Avelod, le cornache del Continente

di Malveria92
(/viewuser.php?uid=792436)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Liam, la nascita del vuoto ***
Capitolo 2: *** Cap 2: Il Crocevia delle Informazioni ***
Capitolo 3: *** Cap 3: Alisia, la città mineraria ***
Capitolo 4: *** Cap 4: Catus il Maretak ***
Capitolo 5: *** CAP 5: Il Marmo Serpentino ***



Capitolo 1
*** Liam, la nascita del vuoto ***


CAP 1: Liam, la nascita del vuoto

Immagini di fuoco, volti segnati dal terrore, le urla e le grida che sovrastavano il rumore sordo delle case divorate dalle fiamme.
Grandi ali rosse oscuravano il cielo mentre dalla gola della bestia continuava a uscire morte.
La mano calda che stringeva la mia mi lasciò.
Mia madre mi spinse forte di lato - Fuggi! - urlò con gli occhi rossi dal fumo. La casa del fornaio crollò  - Mamma! - era distesa sotto le macerie, le gambe piegate in una strana angolazione ma era ancora viva.
- Mamma dimmi cosa devo fare! Cosa devo fare! - urlai con la voce spezzata.
- Vai... via da qui... - mi ripose mentre il sangue le macchiava le labbra.
L'ultima parete dell'edificio cedette e io mi sporsi in avanti per proteggere il viso di mia madre, quel viso così bello, dolce e sempre sorridente che ora era ricoperto di fuliggine e sangue. Una trave mi colpì forte alla spalla, credevo di morire, il dolore che sentii era così acuto da farmi quasi svenire, ma la paura che provavo era più forte e mi permise di rimanere lucido. Mia madre era ancora lì, ero riuscito a proteggerla con il mio corpo e dovevo portarla via da quell'inferno.
-Tranquilla mamma, ci penso io a te, devo solo...
Ma era troppo tardi.
Ormai Lumia mi guardava senza riuscire più a vedermi. I suoi occhi chiari, di solito verdi come le foglie appena nate e brillanti come la rugiada, erano ormai spenti. La scintilla della vita non li illuminava più. 
Il fuoco riuscì a bruciarmi i vestiti e la carne prima che io riuscissi con fatica a spostarmi. I polmoni mi bruciavano mentre superavo di corsa quella che era stata la via del forno.
Avevo lasciavo il corpo di mia madre alle fiamme.
Con le lacrime agli occhi scappai sempre più veloce nel buio della notte, corsi finché avevo fiato in corpo mentre nella testa rimbombavano parole sconosciute...
Aprii gli occhi e mi ritrovai a fissare un soffitto di legno, ero sotto le coperte in un comodo letto.
Che sogno orribile avevo fatto!
Feci per alzarmi ma il mio corpo non rispose, la testa iniziò a girarmi e mi si annebbiò la vista. Una grande mano mi spinse sui cuscini e dopo un po' riuscii a rimettere a fuoco.
Seduto vicino al letto c'era un uomo di mezza età che io non avevo mai visto. Mi fissava con i suoi grandi occhi scuri, come si fissano i poveri moribondi. Era pietà quella che notavo in quello sguardo o era solo la mia immaginazione?
- Chi sei? Dove sono? - avevo una voce orrenda, la gola secca e gli occhi mi bruciavano, provai a strofinarli ma non ci riuscii, non ero stato in grado di sollevare il braccio, fu così che mi resi conto che avevo quasi tutto il corpo coperto di bende.
Ci mise un po', come se il tempo si fosse fermato per gustarsi la scena, ma quando ricordai, la consapevolezza di quello che mi era accaduto mi schiacciò con tutto il suo peso, giù, sempre più giù fino ad arrivare in un luogo buio, senza luce.
Un urlo ruppe il silenzio, straziato, lugubre e il tempo ricominciò a scorrere.  Le lacrime lasciavano dei solchi sulle guance ancora piene di cenere mentre, con tutto l'odio che avevo in corpo avrei voluto prendere a pugni ogni parte di quel maledetto vecchio che se ne stava lì davanti a me continuando a fissarmi.
Ero solo adesso.
Nei giorni che seguirono le mie condizioni fisiche furono strettamente sorvegliate.
Ogni mattina  quel vecchio mi cambiava le bende e mi strofinava qualche unguento puzzolente con le sue mani ruvide. Non so quanto tempo passò prima che riuscissi di nuovo a muovere le braccia, forse pochi giorni o interi mesi, ma Lui era sempre lì per aiutare il mio corpo a fare progressi. Per quanto riguarda le mie condizioni mentali, non saprei, avevo la testa vuota come se il fuoco avesse bruciato tutto anche lì e non ci fosse rimasto più niente a parte l'odio.
Non piansi più, credo che quelle fossero state le mie ultime lacrime e non parlai per molto tempo.
Quando ero sveglio passavo la mia giornata a fissare il soffitto, mentre quando dormivo speravo di svegliarmi per continuare a fissarlo. Il mio mondo iniziava e finiva con quelle assi di legno, non volevo vedere altro, non volevo provare nulla se non il vuoto della perdita.
Il sole sorgeva e tramontava come se nulla fosse cambiato, come se non fosse scomparso un intero villaggio dalla faccia del continente, come se tutti i miei amici, la mia famiglia e tutte le persone che conoscevo non avessero importanza agli occhi degli Dei.
Un odio nero e profondo verso il mondo iniziò ad aggrapparsi al mio corpo, al mio cuore e alla mia anima.
Mi portò con se in una pozza  scura di disperazione dove non penetrava la luce e non vi era alcun suono.
Ero lì su quel letto ma allo stesso tempo non c’ero, ero vuoto, fuori dal mondo, ero in un posto dove non vedevo e non sentivo nulla, come morto.
Così i mesi passarono e il mio corpo guarì. Come ricordo dell'incendio, mi rimase una grande cicatrice sulla spalla sinistra che mi si aggrappava alla scapola, come un artiglio.
Quel vecchio si prese cura di me tutto quel tempo. Giorno dopo giorno cercava di non farmi morire, mi imboccava con pazienza, mi lavava e cercava di parlarmi. Tutto questo lo scoprii solo in seguito; in quel brutto periodo della mia vita, non che poi sia migliorata di molto, ero insensibile a ciò che mi circondava.
Esistevo, niente di più.
Arrivò Settembre e l’aria divenne più fresca, me lo ricordo perché fu una di quelle mattine che iniziai a riprendermi. Mi resi conto di ricominciare a sentire quando degli strani rumori mi rimbombarono in testa come un sottofondo. Erano fastidiosi perché si ripetevano uguali, con la stessa sequenza e la stessa cadenza: passo, sibilo, colpo e ancora passo, sibilo, colpo e poi ancora. Entravano in quella pozza scura dove mi ero nascosto, dove non volevo vedere e sentire nulla, volevano farmi impazzire.
Mi arrabbiai. Come si permetteva quella “qualunque cosa fosse” ad entrare nel mio spazio! Come si permetteva a distrarmi dal mio odio e dal mio dolore!
Esistevo! E quanto era vero che gli dei erano, e sono tuttora, un gruppo di scansafatiche, quel “qualunque cosa fosse” non sarebbe esistito più!
Il mio corpo si mise a sedere, così capii che potevo vedere e muovermi, anche se non con poche difficoltà. I muscoli erano diventati inesistenti e faticavo anche ad alzare un dito.
Per la prima volta mi guardai in torno; era una capanna tutta di legno.  Probabilmente mi trovavo nella stanza principale, quella in cui c'era anche una piccola dispensa e il focolare. Nel muro a destra e in quello di fronte a me si aprivano due porte, dietro le mie spalle invece faceva luce una grande finestra.
Dopo essere stato tutto quel tempo in un luogo buio, la luce faceva uno strano effetto, ma invece di affievolire quell'odio che avevo dentro, sembrava farlo straripare, come se volesse affogarla, seppellirla.
Provai ad alzarmi e con grande fatica e lentezza ci riuscii, la voglia di far smettere quel baccano riusciva a farmi fare qualsiasi cosa.
Raggiunsi così quell'unica finestra e mi ci aggrappai come farebbe un naufrago con l’ultimo pezzo di legno rimasto della sua imbarcazione.
Rimasi di sasso, sbigottito, sia del fatto che io potessi ancora avere una qualche sorta di altra emozione, sia del fatto che un vecchio in mezzo al bosco si stesse allenando con una spada.
Era lo stesso uomo che mi aveva salvato?
Bisognava ammettere che era ancora veloce per la sua età e i suoi affondi così precisi che sarei potuto rimanere a guardare quella danza per ore. Più lo fissavo e più la rabbia sgorgava dal profondo della mia anima.
Volevo vendetta. Volevo trovare quel mostro e ucciderlo con le mie mani!
- Voglio imparare!- furono le prime parole che dissi e le prime parole di quel Vecchiaccio furono:
- Puoi scordartelo! - passai ogni giorno a chiedere di insegnarmi a combattere. 
Lo stavo assillando dalla mattina alla sera ma tutte le volte ricevevo la stessa risposta: No!
- Perché non vuoi?- gli gridai con la mia voce ancora roca, se potevo muovermi come lui forse avrei potuto avere una possibilità per uccidere quella bestia.
- Ti vedo quando mi osservi la mattina ragazzino - si ammutolì un attimo, forse perso nei suoi pensieri, per poi guardandomi con occhi tristi e continuare - Quel tuo sguardo non mi piace affatto!
- Se non vuoi insegnarmi allora sei inutile! Ed è inutile che io rimanga qui senza far niente! - non gli chiesi cosa aveva visto di così strano nei miei occhi, e non mi domandai sul significato delle sue parole.
Semplicemente non me ne importava.
-  Sì, mi sembra giusto. Ecco, quella è l'uscita - e la indicò - Non sbattere la porta quando te ne vai, non mi serve un'altra bocca da sfamare.
Mi avviai verso la porta calpestando il pavimento con la rabbia che mi bolliva sottopelle, ma il tremolio alle gambe mi ricordò che non avevo ancora ripreso le forze.
Arrivato sull'uscio guardai fuori, dove potevo andare? Non avevo più nessuno, ero ancora convalescente e sembravo più uno scheletro che cammina che un ragazzo.
Forse se stavo al suo gioco ne potevo ricavare qualcosa? Quell'uomo mi serviva, avrei potuto ingannarlo?
-  Che cosa devo fare? - quella domanda fu l'inizio di tutto.
Scoprii che il nome del vecchio era Catus e faceva il mercante, anche se non ne avevo mai conosciuto uno che sapeva muoversi come faceva lui.
I giorni successivi mi aiutò, come diceva lui, a “rimettere su un po' di sostanza”. Per le prime settimane fu gentile, mi faceva camminare per riattivare i muscoli e strigliare il cavallo per rinforzare le braccia, tutto sotto la sua attenta supervisione. Mi aiutava a mangiare e a lavarmi, almeno finché non mi ripresi a sufficienza da poter fare da solo.
Due mesi dopo mi faceva già sgobbare come un asino da soma.
La notte sognavo mia madre e rivivevo la sua morte per poi svegliarmi e vedere lo stesso soffitto di quel giorno. Quando accadeva mi chiedevo dove fosse mio padre e se fosse ancora vivo, in quei momenti venivo sopraffatto da quell'odio profondo per il mondo, che avevo imparato a conoscere.
Durante il giorno impiegavo tutto il tempo che il sole dava a disposizione per fare i lavori di casa. Zappavo l'orto, davo da mangiare agli animali, strigliavo il cavallo, spaccavo la legna... Catus mi faceva fare di tutto.
Il lavoro mi permetteva di non pensare troppo.
Due anni passarono velocemente ma il Vecchio ancora non accennava a insegnarmi nulla.
Una sera di fine febbraio, terminati tutti i miei compiti rientrai in casa, grato che il fuoco scoppiettante scacciasse l’umidità che invece aleggiava all’esterno. L’aria era impregnata dal profumo dello stufato di cervo, la specialità di Catus. Il vecchio era davanti al focolare mescolando la zuppa con un grosso cucchiaio di legno.
  • Parto tra due giorni – mi disse con quel suo tono burbero.
  • Vai già via? – chiesi io mentre prendevo delle scodelle e il pane dalla credenza.
  • Sì, il tempo è buono e non sarà così tra due settimane – Il Vecchio aveva sempre avuto questa capacità di previsione, secondo lui era solo avere buon occhio per il clima.
  • Quanto tempo starai via?
Il fuoco sotto il pentolone scoppiettò mentre Catus riempiva le ciotole con il denso stufato, il suo aroma mi metteva l’acquolina in bocca e mentre spezzavo il pane croccante pronto ad assalire la cena mi rispose:
  • Credo non più i due settimane.
  • Nof stfai viaf molfto – provai a dire con la bocca piena.
Fu in quel momento che presi la decisione di iniziare i miei allenamenti da solo.
  • No, non devo andare lontano. Tu cerca di non combinare disastri come l’ultima volta mentre io sono via! – mi rimproverò con sguardo rassegnato.
  • Quella volta il cavallo l’ho ripreso e ho anche aggiustato la stalla! – feci sventolando il mio cucchiaio sotto il suo naso.
Non era stata colpa mia se un temporale aveva spaventato Nerone, anche se certamente avrei potuto chiudere meglio il cancello…
Due giorni passarono in fretta e Catus partì, portando Nerone e la nostra puledra Bianca con se.
Da quella primavera in poi, quando partiva con il carretto pieno di mercanzia che avevamo prodotto durante l inverno, ma in generale tutte le volte che si allontanava da casa e accadeva spesso, mi allenavo con un lungo bastone, che lanciavo prontamente dietro i cespugli appena sentivo passi pesanti.
Sicuramente sospettava qualcosa, ma per qualche motivo mi lasciò fare.
Lo stesso anno però, quando iniziarono a cadere le foglie e l’autunno era alle porte, Catus mi sorprese mentre colpivo con forza, con il mio bastone, il mio compagno d'allenamento: l’albero dietro casa.  Il Vecchio spuntò fuori dalla foresta all’improvviso, proprio come un fungo.
- Sei...sei tornato presto... - riuscii a balbettare colto sul fatto.
- Già, ho trovato facilmente tutto quello può servirci quest'inverno e a buon prezzo... -  mentre guardavo qualunque cosa meno quello che avevo in mano, Catus scoppiò in una grossa risata - Tieniti pronto ragazzino, da domani avremo molto da fare.
Non seppi mai perché il Vecchiaccio decise di insegnarmi l' Arte della Spada, forse non vedeva più qualcosa di strano nei miei occhi, probabilmente nascosto dall'affetto che iniziavo a provare per lui, o forse pensava che se avessi continuato a fare da solo mi sarei fatto brutalmente male,  prima o poi.
Dal giorno seguente, oltre ai lavori soliti, erano state aggiunte due ore di addestramento con i bastoni. Avrei voluto dimostrargli che avevo imparato molto anche da solo, se non fosse che i miei attacchi andavano sempre a vuoto e che ogni volta ci prendevo così tante bastonate che sembravo essere stato assalito da un orso. Dopo la prima settimana non ero ancora riuscito a sfiorarlo, neanche con il vento della mia arma, ma io in compenso ero pieno di lividi nerastri.
-  Accidenti!- Urlai, tirando l'arma a terra - Com'è possibile! Non ti ho colpito neanche una volta! Una! Non chiedo tanto!  Dimmi dove sbaglio perché proprio non lo capisco!- sentivo una vena pulsare dolorosamente sulla tempia.
-  Bravo ragazzino, hai capito che sbagliavi dopo solo una settimana, ma mi sorprende che tu non abbia visto dov'è l'errore. Liam, attacchi con troppa rabbia e questo mi permette di prevedere le tue mosse, è così che riesco a schivarti e a colpirti. Devi mantenere la concentrazione sul tuo avversario, renderti conto di ciò che ti circonda e soprattutto avere pazienza! - sospirò, per poi continuare - Rallenta il respiro e calcola ogni tuo movimento in base ai mei e allo spazio che hai intorno.
- E come diavolo faccio a fare tutte queste cose insieme!?-
-Inizia con una alla volta- la barba ingrigita del vecchio vibrava mentre Catus rideva divertito.
Così feci. Il risultato fu un disastro: O mi concentravo sull'avversario o guardavo dove mettevo i piedi o cercavo di rallentare il respiro. Sembravo un ubriaco che si era perso e che aveva un bastone in mano per riuscire a tenersi in piedi.
Solo quando mi avvicinai ai miei quindici anni d'età, riuscì a schivare quasi tutti i suoi attacchi ma i miei non andavano ancora a segno. I suoi movimenti erano fluidi come l'acqua e proprio non capivo come poteva essere possibile, però m'impegnavo e giorno dopo giorno diventavo più forte, imparavo nuove tecniche e nuovi trucchi e soprattutto compresi l'importanza della respirazione. Essa infatti mi permetteva di restare calmo e di riuscire a studiare con freddezza e lucidità ogni situazione.
- Sei migliorato molto, ma quello che ancora ti manca è la velocità - Mi disse Catus una mattina d'inverno – Per riuscire a colpirmi, devi diventare più svelto di me o non riuscirai nemmeno a sfiorarmi!
Così iniziai a portare delle zavorre ai polsi e alle caviglie. Correvo e mi arrampicavo con quei pesi mentre andavo a caccia, ci nuotavo mentre facevo il bagno anche se avevo rischiato di affogare una o due volte, li tenevo quando facevo i soliti lavori di casa e continuavo ad allenarmi con i bastoni senza mai toglierle. Con il passare del tempo aggiungevo chili e la mia velocità e forza aumentarono notevolmente, tanto che un giorno riuscii finalmente a colpire il mio istruttore, ma la mia sorpresa fu tale che lui con un colpo netto mi mandò a gambe all'aria.
- Ottimo ragazzino, ma mai distrarsi! – i suoi occhi scuri brillarono, ma non capii se era  per orgoglio o per paura. Ma paura di cosa?
Dopo quasi un anno provai a togliere i pesi, il mio fisico era diventato asciutto e i muscoli ben delineati guizzavano ad ogni movimento. Ero così veloce che Catus faticava a starmi dietro. Non riusciva più a schivare tutti i miei affondi e quelli che andavano a segno, avevano una forza spaventosa.
Quella sera iniziai i miei studi. Il Vecchio aveva insistito nel darmi lezioni in modo tale che io sapessi scrivere, leggere e far di conto.
- Più cose sai e meglio è – diceva sempre.
Come dargli torto? Sapere riconoscere le impronte ti portava alla preda, ma senza conoscere il luogo in cui stavi cacciando potevi diventare preda tu stesso.
Mi raccontava la storia di Avelod, il nostro continente, e me ne spiegava la geografia. Insistette a farmi entrare in testa anche la politica, le casate più importanti e l'utilizzo del denaro.
Studiai i vari territori, ognuno dei quali aveva casate, città, villaggi, storie, leggende e animali pericolosi da tenere a mente. Ogni giorno, mi faceva domande specifiche su questa o quella regione.
Durante tutti questi anni, la macchia di odio nel mio spirito però non era scomparsa, era rimasta lì ad osservare e aspettare il momento opportuno per tornare a galla. La mia rabbia non si era dissipata come fumo al vento ma era ben nascosta, pronta a balzare fuori come un puma sulla sua preda.
Continuai così fino a un mese dal mio compleanno.
Il tredici Marzo, avrei compiuto sedici anni. Tornai con la mente a Blez, il mio paese, e alle feste che si facevano quando uno di noi diventava finalmente adulto. La cosa però non mi divertì ma mi preoccupò.
- Vecchio, devo dirti una cosa - l'avevo raggiunto alla stalla, l’odore dolciastro del fieno mi fece prudere il naso.
-  Anche io devo parlarti - rispose lui mentre strigliava Nerone e senza aspettare oltre continuò - Tutti gli anni vado a fare un viaggio d’affari, come ben sai. Quest'anno vieni con me.  Delle difficoltà che si possono incontrare lungo le strade non ne sai molto e voglio che fai esperienza.  Con i bastoni non te la cavi male ma credo che queste ti saranno più utili, tieni- e mi allungò un paio di lame curve, sembravano delle daghe anche se più lunghe - Prenditene cura.
– Dove andiamo? – domandai osservandole, erano semplici, senza incisioni inutili e l’impugnatura era fatta di strisce di cuoio scuro.
-  Prenderemo la Via del Mercato per raggiungere Alisia, dovrebbe essere una strada sicura, ma se incontriamo qualche ostacolo te ne occuperai tu - disse guardandomi per un attimo in faccia con un sorriso provocatorio.
-  Ah, grazie tante…- risposi poco convinto.
- Volevo avvisarti in oltre, che se non ci sono intoppi, al nostro ritorno passeremo al tuo villaggio - mi disse il Vecchio tornando ad occuparsi del cavallo – L’ho attraversato un paio di volte in questi ultimi anni e visto tu non hai mai voluto raccontarmi niente di quella notte – mi oscurai in volto al ricordo - io sono andato a fare qualche ricerca per conto mio. Volevo portarti da un po’ di tempo a far visita ai morti del tuo paese ma l'ultima volta che ci sono stato mi sentivo osservato, così ho deciso di aspettare un po’ prima di tornarci con te.
Quanti anni erano passati da quel giorno? Che cosa era rimasto del mio villaggio? Polvere, cenere e legna bruciata? Catus sosteneva di avere l'impressione che un presunto visitatore si aggirasse tra le macerie.
-  Possiamo andare prima a Blez? - la voglia di vedere casa mia, toccare i suoi muri e passeggiare tra le vie era immensa.
- No, ho una questione importante da risolvere ad Alisia e ho rimandato per troppo tempo - sembrava essere molto preoccupato per la faccenda, quindi non insistetti oltre.
Così due giorni dopo, zaino in spalla e armi in fodero partimmo con tanto di carretto e mercanzia.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Cap 2: Il Crocevia delle Informazioni ***


La nostra direzione era Nord-Ovest, verso Ardas.

In base ai miei calcoli il viaggio sarebbe durato tre o quattro settimane, avevo in testa solo il giorno in cui tornando sarei entrato a Blez, così mi dimenticai totalmente dell'avvertimento che dovevo dare a Catus.

La Via del Mercato, era un sentiero che collegava tulle le Città importanti. Era chiamata così per il fatto che era sicura da percorrere anche da coloro che trasportavano beni preziosi, ma dopo aver incontrato un paio di banditi già dal primo giorno, non ero più dello stesso avviso.

Infatti, non avevamo ancora fatto colazione che un gruppo di briganti aveva già attaccato una carovana poco più avanti della nostra.

- Aaaaaah! Aiuto! Non toccate quelle casse! Non sapete chi sono io?- urlò un uomo       grassoccio mentre veniva strattonato.

Pensai che sicuramente era un ricco mercante senza scorta e questo bastava per far di lui un bersaglio facile.

-   Vecchio che facciamo? - domandai volgendomi a Catus che era alla guida.

-   Credo che finito con lui attaccheranno anche noi, quindi penso che io me ne rimarrò qui bello comodo, mentre tu puoi anche andare ad aiutarlo - replicò allungando le gambe sopra il sedile.

-   Non avevi detto che questa era una via sicura? - gli chiesi.

-   Sì, l'avevo detto e infatti fino due anni fa era così - mi rispose Catus pensieroso.

Mi incamminai verso le urla estraendo le mie lame curve e molto educatamente mi rivolsi ai briganti:

-   Scusate, noi vorremmo proseguire il viaggio e anche questo signore non sembra particolarmente felice all’idea di restare a farvi compagnia…

Speravo di non dover combattere, avrei voluto almeno mangiare prima.

-   Togliti di mezzo bamboccio, aspetta il tuo turno - mi urlò uno di loro - verremmo da voi appena finito qui - continuò guardando prima me e poi Catus alle mie spalle, facendo un sorriso sdentato.

Sospirai svogliato e continuai ad avvicinarmi tenendo le mie lame ai fianchi.

-   Sentite, ho fame, è mattina presto e andiamo di fretta, non potete lascar perdere? - ero certo che le mie speranze erano vane, volevo solo arrivare ad Alisia e tornare indietro. Avere troppi imprevisti sulla strada significava allungare il viaggio e io volevo tornare a Blez il prima possibile.

-   Se vai così di fretta - mi fece un tipo grande e grosso - ci occuperemo di te subito - detto questo fece cenno ad alcuni suoi compagni e mi circondarono.

Le mie spade erano ancora basse.

Mentre il mio stomaco brontolava affamato, mi attaccò il primo uomo che scansai semplicemente facendo un passo indietro, poi mi spostai di lato e anche il secondo mi mancò. Continuai così per un po', schivando prontamente tutti gli affondi. Così facendo potei affilare le mie capacità di previsione.

-   Ragazzi parliamone, io non voglio far del male a voi e voi non dovete per forza farne a me, no? - chiesi speranzoso.

-   Sta zitto e smettila di spostarti in continuazione! - questo provò un affondo, io mi portai sulla sua destra e iniziando ad irritarmi, alzai una delle mie lame.

Dal basso verso l'alto gli tranciai la mano che teneva il pugnale, con un movimento fluido come se stessi tagliando l'aria.  Le urla non tardarono ad arrivare e l’uomo preso dal panico e dal dolore cadde a terra stringendosi il braccio.

-   Vi avevo chiesto cortesemente di farci passare, ma voi mi avete ascoltato? No, e adesso uno dei vostri rischia di morire dissanguato – ribadii sprezzante, quando di punto in bianco mi si parò davanti un bestione alto un paio di metri, che impugnava una mazza chiodata grande quanto lui.

Gli altri, che sentendo le urla del compagno si erano avvicinati, avevano creato un cerchio intorno a me e al mio avversario e come in un'arena battevano i piedi a terra urlando e incitando il loro capo alla vittoria.

Mi caricò come un toro e agitando quell'arma spropositata colpì il terreno. Sulla strada si formò quella che poteva essere stata la mia fossa, se fossi rimasto fermo lì ad aspettarlo. Sembrava di combattere con un mezz'orco e pensai che probabilmente era così, considerando la puzza. Quello si girò più infuriato di prima roteando la mazza ma io non ero nel suo arco d'attacco, così falciò l'aria senza colpo ferire. Mi portai a distanza con un balzo, per quanto la cerchia poteva permetterlo e aspettai.  Strinse i suoi occhietti acquosi per individuarmi e con un ruggito puntò su di me, respirava così forte che mi aspettavo di vedere l'aria uscire dalle narici. Alzò l'arma sopra la testa lasciando il busto completamente scoperto, così scattai. Successe in un attimo, lui mi mancò di nuovo, clamorosamente, mentre io lo ferii al fianco destro. Il mezz'orco cadde su un ginocchio reggendosi la ferita con la mano, mentre l'altra impugnava ancora la clava.

Mi fissò ringhiando furioso, pronto ad attaccare di nuovo.

Catus non sarebbe stato d'accordo se lo avessi ucciso, così il primo colpo fu solo di avvertimento. Dovevo mantenere le apparenze almeno di fronte al Vecchio ma il sangue che mi sporcò le mani mi fece sorridere, un ghigno così agghiacciante che mi arrivò agli occhi, congelando anche quelli.

-    Adesso, gentilmente, ci fate passare?

Il mezz’orco sbiancò in volto e sgranò gli occhi. Venne aiutato dai suoi compagni e si allontanò continuando a guardarsi le spalle, forse avendo paura che io potessi inseguirlo.

Quando scomparvero tra gli alberi, andai a soccorrere il mercante che era ancora a terra, ma lui in quel momento sembrava avere più paura di me che di quelli che lo avevano attaccato.

Passò una settimana di viaggio e arrivammo finalmente ad Ardas, il Villaggio dei Viaggiatori, così chiamato perché era uno dei punti in cui la Via del Mercato si ramificava. In un primo momento poteva sembrare una semplice radura nella foresta ma facendo attenzione, si poteva sentire il chiacchierare della gente.

Il fischio di Catus, che suonava come una ninna nanna, ne ricevette in risposta un altro che concluse la melodia.

Dall'alto degli alberi, con un rumoroso cigolio, scese qualcosa simile ad un enorme cesto aperto, era una piattaforma fatta di spessi tronchi circondata, a mo' di ringhiera, da un complicato intreccio di rami secchi. Guardai in alto incuriosito e vidi un susseguirsi di ponti e carrucole che permettevano di spostarsi tra un ramo e l'altro delle enormi piante. Il nostro carretto, fu caricato con noi e lo lasciammo in seguito, insieme al cavallo dallo stalliere che si trovava proprio di fronte a quell'entrata.

-   Ciao Catus, il solito posto?- chiese il proprietario.

-   Si, grazie Ausio. Hai novità?

Ausio, aveva gli stessi anni di Catus probabilmente, ma non si poteva dire che li portasse bene. Era così piccolo che non credevo arrivasse ad un metro e mezzo di altezza e la sua faccia così rugosa che mi chiesi come facesse a non sgretolarsi.

-   Il locandiere da “La Donna Ansiosa” sa qualcosa di nuovo- Ausio parlò a voce bassa e capii quel che aveva detto solo leggendo le sue labbra screpolate.

-   Come mai siamo finiti in questo posto?- ero perplesso, che informazioni dovevamo cercare per andare a vendere un paio di pelli e due forme di formaggio?

-   Siamo in uno dei villaggi dei commercianti, qui si sanno i prezzi delle città principali ed è il posto perfetto per avere qualche informazione che ci può far comodo – mi rispose Catus.

Dalla sua faccia ero sicuro che mi stava nascondendo qualcosa, ma io non chiesi nulla, certo che prima o poi avrebbe sputato il rospo di sua iniziativa.

Ci incamminammo così in un labirinto di ponti scricchiolanti, mettendo piedi su assi mal ridotte e spesso rattoppate. Questo mi fece sospettare che Ardas fosse aggrappata agli alberi con le unghie e con i denti.

C’era un via vai continuo di gente, di tutte le razze: Elfi dei boschi, piccoli hobgoblin e quando vidi un grosso orco barcollare sulla mia stessa passerella tornai di corsa indietro per rimettere subito i piedi su di un ramo solido, intruppando per altro quello che mi era sembrato uno spiritello delle montagne. Le mie orecchie furono prese d’assalto da centinaia di lingue diverse, mi sentivo così confuso che iniziò a dolermi la testa.

La locanda "La Donna Ansiosa" era una bettola nascosta da un grosso ramo storto.  Sarebbe stato un gran bel nome per un posto pieno di donne ma, aimè, non se ne vedeva neanche l'ombra, sempre che non si nascondessero sotto le barbe sudice degli uomini seduti ai tavoli.

La puzza di sudore sembrava aggirarsi per l'ambiente come una forma di vita a sé stante, aggredendo chiunque mettesse piedi nel locale.

Il pavimento appiccicoso era ricoperto di foglie secche, chi sa quanti strati c'erano lì sotto e quanti strati di locandine e mappe tappezzavano i muri luridi. Alcuni volti di ricercati ci guardavano arcigni, come la maggior parte della gente lì dentro, ammassata com'era in quel labirinto di tavoli.

Sfido io che erano di cattivo umore…

Ci sedemmo al bancone e l'oste, un uomo molto in carne che esibiva la sua maglia fradicia di sudore con la stessa espressione di un cavaliere che sfila in armatura, ci chiese cosa prendevamo. Avrei voluto rispondergli che avevamo sbagliato posto e che non bevevamo nulla ma invece sentii dire:

-   Per noi, due birre e qualche informazione – alla richiesta di Catus il locandiere ci spillò, in due boccali stranamente puliti, la bevanda scura.

-   Le birre vengono due scudi di bronzo ma per le informazioni il prezzo sale - ci rispose, facendo tremolare il suo doppio mento.

-   Vediamo se hai quel che mi interessa e poi ne riparliamo - concluse Catus sorseggiando la bibita.

Il proprietario si guardò intorno con fare casuale.

-   Che cosa vuoi sapere? – domandò.

-   Sai cosa sia successo ad Alisia qualche tempo fa nelle miniere? Ho poche informazioni a riguardo - sussurrò il Vecchio.

L'uomo dietro il bancone iniziò a pulire i bicchieri con un panno più sporco del pavimento, la sua voce era così bassa che credevo potesse avere una qualche parentela con lo stalliere.

-   In giro si parla di una strage. Nessun corpo dei lavoratori è mai stato trovato, sono scomparsi nelle gallerie senza lasciare tracce. Nessuno ha visto niente, hanno sentito solo delle urla, ma quando sono arrivati sul posto…Puff! – disse allargando i suoi occhi verdi sbiaditi, dandomi l’impressione che fosse un pazzo fatto e finito - Non hanno trovato neanche un uomo! – raccontò gesticolando con il boccale ancora in mano – Però la storia non finisce qui, oh no… – si toccò il naso come a dire che lui la sapeva lunga - Il Lord e suo figlio ebbero la brillante idea di formare delle squadre di ricerca che fecero scendere nei cunicoli, ma aimè, anche in questo caso nessuno risalì. Alcuni credono che si siano persi, altri che abbiano incontrato i nani nella gallerie, ma  secondo me dodici persone non spariscono così! Litanus chiuse le miniere. Ah, quel povero diavolo starà passando le pene dell’inferno! – concluse sconsolato.

Subito dopo, come se non avesse appena raccontato una faccenda raccapricciante, fece un gran sorriso sdentato e chiese convinto:

-   Allora facciamo uno scudo d’argento?

-   Uno d’argento? Sei impazzito? Per queste informazioni, se così si possono chiamare, al massimo te ne do mezzo, cinque di bronzo più i due per le birre. Non uno scudo in più!- Catus non aveva tutti i torti, non erano informazioni che mi sembravano molto utili.

-   Come cinque?! Queste sono notizie certe, non sono dicerie! Qualche giorno fa sono passate di qui molte famiglie che andavano via da Alisia, una in particolare era molto loquace. Dammi almeno sette scudi più quelli delle birre!

-   Non se ne parla, facciamo sette scudi in tutto. Anzi, se proprio vuoi uno Scudo d’Argento facci avere una stanza – Catus prese una moneta d’argento mettendola poi sotto il naso del locandiere e finì il suo boccale mentre io posavo il mio ancora pieno sopra il bancone.

Arrivati nella nostra camera, se così si poteva chiamare, pensai con ironia che fosse proprio un gran bel posto per fermarsi.

Avrei mille volte preferito dormire con i cavalli.

-   Allora…cos’è questa storia delle miniere? - domandai.

-   Eppure hai studiato, dovresti sapere che Alisia è una città mineraria estremamente ricca, l’unica che estrae delle gemme preziosissime da questo lato delle montagne – puntualizzò lui.

-   Non è questo quello che intendevo, la mia domanda era un’altra – dissi guardandolo male.

Perché chiedere informazioni sulle miniere? Voleva mettermi a lavoro con pala e piccone? Mi aveva trascinato fino qui dicendomi che era per farmi fare esperienza. Esperienza di cosa?

-   Che idea ti sei fatto? – chiese il Vecchio notando la mia espressione, poi sospirò e mi chiese guardandomi attentamente – Tu cosa credi sia successo ad Alisia? - sembrava sinceramente interessato a sentire la mia risposta.

Mi chiesi che cosa me ne sarebbe dovuto importare di tutta quella faccenda, ma ci pensai per quieto vivere.

-   Allora, dei minatori sono spariti nel nulla…mmh – le mie teorie erano sicuramente una più inverosimile dell’altra – potrebbe essere crollato il pavimento, ma dubito che il gruppo di ricerca andava in giro con gli occhi chiusi e che ci siano caduti dentro anche loro. I nani? Per quello che ho letto sui libri, i nani sono dei piccoletti molto diffidenti e sono sicuro che se scavando trovassero un'altra galleria, richiuderebbero il buco il più velocemente possibile. Vediamo… sospettano che si siano persi, ma degli uomini che si perdono nelle miniere nelle quali lavorano da anni? No, non può essere – andavo per esclusione, ho sempre avuto il vizio di ragionare a voce alta – Catus non saprei, potrebbe esserci un qualche animale che se li è mangiati! Non lo so! – non mi era venuto in mente niente di meglio, ma il Vecchio non commentò le mie ipotesi.

Mi sembrava che nei suoi occhi si era accesa una scintilla. Non mi piacque.

-   In realtà stiamo andando ad Alisia per rispondere ad una richiesta – Catus mi passò una lettera dalla quale pendeva un nastro rosso con uno stemma stampato sulla cera, raffigurava un falco in procinto di spiccare il volo.

Casata del Falco

Mio caro amico,

Ti invio questa missiva per chiederti consiglio.

Non posso riferirti particolari sull'accaduto, per timore che questo scritto possa essere intercettato.

Saprai certamente della disgrazia avvenuta nelle nostre miniere, dopo quell'avvenimento Alisia sta cadendo in rovina.

Se potessi risolvere questo grande problema da solo, questa missiva sarebbe di circostanza, ma purtroppo così non è.

Spero di aver istigato la tua innata curiosità con le mie poche parole.

Ti invito quindi come mio ospite quando ti sarà più comodo.

Mi auguro di rivederti quanto prima.

 

Con rispetto

Amarco Litanus

-   Quindi non dobbiamo andare ad Alisia per commerciare - la mia non era una domanda, ma un'affermazione.

Perciò…non avrei dovuto fare il minatore!

-   No, non devo comprare il grano o vendere merci, ciò che abbiamo sul carro è solo una sorta di copertura, una precauzione. Vedi l'altro anno effettivamente, avevo sentito qualcosa che mi aveva dato da pensare e oggi Arganto ci ha raccontato quasi le stesse cose che ho scoperto nell'ultimo anno. Non credo che ciò che sta accadendo a quella città sia solo un caso.

-   Quindi andiamo a investigare? - chiesi.

Mi aveva portato con lui per la mia arguzia? Ero lusingato!

-   Sì, credo sia giunto il momento di andare direttamente alla fonte. Il proprietario delle miniere è un mio caro amico e mi ha chiesto aiuto. Era da molto che non facevo questo tipo di favori – mi rispose lui.

Il Vecchio faceva il mercenario?

-   Ma non sei troppo anziano per fare queste cose?

-   Anziano? Io? – Catus non mi rivolse la parola per tutto il resto della sera.

Dalla nostra partenza da Ardas erano passate circa due settimane, nelle quali non venimmo più presi di mira dai banditi. Il mezz’orco aveva avvertito tutti i ladri appostati che eravamo pericolosi? Sperai con tutto il cuore che fosse così.

Una fredda mattina di metà Febbraio, giungemmo finalmente ad Alisia.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Cap 3: Alisia, la città mineraria ***


Quando si arriva in una città, ci si aspetta di scorgerla, di vederla da lontano o di notare almeno un edificio.
Niente di più sbagliato.
L'entrata era un enorme muro di roccia.

- Scusa Vecchio, ma quando dici che siamo arrivati, che cosa intendi?

Lui non mi rispose, continuava a camminare in avanti andando verso la montagna.
Soltanto quando arrivammo a pochi passi dalla barriera, scoprii il trucco. Un gioco di luci e ombre nascondeva l’entrata, come mettere un foglio davanti all’altro lasciando lo spazio in mezzo.
Superata una corta galleria, varcammo un grande portale di ferro con delle incisioni risalenti a chissà quante ere fa.
Davanti a noi si aprì un enorme piazza, quella del mercato. Delle guardie mal armate ci fecero un paio di controlli superficiali per poi farci passare.
Sembrava di essere entrati in un pentolone.
Eravamo circondati dai monti, sulle pareti erano stati scavati gli edifici, se si potevano chiamare così una serie di buchi nelle rocce, raggiungibili da due grandi salite ai nostri lati. Non tutte le loro porte arrivavano però all’altezza della strada, molte erano più in alto. Delle scale di legno permettevano di entrarvi e un sistema di pulegge, usato per portare in casa cibo, oggetti, bambini e vecchi, ornava tutte le pareti. Su in alto, proprio al centro di quella mostruosità si affacciava il profilo di un’enorme villa grigia.
La piazza era un posto gigantesco, brulicante di gente e di mercanti che, gridando la bellezza dei loro prodotti, tentavano di attirare acquirenti. I bambini correvano e giocavano tra le bancarelle mentre gli adulti li guardavano con fare divertito.
Poi mi resi conto che i miei occhi non potevano ingannarmi più di così.
Appoggiati ai muri, c’era una fila di povera gente che chiedeva l’elemosina, i bambini che a prima vista sembravano giocare, erano in realtà dei ladruncoli che cercavano di rubare qualche spicciolo nelle tasche altrui. Guardandomi ancora intorno, notai che quelle persone con abiti suntuosi passeggiavano tra le bancarelle, ma non compravano nulla se non il pane. I mercanti si sgolavano disperati raccontando di oggetti preziosi, di stoffe provenienti dalle Isole del Sud e di spezie mai sentite, senza alcun risultato. 
- E' solo questione di tempo prima che i commercianti non facciano più tappa qui- notai in tono lugubre.

- Non solo questo – il tono di Catus era più triste del mio- anche i cittadini se ne stanno andando.

- Beh perfetto, ora da che parte si va?- chiesi.

Il vecchio non mi rispose ma condusse il carro verso una delle due salite. Era sempre stato un uomo di poche parole.
Lungo la via lastricata di pietre scure non notai nessuna pianta, nessun cespuglio, niente che poteva ricordare il colore verde. Mentre il nostro cavallo continuava a trascinare la merce, mi affacciai al muretto sulla sinistra, sotto di me si apriva lo spiazzo che avevamo appena superato, neanche lì notai nulla che aveva una sfumatura differente dal marrone o dal grigio.
Quando ripresi il cammino, lungo la via contai più donne che uomini. Queste avevano gli occhi rossi, infossati e il senso di perdita che gli riempiva lo sguardo.
Il baratro che avevo dentro gioì. Si gonfiò tanto che quasi costrinse la mia anima a farsi da parte.

- Non è un po’ cupo questo posto? Non c’è l’ombra di un albero!
- Semplicemente perché non c’è terra. – Catus non sembrava convinto della sua stessa affermazione.

Come dargli torto? Anche se lì non c’era terreno, Alisia era circondata da una foresta! Anche se fosse stata considerata sacra, un po’ di terra si poteva sempre prendere per fare qualche vasetto. Un piccolo orto per una famiglia povera sarebbe stato la sua salvezza. Così feci notare i miei dubbi al vecchio e lui mi rispose che non ero stato il primo ad aver avuto questa brillante intuizione.

- Mi sembrava strano che io fossi l’unico con po’ di sale in zucca… ma allora perché non metterla in atto?
-  Il Tempio di Acaun non lo permette.

Di nuovo gli Dei.

- Cosa c’entra adesso Acaun?

Acaun, colui delle rocce, è il Dio delle pietre, dei minatori e delle gemme…insomma il Dio di qualunque cosa si trovi sotto terra o sia un sasso.

- Non so bene di preciso il motivo, ma il Credo lo vieta – anche Catus, per quanto più devoto di me, aveva i suoi dubbi.
 
- Che stupidaggine – sussurrai tra me e me.

Non coltivare cibo perché un Dio qualunque dice che non si può fare. Nelle strade non si vedeva neanche un pollo o un’oca o un qualsiasi animale da cortile, scorrazzare felicemente. Non si potevano allevare neanche quelli?
Mentre la mia testa percorreva una strada tutta sua, delle campane iniziarono a suonare e il nostro carretto si fermò davanti ad un gruppo di fanatici in preghiera. Eravamo arrivati davanti al tempio dedicato al Dio dei “sassi”, come mi piaceva chiamarlo.   

Di tutti gli elementi
la Roccia è la più solida, ferma e concreta.
La sua presenza reale, piena,
splende nei metalli e nelle gemme.
Madre di tutti i minatori
Che scavano nel suo ventre.
Acaun, Dio delle Pietre
Proteggi i tuoi figli instancabili.
Acaun, Dio delle Gemme
Proteggi i tuoi figli instancabili.
Acaun, Dio delle creature rocciose,
Proteggi i tuoi figli instancabili.
 
Un sacerdote con una lunga tonaca grigia, guardava il terreno guidando i fedeli alla preghiera da sopra la scalinata del santuario.
 Avevo i brividi.
Trovato un passaggio, ci allontanammo da quella scena, non senza aver ricevuto qualche brutta occhiata da tutte le vecchiette nelle vicinanze per il rumore che facevano le ruote del carro sul selciato.
Non potevo pensare che le persone credessero ancora a queste cose assurde! Nessun Dio verrà mai in nostro aiuto! Nessun Dio si era presentato quella notte sei anni fa! Nessun Dio aveva aiutato un ragazzino di dieci anni a salvare sua madre! Se gli Dei esistessero veramente, di noi non gliene importava proprio niente! Avrei voluto rubare il "podio" al sacerdote e mettermi a urlare: Se volete che i vostri uomini tornino, allora scendete lì sotto a cercarli! Non statevene lì a piangere, perché se credete che l’aiuto vi cada dal cielo, non ne usciranno mai!
Non dissi niente per quieto vivere e perché avrei rischiato il linciaggio.
Quel vuoto che avevo nell’anima si allargò ancora, spinto dal desiderio di deridere quella gente, spinto dalla voglia di vedere le loro facce disperate e infuriate, spinto dalla smania di far perdere loro la fede… come l’avevo perduta io.
Un lampo nero attraversò i miei occhi chiari, per sparire poi nelle profondità del mio essere.
Catus non si accorse di nulla. Respirai a fondo.
- Siamo arrivati?
Eravamo davanti alla grande villa che avevo visto dal mercato. Di là dal cancello di ferro, dopo un breve viale decorato da sassi di varie sfumature di grigio, sbucava dalla parete di roccia la facciata della casa. Dava come l’impressione che fosse stata divorata dalla montagna.
Due guardie ai lati dell’inferriata ci fermarono.

- Mi spiace signori ma questa è proprietà privata – ci disse un ragazzo sui vent’anni con fare importante.
- Senza invito del Signore non si può passare – gli fece coro l’altro, gonfiando il petto, già troppo gonfio per essere quello di un uomo.
- Noi abbiamo l’invito – Catus si presentò per poi dar loro la lettera con il sigillo.
- Aspettate qui, vado a informare il Lord – detto questo, la guardia bassa e tarchiata passò da una piccola porticina, trotterellando verso la villa.

Mezz’ora più tardi lo vedemmo tornare da noi correndo.
- Falli entrare presto! – urlò con il fiatone - Sono persone molto importanti!

Mentre il nostro cavallo si riposava in una stalla tutta sua, noi fummo accompagnati nella villa, dove per la prima volta da quando eravamo arrivati ad Alisia, vidi altri colori oltre il grigio.
Le pareti erano tappezzate di arazzi, alcuni rappresentavano battaglie in cui spiccava il rosso del sangue, altri invece paesaggi in cui dimostravano la loro importanza il verde delle colline e l’azzurro del cielo.
Entrati nella biblioteca la prima cosa che mi colpì fu il forte profumo di pergamena. Ci fu chiesto di aspettare perchè il Lord era a una riunione importante del Concilio di Alisia, così curiosai in giro.
La stanza non era molto grande ma in compenso era accogliente e fresca, il soffitto era altissimo e gli scaffali, che ospitavano una quantità paurosa di tomi, lo raggiungevano tranquillamente. Un unica grande vetrata che occupava la metà superiore di una delle pareti, illuminava il locale, aiutata da un interessante marchingegno, probabilmente creato dai nani, che grazie ad una serie di specchi aumentava la luce e permetteva anche di direzionarla. Su l'unica parete libera, qualla dove si affacciava un elaborato caminetto c’erano affissi i quadri di famiglia. Avrei scommesso che quel personaggio appeso proprio al centro del muro fosse Amarco Litanus, mentre quello più vicino gli scaffali…

- Questo sei tu? – Un uomo sui trent’anni mi guardava dal dipinto che avevo di fronte. Non potevo sbagliarmi. Era Catus o un suo parente con gli stessi occhi scuri e la stessa espressione da “devi fare più di così per battermi”.

- Mh –

Che risposta era, Mh? Che ci faceva lui tra i dipinti della famiglia Litanus? La sua barba nera, come i capelli, era curata, i vestiti puliti e ricercati. Non l’avevo mai visto vestito così elegante.
Chi era Catus? Perché un uomo che aveva fatto il mercenario, aveva un dipinto appeso nella biblioteca di un nobile? O meglio ancora, perché un nobile doveva appendere la faccia di Catus, dove la poteva ammirare tutti i giorni? L’arrivo di Litanus non mi permise di fare domande.

- Benvenuti! Catus sono anni che non ci vediamo! – i due si abbracciarono come fratelli.

Non mi ero sbagliato, il quadro appeso sul camino raffigurava proprio il Signore di Alisia.
Era un uomo alto e slanciato. La sua camminata, così fluida, aveva un che d’inumano. I capelli lunghi e chiari che erano legati ad arte, con un nastro verde, gli scoprivano le orecchie leggermente appuntite. Un mezzelfo?
 Gli occhi uno color foglia e l’altro color terra confermarono la mia ipotesi. Le mezze razze pure hanno sempre le iridi di colore diverso.

- Amarcus, è un piacere rivederti. I tuoi figli come stanno?

- Verto sta controllando le entrate alle miniere e sua sorella Ande credo stia allestendo una piccola mensa. Catus, mi dispiace molto incontrarci in un momento simile, ti chiamo sempre e solo in mio soccorso. Ti chiedo scusa.

Forse il Vecchio era su quelle pareti per qualcosa che aveva fatto? Stavo facendo congetture, me ne rendevo conto, ma come si poteva ascoltare un discorso sapendo i fatti a metà?

- Non devi preoccuparti, sono sempre disponibile per aiutare un amico. Dimmi allora, quale consiglio vorresti da questo vecchio? –

- Sediamoci – disse indicando tre poltrone – ma prima di cominciare il discorso, potrei sapere chi è questo giovane? – chiese facendo un cenno verso di me.

La sua voce era morbida e melodiosa come una canzone che ti entrava nell’anima, facendoti rilassare…questo se avesse trovato la mia anima. Ciò che sentii fu solo fastidio.

- Oh, molto piacere. Mi chiamo Liam e sono l’apprendista di Catus, chiedo scusa per il disturbo – risposi io inchinando leggermente la testa come nulla fosse.
 Sembrava sorpreso?

- Liam di…? – normalmente ci si presenta specificando il luogo di nascita; chi non sapeva quale fosse indicava solo la regione in cui era cresciuto.

Il mio villaggio era stato distrutto e gli abitanti dovevano essere tutti morti, io compreso. Non volevo far sapere che ero l’unico Blez rimasto sul Continente, sarei stato additato come demone portatore di sventure. Inoltre, se come sosteneva Catus, qualcuno teneva d’occhio le macerie, non sarebbe stata una cosa intelligente sbandierare ai quattro venti che c’era un sopravvissuto.
Avrei rovinato l’effetto sorpresa.

- Liam della Regione Boscosa, signore. I miei genitori erano dei mercanti, sono morti anni fa in un’imboscata di briganti – era una bugia ma con solo un pizzico di verità.

- Benvenuto nella mia casa Liam della Regione Boscosa, deve essere stato difficile crescere senza una madre e un padre. Sono certo però che Catus si sia preso molto cura di te – forse la mia frottola l’aveva ingannato e non approfondì oltre la questione. Inoltre, chiedere informazioni a un ragazzo che teoricamente non ne aveva, era controproducente.
- Non so quali notizie vi sono giunte su questa faccenda, quindi racconterò tutto dal principio – Litanus si sedette sulla poltrona centrale indicandoci le due rimaste e iniziò – All’incirca un anno fa verso Maggio, quando le giornate iniziavano a scaldarsi, improvvisamente scomparvero tutti i minatori che si trovavano all’interno delle gallerie. La gente che stava andando in preghiera e era nelle vicinanze, raccontò di aver sentito delle urla terrorizzate, ma quando sono accorse sul posto, non trovarono nessuno. Io e mio figlio organizzammo dei gruppi di ricerca, uomini grandi, forti e coraggiosi. Devi sapere, Liam della Regione Boscosa- e mi squadrò ben bene - che la nostra famiglia, o meglio questo ramo della nostra famiglia, è molto legato ai suoi operai e ai suoi artigiani. I nostri lavoratori sono con noi da molte generazioni e li conosciamo tutti per nome; capirai quindi la nostra preoccupazione. Ande cercò di tranquillizzare le mogli e i figli dei dispersi mentre noi iniziammo le ricerche. Passarono i giorni, ma non trovammo nessuna traccia, nessun indizio su ciò che poteva essere accaduto loro – il suo tono divenne tagliente e come se volesse fare a pezzi il resto del racconto, continuò -.
Mi ricordo bene quella mattina in cui, mentre stavo studiando le mappe delle miniere, segnando i posti già controllati, accadde la seconda disgrazia… il suono delle campane non coprì del tutto le grida dei soccorritori. Nessuno di loro tornò più in superficie. Questa è tutta la storia che si narra nel Continente. – Fermò il racconto per ringraziare il maggiordomo che ci servì un infuso di erbe.

Amarco bevve un lungo sorso della bevanda calda e ci guardò, aspettando forse una qualche teoria.

- Sì, in effetti, noi sappiamo la storia fin qui, circa. Come hai detto tu, Amarco, questo è ciò che conoscono tutti. Avendo poche informazioni però non posso fare congetture, quindi continua pure il tuo racconto – Per quanto ad un occhio poco esperto poteva sembrare rilassato, per chi lo conosceva da molto tempo era facile notare l’attenzione e l’arguzia in quegli occhi scuri.

Catus sembrava sorprendentemente a suo agio con quella tazzina fragile in mano. Io, d’altro canto, non ero mai stato educato per sedermi elegantemente su una poltrona spaziosa, sorseggiando bevande provenienti da chissà quali terre lontane. Sembravo un pezzo di legno adagiato sui cuscini. Tenevo la schiena dritta e le spalle rigide, neanche fossi diventato una statua.

- Molto bene. Io e Verto, che ci raggiungerà credo tra poco, chiedemmo al nostro personale più qualificato se fossero stati disposti a scendere nelle gallerie per cercare altri indizi.

- Quando intendi personale qualificato, vuoi dire i Cacciaprede? – domandò il Vecchio.
I Cacciaprede sono dei cacciatori di taglie, non solo umane e di altre razze, ma anche di bestie pericolose. Nella Regione Desertica era pieno di queste figure ed erano le più in gamba che potevi trovare. Nelle miniere di solito svolgevano il lavoro di controllori, in altre parole verificano che, scavando nuovi cunicoli, non ci s’imbatta per sbaglio nella tana di qualche animale.

- Esattamente, amico mio. Non delusero le nostre aspettative e scesero a coppie. Ben presto iniziarono a segnare e catalogare le impronte. Passarono i giorni e i Cacciaprede sembravano sempre più preoccupati. Dissero che qualunque cosa ci fosse lì sotto, strisciava, inoltre furono ritrovati dei solchi sulle pareti ma tutto questo, comunque, non permise loro di identificare la bestia – I suoi occhi si appannarono, mentre si fissava le mani – Purtroppo, un giorno non risalirono.  Aspettammo lì fuori fino a sera ma non si vide nessuno. Non ci furono grida questa volta, così non ci rendemmo subito conto della gravità della situazione. Perdemmo nelle gallerie ventitré brave persone, in totale – Bevve un altro sorso del suo infuso e continuò – Da quel giorno i sacerdoti di Acaun etichettarono gli episodi come volontà del Dio e condannarono chiunque provasse a entrare nel suo territorio. Ci fu una piccola rivolta dove, alcuni cittadini, chiesero a gran voce che l’Alto Sacerdote Caddos entrasse a far parte del Concilio di Alisia. Non ho potuto far altro che accettare. Ci sono molti suoi sostenitori in paese e avevano paura che questi avvenimenti fossero legati alla furia del Dio. Sono convinti ancora adesso che se nessun lo disturberà, Acaun rilascerà gli uomini che ha intrappolato nel sottosuolo. Questo pensiero comune, non mi permise più di fare nessun passo avanti.
La storia fu seguita da un silenzio carico di significato, dove ognuno di noi era immerso nei suoi pensieri. Per quanto riguarda i miei, erano pochi ma avevano tutti lo stesso stampo: Perché Catus mi aveva fatto venire? Non potevo essere andato a Blez da solo? Cosa me ne importava se un gruppo di gente che non conoscevo si era incastrato in qualche buco? Mi dovevo interessare a una manciata di tipi fanatici che mugugnava una volta a settimana?
No.

- …. Aspetta, una volta a settimana? – mi alzai e cominciai a fare avanti indietro nella stanza.
Normalmente i sacerdoti riuniscono i credenti solo quattro volte al mese in un giorno stabilito. Litanus stava per dirmi qualcosa, ma Catus alzò la mano verso di lui facendo segno di aspettare, mentre mi fissava incuriosito.

- …ci sono state tre sparizioni…se tutte e tre erano nello stesso mese, allora forse…- mi fermai e guardai il nostro ospite negli occhi – Signor Litanus posso farle una domanda?
In quel momento, il maggiordomo aprì la porta e fece entrare Verto Litanus.

- Chiedo scusa per il ritardo – s’inchinò educatamente a noi, poi solo a Catus aggiungendo – Maestro, è un piacere rivedervi, anche se avrei preferito che le circostanze fossero state diverse – poi, come se nulla fosse, mi si avvicinò porgendomi la mano.

Avevamo circa la stessa età quindi la cosa che mi sorprese, non fu il suo modo di presentarsi, ma il fatto che un nobile volesse stringere la mano a una persona socialmente inferiore a lui.

- Piacere di conoscerti, io sono Verto Litanus, primo genito di Amarco Litanus, erede della casata del Falco. – La sua presentazione sminuì molto la mia.

- Piacere mio, il mio nome è Liam della Regione Boscosa – e aggiunsi – figlio di mercanti – poi non mi venne altro e i convenevoli morirono lì.
Verto era tutto suo padre, alto e slanciato e con la stessa furbizia nello sguardo. Anche lui portava i capelli legati in una coda bassa, ma erano scuri, color cioccolato, lo stesso degli occhi. Le orecchie erano quasi normali e la sua voce non mi aveva fatto lo stesso effetto di quella di Amarco, dedussi quindi che la madre fosse umana. Prese una sedia con i braccioli e si accomodò vicino a me.

- Bene, Liam della Regione Boscosa – iniziava a darmi fastidio il fatto che Amarco puntualizzasse sempre “Della Regione Boscosa”, sembrava dirlo ironicamente – continua pure, quale domanda volevi pormi?- ma ancora una volta non riuscii a chiedere nulla.
Il maggiordomo, nuovamente, si presentò alla porta e con un inchino, chiese il permesso di parlare liberamente. Sembrava molto agitato.

- Certo Breto, qui siamo tra amici fidati.

- Sì Signore. Il sovraintendente delle ricerche, che il signorino Verto aveva già ammonito di non tornare alle miniere è qui. Dice che è successo di nuovo un incidente, Signore.

- Fallo entrare – Amarco gli fece segno di andare e poco dopo arrivò il sovraintendente.

- Buon giorno Signori – disse con un piccolo inchino - Chiedo a Sua Signoria il permesso di parlare liberamente – Era un ometto piccolo, calvo e spaventato.
Dopo che gli fu concesso di spiegarsi fece un gran respiro e raccontò di quella mattina con voce tremante.

- Circa un’ora e mezza fa, io e un mio gruppo di amici, abbiamo aspettato che il Signorino finisse i suoi giri di controllo alle miniere. Chiedo perdono, Signore ma quattro Cacciaprede sono entrati seguendo le mie indicazioni. Abbiamo preso tutte le misure di sicurezza possibili: li ho legati alla vita in modo che non potessero perdersi, ogni trenta minuti tiravo le corde e loro mi rispondevano, confermando che andava tutto bene. Pregai il Dio Acaun di aiutarci nelle ricerche e di proteggere tutti quelli che erano nelle gallerie. Dio chiedo scusa! Signore chiedo scusa! – L’uomo in preda ai singhiozzi iniziò a piangere e s’inginocchiò a terra, con la testa che toccava il pavimento.

-            Di tutti gli elementi…snif
             la Roccia è la più solida, ferma e…e concreta.
             La sua presenza reale, pie…piena,
             splende nei me…metalli e nelle gemme…snif
             Madre di tutti i mina….i mina…i minatori
             Che…che scavano nel su…suo ventre.
             A….Acaun, Dio delle Pietre
            Prote…ggi i tuoi figli in…instancabili.
            Aca…aun, Dio delle Ge…mme
           Proteggi i tu…tu..tuoi fi…fi…fi…figli instanca…abili.
           A…Acaun, Di…Dio delle creature rocciose,
           Prote…eggi i tu…tu…tuoi figli instancabili.
 
Tra i singhiozzi e le lacrime, neanche il Dio Acaun poteva riconoscere la sua stessa preghiera. Pregare, comunque, non avrebbe aiutato nessuno.
Amarco e suo figlio si alzarono e andarono dall’uomo.

- Redda dimmi cosa è successo. Verto prendigli un bicchiere d’acqua!
Quando si fu calmato, circa venti minuti dopo, sotto richiesta del Lord di Alisia, Redda continuò a raccontare l’accaduto.

- Finito di pregare tirai la prima corda ma non ci fu risposta, Signore! Non ci fu risposta! Continuai a tirare ancora ma niente! Provai con la seconda, la terza e poi la quarta, senza alcuna risposta, Signore! Nessuna risposta!  Sono rimasto lì per mezz’ora strattonando le funi, finché una dell’estremità non mi è tornata indietro – La sua barbetta caprina tremò e iniziò a urlare disperato - Il Dio Acaun mi punirà, Signore! Sì, si! Mi punirà per non averlo ascoltato! Per colpa mia…si è adirato e…punirà tutti, Signore! – prese il cavo che aveva appeso alla cintura e lo passò con mani tremanti a Verto – Nessuna risposta, Signore! Nessuna! Il Dio ci sta punendo, Signore! Sì, sì! – Amarco suonò un campanello e arrivò prontamente Breto che sorresse premurosamente l’uomo impazzito.

- Dagli una stanza e chiama il medico. Chiedi alla cuoca di preparargli qualcosa di caldo e portagli ancora un po’ d’acqua. Per piacere, resta con lui finché non si sarà calmato – il Lord sembrava molto preoccupato.
Quando fummo di nuovo soli, Verto esaminò la fune: era stata tagliata con un coltello, non strappata o morsa.
Che cosa poteva significare?
Sicuramente nulla di buono.

- Questo non è un buon presagio – disse Amarco indicando la corda - forse i Cacciaprede hanno dovuto sganciarsi perché non potevano tornare indietro?

- Signore – iniziai io.
Il mezzelfo e il figlio mi studiarono, valutando se era il momento opportuno per darmi credito; fortunatamente Catus mi venne in soccorso.

- Liam a che cosa stai pensando?

- Gli incidenti sono avvenuti tutti nello stesso mese? – chiesi.

- Credo di sì, più o meno tutti a Maggio, in seguito non abbiamo più potuto mandare nessuno.

- Si ricorda quanto tempo è passato tra un accaduto e l’altro?- avevo ricominciato a fare avanti e indietro, fissando il pavimento.
 
Ero agitato.

- Non sono state consecutive, se è questo che intendi. Non tutti i giorni la gente scompare! – Verto, guardandomi, aveva perso la calma.
- La mattina che sparirono i Cacciaprede, era il giorno di Acaun? – chiesi fermandomi all’improvviso.

Alzai lo sguardo e lo puntai su padre e figlio.
- Come fai a sapere che era mattina? – mi chiesero increduli.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Cap 4: Catus il Maretak ***


 
- Il Tempio di Acaun! – finalmente qualcuno mi stava seguendo. Catus era arrivato alla mia stessa conclusione – In tre incidenti su quattro, compreso quello di oggi, suonavano le campane per andare in preghiera, se Liam ha visto giusto dicendo che il terzo fatto è accaduto di mattina, significa che quasi sicuramente era il giorno di Acaun anche quello – Si prega la mattina e la sera, quasi per tutti gli dei e il “Dio dei sassi” non faceva eccezione.

- Che cosa significa? – Verto non capiva – Perché le preghiere ci dovrebbero interessare in questa faccenda?
Io e il Vecchio però non gli stavamo prestando attenzione. Il discorso ormai era tra me e lui.

- L’unica cosa che hanno in comune tutti gli incidenti è il Tempio, un incidente tutte le mattine dedicate al Dio. Perché i Maretak che sono entrati nella seconda spedizione di soccorso, in ben una settimana non hanno capito di che animale si trattasse? Possibile che lì sotto non ci sia nessun animale? Se il Credo fosse in qualche modo responsabile? – mi chiesi, non cercando una vera risposta dagli altri.
Ragionavo a voce alta, come mio solito.

- Questo non saprei dirlo ma, ricordiamoci che nessuno dei soccorritori della seconda e della terza spedizione ha urlato. Anche questo bisognerà aggiungere al quadro generale…- Catus stava cercando una risposta a tutte le mie domande.

Arrivò l’ora di pranzo, il pasto fu molto semplice, pane formaggio e qualche verdura. Il problema della mancanza di cibo stava arrivando anche sulla tavola del Lord di Alisia. Finito di mangiare, mi congedai, avevo bisogno di stare un po’ con me stesso.
Decisi di uscire a fare una passeggiata per le vie della cittadina. Dovevo risolvere il problema alla svelta se volevo tornare a Blez.
 Così andai verso le miniere.

- Ricapitoliamo – mi dissi - I Maretak non hanno capito di che animale si trattava durante le ricerche. I minatori dispersi e il primo gruppo di uomini che sono entrati hanno urlato prima di scomparire- contavo gli avvenimenti sulle dita – il secondo e il terzo gruppo, entrambi esperti nel cercare le trecce, sono spariti senza nessun suono. Forse nella gallerie c’è qualche gruppo di assassini? Se è così, li ha assoldati il Tempio?  – ero arrivato davanti l’entrata di una delle gallerie – Quattro gruppi in quattro giorni di preghiera – Un grande balcone di roccia formava una piazza davanti le quattro entrate delle cave.

L’interno era buio e umido. Non mi inoltrai molto, solo quanto bastava per trovare i segni di cui parlava Amarco. Solamente qualcosa di molto pesante poteva lasciarli sulla roccia, mentre i solchi sui muri facevano pensare a degli artigli. Come potevano delle persone lasciare segni simili? Uscii e trovai Verto ad aspettarmi.

- Sei impazzito? – mi chiese incredulo – vuoi morire?
- No, ma se le mie ipotesi sono corrette, finché non prega nessuno, sono al sicuro- dissi con fare scherzoso.
- E se non sono esatte? Se ti sbagli, entri li dentro e scompari anche tu? Catus rimarrebbe di nuovo solo – non si era preoccupato per la mia incolumità, allora.
- Cosa sai di quel Vecchiaccio? Non ho ancora capito bene cosa facesse prima del mercante. Le mie ipotesi sono: soldato, anche se non lo vedo proprio a prendere ordini o mercenario, che come professione mi convince di più, ma che non racchiude tutti gli indizi che ho trovato. Il fatto che mi ha confuso è stato un suo quadro nella vostra biblioteca - Durante quegli anni, avevo capito che più cose sapevo e meglio sarebbe stato.

 Non volevo rimanere ignorante, soprattutto sui fatti riguardanti le persone che mi stavano vicino. Verto mi accompagnò nella mia camminata pomeridiana.

- Non credo che Catus sarebbe felice di sapere che ti ho raccontato del suo passato ma sei con lui da molto tempo, mi ha riferito – mi disse con un sospiro – Nessuna delle tue teorie è esatta comunque – Sembrava che aveva deciso di narrarmi tutta la storia per una motivazione a me sconosciuta - Catus Brig di Edrin era un Maretak della Regione Desertica, uno dei migliori. Era molto richiesto e in quanto tale, la nostra famiglia a Nantos domandò i suoi servigi. Mio padre, che all’epoca aveva centotrent’anni…- essendo un mezzelfo non mi meravigliai - …convinto della sua forza non aspettò l’arrivo di Catus e andò da solo a cercare la bestia che aveva iniziato a cacciare nelle periferie della città. Non era un Maretak e non lo è tutt’ora,  non sapeva di quale essere si trattasse. Quando Catus lo trovò, era inseguito da una banda di Gnoll e gravemente ferito.
Gli Gnoll sono i peggiori esseri in cui ti puoi imbattere nella Regione Boscosa. Sono dei razziatori che depredano i villaggi e si cibano degli abitanti. Non sono ne uomini ne animali, sono bestie, peggio dei Goblin del Nord.

- Cosa accadde poi?
- Per salvare mio padre, anche Catus rimase ferito. Combatterono l’uno di fianco all’altro e portarono a casa la pelle. Non mi descrissero le parti cruente dello scontro, ma mia madre non dimenticò che aveva salvato suo marito e gli fu grata fino alla morte – quindi Verto era orfano di madre.
- Per questo il suo dipinto è in biblioteca? – chiesi ancora poco convinto, mentre camminavamo tra le vie.
- No, Catus sposò mia zia Bricta, che si prese amorevole cura delle sue ferite quando rientrò da quell’avventura. Si sposarono e ebbero una figlia, la chiamarono Siria, nacque qualche anno dopo di me.

- Se il Vecchio ha una famiglia, perché è in quella foresta a fare solo lui sa cosa? – Verto mi guardò tristemente e continuò a parlare.

- Catus, che aveva ormai una moglie e una bambina piccola, non volle accettare più spedizioni, così  mia madre gli propose di lavorare per lei ed istruirmi nella scherma. Poté rimanere così a Nantos. La sua vita era felice, aveva una figlia bellissima e una moglie premurosa. Gli Dei gli sorridevano o così si credeva. – Il cioccolato dei suoi occhi si sciolse, formando un colore compatto. Aveva un senso di impotenza nello sguardo quando continuò- Pochi anni più tardi madre e figlia svanirono. La loro casa era a soqquadro, nessun biglietto, niente che potesse aiutare per rintracciarle. A terra schiacciata da una libreria c’era mia madre, era ancora viva. Aveva provato a proteggere sua sorella e sua nipote. Un uomo l’aveva accoltellata all’addome e sbattuta contro il mobile – la sua voce vacillò – Non ci fu nulla da fare, le sue ultime parole furono “Mi dispiace”. Non era riuscita a salvare la moglie di Catus come lui aveva fatto suo marito. Morì con questo rimpianto. – Verto si fermò e guardò il cielo cercando di ricacciare indietro le lacrime. Io gli diedi tutto il tempo di cui aveva bisogno fingendo di trovare interessante la punta dei miei stivali.

- Mio zio le cercò ovunque, con tutte le sue conoscenze, con tutte le tecniche che aveva acquisito negli anni. Bricta fu ritrovata giorni dopo sulla Via del Mercato, morta con un pugnalata al petto insieme ad un gruppo di uomini, forse quelli che l’avevano rapita, anche loro senza vita. Di Siria nessuna traccia, tutti pensarono che fosse morta anche lei e il suo corpo abbandonato da qualche parte, ma Catus tutt’ora continua a cercarla. Lasciò Nantos dopo il funerale della moglie e della cognata. Si costruì una casa di legno tra i boschi, vicino a Ardas, uno dei crocevia della Via del Mercato. Per quanto ne so, si sposta ogni anno da un punto all’altro della via, “travestendosi” da mercante. Credo che abbia informatori in ogni Regione, ma ancora oggi…-

Ecco perché una volta l’anno circa partiva e rimaneva via per così tanto tempo. Quanto aveva viaggiato il Vecchio? Quanti posti aveva visitato? Per questo mi ha preso con se? Si rispecchiava nella mia solitudine? Forse allora mi ha insegnato l’arte della spada perché io avessi avuto la mia possibilità di combattere? O forse sperava che io non ne avrei mai avuto bisogno?

- Il quadro in biblioteca è lì perché lui fa parte della famiglia…-

- Esatto. Catus è mio zio acquisito, se così lo possiamo definire.

Avevamo camminato molto. Eravamo stati fuori tutto il pomeriggio e mentre il sole tramontava, tornammo verso la villa.

- Quindi Catus è stato un Maretak della Regione Desertica…- dissi tra me e me.

Il mio cervello continuava a lavorare anche durante la cena frugale, finché ci raggiunse Ande. Era una ragazza minuta di circa quattordici anni, portava i capelli, chiari come quelli del padre, legati elegantemente in una crocchia alta mentre qualche boccolo le ricadeva sulle spalle.  
Trovai difficile pensare mentre mi sentivo costantemente osservato. I suoi occhi verdi scuro mi scrutavano come in cerca di qualcosa di interessante, chiusi i miei esasperato per poi riaprirli guardandola dritta in faccia.
Era veramente bella. Il viso a forma di cuore, le labbra piene e quegli occhi brillanti avrebbero catturato qualsiasi uomo.
Divenne rossa fino alla punta dei capelli e abbassò lo sguardo. Ah, ora era timida?
Finita la cena Ande mi guardò ancora una volta, arrossì e si congedò frettolosamente con un inchino.                                                                         Le donne sono le creature più strane sulla faccia del Continente! Non le avrei mai capite! Cosa le avevo fatto?
Lasciai la “questione Ande” da parte e ripresi il mio ragionamento da dove lo avevo interrotto.
Se il Vecchiaccio sapeva riconoscere le tracce ed era uno dei migliori, come era possibile che non sapeva dire se quelle nelle miniere erano opera di una bestia o di esseri umani?  Anche gli altri non avevano saputo dare una risposta e ora, ci avevano lasciato la pelle? Oppure avevano capito cosa si nasconde nel sottosuolo ma non potevano esserne sicuri? Inoltre, un altro fatto che non mi tornava, perché non ci sono state urla, come nelle prime due occasioni? Se c’erano sicari lì sotto, quanti ce ne dovrebbero essere per uccidere senza rumore?                                                                                                       
Tornati in biblioteca, quando furono chiuse le porte, inizia a cercare risposte con una domanda.

- Vecchio, tu eri un Maretak del deserto vent’anni fa?

Catus guardò prima me e poi il suo astio si attaccò a Verto. Come l’edera che strangola gli alberi così Catus avrebbe voluto strangolarlo. Verto, dal canto suo, con una mano tra i capelli, fingeva di interessarsi ai quadri.
Sicuramente fui maledetto da almeno uno dei due.

- Come tale, secondo te quelli sono segni lasciati da umani o dal passaggio di qualcosa di più minaccioso? – continuai, come nulla fosse.

Catus con un sospiro rassegnato mi rispose – Credo cercherei più un animale, probabilmente un Verme Scavatore delle Sabbie, ma è impossibile che sia arrivato fin qui, d’altronde fa parte della fauna desertica. Non sono animali che hanno la capacità di forare la roccia, ecco perché si chiama “delle sabbie”. Il suo equivalente delle montagne, il Verme Porpureo, non striscia e non lascia solchi come quelli che ho visto oggi – Ero felice che anche il Vecchio era andato in esplorazione.

- Escludiamo quindi l’uomo?
- Direi di sì ma non so se anche le altre due squadre l’abbiano escluso. Infondo quella bestia non può trovarsi in questa Regione – continuò Catus.
- L’hanno escluso sicuramente anche loro – un idea aveva iniziato a ronzarmi in testa.
- Perché pensi questo? – ma io non prestavo attenzione ad Amarco.
- Tra i due animali che hai menzionato, quale dei due è attratto dai rumori? – chi sa se avevano capito dove volevo arrivare.

Dopo un lungo silenzio mi rispose che in effetti entrambi ne erano attirati.

- Probabilmente le campane del Tempio mettono in allerta l’animale. Non ci sono mai stati terremoti in questa zona che potessero giustificare la presenza di un Verme Porpureo, no? – Quando mi fu data la conferma di Verto, Catus mi guardò come se avesse visto il sole per la prima volta.
- Non hanno urlato per non farsi trovare! – ipotizzò.
- Possiamo quindi supporre che sicuramente lì sotto si aggiri un Verme delle Sabbie. Ora, come Maretak cosa avresti fatto trovando dei segni simili, dove non dovevano essere? Saresti andato a controllare, giusto? – domandai.
- Ma perché gli uomini non ci hanno riferito dei loro sospetti? – il dubbio di Amarco non giunse inaspettato.
Un nobile mezzelfo però, con l’intelligenza che sicuramente aveva, doveva essere arrivato alla soluzione prima di noi.
- Perché mai non hanno avvertito il Lord di quello che poteva celare il sottosuolo? Perché sono entrati il giorno in cui le campane avrebbero suonato, sospettando del pericolo? – guardai Catus, sicuro che lui avrebbe avuto la soluzione pronta. Io ero convinto della mia.      

Il Vecchio non deluse le mie aspettative, guardò me, poi il suo amico.

-  Amarco, prova a riflettere. Se ti avessero fatto partecipe di ciò che sapevano, quasi certamente saresti stato in pericolo. Dovevano capire se veramente qualcuno aveva messo un Uovo di verme delle Sabbie all’interno delle miniere, ipotizzare solo una cosa simile poteva portare a una catastrofe politica. I ragazzi sono entrati quel giorno perché sarebbe uscito allo scoperto al suono delle campane e trovando lui, forse avrebbero trovato qualche sopravvissuto o capito chi era il mandante dell’operazione– eccolo lì, il mio ragionamento in bella vista.

- Perché non usare un Verme Purpureo allora? Perché la fatica di andare a cercarlo nel deserto? – Amarco continuava a non seguire bene il discorso, ma il figlio fortunatamente sì.

- Quello delle sabbie non può scavare la roccia! – Verto sì alzò e in una mia perfetta imitazione, cominciò a camminare avanti e indietro – Padre, ultimamente abbiamo ricevuto molte richieste di vendere la cava, alcune delle quali anche dal tempio di Acaun con la scusa “Il Dio Acaun ci proteggerà”. Se uno di questi approfittatori ci avesse fatto questo scherzetto? –

- Non arriviamo a conclusioni affrettate, non possiamo incolpare un luogo di preghiera senza prove. Non sappiamo neanche se effettivamente sia quella la bestia che andiamo cercando.

- Scendiamo allora – dissi convinto.
- Scendere dove?- Catus era in evidente disaccordo.
- Scendiamo a cercarlo. Tu sai come trovarlo. Assicuriamoci però di non andare quando suonano le campane e di non fare sapere che siamo lì sotto a chi che sia – mi guardavano tutti come se fossi impazzito.
- Liam, il verme delle Sabbie non è lombrico da pesca, è veramente grande e pericoloso e tu, vorresti andare a vedere se c’è davvero un mostro gigante di trenta metri che striscia? Sei matto? – non credevo fosse lungo trenta metri, aveva si e no un anno di vita!    
- Non sento altre idee – non mi arresi. Prima capivamo cos’era e prima ce ne saremo andati da lì.

Quella notte, al buio nella mia camera, sentii nuovamente quella parte oscura della mia anima, allargarsi, sorridere e sghignazzare. Sarei andato da solo o in compagnia, ma sarei comunque andato . Avrei trovato la cosa che aveva lasciato il vuoto nel cuore dei paesani. I cittadini avevano ancora speranza di ritrovare almeno i corpi dei dispersi, io gli avrei dimostrato che era impossibile, che non ci sarebbe stata traccia del loro passaggio, che l’animale li aveva ormai digeriti. La morte è l’assenza della vita. Lascia un buco, uno squarcio che non può essere ricucito facilmente. La speranza è il filo e io l’avrei tagliato.
Mi resi conto che qualcosa non andava. Questo non ero io. Io non avrei mai voluto far del male a nessuno, ma allora perché avevo questi pensieri? Perché sentivo che mi sarebbe piaciuto vederli persi nella disperazione?
Mi vestii e uscii.
Sdraiato sull’ultimo scalino del portico guardai il cielo, tra pochi giorni ci sarebbe stata la Luna Nuova. L’aria della fine di Febbraio era pungente, mi graffiava il viso come se lo stessi strofinando in un cespuglio di more. Mi svegliò e non chiesi di meglio.                                                                     
Mentre ero lì, cercando di non pensare a niente, sentii un frusciare di gonne e mi sedetti.

- Cosa ci fai alzata a quest’ora? – mi sentii chiedere.
In realtà non mi interessava la motivazione, volevo solo sapere perché aveva preso l’iniziativa di venire a disturbarmi.

- Non riuscivo a dormire e sono venuta a fare una passeggiata – mi resi conto solo in quel momento che Ande era in vestaglia da notte – non pensavo di trovare qualcuno alzato a quest’ora – aveva di nuovo le guance rosse. Distolsi lo sguardo a disagio.
- Sei preoccupata?
- Non so cosa posso fare per aiutare mio padre e mio fratello. – disse mettendosi seduta accanto a me – Loro si stanno impegnando tanto per cercare i dispersi, il signor Catus e anche voi. Non credo che gli uomini rimasti lì sotto siano ancora vivi ma  potremmo fare in modo che le famiglie abbaino delle spoglie da seppellire e dei ricordi a cui aggrapparsi. Vorrei che tornassero a sorridere.

Non era in ansia per la situazione della città ma per le famiglie che l’abitavano?

- Invece che impegnarti per risollevare Alisia e la sua economia ti preoccupi per il morale del suo popolo…sei un ipocrita – la guardai negli occhi e continuai – Devi pensare in grande per poter risolvere anche solo il piccolo problema. La gente ha fame e gli è vietato coltivare e allevare il proprio cibo, lo deve comprare forzatamente. Tu che hai ancora soldi puoi permettertelo, ma loro no. Allestire delle mense, riportare le salme dei loro cari e soprattutto pregare non risolverà il problema di questa città – la stavo ferendo e lo sapevo, ma continuai – i bambini sono diventati dei ladri e tra il rubare per mangiare e l’uccidere, basta un passo falso – aveva gli occhi lucidi ma la mia voce si indurì – i mercanti non verranno più qui, i cittadini se ne andranno per cercare fortuna altrove, venderete le miniere al primo acquirente ad un prezzo stracciato e Alisia diventerà solo l’ombra di ciò che era. –
Ande si girò dell’altra parte per nascondere le lacrime, si alzò e scappò via da me.
Restai fuori ancora un po’, chiedendomi se c’era nel Continente qualcuno più idiota di me.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** CAP 5: Il Marmo Serpentino ***


Il sole mi trovò già sveglio. Ande non venne a colazione e io mi sentii ancora più stupido, non volevo ferirla ma non ero riuscito a fermarmi.
Mi odiava ora? Forse sì.
Ci organizzammo velocemente per la spedizione di ricerca: corde, coltelli, acqua e razioni secche per ogni evenienza. Quel giorno non dovevano esserci preghiere; se le campane non suonavano eravamo salvi. Era una giornata tiepida per essere la fine di Febbraio, il sole scaldava le rocce ma non gli donava un colore differente, purtroppo. Se non fossi più risalito, l’ultima cosa che avrei visto prima di scendere sarebbe stata una pietra. Non ero d’accordo, così guardai il cielo azzurro e fui pronto a partire.

- Sei certo di volerlo fare? – mi chiese Verto mentre mi aiutava a legarmi in vita la corda – Insomma, non sei obbligato ad aiutarci quindi perché lo stai facendo?

 -Ah, questa sì che è una bella domanda! – volevo rispondergli che la risposta era semplice e riguardava la mia voglia di andarmene il più presto da Alisia, ma invece tacqui.
Non mi sembrava una risposta abbastanza forte, per convincere qualcuno della mia totale voglia di estraniarmi dai fatti che erano accaduti in quella città.
Avevo pensato a molte alternative pur di non dover scendere io a rischiare l’osso del collo, tra le quali c’erano: mandare lì sotto altre persone,  rinchiuderci un animale che attirasse la bestia allo scoperto oppure fare rumori assordanti appena fuori dalle gallerie.
Le scartai tutte; la prima perché nessuno sano di mente sarebbe sceso di nuovo lì sotto, la seconda perché non volevo sacrificare un povero animale che non c’entrava niente e infine la terza perché far tanto rumore, poteva sì attirare il verme all’esterno ma c’era il pericolo che si potesse scatenare in tutto il paese, banchettando a piacimento.
Quindi anche se di malavoglia, l’unica soluzione accettabile era andare di persona, così legati stretti alla vita e con una lanterna in mano io e Catus iniziammo la discesa.

- Solo tu potevi convincermi a scendere qui sotto – iniziò il vecchio a voce bassa.

Le tracce, che imparai presto a riconoscere, ci portavano sempre più in basso, destra, sinistra, sinistra, destra e dritto, avevamo fatto così tante svolte che mi ero già perso.
Nelle gallerie faceva freddo e l’umidità entrava nelle ossa, riempiendole di acqua gelida, la puzza di chiuso e di argilla entrava nelle narici innalzandole a loro dimora.
Per tutta la mattinata non facemmo che camminare, senza sentire altro rumore se non quello dei nostri passi.
Quando l’aria si fece ancora più stantia e da fredda e umida tramutò in calda e afosa, ci fermammo ad un bivio e per capire che direzione prendere ci mettemmo circa mezz’ora: destra o sinistra? Ormai riconoscevo le impronte ma non sapevo ancora distinguere bene quali erano le più vecchie e quali quelle recenti.
 Catus si era arrugginito? Il suo viso non tradiva alcuna espressione e questo mi mise in allerta.

- Da questa parte – sussurrò infine girando a sinistra.

Lo seguii e pochi metri dopo la luce delle lanterne si rifletté colorata sui muri, era bellissimo! Le gemme rosse, verdi, azzurre, viola e bianche creavano un arcobaleno che illuminava la galleria di mille sfumature.
 Mi chiesi perché mai fuori di lì vivevano in quel mondo grigio, quando nelle cave ne esisteva uno così pieno di colori. Il Dio Acaun in realtà doveva essere un esibizionista!
Guardando le pareti, non mi accorsi che il Vecchio si era fermato e ci andai a sbattere contro. Fissava il pavimento grigio e granuloso, seguendo il suo sguardo notai un oggetto, al lato della strada, quasi sotterrato dalla polvere.

- Questo è un coltello di un Maretak Desertico – disse prendendo in mano il ferro per poi passarmelo.

Maneggevole e di facile utilizzo aveva la lama lunga come la mano di un uomo, leggermente più larga vicino l’impugnatura, terminava con una punta fina e aguzza. La particolarità però, oltre allo strano materiale di cui era fatta che non riuscivo a riconoscere e ai simboli incisi sulla linea di tempra dell’arma, stava nell’impugnatura che rivestita con uno strano cuoio nero era stata impreziosita da una piccola gemma blu zaffiro.
Lo intascai; al suo precedente proprietario non sarebbe più servito.

- Significa che siamo sulla strada giusta – sussurrai con il sudore che mi imperlava la fronte.

Se la strada giusta era quella che ci portava a trovare oggetti smarriti di persone ormai morte.
Quando il mio stomaco mi avvertì che era ora di pranzo, ci fermammo vicino ad un altro incrocio a mangiare un po’ di carne secca insipida.
Lungo la via avevamo ritrovato altri oggetti: torce, una scarpa e anche un ciondolo vuoto di quelli in cui all’interno si tengono i ritratti di famiglia; non proprio un incoraggiamento a continuare, certo, ma ci ricordava di stare attenti, così mentre stavamo mangiando nessuno dei due fiatò.
Senza il rimbombo leggero dei nostri passi era più facile accorgersi di altri rumori. Nel silenzio quasi assoluto i sensi si espansero e concentrati come eravamo, ci accorgemmo subito di un suono che non avremmo mai voluto sentire: qualcosa stava strisciando verso di noi.
Trattenemmo il fiato, con il cibo stretto in mano e ci facemmo piccoli piccoli, mentre una bestia gigante ci passava proprio davanti, neanche dieci passi e avrei potuto toccarla per scoprire se era veramente viscida come sembrava. La luce della lanterna illuminò il verme rugoso abbastanza bene da vederne il muso piatto, aveva le fauci come quelle delle sanguisughe carnivore: file di denti gli ricoprivano il palato, giù fino a dove si riusciva a vedere. Ai lati del corpo aveva degli spuntoni appuntiti con la quale graffiava i muri delle gallerie, chi sa nel deserto a cosa gli potevano servire?
Fortunatamente ci superò continuando dritto, sembrava non avesse fatto caso a noi, come se non avesse in alcun modo avvertito la nostra presenza. Quando sparì dietro una curva della galleria, ricominciammo a respirare così piano che pareva avessimo paura di attirare la sua attenzione aspirando troppa aria.
Era sicuramente qualcosa che non avrei mai potuto uccidere, aveva più armi di me.
Dopo esserci tolti gli stivali, che facevano troppo rumore sul pavimento roccioso, imboccammo la strada da dove era venuta la bestia.
Meglio stargli lontano.
Non trovammo altri oggetti dei dispersi ma dopo quelle che parvero ore, ci accorgemmo di altre tracce molto più raccapriccianti; chiazze scure e a volte abbondanti ricoprivano la strada, come pozzanghere di fango secco. Alcune erano allungate, come se qualcosa ci fosse passato sopra mentre altre sembravano rimaste come quando erano state formate, a testimoniare il luogo esatto in cui il proprietario di quel sangue, fosse morto. Dopo poco la galleria iniziò ad allargarsi e una folata di vento, proveniente da chi sa dove, portò con se un odore putrido che mi arrivò dritto alle narici facendomi tossire disgustato. Con le mani a tappare naso e bocca, entrammo in una grotta così alta che le nostre luci quasi non riuscivano a raggiungere il soffitto.
Appesi ai muri della caverna notammo delle lanterne e anche se avevamo paura di vedere cosa c’era più in là del nostro naso, andammo a riempirle con il nostro olio per poi accenderle una per una.
La scena che ci trovammo davanti era una delle più disgustose che avevo mai visto: al centro dello spiazzo c’era un mucchio di cadaveri in decomposizione, ricoperti di bava appiccicosa. La pelle rimasta sui loro corpi si staccava e scivolava a terra facendo suoni disgustosi e gli occhi, per chi ne aveva ancora, erano bianchi e vitrei oppure vuoti e pieni di piccoli vermi rosei.
Tutti morti con il volto sfigurato dalla paura.
Ne contammo quindici, almeno di quelli che riuscivamo a vedere e due probabilmente facevano parte dell’ultima squadra entrata.

- Gli altri otto? – bisbigliai – Saranno nello stomaco di quella cosa?
- No, al massimo ce ne sarà uno, ne tiene tanti nello stomaco solo per catturarli – Fece una pausa, un grosso sospiro e continuò atterrito - Sono stati tutti divorati vivi. Il verme delle sabbie li ingoia interi, quella fila di zanne che hai visto, serve per ferire le prede il più possibile così che il suo veleno paralizzante faccia subito effetto. Poi li risputa e crea la sua dispensa…

- Veleno paralizzante? E in che senso dispensa? – domandai temendo la risposta.

- Non li mastica, ne prendere un pezzo per volta perché non ha una buona digestione, così usa la sua gola  per spellarli o per grattare via la carne dalle ossa, poi il resto lo rigetta – gli occhi scuri di Catus sembravano guardare lontano, come se stesse osservando una scena già vissuta in passato - La bava li mantiene in modo che può continuare a cibarsene finché non ne rimangono le ossa. Le sue prede possono rimanere vive anche per due o tre giorni…

- Perché gli ultimi arrivati non sono ancora vivi allora? – domandai più a me stesso che al Vecchio.

Trovai la risposta esaminando i corpi: si erano uccisi pugnalandosi al cuore. Con molta probabilità si erano trovati nella situazione in cui si ha poco tempo per scegliere come morire, dolorosamente e molto lentamente oppure con un colpo netto.
Non li biasimavo, non li consideravo affatto dei codardi perché la loro non era una scelta tra vivere o morire, ma tra morire come uomini o morire come cibo.
Non volevo pensare che probabilmente chi non era stato altrettanto fortunato, prima di morire era entrato da vivo, più di una volta, nello stomaco di quella cosa. Non volevo nemmeno immaginare il terrore e il dolore che tutti loro avevano provato ad essere divorati e maciullati più e più volte vedendo con i propri occhi l’interno del suo stomaco. Sapevo per certo che, le persone in quella pila al centro della sala, avevano sperato incessantemente di morire infilzati da uno dei suoi denti, avevano visto e sentito i loro amici fare una fine orrenda, la stessa che stavano facendo anche loro e avevano sperato di potersi muovere per uccidersi da soli o a vicenda, ma sicuramente invano.

- Quindi gli atri dove sono? –  chiesi ormai disgustato.
- Non lo so – mi rispose cupo.

Ispezionammo la sua tana: mentre Catus cercava di prendere, usando tutta la cautela possibile, almeno un oggetto da ognuno dei corpi che poteva raggiungere, io studiavo i muri cercando un’altra eventuale via di fuga, ma trovai solo una piccola galleria che andava in salita, era da lì che soffiava l’aria fresca, che mi asciugò un po’ il sudore dalla fronte e cacciò almeno in parte l’odore putrescente che permeava le mie povere narici.
Feci appena in tempo ad avvicinarmi a Catus per riferirglielo che le nostre corde si mossero leggermente, e noi ci impietrimmo: c’era qualcosa che non andava. Ci eravamo accordati con gli altri che erano rimasti fuori che i segnali li avremmo mandati noi per primi appena trovato qualcosa, inoltre quello che avevamo sentito sembrava più un semplice movimento che uno strattone vero e proprio.
Restammo di nuovo in silenzio, e oltre al suono umido, alle nostre spalle, dei corpi che cadevano a pezzi, sentimmo il grattare sulle parti e lo strisciare sul pavimento che ci informò dell’intenzione del nostro vermiciattolo di tornare nella sua tana. Presi il Vecchio per il braccio e lo trascinai correndo verso l’unica altra uscita che avevo trovato, ma le nostre funi si incastrarono e rovinammo a terra. Il mostro si stava avvicinando più velocemente, ci aveva sentito e ormai stava entrando nello spiazzo.
I coltelli non riuscivano a tagliare le corde abbastanza velocemente, è così che erano morti i Maretak? Per colpa dei cavi di sicurezza? Saremo stati divorati anche noi?
No, non lo avrei mai permesso! Presi le mie daghe curve e liberai entrambi. Ci fiondammo verso quella piccola galleria, non badavamo più al rumore che stavamo facendo perché il verme era proprio dietro di noi con quella bocca tonda sempre aperta, pronto a divorarci vivi. Saltammo nel cunicolo che era appena sufficiente a permetterci di strisciare l’uno vicino all’altro, il lombrico si buttò addosso all’entrata facendo tremare tutto, una pietra mi cadde sulla testa e il sangue che mi colò sull’occhio mi fece vedere tutto rosso. Un fischio acuto mi perforò le orecchie e mentre noi cercavamo di arrampicarci su quella salita ripida, l’animale iniziò a aspirare l’aria.  Non riuscivamo più ad avanzare, anzi il risucchio ci stava facendo scivolare dritti nella sua bocca. Catus cercò di infilzare il suo coltello nella roccia, ma ci riuscì solo al terzo tentativo afferrandomi poi per un braccio mentre io cercavo ancora di incastrare il mio.  
Non so quanto riuscimmo a resistere, il verme delle Sabbie non si arrendeva, convinto di aver trovato cibo fresco. La lama che ci teneva ancora vivi iniziò ad inclinarsi.
Eravamo spacciati.
Proprio mentre la nostra ancora decideva di abbandonarci al nostro destino, una mano agguantò il vecchio al polso.

- Su! Tirateci su! – sentii urlare.

Venimmo trascinati con fatica, ma usciti da quel buco buio vidi una tenue luce, e ringraziai l’aria pulita mi carezzò il viso. Sdraiati sul pavimento, fradici di sudore e con il fiatone ci ritrovammo a fissare il cielo: era sera e il sole stava tramontando.
Eravamo usciti?

- Altri soccorritori immagino – disse il tipo che ci aveva tirato fuori da li.
- No, non pensavamo di trovare sopravvissuti. Dovevamo solo capire che bestia si nascondeva qui sotto – risposi con affanno.
- Ora che lo sapete cosa potete fare? Siete intrappolati qui anche voi, proprio come noi – un ragazzo poco più grande di me mi aiutò ad alzarmi, sicuramente era stato lui a reggere la corda per il suo compagno.
Eravamo in un ampio spazio, circondati da lisce pareti di marmo sulla quale erano appoggiati, stanchi e ormai deboli, i pochi sopravvissuti.
Proprio al centro di quella immensa cupola verdognola, si allargava un profondo stagno, intorno al quale erano cresciute piante di ogni tipo, probabilmente lo avevano usato come fonte di cibo e acqua. Grazie a quella pozza non erano morti tutti di fame. Gli uccelli inoltre venivano ad abbeverarsi e chi sa che non ci fosse anche qualche forma di vita nel lago.

- Non avete mai provato ad uscire? – domandai.
- Dalle gallerie non si può, l’ultima volta che hanno tentato sono morte altre due persone. In alto c’è un uscita, ma dovremmo avere le ali per poterla usare – rispose un uomo con tono acido.

Era un tipo alto e ben piazzato, doveva essere un sopravvissuto della spedizione avvenuta il giorno prima, il suo nome era Viro e non aveva ancora avuto il tempo di sperimentare la vera fame come invece avevano fatto i suoi compaesani.
Guardandomi intorno mi accorsi che si assomigliavano un po’ tutti: individui alti, sciupati, con la barba lunga e incolta e  lo sguardo spento, ci osservavano preoccupati.

- Altre due persone da sfamare? – fece uno.
- Non abbiamo abbastanza cibo, ieri due e oggi un’altra coppia. Se continuiamo così moriremo di fame – disse un altro.

Mentre dieci persone discutevano delle nostre vite, Catus distribuì qualche nostra razione a quei piagnucoloni e io iniziai a perlustrare la zona.
Il lago era molto fondo, non era stato creato dalle piogge come mi era sembrato in un primo momento, mi accorsi infatti che al bordo c’erano delle piccole sporgenze come se un tempo ci fossero stati dei ponticelli, probabilmente strutturati a croce, che convergevano verso il centro dove, se si faceva molta attenzione, si poteva intravedere quella che doveva essere stata una piccola scala a chiocciola che scendeva nel buio come le spire di un serpente. Forse portava da qualche parte ma io non volevo rischiare di morire affogato per scoprirlo.
Mi avvicinai ai muri sospettando che anche il luogo in cui ci trovavamo potesse essere stato costruito e infatti passandoci la mano scoprii che erano stati levigati, erano così lisci che poteva solo essere stata opera di un bravo artigiano del marmo.
Non avevo alcuna intenzione di restare lì, dovevo tornare a casa, così continuai a girare in cerchio cercando una via d’uscita che non fosse il laghetto. Studiai il marmo serpentino in basso e in alto illudendomi di poter trovare una sorta di porta nascosta, ma invano.
Non c’era altra strada così guardai in alto, notai che delle radici calavano dal soffitto strisciando sulle pareti, troppo distanti però per poterle usare.
Iniziavo ad attirare attenzione.

- Non ci sono vie d’uscita! Tu pensi veramente che nessuno di noi abbia cercato un modo per andare via di qui? Lo vedi in quanti siamo? Credi veramente di essere più furbo di tutti noi messi insieme? Se vuoi andartene l’unica soluzione è scendere da dove sei salito, ma se non vuoi morire te lo sconsiglio! – urlò Viro con un cipiglio sprezzante.

Possibile che nel continente esistessero delle persone così fastidiose? Aveva forse paura che io avrei potuto trovare quel che a lui era sfuggito?
La mia mano passò su una leggera crepa, i miei occhi brillarono e sul mio viso si aprì un sorriso vincente che però nessuno notò. Presi il coltello che mi era stato così poco utile in tutta quella vicenda e iniziai a scavare con la punta la parete; mi lasciarono fare, nessuno mi prese più in considerazione, neanche Viro si disturbò di disturbarmi, mi osservava però con superiorità come se non valesse neanche più la pena rivolgermi la parola. Il Vecchio venne ad indagare sul mio strano comportamento ma poi non riuscendo a capire cosa stavo facendo si sedette appoggiandosi al muro e mi osservò da lontano per tutto il tempo, si chiedeva sicuramente cosa diavolo stavo combinando.
Restai a grattare il granito verde per cinque giorni, fermandomi solo per dormire e mangiare. Arrivò la Luna Nuova l’ultimo del mese e la mattina successiva quando ormai le mie braccia erano completamente indolenzite, il mio scavare continuo fece impazzire qualcuno.

- Smettila! Smettila! Non ti sopporto più! Mi stai trapassando la testa! Non c’è niente dall’altra parte e sicuramente non potrai arrivarci con un’inutile coltello! – Viro, per mia sfortuna, si era arreso nel suo intento di non rivolgermi la parola e mi stava urlando contro mentre teneva le mani sulle orecchie scuotendo la testa di qua e di là. Il suo lungo codino biondo seguiva i movimenti del volto facendolo assomigliare ad un cane che stava scodinzolando, per quanto brutto, sporco e rognoso.
Mi si avvicinò con rabbia volendo togliermi la lama dalle mani ma, con un ultimo colpo sulla pietra, lo scricchiolare della crepa che si allargava arrivando fino in cima, ci immobilizzò tutti. L’uomo con il braccio ancora disteso rimase fermo a fissare il mio coltellaccio incastrato nel marmo.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3766340