Timeless

di Ily Briarroot
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Salvation ***
Capitolo 2: *** Stranger ***



Capitolo 1
*** Salvation ***


Timeless
Salvation


Il tempo trascorreva troppo in fretta, ma anche in modo tremendamente lento. In quell'ambiente quasi fuori dal mondo, immacolato, circondato dalle pareti bianche e l'atmosfera sterile, ogni cosa sembrava immutabile. Il respiro mozzato nei polmoni, il lieve tremore delle mani nascoste in tasca. Lo sguardo basso, per evitare di far trasparire l'ansia che gli attanagliava il cuore. Non riusciva a capire, né a essere razionale.
Lui, che faceva della logica lo strumento più importante della vita e che gli aveva sempre consentito di mantenere il sangue freddo, continuava a riflettere senza giungere ad alcuna conclusione che potesse portargli alla mente, nel dettaglio, quel ricordo. 
Le aveva risposto male, quella mattina. Forse troppo. Le familiari frecciatine che si scambiavano, alle quali entrambi rispondevano solitamente divertiti. Nulla di diverso. 
La sua voce malinconica e determinata lo aveva preso in giro, quando lui le aveva chiesto un parere su un caso. Lei si preoccupava, era scontato. E glielo faceva capire a quel modo, forse un po' brusco, ma la conosceva ed era consapevole della maschera che utilizzava per non far trasparire l'agitazione per lui, per il timore che si cacciasse nei guai. 
«
Cosa c'è, Shinichi? Se stai a casa per una volta, anziché andare in giro solo per stare accanto alla signorina dell'agenzia investigativa, magari risparmi la vita a qualcuno» gli rispose sarcastica, mentre iniziava le sue ricerche. Ma quella giornata era cominciata male, preso dal nervosismo innescato dalla solita pista sbagliata quando aveva creduto di essere a buon punto nel rintracciare l'Organizzazione, e anche adesso che era chiuso in quell'ospedale ad attendere notizie quella frase che gli era uscita involontariamente dalle labbra tornava prepotentemente nella sua testa. 
«Ti ho solo chiesto di farmi questa ricerca e non di sentenziare sulla mia vita». 
Già, l'aveva rilegata a una semplice aiutante da contattare quando aveva bisogno, per un indagine o per un antidoto. Poi era successo tutto troppo in fretta, una volta che ebbe riattaccato il telefono. Ai lo aveva raggiunto quasi un'ora dopo, nello stesso momento in cui, in quel maledetto edificio a vetrate presso cui era stato chiamato Kogoro per una consulenza, era riuscito a risolvere il caso. Il tempo di un istante. 
«Ho trovato quello che cercavi» gli disse appena, lo sguardo duro. Ricordava lo stupore per averla vista lì, nonostante la risposta secca di poco prima. Le rivolse appena un sorriso, a disagio, quando vide il colpevole dell'omicidio con uno strano oggetto in mano. Il sorriso sghembo, lo sguardo spietato. Il trentenne lo premette con le dita e qualcosa esplose improvvisamente, creando un boato tremendo mentre pezzi di vetro e di intonaco cadevano al suolo. 
Di colpo, il caos generale. La massa che spingeva, correndo verso le uscite di sicurezza, accalcandosi sulle scale e nei corridoi alla ricerca disperata di una qualsiasi via di fuga. Le travi che si staccavano dal soffitto, le macerie e la polvere che finivano a terra. Una volta sollevato lo sguardo, si era reso conto dei calcinacci che puntavano dritti contro di lui, staccandosi velocemente dall'alto. Non aveva pensato, in quel momento. Aveva percepito appena la voce di Ran che urlava disperata il suo nome, prima di chiudere gli occhi in attesa di un colpo che non arrivò. Aveva sentito un corpo minuto spingerlo via ed era rotolato a terra, battendo i gomiti sul pavimento pieno di polvere. 
Si era sollevato da terra, la vista sfocata a causa del pulviscolo negli occhi e l'aveva vista allora. Distesa sul pavimento, sotto le macerie che avrebbero dovuto colpire lui. Era scattato nella sua direzione senza pensare al resto, sentendo quasi indistintamente le voci di Ran e Kogoro nelle orecchie, al di fuori del suo campo visivo. I capelli castani le ricadevano sul viso, gli occhi chiusi. I vestiti impolverati e una chiazza di sangue sulla tempia. Conan aveva sfiorato appena la ferita che le si allargava sulla tempia, sussultando. Dopodiché le aveva preso il polso, sospirando di sollievo nel constatare la presenza, seppur molto lieve, del battito cardiaco. 
Aveva appoggiato le mani sulle sue spalle, scuotendola. L'aveva chiamata, senza ricevere alcuna risposta. Poi rivide la scena al rallentatore; Ran che correva verso di lui con i paramedici, mentre Ai veniva sollevata e posta su una barella. Si era lasciato trascinare in auto, senza reagire, senza fare nulla. 
E adesso si trovava fuori da quella stanza, con un dottor Agasa affannato che cercava di respirare regolarmente.
Conan spostò lo sguardo su Kogoro, in piedi contro la porta, e Ran, seduta con lo sguardo basso. Respirò a fondo, cercando di trattenere dentro sé la calma che l'aveva sempre contraddistinto. La nuova sensazione che lo stava invadendo da quando era riuscito a razionalizzare il tutto, era strana. Era diversa, un'emozione che aveva provato poche volte nella vita e che era in grado di lasciarlo con le spalle al muro, annientando ogni suo schema o ideale, ogni traccia di tranquillità. Persino gli aforismi di Holmes sull'importanza della calma e della lucidità per un detective, ora sembravano lontani, distanti. Persi. Era un qualcosa che lo stava avvolgendo, consolidandosi man mano che il tempo passava. 
No, pensò, non poteva lasciare che le accadesse qualcosa. Non per colpa sua, non in quella situazione. In seguito capì cosa fosse, quel fastidio all'altezza dello stomaco. Era paura. 
La stessa che lo spingeva a correre da lei, quando qualcosa non andava, e ad assicurarsi che Ai fosse sempre al sicuro. Si sentiva impotente, dietro a quella porta, in attesa di una notizia che non arrivava. 
Era completamente perso nei suoi pensieri, quando un uomo con il camice bianco varcò la soglia, avvicinandosi a loro. Sollevarono tutti lo sguardo di scatto e Agasa fu il primo ad andargli in contro, visibilmente irrequieto. 
«La bambina è stabile e completamente fuori pericolo. Tuttavia non ha ancora ripreso conoscenza, quindi dobbiamo aspettare che si svegli per poter effettuare degli accertamenti a causa della ferita alla testa che ha riportato. Dobbiamo escludere eventuali traumi» spiegò il medico, il tono calmo di chi ha tanta esperienza alle spalle. Fu Ran a parlare dopo qualche attimo di silenzio. 
«Certo, grazie. Possiamo vederla?». 
L'uomo annuì, facendo loro strada nell'ambulatorio. Ai aveva ancora gli occhi chiusi, ma l'espressione del viso meno tesa. Conan osservò le bende bianche attorno alla testa, stringendo i pugni. Di nuovo quella frase tornò a fare male. 

Ti ho solo chiesto di farmi questa ricerca e non di sentenziare sulla mia vita

Doveva svegliarsi e guardarlo, doveva farlo. Non aveva avuto il tempo neanche di chiederle scusa. Era arrivata lì e basta e adesso si trovava sdraiata su un letto del Beika General Hospital soltanto perché era corsa a salvarlo. Nonostante tutto, l'aveva raggiunto e aveva sacrificato la sua vita per lui. Di nuovo. 
Conan si avvicinò al letto, lasciando gli altri impietriti e dispiaciuti dietro sé. Le sfiorò appena la mano, notando poi il pallore del suo volto. Rimase un secondo in silenzio, dopodiché respirò a fondo. 
«Ti avevo detto di non farlo mai più. Ricordi?» le mormorò appena, ignorando se i presenti lo avessero sentito o meno. Le strinse appena le dita cercando un conforto, seppur minimo, nella speranza che lei aprisse gli occhi. 
«Dai, svegliati». 
Agasa gli si avvicinò, poggiandogli una mano sulla spalla. Nessuno dei due si sarebbe allontanato da quel punto se lei non si fosse svegliata, lo sapeva. Ogni minuto in più era un peso in gola che non riusciva a deglutire. 
Poi, all'improvviso, Ai mosse le dita in modo quasi impercettibile. Fece lo stesso con le palpebre dopo qualche attimo e fu questo accenno a ridargli un po' della lucidità che aveva perso, mentre una minuscola traccia di sollievo gli scaldava le gambe e il corpo.
«Ai?». 
Fu allora che lei aprì appena gli occhi. Li socchiuse a causa della luce accecante della stanza, nel tentativo di mettere a fuoco le persone che aveva intorno. Una lacrima sfuggì veloce e nascosta dal volto di Agasa, mentre Ran e Kogoro sorrisero all'unisono. 
La bambina li scrutò uno per uno, confusa. Subito dopo, il suo sguardo si perse negli occhi del bambino accanto a lei che le teneva la mano. In una situazione normale, Conan si sarebbe scostato immediatamente dall'imbarazzo e da quell'affetto profondo del quale non si era neanche accorto, ma adesso andava bene così. 
«Ai, come stai? Tutto bene?» le chiese, sorridendole sinceramente. La castana continuava a guardarlo seria, sembrava non vederlo neanche. Aprì appena la bocca per parlare, percependo la gola bruciare e il dolore in tutto il corpo. 
Fissò ancora una volta la persona che le aveva fatto quelle domande, ancora incerta. Dopodiché parlò. 
Un tuffo al cuore, poche parole.
«Tu... tu chi sei?». 





************


Note dell'autrice
Eccomi con un'altra fanfic a capitoli! Credevo non ne avrei scritte altre tanto presto e invece sono ancora qui... in questo periodo ho una voglia matta di scrivere, purtroppo per voi. xD 
Non voglio anticipare nulla, anche se credo abbiate già intuito cosa accadrà. Volevo ipotizzare una situazione simile, nel quale Shinichi si troverà solo ad affrontare tutto. Come al solito vi ringrazio anche nel caso vogliate lasciarmi una recensione! A presto :3

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Capitolo 2
*** Stranger ***


Timeless
Stranger 


«Tu... tu chi sei?». 
Una frase, una semplice frase pronunciata con il massimo della naturalezza bastò per far crollare un castello intero pieno di tutte le certezze del mondo. 
La guardò negli occhi, gli stessi occhi verdi e profondi, da quei tratti stranieri ben delineati. Era abituato a percepirli su di sé in un altro modo; indagatori, freddi, divertiti. A volte pieni di gratitudine e altre volte di quell'accusa celata quando qualcosa non andava per il verso giusto. Luminosi e, di solito, colmi di quella profondità estrema che tanto la caratterizzava, quei segreti tenuti dentro che la rendevano una vera e propria donna, nonostante il corpo di una bambina di otto anni. 
Adesso erano vuoti, spenti. Non li riconosceva. Erano diversi, lo vedeva. Lo scrutavano con attenzione e confusione, in attesa di una risposta che non arrivava e che lui faticava a trovare. 
«C-cosa?» chiese soltanto in un mormorio che potevano udire solo lei e il dottor Agasa. Quella situazione non sfuggì a Ran, però, che si alzò dalla sedia della stanza e si avvicinò al letto candido. 
«Come stai, Ai?» le chiese poi dolcemente, il sorriso materno stampato sul volto. 
La castana mosse appena la bocca, sforzandosi per emettere il minimo suono. Socchiuse appena le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco l'immagine lievemente sfocata che aveva davanti. 
«Io... non vi conosco! È la prima volta che vi vedo... perché?".
Conan si sentì il pavimento mancare sotto ai piedi, mentre una vertigine improvvisa gli percorse la schiena. La osservava immobile senza vederla realmente, come se tutto si fosse capovolto di punto in bianco. Per un secondo sperò di sentire la voce decisa di Ai dirgli "sto scherzando", la tipica frase che sfoderava per farlo innervosire, con il solito sarcasmo che mostrava in quelle occasioni. Dopotutto, lei lo faceva. Lo prendeva in giro spesso, per poi assumere l'espressione ironica che tanto la contraddistingueva. Ma quella non era la circostanza giusta e sapeva che non avrebbe mai fatto preoccupare così tanto il dottor Agasa per nulla, né si sarebbe mostrata volentieri in quelle condizioni davanti a lui. Per un altro infinito istante, il detective ebbe la forza di pensare che avrebbe voluto ricevere ancora quelle prese in giro. 
E invece era solo, completamente solo. Era così che si sentiva. Privato di un'alleata importante, di una confidente con la quale aveva condiviso un mondo fatto di gioie e dolori, di lotta, di segreti. Di simbiosi. 
Ma, soprattutto, si ritrovò senza un'amica. La sua amica, quella che aveva cercato sempre di proteggere, a costo di saltare in aria su un autobus pieno di esplosivo. La migliore che avesse potuto incrociare la sua strada, quel giorno di due anni prima. 
Quando capì cosa potesse essere successo, quando tornò sulla sua espressione nel vano tentativo di schiarirsi le idee con la minaccia della nuova consapevolezza addosso, percepì chiaramente una fitta all'altezza dello stomaco. 
La studiava a occhi sgranati, dimenticandosi per un secondo di respirare. Allentò la presa sulla mano di lei inconsciamente, in silenzio. Tutti i presenti rimasero di pietra, dopo quella domanda. Nessuno ebbe il coraggio di risponderle, ognuno perso nelle proprie riflessioni. Fu Ran a riprendere il discorso, come se la bambina non avesse aperto bocca. 
«Non preoccuparti, sei solo molto stanca» le disse, mostrandole un sorriso sincero per evitarle turbamenti. «Adesso noi andiamo così ti puoi riposare. Ci vediamo dopo». 
Tuttavia, Ai non riuscì ad ascoltare nessuno. Totalmente confusa, la mente annebbiata e vuota. Percepiva la desolazione del momento, come se la vita intera fosse iniziata pochi secondi prima in quella camera d'ospedale. Tutto uguale, dannatamente bianco. Il bianco, un colore che sentiva non la riguardasse. Un colore che non c'entrava nulla con lei, che la faceva sentire estranea, diversa. Un colore dannatamente sbagliato per la persona che sentiva di essere. Così, dal nulla, senza motivo. Si era svegliata da poco e gli sguardi preoccupati di quelle persone su di sé le creavano un disagio enorme, mettendola in difficoltà. La facevano sentire inadeguata, parte di un mondo che non la voleva. 
Seguì con lo sguardo Ran mentre afferrava il braccio del padre, sotto lo sguardo sbigottito di quest'ultimo. Dopodiché la vide lo trascinarlo all'esterno della stanza, sparendo entrambi oltre la porta aperta.
Guardò il bambino accanto al letto che non aveva più emesso neanche una sillaba, ma che la faceva sentire in colpa per qualcosa della quale lei non era a conoscenza. Si spostò appena sul materasso, sforzandosi di capire, nonostante la testa dolorante e gli occhi che bruciavano a causa della luce intensa. Si sfiorò la benda con le dita, senza riuscire a capacitarsi di ciò che potesse essere accaduto. 
Conan la guardò, afflitto. Gli occhi blu incrociarono quelli di colei che era sempre stata al suo fianco e che adesso non poteva più riconoscerlo. Un'altra fitta al cuore.

Ti ho solo chiesto di farmi una ricerca e non di sentenziare sulla mia vita.

Sperò di trovarsi in una specie di incubo o qualunque altre cosa per non vivere quella realtà. Una realtà nella quale era da solo. Una realtà nella quale non vi era più complicità, la loro complicità, né affetto. Nella sua realtà, lui non esisteva più. 
Non avrebbe mai creduto potesse fare così male. 
Eppure, i loro sguardi si incrociarono quasi nello stesso istante. Conan lesse un sentimento che si era ripromesso di non voler vedere ancora, in quell'espressione. Conosceva quel modo di reagire, quell'ansia che la distruggeva e che la rendeva così tanto vulnerabile. 
Non scostò il volto dal suo neanche per un attimo.
«Almeno tu potresti rispondermi?» gli chiese lei, percependo una sensazione di calore arrivare da quel bambino. Un qualcosa di amichevole che le infondeva fiducia e non ne capiva il motivo. «Cosa ci faccio qui? Cos'è successo?». 
Lo studiò, attenta a ogni suo movimento. Aspettava una risposta, qualunque, che potesse aiutarla a non sommergere nel caos che aveva in testa e che batteva freneticamente provocandole fitte non indifferenti. 
Conan abbassò lievemente lo sguardo e quando tornò su di lei, forzò un sorriso di circostanza. 
«Niente di grave, stai tranquilla. Adesso pensa solo a riposarti».
Di colpo, l'approssimazione di quella risposta la irritò. Un peso le bloccò la gola e l'ansia tornava a prendere il sopravvento su di sé. Era la prima volta che vedeva quello strano bambino occhialuto, ma qualcosa era scattato dopo quella frase, qualcosa che, per qualche motivo, le aveva fatto male.
«Dimmi la verità!» esclamò, alzando la voce. Vide l'uomo accanto a loro irrigidirsi e il moro sgranare gli occhi, dopo un sussulto appena percettibile. «Ti prego». 
Conan sospirò, incerto. Agasa se ne accorse e gli appoggiò una mano sulla spalla, intervenendo. 
«Sei rimasta coinvolta in un incidente durante un caso, Ai» spiegò, un velo di tristezza negli occhi. «Hai battuto la testa, ma per fortuna non è niente di serio. Ti faranno comunque degli accertamenti». 
La scienziata notò come quell'uomo le parlasse così, naturalmente, come se la conoscesse da una vita. Tuttavia non le sfuggì un particolare.

Ai. Quindi mi chiamo Ai ...

«Mi dispiace» aggiunse in seguito il bambino, senza il coraggio di sostenere la sua espressione. «Adesso riposati. Torniamo più tardi, d'accordo?».
La guardò e lei annuì, con l'insicurezza trasmessa dalla negatività che aveva addosso. Vide l'anziano avvicinarsi al suo letto e si stupì quando le rimboccò le coperte. 
«Dormi bene, Ai». 
L'omone le sorrise appena, per poi uscire dalla stanza. Si fermò solo per un secondo, lanciando una breve occhiata a Conan, che fece un veloce cenno con il capo. Quest'ultimo rimase ancora vicino al letto, immobile, deglutendo a forza il peso che si era bloccato all'altezza dei polmoni da un po'.


«Ti ho solo chiesto di farmi questa ricerca e non di sentenziare sulla mia vita».

La stessa frase che si ripeteva nella mente, attimo dopo attimo. Scosse la testa, cercando di allontanarla definitivamente da sé. Non doveva pensarci, non in quel momento. 
«Allora... vado anche io. Riposati» le disse appena, con l'intenzione di imitare il professore. 
«Aspetta!». 
Il piccolo detective la guardò con la coda dell'occhio, stupito, quando la sua voce cristallina gli giunse nuovamente alle orecchie. Dopodiché rimase in attesa, senza osare neppure respirare.
«Posso sapere almeno il tuo nome?».
Un tuffo al cuore. L'ennesimo. Una pugnalata dritta nel petto. Abbassò lo sguardo, fissando il pavimento con la consapevolezza di dover fare i conti con la realtà. L'amica non sapeva più nulla di lui, avrebbe dovuto accettarlo. In un modo o nell'altro.

Tu lo conosci il mio nome. Il mio vero nome. Sai benissimo chi sono. Soltanto tu. 

«Sono... sono Conan» le rispose apparentemente tranquillo, senza mai voltarsi. «Conan Edogawa». 

Shinichi, dannazione! Sono Shinichi e tu lo sai. 

E poi corse via, allontanandosi da quella camera il più velocemente possibile. Allontanandosi da quei ricordi che soltanto lui, adesso, avrebbe potuto custodire gelosamente.


«Quindi, dottore? Come sta?». 
La voce irrequieta di Agasa ruppe il silenzio all'improvviso una volta che il medico ebbe riposto i documenti degli esami nel fascicolo. 
Questi sospirò, osservando i presenti uno a uno cercando di rivolgersi a loro nel modo più delicato possibile. 
«La bambina ha riportato una commozione cerebrale dovuta all'impatto. Presenta un'alterazione delle funzioni cerebrali che hanno generato questo stato confusionale per il quale non ricorda nulla» concluse, avvicinandosi a loro e distinguendo chiaramente le loro espressioni contratte e piene d'angoscia. «Di solito si tratta di uno stato temporaneo e reversibile... quindi non vi preoccupate prima del tempo. Pian piano potrebbe recuperare la memoria spontaneamente». 
Fu Ran che si fece avanti, il pugno stretto sul seno. Ricordava bene il terribile periodo nel quale le successe la stessa cosa, dovuto a un trauma che non era riuscita a metabolizzare. Le tornò alla mente l'orrenda sensazione di avere la mente vuota, il sentirsi fuori posto quando tutti le stavano vicino cercando di aiutarla, mentre lei non riconosceva più nessuno. 
«Quante probabilità ci sono che la piccola si riprenda completamente?» chiese poi la ragazza, guardando di sottecchi Conan che, stranamente, da quando erano entrati in quell'ospedale non aveva ancora detto niente. 
«Non so dirvelo con certezza. La cosa importante, in questo momento, è che non si sforzi di ricordare. Potrebbe soltanto peggiorare la situazione». 
L'uomo con il camice bianco sistemò il fascicolo sulla scrivania e si avvicinò alla soglia dell'ambulatorio.
«Mi raccomando. Ci vorrà del tempo» concluse, tirando un sorriso. Il dottor Agasa lo ringraziò prima di vederlo uscire dalla porta. 
Il silenzio tornò più forte in quel breve lasso di tempo nel quale nessuno osò aprire bocca. Conan si ripeteva mentalmente le parole del medico, in cerca di una speranza alla quale non riusciva ancora ad aggrapparsi.

Parlava di possibilità, di probabilità. Non di certezze.

Fu Megure a rompere quell'atmosfera, entrando velocemente nell'ambulatorio.
«Oh, Ispettore! Ci sono novità su quel pazzo criminale?» esclamò Kogoro, andandogli in contro senza neanche aspettare che iniziasse a parlare. 
Megure annuì, deciso. 
«L'abbiamo preso. Dopo aver fatto saltare tutto in aria era riuscito a fuggire tramite un varco che non avevamo previsto. Ha finto di essersi fatto saltare in aria per evitare di essere arrestato. Per fortuna la maggior parte della gente era già uscita per via delle indagini e non ci sono state vittime» concluse, sospirando.
«E il movente?» chiese Agasa, facendo qualche passo verso di loro. 
«Dopo aver ucciso il padre, che gli ha negato la proprietà dell'azienda, ha deciso di farla saltare in aria per essere sicuro che nessuno avrebbe potuto appropriarsene» spiegò l'ispettore, mentre i presenti impallidivano. 
«Non è così» s'inserì Conan, senza neanche guardarli. «Non ha fatto esplodere l'edificio per quel motivo, quanto per il simbolo che rappresentava. Voleva eliminare definitivamente la presenza e il potere del padre sulla sua vita». 
L'Ispettore Megure e Kogoro si voltarono verso di lui, stupiti per la naturalezza delle sue parole. L'aria seria, tesa. Non si era neanche sforzato di recitare la parte del bambino, stavolta, e aveva dato nell'occhio. Ma, per qualche strano motivo, non gli importava. 

«Ricordalo, Shinichi. Non esporti, nessuno deve sapere chi sei. Neanche lei».

«Devi recitare la parte del bambino senza farti scoprire. È fondamentale».

«Quando la temperatura aumenta oppure la pressione cambia, la costruzione diventa instabile. A quel punto crolla e libera il metano intrappolato tra le molecole d'acqua. Ehm... ho visto un documentario in televisione!».
«Testa di rapa... ».


All'improvviso, mantenere quel segreto non aveva più molto senso. Da quando Ai era entrata nella sua vita, le continue tentazioni di rivelare tutto a Ran erano drasticamente diminuite e solo in quel momento se ne rese conto. Forse perché doverlo fare per aiutare un'altra persona era una spinta in più. Una persona che lottava con lui e che era diventata la sua spalla, nel bene e nel male. Perché quando non riusciva più a tenersi tutto dentro, quando l'unica voglia che aveva era quella di liberarsi e confessare tutto nell'esatto momento in cui vedeva Ran soffrire a causa sua, c'era sempre stata lei a dargli quel coraggio in più che gli mancava. 
Ma ora non c'era nulla che potesse sostenerlo. 
Conan si allontanò da loro, le mani in tasca, ripercorrendo il corridoio sterile dell'ospedale, l'odore di farmaci, le pareti bianche tutte uguali. Poi si fermò di nuovo davanti a quella porta. Attraverso la piccola finestra che si affacciava all'interno, la vide di nuovo. La benda attorno al capo, gli occhi chiusi. 
Strinse un pugno, appoggiandosi contro il muro nel tentativo di alleviare il senso di colpa che gli faceva male al cuore. 
«Non scappare, Ai» disse, mormorando parole che solo lui avrebbe udito. «Te lo ricordi, vero? Non ti arrendere». 



 

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