Exhȳdria di Manto (/viewuser.php?uid=541466)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Cacciatore di Stelle ***
Capitolo 2: *** Anima Scarlatta ***
Capitolo 1 *** Il Cacciatore di Stelle ***
Exhȳdria
{Exhȳdria:
Termine della lingua greca,
indicante
il vento che porta tempesta.}
♦◊♦
And
I always said, we should be togheter
I
can’t sleep alone, because there’s something in here
And
if you are gone,
I
will not belong here
●
And
my heart is a hollow plan
For
the devil to dance again
“Breath
of Life”,
Florence
+
The Machine
♦◊♦
I
●
Il
Cacciatore di Stelle
Il piccolo
focolare, vivido
cuore nella notte; e poi il fumo che saliva verso le schegge di cielo
che le fessure nel tetto facevano penetrare, le pareti quasi spezzate
dalla furia delle rose rampicanti, l’anello di giovani querce
che
circondava la radura. L’intero mondo incrociava le proprie
forze
sopra quella casa: il legno profumava dell’alba come del
tramonto,
ogni mattino il letto dei suoi abitanti era intessuto di petali e
rugiada; anche le fiere indomite trovavano protezione nella struttura
dalla porta dipinta di blu e oro, condividevano lo spazio con gli
umani fissandoli con occhi di giada e silenziosi movimenti nelle
ultime tracce di oscurità. Né l’inverno
né la quieta pioggia
turbavano il sonno e la pace: quel nido esisteva per proteggere la
vita e rispettarla, e la Natura faceva lo stesso.
Ricordi di fuoco e fumo,
sentore di viole selvatiche ed echi di voci intrecciate nelle sere
d’autunno: se solo avesse potuto tornare indietro…
… Oppure
dimenticare tutto quanto. In realtà, a differenza di quel
luogo che
ancora esisteva così com’era stato costruito, lui
non era più
l’anima che la memoria spesso piangeva; erano sogni di un
altro,
quelli.
Mi accetteresti ancora, mio
dolce rifugio? Chi ti rendeva tale se n’è andato
per sempre… ma
tu sapresti riconoscere l’uomo che sono stato?
●
Era
nato senza un nome; dei tanti con cui le genti, gli eventi e il Tempo
gli avrebbero marchiato la pelle, nessuno gli sarebbe mai
appartenuto.
Solo quelli che ho ricevuto
da me stesso.
Inizialmente,
la realtà su cui aveva aperto gli occhi non aveva
necessitato di
alcun tipo di delimitazione, né fisica né
verbale: era stato un
unico, incessante fluire di forze ed energia oltre lo spazio e il
tempo, un battito racchiuso in un punto e allo stesso tempo ovunque,
dove sia la luce che il silenzio avevano trovato
un’indistruttibile
armonia; era stata l’esistenza ai suoi inizi, materia in
evoluzione
e continua espansione.
Sì,
era stato uno dei primi uomini: più longevi, forti e valenti
di
quelli che i secoli successivi avrebbero visto crescere, ma comunque
mortali — e per questo, destinati a scomparire dalla memoria;
a
contatto con l’immortalità e la perfezione,
condannati a non farvi
parte.
Fino
a quando l’intero universo era rimasto addensato in quella
spirale
di pura essenza, la coscienza di tutti non
aveva avuto modo di svilupparsi;
infatti solo in seguito, con l’avvento della creazione vera e
propria e il definirsi di una nuova realtà, anche le
opposizioni
avevano preso corpo e, come necessario, ordinato il flusso del
divenire.
Parola,
silenzio.
Carne,
metallo, minerale.
Calore,
gelo.
Luna,
stella.
Femmina,
maschio; e poi estate, inverno, protezione, tristezza.
Felicità,
rabbia.
Empatia.
Devozione.
Lealtà.
… Immortalità.
Rovina.
In
poco tempo erano sorte le prime città, e con esse erano
state
approntate le arti e tecniche necessarie per renderle splendide e
abbandonare del tutto i rifugi naturali; i Creatori avevano istruito
gli umani su come dominare il fuoco, il ghiaccio e le tenebre, boschi
e laghi avevano aperto il ventre per nutrire la vita… e
lentamente,
le creature tanto amate e volute dai Supremi avevano iniziato a
muoversi con le proprie forze e a non avere più paura del
proprio
simile, a unirsi, affinare ed espandere la conoscenza ogni giorno di
più, fino a posare il proprio sguardo sul fascino
dell’impossibile.
Lui
non aveva mai sentito il bisogno ossessivo della pietra e
dell’ossidiana, i suoi passi e tutto l’interesse
erano subito
stati per il rigoglio arboreo e il suono delle cascate, incastonato
nella veglia come nel sonno: per questo motivo aveva costruito
il suo
focolare[1]
tra le braccia di una radura e aveva edificato nel legno degli alberi
più resistenti le mura che lo custodivano, per questo aveva
dipinto
l’accesso con il corpo blu degli iris e la sfumatura solare
dei
narcisi acquatici, in un sottile dialogo tra ingegno umano e regno
naturale; per questo, quando i Beati avevano ordinato a tutti di
trovarsi un nome, aveva scelto quello che più era vicino al
cuore,
così che la parola Daire(♦)
potesse conoscere il mondo insieme al suo possessore.
Daire,
la Sentinella delle Foreste; Daire dagli occhi viola,
un’ombra
nelle iridi e un piede sempre distante da quello degli
altri… gli
altri che erano tutti, tranne l’uomo nato nel suo stesso
istante —
la percezione di avere un corpo concreto, la realtà piena di
colori
fissi, stabili; infine, una presa calda, estranea ma benefica,
intorno alla sue dita. Mano che stringe un’altra mano,
terrore di
solitudine e ricerca di vicinanza —, l’unico che
avesse
conosciuto la notte al suo fianco. Le memorie più intense,
così
come tutti gli istanti di pace, erano sempre state legate a quel
giovane continuamente desideroso di libertà.
Per molto tempo hai
camminato accanto a me, sei stato mio amico[2];
abbiamo vissuto vicino anche quando i nostri desideri sono mutati.
Il mondo l’abbiamo
conosciuto attraverso due sguardi, i sentimenti hanno preso forma tra
noi; nel tumulto della città io ancora ti sentivo, nel cuore
del
bosco tu riuscivi a chiamarmi.
«Daire
è una parola che esprime appieno quello che sei: solitario,
silenzioso, osservatore come i fiori che ora ci circondano.
La
gente delle città è diversa.»
«Non
credi che sia io quello diverso, in realtà?»
«C’è
qualcosa di più forte che scorre in te.»
«Siamo
tra gli alberi; la tua sensazione nasce dal loro respiro.
Probabilmente ti sei già dimenticato come sia vivere vicino
alla
terra.»
«La
Natura ha una voce diversa dal marmo; questo, però, lo
sapevo già.
No, ciò che sento è totalmente opposto.»
Innumerevoli
volte gli specchi lacustri avevano riflesso le loro figure: quella
più alta e avvolta in neri abiti di uno, i tratti gentili e
gli
occhi cangianti, dolci, dell’altro. Severità e
indulgenza, gemma
del buio e riflesso dell’aurora, attaccamento al ciclo del
mondo e
impulso di cambiamento: diversi nelle azioni, sempre uniti nei
pensieri.
«Dovresti
trovarti un nome; non posso chiamarti in mille modi, devi avere una
parola che appartenga solo a te.»
«Siamo
unicamente questo? Parole, oppure anche corpi, desideri,
altro?» Un
sospiro. «I nostri creatori… ci hanno dato una
forma, hanno
permesso alla nostra mente di aprirsi e apprendere; e, credo, hanno
racchiuso in noi qualcosa di ancora diverso. Tu, per esempio, hai
sempre saputo sentire la voce delle foglie e del suolo: sai spiegarmi
perché? Difficilmente potresti farlo: lo senti
perché è dentro di
te.
Abbiamo
definito affetto
il senso di calore che proviamo per un nostro simile; rabbia
quando vogliamo distanziarci da lui, perdono
quando quello che ha fatto scaturire la rabbia non cancella
l’affetto… ogni cosa è collegata, ma
qual è la fonte? C’è
qualcosa che ci guida, ci aiuta; non si può trovare fuori,
è
nascosta sotto la nostra pelle e vive nel profondo.»
Lui
avrebbe conosciuto il significato di anima
solo più tardi; invece, quel giovane con cui aveva condiviso
il
primo respiro già l’aveva compresa.
Anche
se non completamente capita, aveva comunque percepito la
realtà
nella voce del compagno: una porta capace di dare accesso a una nuova
forma di verità e conoscenza, più intima e
totalizzante.
Forse solo allora sono nato
davvero.
«E
comunque… se vuoi un nome, chiamami Glauco(♦),
come il cielo. Se tu hai scelto la forza delle tue amate querce, io
abbraccerò le nuvole.»
«Così
sia, allora. Ora so che è a Glauco che devo chiedere se
vuole
lasciare la città, e vivere con me.»
«La
stessa cosa che Agia ha detto a Telefo questa stessa mattina.»
«Non
considerarti così importante!» Una risata fusa
insieme allo
scherzo, anello dell’amicizia.
«Famiglia… non è solo un uomo e
una donna, sai?
Famiglia
sei anche tu per me; solo con te sento di non essere
incompleto.»
E solo.
Lunghi
capelli di bronzo mescolati a ciocche ebano; le fronti vicine
più
del consueto, l’opale e l’ametista collegate da un
silenzioso
dialogo. «E tu sei sempre stato il mio riferimento, pur nell’errare.
Lasciami andare, lasciami conoscere quello che si muove al di
là
dell’orizzonte; lo sai che tornerò, non temere mai
il contrario.»
«Allora
non mi resta che attenderti.»
Nel
tempo, erano state molte le volte in cui Glauco aveva ascoltato la
sua richiesta; e il vero fuoco della casa, il centro della sua
essenza, era divenuto proprio il volto brunito dal sole e sorridente
con cui l’allegro girovago era stato solito sporgersi
attraverso
l’uscio e annunciare il suo arrivo, consentendo il ritorno
della
luce. In quei momenti, la perfezione aveva vissuto anche in mezzo a
loro.
Illusione, madre di tutti i
mali… a volte credo ancora alle tue colpe.
Inizialmente,
anche la Morte non aveva avuto un vero nome.
Passato
neppure un secolo dalla Creazione, tra mura arse dal mezzogiorno e
archi di pietra rosata si era iniziato a mormorare di alcuni uomini
che, nel sonno o nel mezzo di una qualsiasi azione, erano collassati
al suolo per non rialzarsi più: gli occhi fissi alle alte
volte
celesti o serrati sotto le palpebre, i protagonisti di quegli
inspiegabili fatti avevano recato confusione e incomprensione, ma non
paura — non ancora.
Gli
dèi che avevano vissuto in mezzo a loro erano stati
interpellati,
come sempre quando qualcosa di sconosciuto aveva turbato il cammino;
e quei volti riflettenti i giochi del cielo notturno o il colore cupo
del mare, distanti ma
compassionevoli,
avevano raccontato di un viaggio che alcune anime — ormai
quel
termine era stato appreso, ma ogni volta lui era stato scosso come da
un timore ancestrale — avevano intrapreso verso nuovi luoghi,
e che
per lunghi anni questo non avrebbe consentito il loro ritorno.
Il
fatto non avrebbe dovuto recare timore o sconforto, in quanto a
quella seppur lunga separazione si sarebbe unita una promessa di
ricongiungimento; e in tal modo l’Oscura era stata introdotta
celata da panni splendenti, mentre i corpi dei caduti erano stati
prelevati dagli stessi Supremi e portati in un luogo adatto
all’attesa del proprio spirito.
Nessuno, forse nemmeno la
mente acuta di Glauco, avrebbe potuto scoprire la realtà
velata
sotto le parole; ma se inizialmente la possibilità non era
stata
considerata, le idee erano rapidamente mutate quando, dopo e insieme
alla Morte, erano giunte altre degenerazioni.
La Malattia aveva iniziato a
manifestarsi con asfissia, bolle cremisi capaci di stravolgere le
forme dalle membra, insonnia e pazzia; la Fame, invece, era venuta
per piegare le ginocchia e ridurre a fantocci anche i più
forti.
Le città si erano presto
trasformate in un crogiolo di domande e paure, in sgomento davanti
alle pene che avevano colpito indiscriminatamente uomini e donne, i
nuovi nati come i più vecchi; in molti avevano fatto ritorno
alla
protezione delle grotte o degli alberi per cercare un qualche tipo di
sopravvivenza, ma anche qui erano stati inseguiti dai figli della
Privazione, creature ancora senza nome ma con la voracità di
una
maledizione, chiamate Disperazione e Pianto.
«I
Beati non rispondono più alle nostre parole; osservano e
ascoltano
in silenzio, ma non riescono a salvarci. Che cosa sta
succedendo?»
I
sussurri di Glauco erano risuonati nell’ombra di una sera
rovente,
tra giacinti seccati dall’arsura prolungata e una luna senza
contorni, rinchiusa tra il fumo che saliva dai palazzi —
«Il
fuoco non potrà purificare tutto questo!»
— e le onde di sabbia recate dal vento del lontano deserto,
impietoso e soffocante.
«Sei
certo che vogliano farlo?»
«Daire…»
Nessuna
risposta, se non un’occhiata più intensa delle
altre. Per giorni
il suo sguardo aveva seguito con attenzione il divenire delle
foreste, colpite da morbo e sofferenza come tutte le altre forme di
vita; molto di ciò che era stato infettato si era consumato
e aveva
perso la propria voce, e il rincorrersi delle stagioni lo avrebbe
sanato solo parzialmente.
I
corpi degli
esanimi,
negli ultimi tempi sempre più numerosi, erano stati portati
via dai
Supremi e nessuno li aveva più visti; ma le selve non
avevano mai
nascosto nulla, mostrando invece che un’anima fuggita sarebbe
stata
perduta per sempre: l’involucro di legno che
l’aveva racchiusa si
sarebbe consumato fino a scomparire, anche desiderandolo da
sé lo
spirito non sarebbe riuscito a ritrovarlo, poiché non ci
sarebbe
stato nulla a cui ricongiungersi.
Quel
pensiero improvviso lo aveva sconvolto, ma non come si sarebbe
aspettato: nel profondo, qualcosa gli aveva sussurrato che
già da
molto tempo ne era certo, forse per il continuo contatto con il ciclo
naturale…
forse
per altro.
Ma era ancora troppo presto
per capire.
«…
Daire, che cosa vuoi dire?»
«Non
lo so…» Ancora
troppo fiducioso. «Non
lo so davvero.»
Glauco
aveva annuito, e la notte aveva perso ogni luce residua.
«Partirò
il prima possibile. Voglio cercare un rimedio a tutto questo; non
posso stare qui a guardare senza tentare di fare qualcosa.»
Non
avrebbe potuto mai fermare quell’amico dalla tempra
d’acciaio;
come sarebbe stato impossibile spiegare razionalmente
l’inquietudine
scaturita da quella decisione, il primo dei tanti presagi che
l’avrebbero segnato.
Come
per proteggerlo, nei giorni successivi le foreste si erano chiuse
intorno a lui e alla casa; dopo settimane d’assenza, la
pioggia
aveva ricominciato a scendere e ad allentare il morso delle
pestilenze, concedendo la fallace speranza che il peggio fosse
passato.
La
verità dei fatti, della miseria, aveva comunque trovato il
sentiero
per raggiungere la sua porta: aveva bussato nello stesso momento in
cui l’aveva fatto la figura emaciata, tremante e debole, che
aveva
intriso di cremisi le volute blu ed era poi precipitata bocconi sulla
soglia. Di ritorno da una pesca infruttuosa, lui l’aveva
trovata
così: rannicchiata sul pavimento tra coltri strappate nel
delirio
della malattia, circondata da rivoli di sangue e puzzo di urina, la
persona che un tempo era stata la sua guida lo aveva fissato con
occhi non più azzurri ma opachi, la luminosa pelle scura
divenuta
grigia e tutta la bellezza svanita. Le ossa avevano scricchiolato
quando lui era accorso a sostenere quel corpo stanco; e il suo
sguardo si era riempito del desiderio di non vedere più
nulla.
«Perdonami,
Daire. Perdonami, ho fallito! Me ne sono andato per scoprire il modo
di salvarci… e sono ritornato per morire.»
«Morire?
Che cosa vuol dire?»
Un
sorriso confuso tra le lacrime, un mugolio riposto in un estremo
incontro delle rispettive mani. «Significa svanire, amico
mio;
significa che io partirò ancora una volta, e tu non dovrai
più
aspettarmi.
Ho
resistito fino ad adesso perché volevo sentire il tuo
abbraccio
un’ultima volta… perdonami, perdonami davvero! Ti
lascerò solo…
ti lascerò indietro, in questo viaggio. Sono così
cattivo!»
«Basta,
smettila di parlare! Stai delirando.»
Saliva
e bile avevano intriso i suoi abiti quando aveva sollevato tra le
braccia Glauco e lo aveva portato in una rapida corsa tra i sentieri
selvatici, verso la città più vicina e le sedi
dei Beati; ma al
limitare delle selve fu proprio uno di questi a venirgli incontro,
potenza delle acque fluviali e dei monti, gli stessi che andavano
sgretolandosi come un pianto di pietra. Davanti al dio lui si era
fermato e aveva proteso il compagno, fissandolo sconvolto e con
tanto, troppo, da perdere. «Siete i Creatori, ci avete donato
ogni
cosa… salvatelo, potete farlo!»
Le
onde nel corpo del dio non si erano mosse nemmeno quando lui gli si
era inginocchiato davanti nella prima e ultima delle suppliche, ma la
voce aveva perturbato l’aria. «Non è
possibile; voi creature
siete destinate a cessare la vostra esistenza, prima o poi, e la sua
sta per compiere l’ultimo passo. È nel vostro
fato.»
«Ma
Glauco deve ancora fare tanto per l’umanità!
È migliore di molti,
la sua vita vale anche più della mia! Vi prego…
concedete a lui di
sopravvivere, e questa grazia la ripagherò con tutto
ciò che
vorrete: sono disposto a dare la mia esistenza in cambio, se fosse un
vostro desiderio.
Non
voglio perderlo… non voglio.»
«Che
superbia! Tutti avete lo stesso valore, quel relitto non è
di certo
più importante di te. Dallo a me, ora.»
«Ma…»
«Consegnami
il tuo amico; rimarrà vivo ancora per pochi attimi, deve
essere
deposto insieme agli altri.»
«Deposto…»
La presa più stretta sulle braccia smagrite del prezioso
amico, a
trattenere i singulti già radi e silenti. «Ci
avete ingannato,
tutti voi Creatori; a me avete parlato di fine
dell’esistenza, ma
agli altri uomini avete detto di attendere i compagni. Non
c’è
nessuno da aspettare, vero? Sono morti, come dice Glauco, come
testimonia la natura che ci sta guardando: se ne sono andati per
sempre.»
Il
dio aveva esitato un istante, quindi aveva voltato appena il capo.
«Forse tu sei più accorto degli altri»,
aveva sussurrato, «ma di
certo questo non cambia nulla. A chi gioverebbe sapere la
verità?
Non sopravvivereste comunque. Dammi il corpo, ora.»
Non
era rabbia quella che allora aveva provato; non solo… no,
qualcosa
di più forte, come l’odio: l’odio che
per primo aveva portato
nel mondo. «Avevate forse paura di noi? Temevate di perdere
la
nostra obbedienza, l’amore, le nostre offerte?»
Da
dove era nata quell’affermazione —
perché la domanda aveva
assunto il tono di una risposta —, quell’ardore? Il
germe dello
scontro era sempre stato in lui, nel mormorio che aveva sentito
così
spesso?
«Piangi
le tue perdite senza incolpare gli altri e impara a rispettare i
padri, umano; le tue parole sono flebili come uno spiffero, senza
verità.»
Senza
che avesse potuto vederle, le braccia del Beato lo avevano spinto a
terra e avevano rapito il corpo di Glauco; e anche se ormai il
respiro del giovane si era ridotto a un’illusione, lui aveva
tentato di riprenderselo.
Inutilmente;
e parimenti inutilmente le foreste avevano gridato con lui, uniche
compagne del suo dolore, le sole a comprenderlo e affiancarlo.
Odio,
disprezzo, furia, violenza: forze mai sentite prima avevano
affiancato il suo penoso cammino verso la propria casa, avevano fatto
fuggire tutte le fiere che là si erano rifugiate e costretto
lui a
cercare e conservare ogni traccia dell’amico scomparso.
Disumanità,
follia, noncuranza; non sarebbe stato più lo stesso, avrebbe
urlato
fino a perdere la voce nell’impotenza… avrebbe
scelto di morire,
e avere almeno la consolazione di non lasciare solo il corpo di
Glauco.
Per
giorni lo aveva pensato e progettato, rifiutandosi di cibarsi e
serrando ogni anfratto della dimora, così che nemmeno un
raggio
dell’alba sarebbe riuscito a raggiungerlo; per giorni aveva
respirato nel livore, sul pavimento lurido, in attesa
dell’agognata
fine.
Più
veloce di questa erano stati, tuttavia, i richiami del mondo: chi
aveva avuto in sorte forma e anima sussurrante, silenziosa
nell’osservare ma inarrestabile nell’agire, era
riuscito a
penetrare il vincolo del legno e a scivolare nella gelida struttura,
alla ricerca del suo amico più fedele.
Rami
e tralci di rose, boccioli e piccoli animali avevano deciso di non
attendere nemmeno un istante e raggiungerlo immediatamente, anche a
costo di essere scacciati o fatti a pezzi; e avvinghiati alle
caviglie e braccia che per tanto li avevano curati, erano rimasti al
suo fianco come avevano potuto, penetrandogli sotto la carne e
alimentandolo tramite sé stessi.
«Che
stupidità, rimanere accanto a chi ha abbandonato
tutto.»
«C’è
tanto che ti sta ancora attendendo, non lasciarlo fuggire.»
«Morirò
qui, come accaduto a Glauco!»
«Amare
parole, e non del tutto vere: suonano come una contraddizione, se
dette da chi vuol essere immortale.»
Ogni
voce, esterna o interna a sé, era stata poco più
di un pungolo
fastidioso; ma quella parola si era trattenuta nell’aria con
le
proprie forze, per farsi ascoltare a riascoltare. Inutile evitarla:
era riuscita a restare comunque, a tormentarlo ancora. Mi
stai nutrendo anche tu?
«Rialzati
ed esci da qui: sei forte abbastanza per combattere.»
«Combattere…»
«Non
senti tutte queste grida? I Beati vi hanno ingannato, lo sai
già; e
sopporterai l’esistenza di questa menzogna? Fuori di qua ci
sono
tanti come te, e tutti hanno perso il proprio Glauco; ma a differenza
tua lo aspetteranno invano, perderanno la vita con la speranza di
rivederlo ancora, ringrazieranno gli dèi per ogni azione,
ignari
della verità.
No, tutto questo deve
finire: i Creatori hanno tenuto ogni felicità per
sé e dato a voi
la vita per rendervi servi, ma chiediti questo: loro hanno bisogno
degli uomini… gli uomini hanno davvero bisogno di loro?»
No,
non era stata la Natura a parlare, improvvisamente ne era divenuto
certo: era stata l’incognita custodita nell’anima,
quella stilla
di diversità che Glauco aveva visto ma non era riuscito a
spiegare.
Di
ogni metà, di ogni dualità lui era sempre stato
vicino a quella più
oscura; capace di amare, capace
anche di
uccidere.
«Tu
sei diverso, Daire, perché in te vivono la tempesta e la
ribellione;
vivi con la fierezza della libertà, la tua anima
è indomabile
quanto lo sono io.
Usami, prendi le tue forze
da me; vendica la tua stirpe, vendica Glauco.»
La
nebbia dell’incoscienza aveva lasciato la sua mente, mano a
mano la
comprensione l’aveva sostituita.
«Tu
sei nato per cambiare il mondo; tu sei qui per portare giustizia.»
Giustizia:
la sua si sarebbe fondata in una battaglia e sul medesimo sangue che
gli aveva macchiato le mani, sarebbe stata diversa da qualunque
principio di Glauco… forse anche dai propri.
Ma
per cosa era sopravvissuto fino a quel punto? Aveva resistito ai mali
che avevano divorato la gran parte dei suoi simili, energie ben
più
grandi di lui gli erano rimaste vicine per proteggerlo e sostenerlo;
per quale motivo, se non fosse stato destinato a valicare tutti quei
limiti?
La
sua anima, il crogiolo di sensazioni e pulsioni: proprio nel momento
dello smarrimento e della caduta, lei aveva aperto i propri occhi e
si era riflessa nei suoi pensieri.
Distruzione, solo per
ricostruire.
Buio, per rendere
nuovamente la luce.
Inganno, per portare
verità; creare qualcosa partendo dal suo opposto.
La
sua diversità, finalmente si era manifestata; risvegliata
nel
dolore, si sarebbe mutata nella sua arma più grande.
«Potrai
lottare da solo, ma non lo sarai veramente; ci sono così
tanti come
te… loro verranno, ti seguiranno.»
«Iniziamo,
allora.»
L’alba
non era ancora nata quando aveva abbandonato il suo nido di
tristezza; ma seppur nel buio i suoi occhi erano stati guidati con
sicurezza, così che i piedi avevano raggiunto la meta appena
prima
del giorno.
«Io
ti conosco», aveva sussurrato la divinità
fluviale, sentendolo
arrivare e riconoscendolo immediatamente, abbandonando i flutti per
andargli incontro; e lui aveva sorriso, chinando appena il capo
—
non certo per devozione, ma per rispondere all’illusione con
l’illusione.
«Sei
la spada e lo scudo degli uomini, tu.»
«Ti
ho cercato per chiederti dove hai portato il mio amico. Voglio
rivederlo», aveva sussurrato lentamente, a voce tranquilla:
l’inganno era stato ben costruito.
«Ti
manca ancora? Vi abbiamo creato molto
malinconici…», aveva
risposto l’altro, senza scomporsi. «Non posso
esaudire il tuo
desiderio; la malattia non è ancora scomparsa dal suo corpo
e
potrebbe infettarti.»
«Dimmi
almeno dove riposa.»
«Nelle
lande più lontane dalla città, sotto cumuli di
pietra; là nessuno
può entrare in contatto con i morti.»
«Bene.»
«Ricordati
che tu servi a loro, ma che non hanno potere su te.»
Quella
volta anche il dio aveva udito il sibilo delle foreste e notato le
lunghe ombre che avevano circondato entrambi per stringerne solo uno;
e il silenzio confuso lo aveva reso più umano, anche se
solamente
per un attimo. «Che cosa significa la tua presenza? Cosa vuoi
davvero?»
«Sarai
tu a dirlo», era stata la risposta; quindi le sue braccia e
l’energia di mille e mille corpi si erano allungate sul
Supremo e
lo avevano afferrato, trascinandolo fuori dalla sua sede e
stringendolo sempre più.
Come
previsto, questi era riuscito a resistere; ma il corpo aveva iniziato
a guizzare in ogni direzione, le onde a frantumarsi contro le sue
mani e la stessa voce a caricarsi di spavento.
«Non
è così simile a te, ora?»
«Sì;
fragile quanto un mortale.»
La
divinità era poi riuscita a scaraventarlo via e farlo
rotolare
lontano; ma dalle profondità del suolo un nuovo impeto era
giunto
per aiutarlo, e una lotta più dinamica aveva avuto luogo.
Conscio
dall’inaspettato pericolo rappresentato
dall’avversario, il Beato
aveva cercato di rimanere il più possibile vicino
all’acqua; ma
l’altro era pronto a tutto, proprio perché non era
rimasto più
nulla da perdere e c’era tutto da ottenere.
«Invidia»,
aveva gridato il dio durante l’ennesimo attacco,
«invidia: ecco
cosa ti spinge a ribellarti, perché non ti importa degli
uomini, tu
vuoi solo il tuo diletto! Non accetti la tua imperfezione…
vuoi
tutto…»
Il
sorriso più maligno aveva intriso ogni ferita della
Sentinella delle
Foreste, gli occhi viola ormai privi di umanità: qualunque
esito
avrebbe decretato anche una parziale vittoria. «Hai ragione:
l’unica
persona a cui tenevo è morta, e dei miei simili non ho
cura… e
forse sono invidioso, come dici tu; ma non è diletto, questo.
Il
diletto sarà renderti umano quanto me;
il
diletto sarà diventare dio al posto tuo…
e credimi, non mi distoglierai facilmente dall’intento.
E
lo vedremo, sì che lo vedremo, se l’ordine
può resistere alla
devastazione! Lo vedremo, sarò ben felice di saperlo, quel
nome con
cui verrà chiamato Daire, colui che osò cacciare
le stelle più
alte!»
«Urlalo
a lungo; urlalo ancora e sempre. È un nuovo giorno per tutti
noi…
ed è solamente l’inizio.»
Lontano
dalle abitazioni, dalla vista e dai dubbi; qui i Beati avevano
rinchiuso gli sfortunati, senza concedere nessuna lacrima.
I
tumuli si erano sgretolati sotto le sue dita nere, il sangue di cui i
suoi capelli si erano intrisi aveva sciolto le pietre ed esposto
fetore e decomposizione alla luce del giorno.
Li
aveva fissati a lungo, quei fratelli e sorelle che non aveva mai
conosciuto ma che improvvisamente aveva sentito uniti a lui; per i
più giovani aveva pianto, per le donne aveva posto un
fiore… per
tutti loro si era recato nelle città e si era inoltrato
nelle vie,
portando in mezzo ai vivi la testa del dio che aveva sconfitto, e
come nuova divinità non aveva chiesto nulla; nulla, se non
l’ascolto. «Abbandonate le vostre case, smettete di
aspettare le
vostre famiglie», aveva gridato a occhi stupiti e pieni di
paura,
«andate ad apprendere la verità! Scegliete voi
ciò a cui credere,
liberatevi dalle catene. Combattete!»
E da allora mi definirono
come colui che porta la notte[4]:
Daire, il principe del Caos, il fiore della Discordia.
La mia sorte, un’eterna
guerra; il mio cammino, sempre più difficile.
Riesci ancora a
sentirmi, Glauco? Riusciresti mai a
comprendermi, a purificarmi?
Sei così lontano, ora…
NOTE
[1] Gli
archeologi hanno constatato come, al pari di quanto accaduto nei
contesti domestici delle civiltà più diverse,
anche le case romane
più antiche avessero una buca centrale, posta nella camera
principale dell’abitazione, dove veniva acceso il fuoco;
l’intera
dimora era costruito intorno a essa, così da rendere il
focolare il
cuore pulsante della struttura.
[2]
Rielaborazione di una citazione ripresa da Albert Camus.
[3] Nelle
società più antiche, la morte era sempre
violenta: fosse anche per
vecchiaia, era vista comunque come una privazione improvvisa, quasi
una maledizione.
[4] “He
Who Brings the Night”, brano
dei Two
Steps from Hell,
è un tema perfetto per il personaggio di Daire (tra
l’altro l’abum
da cui la traccia è tratta si intitola Power
of Darkness,
neanche a farlo apposta).
♦
Riguardo
a
particolari nomi:
Daire: Riprende il
termine dair,
che in irlandese antico significa “Quercia”;
associato a questo
il termine “druido”.
In molte culture, la simbologia di
quest’albero è ancestrale e affonda le sue radici
nella religione:
secondo Erodoto, il primo oracolo greco fu quello di Zeus (e di una
discussa dea madre, che a volte si ricollega a Dione, dea celeste, a
volte a Rea o Gaia) a Dodona, nell’Epiro, dove vi era una
quercia
sacra alle divinità citate.
Glauco: Riprende il
termine greco γλαυκός,
“Azzurro”. Glaucopide, dagli
occhi azzurri,
era comune epiteto di Atena.
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Capitolo 2 *** Anima Scarlatta ***
●
La
shot
partecipa
al contest “Raggio
di Luna”,
indetto da mystery_koopa
sul forum di EFP ●
II
●
Anima Scarlatta
Occhi
gelidi, lunghi capelli
corvini e quel sorriso sibilante, la peggiore ingiuria, con cui aveva
osservato le proprie vittime piangere sul marmo costellato di sangue
e brandelli d’abiti; il suo
solo fantasma aveva continuato a portare sudiciume e disonore sulla
loro pelle, nascondendosi nei bagliori di ogni fiamma e popolando gli
incubi di alcune — di tutte, probabilmente; ma quelle
più forti
tra loro non l’avevano mai ammesso, anche se le cicatrici
tenute
rigorosamente coperte avevano sempre raccontato un’altra
verità.
Fingere non ucciderà il
dolore.
Sarebbe bastato passare un
polpastrello sopra la stoffa delle vesti, premendo un poco per
giungere alla pelle del ventre; e le tracce rossastre sarebbero
fiorite come una maledizione, correndo fin sulla schiena e la nuca.
Quanto al dolore che aveva dilaniato la carne, quello invece non
avrebbe necessitato di uno stimolo perché sempre presente,
una
ferita infetta capace di sporcare anche gli angoli più
solari della
realtà e annientare un esitante futuro.
La dea del focolare[1]
richiede la vostra verginità, dovrete essere pure come lei.
Sotto la
sua protezione nulla vi accadrà, se assolverete ai vostri
doveri con
serietà e dedizione; grande onore verrà dalle
vostre azioni, voi
che siete state scelte come le spose più preziose.
Sia festa, le vergini del
fuoco vegliano su di noi!
Haesta[2],
grande Haesta, canta e danza insieme alle tue genti, benedici questi
giorni e la Città[3]!
«… Dimmi, mia suprema
signora: in cosa ti abbiamo disobbedito? Qual era la nostra colpa,
l’errore che ti ha portata a mandarci lui come punizione e flagello? Ha distrutto la tua dimora, oltre a noi;
lo hai visto, lo sapevi?
Perché,
perché? Dimmelo!»
Deliri soffiati tra i sogni
gelidi e la prigione dei denti, nelle notti in cui il letto si era
fatto nero, soffocante come il vino ingoiato per riuscire a
dimenticare; parole urlate tra le braccia di inverni che
l’avevano
portata a risentire sulla pelle quelle dita sacrileghe, chiuse sulla
bocca a impedirle di mozzarsi la lingua nel grido, roventi come lame
infuocate e l’ignominia.
Riaddormentarsi era sempre
stata la peggiore fra le torture.
Continua a rincorrermi, a
inseguirmi; oppure mi osserva dal tetto del tempio, come quel
mattino, in attesa che sia abbastanza vicina per ghermirmi. Neppure
questa volta gli alberi mi proteggeranno.
Vuole macchiare di nuovo il
marmo di scarlatto, urlarmi parole che non comprendo; papa, papa[4]…
dove sei?
Io muoio qui!
«Che
cosa ti avevamo mai fatto di male? Ridammi la mia vita!»
… A
volte riusciva ancora a piangere davanti a quei pensieri.
Chiunque tu sia, ascoltami.
Perdonami.
Guariscimi.
●
«Papa,
diventerò una vergine del fuoco! È bello, vero?»
Ci aveva creduto davvero;
aveva speso tutte le sue energie e ogni pensiero per quel sacro
compito, e ne era stata felice.
Suo padre l’aveva
abbracciata strettamente e pianto quando le sacerdotesse più
anziane
erano giunte alla loro dimora per portare la notizia: gli occhi di
bosco dell’ultimogenita, il fiore più puro di
quell’antichissima
stirpe, avrebbero contemplato le fiamme di Haesta e le sue mani lo
avrebbero protetto ⸺ così come avrebbero fatto con la
Città, che
di quell’immortale fuoco si era nutrita fin dalla propria
fondazione.
Le grandi guide del suo popolo
erano nate per mezzo di quelle lingue d’energia[5],
simboli della presenza delle divinità e testimoni di pace; e
proprio
quelle lei avrebbe nutrito insieme ad altre cinque giovani, serve di
un nume ma molto più di semplici sacerdotesse, spose di
sovrani
celesti.
Anche dopo anni, fermando i
propri passi davanti alla luminosa radura della dea[6],
lei avrebbe potuto risentire i propri singhiozzi d’emozione
quando
la Città le si era chiusa intorno per guardarla salire tra
le
braccia del tempio, quando invece che bambole d’ebano e
animaletti
d’avorio le sue mani avevano iniziato a stringere i tessuti
sacri;
e la consapevolezza di poter diventare una brava custode, una garante
dell’ordine e della felicità degli altri,
l’aveva ben presto
consolata dall’iniziale malinconia del suo vecchio mondo.
«Tu sei importante per la
nostra gente, sei la sua sentinella; sei coraggiosa come il papa»,
le aveva detto l’uomo durante una delle frequenti visite; e
lei
aveva battuto le mani nell’entusiasmo, rendendo il sole
più
lucente.
«Quindi anche io sono spada
e scudo
dell’umanità,
come la mama
dice sempre quando parti per andare in guerra?»
«Sei
molto di più,
plúirín[7];
molto di più, perché tu potrai tenere lontano il
sangue da tutti
noi. Allora, chi è la principessa di papa?»
«Io, sono io!»
… Sono
sempre
stata la tua
spada e il tuo scudo, padre.
E
gli anni erano volati come i pensieri, come la più dolce
innocenza;
il suo animo già deciso aveva assunto fermezza e le doti di
una
guida.
Sono stata
la tua principessa… una regina.
Per tante notti senza luna la
Città era scivolata ai suoi piedi, tra i sussurri del bosco
e le
volute di fumo che avevano lasciato la casa di Haesta per nutrire il
mondo; sotto cieli senza nubi né confini
si era spogliata dei pensieri e aveva sorriso, così fiera di
sé da
non sentire stanchezza.
L’ombelico della vita era
situato in lei: aveva legato origini e identità, retto il
regno
insieme al suo legittimo sovrano, illuminato famiglie e
credi… non
avrebbe potuto essere più onorata.
Così, non aveva nemmeno
passato i vent’anni quando il suo fato era stato certo:
sarebbe
divenuta una delle migliori vergini del fuoco e, una volta ultimato
il servizio, una grande compagna di governanti.
Sacerdotessa potente, futura
signora di genti: avrebbe ampliato e sostenuto il lustro della sua
famiglia, reso ancora più forte il suo popolo… se
tutto
questo le fosse stato veramente concesso, a lei e alle sue compagne;
se
quella mano desiderosa di morte e dolore non le avesse mai trovate.
Le tenebre si erano addensate
tutte lì, in quel primo mattino di primavera simile a tutti
gli
altri; forse, alla luce del dopo, anche troppo perfetto.
Il canto tonante della fontana
su cui si era chinata sarebbe rimasto vivo in lei per sempre, come le
quotidiane incombenze che avevano occupato la sua mente fin
dall’alba; ma nemmeno il gorgoglio dell’acqua era
riuscito ad
allontanare le grida che improvvisamente si erano levate
dall’intera
Città, così raccapriccianti e alte da
pietrificarla sui mosaici
informi[8]
e spingerla a muovere le gambe solo dopo infiniti istanti.
Rumore di palazzi spezzati,
polvere e urla ovunque: vie cadute sotto la mano furente di un nemico
invisibile che era avanzato dissestando e distruggendo,
un’onda
d’aria e fumo che aveva lasciato solo desolazione.
«Chiudete il tempio, subito!
Chiunque o qualunque cosa sia, è ormai qui!»
Anche da lontano, lei aveva
potuto sentire lo spavento delle compagne e gli ordini delle loro
superiori; e a stento era riuscita a infilarsi nel bosco di Haesta,
appena prima che l’intero complesso venisse serrato.
Se fossi stata dimenticata
fuori… che cosa ne sarebbe stato di me?
Mi sarei salvata, sarei
uscita intatta e ignara dagli eventi successivi?
La piccola selva l’aveva
protetta per tutta la sua corsa frenetica, quando sibili sinistri e
voci confuse si erano attorcigliate intorno alle verdi chiome; strane
luci avevano interrotto il percorso come per farla desistere, ma
dentro di lei niente le aveva sussurrato di indugiare
all’ombra
degli alberi e respirare piano, per non essere scoperta.
Perché non sono nata
codarda, padre mio; e lui lo sapeva.
Conosceva bene la nostra
tempra.
«Ed ecco l’ultima… ora la
caccia può considerarsi conclusa.»
Era riuscita a vederlo bene
solo per qualche istante, quel giovane uomo — no; lo aveva
compreso
fin da subito, quanto fosse distante dall’umanità:
la sua aura un
unico grumo di buio e angoscia, un monito minaccioso per tutti
—
seduto sul tetto del tempio e intento a guardare al suo interno
attraverso l’apertura per il fumo sacro; a quella visione si
era
fermata senza far rumore, stupita e confusa, ma lui l’aveva
sentita
comunque e si era voltato con la rapidità di un serpente,
bruciandola con uno sguardo.
«Oh, e invece ne mancava
una.»
Un lampo, e la figura era
atterrata a pochi passi da lei; una presa si era stretta intorno ai
suoi capelli e li aveva tirati con tale violenza da scioglierle
l’acconciatura rituale e strappare alcune ciocche, ma ogni
reazione
si era arrestata quando, nel battito di un istante, dal limitare del
bosco si era ritrovata a boccheggiare sul pavimento templare, la
testa in fiamme e il boato delle porte distrutte nelle orecchie.
Da quel punto, per lunghe ore,
il suo mondo era crollato pezzo dopo pezzo: il dolore delle torture
inflitte con un pugnale arroventato si era unito all’eco di
domande
incomprensibili, il disprezzo si era fuso con l’irrisione, la
visione del fuoco sacro gettato tra loro — «Haesta,
fa’ che muoiano subito, che non soffrano così tanto!»
— aveva danzato con la morte.
Non salverete nessuno,
nessuno!
E la Città vi venera quasi
più della vostra dea… la mente sa essere
così sciocca, così
ipocrita. Le mura di questo luogo cadranno a causa vostra e di questi
impotenti riti, così come tutte le illusioni che avete
contribuito a
creare: saprete sopportare gli sguardi del vostro stesso popolo, poi?
Lo guarderete morire, dal
primo all’ultimo bastardo!
Aveva
cercato di resistere fino allo sfinimento, di sopravvivere al proprio
desiderio di morte e alla violenza; ma di molte cose nemmeno lei
avrebbe saputo raccontare, poiché prima della fine il sapore
del
terrore l’aveva fatta precipitare in un abisso
d’incoscienza, la
mente incapace di sopportare più dell’indicibile.
Quando aveva
riaperto gli occhi, poi, aveva incontrato non la casa di Haesta, ma
le pareti della sua amata dimora; e solo qui aveva pianto tutte le
lacrime caparbiamente trattenute e celate, strappando le coperte tra
delirio e grida e lasciandosi toccare solo dalle mani del papa.
«Non c’è più nessuno
là,
vero? Grande dea… grande dea, perché? Eravamo le
tue figlie! Le
tue figlie!»
Per interi giorni aveva
pronunciato, cantilenato e ringhiato quelle parole, senza pausa
né
vitalità, come una preghiera per guarire o
un’insensata ninnananna
per tenere impegnata la mente: perché tutto il buio era
lì, sotto
la residua lucidità, pronto a coglierla nel momento del
silenzio e a
crollare sulle proprie fondamenta, per trascinarla ancora
più giù,
da lui.
Quell’anima ferina non se
n’era andata davvero dopo aver guardato tutte loro
agonizzare, era
rimasta con lei per darle la caccia: assunto l’aspetto del
padre
per confonderla e trascinarla nella quiete, l’aveva attesa
nei
sogni e si era svelata solo dopo che le sue difese si erano
abbassate, quando non ci sarebbe stato nessuno da cui rifugiarsi.
Non era stata la sola a
condividere veglia e riposo con il terrore: tutta la Città
aveva
riconosciuto che le proprie forze, militari e religiose, non
avrebbero potuto fronteggiare quelle di un dio che, come si era
immediatamente raccontato, era nato per reclamare sangue e aveva
distrutto più di mille luoghi, agognando la conquista di
ogni cosa.
L’energia tenebrosa che
questi aveva scatenato si era dimostrata troppo violenta, impulso di
distruzione e crudeltà, per essere contrastata con un culto
della
ragione e della virtù, quindi chi avrebbe potuto incolparsi
o
incolpare i propri compagni di una vicenda così orrenda? La
colpa
era tutta insita in quell’animo nero che aveva osato portare
dolore
e tormenti a fanciulle innocenti e marchiare la loro pelle di
vergogna; la colpa sarebbe cresciuta insieme agli amorali riti di
Baccus[9],
insani e arroganti, che avevano immediatamente sostituito quelli di
Haesta al punto da impossessarsi delle stesse rovine del tempio e
recare maggior spregio ai tetti infranti, affronto alle istituzioni e
mancanza di cura verso i tanti che in quel terribile giorno avevano
perso molto.
«Il vento del mare è giunto
su di noi per punirci, per distruggere la nostra grandezza e
insegnarci l’umiltà: impariamo da questo
errore», aveva poi
iniziato a gridare qualcuno, additando la fine dell’alterigia
dei
potenti — anche la sua presunzione e aria di
regalità: regina
spezzata, fiamma debole — come unico farmaco contro i mali;
«Una
giusta dottrina non tortura a morte giovani figlie, non si diverte a
denudarle e a batterle: quella tempesta non avrebbe dovuto
toccarle!», aveva replicato qualcun altro, proteggendo e
sostenendo
le umiliate vergini.
Lei aveva sentito tante voci
intrecciarsi e attaccarsi al velo della lucidità, volti
agitarsi
davanti a lei in continue, inopportune visite e dichiararla sia
vittima sia, in un mormorio, la prima carnefice di sé
stessa; ma non
aveva davvero udito né trattenuto quelle parole, il suo
sguardo
vacuo aveva emanato luce solo sotto le carezze affettuose della sua
famiglia.
Lei, Pirra(♦),
nata e cresciuta con il fuoco nell’anima e nel nome, che era
stata
guidata da esso nelle ambizioni, da allora lo aveva sentito quietarsi
senza riuscire a fermarlo; ancora nel suo profondo ma troppo debole
per riscaldarla, assopita quella parte del suo essere si era sentita
disperatamente fragile, privata di un punto fermo come una bandiera
dimenticata nel vento, sola con i suoi demoni. Quasi impossibile da
credere come un unico gesto di prepotenza avesse potuto ridurla al
guscio immobile che lo specchio aveva riflesso ogni mattino e per
molto tempo; ma era stato proprio ciò che aveva percepito in
quei
momenti — la mia
prepotenza non ti priverà della vita, non temere; ma
attenta,
potrebbe ritornare a opera di altre mani, e tu non potrai fidarti mai
più di nessuno! —
a ghermire il suo coraggio e dilaniarlo.
A ben vedere, la ragione si
era posta dalla parte di coloro che l’avevano tacciata di
superbia:
perché aveva sempre vissuto come una bambina sicura di
sé ma ignara
del mondo, onorata come grande ma senza alcuna conoscenza di
privazione e caduta, pronta a incrinarsi davanti alle crisi.
Dedizione, fedeltà e
caparbietà non se n’erano andate, erano rimaste
con lei; ma la
paura della loro risposta — o meglio, della loro assenza
— a
vicende di tale specie le aveva tutte spinte in secondo piano.
In un possibile ripetersi di
quegli eventi, niente le avrebbe dato la conferma che avrebbe
conservato la sua resistenza; la sua mente aveva già
sofferto,
sarebbe stato facile spezzarla del tutto.
… Forse
era stato proprio questo a spingere il portatore di caos a ritornare
davvero, a lasciare il regno del suo inconscio per raggiungerla e
terminare quello che aveva iniziato.
Quanti minuti, ore o mesi
sono realmente passati?,
aveva pensato quando il suo sguardo aveva scorto il sibilante sorriso
tra le ombre della propria camera e un sospiro gelido era penetrato
tra le cortine del letto; forse nessuno, perché le era parso
di non
essere mai uscita dal tempio.
Ma
il glaciale sguardo dell’altro si era posato solo per qualche
istante su di lei, unicamente per accertarsi di aver riportato la
paura: una forza ben più grande lo aveva attirato, il fuoco
pulsante
di un’altra anima.
La
Città non era ancora precipitata nella follia solamente
grazie alla
potenza militare, alle azioni degli uomini come suo padre e alla
sicurezza che la loro presenza aveva continuato a ispirare: che cosa
sarebbe accaduto se perfino quell’estremo baluardo fosse
crollato,
se tutti i guerrieri fossero stati uccisi? La comparsa di
quell’entità aveva trovato spiegazione solo in
quella motivazione:
per piegare totalmente la gente, si sarebbe dovuto prima pensare a
privarla di ogni arma.
Le
porte della camera si erano chiuse appena il dio se n’era
andato,
imprigionandola per renderla il finale diletto di un’altra
giornata
di spietatezza; e lei inutilmente si era trascinata giù dal
letto e
sul pavimento, ritrovando la voce in pietosi singhiozzi.
«Non
toccarlo! Non fargli del male, torna qui e uccidi me!», aveva
poi
gridato nella rinnovata disperazione, e questa le aveva dato
l’impeto
di affondare le unghie nel legno intarsiato e fermarsi solo quando le
dita erano state trafitte dalle schegge. La voce ferma del
capofamiglia, levatasi improvvisamente, aveva vinto sullo strazio e
portato un teso silenzio nelle stanze, l’orgoglio pronto a
misurarsi con la prepotenza.
Non
era riuscita a capire nessuna delle parole che erano state scambiate,
ma il suono di passi in corsa, già lontani dalla casa, le
aveva
suggerito che suo padre avesse allontanato tutti e che la
divinità
non si fosse mossa: suo obbiettivo solamente il guerriero, e lei.
Il
suono di lame giunte a danzare, subito seguito dal ruggito del fuoco
che aveva iniziato a divorare la casa, non aveva tardato a colpire le
sue orecchie; e nuovamente le sue mani avevano cercato di aprire le
porte e implorato la fine di quello scontro — come se
qualcuno
avesse davvero potuto ascoltarla o aiutarla.
E
si era nuovamente
sbagliata quando aveva creduto di aver conosciuto la caduta,
poiché
la vera rovina si era palesata solo in quei momenti; e si era
sbagliata, perché aveva creduto che almeno un sostegno le
fosse
rimasto e che nulla avrebbe potuto portarglielo via. Invece eccola,
la bambina spaurita, l’anima sconfitta e divorata da potenze
più
grandi e con mille nomi, la timorosa che non aveva osato fare nemmeno
un passo e staccarsi dalla porta illuminata dall’incendio.
Era
arrivata la giusta fine per un’egoista: smarrire la ragione,
gli
affetti e la vita sapendo che quella morte non avrebbe cessato nulla
e protetto nessuno.
Ma io avevo promesso…
Il
clangore delle armi divenuto improvvisamente più violento e
forte,
tonfi di corpi in caduta; il buio addensato intorno a lei, per
ghermirla.
… Avevo
promesso che
sarei stata la sua spada, e il suo scudo.
Un
guizzo nel chiuso dell’anima: chiamato disperazione, in ogni
altro
modo, ma lì al suo fianco.
Mi avevi fatto promettere
che avrei resistito a tutto.
Voci
nel cuore, respiro spezzato dall’energia; il sorgere lento di
qualcosa che non le era mai appartenuto, ma che aveva iniziato a
respirare come un vento nuovo. Un battito ritmico, per non fare
più
male del necessario, ma destinato a salire.
Non sarei mai caduta, no.
Forza
della rabbia, della disperazione, della perdita; nessun guerriero era
mai nato dalla pace, e per questo l’avrebbe sempre cercata.
Quante
volte aveva visto la malinconia negli occhi di papa,
l’incertezza del ritorno? Eppure aveva obbedito ai suoi
doveri per
assicurarle vita e felicità; in cambio, lei lo aveva
lasciato a
combattere al posto suo, da solo.
Come
aveva potuto?
Ricordati, Pirra; ricordati
di te e di questo sacrificio.
La
tempesta aveva riniziato a ululare sopra il tetto; eppure, il corpo
scosso dalla tensione si era rifiutato di cadere immobile.
Ogni
rumore esterno l’aveva fatta tremare, tuttavia la paura aveva
iniziato ad allontanarsi: no, non era stata quella sensazione a
muovere la sua mente, mai il terrore aveva avuto quel sapore.
Chi sei, ragazza? Urlagli
il tuo nome.
Le
porte erano divenute fauci infuocate che presto si sarebbero espanse
intorno a lei: in attesa di un suo gesto, avevano ghignato
anch’esse.
Urlalo.
«Basta…
basta.»
Urlalo!
«Io
sono…»
Plúirín…
Un
altro passo e sarebbe stata ingoiata; invece, il battito che si era
sparso nella mente aveva raccontato un’altra storia: un
momento in
cui la lotta non avrebbe portato silenzio ma salvezza, in cui
l’incubo avrebbe aperto le ali per smettere di straziarla e
iniziare a sostenerla. «Se è con
un’ombra che mi devo scontrare…
allora che io divenga la notte stessa», aveva mormorato
mentre le
immagini di un mattino d’orrore avevano iniziato a colpirla; e
il
fuoco le aveva riso in viso, spirando tra i suoi capelli, mentre
la fiamma nel nome aveva sorriso.
Fidati di te, sai già cosa
fare.
Le
porte erano crollate su di lei, l’incendio si era preso il
suo
corpo… così aveva creduto la vecchia
sé stessa; ma solo la sua
ombra era stata divorata e subito si era ricongiunta alla figura
fulminea che aveva calciato lontano da sé il legno contorto,
apparendo nella sua veste più nera. In pochi avrebbero
potuto
riconoscere nella donna dal volto sporco di cenere e dalla voce
ringhiante la luminosa ragazza che un tempo era stata;
perché anche
se tutto il corpo era rimasto uguale, quegli occhi sanguigni e privi
di pietà non erano mai appartenuti a Pirra.
Con
gambe percorse da nere volute, essenza ed espressione del calore che
le aveva preso tutto lo spirito, si era gettata tra il papa
e il suo aguzzino, con braccia rese forti dall’energia di
mille
uomini aveva afferrato la gola di quest’ultimo e sfruttato la
sorpresa per abbatterlo al suolo e intrappolarlo sotto di
sé; la
mente umana aveva lasciato il posto all’istinto di una belva,
pura
forza aveva ingoiato tutte le sensazioni e obliato qualsiasi cosa non
fosse stata la sete di sangue. «Ti devo una lunga
tortura», aveva
sibilato con voce roca, monstrum[10]
creato da odio, rimorso e tenacia; e quando l’avversario
aveva
posto un braccio tra il suo impeto e il proprio collo, in risposta
lei lo aveva morso e quasi giunta a tranciarlo.
Fumo
denso e soffocante le aveva attaccato il volto, uncinandole la pelle
con l’intento di strapparla; ma anche sotto quel dolore
micidiale
le sue mani erano riuscite a lacerare e colpire fino a quando la
sopportazione aveva potuto sostenerla. Ritorcendole contro
l’instabilità del corpo diviso simultaneamente tra
difesa e
attacco, il nemico l’aveva afferrata per le braccia e spinta
lontana da sé, salvo poi incalzarla per colpirla e farla
sbattere
contro il muro a loro opposto.
«Mai
conosciuto nessuno con tanta voglia di morire», le aveva
sibilato il
dio dopo averle schiacciato la testa contro la parete e stretto il
collo; ma l’agire non era stato lesto come le parole quando
il
fuoco si era frapposto tra loro e le mani di lei erano riuscite ad
afferrare le fiamme, per poi dirigerle contro di lui al pari di
temibili spade. «Neppure io», aveva replicato,
evitando di
riconoscere come le differenze con quell’essere avessero
iniziato a
sfaldarsi.
Dopo
quel gesto, l’aura maligna dell’avversario era
divenuta palpabile
e, prudentemente, lei si era preparata al principio della fine;
tuttavia, alla minaccia di lotta non era seguita quella effettiva, in
quanto l’entità era svanita come nebbia davanti al
sole, con un
duro sguardo come promessa di ritorno e tanto sangue lasciato al suo
posto: sangue appartenuto totalmente a lui.
Solamente
allora le gambe le avevano permesso di retrocedere fino a farle
sentire il freddo della pietra contro la schiena, solamente allora si
era voltata verso la figura del padre; e davanti a quest’ultimo,
agli occhi terrorizzati dalle
sue sembianze,
lei
aveva
compreso di aver vinto una battaglia inconclusa e perso la sua
più
grande certezza.
«Pirra…»,
aveva singhiozzato l’uomo, fissandole le mani che non avevano
smesso di impugnare il fuoco; e il simulacro di sua figlia aveva
scosso appena il capo. «Io non sono più
lei; la giovane che adoravi è morta.»
A
passi lenti si era allontanata dal padre, ogni istante di distanza
aveva sconnesso il sentiero che le avrebbe permesso di ritornare tra
quelle braccia; perché la sete di vendetta non si era ancora
acquietata, la caccia era appena iniziata e ogni innocente avrebbe
dovuto ignorarne l’esistenza.
«Non
avrei voluto perderti così, ma era l’unico modo
per salvarti. Non
cercarmi più, papa,
non chiedere della vergine che hai chiamato figlia: semplicemente,
non dimenticarmi e amami ancora.
Anche
con questo spirito io non ti dimenticherò né
smetterò di amarti;
e, forse, in qualche modo potrò ancora sentirti.»
«Non
andartene! Pirra, ti prego, rimani qui e calmati!»
Quando
l’eco di quella preghiera era svanito, lei era già
stata
circondata dai sentieri boschivi che l’avrebbero portata alla
Città; le lacrime erano diventate cristalli sulle guance
graffiate,
le erano entrate nella pelle e avevano ghiacciato tutte le parole che
avrebbero potuto ricondurla a casa.
Perfino
sotto la copertura delle cime arboree era riuscita a scorgere le
rovine della casa di Haesta e le luci blasfeme di Baccus, i culti che
avevano osato deridere le istituzioni e Haesta intenti a tormentare
l’aria; non aveva spostato lo sguardo da là,
sentendo tutte le
sensazioni dello scontro precedente ritornare e nutrire cupi
desideri; le aveva accolte tutte. Era penetrata tra le vie urbane
ancora umana…
… Ma
quando ne era uscita la sua anima era divenuta totalmente scarlatta;
tra le mura del vecchio tempio, invece, non era rimasto altro fuoco,
se non quello che lei aveva portato.
Aveva
creduto di poter dominare tutta quella forza, di riuscire a
incendiarla nella necessità e acquietarla negli istanti di
pace; ma
una volta assaggiata la vendetta e macchiatosi di sangue, bruciato un
corpo e risucchiatone l’anima, il suo spirito non aveva fatto
altro
che aumentare il desiderio di distruzione: e lei si era rivelata
troppo debole per non ubbidirgli.
Quando
la Città si era completamente ripulita dalla parola
aberrante di
Baccus, la luna aveva appena mutato il suo volto da pieno a mezzo;
era scomparsa del tutto quando l’intera regione era stata
percorsa
da passi ferini e liberata dalla feccia, e pochi altri giorni erano
passati quando oblio e annientamento avevano divorato quello e altri
culti indegni. Non era bastato: completamente annerita e piegata
dalle sue stesse energie, il corpo così rigonfio di
volontà e
pulsioni da non riuscire a contenerle, la fiera qual era diventata
aveva vagato fino quasi a perdere connotati umani e diventare
realmente un’ombra maledetta e lamia[11],
come l’avevano definita le parole di coloro che erano stati
testimoni delle sue azioni.
Per
lunghi giorni aveva riposato e atteso in selve inaccessibili e
intoccate sia da uomini che da dèi, pulsando tra i rovi come
un
cuore malato; nei crepuscoli informi, invece, aveva fatto la sua
comparsa e iniziato la caccia che avrebbe sottratto al mondo almeno
un’anima corrosa e ambigua, una preda che le avrebbe dato
l’illusione della giustizia e soddisfatto temporaneamente la
sua
fame incessante.
Spesso
si dice che chi per troppo tempo languisce nel silenzio, una volta
rinato nel suono non riesce più a farne a meno e finisce per
perdere
il dono dell’ascolto: ciò era accaduto a lei, che
aveva pianto
sulle ceneri del suo spirito e, ritrovatolo, non era riuscita a
controllarlo e si era smarrita nuovamente… forse
perché ancora non
aveva raggiunto il suo reale scopo; perché tutte quelle
morti non
erano state altro che un preludio e l’armatura necessaria
all’ultimo combattimento.
L’oscurità
non l’aveva solamente accompagnata nei suoi spietati lavori:
questa
le aveva spesso parlato del dio che per una seconda volta era stato
causa di una caduta, l’aveva condotta sulle sue tracce e
portata
ogni volta più vicina a lui —
seppur non abbastanza da poterlo ghermire.
A
volte era stata proprio quella figura ad accostarsi alla sua persona:
l’aveva raggiunta nei sogni, come nei lontani tempi del
prima, per
ghignarle di nuovo contro; e tuttavia, in quegli istanti lei aveva
replicato e combattuto, rischiando di perdere la vita a ogni assalto
o di prendere quella del nemico, urlando a stelle atterrite e
fuggevoli.
Ematomi
più neri della propria pelle, segni di tagli e morsi e senso
di
vuoto, come se qualcosa le fosse stato strappato da dentro,
liberazione e soddisfazione si erano prese corpo e mente alla fine di
quelle visioni, lasciandola stordita ma capace di respirare
nuovamente; tutte
quelle sensazioni erano sempre cessate durante la successiva caccia,
ma i marchi sulla pelle non erano mai svaniti né sbiaditi,
come se
avesse combattuto nella realtà e con tutte le sue
conseguenze.
Il
periodo di stasi e attesa non aveva avuto lunga vita, in
quanto in
una di quelle notti immobili, messaggere di una tempesta in
avvicinamento, si era svegliata in un bagno di sudore e tra tremiti
di tensione: lui
era giunto, finalmente deciso ad attaccarla e a porre fine alla sua
storia.
La
foresta in cui si era rifugiata aveva rifulso di luci e sussurri mano
a mano che il dio era avanzato, così non era stato difficile
trovarlo; anzi, lui stesso aveva tentato ogni cosa pur di farsi
raggiungere in fretta.
Per
la terza volta lei aveva fissato quegli occhi azzurri e il volto
affilato, leggendovi un odio di cui non era mai stata capace prima
dell’attacco alla propria famiglia; per la terza volta aveva
sentito la repulsione per quell’ombra umana ⸺
è così che
sono diventata anch’io.
E nonostante ciò, quella era stata la volta in cui
l’apparenza
aveva parzialmente
celato la
realtà: era bastato solo un istante per comprendere che ben
poca forza
era rimasta nel corpo dell’avversario, che questi si era come
prosciugato e, rispetto a lei, divenuto debole come un essere umano.
Ogni traccia di divinità era stata allontanata da lui,
ciò che era
rimasto solamente il fantasma della belva che aveva distrutto la
vecchia Pirra; le sarebbe bastato un solo gesto per annientarlo del
tutto, e proprio a questo aveva pensato immediatamente ⸺
appena prima di essere fermata dalle parole dell’altro.
«Conosco
quello sguardo», aveva mormorato la divinità,
sorridendo un’estrema
volta e come a schernire l’ostilità sorta tra
loro, «alla fine,
ti sei trasformata in qualcosa di molto simile a me.»
«Lo
so», era stata la replica, l’asprezza che non si
era lasciata
sfuggire la sensazione di sofferenza e pena del nemico e ne aveva
goduto, «lo so. Per combatterti ho dovuto abbassarmi al tuo
livello.»
Ho smarrito davvero tante
cose di me.
Un
ghigno famelico, il temporaneo ritorno del mostro. «Allora,
almeno
in questo, ho vinto io.»
«Non
sento più nulla in te», aveva risposto lei,
chiudendo la via del
pensiero ⸺
a cosa ho
ceduto realmente? ⸺
e ogni possibile apertura,
«e voglio sapere perché. Per quale motivo hai
deciso di attaccarmi
in questo stato? Non sei più il dio che ha ridotto in
ginocchio
Haesta, qui è rimasto un solo mostro.» Io,
proprio io.
«Che cosa vuoi da me?»
L’altro
era rimasto in silenzio per parecchi istanti, quindi era scivolato
sulle proprie ginocchia. «Volevo guardarti
un’ultima volta,
sacerdotessa… fissare il volto di chi mi porterà
alla morte.
Quelle
battaglie nella tua mente… erano vere, come era vero ogni
sogno
dove sono apparso. Ho giocato a lungo con te e con le tue paure,
ragazza: non c’è stato nemmeno bisogno di
pungolarti, la mia sola
apparizione ti immobilizzava e mi rendeva facile portare il caos in
te.
Poi,
ho fatto l’errore di attaccare il tuo amato padre e,
così, di
risvegliare tutta la forza del tuo animo; e ora eccoti qui a dominare
su di me, senza paura, pietà, freni, capace di strapparmi le
energie
in soli tre combattimenti e ridurmi così… che
splendida donna che
sei, una vera regina.»
Più
di un sussurro, molto meno di un grido: la vittoria le si era
avvicinata silenziosamente, e il suo sapore non le era parso
così
dolce come si era aspettata. Ma sarebbe stato davvero così?
«Alzati,
non mi ingannare. Non ho ucciso a lungo per non lottare nemmeno,
svelati», aveva replicato lei mentre gli si era avvicinata
cauta,
non ancora certa delle sensazioni provenienti dall’esterno:
come
aveva potuto rendere così un tale dio? Le sue energie erano
cresciute così tanto da permetterle di valicare i confini
della
coscienza e agire comunque sotto il suo controllo?
«Non
mi credi; e non mi stupisco, quando sono il primo a non
crederci»,
aveva concordato l’avversario, prima di socchiudere gli occhi
e
privarla della loro visione. «La senti questa eco?
È l’unica
traccia rimasta dei miei poteri. Sono tutti ritornati al cielo, alla
terra e a ogni essere che originariamente li possedeva; solo quello
che sono sempre stato, una creatura rapace e ingannatrice, rapitrice
e assassina, è
rimasto con me. Vuoi forse strapparmi anche quello? Ora non posso
opporre
resistenza.»
«Mi
hai reso uguale a te», era stata la risposta, «una
reietta,
un’esule. Se non puoi combattere in modo onorevole e
ripagarmi di
quello che tu hai sottratto a me, allora non ti toccherò: ti
prenderò prigioniero e ti guarderò mentre ti
spegni, mentre
continui a soffrire. Non ti spetta né pietà
né una dolce morte.»
«La
prima non l’ho mai chiesta… quanto alla seconda,
oh, sono certo
che sarà veloce, anche se piuttosto dolorosa.»
«Com’è
giusto.» La sua bocca aveva taciuto; quindi, dopo un lungo
istante
di silenzio, aveva coperta
l’intera
distanza posta
tra loro e aveva troneggiato sull’uomo. «Qualcosa,
però, puoi
ancora donarmelo», gli aveva sussurrato prima di
inginocchiarsi
davanti a lui.
Questi
non aveva opposto resistenza quando gli aveva sfilato il lungo
pugnale dalla manica della veste ⸺
la mia pelle
non ti è sconosciuta, vero?
⸺ e aveva afferrato una ciocca dei suoi capelli d’inchiostro.
«La
mia gente crede che nella chioma risieda tutta la potenza di un uomo,
e che chiunque riesca a tagliare quella di un nemico possieda anche
la sua vita[12];
e questa è morbida e lunga come quella di mio padre, la
voglio.
Questa
sarà la tua massima sconfitta.»
L’altro
non aveva replicato neppure allora, con
gli
occhi volti lontano dal
suo viso
l’aveva
lasciata prendersi il proprio trofeo. La sua fine non avrebbe tardato
molto, la
sua vicinanza era
stata percepita da entrambi; e anche se a lei non avrebbe portato la
soddisfazione richiesta, sapere che il mondo si sarebbe liberato di
un animo nero come
quello avrebbe
potuto lenire la sua
sete.
«Dopo
la tua morte questo mondo diverrà meno oscuro; forse
l’unica cosa
buona che verrà da te», aveva infatti sussurrato
con cattiveria,
fissando il corpo dell’avversario piegarsi su sé
stesso fino a
ricadere al suolo.
Il gorgoglio di una risata
aveva avuto il potere di ottenebrarle le sguardo; e lui, sapendolo,
non aveva esitato a continuare. «Anche
se ormai sei divenuta una dea, una
parte di te è ancora la
ragazzina innocente e ignara della realtà», aveva
replicato questi,
voltandosi a fissarla. «Un giorno capirai che gli
dèi non possono
morire; no… la loro sorte è diversa.»
Il braccio che questi le aveva
teso si era sfaldato nell’aria; lei si era ritratta per la
sorpresa, ma il sospiro dell’altro l’aveva comunque
raggiunta.
«Mi
dispiace non averti potuto dare la vendetta che agognavi, vergine del
fuoco; ma non disperare… non farlo mai»
erano state le sue
ultime parole; quindi cenere e tenebra le avevano riempito le mani e
fatto pizzicare gli occhi, il sistema
peggiore per renderla conscia della libertà.
È tutto… è tutto
finito; se n’è andato per sempre.
Tutto il corpo aveva tremato
sotto il peso di quella verità: anche se nel modo
più insperato,
lei aveva portato a termine il suo obiettivo e ucciso
il suo
incubo; lei, proprio lei, era stata causa e testimone della sua
caduta.
Che cosa le si sarebbe aperto
davanti, da quel momento in poi? In qualche modo sarebbe riuscita a
ritornare la fanciulla di prima, a purificarsi dalle azioni commesse,
a riprendere a respirare e vivere?
In fondo, se era riuscita a
portare a felice esito quella che aveva considerato l’ultima
azione
della propria esistenza, probabilmente avrebbe potuto anche ritornare
a essere completamente sé stessa:
fisicamente e mentalmente
quieta, e nella propria terra. «Ho
parlato per disperazione, quella notte d’addio;
per proteggere chi amavo. Ma ora… ora forse potrò
tentare la
strada del perdono; la mia
presenza non ha più alcun senso, qui.»
Le nere volute che le
avevano marchiato la pelle si erano lentamente sfaldate
nell’aria
poco prima di quelle parole, le gambe l’avevano sostenuta a
malapena quando si era
rialzata: il peso che il corpo aveva sostenuto fino a pochi istanti
prima aveva iniziato a sciogliersi… forse in un lento
processo di
riumanizzazione?
«Allora
devo resistere», aveva
sussurrato nel cercare il sentiero più rapido per uscire dal
cuore
delle selve e fuggire lontano dalla residua presenza del caos,
«resistere
ancora un poco.»
… Di
quante cose avrebbe
avuto ragione, che cosa avrebbe recuperato o accettato di aver
perduto, se la luce non l’avesse raggiunta?
La
luce, proprio lei: quella che aveva accompagnata il portatore di
rovina e non era svanita con il suo corpo.
Luce
che, come un’onda dorata, si era aperta una strada tra alberi
e
fiori selvatici, per rincorrerla
e
riuscire a circondarla; luce che con il suo calore l’aveva
costretta a indietreggiare verso il cuore della foresta e
l’aveva
colpita come
un’arma,
fatta cadere e stretta in un muro fremente e vivo.
Luce
erompente dal terreno, in caduta dal cielo, emanazione
dell’aria
stessa ed entità con una propria mente; luce
inafferrabile, che però era riuscita a ghermire
lei
e a farla precipitare in una spirale di guizzi e sensazioni, in un
buio improvviso,
denso come la
propria
paura.
Che
cosa sei? E che mi sta
succedendo, perché mi fai questo?
Aveva
sentito malinconia, cadendo
in
quel grembo sconosciuto: aveva
sentito le dita sfregare contro sensazione di
solitudine
e mancanza, impulso di preghiera e memoria, smarrimento. Provandole
una a una, si era trovata a desiderare di perdere coscienza e
lasciarsi portare ovunque senza più emozioni; nemmeno quello
le era
stato concesso.
La
luce era presto ritornata per svanire nuovamente, l’aveva
quasi
portata alla follia e strappato pure la voce; tutto il mondo era
divenuto confusione.
È questa l’esistenza
degli inizi di cui i libri parlano, l’alba della creazione?
Come ha
potuto il mondo abitare in questo vuoto, come siamo riusciti a
sopravvivere qui?
E
questo calore… che non
porta altro che gelo.
Aveva
sbattuto le palpebre una, due volte; la terza, la realtà
intorno era
nuovamente mutata e l’aveva costretta a coprirsi gli occhi
per i
troppi colori
con cui era apparsa.
Il
corpo si era trovato sbilanciato quando il vento l’aveva
aggredito;
una volta caduto
al suolo,
i polpastrelli avevano sfiorato morbida erba e
l’olfatto
si era accorto di un lieve profumo di pioggia e pino.
Lentamente,
le mani avevano lasciato lo sguardo libero di vagare, e questo aveva
incontrato una verde e ampia valle, fiori di mille specie a popolarla
e il cielo viola di una quieta sera a custodirla. Sorpresa, dopo
poco lei
si era alzata per meglio ammirare lo sconosciuto paesaggio e avanzare
verso il corpo sinuoso del fiume situato alla sua destra, sulle cui
acque aveva danzato l’ultima stilla di tramonto.
Lo
specchio delle onde aveva riflesso il suo volto ansioso e chiaro:
nessuna traccia nera a intridere la pelle, non una sfumatura cremisi
negli occhi ritornati smeraldini, i capelli nuovamente
dorati e in riccioli spettinati… il volto di Pirra, una
semplice e
giovane donna. «Perché?»,
aveva
chiesto ai guizzi affacciatesi oltre il pelo dell’acqua, come
in un saluto,
«solamente
perché.»
«Perché
è questo ciò
che ci accade quando, come dicono gli umani,
“moriamo”.»
Quella
voce ormai nota l’aveva fatta voltare
di scatto e
sobbalzare fin sulla riva estrema del fiume; ma nel volto del dio non
aveva letto alcuna traccia di malizia né desiderio del male,
la mano
che aveva afferrato la sua e impedito alle gambe di cedere non aveva
imposto alcuna maledizione.
«Che
cosa vuol dire tutto questo? Non riesco a capire!»
La
tensione si era espansa come una nuvola di tempesta e aveva incrinato
la serenità del luogo; ma l’altro non aveva mutato
espressione, né
mostrato il suo ghigno. «Non
avresti potuto capirlo, eri una dea appena nata… sei nuova a
tutto
questo.»
«“Nuova
a tutto questo”? Non comprendo nessuna delle tue parole, come
faccio a trovarmi qui e perché, il motivo per cui mi hai
seguito, e…
che cosa sta succedendo, per il glorioso nome dei numi?»
Un’esitazione,
le parole che si fanno più pesanti e concrete. «Morire.
Io…
io sono morta?»
«Cose
simili succedono solo quando uno di noi lascia il mondo: precipita in
un buio assoluto, primordiale, e quando si risveglia è in un
luogo a
lui sconosciuto, pronto per ricominciare a vivere. Non conosco chi
decida tale sorte, se siano le forze naturali che andremo a governare
a chiamarci oppure avvenga ogni cosa in modo casuale, ma credimi, non
ti sto mentendo.»
Una
pausa, seguita da un sorriso lievemente stanco. «Su
questo non riuscirei mai a mentire.»
Lei
non aveva replicato subito, concentrandosi maggiormente sul sentore
di tristezza proveniente dall’altro; la crudeltà
che l’aveva
contrassegnato era sembrata così lontana da quella figura
assorta
che non aveva dubitato delle sue parole, e a sua volta la propria
mente si era riempita di pensieri. «Quando
sei morto tu, me ne sono andata anche io: terminato il mio compito,
il corpo non ha più resistito… è
possibile.»
Per
qualche oscuro motivo non ne era stata sorpresa, come se una parte di
lei lo avesse sempre saputo; ma ciò le avrebbe permesso
comunque di
tornare dalla propria gente, dalla
famiglia? «Non
posso rimanere qui»,
aveva
infatti
esordito, «devo
trovare un modo per ritornare alla Città, dal mio popolo. Ho
bisogno
di loro!»
«Tu
sì, per
ora;
loro non
più.»
Davanti
alla sua fronte aggrottata, il portatore di caos aveva scosso la
testa. «Nessuno
di noi è mai ritornato al luogo in cui è nato o
dove ha vissuto
prima di una caduta: si muore sempre quando qualcuno di più
forte
prende il nostro posto e ci strappa i poteri, il ruolo. Tu
hai fatto questo con il culto di Baccus, quando hai ucciso i suoi
fedeli, con me; un’entità maggiore deve
averlo
fatto con te. Quando
questo accade, lasciamo una realtà
per accedere in un’altra: scompariamo
dalla memoria di un primo popolo per entrare nella storia di un
secondo, di un terzo, un quarto… e così
accadrà per sempre, fino
a quando non morirà anche il mondo che serviamo.»
«Tutti
ci dimenticano… è
questo che stai dicendo?»
«Sì;
ma neppure
noi stessi conserviamo la
cognizione di chi abbandoniamo:
la gente che incontreremo ci darà un posto e un ruolo, e in
virtù
di quello formeremo nuovi
ricordi.»
Un
singulto, la paura improvvisa della perdita; nella mente immagini
ancora intatte, ma già minacciate da una lieve nebbia in
avvicinamento.
Perdere
tutto… anche la
sensazione di una famiglia.
Perdere
anche più del
necessario.
«Quanti
altri popoli piegherai con la tua sete di sangue?»,
era
esplosa infine, «…
quante
altre volte ti dovrò dare la caccia?»
Lo
sguardo celeste dell’altro aveva ripreso in un istante una
parte
delle ombre abituali. «I
popoli da distruggere e dominare sono infiniti»,
aveva
replicato, «e
quanto a noi due… vedremo il corso degli eventi e le sorti
degli
uomini che cosa ci porteranno. Ricordati che sei una portatrice di
morte e notte come me; e
d’altra parte, non sei poi così diversa da ogni
altra divinità o
forza della natura… tutti, prima o poi, diveniamo il
cambiamento e
la fine di qualcuno.»
A
quelle parole si era voltata, divenuta incapace di sorreggere quegli
occhi; il cenno di saluto ⸺
«Non
lasciar morire quel fuoco: se sarò fortunato
potrò combatterlo di
nuovo»
⸺
e i passi che si erano allontanati erano stati l’ultimo
rumore
prima del silenzio assoluto della notte incipiente, e
nell’oscurità
lei si era adagiata come una fiera.
Non
aveva avuto
alcun
luogo dove andare, quindi sarebbe potuta giungere ovunque; senza
la conoscenza di
nessuno, il primo volto, di
qualunque uomo fosse stato,
avrebbe potuto accoglierla.
Sarebbe
stata sola, di tutti e nessuno; di sé stessa, mai.
Era
questo che aveva voluto con tanto ardore? Le lacrime che le avevano
segnato anche l’anima, quelle le aveva previste, le aveva
richieste?
Chiunque tu sia, ascoltami.
Perdonami.
Guariscimi.
Forse al di là delle montagne
innanzi a lei, corona di quella valle, ci sarebbe stato un villaggio,
una città o anche solo una casa; una mano a cui chiedere, a
cui
parlare, da
lasciare o
trattenere.
Chiunque tu sia, ascoltami.
Perdonami.
Guariscimi.
Non sarebbe potuta sfuggire a
nulla: non era mai scappata… non si era mai salvata.
Chiunque tu sia, ascoltami.
Perdonami.
Guariscimi.
… Ancora
oggi, dopo tutto
questo tempo e questi ricordi, lo
chiedo ancora:
ascoltami, perdonami, guariscimi.
Ascoltami,
perdonami, guariscimi; e
non dimenticarmi.
NOTE
[1]
Si riprende qui la figura di Vesta. Nell’antica Roma, questo
era il
nome della dea del focolare.
Le
sacerdotesse che si occupavano di tenere sempre acceso il suo fuoco
sacro, protezione della città, erano le ragazze scelte dalle
migliori famiglie della nobiltà patrizia, e tra gli obblighi
a cui
dovevano sottostare c’era quello di assolutà
castità, pena la
morte.
Le
giovani erano sei e vivevano nel complesso templare della dea, e il
servizio durava trent’anni: dai dieci (l’eta in cui
venivano
scelte) fino ai venti erano novizie, dai venti ai trenta prestavano
servizio nel tempio, dai trenta ai quaranta istruivano le nuove
arrivate; dai quaranta in poi, erano libere di gestire la propria
vita secondo i desideri di ognuna.
[2]
Ho fuso i nomi di Hestia (dea greca del focolare domestico) e Vesta
in uno, riprendendo però anche dalla parola latina che
designa il
calore: aestus (pensiamo al termine estate).
[3]
Il termine “Città” con la maiuscola
richiama l’Urbe per
eccellenza, Roma.
[4]
In molte culture antiche e moderne, papa e mama
sono i
termini affettivi per il padre e la madre.
[5]
Su alcuni dei sette re di Roma circolano molte leggende con
protagonista il fuoco: un esempio è quello di Servio Tullio,
che in
un’antica versione della sua nascita si dice generato da una
schiava e da una fiamma sfuggita al focolare regio.
[6]
Nella civiltà latina ⸺ e non solo ⸺, la radura boschiva (lucus,
termine legato a lux, “luce”)
era sempre dedicata a una
divinità.
[7]
Termine affettivo irlandese, che si traduce con “piccolo
fiore /
fiorellino”.
[8]
Di solito erano i ninfei, le enormi vasche dove appunto venivano
tenuti i fiori di ninfea (elemento tipico delle domus
patrizie), a essere impreziositi con fini mosaici. Nel testo vengono
definiti informi perché visti attraverso l’acqua
smossa dal getto
della fontana.
[9]
Baccus è il corrispettivo latino del greco Dioniso,
antichissimo dio
dell’ebrezza. I suoi culti orgiastici, dove perdita di
controllo,
possessione o follia divina e spregio dei limiti — anche
morali e
della lucidità — erano la prassi, non furono mai
visti
positivamente dalle istituzioni romane, che cercarono sempre di
regolarli e controllarli.
[10]
Il termine monstrum ha più di
un’accezione in latino: sia
quella negativa a noi comune, sia di “meraviglia”,
“portento”,
di fatto nuovo e inusuale. Qui vengono riprese entrambe.
[11]
A Roma e in Grecia, “lamia” era chiamato un mostro
femminile
dalle fattezze umane e dalla capacità di privare uomini e
bambini
delle forze vitali e del sangue. Ha molti tratti in comune con i
vampiri.
[12]
Concezione presente in tante culture (un riferimento può
essere la
storia di Sansone e Dalila).
♦
Riguardo
a
particolari nomi:
Pirra: Riprende il
termine greco che designa il fuoco, πῦρ.
Secondo il mito, in virtù della propria chioma fulva, Pirra
fu il
nome che Achille assunse quando Teti lo fece confondere con le figlie
di re Licomede.
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