Nervous

di Erenas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Tagliarsi i capelli e gossip ***
Capitolo 2: *** 02. Tette all'aria e Metallica. ***
Capitolo 3: *** 03. Stranezze indefinite e l'officina di Darrel ***
Capitolo 4: *** 04. Carrie e Preghiere ***
Capitolo 5: *** 05. Lilo e Stitch e non mi vuoi più qui ***
Capitolo 6: *** 06. Passeggiate tranquille e tutto questo finirà ***



Capitolo 1
*** 01. Tagliarsi i capelli e gossip ***


01. Tagliarsi i capelli e Gossip.
 

«Oggi parleremo della differenza tra l'etica e morale, quindi iniziamo...», la voce narrante del canale sette della televisione iniziò a spiegare. Il programma Tutto è sapere era in onda come tutte le mattine su canale sette, un canale dedicato ai target più anziani, adulti. Ed io, a soli ventitré anni, lo stavo guardando.

Una strana anziana signora con i capelli biondi e naso a punta, aveva preso posto al conduttore spiegando il suo punto di vista sull'etica. 
Ero pronta ad assistere una fra le tante discussioni tra vecchi, con i pop-corn in mano e una lattina di coca-cola appoggiata sul tavolo davanti a me. 
Appoggiai i piedi sul tavolo posando la ciotola sul mio stomaco. Avevo ventitré anni, ma mi sentivo come una cinquantenne disoccupata.

Il telefono iniziò a squillare. Lasciai perdere pensando che fosse una delle solite chiamate dei call center, ma quando il telefono iniziò a squillare sempre di più, decisi di alzarmi e rispondere. 
Sbuffai quando alzandomi, appoggiai il piede a terra camminando goffamente verso il telefono. 
«Se lei risponderà correttamente a questo quiz, vincerà un biglietto per vedere la prima del film Footloose il remake, ci saranno anche gli attori!», annuncia una voce squillante. Allontanai il telefono all'orecchio un secondo prima di attaccare.

Ero stufa di tutte quelle chiamate che mi arrivavano a casa. Folletti, quiz, biglietti gratuiti. 
Ritornai al mio posto riprendendo la ciotola che ancora non avevo toccato. 
«No! Non è vero. L'etica è l'azione, la morale è la conseguenza dell'etica, è il mio agire.», spiega un'uomo secco. Aveva i capelli grigi e occhiali dal colore azzurro, aveva denti storti. 
Si comportava in modo buffo, partendo dai suoi movimenti spontanei.

«Incompetenti», dissi cambiando canale e cliccando su rete quattro, documentari. 
Fin da piccola i miei genitori mi hanno istruito a guardare documentari, dinosauri, animali, big bang, l'universo. Un senso di nostalgia di casa mi pervade in tutto il corpo. 
Non tornavo a casa mia da mesi, giorni. Non ricordavo più il volto di mia madre, né di quello di mio padre. Ma era giusto così. Il dolore sui loro volti era impresso nella mia mente, fino a vederli nei miei incubi.

Ma dovevo farlo, dovevo andarmene. 
Decisi di spegnere la televisione; presi il tasto alzandomi dal divano e cliccai sul tasto. Accesi la luce della lampadina che si trovava sul comodino vicino al divano, la stanza dal buio che c'era, diventò leggermente più chiaro. 
Presi la ciotola dei pop-corn che avevo finalmente finito e andai goffamente in cucina. La cucina era un disastro: alcune pentole e piatti da rigovernare, ma purtroppo, non ho mai avuto tempo per pulire o semplicemente, non ho mai avuto la voglia di farlo.

Avevo un disperato bisogno d'aiuto, e lo sapevo; ma il mio troppo orgoglio mi diceva di non andare da uno strizzacervelli e farmi aiutare. Volevo farlo da sola e ci sarei riuscita, prima o poi.

***

La mattina dopo mi svegliai grazie al suono della sveglia. Allungai il braccio sinistro verso il mio telefono cercando di stoppare la canzone; sbuffai quando il mio telefono cadde sul pavimento creando un fastidioso suono. Mi alzai svogliatamente, raccogliendolo. La canzone Back in the 90' dei Grouplove suonava ancora, senza sosta. 
Fermai finalmente la canzone e a quel punto decisi di alzarmi. Decisi di fare una doccia, quindi preparai tutto l'occorrente.

Dopo trenta minuti di una doccia d'acqua calda, mi fermai per almeno dieci minuti pensando a quello che mi sta succedendo; come se quella doccia di trenta minuti, non fosse stata abbastanza. La mia camera era ancora molto spoglia a differenza della mia camera da adolescente, non era decorata, non aveva ancora niente che appartenesse a me.

Il mio telefono si illuminò, di nuovo, e sperai con tutto il cuore che non fosse una chiamata da parte di mia madre. Stupita, guardai l'e-mail arrivata dall'università informatica. 
L'avviso diceva che: per via di una fuoriuscita di gas la scuola sarebbe stata chiusa. Sbuffai. Stare sempre a casa a riordinare era ormai stancante e avevo il disperato bisogno di qualcosa di eccitante nella mia vita.

Così decisi di fare una pazzia. Con l'accappatoio ancora addosso e le infradito ormai molli, decisi di raggiungere il lavandino e con delle forbici mi tagliai i capelli rendendoli corti. Volevo un cambiamento. Un cambiamento che mi avrebbe cambiata davvero rendendomi irriconoscibile.

Mi guardai allo specchio osservando la nuova me. Lo specchio era ancora circondato dal troppo vapore, lo pulii rendendomi più visibile. 
Potevo vedere la paura e il timore del mondo esterno, delle persone. Quelle che giudicano, diamine quanto le odio.

Quello che avevo imparato negli anni era che il giudizio delle persone è importante, quello che pensano di te è importante. Il tuo aspetto fisico, quello esteriore. Ma con il passare del tempo ho smesso di pensarci, di credere a loro e ai suoi giudizi.

Ma mi piacevo così, con i miei nuovi capelli e la nuova me. Stava iniziando a piacermi e questo mi spaventava. Andai in camera mia iniziando a cambiarmi; mi misi una semplice tuta con una maglia fin troppo grande per me di mio fratello. Andai in salotto distendendomi sul divano. Avevo deciso di non fare niente ma non dipendeva da me, ma dal fatto che non avevo ancora degli amici qui.

Decisi quindi di andare a trovare la signora Horman e il suo gatto con un occhio solo, Oliver. Portai con me il mio inalatore, presi il giacchetto di pelle nero le chiavi ed uscii di casa. Quando chiusi la porta di casa scesi di fretta le scale; il mio appartamento si trovava in mezzo ad altri condomini e mi ci volle ben poco, tre passi, per arrivare a casa della signora Horman. 
La via in cui abitavo era abbastanza tranquilla, davanti a casa mia c'era un fioraio dove il proprietario Cody Day era un grande amico della mia vicina di casa. Accanto ad essa, si trovava il negozio del mitico rocker  Caleb Acosta, forse l'unico che posso considerare mio amico, grazie al suo negozio di cd. E il resto... appartamenti. Piccoli e grandi appartamenti si estendevano per tutto il grande viale.

Sorrisi quando vidi il signor Day che litigava con Caleb per qualche assurdo motivo. «Ti ho detto mille volte che Chuck Berry è uno dei migliori artisti di questo pianeta! È un genio assoluto», sentii dire dal signor Day. 
Raggiunsi con tre passi la casa della signora Horman, bussai.

Quando la porta si aprì mi trovai subito Oliver che cerca di farmi le fusa ma la signora Horman lo allontanò subito. «Oliver non so quante volte ti ho detto che non può avvicinarsi a te», dice lei prendendo il gatto e mettendolo in terrazza. 
Provai un attimo di pena per Oliver, infondo, era solo un gatto e per colpa della mia allergia non poteva stare a casa. Nella sua casa.

«Puoi tenerlo dentro lo sai che porto sempre il mio inalatore», dissi entrando dentro casa sua. 
«Lo so che lo porti sempre dietro, Maggie; ma non me lo permetterei mai se ti succedesse qualcosa sei come una figlia per me lo sai. A proposito, cosa diamine hai fatto ai capelli? Dannazione ragazza erano bellissimi!», sorrisi alle sue parole.

«Avevo bisogno di cambiamenti.»
Mi fece cenno di sedermi sul divano e così feci, ma appena mi sedetti lei si sedette sulla sua poltrona con la fantasia floreale e disse: «ho qualcosa da dirti cara, scommetto che ti piacerà. Gossip», risi alla sua esclamazione.

Era questo che più ho amato di lei: è sempre stata allegra, gentile e così affascinata dai pettegolezzi. 
«Ho sentito che Caleb è uscito con quella bionda sai? Quella che lui la chiama mongolfiera, insomma, tette grosse», aggiunse lei prendendo la sua tazza di tè che aveva preparato prima che io entrassi in casa sua.

«Deve piacergli davvero, allora. Insomma, sono impressionata anche io delle sue mongolfiere», confermai facendola ridere. 
«Me l'ha detto Cody sai? Quando è venuto a casa mia ieri. Abbiamo parlato e cenato ricordando i vecchi tempi»,  racconta alzando il mignolo mentre beve ancora un po' di tè dalla tazza bianca.

«Perché non ti fai avanti, con Cody intendo?», domandai mentre la osservavo, stava riposando la sua tazza in cucina e quando gli feci quella domanda si paralizzò all'istante restando ferma sul posto. Sorrisi capendo che avevo appena fatto jackpot.

«Maggie, sono vedova da venti anni, ho ottanta anni ormai il tempo dell'amore è finito», rimasi un po' triste dalla sua risposta. 
«Mia mamma mi diceva sempre che non c'è mai tempo per l'amore, viene quando deve venire e si capisce che fra di voi c'è qualcosa e non conta l'età», dissi guardandola dritto negli occhi.

«... e poi sono sicura di non piacere a Cody; credo che a lui gli piaccia Juliette, quella rifatta», sorrisi sentendo un pizzico di gelosia nella sua voce. 
«Beh, se non ti fai avanti non lo saprai mai», dissi guardando Oliver che seduto, ci stava osservando dall'esterno.

«Sai forse non dovremmo parlare di me, ma di te. Devi farti degli amici Maggie, non puoi stare sempre chiusa in te stessa o parlare solo con me o con Cody e Caleb. Siamo entrambi vecchi, un giorno moriremo e cosa farai poi?», disse guardandomi dritto negli occhi.

La realtà mi si era appena posata davanti agli occhi. Aveva ragione ma io non sapevo da dove iniziare, come fare. Infondo era vero, non potevo stare sempre chiusa in me stessa e dovevo uscire con persone della mia stessa età, del mio stesso calibro e sicuramente non ce l'avrei mai fatto restando chiusa in casa. 
Ma ero così spaventata delle persone.

«Sai cosa mi è capitato Tabitha, non posso farmi degli amici, non voglio farmi degli amici», dissi posando gli occhi sul pavimento trovandolo tutto ad un tratto interessante.

«Non puoi sempre pensarla in questo modo, sai, le persone possono sorprenderti ma tu non lo saprai mai se non ci proverai», e anche adesso, aveva perfettamente ragione.

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Capitolo 2
*** 02. Tette all'aria e Metallica. ***


«E alla fine hanno scoperto che era incinta, avete capito? Incinta!», esclama la signora Horman facendo ridere il signor Day e Caleb. Sorrisi tornando alla mia postazione di lavoro dietro la cassa. 
«Quindi Harriet, la moglie di Errol è incinta?», chiesi prendendo il cd dei Guns N' Roses e posandolo sullo scaffale dedicato alla musica rock.

«ma quale Harriet e Harriet! Sto parlando della figlia Molly che dopo l'abuso del padre è rimasta incinta, un vero e proprio incesto; come in quella serie televisiva che abbiamo visto insieme ricordi, Caleb? Come si chiamava... Game...», dice lei appoggiandosi allo scaffale.

«Game of trhones, ecco come si chiama», risi immaginando la signora Horman che guarda comportandosi da ragazzina vedendo Game Of Thrones, e in più insieme a Caleb.

«Cody dovresti vederla sai quante belle tette all'aria!», esclama Caleb. Alzai gli occhi al cielo ridendo sotto i baffi.

«Perché guardare delle tette all'aria da uno schermo quando posso vederle dal vivo con Juliette?», aggiunse il signor Day facendoci rimanere tutti a bocca aperta. 
Risi quando vidi Tabitha diventare rossa dalla gelosia; dall'ultima volta ho potuto notare che a lei gli piaceva Cody.

«Quindi state insieme?», chiesi sedendomi sul balcone del negozio facendo dondolare le gambe su e giù. 
Cody mi guardò con un sorrisetto sulle labbra e il viso leggermente imbarazzato. 
«emh... probabile, è solo che... è molto complicato», spiega arricciando il naso.

«Andiamo sembrate una coppia di ragazzini alle prime armi! Cosa vi blocca nello stare insieme?», domanda Caleb mettendosi la pipa in bocca. Caleb è sempre stato molto all'antica e da come ha sistemato il suo negozio si può già dedurre: jukebox sistemati in quasi ogni angoli, giradischi con un valore inestimabile.

«Perché forse mi piace qualcun'altro ma non ne sono sicuro», riaponde Cody mettendosi sulla difensiva. Sorrisi pensando la donna che gli piaceva era proprio Tabitha. 

«Due donne amico, non una, ma due! Che ragazzaccio», rise Caleb sotto i baffi facendo ridere anche me. 
Le nostre risate furono rotte dal suono del campanellino appeso alla porta segno che qualcuno era appena entrato. Guardai il nuovo cliente; per tutta la mattinata non avevamo avuto nessun cliente, neanche una semplice visita. Il ragazzo aveva dei ricci castani ed era molto alto, molto più alto di me e sicuramente aveva la mia età. I suoi pantaloni color nero gli fasciavano le gambe lunghe e magre, la sua felpa nera gli aderiva perfettamente al suo petto mostrando anche un po' di muscoli nelle braccia. La felpa che portava aveva un design che riguardava una donna, Marylin Monroe che fumava una pipa, ed era di colore blu chiaro.

Tabitha mi lancia uno sguardo sussurrando un semplice «Fatti avanti», sospirai non badando a quello che mi aveva detto. Sprofondai sulla poltrona osservando il ragazzo che era appena entrato. Quei tre iniziarono a parlare di qualcosa riguardante alle vecchie macchine d'epoca.

Il ragazzo sembrava disorientato forse quel che stava cercando non lo aveva ancora trovato. Si porta il dito alle labbra guardando attentamente gli scaffali con i cd e si mise una mano sul fianco sinistro. Iniziò ha guardarsi intorno fino a che il suo sguardo non si posò sul mio e quello di Caleb. 
«Emh... scusate ho bisogno di aiuto», disse lui avvicinandosi a noi. Tabitha lanciò uno sguardo a Caleb indicandomi, Caleb capì subito il significato dello sguardo di Tabitha e mi indicò.

«Maggie devo finire di mettere apposto alcune cose, puoi aiutarlo tu?», lo fulminai con lo sguardo appena sentii la sua richiesta. Sbuffai alzandomi e raggiunsi il ragazzo.

«Hai bisogno di aiuto?», chiesi guardandolo dritto negli occhi.

«L'ultimo disco di John Mayer non riesco ha trovarlo, dovrebbe essere in questa sezione», rispose.

«Dovrebbe esserci, vado a controllare nel magazzino», appena mi allontanai da lui vidi quei tre che mi sorridevano soprattutto Tabitha. Entrai nel magazzino quando trovai finalmente il disco che il ragazzo stava cercando. 
Appena entrai nel negozio vidi che stava scambiando qualche frase con Caleb riguardante alla musica.

«È questo quello che stavi cercando?», domandi dandogli il cd. Gli occhi del ragazzo si illuminarono appena gli mostrai il cd, lo prese come se fosse un oggetto prezioso e sorrise. Annui guardando dietro di me; mi voltai notando che la mia dolce anziana amica Tabitha stava facendo segnali di fumo al ragazzo dicendo di farsi avanti. Quei tre erano peggio di un gruppo di ragazzini adolescenziali. Alzai gli occhi al cielo sprofondando nell'imbarazzo quando vidi il ragazzo sorridermi. Non era così che doveva andare; doveva comprare un semplice disco musicale, pagare e infine andarsene come fanno tutti i normali clienti. Tuttavia i miei tre amici lo ritenevano il ragazzo giusto per me e per fare i primi passi.

Andammo alla cassa e lui pagò il suo cd di John Mayer. Il ragazzo mi sorrise quando prese il sacchetto con dentro il disco e mettendo lo scontrino dentro di esso.

«Era carino ammettilo e non mentirmi, so che hai fantasticato sul suo fisico», aggiunge Tabitha facendomi alzare gli occhi al cielo. Sospirai nuovamente, frustrata.

«Devi smetterla. L'ho visto una volta sola, questo non vuol dire che prossimamente e possibilmente sarà il mio futuro marito, Tabitha», aggiunsi mettendomi sulla difensiva.

«Invitami al matrimonio, voglio esserci», commentò Caleb finendo con la pipa e posandola sul cassetto chiudendolo a chiave.

«Non gli hai neanche chiesto il nome o il numero, come farai adesso?», chiese Cody avvicinandosi a Tabitha.

«Quante volte devo dirvelo che non è importante? Non m'importa e non mi interessa e smettetela di ripetermelo», urlai uscendo dal negozio. 
Mi appoggiai sulla macchina degli anni cinquanta senza ruota che si trova fuori dal negozio e respirai l'aria fresca che Toronto portava quella mattina.

Presi un profondo respiro buttando l'aria subito dopo; la fresca aria di Toronto s'intromise fra i miei capelli facendoli svolazzare. Afferrai il mio telefono dalla tasca dei miei pantaloni, controllai se avevo preso le mie cuffie da casa e quando le presi iniziai a sentire la musica per calmarmi un po'. L'energia della voce canora di Suzanne Santo mi fece battere il cuore dandomi quel pizzico di energia e adrenalina che solo la musica rock e blues riusciva ha darmi.

Accarezzai la rondine tatuata sulla mia mano destra e pensai a mio nonno. Mio nonno che da sempre mi ha insegnato il valore della musica; mi ha insegnato a suonare, a cantare, a fare un sacco di cose. Ricordo ancora quando a soli dieci anni per approcciarmi al mondo della musica metal, - senza dirlo a mia madre -, mi portò in prima fila ad un concerto dei Metallica. Ero solo una bambina ma dannazione se mi sono scatenata. Mi sentivo bene, non mi sentivo come una bambina di dieci anni ma mi sentivo come loro. Normale. 
Ricordo ancora quando quei colossi tatuati e pieni di piercing guardavano mio nonno con sguardo fiero: "Sta crescendo bene" disse uno di loro ridendo.

Nel frattempo avevo la loro bandiera fra le mie mani e saltellavo e ridevo al ritmo di un aggressiva melodia. 
I miei pensieri riguardante a quella sera furono interrotti da una voce maschile, dolce e tranquilla.

«Chiedo scusa, credo di aver lasciato il mio telefono nel vostro negozio, lì alla cassa», e quando mi voltai vidi lo stesso ragazzo che era entrato circa venti minuti fa. Dannazione.

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Capitolo 3
*** 03. Stranezze indefinite e l'officina di Darrel ***


«Per la miseria, ci hai fregati!», esclamò la voce del televisore che proiettava uno dei tanti film dove Nicolas Cage era presente. Oggi è finalmente il mio giorno di pausa. Domenica. Quanto amo la domenica. La mattina passata nel proprio letto delle proprie lenzuola preferite morbide, calde. E poi quando ti alzi ti rendi conto della vita brutta che stai passando, in particolar modo di quello che hai fatto il giorno precedente. 
Quando il ragazzo che entrò nel negozio Sabato mattina riprese il suo telefono, il mitico trio di Tabitha, Cody e Caleb non smettevano di fantasticare di una probabile relazione fra me e lui.

Tabitha iniziò a creare una "ship" con le seguenti parole: «no, non sto scherzando. Questa parola la utilizzano i giovani d'oggi, quando una ragazza e un ragazzo sono così belli insieme iniziano ha crearsi questi nomi; che tuttavia, non è altro che una fusione del nome della ragazza e del ragazzo», spiegò Tabitha a Cody e a Caleb.

«E questa dove l'hai sentita? Nel programma 'Stranezze indefinite' sul canale otto?», replicò Caleb ridendo sotto i baffi.

«Esattamente. Quel programma è proprio una forza, sai quante cose si scoprono in un ora e mezza, tu non lo sai. L'ha spiegato il presentatore; quello senza collo e con i baffi all'insù e naso un po' a patata. E poi ha con se accanto quella sottospecie di modella, magra e snella, capelli corvini e occhi da cerbiatta», iniziò a spiegare Tabitha. «Ma questo non è tutto: l'altra volta iniziarono a spiegare quanto i giovani d'oggi siano così fissati con i loro telefoni, noi non li avevamo neanche, all'epoca», aggiunse Tabitha iniziando un dibattito fra antico e moderno.

E poi andai a casa. Stanca e orribile. 
«C'è un'altra via d'uscita... nella stanza del tesoro», disse il protagonista del film che stavo guardando.

«A quanto pare... qualcuno è arrivato prima», continuò ancora. 
Quella sera dove avevo deciso di rimanere chiusa in casa a godermi il divano che ero riuscita finalmente a comprare, qualcuno decise di rovinarmi la serata. Colpi sempre più forti provenivano dalla porta principale facendomi sobbalzare sul posto.

La stanza del soggiorno era buia e solo la luce del televisore illuminava il resto. Inciampai sul tappeto cercando di arrivare alla porta, mi ricomposi e accesi la luce della lampadina.

«La prego, sta diluviando qua fuori ho bisogno di un aiuto! La mia macchina si è fermata, non ho più benzina», urlò la voce dietro la porta. Era una voce maschile, e batteva... batteva sempre più forte alla porta. 
Mi avvicinai ad essa con le gambe che tremano e a rallentatore, aprii la porta.

E come se lo spirito della signora Horman fosse qui presente, il ragazzo che ho visto ieri sera era qui: davanti alla mia porta con i capelli bagnati, vestiti che erano attaccati alla sua pelle rendendo ancora più evidente i muscoli delle braccia. Diluviava e il freddo si sentiva attraverso la pelle. Feci segno al ragazzo di entrare e lui entrò.

Si sistemò la felpa sottile che portava che gli si era attaccata lungo tutto il petto. «Grazie per avermi fatto entrare. Si congela, la fuori; anche in macchina», disse il ragazzo. Rimasi in silenzio, «sei di poche parole, eh?», continuò sistemandosi i vestiti.

«Non ricevo mai visite», confessai spostando il mio sguardo sul pavimento.

«Mi chiamo Shawn, comunque», disse lui guardandomi dritto negli occhi. 
Ho sempre detestato questo contatto. Quando vivevo nel mio vecchio paese non guardavo mai nessuno negli occhi, neanche mia madre. Ogni sguardo, ogni occhiata mi metteva a disagio. E anche in quel momento, lo ero. Eccome se lo ero.

Un coetaneo per la prima volta, era in casa mia. Lo stesso ragazzo che vidi ieri al negozio era qui, come se fosse un segno del destino descritto da Tabitha, Cody e Caleb. Ed era così strano per me parlare con qualcuno che avesse la mia età, o almeno, così lo dimostrava.

«Posso sapere il tuo nome o rimaniamo nell'incognito?», chiese lui.

«Maggie», dissi, «solo Maggie».

«Beh, Maggie, so che può sembrarti strano o troppo evadente; ma mi servirebbero dei vestiti, o una doccia», disse guardandosi attorno fino a che il suo sguardo non si posò sul televisore.

«Quello è il mistero dei templari, è uno dei film preferiti di mia sorella», commentò guardando ancora il televisione. I titoli di coda iniziarono lasciando nella stanza una musica avventurosa.

«Mio nonno, ho alcuni dei suoi vestiti; dovrebbero starti», dissi avviandomi verso la mia camera. Il ragazzo annuì semplicemente osservando il resto del mio piccolo appartamento. 
Entrando in camera mia, feci un profondo respiro. Appoggiai la testa sul legno della porta e andai verso l'armadio che apparteneva alla mia nonna. Afferrai la scatola delle cose che appartenevano ai miei nonni e presi una felpa e dei pantaloni. Tornai da Shawn che appoggiato alla porta principale, si stava morendo le unghie.

Gli porsi i vestiti. «Il bagno è infondo al corridoio a sinistra», aggiunsi sedendomi sul divano. Shawn sorrise e lasciò il soggiorno.

Mi sentivo strana. Avevo il cuore che martellava, batteva fortemente dentro il mio petto come se volesse uscire. In tutta la mia vita non mi ero mai sentita in quel modo, strana.

Il getto della doccia si fermò, lasciandomi vagare con l'immaginazione. La prima volta che un ragazzo era in casa mia, la prima volta che un ragazzo stava usando la mia doccia. Dannazione, avevo bisogno di farmi una vita.

Ragazze della mia età hanno già fatto le loro esperienze; si sono ubriacate, stra fatte, party sulla spiaggia. Sesso sulla spiaggia. Ed io, per colpa del mio passato la mia vita è stata stravolta. 
Non sono mai stata una ragazzina di diciotto anni amante delle band e malata di concerti, dovevo pensare a me stessa. Ed era tutto colpa mia.

«Va tutto bene?», disse il ragazzo che nel frattempo si era cambiato. Appoggiato al muro, mi stava scrutando con attenzione.

«Puoi dormire qui. Te ne andrai domani mattina», risposi freddamente.

«Ok», disse soltanto e andai in camera mia.

La pioggia fuori si sentiva. Il suono del tuono mi procurava dei brividi lungo tutto il corpo. Guardai oltre la finestra, la pioggia cadeva velocemente e le strade erano piene d'acqua da quanto diluviava. Un lampo mi fece sobbalzare e indietreggiai fino ad arrivare sul mio letto. E rimasi sveglia fino alle tre del mattino e poi finalmente, mi addormentai.

***

Quando mi svegliai il mattino dopo, avevo la testa che girava. Mi fermai un attimo quando iniziai a vedere tutto nero, probabilmente, mi ero alzata troppo velocemente. 
Andando in soggiorno vidi che il ragazzo era ancora lì. Stava dormendo con le braccia incrociate sul petto e le sue gambe lunghe che arrivavano oltre al piccolo divano.

Si strofinò il naso con la mano facendomi, (in qualche modo), sorridere. Andai in cucina e controllai l'ora sull'orologio appeso al muro. Erano appena le nove del mattino e quella mattina dovevo andare all'università. Preparai la colazione.

Qualcuno tossì quando misi accesi il tostapane, saltai sul posto. Mi voltai e vidi il ragazzo che, appoggiato al muro, mi stava guardando. 
«Buongiorno», disse soltanto entrando in cucina.

«Sto preparando i toast», dissi freddamente, «meglio per te se ti muovi, non ho tutto il giorno. Devo andare all'università e quando ho finito, tu uscirai da qui.»

«Perché sei così fredda?», chiese.

«Non sono affari tuoi. Ti ho fatto entrare in casa mia, le mie regole. Vedi di rispettarle», dissi tirando fuori i toast dal tostapane e li misi sul piatto.

«Conosci un officina qui vicino?», chiese.

«Di solito viaggio in autobus o in treno, non conosco molte officine qui. Devi chiedere a Cody, il fioraio, lui saprà aiutarti», risposi.

Qualche minuto dopo, finimmo entrambi di fare colazione. Shawn si cambiò lasciandomi i vestiti di mio nonno e poi siamo usciti da casa, insieme. La prima cosa che vidi era l'espressione compiaciuta di Cody, un vero e proprio sorriso a trentadue denti e chi sà cosa diamine stava pensando nella sua testa.

«Nottata lunga, ragazzi?», chiese con un sorriso stampato in faccia.

«Ho bisogno di un'aiuto. La mia macchina, si è fermata ieri sera a pochi isolati da qui. Avrei bisogno di un'officina, o qualcuno che potesse aiutarmi», disse Shawn.

«L'officina del mio amico Darrel è proprio qua vicino. Posso accompagnarti, ma devo chiudere il negozio prima», rispose Cody.

Guardai entrambi, uno dopo l'altro. «D'accordo. Allora posso lasciarvi. Scusa Cody, ma ho l'università oggi», Cody annuì e con Shawn accanto, andarono all'officina più vicina.

Non conoscevo molto bene Darrel; so solo che lui e il mio amico Cody andavano a scuola insieme, rimorchiavano ragazze e se la spassavano con le loro macchine d'epoca. Cody, per quanto timido può dimostrarsi, era davvero un ruba cuori e con Darrel facevano le stragi. 
Shawn e Cody mi fanno un cenno di saluto. Quando loro si allontanarono, vidi Cody che metteva la mano sulla spalla dal ragazzo, molto probabilmente gli stava raccontando qualcosa.

Da lontano, prima di avviarmi la metro; vidi la signora Horman che, con un sorrisetto sulle labbra, osservava il tutto divertita. 
Alzai gli occhi al cielo. 
Come ho fatto a finire in questa situazione?, pensai.

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Capitolo 4
*** 04. Carrie e Preghiere ***


«Oggi esamineremo Carrie di Stephen King», disse il professore Compton, «quale è secondo voi, la parte più schifosa del libro?», chiese.

In aula ci fu il silenzio più totale. Neanche un semplice brusio riempiva l'aria. Fino a quando, non alzai la mano. Il professore mi fece cenno di dire parola. 
«La parte dove uccidono il maiale. Oppure quando durante la festa del ballo, il sangue di maiale che i ragazzi avevano ucciso cade addosso a Carrie», spiegai.

Avevo letto quel libro non so quante volte nella mia vita. In un modo alquanto strano, mi sentivo come Carrie. Era sola, nessun amico e tutti la prendevano in giro. Sue sembrava l'unica ha comprenderla, a cercare di aiutarla. Così come il ragazzo di Sue che, per far felice la sua ragazza che era stata bandita dal ballo della scuola, porta Carrie alla festa. Sue voleva renderla — almeno per una volta — speciale. Speciale davvero. Ma poi succede la catastrofe, e la piccola Carrie, sempre indifesa, mostra la sua parte più crudele. Quella che ha sempre nascosto. 

 

 

È stata zitta per troppi anni, ha sopportato per troppi anni; e non ha più retto. Ed è crollata.

«Sono d'accordo. La parte dove uccidono il maiale è brutta, ma io penso che quella più schifosa è l'inizio. Carrie viene a contatto con le sue prime mestruazioni; sua madre, altamente religiosa, aveva detto che chi ha il sangue è peccato e l'ha rinchiusa nello sgabuzzino per sei lunghe ore. Tuttavia, anche la parte dove le ragazze gli dicono "Tamponati", o, "TAMPONALA!", è crudele. Infondo, sua madre non gli ha mai detto che tutte le donne hanno le mestruazioni. Per lei avere le mestruazioni è un peccato. Un peccato che Eva aveva commesso, e nel libro lo spiega», disse un ragazzo poco dietro di me.

Mi voltai. Il ragazzo aveva capelli neri e corti, gambe lunghe e vestito completamente in nero. Conoscevo solo di vista quel ragazzo. Wallace Busch, aveva la mia stessa età, suo padre era un insegnante di questa università mentre sua madre era un avvocato.

«Effettivamente la parte iniziale è quella più fondamentale, ma anche quella che ti fa capire. Carrie infondo è una normale adolescente, esclusa e con la voglia sfrenata di sentirsi importante. Al centro dell'attenzione. King in questo libro non ha solo voluto mettere l'argomento del bullismo, che ai giorni d'oggi tante persone, purtroppo, ne soffrono; ma mette anche in discussione la telecinesi. Voi cosa pensate di questo?», chiese il professore guardando in particolare me e Wallace.

«Seguo Stephen King ormai da quattro anni, da quando lessi il primo libro: It. Il genere di Stephen è sull'horror e un po' di fantascienza; credo quindi che sia normale che lui abbia aggiunto la telecinesi. È un suo marchio», spiega Wallace.

«Sono d'accordo. Ho letto solo cinque libri suoi. In nessuno di questi libri, lui non ha mai scritto un libro senza che ci sia un poco di fantascienza, o horror», aggiunsi cercando di partecipare alla lezione.

Solitamente, sono sempre stata una ragazza che sta fra le sue, soprattutto a lezione. Ma quella volta, quando il professore iniziò a parlare di uno dei miei scrittori preferiti, non potevo non intervenire. 
Era come una sorta di richiamo. E finalmente, per la prima volta, (o la seconda), parlai. Parlai forte e chiaro. Parlai con sicurezza e non con una voce tremante. E mi sentivo sicura; finalmente, mi sentivo sicura di me stessa. E non capivo da che cosa provenisse tutto questo; e mi spaventava, mi spaventava a morte. Profilo basso. Dovevo solo tenere il profilo basso. Niente sbagli. Niente cambiamenti.

    ***

Stavo camminando per i corridoi della mia università. Erano già le sette di sera e le mie lezioni purtroppo, erano sia la mattina che il pomeriggio. E questo era devastante. Dannatamente devastante. 
In lontananza, vicino alla porta d'entrata, vidi una persona a me familiare. Mio padre. Non lo vedevo da tanti anni, e forse, si era dimenticato persino di me. 
Aveva lasciato me e mia madre da sole. E lei, povera donna di cinquanta anni, era diventata come la madre della povera Carrie. Altamente religiosa. Ha iniziato a credere in Dio, nella speranza. Ha iniziato ad avere fede, a credere nella fede. Ed io povera bambina di soli dodici anni, non ho mai capito. E mi sentivo così stupida, così ingenua.

«Avevamo un patto Signor Matthews. Non l'hai rispettato e sai quali erano le conseguenze, Randolph. E non dire che non te lo ricordi, non farlo. Non ci pensare neanche. Voglio i miei soldi; vedi di restituirli,» sento urlare dal mio vecchio padre.

Il suo aspetto corpulento un po' grassottello, e i suoi capelli grigi e i baffi lo rendevano così buffo e poco credibile. Ma infondo lo è sempre stato, poco credibile. Neanche un po'. Neanche quando mi portava delle bambole nuove e diceva che le aveva comprate al negozio di giocattoli. Stronzate, pensai. Erano delle enormi stronzate.

Era un drogato e comprava le mie bambole con i soldi che faceva spacciando. Spacciando e sparando. Era un criminale, ma era riuscito ha camuffarsi, a rimanere nell'incognito. Più volte volevo dire la verità alla polizia, e più volte ci ho provato. Non ci sono mai riuscita. Neanche una dannata volta.

Il suo sguardo, curioso, si spostò sul mio. Deglutì quando mi vide li, appoggiata al muro che lo squadravo da capo a piedi. 
«Maggie», disse. Mi ero persino dimenticata il suono possente e profondo della sua voce, «cosa ci fai qui?», neanche un ciao, neanche un "felice di vederti".

«Felice di vederti papà. Se fossi più presente sapresti che io studio qui, scrittura creativa», dissi freddamente.

«Non ti vedo da tanto tempo, come sta la mamma?», mi chiese. Il signor Matthews nel frattempo, stava cercando un metodo per scappare dallo sguardo di mio padre. Era lì, che si guardava intorno in cerca di una via di fuga. E in quel momento, mi arrabbiai.

Sono passati quasi dieci anni, o più, e adesso, solo adesso vuole sapere come sta mia madre. 
«Felice e con Dio accanto», risposi vagamente.

«Non capisco», disse soltanto.

«Vive in chiesa ormai. Sai, sta' lì almeno tre ore al giorno; prega la Madonna, prega il Signore. Prega, sempre. A tutte le ore. Prega anche per te che sei sparito, dal niente. Pensa che tu sia ormai morto», spiegai guardandolo dritto negli occhi.

«Mi dispiace, ma sono vivo. Sono qui»

«Lo vedo. Non mi interessa. Per colpa tua non è neanche più una donna. Per colpa tua che te ne sei andato non parla, non mangia quasi mai e, come ho detto prima: prega», lo intimedii.

«Buon per lei, se ha fede. Ma io, ho le mie cose da fare, da sbrigare. C'è un motivo per cui me ne sono andato, e non lo dirò; non adesso, almeno. Quindi, smettila di farmi sentire in colpa, Maggie», rispose.

«Dovresti sentirti in colpa, papà! Non so neanche perché ti chiamo ancora così, Clinton», dissi chiamandolo per nome. E me ne andai, lasciandolo così: fermo sul suo posto.

E con la rabbia in corpo, aprii le porte dell'università e finalmente, uscii.

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Capitolo 5
*** 05. Lilo e Stitch e non mi vuoi più qui ***


Sono passati due giorni da quando ho visto mio padre. Due giorni dove non ho neanche visto Tabitha, Cody e Caleb. Due giorni inutili dove non ho fatto altro che stare sul divano a guardare cartoni animati. Avevo appena messo Lilo e Stitch e nel mentre, stavo sgranocchiando qualche dolce preso dalla dispensa. 
Distesa sul letto, con la ciotola piena di dolci e con lo sguardo fisso sulla televisione, mi sentivo come un animale spiaggiato. Una annualità. Un qualcosa di non definito.

«Ce l'ha un fratello? Una nonna al cui vuole bene?», disse l'omino verde con un occhio solo. Risi pensando che io, ai giorni d'oggi, non avevo né una madre né un fratello. Non qui almeno.
Risi come una bambina prima di posare la ciotola con dentro dolci e caramelle sul tavolo. Infondo, sotto sotto, lo sono ancora.

Qualcuno bussò alla porta di casa mia. Mi guardai intorno e, con lo sguardo fisso sul pavimento, sbuffai. Appoggiai i piedi a terra, con la forza nelle braccia mi alzai fino ad aggiungere labporta. Il mio appartamento era molto piccolo ed arrivai alla porta con tre lunghi passi. Nel frattempo nella televisione, Lilo stava insegnando a Stitch che lui deve dormire nella sua cuccia e non nel letto grande. Sorrisi guardando quella scena prima di aprire la porta.

Davanti alla porta di casa, la signora Horman con un vestito lungo verde con la fantasia floreale e un cappello che farebbe invidia alla regina Elisabetta, stava attraversando l'entrata senza chiedermi neanche il permesso per entrare. 
«Dobbiamo parlare tante cose, io e te,» disse prendendosi la ciotola con dentro i dolci e mettendosi seduta sul divano.

«Ciao anche a te Tabitha, felice di vederti. E si, puoi entrare. Non ho da dire niente, voglio solo guardare il mio cartone preferito,» risposi.

«Questa mattina ti ho vista fuori da Cody con il ragazzo, quello del cd di John Mayer. Lo sapevo, lo sapevo! Hai fatto colpo come speravo. Le mie preghiere sono servite a qualcosa!», disse freneticamente.

«Prima di tutto: non c'è assolutamente niente. Secondo, la sua auto si è bloccata dato che, fuori stava diluviando e c'erano persino i fulmini, mi ha chiesto del semplice riparo. So che può sembrarti strano perché secondo te, sono una senza sentimenti, ma posso essere gentile... a volte,» dico non credendo alle mie stesse parole. Solo alcune determinate volte riesco ad essere gentile, persino dolce come ho fatto con quel ragazzo aiutandolo. Altre volte, sono un vero disastro.

«Non ho mai pensato che tu sia una stronza, tesoro. Sei acida, lo sanno tutti. Ma da quel che ho visto dalla finestra, questa mattina... non so, mi sei sembrata diversa,» rispose alle mie accuse.

«Hai visto male allora. Troppo male, Tabitha. Dovete smetterla voi tre. Sempre a cercarmi un ragazzo, o un amico. Se non mi volete basta dirlo, non dovete trovarmi qualcun'altro così io vado via. Ed io, di questa storia mi sono stancata. Non posso fidarmi e lo sai. Soprattutto, non posso fidarmi di un ragazzo, di un coetaneo», risposi irritata.

«Siamo solo preoccupati per te, lo sai. Hai ventitré anni. Sei bella, intelligente, non hai niente che non va se non il tuo passato. Devi andare avanti. Bere, ubriacarti. Farti dei veri amici», fece una pausa. «Non ci saremo per sempre, lo sai», aggiunse facendomi rabbrividire.

«Perciò tu non mi vuoi più qui?», dissi con la voce tremante.

«Non ho detto questo!», urla. In tutta la mia vita, non avevo mai sentito Tabitha urlare; neanche quando Oliver, il suo gatto, gli rompeva mezza casa facendola a brandelli.

«Tabitha, esci», dissi con tono severo.

«Maggie...», sospira.

«Ho detto che devi uscire. Non farmelo ripetete due volte», aggiunsi. 
E così fece. Uscì da casa mia con lo sguardo rivolto verso il basso e il mio cuore che andava all'impazzata, come se avessi corso una maratona.

Sentii la porta chiudersi; mi accasciai a terra, mani incrociate sulle ginocchia, ginocchia al petto e sguardo sul vuoto. Non sapevo più cosa fare o a cosa pensare. Era tutto così strano e nuovo per me. 
Ho provato in tutti i modi a cambiare me stessa. Ho provato di tutto. Ci sono alcune cose però, che non funzionano e sono tante cose.

Quella sera. Quella sera decisi di fare qualcosa che non mi sarei mai immaginata di fare. Ho ventitré anni, devo crescere. Devo andarmene. E così feci. Presi l'unico vestito decente che avevo: una giacca in pelle e una camicia bianca e dei pantaloni neri un po' strappati. E uscii. Uscii di casa, pronta a vivere un'esperienza che non avevo mai fatto. Mai provato.

Appena varcata la porta di casa, guardai nella finestra della casa di Tabitha. Le luci erano accese e si vedeva una piccola ombra che camminava nella cucina. 
Cercai di sistemare la borsa a tracolla che portavo e, con lunghi passi, andai verso il Tesha. 
Il Tesha era un luogo comune fra tutti i ragazzi. Sorpattutto universitari. Un luogo comune per gente normale, ma non per me.

***

Quando arrivai davanti al Tesha, alcuni ragazzi si trovavano fuori accanto alla porta d'entrata e parlavano normalmente; alcune volte ridevano, delle ragazze si asciugavano gli occhi dalle lacrime per le troppe risate. Ed io, per un attimo, avrei voluto sentirmi così. Così... felice. 
Le ragazze portavano dei vestiti abbastanza corti, alcuni arrivavano appena al ginocchio. Altre invece, portavano dei semplici pantaloni con un poco di strappo.

Quando li sorpassai, ricevetti alcune occhiate da alcune delle ragazze che si trovavano davanti all'entrata del Tesha. Entrai. Tanti ragazzi della mia età stavano ballando a ritmo di musica, alcuni erano scoordinati; altri invece, erano seduti sui divanetti con i loro amici e bevevano. Bevevano tutti. Le ragazze ballavano in modo sensuale per attirare l'attenzione, altre, stavano ferme sul posto e ballavano appena. I ragazzi le guardavano, come se fossero delle dee. Dei ragazzi avevano le mani posate sulla vita delle ragazze. Ballavano, bevevano come dei normali ragazzi. Io mi sentivo così estranea in quel posto. L'ho sempre evitato come se fosse la peste nera, come se fosse un peccato. E lo so, lo so, è strano e stupido. 
Andai al balcone dove vendono da bere e mi sedetti su uno degli sgabelli. Il barista che al momento stava offrendo da bere mostrando le sue abilità, posò il suo sguardo sul mio.

«Cosa desideri?», chiese il barman.

«Acqua. Semplice acqua», aggiunsi.

Il ragazzo, che probabilmente ha la mia età, mi lanciò uno sguardo stranito, come se avessi detto qualcosa di strano, di anomalo. Tuttavia, mi porse comunque un bicchiere d'acqua. 
Lo presi facendo scorrere il liquido fresco lungo la mia gola. Degluitii.

«Sul serio vuoi solo acqua? Un po' di tequila, insomma, alcolici», chiese il barista. Negai.

«Non bevo», dissi soltanto.

«E allora cosa ci fai qui?», chiese di nuovo.

«Non sono affari tuoi», risposi acida.

Presi un'altro bicchieri e mi immischiai fra la folla che al momento stava danzando. La musica rimbombava in tutta la stanza, facendo tremare i muri della discoteca. Il dj che si trovava dietro la console alzava le mani a tempo per incitare la folla a ballare ancora di più. 
E poi lo vidi. Lo stesso ragazzo del cd di John Mayer. Lo stesso ragazzo che è stato a casa mia e ha dormito per la prima volta nel mio divano.

Era lì dietro a tutta quella gente; appoggiato al muro che parlava con un suo amico. Il ragazzo aveva dei capelli castani e lunghi che gli arrivavano fino alle larghe spalle, era vestito completamente in nero e con degli stivaletti maschili con un leggero tacco. Shawn. Ricordavo ancora il suo nome. A differenza del suo amico, Shawn portava una camicia rossa che gli stava davvero bene, dei pantaloni neri e, come il suo amico, degli stivaletti con un po' di tacco. Stavano parlando animatamente, qualche volta gesticolavano e guardavano le ragazze. 
Mi sedetti su una delle poltroncine situate al lato ovest della discoteca. Il mio sguardo era fisso su di lui; lo guardavo ridere e sorridere. Aveva le braccia incrociate al petto e lo sguardo si posò su una delle tante ragazze che ballavano fino a quando, non incontrò il mio.

Per svariati secondi siamo rimasti così: a guardarci l'un l'altro. Decisi di prendere le mie cose e andarmene. Quel contatto visivo,- seppur durato poco -, era troppo per me. Troppo da gestire. E così me ne andai. 
Camminai più veloce che potevo senza fregarmene degli sguardi degli altri.

Il mio cuore batteva all'impazzata e non sapevo per quale assurdo motivo. Sentii sei passi dietro di me, non avevo intenzione di voltarmi fino a quando non sentii la sua voce
«Maggie! Maggie fermati», disse Shawn urlando.

Mi fermai sul posto e mi voltai. Il suo petto si alzava e abbassava mentre cercava di calmare il suo respiro. 
«Grazie al cielo», fece una pausa. «Non riuscivo più a starti dietro. L'altra volta non mi hai dato neanche il tempo per ringraziarti per avermi ospitato», disse con il fiatone.

Sorrisi. «Non importa, davvero.»

«Perché sei scappata? Potevamo prendere una birra insieme», disse.

«Grazie ma io... non bevo e poi quel posto non è per me», risposi.

«Ti va di fare una passeggiata?», chiese. Il mio cuore si fermò per un attimo e mi dimenticai persino di respirare. Non sapevo come rispondere, se avessi accettato sicuramente avremmo parlato e io mi sarei affezionata a lui troppo velocemente. Non volevo questo. Ma sapevo che, se non accettavo, Tabitha me lo avrebbe rinfacciato fino alla morte.

Presi un profondo respiro. «Si», feci una pausa, «andiamo a fare questa passeggiata». 

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Capitolo 6
*** 06. Passeggiate tranquille e tutto questo finirà ***


Erano le undici meno un quarto ed io ero ancora fuori con Shawn. Le nostre spalle si sfioravano e lentamente ed in silenzio camminavamo l'uno accanto all'altra. Era così strana quella sensazione e Dio mi perdoni, non sapevo cosa fare, come comportarmi quando avevo lui attorno. Ed è la terza volta che succede. Tutte queste volte che l'ho avuto vicino, ho provato questa fastidiosa sensazione di nervosismo, di agitazione. 
Ero così dannatamente nervosa.

«Tutto bene?», chiese il ragazzo al mio fianco.

«Tutto bene», risposi guardando davanti a me.

«Che ne dici di conoscerci meglio?», fece lui. «Una domanda a testa. Parti tu», aggiunse.

«Non credo che sia il caso», risposi seccamente.

«Oh andiamo. C'è pur sempre qualcosa che vuoi raccontare, che vuoi dire; non puoi essere seria tutto il tempo. Le poche volte che ci siamo visti non hai parlato, solo farfugliato», fece una pausa. «Solo un: "Per stasera rimani ma domani te ne andrai". Voglio conoscerti».

Mi fermai sul mio posto, «La mia vita non è interessante, e non ho niente da raccontare», spiegai. 

Shawn ride. Si mise le braccia incrociate al petto e replicò: «non può essere. Almeno dirmi: il tuo compleanno, il tuo colore preferito. Qualunque cosa che parli di te; anche il tuo animale preferito. Qualsiasi cosa», supplica.

«Sono nata a novembre in un ascensore di un hotel a Santa Monica. Il mio colore preferito è il solito cliché nero, il mio animale preferito è l'alpaca e vorrei tanto che sputasse a qualcuno in questo momento», risposi facendo ridere il ragazzo accanto a me.

«Vedi? Non era così difficile», disse.

Sbuffai. «Per te, ma non per me», spiegai.

«Tocca a te. Fammi qualche domanda», disse guardandomi.

Pensai. Poteva essere la richiesta più facile, più semplice del mondo; ma passarono ben venti minuti dopo che Shawn me lo aveva chiesto. Ed io ero ancora lì a pensare. Shawn nel frattempo stava guardando il laghetto del piccolo parco in cui ci trovavamo. 
Mi fermai un attimo ha guardarlo. Notai che aveva alcuni tatuaggi suk braccio destro. Lì contai. Erano tre, da quel che potevo vedere.

«Sono belli», dissi. «I tatuaggi, intendo.»

Shawn osserva il suo braccio, facendolo muovere. Si spostò in alto la manica della maglietta fine che portava, mostrando un'altro messaggio, questa volta colorato.

«Ne ho quattro su questo braccio in realtà. Anzi, cinque se aggiungi l'otto. E uno, sulla mano sinistra fra due dita», spiega mostrando l'elefante.

Li osservai meglio. «Posso sapere i significati?», chiesi timida.

«Quello sulla mano, la rondine; è dedicato alla mia famiglia, alla voglia di stare a casa, di ritornare a casa. Quello con la chitarra ha diversi significati: come puoi vedere, qua c'è un lago. Poi, più in sù, ci sono delle onde sonore ovvero le voci della mia famiglia che mi dicono: "ti voglio bene". Infine, qua c'è la CN Tower. La puoi vedere tu stessa, guarda in alto a sinistra», spiega.

E lo feci. Guardai in alto a sinistra. La punta della CN Tower si vedeva da qui, in tutta la sua bellezza e maestosità. Ritornai su Shawn.

«Questo invece è molto particolare, e personale. Non mi sento di spiegarlo. L'elefante invece l'ho fatto insieme a mia madre. L'otto invece... ero ubriaco», risi alla sua ultima esclamazione.

Adoravo i tatuaggi fatti da ubriachi. Una volta, per un pomeriggio intero, grazie ad internet, passai un'ora intera a cercarli. Un ragazzo di soli diciassette anni da ubriaco, si tatuò Putin che cavalcava un pony sopra un arcobaleno con tante stelle attorno.

«E tu?», mi guardò. «Hai dei tatuaggi nascosti da farmi vedere?», chiese.

Negai con la testa. «Ho paura dell'ago. Non riuscirei mai ha farmi un tatuaggio», confessai.

«Fra una settimana ho un appuntamento con un tatuatore, verrai con me», sorrise.

«Non puoi costringermi», dissi nascondendo un sorriso che nel frattempo si era creato pian piano.

«Oh si, lo sto facendo. Prima o poi tutti superano le proprie paure», esordisce.

«Sentiamo signor, mi faccio gli affari degli altri: tu di cosa hai paura?», chiesi.

Ci fu un minuto di silenzio. Poi, scoppiò a ridere. «Fidati, è meglio che tu non lo sappia.»

Corrugai la fronte. «Perché? Hai ucciso qualcuno? Ti prego dimmi di no.»

Sorrise. «Diciamo che, non è una paura comune», fece una breve pausa. «Pomodori. Ho paura dei pomodori. Insomma, non è che ho paura; è che... mi fanno senso, mi fanno schifo», disse iniziando a parlare ha raffica. 
Scoppiai a ridere. Molte persone hanno paura dei ladri, squali, dei cani grandi, dei pipistrelli. Lui, ha paura dei pomodori. «Hai ragione, è strano», aggiunsi.

«Era meglio se stavo zitto», si impietosisce.

«Ok. Te ne dico una io. Anzi, te ne dirò due: ho paura degli squali e delle persone troppo alte. Tipo te», dissi indicandolo. Ricordo che lo feci ridere, quella sera.

Ridemmo entrambi, insieme. Ed era così magico, così genuino. Ricordo la freschezza di quella sera, il vento gelido ma piacevole che ti solleticava la pelle facendoti venire dei piccoli brividi. I peli che si alzavano creando il fenomeno della "pelle d'oca". La notte con quelle poche stelle che ha reso quella serata indimenticabile.

Le luci della città rendevano l'atmosfera romantica. Fottutamente romantica. E mi piaceva, dannazione se mi piaceva. E trovavo tutto così strano. Tuttavia, tornai al mondo reale quando mi accorsi che Shawn mi stava parlando.

«C'è qualcosa che non va?», chiese. «Stai tremando», aggiunse.

«Sto bene», dissi. «È solo che... vedere Toronto di notte mi fa strano», confessai.

«In che senso? Non hai mai visto Toronto di notte?», chiese sorridendo sotto i baffi.

Non me la presi. Nonostante io vivo qui da quasi un anno, non sono mai uscita la sera. Non ho ancora mai esplorato la città a pieno. Sono sempre stata in casa, da sola o con Tabitha e gli altri. Sono sempre stata con loro e mai con i miei coetanei. Per questo lo lasciato ridere e non me la sono presa.

«No, neanche un po'. Sono sempre stata in casa», confessai di nuovo. Il sorriso di Shawn si spense guardandomi poi, serio.

«E con questo cosa vorresti dire?», chiese cercando di trovare una soluzione alla mia affermazione.

«Che, in pratica, il mondo esterno non mi piace», confessai per la terza volta, quella sera. «Le persone in particolare», aggiunsi.

«È strano. Fottutamente strano», commentò.

Annuii. «Lo so», dissi. «È come se fossi allergica, mettiamolo per esagerazione. Università, casa, il negozio di cd e poi casa. È una rarità che io questa sera stasera sia uscita», spiegai.

«E perché l'hai fatto? Se detesti così tanto il mondo esterno?», chiese curioso.

«Volevo dimostrare qualcosa. Sai, all'anziana. Quella con i tanti capelli ricci e grigi ed occhiali e stile anni settanta con vestiti lunghi», spiegai. «Una sottospecie di sfida».

Il ragazzo rise. «Dannazione se è strano. In tutta la mia vita non ho mai incontrato nessuno come te, e ne ho incontrate tante, di persone», disse.

Lo interruppi, «Non mi piace essere presa in giro, Shawn. Ho fatto questa passeggiata con te per curiosità; per vedere come si comportano le persone normali. Come si comportano i miei coetanei, come si comportano le ragazze ad uscire con un ragazzo», spiegai. «Voglio che tu sappia una cosa: quando tornerò a casa, tutto questo finirà. Non sperare di rivedermi ancora», aggiunsi iniziando a camminare verso la strada di casa.

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