Saint Seiya: The Golden Age - by whitemushroom

di whitemushroom
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Albafica - Roses die, the secret is inside the pain ***
Capitolo 2: *** Manigoldo - Il messaggero ***
Capitolo 3: *** Fudo - Red Salvation ***
Capitolo 4: *** Shura - Il pianto del mare ***
Capitolo 5: *** Death Mask - Call my Name ***
Capitolo 6: *** Aiolia - Non il tuo viso ***



Capitolo 1
*** Albafica - Roses die, the secret is inside the pain ***


Salve a tutti coloro che avranno il coraggio di aprire questa fanfic. Piccola presentazione: sono whitemushroom e, a parte un crossover, questa è la mia prima fanfiction a tema Saint Seiya per quanto l'argomento mi sia sempre stato a cuore. "Saint Seiya - The Golden Age" è un progetto che ho in comune con l'utente Lisaralin e che prevede una serie di one-shot sui TUTTI i Gold Saint dell'universo di Saint Seiya (equamente distribuiti tra noi due).
Sono stati esclusi dalla lista soltanto i Gold Saint di Next Dimension, in quanto li aggiungeremo alla fine quando l'opera del maestro Kurumada sarà completa ed avremo un panorama migliore di tutti i personaggi.
Il rating può variare così come il genere e l'ambientazione. Bene, Lisaralin ha iniziato in bellezza e seguo il percorso.


 

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Personaggio: Pisces Albafica
Serie: Saint Seiya - The Lost Canvas, comprensivo di Gaiden
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-Fic, Missing Moments
Rating: giallo
Avvertimenti: la canzone del testo è questa, la bellissima "Everytime you kissed me" di Yuki Kaijura


Roses die, the secret is inside the pain

Every time you kissed me
I trembled like a child
Gathering the roses
We sang for the hope
Your very voice is in my heartbeat
Sweeter than my dream
We were there, in everlasting bloom


Continuano ad esercitarsi, non si stancano mai. Il maestro e l’allievo scivolano uno contro l’altro, provano i pugni e li evitano, si fermano e caricano il loro Cosmo fino a far risuonare l’uno insieme all’altro fino alle stelle. Li osserva ogni giorno, imprime nella mente i loro movimenti dal tramonto all’alba; sono due forme splendenti oltre il suo roseto e la scalinata. Dovrebbe dedicarsi alla meditazione o agli allenamenti, ma non riesce ad ignorare quelle voci gentili che risuonano oltre la sua Casa. Ha già sentito quelle risate in un altro tempo.
Un altro maestro. Un altro apprendista.

Roses die,
The secret is inside the pain
Winds are high up on the hill
I cannot hear you
Come and hold me close
I'm shivering cold in the heart of rain
Darkness falls, I'm calling for the dawn


“Cambio di programma, Albafica!”
Quella mattina il maestro Lugonis non lo aspettava in piedi in mezzo al roseto, con la faccia accigliata di chi crede che il resto del mondo sia in ritardo. Era seduto su una pietra, intento a lucidare l’elmo della sua armatura d’oro. “Il nobile Ilias oggi mostrerà a tutti i giovani aspiranti Cavalieri d’Oro alcune delle sue tecniche migliori. Vai pure alla Casa del Leone, sono sicuro che vedrai qualcosa di molto istruttivo”.
“Ma voi dite sempre che non devo uscire dal giardino …”
“Il tuo sangue non è ancora così tossico” rispose lui, alzandosi in piedi. Le rose si mossero ad un suo comando ed aprirono un sentiero che conduceva alla Casa dell’Acquario. “Un giorno in compagnia degli altri apprendisti non ti farà male”.
La verità era che gli altri aspiranti cavalieri non gli interessavano affatto. Non aveva alcuna voglia di incontrare quell’italiano rumoroso che faceva a pugni con il primo che passava, men che mai quel ragazzo violento che aveva il cuore malato. Nemmeno il famoso Ilias lo attirava: era certo che il maestro Lugonis lo avrebbe sconfitto in un baleno, quindi non era necessario andare a vedere una sua esibizione. “Maestro, voi non venite?”
“Sai bene perché non posso …”
“Allora non vado nemmeno io”
Incrociò le braccia, non capendo perché l’uomo davanti a lui avesse assunto un’espressione divertita. “Dovrete portarmi di peso!”
Non si accorse in tempo di qualcuno che lo sollevò per i fianchi senza fare alcuno sforzo. Provò a tirare un calcio, ma l’unica cosa che ottenne fu una fitta al piede quando quello colpì l’armatura del maestro Krjest con al seguito il suo noioso apprendista. Il suo maestro gli mandò un sorriso, poi il roseto sbocciò una seconda volta e lo coprì alla sua vista.

Silver dishes for the memories,
For the days gone by
Singing for the promises
Tomorrow may bring
I harbor all the old affection
Roses are the past
Darkness falls, and summer will be gone


Non aveva idea del perché quella sera bruciasse così tanto. Era più di un anno che il maestro lo aveva iniziato al Legame Cremisi, ed il dolore pulsante che aveva infiammato i primi giorni si era trasformato in una lieve fitta. Ma forse si era distratto, forse il Cosmo dei Pesci aveva vacillato per un istante e quella sera si era sentito il corpo in fiamme, il veleno anche nel cervello; aveva rigettato tutto, probabilmente anche l’anima, ma il maestro Lugonis non aveva mai lasciato il suo fianco. Aveva intrecciato le proprie dita nelle sue fino a farle diventare livide, si era agitato fino a distruggere con un calcio il suo letto, eppure quella mano non aveva mai smesso di affondargli nei capelli, né i suoi occhi di riempirsi di lacrime. Quando anche la vista si era tinta di scarlatto era pronto a giurare di aver sentito delle labbra contro la sua fronte, furiose come se volessero strappargli di dosso tutto il dolore. In quel momento avrebbe preferito morire, perché credeva che la sua debolezza fosse la causa del dolore del suo maestro.

Joys of the daylight
Shadows of the starlight
Everything was sweet by your side.
Ruby tears have come to me, for your last words
I'm here just singing my song of woe
Waiting for you.


Un giorno aveva detto. “Io sono molto fortunato!”
“Come mai, Albafica?”
“Beh …” era un po’ che desiderava dirglielo, ma non sapeva come iniziare il discorso. Ma quel pomeriggio avevano finito presto di allenarsi, ed il maestro Lugonis era sempre di umore migliore quando passavano del tempo leggendo, canticchiando o semplicemente parlando del più e del meno. “Il maestro Krjest è sempre severo con Dégel. Io li vedo, anche quando Dégel innalza il suo Cosmo al massimo il maestro non gli fa nemmeno un complimento. Non lo abbraccia mai come invece fate voi. E mi hanno detto che tutti gli altri Cavalieri d’Oro sono come lui. Voi al contrario …” sorrise, sentendo tutta la forza che emanava la sua figura. “… siete severo, ma siete anche molto buono!”
“Non fraintendere, Albafica. Non penso di essere il maestro più buono del mondo …”
Avrebbe voluto dirgli che si sbagliava. Che non era affatto vero, che nessuno era così dolce e gentile, così potente e grande da sbaragliare con un soffio centinaia di Specter ed allo stesso tempo così buono da volere al proprio fianco un essere debole come lui. Stava per parlare, ma il maestro raccolse una rosa e gliela mise in mano.
“La verità è che gli altri Cavalieri hanno qualcosa che io non possiedo”
“E cosa?”
All’epoca Albafica non riuscì a capire la risposta. E forse fu la cosa migliore, perché in caso contrario molti avvenimenti sarebbero cambiati.
“… tutto il tempo del mondo”

Now let my happiness sing inside my dream...

Il maestro e l’apprendista hanno smesso i loro esercizi. Il Gran Sacerdote non ha nemmeno bisogno di riprendere fiato. Lui ed il giovane si avvicinano all’estremità del cortile e fissano il cielo con una mappa delle stelle in mano. Parlano di Presepe, l’apprendista ha qualche difficoltà nel distinguere Acubens in quell’ammasso chiaro che sembra una lacrima di Athena nel cielo scuro.
Il vecchio maestro lo rimprovera e brontola, ma in quegli anni non gli ha mai sentito alzare la voce anche se ne avrebbe avuto motivo. Il vecchio ed il nuovo Saint del Cancro si accorgono del tempo passato ed iniziano a congedarsi scambiandosi quelle che sembrano battute divertenti sull’atteggiamento troppo composto del severo Aspros o sulla noia mortale dei discorsi di Dégel.
Nella costellazione del Cancro il passato ed il futuro camminano fianco a fianco, sognando il tempo che verrà.
Nel suo giardino è rimasto invece un dolore nel petto che non se ne vuole andare e che preme come migliaia di spine quando l’uomo anziano preme la mano sulla spalla del più giovane. “Manigoldo, io e te abbiamo ancora molta strada da percorrere”.

Every time you kissed me
My heart was in such pain
Gathering the roses
We sang of the grief
Your very voice is in my heart beat
Sweeter than despair
We were there, in everlasting bloom


“Osservare spesso può farci solo male”.
Manigoldo è appena andato via, ma gli occhi del Grande Sacerdote sono fissi su di lui e sul roseto che fino a quell’istante era stato il suo nascondiglio. Quegli occhi verdi gli scivolano dentro l’anima. Esce dalla nube di petali e si inginocchia al suo cospetto, forse più per celarsi a quello sguardo che non per semplice riverenza. “Qualche volta è la solitudine a schiacciarci …”
“È il mio sentiero. Un Cavaliere dei Pesci è destinato a rimanere solo”.
“Allora rispondimi …”
La sua voce è bella come il vento. “Sei sempre stato solo in questa Casa?”
È ovvio che non è sempre stato solo. Ha avuto per tutti quegli anni il miglior maestro ed il miglior padre che avrebbe mai potuto chiedere, supplicare, anche solo sperare. Ha guardato il cielo anche lui sotto gli occhi di un uomo straordinario, si è allenato a lanciare le rose solo e soltanto per sentire una parola di assenso da quella voce ferma e potente. Vorrebbe dire questo ed altro all’uomo dalla tunica scura, ma quello gli poggia una mano sulla testa. “Un Cavaliere dei Pesci non è mai destinato ad essere solo. È destinato a conoscere la solitudine, a viverla ed a temerla. Solo conoscendola fino in fondo potrà offrire tutto se stesso al proprio successore, perché nessuno più di lui potrà capire quale forza possa nascondersi nell’amore incondizionato verso una piccola forma di vita che ci tende la mano”.
C’è un Cosmo caldo in lui, caldo come quello del suo maestro. “Non si può offrire la vita per qualcuno che non si ama”.
Lo spinge a rialzarsi, lo conforta con la mano. È uno di quei maestri che ha tutto il tempo del mondo, ma solo osservandolo così da vicino si rende conto che forse non è vero, che il tempo di quell’uomo anziano e dalla pelle solcata dalle rughe è debole ed effimero, sta volando via oltre le stelle e non tornerà. “Ho un’idea, perché la sera non ti alleni con me e Manigoldo?”

Underneath the stars
Shaded by the flowers
Kiss me in the summer day gloom,
You are all my pleasure, my hope and my song
I will be here dreaming in the past
Until you come
Until we close our eyes





N.d.W: mamma mia, è davvero un polpettone!!!!

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Capitolo 2
*** Manigoldo - Il messaggero ***


Manigoldo_1




Personaggio: Cancer Manigoldo
Serie: Saint Seiya - The Lost Canvas
Genere: Introspettivo, Missing Moments.
Rating: giallo
Avvertimenti: abbondante presenza di turpiloquio. Come ben sapete Manigoldo non ha studiato all'Accademia della Crusca.


Il messaggero

Cazzo, quel pugno non l’aveva proprio visto.
Manigoldo perse l’equilibrio e volò contro una colonna, sentendo il fiato mozzarglisi in gola per qualche istante. Lo stronzetto aveva un bel sinistro, puttana Athena se faceva male …
“Oh, allora non sei una femminuccia! Sai, con quella maschera il dubbio mi veniva …”
L’altro non gli rispose. Si mise in posizione di guardia, il pugno destro avanti ed il sinistro verso il basso, ma stavolta il giochetto non avrebbe funzionato. Si teneva sulla difensiva, immobile e silenzioso, ma questo non poteva che fargli piacere: Manigoldo si divertiva soltanto in attacco.
Con un salto si avventò su di lui, mirando alla faccia.
Senza la sua Cloth si sentiva più lento, quasi meno coordinato, ma il sapore del pugno contro il pugno, del calcio dato all’altezza giusta, di tutta la forza del suo avversario contro la sua era qualcosa che gli mancava un po’ da quando aveva indossato le vesti del Cancro. L’altro evitò il pugno, abbassandosi, e Manigoldo sollevò il ginocchio dritto contro il suo stomaco. Quello si mosse di nuovo, liberandosi dall’attacco e costringendolo a dargli fianco, poi calò un calcio che gli avrebbe spezzato il polso se non avesse ritirato il braccio in tempo.
Sì, decisamente gli mancava una sana rissa! “Che c’è, ti stai cagando sotto perché sono un Cavaliere d’Oro e tu una piccola merda?”
Da sotto i lacci di cuoio della maschera vide i due occhi accendersi. Eccellente. “Assaggia questo, numero due!”
Gli corse incontro, stavolta puntando al petto. Niente Cosmo elevato al massimo, niente boiate sull’onore di Athena e bla bla bla, l’altro fu troppo lento e quando lo scaraventò a terra sentì con una certa soddisfazione il rumore di qualche costola incrinata contro il suo pugno. Si lanciò contro di lui prima che potesse rialzarsi e lo inchiodò a terra puntando tutta la forza delle proprie ginocchia nello stomaco dell’altro. “Se vuoi andare a piangere dietro la sottana di tuo fratello sei ancora in tempo! Sempre che lui abbia il coraggio di affrontarmi, s’intende …”
La mano dell’altro scattò contro la sua spalla. Era bello forte, anche più robusto di lui, ma gli anni per strada avevano abituato Manigoldo ad avere un’unica risposta per questo tipo di problemi: finse di cedere sotto la sua spinta, quello cercò di rialzarsi e gli assestò il più scorretto calcio in mezzo alle gambe che gli venisse in mente. Quello allentò la presa e, tanto per essere sicuro che non si rialzasse troppo presto, gli assestò un fantastico pugno proprio al centro della maschera.
“Tsk, come passatempo fai cagare, lasciatelo dire! Si vede che sei la copia di Aspros, fai schifo quanto lui … in due non ne fate uno normale!”
Si avvicinò, scrollandosi la polvere di dosso ed osservando l’altro ancora a terra, piegato dal dolore e con un rivolo di sangue che usciva dai lacci della maschera di cuoio. Bene, tutti quegli anni al Santuario non gli avevano fatto perdere la mano. “Il Gran Sacerdote ha fatto proprio bene a cambiare idea! Un debole come Aspros non è degno di prendere il suo posto”.
Fu certo di vedere un ultimo raggio d’odio uscire da sotto la maschera. “Almeno Sisipho non ha fratelli pietosi che strisciano nella sua ombra …”

Le stanze del Gran Sacerdote erano sempre illuminate. L’uomo anziano dormiva pochissimo, e tutte le volte che Manigoldo gli aveva fatto visita, anche nel cuore della notte, lo trovava sempre chino sullo scrittoio intento a leggere o firmare dispacci.
“Messaggio consegnato!”
La figura bianca sollevò lo sguardo dalle carte. “Quante persone hai mandato dai guaritori nel frattempo?”
“Naaa, solo uno, ma è ancora vivo … credo”. Lo sguardo verde lo trapassò proprio nel punto in cui il sinistro del suo avversario lo aveva colpito, e per un attimo gli sembrò che la ferita facesse ancora più male. Forse più tardi un salto alle Case di Guarigione non sarebbe stata una pessima idea. “E comunque mi sono attenuto ai vostri insegnamenti: discrezione, prudenza e buonsenso!”
“Fingerò di non aver sentito …”
Il lieve sorriso sulle labbra chiare fu il segnale per potersi rilassare. Manigoldo si avventò sulla sedia imbottita che aveva puntato sin dal suo ingresso e vi sprofondò dentro, sentendo tutte le ossa e tutti i lividi che si era procurato esplodere all’unisono contro il suo cervello. Allungò una mano e tracannò in un colpo il calice che il suo maestro aveva lasciato in un angolo dello scrittoio: vino del Jamir, una schifezza chiaramente fatta con il piscio delle capre, ma lo mandò giù pur di mandar via la sensazione di polvere e sangue contro la gola. Cazzo se quella copia era forte!
Il vecchio si sollevò dal suo posto, e strinse tra le mani l’elmo decorato che aveva abbandonato sopra una pila di volumi, un gesto che negli anni Manigoldo aveva imparato a conoscere. Si sedette accanto a lui, facendo passare le lunghe dita chiare contro le ali intarsiate, esplorando ogni singola gemma di quell’oggetto che pesava molto più di qualunque apparenza. “Credi che Aspros cadrà nel mio stratagemma?”
“Con tutta franchezza … quello lì non mi piace!”
Si fermò, rendendosi conto che era la prima volta che il Gran Sacerdote –il suo maestro, il suo grande maestro- gli chiedeva un parere personale sugli altri Saint. Ma lo sguardo dell’uomo era fisso su di lui, quindi riprese. “Cioè, per essere forte è forte, ci sa fare, però … bah, mi sa di ipocrita. E falso. Suvvia, se suo fratello è in pericolo lo va pure a salvare, ma col cavolo che si è opposto a quella storia della maschera!”
Inghiottì, cercando di ricordarsi una cosa importante per la prossima missione: portare al suo maestro una bottiglia di vino italiano. “Insomma, se io avessi un fratello col cazzo che accetterei di vederlo in quella situazione, stella malefica o meno! Non rimarrei in un posto simile nemmeno se mi offrissero tutte le Cloth del Santuario”.
Il Gran Sacerdote sollevò l’elmo tra loro due, quasi soppesandolo. Lo tenne tra le mani per lunghi istanti, forse indeciso se indossarlo o meno. Aveva ascoltato una conversazione del suo maestro con Aspros proprio riguardante la questione del ragazzo nato sotto la stella malefica, e sapeva quanto l’uomo anziano fosse poco convinto di continuare quella tradizione che però, nel corso dei secoli, aveva sempre mantenuto una grande verità. Quell’elmo voleva dire tante cose per la persona che lo aveva addestrato a diventare un Saint, e spesso non riusciva a comprendere quanto in profondità potesse scendere quello sguardo, quali pensieri attraversassero la sua mente. Sembrava immerso in delle riflessioni, ma quando riaprì gli occhi sulle sue labbra vi era una linea che poteva ricordare un sorriso. “Sai una cosa … Asmita mi ha detto le tue stesse parole”.
“Maestro, piano con gli insulti! Il giorno che dovessi iniziare a parlare come Asmita lanciatemi di testa negli Inferi con una pietra al collo!”
Si alzò, rendendosi conto che mancavano poche ore all’alba ed aveva già sottratto al suo maestro quelle pochissime ore di sonno che si concedeva ogni notte. Sapeva di aver concluso il proprio compito: se le cose fossero andate come il suo maestro temeva –e vi andavano sempre- doveva lasciare il tutto nelle mani dell’uomo anziano e del Cavaliere della Vergine, anche se parte di lui avrebbe desiderato rimanere con loro. Se fosse successo qualcosa al Gran Sacerdote avrebbe preso Asmita a pugni fino a fargli riacquistare la vista, parola sua!
Prima di scendere –magari fermandosi per una visita alla Casa dello Scorpione, Cardia aveva senza dubbio qualcosa di buono per rifarsi il palato- si fermò, riempiendosi i polmoni dell’aria della sera. “Maestro, quello con la maschera … mi sembra un tipo a posto. Un po’ piagnucoloso, ma mi piace! È un peccato che sia solo il numero due! Se dipendesse da me avrei nominato lui come Cavaliere dei Gemelli!”
“Forse hai ragione …” mormorò l’uomo anziano prima di congedarsi. Si avvicinò ai battenti, e mentre li chiudeva Manigoldo si accorse che non lo stava fissando negli occhi. “… forse hai ragione”.

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Capitolo 3
*** Fudo - Red Salvation ***


FudoL




Personaggio: Virgo Fudo
Serie: Saint Seiya - Omega
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments.
Rating: Giallo, ma potrebbe vertere sull'arancione.
Avvertimenti: la nazionalità di Fudo non è specificata, dunque per buona tradizione dei cavalieri della Vergine ho deciso che sarà in India. Fa troppo caldo per correggerla e scriverla in maniera migliore, quindi accontentatevi di ciò che è venuto fuori.


Red Salvation

La foglia si solleva, tremola in aria e poi ricade a terra. Per lei la brezza della mattina è violenta come un monsone, così come i piedi degli uomini sono violenti come i passi di un demone. Lentamente apre il palmo della mano. Lui ha tempo, la foglia ha tempo.
Qualcuno potrebbe dire che posseggono tutto il tempo del mondo. È senza dubbio quello che pensa l’uomo davanti a lui: da sotto le ciglia riesce a scorgere la sua espressione stanca ma comunque carica di determinazione, le mani intrecciate dietro la schiena mentre aspetta in piedi una sua risposta. Ma l’uomo può attendere ancora un po’.
La foglia si abbandona di nuovo alla carezza dell’aria. Il vento la culla come se si trattasse di una neonata e la lascia cadere nel suo palmo; Fudo ispira il profumo del tramonto e sfiora i contorni della foglia, ne cerca le sottili venature, si sofferma su quel minuscolo strappo che ne rovina la forma così perfetta. Il ramo su cui è nata è stato spezzato.
Cinque uomini hanno abusato di una ragazza e l’hanno impiccata al suo albero. La foglia è rimasta accanto a lei, l’ha sentita muovere le gambe in aria per l’ultima volta. Ha ascoltato le urla del padre e della madre finché l’albero stesso non se ne è nutrito, finché il ramo è stato abbattuto e la ragazza avvolta in un telo color della notte. Se ne è andata via con la brezza, indignata.
Fudo vede i lineamenti della ragazza nei ricordi della foglia. È bellissima nel suo dolore. È perfetta anche nella morte, anche quando il sari azzurro giace strappato ai piedi dell’albero ed il choli color della neve pende dal suo corpo distrutto. Fudo piange per quella ragazza.
Fudo piange anche per l’altra bambina, quella nella fotografia che l’uomo davanti a lui tiene nel portafogli. Piange per quella creatura nata in un mondo così orribile, dove gli uomini fanno di tutto per non ottenere la salvezza che pure lui invoca tutto il giorno insieme agli altri Re della Luce. Piange perché nel Kangyur, nel Tengyur, nel Suttapiṭaka, negli insegnamenti del Buddha non c’è nulla che gli mostri come salvare un mondo dilaniato dal Male e dai demoni, dove ancora gli esseri umani si uccidono perché due etnie non riescono a vivere sotto lo stesso cielo, o due religioni non hanno il coraggio di pregare nello stesso tempio. Buddha forse non ha mai concepito il Male di un mondo in grado di creare armi in grado di cancellare una città e trasformarla in nulla più che una nuvola nera ed un lampo di luce.
“Qualcosa non va?”
L’uomo lo sta osservando.
Il tramonto ormai è soltanto un ricordo, e vi sono soltanto le stelle sopra loro due.
La foglia ha narrato la sua storia e se ne va, gridando il suo dolore alla notte. Il visitatore sembra accorgersi di qualcosa, perché i suoi occhi chiari seguono il volo della piccola forma ed un’espressione amara gli attraversa i lineamenti prima che la foglia venga inghiottita dall’oscurità carica di tutto l’orrore che il domani sta preparando. “Ha una risposta alla mia domanda, saggio Fudo?”
“No, non ce l’ho”.
L’uomo è venuto dall’Europa solo per parlare con lui. Ha abbandonato per qualche giorno il suo lavoro pieno di impegni, la sua bellissima moglie, la bambina che ormai vede meno di una volta a settimana soltanto per immergere le sue costose scarpe nel fango ai piedi della reincarnazione di Fudo Myōō ed implorare una risposta ai suoi sogni.
Fudo dovrebbe avere la risposta per quel penitente. Buddha ha sempre detto che la Verità appartiene a chi la cerca, e in quella persona riesce ad intravedere il bisogno, la mano tesa ed umile alla ricerca di qualcosa che il suo denaro, i suoi studi e la sua bella valigia di pelle non possono offrirgli. Coloro che si prostrano di fronte alla Grandezza meritano un aiuto, ma gli anni di meditazione gli hanno insegnato che il mondo è ingiusto.
È ingiusto che lui non abbia una risposta per quei sogni. Non sa cosa voglia dire quel pianeta rosso avvolto dalle fiamme che cala sulla Terra distruggendola con il suo potere: non riesce a dare un volto a quel gigante solitario, quello che l’uomo vede in piedi su quel pianeta avvolto in un mantello color sangue mentre le stelle si specchiano contro il suo petto ed un fuoco arde sulla sua testa rischiarando la notte. Avrebbe voluto mostrargli che la sapienza del Buddha arriva dove i dottori, gli psicologi ed i ciarlatani inventano risposte più disparate, ma la meditazione rimane in silenzio e dunque solo il silenzio può offrire al penitente. Un silenzio che non lo ripagherà dei sacrifici per giungere ai suoi piedi. “Non ho una risposta per te. Torna a casa”.
“Comprendo” risponde. Potrebbe persino giurare di sentire una nota di sollievo in quella voce forte. “Se nemmeno l’uomo più vicino al Buddha ha una risposta vuol dire che questi miei sogni non sono nulla di cui preoccuparsi, giusto?”
“Forse”.
La verità è che lo inquieta questo silenzio. Ha dedicato la sua vita ed il suo corpo alla ricerca del Vero e del Giusto ed attraverso la Retta Via ha sempre trovato ciò che desiderava, perché il mondo non è mai stato più di un testo sacro alla portata di chi sappia leggerlo ed abbia il coraggio di sfogliare quelle pagine fatte di Guerra, Dolore e Morte. Ma adesso il libro è bianco, e per quanto le sue dita ne sfiorino la copertina non riesce a trovare una pagina che parli dei sogni di quell’uomo e del fuoco che sembra avvolgerlo quando socchiude gli occhi. “O forse no. L’unica verità che posso offrirti è che io non possiedo la Verità”.
“Beh, siamo un passo avanti” sorride. “Almeno non sento storie fantastiche di marziani che invadono la Terra come sostengono gli strizzacervelli. Non pensavo che avrei trovato l’unico uomo onesto al mondo in un buco sperduto dell’India. Mi chiedo cosa possa sognare una persona così retta e sincera”.
La verità è che Fudo sogna ad occhi chiusi anche senza dormire. Quando le palpebre si abbassano può vedere un mondo dove la gente canta con lo sguardo rivolto al cielo tenendosi per mano; vede mitragliatori, bombe e veleni sprofondare nell’oscurità dell’oceano. Vede il mondo sommerso di abbondanza, dove tutti danzano nel cibo e nell’oro. Sente soltanto grida di gioia, gente che si ama, la vita che scorre negli alberi e nelle bestie così come negli uomini: non ci sono genitori che si disperano, non ci sono padri che seppelliscono le proprie figlie gridando vendetta. Quando chiude gli occhi gli esseri umani sono creature degne di ascendere al Nirvana, esseri così puri da non aver bisogno delle lacrime di Fudo Myōō per raggiungere il culmine luminoso del ciclo della vita.
È per questo che detesta aprirli.
Semplicemente non gli piace quel mondo che non è come lui desidera.
“… la salvezza” si ritrova a sospirare, quasi incredulo di aver risposto a quel semplice uomo. “Se proprio ti interessa, il mio più grande sogno è la salvezza di tutto il genere umano”.
“Allora buona fortuna …”
Solleva la testa, raccoglie la sua valigia e si prepara ad andar via. Da sotto le ciglia Fudo lo vede scendere i primi passi verso il sentiero, ma per poco non apre gli occhi, incredulo, quando l’uomo si ferma e lo osserva, carico di un’aura di sentimenti forte che fino ad un’istante prima nessuno dei suoi sensi era riuscita ad individuare. “Ma mi consenta un pensiero, saggio Fudo. Io sono un uomo materiale, non so nulla dell’Illuminazione, ma qualcosa sui sogni la vita l’ha insegnata anche a me. Se davvero ha un desiderio così bello e grandioso …”
Si volta verso l’alto, quasi ad osservare con un unico sguardo tutte le costellazioni. “… non può rimanere qui tutta la vita. Lei è una persona diversa da chiunque altra io abbia mai incontrato: ma non credo che meditare e piangere per le miserie dell’umanità sia il modo migliore per raggiungere questo obiettivo. Ho imparato sulle mie spalle che è solo con i gesti e con le azioni che una persona può davvero modificare il corso della sua vita. Ma questo è solo il pensiero di un umile profano”.
Stavolta si allontana sul serio; la sua forma robusta sparisce oltre le foglie, e dopo qualche minuto i versi della giungla coprono i suoi passi, l’unica cosa che rimane a testimoniare che in quel minuscolo angolo di mondo vi è stata un’altra persona oltre a lui, uno strano sognatore che probabilmente domani mattina prenderà il primo volo per l’Europa, stringerà al petto le sue donne e senza dubbio tra qualche mese avrà dimenticato tutto, i suoi sogni spenti come la fiamma di una candela al passaggio dei monsoni.
Fudo sospira, assaporando sotto le sue palpebre chiuse le parole dell’uomo, cercando di vedere sul serio quei sogni, quel gigante, quel pianeta rosso che divora ogni cosa. Si chiede se ci sia qualcosa in quelle parole che forse non ha afferrato, se davvero l’incontro di questa sera è stata soltanto una delle miriadi di possibilità che l’universo ci pone davanti ogni giorno oppure un qualcosa di più, un filo caduto dal gomitolo del Buddha che dovrebbe chinarsi a raccogliere.
Fudo si chiede se Ludwig Schuster possa essere uno dei tasselli che condurrà alla salvezza del genere umano.

 

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Capitolo 4
*** Shura - Il pianto del mare ***


ShuraM




Personaggio: Capricorn Shura
Serie: Saint Seiya classico (con riferimenti a Saint Seiya - Episodio G)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments
Rating: giallo
Avvertimenti: nessuno


Il pianto del mare

Il mare gli lambisce i piedi, poi lo lascia andare. Affonda nella sabbia con tutto il proprio peso, un passo alla volta, senza degnare di uno sguardo il risultato del suo allenamento quotidiano che invece ogni altro giorno lo riempie di soddisfazione. Il vento è freddo, cosa inusuale per la stagione, e Shura rimane per qualche istante ad osservare le sottili increspature che sfiorano le acque di Paros; giocano con l’azzurro ed il blu intenso, ma poi disegnano sulla superficie una rete bianca e luminosa che rovina la semplice perfezione di quel mare.
I gabbiani non sono ancora tornati al nido.
Osserva di nuovo la missiva, quella che gli è stata consegnata qualche ora prima da un messaggero ansimante del Santuario. L’ordine di rientro è vergato nella scrittura perfetta del Gran Sacerdote, e Shura affretta il passo. Non comprende il motivo per cui cinque Cavalieri di Bronzo ed una sedicente Athena richiedano la presenza di tutti i Cavalieri d’Oro al Santuario, ma non spetta a lui porsi simili domande.
“Stavolta non tornerai” .
È la prima volta che sente la sua voce. Ha qualcosa che ricorda il suono del mare quando si porta una conchiglia all’orecchio.
Lo osserva seduta su uno scoglio, i piedi che spariscono nella spuma mentre i lembi della sua tunica bianca si nascondono tra i flutti. Ha perso il conto di quanti anni siano trascorsi dal loro primo incontro, una sequenza di giorni sempre uguali pieni di silenzio, sguardi bassi e lacrime, lacrime che la fanciulla versa senza alcuna spiegazione. Si è allenato nel pieno del giorno o nel cuore della notte, ma in ogni momento la ha trovata lì, immobile, perfetta come la statua della divina Athena che veglia sul Santuario. Ne aveva parlato con Milo, ma quando il Cavaliere dello Scorpione si recò sull’isola non trovò altro che gabbiani.
Ma oggi la creatura ha rotto il suo silenzio, e per un istante Shura sente un peso nel petto. Un peso che nasce da quegli occhi antichi come l’oceano, molto più antichi di cento o mille vite degli uomini. “Vieni con me”.
“Chi sei?”
“Il pianto del mare”.
Una frase che non ha alcun senso.
O forse ha un senso che lui non ha intenzione di cercare.
Gli anni sul campo di battaglia gli hanno insegnato che spesso creature come quella che ha di fronte, una ninfa o forse una nereide, si divertono a parlare per enigmi in un mondo che solo loro possono vedere. Al contrario di Aphrodite a lui queste creature più vicine agli dèi che agli uomini non suscitano alcun fascino o meraviglia.
Tutti, a parte lei. Vorrebbe darle le spalle e tornare al Santuario, ma non riesce a staccare gli occhi da quel viso ed una parte di lui trema, si agita, gli trafigge ogni singolo muscolo lasciandolo immobile, i piedi nella sabbia, davanti a quella regina del mare così triste che sembra uno specchio in procinto di infrangersi tra le onde.
Anche le sue labbra sanno di sale.
Non ha idea di come sia successo, ma in un istante la creatura ha attraversato lo spazio che li separava e le loro teste, la loro pelle, le loro bocche si sfiorano ed è un bacio diverso, strano, privo di alcun desiderio. Sono lacrime quelle che li spingono a separarsi, che si insinuano tra le loro labbra; Shura sente di nuovo quello sguardo su di sé e oltre sé, e nel momento in cui gli piacerebbe avere una spiegazione rimane in silenzio, quasi come se qualcosa lo stringesse al petto e gli impedisse di disturbare il dolore e l’amore di quella creatura. La fanciulla ritorna dove il mare lambisce la terra, e di lei non rimane nemmeno un lembo della tunica bianca quando un’onda le sfiora le caviglie trasformandola solo in un velo di spuma. A Shura potrebbe sembrare di aver sentito un “Addio” uscire dalla sua bocca, ma forse è solo un’impressione e l’eco della risacca.

La figura del ragazzo si allontana.
Sempre di più, sempre più piccola. La sua vita è debole, ma la speranza che gli brucia nel petto va ben oltre le apparenze: cade verso il basso, verso la Terra, e Shura lo osserva fino a quando di quel corpo segnato dalle battaglie non rimane che un punto minuscolo ed un bagliore dorato che si mescola all’alba che deve ancora venire. Il suo coraggio e la sua devozione meritano di vedere il domani: Shura si accorge di sorridere per la prima volta dopo tanti anni, cercando di ricordare il giorno in cui il suo cuore ha smesso di credere nell’affetto e nei propri compagni e si è ricoperto di un’armatura fredda di cui il Grande Sacerdote ne ha colpa solo in parte. I giorni in cui assomigliava a quel ragazzo, e che adesso nella sua mente sono come inafferrabili stelle cadenti. Armatura del Capricorno, proteggi quel giovane.
“Siamo alla fine, Shura?”
Aveva dimenticato il suono di quella voce. Risuona dentro la sua testa, bassa ed irritante come il giorno che l’ha sentita per la prima volta; la verità è che forse ne aveva quasi dimenticato l’esistenza. “Proprio adesso decidi di farti risentire … Crio?”
“Nella battaglia contro il Dragone hai bruciato anche l’ichor di cui ti ho fatto dono con la mia arma. Forse anche l’ultima traccia di me sta svanendo da questo mondo … Certo, è proprio inglorioso sapere che sei stato sconfitto dal primo Cavaliere di Bronzo sulle scale, non riesco a credere che l’uomo che ha infranto la mia Spada Azzurra sia …”
“Non pensarci. Non potresti capire”.
Non c’è molto altro da spiegare. Non in questo cielo, in questo abisso nero dove ormai la sua esistenza è soltanto una minuscola fiamma davanti alle stelle senza tempo. Si sente piccolo, lui che ha sempre affrontato ogni battaglia con la spada in pugno.
Per un istante gli sembra di sentire il pianto di un neonato: è una bambina, una fanciulla che grida avvolta in un sottile panno di tela. Un uomo la stringe al petto mentre fugge nella notte, corre nel Santuario evitando ogni colpo, è un guerriero così grande che il solo ricordo stringe il cuore di Shura; sente nelle orecchie il rumore dei colpi che cozzano, della sua spada contro il nemico, ma anche i ricordi dello scontro si mescolano davanti al corpo del guerriero caduto, l’uomo che il suo stesso braccio ha trafitto a morte. E adesso le stelle gli sembrano gli occhi di quel condottiero che lo giudicano, cercando l’unico verdetto in fondo possibile.
“Siamo ai rimpianti?”
“Forse. Anche se mi sembra strano lasciare questo mondo in tua compagnia” sorride. In fondo non vi è nulla di male. “Ho sempre pensato che sarei andato incontro alla fine da solo, seguendo la via della spada fino alla fine”.
“Curioso, io invece non ho mai pensato alla mia fine”.
Shura ha anche quel duello nel cuore. La Spada Azzurra del Titano contro la sua Excalibur, un combattimento ai confini del mondo: forse la sua vittoria più grande, sangue umano e ichor divino ovunque. Ma anche quel ricordo trema e scivola lontano dagli occhi finché l’unica traccia che rimane nel suo corpo ormai allo stremo è la voce del dio. “Io pensavo solo al futuro. Ai miei fratelli, alla mia bellissima moglie … credevo che nessuno avrebbe mai potuto sconfiggerci. Se lo avessi saputo …”
“Anche tu sei ai rimpianti?”
La sua voce si fa triste. “Credi che un dio non soffra? Credi che voi umani siate gli unici ad amare, sperare, credere in un futuro migliore? Sì, se avessi saputo che sarei morto per mano tua forse avrei messo da parte il mio orgoglio. Avrei risparmiato lacrime a colei che ho amato più di ogni altra cosa al mondo. E adesso sarei con lei, sul fondo del mare luminoso, circondato da tutti i figli che avrei potuto darle. Se pensi che questo finale mi faccia piacere ti sbagli di grosso! Però ti devo ringraziare … grazie a te ho potuto rivederla almeno per un’ultima volta”.
Una musica riecheggia nel silenzio del vuoto, una canzone in una lingua di cui non conosce alcuna parola. Ma non ne ha bisogno, perché le parole e le note toccano ogni parte del suo corpo, ogni muscolo, ogni capello. Potrebbero essere dita gentili contro la sua pelle, fresche ed impalpabili come l’acqua del mare: questo canto è un lamento che viene dal profondo, da quella Terra che ormai non è più grande di un pollice ed appare soltanto blu, bellissima. È tutto il mare che sta cantando, e in fondo al cuore sa che quella musica è dedicata a lui. A loro. All’uomo e al dio che se ne vanno per sempre lasciandosi alle spalle un mondo che, forse adesso riesce a crederci, sente la loro mancanza, la loro spada sguainata, la loro giustizia.
Il pianto del mare sta versando lacrime per loro.
“Andiamo Shura. La voce di Euribia ci accompagnerà fino alla fine”.
Una fine eterna, immortale, con una speranza per il futuro che ha le sembianze di un Dragone. “Andiamo insieme verso il cuore della Via Lattea”.



Note: sono sempre stata una fan dei Titani, e temo che ciò emergerà anche in altre mie storie. L'ultima frase della storia si riferisce al fatto che, almeno nella versione italiana, Crio si presenta sempre come "Crio della Via Lattea".

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Capitolo 5
*** Death Mask - Call my Name ***


Death%20Mask




Personaggio: Cancer Death Mask
Serie: Saint Seiya - Soul of Gold
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments
Rating: giallo
Avvertenze: nessuna


Call my name

“Sei in ritardo”.
Death Mask sorride. Era una vita che non lo faceva, o almeno non quando qualcuno rimproverava così ad alta voce le sue mancanze. “Cosa posso dirti, mi piace farmi desiderare”.
Per un attimo la luce gli ricorda quella della sua Sicilia; ci era tornato diverse volte anche dopo la nomina a Cavaliere d’Oro per immergersi tutto nel fuoco e nei fumi dell’Etna, per bere il suo vino, per innalzare i suoi colpi verso quel cielo che era considerato il capolavoro di Zeus. Lui che comandava, derideva e tormentava i morti si sentiva davvero vivo solo lì, tra quelle donne dai capelli scuri e la pelle che sapeva di mare che sembrava ardere della sua stessa sete di fuoco: ballava con loro fino a vomitare tutto il vino che aveva ingurgitato e, al diavolo la divina Athena, ne beveva di nuovo, più di prima, gridando ai quattro venti che non c’era nessuno che potesse dire ad un uomo come lui cosa dovesse o non dovesse fare. E il sole gli dava ragione, perché lui bruciava e tutti dovevano bruciare come lui, vivi o morti, vincitori e vinti, cavalieri e pezzenti straccioni che non sapevano fare altro che pigolare in maniera quasi fastidiosa di fronte a lui.
Ma la verità è che non vi è alcun sole in quel posto, né il fumo acre del suo vulcano.
C’è un altro fumo, verde o forse viola, che gli nausea la gola quando risale da quel baratro di cui già una volta Death Mask ha toccato il fondo. Si divertiva –sì, si divertiva moltissimo- a guardare gli uomini cadervi , scaraventandoveli lui stesso o talvolta dando loro persino l’illusione di potervi scampare per poi ridere quando vedeva la loro speranza morire in quell’oceano di tenebra.
Ride anche adesso, ma per un motivo ben diverso.
Ride perché lei è lì ed i suoi occhi sono l’unica cosa in grado di risplendere davanti all’abisso dello Yomotsu Hiraska. L’hanno sepolta così, con una rosa tra i capelli, un fiore rosso che sembra la promessa che un giorno anche la speranza potrà sbocciare all’ingresso degli Inferi.
Desiderare è una parola grossa, non montarti troppo la testa!”
“Una bella ragazza destinata agli Elisi ritarda il raggiungimento della Gioia Eterna per aspettare un losco e ben poco raccomandabili figuro in un luogo che brulica di gente morta?” risponde, lanciando solo un frettoloso sguardo su coloro che avanzano. Li ha odiati tutti, un tempo.
Li ha odiati perché erano deboli, miseri e morti, perché non splendevano, non correvano, non gridavano, non avevano nemmeno una scintilla del suo stesso fuoco. Adesso li degna tutt’al più di un’occhiata, le pupille fisse su quella ragazza esile che non ha nulla a che vedere con le donne della sua terra ma che potrebbe incenerirle tutte con la forza della sua luce. “Sai, ho un po’ di paura” mormora lei, chinando la testa verso l’abisso. “Magari se scendessi insieme a te …”
“Non credo, Helena. Temo proprio che non finiremo nello stesso posto, sai? In vita non sono stato esattamente un cavaliere senza macchia e senza paura”.
“Quello non credo che sia un problema …”
Le sue dita sono calde proprio quando era viva. Sono calde e bellissime anche quando si intrecciano nelle sue. “Se ci teniamo la mano non ci separeremo e non ci perderemo di nuovo, giusto?”
Vorrebbe dirle che non funziona così, che gli Inferi non si attraversano tenendosi per mano e che un’anima pura destinata agli Elisi non potrà mai restare accanto ad un Cavaliere traditore che finirà nel Cocito nel migliore degli scenari. L’aver aiutato i suoi compagni nella guerra contro Loki non servirà a scontare nemmeno una minuscola parte dell’eternità che lo attende nel luogo più buio degli Inferi. Ma non glielo dice, perché con quella mano nella sua persino lo Yomotsu Hiraska sembra un posto migliore. Si limita ad annuire e a muovere un passo avanti finché non la sente puntare i piedi.
“Senti, se le cose dovessero andare male … c’è una cosa che vorrei chiederti”.
“E sarebbe?”
“Il tuo nome” chiede. “Cioè … il tuo vero nome”.
Già, il suo vero nome.
Sono anni che nessuno lo pronuncia più. Lui stesso lo ha quasi sepolto in un angolo della mente, lo stesso dove per moltissimo tempo ha nascosto dolore, vergogna e senso di cola chiudendoli a chiave per non farli sfuggire o vedere a nessuno. Compreso se stesso. E quando le sussurra quel nome in un orecchio è come se una vecchia serratura arrugginita fosse scattata da qualche parte lasciando scappare uno spiraglio di luce simile a quelli della sua isola, quella dove avrebbe voluto portare Helena per farle vedere il mondo oltre la prigione gelida di Asgard. Come tutta risposta lei appare divertita. “È buffissimo!”
“Beh, è un nome italiano. Fidati, non hai idea di quanto per me siano ridicoli Siegfried o Alberich! Non ci chiamerei nemmeno un cane!”
E senza rendersi conto ridono entrambi cancellando l’abisso, ignorando i lamenti dei morti ed i ricordi dei vivi. Ridono finché ne hanno voglia, ridono fino a quando è Helena a camminare fino al ciglio del baratro con le dita più salde che mai alle sue. È ancora titubante, glielo legge negli occhi, e lui non può permettere che vi sia una nuova ombra in quelle iridi così belle che hanno avuto a cuore persino un uomo perduto come lui. Prima ancora che lei possa protestare la solleva da terra ed è senza malcelata soddisfazione che la sente stringere le braccia intorno al suo collo. “Così va meglio?”
“Direi proprio di sì …”
Ed è tutto ciò che ha bisogno di sentire. “… andiamo?”

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Capitolo 6
*** Aiolia - Non il tuo viso ***


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Personaggio: Aiolia
Serie: Saint Seiya - Episode G
Genere: Introspettivo, Missing Moments
Rating: giallo
Avvertimenti: la questione del colore dei capelli di Aiolia, in origine bionid, è tratta dai primi numeri di Episode G


Non il tuo viso

Il primo colpo è solo un avvertimento.
Il pugno di Aiolia si carica del potere del fulmine e fende l’aria accanto alla testa del suo avversario, mancandolo di proposito. Dovrebbe essere sufficiente a farlo desistere dalla sfida, ma il ghigno di Babel dice il contrario. “Come sospettavo. Senza la tua Armatura d’Oro sei solo un micetto!”
Aiolia si trattiene, sentendosi addosso lo sguardo di tutti i Saint che si sono riversati sugli spalti dell’arena. Le sfide o le zuffe non sono certo una novità tra i giovani aspiranti protettori della dea Atena, ma uno scontro tra un Silver ed un Gold Saint è in grado di trascinare su quei gradoni di pietra riarsi dal sole anche i cuochi ed i domestici del Tempio.
“Sono un tuo superiore, Babel. Esigo delle scuse immediate!”
“Pfui. Sei solo un moccioso che si è montato la testa”.
Babel lo invita con la mano a farsi avanti una seconda volta, mettendosi in posizione di difesa.
Una sfida ufficiale, uno contro uno.
Niente Armature, soltanto i propri pugni ed il Cosmo elevato al cielo.
La furia della costellazione del Leone inizia a montargli dentro, ruggendo fin dentro le sue orecchie. Può battere quell’avversario quando e come vuole.
Può colpirlo con le zanne e fargli mangiare la polvere davanti a tutto il pubblico. Babel avrà qualche anno più di lui, ma è pur sempre un Silver Saint e il dovere di Aiolia è quello di ricordargli il suo posto e la differenza che esiste tra le loro costellazioni.
Parte in avanti, sferrando un calcio leggero per aprire la sua guardia: abbastanza debole da essere parato, abbastanza forte da incutergli timore.
Non basta.
Babel para e incassa, scivolandogli sul fianco e caricando il pugno del fuoco di Cerbero. Il colpo gli si avvicina al viso, ma Aiolia è più veloce e si scansa, costringendo l’avversario a bloccare il colpo a metà per non finire sbilanciato. Un pugno ben assestato nel fianco scoperto chiuderebbe subito la questione, ma non è questo che desidera. “Ritira quello che hai detto. Adesso!”
“E perché dovrei?”
Senza mostrare alcuna esitazione riprende l’equilibrio, e prima che Aiolia possa assestargli un secondo calcio si accorge di uno sputo che gli arriva dritto sulla guancia. “Non porto alcun rispetto ad uno che ha la stessa faccia del Traditore. L’Armatura del Leone su di te è un insulto a tutti i Saint esistenti! Hanno fatto bene ad ammazzarlo come un cane!”
Ed è in quel momento che arriva.
Ha sempre cercato di ignorarlo, di mandarlo via con un ruggito, di scrollarselo di dosso come un insetto fastidioso.
Ma, come tutti gli insetti fastidiosi, torna sempre e colpisce quando sei incapace di schiacciarlo.
Il mormorio.
Le parole di Babel risvegliano il brusio del pubblico. Aiolia vede le loro facce, una per una. Vede i loro cenni di assenso, le parole bisbigliate all’orecchio e coperte con la mano. I Saint, i domestici, persino le reclute prive di armatura si girano verso il proprio vicino, bisbigliando come accade spesso alle sue spalle, quando credono che non possa udirli. Tutti quelli che in lui vedono soltanto il fratello minore di Aiolos, il Traditore del Santuario.
La sua mano trova la faccia di Babel in un battito di ciglia. Le sue dita si lasciano attraversare dal fulmine, piantandogli le scariche dritte nella testa mentre il pugno sinistro gli si avventa sul costato, fremendo con impazienza nel sentire le prime ossa spezzarsi. Il colpo lo scaglia per terra, sull’altro lato dell’arena, e senza pensare a nient’altro che non sia il viso di Aiolos in un attimo gli è addosso e gli impedisce di rialzarsi o anche solo di riprendere fiato. Ogni pugno lo scaglia contro la sua faccia, ogni colpo è come se andasse a quei vigliacchi che gli mormorano alle spalle e che finge di ignorare. Il Leone d’Oro vuole scagliare il suo colpo mortale, e non c’è assolutamente nulla di sbagliato nello sbranare quel Cerbero arrogante: le saette rispondono alla sua chiamata, dritte dal cielo, e tutti quegli astanti che lo hanno deriso dovranno impegnarsi davvero a fondo per recuperare i frammenti carbonizzati del suo avversario quando avrà finito.
La luce del Lightning Bolt è tutt’uno col suo corpo, ma prima che il suo ruggito raggiunga il culmine un dolore improvviso gli si insinua tra capo e collo. Prova a controllare l’energia della propria costellazione per farla comunque schiantare sul bersaglio, eppure la folgore si dissipa lentamente insieme alla sua vista ed alle grida di Babel.

Ci sono alcuni momenti in cui Galan Steiner preferirebbe essere il servitore personale di qualche altro Gold Saint: si dice che nella Casa dell’Acquario viga un silenzio ultraterreno, o che sia vietato esporre anche il minimo segno di tristezza tra le mura del Toro.
Ci vuole una buona dose di pazienza per doversi occupare del padroncino Aiolia tutti i santi giorni, specie quando tracanna più vino del consentito o quando, come in quel momento, viene portato di peso da qualche altro Gold Saint e scagliato nella vasca piena d’acqua senza troppi complimenti. Non ha avuto il coraggio di chiedere cosa sia successo, ma a giudicare dal livello di imprecazioni –alcune riguardanti persino il Sommo Zeus- di Sua Eccellenza Milo deve essere stato qualcosa di piuttosto grave.
Qualcosa che, conoscendo il carattere del suo padroncino, deve aver causato più di un paio di lividi.
Il Saint dello Scorpione non si scomoda certo per una banale zuffa.
Deve fare appello a tutta la propria pazienza per trovare una tunica pulita e degli unguenti lenitivi, salvo poi riempire un vassoio di miele e formaggio per addolcire un po’ l’umore del ragazzo prima della sfuriata che arriverà invariabile non appena avrà il coraggio di scostare la tenda del bagno.
“Nobile Aiolos, inculcate un po’ di buonsenso in quel ragazzo”
Sorride tra sé, piegandosi davanti alla statua di marmo che, da diversi anni a quella parte, è l’unica effige al Santuario che raffiguri un Sagittario. Una statua sbozzata da uno scultore maldestro, con un arco dalla forma improponibile ed un viso che non ha nulla della gloria sconfinata e della nobiltà di Aiolos, un tempo famoso per essere stupendo come Sisipho redivivo: tutto ciò che rimane della damnatio memoriae che grava su quell’uomo accusato di tradimento.
Galan non è certo che conversare con una statua sia la scelta migliore per la propria sanità mentale. “È ancora troppo giovane per …”
Qualcosa di rosso cola da sotto la tenda.
A Galan occorre meno di un attimo per buttare tutto a terra e raggiungere il bagno con una sola falcata, il cuore in gola.
Tutto, dalle piastrelle del pavimento alle colonne, è macchiato di rosso. Uno schizzo è arrivato persino al soffitto.
Il signorino Aiolia è lì, inginocchiato davanti alla vasca, con uno sguardo che Galan non gli ha mai visto. “Padroncino …”
Non è qualcosa che potrebbe definire tristezza o dolore. In quegli occhi azzurri vi è un Cosmo ferito che si ritrae non appena conscio della sua presenza, colpevole. “… cosa ha fatto ai capelli?”
La tintura rossa è colata anche sulla tunica e sui sandali, ormai tutti da buttare. Il liquido gli scende a rivoli anche sulla faccia, ed è chiaro che il ragazzo sia riuscito a schizzarla ovunque.
I suoi capelli, fino a qualche minuto prima biondi come il grano, adesso ricordano davvero la criniera di un leone. “Non voglio assomigliargli più, Galan. Non voglio il suo viso”.
Galan Steiner sospira.
Ha sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato. “Crede davvero alle dicerie sul suo nobile fratello? Che abbia tentato di rapire ed uccidere la dea Atena?”
“Certo che non ci credo! Mio fratello era un eroe, non avrebbe mai fatto una cosa simile, ma …”
Come scritto nelle memorie del Gran Sacerdote Sage, tutto ciò che viene prima di un “ma” non ha alcun valore.
Il ragazzo si ritrae, evita il suo sguardo. Il Leone d’Oro scompare al di sotto della criniera, rivelando un gattino arruffato di tredici anni scarsi che miagola, graffia e soffia per non farsi mettere in un angolo dagli altri predatori. Il guerriero dal Cosmo superiore a quello di qualsiasi altro suo coetaneo che troppo spesso mostra il suo unico punto debole.
Il giovane che serve da tanti anni e che adora con tutto il cuore, proprio come venerava il suo nobile signore. “… ma non ce la faccio più, Galan. Non voglio che mi guardino in quel modo. Perché non fanno altro che guardarmi … e parlare di Aiolos … e poi continuano a fissarmi …”
D’istinto delle scariche elettriche gli corrono lungo tutto il braccio destro.
“Se Milo non mi avesse fermato oggi avrei ucciso una persona. Nel mio Cosmo … c’è tanto odio, Galan”.
Non dovrebbe, eppure parte di lui si ritrova a sorridere davanti a quella confessione del suo signore.
“Io non credo che si tratti di odio, nobile Aiolia”.
O non solo quello, vorrebbe aggiungere.
Ma le parole rimangono lì, sospese nel vapore del bagno.
Ci sono cose difficili da spiegare a un adolescente in grado di fendere il mare con un calcio, o abbattere una montagna con un pugno, un giovane che accoglie l’energia irruenta della Costellazione del Leone, che la sente ruggire in ogni fibra del suo corpo. O forse, si corregge, ci sono cose difficili da spiegare ad un adolescente e basta.
L’odio è più facile, spesso più accettabile. È una buona scusa per giustificare i pugni, la lotta, la costante aggressività che cresce giorno dopo giorno.
Ma non vi è rabbia in quei capelli massacrati, in quell’oro costretto ad andarsene via, a scivolare nel passato insieme ai dubbi, ai sospetti che le dicerie possano, anche solo per un istante, essere vere.
L’odio non costruisce barriere, non si accorge delle crepe striscianti per impedire che si allarghino.
L’odio è un sentimento che è concesso ai grandi eroi, che maschera la forza.
Ciò che si annida nel cuore del suo padroncino è un sentimento molto più basso ed umano, uno di quelli che di certo non riempiono i cuori dei nobili Saint dell’epica. È qualcosa in grado di bloccare il corpo ed il cervello, così forte che soltanto la gente più saggia o con più esperienza riesce a riconoscere e ad ammettere: e il nobile Aiolia è ancora troppo giovane, incapace di riconoscerlo, ammantato nella furia e nella disperazione della sua perdita. Così come quelle lacrime che iniziano ad uscirgli dal viso non scaturiscono dalla rabbia.
Senza più parole Galan lo afferra tra le proprie braccia, permettendogli di nascondere la testa contro il suo petto.
Nessuno vedrà mai il Leone d’Oro tremare dalla paura del giudizio altrui.
 

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