ennesimo vuoto a riempirmi, a occupare il mio cuore. Stavo per essere annullato. Stavo forse per essere finalmente ciò che mio padre avrebbe voluto, sarebbe stato così fiero.

Di colpo fu diverso. Ero sempre seduto nel treno col brusío solito ed il vuoto dentro ed il tram tram nella testa. Ma adesso era diverso. Fu un attimo.

Un'eco di luce bianca, lontano, un leggero filamento, un viaggiatore solitario di qualcosa che avrebbe dovuto essere più lucente, più bianco ancora, più grande. La Torre.

Quella torre che fin'ora sapevo esserci, ma che era solamente una fra le mirìadi di informazioni inutili raccolte nella mia continua osservazione fuori quella finestra, che fin'ora era rimasta spenta ed anonima nel paesaggio monotono.

Essa era alta, sottile, luminosa nel buio. Non interamente luminosa, ma come fosse un vessillo di speranza, alla maniera dei fari sulle isole petrose e spoglie, o come una cattedrale gotica, essa era proiettata verso l'alto, più come una guglia, ma più maestosa, oltre ogni immaginazione.

La luce si concentrava nell'unico piano visibile in cima, che era come un'ampolla di carattere futuristico, si spandeva in orizzontale, come fosse un'enorme lampadina a led.

Mi colpí. E così come era arrivato, in punta di piedi sulle soglie della mia coscienza, l'attimo passò.

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


Marchiato


Era insoffribile, inepprimibile.. era come ricevere pugni allo stomaco e coltellate al cuore contemporaneamente. Non parlavo, non ero nemmeno del tutto sicuro di esserne ancora in grado.

Lui mi diceva cosa fare, io obbedivo. Lui mi faceva notare i miei errori ed io mi punivo. Maggiore era la ferocia con cui mi colpivo, maggiore sarebbe stata la sua gratificazione.

Mio padre era un incrocio ambiguo fra dolce e salato, luce ed ombra, bene e male; Galante, bestiale, raffinato, brutale. Egli incuteva timore reverenziale in chiunque incrociasse almeno una volta il suo sguardo, era ghiaccio. A me, che lo conoscevo bene invece, provocava un profondo terrore viscerale. Insoffribile.

Quella stessa mattina mio padre mi diede il buongiorno, accadde ancora, era giusto che accadesse, sapevo che sarebbe accaduto.

Stringevo le labbra fra loro, premendole assurdamente forte, serrando la mascella in un tentativo disperato di frenare ogni rumore gutturale, ogni singolo respiro fuori tempo, tutto il dolore, tutto ciò che mi rendeva umano e vivo. Con amarezza, ci riuscii. Mi ero punito per l'ultima volta.

Ero in piedi per essere giudicato, la corte marziale fu clemente, o forse fu l'impressione che mi diede. Non mi importava, non sentivo niente. Marciai, giurai ciò che dovevo alle istituzioni statali che avrebbero deciso le sorti della mia vita. Marciai ancora. La divisa mi bruciava la pelle.. O forse era la mia pelle a bruciare, e basta.

Stavo per dare prova di ciò che ero, ciò che meritavo di essere, ciò che dovevo essere, per essere considerato un Milton.

Il fuoco liquido della collera ribolliva nel profondo del mio petto, lento. Minacciava di risalirmi in gola. Forse avrei voluto urlare, non lo sapevo con chiarezza. Le divise tutte identiche indosso a ragazzetti tutti differenti, mi resero dolorosamente reo di quanto ero un niente. Non ero un ragazzo come loro, ero solo una divisa ben stirata.

Ma avevo i miei gradi, ero un soldato, avevo il mio onore adesso e non mi sarei più punito.

Ciò che mi fece male, fu lo sguardo d'ammirazione, il luccichío, quel senso di rispetto rivoltomi dai miei coetanei. Quelli erano ragazzi che stavano per fare i soldati, io ero un soldato nato. Tutti loro dovevano aver avuto un'infanzia spensierata, un'adolescenza confusa e caotica. Loro erano ragazzi, io ero sempre stato solamente un soldato.

Nella calca silenziosa e attenta, c'era un generale fra i genitori. Il mio generale mi fissava imperterrito. Tutti erano zitti, ma ero sempre io il più silenzioso.

Mio padre fu messo a tacere dal mio silenzio insistente. Lo vidi vacillare sulla soglia del rimorso, al confine con l'orgoglio. Lo vidi perché era di fronte a me, mentre marciavo. La parata mi costrinse a guardarlo negli occhi. Dopo non lo guardai, neppure per sbaglio.

Non sapevo che le sue punizioni potessero essere la mia forza, ma lo furono. Con amarezza, lo furono. Ed io non dovetti guardarlo mai più.

Quando mio padre morì, ne fui sorpreso, meno che sollevato.

In silenzio, fino al giorno del mio giuramento, pregai un Dio che non c'era di darmi la grazia. Pregai che morisse in fretta, nel mio silenzio insolente, il respiro profondo e rotto, nel buio della soffitta, l'unica stanza in cui mi sentivo al sicuro in casa mia. Ma lui non moriva. Si rialzava ogni mattina sempre meno docile, sempre meno gentile..

Pregai che morisse e non succedeva mai, fino al giorno in cui, vuoto ed insofferente varcai le soglie di quella casa per l'ultima volta. I muscoli della schiena dolenti ed imploranti pietà, reduci dell'ultima benedetta punizione.

Cosa avrei dato per non doverlo più guardare negli occhi.

Ma accadde, poi morì. Dopo la parata, rintanato nel mio posto sicuro, la stazione ferroviaria, inconsapevole della sua dipartita, pregai che non si facesse mai più vivo.

Che infortunato caso. Era già morto. Sorrisi al realizzare che era accaduto quando ormai non mi tangeva più nulla.

Salii in treno ancora. Di nuovo viaggiavo, ma stavolta senza più pezzi da donare. C'era un ché di familiare, la complicità fra me ed il treno era rassicurante. I treni non parlano ed io non ne ero capace.

Un lampo sfuggente catturato con la coda dell'occhio mi ridestò da pensieri offuscati da macchie di ricordi rossi e azzurri.. o magari dalla semplice contemplazione del nulla, ciò che restava infine di me. Alla fine il generale era morto, non sarei più tornato a casa, più per principio che per dovere.

Forse preso dall'insolito fastidio dell'immobilità voltai il capo verso il corridoio. La coda catarifrangente del pavimento metallico seguí il vagone mezzo vuoto, fino alla curva pieghevole, a fisarmonica, del mezzo rocambolesco e longilineo. Nel vagone mobile sostava una donna reggente un passeggino scoperto. Ivi la creatura dormiente dai morbidi tratti era alla mercé di ogni sguardo.

Vidi entrare una coppia di signori anziani, uno dei due aveva persino un bastone da passeggio. Mi accorsi del cenno rispettoso che mi rivolse.

Ormai ero come mio padre. Persino un dignitoso uomo anziano col bastone si sentiva in soggezione e doveroso di farmi il suo cenno di rispetto. Di nuovo quel timore reverenziale negli occhi. I miei occhi di ghiaccio, i capelli biondo sporco, il vuoto dentro. Lui era morto, ma io ero la sua perfetta copia, realizzai. Non se ne sarebbe andato mai, non prima di avermi fatto questo.  Ero stato marchiato.

Questo mi diede una scossa, simile alla scarica di adrenalina che riverbera nel corpo subito dopo uno schiaffo, inaspettatamente traumatico. Nulla trasparí dal mio viso o dai miei occhi, erano sempre le luci al neon a renderli così rossi e lucidi.

L'uomo distolse poi lo sguardo dal mio, piuttosto velocemente, come c'era da aspettarsi.

Alla fermata successiva salirono altre tre persone, una giovane donna ed il suo fidanzato, un uomo straniero, probabilmente dell'Europa dell'est. Tutti loro poi videro la donna col bambino, non tanto perché era al centro del vagone, ma per l'apprensione con cui assicurava alla creatura nel carrozzino una certa stabilità, nonostante i bruschi movimenti del treno. Le importava della sua stabilità.

La coppietta si mise a sedere due posti avanti rispetto a dov'ero io. Anche i due anziani si sedettero. La donna rimase in piedi, come unico spettatore l'uomo dell'est.

Gli occhi scuri dell'uomo si spostarono dalla donna al bambino, e lì vi rimasero, incantati a seguire ogni minimo particolare dello spettacolo dinnanzi a sé. Il bambino si era appena svegliato, con leggero disappunto della madre, ma non fece un fiato, sbattendo le palpebre sui due grandi occhi ambrati e curiosi, la bocca mollemente schiusa e piccola, simile a un fiore rosso e delicato.

Mi issai dal posto a sedere, scesi in fretta, due secondi dopo il fruscìo delle porte scorrevoli taglió l'aria alle mie spalle.

Ero in un posto mai visto. La stazione era deserta. Alzai lo sguardo in alto a destra, la bella torre era proprio lì, forse ad un paio di chilometri da me. Non seppi perché ero sceso, non sapevo nemmeno di volerlo fare finché il treno alle mie spalle non abbandonò il binario. Cosa stavo facendo?

 

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Capitolo 3
*** 3 ***


 

Michael


Fissai la torre a pochi metri da me, inconsapevole di quale sarebbe stato il mio prossimo passo. Ero affascinato,  attratto dalla torre luminosa, ma in qualche modo i chilometri percorsi per raggiungerla, erano nulla paragonati ai pochi metri che separavano me e la piccola porta di ferro che mi avrebbe permesso di esplorare davvero quello spazio e chiarire ogni incognita su qualsiasi fosse la natura di quell'attrattiva. La mia alchimìa con la torre era un qualcosa di ingiustificabile ed improbabile. Eppure eccomi lì, se mi avesse visto mio padre..

Proprio col pensiero di una sua possibile alterazione, o disappunto, falcai in pochi secondi quella distanza irrisoria e feci forza sulla maniglia laccata di un nero opaco. Era fredda.

Con mia lieve delusione essa non si aprì. Fu a quel punto che tornai coi piedi per terra. Cosa stavo facendo? Cosa speravo di ottenere? Abbassai la mano che fino a un attimo prima era poggiata alla maniglia e tornai sui miei passi.

Un rumore, come un fischio assordante, seguito da un metallico strusciare sull'asfalto, mi fece sbattere le palpebre e voltare il capo. Quel suono era da gelare il sangue, non tanto per l'insita dissonanza, ma per il semplice fatto che proveniva dai bulloni levigati della porticina che prima era chiusa, adesso non più. Lo stridente cigolio cessò, eventualmente, quindi mi voltai fronteggiando lo spazio vuoto e buio di quel pianerottolo. La porta era chiusa, la mia forza non è riuscita ad aprirla, quindi qualcuno doveva aver fatto scattare la serratura. C'era qualcosa di perturbante in tutto questo, ma non avrei saputo individuare cosa, di preciso.

Alzai gli occhi a percorrere l'altezza della torre, e siccome era tanto alta, dovetti alzare il capo. L'ampolla di luce era ancora tanto maestosa, la sua bellezza non cambiava da una distanza ravvicinata, come accade a molte cose.

Tornai a fissare lo spazio vuoto dinnanzi a me. Volevo esplorare la torre? Chiesi a me stesso se fosse il caso di farlo proprio adesso. E se alla fine di quella lunga scalinata a chiocciola, mi fossi ritrovato a fissare una bettola vuota con un grosso faro nel mezzo? Ma in che cosa speravo? Probabilmente era proprio così che sarebbe andata. Forse dovevo semplicemente andarmene ed accontentarmi della visione sublime di un qualcosa di misterioso e affascinante, qualcosa da poter guardare da lontano, piuttosto che rovinare tutto per pochi metri di curiosità.

Uno spiffero improvviso mi fece rabbrividire, ridestandomi dai pensieri. Per una volta nella vita mi chiesi: E se invece andasse tutto bene? Poco importa se mi diedi dell'ingenuo da solo, ma ignorai ogni parvenza di senso comune e percorsi quei pochi metri fino a fissare i primi scalini della torre.

Alzai il capo e mi persi nella spirale di quella scalinata. Con un sospiro affettato divorai la prima rampa, poi una seconda, finché, forse a metà del percorso, non udii un susseguirsi di suoni.. note. Mi resi conto di quanto fossi fisicamente contratto, come se stessi forzando me stesso a salire quelle scale. Quando udii le prime strofe di quella melodia che riconobbi come classica, mi rilassai leggermente, poco alla volta.

Proseguii con più calma, fino a ritrovarmi su di un piccolo pianerottolo vuoto e bianco. Dietro di me le scale, davanti una porta bianca e chiusa. Sotto la maniglia c'era una serratura complessa, più doppia di quelle normali, sotto la serratura un foro da cui penzolava una catena sottile e dorata. Probabilmente la porta era stagna, ben chiusa agli estranei, assicurata ulteriormente con quella catena, che adesso era sciolta e senza alcun catenaccio, come un invito silenzioso, un piccolo dettaglio a ricordarmi che una porta si era già aperta per me, non c'erano ostacoli, dovevo solo lasciare che accadesse.

Di lì a poco la mia determinazione non sarebbe stata un fattore rilevante, perché mi ritrovai di fronte a un ragazzo castano, con un paio d'occhi più espressivi e profondi che io abbia mai visto. Erano blu, con un po di verde intorno alla pupilla.

"La porta era aperta."

Dissi, inespressivo. Mi resi conto in quell'istante che indossavo ancora la divisa. L'uomo della torre mi guardava dritto negli occhi, non sembró importargli cosa indossavo, ed io mi sentivo come se non indossassi niente in quel momento. Un brivido che non avevo mai provato mi percorse le interiora, simile al terrore che mi infondeva mio padre, ma di tutt'altra natura.

"Sì, era aperta."

Rispose con voce bassa, ma incredibilmente profonda, il ragazzo di fronte a me, che non poteva avere più di venticinque anni a occhio e croce.

Non conoscevo il suo nome, non sapevo cosa ci facesse rinchiuso in una torre, ma mi ritrovai a seguirlo all'interno della stanza quando mi diede le spalle per attraversare la porta bianca.

La stanza non era come la immaginavo, non c'era un grande faro al centro, ma dal soffitto ricadevano tante lampadine, tutte a led. La luce era soverchiante.

Stavo per chiedere al ragazzo come facesse a sopportare tutta la luce, quando lo vidi prendere degli occhiali da sole dalla montatura bianca, che gli stavano veramente male, ma in qualche modo, paradossalmente, gli si addicevano. Dopo aver indossato i suoi, me ne porse un paio dalla montatura nera, decisamente meno stravaganti, quindi li infilai senza fiatare.

Il fatto che non vedevo più i suoi occhi non era bello.. E la cosa mi sorprese. Io odio guardare la gente negli occhi.

"Michael."

Disse. Supposi fosse il suo nome, gli si addiceva. Non allungó la mano per stringere la mia ed io un po' glie ne fui grato.

Mi guardai intorno. La stanza era ampia ed il pavimento era bianco, ma ogni sorta di mobilia, persino i comandi elettronici sulla postazione del ragazzo a un paio di metri dalla balconata, era grigia.

"Lucifer."

Dissi, volgendo lo sguardo al paesaggio.

"Come sei finito qui?"

Mi chiese, e forse mi stava fissando.

"Treno."

Dissi, scrollando le spalle.

"Io odio i treni."

Disse.

Sbuffai una risata e la musica classica raggiunse le note finali, poi si fermó, lasciando spazio al silenzio.

 

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Capitolo 4
*** 4 ***


 

Bambini

La gente guarda i bambini come fossero opere d'arte, affascinati ed inteneriti dalla purezza della loro innocenza, così palese che basta incrociare il loro sguardo limpido.

Le persone sorridono, lo fanno davvero, sinceramente, quando c'è un bambino. Ammirano il suo essere semplice, non corrotto dalla società, un eroe per tutti gli adulti che si identificano in lui.

Michael era così. Lui era quel bambino che tutti contemplano, placidanente immersi in nostalgici paragoni fra presente e passato. Ma il passato.. È passato ormai. Per tutti.

"Da dove hai detto di esser venuto?"

La sua voce mi parve un'eco. In quel momento sapevo di avere a che fare con una persona atipica e candidamente austera.

"Non è un posto vero, sono sceso da un treno."

Dissi.

"Odio i treni."

Disse ancora, ed io sorrisi, non seppi bene perché.

Gli occhiali iniziavano a pesare sul ponte del naso, la montatura era spessa, ma la luce sarebbe stata un problema maggiore.

Osservando Michael, notai quanto a lui quegli occhiali non dessero alcun fastidio. Eppure erano di certo utili solo nella torre.

Che fosse stato tanto sedentario da abituarcisi? Probabile, ma il suo corpo non sembrava quello di una persona sedentaria, o pigra. I suoi occhi così chiari, ma con le palpebre ben spalancate, nonostante anch'io malgrado le lenti scure dovessi stringere le palpebre, mi fecero sorgere un dubbio.

"Sei cieco?"

Chiesi, guardandolo sfacciato.

"No."

E quel sorrisetto che fece, proprio non lo capii. Poi parlò ancora.

"Non puoi fissarmi senza che io lo sappia, anche se sono di spalle."

Poi tornò serio, giusto il tempo di mortificarmi. Però ero tranquillo, perché almeno provavo qualcosa oltre il niente. Di colpo tutta la luce assunse un senso.

"A meno che tu non stia dormendo."

Risposi, senza pensarci. Forse lo vidi irrigidirsi, forse fu solamente un brivido passeggero, di quelli che hai quando la morte mietitrice ti trapassa, o ti sfiora la nuca.

"Per toccare il vetro incandescente e luminoso, la falena si brució e cadde morta sulla terra."

Rispose. Il suo sguardo dalla mia traiettoria, imperscrutabile. Sarei mai stato alla sua altezza? Trattenni il respiro nel mezzo della gola, proprio come un bambino sorpreso col dito nella marmellata. Ma Michael per me non era paragonabile al bollito dolce di un frutto, per me era molto di più.

Proprio quando sembrava essersi innalzato fra noi due un insormontabile muro di silenzio, Michael sospiró e si tolse le lenti.

"Sí, è vero. Sono cieco."

Il sospiro dolente di Michael mi fece tremare un po' il cuore.

 

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Capitolo 5
*** 5 ***


 

Occhi

Ero nel mio ufficio a studiare approfondimenti obbligatori.

Anni di studi diplomatici, addestramento militare, simulazioni, test di logica, una specialistica in strategia militare ed eccomi qua, nel mio ufficio provvisorio.

Se solo avessi scelto di buttarmi in giurisprudenza, un posto nelle forze dell'ordine non me l'avrebbe tolto nessuno. Prove fisiche? Bazzecole.

Ma cosa dovetti studiare secondo ciò che mio padre aveva programmato? Strategia.

Sospirai, rimbeccando me stesso mentalmente.

Almeno tu hai un lavoro.

Cercavo di concentrarmi sulla traduzione di un testo in lingua armena. Non è che conoscessi l'armeno, ma scoprii che questo era un modo decisamente originale di non pensare a Michael più del necessario, piuttosto che sbattere la testa contro la mobilia essenziale ed asettica dell'ufficio. Una mobilia provvisoria, certamente.

Dolce alle labbra, il primo caffè della giornata mi fece pensare al ragazzo che da tempo aveva colonizzato brutalmente il mio personale iperuranio, oltre che i miei Venerdì pomeriggio. A nulla servì imparare l'armeno, seriamente.

"Come hai detto che ti chiami?" Dissi, un Venerdì pomeriggio come tanti. Gli occhiali sul naso e le mani ben poggiate sui braccioli di una sedia girevole in pelle rossa.

"Lo sai già come mi chiamo." Un sorrisetto puerile e bianco diede un tocco di colore alle mie guance che non credevo potesse esser possibile.

"Come fai ad esserne così sicuro?" Chiesi, guardandolo. Lui non rispose mai.

La luce era accecante. Provai un paio di volte a togliere le lenti scure, per sfidare la vista.

Per qualche motivo dubitài più volte della cecità di Michael, e non per la sicurezza delle sue movenze, o per il modo in cui non sembrava importargli che un estraneo fosse lì con lui, solo in una torre. Piuttosto perché sembrava sempre dove voltarsi per rivolgersi a me, anche senza che facessi un suono. Oppure per il leggero sorriso che sorgeva sulle sue labbra quando lo fissavo per molti minuti. Come se sapesse.

"Mi piacerebbe non esserlo, Lucifer, come a te piacerebbe essere libero." Disse, facendomi trattenere il respiro per un secondo.

"È che sembri più a tuo agio di quanto la gente non sia, nella tua pelle." Dissi, sperando di aver reso le mie perplessità.

"Sono a mio agio adesso più di quanto non lo sia da solo con me stesso." Disse, come se fosse nulla.

Mi morsi la lingua, recuperando un battito dopo l'altro.

"Lo credi davvero, Michael?" Chiesi, seppure per me non fu facile.

"Sí e tu sei un bugiardo." Sospirò, e mi fece aggrottare la fronte.

"Michael." Dissi, come una muta domanda.

"Esatto." Disse, sorridendo. "Non te lo dimenticheresti mai, il mio nome." Mormorò con aria stranamente triste.

"Mike, perché non riesco a dimenticarlo?" E mi stupii della mia stessa domanda.

"Non ne ho idea, ma non voglio affatto che tu ci provi." Si voltò come per guardarmi, stavolta ero io a non vederlo.

Nonostante gli occhiali, tutta la luce sembrava averlo inglobato.. Oppure era lui che inglobava luce.

"Perché mi lasciasti entrare?" Perché si fidava di me?

"Perché sono il più debole." Passarono diversi secondi di silenzio, ma non riuscii a mettere insieme il senso della risposta, seppure apparentemente chiara. La parola debole risuonò nella mia memoria. Era come se avessi la risposta sulla punta del cervello, ma non riuscivo a raggiungerla. Infine fu lui stesso a pormi una domanda che pensavo non mi avrebbe mai posto.

"Di che colore sono i tuoi occhi?"

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Capitolo 6
*** 6 ***


Fuoco

 

 

Non sembrava mai una buona idea iniziare una conversazione con Michael.

Per qualche oscuro motivo, ogni parola formulata nella mia testa mi sembrava che, una volta varcata la soglia delle labbra, fosse vuota. Ogni possibile discorso, di conseguenza, mi pareva così inutile e senza un senso d'essere che non mi azzardavo ad iniziarlo, se non spronato da qualche segno di gentilezza, che mi facesse tacitamente intendere che ero ancora ben voluto in quella torre. Aspettavo un sorriso distratto, un saluto particolarmente felice o un movimento lievemente ravvicinato, ma solo se  in maniera intenzionale.

Insomma, iniziavo a sentirmi come un bambino petulante che non sa cosa dire e quindi preferisce non parlare, per timore, per soggezione.

Il punto è questo. Non avevo mai avuto soggezione di niente e nessuno, eccetto mio padre.

Di colpo Michael era indispensabile alla mia pace, ma accadde che ormai era troppo prezioso perché me ne sentissi veramente degno.. e così inconsciamente presi le distanze da lui e da ciò che mi faceva sentire.

Per non mostrarmi debole, ricaddi in quell'abisso fatto di buie pareti di freddo ghiaccio. La solitudine sembrava perseguitarmi e puntarmi col suo sguardo lugubre attraverso i riflessi delle cose, ma al contempo mi crogiolavo in essa come una coperta di spesso feltro; non tenterò di spiegare questo punto, perché il mondo è diviso in chi lo capisce e basta e chi, pur altrettanto intelligente, non lo capirebbe nemmeno se sciorinassi questo concetto in spiegazioni di mille parole in croce.. E dunque non riuscii a rispondere a quella domanda.

"Vuoi farmi credere.." Stava dicendo Michael "Che tu non hai un colore degli occhi?" E con ciò prese a ridere sommessamente. Un suono che mi riscaldò il petto.

Però lui non poteva sapere come fossero i colori. Non poteva associare il nome del colore a quella tonalità indicata, e quindi non avrebbe potuto immaginare perché mai odiassi il colore dei miei occhi.

"E se non volessi dirlo?" Dissi. Perché sì, ero distante anni luce da lui e non mi sognavo di raggiungerlo.

"E se ci tenessi?" Michael sapeva quali tasti premere.

"Conosci i colori?"

"Se io volessi semplicemente immaginarlo? Solo perché sono cieco non è importante che io lo sappia? Rifletti, Lucifer. Uno sconosciuto qualsiasi potrebbe vedere i tuoi occhi e sapere in ogni dettaglio come sono, ed io che ti ho conosciuto, non lo saprei mai dire. Non ti sembra un po' ingiusto, questo?" Disse. Le sue parole pronunciate col suo solito tono pacato e profondo furono peggio di una doccia gelata. Come se null'altro mi fosse accaduto in precedenza, come se fossi un essere senza esperienza alcuna, mi mortificò. Mi sentii uno sciocco.

"Io.. Non ci avevo mai pensato." Deglutii.

"Allora si può sapere? Hai bisogno che te lo chieda in ginocchio?" Il suo viso ed il tono della sua voce furono tanto imperturbabili ai miei sensi che mi arresi alla sua schiettezza.

"Azzurri." Dissi infine.

"Ah. Azzurri come?" Sembrava concentrato.

"Azzurro.. chiaro, molto chiaro, grigio intorno all'iride.. E forse anche qualche altra striatura più scura intorno alle pupille." Cercai di dipingere sulla tela della mente un'immagine definita il più possibile. Una descrizione superficiale non avrebbe mai reso possibile a Michael di immaginare qualcosa di mai visto prima, fu più difficile di ciò che pensavo.

"Di blu?"

"Sí. La base è quella, il blu è un azzurro più freddo e più scuro sai, è solo un colore."

"E i tuoi occhi come reagiscono a tutta questa luce? Ti fanno male?"

"Sí ma solo un po', come un fastidio."

"Capisco."

Rimanemmo in silenzio per molto tempo, eppure qualcosa pizzicava sulla punta della lingua. Tutto sembrava sospeso e un filo si tese fra me e Michael. Stavolta qualcosa era diverso.

"Anche tu hai gli occhi chiari." Non seppi dove avevo trovato il coraggio di parlare.

"Sono.. strani?"

"No, non sono male." Dissi, con un sospiro. Lo vidi rimuginare un secondo di troppo. "Sono dei begli occhi, Michael, di un bel verde eblu intorno all'iride."

Lui mi sorrise in quella sua maniera pragmatica.

"Te li ricordi molto bene i miei occhi."

Venni colto da un forte imbarazzo e, volendo dissimulare la sensazione, dissi la prima cosa che mi venne in mente.

"Certo, guardo sempre le persone negli occhi quando parlano." Ed era vero.

Lui rise, facendo vibrare il petto coperto da una camicia bianca candida. Scuoteva il capo ed io non capivo perché rideva, seppure il fenomeno fosse di per sé affascinante ed ipnotico. Avevo smesso di arrossire, ma mi toccò trattenere il fiato davvero quando Michael alzò una mano e ticchettó due dita affusolate sulla montatura dei suoi occhiali fuori moda.

Potevo mentire su ben poche cose, a mio rischio e pericolo. Michael ed io portavamo sempre quegli occhiali, dunque la mia scusa non reggeva per niente. Aspettai che me lo facesse notare, chiuso nella mia bolla di vergogna, ma lui non lo fece. Con un gesto mi aveva già colpito e affondato.

"Non ti fanno mai male gli occhi?" Chiesi, schiarendomi la voce.

"No, ma mi fa spesso male qui." Disse, indicando il punto del petto dove avrebbe dovuto esserci un polmone, oppure il cuore. Non seppi dire con precisione, ma non chiesi.

Negli occhi di Michael non c'è mai stato il ghiaccio, piuttosto un bagliore, un calore. Forse aveva ragione Michael.. forse ero come quella falena, che per toccare il vetro incandescente e luminoso, si brució e cadde, morta sulla terra.

Mi diedi dello sciocco, perché sapevo che il vuoto non era più vuoto e avevo tanta paura di bruciare e cadere.

 

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Capitolo 7
*** 7 ***


 

 

Marea

 

Era come se per tutta la vita mio padre avesse tentato di spingermi nel precipizio, ma a costo di annullare me stesso ho resistito con tutte le forze. A forza di stringere i denti, ero diventato immune alle sue velenose critiche e punizioni.

Non ero una vittima, ma ero rimasto bruciato nel profondo da un marchio che non avevo scelto di avere. Sentivo di essere poco umano, perché sapevo che nel profondo quel marchio mi aveva plasmato in modi così contorti ed impuri da avermi reso irrimediabilmente corrotto. Ero un'immagine ingannevole, come un diamante dai mille riflessi, che è infondo solo un minerale finemente sfregiato e mutilato della sua corazza di pietra; eppure io mi sentivo molto più come un vetro rotto e dimenticato in un lavandino, ancora sporco di sangue di quel pugno che lo aveva frantumato. Niente più che qualcuno su cui era stata riversata un'immensa collera ingiustificata.

Adesso però il veleno era diverso, troppo dolce per ignorarlo, troppo invitante per non esserne rapiti. Fosse stato qualunque altro il nemico, lo avrei odiato per essere così bello e letale, ma questo sembrava essere proprio Michael, un semplice ragazzo cieco che non si rendeva conto di stare spingendomi a cadere.

C'era poco da fare, oramai sapevo di non avere alcuna difesa contro ciò che lui mi faceva. Il mio muro di ghiaccio andava sciogliendosi in modo pericolosamente repentino, esponendo le mie ferite, e forse con esse anche quel dannato marchio.

Questo mi terrorizzava, ma al contempo mi provocava un dolce stordimento, paragonato alla sensazione di ottenere qualcosa di proibito.

Talvolta mi pareva di stare per schiantarmi alla fine del baratro, quando il mio cuore prendeva scioccamente a correre, senza che io lo volessi. Non sapevo cosa mi stesse succedendo, ma una parte molto profonda di me si stava sgretolando e dissolvendo.

Non ero del tutto uno stolto, comunque. Ero consapevole di essere attratto, ma non tanto da mettere fine alle mie giornate con Michael.

Ci andavo quando potevo, nel fine settimana di solito. Non mi ero mai reso conto di essere tanto coinvolto, fino ad un certo sabato mattina dal cielo particolarmente grigio.

"Luci"

"Non chiamarmi in quel modo.."

"Se vuoi puoi chiamarmi Miky."

"No, perché dovrei farlo? E poi non è quello il punto"

"Se ti da fastidio che ti chiami con un nome che suona femminile potresti smettere di sospirare come una ragazzina"

Fu la cosa più vera e più subdola che mi avesse detto da quando ci conoscemmo. Per questo mi chiusi a riccio e senza dire un'altra parola andai via, come un vigliacco.

Quello fu solo un assaggio del male che Michael aveva il potere di farmi. Mi ripetei mille volte e più che ero stato uno sciocco a fidarmi, perché era colpa mia, non di Michael, se mi ero esposto in quel modo. Ero troppo trasparente, persino per un estraneo non vedente, e il peggio è che lui vedeva tutto di me, mentre lui era uno schermo nero e imperscrutabile.

Nel mio piccolo appartamento con pochi mobili mi piaceva starmene steso sul tappeto, ed era lì che rimuginai sull'accaduto. Come poteva aver detto quelle cose? Come poteva leggermi così bene, senza potermi nemmeno guardare in faccia?

Non sapevo che fosse possibile tutto questo, non avevo neppure idea di essere ancora capace di provare sentimenti. Eppure adesso al posto dell'apatia c'era così tanto, una marea di cose ormai neanche quantificabili che non sarei mai riuscito ad ignorare, perché queste aumentavano ogni secondo, dandomi l'illusione di stare annegando.

Dopo poco più che un paio di mesi, mi sembrava di aver raggiunto una certa sintonia con Michael. Mi piaceva pensare che fossimo un po' più che conoscenti, magari amici. Così, nel buio confortevole del salotto, sul mio tappeto dei pensieri, con una mezza tazza di cioccolato amaro e gli occhi lucidi di stanchezza, decisi che valeva la pena inseguire l'onda d'urto e che avrei indagato i motivi del comportamento di Michael, nonostante il solo pensiero di tornare in quel luogo mi desse ansia.

 

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Capitolo 8
*** 8 ***


 

 

Musica

 

Mi trovavo ai margini della torre, sconcertato da due cose; la prima era che stavo tremando, la seconda, che la torre era completamente buia. Non sapevo se fosse positivo o meno, ma il tremore mi fece sentire più reo di ciò che stavo per affrontare. La verità amara era che non ero andato lì per affrontare Michael, ma per prendere una decisione che avrebbe cambiato per sempre la mia vita, in un modo o in un altro.

Mi sorpresi nell'udire delle note mentre percorrevo gli scalini. Non sentivo quella musica da quando raggiunsi ed esplorai la torre per la prima volta.

La porta sul pianerottolo in penombra era spalancata. Mi si gelò il sangue quando di colpo la musica terminò, a metà del brano. Deglutii e presi un profondo respiro, non avevo nessuna paura di Michael, ma piuttosto di non trovarlo lì con me.

Feci due passi dentro la stanza, le lampadine erano sparite e questo  fece suonare un minuscolo campanello d'allarme nella mia testa. Non aveva nessun senso, e la cosa più perturbante era quella sedia rossa, voltata verso la porta, sulla quale c'era un foglio di carta giallastra con una serie di parole impresse a penna, con una calligrafia maldestra. Mi feci coraggio e, scrutando il territorio intorno senza trovar traccia di Michael, decisi di leggere quel foglietto.

Non mi piaceva quella situazione, ma era stata una mia scelta quella di andare via e ripresentarmi senza preavviso. Forse non conoscevo bene Michael come avrei dovuto, ma in qualche modo sapevo di essere al sicuro dopotutto. Dunque iniziai a leggere con attenzione e da subito ebbi l'impressione che questo foglio non fosse affatto destinato a me, siccome vi trovai la parola "Fratello" proprio all'inizio del testo. Rigirai il foglio dal lato opposto. Dietro c'era scritto "Lucifer". Sospirai ed aggrottai le sopracciglia, leggendo senza pretendere di capire, perché con Michael non si poteva sperare di avere sempre tutte le risposte a portata di mano. Sapevo che avrei dovuto scavare più in profondità.

Fratello, quando ho scoperto con mio grande orrore che non potevo vederti, ho pensato ad un modo per far sì che fossi stato tu a raggiungermi prima o poi. Il dilemma era: come si può attirare qualcosa di così puro e selvaggio in un mondo così oscuro e misero? So che ti sembrerà fin qui una cosa senza né capo né coda, ma ti scongiuro di imprimere ogni lettera nel tuo cuore, di sentirla tua, perché è proprio così.

Ricordi quando ti dissi che la falena, pur di raggiungere la luce, si bruciò e cadde? Ecco, in quell'istante forse hai pensato che la falena fossi tu, ed io la luce, la verità è che ho cercato di attirarti con essa per fare breccia nell'oscurità, per meravigliare i tuoi sensi limitati dalla tua forma, che non rende giustizia alla tua vera natura, perché non credere che sia quello che vedi riflesso allo specchio ciò che davvero sei, ma ho bruciato me stesso e le mie tappe come vedi.

Le parole che dovevano servire a rompere le tue catene maledette, ti hanno tirato ancora più a fondo. Mi dispiace di averti fatto del male. Non intendevo farti soffrire, non intendevo essere così ignobile da farti andare via. Credimi, la cosa ha ferito molto più me che te, ma è tutta colpa mia, che ho sottovalutato le cicatrici che ancora porti dentro, e senza volere le ho rese più profonde.

Vuoi sapere una cosa? Sono uno sciocco, ancora più sciocco del modo in cui ti ho ferito. All'inizio credevo di non poterti vedere, solamente perché i miei occhi umani erano ciechi, ma quando ti sei avvicinato alla torre, oh se ti ho visto. Ti vedevo da chilometri. Eri smagliante, tanto che il faro non era che una scintilla di fuoco morente al tuo cospetto. Potevo vedere mio fratello, la stella del cielo che cadde per orgoglio e superbia. Quella stella eri tu, Lucifer, ed io ho pianto di gioia alla consapevolezza che quell'arcangelo bellissimo fosse ancora così puro nonostante la caduta. Ed ho capito che quello che tutti pensavano fosse atto di orgoglio era solamente onore macchiato, quello che apparve superbia era amore furioso e ferito verso un Padre che ti ha messo su un piedistallo più basso, in favore dell'ultima bellissima creazione, che con entusiasmo decise di rendere a sua immagine e somiglianza, mentre noi non avevamo alcuna forma, né somiglianza.

Mio caro Lucifer, fratello, ho forse peccato, pensando che orgoglio e superbia fossero state più che legittime, perché non c'era essere che potesse superarti in bellezza e grazia? E fulmini, cieli sconfinati di aurora, e piogge di comete, tramonti, albe, stelle e pianeti di tutto l'universo.. ma cos'erano paragonati all'opera d'arte che il Padre aveva fatto di te? Quanto potevi essere magnifico ai tempi in cui eri esempio di destrezza e saggezza per tutti i tuoi fratelli?

Forse è per questo motivo che sono il più debole, perché non sono riuscito a starti lontano, quando tutti gli altri sentivano la tua mancanza senza osare cercarti, sono stato io il primo e l'unico a cadere per te.

Tuo,
Michael.

 

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Capitolo 9
*** 9 ***


 

Mikael

Stavo ancora tremando, una lacrima bollente macchiò il foglio di rosso e in quella frazione di secondo che impiegai ad aggrottare la fronte, questo prese fuoco nelle mie mani, e con esso il mio senso della realtà. Ogni cosa non fu più ciò che era un millesimo di secondo prima, non mi riconoscevo nemmeno nella mia pelle. Gli ultimi pensieri di senso logico iniettati di emozioni umane e fragili mi fecero tremare e contorcere lo stomaco.

E se non fosse stato tutto un sogno? Se questo non fosse mai terminato, sarei riuscito a distinguere il mondo reale da quello onirico?

Che essere debole che mi ero dimostrato.

Infondo Michael era una di quelle creature che potevano esistere solo in un sogno. Però era tutto così vivido, quando i suoi occhi erano vicini ai miei, quando potevo percepire il battito del mio cuore pompare nelle vene con ferocia e lui era lì, in silenzio, inspiegabilmente ed incondizionatamente al mio fianco, come un fratello. In quei momenti mi pareva che tutto il resto si stesse sgretolando come in un sogno, che esistesse solamente lui per me, tutto il resto non contava. Ed ero in pace, come se avessi trovato finalmente il pezzo che mi mancava per essere completo.

Ma senza di lui, cos'ero?

Feci qualche passo indietro, come scottato, boccheggiando. Sgranai gli occhi, paralizzato, con il fiato sospeso in gola ed il cuore martellante nel petto. Cosa era appena successo? Chiusi gli occhi, respirando con affanno, sentivo le ginocchia deboli e un calore fortissimo irradiare il mio corpo come un fuoco liquido nelle vene. Una mano si posò sulla mia spalla e spalancai le palpebre, sentendo il fuoco ardere più di prima.

"Michael" Dissi, una lieve smorfia di dolore ruppe il sorriso che stava per sorgere sul mio viso. "Mi hai trovato tu, alla fine" E le mie iridi si fecero rosse, irradiate di una forza che poteva essere paragonata solo alla collera di un angelo caduto come una cometa in picchiata, che per disgrazia di altri o per propria fortuna s'era ridestato dal suo sonno. Quante vite avevo vissuto prima di Michael? Quanto dolore umano e irripetibile avevo patito, quanti indescrivibili episodi di violenza possibilmente immaginabili avevo sorpassato nel mio stato di sonno indotto? Era forse una manifestazione d'amore di mio padre, questa? Se questo era amore paterno, non potevo e non volevo immaginare cosa fosse il disprezzo e l'odio, ma sapevo di per certo che sapore avesse il tradimento.

Mi aggrappai a quella mano poggiata con forza sulla mia spalla, mettendomi in piedi, e vidi un viso perfetto, ornato da un'espressione un po' colpevole, che mi scrutava in soggezione. In silenzio lo osservavo tremare, esattamente come tremavo io, ma stavolta sapevo che poteva vedermi, ed io potevo vedere lui.

Oltre quella coltre inutile di carne e sangue che dava una forma umana alla cosa che più vi differiva in tutto il creato, c'era il mio cuore, il mio vero cuore pulsante.. Ed avrei scavato in quella carne con le mie mani, se non avessi immaginato che questo lo avrebbe gemere di dolore.

Mi sembrava che i suoi occhi di cristallo avessero il potere di scrutarmi nel profondo, come due grandi diamanti che splendevano di una luce propria e assolutamente innaturale. Nelle acque della memoria le ricordo come quelle gondole che illuminarono caparbiamente la via della mia coscienza, con le lanterne infuocate con le quali alla fine sciolse il ghiaccio eterno dentro di me. Perché quel ghiaccio si stava davvero dissolvendo, lo sentivo provocarmi i brividi dentro, e questi riverberarono in ogni cosa che mi componeva, dalle dita si dispersero vibrazioni di un colore puro e limpido, dagli occhi sgorgò argento caldo e denso di rosso, dalle labbra preghiere ed inni appassionati, canti di gioia, musica ed ogni singolo verso che deliziasse l'udito. Avevo il mio Michael e niente di più che potessi mai desiderare in quell'abisso di incoscienza che era ormai la mia vita.

"Mikael" Mi ridestai, aggrappandomi al suo corpo e sostenendomi alle sue spalle, ripetendo a me stesso e a lui il suo vero nome, per non dimenticare mai più, per pronunciare quelle lettere anche se limitato da una voce non mia. "Mikael, Mikael.." La gioia di riaverlo mista allo sconforto di essere una creatura a metà fra abominio ed errore divino mi confuse, e mi mandò piuttosto velocemente in una terribile crisi di identità. Nascosi il viso contro il suo collo, che non sapevo se baciare o strappare a morsi per l'amarezza.

Cos'era stata la mia vita fino a quel preciso istante?

"Cosa ci faccio qui? Non mi ricordo di niente, Mike."

 

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Capitolo 10
*** 10 ***


Fratello


Mi destai, all'erta. Sentii un formicolio fastidioso sulla pelle e presto, con una scarica di consapevolezza, mi sembrò di essere in gabbia. Avevo della stoffa indosso, questa mi fasciava il torso, i lombi, persino gli arti erano oppressi da quel tessuto. Arti strani, niente paragonabile alle spire di potere e di grazia che compongono un arcangelo.

"È il tuo contenitore, ci farai l'abitudine dopo un po'." Rispose Michael alle mie mute perplessità. Avevo il timore di essere finito in gabbia e forse avevo ragione.

"Mi sembra di soffocare!" Urlai di pura rabbia e frustrazione. "Chi mi ha fatto questo?!" Le cavità dell'esofago e della gola pungevano in protesta. Avevo già raggiunto il massimo del volume consentito a questa voce, incredibile.

"Immagino che come figlio virtuoso dovrei rispondere.. che te lo sei fatto da solo." Disse, con un dolore sordo in ogni sillaba pronunciata. Si avvicinò a me con la grazia che solo un arcangelo può possedere e mi guardò dritto negli occhi, come se avesse saputo esattamente dove erano collocati. "Ti domandavo spesso da dove provenissi, la tua risposta è sempre stata il treno." Disse ancora Michael, poi mi sfiorò le punte dei capelli con un misto di premura e timore reverenziale.

"Il treno, già!" Urlai in frustrazione, almeno quello lo ricordavo. Ora quel mezzo meccanico non aveva più l'aria amichevole che ero solito attribuirgli. L'aria divenne pesante e potevo scorgere quasi ogni singolo granello di polvere volteggiare nella stanza. Ero ancora in gabbia, in un universo fittizio e riconducibile ad una colpa ed un'assai più amara sentenza? Quel granello di polvere era reale, oppure era l'ennesima beffa della menzogna che mi circondava?

"Perché sei sceso a quella fermata?" Mi chiese Michael, con apprensione nel tono che non era affatto da lui.

"La torre." Era l'unica cosa che contava, perché senza saperlo avevo visto mio fratello. Dentro di me non ero del tutto spento. "La torre mi chiamava."

"Perché, Lucifer, perché proprio quella fermata, perché la torre?"

"Perché ti ho sentito." Mormorai alzando gli occhi nei suoi. Una stretta, un dolce tormento si impadronì delle mie membra, della mia stessa essenza. Esalai un respiro, di colpo ero esausto e l'ultima cosa che vidi era la sedia rossa.

Non ricordavo di averci mai fatto caso, ma mi colpì. Un momento prima era tutto grigio e di colpo non lo era più. Non mi ero accorto che una delle sedie fosse rossa.. O forse non lo era mai stata? Forse era stata sostituita. Forse ero un umano pazzo che credeva di essere un arcangelo in disgrazia, o forse quella macchia rossa nel grigio era uno squarcio nella trama di quell'universo falso e tessuto da dita esperte e potenti.

Una sedia rossa mi mostrò la lettera di Michael ed una goccia di rosso mi donò il senso di quella. Mano a mano le due coscienze che componevano l'attuale Lucifer e che avevano vissuto vite separate, si unirono in un perfetto connubio di fumi intensi di rabbia e raggi di luce di speranza. C'era anche qualcos'altro che avvolgeva il tutto, che forse addolciva il ricordo di tutto questo, ma non lo avrei mai potuto descrivere, sapevo soltanto che era Michael la fonte di questo qualcosa di indefinito.

Non sapevo se sarei riuscito mai a sconfiggere l'illusione che era la mia gabbia, la mia punizione, ma ormai non ero più solo in quell'inferno ghiacciato. Avevo un fratello, il migliore che potessi desiderare come alleato, seppure Gavrìel fosse assai più influente di noi due insieme.

Non ero né solo, né realmente in trappola, avevo la mia conoscenza e la coscienza di me, di chi ero davvero. Nessun incantesimo, magia, maledizione, sigillo o legge astrofisica avrebbe potuto fermarmi. Ora c'eravamo io e Michael contro il mondo.

Quando ripresi i sensi - Tutti i sensi - ero nel mio appartamento, sul tappeto davanti al camino. Una mano di Michael teneva il mio polso, nel buio della notte decisi che sarebbe stato sempre così d'ora in poi, se dovevo patire, avrei patito solo per lui, se dovevo morire, ugualmente l'avrei fatto per lui e se dovevo lottare, avrei lottato con lui.

"Come hai fatto a portarmi qui?" Chiesi, deducendolo da me un attimo dopo.

"Ho seguito la tua scìa."

"A volte dimentico.." Risposi, non del tutto sincero.

"Ma cosa sei?" Michael mi guardò in quel momento, mi stava davvero guardando. Così mi parve, almeno.

"Una supernova, o una cometa.. un arcangelo che stava cadendo." Un sospiro fuggì dalle mie viscere, come unico segno di vita.

"Stava?" Michael corrugò la fronte in un tentativo di capire. Forse anche io al suo posto non avrei capito.

"Sono atterrato.. Anche tu sei atterrato. È ora di rialzarsi Mikael." Dissi, senza più pazienza di aspettare il giorno successivo. Il giorno non sarebbe più stato giorno, neanche la notte sarebbe rimasta la stessa. Oramai niente era più vero tranne che la certezza del calore di mio fratello. L'unico vero fratello.

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