Exhȳdria

di Manto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Cacciatore di Stelle ***
Capitolo 2: *** Anima Scarlatta ***



Capitolo 1
*** Il Cacciatore di Stelle ***


Exhȳdria


{Exhȳdria: Termine della lingua greca,
indicante il vento che porta tempesta.
}




♦◊♦


And I always said, we should be togheter
I can’t sleep alone, because there’s something in here
And if you are gone,
I will not belong here



And my heart is a hollow plan
For the devil to dance again





Breath of Life”, Florence + The Machine


♦◊♦




I ● Il Cacciatore di Stelle




Il piccolo focolare, vivido cuore nella notte; e poi il fumo che saliva verso le schegge di cielo che le fessure nel tetto facevano penetrare, le pareti quasi spezzate dalla furia delle rose rampicanti, l’anello di giovani querce che circondava la radura. L’intero mondo incrociava le proprie forze sopra quella casa: il legno profumava dell’alba come del tramonto, ogni mattino il letto dei suoi abitanti era intessuto di petali e rugiada; anche le fiere indomite trovavano protezione nella struttura dalla porta dipinta di blu e oro, condividevano lo spazio con gli umani fissandoli con occhi di giada e silenziosi movimenti nelle ultime tracce di oscurità. Né l’inverno né la quieta pioggia turbavano il sonno e la pace: quel nido esisteva per proteggere la vita e rispettarla, e la Natura faceva lo stesso.
Ricordi di fuoco e fumo, sentore di viole selvatiche ed echi di voci intrecciate nelle sere d’autunno: se solo avesse potuto tornare indietro…

Oppure dimenticare tutto quanto. In realtà, a differenza di quel luogo che ancora esisteva così com’era stato costruito, lui non era più l’anima che la memoria spesso piangeva; erano sogni di un altro, quelli.
Mi accetteresti ancora, mio dolce rifugio? Chi ti rendeva tale se n’è andato per sempre… ma tu sapresti riconoscere l’uomo che sono stato?





Era nato senza un nome; dei tanti con cui le genti, gli eventi e il Tempo gli avrebbero marchiato la pelle, nessuno gli sarebbe mai appartenuto.
Solo quelli che ho ricevuto da me stesso.
Inizialmente, la realtà su cui aveva aperto gli occhi non aveva necessitato di alcun tipo di delimitazione, né fisica né verbale: era stato un unico, incessante fluire di forze ed energia oltre lo spazio e il tempo, un battito racchiuso in un punto e allo stesso tempo ovunque, dove sia la luce che il silenzio avevano trovato un’indistruttibile armonia; era stata l’esistenza ai suoi inizi, materia in evoluzione e continua espansione.
Sì, era stato uno dei primi uomini: più longevi, forti e valenti di quelli che i secoli successivi avrebbero visto crescere, ma comunque mortali — e per questo, destinati a scomparire dalla memoria; a contatto con l’immortalità e la perfezione, condannati a non farvi parte.
Fino a quando l’intero universo era rimasto addensato in quella spirale di pura essenza, la coscienza di tutti
non aveva avuto modo di svilupparsi; infatti solo in seguito, con l’avvento della creazione vera e propria e il definirsi di una nuova realtà, anche le opposizioni avevano preso corpo e, come necessario, ordinato il flusso del divenire.
Parola, silenzio.
Carne, metallo, minerale.
Calore, gelo.
Luna, stella.
Femmina, maschio; e poi estate, inverno, protezione, tristezza.
Felicità, rabbia.
Empatia.
Devozione.
Lealtà.

Immortalità. Rovina.
In poco tempo erano sorte le prime città, e con esse erano state approntate le arti e tecniche necessarie per renderle splendide e abbandonare del tutto i rifugi naturali; i Creatori avevano istruito gli umani su come dominare il fuoco, il ghiaccio e le tenebre, boschi e laghi avevano aperto il ventre per nutrire la vita… e lentamente, le creature tanto amate e volute dai Supremi avevano iniziato a muoversi con le proprie forze e a non avere più paura del proprio simile, a unirsi, affinare ed espandere la conoscenza ogni giorno di più, fino a posare il proprio sguardo sul fascino dell’impossibile.
Lui non aveva mai sentito il bisogno ossessivo della pietra e dell’ossidiana, i suoi passi e tutto l’interesse erano subito stati per il rigoglio arboreo e il suono delle cascate, incastonato nella veglia come nel sonno: per questo motivo aveva costruito il suo focolare
[1] tra le braccia di una radura e aveva edificato nel legno degli alberi più resistenti le mura che lo custodivano, per questo aveva dipinto l’accesso con il corpo blu degli iris e la sfumatura solare dei narcisi acquatici, in un sottile dialogo tra ingegno umano e regno naturale; per questo, quando i Beati avevano ordinato a tutti di trovarsi un nome, aveva scelto quello che più era vicino al cuore, così che la parola Daire(♦) potesse conoscere il mondo insieme al suo possessore.
Daire, la Sentinella delle Foreste; Daire dagli occhi viola, un’ombra nelle iridi e un piede sempre distante da quello degli altri… gli altri che erano tutti, tranne l’uomo nato nel suo stesso istante — la percezione di avere un corpo concreto, la realtà piena di colori fissi, stabili; infine, una presa calda, estranea ma benefica, intorno alla sue dita. Mano che stringe un’altra mano, terrore di solitudine e ricerca di vicinanza —, l’unico che avesse conosciuto la notte al suo fianco. Le memorie più intense, così come tutti gli istanti di pace, erano sempre state legate a quel giovane continuamente desideroso di libertà.

Per molto tempo hai camminato accanto a me, sei stato mio amico
[2]; abbiamo vissuto vicino anche quando i nostri desideri sono mutati.
Il mondo l’abbiamo conosciuto attraverso due sguardi, i sentimenti hanno preso forma tra noi; nel tumulto della città io ancora ti sentivo, nel cuore del bosco tu riuscivi a chiamarmi.

«Daire è una parola che esprime appieno quello che sei: solitario, silenzioso, osservatore come i fiori che ora ci circondano.
La gente delle città è diversa.»
«Non credi che sia io quello diverso, in realtà?»
«C’è qualcosa di più forte che scorre in te.»
«Siamo tra gli alberi; la tua sensazione nasce dal loro respiro. Probabilmente ti sei già dimenticato come sia vivere vicino alla terra.»
«La Natura ha una voce diversa dal marmo; questo, però, lo sapevo già. No, ciò che sento è totalmente opposto.»
Innumerevoli volte gli specchi lacustri avevano riflesso le loro figure: quella più alta e avvolta in neri abiti di uno, i tratti gentili e gli occhi cangianti, dolci, dell’altro. Severità e indulgenza, gemma del buio e riflesso dell’aurora, attaccamento al ciclo del mondo e impulso di cambiamento: diversi nelle azioni, sempre uniti nei pensieri.
«Dovresti trovarti un nome; non posso chiamarti in mille modi, devi avere una parola che appartenga solo a te.»
«Siamo unicamente questo? Parole, oppure anche corpi, desideri, altro?» Un sospiro. «I nostri creatori… ci hanno dato una forma, hanno permesso alla nostra mente di aprirsi e apprendere; e, credo, hanno racchiuso in noi qualcosa di ancora diverso. Tu, per esempio, hai sempre saputo sentire la voce delle foglie e del suolo: sai spiegarmi perché? Difficilmente potresti farlo: lo senti perché è dentro di te.
Abbiamo definito
affetto il senso di calore che proviamo per un nostro simile; rabbia quando vogliamo distanziarci da lui, perdono quando quello che ha fatto scaturire la rabbia non cancella l’affetto… ogni cosa è collegata, ma qual è la fonte? C’è qualcosa che ci guida, ci aiuta; non si può trovare fuori, è nascosta sotto la nostra pelle e vive nel profondo.»
Lui avrebbe conosciuto il significato di
anima solo più tardi; invece, quel giovane con cui aveva condiviso il primo respiro già l’aveva compresa.
Anche se non completamente capita, aveva comunque percepito la realtà nella voce del compagno: una porta capace di dare accesso a una nuova forma di verità e conoscenza, più intima e totalizzante.

Forse solo allora sono nato davvero.
«E comunque… se vuoi un nome, chiamami Glauco
(♦), come il cielo. Se tu hai scelto la forza delle tue amate querce, io abbraccerò le nuvole.»
«Così sia, allora. Ora so che è a Glauco che devo chiedere se vuole lasciare la città, e vivere con me.»
«La stessa cosa che Agia ha detto a Telefo questa stessa mattina.»
«Non considerarti così importante!» Una risata fusa insieme allo scherzo, anello dell’amicizia. «Famiglia… non è solo un uomo e una donna, sai?
Famiglia sei anche tu per me; solo con te sento di non essere incompleto.»

E solo.
Lunghi capelli di bronzo mescolati a ciocche ebano; le fronti vicine più del consueto, l’opale e l’ametista collegate da un silenzioso dialogo. «E tu sei sempre stato il mio riferimento, pur nel
l’errare. Lasciami andare, lasciami conoscere quello che si muove al di là dell’orizzonte; lo sai che tornerò, non temere mai il contrario.»
«Allora non mi resta che attenderti.»
Nel tempo, erano state molte le volte in cui Glauco aveva ascoltato la sua richiesta; e il vero fuoco della casa, il centro della sua essenza, era divenuto proprio il volto brunito dal sole e sorridente con cui l’allegro girovago era stato solito sporgersi attraverso l’uscio e annunciare il suo arrivo, consentendo il ritorno della luce. In quei momenti, la perfezione aveva vissuto anche in mezzo a loro.

Illusione, madre di tutti i mali… a volte credo ancora alle tue colpe.




Inizialmente, anche la Morte non aveva avuto un vero nome.
Passato neppure un secolo dalla Creazione, tra mura arse dal mezzogiorno e archi di pietra rosata si era iniziato a mormorare di alcuni uomini che, nel sonno o nel mezzo di una qualsiasi azione, erano collassati al suolo per non rialzarsi più: gli occhi fissi alle alte volte celesti o serrati sotto le palpebre, i protagonisti di quegli inspiegabili fatti avevano recato confusione e incomprensione, ma non paura — non ancora.
Gli dèi che avevano vissuto in mezzo a loro erano stati interpellati, come sempre quando qualcosa di sconosciuto aveva turbato il cammino; e quei volti riflettenti i giochi del cielo notturno o il colore cupo del mare, distanti
ma compassionevoli, avevano raccontato di un viaggio che alcune anime — ormai quel termine era stato appreso, ma ogni volta lui era stato scosso come da un timore ancestrale — avevano intrapreso verso nuovi luoghi, e che per lunghi anni questo non avrebbe consentito il loro ritorno.
Il fatto non avrebbe dovuto recare timore o sconforto, in quanto a quella seppur lunga separazione si sarebbe unita una promessa di ricongiungimento; e in tal modo l’Oscura era stata introdotta celata da panni splendenti, mentre i corpi dei caduti erano stati prelevati dagli stessi Supremi e portati in un luogo adatto all’attesa del proprio spirito.

Nessuno, forse nemmeno la mente acuta di Glauco, avrebbe potuto scoprire la realtà velata sotto le parole; ma se inizialmente la possibilità non era stata considerata, le idee erano rapidamente mutate quando, dopo e insieme alla Morte, erano giunte altre degenerazioni.
La Malattia aveva iniziato a manifestarsi con asfissia, bolle cremisi capaci di stravolgere le forme dalle membra, insonnia e pazzia; la Fame, invece, era venuta per piegare le ginocchia e ridurre a fantocci anche i più forti.
Le città si erano presto trasformate in un crogiolo di domande e paure, in sgomento davanti alle pene che avevano colpito indiscriminatamente uomini e donne, i nuovi nati come i più vecchi; in molti avevano fatto ritorno alla protezione delle grotte o degli alberi per cercare un qualche tipo di sopravvivenza, ma anche qui erano stati inseguiti dai figli della Privazione, creature ancora senza nome ma con la voracità di una maledizione, chiamate Disperazione e Pianto.
«I Beati non rispondono più alle nostre parole; osservano e ascoltano in silenzio, ma non riescono a salvarci. Che cosa sta succedendo?»
I sussurri di Glauco erano risuonati nell’ombra di una sera rovente, tra giacinti seccati dall’arsura prolungata e una luna senza contorni, rinchiusa tra il fumo che saliva dai palazzi — «
Il fuoco non potrà purificare tutto questo!» — e le onde di sabbia recate dal vento del lontano deserto, impietoso e soffocante.
«Sei certo che vogliano farlo?»
«Daire…»
Nessuna risposta, se non un’occhiata più intensa delle altre. Per giorni il suo sguardo aveva seguito con attenzione il divenire delle foreste, colpite da morbo e sofferenza come tutte le altre forme di vita; molto di ciò che era stato infettato si era consumato e aveva perso la propria voce, e il rincorrersi delle stagioni lo avrebbe sanato solo parzialmente.
I corpi d
egli esanimi, negli ultimi tempi sempre più numerosi, erano stati portati via dai Supremi e nessuno li aveva più visti; ma le selve non avevano mai nascosto nulla, mostrando invece che un’anima fuggita sarebbe stata perduta per sempre: l’involucro di legno che l’aveva racchiusa si sarebbe consumato fino a scomparire, anche desiderandolo da sé lo spirito non sarebbe riuscito a ritrovarlo, poiché non ci sarebbe stato nulla a cui ricongiungersi.
Quel pensiero improvviso lo aveva sconvolto, ma non come si sarebbe aspettato: nel profondo, qualcosa gli aveva sussurrato che già da molto tempo ne era certo, forse per il continuo contatto con il ciclo naturale…
forse per altro.

Ma era ancora troppo presto per capire.
«… Daire, che cosa vuoi dire?»
«Non lo so…»
Ancora troppo fiducioso. «Non lo so davvero.»
Glauco aveva annuito, e la notte aveva perso ogni luce residua. «Partirò il prima possibile. Voglio cercare un rimedio a tutto questo; non posso stare qui a guardare senza tentare di fare qualcosa.»
Non avrebbe potuto mai fermare quell’amico dalla tempra d’acciaio; come sarebbe stato impossibile spiegare razionalmente l’inquietudine scaturita da quella decisione, il primo dei tanti presagi che l’avrebbero segnato.
Come per proteggerlo, nei giorni successivi le foreste si erano chiuse intorno a lui e alla casa; dopo settimane d’assenza, la pioggia aveva ricominciato a scendere e ad allentare il morso delle pestilenze, concedendo la fallace speranza che il peggio fosse passato.
La verità dei fatti, della miseria, aveva comunque trovato il sentiero per raggiungere la sua porta: aveva bussato nello stesso momento in cui l’aveva fatto la figura emaciata, tremante e debole, che aveva intriso di cremisi le volute blu ed era poi precipitata bocconi sulla soglia. Di ritorno da una pesca infruttuosa, lui l’aveva trovata così: rannicchiata sul pavimento tra coltri strappate nel delirio della malattia, circondata da rivoli di sangue e puzzo di urina, la persona che un tempo era stata la sua guida lo aveva fissato con occhi non più azzurri ma opachi, la luminosa pelle scura divenuta grigia e tutta la bellezza svanita. Le ossa avevano scricchiolato quando lui era accorso a sostenere quel corpo stanco; e il suo sguardo si era riempito del desiderio di non vedere più nulla.
«Perdonami, Daire. Perdonami, ho fallito! Me ne sono andato per scoprire il modo di salvarci… e sono ritornato per morire.»
«Morire? Che cosa vuol dire?»
Un sorriso confuso tra le lacrime, un mugolio riposto in un estremo incontro delle rispettive mani. «Significa svanire, amico mio; significa che io partirò ancora una volta, e tu non dovrai più aspettarmi.
Ho resistito fino ad adesso perché volevo sentire il tuo abbraccio un’ultima volta… perdonami, perdonami davvero! Ti lascerò solo… ti lascerò indietro, in questo viaggio. Sono così cattivo!»
«Basta, smettila di parlare! Stai delirando.»
Saliva e bile avevano intriso i suoi abiti quando aveva sollevato tra le braccia Glauco e lo aveva portato in una rapida corsa tra i sentieri selvatici, verso la città più vicina e le sedi dei Beati; ma al limitare delle selve fu proprio uno di questi a venirgli incontro, potenza delle acque fluviali e dei monti, gli stessi che andavano sgretolandosi come un pianto di pietra. Davanti al dio lui si era fermato e aveva proteso il compagno, fissandolo sconvolto e con tanto, troppo, da perdere. «Siete i Creatori, ci avete donato ogni cosa… salvatelo, potete farlo!»
Le onde nel corpo del dio non si erano mosse nemmeno quando lui gli si era inginocchiato davanti nella prima e ultima delle suppliche, ma la voce aveva perturbato l’aria. «Non è possibile; voi creature siete destinate a cessare la vostra esistenza, prima o poi, e la sua sta per compiere l’ultimo passo. È nel vostro fato.»
«Ma Glauco deve ancora fare tanto per l’umanità! È migliore di molti, la sua vita vale anche più della mia! Vi prego… concedete a lui di sopravvivere, e questa grazia la ripagherò con tutto ciò che vorrete: sono disposto a dare la mia esistenza in cambio, se fosse un vostro desiderio.
Non voglio perderlo… non voglio.»
«Che superbia! Tutti avete lo stesso valore, quel relitto non è di certo più importante di te. Dallo a me, ora.»
«Ma…»
«Consegnami il tuo amico; rimarrà vivo ancora per pochi attimi, deve essere deposto insieme agli altri.»
«Deposto…» La presa più stretta sulle braccia smagrite del prezioso amico, a trattenere i singulti già radi e silenti. «Ci avete ingannato, tutti voi Creatori; a me avete parlato di fine dell’esistenza, ma agli altri uomini avete detto di attendere i compagni. Non c’è nessuno da aspettare, vero? Sono morti, come dice Glauco, come testimonia la natura che ci sta guardando: se ne sono andati per sempre.»
Il dio aveva esitato un istante, quindi aveva voltato appena il capo. «Forse tu sei più accorto degli altri», aveva sussurrato, «ma di certo questo non cambia nulla. A chi gioverebbe sapere la verità? Non sopravvivereste comunque. Dammi il corpo, ora.»
Non era rabbia quella che allora aveva provato; non solo… no, qualcosa di più forte, come l’odio: l’odio che per primo aveva portato nel mondo. «Avevate forse paura di noi? Temevate di perdere la nostra obbedienza, l’amore, le nostre offerte?»
Da dove era nata quell’affermazione — perché la domanda aveva assunto il tono di una risposta —, quell’ardore? Il germe dello scontro era sempre stato in lui, nel mormorio che aveva sentito così spesso?
«Piangi le tue perdite senza incolpare gli altri e impara a rispettare i padri, umano; le tue parole sono flebili come uno spiffero, senza verità.»
Senza che avesse potuto vederle, le braccia del Beato lo avevano spinto a terra e avevano rapito il corpo di Glauco; e anche se ormai il respiro del giovane si era ridotto a un’illusione, lui aveva tentato di riprenderselo.
Inutilmente; e parimenti inutilmente le foreste avevano gridato con lui, uniche compagne del suo dolore, le sole a comprenderlo e affiancarlo.
Odio, disprezzo, furia, violenza: forze mai sentite prima avevano affiancato il suo penoso cammino verso la propria casa, avevano fatto fuggire tutte le fiere che là si erano rifugiate e costretto lui a cercare e conservare ogni traccia dell’amico scomparso.
Disumanità, follia, noncuranza; non sarebbe stato più lo stesso, avrebbe urlato fino a perdere la voce nell’impotenza… avrebbe scelto di morire, e avere almeno la consolazione di non lasciare solo il corpo di Glauco.
Per giorni lo aveva pensato e progettato, rifiutandosi di cibarsi e serrando ogni anfratto della dimora, così che nemmeno un raggio dell’alba sarebbe riuscito a raggiungerlo; per giorni aveva respirato nel livore, sul pavimento lurido, in attesa dell’agognata fine.
Più veloce di questa erano stati, tuttavia, i richiami del mondo: chi aveva avuto in sorte forma e anima sussurrante, silenziosa nell’osservare ma inarrestabile nell’agire, era riuscito a penetrare il vincolo del legno e a scivolare nella gelida struttura, alla ricerca del suo amico più fedele.
Rami e tralci di rose, boccioli e piccoli animali avevano deciso di non attendere nemmeno un istante e raggiungerlo immediatamente, anche a costo di essere scacciati o fatti a pezzi; e avvinghiati alle caviglie e braccia che per tanto li avevano curati, erano rimasti al suo fianco come avevano potuto, penetrandogli sotto la carne e alimentandolo tramite sé stessi.
«Che stupidità, rimanere accanto a chi ha abbandonato tutto.»
«
C’è tanto che ti sta ancora attendendo, non lasciarlo fuggire.»
«Morirò qui, come accaduto a Glauco!»
«
Amare parole, e non del tutto vere: suonano come una contraddizione, se dette da chi vuol essere immortale.»
Ogni voce, esterna o interna a sé, era stata poco più di un pungolo fastidioso; ma quella parola si era trattenuta nell’aria con le proprie forze, per farsi ascoltare a riascoltare. Inutile evitarla: era riuscita a restare comunque, a tormentarlo ancora.
Mi stai nutrendo anche tu?
«
Rialzati ed esci da qui: sei forte abbastanza per combattere.»
«Combattere…»
«
Non senti tutte queste grida? I Beati vi hanno ingannato, lo sai già; e sopporterai l’esistenza di questa menzogna? Fuori di qua ci sono tanti come te, e tutti hanno perso il proprio Glauco; ma a differenza tua lo aspetteranno invano, perderanno la vita con la speranza di rivederlo ancora, ringrazieranno gli dèi per ogni azione, ignari della verità.
No, tutto questo deve finire: i Creatori hanno tenuto ogni felicità per sé e dato a voi la vita per rendervi servi, ma chiediti questo: loro hanno bisogno degli uomini… gli uomini hanno davvero bisogno di loro?
»
No, non era stata la Natura a parlare, improvvisamente ne era divenuto certo: era stata l’incognita custodita nell’anima, quella stilla di diversità che Glauco aveva visto ma non era riuscito a spiegare.
Di ogni metà, di ogni dualità lui era sempre stato vicino a quella più oscura; capace di amare, capace
anche di uccidere.
«
Tu sei diverso, Daire, perché in te vivono la tempesta e la ribellione; vivi con la fierezza della libertà, la tua anima è indomabile quanto lo sono io.
Usami, prendi le tue forze da me; vendica la tua stirpe, vendica Glauco.
»
La nebbia dell’incoscienza aveva lasciato la sua mente, mano a mano la comprensione l’aveva sostituita.
«
Tu sei nato per cambiare il mondo; tu sei qui per portare giustizia.»
Giustizia: la sua si sarebbe fondata in una battaglia e sul medesimo sangue che gli aveva macchiato le mani, sarebbe stata diversa da qualunque principio di Glauco… forse anche dai propri.
Ma per cosa era sopravvissuto fino a quel punto? Aveva resistito ai mali che avevano divorato la gran parte dei suoi simili, energie ben più grandi di lui gli erano rimaste vicine per proteggerlo e sostenerlo; per quale motivo, se non fosse stato destinato a valicare tutti quei limiti?
La sua anima, il crogiolo di sensazioni e pulsioni: proprio nel momento dello smarrimento e della caduta, lei aveva aperto i propri occhi e si era riflessa nei suoi pensieri.

Distruzione, solo per ricostruire.
Buio, per rendere nuovamente la luce.
Inganno, per portare verità; creare qualcosa partendo dal suo opposto.

La sua diversità, finalmente si era manifestata; risvegliata nel dolore, si sarebbe mutata nella sua arma più grande.
«
Potrai lottare da solo, ma non lo sarai veramente; ci sono così tanti come te… loro verranno, ti seguiranno.»
«Iniziamo, allora.»
L’alba non era ancora nata quando aveva abbandonato il suo nido di tristezza; ma seppur nel buio i suoi occhi erano stati guidati con sicurezza, così che i piedi avevano raggiunto la meta appena prima del giorno.
«Io ti conosco», aveva sussurrato la divinità fluviale, sentendolo arrivare e riconoscendolo immediatamente, abbandonando i flutti per andargli incontro; e lui aveva sorriso, chinando appena il capo — non certo per devozione, ma per rispondere all’illusione con l’illusione.
«
Sei la spada e lo scudo degli uomini, tu.»
«Ti ho cercato per chiederti dove hai portato il mio amico. Voglio rivederlo», aveva sussurrato lentamente, a voce tranquilla: l’inganno era stato ben costruito.
«Ti manca ancora? Vi abbiamo creato molto malinconici…», aveva risposto l’altro, senza scomporsi. «Non posso esaudire il tuo desiderio; la malattia non è ancora scomparsa dal suo corpo e potrebbe infettarti.»
«Dimmi almeno dove riposa.»
«Nelle lande più lontane dalla città, sotto cumuli di pietra; là nessuno può entrare in contatto con i morti.»
«Bene.»
«
Ricordati che tu servi a loro, ma che non hanno potere su te.»
Quella volta anche il dio aveva udito il sibilo delle foreste e notato le lunghe ombre che avevano circondato entrambi per stringerne solo uno; e il silenzio confuso lo aveva reso più umano, anche se solamente per un attimo. «Che cosa significa la tua presenza? Cosa vuoi davvero?»
«Sarai tu a dirlo», era stata la risposta; quindi le sue braccia e l’energia di mille e mille corpi si erano allungate sul Supremo e lo avevano afferrato, trascinandolo fuori dalla sua sede e stringendolo sempre più.
Come previsto, questi era riuscito a resistere; ma il corpo aveva iniziato a guizzare in ogni direzione, le onde a frantumarsi contro le sue mani e la stessa voce a caricarsi di spavento.
«
Non è così simile a te, ora?»
«Sì; fragile quanto un mortale.»
La divinità era poi riuscita a scaraventarlo via e farlo rotolare lontano; ma dalle profondità del suolo un nuovo impeto era giunto per aiutarlo, e una lotta più dinamica aveva avuto luogo. Conscio dall’inaspettato pericolo rappresentato dall’avversario, il Beato aveva cercato di rimanere il più possibile vicino all’acqua; ma l’altro era pronto a tutto, proprio perché non era rimasto più nulla da perdere e c’era tutto da ottenere.
«Invidia», aveva gridato il dio durante l’ennesimo attacco, «invidia: ecco cosa ti spinge a ribellarti, perché non ti importa degli uomini, tu vuoi solo il tuo diletto! Non accetti la tua imperfezione… vuoi tutto…»
Il sorriso più maligno aveva intriso ogni ferita della Sentinella delle Foreste, gli occhi viola ormai privi di umanità: qualunque esito avrebbe decretato anche una parziale vittoria. «Hai ragione: l’unica persona a cui tenevo è morta, e dei miei simili non ho cura… e forse sono invidioso, come dici tu; ma non è diletto, questo.
Il diletto sarà renderti umano quanto me;
il diletto sarà diventare dio al posto tuo… e credimi, non mi distoglierai facilmente dall’intento.
E lo vedremo, sì che lo vedremo, se l’ordine può resistere alla devastazione! Lo vedremo, sarò ben felice di saperlo, quel nome con cui verrà chiamato Daire, colui che osò cacciare le stelle più alte!
»
«
Urlalo a lungo; urlalo ancora e sempre. È un nuovo giorno per tutti noi… ed è solamente l’inizio.»





Lontano dalle abitazioni, dalla vista e dai dubbi; qui i Beati avevano rinchiuso gli sfortunati, senza concedere nessuna lacrima.
I tumuli si erano sgretolati sotto le sue dita nere, il sangue di cui i suoi capelli si erano intrisi aveva sciolto le pietre ed esposto fetore e decomposizione alla luce del giorno.
Li aveva fissati a lungo, quei fratelli e sorelle che non aveva mai conosciuto ma che improvvisamente aveva sentito uniti a lui; per i più giovani aveva pianto, per le donne aveva posto un fiore… per tutti loro si era recato nelle città e si era inoltrato nelle vie, portando in mezzo ai vivi la testa del dio che aveva sconfitto, e come nuova divinità non aveva chiesto nulla; nulla, se non l’ascolto. «Abbandonate le vostre case, smettete di aspettare le vostre famiglie», aveva gridato a occhi stupiti e pieni di paura, «andate ad apprendere la verità! Scegliete voi ciò a cui credere, liberatevi dalle catene. Combattete!»

E da allora mi definirono come colui che porta la notte
[4]: Daire, il principe del Caos, il fiore della Discordia.
La mia sorte, un’eterna guerra; il mio cammino, sempre più difficile.
Riesci ancora a sentirmi, Glauco? Riusciresti mai a comprendermi, a purificarmi?
Sei così lontano, ora…







NOTE





[1] Gli archeologi hanno constatato come, al pari di quanto accaduto nei contesti domestici delle civiltà più diverse, anche le case romane più antiche avessero una buca centrale, posta nella camera principale dell’abitazione, dove veniva acceso il fuoco; l’intera dimora era costruito intorno a essa, così da rendere il focolare il cuore pulsante della struttura.


[2] Rielaborazione di una citazione ripresa da Albert Camus.


[3] Nelle società più antiche, la morte era sempre violenta: fosse anche per vecchiaia, era vista comunque come una privazione improvvisa, quasi una maledizione.


[4] “He Who Brings the Night”, brano dei Two Steps from Hell, è un tema perfetto per il personaggio di Daire (tra l’altro l’abum da cui la traccia è tratta si intitola Power of Darkness, neanche a farlo apposta).





Riguardo a particolari nomi:


Daire: Riprende il termine dair, che in irlandese antico significa “Quercia”; associato a questo il termine “druido”.
In molte culture, la simbologia di quest’albero è ancestrale e affonda le sue radici nella religione: secondo Erodoto, il primo oracolo greco fu quello di Zeus (e di una discussa dea madre, che a volte si ricollega a Dione, dea celeste, a volte a Rea o Gaia) a Dodona, nell’Epiro, dove vi era una quercia sacra alle divinità citate.


Glauco: Riprende il termine greco γλαυκός, “Azzurro”. Glaucopide, dagli occhi azzurri, era comune epiteto di Atena.

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Capitolo 2
*** Anima Scarlatta ***


La shot partecipa al contest “Raggio di Luna”, indetto da mystery_koopa sul forum di EFP




II ● Anima Scarlatta




Occhi gelidi, lunghi capelli corvini e quel sorriso sibilante, la peggiore ingiuria, con cui aveva osservato le proprie vittime piangere sul marmo costellato di sangue e brandelli d’abiti; il suo solo fantasma aveva continuato a portare sudiciume e disonore sulla loro pelle, nascondendosi nei bagliori di ogni fiamma e popolando gli incubi di alcune — di tutte, probabilmente; ma quelle più forti tra loro non l’avevano mai ammesso, anche se le cicatrici tenute rigorosamente coperte avevano sempre raccontato un’altra verità.
Fingere non ucciderà il dolore.
Sarebbe bastato passare un polpastrello sopra la stoffa delle vesti, premendo un poco per giungere alla pelle del ventre; e le tracce rossastre sarebbero fiorite come una maledizione, correndo fin sulla schiena e la nuca. Quanto al dolore che aveva dilaniato la carne, quello invece non avrebbe necessitato di uno stimolo perché sempre presente, una ferita infetta capace di sporcare anche gli angoli più solari della realtà e annientare un esitante futuro.
La dea del focolare
[1] richiede la vostra verginità, dovrete essere pure come lei. Sotto la sua protezione nulla vi accadrà, se assolverete ai vostri doveri con serietà e dedizione; grande onore verrà dalle vostre azioni, voi che siete state scelte come le spose più preziose.
Sia festa, le vergini del fuoco vegliano su di noi!
Haesta
[2], grande Haesta, canta e danza insieme alle tue genti, benedici questi giorni e la Città[3]!
«… Dimmi, mia suprema signora: in cosa ti abbiamo disobbedito? Qual era la nostra colpa, l’errore che ti ha portata a mandarci
lui come punizione e flagello? Ha distrutto la tua dimora, oltre a noi; lo hai visto, lo sapevi?
Perché, perché? Dimmelo!»
Deliri soffiati tra i sogni gelidi e la prigione dei denti, nelle notti in cui il letto si era fatto nero, soffocante come il vino ingoiato per riuscire a dimenticare; parole urlate tra le braccia di inverni che l’avevano portata a risentire sulla pelle quelle dita sacrileghe, chiuse sulla bocca a impedirle di mozzarsi la lingua nel grido, roventi come lame infuocate e l’ignominia.
Riaddormentarsi era sempre stata la peggiore fra le torture.
Continua a rincorrermi, a inseguirmi; oppure mi osserva dal tetto del tempio, come quel mattino, in attesa che sia abbastanza vicina per ghermirmi. Neppure questa volta gli alberi mi proteggeranno.
Vuole macchiare di nuovo il marmo di scarlatto, urlarmi parole che non comprendo; papa, papa
[4]… dove sei?
Io muoio qui!

«Che cosa ti avevamo mai fatto di male? Ridammi la mia vita!»


A volte riusciva ancora a piangere davanti a quei pensieri.
Chiunque tu sia, a
scoltami.
Perdonami.
Guariscimi.





«Papa, diventerò una vergine del fuoco! È bello, vero?»
Ci aveva creduto davvero; aveva speso tutte le sue energie e ogni pensiero per quel sacro compito, e ne era stata felice.
Suo padre l’aveva abbracciata strettamente e pianto quando le sacerdotesse più anziane erano giunte alla loro dimora per portare la notizia: gli occhi di bosco dell’ultimogenita, il fiore più puro di quell’antichissima stirpe, avrebbero contemplato le fiamme di Haesta e le sue mani lo avrebbero protetto ⸺ così come avrebbero fatto con la Città, che di quell’immortale fuoco si era nutrita fin dalla propria fondazione.
Le grandi guide del suo popolo erano nate per mezzo di quelle lingue d’energia
[5], simboli della presenza delle divinità e testimoni di pace; e proprio quelle lei avrebbe nutrito insieme ad altre cinque giovani, serve di un nume ma molto più di semplici sacerdotesse, spose di sovrani celesti.
Anche dopo anni, fermando i propri passi davanti alla luminosa radura della dea
[6], lei avrebbe potuto risentire i propri singhiozzi d’emozione quando la Città le si era chiusa intorno per guardarla salire tra le braccia del tempio, quando invece che bambole d’ebano e animaletti d’avorio le sue mani avevano iniziato a stringere i tessuti sacri; e la consapevolezza di poter diventare una brava custode, una garante dell’ordine e della felicità degli altri, l’aveva ben presto consolata dall’iniziale malinconia del suo vecchio mondo.
«Tu sei importante per la nostra gente, sei la sua sentinella; sei coraggiosa come il
papa», le aveva detto l’uomo durante una delle frequenti visite; e lei aveva battuto le mani nell’entusiasmo, rendendo il sole più lucente.
«Quindi anche io sono
spada e scudo dell’umanità, come la mama dice sempre quando parti per andare in guerra?»
«Sei molto di più, plúirín[7]; molto di più, perché tu potrai tenere lontano il sangue da tutti noi. Allora, chi è la principessa di papa
«Io, sono io!»

Sono sempre stata la tua spada e il tuo scudo, padre.
E gli anni erano volati come i pensieri, come la più dolce innocenza; il suo animo già deciso aveva assunto fermezza e le doti di una guida.
Sono
stata la tua principessa… una regina.
Per tante notti senza luna la Città era scivolata ai suoi piedi, tra i sussurri del bosco e le volute di fumo che avevano lasciato la casa di Haesta per nutrire il mondo; sotto cieli senza nubi né
confini si era spogliata dei pensieri e aveva sorriso, così fiera di sé da non sentire stanchezza.
L’ombelico della vita era situato in lei: aveva legato origini e identità, retto il regno insieme al suo legittimo sovrano, illuminato famiglie e credi… non avrebbe potuto essere più onorata.
Così, non aveva nemmeno passato i vent’anni quando il suo fato era stato certo: sarebbe divenuta una delle migliori vergini del fuoco e, una volta ultimato il servizio, una grande compagna di governanti.
Sacerdotessa potente, futura signora di genti: avrebbe ampliato e sostenuto il lustro della sua famiglia, reso ancora più forte il suo popolo…
se tutto questo le fosse stato veramente concesso, a lei e alle sue compagne; se quella mano desiderosa di morte e dolore non le avesse mai trovate.
Le tenebre si erano addensate tutte lì, in quel primo mattino di primavera simile a tutti gli altri; forse, alla luce del dopo, anche troppo perfetto.
Il canto tonante della fontana su cui si era chinata sarebbe rimasto vivo in lei per sempre, come le quotidiane incombenze che avevano occupato la sua mente fin dall’alba; ma nemmeno il gorgoglio dell’acqua era riuscito ad allontanare le grida che improvvisamente si erano levate dall’intera Città, così raccapriccianti e alte da pietrificarla sui mosaici informi
[8] e spingerla a muovere le gambe solo dopo infiniti istanti.
Rumore di palazzi spezzati, polvere e urla ovunque: vie cadute sotto la mano furente di un nemico invisibile che era avanzato dissestando e distruggendo, un’onda d’aria e fumo che aveva lasciato solo desolazione.
«Chiudete il tempio, subito! Chiunque o qualunque cosa sia, è ormai qui!»
Anche da lontano, lei aveva potuto sentire lo spavento delle compagne e gli ordini delle loro superiori; e a stento era riuscita a infilarsi nel bosco di Haesta, appena prima che l’intero complesso venisse serrato.
Se fossi stata dimenticata fuori… che cosa ne sarebbe stato di me?
Mi sarei salvata, sarei uscita intatta e ignara dagli eventi successivi?

La piccola selva l’aveva protetta per tutta la sua corsa frenetica, quando sibili sinistri e voci confuse si erano attorcigliate intorno alle verdi chiome; strane luci avevano interrotto il percorso come per farla desistere, ma dentro di lei niente le aveva sussurrato di indugiare all’ombra degli alberi e respirare piano, per non essere scoperta.
Perché non sono nata codarda, padre mio; e lui lo sapeva.
Conosceva bene la nostra tempra.

«Ed ecco l’ultima… ora la caccia può considerarsi conclusa.»
Era riuscita a vederlo bene solo per qualche istante, quel giovane uomo — no; lo aveva compreso fin da subito, quanto fosse distante dall’umanità: la sua aura un unico grumo di buio e angoscia, un monito minaccioso per tutti — seduto sul tetto del tempio e intento a guardare al suo interno attraverso l’apertura per il fumo sacro; a quella visione si era fermata senza far rumore, stupita e confusa, ma lui l’aveva sentita comunque e si era voltato con la rapidità di un serpente, bruciandola con uno sguardo.
«Oh, e invece ne mancava una.»
Un lampo, e la figura era atterrata a pochi passi da lei; una presa si era stretta intorno ai suoi capelli e li aveva tirati con tale violenza da scioglierle l’acconciatura rituale e strappare alcune ciocche, ma ogni reazione si era arrestata quando, nel battito di un istante, dal limitare del bosco si era ritrovata a boccheggiare sul pavimento templare, la testa in fiamme e il boato delle porte distrutte nelle orecchie.
Da quel punto, per lunghe ore, il suo mondo era crollato pezzo dopo pezzo: il dolore delle torture inflitte con un pugnale arroventato si era unito all’eco di domande incomprensibili, il disprezzo si era fuso con l’irrisione, la visione del fuoco sacro gettato tra loro — «
Haesta, fa’ che muoiano subito, che non soffrano così tanto!» — aveva danzato con la morte.
Non salverete nessuno, nessuno!
E la Città vi venera quasi più della vostra dea… la mente sa essere così sciocca, così ipocrita. Le mura di questo luogo cadranno a causa vostra e di questi impotenti riti, così come tutte le illusioni che avete contribuito a creare: saprete sopportare gli sguardi del vostro stesso popolo, poi?
Lo guarderete morire, dal primo all’ultimo bastardo!

Aveva cercato di resistere fino allo sfinimento, di sopravvivere al proprio desiderio di morte e alla violenza; ma di molte cose nemmeno lei avrebbe saputo raccontare, poiché prima della fine il sapore del terrore l’aveva fatta precipitare in un abisso d’incoscienza, la mente incapace di sopportare più dell’indicibile. Quando aveva riaperto gli occhi, poi, aveva incontrato non la casa di Haesta, ma le pareti della sua amata dimora; e solo qui aveva pianto tutte le lacrime caparbiamente trattenute e celate, strappando le coperte tra delirio e grida e lasciandosi toccare solo dalle mani del
papa.
«Non c’è più nessuno là, vero? Grande dea… grande dea, perché? Eravamo le tue figlie! Le tue figlie!»
Per interi giorni aveva pronunciato, cantilenato e ringhiato quelle parole, senza pausa né vitalità, come una preghiera per guarire o un’insensata ninnananna per tenere impegnata la mente: perché tutto il buio era lì, sotto la residua lucidità, pronto a coglierla nel momento del silenzio e a crollare sulle proprie fondamenta, per trascinarla ancora più giù, da
lui.
Quell’anima ferina non se n’era andata davvero dopo aver guardato tutte loro agonizzare, era rimasta con lei per darle la caccia: assunto l’aspetto del padre per confonderla e trascinarla nella quiete, l’aveva attesa nei sogni e si era svelata solo dopo che le sue difese si erano abbassate, quando non ci sarebbe stato nessuno da cui rifugiarsi.
Non era stata la sola a condividere veglia e riposo con il terrore: tutta la Città aveva riconosciuto che le proprie forze, militari e religiose, non avrebbero potuto fronteggiare quelle di un dio che, come si era immediatamente raccontato, era nato per reclamare sangue e aveva distrutto più di mille luoghi, agognando la conquista di ogni cosa.
L’energia tenebrosa che questi aveva scatenato si era dimostrata troppo violenta, impulso di distruzione e crudeltà, per essere contrastata con un culto della ragione e della virtù, quindi chi avrebbe potuto incolparsi o incolpare i propri compagni di una vicenda così orrenda? La colpa era tutta insita in quell’animo nero che aveva osato portare dolore e tormenti a fanciulle innocenti e marchiare la loro pelle di vergogna; la colpa sarebbe cresciuta insieme agli amorali riti di Baccus
[9], insani e arroganti, che avevano immediatamente sostituito quelli di Haesta al punto da impossessarsi delle stesse rovine del tempio e recare maggior spregio ai tetti infranti, affronto alle istituzioni e mancanza di cura verso i tanti che in quel terribile giorno avevano perso molto.
«Il vento del mare è giunto su di noi per punirci, per distruggere la nostra grandezza e insegnarci l’umiltà: impariamo da questo errore», aveva poi iniziato a gridare qualcuno, additando la fine dell’alterigia dei potenti — anche la sua presunzione e aria di regalità: regina spezzata, fiamma debole — come unico farmaco contro i mali; «Una giusta dottrina non tortura a morte giovani figlie, non si diverte a denudarle e a batterle: quella tempesta non avrebbe dovuto toccarle!», aveva replicato qualcun altro, proteggendo e sostenendo le umiliate vergini.
Lei aveva sentito tante voci intrecciarsi e attaccarsi al velo della lucidità, volti agitarsi davanti a lei in continue, inopportune visite e dichiararla sia vittima sia, in un mormorio, la prima carnefice di sé stessa; ma non aveva davvero udito né trattenuto quelle parole, il suo sguardo vacuo aveva emanato luce solo sotto le carezze affettuose della sua famiglia.
Lei, Pirra
(♦), nata e cresciuta con il fuoco nell’anima e nel nome, che era stata guidata da esso nelle ambizioni, da allora lo aveva sentito quietarsi senza riuscire a fermarlo; ancora nel suo profondo ma troppo debole per riscaldarla, assopita quella parte del suo essere si era sentita disperatamente fragile, privata di un punto fermo come una bandiera dimenticata nel vento, sola con i suoi demoni. Quasi impossibile da credere come un unico gesto di prepotenza avesse potuto ridurla al guscio immobile che lo specchio aveva riflesso ogni mattino e per molto tempo; ma era stato proprio ciò che aveva percepito in quei momenti — la mia prepotenza non ti priverà della vita, non temere; ma attenta, potrebbe ritornare a opera di altre mani, e tu non potrai fidarti mai più di nessuno! — a ghermire il suo coraggio e dilaniarlo.
A ben vedere, la ragione si era posta dalla parte di coloro che l’avevano tacciata di superbia: perché aveva sempre vissuto come una bambina sicura di sé ma ignara del mondo, onorata come grande ma senza alcuna conoscenza di privazione e caduta, pronta a incrinarsi davanti alle crisi.
Dedizione, fedeltà e caparbietà non se n’erano andate, erano rimaste con lei; ma la paura della loro risposta — o meglio, della loro assenza — a vicende di tale specie le aveva tutte spinte in secondo piano.
In un possibile ripetersi di quegli eventi, niente le avrebbe dato la conferma che avrebbe conservato la sua resistenza; la sua mente aveva già sofferto, sarebbe stato facile spezzarla del tutto.

Forse era stato proprio questo a spingere il portatore di caos a ritornare davvero, a lasciare il regno del suo inconscio per raggiungerla e terminare quello che aveva iniziato.
Quanti minuti, ore o mesi sono realmente passati?
, aveva pensato quando il suo sguardo aveva scorto il sibilante sorriso tra le ombre della propria camera e un sospiro gelido era penetrato tra le cortine del letto; forse nessuno, perché le era parso di non essere mai uscita dal tempio.
Ma il glaciale sguardo dell’altro si era posato solo per qualche istante su di lei, unicamente per accertarsi di aver riportato la paura: una forza ben più grande lo aveva attirato, il fuoco pulsante di un’altra anima.
La Città non era ancora precipitata nella follia solamente grazie alla potenza militare, alle azioni degli uomini come suo padre e alla sicurezza che la loro presenza aveva continuato a ispirare: che cosa sarebbe accaduto se perfino quell’estremo baluardo fosse crollato, se tutti i guerrieri fossero stati uccisi? La comparsa di quell’entità aveva trovato spiegazione solo in quella motivazione: per piegare totalmente la gente, si sarebbe dovuto prima pensare a privarla di ogni arma.
Le porte della camera si erano chiuse appena il dio se n’era andato, imprigionandola per renderla il finale diletto di un’altra giornata di spietatezza; e lei inutilmente si era trascinata giù dal letto e sul pavimento, ritrovando la voce in pietosi singhiozzi.
«Non toccarlo! Non fargli del male, torna qui e uccidi me!», aveva poi gridato nella rinnovata disperazione, e questa le aveva dato l’impeto di affondare le unghie nel legno intarsiato e fermarsi solo quando le dita erano state trafitte dalle schegge. La voce ferma del capofamiglia, levatasi improvvisamente, aveva vinto sullo strazio e portato un teso silenzio nelle stanze, l’orgoglio pronto a misurarsi con la prepotenza.
Non era riuscita a capire nessuna delle parole che erano state scambiate, ma il suono di passi in corsa, già lontani dalla casa, le aveva suggerito che suo padre avesse allontanato tutti e che la divinità non si fosse mossa: suo obbiettivo solamente il guerriero, e lei.
Il suono di lame giunte a danzare, subito seguito dal ruggito del fuoco che aveva iniziato a divorare la casa, non aveva tardato a colpire le sue orecchie; e nuovamente le sue mani avevano cercato di aprire le porte e implorato la fine di quello scontro — come se qualcuno avesse davvero potuto ascoltarla o aiutarla.
E si era
nuovamente sbagliata quando aveva creduto di aver conosciuto la caduta, poiché la vera rovina si era palesata solo in quei momenti; e si era sbagliata, perché aveva creduto che almeno un sostegno le fosse rimasto e che nulla avrebbe potuto portarglielo via. Invece eccola, la bambina spaurita, l’anima sconfitta e divorata da potenze più grandi e con mille nomi, la timorosa che non aveva osato fare nemmeno un passo e staccarsi dalla porta illuminata dall’incendio.
Era arrivata la giusta fine per un’egoista: smarrire la ragione, gli affetti e la vita sapendo che quella morte non avrebbe cessato nulla e protetto nessuno.

Ma io avevo promesso…
Il clangore delle armi divenuto improvvisamente più violento e forte, tonfi di corpi in caduta; il buio addensato intorno a lei, per ghermirla.

Avevo promesso che sarei stata la sua spada, e il suo scudo.
Un guizzo nel chiuso dell’anima: chiamato disperazione, in ogni altro modo, ma lì al suo fianco.
Mi avevi fatto promettere che avrei resistito a tutto.
Voci nel cuore, respiro spezzato dall’energia; il sorgere lento di qualcosa che non le era mai appartenuto, ma che aveva iniziato a respirare come un vento nuovo. Un battito ritmico, per non fare più male del necessario, ma destinato a salire.
Non sarei mai caduta, no.
Forza della rabbia, della disperazione, della perdita; nessun guerriero era mai nato dalla pace, e per questo l’avrebbe sempre cercata.
Quante volte aveva visto la malinconia negli occhi di
papa, l’incertezza del ritorno? Eppure aveva obbedito ai suoi doveri per assicurarle vita e felicità; in cambio, lei lo aveva lasciato a combattere al posto suo, da solo.
Come aveva potuto?

Ricordati, Pirra; ricordati di te e di questo sacrificio.
La tempesta aveva riniziato a ululare sopra il tetto; eppure, il corpo scosso dalla tensione si era rifiutato di cadere immobile.
Ogni rumore esterno l’aveva fatta tremare, tuttavia la paura aveva iniziato ad allontanarsi: no, non era stata quella sensazione a muovere la sua mente, mai il terrore aveva avuto quel sapore.

Chi sei, ragazza? Urlagli il tuo nome.
Le porte erano divenute fauci infuocate che presto si sarebbero espanse intorno a lei: in attesa di un suo gesto, avevano ghignato anch’esse.
Urlalo.
«Basta… basta.»
Urlalo!
«Io sono…»
Plúirín…
Un altro passo e sarebbe stata ingoiata; invece, il battito che si era sparso nella mente aveva raccontato un’altra storia: un momento in cui la lotta non avrebbe portato silenzio ma salvezza, in cui l’incubo avrebbe aperto le ali per smettere di straziarla e iniziare a sostenerla. «Se è con un’ombra che mi devo scontrare… allora che io divenga la notte stessa», aveva mormorato mentre le immagini di un mattino d’orrore avevano iniziato a colpirla;
e il fuoco le aveva riso in viso, spirando tra i suoi capelli, mentre la fiamma nel nome aveva sorriso.
Fidati di te, sai già cosa fare.
Le porte erano crollate su di lei, l’incendio si era preso il suo corpo… così aveva creduto la vecchia sé stessa; ma solo la sua ombra era stata divorata e subito si era ricongiunta alla figura fulminea che aveva calciato lontano da sé il legno contorto, apparendo nella sua veste più nera. In pochi avrebbero potuto riconoscere nella donna dal volto sporco di cenere e dalla voce ringhiante la luminosa ragazza che un tempo era stata; perché anche se tutto il corpo era rimasto uguale, quegli occhi sanguigni e privi di pietà non erano mai appartenuti a Pirra.
Con gambe percorse da nere volute, essenza ed espressione del calore che le aveva preso tutto lo spirito, si era gettata tra il
papa e il suo aguzzino, con braccia rese forti dall’energia di mille uomini aveva afferrato la gola di quest’ultimo e sfruttato la sorpresa per abbatterlo al suolo e intrappolarlo sotto di sé; la mente umana aveva lasciato il posto all’istinto di una belva, pura forza aveva ingoiato tutte le sensazioni e obliato qualsiasi cosa non fosse stata la sete di sangue. «Ti devo una lunga tortura», aveva sibilato con voce roca, monstrum[10] creato da odio, rimorso e tenacia; e quando l’avversario aveva posto un braccio tra il suo impeto e il proprio collo, in risposta lei lo aveva morso e quasi giunta a tranciarlo.
Fumo denso e soffocante le aveva attaccato il volto, uncinandole la pelle con l’intento di strapparla; ma anche sotto quel dolore micidiale le sue mani erano riuscite a lacerare e colpire fino a quando la sopportazione aveva potuto sostenerla. Ritorcendole contro l’instabilità del corpo diviso simultaneamente tra difesa e attacco, il nemico l’aveva afferrata per le braccia e spinta lontana da sé, salvo poi incalzarla per colpirla e farla sbattere contro il muro a loro opposto.
«Mai conosciuto nessuno con tanta voglia di morire», le aveva sibilato il dio dopo averle schiacciato la testa contro la parete e stretto il collo; ma l’agire non era stato lesto come le parole quando il fuoco si era frapposto tra loro e le mani di lei erano riuscite ad afferrare le fiamme, per poi dirigerle contro di lui al pari di temibili spade. «Neppure io», aveva replicato, evitando di riconoscere come le differenze con quell’essere avessero iniziato a sfaldarsi.
Dopo quel gesto, l’aura maligna dell’avversario era divenuta palpabile e, prudentemente, lei si era preparata al principio della fine; tuttavia, alla minaccia di lotta non era seguita quella effettiva, in quanto l’entità era svanita come nebbia davanti al sole, con un duro sguardo come promessa di ritorno e tanto sangue lasciato al suo posto: sangue appartenuto totalmente a lui.
Solamente allora le gambe le avevano permesso di retrocedere fino a farle sentire il freddo della pietra contro la schiena, solamente allora si era voltata verso la figura del padre; e davanti a quest’
ultimo, agli occhi terrorizzati dalle sue sembianze, lei aveva compreso di aver vinto una battaglia inconclusa e perso la sua più grande certezza.
«Pirra…», aveva singhiozzato l’uomo, fissandole le mani che non avevano smesso di impugnare il fuoco; e il simulacro di sua figlia aveva scosso appena il capo. «Io non sono
più lei; la giovane che adoravi è morta.»
A passi lenti si era allontanata dal padre, ogni istante di distanza aveva sconnesso il sentiero che le avrebbe permesso di ritornare tra quelle braccia; perché la sete di vendetta non si era ancora acquietata, la caccia era appena iniziata e ogni innocente avrebbe dovuto ignorarne l’esistenza.
«Non avrei voluto perderti così, ma era l’unico modo per salvarti. Non cercarmi più,
papa, non chiedere della vergine che hai chiamato figlia: semplicemente, non dimenticarmi e amami ancora.
Anche con questo spirito io non ti dimenticherò né smetterò di amarti; e, forse, in qualche modo potrò ancora sentirti.»
«Non andartene! Pirra, ti prego, rimani qui e calmati!»
Quando l’eco di quella preghiera era svanito, lei era già stata circondata dai sentieri boschivi che l’avrebbero portata alla Città; le lacrime erano diventate cristalli sulle guance graffiate, le erano entrate nella pelle e avevano ghiacciato tutte le parole che avrebbero potuto ricondurla a casa.
Perfino sotto la copertura delle cime arboree era riuscita a scorgere le rovine della casa di Haesta e le luci blasfeme di Baccus, i culti che avevano osato deridere le istituzioni e Haesta intenti a tormentare l’aria; non aveva spostato lo sguardo da là, sentendo tutte le sensazioni dello scontro precedente ritornare e nutrire cupi desideri; le aveva accolte tutte. Era penetrata tra le vie urbane ancora umana…

Ma quando ne era uscita la sua anima era divenuta totalmente scarlatta; tra le mura del vecchio tempio, invece, non era rimasto altro fuoco, se non quello che lei aveva portato.




Aveva creduto di poter dominare tutta quella forza, di riuscire a incendiarla nella necessità e acquietarla negli istanti di pace; ma una volta assaggiata la vendetta e macchiatosi di sangue, bruciato un corpo e risucchiatone l’anima, il suo spirito non aveva fatto altro che aumentare il desiderio di distruzione: e lei si era rivelata troppo debole per non ubbidirgli.
Quando la Città si era completamente ripulita dalla parola aberrante di Baccus, la luna aveva appena mutato il suo volto da pieno a mezzo; era scomparsa del tutto quando l’intera regione era stata percorsa da passi ferini e liberata dalla feccia, e pochi altri giorni erano passati quando oblio e annientamento avevano divorato quello e altri culti indegni. Non era bastato: completamente annerita e piegata dalle sue stesse energie, il corpo così rigonfio di volontà e pulsioni da non riuscire a contenerle, la fiera qual era diventata aveva vagato fino quasi a perdere connotati umani e diventare realmente un’ombra maledetta e lamia
[11], come l’avevano definita le parole di coloro che erano stati testimoni delle sue azioni.
Per lunghi giorni aveva riposato e atteso in selve inaccessibili e intoccate sia da uomini che da dèi, pulsando tra i rovi come un cuore malato; nei crepuscoli informi, invece, aveva fatto la sua comparsa e iniziato la caccia che avrebbe sottratto al mondo
almeno un’anima corrosa e ambigua, una preda che le avrebbe dato l’illusione della giustizia e soddisfatto temporaneamente la sua fame incessante.
Spesso si dice che chi per troppo tempo languisce nel silenzio, una volta rinato nel suono non riesce più a farne a meno e finisce per perdere il dono dell’ascolto: ciò era accaduto a lei, che aveva pianto sulle ceneri del suo spirito e, ritrovatolo, non era riuscita a controllarlo e si era smarrita nuovamente… forse perché ancora non aveva raggiunto il suo reale scopo; perché tutte quelle morti non erano state altro che un preludio e l’armatura necessaria all’ultimo combattimento.
L’oscurità non l’aveva solamente accompagnata nei suoi spietati lavori: questa le aveva spesso parlato del dio che per una seconda volta era stat
o causa di una caduta, l’aveva condotta sulle sue tracce e portata ogni volta più vicina a lui seppur non abbastanza da poterlo ghermire.
A volte era stata proprio quella figura ad accostarsi alla sua persona: l’aveva raggiunta nei sogni, come nei lontani tempi del prima, per ghignarle di nuovo contro; e tuttavia, in quegli istanti lei aveva replicato e combattuto, rischiando di perdere la vita a ogni assalto o di prendere quella del nemico, urlando a stelle atterrite e fuggevoli.
Ematomi più neri della propria pelle, segni di tagli e morsi e senso di vuoto, come se qualcosa le fosse stato strappato da dentro, liberazione e soddisfazione si erano prese corpo e mente alla fine di quelle visioni, lasciandola stordita ma capace di respirare nuovamente;
tutte quelle sensazioni erano sempre cessate durante la successiva caccia, ma i marchi sulla pelle non erano mai svaniti né sbiaditi, come se avesse combattuto nella realtà e con tutte le sue conseguenze.
Il periodo di stasi e attesa non aveva avuto lunga vita,
in quanto in una di quelle notti immobili, messaggere di una tempesta in avvicinamento, si era svegliata in un bagno di sudore e tra tremiti di tensione: lui era giunto, finalmente deciso ad attaccarla e a porre fine alla sua storia.
La foresta in cui si era rifugiata aveva rifulso di luci e sussurri mano a mano che il dio era avanzato, così non era stato difficile trovarlo; anzi, lui stesso aveva tentato ogni cosa pur di farsi raggiungere in fretta.
Per la terza volta lei aveva fissato quegli occhi azzurri e il volto affilato, leggendovi un odio di cui non era mai stata capace
prima dell’attacco alla propria famiglia; per la terza volta aveva sentito la repulsione per quell’ombra umana è così che sono diventata anch’io. E nonostante ciò, quella era stata la volta in cui l’apparenza aveva parzialmente celato la realtà: era bastato solo un istante per comprendere che ben poca forza era rimasta nel corpo dell’avversario, che questi si era come prosciugato e, rispetto a lei, divenuto debole come un essere umano. Ogni traccia di divinità era stata allontanata da lui, ciò che era rimasto solamente il fantasma della belva che aveva distrutto la vecchia Pirra; le sarebbe bastato un solo gesto per annientarlo del tutto, e proprio a questo aveva pensato immediatamente appena prima di essere fermata dalle parole dell’altro.
«Conosco quello sguardo», aveva mormorato la divinità, sorridendo un’estrema volta e come a schernire l’ostilità sorta tra loro, «alla fine, ti sei trasformata in qualcosa di molto simile a me.»
«Lo so», era stata la replica, l’asprezza che non si era lasciata sfuggire la sensazione di sofferenza e pena del nemico e ne aveva goduto, «lo so. Per combatterti ho dovuto abbassarmi al tuo livello.»

Ho smarrito davvero tante cose di me.
Un ghigno famelico, il temporaneo ritorno del mostro. «Allora, almeno in questo, ho vinto io.»
«Non sento più nulla in te», aveva risposto lei, chiudendo la via del pensiero
a cosa ho ceduto realmente? ⸺ e ogni possibile apertura, «e voglio sapere perché. Per quale motivo hai deciso di attaccarmi in questo stato? Non sei più il dio che ha ridotto in ginocchio Haesta, qui è rimasto un solo mostro.» Io, proprio io. «Che cosa vuoi da me?»
L’altro era rimasto in silenzio per parecchi istanti, quindi era scivolato sulle proprie ginocchia. «Volevo guardarti un’ultima volta, sacerdotessa… fissare il volto di chi mi porterà alla morte.
Quelle battaglie nella tua mente… erano vere, come era vero ogni sogno dove sono apparso. Ho giocato a lungo con te e con le tue paure, ragazza: non c’è stato nemmeno bisogno di pungolarti, la mia sola apparizione ti immobilizzava e mi rendeva facile portare il caos in te.
Poi, ho fatto l’errore di attaccare il tuo amato padre e, così, di risvegliare tutta la forza del tuo animo; e ora eccoti qui a dominare su di me, senza paura, pietà, freni, capace di strapparmi le energie in soli tre combattimenti e ridurmi così… che splendida donna che sei, una vera regina.»
Più di un sussurro, molto meno di un grido: la vittoria le si era avvicinata silenziosamente, e il suo sapore non le era parso così dolce come si era aspettata. Ma sarebbe stato davvero così?
«Alzati, non mi ingannare. Non ho ucciso a lungo per non lottare nemmeno, svelati», aveva replicato lei mentre gli si era avvicinata cauta, non ancora certa delle sensazioni provenienti dall’esterno: come aveva potuto rendere così un tale dio? Le sue energie erano cresciute così tanto da permetterle di valicare i confini della coscienza e agire comunque sotto il suo controllo?
«Non mi credi; e non mi stupisco, quando sono il primo a non crederci», aveva concordato l’avversario, prima di socchiudere gli occhi e privarla della loro visione. «La senti questa eco? È l’unica traccia rimasta dei miei poteri. Sono tutti ritornati al cielo, alla terra e a ogni essere che originariamente li possedeva; solo quello che sono sempre stato, una creatura rapace e ingannatrice,
rapitrice e assassina, è rimasto con me. Vuoi forse strapparmi anche quello? Ora non posso opporre resistenza.»
«Mi hai reso uguale a te», era stata la risposta, «una reietta, un’esule. Se non puoi combattere in modo onorevole e ripagarmi di quello che tu hai sottratto a me, allora non ti toccherò: ti prenderò prigioniero e ti guarderò mentre ti spegni, mentre continui a soffrire. Non ti spetta né pietà né una dolce morte.»
«La prima non l’ho mai chiesta… quanto alla seconda, oh, sono certo che sarà veloce, anche se piuttosto dolorosa.»
«Com’è giusto.» La sua bocca aveva taciuto; quindi, dopo un lungo istante di silenzio, aveva
coperta l’intera distanza posta tra loro e aveva troneggiato sull’uomo. «Qualcosa, però, puoi ancora donarmelo», gli aveva sussurrato prima di inginocchiarsi davanti a lui.
Questi non aveva opposto resistenza quando gli aveva sfilato il
lungo pugnale dalla manica della veste la mia pelle non ti è sconosciuta, vero? ⸺ e aveva afferrato una ciocca dei suoi capelli d’inchiostro. «La mia gente crede che nella chioma risieda tutta la potenza di un uomo, e che chiunque riesca a tagliare quella di un nemico possieda anche la sua vita[12]; e questa è morbida e lunga come quella di mio padre, la voglio.
Questa sarà la tua massima sconfitta.
»
L’altro non aveva replicato neppure allora,
con gli occhi volti lontano dal suo viso l’aveva lasciata prendersi il proprio trofeo. La sua fine non avrebbe tardato molto, la sua vicinanza era stata percepita da entrambi; e anche se a lei non avrebbe portato la soddisfazione richiesta, sapere che il mondo si sarebbe liberato di un animo nero come quello avrebbe potuto lenire la sua sete. «Dopo la tua morte questo mondo diverrà meno oscuro; forse l’unica cosa buona che verrà da te», aveva infatti sussurrato con cattiveria, fissando il corpo dell’avversario piegarsi su sé stesso fino a ricadere al suolo.
Il gorgoglio di una risata aveva avuto il potere di ottenebrarle le sguardo; e lui, sapendolo, non aveva esitato a continuare. «Anche se ormai sei divenuta una dea, una parte di te è ancora la ragazzina innocente e ignara della realtà», aveva replicato questi, voltandosi a fissarla. «Un giorno capirai che gli dèi non possono morire; no… la loro sorte è diversa.»
Il braccio che questi le aveva teso si era sfaldato nell’aria; lei si era ritratta per la sorpresa, ma il sospiro dell’altro l’aveva comunque raggiunta.
«Mi dispiace non averti potuto dare la vendetta che agognavi, vergine del fuoco; ma non disperare… non farlo mai» erano state le sue ultime parole; quindi cenere e tenebra le avevano riempito le mani e fatto pizzicare gli occhi, il sistema peggiore per renderla conscia della libertà.
È tutto… è tutto finito; se n’è andato per sempre.
Tutto il corpo aveva tremato sotto il peso di quella verità: anche se nel modo più insperato, lei aveva portato a termine il suo obiettivo e ucciso il suo incubo; lei, proprio lei, era stata causa e testimone della sua caduta.
Che cosa le si sarebbe aperto davanti, da quel momento in poi? In qualche modo sarebbe riuscita a ritornare la fanciulla di prima, a purificarsi dalle azioni commesse, a riprendere a respirare e vivere?
In fondo, se era riuscita a portare a felice esito quella che aveva considerato l’ultima azione della propria esistenza, probabilmente avrebbe potuto anche ritornare a essere completamente sé stessa: fisicamente e mentalmente quieta, e nella propria terra. «Ho parlato per disperazione, quella notte d’addio; per proteggere chi amavo. Ma ora… ora forse potrò tentare la strada del perdono; la mia presenza non ha più alcun senso, qui.» Le nere volute che le avevano marchiato la pelle si erano lentamente sfaldate nell’aria poco prima di quelle parole, le gambe l’avevano sostenuta a malapena quando si era rialzata: il peso che il corpo aveva sostenuto fino a pochi istanti prima aveva iniziato a sciogliersi… forse in un lento processo di riumanizzazione?
«Allora devo resistere», aveva sussurrato nel cercare il sentiero più rapido per uscire dal cuore delle selve e fuggire lontano dalla residua presenza del caos, «resistere ancora un poco.»

Di quante cose avrebbe avuto ragione, che cosa avrebbe recuperato o accettato di aver perduto, se la luce non l’avesse raggiunta?




La luce, proprio lei: quella che aveva accompagnata il portatore di rovina e non era svanita con il suo corpo.
Luce che, come un’onda dorata, si era aperta una strada tra alberi e fiori selvatici, per
rincorrerla e riuscire a circondarla; luce che con il suo calore l’aveva costretta a indietreggiare verso il cuore della foresta e l’aveva colpita come un’arma, fatta cadere e stretta in un muro fremente e vivo.
Luce erompente dal terreno, in caduta dal cielo, emanazione dell’aria stessa ed entità con una propria mente;
luce inafferrabile, che però era riuscita a ghermire lei e a farla precipitare in una spirale di guizzi e sensazioni, in un buio improvviso, denso come la propria paura.
Che cosa sei? E che mi sta succedendo, perché mi fai questo?
Aveva sentito malinconia, cadendo in quel grembo sconosciuto: aveva sentito le dita sfregare contro sensazione di solitudine e mancanza, impulso di preghiera e memoria, smarrimento. Provandole una a una, si era trovata a desiderare di perdere coscienza e lasciarsi portare ovunque senza più emozioni; nemmeno quello le era stato concesso.
La luce era presto ritornata per svanire nuovamente, l’aveva quasi portata alla follia e strappato pure la voce; tutto il mondo era divenuto confusione.

È questa l’esistenza degli inizi di cui i libri parlano, l’alba della creazione? Come ha potuto il mondo abitare in questo vuoto, come siamo riusciti a sopravvivere qui?

E questo calore… che non porta altro che gelo.
Aveva sbattuto le palpebre una, due volte; la terza, la realtà intorno era nuovamente mutata e l’aveva costretta a coprirsi gli occhi per i troppi colori con cui era apparsa.
Il corpo si era trovato sbilanciato quando il vento l’aveva aggredito; una volta cadut
o al suolo, i polpastrelli avevano sfiorato morbida erba e l’olfatto si era accorto di un lieve profumo di pioggia e pino.
Lentamente, le mani avevano lasciato lo sguardo libero di vagare, e questo aveva incontrato una verde e ampia valle, fiori di mille specie a popolarla e il cielo viola di una quieta sera a custodirla. Sorpresa,
dopo poco lei si era alzata per meglio ammirare lo sconosciuto paesaggio e avanzare verso il corpo sinuoso del fiume situato alla sua destra, sulle cui acque aveva danzato l’ultima stilla di tramonto.
Lo specchio delle onde aveva riflesso il suo volto ansioso e chiaro: nessuna traccia nera a intridere la pelle, non una sfumatura cremisi negli occhi ritornati smeraldini, i capelli
nuovamente dorati e in riccioli spettinati… il volto di Pirra, una semplice e giovane donna. «Perché?», aveva chiesto ai guizzi affacciatesi oltre il pelo dell’acqua, come in un saluto, «solamente perché.»
«
Perché è questo ciò che ci accade quando, come dicono gli umani, “moriamo”.»
Quella voce ormai nota l’aveva fatta
voltare di scatto e sobbalzare fin sulla riva estrema del fiume; ma nel volto del dio non aveva letto alcuna traccia di malizia né desiderio del male, la mano che aveva afferrato la sua e impedito alle gambe di cedere non aveva imposto alcuna maledizione.
«
Che cosa vuol dire tutto questo? Non riesco a capire!» La tensione si era espansa come una nuvola di tempesta e aveva incrinato la serenità del luogo; ma l’altro non aveva mutato espressione, né mostrato il suo ghigno. «Non avresti potuto capirlo, eri una dea appena nata… sei nuova a tutto questo.»
«“
Nuova a tutto questo”? Non comprendo nessuna delle tue parole, come faccio a trovarmi qui e perché, il motivo per cui mi hai seguito, e… che cosa sta succedendo, per il glorioso nome dei numi?» Un’esitazione, le parole che si fanno più pesanti e concrete. «Morire. Io… io sono morta?»
«
Cose simili succedono solo quando uno di noi lascia il mondo: precipita in un buio assoluto, primordiale, e quando si risveglia è in un luogo a lui sconosciuto, pronto per ricominciare a vivere. Non conosco chi decida tale sorte, se siano le forze naturali che andremo a governare a chiamarci oppure avvenga ogni cosa in modo casuale, ma credimi, non ti sto mentendo.» Una pausa, seguita da un sorriso lievemente stanco. «Su questo non riuscirei mai a mentire.»
Lei non aveva replicato subito, concentrandosi maggiormente sul sentore di tristezza proveniente dall’altro; la crudeltà che l’aveva contrassegnato era sembrata così lontana da quella figura assorta che non aveva dubitato delle sue parole, e a sua volta la propria mente si era riempita di pensieri.
«Quando sei morto tu, me ne sono andata anche io: terminato il mio compito, il corpo non ha più resistito… è possibile.»
Per qualche oscuro motivo non ne era stata sorpresa, come se una parte di lei lo avesse sempre saputo; ma ciò le avrebbe permesso comunque di tornare dalla propria gente,
dalla famiglia? «Non posso rimanere qui», aveva infatti esordito, «devo trovare un modo per ritornare alla Città, dal mio popolo. Ho bisogno di loro!»
«
Tu sì, per ora; loro non più.» Davanti alla sua fronte aggrottata, il portatore di caos aveva scosso la testa. «Nessuno di noi è mai ritornato al luogo in cui è nato o dove ha vissuto prima di una caduta: si muore sempre quando qualcuno di più forte prende il nostro posto e ci strappa i poteri, il ruolo. Tu hai fatto questo con il culto di Baccus, quando hai ucciso i suoi fedeli, con me; un’entità maggiore deve averlo fatto con te. Quando questo accade, lasciamo una realtà per accedere in un’altra: scompariamo dalla memoria di un primo popolo per entrare nella storia di un secondo, di un terzo, un quarto… e così accadrà per sempre, fino a quando non morirà anche il mondo che serviamo.»
«
Tutti ci dimenticano… è questo che stai dicendo?»
«
Sì; ma neppure noi stessi conserviamo la cognizione di chi abbandoniamo: la gente che incontreremo ci darà un posto e un ruolo, e in virtù di quello formeremo nuovi ricordi.»
Un singulto, la paura improvvisa della perdita; nella mente immagini ancora intatte, ma già minacciate da una lieve nebbia in avvicinamento.

Perdere tutto… anche la sensazione di una famiglia.
Perdere anche più del necessario.
«Quanti altri popoli piegherai con la tua sete di sangue?», era esplosa infine, «… quante altre volte ti dovrò dare la caccia?»
Lo sguardo celeste dell’altro aveva ripreso in un istante una parte delle ombre abituali.
«I popoli da distruggere e dominare sono infiniti», aveva replicato, «e quanto a noi due… vedremo il corso degli eventi e le sorti degli uomini che cosa ci porteranno. Ricordati che sei una portatrice di morte e notte come me; e d’altra parte, non sei poi così diversa da ogni altra divinità o forza della natura… tutti, prima o poi, diveniamo il cambiamento e la fine di qualcuno.»
A quelle parole si era voltata, divenuta incapace di sorreggere quegli occhi; il cenno di saluto
«Non lasciar morire quel fuoco: se sarò fortunato potrò combatterlo di nuovo» e i passi che si erano allontanati erano stati l’ultimo rumore prima del silenzio assoluto della notte incipiente, e nell’oscurità lei si era adagiata come una fiera.
Non aveva
avuto alcun luogo dove andare, quindi sarebbe potuta giungere ovunque; senza la conoscenza di nessuno, il primo volto, di qualunque uomo fosse stato, avrebbe potuto accoglierla.
Sarebbe stata sola, di tutti e nessuno; di sé stessa, mai.
Era questo che aveva voluto con tanto ardore? Le lacrime che le avevano segnato anche l’anima, quelle le aveva previste, le aveva richieste?

Chiunque tu sia, a
scoltami.
Perdonami.
Guariscimi.

Forse al di là delle montagne innanzi a lei, corona di quella valle, ci sarebbe stato un villaggio, una città o anche solo una casa; una mano a cui chiedere, a cui parlare,
da lasciare o trattenere.
Chiunque tu sia, a
scoltami.
Perdonami.
Guariscimi.

Non sarebbe potuta sfuggire a nulla: non era mai scappata… non si era mai salvata.
Chiunque tu sia, a
scoltami.
Perdonami.
Guariscimi.


Ancora oggi, dopo tutto questo tempo e questi ricordi, lo chiedo ancora: ascoltami, perdonami, guariscimi.
A
scoltami, perdonami, guariscimi; e non dimenticarmi.







NOTE





[1] Si riprende qui la figura di Vesta. Nell’antica Roma, questo era il nome della dea del focolare.
Le sacerdotesse che si occupavano di tenere sempre acceso il suo fuoco sacro, protezione della città, erano le ragazze scelte dalle migliori famiglie della nobiltà patrizia, e tra gli obblighi a cui dovevano sottostare c’era quello di assolutà castità, pena la morte.
Le giovani erano sei e vivevano nel complesso templare della dea, e il servizio durava trent’anni: dai dieci (l’eta in cui venivano scelte) fino ai venti erano novizie, dai venti ai trenta prestavano servizio nel tempio, dai trenta ai quaranta istruivano le nuove arrivate; dai quaranta in poi, erano libere di gestire la propria vita secondo i desideri di ognuna.


[2] Ho fuso i nomi di Hestia (dea greca del focolare domestico) e Vesta in uno, riprendendo però anche dalla parola latina che designa il calore: aestus (pensiamo al termine estate).


[3] Il termine “Città” con la maiuscola richiama l’Urbe per eccellenza, Roma.


[4] In molte culture antiche e moderne, papa e mama sono i termini affettivi per il padre e la madre.


[5] Su alcuni dei sette re di Roma circolano molte leggende con protagonista il fuoco: un esempio è quello di Servio Tullio, che in un’antica versione della sua nascita si dice generato da una schiava e da una fiamma sfuggita al focolare regio.


[6] Nella civiltà latina ⸺ e non solo ⸺, la radura boschiva (lucus, termine legato a lux, “luce”) era sempre dedicata a una divinità.


[7] Termine affettivo irlandese, che si traduce con “piccolo fiore / fiorellino”.


[8] Di solito erano i ninfei, le enormi vasche dove appunto venivano tenuti i fiori di ninfea (elemento tipico delle domus patrizie), a essere impreziositi con fini mosaici. Nel testo vengono definiti informi perché visti attraverso l’acqua smossa dal getto della fontana.


[9] Baccus è il corrispettivo latino del greco Dioniso, antichissimo dio dell’ebrezza. I suoi culti orgiastici, dove perdita di controllo, possessione o follia divina e spregio dei limiti — anche morali e della lucidità — erano la prassi, non furono mai visti positivamente dalle istituzioni romane, che cercarono sempre di regolarli e controllarli.


[10] Il termine monstrum ha più di un’accezione in latino: sia quella negativa a noi comune, sia di “meraviglia”, “portento”, di fatto nuovo e inusuale. Qui vengono riprese entrambe.


[11] A Roma e in Grecia, “lamia” era chiamato un mostro femminile dalle fattezze umane e dalla capacità di privare uomini e bambini delle forze vitali e del sangue. Ha molti tratti in comune con i vampiri.


[12] Concezione presente in tante culture (un riferimento può essere la storia di Sansone e Dalila).





Riguardo a particolari nomi:


Pirra: Riprende il termine greco che designa il fuoco, πῦρ. Secondo il mito, in virtù della propria chioma fulva, Pirra fu il nome che Achille assunse quando Teti lo fece confondere con le figlie di re Licomede.

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