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C’era
un inspiegabile profumo di vaniglia fuori dal Menier Chocolate Factory. Audrey
se ne accorse appena mise il primo piede oltre l’ingresso laterale del teatro,
quello che consentiva l’accesso direttamente alle quinte. La ragazza inspirò
quell’odore, lo sentì solleticare la sua fantasia e la sua memoria – la moltitudine
di ricordi racchiusa nel profumo della vaniglia – infine si avviò a passo
sicuro lungo Southwark St. in direzione del London
Bridge.
In
quell’inizio di marzo la ragazza, una giovane di quasi ventisette anni, una
crocchia di capelli castani chiarissimi e perennemente spettinati, camminava
stringendosi nelle spalle, nella speranza di riuscire a sfidare al meglio la
fredda brezza che saliva dalle acque del Tamigi. Sotto il cappotto rosso, le
forme del suo corpo scomparivano, nascondendo a tutti le braccia lunghe e il
seno piccolo.
Mentre
camminava verso la fermata della metropolitana, Audrey ricominciò a ripetere
mentalmente i passaggi della canzone che stava imparando. Ripassò con
attenzione ogni singola nota, mentre le dita si muovevano istintivamente a
ripercorrere la superficie dello strumento.
Le
piaceva quella canzone, moltissimo. Le fu inevitabile sperare che il giorno
dello spettacolo arrivasse presto,sebbene fosse consapevole mancassero ancora alcuni mesi alla prima.
Audrey
lavorava come pianista nell’orchestra del Menier Chocolate Factory, un teatro
storico vicino al London Bridge. Suonare in quell’orchestra non era come suonare
per la London Symphony Orchestra, ma a lei piaceva ugualmente moltissimo.La ragazza amava suonare il pianoforte e
bastava quello a renderla felice: il luogo in cui si esibiva passava sempre in
secondo piano. Inoltre le piaceva particolarmente il Menier, così come le strade
che doveva percorrere per andare alla fermata della metropolitana.
Ogni
giorno, alle diciassette, Audrey usciva dal teatro, al termine delle prove, si
incamminava per raggiungere la Tube, alla stazione di Tower Hill e prendere la
metro verde, la District line, per tornare a casa. Ciò significava percorrere a
piedi un tragitto di venticinque minuti ogni sera, che la ragazza si sarebbe
potuta tranquillamente evitare servendosi della fermata di Monumets, che era a
metà strada. Per svariato tempo, quest’ultimo era il tragitto che aveva
compiuto ogni giorno, tuttavia, da ormai un mese, Audrey preferiva i
venticinque minuti a piedi per salire sulla metro a Tower Hill station.
Il
motivo era uno soltanto e, dopo che esso aveva fatto la sua comparsa, nulla
sarebbe stato un grado di far cambiare il nuovo percorso della ragazza.
All’ingresso
della stazione metropolitana di Tower Hill, subito dopo i tornelli di accesso,
nell’ampia sala che si apriva sulle diramazioni dei corridoi sotterranei, era
stato collocato un pianoforte, accessibile a chiunque avesse voluto suonarlo.
Era
uno splendido pianoforte verticale, laccato di nero, trattato con cura dai
frequentatori della stazione metropolitana, inclusi quelli che ci si sedevano
solo per suonare melodie improvvisate. A differenza di questi ultimi, Audrey
sapeva bene cosa comporre sui tasti di quello strumento e ogni giorno, prima di
prendere il treno e tornare a casa, si fermava al piano a suonare la stessa
canzone di sempre.
City of Stars, dal
film La La Land.
La ragazza aveva studiato una sua personale versione da pianoforte,
particolarmente fedele all’originale – a detta delle sue amiche. Aveva composto
il brano ascoltando e riascoltando la canzone sui video di YouTube, scrivendo
le note e gli accordi su fogli pentagrammati. L’aveva corretta un’infinità di
volte, fino a che non aveva ottenuto il risultato più soddisfacente, quello che
suonava ogni sera alla fermata di Tower Hill.
Quella
canzone non la stancava mai. Si era innamorata della pellicola dopo la prima
visione e la colonna sonora l’aveva totalmente stregata, al punto che la
conosceva a memoria. C’era qualcosa di unico in quel film, qualcosa che la
ragazza riusciva solo marginalmente a spiegare. Si rivedeva in entrambi i
personaggi, nell’amore per la musica di Sebastian e nel velato umorismo di Mia,
così come si era rivista in entrambi nel loro inseguire la propria passione.
Forse
anche per tutti quei motivi diversi le risultava tanto semplice sedersi al
piano di Tower Hill station e suonare City
of Stars ogni giorno, senza che quella canzone la staccasse.
Superò
il London Bridge sovrappensiero, ancora ripetendo nella propria testa le note
dell’ultima canzone che stava imparando. Si infilò nello sciame continuo di
persone, londinesi e non, che proseguiva a passo spedito in direzione della Tube
con la disinvoltura di chi si muove continuamente in quell’ambiente.
Audrey
paragonava spesso la metropolitana di Londra a un gigantesco formicaio.
Centinaia di persone entravano o uscivano dagli accessi con totale sicurezza,
in fretta, senza neanche badare a quello che dovevano fare. Strisciavano le
loro Oyster card sui lettori e superavano i tornelli senza neanche rallentare.
Anche
la ragazza era una di queste persone, specie quando ripeteva mentalmente i
passaggi di una canzone. Non si fermava neanche per cercare la tessera, la
estraeva dalla tasca pochi istanti prima di arrivare all’ingresso della
metropolitana e superava i controlli d’accesso mantenendo il passo stabile.
Poi, dopo aver sceso le scale mobili mantenendosi sulla destra, intravedeva
finalmente il pianoforte nella sala e, subito, accelerava.
Come
aveva la fortuna di capitarle spesso, anche quel pomeriggio a sedere al piano
non vi era nessuno. Di rado Audrey aveva dovuto aspettare per poter suonare.
Dal momento che, secondo quanto riportato dai giornali, l’idea di posizionare
quello strumento alla fermata della metro aveva riscosso notevole successo, era
probabile che l’assenza di persone a suonare fosse legata più all’orario.
Tuttavia, la ragazza non si era mai interrogata più del dovuto a riguardo e non
iniziò a farlo quel giorno.
Raggiunse
con passo deciso il pianoforte verticale, facendo scorrere rapido lo sguardo
sul cartello che era apposto sopra la cassa da sempre: "Play me. I’myours".
Si
sedette allo sgabello, posò in grembo la borsa, fece scivolare le dita agili
sui tasti fino alle note giuste e si isolò.
Si
isolava sempre dal mondo esterno quando suonava, era così da che la ragazza ne
aveva memoria. Quando si concentrava e iniziava a comporre le prime note su una
tastiera, qualsiasi essa fosse, il mondo intorno scompariva e restavano solo
lei, il suo strumento e la musica. Nulla era in grado di catturarla più della
musica.
Sebbene
fosse stata alle prove dell’orchestra – esattamente come ogni altro giorno
precedente a quello – aveva ancora voglia di suonare e niente le avrebbe
impedito di farlo.
In
mezzo al via vai di persone, al rumore di passi concitati, chiacchiere, risate,
dello sferragliare dei treni metropolitani, Audrey compose le prime note di City of Stars e lasciò che le altre le
seguissero.
Suonò
il pezzo come sempre, senza sbagliare una nota, senza temporeggiare un momento.
Si lasciò trasportare dalla musica e cantò nella sua mente le parole della
canzone.
Appena
ebbe finito attese che le ultime note venissero assorbite totalmente dallo
spazio circostante, dopodiché si alzò dal pianoforte, si rimise in spalla la
borsa e, senza prestare attenzione a chi aveva intorno, si avviò verso la
banchina della fermata, in attesa del suo treno della District line.
Il
resto del viaggio trascorse esattamente come ogni giorno precedente a quello.
Sul mezzo Audrey riuscì a trovare un posto a sedere e attese le otto fermate
che la separavano dalla sua. Durante il viaggio ripassò più volte la canzone
che stava imparando nella sua mente, osservando distratta le persone intorno a
lei che salivano e scendevano a ogni stazione. Quando arrivò il suo turno di
scendere, si avviò fuori dalla metropolitana, arrivando in PlaistowRd., a pochi minuti da casa sua.
Frugò
nella borsa in cerca del telefono appena lo sentì suonare, accorgendosi di aver
ricevuto alcuni messaggi su WhatsApp da parte di Gwen, una delle violiniste del
Menier Chocolate Factory. Appena Audrey si accorse che si trattava di un
messaggio vocale di più di tre minuti, sollevò gli occhi al cielo e si lasciò
sfuggire un lungo sbuffo. Odiava le note vocali, specie quelle che duravano più
di dieci secondi. Se qualcuno aveva tanta fretta di parlarle allora perché non
le telefonava?
Ascoltò
l’audio, corrugando sempre di più la fronte, infine decise che non avrebbe
risposto subito all’amica – più o meno, amica – ma che lo avrebbe fatto con
calma dopo, appena fosse riuscita a trovare le parole migliori per non mandarla
al diavolo. Rispose con un audio a sua volta, avvicinò il cellulare alle labbra
e disse: «Gwen, scusami ma ho proprio dovuto fare una deviazione e adesso non
riesco a rispondenti. Appena arrivo a casa lo faccio subito.»
Dopodiché
infilò nuovamente il telefono in borsa, lasciandosi sfuggire una leggera
imprecazione.
Era
arrivata a Chadd Green, un quartiere che non l’aveva
mai emozionata più di tanto, ma in cui aveva trovato un appartamento carino, da
dividere con il suo migliore amico di sempre: Oliver.
Loro
due erano cresciuti insieme e insieme si erano trasferiti a Londra per
studiare, finendo poi con il rimanere nella città. Oliver si occupava di
comunicazione, lavorava da casa e studiava strategie di marketing per chiunque
ne avesse bisogno. Per quanto Audrey non si spiegasse il motivo, il lavoro del
coinquilino era particolarmente richiesto e la cosa la sorprendeva sempre molto,
soprattutto perché di pubblicità non si era mai interessata.
La
compagnia del ragazzo le era sempre piaciuta molto ed era certa che fosse
merito suo se lei si trovasse tanto bene in quella casa. Tuttavia, Oliver era
prossimo al matrimonio e, Audrey lo sapeva, ciò avrebbe significato separarsi.
Mancavano ancora alcuni mesi alla celebrazione, ma lo scorrere del tempo era
inesorabile.
La
ragazza entrò in casa, l’appartamento al secondo piano, interno cinque e salutò
il coinquilino con un rapido saluto, per poi dirigersi in camera sua. Una volta
dentro si cambiò i vestiti e si accoccolò sul letto a gambe incrociate, il
telefono in mano. Riascoltò l’audio di Gwen e, esattamente come al primo
ascolto, le parole della ragazza riuscirono a irritarla. Pensò a cosa
rispondere ma non le venne in mente nulla di neutrale, nonostante ci avesse
pensato su un po’.
A
un tratto sentì bussare alla porta e subito quella si aprì per introdurre
Oliver.
«Non
vieni a cena?» le chiese.
«Sì,
arrivo» replicò lei, distrattamente.
Al
ragazzo bastò poco per capire che qualcosa stava irritando l’amica. Conosceva
il modo in cui arricciava le labbra e anche la linea che le si formava sulla
fronte era piuttosto caratteristica. Si avvicinò a lei, prese la sedia della
scrivania e vi si sedette sopra, guardando Audrey.
«Chi
ha fatto cosa, questa volta?»
Lei
alzò lo sguardo dal telefono. «Gwen» borbottò. «Si sta costruendo mille
castelli in aria su cose senza fondamento. E viene da me a sfogarsi. Voglio
dire, perché da me? Non siamo neanche così tanto amiche e-»
Oliver
la fermò, sollevando una mano prima che lei potesse continuare. «Ci sono buone
possibilità che io non abbia la minima idea di ciò di cui stai parlando» le
fece notare.
Audrey
aggrottò ulteriormente la fronte a quelle parole, allargando le braccia.
«Penso
proprio di avertene parlato.»
I
due si guardarono.
«Beh,
per farla breve,» attaccò lei, «Gwen si sta frequentando con un ragazzo da
qualche settimana. Credo che a lei piaccia veramente e ci sono buone
possibilità che lui la ricambi. No anzi, ne sono sicura» esclamò. Attese il
cenno di assenso dell’amico e ricominciò a parlare: «Il punto è che lei si sta
convincendo del fatto che lui ci stia provando con un’altra solo perché lui e
questa ipotetica ragazza tornano a casa dal lavoro insieme. Mi ha detto
"scommetto che fa così con tutte, ci prova con una e se lei non gliela dà
subito passa a un’altra". Ti rendi conto?»
Il
ragazzo aprì bocca per parlare, ma si zittì, consapevole di essersi cacciato in
un vicolo cieco. Si chiese per quale motivo avesse deciso di fare domande poco
prima.
«Ho
conosciuto anche io questo ragazzo e sono pronta a scommettere che non è
affatto così. Riempie Gwen di attenzioni. Se volesse solo portarsela a letto
non si comporterebbe così. E poi lui è uno a cui piace conoscere persone nuove,
dialogare, stare in compagnia. Da uno così non ci vedrei niente di strano se
tornasse a casa con i colleghi di lavoro. La cosa che mi esaspera di più è il
fatto che lei ha incontrato un Sebastian
e sta mandando tutto a monte da sola. Se io fossi al suo posto non me lo farei
scappare per nulla al mondo.»
Allargò
le braccia con fare irritato, dopodiché si disse di darsi una calmata. Davanti
a lei, Oliver sorrise divertito.
«La
storia del Sebastian» disse lui, iniziando a ridere. Anche Audrey si mise a
ridere subito dopo.
La
ragazza aveva coniato il termine “Sebastian” dopo aver visto La La Land e
aveva cominciato a usarlo in riferimento a quei ragazzi, a quegli uomini, mossi
da sani principi, che credevano ancora in cose come l’amicizia, l’onestà e l’amore.
Audrey sapeva che la stragrande maggioranza di Sebastian esisteva solo nei film
e sapeva che i pochi presenti in natura erano, il più delle volte, già
impegnati. Nonostante ciò lei continuava a sperare di riuscire a trovare il
suo, l’uomo con cui avrebbe trascorso buona parte della vita. Da inguaribile
romanticona qual era, quel suo desiderio non ne voleva sapere di abbattersi di
fronte alla realtà.
«Comunque,»
prese parola Oliver dopo aver smesso di ridere, «non penso che ti serva a molto
farti venire la bile acida per una storia del genere. Di’ alla tua amica quello
che pensi» le suggerì.
«Come
se non lo avessi mai fatto» replicò lei con ovvietà.
Il
ragazzo si alzò dalla sedia e si strinse nelle spalle.
«Allora
mandala al diavolo. Se vuole complicarsi da sola la sua non-storia, faccia
pure. Per colpa sua i nostri toast si stanno raffreddando.»
«Ci
sono i toast?» scattò subito Audrey, che adorava i toast doppio formaggio del
suo migliore amico.
Oliver
annuì, inarcando il sopracciglio destro, in un’espressione sagace che lo
caratterizzava particolarmente; il suo sorriso, poi, contribuì a rendere più
luminosi gli occhi celesti.
«Arrivo
subito, allora. Dammi il tempo di dire qualcosa di convincente a Gwen» disse
Audrey, aprendo la chat di WhatsApp con la ragazza.
Non
era tanto il fatto che Gwen chiedesse costantemente consiglio a lei su come
comportarsi nella sua frequentazione – nonostante le due ragazze non fossero
così unite – ma a infastidire Audrey era il fatto che, nonostante i consigli che
continuamente dava, Gwen li ignorasse tutti.
Cominciò
a pensare a cosa poter dire, davanti a lei Oliver si avviò per tornare nel
soggiorno con angolo cottura. Sulla porta, però, si fermò.
«A
proposito di Sebastian» esordì, ricevendo subito l’attenzione della ragazza. «Era
un po’ che volevo dirtelo, ma il poster di La
La Land vicino a quello di Star Wars, non ci sta molto bene.»
Uscì
dalla stanza, senza aspettare una replica. Audrey si voltò verso la parete alle
sue spalle, quella contro cui toccava il letto, analizzando i poster in
questione. Aveva attaccato le due grandi locandine dei film una accanto all’altra
e le adorava entrambe indistintamente. Fece una smorfia in direzione di Oliver,
anche se era consapevole che lui non avrebbe potuto vederla. Era camera sua,
dopotutto e, inoltre, per lei quei due film uno accanto all’altro ci stavano
incredibilmente bene.
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Torno
alla carica con una nuova long inedita!
Ciao
a tutti e grazie per aver letto questo, nuovo, primo capitolo, che spero
vivamente vi sia piaciuto.
Come
anticipato, dopo una serie di fanfiction – che non
sempre sono andate a buon fine, ahimè – mi ripresento su Efp
con un’originale, nella speranza di aver scritto qualcosa che possa essere di
vostro gradimento.
Il
rumore della carta si fece improvvisamente più insistente. Una a una, le tavole
acquerellate venivano spostate da un lato all’altro del tavolo. Venivano fatte
sfrecciare per brevi istanti da due uomini in maniche di camicia, chini sul
piano a parlare sommessamente fra loro. I due discutevano di alcuni dettagli
dei soggetti raffigurati, corrucciavano la fronte o facevano qualche breve e
monosillabica osservazione.
Davanti
a quella scena, immobile su una sedia, vi era Peter.
Gli
occhi bruni del ragazzo scorrevano nervosamente i movimenti in aria di ciascuna
delle dodici tavole maneggiate dagli uomini, mentre, con notevole sforzo, il
giovane si sforzava di mantenere l’autocontrollo.
Quei
disegni erano suoi. Ogni singolo elemento impresso su ciascun foglio era suo e,
proprio come succedeva per la quasi totalità degli artisti, era geloso di quei
lavori come se fossero stati i suoi figli.
Peter
aveva da poco compiuto ventisette anni e, ormai da quattro, lavorava come
illustratore per un piccolo studio in Thomas More St. Si occupava
principalmente di illustrare racconti per bambini e ragazzi, due tipologie di
storie che lui amava disegnare proprio per le libertà che gli erano concesse.
Erano già stati pubblicati diversi libri con i suoi disegni e, ogni volta, per
lui era una grande emozione.
I
due uomini che aveva davanti in quel momento non erano altro che lo scrittore e
l’editore di un libro prossimo alla pubblicazione, che si erano rivolti alla
piccola ditta in cui Peter lavorava proprio chiedendo dei suoi disegni, dopo
aver visto il suo lavoro su un racconto.
La
storia a cui stavano lavorando parlava di un giovane ballerino di tip-tap che, nonostante le avversità, continuava a ballare
e a diffondere allegria nelle persone che incontrava. Era una storia carina,
per bambini e Peter era felice di potervi prendere parte.
Tuttavia,
quei due uomini, erano incontentabili.
«Non
saprei» disse infine l’autore, lanciando un’occhiata all’editore.
«In
effetti,» convenne quest’ultimo, «immaginavo diverso il protagonista. Meno...
non saprei.»
«Meno?»
chiese perplesso Peter.
«Mi
ricorda tanto Fred Astaire» borbottò l’editore,
massaggiandosi il mento.
«Mi
sono ispirato a lui, infatti» lo informò in risposta il ragazzo.
I
due lo guardarono, dopodiché si scambiarono una nuova occhiata.
«Forse
è questo il punto» attaccò l’autore, come se avesse finalmente trovato il
bandolo della matassa. «Non pensavo certo ad Astaire
quando ho ideato il personaggio.»
«Ah,
capisco» disse di rimando Peter. «È solo che, beh, avevo pensato: chi meglio di
Fred Astaire potrebbe raffigurare un ballerino di tip-tap?»
«Il
tuo ragionamento non fa una piega. Solo che io pensavo a qualcosa di più
giovane, più fresco rispetto ad Astaire.»
Peter
guardò l’uomo, lo scrittore, pensando che voleva togliersi da quella situazione
il prima possibile. Non erano i disegni a non andare bene, era solo il volto
del protagonista. Se non volevano un sorriso alla Fred Astaire
li avrebbe accontentati. In quel momento aveva solo voglia di tornare a casa.
«Che
ne dite di Gene Kelly?» propose. Trattenne a stento il suo tono più scettico e
rimase a osservare i due uomini che si confrontavano con gli occhi.
«Sì,
decisamente. Molto meglio. Ottima idea Peter.»
Il
ragazzo sorrise, più per il sollievo che per l’insignificante vittoria. Si alzò
dalla sedia e raccolse le sue tavole, mentre i due uomini cominciarono ad
accordarsi con lui sul giorno in cui sarebbero tornati per vedere le prime
bozze. Decisero per il giorno seguente, ignorando totalmente le reazioni che
cominciarono a sollevarsi dal lato di Peter e salutandolo allegramente prima
ancora che lui potesse formulare una protesta efficace.
Li
guardò allontanarsi, decidendo di arrendersi all’evidenza: avrebbe dovuto fare
dei nuovi lavori da presentare entro il giorno successivo. Sbuffò a quel
pensiero, mentre riordinava con cura i disegni e le rimetteva nella cartellina,
per poi infilare il tutto all’interno del proprio zaino, insieme a pantoni e
acquerelli.
Il
lavoro dell’illustratore non era affatto semplice, sebbene, visto da fuori,
potesse apparire il contrario. Era un ambiente competitivo, dove, il più delle
volte, si aveva a che fare con persone che davano tutto per scontato.
Nonostante ciò, Peter era felice di quello che faceva. Amava disegnare e niente
avrebbe potuto appagarlo di più. Illustrare fiabe per bambini e ragazzi,
inoltre, gli consentiva di raffigurare cose che, altrimenti, non avrebbe
neanche immaginato. Esploratori in mongolfiera, giraffe azzurre, improbabili
amicizie, pirati dalla barba arcobaleno che solcavano mari di giada; Peter li
aveva disegnati tutti e ogni volta si emozionava nel farlo, sorprendendosi nel
vedere quanto in là potesse spingersi la fantasia umana.
Appena
ebbe finito di raccogliere le sue cose si avviò verso l’uscita, salutando
alcuni suoi colleghi lungo il tragitto; anche loro erano in procinto di andare
via, la giornata era finita.
Appena
fu in strada il ragazzo estrasse il telefono cellulare e cercò fra le sue playlist quella che lo soddisfaceva di più in quel momento.
Optò per ascoltare i OneRepublic e, individuato l’album
migliore, premette play e infilò gli auricolari. Si fissò meglio in spalla lo
zaino e, accompagnato dalla musica, percorse a passo rapido il tragitto che lo
separava da Tower Hill station, dove avrebbe preso la Circle
line.
Come
sempre passò davanti al London Tower, scivolando fra la moltitudine di turisti
che scattava foto o si faceva qualche selfie. Camminò
per qualche altro minuto, infine arrivò all’ingresso della Tube e superò i
tornelli d’accesso, infilando la Oyster card in tasca subito dopo.
Proseguì
lungo il percorso senza neanche guardare dove stava andando. Conosceva a
memoria il tragitto, ormai e sapeva perfettamente dove andare. Scese lungo l’ultima
scala mobile, aspettando paziente sulla destra, battendo il piede al ritmo di Love Runs Out
e arrivò alla sala che si apriva sui corridoi, in cui, da poco più di un mese,
era stato collocato un pianoforte.
A
Peter quella novità piaceva particolarmente. Sia al mattino sia alla sera, il
ragazzo sentiva sempre suonare. Gli era anche capitato in più occasioni di
fermarsi ad ascoltare ciò che veniva composto. Lui adorava la musica, tuttavia
aveva dedicato le sue doti artistiche alla seconda arte, la pittura e come
compositore, o anche solo come pianista, lasciava parecchio a desiderare. Forse
era anche per questo che gli piaceva tanto fermarsi ad ascoltare chi suonava in
Tower Hill, o anche solo tendere l’orecchio in direzione del pianoforte mentre
passava per la sala quando era particolarmente di fretta.
Quella
sera, di fretta, non lo era affatto. Aveva appena avuto un incontro abbastanza snervante
e fermarsi ad ascoltare un po’ di musica suonata dal vivo, magari anche suonata
con il cuore, gli avrebbe fatto piacere.
Seduta
al pianoforte c’era una ragazza, i capelli chiari raccolti in una treccia, il
cappotto rosso indosso. Peter la incrociava da diverse settimane quasi ogni
giorno e la trovava sempre lì, a sedere al piano intenta a suonare. Ormai era
in grado di riconoscerla perché l’ascoltava spesso. Era indubbiamente brava;
non esitava mai sui tasti e conosceva alla perfezione la sequenza di note da
seguire. L’unica cosa a sorprendere il ragazzo – o, meglio, a incuriosirlo –
era il fatto che quella pianista suonava sempre la stessa canzone, senza
cambiarla mai. Peter non conosceva quella musica, ma l’aveva sentita suonare da
quella ragazza ogni volta che la incrociava, al punto che aveva imparato a
riconoscerla. Era una melodia molto bella, forse un po’ malinconica nel
contesto metropolitano, con le persone di fretta e nessuno che prestava
attenzione a quella pianista, eppure a Peter piaceva sempre.
Il
ragazzo si fermò di lato, accanto alla parete. Sfilò gli auricolari, mise le
mani in tasca, e rimase ad ascoltare la giovane suonare, osservandola mentre si
concentrava esclusivamente sulle note. Esattamente come si era aspettato, lei
stava componendo la stessa canzone di sempre.
Peter
trovò piacevole stare lì, in quel momento, ad ascoltare qualcuno suonare qualcosa
di bello, lasciando da parte almeno per pochi minuti la vita della metropoli,
il lavoro e le consegne.
La
ragazza smise di suonare. Lasciò vagare le ultime note, infine si alzò dal
pianoforte e si avviò in gran fretta verso uno dei corridoi, scomparendo
immediatamente nella folla.
Peter
si infilò nuovamente gli auricolari e fece ripartire dall’inizio la canzone,
dopodiché si incamminò a sua volta verso il binario della Circle
line.
Per
sua fortuna la metropolitana era già lì. Il ragazzo la sentì rallentare mentre
compiva gli ultimi passi per raggiungere il binario e vi salì subito,
prendendosi giusto il tempo per controllare che il treno fosse quello esatto.
A
Liverpool Street scese, arrivando alla stazione della Overground,
in cui avrebbe preso il treno per White Heart Lane,
la sua fermata.
Raggiungere
il proprio studio ogni giorno gli richiedeva quasi un’ora e mezza, specie per
via del cambio che doveva fare. Quel lasso di tempo, però, gli consentiva di
ragionare sulla giornata, pensando a come migliorare i propri lavori. Delle
volte, lungo il viaggio, riusciva anche a disegnare.
Quella
sera cominciò a impostare nella sua mente i disegni che avrebbe dovuto
consegnare la mattina dopo, consapevole che non avrebbe potuto realizzarne un
gran numero per via del poco tempo a disposizione.
Arrivato
alla stazione scese e uscì dalla Overground, incamminandosi
verso casa.
Peter
viveva a BrantwoodRd., in
una piccola casetta a schiera su due piani che condivideva con tre persone:
Damian, Veronica e Iris. Viveva con loro da due anni e, a parte Damian, le due
ragazze le aveva conosciute proprio lì. La casa non era male e lui, nella sua
luminosa singola, ci stava bene.
Appena
ebbe raggiunto la casa, entrò, spegnendo la musica e togliendosi di spalla lo
zaino.
«Ciao
a tutti» salutò.
Ricevette
i saluti di rimando e filò dritto in camera sua – l’unica a piano terra con la
cucina, la sala e un bagno – e si svestì.
Poco
dopo bussarono alla porta.
«Pete,
noi stiamo ordinando del cibo indiano, vuoi qualcosa?»
La
domanda l’aveva fatta Iris, che aveva infilato la testa nella stanza del
ragazzo. Era una ragazza dai tratti esotici e portava i capelli neri costantemente
sciolti. Aveva una voce vellutata nonostante i modi sicuri e decisi e uno
scarso senso dell’umorismo.
«Non
so» borbottò in risposta il ragazzo. «Ho delle tavole da fare per domani
mattina e non ho molta fame.»
«Come
è andato l’incontro?» si intromise Damian, superando Iris e entrando di
prepotenza in camera dell’amico, seguito a ruota da Veronica.
Damian,
di un anno più piccolo di Peter, era fatto così; curioso per natura, sempre
agitato e, spesso, in grado di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato.
Tutto sommato, però, era un ragazzo d’oro.
Veronica,
invece, venticinquenne come Iris, era parecchio diligente e precisa fino all’esasperazione.
La sua dote calcolatrice si sposava alla perfezione con la determinazione di
Iris, non a caso, infatti, era la sua migliore amica.
A
Peter venne naturale fare una smorfia alla domanda di Damian.
«Insomma»
rispose all’amico. «Tornano domani mattina per vedere dei nuovi disegni. A
quanto pare Fred Astaire non andava bene.»
Damian
allargò le braccia, basito. «Come sarebbe no? Chi meglio di Fred Astaire potrebbe-»
«Raffigurare
un ballerino di tip-tap?» completò Peter, all’unisono
con l’amico. «È la stessa cosa che ho detto io. A quanto pare, però, mi
sbagliavo.»
«Perciò
stasera devi disegnare?» domandò Iris con fare indispettito.
«Così
sembrerebbe» replicò sarcastico il ragazzo. Raggiunse la scrivania ingombra di
carte, materiali per il disegno e tanti altri oggetti, creandosi uno spazio
sufficiente per lavorare.
«Devo
presentare qualcosa per domani, possibilmente qualcosa che renda quei due
felici» continuò.
«Tipo
cosa?» chiese Veronica.
«Gene
Kelly. Sembra essere molto più fresco
di Astaire.»
Il
tono sarcastico di Peter non ne voleva sapere di abbandonarlo. Era stanco e,
soprattutto, piuttosto sicuro del fatto che c’erano buone possibilità che anche
il suo nuovo lavoro avrebbe portato a un nulla di fatto. Tuttavia non poteva
averne la certezza.
Si
sedette al tavolo, cominciando ad abbozzare sui fogli che era riuscito a trovare
le linee guida per raffigurare il nuovo personaggio. Come la matita si appoggiò
sulla carta, però, il ragazzo si sentì subito meglio. Con pochi segni calibrati
la bozza era già pronta e Peter ritrovò il suo buon umore. Nulla gli piaceva
quanto disegnare.
«Posso...»
iniziò poi, voltandosi versi i coinquilini. Li trovò ancora tutti sulla soglia.
«Posso avere dei samosa?»
Damian
sorrise. Un Peter senza appetito non era il Peter che conosceva lui e se,
davanti alla mole di lavoro che aveva da fare per il giorno seguente, l’amico
aveva voglia di mangiare, significava che non c’era nulla di cui preoccuparsi.
«Vado
a telefonare» esclamò Damian, facendo dietrofront e tornando in sala, seguito
da Iris e Veronica, che si chiuse la porta alle spalle.
Seduto
alla scrivania, invece, Peter accese lo stereo – che ripartì da Campus dei Bastille
– e riprese a disegnare.
L’autore
del libro sfogliò l’ultima delle tavole che aveva davanti, annuendo
ripetutamente con il capo. Aveva già parlato con il suo editore, fermo lì
accanto e stava semplicemente dando "l’ultima occhiata".
«Direi
che ci siamo, Peter. Ottimo lavoro» esclamò poi, sorridendo.
Peter
tirò un invisibile sospiro di sollievo.
Le
tavole che aveva sottoposto ai due erano il frutto di una notte passata quasi
totalmente in bianco. Il ragazzo si era concentrato sul lavoro fino alle tre
inoltrare, sbocconcellando samosa che erano
lentamente diventate fredde.
Perciò
si sentì sollevato nel constatare che i nuovi disegni andavano bene e, ancora
di più, nell’appurare che non aveva dovuto rinunciare al sonno inutilmente.
«Posso
procedere, allora?» domandò il ragazzo, al quale serviva il via libera per
iniziare a disegnare i restanti personaggi.
«Certamente.
Se riuscissi ad avere altro materiale del genere per la prossima settimana,
potremmo addirittura stampare tutto prima del previsto» esclamò esaltato l’editore.
La
prossima settimana, per Peter, significavano quattro giorni di lavoro intenso.
Ce l’avrebbe fatta, si disse e avrebbe cominciato da subito.
«Penso
di riuscire già a mostrarvi il resto dei personaggi per lunedì» dichiarò poi.
I
due interlocutori parvero particolarmente soddisfatti di questa informazione.
Si
dissero entusiasti del suo lavoro e lo lodarono; infine si accordarono per un
nuovo incontro il lunedì successivo e, portandosi via un paio di tavole per
alcune prove di stampa, salutarono Peter e uscirono.
Il
ragazzo, una volta rimasto solo nella stanza, prese una lunga boccata d’aria e
sorrise. Ci era riuscito e non poteva essere più contento di così. Aveva
collezionato sei tavole in una sola notte di lavoro e non poteva dire che fosse
stato semplice. Tuttavia, il fatto che i suoi lavori fossero stati approvati,
lo riempì di gioia.
Si
mise a canticchiare fra sé mentre sistemava alla perfezione la sua postazione,
raccogliendo matite, gomme e colori. Frugò fra i cassetti in cerca di fogli
nuovi e trovò un intero blocco di carta per acquerelli. Si era completamente
dimenticato di averla acquistata e la cosa contribuì notevolmente ad accrescere
la sensazione frizzante che stava provando.
Prima
di mettersi all’opera, però, avrebbe dovuto aggiornare i suoi colleghi riguardo
al soddisfacente esito dell’incontro appena concluso. Per tale ragione, afferrò
le nuove tavole del ballerino di tip-tap che gli
erano rimaste e uscì dal suo studio.
*
La
giornata era trascorsa particolarmente tranquilla, addirittura “fiacca” secondo
Peter.
Dopo
la soddisfazione mattutina per il buon esito dei suoi disegni, non era successo
assolutamente niente. Non un messaggio, non una mail, niente che potesse
aiutare il ragazzo a mantenere alto il suo livello di soddisfazione. Quest’ultimo,
inoltre, era calato drasticamente quando, intorno alle due del pomeriggio, un
blackout aveva fatto saltare la corrente esclusivamente al piano in cui si
trovava il suo studio.
Nonostante
tutto, però, alle diciassette e pochi minuti, il ragazzo si stava incamminando
da Thomas More Street verso Tower Hill station ancora di buon umore.
Il
suo cellulare stava proponendo le note di How
to save a life dei The Fray
il volume tenuto sufficientemente alto per isolare Peter dal resto della città.
La
musica era un crescendo continuo di note. Il ragazzo canticchiò nella sua mente
ogni passaggio, pronto per l’arrivo del suo pezzo preferito. Eccolo,
finalmente: il ritornello.
Silenzio.
Peter
si bloccò, smise di camminare ed estrasse di tasca il proprio smartphone solo per
accertarsi che il suo improvviso timore era reale: la batteria si era
completamente scaricata.
Il
giovane sospirò, sollevò gli occhi al cielo e si morse il labbro inferiore
infastidito. Non aveva con sé neanche il powerbank, non gli restava altro da fare se non tornarsene a
casa senza poter ascoltare la sua amata musica.
Sfilò
gli auricolari e li cacciò in fondo alla tasca della sua giacca a vento,
riprendendo a camminare. Era quasi arrivato alla stazione della Tube. Superò
gli ingressi e si avviò lungo le scale, giocherellando distrattamente con la
Oyster card. Arrivato alla sala che dava sugli accessi ai binari sentì la
musica provenire dal pianoforte, la canzone che aveva ormai imparato a
riconoscere. Come il giorno precedente, la ragazza con il cappotto rosso era
seduta al piano e stava suonando. Peter si rese conto che aveva praticamente
ultimato la canzone e non si fermò ad ascoltarla proprio per quel motivo.
Proseguì lungo il suo percorso, raggiungendo il binario.
Si
fermò circa a metà della banchina, mettendosi in attesa. Cercò di passare il
tempo guardandosi intorno, cantando fra sé alcune delle sue canzoni preferite,
osservando le persone in cerca di ispirazione.
Fu
tutto pressoché inutile. Il tempo sembrava non passare e solo pochi minuti gli
parvero ore. Il mormorio costante delle persone non gli permetteva di
ricordarsi le sue canzoni e nessuno, fra i presenti, fu in grado di ispirarlo.
Lanciò
una rapida occhiata alla tabella degli orari, costatando che mancavano cinque
minuti al suo treno.
Qualcuno
gli si fermò accanto. Istintivamente Peter guardò di chi si trattava,
riconoscendo la figura della giovane pianista. Il cappotto rosso, i capelli
chiari raccolti in un alto e spettinato chignon. Aveva un profilo grazioso, con
il naso leggermente all’insù e le labbra sottili. Fissava davanti a sé come
sovrappensiero, tenendo stretta la borsa sulla spalla destra. Con tutta
probabilità non si era accorta di lui.
Il
ragazzo la guardò per qualche altro istante, pensando a cosa fare. Aveva ancora
quattro minuti di attesa ed era la prima volta che incontrava la ragazza senza
che lei fosse seduta al pianoforte.
In
quanto ad artista, Peter sapeva cosa significava ricevere dei complimenti per
il proprio lavoro. Pertanto era piuttosto sicuro che anche a quella ragazza
avrebbe fatto piacere qualche complimento per il modo in cui riempiva di
piacevole musica la sala di Tower Hill station e Peter aveva voglia di
farglielo sapere; se non altro almeno per non dover aspettare in silenzio i
minuti rimanenti.
«Tu
sei la pianista» disse poi, voltandosi verso la ragazza. Non gli venne in mente
nulla di più brillante e per una breve frazione di secondo sperò addirittura
che lei non lo avesse sentito.
La
pianista sussultò leggermente, strappata ai suoi pensieri. Si voltò in
direzione della voce e guardò il ragazzo che aveva accanto per un lungo
momento.
«Prego?»
chiese.
Peter
sorrise. Il suo bizzarro approccio aveva funzionato. «Tu sei la pianista, no?
Quella che suona il pianoforte che c’è qui» disse, indicando con il pollice
alle sue spalle.
Audrey
lo fissò perplessa. Lui se ne stava fermo con le mani nelle tasche della
giacca, lo zaino in spalla. La ragazza valutò che dovesse avere all’incirca
ventiquattro anni. Era carino, con quei capelli castani mossi, ben pettinati e
gli occhi scuri. Sorrideva incurvando l’angolo destro della bocca, le
sopracciglia sollevate.
Audrey
si chiese per quale motivo le avesse rivolto la parola e temette che si
trattasse di un tentativo di abbordaggio. Tutti quelli che le avevano rivolto
parola in metropolitana lo avevano fatto principalmente per quel motivo. Era la
prima volta, però, che a farlo era qualcuno di carino.
La
ragazza sorrise appena. «Sì» rispose. Fu particolarmente asciutta. Non aveva
molta voglia di fare conversazione.
Il
ragazzo, al contrario, sembrava averne tutta l’intenzione.
«Ti
sento suonare ogni tanto. Sei molto brava.»
Audrey
rimase lievemente spiazzata da quelle parole o, meglio, dal modo in cui erano
state pronunciate. Il giovane le aveva scandite con naturalezza, come se
pensasse davvero quello che stava dicendo.
Peter,
infatti, lo pensava veramente. Guardò la ragazza sbattere gli occhi un paio di
volte, nascondendo per brevi istanti le sue iridi blu.
«Oh,
beh» disse poi lei, stringendo maggiormente la borsa con la mano destra. «Grazie.»
Nuovamente
non aggiunse altro. Peter era sufficientemente sveglio per capire che non aveva
molta voglia di fare conversazione e, soprattutto, di intuirne il motivo. Il
modo in cui aveva esordito poco prima non era stato molto originale, al
contrario. Aveva tutta l’aria di essere una frase strappata alle peggiori commedie
rosa. C’erano buone possibilità che la ragazza si fosse convinta che lui era in
procinto di abbordarla.
Doveva
evitare che il suo sospetto si intensificasse.
«Scusa
per l’intromissione. Volevo semplicemente farti i complimenti per come suoni.
Ti ascolto ogni tanto e trovo tu sia brava.»
Audrey
si lasciò sfuggire un sorriso. Che lui stesse cercando o meno di avvicinarla, il
complimento che le aveva fatto suonava molto sincero, esattamente come il
precedente. Si guardò un momento intorno mentre ringraziava semplicemente il
ragazzo.
Nuovamente,
Peter non si diede per vinto. Cercò qualcos’altro da dire, almeno per far
trascorrere i due minuti rimanenti all’arrivo della sua corsa.
«Il
pezzo che suoni è tuo? » chiese poi, curioso.
Se
lo era chiesto un paio di volte mentre ascoltava Audrey suonare. Aveva pensato
che, considerando che lei riproponeva sempre la stessa canzone, si trattasse di
una sua canzone, come se stesse tentando di farsi notare da qualcuno. Non ci
sarebbe stato niente di male, dopotutto, soprattutto perché il pezzo era
davvero bello.
La
pianista riuscì a mantenere a freno la propria mimica facciale, evitando così
di spalancare gli occhi. Quel ragazzo non conosceva City of Stars. Anzi, sicuramente non conosceva neanche La La Land.
Per Audrey fu sorprendente incontrare qualcuno che non avesse visto quel film,
specie dopo tutta l’attenzione che i media vi avevano dedicato per via delle
sue numerose nomination agli Oscar. In un certo senso, però, la ragazza trovò
curiosamente piacevole avere a che fare con qualcuno che non conosceva né il
film, né la canzone. Sentiva di avere la possibilità di parlare con qualcuno
senza che questo sapesse già cos’era in procinto di dire, o che fosse irritato
dal suo tirare in ballo, per l’ennesima volta, il film che in pochi mesi era
diventato il suo preferito in assoluto.
«Magari»
rispose poi, sorridendo. «È della colonna sonora di un film. Mi piace molto e
lo suono di continuo.»
Peter
sollevò appena il sopracciglio destro, in un’espressione interessata e
divertita al tempo stesso, notò Audrey.
Si
era appena cimentata in una frase composta di più di una parola e Peter dedusse
che le sue iniziali diffidenze erano in procinto di allontanarsi da lei.
Il
ragazzo pensò che potesse essere il momento migliore per avviare una
conversazione, niente di eclatante, giusto due parole semplici, di quelle che
capita di scambiarsi alla fermata della metro, oppure in stazione. Stava per
replicare quando sentì in lontananza il riconoscibile suono del metallo che
stride, mentre l’aria veniva risucchiata per un breve momento nel tunnel. I
convogli della Circle line comparvero uno dietro l’altro,
rallentando sempre più. Peter li guardò scorrere finché non si fermarono. La
corsa era in leggero anticipo.
Si
voltò verso Audrey, mentre le porte della metropolitana si aprivano e le prime
persone cominciavano a scendere.
«È
la mia» disse alla ragazza, indicando il mezzo. «Scusa ancora se ti ho
disturbata, poco prima. Passa una buona giornata.»
La
salutò con un cenno e un sorriso.
«E
ancora complimenti» aggiunse, mentre le porte si richiudevano alle sue spalle.
A
Audrey non riuscì di dire nulla prima che lui sparisse sul mezzo e quest’ultimo
iniziasse ad accelerare. Solo quando lo vide scomparire nella galleria, due
luci rosse sempre più lontane, la ragazza fu pervasa da una strana sensazione.
Quel
giovane era stato educato e le aveva fatto dei compimenti sinceri. Audrey capì
che, forse, lui non stava affatto cercando di abbordarla, ma volesse solo
scambiare due veloci parole. Lei, invece, non si era comportata molto bene. Era
stata monosillabica e asciutta, esattamente il contrario di come era di solito.
Attese
il proprio treno lanciando qualche sporadica e immotivata occhiata al tunnel
della Tube dove si era infilata la Circle line.
Quando salì sulla Distict line, diretta verso casa,
ci stava pensando ancora.
Le
tornò alla mente il sorriso del ragazzo, il labbro incurvato, gli occhi bruni
luminosi. Era stato gentile con lei e Audrey ancora riusciva a sentire il tono
che aveva usato per farle i complimenti per il suo modo di suonare.
Forse
non avrebbe dovuto essere così fredda. Forse quel ragazzo si sarebbe meritato
un trattamento migliore, non quel titubante teatrino monosillabico che lei gli
aveva dedicato. Aveva sciolto le riserve solo quando lui le aveva chiesto della
canzone che suonava, di City of Stars.
Sembrava quasi che quella canzone, quel film, fossero la chiave per interagire
con lei, come se niente fosse in grado di farla parlare più che il suo amore
per quella pellicola. Era curioso perfino per lei. Tuttavia lo trovò anche
divertente. Quel film era la perfetta coniugazione delle due cose che più amava,
ovvero la musica e il cinema.
Decise
di smettere di rimuginare sul ragazzo e sul modo in cui erano andate le cose,
soprattutto perché era consapevole che non avrebbe potuto fare molto per
rimediare al suo atteggiamento, ormai.
Sollevò
gli occhi, tornando alla realtà, allontanandosi dai suoi pensieri. Si concesse
solo la semplice distrazione di canticchiare nella sua mente una melodia.
Qualcosa,
però, non le tornava. Era certa che il paesaggio che scorreva fuori dal
finestrino non fosse quello che lei abitualmente osservava rientrando a casa
ogni giorno. Pochi istanti dopo, la voce elettronica all’altoparlante le diede
conferma della cosa.
“Prossima fermata Upton Park. Apertura porte a destra.”
Audrey
scattò in piedi, al punto di spaventare la passeggera seduta accanto a lei.
Arrivò in fretta alla porta e attese che la metro si fermasse, maledicendo la
sua mente e la sua capacità di isolarsi dal resto.
Sovrappensiero
com’era pochi minuti prima, infatti, non si era accorta di aver saltato la sua
fermata.
Quella
mattina Audrey fu svegliata da un continuo rumore di stoviglie, piatti
spostati, tegami e… un frullatore?
La
ragazza afferrò la sveglia dal comodino, vide che erano le 7.40 e si chiese
cosa – diavolo – stesse combinando Oliver. Scese dal letto, incespicando
leggermente nelle coperte come ogni mattina e si avviò verso il soggiorno.
Aveva i capelli scarmigliati, il pigiama tutto scomposto, la fronte aggrottata;
ogni giorno si svegliava in quelli stato e solo un buon caffè l’aiutava a riacquistare
il pieno controllo di sé.
Aprì
la porta e puntò gli occhi gonfi di sonno verso l’angolo cottura.
Oliver
era seduto al tavolo, le mani fra i capelli e una tazza di qualcosa di caldo
sotto il naso. Il caos non proveniva da lui, infatti il ragazzo aveva tutta l’aria
di essere solo un’altra vittima.
Vicino
ai fornelli si stava affaccendando Aisha, la fidanzata di Oliver, una trentenne
dai lineamenti sicuri e dalla pelle di un lucente color caramello, dovuta alla
madre marocchina e al padre inglese.
«Ehi,
ciao Audrey. Spero di non averti svegliata» esclamò la ragazza quando vide la
pianista affacciata alla sua stanza.
«No,
figurati» bofonchiò in risposta quest’ultima, mentendo. Adorava Aisha e sapeva
perfettamente quanto si sarebbe spesa in scuse se avesse scoperto di averla
svegliata a causa della sua confusione.
Anche
Oliver lo sapeva alla perfezione e si limitò a lanciare un’occhiata di intesa
alla coinquilina.
«Vuoi
della cioccolata calda? Ne ho preparata in abbondanza.»
Aisha
mise davanti a Audrey una tazza fumante di liquido scuro, da cui saliva un
meraviglioso profumo di cioccolato lievemente mischiato a cannella. Solo in
quel momento Audrey si rese conto della quantità di profumi presente nel
piccolo soggiorno. C’era odore di vaniglia, fragola e, forse, crema. Guardò
verso il forno e lo vide acceso, intento a cuocere quello che era custodito al
suo interno.
«Stai
preparando una torta?» domandò poi ad Aisha, dopo aver assaporato un goccio
della sua ottima cioccolata calda.
«Non
una torta, la torta» la informò
Oliver.
La
sua fidanzata lo guardò. «Oh, per favore. Sai che potrebbe non essere così.»
Audrey
li guardò entrambi. Forse sapeva di cosa stavano parlando, ma era stata
svegliata solo cinque minuti prima e il suo cervello non stava funzionando ancora
a pieno regime.
«Ragazzi,
mi sono appena svegliata» decise di far notare agli amici.
«Aisha
sta facendo delle prove per la torta nuziale» le rispose Oliver. «Che prova è
questa? La terza?»
«La
quinta» replicò la sua ragazza.
«Ecco.
Trovata la torta che soddisfa entrambi abbiamo trovato la nostra torta»
concluse lui.
«Ma
non dovrebbe occuparsi la pasticceria della torta?» chiese poi Audrey,
pulendosi le labbra dal cioccolato.
«Aisha
è la pasticceria» disse Oliver, ridacchiando.
Audrey
sorrise, davanti allo sguardo che la coppia si stava scambiando. Adorava la
storia di Oliver e Aisha. I due si erano conosciuti per lavoro diversi anni
prima e fin da subito qualcosa aveva detto a Audrey che fra di loro c’era
qualcosa di unico. Aisha lavorava come pasticciera per un piccolo laboratorio
in continua espansione. Oliver aveva contribuito a una delle campagne di
marketing della pasticceria e lì aveva conosciuto la ragazza, uno dei cardini
del laboratorio. Fra di loro era nata subito una visibile sintonia, qualcosa
che era maturata nei due anni successivi, fino alla proposta di matrimonio di
Oliver, quel gennaio. Per Audrey, Oliver era il perfetto Sebastian di Aisha.
Fortunatamente
Aisha non si stava comportando come quelle ragazze degli show televisivi
riguardo all’organizzazione delle nozze. Lei e Oliver sceglievano insieme e si
consultavano su ogni cosa. Solo sulla torta nuziale la ragazza non voleva
cedere di un passo: avrebbe individuato lei la soluzione migliore e solo allora
avrebbe incaricato la pasticceria in cui lavorava di preparare la torta
definitiva.
«D’accordo»
sentenziò infine Audrey. «Così si spiega perché stai preparando una torta alle
8 del mattino. Anzi, prima. La domanda però è: come mai lo stai facendo qui?»
Lo
chiese con assoluta curiosità, senza altri motivi. Fatta eccezione per l’insolita
sveglia, tutto il resto le stava facendo piacere: la presenza di Aisha, la
cioccolata calda, i profumi della cucina.
«Mia
sorella mi ha cacciata di casa» rispose con semplicità l’altra, strappando una
risata a Audrey.
«Comunque,
io rimango dell’idea che la soluzione sia una torta panna e fragole» sentenziò
poi quest’ultima. «A me e Oliver piacerebbe molto» disse in tono scherzoso,
tirando in ballo il proprio coinquilino, consapevole che quella fosse anche la
sua torta preferita.
«Avrete
i vostri dolci panna e fragole» replicò Aisha. «Ma sulla torta pretendo di
dettare legge.»
«E
tu le permetti di farlo?» domandò Audrey a Oliver, fingendosi sconvolta.
Il
ragazzo si strinse nelle spalle, rigirando distratto il cucchiaino nella tazza.
«Beh,
ho scelto il gruppo per il ricevimento. Io e Aisha abbiamo fatto un accordo.»
Sorrise
all’amica, che replicò allo stesso modo. Il "gruppo per il
ricevimento", infatti, era lei. Oliver aveva espressamente detto che per
le sue nozze avrebbe voluto fosse Audrey a suonare; da sola, con altri, non gli
importava, voleva solo che lei contribuisse con la sua musica a quella
giornata. Audrey, ovviamente, aveva accettato, provando un grande moto di
orgoglio. Aveva chiesto ad alcuni dei suoi colleghi al Menier se erano disposti
a partecipare ed era riuscita a riunire una decina di membri, con la quale si
stava accordando su quali pezzi suonare. Gran parte delle canzoni le aveva
scelte lei e spaziavano dal jazz allo swing, generi che lei amava e che
piacevano anche ai futuri sposi.
«Mi
arrendo allora» concluse, bevendo un sorso di cioccolato.
Guardò
i due amici scambiarsi un sorriso, mentre Aisha cominciava a versare in piccole
terrine parte del cremoso composto che stava mescolando da diversi minuti. Si
sollevò un intenso profumo di vaniglia, rimasto celato fino a quel momento dall’odore
che proveniva dal forno e dalla cioccolata calda.
Per
Audrey quello era stato un bellissimo risveglio. Uscire dal letto per trovarsi
in una cucina calda, piena di profumi e con due delle persone più care che
avesse accanto non era cosa da tutti i giorni. Il fatto che la ragazza fosse consapevole
che, dopo maggio, una simile circostanza non sarebbe più avvenuto per via del
trasferimento di Oliver, le fece assaporare quel momento con intensità
maggiore.
*
Audrey
finì di suonare City of Stars per l’ennesimo
pomeriggio. Come ogni giorno prima di quello, lasciò vagare le ultime note nell’aria
mentre tornava alla realtà, vedendo riapparire davanti ai suoi occhi la fermata
di Tower Hill station e il suo via e vai di persone.
La
pianista si alzò, cedendo il posto a un’altra ragazza, in attesa alle sue
spalle. Le due si scambiarono un sorriso e la sconosciuta fece dei rapidi
complimenti a Audrey, per poi sedersi al piano.
Audrey
la sentì avviare una canzone, qualcosa di molto simile a un pezzo di Ludovico
Einaudi, ma proseguì senza fermarsi ad accertare se i suoi sospetti fossero
stati fondati o meno. Arrivata al binario della metropolitana si fermò,
attendendo la sua corsa. Dalla rapida occhiata che aveva lanciato al tabellone
era riuscita a capire che aveva appena perso la sua corsa; se non si fosse
fermata a suonare City of Stars l’avrebbe
certamente presa. Tuttavia per lei era impensabile una simile eventualità. Non
le riusciva di immaginarsi superare il pianoforte di Tower Hill station senza
fermarsi a suonare qualcosa, niente avrebbe potuto impedirglielo.
Mentre
aspettava cominciò a ripetere per l’ennesima volta le canzoni che stava
imparando per il prossimo spettacolo in programma al Menier. Ripassò le note,
gli accordi, i tempi. Le sue dita suonavano impercettibilmente i tasti di un
pianoforte invisibile, sollevato a mezz’aria. Si guardò un momento intorno
mentre ripeteva un nuovo passaggio e fu improvvisamente riportata alla realtà.
Poco
più avanti rispetto a dove si trovava, fermo in piedi con lo zaino in spalla e
le mani affondate nella giacca a vento blu, c’era il ragazzo che le aveva
rivolto la parola il giorno prima, in quella fermata della Tube.
La
pianista si ritrovò a osservarlo per svariati secondi. Notò che stava battendo
leggermente il piede a ritmo di una canzone, sicuramente quella che usciva
dagli auricolari che aveva infilati nelle orecchie. Guardava davanti a sé e
ogni tanto si osservava intorno, sembrando quasi incuriosito.
Audrey
si convinse nuovamente dei suoi possibili ventiquattro anni, con tutta
probabilità era uno studente del college, quelli da zaino un spalla e casa in
periferia piena di coinquilini pronti a sostenersi: il genere di cose che si
vedono nei telefilm.
Le
fu inevitabile tornare con la mente al tardo pomeriggio del giorno prima,
quando lui le aveva rivolto la parola. Non si era comportata molto bene, lo
sapeva. Quel ragazzo era stato educato, lei, invece, particolarmente
distaccata. Solo non si sarebbe aspettata una cosa del genere alla fermata
della metropolitana. In un mese di frequentazione di quella stazione nessuno le
aveva mai fatto i complimenti per il suo modo di suonare il pianoforte e lei
non se li aspettava di certo, non lì. Per questo era rimasta tanto sorpresa
quando quel ragazzo glieli aveva fatti, al punto di non vedere il lato bello
della cosa, ma solo quello "strano".
Nella
mente di Audrey balenò l’improvviso pensiero che, forse, avrebbe dovuto
scusarsi con il giovane per il suo comportamento del giorno prima, motivarlo e,
soprattutto, ringraziare degnamente per i complimenti sinceri.
Un
altro pensiero, invece, le disse che ormai non sarebbe servito a niente e tanto
valeva ignorare la cosa. Tuttavia quell’idea venne formulata mentre Audrey si
era già avviata in direzione del ragazzo.
Gli
si fermò accanto, alzando lo sguardo di quel poco che bastava per puntarlo sul
suo profilo – non era molto più alto di lei, infatti. La pianista si rese
finalmente conto di dove fosse e ne rimase quasi sorpresa. Si pentì
immediatamente della scelta che aveva appena assecondato ed era pronta a fare
dietrofront e andarsene prima che il ragazzo potesse voltarsi verso di lei e
riconoscerla.
Cosa
che avvenne.
Peter
si accorse di avere qualcuno accanto e si girò per vedere di chi si trattava,
trovandosi la pianista davanti. La riconobbe subito e non solo per via del
cappotto rosso. Anche quel giorno lei portava i capelli raccolti in modo
confuso ma elegante.
I
due mutarono espressione all’unisono. Peter sollevò le sopracciglia e sorrise.
Audrey assunse l’espressione di chi si era cacciato in una situazione
sconveniente da sola.
«Ciao»
la salutò infine lui, sfilando l’auricolare destro. Le note di Violet Hill dei Coldplay
si mescolarono al mormorio costante della stazione.
A
Audrey non venne in mente alcuna reazione in tempi celeri. Sorrise
semplicemente mentre il ragazzo diceva: «La pianista» con semplicità, come a
dimostrare che ricordava perfettamente chi fosse la sua interlocutrice.
«Mi
chiamo Audrey» rispose d’istinto lei, che non amava particolarmente essere
ricordata in base a un’etichetta.
La
sua risposta spiazzò per un breve momento Peter. Si riprese subito, però,
tendendo la mano in direzione della ragazza, a cui ora poteva dare un nome.
«Io
sono Peter» le disse.
La
vide guardare incuriosita la sua mano per poi stringergliela, sorridendo.
Quella che stavano vivendo era una situazione bizzarra, curiosa, ma anche molto
carina.
«Posso
fare qualcosa per te?» chiese poi il ragazzo, domandandosi per quale motivo
Audrey gli si fosse avvicinata.
Lei,
che si era aspettata una simile domanda – come dare torto al ragazzo, dopotutto
– si strinse appena nelle spalle.
«Non
esattamente» esordì, lasciando perplesso l’altro. «Volevo solo ringraziarti per
i complimenti di ieri. Non sono stata molto garbata, ma non me li aspettavo e
mi hanno un po’ spiazzata.»
Rise
leggermente alle sue stesse parole, in attesa di una reazione di Peter.
Quest’ultimo,
che certo non avrebbe mai pensato di trovarsi in quella situazione, ci mise
qualche secondo in più a dire al suo cervello di sorridere a quella ragazza.
«Non
ce n’era bisogno» le disse. «Lo avevo capito che ti avevo colto impreparata. E
poi il mio non è stato il miglior esordio che si sarebbe potuto fare. "Tu
sei la pianista"» proseguì, scimmiottando se stesso.
La
sua imitazione strappò una risata alla ragazza.
«Ma
grazie. È stato molto carino da parte tua» concluse.
Quelle
parole fecero piacere a Audrey, che si tranquillizzò totalmente e allontanò l’idea
di aver fatto una pessima scelta nell’andare a parlare con il ragazzo. Lui,
Peter, era sorprendentemente alla mano ed emanava un’energia contagiosa.
Qualcosa di decisamente "universitario" per Audrey.
«Di
che film è?» domandò lui. Si era tolto anche l’altro auricolare nel frattempo e
aveva pensato potesse essere un’idea carina scambiare due chiacchiere con la
ragazza, perlomeno ora che sapeva che gli avrebbe risposto.
Audrey
si ricordò subito della loro conversazione del giorno prima e capì a cosa si
riferiva il ragazzo.
«È
City of Stars. Di La La Land»
aggiunse, notando l’assenza di reazioni da parte di Peter.
«Ah»esclamò quest’ultimo «Sì, ho presente il
film. Solo che non l’ho mai visto.»
Per
Audrey quell’affermazione era quasi impensabile, soprattutto perché lei lo
aveva praticamente imparato a memoria a forza di riguardarlo.
Non
le venne in mente alcuna replica e fu nuovamente Peter a parlare: «Deduco che a
te piaccia molto, invece.»
«Sì,
è così. La colonna sonora è una delle mie preferite» rispose Audrey.
«Conosci
anche qualche altro pezzo?»
«No.
In effetti no.»
Sentirsi
ammettere una cosa simile lasciò Audrey perplessa. Soprattutto perché subito il
ragazzo rincarò la dose domandando: «Come mai?»
Audrey
non poteva immaginare quanto Peter fosse curioso per natura. Lui domandava
perché voleva sapere, non certo per mettere dubbi alle persone.
Tuttavia,
anche se in quel momento lui avrebbe potuto spiegarlo a Audrey, dirle che
domandava solo perché era incuriosito dalla possibile risposta, non ne ebbe il
tempo. Il treno della Circle line arrivò
sferragliando alla stazione di Tower Hill, rallentando fino a fermarsi.
Peter
indicò il convoglio che si stava fermando davanti a sé, abbozzando un sorriso.
«Beh,
è il mio.»
Si
spostò per far passare alcune persone, avvicinandosi di un passo a Audrey.
«Ci
si vede, allora» la salutò.
Attese
la risposta della ragazza, pressoché identica alla sua e salì sulla Circle line inforcando nuovamente gli auricolari.
Audrey
guardò la metropolitana ripartire, poi lanciò uno sguardo all’insegna luminosa
solo per appurare che mancavano altri quattro minuti alla sua corsa. Cercò di
pensare a qualcosa, di ripercorrere con la mente i pentagrammi che stava
imparando, tuttavia il suo cervello sembrava non volerne sapere. Anziché
ricordare le note, gli accordi, continuava a riproporre alla ragazza quello che
era appena successo, quel veloce scambio di battute con quel giovane, che d’ora
in poi avrebbe potuto classificare come Peter.
Il
sabato mattina, intorno all’ora di pranzo, Camden Town era una tappa
obbligatoria per Audrey e le sue amiche: April e Sadie.
Come
al solito erano riuscite a trovare un piccolo tavolino libero nei pressi di
alcuni chioschetti alimentari nella zona del Camden Market, su cui si erano
fermate per consumare il loro pasto. La giornata era particolarmente soleggiata
e i profumi di quella zona così folcloristica si mescolavano alle centinaia di
voci di residenti e turisti.
Audrey
si era comprata una porzione di tagliolini tailandesi, che mangiava
distrattamente con le bacchette, un orecchio teso ad ascoltare la
conversazione. La sua mente, però, faceva fatica a focalizzarsi adeguatamente
su quanto Sadie stava dicendo. Sapeva che stava parlando di una sua collega di
lavoro, quella assunta da poco, ma non riusciva a collegare adeguatamente lei
al vice direttore; con molta probabilità le era sfuggito un passaggio chiave,
nel frattempo. Si sforzò di recuperare il discorso, fra un boccone e l’altro,
ma si distrasse nuovamente. Si ritrovò a pensare al ragazzo della metropolitana
– Peter – e alla loro ultima conversazione.
In
un certo senso trovava quel ragazzo strano. Aveva una gran voglia di parlare,
la risposta sempre pronta, faceva un sacco di domande e sembrava che gli
importasse poco di chi fosse il suo interlocutore. C’era addirittura qualcosa
di contagioso in lui. Tuttavia, la cosa su cui la ragazza continuava a
focalizzarsi era la sua ultima domanda "Come mai?"
Come
mai lei non sapeva suonare altre canzoni di La
La Land? Nessuno glielo aveva mai chiesto e
Audrey dovette ammettere a se stessa che non ci aveva mai pensato.
Perché
non si era mai sforzata di imparare una canzone nuova del suo film preferito?
Dopotutto la versione di City of Stars
che suonava sempre a Tower Hill l’aveva scritta lei. Eppure non si era mai
fermata a riflettere sulla cosa, né su come mai non avesse provato a scrivere
su un pentagramma le note di Someone in the Crowd o del tema di Mia e Sebastian. City of Stars le piaceva, da impazzire,
ma effettivamente anche le altre meritavano di essere imparate. Avrebbe dovuto
fare qualcosa.
Si
sentì strana a realizzare che tutto quell’ingarbugliato pensiero era opera di
quel ragazzetto della metropolitana, invece era così. Era riuscito a instillare
in lei il dubbio, cosa che, la maggior parte delle volte, in Audrey si
trasformava in voglia di fare.
«Audrey,
non mi stai ascoltando.»
La
ragazza sbatté gli occhi un paio di volte, tornando alla realtà. Si trovò
davanti il viso di Sadie, gli occhi marrone scuro – quasi quanto la sua
carnagione – erano fissi in quelli della pianista.
«A
che stavi pensando?» rincarò la dose Sadie, portandosi una delle sue lunghe
treccine nere dietro all’orecchio. I lineamenti raffinati dei suoi ventotto
anni si corrucciarono per un breve momento.
«Oh,
a...a niente di speciale. Mi sono distratta per un momento, scusa» rispose
Audrey.
«Sei
sempre la solita» ridacchiò April, una ventisettenne scozzese tutta lentiggini
e capelli rossi, dal sorriso contagioso.
Lei
e Sadie conoscevano fin troppo bene Audrey. Sapevano della sua incredibile
capacità di distrarsi, di isolarsi dal mondo, dal quale riusciva a rimanere
scollegata anche per minuti interi. Era più forte di lei. Suonare il pianoforte
le aveva insegnato a concentrarsi solo sui movimenti che faceva e su ciò che
nasceva da quei gesti. Con gli anni aveva iniziato a riportare questi
insegnamenti alla realtà e aveva finito con il riuscire a isolarsi in qualsiasi
circostanza. Non si era mai fermata a pensare se il suo fosse un pregio oppure
un difetto.
Audrey
mescolò con le bacchette i suoi tagliolini, abbassando lo sguardo.
«Stavo
pensando che potrei imparare un’altra canzone di La La Land» ammise.
Per
sua fortuna anche alle sue amiche quel film piaceva e sapeva che parlare della
cosa non le avrebbe esasperate.
Sadie
sbuffò leggermente. «So che il mio lavoro non è emozionante quanto suonare il
pianoforte, ma potresti almeno fingere un po’ d’interesse» disse per
punzecchiare Audrey.
Quest’ultima
sorrise. «Andiamo, tu non c’entri. È che ci sto pensando da ieri e voi sapete
come sono fatta» cercò di motivarsi, ricordando alle amiche la sua
particolarità per cui, quando un dubbio l’assillava, era in grado di
perseguitarla per giorni, distogliendo la sua attenzione da tutto il resto.
«E
quale pensavi di imparare?» domandò April, sporgendosi appena sul tavolo. Anche
Sadie si mise in attesa della risposta, a dimostrazione che poco prima stava
scherzando.
Audrey
si strinse nelle spalle. «Ancora non ne ho idea. Ho iniziato a pensarci solo da
ieri sera.»
«Se
fossi al tuo posto vorrei imparare la canzone che Sebastian suona al matrimonio»
intervenne April.
«Oddio,
sì» le diede corda Sadie. «È meravigliosa. Triste, certo, ma bellissima.»
Quello
fu l’input per una nuova conversazione. Le tre amiche si misero a ripassare con
le parole per l’ennesima volta la pellicola di La La Land, parlando delle canzoni e
degli attori, in un teatrino che non le stancava mai. La canzone che Audrey
avrebbe potuto imparare passò in secondo piano, ma l’idea di acquattò comunque
in un piccolo angolo della mente della ragazza, pronta a rispuntare all’improvviso.
Audrey le aveva dato le curiose sembianze di Peter, perché sapeva che era colpa
di quel ragazzo – o merito, in base ai punti di vista – se lei aveva iniziato
ad avere quella tentazione.
*
A
meno di trecento metri dal punto in cui Audrey e le sue amiche si stavano
perdendo in chiacchiere parlando di film, Peter seguiva Iris per i corridoi
zeppi di turisti e negozietti che caratterizzava il Camden market. Il ragazzo
teneva in mano un articolato panino ripieno di pollo fritto e svariate salse,
mentre Iris, costantemente a dieta, sorseggiava una cola light.
Fra
un boccone e l’altro Peter si guardava intorno, in cerca di ispirazione in
mezzo ai colori che caratterizzavano Camden. Adorava quella zona di Londra e in
più di un’occasione aveva pensato di andarci a vivere. Tuttavia non lo aveva
mai fatto; forse complice la moda, le case non erano esattamente a buon mercato
e, soprattutto, lui non era così certo che sarebbe riuscito a sopportare
periodi protratti di quel costante via e vai di persone. A ogni modo, però,
appena ne aveva la possibilità, saliva sulla Tube e raggiungeva Camden market
per immergersi nei suoi corridoi, per osservarne i colori, sentirne gli odori e
trovare ispirazione.
L’uscita
di quel sabato era stata un’idea di Iris, che aveva deciso di passare da Cyberdog per cercare un regalo. Sebbene anche Veronica
fosse a casa, la ragazza aveva chiesto immediatamente a Peter se fosse stato
disposto ad accompagnarla. Lui, che non andava a Camden Town da almeno quindici
giorni, aveva accettato subito, accantonando per un momento il suo lavoro.
Le
nuove tavole che aveva preparato, perché venissero sottoposte ai committenti
per cui stava lavorando, erano quasi pronte e lui ne era soddisfatto. Aveva
disegnato un paio di tavole per ciascuno dei rimanenti personaggi e la ragazza –
la giovane di cui il ballerino si innamora nella storia – era stata l’ultima a
prendere vita. Peter non era rimasto sorpreso quando aveva disegnato una
crocchia di eleganti e spettinati capelli sui tratti sottili del suo viso, così
come aveva considerato normale vestirla con un bell’abito rosso. Sapeva che l’ispirazione
per quelle caratteristiche era dovuta alla pianista, ma, in un certo senso, lei
era particolarmente indicata per dare le sembianze a quel personaggio.
Peter
ne vedeva un sacco di ragazze ben vestite sulla Tube, ma nessuna lo aveva mai
ispirato più del dovuto. Era probabile che ciò che rendeva Audrey diversa ai
suoi occhi fosse la sua vena artistica, che lui era riuscito a percepire poiché
la possedeva a sua volta.
«Guarda
che carina questa» esclamò d’improvviso Iris, estraendo una camicia fra una
moltitudine di tante altre, in uno dei centinaia di negozietti del mercato.
La
mise davanti al petto di Peter prima che quest’ultimo potesse capire cosa stava
succedendo, mentre ancora masticava il suo panino.
«Ti
starebbe benissimo» proseguì lei.
Il
ragazzo deglutì. «Non penso di avere bisogno di un’altra camicia» rispose,
dando un nuovo morso al suo pranzo.
«Beh,
secondo me perdi un’occasione» replicò lei, mettendo via l’indumento e
cominciando a spulciare i capi nella sezione femminile. «Ah, giusto» riprese
poi parola. «Come sono andati i disegni nuovi? Quando ne avete parlato non ero
ancora tornata.»
Ripresero
a camminare.
«Bene,
molto bene. La nuova versione del ballerino è piaciuta. Sto procedendo con gli
altri personaggi.»
«Perfetto,
ne sono contenta. Se anche questa volta il personaggio non fosse andato bene ti
avrei suggerito di provare con Ryan Gosling.»
Peter
aggrottò la fronte a sentire quel nome.
«Scusa,
ma...Ryan Gosling non è un ballerino» le fece notare.
Lei
si voltò a guardarlo, sollevando un sopracciglio. «Si vede che non hai mai
visto La La
Land.»
«Che
c’entra?» domandò confuso. Non riusciva a capire perché negli ultimi tre giorni
tutti stavano nominando quel film. Tuttavia non ricevette risposta.
Iris
riprese a camminare, puntando dritta verso un negozio. Peter la seguì e si mise
in attesa a un lato della stradina, mentre la coinquilina passava da un’esposizione
di vestiti all’altra. Nel tempo che Iris impiegò per cercare qualcosa di suo
gradimento il ragazzo riuscì a terminare il pranzo, ad analizzare una coppia di
turisti che gli diede qualche spunto per un disegno e a rifiutare tre nuovi
tentativi da parte dell’amica di sottoporgli camicie di cui sapeva di non avere
bisogno.
Alla
fine la ragazza trovò un completo di suo gradimento e chiese al gestore del
negozio di poterlo provare. Lui le indicò i camerini, dopodiché, con fare
amichevole, raggiunse Peter, che si era nuovamente distratto a guardare per
Camden market.
«Non
va a dire alla sua ragazza cosa ne pensa del completo?» domandò l’uomo, appena
ebbe raggiunto il ragazzo.
Peter
si voltò verso di lui, guardandolo senza capire. «Come, scusi?» chiese.
«La
sua ragazza» rispose l’altro. «È andata a provarsi un vestito.»
Peter
guardò nella direzione che l’uomo stava debolmente indicando con l’indice. Il
suo cervello impiegò qualche secondo di troppo a fare i giusti collegamenti, ma
quando capì dove il negoziante volesse arrivare, tornò a rivolgersi a lui: «Lei
non...non è la mia ragazza.»
«Oh,
mi perdoni allora. Ho intuito male» ridacchiò. «Ma dal modo in cui la giovane
le si rivolgeva avrei detto il contrario. Non faccia caso a questo vecchio»
proseguì, indicando se stesso, dopodiché tornò al posto dietro al bancone del
negozio.
Peter
lo guardò perplesso per un momento, poi il suo cervello gli fece notare che,
forse, dietro le parole di quell’uomo potesse esserci molto di più.
Non
si era mai fermato a pensare al modo in cui lui e Iris potessero apparire visti
da fuori. Non lo aveva mai fatto principalmente perché lui l’aveva sempre
trattata come si tratta un’amica: chiacchiere sincere, qualche battuta e
qualche gesto carino di tanto in tanto, come capita fra tutte le coppie di
amici.
Il
punto era: Iris come si comportava con lui? Non aveva mai dato particolare peso
a questa cosa, fino a quel momento. Come un flash gli passarono davanti tutte
le ultime cose che erano accadute fra loro, prima fra tutte la camicia che,
quel giorno, lei sembrava tanto intenzionata a comprargli. Uno dietro l’altro
arrivarono i ricordi di come Iris gli si rivolgeva, del fatto che, quando
uscivano tutti e quattro insieme, le gli sedeva sempre accanto. Aveva sempre
pensato che ciò accadesse perché Veronica preferiva la compagnia di Damian alla
sua, ma, in quel momento, sospettò non fosse esattamente così.
Iris
ricomparve dal negozietto senza alcun vestito fra le mani.
«Mi
stava malissimo» sentenziò. «Che ti va di fare?»
Peter
la guardò, cercando di nascondere la strana sensazione che lo aveva colpito
negli ultimi secondi. Si disse che forse si era immaginato tutto e che, in fondo,
poteva benissimo essere che Iris si comportasse così nei suoi confronti solo
perché lui le stava particolarmente simpatico. Per quale motivo doveva sempre
esserci un secondo fine dietro a una buona relazione fra due persone del sesso
opposto?
«Ho
bisogno di qualche pennello nuovo, mi accompagni da Rory?»
rispose infine il ragazzo.
Decise
di smettere di rimuginare ancora su tutta quella storia. C’erano buone
possibilità che si stesse costruendo da solo castelli destinati a crollare o,
meglio, privi di fondamenta stabili. Lui faceva sempre correre la sua fantasia,
ne aveva in abbondanza, ma sapeva anche quando tenerla a freno per evitare che
contribuisse a creare situazioni sconvenienti anche quando di sconveniente non
vi era nulla. Quello era uno di quei momenti. Iris era una ragazza determinata,
che sapeva come conquistare ciò che voleva; se non si era ancora fatta avanti voleva
dire che lui non faceva parte dei suoi progetti e che le bastava averlo come
coinquilino.
Peter
mise a tacere così la sua voce interiore che continuava a sottoporre al ragazzo
continui “ma” e “se” come fossero vitali. Lasciò perdere quella storia, mentre
si spostava di lato per far passare un trio di amiche che chiacchieravano e che
lui notò appena.
Tuttavia,
dentro di sé, si era appena presentato il dubbio.
Audrey
lanciò un’occhiata all’orologio da polso in un momento di distrazione del
proprio interlocutore. Fu particolarmente veloce; sollevò la manica del
cappotto e della camicia contemporaneamente e puntò gli occhi sul quadrante,
interpretando l’ora.
Aveva
una gran voglia di tornare a casa, lasciare il Menier, raggiungere Tower Hill
station, suonare City of Stars e
procedere verso casa, ma Clint sembrava non volerglielo permettere.
Il
ragazzo, uno dei violoncellisti dell’orchestra del teatro, collega di Audrey e
di un paio di anni più grande, aveva fermato la pianista prima che lei potesse
raggiungere la porta e uscire in O’Meara St. L’aveva
aggiornata su un paio di argomenti, dopodiché aveva iniziato a parlare di
altro, trattenendo la ragazza.
Clint
era una bella persona, Audrey lo sapeva. Al tempo stesso, però, sapeva anche
che lui aveva un debole per lei. Non aveva impiegato molto per intuirlo e
alcune musiciste dell’orchestra avevano confermato il suo sospetto, insieme a
Sadie, April e perfino Oliver.
Nonostante
tutto, però, Audrey aveva accettato l’invito a uscire di Clint quando, un paio
di settimane prima, lui lo aveva formulato. Quell’uscita era stata la conferma
alla ragazza del fatto che fra di loro – almeno da parte sua – non sarebbe mai
potuto accadere nulla. Clint era un ragazzo molto intelligente e un ottimo
musicista, tuttavia ostentava le sue conoscenze fino al punto di diventare
pedante e, il più delle volte, mancava di modestia e senso dell’umorismo.
Queste caratteristiche erano l’esatto opposto di ciò che Audrey cercava nel suo
Sebastian e per tale motivo aveva declinato tutti i successivi inviti da parte
del ragazzo.
Sebbene
lei gli avesse dichiarato che lui non era il suo tipo, il violoncellista
sembrava non essere intenzionato a demordere e a voler conquistare Audrey
facendo sfoggio delle sue doti intellettive.
Anche
in quel momento Clint si stava sprecando in numerose nozioni riguardo allo
spettacolo per cui entrambi stavano imparando le canzoni, come se Audrey non
avesse mai potuto imparare altrimenti le origini di quella storia.
A
un tratto il ragazzo ebbe una lieve incertezza, probabilmente non era riuscito
a trovare subito la parola esatta da utilizzare. Audrey approfittò di quella
frazione di secondo per aggrapparsi all’unica possibilità di fuga che le si era
presentata.
«Clint,
scusa se ti interrompo, ma devo assolutamente andare.»
Il
ragazzo la guardò confuso per un momento, consentendo alla ragazza di
proseguire: «Devo rientrare al più presto perché questa sera ho un impegno con
Oliver» inventò, ostentando sicurezza a ogni parola. Non le piaceva affatto
mentire, ma sapeva di non avere altro modo per uscire da quella situazione. C’era
anche la possibilità che Clint la invitasse a bere qualcosa e Audrey preferiva
allontanarsi prima che quell’eventualità divenisse concreta.
«Ah,
si certo. Ne riparliamo domani» rispose lui, mettendosi in spalla il proprio
violoncello, racchiuso nella custodia.
Audrey
non perse altro tempo e salutò il ragazzo, avviandosi verso l’uscita in fretta.
Si incamminò lungo Southwark St. mentre una
pioggerellina fine e fitta cominciava a scendere. La ragazza approfittò del
tragitto a piedi per rispondere ad alcuni messaggi, almeno finché la pioggia
non la costrinse ad aprire l’ombrello. Accelerò il passo per raggiungere il più
in fretta possibile Tower Hill station ed estrasse la Oyster card appena vide
comparire il segnale della Underground. Si insinuò fra le persone per superare
i tornelli, tuttavia, quando strisciò la sua carta per accedere, l’accesso non
si aprì.
Audrey
provò a passare la tessera una seconda volta, ma nuovamente non accadde nulla.
Ci provò di nuovo solo per vedere il tentativo fallire ulteriormente. Dietro di
lei si formò una piccola colonna e la ragazza si spostò per evitare di
intralciare ulteriormente il passaggio.
Appena
si fu spostata si rigirò fra le mani la Oyster, sbuffando. Anche quella mattina
la carta le aveva dato problemi. Aveva dovuto strisciarla due volte sul lettore
giallo per riuscire a entrare. Attese che la calca di persone calasse prima di
fare un nuovo tentativo. Quando il numero di passanti diminuì tornò ai tornelli
d’accesso e provò di nuovo. Per l’ennesima volta il lettore le negò l’accesso. La
ragazza imprecò fra i denti e, individuato un addetto alla sicurezza, decise di
chiedergli aiuto.
«Ciao.»
Audrey
si bloccò prima ancora di compiere un passo. La voce proveniva alle sue spalle
e, come si voltò in quella direzione, si trovò davanti Peter. Il ragazzo le
stava sorridendo e indossava la sua solita giacca a vento blu, l’auricolare
destro sfilato.
Erano
trascorse due settimane dal secondo incontro fra di loro e, in tutto quel
tempo, non avevano parlato altre volte. Si incontravano di tanto in tanto sulla
banchina della fermata della metro, ma non avevano scambiato altre parole.
Quando i loro sguardi si incrociavano – cosa che non accadeva spesso – si scambiavano
solo un rapido saluto a distanza e un sorriso.
Quel
giorno, però, Peter aveva visto Audrey alle prese con la sua Oyster card, riconoscendola
da lontano per via del cappotto rosso e aveva deciso di avvicinarla.
Audrey
salutò di rimando il ragazzo, ignorando momentaneamente la sua tessera dei
mezzi pubblici.
«Tutto
a posto?» domandò poi Peter. Si era accorto che stava trascorrendo un po’
troppo tempo sul lettore di quel tornello d’accesso, cosa che un londinese
abituato a prendere la metropolitana non faceva praticamente mai.
Audrey,
infatti, sbuffò una generosa dose di aria, facendo muovere i ciuffi di capelli
che le ricadevano sul viso. Sollevò l’Oyster così che l’altro potesse vederla. «Il
lettore non la legge e non so che fare. Anche stamattina mi aveva dato problemi
ma alla fine sono riuscita a passare. Questa volta, invece, non c’è verso.»
«Ah,
sì, so cosa vuol dire. È successo anche a me una volta.»
«Davvero?»
Audrey
si sentì sollevata dalle parole del giovane. Gli mise la carta in mano quando
lui gliela tese, invitando la ragazza a passargli la Oyster così che potesse
aiutarla.
«Sono
pur sempre carte magnetiche, quindi ogni tanto fanno i capricci» disse lui.
Si
strofinò la tessera sui jeans diverse volte, sembrando intenzionato a farla
andare a fuoco.
«È
una tecnica empirica» ammise davanti allo sguardo confuso di Audrey. Passò la
carta sul lettore giallo e il tornello d’accesso si aprì subito. «Ma
curiosamente funziona» concluse, invitando Audrey ad attraversare l’ingresso.
Lei
spalancò gli occhi per la sorpresa, divertita e attraversò l’accesso,
aspettando che il ragazzo facesse lo stesso dopo aver estratto la sua Oyster
card.
«Ti
ringrazio molto» gli disse. «Ammetto che non pensavo avrebbe funzionato.»
Il
ragazzo rise lievemente, socchiudendo gli occhi scuri. Restituì la tessera a
Audrey e si incamminò accanto a lei.
«Non
so dirti se ha funzionato davvero o è stata fortuna. Ma so per certo che ti
conviene cambiare la tessera, c’è il caso che la prossima volta non possa
aiutarti.»
Proseguirono
in direzione delle scale mobili mentre Peter raccontava la sua personale
esperienza con la Oyster, quando la carta aveva deciso di smettere di
funzionare proprio il giorno in cui lui era in ritardo per un incontro
importante.
«Ho
dovuto fare un biglietto di corsa semplice e sono comunque arrivato tardi»
rivelò a Audrey, ridacchiando a quel ricordo.
Quando
arrivarono all’ampia sala di accesso ai binari, con le sue diramazioni e il
pianoforte verticale laccato di nero silenzioso, il ragazzo si fermò. Anche
Audrey lo imitò, guardandolo senza capire bene perché lui lo avesse fatto.
«Non
suoni oggi?» le chiese, indicando lo strumento in attesa.
La
ragazza lanciò uno sguardo al pianoforte, quasi sentendo a gran voce il
richiamo della musica. Aveva voglia di sedersi e suonare City of Stars come al solito, tuttavia era combattuta. Una parte di
sé le disse di rimanere con Peter e cercare di conoscerlo meglio. Sentiva che
poteva nascere una bella amicizia con un ragazzo all’apparenza tanto
spensierato e alla mano. Se si fosse fermata a suonare era sicura che lui si
sarebbe allontanato e Audrey capì, con sua stessa sorpresa, che non voleva
accadesse quell’eventualità.
«Ah,
ehm, no, dai. Questo pomeriggio passo» rispose. Cercò di apparire il più
disinvolta possibile, come si fa per nascondere a qualcuno, che non si conosce
ancora bene, una profonda passione di cui ci si vergogna appena un po’.
Peter,
di risposta, abbozzò un sorriso. «Peccato,» replicò, «ti avrei ascoltata
volentieri.»
Audrey
rimase sorpresa da quell’affermazione e dalla naturalezza con cui era stata
pronunciata. Aveva parlato poco con il ragazzo, ma ogni volta che era accaduto
lui era stato in grado di dire qualcosa di inaspettato e, sotto certi punti di
vista, lusinghiero nei suoi confronti. Si rese conto che il giorno in cui le
aveva rivolto la parola per la prima volta lo aveva semplicemente fatto per
complimentarsi con sincerità, senza secondi fini e, anche se con parole
diverse, Peter stava rinnovando quei complimenti anche in quel momento.
«Beh,
in tal caso allora direi che posso accontentarti» rispose infine Audrey,
simulando il tono scherzoso di chi acconsente di fare qualcosa nonostante sia
famoso e potente. Peter riconobbe quel tono e si mise a ridere.
La
ragazza si avvicinò al piano, si sedette, posando in grembo la borsa come ogni
altro giorno e sfiorò con le dita i tasti bianchi dello strumento. La musica la
stava chiamando a sé come tutte le altre volte prima di quella. Audrey si
dimenticò di avere un pubblico – composto di un solo elemento – di essere in
una stazione metropolitana, di essere a Londra. Erano solo lei, il pianoforte e
le note, tutto il resto perse subito di importanza.
Peter,
nel frattempo, si era sistemato contro la parete, a cui si era appoggiato con
la schiena. Non voleva creare disturbo ai passanti, così come non voleva che
loro facessero lo stesso. Si concentrò su Audrey e sul suo modo di suonare,
colpito dal talento della ragazza. La trovò davvero brava, esattamente come le
altre volte. Ascoltò la canzone che stava suonando consapevole di cosa fosse e
di quale fosse la sua origine, dando quasi nuove sembianze al momento. Osservò
i dettagli, in cerca di ispirazione come faceva sempre. Guardò Audrey
attentamente, i capelli chiari seguire leggeri i movimenti del viso, le dita muoversi
con agilità e forza lungo i tasti del pianoforte. I suoi occhi erano fissi sui propri
movimenti, ma Peter non dubitava del fatto che, in realtà, stessero osservando
qualcosa invisibile a chiunque altro.
Solo
quando la canzone finì, Audrey si ricordò di avere un pubblico, per quanto
piccolo. Le persone che passavano accanto al pianoforte non erano mai state un
pubblico per lei, ma quel giorno, appoggiato alla parete a un lato della sala,
uno spettatore lo aveva veramente. Si alzò dal piano e tornò da Peter, che l’aveva
aspettata. Quest’ultimo si esibì in un breve applauso, complimentandosi con la
pianista.
Lei
lo ringraziò per i complimenti, notando solo in quel momento che lui aveva
tolto entrambi gli auricolari.
Si
avviarono nuovamente insieme, in direzione del binario da cui sarebbero partite
le corse di entrambi.
«Lo
fai di professione, vero?» chiese di punto in bianco Peter.
Audrey
impiegò qualche istante a capire di cosa stesse parlando. Dedusse che il
ragazzo era uno di quelli che, il più delle volte, dava i soggetti per scontati
e, soprattutto, che non la conosceva affatto dato che non poteva immaginare la
sua capacità di deviare il filo dei propri pensieri in brevissimo tempo.
Omettere i soggetti con Audrey era sempre un grave errore.
Tuttavia
non lo fu in quel momento poiché che la ragazza stava dedicando la sua
attenzione proprio a Peter.
«Non
dico che non ci siano persone che suonano per hobby veramente brave, ma-»
proseguì lui, stringendosi nelle spalle.
«Sì,
suono per professione» lo interruppe lei, rispondendo alla domanda. Le era
parso che pochi istanti prima Peter si fosse infilato in un vicolo cieco e
aveva voluto andargli incontro.
«Sono
la pianista dell’orchestra del Menier Chocolate Factory.»
«Sul
serio? È un gran bel posto, quello. Non ci sono mai venuto a vedere uno
spettacolo, lo ammetto, ma ci ho cenato un paio di volte.»
A
quelle parole Audrey si immaginò le sale del locale. Rivide il palco, la
tribuna dalle sedute in stoffa rossa, il sipario. Poi vide distintamente anche
il ristorante del primo piano, elegante e raccolto, in grado di creare l’atmosfera
calda che ci si aspetta da un ristorante situato sopra un teatro. Il Menier era
un posto meraviglioso, per lei, ed era bello sentire qualcuno stendervi elogi,
per quanto brevi.
«E
tu invece? Cosa fai?» domandò Audrey. Sapeva già che, con tutta probabilità, si
sarebbe sentita rispondere che lui stava studiando – letteratura inglese,
suppose – in uno dei college di Londra.
«Sono
un illustratore.»
La
ragazza si voltò verso Peter a quelle parole. «Un illustratore?»
Lo
disse con tono sorpreso, ma venne interpretato in uno più ammirato da parte del
ragazzo. Lui abbozzò un sorriso, fermandosi verso la fine del binario, subito
imitato da Audrey. Quest’ultima osservò Peter in volto per un lungo momento,
cercando di capire se le stava sfuggendo qualcosa o meno.
Trovava
non avesse la faccia da illustratore, continuava a essere convinta in modo
insensato del fatto che lui fosse un universitario. Aveva dei lineamenti troppo
giovanili e quel sorriso perenne di chi non ha ancora superato i venticinque
anni. Quella sensazione, poi, veniva accentuata dalle lentiggini che macchiavano
delicatamente buona parte di naso e gote del giovane.
«Posso
chiederti quanti anni hai?» domandò infine la ragazza, dicendosi che non c’era
metodo migliore per collocare Peter su una linea temporale.
Lui
rimase spiazzato dalla domanda, chiedendosi cosa c’entrasse in quel momento.
«Ventisette,
perché?»
Audrey
si lasciò sfuggire un sorpreso “Oh”. Dovette ammettere di aver sbagliato in
pieno. «No, è solo che, beh, sembri più giovane della tua età» ammise infine.
Peter
sorrise. «Lo so, me lo dicono tutti.»
«Sì,
insomma, non ti avrei dato la mia età, sinceramente.»
«Hai
ventisette anni?»
«Quasi»
volle precisare Audrey.
«Beh,
ne dimostri meno anche tu, credimi.»
La
frase di Peter strappò un lieve sorriso a Audrey, che distolse lo sguardo dagli
occhi scuri del giovane davanti a lei.
«Perciò,
illustri cosa, esattamente?» chiese poi lei. Aveva voglia di fare
conversazione, almeno per il tempo rimanente all’arrivo della sua corsa.
«Fiabe
per bambini e ragazzi. Per bambini, soprattutto. Lavoro per un piccolo studio,
ma ho anche un sito internet dove riesco a rimediare qualche altro lavoretto»
rispose con tranquillità.
«Davvero?»
Lui
annuì semplicemente con il capo.
«Dev’essere
un bel lavoro, immagino.»
«Lo
è» acconsentì Peter. «Diciamo che è quel tipo di lavoro che consente di
liberare la propria creatività. Mi è sempre piaciuto disegnare, fin da piccolo.
Sto praticamente facendo il lavoro perfetto.»
Audrey
rispose al sorriso di Peter. Capì che avevano qualcosa in comune: una passione nutrita
e accudita fin dall’infanzia che si era fortunatamente trasformata nel proprio
presente.
«Ti
capisco. È stato lo stesso per me» disse.
«Da
quanto suoni al Menier?»
Stavano
intavolando una vera conversazione, notò Peter. Le reticenze iniziali di Audrey
erano completamente scomparse e, per il ragazzo, non era male scambiare due
chiacchiere con lei prima di rientrare a casa.
«Da
quasi due anni» rispose lei. Stava per aggiungere altro, magari per poi porre
al giovane illustratore la stessa domanda, ma la metropolitana della District
line apparve dal tunnel, annunciata dal consueto risucchio dell’aria e dal
suono metallico delle rotaie.
Audrey
guardò Peter, leggermente dispiaciuta di doversi allontanare. Si stava
rivelando piacevole parlare con lui, al punto che avrebbe quasi preso la corsa
successiva. Tuttavia non lo fece; non voleva apparire strana agli occhi del
ragazzo, né motivare la scelta del sua permanenza sul binario della stazione
metropolitana.
«È
la mia» disse infine, indicando il mezzo.
Peter
fece scorrere lo sguardo dalla metro al volto di Audrey.
«Vengo
con te. Se non ti dispiace» aggiunse, davanti allo sguardo perplesso della
pianista. Esattamente come a Audrey anche a lui stava piacendo la conversazione
che erano riusciti a intavolare dopo settimane di accennati saluti a distanza.
«Credevo
prendessi la Circle» ammise la ragazza. Lo aveva
visto salire su quella linea praticamente sempre e anche le loro precedenti
conversazioni si erano concluse con la salita di Peter sui convogli di quella
corsa; quel dettaglio le era rimasto impresso.
Peter,
di tutta risposta, indicò a Audrey di salire sulla District se non volevano
rimanere a piedi e lei eseguì, seguita a ruota dal ragazzo.
«Posso
prendere anche questa» la informò lui, mentre le porte si chiudevano. «Devo
cambiare per prendere la Overground e anche la
District ci passa vicino. Con la Circle impiego meno
tempo, ma in verità non cambia molto. Diciamo che avendo preso l’abitudine a
fare quel tragitto ho continuato a farlo.»
La
disinvoltura che metteva nel rispondere alle domande era quasi invidiabile; c’era
molta semplicità in lui.
Nel
tratto che separava Tower Hill station da Whitechapel
– la fermata in cui Peter sarebbe dovuto scendere per prendere la Overground – i due approfondirono la loro conoscenza, per
quanto possibile. Scambiarono brevi pareri sui rispettivi lavori e sui relativi
studi, finché non venne per il ragazzo il momento di scendere.
«Beh,
mi ha fatti davvero piacere questa chiacchierata» disse Peter, avvicinandosi di
un passo alla porta della metropolitana. Audrey era a sedere, in un posto
libero che lui le aveva indicato.
«Anche
per me» rispose la pianista.
«Direi
che ci vediamo domani» le sorrise lui.
Audrey
gli sorrise a sua volta. «Direi proprio di sì. E grazie ancora per la Oyster»
proseguì, alzando il tono della voce per raggiungere il ragazzo che era
prossimo a scendere.
«Ah,
di niente» replicò lui, che si era completamente dimenticato del fatto che
tutto aveva avuto inizio proprio dalla Oyster card di Audrey. «Ricordati di
sostituirla. Buona serata» concluse, salutando la ragazza con un cenno.
Quando
la District line riprese la sua corsa la ragazza si ritrovò a rimuginare sulla
conversazione appena conclusa. Le aveva davvero fatto piacere quello scambio di
convenevoli con Peter, così come l’aveva sorpresa e, in un certo senso, colpita
scoprire che lui lavorava come illustratore e che avevano anche pubblicato
alcuni libri contenenti i suoi lavori.
Quando
Peter le aveva rivolto parola per la prima volta – anche complice l’errato
giudizio che aveva dato del ragazzo – lei non avrebbe immaginato sarebbe poi
finita a quel modo.
A
quel pensiero costrinse la sua mente a smettere di pensare alla questione e a concentrarsi
sul percorso della District line. Non voleva rischiare una seconda volta di
saltare la sua fermata per via di Peter e della capacità della propria mente di
ignorare tutto il resto quando si distaccava anche solo un po’ dal mondo.
Anche
in un nuovo sabato Audrey non aveva perso la sua abitudine di raggiungere
Camden Town e, più precisamente, il suo mercato. Erano le undici del mattino di
un sabato di metà aprile. Il sole era alto nel cielo londinese, minacciato in
lontananza da alcune nuvole, all’apparenza intenzionate a scaricare sulla città
– o su una sua ridotta porzione – parte dell’acqua che sembravano contenere.
A
sedere insieme alla pianista in uno dei tavolini del mercato, proprio accanto
al chioschetto che vendeva paella, c’era Oliver, una porzione di gamberetti
fritti davanti, dalla quale spiluccava un crostaceo alla volta, assaporandolo
guardandosi intorno.
Audrey
avrebbe aspettato Sadie e April prima di prendere qualcosa da mangiare, ma i
profumi che provenivano dalle varie piccole cucine e il lento masticare del suo
migliore amico, le stavano piano piano aprendo lo stomaco. Cercò di non
pensarci, tornando a dedicare la sua completa attenzione agli appunti che aveva
davanti.
Insieme
allo sposo stavano decidendo le canzoni da suonare al matrimonio. A Oliver non
importava molto cosa avrebbe suonato Audrey insieme al gruppo che era riuscita
a mettere in piedi con colleghi di lavoro e conoscenti, ma la ragazza sembrava
non essere dello stesso avviso. Voleva che lui approvasse la scaletta,
esattamente come l’approvava chiunque chiamava una band a suonare in qualche
serata.
Nei
suoi appunti Audrey aveva annotato i nomi di numerose canzoni, molte delle
quali le aveva poi depennate perché troppo articolate o perché a Oliver non
convincevano. Aveva preso particolarmente a cuore quell’incarico; ci teneva a
contribuire alle nozze dell’amico, portando ciò che sapeva fare meglio. Doveva
fare i conti con il gruppo di musicisti piccolo e improvvisato che era riuscita
a radunare, ma tutto sommato era fiduciosa. C’erano un paio di ottoni, un
batterista, un violino, un contrabbassista, un chitarrista, un eccellente
cantante – a detta dell’amico che era riuscito a chiamarlo – e lei. Qualche
ottimo pezzo di Ray Charles, Louis Armstrong o Frank Sinatra lo avrebbero
potuto fare senza problemi.
Come
se le avesse appena letto nella mente, Oliver deglutì il gamberetto e puntò le
bacchette per il cibo in direzione di Audrey. «Niente Frank Sinatra» sentenziò.
Audrey
allargò le braccia. «Come sarebbe a dire? Frank Sinatra, alcune delle canzoni d’amore
più belle della storia. Perché no?»
«Non
lo so. Forse perché la mia ex era fissata con Fly Me to the Moon?» domandò retorico.
Audrey
ricordava quella storia, quella ragazza e la sua rottura con Oliver. Per un po’
aveva anche tentato di convincere il ragazzo a darle una seconda chance ma, con
il senno di poi, era contenta che lui non l’avesse ascoltata.
Sbuffò
indispettita, segnando una lunga riga a inchiostro blu proprio su Fly Me to the Moon. La scaletta per il
ricevimento si stava assottigliando in modo preoccupante, avrebbe dovuto fare
qualcosa.
«Hai
dei suggerimenti per qualche canzone?» domandò poi la ragazza, sforzandosi di
trovare altri brani da aggiungere all’elenco. La musica jazz e swing era
costellata di brani meravigliosi, ma ogni volta che lei cercava di trovare le
canzoni più indicate sembrava non riuscire a trovarne.
Oliver
la guardò calmo, consapevole che l’amica si stava dedicando con tanta anima a
quel lavoro perché ci teneva. Dirle che poteva vivere la cosa in modo più
sereno non sarebbe servito a molto. Si trattava di Audrey e lui conosceva
troppo bene quella ragazza per sorprendersi di quell’atteggiamento.
«Manca
ancora un mese al matrimonio» esordì lui. «Sono abbastanza sicuro che per
quella data tutto sarà perfetto. Ciò equivale a dire che avrai selezionato dei
gran pezzi» disse, annuendo energicamente. Addentò un gamberetto e rimase in
attesa della reazione dell’amica.
«Così
non mi sei per niente di aiuto» rispose asciutta quest’ultima, guardandolo di
traverso.
«Sai
che non ne capisco niente di musica jazz. La mia conoscenza si ferma a Frank
Sinatra, che odio» replicò Oliver a bocca piena.
Audrey
riuscì a trattenersi dallo scoppiare a ridere davanti alla risposta del
ragazzo. I battibecchi da vecchia coppia sposata erano una delle cose che amava
di più della loro amicizia.
«Audrey
io mi fido totalmente di te. Qualsiasi cosa sceglierai so già che sarà
azzeccata.»
La
ragazza sorrise dolcemente alle parole dell’amico. Non aveva nessuna intenzione
di deludere Oliver e non lo avrebbe fatto. Tornò a rimuginare sulle possibili
canzoni e gliene venne in mente una che le parve perfetta. To Love Somebody era dei Bee Gees, lo sapeva, ma da qualche parte
ne aveva sentito uno splendido adattamento swing; se lo avesse trovato forse
avrebbe avuto fra le mani il pezzo principe dell’intera scaletta. Lo segnò sul
foglio, raggiante, mentre Oliver continuava a guardarla mangiando.
A
poca distanza dai due, un’altra coppia di amici stava chiacchierando vicino al
chiosco della paella. A Peter, infatti, era venuta una gran fame davanti al
riso, alla carne e al pesce ed era intenzionato a prendersi una porzione di
quell’invitante miscuglio di sapori da gustarsi prima di immergersi nel colorato
mercato di Camden. Iris, al contrario, non glielo voleva permettere, sostenendo
che avrebbero dovuto pranzare insieme e che lei, in quel momento, non aveva
assolutamente fame.
Mentre
la ragazza era intenta a maledire lo stomaco senza fondo di Peter, l’attenzione
del giovane venne deviata da due figure a sedere a un tavolo, proprio alle
spalle della coinquilina. Individuò immediatamente il profilo elegante di
Audrey, così come il trench beige che la ragazza aveva sostituito al cappotto
rosso da quando le temperature si erano fatto un po’ più miti.
«Scusami»
disse Peter, interrompendo Iris. «C’è una persona che conosco. Vado a
salutarla.»
Si
avviò in direzione di Audrey prima che l’amica riuscisse ad afferrare appieno
le intenzioni di Peter e lei rimase a guardarlo allontanarsi di quei pochi
metri che li separavano dall’altra coppia.
Quando
il ragazzo ebbe raggiunto Audrey si fermò, proprio accanto al tavolo. Oliver
sollevò lo sguardo su di lui mentre Peter diceva: «Guarda chi si vede.»
Audrey
si voltò in direzione della voce, scoprendosi sorpresa di trovarsi davanti
proprio Peter.
«Ciao»
disse, sorridendogli. «Come stai?»
«Bene,
grazie, tu?»
La
ragazza si strinse nelle spalle. «Tutto a posto. Che ci fai a Camden?»
Mentre
Audrey formulava quella domanda, Peter venne raggiunto da Iris, che si fermò
particolarmente vicina al ragazzo. La pianista dedusse che si doveva trattare
della ragazza di Peter, praticamente la stessa cosa che Peter stava pensando di
Oliver.
«Vengo
qui abbastanza spesso. Adoro Camden, riesce sempre a ispirarmi.»
«L’adoro
anche io» rispose la ragazza. «Ah, giusto, ti presento Oliver» disse poi,
indicando l’amico a Peter.
Oliver
venne colto alla sprovvista. Posò in gran fretta la bacchette fra i pochi
crostacei rimasti nella sua scatolina in alluminio, si pulì la mano con il
tovagliolo e ricambiò adeguatamente la stretta di Peter, trovandola molto
energica, vitale.
«Lei
invece è Iris» disse a Audrey, facendo la stessa presentazione.
I
quattro scambiarono i convenevoli, perdendo qualche minuto in una rapida
conversazione. Alla fine Peter, sentendosi di troppo, augurò buona giornata
alla coppia e si allontanò insieme alla coinquilina.
Audrey
tornò a dedicarsi ai suoi appunti dopo i saluti, così come Oliver al suo spuntino.
«Lui
è il ragazzo della metropolitana, quello di cui ti ho parlato» disse poi la
pianista, per tenere aggiornato per bene il suo amico.
Gli
aveva parlato di Peter più di una volta, soprattutto nell’ultimo periodo. Dopo
l’episodio della Oyster card qualcosa fra lei e l’illustratore era cambiato.
Non se ne stavano più a distanza sul binario della Tube, ma si andavano in
contro quando si vedevano e chiacchieravano del più e del meno in attesa della
Circle line o della District.
Nelle
ultime settimane avevano avuto modo di approfondire la loro conoscenza,
scoprendo di avere molte cose in comune. Entrambi erano appassionati di cinema –
sebbene Audrey conoscesse l’argomento molto meglio di Peter – e della saga di Star Wars in particolare. Tutti e due
seguivano il rugby – ma tifavano squadre differenti – e, cosa molto importante,
amavano la musica. Sebbene si trattasse di generi notevolmente discordanti fra
loro, avevano trascorso parecchio tempo a parlare di musica, del profondo amore
che ciascuno riservava per qualcosa di così unico e puro. In alcuni casi, o
Audrey, o Peter avevano anche saltato la propria corsa pur di non interrompere
l’argomento in cui si erano immersi e per entrambi era piacevole aver trovato
qualcuno con cui parlare durante l’attesa della metropolitana, quando si era
circondati di una moltitudine di individui soli. Stavano diventando amici; lo
sapevano entrambi.
«Chi
era quella?»
Iris
formulò la domanda mentre osservava un paio di orecchini, pescati fra una
moltitudine di tanti altri su una delle bancarelle delle mercato. Erano
trascorsi diversi minuti da quando si erano separati da Audrey e Oliver, al
punto che Peter si guardò intorno in cerca di qualcuno, prima di afferrare
quale fosse il soggetto di cui l’amica stava parlando.
«Audrey?
Ci siamo conosciuti di recente, prendiamo la metropolitana insieme» rispose
infine.
Iris
non disse altro, limitandosi a un veloce e monosillabico assenso.
Il
ragazzo osservò la coinquilina per diversi secondi, mentre lei continuava a
sollevare e analizzare orecchini in cerca dei più indicati. Negli ultimi giorni
i sospetti di Peter sul fatto che Iris potesse provare dell’interesse per lui
si erano intensificati. Dopo il primo pensiero che aveva formulato sulla
questione – ormai un mese fa e proprio lì a Camden Town – non era più stato in
grado di ignorare la questione. Quasi ogni volta che lei si rivolgeva a lui,
quell’idea si ripresentava, puntualissima. Il ragazzo aveva iniziato a fare
particolarmente caso al modo in cui Iris gli si rivolgeva, confrontandolo a
come si comportava con Damian; in effetti, qualcosa di diverso c’era. Tuttavia
non aveva raggiunto nessuna conclusione, soprattutto perché non riusciva a
capire perché, se davvero lei era interessata, non si fosse fatta ancora
avanti. Le reticenze non facevano parte del profilo di Iris. Il fatto di non
riuscire a trarre delle conclusioni sensate portava ogni volta Peter a ignorare
la cosa, fino a che il dubbio non si ripresentava di nuovo. In media finiva in
quel vortice dalle due alle quattro volte al giorno.
Si
chiese se tirare fuori l’argomento con la ragazza potesse essere una buona
idea, ma lasciò perdere quando vide che Iris si era incamminata di nuovo. Si
avviò anche lui per raggiungerla, pensando che, forse, prima potesse valere la
pena parlarne con Damian.
*
Il
sabato pomeriggio non era mai giorno di prove al Menier Chocolate Factory,
fatta eccezione per il periodo precedente alla prima di ogni spettacolo.
Tuttavia
da svariate settimane, il sabato pomeriggio la sala del teatro del locale era
occupata da Audrey e dal gruppetto di musicisti che era riuscita a mettere
insieme per suonare al matrimonio di Oliver. La pianista aveva chiesto aChristopher – il proprietario del Menier,
nonché suo datore di lavoro – di poter usare la sala per quelle prove quando
era vuota e lui glielo aveva concesso. L’uomo era sempre particolarmente ben
disposto nell’aiutare qualcuno che voleva portare avanti un valido progetto
musicale, più o meno quello che Audrey stava tentando di fare.
Erano
quasi le cinque del pomeriggio e il gruppo di musicisti era intento a
confrontarsi fra loro, parlando di alcune delle canzoni che la pianista aveva
individuato. Audrey si era presa l’impegno di trovare gli spartiti per ciascun
membro della piccola orchestra, ma sapeva perfettamente dove cercare e quell’incarico
non era stato particolarmente impegnativo. Aveva distribuito gli spartiti delle
ultime canzoni aggiunte all’elenco a ciascun musicista appena si erano
incontrati – un paio di ore prima – e avevano trascorso il resto del pomeriggio
a provare i pezzi già concordati e quelli nuovi appena introdotti.
Era
come avere una band, per Audrey, un piccolo complesso pronto a far conoscere la
propria musica nei migliori jazz club londinesi. Si sentiva davvero soddisfatta
di quello che era riuscita a mettere in piedi, al punto che una parte di lei le
disse che non sarebbe stato affatto male ipotizzare di rendere la cosa
permanente, anziché limitare la sopravvivenza di quel progetto al solo
matrimonio di Oliver. Dopotutto suonare le piaceva profondamente, esattamente
come la musica jazz. Ci avrebbe riflettuto meglio.
Insieme
al gruppo avevano appena finito di provare e i musicisti stavano amichevolmente
conversando fra loro, confrontandosi sul risultato dell’esecuzione, quando
Audrey si accorse che qualcuno era entrato all’interno del teatro, passando
dall’ingresso alla sinistra del palco: era Clint.
Per
un momento la ragazza lo guardò perplessa, chiedendosi cosa ci facesse lì poi,
appena gli altri musicisti cominciarono a vederlo e salutarlo, Audrey si alzò
dallo sgabello del pianoforte e gli andò incontro.
«Ciao»
la salutò lui, prima ancora che lei potesse raggiungerlo.
«Ciao»
replicò Audrey, cercando di apparire rilassata. La presenza del ragazzo lì,
però, non la faceva sentire per niente rilassata. Non aveva detto nulla a Clint
del fatto che stesse mettendo in piedi un gruppo per le nozze di Oliver. Non lo
aveva fatto principalmente perché non aveva molta voglia di trovarsi sempre a
contatto con lui, anche lontano dal posto di lavoro, o nei week end, come in
quel caso. Sapeva che il suo atteggiamento era stato egoista e, forse,
scorretto, ma non aveva trovato soluzione migliore. Aveva cercato di far capire
a Clint che non era interessata, ma lui sembrava non dare peso al parere di
Audrey. Oltretutto lui le aveva sempre fatto credere di essere uno “particolarmente
impegnato al di fuori del Menier” e non pensava che a uno tanto impegnato
potesse interessare suonare al matrimonio di uno sconosciuto – per lui – per pochi
soldi.
«Cos-cosa
ci fai qui?» domandò Audrey, lanciando un’occhiata in direzione degli altri
musicisti. Pregò con tutta se stessa che non sentissero una sola parola della
conversazione che stava per avere con Clint, perché era piuttosto sicura che,
qualsiasi fosse stato l’esito, lei non avrebbe fatto una bella figura.
Il
ragazzo rispose con la sua consueta sicurezza, quasi si fosse preparato alla
perfezione il discorso: «Gwen mi ha raccontato che stavi cercando dei musicisti
per suonare al matrimonio del tuo amico. Volevo chiederti se potesse servirvi
un violoncello» concluse, alludendo chiaramente a se stesso.
Audrey
maledì nella sua testa Gwen, sollevando impercettibilmente gli occhi al cielo.
Non le venne in mente una replica immediata, qualcosa di educato per declinare
l’offerta del ragazzo.
Nel
tempo che impiegò a pensare, i due vennero raggiunti da Robert, il
contrabbassista. Le cose si complicavano, soprattutto perché Robert era molto
amico di Clint.
I
due si salutarono, dopodiché il contrabbassista chiese: «Come mai qui?»
«Stavo
dicendo a Audrey che, se dovesse servirvi un violoncellista, io sono
disponibile.»
«Ma
come, uno impegnato quanto te vuole dare la disponibilità per questo gruppo?
Guarda che suoniamo veramente, c’è da lavorare qui.»
Robert
aveva pronunciato il tutto in modo molto amichevole, ma era l’assoluta verità.
Audrey lo ringraziò mentalmente; aveva paura che la presenza del
contrabbassista potesse rivelarsi un problema, invece lui la stava aiutando,
ovviamente a sua insaputa.
«Sì,
lo so. Ma è una bella cosa quella che avete messo in piedi» riprese parola
Clint, guardando Audrey. «Suonare musica jazz mi piacerebbe molto. Davvero,
sono assolutamente disponibile.»
«Ah,
questo cambia tutto» esclamò soddisfatto Robert.
Audrey
faceva vagare il suo sguardo fra i due uomini, seguendo il loro botta e
risposta come se stesse osservando una partita di tennis. Le cose stavano
peggiorando. Non poteva dire a Clint che non lo voleva nel gruppo ora che lui
si era reso tanto disponibile, specie davanti a uno come Robert, dalle doti
persuasive talmente efficaci da risultare sorprendenti. Inoltre, Clint poteva
anche essere pesante e interessato a lei, ma come musicista non gli si poteva
dire nulla. Suonava il violoncello con elegante maestria e imparava tutti i
pezzi rapidamente. Audrey voleva portare la migliore musica che si potesse
pensare al matrimonio di Oliver e un violoncello ad arricchire il sound del
gruppo sarebbe stato di grande aiuto. Oltretutto non le stava venendo in mente
alcuna scusa efficace per liquidare Clint e impedire, al contempo, che Robert
potesse peggiorare tutto.
Si
arrese all’evidenza: non aveva alternative valide, né colpi di scena da usare a
suo vantaggio. Si dipinse in volto un sorriso credibile e tornò a rivolgersi al
violoncellista: «Beh, se sei disponibile a prendere parte a questa cosa allora,
benvenuto.»
Il
ragazzo le sorrise, radioso. Audrey cercò di mantenere le distanze, fin da
subito e si avviò per tornare al pianoforte mentre diceva: «Stiamo ancora
ampliando la scaletta, ma alcuni titoli li abbiamo confermati. Ti dico di quali
si tratta, poi farò il possibile per trovare le spartiture da violoncello.»
«Oh,
non serve. So bene dove cercarle» replicò lui.
La
pianista riuscì a reprimere una smorfia, limitandosi a un breve cenno di
assenso e un: «Ah, fantastico» che, a un udito attento, sarebbe apparso molto
sarcastico – come poi era realmente.
Clint
venne salutato dal resto dei componenti del gruppo e presentato a Neil, il
cantante, mentre Audrey osservava la scena con un leggero misto di
preoccupazione e fastidio dentro. Almeno il week end sperava di non dover avere
a che fare con Clint, né con le sue avance da persona colta e raffinata che è
convinta che un “no” si possa presto trasformare in un “sì, assolutamente”. Il
violoncellista le era capitato fra capo e collo ed era riuscito a intromettersi
anche in qualcosa di importante per lei, come il lavoro che stava portando
avanti solo per Oliver. Sperò con tutta se stessa che Clint non rendesse ciò
che si stava rivelando tanto piacevole qualcosa di sgradevole, ma era
abbastanza certa che le sue speranze fossero mal riposte.
Il
libro sul ballerino di tip-tap stava prendendo una forma sempre più definita.
Le tavole e i disegni di Peter aumentavano di giorno in giorno e il ragazzo era
soddisfatto di come stava procedendo il tutto. Mancava ancora molto lavoro, ma
Peter sentiva che il risultato finale avrebbe ripagato le aspettative dell’autore,
dell’editore e avrebbe sorpreso il pubblico.
All’inizio
di una nuova settimana, con aprile prossimo a esaurirsi, l’illustratore aveva
concluso un’altra giornata di lavoro e stava procedendo in direzione di Tower
Hill station sul solito percorso. Nelle orecchie aveva le note di Starlight dei
Muse, disturbate però dal ticchettio continuo delle gocce d’acqua che battevano
insistenti sull’ombrello. Le nubi che si erano addensate su Londra erano tanto
gonfie e scure da far apparire le cinque del pomeriggio molto più simili alle
otto di sera.
Peter
si infilò nell’accesso alla stazione metropolitana, chiudendosi dietro l’ombrello.
Si bagnò leggermente i capelli – già umidi e ben più mossi del solito a causa
dell’incremento di umidità di quel pomeriggio – e superò i cancelli per i
binari.
Mentre
scendeva lungo le scale mobili, tenendosi sulla destra, spense la musica. Quel
gesto era ormai diventato un’abitudine e si era lentamente affiancato a tutto
gli altri che compiva dal suo studio a Tower Hill con una naturalezza
insospettabile. Da quando aveva conosciuto Audrey, da quando avevano iniziato a
trascorrere il loro tempo insieme sulla banchina della Tube, spegnere la musica
sul cellulare per concentrarsi sulla ragazza era diventato naturale per lui,
esattamente come lo sarebbe stato se, al posto della pianista, ci fosse stato
qualche altro suo amico.
Sentì
che qualcuno stava suonando il pianoforte, ma non riconobbe la canzone e,
quando la sala divenne visibile, il ragazzo ebbe la conferma che non si
trattava di Audrey. Forse la pianista doveva ancora arrivare. Tuttavia lui era
in leggero ritardo rispetto al solito, perciò era possibile che lei fosse già
al binario. Scese la rampa di scale che portava alla banchina e si guardò
intorno, individuando la ragazza poco più avanti.
Era
concentrata su qualcosa, Peter lo dedusse dallo sguardo, che teneva fisso
davanti a sé, sul nulla. Con sua sorpresa, il ragazzo si accorse che Audrey
aveva gli auricolari e che, con molta probabilità, stava ascoltando della
musica.
La
raggiunse, fermandosi accanto a lei.
«Non
ti ho mai vista ascoltare musica» esordì.
Audrey
si accorse di lui, sentendo anche quanto aveva appena detto. Non teneva il
volume troppo alto e non le sfuggì una sola parola del ragazzo. Oltretutto, lo
stava aspettando.
«Ciao.
Come stai?» gli chiese
«Tutto
a posto» rispose lui, stringendosi leggermente nelle spalle. «Tu? Che stai
ascoltando?»
Audrey
spense la musica mentre Peter poneva quella domanda. Arrotolò malamente gli
auricolari e li infilò in borsa, consapevole che per districarli correttamente
la volta successiva avrebbe impiegato parecchio tempo.
«Ah,
canzoni. Sono un po’ piena in questo periodo. Fra due settimane c’è la prima
dello spettacolo al Menier e fra tre suono a un matrimonio. Quindi ho una cosa
come cinquanta canzoni da ricordare.»
Lo
disse tutto d’un fiato, senza mascherare più del dovuto la tensione che
cominciava a provare. Peter la guardò, sorpreso e ammirato. «Parli sul serio?
Ma al matrimonio suoni per il Menier?» le chiese, incuriosito
«No,
no. Il matrimonio è un’altra cosa. Hai-hai presente Oliver?» volle sapere.
Continuava a piacerle l’idea di suonare alle nozze del coinquilino, specie
avendo la possibilità di portare canzoni jazz. La cosa la faceva sentire
appagata e si scopriva a volerne parlare ogni volta che ne aveva occasione.
Peter
ripensò a dove aveva sentito quel nome, ricordandosi che si trattava del
ragazzo che gli aveva presentato Audrey quel sabato mattina a Camden Town.
Quello che era certo fosse il suo ragazzo. Cosa c’entrava, ora?
«Sì,
quello che era con te a Camden, no?»
«Esatto.
Fra tre settimane si sposa e suono al suo matrimonio. È il mio migliore amico
da quando siamo piccoli e vorrei che fosse tutto perfetto. Però facendo così mi
sto mettendo da sola dell’ansia addosso.»
Il
ragazzo sorrise; ripensò un momento alle parole di Audrey e non gli riuscì di
fermarsi dall’osservare: «Credevo fosse il tuo ragazzo.»
La
pianista si era sentita dire quelle parole già diverse volte. Al liceo, al
conservatorio, dai colleghi di lavoro. Sapeva che agli occhi di molti un’amicizia
come quella fra lei e Oliver era impossibile, ma lei la stava vivendo e sapeva
perfettamente quanto, invece, fosse reale e preziosa.
«Me
lo dicono praticamente tutti» rispose poi.
Peter
le sorrise. «È molto bello il fatto che suonerai alle sue nozze, davvero.»
«Grazie»
rispose lei, senza sapere con esattezza cosa dire.
«Posso
farti una domanda?» chiese poi il ragazzo, senza dare il tempo alla pianista di
formulare una frase da aggiungere al suo ringraziamento.
Audrey
aveva ormai capito quanto Peter fosse curioso. Lui domandava, si interessava,
indagava. Cercava di scoprire le cose, di conoscere chi aveva davanti, eppure
era anche in grado di capire a quale punto, a quale domanda, era importante
fermarsi. Non aveva mai chiesto nulla di sconveniente, né di imbarazzante a
Audrey, sapendo bene fino a che punto ci si poteva spingere con le domande
prima che queste potessero urtare la sensibilità dell’interrogata.
La
pianista acconsentì, aspettando di sentire ciò che lui voleva chiederle.
«Vorresti
suonare nella London Philharmonic Orchestra? Cioè, mi
spiego, se ci fosse l’occasione di lavorare per la Filarmonica lo faresti?
Immagino che per un musicista sia un grande onore, no? Un traguardo importante.»
Audrey
lo guardò incuriosita per qualche secondo. Non capiva esattamente il perché di
quella domanda, eppure si rese conto di non aver mai preso in considerazione
quello scenario. Da quando suonava aveva sempre desiderato suonare e basta, al
punto da aver costruito la sua vita intorno alla musica. In tutto quello, però,
non aveva mai dato un rilievo importante al dove,
al luogo in cui si esibiva. La London Philharmonic
Orchestra era indubbiamente un’istituzione di livello superiore a qualsiasi
altra orchestra e lei non dubitava che suonare lì avrebbe rappresentato un
grande successo personale, tuttavia se non si era mai fermata a pensare a ciò
prima di quel momento, prima che qualcuno le chiedesse se c’era speranza a
riguardo in lei, significava che forse non era ciò che voleva.
Si
prese qualche altro istante per rifletterci su, infine si strinse nelle spalle,
rispondendo quasi più per istinto che altro: «Non so, onestamente. Ammetto di
non averci mai pensato. Voglio dire, il Menier Chocolate Factory mi piace
tantissimo e lì mi trovo davvero bene. Non nego che suonare nella Filarmonica
sarebbe un grande onore e, forse, se avessi l’occasione la cogliersi al volo,
ma direi di essere felice così. È la musica la mia vita, non l’orchestra. Il
luogo in cui suono è secondario.»
Si
sentì soddisfatta della sua risposta. Era stata sincera con se stessa e sapeva
di aver trasmesso anche a Peter quella sensazione. Il ragazzo le sorrise,
annuendo a quelle parole.
«Tu?
Come illustratore vorresti andare da qualche altra parte? Tipo alla London Philharmonic Orchestra dell’illustrazione?» gli chiese
subito dopo.
Peter
trovò particolarmente divertente quel paragone e non lo nascose.
«Il
GAE Studios» rispose. «È uno studio di animazione
scozzese, a Edimburgo. Vorrei riuscire a essere assunto là, sarebbe un passo
ulteriore.»
«In
che direzione?»
Audrey
si pentì subito di averglielo chiesto. Non le piaceva fare la parte di quella
che vuole sapere assolutamente tutto, ma fu più forte di lei. Sentiva che ormai
aveva stretto un legame con Peter, che poteva considerarlo suo amico e lei, agli
amici, domandava.
Il
ragazzo non parve affatto turbato dalla domanda, al contrario. Lui era sempre
stato curioso per natura e la curiosità era un tratto che apprezzava molto
anche in chi gli stava intorno. Per lui, Audrey aveva quella genuina curiosità
che gli era sempre piaciuta negli altri.
«La
maggior parte di quelli che lavorano al GAE Studios
nel giro di pochi anni riescono a passare in altri studios,
fra cui la DreamWorks e la Walt Disney.»
«Sul
serio?»
«Già.
Mi piacerebbe molto lavorare nel settore dell’animazione, specie per Walt
Disney. Sono sempre stato un amante dei loro lavori. Sarebbe bello occuparsi delle
bozze, dare libero sfogo all’immaginazione.»
A
Peter uscì naturale dire tutte quelle cose a Audrey, cose che non aveva ancora
detto a Iris e Veronica, nonostante la loro convivenza. Sapeva che la pianista
l’avrebbe capito molto più delle due ragazze, per questo gli uscì tanto
semplice dirglielo.
«Però,
un progetto ambizioso» disse infine la ragazza, sorridendo. «Ti faccio i miei
migliori auguri.»
«Grazie.»
I
due si zittirono e rimasero a guardarsi per un momento. Era la prima volta da
quando si erano conosciuti che Peter non aveva introdotto un nuovo argomento di
conversazione. Di solito sapeva sempre cosa dire o trovava qualche cosa da
chiedere e quell’improvviso silenzio fece sentire Audrey strana.
La
corsa della District line interruppe quel momento. I convogli si fermarono
lungo il binario mentre la pianista salutava Peter.
«Vengo
con te» rispose lui, anziché salutarla. Gli era venuto in mente cosa chiedere
alla ragazza e non gli andava di vederla andare via, ancora. Cinque minuti in
più sarebbero bastati.
I
due salirono sulla metropolitana e si sistemarono in piedi, reggendosi entrambi
allo stesso palo verticale.
«E
dello spettacolo cosa mi puoi dire?» domandò il ragazzo trovando qualcosa di
nuovo di cui poter parlare.
«Oh,
niente di che» rispose lei, riflettendo su quel argomento. Raccontò a Peter
della routine delle ultime settimane, le prove del sabato pomeriggio, i ripassi
serali, il modo in cui la musica seguiva gli attori. Adesso era solo questione
di memorizzare, gli disse, ecco perché l’aveva trovata ad ascoltare musica,
nonostante di solito non lo facesse mai.
Anche
quegli ultimi cinque minuti insieme passarono, fino a esaurirsi. La District line
era appena affiorata in superficie quando a Audrey squillò il cellulare. Si
scusò con Peter, prossimo a scendere, leggendo il nome di April in
sovrimpressione. Si portò lo smartphone all’orecchio, rispondendo.
«Buon
compleanno!»
L’augurio
arrivò contemporaneamente da April e Sadie, urlato all’unisono al punto da far
sussultare Audrey e, contestualmente, da essere sentito perfino da Peter.
Appena la pianista ebbe conferma di non essersi perforata il timpano, ringraziò
le amiche dicendo loro di aspettare un momento quando si accorse che erano
arrivati a Whitechapel, la fermata di Peter. Mise la
chiamata in attesa, così da poter salutare il ragazzo.
«Non
sapevo fosse il tuo compleanno» le disse lui appena la vide abbassare il
cellulare.
«Ah,
beh, comprensibile» farfugliò lei, davanti al sorriso del ragazzo.
Peter
si sistemò meglio lo zaino in spalla, pronto per scendere. «Progetti
interessanti per stasera?» le chiese.
La
metropolitana rallentò sempre più, mentre la voce annunciava la fermata di Whitechapel. La pioggia batteva insistente contro i vetri.
«Cena
a casa di una mia amica. Però non so bene cosa aspettarmi.»
Le
porte della carrozza si aprirono.
«Bene,
sembra interessante» rispose Peter, avviandosi verso la porta. Scese dal
convoglio e si voltò in direzione di Audrey. «Tanti auguri, allora. Festeggia a
dovere stasera. Divertiti.»
I
due si salutarono con la mano proprio mentre le porte della metropolitana si
chiudevano. Peter rimase sotto la tettoia della fermata a guardare la District
line ripartire sferragliando. Quando il mezzo scomparve alla sua vista si
concentrò sul proprio ombrello, avviandosi verso l’uscita della stazione.
Si
incamminò lungo WhitechapelRd.
iniziando a percorrere i cinque minuti a piedi che lo separavano dalla stazione
della Overground più vicina, dove avrebbe preso il
mezzo che lo avrebbe accompagnato fino a White Heart
Lane. La pioggia continuava a scendere, rendono il tutto più buio e umido.
Per
Peter non era molto comodo prendere la District line, proprio perché la coincidenza
con la Overground gli richiedeva di fare un tratto a
piedi capace di allungargli il percorso. Inoltre anche la corsa in generale
durava di più, rispetto alla comodità della Circle
line. Non ne aveva mai parlato con Audrey, nemmeno quando lei le aveva chiesto
perché non preferisse la Circle.
Quel
giorno il meteo non invitata affatto a prendersi tempo per una passeggiata e
Peter era già sufficientemente umidiccio da evitarsi volentieri anche quel
tratto a piedi fino alla Overground, eppure aveva
comunque deciso di prendere la District per non salutare tanto presto Audrey.
Non
sapeva fosse il suo compleanno; se lo avesse saputo forse avrebbe potuto
regalarle qualcosa, farle anche solo un pensiero, offrirle un caffè. Quanti
anni compiva? Ventisette se non ricordava male. Sì, vero, erano coetanei.
Il
ragazzo rimuginò su quella situazione durante tutto il restante tragitto di
rientro a casa. Ripensò alle ultime cose che aveva scoperto su Audrey, al fatto
che non fosse interessata alla London Philharmonic Orchestra
e a quanto era stata bella la risposta alla sua domanda, che aveva dimostrato l’amore
incontaminato che lei provava per la musica. Poi pensò anche a sé, a come gli
era risultato semplice ammettere con la ragazza del suo desiderio di lavorare
un giorno per il GAE Studios . Trovava semplice parlare con Audrey,
indipendentemente da quale fosse l’argomento.
Peter
arrivò a casa proprio mentre la pioggia cominciava a calare. Appena entrato
salutò tutti, ricevendo di rimando solo il “Ciao” di Veronica, proveniente
dalla piccola cucina.
«Dove
sono gli altri?» le chiese, appena la raggiunse. Non ricordava gli avessero
detto qualcosa di particolare su dove sarebbero andati.
«Iris
si è fermata fuori con una sua amica. Damian è a fare la spesa.»
Il
ragazzo annuì in modo neutrale, infine andò a prendere le sue cose e si infilò
sotto la doccia.
Meno
di mezz’ora dopo era a sedere al tavolo del soggiorno, gli avanzi scaldati
della sera precedente davanti, a parlare con Veronica mentre metteva sotto i
denti qualcosa – non molto sostanzioso, ma era pur sempre qualcosa. Si disse
che avrebbe dovuto andare anche lui a fare la spesa, nonostante non ne avesse
voglia. Si impose di andarci il giorno successivo, ma sapeva perfettamente che
non lo avrebbe fatto.
La
conversazione con Veronica non fu delle più avvincenti. La ragazza non era mai
stata una gran chiacchierona, Peter lo sapeva. Avevano poche cose in comune –
anzi, quasi nessuna – e anche per quel motivo non era semplice trovare qualcosa
di cui parlare. Il ragazzo chiese all’amica com’era andata la sua giornata,
sebbene non ne capisse nulla di farmacologia. Ascoltò Veronica rispondere
sintetica a ogni nuova domanda, ultimando la propria cena.
Alle
otto e mezza di sera, mentre Damian, appena rientrato, compiva la routine di
doccia e cena tipica di ogni membro di quella casa, Peter si chiuse in camera
sua e accese il portatile. Aveva voglia di guardare un film, ma non sapeva
quale. Scorse mentalmente un elenco di titoli, non trovandone nessuno di suo
interesse. Fece vagare lo sguardo per la stanza, pensando. Si soffermò a
guardare la data, ben visibile sul calendario che aveva accanto, senza un reale
motivo: il 26 aprile. Audrey quindi era nata il 26 aprile. Non sapeva perché
gli era venuto in mente, ma quel pensiero gli diede un’improvvisa
illuminazione.
La La
Land.
Ecco cosa poteva guardare. Così facendo avrebbe finalmente potuto capire per
quale ragione alla ragazza quel film piaceva così tanto; o avrebbe potuto
immaginarlo, per lo meno.
Cercò
nel suo sito di streaming di fiducia, individuando un link con una buona
qualità. Spense la luce, si mise più comodo sulla sedia e, inforcate le cuffie,
premette play.
Tuttavia,
il film non era ancora iniziato da cinque minuti che Peter ebbe già i suoi
primi dubbi. Per quale motivo cantavano già? Ma, soprattutto, perché lo stavano
facendo durante un ingorgo stradale?
Il
ragazzo osservò le immagino inseguirsi sullo schermo del portatile sempre più
perplesso e, in un certo senso, anche confuso. Per sua fortuna, però, dopo
quella specie di sigla il film iniziò ad avere una trama sensata; i personaggi
vennero presentati, le loro vite cominciavano a essere definite.
Era
appena terminata la seconda canzone che la porta della sua camera si aprì di
colpo. La privacy, in quella casa, era un raro privilegio.
«Peter
ti va di-»
Era
Iris, che si bloccò prima di concludere la frase. Probabilmente era rientrata
da poco e lui non l’aveva sentita. Il ragazzo si voltò verso la porta della sua
stanza, sfilando nel frattempo le cuffie, ma la coinquilina aveva già puntato
gli occhi sullo schermo del portatile.
«Stai
guardando La La
Land?» Domandò stupita.
Il
ragazzo annuì. «Sì. Ma tu hai bisogno di qualcosa?»
Iris
ignorò la domanda. «Ti prego, possiamo guardarlo insieme? Volevo giusto
chiederti se ti andava di vedere un film.»
Si
sedette sul letto, il posto in cui su guardavano sempre i film in camera di
Peter. Quest’ultimo avrebbe voluto risponderle di no, dirle che non aveva
voglia di vedere di nuovo gente che ballava senza un vero motivo su una
tangenziale americana, ma lo sguardo di Iris lasciava intuire che lei, al
contrario, voleva vederlo eccome.
Il
ragazzo sospirò impercettibilmente, si alzò dalla sedia e sistemò il portatile
sul letto, alla giusta distanza, dopodiché si sedette sul proprio letto.
«Come
mai lo stavi guardando?» gli chiese la ragazza, il tono di chi sospetta ci sia
qualcosa sotto.
«Non
sapevo che altro guardare» replicò lui, disinvolto.
Fece
ripartire il film dall’inizio, appoggiando la schiena contro la testiera del
letto. Anche Iris ai sistemò meglio e si accoccolò sul letto, appoggiandosi a
Peter.
La
temperatura dell’acqua era perfetta. Peter chiuse gli occhi sotto al getto
della doccia, sentì l’acqua tiepida scivolargli addosso, respirò a fondo.
Che
giovedì assurdo era stato quello. Un vecchio cliente dello studio in cui
lavorava si era presentato senza annunciarsi, blaterando che voleva delle
tavole con cui illustrare un libro di ornitologia al quale stava lavorando.
Voleva acquerelli di uccelli fatti così bene da sembrare reali e voleva fosse
Peter a farglieli. Poi, proprio quando l’illustratore già vedeva le prime
immagini nella sua mente, l’uomo aveva cambiato idea e si era rivolto a Edward,
un collega di Peter, sottoponendo a lui quello che aveva appena proposto a
Peter.
«Peter,
è una vita che sei lì dentro, esci.»
Veronica
batté un paio di colpi forti sulla porta. Il ragazzo spostò sovrappensiero lo
sguardo sull’ingresso del bagno, tornando poi a guastarsi il piacere dell’acqua
tiepida.
Nel
tragitto dallo studio alla stazione di Tower Hill aveva anche preso in pieno un
acquazzone. Si era dimenticato l’ombrello nel suo ufficio e, giusto a metà
strada, la sola nube che aveva momentaneamente coperto il sole, aveva deciso di
scaricare tutta la sua acqua, esaurendo la scorta proprio poco prima che Peter
riuscisse a infilarsi nell’ingresso alla Tube, quando ormai era zuppo a
sufficienza.
Audrey
gli aveva dato un paio di fazzoletti perché potesse asciugarsi, ma non era
servito a molto. Tuttavia non era certo la prima volta che Peter si bagnava a
causa della pioggia e aveva imparato a ignorare la cosa.
Aveva
fatto una piacevole chiacchierata con la pianista nell’attesa della
metropolitana. Le aveva detto di aver visto La
La Land il giorno prima e lei si era illuminata.
Aveva spalancato gli occhi azzurri, sorridendo, come se lui le avesse appena
dato la più importante notizia del mondo. Era evidente l’amore che provava per
quel film e le aveva fatto piacere sapere che, nonostante i primo dubbi
iniziali, a Peter fosse piaciuto – un po’, almeno.
La
loro conversazione si era poi spostata sulla colonna sonora di quel film. La
canzone di John Legend era piaciuta molto a Peter mentre, proprio per
rispondere a una sua domanda, Audrey aveva detto che stava imparando la canzone
che Sebastian suonava al ricevimento di nozze. Non c’era un vero motivo, quella
canzone era una di quelle che preferiva, insieme a Someone in the Crowd, l’Epilogo e, naturalmente, a City
of Stars.
Risvegliandosi
dai suoi pensieri, Peter si tolse dalla fronte i capelli bagnati e chiuse l’acqua.
Perché
stava pensando ancora alla conversazione con Audrey? Doveva esserci un motivo.
Si
disse che ultimamente stava pensando troppo in generale. Si interrogava su cose
che prima non si chiedeva e rimuginava su tutto.
D’improvviso
gli venne un’idea. Sapeva che doveva esserci qualcosa sotto quel continuo
riproporsi in testa la conversazione con Audrey. Il suo compleanno, il fatto
che le piacesse la musica dell’epilogo del film.
Gli
era appena venuta l’idea per il regalo di compleanno per la ragazza. Le avrebbe
regalato dei disegni; amava disegnare e gli piaceva farlo ancora di più quando
si trattava di donare il proprio lavoro a qualcuno a cui teneva.
Audrey
ormai era sua amica e rientrava perfettamente nell’elenco di quelle persone.
Aveva un po’ di lavoro da fare, se ne rese conto, ma quell’idea che aveva preso
a balenargli in testa d’improvviso non poteva più essere ignorata.
Indossò
la tuta che teneva in casa e uscì dal bagno senza dare peso alle proteste di
Veronica, che lo stava riprendendo per averci messo tanto. Arrivò alla camera
di Damian con la testa ancora bagnata, tenendo fra le mani un asciugamano con
cui, ogni tanto, si tamponava i capelli.
A
differenza degli altri inquilini della casa, Peter era abituato a bussare ed
entrò in camera solo dopo aver ricevuto la risposta affermativa dell’amico. Damian
era a sedere alla scrivania, il portatile aperto su cui stavano scorrendo una
serie di codici sorgente, qualcosa di molto simile a una lingua incomprensibile
per Peter.
«Che
stai facendo?» domandò quest’ultimo, sedendosi sul letto e appoggiando la testa
alla parete per un solo secondo, prima di ricordarsi di avete i capelli
bagnati.
«Sto
cercando di disinstallare uno di quei programmi infami. Dev’essersi installato
mentre facevo un aggiornamento. Eccolo qua il bastardo» esultò.
Peter
guardò perplesso l’amico. Non ne capiva di computer quanto lui e, spesso,
trovava che Damian facesse cose senza senso.
Questi,
dopo aver chiuso tutte le finestre sul monitor si voltò verso l’altro e lo fissò
asciugarsi i capelli.
«Hai
bisogno di qualcosa?» chiese poi.
«Sì»
replicò prontamente Peter. «Tu sei decisamente più bravo di me a trovare cose
in internet. Non è che riusciresti a trovarmi le partiture per pianoforte dell’epilogo
di La La Land?»
Damian
non rispose. Rimase a guardare l’amico, attonito. Peter abbandonò l’asciugamano
sulla propria testa, rispondendo all’occhiata perplessa del coinquilino.
«Cos’è
che vuoi?» gli chiese quest’ultimo, il tono di chi si è perso a causa della
domanda troppo articolata.
«Le
partiture per pianoforte dell’Epilogo
di La La Land»
ripeté Peter, scandendo meglio tutti i passaggi.
L’altro
riuscì a cogliere tutti i frammenti e a metterli insieme in un puzzle ordinato.
«Perché,
non si trovano? Quel film ha sbancato» osservò. Digitò qualcosa su Google e analizzò
i risultati. «Curioso» borbottò poi davanti all’assenza di risultati rilevanti.
«L’epilogo
è strumentale, non è solo pianoforte.»
L’osservazione
di Peter arrivò a Damian da sopra la sua spalla. Lui l’ascoltò, l’assimilò, poi
capì che qualcosa non andava.
«Aspetta
un secondo» disse, voltandosi verso l’amico. Peter si rimise a sedere sul letto
e lo guardò.
«Perché
diavolo vuoi delle partiture da pianoforte?»
«Oh,
non sono per me» rispose calmò l’illustratore. Subito dopo si alzò nuovamente e
andò a chiudere la porta. Non voleva che Veronica o, peggio, Iris, sentissero
quello che stava per dire all’amico. Il sospetto che Iris fosse interessata a
lui non ne voleva sapere di allontanarsi e Peter pensò fosse una buona idea che
la ragazza non sentisse nuovamente nominare Audrey.
Damian
aveva seguito con gli occhi il coinquilino per tutto il tempo, capendo sempre
meno. C’era qualcosa sotto l’atteggiamento di Peter, solo non sapeva cosa.
«Hai
presente la pianista? Quella che ho conosciuto alla stazione di Tower Hill?»
domandò infine l’illustratore.
L’altro
annuì, cominciando a sospettare qualcosa.
«Sto
cercando gli spartiti per lei» lo informò Peter.
«E
perché non se li cerca da sola?»
«Glieli
voglio regalare, ecco perché.»
Damian
era pronto a parlare di nuovo, ma Peter lo precedette: «Devi proprio fare tante
domande?» sbuffò.
«Sto
solo cercando di riordinare le cose. Vieni in camera mia blaterando di
partiture per pianoforte e ti aspetti che non faccia domande?»
L’illustratore
guardò di sottecchi la porta mentre l’amico replicava, sperando che il tono
alto della sua voce non attirasse l’attenzione di nessuno.
«Ok,
hai ragione» ammise poi. «Ma non c’è bisogno di urlare. Sto cercando quelle
partiture da regalare a Audrey per il suo compleanno, tutto qui.» Si sedette
sul bordo del letto, davanti all’amico. «Solo che non ho la più pallida idea di
dove trovarle, dato che quella canzone non è stata fatta esclusivamente a
pianoforte.»
«Hai
provato su YouTube?» chiese Damian, guardando Peter con sufficienza.
Quest’ultimo
borbottò un paio di sillabe sconnesse. «No» rispose, il tono di chi non può
credere che sia tanto facile.
Damian
si voltò, tornando a dedicare la sua attenzione al pc. Digitò rapidamente le
parole chiave sulla barra di ricerca di YouTube e i risultati apparvero
ordinatamente elencati, il più visualizzato a sovrastarli tutti.
Peter
si alzò dal letto, avvicinandosi alla scrivania di un passo e posando la mano
sullo schienale della sedia in cui si trovava Damian. Si allungò appena per
osservare meglio i video elencati sullo schermo, sorpreso. I titoli erano
piuttosto eloquenti e, su quasi tutti, erano riportate le parole "piano
solo" o "piano version".
«Alle
persone piace far vedere quanto sono brave» osservò Damian scorrendo fra i
risultati di ricerca. «Oh, ecco qui. Questo ha pubblicato anche gli spartiti.»
«Bene,
passami il video via Messenger, per favore. Ci do un’occhiata e vedo se è
quello che cerco.»
Damian
eseguì, copiando il link sulla chat che aveva in comune con l’amico. Mentre
compiva quelle operazioni, però, la situazione tornò nuovamente a incuriosirlo.
«Perché
le vuoi regalare proprio le partiture di questa canzone?»
Peter
era pronto a replicare, dicendo che era una delle canzoni che Audrey preferiva
del film, ma si fermò. Alla pianista piaceva quella canzone, lo sapeva, ma non
era esattamente la prima scelta
quando lei attribuiva le preferenze nelle tracce della colonna sonora del film.
Non era neanche la seconda scelta. Né la terza.
Allora
perché mai aveva scelto proprio quella traccia per regalarne gli spartiti a
Audrey? Che ci fosse qualcos’altro sotto, magari collegato al film e a quella
canzone che gli stava sfuggendo? Poi perché si faceva tutte quelle domande, che
gli stava succedendo? Decisamente nell’ultimo periodo pensava troppo.
«Le
piace» tagliò corto, in risposta all’amico. Lo ringraziò per l’aiuto e si
diresse nella sua stanza.
Una
volta lì accese il suo computer e, mentre quello si avviava, Peter aprì lo
zaino che portava sempre con sé per andare a lavoro ed estrasse alcuni dei suoi
materiali da disegno. Come capitava sempre, l’astuccio in metallo contente le
matite era finito sul fondo, sovrastato dal resto: i pennarelli pantoni –
tenuti uniti a gruppi con elastici, in base alle sfumature di colore – gli
acquerelli, il blocco da disegno dagli angoli rovinati e dagli schizzi
improvvisati. Quell’insieme di oggetti e colori riempiva ogni giorno lo zaino
di Peter, sebbene disponesse di tutto ciò anche nel suo ufficio in Thomas More
St. Per un disegnatore era impensabile andare in giro senza gomme e matite e
per lui, così innamorato del colore e delle sfumature, uscire senza acquerelli
o pantoni lo era ancora di più.
Si
mise alla scrivania, accese la lampada a braccio che si estendeva proprio fino
al piano da lavoro e aprì l’astuccio in metallo. Ogni matita aveva una
lunghezza diversa e, un paio di esse, erano così corte da risultare difficili
da impugnare. Peter afferrò la H, la mina che usava sempre per fare i primi
abbozzi dei disegni, cominciando a tracciare pochi segni su un foglio di carta
da acquerelli.
Mise
anche un po’ di musica, premendo play alla sua playlist
preferita, quella che ascoltava sempre volentieri mentre lavorava. La musica
cominciò a riempire l’aria, una nota alla volta, e Peter si lasciò andare
completamente nel fare ciò che amava di più.
*
Mancava
una sola settimana alla prima dello spettacolo al Menier Chocolate Factory.
Audrey cominciava a sentire la tensione e l’ansia miscelarsi in qualcosa di
articolato e complesso, una sensazione spiacevole che, nonostante tutto, aveva
il potere di motivarla.
La
pianista era a sedere sul letto, proprio sotto al poster di Star Warsche
capeggiava su buona parte della parete. Aveva le gambe incrociate e teneva
appoggiata su di esse la tastiera elettrica con cui si esercitava a casa. Non
era certo un pianoforte a coda quello strumento, ma aveva sempre fatto il suo
lavoro a dovere ed era un perfetto strumento per suonare in casa in qualsiasi
momento ne avesse voglia.
Negli
ultimi giorni Audrey non faceva altro che suonare; la cosa non le dispiaceva
affatto, ma vista la mole di canzoni che doveva imparare entro le prossime
settimane, quel continuo esercitarsi era molto simile a qualcosa di mai provato
prima.
Le
canzoni per lo spettacolo le aveva imparate perfettamente, anche senza gli
spartiti era in grado di eseguirle. Quelle per il matrimonio di Oliver, invece,
anche per via del lungo elenco che aveva stillato, erano ancora in parte un
problema. Le sarebbe servito altro tempo.
Stava
giusto ripassando una delle canzoni che non aveva imparato al meglio – Hallelujah I Love Her So
di Ray Charles – a sedere sul letto, mentre dal
soggiorno proveniva la voce di Oliver, al telefono con un cliente. Fra il
lavoro e il matrimonio, nelle ultime settimane il telefono del ragazzo era un
continuo squillare, al punto che Audrey si era chiesta più volte come riuscisse
a sopportare tutto ciò.
La
pianista si distrasse un solo istante, che le fu sufficiente per sbagliare un
passaggio e, di conseguenza, un accordo.
Imprecò
fra i denti, maledicendosi. Aveva scelto lei quella canzone; sapeva che Ray Charles era un fenomeno, ma era comunque convinta che
sarebbe riuscita a imparare ugualmente la canzone senza faticare più del
previsto. Invece c’era sopra da giorni e continuava a sbagliare ancora.
Riusciva a eseguirla perfettamente solo quando si concentrava esclusivamente
sulla sequenza di note, cosa che anche per via dei mille pensieri che le si
accavallavano in testa, ultimamente le riusciva difficile.
Afferrò
le partiture della canzone, soffermandosi a guardare il passaggio che aveva
appena sbagliato – quello che sbagliava sempre, oltretutto. Lo ripeté nella sua
mentre tre volte, ripercorrendo le note con la mente e le dita.
Quando
si sentì pronta per riprovare, dal portatile acceso sulla scrivania, proprio
accanto al letto, si udì la notifica di un nuovo messaggio su Facebook. Audrey si alzò per andare a vedere di cosa si
trattava, consapevole che altrimenti non sarebbe riuscita a concentrarsi a
dovere.
Il
messaggio era di Peter.
I
due avevano stretto amicizia sul social network da diverso tempo, ormai. Era
stata Audrey a mandare la richiesta al ragazzo. Dopo che fra loro si era
formato un legame piacevole, una conoscenza che si stava trasformando in un’amicizia
sempre più evidente, la pianista aveva cercato il nome di Peter sul web, alla
ricerca della sua pagina internet, incuriosita dai suoi lavori.
Individuato
il suo sito, di cui aveva ammirato i disegni che lui vi aveva caricato colpita
dal suo evidente talento, Audrey aveva pensato che non ci fosse nulla di male
nel chiedergli l’amicizia su Facebook e lo aveva
fatto.
Peter
non le aveva chiesto come avesse fatto a trovarlo – nonostante i parecchi
omonimi che aveva a Londra – e non vedeva neanche un motivo per chiederlo;
aveva accettato la richiesta con piacere e, dopo quel giorno, i due avevamo
iniziato ad usare il social come l’ottimo mezzo che era per approfondire
ulteriormente la loro conoscenza.
Audrey
aprì la chat che portava il nome dell’illustratore, facendo scomparire il
pallino rosso accanto all’icona.
Il
testo del messaggio era semplice e chiaro, esattamente come lui.
Ciao Audrey. Ti andrebbe domani
di andare a prendere un caffè (o un tè) prima di tornare a casa?
La
pianista osservò il messaggio, rileggendolo un paio di volte. Non avevano mai
bevuto qualcosa insieme, né nessuno dei due aveva mai accennato alla cosa.
Eppure Audrey si rese conto che, ora che la proposta era stata formulata,
quella prospettiva era interessante. Sarebbe sicuramente stato piacevole
trascorrere un po’ più di tempo in compagnia di Peter, bere qualcosa,
chiacchierare con calma.
Si
sedette alla scrivania e rispose alla domanda del ragazzo, dicendosi
disponibile.
Da
lì la conversazione si snodò anche su altri argomenti, come naturale
conseguenza. Peter non spiegò a Audrey l’esatta motivazione per cui l’aveva
invitata, così come la ragazza non glielo chiese. La trovava una normale
conseguenza dell’evoluzione del loro rapporto, che era ormai chiaro non fosse
più una banale conoscenza. Dopo la vicenda della Oyster card della pianista, i
due ragazzi non si erano più comportati come sconosciuti.
Quando
la conversazione in chat si concluse, Audrey e Peter si erano accordati per
incontrarsi il giorno successivo davanti alla famigliare fermata di Tower Hill,
per poi spostarsi insieme in una delle caffetterie che riempivano la città.
Dopo
essersi salutati la ragazza sospettò che dovesse essere trascorso diverso tempo,
pertanto si affrettò a riprendere in mano la tastiera che aveva abbandonato sul
letto prima.
Non
aveva neanche ripreso a suonare le prime note che Oliver si affacciò alla porta
della camera. «Vieni a cena?» le chiese.
Audrey
lo guardò, sbattendo le palpebre un paio di volte, attonita. «Ma che ore sono?»
volle sapere.
«Le
sette e quaranta.»
La
pianista controllò sul proprio telefono, convinta che l’amico le stesse
mentendo. Come prevedibile, invece, Oliver aveva assolutamente ragione. Sbuffò
un po’ d’aria mentre diceva: «Sì, arrivo subito» per poi posare gli spartiti
della canzone di Ray Charles e alzarsi dal letto.
Non
si era assolutamente accorta dell’orario e non le era neanche venuto in mente
di sospettarlo. Come solo Peter sembrava in grado di fare, era riuscito a farle
perdere la concentrazione ancora una volta.
Il
bicchiere di carta di Peter era immobile accanto alla mano destra del
proprietario. Il ragazzo aveva ingollato il caffè caldo in fretta, da vero
amante della bevanda. Si era scottato la punta della lingua solo la prima volta
poi, per il resto, un sorso alla volta il liquido scuro aveva donato la sua
generosa dose di caffeina all’illustratore, nonostante lui non ne avesse alcun
bisogno.
Di
fronte a lui, invece, la mug di Audrey era ancora
piena per metà. Il Earl Grey sollevava ancora qualche ostinato sbuffo della sua
aroma, mentre era ormai prossimo a diventare freddo nella tazza, tenuta fra
entrambe le mani della pianista.
Per
la prima volta da quando l’aveva conosciuta, Peter ebbe modo di vedere come la
ragazza si vestiva al di sotto del cappotto rosso o dell’attuale trench beige.
I sospetti del giovane avevano così avuto modo di venire confermati: Audrey era
una di quelle da vestiti e camicette, come dimostrava quella bianca con
impressi sopra colibrì neri, che sbucava ordinata al di sotto di un maglioncino
nero.
Come
da accordi del giorno precedente, i due si erano incontrati alla fermata di
Tower Hill, all’uscita dai rispettivi luoghi di lavoro. Appena si erano
salutati, però, Peter aveva dovuto comunicare un cambio di programma; non
sarebbe rientrato a casa quella sera, non subito, almeno. Aveva appuntamento
con i coinquilini per cenare a un allyou can eat di sushi lì
vicino. Quando Audrey gli aveva risposto che un po’ lo odiava – in tono
scherzoso – e che anche lei aveva una voglia incredibile di sushi, l’illustratore
era stato fortemente tentato di invitarla, sebbene alla fine non lo avesse
fatto.
I
due si erano rintanati in uno Starbucks poco affollato in una via laterale di Minories dove avevano ordinato ciascuno la propria bevanda.
Si erano seduti e avevano iniziato a parlare, chiacchierando amichevolmente per
più di quaranta minuti. Il vero motivo per cui Peter le aveva chiesto di andare
a bere qualcosa era ormai passato in secondo piano, insospettabile per Audrey e
prossimo a venire dimenticato dallo stesso Peter. Prima che fosse troppo tardi,
il cervello del ragazzo gli ricordò l’esatta motivazione per cui ora si trovava
seduto di fronte a una Audrey che parlava tranquillamente dell’adattamento
televisivo di Sherlock, altra cosa che i due avevano aggiunto all’elenco delle
passioni comuni.
Attese
che la ragazza arrivasse a un punto morto, una di quelle frasi in cui poi non
si sa bene come continuare se non si riceve prima uno spunto dall’interlocutore.
Peter, allora, prese in mano la situazione, dicendo: «Ho una cosa per te.»
Mentre
frugava nello zaino in cerca dell’oggetto in questione, non fu in grado di
vedere la reazione di Audrey. Lei si era bloccata, spalancando gli occhi e
socchiudendo le labbra per la sorpresa inattesa. Anziché pensare al tipo di
sorpresa di cui potesse trattarsi, la mente della ragazza era ancora ferma alla
notizia e al tono che Peter aveva usato per la comunicazione.
L’illustratore
era riuscito a ritagliare un angolo sicuro nel proprio zaino in cui infilare il
lavoro che aveva fatto per la pianista senza che rischiasse di rovinarsi. Non
era stato molto semplice e aveva dovuto riorganizzare gran parte del contenuto,
ma alla fine ci era riuscito. Dal suo rifugio tranquillo, Peter estrasse un
plico di fogli non tanto numeroso, ma abbastanza spesso per via della carta d’acquerello
che aveva usato per i disegni. Lo aveva incartati in una specie di pacchetto
regalo, quel genere di cose che era sempre stato negato nel fare. Aveva messo
insieme le tavole una sull’altra, dopodiché aveva avvolto il tutto con un
foglio di carta velina azzurro – il colore che preferiva – chiudendo insieme il
tutto con un nastro in rafia. Il risultato era piuttosto semplice, ma
apprezzabile, per questo sentiva che lo rispecchiava.
Mise
il pacchetto sul tavolino, facendolo scivolare sotto gli occhi di Audrey.
«Ecco
qui. È il tuo regalo di compleanno.»
La
ragazza lo guardò, spiazzata. «Cosa? No, non era necessario» disse. Si sentiva
sempre in imbarazzo a ricevere regali, per motivi che le sfuggivano. Una parte
di sé era emozionata per quella sorpresa – che trovava già bellissima
nonostante non ne avesse ancora ammirato il contenuto – ma dall’altro lato
regnava un forte imbarazzo, misto a stupore.
«Dai,
che vuoi che sia? È un pensiero, niente di che. Lo si capisce anche dal
pacchetto che non devi aspettarti chissà cosa» rispose Peter con un sorriso. «Aprilo»
la incalzò subito dopo. Era curioso di scoprire se a Audrey sarebbe piaciuto o
meno il lavoro che aveva realizzato per lei.
Dopo
aver trovato le partiture grazie a Damian, Peter aveva lavorato ai disegni nei
tre giorni successivi, ritagliandosi dei momenti di tempo fra le varie consegne
per il lavoro. Copiare correttamente ogni nota sui vari pentagrammi era stata
la parte più difficile, ma nonostante ciò gli era piaciuto molto fare quel
lavoro.
Rimase
a guardare in silenzio la pianista che scioglieva il nodo eseguito con il
nastro in rafia, sfilandola dalla velina azzurra. Quest’ultima venne rimossa da
Audrey con calma, la quale si prese così il tempo di pensare al fatto che
quello fosse il suo colore preferito – e di che bella e delicata sfumatura lo
avesse scelto Peter.
Infine,
Audrey poté finalmente liberare le tavole, trattenendo per un istante il
respiro.
Erano
partiture per pianoforte, realizzate a mano con un sapiente lavoro di
pennarello. A colpirla, però, non furono i pentagrammi, né le note che si
rincorrevano su di essi. Furono gli acquerelli.
La
pianista fece scorrere sotto i priori occhi ciascuna tavola, appurando che su
ognuna di esse si trovasse rappresentato un differenze uccello. Il primo dei
disegni raffigurava un pavone bianco, percepibile fra le righe dei pentagrammi.
I chiaroscuro lieve e i sapienti e leggeri tocchi di colore, davano vita a
quella figura. Nelle pagine successive, sempre a incorniciare le note e ad
arricchire lo sfondo, vi erano altri disegni; un colibrì, un parrocchetto, un
ara, un pettirosso e altri. Audrey li guardò uno a uno con meraviglia
crescente, incredula davanti alla consapevolezza che quei disegni erano stati
fatti appositamente per lei.
Di
fronte alla ragazza, Peter continuava a tenere gli occhi fissi sul suo volto. La
guardava mentre faceva scorrere le iridi azzurre – di una piacevole sfumatura
scura – su ogni dettaglio dei disegni, le labbra incurvate in un leggero
sorriso. Il ragazzo aveva capito che a Audrey era piaciuto il suo regalo e non
avrebbe potuto essere più soddisfatto di così. Aveva realizzato quei lavori
appositamente per lei e, proprio come per ogni altro disegno precedente a quello,
quando il risultato soddisfaceva il destinatario, Peter sapeva do aver fatto
qualcosa di buono.
Dopo
che Audrey ebbe finito di ammirare anche l’ultima delle tavole tornò a guardare
chi gliele aveva fatte e sorrise.
«Peter
sono meravigliose» disse, sincera. Era rimasta incantata dai lavori dell’illustratore,
dai suoi tocchi di pennello e dalla precisione con cui aveva realizzato il
pentagramma e ogni singola nota, pur donando loro una propria personalità. Si
vedeva che vi aveva dedicato molto tempo e che si era applicato molto per
disegnare ciascuna tavola.
«Sono
contento ti piacciano. Volevo regalarti qualcosa ma non sapevo esattamente cosa.»
«Beh,»
esordì Audrey, distogliendo lo sguardo nel leggero imbarazzo, «questo è davvero
uno dei regalo migliori che potessi ricevere, dico davvero. Ci avrai dedicato
un sacco di tempo.»
Peter
ci pensò un momento, si strinse nelle spalle e face una breve smorfia che
voleva dire tutto e niente. In realtà la realizzazione degli acquerelli non era
stata molto lunga, il vero problema era stato la stesura dei pentagrammi; non
pensava potesse esistere qualcosa di così articolato, preciso e dettagliato da
riprodurre.
«Neanche
troppo» minimizzò infine.
La
pianista diede una nuova occhiata al lavoro; studiò diversi passaggi, alcune
scale, dopodiché rimise nell’ordine le tavole – che Peter aveva sapientemente
numerato in fondo – e si accorse che lo spazio dedicato a titolo e compositore
era vuoto. «Che canzone è?» domandò.
Il
ragazzo si dipinse in volto un sorriso divertito, gli occhi scuri si
illuminarono ulteriormente. «Questa è una sorpresa. Per scoprirlo dovrai
suonarla.»
Audrey,
di tutta risposta, sorrise a sua volta. Cominciò ad arrovellarsi il cervello
nel tentativo di capire di quale canzone potesse trattarsi, elencando nella
propria testa l’ormai moltitudine di discorsi che aveva fatto in compagnia di
Peter.
Quest’ultimo
si rese conto del fatto che Audrey stesse cercando di capire di che canzone si trattava
e, consapevole che sarebbe riuscita a capirlo solo componendo nella propria
testa le prime note, tentò di sviare il discorso, seppur non in modo evidente.
«Comunque,
sono sincero, non so come tu riesca a capire queste cose» disse, indicando con
un cenno le partiture. «Mentre le disegnavo me lo sono chiesto per tutto il
tempo.»
«Beh,
si impara» replicò la ragazza, stringendosi nelle spalle.
«Non
lo metto in dubbio» scherzò Peter.
Audrey
afferrò una delle tavole, improvvisamente presa da un’idea. «Vediamo se riesco
a spiegarti» esordì.
Cercò
la tavola con alcuno dei passaggi più complessi, indicando con l’indice alcune
delle cose chiave per riuscire a interpretarne la musica.
«Partiamo
dalle cose più banali. Questo è il pentagramma che segue la mano sinistra,
questo, la destra. Questo da indicazioni sul tempo della melodia ed è
fondamentale, ovviamente.»
Mentre
Peter l’ascoltava, realmente interessato, si rese conto che nel modo in cui
Audrey esponeva tutto quanto si poteva intuire alla perfezione l’amore che
provava per la musica. Il modo in cui le si illuminavano gli occhi ogni volta
che li puntava su Peter, il tono che usava nel parlare. L’illustratore si
rivide moltissimo in lei, consapevole che avrebbe avuto quelle stesse
caratteristiche anche lui se gli a essere chiesto anche solo di descrive i
pregi di un pennarello pantone. A Peter piaceva sentire Audrey parlare con
tanto trasporto di qualcosa.
«Certo
che è un pezzo complicato» osservòa un
tratto la ragazza, guardando alcuni dei punti più fitti di note e accordi.
«È
la stessa cosa che pensavo mentre disegnavo» rispose lui.
Audrey
tornò a concentrare la propria attenzione sulla prima delle tavole, scorrendo
le prime note nel tentativo di decifrare la canzone. Appena Peter se ne rese
conto si allungò sul tavolo, facendo scivolare il plico di fogli lontano dalla
vista della ragazza.
«No,
è una sorpresa» disse, ridendo. «Dovrai suonarla al pianoforte se vuoi capire
di che canzone si tratta.»
L’altra
lo guardò, sbuffando un leggero alito d’aria e fingendosi offesa.
Il
ragazzo rise di nuovo, ma non poté ignorare la leggere sensazione di imbarazzo
che aveva provato appena aveva formulato la possibilità che Audrey potesse
capire la canzone mentre lui era ancora presente. Era principalmente il fatto che
quello che aveva riprodotto a Audrey non era altro che l’epilogo di La La Land a
imbarazzarlo di più, sebbene non avrebbe saputo spiegarne con esattezza il
perché.
«Promettimi
che non cercherai di indovinare questa canzone prima di averla suonata al pianoforte»
proseguì lui, con lo stesso tono a metà fra il divertito e il finto
autoritario.
«D’accordo»
promise Audrey, ridendo subito dopo.
Tornò
a osservare la prima delle tavole, costringendo la sua mente a ignorare le note
ordinatamente disposte sui pentagrammi per concentrarsi esclusivamente sui
disegni. Erano davvero meravigliosi. Nel tratto sicuro dei pochi segni a matita
ancora visibili, nell’uso sapiente dell’acquerello, si notava l’abilità e la
passione che Peter provava per il suo lavoro. Vedere finalmente alcuni dei
lavori del ragazzo dal vivo permise a Audrey di capire che l’idea che si era
fatta del suo talento – che aveva già potuto notare sul suo sito internet – era
totalmente vera.
Si
chiese quanto tempo avesse dedicato al lavoro che le aveva appena regalato e
pensò che fosse davvero tanto da dedicare a una persona che si era conosciuta
solo pochi mesi prima.
«Ti
sono davvero grata per questo regalo, sul serio» disse poi la ragazza.
L’improvviso
cambio di direzione della conversazione prese Peter alla sprovvista. Il ragazzo
si bloccò, guardò Audrey negli occhi e si sentì strano.
«Vorrei
sdebitarmi» dichiarò lei con una lieve alzata di spalle.
«Sdebitarti
per cosa?» domandò retorico Peter.
«Dai,
Peter. Hai dedicato davvero tanto tempo per questo lavoro. Almeno qualcosa in
cambio, anche minimo, vorrei potertelo dare» insistette lei. Non avrebbe ceduto
di un millimetro, intenzionata com’era ad andare fino in fondo.
«Audrey,
si chiama regalo per un motivo» le fece notare Peter.
La
pianista assorbì l’affondo e si fermò, pensando. Fece vagare lo sguardo, che si
posò istintivamente sulle partiture, di cui lesse qualche saltuaria nota, un
do, due la. In quel preciso istante le venne un’idea.
«Ti
andrebbe di venire a vedere la prima dello spettacolo che stiamo preparando al
Menier?» chiese. Formulò la domanda in un solo fiato, la quale venne recepita
da Peter con un leggero ritardo.
«L-la
prima?» mormorò il ragazzo, domandandosi se avesse capito bene oppure no.
Audrey
annuì. «Danno sempre un paio di biglietti a noi musicisti, in caso volessimo
invitare compagni, amici, parenti» elencò disinvolta. «Se ti va di venire a
vedere lo spettacolo posso darli a te. Lo spettacolo è molto bello. Potresti
venire con chi vuoi.»
Il
ragazzo non riuscì a dedurre che le ultime parole della pianista alludevano a
Iris, la ragazza che, Audrey, era convinta facesse coppia con l’illustratore.
Quest’ultimo
impiegò un po’ di tempo per afferrare completamente la proposta della ragazza
di fronte a lui, dopodiché disse: «Non è che ha a che fare con il mio regalo,
vero? Come metodo per sdebitarti?» azzardò, riproponendo le parole usate poco
prima dalla ragazza.
Lei
fece una smorfia, per poi sorride. «No, dai. Non lo è» replicò, dopo averci
pensato su. «Non so a chi altro darli e mi dispiacerebbe non riuscire a
regalarli a qualcuno che conosco. Non sei costretto a venire, eh. Ma se ti va,
mi farebbe piacere darli a te. »
«Questo
sabato, hai detto?»
Peter
prese in seria considerazione l’invito. Era da tanto che non andava a teatro e
uno spettacolo gratuito al Menier Chocolate Factory poteva essere un ottimo
modo per interrompere quel periodo di allontanamento. Inoltre da ciò che Audrey
gli aveva raccontato, lo spettacolo prometteva bene.
«Volentieri»
rispose infine. «Anzi, grazie.»
La
pianista gli regalò uno dei sorrisi più belli che il ragazzo avesse mai visto,
al punto da lasciarlo spiazzato.
«Ti
faccio mettere da parte i biglietti a tuo nome in cassa. Appena arrivi dovrai
solo ritirarli. Puoi venire allo spettacolo con chi vuoi. Puoi portate Iris, ad
esempio.»
L’illustratore,
nel sentire quanto appena pronunciato dalla ragazza, si bloccò. Aveva intuito
ciò che si celava dietro alle parole della pianista e non voleva che lei si
convincesse di ciò. Capì che, agli occhi di Audrey, lui e Iris apparivano molto
più di due semplici coinquilini e voleva evitare che anche la ragazza che aveva
davanti lo pensasse.
Aveva
appena inspirato, pronto per parlare e dire a Audrey che fra lui e Iris non c’era
nulla, quando il suo telefono squillò, bloccandolo sul nascere. Afferrò lo
smartphone, leggendovi il nome di Iris in sovrimpressione. Avrebbe voluto non
rispondere, ma sapeva che lo stava cercando per la cena che aveva a breve.
«Scusami»
disse, rivolto a Audrey.
Quest’ultima
gli diede istintivamente il via libera a rispondere e rimase in silenzio a
finire di bere il tè ormai freddo. Ascoltare la conversazione di Peter le fu
inevitabile, sebbene non stesse dicendo nulla di particolare.
«Ah,
siete già là?» domandò poi lui, rivolto al suo interlocutore al telefono. «Va
bene, arrivo» concluse.
Mise
fine alla chiamata, rimanendo a osservare per qualche istante lo schermo del
telefonino, come sovrappensiero.
«Devo
andare, scusami. I miei amici sono già arrivati» disse, tornando a guardare
Audrey.
«Nessun
problema» rispose lei con un sorriso. Le dispiaceva dover salutare il ragazzo, ma
avevano trascorso sufficiente tempo insieme quel pomeriggio.
«Allora
ti lascio da parte due biglietti. Li metto in cassa a tuo nome?»
«Va
bene.»
«Me
lo segno» concluse Audrey.
«Beh,
grazie allora» replicò lui, riferendosi ai biglietti.
«Figurati,
di che? Anzi, grazie a te.» La pianista indicò le tavole a quelle parole,
lasciando perfettamente intendere a cosa si riferiva. Peter non riuscì a dire
nulla di efficace in fretta e si limitò a sorridere.
«Ci
vediamo. Buona serata» disse infine.
«Anche
a te. E buon allyou can eat» concluse Audrey, arricciando le labbra e
sorridendo subito dopo.
Peter
si lasciò sfuggire una lieve risata, dopodiché salutò definitivamente la
ragazza e si avviò.
Lungo
il tragitto non gli riuscì di pensare a qualcosa che non fosse Audrey e il
piacevole tempo che avevano appena trascorso insieme. L’ultimo sorriso che la
ragazza gli aveva dedicato, poi, gli aveva smosso qualcosa dentro. Non riusciva
a cancellarlo dalla sua mente, continuava a rivederlo davanti a sé, esattamente
come rivedeva la pianista, i suoi capelli raccolti, i vestiti sobri ma
eleganti, proprio come lei. Si sentiva strano, agitato da un invisibile
subbuglio che aveva cominciato a scuoterlo nel profondo. Era da un po’ di tempo
che non si sentiva a quel modo e sapeva in che direzione, quell’ammasso di
emozioni, lo stava conducendo. Tuttavia non sentiva altra sensazione se non un
quieto senso di felicità. Pensare a Audrey lo rendeva felice, così come la
consapevolezza che lei gli aveva rivolto già più volte dei sorrisi sinceri e
che, certamente, ve ne sarebbero stati altri. Sospettava che, con molta
probabilità, la continua frequentazione con Audrey sarebbe andata a finire solo
in un modo. Visto come si sentiva in quel momento, però, una buona parte di sé
sperò che andasse proprio così.
Era
ancora sovrappensiero quando raggiunse il ristorante giapponese e si sentiva
ancora strano, smosso. Venne riportato alla realtà dal suono di una voce che
pronunciava il suo nome. Alzò gli occhi sugli amici, trovando davanti a tutti Iris,
un braccio sollevato per consentirgli di individuarla subito.
Lo
stomaco di Peter venne improvvisamente stretto in una morsa, più forte di
qualsiasi precedente.
D’improvviso
vide la coinquilina in modo diverso. Fu come se ogni sospetto si fosse palesato
all’istante, sbandierando tutta la propria oggettiva realtà. Si accorse così di
tutti gli sguardi che Iris riservava solo a lui, di come lo cercasse, del modo
in cui si avvicinava ogni volta che qualche ragazza domandava qualcosa all’illustratore
in sua presenza.
Per
Peter divennero finalmente segnali o, meglio, conferme. Di colpo non seppe come
comportarsi e si sentì preoccupato. Era certo che il suo sguardo lo avrebbe
potuto tradire da un momento all’altro e cercò di fare del suo meglio perché
ciò non avvenisse. Iris era brava a intuire le verità celate dietro commenti
indifferenti e Peter sapeva che avrebbe notato qualcosa di strano in lui, a
meno che non si fosse impegnato per evitarlo. Respirò, obbligando la sua mente
a smettere di pensare. Per evitare di far intuire qualcosa a Iris, l’unico
metodo era convincersi che nulla, dentro sé, fosse cambiato.
Mancavano
solo poche ore alla prima dello spettacolo al Menier Chocolate Factory. A
differenza di quello che accadeva sempre il sabato all’ora di pranzo, Audrey,
April e Sadie non erano sedute intorno a un tavolo a Camden Market, ma nel
piccolo soggiorno con angolo cottura di Audrey. La ragazza aveva invitato lì le
amiche così che, dopo il pranzo, le sarebbe bastato fare una doccia, prendere i
vestiti puliti per la prima e raggiungere il teatro per la prova generale senza
dover compiere ulteriori viaggi intermedi, in un risparmio notevole di tempo.
In tutto ciò, Oliver non era in casa, ma si trovava a Watford con Aisha e ci
sarebbe rimasto fino al giorno successivo.
Fuori
dalle finestre stava scendendo una pioggia fitta, le gocce ticchettavano
ritmicamente contro i vetri, mentre il piccolo soggiorno di Audrey era pieno di
un piacevole tepore, un leggerissimo vapore e un profumo invitante.
Le
tre amiche avevano sotto i rispettivi nasi una ciotola colma di zuppa di
legumi, preparata dalla pianista la sera prima. Sebbene fosse maggio, quel
giorno il clima non era affatto clemente e un pasto caldo era esattamente
quello che ci voleva. Sadie e April erano intente a conversare animatamente di
musica – le due, infatti, ascoltavano all’incirca gli stessi artisti, a differenza
di Audrey – mentre la pianista mangiava tendendo loro l’orecchio nonostante, di
tanto in tanto, perdeva alcuni passaggi per ricordarsi i brani che quella sera
avrebbe dovuto suonare.
«Come
ti senti, Audrey?» domandò all’improvviso Sadie. Era convinta che l’amica non
la stesse ascoltando – e, viste le circostanze non l’avrebbe biasimata – ma questa
rispose subito, reattiva. «Sto bene. Mi sento pronta» pronunciò con
tranquillità.
«Ne
sono contenta. Dev’essere un periodo piuttosto pieno questo per te. Insomma,
fra lo spettacolo del Menier e il matrimonio di Oliver, ne hai avute di canzoni
da imparare, no?» osservò April, stringendosi nelle spalle e sorridendo in modo
contagioso.
Audrey
era pronta a darle ragione quando un lampo le attraversò gli occhi. Le vennero
in mente le partiture che le aveva regalato Peter all’inizio della settimana;
le venne in mente il ragazzo e il fatto che, forse, quella sera sarebbe stato
presente. Si era completamente dimenticata di dire alle sue amiche di sempre
cosa l’illustratore le aveva regalato, con la conseguenza che loro erano anche
all’oscuro delle sensazioni che aveva provato quando si era resa conto che quei
pentagrammi non racchiudevano una canzone qualunque, ma una delle canzoni di La La Land. L’Epilogo, per essere esatti.
Abbandonò
il cucchiaio nella zuppa e sollevò la testa spalancando gli occhi.
«Ragazze»
esclamò. «Devo farvi vedere una cosa.»
Si
alzò senza aspettare una qualsiasi reazione e si avviò in camera sua. Ne
riemerse poco dopo con il regalo di Peter stretto al petto.
«Guardate
cosa mi hanno regalato.»
Le
due ragazze presero fra le mani le tavola acquerellate. Le sfogliarono
ammirandone i lavori, lasciandosi sfuggire qualche complimento per i disegni o
i colori.
«Che
canzone è?» domandò Sadie, intenta a osservare le sfumature degli acquerelli.
«L’Epilogo di La La Land. Fatto apposta per il
pianoforte» rispose Audrey, dal cui tono si poteva percepire perfettamente la
gioia della sorpresa.
Le
amiche la guardarono di colpo all’unisono, abbandonando le tavole e spalancando
gli occhi.
«Ci
prendi in giro? E chi te lo avrebbe regalato, scusa?» volle sapere Sadie.
«Peter»
rispose con nonchalance la pianista, sorridendo.
«Chi?»
La
domanda di April arrivò inattesa. Audrey la guardò con espressione confusa, dopodiché
capì tutto. Non aveva mai parlato del ragazzo alle due amiche. Non sapeva
esattamente perché, ma non l’aveva mai fatto. Si ricordò di aver accennato a
lui un paio di volte, chiamandolo semplicemente “un ragazzo che conosco” e in
quel preciso istante si chiese per quale motivo non si fosse mai ricordata di
raccontare tutto alle amiche. La sua mente continuava a essere un mistero
perfino per se stessa, alle volte.
Si
morse il labbro, nella sua tipica espressione colpevole, ormai particolarmente
nota a April e Sadie.
«Mi
sono dimenticata di dirvelo» ammise infine, lasciandosi sfuggire le parole in
un sol fiato, quasi un sospiro veloce.
Le
altre due corrucciarono la fronte e rimasero in attesa di scoprire cosa stava
accadendo.
Audrey
raccontò quanto si era dimenticata di dire fino a quel giorno. Disse loro di
Peter, del loro primo incontro e di come erano lentamente diventati amici.
Mostrò il sito internet dell’illustratore, alcuni dei disegni che lei preferiva
e rispose calma alle domande che le fecero le ragazze.
Quando
finì di parlare, April e Sadie sembravano solo in parte soddisfatte dalle notizie
che avevano appena sentito.
«Di’
un po’» esordì Sadie. «Non ti sembra di essere stata una pessima amica a
tenerci all’oscuro di questa cosa?»
«Sì,
lo ammetto. Mi spiace davvero, ma ero convinta di avervene parlato» si scusò.
Ci
fu un lunghissimo momento di silenzio, nel quale le tre si guardarono
reciprocamente. Il sopracciglio sinistro di Sadie si inarcò lentamente, segno
che qualcosa non le tornava. Audrey conosceva fin troppo bene quell’espressione
e rimase in attesa di qualche domanda a sorpresa. L’amica, dapprima, si lasciò
sfuggire un monosillabico verso, dopodiché pose la domanda a bruciapelo: «E
questo Peter com’è?»
«Non
è come pensi» rispose subito la pianista, intenzionata a mettere per bene le
cose in chiaro.
«Come
puoi sapere cosa penso?» rincarò la dose l’altra, senza accennare a smettere di
guardarla come se sapesse già tutto.
«Perché
ti conosco» le fece notare Audrey. «E so a cosa alludi. Peter è un amico. Non
nego di essere contenta di averlo conosciuto, ma rimane il fatto che è un
amico.»
Sadie
e April non parvero molto soddisfatte della risposta e si attivarono per
scoprire altre cose ancora. Audrey rispose a ogni quesito, anche il più
insensato. Descrisse con semplice onestà la simpatia che provava per il ragazzo
e l’apprezzamento per i suoi lavori e quando le due finirono di seppellirla di
domande, la pianista si disse che era riuscita a convincerle. Tuttavia Sadie sembrava
non voler desistere.
«Spiegami
come mai ti ha fatto un simile regalo» disse, indicando le partiture per
pianoforte decorate con i disegni ad acquerello.
«Gli
ho detto anche io che era addirittura troppo. Gli piace disegnare. Anzi, ama
disegnare. E fare regali, così mi ha detto. Unire insieme le due cose è
semplice» concluse la ragazza, arricciando lievemente le labbra. Sentì di essere
uscita vincitrice da quello “scontro”. Sadie, infatti, non seppe replicare.
Guardò Audrey di traverso, come se fosse convinta che le stesse nascondendo
qualcosa, ma lei non fece una piega.
«Hai
detto che è l’epilogo di La La Land quindi?» chiese di punto in bianco April.
Teneva fra le dita l’inizio della canzone, su cui Audrey aveva appuntato a
matita il titolo; lo aveva scritto con una mina dura e con una lieve
incertezza. Quando lo aveva fatto, si era sentita inadatta, quasi temesse di
rovinare tutto segnando solo poche parole o, addirittura, come se potesse
ferire in qualche modo il foglio di carta.
«Esatto.»
«E
com’è?»
«Splendida»
disse semplicemente. «Non è affatto semplice, ha dei passaggi complessi ma è
resa molto bene. L’ho provata solo un paio do volte e ho fatto diversi errori,
ma sono sicura che quando l’avrò imparata a dovere sarà ancora più bella.»
Guardò
le partiture appena finì di parlare, soffermandosi sulle note e i passaggi
articolati, sentendosi ancora sorpresa dalla cura con cui Peter li aveva
trascritti. Per uno che non è abituato a scrivere musica, l’illustratore aveva
fatto davvero un ottimo lavoro, accurato, ben eseguito. Quel ragazzo aveva del
vero talento e non si notava solo dai suoi acquerelli, ma anche dalla cura per i
dettagli che metteva nei lavori.
Audrey
riordinò le partiture nella giusta sequenza e le sistemò su un lato del tavolo,
lontano dal punto in cui stava pranzando insieme alle amiche. Teneva molto a
quei disegni, era uno dei regali che le era piaciuto di più. Non solo per i
disegni, o per la canzone, ma soprattutto per il fatto che Peter si era
dedicato personalmente alla realizzazione di quel lavoro e vi aveva investito
tempo. Mentre pensava a ciò, con April che aveva ricominciato a parlare dello
spettacolo che sarebbe andato in scena quella sera e a cui dispiaceva di non
poter partecipare, Sadie continuava a scrutare l’amica con una strana luce
negli occhi, come se fosse convinta che Audrey non le avesse raccontato tutta l’esattezza
dei fatti.
*
Peter
era disteso sul letto da diverso tempo, al punto da essere certo di aver
memorizzato ogni imperfezione della superficie del soffitto, incluse le
ragnatele.
Stava
ascoltando la musica usando gli auricolari, a differenza di come faceva di
solito in casa, ma aveva una gran voglia di estraniarsi da tutto quanto e
quella era un’ottima soluzione. I Bastille erano per
lui un buon rimedio a qualsiasi cosa, una specie di cura somministrabile in
note.
The Anchor iniziò
a riempirgli la testa e si rese conto che quelle parole, che ormai conosceva a
memoria e avrebbe saputo riportare senza esitazione su un foglio, avevano
improvvisamente acquistato un senso. Non che prima non lo avessero, solo che
Peter non era mai riuscito a collegarle in qualche modo alla sua vita; in quel
momento, invece, ci riuscì fin troppo bene.
Pensò
a Audrey. Lo aveva capito, ormai. Provava qualcosa di serio per lei o, almeno,
cominciava a provarlo. Per tutta la settimana aveva preso la District line solo
per trascorrere qualche minuto in più in sua compagnia. Sapeva che quello era
un segnale, forse uno dei più evidenti; infatti non lo stava ignorando.
Spense
la musica e si sfilò le cuffie con in gesto rapido, quasi arrabbiato. Non se la
sentiva di ascoltare ancora The Anchor
o qualche altra canzone del genere. Da un paio di giorni svariate delle sue
canzoni abituali si ricollegavano con troppa semplicità ai suoi ricordi di
Audrey, ricordi che ultimamente stava raccogliendo con attenzione.
Si
disse che stava pensando troppo. Da quando quella ragazza era entrata nella sua
vita pensava troppo. Avrebbe dovuto fare qualcosa, sebbene in quel momento la
cosa migliore da fare – secondo il suo modesto parere – era lasciarsi andare.
Sospirò,
mettendosi a sedere sul bordo del letto. Erano quasi le sette e lui era in
ritardo sulla sua tabella di marcia.
Quella
sera ci sarebbe stata la prima del nuovo spettacolo al Menier Chocolate
Factory, per cui Audrey gli aveva regalato due biglietti. Non aveva trovato
nessuno disposto ad andare con lui. Damian aveva un appuntamento con la sua
nuova fiamma e Peter non voleva in alcun modo influire su quella che, a detta
dell’amico, sembrava essere “la serata giusta”. Pertanto aveva chiesto ad
alcuni suoi colleghi, ma anche loro avevano ringraziato e rifiutato e l’illustratore
si era ritrovato senza idee, soprattutto perché anche sua sorella era
impegnata.
Aveva,
però, accuratamente evitato di chiederlo a Iris o Veronica, dal momento che non
voleva che, proprio Iris, venisse a sapere dei due biglietti; o di Audrey.
Peter
aveva ormai capito cosa provava la sua coinquilina nei suoi confronti. Non era
amore, sebbene ci si avvicinasse. Era sicuro che Iris fosse interessata a lui
sotto diversi punti di vista, che con tutta probabilità sarebbero presto
collimati nel sentimento maggiore, ma che per il momento di manifestavano sotto
altre forme, come intenzione a trascorrere del tempo in sua compagnia o più
frequentemente, una sorta di gelosia. Appena lui diceva che sarebbe uscito
subito Iris domandava dove; nonostante prima questo atteggiamento non avesse
mai dato motivo di pensare a Peter, da un paio di giorni non era più così. Per
tale ragione in ragazzo aveva evitato accuratamente di dire alla coinquilina
dei biglietti che lo attendevano a suo nome quella sera e, per sicurezza, aveva
evitato di esporre anche qualsiasi progetto inerente alla serata.
Solo
gli dispiaceva andare alla prima da solo; tuttavia l’idea di andarci con Iris
gli piaceva ancora meno, soprattutto perché Audrey sembrava convinta del fatto
che fra loro ci fosse del tenero, sospetto che lui voleva evitare di
incrementare.
Aprì
l’armadio in cerca dei vestiti, dicendosi per l’ennesima volta di smettere di
rimuginare sulle solite cose. Doveva andare allo spettacolo quella sera ed era
l’unica cosa su cui doveva concentrarsi in quel momento. Controllò il contenuto
dell’armadio, individuando una giaccia. Avrebbe dovuto vestirsi bene, quindi
camicia e giacca erano d’obbligo; avrebbe evitato la cravatta, però, quella
sarebbe stata troppo. Fra i due completi che aveva scelse quello blu, che
abbinò a una normale camicia bianca, una delle più raffinate che possedeva, di
cotone spesso e con un lieve trama decorativa. Si vestì con calma, nel curioso
silenzio della sua stanza: era raro che non ci fosse musica che suonava in
camera sua.
Il
ragazzo era intento a sistemarsi la manica sinistra della giacca dell’abito
quando la porta si aprì. Come spesso accadeva, chi era appena entrato aveva
accuratamente evitato di annunciarsi. Alla vista di Peter vestito di tutto
punto, Iris si bloccò. Sondò il coinquilino da capo a piedi e non riuscì a dire
nulla prima che Damian la raggiungesse in camera.
«...che
poi comunque me lo aveva detto lui» lo sentì dire Peter.
Appena
entrato anche Damian guardò l’amico con indosso uno dei suoi completi migliori.
In un primo momento stava per domandargli perché fosse vestito in quel modo, ma
poi gli venne in mente tutto.
«Ah,
hai trovato con chi andare, quindi?» domandò all’amico.
Peter
maledì mentalmente Damian, in particolare l’ingenuità
che sembrava sempre caratterizzarlo più di qualsiasi altra cosa.
Iris
guardò alternativamente i due ragazzi, consapevole del fatto che stessero
parlando di qualcosa che sapevano solo loro e indispettita dalla cosa. Peter
pensò in fretta a come uscire da quella situazione, gli occhi spalancati, la
mano destra ancora avvolta intorno alla stoffa morbida della manica.
«Andare
dove?» chiese Iris.
«C’è
la prima di uno spettacolo» si intromise Damian, con una prontezza di riflessi
invidiabile che, purtroppo, si palesava quasi esclusivamente nei momenti
sbagliati. «Peter ha un paio di biglietti. Con chi ci vai?»
Il
ragazzo pensò di mentire senza ritegno, ma non lo fece. Aveva raccontato tutto
all’amico, incluso che non aveva trovato nessuno con cui andare alla prima.
Indugiò un istante di troppo, sufficiente a Damian per intuire la verità. «Ci
vai da solo, vero?»
Peter
si arrese all’evidenza. Mantenere un segreto con Damian era impossibile, specie
se non gli si diceva a priori di stare zitto. Forse avrebbe fatto meglio a
renderlo partecipe dei suoi sospetti su Iris.
«Già.
Non sono riuscito a trovare nessuno» ammise poi. Sperò con tutto se stesso che
l’amica avesse già un impegno o che non dicesse nulla, ma non fu così.
«A
me non lo hai chiesto. Se vuoi vengo io» disse Iris.
Peter
si morse la lingua, scoprendosi incastrato nell’unica situazione che avrebbe
voluto evitare. Non aveva senso dire di no a Iris ora che lei si era proposta,
ma lui aveva sperato proprio di non doversi trovare in quella situazione.
Costrinse la sua mente a pensare in fretta, mentre mugugnava qualcosa di molto
simile a un “uhmbeh”.
«Lo
spettacolo può piacerti?» domandò. Si aggrappò a quell’unica possibilità.
Dopotutto Iris non gli aveva mai lasciato intendere di avere una passione per
il teatro e pensò che, in qualche modo, quella domanda potesse far desistere la
ragazza.
Lei
si strinse nelle spalle, arricciando le labbra. «Non so di che parla, lo
ammetto. Ma se sei solo e hai un biglietto in più vengo volentieri.»
Peter
aveva finito le tattiche – che già in partenza erano poche, del resto – e acconsentì
ad avere la compagnia di Iris. La ragazza disse che si sarebbe cambiata in
fretta e si diresse in camera sua. L’illustratore avrebbe voluto imprecare
contro l’amico, ma sapeva che, dopotutto, Damian non ne aveva colpa. Tuttavia
Peter si disse che avrebbe fatto bene a chiarire quella situazione al più
presto, almeno per evitare di trovarsi in un prossimo futuro in una situazione
simile a quella.
Il Menier Chocolate Factory non era proprio come Peter
ricordava. Era molto meglio. L’interno, fin dall’ingresso, lasciava
perfettamente trapelare la storia e la bellezza di quel teatro. Vi erano
rivestimenti in legno, drappi a decorare le finestre e lampadari raffinati che
pendevano dal soffitto, tutto caratterizzato da sobria eleganza. Le persone
entravano dall’ingresso principale, lasciavano il cappotto al guardaroba e
mostravano il biglietto alla maschera, la quale li accompagnava al posto. Erano
tutti ben vestiti, notò Peter e pensò che avesse fatto bene a scegliere uno dei
suoi completi migliori. Non era mai stato a una prima, ma aveva sempre saputo
che si trattava di un momento importante, formale. Sentì che l’unica
pecca di tutto il suo look fosse la giacca che portava, tuttavia un cappotto di
quelli belli, lunghi e raffinati, non era mai stato nella sua lista dei
desideri.
Lanciò una rapida occhiata a Iris, accanto a lui,
fasciata in un abito pantalone a cui aveva abbinato una giacca in contrasto.
Non poteva negare che stesse particolarmente bene vestita così, tuttavia era
pervaso da un lieve moto d’ansia all’idea di farsi vedere da Audrey in
compagnia della coinquilina proprio per lo spettacolo per cui la pianista gli
aveva riservato i biglietti.
Mentre si incamminavano in direzione della
biglietteria, Peter si costrinse a stare calmo. Avrebbe chiarito le cose con
Audrey presto, spiegando alla ragazza che Iris altri non era se non la sua
coinquilina. Probabilmente si sarebbe dimostrato tutto inutile, ma per lui
valeva ugualmente la pena provare.
La coppia di servizio in biglietteria era composta da due
giovani ragazzi, un uomo e una donna, entrambi ben vestiti, come il resto del
personale presente all’interno del locale. Diedero il benvenuto a Peter e Iris
salutando all’unisono, dopodiché la ragazza si mise in ascolto.
«Salve» esordì l’illustratore. Non aveva mai ritirato
prima dei biglietti riservati a suo nome e per un breve istante si chiese cosa
gli convenisse dire. Tuttavia, quando capì che i suoi pensieri erano molto più
simili a dubbi senza fondamento anziché a vere e proprie domande sensate,
disse: «Dovrebbero esserci un paio di biglietti a mio nome. Peter Bailey»
La ragazza della biglietteria controllò fra una serie
di biglietti stampati e disposti da parte, ciascuno dei quali avvolto dal flyer
del programma dello spettacolo. Appena ebbe individuato Bailey, la giovane staccò il post-it su cui aveva appuntato
il nome di Peter e consegnò il tutto al ragazzo.
«Ecco a voi» disse. Indicò in che direzione
proseguire, informando che in caso di necessità avrebbero trovato diverse
maschere a cui domandare informazioni e, infine, augurò alla coppia una buona
serata.
Peter e Iris proseguirono secondo il percorso che gli
avevano indicato e poco più avanti incontrarono un nuovo addetto. Quest’ultimo
controllò i loro biglietti, infine scostò l’ampia tenda di velluto porpora che
aveva alle spalle e invitò i due ad accomodarsi in platea.
Il teatro del Menier era piccolo, ma sorprendentemente
capiente e accogliente. Le file di sedie quasi abbracciavano il palcoscenico,
nascosto dietro l’immancabile sipario. Alla sinistra del palco, gli strumenti
dell’orchestra erano disposti ordinati e fra loro, intenti a conversare o
ripassare le varie melodie, vi erano i musicisti.
Peter si scoprì a cercare istintivamente Audrey fra i
vari componenti del complesso e la trovò subito, quasi avesse saputo
esattamente dove fosse. La pianista era insieme ad alcune colleghe, intenta a
conversare con loro; si tenevano vicine, come se si stessero raccontando un
segreto importante. Audrey indossava un abito nero smanicato e a collo alto, il
quale riusciva a mettere in risalto le linee sottili del suo corpo. I capelli,
legati in uno stretto e alto chignon erano accuratamente pettinati e non vi era
traccia di quei ciuffi ribelli e scompigliati che, secondo Peter,
caratterizzavano tanto la ragazza.
Il ragazzo rimase a fissare Audrey per un tempo a lui
indistinto e fu riportato alla realtà da Iris, che lo chiamò toccandogli il
braccio.
«I nostri posti» gli disse, indicando con un gesto una
coppia di poltroncine ancora vuote.
Lui seguì la coinquilina, facendosi largo fra i
presenti e chiedendo permesso. Quando si fu sistemato al proprio posto poté dare
un’occhiata generale al piccolo teatro. Lo trovò avvolgente, sia per la
disposizione dei posti, sia per il senso di comodità e calore che si provava
stando seduti su quella poltrona.
Mentre Iris, seduta alla sua destra faceva alcune
osservazioni sulla struttura, Peter non riuscì a evitare di tornare a cercare
Audrey con gli occhi. La ritrovò nello stesso punto di prima, ancora intenta a parlare
con le stesse persone. Si chiese se lei lo avrebbe visto lì in mezzo, seduto
quasi al centro della platea e pensò che, forse, gli conveniva andare a
salutarla e farle vedere che aveva fatto buon uso dei biglietti che gli aveva
regalato; tuttavia appena fu in procinto di dire a Iris che stava per andare, i
posti accanto a lui vennero occupati da una coppia di signori – che gli diedero
anche la buonasera – e Peter, per educazione, decise di non farli alzare in
piedi. Inoltre non sapeva neanche se poteva avvicinarsi all’orchestra; forse
loro erano lì presenti ma non si dovevano importunare.
Il resto del tempo dall’arrivo al teatro all’inizio
dello spettacolo, scorse all’incirca nel medesimo modo. Iris conversava del più
e del meno – ogni tanto malediceva le colleghe di lavoro, altre volte nominava
luoghi in cui avrebbe voluto andare – e Peter rispondeva, portando avanti una
conversazione che, vista da fuori, sarebbe apparsa assolutamente normale.
Pochi minuti prima dell’inizio dello spettacolo i
musicisti presero posto, ciascuno imbracciando o sfiorando il proprio
strumento. Il direttore di orchestra entrò in sala accolto dagli applausi e,
mentre la luce scendeva, l’orchestra accordò gli strumenti. Subito dopo lo
spettacolo iniziò.
La rappresentazione fu molto bella per Peter. Gli
attori erano dotati, la trama interessante e il modo in cui la musica si univa
all’intreccio di storie e avvenimenti era perfetto. L’ora e venticinque minuti
di spettacolo passarono così bene che Peter si accorse a malapena del fatto che
il tempo era scaduto; se non fosse stato per gli attori, che tornavano in scena
a reclamare i propri applausi, il ragazzo avrebbe potuto credere che fosse solo
terminato il secondo atto. Si disse che gli avrebbe fatto bene andare un po’
più spesso a teatro.
Dopo gli attori, i complimenti del pubblico si
spostarono sull’orchestra, dove i musicisti, alle spalle del maestro, si erano
alzati in piedi accanto ai rispettivi strumenti.
Audrey, come molti altri dei suoi colleghi, era
raggiante. Peter, che pur si era ripromesso di badare al modo di suonare della
pianista, non era riuscito nel suo intento perché troppo preso dalla
rappresentazione, ma sapeva che la ragazza era stata impeccabile. Dopo le
settimane di lavoro intenso e dopo tutte le ore passate a esercitarsi,
dovendosi dividere fra l’imparare quelle canzoni e quelle del matrimonio di
Oliver, Audrey era più che soddisfatta di quel nuovo esordio al Menier.
Quando gli applausi terminarono e le persone
cominciarono a defluire, Peter ebbe modo di constatare che vi era la
possibilità di andare a parlare con i musicisti o gli attori. Questi, infatti,
erano fermi vicino al palcoscenico e chiacchieravano tranquillamente fra loro o
con qualcuno del pubblico. Audrey stava parlando con una delle violiniste e l’illustratore
decise di approfittare di quella possibilità e andare a salutare la pianista.
«Vado a salutare Audrey» disse a Iris. Sperava che la
coinquilina lo lasciasse solo, perciò fu piuttosto indispettito dalla
situazione quando, avviandosi, si rese conto che lei gli si era affiancata.
Raggiunsero Audrey, sempre concentrata nella
conversazione di poco prima e attesero per qualche momento che lei li notasse,
cosa che avvenne quasi subito. La pianista, infatti, diede una rapida occhiata
per capire chi si era appena fermato lì accanto e quando riconobbe Peter gli
sorrise, si scusò con la sua collega e dedicò tutta la sua attenzione ai nuovi
arrivati.
«Che piacere vedervi» disse loro. «Vi è piaciuto lo
spettacolo?»
«Molto. L’ho trovato originale e devo ammettere che l’uso
dell’orchestra per le varie parti musicali è stato impeccabile» rispose Peter.
«Sì, il regista è un genio. Ho sempre adorato i suoi
lavori. Oltretutto ha chiesto lui stesso di fare la prima assoluta qui al
Menier» concluse, raggiante. Subito dopo posò lo sguardo sull’altra donna
presente. «Come stai Iris? È un piacere rivederti. Che bello il tuo completo.»
Qualcosa di simile a un allarme scattò nella
testa di Peter. Il botta e risposta che Audrey e Iris avevano iniziato a
scambiarsi appariva molto simile a quella serie di semplici convenevoli fra due
persone che devono imparare ad andare d’accordo. Bastarono quei pochi secondi
di dialogo tra le due per far capire all’illustratore che i suoi sospetti
potevano essere ben più che fondati: Audrey credeva che lui Iris stessero
insieme e, certo, andando allo spettacolo con lei non aveva fatto altro che
intensificare la convinzione della pianista. Si disse che era meglio chiarire
quella situazione in fretta, sebbene sapesse che avrebbe dovuto inventarsi
qualcosa di convincente per non apparire un mezzo pazzo che tira fuori
argomenti a caso.
«Hai qualche programma?» domandò poi Peter a Audrey,
quando i convenevoli fra lei e Iris furono terminati.
La pianista lo guardò senza capire bene la sua
domanda.
«Per quando?» chiese in risposta.
«Adesso. Lo spettacolo è finito, no? Cosa fai?»
formulò la domanda con pura e semplice curiosità, sebbene una parte di sé – e non
troppo segretamente – sperava di riuscire a trovare il modo di trascorrere
altro tempo con lei.
«Ah, scusa, non avevo capito» ridacchiò Audrey. «Rimango
qui al Menier, non abbiamo ancora cenato. Funziona sempre così: spettacolo e
poi cena tutti insieme.»
Peter annuì alla risposta della ragazza, ma dentro di
sé gli dispiacque di doverla salutare. Si persero in chiacchiere per un’altra
decina di minuti, divagando su concerti e spettacoli teatrali. Quando venne il
momento di salutarsi, Audrey ringraziò ancora una volta i due per essere venuti
allo spettacolo e augurò loro buon proseguimento, dando appuntamento a Peter
per lunedì, nel loro ormai abituale tragitto in metro.
Quando la pianista si fu allontanata Peter si rese
conto che erano rimasti in pochi nel piccolo teatro e disse a Iris che
avrebbero fatto meglio ad andare anche loro. Tornarono al guardaroba e
ripresero le reciproche giacche, dopodiché uscirono dal teatro. Peter si fermò
alla destra dell’ingresso, la zona in cui si fermavano tutti i fumatori, ad
aspettare la coinquilina che era rimasta indietro. Come Iris fu fuori lui fece
per avviarsi, ma lei non si mosse e gli chiese: «Cosa ti va di fare?»
Il ragazzo la guardò, senza capire con esattezza la
sua domanda. «In che senso?»
«Dico ora. Prima, quando hai chiesto a Audrey cosa
avrebbe fatto, mi è parso di capire che avevi in mente qualcosa» spiegò.
Peter si bloccò, pensando a qualcosa di sensato da
dire. Si rese conto di essersi incastrato con le proprie mani. Avrebbe
preferito rientrare a casa anziché andare in qualche locale con Iris,
soprattutto perché i suoi gusti in fatto di locali erano drasticamente
differenti rispetto a quelli della coinquilina.
«No, beh, intendevo dire che avremmo potuto bere
qualcosa qui, al bar del Menier tutti insieme» rispose infine. La sua fu un’affermazione
credibile, grazie anche al tono disinvolto che aveva usato.
Iris lo ascoltò, poi parve soppesare le sue parole,
più per il loro significato che per una sorta di diffidenza.
«E se invece andassimo da qualche parte?» propose la
ragazza stringendosi nelle spalle. «Giusto per non tornare subito a casa.»
«Dove vorresti andare?» domandò Peter, quasi arrendendosi;
ormai si trovava in quella situazione, tanto valeva assecondarla.
Iris pensò a un posto in cui poter prendere qualcosa
da bere e, dopo diversi istanti di silenzio, le venne un’idea.
«Ti va il Pegaso? È anche a metà strada andando verso
casa. Beviamo qualcosa prima di rientrare.»
Il Pegaso, come Peter sapeva, era proprio il tipo di
locale che piaceva a Iris. Cocktail colorati, musica alta e, soprattutto,
commerciale. Il posto dove, fra le luci soffuse e la marea di gente, si possono
sorseggiare mojito ben preparati solo se il barista è
concentrato su quel preciso cocktail, cosa che non avveniva mai. Non era
affatto un locale per Peter, che preferiva di gran lunga stare su un trespolo
al bancone di un pub con una birra ghiacciata. Pensò di suggerire l’opzione a
Iris – il pub, visto che lei non sembrava avere voglia di tornare a casa – ma,
alla fine, si arrese senza neanche fare un tentativo. Tanto conosceva bene la
sua coinquilina e sapeva che, volente o nolente, l’avrebbe spuntata lei.
Sospirò. «D’accordo. Non è uno dei miei posti
preferiti, ma se vuoi andare» lì disse poi, lasciando cadere la frase.
«Beh, allora decidi tu» replicò la ragazza,
tranquilla. Peter la guardò a metà fra il sorpreso e l’incredulo. Di rado Iris
cedeva con tanta semplicità.
«Conosco io un bel posto sulla strada» disse con
sicurezza l’illustratore, pensando a uno dei suoi pub preferiti, in cui andava
spesso con Damian. «Ti fidi?»
Iris alzò le spalle, guardando Peter con un
sopracciglio sollevato. «Conoscendoti sarà un pub. A me basta che servano
cocktail.»
Peter sorrise e invitò Iris a incamminarsi lungo la
strada. Il ragazzo non aveva moltissima voglia di trascorrere una serata intera
da solo con Iris, tuttavia quel giorno le cose erano andate in quel verso e se
le sarebbe fatte andare bene così. Dopotutto, si disse, aveva ugualmente visto
Audrey e le aveva mostrato che i suoi biglietti erano stati utilizzati
volentieri. Cercò di scacciare il pensiero della pianista appena si rese conto
dell’intensità con cui il suo ricordo si stava delineando nella sua mente.
Magari una birra avrebbe potuto aiutarlo.
Tuttavia, in quel momento, non fu il pensiero di una
lager servita ghiacciata a ridestarlo, ma Iris. Peter, infatti, la sentì farsi
più vicina e stringersi al suo braccio mentre gli camminava accanto.
Audrey era chiusa in camera sua dalla mattina, intenta
a suonare sulla propria tastiera, una dopo l’altra, la moltitudine di canzoni
che si era imposta di imparare per il matrimonio di Oliver.
Era già giovedì. “Già” perché per lei quella settimana
stava passando inesorabilmente in fretta. Si era appena ripresa dalla
soddisfazione e dallo stress per la preparazione dei brani dello spettacolo al
Menier che già doveva esibirsi di nuovo, anche se questa volta per qualcosa a
cui teneva moltissimo.
Per il giorno seguente era prevista la prova generale
con il resto dei membri del gruppo e Audrey si sentiva ormai pronta, anche se
abbastanza sotto pressione.
Era molto soddisfatta della scelta finale delle
canzoni, che aveva individuato lei stessa scegliendo fra la moltitudine di
artisti jazz e swing che amava tanto ascoltare.
La ragazza stava ripetendo un passaggio di una canzone
di Louis Armstrong a sedere sul letto, proprio sotto al poster di La La Land,
quando Oliver la chiamò a gran voce dall’altra stanza. Smise di suonare e si
mise in ascolto, ma non sentì altre parole provenire dall’amico.
«Cosa c’è?» domandò poi la ragazza. Si alzò dal letto
e si avviò fuori dalla propria camera; non trovando Oliver nel soggiorno con
angolo cottura dedusse che il ragazzo si trovasse nella sua stanza e si avviò
da lui.
Trovò il coinquilino davanti allo specchio, intento a
trafficare con la stoffa del farfallino. Aveva preferito il papillon alla
cravatta, ma era evidente che gli risultava complicato eseguire il giusto nodo. Oliver
indossava il vestito delle nozze; in quel momento era in maniche di camicia e,
sotto i pantaloni di stoffa, era scalzo. Lui e Aisha avevano scelto il blu come
colore per il matrimonio ed era proprio di una bellissima sfumatura di blu,
come il cielo di notte, che Oliver aveva scelto l’abito.
Audrey guardò l’amico, contò mentalmente i giorni,
addirittura le ore che mancavano alle sue nozze e fu pervasa da una strana
sensazione, un misto di felicità e malinconia. Si guardò intorno nella stanza e
come notò alcune scatole di cartone accatastate una sull’altra contro la
parete, puntò lo sguardo esclusivamente su quelle. Oliver aveva già cominciato
a riordinare le sue cose in vista del trasferimento. Una volta tornato dal
viaggio di nozze, infatti, lui e la neo-moglie sarebbero andati a vivere
insieme; avevano già fermato un grazioso appartamento in zona di Newington e Aisha vi aveva già portato molte delle sue
cose.
Davanti a quelle scatole la sensazione di malinconia
di Audrey crebbe e la ragazza la sentì trasformarsi in qualcosa di più forte e
triste. Era cresciuta insieme a Oliver, aveva trascorso gran parte della sua
vita con quell’amico che, per lei, era come un fratello e ora era consapevole
del fatto che le loro vie erano un procinto di separarsi. Audrey era felice per
lui, davvero felice, ma una parte di sé, in quel momento, non poté fare a meno
di pensare egoisticamente a se stessa e ai propri sentimenti. Sapeva che le
cose fra loro sarebbero cambiate nonostante tutti sostenessero il contrario e
quel pensiero le faceva sempre più male.
Sentì un nodo formarsi in gola e portò istintivamente
una mano davanti alla bocca quando gli occhi, ancora fissi sugli scatoloni,
iniziarono a bruciarle a causa delle lacrime. Era la prima volta che il
pensiero di vedere Oliver lasciare la casa le procurava un tale dolore, ma mai,
prima di quel giorno, tutto ciò le era sembrato così concreto.
Sentì Oliver imprecare fra i denti, sempre rivolto
allo specchio. Sapeva che la coinquilina era lì e disse: «Spero vivamente che
tu sappia come si fa un farfallino, altrimenti ci toccherà sfondarci di
tutorial su YouTube per capirci qualcosa» bofonchiò.
Aspettò la reazione di Audrey – una risata, un
consiglio, un rimprovero, qualcosa – ma non sentì alcunché provenire alle sue
spalle. Si voltò per cercare con gli occhi la ragazza e, appena la vide, si
bloccò. Era in lacrime, cercava invano di soffocare i singhiozzi con la mano ma
era evidente che non ci sarebbe riuscita ancora a lungo. Oliver conosceva
troppo bene quella ragazza per non comprendere la causa del suo improvviso
dolore e teneva troppo a lei per rimanere indifferente a quella scena.
«Oh, Audrey» si lasciò sfuggire.
Si disinteressò completamente del farfallino, che
lanciò sul letto proprio accanto alla giacca del vestito e raggiunse l’amica,
abbracciandola. Lei si scostò; non voleva rovinare la camicia del futuro sposo,
ma al ragazzo non importava e glielo lasciò intuire alla perfezione quando la
strinse a sé. Audrey si coprì il volto con le mani e rimase lì, fra le braccia
del suo migliore amico, a dare sfogo a quelle maledette lacrime che non
riusciva più a trattenere.
Quando Oliver sentì che si era sfogata a sufficienza
la guardò e le sorrise.
«Vieni» le disse, una parola più che sufficiente per
far capire a Audrey cosa aveva intenzione di fare.
Come ogni altra volta precedente a quella, quando la
pianista aveva sofferto per una delusione o Oliver era intrattabile per la
collera, tutto si sarebbe risolto in cucina, davanti a una tazza di tè. I due
amici lo facevano da sempre; si preparava del buon tè alla persona turbata e la
si ascoltava, cercando poi le giuste parole per portare un po’ di
conforto. Quel giorno toccava a Oliver tale compito e appena Audrey si fu
messa a sedere al bancone il ragazzo mise sul fuoco il bollitore con acqua a
sufficienza per due tazze e prese dalla dispensa dell’ Earl Grey, in assoluto
il tè preferito della ragazza.
I due aspettarono in silenzio che la bevanda fosse
pronta. Audrey lanciava di tanto in tanto qualche occhiata a Oliver, notando
come la camicia gli stesse bene e come la sfumatura scelta di blu si intonasse
ai suoi occhi. Si sentiva una stupida e, in buona parte, non riusciva a
perdonarsi la crisi di pianto che aveva appena avuto.
Oliver le posò sotto agli occhi la sua tazza di tè
fumante, senza latte come piaceva a lei. Audrey alzò lo sguardo su di lui e lo
trovò lì, sorridente. Tuttavia alla ragazza servì il primo sorso di
bevanda per riuscire ad aprire bocca.
«Scusami» mormorò in direzione dell’amico. «Non so che
mi è preso.»
Guardò Oliver e notò che la camicia si era sgualcita
nel punto in cui lei vi aveva posato la testa. Il ragazzo se ne accorse e
abbassò lo sguardo sul suo indumento.
«Non è grave. Le daremo una stirata» disse, come se
avesse letto nei pensieri della pianista. «Va un po’ meglio?» le chiese poi.
Lei annuì, abbozzando un leggero sorriso.
«Sono stati gli scatoloni» ammise Audrey, abbassando
lo sguardo; per il primo momento Oliver non capì dove volesse arrivare. «Appena
li ho visti mi è sembrato tutto molto più concreto che mai. Insomma, il tuo
trasferimento.»
Lui prese una boccata d’aria prima di rispondere. Era
consapevole che quel discorso, prima o poi, sarebbe venuto a galla e, del
resto, gli sembrava più che doveroso affrontarlo insieme a Audrey.
«Neanche per me è così semplice lasciare questa casa,
Audrey. Sei come una sorella per me; ci conosciamo da...da sempre.»
La pianista rispose al suo sguardo.
«Solo che è arrivato il momento di separarci. Ciò però
non significa che quello che provo per te cambierà.»
La ragazza gli sorrise, intendendo con quel gesto che
lo stesso valeva per lei.
Oliver posò lo sguardo sul contenuto della sua tazza,
riflettendo su che altro poter dire. Alla fine riuscì a trovare un percorso da
seguire. «Nel corso degli anni mia madre mi ha insegnato una cosa e cioè che la
vita è un viaggio solitario. Ma con un po’ di fortuna trascorri gran parte di
essa con la giusta compagnia.»
Regalò a Audrey uno dei suoi sorrisi migliori prima di
ricominciare a parlare. «Sempre per rimanere sulla metafora dei treni, anche
riguardo a ciò che ti appena detto, vedi, io e te siamo stati seduti accanto da
sempre. Da quando ho memoria tu c’eri. Adesso però, devo cambiare posto, stare
accanto ad Aisha. Ma sai benissimo anche tu che il treno è comunque lo stesso,
ci basterà solo fare qualche passo in più per tornare a vederci.»
La metafora del treno fece uno strano effetto su
Audrey, che guardò leggermente perplessa l’amico. Tuttavia quella frase sulla
vita, su come sia solitaria e sulla fortuna che si ha, a volte, di incontrare le
giuste persone: quanta verità c’era in quelle parole. La pianista si prese un
momento per riflettere e ripensare a tutto. Dentro di sé sapeva che le cose fra
lei e Oliver sarebbero cambiate, era ovvio; eppure sapeva anche che era giusto
così. Un giorno anche lei avrebbe avuto la fortuna di incontrare la persona
giusta e anche lei avrebbe preso la stessa scelta di Oliver, decidendo di
conseguenza di allontanarsi da qualcos’altro. Era la vita ed era così.
«Lo so» disse infine, in risposta alle parole dell’amico.
«Ma devo ancora abituarmi all’idea di vederti andare via.»
«Anch’io» ammise il ragazzo in un sussurro.
Audrey posò la mano su quella di Oliver, stretta alla
tazza e gli sorrise appena lui la guardò. Le cose sarebbero cambiate, certo, ma
non il loro legame e, con quel solo e semplice gesto, lo capirono entrambi.
«Sai,» esordì poi lei, «temo che dovremo sfondarci di
tutorial su YouTube» disse. Dopodiché abbassò la voce come se fosse in procinto
di dire il suo più grande segreto: «Non ho la più pallida idea di come si
annodi un farfallino.»
Al suono di quelle parole Oliver scoppiò a ridere. Si
alzò in piedi, schioccò un bacio sulla fronte della ragazza e si avviò in
camera sua per prendere il portatile, in cerca dei migliori video esplicativi
sull’argomento papillon.
*
Quella sera Peter rincasò con uno strano umore addosso.
Gli sembrava di aver appena vissuto un giovedì pomeriggio anomalo. Era
rientrato con la Circle line come faceva abitualmente
prima di conoscere Audrey, prima di capire di essere interessato a lei e,
forse, proprio per questo quel rientro gli aveva avuto su di lui uno strano
effetto.
La pianista lo aveva informato della sua assenza quel
giorno. Al Menier non avrebbero fatto le prove per via dell’assenza del
direttore d’orchestra, chiamato fuori Londra per motivi personali. Audrey aveva
detto piano che la cosa, in un certo senso, le faceva piacere perché così
avrebbe avuto più tempo per ripassare le canzoni del matrimonio – salvo poi
sentirsi in colpa nei confronti del suo direttore e amico.
Peter, invece, era dispiaciuto esclusivamente per il
fatto di dover affrontare la metropolitana da solo, cosa che sembrava aver
disimparato a fare. Nell’arco di tempo impiegato per rientrare a casa aveva
avuto modo di ascoltare tutta la sua playlist
preferita – un mix di più artisti – dicendosi anche di allungarla perché gli
sembrava durasse troppo poco, pensiero che poteva essere la giusta conseguenza
della solitudine del viaggio.
Una volta arrivato in casa salutò i coinquilini e andò
diretto nella sua stanza. Svuotò lo zaino di buona parte del proprio materiale.
Estrasse le matite, gli acquerelli, i pennelli, i pennarelli neri con punte di
ogni dimensione e il blocchetto degli schizzi, su cui aveva abbozzato la sua
ultima creazione, pronta per prendere vita. Gli era arrivato del nuovo lavoro da
parte di una casa editrice indipendente, che voleva realizzare un libro
illustrato per la fascia di età dai sette ai nove anni. Quella era una la
fascia d’età in assoluto preferita da Peter. I disegni rimanevano nel suo
perfetto stile arrotondato e colorato, ma gli consentivano di inserire più
dettagli e i fondali potevano essere arricchiti, diventando colossali. Era
intenzionato a iniziare a lavorare subito dopo cena e, dopo aver sistemato la
sua scrivania con i materiali da disegno, si cambiò e andò in cucina per
prepararsi la cena. Lì trovò tutti i coinquilini, seduti intorno al tavolo a
conversare.
«Mi preparo un panino e mi chiudo in camera a lavorare»
li informò.
«Perché?» domandò Iris.
«Lavoro nuovo?» chiese Damian, che conosceva molto
bene l’amico.
«Esatto» confermò Peter. Si sedette a tavola,
versandosi un po’ del tè che i tre si erano preparati. Non era più molto caldo,
ma il profumo dei frutti rossi si sollevava ugualmente dalla tazza a righe del
ragazzo.
«Non è un lavoro urgente, ma sono molto ispirato e
voglio assecondarmi» proseguì. «Bastille, acquerelli
e un panino, ecco il programma. Oltretutto oggi non è stata neanche una gran
giornata» si lasciò sfuggire alla fine, borbottando fra sé.
«Che è successo?» domandò Veronica.
Peter lanciò d’istinto uno sguardo a Iris, sentendo di
aver parlato un po’ troppo. «Ah, niente di che in realtà. È proprio questo il
motivo» replicò, con fare disinvolto. Sentì di essere riuscito a uscire da
quella situazione in modo convincente e si rilassò. «Voi avete avuto una buona
giornata?» chiese, così da cambiare in fretta argomento.
I quattro coinquilini si persero in chiacchiere per un
po’ in seguito alla domanda di Peter. Veronica cucinò qualcosa per tutti e alla
fine anche l’illustratore dovette rinunciare a seguire fedelmente i suoi piani.
Cenò in compagnia e aiutò a lavare i piatti prima di rintanarsi nella sua
stanza, dove accese ugualmente la musica e riempì tutto lo spazio con le note
dei Bastille. Infine si sedette alla scrivania, prese
il suo blocchetto degli schizzi, studiò le bozze che vi aveva fatto e su della
nuova carta per acquerelli – di un candido color avorio – iniziò a disegnare.
Peter riemerse dai suoi lavori più di tre ore dopo,
diverse tavole a colori accanto e una sensazione soddisfatta dentro. Lanciò un’occhiata
all’orologio, mentre Laura Palmer dei
Bastille suonava per la seconda volta. Era da poco
passata mezzanotte; gli occhi di Peter bruciavano leggermente e il ragazzo
concluse che era l’ora giusta per andare a dormire. Si alzò dalla scrivania,
spense la musica e si stiracchiò per bene prima di uscire dalla sua stanza per
andare in cucina.
Notò che lì la luce era accesa nonostante il silenzio
e come vi entrò si accorse della presenza di Iris. La ragazza era ferma in
piedi, la schiena appoggiata al ripiano del mobile contenente le stoviglie, un
mezzo bicchiere di vino rosso accanto.
«Ancora sveglia?» le chiese Peter come entrò. Non
conosceva con esattezza gli orari di Iris ma, fatta eccezione per i week end,
era raro trovarla in giro per casa dopo la mezzanotte.
Lei si strinse nelle spalle. «Non ho sonno» precisò,
bevendo un sorso di vino.
Osservò il ragazzo aprire il frigorifero e afferrare
il latte, versarlo in una tazza e metterlo a scaldare nel microonde. Peter si
rese conto di avere anche un po’ di fame e cercò nella sua parte di ripiano il
pacco di biscotti che aveva aperto un paio di giorni prima. Quando il latte fu
pronto andò a sistemarsi sul tavolo, un biscotto in una mano, la tazza nell’altra.
Gli sembrava sempre di tornare bambino quando compiva il rito di latte e
biscotti, ma non ci trovava nulla di male; se quel binomio era riconosciuto in
tutto il mondo un motivo valido c’era senz’altro.
Per tutto quel lasso di tempo Iris era rimasta ferma a
guardare Peter, finendo piano il vino. I due scambiarono qualche veloce parola,
ma il ragazzo non era molto partecipe per via della stanchezza. Come aveva
staccato il pennello dalle sue tavole il sonno si era fatto sentire,
pretendendo che lui andasse a coricarsi il più in fretta possibile.
Il ragazzo si alzò dopo aver ultimato il suo spuntino
di mezzanotte e raggiunse il lavandino per lavare la tazza e riporla al suo
posto.
«Rimani qui?» domandò a Iris. La ragazza era ancora
nella stessa posizione in cui l’aveva trovata lui entrando nella cucina ed era
ferma proprio accanto a lui.
«No» disse. «Vado in camera mia ora. Avevo solo voglia
di un bicchiere di vino.»
Peter annuì a quelle parole. Stava sciacquando la
tazza quando si accorse che Iris si era fatta più vicina. Si asciugò le mani
cercando di ignorare quella situazione, ma la sua testa non poté fare a meno di
fargli notare cosa stava succedendo. Tutti i suoi sospetti si ripresentarono
prepotenti da lui e per la prima volta non sapeva bene come comportarsi. La
ragazza gli sfiorò la mano, ruotando il corpo verso di lui. Peter puntò lo
sguardo sulla mano di Iris, ora posata sulla sua per poi spostarlo sul volto
della coinquilina. Era vicina, troppo e Peter non ebbe alcun dubbio su ciò che
stava tentando di fare: voleva baciarlo.
Il ragazzo pensò in fretta.
«Occhio alla testa» disse, con un tono così innocente
da sfociare nell’ingenuo. Sembrava proprio la frase di uno che non aveva capito
nulla. Vide l’espressione di Iris mutare mentre apriva lo sportello dietro di
lei, dove tenevano le tazze. Quel semplice ripiano all’altezza della testa,
accanto al lavandino, lo aveva appena salvato.
Sempre con il modo di fare di uno che non aveva capito
– che Peter valutò come la carta vincente in quella situazione– il ragazzo si
asciugò le mani, allontanandosi dalla coinquilina.
«Io vado a dormire. Dovresti andarci anche tu» le
disse quando ebbe raggiunto la soglia della porta. La ragazza non replicò, si
limitò solo a fare un verso di stizza incomprensibile, che Peter pensò bene di
ignorare.
L’illustratore raggiunse camera sua più in fretta del
solito e si chiuse la porta alle spalle. Solo in quel momento si rese conto del
battito accelerato del cuore, legato alla preoccupazione per ciò che era
appena successo. Ora non aveva più dubbi; infondo era tutto chiaro, perché
averne?
Cercò di calmarsi ripetendosi che avrebbe trovato una
soluzione. Il problema principale, tuttavia, era legato al fatto che non gli
stava venendo in mente nulla in grado di aiutarlo.
Il vocio costante, fitto fitto, si diffondeva per
tutta la sala improvvisata. Le conversazioni dei presenti erano le più
disparate e spaziavano da qualsiasi argomento immaginabile; tutto ciò
contribuiva ad accrescere l’atmosfera di festa, allegria e bellezza che stava
caratterizzando quel giorno: sabato.
Il giorno del matrimonio era finalmente arrivato, con
una rapidità che aveva del sorprendente sia per Audrey sia per, soprattutto,
Oliver. Dopo il loro scambio del giovedì pomeriggio – in cui avevano ammesso
entrambi la preoccupazione che sentivano in vista di quel giorno – il tempo era
parso volare.
La pianista aveva fatto la prova generale con il resto
dei componenti della piccola e improvvisata orchestra il giorno precedente e,
tornata a casa, aveva imparato ad annodare un farfallino insieme a Oliver e
YouTube. E stava bene quel farfallino indosso al suo migliore amico, di una
splendida sfumatura lapislazzuli che, insieme all’abito, faceva risaltare l’azzurro
dei suoi occhi.
Oliver era felice. Qualsiasi possibile dubbio o
preoccupazione vi fosse stata in lui prima della cerimonia era sicuramente
scomparsa nel momento esatto in cui il ragazzo aveva visto arrivare Aisha;
Audrey, che lo conosceva come nessun altro, aveva capito tutto ciò semplicemente
con uno sguardo.
Continuava ad averne la conferma guardando la coppia
ballare in mezzo alla pista, nella tensostruttura montata apposta per l’evento,
in cui si stava tenendo il ricevimento. La pioggia aveva bagnato i prati di Stratford solo durante la cerimonia, lasciando tempo al
sole di sbucare fra le nubi – ora scomparse – e illuminare quel sabato di
maggio, permettendo al ricevimento di svolgersi in un bel clima e consentendo
anche di passeggiare fuori dalla tenda, sui prati. Gli avventori,
infatti, si erano divisi proprio in quel modo; a decine ballavano sulla pista,
intorno ai neosposi, altri conversavano seduti ai tavoli, altri ancora erano
fuori nel guardino, a fumare o parlare.
Audrey, invece, era sul palco insieme al resto dei
suoi colleghi e amici, a suonare una dopo l’altra le canzoni che aveva scelto
come colonna sonora di quel pomeriggio. Seduta allo splendido pianoforte a coda
color dell’ebano che avevano noleggiato per l’occasione, il suo vestito verde
preferito indosso, la pianista stava seguendo partiture di canzoni che aveva
ormai imparato a memoria, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata agli
sposi, felice di vederli così raggianti insieme. Dentro di sé un po’ li
invidiava; non tanto perché anche lei volesse sposarsi, ma perché anche lei
avrebbe voluto trovare il suo Sebastian, proprio com’era successo ad Aisha con
Oliver. Non aveva più una relazione da quasi due anni, ed era arrivata al punto
di credere di pretendere troppo. Tuttavia, al contempo, non si biasimava
nemmeno. L’ultimo ragazzo che aveva frequentato – per alcuni mesi e nulla di
più – le aveva fatto capire che non esisteva detto più azzeccato di “meglio
soli che mal accompagnati”. Colpa o merito suo che fosse, Audrey era arrivata a
capire che non aveva senso stare con qualcuno che non la faceva sentire bene e,
poiché stare da sola non la spaventava, aveva deciso di aspettare quello
giusto, il suo Sebastian. Tuttavia
alle volte si chiedeva se lo avrebbe trovato mai e quel giorno, davanti alla
coppia felice che erano Oliver e Aisha, se lo chiese di nuovo. Scacciò il
pensiero sulle note di A kiss to build to dream on una delle canzoni che più amava. Louis
Armstrong era in assoluto il suo preferito; musica, parole e perfino voce di
quell’uomo le piacevano e non si stancava mai di ascoltarlo. In quel momento,
anche se la voce non era la sua ma quella di Neil – il cantante del piccolo
complesso in cui stava suonando – quella canzone fece sparire ogni spiraglio di
malinconia dentro di lei.
Dopo un altro paio di canzoni, mentre la banda si
stava prendendo qualche breve minuto di pausa, Oliver si presentò sotto il
palco e chiamò Audrey. «Vieni giù» le disse.
La pianista lo guardò confuso. Gli altri stavano
riprendendo posto accanto ai loro strumenti; sapeva che avrebbero ricominciato
a breve e non poteva andare via. Neil sorrise allo sguardo confuso che lei gli
lanciò. «Vai pure Audrey. Per la prossima canzone possiamo fare a meno del
pianoforte» le disse.
Lei si fece più perplessa di prima, ma nonostante
tutto si avviò giù dal palco, verso Oliver che la stava aspettando. Aisha era
andata a sedersi a uno dei tavoli, a parlare con alcuni dei suoi parenti,
lanciando qualche occhiata in direzione della pianista e dello sposo, un
sorriso dolce in volto. Lei sapeva cosa stava per succedere, esattamente come l’orchestra
e, forse, come tutti i presenti a quelle nozze.
Appena Audrey fu accanto all’amico, senza avere il
tempo di dire qualcosa, il complesso musicale iniziò a suonare. La pianista
riconobbe subito You’vegot a friend in
me, la versione di Tom Culver, una delle sue
preferite.
«Questo ballo me lo devi concedere» le disse Oliver.
Lei scoppiò a ridere, iniziando a danzare con il suo
temporaneo cavaliere. In quel momento le parve tutto perfetto, anche se la sua deformazione
professionale tendeva a ricordarle che in una canzone come quella il pianoforte
ci voleva – pensiero che riuscì ad accantonare fin da subito. Si concentrò solo
su quel ballo e su Oliver che continuava a sorridere a quella situazione. Per
alcuni avrebbe potuto risultare imbarazzante, ma per loro era solo divertente.
Per Audrey, poi, era addirittura speciale.
Quando la canzone finì si sollevarono degli applausi
dal tavolo in cui si trovava Aisha, che stava anche ridendo di gusto a quella
scena.
Dopo quel ballo Audrey riprese posto al pianoforte e
guardò in direzione di Neil, che le sorrise. «Ce l’ha chiesta Oliver» le
rivelò, riferendosi alla canzone. «Doveva essere una sorpresa.»
La pianista dovette ammettere che la sorpresa aveva
funzionato fin troppo bene e dentro di sé sentiva una piacevole sensazione.
Oliver le aveva dedicato un gesto d’affetto anche nella sua giornata più
importare, per Audrey fu chiaro che quella era la più bella dimostrazione di
amicizia che si potesse desiderare.
*
Era ormai il crepuscolo quando la musica finì – quella
dell’orchestra, almeno. Il piccolo gruppo improvvisato di Audrey aveva suonato
ogni singola canzone prevista in scaletta e la pianista si sentiva soddisfatta
del risultato ottenuto. Quando aveva deciso di chiedere ad alcuni suoi colleghi
di suonare per il matrimonio di Oliver sperava che il risultato finale fosse
quello - un gruppo unito e in grado di suonare alla perfezione canzoni di
musica jazz e swing.
Oliver e Aisha erano prossimi a lasciare la festa,
cosa più che comprensibile. Li attendeva la loro prima casa, a Newington e poi la partenza per il viaggio di nozze, a
Venezia.
Audrey stava conversando con alcuni musicisti quando
venne raggiunta da Oliver, al quale non servì dire nulla per ottenere
attenzione; era il suo giorno speciale, dopotutto.
«Aisha e io andiamo. Te lo dico prima che la notizia
diventi di dominio pubblico e io sia investito da baci e abbracci. Come lei del
resto.»
Anche Aisha raggiunse la pianista, quasi si fosse
sentita chiamare. «Grazie di tutto Audrey» le disse la sposa, ancora splendida
nel suo abito nonostante la cerimonia, il ricevimento e le danze.
La ragazza fece un segno a mezz’aria, come a dirle che
non era poi tutto questo granché. «Era il mio regalo di nozze, ragazzi. Andava
infiocchettato per bene» rispose, sorridendo.
Aisha le sorrise di rimando, dopodiché la strinse
nello stesso abbraccio che una sorella maggiore può dedicare alla minore. Audrey
assaporò quel gesto fino all’ultimo secondo, felice; poi, Aisha si allontanò.
«Per qualsiasi cosa non esitare a chiamarmi, d’accordo?»
esordì Oliver, in cerca delle parole migliori per far capire a Audrey che fra
loro non poteva esistere un addio, nemmeno un arrivederci; loro erano due tipi
da ciao, addirittura da “a dopo”.
«Anche durante il viaggio di nozze, non preoccuparti.
Alla peggio, poi, Venezia è solo a due ore da qui» concluse, facendole l’occhiolino.
«Non ti pare di esagerare?» lo rimproverò
amichevolmente Audrey.
Di tutta risposta Oliver si strinse nelle spalle
sorridendo, dopodiché si avvicinò di un passo all’amica e l’avvolse in un
abbraccio. Fu un abbraccio lungo, uno di quelli in grado di dire più di
tutte le parole del mondo messe insieme. Quel gesto era il modo in cui i due si
stavano salutando, entrambi consapevoli che le cose non sarebbero rimaste le
stesse – come avrebbero potuto? – ma sapendo anche che l’altro avrebbe fatto
tutto ciò che era in suo potere per non perdere l’amicizia che la vita aveva
loro dedicato.
Audrey si sciolse completamente in quell’abbraccio, in
cui avrebbe potuto contare ogni singolo battito del cuore di Oliver. Invece
stava pensando ad altro; ripercorreva con la mente il tempo trascorso sotto lo
stesso tetto con il suo migliore amico, ormai diventato il fratello che non
aveva mai avuto, così come lei era la sorella che Oliver non aveva. Era
difficile dire cosa sarebbe accaduto dopo quel giorno, se davvero la loro
amicizia sarebbe rimasta immutata. L’unica certezza che possedeva era che la
casa, senza il suo coinquilino, sarebbe stata molto più grande.
Si strinse ancora di più a Oliver a quell’ultimo
pensiero, proprio mentre l’abbraccio che si stavano scambiando era prossimo a
esaurirsi. Quando si separarono, lei lo guardò e sorrise. Era davvero felice
per lui.
«Fate un buon viaggio» gli disse.
Lui annuì. «Ci abbufferemo di pasta. Io e Aisha siamo
già d’accordo.»
«Un programma interessante» osservò Audrey.
I due si salutarono sul serio, questa volta. La
ragazza rimase a guardare Oliver tornare da Aisha, dirle qualcosa, farla
sorridere, dopodiché voltò loro le spalle e si ricongiunse con gli altri musicisti.
Dopo che gli sposi se ne furono andati le persone
calarono poco a poco. Anche i componenti dell’orchestra se ne andarono, finché
non rimasero solo Audrey e Clint. La pianista era riuscita a evitare spiacevoli
– per lei – conversazioni con il ragazzo, ma sapeva che non avrebbe potuto
evitarlo per sempre. Lui, infatti, le si sedette accanto.
«Come torni a casa?» le chiese.
«Chiamerò un taxi fra poco. Comincio a essere particolarmente
stanca.»
«Posso accompagnarti se vuoi» si offrì lui.
Audrey sapeva che si sarebbe arrivati a quel punto.
Soppesò la proposta, riflettendo. Non impazziva dalla voglia di farsi mezzora
di viaggio in compagnia del ragazzo, ma sapeva anche che rifiutare quella
gentile offerta sarebbe stato troppo maleducato per lei, anche se si parlava di
Clint. Dopotutto con che scusa si poteva preferire un viaggio a pagamento con
uno sconosciuto piuttosto che un viaggio gratuito in compagnia di un collega di
lavoro?
«Beh, se non ti dispiace accetto il passaggio, grazie»
disse infine stringendosi nelle spalle.
Clint parve subito entusiasta di quella notizia. Dopo
l’accordo i due andarono a salutare il resto dei loro conoscenti. Audrey
trascorse almeno cinque minuti in compagnia dei genitori di Oliver prima di
salutarsi e allontanarsi con il suo collega violoncellista. Mentre si incamminavano
nella sera, diretti alla macchina di Clint, la pianista non poté fare a meno di
sentire una strana sensazione arrivare lieve fino a lei. Si voltò verso il
luogo in cui si era tenuta la cerimonia, vedendo le luci della struttura farsi
sempre più lontane. Quel posto emanava calore e lì, dove si trovava in quel
momento, sentiva quel calore allontanarsi da lei.
Durante il viaggio Audrey si sentì sempre peggio.
Quasi non apriva bocca, lo faceva solo per rispondere alle affermazioni di
Clint, che stava parlando di musica, complimentandosi con la pianista per la
scelta dei pezzi; lei, invece, guardava fuori dal finestrino, tormentandosi in
grembo le mani.
Quando l’auto accostò sul ciglio di Chadd Green e Audrey vide casa sua si ridestò, una stretta
le chiuse lo stomaco.
«Siamo arrivati» annunciò Clint. La ragazza si voltò a
guardarlo e gli sorrise. «Grazie per avermi accompagnata.»
Stava per augurargli un buon proseguimento di serata e
scendere quando lui la fermò. «Audrey, senti, volevo chiederti se ti andasse,
una di queste sere, di uscire insieme.»
La pianista soffocò un sospiro, reggendo lo sguardo
del ragazzo. Sapeva che quella domanda sarebbe arrivata, una parte di sé era
certa che il principale motivo per cui Clint era entrato a far parte della
piccola orchestra fosse lei e non le canzoni jazz che diceva di apprezzare
tanto. Tuttavia quasi si stupì che la domanda arrivasse solo in quel momento e
che non fosse stata formulata prima. A ogni modo, lei non se la sentiva di
rispondere, né di cercare frasi in grado di far capire a Clint che, dopo quel
loro ormai lontano appuntamento, non ne avrebbe seguito un altro. Si sentì
improvvisamente stanca, un ammasso di sensazioni a scavarla dentro.
Distolse appena lo sguardo prima di iniziare a
parlare. «Clint, è» prese una breve pausa, «è stata una giornata lunga, una
settimana lunga. E domani abbiamo anche lo spettacolo al Menier. Scusami, ma preferirei
non parlare di questo adesso. Ti spiace se rimandiamo a un altro momento?»
disse quelle parole con voce calma, delicata.
Davanti a lei il ragazzo annuì lievemente, abbozzando
un sorriso. «Sì, hai ragione. È stata una lunga giornata, ma molto bella»
rispose.
Audrey gli diede ragione, dopodiché ringraziò
nuovamente Clint per il passaggio che le aveva offerto e lo salutò con un
abbraccio prima di scendere. Le venne spontaneo, anche alla luce delle parole
che gli aveva appena rivolto. Era quasi sorpresa da come lui non avesse fatto
un secondo tentativo; sospettò si trattasse di lei, forse il ragazzo aveva
visto qualcosa nel suo viso, nei suoi occhi, forse aveva interpretato in un
solo modo tutte le sensazioni che le si stavano amalgamando dentro.
Scese dalla macchina e salì le scale con una lentezza
insolita, stringendosi le braccia al petto. Quando girò la chiave nella toppa
della porta ed entrò in casa la trovò deserta e buia. Negli ultimi due giorni
Oliver aveva ammonticchiato alcuni scatoloni davanti alla porta di camera sua e
ora quelli se ne stavano lì, in silenzio, quasi a scrutare la pianista.
Audrey fu nuovamente colta da quella sensazione di
malinconia che l’aveva pervasa il giovedì precedente in camera di Oliver.
Tuttavia non scoppiò a piangere come quel giorno. Dentro di lei c’era ancora
euforia, gioia alla vista della felicità di due delle persone a cui teneva di
più. Forse era quello l’ammasso caotico che sentiva in auto di Clint, una sfida
interiore fra il dolore personale e la gioia.
Sapeva che solo la musica avrebbe potuto aiutarla a
superare quel momento. Raggiunse la sua stanza, afferrò la tastiera elettrica
senza neanche cambiarsi d’abito e tornò nel soggiorno. Spense la luce,
lasciando che solo i lampioni in strada illuminassero la casa e, con il volume
al minimo, iniziò a suonare.
La scelta della canzone fu spontanea; non aveva perso
tempo a pensare a quale canzone suonare, aveva semplicemente posato le dita
sullo strumento e le prime note uscirono da sole. Stava suonando una canzone di
La La Land,
quella che suona Sebastian alle nozze: Engagement
Party. Una musica bellissima e malinconica, in grado con le sue note di
rappresentare lo stato d’animo di Audrey. La pianista continuò a suonare
cercando di non pensare a nulla, se non alla musica, alle note, ai pentagrammi;
non voleva pensare ad altro. Mai, come in quel momento, la casa le era parsa
tanto grande e, soprattutto, vuota.
Era il lunedì più lunedì che Audrey ricordasse da
tempo. Era noioso, asfissiante e lei non aveva quasi chiuso occhio quella
notte, ritrovandosi totalmente priva di qualsiasi riserva di energia.
Oliver era partito e si trovava in Italia in quel
momento e alla pianista mancava averlo per casa, dove ora lei lasciava dietro
di sé solo silenzio appena usciva da una stanza. Le sarebbe servito del tempo
per abituarsi a quella situazione, lo sapeva.
Per quella sera aveva deciso di combattere la
solitudine invitando April e Sadie a cena, ma entrambe le ragazze erano
impossibilitate ad andare. Una cena solitaria e un film erano parsi essere l’unica
opzione per Audrey, un pensiero che aveva contribuito a rendere quel lunedì
così poco piacevole.
La pianista stava camminando in direzione di Tower
Hill station con molta calma, stretta nel suo trench. Avevano terminato le
prove con una buona ventina minuti di anticipo e subito aveva pensato di
andarsene verso casa così da arrivare un po’ prima. Tuttavia aveva scartato
quell’ipotesi persino prima di averla formulata totalmente. Non aveva senso
arrivare a casa prima per poi stare più tempo da sola proprio in quei giorni in
cui la solitudine la faceva stare male. Almeno se avesse incontrato Peter – com’era
ormai diventata abitudine per loro – un po’ di tempo lo avrebbe trascorso in
buona compagnia.
Raggiunta la fermata metropolitana si fermò; non
attraversò i tornelli, non scese lungo le scale mobili. Rimase ferma in un
punto del marciapiede, accanto al muro, cercando di non disturbare i passanti.
Aveva una gran voglia di suonare il pianoforte della stazione, le sembrava
quasi di sentire un richiamo provenire dal fondo delle scale alle sue spalle,
tuttavia rimase lì, ferma, in attesa, cercando qualcosa a cui pensare.
Sapeva che Peter lavorava in Thomas Moore Street,
perciò ogni tanto lanciava qualche occhiata in quella direzione per vedere se
stava arrivando; era ancora in anticipo sul suo orario abituale e l’illustratore
arrivava solitamente dopo di lei, per tale motivo era sicura che lo avrebbe
intravisto fra la folla a breve.
Dopo altri minuti d’attesa, infatti, lo vide arrivare.
Aveva, come solito, le mani affondate nelle tasche della giacca – un giacchino
nero – e gli auricolari inforcati. Camminava guardandosi intorno, osservando
edifici e persone, come in cerca di ispirazione. Una lingua di sole fra due
palazzi illuminò i riflessi color caramello dei suoi capelli proprio quando lui
si accorse di Audrey, in attesa poco più avanti.
Peter le sorrise appena incrociò il suo sguardo,
sorpreso di trovarla lì, ferma. Si tolse gli auricolari prima ancora di
raggiungerla e la salutò appena le fu accanto. Audrey rispose al suo saluto.
«Abbiamo finito prima oggi. Il direttore d’orchestra
ha detto che non ne poteva più di vederci» esordì la pianista, quasi a
giustificare la sua presenza lì.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio. «Onesto» sentenziò,
scherzando.
Audrey sorrise, dandogli ragione. «In realtà alle
prove abbiamo fatto un “buona la prima”. Penso che il direttore ne sia rimasto
soddisfatto, molto semplicemente» arricciò le labbra sul finire della frase,
strappando un sorriso a Peter nel suo modo più tipico: l’incurvare appena un
angolo delle labbra; quando sorrideva sul serio, o rideva di gusto, però, tutto
il suo viso si illuminava e allora dimostrava molti meno dei suoi ventisette
anni.
«Grazie per avermi aspettato, molto carino da parte
tua» disse poi a Audrey, pensandolo sul serio. Fece un passo per avviarsi verso
l’accesso alla Tube, ma la pianista non si mosse, sovrappensiero.
«Ti andrebbe di andare a prendere un caffè?» gli
chiese, con semplicità.
Il ragazzo rimase sorpreso da quell’invito, uscito
così improvvisamente. Guardò Audrey, pensando. Aveva del lavoro da fare, a
casa, portare avanti qualche tavola sarebbe stata una buona idea, ma non era
nulla di urgente. Perciò non aveva senso perdere l’occasione di trascorrere un
po’ di tempo con la pianista, specie se l’invito era arrivato da lei.
«Volentieri» rispose.
Si avviarono verso lo Starbucks in cui erano andati l’ultima
volta, quando Peter aveva consegnato le partiture a Audrey come regalo di
compleanno. Anche quel giorno il posto era tranquillo e poco trafficato, vi
erano solo alcuni turisti, una coppia di adolescenti e persone che entravano,
ordinavano e uscivano con la consumazione. Peter e Audrey ordinarono entrambi
un caffè e presero posto su un tavolino accanto alla vetrata. Iniziarono subito
a parlare delle rispettive giornate, del proprio lavoro, poi la conversazione
si spostò su tutt’altro.
Era già passata una dose indefinita di tempo quando
Peter domandò a Audrey di com’era andato il matrimonio di Oliver. La pianista
sorrise al ricordo di quella giornata, che era andata bene, molto, se si
tralasciava la sua conclusione al rientro in appartamento. Mentre raccontava a
Peter i punti salienti della festa, snocciolando anche alcuni titoli delle
canzoni suonate, si ritrovava a lanciare di tanto in tanto alcune occhiate in
direzione della vetrinetta del bancone del caffè, dietro la quale cibo dolce o
salato era esposto in bella vista. L’illustratore si accorse della situazione,
stava perdendo con troppa frequenza il contatto visivo con Audrey.
«Qualcosa non va?» le chiese infine.
Lei lo guardò subito, quasi confusa dalla sua domanda,
dopodiché capì qual era il punto. «Oh, no, no. È solo che mi sta venendo fame,
quindi pensavo di prendere qualcosa da usare come cena» evitò di proseguire
nella frase, che si sarebbe conclusa alludendo al fatto che, tanto, cenare a
casa o lì non le avrebbe cambiato nulla, dal momento che sarebbe comunque stata
sola. Quel giorno si sentiva così distante dal mondo che i minuti che stava
trascorrendo in chiacchiere con Peter le parevano una benedizione.
Il ragazzo assimilò la sua risposta, parve soppesarla,
rimuginarci intorno, infine pensò di cogliere al balzo l’occasione.
«Potremmo andare a cenare» propose. Lo fece con
disinvoltura, quasi fosse la risposta più ovvia del mondo alla frase di Audrey.
Sollevò le sopracciglia mentre la ragazza lo guardava e rimase in attesa di una
sua qualche reazione. Lei osservò a lungo gli occhi bruni di Peter, resi scuri
dalla luce artificiale.
«Non devi lavorare?» chiese poi. Si sarebbe sentita
responsabile se Peter fosse rimasto indietro con il lavoro a causa sua, specie
ora che sapeva quanto fosse impegnativo il lavoro dell’illustratore. Lui, di
tutta risposta, si strinse nelle spalle e arricciò le labbra. Dopo quello che
era successo con Iris casa sua non era il primo posto in cui ambiva a tornare,
specie se l’alternativa era trascorrere del tempo in compagnia di Audrey.
«Posso concedermi una sera libera. Sono a un ottimo
punto con le tavole» rispose; ed era vero.
La pianista stava ancora soppesando la risposta quando
lui fece il suo affondo: «Magari possiamo andare in un posto che fa allyou can eat.»
A sentire quelle parole Audrey si illuminò. Le
sembrava passata un’eternità dall’ultima volta in cui si era concessa del sushi
e aveva una gran voglia di mangiarne già da un po’ di tempo. «Ok, ci sto»
rispose infine. Tuttavia puntò l’indice verso il petto di Peter. «Ma solo se mi
garantisci che davvero non hai niente da fare adesso» lo ammonì.
Il ragazzo sorrise, sollevando tre dita della mano
destra. «Parola di scout» scherzò, poi tornò serio. «No, davvero. Posso
concedermi di passare una serata fuori. I disegni non sentiranno la mia
mancanza.» Omise volutamente di fare qualsiasi riferimento alla sua attuale
situazione con Iris e subito gli venne in mente che non aveva ancora spiegato a
Audrey come stavano le cose fra lui e la coinquilina; si ripromise di farlo
quella sera, appena se ne fosse presentata l’occasione.
La pianista cedette all’offerta, contenta di sapere
che aveva l’opportunità di trascorrere altro tempo in compagnia di Peter.
Uscirono da Starbucks e si incamminarono verso uno dei
ristoranti giapponesi preferiti del ragazzo, dove andava spesso insieme a
Damian. Appena arrivarono Peter pensò bene di scrivere un messaggio all’amico
per avvisarlo che non sarebbe rientrato a cena la sera, limitandosi a scrivere
che avrebbe mangiato da un’altra parte.
Quando ordinarono le prime porzioni di sushi, Audrey
si sentì a un passo dalla beatitudine. Il suo umore era notevolmente migliorato
rispetto a poche ore prima, quando la prospettiva più allettante era rientrare
nella sua casa, una volta calda e viva, e trovarla deserta.
Arrivati al secondo giro di sushi – con uramaki in abbondanza – Peter aveva appena ultimato un’affermazione
a conclusione di un breve botta e risposta fra i due quando Audrey disse: «Stavo
pensando di cambiare casa.»
Non stava guardando Peter; era concentrata sul suo
colorato rotolino di sushi, che stava intingendo nella salsa di soia.
L’illustratore la guardò perplesso per un lungo
momento, cominciando a chiedersi il perché di una simile affermazione. Non ebbe
tempo di replicare prima che lo sguardo di Audrey si incrociò con il suo e lei
potesse riprendere a parlare: «Tu pensi possa avere senso? Cambiare casa
intendo.»
«Perché vorresti cambiarla?» domandò poi lui, dopo un
breve silenzio. Nella sua testa si presentò il pensiero che, se Audrey avesse
cambiato casa, i loro abituali rientri insieme sarebbero finiti. Era un
pensiero piccolo, un lieve sospetto, ma ora non sarebbe più riuscito a
ignorarlo.
Audrey non rispose, stava masticando e questo diede
tempo al ragazzo di fare i suoi conti. «È per Oliver, vero?»
Peter era un ragazzo sveglio, Audrey ormai lo sapeva,
ma il suo stato d’animo doveva essere davvero palese se lui lo aveva capito così
in fretta. Annuì con la testa, debolmente. «Sì. Insomma, tralasciando la più
ovvia questione dell’affitto, non so per quanto ancora riuscirò a stare là. Vi
ho sempre vissuto in compagnia di Oliver e ora, trovare la casa così vuota
senza di lui, mi mette tristezza.»
Non sapeva per quale motivo gli stava raccontando
tutto ciò; sapeva solo che le risultava semplice aprirsi con Peter.
Quest’ultimo cercò le giuste parole per rispondere,
scoprendosi sorpreso del fatto che il legame fra Audrey e Oliver potesse essere
tanto forte.
«Beh, non ci trovo nulla di male dopotutto» esordì infine
il ragazzo. «Tu stessa mi hai detto che siete amici fin da piccoli. Immagino
non sia semplice sapere che le cose cambieranno. È un po’ come se io e Damian
smettessimo di vivere insieme, mi ci vorrebbe del tempo per abituarmi alla
cosa.»
«Quindi tu non pensi sia stupido voler cambiare casa
solo perché Oliver si è trasferito?» chiese Audrey, nel tentativo di riordinare
la propria confusione mentale.
«No, assolutamente» replicò Peter con una lieve alzata
di spalle. «I luoghi sono carichi di ricordi, almeno quanto lo sono le canzoni,
per me. Trovo sia comprensibile che stare in quella casa ti crei un senso di
nostalgia.»
Spinse verso Audrey l’ultimo uramaki
ancora nel piatto, invitandola a prenderlo con quel semplice gesto.
«Magari però è solo questione di tempo. Oliver si è
appena trasferito, forse hai solo bisogno di capire che le cose fra voi non
cambieranno molto prima di vedere una casa vuota come una possibilità.»
Bevve un sorso d’acqua dopo quell’affermazione, mentre
Audrey osservava il rotolino di sushi che lui le aveva porto, ripensando alle
sue parole. Trovò sorprendente quanta verità ci fosse in quelle poche parole.
Quando sollevò lo sguardo su Peter, lui la stava già guardando, un sorriso in
volto. Riuscì a trasmetterle una sensazione di serenità e fu grata che il suo
invito per un caffè si fosse trasformato in quella piacevole cena a base di
sushi e ammissioni.
Il ragazzo aveva ragione su tutto, Audrey lo sapeva.
«Grazie» gli disse poi. Non alludeva all’uramaki che lui le aveva lasciato e Peter lo capì.
«Se volessi parlarne di nuovo ci sono. Altrimenti
posso aiutarti a cercare una bella casa e dei coinquilini sopportabili.»
Strappò un sorriso a Audrey con quelle parole. Lei
afferrò poi il piccolo rotolo di sushi con le bacchette, lo immerse nella salsa
di soia e lo assaporò, appena in tempo per vedere Peter sollevare il braccio e
richiamare il cameriere.
La compagnia dell’illustratore, la cena, tutto ciò la
stava aiutando a sentirsi meglio. In quel momento si sentì fortunata per aver
conosciuto un ragazzo con l’anima di Peter; era contenta di trascorrere del
tempo insieme a lui, soprattutto perché – anche se magari non era stata la sua
vera intenzione – era a appena riuscito a dimostrarle che gli amici e il buon cibo,
possono davvero essere un’ottima cura.
Peter sentiva sempre più sonno. Se ne stava con le
braccia incrociate sul piano della scrivania da lavoro, nel suo ufficio, la
guancia appoggiata sui polsi.
Stava pensando. Rimuginava soprattutto sul fatto che,
nell’ultimo periodo, davvero pensava troppo, seppure non gli servisse a niente
essere consapevole della cosa. Non si poteva arrestare il proprio cervello, lo
sapeva fin troppo bene. Infondo per lui l’immaginazione altro non era se non
una colorata e creativa appendice della mente e, quando la sua fantasia
iniziava a galoppare, fermarla gli era impossibile; per tale ragione dovette
arrendersi all’evidenza: non avrebbe certo smesso di pensare.
Si lasciò sfuggire un lungo sbadiglio. Era quasi ora
di tornare a casa, per sua fortuna. Quel pomeriggio aveva prodotto davvero poco
con matite e acquerelli, ma proprio non riusciva a restare concentrato. Si
distraeva per via del sonno, ma non solo. Quella notte aveva dormito malissimo;
si era svegliato a più riprese, accaldato e con strane sensazioni addosso, per
poi ripiombare in un sonno più agitato del precedente.
Negli ultimi giorni, dopo che Iris aveva tentato
invano di baciarlo, la ragazza aveva fatto il possibile per rimanere sola con
Peter. Proponeva film, uscite nei pub, di andare a fare la spesa insieme. Ogni
volta l’illustratore riusciva a declinare l’offerta con una serie di scuse ben
orchestrate, pronunciate con una finta ingenuità da manuale. Quando invece non
gli veniva una valida scusa coinvolgeva Damian. Il povero amico finiva così catapultato
in situazioni che lui non poteva immaginare, aiutando Peter a sua insaputa.
Il ragazzo sospirò, osservando la sua serie di pantoni
sparsa per il piano da lavoro.
Non avrebbe potuto continuare così in eterno. Prima o
poi la scusa non gli sarebbe balzata in mente al momento opportuno e Damian non
ci sarebbe stato. E forse un giorno Iris si sarebbe realmente dichiarata, non
avrebbe cercato di farglielo capire. Forse gli conveniva affrontare la
questione di petto, senza sotterfugi; scusarsi con la coinquilina e dirle che
non era interessato.
Certo, era sicuramente la soluzione migliore, oltre
che la più corretta, ma dopo? Vivere sotto lo stesso tetto con una ragazza
respinta – specie se aveva il carattere di Iris – non era una prospettiva
allettante.
Fu in quel momento esatto che gli tornò in mente
Audrey e la conversazione che avevano avuto. Alzò la testa di scatto,
sentendosi rianimato. Gli era appena venuta in mente un’idea. Complicata e
discutibile, senz’altro, ma era pur sempre un’idea. Afferrò il cellulare e
cercò la chat di Damian, mandandogli un diretto e categorico messaggio: “All’Esquire alle 6:30, ti va?”
Non gli servì aspettare la risposta per sapere che l’amico
sarebbe venuto. Una birra prima di cena era uno di quei piaceri che Damian
amava concedersi di tanto in tanto, specie all’Esquire,
il suo pub preferito, che si trovava a una decina di minuti da casa.
Rinvigorito dal suo nuovo progetto, Peter iniziò a
riordinare le sue cose, disponendo ordinatamente le tavole acquerellate una sull’altra
come fossero pregiati pezzi d’antiquariato. Riempì il suo zaino con tutti i
suoi materiali da lavoro e attese le cinque scarabocchiando su uno dei suoi
molti taccuini alcune figure maschili che avrebbero potuto tornargli utili per
qualche prossimo lavoro.
Quando fu ora di andare passò dai suoi colleghi, li
salutò e si avviò a passo spedito lungo le scale, diretto verso Tower Hill
station. Ci mise poco a scegliere quale musica ascoltare durante il tragitto.
Il sonno era scomparso e il suo buonumore era in parte tornato, nulla avrebbe
potuto aiutarlo più dei Bastille. Iniziò con Snakes, a cui
alzò il volume a sufficienza così da permettere alle note della canzone di
riempire tutto il mondo intorno a sé.
Arrivato alla stazione metropolitana trovo Audrey
intenta a suonare City of Stars come
d’abitudine. Si fermò ad ascoltarla e appena la pianista ebbe finito, lei
subito si voltò nella direzione in cui sapeva avrebbe trovato Peter. Lui,
infatti, era proprio lì e le andò incontro salutandola.
Durante il tragitto parlarono di svariate cose, per lo
più di tutti i giorni, finché il ragazzo non domandò a Audrey come andava la
ricerca della casa. Lei gli rivelò che stava ancora pensando se cambiarla o
meno – anche se era più propensa al sì – perché cominciava ormai ad abituarsi
all’assenza di Oliver. Aveva ancora bisogno di tempo per mettere in ordine i pensieri.
A Whitechapel si salutarono.
Peter raggiunse la fermata della Overground facendo
lavorare come un dannato il cervello. Doveva trovare le parole giuste per dire
a Damian ciò che stava seriamente pensando di fare, ma aveva anche bisogno di
motivare concretamente la sua idea. Damian faceva mille domande – molte più di
lui – era fondamentale rispondere con sicurezza al bombardamento di quesiti a
cui sarebbe stato sottoposto a breve.
Quando raggiunse l’Esquire
aveva trovato motivazioni e risposte soddisfacenti anche alla più impensabile
delle domande. Vide il coinquilino arrivare dal lato opposto della strada e i
due si salutarono con un cenno.
«Hai avuto una gran idea. Ho proprio voglia di una IPA»
sentenziò Damian appena varcarono la soglia del pub.
«Ottimo a sapersi» mormorò fra sé Peter. Se l’amico
era di buon umore forse gli sarebbe stato più semplice parlare con lui.
Presero posto in un piccolo tavolo alla destra del
bancone, vicino alla scala che portava al piano superiore. Davanti alle
rispettivi birre scambiarono qualche chiacchiera generica – parlò per lo più
Damian – e dopo una mezzoretta di quei convenevoli decisero di rimanere a
mangiare.
A metà della cena, Peter pensò che non avesse senso
rimandare ancora la questione e si decise a parlare appena l’amico rimase in
silenzio al termine di un’osservazione.
«Sai» esordì. «Stavo...stavo pensando di trasferirmi»
disse, con il suo tono più disinvolto. Tuttavia si rese conto subito di aver
provocato su Damian l’effetto di una bomba. Il ragazzo, infatti, sollevò lo
sguardo di colpo e guardò Peter sconvolto. «Come sarebbe a dire?» esclamò.
L’illustratore cercò le parole migliori, consapevole
di doversi muovere con piedi di velluto; qualsiasi cosa detta in modo sbagliato
sarebbe potuta essere interpretata come un’offesa personale a Damian. Peter
doveva solamente raccontargli la verità, nulla di più: quella era la soluzione
corretta.
«Non fraintendere. Non è che non mi piaccia casa
nostra, sul serio. È solo che comincia a essere un po’» allungò la o, in attesa di trovare la parola più
indicata, «stretta» concluse, lasciandosi sfuggire una smorfia. Perché non
diceva le cose come stavano e basta? A volte era davvero stupido.
«Stretta?» gli fece eco Damian, perplesso. «Peter, da
quanto ci stai pensando? Non potremmo parlarne a modo, prima?»
«Sì, potremmo» bofonchiò l’altro, giocando
distrattamente con le verdure del suo piatto. Alla fine prese un lungo respiro.
«Il punto è che non posso più convivere con Iris» disse, tutto d’un fiato.
Se possibile l’espressione di Damian si fece ancora
più perplessa. «Perché?»
«Iris ha una cotta per me. E la cosa mi crea non pochi
disagi» ammise. Ora che era riuscito a far uscire la motivazione esatta gli
risultò molto più semplice parlare della cosa. Tuttavia gli era passato l’appetito,
al punto da lasciar ricadere la forchetta nella piatto; per sua fortuna gli era
rimasto solo il contorno.
L’altro non disse nulla per svariati secondi. Non
sentiva il termine “cotta” dai tempi del liceo, ma non era quella la cosa
veramente importante in ciò che Peter gli aveva appena detto. Ripensò a Iris e
sollevò le sopracciglia, posando temporaneamente l’hamburger. «Iris ha... Beh,
e ti lamenti?» Era particolarmente sorpreso della cosa.
Peter spalancò gli occhi, incredulo. «Dai, Damian.
Iris non è la ragazza giusta per me, lo sai anche tu. Anche se provassimo a
frequentarci finiremmo con il litigare dopo due giorni e rendere la convivenza
di tutti un inferno» esclamò. Credeva molto in quella sua teoria, anzi, ne era
certo.
«Sì, ok» bofonchiò l’amico. «E allora quale sarebbe la
ragazza giusta per te?» domandò, un sopracciglio inarcato. C’erano molte
allusioni nella sua domanda e per lo più facevano riferimento al fatto che
erano anni che Peter non aveva una ragazza. I suoi rapporti erano limitati a
qualche sporadico appuntamento, da cui il più delle volte tornava con
atteggiamento passivo e poca voglia di provarci di nuovo. A lui bastava
disegnare. Se fogli e fogli erano pieni dei suoi lavori, allora lui era
contento: una sorta di dipendenza, insomma.
A sentire la domanda di Damian, all’illustratore
guizzò per un momento davanti agli occhi il volto di Audrey. Tuttavia lo
scacciò subito, parlare anche di lei sarebbe stato mettere troppa carne al
fuoco nell’arco di tempo di un solo pasto. Oltretutto non era ancora così certo
dei sentimenti che provava per la pianista.
«A ogni modo» riprese a parlare, «Iris non va bene per
me, questo è sicuro» sentenziò.
Damian alzò le mani in segno di resa, decidendo di non
contraddire l’amico.
«Va bene allora. Ma se cambi casa vengo con te.»
Il modo in cui aveva appena parlato era risoluto, uno
di quei toni che indicava che la decisione era presa e nulla avrebbe potuto
cambiarla. Peter rimase interdetto per un momento. «Cosa?» disse infine.
«Hai capito benissimo» rispose l’altro, scuotendo il capo
in senso affermativo. Stava masticando il boccone di hamburger che aveva appena
addentato, ma le sue parole risuonarono comunque chiare. Appena ebbe ingoiato
il suo cibo, ci bevve dietro un sorso di birra e riprese a parlare: «Senti,
Pete, noi due siamo amici da quando sapevamo a malapena camminare.» Peter fece
per replicare, perché le cose non stavano esattamente così: si conoscevano fin
da piccoli, sì, ma non da così
piccoli. Tuttavia Damian non lo lasciò dire nulla. «Se tu vuoi lasciare la
casa, io verrò con te. A meno che non ci sia qualche altro motivo che dovrei
sapere.»
Alludeva a una donna, l’illustratore lo capì senza
problemi. «Non c’è nessuna altra ragione al di fuori di quella che ti ho detto.»
«Allora facciamolo» esclamò Damian battendo una mano
sul piano del tavolo. «Prendiamoci una casa solo noi due. O al massimo ci
cerchiamo un terzo coinquilino» propose.
Peter guardò l’amico e si lasciò sfuggire un sorriso.
Adorava Damian; lui avrebbe anche potuto combinare tutti i guai di questo mondo
ma non sarebbe mai riuscito a far diminuire l’amicizia che li legava.
«Solo se ne sei veramente convinto» disse infine. «Mi
ricordo bene di quanto avessi odiato aiutarmi a selezionare gli annunci prima
che trovassimo la casa in cui stiamo ora.»
L’altro si esibì in una smorfia, stringendosi nelle
spalle. «È chiaro che odierò doverlo fare anche questa volta. Ma, credimi, per
me è peggio dover rimanere nella stessa casa con una ragazza respinta, la sua
migliore amica e un nuovo coinquilino di cui sicuramente mi metterò a elencare
i difetti» contò i tre fattori sulla punta delle dita e annaffiò l’affermazione
con un nuovo sorso di birra, quasi fosse il coronamento della sua vittoria.
Peter si mise a ridere e alzò il bicchiere per
brindare all’amico. Mentre stava bevendo, Damian ne approfittò per chiedergli: «Di’
un po’, ma sei proprio sicuro che Iris abbia un debole per te? Non è che
cambiamo casa per questo e poi è tutto frutto della tua immaginazione.»
L’illustratore scosse la testa. «Ha cercato di baciarmi.»
«E quando?» domandò sorpreso Damian.
Peter allora prese una lunga boccata d’aria e raccontò
tutto. Disse a Damian di quella sera nella cucina di casa loro, del fatto di
avervi trovato Iris ancora sveglia, delle poche parole che si erano scambiati.
Infine arrivò al punto cruciale della questione, raccontando di come lei gli si
era avvicinata con il chiaro intento di baciarlo e di come lui, con finta
ingenuità, aveva deviato l’argomento dicendo alla ragazza di fare attenzione
alla testa, messa in pericolo dallo sportello della credenza che avrebbe dovuto
aprire per riporre al suo posto la tazza lavata.
Terminato il racconto, Damian rimase spiazzato per
qualche secondo, dopodiché scoppiò a ridere. «Lo hai fatto veramente?» chiese
retorico. «Un sacco di persone ti darebbero del deficiente per aver respinto
Iris» sogghignò.
«Ah, non lo metto in dubbio» rispose Peter con un’alzata
di spalle.
«Beh, per lo meno ora ho capito perché è da un po’ che
non esci più da solo con lei.»
L’illustratore annuì a quell’affermazione, senza
aggiungere altro. Cominciò a scandagliare mentalmente la città di Londra, in
cerca di quartieri in cui poter cercare casa. Quello in cui vivevano ora non
gli dispiaceva affatto, tuttavia non avrebbe avuto alcun senso trasferirsi per
andare a vivere a cento metri dalla casa che si lasciava. Poteva anche essere
la buona occasione per prendere una casa un po’ più vicina al centro città,
così da evitare ogni giorno di dover prendere metropolitana e Overground. Magari poteva provare a cercare qualche
annuncio nella zona di Canning Town , così avrebbe
dovuto prendere solo la District line per tornare a casa, cosa che gli
consentiva di trascorrere più tempo in compagnia di Audrey. Al pensiero della
ragazza la sua mente si arrestò. Non aveva molto senso scegliere in che zona
della città vivere, basando buona parte della ricerca sul fatto di non voler
cambiare linea metropolitana solo per non smettere di vedere qualcuno: era
ridicolo. A meno che quel qualcuno non rappresentasse qualcosa di importante.
Peter l’aveva ormai capito di non provare una semplice simpatia per Audrey, ma
mai così palesemente come in quel momento.
Tuttavia si ricordò che anche la pianista stava
pensando di cambiare casa – dopotutto era stata proprio lei ha dargli l’ispirazione
per tutto quello che aveva appena detto a Damian – quindi avrebbe potuto essere
lei a cambiare fermata della metro.
Sospirò al pensiero del gran caos che stava montando
in meno di un giorno. Magari gli conveniva parlarne a modo con Audrey, indagare
in modo discreto alla ricerca di qualche possibile informazione utile.
«In che zona ti piacerebbe vivere?» chiese infine a
Damian. Quest’ultimo si strinse nelle spalle. «Questa zona della città non mi
dispiace. È tranquilla, siamo entrambi comodi con i trasporti e c’è anche il
mio pub preferito» disse, alzando il bicchiere di birra e strappando un sorriso
a Peter. «Però non avrebbe molto senso lasciare la casa per andare a vivere a
cento metri di distanza. Magari potremmo approfittare dell’occasione per avvicinarci
un po’ al centro di Londra.»
L’illustratore sollevò entrambe le sopracciglia nel
sentire il suo pensiero espresso con tanta precisione. Decisamente non c’era da
sorprendersi se Damian era il suo migliore amico, pareva quasi leggerlo nel
pensiero. Si disse d’accordo con ogni singola parola e i due decisero di
iniziare a dare un’occhiata agli annunci già a partire da domani.
Mentre la loro conversazione si spostava su tutt’altro
argomento, Peter non poté fare a meno di domandarsi se stesse procedendo per la
direzione giusta. Probabilmente stava agendo d’impulso, ma c’era una vocina
dentro di lui che gli diceva che quella era la scelta migliore. Il giorno dopo,
magari, avrebbe potuto parlarne con Audrey, anche per capire se – e quante –
possibilità ci fossero che il loro abituale incontro quotidiano alla fermata di
Tower Hill potesse finire.
Era sorprendente come i clienti riuscissero a far
perdere molto più tempo del necessario. Quel giorno, quando Peter si era
incamminato come di consueto per andare alla fermata della metropolitana, era
in ritardo sulla sua tabella di marcia. Dall’ufficio erano passati l’autore e l’editore
del libro del ballerino di tip-tap – In Tempo, così si sarebbe intitolato –
con alcune prove di stampa. Peter aveva finito con le tavole, ma si incontrava
regolarmente con i due per discutere di ogni test e fare qualche miglioria ai
lavori originali nel caso fosse necessario. Quella era la sua fase di lavoro
preferita. Vedere le sue tavole stampate su quelle belle carte patinate,
amalgamate alle parole e dare vita a una storia, riusciva ad emozionarlo ogni
volta come fosse la prima. L’unico problema era che i due responsabili con cui
si confrontava sempre non finivano mai di parlare. Nonostante avessero
raggiunto Peter in anticipo sull’orario prestabilito per l’incontro, erano
comunque riusciti ad andare via in ritardo di dieci minuti. Non di molto, ma
comunque in ritardo e proprio quando lui aveva intenzione di incontrare Audrey
e parlarle. Solo la sera prima aveva discusso con Damian sulla sua improvvisa
idea di trasferirsi e gli era stato impossibile non pensare alla pianista e al
fatto che anche lei, con tutta probabilità, stava progettando la stessa cosa.
Voleva capire le sue intenzioni e scoprire se, magari, rimaneva comunque la
possibilità di incontrarla ancora alla fermata della metro, almeno per non
perdere quell’abitudine che aveva ormai fatto sua e che gli dava piacere.
Accelerò il passo, pensando che non avrebbe mai fatto
in tempo a raggiungere Audrey per sentirla suonare il piano. Alzò il volume
della musica – Tiptoe
degli ImagineDragons –
sperando che la cosa potesse caricarlo ulteriormente e superò diversi passanti.
Proseguì oltre i tornelli d’accesso e scese di fretta lungo le scale mobili,
dove si sfilò gli auricolari e si mise in ascolto, in cerca del suono del
pianoforte fra il vociare costante delle persone. Percepì alcune note e, più si
avvicinava, più queste diventavano chiare. Tuttavia non era City of Stars quella che stava
risuonando dalla sala di Tower Hill station; Peter ormai la conosceva e quella
che sentiva era senza dubbio un’altra canzone. Probabilmente Audrey aveva già
finito di suonare e si era avviata al binario. Quando raggiunse la sala con il
pianoforte, però, capì di essersi sbagliato. Era proprio Audrey la ragazza
seduta al pianoforte intenta a suonare, così concentrata sui tasti dello
strumento che, probabilmente, nessuno sarebbe riuscito a richiamare la sua
attenzione. Intorno al piano, Peter notò un piccolo capannello di persone,
alcune delle quali stavano filmando con il telefono cellulare. Rimase
interdetto per parecchi secondi, almeno finché non riconobbe un passaggio nella
canzone che Audrey stava suonando. Era l’epilogo di La La Land, la versione per pianoforte
che lui le aveva regalato per il compleanno. Si spostò dalla ressa di persone
che gli scorrevano tutt’intorno e si sistemò contro la parete, dove si fermava
sempre per ascoltare Audrey suonare. Rimase sorpreso ancora una volta dalla sua
abilità. Quella canzone era davvero articolata; passava da un tratto lento a
uno molto più rapido con pochissimi istanti di scarto ed era degno di lode il
modo in cui lei riusciva a stare dietro a tutti quei cambi di ritmo. Era
talmente brava che Peter si ritrovò a chiedersi come mai quel gruppo di persone
intorno a pianista e pianoforte non si fosse formato prima di quel momento.
La canzone durò ancora per un paio di minuti – era piuttosto
lunga, in effetti – e appena Audrey finì di suonare ci furono numerosi
applausi, cosa che la colse impreparata. Peter la vide sorridere per la
sorpresa, radunare i fogli pentagrammati che aveva usato come traccia e alzarsi
in piedi, lanciando subito un’occhiata nella sua direzione, dove lei sapeva lo
avrebbe trovato. Il ragazzo infatti sollevò una mano e la salutò, esibendosi
poi in un silenzioso applauso a mano a mano che lei ai avvicinava.
«Il tuo seguito sta crescendo» le disse appena lei l’ebbe
raggiunto. Audrey si voltò automaticamente indietro, ma il gruppetto di persone
che si era fermato ad ascoltarla si era ormai disperso.
«A quando il primo concerto alla London Philharmonic Orchestra?»
«Sì, certo» replicò la ragazza con una risata. «Non ho
presentato alcuna domanda e a quanto so il loro pianista scoppia di salute.»
Si avviarono insieme in direzione della banchina, con
una calma che avevano fatta loro e che avrebbe potuto benissimo farli passare
per turisti.
«Hai riconosciuto la canzone?» chiese di punto in
bianco Audrey. Si riusciva a percepire una punta di eccitazione nella sua voce,
che le donava particolarmente.
«Ebbene sì, l’ho riconosciuta eccome» Peter simulò un
moto d’orgoglio, gonfiando anche il petto. «L’hai suonata alla perfezione»
disse poi, tornando serio.
«In verità ho sbagliato in più punti. Alcuni passaggi
sono davvero articolati e non mi riescono ancora benissimo. Devo lavorarci su,
ma sono soddisfatta.»
Peter stava per replicare e dirle che, a parer suo,
stava esagerando. Tuttavia anche lui era perfezionista nel suo lavoro, proprio
come Audrey. Quando sentiva che un personaggio avrebbe dovuto avere determinate
caratteristiche, continuava a lavorare finché quelle non venivano a galla. Come
Audrey, che sapeva nella propria testa quale suono avrebbero dovuto avere tutte
le note e di come doveva apparire una volta combinate insieme, anche lui
passava tutto il tempo necessario a perfezionare i suoi lavori perché la sua
immaginazione potesse essere perfettamente riprodotta su carta. Era un artista
dopotutto ed era perfezionista come ogni altro artista; come Audrey.
La sua attenzione venne poi deviata dalla ragazza,
intenta a riporre nella borsa i fogli con le partiture. Li piegò su se stessi e
li mise via, ma Peter ebbe ugualmente il tempo di riconoscere i suoi disegni,
anche se privi di colori e poco definiti.
«Ah, sono proprio le mie partiture» disse.
«Sì, però ho fatto delle fotocopie. Non vorrei mai
rischiare di rovinare gli originali. Mi piacciono troppo.»
L’affermazione di Audrey scaldò il ragazzo, che le
sorrise. «Forse allora è per quello che sbagli» riprese lui. «Se hai usato i
lavori che ti ho fatto io, chissà quanti errori ci sono.»
La pianista rise. «Affatto. Le tue partiture vanno
benissimo. È solo che non sono ancora riuscita a perfezionarmi. Ci ho passato
sopra ore ma ancora non basta» osservò calma. Sapeva di avere ragione. Si era
impegnata per imparare quella canzone, ma aveva ancora bisogno di molto
esercizio.
Quando si fermarono sulla banchina, spostati rispetto
alla maggior parte dei presenti, notarono che la District line era appena
passata, ma la cosa lasciò entrambi del tutto indifferenti.
«A ogni modo mi fa molto piacere vedere che l’hai
imparata» riprese poi Peter, alludendo ancora alla canzone.
«Non vedevo l’ora di impararla» replicò prontamente
lei, esaltata. «Solo che con lo spettacolo e il matrimonio non ho proprio
potuto farlo prima.»
L’illustratore annuì per far capire che aveva inteso,
ma a sentire parlare di matrimonio gli si accese una scintilla. Voleva parlare
con Audrey della questione del trasferimento, se ne stava dimenticando e, dato
che lei aveva tirato in ballo la faccenda del matrimonio poteva comodamente
allacciarsi a quella. Sapeva anche cosa dire.
«A proposito, come sta Oliver?» chiese.
«Ah, benone. Non fa altro che mandarmi foto» rispose
lei, arricciando le labbra con fare infastidito. Peter sorrise davanti alla sua
espressione.
«Hai poi pensato a cosa fare?» La incalzò con calma,
scoprendosi più curioso di quanto si fosse aspettato. Capì di essere veramente
interessato su quanto avrebbe fatto Audrey, specie se la diretta conseguenza
della sua prossima scelta avrebbe comportato il fatto di non vederla più ogni
giorno.
La pianista parve riflettere. «Sto guardando qualche
annuncio. Pensavo di vedere qualche casa prima e decidere di conseguenza. Se
trovo qualcosa di mio gradimento vado, altrimenti mi cercherò un coinquilino
nuovo. Anche se la cosa mi spaventa» ammise infine.
«Ah sì?» domandò sorpreso Peter. Audrey era una
ragazza aperta – dopo le prime occasioni – e gli parve curioso sentirla dire
una cosa del genere.
«Beh, sì. Insomma, io e Oliver ci conoscevamo alla
perfezione e abbiamo sempre saputo che spazio lasciare all’altro. L’idea di
andare a vivere con uno sconosciuto mi agita un po’. Pensa se non mi
permettesse di esercitarmi. O se lasciasse la casa in disordine, o se non
togliesse mai i capelli dalla doccia.» Rabbrividì a quel pensiero. «Credo darei
di matto.»
«Hai pensato di mettere tu in affitto la stanza? Se il
coinquilino non ti piace puoi sempre mandarlo via» le fece presente il ragazzo.
Per quanto potesse apparire crudele era forse l’opzione migliore visto quello
che pensava Audrey. Oltretutto, così facendo, Peter avrebbe sempre saputo su
quale linea metropolitana poter trovare la ragazza. Aveva appena formulato quel
pensiero che la District line uscì dalla galleria, fermandosi sferragliando
davanti a loro. I due salirono mentre Audrey riprese a parlare: «Sì, ci ho
pensato. Ma non so quanto mi piaccia quell’idea. Ho sempre vissuto lì con
Oliver e mi fa uno strano effetto pensare di portarci qualcuno che non conosco.»
Sbuffò una generosa dose d’aria, aggrappandosi al palo accanto a Peter. «Roba
da cretini, vero?»
La sua era una domanda retorica, ma il ragazzo si
sentì in dovere di risponderle: «Non mi permetto di giudicare» disse con un
sorriso. «Dopotutto ognuno prova emozioni diverse. Il tuo legame con Oliver era
speciale, quindi-» si interruppe. «Hai provato a parlarne con lui?» volle
sapere, appena quel pensiero gli balenò in testa.
Audrey scosse il capo, facendo cenno di no. «Quando
torna, magari. Per ora sto solo cercando annunci. Il mio piano è: prima vedo
qualche casa, conosco qualche possibile nuovo coinquilino e se nessun mi
convince o, peggio, mi terrorizzano tutti, affitto casa io.» Spiegò il suo
progetto gesticolando con le aggraziate mani da pianista, quasi fosse una
strategia militare.
«Direi che può funzionare» rispose Peter dopo aver
fatto schioccare la lingua. «E in che zona pensi di cercare?» Lo chiese
con una punta di incertezza, quasi fosse preoccupato di sentirla dire che le
sarebbe piaciuto andare a vivere dall’altra parte della città. Audrey si
strinse nelle spalle. «Più o meno la stessa. Mi sono ambientata là e mi trovo
bene. Conosco gli orari dei negozi, so dove trovare quello che cerco, tutto
perfetto direi. In fondo devo solo trovare qualcuno con cui condividere la
casa, la zona in cui sono ora mi piace» rispose con calma.
Peter non lasciò intuire che la notizia lo aveva
rallegrato. Se a Audrey non importava di cambiare punto della città – e a lui
nemmeno – c’era la possibilità che quello che avevano costruito insieme non
cambiasse. Era una buona prospettiva.
Stava per dirle che anche lui era in procinto di
cercare una casa nuova quando la voce elettronica della metro annunciò la
fermata di Whitechapel, la sua fermata sulla District line. Trovò non avesse
senso introdurre l’argomento per poi lasciarlo cadere a quel modo e preferì non
dire nulla. Pensò però che potesse essere un’ottima scusa per invitare fuori la
pianista. Prima che le porte si aprissero pensò di chiederglielo. «Senti ma,
che ne dici di andare a bere qualcosa domani sera?»
Audrey non ebbe nemmeno bisogno di ripensare alla
domanda. La prospettiva di avere qualcosa da fare almeno per una sera non le
dispiaceva affatto. «Sì, volentieri» rispose.
Peter le sorrise. Scese dalla metro prima che fosse
troppo tardi e sulla banchina si girò verso la pianista mentre le porte si
chiudevano, separandoli. «Ti scrivo» le disse lui, anche se la ragazza non
poteva sentirlo. Simulò il gesto di inviare un messaggio e la salutò con la
mano. Audrey lo intuì senza alcuna difficoltà, acconsentì con un cenno e lo
salutò.
Peter si incamminò verso l’Overground
con una sensazione piacevole a inondargli il petto. Aveva scoperto delle cose
interessanti riguardo Audrey e la possibilità che cambiasse casa. Inoltre c’era
il fatto che lei aveva accettato il suo invito a uscire. Avrebbe voluto
scriverle subito, ma non era esattamente l’idea migliore. Mentre aspettava il
treno sulla banchina, il ragazzo si ritrovò a pensare che forse era ora di dire
a Audrey come stavano le cose. Lui non aveva ancora capito alla perfezione cosa
provava per lei, ma era chiaro che andasse oltre la simpatia. Forse avrebbe
potuto chiederle di iniziare a frequentarsi, andare a Camden Town il sabato
mattina, a qualche concerto insieme, cose del genere, un po’ più impegnative di
bere una birra o un caffè insieme.
Mentre lo sferragliate del mezzo sulle rotaie lo
intontiva un po’, Peter si chiese se Audrey fosse impegnata o meno. Si rese
conto di non saperlo. Una volta credeva fosse Oliver il suo ragazzo, ma lei lo
aveva fatto ricredere praticamente subito della cosa. Tuttavia dopo non aveva
avuto altro modo per scoprire se nella vita di Audrey ci fosse o meno qualcuno.
Pensò di no, dopotutto aveva accettato il suo invito a bere qualcosa subito, ma
poi si disse che forse – anzi, certamente – lei poteva essere una di quelle
ragazze che crede nell’amicizia fra uomo e donna e quindi che non si faceva
alcun problema a uscire con un ragazzo solo per bere qualcosa. Capì di essere
punto e a capo e pensò che l’unica soluzione fosse chiederlo a lei
direttamente, magari con le debite forme.
Entrò in casa, salutando i coinquilini appena si
chiuse la porta alle spalle. Di rimando sentì solo la voce di Damian,
proveniente dalla cucina. Lo raggiunse subito e trovò l’amico seduto al tavolo
con una serie di fogli sparpagliati sul tavolo e il tablet acceso. Il suo volto
si illuminò alla vista di Peter. «Guarda qua. Ho trovato un sacco di annunci
interessanti» esclamò.
L’illustratore si sentì sbiancare appena capì cosa
stava facendo l’amico. «Che ti salta in mente?» lo ammonì. «Sai bene che non
dobbiamo far sapere che stiamo cercando casa.»
Si guardò intorno, quasi aspettandosi di vedere le
coinquiline comparire da un momento all’altro. Non voleva che Veronica e Iris –
specialmente Iris – scoprissero prima del tempo che lui e Damian avrebbero
lasciato la casa.
«Rilassati. Non sono in casa. Non hai nulla di cui
preoccuparti.»
«Sì, beh, preferirei comunque che facessimo questo
genere di cose in camera tua» proseguì Peter. Non si era ancora tolto la
giacca, né lo zaino. Non si sarebbe sentito tranquillo finché non avesse visto
tutti quegli annunci sparire dalla cucina. Lui e Damian portarono tutto nella stanza
di quest’ultimo, luogo che Peter preferì di gran lunga alla sua perché lì Iris
non aveva l’abitudine di entrare senza prima aver bussato. Una volta essersi accertato
che tutto il materiale compromettente era al sicuro, l’illustratore andò a
cambiarsi e a prendere qualcosa con cui placare i primi morsi della fama,
dopodiché tornò da Damian.
«Allora, guarda qua» esordì l’amico, sollevando una
lista di case e indirizzi stillata di suo pugno. Peter la scorse da cima a
fondo. C’erano in tutto una decina di offerte, tutte nelle zone di Plaistow e West Ham.
«Ho fatto una freccetta vicino a quelle che mi
sembravano le migliori» proseguì l’amico.
Peter allora si concentrò su quelle a cui lui si stava
riferendo. Erano tutte a un prezzo ragionevole, una di loro, però, costava
mensilmente molto meno delle altre. «Come mai quella in Florence Rd. costa così poco? È una bettola?» domandò perplesso l’illustratore.
«Oh no, niente del genere. L’annuncio è abbastanza
recente, solo che la proprietaria affitta a tre persone. La casa è molto bella,
ti faccio vedere.»
Senza aspettare alcuna risposta, Damian prese il
tablet e risalì su internet alla casa in questione, mostrandola a Peter. Era
una piccola casa su due piani; la zona era tranquilla e i vicini “socievoli e
tranquilli” – così recitava l’annuncio – ed era libera da subito, indicata per
tre persone. Le stanze erano spaziose e molto luminose e vi erano tre camere da
letto singole. Il bagno non era particolarmente grande, ma tutto il resto sì.
Per il costo mensile che aveva a Peter parve una reggia.
«È davvero a buon prezzo» osservò, guardando le foto
una seconda volta.
«Vero? Potremmo organizzare un incontro con la
proprietaria. Andare a vedere la casa e chiedere informazioni, non costa niente
dopotutto.»
«Sì sono d’accordo» rispose Peter, sovrappensiero.
Stavano parlando di una casa per tre persone. Tre luminose stanze singole nella
zona di Plaistow. Un’idea gli balenò improvvisamente
in testa e si ritrovò a pensare a Audrey. Anche lei stava cercando casa e più o
meno nella stessa zona. Magari avrebbe potuto renderla partecipe della cosa,
chiederle se aveva voglia di andare insieme a lui e Damian a vedere la casa e,
perché no, chiederle se era interessata a essere il terzo inquilino nel caso le
fosse piaciuta. Aveva appena finito di formulare quel pensiero che subito si
sentì stupido. Stava esagerando. Forse tutta quella storia gli stava sfuggendo
di mano. Audrey ancora non sapeva se davvero voleva cambiare o meno casa e lui
già stava pensando di chiederle di andare a vivere insieme: era un po’ troppo.
Inoltre chi gli diceva che lei sarebbe stata d’accordo? Erano amici, vero, ma
forse non così tanto da ritrovarsi catapultati a vivere sotto lo stesso
tetto.
Peter costrinse il suo cervello a fermarsi, a smettere
di vorticare così velocemente intorno a una questione del genere. C’era solo il
rischio di peggiorare tutto, di andare a rovinare un rapporto così piacevole
come quello che era riuscito a instaurare con la pianista.
«Allora? Va bene?»
La voce di Damian lo risvegliò dai suoi pensieri.
Peter sollevò lo sguardo sull’amico, intento a fissarlo, in attesa.
«Ehm, cosa? Stavo leggendo qui, scusami» inventò
prontamente lui, indicando il tablet.
Damian non si scompose. «Dicevo che se vuoi posso
provare a sentire la signora per un appuntamento e andare a vedere la casa. È
per tre inquilini, ma avere un terzo aiuta decisamente a far scendere le spese.
Poi la casa è grande a sufficienza per tutti.»
L’illustratore sorrise divertito. «Hai preso proprio a
cuore questa faccenda» gli fece notare.
Anche Damian sorrise, con fare vittorioso. «Beh, alla
fine ho scoperto che non mi dispiacerebbe cambiare un po’. E magari spostarmi
in un posto meno trafficato di questo» disse, alludendo alla loro attuale casa.
«Inoltre non posso certo lasciarti da solo. Chissà in che casini andresti a
cacciarti» concluse, sornione.
Peter scoppiò a ridere alle parole dell’amico. Appena
ebbe finito, però, sentì al piano inferiore la porta d’ingresso chiudersi. Iris
o Veronica – o entrambe – dovevano essere rincasate. L’illustratore si alzò,
deciso a rientrare nella sua stanza. Diede un colpetto agli annunci dell’amico
e abbassò la voce: «Fai sparire questi e prova a sentire da quella signora.»
«Sì capitano» replicò l’altro con un sorriso,
simulando un saluto militare. Riordinò in fretta tutte le carte e le fece
sparire in uno dei cassetti della sua scrivania. Peter gli lanciò un’occhiata d’intesa
e si avviò fuori dalla camera, diretto verso la sua stanza. Mentre scendeva le
scale sentì le voci di entrambe le coinquiline e si affacciò alla cucina per
salutarle con fare disinvolto, dopodiché andò in camera sua e si chiuse la
porta alle spalle. Dallo zaino estrasse matite, blocco da disegno e acquerelli,
deciso a disegnare qualcosa. Stava ancora pensando a tutta la faccenda della
casa, del trasferimento, addirittura della sua temporanea idea di chiedere a
Audrey se fosse stata interessata a essere la terza inquilina. Si disse che non
aveva senso farsi tutte quelle domande senza basamenti certi, specie riguardo la
pianista. Aveva un appuntamento con lei la sera seguente, ne avrebbe
approfittato per chiederle qualche informazione in più.
Come sempre fu la prima linea tracciata sul foglio a
fargli smettere di arrovellarsi il cervello. Appena la grafite posò la sua
punta smussata sulla carta, un fiume in piena di immagini inondò la mente di
Peter. Smise quasi di pensare e si concentrò solo sul disegno.
Audrey e Peter si erano incontrati a metà strada. Il Thistles era colmo di persone, un chiacchiericcio continuo
anche a meno di un’ora dalla chiusura. I due ragazzi erano seduti in un
piccolo tavolo addossato alla parete, sotto una delle finestre. Avevano
entrambi davanti una birra – IPA per Peter, Lager per Audrey – e un cestello di
patatine fritte appena uscite dalla cucina. Erano lì da più di un’ora. In
quel lasso di tempo aveva parlato del più e del meno, passando dal cinema ai
risultati dell’ultimo week-end di rugby. Riguardo all’argomento “casa”,
però, Peter non era ancora riuscito a trovare alcun pretesto per poterne
parlare. Pensava fosse ugualmente piacevole il tempo che stava trascorrendo in
compagnia della pianista, a conversare di qualsiasi cosa passasse loro per la
mente. Tuttavia, quando diede uno sguardo all’orario e vide di avere sempre
meno tempo a disposizione, decise che era ora di prendere la situazione in
mano. Appena Audrey si interruppe, ponendo fine al discorso che i due avevano
iniziato poco prima, Peter capì che quella era l’occasione giusta e, forse, l’unica
che gli si sarebbe presentata.
«Sai che stavo pensando anche io di trasferirmi?»
esordì, con tono tranquillo, quasi disinteressato.
Audrey si bloccò, lasciando sospesa a mezz’aria la
patatina che aveva pescato dal cestino. Guardò il ragazzo con gli occhi
spalancati, il loro azzurro reso molto più scuro dalla luce elettrica. «Sul serio?»
domandò. Riprese a mangiare dopo la sorpresa iniziale.
Peter si strinse nelle spalle, assumendo l’espressione
di chi aveva ponderato a lungo sulla propria decisione. «Sì. Ne stavamo
discutendo già da un po’» mentì. Pensò fosse una soluzione accettabile optare
per la “mezza verità”; una parte di sé era fortemente imbarazzata all’idea di
far sapere alla pianista che la sua improvvisa fissazione di trasferirsi fosse
nata dopo che lei gli aveva raccontato le sue intenzioni. Prima o poi, però,
avrebbe dovuto fare qualcosa a riguardo.
La ragazza annuì, lasciando intendere che aveva capito
la situazione. «Vi sistemate?» domandò Audrey, fra una patatina e l’altra.
«Chi?» chiese in risposta Peter. Corrucciò la fronte
quando iniziò a sospettare la piega che stava prendendo la conversazione. Aveva
appena capito a chi si stava rivolgendo la pianista che lei confermò il suo
sospetto: «Non so, tu e Iris. Credevo steste insieme» disse, ma dal modo in cui
aveva pronunciato la frase lasciò intuire che non ne era più molto sicura.
Peter fu particolarmente bravo a mantenere l’autocontrollo,
al punto da complimentarsi con se stesso. Finì di bere un goccio della sua IPA
e si lasciò addirittura sfuggire un sorriso disinvolto. «No, no. Non sei la
prima che me lo chiede, ma non stiamo insieme.»
Fece particolare attenzione alla reazione di Audrey,
in cerca di qualche segno, qualche lieve movimento del corpo in grado di
indicare qualcosa – un interesse, sollievo – da parte della ragazza, ma lei non
si scompose. Aveva solo sollevato le sopracciglia, assimilando le sue
parole.
«Pensa un po’» si limitò a dire lei. «Ho frainteso
tutto allora, scusami.»
Mentre Peter le diceva che non aveva motivi per
scusarsi si ritrovò a tirare mentalmente un sospiro di sollievo. Aveva
sospettato il fatto che la pianista credesse che fra lui e Iris ci fosse
qualcosa, si sentì sollevato da un peso per averle fatto scoprire che non era
così.
«Cambiamo casa io e Damian. Volevamo cercare qualcosa
solo per noi, al massimo con un terzo inquilino.»
Audrey trattenne una risata, ma capì dallo sguardo di
Peter che lui l’aveva ugualmente notata. «Scusa» disse, sorridendo a un
pensiero tutto suo. «È che da come l’hai detto adesso sembra che la coppia
siate tu e Damian.»
L’illustratore ripensò alle sue parole, infine si
finse sconvolto. «Cielo. Ora capisco quelle strane allusioni che fanno ogni
tanto» scherzò.
Audrey scoppiò a ridere comprendendo la battuta e
Peter ebbe tutto il tempo per assaporare quella sua risata così leggera, che
gli piaceva particolarmente.
«E dove state cercando?» chiese poi lei, appena smise
di ridere, tornando seria a concentrarsi sulla conversazione.
«Stiamo guardando in vari punti. A Damian però piace la
zona in cui siamo, pensavamo di avvicinarci giusto un po’ alla città. Ha
trovato alcuni annunci interessanti in zona Plaistow.»
«Anche io» esclamò la ragazza, quasi illuminandosi a
sentir pronunciare quella zona di Londra. «Ho già telefonato per chiedere la
disponibilità a vedere una casa. Vado sabato, nel primo pomeriggio.» Rifletté
un momento, scavando nella memoria per ricordare l’indirizzo. «Solo non ricordo
più la via. La proprietaria è molto gentile, disponibilissima. In verità la
casa è per tre inquilini, ma è davvero a buon prezzo, quindi ho pensato di
provare ugualmente a sentire. Magari sono fortunata e trovo delle inquiline
simpatiche» concluse, con un’alzata di spalle.
Peter prestò particolare attenzione a quanto gli aveva
detto Audrey. La zona di Londra e la descrizione della casa sembravano quasi
coincidere con quella che Damian aveva individuato e per cui gli aveva
detto di fissare un appuntamento. Tuttavia le possibilità che parlassero della
stessa casa erano davvero remote. A Londra c’erano centinaia di case in affitto
e molte anche nella zona di Plaistow. Oltretutto
Audrey aveva parlato di coinquiline con una tale naturalezza che,
probabilmente, lei era l’ultima persona che sarebbe entrata, a differenza della
casa che stava guardando con Damian. Accantonò subito la questione, ma si
scoprì ugualmente felice nel constatare che, anche se avesse cambiato casa – o l’avesse
fatto Audrey, o entrambi – sarebbero comunque stati vicini a sufficienza per
non rinunciare ai loro rientri in metropolitana o alle loro uscite occasionali.
In quel momento, per motivi che si spiegò a malapena,
Peter raggiunse la conclusione che Audrey doveva essere single. Non aveva mai
alluso ad alcun ragazzo; non solo per la questione della casa, ma anche altre
volte. Non aveva fatto un nome per un partner delle partite di rugby, non uno
con cui andare a vedere l’ultimo uscito di Star
Wars, o anche solo per rimanere al caldo fra le
mura di casa. Da un lato era quasi sorpreso della cosa, dall’altro si disse di
non convincersi troppo di quella sua supposizione. Audrey aveva qualità
sufficienti per piacere a chiunque – chiunque cercasse una ragazza colta,
almeno – ed era davvero graziosa; per tale ragione lui trovava curioso non
avesse ancora trovato nessuno. Curioso e quasi sospetto, perché poteva essere
che il motivo principale fosse una scelta della pianista che, come molte donne
prima di lei, aveva dato la precedenza alla carriera.
«Pensa se finiamo con l’essere vicini di casa.»
La battuta di Audrey risvegliò Peter dai suoi
pensieri, che scacciò in fretta così da potersi concentrare solo su di lei. Le
sorrise, lasciando intendere che quella battuta, se fosse diventata realtà un
giorno, non gli sarebbe affatto dispiaciuta. Anzi, tutto il contrario.
*
Il sabato, intorno alle due e trenta del pomeriggio,
Peter e Damian stavano facendo il loro primo giro di perlustrazione in quella
che sarebbe potuta diventare la loro nuova casa, in Florence Rd.
Damian aveva preso particolarmente a cuore la
questione del trasferimento, per motivi che a Peter sfuggivano. L’illustratore
pensò che, con molta probabilità, l’amico si fosse stancato di condividere la
casa con due donne. Non era semplice convivere con Iris e Veronica, in effetti.
Forse era davvero ora che lasciassero quella casa.
Quella che stavano guardando in quel momento, poi,
parve perfetta a entrambi. Aveva tre camere singole, perciò ognuno avrebbe
avuto la sua stanza ed era in una zona tranquilla, non molto lontano dalla
District line. Vista la posizione rispetto alla linea metropolitana sia Damian
sia Peter avrebbero impiegato decisamente meno tempo per andare nei rispettivi
luoghi di lavoro. Era solo la prima casa che guardavano ma già entrambi erano
convinti fosse quella giusta. Sulla scelta, molto sarebbe dipeso dal terzo
inquilino e, proprio per tale ragione, era abbastanza complicato trarre subito
delle conclusioni.
I due amici tornarono nel soggiorno con angolo
cottura, dove la padrona di casa li stava aspettando.
«Come vi sembra?» domandò lei appena rivide comparire
i due giovani.
«È splendida, dico davvero» rispose un Damian
raggiante, lanciando un’altra occhiata in giro.
La donna sorrise al suono di quelle parole. «Se non
siete di fretta, a breve dovrebbe arrivare anche una ragazza che mi ha chiesto
di vedere la casa» li informò poi.
«Una ragazza?» domandò Peter. Il suono di quella
parola lo aveva fatto scattare d’improvviso.
«Sì, dovrebbe arrivare a momenti per vedere una delle
stanze» rispose la donna. Non fu in grado di percepire la forte sorpresa nella
voce di Peter, il cui cervello, inoltre, aveva preso a fare congetture con una
rapidità invidiabile.
«Lei ha preferenze sul tipo di affittuari?» chiese
Damian alla proprietaria. C’era tanta innocente curiosità nella voce del
ragazzo, al punto che la sua domanda così scomoda – per quanto legittima –
perse completamente ogni possibile inclinazione negativa.
«No, affatto. Tutti uomini, tutte donne, misti. Per me
è indifferente. L’importante è che la casa venga trattata con rispetto» rispose
calma la donna.
Damian replicò a sua volta, dicendo che la signora
aveva perfettamente ragione e aggiungendo qualche altra affermazione con un
tono così gioviale da renderlo in grado di essere l’inquilino perfetto perfino
di Buckingham Palace. Peter, invece, rimase fuori da quel pacato scambio di
pareri, la mente che si arrovellava sugli ultimi avvenimenti.
«E questa ragazza che sta arrivando, invece?» sentì d’improvviso
domandare a Damian.
«Oh è molto gentile. È una ragazza giovane che ha da
poco deciso di cambiare casa e ha trovato questa. Mi ha detto che non ha
problemi per quanto riguarda i coinquilini, purché siano persone affidabili.»
Forse c’era un lieve monito dietro quell’ultima parola. «Mi ha anche detto che
è una musicista e spera che la cosa non crei problemi.»
Quell’ultima frase fu in grado di scatenare le fantasie
di Peter come null’altro sarebbe riuscito a fare. La ragazza che stava
arrivando aveva deciso di cambiare casa da poco, molto gentile e, cosa più
importante di tutte, era una musicista. Al tempo stesso Audrey aveva
appuntamento per visitare una casa per tre persone quello stesso giorno, più o
meno allo stesso orario e in quella zona di Londra. Le cose collimavano a tal
punto che pensare a una coincidenza sarebbe potuto essere un grossolano errore.
Peter si sentì scalpitare all’idea di scoprire se la ragazza in questione fosse
Audrey o meno, ma fece del suo meglio per apparire impassibile. Sarebbe stato
davvero il colmo se la pianista fosse diventata la terza inquilina di quella
casa.
Si sforzò di inserirsi nella conversazione fra Damian
e la padrona di casa, ma alla prima osservazione che fece, il campanello di
casa trillò.
«Dev’essere lei» disse la donna, avviandosi ad aprire
la porta. Avrebbe voluto farlo Peter, sarebbe stato divertente andare ad aprire
a Audrey e poi farsi trovare inaspettatamente lì. Ormai non aveva dubbi sul
fatto che sarebbe stata la pianista a varcare la soglia di casa dietro alla
donna. Quando quest’ultima ricomparve, stava parlando con la nuova arrivata,
che sbucò dalla porta subito dopo.
E non era Audrey.
Era una ragazza dai capelli scuri e liscissimi,
vestita in modo casual; il giacchino di pelle era aperto su una felpa rossa,
dagli strappi dei jeans a sigaretta si poteva percepire il chiarore della sua
carnagione.
Decisamente non era Audrey. Peter sentì la delusione
montare ed era piuttosto certo che chiunque avrebbe potuto intuire dalla sua
espressione che la vista della nuova venuta non era stata esattamente di suo
gradimento.
«Lei è Evangeline.»
La padrona di casa fece le presentazioni del caso e i
tre possibili inquilini si scambiarono una stretta di mano. Peter trovò la
stretta della ragazza molto forte; doveva essere una persona sicura di sé.
Nonostante la delusione iniziale per il fatto di
essersi convinto inutilmente della cosa sbagliata, l’illustratore ebbe un’ottima
prima impressione di Evangeline. Dopo che lei ebbe avuto modo di visionare la
casa stanza per stanza, i tre si erano messi a conversare, parlando
principalmente della loro occupazione e del motivo per cui stavano cercando una
nuova sistemazione. Evangeline si dimostrò una ragazza molto alla mano e
spigliata, due caratteristiche che a Peter erano sempre piaciute molto. Aveva
ventiquattro anni e attualmente lavorava come barista in un pub vicino a Notting Hill dove riempiva eventuali buchi lasciati dai
gruppi suonando la chitarra e cantando – per questo aveva detto di essere una
musicista.
Quando, circa un’ora dopo, Damian e Peter andarono
verso casa ne stavano ancora parlando.
«Che ne pensi?» chiese Damian. «La casa la trovo quasi
perfetta. E anche Evangeline potrebbe essere una buona coinquilina. Mi sembra
affidabile.»
«Sì, lo sembra anche a me. Però forse dovremmo
guardare altre case prima di decidere» gli fece notare Peter. Quella gli era
piaciuta, vero, ma non aveva senso puntarla subito quando vi era ancora la
possibilità di visionarne altre. Anche Damian lo sapeva, ma lui era fatto così:
quando qualcosa gli piaceva molto, si focalizzava quasi esclusivamente su
quella.
«Sì, ovvio. Mi trovi d’accordo, lo sai» lo rassicurò
Damian. «Chiamerò per qualche altro annuncio e poi decideremo. Sai una cosa?»
domandò poi, retorico. «Questa cosa di cercare una casa mi sta piacendo
parecchio, avremmo dovuto farlo prima.»
Si poteva percepire perfettamente l’eccitazione per
qualcosa di nuovo nella voce dell’amico, ma Peter non ci fece molto caso. Era
tornato con la mente al momento esatto in cui si era convinto avrebbe visto
Audrey sbucare dietro la padrona di casa per diventare la loro possibile,
nuova, coinquilina. Quel momento era diventato per lui un segnale, forse uno
dei più evidenti dell’ultimo periodo. Il ragazzo si lasciò sfuggire un sospiro
fra sé, finendo col mordersi il labbro inferiore. Capì che era ora di smetterla
di rimandare e decise di fare qualcosa. Cosa, ancora, non lo sapeva affatto, ma
in quel momento trovò sufficiente determinazione dentro di sé in grado di
dirgli che qualcosa di efficace sarebbe stato in grado si farlo.
Audrey stava spostando il peso da una gamba all’altra
con fare nervoso. Teneva l’ombrello con entrambe le mani, mentre l’acqua
continuava a scendere dal cielo grigiastro. Di tanto in tanto le persone che le
passavano accanto sul marciapiede toccavano il suo ombrello con i loro,
lasciando cadere gocce un po’ ovunque. Era ferma a pochi metri dall’ingresso
della stazione di Tower Hill, in attesa di Peter. Tuttavia non era da sola.
Insieme a lei, infatti, c’era Clint.
All’uscita dal Menier Chocolate Factory, la pianista
non era riuscita a trovare una scusa efficace per impedire al ragazzo di
accompagnarla fino alla stazione della metro. Il suo era stato un bel gesto,
dopotutto, al punto che le era parso maleducato declinarlo senza una reale
ragione. Fatto sta che, a breve, Peter sarebbe arrivato e lei sarebbe andata
insieme a lui a prendere un caffè li vicino, come aveva proposto il ragazzo il
giorno prima.
La pianista si rese conto che stava totalmente
ignorando Clint. Lo guardava, certo, ma, come accadeva spesso, la sua mente era
focalizzata su altro, al punto da non riuscire a seguire il filo del discorso
del violoncellista in modo corretto. Stava parlando di musica, su questo Audrey
non aveva dubbi; Clint parlava spesso di musica.
La pianista fece vagare un momento lo sguardo, giusto
in tempo per riuscire a notare Peter che si avvicinava fra le persone. Riuscì a
individuare la sua ormai familiare figura alle spalle di una coppia di
passanti, gli ombrelli dei due tenuti bassi per ripararsi dall’acqua.
Anche l’illustratore notò Audrey – il suo ombrello
giallo spiccava sempre in mezzo a tutti gli altri – ma quando si accorse che
non era sola, qualcosa in lui scattò. Si ritrovò ad analizzare Clint prima
ancora di averlo raggiunto. Era un ragazzo ben vestito, dall’aspetto colto, uno
di quelli che gesticolava durante la conversazione. Qualunque cosa stesse
dicendo, Peter pensò fosse ricercata, per lo meno vista la sua
espressione.
Una morsa invisibile serrò per un momento lo stomaco
del ragazzo, lo fece appena il suo cervello si ritrovò a sospettare che potesse
trattarsi del ragazzo di Audrey – o di quello con cui usciva a attualmente. A
ogni modo cercò di non dare nell’occhio e proseguì in direzione della pianista,
raggiungendola con gli ultimi, brevi, passi.
Appena fu da lei, Audrey lo salutò, ricevendo di
rimando gli stessi convenevoli dall’illustratore. A quello, tuttavia, seguì un
breve istante di silenzio; un istante solo, ma in grado di smascherare un
imbarazzo generale.
«Ti presento Clint» disse infine Audrey, rompendo quel
clima. «Suona anche lui nell’orchestra del Menier Chocolate Factory.»
I due ragazzi si scambiarono una stretta mentre la
pianista proseguiva dicendo: «Lui è Peter» senza aggiungere altro.
«Anche tu musicista, cosa suoni?» domandò poi Peter.
Non era realmente interessato a saperlo, solo non voleva dare una cattiva
impressione di sé, non davanti a Audrey, almeno.
«Il violoncello.»
«Clint è molto bravo. Uno dei migliori che conosca» si
sentì in dovere di dire per lui la pianista. Peter annuì con il capo a quelle
parole, le quali lasciarono intendere al ragazzo che forse c’era davvero
qualcosa di più di una loro semplice collaborazione nella stessa orchestra.
«Tu invece, che lavoro fai?» chiese di rimando Clint.
«Sono un illustratore. Lavoro per uno studio e per
qualche privato quando mi trovano.»
«Sembra bello.»
Audrey rimase in disparte durante quel veloce scambio
di frasi fatte. I primi dialoghi avevano sempre del penoso in quanto forzatura.
Appena Peter spostò un momento lo sguardo sulla ragazza, lei colse l’occasione
al volo. «Andiamo a bere qualcosa?» chiese, indirizzando chiaramente a lui la
domanda.
«Certo» rispose con un sorriso, poi si rivolse a
Clint. «Ti unisci a noi?»
Era abbastanza sicuro di aver fatto una buona azione.
Non voleva che, escludendo Clint, Audrey si fosse risentita. L’idea di avere il
violoncellista intorno proprio in quel momento non lo faceva impazzire. Aveva
chiesto a Audrey di andare a prendere qualcosa per chiedere alla pianista se le
andava di provare a frequentarsi, frequentarsi seriamente, così da cercare di
capire se per la loro attuale amicizia ci fosse qualche possibilità di vederla
evolvere a un livello più alto e articolato. Tuttavia la presenza di Clint
aveva cambiato ogni cosa. Non aveva senso chiedere a Audrey di provare a
costruire qualcosa se lei era già impegnata. Oppure se Clint era arrivato
prima. Magari un caffè con entrambi avrebbe potuto aiutarlo a chiarire un po’
la situazione.
Non notò l’occhiata che la pianista gli lanciò. Non
avrebbe neanche dovuto sospettarla, dopotutto. Ciò, però, non tolse che Audrey
lo fulminò con lo sguardo, maledicendo l’espansività del ragazzo. Tuttavia
riuscì a ricomporsi giusto un istante prima che gli sguardi dei due ragazzi
convergessero su di lei. Si esibì in uno dei suoi sorrisi migliori e si disse d’accordo
con l’idea di Peter. In verità non aveva alcuna voglia di prendere un caffè
anche con Clint, già il fatto che lui si fosse offerto per accompagnarla
immotivatamente fino alla fermata della metro non le era andato molto a genio.
Prenderci anche un caffè le parve troppo. Solo non sapeva cosa dire per uscire
degnamente da quella situazione e decise di lasciare perdere – ma solo per quella
volta.
Con Clint al seguito, Peter e Audrey raggiunsero lo
Starbucks caffè in cui erano andati a bere qualcosa per la prima volta. Fu un
sollievo per tutti e tre togliersi dalla strada e poter chiudere gli ombrelli,
sebbene la pioggia stesse calando.
Ordinarono le rispettive bevande e si sistemarono a un
tavolo accanto alle vetrate. La conversazione ci mise un po’ più del consueto a
iniziare. Tutti e tre erano piuttosto in imbarazzo per la situazione, ma alla
fine Peter riuscì a rompere il ghiaccio nel modo in cui gli riusciva meglio:
con una battuta. Da lì le parole cominciarono a uscire, rincorrendosi in frasi
e dando il via a un vero e proprio dialogo.
Clint parlò molto nonostante fosse la prima volta che
incontrava l’illustratore, cosa che Audrey già si aspettava, dal momento che
conosceva il violoncellista. Non che si persero in chiacchiere molto
articolate, ma di tanto in tanto Clint ci teneva a dare sfoggio delle sue
conoscenze con qualche osservazione o precisazione eccessivamente puntuale.
Peter, però, anziché apparire infastidito dalla cosa ne sembrava più
entusiasta, dando corda all’altro. Ogni volta che quella scenetta si ripeteva,
Audrey lanciava uno sguardo torvo a Peter, cercando quasi di fargli capire che
avrebbe fatto meglio a smetterla. Tuttavia il ragazzo non lo capì mai; quando
incrociava lo sguardo della pianista lo interpretava nel modo peggiore,
pensando addirittura di star facendo la cosa giusta. Fu proprio la sua errata
interpretazione di quello sguardo a fargli intendere che Clint potesse davvero
rappresentare qualcosa in più per Audrey.
«Come procede con la casa?» domandò di punto in bianco
la ragazza, rivolgendosi a Peter. Così facendo pensò che sarebbe riuscita a far
tacere Clint per un po’ – a meno che lui non avesse voluto esporre il suo
parere anche su quella faccenda. Peter e Audrey si erano tenuti aggiornati
circa le rispettive ricerche di una casa nuova. Nelle ultime due settimane, la
pianista aveva visionato diverse case e ne aveva trovata una che soddisfaceva
pienamente le sue richieste. La zona era circa la stessa in cui viveva ora, la
casa era di poco più grande rispetto alla sua e l’inquilina che già ci abitava
era molto disponibile e alla mano. Tuttavia Audrey non era ancora del tutto
sicuro, al punto che stava lasciando scorrere tempo e giorni preziosi e ancora
non aveva deciso se trasferirsi o meno. Peter, al contrario, aveva fermato la
casa di Florence Rd. insieme a Damian. Quasi fosse
stato studiato in precedenza, la terza persona con cui avrebbero convissuto era
Evangeline, la ragazza che avevano conosciuto il giorno in cui avevano visitato
la casa la prima volta.
Peter le aveva rivelato di essere piuttosto esaltato
all’idea di trasferirsi, ma aveva anche ammesso che dirlo a Iris era stata la
parte peggiore. In uno slancio di altruismo, Damian aveva acconsentito a
prendersi le responsabilità di tutto, dicendo a Iris e Veronica che il voler
cambiare casa era stata una sua decisione e che aveva insistito con Peter al
punto di prenderlo per sfinimento. L’illustratore era rimasto perplesso davanti
a quella situazione, ma non aveva accennato a dire nulla in grado di smentire
la fittizia versione dell’amico. Tuttavia, dal momento che loro due avevano
preso quella decisione senza neanche consultarsi con le coinquiline, avevano
finito con il prendere un accordo: le avrebbero aiutate a trovare delle nuove
inquiline. Per loro fortuna erano bastati pochi giorni per iniziare ad avere i
primi riscontri positivi – più o meno gli stessi che loro due avevano impiegato
per decidere in che casa vivere.
Inutile dire, però, che le cose si erano complicate
dopo che Damian aveva dato l’annuncio. Iris era diventata intrattabile; aveva
preso la questione particolarmente male – e sul personale – al punto di
arrivare a trattare con freddezza i due futuri ex coinquilini. Per Peter fu
strano per il primo paio di giorni, poi si si era arreso all’idea che se Iris
non si fosse dichiarata in tempi brevi, non avrebbe mai avuto motivo di
respingerla; a meno che non si fosse immaginato tutto, ma lui era piuttosto
sicuro di aver intuito bene come andavano le cose fra loro due.
Tutta questa serie di vicende scorse rapida nella
testa dell’illustratore, il quale concluse stringendosi appena nelle spalle. «Procede
bene, grazie» rispose. «Abbiamo firmato le carte, ieri. Penso che alla fine
della prossima settimana saremo pronti per trasferirci.»
«Perfetto allora. Sta per arrivare il grande giorno.
Dopo possiamo trovarci direttamente sulla District line» disse ridendo Audrey.
Peter replicò con un sorriso a sua volta, ben
consapevole che la ragazza avesse ragione. In un certo senso il cambio di casa
li aveva avvicinati. Il ragazzo, infatti, non avrebbe più dovuto prendere la
linea verde solo per trascorrere un po’ più di tempo con Audrey, ma avrebbe
dovuto prenderla proprio per rincasare la sera. Era contento che, nonostante
tutto, le cose non sarebbero cambiate. In quei tre mesi, dopo aver conosciuto
Audrey, ciò che la riguardava era diventato come una sorta di abituale routine.
Arrivato a Tower Hill station non proseguiva più direttamente verso i binari
senza fermarsi ad ascoltare la pianista suonare e non era più di fretta.
Metteva in pausa la musica dal momento in cui sentiva la prima nota del
pianoforte in lontananza e premeva nuovamente play solo dopo che il loro ultimo
saluto, a Withechapel, era stato assimilato
totalmente dalla sua testa. Aveva finito con l’imparare a memoria prima City of Stars e poi l’epilogo di La La Land,
quelle partiture che lui aveva regalato a Audrey e che, adesso, lei suonava tutti
i giorni, diventando ogni volta più brava della precedente. Peter era certo di
non essere l’unico ad averlo notato: intorno a Audrey e al pianoforte di Tower
Hill, c’erano sempre più persone e molte di esse facevano dei video per
immortalarla suonare. Non che fosse sorpreso della cosa, anzi, era tutto il
contrario.
Dato che la ragazza aveva tirato in ballo la questione
del trasferimento, Peter pensò di chiederle se avesse preso una decisione per
quanto riguardava la sua situazione, ovvero se trasferirsi o cercare un
coinquilino nel suo appartamento di Chadd Green, ma
fu preceduto dalla suoneria del telefono di Audrey.
La ragazza estrasse il cellulare dalla borsa e osservò
lo schermo, corrugando la fronte. La chiamata proveniva da Glasgow e lei non
conosceva nessuna persona che vivesse nella città scozzese – né in alcuna lì
vicina. La probabilità maggiore era che si trattasse di qualcuno che aveva
sbagliato numero.
«Scusate solo un momento» disse rivolta agli altri due
presenti, decidendo di rispondere. «Sì, pronto?» domandò appena si fu portata
lo smartphone all’orecchio.
Dall’altra parte la risposta arrivò subito, con voce
chiara e sicura: «Parlo con la signorina Audrey Wright?»
La pianista rimase interdetta per un momento al punto
da chiedersi chi potesse volutamente contattarla dalla Scozia, terra in cui non
conosceva nessuno. Rispose affermativamente alla domanda che le era stata
rivolta, ma c’era dell’incertezza nella sua voce, nota che Peter riuscì a
individuare subito. Il ragazzo rimase a guardare Audrey farsi sempre più
perplessa mentre rispondeva con alcuni “sì” alle domande che di certo stavano
giungendo dall’altra parte.
«Sta scherzando?» chiese a un certo punto lei, ma se
ne pentì subito. Dall’altra parte, per sua fortuna, giunse una risata e la
risposta che non si trattava affatto di uno scherzo.
L’uomo che le aveva telefonato continuò a spiegarle
come stava la situazione con modi gentili e pacati, perfetti per il timbro
della sua voce. A ogni parola in più che pronunciava, la linea orizzontale che
solcava la fronte di Audrey si accentuava.
«Se lei è d’accordo potremmo risentirci domani nel
primo pomeriggio per accordarci. Intorno alle due, direi.»
«Assolutamente. Va benissimo» rispose lei. Si era
ritrovata il cuore catapultato in gola per l’emozione e si sentiva quasi all’interno
di un sogno.
Dopo i convenevoli per i saluti finali l’uomo chiuse
la chiamata e Audrey rimase a osservare il numero di telefono sullo schermo
dello smartphone finché questo non si spense. Un sorriso le affiorò alle labbra
mentre ancora faticava ad assimilare quello che era accaduto.
«È tutto a posto?» le chiese Peter. La telefonata era
stata piuttosto gioviale, ma lo stato in cui si trovava la pianista lo
confondeva alquanto.
Anche Clint si mise in attesa di una reazione di
Audrey. Lei alzò lo sguardo sui due ragazzi, li osservò entrambi quasi si fosse
dimenticata della loro presenza, infine disse, con lo stesso tono di chi non sa
ancora bene come comportarsi: «Era della BBC Scottish
Symphony Orchestra. Mi hanno vista suonare l’epilogo di La La Land alla fermata di Tower Hill. Il
loro pianista va in pensione e vorrebbero farmi un provino per sostituirlo»
alle ultime parole non fu più in gradi di trattenere il suo entusiasmo.
I due ragazzi rimasero zitti per un momento, il tempo
necessario per assimilare quanto lei aveva appena detto. Clint reagì per primo:
«Oh mio Dio, Audrey, ma è fantastico» esclamò. «Un provino per la BBC, i miei
complimenti. Sapevo che era solo questione di tempo prima che qualcuno di
quegli ambienti si accorgesse di te» continuò lui.
La pianista sorrise al suono di quelle parole;
sembrava in lieve imbarazzo, ma era raggiante. E bellissima, osservò Peter.
Quest’ultimo cercava nella sua testa le parole giuste per complimentarsi con la
ragazza, senza ricalcare quelle appena pronunciate da Clint, ma per l’improvvisa
sorpresa della notizia ci mise più tempo del previsto.
«La La Land ti ha portato fortuna» disse poi.
La ragazza posò lo sguardo su di lui, gli occhi
azzurri brillavano. «È merito delle partiture che mi hai regalato tu» gli
disse, stringendosi nelle spalle.
Peter fece lo stesso. «Ma no. Prima o poi sarebbe
successo, te lo meriti tutto. È stato solo un caso che ti abbiano sentita
suonare proprio l’Epilogo.»
Audrey non riuscì a replicare subito alle parole del
ragazzo, né al modo con cui erano state pronunciate, con quella sincerità unica
che contraddistingueva Peter.
«Conviene anche al Menier iniziare a cercare una
pianista nuova» disse poi Clint, spostando l’attenzione degli altri due
presenti su di lui.
«Ora non esagerare» rispose Audrey.
«No, no, sono d’accordo anche io» sentenziò l’illustratore,
facendo cenno affermativo con il capo. Osservò la pianista arrossire lievemente
sulle gote, non molto abituata a ricevere tante attenzioni tutte insieme. Si
sentiva felice per lei, ma un parte di sé non poté fare a meno di sentirsi
turbata. Cosa sarebbe accaduto fra loro se l’orchestra della BBC avesse assunto
Audrey come pianista? Per lei era un grande traguardo, uno di quelli
irrinunciabili e lui non avrebbe mai potuto darle torto se le mai avesse deciso
di trasferirsi a Glasgow per quel lavoro. Era la stessa situazione che avrebbe
vissuto lui: se i GAE Studios lo avessero assunto
come illustratore non avrebbe esitato un solo istante ad accettare e a
lasciarsi indietro gran parte di sé nella metropoli londinese. Si contano sulle
dita di una mano le cose in grado di far rinunciare ai propri sogni e non per
tutti sono le stesse.
Anche il cervello di Audrey continuava a ragionare,
facendosi domande su domande. Quella, forse, poteva essere la sua grande
occasione. Dopo il trasferimento di Oliver quello poteva essere un segno, una
svolta. Se l’avessero presa a suonare in quell’orchestra la sua vita sarebbe
cambiata, senza alcun dubbio e forse era davvero arrivato il momento di
cambiare un po’ rotta. Amava il Menier Chocolate Factory e le piaceva suonare
per quel teatro. Tuttavia quello che per lei era davvero importante era suonare,
nient’altro; per tale ragione, se avesse avuto la possibilità di fare ciò che
più le piaceva, ma in un contesto ancora più stimolante e unico come quello
dell’orchestra scozzese, forse le conveniva cogliere l’occasione al volo. I
suoi pensieri vennero interrotti da Clint, che le disse alcune cose,
continuando la conversazione sulla telefonata appena ricevuta dalla
pianista.
Tuttavia Peter non stava ascoltando. Dentro di lui si
era appena fatta largo una fastidiosa battaglia interiore. Una parte di sé era
felice per Audrey, ma un’altra parte di sé preoccupata. Era certo che la
pianista non avrebbe avuto alcun problema a essere presa nell’orchestra di
Glasgow, chiunque con un po’ di orecchio per la musica avrebbe notato le sue
incredibili capacità. Proprio per questo, però, si disse che avrebbe fatto
meglio a sbrigarsi. Far sì che Audrey lasciasse Londra prima che lui avesse
avuto modo di dirle quello che sentiva avrebbe potuto essere uno sbaglio.
Quando giunse il momento di trasferirsi sul serio,
Peter dovette ammettere a se stesso di non avere idea del numero esatto di
camicie di cui disponeva. Dal momento che quello era il capo principe del suo
abbigliamento era inevitabile che ce ne fossero di tutti i colori, a maniche
lunghe e corte, ma ne trovò alcune, sul fondo dell’armadio, di cui ne aveva
completamente perso memoria. Mentre le stipava in una valigia di poco più
grande di un bagaglio a mano, si arrese all’idea che avrebbe dovuto fare almeno
un paio di giri solo per i vestiti. Quando riuscì a chiudere il trolley con il
primo carico di abiti, sollevò lo sguardo su quella che per anni era stata la
sua camera da letto. Senza i suoi bozzetti sparsi ovunque, senza i post-it
appesi in ogni angolo con i suoi appunti incomprensibili, quella stanza gli
sembrava un’altra. Si sentiva un po’ giù all’idea di andarsene da lì dopo tutto
quel tempo, ma la prospettiva della casa nuova continuava a essere più
allettante. Avrebbe reso anche la sua nuova stanza – che aveva già deciso di
dipingere di verde – lo specchio di se stesso e l’avrebbe presto chiamata casa.
Al posto suo e di Damian erano in arrivo altre due ragazze, amiche di Veronica
e conoscenti di Iris, che stavano giusto cercando dove vivere per muoversi
dalla contea dell’Oxfordshire e raggiungere la
capitale. Considerando che le due future ex coinquiline di Peter sapevano già
chi chiamare per rimpiazzare lui e l’amico, al ragazzo era venuto spontanea
chiedersi per quale motivo Iris avesse sollevato tutto quel polverone quando
Damian le aveva riferito del loro trasferimento. Tuttavia aveva finito per
capire praticamente subito il vero motivo o, meglio, per sospettarlo
fortemente.
Smise di pensare a tutto ciò e andò a riempire uno dei
suoi zaini più capienti con tutto il suo materiale da disegno. Quella di
trasferirsi era stata una scelta affrettata, dettata dall’istinto e dall’impulso,
tuttavia era sempre più sicuro di aver preso la decisione giusta.
Stava riponendo con cura uno della sua moltitudine di album
di schizzi quando sentì qualcuno raggiungere la soglia di camera sua. Si voltò
giusto in tempo per vedere Iris incrociare le braccia al petto e appoggiarsi
con il fianco allo stipite della porta. La ragazza si mise a studiare Peter,
guardandolo quasi con sufficienza. Negli ultimi giorni i rapporti fra loro
si erano un po’ ricuciti, ma continuava a esserci una certa freddezza da parte
della ragazza.
Si scambiarono un’occhiata.
«Ehi» esordì Peter, rompendo il silenzio.
«Come stanno andando i preparativi?» domandò lei in
risposta.
Il ragazzo si guardò intorno, nella stanza svuotata
per metà. «Direi bene. Credo dovrò fare almeno tre giri, ma dovrei farcela a
svuotare tutto entro pochi giorni. Damian ha pensato bene di noleggiare un
furgoncino.»
Iris non disse nulla, cosa che mise Peter a disagio.
Davanti a quel silenzio il ragazzo pensò bene di rimettersi a riordinare le
proprie cose, così da evitare almeno per un po’ di continuare quell’imbarazzante
situazione di stallo. Era chino sul suo zaino, intento a mettere il più
ordinatamente possibile tutti gli astucci che vi aveva infilato sul fondo,
quando Iris parlò di nuovo.
«Tu lo sai quello che provo» disse, con un tono di
voce impossibile da decifrare.
Peter tornò a guardarla. «Sì, lo so. Ti abbiamo deluso
e mi dispiace. Ma non siamo più riusciti a ignorare questa idea» rispose,
abbozzando un sorriso.
«Non mi riferivo a questo» replicò lei,
asciutta.
Non aggiunse altro, ma l’illustratore non aveva
bisogno che lei andasse avanti per sapere a cosa si stava riferendo. Sapeva che
intendeva quello anche prima, solo che aveva voluto credere di sbagliarsi; ma
non si era sbagliato. La conversazione che stava per iniziare fra lui e la ragazza
lo preoccupava. Dopotutto aveva cercato costantemente di evitsrla,
persino il trasferimento poteva apparire più una fuga che altro. Ora che si
trovava lì, però, con Iris davanti e la questione tirata in ballo proprio dalla
diretta interessata, avrebbe fatto meglio ad affrontare la faccenda. Non aveva
nulla da perdere, in fondo. Lasciò vagare per alcuni momenti lo sguardo per la
stanza, infine prese una generosa boccata d’aria. «Che cosa dovrei dirti?
Mi...dispiace che fra di noi le cose siano finite in questo modo, dico sul
serio.» Inspirò ancora. «Ma, forse non sarebbe potuta andare altrimenti.»
«Io lo sapevo di non piacerti» disse Iris, abbassando
lo sguardo e stringendo ancora di più le braccia al petto. «È solo che una
parte di me ci sperava, tutto qui» concluse con un’alzata di spalle.
«Beh, non c’è niente di male, dopotutto.» Peter
avrebbe voluto aggiungere altro, ma proprio non fu in grado di trovare le
parole. Gli dispiaceva davvero che le cose fra lui e Iris fossero andate a quel
modo. Non era semplice avere a che fare con lei, ma nonostante tutto le voleva
bene. Lui aveva sempre creduto nell’amicizia fra uomo e donna, forse per questo
gli risultava tanto semplice legare con le persone e stringere nuove relazione,
a volte davvero durature.
Non seppe che altro dire e finì con il rimanere in
silenzio, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
«Toglimi solo una curiosità» riprese a parlare Iris. «Se
anche la tua nuova coinquilina dovesse finire per provare qualcosa per te,
scapperesti anche da lei?»
Lo sguardo della ragazza era tagliente, esattamente
come il tono della sua voce. Peter, infatti, si sentì quasi trafitto da una
coltellata in pieno stomaco. Venne invaso dal senso di colpa, ma non gli riuscì
di provare neanche il più leggero moto di collera verso la ragazza. Si morse il
labbro, pensando fra sé che lei avesse ragione. Tuttavia decise di non
rispondere a quella provocazione; era un campo minato e dal momento che aveva
già capito che fra lui e Iris le cose non erano più le stesse, trovava non
avesse senso peggiorarle ulteriormente.
«Considerando che Evangeline è lesbica, dubito possa
succedere» disse con semplicità.
Iris non parlò, ma si irrigidì appena. Peter capì
dalla sua espressione di aver superato un confine invisibile e cercò di
rimediare nel modo più sincero che conoscesse. «Comunque sia, mi dispiace per
com’è andata, dico davvero. Mi piacerebbe, però, se riuscissimo a rimanere
amici» le disse. Pensava davvero tutto ciò, non era una scusa.
A Iris, però, non parve importare. «Non sono rimasta
amica di molte persone.»
Detto ciò si sollevò dallo stipite della porta, cui
era ancora appoggiata, diede le spalle a Peter e si allontanò.
*
Il vestito celeste era piegato perfettamente quando
Audrey lo infilò in valigia, sotto lo sguardo attento di April e Sadie, sedute
rispettivamente sul letto a gambe incrociate e sulla sedia della scrivania.
Quel vestito era quanto di più simile a un portafortuna per la pianista, come
se lo spesso cotone e la lieve trama a fiori racchiudessero tutta la buona
sorte che le potesse tornare utile.
Stava preparando il bagaglio a mano con cui sarebbe
partita alla volta di Glasgow il giorno successivo, pronta per il provino alla Scottish Symphony Orchestra. Dopo la prima telefonata si
era risentita con il responsabile il giorno successivo e avevano stabilito un
colloquio per la settimana dopo, di mercoledì. Quella settimana; quel
mercoledì. Audrey aveva prenotato una camera d’albergo non molto distante dalla
stazione dei treni per due notti, decisa ad approfittare di quella situazione
anche per vedere la città. Era allettante l’idea di visitare Glasgow; la
metropoli scozzese l’aveva sempre affascinata, ma non l’aveva ancora mai
raggiunta.
Era lunedì, sarebbe partita in treno il mattino del
giorno dopo, emozionata all’idea di quello a cui sarebbe andata incontro, ma
anche alquanto preoccupata. Il provino di mercoledì avrebbe potuto influire
definitivamente sulla sua vita e, sebbene ancora non sapesse cosa avrebbe
voluto fare della sua carriera, non voleva sprecare l’opportunità che le si era
presentata. Era decisa a fare del suo meglio.
April e Sadie si erano presentate di loro spontanea
iniziativa in casa dell’amica quella sera e avevano cominciato a tempestarla di
domande circa il suo stato d’animo in vista del grande giorno; subito dopo,
poi, l’avevano aiutata a scegliere cosa indossare per il provino, sebbene
Audrey non ne avesse bisogno.
«Hai già pensato a cosa suonerai?» le chiese April,
mettendosi ancora più comoda sul letto e spostando i capelli rossi sulla spalla
destra.
«Dubito avrò la possibilità di scegliere» rispose la
pianista, sistemando in valigia qualche vestito di emergenza.
«E perché no?»
«Beh, è un’orchestra importante. Credo che la
selezione sarà severa, probabilmente vorranno vedere se sono in grado di
suonare qualcosa che non ho avuto modo di preparare prima.»
«Cioè ti danno uno spartito a caso dicendoti “suona”?»
intervenne Sadie, il tono incredulo.
«È molto probabile» rispose tranquilla Audrey. Si era
preparata a ogni eventualità, anche alla possibilità più assurda – come chiederle
di smontare il pianoforte – giusto per non lasciare trapelare alcuna emozione
possibilmente dannosa davanti a una richiesta complessa.
«Cavolo» borbottò Sadie. «È giusto il genere di cose
che serve per stare tranquilli.»
Quella frase strappò una risata a Audrey. La ragazza
provò a chiudere la valigia, notando con soddisfazione che il contenuto era
commisurato allo spazio disponibile, dopodiché si sedette anche lei sul letto,
accanto a April.
«Cosa farai se dovesse andare a buon fine?» chiese
quest’ultima, guardando la pianista.
«Perché siete tutti così ottimisti?»
«Sei tu a essere pessimista» la bacchettò Sadie.
Audrey le sorrise, ma non rispose subito. Aveva
pensato a quell’eventualità solo un paio di volte e per di più neanche in modo
tanto approfondito, quasi avesse paura di portarsi sfortuna da sola. Si era
resa conto in breve tempo di quanto tenesse a quella possibilità, di quando,
nel profondo, una parte di sé sognasse di farcela, di trasferire il proprio
futuro nella città scozzese. Tuttavia la prospettiva di lasciare Londra le
metteva addosso una sensazione spiacevole, triste. Era presto per fare
congetture, lo sapeva, tuttavia non riusciva a non immaginare cosa sarebbe
potuto accedere se tutto fosse andato per il verso giusto. Se l’avessero presa
nell’orchestra scozzese e lei avesse colto l’occasione al volo avrebbe dovuto
andarsene da Londra e una parte di sé non voleva, era evidente. In quella città
aveva stretto i legami più forti, le amicizie indissolubili; amava la
metropoli, con tutti i suoi locali, i colori, gli angoli sconosciuti ai molti.
Anche se avrebbe imparato ad apprezzare Glasgow, l’idea di andarsene la faceva
stare male. Scacciò tutti quei pensieri, dicendosi che non aveva senso farsi tanti
problemi senza neanche sapere se la BBC Scottish
Symphony Orchestra la voleva con sé, non le faceva bene.
La cosa di cui era più soddisfatta, a ogni modo, era
di non aver trovato una alternativa abitativa a casa sua. Le case che aveva
visto non l’avevano convinta e l’idea di mettere in affitto la stanza di
Olivier era sempre stata l’ultima ipotesi considerata. Così facendo era ancora
punto e a capo, come il primo giorno successivo al matrimonio. Adesso aveva un
motivo in più per non muoversi in quella direzione. Prima avrebbe visto come
sarebbero andate le cose a Glasgow, poi avrebbe scelto di conseguenza.
«Prova a pensare se dovessero prenderti» disse April. «Avrei
una scusa perfetta per venire a Glasgow a cadenze regolari» proseguì
ridacchiando.
«Per me sei già proiettata troppo avanti.»
«Io la lascerei dire. Magari ti porta fortuna»
intervenne Sadie.
Le tre si scambiarono un sorriso, dopodiché, in
seguito a un breve attimo di silenzio, Sadie chiese: «Che mi dici, Audrey,
questa può essere la tua occasione?»
La pianista la guardò, pensando. April si era zittita
di colpo e osservava l’amica, seduta accanto a lei sul letto.
«Onestamente devo ancora capirlo» ammise, tornando a
rimuginare su quanto le riempiva la testa da giorni. «Penso che prima farò
questa audizione dando il mio massimo, poi si vedrà. Sono sicura che,
indipendentemente dal risultato, il verdetto mi aiuterà ad aprire gli occhi.»
Quella risposta servì anche a se stessa; sentiva di
avere ragione. Dopotutto, vedere quell’occasione sfumare o, al contrario,
diventare realtà, le avrebbe senza ombra di dubbio consentito di trovare le
risposte ai suoi dubbi. Era sempre così, in fondo, le eccezioni erano poche.
Sadie parve soddisfatta di quella risposta, ma si
leggeva – così come in April – un velo di dispiacere all’idea di vedere l’amica
trasferirsi in Scozia. Nonostante ciò, entrambe le amiche furono molto brave a
non darlo troppo a vedere.
«Beh» disse d’un tratto Sadie, «basta parlare di te.
Questa ve la devo raccontare.»
Audrey sorrise a quelle parole. Le sue amiche erano
particolarmente brave a farla sentire bene e Sadie, soprattutto, era in grado
di leggere quanto non detto da Audrey, almeno ai livelli di Oliver.
La pianista fu contenta di avere un motivo per
cambiare argomento. Il mattino seguente sarebbe partita alla volta di Glasgow e
già sapeva che avrebbe trascorso tutte le quattro ore del viaggio a pensare e
ripensare a quello che sarebbe potuto accadere. Almeno la sera prima della
partenza, almeno con le sue amiche, voleva scollegare la mente.
L’ansia aveva avvinghiato Audrey dal primo istante in
cui aveva messo piede nel teatro dove si tenevano le audizioni della BBC
Scottish Symphony Orchestra e non l’aveva più abbandonata per la mezz’ora
successiva.
In quello splendido teatro, poco fuori il centro di
Glasgow, si erano presentate solo altre quattro persone oltre a lei, tutte con
la speranza di diventare il nuovo pianista dell’orchestra.
Audrey aveva indagato con discrezione ed era arrivata
a scoprire che tutti quelli che si trovavano lì erano stati precedentemente
contattati dai responsabili dell’orchestra stessa. Si trattava di una
selezione, dunque, una selezione a tutti gli effetti che lei aveva superato
grazie a un video comparso su YouTube in cui suonava l’epilogo di La La Land
alla fermata di Tower Hill. Trovava che la cosa avesse dell’assurdo, al punto
da farla sentire ancora più sotto pressione. Non voleva fare brutta figura, né
sminuire le proprie capacità di pianista e tutto ciò non la faceva stare calma.
Prese un lungo respiro, imponendo al suo cuore di
rallentare i battiti. Nel lungo corridoio che portava alle quinte del
palcoscenico era ormai rimasta sola, l’ultima dei quattro. Era spesso l’ultima,
quasi sempre dato il suo cognome – Wright. Tuttavia quel giorno avrebbe
preferito togliersi quel pensiero in fretta e farla finita. Invece era ancora
lì, seduta sulla sedia, le sue cose posate in grembo. Le sembravano passate ore
da quando l’uomo prima di lei era entrato nella sala e la cosa non fece che
accrescere la sua agitazione.
Sfiorò con l’indice gli angoli dei fogli di carta che
uscivano dalla carpetta che si era portata, il suo unico avere in quel momento
insieme alla borsetta e alla giacca. Erano gli sparititi di Epilogo, che aveva con sé poiché credeva
– ma soprattutto sperava – che le venisse chiesto di suonarla. Avrebbe voluto
che i suoi amici più importanti fossero lì; Oliver, April, Sadie, anche Peter,
li avrebbe voluti tutti lì accanto per l’ultimo incoraggiamento prima di
varcare la soglia. Non era semplice affrontare quella situazione da sola.
D’improvviso la porta si aprì. Non fece alcun rumore,
venne aperta piano, ma Audrey era talmente tesa che anche quel debole suono la
fece sussultare. Sollevò gli occhi in direzione della porta, trovandosi davanti
la signora che aveva invitato i pianisti a entrare fino a quel momento. Stava
guardando fissa Audrey e lei non ebbe più alcun dubbio su cosa stava per
avvenire. Si alzò prima ancora che venisse pronunciato il suo nome.
«Venga pure signorina Wright. Lei è la prossima.»
La ragazza si alzò e raggiunse la donna, la quale le
sorrise in modo affabile, quasi a dirle di non preoccuparsi. Audrey, però, si
preoccupava eccome; da quel colloquio avrebbe potuto dipendere il suo futuro,
il possibile trasferimento a Glasgow, il dover lasciare indietro tutti gli
amici, il posto al Menier Chocolate Factory, tutto dipendeva da quella manciata di minuti in cui avrebbe
mostrato le proprie capacità. Mentre saliva gli scalini per arrivare sul palcoscenico
si chiese se davvero era quello che voleva. Tuttavia, appena vide il pianoforte
a coda al centro del palco, illuminato dai fari che si riflettevano sulla sua
laccatura nera e lucente, pensò che quel provino rappresentasse una svolta e
che una simile occasione era da cogliere subito. Suonare per la BBC Scottish Symphony Orchestra avrebbe portato lustro alla sua
carriera di pianista, aprendole strade che non avrebbe potuto immaginare e
consentendole una notevole sicurezza legata al proprio nome.
Si avvicinò al pianoforte, quasi questo la stesse
richiamando a sé. Era uno strumento di eccellente qualità e raffinata bellezza,
uno di quelli che lei aveva desiderato suonare da sempre. Riuscì a resistere
alla tentazione di allungare una mano a sfiorarlo e venne riportata alla realtà
dalla voce di un uomo in platea.
«Benvenuta.»
Audrey si voltò in direzione della voce. Seduti nella
terza fila di poltrone vi erano tre persone, cui si aggiunse la donna che era
venuta a chiamarla. La pianista non sapeva chi fossero, eccetto uno. L’uomo al
centro, sulla sessantina, era DominicMcAllister, il direttore dell’orchestra e rinomato
compositore.
La ragazza si lisciò istintivamente il vestito e
salutò di rimando, proseguendo poi con i brevi convenevoli. Al termine del
breve botta e risposta, McAllister riprese a parlare:
«Sono davvero felice di avere la possibilità di sentirla suonare dal vivo. Ho
molto apprezzato la sua esibizione a Tower Hill station.»
«La ringrazio» rispose semplicemente lei, senza sapere
che altro aggiungere. Strinse con forza maggiore la carpetta contenente le
partiture, sentendosi sotto pressione come mai.
«Le spiego brevemente cosa dovrà fare. Per prima cosa
le chiediamo di suonare la canzone di Tower Hill, chiamiamola così. Poi le
abbiamo preparato altre partiture. Ne scelga una e ce la suoni» disse.
Era stato piuttosto chiaro; Audrey avrebbe dovuto
suonare due canzoni: l’Epilogo di La La Land e
una canzone a scelta fra quelle che le avevano proposto. Inutile dire che
proprio la seconda di quelle canzoni era quella che la preoccupava di
più.
«D’accordo, ho capito» rispose, calma.
«Prima che inizi, un’ultima cosa. La sua audizione
verrà registrata, se la cosa rappresentasse un problema per lei ce lo dica e
provvederemo a spegnere tutto» aggiunse McAllister.
Solo in quel momento Audrey si accorse della
telecamera sul treppiedi posta al centro del corridoio in platea. La lucina
rossa che lampeggiava a intermittenza indicava che la registrazione era in
atto, ma la pianista si rese conto che non le importava. Si sentiva dentro una
bolla, come se tutto quello che le stava accadendo fosse irreale e in procinto
di finire da un momento all’altro.
«No, nessun problema» rispose infine.
McAllister sorrise, dopodiché indicò il pianoforte con un cenno
della mano, invitando Audrey a prendere posto. Lei eseguì, respirando
profondamente. Estrasse le partiture di Epilogo
e le dispose sul leggio; lanciò un’ultima occhiata agli acquerelli di Peter,
monocromatici per via della fotocopia e inspirò ancora una volta. Fece scorrere
le dita sui tasti del pianoforte, sentendosi smuovere completamente. L’ansia
scivolò via al suono della prima nota e la musica ebbe sulla pianista lo stesso
effetto che aveva ogni volta. Tutto si fece lontano, distaccato e sui tasti di
quel maestoso pianoforte a coda, la ragazza trovò la sua abituale sicurezza.
Un minuto dietro l’altro suonò tutta la versione per
pianoforte dell’epilogo che Peter le aveva regalato. Quando si fermò, al
termine della canzone, si sorprese del fatto che il suo primo pensiero – prima ancora
di ricordare dove si trovasse, per cosa e con chi – fu proprio Peter. Il viso
del ragazzo, il suo sorriso, si delineò con impeccabile precisione davanti agli
occhi della pianista. Solo l’applauso che arrivò subito dopo la fece tornare a
tutti gli effetti alla realtà. Si voltò in direzione della platea, vedendo per
primo DominicMcAllister. L’uomo
era radioso e batteva energicamente le mani.
«Molto bene» sentenziò. «E ora il prossimo brano.»
Audrey scorse rapida le partiture delle altre canzoni
che erano state selezionate. Erano complicate, non vi era dubbio, ma per sua
fortuna la ragazza scorse fra le varie partiture un brano che conosceva bene.
Lo aveva studiato al conservatorio e aveva trascorso tanto tempo a esercitarsi
che se lo ricordava ancora. Aveva alcuni passaggi complessi, ma nulla di
impossibile.
«Quando ha scelto inizi pure» la invitò il direttore d’orchestra.
Lei acconsentì con una risposta monosillabica, dispose
i fogli in ordine sul leggio e cominciò a suonare. Quella melodia le richiese
una maggior concentrazione dal momento che la conosceva meno, al punto che
nulla avrebbe potuto distrarla dall’esecuzione.
Appena ebbe concluso ci fu un nuovo applauso, all’apparenza
più sostenuto del precedente. Audrey pensò fosse un segnale positivo e sentì
ogni tensione scomparire definitivamente da lei; la parte peggiore era passata.
Si alzò dal pianoforte, quasi lasciando contro voglia
i suoi meravigliosi tasti. Si sistemò il vestito, voltandosi verso la platea
proprio quando gli occupanti smisero di applaudire.
«I miei più sinceri complimenti» esclamò McAllister, facendo sorridere Audrey, che ringraziò con un
leggero inchino. «Voglio essere franco con lei, signorina Wright: credo sia la
mia preferita.»
La sua affermazione provocò alcune occhiate da parte
del resto dei presenti, che fissarono il direttore come se si stesse spingendo
troppo oltre.
«Per la sua giovane età ha davvero delle notevoli
doti. Ha un futuro assicurato, deve credermi. Riconosco un talento quando lo
incontro.»
Sul finire della frase, nuovamente le occhiate dei
colleghi di McAllister ricomparvero. Audrey li guardò
un po’ perplessa e comprese che, molto probabilmente, il direttore stava
facendo qualcosa che non aveva fatto prima. Se fosse stato vero, significava
che il posto alla BBC Scottish Symphony Orchestra
forse avrebbe potuto essere suo. Si disse di stare calma ed evitare di crearsi
castelli in aria che, crollando, avrebbero potuto ferirla e basta. Tuttavia
quasi non ci riuscì. Era emozionata come non le succedeva da tempo e le parole
di McAllister avevano accresciuto ulteriormente la
sensazione positiva che provava nel petto.
«Vuole dire qualcosa?» chiese poi il direttore, un
sorriso bonario dipinto in volto.
La domanda colse Audrey impreparata, ma riuscì a non
darlo a vedere. «Volevo semplicemente ringraziarvi per questa opportunità.
Ancora non mi sembra vero di essere qui» disse. Si morse appena il labbro
inferiore, costringendosi a non aggiungere altro; la frase che aveva appena
pronunciato le era parsa banale e scontata, ma in fin dei conti non sapeva che
altro dire. Dopotutto era la verità. Il resto dei presenti, però, parve
apprezzare le parole della ragazza. Dopo gli ultimi convenevoli, i saluti
conclusivi e i “le faremo sapere a breve”, la pianista fu congedata.
Appena Audrey si ritrovò nel corridoio da cui era entrata,
diretta verso l’uscita del teatro, tirò un lungo sospiro. Sentiva di essere
andata bene e, soprattutto, era soddisfatta dell’esecuzione delle due canzoni
che aveva suonato. Le parole di DominicMcAllister, poi, le avevano dato una speranza che non
avrebbe immaginato prima di quel momento. Dal modo in cui le si era rivolto,
infatti, le era parso che avesse un interesse particolare per le sue doti.
Forse davvero quella sarebbe stata la sua occasione d’oro, la grande svolta
della sua vita. Ancora non poteva saperlo con esattezza, avrebbe dovuto
aspettare, ma era così soddisfatta di quell’incontro – e di tutti quei “non
detto” all’apparenza così rassicuranti – che sentiva avrebbe fatto bene a
godersi quella serata in terra scozzese, prima del ritorno nella sua amata
Londra, il mattino successivo.
*
Per quella sera Audrey aveva pensato bene di esplorare
Glasgow nel modo in cui lei riputava migliore per se stessa. Nel pomeriggio
aveva fatto un nuovo giro nella città, cercando si scoprire quegli angoli e quegli
scorci che non era riuscita a vedere il giorno prima in seguito al suo arrivo.
In più di un’occasione si era addirittura chiesta in quale zona della città
avrebbe dovuto cercare casa; tuttavia aveva scacciato quei pensieri in modo
perentorio, dicendosi che non aveva senso fare piani prima di conferma da parte
della BBC: quelle erano illusioni, non progetti.
Per la cena aveva optato per un piccolo pub in cui
servivano specialità scozzesi – dove aveva mangiato l’hotch-potch
più buono mai provato – e una volta uscita, anziché tornare a casa, aveva
deciso di soddisfare un’altra sua voglia e si era incamminata in un posto in
cui aveva sempre voluto andare.
Il Blue Jam era uno dei jazz club più famosi di
Glasgow, una tappa obbligata per i jazzisti che visitavano la città. Audrey
aveva sempre desiderato andarci, per questo non avrebbe lasciato la Scozia se
prima non avesse posato piede fra le mura di quel noto locale. Il Blue
Jam si trovava si una delle vie centrali di Glasgow e un’insegna al neon blu –
che per certi versi le aveva ricordato quella di Seb’s
di La La Land
– accoglieva i visitatori, ai quali, entrando nel locale, pareva di tornare
indietro nel tempo.
Appena Audrey aveva varcato la soglia si era sentita
eccitata quanto un bambino per la prima volta a Disneyworld. Il Blue Jam l’aveva
accolta con una sonorità irresistibile e un’atmosfera che le era parsa
famigliare da subito. Sul palco, proprio di fronte all’ingresso, erano disposti
cinque musicisti, intenti a suonare in una piena jam session. Tromba, sax,
pianoforte, batteria e contrabbasso erano tutti là e riempivano con le loro
note, improvvisate e perfette, tutta l’aria del locale. Intorno al palco erano
disposti tavolini e sedie in cui prendere posto, dove su ciascun tavolo si trovava
una lampada che mandava una soffice luce aranciata. Il bancone, infine, che
correva lungo tutta la parete di destra, era fornitissimo di alcune delle
bottiglie più rare che Audrey avesse mai visto. Whisky, Scotch, Bourbon, Rhum,
Vodka, c’era di tutto, per tutti i gusti. Una volta lì la pianista non fu più
in grado di smettere di sorridere. Aveva chiesto di potersi sedere, aveva
ordinato un drink – un Martini – e una volta al suo posto, alla sinistra della
band che suonava, si era quasi sciolta sul tavolino per quanto era in pace con
se stessa.
Anche in quel momento si sentiva così. Continuava a
sorseggiare il suo Martini ben fatto con calma, gli occhi fissi sul gruppo
musicale improvvisato e il piede destro che batteva a ritmo della musica. Si
sentì benissimo, si sentì a casa.
Mentre la musica proseguiva, la pianista si immaginò
nella sua possibile vita scozzese. Si vedeva già diventare cliente abituale del
Blue Jam, con i camerieri che le davano la buonasera chiamandola per nome e
dicendole che le avevano riservato il “solito tavolo”. Quell’immagine la fece
gongolare al punto di desiderare con tutta se stessa che la cosa si avverasse.
Se si trovava lì, con quella possibilità, era anche merito di La La Land. Se
non avesse suonato la canzone dell’epilogo alla stazione di Tower Hill, non
avrebbe mai incontrato personalmente DominicMcAllister. Da quando quel film era entrato nella sua vita
sembrava quasi contribuire a cambiarla poco a poco. Tuttavia, d’un tratto, si
rese conto che il merito di tutto ciò non era tanto del film, ma di Peter. Lei
si era sempre limitata a suonare City of
Stars – e forse avrebbe continuato a farlo – finché Peter non le aveva
regalato le partiture di Epilogo. Se
non fosse stato per lui, lei ora non sarebbe seduta al Blue Jam con l’umore
alle stelle e la sensazione di avere ottime possibilità di diventare la nuova
pianista della BBC Scottish Symphony Orchestra. Il
ragazzo era entrato nella sua vita e in meno di un anno l’aveva arricchita. Non
solo riguardo quella canzone, ma in generale. Aveva reso i viaggi sulla
District line molto più piacevoli e le sporadiche uscite nei caffè o nei pub
erano un ottimo modo per spezzare la routine in buona compagnia. Il ragazzo
aveva un influsso positivo su di lei, Audrey adorava averlo vicino. Una volta
tornata a Londra sarebbe subito andata a raccontargli del provino e gli avrebbe
detto che in gran parte era merito suo. Se fosse andato a buon fine il suo
ingresso nell’orchestra della BBC avrebbe dovuto ringraziare il ragazzo a
dovere.
Le tornò alla mente il fatto che prima, appena aveva
finito di suonare l’Epilogo per McAllister, il suo primo pensiero era andato al ragazzo. Le
capitava di rado di pensare a qualcuno di preciso, invece quel pomeriggio era
successo. Sentiva di dovere molto a Peter, forse per questo era sorpresa solo
in parte di aver pensato a lui. Tuttavia anche in quel momento avrebbe voluto
sentirlo, parlargli e aggiornarlo sull’esito dell’audizione. Le sarebbe
piaciuto anche descrivergli il Blue Jam, consapevole che, anche se non era con
esattezza il tipo di locale frequentato da Peter, lui lo avrebbe apprezzato.
Pensò che, dopotutto, avrebbe potuto anche farlo, estrarre il cellulare e
scrivergli; oppure uscire un momento dal locale e telefonargli.
Alla fine non fece nessuna di queste cose. Erano le
dieci passate e trovò che, nonostante i buoni rapporti che aveva con Peter,
forse non era il caso di disturbarlo a quell’ora per parlargli di sé. Lo
avrebbe invitato a bere qualcosa una volta tornata a Londra.
Tornò a dedicare la propria attenzione alla jam session
ancora in atto, decisa a godersi il resto della serata, così come si era goduta
tutta quella piacevole giornata scozzese.
Nonostante tutto, però, la sua mente tornò a più
riprese al ragazzo.
Audrey aveva ormai preso l’abitudine di vivere da sola
nel proprio appartamento. Si era sempre adattata in fretta alle novità, anche
quando queste non erano di suo gradimento. Tuttavia, anche se era riuscita ad
accettare una casa vuota, le fu molto più complicato imparare a convivere con
il fatto di non poter più vedere Oliver con l’assidua frequenza antecedente al
matrimonio. Da quando si era sposato, infatti, quella era solo la seconda volta
che i due si trovavano uno di fronte all’altro e i giorni avevano lasciato
spazio alle settimane.
Oliver aveva già raccontato di Venezia alla ex
coinquilina, mostrandogli anche diverse fotografie – perché glielo aveva
chiesto lei, per lo più – e ora, mentre erano insieme, la loro conversazione
non poteva che essere incentrata sul provino di Audrey per la BBC Scottish Symphony Orchestra. La pianista era rientrata da
Glasgow il giorno prima e quel pomeriggio – tardo – Oliver l’aveva raggiunta
nella casa che avevano condiviso per anni per chiederle com’era andato tutto
quanto.
Audrey si era persa per una decina di minuti buoni a
parlare di Glasgow e dell’audizione. Aveva iniziato proprio da quest’ultima e
aveva speso parole su parole per osannare il pianoforte che aveva avuto la
fortuna di suonare. Descrisse DominicMcAllister, la buona impressione che aveva avuto di lui e
delle cose che le aveva detto quando aveva finito di suonare entrambe le sue
canzoni. Infine raccontò a Oliver della città e della sua serata al Blue Jam, l’aspetto
che dovrebbe avere secondo lei il paradiso.
L’amico l’ascolto per tutto il tempo come solo lui
sapeva fare, dimostrando che nulla era ancora cambiato nel loro rapporto.
«Mi sembra di capire che l’esito di quell’audizione
sia stato più che positivo» osservò infine, appena la pianista smise di
parlare.
Lei ci pensò un momento. Non voleva farsi false
illusioni, o elevare le sue aspettative perché poi queste la deludessero,
tuttavia non poteva fare a meno di ripetere nella sua testa le parole di McAllister. Anche considerando il modo in cui il resto
dello staff lo aveva guardato mentre pronunciava quelle frasi, Audrey aveva
intuito che c’era qualcosa che l’uomo non avrebbe dovuto dire, o che non aveva
ancora detto prima. Per tale ragione non riusciva a evitare di farsi delle
aspettative e sentiva sempre di più di potercela fare a entrare nell’orchestra
della BBC. Ora che quella possibilità le sembrava tanto concreta, si era resa
anche conto di volerlo, di desiderare di vedersi trascorrere il resto dei suoi
giorni a Glasgow, per suonare in quel prestigioso complesso musicale. Londra le
sarebbe mancata, certo, ma avrebbe imparato a vivere lontano da essa, così come
avrebbe fatto del proprio meglio per mantenere saldi i preziosi legami che
aveva nella capitale inglese.
«Sono molto ottimista» disse poi, finendo con il
mordersi appena il labbro inferiore. «So che non dovrei farmi illusioni, lo so
perfettamente. È solo che...beh, avessi visto il modo in cui McAllister ha detto quelle cose. E anche come lo hanno
guardato gli altri, come se avesse detto qualcosa impronunciabile. Come se si
fosse esposto, ecco» concluse.
Oliver annuì a quelle parole. «Beh, in effetti è ben
augurante. Stando a quello che mi hai detto, intendo.»
«Non riesco a smettere di pensare che posso farcela
davvero. Forse se lui non avesse fatto quelle allusioni ora non starei così.»
«Questo è poco ma sicuro» bofonchiò l’amico.
«Secondo te mi sto illudendo?» domandò di punto in
bianco Audrey. Si fidava totalmente del parere di Oliver, al punto che sapeva
che lui avrebbe potuto aiutarla a fare chiarezza dentro di sé. Il ragazzo era
un prezioso supporto.
Lui ci pensò un momento, giocando distrattamente con
la fede nuziale – gesto che si era insinuato in fretta fra quelli che compiva
sovrappensiero. «Beh, non saprei, in totale onestà» rispose poi. «Se devo
essere sincero, forse sì. Ambienti come quelli sono altamente selettivi,
Audrey, lo sai bene anche tu. Tuttavia, anche visto quello che ti hanno detto,
mi pare normale che tu ti stia facendo delle aspettative così alte. Anche io al
tuo posto avrei di certo fatto lo stesso.»
Quelle parole la consolarono: come sempre l’amico
aveva saputo aiutarla.
«E come ti sentiresti a dover lasciare Londra?» le
chiese poi.
La pianista, che aveva rimuginato sulla questione per
l’ennesima volta solo pochi istanti prima, si lasciò sfuggire un lieve sospiro.
«Immagino che me ne farò una ragione. Una simile occasione capita solo una
volta nella vita e se avessi fortuna mi conviene coglierla al volo. Sai, subito
pensavo di non avere bisogno ad ambire a più di quanto già avevo, ma ora che ne
ho concretamente la possibilità vorrei approfittare al massimo della cosa.
Sarebbe una svolta troppo importante.»
«Saresti una folle a non farlo, infatti» le diede
ragione l’amico, poi proseguì: «A meno che qui non ci fosse qualcosa di più
importante.»
Il modo in cui concluse la frase, lasciandola in
sospeso, fece intuire alla pianista che c’era qualcosa che lui stava provando a
farle capire. Audrey aggrottò la fronte, perplessa e lanciò un’occhiata sospettosa
all’amico. Convinta che stesse alludendo a se stesso gli disse: «Oliver, il mio
possibile trasferimento non cambierà più di tanto il nostro rapporto.
Esattamente come il tuo matrimonio.»
A Oliver sfuggì una risata a quelle parole, specie per
il tono consolatorio usato dalla ragazza. «Audrey,» disse, ancora sorridente, «sono
consapevole di essere il tuo migliore amico e, credimi, sono lusingato della
cosa. Ma quando faccio questo genere di affermazioni non è che alludo sempre a
me.»
La ragazza arricciò le labbra. «I miei genitori?»
tentò, ma ricominciò a parlare prima di dare tempo all’altro di provare a dire
qualcosa: «Beh ma anche adesso non ci vediamo così spesso. Noi veniamo dal Surrey» disse, alludendo anche a Oliver e parlando come se
non credesse al fatto che lui si fosse dimenticato le sue origini.
Tuttavia Oliver non alludeva neanche a quello.
«April e Sadie già non vedono l’ora di trascorrere i
week end a Glasgow e in giro per la Scozia. Dove, per la cronaca, dovrò
portarle io» continuò borbottando la ragazza.
«Che mi dici di Peter?» provò Oliver, decidendo di
smetterla di consentirle di tirare a indovinare.
Audrey lo guardò subito appena il ragazzo ebbe
pronunciato quel nome. La sua suonava come una tattica, forse per scoprire
qualcosa di ben preciso.
«Spiegati» lo incalzò Audrey, facendosi improvvisamente
seria.
«Non c’è niente da spiegare direi. Ti ho solo fatto
una domanda. Stiamo cercando di capire se può esserci qualche motivazione che
può spingerti a rinunciare alla BBC Scottish Symphony
Orchestra per restare a Londra. Abbiamo detto che io non sono, escludiamo anche
April e Sadie. Rimangono principalmente due cose di altrettanto importanti per
te: il Menier Chocolate Factory e Peter» concluse, segnando su indice e medio i
due fattori.
Audrey rimase per svariati secondi a fissare l’amico,
domandandosi se le stava sfuggendo qualcosa. Il Menier Chocolate Factory sì che
poteva essere un motivo per rimanere a Londra, quel posto, le persone che vi
gravitavano intorno, tutto quanto.
«Perchè Peter?» domandò infine, dando voce ai suoi
pensieri.
«Perché no?» replicò immediatamente Oliver.
«Perché no non è una risposta, non lo è mai stata, lo
sai.»
Nuovamente Oliver sorrise. «Te l’ho detto, sto solo
cercando di capire la situazione. Ho inserito Peter in questo discorso perché
direi che per te lui è importante.»
La pianista non replicò subito, rimase a guardare il
ragazzo quasi aspettandosi una spiegazione degna di quel nome. Era certa che
Oliver stesse cercando di farle fare un ragionamento preciso e, quando sospetto
di cosa potesse trattarsi, Audrey rispose: «Peter è un amico. Segnalo insieme a
April e Sadie nel tuo elenco di “possibili motivi a favore di Londra”.» Fece un
segno di spunta in aria, considerando la faccenda chiusa. Rimaneva solo il
Menier Chocolate Factory da analizzare.
«Beh, io te l’ho solo chiesto per...» Oliver pensò al
termine giusto da usare, ma Audrey lo interruppe prima che potesse trovarlo.
«Per cosa?»
Aveva la sua tipica espressione sospettosa, nota a
Oliver come tante altre.
«Pensavo solo provassi qualcosa per lui, tutto qui.»
«Sì, simpatia.»
Il ragazzo fece una smorfia, guardandola di traverso. «Non
alludevo a questo.»
«Allora non capisco a cosa ti riferisci» proseguì
caparbiamente Audrey. Tuttavia appena ebbe concluso l’affermazione, qualcosa in
lei si destò. Una strana sensazione le strinse lo stomaco e un’altra le si
annidò dentro all’altezza del cuore.
«A niente di che, in verità. È solo che mi hai parlato
molto di quel ragazzo, soprattutto nelle ultime settimane. Pensavo solo ti
potesse interessare» tagliò corto lui, alzando le spalle. In verità era molto
più sicuro di così; sapeva leggere bene i messaggi nascosti, specie quelli di
Audrey. Lui aveva visto molto di più di quello che appariva in superficie nel
modo in cui la pianista lo aggiornava dei momenti trascorsi con l’illustratore.
«Peter non... Siamo amici» disse lei, sebbene non
parve estremamente convinta delle sue parole.
Oliver, che era stato aggiornato su tutto ciò che era
avvenuto a Glasgow – anche la cosa più insignificante, come il cioccolatino
lasciato sul cuscino nella stanza d’albergo – ne approfittò per domandare: «E
il fatto che lui sia stato il primo a cui hai pensato, il primo a cui avresti
voluto raccontare tutto, non ti dice niente?»
Per un primo momento Audrey si pentì di averlo
informato della cosa. «Che c’entra questo?» chiese poi. «Non è mica stato Peter
il primo a cui ho detto tutto, sei stato tu. Ora.»
«Sì ma le cose sarebbero potute andare diversamente.
Io sarei stato il secondo se tu ieri sera avessi avuto il coraggio di premere
il tasto di chiamata.» Si stava riferendo al fatto che lei avesse preferito non
disturbare Peter anziché chiamarlo per condividere con lui la viva
soddisfazione del momento.
La pianista fece per replicare ancora, ma quell’ultima
affermazione le diede da riflettere. In fondo, Oliver aveva ragione – tanto per
cambiare. Peter era stato il suo primo pensiero appena lei era tornata alla
realtà dopo aver suonato l’Epilogo davanti
a McAllister e con tutta probabilità non si trattava
di una semplice coincidenza. Anche il desiderio di chiamarlo per dirgli di com’era
andata l’audizione, al Blue Jam, doveva pur significare qualcosa. Non si era
mai fermata a pensarci, ad analizzare cosa, il ragazzo, potesse rappresentare
per lei, eppure dopo le parole di Oliver la sua mente cominciò a ragionare
sulla questione a una velocità folle. Ripensò al tempo passato insieme, ai
rientri in metropolitana, ai caffè da Starbucks. Quando era con Peter si
accorgeva a malapena dello scorrere del tempo, del fatto che la District line e
la fermata di Whitechapel arrivassero senza che lei
se ne rendesse conto. Aveva sempre pensato fosse dovuto al fatto che parlavano
di argomenti interessanti, o di come le uscisse semplice intavolare una
conversazione con il ragazzo, tuttavia, alla luce delle parole di Oliver, si
chiese se non ci fosse altro. Si sentì avvampare a quel pensiero. Puntò gli
occhi in quelli dell’amico e mormorò: «Tu credi...»
Lasciò la frase in sospeso, ma quelle due semplici
parole diedero ugualmente al ragazzo modo di continuare. «Me ne hai parlato a
sufficienza da aiutarmi ad avere un quadro generale della situazione. Non ti
sto dicendo che sei innamorata di lui, per carità, è troppo presto. Sto solo
dicendo» si bloccò, sospirando. Prima di continuare si stropicciò gli occhi con
indice e pollice borbottando: «Non posso credere di essere in procinto di dire
una cosa del genere.» Tornò a guardare l’amica. «Sto solo dicendo che lui
potrebbe essere il tuo Sebastian.»
A sentire quelle parole, Audrey non seppe cosa
replicare. Aveva ancora gli occhi fissi sull’amico e la sua espressione si fece
attonita.
«Volevo solo capire se ci ho visto bene o meno»
proseguì calmo. «Dal modo in cui mi parli di lui, dei discorsi che avete tenuto
in metro, del modo in cui disegna. L’ho chiesto perché so che tu non ti vedi o
non ti senti, ma da fuori sembra proprio che ci sia qualcosa di più fra voi.
Poi magari mi sbaglio e semplicemente il rapporto fra voi è simile al nostro.
Dopotutto pensano sempre che stiamo insieme» concluse con sarcasmo.
Audrey non avrebbe saputo dire se quella dell’amico
era tattica o semplice ingenuità, fatto sta che le sue parole la spinsero a
riflettere su tutta la faccenda come non aveva mai fatto prima.
Peter poteva essere il suo Sebastian? Un simile
pensiero non l’aveva mai sfiorata; fino a quel momento.
Con Peter ci stava bene, non poteva negarlo; avevano
molte cose in comune e altrettante di cui parlare e su cui confrontarsi.
Inoltre lo aveva sempre trovato molto carino, non poteva negarlo.
Che lui le interessasse ma lei non lo avesse ancora
capito perché lo aveva sempre considerato solo un amico?
Forse era dovuto a quello la sensazione di calore che
la pervadeva ogni volta che Peter le rivolgeva un sorriso.
Non riuscì a fermare la sua mente dall’immaginare come
sarebbero potute andare le cose se fra loro ci fosse stata più di un’amicizia.
Si immaginò di riservare a lui un posto per la prima dello spettacolo, di
raggiungerlo una volta terminato, di andare a bere con lui qualcosa al bar del
piano di sopra. Avrebbero potuto andare a Camden Town insieme, parlare di
qualsiasi cosa avessero voluto; avrebbe anche potuto vederlo disegnare. Non
aveva mai pensato a nulla di tutto ciò, ma, mano a mano che formulava quei
pensieri, ancora in silenzio e con le parole di Oliver che le riverberavano
nelle orecchie, si rese conto che quella prospettiva le piaceva. Forse lei e
Peter erano fatti per essere più di semplici amici, forse davvero aveva trovato
il suo Sebastian, ma non era riuscita a capire la cosa se non con l’aiuto di
Oliver.
Sospirò, sentendosi improvvisamente confusa. «Io non
lo so» ammise alla fine. «Peter mi piace, ma non so se mi piace in quel senso.»
«Ci hai dovuto pensare, però» la incalzò Oliver. Con
quelle parole smascherò all’amica che la sua era stata una tattica, cosa che le
fece aggrottare la fronte. Prima che potesse dire qualcosa, però, lui la
precedette: «Io sono abbastanza sicuro che lui ti piaccia. E da come ne parli
penso che vada bene per te e tu sai che non lo dico di tutti» precisò. «Credo
anche che tu non l’abbia mai visto sotto quell’ottica perché, da quando vi
conoscete, sei sempre stata presa da un mucchio di cose, lo spettacolo del
Menier, il mio matrimonio. Forse era l’ultimo dei tuoi pensieri cercare di
capire se il simpatico illustratore con cui tornavi a casa ogni giorno potesse
rappresentare qualcosa di più.»
«Perché mai, poi, mi stai dicendo tutto questo?»
«Perché sei la mia migliora amica e voglio vederti
felice. E se avessi ragione riguardo Peter mi sentirei il diretto responsabile
di questo successo e continuerei a prendermene il merito per tutta la durata
della vostra relazione» concluse sornione.
«Quindi lo fai solo per il tuo ego» lo punzecchiò lei,
guardandolo storto.
«Se lo facessi solo per quello avrei usato meno giri
di parole» ribatté lui, indifferente alla provocazione.
La pianista non fu in grado di dire altro. Ripensò a
quello che le aveva detto l’amico e al modo in cui la loro conversazione aveva
assunto in fretta un altro aspetto. Infine pensò a Peter. Oliver non l’aveva accusata
di essere innamorata di lui; “è troppo presto” aveva detto e lei sapeva di non
amare il ragazzo – della cosa se ne sarebbe senz’altro accorta. Però era vero
che fra loro due c’era un ottimo rapporto, era vero che sarebbe potuto
diventare qualcosa di più ed era vero che la sua mente era stata sempre
impegnata sul lavoro, sulle canzoni da imparare e infine dall’audizione per l’orchestra
scozzese da portarla ignorare tutto il resto.
Proprio il provino per la BBC Scottish
Symphony Orchestra le fece scattare qualcosa. «Ok, forse potresti avere ragione.»
Arrestò la possibile replica di Oliver con un gesto. «Ma farmelo capire adesso
potrebbe essere troppo tardi. Se la mia audizione per la BBC fosse andata bene?»
«Beh, vedila così» rispose lui dopo averci riflettuto
un momento, «se lui non ti ricambiasse non avresti nulla da perdere visto che
te ne scapperesti in Scozia» disse con un’innocente alzata di spalle.
«E se mi rendessi conto che lui non mi piace?» tentò
la pianista, senza un reale motivo.
«Ma io mica ti ho detto che devi andare a dirglielo
adesso. Prenditi qualche giorno, qualche settimana, alcuni mesi di distanza a
Glasgow e rifletti sulla questione. Non voglio che tu vada da lui a dichiararti
a tutti i costi. Solo, ho notato che stare con lui ti rende felice e direi che
questo vuol dire qualcosa.» Diede una veloce occhiata al telefono cellulare,
rendendosi conto che era ormai giunta l’ora di andare. «Senti, io devo andare,
mi dispiace. Ma possiamo parlarne di nuovo se vuoi.»
«No, no, non serve» rispose la ragazza con un gesto
della mano. «Ci penserò su.»
Accompagnò Oliver alla porta e lì si salutarono.
Audrey decise di andare in camera sua e suonare qualcosa, giusto per rilassare
la mente dalla conversazione appena avuta con l’amico, che l’aveva
scombussolata non poco. Nella sua stanza frugò nei cassetti in cerca dell’album
contenente alcune delle sue partiture e si imbatté negli spartiti dell’Epilogo di La La Land che le aveva regalato l’illustratore.
Le estrasse, sfogliando una a una le varie tavole e ammirandone i disegni come
fosse la prima volta.
Un pensiero l’attraversò d’improvviso: una vita intera
insieme a Peter. Perché tutto d’un tratto quell’idea le sembrava tanto
allettante?
Era una strana sensazione quella che si allargava
piano nel petto di Audrey a mano a mano che si avvicinava alla fermata di Tower
Hill station al termine della sua giornata di prove al Menier. Riprendere
quella routine, dopo lo stacco di quattro giorni – due per andare a Glasgow e
altri due perché era assente il direttore d’orchestra – le dava un senso di
sicurezza. Non aveva ancora detto al direttore che, forse, avrebbe lasciato il
Menier Chocolate Factory, dal momento che il suo colloquio con Dominic McAllister
pareva essere andato in modo stupendo e la cosa le provocava qualche
preoccupazione. Clint, appena l’aveva scorta fra i colleghi, l’aveva subito
tempestata di domande sulla sua audizione e, essendo praticamente davanti a
tutti, la cosa l’aveva messa in imbarazzo. Ora che la fermata della Underground
diventò ben visibile, anche l’agitazione si impossessò della pianista,
sommandosi al resto di sensazioni che stava provando e generando uno stato
emotivo complesso e per niente d’aiuto.
Con preoccupazione, imbarazzo e agitazione, anche l’ansia
si fece strada e appena Audrey varcò i tornelli d’accesso alla metro, proprio l’ansia
prese il controllo su tutto il resto. La ragazza era così agitata perché per la
prima volta dopo cinque giorni avrebbe rivisto Peter e, soprattutto, lo avrebbe
rivisto dopo la sua ultima conversazione con Oliver. Non era riuscita a fare a
meno di pensare ossessivamente a quello che aveva detto l’amico e, quindi, si
ritrovava a pensare anche a Peter. Come diretta conseguenza di quella
situazione, nella sua mente si erano accavallate, in quei giorni, immagini su
immagini di possibilità insieme all’illustratore, di ipotetici scenari futuri
fra loro e altre supposizioni che Audrey non aveva mai formulato prima – fra cui
guardare La La Land insieme. Dentro
di sé sentiva che era in gran parte colpa delle parole di Oliver, che con molta
probabilità avevano deviato la direzione dei suoi pensieri, tuttavia non poteva
essere dovuto esclusivamente a quello.
Ci stava ancora rimuginando sopra quando arrivò alla
sala centrale di Tower Hill, dove il pianoforte verticale era silenzioso e
immobile, superato in gran fretta dai passanti. Anche se non era suo, quel
bellissimo strumento le era mancato come se lo fosse stato. Lo raggiunse subito
e vi si sedette come faceva ogni giorno. Smise di pensare appena posò le dita
sui tasti, dopodiché diede libero abbrivio alla musica. Senza rendersene conto,
le note di City of Stars uscirono in
sequenza. Era stato l’istinto a scegliere quale canzone suonare e l’istinto
aveva scelto quella. Si rese conto di ciò che aveva suonato solo una volta aver
terminato la canzone, quando era tornata alla realtà e si era trovata davanti
la stazione di Tower Hill e il suo implacabile via e vai di persone. Si alzò
dal pianoforte, voltandosi verso il punto della sala in cui, solitamente, si
fermava Peter per ascoltarla suonare. Appena si girò, infatti, trovò il ragazzo
proprio lì. Aveva il sorriso stampato in volto e indossava una di quelle felpe
leggere da squadra di baseball bianca e nera, che teneva slacciata, mostrando
la camicia azzurra che portava sotto di essa. Audrey non poté fare a meno di
sorridere in direzione dell’illustratore. Sentì anche una lieve stretta all’altezza
dello stomaco, ma sospettò che tutto fosse condizionato in gran parte dalla sua
mente.
Tuttavia, appena raggiunse Peter e lo salutò, fu
davvero contenta di sentire di nuovo la sua voce.
«Sei tornata ai vecchi classici?» le chiese lui, dopo
averla salutata a sua volta. Si incamminarono verso la banchina della
metropolitana, scendendo gli ultimi gradini e Audrey, per un momento, si
domandò come sarebbe potuto essere se, dopo quei semplici “ciao” scambiati
quasi per tradizione, fra loro ci fosse stato anche un rapido bacio. Ignorò
quel pensiero mentre rispondeva alla sua domanda. «Sono andata d’istinto. Mi
sono seduta e ho iniziato a suonare la prima canzone che mi passava per la
mente. Ha vinto City of Stars.»
Nuovamente l’illustratore le sorrise; schivò un paio
di persone, dopodiché si voltò verso Audrey, arrestandosi, subito imitato dalla
ragazza. «Allora, com’è andata? Racconta» la incalzò. Era chiaro che si stava
riferendo all’audizione per la BBC Scottish Symphony Orchestra; la pianista gli
aveva già detto, seppur brevemente tramite Facebook, che secondo lei il provino
era andato bene, ma Peter voleva sapere di più.
«Dovrei sapere l’esito a breve» rispose lei. Fece
scorrere gli occhi sulla fila di bottoni perfettamente chiusi della camicia del
ragazzo. «Non voglio sbilanciarmi, ma penso di essere andata più che bene»
disse poi, arricciando le labbra.
«Lui che ha detto...com’è che si chiama?» chiese
Peter, inarcando un sopracciglio.
«McAllister. Beh a lui sono piaciuta, mi ha riempita
di compimenti.»
Proseguì raccontandogli di quello che il direttore d’orchestra
le aveva detto, del modo in cui gli altri lo avevano guardato preoccupato, cosa
che le aveva lasciato intendere che McAllister si era sbottonato più del
dovuto. Sotto un certo punto di vista, la cosa la faceva sentire ottimista per
l’esito de provino, al tempo stesso, però, si rifiutava di farsi illusioni,
alzando troppo le sue aspettative. Non avrebbe sopportato di vederle disattese.
Appena ebbe finito di aggiornare il ragazzo in modo
adeguato si zittì, pensando a qualcosa da poter dire. Non le andava che il suo
rientro in compagnia di Peter fosse incentrato esclusivamente su di lei, non le
sembrava carino.
«Sono davvero contento per te» disse lui, sorridendo
con sincerità. «Spero che capiscano il grosso errore che commetterebbero se si
lasciassero sfuggire proprio te.»
Pensava davvero tutto ciò, sebbene una parte di sé
fosse anche dispiaciuta. L’idea di vedere Audrey trasferirsi a Glasgow lo
rattristava e se quell’eventualità si fosse avverata lui era più che certo che
ne avrebbe sofferto. Non sapeva neanche come comportarsi. Avrebbe voluto dirle
di essere interessato a lei, dirle che gli piaceva molto la Audrey pianista,
quella che faceva le maratone di Star
Wars e tifava Harlequins con tutto il trasporto di cui è capace; quella che
suonava il pianoforte di Tower Hill station come fosse suo e che si scusava se
per caso interrompeva chi sta parlando.
Nonostante le cose che avrebbe voluto dirle, però, il
possibile trasferimento della pianista a Glasgow lo frenava come nient’altro.
Non era così sicuro di essere tipo da relazione a distanza e la situazione
diventava ancora più complicata considerando il fatto che lui e Audrey, una
relazione, non l’avevano neanche cominciata. Nel loro caso si sarebbe trattato
di frequentazione a distanza e la cosa era ancora più complicata. Avrebbe
atteso di vedere la completa evoluzione della vicenda e solo allora avrebbe
deciso. Era l’idea peggiore, lo sapeva, ma forse se non avesse mandato tutto a
monte subito qualcosa di buono sarebbe riuscito a ottenerlo.
«Ok, non esageriamo» disse ridendo appena Audrey, in
risposta alla precedente affermazione di Peter. «Non ho sentito suonare nessuno
degli altri che erano presenti. E secondo me uno di loro era parecchio bravo»
continuò, sovrappensiero.
«Eri la più giovane?»
Lei ci rifletté un momento, infine annuì. Si lasciò
sfuggire un sospiro preoccupato, che venne notato dall’illustratore.
«Su, stai tranquilla» cercò di rassicurarla lui. «L’età
non vuol dire nulla, non sempre almeno. Ad esempio Raffaello aveva solo ventisei
anni quando dipinse la Scuola di Atene.
Quindi vedi? L’età non conta» concluse fiero.
Audrey lo guardò. Inarcò un sopracciglio e si portò
una mano sul fianco. «Prego? Mi citi Raffaello?» chiese, fingendosi basita.
Peter scoppiò a ridere alla sua espressione e davanti
a quel gesto Audrey si sentì mancare per un istante. La risata del ragazzo gli
era sempre piaciuta, ma quel giorno sembrava quasi avere qualcosa di speciale.
«Ehi, sono un artista, no?» rispose lui alla fine,
ricomponendosi. «Però, tralasciando la parte in cui ti cito Raffaello, penso
davvero quello che ho detto.»
L’arrivo della District line interruppe lo scambio di
sguardi dei due. Entrambi salirono sul mezzo che si era fermato, facendosi
strada fra il resto dei passeggeri. Appena si furono sistemati e la metro ebbe
ripreso la sua corsa, Audrey pensò a qualcosa da chiedere a Peter. Non le
andava di focalizzare la conversazione solo su di sé, aveva voglia di sentire
dal ragazzo come stava, cosa aveva fatto in questi giorni, come procedeva l’ultimo
libro che stava illustrando. Aveva davvero voglia di saperlo, non si trattava
solo di formalità o buona educazione. Le piaceva quello che lo riguardava.
«Allora, com’è la casa? Hai finito il trasloco,
giusto?»
Peter annuì. Aveva accennato solo brevemente
alla pianista del suo trasferimento, ma i due non avevano avuto molto modo di
discutere della faccenda.
«È una gran bella casa. La zona è tranquilla e io e
Damian ci troviamo molto bene con la terza inquilina. È il tipo che piace
a me.»
«In che senso?» domandò subito lei. Si morse il labbro
appena le sfuggirono di bocca quelle parole. Aveva parlato senza pensare e si
chiese per quale motivo fosse scattata così.
Peter parve non fare caso alla cosa. Si strinse nelle
spalle, sorridendo al pensiero di Evangeline. «Oh, beh, innanzitutto ha un gran
senso dell’umorismo, come te» aggiunse, rivolgendo uno sguardo d’intesa alla
ragazza. «Poi è un po’ misantropa, il giusto, sia chiaro, le piacciono i
Bastille, il cinema e adora la birra. Oh, e non c’è rischio che si invaghisca
di me» concluse, facendo uscire le ultime parole come un sommesso borbottio.
Audrey, però, le percepì e non conoscendo la verità sulla storia di Iris, non
poté capire il significato di quanto appena detto dall’illustratore. Pensò che
forse lui era uno di quelli che non voleva storie in casa.
«È fidanzata?» gli chiese poi, anche per continuare la
conversazione.
«No, è lesbica» replicò subito il ragazzo, disinvolto.
«Oh sì, allora non corri rischi» disse lei,
lasciandosi sfuggire una risata. «Comunque sono contenta per te. Poi adesso che
abitiamo così vicini potremmo anche trovarci qualche sera» propose.
Il trasferimento di Peter lo aveva avvicinato di molto
a Audrey. Non che avesse scelto proprio la casa di Florence rd. perché era
vicino a dove viveva lei, l’aveva scelta perché era la migliore sotto molti
punti di vista. Tuttavia quando aveva scoperto che la cosa lo aveva avvicinato
tanto alla ragazza, al punto che perfino la fermata della metro era diventata
la stessa, non aveva potuto negare di essere rimasto ancora più soddisfatto per
la scelta presa. Probabilmente se avesse voluto fare tutto ciò apposta non ci
sarebbe mai riuscito.
«Sì, mi piacerebbe.» Era tentato di chiederle di
vedersi anche quella sera stessa, ma si disse di darsi un contegno. Dov’era
finito il suo proposito di vedere come evolveva la situazione?
Anche a Audrey, dal canto suo, avrebbe fatto piacere
invitare fuori l’illustratore quel giorno, ma aveva promesso a April che le
avrebbe telefonato per una serie di aggiornamenti che doveva darle l’amica.
La pianista chiese un altro paio di notizie a Peter
sulla nuova casa. Lui gliela descrisse, dicendole che si trovava proprio
davanti a un parco pubblico e che, per sua fortuna, era illuminata a
sufficienza per permettergli di disegnare per ore. Osannò qualche altro
dettaglio quando la voce elettronica annunciò la fermata di Plaistow. Quella
era diventata la fermata metropolitana di entrambi, con l’unica differenza che
le loro strade si dovevano dividere proprio lì, dato che abitavano in quartieri
opposti.
Scesero dal mezzo e uscirono sulla strada continuando
a parlare. Appena fuori dalla fermata della metro il cielo iniziò a scaricare
alcune gocce di pioggia e i due si salutarono in fretta, visto che entrambi si
erano dimenticati l’ombrello – non che fosse una novità nel caso di
Peter.
L’intensità della pioggia aumentò durante il tratto
che separava Audrey da Chadd Green st. e appena varcò la soglia di casa fuori
si era scatenato un vero e proprio acquazzone. Disse a se stessa che non
avrebbe più dimenticato l’ombrello, ma sapeva benissimo che mentiva. Si svestì,
mettendo gli abiti ad asciugare accanto alla finestra, dopodiché, infilando la
sua confortevole tuta da casa, prese un asciugamano e cominciò a tamponarsi i
capelli umidicci. Fuori il cielo si era oscurato in modo uniforme, forse quell’acquazzone
sarebbe durato un po’.
Fatta eccezione per l’esito finale del suo rientro le
era piaciuto molto prendere la District line con Peter e vederlo scendere
insieme a lei a Plaistow. La nuova soluzione abitativa del ragazzo dava loro
modo di trascorrere più tempo insieme e semplificava anche la possibilità di
vedersi dopo il lavoro. Dovette ammettere a se stessa che le era mancata quella
routine che era diventata suonare il piano di Tower Hill per poi raggiungere l’illustratore
e prendere la District line insieme. Era quasi sorprendente con che semplicità
la figura di Peter si fosse inserita nella sua vita e ne avesse preso parte.
Ripensò alle parole di Oliver per l’ennesima volta in pochi giorni. Peter
poteva davvero essere il suo motivo per rimanere a Londra? Per rinunciare a
quell’obiettivo che aveva capito di voler raggiungere, ovvero essere accettata
alla BBC Scottish Symphony Orchestra? Poteva essere il suo Sebastian?
Con lui ci stava bene, molto, negarlo era inutile. D’altro
canto stava bene anche in compagnia di Oliver, eppure fra loro era chiaro che non
sarebbe mai potuto esserci altro se non un profondo rapporto d’amicizia.
Si morse il labbro, continuando quella sua diatriba
mentale.
Magari avrebbe potuto provarci; perché no, dopotutto?
Avrebbe potuto chiedere a Peter di uscire con intenzioni diverse dalla semplice
birra per fare due chiacchiere. Avrebbe potuto essere una birra diversa, una
conversazione diversa. In fin dei conti non avendo mai pensato prima a cosa
potesse provare per Peter, automaticamente non si era mai fermata a pensare a
come la facesse sentire stare con lui. Non prima di quel giorno. Lì si era
fermata eccome a pensarci e aveva capito che con lui ci stava bene. Ma così
bene da provarci e rischiare di mandare a monte la loro amicizia?
Sbuffò. Quelle faccende di cuore riuscivano sempre a
rivoltarle lo stomaco. Forse avrebbe fatto meglio a parlarne con April e Sadie,
ma continuava ugualmente a rimuginarci sopra. Decise di riflettere e fare una
lista mentale dei pro e dei contro della sua possibile scelta di farsi avanti
con Peter.
Il contro maggiore era senza dubbio il fatto che
avrebbe potuto rovinare la loro amicizia se lui non fosse stato interessato.
Però c’era di pro che lei, in sua compagnia, ci stava davvero bene.
Tuttavia se fosse stata presa alla Scottish Symphony
Orchestra le cose si sarebbero complicate, in caso anche Peter provasse
qualcosa per lei. Al tempo stesso, però, il suo allontanamento da Londra
avrebbe semplificato le cose qualora lei non avesse avuto possibilità con il
ragazzo.
Era complicato, ma pensò che, con qualche
accorgimento, forse sarebbe riuscita a indagare in modo discreto; in fin dei
conti se avesse prestato attenzione sarebbe riuscita a capire se un po’ di
interesse, da parte di Peter, ci potesse essere o meno. O forse, molto più
semplicemente, le conveniva farsi avanti e smetterla di meditare di continuo
sulla questione. Peter le piaceva, questa era la sua unica certezza, in che
modo, però, avrebbe dovuto scoprirlo e non lo avrebbe di certo capito se le
cose fra loro non fossero cambiate. Non ne era innamorata, lo sapeva, ma non
era scritto da nessuna parte che l’illustratore non potesse essere il suo
Sebastian, quello che sperava tanto di riuscire a trovare. L’amore non si
costruisce in due giorni, dopotutto. Servono tempo, dedizione, cura e sacrificio.
Perciò, forse, fra lei e Peter sarebbe potuto nascere qualcosa di così profondo;
era necessario, però, che entrambi facessero la loro piccola parte. Audrey capì
che lei avrebbe voluto farla, la sua piccola parte, che si sentiva pronta a
provarci, che forse davvero ne valeva la pena. Era da tanto che non
formulava simili pensieri e la cosa la fece sentire disorientata.
Era così immersa nei suoi pensieri che si rese a
malapena conto che il suo cellulare stava squillando. Doveva trattarsi di April
dal momento che stava aspettando la sua chiamata, ma quando afferrò il telefono
e lesse il numero in sovrimpressione si bloccò. La chiamata proveniva da
Glasgow e non poteva che essere il referente dell’orchestra. Accettando quella
telefonata la ragazza avrebbe saputo cosa le riservava il futuro, se ci fosse o
meno una speranza di suonare in un’orchestra di prestigio.
Rispose con una lieve incertezza, ma la sua voce era
ferma appena prese parola.
«Buonasera. Signorina Wright?» Era la stessa voce che
l’aveva contatta la prima volta, cosa che fece capire a Audrey che non vi erano
dubbi sul luogo da cui proveniva la chiamata. Aveva del sorprendente la
rapidità con cui avevano scelto chi prendere come nuovo pianista per l’orchestra;
con tutta probabilità necessitavano di un rapido rimpiazzo.
«Sì, sono io» rispose. Il cuore prese a martellarle
con forza contro lo sterno; doveva tenere davvero a quella cosa se ora si
sentiva così.
«Ah, bene. La chiamo per conto della BBC Scottish
Symphony Orchestra.»
Questo lo sapeva benissimo anche lei, perché non
arrivava subito al dunque?
«Mi rincresce molto doverle dare questa notizia, ma
per l’occupazione di pianista è stato scelto un altro candidato. I responsabili
ci tenevano comunque a farle sapere che la sua audizione è stata ottima e che
non si è trattato affatto di una scelta semplice.»
A Audrey parve di essere improvvisamente sprofondata
in una bolla. Si sentiva ovattata, come se il tempo e lo spazio non le
appartenessero più. Quasi non si rese conto di aver formulato un ringraziamento
scontato per la possibilità e la comunicazione e di aver fatto i convenevoli
conclusivi prima di chiudere la chiamata. Si trovò immobile al centro del
soggiorno di casa, lo schermo nero dello smartphone in mano, il vuoto dentro.
Si era illusa; si era convinta di avercela fatta, di avere fra le mani la più
grande occasione della sua vita. Tutte illusioni. Era per non doversi sentire a
quel modo che di era detta di non farsi aspettative e invece aveva fallito. Si
sentiva impotente e amareggiata. Aveva ancora il Menier Chocolate Factory e il
fatto di non doversi trasferire a Glasgow significava non dover in alcun modo
lottare per i propri rapporti, ma un’occasione come quella l’avrebbe davvero
voluta sfruttare, inutile mentirsi. Si chiese se sarebbe stata in grado di
superare la cosa da sola.
Peter fu il primo a cui pensò. Il volto del ragazzo
quasi gli si dipinse sotto gli occhi. Sapeva che Oliver avrebbe potuto tirarla
subito su di morale, consolarla come solo lui sembrava essere in grado di fare,
farla ridere. Solo che lei, in quel momento, sentì che non aveva bisogno di
quello. Non voleva essere consolata, voleva parlare con qualcuno che la
capisse, che l’aiutasse a comprendere come mai il rifiuto che aveva appena
ricevuto per telefono la faceva stare tanto male se fino a pochi giorni prima
non le importava affatto della cosa. Voleva parlare con qualcuno in grado di
dirle che quello è il suono che fa un sogno che si infrange e che l’aiutasse a
raccogliere i frammenti e a rimetterli insieme con più cura di prima. Oliver
avrebbe potuto dirle tutte quelle cose, ma Audrey sentiva che solo Peter
avrebbe potuto fargliele capire, perché era passato spesso nelle delusioni,
come le aveva raccontato un giorno. Eppure l’innato ottimismo di quel
ragazzo le aveva fatto capire che lui sapeva come prendere le sue sconfitte e
rielaborarle per migliorare la propria arte. Ed era quello che sperava di
riuscire a fare lei.
Come a Glasgow, quando aveva appena finito di suonare,
o al Blue Jam la sera stessa, anche in quel momento pensava solo a Peter.
Oliver non poteva avere torto dato quanto la conosceva bene: c’era di più di
una semplice simpatia a tenerla unita all’illustratore. Il rischio di
rovinare tutto era reale e Audrey non riusciva a ignorarlo, al tempo stesso,
però, capì che la sua voglia di tentare era più forte.
Evangeline imprecò sonoramente mentre aggiungeva latte
all’impasto color cioccolato che stava amalgamando in un’ampia terrina. Peter,
a sedere su una delle sedie al tavolo della cucina, la osservava rimediare al proprio
errore, vedendo il dolce composto diventare sempre più voluminoso.
«Avremo muffin per settimane» disse divertito,
sorridendo in direzione della nuova coinquilina.
«Ve ne rifilerò parecchi da portare a lavoro» replicò
la ragazza. «E a chiunque vogliate. Vedrete quanti ne usciranno, avremo la casa
piena.»
L’illustratore continuò a guardarla divertito,
prendendo qualche spunto mentale per “prestare” a qualcuno dei suoi personaggi
il modo in cui Evangeline aggrottava le sopracciglia mentre era nervosa. In
poco più di una settimana Peter aveva capito che quella ragazza le piaceva
proprio. Non si faceva alcun problema a convivere con due uomini, sapeva tenere
una conversazione a livelli di interesse alto ed era piuttosto diretta nel dire
le cose, caratteristica che la rendeva ancora più apprezzabile agli occhi del
ragazzo. Inoltre avevano gusti musicali molto simili, cosa che le donava altri
punti extra. Anche se inizialmente cambiare casa gli era sembrato più che altro
un modo di scappare da Iris, ora che si era sistemato aveva capito che, invece,
l’idea era stata ottima. Avvicinandosi al centro città impegnava molto meno
tempo per andare a lavorare allo studio e vivere in tre sotto lo stesso tetto era
molto più semplice che in quattro. Poi, per sua fortuna, la terza inquilina era
Evangeline – che aveva anche il buon gusto di bussare alla porta prima di
entrare.
«Dammi una mano con questi, per favore» gli disse a un
tratto lei, indicando con un cenno i piccoli contenitori di carta colorata per
i muffin. Peter obbedì, divertito. Si alzò dal suo posto e raggiunse la
coinquilina, aiutandola a versare l’impasto profumato in quelle piccole
porzioni, dando vita a un piccolo esercito di muffin al cioccolato.
Quando la prima infornata fu pronta e la seconda era
in forno, Peter e Evangeline erano seduti ai lati opposti del tavolo della
cucina, a portare avanti una conversazione sulle allergie – conversazione che
Peter non aveva capito ancora bene da dove fosse spuntata. Mentre la
ragazza era nel mezzo di un aneddoto che vedeva coinvolto il padre e un paio di
gatti – e che incuriosiva parecchio l’illustratore – il campanello di casa
suonò. Fu un trillo breve, quasi indeciso, al punto che i due inquilini si
guardarono per essere certi di averlo sentito veramente.
«Aspetti qualcuno?» domandò Peter.
Evangeline scosse la testa. «Forse Damian si è
dimenticato a casa le chiavi» ipotizzò.
Il ragazzo fece spallucce e si alzò per andare all’ingresso.
Aprì la porta convinto di trovarsi davanti Damian, come Evangeline aveva suggerito,
ma si sbagliava.
«Audrey» mormorò, sorpreso alla vista della pianista.
Mai avrebbe sospettato di trovarsela lì, non annunciata alla porta di casa sua. La
ragazza aveva le braccia incrociate al petto e sembrava imbarazzata, il tessuto
leggero della blusa smosso dal lieve vento. Fece scorrere le dita sulla treccia
che le ricadeva sulla spalla sinistra prima di decidersi a parlare. «Mi
dispiace piombare qui così, senza preavviso.»
Peter avrebbe voluto dirle che la sua era l’improvvisata
migliore che potesse desiderare, ma si limitò a sorridere rispondendo: «Beh,
nessun problema. Tanto è sabato pomeriggio e non ho molto da fare.»
«Chi è?» La voce di Evangeline raggiunse il ragazzo
dalla cucina.
«È Audrey» rispose lui.
«Così non mi aiuti.»
«Una mia amica» tagliò corto Peter, davanti a Audrey,
che continuava a guardarlo.
«Chiedile se vuole dei muffin» tentò ancora
Evangeline.
L’illustratore scoppiò a ridere a quelle parole,
mentre le pianista ancora non sapeva bene cosa stava accadendo.
«Vuoi dei muffin?» domandò Peter infine, sorridente. «Ne
abbiamo un piccolo esercito.»
«Oh, ehm, direi di essere a posto, grazie» rispose
lei, che ancora non aveva capito l’esatta dinamica della cosa. La situazione,
però, cominciava ad agitarla. Quando aveva deciso di raggiungere casa di Peter –
sebbene non aveva idea di dove abitasse prima di quel momento – aveva seguito
un impulso e aveva fatto il possibile per ignorare le possibili conseguenze e
smettere di preoccuparsi e fino a poco prima c’era anche riuscita. Solo davanti
agli occhi bruni di Peter si era bloccata e il fatto di essere ancora lì,
davanti a lui a guardarlo, non la faceva affatto sentire tranquilla. Cominciò a
sospettare che non sarebbe affatto riuscita a dirgli ciò che aveva deciso, ma
ormai che c’era valeva la pensa farglielo sapere.
Se solo il ragazzo non fosse stato concentrato sull’azzurro
degli occhi della pianista, avrebbe potuto vederla tormentarsi le mani in grembo
mentre prendeva fiato per dirgli: «Ti va di fare due chiacchiere?»
L’illustratore venne colto di sorpresa alla domanda,
ma non poté negare di esserne stupito in senso positivo. «Certo» disse
poi, sfoderando uno dei suoi sorrisi più sinceri. «Vuoi entrare?»
«N-non mi va di disturbare. È una bella giornata oggi,
potremmo andare a fare due passi. O sederci al parco qui di fronte» propose
Audrey dopo una lieve incertezza.
Peter capì che, forse, la ragazza voleva dirgli
qualcosa di personale e non voleva che Evangeline la sentisse. Un’idea gli
balenò in mente, ma la cacciò via dicendosi di non farsi illusioni. Stava per
acconsentire alla proposta di Audrey quando gli venne in mente una cosa. «Va
bene, volentieri» acconsentì. «Solo, puoi aspettare un momento, devo prendere
una cosa.»
La ragazza gli diede il via libera e lui scomparve in
casa, riaffiorandovi qualche minuto dopo con una borsa di stoffa fra le mani. «Possiamo
andare» disse, facendo cenno a Audrey di incamminarsi. Salutò la coinquilina
con un urlo e si incamminò insieme alla pianista verso il parco, che
raggiunsero attraversando semplicemente la strada. Quando si
sistemarono su una panchina, Peter moriva dalla curiosità di sapere perché la
ragazza era venuto a cercarlo e, soprattutto, per quale motivo apparisse tanto
tesa. Non aveva ancora detto una sola parola da quando si erano allontanati da
casa, se non un semplice ringraziamento quando lui l’aveva fatta passare per
prima all’ingresso del giardino. Doveva esserle successo qualcosa e,
probabilmente, era in cerca di conforto da parte di un amico.
«Come stai?» gli chiese lei di punto un bianco, quasi
a spezzare l’atmosfera.
«Sto bene» rispose lui, colto alla sprovvista dalla
domanda. «E tu? Sei più silenziosa del solito» osservò con un sorriso. Non
sapeva se la sua mossa fosse stata una buona idea, magari Audrey era giù di
morale per qualcosa di cui non voleva parlare, fatto sta che vederla in quello
stato gli provocava un forte dispiacere.
«Lo sono, eh?» disse lei, sforzandosi di sorridere.
«No, no, non fraintendere. Mi piace parlare con te»
tentò, ma si bloccò appena Audrey si voltò a guardarlo. Che stava succedendo?
Peter non riuscì a resistere a lungo a quegli occhi e posò lo sguardo sulla
borsa di stoffa che aveva con sé. La pianista non sembrava intenzionata a
parlare di cosa la faceva stare male, o forse era necessario che le prime
parole a riguardo provenissero da lei; in ogni caso incalzarla non era la
tattica giusta, Peter lo capì piuttosto in fretta. Toccava a lui fare qualcosa
e gli venne in mente una sola idea.
«Volevo farti vedere una cosa.»
Estrasse dalla borsa un libro dalla copertina rigida, nera
e bianca. Il titolo, scritto con un font che sembrava la calligrafia di
qualcuno era: In Tempo. Peter lo
allungò a Audrey e a lei bastò vedere i disegni sulla copertina per capire
subito di cosa si trattava.
«È il tuo libro?» domandò all’illustratore, anche se
si trattava più che altro di una domanda retorica, visto che aveva riconosciuto
lo stile del ragazzo. La pianista cominciò a sfogliare il volume una pagina
alla volta, prestando particolare attenzione ai disegni. Li trovò splendidi, di
una finezza unica. Le piaceva molto lo stile di Peter e non solo perché si
trattava di lui, trovava davvero che avesse un grande talento, che fosse in
grado di prendere anche le scene all’apparenza più semplici e trasformarle in
qualcosa di unico, di sospeso. Ogni immagine di quel libro le sembrava
perfetta, dai personaggi agli sfondi, fino ai dettagli.
Il ragazzo, intanto, continuava a osservare il profilo
elegante di Audrey mentre lei sfogliava piano le pagine; sorrideva ed era
incantevole. Tuttavia sapeva in anticipo che ci sarebbe stato un momento in cui
la sua espressione sarebbe mutata e, quando lei voltò la pagina in questione,
il sospetto di Peter divenne reale.
La pianista osservò la figura femminile della storia,
appena comparsa nel racconto. Ne guardò i capelli chiari, acconciati sulla
testa, l’abito rosso dall’ampia gonna, le braccia sottili e le mani dalle dita
così affusolate che si domandò come avesse fatto il ragazzo a fare tratti così
fini con un pennello. Sollevò lo sguardo su Peter senza dire nulla, sorpresa, e
lo trovò già intento a osservarla, sorridente ma lievemente imbarazzato.
«Indovina a chi mi sono ispirato» le disse, cercando
di apparire disinvolto.
«Mi prendi in giro?» chiese Audrey, il tono di chi non
può credere a quello che gli stanno dicendo. Non era arrabbiata, affatto e per
Peter era un ottimo segnale.
«L’ho disegnata dopo uno dei nostri primi incontri.
Volevo fosse una figura elegante, aggraziata. Mi hai dato l’ispirazione che mi
serviva» continuò. Cominciava a sentirsi piuttosto in imbarazzo a raccontare
tutto ciò a Audrey, ma dal modo in cui lei lo guardava capì che poteva farlo
tranquillamente: aveva gradito quella sorpresa, i suoi occhi non
mentivano.
La pianista tornò a dedicare la propria attenzione ai
disegni, ancora piacevolmente sorpresa nel vedere quella piccola e delicata
figura che le assomigliava così tanto. «Io... non so cosa dire.»
«Non devi dire per forza qualcosa. Spero solo che
questa cosa non ti metta troppo in imbarazzo. O che non ti abbia infastidita»
disse lui, stringendosi nelle spalle.
«No di certo, fidati» rispose Audrey, lasciandosi
andare a una risata. «So di avertelo detto milioni di volte, ma sei
davvero bravo.»
«Ti ringrazio.»
Peter notò che la ragazza sembrava essere tornata la
solita. Non c’era più traccia di quell’alone di tristezza e preoccupazione che
aveva nel momento in cui si era presentata alla sua porta. Forse ci aveva visto
giusto, magari aveva solo bisogno di parlare un po’ con qualcuno in modo da
distrarsi.
Audrey continuò a guardare il libro fino all’ultima
pagina, un disegno alla volta. «È per questo che ti hanno fatto penare tanto?»
domandò, osservando la quarta di copertina. Allungò il libro a Peter, che gli
lanciò un rapido sguardo prima di riporlo nuovamente nella borsa di stoffa. «Sì,
per il mio Fred Astaire che poi si è trasformato in
Gene Kelly» rispose, scimmiottando un po’ la frase. «Però per il personaggio
femminile non hanno fatto storie» concluse, lanciando un sorriso a Audrey.
Lei distolse lo sguardo, un lieve sorriso a sua volta.
Strinse la stoffa dei pantaloni con la mano destra, così che il ragazzo non la
vedesse, e si fece forza prima di dire in un sol fiato: «Non sono stata presa
dalla BBC.»
Peter recepì la notizia in ritardo, ma riuscì
ugualmente a comprendere il messaggio. Ecco cosa turbava la pianista: il
rifiuto. Si voltò per guardarla negli occhi, ma lei stava tenendo lo sguardo
basso, sulle proprie mani.
«Oddio...mi dispiace tanto» le disse. Avrebbe voluto
fare di più, dirle qualcosa di più rincuorante e utile di un “mi dispiace tanto”
ma lì per lì non gli venne in mente nulla. Era solo dispiaciuto di vederla così
e di sapere cosa provava, perché lui sapeva perfettamente l’effetto che fa
sentire che le proprie capacità non sono sufficiente per afferrare l’obiettivo
che ci si era prefissati.
«È solo che non so come sentirmi» continuò la
pianista. Peter smise di arrovellarsi il cervello e si concentrò su di
lei.
«Quando me lo hanno detto mi sono sentita crollare il
mondo addosso. È solo che, ripensandoci, è strano, perché all’inizio non ero
neanche così sicura di volercela fare, di voler diventare pianista della Scottish Symphony Orchestra. Ma poi...» prese fiato. «Forse
lo volevo davvero, se no non mi sentirei così ora.»
«Beh, io penso che tu, comunque, ci tenessi. Era la
tua grande occasione e tutti tengono alle proprie grandi occasioni. Sempre se
hanno a cuore ciò che fanno e tu sei una di queste» disse lui. Gli sembrò la
cosa migliore da dire, soprattutto perché credeva molto in quelle sue stesse
parole. Non sapeva se potesse servire o meno a Audrey, ma sentiva di doverlo
dire.
La pianista annuì alle sue parole; era bello sapere di
poter contare su di lui.
«Certo che sono dei pazzi. Lasciarsi sfuggire così una
con le tue capacità» borbottò il ragazzo.
«Ok, non esagerare. Tu sei di parte» replicò lei, ma
non poté negare che le parole di Peter le avessero fatto bene. Si sentì
rinvigorita e decisa ad andare avanti. «Per lo meno, ora non dovrò
scegliere fra Londra e Glasgow. Se mi avessero presa alla BBC sarebbe stata una
decisione che avrei dovuto affrontare.»
«Ti avrebbe messo in difficoltà?»
Audrey si strinse nelle spalle. Cominciava a sentirsi
piuttosto agitata ma non voleva darlo a vedere. «Penso di sì. Non è semplice
allontanarsi dai propri legami, anche se penso che sarei riuscita comunque a
far sì che i rapporti con i miei amici rimanessero gli stessi. Sono piuttosto
brava in questo» ammise. «Ma davvero, non so dire se alla fine sarei andata
oppure no.»
«Beh, posso capirlo. Però, se mi permetti, io fossi
stato in te avrei comunque deciso di andare, indipendentemente da tutto. È
vero, ti saresti allontanata dai tuoi amici, ma se, come dici tu, sei brava a
mantenere saldi i rapporti allora valeva la pena tentare.»
A mano a mano che parlava, Peter si domandava se avrebbe
fatto lo stesso discorso nel caso Audrey fosse stata presa nell’orchestra della
BBC. Si disse che no, forse non lo avrebbe fatto, perché non avrebbe voluto
vederla andare via senza aver avuto prima il tempo di dirle cosa provava per
lei. Ora che quel rischio non c’era, però, quelle parole gli uscirono quasi
senza pensarci. Al tempo stesso avrebbe anche voluto dichiararsi, dirle che,
per quanto potesse sembrare orribile e pretenzioso, il fatto che lei rimanesse
a Londra gli dava un senso di pace. Cacciò quel pensiero, sentendosi in colpa e
lasciò che le parole riprendessero a uscirgli di bocca: «Che poi, alla
fine, cosa c’è a Londra che non puoi trovare anche a Glasgow?»
«Tu.»
Il sorriso che si era dipinto prima sul volto di Peter
scomparve all’improvviso. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma un mormorato:
«Cosa?» furono le uniche sillabe che gli uscirono di bocca.
Audrey alzò lo sguardo su di lui. Tuttavia appena
incrociò i suoi occhi tornò ad abbassarlo.
«Tu» ripeté. «Se avessi dovuto decidere se andare o
meno a Glasgow io...ci avrei dovuto pensare, ecco. Perché là non ci saresti
stato tu.»
Era agitata e il cuore le batteva in modo frenetico.
Parlava in fretta, quasi senza prendere fiato, convinta che se si fosse fermata
non sarebbe più riuscita a dire altro. Il ragazzo, accanto a lei, continuava a
fissarla incredulo, sperando di vederla sollevare gli occhi verso di lui.
«Ci ho messo un po’ per capirlo» continuò la pianista,
allo stesso modo di prima. «Tu...mi piaci. A-ancora non so in che modo, ma è
chiaro che non è una semplice simpatia o una normale amicizia. È... è qualcosa
di più. E mi chiedo, se avessi dovuto decidere se andare o meno a Glasgow cosa
avrei fatto? Te lo avrei detto? Avrei fatto finta di niente? Non riesco a
smettere di pensarci. E volevo che tu lo sapessi.»
Audrey si zittì tutto d’un tratto, decidendosi
finalmente a tornare a guardare Peter. Quest’ultimo non poté fare a meno di
sentirsi confuso. Non aveva capito con esattezza la dinamica dei fatti e anche
continuare a pensarci non serviva a molto. Sapeva solo che quella che gli
si era appena presentata poteva essere la sua occasione più importante e che,
se se la fosse lasciata sfuggire, di certo non si
sarebbe mai perdonato la cosa. Doveva giocarsi tutto in quell’unico
frangente e dire qualcosa in grado di lasciare intendere a Audrey che
anche per lui valeva lo stesso, che anche lui, per lei, provava “qualcosa
di più”. Tuttavia mentre continuava a guardare negli occhi la pianista – con ancora
la sua migliore espressione sorpresa dipinta sul volto – le parole
faticavano a uscirgli; affioravano a frotte nella sua mente, caotiche e senza
un ordine preciso e nei secondi concitati che lui stava attraversando dare un
ordine a quel caos gli risultò impossibile. Decise di cambiare tattica, puntando
su qualcosa di più immediato e, decisamente, di molto più effetto. Non esitò
neanche per un secondo, perché pensò che non avesse senso, a quel punto,
lasciarsi prendere anche solo da una leggera incertezza; esitare era spesso un
grave errore e sbagliare era l’ultima cosa di cui Peter aveva bisogno in quel
momento. Si avvicinò alla ragazza e, prima che lei potesse capire cosa stava
succedendo, la baciò.
Fu un bacio semplice, ma non per questo privo di
significato. L’illustratore sapeva che si stava giocando tutto con quel gesto,
per tale motivo passò il tempo con la preoccupazione di vedersi respinto,
scoprendo di conseguenza di avere rovinato tutto. Nonostante quanto gli aveva
appena detto Audrey, infatti, non era così sicuro di stare facendo la cosa
giusta. Tuttavia la pianista non fece nulla per allontanarlo, al punto che
quando il ragazzo si separò da lei, ruotò il busto verso di lui e lo baciò di
nuovo. Allora Peter si lasciò andare; le sfiorò il viso con le mani, sentì i
suoi capelli fra le dita e si avvicinò ancora di più. Audrey, dall’altra
parte, comprese che il subbuglio che sentiva dentro di sé non poteva che essere
positivo. Quel ragazzo le piaceva, moltissimo e tutte le sensazioni che il
contatto con le sue labbra gli provocavano non potevano fare altro che
confermare la cosa. Lo ringraziò mentalmente per averla baciata, per avere
trovato lui la forza di compiere quel gesto che la stava aiutando a capire la
realtà dei fatti.
«Era questo che cercavo di dirti» disse lei,
separandosi un momento da ragazzo.
Peter sorrise. «Ah sì? Assomiglia molto a quello che
volevo dire io.» Dopodiché la baciò ancora. Quell’ultimo bacio fu il più lungo
dei tre e diede il tempo ai due di registrare tutto ciò che prima era sfuggito.
Probabilmente sarebbe durato ancora se non fossero stati interrotti. Le prime,
grosse, gocce d’acqua, fecero intuire ai ragazzi che stava arrivando un
acquazzone. Alzarono entrambi lo sguardo al cielo e capirono di avere ragione:
nell’arco di tempo che avevano impiegato per capire che fra loro c’era
qualcosa, nubi nere si erano affacciate sulla città e la stavano coprendo a
grande velocità. Era il primo di una lunga serie di acquazzoni estivi e, anche
se duravano in media poche decine di minuti, quando si abbattevano su Londra era
meglio essere al coperto.
Peter guardò Audrey. «Che ne dici, ora ti va quel
muffin?»
«Molto volentieri» rispose lei, mentre l’acqua già
cominciava a scendere copiosa.
L’illustratore si alzò, prese per mano la pianista e
insieme si avviarono in gran fretta fuori dal parco, verso casa di Peter. Mentre
lo seguiva, tenendolo per mano, Audrey non riuscì a fare a meno di ridere e
sentì che anche lui la stava imitando. Era come essere tornata ai tempi della
sua prima storia, quando tutto sembrava magico e perfetto. Mentre l’acqua le
bagnava i capelli le sembrava quasi di essere dentro un film, uno di quelli che
fanno stare bene, che ti fanno venire voglia di provare tu stessa quell’esperienza.
L’unica differenza era che tutto ciò era reale, che non sarebbero comparsi i
titolo di coda all’improvviso, in uno dei momenti migliori. Era felice di
averci provato, di aver deciso di andare fino in fondo. Dopotutto, se non lo
avesse fatto, ora non si troverebbe neanche lì, a ridere sotto la pioggia
tenendo per mano il ragazzo che, come Oliver le aveva detto, avrebbe potuto
essere il suo Sebastian.
Salendo la rampa di scale, Peter rallentò
istintivamente il passo. Stava riascoltando per la seconda volta la nuova
canzone dei Bastille, in cerca di sfumature che al
primo ascolto gli erano sfuggite. La band aveva da poco rilasciato un nuovo
singolo – forse presagio di un intero album – e dato che si trattava della band
preferita dell’illustratore, il ragazzo aveva iniziato la giornata proprio con
quella canzone che, neanche a volerlo, già adorava.
Forse era merito del brano, ma il suo umore era ottimo,
quel pomeriggio. Allo studio aveva avuto una giornata proficua, incontrando la
scrittrice del nuovo libro a cui stava lavorando. L’autrice era molto
conosciuta nell’ambiente dei libri illustrati e il fatto che avesse
espressamente chiesto di Peter Bayle aveva suscitato
un moto d’orgoglio dentro il ragazzo. Nella sua testa già vi frullavano
svariate idee, bozze per i personaggi, colori per i fondali e la canzone che
stava ascoltando gli diede nuova ispirazione. Girò la chiave nella serratura
della porta, spegnendo la musica.
«Ciao» salutò appena fu in casa. La risposta provenne
dalla camera da letto e lui si avviò là. «Come stai?» chiese ancora prima di
entrare.
Trovò Audrey seduta sul letto, il portatile aperto
poco più avanti rispetto a lei. Aveva una coperta sulle spalle e indossava una
delle felpe di Peter – la letterman nera e bianca–
nonostante ci fosse ancora piuttosto caldo per essere fine settembre. Aveva
da poco iniziato a portare gli occhiali per la sua lieve miopia e la spessa
montatura nera che aveva scelto donava particolarmente al suo viso fine,
facendo risaltare gli occhi azzurri.
Per i due fu inevitabile sorridere quando incrociarono
lo sguardo dell’altro. Stavano insieme da un paio di mesi, ormai, ma per
entrambi era come se fossero passati solo pochi giorni. Era ancora uno
scoprirsi a vicenda, per loro, parlare per ore di cose di cui avevano già
disquisito e ridere alla scoperta dell’interesse comune. Forse prima o poi
tutto quello sarebbe finito e si sarebbero ritrovati come una di quelle coppie
che cena in silenzio, ma erano entrambi piuttosto convinti di non esserne i
tipi. Alla base della loro storia c’era un’amicizia, perciò di trattava di basi
solide; inoltre avevano trovato nell’altro ciò che cercavano in se stessi e
questo significava molto. Audrey non aveva dubitato un secondo della sua scelta
e Peter nemmeno.
In quel lasso di tempo la ragazza era riuscita a
superare il rifiuto della BBC Scottish Symphony
Orchestra ed era tornata a essere la consueta e innamorata pianista del Menier
Chocolate Factory. Viveva ancora nell’appartamento di Chadd
Green, nonostante le spese d’affitto. Non era riuscita ad abbandonare quella
casa per diversi motivi – le ricordava Oliver, non voleva rischiare di
incontrare dei coinquilini problematici – così aveva preferito fare economia e
applicarsi in modo da riuscire a sostenere da sola l’affitto. Per sua fortuna,
quella casa non aveva un costo molto elevato. Al tempo stesso, inoltre, sperava
che presto Peter si sarebbe trasferito da lei, lasciando il suo appartamento di
Florence Rd. Anche il ragazzo avrebbe parlato
volentieri della possibilità di spostarsi in pianta stabile in Chadd Green, ma era preoccupato fosse ancora troppo presto
affrontare l’argomento; era un passo importante ed entrambi dovevano esserne
ugualmente sicuri. Così lasciavano scorrere il tempo, in attesa che uno dei due
trovasse la forza di parlarne.
«Un po’ meglio» disse Audrey, in risposta alla domanda del
ragazzo. «Ho ancora qualche linea di febbre, ma tutto sommato sto bene.» Omise
di dire per l’ennesima volta che solo una con degli anticorpi ridicoli poteva
ammalarsi in quel periodo dell’anno, ma Peter le aveva già mostrato una certa
solidarietà a riguardo. La pianista mise in pausa il film e tornò a guardare l’illustratore,
che sembrava sovrappensiero. Peter, invece, fece vagare lo sguardo sulle pareti
alle spalle di Audrey, senza un reale motivo. Aveva ormai imparato cosa vi
avrebbe trovato sopra; il poster di La La
Land, quello di Star Wars, una serie
di foto, qualche spartito musicale, alcuni appunti. Tuttavia si accorse che
erano comparsi anche degli altri foglietti, dei disegni. Suoi disegni. Ne aveva
regalati diversi, alla ragazza, in quei primi mesi della loro relazione; per
lui era frequente e molto semplice disegnare la pianista. Ogni volta che
pensava a lei non resisteva alla tentazione e, se poteva, cominciava ad
abbozzare la sua figura su un foglietto di carta, aspettando di avere il tempo
sufficiente per stenderci sopra il colore senza essere interrotto. Dopo che le
aveva mostrato il primo, aveva capito dai suoi occhi che quel regalo le era
piaciuto e gli altri lavori erano arrivati di conseguenza. Audrey ne aveva
appesi quattro alle pareti, incluso quello che lei definiva il suo preferito:
una versione cartonizzata di sè
in braccio a Chewbecca.
La ragazza seguì lo sguardo di Peter, notando che stava osservando
i suoi lavori. Gli sorrise e non servì aggiungere altro perché si intendessero.
«Che film stai guardando?» le
chiese poi lui, avvicinandosi al letto.
«Star Wars. Mi sto facendo la
maratona.»
«Quale trilogia?»
Audrey si lasciò sfuggire una smorfia, stringendosi nelle spalle.
«La prequel.»
«Oh, pessima scelta» la rimproverò lui in modo
scherzoso.
«Lo so. Però c’è Ewan McGregor»
continuò lei, come se la presenza dell’attore scozzese potesse perdonarla di
tutto.
A Peter non andava totalmente a genio l’amore
platonico e incondizionato che la sua – ufficialmente – ragazza provava per McGregor, sapeva di non poter competere con il fascino dell’uomo,
soprattutto se conciato come Obi-Wan Kenobi; tuttavia
rimaneva il fatto che nella conquista al cuore di Audrey, concretamente, aveva
vinto lui, quindi sotto quel punto di vista non aveva motivo di temere McGregor; in un certo senso si sentì migliore di lui,
consapevolezza che fece montare la sua autostima all’improvviso e senza un
reale motivo.
Alla fine la pianista chiuse il portatile, decidendo di dedicare
la sua attenzione esclusivamente al ragazzo.
«Ti ho preso della cioccolata.» Peter sollevò una barretta dall’incarto
argentato, mostrandola a Audrey. Era da sempre un sostenitore del fatto che il
cioccolato risolvesse gran parte dei problemi – più o meno come il professor
Lupin di Harry Potter – specie quando si era ammalati.
La ragazza si lasciò sfuggire un lieve “oh” davanti al gesto che
lui le aveva riservato, dopodiché afferrò una lettera che aveva accanto a sé
sul letto e la rigirò fra le mani.
«Ho anche io qualcosa per te» disse, sollevando la busta bianca
davanti al volto. «Oggi, in un impeto di energia, mi sono avventurata fino al
piano terra per incontrare Damian. Mi ha detto che ti è arrivata questa e
voleva fartela avere subito.»
Tese la lettera verso Peter, che le diede in cambio la tavoletta
di cioccolato. Lui parve abbastanza confuso dalla situazione. Si chiese cosa
potesse essere di tanto importante da portare Damian a Chadd
Green – sebbene non abitasse così lontano – e quando afferrò la busta e lesse
il nome del mittente, spalancò gli occhi, sentendosi improvvisamente nervoso.
Proveniva dal GAE Studios di Edimburgo.
Era la risposta che Peter stava aspettando, il verdetto alla
candidatura che aveva inviato cinque settimane prima, quando lo studio scozzese
aveva annunciato che cercava nuovi illustratori da assumere. Ne usciva circa
uno ogni due anni di quegli annunci, ciò che per il ragazzo non era altro se
non una grande occasione. Era la seconda volta che inviava la sua candidatura e
il portfolio migliore che aveva nella speranza di vedere i suoi disegni
accettati, di sentire che il suo modo di lavorare era stato considerato all’altezza
dello studio di animazione. A quel nuovo tentativo, Audrey gli aveva dato il
sostegno di cui lui sentiva di avere bisogno mentre compilava la domanda di
candidatura.
Osservò ancora il logo dello studio nell’angolo destro della
busta, fremendo dalla voglia di leggere il verdetto, ma intimorito dalla cosa
al tempo stesso. Se fosse stato accettato avrebbe dovuto trasferirsi a
Edimburgo e, ora che aveva Audrey, quella prospettiva lo preoccupava un po’. Al
tempo stesso, però, quando aveva parlato con la pianista della cosa, lei gli
aveva fatto intendere che se le cose fossero andate in quella direzione, sarebbero
riusciti a trovare una soluzione, una che confacesse a entrambi. Dopotutto la
ragazza aveva iniziato a suonare nei jazz club da qualche settimana,
intenzionata a fare il meglio per entrare in quell’ambiente musicale che le
piaceva tanto e in una delle loro recenti conversazioni ci aveva tenuto a
ricordare al ragazzo che a Edimburgo c’erano ottimi jazz club.
Peter sapeva che non era la pianista il motivo per cui temeva
tanto di aprire la busta. Era il verdetto a spaventarlo, qualunque fosse stato.
Se fosse stato positivo avrebbe significato dover riscrivere completamente la propria
vita. Al contrario, invece, vedersi respinto nuovamente dal GAE Studios avrebbe rappresentato per lui un durissimo colpo.
Scambiò uno sguardo con Audrey, che lo incitò ad andare avanti,
per poi concentrarsi sulla barretta di cioccolato.
«Peter ma questo è cioccolato fondente» gli disse.
«A te piace» rispose il ragazzo, ma era chiaro che stesse pensando
a tutt’altro.
«No, piace a te.»
«Ah, scusa» continuò lui con lo stesso tono assente di poco prima.
Audrey lasciò perdere la cioccolata, posando la barretta sul letto e rimase a
guardare Peter che, presa una lunga boccata d’aria, forzava un lembo della
busta per poterla aprire. Si sedette sul bordo del letto, vicino alla pianista
ed estrasse la carta intestata dello studio di animazione. Spiegò il foglio,
sfiorandone la superficie.
Audrey si avvicinò a lui e posò il mento sulla sua spalla per
poter leggere le stesse parole del ragazzo. Scorse le righe di testo che
certamente stava guardando anche lui e appena ebbero finito entrambi di
leggere, nessuno dei due parlò. Il ragazzo sentì Audrey avvicinarsi di più a
lui, cingergli la vita con le braccia.
«Mi dispiace tanto, Pete» gli disse, lasciandogli un lieve bacio
sul collo.
Lui non disse nulla. Teneva gli occhi ancora fissi sul testo della
lettera, sentendosi totalmente annichilito. Era stato respinto. Di nuovo, per
lo studio scozzese, i suoi lavori non erano “sufficientemente originali”.
Ancora una volta le sue capacità non erano state considerate all’altezza, il
suo meglio non era bastato. Era stato uno schiaffo in pieno volto e faceva
male, moltissimo.
«Sembra che dovrai rimanere ancora un po’ qui a Londra con me» gli
disse lei, tentando di stemperare un po’ l’atmosfera. «A quanto pare gli
scozzesi non ci vogliono.»
Sapeva quanto era stato duro per Peter il colpo che aveva appena
ricevuto. Nessuno gli avrebbe detto di no se avesse visto con quanto amore e
passione il ragazzo si dedicava al disegno. Purtroppo, però, la concorrenza era
sempre più spietata della dedizione.
Alle parole di Audrey, Peter sorrise. Per quanto il rifiuto della
GAE Studios facesse male, la sua mente gli disse di
concentrarsi solo sulla pianista in quel momento, al modo in cui gli si era
stretta, al tocco delle sue mani. Con lei accanto sembrava tutto più facile da
affrontare, meno ingiusto, meno doloroso. Si voltò verso di lei per poterla
abbracciare, stropicciando nella mano la lettera di rifiuto. Audrey si
accoccolò fra le sue braccia come un gatto, dandogli tutto il tempo di cui
aveva bisogno.
A Peter bastarono pochi istanti per sentirsi meglio, per
ricordarsi che poteva ancora perfezionarsi, migliorare ulteriormente fino a
ricevere il riconoscimento a cui ambiva tanto. Anche se non fosse mai arrivato,
però, capì che avrebbe imparato a convivere con la cosa. Finché accanto a lui
ci fosse stata Audrey, non aveva bisogno di altro.
Ciao a
tutti.
Siamo
arrivati alla fine di questa storia. Ci tenevo a rubarvi solo un altro paio di
minuti per ringraziarvi di cuore di aver letto fino in fondo il racconto di
Audrey e Peter. So che si è trattato di una storia “lenta” (volutamente, ci
tengo a precisare), ma sono ugualmente contenta di sapere che, nonostante i
tempi che per alcuni possono essere eccessivamente dilatati, questo lavoro
abbia ugualmente trovato dei sostenitori. Grazie davvero.
Ultimissima
cosa, se qualcuno volesse provare a indovinare il presta volto di Peter mi
farebbe piacere xD
Grazie
ancora! Al momento sto lavorando a una nuova storia, sarebbe bello poter
ritrovare qualcuno di voi, nel caso.