Qualcuno nella folla

di MadAka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** XVIII ***
Capitolo 19: *** XIX ***
Capitolo 20: *** XX ***
Capitolo 21: *** XXI ***
Capitolo 22: *** XXII ***
Capitolo 23: *** XXIII ***
Capitolo 24: *** XXIV ***
Capitolo 25: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** I ***


 

 

 

C’era un inspiegabile profumo di vaniglia fuori dal Menier Chocolate Factory. Audrey se ne accorse appena mise il primo piede oltre l’ingresso laterale del teatro, quello che consentiva l’accesso direttamente alle quinte. La ragazza inspirò quell’odore, lo sentì solleticare la sua fantasia e la sua memoria – la moltitudine di ricordi racchiusa nel profumo della vaniglia – infine si avviò a passo sicuro lungo Southwark St. in direzione del London Bridge.

In quell’inizio di marzo la ragazza, una giovane di quasi ventisette anni, una crocchia di capelli castani chiarissimi e perennemente spettinati, camminava stringendosi nelle spalle, nella speranza di riuscire a sfidare al meglio la fredda brezza che saliva dalle acque del Tamigi. Sotto il cappotto rosso, le forme del suo corpo scomparivano, nascondendo a tutti le braccia lunghe e il seno piccolo.

Mentre camminava verso la fermata della metropolitana, Audrey ricominciò a ripetere mentalmente i passaggi della canzone che stava imparando. Ripassò con attenzione ogni singola nota, mentre le dita si muovevano istintivamente a ripercorrere la superficie dello strumento.

Le piaceva quella canzone, moltissimo. Le fu inevitabile sperare che il giorno dello spettacolo arrivasse presto, sebbene fosse consapevole mancassero ancora alcuni mesi alla prima.

Audrey lavorava come pianista nell’orchestra del Menier Chocolate Factory, un teatro storico vicino al London Bridge. Suonare in quell’orchestra non era come suonare per la London Symphony Orchestra, ma a lei piaceva ugualmente moltissimo. La ragazza amava suonare il pianoforte e bastava quello a renderla felice: il luogo in cui si esibiva passava sempre in secondo piano. Inoltre le piaceva particolarmente il Menier, così come le strade che doveva percorrere per andare alla fermata della metropolitana.

Ogni giorno, alle diciassette, Audrey usciva dal teatro, al termine delle prove, si incamminava per raggiungere la Tube, alla stazione di Tower Hill e prendere la metro verde, la District line, per tornare a casa. Ciò significava percorrere a piedi un tragitto di venticinque minuti ogni sera, che la ragazza si sarebbe potuta tranquillamente evitare servendosi della fermata di Monumets, che era a metà strada. Per svariato tempo, quest’ultimo era il tragitto che aveva compiuto ogni giorno, tuttavia, da ormai un mese, Audrey preferiva i venticinque minuti a piedi per salire sulla metro a Tower Hill station.

Il motivo era uno soltanto e, dopo che esso aveva fatto la sua comparsa, nulla sarebbe stato un grado di far cambiare il nuovo percorso della ragazza.

All’ingresso della stazione metropolitana di Tower Hill, subito dopo i tornelli di accesso, nell’ampia sala che si apriva sulle diramazioni dei corridoi sotterranei, era stato collocato un pianoforte, accessibile a chiunque avesse voluto suonarlo.

Era uno splendido pianoforte verticale, laccato di nero, trattato con cura dai frequentatori della stazione metropolitana, inclusi quelli che ci si sedevano solo per suonare melodie improvvisate. A differenza di questi ultimi, Audrey sapeva bene cosa comporre sui tasti di quello strumento e ogni giorno, prima di prendere il treno e tornare a casa, si fermava al piano a suonare la stessa canzone di sempre.

City of Stars, dal film La La Land. La ragazza aveva studiato una sua personale versione da pianoforte, particolarmente fedele all’originale – a detta delle sue amiche. Aveva composto il brano ascoltando e riascoltando la canzone sui video di YouTube, scrivendo le note e gli accordi su fogli pentagrammati. L’aveva corretta un’infinità di volte, fino a che non aveva ottenuto il risultato più soddisfacente, quello che suonava ogni sera alla fermata di Tower Hill.

Quella canzone non la stancava mai. Si era innamorata della pellicola dopo la prima visione e la colonna sonora l’aveva totalmente stregata, al punto che la conosceva a memoria. C’era qualcosa di unico in quel film, qualcosa che la ragazza riusciva solo marginalmente a spiegare. Si rivedeva in entrambi i personaggi, nell’amore per la musica di Sebastian e nel velato umorismo di Mia, così come si era rivista in entrambi nel loro inseguire la propria passione.

Forse anche per tutti quei motivi diversi le risultava tanto semplice sedersi al piano di Tower Hill station e suonare City of Stars ogni giorno, senza che quella canzone la staccasse.

Superò il London Bridge sovrappensiero, ancora ripetendo nella propria testa le note dell’ultima canzone che stava imparando. Si infilò nello sciame continuo di persone, londinesi e non, che proseguiva a passo spedito in direzione della Tube con la disinvoltura di chi si muove continuamente in quell’ambiente.

Audrey paragonava spesso la metropolitana di Londra a un gigantesco formicaio. Centinaia di persone entravano o uscivano dagli accessi con totale sicurezza, in fretta, senza neanche badare a quello che dovevano fare. Strisciavano le loro Oyster card sui lettori e superavano i tornelli senza neanche rallentare.

Anche la ragazza era una di queste persone, specie quando ripeteva mentalmente i passaggi di una canzone. Non si fermava neanche per cercare la tessera, la estraeva dalla tasca pochi istanti prima di arrivare all’ingresso della metropolitana e superava i controlli d’accesso mantenendo il passo stabile. Poi, dopo aver sceso le scale mobili mantenendosi sulla destra, intravedeva finalmente il pianoforte nella sala e, subito, accelerava.

Come aveva la fortuna di capitarle spesso, anche quel pomeriggio a sedere al piano non vi era nessuno. Di rado Audrey aveva dovuto aspettare per poter suonare. Dal momento che, secondo quanto riportato dai giornali, l’idea di posizionare quello strumento alla fermata della metro aveva riscosso notevole successo, era probabile che l’assenza di persone a suonare fosse legata più all’orario. Tuttavia, la ragazza non si era mai interrogata più del dovuto a riguardo e non iniziò a farlo quel giorno.

Raggiunse con passo deciso il pianoforte verticale, facendo scorrere rapido lo sguardo sul cartello che era apposto sopra la cassa da sempre: "Play me. I’m yours".

Si sedette allo sgabello, posò in grembo la borsa, fece scivolare le dita agili sui tasti fino alle note giuste e si isolò.

Si isolava sempre dal mondo esterno quando suonava, era così da che la ragazza ne aveva memoria. Quando si concentrava e iniziava a comporre le prime note su una tastiera, qualsiasi essa fosse, il mondo intorno scompariva e restavano solo lei, il suo strumento e la musica. Nulla era in grado di catturarla più della musica.

Sebbene fosse stata alle prove dell’orchestra – esattamente come ogni altro giorno precedente a quello – aveva ancora voglia di suonare e niente le avrebbe impedito di farlo.

In mezzo al via vai di persone, al rumore di passi concitati, chiacchiere, risate, dello sferragliare dei treni metropolitani, Audrey compose le prime note di City of Stars e lasciò che le altre le seguissero.

Suonò il pezzo come sempre, senza sbagliare una nota, senza temporeggiare un momento. Si lasciò trasportare dalla musica e cantò nella sua mente le parole della canzone.

Appena ebbe finito attese che le ultime note venissero assorbite totalmente dallo spazio circostante, dopodiché si alzò dal pianoforte, si rimise in spalla la borsa e, senza prestare attenzione a chi aveva intorno, si avviò verso la banchina della fermata, in attesa del suo treno della District line.

Il resto del viaggio trascorse esattamente come ogni giorno precedente a quello. Sul mezzo Audrey riuscì a trovare un posto a sedere e attese le otto fermate che la separavano dalla sua. Durante il viaggio ripassò più volte la canzone che stava imparando nella sua mente, osservando distratta le persone intorno a lei che salivano e scendevano a ogni stazione. Quando arrivò il suo turno di scendere, si avviò fuori dalla metropolitana, arrivando in Plaistow Rd., a pochi minuti da casa sua.

Frugò nella borsa in cerca del telefono appena lo sentì suonare, accorgendosi di aver ricevuto alcuni messaggi su WhatsApp da parte di Gwen, una delle violiniste del Menier Chocolate Factory. Appena Audrey si accorse che si trattava di un messaggio vocale di più di tre minuti, sollevò gli occhi al cielo e si lasciò sfuggire un lungo sbuffo. Odiava le note vocali, specie quelle che duravano più di dieci secondi. Se qualcuno aveva tanta fretta di parlarle allora perché non le telefonava?

Ascoltò l’audio, corrugando sempre di più la fronte, infine decise che non avrebbe risposto subito all’amica – più o meno, amica – ma che lo avrebbe fatto con calma dopo, appena fosse riuscita a trovare le parole migliori per non mandarla al diavolo. Rispose con un audio a sua volta, avvicinò il cellulare alle labbra e disse: «Gwen, scusami ma ho proprio dovuto fare una deviazione e adesso non riesco a rispondenti. Appena arrivo a casa lo faccio subito.»

Dopodiché infilò nuovamente il telefono in borsa, lasciandosi sfuggire una leggera imprecazione.

Era arrivata a Chadd Green, un quartiere che non l’aveva mai emozionata più di tanto, ma in cui aveva trovato un appartamento carino, da dividere con il suo migliore amico di sempre: Oliver.

Loro due erano cresciuti insieme e insieme si erano trasferiti a Londra per studiare, finendo poi con il rimanere nella città. Oliver si occupava di comunicazione, lavorava da casa e studiava strategie di marketing per chiunque ne avesse bisogno. Per quanto Audrey non si spiegasse il motivo, il lavoro del coinquilino era particolarmente richiesto e la cosa la sorprendeva sempre molto, soprattutto perché di pubblicità non si era mai interessata.

La compagnia del ragazzo le era sempre piaciuta molto ed era certa che fosse merito suo se lei si trovasse tanto bene in quella casa. Tuttavia, Oliver era prossimo al matrimonio e, Audrey lo sapeva, ciò avrebbe significato separarsi. Mancavano ancora alcuni mesi alla celebrazione, ma lo scorrere del tempo era inesorabile.

La ragazza entrò in casa, l’appartamento al secondo piano, interno cinque e salutò il coinquilino con un rapido saluto, per poi dirigersi in camera sua. Una volta dentro si cambiò i vestiti e si accoccolò sul letto a gambe incrociate, il telefono in mano. Riascoltò l’audio di Gwen e, esattamente come al primo ascolto, le parole della ragazza riuscirono a irritarla. Pensò a cosa rispondere ma non le venne in mente nulla di neutrale, nonostante ci avesse pensato su un po’.

A un tratto sentì bussare alla porta e subito quella si aprì per introdurre Oliver.

«Non vieni a cena?» le chiese.

«Sì, arrivo» replicò lei, distrattamente.

Al ragazzo bastò poco per capire che qualcosa stava irritando l’amica. Conosceva il modo in cui arricciava le labbra e anche la linea che le si formava sulla fronte era piuttosto caratteristica. Si avvicinò a lei, prese la sedia della scrivania e vi si sedette sopra, guardando Audrey.

«Chi ha fatto cosa, questa volta?»

Lei alzò lo sguardo dal telefono. «Gwen» borbottò. «Si sta costruendo mille castelli in aria su cose senza fondamento. E viene da me a sfogarsi. Voglio dire, perché da me? Non siamo neanche così tanto amiche e-»

Oliver la fermò, sollevando una mano prima che lei potesse continuare. «Ci sono buone possibilità che io non abbia la minima idea di ciò di cui stai parlando» le fece notare.

Audrey aggrottò ulteriormente la fronte a quelle parole, allargando le braccia.

«Penso proprio di avertene parlato.»

I due si guardarono.

«Beh, per farla breve,» attaccò lei, «Gwen si sta frequentando con un ragazzo da qualche settimana. Credo che a lei piaccia veramente e ci sono buone possibilità che lui la ricambi. No anzi, ne sono sicura» esclamò. Attese il cenno di assenso dell’amico e ricominciò a parlare: «Il punto è che lei si sta convincendo del fatto che lui ci stia provando con un’altra solo perché lui e questa ipotetica ragazza tornano a casa dal lavoro insieme. Mi ha detto "scommetto che fa così con tutte, ci prova con una e se lei non gliela dà subito passa a un’altra". Ti rendi conto?»

Il ragazzo aprì bocca per parlare, ma si zittì, consapevole di essersi cacciato in un vicolo cieco. Si chiese per quale motivo avesse deciso di fare domande poco prima.

«Ho conosciuto anche io questo ragazzo e sono pronta a scommettere che non è affatto così. Riempie Gwen di attenzioni. Se volesse solo portarsela a letto non si comporterebbe così. E poi lui è uno a cui piace conoscere persone nuove, dialogare, stare in compagnia. Da uno così non ci vedrei niente di strano se tornasse a casa con i colleghi di lavoro. La cosa che mi esaspera di più è il fatto che lei ha incontrato un Sebastian e sta mandando tutto a monte da sola. Se io fossi al suo posto non me lo farei scappare per nulla al mondo.»

Allargò le braccia con fare irritato, dopodiché si disse di darsi una calmata. Davanti a lei, Oliver sorrise divertito.

«La storia del Sebastian» disse lui, iniziando a ridere. Anche Audrey si mise a ridere subito dopo.

La ragazza aveva coniato il termine “Sebastian” dopo aver visto La La Land e aveva cominciato a usarlo in riferimento a quei ragazzi, a quegli uomini, mossi da sani principi, che credevano ancora in cose come l’amicizia, l’onestà e l’amore. Audrey sapeva che la stragrande maggioranza di Sebastian esisteva solo nei film e sapeva che i pochi presenti in natura erano, il più delle volte, già impegnati. Nonostante ciò lei continuava a sperare di riuscire a trovare il suo, l’uomo con cui avrebbe trascorso buona parte della vita. Da inguaribile romanticona qual era, quel suo desiderio non ne voleva sapere di abbattersi di fronte alla realtà.

«Comunque,» prese parola Oliver dopo aver smesso di ridere, «non penso che ti serva a molto farti venire la bile acida per una storia del genere. Di’ alla tua amica quello che pensi» le suggerì.

«Come se non lo avessi mai fatto» replicò lei con ovvietà.

Il ragazzo si alzò dalla sedia e si strinse nelle spalle.

«Allora mandala al diavolo. Se vuole complicarsi da sola la sua non-storia, faccia pure. Per colpa sua i nostri toast si stanno raffreddando.»

«Ci sono i toast?» scattò subito Audrey, che adorava i toast doppio formaggio del suo migliore amico.

Oliver annuì, inarcando il sopracciglio destro, in un’espressione sagace che lo caratterizzava particolarmente; il suo sorriso, poi, contribuì a rendere più luminosi gli occhi celesti.

«Arrivo subito, allora. Dammi il tempo di dire qualcosa di convincente a Gwen» disse Audrey, aprendo la chat di WhatsApp con la ragazza.

Non era tanto il fatto che Gwen chiedesse costantemente consiglio a lei su come comportarsi nella sua frequentazione – nonostante le due ragazze non fossero così unite – ma a infastidire Audrey era il fatto che, nonostante i consigli che continuamente dava, Gwen li ignorasse tutti.

Cominciò a pensare a cosa poter dire, davanti a lei Oliver si avviò per tornare nel soggiorno con angolo cottura. Sulla porta, però, si fermò.

«A proposito di Sebastian» esordì, ricevendo subito l’attenzione della ragazza. «Era un po’ che volevo dirtelo, ma il poster di La La Land vicino a quello di Star Wars, non ci sta molto bene.»

Uscì dalla stanza, senza aspettare una replica. Audrey si voltò verso la parete alle sue spalle, quella contro cui toccava il letto, analizzando i poster in questione. Aveva attaccato le due grandi locandine dei film una accanto all’altra e le adorava entrambe indistintamente. Fece una smorfia in direzione di Oliver, anche se era consapevole che lui non avrebbe potuto vederla. Era camera sua, dopotutto e, inoltre, per lei quei due film uno accanto all’altro ci stavano incredibilmente bene.

 

 

 

__________________

Torno alla carica con una nuova long inedita!

Ciao a tutti e grazie per aver letto questo, nuovo, primo capitolo, che spero vivamente vi sia piaciuto.

Come anticipato, dopo una serie di fanfiction – che non sempre sono andate a buon fine, ahimè – mi ripresento su Efp con un’originale, nella speranza di aver scritto qualcosa che possa essere di vostro gradimento.

Alla prossima.

MadAka

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** II ***


 

 

 

Il rumore della carta si fece improvvisamente più insistente. Una a una, le tavole acquerellate venivano spostate da un lato all’altro del tavolo. Venivano fatte sfrecciare per brevi istanti da due uomini in maniche di camicia, chini sul piano a parlare sommessamente fra loro. I due discutevano di alcuni dettagli dei soggetti raffigurati, corrucciavano la fronte o facevano qualche breve e monosillabica osservazione.

Davanti a quella scena, immobile su una sedia, vi era Peter.

Gli occhi bruni del ragazzo scorrevano nervosamente i movimenti in aria di ciascuna delle dodici tavole maneggiate dagli uomini, mentre, con notevole sforzo, il giovane si sforzava di mantenere l’autocontrollo.

Quei disegni erano suoi. Ogni singolo elemento impresso su ciascun foglio era suo e, proprio come succedeva per la quasi totalità degli artisti, era geloso di quei lavori come se fossero stati i suoi figli.

Peter aveva da poco compiuto ventisette anni e, ormai da quattro, lavorava come illustratore per un piccolo studio in Thomas More St. Si occupava principalmente di illustrare racconti per bambini e ragazzi, due tipologie di storie che lui amava disegnare proprio per le libertà che gli erano concesse. Erano già stati pubblicati diversi libri con i suoi disegni e, ogni volta, per lui era una grande emozione.

I due uomini che aveva davanti in quel momento non erano altro che lo scrittore e l’editore di un libro prossimo alla pubblicazione, che si erano rivolti alla piccola ditta in cui Peter lavorava proprio chiedendo dei suoi disegni, dopo aver visto il suo lavoro su un racconto.

La storia a cui stavano lavorando parlava di un giovane ballerino di tip-tap che, nonostante le avversità, continuava a ballare e a diffondere allegria nelle persone che incontrava. Era una storia carina, per bambini e Peter era felice di potervi prendere parte.

Tuttavia, quei due uomini, erano incontentabili.

«Non saprei» disse infine l’autore, lanciando un’occhiata all’editore.

«In effetti,» convenne quest’ultimo, «immaginavo diverso il protagonista. Meno... non saprei.»

«Meno?» chiese perplesso Peter.

«Mi ricorda tanto Fred Astaire» borbottò l’editore, massaggiandosi il mento.

«Mi sono ispirato a lui, infatti» lo informò in risposta il ragazzo.

I due lo guardarono, dopodiché si scambiarono una nuova occhiata.

«Forse è questo il punto» attaccò l’autore, come se avesse finalmente trovato il bandolo della matassa. «Non pensavo certo ad Astaire quando ho ideato il personaggio.»

«Ah, capisco» disse di rimando Peter. «È solo che, beh, avevo pensato: chi meglio di Fred Astaire potrebbe raffigurare un ballerino di tip-tap

«Il tuo ragionamento non fa una piega. Solo che io pensavo a qualcosa di più giovane, più fresco rispetto ad Astaire

Peter guardò l’uomo, lo scrittore, pensando che voleva togliersi da quella situazione il prima possibile. Non erano i disegni a non andare bene, era solo il volto del protagonista. Se non volevano un sorriso alla Fred Astaire li avrebbe accontentati. In quel momento aveva solo voglia di tornare a casa.

«Che ne dite di Gene Kelly?» propose. Trattenne a stento il suo tono più scettico e rimase a osservare i due uomini che si confrontavano con gli occhi.

«Sì, decisamente. Molto meglio. Ottima idea Peter.»

Il ragazzo sorrise, più per il sollievo che per l’insignificante vittoria. Si alzò dalla sedia e raccolse le sue tavole, mentre i due uomini cominciarono ad accordarsi con lui sul giorno in cui sarebbero tornati per vedere le prime bozze. Decisero per il giorno seguente, ignorando totalmente le reazioni che cominciarono a sollevarsi dal lato di Peter e salutandolo allegramente prima ancora che lui potesse formulare una protesta efficace.

Li guardò allontanarsi, decidendo di arrendersi all’evidenza: avrebbe dovuto fare dei nuovi lavori da presentare entro il giorno successivo. Sbuffò a quel pensiero, mentre riordinava con cura i disegni e le rimetteva nella cartellina, per poi infilare il tutto all’interno del proprio zaino, insieme a pantoni e acquerelli.

Il lavoro dell’illustratore non era affatto semplice, sebbene, visto da fuori, potesse apparire il contrario. Era un ambiente competitivo, dove, il più delle volte, si aveva a che fare con persone che davano tutto per scontato. Nonostante ciò, Peter era felice di quello che faceva. Amava disegnare e niente avrebbe potuto appagarlo di più. Illustrare fiabe per bambini e ragazzi, inoltre, gli consentiva di raffigurare cose che, altrimenti, non avrebbe neanche immaginato. Esploratori in mongolfiera, giraffe azzurre, improbabili amicizie, pirati dalla barba arcobaleno che solcavano mari di giada; Peter li aveva disegnati tutti e ogni volta si emozionava nel farlo, sorprendendosi nel vedere quanto in là potesse spingersi la fantasia umana.

Appena ebbe finito di raccogliere le sue cose si avviò verso l’uscita, salutando alcuni suoi colleghi lungo il tragitto; anche loro erano in procinto di andare via, la giornata era finita.

Appena fu in strada il ragazzo estrasse il telefono cellulare e cercò fra le sue playlist quella che lo soddisfaceva di più in quel momento. Optò per ascoltare i OneRepublic e, individuato l’album migliore, premette play e infilò gli auricolari. Si fissò meglio in spalla lo zaino e, accompagnato dalla musica, percorse a passo rapido il tragitto che lo separava da Tower Hill station, dove avrebbe preso la Circle line.

Come sempre passò davanti al London Tower, scivolando fra la moltitudine di turisti che scattava foto o si faceva qualche selfie. Camminò per qualche altro minuto, infine arrivò all’ingresso della Tube e superò i tornelli d’accesso, infilando la Oyster card in tasca subito dopo.

Proseguì lungo il percorso senza neanche guardare dove stava andando. Conosceva a memoria il tragitto, ormai e sapeva perfettamente dove andare. Scese lungo l’ultima scala mobile, aspettando paziente sulla destra, battendo il piede al ritmo di Love Runs Out e arrivò alla sala che si apriva sui corridoi, in cui, da poco più di un mese, era stato collocato un pianoforte.

A Peter quella novità piaceva particolarmente. Sia al mattino sia alla sera, il ragazzo sentiva sempre suonare. Gli era anche capitato in più occasioni di fermarsi ad ascoltare ciò che veniva composto. Lui adorava la musica, tuttavia aveva dedicato le sue doti artistiche alla seconda arte, la pittura e come compositore, o anche solo come pianista, lasciava parecchio a desiderare. Forse era anche per questo che gli piaceva tanto fermarsi ad ascoltare chi suonava in Tower Hill, o anche solo tendere l’orecchio in direzione del pianoforte mentre passava per la sala quando era particolarmente di fretta.

Quella sera, di fretta, non lo era affatto. Aveva appena avuto un incontro abbastanza snervante e fermarsi ad ascoltare un po’ di musica suonata dal vivo, magari anche suonata con il cuore, gli avrebbe fatto piacere.

Seduta al pianoforte c’era una ragazza, i capelli chiari raccolti in una treccia, il cappotto rosso indosso. Peter la incrociava da diverse settimane quasi ogni giorno e la trovava sempre lì, a sedere al piano intenta a suonare. Ormai era in grado di riconoscerla perché l’ascoltava spesso. Era indubbiamente brava; non esitava mai sui tasti e conosceva alla perfezione la sequenza di note da seguire. L’unica cosa a sorprendere il ragazzo – o, meglio, a incuriosirlo – era il fatto che quella pianista suonava sempre la stessa canzone, senza cambiarla mai. Peter non conosceva quella musica, ma l’aveva sentita suonare da quella ragazza ogni volta che la incrociava, al punto che aveva imparato a riconoscerla. Era una melodia molto bella, forse un po’ malinconica nel contesto metropolitano, con le persone di fretta e nessuno che prestava attenzione a quella pianista, eppure a Peter piaceva sempre.

Il ragazzo si fermò di lato, accanto alla parete. Sfilò gli auricolari, mise le mani in tasca, e rimase ad ascoltare la giovane suonare, osservandola mentre si concentrava esclusivamente sulle note. Esattamente come si era aspettato, lei stava componendo la stessa canzone di sempre.

Peter trovò piacevole stare lì, in quel momento, ad ascoltare qualcuno suonare qualcosa di bello, lasciando da parte almeno per pochi minuti la vita della metropoli, il lavoro e le consegne.

La ragazza smise di suonare. Lasciò vagare le ultime note, infine si alzò dal pianoforte e si avviò in gran fretta verso uno dei corridoi, scomparendo immediatamente nella folla.

Peter si infilò nuovamente gli auricolari e fece ripartire dall’inizio la canzone, dopodiché si incamminò a sua volta verso il binario della Circle line.

Per sua fortuna la metropolitana era già lì. Il ragazzo la sentì rallentare mentre compiva gli ultimi passi per raggiungere il binario e vi salì subito, prendendosi giusto il tempo per controllare che il treno fosse quello esatto.

A Liverpool Street scese, arrivando alla stazione della Overground, in cui avrebbe preso il treno per White Heart Lane, la sua fermata.

Raggiungere il proprio studio ogni giorno gli richiedeva quasi un’ora e mezza, specie per via del cambio che doveva fare. Quel lasso di tempo, però, gli consentiva di ragionare sulla giornata, pensando a come migliorare i propri lavori. Delle volte, lungo il viaggio, riusciva anche a disegnare.

Quella sera cominciò a impostare nella sua mente i disegni che avrebbe dovuto consegnare la mattina dopo, consapevole che non avrebbe potuto realizzarne un gran numero per via del poco tempo a disposizione.

Arrivato alla stazione scese e uscì dalla Overground, incamminandosi verso casa.

Peter viveva a Brantwood Rd., in una piccola casetta a schiera su due piani che condivideva con tre persone: Damian, Veronica e Iris. Viveva con loro da due anni e, a parte Damian, le due ragazze le aveva conosciute proprio lì. La casa non era male e lui, nella sua luminosa singola, ci stava bene.

Appena ebbe raggiunto la casa, entrò, spegnendo la musica e togliendosi di spalla lo zaino.

«Ciao a tutti» salutò.

Ricevette i saluti di rimando e filò dritto in camera sua – l’unica a piano terra con la cucina, la sala e un bagno – e si svestì.

Poco dopo bussarono alla porta.

«Pete, noi stiamo ordinando del cibo indiano, vuoi qualcosa?»

La domanda l’aveva fatta Iris, che aveva infilato la testa nella stanza del ragazzo. Era una ragazza dai tratti esotici e portava i capelli neri costantemente sciolti. Aveva una voce vellutata nonostante i modi sicuri e decisi e uno scarso senso dell’umorismo.

«Non so» borbottò in risposta il ragazzo. «Ho delle tavole da fare per domani mattina e non ho molta fame.»

«Come è andato l’incontro?» si intromise Damian, superando Iris e entrando di prepotenza in camera dell’amico, seguito a ruota da Veronica.

Damian, di un anno più piccolo di Peter, era fatto così; curioso per natura, sempre agitato e, spesso, in grado di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato. Tutto sommato, però, era un ragazzo d’oro.

Veronica, invece, venticinquenne come Iris, era parecchio diligente e precisa fino all’esasperazione. La sua dote calcolatrice si sposava alla perfezione con la determinazione di Iris, non a caso, infatti, era la sua migliore amica.

A Peter venne naturale fare una smorfia alla domanda di Damian.

«Insomma» rispose all’amico. «Tornano domani mattina per vedere dei nuovi disegni. A quanto pare Fred Astaire non andava bene.»

Damian allargò le braccia, basito. «Come sarebbe no? Chi meglio di Fred Astaire potrebbe-»

«Raffigurare un ballerino di tip-tap?» completò Peter, all’unisono con l’amico. «È la stessa cosa che ho detto io. A quanto pare, però, mi sbagliavo.»

«Perciò stasera devi disegnare?» domandò Iris con fare indispettito.

«Così sembrerebbe» replicò sarcastico il ragazzo. Raggiunse la scrivania ingombra di carte, materiali per il disegno e tanti altri oggetti, creandosi uno spazio sufficiente per lavorare.

«Devo presentare qualcosa per domani, possibilmente qualcosa che renda quei due felici» continuò.

«Tipo cosa?» chiese Veronica.

«Gene Kelly. Sembra essere molto più fresco di Astaire

Il tono sarcastico di Peter non ne voleva sapere di abbandonarlo. Era stanco e, soprattutto, piuttosto sicuro del fatto che c’erano buone possibilità che anche il suo nuovo lavoro avrebbe portato a un nulla di fatto. Tuttavia non poteva averne la certezza.

Si sedette al tavolo, cominciando ad abbozzare sui fogli che era riuscito a trovare le linee guida per raffigurare il nuovo personaggio. Come la matita si appoggiò sulla carta, però, il ragazzo si sentì subito meglio. Con pochi segni calibrati la bozza era già pronta e Peter ritrovò il suo buon umore. Nulla gli piaceva quanto disegnare.

«Posso...» iniziò poi, voltandosi versi i coinquilini. Li trovò ancora tutti sulla soglia. «Posso avere dei samosa

Damian sorrise. Un Peter senza appetito non era il Peter che conosceva lui e se, davanti alla mole di lavoro che aveva da fare per il giorno seguente, l’amico aveva voglia di mangiare, significava che non c’era nulla di cui preoccuparsi.

«Vado a telefonare» esclamò Damian, facendo dietrofront e tornando in sala, seguito da Iris e Veronica, che si chiuse la porta alle spalle.

Seduto alla scrivania, invece, Peter accese lo stereo – che ripartì da Campus dei Bastille – e riprese a disegnare.

 

 

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Capitolo 3
*** III ***


 

 

 

L’autore del libro sfogliò l’ultima delle tavole che aveva davanti, annuendo ripetutamente con il capo. Aveva già parlato con il suo editore, fermo lì accanto e stava semplicemente dando "l’ultima occhiata".

«Direi che ci siamo, Peter. Ottimo lavoro» esclamò poi, sorridendo.

Peter tirò un invisibile sospiro di sollievo.

Le tavole che aveva sottoposto ai due erano il frutto di una notte passata quasi totalmente in bianco. Il ragazzo si era concentrato sul lavoro fino alle tre inoltrare, sbocconcellando samosa che erano lentamente diventate fredde.

Perciò si sentì sollevato nel constatare che i nuovi disegni andavano bene e, ancora di più, nell’appurare che non aveva dovuto rinunciare al sonno inutilmente.

«Posso procedere, allora?» domandò il ragazzo, al quale serviva il via libera per iniziare a disegnare i restanti personaggi.

«Certamente. Se riuscissi ad avere altro materiale del genere per la prossima settimana, potremmo addirittura stampare tutto prima del previsto» esclamò esaltato l’editore.

La prossima settimana, per Peter, significavano quattro giorni di lavoro intenso. Ce l’avrebbe fatta, si disse e avrebbe cominciato da subito.

«Penso di riuscire già a mostrarvi il resto dei personaggi per lunedì» dichiarò poi.

I due interlocutori parvero particolarmente soddisfatti di questa informazione.

Si dissero entusiasti del suo lavoro e lo lodarono; infine si accordarono per un nuovo incontro il lunedì successivo e, portandosi via un paio di tavole per alcune prove di stampa, salutarono Peter e uscirono.

Il ragazzo, una volta rimasto solo nella stanza, prese una lunga boccata d’aria e sorrise. Ci era riuscito e non poteva essere più contento di così. Aveva collezionato sei tavole in una sola notte di lavoro e non poteva dire che fosse stato semplice. Tuttavia, il fatto che i suoi lavori fossero stati approvati, lo riempì di gioia.

Si mise a canticchiare fra sé mentre sistemava alla perfezione la sua postazione, raccogliendo matite, gomme e colori. Frugò fra i cassetti in cerca di fogli nuovi e trovò un intero blocco di carta per acquerelli. Si era completamente dimenticato di averla acquistata e la cosa contribuì notevolmente ad accrescere la sensazione frizzante che stava provando.

Prima di mettersi all’opera, però, avrebbe dovuto aggiornare i suoi colleghi riguardo al soddisfacente esito dell’incontro appena concluso. Per tale ragione, afferrò le nuove tavole del ballerino di tip-tap che gli erano rimaste e uscì dal suo studio.

 

*

 

La giornata era trascorsa particolarmente tranquilla, addirittura “fiacca” secondo Peter.

Dopo la soddisfazione mattutina per il buon esito dei suoi disegni, non era successo assolutamente niente. Non un messaggio, non una mail, niente che potesse aiutare il ragazzo a mantenere alto il suo livello di soddisfazione. Quest’ultimo, inoltre, era calato drasticamente quando, intorno alle due del pomeriggio, un blackout aveva fatto saltare la corrente esclusivamente al piano in cui si trovava il suo studio.

Nonostante tutto, però, alle diciassette e pochi minuti, il ragazzo si stava incamminando da Thomas More Street verso Tower Hill station ancora di buon umore.

Il suo cellulare stava proponendo le note di How to save a life dei The Fray il volume tenuto sufficientemente alto per isolare Peter dal resto della città.

La musica era un crescendo continuo di note. Il ragazzo canticchiò nella sua mente ogni passaggio, pronto per l’arrivo del suo pezzo preferito. Eccolo, finalmente: il ritornello.

Silenzio.

Peter si bloccò, smise di camminare ed estrasse di tasca il proprio smartphone solo per accertarsi che il suo improvviso timore era reale: la batteria si era completamente scaricata.

Il giovane sospirò, sollevò gli occhi al cielo e si morse il labbro inferiore infastidito. Non aveva con sé neanche il power bank, non gli restava altro da fare se non tornarsene a casa senza poter ascoltare la sua amata musica.

Sfilò gli auricolari e li cacciò in fondo alla tasca della sua giacca a vento, riprendendo a camminare. Era quasi arrivato alla stazione della Tube. Superò gli ingressi e si avviò lungo le scale, giocherellando distrattamente con la Oyster card. Arrivato alla sala che dava sugli accessi ai binari sentì la musica provenire dal pianoforte, la canzone che aveva ormai imparato a riconoscere. Come il giorno precedente, la ragazza con il cappotto rosso era seduta al piano e stava suonando. Peter si rese conto che aveva praticamente ultimato la canzone e non si fermò ad ascoltarla proprio per quel motivo. Proseguì lungo il suo percorso, raggiungendo il binario.

Si fermò circa a metà della banchina, mettendosi in attesa. Cercò di passare il tempo guardandosi intorno, cantando fra sé alcune delle sue canzoni preferite, osservando le persone in cerca di ispirazione.

Fu tutto pressoché inutile. Il tempo sembrava non passare e solo pochi minuti gli parvero ore. Il mormorio costante delle persone non gli permetteva di ricordarsi le sue canzoni e nessuno, fra i presenti, fu in grado di ispirarlo.

Lanciò una rapida occhiata alla tabella degli orari, costatando che mancavano cinque minuti al suo treno.

Qualcuno gli si fermò accanto. Istintivamente Peter guardò di chi si trattava, riconoscendo la figura della giovane pianista. Il cappotto rosso, i capelli chiari raccolti in un alto e spettinato chignon. Aveva un profilo grazioso, con il naso leggermente all’insù e le labbra sottili. Fissava davanti a sé come sovrappensiero, tenendo stretta la borsa sulla spalla destra. Con tutta probabilità non si era accorta di lui.

Il ragazzo la guardò per qualche altro istante, pensando a cosa fare. Aveva ancora quattro minuti di attesa ed era la prima volta che incontrava la ragazza senza che lei fosse seduta al pianoforte.

In quanto ad artista, Peter sapeva cosa significava ricevere dei complimenti per il proprio lavoro. Pertanto era piuttosto sicuro che anche a quella ragazza avrebbe fatto piacere qualche complimento per il modo in cui riempiva di piacevole musica la sala di Tower Hill station e Peter aveva voglia di farglielo sapere; se non altro almeno per non dover aspettare in silenzio i minuti rimanenti.

«Tu sei la pianista» disse poi, voltandosi verso la ragazza. Non gli venne in mente nulla di più brillante e per una breve frazione di secondo sperò addirittura che lei non lo avesse sentito.

La pianista sussultò leggermente, strappata ai suoi pensieri. Si voltò in direzione della voce e guardò il ragazzo che aveva accanto per un lungo momento.

«Prego?» chiese.

Peter sorrise. Il suo bizzarro approccio aveva funzionato. «Tu sei la pianista, no? Quella che suona il pianoforte che c’è qui» disse, indicando con il pollice alle sue spalle.

Audrey lo fissò perplessa. Lui se ne stava fermo con le mani nelle tasche della giacca, lo zaino in spalla. La ragazza valutò che dovesse avere all’incirca ventiquattro anni. Era carino, con quei capelli castani mossi, ben pettinati e gli occhi scuri. Sorrideva incurvando l’angolo destro della bocca, le sopracciglia sollevate.

Audrey si chiese per quale motivo le avesse rivolto la parola e temette che si trattasse di un tentativo di abbordaggio. Tutti quelli che le avevano rivolto parola in metropolitana lo avevano fatto principalmente per quel motivo. Era la prima volta, però, che a farlo era qualcuno di carino.

La ragazza sorrise appena. «Sì» rispose. Fu particolarmente asciutta. Non aveva molta voglia di fare conversazione.

Il ragazzo, al contrario, sembrava averne tutta l’intenzione.

«Ti sento suonare ogni tanto. Sei molto brava.»

Audrey rimase lievemente spiazzata da quelle parole o, meglio, dal modo in cui erano state pronunciate. Il giovane le aveva scandite con naturalezza, come se pensasse davvero quello che stava dicendo.

Peter, infatti, lo pensava veramente. Guardò la ragazza sbattere gli occhi un paio di volte, nascondendo per brevi istanti le sue iridi blu.

«Oh, beh» disse poi lei, stringendo maggiormente la borsa con la mano destra. «Grazie.»

Nuovamente non aggiunse altro. Peter era sufficientemente sveglio per capire che non aveva molta voglia di fare conversazione e, soprattutto, di intuirne il motivo. Il modo in cui aveva esordito poco prima non era stato molto originale, al contrario. Aveva tutta l’aria di essere una frase strappata alle peggiori commedie rosa. C’erano buone possibilità che la ragazza si fosse convinta che lui era in procinto di abbordarla.

Doveva evitare che il suo sospetto si intensificasse.

«Scusa per l’intromissione. Volevo semplicemente farti i complimenti per come suoni. Ti ascolto ogni tanto e trovo tu sia brava.»

Audrey si lasciò sfuggire un sorriso. Che lui stesse cercando o meno di avvicinarla, il complimento che le aveva fatto suonava molto sincero, esattamente come il precedente. Si guardò un momento intorno mentre ringraziava semplicemente il ragazzo.

Nuovamente, Peter non si diede per vinto. Cercò qualcos’altro da dire, almeno per far trascorrere i due minuti rimanenti all’arrivo della sua corsa.

«Il pezzo che suoni è tuo? » chiese poi, curioso.

Se lo era chiesto un paio di volte mentre ascoltava Audrey suonare. Aveva pensato che, considerando che lei riproponeva sempre la stessa canzone, si trattasse di una sua canzone, come se stesse tentando di farsi notare da qualcuno. Non ci sarebbe stato niente di male, dopotutto, soprattutto perché il pezzo era davvero bello.

La pianista riuscì a mantenere a freno la propria mimica facciale, evitando così di spalancare gli occhi. Quel ragazzo non conosceva City of Stars. Anzi, sicuramente non conosceva neanche La La Land. Per Audrey fu sorprendente incontrare qualcuno che non avesse visto quel film, specie dopo tutta l’attenzione che i media vi avevano dedicato per via delle sue numerose nomination agli Oscar. In un certo senso, però, la ragazza trovò curiosamente piacevole avere a che fare con qualcuno che non conosceva né il film, né la canzone. Sentiva di avere la possibilità di parlare con qualcuno senza che questo sapesse già cos’era in procinto di dire, o che fosse irritato dal suo tirare in ballo, per l’ennesima volta, il film che in pochi mesi era diventato il suo preferito in assoluto.

«Magari» rispose poi, sorridendo. «È della colonna sonora di un film. Mi piace molto e lo suono di continuo.»

Peter sollevò appena il sopracciglio destro, in un’espressione interessata e divertita al tempo stesso, notò Audrey.

Si era appena cimentata in una frase composta di più di una parola e Peter dedusse che le sue iniziali diffidenze erano in procinto di allontanarsi da lei.

Il ragazzo pensò che potesse essere il momento migliore per avviare una conversazione, niente di eclatante, giusto due parole semplici, di quelle che capita di scambiarsi alla fermata della metro, oppure in stazione. Stava per replicare quando sentì in lontananza il riconoscibile suono del metallo che stride, mentre l’aria veniva risucchiata per un breve momento nel tunnel. I convogli della Circle line comparvero uno dietro l’altro, rallentando sempre più. Peter li guardò scorrere finché non si fermarono. La corsa era in leggero anticipo.

Si voltò verso Audrey, mentre le porte della metropolitana si aprivano e le prime persone cominciavano a scendere.

«È la mia» disse alla ragazza, indicando il mezzo. «Scusa ancora se ti ho disturbata, poco prima. Passa una buona giornata.»

La salutò con un cenno e un sorriso.

«E ancora complimenti» aggiunse, mentre le porte si richiudevano alle sue spalle.

A Audrey non riuscì di dire nulla prima che lui sparisse sul mezzo e quest’ultimo iniziasse ad accelerare. Solo quando lo vide scomparire nella galleria, due luci rosse sempre più lontane, la ragazza fu pervasa da una strana sensazione.

Quel giovane era stato educato e le aveva fatto dei compimenti sinceri. Audrey capì che, forse, lui non stava affatto cercando di abbordarla, ma volesse solo scambiare due veloci parole. Lei, invece, non si era comportata molto bene. Era stata monosillabica e asciutta, esattamente il contrario di come era di solito.

Attese il proprio treno lanciando qualche sporadica e immotivata occhiata al tunnel della Tube dove si era infilata la Circle line. Quando salì sulla Distict line, diretta verso casa, ci stava pensando ancora.

Le tornò alla mente il sorriso del ragazzo, il labbro incurvato, gli occhi bruni luminosi. Era stato gentile con lei e Audrey ancora riusciva a sentire il tono che aveva usato per farle i complimenti per il suo modo di suonare.

Forse non avrebbe dovuto essere così fredda. Forse quel ragazzo si sarebbe meritato un trattamento migliore, non quel titubante teatrino monosillabico che lei gli aveva dedicato. Aveva sciolto le riserve solo quando lui le aveva chiesto della canzone che suonava, di City of Stars. Sembrava quasi che quella canzone, quel film, fossero la chiave per interagire con lei, come se niente fosse in grado di farla parlare più che il suo amore per quella pellicola. Era curioso perfino per lei. Tuttavia lo trovò anche divertente. Quel film era la perfetta coniugazione delle due cose che più amava, ovvero la musica e il cinema.

Decise di smettere di rimuginare sul ragazzo e sul modo in cui erano andate le cose, soprattutto perché era consapevole che non avrebbe potuto fare molto per rimediare al suo atteggiamento, ormai.

Sollevò gli occhi, tornando alla realtà, allontanandosi dai suoi pensieri. Si concesse solo la semplice distrazione di canticchiare nella sua mente una melodia.

Qualcosa, però, non le tornava. Era certa che il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino non fosse quello che lei abitualmente osservava rientrando a casa ogni giorno. Pochi istanti dopo, la voce elettronica all’altoparlante le diede conferma della cosa.

“Prossima fermata Upton Park. Apertura porte a destra.”

Audrey scattò in piedi, al punto di spaventare la passeggera seduta accanto a lei. Arrivò in fretta alla porta e attese che la metro si fermasse, maledicendo la sua mente e la sua capacità di isolarsi dal resto.

Sovrappensiero com’era pochi minuti prima, infatti, non si era accorta di aver saltato la sua fermata.

 

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Capitolo 4
*** IV ***


 

 

 

Quella mattina Audrey fu svegliata da un continuo rumore di stoviglie, piatti spostati, tegami e… un frullatore?

La ragazza afferrò la sveglia dal comodino, vide che erano le 7.40 e si chiese cosa – diavolo – stesse combinando Oliver. Scese dal letto, incespicando leggermente nelle coperte come ogni mattina e si avviò verso il soggiorno. Aveva i capelli scarmigliati, il pigiama tutto scomposto, la fronte aggrottata; ogni giorno si svegliava in quelli stato e solo un buon caffè l’aiutava a riacquistare il pieno controllo di sé.

Aprì la porta e puntò gli occhi gonfi di sonno verso l’angolo cottura.

Oliver era seduto al tavolo, le mani fra i capelli e una tazza di qualcosa di caldo sotto il naso. Il caos non proveniva da lui, infatti il ragazzo aveva tutta l’aria di essere solo un’altra vittima.

Vicino ai fornelli si stava affaccendando Aisha, la fidanzata di Oliver, una trentenne dai lineamenti sicuri e dalla pelle di un lucente color caramello, dovuta alla madre marocchina e al padre inglese.

«Ehi, ciao Audrey. Spero di non averti svegliata» esclamò la ragazza quando vide la pianista affacciata alla sua stanza.

«No, figurati» bofonchiò in risposta quest’ultima, mentendo. Adorava Aisha e sapeva perfettamente quanto si sarebbe spesa in scuse se avesse scoperto di averla svegliata a causa della sua confusione.

Anche Oliver lo sapeva alla perfezione e si limitò a lanciare un’occhiata di intesa alla coinquilina.

«Vuoi della cioccolata calda? Ne ho preparata in abbondanza.»

Aisha mise davanti a Audrey una tazza fumante di liquido scuro, da cui saliva un meraviglioso profumo di cioccolato lievemente mischiato a cannella. Solo in quel momento Audrey si rese conto della quantità di profumi presente nel piccolo soggiorno. C’era odore di vaniglia, fragola e, forse, crema. Guardò verso il forno e lo vide acceso, intento a cuocere quello che era custodito al suo interno.

«Stai preparando una torta?» domandò poi ad Aisha, dopo aver assaporato un goccio della sua ottima cioccolata calda.

«Non una torta, la torta» la informò Oliver.

La sua fidanzata lo guardò. «Oh, per favore. Sai che potrebbe non essere così.»

Audrey li guardò entrambi. Forse sapeva di cosa stavano parlando, ma era stata svegliata solo cinque minuti prima e il suo cervello non stava funzionando ancora a pieno regime.

«Ragazzi, mi sono appena svegliata» decise di far notare agli amici.

«Aisha sta facendo delle prove per la torta nuziale» le rispose Oliver. «Che prova è questa? La terza?»

«La quinta» replicò la sua ragazza.

«Ecco. Trovata la torta che soddisfa entrambi abbiamo trovato la nostra torta» concluse lui.

«Ma non dovrebbe occuparsi la pasticceria della torta?» chiese poi Audrey, pulendosi le labbra dal cioccolato.

«Aisha è la pasticceria» disse Oliver, ridacchiando.

Audrey sorrise, davanti allo sguardo che la coppia si stava scambiando. Adorava la storia di Oliver e Aisha. I due si erano conosciuti per lavoro diversi anni prima e fin da subito qualcosa aveva detto a Audrey che fra di loro c’era qualcosa di unico. Aisha lavorava come pasticciera per un piccolo laboratorio in continua espansione. Oliver aveva contribuito a una delle campagne di marketing della pasticceria e lì aveva conosciuto la ragazza, uno dei cardini del laboratorio. Fra di loro era nata subito una visibile sintonia, qualcosa che era maturata nei due anni successivi, fino alla proposta di matrimonio di Oliver, quel gennaio. Per Audrey, Oliver era il perfetto Sebastian di Aisha.

Fortunatamente Aisha non si stava comportando come quelle ragazze degli show televisivi riguardo all’organizzazione delle nozze. Lei e Oliver sceglievano insieme e si consultavano su ogni cosa. Solo sulla torta nuziale la ragazza non voleva cedere di un passo: avrebbe individuato lei la soluzione migliore e solo allora avrebbe incaricato la pasticceria in cui lavorava di preparare la torta definitiva.

«D’accordo» sentenziò infine Audrey. «Così si spiega perché stai preparando una torta alle 8 del mattino. Anzi, prima. La domanda però è: come mai lo stai facendo qui?»

Lo chiese con assoluta curiosità, senza altri motivi. Fatta eccezione per l’insolita sveglia, tutto il resto le stava facendo piacere: la presenza di Aisha, la cioccolata calda, i profumi della cucina.

«Mia sorella mi ha cacciata di casa» rispose con semplicità l’altra, strappando una risata a Audrey.

«Comunque, io rimango dell’idea che la soluzione sia una torta panna e fragole» sentenziò poi quest’ultima. «A me e Oliver piacerebbe molto» disse in tono scherzoso, tirando in ballo il proprio coinquilino, consapevole che quella fosse anche la sua torta preferita.

«Avrete i vostri dolci panna e fragole» replicò Aisha. «Ma sulla torta pretendo di dettare legge.»

«E tu le permetti di farlo?» domandò Audrey a Oliver, fingendosi sconvolta.

Il ragazzo si strinse nelle spalle, rigirando distratto il cucchiaino nella tazza.

«Beh, ho scelto il gruppo per il ricevimento. Io e Aisha abbiamo fatto un accordo.»

Sorrise all’amica, che replicò allo stesso modo. Il "gruppo per il ricevimento", infatti, era lei. Oliver aveva espressamente detto che per le sue nozze avrebbe voluto fosse Audrey a suonare; da sola, con altri, non gli importava, voleva solo che lei contribuisse con la sua musica a quella giornata. Audrey, ovviamente, aveva accettato, provando un grande moto di orgoglio. Aveva chiesto ad alcuni dei suoi colleghi al Menier se erano disposti a partecipare ed era riuscita a riunire una decina di membri, con la quale si stava accordando su quali pezzi suonare. Gran parte delle canzoni le aveva scelte lei e spaziavano dal jazz allo swing, generi che lei amava e che piacevano anche ai futuri sposi.

«Mi arrendo allora» concluse, bevendo un sorso di cioccolato.

Guardò i due amici scambiarsi un sorriso, mentre Aisha cominciava a versare in piccole terrine parte del cremoso composto che stava mescolando da diversi minuti. Si sollevò un intenso profumo di vaniglia, rimasto celato fino a quel momento dall’odore che proveniva dal forno e dalla cioccolata calda.

Per Audrey quello era stato un bellissimo risveglio. Uscire dal letto per trovarsi in una cucina calda, piena di profumi e con due delle persone più care che avesse accanto non era cosa da tutti i giorni. Il fatto che la ragazza fosse consapevole che, dopo maggio, una simile circostanza non sarebbe più avvenuto per via del trasferimento di Oliver, le fece assaporare quel momento con intensità maggiore.

 

*

 

Audrey finì di suonare City of Stars per l’ennesimo pomeriggio. Come ogni giorno prima di quello, lasciò vagare le ultime note nell’aria mentre tornava alla realtà, vedendo riapparire davanti ai suoi occhi la fermata di Tower Hill station e il suo via e vai di persone.

La pianista si alzò, cedendo il posto a un’altra ragazza, in attesa alle sue spalle. Le due si scambiarono un sorriso e la sconosciuta fece dei rapidi complimenti a Audrey, per poi sedersi al piano.

Audrey la sentì avviare una canzone, qualcosa di molto simile a un pezzo di Ludovico Einaudi, ma proseguì senza fermarsi ad accertare se i suoi sospetti fossero stati fondati o meno. Arrivata al binario della metropolitana si fermò, attendendo la sua corsa. Dalla rapida occhiata che aveva lanciato al tabellone era riuscita a capire che aveva appena perso la sua corsa; se non si fosse fermata a suonare City of Stars l’avrebbe certamente presa. Tuttavia per lei era impensabile una simile eventualità. Non le riusciva di immaginarsi superare il pianoforte di Tower Hill station senza fermarsi a suonare qualcosa, niente avrebbe potuto impedirglielo.

Mentre aspettava cominciò a ripetere per l’ennesima volta le canzoni che stava imparando per il prossimo spettacolo in programma al Menier. Ripassò le note, gli accordi, i tempi. Le sue dita suonavano impercettibilmente i tasti di un pianoforte invisibile, sollevato a mezz’aria. Si guardò un momento intorno mentre ripeteva un nuovo passaggio e fu improvvisamente riportata alla realtà.

Poco più avanti rispetto a dove si trovava, fermo in piedi con lo zaino in spalla e le mani affondate nella giacca a vento blu, c’era il ragazzo che le aveva rivolto la parola il giorno prima, in quella fermata della Tube.

La pianista si ritrovò a osservarlo per svariati secondi. Notò che stava battendo leggermente il piede a ritmo di una canzone, sicuramente quella che usciva dagli auricolari che aveva infilati nelle orecchie. Guardava davanti a sé e ogni tanto si osservava intorno, sembrando quasi incuriosito.

Audrey si convinse nuovamente dei suoi possibili ventiquattro anni, con tutta probabilità era uno studente del college, quelli da zaino un spalla e casa in periferia piena di coinquilini pronti a sostenersi: il genere di cose che si vedono nei telefilm.

Le fu inevitabile tornare con la mente al tardo pomeriggio del giorno prima, quando lui le aveva rivolto la parola. Non si era comportata molto bene, lo sapeva. Quel ragazzo era stato educato, lei, invece, particolarmente distaccata. Solo non si sarebbe aspettata una cosa del genere alla fermata della metropolitana. In un mese di frequentazione di quella stazione nessuno le aveva mai fatto i complimenti per il suo modo di suonare il pianoforte e lei non se li aspettava di certo, non lì. Per questo era rimasta tanto sorpresa quando quel ragazzo glieli aveva fatti, al punto di non vedere il lato bello della cosa, ma solo quello "strano".

Nella mente di Audrey balenò l’improvviso pensiero che, forse, avrebbe dovuto scusarsi con il giovane per il suo comportamento del giorno prima, motivarlo e, soprattutto, ringraziare degnamente per i complimenti sinceri.

Un altro pensiero, invece, le disse che ormai non sarebbe servito a niente e tanto valeva ignorare la cosa. Tuttavia quell’idea venne formulata mentre Audrey si era già avviata in direzione del ragazzo.

Gli si fermò accanto, alzando lo sguardo di quel poco che bastava per puntarlo sul suo profilo – non era molto più alto di lei, infatti. La pianista si rese finalmente conto di dove fosse e ne rimase quasi sorpresa. Si pentì immediatamente della scelta che aveva appena assecondato ed era pronta a fare dietrofront e andarsene prima che il ragazzo potesse voltarsi verso di lei e riconoscerla.

Cosa che avvenne.

Peter si accorse di avere qualcuno accanto e si girò per vedere di chi si trattava, trovandosi la pianista davanti. La riconobbe subito e non solo per via del cappotto rosso. Anche quel giorno lei portava i capelli raccolti in modo confuso ma elegante.

I due mutarono espressione all’unisono. Peter sollevò le sopracciglia e sorrise. Audrey assunse l’espressione di chi si era cacciato in una situazione sconveniente da sola.

«Ciao» la salutò infine lui, sfilando l’auricolare destro. Le note di Violet Hill dei Coldplay si mescolarono al mormorio costante della stazione.

A Audrey non venne in mente alcuna reazione in tempi celeri. Sorrise semplicemente mentre il ragazzo diceva: «La pianista» con semplicità, come a dimostrare che ricordava perfettamente chi fosse la sua interlocutrice.

«Mi chiamo Audrey» rispose d’istinto lei, che non amava particolarmente essere ricordata in base a un’etichetta.

La sua risposta spiazzò per un breve momento Peter. Si riprese subito, però, tendendo la mano in direzione della ragazza, a cui ora poteva dare un nome.

«Io sono Peter» le disse.

La vide guardare incuriosita la sua mano per poi stringergliela, sorridendo. Quella che stavano vivendo era una situazione bizzarra, curiosa, ma anche molto carina.

«Posso fare qualcosa per te?» chiese poi il ragazzo, domandandosi per quale motivo Audrey gli si fosse avvicinata.

Lei, che si era aspettata una simile domanda – come dare torto al ragazzo, dopotutto – si strinse appena nelle spalle.

«Non esattamente» esordì, lasciando perplesso l’altro. «Volevo solo ringraziarti per i complimenti di ieri. Non sono stata molto garbata, ma non me li aspettavo e mi hanno un po’ spiazzata.»

Rise leggermente alle sue stesse parole, in attesa di una reazione di Peter.

Quest’ultimo, che certo non avrebbe mai pensato di trovarsi in quella situazione, ci mise qualche secondo in più a dire al suo cervello di sorridere a quella ragazza.

«Non ce n’era bisogno» le disse. «Lo avevo capito che ti avevo colto impreparata. E poi il mio non è stato il miglior esordio che si sarebbe potuto fare. "Tu sei la pianista"» proseguì, scimmiottando se stesso.

La sua imitazione strappò una risata alla ragazza.

«Ma grazie. È stato molto carino da parte tua» concluse.

Quelle parole fecero piacere a Audrey, che si tranquillizzò totalmente e allontanò l’idea di aver fatto una pessima scelta nell’andare a parlare con il ragazzo. Lui, Peter, era sorprendentemente alla mano ed emanava un’energia contagiosa. Qualcosa di decisamente "universitario" per Audrey.

«Di che film è?» domandò lui. Si era tolto anche l’altro auricolare nel frattempo e aveva pensato potesse essere un’idea carina scambiare due chiacchiere con la ragazza, perlomeno ora che sapeva che gli avrebbe risposto.

Audrey si ricordò subito della loro conversazione del giorno prima e capì a cosa si riferiva il ragazzo.

«È City of Stars. Di La La Land» aggiunse, notando l’assenza di reazioni da parte di Peter.

«Ah» esclamò quest’ultimo «Sì, ho presente il film. Solo che non l’ho mai visto.»

Per Audrey quell’affermazione era quasi impensabile, soprattutto perché lei lo aveva praticamente imparato a memoria a forza di riguardarlo.

Non le venne in mente alcuna replica e fu nuovamente Peter a parlare: «Deduco che a te piaccia molto, invece.»

«Sì, è così. La colonna sonora è una delle mie preferite» rispose Audrey.

«Conosci anche qualche altro pezzo?»

«No. In effetti no.»

Sentirsi ammettere una cosa simile lasciò Audrey perplessa. Soprattutto perché subito il ragazzo rincarò la dose domandando: «Come mai?»

Audrey non poteva immaginare quanto Peter fosse curioso per natura. Lui domandava perché voleva sapere, non certo per mettere dubbi alle persone.

Tuttavia, anche se in quel momento lui avrebbe potuto spiegarlo a Audrey, dirle che domandava solo perché era incuriosito dalla possibile risposta, non ne ebbe il tempo. Il treno della Circle line arrivò sferragliando alla stazione di Tower Hill, rallentando fino a fermarsi.

Peter indicò il convoglio che si stava fermando davanti a sé, abbozzando un sorriso.

«Beh, è il mio.»

Si spostò per far passare alcune persone, avvicinandosi di un passo a Audrey.

«Ci si vede, allora» la salutò.

Attese la risposta della ragazza, pressoché identica alla sua e salì sulla Circle line inforcando nuovamente gli auricolari.

Audrey guardò la metropolitana ripartire, poi lanciò uno sguardo all’insegna luminosa solo per appurare che mancavano altri quattro minuti alla sua corsa. Cercò di pensare a qualcosa, di ripercorrere con la mente i pentagrammi che stava imparando, tuttavia il suo cervello sembrava non volerne sapere. Anziché ricordare le note, gli accordi, continuava a riproporre alla ragazza quello che era appena successo, quel veloce scambio di battute con quel giovane, che d’ora in poi avrebbe potuto classificare come Peter.

 

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Capitolo 5
*** V ***


 

 

 

Il sabato mattina, intorno all’ora di pranzo, Camden Town era una tappa obbligatoria per Audrey e le sue amiche: April e Sadie.

Come al solito erano riuscite a trovare un piccolo tavolino libero nei pressi di alcuni chioschetti alimentari nella zona del Camden Market, su cui si erano fermate per consumare il loro pasto. La giornata era particolarmente soleggiata e i profumi di quella zona così folcloristica si mescolavano alle centinaia di voci di residenti e turisti.

Audrey si era comprata una porzione di tagliolini tailandesi, che mangiava distrattamente con le bacchette, un orecchio teso ad ascoltare la conversazione. La sua mente, però, faceva fatica a focalizzarsi adeguatamente su quanto Sadie stava dicendo. Sapeva che stava parlando di una sua collega di lavoro, quella assunta da poco, ma non riusciva a collegare adeguatamente lei al vice direttore; con molta probabilità le era sfuggito un passaggio chiave, nel frattempo. Si sforzò di recuperare il discorso, fra un boccone e l’altro, ma si distrasse nuovamente. Si ritrovò a pensare al ragazzo della metropolitana – Peter – e alla loro ultima conversazione.

In un certo senso trovava quel ragazzo strano. Aveva una gran voglia di parlare, la risposta sempre pronta, faceva un sacco di domande e sembrava che gli importasse poco di chi fosse il suo interlocutore. C’era addirittura qualcosa di contagioso in lui. Tuttavia, la cosa su cui la ragazza continuava a focalizzarsi era la sua ultima domanda "Come mai?"

Come mai lei non sapeva suonare altre canzoni di La La Land? Nessuno glielo aveva mai chiesto e Audrey dovette ammettere a se stessa che non ci aveva mai pensato.

Perché non si era mai sforzata di imparare una canzone nuova del suo film preferito? Dopotutto la versione di City of Stars che suonava sempre a Tower Hill l’aveva scritta lei. Eppure non si era mai fermata a riflettere sulla cosa, né su come mai non avesse provato a scrivere su un pentagramma le note di Someone in the Crowd o del tema di Mia e Sebastian. City of Stars le piaceva, da impazzire, ma effettivamente anche le altre meritavano di essere imparate. Avrebbe dovuto fare qualcosa.

Si sentì strana a realizzare che tutto quell’ingarbugliato pensiero era opera di quel ragazzetto della metropolitana, invece era così. Era riuscito a instillare in lei il dubbio, cosa che, la maggior parte delle volte, in Audrey si trasformava in voglia di fare.

«Audrey, non mi stai ascoltando.»

La ragazza sbatté gli occhi un paio di volte, tornando alla realtà. Si trovò davanti il viso di Sadie, gli occhi marrone scuro – quasi quanto la sua carnagione – erano fissi in quelli della pianista.

«A che stavi pensando?» rincarò la dose Sadie, portandosi una delle sue lunghe treccine nere dietro all’orecchio. I lineamenti raffinati dei suoi ventotto anni si corrucciarono per un breve momento.

«Oh, a...a niente di speciale. Mi sono distratta per un momento, scusa» rispose Audrey.

«Sei sempre la solita» ridacchiò April, una ventisettenne scozzese tutta lentiggini e capelli rossi, dal sorriso contagioso.

Lei e Sadie conoscevano fin troppo bene Audrey. Sapevano della sua incredibile capacità di distrarsi, di isolarsi dal mondo, dal quale riusciva a rimanere scollegata anche per minuti interi. Era più forte di lei. Suonare il pianoforte le aveva insegnato a concentrarsi solo sui movimenti che faceva e su ciò che nasceva da quei gesti. Con gli anni aveva iniziato a riportare questi insegnamenti alla realtà e aveva finito con il riuscire a isolarsi in qualsiasi circostanza. Non si era mai fermata a pensare se il suo fosse un pregio oppure un difetto.

Audrey mescolò con le bacchette i suoi tagliolini, abbassando lo sguardo.

«Stavo pensando che potrei imparare un’altra canzone di La La Land» ammise.

Per sua fortuna anche alle sue amiche quel film piaceva e sapeva che parlare della cosa non le avrebbe esasperate.

Sadie sbuffò leggermente. «So che il mio lavoro non è emozionante quanto suonare il pianoforte, ma potresti almeno fingere un po’ d’interesse» disse per punzecchiare Audrey.

Quest’ultima sorrise. «Andiamo, tu non c’entri. È che ci sto pensando da ieri e voi sapete come sono fatta» cercò di motivarsi, ricordando alle amiche la sua particolarità per cui, quando un dubbio l’assillava, era in grado di perseguitarla per giorni, distogliendo la sua attenzione da tutto il resto.

«E quale pensavi di imparare?» domandò April, sporgendosi appena sul tavolo. Anche Sadie si mise in attesa della risposta, a dimostrazione che poco prima stava scherzando.

Audrey si strinse nelle spalle. «Ancora non ne ho idea. Ho iniziato a pensarci solo da ieri sera.»

«Se fossi al tuo posto vorrei imparare la canzone che Sebastian suona al matrimonio» intervenne April.

«Oddio, sì» le diede corda Sadie. «È meravigliosa. Triste, certo, ma bellissima.»

Quello fu l’input per una nuova conversazione. Le tre amiche si misero a ripassare con le parole per l’ennesima volta la pellicola di La La Land, parlando delle canzoni e degli attori, in un teatrino che non le stancava mai. La canzone che Audrey avrebbe potuto imparare passò in secondo piano, ma l’idea di acquattò comunque in un piccolo angolo della mente della ragazza, pronta a rispuntare all’improvviso. Audrey le aveva dato le curiose sembianze di Peter, perché sapeva che era colpa di quel ragazzo – o merito, in base ai punti di vista – se lei aveva iniziato ad avere quella tentazione.

 

*

 

A meno di trecento metri dal punto in cui Audrey e le sue amiche si stavano perdendo in chiacchiere parlando di film, Peter seguiva Iris per i corridoi zeppi di turisti e negozietti che caratterizzava il Camden market. Il ragazzo teneva in mano un articolato panino ripieno di pollo fritto e svariate salse, mentre Iris, costantemente a dieta, sorseggiava una cola light.

Fra un boccone e l’altro Peter si guardava intorno, in cerca di ispirazione in mezzo ai colori che caratterizzavano Camden. Adorava quella zona di Londra e in più di un’occasione aveva pensato di andarci a vivere. Tuttavia non lo aveva mai fatto; forse complice la moda, le case non erano esattamente a buon mercato e, soprattutto, lui non era così certo che sarebbe riuscito a sopportare periodi protratti di quel costante via e vai di persone. A ogni modo, però, appena ne aveva la possibilità, saliva sulla Tube e raggiungeva Camden market per immergersi nei suoi corridoi, per osservarne i colori, sentirne gli odori e trovare ispirazione.

L’uscita di quel sabato era stata un’idea di Iris, che aveva deciso di passare da Cyberdog per cercare un regalo. Sebbene anche Veronica fosse a casa, la ragazza aveva chiesto immediatamente a Peter se fosse stato disposto ad accompagnarla. Lui, che non andava a Camden Town da almeno quindici giorni, aveva accettato subito, accantonando per un momento il suo lavoro.

Le nuove tavole che aveva preparato, perché venissero sottoposte ai committenti per cui stava lavorando, erano quasi pronte e lui ne era soddisfatto. Aveva disegnato un paio di tavole per ciascuno dei rimanenti personaggi e la ragazza – la giovane di cui il ballerino si innamora nella storia – era stata l’ultima a prendere vita. Peter non era rimasto sorpreso quando aveva disegnato una crocchia di eleganti e spettinati capelli sui tratti sottili del suo viso, così come aveva considerato normale vestirla con un bell’abito rosso. Sapeva che l’ispirazione per quelle caratteristiche era dovuta alla pianista, ma, in un certo senso, lei era particolarmente indicata per dare le sembianze a quel personaggio.

Peter ne vedeva un sacco di ragazze ben vestite sulla Tube, ma nessuna lo aveva mai ispirato più del dovuto. Era probabile che ciò che rendeva Audrey diversa ai suoi occhi fosse la sua vena artistica, che lui era riuscito a percepire poiché la possedeva a sua volta.

«Guarda che carina questa» esclamò d’improvviso Iris, estraendo una camicia fra una moltitudine di tante altre, in uno dei centinaia di negozietti del mercato.

La mise davanti al petto di Peter prima che quest’ultimo potesse capire cosa stava succedendo, mentre ancora masticava il suo panino.

«Ti starebbe benissimo» proseguì lei.

Il ragazzo deglutì. «Non penso di avere bisogno di un’altra camicia» rispose, dando un nuovo morso al suo pranzo.

«Beh, secondo me perdi un’occasione» replicò lei, mettendo via l’indumento e cominciando a spulciare i capi nella sezione femminile. «Ah, giusto» riprese poi parola. «Come sono andati i disegni nuovi? Quando ne avete parlato non ero ancora tornata.»

Ripresero a camminare.

«Bene, molto bene. La nuova versione del ballerino è piaciuta. Sto procedendo con gli altri personaggi.»

«Perfetto, ne sono contenta. Se anche questa volta il personaggio non fosse andato bene ti avrei suggerito di provare con Ryan Gosling

Peter aggrottò la fronte a sentire quel nome.

«Scusa, ma...Ryan Gosling non è un ballerino» le fece notare.

Lei si voltò a guardarlo, sollevando un sopracciglio. «Si vede che non hai mai visto La La Land

«Che c’entra?» domandò confuso. Non riusciva a capire perché negli ultimi tre giorni tutti stavano nominando quel film. Tuttavia non ricevette risposta.

Iris riprese a camminare, puntando dritta verso un negozio. Peter la seguì e si mise in attesa a un lato della stradina, mentre la coinquilina passava da un’esposizione di vestiti all’altra. Nel tempo che Iris impiegò per cercare qualcosa di suo gradimento il ragazzo riuscì a terminare il pranzo, ad analizzare una coppia di turisti che gli diede qualche spunto per un disegno e a rifiutare tre nuovi tentativi da parte dell’amica di sottoporgli camicie di cui sapeva di non avere bisogno.

Alla fine la ragazza trovò un completo di suo gradimento e chiese al gestore del negozio di poterlo provare. Lui le indicò i camerini, dopodiché, con fare amichevole, raggiunse Peter, che si era nuovamente distratto a guardare per Camden market.

«Non va a dire alla sua ragazza cosa ne pensa del completo?» domandò l’uomo, appena ebbe raggiunto il ragazzo.

Peter si voltò verso di lui, guardandolo senza capire. «Come, scusi?» chiese.

«La sua ragazza» rispose l’altro. «È andata a provarsi un vestito.»

Peter guardò nella direzione che l’uomo stava debolmente indicando con l’indice. Il suo cervello impiegò qualche secondo di troppo a fare i giusti collegamenti, ma quando capì dove il negoziante volesse arrivare, tornò a rivolgersi a lui: «Lei non...non è la mia ragazza.»

«Oh, mi perdoni allora. Ho intuito male» ridacchiò. «Ma dal modo in cui la giovane le si rivolgeva avrei detto il contrario. Non faccia caso a questo vecchio» proseguì, indicando se stesso, dopodiché tornò al posto dietro al bancone del negozio.

Peter lo guardò perplesso per un momento, poi il suo cervello gli fece notare che, forse, dietro le parole di quell’uomo potesse esserci molto di più.

Non si era mai fermato a pensare al modo in cui lui e Iris potessero apparire visti da fuori. Non lo aveva mai fatto principalmente perché lui l’aveva sempre trattata come si tratta un’amica: chiacchiere sincere, qualche battuta e qualche gesto carino di tanto in tanto, come capita fra tutte le coppie di amici.

Il punto era: Iris come si comportava con lui? Non aveva mai dato particolare peso a questa cosa, fino a quel momento. Come un flash gli passarono davanti tutte le ultime cose che erano accadute fra loro, prima fra tutte la camicia che, quel giorno, lei sembrava tanto intenzionata a comprargli. Uno dietro l’altro arrivarono i ricordi di come Iris gli si rivolgeva, del fatto che, quando uscivano tutti e quattro insieme, le gli sedeva sempre accanto. Aveva sempre pensato che ciò accadesse perché Veronica preferiva la compagnia di Damian alla sua, ma, in quel momento, sospettò non fosse esattamente così.

Iris ricomparve dal negozietto senza alcun vestito fra le mani.

«Mi stava malissimo» sentenziò. «Che ti va di fare?»

Peter la guardò, cercando di nascondere la strana sensazione che lo aveva colpito negli ultimi secondi. Si disse che forse si era immaginato tutto e che, in fondo, poteva benissimo essere che Iris si comportasse così nei suoi confronti solo perché lui le stava particolarmente simpatico. Per quale motivo doveva sempre esserci un secondo fine dietro a una buona relazione fra due persone del sesso opposto?

«Ho bisogno di qualche pennello nuovo, mi accompagni da Rory?» rispose infine il ragazzo.

Decise di smettere di rimuginare ancora su tutta quella storia. C’erano buone possibilità che si stesse costruendo da solo castelli destinati a crollare o, meglio, privi di fondamenta stabili. Lui faceva sempre correre la sua fantasia, ne aveva in abbondanza, ma sapeva anche quando tenerla a freno per evitare che contribuisse a creare situazioni sconvenienti anche quando di sconveniente non vi era nulla. Quello era uno di quei momenti. Iris era una ragazza determinata, che sapeva come conquistare ciò che voleva; se non si era ancora fatta avanti voleva dire che lui non faceva parte dei suoi progetti e che le bastava averlo come coinquilino.

Peter mise a tacere così la sua voce interiore che continuava a sottoporre al ragazzo continui “ma” e “se” come fossero vitali. Lasciò perdere quella storia, mentre si spostava di lato per far passare un trio di amiche che chiacchieravano e che lui notò appena.

Tuttavia, dentro di sé, si era appena presentato il dubbio.

 

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Capitolo 6
*** VI ***


 

 

 

Audrey lanciò un’occhiata all’orologio da polso in un momento di distrazione del proprio interlocutore. Fu particolarmente veloce; sollevò la manica del cappotto e della camicia contemporaneamente e puntò gli occhi sul quadrante, interpretando l’ora.

Aveva una gran voglia di tornare a casa, lasciare il Menier, raggiungere Tower Hill station, suonare City of Stars e procedere verso casa, ma Clint sembrava non volerglielo permettere.

Il ragazzo, uno dei violoncellisti dell’orchestra del teatro, collega di Audrey e di un paio di anni più grande, aveva fermato la pianista prima che lei potesse raggiungere la porta e uscire in O’Meara St. L’aveva aggiornata su un paio di argomenti, dopodiché aveva iniziato a parlare di altro, trattenendo la ragazza.

Clint era una bella persona, Audrey lo sapeva. Al tempo stesso, però, sapeva anche che lui aveva un debole per lei. Non aveva impiegato molto per intuirlo e alcune musiciste dell’orchestra avevano confermato il suo sospetto, insieme a Sadie, April e perfino Oliver.

Nonostante tutto, però, Audrey aveva accettato l’invito a uscire di Clint quando, un paio di settimane prima, lui lo aveva formulato. Quell’uscita era stata la conferma alla ragazza del fatto che fra di loro – almeno da parte sua – non sarebbe mai potuto accadere nulla. Clint era un ragazzo molto intelligente e un ottimo musicista, tuttavia ostentava le sue conoscenze fino al punto di diventare pedante e, il più delle volte, mancava di modestia e senso dell’umorismo. Queste caratteristiche erano l’esatto opposto di ciò che Audrey cercava nel suo Sebastian e per tale motivo aveva declinato tutti i successivi inviti da parte del ragazzo.

Sebbene lei gli avesse dichiarato che lui non era il suo tipo, il violoncellista sembrava non essere intenzionato a demordere e a voler conquistare Audrey facendo sfoggio delle sue doti intellettive.

Anche in quel momento Clint si stava sprecando in numerose nozioni riguardo allo spettacolo per cui entrambi stavano imparando le canzoni, come se Audrey non avesse mai potuto imparare altrimenti le origini di quella storia.

A un tratto il ragazzo ebbe una lieve incertezza, probabilmente non era riuscito a trovare subito la parola esatta da utilizzare. Audrey approfittò di quella frazione di secondo per aggrapparsi all’unica possibilità di fuga che le si era presentata.

«Clint, scusa se ti interrompo, ma devo assolutamente andare.»

Il ragazzo la guardò confuso per un momento, consentendo alla ragazza di proseguire: «Devo rientrare al più presto perché questa sera ho un impegno con Oliver» inventò, ostentando sicurezza a ogni parola. Non le piaceva affatto mentire, ma sapeva di non avere altro modo per uscire da quella situazione. C’era anche la possibilità che Clint la invitasse a bere qualcosa e Audrey preferiva allontanarsi prima che quell’eventualità divenisse concreta.

«Ah, si certo. Ne riparliamo domani» rispose lui, mettendosi in spalla il proprio violoncello, racchiuso nella custodia.

Audrey non perse altro tempo e salutò il ragazzo, avviandosi verso l’uscita in fretta. Si incamminò lungo Southwark St. mentre una pioggerellina fine e fitta cominciava a scendere. La ragazza approfittò del tragitto a piedi per rispondere ad alcuni messaggi, almeno finché la pioggia non la costrinse ad aprire l’ombrello. Accelerò il passo per raggiungere il più in fretta possibile Tower Hill station ed estrasse la Oyster card appena vide comparire il segnale della Underground. Si insinuò fra le persone per superare i tornelli, tuttavia, quando strisciò la sua carta per accedere, l’accesso non si aprì.

Audrey provò a passare la tessera una seconda volta, ma nuovamente non accadde nulla. Ci provò di nuovo solo per vedere il tentativo fallire ulteriormente. Dietro di lei si formò una piccola colonna e la ragazza si spostò per evitare di intralciare ulteriormente il passaggio.

Appena si fu spostata si rigirò fra le mani la Oyster, sbuffando. Anche quella mattina la carta le aveva dato problemi. Aveva dovuto strisciarla due volte sul lettore giallo per riuscire a entrare. Attese che la calca di persone calasse prima di fare un nuovo tentativo. Quando il numero di passanti diminuì tornò ai tornelli d’accesso e provò di nuovo. Per l’ennesima volta il lettore le negò l’accesso. La ragazza imprecò fra i denti e, individuato un addetto alla sicurezza, decise di chiedergli aiuto.

«Ciao.»

Audrey si bloccò prima ancora di compiere un passo. La voce proveniva alle sue spalle e, come si voltò in quella direzione, si trovò davanti Peter. Il ragazzo le stava sorridendo e indossava la sua solita giacca a vento blu, l’auricolare destro sfilato.

Erano trascorse due settimane dal secondo incontro fra di loro e, in tutto quel tempo, non avevano parlato altre volte. Si incontravano di tanto in tanto sulla banchina della fermata della metro, ma non avevano scambiato altre parole. Quando i loro sguardi si incrociavano – cosa che non accadeva spesso – si scambiavano solo un rapido saluto a distanza e un sorriso.

Quel giorno, però, Peter aveva visto Audrey alle prese con la sua Oyster card, riconoscendola da lontano per via del cappotto rosso e aveva deciso di avvicinarla.

Audrey salutò di rimando il ragazzo, ignorando momentaneamente la sua tessera dei mezzi pubblici.

«Tutto a posto?» domandò poi Peter. Si era accorto che stava trascorrendo un po’ troppo tempo sul lettore di quel tornello d’accesso, cosa che un londinese abituato a prendere la metropolitana non faceva praticamente mai.

Audrey, infatti, sbuffò una generosa dose di aria, facendo muovere i ciuffi di capelli che le ricadevano sul viso. Sollevò l’Oyster così che l’altro potesse vederla. «Il lettore non la legge e non so che fare. Anche stamattina mi aveva dato problemi ma alla fine sono riuscita a passare. Questa volta, invece, non c’è verso.»

«Ah, sì, so cosa vuol dire. È successo anche a me una volta.»

«Davvero?»

Audrey si sentì sollevata dalle parole del giovane. Gli mise la carta in mano quando lui gliela tese, invitando la ragazza a passargli la Oyster così che potesse aiutarla.

«Sono pur sempre carte magnetiche, quindi ogni tanto fanno i capricci» disse lui.

Si strofinò la tessera sui jeans diverse volte, sembrando intenzionato a farla andare a fuoco.

«È una tecnica empirica» ammise davanti allo sguardo confuso di Audrey. Passò la carta sul lettore giallo e il tornello d’accesso si aprì subito. «Ma curiosamente funziona» concluse, invitando Audrey ad attraversare l’ingresso.

Lei spalancò gli occhi per la sorpresa, divertita e attraversò l’accesso, aspettando che il ragazzo facesse lo stesso dopo aver estratto la sua Oyster card.

«Ti ringrazio molto» gli disse. «Ammetto che non pensavo avrebbe funzionato.»

Il ragazzo rise lievemente, socchiudendo gli occhi scuri. Restituì la tessera a Audrey e si incamminò accanto a lei.

«Non so dirti se ha funzionato davvero o è stata fortuna. Ma so per certo che ti conviene cambiare la tessera, c’è il caso che la prossima volta non possa aiutarti.»

Proseguirono in direzione delle scale mobili mentre Peter raccontava la sua personale esperienza con la Oyster, quando la carta aveva deciso di smettere di funzionare proprio il giorno in cui lui era in ritardo per un incontro importante.

«Ho dovuto fare un biglietto di corsa semplice e sono comunque arrivato tardi» rivelò a Audrey, ridacchiando a quel ricordo.

Quando arrivarono all’ampia sala di accesso ai binari, con le sue diramazioni e il pianoforte verticale laccato di nero silenzioso, il ragazzo si fermò. Anche Audrey lo imitò, guardandolo senza capire bene perché lui lo avesse fatto.

«Non suoni oggi?» le chiese, indicando lo strumento in attesa.

La ragazza lanciò uno sguardo al pianoforte, quasi sentendo a gran voce il richiamo della musica. Aveva voglia di sedersi e suonare City of Stars come al solito, tuttavia era combattuta. Una parte di sé le disse di rimanere con Peter e cercare di conoscerlo meglio. Sentiva che poteva nascere una bella amicizia con un ragazzo all’apparenza tanto spensierato e alla mano. Se si fosse fermata a suonare era sicura che lui si sarebbe allontanato e Audrey capì, con sua stessa sorpresa, che non voleva accadesse quell’eventualità.

«Ah, ehm, no, dai. Questo pomeriggio passo» rispose. Cercò di apparire il più disinvolta possibile, come si fa per nascondere a qualcuno, che non si conosce ancora bene, una profonda passione di cui ci si vergogna appena un po’.

Peter, di risposta, abbozzò un sorriso. «Peccato,» replicò, «ti avrei ascoltata volentieri.»

Audrey rimase sorpresa da quell’affermazione e dalla naturalezza con cui era stata pronunciata. Aveva parlato poco con il ragazzo, ma ogni volta che era accaduto lui era stato in grado di dire qualcosa di inaspettato e, sotto certi punti di vista, lusinghiero nei suoi confronti. Si rese conto che il giorno in cui le aveva rivolto la parola per la prima volta lo aveva semplicemente fatto per complimentarsi con sincerità, senza secondi fini e, anche se con parole diverse, Peter stava rinnovando quei complimenti anche in quel momento.

«Beh, in tal caso allora direi che posso accontentarti» rispose infine Audrey, simulando il tono scherzoso di chi acconsente di fare qualcosa nonostante sia famoso e potente. Peter riconobbe quel tono e si mise a ridere.

La ragazza si avvicinò al piano, si sedette, posando in grembo la borsa come ogni altro giorno e sfiorò con le dita i tasti bianchi dello strumento. La musica la stava chiamando a sé come tutte le altre volte prima di quella. Audrey si dimenticò di avere un pubblico – composto di un solo elemento – di essere in una stazione metropolitana, di essere a Londra. Erano solo lei, il pianoforte e le note, tutto il resto perse subito di importanza.

Peter, nel frattempo, si era sistemato contro la parete, a cui si era appoggiato con la schiena. Non voleva creare disturbo ai passanti, così come non voleva che loro facessero lo stesso. Si concentrò su Audrey e sul suo modo di suonare, colpito dal talento della ragazza. La trovò davvero brava, esattamente come le altre volte. Ascoltò la canzone che stava suonando consapevole di cosa fosse e di quale fosse la sua origine, dando quasi nuove sembianze al momento. Osservò i dettagli, in cerca di ispirazione come faceva sempre. Guardò Audrey attentamente, i capelli chiari seguire leggeri i movimenti del viso, le dita muoversi con agilità e forza lungo i tasti del pianoforte. I suoi occhi erano fissi sui propri movimenti, ma Peter non dubitava del fatto che, in realtà, stessero osservando qualcosa invisibile a chiunque altro.

Solo quando la canzone finì, Audrey si ricordò di avere un pubblico, per quanto piccolo. Le persone che passavano accanto al pianoforte non erano mai state un pubblico per lei, ma quel giorno, appoggiato alla parete a un lato della sala, uno spettatore lo aveva veramente. Si alzò dal piano e tornò da Peter, che l’aveva aspettata. Quest’ultimo si esibì in un breve applauso, complimentandosi con la pianista.

Lei lo ringraziò per i complimenti, notando solo in quel momento che lui aveva tolto entrambi gli auricolari.

Si avviarono nuovamente insieme, in direzione del binario da cui sarebbero partite le corse di entrambi.

«Lo fai di professione, vero?» chiese di punto in bianco Peter.

Audrey impiegò qualche istante a capire di cosa stesse parlando. Dedusse che il ragazzo era uno di quelli che, il più delle volte, dava i soggetti per scontati e, soprattutto, che non la conosceva affatto dato che non poteva immaginare la sua capacità di deviare il filo dei propri pensieri in brevissimo tempo. Omettere i soggetti con Audrey era sempre un grave errore.

Tuttavia non lo fu in quel momento poiché che la ragazza stava dedicando la sua attenzione proprio a Peter.

«Non dico che non ci siano persone che suonano per hobby veramente brave, ma-» proseguì lui, stringendosi nelle spalle.

«Sì, suono per professione» lo interruppe lei, rispondendo alla domanda. Le era parso che pochi istanti prima Peter si fosse infilato in un vicolo cieco e aveva voluto andargli incontro.

«Sono la pianista dell’orchestra del Menier Chocolate Factory.»

«Sul serio? È un gran bel posto, quello. Non ci sono mai venuto a vedere uno spettacolo, lo ammetto, ma ci ho cenato un paio di volte.»

A quelle parole Audrey si immaginò le sale del locale. Rivide il palco, la tribuna dalle sedute in stoffa rossa, il sipario. Poi vide distintamente anche il ristorante del primo piano, elegante e raccolto, in grado di creare l’atmosfera calda che ci si aspetta da un ristorante situato sopra un teatro. Il Menier era un posto meraviglioso, per lei, ed era bello sentire qualcuno stendervi elogi, per quanto brevi.

«E tu invece? Cosa fai?» domandò Audrey. Sapeva già che, con tutta probabilità, si sarebbe sentita rispondere che lui stava studiando – letteratura inglese, suppose – in uno dei college di Londra.

«Sono un illustratore.»

La ragazza si voltò verso Peter a quelle parole. «Un illustratore?»

Lo disse con tono sorpreso, ma venne interpretato in uno più ammirato da parte del ragazzo. Lui abbozzò un sorriso, fermandosi verso la fine del binario, subito imitato da Audrey. Quest’ultima osservò Peter in volto per un lungo momento, cercando di capire se le stava sfuggendo qualcosa o meno.

Trovava non avesse la faccia da illustratore, continuava a essere convinta in modo insensato del fatto che lui fosse un universitario. Aveva dei lineamenti troppo giovanili e quel sorriso perenne di chi non ha ancora superato i venticinque anni. Quella sensazione, poi, veniva accentuata dalle lentiggini che macchiavano delicatamente buona parte di naso e gote del giovane.

«Posso chiederti quanti anni hai?» domandò infine la ragazza, dicendosi che non c’era metodo migliore per collocare Peter su una linea temporale.

Lui rimase spiazzato dalla domanda, chiedendosi cosa c’entrasse in quel momento.

«Ventisette, perché?»

Audrey si lasciò sfuggire un sorpreso “Oh”. Dovette ammettere di aver sbagliato in pieno. «No, è solo che, beh, sembri più giovane della tua età» ammise infine.

Peter sorrise. «Lo so, me lo dicono tutti.»

«Sì, insomma, non ti avrei dato la mia età, sinceramente.»

«Hai ventisette anni?»

«Quasi» volle precisare Audrey.

«Beh, ne dimostri meno anche tu, credimi.»

La frase di Peter strappò un lieve sorriso a Audrey, che distolse lo sguardo dagli occhi scuri del giovane davanti a lei.

«Perciò, illustri cosa, esattamente?» chiese poi lei. Aveva voglia di fare conversazione, almeno per il tempo rimanente all’arrivo della sua corsa.

«Fiabe per bambini e ragazzi. Per bambini, soprattutto. Lavoro per un piccolo studio, ma ho anche un sito internet dove riesco a rimediare qualche altro lavoretto» rispose con tranquillità.

«Davvero?»

Lui annuì semplicemente con il capo.

«Dev’essere un bel lavoro, immagino.»

«Lo è» acconsentì Peter. «Diciamo che è quel tipo di lavoro che consente di liberare la propria creatività. Mi è sempre piaciuto disegnare, fin da piccolo. Sto praticamente facendo il lavoro perfetto.»

Audrey rispose al sorriso di Peter. Capì che avevano qualcosa in comune: una passione nutrita e accudita fin dall’infanzia che si era fortunatamente trasformata nel proprio presente.

«Ti capisco. È stato lo stesso per me» disse.

«Da quanto suoni al Menier?»

Stavano intavolando una vera conversazione, notò Peter. Le reticenze iniziali di Audrey erano completamente scomparse e, per il ragazzo, non era male scambiare due chiacchiere con lei prima di rientrare a casa.

«Da quasi due anni» rispose lei. Stava per aggiungere altro, magari per poi porre al giovane illustratore la stessa domanda, ma la metropolitana della District line apparve dal tunnel, annunciata dal consueto risucchio dell’aria e dal suono metallico delle rotaie.

Audrey guardò Peter, leggermente dispiaciuta di doversi allontanare. Si stava rivelando piacevole parlare con lui, al punto che avrebbe quasi preso la corsa successiva. Tuttavia non lo fece; non voleva apparire strana agli occhi del ragazzo, né motivare la scelta del sua permanenza sul binario della stazione metropolitana.

«È la mia» disse infine, indicando il mezzo.

Peter fece scorrere lo sguardo dalla metro al volto di Audrey.

«Vengo con te. Se non ti dispiace» aggiunse, davanti allo sguardo perplesso della pianista. Esattamente come a Audrey anche a lui stava piacendo la conversazione che erano riusciti a intavolare dopo settimane di accennati saluti a distanza.

«Credevo prendessi la Circle» ammise la ragazza. Lo aveva visto salire su quella linea praticamente sempre e anche le loro precedenti conversazioni si erano concluse con la salita di Peter sui convogli di quella corsa; quel dettaglio le era rimasto impresso.

Peter, di tutta risposta, indicò a Audrey di salire sulla District se non volevano rimanere a piedi e lei eseguì, seguita a ruota dal ragazzo.

«Posso prendere anche questa» la informò lui, mentre le porte si chiudevano. «Devo cambiare per prendere la Overground e anche la District ci passa vicino. Con la Circle impiego meno tempo, ma in verità non cambia molto. Diciamo che avendo preso l’abitudine a fare quel tragitto ho continuato a farlo.»

La disinvoltura che metteva nel rispondere alle domande era quasi invidiabile; c’era molta semplicità in lui.

Nel tratto che separava Tower Hill station da Whitechapel – la fermata in cui Peter sarebbe dovuto scendere per prendere la Overground – i due approfondirono la loro conoscenza, per quanto possibile. Scambiarono brevi pareri sui rispettivi lavori e sui relativi studi, finché non venne per il ragazzo il momento di scendere.

«Beh, mi ha fatti davvero piacere questa chiacchierata» disse Peter, avvicinandosi di un passo alla porta della metropolitana. Audrey era a sedere, in un posto libero che lui le aveva indicato.

«Anche per me» rispose la pianista.

«Direi che ci vediamo domani» le sorrise lui.

Audrey gli sorrise a sua volta. «Direi proprio di sì. E grazie ancora per la Oyster» proseguì, alzando il tono della voce per raggiungere il ragazzo che era prossimo a scendere.

«Ah, di niente» replicò lui, che si era completamente dimenticato del fatto che tutto aveva avuto inizio proprio dalla Oyster card di Audrey. «Ricordati di sostituirla. Buona serata» concluse, salutando la ragazza con un cenno.

Quando la District line riprese la sua corsa la ragazza si ritrovò a rimuginare sulla conversazione appena conclusa. Le aveva davvero fatto piacere quello scambio di convenevoli con Peter, così come l’aveva sorpresa e, in un certo senso, colpita scoprire che lui lavorava come illustratore e che avevano anche pubblicato alcuni libri contenenti i suoi lavori.

Quando Peter le aveva rivolto parola per la prima volta – anche complice l’errato giudizio che aveva dato del ragazzo – lei non avrebbe immaginato sarebbe poi finita a quel modo.

A quel pensiero costrinse la sua mente a smettere di pensare alla questione e a concentrarsi sul percorso della District line. Non voleva rischiare una seconda volta di saltare la sua fermata per via di Peter e della capacità della propria mente di ignorare tutto il resto quando si distaccava anche solo un po’ dal mondo.

 

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Capitolo 7
*** VII ***


 

 

 

Anche in un nuovo sabato Audrey non aveva perso la sua abitudine di raggiungere Camden Town e, più precisamente, il suo mercato. Erano le undici del mattino di un sabato di metà aprile. Il sole era alto nel cielo londinese, minacciato in lontananza da alcune nuvole, all’apparenza intenzionate a scaricare sulla città – o su una sua ridotta porzione – parte dell’acqua che sembravano contenere.

A sedere insieme alla pianista in uno dei tavolini del mercato, proprio accanto al chioschetto che vendeva paella, c’era Oliver, una porzione di gamberetti fritti davanti, dalla quale spiluccava un crostaceo alla volta, assaporandolo guardandosi intorno.

Audrey avrebbe aspettato Sadie e April prima di prendere qualcosa da mangiare, ma i profumi che provenivano dalle varie piccole cucine e il lento masticare del suo migliore amico, le stavano piano piano aprendo lo stomaco. Cercò di non pensarci, tornando a dedicare la sua completa attenzione agli appunti che aveva davanti.

Insieme allo sposo stavano decidendo le canzoni da suonare al matrimonio. A Oliver non importava molto cosa avrebbe suonato Audrey insieme al gruppo che era riuscita a mettere in piedi con colleghi di lavoro e conoscenti, ma la ragazza sembrava non essere dello stesso avviso. Voleva che lui approvasse la scaletta, esattamente come l’approvava chiunque chiamava una band a suonare in qualche serata.

Nei suoi appunti Audrey aveva annotato i nomi di numerose canzoni, molte delle quali le aveva poi depennate perché troppo articolate o perché a Oliver non convincevano. Aveva preso particolarmente a cuore quell’incarico; ci teneva a contribuire alle nozze dell’amico, portando ciò che sapeva fare meglio. Doveva fare i conti con il gruppo di musicisti piccolo e improvvisato che era riuscita a radunare, ma tutto sommato era fiduciosa. C’erano un paio di ottoni, un batterista, un violino, un contrabbassista, un chitarrista, un eccellente cantante – a detta dell’amico che era riuscito a chiamarlo – e lei. Qualche ottimo pezzo di Ray Charles, Louis Armstrong o Frank Sinatra lo avrebbero potuto fare senza problemi.

Come se le avesse appena letto nella mente, Oliver deglutì il gamberetto e puntò le bacchette per il cibo in direzione di Audrey. «Niente Frank Sinatra» sentenziò.

Audrey allargò le braccia. «Come sarebbe a dire? Frank Sinatra, alcune delle canzoni d’amore più belle della storia. Perché no?»

«Non lo so. Forse perché la mia ex era fissata con Fly Me to the Moon?» domandò retorico.

Audrey ricordava quella storia, quella ragazza e la sua rottura con Oliver. Per un po’ aveva anche tentato di convincere il ragazzo a darle una seconda chance ma, con il senno di poi, era contenta che lui non l’avesse ascoltata.

Sbuffò indispettita, segnando una lunga riga a inchiostro blu proprio su Fly Me to the Moon. La scaletta per il ricevimento si stava assottigliando in modo preoccupante, avrebbe dovuto fare qualcosa.

«Hai dei suggerimenti per qualche canzone?» domandò poi la ragazza, sforzandosi di trovare altri brani da aggiungere all’elenco. La musica jazz e swing era costellata di brani meravigliosi, ma ogni volta che lei cercava di trovare le canzoni più indicate sembrava non riuscire a trovarne.

Oliver la guardò calmo, consapevole che l’amica si stava dedicando con tanta anima a quel lavoro perché ci teneva. Dirle che poteva vivere la cosa in modo più sereno non sarebbe servito a molto. Si trattava di Audrey e lui conosceva troppo bene quella ragazza per sorprendersi di quell’atteggiamento.

«Manca ancora un mese al matrimonio» esordì lui. «Sono abbastanza sicuro che per quella data tutto sarà perfetto. Ciò equivale a dire che avrai selezionato dei gran pezzi» disse, annuendo energicamente. Addentò un gamberetto e rimase in attesa della reazione dell’amica.

«Così non mi sei per niente di aiuto» rispose asciutta quest’ultima, guardandolo di traverso.

«Sai che non ne capisco niente di musica jazz. La mia conoscenza si ferma a Frank Sinatra, che odio» replicò Oliver a bocca piena.

Audrey riuscì a trattenersi dallo scoppiare a ridere davanti alla risposta del ragazzo. I battibecchi da vecchia coppia sposata erano una delle cose che amava di più della loro amicizia.

«Audrey io mi fido totalmente di te. Qualsiasi cosa sceglierai so già che sarà azzeccata.»

La ragazza sorrise dolcemente alle parole dell’amico. Non aveva nessuna intenzione di deludere Oliver e non lo avrebbe fatto. Tornò a rimuginare sulle possibili canzoni e gliene venne in mente una che le parve perfetta. To Love Somebody era dei Bee Gees, lo sapeva, ma da qualche parte ne aveva sentito uno splendido adattamento swing; se lo avesse trovato forse avrebbe avuto fra le mani il pezzo principe dell’intera scaletta. Lo segnò sul foglio, raggiante, mentre Oliver continuava a guardarla mangiando.

A poca distanza dai due, un’altra coppia di amici stava chiacchierando vicino al chiosco della paella. A Peter, infatti, era venuta una gran fame davanti al riso, alla carne e al pesce ed era intenzionato a prendersi una porzione di quell’invitante miscuglio di sapori da gustarsi prima di immergersi nel colorato mercato di Camden. Iris, al contrario, non glielo voleva permettere, sostenendo che avrebbero dovuto pranzare insieme e che lei, in quel momento, non aveva assolutamente fame.

Mentre la ragazza era intenta a maledire lo stomaco senza fondo di Peter, l’attenzione del giovane venne deviata da due figure a sedere a un tavolo, proprio alle spalle della coinquilina. Individuò immediatamente il profilo elegante di Audrey, così come il trench beige che la ragazza aveva sostituito al cappotto rosso da quando le temperature si erano fatto un po’ più miti.

«Scusami» disse Peter, interrompendo Iris. «C’è una persona che conosco. Vado a salutarla.»

Si avviò in direzione di Audrey prima che l’amica riuscisse ad afferrare appieno le intenzioni di Peter e lei rimase a guardarlo allontanarsi di quei pochi metri che li separavano dall’altra coppia.

Quando il ragazzo ebbe raggiunto Audrey si fermò, proprio accanto al tavolo. Oliver sollevò lo sguardo su di lui mentre Peter diceva: «Guarda chi si vede.»

Audrey si voltò in direzione della voce, scoprendosi sorpresa di trovarsi davanti proprio Peter.

«Ciao» disse, sorridendogli. «Come stai?»

«Bene, grazie, tu?»

La ragazza si strinse nelle spalle. «Tutto a posto. Che ci fai a Camden?»

Mentre Audrey formulava quella domanda, Peter venne raggiunto da Iris, che si fermò particolarmente vicina al ragazzo. La pianista dedusse che si doveva trattare della ragazza di Peter, praticamente la stessa cosa che Peter stava pensando di Oliver.

«Vengo qui abbastanza spesso. Adoro Camden, riesce sempre a ispirarmi.»

«L’adoro anche io» rispose la ragazza. «Ah, giusto, ti presento Oliver» disse poi, indicando l’amico a Peter.

Oliver venne colto alla sprovvista. Posò in gran fretta la bacchette fra i pochi crostacei rimasti nella sua scatolina in alluminio, si pulì la mano con il tovagliolo e ricambiò adeguatamente la stretta di Peter, trovandola molto energica, vitale.

«Lei invece è Iris» disse a Audrey, facendo la stessa presentazione.

I quattro scambiarono i convenevoli, perdendo qualche minuto in una rapida conversazione. Alla fine Peter, sentendosi di troppo, augurò buona giornata alla coppia e si allontanò insieme alla coinquilina.

Audrey tornò a dedicarsi ai suoi appunti dopo i saluti, così come Oliver al suo spuntino.

«Lui è il ragazzo della metropolitana, quello di cui ti ho parlato» disse poi la pianista, per tenere aggiornato per bene il suo amico.

Gli aveva parlato di Peter più di una volta, soprattutto nell’ultimo periodo. Dopo l’episodio della Oyster card qualcosa fra lei e l’illustratore era cambiato. Non se ne stavano più a distanza sul binario della Tube, ma si andavano in contro quando si vedevano e chiacchieravano del più e del meno in attesa della Circle line o della District.

Nelle ultime settimane avevano avuto modo di approfondire la loro conoscenza, scoprendo di avere molte cose in comune. Entrambi erano appassionati di cinema – sebbene Audrey conoscesse l’argomento molto meglio di Peter – e della saga di Star Wars in particolare. Tutti e due seguivano il rugby – ma tifavano squadre differenti – e, cosa molto importante, amavano la musica. Sebbene si trattasse di generi notevolmente discordanti fra loro, avevano trascorso parecchio tempo a parlare di musica, del profondo amore che ciascuno riservava per qualcosa di così unico e puro. In alcuni casi, o Audrey, o Peter avevano anche saltato la propria corsa pur di non interrompere l’argomento in cui si erano immersi e per entrambi era piacevole aver trovato qualcuno con cui parlare durante l’attesa della metropolitana, quando si era circondati di una moltitudine di individui soli. Stavano diventando amici; lo sapevano entrambi.

«Chi era quella?»

Iris formulò la domanda mentre osservava un paio di orecchini, pescati fra una moltitudine di tanti altri su una delle bancarelle delle mercato. Erano trascorsi diversi minuti da quando si erano separati da Audrey e Oliver, al punto che Peter si guardò intorno in cerca di qualcuno, prima di afferrare quale fosse il soggetto di cui l’amica stava parlando.

«Audrey? Ci siamo conosciuti di recente, prendiamo la metropolitana insieme» rispose infine.

Iris non disse altro, limitandosi a un veloce e monosillabico assenso.

Il ragazzo osservò la coinquilina per diversi secondi, mentre lei continuava a sollevare e analizzare orecchini in cerca dei più indicati. Negli ultimi giorni i sospetti di Peter sul fatto che Iris potesse provare dell’interesse per lui si erano intensificati. Dopo il primo pensiero che aveva formulato sulla questione – ormai un mese fa e proprio lì a Camden Town – non era più stato in grado di ignorare la questione. Quasi ogni volta che lei si rivolgeva a lui, quell’idea si ripresentava, puntualissima. Il ragazzo aveva iniziato a fare particolarmente caso al modo in cui Iris gli si rivolgeva, confrontandolo a come si comportava con Damian; in effetti, qualcosa di diverso c’era. Tuttavia non aveva raggiunto nessuna conclusione, soprattutto perché non riusciva a capire perché, se davvero lei era interessata, non si fosse fatta ancora avanti. Le reticenze non facevano parte del profilo di Iris. Il fatto di non riuscire a trarre delle conclusioni sensate portava ogni volta Peter a ignorare la cosa, fino a che il dubbio non si ripresentava di nuovo. In media finiva in quel vortice dalle due alle quattro volte al giorno.

Si chiese se tirare fuori l’argomento con la ragazza potesse essere una buona idea, ma lasciò perdere quando vide che Iris si era incamminata di nuovo. Si avviò anche lui per raggiungerla, pensando che, forse, prima potesse valere la pena parlarne con Damian.

 

*

 

Il sabato pomeriggio non era mai giorno di prove al Menier Chocolate Factory, fatta eccezione per il periodo precedente alla prima di ogni spettacolo.

Tuttavia da svariate settimane, il sabato pomeriggio la sala del teatro del locale era occupata da Audrey e dal gruppetto di musicisti che era riuscita a mettere insieme per suonare al matrimonio di Oliver. La pianista aveva chiesto a Christopher – il proprietario del Menier, nonché suo datore di lavoro – di poter usare la sala per quelle prove quando era vuota e lui glielo aveva concesso. L’uomo era sempre particolarmente ben disposto nell’aiutare qualcuno che voleva portare avanti un valido progetto musicale, più o meno quello che Audrey stava tentando di fare.

Erano quasi le cinque del pomeriggio e il gruppo di musicisti era intento a confrontarsi fra loro, parlando di alcune delle canzoni che la pianista aveva individuato. Audrey si era presa l’impegno di trovare gli spartiti per ciascun membro della piccola orchestra, ma sapeva perfettamente dove cercare e quell’incarico non era stato particolarmente impegnativo. Aveva distribuito gli spartiti delle ultime canzoni aggiunte all’elenco a ciascun musicista appena si erano incontrati – un paio di ore prima – e avevano trascorso il resto del pomeriggio a provare i pezzi già concordati e quelli nuovi appena introdotti.

Era come avere una band, per Audrey, un piccolo complesso pronto a far conoscere la propria musica nei migliori jazz club londinesi. Si sentiva davvero soddisfatta di quello che era riuscita a mettere in piedi, al punto che una parte di lei le disse che non sarebbe stato affatto male ipotizzare di rendere la cosa permanente, anziché limitare la sopravvivenza di quel progetto al solo matrimonio di Oliver. Dopotutto suonare le piaceva profondamente, esattamente come la musica jazz. Ci avrebbe riflettuto meglio.

Insieme al gruppo avevano appena finito di provare e i musicisti stavano amichevolmente conversando fra loro, confrontandosi sul risultato dell’esecuzione, quando Audrey si accorse che qualcuno era entrato all’interno del teatro, passando dall’ingresso alla sinistra del palco: era Clint.

Per un momento la ragazza lo guardò perplessa, chiedendosi cosa ci facesse lì poi, appena gli altri musicisti cominciarono a vederlo e salutarlo, Audrey si alzò dallo sgabello del pianoforte e gli andò incontro.

«Ciao» la salutò lui, prima ancora che lei potesse raggiungerlo.

«Ciao» replicò Audrey, cercando di apparire rilassata. La presenza del ragazzo lì, però, non la faceva sentire per niente rilassata. Non aveva detto nulla a Clint del fatto che stesse mettendo in piedi un gruppo per le nozze di Oliver. Non lo aveva fatto principalmente perché non aveva molta voglia di trovarsi sempre a contatto con lui, anche lontano dal posto di lavoro, o nei week end, come in quel caso. Sapeva che il suo atteggiamento era stato egoista e, forse, scorretto, ma non aveva trovato soluzione migliore. Aveva cercato di far capire a Clint che non era interessata, ma lui sembrava non dare peso al parere di Audrey. Oltretutto lui le aveva sempre fatto credere di essere uno “particolarmente impegnato al di fuori del Menier” e non pensava che a uno tanto impegnato potesse interessare suonare al matrimonio di uno sconosciuto – per lui – per pochi soldi.

«Cos-cosa ci fai qui?» domandò Audrey, lanciando un’occhiata in direzione degli altri musicisti. Pregò con tutta se stessa che non sentissero una sola parola della conversazione che stava per avere con Clint, perché era piuttosto sicura che, qualsiasi fosse stato l’esito, lei non avrebbe fatto una bella figura.

Il ragazzo rispose con la sua consueta sicurezza, quasi si fosse preparato alla perfezione il discorso: «Gwen mi ha raccontato che stavi cercando dei musicisti per suonare al matrimonio del tuo amico. Volevo chiederti se potesse servirvi un violoncello» concluse, alludendo chiaramente a se stesso.

Audrey maledì nella sua testa Gwen, sollevando impercettibilmente gli occhi al cielo. Non le venne in mente una replica immediata, qualcosa di educato per declinare l’offerta del ragazzo.

Nel tempo che impiegò a pensare, i due vennero raggiunti da Robert, il contrabbassista. Le cose si complicavano, soprattutto perché Robert era molto amico di Clint.

I due si salutarono, dopodiché il contrabbassista chiese: «Come mai qui?»

«Stavo dicendo a Audrey che, se dovesse servirvi un violoncellista, io sono disponibile.»

«Ma come, uno impegnato quanto te vuole dare la disponibilità per questo gruppo? Guarda che suoniamo veramente, c’è da lavorare qui.»

Robert aveva pronunciato il tutto in modo molto amichevole, ma era l’assoluta verità. Audrey lo ringraziò mentalmente; aveva paura che la presenza del contrabbassista potesse rivelarsi un problema, invece lui la stava aiutando, ovviamente a sua insaputa.

«Sì, lo so. Ma è una bella cosa quella che avete messo in piedi» riprese parola Clint, guardando Audrey. «Suonare musica jazz mi piacerebbe molto. Davvero, sono assolutamente disponibile.»

«Ah, questo cambia tutto» esclamò soddisfatto Robert.

Audrey faceva vagare il suo sguardo fra i due uomini, seguendo il loro botta e risposta come se stesse osservando una partita di tennis. Le cose stavano peggiorando. Non poteva dire a Clint che non lo voleva nel gruppo ora che lui si era reso tanto disponibile, specie davanti a uno come Robert, dalle doti persuasive talmente efficaci da risultare sorprendenti. Inoltre, Clint poteva anche essere pesante e interessato a lei, ma come musicista non gli si poteva dire nulla. Suonava il violoncello con elegante maestria e imparava tutti i pezzi rapidamente. Audrey voleva portare la migliore musica che si potesse pensare al matrimonio di Oliver e un violoncello ad arricchire il sound del gruppo sarebbe stato di grande aiuto. Oltretutto non le stava venendo in mente alcuna scusa efficace per liquidare Clint e impedire, al contempo, che Robert potesse peggiorare tutto.

Si arrese all’evidenza: non aveva alternative valide, né colpi di scena da usare a suo vantaggio. Si dipinse in volto un sorriso credibile e tornò a rivolgersi al violoncellista: «Beh, se sei disponibile a prendere parte a questa cosa allora, benvenuto.»

Il ragazzo le sorrise, radioso. Audrey cercò di mantenere le distanze, fin da subito e si avviò per tornare al pianoforte mentre diceva: «Stiamo ancora ampliando la scaletta, ma alcuni titoli li abbiamo confermati. Ti dico di quali si tratta, poi farò il possibile per trovare le spartiture da violoncello.»

«Oh, non serve. So bene dove cercarle» replicò lui.

La pianista riuscì a reprimere una smorfia, limitandosi a un breve cenno di assenso e un: «Ah, fantastico» che, a un udito attento, sarebbe apparso molto sarcastico – come poi era realmente.

Clint venne salutato dal resto dei componenti del gruppo e presentato a Neil, il cantante, mentre Audrey osservava la scena con un leggero misto di preoccupazione e fastidio dentro. Almeno il week end sperava di non dover avere a che fare con Clint, né con le sue avance da persona colta e raffinata che è convinta che un “no” si possa presto trasformare in un “sì, assolutamente”. Il violoncellista le era capitato fra capo e collo ed era riuscito a intromettersi anche in qualcosa di importante per lei, come il lavoro che stava portando avanti solo per Oliver. Sperò con tutta se stessa che Clint non rendesse ciò che si stava rivelando tanto piacevole qualcosa di sgradevole, ma era abbastanza certa che le sue speranze fossero mal riposte.

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Capitolo 8
*** VIII ***


 

 

 

Il libro sul ballerino di tip-tap stava prendendo una forma sempre più definita. Le tavole e i disegni di Peter aumentavano di giorno in giorno e il ragazzo era soddisfatto di come stava procedendo il tutto. Mancava ancora molto lavoro, ma Peter sentiva che il risultato finale avrebbe ripagato le aspettative dell’autore, dell’editore e avrebbe sorpreso il pubblico.

All’inizio di una nuova settimana, con aprile prossimo a esaurirsi, l’illustratore aveva concluso un’altra giornata di lavoro e stava procedendo in direzione di Tower Hill station sul solito percorso. Nelle orecchie aveva le note di Starlight dei Muse, disturbate però dal ticchettio continuo delle gocce d’acqua che battevano insistenti sull’ombrello. Le nubi che si erano addensate su Londra erano tanto gonfie e scure da far apparire le cinque del pomeriggio molto più simili alle otto di sera.

Peter si infilò nell’accesso alla stazione metropolitana, chiudendosi dietro l’ombrello. Si bagnò leggermente i capelli – già umidi e ben più mossi del solito a causa dell’incremento di umidità di quel pomeriggio – e superò i cancelli per i binari.

Mentre scendeva lungo le scale mobili, tenendosi sulla destra, spense la musica. Quel gesto era ormai diventato un’abitudine e si era lentamente affiancato a tutto gli altri che compiva dal suo studio a Tower Hill con una naturalezza insospettabile. Da quando aveva conosciuto Audrey, da quando avevano iniziato a trascorrere il loro tempo insieme sulla banchina della Tube, spegnere la musica sul cellulare per concentrarsi sulla ragazza era diventato naturale per lui, esattamente come lo sarebbe stato se, al posto della pianista, ci fosse stato qualche altro suo amico.

Sentì che qualcuno stava suonando il pianoforte, ma non riconobbe la canzone e, quando la sala divenne visibile, il ragazzo ebbe la conferma che non si trattava di Audrey. Forse la pianista doveva ancora arrivare. Tuttavia lui era in leggero ritardo rispetto al solito, perciò era possibile che lei fosse già al binario. Scese la rampa di scale che portava alla banchina e si guardò intorno, individuando la ragazza poco più avanti.

Era concentrata su qualcosa, Peter lo dedusse dallo sguardo, che teneva fisso davanti a sé, sul nulla. Con sua sorpresa, il ragazzo si accorse che Audrey aveva gli auricolari e che, con molta probabilità, stava ascoltando della musica.

La raggiunse, fermandosi accanto a lei.

«Non ti ho mai vista ascoltare musica» esordì.

Audrey si accorse di lui, sentendo anche quanto aveva appena detto. Non teneva il volume troppo alto e non le sfuggì una sola parola del ragazzo. Oltretutto, lo stava aspettando.

«Ciao. Come stai?» gli chiese

«Tutto a posto» rispose lui, stringendosi leggermente nelle spalle. «Tu? Che stai ascoltando?»

Audrey spense la musica mentre Peter poneva quella domanda. Arrotolò malamente gli auricolari e li infilò in borsa, consapevole che per districarli correttamente la volta successiva avrebbe impiegato parecchio tempo.

«Ah, canzoni. Sono un po’ piena in questo periodo. Fra due settimane c’è la prima dello spettacolo al Menier e fra tre suono a un matrimonio. Quindi ho una cosa come cinquanta canzoni da ricordare.»

Lo disse tutto d’un fiato, senza mascherare più del dovuto la tensione che cominciava a provare. Peter la guardò, sorpreso e ammirato. «Parli sul serio? Ma al matrimonio suoni per il Menier?» le chiese, incuriosito

«No, no. Il matrimonio è un’altra cosa. Hai-hai presente Oliver?» volle sapere. Continuava a piacerle l’idea di suonare alle nozze del coinquilino, specie avendo la possibilità di portare canzoni jazz. La cosa la faceva sentire appagata e si scopriva a volerne parlare ogni volta che ne aveva occasione.

Peter ripensò a dove aveva sentito quel nome, ricordandosi che si trattava del ragazzo che gli aveva presentato Audrey quel sabato mattina a Camden Town. Quello che era certo fosse il suo ragazzo. Cosa c’entrava, ora?

«Sì, quello che era con te a Camden, no?»

«Esatto. Fra tre settimane si sposa e suono al suo matrimonio. È il mio migliore amico da quando siamo piccoli e vorrei che fosse tutto perfetto. Però facendo così mi sto mettendo da sola dell’ansia addosso.»

Il ragazzo sorrise; ripensò un momento alle parole di Audrey e non gli riuscì di fermarsi dall’osservare: «Credevo fosse il tuo ragazzo.»

La pianista si era sentita dire quelle parole già diverse volte. Al liceo, al conservatorio, dai colleghi di lavoro. Sapeva che agli occhi di molti un’amicizia come quella fra lei e Oliver era impossibile, ma lei la stava vivendo e sapeva perfettamente quanto, invece, fosse reale e preziosa.

«Me lo dicono praticamente tutti» rispose poi.

Peter le sorrise. «È molto bello il fatto che suonerai alle sue nozze, davvero.»

«Grazie» rispose lei, senza sapere con esattezza cosa dire.

«Posso farti una domanda?» chiese poi il ragazzo, senza dare il tempo alla pianista di formulare una frase da aggiungere al suo ringraziamento.

Audrey aveva ormai capito quanto Peter fosse curioso. Lui domandava, si interessava, indagava. Cercava di scoprire le cose, di conoscere chi aveva davanti, eppure era anche in grado di capire a quale punto, a quale domanda, era importante fermarsi. Non aveva mai chiesto nulla di sconveniente, né di imbarazzante a Audrey, sapendo bene fino a che punto ci si poteva spingere con le domande prima che queste potessero urtare la sensibilità dell’interrogata.

La pianista acconsentì, aspettando di sentire ciò che lui voleva chiederle.

«Vorresti suonare nella London Philharmonic Orchestra? Cioè, mi spiego, se ci fosse l’occasione di lavorare per la Filarmonica lo faresti? Immagino che per un musicista sia un grande onore, no? Un traguardo importante.»

Audrey lo guardò incuriosita per qualche secondo. Non capiva esattamente il perché di quella domanda, eppure si rese conto di non aver mai preso in considerazione quello scenario. Da quando suonava aveva sempre desiderato suonare e basta, al punto da aver costruito la sua vita intorno alla musica. In tutto quello, però, non aveva mai dato un rilievo importante al dove, al luogo in cui si esibiva. La London Philharmonic Orchestra era indubbiamente un’istituzione di livello superiore a qualsiasi altra orchestra e lei non dubitava che suonare lì avrebbe rappresentato un grande successo personale, tuttavia se non si era mai fermata a pensare a ciò prima di quel momento, prima che qualcuno le chiedesse se c’era speranza a riguardo in lei, significava che forse non era ciò che voleva.

Si prese qualche altro istante per rifletterci su, infine si strinse nelle spalle, rispondendo quasi più per istinto che altro: «Non so, onestamente. Ammetto di non averci mai pensato. Voglio dire, il Menier Chocolate Factory mi piace tantissimo e lì mi trovo davvero bene. Non nego che suonare nella Filarmonica sarebbe un grande onore e, forse, se avessi l’occasione la cogliersi al volo, ma direi di essere felice così. È la musica la mia vita, non l’orchestra. Il luogo in cui suono è secondario.»

Si sentì soddisfatta della sua risposta. Era stata sincera con se stessa e sapeva di aver trasmesso anche a Peter quella sensazione. Il ragazzo le sorrise, annuendo a quelle parole.

«Tu? Come illustratore vorresti andare da qualche altra parte? Tipo alla London Philharmonic Orchestra dell’illustrazione?» gli chiese subito dopo.

Peter trovò particolarmente divertente quel paragone e non lo nascose.

«Il GAE Studios» rispose. «È uno studio di animazione scozzese, a Edimburgo. Vorrei riuscire a essere assunto là, sarebbe un passo ulteriore.»

«In che direzione?»

Audrey si pentì subito di averglielo chiesto. Non le piaceva fare la parte di quella che vuole sapere assolutamente tutto, ma fu più forte di lei. Sentiva che ormai aveva stretto un legame con Peter, che poteva considerarlo suo amico e lei, agli amici, domandava.

Il ragazzo non parve affatto turbato dalla domanda, al contrario. Lui era sempre stato curioso per natura e la curiosità era un tratto che apprezzava molto anche in chi gli stava intorno. Per lui, Audrey aveva quella genuina curiosità che gli era sempre piaciuta negli altri.

«La maggior parte di quelli che lavorano al GAE Studios nel giro di pochi anni riescono a passare in altri studios, fra cui la DreamWorks e la Walt Disney.»

«Sul serio?»

«Già. Mi piacerebbe molto lavorare nel settore dell’animazione, specie per Walt Disney. Sono sempre stato un amante dei loro lavori. Sarebbe bello occuparsi delle bozze, dare libero sfogo all’immaginazione.»

A Peter uscì naturale dire tutte quelle cose a Audrey, cose che non aveva ancora detto a Iris e Veronica, nonostante la loro convivenza. Sapeva che la pianista l’avrebbe capito molto più delle due ragazze, per questo gli uscì tanto semplice dirglielo.

«Però, un progetto ambizioso» disse infine la ragazza, sorridendo. «Ti faccio i miei migliori auguri.»

«Grazie.»

I due si zittirono e rimasero a guardarsi per un momento. Era la prima volta da quando si erano conosciuti che Peter non aveva introdotto un nuovo argomento di conversazione. Di solito sapeva sempre cosa dire o trovava qualche cosa da chiedere e quell’improvviso silenzio fece sentire Audrey strana.

La corsa della District line interruppe quel momento. I convogli si fermarono lungo il binario mentre la pianista salutava Peter.

«Vengo con te» rispose lui, anziché salutarla. Gli era venuto in mente cosa chiedere alla ragazza e non gli andava di vederla andare via, ancora. Cinque minuti in più sarebbero bastati.

I due salirono sulla metropolitana e si sistemarono in piedi, reggendosi entrambi allo stesso palo verticale.

«E dello spettacolo cosa mi puoi dire?» domandò il ragazzo trovando qualcosa di nuovo di cui poter parlare.

«Oh, niente di che» rispose lei, riflettendo su quel argomento. Raccontò a Peter della routine delle ultime settimane, le prove del sabato pomeriggio, i ripassi serali, il modo in cui la musica seguiva gli attori. Adesso era solo questione di memorizzare, gli disse, ecco perché l’aveva trovata ad ascoltare musica, nonostante di solito non lo facesse mai.

Anche quegli ultimi cinque minuti insieme passarono, fino a esaurirsi. La District line era appena affiorata in superficie quando a Audrey squillò il cellulare. Si scusò con Peter, prossimo a scendere, leggendo il nome di April in sovrimpressione. Si portò lo smartphone all’orecchio, rispondendo.

«Buon compleanno!»

L’augurio arrivò contemporaneamente da April e Sadie, urlato all’unisono al punto da far sussultare Audrey e, contestualmente, da essere sentito perfino da Peter. Appena la pianista ebbe conferma di non essersi perforata il timpano, ringraziò le amiche dicendo loro di aspettare un momento quando si accorse che erano arrivati a Whitechapel, la fermata di Peter. Mise la chiamata in attesa, così da poter salutare il ragazzo.

«Non sapevo fosse il tuo compleanno» le disse lui appena la vide abbassare il cellulare.

«Ah, beh, comprensibile» farfugliò lei, davanti al sorriso del ragazzo.

Peter si sistemò meglio lo zaino in spalla, pronto per scendere. «Progetti interessanti per stasera?» le chiese.

La metropolitana rallentò sempre più, mentre la voce annunciava la fermata di Whitechapel. La pioggia batteva insistente contro i vetri.

«Cena a casa di una mia amica. Però non so bene cosa aspettarmi.»

Le porte della carrozza si aprirono.

«Bene, sembra interessante» rispose Peter, avviandosi verso la porta. Scese dal convoglio e si voltò in direzione di Audrey. «Tanti auguri, allora. Festeggia a dovere stasera. Divertiti.»

I due si salutarono con la mano proprio mentre le porte della metropolitana si chiudevano. Peter rimase sotto la tettoia della fermata a guardare la District line ripartire sferragliando. Quando il mezzo scomparve alla sua vista si concentrò sul proprio ombrello, avviandosi verso l’uscita della stazione.

Si incamminò lungo Whitechapel Rd. iniziando a percorrere i cinque minuti a piedi che lo separavano dalla stazione della Overground più vicina, dove avrebbe preso il mezzo che lo avrebbe accompagnato fino a White Heart Lane. La pioggia continuava a scendere, rendono il tutto più buio e umido.

Per Peter non era molto comodo prendere la District line, proprio perché la coincidenza con la Overground gli richiedeva di fare un tratto a piedi capace di allungargli il percorso. Inoltre anche la corsa in generale durava di più, rispetto alla comodità della Circle line. Non ne aveva mai parlato con Audrey, nemmeno quando lei le aveva chiesto perché non preferisse la Circle.

Quel giorno il meteo non invitata affatto a prendersi tempo per una passeggiata e Peter era già sufficientemente umidiccio da evitarsi volentieri anche quel tratto a piedi fino alla Overground, eppure aveva comunque deciso di prendere la District per non salutare tanto presto Audrey.

Non sapeva fosse il suo compleanno; se lo avesse saputo forse avrebbe potuto regalarle qualcosa, farle anche solo un pensiero, offrirle un caffè. Quanti anni compiva? Ventisette se non ricordava male. Sì, vero, erano coetanei.

Il ragazzo rimuginò su quella situazione durante tutto il restante tragitto di rientro a casa. Ripensò alle ultime cose che aveva scoperto su Audrey, al fatto che non fosse interessata alla London Philharmonic Orchestra e a quanto era stata bella la risposta alla sua domanda, che aveva dimostrato l’amore incontaminato che lei provava per la musica. Poi pensò anche a sé, a come gli era risultato semplice ammettere con la ragazza del suo desiderio di lavorare un giorno per il GAE Studios . Trovava semplice parlare con Audrey, indipendentemente da quale fosse l’argomento.

Peter arrivò a casa proprio mentre la pioggia cominciava a calare. Appena entrato salutò tutti, ricevendo di rimando solo il “Ciao” di Veronica, proveniente dalla piccola cucina.

«Dove sono gli altri?» le chiese, appena la raggiunse. Non ricordava gli avessero detto qualcosa di particolare su dove sarebbero andati.

«Iris si è fermata fuori con una sua amica. Damian è a fare la spesa.»

Il ragazzo annuì in modo neutrale, infine andò a prendere le sue cose e si infilò sotto la doccia.

Meno di mezz’ora dopo era a sedere al tavolo del soggiorno, gli avanzi scaldati della sera precedente davanti, a parlare con Veronica mentre metteva sotto i denti qualcosa – non molto sostanzioso, ma era pur sempre qualcosa. Si disse che avrebbe dovuto andare anche lui a fare la spesa, nonostante non ne avesse voglia. Si impose di andarci il giorno successivo, ma sapeva perfettamente che non lo avrebbe fatto.

La conversazione con Veronica non fu delle più avvincenti. La ragazza non era mai stata una gran chiacchierona, Peter lo sapeva. Avevano poche cose in comune – anzi, quasi nessuna – e anche per quel motivo non era semplice trovare qualcosa di cui parlare. Il ragazzo chiese all’amica com’era andata la sua giornata, sebbene non ne capisse nulla di farmacologia. Ascoltò Veronica rispondere sintetica a ogni nuova domanda, ultimando la propria cena.

Alle otto e mezza di sera, mentre Damian, appena rientrato, compiva la routine di doccia e cena tipica di ogni membro di quella casa, Peter si chiuse in camera sua e accese il portatile. Aveva voglia di guardare un film, ma non sapeva quale. Scorse mentalmente un elenco di titoli, non trovandone nessuno di suo interesse. Fece vagare lo sguardo per la stanza, pensando. Si soffermò a guardare la data, ben visibile sul calendario che aveva accanto, senza un reale motivo: il 26 aprile. Audrey quindi era nata il 26 aprile. Non sapeva perché gli era venuto in mente, ma quel pensiero gli diede un’improvvisa illuminazione.

La La Land. Ecco cosa poteva guardare. Così facendo avrebbe finalmente potuto capire per quale ragione alla ragazza quel film piaceva così tanto; o avrebbe potuto immaginarlo, per lo meno.

Cercò nel suo sito di streaming di fiducia, individuando un link con una buona qualità. Spense la luce, si mise più comodo sulla sedia e, inforcate le cuffie, premette play.

Tuttavia, il film non era ancora iniziato da cinque minuti che Peter ebbe già i suoi primi dubbi. Per quale motivo cantavano già? Ma, soprattutto, perché lo stavano facendo durante un ingorgo stradale?

Il ragazzo osservò le immagino inseguirsi sullo schermo del portatile sempre più perplesso e, in un certo senso, anche confuso. Per sua fortuna, però, dopo quella specie di sigla il film iniziò ad avere una trama sensata; i personaggi vennero presentati, le loro vite cominciavano a essere definite.

Era appena terminata la seconda canzone che la porta della sua camera si aprì di colpo. La privacy, in quella casa, era un raro privilegio.

«Peter ti va di-»

Era Iris, che si bloccò prima di concludere la frase. Probabilmente era rientrata da poco e lui non l’aveva sentita. Il ragazzo si voltò verso la porta della sua stanza, sfilando nel frattempo le cuffie, ma la coinquilina aveva già puntato gli occhi sullo schermo del portatile.

«Stai guardando La La Land?» Domandò stupita.

Il ragazzo annuì. «Sì. Ma tu hai bisogno di qualcosa?»

Iris ignorò la domanda. «Ti prego, possiamo guardarlo insieme? Volevo giusto chiederti se ti andava di vedere un film.»

Si sedette sul letto, il posto in cui su guardavano sempre i film in camera di Peter. Quest’ultimo avrebbe voluto risponderle di no, dirle che non aveva voglia di vedere di nuovo gente che ballava senza un vero motivo su una tangenziale americana, ma lo sguardo di Iris lasciava intuire che lei, al contrario, voleva vederlo eccome.

Il ragazzo sospirò impercettibilmente, si alzò dalla sedia e sistemò il portatile sul letto, alla giusta distanza, dopodiché si sedette sul proprio letto.

«Come mai lo stavi guardando?» gli chiese la ragazza, il tono di chi sospetta ci sia qualcosa sotto.

«Non sapevo che altro guardare» replicò lui, disinvolto.

Fece ripartire il film dall’inizio, appoggiando la schiena contro la testiera del letto. Anche Iris ai sistemò meglio e si accoccolò sul letto, appoggiandosi a Peter.

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Capitolo 9
*** IX ***


 

 

 

La temperatura dell’acqua era perfetta. Peter chiuse gli occhi sotto al getto della doccia, sentì l’acqua tiepida scivolargli addosso, respirò a fondo.

Che giovedì assurdo era stato quello. Un vecchio cliente dello studio in cui lavorava si era presentato senza annunciarsi, blaterando che voleva delle tavole con cui illustrare un libro di ornitologia al quale stava lavorando. Voleva acquerelli di uccelli fatti così bene da sembrare reali e voleva fosse Peter a farglieli. Poi, proprio quando l’illustratore già vedeva le prime immagini nella sua mente, l’uomo aveva cambiato idea e si era rivolto a Edward, un collega di Peter, sottoponendo a lui quello che aveva appena proposto a Peter.

«Peter, è una vita che sei lì dentro, esci.»

Veronica batté un paio di colpi forti sulla porta. Il ragazzo spostò sovrappensiero lo sguardo sull’ingresso del bagno, tornando poi a guastarsi il piacere dell’acqua tiepida.

Nel tragitto dallo studio alla stazione di Tower Hill aveva anche preso in pieno un acquazzone. Si era dimenticato l’ombrello nel suo ufficio e, giusto a metà strada, la sola nube che aveva momentaneamente coperto il sole, aveva deciso di scaricare tutta la sua acqua, esaurendo la scorta proprio poco prima che Peter riuscisse a infilarsi nell’ingresso alla Tube, quando ormai era zuppo a sufficienza.

Audrey gli aveva dato un paio di fazzoletti perché potesse asciugarsi, ma non era servito a molto. Tuttavia non era certo la prima volta che Peter si bagnava a causa della pioggia e aveva imparato a ignorare la cosa.

Aveva fatto una piacevole chiacchierata con la pianista nell’attesa della metropolitana. Le aveva detto di aver visto La La Land il giorno prima e lei si era illuminata. Aveva spalancato gli occhi azzurri, sorridendo, come se lui le avesse appena dato la più importante notizia del mondo. Era evidente l’amore che provava per quel film e le aveva fatto piacere sapere che, nonostante i primo dubbi iniziali, a Peter fosse piaciuto – un po’, almeno.

La loro conversazione si era poi spostata sulla colonna sonora di quel film. La canzone di John Legend era piaciuta molto a Peter mentre, proprio per rispondere a una sua domanda, Audrey aveva detto che stava imparando la canzone che Sebastian suonava al ricevimento di nozze. Non c’era un vero motivo, quella canzone era una di quelle che preferiva, insieme a Someone in the Crowd, l’Epilogo e, naturalmente, a City of Stars.

Risvegliandosi dai suoi pensieri, Peter si tolse dalla fronte i capelli bagnati e chiuse l’acqua.

Perché stava pensando ancora alla conversazione con Audrey? Doveva esserci un motivo.

Si disse che ultimamente stava pensando troppo in generale. Si interrogava su cose che prima non si chiedeva e rimuginava su tutto.

D’improvviso gli venne un’idea. Sapeva che doveva esserci qualcosa sotto quel continuo riproporsi in testa la conversazione con Audrey. Il suo compleanno, il fatto che le piacesse la musica dell’epilogo del film.

Gli era appena venuta l’idea per il regalo di compleanno per la ragazza. Le avrebbe regalato dei disegni; amava disegnare e gli piaceva farlo ancora di più quando si trattava di donare il proprio lavoro a qualcuno a cui teneva.

Audrey ormai era sua amica e rientrava perfettamente nell’elenco di quelle persone. Aveva un po’ di lavoro da fare, se ne rese conto, ma quell’idea che aveva preso a balenargli in testa d’improvviso non poteva più essere ignorata.

Indossò la tuta che teneva in casa e uscì dal bagno senza dare peso alle proteste di Veronica, che lo stava riprendendo per averci messo tanto. Arrivò alla camera di Damian con la testa ancora bagnata, tenendo fra le mani un asciugamano con cui, ogni tanto, si tamponava i capelli.

A differenza degli altri inquilini della casa, Peter era abituato a bussare ed entrò in camera solo dopo aver ricevuto la risposta affermativa dell’amico. Damian era a sedere alla scrivania, il portatile aperto su cui stavano scorrendo una serie di codici sorgente, qualcosa di molto simile a una lingua incomprensibile per Peter.

«Che stai facendo?» domandò quest’ultimo, sedendosi sul letto e appoggiando la testa alla parete per un solo secondo, prima di ricordarsi di avete i capelli bagnati.

«Sto cercando di disinstallare uno di quei programmi infami. Dev’essersi installato mentre facevo un aggiornamento. Eccolo qua il bastardo» esultò.

Peter guardò perplesso l’amico. Non ne capiva di computer quanto lui e, spesso, trovava che Damian facesse cose senza senso.

Questi, dopo aver chiuso tutte le finestre sul monitor si voltò verso l’altro e lo fissò asciugarsi i capelli.

«Hai bisogno di qualcosa?» chiese poi.

«Sì» replicò prontamente Peter. «Tu sei decisamente più bravo di me a trovare cose in internet. Non è che riusciresti a trovarmi le partiture per pianoforte dell’epilogo di La La Land

Damian non rispose. Rimase a guardare l’amico, attonito. Peter abbandonò l’asciugamano sulla propria testa, rispondendo all’occhiata perplessa del coinquilino.

«Cos’è che vuoi?» gli chiese quest’ultimo, il tono di chi si è perso a causa della domanda troppo articolata.

«Le partiture per pianoforte dell’Epilogo di La La Land» ripeté Peter, scandendo meglio tutti i passaggi.

L’altro riuscì a cogliere tutti i frammenti e a metterli insieme in un puzzle ordinato.

«Perché, non si trovano? Quel film ha sbancato» osservò. Digitò qualcosa su Google e analizzò i risultati. «Curioso» borbottò poi davanti all’assenza di risultati rilevanti.

«L’epilogo è strumentale, non è solo pianoforte.»

L’osservazione di Peter arrivò a Damian da sopra la sua spalla. Lui l’ascoltò, l’assimilò, poi capì che qualcosa non andava.

«Aspetta un secondo» disse, voltandosi verso l’amico. Peter si rimise a sedere sul letto e lo guardò.

«Perché diavolo vuoi delle partiture da pianoforte?»

«Oh, non sono per me» rispose calmò l’illustratore. Subito dopo si alzò nuovamente e andò a chiudere la porta. Non voleva che Veronica o, peggio, Iris, sentissero quello che stava per dire all’amico. Il sospetto che Iris fosse interessata a lui non ne voleva sapere di allontanarsi e Peter pensò fosse una buona idea che la ragazza non sentisse nuovamente nominare Audrey.

Damian aveva seguito con gli occhi il coinquilino per tutto il tempo, capendo sempre meno. C’era qualcosa sotto l’atteggiamento di Peter, solo non sapeva cosa.

«Hai presente la pianista? Quella che ho conosciuto alla stazione di Tower Hill?» domandò infine l’illustratore.

L’altro annuì, cominciando a sospettare qualcosa.

«Sto cercando gli spartiti per lei» lo informò Peter.

«E perché non se li cerca da sola?»

«Glieli voglio regalare, ecco perché.»

Damian era pronto a parlare di nuovo, ma Peter lo precedette: «Devi proprio fare tante domande?» sbuffò.

«Sto solo cercando di riordinare le cose. Vieni in camera mia blaterando di partiture per pianoforte e ti aspetti che non faccia domande?»

L’illustratore guardò di sottecchi la porta mentre l’amico replicava, sperando che il tono alto della sua voce non attirasse l’attenzione di nessuno.

«Ok, hai ragione» ammise poi. «Ma non c’è bisogno di urlare. Sto cercando quelle partiture da regalare a Audrey per il suo compleanno, tutto qui.» Si sedette sul bordo del letto, davanti all’amico. «Solo che non ho la più pallida idea di dove trovarle, dato che quella canzone non è stata fatta esclusivamente a pianoforte.»

«Hai provato su YouTube?» chiese Damian, guardando Peter con sufficienza.

Quest’ultimo borbottò un paio di sillabe sconnesse. «No» rispose, il tono di chi non può credere che sia tanto facile.

Damian si voltò, tornando a dedicare la sua attenzione al pc. Digitò rapidamente le parole chiave sulla barra di ricerca di YouTube e i risultati apparvero ordinatamente elencati, il più visualizzato a sovrastarli tutti.

Peter si alzò dal letto, avvicinandosi alla scrivania di un passo e posando la mano sullo schienale della sedia in cui si trovava Damian. Si allungò appena per osservare meglio i video elencati sullo schermo, sorpreso. I titoli erano piuttosto eloquenti e, su quasi tutti, erano riportate le parole "piano solo" o "piano version".

«Alle persone piace far vedere quanto sono brave» osservò Damian scorrendo fra i risultati di ricerca. «Oh, ecco qui. Questo ha pubblicato anche gli spartiti.»

«Bene, passami il video via Messenger, per favore. Ci do un’occhiata e vedo se è quello che cerco.»

Damian eseguì, copiando il link sulla chat che aveva in comune con l’amico. Mentre compiva quelle operazioni, però, la situazione tornò nuovamente a incuriosirlo.

«Perché le vuoi regalare proprio le partiture di questa canzone?»

Peter era pronto a replicare, dicendo che era una delle canzoni che Audrey preferiva del film, ma si fermò. Alla pianista piaceva quella canzone, lo sapeva, ma non era esattamente la prima scelta quando lei attribuiva le preferenze nelle tracce della colonna sonora del film. Non era neanche la seconda scelta. Né la terza.

Allora perché mai aveva scelto proprio quella traccia per regalarne gli spartiti a Audrey? Che ci fosse qualcos’altro sotto, magari collegato al film e a quella canzone che gli stava sfuggendo? Poi perché si faceva tutte quelle domande, che gli stava succedendo? Decisamente nell’ultimo periodo pensava troppo.

«Le piace» tagliò corto, in risposta all’amico. Lo ringraziò per l’aiuto e si diresse nella sua stanza.

Una volta lì accese il suo computer e, mentre quello si avviava, Peter aprì lo zaino che portava sempre con sé per andare a lavoro ed estrasse alcuni dei suoi materiali da disegno. Come capitava sempre, l’astuccio in metallo contente le matite era finito sul fondo, sovrastato dal resto: i pennarelli pantoni – tenuti uniti a gruppi con elastici, in base alle sfumature di colore – gli acquerelli, il blocco da disegno dagli angoli rovinati e dagli schizzi improvvisati. Quell’insieme di oggetti e colori riempiva ogni giorno lo zaino di Peter, sebbene disponesse di tutto ciò anche nel suo ufficio in Thomas More St. Per un disegnatore era impensabile andare in giro senza gomme e matite e per lui, così innamorato del colore e delle sfumature, uscire senza acquerelli o pantoni lo era ancora di più.

Si mise alla scrivania, accese la lampada a braccio che si estendeva proprio fino al piano da lavoro e aprì l’astuccio in metallo. Ogni matita aveva una lunghezza diversa e, un paio di esse, erano così corte da risultare difficili da impugnare. Peter afferrò la H, la mina che usava sempre per fare i primi abbozzi dei disegni, cominciando a tracciare pochi segni su un foglio di carta da acquerelli.

Mise anche un po’ di musica, premendo play alla sua playlist preferita, quella che ascoltava sempre volentieri mentre lavorava. La musica cominciò a riempire l’aria, una nota alla volta, e Peter si lasciò andare completamente nel fare ciò che amava di più.

 

*

 

Mancava una sola settimana alla prima dello spettacolo al Menier Chocolate Factory. Audrey cominciava a sentire la tensione e l’ansia miscelarsi in qualcosa di articolato e complesso, una sensazione spiacevole che, nonostante tutto, aveva il potere di motivarla.

La pianista era a sedere sul letto, proprio sotto al poster di Star Wars che capeggiava su buona parte della parete. Aveva le gambe incrociate e teneva appoggiata su di esse la tastiera elettrica con cui si esercitava a casa. Non era certo un pianoforte a coda quello strumento, ma aveva sempre fatto il suo lavoro a dovere ed era un perfetto strumento per suonare in casa in qualsiasi momento ne avesse voglia.

Negli ultimi giorni Audrey non faceva altro che suonare; la cosa non le dispiaceva affatto, ma vista la mole di canzoni che doveva imparare entro le prossime settimane, quel continuo esercitarsi era molto simile a qualcosa di mai provato prima.

Le canzoni per lo spettacolo le aveva imparate perfettamente, anche senza gli spartiti era in grado di eseguirle. Quelle per il matrimonio di Oliver, invece, anche per via del lungo elenco che aveva stillato, erano ancora in parte un problema. Le sarebbe servito altro tempo.

Stava giusto ripassando una delle canzoni che non aveva imparato al meglio – Hallelujah I Love Her So di Ray Charles – a sedere sul letto, mentre dal soggiorno proveniva la voce di Oliver, al telefono con un cliente. Fra il lavoro e il matrimonio, nelle ultime settimane il telefono del ragazzo era un continuo squillare, al punto che Audrey si era chiesta più volte come riuscisse a sopportare tutto ciò.

La pianista si distrasse un solo istante, che le fu sufficiente per sbagliare un passaggio e, di conseguenza, un accordo.

Imprecò fra i denti, maledicendosi. Aveva scelto lei quella canzone; sapeva che Ray Charles era un fenomeno, ma era comunque convinta che sarebbe riuscita a imparare ugualmente la canzone senza faticare più del previsto. Invece c’era sopra da giorni e continuava a sbagliare ancora. Riusciva a eseguirla perfettamente solo quando si concentrava esclusivamente sulla sequenza di note, cosa che anche per via dei mille pensieri che le si accavallavano in testa, ultimamente le riusciva difficile.

Afferrò le partiture della canzone, soffermandosi a guardare il passaggio che aveva appena sbagliato – quello che sbagliava sempre, oltretutto. Lo ripeté nella sua mentre tre volte, ripercorrendo le note con la mente e le dita.

Quando si sentì pronta per riprovare, dal portatile acceso sulla scrivania, proprio accanto al letto, si udì la notifica di un nuovo messaggio su Facebook. Audrey si alzò per andare a vedere di cosa si trattava, consapevole che altrimenti non sarebbe riuscita a concentrarsi a dovere.

Il messaggio era di Peter.

I due avevano stretto amicizia sul social network da diverso tempo, ormai. Era stata Audrey a mandare la richiesta al ragazzo. Dopo che fra loro si era formato un legame piacevole, una conoscenza che si stava trasformando in un’amicizia sempre più evidente, la pianista aveva cercato il nome di Peter sul web, alla ricerca della sua pagina internet, incuriosita dai suoi lavori.

Individuato il suo sito, di cui aveva ammirato i disegni che lui vi aveva caricato colpita dal suo evidente talento, Audrey aveva pensato che non ci fosse nulla di male nel chiedergli l’amicizia su Facebook e lo aveva fatto.

Peter non le aveva chiesto come avesse fatto a trovarlo – nonostante i parecchi omonimi che aveva a Londra – e non vedeva neanche un motivo per chiederlo; aveva accettato la richiesta con piacere e, dopo quel giorno, i due avevamo iniziato ad usare il social come l’ottimo mezzo che era per approfondire ulteriormente la loro conoscenza.

Audrey aprì la chat che portava il nome dell’illustratore, facendo scomparire il pallino rosso accanto all’icona.

Il testo del messaggio era semplice e chiaro, esattamente come lui.

 

Ciao Audrey. Ti andrebbe domani di andare a prendere un caffè (o un tè) prima di tornare a casa?

 

La pianista osservò il messaggio, rileggendolo un paio di volte. Non avevano mai bevuto qualcosa insieme, né nessuno dei due aveva mai accennato alla cosa. Eppure Audrey si rese conto che, ora che la proposta era stata formulata, quella prospettiva era interessante. Sarebbe sicuramente stato piacevole trascorrere un po’ più di tempo in compagnia di Peter, bere qualcosa, chiacchierare con calma.

Si sedette alla scrivania e rispose alla domanda del ragazzo, dicendosi disponibile.

Da lì la conversazione si snodò anche su altri argomenti, come naturale conseguenza. Peter non spiegò a Audrey l’esatta motivazione per cui l’aveva invitata, così come la ragazza non glielo chiese. La trovava una normale conseguenza dell’evoluzione del loro rapporto, che era ormai chiaro non fosse più una banale conoscenza. Dopo la vicenda della Oyster card della pianista, i due ragazzi non si erano più comportati come sconosciuti.

Quando la conversazione in chat si concluse, Audrey e Peter si erano accordati per incontrarsi il giorno successivo davanti alla famigliare fermata di Tower Hill, per poi spostarsi insieme in una delle caffetterie che riempivano la città.

Dopo essersi salutati la ragazza sospettò che dovesse essere trascorso diverso tempo, pertanto si affrettò a riprendere in mano la tastiera che aveva abbandonato sul letto prima.

Non aveva neanche ripreso a suonare le prime note che Oliver si affacciò alla porta della camera. «Vieni a cena?» le chiese.

Audrey lo guardò, sbattendo le palpebre un paio di volte, attonita. «Ma che ore sono?» volle sapere.

«Le sette e quaranta.»

La pianista controllò sul proprio telefono, convinta che l’amico le stesse mentendo. Come prevedibile, invece, Oliver aveva assolutamente ragione. Sbuffò un po’ d’aria mentre diceva: «Sì, arrivo subito» per poi posare gli spartiti della canzone di Ray Charles e alzarsi dal letto.

Non si era assolutamente accorta dell’orario e non le era neanche venuto in mente di sospettarlo. Come solo Peter sembrava in grado di fare, era riuscito a farle perdere la concentrazione ancora una volta.

 

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Capitolo 10
*** X ***


 

 

 

Il bicchiere di carta di Peter era immobile accanto alla mano destra del proprietario. Il ragazzo aveva ingollato il caffè caldo in fretta, da vero amante della bevanda. Si era scottato la punta della lingua solo la prima volta poi, per il resto, un sorso alla volta il liquido scuro aveva donato la sua generosa dose di caffeina all’illustratore, nonostante lui non ne avesse alcun bisogno.

Di fronte a lui, invece, la mug di Audrey era ancora piena per metà. Il Earl Grey sollevava ancora qualche ostinato sbuffo della sua aroma, mentre era ormai prossimo a diventare freddo nella tazza, tenuta fra entrambe le mani della pianista.

Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, Peter ebbe modo di vedere come la ragazza si vestiva al di sotto del cappotto rosso o dell’attuale trench beige. I sospetti del giovane avevano così avuto modo di venire confermati: Audrey era una di quelle da vestiti e camicette, come dimostrava quella bianca con impressi sopra colibrì neri, che sbucava ordinata al di sotto di un maglioncino nero.

Come da accordi del giorno precedente, i due si erano incontrati alla fermata di Tower Hill, all’uscita dai rispettivi luoghi di lavoro. Appena si erano salutati, però, Peter aveva dovuto comunicare un cambio di programma; non sarebbe rientrato a casa quella sera, non subito, almeno. Aveva appuntamento con i coinquilini per cenare a un all you can eat di sushi lì vicino. Quando Audrey gli aveva risposto che un po’ lo odiava – in tono scherzoso – e che anche lei aveva una voglia incredibile di sushi, l’illustratore era stato fortemente tentato di invitarla, sebbene alla fine non lo avesse fatto.

I due si erano rintanati in uno Starbucks poco affollato in una via laterale di Minories dove avevano ordinato ciascuno la propria bevanda. Si erano seduti e avevano iniziato a parlare, chiacchierando amichevolmente per più di quaranta minuti. Il vero motivo per cui Peter le aveva chiesto di andare a bere qualcosa era ormai passato in secondo piano, insospettabile per Audrey e prossimo a venire dimenticato dallo stesso Peter. Prima che fosse troppo tardi, il cervello del ragazzo gli ricordò l’esatta motivazione per cui ora si trovava seduto di fronte a una Audrey che parlava tranquillamente dell’adattamento televisivo di Sherlock, altra cosa che i due avevano aggiunto all’elenco delle passioni comuni.

Attese che la ragazza arrivasse a un punto morto, una di quelle frasi in cui poi non si sa bene come continuare se non si riceve prima uno spunto dall’interlocutore. Peter, allora, prese in mano la situazione, dicendo: «Ho una cosa per te.»

Mentre frugava nello zaino in cerca dell’oggetto in questione, non fu in grado di vedere la reazione di Audrey. Lei si era bloccata, spalancando gli occhi e socchiudendo le labbra per la sorpresa inattesa. Anziché pensare al tipo di sorpresa di cui potesse trattarsi, la mente della ragazza era ancora ferma alla notizia e al tono che Peter aveva usato per la comunicazione.

L’illustratore era riuscito a ritagliare un angolo sicuro nel proprio zaino in cui infilare il lavoro che aveva fatto per la pianista senza che rischiasse di rovinarsi. Non era stato molto semplice e aveva dovuto riorganizzare gran parte del contenuto, ma alla fine ci era riuscito. Dal suo rifugio tranquillo, Peter estrasse un plico di fogli non tanto numeroso, ma abbastanza spesso per via della carta d’acquerello che aveva usato per i disegni. Lo aveva incartati in una specie di pacchetto regalo, quel genere di cose che era sempre stato negato nel fare. Aveva messo insieme le tavole una sull’altra, dopodiché aveva avvolto il tutto con un foglio di carta velina azzurro – il colore che preferiva – chiudendo insieme il tutto con un nastro in rafia. Il risultato era piuttosto semplice, ma apprezzabile, per questo sentiva che lo rispecchiava.

Mise il pacchetto sul tavolino, facendolo scivolare sotto gli occhi di Audrey.

«Ecco qui. È il tuo regalo di compleanno.»

La ragazza lo guardò, spiazzata. «Cosa? No, non era necessario» disse. Si sentiva sempre in imbarazzo a ricevere regali, per motivi che le sfuggivano. Una parte di sé era emozionata per quella sorpresa – che trovava già bellissima nonostante non ne avesse ancora ammirato il contenuto – ma dall’altro lato regnava un forte imbarazzo, misto a stupore.

«Dai, che vuoi che sia? È un pensiero, niente di che. Lo si capisce anche dal pacchetto che non devi aspettarti chissà cosa» rispose Peter con un sorriso. «Aprilo» la incalzò subito dopo. Era curioso di scoprire se a Audrey sarebbe piaciuto o meno il lavoro che aveva realizzato per lei.

Dopo aver trovato le partiture grazie a Damian, Peter aveva lavorato ai disegni nei tre giorni successivi, ritagliandosi dei momenti di tempo fra le varie consegne per il lavoro. Copiare correttamente ogni nota sui vari pentagrammi era stata la parte più difficile, ma nonostante ciò gli era piaciuto molto fare quel lavoro.

Rimase a guardare in silenzio la pianista che scioglieva il nodo eseguito con il nastro in rafia, sfilandola dalla velina azzurra. Quest’ultima venne rimossa da Audrey con calma, la quale si prese così il tempo di pensare al fatto che quello fosse il suo colore preferito – e di che bella e delicata sfumatura lo avesse scelto Peter.

Infine, Audrey poté finalmente liberare le tavole, trattenendo per un istante il respiro.

Erano partiture per pianoforte, realizzate a mano con un sapiente lavoro di pennarello. A colpirla, però, non furono i pentagrammi, né le note che si rincorrevano su di essi. Furono gli acquerelli.

La pianista fece scorrere sotto i priori occhi ciascuna tavola, appurando che su ognuna di esse si trovasse rappresentato un differenze uccello. Il primo dei disegni raffigurava un pavone bianco, percepibile fra le righe dei pentagrammi. I chiaroscuro lieve e i sapienti e leggeri tocchi di colore, davano vita a quella figura. Nelle pagine successive, sempre a incorniciare le note e ad arricchire lo sfondo, vi erano altri disegni; un colibrì, un parrocchetto, un ara, un pettirosso e altri. Audrey li guardò uno a uno con meraviglia crescente, incredula davanti alla consapevolezza che quei disegni erano stati fatti appositamente per lei.

Di fronte alla ragazza, Peter continuava a tenere gli occhi fissi sul suo volto. La guardava mentre faceva scorrere le iridi azzurre – di una piacevole sfumatura scura – su ogni dettaglio dei disegni, le labbra incurvate in un leggero sorriso. Il ragazzo aveva capito che a Audrey era piaciuto il suo regalo e non avrebbe potuto essere più soddisfatto di così. Aveva realizzato quei lavori appositamente per lei e, proprio come per ogni altro disegno precedente a quello, quando il risultato soddisfaceva il destinatario, Peter sapeva do aver fatto qualcosa di buono.

Dopo che Audrey ebbe finito di ammirare anche l’ultima delle tavole tornò a guardare chi gliele aveva fatte e sorrise.

«Peter sono meravigliose» disse, sincera. Era rimasta incantata dai lavori dell’illustratore, dai suoi tocchi di pennello e dalla precisione con cui aveva realizzato il pentagramma e ogni singola nota, pur donando loro una propria personalità. Si vedeva che vi aveva dedicato molto tempo e che si era applicato molto per disegnare ciascuna tavola.

«Sono contento ti piacciano. Volevo regalarti qualcosa ma non sapevo esattamente cosa.»

«Beh,» esordì Audrey, distogliendo lo sguardo nel leggero imbarazzo, «questo è davvero uno dei regalo migliori che potessi ricevere, dico davvero. Ci avrai dedicato un sacco di tempo.»

Peter ci pensò un momento, si strinse nelle spalle e face una breve smorfia che voleva dire tutto e niente. In realtà la realizzazione degli acquerelli non era stata molto lunga, il vero problema era stato la stesura dei pentagrammi; non pensava potesse esistere qualcosa di così articolato, preciso e dettagliato da riprodurre.

«Neanche troppo» minimizzò infine.

La pianista diede una nuova occhiata al lavoro; studiò diversi passaggi, alcune scale, dopodiché rimise nell’ordine le tavole – che Peter aveva sapientemente numerato in fondo – e si accorse che lo spazio dedicato a titolo e compositore era vuoto. «Che canzone è?» domandò.

Il ragazzo si dipinse in volto un sorriso divertito, gli occhi scuri si illuminarono ulteriormente. «Questa è una sorpresa. Per scoprirlo dovrai suonarla.»

Audrey, di tutta risposta, sorrise a sua volta. Cominciò ad arrovellarsi il cervello nel tentativo di capire di quale canzone potesse trattarsi, elencando nella propria testa l’ormai moltitudine di discorsi che aveva fatto in compagnia di Peter.

Quest’ultimo si rese conto del fatto che Audrey stesse cercando di capire di che canzone si trattava e, consapevole che sarebbe riuscita a capirlo solo componendo nella propria testa le prime note, tentò di sviare il discorso, seppur non in modo evidente.

«Comunque, sono sincero, non so come tu riesca a capire queste cose» disse, indicando con un cenno le partiture. «Mentre le disegnavo me lo sono chiesto per tutto il tempo.»

«Beh, si impara» replicò la ragazza, stringendosi nelle spalle.

«Non lo metto in dubbio» scherzò Peter.

Audrey afferrò una delle tavole, improvvisamente presa da un’idea. «Vediamo se riesco a spiegarti» esordì.

Cercò la tavola con alcuno dei passaggi più complessi, indicando con l’indice alcune delle cose chiave per riuscire a interpretarne la musica.

«Partiamo dalle cose più banali. Questo è il pentagramma che segue la mano sinistra, questo, la destra. Questo da indicazioni sul tempo della melodia ed è fondamentale, ovviamente.»

Mentre Peter l’ascoltava, realmente interessato, si rese conto che nel modo in cui Audrey esponeva tutto quanto si poteva intuire alla perfezione l’amore che provava per la musica. Il modo in cui le si illuminavano gli occhi ogni volta che li puntava su Peter, il tono che usava nel parlare. L’illustratore si rivide moltissimo in lei, consapevole che avrebbe avuto quelle stesse caratteristiche anche lui se gli a essere chiesto anche solo di descrive i pregi di un pennarello pantone. A Peter piaceva sentire Audrey parlare con tanto trasporto di qualcosa.

«Certo che è un pezzo complicato» osservò a un tratto la ragazza, guardando alcuni dei punti più fitti di note e accordi.

«È la stessa cosa che pensavo mentre disegnavo» rispose lui.

Audrey tornò a concentrare la propria attenzione sulla prima delle tavole, scorrendo le prime note nel tentativo di decifrare la canzone. Appena Peter se ne rese conto si allungò sul tavolo, facendo scivolare il plico di fogli lontano dalla vista della ragazza.

«No, è una sorpresa» disse, ridendo. «Dovrai suonarla al pianoforte se vuoi capire di che canzone si tratta.»

L’altra lo guardò, sbuffando un leggero alito d’aria e fingendosi offesa.

Il ragazzo rise di nuovo, ma non poté ignorare la leggere sensazione di imbarazzo che aveva provato appena aveva formulato la possibilità che Audrey potesse capire la canzone mentre lui era ancora presente. Era principalmente il fatto che quello che aveva riprodotto a Audrey non era altro che l’epilogo di La La Land a imbarazzarlo di più, sebbene non avrebbe saputo spiegarne con esattezza il perché.

«Promettimi che non cercherai di indovinare questa canzone prima di averla suonata al pianoforte» proseguì lui, con lo stesso tono a metà fra il divertito e il finto autoritario.

«D’accordo» promise Audrey, ridendo subito dopo.

Tornò a osservare la prima delle tavole, costringendo la sua mente a ignorare le note ordinatamente disposte sui pentagrammi per concentrarsi esclusivamente sui disegni. Erano davvero meravigliosi. Nel tratto sicuro dei pochi segni a matita ancora visibili, nell’uso sapiente dell’acquerello, si notava l’abilità e la passione che Peter provava per il suo lavoro. Vedere finalmente alcuni dei lavori del ragazzo dal vivo permise a Audrey di capire che l’idea che si era fatta del suo talento – che aveva già potuto notare sul suo sito internet – era totalmente vera.

Si chiese quanto tempo avesse dedicato al lavoro che le aveva appena regalato e pensò che fosse davvero tanto da dedicare a una persona che si era conosciuta solo pochi mesi prima.

«Ti sono davvero grata per questo regalo, sul serio» disse poi la ragazza.

L’improvviso cambio di direzione della conversazione prese Peter alla sprovvista. Il ragazzo si bloccò, guardò Audrey negli occhi e si sentì strano.

«Vorrei sdebitarmi» dichiarò lei con una lieve alzata di spalle.

«Sdebitarti per cosa?» domandò retorico Peter.

«Dai, Peter. Hai dedicato davvero tanto tempo per questo lavoro. Almeno qualcosa in cambio, anche minimo, vorrei potertelo dare» insistette lei. Non avrebbe ceduto di un millimetro, intenzionata com’era ad andare fino in fondo.

«Audrey, si chiama regalo per un motivo» le fece notare Peter.

La pianista assorbì l’affondo e si fermò, pensando. Fece vagare lo sguardo, che si posò istintivamente sulle partiture, di cui lesse qualche saltuaria nota, un do, due la. In quel preciso istante le venne un’idea.

«Ti andrebbe di venire a vedere la prima dello spettacolo che stiamo preparando al Menier?» chiese. Formulò la domanda in un solo fiato, la quale venne recepita da Peter con un leggero ritardo.

«L-la prima?» mormorò il ragazzo, domandandosi se avesse capito bene oppure no.

Audrey annuì. «Danno sempre un paio di biglietti a noi musicisti, in caso volessimo invitare compagni, amici, parenti» elencò disinvolta. «Se ti va di venire a vedere lo spettacolo posso darli a te. Lo spettacolo è molto bello. Potresti venire con chi vuoi.»

Il ragazzo non riuscì a dedurre che le ultime parole della pianista alludevano a Iris, la ragazza che, Audrey, era convinta facesse coppia con l’illustratore.

Quest’ultimo impiegò un po’ di tempo per afferrare completamente la proposta della ragazza di fronte a lui, dopodiché disse: «Non è che ha a che fare con il mio regalo, vero? Come metodo per sdebitarti?» azzardò, riproponendo le parole usate poco prima dalla ragazza.

Lei fece una smorfia, per poi sorride. «No, dai. Non lo è» replicò, dopo averci pensato su. «Non so a chi altro darli e mi dispiacerebbe non riuscire a regalarli a qualcuno che conosco. Non sei costretto a venire, eh. Ma se ti va, mi farebbe piacere darli a te. »

«Questo sabato, hai detto?»

Peter prese in seria considerazione l’invito. Era da tanto che non andava a teatro e uno spettacolo gratuito al Menier Chocolate Factory poteva essere un ottimo modo per interrompere quel periodo di allontanamento. Inoltre da ciò che Audrey gli aveva raccontato, lo spettacolo prometteva bene.

«Volentieri» rispose infine. «Anzi, grazie.»

La pianista gli regalò uno dei sorrisi più belli che il ragazzo avesse mai visto, al punto da lasciarlo spiazzato.

«Ti faccio mettere da parte i biglietti a tuo nome in cassa. Appena arrivi dovrai solo ritirarli. Puoi venire allo spettacolo con chi vuoi. Puoi portate Iris, ad esempio.»

L’illustratore, nel sentire quanto appena pronunciato dalla ragazza, si bloccò. Aveva intuito ciò che si celava dietro alle parole della pianista e non voleva che lei si convincesse di ciò. Capì che, agli occhi di Audrey, lui e Iris apparivano molto più di due semplici coinquilini e voleva evitare che anche la ragazza che aveva davanti lo pensasse.

Aveva appena inspirato, pronto per parlare e dire a Audrey che fra lui e Iris non c’era nulla, quando il suo telefono squillò, bloccandolo sul nascere. Afferrò lo smartphone, leggendovi il nome di Iris in sovrimpressione. Avrebbe voluto non rispondere, ma sapeva che lo stava cercando per la cena che aveva a breve.

«Scusami» disse, rivolto a Audrey.

Quest’ultima gli diede istintivamente il via libera a rispondere e rimase in silenzio a finire di bere il tè ormai freddo. Ascoltare la conversazione di Peter le fu inevitabile, sebbene non stesse dicendo nulla di particolare.

«Ah, siete già là?» domandò poi lui, rivolto al suo interlocutore al telefono. «Va bene, arrivo» concluse.

Mise fine alla chiamata, rimanendo a osservare per qualche istante lo schermo del telefonino, come sovrappensiero.

«Devo andare, scusami. I miei amici sono già arrivati» disse, tornando a guardare Audrey.

«Nessun problema» rispose lei con un sorriso. Le dispiaceva dover salutare il ragazzo, ma avevano trascorso sufficiente tempo insieme quel pomeriggio.

«Allora ti lascio da parte due biglietti. Li metto in cassa a tuo nome?»

«Va bene.»

«Me lo segno» concluse Audrey.

«Beh, grazie allora» replicò lui, riferendosi ai biglietti.

«Figurati, di che? Anzi, grazie a te.» La pianista indicò le tavole a quelle parole, lasciando perfettamente intendere a cosa si riferiva. Peter non riuscì a dire nulla di efficace in fretta e si limitò a sorridere.

«Ci vediamo. Buona serata» disse infine.

«Anche a te. E buon all you can eat» concluse Audrey, arricciando le labbra e sorridendo subito dopo.

Peter si lasciò sfuggire una lieve risata, dopodiché salutò definitivamente la ragazza e si avviò.

Lungo il tragitto non gli riuscì di pensare a qualcosa che non fosse Audrey e il piacevole tempo che avevano appena trascorso insieme. L’ultimo sorriso che la ragazza gli aveva dedicato, poi, gli aveva smosso qualcosa dentro. Non riusciva a cancellarlo dalla sua mente, continuava a rivederlo davanti a sé, esattamente come rivedeva la pianista, i suoi capelli raccolti, i vestiti sobri ma eleganti, proprio come lei. Si sentiva strano, agitato da un invisibile subbuglio che aveva cominciato a scuoterlo nel profondo. Era da un po’ di tempo che non si sentiva a quel modo e sapeva in che direzione, quell’ammasso di emozioni, lo stava conducendo. Tuttavia non sentiva altra sensazione se non un quieto senso di felicità. Pensare a Audrey lo rendeva felice, così come la consapevolezza che lei gli aveva rivolto già più volte dei sorrisi sinceri e che, certamente, ve ne sarebbero stati altri. Sospettava che, con molta probabilità, la continua frequentazione con Audrey sarebbe andata a finire solo in un modo. Visto come si sentiva in quel momento, però, una buona parte di sé sperò che andasse proprio così.

Era ancora sovrappensiero quando raggiunse il ristorante giapponese e si sentiva ancora strano, smosso. Venne riportato alla realtà dal suono di una voce che pronunciava il suo nome. Alzò gli occhi sugli amici, trovando davanti a tutti Iris, un braccio sollevato per consentirgli di individuarla subito.

Lo stomaco di Peter venne improvvisamente stretto in una morsa, più forte di qualsiasi precedente.

D’improvviso vide la coinquilina in modo diverso. Fu come se ogni sospetto si fosse palesato all’istante, sbandierando tutta la propria oggettiva realtà. Si accorse così di tutti gli sguardi che Iris riservava solo a lui, di come lo cercasse, del modo in cui si avvicinava ogni volta che qualche ragazza domandava qualcosa all’illustratore in sua presenza.

Per Peter divennero finalmente segnali o, meglio, conferme. Di colpo non seppe come comportarsi e si sentì preoccupato. Era certo che il suo sguardo lo avrebbe potuto tradire da un momento all’altro e cercò di fare del suo meglio perché ciò non avvenisse. Iris era brava a intuire le verità celate dietro commenti indifferenti e Peter sapeva che avrebbe notato qualcosa di strano in lui, a meno che non si fosse impegnato per evitarlo. Respirò, obbligando la sua mente a smettere di pensare. Per evitare di far intuire qualcosa a Iris, l’unico metodo era convincersi che nulla, dentro sé, fosse cambiato.

 

 

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Capitolo 11
*** XI ***


 

 

 

Mancavano solo poche ore alla prima dello spettacolo al Menier Chocolate Factory. A differenza di quello che accadeva sempre il sabato all’ora di pranzo, Audrey, April e Sadie non erano sedute intorno a un tavolo a Camden Market, ma nel piccolo soggiorno con angolo cottura di Audrey. La ragazza aveva invitato lì le amiche così che, dopo il pranzo, le sarebbe bastato fare una doccia, prendere i vestiti puliti per la prima e raggiungere il teatro per la prova generale senza dover compiere ulteriori viaggi intermedi, in un risparmio notevole di tempo. In tutto ciò, Oliver non era in casa, ma si trovava a Watford con Aisha e ci sarebbe rimasto fino al giorno successivo.

Fuori dalle finestre stava scendendo una pioggia fitta, le gocce ticchettavano ritmicamente contro i vetri, mentre il piccolo soggiorno di Audrey era pieno di un piacevole tepore, un leggerissimo vapore e un profumo invitante.

Le tre amiche avevano sotto i rispettivi nasi una ciotola colma di zuppa di legumi, preparata dalla pianista la sera prima. Sebbene fosse maggio, quel giorno il clima non era affatto clemente e un pasto caldo era esattamente quello che ci voleva. Sadie e April erano intente a conversare animatamente di musica – le due, infatti, ascoltavano all’incirca gli stessi artisti, a differenza di Audrey – mentre la pianista mangiava tendendo loro l’orecchio nonostante, di tanto in tanto, perdeva alcuni passaggi per ricordarsi i brani che quella sera avrebbe dovuto suonare.

«Come ti senti, Audrey?» domandò all’improvviso Sadie. Era convinta che l’amica non la stesse ascoltando – e, viste le circostanze non l’avrebbe biasimata – ma questa rispose subito, reattiva. «Sto bene. Mi sento pronta» pronunciò con tranquillità.

«Ne sono contenta. Dev’essere un periodo piuttosto pieno questo per te. Insomma, fra lo spettacolo del Menier e il matrimonio di Oliver, ne hai avute di canzoni da imparare, no?» osservò April, stringendosi nelle spalle e sorridendo in modo contagioso.

Audrey era pronta a darle ragione quando un lampo le attraversò gli occhi. Le vennero in mente le partiture che le aveva regalato Peter all’inizio della settimana; le venne in mente il ragazzo e il fatto che, forse, quella sera sarebbe stato presente. Si era completamente dimenticata di dire alle sue amiche di sempre cosa l’illustratore le aveva regalato, con la conseguenza che loro erano anche all’oscuro delle sensazioni che aveva provato quando si era resa conto che quei pentagrammi non racchiudevano una canzone qualunque, ma una delle canzoni di La La Land. L’Epilogo, per essere esatti.

Abbandonò il cucchiaio nella zuppa e sollevò la testa spalancando gli occhi.

«Ragazze» esclamò. «Devo farvi vedere una cosa.»

Si alzò senza aspettare una qualsiasi reazione e si avviò in camera sua. Ne riemerse poco dopo con il regalo di Peter stretto al petto.

«Guardate cosa mi hanno regalato.»

Le due ragazze presero fra le mani le tavola acquerellate. Le sfogliarono ammirandone i lavori, lasciandosi sfuggire qualche complimento per i disegni o i colori.

«Che canzone è?» domandò Sadie, intenta a osservare le sfumature degli acquerelli.

«L’Epilogo di La La Land. Fatto apposta per il pianoforte» rispose Audrey, dal cui tono si poteva percepire perfettamente la gioia della sorpresa.

Le amiche la guardarono di colpo all’unisono, abbandonando le tavole e spalancando gli occhi.

«Ci prendi in giro? E chi te lo avrebbe regalato, scusa?» volle sapere Sadie.

«Peter» rispose con nonchalance la pianista, sorridendo.

«Chi?»

La domanda di April arrivò inattesa. Audrey la guardò con espressione confusa, dopodiché capì tutto. Non aveva mai parlato del ragazzo alle due amiche. Non sapeva esattamente perché, ma non l’aveva mai fatto. Si ricordò di aver accennato a lui un paio di volte, chiamandolo semplicemente “un ragazzo che conosco” e in quel preciso istante si chiese per quale motivo non si fosse mai ricordata di raccontare tutto alle amiche. La sua mente continuava a essere un mistero perfino per se stessa, alle volte.

Si morse il labbro, nella sua tipica espressione colpevole, ormai particolarmente nota a April e Sadie.

«Mi sono dimenticata di dirvelo» ammise infine, lasciandosi sfuggire le parole in un sol fiato, quasi un sospiro veloce.

Le altre due corrucciarono la fronte e rimasero in attesa di scoprire cosa stava accadendo.

Audrey raccontò quanto si era dimenticata di dire fino a quel giorno. Disse loro di Peter, del loro primo incontro e di come erano lentamente diventati amici. Mostrò il sito internet dell’illustratore, alcuni dei disegni che lei preferiva e rispose calma alle domande che le fecero le ragazze.

Quando finì di parlare, April e Sadie sembravano solo in parte soddisfatte dalle notizie che avevano appena sentito.

«Di’ un po’» esordì Sadie. «Non ti sembra di essere stata una pessima amica a tenerci all’oscuro di questa cosa?»

«Sì, lo ammetto. Mi spiace davvero, ma ero convinta di avervene parlato» si scusò.

Ci fu un lunghissimo momento di silenzio, nel quale le tre si guardarono reciprocamente. Il sopracciglio sinistro di Sadie si inarcò lentamente, segno che qualcosa non le tornava. Audrey conosceva fin troppo bene quell’espressione e rimase in attesa di qualche domanda a sorpresa. L’amica, dapprima, si lasciò sfuggire un monosillabico verso, dopodiché pose la domanda a bruciapelo: «E questo Peter com’è?»

«Non è come pensi» rispose subito la pianista, intenzionata a mettere per bene le cose in chiaro.

«Come puoi sapere cosa penso?» rincarò la dose l’altra, senza accennare a smettere di guardarla come se sapesse già tutto.

«Perché ti conosco» le fece notare Audrey. «E so a cosa alludi. Peter è un amico. Non nego di essere contenta di averlo conosciuto, ma rimane il fatto che è un amico.»

Sadie e April non parvero molto soddisfatte della risposta e si attivarono per scoprire altre cose ancora. Audrey rispose a ogni quesito, anche il più insensato. Descrisse con semplice onestà la simpatia che provava per il ragazzo e l’apprezzamento per i suoi lavori e quando le due finirono di seppellirla di domande, la pianista si disse che era riuscita a convincerle. Tuttavia Sadie sembrava non voler desistere.

«Spiegami come mai ti ha fatto un simile regalo» disse, indicando le partiture per pianoforte decorate con i disegni ad acquerello.

«Gli ho detto anche io che era addirittura troppo. Gli piace disegnare. Anzi, ama disegnare. E fare regali, così mi ha detto. Unire insieme le due cose è semplice» concluse la ragazza, arricciando lievemente le labbra. Sentì di essere uscita vincitrice da quello “scontro”. Sadie, infatti, non seppe replicare. Guardò Audrey di traverso, come se fosse convinta che le stesse nascondendo qualcosa, ma lei non fece una piega.

«Hai detto che è l’epilogo di La La Land quindi?» chiese di punto in bianco April. Teneva fra le dita l’inizio della canzone, su cui Audrey aveva appuntato a matita il titolo; lo aveva scritto con una mina dura e con una lieve incertezza. Quando lo aveva fatto, si era sentita inadatta, quasi temesse di rovinare tutto segnando solo poche parole o, addirittura, come se potesse ferire in qualche modo il foglio di carta.

«Esatto.»

«E com’è?»

«Splendida» disse semplicemente. «Non è affatto semplice, ha dei passaggi complessi ma è resa molto bene. L’ho provata solo un paio do volte e ho fatto diversi errori, ma sono sicura che quando l’avrò imparata a dovere sarà ancora più bella.»

Guardò le partiture appena finì di parlare, soffermandosi sulle note e i passaggi articolati, sentendosi ancora sorpresa dalla cura con cui Peter li aveva trascritti. Per uno che non è abituato a scrivere musica, l’illustratore aveva fatto davvero un ottimo lavoro, accurato, ben eseguito. Quel ragazzo aveva del vero talento e non si notava solo dai suoi acquerelli, ma anche dalla cura per i dettagli che metteva nei lavori.

Audrey riordinò le partiture nella giusta sequenza e le sistemò su un lato del tavolo, lontano dal punto in cui stava pranzando insieme alle amiche. Teneva molto a quei disegni, era uno dei regali che le era piaciuto di più. Non solo per i disegni, o per la canzone, ma soprattutto per il fatto che Peter si era dedicato personalmente alla realizzazione di quel lavoro e vi aveva investito tempo. Mentre pensava a ciò, con April che aveva ricominciato a parlare dello spettacolo che sarebbe andato in scena quella sera e a cui dispiaceva di non poter partecipare, Sadie continuava a scrutare l’amica con una strana luce negli occhi, come se fosse convinta che Audrey non le avesse raccontato tutta l’esattezza dei fatti.

 

*

 

Peter era disteso sul letto da diverso tempo, al punto da essere certo di aver memorizzato ogni imperfezione della superficie del soffitto, incluse le ragnatele.

Stava ascoltando la musica usando gli auricolari, a differenza di come faceva di solito in casa, ma aveva una gran voglia di estraniarsi da tutto quanto e quella era un’ottima soluzione. I Bastille erano per lui un buon rimedio a qualsiasi cosa, una specie di cura somministrabile in note.

The Anchor iniziò a riempirgli la testa e si rese conto che quelle parole, che ormai conosceva a memoria e avrebbe saputo riportare senza esitazione su un foglio, avevano improvvisamente acquistato un senso. Non che prima non lo avessero, solo che Peter non era mai riuscito a collegarle in qualche modo alla sua vita; in quel momento, invece, ci riuscì fin troppo bene.

Pensò a Audrey. Lo aveva capito, ormai. Provava qualcosa di serio per lei o, almeno, cominciava a provarlo. Per tutta la settimana aveva preso la District line solo per trascorrere qualche minuto in più in sua compagnia. Sapeva che quello era un segnale, forse uno dei più evidenti; infatti non lo stava ignorando.

Spense la musica e si sfilò le cuffie con in gesto rapido, quasi arrabbiato. Non se la sentiva di ascoltare ancora The Anchor o qualche altra canzone del genere. Da un paio di giorni svariate delle sue canzoni abituali si ricollegavano con troppa semplicità ai suoi ricordi di Audrey, ricordi che ultimamente stava raccogliendo con attenzione.

Si disse che stava pensando troppo. Da quando quella ragazza era entrata nella sua vita pensava troppo. Avrebbe dovuto fare qualcosa, sebbene in quel momento la cosa migliore da fare – secondo il suo modesto parere – era lasciarsi andare.

Sospirò, mettendosi a sedere sul bordo del letto. Erano quasi le sette e lui era in ritardo sulla sua tabella di marcia.

Quella sera ci sarebbe stata la prima del nuovo spettacolo al Menier Chocolate Factory, per cui Audrey gli aveva regalato due biglietti. Non aveva trovato nessuno disposto ad andare con lui. Damian aveva un appuntamento con la sua nuova fiamma e Peter non voleva in alcun modo influire su quella che, a detta dell’amico, sembrava essere “la serata giusta”. Pertanto aveva chiesto ad alcuni suoi colleghi, ma anche loro avevano ringraziato e rifiutato e l’illustratore si era ritrovato senza idee, soprattutto perché anche sua sorella era impegnata.

Aveva, però, accuratamente evitato di chiederlo a Iris o Veronica, dal momento che non voleva che, proprio Iris, venisse a sapere dei due biglietti; o di Audrey.

Peter aveva ormai capito cosa provava la sua coinquilina nei suoi confronti. Non era amore, sebbene ci si avvicinasse. Era sicuro che Iris fosse interessata a lui sotto diversi punti di vista, che con tutta probabilità sarebbero presto collimati nel sentimento maggiore, ma che per il momento di manifestavano sotto altre forme, come intenzione a trascorrere del tempo in sua compagnia o più frequentemente, una sorta di gelosia. Appena lui diceva che sarebbe uscito subito Iris domandava dove; nonostante prima questo atteggiamento non avesse mai dato motivo di pensare a Peter, da un paio di giorni non era più così. Per tale ragione in ragazzo aveva evitato accuratamente di dire alla coinquilina dei biglietti che lo attendevano a suo nome quella sera e, per sicurezza, aveva evitato di esporre anche qualsiasi progetto inerente alla serata.

Solo gli dispiaceva andare alla prima da solo; tuttavia l’idea di andarci con Iris gli piaceva ancora meno, soprattutto perché Audrey sembrava convinta del fatto che fra loro ci fosse del tenero, sospetto che lui voleva evitare di incrementare.

Aprì l’armadio in cerca dei vestiti, dicendosi per l’ennesima volta di smettere di rimuginare sulle solite cose. Doveva andare allo spettacolo quella sera ed era l’unica cosa su cui doveva concentrarsi in quel momento. Controllò il contenuto dell’armadio, individuando una giaccia. Avrebbe dovuto vestirsi bene, quindi camicia e giacca erano d’obbligo; avrebbe evitato la cravatta, però, quella sarebbe stata troppo. Fra i due completi che aveva scelse quello blu, che abbinò a una normale camicia bianca, una delle più raffinate che possedeva, di cotone spesso e con un lieve trama decorativa. Si vestì con calma, nel curioso silenzio della sua stanza: era raro che non ci fosse musica che suonava in camera sua.

Il ragazzo era intento a sistemarsi la manica sinistra della giacca dell’abito quando la porta si aprì. Come spesso accadeva, chi era appena entrato aveva accuratamente evitato di annunciarsi. Alla vista di Peter vestito di tutto punto, Iris si bloccò. Sondò il coinquilino da capo a piedi e non riuscì a dire nulla prima che Damian la raggiungesse in camera.

«...che poi comunque me lo aveva detto lui» lo sentì dire Peter.

Appena entrato anche Damian guardò l’amico con indosso uno dei suoi completi migliori. In un primo momento stava per domandargli perché fosse vestito in quel modo, ma poi gli venne in mente tutto.

«Ah, hai trovato con chi andare, quindi?» domandò all’amico.

Peter maledì mentalmente Damian, in particolare l’ingenuità che sembrava sempre caratterizzarlo più di qualsiasi altra cosa.

Iris guardò alternativamente i due ragazzi, consapevole del fatto che stessero parlando di qualcosa che sapevano solo loro e indispettita dalla cosa. Peter pensò in fretta a come uscire da quella situazione, gli occhi spalancati, la mano destra ancora avvolta intorno alla stoffa morbida della manica.

«Andare dove?» chiese Iris.

«C’è la prima di uno spettacolo» si intromise Damian, con una prontezza di riflessi invidiabile che, purtroppo, si palesava quasi esclusivamente nei momenti sbagliati. «Peter ha un paio di biglietti. Con chi ci vai?»

Il ragazzo pensò di mentire senza ritegno, ma non lo fece. Aveva raccontato tutto all’amico, incluso che non aveva trovato nessuno con cui andare alla prima. Indugiò un istante di troppo, sufficiente a Damian per intuire la verità. «Ci vai da solo, vero?»

Peter si arrese all’evidenza. Mantenere un segreto con Damian era impossibile, specie se non gli si diceva a priori di stare zitto. Forse avrebbe fatto meglio a renderlo partecipe dei suoi sospetti su Iris.

«Già. Non sono riuscito a trovare nessuno» ammise poi. Sperò con tutto se stesso che l’amica avesse già un impegno o che non dicesse nulla, ma non fu così.

«A me non lo hai chiesto. Se vuoi vengo io» disse Iris.

Peter si morse la lingua, scoprendosi incastrato nell’unica situazione che avrebbe voluto evitare. Non aveva senso dire di no a Iris ora che lei si era proposta, ma lui aveva sperato proprio di non doversi trovare in quella situazione. Costrinse la sua mente a pensare in fretta, mentre mugugnava qualcosa di molto simile a un “uhmbeh”.

«Lo spettacolo può piacerti?» domandò. Si aggrappò a quell’unica possibilità. Dopotutto Iris non gli aveva mai lasciato intendere di avere una passione per il teatro e pensò che, in qualche modo, quella domanda potesse far desistere la ragazza.

Lei si strinse nelle spalle, arricciando le labbra. «Non so di che parla, lo ammetto. Ma se sei solo e hai un biglietto in più vengo volentieri.»

Peter aveva finito le tattiche – che già in partenza erano poche, del resto – e acconsentì ad avere la compagnia di Iris. La ragazza disse che si sarebbe cambiata in fretta e si diresse in camera sua. L’illustratore avrebbe voluto imprecare contro l’amico, ma sapeva che, dopotutto, Damian non ne aveva colpa. Tuttavia Peter si disse che avrebbe fatto bene a chiarire quella situazione al più presto, almeno per evitare di trovarsi in un prossimo futuro in una situazione simile a quella.

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Capitolo 12
*** XII ***


 

 

 

Il Menier Chocolate Factory non era proprio come Peter ricordava. Era molto meglio. L’interno, fin dall’ingresso, lasciava perfettamente trapelare la storia e la bellezza di quel teatro. Vi erano rivestimenti in legno, drappi a decorare le finestre e lampadari raffinati che pendevano dal soffitto, tutto caratterizzato da sobria eleganza. Le persone entravano dall’ingresso principale, lasciavano il cappotto al guardaroba e mostravano il biglietto alla maschera, la quale li accompagnava al posto. Erano tutti ben vestiti, notò Peter e pensò che avesse fatto bene a scegliere uno dei suoi completi migliori. Non era mai stato a una prima, ma aveva sempre saputo che si trattava di un momento importante, formale. Sentì  che l’unica pecca di tutto il suo look fosse la giacca che portava, tuttavia un cappotto di quelli belli, lunghi e raffinati, non era mai stato nella sua lista dei desideri. 

Lanciò una rapida occhiata a Iris, accanto a lui, fasciata in un abito  pantalone a cui aveva abbinato una giacca in contrasto. Non poteva negare che stesse particolarmente bene vestita così, tuttavia era pervaso da un lieve moto d’ansia all’idea di farsi vedere da Audrey in compagnia della coinquilina proprio per lo spettacolo per cui la pianista gli aveva riservato i biglietti. 

Mentre si incamminavano in direzione della biglietteria, Peter si costrinse a stare calmo. Avrebbe chiarito le cose con Audrey presto, spiegando alla ragazza che Iris altri non era se non la sua coinquilina. Probabilmente si sarebbe dimostrato tutto inutile, ma per lui valeva ugualmente la pena provare. 

La coppia di servizio in biglietteria era composta da due giovani ragazzi, un uomo e una donna, entrambi ben vestiti, come il resto del personale presente all’interno del locale. Diedero il benvenuto a Peter e Iris salutando all’unisono, dopodiché la ragazza si mise in ascolto.

«Salve» esordì l’illustratore. Non aveva mai ritirato prima dei biglietti riservati a suo nome e per un breve istante si chiese cosa gli convenisse dire. Tuttavia, quando capì che i suoi pensieri erano molto più simili a dubbi senza fondamento anziché a vere e proprie domande sensate, disse: «Dovrebbero esserci un paio di biglietti a mio nome. Peter Bailey»

La ragazza della biglietteria controllò fra una serie di biglietti stampati e disposti da parte, ciascuno dei quali avvolto dal flyer del programma dello spettacolo. Appena ebbe individuato Bailey, la giovane staccò il post-it su cui aveva appuntato il nome di Peter e consegnò il tutto al ragazzo. 

«Ecco a voi» disse. Indicò in che direzione proseguire, informando che in caso di necessità avrebbero trovato diverse maschere a cui domandare informazioni e, infine, augurò alla coppia una buona serata.

Peter e Iris proseguirono secondo il percorso che gli avevano indicato e poco più avanti incontrarono un nuovo addetto. Quest’ultimo controllò i loro biglietti, infine scostò l’ampia tenda di velluto porpora che aveva alle spalle e invitò i due ad accomodarsi in platea. 

Il teatro del Menier era piccolo, ma sorprendentemente capiente e accogliente. Le file di sedie quasi abbracciavano il palcoscenico, nascosto dietro l’immancabile sipario. Alla sinistra del palco, gli strumenti dell’orchestra erano disposti ordinati e fra loro, intenti a conversare o ripassare le varie melodie, vi erano i musicisti.

Peter si scoprì a cercare istintivamente Audrey fra i vari componenti del complesso e la trovò subito, quasi avesse saputo esattamente dove fosse. La pianista era insieme ad alcune colleghe, intenta a conversare con loro; si tenevano vicine, come se si stessero raccontando un segreto importante. Audrey indossava un abito nero smanicato e a collo alto, il quale riusciva a mettere in risalto le linee sottili del suo corpo. I capelli, legati in uno stretto e alto chignon erano accuratamente pettinati e non vi era traccia di quei ciuffi ribelli e scompigliati che, secondo Peter, caratterizzavano tanto la ragazza. 

Il ragazzo rimase a fissare Audrey per un tempo a lui indistinto e fu riportato alla realtà da Iris, che lo chiamò toccandogli il braccio.

«I nostri posti» gli disse, indicando con un gesto una coppia di poltroncine ancora vuote.

Lui seguì la coinquilina, facendosi largo fra i presenti e chiedendo permesso. Quando si fu sistemato al proprio posto poté dare un’occhiata generale al piccolo teatro. Lo trovò avvolgente, sia per la disposizione dei posti, sia per il senso di comodità e calore che si provava stando seduti su quella poltrona. 

Mentre Iris, seduta alla sua destra faceva alcune osservazioni sulla struttura, Peter non riuscì a evitare di tornare a cercare Audrey con gli occhi. La ritrovò nello stesso punto di prima, ancora intenta a parlare con le stesse persone. Si chiese se lei lo avrebbe visto lì in mezzo, seduto quasi al centro della platea e pensò che, forse, gli conveniva andare a salutarla e farle vedere che aveva fatto buon uso dei biglietti che gli aveva regalato; tuttavia appena fu in procinto di dire a Iris che stava per andare, i posti accanto a lui vennero occupati da una coppia di signori – che gli diedero anche la buonasera – e Peter, per educazione, decise di non farli alzare in piedi. Inoltre non sapeva neanche se poteva avvicinarsi all’orchestra; forse loro erano lì presenti ma non si dovevano importunare.

Il resto del tempo dall’arrivo al teatro all’inizio dello spettacolo, scorse all’incirca nel medesimo modo. Iris conversava del più e del meno – ogni tanto malediceva le colleghe di lavoro, altre volte nominava luoghi in cui avrebbe voluto andare – e Peter rispondeva, portando avanti una conversazione che, vista da fuori, sarebbe apparsa assolutamente normale. 

Pochi minuti prima dell’inizio dello spettacolo i musicisti presero posto, ciascuno imbracciando o sfiorando il proprio strumento. Il direttore di orchestra entrò in sala accolto dagli applausi e, mentre la luce scendeva, l’orchestra accordò gli strumenti. Subito dopo lo spettacolo iniziò.

La rappresentazione fu molto bella per Peter. Gli attori erano dotati, la trama interessante e il modo in cui la musica si univa all’intreccio di storie e avvenimenti era perfetto. L’ora e venticinque minuti di spettacolo passarono così bene che Peter si accorse a malapena del fatto che il tempo era scaduto; se non fosse stato per gli attori, che tornavano in scena a reclamare i propri applausi, il ragazzo avrebbe potuto credere che fosse solo terminato il secondo atto. Si disse che gli avrebbe fatto bene andare un po’ più spesso a teatro.

Dopo gli attori, i complimenti del pubblico si spostarono sull’orchestra, dove i musicisti, alle spalle del maestro, si erano alzati in piedi accanto ai rispettivi strumenti. 

Audrey, come molti altri dei suoi colleghi, era raggiante. Peter, che pur si era ripromesso di badare al modo di suonare della pianista, non era riuscito nel suo intento perché troppo preso dalla rappresentazione, ma sapeva che la ragazza era stata impeccabile. Dopo le settimane di lavoro intenso e dopo tutte le ore passate a esercitarsi, dovendosi dividere fra l’imparare quelle canzoni e quelle del matrimonio di Oliver, Audrey era più che soddisfatta di quel nuovo esordio al Menier.

Quando gli applausi terminarono e le persone cominciarono a defluire, Peter ebbe modo di constatare che vi era la possibilità di andare a parlare con i musicisti o gli attori. Questi, infatti, erano fermi vicino al palcoscenico e chiacchieravano tranquillamente fra loro o con qualcuno del pubblico. Audrey stava parlando con una delle violiniste e l’illustratore decise di approfittare di quella possibilità e andare a salutare la pianista.

«Vado a salutare Audrey» disse a Iris. Sperava che la coinquilina lo lasciasse solo, perciò fu piuttosto indispettito dalla situazione quando, avviandosi, si rese conto che lei gli si era affiancata.

Raggiunsero Audrey, sempre concentrata nella conversazione di poco prima e attesero per qualche momento che lei li notasse, cosa che avvenne quasi subito. La pianista, infatti, diede una rapida occhiata per capire chi si era appena fermato lì accanto e quando riconobbe Peter gli sorrise, si scusò con la sua collega e dedicò tutta la sua attenzione ai nuovi arrivati.

«Che piacere vedervi» disse loro. «Vi è piaciuto lo spettacolo?»

«Molto. L’ho trovato originale e devo ammettere che l’uso dell’orchestra per le varie parti musicali è stato impeccabile» rispose Peter.

«Sì, il regista è un genio. Ho sempre adorato i suoi lavori. Oltretutto ha chiesto lui stesso di fare la prima assoluta qui al Menier» concluse, raggiante. Subito dopo posò lo sguardo sull’altra donna presente. «Come stai Iris? È un piacere rivederti. Che bello il tuo completo.»

Qualcosa di simile a un allarme scattò  nella testa di Peter. Il botta e risposta che Audrey e Iris avevano iniziato a scambiarsi appariva molto simile a quella serie di semplici convenevoli fra due persone che devono imparare ad andare d’accordo. Bastarono quei pochi secondi di dialogo tra le due per far capire all’illustratore che i suoi sospetti potevano essere ben più che fondati: Audrey credeva che lui Iris stessero insieme e, certo, andando allo spettacolo con lei non aveva fatto altro che intensificare la convinzione della pianista. Si disse che era meglio chiarire quella situazione in fretta, sebbene sapesse che avrebbe dovuto inventarsi qualcosa di convincente per non apparire un mezzo pazzo che tira fuori argomenti a caso. 

«Hai qualche programma?» domandò poi Peter a Audrey, quando i convenevoli fra lei e Iris furono terminati. 

La pianista lo guardò senza capire bene la sua domanda.

«Per quando?» chiese in risposta.

«Adesso. Lo spettacolo è finito, no? Cosa fai?» formulò la domanda con pura e semplice curiosità, sebbene una parte di sé – e non troppo segretamente – sperava di riuscire a trovare il modo di trascorrere altro tempo con lei.

«Ah, scusa, non avevo capito» ridacchiò Audrey. «Rimango qui al Menier, non abbiamo ancora cenato. Funziona sempre così: spettacolo e poi cena tutti insieme.» 

Peter annuì alla risposta della ragazza, ma dentro di sé gli dispiacque di doverla salutare. Si persero in chiacchiere per un’altra decina di minuti, divagando su concerti e spettacoli teatrali. Quando venne il momento di salutarsi, Audrey ringraziò ancora una volta i due per essere venuti allo spettacolo e augurò loro buon proseguimento, dando appuntamento a Peter per lunedì, nel loro ormai abituale tragitto in metro. 

Quando la pianista si fu allontanata Peter si rese conto che erano rimasti in pochi nel piccolo teatro e disse a Iris che avrebbero fatto meglio ad andare anche loro. Tornarono al guardaroba e ripresero le reciproche giacche, dopodiché uscirono dal teatro. Peter si fermò alla destra dell’ingresso, la zona in cui si fermavano tutti i fumatori, ad aspettare la coinquilina che era rimasta indietro. Come Iris fu fuori lui fece per avviarsi, ma lei non si mosse e gli chiese: «Cosa ti va di fare?»

Il ragazzo la guardò, senza capire con esattezza la sua domanda. «In che senso?» 

«Dico ora. Prima, quando hai chiesto a Audrey cosa avrebbe fatto, mi è parso di capire che avevi in mente qualcosa» spiegò.

Peter si bloccò, pensando a qualcosa di sensato da dire. Si rese conto di essersi incastrato con le proprie mani. Avrebbe preferito rientrare a casa anziché andare in qualche locale con Iris, soprattutto perché i suoi gusti in fatto di locali erano drasticamente differenti rispetto a quelli della coinquilina. 

«No, beh, intendevo dire che avremmo potuto bere qualcosa qui, al bar del Menier tutti insieme» rispose infine. La sua fu un’affermazione credibile, grazie anche al tono disinvolto che aveva usato. 

Iris lo ascoltò, poi parve soppesare le sue parole, più per il loro significato che per una sorta di diffidenza. 

«E se invece andassimo da qualche parte?» propose la ragazza stringendosi nelle spalle. «Giusto per non tornare subito a casa.»

«Dove vorresti andare?» domandò Peter, quasi arrendendosi; ormai si trovava in quella situazione, tanto valeva assecondarla.

Iris pensò a un posto in cui poter prendere qualcosa da bere e, dopo diversi istanti di silenzio, le venne un’idea.

«Ti va il Pegaso? È anche a metà strada andando verso casa. Beviamo qualcosa prima di rientrare.»

Il Pegaso, come Peter sapeva, era proprio il tipo di locale che piaceva a Iris. Cocktail colorati, musica alta e, soprattutto, commerciale. Il posto dove, fra le luci soffuse e la marea di gente, si possono sorseggiare mojito ben preparati solo se il barista è concentrato su quel preciso cocktail, cosa che non avveniva mai. Non era affatto un locale per Peter, che preferiva di gran lunga stare su un trespolo al bancone di un pub con una birra ghiacciata. Pensò di suggerire l’opzione a Iris – il pub, visto che lei non sembrava avere voglia di tornare a casa – ma, alla fine, si arrese senza neanche fare un tentativo. Tanto conosceva bene la sua coinquilina e sapeva che, volente o nolente, l’avrebbe spuntata lei.

Sospirò. «D’accordo. Non è uno dei miei posti preferiti, ma se vuoi andare» lì disse poi, lasciando cadere la frase. 

«Beh, allora decidi tu» replicò la ragazza, tranquilla. Peter la guardò a metà fra il sorpreso e l’incredulo. Di rado Iris cedeva con tanta semplicità.

«Conosco io un bel posto sulla strada» disse con sicurezza l’illustratore, pensando a uno dei suoi pub preferiti, in cui andava spesso con Damian. «Ti fidi?»

Iris alzò le spalle, guardando Peter con un sopracciglio sollevato. «Conoscendoti sarà un pub. A me basta che servano cocktail.»

Peter sorrise e invitò Iris a incamminarsi lungo la strada. Il ragazzo non aveva moltissima voglia di trascorrere una serata intera da solo con Iris, tuttavia quel giorno le cose erano andate in quel verso e se le sarebbe fatte andare bene così. Dopotutto, si disse, aveva ugualmente visto Audrey e le aveva mostrato che i suoi biglietti erano stati utilizzati volentieri. Cercò di scacciare il pensiero della pianista appena si rese conto dell’intensità con cui il suo ricordo si stava delineando nella sua mente. Magari una birra avrebbe potuto aiutarlo.

Tuttavia, in quel momento, non fu il pensiero di una lager servita ghiacciata a ridestarlo, ma Iris. Peter, infatti, la sentì farsi più vicina e stringersi al suo braccio mentre gli camminava accanto.

 

 

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Capitolo 13
*** XIII ***


 

 

 

Audrey era chiusa in camera sua dalla mattina, intenta a suonare sulla propria tastiera, una dopo l’altra, la moltitudine di canzoni che si era imposta di imparare per il matrimonio di Oliver. 

Era già giovedì. “Già” perché per lei quella settimana stava passando inesorabilmente in fretta. Si era appena ripresa dalla soddisfazione e dallo stress per la preparazione dei brani dello spettacolo al Menier che già doveva esibirsi di nuovo, anche se questa volta per qualcosa a cui teneva moltissimo.

Per il giorno seguente era prevista la prova generale con il resto dei membri del gruppo e Audrey si sentiva ormai pronta, anche se abbastanza sotto pressione. 

Era molto soddisfatta della scelta finale delle canzoni, che aveva individuato lei stessa scegliendo fra la moltitudine di artisti jazz e swing che amava tanto ascoltare. 

La ragazza stava ripetendo un passaggio di una canzone di Louis Armstrong a sedere sul letto, proprio sotto al poster di La La Land, quando Oliver la chiamò a gran voce dall’altra stanza. Smise di suonare e si mise in ascolto, ma non sentì altre parole provenire dall’amico.

«Cosa c’è?» domandò poi la ragazza. Si alzò dal letto e si avviò fuori dalla propria camera; non trovando Oliver nel soggiorno con angolo cottura dedusse che il ragazzo si trovasse nella sua stanza e si avviò da lui.

Trovò il coinquilino davanti allo specchio, intento a trafficare con la stoffa del farfallino. Aveva preferito il papillon alla cravatta, ma era evidente che gli risultava complicato eseguire il giusto nodo. Oliver indossava il vestito delle nozze; in quel momento era in maniche di camicia e, sotto i pantaloni di stoffa, era scalzo. Lui e Aisha avevano scelto il blu come colore per il matrimonio ed era proprio di una bellissima sfumatura di blu, come il cielo di notte, che Oliver aveva scelto l’abito. 

Audrey guardò l’amico, contò mentalmente i giorni, addirittura le ore che mancavano alle sue nozze e fu pervasa da una strana sensazione, un misto di felicità e malinconia. Si guardò intorno nella stanza e come notò alcune scatole di cartone accatastate una sull’altra contro la parete, puntò lo sguardo esclusivamente su quelle. Oliver aveva già cominciato a riordinare le sue cose in vista del trasferimento. Una volta tornato dal viaggio di nozze, infatti, lui e la neo-moglie sarebbero andati a vivere insieme; avevano già fermato un grazioso appartamento in zona di Newington e Aisha vi aveva già portato molte delle sue cose. 

Davanti a quelle scatole la sensazione di malinconia di Audrey crebbe e la ragazza la sentì trasformarsi in qualcosa di più forte e triste. Era cresciuta insieme a Oliver, aveva trascorso gran parte della sua vita con quell’amico che, per lei, era come un fratello e ora era consapevole del fatto che le loro vie erano un procinto di separarsi. Audrey era felice per lui, davvero felice, ma una parte di sé, in quel momento, non poté fare a meno di pensare egoisticamente a se stessa e ai propri sentimenti. Sapeva che le cose fra loro sarebbero cambiate nonostante tutti sostenessero il contrario e quel pensiero le faceva sempre più male. 

Sentì un nodo formarsi in gola e portò istintivamente una mano davanti alla bocca quando gli occhi, ancora fissi sugli scatoloni, iniziarono a bruciarle a causa delle lacrime. Era la prima volta che il pensiero di vedere Oliver lasciare la casa le procurava un tale dolore, ma mai, prima di quel giorno, tutto ciò le era sembrato così concreto. 

Sentì Oliver imprecare fra i denti, sempre rivolto allo specchio. Sapeva che la coinquilina era lì e disse: «Spero vivamente che tu sappia come si fa un farfallino, altrimenti ci toccherà sfondarci di tutorial su YouTube per capirci qualcosa» bofonchiò. 

Aspettò la reazione di Audrey – una risata, un consiglio, un rimprovero, qualcosa – ma non sentì alcunché provenire alle sue spalle. Si voltò per cercare con gli occhi la ragazza e, appena la vide, si bloccò. Era in lacrime, cercava invano di soffocare i singhiozzi con la mano ma era evidente che non ci sarebbe riuscita ancora a lungo. Oliver conosceva troppo bene quella ragazza per non comprendere la causa del suo improvviso dolore e teneva troppo a lei per rimanere indifferente a quella scena.

«Oh, Audrey» si lasciò sfuggire.

Si disinteressò completamente del farfallino, che lanciò sul letto proprio accanto alla giacca del vestito e raggiunse l’amica, abbracciandola. Lei si scostò; non voleva rovinare la camicia del futuro sposo, ma al ragazzo non importava e glielo lasciò intuire alla perfezione quando la strinse a sé. Audrey si coprì il volto con le mani e rimase lì, fra le braccia del suo migliore amico, a dare sfogo a quelle maledette lacrime che non riusciva più a trattenere. 

Quando Oliver sentì che si era sfogata a sufficienza la guardò e le sorrise.

«Vieni» le disse, una parola più che sufficiente per far capire a Audrey cosa aveva intenzione di fare.

Come ogni altra volta precedente a quella, quando la pianista aveva sofferto per una delusione o Oliver era intrattabile per la collera, tutto si sarebbe risolto in cucina, davanti a una tazza di tè. I due amici lo facevano da sempre; si preparava del buon tè alla persona turbata e la si ascoltava, cercando poi le giuste parole per portare un po’ di conforto. Quel giorno toccava a Oliver tale compito e appena Audrey si fu messa a sedere al bancone il ragazzo mise sul fuoco il bollitore con acqua a sufficienza per due tazze e prese dalla dispensa dell’ Earl Grey, in assoluto il tè preferito della ragazza.

I due aspettarono in silenzio che la bevanda fosse pronta. Audrey lanciava di tanto in tanto qualche occhiata a Oliver, notando come la camicia gli stesse bene e come la sfumatura scelta di blu si intonasse ai suoi occhi. Si sentiva una stupida e, in buona parte, non riusciva a perdonarsi la crisi di pianto che aveva appena avuto. 

Oliver le posò sotto agli occhi la sua tazza di tè fumante, senza latte come piaceva a lei. Audrey alzò lo sguardo su di lui e lo trovò lì, sorridente. Tuttavia alla ragazza servì il primo sorso di bevanda per riuscire ad aprire bocca.

«Scusami» mormorò in direzione dell’amico. «Non so che mi è preso.»

Guardò Oliver e notò che la camicia si era sgualcita nel punto in cui lei vi aveva posato la testa. Il ragazzo se ne accorse e abbassò lo sguardo sul suo indumento.

«Non è grave. Le daremo una stirata» disse, come se avesse letto nei pensieri della pianista. «Va un po’ meglio?» le chiese poi.

Lei annuì, abbozzando un leggero sorriso. 

«Sono stati gli scatoloni» ammise Audrey, abbassando lo sguardo; per il primo momento Oliver non capì dove volesse arrivare. «Appena li ho visti mi è sembrato tutto molto più concreto che mai. Insomma, il tuo trasferimento.»

Lui prese una boccata d’aria prima di rispondere. Era consapevole che quel discorso, prima o poi, sarebbe venuto a galla e, del resto, gli sembrava più che doveroso affrontarlo insieme a Audrey.

«Neanche per me è così semplice lasciare questa casa, Audrey. Sei come una sorella per me; ci conosciamo da...da sempre.»

La pianista rispose al suo sguardo.

«Solo che è arrivato il momento di separarci. Ciò però non significa che quello che provo per te cambierà.»

La ragazza gli sorrise, intendendo con quel gesto che lo stesso valeva per lei. 

Oliver posò lo sguardo sul contenuto della sua tazza, riflettendo su che altro poter dire. Alla fine riuscì a trovare un percorso da seguire. «Nel corso degli anni mia madre mi ha insegnato una cosa e cioè che la vita è un viaggio solitario. Ma con un po’ di fortuna trascorri gran parte di essa con la giusta compagnia.»

Regalò a Audrey uno dei suoi sorrisi migliori prima di ricominciare a parlare. «Sempre per rimanere sulla metafora dei treni, anche riguardo a ciò che ti appena detto, vedi, io e te siamo stati seduti accanto da sempre. Da quando ho memoria tu c’eri. Adesso però, devo cambiare posto, stare accanto ad Aisha. Ma sai benissimo anche tu che il treno è comunque lo stesso, ci basterà solo fare qualche passo in più per tornare a vederci.»

La metafora del treno fece uno strano effetto su Audrey, che guardò leggermente perplessa l’amico. Tuttavia quella frase sulla vita, su come sia solitaria e sulla fortuna che si ha, a volte, di incontrare le giuste persone: quanta verità c’era in quelle parole. La pianista si prese un momento per riflettere e ripensare a tutto. Dentro di sé sapeva che le cose fra lei e Oliver sarebbero cambiate, era ovvio; eppure sapeva anche che era giusto così. Un giorno anche lei avrebbe avuto la fortuna di incontrare la persona giusta e anche lei avrebbe preso la stessa scelta di Oliver, decidendo di conseguenza di allontanarsi da qualcos’altro. Era la vita ed era così.

«Lo so» disse infine, in risposta alle parole dell’amico. «Ma devo ancora abituarmi all’idea di vederti andare via.»

«Anch’io» ammise il ragazzo in un sussurro. 

Audrey posò la mano su quella di Oliver, stretta alla tazza e gli sorrise appena lui la guardò. Le cose sarebbero cambiate, certo, ma non il loro legame e, con quel solo e semplice gesto, lo capirono entrambi.

«Sai,» esordì poi lei, «temo che dovremo sfondarci di tutorial su YouTube» disse. Dopodiché abbassò la voce come se fosse in procinto di dire il suo più grande segreto: «Non ho la più pallida idea di come si annodi un farfallino.»

Al suono di quelle parole Oliver scoppiò a ridere. Si alzò in piedi, schioccò un bacio sulla fronte della ragazza e si avviò in camera sua per prendere il portatile, in cerca dei migliori video esplicativi sull’argomento papillon.

 

*

 

Quella sera Peter rincasò con uno strano umore addosso. Gli sembrava di aver appena vissuto un giovedì pomeriggio anomalo. Era rientrato con la Circle line come faceva abitualmente prima di conoscere Audrey, prima di capire di essere interessato a lei e, forse, proprio per questo quel rientro gli aveva avuto su di lui uno strano effetto. 

La pianista lo aveva informato della sua assenza quel giorno. Al Menier non avrebbero fatto le prove per via dell’assenza del direttore d’orchestra, chiamato fuori Londra per motivi personali. Audrey aveva detto piano che la cosa, in un certo senso, le faceva piacere perché così avrebbe avuto più tempo per ripassare le canzoni del matrimonio – salvo poi sentirsi in colpa nei confronti del suo direttore e amico. 

Peter, invece, era dispiaciuto esclusivamente per il fatto di dover affrontare la metropolitana da solo, cosa che sembrava aver disimparato a fare. Nell’arco di tempo impiegato per rientrare a casa aveva avuto modo di ascoltare tutta la sua playlist preferita – un mix di più artisti – dicendosi anche di allungarla perché gli sembrava durasse troppo poco, pensiero che poteva essere la giusta conseguenza della solitudine del viaggio.

Una volta arrivato in casa salutò i coinquilini e andò diretto nella sua stanza. Svuotò lo zaino di buona parte del proprio materiale. Estrasse le matite, gli acquerelli, i pennelli, i pennarelli neri con punte di ogni dimensione e il blocchetto degli schizzi, su cui aveva abbozzato la sua ultima creazione, pronta per prendere vita. Gli era arrivato del nuovo lavoro da parte di una casa editrice indipendente, che voleva realizzare un libro illustrato per la fascia di età dai sette ai nove anni. Quella era una la fascia d’età in assoluto preferita da Peter. I disegni rimanevano nel suo perfetto stile arrotondato e colorato, ma gli consentivano di inserire più dettagli e i fondali potevano essere arricchiti, diventando colossali. Era intenzionato a iniziare a lavorare subito dopo cena e, dopo aver sistemato la sua scrivania con i materiali da disegno, si cambiò e andò in cucina per prepararsi la cena. Lì trovò tutti i coinquilini, seduti intorno al tavolo a conversare. 

«Mi preparo un panino e mi chiudo in camera a lavorare» li informò.

«Perché?» domandò Iris.

«Lavoro nuovo?» chiese Damian, che conosceva molto bene l’amico.

«Esatto» confermò Peter. Si sedette a tavola, versandosi un po’ del tè che i tre si erano preparati. Non era più molto caldo, ma il profumo dei frutti rossi si sollevava ugualmente dalla tazza a righe del ragazzo.

«Non è un lavoro urgente, ma sono molto ispirato e voglio assecondarmi» proseguì. «Bastille, acquerelli e un panino, ecco il programma. Oltretutto oggi non è stata neanche una gran giornata» si lasciò sfuggire alla fine, borbottando fra sé.

«Che è successo?» domandò Veronica.

Peter lanciò d’istinto uno sguardo a Iris, sentendo di aver parlato un po’ troppo. «Ah, niente di che in realtà. È proprio questo il motivo» replicò, con fare disinvolto. Sentì di essere riuscito a uscire da quella situazione in modo convincente e si rilassò. «Voi avete avuto una buona giornata?» chiese, così da cambiare in fretta argomento. 

I quattro coinquilini si persero in chiacchiere per un po’ in seguito alla domanda di Peter. Veronica cucinò qualcosa per tutti e alla fine anche l’illustratore dovette rinunciare a seguire fedelmente i suoi piani. Cenò in compagnia e aiutò a lavare i piatti prima di rintanarsi nella sua stanza, dove accese ugualmente la musica e riempì tutto lo spazio con le note dei Bastille. Infine si sedette alla scrivania, prese il suo blocchetto degli schizzi, studiò le bozze che vi aveva fatto e su della nuova carta per acquerelli – di un candido color avorio – iniziò a disegnare.

Peter riemerse dai suoi lavori più di tre ore dopo, diverse tavole a colori accanto e una sensazione soddisfatta dentro. Lanciò un’occhiata all’orologio, mentre Laura Palmer dei Bastille suonava per la seconda volta. Era da poco passata mezzanotte; gli occhi di Peter bruciavano leggermente e il ragazzo concluse che era l’ora giusta per andare a dormire. Si alzò dalla scrivania, spense la musica e si stiracchiò per bene prima di uscire dalla sua stanza per andare in cucina.

Notò che lì la luce era accesa nonostante il silenzio e come vi entrò si accorse della presenza di Iris. La ragazza era ferma in piedi, la schiena appoggiata al ripiano del mobile contenente le stoviglie, un mezzo bicchiere di vino rosso accanto.

«Ancora sveglia?» le chiese Peter come entrò. Non conosceva con esattezza gli orari di Iris ma, fatta eccezione per i week end, era raro trovarla in giro per casa dopo la mezzanotte. 

Lei si strinse nelle spalle. «Non ho sonno» precisò, bevendo un sorso di vino.

Osservò il ragazzo aprire il frigorifero e afferrare il latte, versarlo in una tazza e metterlo a scaldare nel microonde. Peter si rese conto di avere anche un po’ di fame e cercò nella sua parte di ripiano il pacco di biscotti che aveva aperto un paio di giorni prima. Quando il latte fu pronto andò a sistemarsi sul tavolo, un biscotto in una mano, la tazza nell’altra. Gli sembrava sempre di tornare bambino quando compiva il rito di latte e biscotti, ma non ci trovava nulla di male; se quel binomio era riconosciuto in tutto il mondo un motivo valido c’era senz’altro.

Per tutto quel lasso di tempo Iris era rimasta ferma a guardare Peter, finendo piano il vino. I due scambiarono qualche veloce parola, ma il ragazzo non era molto partecipe per via della stanchezza. Come aveva staccato il pennello dalle sue tavole il sonno si era fatto sentire, pretendendo che lui andasse a coricarsi il più in fretta possibile. 

Il ragazzo si alzò dopo aver ultimato il suo spuntino di mezzanotte e raggiunse il lavandino per lavare la tazza e riporla al suo posto.

«Rimani qui?» domandò a Iris. La ragazza era ancora nella stessa posizione in cui l’aveva trovata lui entrando nella cucina ed era ferma proprio accanto a lui.

«No» disse. «Vado in camera mia ora. Avevo solo voglia di un bicchiere di vino.» 

Peter annuì a quelle parole. Stava sciacquando la tazza quando si accorse che Iris si era fatta più vicina. Si asciugò le mani cercando di ignorare quella situazione, ma la sua testa non poté fare a meno di fargli notare cosa stava succedendo. Tutti i suoi sospetti si ripresentarono prepotenti da lui e per la prima volta non sapeva bene come comportarsi. La ragazza gli sfiorò la mano, ruotando il corpo verso di lui. Peter puntò lo sguardo sulla mano di Iris, ora posata sulla sua per poi spostarlo sul volto della coinquilina. Era vicina, troppo e Peter non ebbe alcun dubbio su ciò che stava tentando di fare: voleva baciarlo. 

Il ragazzo pensò in fretta.

«Occhio alla testa» disse, con un tono così innocente da sfociare nell’ingenuo. Sembrava proprio la frase di uno che non aveva capito nulla. Vide l’espressione di Iris mutare mentre apriva lo sportello dietro di lei, dove tenevano le tazze. Quel semplice ripiano all’altezza della testa, accanto al lavandino, lo aveva appena salvato. 

Sempre con il modo di fare di uno che non aveva capito – che Peter valutò come la carta vincente in quella situazione– il ragazzo si asciugò le mani, allontanandosi dalla coinquilina.

«Io vado a dormire. Dovresti andarci anche tu» le disse quando ebbe raggiunto la soglia della porta. La ragazza non replicò, si limitò solo a fare un verso di stizza incomprensibile, che Peter pensò bene di ignorare. 

L’illustratore raggiunse camera sua più in fretta del solito e si chiuse la porta alle spalle. Solo in quel momento si rese conto del battito accelerato del cuore,  legato alla preoccupazione per ciò che era appena successo. Ora non aveva più dubbi; infondo era tutto chiaro, perché averne?

Cercò di calmarsi ripetendosi che avrebbe trovato una soluzione. Il problema principale, tuttavia, era legato al fatto che non gli stava venendo in mente nulla in grado di aiutarlo.

 

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Capitolo 14
*** XIV ***


 

 

 

Il vocio costante, fitto fitto, si diffondeva per tutta la sala improvvisata. Le conversazioni dei presenti erano le più disparate e spaziavano da qualsiasi argomento immaginabile; tutto ciò contribuiva ad accrescere l’atmosfera di festa, allegria e bellezza che stava caratterizzando quel giorno: sabato.

Il giorno del matrimonio era finalmente arrivato, con una rapidità che aveva del sorprendente sia per Audrey sia per, soprattutto, Oliver. Dopo il loro scambio del giovedì pomeriggio – in cui avevano ammesso entrambi la preoccupazione che sentivano in vista di quel giorno – il tempo era parso volare. 

La pianista aveva fatto la prova generale con il resto dei componenti della piccola e improvvisata orchestra il giorno precedente e, tornata a casa, aveva imparato ad annodare un farfallino insieme a Oliver e YouTube. E stava bene quel farfallino indosso al suo migliore amico, di una splendida sfumatura lapislazzuli che, insieme all’abito, faceva risaltare l’azzurro dei suoi occhi. 

Oliver era felice. Qualsiasi possibile dubbio o preoccupazione vi fosse stata in lui prima della cerimonia era sicuramente scomparsa nel momento esatto in cui il ragazzo aveva visto arrivare Aisha; Audrey, che lo conosceva come nessun altro, aveva capito tutto ciò semplicemente con uno sguardo. 

Continuava ad averne la conferma guardando la coppia ballare in mezzo alla pista, nella tensostruttura montata apposta per l’evento, in cui si stava tenendo il ricevimento. La pioggia aveva bagnato i prati di Stratford solo durante la cerimonia, lasciando tempo al sole di sbucare fra le nubi – ora scomparse – e illuminare quel sabato di maggio, permettendo al ricevimento di svolgersi in un bel clima e consentendo anche di passeggiare fuori dalla tenda, sui prati.  Gli avventori, infatti, si erano divisi proprio in quel modo; a decine ballavano sulla pista, intorno ai neosposi, altri conversavano seduti ai tavoli, altri ancora erano fuori nel guardino, a fumare o parlare.

Audrey, invece, era sul palco insieme al resto dei suoi colleghi e amici, a suonare una dopo l’altra le canzoni che aveva scelto come colonna sonora di quel pomeriggio. Seduta allo splendido pianoforte a coda color dell’ebano che avevano noleggiato per l’occasione, il suo vestito verde preferito indosso, la pianista stava seguendo partiture di canzoni che aveva ormai imparato a memoria, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata agli sposi, felice di vederli così raggianti insieme. Dentro di sé un po’ li invidiava; non tanto perché anche lei volesse sposarsi, ma perché anche lei avrebbe voluto trovare il suo Sebastian, proprio com’era successo ad Aisha con Oliver. Non aveva più una relazione da quasi due anni, ed era arrivata al punto di credere di pretendere troppo. Tuttavia, al contempo, non si biasimava nemmeno. L’ultimo ragazzo che aveva frequentato – per alcuni mesi e nulla di più – le aveva fatto capire che non esisteva detto più azzeccato di “meglio soli che mal accompagnati”. Colpa o merito suo che fosse, Audrey era arrivata a capire che non aveva senso stare con qualcuno che non la faceva sentire bene e, poiché stare da sola non la spaventava, aveva deciso di aspettare quello giusto, il suo Sebastian. Tuttavia alle volte si chiedeva se lo avrebbe trovato mai e quel giorno, davanti alla coppia felice che erano Oliver e Aisha, se lo chiese di nuovo. Scacciò il pensiero sulle note di A kiss to build to dream on una delle canzoni che più amava. Louis Armstrong era in assoluto il suo preferito; musica, parole e perfino voce di quell’uomo le piacevano e non si stancava mai di ascoltarlo. In quel momento, anche se la voce non era la sua ma quella di Neil – il cantante del piccolo complesso in cui stava suonando – quella canzone fece sparire ogni spiraglio di malinconia dentro di lei. 

Dopo un altro paio di canzoni, mentre la banda si stava prendendo qualche breve minuto di pausa, Oliver si presentò sotto il palco e chiamò Audrey. «Vieni giù» le disse.

La pianista lo guardò confuso. Gli altri stavano riprendendo posto accanto ai loro strumenti; sapeva che avrebbero ricominciato a breve e non poteva andare via. Neil sorrise allo sguardo confuso che lei gli lanciò. «Vai pure Audrey. Per la prossima canzone possiamo fare a meno del pianoforte» le disse.

Lei si fece più perplessa di prima, ma nonostante tutto si avviò giù dal palco, verso Oliver che la stava aspettando. Aisha era andata a sedersi a uno dei tavoli, a parlare con alcuni dei suoi parenti, lanciando qualche occhiata in direzione della pianista e dello sposo, un sorriso dolce in volto. Lei sapeva cosa stava per succedere, esattamente come l’orchestra e, forse, come tutti i presenti a quelle nozze. 

Appena Audrey fu accanto all’amico, senza avere il tempo di dire qualcosa, il complesso musicale iniziò a suonare. La pianista riconobbe subito You’ve got a friend in me, la versione di Tom Culver, una delle sue preferite. 

«Questo ballo me lo devi concedere» le disse Oliver.

Lei scoppiò a ridere, iniziando a danzare con il suo temporaneo cavaliere. In quel momento le parve tutto perfetto, anche se la sua deformazione professionale tendeva a ricordarle che in una canzone come quella il pianoforte ci voleva – pensiero che riuscì ad accantonare fin da subito. Si concentrò solo su quel ballo e su Oliver che continuava a sorridere a quella situazione. Per alcuni avrebbe potuto risultare imbarazzante, ma per loro era solo divertente. Per Audrey, poi, era addirittura speciale. 

Quando la canzone finì si sollevarono degli applausi dal tavolo in cui si trovava Aisha, che stava anche ridendo di gusto a quella scena.

Dopo quel ballo Audrey riprese posto al pianoforte e guardò in direzione di Neil, che le sorrise. «Ce l’ha chiesta Oliver» le rivelò, riferendosi alla canzone. «Doveva essere una sorpresa.»

La pianista dovette ammettere che la sorpresa aveva funzionato fin troppo bene e dentro di sé sentiva una piacevole sensazione. Oliver le aveva dedicato un gesto d’affetto anche nella sua giornata più importare, per Audrey fu chiaro che quella era la più bella dimostrazione di amicizia che si potesse desiderare. 

 

*

 

Era ormai il crepuscolo quando la musica finì – quella dell’orchestra, almeno. Il piccolo gruppo improvvisato di Audrey aveva suonato ogni singola canzone prevista in scaletta e la pianista si sentiva soddisfatta del risultato ottenuto. Quando aveva deciso di chiedere ad alcuni suoi colleghi di suonare per il matrimonio di Oliver sperava che il risultato finale fosse quello - un gruppo unito e in grado di suonare alla perfezione canzoni di musica jazz e swing. 

Oliver e Aisha erano prossimi a lasciare la festa, cosa più che comprensibile. Li attendeva la loro prima casa, a Newington e poi la partenza per il viaggio di nozze, a Venezia.

Audrey stava conversando con alcuni musicisti quando venne raggiunta da Oliver, al quale non servì dire nulla per ottenere attenzione; era il suo giorno speciale, dopotutto.

«Aisha e io andiamo. Te lo dico prima che la notizia diventi di dominio pubblico e io sia investito da baci e abbracci. Come lei del resto.»

Anche Aisha raggiunse la pianista, quasi si fosse sentita chiamare. «Grazie di tutto Audrey» le disse la sposa, ancora splendida nel suo abito nonostante la cerimonia, il ricevimento e le danze.

La ragazza fece un segno a mezz’aria, come a dirle che non era poi tutto questo granché. «Era il mio regalo di nozze, ragazzi. Andava infiocchettato per bene» rispose, sorridendo.

Aisha le sorrise di rimando, dopodiché la strinse nello stesso abbraccio che una sorella maggiore può dedicare alla minore. Audrey assaporò quel gesto fino all’ultimo secondo, felice; poi, Aisha si allontanò.

«Per qualsiasi cosa non esitare a chiamarmi, d’accordo?» esordì Oliver, in cerca delle parole migliori per far capire a Audrey che fra loro non poteva esistere un addio, nemmeno un arrivederci; loro erano due tipi da ciao, addirittura da “a dopo”.

«Anche durante il viaggio di nozze, non preoccuparti. Alla peggio, poi, Venezia è solo a due ore da qui» concluse, facendole l’occhiolino.

«Non ti pare di esagerare?» lo rimproverò amichevolmente Audrey.

Di tutta risposta Oliver si strinse nelle spalle sorridendo, dopodiché si avvicinò di un passo all’amica e l’avvolse in un abbraccio. Fu un abbraccio lungo, uno di quelli in grado di dire più di tutte le parole del mondo messe insieme. Quel gesto era il modo in cui i due si stavano salutando, entrambi consapevoli che le cose non sarebbero rimaste le stesse – come avrebbero potuto? – ma sapendo anche che l’altro avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per non perdere l’amicizia che la vita aveva loro dedicato.

Audrey si sciolse completamente in quell’abbraccio, in cui avrebbe potuto contare ogni singolo battito del cuore di Oliver. Invece stava pensando ad altro; ripercorreva con la mente il tempo trascorso sotto lo stesso tetto con il suo migliore amico, ormai diventato il fratello che non aveva mai avuto, così come lei era la sorella che Oliver non aveva. Era difficile dire cosa sarebbe accaduto dopo quel giorno, se davvero la loro amicizia sarebbe rimasta immutata. L’unica certezza che possedeva era che la casa, senza il suo coinquilino, sarebbe stata molto più grande.

Si strinse ancora di più a Oliver a quell’ultimo pensiero, proprio mentre l’abbraccio che si stavano scambiando era prossimo a esaurirsi. Quando si separarono, lei lo guardò e sorrise. Era davvero felice per lui.

«Fate un buon viaggio» gli disse. 

Lui annuì. «Ci abbufferemo di pasta. Io e Aisha siamo già d’accordo.» 

«Un programma interessante» osservò Audrey.

I due si salutarono sul serio, questa volta. La ragazza rimase a guardare Oliver tornare da Aisha, dirle qualcosa, farla sorridere, dopodiché voltò loro le spalle e si ricongiunse con gli altri musicisti. 

Dopo che gli sposi se ne furono andati le persone calarono poco a poco. Anche i componenti dell’orchestra se ne andarono, finché non rimasero solo Audrey e Clint. La pianista era riuscita a evitare spiacevoli – per lei – conversazioni con il ragazzo, ma sapeva che non avrebbe potuto evitarlo per sempre. Lui, infatti, le si sedette accanto. 

«Come torni a casa?» le chiese.

«Chiamerò un taxi fra poco. Comincio a essere particolarmente stanca.»

«Posso accompagnarti se vuoi» si offrì lui.

Audrey sapeva che si sarebbe arrivati a quel punto. Soppesò la proposta, riflettendo. Non impazziva dalla voglia di farsi mezzora di viaggio in compagnia del ragazzo, ma sapeva anche che rifiutare quella gentile offerta sarebbe stato troppo maleducato per lei, anche se si parlava di Clint. Dopotutto con che scusa si poteva preferire un viaggio a pagamento con uno sconosciuto piuttosto che un viaggio gratuito in compagnia di un collega di lavoro?

«Beh, se non ti dispiace accetto il passaggio, grazie» disse infine stringendosi nelle spalle.

Clint parve subito entusiasta di quella notizia. Dopo l’accordo i due andarono a salutare il resto dei loro conoscenti. Audrey trascorse almeno cinque minuti in compagnia dei genitori di Oliver prima di salutarsi e allontanarsi con il suo collega violoncellista. Mentre si incamminavano nella sera, diretti alla macchina di Clint, la pianista non poté fare a meno di sentire una strana sensazione arrivare lieve fino a lei. Si voltò verso il luogo in cui si era tenuta la cerimonia, vedendo le luci della struttura farsi sempre più lontane. Quel posto emanava calore e lì, dove si trovava in quel momento, sentiva quel calore allontanarsi da lei.

Durante il viaggio Audrey si sentì sempre peggio. Quasi non apriva bocca, lo faceva solo per rispondere alle affermazioni di Clint, che stava parlando di musica, complimentandosi con la pianista per la scelta dei pezzi; lei, invece, guardava fuori dal finestrino, tormentandosi in grembo le mani.

Quando l’auto accostò sul ciglio di Chadd Green e Audrey vide casa sua si ridestò, una stretta le chiuse lo stomaco. 

«Siamo arrivati» annunciò Clint. La ragazza si voltò a guardarlo e gli sorrise. «Grazie per avermi accompagnata.»

Stava per augurargli un buon proseguimento di serata e scendere quando lui la fermò. «Audrey, senti, volevo chiederti se ti andasse, una di queste sere, di uscire insieme.»

La pianista soffocò un sospiro, reggendo lo sguardo del ragazzo. Sapeva che quella domanda sarebbe arrivata, una parte di sé era certa che il principale motivo per cui Clint era entrato a far parte della piccola orchestra fosse lei e non le canzoni jazz che diceva di apprezzare tanto. Tuttavia quasi si stupì che la domanda arrivasse solo in quel momento e che non fosse stata formulata prima. A ogni modo, lei non se la sentiva di rispondere, né di cercare frasi in grado di far capire a Clint che, dopo quel loro ormai lontano appuntamento, non ne avrebbe seguito un altro. Si sentì improvvisamente stanca, un ammasso di sensazioni a scavarla dentro.

Distolse appena lo sguardo prima di iniziare a parlare. «Clint, è» prese una breve pausa, «è stata una giornata lunga, una settimana lunga. E domani abbiamo anche lo spettacolo al Menier. Scusami, ma preferirei non parlare di questo adesso. Ti spiace se rimandiamo a un altro momento?» disse quelle parole con voce calma, delicata. 

Davanti a lei il ragazzo annuì lievemente, abbozzando un sorriso. «Sì, hai ragione. È stata una lunga giornata, ma molto bella» rispose.

Audrey gli diede ragione, dopodiché ringraziò nuovamente Clint per il passaggio che le aveva offerto e lo salutò con un abbraccio prima di scendere. Le venne spontaneo, anche alla luce delle parole che gli aveva appena rivolto. Era quasi sorpresa da come lui non avesse fatto un secondo tentativo; sospettò si trattasse di lei, forse il ragazzo aveva visto qualcosa nel suo viso, nei suoi occhi, forse aveva interpretato in un solo modo tutte le sensazioni che le si stavano amalgamando dentro.

Scese dalla macchina e salì le scale con una lentezza insolita, stringendosi le braccia al petto. Quando girò la chiave nella toppa della porta ed entrò in casa la trovò deserta e buia. Negli ultimi due giorni Oliver aveva ammonticchiato alcuni scatoloni davanti alla porta di camera sua e ora quelli se ne stavano lì, in silenzio, quasi a scrutare la pianista.

Audrey fu nuovamente colta da quella sensazione di malinconia che l’aveva pervasa il giovedì precedente in camera di Oliver. Tuttavia non scoppiò a piangere come quel giorno. Dentro di lei c’era ancora euforia, gioia alla vista della felicità di due delle persone a cui teneva di più. Forse era quello l’ammasso caotico che sentiva in auto di Clint, una sfida interiore fra il dolore personale e la gioia. 

Sapeva che solo la musica avrebbe potuto aiutarla a superare quel momento. Raggiunse la sua stanza, afferrò la tastiera elettrica senza neanche cambiarsi d’abito e tornò nel soggiorno. Spense la luce, lasciando che solo i lampioni in strada illuminassero la casa e, con il volume al minimo, iniziò a suonare.

La scelta della canzone fu spontanea; non aveva perso tempo a pensare a quale canzone suonare, aveva semplicemente posato le dita sullo strumento e le prime note uscirono da sole. Stava suonando una canzone di La La Land, quella che suona Sebastian alle nozze: Engagement Party. Una musica bellissima e malinconica, in grado con le sue note di rappresentare lo stato d’animo di Audrey. La pianista continuò a suonare cercando di non pensare a nulla, se non alla musica, alle note, ai pentagrammi; non voleva pensare ad altro. Mai, come in quel momento, la casa le era parsa tanto grande e, soprattutto, vuota.

 

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Capitolo 15
*** XV ***


 

 

 

Era il lunedì più lunedì che Audrey ricordasse da tempo. Era noioso, asfissiante e lei non aveva quasi chiuso occhio quella notte, ritrovandosi totalmente priva di qualsiasi riserva di energia. 

Oliver era partito e si trovava in Italia in quel momento e alla pianista mancava averlo per casa, dove ora lei lasciava dietro di sé solo silenzio appena usciva da una stanza. Le sarebbe servito del tempo per abituarsi a quella situazione, lo sapeva. 

Per quella sera aveva deciso di combattere la solitudine invitando April e Sadie a cena, ma entrambe le ragazze erano impossibilitate ad andare. Una cena solitaria e un film erano parsi essere l’unica opzione per Audrey, un pensiero che aveva contribuito a rendere quel lunedì così poco piacevole.

La pianista stava camminando in direzione di Tower Hill station con molta calma, stretta nel suo trench. Avevano terminato le prove con una buona ventina minuti di anticipo e subito aveva pensato di andarsene verso casa così da arrivare un po’ prima. Tuttavia aveva scartato quell’ipotesi persino prima di averla formulata totalmente. Non aveva senso arrivare a casa prima per poi stare più tempo da sola proprio in quei giorni in cui la solitudine la faceva stare male. Almeno se avesse incontrato Peter – com’era ormai diventata abitudine per loro – un po’ di tempo lo avrebbe trascorso in buona compagnia.

Raggiunta la fermata metropolitana si fermò; non attraversò i tornelli, non scese lungo le scale mobili. Rimase ferma in un punto del marciapiede, accanto al muro, cercando di non disturbare i passanti. Aveva una gran voglia di suonare il pianoforte della stazione, le sembrava quasi di sentire un richiamo provenire dal fondo delle scale alle sue spalle, tuttavia rimase lì, ferma, in attesa, cercando qualcosa a cui pensare. 

Sapeva che Peter lavorava in Thomas Moore Street, perciò ogni tanto lanciava qualche occhiata in quella direzione per vedere se stava arrivando; era ancora in anticipo sul suo orario abituale e l’illustratore arrivava solitamente dopo di lei, per tale motivo era sicura che lo avrebbe intravisto fra la folla a breve. 

Dopo altri minuti d’attesa, infatti, lo vide arrivare. Aveva, come solito, le mani affondate nelle tasche della giacca – un giacchino nero – e gli auricolari inforcati. Camminava guardandosi intorno, osservando edifici e persone, come in cerca di ispirazione. Una lingua di sole fra due palazzi illuminò i riflessi color caramello dei suoi capelli proprio quando lui si accorse di Audrey, in attesa poco più avanti. 

Peter le sorrise appena incrociò il suo sguardo, sorpreso di trovarla lì, ferma. Si tolse gli auricolari prima ancora di raggiungerla e la salutò appena le fu accanto. Audrey rispose al suo saluto.

«Abbiamo finito prima oggi. Il direttore d’orchestra ha detto che non ne poteva più di vederci» esordì la pianista, quasi a giustificare la sua presenza lì.

Il ragazzo inarcò un sopracciglio. «Onesto» sentenziò, scherzando.

Audrey sorrise, dandogli ragione. «In realtà alle prove abbiamo fatto un “buona la prima”. Penso che il direttore ne sia rimasto soddisfatto, molto semplicemente» arricciò le labbra sul finire della frase, strappando un sorriso a Peter nel suo modo più tipico: l’incurvare appena un angolo delle labbra; quando sorrideva sul serio, o rideva di gusto, però, tutto il suo viso si illuminava e allora dimostrava molti meno dei suoi ventisette anni.

«Grazie per avermi aspettato, molto carino da parte tua» disse poi a Audrey, pensandolo sul serio. Fece un passo per avviarsi verso l’accesso alla Tube, ma la pianista non si mosse, sovrappensiero.

«Ti andrebbe di andare a prendere un caffè?» gli chiese, con semplicità.

Il ragazzo rimase sorpreso da quell’invito, uscito così improvvisamente. Guardò Audrey, pensando. Aveva del lavoro da fare, a casa, portare avanti qualche tavola sarebbe stata una buona idea, ma non era nulla di urgente. Perciò non aveva senso perdere l’occasione di trascorrere un po’ di tempo con la pianista, specie se l’invito era arrivato da lei.

«Volentieri» rispose.

Si avviarono verso lo Starbucks in cui erano andati l’ultima volta, quando Peter aveva consegnato le partiture a Audrey come regalo di compleanno. Anche quel giorno il posto era tranquillo e poco trafficato, vi erano solo alcuni turisti, una coppia di adolescenti e persone che entravano, ordinavano e uscivano con la consumazione. Peter e Audrey ordinarono entrambi un caffè e presero posto su un tavolino accanto alla vetrata. Iniziarono subito a parlare delle rispettive giornate, del proprio lavoro, poi la conversazione si spostò su tutt’altro. 

Era già passata una dose indefinita di tempo quando Peter domandò a Audrey di com’era andato il matrimonio di Oliver. La pianista sorrise al ricordo di quella giornata, che era andata bene, molto, se si tralasciava la sua conclusione al rientro in appartamento. Mentre raccontava a Peter i punti salienti della festa, snocciolando anche alcuni titoli delle canzoni suonate, si ritrovava a lanciare di tanto in tanto alcune occhiate in direzione della vetrinetta del bancone del caffè, dietro la quale cibo dolce o salato era esposto in bella vista. L’illustratore si accorse della situazione, stava perdendo con troppa frequenza il contatto visivo con Audrey.

«Qualcosa non va?» le chiese infine.

Lei lo guardò subito, quasi confusa dalla sua domanda, dopodiché capì qual era il punto. «Oh, no, no. È solo che mi sta venendo fame, quindi pensavo di prendere qualcosa da usare come cena» evitò di proseguire nella frase, che si sarebbe conclusa alludendo al fatto che, tanto, cenare a casa o lì non le avrebbe cambiato nulla, dal momento che sarebbe comunque stata sola. Quel giorno si sentiva così distante dal mondo che i minuti che stava trascorrendo in chiacchiere con Peter le parevano una benedizione.

Il ragazzo assimilò la sua risposta, parve soppesarla, rimuginarci intorno, infine pensò di cogliere al balzo l’occasione.

«Potremmo andare a cenare» propose. Lo fece con disinvoltura, quasi fosse la risposta più ovvia del mondo alla frase di Audrey. Sollevò le sopracciglia mentre la ragazza lo guardava e rimase in attesa di una sua qualche reazione. Lei osservò a lungo gli occhi bruni di Peter, resi scuri dalla luce artificiale.

«Non devi lavorare?» chiese poi. Si sarebbe sentita responsabile se Peter fosse rimasto indietro con il lavoro a causa sua, specie ora che sapeva quanto fosse impegnativo il lavoro dell’illustratore. Lui, di tutta risposta, si strinse nelle spalle e arricciò le labbra. Dopo quello che era successo con Iris casa sua non era il primo posto in cui ambiva a tornare, specie se l’alternativa era trascorrere del tempo in compagnia di Audrey. 

«Posso concedermi una sera libera. Sono a un ottimo punto con le tavole» rispose; ed era vero.

La pianista stava ancora soppesando la risposta quando lui fece il suo affondo: «Magari possiamo andare in un posto che fa all you can eat

A sentire quelle parole Audrey si illuminò. Le sembrava passata un’eternità dall’ultima volta in cui si era concessa del sushi e aveva una gran voglia di mangiarne già da un po’ di tempo. «Ok, ci sto» rispose infine. Tuttavia puntò l’indice verso il petto di Peter. «Ma solo se mi garantisci che davvero non hai niente da fare adesso» lo ammonì.

Il ragazzo sorrise, sollevando tre dita della mano destra. «Parola di scout» scherzò, poi tornò serio. «No, davvero. Posso concedermi di passare una serata fuori. I disegni non sentiranno la mia mancanza.» Omise volutamente di fare qualsiasi riferimento alla sua attuale situazione con Iris e subito gli venne in mente che non aveva ancora spiegato a Audrey come stavano le cose fra lui e la coinquilina; si ripromise di farlo quella sera, appena se ne fosse presentata l’occasione.

La pianista cedette all’offerta, contenta di sapere che aveva l’opportunità di trascorrere altro tempo in compagnia di Peter. 

Uscirono da Starbucks e si incamminarono verso uno dei ristoranti giapponesi preferiti del ragazzo, dove andava spesso insieme a Damian. Appena arrivarono Peter pensò bene di scrivere un messaggio all’amico per avvisarlo che non sarebbe rientrato a cena la sera, limitandosi a scrivere che avrebbe mangiato da un’altra parte. 

Quando ordinarono le prime porzioni di sushi, Audrey si sentì a un passo dalla beatitudine. Il suo umore era notevolmente migliorato rispetto a poche ore prima, quando la prospettiva più allettante era rientrare nella sua casa, una volta calda e viva, e trovarla deserta. 

Arrivati al secondo giro di sushi – con uramaki in abbondanza – Peter aveva appena ultimato un’affermazione a conclusione di un breve botta e risposta fra i due quando Audrey disse: «Stavo pensando di cambiare casa.» 

Non stava guardando Peter; era concentrata sul suo colorato rotolino di sushi, che stava intingendo nella salsa di soia. 

L’illustratore la guardò perplesso per un lungo momento, cominciando a chiedersi il perché di una simile affermazione. Non ebbe tempo di replicare prima che lo sguardo di Audrey si incrociò con il suo e lei potesse riprendere a parlare: «Tu pensi possa avere senso? Cambiare casa intendo.»

«Perché vorresti cambiarla?» domandò poi lui, dopo un breve silenzio. Nella sua testa si presentò il pensiero che, se Audrey avesse cambiato casa, i loro abituali rientri insieme sarebbero finiti. Era un pensiero piccolo, un lieve sospetto, ma ora non sarebbe più riuscito a ignorarlo.

Audrey non rispose, stava masticando e questo diede tempo al ragazzo di fare i suoi conti. «È per Oliver, vero?»

Peter era un ragazzo sveglio, Audrey ormai lo sapeva, ma il suo stato d’animo doveva essere davvero palese se lui lo aveva capito così in fretta. Annuì con la testa, debolmente. «Sì. Insomma, tralasciando la più ovvia questione dell’affitto, non so per quanto ancora riuscirò a stare là. Vi ho sempre vissuto in compagnia di Oliver e ora, trovare la casa così vuota senza di lui, mi mette tristezza.»

Non sapeva per quale motivo gli stava raccontando tutto ciò; sapeva solo che le risultava semplice aprirsi con Peter.

Quest’ultimo cercò le giuste parole per rispondere, scoprendosi sorpreso del fatto che il legame fra Audrey e Oliver potesse essere tanto forte.

«Beh, non ci trovo nulla di male dopotutto» esordì infine il ragazzo. «Tu stessa mi hai detto che siete amici fin da piccoli. Immagino non sia semplice sapere che le cose cambieranno. È un po’ come se io e Damian smettessimo di vivere insieme, mi ci vorrebbe del tempo per abituarmi alla cosa.»

«Quindi tu non pensi sia stupido voler cambiare casa solo perché Oliver si è trasferito?» chiese Audrey, nel tentativo di riordinare la propria confusione mentale.

«No, assolutamente» replicò Peter con una lieve alzata di spalle. «I luoghi sono carichi di ricordi, almeno quanto lo sono le canzoni, per me. Trovo sia comprensibile che stare in quella casa ti crei un senso di nostalgia.»

Spinse verso Audrey l’ultimo uramaki ancora nel piatto, invitandola a prenderlo con quel semplice gesto. 

«Magari però è solo questione di tempo. Oliver si è appena trasferito, forse hai solo bisogno di capire che le cose fra voi non cambieranno molto prima di vedere una casa vuota come una possibilità.»

Bevve un sorso d’acqua dopo quell’affermazione, mentre Audrey osservava il rotolino di sushi che lui le aveva porto, ripensando alle sue parole. Trovò sorprendente quanta verità ci fosse in quelle poche parole. Quando sollevò lo sguardo su Peter, lui la stava già guardando, un sorriso in volto. Riuscì a trasmetterle una sensazione di serenità e fu grata che il suo invito per un caffè si fosse trasformato in quella piacevole cena a base di sushi e ammissioni.

Il ragazzo aveva ragione su tutto, Audrey lo sapeva.

«Grazie» gli disse poi. Non alludeva all’uramaki che lui le aveva lasciato e Peter lo capì. 

«Se volessi parlarne di nuovo ci sono. Altrimenti posso aiutarti a cercare una bella casa e dei coinquilini sopportabili.»

Strappò un sorriso a Audrey con quelle parole. Lei afferrò poi il piccolo rotolo di sushi con le bacchette, lo immerse nella salsa di soia e lo assaporò, appena in tempo per vedere Peter sollevare il braccio e richiamare il cameriere.

La compagnia dell’illustratore, la cena, tutto ciò la stava aiutando a sentirsi meglio. In quel momento si sentì fortunata per aver conosciuto un ragazzo con l’anima di Peter; era contenta di trascorrere del tempo insieme a lui, soprattutto perché – anche se magari non era stata la sua vera intenzione – era a appena riuscito a dimostrarle che gli amici e il buon cibo, possono davvero essere un’ottima cura.

 

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Capitolo 16
*** XVI ***


 

 

 

Peter sentiva sempre più sonno. Se ne stava con le braccia incrociate sul piano della scrivania da lavoro, nel suo ufficio, la guancia appoggiata sui polsi.

Stava pensando. Rimuginava soprattutto sul fatto che, nell’ultimo periodo, davvero pensava troppo, seppure non gli servisse a niente essere consapevole della cosa. Non si poteva arrestare il proprio cervello, lo sapeva fin troppo bene. Infondo per lui l’immaginazione altro non era se non una colorata e creativa appendice della mente e, quando la sua fantasia iniziava a galoppare, fermarla gli era impossibile; per tale ragione dovette arrendersi all’evidenza: non avrebbe certo smesso di pensare. 

Si lasciò sfuggire un lungo sbadiglio. Era quasi ora di tornare a casa, per sua fortuna. Quel pomeriggio aveva prodotto davvero poco con matite e acquerelli, ma proprio non riusciva a restare concentrato. Si distraeva per via del sonno, ma non solo. Quella notte aveva dormito malissimo; si era svegliato a più riprese, accaldato e con strane sensazioni addosso, per poi ripiombare in un sonno più agitato del precedente.

Negli ultimi giorni, dopo che Iris aveva tentato invano di baciarlo, la ragazza aveva fatto il possibile per rimanere sola con Peter. Proponeva film, uscite nei pub, di andare a fare la spesa insieme. Ogni volta l’illustratore riusciva a declinare l’offerta con una serie di scuse ben orchestrate, pronunciate con una finta ingenuità da manuale. Quando invece non gli veniva una valida scusa coinvolgeva Damian. Il povero amico finiva così catapultato in situazioni che lui non poteva immaginare, aiutando Peter a sua insaputa.

Il ragazzo sospirò, osservando la sua serie di pantoni sparsa per il piano da lavoro.

Non avrebbe potuto continuare così in eterno. Prima o poi la scusa non gli sarebbe balzata in mente al momento opportuno e Damian non ci sarebbe stato. E forse un giorno Iris si sarebbe realmente dichiarata, non avrebbe cercato di farglielo capire. Forse gli conveniva affrontare la questione di petto, senza sotterfugi; scusarsi con la coinquilina e dirle che non era interessato. 

Certo, era sicuramente la soluzione migliore, oltre che la più corretta, ma dopo? Vivere sotto lo stesso tetto con una ragazza respinta – specie se aveva il carattere di Iris – non era una prospettiva allettante. 

Fu in quel momento esatto che gli tornò in mente Audrey e la conversazione che avevano avuto. Alzò la testa di scatto, sentendosi rianimato. Gli era appena venuta in mente un’idea. Complicata e discutibile, senz’altro, ma era pur sempre un’idea. Afferrò il cellulare e cercò la chat di Damian, mandandogli un diretto e categorico messaggio: “All’Esquire alle 6:30, ti va?”

Non gli servì aspettare la risposta per sapere che l’amico sarebbe venuto. Una birra prima di cena era uno di quei piaceri che Damian amava concedersi di tanto in tanto, specie all’Esquire, il suo pub preferito, che si trovava a una decina di minuti da casa.

Rinvigorito dal suo nuovo progetto, Peter iniziò a riordinare le sue cose, disponendo ordinatamente le tavole acquerellate una sull’altra come fossero pregiati pezzi d’antiquariato. Riempì il suo zaino con tutti i suoi materiali da lavoro e attese le cinque scarabocchiando su uno dei suoi molti taccuini alcune figure maschili che avrebbero potuto tornargli utili per qualche prossimo lavoro. 

Quando fu ora di andare passò dai suoi colleghi, li salutò e si avviò a passo spedito lungo le scale, diretto verso Tower Hill station. Ci mise poco a scegliere quale musica ascoltare durante il tragitto. Il sonno era scomparso e il suo buonumore era in parte tornato, nulla avrebbe potuto aiutarlo più dei Bastille. Iniziò con Snakes, a cui alzò il volume a sufficienza così da permettere alle note della canzone di riempire tutto il mondo intorno a sé.

Arrivato alla stazione metropolitana trovo Audrey intenta a suonare City of Stars come d’abitudine. Si fermò ad ascoltarla e appena la pianista ebbe finito, lei subito si voltò nella direzione in cui sapeva avrebbe trovato Peter. Lui, infatti, era proprio lì e le andò incontro salutandola.

Durante il tragitto parlarono di svariate cose, per lo più di tutti i giorni, finché il ragazzo non domandò a Audrey come andava la ricerca della casa. Lei gli rivelò che stava ancora pensando se cambiarla o meno – anche se era più propensa al sì – perché cominciava ormai ad abituarsi all’assenza di Oliver. Aveva ancora bisogno di tempo per mettere in ordine i pensieri. 

A Whitechapel si salutarono. Peter raggiunse la fermata della Overground facendo lavorare come un dannato il cervello. Doveva trovare le parole giuste per dire a Damian ciò che stava seriamente pensando di fare, ma aveva anche bisogno di motivare concretamente la sua idea. Damian faceva mille domande – molte più di lui – era fondamentale rispondere con sicurezza al bombardamento di quesiti a cui sarebbe stato sottoposto a breve.

Quando raggiunse l’Esquire aveva trovato motivazioni e risposte soddisfacenti anche alla più impensabile delle domande. Vide il coinquilino arrivare dal lato opposto della strada e i due si salutarono con un cenno.

«Hai avuto una gran idea. Ho proprio voglia di una IPA» sentenziò Damian appena varcarono la soglia del pub. 

«Ottimo a sapersi» mormorò fra sé Peter. Se l’amico era di buon umore forse gli sarebbe stato più semplice parlare con lui.

Presero posto in un piccolo tavolo alla destra del bancone, vicino alla scala che portava al piano superiore. Davanti alle rispettivi birre scambiarono qualche chiacchiera generica – parlò per lo più Damian – e dopo una mezzoretta di quei convenevoli decisero di rimanere a mangiare.

A metà della cena, Peter pensò che non avesse senso rimandare ancora la questione e si decise a parlare appena l’amico rimase in silenzio al termine di un’osservazione.

«Sai» esordì. «Stavo...stavo pensando di trasferirmi» disse, con il suo tono più disinvolto. Tuttavia si rese conto subito di aver provocato su Damian l’effetto di una bomba. Il ragazzo, infatti, sollevò lo sguardo di colpo e guardò Peter sconvolto. «Come sarebbe a dire?» esclamò.

L’illustratore cercò le parole migliori, consapevole di doversi muovere con piedi di velluto; qualsiasi cosa detta in modo sbagliato sarebbe potuta essere interpretata come un’offesa personale a Damian. Peter doveva solamente raccontargli la verità, nulla di più: quella era la soluzione corretta.

«Non fraintendere. Non è che non mi piaccia casa nostra, sul serio. È solo che comincia a essere un po’» allungò la o, in attesa di trovare la parola più indicata, «stretta» concluse, lasciandosi sfuggire una smorfia. Perché non diceva le cose come stavano e basta? A volte era davvero stupido.

«Stretta?» gli fece eco Damian, perplesso. «Peter, da quanto ci stai pensando? Non potremmo parlarne a modo, prima?»

«Sì, potremmo» bofonchiò l’altro, giocando distrattamente con le verdure del suo piatto. Alla fine prese un lungo respiro. «Il punto è che non posso più convivere con Iris» disse, tutto d’un fiato.

Se possibile l’espressione di Damian si fece ancora più perplessa. «Perché?»

«Iris ha una cotta per me. E la cosa mi crea non pochi disagi» ammise. Ora che era riuscito a far uscire la motivazione esatta gli risultò molto più semplice parlare della cosa. Tuttavia gli era passato l’appetito, al punto da lasciar ricadere la forchetta nella piatto; per sua fortuna gli era rimasto solo il contorno.

L’altro non disse nulla per svariati secondi. Non sentiva il termine “cotta” dai tempi del liceo, ma non era quella la cosa veramente importante in ciò che Peter gli aveva appena detto. Ripensò a Iris e sollevò le sopracciglia, posando temporaneamente l’hamburger. «Iris ha... Beh, e ti lamenti?» Era particolarmente sorpreso della cosa.

Peter spalancò gli occhi, incredulo. «Dai, Damian. Iris non è la ragazza giusta per me, lo sai anche tu. Anche se provassimo a frequentarci finiremmo con il litigare dopo due giorni e rendere la convivenza di tutti un inferno» esclamò. Credeva molto in quella sua teoria, anzi, ne era certo.

«Sì, ok» bofonchiò l’amico. «E allora quale sarebbe la ragazza giusta per te?» domandò, un sopracciglio inarcato. C’erano molte allusioni nella sua domanda e per lo più facevano riferimento al fatto che erano anni che Peter non aveva una ragazza. I suoi rapporti erano limitati a qualche sporadico appuntamento, da cui il più delle volte tornava con atteggiamento passivo e poca voglia di provarci di nuovo. A lui bastava disegnare. Se fogli e fogli erano pieni dei suoi lavori, allora lui era contento: una sorta di dipendenza, insomma.

A sentire la domanda di Damian, all’illustratore guizzò per un momento davanti agli occhi il volto di Audrey. Tuttavia lo scacciò subito, parlare anche di lei sarebbe stato mettere troppa carne al fuoco nell’arco di tempo di un solo pasto. Oltretutto non era ancora così certo dei sentimenti che provava per la pianista.

«A ogni modo» riprese a parlare, «Iris non va bene per me, questo è sicuro» sentenziò.

Damian alzò le mani in segno di resa, decidendo di non contraddire l’amico. 

«Va bene allora. Ma se cambi casa vengo con te.»

Il modo in cui aveva appena parlato era risoluto, uno di quei toni che indicava che la decisione era presa e nulla avrebbe potuto cambiarla. Peter rimase interdetto per un momento. «Cosa?» disse infine.

«Hai capito benissimo» rispose l’altro, scuotendo il capo in senso affermativo. Stava masticando il boccone di hamburger che aveva appena addentato, ma le sue parole risuonarono comunque chiare. Appena ebbe ingoiato il suo cibo, ci bevve dietro un sorso di birra e riprese a parlare: «Senti, Pete, noi due siamo amici da quando sapevamo a malapena camminare.» Peter fece per replicare, perché le cose non stavano esattamente così: si conoscevano fin da piccoli, sì, ma non da così piccoli. Tuttavia Damian non lo lasciò dire nulla. «Se tu vuoi lasciare la casa, io verrò con te. A meno che non ci sia qualche altro motivo che dovrei sapere.»

Alludeva a una donna, l’illustratore lo capì senza problemi. «Non c’è nessuna altra ragione al di fuori di quella che ti ho detto.»

«Allora facciamolo» esclamò Damian battendo una mano sul piano del tavolo. «Prendiamoci una casa solo noi due. O al massimo ci cerchiamo un terzo coinquilino» propose.

Peter guardò l’amico e si lasciò sfuggire un sorriso. Adorava Damian; lui avrebbe anche potuto combinare tutti i guai di questo mondo ma non sarebbe mai riuscito a far diminuire l’amicizia che li legava.

«Solo se ne sei veramente convinto» disse infine. «Mi ricordo bene di quanto avessi odiato aiutarmi a selezionare gli annunci prima che trovassimo la casa in cui stiamo ora.»

L’altro si esibì in una smorfia, stringendosi nelle spalle. «È chiaro che odierò doverlo fare anche questa volta. Ma, credimi, per me è peggio dover rimanere nella stessa casa con una ragazza respinta, la sua migliore amica e un nuovo coinquilino di cui sicuramente mi metterò a elencare i difetti» contò i tre fattori sulla punta delle dita e annaffiò l’affermazione con un nuovo sorso di birra, quasi fosse il coronamento della sua vittoria.

Peter si mise a ridere e alzò il bicchiere per brindare all’amico. Mentre stava bevendo, Damian ne approfittò per chiedergli: «Di’ un po’, ma sei proprio sicuro che Iris abbia un debole per te? Non è che cambiamo casa per questo e poi è tutto frutto della tua immaginazione.»

L’illustratore scosse la testa. «Ha cercato di baciarmi.»

«E quando?» domandò sorpreso Damian. 

Peter allora prese una lunga boccata d’aria e raccontò tutto. Disse a Damian di quella sera nella cucina di casa loro, del fatto di avervi trovato Iris ancora sveglia, delle poche parole che si erano scambiati. Infine arrivò al punto cruciale della questione, raccontando di come lei gli si era avvicinata con il chiaro intento di baciarlo e di come lui, con finta ingenuità, aveva deviato l’argomento dicendo alla ragazza di fare attenzione alla testa, messa in pericolo dallo sportello della credenza che avrebbe dovuto aprire per riporre al suo posto la tazza lavata.

Terminato il racconto, Damian rimase spiazzato per qualche secondo, dopodiché scoppiò a ridere. «Lo hai fatto veramente?» chiese retorico. «Un sacco di persone ti darebbero del deficiente per aver respinto Iris» sogghignò.

«Ah, non lo metto in dubbio» rispose Peter con un’alzata di spalle.

«Beh, per lo meno ora ho capito perché è da un po’ che non esci più da solo con lei.»

L’illustratore annuì a quell’affermazione, senza aggiungere altro. Cominciò a scandagliare mentalmente la città di Londra, in cerca di quartieri in cui poter cercare casa. Quello in cui vivevano ora non gli dispiaceva affatto, tuttavia non avrebbe avuto alcun senso trasferirsi per andare a vivere a cento metri dalla casa che si lasciava. Poteva anche essere la buona occasione per prendere una casa un po’ più vicina al centro città, così da evitare ogni giorno di dover prendere metropolitana e Overground. Magari poteva provare a cercare qualche annuncio nella zona di Canning Town , così avrebbe dovuto prendere solo la District line per tornare a casa, cosa che gli consentiva di trascorrere più tempo in compagnia di Audrey. Al pensiero della ragazza la sua mente si arrestò. Non aveva molto senso scegliere in che zona della città vivere, basando buona parte della ricerca sul fatto di non voler cambiare linea metropolitana solo per non smettere di vedere qualcuno: era ridicolo. A meno che quel qualcuno non rappresentasse qualcosa di importante. Peter l’aveva ormai capito di non provare una semplice simpatia per Audrey, ma mai così palesemente come in quel momento.

Tuttavia si ricordò che anche la pianista stava pensando di cambiare casa – dopotutto era stata proprio lei ha dargli l’ispirazione per tutto quello che aveva appena detto a Damian – quindi avrebbe potuto essere lei a cambiare fermata della metro.

Sospirò al pensiero del gran caos che stava montando in meno di un giorno. Magari gli conveniva parlarne a modo con Audrey, indagare in modo discreto alla ricerca di qualche possibile informazione utile.

«In che zona ti piacerebbe vivere?» chiese infine a Damian. Quest’ultimo si strinse nelle spalle. «Questa zona della città non mi dispiace. È tranquilla, siamo entrambi comodi con i trasporti e c’è anche il mio pub preferito» disse, alzando il bicchiere di birra e strappando un sorriso a Peter. «Però non avrebbe molto senso lasciare la casa per andare a vivere a cento metri di distanza. Magari potremmo approfittare dell’occasione per avvicinarci un po’ al centro di Londra.»

L’illustratore sollevò entrambe le sopracciglia nel sentire il suo pensiero espresso con tanta precisione. Decisamente non c’era da sorprendersi se Damian era il suo migliore amico, pareva quasi leggerlo nel pensiero. Si disse d’accordo con ogni singola parola e i due decisero di iniziare a dare un’occhiata agli annunci già a partire da domani.

Mentre la loro conversazione si spostava su tutt’altro argomento, Peter non poté fare a meno di domandarsi se stesse procedendo per la direzione giusta. Probabilmente stava agendo d’impulso, ma c’era una vocina dentro di lui che gli diceva che quella era la scelta migliore. Il giorno dopo, magari, avrebbe potuto parlarne con Audrey, anche per capire se – e quante – possibilità ci fossero che il loro abituale incontro quotidiano alla fermata di Tower Hill potesse finire.

 

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Capitolo 17
*** XVII ***


 

 

 

Era sorprendente come i clienti riuscissero a far perdere molto più tempo del necessario. Quel giorno, quando Peter si era incamminato come di consueto per andare alla fermata della metropolitana, era in ritardo sulla sua tabella di marcia. Dall’ufficio erano passati l’autore e l’editore del libro del ballerino di tip-tapIn Tempo, così si sarebbe intitolato – con alcune prove di stampa. Peter aveva finito con le tavole, ma si incontrava regolarmente con i due per discutere di ogni test e fare qualche miglioria ai lavori originali nel caso fosse necessario. Quella era la sua fase di lavoro preferita. Vedere le sue tavole stampate su quelle belle carte patinate, amalgamate alle parole e dare vita a una storia, riusciva ad emozionarlo ogni volta come fosse la prima. L’unico problema era che i due responsabili con cui si confrontava sempre non finivano mai di parlare. Nonostante avessero raggiunto Peter in anticipo sull’orario prestabilito per l’incontro, erano comunque riusciti ad andare via in ritardo di dieci minuti. Non di molto, ma comunque in ritardo e proprio quando lui aveva intenzione di incontrare Audrey e parlarle. Solo la sera prima aveva discusso con Damian sulla sua improvvisa idea di trasferirsi e gli era stato impossibile non pensare alla pianista e al fatto che anche lei, con tutta probabilità, stava progettando la stessa cosa. Voleva capire le sue intenzioni e scoprire se, magari, rimaneva comunque la possibilità di incontrarla ancora alla fermata della metro, almeno per non perdere quell’abitudine che aveva ormai fatto sua e che gli dava piacere.

Accelerò il passo, pensando che non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungere Audrey per sentirla suonare il piano. Alzò il volume della musica – Tiptoe degli Imagine Dragons – sperando che la cosa potesse caricarlo ulteriormente e superò diversi passanti. Proseguì oltre i tornelli d’accesso e scese di fretta lungo le scale mobili, dove si sfilò gli auricolari e si mise in ascolto, in cerca del suono del pianoforte fra il vociare costante delle persone. Percepì alcune note e, più si avvicinava, più queste diventavano chiare. Tuttavia non era City of Stars quella che stava risuonando dalla sala di Tower Hill station; Peter ormai la conosceva e quella che sentiva era senza dubbio un’altra canzone. Probabilmente Audrey aveva già finito di suonare e si era avviata al binario. Quando raggiunse la sala con il pianoforte, però, capì di essersi sbagliato. Era proprio Audrey la ragazza seduta al pianoforte intenta a suonare, così concentrata sui tasti dello strumento che, probabilmente, nessuno sarebbe riuscito a richiamare la sua attenzione. Intorno al piano, Peter notò un piccolo capannello di persone, alcune delle quali stavano filmando con il telefono cellulare. Rimase interdetto per parecchi secondi, almeno finché non riconobbe un passaggio nella canzone che Audrey stava suonando. Era l’epilogo di La La Land, la versione per pianoforte che lui le aveva regalato per il compleanno. Si spostò dalla ressa di persone che gli scorrevano tutt’intorno e si sistemò contro la parete, dove si fermava sempre per ascoltare Audrey suonare. Rimase sorpreso ancora una volta dalla sua abilità. Quella canzone era davvero articolata; passava da un tratto lento a uno molto più rapido con pochissimi istanti di scarto ed era degno di lode il modo in cui lei riusciva a stare dietro a tutti quei cambi di ritmo. Era talmente brava che Peter si ritrovò a chiedersi come mai quel gruppo di persone intorno a pianista e pianoforte non si fosse formato prima di quel momento. 

La canzone durò ancora per un paio di minuti – era piuttosto lunga, in effetti – e appena Audrey finì di suonare ci furono numerosi applausi, cosa che la colse impreparata. Peter la vide sorridere per la sorpresa, radunare i fogli pentagrammati che aveva usato come traccia e alzarsi in piedi, lanciando subito un’occhiata nella sua direzione, dove lei sapeva lo avrebbe trovato. Il ragazzo infatti sollevò una mano e la salutò, esibendosi poi in un silenzioso applauso a mano a mano che lei ai avvicinava.

«Il tuo seguito sta crescendo» le disse appena lei l’ebbe raggiunto. Audrey si voltò automaticamente indietro, ma il gruppetto di persone che si era fermato ad ascoltarla si era ormai disperso. 

«A quando il primo concerto alla London Philharmonic Orchestra?» 

«Sì, certo» replicò la ragazza con una risata. «Non ho presentato alcuna domanda e a quanto so il loro pianista scoppia di salute.»

Si avviarono insieme in direzione della banchina, con una calma che avevano fatta loro e che avrebbe potuto benissimo farli passare per turisti.

«Hai riconosciuto la canzone?» chiese di punto in bianco Audrey. Si riusciva a percepire una punta di eccitazione nella sua voce, che le donava particolarmente.

«Ebbene sì, l’ho riconosciuta eccome» Peter simulò un moto d’orgoglio, gonfiando anche il petto. «L’hai suonata alla perfezione» disse poi, tornando serio.

«In verità ho sbagliato in più punti. Alcuni passaggi sono davvero articolati e non mi riescono ancora benissimo. Devo lavorarci su, ma sono soddisfatta.»

Peter stava per replicare e dirle che, a parer suo, stava esagerando. Tuttavia anche lui era perfezionista nel suo lavoro, proprio come Audrey. Quando sentiva che un personaggio avrebbe dovuto avere determinate caratteristiche, continuava a lavorare finché quelle non venivano a galla. Come Audrey, che sapeva nella propria testa quale suono avrebbero dovuto avere tutte le note e di come doveva apparire una volta combinate insieme, anche lui passava tutto il tempo necessario a perfezionare i suoi lavori perché la sua immaginazione potesse essere perfettamente riprodotta su carta. Era un artista dopotutto ed era perfezionista come ogni altro artista; come Audrey.

La sua attenzione venne poi deviata dalla ragazza, intenta a riporre nella borsa i fogli con le partiture. Li piegò su se stessi e li mise via, ma Peter ebbe ugualmente il tempo di riconoscere i suoi disegni, anche se privi di colori e poco definiti.

«Ah, sono proprio le mie partiture» disse.

«Sì, però ho fatto delle fotocopie. Non vorrei mai rischiare di rovinare gli originali. Mi piacciono troppo.»

L’affermazione di Audrey scaldò il ragazzo, che le sorrise. «Forse allora è per quello che sbagli» riprese lui. «Se hai usato i lavori che ti ho fatto io, chissà quanti errori ci sono.»

La pianista rise. «Affatto. Le tue partiture vanno benissimo. È solo che non sono ancora riuscita a perfezionarmi. Ci ho passato sopra ore ma ancora non basta» osservò calma. Sapeva di avere ragione. Si era impegnata per imparare quella canzone, ma aveva ancora bisogno di molto esercizio.

Quando si fermarono sulla banchina, spostati rispetto alla maggior parte dei presenti, notarono che la District line era appena passata, ma la cosa lasciò entrambi del tutto indifferenti.

«A ogni modo mi fa molto piacere vedere che l’hai imparata» riprese poi Peter, alludendo ancora alla canzone.

«Non vedevo l’ora di impararla» replicò prontamente lei, esaltata. «Solo che con lo spettacolo e il matrimonio non ho proprio potuto farlo prima.»

L’illustratore annuì per far capire che aveva inteso, ma a sentire parlare di matrimonio gli si accese una scintilla. Voleva parlare con Audrey della questione del trasferimento, se ne stava dimenticando e, dato che lei aveva tirato in ballo la faccenda del matrimonio poteva comodamente allacciarsi a quella. Sapeva anche cosa dire.

«A proposito, come sta Oliver?» chiese.

«Ah, benone. Non fa altro che mandarmi foto» rispose lei, arricciando le labbra con fare infastidito. Peter sorrise davanti alla sua espressione.

«Hai poi pensato a cosa fare?» La incalzò con calma, scoprendosi più curioso di quanto si fosse aspettato. Capì di essere veramente interessato su quanto avrebbe fatto Audrey, specie se la diretta conseguenza della sua prossima scelta avrebbe comportato il fatto di non vederla più ogni giorno.

La pianista parve riflettere. «Sto guardando qualche annuncio. Pensavo di vedere qualche casa prima e decidere di conseguenza. Se trovo qualcosa di mio gradimento vado, altrimenti mi cercherò un coinquilino nuovo. Anche se la cosa mi spaventa» ammise infine.

«Ah sì?» domandò sorpreso Peter. Audrey era una ragazza aperta – dopo le prime occasioni – e gli parve curioso sentirla dire una cosa del genere. 

«Beh, sì. Insomma, io e Oliver ci conoscevamo alla perfezione e abbiamo sempre saputo che spazio lasciare all’altro. L’idea di andare a vivere con uno sconosciuto mi agita un po’. Pensa se non mi permettesse di esercitarmi. O se lasciasse la casa in disordine, o se non togliesse mai i capelli dalla doccia.» Rabbrividì a quel pensiero. «Credo darei di matto.»

«Hai pensato di mettere tu in affitto la stanza? Se il coinquilino non ti piace puoi sempre mandarlo via» le fece presente il ragazzo. Per quanto potesse apparire crudele era forse l’opzione migliore visto quello che pensava Audrey. Oltretutto, così facendo, Peter avrebbe sempre saputo su quale linea metropolitana poter trovare la ragazza. Aveva appena formulato quel pensiero che la District line uscì dalla galleria, fermandosi sferragliando davanti a loro. I due salirono mentre Audrey riprese a parlare: «Sì, ci ho pensato. Ma non so quanto mi piaccia quell’idea. Ho sempre vissuto lì con Oliver e mi fa uno strano effetto pensare di portarci qualcuno che non conosco.» Sbuffò una generosa dose d’aria, aggrappandosi al palo accanto a Peter. «Roba da cretini, vero?»

La sua era una domanda retorica, ma il ragazzo si sentì in dovere di risponderle: «Non mi permetto di giudicare» disse con un sorriso. «Dopotutto ognuno prova emozioni diverse. Il tuo legame con Oliver era speciale, quindi-» si interruppe. «Hai provato a parlarne con lui?» volle sapere, appena quel pensiero gli balenò in testa.

Audrey scosse il capo, facendo cenno di no. «Quando torna, magari. Per ora sto solo cercando annunci. Il mio piano è: prima vedo qualche casa, conosco qualche possibile nuovo coinquilino e se nessun mi convince o, peggio, mi terrorizzano tutti, affitto casa io.» Spiegò il suo progetto gesticolando con le aggraziate mani da pianista, quasi fosse una strategia militare.

«Direi che può funzionare» rispose Peter dopo aver fatto schioccare la lingua.  «E in che zona pensi di cercare?» Lo chiese con una punta di incertezza, quasi fosse preoccupato di sentirla dire che le sarebbe piaciuto andare a vivere dall’altra parte della città. Audrey si strinse nelle spalle. «Più o meno la stessa. Mi sono ambientata là e mi trovo bene. Conosco gli orari dei negozi, so dove trovare quello che cerco, tutto perfetto direi. In fondo devo solo trovare qualcuno con cui condividere la casa, la zona in cui sono ora mi piace» rispose con calma.

Peter non lasciò intuire che la notizia lo aveva rallegrato. Se a Audrey non importava di cambiare punto della città – e a lui nemmeno – c’era la possibilità che quello che avevano costruito insieme non cambiasse. Era una buona prospettiva.

Stava per dirle che anche lui era in procinto di cercare una casa nuova quando la voce elettronica della metro annunciò la fermata di Whitechapel, la sua fermata sulla District line. Trovò non avesse senso introdurre l’argomento per poi lasciarlo cadere a quel modo e preferì non dire nulla. Pensò però che potesse essere un’ottima scusa per invitare fuori la pianista. Prima che le porte si aprissero pensò di chiederglielo. «Senti ma, che ne dici di andare a bere qualcosa domani sera?»

Audrey non ebbe nemmeno bisogno di ripensare alla domanda. La prospettiva di avere qualcosa da fare almeno per una sera non le dispiaceva affatto. «Sì, volentieri» rispose.

Peter le sorrise. Scese dalla metro prima che fosse troppo tardi e sulla banchina si girò verso la pianista mentre le porte si chiudevano, separandoli. «Ti scrivo» le disse lui, anche se la ragazza non poteva sentirlo. Simulò il gesto di inviare un messaggio e la salutò con la mano. Audrey lo intuì senza alcuna difficoltà, acconsentì con un cenno e lo salutò. 

Peter si incamminò verso l’Overground con una sensazione piacevole a inondargli il petto. Aveva scoperto delle cose interessanti riguardo Audrey e la possibilità che cambiasse casa. Inoltre c’era il fatto che lei aveva accettato il suo invito a uscire. Avrebbe voluto scriverle subito, ma non era esattamente l’idea migliore. Mentre aspettava il treno sulla banchina, il ragazzo si ritrovò a pensare che forse era ora di dire a Audrey come stavano le cose. Lui non aveva ancora capito alla perfezione cosa provava per lei, ma era chiaro che andasse oltre la simpatia. Forse avrebbe potuto chiederle di iniziare a frequentarsi, andare a Camden Town il sabato mattina, a qualche concerto insieme, cose del genere, un po’ più impegnative di bere una birra o un caffè insieme.

Mentre lo sferragliate del mezzo sulle rotaie lo intontiva un po’, Peter si chiese se Audrey fosse impegnata o meno. Si rese conto di non saperlo. Una volta credeva fosse Oliver il suo ragazzo, ma lei lo aveva fatto ricredere praticamente subito della cosa. Tuttavia dopo non aveva avuto altro modo per scoprire se nella vita di Audrey ci fosse o meno qualcuno. Pensò di no, dopotutto aveva accettato il suo invito a bere qualcosa subito, ma poi si disse che forse – anzi, certamente – lei poteva essere una di quelle ragazze che crede nell’amicizia fra uomo e donna e quindi che non si faceva alcun problema a uscire con un ragazzo solo per bere qualcosa. Capì di essere punto e a capo e pensò che l’unica soluzione fosse chiederlo a lei direttamente, magari con le debite forme. 

Entrò in casa, salutando i coinquilini appena si chiuse la porta alle spalle. Di rimando sentì solo la voce di Damian, proveniente dalla cucina. Lo raggiunse subito e trovò l’amico seduto al tavolo con una serie di fogli sparpagliati sul tavolo e il tablet acceso. Il suo volto si illuminò alla vista di Peter. «Guarda qua. Ho trovato un sacco di annunci interessanti» esclamò.

L’illustratore si sentì sbiancare appena capì cosa stava facendo l’amico. «Che ti salta in mente?» lo ammonì. «Sai bene che non dobbiamo far sapere che stiamo cercando casa.» 

Si guardò intorno, quasi aspettandosi di vedere le coinquiline comparire da un momento all’altro. Non voleva che Veronica e Iris – specialmente Iris – scoprissero prima del tempo che lui e Damian avrebbero lasciato la casa. 

«Rilassati. Non sono in casa. Non hai nulla di cui preoccuparti.»

«Sì, beh, preferirei comunque che facessimo questo genere di cose in camera tua» proseguì Peter. Non si era ancora tolto la giacca, né lo zaino. Non si sarebbe sentito tranquillo finché non avesse visto tutti quegli annunci sparire dalla cucina. Lui e Damian portarono tutto nella stanza di quest’ultimo, luogo che Peter preferì di gran lunga alla sua perché lì Iris non aveva l’abitudine di entrare senza prima aver bussato. Una volta essersi accertato che tutto il materiale compromettente era al sicuro, l’illustratore andò a cambiarsi e a prendere qualcosa con cui placare i primi morsi della fama, dopodiché tornò da Damian.

«Allora, guarda qua» esordì l’amico, sollevando una lista di case e indirizzi stillata di suo pugno. Peter la scorse da cima a fondo. C’erano in tutto una decina di offerte, tutte nelle zone di Plaistow e West Ham.

«Ho fatto una freccetta vicino a quelle che mi sembravano le migliori» proseguì l’amico. 

Peter allora si concentrò su quelle a cui lui si stava riferendo. Erano tutte a un prezzo ragionevole, una di loro, però, costava mensilmente molto meno delle altre. «Come mai quella in Florence Rd. costa così poco? È una bettola?» domandò perplesso l’illustratore.

«Oh no, niente del genere. L’annuncio è abbastanza recente, solo che la proprietaria affitta a tre persone. La casa è molto bella, ti faccio vedere.»

Senza aspettare alcuna risposta, Damian prese il tablet e risalì su internet alla casa in questione, mostrandola a Peter. Era una piccola casa su due piani; la zona era tranquilla e i vicini “socievoli e tranquilli” – così recitava l’annuncio – ed era libera da subito, indicata per tre persone. Le stanze erano spaziose e molto luminose e vi erano tre camere da letto singole. Il bagno non era particolarmente grande, ma tutto il resto sì. Per il costo mensile che aveva a Peter parve una reggia.

«È davvero a buon prezzo» osservò, guardando le foto una seconda volta.

«Vero? Potremmo organizzare un incontro con la proprietaria. Andare a vedere la casa e chiedere informazioni, non costa niente dopotutto.»

«Sì sono d’accordo» rispose Peter, sovrappensiero. Stavano parlando di una casa per tre persone. Tre luminose stanze singole nella zona di Plaistow. Un’idea gli balenò improvvisamente in testa e si ritrovò a pensare a Audrey. Anche lei stava cercando casa e più o meno nella stessa zona. Magari avrebbe potuto renderla partecipe della cosa, chiederle se aveva voglia di andare insieme a lui e Damian a vedere la casa e, perché no, chiederle se era interessata a essere il terzo inquilino nel caso le fosse piaciuta. Aveva appena finito di formulare quel pensiero che subito si sentì stupido. Stava esagerando. Forse tutta quella storia gli stava sfuggendo di mano. Audrey ancora non sapeva se davvero voleva cambiare o meno casa e lui già stava pensando di chiederle di andare a vivere insieme: era un po’ troppo. Inoltre chi gli diceva che lei sarebbe stata d’accordo? Erano amici, vero, ma forse non così tanto da ritrovarsi catapultati a vivere sotto lo stesso tetto. 

Peter costrinse il suo cervello a fermarsi, a smettere di vorticare così velocemente intorno a una questione del genere. C’era solo il rischio di peggiorare tutto, di andare a rovinare un rapporto così piacevole come quello che era riuscito a instaurare con la pianista.

«Allora? Va bene?» 

La voce di Damian lo risvegliò dai suoi pensieri. Peter sollevò lo sguardo sull’amico, intento a fissarlo, in attesa.

«Ehm, cosa? Stavo leggendo qui, scusami» inventò prontamente lui, indicando il tablet.

Damian non si scompose. «Dicevo che se vuoi posso provare a sentire la signora per un appuntamento e andare a vedere la casa. È per tre inquilini, ma avere un terzo aiuta decisamente a far scendere le spese. Poi la casa è grande a sufficienza per tutti.»

L’illustratore sorrise divertito. «Hai preso proprio a cuore questa faccenda» gli fece notare.

Anche Damian sorrise, con fare vittorioso. «Beh, alla fine ho scoperto che non mi dispiacerebbe cambiare un po’. E magari spostarmi in un posto meno trafficato di questo» disse, alludendo alla loro attuale casa. «Inoltre non posso certo lasciarti da solo. Chissà in che casini andresti a cacciarti» concluse, sornione. 

Peter scoppiò a ridere alle parole dell’amico. Appena ebbe finito, però, sentì al piano inferiore la porta d’ingresso chiudersi. Iris o Veronica – o entrambe – dovevano essere rincasate. L’illustratore si alzò, deciso a rientrare nella sua stanza. Diede un colpetto agli annunci dell’amico e abbassò la voce: «Fai sparire questi e prova a sentire da quella signora.»

«Sì capitano» replicò l’altro con un sorriso, simulando un saluto militare. Riordinò in fretta tutte le carte e le fece sparire in uno dei cassetti della sua scrivania. Peter gli lanciò un’occhiata d’intesa e si avviò fuori dalla camera, diretto verso la sua stanza. Mentre scendeva le scale sentì le voci di entrambe le coinquiline e si affacciò alla cucina per salutarle con fare disinvolto, dopodiché andò in camera sua e si chiuse la porta alle spalle. Dallo zaino estrasse matite, blocco da disegno e acquerelli, deciso a disegnare qualcosa. Stava ancora pensando a tutta la faccenda della casa, del trasferimento, addirittura della sua temporanea idea di chiedere a Audrey se fosse stata interessata a essere la terza inquilina. Si disse che non aveva senso farsi tutte quelle domande senza basamenti certi, specie riguardo la pianista. Aveva un appuntamento con lei la sera seguente, ne avrebbe approfittato per chiederle qualche informazione in più.

Come sempre fu la prima linea tracciata sul foglio a fargli smettere di arrovellarsi il cervello. Appena la grafite posò la sua punta smussata sulla carta, un fiume in piena di immagini inondò la mente di Peter. Smise quasi di pensare e si concentrò solo sul disegno.

 

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Capitolo 18
*** XVIII ***


 

 

 

Audrey e Peter si erano incontrati a metà strada. Il Thistles era colmo di persone, un chiacchiericcio continuo anche a meno di un’ora dalla chiusura. I due ragazzi erano seduti in un piccolo tavolo addossato alla parete, sotto una delle finestre. Avevano entrambi davanti una birra – IPA per Peter, Lager per Audrey – e un cestello di patatine fritte appena uscite dalla cucina. Erano lì da più di un’ora. In quel lasso di tempo aveva parlato del più e del meno, passando dal cinema ai risultati dell’ultimo week-end di rugby. Riguardo all’argomento “casa”, però, Peter non era ancora riuscito a trovare alcun pretesto per poterne parlare. Pensava fosse ugualmente piacevole il tempo che stava trascorrendo in compagnia della pianista, a conversare di qualsiasi cosa passasse loro per la mente. Tuttavia, quando diede uno sguardo all’orario e vide di avere sempre meno tempo a disposizione, decise che era ora di prendere la situazione in mano. Appena Audrey si interruppe, ponendo fine al discorso che i due avevano iniziato poco prima, Peter capì che quella era l’occasione giusta e, forse, l’unica che gli si sarebbe presentata. 

«Sai che stavo pensando anche io di trasferirmi?» esordì, con tono tranquillo, quasi disinteressato. 

Audrey si bloccò, lasciando sospesa a mezz’aria la patatina che aveva pescato dal cestino. Guardò il ragazzo con gli occhi spalancati, il loro azzurro reso molto più scuro dalla luce elettrica. «Sul serio?» domandò. Riprese a mangiare dopo la sorpresa iniziale.

Peter si strinse nelle spalle, assumendo l’espressione di chi aveva ponderato a lungo sulla propria decisione. «Sì. Ne stavamo discutendo già da un po’» mentì. Pensò fosse una soluzione accettabile optare per la “mezza verità”; una parte di sé era fortemente imbarazzata all’idea di far sapere alla pianista che la sua improvvisa fissazione di trasferirsi fosse nata dopo che lei gli aveva raccontato le sue intenzioni. Prima o poi, però, avrebbe dovuto fare qualcosa a riguardo.

La ragazza annuì, lasciando intendere che aveva capito la situazione. «Vi sistemate?» domandò Audrey, fra una patatina e l’altra.

«Chi?» chiese in risposta Peter. Corrucciò la fronte quando iniziò a sospettare la piega che stava prendendo la conversazione. Aveva appena capito a chi si stava rivolgendo la pianista che lei confermò il suo sospetto: «Non so, tu e Iris. Credevo steste insieme» disse, ma dal modo in cui aveva pronunciato la frase lasciò intuire che non ne era più molto sicura.

Peter fu particolarmente bravo a mantenere l’autocontrollo, al punto da complimentarsi con se stesso. Finì di bere un goccio della sua IPA e si lasciò addirittura sfuggire un sorriso disinvolto. «No, no. Non sei la prima che me lo chiede, ma non stiamo insieme.»

Fece particolare attenzione alla reazione di Audrey, in cerca di qualche segno, qualche lieve movimento del corpo in grado di indicare qualcosa – un interesse, sollievo – da parte della ragazza, ma lei non si scompose. Aveva solo sollevato le sopracciglia, assimilando le sue parole. 

«Pensa un po’» si limitò a dire lei. «Ho frainteso tutto allora, scusami.»

Mentre Peter le diceva che non aveva motivi per scusarsi si ritrovò a tirare mentalmente un sospiro di sollievo. Aveva sospettato il fatto che la pianista credesse che fra lui e Iris ci fosse qualcosa, si sentì sollevato da un peso per averle fatto scoprire che non era così.

«Cambiamo casa io e Damian. Volevamo cercare qualcosa solo per noi, al massimo con un terzo inquilino.»

Audrey trattenne una risata, ma capì dallo sguardo di Peter che lui l’aveva ugualmente notata. «Scusa» disse, sorridendo a un pensiero tutto suo. «È che da come l’hai detto adesso sembra che la coppia siate tu e Damian.»

L’illustratore ripensò alle sue parole, infine si finse sconvolto. «Cielo. Ora capisco quelle strane allusioni che fanno ogni tanto» scherzò.

Audrey scoppiò a ridere comprendendo la battuta e Peter ebbe tutto il tempo per assaporare quella sua risata così leggera, che gli piaceva particolarmente. 

«E dove state cercando?» chiese poi lei, appena smise di ridere, tornando seria a concentrarsi sulla conversazione.

«Stiamo guardando in vari punti. A Damian però piace la zona in cui siamo, pensavamo di avvicinarci giusto un po’ alla città. Ha trovato alcuni annunci interessanti in zona Plaistow

«Anche io» esclamò la ragazza, quasi illuminandosi a sentir pronunciare quella zona di Londra. «Ho già telefonato per chiedere la disponibilità a vedere una casa. Vado sabato, nel primo pomeriggio.» Rifletté un momento, scavando nella memoria per ricordare l’indirizzo. «Solo non ricordo più la via. La proprietaria è molto gentile, disponibilissima. In verità la casa è per tre inquilini, ma è davvero a buon prezzo, quindi ho pensato di provare ugualmente a sentire. Magari sono fortunata e trovo delle inquiline simpatiche» concluse, con un’alzata di spalle. 

Peter prestò particolare attenzione a quanto gli aveva detto Audrey. La zona di Londra e la descrizione della casa sembravano quasi coincidere con quella che Damian aveva individuato e  per cui gli aveva detto di fissare un appuntamento. Tuttavia le possibilità che parlassero della stessa casa erano davvero remote. A Londra c’erano centinaia di case in affitto e molte anche nella zona di Plaistow. Oltretutto Audrey aveva parlato di coinquiline con una tale naturalezza che, probabilmente, lei era l’ultima persona che sarebbe entrata, a differenza della casa che stava guardando con Damian. Accantonò subito la questione, ma si scoprì ugualmente felice nel constatare che, anche se avesse cambiato casa – o l’avesse fatto Audrey, o entrambi – sarebbero comunque stati vicini a sufficienza per non rinunciare ai loro rientri in metropolitana o alle loro uscite occasionali.

In quel momento, per motivi che si spiegò a malapena, Peter raggiunse la conclusione che Audrey doveva essere single. Non aveva mai alluso ad alcun ragazzo; non solo per la questione della casa, ma anche altre volte. Non aveva fatto un nome per un partner delle partite di rugby, non uno con cui andare a vedere l’ultimo uscito di Star Wars, o anche solo per rimanere al caldo fra le mura di casa. Da un lato era quasi sorpreso della cosa, dall’altro si disse di non convincersi troppo di quella sua supposizione. Audrey aveva qualità sufficienti per piacere a chiunque – chiunque cercasse una ragazza colta, almeno – ed era davvero graziosa; per tale ragione lui trovava curioso non avesse ancora trovato nessuno. Curioso e quasi sospetto, perché poteva essere che il motivo principale fosse una scelta della pianista che, come molte donne prima di lei, aveva dato la precedenza alla carriera.

«Pensa se finiamo con l’essere vicini di casa.»

La battuta di Audrey risvegliò Peter dai suoi pensieri, che scacciò in fretta così da potersi concentrare solo su di lei. Le sorrise, lasciando intendere che quella battuta, se fosse diventata realtà un giorno, non gli sarebbe affatto dispiaciuta. Anzi, tutto il contrario.

 

*

 

Il sabato, intorno alle due e trenta del pomeriggio, Peter e Damian stavano facendo il loro primo giro di perlustrazione in quella che sarebbe potuta diventare la loro nuova casa, in Florence Rd.

Damian aveva preso particolarmente a cuore la questione del trasferimento, per motivi che a Peter sfuggivano. L’illustratore pensò che, con molta probabilità, l’amico si fosse stancato di condividere la casa con due donne. Non era semplice convivere con Iris e Veronica, in effetti. Forse era davvero ora che lasciassero quella casa. 

Quella che stavano guardando in quel momento, poi, parve perfetta a entrambi. Aveva tre camere singole, perciò ognuno avrebbe avuto la sua stanza ed era in una zona tranquilla, non molto lontano dalla District line. Vista la posizione rispetto alla linea metropolitana sia Damian sia Peter avrebbero impiegato decisamente meno tempo per andare nei rispettivi luoghi di lavoro. Era solo la prima casa che guardavano ma già entrambi erano convinti fosse quella giusta. Sulla scelta, molto sarebbe dipeso dal terzo inquilino e, proprio per tale ragione, era abbastanza complicato trarre subito delle conclusioni. 

I due amici tornarono nel soggiorno con angolo cottura, dove la padrona di casa li stava aspettando.

«Come vi sembra?» domandò lei appena rivide comparire i due giovani.

«È splendida, dico davvero» rispose un Damian raggiante, lanciando un’altra occhiata in giro. 

La donna sorrise al suono di quelle parole. «Se non siete di fretta, a breve dovrebbe arrivare anche una ragazza che mi ha chiesto di vedere la casa» li informò poi.

«Una ragazza?» domandò Peter. Il suono di quella parola lo aveva fatto scattare d’improvviso. 

«Sì, dovrebbe arrivare a momenti per vedere una delle stanze» rispose la donna. Non fu in grado di percepire la forte sorpresa nella voce di Peter, il cui cervello, inoltre, aveva preso a fare congetture con una rapidità invidiabile. 

«Lei ha preferenze sul tipo di affittuari?» chiese Damian alla proprietaria. C’era tanta innocente curiosità nella voce del ragazzo, al punto che la sua domanda così scomoda – per quanto legittima – perse completamente ogni possibile inclinazione negativa.

«No, affatto. Tutti uomini, tutte donne, misti. Per me è indifferente. L’importante è che la casa venga trattata con rispetto» rispose calma la donna. 

Damian replicò a sua volta, dicendo che la signora aveva perfettamente ragione e aggiungendo qualche altra affermazione con un tono così gioviale da renderlo in grado di essere l’inquilino perfetto perfino di Buckingham Palace. Peter, invece, rimase fuori da quel pacato scambio di pareri, la mente che si arrovellava sugli ultimi avvenimenti. 

«E questa ragazza che sta arrivando, invece?» sentì d’improvviso domandare a Damian.

«Oh è molto gentile. È una ragazza giovane che ha da poco deciso di cambiare casa e ha trovato questa. Mi ha detto che non ha problemi per quanto riguarda i coinquilini, purché siano persone affidabili.» Forse c’era un lieve monito dietro quell’ultima parola. «Mi ha anche detto che è una musicista e spera che la cosa non crei problemi.»

Quell’ultima frase fu in grado di scatenare le fantasie di Peter come null’altro sarebbe riuscito a fare. La ragazza che stava arrivando aveva deciso di cambiare casa da poco, molto gentile e, cosa più importante di tutte, era una musicista. Al tempo stesso Audrey aveva appuntamento per visitare una casa per tre persone quello stesso giorno, più o meno allo stesso orario e in quella zona di Londra. Le cose collimavano a tal punto che pensare a una coincidenza sarebbe potuto essere un grossolano errore. Peter si sentì scalpitare all’idea di scoprire se la ragazza in questione fosse Audrey o meno, ma fece del suo meglio per apparire impassibile. Sarebbe stato davvero il colmo se la pianista fosse diventata la terza inquilina di quella casa. 

Si sforzò di inserirsi nella conversazione fra Damian e la padrona di casa, ma alla prima osservazione che fece, il campanello di casa trillò.

«Dev’essere lei» disse la donna, avviandosi ad aprire la porta. Avrebbe voluto farlo Peter, sarebbe stato divertente andare ad aprire a Audrey e poi farsi trovare inaspettatamente lì. Ormai non aveva dubbi sul fatto che sarebbe stata la pianista a varcare la soglia di casa dietro alla donna. Quando quest’ultima ricomparve, stava parlando con la nuova arrivata, che sbucò dalla porta subito dopo.

E non era Audrey.

Era una ragazza dai capelli scuri e liscissimi, vestita in modo casual; il giacchino di pelle era aperto su una felpa rossa, dagli strappi dei jeans a sigaretta si poteva percepire il chiarore della sua carnagione. 

Decisamente non era Audrey. Peter sentì la delusione montare ed era piuttosto certo che chiunque avrebbe potuto intuire dalla sua espressione che la vista della nuova venuta non era stata esattamente di suo gradimento.

«Lei è Evangeline.» 

La padrona di casa fece le presentazioni del caso e i tre possibili inquilini si scambiarono una stretta di mano. Peter trovò la stretta della ragazza molto forte; doveva essere una persona sicura di sé.

Nonostante la delusione iniziale per il fatto di essersi convinto inutilmente della cosa sbagliata, l’illustratore ebbe un’ottima prima impressione di Evangeline. Dopo che lei ebbe avuto modo di visionare la casa stanza per stanza, i tre si erano messi a conversare, parlando principalmente della loro occupazione e del motivo per cui stavano cercando una nuova sistemazione. Evangeline si dimostrò una ragazza molto alla mano e spigliata, due caratteristiche che a Peter erano sempre piaciute molto. Aveva ventiquattro anni e attualmente lavorava come barista in un pub vicino a Notting Hill dove riempiva eventuali buchi lasciati dai gruppi suonando la chitarra e cantando – per questo aveva detto di essere una musicista. 

Quando, circa un’ora dopo, Damian e Peter andarono verso casa ne stavano ancora parlando. 

«Che ne pensi?» chiese Damian. «La casa la trovo quasi perfetta. E anche Evangeline potrebbe essere una buona coinquilina. Mi sembra affidabile.»

«Sì, lo sembra anche a me. Però forse dovremmo guardare altre case prima di decidere» gli fece notare Peter. Quella gli era piaciuta, vero, ma non aveva senso puntarla subito quando vi era ancora la possibilità di visionarne altre. Anche Damian lo sapeva, ma lui era fatto così: quando qualcosa gli piaceva molto, si focalizzava quasi esclusivamente su quella. 

«Sì, ovvio. Mi trovi d’accordo, lo sai» lo rassicurò Damian. «Chiamerò per qualche altro annuncio e poi decideremo. Sai una cosa?» domandò poi, retorico. «Questa cosa di cercare una casa mi sta piacendo parecchio, avremmo dovuto farlo prima.»

Si poteva percepire perfettamente l’eccitazione per qualcosa di nuovo nella voce dell’amico, ma Peter non ci fece molto caso. Era tornato con la mente al momento esatto in cui si era convinto avrebbe visto Audrey sbucare dietro la padrona di casa per diventare la loro possibile, nuova, coinquilina. Quel momento era diventato per lui un segnale, forse uno dei più evidenti dell’ultimo periodo. Il ragazzo si lasciò sfuggire un sospiro fra sé, finendo col mordersi il labbro inferiore. Capì che era ora di smetterla di rimandare e decise di fare qualcosa. Cosa, ancora, non lo sapeva affatto, ma in quel momento trovò sufficiente determinazione dentro di sé in grado di dirgli che qualcosa di efficace sarebbe stato in grado si farlo.

 

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Capitolo 19
*** XIX ***


 

 

 

Audrey stava spostando il peso da una gamba all’altra con fare nervoso. Teneva l’ombrello con entrambe le mani, mentre l’acqua continuava a scendere dal cielo grigiastro. Di tanto in tanto le persone che le passavano accanto sul marciapiede toccavano il suo ombrello con i loro, lasciando cadere gocce un po’ ovunque. Era ferma a pochi metri dall’ingresso della stazione di Tower Hill, in attesa di Peter. Tuttavia non era da sola. Insieme a lei, infatti, c’era Clint. 

All’uscita dal Menier Chocolate Factory, la pianista non era riuscita a trovare una scusa efficace per impedire al ragazzo di accompagnarla fino alla stazione della metro. Il suo era stato un bel gesto, dopotutto, al punto che le era parso maleducato declinarlo senza una reale ragione. Fatto sta che, a breve, Peter sarebbe arrivato e lei sarebbe andata insieme a lui a prendere un caffè li vicino, come aveva proposto il ragazzo il giorno prima.

La pianista si rese conto che stava totalmente ignorando Clint. Lo guardava, certo, ma, come accadeva spesso, la sua mente era focalizzata su altro, al punto da non riuscire a seguire il filo del discorso del violoncellista in modo corretto. Stava parlando di musica, su questo Audrey non aveva dubbi; Clint parlava spesso di musica.

La pianista fece vagare un momento lo sguardo, giusto in tempo per riuscire a notare Peter che si avvicinava fra le persone. Riuscì a individuare la sua ormai familiare figura alle spalle di una coppia di passanti, gli ombrelli dei due tenuti bassi per ripararsi dall’acqua. 

Anche l’illustratore notò Audrey – il suo ombrello giallo spiccava sempre in mezzo a tutti gli altri – ma quando si accorse che non era sola, qualcosa in lui scattò. Si ritrovò ad analizzare Clint prima ancora di averlo raggiunto. Era un ragazzo ben vestito, dall’aspetto colto, uno di quelli che gesticolava durante la conversazione. Qualunque cosa stesse dicendo, Peter pensò fosse ricercata, per lo meno vista la sua espressione. 

Una morsa invisibile serrò per un momento lo stomaco del ragazzo, lo fece appena il suo cervello si ritrovò a sospettare che potesse trattarsi del ragazzo di Audrey – o di quello con cui usciva a attualmente. A ogni modo cercò di non dare nell’occhio e proseguì in direzione della pianista, raggiungendola con gli ultimi, brevi, passi.

Appena fu da lei, Audrey lo salutò, ricevendo di rimando gli stessi convenevoli dall’illustratore. A quello, tuttavia, seguì un breve istante di silenzio; un istante solo, ma in grado di smascherare un imbarazzo generale.

«Ti presento Clint» disse infine Audrey, rompendo quel clima. «Suona anche lui nell’orchestra del Menier Chocolate Factory.»

I due ragazzi si scambiarono una stretta mentre la pianista proseguiva dicendo: «Lui è Peter» senza aggiungere altro.

«Anche tu musicista, cosa suoni?» domandò poi Peter. Non era realmente interessato a saperlo, solo non voleva dare una cattiva impressione di sé, non davanti a Audrey, almeno.

«Il violoncello.»

«Clint è molto bravo. Uno dei migliori che conosca» si sentì in dovere di dire per lui la pianista. Peter annuì con il capo a quelle parole, le quali lasciarono intendere al ragazzo che forse c’era davvero qualcosa di più di una loro semplice collaborazione nella stessa orchestra. 

«Tu invece, che lavoro fai?» chiese di rimando Clint.

«Sono un illustratore. Lavoro per uno studio e per qualche privato quando mi trovano.»

«Sembra bello.»

Audrey rimase in disparte durante quel veloce scambio di frasi fatte. I primi dialoghi avevano sempre del penoso in quanto forzatura. Appena Peter spostò un momento lo sguardo sulla ragazza, lei colse l’occasione al volo. «Andiamo a bere qualcosa?» chiese, indirizzando chiaramente a lui la domanda. 

«Certo» rispose con un sorriso, poi si rivolse a Clint. «Ti unisci a noi?»

Era abbastanza sicuro di aver fatto una buona azione. Non voleva che, escludendo Clint, Audrey si fosse risentita. L’idea di avere il violoncellista intorno proprio in quel momento non lo faceva impazzire. Aveva chiesto a Audrey di andare a prendere qualcosa per chiedere alla pianista se le andava di provare a frequentarsi, frequentarsi seriamente, così da cercare di capire se per la loro attuale amicizia ci fosse qualche possibilità di vederla evolvere a un livello più alto e articolato. Tuttavia la presenza di Clint aveva cambiato ogni cosa. Non aveva senso chiedere a Audrey di provare a costruire qualcosa se lei era già impegnata. Oppure se Clint era arrivato prima. Magari un caffè con entrambi avrebbe potuto aiutarlo a chiarire un po’ la situazione.

Non notò l’occhiata che la pianista gli lanciò. Non avrebbe neanche dovuto sospettarla, dopotutto. Ciò, però, non tolse che Audrey lo fulminò con lo sguardo, maledicendo l’espansività del ragazzo. Tuttavia riuscì a ricomporsi giusto un istante prima che gli sguardi dei due ragazzi convergessero su di lei. Si esibì in uno dei suoi sorrisi migliori e si disse d’accordo con l’idea di Peter. In verità non aveva alcuna voglia di prendere un caffè anche con Clint, già il fatto che lui si fosse offerto per accompagnarla immotivatamente fino alla fermata della metro non le era andato molto a genio. Prenderci anche un caffè le parve troppo. Solo non sapeva cosa dire per uscire degnamente da quella situazione e decise di lasciare perdere – ma solo per quella volta. 

Con Clint al seguito, Peter e Audrey raggiunsero lo Starbucks caffè in cui erano andati a bere qualcosa per la prima volta. Fu un sollievo per tutti e tre togliersi dalla strada e poter chiudere gli ombrelli, sebbene la pioggia stesse calando. 

Ordinarono le rispettive bevande e si sistemarono a un tavolo accanto alle vetrate. La conversazione ci mise un po’ più del consueto a iniziare. Tutti e tre erano piuttosto in imbarazzo per la situazione, ma alla fine Peter riuscì a rompere il ghiaccio nel modo in cui gli riusciva meglio: con una battuta. Da lì le parole cominciarono a uscire, rincorrendosi in frasi e dando il via a un vero e proprio dialogo.

Clint parlò molto nonostante fosse la prima volta che incontrava l’illustratore, cosa che Audrey già si aspettava, dal momento che conosceva il violoncellista. Non che si persero in chiacchiere molto articolate, ma di tanto in tanto Clint ci teneva a dare sfoggio delle sue conoscenze con qualche osservazione o precisazione eccessivamente puntuale. Peter, però, anziché apparire infastidito dalla cosa ne sembrava più entusiasta, dando corda all’altro. Ogni volta che quella scenetta si ripeteva, Audrey lanciava uno sguardo torvo a Peter, cercando quasi di fargli capire che avrebbe fatto meglio a smetterla. Tuttavia il ragazzo non lo capì mai; quando incrociava lo sguardo della pianista lo interpretava nel modo peggiore, pensando addirittura di star facendo la cosa giusta. Fu proprio la sua errata interpretazione di quello sguardo a fargli intendere che Clint potesse davvero rappresentare qualcosa in più per Audrey.

«Come procede con la casa?» domandò di punto in bianco la ragazza, rivolgendosi a Peter. Così facendo pensò che sarebbe riuscita a far tacere Clint per un po’ – a meno che lui non avesse voluto esporre il suo parere anche su quella faccenda. Peter e Audrey si erano tenuti aggiornati circa le rispettive ricerche di una casa nuova. Nelle ultime due settimane, la pianista aveva visionato diverse case e ne aveva trovata una che soddisfaceva pienamente le sue richieste. La zona era circa la stessa in cui viveva ora, la casa era di poco più grande rispetto alla sua e l’inquilina che già ci abitava era molto disponibile e alla mano. Tuttavia Audrey non era ancora del tutto sicuro, al punto che stava lasciando scorrere tempo e giorni preziosi e ancora non aveva deciso se trasferirsi o meno. Peter, al contrario, aveva fermato la casa di Florence Rd. insieme a Damian. Quasi fosse stato studiato in precedenza, la terza persona con cui avrebbero convissuto era Evangeline, la ragazza che avevano conosciuto il giorno in cui avevano visitato la casa la prima volta.

Peter le aveva rivelato di essere piuttosto esaltato all’idea di trasferirsi, ma aveva anche ammesso che dirlo a Iris era stata la parte peggiore. In uno slancio di altruismo, Damian aveva acconsentito a prendersi le responsabilità di tutto, dicendo a Iris e Veronica che il voler cambiare casa era stata una sua decisione e che aveva insistito con Peter al punto di prenderlo per sfinimento. L’illustratore era rimasto perplesso davanti a quella situazione, ma non aveva accennato a dire nulla in grado di smentire la fittizia versione dell’amico. Tuttavia, dal momento che loro due avevano preso quella decisione senza neanche consultarsi con le coinquiline, avevano finito con il prendere un accordo: le avrebbero aiutate a trovare delle nuove inquiline. Per loro fortuna erano bastati pochi giorni per iniziare ad avere i primi riscontri positivi – più o meno gli stessi che loro due avevano impiegato per decidere in che casa vivere.

Inutile dire, però, che le cose si erano complicate dopo che Damian aveva dato l’annuncio. Iris era diventata intrattabile; aveva preso la questione particolarmente male – e sul personale – al punto di arrivare a trattare con freddezza i due futuri ex coinquilini. Per Peter fu strano per il primo paio di giorni, poi si si era arreso all’idea che se Iris non si fosse dichiarata in tempi brevi, non avrebbe mai avuto motivo di respingerla; a meno che non si fosse immaginato tutto, ma lui era piuttosto sicuro di aver intuito bene come andavano le cose fra loro due.

Tutta questa serie di vicende scorse rapida nella testa dell’illustratore, il quale concluse stringendosi appena nelle spalle. «Procede bene, grazie» rispose. «Abbiamo firmato le carte, ieri. Penso che alla fine della prossima settimana saremo pronti per trasferirci.»

«Perfetto allora. Sta per arrivare il grande giorno. Dopo possiamo trovarci direttamente sulla District line» disse ridendo Audrey.

Peter replicò con un sorriso a sua volta, ben consapevole che la ragazza avesse ragione. In un certo senso il cambio di casa li aveva avvicinati. Il ragazzo, infatti, non avrebbe più dovuto prendere la linea verde solo per trascorrere un po’ più di tempo con Audrey, ma avrebbe dovuto prenderla proprio per rincasare la sera. Era contento che, nonostante tutto, le cose non sarebbero cambiate. In quei tre mesi, dopo aver conosciuto Audrey, ciò che la riguardava era diventato come una sorta di abituale routine. Arrivato a Tower Hill station non proseguiva più direttamente verso i binari senza fermarsi ad ascoltare la pianista suonare e non era più di fretta. Metteva in pausa la musica dal momento in cui sentiva la prima nota del pianoforte in lontananza e premeva nuovamente play solo dopo che il loro ultimo saluto, a Withechapel, era stato assimilato totalmente dalla sua testa. Aveva finito con l’imparare a memoria prima City of Stars e poi l’epilogo di La La Land, quelle partiture che lui aveva regalato a Audrey e che, adesso, lei suonava tutti i giorni, diventando ogni volta più brava della precedente. Peter era certo di non essere l’unico ad averlo notato: intorno a Audrey e al pianoforte di Tower Hill, c’erano sempre più persone e molte di esse facevano dei video per immortalarla suonare. Non che fosse sorpreso della cosa, anzi, era tutto il contrario. 

Dato che la ragazza aveva tirato in ballo la questione del trasferimento, Peter pensò di chiederle se avesse preso una decisione per quanto riguardava la sua situazione, ovvero se trasferirsi o cercare un coinquilino nel suo appartamento di Chadd Green, ma fu preceduto dalla suoneria del telefono di Audrey.

La ragazza estrasse il cellulare dalla borsa e osservò lo schermo, corrugando la fronte. La chiamata proveniva da Glasgow e lei non conosceva nessuna persona che vivesse nella città scozzese – né in alcuna lì vicina. La probabilità maggiore era che si trattasse di qualcuno che aveva sbagliato numero.

«Scusate solo un momento» disse rivolta agli altri due presenti, decidendo di rispondere. «Sì, pronto?» domandò appena si fu portata lo smartphone all’orecchio.

Dall’altra parte la risposta arrivò subito, con voce chiara e sicura: «Parlo con la signorina Audrey Wright?»

La pianista rimase interdetta per un momento al punto da chiedersi chi potesse volutamente contattarla dalla Scozia, terra in cui non conosceva nessuno. Rispose affermativamente alla domanda che le era stata rivolta, ma c’era dell’incertezza nella sua voce, nota che Peter riuscì a individuare subito. Il ragazzo rimase a guardare Audrey farsi sempre più perplessa mentre rispondeva con alcuni “sì” alle domande che di certo stavano giungendo dall’altra parte. 

«Sta scherzando?» chiese a un certo punto lei, ma se ne pentì subito. Dall’altra parte, per sua fortuna, giunse una risata e la risposta che non si trattava affatto di uno scherzo.

L’uomo che le aveva telefonato continuò a spiegarle come stava la situazione con modi gentili e pacati, perfetti per il timbro della sua voce. A ogni parola in più che pronunciava, la linea orizzontale che solcava la fronte di Audrey si accentuava.

«Se lei è d’accordo potremmo risentirci domani nel primo pomeriggio per accordarci. Intorno alle due, direi.»

«Assolutamente. Va benissimo» rispose lei. Si era ritrovata il cuore catapultato in gola per l’emozione e si sentiva quasi all’interno di un sogno.

Dopo i convenevoli per i saluti finali l’uomo chiuse la chiamata e Audrey rimase a osservare il numero di telefono sullo schermo dello smartphone finché questo non si spense. Un sorriso le affiorò alle labbra mentre ancora faticava ad assimilare quello che era accaduto.

«È tutto a posto?» le chiese Peter. La telefonata era stata piuttosto gioviale, ma lo stato in cui si trovava la pianista lo confondeva alquanto.

Anche Clint si mise in attesa di una reazione di Audrey. Lei alzò lo sguardo sui due ragazzi, li osservò entrambi quasi si fosse dimenticata della loro presenza, infine disse, con lo stesso tono di chi non sa ancora bene come comportarsi: «Era della BBC Scottish Symphony Orchestra. Mi hanno vista suonare l’epilogo di La La Land alla fermata di Tower Hill. Il loro pianista va in pensione e vorrebbero farmi un provino per sostituirlo» alle ultime parole non fu più in gradi di trattenere il suo entusiasmo.

I due ragazzi rimasero zitti per un momento, il tempo necessario per assimilare quanto lei aveva appena detto. Clint reagì per primo: «Oh mio Dio, Audrey, ma è fantastico» esclamò. «Un provino per la BBC, i miei complimenti. Sapevo che era solo questione di tempo prima che qualcuno di quegli ambienti si accorgesse di te» continuò lui.

La pianista sorrise al suono di quelle parole; sembrava in lieve imbarazzo, ma era raggiante. E bellissima, osservò Peter. Quest’ultimo cercava nella sua testa le parole giuste per complimentarsi con la ragazza, senza ricalcare quelle appena pronunciate da Clint, ma per l’improvvisa sorpresa della notizia ci mise più tempo del previsto.

«La La Land ti ha portato fortuna» disse poi.

La ragazza posò lo sguardo su di lui, gli occhi azzurri brillavano. «È merito delle partiture che mi hai regalato tu» gli disse, stringendosi nelle spalle.

Peter fece lo stesso. «Ma no. Prima o poi sarebbe successo, te lo meriti tutto. È stato solo un caso che ti abbiano sentita suonare proprio l’Epilogo

Audrey non riuscì a replicare subito alle parole del ragazzo, né al modo con cui erano state pronunciate, con quella sincerità unica che contraddistingueva Peter.

«Conviene anche al Menier iniziare a cercare una pianista nuova» disse poi Clint, spostando l’attenzione degli altri due presenti su di lui.

«Ora non esagerare» rispose Audrey.

«No, no, sono d’accordo anche io» sentenziò l’illustratore, facendo cenno affermativo con il capo. Osservò la pianista arrossire lievemente sulle gote, non molto abituata a ricevere tante attenzioni tutte insieme. Si sentiva felice per lei, ma un parte di sé non poté fare a meno di sentirsi turbata. Cosa sarebbe accaduto fra loro se l’orchestra della BBC avesse assunto Audrey come pianista? Per lei era un grande traguardo, uno di quelli irrinunciabili e lui non avrebbe mai potuto darle torto se le mai avesse deciso di trasferirsi a Glasgow per quel lavoro. Era la stessa situazione che avrebbe vissuto lui: se i GAE Studios lo avessero assunto come illustratore non avrebbe esitato un solo istante ad accettare e a lasciarsi indietro gran parte di sé nella metropoli londinese. Si contano sulle dita di una mano le cose in grado di far rinunciare ai propri sogni e non per tutti sono le stesse.

Anche il cervello di Audrey continuava a ragionare, facendosi domande su domande. Quella, forse, poteva essere la sua grande occasione. Dopo il trasferimento di Oliver quello poteva essere un segno, una svolta. Se l’avessero presa a suonare in quell’orchestra la sua vita sarebbe cambiata, senza alcun dubbio e forse era davvero arrivato il momento di cambiare un po’ rotta. Amava il Menier Chocolate Factory e le piaceva suonare per quel teatro. Tuttavia quello che per lei era davvero importante era suonare, nient’altro; per tale ragione, se avesse avuto la possibilità di fare ciò che più le piaceva, ma in un contesto ancora più stimolante e unico come quello dell’orchestra scozzese, forse le conveniva cogliere l’occasione al volo. I suoi pensieri vennero interrotti da Clint, che le disse alcune cose, continuando la conversazione sulla telefonata appena ricevuta dalla pianista. 

Tuttavia Peter non stava ascoltando. Dentro di lui si era appena fatta largo una fastidiosa battaglia interiore. Una parte di sé era felice per Audrey, ma un’altra parte di sé preoccupata. Era certo che la pianista non avrebbe avuto alcun problema a essere presa nell’orchestra di Glasgow, chiunque con un po’ di orecchio per la musica avrebbe notato le sue incredibili capacità. Proprio per questo, però, si disse che avrebbe fatto meglio a sbrigarsi. Far sì che Audrey lasciasse Londra prima che lui avesse avuto modo di dirle quello che sentiva avrebbe potuto essere uno sbaglio.

 

 

 

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Capitolo 20
*** XX ***


 

 

 

Quando giunse il momento di trasferirsi sul serio, Peter dovette ammettere a se stesso di non avere idea del numero esatto di camicie di cui disponeva. Dal momento che quello era il capo principe del suo abbigliamento era inevitabile che ce ne fossero di tutti i colori, a maniche lunghe e corte, ma ne trovò alcune, sul fondo dell’armadio, di cui ne aveva completamente perso memoria. Mentre le stipava in una valigia di poco più grande di un bagaglio a mano, si arrese all’idea che avrebbe dovuto fare almeno un paio di giri solo per i vestiti. Quando riuscì a chiudere il trolley con il primo carico di abiti, sollevò lo sguardo su quella che per anni era stata la sua camera da letto. Senza i suoi bozzetti sparsi ovunque, senza i post-it appesi in ogni angolo con i suoi appunti incomprensibili, quella stanza gli sembrava un’altra. Si sentiva un po’ giù all’idea di andarsene da lì dopo tutto quel tempo, ma la prospettiva della casa nuova continuava a essere più allettante. Avrebbe reso anche la sua nuova stanza – che aveva già deciso di dipingere di verde – lo specchio di se stesso e l’avrebbe presto chiamata casa. Al posto suo e di Damian erano in arrivo altre due ragazze, amiche di Veronica e conoscenti di Iris, che stavano giusto cercando dove vivere per muoversi dalla contea dell’Oxfordshire e raggiungere la capitale. Considerando che le due future ex coinquiline di Peter sapevano già chi chiamare per rimpiazzare lui e l’amico, al ragazzo era venuto spontanea chiedersi per quale motivo Iris avesse sollevato tutto quel polverone quando Damian le aveva riferito del loro trasferimento. Tuttavia aveva finito per capire praticamente subito il vero motivo o, meglio, per sospettarlo fortemente. 

Smise di pensare a tutto ciò e andò a riempire uno dei suoi zaini più capienti con tutto il suo materiale da disegno. Quella di trasferirsi era stata una scelta affrettata, dettata dall’istinto e dall’impulso, tuttavia era sempre più sicuro di aver preso la decisione giusta. 

Stava riponendo con cura uno della sua moltitudine di album di schizzi quando sentì qualcuno raggiungere la soglia di camera sua. Si voltò giusto in tempo per vedere Iris incrociare le braccia al petto e appoggiarsi con il fianco allo stipite della porta. La ragazza si mise a studiare Peter, guardandolo quasi con sufficienza. Negli ultimi giorni i rapporti fra loro si erano un po’ ricuciti, ma continuava a esserci una certa freddezza da parte della ragazza.

Si scambiarono un’occhiata.

«Ehi» esordì Peter, rompendo il silenzio. 

«Come stanno andando i preparativi?» domandò lei in risposta.

Il ragazzo si guardò intorno, nella stanza svuotata per metà. «Direi bene. Credo dovrò fare almeno tre giri, ma dovrei farcela a svuotare tutto entro pochi giorni. Damian ha pensato bene di noleggiare un furgoncino.»

Iris non disse nulla, cosa che mise Peter a disagio. Davanti a quel silenzio il ragazzo pensò bene di rimettersi a riordinare le proprie cose, così da evitare almeno per un po’ di continuare quell’imbarazzante situazione di stallo. Era chino sul suo zaino, intento a mettere il più ordinatamente possibile tutti gli astucci che vi aveva infilato sul fondo, quando Iris parlò di nuovo.

«Tu lo sai quello che provo» disse, con un tono di voce impossibile da decifrare. 

Peter tornò a guardarla. «Sì, lo so. Ti abbiamo deluso e mi dispiace. Ma non siamo più riusciti a ignorare questa idea» rispose, abbozzando un sorriso.

«Non mi riferivo a questo» replicò lei, asciutta. 

Non aggiunse altro, ma l’illustratore non aveva bisogno che lei andasse avanti per sapere a cosa si stava riferendo. Sapeva che intendeva quello anche prima, solo che aveva voluto credere di sbagliarsi; ma non si era sbagliato. La conversazione che stava per iniziare fra lui e la ragazza lo preoccupava. Dopotutto aveva cercato costantemente di evitsrla, persino il trasferimento poteva apparire più una fuga che altro. Ora che si trovava lì, però, con Iris davanti e la questione tirata in ballo proprio dalla diretta interessata, avrebbe fatto meglio ad affrontare la faccenda. Non aveva nulla da perdere, in fondo. Lasciò vagare per alcuni momenti lo sguardo per la stanza, infine prese una generosa boccata d’aria. «Che cosa dovrei dirti? Mi...dispiace che fra di noi le cose siano finite in questo modo, dico sul serio.» Inspirò ancora. «Ma, forse non sarebbe potuta andare altrimenti.»

«Io lo sapevo di non piacerti» disse Iris, abbassando lo sguardo e stringendo ancora di più le braccia al petto. «È solo che una parte di me ci sperava, tutto qui» concluse con un’alzata di spalle. 

«Beh, non c’è niente di male, dopotutto.» Peter avrebbe voluto aggiungere altro, ma proprio non fu in grado di trovare le parole. Gli dispiaceva davvero che le cose fra lui e Iris fossero andate a quel modo. Non era semplice avere a che fare con lei, ma nonostante tutto le voleva bene. Lui aveva sempre creduto nell’amicizia fra uomo e donna, forse per questo gli risultava tanto semplice legare con le persone e stringere nuove relazione, a volte davvero durature.

Non seppe che altro dire e finì con il rimanere in silenzio, le braccia abbandonate lungo i fianchi.

«Toglimi solo una curiosità» riprese a parlare Iris. «Se anche la tua nuova coinquilina dovesse finire per provare qualcosa per te, scapperesti anche da lei?»

Lo sguardo della ragazza era tagliente, esattamente come il tono della sua voce. Peter, infatti, si sentì quasi trafitto da una coltellata in pieno stomaco. Venne invaso dal senso di colpa, ma non gli riuscì di provare neanche il più leggero moto di collera verso la ragazza. Si morse il labbro, pensando fra sé che lei avesse ragione. Tuttavia decise di non rispondere a quella provocazione; era un campo minato e dal momento che aveva già capito che fra lui e Iris le cose non erano più le stesse, trovava non avesse senso peggiorarle ulteriormente.

«Considerando che Evangeline è lesbica, dubito possa succedere» disse con semplicità.

Iris non parlò, ma si irrigidì appena. Peter capì dalla sua espressione di aver superato un confine invisibile e cercò di rimediare nel modo più sincero che conoscesse. «Comunque sia, mi dispiace per com’è andata, dico davvero. Mi piacerebbe, però, se riuscissimo a rimanere amici» le disse. Pensava davvero tutto ciò, non era una scusa.

A Iris, però, non parve importare. «Non sono rimasta amica di molte persone.»

Detto ciò si sollevò dallo stipite della porta, cui era ancora appoggiata, diede le spalle a Peter e si allontanò.

 

*

 

Il vestito celeste era piegato perfettamente quando Audrey lo infilò in valigia, sotto lo sguardo attento di April e Sadie, sedute rispettivamente sul letto a gambe incrociate e sulla sedia della scrivania. Quel vestito era quanto di più simile a un portafortuna per la pianista, come se lo spesso cotone e la lieve trama a fiori racchiudessero tutta la buona sorte che le potesse tornare utile.

Stava preparando il bagaglio a mano con cui sarebbe partita alla volta di Glasgow il giorno successivo, pronta per il provino alla Scottish Symphony Orchestra. Dopo la prima telefonata si era risentita con il responsabile il giorno successivo e avevano stabilito un colloquio per la settimana dopo, di mercoledì. Quella settimana; quel mercoledì. Audrey aveva prenotato una camera d’albergo non molto distante dalla stazione dei treni per due notti, decisa ad approfittare di quella situazione anche per vedere la città. Era allettante l’idea di visitare Glasgow; la metropoli scozzese l’aveva sempre affascinata, ma non l’aveva ancora mai raggiunta. 

Era lunedì, sarebbe partita in treno il mattino del giorno dopo, emozionata all’idea di quello a cui sarebbe andata incontro, ma anche alquanto preoccupata. Il provino di mercoledì avrebbe potuto influire definitivamente sulla sua vita e, sebbene ancora non sapesse cosa avrebbe voluto fare della sua carriera, non voleva sprecare l’opportunità che le si era presentata. Era decisa a fare del suo meglio.

April e Sadie si erano presentate di loro spontanea iniziativa in casa dell’amica quella sera e avevano cominciato a tempestarla di domande circa il suo stato d’animo in vista del grande giorno; subito dopo, poi, l’avevano aiutata a scegliere cosa indossare per il provino, sebbene Audrey non ne avesse bisogno.

«Hai già pensato a cosa suonerai?» le chiese April, mettendosi ancora più comoda sul letto e spostando i capelli rossi sulla spalla destra.

«Dubito avrò la possibilità di scegliere» rispose la pianista, sistemando in valigia qualche vestito di emergenza.

«E perché no?»

«Beh, è un’orchestra importante. Credo che la selezione sarà severa, probabilmente vorranno vedere se sono in grado di suonare qualcosa che non ho avuto modo di preparare prima.»

«Cioè ti danno uno spartito a caso dicendoti “suona”?» intervenne Sadie, il tono incredulo.

«È molto probabile» rispose tranquilla Audrey. Si era preparata a ogni eventualità, anche alla possibilità più assurda – come chiederle di smontare il pianoforte – giusto per non lasciare trapelare alcuna emozione possibilmente dannosa davanti a una richiesta complessa.

«Cavolo» borbottò Sadie. «È giusto il genere di cose che serve per stare tranquilli.»

Quella frase strappò una risata a Audrey. La ragazza provò a chiudere la valigia, notando con soddisfazione che il contenuto era commisurato allo spazio disponibile, dopodiché si sedette anche lei sul letto, accanto a April. 

«Cosa farai se dovesse andare a buon fine?» chiese quest’ultima, guardando la pianista.

«Perché siete tutti così ottimisti?»

«Sei tu a essere pessimista» la bacchettò Sadie.

Audrey le sorrise, ma non rispose subito. Aveva pensato a quell’eventualità solo un paio di volte e per di più neanche in modo tanto approfondito, quasi avesse paura di portarsi sfortuna da sola. Si era resa conto in breve tempo di quanto tenesse a quella possibilità, di quando, nel profondo, una parte di sé sognasse di farcela, di trasferire il proprio futuro nella città scozzese. Tuttavia la prospettiva di lasciare Londra le metteva addosso una sensazione spiacevole, triste. Era presto per fare congetture, lo sapeva, tuttavia non riusciva a non immaginare cosa sarebbe potuto accedere se tutto fosse andato per il verso giusto. Se l’avessero presa nell’orchestra scozzese e lei avesse colto l’occasione al volo avrebbe dovuto andarsene da Londra e una parte di sé non voleva, era evidente. In quella città aveva stretto i legami più forti, le amicizie indissolubili; amava la metropoli, con tutti i suoi locali, i colori, gli angoli sconosciuti ai molti. Anche se avrebbe imparato ad apprezzare Glasgow, l’idea di andarsene la faceva stare male. Scacciò tutti quei pensieri, dicendosi che non aveva senso farsi tanti problemi senza neanche sapere se la BBC Scottish Symphony Orchestra la voleva con sé, non le faceva bene. 

La cosa di cui era più soddisfatta, a ogni modo, era di non aver trovato una alternativa abitativa a casa sua. Le case che aveva visto non l’avevano convinta e l’idea di mettere in affitto la stanza di Olivier era sempre stata l’ultima ipotesi considerata. Così facendo era ancora punto e a capo, come il primo giorno successivo al matrimonio. Adesso aveva un motivo in più per non muoversi in quella direzione. Prima avrebbe visto come sarebbero andate le cose a Glasgow, poi avrebbe scelto di conseguenza.

«Prova a pensare se dovessero prenderti» disse April. «Avrei una scusa perfetta per venire a Glasgow a cadenze regolari» proseguì ridacchiando.

«Per me sei già proiettata troppo avanti.»

«Io la lascerei dire. Magari ti porta fortuna» intervenne Sadie. 

Le tre si scambiarono un sorriso, dopodiché, in seguito a un breve attimo di silenzio, Sadie chiese: «Che mi dici, Audrey, questa può essere la tua occasione?»

La pianista la guardò, pensando. April si era zittita di colpo e osservava l’amica, seduta accanto a lei sul letto.

«Onestamente devo ancora capirlo» ammise, tornando a rimuginare su quanto le riempiva la testa da giorni. «Penso che prima farò questa audizione dando il mio massimo, poi si vedrà. Sono sicura che, indipendentemente dal risultato, il verdetto mi aiuterà ad aprire gli occhi.»

Quella risposta servì anche a se stessa; sentiva di avere ragione. Dopotutto, vedere quell’occasione sfumare o, al contrario, diventare realtà, le avrebbe senza ombra di dubbio consentito di trovare le risposte ai suoi dubbi. Era sempre così, in fondo, le eccezioni erano poche.

Sadie parve soddisfatta di quella risposta, ma si leggeva – così come in April – un velo di dispiacere all’idea di vedere l’amica trasferirsi in Scozia. Nonostante ciò, entrambe le amiche furono molto brave a non darlo troppo a vedere. 

«Beh» disse d’un tratto Sadie, «basta parlare di te. Questa ve la devo raccontare.»

Audrey sorrise a quelle parole. Le sue amiche erano particolarmente brave a farla sentire bene e Sadie, soprattutto, era in grado di leggere quanto non detto da Audrey, almeno ai livelli di Oliver. 

La pianista fu contenta di avere un motivo per cambiare argomento. Il mattino seguente sarebbe partita alla volta di Glasgow e già sapeva che avrebbe trascorso tutte le quattro ore del viaggio a pensare e ripensare a quello che sarebbe potuto accadere. Almeno la sera prima della partenza, almeno con le sue amiche, voleva scollegare la mente.

 

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Capitolo 21
*** XXI ***


 

 

 

L’ansia aveva avvinghiato Audrey dal primo istante in cui aveva messo piede nel teatro dove si tenevano le audizioni della BBC Scottish Symphony Orchestra e non l’aveva più abbandonata per la mezz’ora successiva. 

In quello splendido teatro, poco fuori il centro di Glasgow, si erano presentate solo altre quattro persone oltre a lei, tutte con la speranza di diventare il nuovo pianista dell’orchestra.

Audrey aveva indagato con discrezione ed era arrivata a scoprire che tutti quelli che si trovavano lì erano stati precedentemente contattati dai responsabili dell’orchestra stessa. Si trattava di una selezione, dunque, una selezione a tutti gli effetti che lei aveva superato grazie a un video comparso su YouTube in cui suonava l’epilogo di La La Land alla fermata di Tower Hill. Trovava che la cosa avesse dell’assurdo, al punto da farla sentire ancora più sotto pressione. Non voleva fare brutta figura, né sminuire le proprie capacità di pianista e tutto ciò non la faceva stare calma.

Prese un lungo respiro, imponendo al suo cuore di rallentare i battiti. Nel lungo corridoio che portava alle quinte del palcoscenico era ormai rimasta sola, l’ultima dei quattro. Era spesso l’ultima, quasi sempre dato il suo cognome – Wright. Tuttavia quel giorno avrebbe preferito togliersi quel pensiero in fretta e farla finita. Invece era ancora lì, seduta sulla sedia, le sue cose posate in grembo. Le sembravano passate ore da quando l’uomo prima di lei era entrato nella sala e la cosa non fece che accrescere la sua agitazione. 

Sfiorò con l’indice gli angoli dei fogli di carta che uscivano dalla carpetta che si era portata, il suo unico avere in quel momento insieme alla borsetta e alla giacca. Erano gli sparititi di Epilogo, che aveva con sé poiché credeva – ma soprattutto sperava – che le venisse chiesto di suonarla. Avrebbe voluto che i suoi amici più importanti fossero lì; Oliver, April, Sadie, anche Peter, li avrebbe voluti tutti lì accanto per l’ultimo incoraggiamento prima di varcare la soglia. Non era semplice affrontare quella situazione da sola.

D’improvviso la porta si aprì. Non fece alcun rumore, venne aperta piano, ma Audrey era talmente tesa che anche quel debole suono la fece sussultare. Sollevò gli occhi in direzione della porta, trovandosi davanti la signora che aveva invitato i pianisti a entrare fino a quel momento. Stava guardando fissa Audrey e lei non ebbe più alcun dubbio su cosa stava per avvenire. Si alzò prima ancora che venisse pronunciato il suo nome.

«Venga pure signorina Wright. Lei è la prossima.»

La ragazza si alzò e raggiunse la donna, la quale le sorrise in modo affabile, quasi a dirle di non preoccuparsi. Audrey, però, si preoccupava eccome; da quel colloquio avrebbe potuto dipendere il suo futuro, il possibile trasferimento a Glasgow, il dover lasciare indietro tutti gli amici, il posto al Menier Chocolate Factory, tutto dipendeva da quella manciata di minuti in cui avrebbe mostrato le proprie capacità. Mentre saliva gli scalini per arrivare sul palcoscenico si chiese se davvero era quello che voleva. Tuttavia, appena vide il pianoforte a coda al centro del palco, illuminato dai fari che si riflettevano sulla sua laccatura nera e lucente, pensò che quel provino rappresentasse una svolta e che una simile occasione era da cogliere subito. Suonare per la BBC Scottish Symphony Orchestra avrebbe portato lustro alla sua carriera di pianista, aprendole strade che non avrebbe potuto immaginare e consentendole una notevole sicurezza legata al proprio nome. 

Si avvicinò al pianoforte, quasi questo la stesse richiamando a sé. Era uno strumento di eccellente qualità e raffinata bellezza, uno di quelli che lei aveva desiderato suonare da sempre. Riuscì a resistere alla tentazione di allungare una mano a sfiorarlo e venne riportata alla realtà dalla voce di un uomo in platea.

«Benvenuta.»

Audrey si voltò in direzione della voce. Seduti nella terza fila di poltrone vi erano tre persone, cui si aggiunse la donna che era venuta a chiamarla. La pianista non sapeva chi fossero, eccetto uno. L’uomo al centro, sulla sessantina, era Dominic McAllister, il direttore dell’orchestra e rinomato compositore.

La ragazza si lisciò istintivamente il vestito e salutò di rimando, proseguendo poi con i brevi convenevoli. Al termine del breve botta e risposta, McAllister riprese a parlare: «Sono davvero felice di avere la possibilità di sentirla suonare dal vivo. Ho molto apprezzato la sua esibizione a Tower Hill station.»

«La ringrazio» rispose semplicemente lei, senza sapere che altro aggiungere. Strinse con forza maggiore la carpetta contenente le partiture, sentendosi sotto pressione come mai. 

«Le spiego brevemente cosa dovrà fare. Per prima cosa le chiediamo di suonare la canzone di Tower Hill, chiamiamola così. Poi le abbiamo preparato altre partiture. Ne scelga una e ce la suoni» disse.

Era stato piuttosto chiaro; Audrey avrebbe dovuto suonare due canzoni: l’Epilogo di La La Land e una canzone a scelta fra quelle che le avevano proposto. Inutile dire che proprio la seconda di quelle canzoni era quella che la preoccupava di più. 

«D’accordo, ho capito» rispose, calma.

«Prima che inizi, un’ultima cosa. La sua audizione verrà registrata, se la cosa rappresentasse un problema per lei ce lo dica e provvederemo a spegnere tutto» aggiunse McAllister.

Solo in quel momento Audrey si accorse della telecamera sul treppiedi posta al centro del corridoio in platea. La lucina rossa che lampeggiava a intermittenza indicava che la registrazione era in atto, ma la pianista si rese conto che non le importava. Si sentiva dentro una bolla, come se tutto quello che le stava accadendo fosse irreale e in procinto di finire da un momento all’altro.

«No, nessun problema» rispose infine.

McAllister sorrise, dopodiché indicò il pianoforte con un cenno della mano, invitando Audrey a prendere posto. Lei eseguì, respirando profondamente. Estrasse le partiture di Epilogo e le dispose sul leggio; lanciò un’ultima occhiata agli acquerelli di Peter, monocromatici per via della fotocopia e inspirò ancora una volta. Fece scorrere le dita sui tasti del pianoforte, sentendosi smuovere completamente. L’ansia scivolò via al suono della prima nota e la musica ebbe sulla pianista lo stesso effetto che aveva ogni volta. Tutto si fece lontano, distaccato e sui tasti di quel maestoso pianoforte a coda, la ragazza trovò la sua abituale sicurezza.

Un minuto dietro l’altro suonò tutta la versione per pianoforte dell’epilogo che Peter le aveva regalato. Quando si fermò, al termine della canzone, si sorprese del fatto che il suo primo pensiero – prima ancora di ricordare dove si trovasse, per cosa e con chi – fu proprio Peter. Il viso del ragazzo, il suo sorriso, si delineò con impeccabile precisione davanti agli occhi della pianista. Solo l’applauso che arrivò subito dopo la fece tornare a tutti gli effetti alla realtà. Si voltò in direzione della platea, vedendo per primo Dominic McAllister. L’uomo era radioso e batteva energicamente le mani.

«Molto bene» sentenziò. «E ora il prossimo brano.»

Audrey scorse rapida le partiture delle altre canzoni che erano state selezionate. Erano complicate, non vi era dubbio, ma per sua fortuna la ragazza scorse fra le varie partiture un brano che conosceva bene. Lo aveva studiato al conservatorio e aveva trascorso tanto tempo a esercitarsi che se lo ricordava ancora. Aveva alcuni passaggi complessi, ma nulla di impossibile. 

«Quando ha scelto inizi pure» la invitò il direttore d’orchestra.

Lei acconsentì con una risposta monosillabica, dispose i fogli in ordine sul leggio e cominciò a suonare. Quella melodia le richiese una maggior concentrazione dal momento che la conosceva meno, al punto che nulla avrebbe potuto distrarla dall’esecuzione.

Appena ebbe concluso ci fu un nuovo applauso, all’apparenza più sostenuto del precedente. Audrey pensò fosse un segnale positivo e sentì ogni tensione scomparire definitivamente da lei; la parte peggiore era passata.

Si alzò dal pianoforte, quasi lasciando contro voglia i suoi meravigliosi tasti. Si sistemò il vestito, voltandosi verso la platea proprio quando gli occupanti smisero di applaudire.

«I miei più sinceri complimenti» esclamò McAllister, facendo sorridere Audrey, che ringraziò con un leggero inchino. «Voglio essere franco con lei, signorina Wright: credo sia la mia preferita.»

La sua affermazione provocò alcune occhiate da parte del resto dei presenti, che fissarono il direttore come se si stesse spingendo troppo oltre. 

«Per la sua giovane età ha davvero delle notevoli doti. Ha un futuro assicurato, deve credermi. Riconosco un talento quando lo incontro.» 

Sul finire della frase, nuovamente le occhiate dei colleghi di McAllister ricomparvero. Audrey li guardò un po’ perplessa e comprese che, molto probabilmente, il direttore stava facendo qualcosa che non aveva fatto prima. Se fosse stato vero, significava che il posto alla BBC Scottish Symphony Orchestra forse avrebbe potuto essere suo. Si disse di stare calma ed evitare di crearsi castelli in aria che, crollando, avrebbero potuto ferirla e basta. Tuttavia quasi non ci riuscì. Era emozionata come non le succedeva da tempo e le parole di McAllister avevano accresciuto ulteriormente la sensazione positiva che provava nel petto. 

«Vuole dire qualcosa?» chiese poi il direttore, un sorriso bonario dipinto in volto.

La domanda colse Audrey impreparata, ma riuscì a non darlo a vedere. «Volevo semplicemente ringraziarvi per questa opportunità. Ancora non mi sembra vero di essere qui» disse. Si morse appena il labbro inferiore, costringendosi a non aggiungere altro; la frase che aveva appena pronunciato le era parsa banale e scontata, ma in fin dei conti non sapeva che altro dire. Dopotutto era la verità. Il resto dei presenti, però, parve apprezzare le parole della ragazza. Dopo gli ultimi convenevoli, i saluti conclusivi e i “le faremo sapere a breve”, la pianista fu congedata.

Appena Audrey si ritrovò nel corridoio da cui era entrata, diretta verso l’uscita del teatro, tirò un lungo sospiro. Sentiva di essere andata bene e, soprattutto, era soddisfatta dell’esecuzione delle due canzoni che aveva suonato. Le parole di Dominic McAllister, poi, le avevano dato una speranza che non avrebbe immaginato prima di quel momento. Dal modo in cui le si era rivolto, infatti, le era parso che avesse un interesse particolare per le sue doti. Forse davvero quella sarebbe stata la sua occasione d’oro, la grande svolta della sua vita. Ancora non poteva saperlo con esattezza, avrebbe dovuto aspettare, ma era così soddisfatta di quell’incontro – e di tutti quei “non detto” all’apparenza così rassicuranti – che sentiva avrebbe fatto bene a godersi quella serata in terra scozzese, prima del ritorno nella sua amata Londra, il mattino successivo.

 

*

 

Per quella sera Audrey aveva pensato bene di esplorare Glasgow nel modo in cui lei riputava migliore per se stessa. Nel pomeriggio aveva fatto un nuovo giro nella città, cercando si scoprire quegli angoli e quegli scorci che non era riuscita a vedere il giorno prima in seguito al suo arrivo. In più di un’occasione si era addirittura chiesta in quale zona della città avrebbe dovuto cercare casa; tuttavia aveva scacciato quei pensieri in modo perentorio, dicendosi che non aveva senso fare piani prima di conferma da parte della BBC: quelle erano illusioni, non progetti.

Per la cena aveva optato per un piccolo pub in cui servivano specialità scozzesi – dove aveva mangiato l’hotch-potch più buono mai provato – e una volta uscita, anziché tornare a casa, aveva deciso di soddisfare un’altra sua voglia e si era incamminata in un posto in cui aveva sempre voluto andare. 

Il Blue Jam era uno dei jazz club più famosi di Glasgow, una tappa obbligata per i jazzisti che visitavano la città. Audrey aveva sempre desiderato andarci, per questo non avrebbe lasciato la Scozia se prima non avesse posato piede fra le mura di quel noto  locale. Il Blue Jam si trovava si una delle vie centrali di Glasgow e un’insegna al neon blu – che per certi versi le aveva ricordato quella di Seb’s di La La Land – accoglieva i visitatori, ai quali, entrando nel locale, pareva di tornare indietro nel tempo. 

Appena Audrey aveva varcato la soglia si era sentita eccitata quanto un bambino per la prima volta a Disneyworld. Il Blue Jam l’aveva accolta con una sonorità irresistibile e un’atmosfera che le era parsa famigliare da subito. Sul palco, proprio di fronte all’ingresso, erano disposti cinque musicisti, intenti a suonare in una piena jam session. Tromba, sax, pianoforte, batteria e contrabbasso erano tutti là e riempivano con le loro note, improvvisate e perfette, tutta l’aria del locale. Intorno al palco erano disposti tavolini e sedie in cui prendere posto, dove su ciascun tavolo si trovava una lampada che mandava una soffice luce aranciata. Il bancone, infine, che correva lungo tutta la parete di destra, era fornitissimo di alcune delle bottiglie più rare che Audrey avesse mai visto. Whisky, Scotch, Bourbon, Rhum, Vodka, c’era di tutto, per tutti i gusti. Una volta lì la pianista non fu più in grado di smettere di sorridere. Aveva chiesto di potersi sedere, aveva ordinato un drink – un Martini – e una volta al suo posto, alla sinistra della band che suonava, si era quasi sciolta sul tavolino per quanto era in pace con se stessa.

Anche in quel momento si sentiva così. Continuava a sorseggiare il suo Martini ben fatto con calma, gli occhi fissi sul gruppo musicale improvvisato e il piede destro che batteva a ritmo della musica. Si sentì benissimo, si sentì a casa.

Mentre la musica proseguiva, la pianista si immaginò nella sua possibile vita scozzese. Si vedeva già diventare cliente abituale del Blue Jam, con i camerieri che le davano la buonasera chiamandola per nome e dicendole che le avevano riservato il “solito tavolo”. Quell’immagine la fece gongolare al punto di desiderare con tutta se stessa che la cosa si avverasse. Se si trovava lì, con quella possibilità, era anche merito di La La Land. Se non avesse suonato la canzone dell’epilogo alla stazione di Tower Hill, non avrebbe mai incontrato personalmente Dominic McAllister. Da quando quel film era entrato nella sua vita sembrava quasi contribuire a cambiarla poco a poco. Tuttavia, d’un tratto, si rese conto che il merito di tutto ciò non era tanto del film, ma di Peter. Lei si era sempre limitata a suonare City of Stars – e forse avrebbe continuato a farlo – finché Peter non le aveva regalato le partiture di Epilogo. Se non fosse stato per lui, lei ora non sarebbe seduta al Blue Jam con l’umore alle stelle e la sensazione di avere ottime possibilità di diventare la nuova pianista della BBC Scottish Symphony Orchestra. Il ragazzo era entrato nella sua vita e in meno di un anno l’aveva arricchita. Non solo riguardo quella canzone, ma in generale. Aveva reso i viaggi sulla District line molto più piacevoli e le sporadiche uscite nei caffè o nei pub erano un ottimo modo per spezzare la routine in buona compagnia. Il ragazzo aveva un influsso positivo su di lei, Audrey adorava averlo vicino. Una volta tornata a Londra sarebbe subito andata a raccontargli del provino e gli avrebbe detto che in gran parte era merito suo. Se fosse andato a buon fine il suo ingresso nell’orchestra della BBC avrebbe dovuto ringraziare il ragazzo a dovere.

Le tornò alla mente il fatto che prima, appena aveva finito di suonare l’Epilogo per McAllister, il suo primo pensiero era andato al ragazzo. Le capitava di rado di pensare a qualcuno di preciso, invece quel pomeriggio era successo. Sentiva di dovere molto a Peter, forse per questo era sorpresa solo in parte di aver pensato a lui. Tuttavia anche in quel momento avrebbe voluto sentirlo, parlargli e aggiornarlo sull’esito dell’audizione. Le sarebbe piaciuto anche descrivergli il Blue Jam, consapevole che, anche se non era con esattezza il tipo di locale frequentato da Peter, lui lo avrebbe apprezzato. Pensò che, dopotutto, avrebbe potuto anche farlo, estrarre il cellulare e scrivergli; oppure uscire un momento dal locale e telefonargli.

Alla fine non fece nessuna di queste cose. Erano le dieci passate e trovò che, nonostante i buoni rapporti che aveva con Peter, forse non era il caso di disturbarlo a quell’ora per parlargli di sé. Lo avrebbe invitato a bere qualcosa una volta tornata a Londra. 

Tornò a dedicare la propria attenzione alla jam session ancora in atto, decisa a godersi il resto della serata, così come si era goduta tutta quella piacevole giornata scozzese.

Nonostante tutto, però, la sua mente tornò a più riprese al ragazzo.

 

 

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Capitolo 22
*** XXII ***


 

 

 

Audrey aveva ormai preso l’abitudine di vivere da sola nel proprio appartamento. Si era sempre adattata in fretta alle novità, anche quando queste non erano di suo gradimento. Tuttavia, anche se era riuscita ad accettare una casa vuota, le fu molto più complicato imparare a convivere con il fatto di non poter più vedere Oliver con l’assidua frequenza antecedente al matrimonio. Da quando si era sposato, infatti, quella era solo la seconda volta che i due si trovavano uno di fronte all’altro e i giorni avevano lasciato spazio alle settimane. 

Oliver aveva già raccontato di Venezia alla ex coinquilina, mostrandogli anche diverse fotografie – perché glielo aveva chiesto lei, per lo più – e ora, mentre erano insieme, la loro conversazione non poteva che essere incentrata sul provino di Audrey per la BBC Scottish Symphony Orchestra. La pianista era rientrata da Glasgow il giorno prima e quel pomeriggio – tardo – Oliver l’aveva raggiunta nella casa che avevano condiviso per anni per chiederle com’era andato tutto quanto.

Audrey si era persa per una decina di minuti buoni a parlare di Glasgow e dell’audizione. Aveva iniziato proprio da quest’ultima e aveva speso parole su parole per osannare il pianoforte che aveva avuto la fortuna di suonare. Descrisse Dominic McAllister, la buona impressione che aveva avuto di lui e delle cose che le aveva detto quando aveva finito di suonare entrambe le sue canzoni. Infine raccontò a Oliver della città e della sua serata al Blue Jam, l’aspetto che dovrebbe avere secondo lei il paradiso. 

L’amico l’ascolto per tutto il tempo come solo lui sapeva fare, dimostrando che nulla era ancora cambiato nel loro rapporto.

«Mi sembra di capire che l’esito di quell’audizione sia stato più che positivo» osservò infine, appena la pianista smise di parlare.

Lei ci pensò un momento. Non voleva farsi false illusioni, o elevare le sue aspettative perché poi queste la deludessero, tuttavia non poteva fare a meno di ripetere nella sua testa le parole di McAllister. Anche considerando il modo in cui il resto dello staff lo aveva guardato mentre pronunciava quelle frasi, Audrey aveva intuito che c’era qualcosa che l’uomo non avrebbe dovuto dire, o che non aveva ancora detto prima. Per tale ragione non riusciva a evitare di farsi delle aspettative e sentiva sempre di più di potercela fare a entrare nell’orchestra della BBC. Ora che quella possibilità le sembrava tanto concreta, si era resa anche conto di volerlo, di desiderare di vedersi trascorrere il resto dei suoi giorni a Glasgow, per suonare in quel prestigioso complesso musicale. Londra le sarebbe mancata, certo, ma avrebbe imparato a vivere lontano da essa, così come avrebbe fatto del proprio meglio per mantenere saldi i preziosi legami che aveva nella capitale inglese.

«Sono molto ottimista» disse poi, finendo con il mordersi appena il labbro inferiore. «So che non dovrei farmi illusioni, lo so perfettamente. È solo che...beh, avessi visto il modo in cui McAllister ha detto quelle cose. E anche come lo hanno guardato gli altri, come se avesse detto qualcosa impronunciabile. Come se si fosse esposto, ecco» concluse.

Oliver annuì a quelle parole. «Beh, in effetti è ben augurante. Stando a quello che mi hai detto, intendo.»

«Non riesco a smettere di pensare che posso farcela davvero. Forse se lui non avesse fatto quelle allusioni ora non starei così.»

«Questo è poco ma sicuro» bofonchiò l’amico. 

«Secondo te mi sto illudendo?» domandò di punto in bianco Audrey. Si fidava totalmente del parere di Oliver, al punto che sapeva che lui avrebbe potuto aiutarla a fare chiarezza dentro di sé. Il ragazzo era un prezioso supporto.

Lui ci pensò un momento, giocando distrattamente con la fede nuziale – gesto che si era insinuato in fretta fra quelli che compiva sovrappensiero. «Beh, non saprei, in totale onestà» rispose poi. «Se devo essere sincero, forse sì. Ambienti come quelli sono altamente selettivi, Audrey, lo sai bene anche tu. Tuttavia, anche visto quello che ti hanno detto, mi pare normale che tu ti stia facendo delle aspettative così alte. Anche io al tuo posto avrei di certo fatto lo stesso.»

Quelle parole la consolarono: come sempre l’amico aveva saputo aiutarla. 

«E come ti sentiresti a dover lasciare Londra?» le chiese poi.

La pianista, che aveva rimuginato sulla questione per l’ennesima volta solo pochi istanti prima, si lasciò sfuggire un lieve sospiro. «Immagino che me ne farò una ragione. Una simile occasione capita solo una volta nella vita e se avessi fortuna mi conviene coglierla al volo. Sai, subito pensavo di non avere bisogno ad ambire a più di quanto già avevo, ma ora che ne ho concretamente la possibilità vorrei approfittare al massimo della cosa. Sarebbe una svolta troppo importante.»

«Saresti una folle a non farlo, infatti» le diede ragione l’amico, poi proseguì: «A meno che qui non ci fosse qualcosa di più importante.»

Il modo in cui concluse la frase, lasciandola in sospeso, fece intuire alla pianista che c’era qualcosa che lui stava provando a farle capire. Audrey aggrottò la fronte, perplessa e lanciò un’occhiata sospettosa all’amico. Convinta che stesse alludendo a se stesso gli disse: «Oliver, il mio possibile trasferimento non cambierà più di tanto il nostro rapporto. Esattamente come il tuo matrimonio.»

A Oliver sfuggì una risata a quelle parole, specie per il tono consolatorio usato dalla ragazza. «Audrey,» disse, ancora sorridente, «sono consapevole di essere il tuo migliore amico e, credimi, sono lusingato della cosa. Ma quando faccio questo genere di affermazioni non è che alludo sempre a me.»

La ragazza arricciò le labbra. «I miei genitori?» tentò, ma ricominciò a parlare prima di dare tempo all’altro di provare a dire qualcosa: «Beh ma anche adesso non ci vediamo così spesso. Noi veniamo dal Surrey» disse, alludendo anche a Oliver e parlando come se non credesse al fatto che lui si fosse dimenticato le sue origini.

Tuttavia Oliver non alludeva neanche a quello. 

«April e Sadie già non vedono l’ora di trascorrere i week end a Glasgow e in giro per la Scozia. Dove, per la cronaca, dovrò portarle io» continuò borbottando la ragazza. 

«Che mi dici di Peter?» provò Oliver, decidendo di smetterla di consentirle di tirare a indovinare.

Audrey lo guardò subito appena il ragazzo ebbe pronunciato quel nome. La sua suonava come una tattica, forse per scoprire qualcosa di ben preciso. 

«Spiegati» lo incalzò Audrey, facendosi improvvisamente seria.

«Non c’è niente da spiegare direi. Ti ho solo fatto una domanda. Stiamo cercando di capire se può esserci qualche motivazione che può spingerti a rinunciare alla BBC Scottish Symphony Orchestra per restare a Londra. Abbiamo detto che io non sono, escludiamo anche April e Sadie. Rimangono principalmente due cose di altrettanto importanti per te: il Menier Chocolate Factory e Peter» concluse, segnando su indice e medio i due fattori.

Audrey rimase per svariati secondi a fissare l’amico, domandandosi se le stava sfuggendo qualcosa. Il Menier Chocolate Factory sì che poteva essere un motivo per rimanere a Londra, quel posto, le persone che vi gravitavano intorno, tutto quanto.

«Perchè Peter?» domandò infine, dando voce ai suoi pensieri.

«Perché no?» replicò immediatamente Oliver.

«Perché no non è una risposta, non lo è mai stata, lo sai.»

Nuovamente Oliver sorrise. «Te l’ho detto, sto solo cercando di capire la situazione. Ho inserito Peter in questo discorso perché direi che per te lui è importante.»

La pianista non replicò subito, rimase a guardare il ragazzo quasi aspettandosi una spiegazione degna di quel nome. Era certa che Oliver stesse cercando di farle fare un ragionamento preciso e, quando sospetto di cosa potesse trattarsi, Audrey rispose: «Peter è un amico. Segnalo insieme a April e Sadie nel tuo elenco di “possibili motivi a favore di Londra”.» Fece un segno di spunta in aria, considerando la faccenda chiusa. Rimaneva solo il Menier Chocolate Factory da analizzare.

«Beh, io te l’ho solo chiesto per...» Oliver pensò al termine giusto da usare, ma Audrey lo interruppe prima che potesse trovarlo.

«Per cosa?»

Aveva la sua tipica espressione sospettosa, nota a Oliver come tante altre.

«Pensavo solo provassi qualcosa per lui, tutto qui.»

«Sì, simpatia.»

Il ragazzo fece una smorfia, guardandola di traverso. «Non alludevo a questo.»

«Allora non capisco a cosa ti riferisci» proseguì caparbiamente Audrey. Tuttavia appena ebbe concluso l’affermazione, qualcosa in lei si destò. Una strana sensazione le strinse lo stomaco e un’altra le si annidò dentro all’altezza del cuore. 

«A niente di che, in verità. È solo che mi hai parlato molto di quel ragazzo, soprattutto nelle ultime settimane. Pensavo solo ti potesse interessare» tagliò corto lui, alzando le spalle. In verità era molto più sicuro di così; sapeva leggere bene i messaggi nascosti, specie quelli di Audrey. Lui aveva visto molto di più di quello che appariva in superficie nel modo in cui la pianista lo aggiornava dei momenti trascorsi con l’illustratore. 

«Peter non... Siamo amici» disse lei, sebbene non parve estremamente convinta delle sue parole.

Oliver, che era stato aggiornato su tutto ciò che era avvenuto a Glasgow – anche la cosa più insignificante, come il cioccolatino lasciato sul cuscino nella stanza d’albergo – ne approfittò per domandare: «E il fatto che lui sia stato il primo a cui hai pensato, il primo a cui avresti voluto raccontare tutto, non ti dice niente?»

Per un primo momento Audrey si pentì di averlo informato della cosa. «Che c’entra questo?» chiese poi. «Non è mica stato Peter il primo a cui ho detto tutto, sei stato tu. Ora.»

«Sì ma le cose sarebbero potute andare diversamente. Io sarei stato il secondo se tu ieri sera avessi avuto il coraggio di premere il tasto di chiamata.» Si stava riferendo al fatto che lei avesse preferito non disturbare Peter anziché chiamarlo per condividere con lui la viva soddisfazione del momento.

La pianista fece per replicare ancora, ma quell’ultima affermazione le diede da riflettere. In fondo, Oliver aveva ragione – tanto per cambiare. Peter era stato il suo primo pensiero appena lei era tornata alla realtà dopo aver suonato l’Epilogo davanti a McAllister e con tutta probabilità non si trattava di una semplice coincidenza. Anche il desiderio di chiamarlo per dirgli di com’era andata l’audizione, al Blue Jam, doveva pur significare qualcosa. Non si era mai fermata a pensarci, ad analizzare cosa, il ragazzo, potesse rappresentare per lei, eppure dopo le parole di Oliver la sua mente cominciò a ragionare sulla questione a una velocità folle. Ripensò al tempo passato insieme, ai rientri in metropolitana, ai caffè da Starbucks. Quando era con Peter si accorgeva a malapena dello scorrere del tempo, del fatto che la District line e la fermata di Whitechapel arrivassero senza che lei se ne rendesse conto. Aveva sempre pensato fosse dovuto al fatto che parlavano di argomenti interessanti, o di come le uscisse semplice intavolare una conversazione con il ragazzo, tuttavia, alla luce delle parole di Oliver, si chiese se non ci fosse altro. Si sentì avvampare a quel pensiero. Puntò gli occhi in quelli dell’amico e mormorò: «Tu credi...»

Lasciò la frase in sospeso, ma quelle due semplici parole diedero ugualmente al ragazzo modo di continuare. «Me ne hai parlato a sufficienza da aiutarmi ad avere un quadro generale della situazione. Non ti sto dicendo che sei innamorata di lui, per carità, è troppo presto. Sto solo dicendo» si bloccò, sospirando. Prima di continuare si stropicciò gli occhi con indice e pollice borbottando: «Non posso credere di essere in procinto di dire una cosa del genere.» Tornò a guardare l’amica. «Sto solo dicendo che lui potrebbe essere il tuo Sebastian.»

A sentire quelle parole, Audrey non seppe cosa replicare. Aveva ancora gli occhi fissi sull’amico e la sua espressione si fece attonita. 

«Volevo solo capire se ci ho visto bene o meno» proseguì calmo. «Dal modo in cui mi parli di lui, dei discorsi che avete tenuto in metro, del modo in cui disegna. L’ho chiesto perché so che tu non ti vedi o non ti senti, ma da fuori sembra proprio che ci sia qualcosa di più fra voi. Poi magari mi sbaglio e semplicemente il rapporto fra voi è simile al nostro. Dopotutto pensano sempre che stiamo insieme» concluse con sarcasmo.

Audrey non avrebbe saputo dire se quella dell’amico era tattica o semplice ingenuità, fatto sta che le sue parole la spinsero a riflettere su tutta la faccenda come non aveva mai fatto prima.

Peter poteva essere il suo Sebastian? Un simile pensiero non l’aveva mai sfiorata; fino a quel momento. 

Con Peter ci stava bene, non poteva negarlo; avevano molte cose in comune e altrettante di cui parlare e su cui confrontarsi. Inoltre lo aveva sempre trovato molto carino, non poteva negarlo. 

Che lui le interessasse ma lei non lo avesse ancora capito perché lo aveva sempre considerato solo un amico?

Forse era dovuto a quello la sensazione di calore che la pervadeva ogni volta che Peter le rivolgeva un sorriso. 

Non riuscì a fermare la sua mente dall’immaginare come sarebbero potute andare le cose se fra loro ci fosse stata più di un’amicizia. Si immaginò di riservare a lui un posto per la prima dello spettacolo, di raggiungerlo una volta terminato, di andare a bere con lui qualcosa al bar del piano di sopra. Avrebbero potuto andare a Camden Town insieme, parlare di qualsiasi cosa avessero voluto; avrebbe anche potuto vederlo disegnare. Non aveva mai pensato a nulla di tutto ciò, ma, mano a mano che formulava quei pensieri, ancora in silenzio e con le parole di Oliver che le riverberavano nelle orecchie, si rese conto che quella prospettiva le piaceva. Forse lei e Peter erano fatti per essere più di semplici amici, forse davvero aveva trovato il suo Sebastian, ma non era riuscita a capire la cosa se non con l’aiuto di Oliver. 

Sospirò, sentendosi improvvisamente confusa. «Io non lo so» ammise alla fine. «Peter mi piace, ma non so se mi piace in quel senso.»

«Ci hai dovuto pensare, però» la incalzò Oliver. Con quelle parole smascherò all’amica che la sua era stata una tattica, cosa che le fece aggrottare la fronte. Prima che potesse dire qualcosa, però, lui la precedette: «Io sono abbastanza sicuro che lui ti piaccia. E da come ne parli penso che vada bene per te e tu sai che non lo dico di tutti» precisò. «Credo anche che tu non l’abbia mai visto sotto quell’ottica perché, da quando vi conoscete, sei sempre stata presa da un mucchio di cose, lo spettacolo del Menier, il mio matrimonio. Forse era l’ultimo dei tuoi pensieri cercare di capire se il simpatico illustratore con cui tornavi a casa ogni giorno potesse rappresentare qualcosa di più.»

«Perché mai, poi, mi stai dicendo tutto questo?»

«Perché sei la mia migliora amica e voglio vederti felice. E se avessi ragione riguardo Peter mi sentirei il diretto responsabile di questo successo e continuerei a prendermene il merito per tutta la durata della vostra relazione» concluse sornione. 

«Quindi lo fai solo per il tuo ego» lo punzecchiò lei, guardandolo storto.

«Se lo facessi solo per quello avrei usato meno giri di parole» ribatté lui, indifferente alla provocazione.

La pianista non fu in grado di dire altro. Ripensò a quello che le aveva detto l’amico e al modo in cui la loro conversazione aveva assunto in fretta un altro aspetto. Infine pensò a Peter. Oliver non l’aveva accusata di essere innamorata di lui; “è troppo presto” aveva detto e lei sapeva di non amare il ragazzo – della cosa se ne sarebbe senz’altro accorta. Però era vero che fra loro due c’era un ottimo rapporto, era vero che sarebbe potuto diventare qualcosa di più ed era vero che la sua mente era stata sempre impegnata sul lavoro, sulle canzoni da imparare e infine dall’audizione per l’orchestra scozzese da portarla ignorare tutto il resto.

Proprio il provino per la BBC Scottish Symphony Orchestra le fece scattare qualcosa. «Ok, forse potresti avere ragione.» Arrestò la possibile replica di Oliver con un gesto. «Ma farmelo capire adesso potrebbe essere troppo tardi. Se la mia audizione per la BBC fosse andata bene?»

«Beh, vedila così» rispose lui dopo averci riflettuto un momento, «se lui non ti ricambiasse non avresti nulla da perdere visto che te ne scapperesti in Scozia» disse con un’innocente alzata di spalle.

«E se mi rendessi conto che lui non mi piace?» tentò la pianista, senza un reale motivo.

«Ma io mica ti ho detto che devi andare a dirglielo adesso. Prenditi qualche giorno, qualche settimana, alcuni mesi di distanza a Glasgow e rifletti sulla questione. Non voglio che tu vada da lui a dichiararti a tutti i costi. Solo, ho notato che stare con lui ti rende felice e direi che questo vuol dire qualcosa.» Diede una veloce occhiata al telefono cellulare, rendendosi conto che era ormai giunta l’ora di andare. «Senti, io devo andare, mi dispiace. Ma possiamo parlarne di nuovo se vuoi.»

«No, no, non serve» rispose la ragazza con un gesto della mano. «Ci penserò su.»

Accompagnò Oliver alla porta e lì si salutarono. Audrey decise di andare in camera sua e suonare qualcosa, giusto per rilassare la mente dalla conversazione appena avuta con l’amico, che l’aveva scombussolata non poco. Nella sua stanza frugò nei cassetti in cerca dell’album contenente alcune delle sue partiture e si imbatté negli spartiti dell’Epilogo di La La Land che le aveva regalato l’illustratore. Le estrasse, sfogliando una a una le varie tavole e ammirandone i disegni come fosse la prima volta.

Un pensiero l’attraversò d’improvviso: una vita intera insieme a Peter. Perché tutto d’un tratto quell’idea le sembrava tanto allettante?

 

 

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Capitolo 23
*** XXIII ***


 

 

 

Era una strana sensazione quella che si allargava piano nel petto di Audrey a mano a mano che si avvicinava alla fermata di Tower Hill station al termine della sua giornata di prove al Menier. Riprendere quella routine, dopo lo stacco di quattro giorni – due per andare a Glasgow e altri due perché era assente il direttore d’orchestra – le dava un senso di sicurezza. Non aveva ancora detto al direttore che, forse, avrebbe lasciato il Menier Chocolate Factory, dal momento che il suo colloquio con Dominic McAllister pareva essere andato in modo stupendo e la cosa le provocava qualche preoccupazione. Clint, appena l’aveva scorta fra i colleghi, l’aveva subito tempestata di domande sulla sua audizione e, essendo praticamente davanti a tutti, la cosa l’aveva messa in imbarazzo. Ora che la fermata della Underground diventò ben visibile, anche l’agitazione si impossessò della pianista, sommandosi al resto di sensazioni che stava provando e generando uno stato emotivo complesso e per niente d’aiuto. 

Con preoccupazione, imbarazzo e agitazione, anche l’ansia si fece strada e appena Audrey varcò i tornelli d’accesso alla metro, proprio l’ansia prese il controllo su tutto il resto. La ragazza era così agitata perché per la prima volta dopo cinque giorni avrebbe rivisto Peter e, soprattutto, lo avrebbe rivisto dopo la sua ultima conversazione con Oliver. Non era riuscita a fare a meno di pensare ossessivamente a quello che aveva detto l’amico e, quindi, si ritrovava a pensare anche a Peter. Come diretta conseguenza di quella situazione, nella sua mente si erano accavallate, in quei giorni, immagini su immagini di possibilità insieme all’illustratore, di ipotetici scenari futuri fra loro e altre supposizioni che Audrey non aveva mai formulato prima – fra cui guardare La La Land insieme. Dentro di sé sentiva che era in gran parte colpa delle parole di Oliver, che con molta probabilità avevano deviato la direzione dei suoi pensieri, tuttavia non poteva essere dovuto esclusivamente a quello. 

Ci stava ancora rimuginando sopra quando arrivò alla sala centrale di Tower Hill, dove il pianoforte verticale era silenzioso e immobile, superato in gran fretta dai passanti. Anche se non era suo, quel bellissimo strumento le era mancato come se lo fosse stato. Lo raggiunse subito e vi si sedette come faceva ogni giorno. Smise di pensare appena posò le dita sui tasti, dopodiché diede libero abbrivio alla musica. Senza rendersene conto, le note di City of Stars uscirono in sequenza. Era stato l’istinto a scegliere quale canzone suonare e l’istinto aveva scelto quella. Si rese conto di ciò che aveva suonato solo una volta aver terminato la canzone, quando era tornata alla realtà e si era trovata davanti la stazione di Tower Hill e il suo implacabile via e vai di persone. Si alzò dal pianoforte, voltandosi verso il punto della sala in cui, solitamente, si fermava Peter per ascoltarla suonare. Appena si girò, infatti, trovò il ragazzo proprio lì. Aveva il sorriso stampato in volto e indossava una di quelle felpe leggere da squadra di baseball bianca e nera, che teneva slacciata, mostrando la camicia azzurra che portava sotto di essa. Audrey non poté fare a meno di sorridere in direzione dell’illustratore. Sentì anche una lieve stretta all’altezza dello stomaco, ma sospettò che tutto fosse condizionato in gran parte dalla sua mente. 

Tuttavia, appena raggiunse Peter e lo salutò, fu davvero contenta di sentire di nuovo la sua voce.

«Sei tornata ai vecchi classici?» le chiese lui, dopo averla salutata a sua volta. Si incamminarono verso la banchina della metropolitana, scendendo gli ultimi gradini e Audrey, per un momento, si domandò come sarebbe potuto essere se, dopo quei semplici “ciao” scambiati quasi per tradizione, fra loro ci fosse stato anche un rapido bacio. Ignorò quel pensiero mentre rispondeva alla sua domanda. «Sono andata d’istinto. Mi sono seduta e ho iniziato a suonare la prima canzone che mi passava per la mente. Ha vinto City of Stars.» 

Nuovamente l’illustratore le sorrise; schivò un paio di persone, dopodiché si voltò verso Audrey, arrestandosi, subito imitato dalla ragazza. «Allora, com’è andata? Racconta» la incalzò. Era chiaro che si stava riferendo all’audizione per la BBC Scottish Symphony Orchestra; la pianista gli aveva già detto, seppur brevemente tramite Facebook, che secondo lei il provino era andato bene, ma Peter voleva sapere di più. 

«Dovrei sapere l’esito a breve» rispose lei. Fece scorrere gli occhi sulla fila di bottoni perfettamente chiusi della camicia del ragazzo. «Non voglio sbilanciarmi, ma penso di essere andata più che bene» disse poi, arricciando le labbra.

«Lui che ha detto...com’è che si chiama?» chiese Peter, inarcando un sopracciglio.

«McAllister. Beh a lui sono piaciuta, mi ha riempita di compimenti.»

Proseguì raccontandogli di quello che il direttore d’orchestra le aveva detto, del modo in cui gli altri lo avevano guardato preoccupato, cosa che le aveva lasciato intendere che McAllister si era sbottonato più del dovuto. Sotto un certo punto di vista, la cosa la faceva sentire ottimista per l’esito de provino, al tempo stesso, però, si rifiutava di farsi illusioni, alzando troppo le sue aspettative. Non avrebbe sopportato di vederle disattese.

Appena ebbe finito di aggiornare il ragazzo in modo adeguato si zittì, pensando a qualcosa da poter dire. Non le andava che il suo rientro in compagnia di Peter fosse incentrato esclusivamente su di lei, non le sembrava carino.

«Sono davvero contento per te» disse lui, sorridendo con sincerità. «Spero che capiscano il grosso errore che commetterebbero se si lasciassero sfuggire proprio te.»

Pensava davvero tutto ciò, sebbene una parte di sé fosse anche dispiaciuta. L’idea di vedere Audrey trasferirsi a Glasgow lo rattristava e se quell’eventualità si fosse avverata lui era più che certo che ne avrebbe sofferto. Non sapeva neanche come comportarsi. Avrebbe voluto dirle di essere interessato a lei, dirle che gli piaceva molto la Audrey pianista, quella che faceva le maratone di Star Wars e tifava Harlequins con tutto il trasporto di cui è capace; quella che suonava il pianoforte di Tower Hill station come fosse suo e che si scusava se per caso interrompeva chi sta parlando. 

Nonostante le cose che avrebbe voluto dirle, però, il possibile trasferimento della pianista a Glasgow lo frenava come nient’altro. Non era così sicuro di essere tipo da relazione a distanza e la situazione diventava ancora più complicata considerando il fatto che lui e Audrey, una relazione, non l’avevano neanche cominciata. Nel loro caso si sarebbe trattato di frequentazione a distanza e la cosa era ancora più complicata. Avrebbe atteso di vedere la completa evoluzione della vicenda e solo allora avrebbe deciso. Era l’idea peggiore, lo sapeva, ma forse se non avesse mandato tutto a monte subito qualcosa di buono sarebbe riuscito a ottenerlo.

«Ok, non esageriamo» disse ridendo appena Audrey, in risposta alla precedente affermazione di Peter. «Non ho sentito suonare nessuno degli altri che erano presenti. E secondo me uno di loro era parecchio bravo» continuò, sovrappensiero.

«Eri la più giovane?»

Lei ci rifletté un momento, infine annuì. Si lasciò sfuggire un sospiro preoccupato, che venne notato dall’illustratore.

«Su, stai tranquilla» cercò di rassicurarla lui. «L’età non vuol dire nulla, non sempre almeno. Ad esempio Raffaello aveva solo ventisei anni quando dipinse la Scuola di Atene. Quindi vedi? L’età non conta» concluse fiero.

Audrey lo guardò. Inarcò un sopracciglio e si portò una mano sul fianco. «Prego? Mi citi Raffaello?» chiese, fingendosi basita.

Peter scoppiò a ridere alla sua espressione e davanti a quel gesto Audrey si sentì mancare per un istante. La risata del ragazzo gli era sempre piaciuta, ma quel giorno sembrava quasi avere qualcosa di speciale.

«Ehi, sono un artista, no?» rispose lui alla fine, ricomponendosi. «Però, tralasciando la parte in cui ti cito Raffaello, penso davvero quello che ho detto.»

L’arrivo della District line interruppe lo scambio di sguardi dei due. Entrambi salirono sul mezzo che si era fermato, facendosi strada fra il resto dei passeggeri. Appena si furono sistemati e la metro ebbe ripreso la sua corsa, Audrey pensò a qualcosa da chiedere a Peter. Non le andava di focalizzare la conversazione solo su di sé, aveva voglia di sentire dal ragazzo come stava, cosa aveva fatto in questi giorni, come procedeva l’ultimo libro che stava illustrando. Aveva davvero voglia di saperlo, non si trattava solo di formalità o buona educazione. Le piaceva quello che lo riguardava.

«Allora, com’è la casa? Hai finito il trasloco, giusto?»

Peter annuì. Aveva accennato solo  brevemente alla pianista del suo trasferimento, ma i due non avevano avuto molto modo di discutere della faccenda.

«È una gran bella casa. La zona è tranquilla e io e Damian ci troviamo molto bene con la terza  inquilina. È il tipo che piace a me.»

«In che senso?» domandò subito lei. Si morse il labbro appena le sfuggirono di bocca quelle parole. Aveva parlato senza pensare e si chiese per quale motivo fosse scattata così.

Peter parve non fare caso alla cosa. Si strinse nelle spalle, sorridendo al pensiero di Evangeline. «Oh, beh, innanzitutto ha un gran senso dell’umorismo, come te» aggiunse, rivolgendo uno sguardo d’intesa alla ragazza. «Poi è un po’ misantropa, il giusto, sia chiaro, le piacciono i Bastille, il cinema e adora la birra. Oh, e non c’è rischio che si invaghisca di me» concluse, facendo uscire le ultime parole come un sommesso borbottio. Audrey, però, le percepì e non conoscendo la verità sulla storia di Iris, non poté capire il significato di quanto appena detto dall’illustratore. Pensò che forse lui era uno di quelli che non voleva storie in casa. 

«È fidanzata?» gli chiese poi, anche per continuare la conversazione.

«No, è lesbica» replicò subito il ragazzo, disinvolto.

«Oh sì, allora non corri rischi» disse lei, lasciandosi sfuggire una risata. «Comunque sono contenta per te. Poi adesso che abitiamo così vicini potremmo anche trovarci qualche sera» propose.

Il trasferimento di Peter lo aveva avvicinato di molto a Audrey. Non che avesse scelto proprio la casa di Florence rd. perché era vicino a dove viveva lei, l’aveva scelta perché era la migliore sotto molti punti di vista. Tuttavia quando aveva scoperto che la cosa lo aveva avvicinato tanto alla ragazza, al punto che perfino la fermata della metro era diventata la stessa, non aveva potuto negare di essere rimasto ancora più soddisfatto per la scelta presa. Probabilmente se avesse voluto fare tutto ciò apposta non ci sarebbe mai riuscito.

«Sì, mi piacerebbe.» Era tentato di chiederle di vedersi anche quella sera stessa, ma si disse di darsi un contegno. Dov’era finito il suo proposito di vedere come evolveva la situazione? 

Anche a Audrey, dal canto suo, avrebbe fatto piacere invitare fuori l’illustratore quel giorno, ma aveva promesso a April che le avrebbe telefonato per una serie di aggiornamenti che doveva darle l’amica. 

La pianista chiese un altro paio di notizie a Peter sulla nuova casa. Lui gliela descrisse, dicendole che si trovava proprio davanti a un parco pubblico e che, per sua fortuna, era illuminata a sufficienza per permettergli di disegnare per ore. Osannò qualche altro dettaglio quando la voce elettronica annunciò la fermata di Plaistow. Quella era diventata la fermata metropolitana di entrambi, con l’unica differenza che le loro strade si dovevano dividere proprio lì, dato che abitavano in quartieri opposti. 

Scesero dal mezzo e uscirono sulla strada continuando a parlare. Appena fuori dalla fermata della metro il cielo iniziò a scaricare alcune gocce di pioggia e i due si salutarono in fretta, visto che entrambi si erano dimenticati l’ombrello – non che fosse una novità nel caso di Peter. 

L’intensità della pioggia aumentò durante il tratto che separava Audrey da Chadd Green st. e appena varcò la soglia di casa fuori si era scatenato un vero e proprio acquazzone. Disse a se stessa che non avrebbe più dimenticato l’ombrello, ma sapeva benissimo che mentiva. Si svestì, mettendo gli abiti ad asciugare accanto alla finestra, dopodiché, infilando la sua confortevole tuta da casa, prese un asciugamano e cominciò a tamponarsi i capelli umidicci. Fuori il cielo si era oscurato in modo uniforme, forse quell’acquazzone sarebbe durato un po’.

Fatta eccezione per l’esito finale del suo rientro le era piaciuto molto prendere la District line con Peter e vederlo scendere insieme a lei a Plaistow. La nuova soluzione abitativa del ragazzo dava loro modo di trascorrere più tempo insieme e semplificava anche la possibilità di vedersi dopo il lavoro. Dovette ammettere a se stessa che le era mancata quella routine che era diventata suonare il piano di Tower Hill per poi raggiungere l’illustratore e prendere la District line insieme. Era quasi sorprendente con che semplicità la figura di Peter si fosse inserita nella sua vita e ne avesse preso parte. Ripensò alle parole di Oliver per l’ennesima volta in pochi giorni. Peter poteva davvero essere il suo motivo per rimanere a Londra? Per rinunciare a quell’obiettivo che aveva capito di voler raggiungere, ovvero essere accettata alla BBC Scottish Symphony Orchestra? Poteva essere il suo Sebastian?

Con lui ci stava bene, molto, negarlo era inutile. D’altro canto stava bene anche in compagnia di Oliver, eppure fra loro era chiaro che non sarebbe mai potuto esserci altro se non un profondo rapporto d’amicizia. 

Si morse il labbro, continuando quella sua diatriba mentale. 

Magari avrebbe potuto provarci; perché no, dopotutto? Avrebbe potuto chiedere a Peter di uscire con intenzioni diverse dalla semplice birra per fare due chiacchiere. Avrebbe potuto essere una birra diversa, una conversazione diversa. In fin dei conti non avendo mai pensato prima a cosa potesse provare per Peter, automaticamente non si era mai fermata a pensare a come la facesse sentire stare con lui. Non prima di quel giorno. Lì si era fermata eccome a pensarci e aveva capito che con lui ci stava bene. Ma così bene da provarci e rischiare di mandare a monte la loro amicizia? 

Sbuffò. Quelle faccende di cuore riuscivano sempre a rivoltarle lo stomaco. Forse avrebbe fatto meglio a parlarne con April e Sadie, ma continuava ugualmente a rimuginarci sopra. Decise di riflettere e fare una lista mentale dei pro e dei contro della sua possibile scelta di farsi avanti con Peter.

Il contro maggiore era senza dubbio il fatto che avrebbe potuto rovinare la loro amicizia se lui non fosse stato interessato. Però c’era di pro che lei, in sua compagnia, ci stava davvero bene. 

Tuttavia se fosse stata presa alla Scottish Symphony Orchestra le cose si sarebbero complicate, in caso anche Peter provasse qualcosa per lei. Al tempo stesso, però, il suo allontanamento da Londra avrebbe semplificato le cose qualora lei non avesse avuto possibilità con il ragazzo. 

Era complicato, ma pensò che, con qualche accorgimento, forse sarebbe riuscita a indagare in modo discreto; in fin dei conti se avesse prestato attenzione sarebbe riuscita a capire se un po’ di interesse, da parte di Peter, ci potesse essere o meno. O forse, molto più semplicemente, le conveniva farsi avanti e smetterla di meditare di continuo sulla questione. Peter le piaceva, questa era la sua unica certezza, in che modo, però, avrebbe dovuto scoprirlo e non lo avrebbe di certo capito se le cose fra loro non fossero cambiate. Non ne era innamorata, lo sapeva, ma non era scritto da nessuna parte che l’illustratore non potesse essere il suo Sebastian, quello che sperava tanto di riuscire a trovare. L’amore non si costruisce in due giorni, dopotutto. Servono tempo, dedizione, cura e sacrificio. Perciò, forse, fra lei e Peter sarebbe potuto nascere qualcosa di così profondo; era necessario, però, che entrambi facessero la loro piccola parte. Audrey capì che lei avrebbe voluto farla, la sua piccola parte, che si sentiva pronta a provarci, che forse davvero ne valeva la pena. Era da tanto che non formulava simili pensieri e la cosa la fece sentire disorientata. 

Era così immersa nei suoi pensieri che si rese a malapena conto che il suo cellulare stava squillando. Doveva trattarsi di April dal momento che stava aspettando la sua chiamata, ma quando afferrò il telefono e lesse il numero in sovrimpressione si bloccò. La chiamata proveniva da Glasgow e non poteva che essere il referente dell’orchestra. Accettando quella telefonata la ragazza avrebbe saputo cosa le riservava il futuro, se ci fosse o meno una speranza di suonare in un’orchestra di prestigio. 

Rispose con una lieve incertezza, ma la sua voce era ferma appena prese parola.

«Buonasera. Signorina Wright?» Era la stessa voce che l’aveva contatta la prima volta, cosa che fece capire a Audrey che non vi erano dubbi sul luogo da cui proveniva la chiamata. Aveva del sorprendente la rapidità con cui avevano scelto chi prendere come nuovo pianista per l’orchestra; con tutta probabilità necessitavano di un rapido rimpiazzo. 

«Sì, sono io» rispose. Il cuore prese a martellarle con forza contro lo sterno; doveva tenere davvero a quella cosa se ora si sentiva così. 

«Ah, bene. La chiamo per conto della BBC Scottish Symphony Orchestra.»

Questo lo sapeva benissimo anche lei, perché non arrivava subito al dunque?

«Mi rincresce molto doverle dare questa notizia, ma per l’occupazione di pianista è stato scelto un altro candidato. I responsabili ci tenevano comunque a farle sapere che la sua audizione è stata ottima e che non si è trattato affatto di una scelta semplice.»

A Audrey parve di essere improvvisamente sprofondata in una bolla. Si sentiva ovattata, come se il tempo e lo spazio non le appartenessero più. Quasi non si rese conto di aver formulato un ringraziamento scontato per la possibilità e la comunicazione e di aver fatto i convenevoli conclusivi prima di chiudere la chiamata. Si trovò immobile al centro del soggiorno di casa, lo schermo nero dello smartphone in mano, il vuoto dentro. Si era illusa; si era convinta di avercela fatta, di avere fra le mani la più grande occasione della sua vita. Tutte illusioni. Era per non doversi sentire a quel modo che di era detta di non farsi aspettative e invece aveva fallito. Si sentiva impotente e amareggiata. Aveva ancora il Menier Chocolate Factory e il fatto di non doversi trasferire a Glasgow significava non dover in alcun modo lottare per i propri rapporti, ma un’occasione come quella l’avrebbe davvero voluta sfruttare, inutile mentirsi. Si chiese se sarebbe stata in grado di superare la cosa da sola.

Peter fu il primo a cui pensò. Il volto del ragazzo quasi gli si dipinse sotto gli occhi. Sapeva che Oliver avrebbe potuto tirarla subito su di morale, consolarla come solo lui sembrava essere in grado di fare, farla ridere. Solo che lei, in quel momento, sentì che non aveva bisogno di quello. Non voleva essere consolata, voleva parlare con qualcuno che la capisse, che l’aiutasse a comprendere come mai il rifiuto che aveva appena ricevuto per telefono la faceva stare tanto male se fino a pochi giorni prima non le importava affatto della cosa. Voleva parlare con qualcuno in grado di dirle che quello è il suono che fa un sogno che si infrange e che l’aiutasse a raccogliere i frammenti e a rimetterli insieme con più cura di prima. Oliver avrebbe potuto dirle tutte quelle cose, ma Audrey sentiva che solo Peter avrebbe potuto fargliele capire, perché era passato spesso nelle delusioni, come le aveva raccontato un giorno. Eppure  l’innato ottimismo di quel ragazzo le aveva fatto capire che lui sapeva come prendere le sue sconfitte e rielaborarle per migliorare la propria arte. Ed era quello che sperava di riuscire a fare lei.

Come a Glasgow, quando aveva appena finito di suonare, o al Blue Jam la sera stessa, anche in quel momento pensava solo a Peter. Oliver non poteva avere torto dato quanto la conosceva bene: c’era di più di una semplice simpatia a tenerla unita all’illustratore.  Il rischio di rovinare tutto era reale e Audrey non riusciva a ignorarlo, al tempo stesso, però, capì che la sua voglia di tentare era più forte.

 

 

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Capitolo 24
*** XXIV ***


 

 

 

«Troppa farina! Ho messo troppa farina!» 

Evangeline imprecò sonoramente mentre aggiungeva latte all’impasto color cioccolato che stava amalgamando in un’ampia terrina. Peter, a sedere su una delle sedie al tavolo della cucina, la osservava rimediare al proprio errore, vedendo il dolce composto diventare sempre più voluminoso.

«Avremo muffin per settimane» disse divertito, sorridendo in direzione della nuova coinquilina.

«Ve ne rifilerò parecchi da portare a lavoro» replicò la ragazza. «E a chiunque vogliate. Vedrete quanti ne usciranno, avremo la casa piena.» 

L’illustratore continuò a guardarla divertito, prendendo qualche spunto mentale per “prestare” a qualcuno dei suoi personaggi il modo in cui Evangeline aggrottava le sopracciglia mentre era nervosa. In poco più di una settimana Peter aveva capito che quella ragazza le piaceva proprio. Non si faceva alcun problema a convivere con due uomini, sapeva tenere una conversazione a livelli di interesse alto ed era piuttosto diretta nel dire le cose, caratteristica che la rendeva ancora più apprezzabile agli occhi del ragazzo. Inoltre avevano gusti musicali molto simili, cosa che le donava altri punti extra. Anche se inizialmente cambiare casa gli era sembrato più che altro un modo di scappare da Iris, ora che si era sistemato aveva capito che, invece, l’idea era stata ottima. Avvicinandosi al centro città impegnava molto meno tempo per andare a lavorare allo studio e vivere in tre sotto lo stesso tetto era molto più semplice che in quattro. Poi, per sua fortuna, la terza inquilina era Evangeline – che aveva anche il buon gusto di bussare alla porta prima di entrare.

«Dammi una mano con questi, per favore» gli disse a un tratto lei, indicando con un cenno i piccoli contenitori di carta colorata per i muffin. Peter obbedì, divertito. Si alzò dal suo posto e raggiunse la coinquilina, aiutandola a versare l’impasto profumato in quelle piccole porzioni, dando vita a un piccolo esercito di muffin al cioccolato.

Quando la prima infornata fu pronta e la seconda era in forno, Peter e Evangeline erano seduti ai lati opposti del tavolo della cucina, a portare avanti una conversazione sulle allergie – conversazione che Peter non aveva capito ancora bene da dove fosse spuntata. Mentre la ragazza era nel mezzo di un aneddoto che vedeva coinvolto il padre e un paio di gatti – e che incuriosiva parecchio l’illustratore – il campanello di casa suonò. Fu un trillo breve, quasi indeciso, al punto che i due inquilini si guardarono per essere certi di averlo sentito veramente. 

«Aspetti qualcuno?» domandò Peter.

Evangeline scosse la testa. «Forse Damian si è dimenticato a casa le chiavi» ipotizzò.

Il ragazzo fece spallucce e si alzò per andare all’ingresso. Aprì la porta convinto di trovarsi davanti Damian, come Evangeline aveva suggerito, ma si sbagliava.

«Audrey» mormorò, sorpreso alla vista della pianista. Mai avrebbe sospettato di trovarsela lì, non annunciata alla porta di casa sua. La ragazza aveva le braccia incrociate al petto e sembrava imbarazzata, il tessuto leggero della blusa smosso dal lieve vento. Fece scorrere le dita sulla treccia che le ricadeva sulla spalla sinistra prima di decidersi a parlare. «Mi dispiace piombare qui così, senza preavviso.»

Peter avrebbe voluto dirle che la sua era l’improvvisata migliore che potesse desiderare, ma si limitò a sorridere rispondendo: «Beh, nessun problema. Tanto è sabato pomeriggio e non ho molto da fare.»

«Chi è?» La voce di Evangeline raggiunse il ragazzo dalla cucina.

«È Audrey» rispose lui.

«Così non mi aiuti.»

«Una mia amica» tagliò corto Peter, davanti a Audrey, che continuava a guardarlo.

«Chiedile se vuole dei muffin» tentò ancora Evangeline. 

L’illustratore scoppiò a ridere a quelle parole, mentre le pianista ancora non sapeva bene cosa stava accadendo.

«Vuoi dei muffin?» domandò Peter infine, sorridente. «Ne abbiamo un piccolo esercito.»

«Oh, ehm, direi di essere a posto, grazie» rispose lei, che ancora non aveva capito l’esatta dinamica della cosa. La situazione, però, cominciava ad agitarla. Quando aveva deciso di raggiungere casa di Peter – sebbene non aveva idea di dove abitasse prima di quel momento – aveva seguito un impulso e aveva fatto il possibile per ignorare le possibili conseguenze e smettere di preoccuparsi e fino a poco prima c’era anche riuscita. Solo davanti agli occhi bruni di Peter si era bloccata e il fatto di essere ancora lì, davanti a lui a guardarlo, non la faceva affatto sentire tranquilla. Cominciò a sospettare che non sarebbe affatto riuscita a dirgli ciò che aveva deciso, ma ormai che c’era valeva la pensa farglielo sapere. 

Se solo il ragazzo non fosse stato concentrato sull’azzurro degli occhi della pianista, avrebbe potuto vederla tormentarsi le mani in grembo mentre prendeva fiato per dirgli: «Ti va di fare due chiacchiere?»

L’illustratore venne colto di sorpresa alla domanda, ma non poté negare di esserne stupito in senso positivo.  «Certo» disse poi, sfoderando uno dei suoi sorrisi più sinceri. «Vuoi entrare?»

«N-non mi va di disturbare. È una bella giornata oggi, potremmo andare a fare due passi. O sederci al parco qui di fronte» propose Audrey dopo una lieve incertezza.

Peter capì che, forse, la ragazza voleva dirgli qualcosa di personale e non voleva che Evangeline la sentisse. Un’idea gli balenò in mente, ma la cacciò via dicendosi di non farsi illusioni. Stava per acconsentire alla proposta di Audrey quando gli venne in mente una cosa. «Va bene, volentieri» acconsentì. «Solo, puoi aspettare un momento, devo prendere una cosa.»

La ragazza gli diede il via libera e lui scomparve in casa, riaffiorandovi qualche minuto dopo con una borsa di stoffa fra le mani. «Possiamo andare» disse, facendo cenno a Audrey di incamminarsi. Salutò la coinquilina con un urlo e si incamminò insieme alla pianista verso il parco, che raggiunsero attraversando  semplicemente la strada. Quando si sistemarono su una panchina, Peter moriva dalla curiosità di sapere perché la ragazza era venuto a cercarlo e, soprattutto, per quale motivo apparisse tanto tesa. Non aveva ancora detto una sola parola da quando si erano allontanati da casa, se non un semplice ringraziamento quando lui l’aveva fatta passare per prima all’ingresso del giardino. Doveva esserle successo qualcosa e, probabilmente, era in cerca di conforto da parte di un amico.

«Come stai?» gli chiese lei di punto un bianco, quasi a spezzare l’atmosfera.

«Sto bene» rispose lui, colto alla sprovvista dalla domanda. «E tu? Sei più silenziosa del solito» osservò con un sorriso. Non sapeva se la sua mossa fosse stata una buona idea, magari Audrey era giù di morale per qualcosa di cui non voleva parlare, fatto sta che vederla in quello stato gli provocava un forte dispiacere.

«Lo sono, eh?» disse lei, sforzandosi di sorridere.

«No, no, non fraintendere. Mi piace parlare con te» tentò, ma si bloccò appena Audrey si voltò a guardarlo. Che stava succedendo? Peter non riuscì a resistere a lungo a quegli occhi e posò lo sguardo sulla borsa di stoffa che aveva con sé. La pianista non sembrava intenzionata a parlare di cosa la faceva stare male, o forse era necessario che le prime parole a riguardo provenissero da lei; in ogni caso incalzarla non era la tattica giusta, Peter lo capì piuttosto in fretta. Toccava a lui fare qualcosa e gli venne in mente una sola idea.

«Volevo farti vedere una cosa.» 

Estrasse dalla borsa un libro dalla copertina rigida, nera e bianca. Il titolo, scritto con un font che sembrava la calligrafia di qualcuno era: In Tempo. Peter lo allungò a Audrey e a lei bastò vedere i disegni sulla copertina per capire subito di cosa si trattava. 

«È il tuo libro?» domandò all’illustratore, anche se si trattava più che altro di una domanda retorica, visto che aveva riconosciuto lo stile del ragazzo. La pianista cominciò a sfogliare il volume una pagina alla volta, prestando particolare attenzione ai disegni. Li trovò splendidi, di una finezza unica. Le piaceva molto lo stile di Peter e non solo perché si trattava di lui, trovava davvero che avesse un grande talento, che fosse in grado di prendere anche le scene all’apparenza più semplici e trasformarle in qualcosa di unico, di sospeso. Ogni immagine di quel libro le sembrava perfetta, dai personaggi agli sfondi, fino ai dettagli.

Il ragazzo, intanto, continuava a osservare il profilo elegante di  Audrey mentre lei sfogliava piano le pagine; sorrideva ed era incantevole. Tuttavia sapeva in anticipo che ci sarebbe stato un momento in cui la sua espressione sarebbe mutata e, quando lei voltò la pagina in questione, il sospetto di Peter divenne reale.

La pianista osservò la figura femminile della storia, appena comparsa nel racconto. Ne guardò i capelli chiari, acconciati sulla testa, l’abito rosso dall’ampia gonna, le braccia sottili e le mani dalle dita così affusolate che si domandò come avesse fatto il ragazzo a fare tratti così fini con un pennello. Sollevò lo sguardo su Peter senza dire nulla, sorpresa, e lo trovò già intento a osservarla, sorridente ma lievemente imbarazzato. 

«Indovina a chi mi sono ispirato» le disse, cercando di apparire disinvolto.

«Mi prendi in giro?» chiese Audrey, il tono di chi non può credere a quello che gli stanno dicendo. Non era arrabbiata, affatto e per Peter era un ottimo segnale.

«L’ho disegnata dopo uno dei nostri primi incontri. Volevo fosse una figura elegante, aggraziata. Mi hai dato l’ispirazione che mi serviva» continuò. Cominciava a sentirsi piuttosto in imbarazzo a raccontare tutto ciò a Audrey, ma dal modo in cui lei lo guardava capì che poteva farlo  tranquillamente: aveva gradito quella sorpresa, i suoi occhi non mentivano.

La pianista tornò a dedicare la propria attenzione ai disegni, ancora piacevolmente sorpresa nel vedere quella piccola e delicata figura che le assomigliava così tanto. «Io... non so cosa dire.»

«Non devi dire per forza qualcosa. Spero solo che questa cosa non ti metta troppo in imbarazzo. O che non ti abbia infastidita» disse lui, stringendosi nelle spalle.

«No di certo, fidati» rispose Audrey, lasciandosi andare a una risata.  «So di avertelo detto milioni di volte, ma sei davvero bravo.»

«Ti ringrazio.»

Peter notò che la ragazza sembrava essere tornata la solita. Non c’era più traccia di quell’alone di tristezza e preoccupazione che aveva nel momento in cui si era presentata alla sua porta. Forse ci aveva visto giusto, magari aveva solo bisogno di parlare un po’ con qualcuno in modo da distrarsi. 

Audrey continuò a guardare il libro fino all’ultima pagina, un disegno alla volta. «È per questo che ti hanno fatto penare tanto?» domandò, osservando la quarta di copertina. Allungò il libro a Peter, che gli lanciò un rapido sguardo prima di riporlo nuovamente nella borsa di stoffa. «Sì, per il mio Fred Astaire che poi si è trasformato in Gene Kelly» rispose, scimmiottando un po’ la frase. «Però per il personaggio femminile non hanno fatto storie» concluse, lanciando un sorriso a Audrey.

Lei distolse lo sguardo, un lieve sorriso a sua volta. Strinse la stoffa dei pantaloni con la mano destra, così che il ragazzo non la vedesse, e si fece forza prima di dire in un sol fiato: «Non sono stata presa dalla BBC.»

Peter recepì la notizia in ritardo, ma riuscì ugualmente a comprendere il messaggio. Ecco cosa turbava la pianista: il rifiuto. Si voltò per guardarla negli occhi, ma lei stava tenendo lo sguardo basso, sulle proprie mani. 

«Oddio...mi dispiace tanto» le disse. Avrebbe voluto fare di più, dirle qualcosa di più rincuorante e utile di un “mi dispiace tanto” ma lì per lì non gli venne in mente nulla. Era solo dispiaciuto di vederla così e di sapere cosa provava, perché lui sapeva perfettamente l’effetto che fa sentire che le proprie capacità non sono sufficiente per afferrare l’obiettivo che ci si era prefissati.

«È solo che non so come sentirmi» continuò la pianista. Peter smise di arrovellarsi il cervello e si concentrò su di lei. 

«Quando me lo hanno detto mi sono sentita crollare il mondo addosso. È solo che, ripensandoci, è strano, perché all’inizio non ero neanche così sicura di volercela fare, di voler diventare pianista della Scottish Symphony Orchestra. Ma poi...» prese fiato. «Forse lo volevo davvero, se no non mi sentirei così ora.»

«Beh, io penso che tu, comunque, ci tenessi. Era la tua grande occasione e tutti tengono alle proprie grandi occasioni. Sempre se hanno a cuore ciò che fanno e tu sei una di queste» disse lui. Gli sembrò la cosa migliore da dire, soprattutto perché credeva molto in quelle sue stesse parole. Non sapeva se potesse servire o meno a Audrey, ma sentiva di doverlo dire. 

La pianista annuì alle sue parole; era bello sapere di poter contare su di lui. 

«Certo che sono dei pazzi. Lasciarsi sfuggire così una con le tue capacità» borbottò il ragazzo. 

«Ok, non esagerare. Tu sei di parte» replicò lei, ma non poté negare che le parole di Peter le avessero fatto bene. Si sentì rinvigorita e decisa ad andare avanti.  «Per lo meno, ora non dovrò scegliere fra Londra e Glasgow. Se mi avessero presa alla BBC sarebbe stata una decisione che avrei dovuto affrontare.»

«Ti avrebbe messo in difficoltà?»

Audrey si strinse nelle spalle. Cominciava a sentirsi piuttosto agitata ma non voleva darlo a vedere. «Penso di sì. Non è semplice allontanarsi dai propri legami, anche se penso che sarei riuscita comunque a far sì che i rapporti con i miei amici rimanessero gli stessi. Sono piuttosto brava in questo» ammise. «Ma davvero, non so dire se alla fine sarei andata oppure no.»

«Beh, posso capirlo. Però, se mi permetti, io fossi stato in te avrei comunque deciso di andare, indipendentemente da tutto. È vero, ti saresti allontanata dai tuoi amici, ma se, come dici tu, sei brava a mantenere saldi i rapporti allora valeva la pena tentare.»

A mano a mano che parlava, Peter si domandava se avrebbe fatto lo stesso discorso nel caso Audrey fosse stata presa nell’orchestra della BBC. Si disse che no, forse non lo avrebbe fatto, perché non avrebbe voluto vederla andare via senza aver avuto prima il tempo di dirle cosa provava per lei. Ora che quel rischio non c’era, però, quelle parole gli uscirono quasi senza pensarci. Al tempo stesso avrebbe anche voluto dichiararsi, dirle che, per quanto potesse sembrare orribile e pretenzioso, il fatto che lei rimanesse a Londra gli dava un senso di pace. Cacciò quel pensiero, sentendosi in colpa e lasciò che le parole riprendessero a  uscirgli di bocca: «Che poi, alla fine, cosa c’è a Londra che non puoi trovare anche a Glasgow?»

«Tu.»

Il sorriso che si era dipinto prima sul volto di Peter scomparve all’improvviso. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma un mormorato: «Cosa?» furono le uniche sillabe che gli uscirono di bocca.

Audrey alzò lo sguardo su di lui. Tuttavia appena incrociò i suoi occhi tornò ad abbassarlo. 

«Tu» ripeté. «Se avessi dovuto decidere se andare o meno a Glasgow io...ci avrei dovuto pensare, ecco. Perché là non ci saresti stato tu.»

Era agitata e il cuore le batteva in modo frenetico. Parlava in fretta, quasi senza prendere fiato, convinta che se si fosse fermata non sarebbe più riuscita a dire altro. Il ragazzo, accanto a lei, continuava a fissarla incredulo, sperando di vederla sollevare gli occhi verso di lui.

«Ci ho messo un po’ per capirlo» continuò la pianista, allo stesso modo di prima. «Tu...mi piaci. A-ancora non so in che modo, ma è chiaro che non è una semplice simpatia o una normale amicizia. È... è qualcosa di più. E mi chiedo, se avessi dovuto decidere se andare o meno a Glasgow cosa avrei fatto? Te lo avrei detto? Avrei fatto finta di niente? Non riesco a smettere di pensarci. E volevo che tu lo sapessi.»

Audrey si zittì tutto d’un tratto, decidendosi finalmente a tornare a guardare Peter. Quest’ultimo non poté fare a meno di sentirsi confuso. Non aveva capito con esattezza la dinamica dei fatti e anche continuare a pensarci non serviva a molto. Sapeva solo che quella che gli si era appena presentata poteva essere la sua occasione più importante e che, se se la fosse lasciata sfuggire, di certo non si sarebbe mai perdonato la cosa. Doveva giocarsi tutto in quell’unico frangente e dire qualcosa in grado di lasciare intendere a Audrey che anche per lui valeva lo stesso, che anche lui, per lei, provava “qualcosa di più”. Tuttavia mentre continuava a guardare negli occhi la pianista – con ancora la sua migliore espressione sorpresa dipinta sul volto – le parole faticavano a uscirgli; affioravano a frotte nella sua mente, caotiche e senza un ordine preciso e nei secondi concitati che lui stava attraversando dare un ordine a quel caos gli risultò impossibile. Decise di cambiare tattica, puntando su qualcosa di più immediato e, decisamente, di molto più effetto. Non esitò neanche per un secondo, perché pensò che non avesse senso, a quel punto, lasciarsi prendere anche solo da una leggera incertezza; esitare era spesso un grave errore e sbagliare era l’ultima cosa di cui Peter aveva bisogno in quel momento. Si avvicinò alla ragazza e, prima che lei potesse capire cosa stava succedendo, la baciò. 

Fu un bacio semplice, ma non per questo privo di significato. L’illustratore sapeva che si stava giocando tutto con quel gesto, per tale motivo passò il tempo con la preoccupazione di vedersi respinto, scoprendo di conseguenza di avere rovinato tutto. Nonostante quanto gli aveva appena detto Audrey, infatti, non era così sicuro di stare facendo la cosa giusta. Tuttavia la pianista non fece nulla per allontanarlo, al punto che quando il ragazzo si separò da lei, ruotò il busto verso di lui e lo baciò di nuovo. Allora Peter si lasciò andare; le sfiorò il viso con le mani, sentì i suoi capelli fra le dita e si avvicinò ancora di più.  Audrey, dall’altra parte, comprese che il subbuglio che sentiva dentro di sé non poteva che essere positivo. Quel ragazzo le piaceva, moltissimo e tutte le sensazioni che il contatto con le sue labbra gli provocavano non potevano fare altro che confermare la cosa. Lo ringraziò mentalmente per averla baciata, per avere trovato lui la forza di compiere quel gesto che la stava aiutando a capire la realtà dei fatti.

«Era questo che cercavo di dirti» disse lei, separandosi un momento da ragazzo. 

Peter sorrise. «Ah sì? Assomiglia molto a quello che volevo dire io.» Dopodiché la baciò ancora. Quell’ultimo bacio fu il più lungo dei tre e diede il tempo ai due di registrare tutto ciò che prima era sfuggito. Probabilmente sarebbe durato ancora se non fossero stati interrotti. Le prime, grosse, gocce d’acqua, fecero intuire ai ragazzi che stava arrivando un acquazzone. Alzarono entrambi lo sguardo al cielo e capirono di avere ragione: nell’arco di tempo che avevano impiegato per capire che fra loro c’era qualcosa, nubi nere si erano affacciate sulla città e la stavano coprendo a grande velocità. Era il primo di una lunga serie di acquazzoni estivi e, anche se duravano in media poche decine di minuti, quando si abbattevano su Londra era meglio essere al coperto.

Peter guardò Audrey. «Che ne dici, ora ti va quel muffin?»

«Molto volentieri» rispose lei, mentre l’acqua già cominciava a scendere copiosa.

L’illustratore si alzò, prese per mano la pianista e insieme si avviarono in gran fretta fuori dal parco, verso casa di Peter. Mentre lo seguiva, tenendolo per mano, Audrey non riuscì a fare a meno di ridere e sentì che anche lui la stava imitando. Era come essere tornata ai tempi della sua prima storia, quando tutto sembrava magico e perfetto. Mentre l’acqua le bagnava i capelli le sembrava quasi di essere dentro un film, uno di quelli che fanno stare bene, che ti fanno venire voglia di provare tu stessa quell’esperienza. L’unica differenza era che tutto ciò era reale, che non sarebbero comparsi i titolo di coda all’improvviso, in uno dei momenti migliori. Era felice di averci provato, di aver deciso di andare fino in fondo. Dopotutto, se non lo avesse fatto, ora non si troverebbe neanche lì, a ridere sotto la pioggia tenendo per mano il ragazzo che, come Oliver le aveva detto, avrebbe potuto essere il suo Sebastian.

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Capitolo 25
*** Epilogo ***


 

 

 

Salendo la rampa di scale, Peter rallentò istintivamente il passo. Stava riascoltando per la seconda volta la nuova canzone dei Bastille, in cerca di sfumature che al primo ascolto gli erano sfuggite. La band aveva da poco rilasciato un nuovo singolo – forse presagio di un intero album – e dato che si trattava della band preferita dell’illustratore, il ragazzo aveva iniziato la giornata proprio con quella canzone che, neanche a volerlo, già adorava. 

Forse era merito del brano, ma il suo umore era ottimo, quel pomeriggio. Allo studio aveva avuto una giornata proficua, incontrando la scrittrice del nuovo libro a cui stava lavorando. L’autrice era molto conosciuta nell’ambiente dei libri illustrati e il fatto che avesse espressamente chiesto di Peter Bayle aveva suscitato un moto d’orgoglio dentro il ragazzo. Nella sua testa già vi frullavano svariate idee, bozze per i personaggi, colori per i fondali e la canzone che stava ascoltando gli diede nuova ispirazione. Girò la chiave nella serratura della porta, spegnendo la musica.

«Ciao» salutò appena fu in casa. La risposta provenne dalla camera da letto e lui si avviò là. «Come stai?» chiese ancora prima di entrare. 

Trovò Audrey seduta sul letto, il portatile aperto poco più avanti rispetto a lei. Aveva una coperta sulle spalle e indossava una delle felpe di Peter – la letterman nera e bianca– nonostante ci fosse ancora piuttosto caldo per essere fine settembre. Aveva da poco iniziato a portare gli occhiali per la sua lieve miopia e la spessa montatura nera che aveva scelto donava particolarmente al suo viso fine, facendo risaltare gli occhi azzurri.

Per i due fu inevitabile sorridere quando incrociarono lo sguardo dell’altro. Stavano insieme da un paio di mesi, ormai, ma per entrambi era come se fossero passati solo pochi giorni. Era ancora uno scoprirsi a vicenda, per loro, parlare per ore di cose di cui avevano già disquisito e ridere alla scoperta dell’interesse comune. Forse prima o poi tutto quello sarebbe finito e si sarebbero ritrovati come una di quelle coppie che cena in silenzio, ma erano entrambi piuttosto convinti di non esserne i tipi. Alla base della loro storia c’era un’amicizia, perciò di trattava di basi solide; inoltre avevano trovato nell’altro ciò che cercavano in se stessi e questo significava molto. Audrey non aveva dubitato un secondo della sua scelta e Peter nemmeno.

In quel lasso di tempo la ragazza era riuscita a superare il rifiuto della BBC Scottish Symphony Orchestra ed era tornata a essere la consueta e innamorata pianista del Menier Chocolate Factory. Viveva ancora nell’appartamento di Chadd Green, nonostante le spese d’affitto. Non era riuscita ad abbandonare quella casa per diversi motivi – le ricordava Oliver, non voleva rischiare di incontrare dei coinquilini problematici – così aveva preferito fare economia e applicarsi in modo da riuscire a sostenere da sola l’affitto. Per sua fortuna, quella casa non aveva un costo molto elevato. Al tempo stesso, inoltre, sperava che presto Peter si sarebbe trasferito da lei, lasciando il suo appartamento di Florence Rd. Anche il ragazzo avrebbe parlato volentieri della possibilità di spostarsi in pianta stabile in Chadd Green, ma era preoccupato fosse ancora troppo presto affrontare l’argomento; era un passo importante ed entrambi dovevano esserne ugualmente sicuri. Così lasciavano scorrere il tempo, in attesa che uno dei due trovasse la forza di parlarne.

«Un po’ meglio» disse Audrey, in risposta alla domanda del ragazzo. «Ho ancora qualche linea di febbre, ma tutto sommato sto bene.» Omise di dire per l’ennesima volta che solo una con degli anticorpi ridicoli poteva ammalarsi in quel periodo dell’anno, ma Peter le aveva già mostrato una certa solidarietà a riguardo. La pianista mise in pausa il film e tornò a guardare l’illustratore, che sembrava sovrappensiero. Peter, invece, fece vagare lo sguardo sulle pareti alle spalle di Audrey, senza un reale motivo. Aveva ormai imparato cosa vi avrebbe trovato sopra; il poster di La La Land, quello di Star Wars, una serie di foto, qualche spartito musicale, alcuni appunti. Tuttavia si accorse che erano comparsi anche degli altri foglietti, dei disegni. Suoi disegni. Ne aveva regalati diversi, alla ragazza, in quei primi mesi della loro relazione; per lui era frequente e molto semplice disegnare la pianista. Ogni volta che pensava a lei non resisteva alla tentazione e, se poteva, cominciava ad abbozzare la sua figura su un foglietto di carta, aspettando di avere il tempo sufficiente per stenderci sopra il colore senza essere interrotto. Dopo che le aveva mostrato il primo, aveva capito dai suoi occhi che quel regalo le era piaciuto e gli altri lavori erano arrivati di conseguenza. Audrey ne aveva appesi quattro alle pareti, incluso quello che lei definiva il suo preferito: una versione cartonizzata di in braccio a Chewbecca.

La ragazza seguì lo sguardo di Peter, notando che stava osservando i suoi lavori. Gli sorrise e non servì aggiungere altro perché si intendessero.

«Che film stai guardando?» le chiese poi lui, avvicinandosi al letto.

«Star Wars. Mi sto facendo la maratona.»

«Quale trilogia?»

Audrey si lasciò sfuggire una smorfia, stringendosi nelle spalle. «La prequel.»

«Oh, pessima scelta» la rimproverò lui in modo scherzoso. 

«Lo so. Però c’è Ewan McGregor» continuò lei, come se la presenza dell’attore scozzese potesse perdonarla di tutto.

A Peter non andava totalmente a genio l’amore platonico e incondizionato che la sua – ufficialmente – ragazza provava per McGregor, sapeva di non poter competere con il fascino dell’uomo, soprattutto se conciato come Obi-Wan Kenobi; tuttavia rimaneva il fatto che nella conquista al cuore di Audrey, concretamente, aveva vinto lui, quindi sotto quel punto di vista non aveva motivo di temere McGregor; in un certo senso si sentì migliore di lui, consapevolezza che fece montare la sua autostima all’improvviso e senza un reale motivo.

Alla fine la pianista chiuse il portatile, decidendo di dedicare la sua attenzione esclusivamente al ragazzo.

«Ti ho preso della cioccolata.» Peter sollevò una barretta dall’incarto argentato, mostrandola a Audrey. Era da sempre un sostenitore del fatto che il cioccolato risolvesse gran parte dei problemi – più o meno come il professor Lupin di Harry Potter – specie quando si era ammalati.

La ragazza si lasciò sfuggire un lieve “oh” davanti al gesto che lui le aveva riservato, dopodiché afferrò una lettera che aveva accanto a sé sul letto e la rigirò fra le mani.

«Ho anche io qualcosa per te» disse, sollevando la busta bianca davanti al volto. «Oggi, in un impeto di energia, mi sono avventurata fino al piano terra per incontrare Damian. Mi ha detto che ti è arrivata questa e voleva fartela avere subito.»

Tese la lettera verso Peter, che le diede in cambio la tavoletta di cioccolato. Lui parve abbastanza confuso dalla situazione. Si chiese cosa potesse essere di tanto importante da portare Damian a Chadd Green – sebbene non abitasse così lontano – e quando afferrò la busta e lesse il nome del mittente, spalancò gli occhi, sentendosi improvvisamente nervoso. Proveniva dal GAE Studios di Edimburgo.

Era la risposta che Peter stava aspettando, il verdetto alla candidatura che aveva inviato cinque settimane prima, quando lo studio scozzese aveva annunciato che cercava nuovi illustratori da assumere. Ne usciva circa uno ogni due anni di quegli annunci, ciò che per il ragazzo non era altro se non una grande occasione. Era la seconda volta che inviava la sua candidatura e il portfolio migliore che aveva nella speranza di vedere i suoi disegni accettati, di sentire che il suo modo di lavorare era stato considerato all’altezza dello studio di animazione. A quel nuovo tentativo, Audrey gli aveva dato il sostegno di cui lui sentiva di avere bisogno mentre compilava la domanda di candidatura.

Osservò ancora il logo dello studio nell’angolo destro della busta, fremendo dalla voglia di leggere il verdetto, ma intimorito dalla cosa al tempo stesso. Se fosse stato accettato avrebbe dovuto trasferirsi a Edimburgo e, ora che aveva Audrey, quella prospettiva lo preoccupava un po’. Al tempo stesso, però, quando aveva parlato con la pianista della cosa, lei gli aveva fatto intendere che se le cose fossero andate in quella direzione, sarebbero riusciti a trovare una soluzione, una che confacesse a entrambi. Dopotutto la ragazza aveva iniziato a suonare nei jazz club da qualche settimana, intenzionata a fare il meglio per entrare in quell’ambiente musicale che le piaceva tanto e in una delle loro recenti conversazioni ci aveva tenuto a ricordare al ragazzo che a Edimburgo c’erano ottimi jazz club.

Peter sapeva che non era la pianista il motivo per cui temeva tanto di aprire la busta. Era il verdetto a spaventarlo, qualunque fosse stato. Se fosse stato positivo avrebbe significato dover riscrivere completamente la propria vita. Al contrario, invece, vedersi respinto nuovamente dal GAE Studios avrebbe rappresentato per lui un durissimo colpo.

Scambiò uno sguardo con Audrey, che lo incitò ad andare avanti, per poi concentrarsi sulla barretta di cioccolato.

«Peter ma questo è cioccolato fondente» gli disse.

«A te piace» rispose il ragazzo, ma era chiaro che stesse pensando a tutt’altro.

«No, piace a te.»

«Ah, scusa» continuò lui con lo stesso tono assente di poco prima. Audrey lasciò perdere la cioccolata, posando la barretta sul letto e rimase a guardare Peter che, presa una lunga boccata d’aria, forzava un lembo della busta per poterla aprire. Si sedette sul bordo del letto, vicino alla pianista ed estrasse la carta intestata dello studio di animazione. Spiegò il foglio, sfiorandone la superficie.

Audrey si avvicinò a lui e posò il mento sulla sua spalla per poter leggere le stesse parole del ragazzo. Scorse le righe di testo che certamente stava guardando anche lui e appena ebbero finito entrambi di leggere, nessuno dei due parlò. Il ragazzo sentì Audrey avvicinarsi di più a lui, cingergli la vita con le braccia.

«Mi dispiace tanto, Pete» gli disse, lasciandogli un lieve bacio sul collo.

Lui non disse nulla. Teneva gli occhi ancora fissi sul testo della lettera, sentendosi totalmente annichilito. Era stato respinto. Di nuovo, per lo studio scozzese, i suoi lavori non erano “sufficientemente originali”. Ancora una volta le sue capacità non erano state considerate all’altezza, il suo meglio non era bastato. Era stato uno schiaffo in pieno volto e faceva male, moltissimo.

«Sembra che dovrai rimanere ancora un po’ qui a Londra con me» gli disse lei, tentando di stemperare un po’ l’atmosfera. «A quanto pare gli scozzesi non ci vogliono.»

Sapeva quanto era stato duro per Peter il colpo che aveva appena ricevuto. Nessuno gli avrebbe detto di no se avesse visto con quanto amore e passione il ragazzo si dedicava al disegno. Purtroppo, però, la concorrenza era sempre più spietata della dedizione.

Alle parole di Audrey, Peter sorrise. Per quanto il rifiuto della GAE Studios facesse male, la sua mente gli disse di concentrarsi solo sulla pianista in quel momento, al modo in cui gli si era stretta, al tocco delle sue mani. Con lei accanto sembrava tutto più facile da affrontare, meno ingiusto, meno doloroso. Si voltò verso di lei per poterla abbracciare, stropicciando nella mano la lettera di rifiuto. Audrey si accoccolò fra le sue braccia come un gatto, dandogli tutto il tempo di cui aveva bisogno.

A Peter bastarono pochi istanti per sentirsi meglio, per ricordarsi che poteva ancora perfezionarsi, migliorare ulteriormente fino a ricevere il riconoscimento a cui ambiva tanto. Anche se non fosse mai arrivato, però, capì che avrebbe imparato a convivere con la cosa. Finché accanto a lui ci fosse stata Audrey, non aveva bisogno di altro.

 

 

 

 

 

Ciao a tutti.

Siamo arrivati alla fine di questa storia. Ci tenevo a rubarvi solo un altro paio di minuti per ringraziarvi di cuore di aver letto fino in fondo il racconto di Audrey e Peter. So che si è trattato di una storia “lenta” (volutamente, ci tengo a precisare), ma sono ugualmente contenta di sapere che, nonostante i tempi che per alcuni possono essere eccessivamente dilatati, questo lavoro abbia ugualmente trovato dei sostenitori. Grazie davvero.

Ultimissima cosa, se qualcuno volesse provare a indovinare il presta volto di Peter mi farebbe piacere xD

Grazie ancora! Al momento sto lavorando a una nuova storia, sarebbe bello poter ritrovare qualcuno di voi, nel caso.

Alla prossima!

MadAka

 

 

 

 

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