Human

di reggina
(/viewuser.php?uid=647)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il nido del cigno ***
Capitolo 2: *** Pelle contro pelle ***
Capitolo 3: *** Concentrato di vita ***
Capitolo 4: *** Elogio all'amicizia ***
Capitolo 5: *** Cioccolata d'infanzia ***
Capitolo 6: *** Supereroi ***
Capitolo 7: *** Timore e tremore ***
Capitolo 8: *** Terra-ferma ***
Capitolo 9: *** La scatola dei ricordi ***
Capitolo 10: *** Il sorriso della maestra triste ***
Capitolo 11: *** Cuore nel pluriball ***
Capitolo 12: *** Capitano, mio capitano! ***
Capitolo 13: *** New York ***
Capitolo 14: *** Yuki Matsuri ***
Capitolo 15: *** Spirito di squadra ***



Capitolo 1
*** Il nido del cigno ***


“Andiamo a vivere insieme?"

Glielo aveva chiesto così: semplice e diretto.

Senza troppi giri di parole, senza troppi schemi, senza filtri.  

Amico di quell’istinto che gli inviava messaggi forti e autentici.

Philip aveva scardinato le porte delle sue emozioni quando glielo aveva chiesto dal nulla e Jenny aveva risposto con un sorriso che aveva dato al suo viso una luce così calda e vivida da brillare.

Era stato come tornare a due inverni prima, quando i loro giorni erano fatti di sorrisi e di risate, di progetti e prospettive, di profumi, di sogni che sembrava potessero diventare reali.

Alla ragazza era venuto in mente il poeta italiano Pascoli:   l’elegante cigno, capace di trasformarsi in una leonessa quando si trattava della sua aquila, avrebbe avuto il suo nido di rami e ovatta e questo interno caldo e accogliente li avrebbe protetti da tutti i rovi esterni

E lei si sentiva salda, al sicuro, protetta solo accanto a Philip.


La mattina dopo era iniziata la ricerca.

Dopo essersi fatto la doccia, la barba e aver bevuto il suo caffè nero lungo, Philip aveva preso per mano la fidanzata e insieme si erano tuffati per le strade di Furano alla caccia della casa perfetta, mettendoci tutto il loro entusiasmo, la loro caparbietà e pazienza. 

Erano andati avanti così per giorni a tentativi, tempo rosicchiato e incastrato tra scuola, casa e palestra.

Finalmente in un fine settimana si erano ritrovati nel quartiere residenziale con la graziosa casetta dalla grande vetrata abbellita da un mosaico.

In quel paesaggio da campagna tedesca dove, in una manciata di secondi, Philip aveva visto passare velocemente tutto il suo futuro.

Il ricordo, ancora forte, lo aveva colpito come un pugno allo stomaco: il taxi che lo accompagnava in ospedale, lui che singhiozzava tra le braccia di Jenny come un bambino che cerca di attirare l’attenzione per ottenere quello che gli è stato negato, la consapevolezza che la vita gli stava scivolando via quando non aveva ancora nemmeno creato i presupposti per qualcosa di concreto

Sentiva lo stesso senso di vuoto intorno a lui, lo stesso smarrimento di quella lontana mattina di gennaio.

Come un fiore, la mano di Jenny si era chiusa nella sua.

Avevano dovuto saper raccogliere i frutti più buoni di quello che gli era accaduto, ingoiarlo, metabolizzarlo e farne concime per far crescere la loro esistenza ancora giovane.


“Continuiamo a cercare altrove, Phil! Io ce l’ho già un posto che sapevo mi avrebbe aspettata anche quando ero chilometri distante. Un posto dove tornare quando tutti gli altri mi fanno paura. È il tuo cuore.

Ovunque mi troverò, se ci sarai tu, mi sentirò al sicuro. Tu sei la mia casa!”

È bello vedere un uomo che si commuove per un gesto spontaneo, per una parola dolce, per una dichiarazione d’amore così vera.  

L’unica replica possibile era stato quell’abracadabra, quella parola magica.

“Taiyō !”  

Allora aveva notato lì, vicino alla casa dei loro sogni passati, la scritta in rosso   Affittasi  con il logo di una delle agenzie immobiliari più rinomate di Furano.

Era un segno. Una seconda possibilità per riprendersi il futuro a cui credevano di dover rinunciare. 

La sua espressione risoluta aveva convinto anche Jenny che i dolorosi ricordi non l’avrebbero trasformata in una   casa degli spiriti e si era ritrovata a frugare nella borsa per tirar fuori il telefono e fare una foto dell’annuncio da utilizzare come memo per chiedere informazioni.

La definizione del contratto portava la sua firma, impressa con  calligrafia semplice ma precisa. Su una poltrona in pelle di un sofisticato ufficio, penna in mano, aveva ratificato per il suo, per il loro futuro.  


Una casa. La loro casa.

Era arrivata quanto ormai Jenny  non ci sperava quasi più.  

Il resto era venuto naturale, quasi scontato e su alcuni punti i due innamorati non avevano nemmeno avuto bisogno di trovare un accordo: avevano deciso di trasferirsi il venerdì sera, senza prendere nessun impegno per il weekend e senza portarsi dietro troppi scatoloni.

  Si erano dati un’unica regola:   Take it easy !

Da quel momento era quella la loro filosofia: prendere la vita con più leggerezza, non con superficialità ma senza più macigni sul cuore.  

E quella sera di primavera, con solo la luna ad accompagnarli nel loro viaggio, i ragazzi  si erano trovati davanti alla porta del loro futuro tesi, impazienti, emozionati come due bambini.

“È una sensazione strana, vero? Come se questo lieto fine, questa felicità raggiunta, ci spaventasse un po’!”

La voce di Philip era una carezza di velluto. Jenny era rimasta in silenzio e non osava muoversi per paura di rompere l’incanto di quell’istante sublime. Lui allora aveva continuato.

“Con te qualunque posto mi è familiare,  Jenny! Se ti tengo per mano nulla può farmi più paura!”   

Poteva vedere gli occhi della ragazza scintillare  come stelle nella notte. Lei aveva sbattuto piano le palpebre sorridendo sicura e aveva allungato una mano a sfiorarlo.

“Non è un lieto fine Phil…Questo è il nostro meraviglioso inizio!”   

Allora si era sentita letteralmente mancare la terra sotto i piedi e un secondo dopo si era trovata con le braccia avvinghiate al collo di Philip e la testa contro il suo petto.

“Rispettiamo le tradizioni mio adorabile cavaliere?”  

Lo aveva provocato mentre lui  varcava la soglia tenendola tra le braccia come se fosse il tesoro più prezioso.

In un fine settimana come tanti eccoli lì: ad inaugurare un futuro che profumava di resina, di sole, di aria fresca di montagna.

Un futuro che valeva la pena essere vissuto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Pelle contro pelle ***


Da un buon quarto d’ora Philip continuava a tenere d’occhio la porta della doccia dal vetro satinato, ascoltando con attenzione lo scroscio dell’acqua all’interno del box.

La stanza si era presto riempita di vapore e lui poteva immaginare la mano di Jenny correre alla manopola rossa, il getto sulle spalle farsi bollente, l’acqua calda scorrerle sulle braccia raccolte , sul seno…

I suoi pensieri si erano colorati di sfumature reali, provocanti e libidinose, sciogliendo la caligine notturna degli ultimi mesi.

Si era voltato verso la mensola con i saponi e i profumi in bell’ordine, aveva aperto un flacone che emanava un profumo molto delicato , lo aveva avvicinato al naso per annusarlo ed era diventato malinconico. Era avanzato verso il lavandino e, con un colpo di mano, aveva tolto un po’ di quel vapore che offuscava il vetro lucido riuscendo ad intravedere parte della sua immagine: non era facile nemmeno adesso guardarsi allo specchio e chiedersi come avesse fatto Jenny a contemplare il declino rapido del suo fisico malato e a non disinnamorarsi di lui.

La ragazza era uscita in quel momento con un telo di spugna avvolto intorno al corpo snello, da adolescente, e un altro in testa a mo’ di turbante.

Non avrebbe mai voluto vedere quel muso lungo, la pelle pallida, la fronte corrugata e le labbra serrate a disegnare un’espressione imbronciata ma sapeva che l’unico modo per combattere quei momenti di tristezza che assalivano Philip era lasciargli i suoi spazi.

Con i muscoli rilassati, aveva cominciato a strofinarsi i capelli con un asciugamano più piccolo, muovendosi a piedi nudi sul pavimento piastrellato e freddo del bagno.

Aveva indossato velocemente, con disinvoltura, un reggiseno di cotone, un paio di slip e aveva infilato dalla testa una maglietta di Philip che le arrivava a metà coscia.

Erano restati immobili a guardarsi. L’aria fredda del condizionatore, sopra di loro, soffiava sulla pelle umida facendola rabbrividire. Philip allora aveva fatto un passo avanti posandole le sue mani calde sulle spalle.

“Sei ancora bagnata!”

Le aveva sfiorato la clavicola con i polpastrelli dei pollici, rimuovendo le goccioline d’acqua. Jenny aveva deglutito a quel tocco delicato.

La mano ruvida, da uomo, era risalita finché il pollice si era fermato nell’incavo del suo collo, facendole martellare il cuore nel petto.

Non era una carezza comune, era come una mano sul velluto.

Si era sentita come una ragazzina nel giorno della sua prima volta, con le farfalle nello stomaco e i brividi lungo la schiena.

Erano trascorsi mesi e non avevano fatto più l’amore.


Tra loro era sempre stata una questione di pelle, di contatto, di emozione.

Philip era stato inebriato dall’olio di gelsomino indiano che lei si era spalmata sul corpo , un delicato profumo intollerabilmente seducente, e quando aveva sentito le labbra di Jenny sul suo collo era stato colto da un desiderio ormai irriconoscibile.

In quei giorni in cui aveva chiuso l’amore in un cassettino fuori dal suo cuore e lo aveva sigillato aveva persino dimenticato la sensazione di un bacio, la reazione elettrica che accende un altro corpo.

E spesso anche Jenny aveva temuto di fargli del male semplicemente toccandolo . Quanto gli era mancato quel contatto fisico!

Lo mandava in estasi adesso stringerla tra le braccia, il contatto pelle contro pelle che gli accendeva il sangue nelle vene, sfiorarle il petto ed essere travolto da un’ondata di sensazioni che sembravano essere risvegliate da un lungo sonno…

Jenny si era sottratta alle sue mani esigenti con un sorriso adorabile stampato sulle labbra rosse. Era svicolata dal suo abbraccio ed era corsa nella loro alcova atterrando, con un salto felino, sul letto.

Il ragazzo l’aveva seguita con una vertigine.


La fidanzata lo aspettava stesa sul fianco verso la porta, aveva sollevato il capo e gli angoli della bocca in un sorriso provocatorio.

Il suo sguardo però non era complice, era strano.

Philip era rimasto fermo al suo posto, con le mani incrociate sull’addome.

“Che c’è?”

“Mi sono innamorata di un altro!”

Gelo.

Aveva provato un dolore sordo alla bocca dello stomaco, non era riuscito a deglutire la saliva. Gli occhi asciutti erano sbarrati e tutti i pensieri evaporati.

Jenny aveva continuato tranquilla.

“Si mi sono innamorata di un altro Philip! Dell’uomo che sei diventato!”

Philip aveva sorriso sollevato, come se gli avesse levato un macigno dal cuore, stendendosi sopra di lei e accettando di essere preso a pugnetti dall’amata.


Jenny aveva ragione!

Era più forte ma ancora tremendamente impaurito dal male.

Più energico dopo la devastazione della chemio.

Più ottimista ma dopo mesi di depressione.

Un Philip vulnerabile e, a volte, troppo silenzioso e razionale.

“Sono cambiato in tutto!”

Aveva ammesso con una punta di amarezza temendo di essere soltanto la maschera fantasma del Philip che lei aveva amato.

Jenny gli si era rannicchiata contro il petto, avvolgendogli le braccia intorno al collo e il ragazzo aveva potuto leggere nei suoi occhi tutto l’amore per lui.

“La vita senza di te sarebbe come un dirupo, Phil! Non sopporterei più di stare da sola!”

Era stata una parentesi temporanea e, durante quella separazione forzata, spesso la sera la ragazza, dopo aver indossato il suo pigiama enorme perché l’odore di Philip le penetrasse dentro , si avvolgeva su sé stessa come una lumachina tra le lenzuola che sapevano di Philip pregando perché guarisse presto.

“Ti amo!”


Era rotolato su di lei, sussurrandole che era bellissima. I pensieri sgualciti di Jenny erano stati stirati dal suo calore e dall’amore che riempiva la stanza.

Lui doveva ancora vendicarsi per quello scherzo che non gli era piaciuto per niente e allora le aveva rubato il cuscino e, come due bambini, avevano iniziato una lotta libera.

Philip l’aveva lasciata vincere e si era abbandonato al suo abbraccio con gli occhi increspati di gioia.

Si erano ritrovati sul letto nudi con il piacere di amare e di essere amati.

Philip baciava il suo seno, il collo, esplorava quel corpo di cui conosceva ogni sfumatura, ogni poro…Non riusciva a saziarsi di lei.

Jenny rubava carezze e non gli lesinava piccoli baci ai lati delle labbra.

Quando lo aveva accolto non era più riuscita a distinguere il corpo di Philip dal suo.

E in quella loro danza di carezze e di baci avevano imparato a conoscere il profumo della loro pelle unita. Della loro vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Concentrato di vita ***


L’aeroporto di Sapporo era uno come tanti: un microcosmo in cui tutto si svolgeva a velocità pazzesca e il tempo veniva rovesciato.

Per Philip, negli anni caotici senza Jenny, il bello tra un gate e l’altro era stato anche questo: osservare quel frenetico andirivieni dove incontrava, continuamente, persone, storie, speranze, delusioni, aspettative, addii…

Un piccolo concentrato di vita che non si stancava mai di osservare e che non smetteva mai di affascinarlo!

E spesso era finito a parlare con il primo sconosciuto che gli capitava…

Adesso, dopo quarantacinque giorni di totale isolamento in camera sterile, dopo tutta la serie di limitazioni per proteggerlo al ritorno a casa, era a disagio difronte a quelle diversità che un tempo lo incuriosivano.

Si sentiva come un animale selvatico nei primi attimi di cattività.

Schiantato da sé stesso .

Ancor prima di godersi quella libertà riconquistata, era smarrito e spaesato tanto che, per vincere quell’espressione tesa, Jenny aveva preso la sua mano che tremava e l’aveva stretta forte.

Lo aveva guidato fino alla fila di sedie nell’aria del presunto relax.


“Odio gli aeroporti, le stazioni e tutti quei luoghi dove ci si saluta senza sapere quando ci si rivedrà!”

La ragazza si era sentita punta sul vivo a quella confessione fatta con risoluzione inaspettata.

Non era stato facile per il loro amore in erba accontentarsi di fiducia concreta quando avrebbe preteso vicinanza, contatto, presenza.

Belle e lunghe telefonate, lettere appassionate non reggevano il paragone con un abbraccio intenso, una profonda conversazione occhi negli occhi.

“Ti pensavo ogni giorno, ogni momento, quando ero a New York! E il tuo semplice ricordo mi faceva mancare il respiro!”

Si era accorta che le loro mani erano ancora unite quando Philip gliel’aveva lasciata, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio e costringendola a guardarlo.

“Neppure io ti ho mai dimenticata per un secondo! Avevo semplicemente accettato la tua assenza!”

Jenny aveva cercato di sfuggire quei ricordi guardando altrove ma non ce l’aveva fatta. Gli occhi di Philip erano come una calamita.

“Non è stato facile ma, alla fine, abbiamo vinto. Su tutto!”


Philip continuava a guardarsi intorno. Tutti passavano con i loro trolley, sfiorandogli la spalla o sedendoglisi accanto: quello spazio fisico metteva insieme universi distanti. A lui, però, sfiducia, solitudine, fragilità e insicurezza erano rimaste addosso come fili di vetro.

“Ti ricordi quella volta che una bufera di neve mi ha bloccata al JFK Airport? Difronte alle serrande abbassate del chiosco dei donuts ho capito che dovevo trovare un diversivo tra le mura del terminal così ho cercato di indovinare la nazionalità delle persone!”

Ancora una volta era un tentativo naturale di Jenny a distrarlo dal suo disagio.

“E come ci si riesce?”

“È semplice: basta sentirle parlare!”

A Philip era scappato un sorriso e aveva iniziato ad osservare le tante vite che gli passavano accanto: una famiglia in fila, con i documenti in mano, quando non era ancora aperto il check-in; una mamma con quattro bagagli caricati sul carrello più passeggini; una coppietta di vecchietti che guardavano spaesati il tabellone con gli orari e che gli avevano fatto tanta tenerezza…

Jenny stava vincendo a mani basse quando il fidanzato si era irrigidito di colpo: poco distante c’era un bambino che lo additava.

Il signore che lo accompagnava, un nonno dai capelli grigi e dall’aria pacifica, si era avvicinato ai ragazzi con un sorriso cortese, quasi imbarazzato.

“Mio nipote dice che sei famoso! Potresti fargli un autografo?”

Il calciatore era rimasto imbambolato per qualche secondo, incerto sul peso di quelle parole sovrapposte che gli si accavallavano in testa come un complimento inatteso.

Intanto anche il piccolo tifoso lo aveva affiancata e, con quella sfacciataggine tipica dei bambini, aveva ottenuto anche di più.

Philip Callaghan sorrideva.

Sorrideva perché in foto è sempre meglio sorridere, sorrideva perché era educato. Sorrideva perché era stato bambino anche lui.

“Non credevo di essere famoso! Che qualcuno si ricordasse ancora di me!”

Niente gli dava più soddisfazione di vedere un bambino felice ma quell’episodio lo aveva anche costretto a confrontarsi con il presente.

“Beh sei il vicecapitano della nazionale di calcio!”

Aveva asserito con serenità Jenny.

E, in quel momento, sarebbe stato il massimo accarezzare quel pallone che continuava a rotolare tra i suoi sogni.


Il volo di Tom e Grace era arrivato mezz’ora dopo, in maniera puntuale.

Superato il rumore dell’aereo, che rendeva difficile conversare, per il resto del viaggio avevano riso complici ed emozionati. Anche loro sospesi per aria.

Una volta atterrati si erano baciati, mano nella mano, come due adolescenti. E nel farlo erano stati discosti uno dall’altra come se in quel modo nessuno potesse vederli.

Per Tom quella ragazza non era come un vestito che sta alla perfezione ma piuttosto uno specchio che gli aveva mostrato tutti i suoi limiti facendogli capire che era ora di cambiare la sua vita .

Lui e Grace avevano individuato quasi subito ciò che cercavano: un tuffo al cuore, migliaia di sentimenti avevano cominciato a strapazzargli lo stomaco.

Jenny era raggiante, bella, con le spalle abbronzate sotto le bretelline bianche del suo vestitino estivo. Philip rilassato, sulla sedia accanto, con i jeans, una camicia azzurra, sopra la t-shirt bianca, le maniche arrotolate ai gomiti, i capelli modellati con il gel. Un ragazzo normale .

Erano belli davvero insieme: in accordo su tutto, in totale armonia, davano la sensazione di un’anima sola in due corpi diversi.

La definizione dell’amore vero .


“Forse dovevamo fare come quell’autista strampalato che ho incontrato una volta e aspettarli agli arrivi con il cartello Mr. Becker in mano!”

Non si erano accorti di essere osservati e Tom aveva trattenuto una risata nel riconoscere una sottile vena polemica nella voce dell’amico. Grace invece non era riuscita a trattenersi.

“Perdonate l’interruzione!”

A quel tono precipitoso, allegro e ironico, gli amici si erano voltati sorpresi verso quella ragazza con l’abito verde, dello stesso colore degli orecchini, leggermente svasato che le cadeva lungo i fianchi ed arrivava alle ginocchia lasciandole scoperte. Era tanto semplice quanto carina nel suo stile poco appariscente.

“Gracie!”

Lei si era emozionata e aveva avvertito un nodo in gola a quel vezzeggiativo familiare con cui l’avevano stuzzicata spesso sul campo di allenamento della Flynet.

Aveva riconosciuto il Philip affettuoso, espansivo, quello che parlava con tutti e faceva amicizia facilmente.

“Bentornato Capitano!”

Era un po’ un paradosso quella frase perché quella a tornare era lei ma era l’unico modo per rasserenarlo con la sua affettuosa lealtà.

Finalmente Grace si era concentrata esclusivamente su Jenny, con tutto l’entusiasmo di una bambina di ritorno da una gita.

“Devo raccontarti di tutte le cose belle che ho visto a Parigi! Di tutti gli angoli segreti che mi ha mostrato Tom!”

Ed eccolo Tom: un aspetto piuttosto trasandato con i vestiti stropicciati da dodici lunghe ore di viaggio ma senza perdere il suo solito sorriso pacato e rassicurante.

Era talmente emozionato nel vedere Philip così che si era dimenticato tutte le cose che voleva chiedere, dire.

Tom Becker non credeva alle anime gemelle ma sapeva che esistono legami che sfidano la distanza, il tempo e la logica.

Tra lui e Philip c’era stata una connessione immediata: al primo sguardo, a otto anni, sapeva già che quella persona avrebbe fatto parte della sua vita per sempre. In un modo o nell’altro.

Nemmeno Philip sapeva come muoversi ma era riuscito a rispondere ai sorrisi dell’amico con grande lucidità ed emozione.

“Avevi ragione tu! I veri guerrieri scendono in campo a prescindere dal risultato…E, a volte, vincono!”

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Elogio all'amicizia ***


Da quando Alex McDonald lo aveva preso in gestione, il piccolo snack-bar, semplice e pulito, nell’incantevole cornice delle montagne di Furano era diventato il luogo di ritrovo degli ex calciatori della Flynet.

Nell’ora meno affollata, Philip si era incollato un bel sorriso sulla faccia e aveva raggiunto gli amici per il loro appuntamento settimanale: bere una birra insieme era soltanto un pretesto per sfuggire, qualche ora, alla frenesia che sembrava essere diventata il modus vivendi di ognuno, per fermarsi a parlare loro, e di loro, una volta tanto.

L’idea di radunare tutti da Alex era stata di Peter e non aveva accettato un no come risposta.

L’ex capitano poteva anche immaginare Peter e Tony recuperare Kenny e Gerard per strada e arrivare all’appuntamento contemporaneamente a Jerry che, infatti, aveva già mollato la sua bici come capitava su un lato dell’edificio.

“Ehi desaparecido che fine avevi fatto?”

Tony Brunor lo aveva accolto con un sorriso leale e con la sua allegria contagiosa, diffusa nell’aria, negli occhi.

“Sono stato impegnato!”

“Si a leccarti le ferite! Brutta batosta che ha preso il tuo Consadole domenica!”

Peter aveva toccato un tasto dolente, ma con delicatezza e ironia. Un’ironia gentile e leggera come una carezza ma efficace e inarrestabile come un panzer.

In un Consadole Sapporo che rideva, forte di tre successi consecutivi e soltanto di quella brutta sconfitta nell’ultimo turno, c’era anche chi masticava amaro.

La squadra prima di tutto ma per Philip Callaghan non era un momento positivo: da quando era nella nuova squadra aveva giocato soltanto scampoli di partite.

Era il momento più difficile della sua carriera ma aveva la fiducia della società e sapeva che l’unica strada era quella di continuare a lavorare.

Si trovava in quella terra di mezzo dei panchinari d’élite e l’allenatore non lo trattava come una semplice riserva. Lo considerava un valore aggiunto.

Philip si era appoggiato al bancone e aveva risposto con una risata divertita che aveva preso Peter in contropiede.


Lui ci provava ad essere il Callaghan di un tempo. Disinvolto, spiritoso, dal frizzo pungente ma dal cuore generoso e di un carattere amabile, d’un coraggio a tutta prova ma, anche se i suoi compagni lo accoglievano sempre a braccia e cuore aperto, a volte un profondo imbarazzo li divideva, il disagio prendeva il posto della naturale spigliatezza di un tempo.

Anche se durante la malattia Philip si era chiuso in sé stesso sapeva che la loro amicizia era indistruttibile.

Se li portava dietro dalla scuola, dall’infanzia, perciò erano quegli amici speciali che non durano una stagione soltanto: anche se i loro visi erano cambiati, un accenno di barba e qualche ruga in più, il loro numero era rimasto sostanzialmente invariato come se il suo cuore potesse confidarsi e fidarsi soltanto di loro e basta.

La Flynet era stato il collante, il resto una conseguenza.

Aveva dato una pacca sulla spalla a Kenny, guardando e ascoltando, poi si era allontanato verso l’uscita e, con un’espressione enigmatica e incomprensibile aveva fatto cenno a qualcuno all’esterno.

“Guardate un po’ chi vi ho portato!”


Tom aveva provato una sensazione viscerale: un mix di eccitazione e di spavento. Come quando si torna dalle vacanze e si rimane sul ballatoio, con la porta aperta e le valigie a terra, indecisi se profanare quella strana penombra.

“Tom Becker, toh questa sì che è una bella sorpresa!”

Peter gli era andato incontro con il sorriso sulle labbra e lo aveva avvolto in un abbraccio sollevandolo da terra mentre Tony era esploso in una delle sue fragorose risate facendo dondolare anche tutto il bar.

Raccolte le ordinazioni, Alex aveva chiesto di non avviare nessuna discussione importante: li avrebbe raggiunti con il cibo e mangiato con loro, prendendo molto volentieri parte alla conversazione.

Il luogo che Alex McDonald, a soli ventiquattro anni, aveva sistemato e ridipinto era un’oasi di fiducia dove tutti, anche Philip, si strappavano quella maschera fredda e sospettosa che il mondo li costringeva ad indossare come autodifesa e parlavano senza riserve, senza timore del ridicolo, con il cuore pieno.

Era il luogo della fiducia.

Dopo pochi minuti il giovane gestore era ritornato con gli stuzzichini.

“Mangiate tranquillamente, il pranzo lo offre la casa!”

“Chiamalo pranzo!”

Alex aveva ignorato la giocosa provocazione di Jerry e si era rivolto a Tom con l’espressione del perfetto padrone di casa.

“Ma non ti ci abituare però! Il benvenuto durerà solo un giorno non per tutta la vita!”

“Tanto tra una settimana il nostro Tommy sarà ripartito per chissà dove!”

La veritiera osservazione di Peter aveva gettato un’ombra di tristezza su quella rimpatriata tra amici. Tom aveva continuato a sorseggiare la sua birra poi, con il suo sorriso pacato, aveva scacciato quel nuvolone scuro che aleggiava tra loro.

“Questa volta ti sbagli Shake! Dopo anni di vagabondaggio penso che è ora di farmi una casa!”

La sua dichiarazione disinvolta li aveva colti tutti di sorpresa e Tony, quello con la battuta sempre pronta, era stato il primo a riaversi dallo stupore.

“Magari una bella casetta imbiancata a calce su un’isola greca?”

“No, casa dopotutto è dove sono i miei amici. Non so se sarà in Hokkaido ma in Giappone ne ho tanti!”

Philip non si era intromesso fino a quel momento ma a Tom non era sfuggito il suo cenno di approvazione, un semplice gesto di assenso.

“È bello avere le ali ma ci vogliono anche le radici!”

La riflessione del Capitano sottendeva qualcosa di molto più profondo di quello che si potesse credere. Aveva avvertito tutti gli occhi dei compagni su di lui, solo allora si era ricordato della birra chiara che da almeno quindici minuti teneva tra le mani fino a scaldarla e aveva cambiato discorso.


“Ma vi ricordate del nostro primo incontro con Tommy?”

“Rammento perfettamente quel giorno di tanto tempo fa proprio come se fosse stato ieri: giocavamo vicino alla fattoria dei miei genitori e non sapevamo nemmeno che il pallone non si potesse prendere con le mani. Il padre di Tom dipingeva poco distante…Non lo avevamo nemmeno notato finché non siamo stati richiamati dalle sue urla!”

Il ricordo di Gerard era il ricordo di tutti e ognuno aveva voluto condividere le immagini che conservava nella memoria.

“Quest’incosciente era entrato nel recinto di quell’animale demoniaco, di quel cavallo selvaggio!”

L’aria si era riempita di elettricità a tal punto da far rizzare i peli sulle braccia a Kenny.

“Quando vedevo un pallone non capivo più niente!”

Possibile che non ti sai controllare? Davanti ad un pallone perdi letteralmente la testa e fai delle cose molto pericolose!

Alex aveva camuffato il timbro della voce facendo il verso a papà Becker.

Pensare alla loro infanzia, tornare con la mente a quel tempo fatto solo di curiosità e ingenuità aveva risvegliato un senso di malinconia misto a felicità. Quello che allora era la scoperta della vita adesso era per Philip un rifugio.

“Non saremo potuti diventare gli adulti di oggi senza i bambini che eravamo ieri!”

“E non saremo mai arrivati alle semifinali dei tornei nazionali senza tutto quello che ci ha insegnato Tom!”

“Il merito è tutto vostro, ragazzi! Siete diventati quasi imbattibili quando avete capito che aiutarsi l’un l’altro è un punto che vale doppio. E se proprio dobbiamo dare dei meriti a qualcuno allora diamoli a chi vi ha insegnato la generosità, la coralità, l’equilibrio e i valori. Ho giocato con tanti campioni finora ma ne ho conosciuti davvero pochi fidarsi così tanto dei propri compagni da abbandonare l’io per il noi!”

Nell’udire quell’elogio, chiaramente rivolto a lui, a Philip si erano imporporate le guance e tese le labbra.

“Non sperticarti in tutte queste lodi per me!”

Aveva cercato di glissare quei complimenti con un lieve tono di rimprovero.


“Tom ha ragione! Quante volte ti sei sacrificato per noi, Capitano? La prima volta che mio padre è venuto a vedermi giocare hai chiesto all’allenatore di farmi entrare al posto tuo per dimostrare tutto il talento…Che non avevo!”

Alla menzione di Gerard se ne erano aggiunti altri.

“E quando contro la Majestic ho sbagliato l’impossibile? Ti trovavi da solo davanti alla porta e hai passato la palla a me per farmi ritrovare fiducia anche se un mio sbaglio poteva costarci la vittoria!”

Dopo Peter aveva preso la parola Tony.

“E quando mi sono fatto male contro la Muppet? Mi hai portato sulle spalle per evitare che la mia caviglia si gonfiasse!”

Philip era commosso da tutti quei tributi di stima e di rispetto, tasselli di un passato che gli dava un senso di sicurezza ma anche una certa insofferenza, e aveva cercato una battuta per dissimulare il disagio.

“A quello ci sono stato costretto Tony! Eri il nostro unico portiere titolare, non potevo rischiare che in porta ci finisse Alex!”

Sentendosi chiamato in causa McDonald aveva colto la palla al balzo per prenderlo un po’ in giro.

“Ti preoccupavi sempre di tutti, Capitano! Nemmeno fossi stato la nostra mamma!”

Avevano riso tutti ma Philip non aveva fatto in tempo a replicare.

Uno starnuto. Uno più forte e aveva sentito un liquido caldo colargli lungo il prolabio. Aveva portato il palmo della mano a strofinarsi il naso e l’aveva ritirata incredulo.

Svestito delle sicurezze faticosamente riconquistate.

Di nuovo senza difese.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Cioccolata d'infanzia ***


Jenny l’aveva accolta da perfetta padrona di casa: le aveva aperto la porta con un gran sorriso e con intima soddisfazione per essere riuscita a rendere retrò quello spazio tutto suo e di Philip, conferendogli al contempo una freschezza giocosa.

La cosa più buffa, che strappava un sorriso, erano però le pantofole rosa che la ragazza indossava sui collant neri e che la facevano assomigliare ad uno di quei personaggi bizzarri di Merry Melodies.

Grace aveva accennato un sorriso e, stringendo al petto il pacchetto-regalo, si era lasciata guidare fino al divano.

“Ti offro un caffè o ci facciamo una bella tazza di cioccolata calda, come da bambine?”

Le aveva strizzato l’occhio complice ed era stato impossibile fermare il flusso dei ricordi nella loro Furano con la neve soffice in inverno e i meravigliosi campi di lavanda in estate.

Quando la temperatura scendeva sotto lo zero e tutte le regole erano sospese, alla ricerca di un po’ di calore quel must dell’inverno era diventato uno dei momenti di massima gioia.

“Con la panna?”

Mentre Jenny si era avvicinata ai fornelli, Grace si era seduta guardandosi intorno. Niente da dire: tutta la casa, i pretenziosi allestimenti sembravano usciti fuori da un catalogo di arredamento shabby chic . Trasudavano allo stesso tempo la passione e il tentativo della sua amica di dare una personalità spiccata a quella casa.

“Ho aggiunto i marshmallow e una spruzzata di cacao amaro…Un’imitazione di una perfetta cioccolata calda americana!”

“Dovresti assaggiarla alla francese! Un piccolo peccato di gola: pensa che Napoleone ne sorseggiava una tazza tutte le sere convinto che mantenesse viva la concentrazione!”

Avevano girato per mezzo mondo, erano diventate grandi, si erano ritrovate ad affrontare un mondo che non erano state preparate ad affrontare ed eccole lì a riprendere esattamente da dove si erano lasciate, dopo quindici anni di amicizia che nemmeno la lontananza ce l’aveva fatta a scalfire, a leccarsi i baffi come due felici golosone.

“Evviva la cioccolata!”


In quel momento di spensieratezza Grace aveva allungato verso l’amica il souvenir impaccato in della semplice carta velina colorata. Jenny lo aveva scartato piano, gustandosi ogni millesimo di secondo che la separava dalla scoperta del contenuto, e finalmente, si era ritrovata a sfogliare un libro illustrato per ragazzi.

“L’ho comprato al Chat Prite che tradotto letteralmente è Il gatto buffone! Tom voleva farmi vivere la città da vera parigina e non da turista così un pomeriggio, lontani dalle infinite rotte turistiche, sono stata attirata da un’insegna colorata che spiccava tra i palazzi anonimi…”

“Hai avuto un pensiero davvero carino, grazie! Domani lo porterò a scuola e lo leggerò ai miei bambini!”

Un pensiero aveva attraversato la mente di Jenny svuotandola dell’euforia di poco prima.

“Sai ho proprio bisogno di favole, della polvere d’oro dei sogni!”

Grace si era accorta della profonda differenza tra loro: lei leggera, Jenny problematica. Lei solare e serena, Jenny ombrosa e nervosa.

Tuttavia padroneggiava perfettamente l’arte del tempismo: c’era un momento per il silenzio, un momento per lasciarsi andare, un tempo per raccogliere i pezzi.

Bastava uno sguardo per capire gli umori di Jenny, un abbraccio per consolarla e non servivano parole per farle capire quanto le volesse bene.

“Mi piace quando ci vediamo perché so che con te non devo parlare per forza. È rilassante!”


Era seguito il consueto giro della casa e Grace con il suo sorriso aperto, due occhi sempre allegri e sinceri e un mento proteso verso il futuro, era stata attirata da un’intera parete tappezzata di foto.

“Sono di Philip! La sera, quando non stava troppo male, andava sul terrazzo dell’ospedale e guardava la città illuminata per cercare qualcosa di diverso che non fossero fiale, medici o infermieri!”

Dopo quella rivelazione accorata l’ospite aveva osservato con una stretta al cuore: scatti alle finestre, cornici di un tramonto che l’amico poteva guardare solo da lontano, le linee verdi delle ringhiere simbolo della sua prigionia…

“Si è costruito una bolla dentro cui stare e in cui sopravvivere con le poche cose che aveva: i libri e la macchina fotografica. È diventato ostile anche verso le persone che lo amavano. Non è stato facile!”

Aveva confidato ancora Jenny, con un brivido, sedendosi su un pouf a forma di fiore rosso.

Viveva ancora nelle paure, alcune forse infondate, basate su vecchi ricordi e incapaci di nuocere, ma si sentiva continuamente obbligata a fare qualcosa per proteggersi.

Grace si era seduta sul pavimento difronte a lei, strofinandosi i palmi sulle gambe incrociate.

“In realtà invidio la tua forza amica mia! La tua costanza. La sicurezza con cui cavalchi fino in fondo le tue scelte!”

Allora aveva rivisto la Jenny semplice, mai naif. La sua voglia di essere ostinatamente felice nonostante le difficoltà, quel desiderio di vivere senza mai trascinarsi , curiosa del mondo e delle persone.

“Tutto è costruito su un terreno più fragile adesso. Sei costretto a fermarti e a guardare le cose da una prospettiva nuova. Nel futuro avevo sempre visto me, Philip, dei figli, una casa, un cane, il momento perfetto della colazione tutti insieme…Ho scoperto che quella non è la versione originale della vita e che ne esiste un’altra versione copiata con la carta carbone.”

Si poteva cogliere una nota di amarezza, di tristezza nella sua voce: un misto di delusione, gratitudine e dignità.

“Forse adesso c’è solo un sottomondo dove tutto è più complicato, scomodo, e forse sarebbe meglio se non fosse mai esistito. Ma c’è e ci lotti. Tu non scambieresti mai gli ultimi due anni passati accanto a Philip per nessun altro uomo sano!”

Grace aveva sdrammatizzato le sue debolezze, ricordandole i suoi punti forti.

Si erano incontrate, rivelate come care amiche e legate come nuove sorelle ed era bello, adesso, ritrovarsi nella loro città e confrontarsi sulle loro esperienze.

“Tu e Philip siete la dimostrazione che il grande amore, quello per cui si scrivono poemi, esiste. E, se si ha la fortuna di incontrarlo, vince su tutto il resto!”

Jenny l’aveva abbracciata commossa per quelle parole generose e sincere, senza ombra d’ipocrisia.

“Devi però ammettere che tu sei stata la paladina del nostro amore!”

L’aveva stuzzicata, tornando padrona di sé ma facendo fatica a trattenere le lacrime.

“In effetti sono stata un po’ il vostro Cupido…E anche il vostro Ermes! Tu e il nostro novello Hideaki Hamada dovreste venerarmi come una dea!”

Jenny aveva risposto con una buffa smorfia al finto pavoneggiarsi di Grace e si erano ritrovate a ridere insieme. A sorridere alla vita.


*****

Hideaki Hamada è un giovane fotografo giapponese, maestro soprattutto in ritratti e lifestyle di Osaka.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Supereroi ***


Era sangue e muco, poi sangue molto liquido, acqueo, che non si coagulava. Philip aveva cercato di pulirsi usando, istintivamente, una manica della camicia ma aveva soltanto peggiorato le cose: il liquido continuava a fuoriuscire facile, senza dolore, come una fontana che gli aveva sporcato i vestiti.

“Credo che adesso si fermerà!”

Si era sforzato di usare un tono tranquillo ma, in realtà, spirali di paura gli risalivano dalle viscere guardando il sangue sui polpastrelli.

Se gli fosse capitato prima della diagnosi avrebbe gettato la testa all’indietro con un fazzoletto, senza pensarci più di tanto. Ma adesso ogni minimo cambiamento doveva essere tenuto sotto controllo.

Tom si era impressionato a quella vista, amplificata dall’effetto della macchia che continuava ad espandersi ma quando l’amico aveva tentato di alzarsi era passato all’azione.

“Ti sei spaventato?”

“ Non sono spaventato! Adesso però siediti e rovescia la testa all’indietro!”

“No meglio se la testa la tiene leggermente piegata in avanti!”

Era intervenuto Peter, chiudendo la punta del naso di Philip tra l’indice e il pollice.

“In questo modo evitiamo che il sangue scivoli nello stomaco causandogli nausea o vomito!”

Intanto Alex si era guardato intorno alla ricerca di qualcosa di utile per fermare l’epistassi ed era tornato con delle salviette che riempivano un dispenser montato sulla parete vicino al bancone. Philip ne aveva prese un po’ e le aveva usate per tamponare.

Tutti sapevano cosa fare e la sicurezza dei loro gesti aveva tranquillizzato Tom.

Il sangue gli era scivolato in bocca e Philip aveva sentito il suo terribile sapore metallico, doveva sputare. Tony aveva tirato fuori il suo bel fazzoletto di cotone dalla tasca e si era avvicinato porgendoglielo.

“Lo rovinerò!”

“Ne ho un sacco, mia nonna me li regala ogni Natale!”

Il Capitano aveva gettato le salviette sporche nel bidone dell’immondizia e si era portato il fazzoletto al naso.

“Grazie!”

Finalmente una gocciolina e poi più nulla, soltanto la vista sfocata per un secondo e un forte mal di testa come postumi.

Philip aveva cercato di restare calmo ma non voleva tornare a casa in quelle condizioni. Peter parve leggergli nel pensiero.

“Vieni, passiamo da casa mia così ti presto una maglietta pulita!”


Un anno e mezzo fa, quando tutto si era fermato e Philip aveva iniziato ad accorgersi che il mondo andava avanti anche senza di lui , aveva scoperto che i suoi amici erano come una solida parete: a volte si era appoggiato a loro, altre era stato fondamentale solo sapere che ci fossero.

Non se l’erano data a gambe. Avevano guardato in faccia la sua malattia quando prima di varcare la soglia di quella cameretta tutta colorata, con le pareti piene di fotografie e puzzle, le mensole appesantite da libri fantasy e manga, dovevano lavarsi accuratamente le mani, cospargerle di gel disinfettante e indossare la mascherina…

Piuttosto erano stati nervosi all’idea di incontrare il loro Capitano non sapendo esattamente cosa aspettarsi e quale Philip avrebbero avuto davanti.

Peter Shake indovinava sempre il momento in cui Philip aveva bisogno di lui: se lo vedeva in difficoltà non lo infastidiva chiedendo se ci fosse qualcosa che potesse fare ma pensava a qualcosa di appropriato e lo faceva.

Lo aveva guidato lungo il corridoio dal pavimento in marmo e si erano infilati nella sua camera, che sulla porta recava una simpatica targhetta in legno con la scritta Regno di Peter. E regno lo era davvero!

Lì dentro c’era tutto ciò che il ragazzo amava, ciò che contava per lui: la collezione dei fumetti di Spiderman, i pupazzi dei Goonies e i libri di Harry Potter tra le altre cose.

Sulla scrivania si trovava un elenco telefonico e una guida ai programmi televisivi vecchia di settimane.

“Danno qualche bel film stasera in tv?”

Philip ostentava disinvoltura ma si capiva il suo disagio, la sua stanchezza.

Tante volte era difficile, anche i posti dove prima si sentiva a casa erano duri da affrontare.

“Jurassic Park!”

Aveva risposto Peter accendendo l’aria condizionata per poi aprire il cassetto di un vecchio armadio e rovistarvi dentro.

“Jurassic Park? Io adoro quel film!”

“Ma se ce lo hai in dvd e ti ricordo che lo hai consumato a forza di vederlo! Anzi di farmelo vedere!”

“Che posso farci? Mi piace e piace anche a te!”

“Lo guardavo per farti compagnia ma ho la nausea di quel film!”

Philip aveva fatto un lungo sospiro e si era seduto sulla poltroncina in bambù assorto nei suoi pensieri, arrendendosi alla debolezza.

Non era solo la stanchezza a sopraffarlo ma anche la sensazione di aver perso ogni controllo e ogni direzione.

“Io la nausea ce l’avevo a prescindere in quei giorni!”

Non c’era vittimismo nelle sue parole ma soltanto la consapevolezza di una realtà con cui ancora doveva confrontarsi.

Parlarne faceva ancora male ma era l’unico modo per non far accumulare quei ricordi dolorosi nella sua mente.

Quando non aveva potuto mettere il naso fuori da casa perché debilitato e con il sistema immunitario a terra, Peter e Tony se ne erano inventate di tutti i colori per farlo svagare: un giorno arrivavano con tavolozza e pennelli per dipingere, un altro con libri e fumetti nuovi.

E quando Philip era stato costretto a letto gli avevano procurato le puntate in anteprima dei telefilm del momento e gli avevano tenuto compagnia guardandole insieme a lui.

Grazie a loro il chiasso e le feste d’estate per le strade di Furano non lo avevano fatto sentire ancora più prigioniero. Non avevano reso più pallido il suo pallore e più sola la sua solitudine.

Anche adesso per Peter maneggiare le sofferenze dell’amico era come tenere in mano una patata bollente. Faceva paura ma non aveva mai anteposto la malattia a Philip.


Finalmente aveva esibito una t-shirt blu con il colletto bordato di rosso e una S nello scudo triangolare: una maglietta buffa che probabilmente avrebbe indossato un bambino.

“Cosa vuoi che me ne faccia?”

Il capitano l’aveva presa con un po’ di diffidenza ma anche divertito.

“Indossala. Ti darà la forza!”

Aveva sbirciato la sua espressione. No, non stava scherzando: Peter ci credeva davvero ai supereroi!

“Non c’è bisogno di scomodare dei mostri sacri del cinema o di leggere le loro gesta nei fumetti, di Superman è pieno anche il nostro mondo e li possiamo incontrare ogni mattina…”

Philip aveva talmente voglia di cambiare argomento di conversazione, per sviare il discorso da quel passato doloroso, aveva deciso di assecondare le teorie di Shake.

“Io non ho conosciuto mai nessuno dotato di poteri paranormali da mettere a disposizione del bene!”

“I veri supereroi non indossano maschera, mantello o tuta lucente; non saltano da un luogo all’altro della città e non volano tra i palazzi. Il mio modello da seguire è sempre stato un ragazzo normale, che al massimo portava un hachimaki legata di traverso sulla fronte. Un carismatico uomo del Nord dal fiero cipiglio e dal temperamento grintoso e battagliero!”

“L’eterno secondo!”

Si era schermito lui con autoironia.

Era la prima volta che Peter parlava così, a briglia sciolta, senza timore di far male. Prese tutte le indispensabili precauzioni non aveva mai parlato delle sue emozioni.

Non per eroismo ma perché, come tutti i maschi, non ci era mai riuscito.

“Anche quando Capitan Callaghan è diventato un eroe silenzioso ha continuato ad essere un esempio per tutti noi: quando combattevi contro quella scema, quando volevi veramente vivere, tanto da impazzirne, tanto da non tirarti indietro difronte a nulla, non ti sei nascosto dietro un banalissimo scudo!”

Erano crollate tute le barriere e non sapendo più a cosa appigliarsi a Philip era quasi mancato l’ossigeno.

Per non commuoversi sul serio si era chiuso in bagno per dedicarsi a sé stesso. Si era levato in fretta la maglietta sporca, qualche minuto per lavar via sudore, stanchezza, pensieri e per ritrovare un temporaneo equilibrio. Aveva indossato la t-shirt lasciando che il tessuto lento gli drappeggiasse sul torace.

“Allora? Non è proprio carino questo Superman di Furano?”

Un vero amico lo riconosci subito: ti fa scoppiare a ridere anche quando proprio non lo vuoi e Peter era per lui specchio e ombra: lo specchio non mente e l’ombra non si allontana.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Timore e tremore ***


Si era svegliato ansimando, madido di sudore, sbattendo le palpebre un paio di volte e solo la voce di Jenny, come un raggio di sole che apre le nuvole, lo aveva colpito improvvisamente riscaldandolo.

“Ssshh!”

Amorevolmente la ragazza gli aveva allontanato le ciocche dalla fronte e gli stava accarezzando la schiena per rassicurarlo.

Philip si era lasciato andare, affondando di nuovo sui cuscini e cercando di respirare con calma, per rallentare il battito frenetico del suo cuore.

Si sfregò gli occhi e accese l’abat-jour: la sveglia segnava le due e qualche minuto.

“Dannazione!”

Imprecò coprendosi il viso con le mani. Credeva di aver ormai raggiunto la tranquillità ma ora sapeva di non essersi lasciato del tutto alle spalle paura e insicurezze.

“È stato solo un brutto sogno!”

Ancora la voce dolce e pacata di Jenny e la sua mano fresca e sottile ad accarezzargli la guancia. Aveva tirato un lungo sospiro mentre lei gli asciugava la fronte e il viso con una pezzuola di lino, aveva sentito il bisogno di una boccata d’aria fresca e si era alzato bruscamente, affacciandosi alla finestra.


Philip aveva scrutato nel buio, lasciandosi rinfrescare dalla brezza della notte: respirando profondamente, chiudendo gli occhi e riempendo d’aria i polmoni finché non li aveva sentiti bruciare.

Hu-u-ou Hu-u-ou.

Il lugubre verso di una civetta delle nevi aveva squarciato il silenzio e un brivido gli era salito lungo la schiena.

Jenny non era più nella stanza, era indietreggiata con discrezione rispettando il suo bisogno di solitudine, e pochi minuti dopo era rientrata con una tazza fumante di una tisana rilassante e dal gusto fruttato.

Lui l’aveva accettata con espressione piatta: adesso che l’incubo era svanito, evaporato dalla sua mente, non ne voleva parlare.

“Philip ci arriveremo ad essere davvero felici e sarà meglio di qualsiasi altra cosa. Te lo prometto!”

La osservava rendendosi subito conto di quanto fosse bella e seducente con quella camicia da notte: il pizzo le sottolineava i seni tondi, la seta aderiva intimamente alla sua pelle e alla perfezione alle sue forme, il colore scuro metteva in risalto il candore della sua pelle…Quella donna era così sensuale da farlo rimanere senza respiro.

Jenny lo aveva abbracciato senza esitazioni, baciandolo all’angolo della bocca, sulla guancia, sulla tempia…Era un momento molto dolce e corroborante ma anche completamente devastante.

Il ragazzo aveva allontanato il viso da quella bocca ammaliante sebbene non volesse altro che aggrapparsi a lei e assorbire tutto: il suo profumo, la sua presenza, il suo affetto carico di fiducia…

Aveva combattuto per fermare quella valanga di emozioni, per riaffermare il proprio controllo e in qualche modo ce l’aveva fatta.

L’ansia per quello che sarebbe successo l’indomani gli stava togliendo il sonno e la sua mente non era lucida: distorceva ogni rumore, ogni ricordo, ogni emozione e la più piccola delle fantasie diventava un incubo.

Avrebbe dovuto soltanto riposare così aveva voltato la testa dall’altra parte provando a dormire ed era sprofondato in un sonno chimico, unico possibile salvagente quella notte.


Lo aveva svegliato un raggio di sole che gli si era posato sul volto come una carezza. Philip si era messo a sedere lanciando uno sguardo alla finestra: la luce era ancora bassa e si sentiva soltanto il cinguettio di tordi e tasselli, i più mattinieri tra gli uccelli.

Sbadigliò, stirando la schiena, e si sentì uno sciocco: tutti i timori e le incertezze della notte avevano perso consistenza. Si era voltato a contemplare Jenny distesa al suo fianco: dormiva dolcemente, sul volto tutta la tranquillità e la bellezza di cui aveva bisogno quella mattina, un leggero sorriso sulle labbra e l’odore del suo respiro a riempirgli le narici.

Vivevano sotto lo stesso tetto ormai da settimane ma Philip riusciva ancora ad innamorarsi di lei ogni mattina. Le aveva accarezzato dolcemente il volto cercando di non svegliarla e si era alzato cautamente dal letto: era ancora l’alba, meglio lasciarla dormire ancora un po’.


Era uscito di casa quando il grigio della notte e il silenzio della città si spezzavano di arancio e di rosa ed era arrivato quando il sole iniziava ad allargarsi sui parcheggi del Sapporo City General Hospital preannunciando una giornata limpida, senza nuvole.

Azzurra.

Anche se il suo corpo era nato di nuovo quei controlli erano ancora molto frequenti ma, prima di avviarsi, Philip si era concesso una deviazione nell’edicola posta al culmine della strada. Aveva ripiegato il giornale sportivo appena acquistato e lo aveva messo sotto il braccio come un uomo d’affari quindi, aggrottando le sopracciglia, si era diretto verso il grande corridoio centrale. Verso la sala-prelievi.

Era ancora molto presto e c’erano solo sei o sette persone sedute a guardare dritto davanti a loro in silenzio o a parlottare piano.

Per distarsi il ragazzo aveva deciso di leggere: era penetrato con un pizzico di gelosia e tanta nostalgia, nei trionfi sportivi dei suoi compagni di Nazionale, dei suoi amici e aveva rosicato per quelle occasioni che, in quel momento, a lui sembravano precluse per sempre.

Vista dietro il giornale aperto la sala adesso iniziava davvero ad affollarsi. Philip aveva tentato di indovinare il motivo per cui ognuno fosse lì: chi per controlli di routine, chi per ipocondria, chi come lui per verificare che le cure andassero bene…Quella ragazza, poco più in là, che si accarezzava il pancione e attendeva di assicurarsi che la gravidanza procedesse per il verso giusto.

Era il suo sorriso sereno che Philip invidiava di più e, per un breve attimo, si era immaginato lì in attesa con Jenny in una situazione felice.

Intanto l’odore nella sala cominciava a cambiare: si sentiva il pulsare alcolico del disinfettante, qualcuno conversava con i vicini di sedia e le loro parole, tutte insieme, suonavano come un tuono crescente; le infermiere in camice verde sembravano misteriose sacerdotesse.

Finalmente era arrivato il suo turno.


Senza perdere tempo si tolse il giubbino e cominciò ad arrotolare la manica rimboccandola tutta sul braccio sinistro.

L’infermiera guardò il testo dell’impegnativa, poi gli rivolse uno sguardo malinconico.

“Si stenda, liberi le braccia e serri i pugni!”

Indicò il lettino immacolato e Philip obbedì, stringendo i pugni e serrando gli occhi per spingere dentro anche tutti quei pensieri che, come un altalena ,gli si muovevano testardi dentro la mente. Desiderava soltanto fare il vuoto di tutto.

Sentiva l’ago che si insinuava prepotente nella vena, gli sembrava quasi di percepire il calore del sangue che scorreva, il braccio intorpidito e le dita gelide. E poi aveva trovato il coraggio di guardarlo quel sangue che, progressivamente, riempiva le provette. Un sangue scuro che scendeva come un mare stanco, un sangue che avrebbe potuto tradirlo ancora…

“Abbiamo fatto, può alzarsi! I risultati verranno inviati al dottor Wright!”


Si era ritrovato fuori con un po’ di ovatta premuta con forza nell’incavo del braccio un po’ indolenzito. La sala d’aspetto adesso era gremita di persone e lui voleva solo fuggire da lì per iniziare la sua giornata.

Sentiva il bisogno di parlare con qualcuno, avrebbe voluto Jenny con sé ma chiamarla era fuori discussione: era giusto così.

Doveva aspettare soltanto fino a venerdì, fino all’appuntamento con l’oncologo, e poi quello spavento si sarebbe trasformato in un gran sollievo.

Gli sembrò un tempo interminabile ma proprio quando stava per cedere allo scoramento tra tutti quegli sconosciuti in piedi o che si agitavano allo sportello aveva notato un viso familiare.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Terra-ferma ***


La campagna intorno a Furano era stupenda: fitti cespi verde argentato che si tingevano del viola brillante della lavanda fiorita tanto che sembrava di trovarsi in Provenza piuttosto che in Giappone.

Quel posto aveva riempito i suoi pomeriggi durante l’infanzia e, adesso, per Tom non c’era niente di più bello ed emozionante che ripercorrere le viuzze dove un tempo era solito giocare con i suoi amichetti e ritrovare le stesse case, gli stessi negozi, gli stessi rumori per strada ma persone diverse.

Bastava chiudere gli occhi per risentire la voce severa di suo padre sgridarlo per un danno appena fatto, o quelle entusiaste e vivaci di Philip e degli altri bambini che lo avevano assurto a loro idolo e ne avevano fatto il loro modello.

Lo avevano ribattezzato Tom Sawyer e si sentivamo molto simili a lui: ribelli e fantasiosi mentre in un’atmosfera avventurosa e fiabesca costruivano tepee con le tende di casa e, con un po’ di pazienza, una zattera di fortuna con i rami degli alberi per improvvisarsi pirati e lupi di mare.

Quell’albero dei ricordi, quell’ isola che non c’è più , gli aveva scaldato il cuore. Erano minuzie necessarie perché Tom ritrovasse sé stesso e non dimenticasse quelle piccole sensazioni ancora in grado di farlo stare bene.

D’altronde sapeva che crescere significava guardarsi indietro e abbracciare i ricordi senza piangere, saper distinguere la realtà dai sogni.

E la realtà lo aveva investito con la violenza di un pugno allo stomaco quando, tornato a casa di Grace, aveva intercettato una telefonata tra lei e Jenny.

Non avendo nulla da nascondergli la fidanzata aveva messo in vivavoce.


Ci aveva messo meno di un secondo per decidere.

Un minuto per passare all’azione.

Cinque per baciare le labbra morbide e piene di Grace, che profumavano di sorrisi.

Due ore e venti minuti per arrivare a Sapporo.

Aveva respirato a pieni polmoni l’aria frizzante e tersa: nel capoluogo dell’Hokkaido sembrava tutto più limpido e pulito, tranquillo e sereno.

Poi si era fermato ad un chiosco di fiori per strada.


Quando Philip se lo era ritrovato davanti, con quel bouquet di tulipani arancioni, lo aveva trovato così buffo e fuori luogo, in netto contrasto con la severità e la sobrietà dell’ospedale, che era scoppiato a ridere.

A ridere senza sforzo, a ridursi sull’orlo delle lacrime.

Per un attimo i suoi pensieri avevano smesso di vagare nel vuoto di quel colore nero. Subito dopo, però, si era sentito ondeggiare come sbatacchiato dalle onde di un mare in tempesta.

Le pareti non stavano ferme, le vedeva ruotare in una sensazione di vertigine.

Aveva avuto un mancamento e le braccia di Tom si erano trovate pronte a sostenerlo. Philip aveva guardato con rammarico i fiori sgualciti tra le sue mani e qualche petalo cadere per terra.

“Quelli sono per me? Mi dispiace ma sono già impegnato!”

Aveva tentato di sdrammatizzare per convincere l’amico che non era nulla di grave. Si erano scambiati uno sguardo d’intesa e Tom era stato al gioco.

“Non lo sapevi che i grandi amici sono amori mancati?”

Philip cercava di essere spiritoso ma gli girava la testa ed era pallido come la luna. Tom lo aveva fatto sedere. Ricordò che era a digiuno: non aveva mangiato e forse ne aveva bisogno.

“Posso offrirti la colazione?”


Erano entrati in un bar, pieno di persone a metà mattina. L’aria era cornetti, caffè e una lontana traccia di vaniglia.

Philip aveva preso una fetta di torta Tsumugi , morbida, umida e dal ricco sapore di cioccolato bianco e un cappuccino. Aveva bevuto lentamente e dato piccoli morsi al dolce sentendosi scendere dentro il calore del latte.

Quando ebbe saziato il suo appetito si appoggiò allo schienale della sedia, con un sorriso soddisfatto. E anche Tom era gratificato dal fatto di aver saputo individuare giustamente i bisogni del suo amico.

C’era un solo modo in cui Philip poteva ricambiare quelle attenzioni e preoccupazioni affettuose e premurose: tranquillizzarlo.

“La tendenza a sanguinare è il problema principale del post-trapianto. Il numero delle mie piastrine è calato molto e se, l’altra sera, l’emorragia non si fosse fermata sarei dovuto andare in ospedale. Per fortuna, invece, si è fermata lasciandomi esausto, anche per via dello spavento, ma felice di andare a casa di Peter e scroccargli una t-shirt bellissima!”

Aveva spiegato con semplicità e lucidità per esorcizzare la paura: la paura per la recidiva, per ogni livido sospetto, la paura che gli esplodeva dentro per un po’ di sangue dal naso o qualche ematoma sulla gamba…

“Posso farti una domanda?”

Si sentiva leggermente instabile e aveva bisogno di un angelo della porta accanto , gentile e altruista, come Tom per non rischiare di rompersi.

“Quanto è scomoda? Non mi fido molto delle tue domande!”

“Non so se è scomoda ma sarò diretto…”

Callaghan era fatto così: ruvido e schietto, dritto al punto senza compromessi.

“Come ti sei sentito dopo l’incidente?”


Era una domanda a bruciapelo, di quelle che spiazzano, e Tom si era preso qualche minuto per formulare la risposta giusta.

“Quando la mia gamba mi ha permesso di reggermi di nuovo in piedi, la mia mente ha iniziato a digerire tutto quello che mi era successo. Mi sentivo come se avessi perso tutto.

L’unica cosa che mi era sempre interessata, che mi aveva reso felice, non c’era più. Il calcio era sparito!

Non potevo più dribblare, tirare punizioni o calciare a rete. Non sapevo più chi fossi! Però avevo deciso che non potevo rinunciare: avevo lavorato duramente e volevo indietro la mia vita. E mentre con una mano cedevo quello che ero costretto a perdere, con l’altra prendevo cose che mai avrei conosciuto altrimenti: una mamma, una sorella, una nuova famiglia!”

La morale di quella storia così delicata, intima e toccante, era che accettare la sfida senza rabbia era la cura migliore.

Le parole di Tom gli avevano dato la spinta necessaria per rimettersi in gioco e, quasi di riflesso, Philip si era piano, piano spogliato di tutte le sue vergogne.

“Io sono un sopravvissuto, tecnicamente si dice così! Significa che ho superato una fase critica della mia esistenza anche se, spesso mi sembra di starla ancora attraversando, quindi posso accontentarmi. A quasi un anno e mezzo dal trapianto posso ritenermi fortunato: non perché ho sconfitto la leucemia ma perché ci sono. Le malattie come la leucemia non si combattono, si vivono!”

Si era sentito diverso, non si era accettato per mesi. Parlarne era davvero una liberazione perché dire che la malattia gli aveva cambiato la vita era un po’ scontato ma percepirlo sulla propria pelle era stata tutta un’altra cosa.

Si era scontrato d’improvviso con il senso del limite.


Confidarsi con il cuore, mettere le emozioni in parole senza filtri, aveva permesso ai due ragazzi, ancora emotivamente vulnerabili, di aprirsi l’un l’altro senza sentirsi sopraffatti.

Erano state un po’ delle scosse di assestamento le loro reciproche confessioni e avevano bisogno di una terra-ferma , di punti fermi che facessero da bussola per ripartire.

“Siamo giovani, forti e agguerriti! E ad Iwata hanno fatto un affarone ad ingaggiarti!”

Gli aveva fatto l’occhiolino e un mezzo sorriso impertinente era comparso sul suo viso sbarbato e Tom, che in quell’entusiasmo sincero aveva afferrato una nota di amarezza, aveva allungato la mano sul braccio gonfio e ancora un po’ indolenzito.

“Sarà solo un’ora di aereo a dividerci stavolta!”

D'altronde lo avevano capito molto tempo addietro che la vera amicizia non consiste nell’essere inseparabili ma nel sapersi separare senza che nulla cambi.

“Quindi diventerai un nomade stanziale?”

Entrambi avevano riso a quella battuta che era una verità. Tom aveva sistemato alla bell’è meglio i suoi allegri tulipani sgualciti nei grandi petali frastagliati.

“Sulla via del ritorno avevo deciso di andare a trovare un vecchio amico. Vieni con me?”

La malinconia e la dolcezza con cui glielo aveva chiesto avevano convinto immediatamente Philip. Erano passati ormai otto anni ma lui, in quel posto di pace atipica, riusciva ancora a parlare con il preside-allenatore come se lo avesse incontrato per strada o dovesse rivederlo il giorno dopo a scuola.

Era scattato in piedi estraendo dalla tasca le chiavi dell’auto.

“Guido io!”

L’altro si era rassegnato a quella decisione scuotendo la testa e sorridendo.

“Certo che sei proprio un gran testone!”

Tom alla fine aveva ragione: le amicizie sono tante piccole love story, e ognuna è una storia a sé. Una delle cose più belle era mischiarle perché davano più gioie che pensieri.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** La scatola dei ricordi ***


Il giovedì era il giorno del rientro a scuola per Jenny e per Philip era diventato ormai un rituale pranzare con i genitori, lasciandosi tentare da sua madre che gli preparava pasti da re.

Le nuvole scure si erano rincorse e addensate per tutta la mattina ma ora avevano perso anche l’ultima nota di minacciosità e, sotto un arcobaleno che aveva colorato i suoi pensieri piatti e alieni, Philip si era incamminato.

A piedi ci volevano dieci minuti.

Era distratto e aveva centrato diverse pozzanghere tanto che sentiva l’acqua infiltrarsi nei piedi umidi.


Si era affacciato alla porta del salotto in stile rustico e aveva ammirato la sagoma di suo padre che fumava alla finestra. Era un uomo forte e sano, un toro.

“Ehi!”

Erik non era tipo che si potesse cogliere di sorpresa. Aveva l’aria del burbero montanaro che non si spaventa nemmeno sotto bombardamento e averlo fatto sobbalzare un po’ divertiva Philip, ma di certo non glielo avrebbe mai detto.

Dandogli ancora le spalle aveva buttato il mozzicone di sotto, poi era venuto verso di lui. Gli aveva appoggiato le mani sulle scapole e lo aveva scrutato negli occhi con un’attenzione imbarazzante.

Forse solo dopo quella domenica che aveva stravolto completamente le loro vite, dopo essersi rigirato la frase di Philip in testa per mesi senza esito, come le facce di un cubo di Rubik, aveva imparato a conoscere a fondo suo figlio, a scoprire le sue ricchezze.

Philip lo fissava serio con i suoi occhi tristi e ironici, duri e ansiosi allo stesso tempo e sembrava dirgli di aver bisogno di lui, del suo calore, come una piantina ha bisogno del sole.

“Quelle scarpe non sono buone per la pioggia!”

Da quel giorno il tempo era scivolato via come una valanga e la sensazione più brutta per Erik era stata l’impotenza: come genitore si era sentito incapace di proteggere suo figlio dal male.

“Lo so! Le altre mi si sono sfondate l’inverno scorso e oggi la bottega del signor Damon è chiusa!”

“Il centro commerciale è aperto!”

“Non ce la faccio a comprare le scarpe lì dentro!”

Non aveva nessuna voglia di mostrarsi ancora così vulnerabile ma era davvero difficile ricominciare a vivere la quotidianità dopo aver vissuto in quella che era sembrata una grande bolla di sapone dove nessuno poteva entrare o uscire .

“Così ti ammollerai i piedi, però! Vieni! Ne ho io un paio da prestarti!”

Philip si era concentrato su quelle mani che lo guidavano: pensò che non avrebbero mai perso la loro forza e ne era felice perché gli davano sicurezza.

Erik si era chinato sulla scarpiera, quasi tutti gli spazi erano pieni. Aveva preso in mano una ballerina di seta ricamata di fili dorati, vezzo di Sarita, poi aveva continuato a razzolare fino a tirare fuori un paio di scarponcini marroni, di pelle, con un bel carrarmato.

“Prova queste! Io non le metto, mi fanno male alle dita!”

Calzavano proprio bene!

Il ragazzo aveva rivolto a suo padre un sorriso grato ed era stato ricambiato da un inaspettato occhiolino che ristabiliva la loro intesa ritrovata.

“Non dire niente a tua madre altrimenti me ne fa comprare un altro paio!”

Non erano serviti gesti per suggellare quella promessa. Philip si era allontanato senza nessun contatto: tra loro non servivano, era tutto chiaro.


Sarita era in cucina. Appena lo aveva visto si era stampata sulle labbra un bel sorriso, di quelli senza ombre, e gli aveva dato un bacio di quelli che rimangono incollati sulla faccia.

Ed era bello vedere questo Philip, che a ventitré anni aveva già ai lati della bocca due pieghe amare e la fronte incisa per l’abitudine di stare aggrottata, trasformarsi.

Era bello vederlo sciogliersi: gli spigoli del viso scomparire, le spalle calare di qualche centimetro e le labbra arricciarsi per ricambiare quel bacio.

Si era avvicinato ad un cespo di lattuga e, benché non fosse proprio in grado di tagliarlo decentemente, aveva iniziato a rimuovere le foglie esterne.

“Sono ospite, il minimo che possa fare è aiutarti!”

Aveva zittito il tentativo di protestare di Sarita e si era messo a pulire l’insalata e a tagliarla con il coltello. Dal suo volto silenzioso e concentrato una lacrima era scesa lenta e furtiva e non era sfuggita alla sensibilità acuta e profonda di sua madre.

“Cos’hai? Non ti ho dato le cipolle da affettare!”

La battuta era fiacca e non era riuscita a farlo sorridere allora Sarita si era avvicinata e, con tono serio, abbracciandolo, aveva rilanciato.

“Cos’hai?”

Gli scocciava svelare così le sue debolezze, soprattutto dopo l’ultimo anno durante il quale sua madre gli chiedeva ogni cinque minuti se stava bene e suo padre se ne restava muto, ma aveva bisogno di quello sfogo, di sua madre.

“Un uomo che piange suona veramente male, vero?”

La donna gli aveva preso la mano e lo aveva fatto sedere con delicatezza su una sedia. Aveva un tocco gentile che riusciva sempre a far sentire meglio Philip.

“Forse ha più coraggio un uomo che piange in quanto non ha paura di rivelarsi, non credi? Devi essere un guerriero responsabile: non prenderti sulle spalle il peso del mondo ma impara ad affrontare le sfide del momento!

Tu non hai mai pianto Phil, non è nel tuo carattere, ma forse a volte ti avrebbe fatto un gran bene!”

Erano parole rincuoranti che gli davano la stessa sicurezza e lo stesso conforto di quando, da bambino, arrivava ad accendere la luce in una camera buia e l’ombra nera nell’angolo smetteva di essere il mostro cattivo per tornare ad essere una poltrona di velluto.


Solo allora aveva notato quel bauletto in legno, nel quale Sarita aveva dato una sbirciata, e con incommensurabile tenerezza aveva iniziato a svuotarne il contenuto sul tavolo in formica.

La scatola dei ricordi era stata un tentativo di sua madre di invogliarlo a custodire oggetti, foto, lettere, piccoli pensieri legati a momenti significativi della sua vita. A Philip adesso faceva piacere ritrovare quei preziosi scampoli di passato, che raccontavano il bambino che era stato: il suo primo anno, i compleanni, le feste a scuola, le gite allo zoo, le mostrine degli incontri di calcio regionali e statali disputati fin dalle elementari…

E poi tanti momenti divertenti, folli, teneri che aveva (quasi) dimenticato.

Erano quelle le foto più belle, quelle spontanee, scattate per caso; di quelle dove si chiudono gli occhi e si danno le spalle all’obiettivo.

Aveva davvero bisogno di questo: di tenersi stretti i ricordi per vivere il presente ed affrontare il futuro forte dell’unicità della sua storia.

Prima che li raggiungesse anche Erik e iniziassero a mangiare, e a bere acqua e pensieri, mandando giù riflessioni, Philip si era accorto di un’istantanea particolare: lui, a cinque mesi, nudo dentro una piccola piscina gonfiabile e con tanti strati di ciccia da sembrare un piccolo Buddha.

“Questa forse è meglio se non la facciamo vedere mai a Jenny!”

Lo aveva preso in giro Sarita, con gli occhi lucidi. Ed era bastato il sorriso grande e pieno di sole di Philip a ricaricarla.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Il sorriso della maestra triste ***


Jenny aveva sempre pensato all’aula come ad una seconda casa.

Era stato desolante, il primo giorno dopo le vacanze, rientrare in un ambiente dalle pareti spoglie, senza traccia tangibile della presenza dei bambini e alla giovane maestra era bastato davvero poco per rendere il tutto accogliente: una piccola biblioteca, del verde sui davanzali delle finestre, un angolo dedicato alla lettura, alla musica e alla pittura.

Aveva disposto i banchi a semicerchio e aveva coinvolto i suoi piccoli allievi che, con i loro disegni, avevano dato un tocco di colore alle pareti.

Quelle Coccinelle , che si fidavano di lei, della sua presenza e dei suoi insegnamenti, le allargavano il cuore quando si guardavano intorno curiosi e chiedevano il perché delle cose.

Quella mattina aveva deciso di giocare con la classe a descrivere le emozioni attraverso i colori: c’era il giallo dalle sembianze di una stella, il verde che vagheggiava una foglia, ma, quando era toccato a lei, Jenny aveva scelto il blu che richiamava una lacrima.

Quando l’avevano vista prendere la figura della tristezza i bambini si erano sorpresi come se la loro maestra, a volte severa, a volte dolce, a volte spiritosa, non potesse essere triste.

E a quei perché leciti e insistenti che erano seguiti aveva risposto in modo semplice raccontando di un folletto malefico che si divertiva a far dispetti e a far perdere la pazienza a lei e al suo bel principe.

Finalmente la campanella suonò annunciando la ricreazione.

Vista la bella giornata di sole, anche se un po’ fredda, Jenny aveva dato ai bambini il permesso di correre in cortile e lasciarsi andare ai meritati giochi.

Si era concessa qualche minuto per osservarli e per invidiare quell’età in cui ci si diverte facendo i conti o scrivendo parole e giocando s’impara.

Per i piccoli, con gli occhi ancora pieni di gnomi, fate e magia, l’unico futuro era il minuto successivo che la maestra avrebbe rubato al gioco.

Lei, invece, aveva la testa altrove.

Shirley, la collega dagli occhi, dai capelli, dalla pelle e perfino dall’odore caramellato, l’aveva colta in flagrante. Si era accorta che Jenny non stava bene e non aveva esitato a salvarla.

“Vai nell’ufficio della direttrice e chiedi un permesso! Io ho appena smontato ma non ho problemi a fare qualche ora extra in classe tua!”

L’aveva incoraggiata con un occhiolino complice e la sua esuberante risata da ragazzina.


In attesa, nel reparto di oncologia, Philip si sentiva come nei giorni più neri: come una cavia sotto vetro costretto a respirare un cocktail di aria condizionata e dubbi.

Era ricaduto nel pozzo dell’incertezza: gli occhi bassi e fissi al pavimento, pestando con il piede come per scacciare quei sentimenti tortuosi che gli albergavano dentro.

Si era voltato e se l’era trovata davanti, carica di libri e di fiducia.

Il viso mielato dalla luce che entrava dagli ampi finestroni, gli occhi grandi e cordiali, il sorriso enigmatico: era così bella, giovane. Indossava i sui ventidue anni come le gemme di primavera.

Si era avvicinata a passo sicuro e niente sarebbe stato capace di raccontare, di spiegare, quell’amore che faceva ancora tremare le gambe a Philip ma, allo stesso tempo, lo sosteneva.

Aveva inclinato la testa da una parte e aveva allargato le braccia e Jenny vi si era abbandonata senza remore come se volesse proprio entrarci in quell’abbraccio geometrico.

Era stato un abbraccio placido e tenero, circoscritto in uno spazio brillante e rassicurante ma, appena si erano staccati, si era accorta che dietro lo sguardo limpido del suo uomo c’era una maschera.

“Perché ti ostini a volermi tagliare fuori dai tuoi dolori?”

Un tetro, minaccioso silenzio era caduto improvviso e lei ne era rimasta pietrificata. Aveva osservato, preoccupata, quel ragazzo che conosceva quasi meglio di sé stessa cercando di decifrare ogni messaggio non verbale.

“Perché per me ti sei trasformata in una specie di infermiera supplente!”

Era una verità chiara, pungente come mille aghi conficcati nel cervello.

Lo rivedeva, dopo appena un mese dal trapianto, con dieci chili in meno, le mucose secche, l’intestino annodato e un viavai di nausee, febbre e capogiri.

Piano, piano, aveva iniziato a sentirsi meglio, e una mattina lei si era presentata in tuta e scarpe da tennis proponendogli di fare ginnastica insieme…E da allora era diventato un rito, un’abitudine .

Quei ricordi tristi erano stati spazzati via da un espressione dolcissima e determinata, decisamente irresistibile.

“Sei un puro, semplice, meraviglioso egoista!”

C’era un legame profondo a legarli da sempre; non era fatto di corde o di nodi eppure era impossibile scioglierlo.

Si erano lasciati cadere sulle poltroncine del corridoio abbandonandosi a due sorrisi invalicabili da chiunque.

Si erano chiusi nel silenzio e, come si fa con il pedale della sordina di un pianoforte, avevano cercato di abbassare il tono delle loro emozioni, come per nasconderle e per non far rumore.

Quando l’infermiera, una donna dal viso rotondo e dai capelli bianchi, li aveva fatti passare i loro cuori avevano iniziato però a fare più rumore e a battere velocemente.


Il Dottor Wright era un uomo robusto, con un po’ di pancetta, gli occhi marroni un po’ a mandorla e una voce rumorosa. Però aveva un’espressione buona e simpatica.

“Venite avanti. Da seduti si parla meglio!”

Philip era scosso e nemmeno la mano calda e morbida di Jenny riusciva a calmarlo.

Aveva così tante domande che non riusciva a concentrarsi nemmeno su una. Ma forse il dottore sapeva già.

Forse le aveva lui, tutte le risposte che cercava.

E quell’uomo con il camice bianco, in passato più volte si era dovuto girare dall’altra parte per scrivere i referti e per evitare di commuoversi davanti a quell’amore che vinceva su tutto, a quei due ragazzi che avevano imparato a vivere sul filo del rasoio, a stare sempre all’erta anche quando avrebbero avuto bisogno solo di un grande sospiro di sollievo.

“Philip, è solo un problema di piastrine basse! L’esame è risultato negativo, quella cosa sospetta era solo una piccola infezione quindi niente di recidivo!”

Anche le parole curano ma Philip ci aveva messo un po’ ad assimilare la notizia e, anche a quel punto, sembrava poco convinto.

Prima incredulità, poi gioia e infine lacrime.

Piangevano di gioia entrambi, sia lui che Jenny, sapendo che il peggio era stato sconfitto strofinandosi a vicenda le gote umide.


Era rinato!

Gli occhi che brillavano di un senso liberatorio di sollievo e gratitudine e così felice che Jenny fosse con lui, con lui in tutti i sensi.

L’aveva sentita che tirava su con il naso.

E anche a Jenny lì, fuori dal padiglione dall’ospedale, sembrava adesso di vivere dentro un sogno. Gli sembrava di volare e che tutto fosse possibile, come in una favola.

Così sopra le nuvole, sopra le righe, con un briciolo di follia lo aveva fatto.

Circondata da crisantemi dai caldi colori autunnali e da ingialliti platani secolari, si era fermata al termine del vialetto in ghiaia e lo aveva guardato dritto negli occhi.

“Adesso non hai più scuse per non sposarmi, Philip Callaghan!”

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Cuore nel pluriball ***


Summer era una bambina molto speciale, lo era talmente tanto che non poteva esserci nome più adatto per lei. Tutto in lei ricordava l’estate: il suo aspetto come un castello di sabbia costruito sulla riva, la sua voce simile al suono del mare in una conchiglia, i suoi capelli rossi come un sole al tramonto…Una piccola principessa, un po’ imbronciata e un po’ con il sorriso, con le scarpette chiuse da un bottoncino e il vestitino chiaro ridefinito da una decorazione semplice ma delicata.

Bastava guardarla insieme al suo papà per immaginare un ritratto d’epoca.

Lui e lei. Da soli.

Sospesi in un tempo sconosciuto, come domande senza risposte, nel loro mondo ovattato e distante, in qualche modo inaccessibile.

Per Philip il fulcro di tutta quell’immagine era un dettaglio solo: la mano grande di Julian a stringere con delicatezza affettuosa il braccio e la manina della sua piccina.

Era un gesto che raccontava tutta una vita, narrava un sentimento di accudimento e cura.

Io ti proteggerò! Ci penso io a te, non avere paura di niente.

C’è papà qui accanto a te !

E Summer, uno scricciolo, con gli occhietti vispi e curiosi, nella sua fragile tenerezza si sentiva davvero al sicuro solo nell’abbraccio grande e sincero del suo papà.

Nel traguardo dei terribili due anni , il periodo dei no e dei tanti capricci, era davvero buffa mentre correva per il giardino della graziosa villetta di Furano e intanto cercava di chiacchierare con lo zio Philip infilando parole a modo suo.

Diceva cose stranissime, destando spesso sorpresa e confusione in Philip, e Julian tentava con tutte le sue forze di non scoppiare a ridere vedendo l’amico spiazzato. Sapeva, però, che Summer non si sarebbe più fidata di lui se si fosse messo a ridere perciò manteneva l’espressione seria.

“Sai che quasi ti invidio? Sei un papà fantastico, uno di quelli che porta la foto di sua figlia nel portafoglio dove prima c’erano i soldi. L’ho capito subito che Summer è il tuo ossigeno, la tua forza…Un pezzo di cuore fuori dal tuo corpo!”

La sua voce tradiva i rimpianti capaci di avvelenare un futuro diverso da come se lo era sempre immaginato e dinnanzi a quel Avrebbe potuto essere per Julian era stato difficile trovare una replica.

Guardava sua figlia e si sentiva un uomo incredibilmente fortunato.


Amy, intanto, era stata ben felice di ritagliarsi un po’ di tempo per stare da sola con Jenny. La cucina per lei era sempre stata il cuore pulsante di una casa : vi si poteva lavorare e studiare, pensare o suonare, scrivere o chiacchierare, fare tutti ciò che la vita propone e costruire la propria storia.

Alle due ragazze piaceva chiacchierare praticamente di tutto ma se la conversazione toccava la malattia di Philip, Jenny si chiudeva a riccio.

Era come una vetrata: scintillante e brillante quando c’è il sole ma, quando cala l’oscurità, capace di rivelare la sua bellezza solo se ha una luce dentro.

Amy si era specchiata in quel suo alter ego sensibile ma non fragile, che aveva combattuto come una guerriera , con tutta sé stessa per amore.

A Jenny era sfuggito un sospiro appoggiando le mani sul piano cottura in marmo scuro. Prima di salare la carne aveva rivolto all’amica uno sguardo interrogativo e la signora Ross, raffinata e dolce come da ragazzina, le aveva letto nel pensiero.

“Non succede nulla se, ogni tanto, Julian non segue con precisione la sua dieta!”

Era stata la frase giusta perché la padrona di casa si convincesse a condividere anche i suoi fardelli.

“A volte è stato difficile anche per me! Accompagnare Philip ai controlli medici, seguire alla lettera le sue terapie, coinvolgerlo nelle attività domestiche meno faticose quando si sentiva inutile…”

Amy aveva annuito con un’espressione comprensiva ed accondiscendente.

“Ci vuole tanta pazienza. A nessuno piace sentirsi un peso, ogni tanto inutile, spesso impotente, messo in un angolo ad aspettare e sperare di guarire presto! Ma anche l’uomo più forte del mondo ha bisogno di una donna al suo fianco perché, quando la sua vita è un casino, come in una partita di scacchi la regina protegge sempre il re!”

Solo un’amica che la conosceva bene poteva toccare le corde giuste con quelle parole confortanti e Jenny aveva sorriso grata e sollevata.


Julian era stato fortunato perché durante gli anni più duri aveva avuto al suo fianco Amy. Le era grato per tutto il tempo che gli aveva dedicato ma sentiva anche di essere amato, accudito e protetto come se fosse un bambino.

“Non rinunciare alla speranza, Phil! Non essere quello che si ferma a guardare il fuoco che si spegne per poi soffiare inutilmente sulle ceneri!”

Philip aveva serrato i pugni stizzito, poi il risentimento lo aveva fatto esplodere.

“Avevo una salute tale da spaccare le montagne- come si dice qua- poi all’improvviso tutto è cambiato! Tu lo sai Julian come ci si sente quando si vive di solo calcio e si ama la vita, trovarsi da un giorno all’altro vedere tutti gli altri che giocano e tu che guardi e non puoi muovere un solo muscolo, come se fossi ingessato…”

Erano ricordi che riaffioravano alla mente di entrambi dolorosi quanto mai ma Julian era il più forte e il primo a riprendere il controllo.

“Avevo scritto una lettera alla mia malattia e l’intrepido undicenne che ero le aveva fatto una promessa: io a te ti distruggo prima che tu distruggi me !”

Philip aveva abbozzato un sorriso con gli angoli molli e aveva allungato una carezza sulla testa a Summer che li guardava attenta cercando di capire quel discorso tra grandi, incomprensibile per lei.

“Io invece ero come una squadra che rischia la retrocessione. Cos’avevo da perdere? Non avevo altra scelta che giocare, mettendoci tutto quello che avevo consapevole di aver fatto tutto il possibile!”

Quel paragone aveva riportato Julian al vero motivo per cui si era fermato in Hokkaido dopo la partita di campionato tra il Consadole e l’FC Tokyo.

“Oggi, quando sei entrato in campo, mi hai ricordato il Callaghan orgoglioso e battagliero che sei stato fin da bambino. Magari incespichi un po’ quando cammini, non sei elegante. Tu però non sei stato progettato per camminare ma per volare, Aquila del Nord ! Non ti accontenti di un trespolo, vuoi le montagne! E noi ti rivogliamo tutti in Nazionale…”

Philip aveva nicchiato difronte a quell’elogio così appassionato, cercando di resettare quei sogni e quei progetti spazzati via come la costa devastata da uno tsunami.

“C’è una cosa che la malattia mi ha insegnato. Non potevo tenere il mio cuore imballato nel pluriball e proteggerlo dalla vita, perché avrei dovuto? Anche se un po’ malconcio, è destinato ad essere utilizzato e a volte spezzato. Lascio che si faccia male e che si rompa se ce n’è bisogno. È questo il motivo per cui il mio cuore è lì!”

Come svegliandosi da un sogno, Summer aveva appoggiato le manine sul petto del suo papà e lo aveva guardato seria. Poi aveva rivolto a Philip un sorriso giocoso, un incantesimo a cui non aveva saputo resistere.

“Adesso basta! Canto io!”

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitano, mio capitano! ***


L’avventura in Nazionale di Philip era ricominciata da dove si era interrotta due anni prima: in quell’Hotel sulla Statale tra Hiroshima e Fukuyama, su un anonima strada lontana da tutto e da tutti.

Durante il viaggio in treno Tom non era stato inopportuno, rispettando i suoi tempi e rivelandosi quell’amico con cui si può anche stare in silenzio senza che la situazione diventi artificiosa.

Per evitare di essere coinvolto in una conversazione non gradita Philip si era perso nei suoi pensieri con pollice e indice premuti sulle palpebre.


Ritrovarli quasi tutti era stato come fare un tuffo nel passato. Erano eroi giovani, belli, spensierati...

Erano gli stessi con cui era salito sull’aereo per Parigi, a undici anni, forse senza nemmeno sapere il nome esatto della destinazione. Però intanto si erano divertiti, e non poco.

Prima di partire si erano conosciuti meglio e, al ritorno, non avevano potuto fare più a meno l’uno dell’altro.

Erano passati quattro anni dal miracolo sportivo che li aveva consacrati come generazione d’oro e dietro quella grande pagina di sport c’era semplicemente la voglia di stare insieme.

Philip conosceva ogni loro minima mimica facciale, ogni fisima.

Il ghigno di sfida che accompagnava le sfide a pingpong tra Benji e Mark.

I gemelli Derrick, Clifford e Sandy: i magnifici quattro della consolle, impegnati a fare prove tecniche alla play station.

Bruce lo scaramantico, che indossava sempre la stessa tuta tanto da dormire con quella. E, quando se la toglieva per allenarsi, gliene facevano di tutti i colori…

Philip aveva dovuto costringere i suoi piedi a compiere quei decisivi dieci passi che lo separavano dall’entrare nel vivo di queste scene e decisiva era stata la pacca d’incoraggiamento di Tom.


Non poteva cancellare con un colpo di spugna il male di quei mesi di lontananza ma l’affetto degli amici lo aveva travolto e si era sentito subito parte integrante di quel gruppo.

Con la loro presenza avevano confermato il sentimento che li legava, oltre che dargli tanta energia.

Freddy Marshall era rimasto in disparte a godersi l’affiatamento di quel gruppo fantastico.

C’era un episodio avvenuto nella clinica, lontano da occhi indiscreti, che Philip non avrebbe mai dimenticato.

Poco dopo il trapianto era andato in scena il dialogo più importante della sua carriera sportiva.

Marshall gli aveva fatto visita e al posto dei fiori si era presentato con un ottimo incentivo per spronarlo.

“Callaghan, come stai?”

“Insomma Mister!”

“Ti porto al Mondiale !”

Così secco, dritto al cuore. Quattro parole che gli avevano guarito l’anima.

Nei momenti di difficoltà le sentiva rimbombare nelle orecchie e accelerava.


Erano appena entrati in campo per il riscaldamento dopo una convocazione nella sala-riunioni, un tempio di filmati e immagini dei prossimi avversari su cui il mister chiedeva di prestare la massima attenzione.

A Philip tremavano i polsi e appena aveva messo piede sul rettangolo verde aveva sentito piccoli brividi di emozione e di responsabilità.

Prima di cominciare gli esercizi Mark lo aveva intercettato e, con un cenno del capo, lo aveva invitato a seguirlo sui gradoni dove avrebbero potuto parlare tranquillamente.

Calcolata la distanza che lo soddisfaceva dal resto del gruppo, Lenders si era tolto la fascia da Capitano dal braccio e l’aveva porta al compagno di squadra.

“Questa è tua, in assenza di Hutton, no?!”

Diretto, senza preamboli o mezze misure. Niente chiaroscuri.

In fondo era semplice e facile sarebbe dovuta essere anche la risposta.

Callaghan esitava, come se a quel pezzo di stoffa potesse affibbiare solo verbi al passato.

Quel pezzo di stoffa poteva dire tanto, tutto. Poggiato sul braccio cambiava il modo di vedere le cose, il modo di stare in campo.

Trasformava e modellava. Lo faceva diventare qualcosa di diverso.

Migliore.

Ma se prima era leggero adesso ne sentiva tutta la pesantezza.

Mark si era ben impresso in mente i suoi gesti e i suoi occhi

“La vita non dà garanzie. Accettane i rischi e le sfide!”

Era sbottato infine con i suoi modi rudi ma sinceri.

E allora Philip aveva accettato di essere investito di quel compito dal quale non poteva scappare. Di essere trascinatore e leone.

Di correre al doppio della velocità, di sudare, di lottare su ogni pallone e tirare fuori energie che credeva di non avere più.


Era tornato dai compagni con una marcia in più ma quando, durante il riscaldamento, tutti gli occhi si erano puntati su di lui si era sentito frugare nell’anima.

Qualsiasi cosa facesse sapeva che qualcuno lo stava guardando.

Fastidioso.

Si era dovuto concentrare al meglio per evitare errori ma, prima di rientrare negli spogliatoi, avvertiva ancora uno sguardo indugiare su di lui.

“Avanti Bruce, dillo che non sarò mai all’altezza di Holly! Non sono un campione, non sono un fuoriclasse…”

Le labbra del difensore si erano increspate in un mezzo sorriso e non aveva avuto bisogno di parole per smentirlo. Philip che era sempre stato la spina nel fianco dei vari Holly, Mark e chicchessia…Con tanto carisma da stringere tutta la squadra attorno a sé.

“Capitano. Mio capitano!”

Il ragazzo di Nankatsu aveva parafrasato quella battuta immortale, emettendo un suono simile ad uno squittio per smorzare la tensione di quel primo allenamento ed era sgattaiolato verso gli spogliatoi senza sentire il sussurro di ringraziamento di Philip.

Ora più che mai era convinto di voler dimostrare a sé stesso, al Mister, ai compagni, al mondo intero che non c’era altro posto su cui quella fascia dovesse trovarsi se non sul suo braccio.

E da lì non si sarebbe mossa per molto tempo perché lui era il miglior padrone possibile.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** New York ***


“Wow!”

Era la prima volta che Philip vedeva New York e un coacervo di sensazioni lo aveva accarezzato dolcemente.

Poi gli era venuta in mente una carrellata di volte in cui l’aveva già vista senza esserci mai stato: film, serie tv, libri e canzoni.

Il ragazzo giapponese aveva iniziato ad osservare, affascinato, già nel taxi giallo e nero che dal JFK Airport li avrebbe portati a Brooklyn.

La magia del cielo nell’ora blu del tramonto, tra buio e luce, i grattacieli snelli ed enormi al tempo stesso, un tombino che fumava, le persone che si muovevano come linfa vitale per la città: Philip, con la bocca spalancata, cercava di immagazzinare tutto.

Jenny, intanto, si godeva la faccia del fidanzato: come se gli avessero scattato negli occhi il flash all’improvviso e ci mettesse un po’ a riprendersi.

“New York è un po’ come il primo amore!”

Aveva detto con quel senso di meraviglia mista a reverenza. Lei, in verità, aveva amato e odiato quell’ombelico del mondo dove tutto succede, tutto corre veloce.

Una città che si era presa una parte di lei e le aveva dato qualcosa di nuovo: espressioni che prima non conosceva, piccole abitudini che si era portata dietro, l’accento che si era modellato sugli incontri fatti…

Con una guida sportiva, l’autista si era infilato nel traffico. Clacson, sirene, colpi di acceleratore , frenate e qualche Fuck si mescolavano creando una sorta di colonna sonora a cui Philip si era presto abituato.

Anzi aveva approfittato della vetrata che divideva i passeggeri dal taxista per scambiarsi un lungo bacio con Jenny.


Il loft dei Fujisawa si trovava in uno dei quartieri più chic di New York.

Una palette di rosa, beige e grigi dominava gli arredi e i tappeti. Il legno del parquet e del tavolo scaldava con eleganza l’ambiente e di certo non passavano inosservati i quadri e le opere d’arte che arricchivano le pareti.

Per sfuggire alla soggezione che il padrone di casa gli incuteva, da una delle finestre a tutta altezza, l’ospite si stava godendo una vista ampia ed esclusiva del fiume Hudson.

“Noi non beviamo alcolici quindi spero ti piaccia il succo d’ananas, Philip!”

Andrew Fujisawa si era avvicinato al piano bar dall’aspetto anticato del suo ufficio per preparare un cocktail al momento.

“Certo signore!”

Il giovane aveva deglutito, afferrando il bicchiere.

Che bugiardo! Pur di compiacerlo era disposto a sfidare quel frutto esotico che detestava. Lo avesse visto Sarita, che aveva lottato una vita per farglielo mangiare o bere!

Con un sudore invisibile aveva buttato giù quel liquido che per lui era solo acido muriatico.

“Sono contento che ti piaccia. Ne vuoi un altro po’?”

Philip aveva sgranato gli occhi e fatto di no con la testa. Aveva una questione più importante da affrontare, senza lasciarsi sopraffare dalle emozioni.

“Io amo sua figlia e voglio sposarla. Vorrei anche la sua benedizione!”

Aveva detto tutto d’un fiato, piuttosto bruscamente ma la formula non era più una priorità.

Andrew si era appoggiato allo schienale e, per qualche tempo, l’unico suono udibile era stato il ticchettare delle sue unghie contro la formica della scrivania.

“Quando è nata sono stato la prima persona a tenere in braccio Jenny. Crescendo ha dimostrato di avere tutte quelle qualità che rendono orgoglioso un genitore: è affettuosa, generosa, gentile e buona. E allo stesso tempo è emotiva, caparbia e pratica. Ma le mancava qualcosa, era incompleta…Non l’ho mai vista veramente felice finché non ha incontrato te!”

I sorrisi dei due uomini si erano scontrati mentre si reputavano incredibilmente fortunati ad avere quella ragazza nelle loro vite.

“Se ho buona memoria, mi hai già chiesto la mano di Jenny. Due anni fa!”

Quella velata allusione obliqua al passato aveva deformato il bel volto di Philip in una smorfia amara.

“Sono cambiate tante cose da allora…”

“Ma non il vostro amore! Sei un bel giovane, bravo ed educato…”

Il signor Fujisawa si era lasciato tradire da una certa emozione mentre afferrava la mano del ragazzo.

“Cosa posso dirti? La mia Jenny è speciale. Rendila felice!”

Entrambi avevano gli occhi lucidi di pura felicità.

“Allora lei è d’accordo?”

“Certo! Io e sua madre abbiamo lavorato sodo quindi vedi di non combinare casini!”

Lo aveva ammonito infine il futuro suocero, con quel po’ di humor utile a stemperare la miscellanea di emozioni che li aveva avvicinati ancor di più.

“Grazie, grazie per la sua fiducia. Le prometto che cercherò di rendere Jenny la donna più felice del mondo!”


Jenny, intanto, si era accoccolata sul divano in un angolo del soggiorno: lì, da adolescente, nascondeva sempre le lettere di Philip nei libri di scuola e poi se le leggeva mentre faceva finta di studiare.

Sua madre lo sapeva ma la lasciava fare.

Anche adesso Catherine si era seduta accanto alla figlia che leggeva, con un’aria assorta quasi di compassione preventiva le vicissitudini dell’eroina di un romanzo che teneva tra le mani.

“Sei diventata una donna che si lascia scompigliare come una chioma ribelle di capelli ricciolini!”

La donna non aveva potuto fare a meno di contemplarla. La ragazza aveva richiuso il libro, disposta a mostrare alla madre le sue cicatrici, senza nasconderle e senza edulcorarle.

“Anche io, negli ultimi anni, ho vissuto una storia travagliata fatta di inquietudini e speranze, di paure e angosce…”

Un vero poema dove l’amore si mescola al dolore.

“Quando ci hai detto dei problemi di Philip credevo che non avresti mai avuto un futuro roseo insieme a lui!”

“Sarei stata in ogni caso io a sposarlo! Quando ho incontrato Philip sapevo di aver trovato quel qualcosa scritto nei libri e nelle canzoni!”

Aveva risposto a tono Jenny, con la veemenza di chi difende le proprie scelte fino in fondo.

Parole speciali che dimostravano quanto fosse straordinario il suo sentimento. Un amore da posso tutto finché ci sei .

“Lo so tesoro. E so anche che il vostro sarà come molti dei matrimoni dei vostri amici: continuerete a guardare Netflix insieme e ti arrabbierai quando lui non svuoterà la lavastoviglie. Ma sarà anche diverso da tutti gli altri matrimoni!”

Catherine aveva usato un accento affettuoso e quel tono di voce rassicurante che faceva sembrare tutto facile. E tra cento modi per dire grazie a sua madre per il suo sostegno, Jenny aveva scelto il più semplice e naturale.


Andrew e Philip le avevano trovate così: strette in quell’abbraccio silenzioso espressione più alta del loro linguaggio segreto.

I due, uniti da una complicità maschile, si erano sentiti quasi in colpa per averle interrotte.

Jenny si era girata incontrando il sorriso caldo e felice di Philip che le aveva provocato un tuffo al cuore.

“Bene, stasera vi preparo una vera New York steak con contorno di patatine!”

Catherine era stata la prima a riprendere il controllo, con il suo spirito pratico, ma era tangibile una certa euforia anche nei suoi modi.

Philip l’aveva interrotta timidamente, con quell’imbarazzo di chi crede di approfittare troppo dell’ospitalità.

“Potrei avere degli spinaci a vapore?”

I futuri suoceri si erano scambiati uno sguardo complice temendo di aver fatto qualche gaffe che mettesse il ragazzo a disagio.

“Certamente. Devi seguire ancora qualche dieta particolare?”

Questa volta era stato lui a cercare l’approvazione di Jenny. Aveva ottenuto un sorriso e un bacio sulla guancia.

“No signora, cerco solo di non mangiare troppi fritti. Il mio allenatore non approverebbe!”

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Yuki Matsuri ***


Quella prima domenica di febbraio, dopo che la neve era caduta abbondante per tutta la notte, il silenzio era ancora ovattato e il paesaggio fiabesco mozzava il fiato sotto il riverbero del sole.

Faceva molto freddo e spirava un vento teso da nord ma Philip non aveva voluto perdersi, dopo due anni di rinuncia forzata, il tradizionale Yuki Matsuri.

I cappotti colorati, sgargianti, di Jenny e Grace spiccavano sulla massa bianca tra trombe di cristallo e draghi surgelati, castelli incantati e Veneri trasparenti.

Passeggiare per lo Tsudome Site , l’area alle porte di Sapporo che ospitava il Festival, era stato come entrare in un mondo incantato.

“In fondo, in questo periodo dell’anno, mi accorgo di desiderare l’inverno!”

Aveva esordito Jenny, arricciando il naso arrossato dal freddo e stringendosi saldamente al braccio imbottito del fidanzato affinché i suoi passi sulla strada scivolosa fossero più fermi.

Philip aveva sorriso. Non solo perché il pompon bianco sul cappello della ragazza si agitava, ad ogni movimento, come la coda di un coniglio ma soprattutto per quelle parole che sapevano di lana umida e profumo al muschio bianco.

Nei lunghi giorni passati in una camera sterile anche lui lo aveva davvero desiderato quel freddo pungente che trapassa le giacche e aveva provato una nostalgia assurda per il semplice gesto di allacciarsi tutti i bottoni e alzarsi il bavero intorno al collo.

Quando, finalmente, non era più dovuto stare eccessivamente attento a raffreddori ed infezioni aveva avuto soltanto voglia di alzarsi la mattina e scoprire lo schiaffo del vento gelido che trascinava via, in mulinelli folli, le foglie rattrappite ancora ostinatamente attaccate ai rami.

“Ho proprio voglia quest’anno di respirare l’aria che morde e bruciarmi i polmoni riempiendoli di gelo!”

I suoi propositi erano stati un eco a quelli di Jenny.

“Soltanto voi due potete amare così tanto l’inverno, Jack Frost ed Elsa Frozen !”

Li aveva presi in giro Tom che prima aveva soffiato sulle mani e poi strofinato sulla parte superiore delle braccia, entrambi gesti futili dato che era ben coperto dal cappotto pesante e dai guanti di pelle nera.

Lo aveva fatto con un’enfasi melodrammatica tale che sembrava stesse recitando a teatro e gli altri tre si erano divertiti a quella messinscena.

“Ad Iwata conoscete soltanto la pioggia! E poi si sa che la neve dell’Hokkaido è diversa da quella di qualsiasi altra parte del Giappone: più compatta, meno frivola. Stende un velo di bellezza su tutto!”

Anche Grace, fedele alle sue origini, aveva perorato con enfasi la causa degli amici con il fiato che si addensava in nuvolette sottili.

L’amore con il talentuoso Becker era ormai sbocciato, giorno dopo giorno senza né leggi e né orari, fatto di messaggini ad orari improbabili e talvolta anche di gelosie incontrollabili.

Tom aveva sempre avuto un carattere difficile: molto indipendente ed introverso, tendente al silenzio e all’introspezione. Un orso.

Grace, invece, era molto ciarliera , solare e divertente.

Quanto ridevano insieme! Di cuore, fino alle lacrime.

“Bene, cari eroi del ghiaccio vi lasciamo a godervi qualche minuto da soli quest’arte sottozero!”

La bocca di Grace non sorrideva soltanto con i muscoli e nei suoi gesti c’era una spontaneità tale che mentre Philip aveva cercato di protestare mentre l’amica le sfilava Jenny dal braccio, Tom non aveva smesso di mangiarsela con gli occhi mentre si allontanavano verso uno dei locali caratteristici.

D'altronde neve e cioccolata calda erano da sempre un binomio perfetto!


Grace ne era convintissima davanti alla tazza fumante, guarnita da ciuffetti di panna.

“Il cioccolato è sempre la risposta! Che ce ne importa di qual è la domanda!”

Aveva infatti affermato, con tono troppo spavaldo perché Jenny non capisse che in realtà quello dell’amica era stato soltanto un pretesto per ritagliarsi un momento di confidenze solo tra loro.

“Allora quel è la domanda?”

L’aveva spiazzata continuando a rimestare il cucchiaino nella sua bevanda calda.

“È una domanda banale, forse un po’ scontata. Come hai capito che con Philip sarebbe stato per sempre?”

Jenny aveva fatto scorrere sul dito quel cerchietto in oro bianco con il simbolo dell’infinito e se lo era rigirato sull’anulare un paio di volte prima di coprirlo con l’altra mano come a volerlo proteggere.

“Sono sempre stata sicura. Lo ero il giorno del nostro primo appuntamento, lo ero quando mi ha chiesto di sposarlo e quando abbiamo scoperto la malattia…”

“Ti invidio questa testardaggine, sai? Con Tom sto benissimo ma vorrei essere sicura come l’oro anch’io!”

La bella Fujisawa aveva allungato una mano lungo il tavolo a cercare la mano dell’insicura Grace e ricambiare, in qualche modo, il sostegno che lei le aveva dato in quegli ultimi anni.

“La perfezione non esiste, nemmeno in amore! Alla fine ti accorgerai che i dettagli sono la cosa più importante: le telefonate alle tre del mattino, i sorrisi spontanei, le foto orrende che ti fanno morire dal ridere, le poesie di dieci parole che ti strappano una lacrima. Un fiore che lui ti appoggia tra i capelli, un caffè…Sono queste le cose che meritano davvero. Le piccole cose che provocano emozioni gigantesche!”

A quei ricordi si era commossa e si era data della stupida per mostrarsi ancora così vulnerabile.

“Tu sei sensibile, non fragile. Hai combattuto come una guerriera, con tutta te stessa. Hai pianto così tanto che mi hai insegnato che la sofferenza manifestata fa meno male di quella celata!”

Grace era svoltata all’angolo del tavolo e aveva abbracciato Jenny forte, trascinando la fronte sulla sua spalla.

“Torniamo dai nostri Yeti, ora?”


Quelle del Yuki Matsuri non erano semplici sculture e chiamarle pupazzi di neve sarebbe stato offensivo. Quelle candide creazioni erano dei veri giganti di acqua gelata: palazzi, templi, dinosauri, castelli e statue moderne…Dietro ognuna di quelle opere c’era il duro lavoro di artisti, ingegneri e tecnici superspecializzati che armati di pale, seghe a motore, scavatrici e ponteggi avevano lavorato giorno e notte per plasmare la neve nelle forme più disparate.

Intanto qualche fiocco di neve sparso aveva ripreso a volteggiare per l’aria.

“Wilson Bentley amava fotografare i fiocchi di neve. Li chiamava piccoli miracoli di bellezza ! È passato alla storia proprio come l’uomo dei fiocchi di neve perché ne fotografò più di cinquemila!”

Seppur intirizzito, Tom non aveva rinunciato a sfoggiare la sua passione per l’arte nelle piccole cose.

Philip si era stretto nelle spalle e aveva sorriso ad un pensiero tutto suo che non aveva esitato a condividere.

“I fiocchi di neve, spostati a caso da un vento scostante, mi ricordano i pezzi di un puzzle schizofrenico. Anche le persone sono come pezzi di un puzzle!”

“Cioè?”

“Cerchiamo continuamente l’incastro perfetto!”

“A volte però si fanno scelte sbagliate e si ripongono i pezzi nella scatola. Altri pezzi cadono sul pavimento e crediamo di averli persi per sempre. Altri ancora sembrano impossibili da trovare!”

Tom era andato dietro quella metafora, parafrasando situazioni che aveva vissuto sulla propria pelle. L’amico aveva risposto con un gesto semplice, con una sfumatura di tenerezza che significava : “ certo, ovvio !”

“Ma, a volte, si becca quel tassello che si incastra alla perfezione, senza forzarlo. Semplicemente prende il suo posto. Ci sono persone che si calzano a pennello ed è subito chiaro quello che deve succedere!”

I ragazzi avevano continuato il loro tour tra castelli da pelle d’oca, scacchiere scivolose, caminetti che non scaldavano. Una carrellata di sculture meravigliose destinate poi a…scomparire.

Era stato questo pensiero a convincere Philip ad essere del tutto sincero sul come si sentisse in quel periodo di rinascita.

“Prima avevi ragione. Si, l’inverno è crudele! Un algido sortilegio, un non tempo . Eppure ne ho bisogno. Ho bisogno del freddo che taglia e toglie il fiato per desiderare la primavera!”

In quel momento qualcosa lo aveva colpito alla schiena.

Era una palla di neve informe ed era caduta a pezzi proprio mentre si voltava per vedere il sorriso sornione di Jenny.

“Vuole davvero gettare un guanto di sfida gelato al suo futuro marito signorina Fujisawa?”

L’aveva provocata chinandosi a terra per cercare di compattare un po’ di neve. Le guance di Jenny si erano arrossate, non soltanto per il freddo.

E mentre tutti e quattro si erano lanciati in quella battaglia come bambini pazzi, Philip aveva capito che il coraggio non è la mancanza di paura ma la consapevolezza che ci sia qualcosa di più forte della paura stessa.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Spirito di squadra ***


Jenny era seduta a gambe incrociate sul letto. Osservava Philip mentre piegava maldestramente maglietta e pantaloncini e riponeva parastinchi e scarpette chiodate per comporre il suo borsone da calcio perfetto.

“Sei bravissimo!”

Lo aveva stuzzicato.

“Si vede che sei pratico!”

In realtà in quella stanza c’era di tutto: una montagna di vestiti sul pavimento , alle pareti giacche appese a grucce di filo metallico, il comò invaso da cosmetici, occhiali da sole, accessori vari e perfino un tubetto di caramelle.

In mezzo a quella baraonda quella giovane donna, seduta con la schiena dritta sopra la coperta in stile indiano, sembrava l’unico elemento stabile e armonioso dell’insieme.

Philip si sentiva incredibilmente fortunato ma era stato inevitabile, a quel punto, riandare con la mente a una lontana domenica quando, incerti come due farfalle d’acqua, insieme avevano preparato la valigia per il viaggio più tortuoso.

Anche Jenny aveva percepito i loro pensieri uniti in un’unica ombra e le dita affusolate erano corse, veloci, a toccarsi un occhio.

“Che senso ha la nostra storia? Credi che ci sia una morale?”

Philip aveva inclinato il capo da un lato, colpito da quel ricordo triste ,e soprattutto da quella domanda che non si era mai posto prima.

“Forse…”

Aveva fatto una breve pausa e aveva sorriso a Jenny, suo specchio e sua isola. Poi la sua voce maschile era risuonata decisa.

“La morale è che questo mondo è pieno di lucertole e, anche se non possiamo farci niente, dovremmo sempre cercare di capire quanto sono grosse!”

Le lucertole erano quelle paure che sarebbero state lì ad attenderli, inevitabili, lungo il percorso.

L’aveva guardata stregato e innamorato, come se lei lo avesse reso vittima di qualche incantesimo. Era sempre così bella e attraente anche in situazioni casalinghe.

Quello sguardo, intenso e profondo, mandava in estasi Jenny ogni volta. Sapeva che, per nessuna ragione al mondo, in quegli ultimi anni sarebbe stata in qualsiasi altro posto se non al fianco dell’uomo della sua vita.

“Intanto ho capito che l’amore è una cosa semplice. Al mio fianco ho te che hai reso serene anche le giornate più buie. Con te non devo essere qualcun altro, non devo dimostrare nulla. Non mi sento più fuori posto. Ti amo Taiyō !”

Era la dichiarazione che qualsiasi ragazza avrebbe sognato di sentirsi dire e, di slancio, Jenny lo aveva baciato con una bizzarra delicatezza ricevendo in risposta una carezza leggera come il tocco di una piuma.

Aveva sfoggiato un sorriso dolce e radioso, riempito dalla sua genuina innocenza. Un sorriso da fiaba che riempiva di vita il cuore di Philip.

Aveva spostato il borsone ed era saltato sul letto.

“Hai già avuto il tuo commiato!”

Aveva protestato, poco convinta, la fidanzata. Il suo corpo morbido vibrava sotto il tocco di quelle carezze che, adesso, si facevano sempre più esigenti.

“Ah ma quello era solo l’arrivederci!”

Era stato al gioco Philip. Le sue dita si insinuavano tra le pieghe della camicetta bianca scoprendo la pelle vellutata mentre le labbra si soffermavano sul mento ben definito di Jenny per poi catturare un bacio di un’intensità disarmante, capace di cancellare ogni ricordo.

“Questo, invece, è l’incentivo per tornare a casa!”


Al Sapporo Dome , uno dei più belli al mondo con la sua forma a vongola verace e con il suo colore marino e cangiante, Philip si era sentito a casa.

Gli spalti erano un tripudio di colori ed entusiasmo travolgente: erano in oltre diecimila per sostenere il Giappone in quella decisiva partita di qualificazione ai Mondiali contro l’Arabia Saudita.

Negli spogliatoi c’era una tensione carica di aspettative, di promesse che non si possono tradire.

Philip, da vero condottiero, si era sistemato la fascia al braccio e aveva aperto la fila nella solita passerella che precedeva l’ingresso in campo.

Era così concentrato che non era riuscito nemmeno a scorgere la sua famiglia in mezzo alla folla.

Era stato un primo tempo tiratissimo. Mark Owairain, il principe del deserto , aveva segnato un gol-lampo già al primo minuto di gioco e aveva messo in difficoltà i nipponici per quarantacinque minuti con il suo stile ben strutturato.


Erano rientrati negli spogliatoi feriti, con l’umore sotto i tacchetti. Teste chine e calciatori che fissavano il pavimento.

Freddy Marshall poche volte aveva visto la squadra così sconsolata.

“Oggi non si fa gol nemmeno a pregare in turco!”

Mark aveva serrato il pugno stizzito.

“Se almeno ci fosse Holly…”

La recriminazione di Bruce avevano urtato ancor di più i compagni.

Capitan Callaghan era rimasto impassibile fino a quel momento ma sapeva di essere il primo a non potersi concedere di pensare che fosse finita.

Aveva chiesto a tutti, perfino a Marshall, di lasciare lo spogliatoio: voleva restare da solo con i compagni.

“Un gol al primo minuto non significa che la strada per loro sarà in discesa. Significa soltanto che hanno fatto arrabbiare il cane prima del dovuto!”

Le parole erano venute facilmente. Quel giovane vulcanico, grande motivatore, con la sua grinta e il suo esempio avrebbe potuto trascinare la squadra ogni oltre ostacolo.

“Io non voglio essere un pezzo di storia ridicola negli almanacchi del Giappone. Se mi rispettate, se mi volete bene come capitano, dobbiamo darci una svegliata e tornare in partita!”

Sulla scia dell’entusiasmo Tom era stato il primo ad alzarsi e ad affiancare l’amico di sempre ma era stato Julian, il vero oratore, a chiudere con battute memorabili quel discorso che aveva già colto nel segno.

“Philip ha ragione: non abbiamo niente da perdere! Se ci rilassiamo siamo assolutamente in grado di fare un gol, e se facciamo un gol torniamo in partita. Dobbiamo combattere: lo dobbiamo ai tifosi. Non lasciamo che la nostra testa tremi!”

Alla spicciolata tutti, titolari e riserve, avevano raggiunto il centro della stanza dove stava Philip. L’immagine del disastroso primo tempo già cancellata.

Si erano riuniti in cerchio abbracciandosi l’un l’altro come avevano fatto, altre volte, sul campo. Un modo per sentirsi uniti perché si può essere tecnicamente dotati, si può correre veloci come nessun altro, si possono avere i piedi più educati del mondo ma, nel calcio, senza spirito di squadra non si va da nessuna parte.

“Testa alta ora! Stiamo giocando per il Giappone. Siamo il Giappone!”

Con il piglio del samurai, il Capitano aveva aperto la fila che conduceva verso il tunnel, verso il campo. Verso la storia.


Il gol del pareggio lo aveva segnato Tom. Quello della vittoria era stato un impetuoso eagle shot , un tiro rasoterra dalla grande distanza, frutto della determinazione inflessibile di Philip.

Aveva abbracciato i compagni, gli amici che lo avevano sostenuto per tutta la gara.

Sentiva una grande emozione nel cuore, nella testa tante sensazioni, volti, ricordi.

Ce l’aveva fatta!

Non solo a riprendersi il centro del campo ma soprattutto a ripensarsi come una persona che la passione per il calcio aveva fatto risentire normale.

Forse anche guarito.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3777095