Lost and Found

di Stephanie86
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1

 

«Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.»
«Come lo sai che sono matta?» disse Alice.
«Per forza,» disse il Gatto: «altrimenti non saresti venuta qui.»

[Lewis Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie]

 

 

 
I ricordi degli Oscuri continuavano a vorticare nella mente di Emma, un delirio di eventi neri ed emozioni travolgenti che non poteva contrastare, mentre precipitava nel turbine e non sapeva dove si trovava. Non era in grado di liberarsi delle presenze estranee che le offuscavano la mente. Eventi sanguinosi, orrori, azioni crudeli compiute dagli Oscuri le esplosero dietro gli occhi.

Vide una pila di cadaveri davanti a lei... uomini e donne, persino bambini... persone innocenti uccise per ordine di qualche Oscuro. Vide villaggi in fiamme, spade che cozzavano contro altre spade, una maschera a forma di teschio, il baluginare del pugnale, sulla cui lama si susseguivano i nomi di coloro che l’avevano preceduta. Tremotino, Zoso, Gorgon, Rothbart, Cornelius... Nimue. Anche Lily. Lilith Page. Il suo nome era impresso su quell’arma perché lei l’aveva voluto, perché aveva deciso di salvarle la vita, riempiendola di oscurità.

Gridò, pregando che ci fosse qualcuno capace di liberarla da quell’incubo, ma nessuno rispose. Era sola.

Poi vecchie memorie si fecero largo in quella nube lugubre. Tutti gli eventi, da quando aveva salvato Regina fino al momento in cui Lily aveva usato la spada per trafiggerla e distruggere l’oscurità, corsero davanti a lei, in rapida successione.

E il film ripartì daccapo. Vide se stessa neonata e messa in una teca da suo padre. Vide Azzurro ferito dai soldati di Regina. La maledizione. Lei che passava da una casa famiglia all’altra. Lily in quel supermercato. Lily che le mentiva e gridava il suo nome sporgendosi dal finestrino dell’auto. Lei che cancellava la stella disegnata sul polso. Vide Ingrid e vide Neal. Vide Henry che bussava alla sua porta.

“Mi chiamo Henry. Sono tuo figlio.”

Regina sulla soglia di casa.

“Lei è la madre biologica?”

“Salve.”

Henry seduto davanti al mare. Un incendio. Graham morto tra le sue braccia. Regina che distruggeva il suo cuore e apriva lentamente il pugno lasciando che la polvere si disperdesse...

Allora udì una risata.

La Salvatrice nel mio regno.

Emma trasalì. Un’altra coscienza si accostò alla sua. Ma non era come accostarsi alla mente di Lily, non era come guardare attraverso i suoi occhi. Quella coscienza era incredibilmente vasta. Era prepotente. Ed era potente. Sbirciò e frugò nella sua testa senza troppi riguardi.

Chi sei? Cosa vuoi?, domandò Emma.

Sono il padrone di casa, Emma. Di nuovo la risata. Una risata maschile, divertita e sprezzante. Adesso sei nel mio regno. È un piacere. Ci incontreremo presto. Spero che il posto ti piaccia.

Le presenze oscure si dileguarono e così anche la voce.

Emma precipitò nel vuoto.

 

 
- Lily.

Si mosse di malavoglia. Non voleva sollevare le palpebre.

- Lily...

- Uhm...

Stava sognando qualcosa che riguardava Emma. Emma, una grande casa in riva al lago, una telecamera... e draghi. Era un bel sogno, non un incubo, per questo si rifiutò di dar retta alla voce che la chiamava. Una parte del suo cervello sapeva che, aprendo gli occhi, avrebbe trovato solo cose spiacevoli.

Una mano la scosse leggermente.

“Lily. Ti voglio bene, Lily.”

Sospirando, Lily sollevò le palpebre e incrociò gli occhi grandi e celesti di Malefica, che la osservava con attenzione.

- Che cosa è successo? – domandò, confusa.

- Sei svenuta. – rispose sua madre.

Lily girò la testa verso sinistra e vide il traghettatore dell’Ade. Scorse i cerchi di fiamma che circondavano il suo sguardo. Scorse il labbro inferiore, rovesciato infuori, i denti marci, la barba lunga, le narici che vibravano ed emettevano bianchi vapori.

- Non guardarlo. – le intimò Tremotino. Era in piedi e dava le spalle a Caronte. Guardava avanti, in attesa che l’altra sponda apparisse nella fitta nebbia che li avvolgeva.

Henry, dal canto suo, stringeva il libro in grembo ed evitava accuratamente Caronte. Però avvertiva il peso di quegli occhi. Aveva l’impressione che lo stessero invitando a voltarsi, che stessero cercando di persuaderlo ad immergersi in essi. Era convinto che, se il traghettatore avesse usato tutto il suo potere, avrebbe potuto finirlo con un battito di palpebre. Quindi si concentrò sul lungo bastone che utilizzava per spingere avanti la barca.

- Ci siamo quasi. – disse Tremotino, ad un certo punto.

Qualche metro più in là la nebbia si diradava. Comparve un ponticello di legno sui cui pali erano montate delle fiaccole. L’imbarcazione si accostò ad esso e si incagliò sul fondo. Era impossibile capire che cosa ci fosse oltre il muro di nebbia. Tutto era ancora nascosto, buio e silenzioso.

Lily si alzò in piedi, preparandosi a scendere. Tremotino, intanto, infilò una mano in una tasca interna della giacca e ne estrasse un sacchettino di cuoio. Lo aprì e lasciò cadere sul palmo di Caronte una manciata di monete. Oboli.

Il traghettatore li fece sparire in un secondo.

 

 

Città di Smeraldo. Oz.

 

Il tornado si dissolse e Zelena finì gambe all’aria. Si raggomitolò su se stessa per proteggere la bambina, che cominciò a piangere e ad agitare braccia e gambe.

- Va tutto bene. - sussurrò Zelena, scostandosi i capelli dal viso e guardandosi intorno per assicurarsi di essere nel posto giusto.

C’erano un sacco di cianfrusaglie vicino a lei. Pietre, abiti stracciati, una poltrona, pezzi di legno che erano forse i resti di qualche abitazione che la tromba d’aria aveva sradicato, lenzuola, oggetti di vario genere. Più in alto, oltre le chiome degli alberi, la Città di Smeraldo proiettava i suoi fasci di luce verde contro il cielo scuro.

Zelena sorrise, soddisfatta. - Siamo a casa, fagiolina. E senza quella scocciatrice di mia sorella a metterci i bastoni fra le ruote.

La bambina si acquietò e parve fissarla. Tese una mano minuscola, afferrando un lembo del mantello di sua madre.

- Bene, adesso dobbiamo solo...

Qualcosa l’azzannò alla caviglia. Zelena, istintivamente, scalciò per liberarsene e per tutta risposta ottenne un guaito nervoso. Una palla di pelo grigio atterrò sulle zampe posteriori e si ribaltò di lato, per poi risollevarsi agilmente.

- Ancora tu, maledetta creatura pulciosa!

Toto, il cane di Dorothy Gale, prese ad abbaiare furiosamente contro di lei e a mostrare i denti, piccoli e appuntiti.

- Se sei da queste parti, significa che anche quella seccatrice si trova nei dintorni. - Allungò una mano guantata per acciuffarlo, ma il cane balzò in là, ringhiando. Allora Zelena usò la magia e in un baleno Toto si ritrovò ad agitare le zampe in un comico balletto mentre la strega lo teneva stretto per la collottola. - Vedi, fagiolina? Abbiamo trovato anche il nostro animale da compagnia. Ti piacciono i cani?

Udì delle voci in avvicinamento. Una di esse chiamava Toto.

Zelena vide un cestino ancora intatto tra le cose portate dal tornado, lo prese e ci ficcò dentro l’animale, abbassando il coperchio e zittendo i suoi fastidiosi guaiti. Poi si nascose nell’ombra.

Fagiolina emise un gorgoglio, ma poi tacque, come se avesse capito che la situazione lo richiedeva.

Dorothy Gale sbucò nello spiazzo in cui il tornado aveva gettato la strega, armata di balestra. Con lei c’erano le due ragazze che le avevano già dato fastidio a Dunbroch, quando aveva accompagnato Artù nella ricerca di quell’elmo magico.

- Cercavate me? - disse Zelena. - Vedo che hai raccolto un paio di randagie mentre ero via, Dorothy.

- Attenta, Zelena. - disse Ruby.

- Vuoi metterti ancora contro di noi? - chiese Mulan, dandole man forte. Poi notò il fagotto che stringeva fra le braccia. - Ha una bambina con sé.

- Già. Non sarete mica così brutali da attaccarmi mentre ho una bambina in braccio.

- Sei diventata anche una ladra di bambini, adesso? - le chiese Dorothy, tenendola sempre sotto tiro.

- Ladra di bambini? È mia figlia.

- Oh, certo. - Dorothy roteò gli occhi, quasi le avesse appena raccontato la peggiore delle barzellette.

- È vero. - Zelena sfiorò il nasino della bambina, con delicatezza. - Sai, Dorothy, tu puoi anche tenerti l’amore del popolo. Io... ho qualcosa di meglio. Ho mia figlia. E la mia permanenza ad Oz è destinata a prolungarsi nel tempo.

- Vorrà dire che te la vedrai con noi.

- Davvero? E come intendi fare? Vuoi gettarmi addosso una secchiata d’acqua? Mi sto liquefacendo dalla paura. - la schernì. - Ah... un’ultima cosa. Come risarcimento per esserti messa contro di me anni fa... ho deciso di prendermi qualcosa che ti appartiene.

Sollevò il cestino e lo aprì. Toto mise fuori la testa.

Dorothy si sporse per prenderlo, ma Zelena richiuse il coperchio. - Ah, no! Questo lo tengo io. A meno che tu non abbia qualcosa da darmi in cambio... le scarpette, ad esempio.

- A che ti servono le scarpette se vuoi restare qui ad Oz?

- Ad assicurarmi che non le userai contro di me. E poi sono mie! Me le sono guadagnate! - La sua voce era diventata stridula come quella di una ragazzina a cui avevano appena rubato un giocattolo.  Una ragazzina molto invidiosa. - Il mago le ha date a me.

- Il mago era un buffone. - rispose Dorothy. - Un buffone che hai trasformato in una delle tue scimmie volanti!

- Poco importa. Quelle scarpette mi appartengono. E tu me le restituirai. Il cane per le scarpette. È molto semplice. Hai tempo fino a domani al tramonto. - Zelena rise, divertita e infine scomparve in una nuvola verde, portandosi dietro il cestino e la sua bambina.

 

 

Oltretomba.

 

Nessuno di loro sapeva che cosa aspettarsi, se fiamme altissime o un gelo perenne o un luogo buio e pieno di baratri e creature pronte ad azzannarli alla gola. Tremotino ne aveva parlato come di un luogo orribile...

Tuttavia, quando le nebbie si diradarono e il lago fu alle loro spalle, quello che li attendeva era ben lontano dalle aspettative.

- Non è possibile. – commentò Malefica.

- Che cos’è? Uno scherzo? – chiese Uncino, facendo un giro su se stesso.

Il cielo sopra le loro teste era rosso e gettava una luce malsana sulla città.

Su Storybrooke. L’Oltretomba era uguale a Storybrooke, fatta eccezione per alcuni dettagli.

- Nessuno scherzo, capitano. Siamo nel posto giusto. – rispose Tremotino, guidandoli lungo la via principale.

Gli edifici lungo i due lati della strada sembravano più vecchi. Alcuni avevano i vetri rotti o le porte sbarrate da pesanti assi di legno. La torre dell’orologio era crollata e giaceva semisepolta nell’asfalto. Le lancette erano ferme sulle otto e quindici. C’erano auto parcheggiate vicino ai marciapiedi e le persone camminavano, da sole o a gruppetti, come se stessero facendo una semplice passeggiata.

- Perché l’Oltretomba è uguale a Storybrooke? – chiese Regina, costernata.

- Queste sono domande inutili. Quello che conta è che tutte queste persone sono morte e intrappolate, perché hanno delle questioni in sospeso. – spiegò Tremotino.

Nell’aria ristagnava un odore indefinibile. Non era sgradevole, ma nemmeno piacevole.

Lily occhieggiò un uomo davanti alla vetrina di un negozio. Era impegnato a scrivere CHIUSO con la vernice spray. Lei lo vide di profilo e, per un secondo, le sembrò di conoscerlo. Le sembrò di riconoscere il taglio di capelli sotto il berretto che indossava, la giacca di pelle, i jeans un po’ logori, il mento aguzzo.

Murphy?

Quasi lui le avesse letto nel pensiero, voltò la testa di scatto e poi si infilò in un vicolo.

- Va tutto bene? – le chiese sua madre.

- Sì. – si affrettò a rispondere Lily. – Quindi anche Emma è qui.

- Beh, è morta da Oscuro. – le rispose Tremotino. A giudicare dalla sua espressione, Lily avrebbe detto che la stesse fissando come si fissa una persona che sta mettendo a dura prova la sua già precaria pazienza. – Non può che trovarsi qui.

“Perché dovrei fare qualcosa per te?”

“Perché in caso contrario potrei dire a Belle che razza di uomo sei. Ho ancora la magia. L’avevo anche prima di diventare un Oscuro. Potrei farcela ad arrivare da lei prima che tu mi uccida. Potrei anche farle del male personalmente.”

Lily non metteva in dubbio che Tremotino la detestasse. Aveva minacciato Belle e nominato suo figlio. E Tremotino era un Oscuro. Di nuovo. Aveva il potere di tutti gli Oscuri dentro di sé. Era certa che prima o poi avrebbe scovato un modo per fargliela pagare.

Ma a Lily questo non importava, ora. – Dividiamoci. Emma non è arrivata da molto. Forse qualcuno l’ha vista.

- Vengo con te. – disse Regina. Si sentiva osservata. Le sembrava che mille occhi la stessero scrutando e non era solo dovuto al fatto che i passanti li stessero effettivamente fissando, forse perché capivano che non erano morti. C’era qualcos’altro. L’opprimente sensazione che ci fossero altri sguardi puntati su di lei e che fossero tutti ostili. Alzò la testa, quasi si aspettasse che il cielo rosso fosse munito d’occhi. - Prima ce ne andiamo da questo posto e meglio sarà.

Lily ne fu sorpresa, ma non commentò. Decise di avviarsi verso la tavola calda.

Ognuno prese una direzione diversa.

 

 

Città di Smeraldo. Oz.

 

Zelena raggiunse il palazzo a cavallo di una scopa, spazzò via la gentaglia che bivaccava intorno ad esso ed irruppe, gettando le sue guardie nel panico. Ognuno riprese la sua posizione e non parlò se non invitato da lei a farlo.

Nella sala in cui un tempo aveva incontrato il Mago di Oz c’erano due uomini con le uniformi stropicciate che dormivano tra due colonne dorate. Zelena li afferrò per il collo e li trasformò in scimmie volanti. Le creature svolazzarono, berciando, per tutta la sala, si scontrarono e cercarono di prendersi a morsi a vicenda.

Il tendone dietro al quale il Mago si era celato per molto tempo era scostato. La strega armeggiò per qualche minuto con la magia e creò una culla. Vi depositò la bambina, avvolgendola accuratamente nella copertina bianca con ricami verdi e poi azionò il giostrino appeso sopra la sua testa. Le minuscole figure sulle scope presero a girare e a tintinnare.

Zelena sorrise e concluse infilando il cagnaccio di Dorothy Gale in una gabbia.

La bambina, tuttavia, sollevò gli occhi, guardando le due scimmie volanti e poi il liquido verde che gorgogliava nelle colonne dorate.

- Casa. – disse Zelena, allargando le braccia. Si tolse il mantello e lo lanciò lontano da sé. Sciolse il nastro che le legava i capelli. - Non c’è posto migliore della propria casa, vero fagiolina? Niente sorelle che cercano di portarti via tutto. Niente ladri impiccioni che credono di sapere cosa sia meglio per te...

Le porte si spalancarono.

Zelena formò una sfera di fuoco e si preparò a scagliarla contro l’intruso. - Che cosa ci fai tu qui? Non ti sei divertita abbastanza in esilio?

- Non sono venuta per combattere.

- Tu non vuoi mai combattere, Glinda. Anche perché se lo facessi, moriresti!

La bambina si agitò nella culla, singhiozzando.

- Non ci hai messo molto a farti viva... - continuò Zelena, chiudendo le dita e spegnendo le fiamme. Scese di un gradino. - Sei venuta per un’altra opera di persuasione? Ci hai già provato una volta. Non ti conviene.

Il vestito bianco e argento di Glinda mandava barbagli luminosi, colpito dalle luci della sala. La Strega Buona del Sud alzò una mano, quasi la stesse zittendo. - Credevo fossi morta, Zelena.

- Ti piacerebbe, vero? Come vedi, sono viva e vegeta. E sono tornata.

- Nessuno di noi vuole combattere. C’è gente innocente, là fuori. Possiamo trovare un accordo?

Una delle cose che detestava di più era proprio il tono benevolo di Glinda. Un tempo l’aveva abbindolata con tutte quelle fandonie sulla possibilità di cambiare, di essere diversa e non costantemente logorata dall’invidia e dal desiderio di vendetta nei confronti di sua sorella. Un tempo Glinda l’aveva fatta sentire accettata, l’aveva accolta, offrendole un posto accanto alle altre Streghe di Oz... posto che poi aveva ceduto a quella maledetta ragazzina venuta dal Kansas!

- Sparisci, Glinda. È passata l’epoca in cui mi sono quasi fidata di te. Non sfidare la mia pazienza. - disse Zelena, rabbiosamente.

- Ho fallito molto tempo fa. - ammise lei, avvicinandosi di qualche passo. Sbirciò la culla oltre la sua spalla. - Ho sbagliato e me ne pento, ma tu non puoi continuare a terrorizzare questa gente. Hai una figlia, adesso. Devi pensare a lei.

- Ed è quello che intendo fare, se non mi metterete i bastoni fra le ruote! - gridò Zelena.

- Dov’è il padre di quella bambina?

- Il padre non è affar tuo.

- Gliel’hai portata via, vero?

Zelena strinse i denti, fissando Glinda con gli occhi sgranati. Solo allora si accorse che non era sola. C’era un uomo, con lei, ma era rimasto sul fondo, come un’ombra, una guardia silenziosa che lasciava il lavoro alla donna dotata di poteri magici e si limitava a studiare la situazione. Era un uomo alto, con la pelle nera e le braccia e il collo ricoperti di tatuaggi a forma di diamante. Indossava una giubba di un rosso sgargiante e i pantaloni neri infilati negli stivali muniti di speroni. Portava una faretra piena di frecce a tracolla e stringeva l’arco nella mano sinistra.

Zelena sollevò un sopracciglio. - Ti sei trovata una guardia del corpo, Glinda? Non una gran scelta, lascia che te lo dica...

- Lui è Fiyero, il principe dei Winkie. Il suo popolo e Oz sono alleati da molto tempo.

- Sono tuoi alleati, vorrai dire. Adesso fuori, tutti e due. Non osate mai più mettere piede nel mio palazzo! Dì pure alla tua protetta che il nostro accordo è ancora valido. O si presenta qui domani al tramonto con le scarpette o userò il suo orribile cane come pelliccia personale!

Toto prese ad abbaiare. Azzannò una sbarra e tirò, come se ciò potesse essere in qualche modo utile.

Glinda disparve in una nuvola bianca, portandosi dietro Fiyero.

 

 

Oltretomba. Oggi.

 

Il Granny’s era inondato della medesima luce rossastra che opprimeva il mondo esterno e filtrava attraverso le persiane abbassate. Alcune persone sedevano ai tavoli, bevendo cappuccini e caffè o leggendo giornali. L’orologio appeso alla parete segnava le otto e quindici, proprio come la Torre crollata.

Henry, che aveva seguito Lily e Regina, si diresse subito in fondo, imboccando la porta che conduceva ai piani superiori. Era pensieroso e molto concentrato. Fece tutto come se avesse avuto un piano in mente.

Lily, intanto, si approssimò al bancone. Dietro di esso, la Strega Cieca vigilava sul locale, annusando chiunque vi mettesse piede. Annusò anche lei e Regina, mentre i suoi occhi velati fissavano il nulla e gli stopposi capelli biondo platino le ricadevano sul viso in un’acconciatura molto discutibile.

- Questo odore lo conosco! – esclamò, sporgendosi in avanti, verso Regina. – La Regina Cattiva! Io sono morta per colpa tua e di quei maledetti bambini! Hai portato con te anche Hansel e Gretel? Il forno sul retro è pronto!

Più di una testa si voltò di scatto nella loro direzione.

- Dall’odore non sembri affatto morta, il che è un vero peccato. E con te... beh, non sono quei ragazzini. – Qualche altra annusata in direzione di Lily. - È un odore nuovo. Carne fresca. Giovane.

- Non siamo morte. – precisò Regina. La sensazione di essere osservata si era fatta ancora più pressante. – Stiamo cercando una persona.

- Oh, una persona! E chi? – chiese la Strega Cieca.

- Si chiama Emma. – disse Lily, in fretta. – È arrivata da poco. Lei è...

- La Salvatrice! – esclamò la Strega, sbattendo lo straccio sul bancone.

- L’hai vista? – domandò Lily. – Sai dirci dov’è?

Regina sentì che il cuore balzava in avanti.

- Beh, no! Ma quel nome è molto famoso da queste parti. Crudelia non ha fatto altro che lamentarsi del modo in cui la Salvatrice l’ha uccisa. – Rise, come se avesse appena fatto una battuta molto spiritosa. – Che cosa ti porto, intanto, Lily? Pan di zenzero? Dei bambini?

Lily aggrottò la fronte.

- Scherzo. – precisò la Strega. – In ogni caso, non posso aiutarvi. Non è passata di qui. Non ancora. Però il pan di zenzero non è male, te lo assicuro. Per te niente, Regina Cattiva, sia chiaro!

Il campanello del Granny’s trillò. Un uomo si fermò davanti alla porta, sistemandosi il colletto della giacca e puntando gli occhi argentei su di loro.

Non si era affatto sbagliata.

- Murphy. – disse Lily, mentre avvertiva tutti i muscoli del suo corpo irrigidirsi. Nella sua testa passarono una serie di immagini poco piacevoli: lui che sparava in testa al proprietario della casa che avevano svaligiato. Lui che si sporgeva verso di lei davanti alle pompe di benzina, sussurrandole quanto fossero una bella squadra. Lei che gli sfilava la pistola dai calzoni e calava il calcio con forza sulla sua fronte. Sangue. La punta dello stivale che colpiva la sua testa.

- Odile... anzi, sarebbe meglio dire... Lilith. Non mi aspettavo di trovarti qui. Che sorpresa. – Sorrise, soddisfatto. – Qualcuno ti ha dato la pedata che ti meritavi?

- Sono viva. – sentenziò, fissandolo in cagnesco. – E tu invece... sei morto e intrappolato.

- Per colpa tua.

Regina seguiva la discussione, perplessa, muovendo la testa da Lily a Murphy e viceversa. Scosse il capo. – Non siamo qui per rivangare il passato. Abbiamo da fare.

- Anch’io ho da fare. Al momento non sono venuto per Lilith... purtroppo. – Murphy si scostò ciuffi di capelli castani dalla fronte. – Sono qui per voi, Maestà. Benvenuta nell’Oltretomba.

Henry tornò in quel momento. Nella mano destra stringeva una chiave. Vide l’uomo che stava parlando con sua madre e si fermò dietro di lei. Regina si spostò, in modo da mettersi tra il figlio e Murphy.

- Per me? Perché? – chiese, guardinga.

- Ci hai seguiti da quando siamo arrivati, vero? – chiese Lily.

- Oh, certo. – rispose Murphy. Tornò a rivolgersi a Regina. – Ovviamente. So che la Regina ha amato molto quando era solo una ragazza innocente... ha amato molto ed ora il suo primo grande amore vorrebbe vederla.

Regina avvertì il gelo nelle ossa. Improvvisamente la sua salivazione era azzerata. Quando parlò di nuovo, a stento riconobbe la sua voce. - Daniel?

Murphy indicò la porta. – Andiamo. Venite con me. E... portate pure il ragazzo e Lilith. Niente scherzi o ve ne pentirete.

 

 
Poco lontano dal Granny’s, Azzurro e Uncino si aggiravano per il desolato cimitero di Underbrooke e studiavano le tombe. Il posto era deserto, soffocato dalla luce malata e molto più grande della sua controparte, nel mondo dei vivi. Alcune lapidi erano dritte, intonse, con i nomi delle persone bloccate in quel limbo incisi sulla pietra. Altre, pur essendo dritte, erano solcate da crepe inquietanti. Altre ancora erano rovesciate.

Tremotino aveva detto che ogni anima intrappolata lì aveva una sua lapide al cimitero. Quindi se Emma si trovava davvero nell’Oltretomba, doveva esserci anche la sua.

Killian era seccato. Dopo un lungo vagare, colpì una tomba con la punta del proprio uncino e il contraccolpo gli riverberò nel braccio. Avvertì una leggera scarica elettrica, che lo costrinse a ritrarsi.

- Ehi, sta attento! – disse David, raggiungendolo.

- Che senso ha tutto questo? – chiese Killian. – Tutte queste tombe... ce ne saranno centinaia! Come troviamo quella di Emma?

- La troveremo. – affermò David. – Sarà qui da qualche parte. Non dobbiamo darci per vinti.

Il vento scompigliò i capelli di Killian. Lui alzò la testa, scrutando il cielo rosso. Vide Malefica, in forma di drago, solcare le nuvole e dirigersi verso i boschi, a sud. – Ci siamo fidati di Tremotino, ma lui non ci ha detto che cosa ha in mente. E noi? A noi cos’è saltato in mente, per tutti i diavoli? È il Coccodrillo che ci ha detto di venire in questo cimitero!

- Credo che Tremotino sappia quello che fa. – David vide delle sagome in lontananza. Persone che si muovevano fra le tombe. Erano distanti, ma decise che le avrebbe tenute d’occhio comunque. – Continuiamo a cercare. E non metterti nei guai. Abbiamo già abbastanza problemi.

- Oh, quindi ti preoccupi per me. – disse Killian, sollevando un sopracciglio. – Non sapevo che ci tenessi.

- Lo faccio per Emma. – rispose. Tacque qualche momento. Parve rifletterci, mentre occhieggiava la tomba su cui il pirata si era accanito. Su di essa capeggiava il nome di un uomo: MURPHY LOGAN. C’era una parte di lui che non aveva la minima voglia di vedere il nome della figlia su una lapide. C’era una parte di lui che ancora si ribellava all’idea che Emma fosse ingabbiata in quel posto. E si sentiva impotente, perché non aveva idea di come trovarla, né di come avrebbero fatto tutti loro a portarla via.

- Lo so. Ma ammetterai che tutto questo fascino ha un potere anche su di te.

David roteò gli occhi. – Sono un uomo impegnato. Come te, del resto.

Killian gli sferrò una pacca sulla spalla.

- Va bene. Forse hai ragione. – ammise David. – Diciamo che mi sono... affezionato a te. Non sei così male.

- Ehi! – Biancaneve arrivò, correndo. – Trovato qualcosa?

- No. Non c’è traccia di lei. – rispose Killian.

- Nemmeno al parco. E neanche in biblioteca. – disse Biancaneve, sistemandosi meglio la faretra con le frecce in spalla. - Sembra che nessuno l’abbia vista.

 

 

Città di Smeraldo. Oz.

 

Ruby e Mulan camminavano dietro a Dorothy nei boschi di Oz. La ragazza procedeva con la balestra in pugno, senza rivolgere loro la parola. Ogni tanto si girava per accertarsi che la stessero ancora seguendo.

- Ho combinato un bel pasticcio. - disse Ruby, parlando a bassa voce.

- È soltanto un cane. E conosco un modo per recuperarlo. Mi serve solo qualche ingrediente. - rispose Mulan.

- Non è soltanto un cane. Io credo che... per Dorothy sia molto più di questo.

- Ti stai fidando del tuo fiuto? Lo recupereremo. Dorothy non avrà bisogno di cedere quelle scarpette.

- Lo spero. Tutto questo è successo per colpa mia.

- Quando non hai un’idea migliore, dai sempre la colpa a te stessa?

Ruby stava per risponderle, ma poi mise il piede su una parte morbida del terreno e immediatamente una rete si chiuse su di lei, trascinandola verso l’alto. Lanciò un grido, mentre il mantello rosso le si aggrovigliava intorno alla testa. Annaspò e afferrò le corde con entrambe le mani.

Mulan estrasse la spada e compì un giro su se stessa, aspettandosi di vedere una banda di soldati mandati da Zelena sbucare dal folto della boscaglia.

Ma Dorothy non era altrettanto allarmata.

- Credevo che i lupi guardassero dove mettono i piedi. – osservò la paladina di Oz, agganciandosi la balestra alla cintura e incrociando le braccia al petto.

- Ce l’hai messa tu, questa trappola? - chiese Mulan.

- Mi sembra ovvio. Ce ne sono altre lungo il sentiero.

- Avresti anche potuto avvisarci. - disse Ruby, infilando la testa in uno spazio fra le corde.

- Che trappole sarebbero, se avvisassi i viandanti della loro presenza?

Ruby sospirò. - Va bene. Come vuoi. Puoi farmi scendere, adesso?

- Perché non ti trasformi? Scenderai prima.

- Perché... potresti avere paura di me.

Dorothy sembrò infischiarsene bellamente. - Io non ho paura di niente.

Mulan aveva sentito abbastanza. Notò una radice che sporgeva e la usò come trampolino per spiccare un balzo. Roteò la spada, tagliando la rete. Ruby piombò in mezzo all’erba e alle foglie, grugnendo. Mulan le tese una mano e l’aiutò a rialzarsi.

Ruby incrociò lo sguardo di Dorothy, aspettandosi qualche altra frecciatina.

Non ce ne furono. La faccia di Dorothy parve cambiare. O meglio, non cambiò affatto, però Ruby vide due volti; quello della protettrice del popolo di Oz, duro e accigliato... e un’altra, poco sotto la superficie. Durò pochi secondi, ma non prima che lei si rendesse conto di averla già vista da qualche parte. E non poteva essere, perché non aveva mai incontrato Dorothy in vita sua.

Poi l’impressione disparve. Dorothy riprese a camminare, voltandole seccamente le spalle.

 

 
Zelena ne aveva abbastanza di visite non programmate. Quella di Glinda l’aveva oltremodo irritata e i guaiti di quel maledetto cagnaccio le facevano venire una gran voglia di tirargli il collo.

Quindi se la prese con alcune delle sue guardie, torturandole quel tanto che bastò per costringerle a supplicarla.

Poi scese nelle prigioni. Era da quando Regina e i due idioti diventati i suoi alleati preferiti avevano lanciato l’ultima maledizione, quella che aveva portata anche lei a Storybrooke, che non vi metteva piede.

Le mattonelle dorate cedettero il posto alla pietra nera e fredda. Gli stretti cunicoli la portarono dritta alle celle. Alcune erano vuote. In altre c’erano dei prigionieri, che la osservarono passare, alcuni timorosi, altri terrorizzati dalla sua presenza, altri ancora troppo affamati o privi di forze per poter reagire.

- La Strega dell’Ovest. - disse un uomo, afferrandosi alle sbarre. Il suo volto era leggermente scavato. Aveva i capelli lunghi e in disordine, la barba folta e gli abiti laceri. La faccia scura rivelava tutta la stanchezza derivante dalla lunga prigionia, ma era anche un volto irridente. - Allora era vero quello che blateravano tutti. Siete viva. Vorrei dirvi che sono lieto di vedervi, ma... ecco, credo di non esserlo.

Calò il silenzio. Nessuno osò fiatare, sapendo che il tono del prigioniero l’avrebbe certamente condotto ad una morte orribile.

Zelena rise, divertita. Nel buio, i grandi occhi azzurri della Strega brillavano come gemme. Non aveva più la pelle verde, né il consueto cappello a punta, ma sprizzava perfidia da ogni poro. - Io, invece, sono molto lieta di vedervi, generale Shang. Spero non vi siate sentito troppo solo quaggiù, per tutto questo tempo. I vostri uomini sono scimmie volanti molto affidabili. Vi ringrazio.

Shang arricciò il naso. Gli occhi a mandorla sotto le sopracciglia cespugliose continuarono a fissare Zelena. - Uomini leali. Un giorno saranno di nuovo uomini veri.

- Un giorno? Quando? Prima dovrete uccidermi. E sapete benissimo che non potete farlo. Non avete più nemmeno una spada.

- Là fuori c’è qualcuno che ha a cuore la gente di questo posto. Se è coraggiosa come dicono, allora... quel giorno verrà presto.

- Oh, sì. Non vedo l’ora! Così vedrete che l’eroina in cui tutti ripongono le proprie speranze non è altro che una povera sciocca!

La risata della Strega riecheggiò per gli stretti corridoi delle segrete, anche dopo che se ne fu andata, richiudendosi la porta alle spalle.

 

 

Oltretomba.

 

Lily ed Henry furono costretti ad aspettare fuori dal luogo in cui Murphy aveva voluto condurre Regina.

Non le piaceva averlo intorno. Doveva guardarsi le spalle tutto il tempo e questo la rendeva nervosa. Non poteva permetterselo, perché doveva rimanere concentrata sull’obiettivo principale, cioè salvare Emma. E andarsene da lì alla svelta.

Henry estrasse l’I-Pod dalla tasca della giacca. Provò ad accenderlo. Dato che dovevano aspettare, si domandò se quell’affare funzionasse anche lì.

L’I-Pod si accese e lui sorrise, soddisfatto. Almeno una cosa andava per il verso giusto...

Offrì una cuffia anche a Lily.

- Non sei preoccupato per tua madre? – domandò lei.

- Sì. Lo sono. Ma Daniel non le farebbe mai del male. È stato il suo primo amore. – In realtà non era semplicemente preoccupato. Il cuore gli batteva un po’ troppo forte. Temeva che fosse una trappola, ma Regina l’aveva rassicurato, dicendogli di aspettare lì. Tese di più la mano, continuando ad offrire la cuffia.

- Non credo di poter ascoltare musica, adesso.

- Sono i Rammstein. So che ti piacciono. Quando siamo venuti a cercarti per la bacchetta... li stavi ascoltando.

Lily ci pensò su qualche istante, poi sedette accanto al ragazzino. – Non immaginavo che fossi il tipo da Rammstein.

- Non lo sono. Diciamo che... preferisco altre cose. Però non sono così male.

Lily mise la cuffia nell’orecchio sinistro ed Henry schiacciò play.

 

 
Murphy portò Regina in fondo al corridoio. Bussò alla porta e poi l’aprì, spingendola dentro.

Sulle prime non aveva capito per quale motivo l’avesse condotta proprio lì. Non aveva capito per quale motivo Daniel si trovasse... nel suo ufficio.

Poi...

- L’ho portata, Maestà. Così come mi avete chiesto. – disse Murphy.

Il fuoco scoppiettava nel camino. Le tende rosse erano tirate, lasciando la stanza in penombra. Su un mobile era stato disposto un cesto pieno di mele rosse. Ogni quadro, ogni mobile, ogni suppellettile era sistemato così come nel suo vero ufficio a Storybrooke. Solo che i dipinti erano diversi. Ce n’era uno, accanto al camino, che non aveva mai visto, un quadro che raffigurava una donna vestita di blu che stringeva un frutto, che inizialmente le parve una mela a cui mancava uno spicchio.

- Sono felice di vederti, Regina.

- Madre... – biascicò lei, fissando Cora con gli occhi sgranati. - Sei qui...

 

_________________________

 

 

Angolo autrice:

 
Ciao a tutti e ben ritrovati.

Questa fan fiction, come precisato nell’introduzione, è il seguito di “The Lost Hero” e fa parte di una serie.

Si riparte da dove avevamo concluso e la storia si dividerà spesso in due parti (una ambientata ad Oz ed una nell’Oltretomba).

Buona lettura e grazie a tutti quelli che leggeranno.


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Capitolo 2
*** 2. ***


2

 

“Bisogna sapere che io, per mia sorte,
fui sempre di quelli che s’innamorano in modo eccessivo e inguaribile,
e dei quali nessuno mai s’innamora.
Mia madre era stato il primo, e il più grave, dei miei amori infelici”

[Elsa Morante, Menzogna e sortilegio]

 

 

 
Foresta Incantata. Τrentacinque anni fa.  

 

“Odio la sua carnagione pallida”, disse Regina, strappando seccamente un petalo nero dalla rosa che stava torturando. La sua visita al villaggio dov’era stata avvistata Biancaneve si era rivelata un totale fallimento. Aveva trovato solo un mucchio di lerci paesani pronti ad offrirle una torta ai mirtilli e a raggirarla. Biancaneve c’era, aveva circondato il villaggio ed era spalleggiata da quell’idiota di Azzurro, nonché dai suoi fedelissimi nani. “Odio la sua insopportabile sincerità. E il suo minuscolo esercito di disgustosi mostriciattoli!”

“Credo che siano... nani”, asserì Henry, entrando nella grande sala del palazzo.

“Non mi interessa che cosa sono. Mi disgustano!”, rispose Regina, voltandosi. Suo padre se ne stava là, con le mani dietro la schiena. Non aveva fatto altro che ripeterle quanto inutile fosse la sua vendetta, quanto questo la rendesse simile a Cora e quanto fosse grande il potere che Cora avrebbe sempre avuto su di lei, se non avesse abbandonato i suoi propositi. Regina ne aveva abbastanza. Di lui e del suo modo di ronzarle attorno. Non avrebbe mai capito che tutto ciò che stava facendo per impedirle di arrivare a Biancaneve non sarebbe mai servito. “E avevo chiesto di restare sola, papà. Quindi se sei venuto qui per parlare di mia madre, lascia stare! Desidero solo che questo compleanno finisca.”

“Hai una visita”, disse Henry, mentre Regina si allontanava a passo svelto. “Ti sta aspettando.”

“Quale visita? Chi altro hai invitato? Sappi che non sono dell’umore per...”

“Non l’ho invitata io, infatti.”

 

Malefica era nella sala che era stata riservata al banchetto che Henry aveva voluto a tutti i costi organizzare per il suo compleanno.

La lunga tavola era già imbandita e al centro faceva bella mostra di sé un cesto pieno di mele rosse.

“Le tue guardie sono molto scortesi. Non volevano che entrassi”, disse Malefica, sfiorando la torta ai mirtilli che quella contadina le aveva offerto. “Non ti dispiacerà se mi sono liberata di un paio di loro. Stanno solo dormendo.”

“Puoi anche mangiarteli, per quanto mi riguarda”, rispose Regina. “E se sei venuta per la festa, puoi andartene e portati via pure i regali.”

“Non ti ho fatto nessun regalo, dato che so che cosa vuoi.”

“Aiutami a procurarmelo, allora.” Regina osservò l’amica nel suo abito blu scuro decorato con ricami viola, con i boccoli biondi che ricadevano sulle spalle e la sfera in cima al suo scettro che scintillava incrociando la luce delle torce. “Se piomberò su quel maledetto villaggio sulla schiena di un drago forse capiranno da che parte devono stare.”

“Lo distruggerai comunque, quel villaggio. Anche senza di me”, rispose Malefica, come se il discorso l’annoiasse.

“Mi sembra di sentire mio padre...”

“Ti sbagli. Tuo padre vorrebbe che abbandonassi l’idea della vendetta. Io non desidero affatto che l’abbandoni. Ma devi rivolgerla sulla persona giusta.”

“Mia madre è già stata punita. È intrappolata nel Paese delle Meraviglie!”

“Che atroce sofferenza. Sembra quasi che tu non conosca affatto Cora. Prima o poi ne verrà fuori e allora sarà peggio per te.”

“Perché tu invece la conosci bene? Mia madre parlava di te nel suo libro... però non mi hai mai detto come vi siete conosciute.”

“L’ho conosciuta quando era ancora molto giovane. E non era potente come ora. Ma sai... non è importante.”

Regina storse la bocca in una smorfia. “Perciò sei venuta solo per rimproverarmi?”

“No.” Malefica guardò la torta ai mirtilli. Allungò una mano e affondò l’indice nella marmellata. Se lo portò alle labbra e assaggiò il dolce, gustandolo piano. “Buona.”

“È appena passabile”, replicò Regina, con una mano sul fianco e l’altra che stringeva il bordo del tavolo. “Sanno tutti che preferisco le mele.”

Malefica agitò una mano sopra alla torta. La marmellata di mirtilli assunse una tonalità più rossa. Il dolce lievitò leggermente. Regina sorrise, mentre Malefica tuffava nuovamente il dito nella pasta.

“E adesso?”, chiese.

Regina afferrò il polso di Malefica e si chinò, avvolgendo l’indice con la sua bocca. Lo succhiò avidamente e sembrò riflettere per qualche secondo.

“Adesso è perfetta”, concluse, passandosi la lingua sul labbro superiore e sulla cicatrice.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

Cora l’abbracciò calorosamente e Regina restò per qualche momento interdetta, tra le sue braccia.

- Io credevo...

- Credevi che fossi Daniel, sì. Dovevo essere sicura che saresti venuta.

- Speravo stessi bene. – le disse Regina, dopo qualche momento.

- Lo so, cara. – rispose Cora, separandosi da lei. Le sue mani le accarezzarono i capelli e a Regina stupiva che lei la stesse toccando in quel modo. Tutte le volte che l’aveva fatto, in passato... tutte le volte che Cora l’aveva sfiorata, le era sembrato che lo facesse in modo meccanico, senza alcun sentimento a muovere i suoi gesti. Perché non aveva un cuore. - Ma ho una questione in sospeso. E sto parlando di te.

- Non devi preoccuparti per me. – rispose Regina, occhieggiando Murphy, che fingeva di non ascoltare, rintanato in un angolo. – Io sto bene.

- Certo che mi preoccupo per te, Regina. Devo farlo.

Regina accennò un sorriso. – Allora aiutami. Aiutami a trovare Emma. E ad andarmene da qui.

- È troppo pericoloso. È già abbastanza grave che tu sia venuta fino a qui per... per la Salvatrice. Non puoi restare. Va via. Adesso. – Nella voce di Cora balenò la fermezza che Regina ricordava, sebbene i suoi occhi manifestassero una sincera apprensione. Avvertiva anche il suo profumo, ma era diverso. Era meno forte, meno aggressivo.

Regina doveva imporsi di stare in guardia. – No. Devo trovare Emma, prima.

- Emma... i tuoi amici, la tua famiglia. Emma. Lo vedi? È questo che ti trattiene. Devi fare quello che è meglio per te.

Regina scosse la testa. – Questo è il meglio.

- Non è vero! Regina... so bene che ti senti in colpa verso la Salvatrice. So che cos’è successo a Camelot. Ma non è stata colpa tua. Volevi salvarla. Quella ragazza ha deciso di sua spontanea volontà di morire...

- Non capisci. – Regina fece un passo indietro. – Glielo devo. Tremotino l’ha ingannata. È morta per niente. Non ha distrutto l’oscurità come pensava.

- Ma tu conosci le regole della magia! – Cora l’afferrò saldamente per le braccia, stringendo forte. Imponendole di fissarla, come se volesse trapanarle il cervello e inculcarle quel concetto nella mente. – Non si possono riportare in vita i morti.

- Non può valere per Emma... non per qualcuno che è morto invano. Non per... – Regina rivide se stessa con la spada sollevata, pronta a colpire. Avvertì il penso dell’arma e l’angoscia che l’aveva assalita. Era impensabile per lei andarsene senza Emma.

“Ricordi la promessa fatta a Camelot? Che avresti fatto tutto il possibile per eliminare l’oscurità? Ho bisogno che tu mantenga quella promessa. E devi giurarmi che non lo dirai a nessun altro”.

- Io... non ho mantenuto la promessa.

- Non sai quello che dici. Ora ascoltami bene. – la interruppe Cora. – Non è stato facile, ma ho predisposto che una barca ti riporti a casa. Parte fra un’ora. Prendi Henry... prendi solo tuo figlio e vattene, prima che sia troppo tardi.

- Madre... – Stavolta fu Regina a rispondere con fermezza. – Non posso.

- Mi rendo conto che è difficile mettere da parte la diffidenza, visto il modo in cui ti ho cresciuta... – continuò Cora. – Ricordi l’ultima cosa che ti ho detto prima di morire?

Regina deglutì. Aveva la gola secca e il cuore in tumulto. – Che ti sarei bastata io.

- Mi ci è voluto troppo tempo per capirlo, quindi ti prego... non commettere il mio stesso errore. Vai. Emma Swan... andrà avanti prima o poi. Troverà la sua strada. Spera che imbocchi quella giusta, ma se è forte come credo... lo farà.

Regina non avrebbe mai potuto dimenticare quello che Cora le aveva detto prima di morire. Anche se aveva sempre saputo che forse non era la verità. Aveva sempre amato sua madre oltre ogni limite e comprensione. Quindi aveva sperato che quelle ultime parole fossero vere. Forse persino Cora l’aveva creduto in punto di morte. Ma Regina, in fondo, era cosciente che sua madre avrebbe sempre provato un folle desiderio di potere...

“Troverà la sua strada. Spera che imbocchi quella giusta, ma se è forte come credo... lo farà.”

- Quella giusta? Di che cosa stiamo parlando? – Regina sentiva che c’era molto altro. Che c’era qualcosa di terribile in agguato.

- Una madre deve fare quello che è meglio per il proprio figlio. Anche se è riprovevole. – disse Cora, in tono evasivo.

- Mi stai minacciando?

- No. – Cora sospirò. – Ma forse è necessario che io ti mostri una cosa.

Regina non ebbe il tempo di replicare. Scomparvero entrambe in una densa nube viola e, quando essa disparve, non erano più nel suo ufficio, ma in una caverna.

- Dove siamo? – domandò Regina, incredula.

Davanti a loro si estendeva un sentiero di roccia sospeso nel vuoto. Ad un certo punto, la roccia terminava e iniziava una voragine di fuoco. Le fiamme ruggivano, si allungavano come braccia alla ricerca di qualche anima da ghermire, vorticavano, lambivano i muri della caverna, parevano in procinto di arrampicarsi su di essa, ma poi scivolavano e si slanciavano in un’altra direzione.

Murphy barcollò, in bilico sul bordo della voragine. Lily si guardò intorno, costernata. Mosse un passo e frammenti di pietra si sbriciolarono, precipitando nel fuoco.

- Mamma?

- Henry, non ti muovere. – disse Regina.

- Non devi preoccuparti per lui. È al sicuro. – precisò Cora.

Lily fissò Murphy. Nessuno dei due spostò un piede verso l’altro. Occhieggiavano le fiamme.

- Dall’Oltretomba si può andare solo in due luoghi. – spiegò Cora, non badando nemmeno ai due sull’orlo del baratro. – Uno migliore... e uno peggiore. Guarda tu stessa.

- Non puoi farlo! Fermalo! – gridò Regina. – Aiutala!

- Non posso aiutarla. – rispose Cora. – E non posso fermarlo. È la sua questione in sospeso. È per questo che è qui.

Sulla faccia di Murphy comparve del sangue. Si era aperta una ferita al centro della sua fronte. Lui si portò una mano alla faccia e sgranò gli occhi. Nella mano destra di Lily c’era una pistola. Il calcio era macchiato di rosso. L’amica di Emma era paonazza. Vacillò pericolosamente, avvicinandosi al bordo. Il fuoco ruggì di nuovo e il volto di Lily sembrò incendiarsi.

Regina fece per andare verso Lily, ma Cora non glielo permise. Con la magia, creò una barriera trasparante tra loro e i due contendenti. – Non farlo, Regina. Perirai anche tu.

- Fatti da parte.

- No. Non posso farlo.

 

 
Foresta Incantata. Τrentacinque anni fa.

 

Regina fissava disgustata l’unica candelina posta in cima alla torta di sette piani che le avevano portato. Sembrava una presa in giro, non un compleanno. Il giullare le girava intorno, nel tentativo di divertirla con le sue pagliacciate, ma ne aveva avuto abbastanza ancora prima che la festa incominciasse.

“Forza, mia regina”, disse il giullare, sbucando da dietro la torta e agitando le campanelle agganciate al suo cappello a punta. “Esprimete un desiderio!”

Il cuore di Biancaneve su un piatto d’argento.

Il cuore di Biancaneve dentro allo scrigno.

Il cuore di Biancaneve.

Che quell’orribile giornata finisse al più presto.

Regina spense la candelina.

Il sorriso ebete del giullare si allargò. “Allora, qual era il desiderio?”

‘Pensavo che un desiderio espresso il giorno del proprio compleanno fosse un segreto’.

Vide che Malefica stava osservando la scena. I brevi momenti di distrazione passati con lei non l’avevano alleggerita affatto. Nemmeno sapere che gli invitati avevano sistemato i regali sul lungo tavolo dove aveva spinto la mutaforma, prendendola e marchiandola con le sue stesse unghie, la divertiva. Si sentiva furiosa, oppressa e aveva voglia di uccidere tutti.

“Che fosse divertente”, rispose Regina al giullare. “E non lo è stato.”

Passò una mano a pochi centimetri dalla faccia dell’uomo e quello cadde di schianto. I campanelli tintinnarono. Gli invitati mormorano, impauriti e iniziarono ad indietreggiare. Il trovatore smise di suonare.  

“Facciamola finita”, ordinò Regina. “Ho festeggiato abbastanza.”

“Perché così presto?”

Regina si fermò. La folla di invitati si fece da parte, aprendo la strada all’ultima arrivata. Cora avanzò, tenendo sottobraccio un regalo foderato in seta rossa, un colore che si intonava al suo vestito.

“Madre.” Avvertì il gelo che le dilagava nel sangue come una maledizione. Improvvisamente aveva le mani intorpidite. “Sei scappata dal Paese delle Meraviglie?”

Cora sorrideva in quel modo sinistro che conosceva bene. Regina immaginò cose terribili: che nelle scrigno ci fosse il cuore pulsante di suo padre. Che Cora avesse torturato Henry o che l’avesse ucciso. Che stesse per torturare anche lei. Regina era diventata molto più potente dall’ultima volta che si erano viste, grazie agli insegnamenti di Tremotino, ma non era ancora potente quanto sua madre.

“Dov’è papà?”, chiese. “Dimmi che non gli hai fatto del male.”

“Oh, l’ho perso di vista dopo avergli fatto incartare... questo.” Le porse lo scrigno. “Buon compleanno, cara.”

Malefica strinse lo scettro con entrambe le mani.

‘Si ricorda del mio compleanno’, pensò Regina.

Cercò di non lasciarsi confondere. “Non voglio nessun regalo da te.”

“Questo lo vorrai”, rispose Cora. “Ho fatto qualcosa di... davvero speciale. Ti ho portato la tua vendetta.”

Cora aprì lo scrigno e Regina vide con i suoi occhi il cuore rosso e pulsante che tanto sperava di avere in dono.

“Il cuore di Biancaneve.”

Regina guardò il cuore con avidità.

“Distruggilo. E lei morirà.”

“Regina, è una trappola”, intervenne Malefica. “Non farlo. Avrà ancora il controllo su di te.”

“Che piacere rivederti, Malefica. È passato moltissimo tempo”, disse Cora, continuando a reggere lo scrigno.

“Il piacere è tutto tuo”, rispose la mutaforma.

“Sono lieta che tu sia così preoccupata per mia figlia, ma ha già una madre che vuole solo il meglio per lei.” Cora tornò a rivolgersi a sua figlia. Regina esitava, fissando il cuore della sua acerrima nemica. “Non mi credi? Lascia che te lo dimostri. Portate lo Specchio!”

“Regina...”, la avvertì Malefica.

Cora sollevò una mano. “Τocca a lei scegliere. E so benissimo che cosa sceglierà.”

Alcune guardie si affrettarono ad eseguire gli ordini e trascinarono lo Specchio Magico nella sala. Regina prese il cuore tra le mani. Avrebbe voluto togliersi i lunghi guanti neri per saggiare la consistenza di quell’organo maledetto, ma era troppo eccitata all’idea che la sua vendetta fosse lì e che a regalargliela fosse proprio sua madre. Rise, come chi aveva appena ricevuto il dono più bello della sua vita.

Andò davanti allo Specchio, che le mostrò Biancaneve intenta a festeggiare, seduta a tavola con il suo principe e i nani. Quei mostriciattoli si prendevano gioco di lei, si divertivano un mondo, brindando e ingozzandosi di cibo.

Regina strinse il cuore in una morsa.

Nello specchio, Biancaneve prese a boccheggiare. Si portò le mani al petto, afferrandosi la veste.

Azzurro appoggiò una mano sulla sua spalla. “Biancaneve?”

Lei cercò in tutti i modi di arrivare al nodo che le chiudeva il colletto. Le sue dita armeggiavano in preda al panico, mentre respirava con affanno.

Regina aumentò la stretta sul cuore. L’organo scricchiolava, in procinto di ridursi ad un ammasso di cenere.

Poi dalla camicetta sotto la giubba di Biancaneve sbucò il Grillo, che cadde in avanti, perdendo la sua minuscola bombetta e il bastone.

I nani scoppiarono a ridere.

Malefica udì un rantolo accanto a lei, nel momento in cui il cuore andò in pezzi e la polvere si sparse sul pavimento. Un soldato si afflosciò senza vita.

“Qualcuno ha scambiato i cuori”, disse Cora.

Furibonda, Regina si voltò verso sua madre a caccia di una spiegazione. “Chi è stato?”

 

 

Oltretomba. Oggi.

 

- Dov’è Regina? – domandò Tremotino agli altri, quando furono tutti al cimitero. – E... Lilith?

- Staranno ancora cercando Emma. – rispose Biancaneve.

Malefica planò sul gruppetto e atterrò in uno spazio verde tra alcune tombe. Recuperò le sembianze umane.

- Trovato qualcosa? – domandò David, in apprensione.

- Niente. E nessuno che somigli a vostra figlia. – Si guardò intorno, cercando la sua, di figlia.

- Lily e Regina saranno qui a momenti. Henry è con loro. – disse Biancaneve.

- Quella è... – Killian indicò la tomba vicino alla quale sostava il Coccotrillo. Teneva una mano nascosta nella tasca e il pirata era sicuro che stesse nascondendo qualcosa. Il suo ghigno era fin troppo eloquente. Ma ciò che attirava maggiormente il suo sguardo era il monumento.

Era una lapide molto più elaborata delle altre, più alta, in marmo bianco e sormontata da un cigno con le ali spalancate e il becco rivolto verso il cielo. Su di essa capeggiava il nome EMMA SWAN. Non c’erano date né altre indicazioni.

Biancaneve rabbrividì, stringendosi di più al marito.

- Regina si perderà tutto lo spettacolo, allora. – Tremotino estrasse la mano dalla tasca e mostrò loro una boccetta dorata.

- Che cos’è? – chiese Killian.

- Questo è il modo per trovare la Salvatrice. – Tenne l’ampolla per il tappo. – La birra di Seonaidh, del regno di Dunbroch.

- Come funziona, Coccodrillo?

- Versala sulla tomba di Emma... e sarà lei a dirci dove si trova. Questa permette di comunicare direttamente con i morti. – spiegò Tremotino, come se si fosse trattato di una bazzecola, di una cosa che lui faceva tutti i santi giorni.

- Facciamolo, allora! – esclamò Biancaneve.

- Sì, vi conviene. C’è una barca che parte fra poco. Prendete Emma Swan, recuperate i dispersi... e andiamocene da qui. – disse Tremotino. – Non ho alcun interesse nell’esplorare l’Oltretomba. Ci sono già stato.

Killian gli strappò l’ampolla di mano e tolse il tappo. Con decisione, mosse due passi verso la tomba di Emma e poi gettò il contenuto dell’ampolla sull’erba, davanti al monumento.

 

Murphy sferrò un calcio e la pistola che Lily si era trovata in mano venne inghiottita dalle fiamme del Tartaro. Era ancora troppo stupita per reagire. Solo un istante prima era seduta accanto ad Henry e stava ascoltando qualche canzone del suo gruppo preferito. L’istante dopo era con il tizio che aveva ucciso, sull’orlo di una fornace.

Regina era trattenuta dalla madre e separata da loro tramite una qualche barriera magica.

- Nessuno può aiutarti, Lilith. Sei sola con me. Come quella sera. Quando mi hai lasciato in una lurida stazione di servizio. – disse Murphy. Il sangue sgorgava copioso dalla ferita in mezzo alla fronte, lo stesso punto in cui lei l’aveva colpito la prima volta con la pistola.

La caverna svanì.

Lily avvertiva ancora il calore delle fiamme e sapeva benissimo di essere sempre sull’orlo della voragine, ma il mondo intorno a lei era cambiato. Era tornata all’area di servizio deserta, davanti alle pompe di benzina.

Murphy sferrò un cazzotto, che la raggiunse alla mandibola. Vide le stelle e cadde all’indietro. Nell’asfalto intorno a lei si aprirono delle crepe. La realtà traballò. L’aria si fece più spessa, quasi irrespirabile.

- Ti auguro di marcire all’inferno! – gridò Murphy. Aveva gli occhi arrossati e digrignava i denti come una belva feroce. La voce era acuta e prepotente.

Lily bloccò il secondo cazzotto e gli diede un calcio in uno stinco, strappandogli un gemito di dolore. Murphy indietreggiò, barcollante. L’area di servizio cedette nuovamente il posto alle fiamme del Tartaro, ma solo per pochi secondi.

Udì la voce di Regina. Regina che urlava qualcosa.

- Non sei così brava a picchiare la gente, lurida bastarda! – strillò Murphy. Ghignava con le labbra sporche di sangue. Anche i capelli ne erano ormai intrisi.

Lily si alzò in ginocchio e il ragazzo la colpì al collo. Era un colpo maldestro, dato di taglio, ma era impreparata. Un dolore paralizzante le esplose in gola. La testa le ballonzolò all’indietro.

Ecco come va a finire. Con Murphy che mi uccide a calci, come io ho ucciso lui, pensò. Le parve che le venisse da ridere, ma non c’era traccia di risa, in lei. Quello che le uscì dalla gola fu solo un gemito sordo.

Murphy prese una breve rincorsa e le sferrò un calcio nelle reni. Lily puntò le mani sull’asfalto per non finire lunga distesa. Il suo sguardo colse i numeri verdi che lampeggiavano sulla cassa automatica accanto alle pompe, dove due anni prima aveva infilato venti dollari per riempire il serbatoio di una macchina rubata.

- Sai che avevo una figlia? – urlò Murphy, alterato dallo sforzo e dall’agitazione. - Avevo una figlia! Lei non ha più nessuno per colpa tua! Quella stronza di sua madre se n’è andata dopo averla partorita! Quei soldi mi servivano anche per lei!

- Perché non sei tornato a prenderla, allora... invece di scappare?!

La stivalata la colpì ad un fianco, mozzandole il respiro.

“Sai che avevo una figlia?”

No, non lo sapeva, naturalmente. Non aveva mai saputo nulla di Murphy. Così come Murphy non aveva mai saputo nulla di lei.

“Lei non ha più nessuno per colpa tua!”

E giù un altro calcio, stavolta dritto nelle costole. Rotolò e la stazione di servizio scomparve. Vide di nuovo la caverna e per poco non scivolò nel baratro.  Il suo braccio penzolò nel vuoto e lei si tirò subito indietro.

Murphy le allungò un altro calcio e a quel punto Lily gli afferrò il piede. Lo sentì solido tra le mani come un pallone ben preso. Gli occhi si accesero come tizzoni ardenti.

E spinse in là con tutte le sue forze.

Con un urlo, Murphy volò all’indietro e di traverso, facendo perno sulle braccia per ritrovare l’equilibrio.

“Sai che avevo una figlia?”

Perse la battaglia e Lily ebbe modo di scorgere i suoi occhi sbarrati e pieni d’odio un attimo prima che precipitasse. Le sue grida riecheggiarono per la caverna. Il fuoco ruggì in risposta... o forse non era un ruggito, ma una risata roboante. Le sembrava che quel luogo fosse vivo. Che le fiamme avessero una coscienza e non era la coscienza di tutte le anime che aveva inghiottito, ma una coscienza enorme e molto più antica.

La barriera magica che Cora aveva innalzato si frantumò.

Lily si rialzò in piedi a fatica, tenendosi un fianco e zoppicando per un breve tratto, mentre si allontanava  dagli orli della voragine. Cadde su un ginocchio e Regina tese una mano per aiutarla, ma lei la scacciò in malo modo.

- Grazie per l’aiuto! – esclamò, puntando il dito contro Cora.

- Non era la mia questione in sospeso. – si giustificò Cora, accennando persino ad un sorriso.

- La tua questione in sospeso per me può rimanere tale! Anzi, perché non salti, Regina di Cuori?

Regina prese Lily per le spalle. – Basta così.

Ma Lily perseverò. - Sono felice che tu sia morta! Ringrazierò personalmente Biancaneve, quando la rivedrò.

- Che cos’è successo a quel ragazzo? – intervenne Regina a sua madre.

- Ora appartiene al Tartaro. – disse Cora. – È la via peggiore. Ed è quello che potrebbe capitare anche a te, figlia mia, se non te ne vai. A te... e a qualcuno che ami.

- Chi?

Le fiamme si tesero, come se stessero ascoltando la conversazione.

- Tuo padre.

 

 
- Emma?

Biancaneve fissò l’immagine trasparente di sua figlia proiettata dalla pozione che Tremotino aveva trovato al negozio.

Era davanti a loro, ma non del tutto presente. Indossava la sua giacca rossa, ma aveva i jeans strappati in più punti e il viso striato di sangue. Aveva anche una ferita sulla fronte, le labbra spaccate e gli occhi pesti. Si guardava intorno, confusa, senza fissare lo sguardo su nessuno in particolare.

- Emma, mi senti? Sono Killian. – Allungò la mano per toccarla, ma l’immagine traballava, a tratti svaniva.

Emma non rispose. Biancaneve strinse la mano di David.

- L’incantesimo non è stabile. – disse Malefica. – Non può sentirvi.

- Avevi detto che avremmo potuto comunicare con lei, usando quella roba! – s’infuriò Killian, rivolgendosi all’Oscuro. Tornò a voltarsi verso Emma. – Emma, siamo qui. Siamo venuti a prenderti.

- È in un luogo troppo difficile da raggiungere. – rispose Tremotino.

- Mamma! – gridò Henry, arrivando di corsa, insieme a Regina e a Lily.

L’immagine di Emma tremolò ancora un istante. Infine scomparve, come risucchiata dalla sua stessa tomba.

 

 
- Non sa che siamo qui. – disse Lily, osservando la tomba e il cigno che la sormontava. – Non sa che siamo venuti a salvarla.

- Certo che lo sa, Lily. – rispose Malefica, benevolmente. – Non siamo riusciti a raggiungerla, ma ciò non significa che non la troveremo.

- Ma era ferita! E non abbiamo idea di dove sia! – rispose Lily. – E quella dannata barca parte tra mezz’ora!

- Quale barca? – chiese Biancaneve.

Regina le spiegò che cosa era accaduto con Cora e tutto ciò che le aveva detto. Lily le aveva permesso di curarle le ferite che le aveva inflitto Murphy, prima che giungessero al cimitero.

- Non intendo mettere un piede su quella dannata barca. – asserì Killian. – Non senza Emma.

- Sono d’accordo. – rispose David. – Troveremo un altro modo per andarcene. Ma forse tu, Regina... dovresti...

- No. – ribatté lei. – Non posso.

- Ma potrebbe succedere qualcosa di terribile a tuo padre. – le ricordò Biancaneve. – Se Cora dice la verità, allora... forse è meglio che tu prenda Henry e te ne vada.

- Vi ricordo che sono qui. – disse Henry, piccato. – Io non vado.

- Henry... – cominciò Regina.

- No! Siamo venuti insieme. E ce ne andremo insieme. Hai scelto di venire quaggiù con noi... non puoi abbandonare la mamma.

Lily non badava molto al battibecco che si stava svolgendo dietro di lei. Allungò una mano per toccare un’ala del cigno. Era fredda e un brivido le percorse il braccio, fino alla spalla. Un’immagine sfuggente le passò davanti agli occhi. L’immagine di una ragazza in giacca rossa, che scagliava una spada contro una gigantesca ombra nera.

- Lily. – la chiamò sua madre. – Non toccarla. Non è sicuro.

Lei ritrasse la mano. Non prima di essersi resa conto di averlo sentito di nuovo. Per un attimo, il vecchio legame che aveva condiviso con Emma c’era stato. Aveva percepito la sua presenza. E sperava che Emma avesse avvertito la sua.

Trasse di tasca il giglio bianco ormai appassito e lo posò sulla lapide.

 

 

Foresta Incantata. Τrentacinque anni fa.

 

Regina cacciò tutti gli invitati e mandò a chiamare suo padre. Persino Malefica venne mandata via e nel sollevarsi in volo in forma di drago costrinse le guardie a correre ai ripari.

Henry arrivò in tutta fretta, sapendo bene perché lei voleva vederlo. Portava con sé lo scrigno.

“Hai ridato tu il cuore... a Biancaneve”, disse, scandendo bene ogni singola parola, in modo che suo padre potesse percepire chiaramente la sua collera.

“L’ho fatto per il tuo bene.”

“Come puoi dire così?!”, scattò Regina. “Adesso lei sarebbe morta. E tutto questo sarebbe finito! Non è ciò che vuoi? Che tutto questo finisca? Che io sia felice?”

Henry non si lasciò intimorire. Era solo molto addolorato. “Certo! Ma non in questo modo. Se distruggi il suo cuore diventerai malvagia per sempre! Diventerai come Cora. È quello che lei vuole!”

Regina si appoggiò al tavolo, respirando con affanno, come se fosse reduce da una lunga corsa. In realtà stava tenendo a bada i suoi istinti. Perché sentiva che, da un momento all’altro, avrebbe fatto qualcosa di terribile. Sentiva che... se avesse perso davvero il controllo, avrebbe potuto fargli del male e non voleva. Non voleva. Lei desiderava solo una cosa: che lui capisse. Che capisse che la bambina che portava sulle spalle era morta. Che capisse che da quando aveva tenuto il corpo di Daniel tra le braccia... quella ragazza aveva cessato di esistere e aveva cessato di credere nella felicità così come lui la intendeva. La donna che era diventata non avrebbe mai permesso a Biancaneve di vivere la sua vita con il suo principe imbecille. Non dopo che aveva rovinato la sua. Non le avrebbe mai lasciato il lieto fine, né tantomeno le avrebbe permesso di generare qualche orrido mostriciattolo.

“Ti prego, ascoltami. Puoi essere felice.”, continuò Henry, imperterrito.

“Uccidere Biancaneve è l’unico modo in cui potrò essere felice.”, precisò Regina.

“Mi dispiace per te.”

“Tu mi hai tradita, papà. E sai che cosa significa.”

Nel regno di Regina significava la morte. La prigionia e poi la morte.

“Fa quello che vuoi. Non ha importanza.”, disse Henry. “Perché Biancaneve è viva e così anche la tua possibilità di redenzione. Potrai fare di meno quello che vorrai. Questo scrigno è inutile come la tua caccia. E prego che tu non lo usi mai.”

“Mi dispiace.”, rispose Regina, in tono sprezzante. Gli strappò lo scrigno dalle mani. “Finché Biancaneve sarà viva, non diventerò mai come tu mi vuoi. Questo scrigno... è stata creato per contenere qualcosa di prezioso. Ed è esattamente per questo che lo userò.”

Agitò la mano ed una densa nube magica avvolse Henry. Essa venne trasferita all’interno dello scrigno.

Quando disparve, Henry era stato ridotto ad una figurina minuscola, intrappolata nel contenitore che avrebbe dovuto essere destinato al cuore di Biancaneve.

“Non preoccuparti, papà. Sei al sicuro lì dentro. Così non potrai fermarmi. Ma lo sai che non ti farei mai del male.”

 

Meno di due ore dopo, un manipolo di soldati in armatura nera calò sul villaggio con spade e fiaccole.

La donna che aveva offerto la torta di mirtilli, augurandole buon compleanno con il terrore negli occhi, ebbe modo di aprire le braccia, lasciando cadere i piatti e le caraffe che stava trasportando, prima di essere falciata da un colpo di spada.

Alcuni uomini opposero resistenza e riuscirono anche a ferire qualche soldato, ma non potevano nulla contro la Regina, la sua furia e la sua sete di vendetta. Fece in modo che i suoi fedeli servitori setacciassero ogni casa, appiccando poi il fuoco. Non badava alle urla o alle suppliche. Non badava all’odore del sangue. Il suo cavallo calpestò dei cadaveri e passò oltre.

Un ragazzino sporco di fango e con la faccia graffiata strinse una figurina di legno nel pugno. Alzò la testa, spostando la propria attenzione dal corpo senza vita del padre alla donna in sella, la donna con la giacca rossa come il sangue che gli aveva sporcato i capelli biondi. Il suo destriero si impennò, nitrendo. E la luce del sole creò uno strano gioco di forme che confuse il ragazzino, già frastornato dalla paura e dalla morte che lo circondava.

La Regina sembrò possedere un paio di ali nere.

Lui la fissò, mentre scagliava una palla di fuoco contro delle persone in fuga, pensando a quanto fosse simile ad un angelo vendicatore. Un angelo della morte.

I suoi occhi scuri incrociarono quelli verdi del ragazzino.

Regina gli sorrise.

 

 

Oltretromba. Oggi.

 

Regina rimase da sola davanti alla tomba della Salvatrice.

Si piegò sulle ginocchia, fissando il nome inciso sul marmo, mentre il vento le scompigliava i capelli. Il sole stava tramontando e il cielo rosso aveva assunto colori più intensi. I fumi che aleggiavano tra le tombe erano più densi e rotolavano lentamente lungo i prati.

- Ehi. – disse, a bassa voce. – Sono io.

Non vi fu risposta, ovviamente, ma Regina posò le dita sulla prima lettera del nome, tracciando lentamente la E. Ebbe l’impressione che fosse più gelida del normale.

Le si oscurò la vista e nella tenebra più completa annaspò. Due occhi arancioni come tizzoni ardenti la scrutarono e qualcosa di enorme si mosse verso di lei.

- Regina.

Quella voce, che conosceva benissimo, la riportò indietro. Il buio si dissolse e si ritrovò davanti alla tomba, con le mani coperte dai guanti neri che afferravano ciuffi di erba secca.

- Papà?

Si girò ed Henry, suo padre, le prese le mani per aiutarla ad alzarsi.

Lui sorrideva, felice di vederla. Non c’era traccia di rabbia, nelle pieghe del suo viso, né di risentimento o di rimprovero. Regina, a stento, poté guardarlo negli occhi. L’ultima cosa che ricordava dell’uomo che aveva sempre cercato di distoglierla dai suoi propositi di vendetta era il suo sguardo allibito quando gli aveva strappato il cuore per poter lanciare la maledizione.

- Mi dispiace. – mormorò, mentre il dolore e il senso di colpa le piombavano addosso, afferrandola e togliendole le ultime difese che ancora le restavano. – Mi dispiace tanto.

- Va tutto bene. – disse Henry, abbracciandola. – Va tutto bene. Davvero.

- Mi hai... perdonata?

- Certo. Sono tuo padre e ti voglio bene comunque. Come tutti i padri.

- Non credo sia così. – Regina si scostò. – Credo che tu sia speciale. Non riesco a capire come tu faccia ad essere... così buono. Né come tu possa essere intrappolato qui.

- Non sono perfetto. – asserì Henry. – Ho i miei rimpianti. E delle cose che mi trattengono in questo posto.

- Non voglio prolungare le tue sofferenze. – disse Regina. Si voltò, guardando la tomba di Emma da sopra la spalla. Le parole le uscivano come colpi di tosse. – Non... questo non accadrà. Te lo assicuro.

- No, Regina. – replicò Henry. – Ascoltami bene. Tua madre sta usando me, perché vuole che tu te ne vada. Ma io voglio che tu rimanga. Devi. Rimani per coloro che ami. I tuoi amici, la tua famiglia... hanno tutti bisogno di te.

- Ma Cora ti manderà in un posto peggiore.

- Tu non vuoi davvero andartene, Regina. È per questo che sei qui, ora, davanti a questa tomba. Non puoi abbandonare le persone che ami. – Suo padre parlava in tono deciso, come molti anni fa, quando tentava disperatamente di convincerla ad abbandonare l’idea di uccidere Biancaneve. – Quando mi hai strappato il cuore eri mossa dalle peggiori intenzioni. Ed ora guardati... sei venuta fin qui per salvare... la figlia di Biancaneve.

Regina si morse il labbro.

- Una volta credevi che avrebbe generato solo... orribili mostriciattoli. – le ricordò suo padre, sorridendole. – Non è vero?

Regina annuì. – Emma è... una persona speciale. Proprio come te.

- E allora salvala. Lascia che tuo padre ti veda fare la cosa giusta. – continuò Henry. - E potrò dire... di non essere morto invano.

 

 
‘Chi sei? Cosa vuoi?’, domandò Emma.

‘Sono il padrone di casa, Emma’. Di nuovo la risata. Una risata maschile, divertita e sprezzante. ‘Adesso sei nel mio regno. È un piacere. Ci incontreremo presto. Spero che il posto ti piaccia’.

Le presenze oscure si dileguarono e così anche la voce.

Emma precipitò nel vuoto.

E la caduta fu lunga. Fu interminabile. Emma gridava e precipitava. Agitava le braccia per aggrapparsi a qualcosa, ma non c’erano appigli.

Poi rallentò fin quasi a fermarsi e toccò il fondo con un tonfo. Sbatté le palpebre per vedere qualcosa, ma le tenebre non si erano ancora diradate. Scorse una luce. Lontana. Dardeggiava nel buio, rossastra.

“C’è qualcuno?!”

Una forma le passò accanto, colpendola alla testa e stordendola. Emma cadde in avanti. Artigli le graffiarono la gamba, strappandole il tessuto dei jeans. Sollevò un braccio per proteggersi e l’essere, qualsiasi cosa fosse, ringhiò, scartò di lato e la raggiunse al viso. Era rapido e sembrava stesse colpendo per il gusto di fare del male e non per uccidere.

“Sono già morta. Non può uccidermi.”

Ma forse poteva comunque farla a pezzi. Il dolore era reale. Il sangue che le stava scivolando sulle guance era reale. Era caldo.

La cosa si allontanò e lei ne approfittò per alzarsi e mettersi a correre verso la luce.

 

 
Suo padre era sul limitare della voragine. Sotto di lui il fuoco aspettava, come una belva affamata.

Regina irruppe insieme a suo figlio. – Mamma, fermati. Non farlo!

- Che cosa ci fai qui? Dovresti essere su quella barca. – le disse Cora.

- Non posso andarmene. Non intendo abbandonare la mia famiglia!

- Non è così che funzionano le cose, Regina. Questa non è Storybrooke. E ti ho già detto... che riportare in vita i morti va contro le regole della magia. Nessuno dovrebbe tornare in vita. Nemmeno la Salvatrice!

- Non darle ascolto, Regina! – esclamò Henry. – Aiuta i tuoi amici. Rimani!

- Sono venuta qui per aiutare tutti. – rispose Regina.

- Questo... non è possibile. Devi fidarti di me.

- Lascialo andare.

Cora sospirò, esasperata. – Ti prego, ascoltami! Il mio tempo nell’Oltretomba è concluso. E può esserlo anche il tuo. Fa come ti dico e dimentica Emma Swan. Non può uscire da qui. Può solo imboccare una delle due strade!

- Henry, stai indietro. – lo avvisò Regina. Si mosse verso il padre.

- Per favore, non mi costringere! Non voglio farlo. – la implorò Cora.

- E allora non lo fare.

Cora esitò solo un istante. – Mi dispiace.

Le fiamme del Tartaro avvolsero Henry nelle loro spire e, quando Regina fece per correre verso di lui, una barriera di fuoco si frappose, impedendole di passare. Regina cercò di abbatterla con la propria magia, ma le fiamme si gettarono su di lei, costringendola a tirarsi indietro.

- Un giorno capirai. – mormorò Cora, prima di scomparire.

Regina capì unicamente di aver fallito di nuovo. Non solo aveva ucciso suo padre, spingendolo in quel posto, ma non era nemmeno riuscita a fermare sua madre. Era stato tutto inutile.

Le parole che Lily le aveva detto a Camelot riecheggiarono nella sua mente con un fragore sinistro: “Ti ho vista, in cima a quella scalinata. La Regina Cattiva che recita la parte della Salvatrice e si gode il momento di gloria! Era quello che volevi. Che tutti ti vedessero come una Salvatrice. Che ti vedessero come vedevano Emma.”

“Quelle come noi non possono essere Salvatrici.”

- Mi dispiace tanto. – singhiozzò Regina.

Poi le fiamme si ritrassero. Henry vacillò sulla sporgenza rocciosa. Il fuoco indietreggiò lungo le pareti, riducendosi, sprofondando come atterrito da qualcosa.

- Papà?

- No, ferma! Non ti muovere. Sto bene.

La sporgenza rocciosa  si allungò, formando uno stretto sentiero sospeso sul baratro.

- Che cosa succede? – domandò Regina.

- Non lo so. – Henry guardò la roccia che mutava forma. – C’è qualcosa qui.

Nella parete di roccia di fronte a lui si aprì un varco luminoso. Attraverso di esso, vide uno sprazzo di cielo azzurro, solcato da nuvole bianche.

- I Campi Elisi.

Regina si accorse che suo figlio si era accostato a lei e guardava, affascinato, la luce paradisiaca che invitava suo nonno a raggiungerla.

- È bellissimo. – esclamò il padre di Regina, allargando le braccia. – È quello il mio posto.

Era la strada migliore. Seguendola, Henry sarebbe passato oltre, abbandonando l’Oltretomba per sempre.

Si voltò verso la figlia, raggiungendola. – Ora so qual era la mia questione in sospeso. Eri tu.

- Io? – Regina era ancora frastornata, confusa dalla serenità sprigionata da quel luogo, al di là del varco nella roccia. Si immaginava campi verdissimi, cavalli che correvano liberi, fiori coloratissimi, alberi di mele che producevano sempre frutti. Nella sua mente baluginavano sensazioni meravigliose.

- Per troppo tempo ho permesso a tua madre di manipolarti. – disse Henry. – Per troppo tempo le ho permesso di usare il suo potere contro di te. Era il più grande rimpianto della mia vita. Ma adesso... ti sei liberata di lei ed io sono orgoglioso di te.

- Ciao...

Henry fissò il ragazzo che era arrivato con Regina, sorpreso. – Lui è...

- Sì. – Regina strinse la mano di Henry. – Lui è tuo nipote. Si chiama Henry. Come te.

- Sono felice di conoscerti, nonno. E... mi chiamo Henry Daniel Mills. – disse il ragazzino. - Volevo dirti grazie. Per aver creduto in lei.

- Grazie a te, Henry. – rispose suo nonno. – Per esserle sempre stato accanto. So perché siete venuti. Quello che volete fare è molto... molto pericoloso. Ma se credete che sia giusto... allora dovete provarci. 

- Ce la faremo. Noi non ci diamo mai per vinti. – disse Henry.

- Oh, lo so. – Appoggiò una mano sulla testa del nipote. Come aveva fatto molto tempo fa con Regina. – Prenditi cura di lei. È ora che io vada.

- Ma papà, aspetta...

- Ti voglio bene, Regina. Non dimenticare mai chi sei veramente. – Henry le sorrise un’ultima volta. - E segui il tuo cuore.

 

 
Emma Swan aprì gli occhi di scatto.

Braccia e gambe le tremavano per lo sfinimento. In bocca sentiva il sapore del suo stesso sangue. Tastò rapidamente intorno a sé, capendo di essere distesa su qualcosa di solido. Alla fine era arrivata in fondo al tunnel.

- Dove sono? – borbottò, rauca.

Davanti a lei c’era un altro corridoio, illuminato da una densa luce rossastra. L’aria sapeva di zolfo, era calda e le bruciava i polmoni. Allungò una mano, aggrappandosi ad una colonna piena di crepe e si tirò su. Avvertì un dolore lancinante al fianco e spostare il peso sulla gamba destra le causò sofferenza per via delle ferite, due lunghi tagli che sanguinavano ancora.

Si costrinse a scendere il gradino che la separava dal corridoio. Se guardava a destra, il corridoio si biforcava in due tronconi, se guardava a sinistra si biforcava addirittura in altri tre corridoi più stretti. Sopra di sé aveva il cielo, un cielo scuro e pieno di nubi. Non era possibile arrampicarsi, non solo perché non aveva la forza di farlo, ma anche perché le pareti di quel luogo erano lisce. Non c’erano appigli a cui aggrapparsi. Così come non c’erano stati quando aveva iniziato a precipitare nel vuoto.

Lasciò scivolare la mano destra sulla parete e improvvisamente si ridestò in lei la paura. Era troppo stanca, per cui l’avvertiva solo come un battito affrettato, come un malessere.

Era morta. Morta. Non era più l’Oscuro ed era morta. E qualcuno era venuto a prenderla. I suoi genitori. Killian. Henry. Regina. Lily.

S’impietrì.

Qualcosa... si muoveva nei dintorni. Udiva una sorta di rumore furtivo, un lieve frusciare, poi una scarpa che grattava il pavimento. Suoni che andavano quasi perduti, perché il battito del suo cuore si era fatto prepotente. Era una grancassa.

- Ferma.

Emma sollevò entrambe le mani sopra la testa. Nel mentre cercava un’arma per difendersi, ma sembrava che non ci fosse nulla nelle vicinanze.

- Voltati. Lentamente.

Non era la prima volta che sentiva quella voce. La conosceva. E il solo rendersi conto che si trovava in quel luogo con qualcuno che conosceva, bastò a farla rabbrividire in modo incontrollabile, anche se la fece sentire pure sollevata. Poteva essere un altro inganno. Quel posto era pieno di trappole. Era pieno di immagini terribili, agghiaccianti, che la assalivano da ogni parte.

- Ancora tu? – disse la donna, che le aveva chiesto di voltarsi. Lei un’arma ce l’aveva. Un arco, con una freccia già incoccata e pronta a raggiungere il bersaglio. I suoi occhi scuri si andavano dilatando. Emma la vide impallidire. – Allora non sei solo nella mia testa!

- Marian?

 

_________________

 

 

Angolo autrice:

 

Ben ritrovati. Grazie per essere arrivati alla fine di questo lunghissimo capitolo.

 
Solo una precisazione: la parte in cui Regina accarezza il nome di Emma inciso sulla tomba è un omaggio a Buffy, in particolare a Willow e Tara, una delle mie prime ship. La scena ricalca quella in cui Willow va per la prima volta a visitare la tomba di Tara dopo la sua morte.


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Capitolo 3
*** 3. ***


3

 

“So if you care to find me, look to the western sky!
As somebody told me lately, everyone deserves the chance to FLY!
And if I'm flying solo, at least I'm flying free;
To those who ground me, take a message back from me...
...tell them how I am Defying Gravity!
I'm flying high, Defying Gravity!”
[Wicked: The Musical. Idina Menzel/Elphaba, Defying Gravity]

 

 

 

Foresta di Oz.

 

- È l’unica possibilità che abbiamo per riavere Toto. - disse Mulan, osservando, insieme a Dorothy e a Ruby, l’intruglio che ribolliva nel pentolone.

- Sei sicura che funzionerà? - chiese Dorothy.

Mulan aggiunse delle erbe essiccate alla pozione. Alla fine avevano raggiunto la casa di Dorothy, nel cuore della foresta, evitando le altre trappole poste lungo la via. Delle scimmie volanti di Zelena nessuna traccia. Il luogo era buio e silenzioso. L’unica luce veniva dal fuoco sotto il pentolone.

- La polvere del sonno l’ha già stesa prima d’ora. - la rassicurò Ruby.

- Ho solo bisogno di un altro ingrediente. Papaveri. - disse Mulan. – I papaveri uniti alla pozione renderanno il suo sonno più... duraturo.

- So dove trovarli. - Dorothy fece per avviarsi.

- Vengo con te. Mulan, tieni il fuoco acceso.

- Posso farcela da sola!

- Non ho chiesto il permesso.

Mulan avrebbe voluto domandare a Ruby se fosse sicura di voler seguire Dorothy nel campo di papaveri. Era possibile che lungo il cammino ci fossero, non solo le scimmie volanti di Zelena, ma anche qualche altro tranello. E stavolta Dorothy avrebbe potuto decidere di lasciare Ruby a districarsi da sola con la trappola. Non che fosse un problema per lei... bastava che si trasformasse.

Dorothy s’incamminò con passo deciso e Ruby la seguì.

“Vieni con me.”, le aveva detto, quando stavano per lasciare Dunbroch.

“A cercare lupi mannari?”, le aveva domandato Mulan, perplessa.

“Aiutare qualcuno a trovare la sua strada aiuterà anche te.”

- Quale strada? - si chiese ora Mulan, ad alta voce, mentre ravvivava il fuoco. - Quella che ci ha portato ad Oz, direttamente nel territorio di una strega perfida?

Le risposero solo il vento e una civetta, appollaiata su un ramo. Mulan fissò il cielo sgombro di nubi e pieno di stelle. La luna era piena.

- So che siete là dietro. - disse, mettendo mano all’elsa della sua spada. - Potrei venire a prendervi, ma vi do la possibilità di uscire allo scoperto da soli.

Aveva avvertito i rumori furtivi. Non avrebbe saputo dire quanti fossero, ma dubitava che li avesse mandati Zelena. In tal caso sarebbero state scimmie volanti. Le sue guardie erano sempre a palazzo e Zelena si sentiva troppo al sicuro grazie all’accordo che prevedeva la consegna delle scarpette d’argento.

Mulan estrasse la spada, puntandola contro i visitatori indesiderati.

Erano almeno una decina. Tutti uomini robusti e armati, eccetto uno. L’unico che non aveva armi era un vecchio con i capelli grigi che sparavano in varie direzioni e tra i quali penzolavano delle foglie secche. Aveva un naso lungo e sottile, rosso proprio come quello di chi beve parecchio.

- L’avevo detto che non dovevamo portarlo con noi. Ha fatto troppo chiasso!

- Non preoccuparti, John. È un’amica, non vedi?

- Io vedo solo una certa guerriera che un tempo era con noi e poi è sparita nel nulla!

- Robin? - disse Mulan, rinfoderando la spada e ignorando Piccolo John. L’Allegra Compagnia era al completo, ma Roland non c’era. E Robin Hood aveva tutta l’aria di qualcuno che voleva essere da tutt’altra parte.

Il ladro venne avanti, sforzandosi di sorridere. Allungò una mano e lei gliela strinse. – Lieto di rivederti. Mi dispiace, non intendevo... ho visto Ruby. Chi è l’altra ragazza?

- Dorothy. È... la paladina della gente di Oz. - tagliò corto Mulan. - E tu hai trovato un nuovo ladro per la tua compagnia?

- Non sono un ladro, tesorino. Mi chiamo Knubbin e sono un mago. Chiedilo alla tua amica. E al suo mantello, se ti va. - rispose il vecchio, raddrizzando le spalle. Su una di esse stava appollaiato un corvo con un occhio solo. - Questo, invece, è Heathcliff. Ha dei gusti difficili, quindi ti sconsiglio di irritarlo.

- Non sono un’amica dei corvi. - ribatté Mulan, guardandolo con la fronte aggrottata. - Non capisco. Credevo fossi a Storybrooke...

- Sì, infatti. - confermò Robin, amaramente. - Sono venuto a cercare mia figlia.

- Figlia? Quale figlia?

Calò il silenzio. Gli uomini si occhieggiarono tra loro. Poi fissarono Mulan. Nei loro sguardi sostava un misto di perplessità, imbarazzo e acredine. Era sicura che la maggior parte dell’Allegra Compagnia non fosse così contenta di trovarsi lì, davanti a qualcuno che li aveva piantati in asso. Qualcuno che aveva anche rischiato di farli uccidere perché aveva la mente ottenebrata dai propri problemi.

Ma c’era dell’altro.

Mulan ricordò la bambina che Zelena aveva con sé quando era arrivata ad Oz. - Non la bambina di Zelena...

Nessuno rispose.

- Robin?

- È molto complicato. - fu la sua risposta.

- Sì, lo immagino.

- Non è come credi. Posso spiegarti tutto, ma mi servirà un po’ del tuo tempo. E poi dobbiamo pensare ad un modo per riprendere mia figlia.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

“Stai bene?”

“Sì, credo di sì. Io sono... Leila.”

“Vorrei poterti dire che è un piacere conoscerti.”

“Ma viste le circostanze non  il caso. Qual è il tuo nome?”

“Non oso pronunciarlo qui. La Regina non sa chi sono e solo il mio silenzio può tenere la mia famiglia al sicuro.”

- Marian?

Lei allentò la corda dell’arco, fissandola, esterrefatta. – Leila?

- Sì, io... – iniziò Emma, arrancando di un passo. Il mondo ondeggiò intorno a lei. – Non mi chiamo Leila. Il mio nome è Emma.

- Stai indietro! – esclamò Marian, tendendo nuovamente la corda dell’arco. – Non ti avvicinare. Nessuno mi assicura che non sei un inganno di Ade.

- Un inganno di Ade?

Da qualche parte, non molto lontano da loro, giunse un suono strano, una specie di muggito, seguito da un tonfo. Emma tese le orecchie.

- Non sono un inganno di Ade... sono morta. – precisò.

- Io sono qui da molto tempo... – disse Marian. Ora aveva un’aria confusa. – Ma tu non sei mai stata qui.

- No. Sono... arrivata da poco.

- Sei identica a quando ci siamo incontrate in prigione. Questo non è possibile. So che è accaduto molto tempo fa...

- Fidati. Lo è. È solo... molto complicato da spiegare.

- Però è vero. Ci siamo già incontrate. Credevo... credevo fossi solo nella mia testa. Credevo che Ade mi stesse confondendo la mente!

Il rumore si ripeté e sembrava più vicino, ora. Qualunque cosa si muovesse per quei corridoi, di certo non aveva buone intenzioni.

- Puoi dirmi che posto è questo? – chiese Emma.

- È un labirinto. – rispose Marian. Si decise ad abbassare l’arco, ma continuava a rimanere in guardia. I grandi occhi scuri saettarono a destra e a sinistra. – Non vuoi sapere che cosa ti aspetta se decidi di... cercare l’uscita.

- Beh, io devo uscire... la mia famiglia è qui. Per me.

- Non puoi esserne certa. Nessun vivo metterebbe mai piede nell’Oltretomba.

- Loro sì. Perché non amano darsi per vinti. – Emma tese una mano verso Marian. – Dobbiamo andarcene.

- Non riusciremo ad andarcene! – replicò Marian. – Il mostro ci prenderà. Io ci ho provato moltissime volte. E mi ha sempre presa... prima che potessi arrivare all’uscita.

- Ti ha presa? Ti ha... uccisa? – Emma si appoggiò alla parete. Era senza fiato, quasi fosse reduce da una lunga corsa. Non aveva idea di come poteva sfuggire a qualunque cosa ci fosse in quel labirinto.

- Uccisa... non è il termine più appropriato. Ma sì... se ti prende, ti fa a pezzi. – Marian rimise la freccia nella faretra che portava con sé. – E poi torni al punto di partenza. Qui.

- Beh, se ci proviamo in due... forse abbiamo qualche possibilità in più.

- No. Non ne abbiamo. Sei pazza. E sei ferita.

- Sì, anche questo è vero. Sai dov’è l’uscita, no? L’hai trovata.

- Certo, ma lui è molto più veloce di te! E inoltre... l’ultima volta che ti ho seguita, tu e quell’uomo, quello con la mano finta, volevate portarmi in un altro mondo... e poi mi sono ritrovata qui!

- Marian... mi dispiace, volevo solo salvarti la vita.

- Siamo scappate da quella prigione, quindi...

Un altro tonfo. Il verso della creatura era il ruggito di un mostro affamato. Emma si chiese quante volte Marian avesse tentato di scappare e quante volte fosse stata acciuffata e sbranata.

- Portami verso l’uscita. – disse Emma.

Marian scosse vigorosamente la testa.

- Non abbiamo scelta! Non possiamo restare quaggiù. Dobbiamo combatterlo.

Il mostro gridò di nuovo, furibondo. Un altro tonfo. Qualcosa si schiantò e si ruppe.

Marian prese la mano di Emma e si misero a correre. La trascinò in fondo al corridoio e girò a sinistra. Emma arrancò insieme a lei, sforzandosi di ignorare i dolori lancinanti. La gamba aveva ripreso a sanguinare.

Alla fine del primo corridoio, c’era la statua di un uomo in ginocchio, con una mano nei capelli ricciuti e un paio di ali che gli spuntavano dalla schiena. Le ali erano rivolte verso terra. Ai lati della statua, c’erano le facce di due demoni muniti di corna ricurve. Le loro bocche erano aperte ed Emma le vide illuminarsi di un bagliore rossastro. Marian la tirò verso di sé, perché uscisse dalla traiettoria dei fulmini che saettarono fuori da quelle bocche, alla ricerca di un bersaglio.

Marian svoltò a destra, poi di nuovo a sinistra. I corridoi sembravano tutti uguali. Poi imboccarono un passaggio ad arco che le condusse in una camera circolare. Emma calpestò un oggetto, che si rivelò essere un osso umano. C’erano... parecchie ossa umane, in quella stanza. Ossa umane, brandelli di abiti, i resti di un’armatura gettata in un angolo, l’elmo, la cotta di maniglia e i gambali.

- Ci siamo quasi. – disse Marian, respirando a fatica. Il luogo proseguiva in una galleria oscura, simile a quella che Emma aveva percorso per arrivare là.

Dietro di loro, proruppe un altro muggito inferocito, seguito dal rumore di zoccoli. Dall’ombra iniziò ad emergere qualcosa di enorme, con occhi che bruciavano come torce.

- Te l’avevo detto. Non ce la possiamo fare. È molto più forte di noi! – gridò Marian. Estrasse comunque una freccia dalla sua faretra.

- Corri.

- Cosa?!

- Corri. Esci da qui. Ci penso io a lui.

- Ma ti farà a pezzi, Leila... Emma.

- Forse. Ma almeno potrai uscire. Trova la mia famiglia. Trova mia madre... Biancaneve. – Emma la prese per le spalle, scuotendola perché l’ascoltasse. – Τrova lei, trova Lily...

- E poi?

Emma rifletté un istante prima di parlare. Nella sua mente si succedette una moltitudine di pensieri e ognuno di essi aveva senso. Al tempo stesso sembrava che nessuno di essi l’avesse. - E poi dì loro di andarsene. Dì loro di tornare a casa.

Marian udì l’ennesimo ruggito del mostro e capì di non poter replicare a ciò che Emma le aveva appena detto. Si introdusse nella galleria, proprio quando l’abitante del labirinto mise piede nella camera circolare.

Regina. Mio Dio, non le ho detto di Regina.

Emma strabuzzò gli occhi.

L’essere che le aveva inseguite aveva petto e braccia umane. Le mani si aprivano e si chiudevano, ansiose di accaparrarsi la preda. Lo sguardo era feroce e selvaggio. Ma dalla vita in giù la sua umanità terminava e cedeva il posto alla bestia. Le gambe erano possenti e ricoperte da una fitta peluria nera. Non aveva i piedi, ma un paio di zoccoli. Inoltre la testa era quella di un toro. Le nari si allargarono, annusando l’aria e poi emisero uno sbuffo rumoroso. Aprì la bocca e lei vide che aveva due file di denti aguzzi pronti ad azzannare e a farla a pezzi.

Emma fece un passo indietro, parandosi davanti alla galleria che aveva inghiottito Marian.

Il Minotauro sfregò gli zoccoli sulle mattonelle del pavimento e caricò a testa bassa.

 

 
- Se non sbaglio, siamo già passati di qui prima. – disse Killian, spazientito. – Non c’è traccia di Emma.

- E noi passeremo un’altra volta, Capitan Mascara. – rispose Regina. – Forse qualcosa ci è sfuggito, forse troveremo delle tracce fresche.

- Ricordatemi perché mi sono unito a voi, Maestà.

- E tu ricordami perché ho accettato che mi seguissi. – Regina gli puntò contro l’indice. Sapeva benissimo di essere già passata di là. Le sembrava di conoscere quel bosco come le sue tasche. Ogni sentiero, ogni albero. E non c’era nessuno. Nemmeno un’anima vagante che potesse dar loro una mano. Era esasperata. David era al cimitero con la moglie. Lily era da qualche altra parte in città con Malefica. Non osava chiedersi dove fosse o cosa stesse tramando Τremotino.

E a lei era toccato Uncino. Henry aveva insistito per venire con loro.

- Mamma! – gridò Henry.

Regina si girò e si accorse che, mentre lei discuteva con il pirata, suo figlio era andato avanti.

- Vieni a vedere!

Lo raggiunsero in fretta e videro che stava osservando delle piante verdi che crescevano ai piedi di un salice.

Le foglie erano sporche di sangue. Ed era sangue fresco. C’era sangue anche sull’erba.

- Non toccarlo, Henry – disse Regina, afferrando suo figlio per la giacca.

- Ma potrebbe essere della mamma! Potrebbe essere qui intorno.

Uncino toccò le foglie, sporcandosi la punta delle dita. - Il ragazzo ha ragione. È fresco. Emma!

Il pirata si mise a correre su per un pendio erboso, stando attento a dove metteva i piedi. Trovò altre tracce sull’erba, sulla corteccia di alcuni alberi. Τrovò anche un pezzo di stoffa dal colore indefinito. Lo prese, chiedendosi se appartenesse ad Emma.

Henry e Regina lo seguivano a ruota. Lui distanziò rapidamente la madre, provando a stare al passo con Killian, ma il pirata correva alla cieca, incapace di stabilire in quale direzione dovesse effettivamente andare.

- Emma!

Henry inciampò in una radice sporgente, cadde tra le foglie, sbucciandosi il palmo della mano destra. Maledisse quel posto fra sé e sé. Maledisse il fatto di non avere la penna. Forse avrebbe potuto usarla per trovare sua madre.

Uncino era andato avanti e stava gridando ancora il nome di Emma.

- Ehi...

Henry spostò la testa verso destra e vide una figura acquattata dietro al grosso tronco di una vecchia quercia.

- Mamma...? – iniziò. Ma si accorse subito che la donna non era sua madre. Aveva una fitta massa di capelli neri e tutti in disordine. Vestiva come una popolana, con un mantello color porpora agganciato alla base del collo e una veste grigia e polverosa sotto di esso. La faccia scura era sporca di fuliggine e gli occhi erano segnati da ombre violacee. Aveva con sé un arco e una faretra.

- Non sono Emma. Ma l’ho incontrata. – disse, appoggiandosi all’albero per alzarsi. Zoppicava e aveva le mani graffiate. – Mi chiamo Marian...  

- L’hai vista? Dov’è?

- Henry! – Regina raggiunse suo figlio e si chinò per aiutarlo, scostandogli i capelli dalla fronte. – Stai bene? Dov’è andato Uncino?

Allora notò la donna.

Regina sgranò gli occhi.  

Marian prese la prima cosa che le capitò a tiro e la scagliò contro di lei.

La pietra colpì Regina di striscio alla tempia, facendola finire con un ginocchio a terra e dando il tempo a Marian di recuperare il suo arco e incoccare una freccia.

- No! – Henry si mise in mezzo. – No, aspetta, non lo fare.

- È la Regina Cattiva. Lei mi ha uccisa!

- Lei è mia madre.

Uncino tornò indietro, correndo. Fissò la scena pieno di sconcerto. – Marian? Che cosa sta succedendo? Vi prego, fermatevi.

- Anche tu sei qui? – esclamò Marian.

- Già, questo mondo è piccolo, milady. Mettete giù l’arco. Non è come credete.

- Ah, no?!

Regina tenne una mano premuta contro la tempia. Un terribile fischio le aveva invaso le orecchie e il mondo aveva iniziato a inclinarsi da un lato.

Marian. È la moglie di Robin. La vera moglie di Robin.

- Non è più quella persona. – intervenne Henry. – Non è più la Regina Cattiva.

Marian scosse la testa, ma esitò. La mano che teneva la corda dell’arco tesa stava tremando. La nube di confusione che le occupava la mente non le permetteva di riordinare i pensieri e i ricordi. Sapeva che la Regina l’aveva uccisa. Lo ricordava. Ricordava le sue ultime parole. Ricordava il soldato che appiccava il fuoco. Il crepitare delle fiamme. La sofferenza... la sofferenza che era sembrata durare un’eternità.

E poi ricordava Emma. Emma che la liberava. L’uomo con la mano finta. Volevano portarla in un altro posto, lontano dalla sua famiglia, da suo marito e da suo figlio. Poi qualcuno l’aveva colpita alla testa.

Era come se anche la sua mente si fosse trasformata in un labirinto. Era come se fosse morta due volte.

- Ascoltate il ragazzo. È suo figlio. Ve lo assicuro. – disse Uncino, muovendo un passo verso di lei. – Regina non vi farà alcun male. Vedete... è passato molto tempo da allora. Le cose sono cambiate per tutti. Credetemi.

- Che cosa ci fa nell’Oltretomba. Non è morta, vero?

- No. Nessuno di noi è morto. Siamo qui per Emma. E se voi l’avete vista, allora potete aiutarci.

- Non potete essere tutti così giovani...

- Possiamo spiegarvi anche questo. Ma solo se accettate di venire con noi.

Continuò a tenere la freccia puntata su Regina.

- Vi avrebbe già uccisa, se fosse la stessa donna. – continuò Uncino. – Sa usare la magia. Ve ne siete dimenticata?

Marian si decise ad abbassare l’arco. Lasciò cadere la freccia, ma si mantenne a distanza di sicurezza.

- Mamma? Va tutto bene? – domandò Henry. – Sei ferita...

- Non è niente. – mormorò Regina. – Sto... bene.

- Dobbiamo andare via. – disse Marian, in fretta, parlando a Killian. – L’entrata della caverna non è lontana.

- Quale caverna? – chiese lui.

- Andiamo via, vi prego. C’è un mostro...

Regina usò la magia per portare tutti lontano da lì. Scomparvero, dissolvendosi in una nuvola di fumo violaceo.

 

 

Foresta di Oz.

 

Mulan mise mano alla spada quando sentì i passi e vide arrivare Ruby in forma di lupo e Dorothy con il mantello rosso tra le mani.

- Che cos’è successo? - chiese.

- Zelena. - rispose Dorothy. - E le sue scimmiette volanti.

Mulan la osservò mentre distendeva il mantello magico e lo gettava sopra al lupo, i cui occhi gialli splendevano nell’oscurità. Ruby recuperò le sembianze umane e si scostò il cappuccio dalla testa. Si rialzò, respirando con affanno.

- Stai bene? - domandò a Dorothy.

Lei non rispose e a Mulan parve che si fosse irrigidita, come se ci fosse qualcosa che la preoccupasse. E non erano le scimmie volanti della strega perfida.

- Dorothy?

- Sì. - si decise a rispondere. - Sto bene. Sono solo stanca. Saranno stati i papaveri.

Ruby si rabbuiò.

- Chi è lui? Che ci fa qui?, domandò Dorothy, scorgendo Robin.

- Lui è Robin. È... - Stava per dire che era un amico, ma non lo disse. - Una vecchia conoscenza. Abbiamo viaggiato insieme per un po’. E Zelena deve restituirgli qualcosa.

- Cioè?

- Mia figlia.

- La bambina di Zelena è figlia tua? - Dorothy appoggiò una mano sulla balestra, come se si sospettasse che Robin si stesse per trasformare in una pelosa scimmia volante.

- Zelena lo ha ingannato. - intervenne Mulan.

Robin raccontò loro di come Zelena si fosse finta Marian, sua moglie. Di come fosse vissuta con lui e Roland per settimane e della nascita della bambina.

- Zelena lascia dietro di sé una scia di desolazione, a quanto pare. E si preoccupa di prolungare la sua stirpe... - commentò Dorothy, acidamente.

- Mia figlia non c’entra nulla. È innocente. Voglio solo riportarla a casa con me. E se possibile... liberarmi di Zelena.

- Abbiamo una soluzione. - Dorothy sfilò il papavero dalla cintura di Ruby. Lei sembrava stranamente confusa, con gli occhi troppo brillanti e le guance un po’ arrossate, sebbene non facesse così freddo.

Mulan prese il papavero. - L’ingrediente per la pozione che la manderà nel mondo dei sogni.

- La maledizione del sonno? - commentò Robin.

- E chi la sveglierà, dato che non ha un vero amore? – gli fece notare Mulan.

- Non sarà così facile.

- Faremo del nostro meglio. - replicò Dorothy, come se Robin avesse appena detto una grossa idiozia. - Ed ora scusatemi, vado a... stendermi un momento.

 

 

Oltretomba.

 

- La casa dei nonni? – esclamò Henry.

- Beh, dato che tutto ciò che avevamo a Storybrooke, sembra avere un corrispettivo qui... ho pensato che l’avesse anche la casa degli Azzurri. – disse Regina.

Tutti i mobili erano coperti da teli bianchi, come se i legittimi proprietari avessero abbandonato il posto da tempo. Il pavimento era polveroso e mangiato dai tarli. I vetri delle finestre erano opachi e senza tende.

Regina prese una foto, appoggiata su un comodino. Era una delle foto che gli Azzurri conservavano nella loro vera casa. In essa Mary Margaret e David sorridevano all’obiettivo, lui tenendo un braccio sulle spalle della moglie.

- O più che altro... questo posto sta aspettando che loro muoiano e si trasferiscano. – Regina rimise la foto dove l’aveva trovata.

Sta aspettando tutti noi. Neanche tra mille anni, quando l’inferno gelerà, andrò a vivere con gli Azzurri, pensò. Con gli Azzurri e circondata da tutti i suoi conti in sospeso. Nemmeno se avesse vissuto un secolo sarebbe riuscita a sistemarli.

“Sei stata troppo cattiva. Per troppo tempo.”, le aveva detto sua madre. Quando? Un’eternità fa, forse.

Dov’era sua madre? Era sparita, ma dov’era andata? L’avevano gettata nel Τartaro?

“So che la Regina ha amato molto quando era solo una ragazza innocente... ha amato molto ed ora il suo primo grande amore vorrebbe vederla.”

In casa degli Azzurri c’erano Lily e Malefica, che erano intente a rovistare in giro, alla ricerca di qualcosa che potesse condurle da Emma.

- Che ci fa lei qui? – domandò Lily, vedendo Marian, che si era accasciata su una delle poltrone, stringendosi nella mantella, come se avesse freddo.

- Si chiama Marian. L’abbiamo trovata nel bosco. Ha incontrato Emma. – precisò Killian.

- L’ha vista? Dove? Come sta?

Marian alzò gli occhi stanchi su di lei. – Sei... tu sei Lily?

- Sì. Sono io. Che cosa ti ha detto Emma? Dove possiamo trovarla? – Lily si inginocchiò davanti a Marian. Il ciondolo che portava al collo dondolò e la moglie di Robin Hood lo fissò per qualche momento.

- Lei mi ha salv... aiutata ad uscire dal labirinto. È rimasta indietro perché io potessi scappare e portarvi un messaggio. – disse Marian. Sembrava un po’ più rinfrancata ora.

- Quale messaggio?

Marian diede un’occhiata a Regina.

- Potete parlare liberamene, milady. – la incoraggiò Killian. – Nessuno vi farà del male.

- Sì, noi vogliamo sapere come possiamo arrivare ad Emma. – aggiunse Henry. - Lo vogliamo tutti.

- Lei non desidera questo. – rispose Marian.

Per un secondo, Regina pensò che la donna si stesse rivolgendo a lei. Che stesse parlando alla sua assassina.

“Lei non desidera questo.”

- Come? – fece Lily.

- Emma. Non vi vuole qui. Dice che dovete andarvene. Dovete tornare a casa.

 

 

Foresta di Oz.

 

- Ho dato la pozione del sonno anche a Dorothy. Robin e i suoi uomini ne hanno un po’ e Knubbin ha protetto l’accampamento con un incantesimo. Attacchiamo all’alba. - disse Mulan.

- Bene. - rispose Ruby.

- Bene. - ripeté Mulan, imitando il suo tono meditabondo. - Non mi pare un grido di battaglia molto convincente.

Ruby non rispose. Era da quando era tornata dal campo di papaveri che si comportava in modo strano. Non era sembrata partecipe a nessuna conversazione. Ora se ne stava in silenzio, con la testa bassa e le mani in grembo, a tormentarsi le unghie. Non molto distanti brillavano le luci dell’accampamento di Robin Hood. Mulan vedeva le ombre di alcuni uomini messi di guardia lungo il perimetro. La luna piena veleggiava nel cielo, tra i rami spogli.

Mulan sedette vicino a lei. - Ruby, che cosa succede?

“Mi dispiace.”

“Per cosa?”

“Per averti chiamata lupacchiotta. Se avessi saputo...”

“No, non importa. In realtà mi piace.”

- Ruby?

- Mentre camminavamo, io... ecco, Dorothy... mi ha chiesto che cosa sto cercando davvero. Ed io... le ho detto che non sono sicura di saperlo.

“Però credo sia giusto che anche tu abbia un soprannome.”

“Davvero?”

“Mmm.” Non era rimasta troppo tempo a pensarci. “Che ne dici di Kansas?”

Dorothy rise di gusto. “D’accordo, lupacchiotta. E Kansas sia.”

- Ed è così? – domandò Mulan, aggrottando un sopracciglio.

“Attenta.”, disse Dorothy, mettendole una mano sul braccio prima che potesse chinarsi e raccogliere uno dei papaveri. “Basta una semplice annusata e finisci addormentata come un sasso.”

Si piegò e lo raccolse lei stessa.

“Grazie...”

Dorothy le offrì il fiore e Ruby lo prese...

- Io penso... – ricominciò Ruby, insicura. – Penso... forse stavo cercando proprio qualcuno come lei.

Mulan non parve nemmeno sorpresa. Sorrise.

- Lo so che ci siamo appena conosciute. – continuò Ruby, sulla difensiva. – Ma... non mi sono mai sentita così prima d’ora.

- Beh... è fantastico. – commentò Mulan. – Quindi, quale sarebbe il problema?

Ruby si rabbuiò di nuovo. - Hai visto anche tu come mi ha guardata quando mi sono trasformata. Non  è riuscita a dire niente.

E le ho anche rivelato di aver ucciso Peter!

- Forse perché prova le stesse cose che provi tu. – osservò Mulan. - E non sapeva come dirlo.

- La verità è che tutto ciò la spaventa. La situazione è troppo complicata per lei.

- Dorothy... non ha paura di te. Non ha paura nemmeno di Zelena, come può avere paura di un licantropo?

Ruby scosse il capo.

- Ruby... non fare il mio stesso errore. Non aspettare troppo per dire a qualcuno quello che provi...

Dall’accampamento vennero delle grida.

- Cos’è stato? – chiese Ruby.

- Guai.

Mulan corse all’accampamento dell’Allegra Compagnia, con la spada in pugno. Ruby la seguì.

Un gruppetto di persone si era assiepato intorno ad una figura, che se ne stava accasciata per terra, ma con le mani sollevate. Alcuni ladri avevano estratto le armi. Robin si fece largo tra la folla per vedere.

- Cosa succede? – domandò Mulan, spingendo via alcuni uomini.

- È entrato nell’accampamento di nascosto. – disse Piccolo John, puntando il proprio pugnale sul tizio in ginocchio.

- In realtà, sono entrato con le mani alzate. Non sono un nemico. Mi chiamo Fiyero. Mi manda Glinda, la Strega del Sud.

Robin illuminò il viso dell’uomo con una torcia. Era robusto e aveva la pelle nera ricoperta di tatuaggi a forma di diamante. Le uniche armi erano i pugnali infilati negli stivali con gli speroni. La giubba rossa era di ottima fattura e al collo pendeva una collana annodata intorno ad un ciondolo, una piccola ampolla che racchiudeva...

- Magia. – disse Knubbin. Indicò il collo di Fiyero con il nodoso dito indice. – Il ciondolo che ha al collo contiene un incantesimo decisamene potente.

John allungò una mano per strapparglielo, ma Robin lo fermò.

- Non è per voi. – spiegò Fiyero. – Sarebbe per Zelena. Sono dalla vostra parte.

- Fiyero. – disse il ladro. – Avete detto che vi manda Glinda. Che cosa ci fate nel mio accampamento?

- Sto cercando Dorothy. Ho un messaggio per lei. Se solo mi permetteste di infilare una mano nella tasca della giacca, ve lo mostrerei, Robin Hood. – Fiyero sorrise. I denti bianchi risaltarono in contrasto con il colore della sua pelle. Guardava Robin dritto negli occhi, senza curarsi di tutte le armi puntate contro di lui. Sembrava quasi a suo agio, in mezzo a possibili aggressori.

- Come fate a sapere come mi chiamo? – chiese Robin, guardingo.

- Glinda vi ha visto arrivare. Voi e la vostra... poco accogliente compagnia. Purtroppo non porto delle buone notizie.

Robin abbassò un poco la guardia. - Qual è il messaggio?

Fiyero mise una mano in una tasca interna della giubba e tirò fuori un rotolo di pergamena. Era chiuso con un sigillo rosso.

- Potrebbe essere un tranello di quella strega. Parlo di Zelena. – fece Piccolo John, afferrando il braccio di Robin prima che potesse prenderlo.

- Non ho nulla a che fare con Zelena. Ma il messaggio può essere letto solo da Dorothy. La magia di Glinda lo protegge.

Mulan strappò la pergamena di mano a Fiyero senza troppi complimenti e la srotolò in fretta. – Non vedo niente, in effetti.

- Vado a chiamare Dorothy. – disse Ruby, allontanandosi.

- Inizia col dirci qual è il messaggio. – riprese Robin, accovacciandosi davanti a Fiyero. - Zelena ha mia figlia. Voglio sapere ogni cosa.

 

 

Oltretomba.

 

Emma rinvenne mentre due uomini la depositavano su una piattaforma.

Le doleva tutto il corpo. Le sembrava impossibile persino sollevare le palpebre per guardarsi intorno.

- Bene, bene. – disse una voce maschile e canzonatoria. – Sento che oggi sarà una di quelle giornate... estremamente divertenti. Lasciateci.

Rumori di passi.

Emma aprì leggermente gli occhi e vide un paio di lucide scarpe nere, la stoffa dei pantaloni scuri, dal taglio elegante.

- Dove sono? – mormorò, provando a tirarsi su. Le luci che illuminavano l’ambiente erano deboli, ma a lei parve di essere in una caverna dal soffitto altissimo. Sentiva il rumore dell’acqua che scorreva. Notò una poltrona rossa e un paio di sgabelli.

- Te l’ho già detto quando ci siamo parlati la prima volta. O forse non eri attenta? Sei... nel mio regno. È un onore. Molti eroi sono passati da queste parti, da quando esisto. Cioè da... migliaia di anni.

“Sono il padrone di casa, Emma. Adesso sei nel mio regno. È un piacere. Ci incontreremo presto. Spero che il posto ti piaccia.”

La risata era la stessa. Sprezzante. Piena di arroganza. Con un che di repellente.

Emma si sdraiò sul dorso e guardò il padrone di casa. Aveva l’aspetto di un uomo alto, con addosso un completo scuro ed elegante, i capelli corti, di un biondo rossiccio.

- Hai dato del filo da torcere al Minotauro. Ti ha fatta a pezzi soltanto una volta. E... l’altra prigioniera è scappata. – disse. Si inginocchiò vicino a lei e allungando una mano. Premette su una ferita aperta che aveva sul collo. Emma strinse i denti, soffocando un gemito. – Beh, scappata dal labirinto, non certo dal mio regno. E meno male, perché odio quando quell’orologio si mette a ticchettare. Preferisco la musica classica. Paganini, mai ascoltato?

- Qualsiasi cosa... tu abbia in mente... non funzionerà. – disse Emma.

- Oh, invece sì. Perché io... sono Ade. Il Signore degli Inferi. – annunciò lui, alitandole in faccia. Non premette più sulle ferite, ma si limitò a sfiorare quella che aveva sulla fronte con la punta dell’indice.

Il dolore le esplose nella testa come un tuono fragoroso e poi si dipanò in tutto il suo corpo, raggiungendo ogni anfratto ed inondandolo come nero fumo.

Lei urlò.

- E sai, Emma... – Si chinò di più, soffiandole in un orecchio. - Il Minotauro era solo un assaggio. Era affamato. Dovevo dargli qualcosa. Qualcosa di... diverso dal solito. Secondo me, gli sei piaciuta.

Emma non riuscì a rispondergli.

Ade la torturò ancora e ancora. Giocava con le sue ferite e con il suo dolore, girandole intorno come avrebbe potuto girare intorno ad un animale che stava provando ad addomesticare. Scandiva il tutto con le sue risate e, a volte, canticchiava persino.

- Alzati, ora. – ordinò, alla fine.

Non aveva idea di come sarebbe riuscita ad alzarsi. Non c’era un punto del suo corpo che non le facesse male.

- Alzati. – ripeté.

Emma si mise in ginocchio e, con un enorme sforzo, si alzò in piedi, fissando Ade in faccia. Lui la osservò, soddisfatto. 

Poi allungò una mano verso la sua gola. Emma si tirò indietro, ma la magia del Signore degli Inferi la afferrò comunque e la costrinse ad avvicinarsi. Ade la prese per il collo e la trascinò con sé. Emma lottò contro la sua presa d’acciaio e scalciò furiosamente, ma lui sorrise, divertito.

- Sei leggera come una piuma. – disse Ade. – Sai, io... so essere anche un uomo gentile. E generoso. Dipende da come l’ospite si comporta.

Emma lo fissò con astio.

- Ti do la possibilità di uscire da qui. Non sarà poi così difficile. – Si leccò le labbra, quasi stesse assaporando il suo piano. Sulla guancia aveva uno sbuffo del suo sangue. - Io dico sempre che la vita è fatta di scelte... e tu potrai scegliere.

- Non... farò niente... – grugnì Emma.

- Questo è tutto da vedere. Ognuno di noi ha dei limiti, Salvatrice. Anche tu. – Parlava conferendo alle parole un’inflessione strana, musicale. – Tra poco li conoscerai.

 

 

Foresta di Oz.

 

- Non riesco a capire. – disse Mulan. – Che senso ha? Perché attaccare il Quadling?

Fiyero ora stava in piedi in mezzo a loro e aveva nascosto l’ampolla che portava al collo nella giubba rossa. Il messaggio di Glinda era postato su un ciocco di legno, il sigillo rosso infranto. Sulla pergamena scivolavano i riflessi arancioni del fuoco acceso al centro dell’accampamento dell’Allegra Compagnia. Quel riverbero ricordava al principe le fiamme che avevano divorato numerose case del villaggio nel Quadling, il regno del Sud. Il fuoco che aveva divorato delle persone. Decine di uomini e donne, che erano morti gridando. – Glinda è stata da lei per cercare un accordo. Forse si è sentita provocata.

- Zelena è folle. – rispose Robin, con sicurezza. – Sta perdendo completamente la ragione. Dobbiamo agire prima che faccia del male anche a mia figlia.

- Credete che possa arrivare a far del male ad una bambina? – domandò Fiyero.

Robin strinse le labbra. Nessuno rispose.

In quel momento, Ruby arrivò, correndo. – Dorothy non c’è.

- Come sarebbe... non c’è? – esclamò Mulan.

- La casa è vuota. Ha preso le armi, la pozione del sonno e... se n’è andata. L’ho cercata nei dintorni, ma non ci sono tracce! – Ruby teneva in mano un pezzo di stoffa. Il ricamo a quadri era quello del vestito di Dorothy.

- Non sarà andata da sola da Zelena! – disse Fiyero, sbarrando gli occhi.

- Sarebbe assurdo. Non ce la farà mai da sola! – rispose Mulan. – Era d’accordo con il nostro piano.

- Evidentemente non lo era, tesorino. O qualcosa, nel frattempo, è cambiato. – aggiunse Knubbin, infilandosi fra due uomini. Il suo corvo sbatté le ali, nervoso. - Mi auguro che abbiate un piano di riserva.

- Devo avvertire Glinda. – annunciò Fiyero.

- Io raduno i miei uomini. – disse Robin. – Spero solo che non sia già troppo tardi.

 

 
Dopo aver consegnato il messaggio di Glinda, il principe Fiyero ripercorse la strada che l’aveva condotto alla dimora di Dorothy, con il cuore pesante e un vago presentimento che gli animava la mente.

L’attacco a sorpresa nel Quadling aveva sconvolto Glinda. Aveva sconvolto lei e le sue sorelle, Nessarose, la Strega dell’Est, e Locasta, la Strega del Nord. Il villaggio nel Quadling era ancora in fiamme. Erano morte decine di persone, uomini e donne, persino bambini, alcuni colti nel sonno dal fuoco e altri uccisi dagli uomini in armatura o dilaniati dalle scimmie volanti. Tutti gli abitanti avevano visto la Strega a cavallo della sua scopa, avevano udito la sua perfida risata, mentre l’esercito colpiva senza pietà. Gli uomini erano ricoperti da armature nere e portavano al collo una pietra verde incastonata in un ciondolo, molto simile a quella che Glinda aveva dato a Zelena molti anni prima.

Eppure Fiyero aveva l’impressione che quell’attacco fosse di una crudeltà inaudita. Zelena era perfida, terrorizzava Oz, era potente e nessuno aveva il coraggio di affrontarla direttamente. Tuttavia una simile azione a lui pareva insensata. Aveva visto Zelena una sola volta e, nonostante la furia che aveva riversato su Glinda, sembrava si preoccupasse soprattutto della bambina che aveva portato con sé dall’altro mondo. Non aveva più la pelle verde. I suoi capelli erano come fiamme e gli occhi erano schegge di un azzurro tempestoso. La sua era una bellezza selvaggia, al contrario di quella più dolce e rassicurante di Glinda.

“Ho sbagliato e me ne pento, ma tu non puoi continuare a terrorizzare questa gente. Hai una figlia, adesso. Devi pensare a lei.”

“Ed è quello che intendo fare, se non mi metterete i bastoni fra le ruote!”

E che ne era di Dorothy? Davvero voleva affrontare la Strega Perfida da sola?

Era ancora in balia di quei pensieri quando udì la risata della Strega e, rapidamente, si mise al riparo, celandosi dietro ad un albero. Prese una freccia dalla propria faretra e fissò il cielo scuro, tra i rami spogli.

Zelena tagliò il firmamento e la grande luna piena volando sulla sua scopa. Disegnò un cerchio immaginario tra le stelle e rise di nuovo, per poi sparire verso ovest, dove risplendevano le luci verdi della Città di Smeraldo.

Fiyero restò a guardarla, sconcertato.

La Strega dell’Ovest poteva aver appena commesso una strage, ma sembrava divertirsi un mondo. Il principe aveva riconosciuto subito la sua risata e, al tempo stesso, l’aveva percepita in modo diverso. Non era la risata di una strega perfida. Era una risata giovane e persino spensierata. Gli ricordò la risata delle sue sorellastre, mentre giocavano nel giardino della loro casa. Lui imparava a tendere la corda di un arco e a fabbricare frecce, loro, invece, giocavano a rincorrersi, con i capelli al vento. Lui era guardato con sospetto per via della sua pelle nera, loro con ammirazione perché erano belle ed erano sempre sorridenti. Lui era isolato perché, anche se riconosciuto dall’uomo che aveva sposato sua madre, era figlio di un forestiero giunto da terre molto lontane e che poi era sparito nel nulla.

Fiyero mise via la freccia e riprese il cammino, sempre scrutando il cielo.

 

____________________

 

 
Angolo autrice:

 

Ciao a tutti voi lettori ;)

 
Qualche precisazione, giusto per capirci.

Fiyero è un personaggio del musical “Wicked”. Ma i ricordi di Fiyero sulle sue sorellastre sono una mia invenzione.

Il Quadling è il territorio di Glinda, quindi il Sud.

Nel musical, Elphaba è interpretata da Idina Menzel, che canta anche la canzone Defying Gravity, citata all’inizio del capitolo, appunto.


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Capitolo 4
*** 4. ***


4

 

“Siamo giunti a un torrente di sangue.
Esso ci porterà a un fiume di uguale fattura, non ne dubito.
E più avanti ancora, a un oceano.
In questo mondo le tombe sono spalancate e nessuno dei morti riposa in pace.”

[Stephen King, La Torre Nera 3: Terre Desolate]

 

 

 

In mare aperto. Foresta Incantata. Trecento anni fa.

 

C’erano delle volte in cui il mare a Killian Jones non sembrava più mare, ma una grande, violenta esplosione di energia e di pericolo, una forza capace di sfoderare una ferocia che solo gli dei potevano mostrare.

Quel giorno le ondate si scagliavano contro le fiancate della Jolly Roger, facendo arrivare gli spruzzi in alto, sull’albero maestro, inondando il ponte e gli uomini della ciurma, impegnati a gridarsi ordini, ad urlare a squarciagola per farsi sentire sopra l’ululato del vento. Le nubi nere erano tagliate da innumerevoli lampi.

Killian era sicuro di non aver mai visto una tempesta simile.

“Che cosa diavolo ci fai ancora qui?! Vai sottocoperta! I cuochi non mi servono!”, gridò, rivolgendosi all’uomo con i capelli rossi, il cuoco di bordo. Era paonazzo, incapace di reggersi in piedi, con gli occhi fuori dalle orbite. Si guardava intorno senza scopo, rischiando di intralciare il lavoro degli altri.

Lentamente eseguì l’ordine del suo capitano, dirigendosi verso la scala che conduceva sottocoperta.

Un tuono rimbombò, fragoroso, sopra le loro teste. Un’onda enorme si schiantò contro la nave.

Milah afferrò il timone della Jolly Roger e cercò di ruotarlo verso sinistra. I capelli neri svolazzavano in balia della tormenta. Il nostromo, un uomo alto e nerboruto, con un paio di lunghi baffi scuri che gli frustavano la faccia, l’aiutò a manovrare.

“Milah, va di sotto anche tu!”, disse Killian, raggiungendoli.

“Non ci penso nemmeno. C’è bisogno anche di me su questa nave.”, ribatté lei. E ovviamente il pirata non si aspettava nulla di diverso.

“Capitano, sta diventando molto difficile governarla!”, urlò Lewis.

“Non è ben assestata. Stiamo imbarcando troppa acqua!”. Killian era furibondo. Ormai aveva gli abiti inzuppati. La pioggia gli scorreva a fiumi sulla faccia.

“È una buona nave, capitano. Ma anche lei ha i suoi limiti.”

“Abbiamo visto di peggio!”

La vedetta si sbracciava, indicando qualcosa che si trovava a nord. Milah si fece passare il binocolo e sbirciò il punto a nord, oltre i cavalloni.

“C’è qualcosa laggiù, Killian!”

Lui prese il binocolo e guardò a sua volta.

Mare. Mare ovunque. Ma le acque che stava ammirando a circa una lega di distanza erano stranamente calme. Un denso banco di nebbia aleggiava su di esse.

“La nostra salvezza. Manteniamo la rotta. Passami quel timone!”, ordinò Killian, prendendo il posto del nostromo, che volle appurare dove il capitano stesse dirigendo la nave.

“Capitano... quella nebbia...”, iniziò Lewis, scettico.

“È verde! Come la faccia del nostro cuoco! Lo so.”

“Sono mari abitati da spettri, capitano. Sono... le acque del mostro marino. Sono segnate sulle mappe...”

Killian vide Lewis impallidire. E il nostromo non impallidiva facilmente. Era un uomo tutto d’un pezzo.

“Ci stai portando direttamente da un mostro marino?”, domandò Milah, non credendo alle sue orecchie.

“Aye, tesoro. È proprio quello che sto facendo.”

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

- Non è poi così difficile. – disse Ade, mellifluo. – Si tratta solo di scegliere tre nomi. La vita è fatta di scelte, Salvatrice.

Emma tacque. Osservò il Signore degli Inferi con l’unico occhio buono. L’altro era gonfio e chiuso, incrostato di sangue. Sedeva per terra, con le mani in grembo, mentre lui sostava dietro a tre lapidi nuove di zecca, con uno scalpello in mano. 

- Regina. Che ne pensi di Regina? - suggerì Ade. – Oh, io credo che lei sia... eccezionale. Non hai idea di quante anime mi ha regalato. Un bel bottino. Ma diciamolo... a Camelot non ha fatto proprio un bel lavoro. Ti ha tradita. Pensaci.

Emma non disse una parola. Si chiese se Marian fosse riuscita a raggiungere gli altri. Ade aveva detto che era scappata, ma aveva trovato la sua famiglia?

Aveva detto loro di andare via?

- Vuoi cedermi il tuo pirata? – tornò a dire Ade, avanzando di qualche passo. – Ammetto che non ha buon gusto nel vestire... ma mi piacciono gli uomini con gli occhi azzurri. Mi piacciono... gli occhi azzurri in generale.

Emma restò in silenzio, fissandolo stoicamente. Ade sollevò la mano destra e dalla punta di ogni dito scaturì una fiammella azzurra.

- Tua madre. Devi ammettere che tua madre non ha fatto un buon lavoro. Ti ha abbandonata. Ha rapito e maledetto una bambina...

- Non sono interessata. – commentò Emma, strascicando le parole. - Scriverei... il tuo nome. Posso farlo?

Ade rise di gusto. – Forza! Basta scherzare... qual è il problema? Hai il blocco della scrittrice?

- Non farò... nulla di simile. A nessuno. – precisò.

Una breve pausa.

- Oh. – Lui le venne vicino. – Beh, che dire... l’avevo immaginato. Ma sai... non sono arrabbiato. Sono solo deluso.

Prese lo scalpello e le conficcò la punta in una spalla. Emma gridò.

- E la delusione nel mio caso... può esser ben peggiore della rabbia. – Ade l’afferrò per i capelli, costringendola ad alzarsi. – Quindi penso che tu abbia bisogno di un viaggetto. Non sai prendere una decisione? Ne pagherai le conseguenze. E le pagherà qualcun altro, anche.

Emma non aveva idea di cosa stesse blaterando. Venne trascinata fino ad uno dei fiumi che si dipartivano dalla piattaforma circolare. Sulle acque colorate di verde galleggiava una barca. Ade la sistemò dentro ad essa.

- Nel caso in cui ti venisse sete... fai pure come se fossi a casa tua. Offro io. – Nella mano destra di Ade comparve un bicchiere di vino, che lui levò in alto, quasi volesse fare un brindisi.

La barca cominciò a muoversi. Emma si rese conto di avere la gola riarsa e le labbra secche. Si sporse, provando l’indicibile bisogno di immergere il viso nelle acque calme di quel fiume. La sua fosforescenza era strana, ma la attirava.

Poi udì i gemiti.

I gemiti. I sospiri. I sussurri.

Sotto la superficie, ombre informi nuotavano, agitate, senza posa. I loro contorni avevano un che di umano. I sussurri non erano semplici sussurri, ma grida lamentose. Grida estenuanti di anime che non riuscivano a trovare la via d’uscita. Grida di anime perdute per sempre.

Emma si ritrasse di scatto.

Ade lanciò la sua sprezzante risata.

 

 
- Che cosa state facendo? – domandò Τremotino, entrando in casa degli Azzurri senza bussare.

- Andiamo a cercare Emma, mi sembra ovvio. – rispose Biancaneve, controllando ancora una volta le frecce nel suo arco.

Marian sedeva sul sofà in un angolo, stringendosi nel mantello. Aveva un aspetto migliore rispetto al giorno precedente, quando l’avevano trovata nel bosco, in fuga da un mostro e dal labirinto in cui era rimasta intrappolata per almeno trent’anni. In fuga e recando un messaggio di Emma Swan. Le avevano dato abiti puliti che avevano recuperato da un armadio.

Regina era dalla parte opposta, corrucciata. Si teneva a debita distanza dalla donna che aveva ucciso decenni prima.

David si stava sistemando una pistola a tracolla. Anche Lilith ne aveva una.

- Io non posso avere una pistola? – chiese Henry, in quel momento.

- Non se ne parla nemmeno, Henry. – rispose Regina, come se lui le avesse appena annunciato di volersi gettare nel Τartaro.

- Quindi voi intendete usare quelle armi per entrare nella prigione sotterranea in cui Ade tiene Emma Swan? – disse Τremotino, più che altro domandandosi fino a dove si estendesse l’idiozia di quelle persone. Non era dell’umore adatto per accettare simili sciocchezze. Erano nell’Oltretomba, erano venuti per fare qualcosa che era contrario ad una delle principali regole della magia e si comportavano come se quel luogo non fosse pieno di trappole.

- Hai un piano migliore, Oscuro? – domandò Lily, seccata.

- Oh, sì. Ce l’ho. Forse voi non ci avevate pensato, ma Ade sa che siete qui. Avrà schermato ogni entrata con la sua magia, avrà messo guardiani e tranelli in ogni angolo... non ce la farete mai, così. Abbiamo bisogno di qualcuno che offra la sua aura per oltrepassare gli ingressi. Qualcuno che sia... già morto.

- Io sono già morta. – asserì Marian, alzandosi in piedi. – E, stando a quello che ricordo, due volte. Sono disposta a farlo. Per Emma.

- No. Mi serve l’aura di una persona morta da più tempo. Perché è ancora più forte, milady. E so già a chi rivolgermi.

- Oh, davvero? Perché dovremmo fidarci di te? Sei così ansioso di salvare Emma? – domandò Lilith, avvicinandosi di più e fissando l’Oscuro negli occhi.

Tremotino, a volte, si sorprendeva della caparbietà di quella ragazza. Era stata un Oscuro, sebbene lo fosse stata per poco tempo, eppure non temeva un Oscuro molto più potente, non temeva le conseguenze delle sue minacce. – Diciamo che sono ansioso di andarmene da questo posto. E diciamo che voi non ve ne andrete mai senza il mio aiuto. Per quanto mi riguarda... voglio tornare a casa da mia moglie.

- E chi sarebbe il fortunato che ti concederà la sua aura? – chiese Regina.

- Qualcuno che conosco bene. – Tremotino non volle essere più preciso. - E vi assicuro che si trova qui. Da tantissimi anni.

- E ci aiuterà?

- Puoi venire a vedere con i tuoi occhi, Regina.

- Io verrò sicuramente a vedere con i miei. – asserì Killian, con sicurezza. – Non ti permetterò di giocarci qualche brutto scherzo. È già abbastanza quello che hai fatto vanificando il sacrificio di Emma.

- Come preferite, capitano. – Tremotino non sembrò minimamente toccato dal suo tono. – Anzi, credo che vi farà piacere vedere a chi ho pensato.

 

 
In mare aperto. Leviathan Shoals. Τrecento anni fa.

 

“Bene.”, disse Killian, una volta che la Jolly Roger ebbe superato la tempesta per inoltrarsi nelle acque più calme che, secondo le dicerie, celavano un temibile mostro marino. Le nebbie si erano diradate. “Credo che il peggio sia passato.”

“Se il mostro esiste, dubito che il peggio sia passato, capitano.” Lewis venne a guastargli il buon umore. Il nostromo non faceva che scrutare le acque scure.

“Che si faccia avanti, allora, il mostro.”, rispose Killian. “Questi mari sembrano più gentili del tocco di una donna.”

“Più gentili, sul serio?”, domandò Milah, sollevando un sopracciglio.

Killian stava per risponderle, quando iniziò ad udire la voce.

Sulle prime pensò che uno dei suoi uomini lo stesse chiamando. Ma raramente un membro della ciurma lo chiamava per nome. Si rivolgevano sempre a lui chiamandolo “capitano”.

“Killian.”

“Avete sentito?”, chiese il pirata.

“Che cosa?”, domandò Lewis.

“Non siamo soli.”

La voce ripeté ancora il suo nome. Sembrava provenire dal mare stesso. Forse il mostro possedeva una coscienza e un potere molto grande e lo stava attirando in qualche diabolica trappola.

Milah prese il binocolo e osservò le acque, seguendo la rotta della nave.

Poco più avanti c’era una barca. Una piccola barca con un’unica vela che galleggiava in mezzo al nulla. E a bordo c’era una sagoma che mandava segnali, sbracciandosi.

“Killian...”, cominciò Milah.

“L’ho vista, tesoro. Mantieni la rotta, Lewis. Dobbiamo raggiungerla.”

Milah gli mise una mano sulla spalla. “Si tratta di certo di un tranello. Cosa ci fa una barca in mezzo al niente?”

“Oh, probabilmente sì, è una maledetta trappola.” Killian teneva d’occhio il piccolo vascello. “Ma se ne siamo consapevoli, forse riusciremo ad essere noi, la trappola.”

La Jolly Roger raggiunse l’imbarcazione nel giro di pochi minuti. Killian si sporse, mentre Milah metteva mano alla sua sciabola e gli uomini avevano già impugnato spadoni e pugnali.  

“Killian?”

“Non può essere...”, mormorò lui, sconvolto.

Milah guardò a sua volta e vide un uomo alto, con le spalle larghe e i capelli ricci e castani in balia del vento. Indossava una camicia bianca e sgualcita, un paio di vecchi pantaloni che gli stavano larghi ed era scalzo.

“Sei tu, fratello? Sei proprio tu?”, chiese l’uomo, rivolto a Killian, che aveva gli occhi sgranati e la mascella cascante.

Milah si sentì raggelare.

“Liam. Per tutti i mari... tieni duro! Τi gettiamo una fune!”

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

- Milah? – La voce di Uncino suonò confusa e alterata.

Lei lo guardò come se non fosse sicura di ciò che stava vedendo. – Killian... sei qui?

- Siamo vivi. E siamo solo in visita. – precisò Τremotino, guardando la ex moglie con un sorrisetto divertito. La madre di Bae era nel bel mezzo di Main Street e stava controllando che un gruppo di bambini attraversasse la strada senza incidenti. Come se gli incidenti contassero qualcosa quando si era già morti...

Milah. Bambini.

- Devo proprio dirlo. Adoro l’ironia della situazione. – stava dicendo Τremotino. – Li tieni d’occhio... fai in modo che siano al sicuro.

Milah sostenne il suo sguardo con aria di sfida. - Che cosa fate qui se non siete morti?

Killian deglutì, scoprendo di avere la gola secca.

- Cerchiamo una persona. Emma Swan. La Salvatrice. La donna tanto amata dall’uomo che anche tu una volta amavi. – rispose Τremotino.

- Cioè tu? – chiese Milah, come se le avesse appena raccontato una barzelletta.

- Cielo, no! Parlo del tuo adorato pirata.

Ora toccò a Milah apparire confusa. Fissò Killian. - Come puoi essere uguale a... ad allora?

- Sono... successe delle cose. Parecchie. – rispose lui, sorridendo.

- Dobbiamo recuperarla. – riprese l’Oscuro. – E abbiamo bisogno di una mano.

- Non crederai davvero di poter entrare nelle prigioni sotterranee di Ade! Nemmeno un Oscuro come te basterebbe a fermarlo. – Milah lo fissò come se fosse totalmente ammattito.

- Sono felice di vedere che non hai perso la tua vena polemica e combattiva, cara. Ma è quello che faremo. Per questo sono qui. Il tuo aiuto è molto importante.

- Le prigioni sono un luogo... terribile. Anche se riuscissimo a raggiungere questa... Emma Swan... ci sarà sicuramente una trappola ad attenderci.

- Sono anche felice di vedere che conosci le prigioni di Ade. Meglio per noi.

Milah scambiò un’occhiata con Killian. – Tutti conoscono le prigioni. In un modo o nell’altro, siamo stati tutti torturati da lui.

- Ma tu sei in mezzo a Main Street... a dirigere il traffico. – Tremotino vide un altro gruppetto di bambini in attesa.

- Il fatto che io sia qui non dipende da me. Dipende da Ade. A volte libera i suoi prigionieri... dopo averli torturati per mesi. Se non per anni. – La voce di Milah ebbe un cedimento. Si morse il labbro e deglutì. - A volte... diventano degli schiavi. Oppure finiscono nel Fiume delle Anime Perdute. E non riemergono mai più.

Killian era quasi sul punto di chiederle quali pene le avesse inflitto il Signore degli Inferi.

- Terribile. – commentò Tremotino, con lo stesso tono che avrebbe usato per dire che intendeva andare a bere qualcosa al Rabbit Hole.

- Inutile che minimizzi. Tu dovresti saperlo bene. Se non sbaglio, sei già stato morto.

- Oh, sì. E non sto affatto minimizzando, tesoro. Ma abbiamo bisogno di te. Pensaci. Non devi per forza pensare che stai aiutando me. Non aiuti solo me. Aiuti anche... lui. – Indicò il pirata. – Mi sembra un buon accordo.

 

 
La barca che trasportava Emma scivolò sulle acque fino a raggiungere un enorme monumento in pietra. Guardandolo meglio, si accorse che era formato da due larghi pilastri che sostenevano un massiccio architrave, sul quale capeggiavano delle parole.

 

Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina potestate,
la somma sapienza e 'l primo amore;

dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, o voi ch' intrate.

 

Ade fermò la barca e prese Emma per la giacca, trascinandola di nuovo con sé fino ad una piattaforma sospesa sopra il fiume. L’agganciò ad un argano, che si mise in moto e la portò su.

- Il fiume delle Anime Perdute. – disse Ade, camminando sul bordo della piattaforma. – Basta che la punta del tuo piede tocchi l’acqua e diventerai... un guscio vuoto e tormentato. Un’anima senza più scampo. Un’anima... che non potrà mai più lasciare questo luogo.

Il Signore degli Inferi era molto teatrale. Andava fiero del suo mondo, dei tranelli seminati ovunque, delle creature mostruose come il Minotauro, che facevano a pezzi donne che non avevano mai fatto nulla di male. Andava fiero delle torture che infliggeva.

- E sai una cosa, Emma? – ricominciò, sillabando lentamente il suo nome. – C’è una cosa che non è ammessa nel mio regno. Ed è la speranza. I tuoi amici... i tuoi genitori... nutrono la speranza di poterti salvare. Questo non va bene. Non è ammissibile. Quindi... vorrei far capire a loro e anche a te che questo potrebbe costare molto caro.

L’argano si mise di nuovo in moto e scese di colpo. Il movimento brusco le causò un dolore lancinante che si dipanò in tutto il suo corpo.

- Hai permesso a Marian di scappare e il Minotauro ha perso il suo giocattolo preferito. Anche questo mi fa arrabbiare. Ma non è un dramma. – osservò Ade. Si avvicinò e la prese per il colletto della giacca rossa. – La cosa peggiore è il resto. Questa inutile speranza. Il tuo... non voler scegliere tre stupidi nomi da incidere su delle tombe. Perciò soffrirai. E poi prenderò il tuo bellissimo figlio... e gli farò del male. Prenderò i tuoi genitori... e li torturerò. Poi prenderò Lilith... e Regina. E con loro sarò altrettanto crudele. Regina... oh, lei soffrirà come hanno sofferto tutte le sue vittime. Pensaci... il dolore di centinaia e centinaia di vittime si abbatterà su di lei.

Emma gli sputò in faccia. La saliva, mescolata al suo sangue, scivolò lungo la guancia di Ade, che si ripulì con la manica dello smoking.

L’argano si abbassò ancora, strattonandola. Emma gemette.

- Buona fortuna. Non preoccuparti. Avrai compagnia nella discesa. – disse Ade, prima di scomparire.

Emma non capì subito a cosa si stesse riferendo. Girando la testa, vide l’alro prigioniero. Era appeso ad un argano proprio come lei ed erano più o meno alla medesima altezza. Aveva gli abiti coperti di polvere e striati di sangue, il viso tumefatto e le labbra spaccate. Non le parlò, ma le rivolse uno sguardo lungo e pieno di tormento.

Da quanto tempo è appeso là sopra?, si chiese, provando a scacciare la sofferenza e la confusione.

Gli argani si mossero e i prigionieri si avvicinarono un po’ di più alle acque del fiume.

 

 
In mare aperto. Leviathan Shoals. Τrecento anni fa.

 

La ciurma lanciò una corda a Liam, che salì a bordo della Jolly Roger. Killian lo strinse in un abbraccio e poi lo osservò attentamente, per essere sicuro di chi aveva di fronte.

Liam aveva la barba folta e ispida, le guance scavate, le labbra screpolate e secche e i capelli arruffati, ma era lui. Era Liam. Suo fratello.

“Io credevo... credevo fossi morto!”, farfugliò Killian, tenendo Liam per le braccia, quasi volesse assicurarsi che non sparisse.

“Oh, lo credevo anch’io, Killian. Ma era... non era vero. Era un’illusione.”, rispose lui. “Non è facile da spiegare.”

“Il tuo corpo... credevo davvero che... era Sognombra. Quel veleno...”

“Lo so. Ricordo il dolore. Il dolore e poi... l’oscurità.”

“Sono sicuro che potrai spiegarmi meglio cos’è successo davanti ad un bello stufato. Lewis! Avverti il cuoco e digli di preparare subito qualcosa per mio fratello!”

Il nostromo non aveva un’aria felice, ma eseguì gli ordini, scendendo sottocoperta.

“Sbaglio o questa è una nave pirata? Τu, Killian... un pirata?”, si sorprese Liam, schermandosi gli occhi mentre ammirava la nave e poi esaminava gli abiti in pelle che lui indossava. Saggiò il colletto della lunga giacca nera e sfiorò il teschio agganciato alla collana.

“Sono successe molte cose. Lascia che...” Si schiarì la voce, cercando di riprendersi dallo choc e si umettò le labbra. “Lascia che ti presenti Milah.”

Liam spostò la sua attenzione sulla donna, che era rimasta in silenzio accanto a Killian. Milah lo scrutò, perplessa e guardinga.

“Molto lieto.” Le offrì un sorriso cordiale, che lo rese anche attraente, nonostante il suo aspetto suggerisse che doveva essere stato in mare per molti giorni. Prese la sua mano libera e se la portò alle labbra, baciandole lievemente le nocche. Lei non dubitò che avesse successo con le donne, proprio come Killian. La luce del sole brillava nei suoi occhi azzurri e gli faceva risplendere i capelli castani.

Però le dita erano fredde. Gelide. Milah lottò contro l’impulso di ritrarre la mano.

Killian non si accorse di nulla. “Vieni. Devi dirmi ogni cosa.”

 

“Ricordo che... quando mi sono destato ero su un’isola. Un’isola deserta.”, disse Liam, dopo aver mangiato quello che il cuoco aveva preparato per lui. Aveva indossato la vecchia divisa della Marina che Killian aveva conservato. “Lontano da tutti. Non avevo idea di come fossi giunto fino a lì. Sapevo solo che... ero solo.”

“E poi?”, chiese Killian, ansioso di conoscere il resto.

“Passai moltissimo tempo su quell’isola. Infine arrivò una nave. Mandai dei segnali e l’equipaggio attraccò per soccorrermi. Mi accettarono a bordo, sapendo che ero un uomo di mare e che potevo essere utile.” Liam si sforzava di ricordare ogni particolare. Aggrottò la fronte. “Pensavo che sarei riuscito a tornare da te, Killian. Ne ero sicuro.”

Lui non lo interruppe.

“Ma ben presto gli uomini dell’equipaggio iniziarono a... vedere delle cose. Avevano delle visioni... non riuscivano più a dormire. Caddero preda dell’isteria. Allora capii dove ci trovavamo. Navigavamo nel territorio del Leviatano.”

“Il mostro vi attaccò?”

“Sì. Una notte si gettò contro la nave e la distrusse. Fui l’unico che riuscì a salvarsi.”

“Killian?”. La voce di Milah costrinse Liam a fermarsi. Scese due gradini e si sporse. “Ho bisogno di parlarti.”

“Che succede?”, domandò Killian, raggiungendola. “Il mostro?”

“Non l’hanno ancora avvistato. Non sono qui per parlarti del mostro.” Salì sul ponte, in modo che lui la seguisse. Quando furono abbastanza distanti e fu certa che Liam non potesse sentirli, gli prese una mano, stringendola saldamene fra le sue. Lo guardò dritto negli occhi, perché voleva che la ascoltasse. Sapeva quanto amasse il fratello, quanto soffrisse ogni volta che ripensava al modo in cui l’aveva perso. E anche quel luogo lo sapeva. Ne era al corrente e aveva creato qualcosa che fungesse da esca. Killian aveva abboccato ed ora rischiava di essere trascinato negli abissi. “Sai anche tu che quello non può essere Liam. Mi hai raccontato com’è morto. Mi hai detto di aver gettato il suo corpo in mare.”

“È così, ma è chiaro che quell’uomo può solo essere Liam. È là, in carne ed ossa. L’ho toccato. Gli ho parlato. Non potrei mai sbagliarmi”, le rispose Killian, con voce sicura, ancora piena di commozione.

“Killian, questo posto ti sta tendendo una trappola. Τi sta usando per averti in suo potere. Non devi cedere!”

“Sono d’accordo, capitano.” intervenne Lewis. “Io ricordo il giorno in cui Liam morì. Vidi il suo corpo e ciò che il veleno aveva fatto. Non ci siamo sbagliati. In caso contrario non l’avremmo mai seppellito in mare. Tornate in voi, vi supplico.”

“E come puoi essere certo di non sbagliarti ora?”, chiese Killian, alzando la voce e lasciando la mano di Milah. “Forse il veleno ha solo causato un sonno simile alla morte, che ci ha confusi. Oppure una sirena lo ha trovato...”

“Non dite sciocchezze, capitano. Queste acque sono infestate dai fantasmi. È così che mietono vittime! Il vero problema non è il Leviatano. È il potere che ci circonda. Dobbiamo andarcene e lasciarci alle spalle... qualunque cosa ci sia là sotto!”

“Frena la tua maledetta lingua!”, gridò Killian, afferrandolo per il bavero. “Su una cosa hai ragione. Dobbiamo andarcene. Ed io so già come. So come affrontare quel mostro che ha tanta voglia di prendersi noi e questa nave.”

“Killian...”, ricominciò Milah.

“Tornate ai vostri posti!”, la interruppe bruscamente, guardandola con una rabbia tale che lei, per un attimo, non lo riconobbe. “Il mostro si farà vedere presto. Τutte le conversazioni sono rimandate a quando avremo abbandonato queste diaboliche acque!” 

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

- L’ingresso è qui? – esclamò Regina, quando ebbero raggiunto il luogo che nascondeva l’entrata alle prigioni sotterranee di Ade.

- È la casa dell’Oscuro. – disse Lily, riconosciuto l’edificio.

- Beh, l’ubicazione cambia spesso. Ma da quando Emma Swan è morta... l’ingresso è qui. – rispose Tremotino. Li condusse lungo il viale, fino alle scale e poi dentro casa.

L’Oscuro aveva provveduto a spiegare a Milah chi fosse la donna che stavano andando a salvare.

- Quindi Emma Swan è stata l’amante di mio figlio... e anche tua. – aveva concluso, fissando Killian, trasecolata.

- Sì, beh, io... – aveva cercato di dire Killian, non molto sicuro di ciò che gli sarebbe uscito di bocca.

- E non è finita, mia cara. – Non contento, Tremotino aveva snocciolato rapidamente l’albero genealogico. - Lascia che ti presenti Regina, cioè la donna che ha terrorizzato la Foresta Incantata per anni perché desiderava la testa di una ragazzina su un piatto d’argento. Ragazzina che poi ha generato... Emma Swan. A cui Regina ora tiene molto, vero? Hanno anche un figlio. Cioè, tuo nipote. Henry.

Milah era apparsa sconcertata.

- Era proprio necessaria questa presentazione? – aveva domandato Lily.

- E lei è Lilith, naturalmente. Ovvero colei che ha ucciso Emma.

Ora Killian scrutava l’ambiente in penombra in cui Emma era vissuta da Oscura. C’era un’unica cosa diversa rispetto alla casa che ricordava. La culla. La culla con gli unicorni che tanto le piacevano. Una culla che appariva vecchia, piena di ragnatele, abbandonata. Come Emma, molto tempo fa. Per terra, c’erano degli orsacchiotti di pezza. Ad uno di essi mancava un occhio.

Lily si avvicinò, sfiorando uno degli unicorni sospesi sopra la culla.

- La porta che conduce nello scantinato. – disse Regina, evitando di guardare la culla. Si concentrò sulla porta chiusa dal pesante chiavistello. L’ultima volta che l’aveva varcata aveva scoperto Excalibur nella sua roccia, le corde che avevano legato i polsi di Tremotino, mentre Emma cercava di tramutarlo in un eroe dal cuore puro.

Regina l’aprì. Ovviamente c’era un incantesimo di protezione, che impediva a chiunque di oltrepassare la soglia.

- Direi che c’è una barriera. Cosa dobbiamo fare? – domandò, rivolgendosi a Tremotino.

- Basterà prenderci per mano. – rispose lui. Allungò la sua, offrendola a Milah.

Lei guardò la mano tesa, riluttante. Si voltò verso Killian, che le sorrise e le porse l’unica mano che gli era rimasta. Le sorrise come le aveva sorriso il giorno in cui si erano conosciuti, in una taverna della città in cui viveva con Tremo e Baelfire. Lui, un pirata che l’aveva salvata da un ubriaco molesto. Lei, una donna che aveva appena inviato il marito zoppo e che tutto il villaggio considerava un codardo dal guaritore, perché lo uccidesse e prendesse la pozione in grado di guarire Baelfire, morso da un velenosissimo serpente. Una pozione che costava cento monete d’oro, troppo per gente umile come loro.

Milah ricambiò il sorriso e gliela strinse. Poi prese quella dell’ex marito. Tremo diede l’altra a Regina e lei, a sua volta, strinse quella di Lily.

Varcarono la soglia senza incontrare ostacoli. La porta si chiuse di colpo alle loro spalle.

- Beh, ha funzionato. – commentò Regina.

- Già. – rispose Tremotino. – Un altro passo verso il centro dell’inferno.

 

 
In mare aperto. Leviathan Shoals. Trecento anni fa.

 

“Ecco a cosa ho pensato.”, disse Killian al fratello, mentre la Jolly Roger scivolava lentamente su quelle infide acque. Lewis era al timone e fissava il mare con gli occhi spalancati. “Nel migliore dei casi avremo un paio di colpi per uccidere quella belva maledetta. Non possiamo sbagliare. Non avremo tempo di sparare una seconda volta.”

Gli uomini si davano da fare sul ponte. Alcuni avevano usato una scialuppa per raggiungere l’imbarcazione di Liam. Milah era con loro e lanciava spesso occhiate alla nave come per assicurarsi che Killian stesse bene e che Liam non si fosse trasformato in un mostro con cento braccia e dieci occhi. Più avanti, le nebbie verdastre si erano fatte più dense. Stavano andando dritti verso quel banco.

“Consideralo già fatto”, rispose Liam al fratello, sorridendo.

“Il mostro ha una certa fama. Ma secondo le storie di Lewis, attacca solo una preda alla volta e non è molto veloce. Quindi se saremo in due a tenergli testa...”

“Avremo qualche chance di metterlo fuori combattimento.”

“E di potercene andare da questo posto.”

Milah li raggiunse. “La polvere da sparo è pronta.”

“Bene, tesoro.” Killian le diede un bacio.

Liam si diresse verso la scaletta, gettata lungo la fiancata della nave. Raggiunse la scialuppa e dopo qualche istante era già a bordo dell’altra barca.

“Buona fortuna, fratello. Fai attenzione.”, gli raccomandò Killian, appoggiandosi alla balaustra della Jolly Roger. “E ricorda: potrai anche essere il capitano di un’altra nave, ma sarai sempre al mio fianco.”

Liam sollevò un sopracciglio e sogghignò. “Esageratamente sdolcinato persino per un pirata come te, o sbaglio?”

“Oh, parla quel fratello maggiore a cui piace scherzare su qualsiasi cosa!”.

“Allora dammi retta, perché questo non è affatto uno scherzo: non farti mangiare vivo da questo mostro. Abbiamo bisogno di te. E proteggi la tua donna!”

Milah non rispose. Andò ad affiancare Lewis al timone.

La Jolly Roger proseguì spedita verso il banco di nebbia. Killian scrutò il mare attraverso il binocolo. Ogni tanto spostava lo sguardo sul fratello per accertarsi che fosse ancora là, che non si fosse dissolto. Una parte della sua mente gli ricordava di continuo il modo in cui Liam era morto, il corpo rigido, senza vita, immobile tra le sue braccia. Una voce gli ricordava il peso di quel corpo, il sudario che lo aveva avvolto, il battito cardiaco assente. Il respiro interrotto.

Eppure lui era con loro. Era vivo e presente. In carne ed ossa. Aveva ricordi che solo Liam poteva avere. Gli occhi azzurri brillavano di vita. Aveva scherzato come un tempo.

Milah non osava nemmeno avvicinarsi a lui...

“Killian! Laggiù!”, gridò la sua compagna, ad un certo punto.

Il capitano sbirciò nel binocolo e vide la creatura di cui tanto parlavano le storie che aveva udito nelle taverne.

Si sollevò lentamente. Dapprima emerse la schiena corazzata, munita di una cresta rossa. Poi gli uomini scorsero la coda da pesce che sbatteva fra le onde. Infine la testa si levò, provocando un piccolo maremoto. Assomigliava ad un drago, ma senza zampe né ali, con il corpo da serpente lungo almeno dieci metri. Dove un drago avrebbe avuto le ali, lui aveva quattro paia di tentacoli.

“Lewis! Dobbiamo circumnavigare il mostro.”, ordinò Killian.

Il nostromo girò il timone tutto a destra. Aveva le mani scivolose e la testa pelata imperlata di sudore. Milah guardò il Leviatano spalancare l’enorme bocca, mostrando due file di zanne. Lanciò una specie barrito, ansioso di ingoiare le sue prede in un solo boccone.

La Jolly Roger virò a destra, mentre l’imbarcazione di Liam mirò al fianco sinistro della belva.

“Liam, ora! La polvere da sparo!”, gridò Killian, sovrastando il ruggito e le grida dei suoi uomini, investiti da un’ondata d’acqua riversatasi sul ponte.

Un tentacolo avvinghiò la nave pirata in un abbraccio mortale. Il legno scricchiolò orribilmente. Milah sguainò la sciabola, corse verso il braccio del mostro e prese ad affondarvi la lama, una, due, tre volte, mettendoci tutta la forza che aveva in corpo. Schizzi di sangue nero le imbrattarono gli abiti e le mani. Altri le diedero una mano, usando le armi che avevano a disposizione.

Liam accese la miccia e usò la fune elastica legata all’albero maestro come una fionda.

Il primo colpo andò a segnò. La polvere da sparo raggiunse la schiena della belva ed esplose. Il Leviatano lanciò un strillo lacerante e la sua coda sferzò l’acqua da una parte all’altra. Scosse la testa furiosamente. Il tentacolo allentò la presa, ma non mollò.

“Funziona, Liam! Fallo di nuovo!”, urlò Killian, occupandosi del timone e guidando la nave lungo il fianco del mostro. Perse di vista l’imbarcazione di Liam.

Sconcertato dall’attacco, il Leviatano spostò l’attenzione sulla piccola barca da cui era venuto l’assalto. Liam guardò nella bocca nera. Fissò i grandi occhi gialli e feroci, il piccolo corno che spuntava al centro della fronte.

Poi sganciò il secondo colpo. L’esplosivo finì dritto nella bocca dell’essere e scoppiò.

 

 

Oltretomba. Oggi.

 

La barca raggiunse l’altra sponda.

Ormai erano vicinissimi al covo di Ade. Tremotino avvertiva l’enorme potere sprigionato da lui e dalle prigioni. Sulle pareti rocciose della caverna riecheggiavano i sussurri e i lamenti delle anime che non trovavano pace ed erano costrette a vagare in quel fiume.

Lily era pallida e osservava, ipnotizzata, le figure informi muoversi nell’acqua. Indifese. Creature private del guscio, non più fatte di carne, ma di filamenti luminosi saldamente intrecciati fra di loro. Riusciva a percepire Emma. Sapeva benissimo che era lì da qualche parte. Non nel fiume. No. Vicina. Ma non nel fiume.

Regina era concentrata su ciò che dovevano fare. Sedeva, meditabonda e all’erta. Aspettandosi brutte sorprese. Una mano stringeva il bordo della barca. La mente ignorava i sospiri delle anime perdute e vagava in cerca di Emma.

Killian, accanto a Milah, riscopriva sensazioni che aveva dimenticato, relegandole in qualche angolo buio dentro di sé. Ricordò com’era passeggiare con Milah sul ponte della Jolly Roger, averla vicino mentre guidava la nave. Ricordò il giorno in cui le aveva insegnato a manovrare il timone, il modo in cui lei sorrideva, il modo in cui il sole si rifletteva nei suoi occhi azzurri, il modo in cui il vento le scompigliava i riccioli neri.

Milah non aveva voluto abbandonarli, una volta superato l’ostacolo della barriera magica.

Quando scesero dalla barca, Killian le porse la mano per aiutarla. Lei la prese, stringendo forte le dita e sfiorando uno degli anelli.

Τremotino, al contrario degli altri, non si mosse. Rimase seduto con le mani in grembo. – Io non abbandono la barca.

- Cosa? Perché? – chiese Regina, girandosi di scatto.

- Non possiamo perderla. Siamo molto vicini al covo di Ade e lui potrebbe giocarci qualche brutto scherzo. – si giustificò lui.

- E cosa farai? Se Ade cercasse di distruggere la barca, riusciresti a tenerlo a bada? – Regina faticava a credere alle sue orecchie. La verità era che conosceva fin troppo bene quell’uomo e avvertiva anche il minimo cambiamento nell’inflessione della sua voce. Qualcosa lo turbava. Non aveva idea di cosa fosse, ma c’era. Era... qualcosa di poco chiaro che sfrecciava avanti e indietro nel suo sguardo.

- Non so se posso. Ma ci proverò. Anche io sono immortale. – rispose Τremotino, senza alcuna esitazione. – E in questo posto potrebbe non esserci solo Ade, ma anche qualcos’altro.

Lily si avvicinò all’imboccatura del tunnel che conduceva nelle prigioni e si affacciò, tendendo le orecchie per udire qualsiasi rumore. Le parve di udire delle voci... o, più che voci, lamenti lontani, simili a quelli delle anime senza più alcuna via di scampo. – Dobbiamo sbrigarci.

- Sì. Andate. Se lui rimane... allora rimarrò qui anch’io. – disse Milah, rivolta a Tremotino.

- Milah, no... – intervenne Killian. – Non è sicuro.

- Proprio perché so che non è sicuro intendo restare. – ribatté lei. Allungò una mano per posargliela sulla guancia. – Non preoccuparti per me. Vai a salvare Emma.

Killian sapeva che non era semplice discutere con Milah. Non era una donna che voleva essere protetta. Aveva l’impressione che il suo tono fosse diverso, più dolce, ma pur sempre deciso.

- Ti aiuterò ad andartene da questo posto. – asserì Killian. – Ti aiuterò a trovare la via migliore, quella... quella che ti porterà da Bae.

Milah sorrise. – Vai, ora. Se dovesse succedere qualcosa... mi metterò ad urlare.

 

- Com’è? – domandò Milah poco dopo, quando il pirata, Regina e Lily furono spariti nelle tenebre del tunnel.

Τremotino si chiese se la sua ex moglie gli stesse domandando com’era essere ancora l’Oscuro o se si stesse riferendo ad altro. Non rispose subito.

- Nostro nipote. Com’è? – aggiunse.

- Oh. Henry... beh, lui è... un ragazzo intelligente. – Sfuggì il suo sguardo e spostò gli occhi sulle acque del fiume. – Τi ricorderebbe Bae, se lo conoscessi.

- Sì... mi piacerebbe conoscerlo.

Restarono in silenzio per un po’. La barca ondeggiava sotto di loro.

- Riguardo alle tue faccende in sospeso... – cominciò Τremotino. – Non so se riguardino Killian Jones, ma...

- Le mie faccende in sospeso non riguardano affatto Killian. – ci tenne a precisare Milah.

- E allora...?

- Baelfire. Nostro figlio. – Il dolore parve dilatarsi dentro di lei. Era come una vecchia ferita di guerra, come un frammento di vetro nella carne che cercava di aprirsi un varco verso la superficie. Ade l’aveva tormentata molte volte con quei ricordi. L’aveva tormentata quando era giunta negli Inferi. L’aveva tormentata in quelle prigioni dove ora stava tormentando anche Emma Swan. Fisicamente e mentalmente. E la tortura non era terminata quando ne era uscita. Spesso vedeva il viso di Baelfire in uno dei bambini che attraversavano la strada. Udiva la sua voce in quella di qualche ragazzino che si rifiutava di dar retta ai suoi segnali. - Avrei dovuto proteggerlo, esserci per Bae... e non... non riversare su di lui l’odio che provavo per suo padre. Sono stata egoista.

Τremotino non disse nulla.

- Ho sbagliato tutto. E pensavo che se fossi riuscita a fare... qualcosa di buono, di altruista... allora sarei riuscita ad andarmene e a rivederlo.

- Quindi vuoi andare avanti?

- Sì. Voglio andare da lui e dirgli... ‘figlio mio. Mi dispiace per quello che ho fatto. - Sentiva spuntare le lacrime e le mani le tremavano terribilmente.

Lui annuì, comprensivo. – Τi perdonerà.

Milah lo fissò, incerta.

- È riuscito a perdonare me, quando mi ha ritrovato da adulto. Ed io... ho commesso parecchi errori. Farà lo stesso anche con te. – Intrecciò le dita. – Spero solo che non ci mettano troppo. Dovunque sia Emma Swan se la starà passando male.

- Già. E... ho l’impressione che Killian non sia l’unico a volerla salvare.

Non la contraddisse.

- Sembra che lo vogliano un po’ tutti. Anzi... sembra una gara a chi la salva per primo.

- Acuta come sempre. – Sorrise.

 

 

In alto mare. Leviathan Shoals. Τrecento anni fa.

 

Il secondo assalto di Liam aveva ferito forse gravemente il Leviatano, che strepitò come un ossesso, agitando la grossa testa di qua e di là, contorcendosi, dimenandosi e rigettando dalla bocca fumo e ondate di sangue nero come pece. Lo stesso sangue che aveva imbrattato gli abiti di Milah e il ponte della sua nave.

Killian osservò il mostro, allontanandosi sempre più da esso. Lo guardò mentre lanciava un ultimo, agonizzante grido e poi ricadeva in acqua, sprofondando nelle acque scure che aveva abitato. Probabilmente non sarebbe morto. Era possibile che la magia di quel luogo lo guarisse e che un giorno tornasse a dominare i mari... ma quella bestia lenta e goffa aveva almeno lasciato perdere la Jolly Roger.

Quando anche l’orribile tentacolo si ritirò, affondando negli abissi, gli uomini urlarono di gioia, sollevando in alto le spade.

“Liam!”, gridò Killian. “Liam, abbandona la nave!”

Il fratello era ancora a bordo dell’imbarcazione. Al centro di essa, ciò che restava della polvere da sparo aveva preso fuoco ed ora le fiamme stavano intaccando l’albero maestro. Liam si era tolto la giacca blu e la sventolava senza successo contro il fuoco.

“Liam! Fa presto!”, urlò di nuovo Killian.

“Sei impazzito?”, rispose lui, a gran voce. “Non posso farlo! Porebbe esserci un altro mostro ad aspettarmi! Queste acque sono infide!”

Lewis si avvicinò alla fiancata della nave, insieme al resto della ciurma. Milah rimase dietro a Killian. Il fuoco attecchì e invase il ponte della piccola barca di fortuna che aveva restituito Liam al fratello minore.

“Allora ti manderemo una scialuppa. Lewis...” prese a dire Killian.

“No, Killian. I mostri si fanno beffe delle tue scialuppe!”, esclamò Liam, indietreggiando per evitare che le fiamme lo divorassero. “Avvicinati con la Jolly Roger. Sarà più facile. Vieni a prendermi...”

“Non fatelo, capitano.”, disse Lewis, afferrando Killian per la giacca di pelle. “Vi prego, pensateci. Si tratta chiaramente di un tranello. Quello non è Liam Jones!”

L’uomo sulla barca gridò il nome di Killian. Lo supplicò di salvarlo.

“Non ho chiesto la tua opinione, Lewis.”, gli rispose Killian, guardandolo da sopra la spalla.

“Forse no, capitano. Ma parlerò comunque.”, replicò il nostromo. “Conoscevo Liam Jones. Non bene quanto voi, che siete suo fratello, ma lo ricordo come un uomo che non temeva quasi niente. Liam Jones si sarebbe buttato, a costo di dover affrontare un mostro marino. Lui...”

“Hai ragione, Lewis. Non lo conoscevi quanto me.”, lo interruppe Killian, con un gesto secco della mano. “Quindi questa decisione non spetta a nessuno, se non al capitano della nave.”

Liam, o chiunque vi fosse su quella barca, lanciò un altro grido. La sua voce era irriconoscibile, resa stridula dalla paura. Milah lo vide rintanarsi a poppa e sventolare ancora la giacca, come uno scudo contro le fiamme. Chiamava il nome del fratello. Lo implorava di aiutarlo, di non abbandonarlo di nuovo.

“Mi hai già lasciato una volta, Killian!”, urlò Liam. “Non lasciarmi ancora, ti prego!”

Killian lottava contro se stesso. Strinse i denti così forte da farsi male.

 

 

Oltretomba. Oggi.

 

- Emma! – gridò Lily, emergendo alla fine del tunnel. Correva a perdifiato e, per poco, lo slancio non la proiettò in avanti, dritta nelle acque del Fiume delle Anime Perdute.

Il marciapiede finiva pochi passi dopo l’uscita. Lilith frenò appena in tempo, trovandosi in bilico sull’orlo.

C’erano due piattaforme sospese sopra il fiume. Entrambe erano collegate al punto in cui si trovavano loro da due travi sottili e pericolanti. Emma penzolava priva di sensi, pesta e sanguinante, con un doppio giro di catena intorno al busto. L’argano che la sosteneva la calò ancora più in basso e parte delle sue gambe sparì nella botola aperta al centro della piattaforma, avvicinandola ancora di più alla sua fine.

- Liam? – mormorò Killian, sconvolto.

L’altro prigioniero era agganciato all’argano proprio come Emma. Anche lui era ferito, ma era cosciente e agitava le gambe, combattendo contro le catene che lo tenevano imprigionato. La sua camicia era strappata e così anche i vecchi calzoni che indossava.

- Killian, sei tu?

- Non ti muovere. – disse Regina. – Potrebbe essere un inganno di Ade.

Lily, invece, si mosse e posò un piede sulla trave, valutando se poteva reggere il suo peso.

- Lily, aspetta...  

- Non ho la minima intenzione di aspettare! Dobbiamo pensare ad Emma!

Sia Liam che Emma scesero ancora di mezzo metro. Ormai erano a due metri dalle acque del fiume.

Esplose una risata sprezzante, che sembrava provenire da ogni punto delle prigioni e da nessun punto in particolare.

- Che bello vedervi, miei cari e poco graditi ospiti! Benvenuti nel mio umile covo.

- Dove sei?! – gridò Killian, facendo un giro su se stesso.

- Oh, ma io sono qui! Sono ovunque. Questo è il mio regno. – La voce tuonava, riecheggiando e frammentandosi. - Noto con piacere che avete trovato ciò che cercavate.

Regina formò una sfera di fuoco con la magia.

- Non è necessario, Maestà. Non siete qui per combattere. Siete qui... per scegliere. Mi sembra chiaro, del resto.

- Scegliere? – chiese Killian, continuando a spostare gli occhi da Emma a Liam.

- Vuole che salviamo solo uno di loro. – mormorò Regina, parlando più a se stessa che al pirata. Le si chiuse la bocca dello stomaco.

- E noi li salveremo entrambi, invece! Che provi a fermarci! – esclamò Killian, incollerito.

- Non ho bisogno di fermarvi. – rispose Ade, improvvisamente annoiato. – Se cercherete di salvarli entrambi, entrambi precipiteranno nel Fiume. E voi precipiterete con loro.

- Ma se cerchiamo di salvarne uno solo, condanneremo l’altro, non è così? – domandò Regina.

Un’altra risata. – Maestà... adoro la vostra intelligenza.

 

 

In alto mare. Leviathan Shoals. Trecento anni fa.

 

“Killian!”, gridò di nuovo Liam. “Killian, fratello... ti prego, aiutami. Rimani con me. Rimani ancora un poco!”.

Il fuoco aveva invaso la barca. L’albero maestro si era ripiegato su se stesso ed era crollato.

“Killian!”

“Lewis, mettiti al timone.”, ordinò il capitano.

“Capitano, io...”

“Mettiti al timone, ho detto!”, ribatté. “Se c’è una cosa che dobbiamo fare subito è... andarcene da qui. Dobbiamo lasciare questi luoghi più in fretta che possiamo.”

Milah capì che Killian stava buttando fuori quelle parole compiendo un terribile sforzo. Era pallido, aveva gli occhi iniettati di sangue e la fronte aggrottata nel tentativo di ignorare le grida agonizzanti. Lei allungò una mano per afferrare la sua.

La Jolly Roger distanziò la barca.

 

 

Oltretomba. Oggi.

 

- Sta mentendo. – suggerì Killian, riferendosi alle parole di Ade.

- Vuoi metterlo alla prova? – chiese Regina.

Lily non si curò di loro e salì sulla trave che li collegava alla piattaforma. Essa sembrò reggere il suo peso.

- Lily, fermati. – disse Regina, mentre Emma e Liam venivano calati ancora un po’ più in basso, sempre più vicini al Fiume delle Anime Perdute.

- Non ci pensare neanche. Io vado a salvare Emma. Voi restate pure là a rimuginare. – le rispose Lily, muovendo un altro, cauto passo verso la piattaforma. Barcollò. Ritrovò l’equilibrio usando le braccia e si piegò leggermente sulle ginocchia, ma continuava a fissare, decisa, la persona che voleva raggiungere.

- Non fare un altro passo! – esclamò Killian, paonazzo. Si sentiva in bilico tra due forze. Una lo tirava verso il fratello e l’altra verso Emma. Il piede destro puntava verso Liam ed era pronto a scattare per prenderlo prima che cadesse, l’altro era in procinto di balzare verso Emma. Ricordò quel giorno di centinaia di anni prima, quando la sua nave aveva solcato le acque abitate dal mostro noto come il Leviatano. Là aveva trovato un uomo identico a Liam. Un uomo che altro non era che un trabocchetto ordito da quei luoghi pieni di magia oscura. Ma l’uomo appeso sopra il Fiume non era una visione. Non era un fantasma. Era Liam. Era lì e lo era da chissà quanto tempo.

Regina, a sua volta, moriva dalla voglia di fare ciò che stava facendo Lily. Poco le importava del fratello di Capitan Mascara. Lei sapeva di dover salvare Emma. Ma avvertiva anche la voce della coscienza, insieme al sangue che le rombava nelle orecchie.

Lily continuò la traversata, lentamente. E intanto pensava a quanto avesse sempre odiato l’acqua. Era a stento capace di nuotare. E se fosse precipitata non sarebbe semplicemente affogata, ma si sarebbe trasformata in un guscio vuoto e informe, destinato a vagare senza posa. Una goccia di sudore le scivolò lungo la guancia. Emma mosse leggermente le dita delle mani.

- Killian... – disse Liam, ad un certo punto. – Lascia perdere me. Prendi Emma!

- Una volta ho potuto solo guardarti morire. – replicò Killian. – Non accadrà di nuovo!

Lily era giunta a metà del suo percorso. Barcollò ancora. Riuscì a restare in equilibrio sulla rave. Una scossa improvvisa riverberò lungo le pareti della caverna e lei, per qualche secondo, credette di vedere l’antro ripiegarsi su se stesso. Era solo un’illusione, ma la costrinse a chiudere gli occhi e ad aggrapparsi saldamene alla trave con le mani, mentre un piede slittava.

- Lascia che lo faccia, Killian. Lei può essere salvata. So che siete venuti per riportarla indietro. – tornò a dire Liam. Ormai era ad un metro appena dall’acqua. La sua voce non suonava rassegnata e nemmeno impaurita, come quella del fantasma che l’aveva implorato di non andarsene. Era una voce ferma e solida come le catene che gli cingevano il busto.

- Possiamo salvare entrambi da questa fine.

- No, fratello. E lo sai. Se ci proverai, sarà finita per tutti e due. E anche per voi.

Emma gemette e sollevò leggermene la testa.

- L’unico modo che ho per farmi perdonare... è pagare il prezzo delle mie colpe. – continuò Liam. Ora sembrava che stesse parlando più a se stesso che a Killian. – Non lascerò che Ade ti trascini dove vuole spedire me.

- Perdonare? – Killian era confuso. – Non hai niente di cui farti perdonare!

- Invece sì. Ho commesso degli errori, Killian. Non hai nemmeno idea di quali errori...

Il meccanismo si rimise in moto. Lily aveva quasi raggiunto Emma e più lei si avvicinava, più Liam scendeva verso il Fiume. Emma, invece, sembrava ancora nel medesimo punto di pochi minuti prima.

- Non mi interessano! Qualsiasi cosa tu abbia fatto, non importa.

- Degli uomini sono morti per causa mia, Killian. – Liam non fece caso alle sue parole. I suoi ormai sembravano più ordini, che semplici richieste. - Questo è il sacrificio che avrei dovuto fare molti anni fa. Salva Emma.

Lily saltò sulla piattaforma. Regina non perse altro tempo e la seguì, camminando lungo la trave pericolante.

- Liam...

- Spero che tu possa perdonarmi.

Una nuova scossa fece perdere l’equilibrio a Regina, che si slanciò in avanti e riuscì ad aggrapparsi al bordo della piattaforma. Lily afferrò Emma per la giacca, portandola in salvo. Caddero insieme.

Le catene che cingevano il corpo di Liam si sciolsero e lui precipitò nel Fiume.

Killian gridò.

Le acque si chiusero per sempre sul fratello.

 

 
In alto mare. Leviathan Shoals. Τrecento anni fa.

 
Le nebbie verdi che avevano protetto il mostro e la barca in fiamme erano scomparse dietro di loro. Il cielo era limpido e punteggiato di stelle. Nessuna nuvola all’orizzonte.

Killian rimirava il mare, cercandovi conforto come faceva spesso.

“Ci avete salvati, capitano.”, disse Lewis, accostandosi a lui. “Pensate solo a questo. Non avevate scelta.”

“Lo so bene.”, rispose Killian, senza distogliere lo sguardo dalle onde. Milah era accanto a lui, ma non diceva niente. “Vorrei solo essere... davvero sicuro di non aver abbandonato mio fratello.”

“Non l’avete fatto. Liam riposa in pace. Ed è fiero di voi, ne sono certo.”, affermò Lewis, con sicurezza.

Milah guardò Killian spostarsi verso la prua della nave e decise di lasciarlo solo per un po’. Il capitano della Jolly Roger estrasse la fiaschetta di rum dalla tasca della lunga giacca di pelle e la levò al cielo, immaginandosi il sorriso di Liam, che avrebbe volentieri bevuto insieme a lui, buttando in mezzo alla conversazione qualcuna delle sue battute.

“Ovunque tu sia, Liam, possano le stelle guidarti verso un posto migliore.” Bevve, godendosi il sapore del rum che gli scivolava in gola. “Un giorno ci rivedremo. Fino ad allora... il tuo spirito sarà con me.”

Quella notte, Killian sognò di galleggiare in mezzo al mare. Andava a fondo, lentamente, e non c’era nessuno che potesse aiutarlo. Sprofondò negli abissi, ma nel farlo non ebbe alcuna paura.

Vide una sirena nuotare vicino a lui. Il sogno non gli permise di distinguerne i lineamenti.

Killian si aggrappò alla sua coda ed ella, invece di riportarlo in superficie, lo trascinò con sé, ancora più in fondo.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

Emma aprì gli occhi, mettendo lentamente a fuoco Lily, che l’aiutò a tirarsi un po’ su. Regina accorse, cadendo in ginocchio accanto a loro.

- Voi... – mormorò Emma. – Perché siete venute? Vi avevo detto di andare via!

- Hai davvero creduto che ce ne saremmo andate senza di te? – chiese Lily. Non si era mai sentita così sollevata in vita sua. Anche se Emma aveva un aspetto tremendo, anche se non osava nemmeno immaginare cosa le avesse fatto passare Ade, anche se non erano nemmeno a metà del cammino che le avrebbe condotte a casa, era felice di rivederla. Felice che sembrasse così concreta, che i suoi occhi avessero ancora la stessa luce, pur essendo lucidi e arrossati.

- L’ho sperato. – rispose Emma.

Regina allungò una mano per scostarle qualche ciocca di capelli dal viso pieno di sangue. Le dita tremavano, consapevoli di quello che stavano per fare. Ma non aveva la forza di controllare i suoi impulsi.

Una risata scoppiò. Dapprima una risata sommessa e divertita, che poi salì, si spaccò in un chiocciare secco così come si disgrega un masso di una roccia friabile.

Ade comparve in cima alla piattaforma sulla quale era rimasto sospeso Liam Jones. Un uomo in abito da sera, che si aggiustò la cravatta bordeaux quasi fosse un gesto assolutamente normale in quelle prigioni. – Oh, ma che sorpresa! Siete riusciti a prendere una decisione. Beh, Lilith, tu non hai mai avuto dubbi... e nemmeno voi, Maestà, vero?

Regina si preparò ad affrontarlo. Era una divinità e dubitava di poter vincere contro di lui, ma si mise comunque davanti ad Emma.

Il corpo del Signore degli Inferi iniziò a brillare. Una scia di fiamme azzurre scaturì dalla punta delle sue dita e dai suoi capelli. La spirale lo circondò, vorticando come una grande stella filante. Persino gli occhi si illuminarono, riversando fuoco azzurro. A Regina quel colore ricordò quello degli occhi di Zelena.

- Che cosa diavolo succede?! – gridò Killian, che aveva già un piede sulla trave, pronto a raggiungere Emma.

Regina vide che Ade stava crescendo in altezza. Nel giro di pochi secondi era quasi due metri e non smetteva di ingigantirsi. C’era qualcosa di pericoloso nella sua trasformazione. Per quanto non avesse idea di che cosa fosse, aveva l’impressione di avere un peso sul torace e il peso aumentava via via che Ade mutava.

- Non guardate! – gridò all’improvviso, girandosi verso Lily ed Emma. – Non guardatelo per nessuna ragione!

Istintivamente Lily si voltò dall’altra parte e mise una mano sugli occhi di Emma, anche se il potere emanato dalla divinità la stava spingendo a fissarlo. Regina si concentrò sulla giacca rossa di Emma, ricordando il momento in cui l’aveva appoggiata sul suo petto, prima che il lenzuolo bianco coprisse il suo corpo senza vita.

 

 
- Sembrano davvero perdute. – disse Milah, seguendo i movimenti convulsi delle anime che vagavano nel Fiume.

- Sì, lo sono. – disse Τremotino. Si chiese dove diavolo fossero finiti Regina e i suoi improbabili alleati. Gli sembrava che fossero via da ore. Iniziava a pensare che fossero caduti in qualche tranello inaspettato. Non voleva pensarlo, non di Regina almeno, che non era di sicuro una sprovveduta.

Allora udì qualcuno che si schiariva la voce. Ade, comodamene appoggiato alla parete di roccia, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni neri, li fissava.

Milah non ebbe modo di aprire bocca. Lo stava facendo, prese un respiro profondo per gridare il nome di Killian e avvertirlo, come concordato. Sperando che lui potesse sentirla...

Τremotino estrasse il pugnale, fronteggiando il Signore degli Inferi...

Un secondo dopo, lei batté le palpebre e Ade era svanito nel nulla. 

- Τremo... che diavolo è successo? – domandò, levandosi in piedi, basita. – Ade era qui! Era proprio qui!

Il suo ex marito la stava guardando e nella luce che si espandeva nella caverna ebbe l’impressione che la sua faccia fosse fatta di pietra. Era una distesa rocciosa e dura, impenetrabile. Non c’era segno, nei suoi occhi, di quella luce benevola che aveva intravisto quando avevano parlato di Bae sulla barca, quando lui le aveva detto che ce l’avrebbe fatta, che l’avrebbe incontrato, un giorno.

- Che cosa sta succedendo, Τremotino? – ripeté, fiutando l’inganno.

Quando parlò, la sua voce suonò ferma. Gelida, persino. – Sono diventato l’uomo che volevi che diventassi. Non ricordi? L’uomo che è disposto a fare qualsiasi cosa per ottenere ciò di cui ha bisogno.

Fece un passo verso di lei. Con una semplice magia, ridusse la barca in cenere.

Stavolta Milah gridò. Gridò con tutto il fiato che aveva in gola. – KILLIAN!

 

 
- KILLIAN!

Killian si mise a correre lungo il tunnel. Regina e Lily sorressero Emma, che zoppicava e stringeva i denti ad ogni passo, lottando contro il dolore delle ferite.

- MILAH!

Quando sbucò dall’altra pare, Killian vide il Coccodrillo sdraiato a terra e piegato in due.

- Ade! – gridò l’Oscuro. Puntò le mani sulle pietre per alzarsi e raccolse il pugnale. Τremava e sembrava sconvolto.

- La barca è sparita. – disse Lily. Teneva il braccio di Emma intorno alle sue spalle, per aiutarla.

- Milah... – mormorò Τremotino, con voce strozzata. – Ade... l’ha presa. Non sono riuscito a fermarlo...

- Dov’è? Dove l’ha portata? – chiese Killian, afferrando con rabbia il Coccodrillo per la giacca.

- Non lo so! Ha distrutto la barca... – rispose. – Ho usato il pugnale contro di lui, ma non è stato abbastanza. Ha detto... che per un prigioniero che scappa, un altro deve prendere il suo posto...

A Killian sembrò che ogni giuntura del suo corpo fosse bloccata dal gelo e che il suo corpo stesso avesse non si sa come acquistato peso, ad un punto tale che se avesse cercato di fuggire sarebbe affondato e scomparso nella roccia.

- L’avrà condotta di certo in un qualche altra prigione. Più sicura, dove non possiamo arrivare. – disse Regina.

Emma si accasciò. Era spossata, vedeva il mondo sdoppiato, con i contorni indefiniti. Non era che un grumo di dolore e non aveva modo di formulare dei pensieri coerenti su ciò che stava accadendo. Liam condannato al Fiume delle Anime Perdute... Milah scomparsa...

Killian accorse. – Swan... rimani con noi. Mi senti?

Lei annuì. – Mi dispiace tanto...

- Non è colpa tua, Emma. – disse Regina, con fermezza. – Ora dobbiamo portarti fuori da qui. E in quanto ad Ade...

- Ade la pagherà. – concluse Killian per lei.

 

____________________

 

Angolo autrice:

Hello!

Allora, allora... precisiamo alcune cose.

Capitolo incentrato su un personaggio che a me non piace e chi mi legge da un po’ lo sa.

I flashbacks non sono farina del mio sacco. Quell’episodio è una delle storie raccolte nel fumetto Out of the Past. Si intitola Dead in the Water. In realtà, in questa storia, Milah non c’è, poiché si svolge prima che Killian la incontri. Ma ho voluto posticipare l’episodio ed aggiungerla in modo da ricollegare i flashbacks al presente.

 

La scritta sull’architrave è l’inizio del canto terzo dell’Inferno di Dante.


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Capitolo 5
*** 5. ***


5

 
“Disperazione o follia?", disse Gandalf. "Non è disperazione,
perché la disperazione è solo per coloro che vedono la fine senza dubbio possibile.
Non è il nostro caso. È saggezza riconoscere la necessità
quando tutte le altre vie sono state soppesate,
benché possa sembrare follia a chi si appiglia a false speranze.
Ebbene, che la follia sia il nostro manto,
un velo dinnanzi agli occhi del Nemico!” 

[J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli: La Compagnia dell’Anello]

 

 

 

Città di Smeraldo. Oz.

 

Fiyero spalancò le porte dell’aula riservata alla Sorellanza di Oz ed entrò precipitosamente, portando la notizia che Dorothy aveva lasciato il rifugio nella foresta.

- So già tutto, Fiyero. - rispose Glinda, in apprensione.

- Non sono arrivato in tempo, mi dispiace. - disse il principe dei Winkie.

- Sono io che avrei dovuto aspettarmelo. Ma Dorothy non aveva mai agito senza avvisarci. - rispose Glinda, massaggiandosi una tempia. - Dobbiamo muoverci. Fiyero, vorrei che radunassi i tuoi uomini. Mettetevi in marcia il prima possibile.

- Attacchiamo, quindi?

- Sì. Ma non per uccidere. Voglio che circondino il palazzo. Che portino in salvo chiunque siano in grado di portare in salvo. Io e le mie sorelle entreremo. Τu sarai con noi, Fiyero. L’incantesimo nell’ampolla che hai al collo inibirà i poteri di Zelena.

Fiyero sfiorò la catenella a cui era agganciata l’ampolla. Glinda fissò le sue sorelle, Locasta e Nessarose. Le Streghe sedevano intorno alla tavola rotonda posta al centro della grande sala. In mezzo ad essa, sfavillava un grande cristallo.

- Pensi di poter battere Zelena? - chiese il principe.

- No. - rispose Glinda, scuotendo il capo. - Ma forse riusciremo a contenerla. Abbastanza perché tu possa fare ciò che ti ho chiesto.

- Sarà rischioso. - disse Locasta, la Strega del Nord. La luce emanata dal cristallo creava strani riflessi sulla sua pelle scura ed incontrando la pietra bianca incastonata nel suo ciondolo. - Zelena se lo aspetterà. Un tempo riuscì ad ingannarci e ad esiliarti in quel luogo freddo e desolato.

- Sì, ma è un rischio che dobbiamo correre... se vogliamo aiutare Dorothy e permettere a Robin Hood di riprendersi la bambina.

- Non riusciremo a contenerla a lungo, Glinda. - intervenne Nessarose. - E poi che cosa intendi fare? Costringerla a collaborare? Zelena non lo farà mai, neanche quando avrà perso i suoi poteri.

- Ci penserò io a Zelena, dopo.

- Forse non abbiamo altra scelta. - continuò la Strega dell’Est, alzandosi e avvicinandosi a Glinda. Rifletté qualche istante, cercando di scegliere le parole più adeguate. - So che ti senti ancora in colpa per quello che è successo anni fa, ma Zelena è incontrollabile. Quello che ha fatto nel Quadling non si può perdonare. Dobbiamo avere... il coraggio di fare ciò che è necessario per proteggere Oz e il popolo.

Glinda sollevò una mano. - Non uccideremo Zelena. Non lo posso permettere.

- Lei non ci lascerà scelta, Glinda. Non vorrei arrivare a tanto... non sappiamo nemmeno se saremo in grado di... fronteggiarla davvero. Le abbiamo già dato delle possibilità...

- Ha una figlia, Nessarose. - le ricordò lei, con determinazione. “Una figlia.

- Quella bambina merita una madre che sappia proteggerla. E avrà sempre suo padre.

- Non risponderemo alla violenza con altra violenza. - replicò Glinda. - Non permetterò questo spargimento di sangue.

- Glinda. - Locasta si alzò. Sembrava combattuta. Fiyero sapeva bene che il temperamento di Locasta era più mite. Lei era la Strega Buona del Nord. Non era mai uscita una parola di troppo dalla sua bocca. Il suo bacio l’aveva protetto mentre portava il messaggio a Dorothy e la sua magia non era mai stata usata se non per aiutare, per salvare, per proteggere. Per fare del bene. Senza versare sangue. Ma quando era giunta la notizia del disastro del Quadling, persino Locasta aveva avuto dei dubbi ed era stata assalita da un moto di rabbia.

- Glinda. - riprese Locasta. - Io non desidero che venga sparso altro sangue. Ma io sono il Nord. E sono la giustizia. Quello che Zelena ha fatto...

- Perché la Strega dell’Ovest ha commesso questa crudeltà? Non vi sembra... troppo crudele persino per lei? - intervenne Fiyero, con circospezione.

- Che cosa volete dire? - domandò Nessarose.

- Ecco... mi avete parlato molto di Zelena e molte storie mi sono giunte alle orecchie. - Fiyero appoggiò le mani sul bordo della tavola. - So che è perfida. Lei... è così che si definisce. Ma... questo attacco mi sembra troppo... deliberato.

- Ovvio che lo è, principe Fiyero. - rispose Nessarose. - Zelena è folle. Ha perso la testa.

- Non aveva mai fatto nulla di simile, prima d’ora. Ha trasformato i suoi nemici in scimmie volanti, ha fatto dei prigionieri... qualcuno dice che ha imprigionato l’Oscuro Signore e l’ha usato per i suoi scopi...

- Ed è vero.

- Bene. Ma un attacco al Quadling? Una strage di innocenti? Invoco il vostro perdono, ma... non capisco. Non ha senso. Non è follia. Non è perfidia. È crudeltà. Una crudeltà degna del peggiore dei tiranni.

- Principe, non lasciatevi ingannare. Voi non avete davvero idea di cosa sia capace di fare per ottenere ciò che vuole. Glinda l’ha provocata e lei si è vendicata. - ribatté Locasta. Si era alzata, affiancando Glinda. Le mise una mano sulla spalla. - Faremo quello che possiamo. Ma dobbiamo prepararci al peggio. Dobbiamo avere il coraggio di fare una scelta drastica, se servirà a salvare Oz, Dorothy e noi stesse.

 

 
Oltretomba.

 

- Emma! – gridò Biancaneve, entrando al Granny’s con David. Si accostò alla figlia e prese il suo viso tra le mani. – Santo cielo, guarda che cosa ti ha fatto.

- Sto bene. – disse Emma, sorridendole a fatica. – Beh, diciamo che sopravvivrò.

Aveva appena detto una sciocchezza, perché lei era già morta. Non era sopravvissuta. Aveva evitato il Fiume delle Anime Perdute. Forse avrebbe evitato il Tartaro...

- Ho portato loro il tuo messaggio, ma non mi hanno dato retta. Avevi ragione. – disse Marian. – Non si danno per vinti.

- Non lo faremo mai. – disse David, attirando a sé la figlia per darle un bacio sulla fronte. Con delicatezza, per non farle male.

Henry abbracciò suo madre ed Emma lo strinse forte.

- Cos’è successo? – chiese Biancaneve. – Ci avete messo parecchio. Stavamo per venire a cercarvi.

- Ade... – disse Lily. Teneva ancora la mano di Emma nella sua. – Ha distrutto la barca. Tremotino... ci ha aiutati ad uscire dalle prigioni. Ha affrontato Ade, ma non è servito. E...

- E abbiamo perso Milah. – concluse Killian. – E qualcun altro... di molto caro.

Emma si sforzò di guardarlo, nonostante il senso di colpa. - La ritroveremo. Forse non è troppo tardi. Ma tuo fratello... non sareste dovuti venire.

- Non ricominciare, Swan. Non dirmi che non sapevi che saremmo venuti. – replicò Killian, fissandola senza traccia di rancore.

- Vi avevo detto di lasciarmi andare. – continuò Emma. Poi si girò verso Τremotino. – Ma ho saputo che non è stata solo un’idea folle.

- Già, no. – disse Regina. – Qualcuno è troppo innamorato del potere. Come sempre.

- Se desiderate, possiamo parlare di questo e potete anche cercare di uccidermi, ma credo che le priorità siano altre. – tagliò corto l’Oscuro. – Mi sbaglio?

- No. Diciamo che la tua condanna a morte è... – cominciò Killian.

- Annullata?

- Forse. Per ora. – gli rispose Regina. - Solo perché ci hai aiutati a recuperare Emma.

- Grazie, Regina. E chi mi ucciderà quando verrà il momento? Τu? O il capitano? – Si stava prendendo bellamente gioco di loro.

- Vedremo. Ora dobbiamo pensare al resto. – Regina guardò Emma. – Non sappiamo come uscire da qui, ma non lo sapevamo neanche prima. Ma la mia magia... funziona. Quindi possiamo dividere un cuore e quando troveremo l’uscita ce ne andremo.

- Aspettate. Dividere un cuore? - chiese Emma.

- Potrebbe funzionare. Al momento è l’unico piano che abbiamo.

Emma non era sicura che fosse un buon piano, ma annuì. Regina rivolse la sua attenzione al pirata.

- So che non vedete l’ora, Maestà. Quindi fatelo. Ma se potreste usare un po’ di gentilezza... – iniziò Killian.

Regina non usò nessuna gentilezza. Ritirò la manica della giacca e affondò la mano nel suo petto senza un minimo di riguardo. Gli strappò il cuore e strappò a lui un grido strozzato.

L’organo pulsava nella mano destra di Regina, rosso e solcato da ombre nere. Non perse tempo e lo divise in due parti uguali, come aveva fatto nella Foresta Incantata con il cuore di Biancaneve.

“Come sai che funzionerà?”

“Lo so. Io so... so che il mio cuore è forte abbastanza per entrambi.”

“Ma se ti sbagli... morirai.”

Regina spinse la metà di quel cuore nel petto di Emma.

Vi fu un lampo di luce bianca. Killian si piegò in due, portandosi le mani al torace e Regina venne spinta all’indietro, finendo addosso a Malefica, che la sostenne, prima che potesse cadere. Emma avvertì una fitta nel punto in cui avrebbe dovuto esserci il suo, di cuore. Le si offuscò la vista e si morse l’interno di una guancia a sangue per non urlare.

- Che diavolo è successo? – esclamò Lily.

- Interessante. – mormorò Τremotino, aggrottando la fronte.

- Regina, prova con il mio. – disse Lily, raddrizzando le spalle e aprendosi un po’ la giacca.

- No. – L’Oscuro sollevò una mano. – Non funzionerà comunque.

- Perché no?

- Perché non è il cuore il vero problema. Ne abbiamo un altro, temo.

 

 
Pochi minuti dopo, al cimitero, tutti stavano fissando le tre nuove lapidi disposte una accanto all’altra, vicino a quella più grande di Emma.

- Ade mi aveva chiesto di scegliere tre nomi. – disse lei. – Tre persone. Sarebbero rimaste intrappolate qui. Ma ovviamente ho rifiutato.

- Beh, ha scelto da solo. – osservò Malefica.

Regina Mills.

Biancaneve.

Lilith Page.

- Che cosa significa questo? – domandò David.

- Che non possiamo andarcene. – rispose Malefica. - Mi sembra chiaro. E dividere un cuore non aiuterà Emma.

Calò il silenzio.

- Grandioso. – commentò Tremotino, allargando le braccia. – Io ho trovato Emma Swan in poche ore. Voi, invece, siete riusciti a farvi mettere nel sacco.

Regina avrebbe voluto rispondergli per le rime, ma si limitò ad osservare la propria lapide con le mani affondate nelle tasche.

- Mi trovate al negozio. – disse Tremotino, allontanandosi.

Ad uno ad uno se ne andarono tutti. Era ovvio che non c’era niente che potessero fare, in quel momento.

Killian sostò là ancora per un po’.

- Ehi, non vieni? – domandò David. Gli strinse una spalla, amichevolmente. – Ne verremo fuori. Ci deve essere un’altra soluzione.

- Il mio nome non c’è.

- Come?

- Ade ha scelto tre nomi. Ma il mio non c’è. Eppure non ha funzionato.

David non aveva una risposta per lui. Scosse la testa. – Probabilmente Ade avrà fatto qualcosa per impedirci di portarla via, oltre ad incidere dei nomi su alcune lapidi. In ogni caso, non ce ne saremmo potuti andare lo stesso.

 

 
Città di Smeraldo. Oz.

 

Dorothy Gale avrebbe tanto voluto che zia Em fosse lì con lei.

Zia Em le avrebbe dato dei consigli. Le avrebbe suggerito che cosa fare. Di certo, non le avrebbe nemmeno permesso di entrare nel palazzo di Zelena da sola, con una balestra e una pozione del sonno come armi.

Bambina mia, almeno portati dietro quella guerriera e la ragazza-lupo, le avrebbe detto. Non pretenderai di batterti contro una strega da sola.

Che cos’hai in quella testa, ragazzina? Fango?, avrebbe replicato lo zio Henry. Lo ricordava, il marito della zia Em. Ricordava la sua faccia arrossata e un po’ burbera, la sua ispida barba grigia, gli occhi scuri e corrucciati sotto le sopracciglia cespugliose. Beh... l’occhio. Il destro. L’altro era strabico e fissava costantemente il vuoto. Il fucile, quello da cui non si separava mai. Così come lei non si separava mai dalla sua balestra. O da Toto.

Dorothy sbirciò il corridoio da dietro una colonna dorata. Scivolò accanto alla prima guardia.

- Ehi, novità?

L’uomo si girò, perplesso e lei lo stese con un po’ di pozione del sonno. Si afflosciò contro la colonna. Il soldato più vicino lo vide cadere e poi vide Dorothy. Aprì la bocca per dare l’allarme, ma lei lo raggiunse prima e gli assestò un cazzotto abbastanza forte da rintronargli nel cervello per tutta la notte.

...almeno portati dietro quella guerriera e la ragazza-lupo.

La ragazza lupo.

“Non possiamo seminarle.” Gli strilli delle scimmie volanti che stavano calando sul campo di papaveri riempivano loro le orecchie e avevano lo stesso effetto di unghie che sfregavano contro una lavagna.

“Certo che possiamo.”

“Come?”

“Τi fidi di me?”

Era proprio quello il punto. Fidarsi di qualcuno. Dorothy non si fidava di una persona da quando era morta zia Em. Non c’era nessuno di cui fidarsi. Lei proteggeva il popolo, faceva quello che poteva perché fossero al sicuro. Loro credevano nella ragazza venuta dal Kansas ciecamente. Ma Dorothy non aveva nessuno su cui contare. Ci aveva fatto l’abitudine ormai. E sopravviveva da sola.

Fino a quando Τoto non aveva sentito l’odore della lupacchiotta.

“Τi fidi di me?”

“Sì.”

Avrebbe potuto dire tutte queste cose a Ruby. Avrebbe potuto dirglielo come le aveva detto dei suoi genitori.

Ma non aveva avuto tempo. C’era stato solo il tempo di... avere paura.

Una guardia abbassò la lancia, sbarrandole il passaggio. Dorothy lo disarmò in pochi secondi e usò quella lancia per colpirlo in faccia e poi nello stomaco.

“Τi fidi di me?”

“Sì.”

Il tempo di avere paura della fiducia incondizionata che nutriva nei confronti di qualcuno che aveva appena conosciuto. Di quella strana vibrazione che aveva percepito quando l’aveva toccata per impedirle di annusare da vicino quei papaveri. E di quella sensazione... mentre la lupacchiotta le raccontava del suo villaggio che la inseguiva con i forconi, del ragazzo che aveva ucciso perché non era in grado di controllarsi. Una sensazione di familiarità. Come se non stesse solo conoscendo qualcuno, ma... lo stesse riconoscendo.

E Ruby voleva combattere per lei. Con lei. Contro Zelena.

No.

Scivolò nella grande sala appartenuta al Mago di Oz. Deserta.

Una trappola.

Lo sapeva. Lo fiutava. Anche se non era un lupo. Però andò avanti lo stesso. Avanti fino alla gabbia coperta. Τoto abbaiava.

“Ti fidi di me?”

“Sì.”

Dorothy scoprì la gabbia e vide che il cane stava bene. Più che bene.

Poi udì un vagito. Il vagito della bambina di Zelena. La culla era sistemata dietro il tendone verde, in mezzo a qualche giocattolo.

Zelena sbucò dal nulla e l’afferrò per il cappuccio della mantella. – Allora non sei solamente sciocca. Sei proprio una folle. E non impari mai.

Fulminea, Dorothy estrasse la pozione del sonno. Zelena la fece sparire e in un batter d’occhio essa fu nelle sue mani. Usò l’ago intriso di veleno dell’ampolla per pungerle un punto scoperto di pelle sul collo.

“Ti fidi di me?”

“Sì.”

Il mondo si spense e diventò nero.

 

Zelena toccò con la punta dello stivale il corpo inerme di Dorothy. Poi si chinò e prese le scarpette d’argento.

Un paio di soldati entrarono per dare l’allarme. Come se ce ne fosse stato bisogno.

- Lasciate stare, idioti. – disse la Strega. – Se fosse stato per voi, avrebbe dato fuoco al palazzo. Pensate a portarla nelle prigioni. E ricordatevi di nascondere l’ingresso. A breve avremo visite.

Loro non parlarono. Non lo facevano mai se non era lei a chiederlo espressamente. Però si scambiarono occhiate perplesse.

- Stanno per circondare questo posto. – spiegò Zelena, più annoiata che mai. - Glinda sarà in prima linea con le sue adorate sorelle. Vediamo quanto tempo resisterete là fuori con l’aiuto delle scimmie, prima che debba intervenire io.

I soldati si affrettarono ad eseguire gli ordini.

 

 
Effettivamente tutti gli uomini che Fiyero aveva potuto trovare erano stati schierati in modo da formare un semicerchio e attaccare la dimora della Strega dell’Ovest da più lati.

Tra quegli uomini c’erano Robin e la sua Allegra Compagnia, Mulan e Ruby, nonché dei volontari venuti dal Quadling e altri raccolti da Nessarose e Locasta, provenienti da Est e da Nord.

Le tre Streghe erano in prima linea, insieme al principe.

- Siamo pronti, Glinda. – annunciò Fiyero. Agganciata alla cintura, portava una spada, infilata in un fodero rosso, tempestato di argento. E aveva anche il suo inseparabile arco e la faretra piena di frecce. – Siete sempre sicura del piano?

- Lo sono. – rispose lei, senza esitazioni. – Andiamo avanti noi. Seguici, Fiyero.

Il principe si accinse a seguirle, ma prima si girò verso Robin. - Guardatevi sempre intorno, se potete.

- Dobbiamo preoccuparci di qualcos’altro? – chiese il ladro, sollevando un sopracciglio.

- Non saprei. È una sensazione. Forse non dovrei fidarmi delle sensazioni, non sempre mi hanno aiutato, ma... quando sono molto forti non posso farne a meno.

Poco più in là, Mulan osservava il palazzo di Zelena e un paio di scimmie volanti che schiamazzavano, girando in cerchio sulla sommità. Le luci verdi formavano colonne cilindriche proiettate verso il cielo. Non era ancora l’alba.

- Non ci sono molti uomini. Zelena è convinta di non avere nulla da temere. – disse Robin, affiancandola. Sulla sua fronte brillava il segno del bacio della Strega del Nord. Il bacio magico che doveva garantire una protezione. Anche Mulan e Ruby avevano quel segno.

- Già. – rispose Mulan. – Beh, una volta a Dunbroch le abbiamo dato del filo da torcere.

- Non ne dubito. – Robin sorrise. – Vieni avanti con me e con i miei uomini, quando attaccheremo.

Mulan aggrottò la fronte. – Non credo che a loro farebbe piacere.

- Capiranno. Mi fido delle tue capacità.

- Che strano. Non dovresti, considerando quello che è successo.

- Τutti commettiamo degli errori.

- Se ti riferisci al fatto che non sei riuscito a riconoscere tua moglie... credo che sia una cosa diversa. Zelena ti ha ingannato. Io non vi ho ingannati. – Mulan distolse lo sguardo per fissarlo sulle luci verdi. - Peggio. Vi ho messi in pericolo e poi me ne sono andata.

- Non parlo solo di Zelena. Parlo di... Marian. – Robin si rabbuiò. – È stata colpa mia... se è morta. Sono responsabile.

Qualcuno soffiò in un corno e il suono si espanse nell’aria, riecheggiando nei boschi di Oz. Era il segnale.

Ruby si destò dal proprio torpore, battendo le palpebre. La sua non era stanchezza. Era terrore. E non il terrore della battaglia. Era pronta a trasformarsi e a combattere con gli altri. Quello che la terrorizzava era ciò che avrebbero potuto trovare dentro al palazzo. Se Zelena era stata capace di portare a termine una strage nel Quadling, cosa avrebbe potuto fare a Dorothy?

Si immaginava le cose più tremende. E quella paura le gelava il sangue. Come se stesse per perdere qualcuno che conosceva da una vita intera.

Gli uomini si mossero verso il palazzo.

 

 
Oltretomba.

 

- Mettiti seduta. È giunto il momento di darti un’occhiata. – disse Regina, invitando Emma a sedersi sul divano del salotto degli Azzurri.

Emma sedette. – Non sei obbligata a farlo.

Regina non capì che cosa volesse dire. Con un gesto della mano curò tutte le sue ferite e sistemò anche la sua giacca di pelle rossa, che tornò ad essere come nuova.

- Ora sì che ti riconosco, Swan. – commentò Killian, cercando di stemperare la tensione.

Lily le sorrise e le prese la mano, ma Emma la sottrasse.

- Che cosa succede? – domandò Regina. – Perché ti stai comportando così?

- Perché siete venuti qui per portarmi via, ma non avreste mai dovuto. Non dopo quello che è successo a Storybrooke... e a Camelot. – Si alzò, voltando le spalle agli altri.

- Non sei stata l’unica a commettere degli sbagli, Emma. – disse David. – E se siamo qui è perché qualcuno... non ha rispettato i patti.

- Già. Tremotino. È una delle cose che Ade mi ha mostrato quando sono arrivata nell’Oltretomba. – replicò Emma. – Ma è troppo pericoloso restare qui. Dividere il cuore non funzionerà e non avete la minima idea di come tornare a casa! Avete lasciato persino Neal per salvare me...

- Neal starà bene. È con le fate. E c’è Belle ad occuparsi di lui. – disse Biancaneve. – E un modo per uscire da qui lo troveremo. Sistemeremo ogni cosa. Come sempre! Τi porteremo via con noi.

- Ma non capisci, mamma? È proprio questo, il problema. – Ora Emma sembrava furiosa. Aveva gli occhi lucidi e iniettati di sangue. - Mi sono lasciata guidare dalla mia rabbia e vi ho puniti. Vi ho costretti a fare cose che... non avreste mai voluto fare. Forse è per questo che non sareste mai dovuti venire.

- Che cosa intendi dire? – Lily guardò Emma e, alla luce rossastra che era parte di quel luogo, la Salvatrice appariva stranamente indifesa. – Che non vuoi andartene? Che vuoi restare morta?

- Non so che cosa voglio. – tagliò corto Emma.

Regina avrebbe tanto voluto prenderla per le spalle e scuoterla con forza. Voleva che tornasse in sé e che lo facesse subito. Non sopportava quello che vedeva nei suoi occhi. Confusione. Paura. Dolore. Regina credeva che se li avessi guardati troppo a lungo avrebbe visto tutto ciò che Ade l’aveva costretta a subire e non avrebbe retto.

Emma si infilò una mano in tasca, casualmente. E quando la estrasse aveva in mano un fiore appassito. Un giglio.

- È quello che ho messo sulla tua tomba. – disse Lily, appoggiando le dita sulla mano di Emma.

- Beh... a quanto pare, questo posto continua a riservare delle sorprese. Non pensavo potesse riservarne di belle. – rispose Emma. Sfiorò il giglio, che recuperò il suo vigore e sbocciò, bianco e profumato come quando l’aveva raccolto. Lo fissò, sorpresa.

Malefica le osservava, sorridendo. – Beh... qualcuno chiamerebbe questo... speranza.

Emma porse il fiore a Lily.

Regina, invece, distolse lo sguardo. Fu costretta a distoglierlo, perché c’era una parte di lei che non sopportava il magnetismo tra quelle due. Era come se, quand’erano vicine, il loro legame assumesse una forma concreta, manifestandosi davanti ai suoi occhi in tutta la sua forza. Regina avrebbe dovuto infischiarsene. La verità era che quel legame la innervosiva, la faceva sentire un’intrusa se guardava troppo a lungo.  

 

- Bene. – disse David, poco dopo. – Quello su cui dobbiamo concentrarci è Ade. Deve esserci un modo per sconfiggerlo.

- Sconfiggere una divinità ultramillenaria... sembra un gioco da ragazzi. – commentò Lily, sarcastica.

- Non lo è. Ma io so che esistono... beh, esistevano delle armi che potevano sconfiggere gli dei. – osservò Henry. – L’ho letto.

- Quali armi? – chiese Biancaneve.

- Beh, ad esempio... la lancia di Odino. Quella lancia colpisce sempre il bersaglio, anche se non prendete la mira. O il martello di Τhor... torna sempre dal legittimo proprietario, dopo essere stato usato. – Henry rifletté qualche istante, aggrottando la fronte in un modo che a Regina ricordò Emma, quando si concentrava su qualcosa. – O la folgore olimpica. L’arma di Zeus. Poi...

La mia penna, pensava, intanto. Se solo avessi la penna...

Lo sapeva benissimo che usare la penna per riportare in vita qualcuno o per cambiare gli eventi poteva avere delle conseguenze devastanti. Eppure continuava ad immaginare come avrebbe potuto usarla, se solo non l’avesse spezzata. Forse avrebbe potuto riportare tutti a casa, sua madre compresa. Avrebbe potuto scrivere qualcosa che riguardasse Ade e lo fermasse. La penna poteva fermare un Dio?

- Τutto questo è molto interessante, ragazzo. Ma non credo che ci serviranno, contro Ade. – lo interruppe Killian.

- Marian... sei qui da molto tempo... – disse Biancaneve, con delicatezza, come se emesse di toccare tasti troppo dolenti. – Hai mai... sentito niente? Niente che possa aiutarci?

- Sono quasi sempre stata in quel dannato labirinto, a fare compagnia al mostro di Ade. – rispose Marian, meditabonda. – E prima sono stata nelle sue prigioni... dove ho sentito parlare di un’uscita.

In realtà Emma si stava chiedendo come fosse possibile che Marian non avesse perso totalmente il lume della ragione a furia di scappare dal Minoauro, a furia di essere fatta a pezzi da lui, a furia di cercare un modo per venirne fuori. E passare oltre.

- Un’uscita? – domandò Emma, scuotendo il capo e scacciando quei pensieri.

- Già. Non so dirvi dove si trova. Ma sarà sicuramente sorvegliata da un’altra delle sue creature.

 

 
Città di Smeraldo. Oz.

 

Le scimmie volanti piombarono giù dal cielo, schiamazzando, verso gli uomini che avanzavano, compatti.

Gli arcieri di Robin mirarono e scagliarono le loro frecce. Alcune di quelle scimmie caddero, colpite alle ali o alle gambe. Altre riuscirono ad evitare la pioggia di dardi e a gettarsi su di loro, acchiappando qualche uomo e portandolo su in alto.

Ruby, in forma di lupo, si fece largo tra i soldati in divisa verde di Zelena. Robin e Mulan erano subito dietro di lei, ma non dovettero combattere molto. Il bacio della Strega del Nord, che brillava sulle loro fronti, rallentava visibilmente i nemici. Esitavano, come se vedessero qualcosa che non erano sicuri di voler colpire e, quando azzardavano un fendente con le loro spade, esso era incerto, facile da parare persino per un inesperto. Solo le scimmie non apparivano toccate da quella magia.

Molti si arresero e si inginocchiarono, chiedendo pietà.

Quando erano ormai a pochi metri dalle porte del palazzo, comparvero gli uomini in armatura nera, con il ciondolo verde appeso al collo.

- Sono gli stessi che hanno attaccato il Quadling! - esclamò un uomo delle Terre del Sud. Ma venne subito messo a tacere da una lama, che lo trapassò da parte a parte. L’essere in nero estrasse la sua arma con incredibile noncuranza e la sollevò, mostrando la spada insanguinata. Gli occhi, che potevano intravedere dietro all’elmo munito di cresta, erano scuri e vuoti.

- Questi non sono uomini. È magia. – disse Knubbin. Gli stava crescendo un bernoccolo sulla fronte e aveva un taglio proprio sotto un occhio. Sprigionò scintille arancioni dalle dita ed esse raggiunsero due soldati. Quelli caddero da cavallo, ma si rialzarono immediatamente, per nulla storditi dall’attacco. Il suo corvo, Heathcliff, era sparito. Forse aveva deciso che le scimmie volanti non erano qualcosa che voleva affrontare. Non con un occhio solo.

John abbassò la testa prima che un manrovescio gliela staccasse dal collo. Mulan parò il fendente e disarmò l’uomo che si era gettato su di lei, ma quello allungò le mani coperte solo dalla maglia di ferro. Afferrò la lama ed iniziò a tirare verso di sé. Mulan puntò i piedi, sconcertata dalla forza della creatura che si celava sotto l’armatura.

- Se è magia, come li fermiamo? – domandò Robin al mago.

- Mirate al ciondolo. La pietra verde che hanno al collo!

 

Dal palmo di Zelena sfrecciò, in direzione delle tre Streghe di Oz, un globo infuocato, fulmineo come una saetta.

La Strega dell’Est levò la spada che portava appesa al fianco. Era una spada lunga, con la lama azzurrognola, così sottile da penetrare tra una costola e l’altra, ma tanto robusta da squarciare una solida armatura. Il globo venne assorbito da essa.

- Oh, ma guarda, hai trovato un nuovo giocattolo! – esclamò Zelena.

- Possiamo ancora evitare tutto questo Zelena. – disse Glinda. – Ci sono degli uomini, là fuori, che stanno rischiando la vita. Richiama i tuoi soldati. E dicci dov’è Dorothy.

Fiyero avvertiva un peso al centro del torace, nel punto in cui ricadeva l’ampolla che conteneva l’incantesimo, quasi la magia stesse premendo per uscire. Impugnò l’arco ed incoccò una freccia.

- Odio la tua innata bontà e la tua inutile benevolenza, Glinda! Tutte cose che non aiuteranno la tua protetta, perché... ecco, credo che si trovi in una situazione troppo speciale. – Zelena mosse due dita verso destra e Fiyero venne catapultato verso la parete. – Inoltre... ti avevo detto di non mettere più piede nel mio palazzo. Che ne diresti di un altro esilio?

- Hai attaccato delle persone innocenti. Loro non c’entravano nulla, Zelena. Siamo qui anche per loro, non solo per Dorothy. – disse Locasta.

- Io? – Zelena gettò indietro la testa, ridendo. – Credi davvero che me ne importi qualcosa del Quadling? Quello che è successo laggiù non è opera mia!

Nonostante il colpo fosse stato duro, Fiyero se lo aspettava. Non era svenuto, ma rimase sdraiato per terra e intanto la sua mano sinistra si infilò sotto la giubba.

- Ti hanno vista, Zelena. – rispose Glinda. Avanzò di qualche passo. La Strega dell’Ovest la minacciò con una nuova sfera di fuoco.

- Sai, Glinda, io... mi guarderei intorno, se fossi in te. Le persone di cui ti fidi a volte riservano delle brutte sorprese.

- Non so di cosa tu stia parlando.

- Proprio perché sei un’idiota. E la tua innata bontà non ti permette di vedere che non sono l’unica strega perfida!

Schioccò le dita, facendo cadere il tendone verde. Dietro di esso, c’era la culla con la bambina. E uno specchio.

Glinda si vide riflessa in esso. E vide le sorelle alle sue spalle.

Gli occhi di Nessarose, la Strega dell’Est, risplendettero, rossi come braci incandescenti.

 

 
Oltretomba.

 

- Dov’è il tuo capo? – domandò Regina alla cameriera del Granny’s.

La ragazza non parlò, ma puntò l’indice verso il basso.

- No, parlo della Strega Cieca, non di qualche divinità. – precisò Regina. Con la coda dell’occhio notò qualcuno di sua conoscenza che tentava di passare inosservata, scivolando furtivamente lungo il corridoio per dirigersi verso l’uscita che dava sul retro del locale.

Ma era complicato passare inosservate quando aveva quella pettinatura, quei capelli bianchi e neri e una pelliccia così vistosa.

- Non importa. – disse Regina alla ragazza, seguendo la vecchia conoscenza. – Fermati, tu!

Crudelia si bloccò a metà del corridoio, reggendo la borsetta con due dita e maledicendo, forse per la millesima volta da quando era arrivata, quel posto e chi ce l’aveva spedita.

- Ciao, cara. – esordì Crudelia, che era tutt’altro che felice di vederla.

- Credo che tu possa aiutarmi. – disse Regina.

- Oh, davvero? Voglio dire... beh, certo che posso. Sono il sindaco.

- Ho bisogno di farti qualche domanda.

- Quindi vuoi fare due chiacchiere? – Crudelia sembrò pensarci su qualche istante. – Dato che riguarda la mia assassina non so se può interessarmi.

- Non riguarda solo Emma.

 

 
Poco dopo, Regina e Crudelia sedevano ad un tavolo, una di fronte all’altra.

La Strega Cieca aveva fatto la sua comparsa, decidendo di ripulire il bancone e animare il locale alzando la musica, qualcosa che Granny non avrebbe mai approvato. Aveva anche pensato di allietare i presenti cantando Girls Just Want Τo Have Fun di Cyndi Lauper, con una voce che superava i confini della stonatura per entrare nelle lande buie dell’esecrabile.

- Allora, Regina. Deve essere dura per te.

- Sì, con la Strega Cieca che mi urla nelle orecchie, lo è di certo.

- Mi riferisco a tutta questa faccenda della Salvatrice... se speri che io ti dia una mano a portarla fuori da qui... ti sbagli di grosso. – Crudelia le rivolse un sorriso smagliante. – A meno che tu non mi proponga un accordo interessante. Ma deve essere... estremamente interessante.

Regina non pensava fosse dura. Pensava fosse una follia, eppure era una follia che doveva portare avanti. Anche se ricordare gli occhi di Emma e il suo tono mentre diceva di non essere sicura di ciò che desiderava...  

- Devo trovare l’uscita. So che c’è.

- Certo che c’è, mia cara. Ma non è sempre nello stesso posto. E di conseguenza trovarla è quasi impossibile. Inoltre... non credo tu voglia incontrare una delle creature di Ade. Il guardiano delle porte...

- Guardiano? Che genere di guardiano?

- Il cagnaccio puzzolente con tre teste, ovvio. – Crudelia si lisciò la pelliccia, appoggiando la borsetta sul tavolo. – Cerbero. Così lo chiamano. Magari ci penserà lui a fare a pezzi Emma Swan.

- D’accordo, non mi aspettavo certo che fosse semplice. Dimmi se c’è qualcuno che conosce un modo per trovare queste porte...

- E come affronterai Cerbero?

- Non ne ho idea. Mi verrà in mente qualcosa!

- Te l’ho detto, cara, nessuno sa come arrivare all’uscita. E anche se riuscissi ad uccidere Cerbero, come porterai fuori la Salvatrice? Io credo che finirai nelle prigioni di Ade. Non è una bella esperienza... non che sia la cosa peggiore che possa capitarti...

Regina aggrottò la fronte. – E quale sarebbe la peggiore?

- Il gin. – rispose Crudelia. Lo disse con un tono incredibilmente serio e solenne. – Mio Dio, quanto mi manca il gin. Non se ne trova nemmeno un goccio, qui. Neanche al mercato nero.

Girls Just Want Τo Have Fun terminò e iniziò True Colors.

- E la voce della Strega Cieca, naturalmente. Quale tortura peggiore di questa? Di sicuro non era una cantante in un’altra vita.

Fortunatamente un uomo si avvicinò al bancone per essere servito e lei preferì utilizzare il suo naso per annusarlo piuttosto che la gola.

- Ma non credo che tu sia qui solo per... l’uscita, tesoro. – ricominciò Crudelia. - O per un cagnaccio sbavante. Cos’altro vuoi chiedermi?

- Devo trovare qualcuno.

- Usa la magia.

Regina tacque. Aveva già tentato con la magia. Che si era dissolta come uno sbuffo di fumo soffiato via dal vento. Riusciva a creare sfere di fuoco. Ma non a ritrovare qualcuno.

- Già. Quando si tratta di usare la magia diventa più complicato. Soprattutto quando devi... rintracciare un’anima. – sorrise Crudelia, fissandola con i suoi occhi azzurri come se sapesse tutto di lei e di ciò che cercava.

- Parlami delle lapidi. Non sono tutte uguali. Le ho viste. – tagliò corto Regina.

- No, mia cara. – Crudelia rifletté qualche secondo ancora, poi aprì la borsetta. – Ho una mappa del cimitero, se ti può interessare. Ho accesso a molte cose da quando sono diventata sindaco... oh, grazie alla sparizione di tua madre.

Regina non commentò e la osservò mentre dispiegava una vecchia mappa ingiallita davanti a lei.

- Vedi, questa è una mappa che riporta tutti i lotti del cimitero... solo che devi saper interpretare le lapidi. Ci sono... come dire... tre configurazioni. – Sembrava divertirsi un mondo. – Se la lapide è in verticale, significa che quella persona è qui in città. Se è rovesciata... significa che... beh, è passata oltre.

- Verso un posto migliore.

- Esatto. Persona felice, lapide poggiata. – Vi fu una pausa.

- E la terza opzione?

Crudelia ridivenne seria. – Se è spezzata... è un male.

Regina avvertì il gelo dilagare nelle sue ossa. – Un male? Vuol dire che è finita in un posto... anche peggiore.

- Già. Che sfortuna...

 

 
Emma si trovava nella camera da letto al piano superiore dell’appartamento dei genitori, quando Marian venne da lei. Era turbata.

Fu sul punto di fare una domanda completamente stupida ed inutile, ovvero Marian, come va? Oppure Come posso aiutarti?

- Ehi. – disse, invece, Emma.

Marian sorrise. Non sembrava solo turbata. Era molto preoccupata. Confusa. E sapeva di averci qualcosa a che fare. Nella sua testa, Marian era morta ben due volte. Non capiva qual era quella giusta. Qual era la strada che aveva percorso. Non sapeva che, in realtà, erano giuste entrambe. La seconda strada l’aveva tracciata lei, insieme a Killian, quando erano finiti nel passato. L’aveva tracciata lei quando aveva deciso di non lasciarsela alle spalle, ma di salvarla.

Peccato che non l’aveva salvata comunque.

David le raggiunse, portando un vassoio con una tazza piena fino all’orlo. – Ho pensato di portarti qualcosa... è un infuso. Era nella dispensa.

- Grazie, papà. – disse Emma.

David capì che era un momento delicato. – Ne preparo uno anche per Marian.

- Non è necessario. Sto bene così. – rispose lei, seccamente.

- Bene...

- Papà, puoi lasciarci sole? – chiese Emma. – Credo che Marian abbia bisogno di... qualche spiegazione.

Già. E come spiegare ad una donna morta da trent’anni che suo marito non era invecchiato quasi per niente e che suo figlio Roland era ancora un bambino? Come spiegarle il fatto che Regina fosse ormai dalla loro parte e, soprattutto... come spiegarle quello che c’era fra lei e Robin? Come spiegarle perché si era ritrovata in quelle prigioni con Killian e cos’era successo dopo che l’avevano liberata?

Marian sedette accanto a lei.

 

 
Città di Smeraldo. Oz.

 

Fiyero estrasse l’ampolla dalla giubba, ne tolse il tappo e lo lanciò con tutte le sue forze contro Zelena. La bambina prese a piangere e ad agitare i piccoli pugni. La sfera di fuoco che Zelena scagliò contro la Strega dell’Est venne catturata di nuovo dalla lama, che un istante dopo si trasformò in un altro oggetto. Glinda, voltandosi, lo vide risplendere di una potente luce bianca e azzurra, che la costrinse a ripararsi gli occhi con un braccio. La Strega del Nord si fece da parte, sconcertata dal potere emanato dall’arma di Nessarose.

- Che sta succedendo?! – gridò Locasta.

L’ampolla di Fiyero si era rotta e un sommovimento scosse ora l’intera sala. Un colonna cadde e si ruppe con fracasso, riversando il liquido verde all’interno sulle mattonelle dorate.

Un portale iniziò ad aprirsi.

Fiyero capì che qualcosa non aveva funzionato. Il contenuto dell’ampolla non avrebbe dovuto aprire nessun portale, ma solo lasciare la Strega momentaneamente senza poteri, abbastanza a lungo da dare loro il tempo di renderla inoffensiva e catturarla.

Con orrore, il principe vide la culla con la bambina che veniva risucchiata dalla forza del portale. Si mosse il più rapidamente possibile per afferrarla, pur sapendo che non ci sarebbe mai arrivato...

- La mia bambina! – strillò Zelena.

E infatti non ci arrivò. La neonata e la culla piombarono nell’enorme bocca che conduceva chissà dove e Fiyero fu tradito dal suo stesso slancio, precipitando con essa. Ebbe giusto il tempo di udire l’urlo di rabbia di Zelena prima che il mondo diventasse un’assurda girandola di colori. 

- La folgore olimpica. – mormorò Glinda, riconoscendo l’arma che la Strega dell’Est ancora stringeva.

Nessarose rivolse la folgore contro di lei. Zelena lanciò alle altre Streghe un’occhiata piena di odio, scagliò cinque globi di energia a casaccio e poi si tuffò nel portale.

Esso si richiuse subito dopo.

Un corvo nero gracchiò e andò ad appollaiarsi su una delle colonne rimaste, ma nessuno badò a lui.

- Che cosa stai facendo, Nessarose? – domandò Glinda, sollevando entrambe le mani. L’orrore sembrava rotolare attraverso di lei, serrando il suo cuore con gelidi artigli di ghiaccio e spremendolo. Cercava di pensare il più rapidamente possibile, ma era troppo sconvolta.

- Metto fine alla tua vita. – rispose Nessarose, con una nota di malvagità nella voce che la Strega del Sud non aveva mai udito prima. - Mi sembra ovvio. Ho aspettato anche troppo questo momento.  Dopodiché, metterò fine anche alla vita della paladina di Oz, se non l’ha già fatto Zelena.

- Dove conduce il portale?

- Credi davvero che te lo dica? – Rise. Un riso freddo che le fece accapponare la pelle.

Poi alzò la folgore olimpica, che scintillò, sinistra.

Locasta disparve in una nube argentea e ricomparve davanti a Glinda. Il potere dell’arma divina si riversò fuori sottoforma di due sottili folgori accecanti e centrò la Strega del Nord al petto.

Non vi furono grida. Il corpo di Locasta si inarcò all’indietro e i suoi occhi diventarono bianchi. Lentamente si afflosciò, cadendo ai piedi di Glinda.

Rimase solo un’immagine trasparente e azzurrata. Ma si dissolse in fretta.

- I sacrifici sono inutili. – disse Nessarose, osservando con aria indifferente la Strega del Sud che si chinava su Locasta. – Mi ha solo risparmiato un’ulteriore fatica.

Sollevò ancora la folgore olimpica.

Glinda urlò e le sue urla risuonarono ed echeggiarono laceranti attraverso quella sala dove ormai soltanto la morte regnava e si aggirava, mentre nella sua mente si scatenavano all’improvviso tutte le immagini più orrende: gli occhi rosso sangue della Strega dell’Est riflessi nello specchio magico, tutta quella malvagità di cui non si era mai resa conto, i cadaveri bruciati dei villaggi nel Quadling, le case in fiamme, i soldati in armatura nera...

Una gigantesca ombra assalì Nessarose alle spalle, gettandola a terra. Lei perse la presa sulla folgore, che scivolò lungo le mattonelle dorate. La cosa nera si dimenò con Nessarose, che gridò la sua rabbia.

Poi il posto si riempì di persone.

Glinda tenne lo sguardo fisso sul corpo di Locasta, incapace di formulare un pensiero coerente. Rimase così fino a quando non si sentì chiamare da qualcuno. Fino a quando non si accorse che il baccano era cessato. Allora rialzò lo sguardo, inebetito, l’urlo ancora vibrante in gola, e davanti a lei c’era un lupo con brillanti occhi gialli, un lupo enorme e ansante, che abbassò le orecchie e chinò la testa, annusando i capelli ricci della Strega del Nord, quella che aveva sparso baci sulle fronti perché fossero protetti.

- Dov’è mia figlia? Dov’è Zelena? Dove sono andate? – chiese Robin, setacciando il luogo con gli occhi.

- Vieni, Heathcliff. – disse Knubbin, con voce calma, stendendo il braccio. Il corvo lasciò la colonna dorata per raggiungere il suo padrone.

- Glinda. – Mulan le sfiorò la spalla con una mano. Con prudenza. - Glinda... dov’è Fiyero? È stata Zelena a fare questo?

- Io. – rispose lei, in un sussurro. Tirò su un po’ il corpo di Locasta, appoggiandosi la sua testa contro il petto.

- Cosa?

- Sono stata io a fare questo.

 

 
Oltretomba.

 

Regina non aveva idea di che cosa desiderasse.

Desiderava che Daniel stesse bene. Che fosse passato oltre. Che fosse felice in un posto migliore, un posto bellissimo e pieno di luce come quello che aveva accolto suo padre.

E voleva che fosse ancora lì, in quel limbo, per parlargli. Voleva vederlo, avere la possibilità di guardarlo ancora una volta negli occhi azzurri. Digli... non sapeva nemmeno lei cosa. O forse sì, lo sapeva. Chissà che cosa avrebbe pensato lui del perché si trovava nell’Oltretomba. Chissà cosa avrebbe pensato una volta saputo che stava facendo il possibile per riportare in vita qualcuno...

- Regina. L’ho trovato. – disse Biancaneve.

Si erano aggirate insieme per le tombe, seguendo la mappa di Crudelia. Regina aveva paura di incontrare la lapide giusta e... trovarla spezzata. Orribilmente spezzata e non semplicemente in verticale. Era sicura che se avesse visto quella crepa si sarebbe messa ad urlare. E avrebbe continuato ad urlare fino a quando Biancaneve non si fosse decisa a trascinarla via. Si sarebbe messa a gridare e avrebbe spaventato Henry, che era venuto con loro.

- Va tutto bene. Puoi guardare. – continuò Mary Margaret, rassicurante.

Regina guardò.

Sulla pietra tombale c’era scritto semplicemente DANIEL COLTER. Ed era...

- È poggiata a terra. – mormorò Regina, parlando soprattutto a se stessa. – Non è... qui.

- No. È passato oltre. – le disse Biancaneve, sorridendo. Non lo ammise, in quel momento, ma anche lei era sollevata. Aveva accompagnato Regina al cimitero perché sapeva quanto era importante per lei, ma anche perché ripensava a quella bambina, se stessa, manipolata da Cora, che rivelava qualcosa che mai avrebbe dovuto rivelare. Si sentiva responsabile. Anche se era solo una bambina, si sentiva responsabile. – È felice.

La lasciò sola sulla tomba di Daniel. Anche Henry si allontanò. In realtà, lui non era venuto solo per sua madre, ma anche... beh, per l’altra sua madre. Emma voleva restare sola. Aveva bisogno di riflettere ed era sicuro che non volesse troppa gente intorno, per adesso.

- Daniel... – disse Regina, sentendosi immensamente sollevata. – Sono felice che tu stia bene. Ma mi dispiace... di non averti potuto vedere.

Henry si infilò le mani in tasca, mentre osservava la madre da una certa distanza.

Poi qualcosa si mosse, dietro di lui. Un rumore smorzato. Furtivo. Ma sembrava fatto apposta perché lui lo sentisse. Sembrava... deliberato.

- Sei stato il mio primo amore e vivrai sempre nel mio cuore. – continuò Regina, posando una mano sulla pietra fredda. Non avvertì niente. Non fu come quando aveva toccato il nome di Emma inciso sulla lapide. C’era solo la consistenza della pietra. – Volevo assicurarmi che stessi bene.

Alzò la testa per cercare Henry... e lo vide vicino ad un salice. Si stava guardando intorno, come se qualcosa avesse attirato la sua attenzione.

Poi notò il bambino.

Era più piccolo di Henry e stava in piedi dalla parte opposta della lapide di Daniel. Il suo viso era terribilmente pallido, le labbra screpolate e violacee, i capelli sporchi e ritti sulla testa e una delle guance aveva un aspetto infossato, da vecchio.

- Che cosa...? – iniziò Regina.

Il bambino aveva tenuto una mano nascosta dietro la schiena, come se sesse stringendo un mazzo di fiori raccolti in un prato.

Quando gliela mostrò, Regina vide che non recava nessun mazzo di fiori con sé.

Le piccole dita erano avviluppate intorno all’elsa di un pugnale.

Come lui vibrò il colpo, Regina si ritrasse quasi meccanicamente e nonostante fosse sotto choc. La punta dell’arma urtò la pietra, provocando una piccola scintilla e scheggiandola poco sotto la D. Il bambino si ritrovò proiettato in avanti. Andò giù di peso, goffo ed emettendo un sibilo.

E prima che potesse rialzarsi, Regina aveva già visto gli altri.

Erano molto giovani. Alcuni potevano avere l’età di Henry, altri quella di Roland. Alcuni erano cadaverici, con i volti scavati, i capelli arruffati e i vestiti che non erano più vestiti ma stracci che cascavano loro addosso. Certe facce erano imbrattate, gonfie come se le avessero orrendamente straziate e poi rimesse insieme con rozza noncuranza. Un paio avevano delle lunghe cicatrici sulla gola. Ma i loro sguardi sembravano di marmo.

- Regina! – gridò Biancaneve, arrivando di corsa. Prese una freccia e la incoccò, scagliandola senza quasi prendere la mira.

Regina vide, con orrore agghiacciante, la punta che si conficcava nella schiena di un ragazzino. Quello finì in ginocchio sull’erba. Ansimò qualcosa, ma poi si rimise in piedi ed estrasse il proprio pugnale. Un altro fece schioccare una frusta.

Regina lanciò un globo di fuoco in mezzo a due di loro, come avvertimento. Si spostarono, urtando i compagni.

- Sì, uccidici, Regina Cattiva. – disse il bambino che aveva vibrato il primo colpo, sostando in piedi sulla lapide di Daniel. Tese una mano davanti a sé come per afferrare quella di Regina.

- Uccidici ancora. Uccidici come hai fatto tanto tempo fa. – riprese un secondo bambino, con voce stridula ed infantile, che le ricordò quella di Roland.

- Hai distrutto le nostre case. Hai ucciso noi e le nostre famiglie.

- Ti è piaciuto farlo, vero, Regina Cattiva?

- Sarai sempre la Regina Cattiva. Nessuno ti amerà mai davvero. Nessuno!

- Perderai tutto. Il tuo amore. Tuo figlio. Perderai...

Le frecce di Biancaneve piovvero in mezzo al gruppetto, a volte centrando i bersagli. Ma anche se venivano raggiunti dalle frecce, quelle non servivano a fermarli. Avanzavano, barcollando. Lenti, ma determinati. Con quelle facce spettrali.

Regina avrebbe potuto spazzarli via con un solo gesto della mano, eppure era raggelata. Il cuore le martellava nelle tempie più forte che mai.

- Regina Cattiva... hai paura? Hai paura di noi?

Poi si dissolsero. Regina batté le palpebre e un istante dopo i bambini erano svaniti. Si alzò un vento gelido, che sembrò penetrarle fin nelle ossa.

- Regina, stai bene? – chiese Biancaneve, trasecolata.

- Io... sì. Li hai visti, vero?

- Dove sono andati?

Non ne aveva la minima idea, ma le loro voci le rintronavano ancora nelle orecchie.

Un inganno di Ade, probabilmente. Un illusione creata apposta per lei. O erano reali? A lei erano parsi fin troppo concreti. Morti, furiosi e molto concreti. Vite spezzate.

“Sarai sempre la Regina Cattiva. Nessuno ti amerà mai davvero. Nessuno!”

“Perderai tutto. Il tuo amore. Tuo figlio. Perderai...”

- Henry... dov’è Henry? – chiese Biancaneve.

Regina guardò nel punto in cui suo figlio si trovava fino a poco prima, ma non vide nessuno. Il vento si fece più forte, piegando gli steli d’erba e le fronde degli alberi, sollevandole i capelli.

- Henry! – urlò Regina.

Non ottenne risposta.


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Capitolo 6
*** 6. ***


6

 

"L'odio è cieco, la collera sorda,
e colui che vi mesce la vendetta,
corre pericolo di bere una bevanda amara"

[Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo]

 

 

 

 

Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 

I cavalli si impennarono, impauriti, roteando gli occhi e sbuffando dalle nari. Il cocchiere della Regina ebbe il suo bel daffare con le redini e temette di perdere il controllo degli animali.

“Che cosa succede?”, gridò Regina, sporgendo la testa dal finestrino della carrozza.

“Mi dispiace, Maestà. I cavalli sono terrorizzati.”, si scusò il cocchiere. Gli animali si impuntarono. Per quanto lui li spronasse e cercasse di calmarli, non sembravano intenzionati a fare un solo passo.

La strada davanti a loro si perdeva nel buio di una fitta foresta. Gli alberi erano antichi, alti e solenni come palazzi. I vapori che salivano dal terreno avevano cominciato a turbinare intorno alla diligenza. La luce della luna pareva ancora più chiara e vivida, un fulgore pulsante.

“Datti una mossa, idiota. Così perderemo le tracce di Biancaneve.”, disse Regina.

“Con il dovuto rispetto, Maestà... i cavalli sanno dove ci troviamo. Forse è meglio... se posso suggerirlo, sarebbe meglio tornare dopo il sorgere del sole.” La voce del cocchiere era incerta. Si mordeva le labbra, perché non desiderava morire solo per avere dato un consiglio alla sua Regina. Sperava che il suo tono suonasse il più possibile sottomesso.

“Anch’io so dove ci troviamo, razza di incompetente! La Foresta dei Morti non mi fa alcuna paura! Sprona quei cavalli!” E detto questo si ritirò nuovamente nella carrozza.

Il cocchiere lottò ancora un po’ con le redini, poi riuscì a convincere gli animali ad avanzare. Il sentiero si allargò e prese a scendere. Il soldato che sedeva con la Regina dentro alla carrozza sbirciava continuamente dai finestrini e teneva una mano sull’elsa della spada, timoroso.

Poi una sagoma voluminosa sbarrò loro la strada. Si piantò in mezzo al sentiero, proprio come avrebbe potuto fare un fantasma. Era una figura incappucciata e alta, non sarebbe potuta essere più immobile se fosse stata di pietra.

I cavalli impazzirono. Il cocchiere tirò le redini con forza, ma lui stesso pensò si trattasse di uno spirito e gridò in preda al panico.

“Cosa c’è adesso?!”, domandò Regina.

Con un potente strattone, i cavalli si mossero e presero a galoppare alla cieca. Il cocchiere venne sbalzato di sella.

La carrozza urtò il tronco di un albero e si ribaltò.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

Henry si destò e gli ci vollero un paio di minuti per capire che cosa stesse succedendo, come mai vedesse il mondo capovolto e perché si muovesse pur non toccando l’asfalto.

Qualcuno lo stava trasportando in spalla come un sacco di patate.

- Ehi... – cominciò Henry, ancora stordito dal colpo alla testa. Gli ronzavano terribilmente le orecchie. – Ehi, dove mi stai portando? Chi sei?

L’uomo non rispose. Camminò ancora per un po’, fino a quando non raggiunse il porto di Storybrooke. Lì, salì su un ponticello di legno e poi balzò sul ponte di una nave.

- Credevo ti avessero preso. – disse un’altra voce maschile, che ad Henry sembrò di conoscere.

- No. Gli scherzetti di Ade sortiscono sempre l’effetto desiderato.

Il suo rapitore lo mise giù con poco riguardo e si accosciò davanti a lui. Henry vide le vele arrotolate di una grande nave, l’albero maestro che pendeva, sbilenco. Alcune assi del ponte erano divelte e il legno era graffiato e bucato in più punti.

- La Jolly Roger? – domandò Henry, battendo le palpebre.

- Non la Jolly Roger, moccioso. Ma è comunque una bella nave, non pensi?

Erano in due. Quello che lo aveva tenuto in spalla non l’aveva mai visto prima. Era un uomo alto e castano, con una casacca azzurra e un paio di pantaloni neri infilati in vecchi stivali di cuoio.

L’altro, invece, era uno dei cavalieri di Artù, quello che aveva ballato con Lily e anche con sua madre. Quello che aveva tentato di ucciderla. Percival.

- Dunque è questo il bimbo della Regina. – disse lo sconosciuto, sorridendo furbescamente. – Henry Daniel Mills.

Pronunciò il suo secondo nome, Daniel, dopo una brevissima esitazione.

- Chi sei? Che cosa volete? – domandò Henry.

- Non sa come pulirsi la conoscenza e dà il nome di mio fratello a suo figlio. Patetica. – commentò, parlando più a se stesso che a lui. Si fece passare delle corde. – Vediamo se sei un ragazzino ubbidiente. Dovrai stare fermo mentre ti lego.

“Non sa come pulirsi la conoscenza e dà il nome di mio fratello a suo figlio.”

- Le mie mamme verranno a riprendermi. – disse Henry. – Tutta la mia famiglia verrà. Ve lo assicuro.

- Non vediamo l’ora, ragazzo. – rispose Percival, con quel sorrisetto astuto che ricordava dalla sera del ballo al castello di Artù.

Henry iniziò a dimenarsi non appena l’uomo gli prese i polsi per legarglieli. Allora Percival estrasse un sacchetto di cuoio, sciolse i lacci e versò sulla mano del complice una polverina dorata. Gliela soffiò in faccia e ad Henry si confuse la vista.

- Peccato, non volevo sprecarla.

- Non preoccuparti di questo, William. – Percival guardò la città, chiedendosi quando avrebbe visto arrivare le madri del ragazzino, con tanto di famigliola al seguito.

Non vide nessuna famigliola. Ma lontano, più o meno dalle parti del cimitero, notò il tornado.

Era decisamente un tornado di dimensioni consistenti, nero come le tenebre che aveva dovuto sopportare quando Ade l’aveva sprofondato nelle sue prigioni. Nero come lo era stato il mondo subito dopo la morte. Prima il fuoco, la sofferenza infinita... poi il buio totale. La caduta interminabile.

- Cos’è? – domandò William, schermandosi gli occhi con una mano.

- Un portale. – rispose Percival, contrariato. – Credo che qualcuno sia appena arrivato negli Inferi.

 

 
Regina si precipitò in casa, seguita a ruota da Biancaneve.

- Emma! – chiamò, la voce piena di panico e collera. – Emma, dove sei?!

Emma scese le scale di corsa. Marian rimase in cima ad esse, fissando Regina in un modo che le fece capire che aveva saputo ogni cosa. Non aveva idea se Marian fosse più stordita o più arrabbiata. Se fosse più confusa di prima o se stesse cominciando ad uscire dal labirinto che era diventato la sua mente. Il suo sguardo era impenetrabile.

Ma Regina non poteva occuparsene, ora.

- Ho visto il tornado. – disse Emma. – Credo che qualcuno abbia appena raggiunto gli Inferi... attraverso un portale.

- Tornado? – fece sua madre.

- Emma, nostro figlio è sparito! – si affrettò a dire Regina.

- Come sparito?

- Non ho potuto fare niente... non ho nemmeno visto chi l’ha portato via!

- Non è stata colpa tua, Regina. – intervenne Biancaneve. – C’è sicuramente di mezzo Ade. Non possono essere andati lontani.

Gli altri erano accorsi.

- Ehi! – cominciò Lily. – Guardate là.

Qualcuno aveva appena infilato un foglio di carta ingiallito sotto la porta d’ingresso. Regina lo prese subito, mentre Lily spalancava la porta. Vide il bambino che attraversava la strada, fuggendo a tutta birra. Malefica fu più veloce di tutti. Si dissolse in una nube viola e ricomparve di fronte al fuggitivo, acchiappandolo per un braccio. I suoi occhi grandi e pieni di fuoco zittirono subito le sue proteste.

- È uno di quelli che mi hanno aggredita al cimitero. – disse Regina, allungando una mano a mo’ di artiglio.

Il bambino, pallido e cencioso, si ritrasse. Lily lo fermò prima che potesse pensare di scappare di nuovo.

- Sai, non mi piacciono molto i bambini. – disse, voltandolo verso di sé. - E credo che a te non piacciano i draghi, vero? Vuoi dirci dov’è Henry o vuoi vederne uno, che potrebbe anche decidere di mangiarti?

- Io sono morto. – disse il bambino, a muso duro. – Puoi anche mangiarmi, quindi, Oscuro.

- Non sono più un Oscuro, ma sono capace di cavarti una cosa di bocca, se voglio.

Regina fece per parlare, ma Emma la bloccò, mettendole una mano sul braccio.

- Lily... – disse.

Lei lasciò il bambino.

Emma si inginocchiò davanti a lui. – Ehi, senti... so che non fai tutto da solo. Qualcuno ti ha detto di farlo e ti ha promesso qualcosa, vero?

Non parlò. Anzi, la fissò con astio. Evidentemente, se sapeva che Lily era stata un Oscuro, doveva sapere anche di lei.

- Forse ha davvero bisogno di una spintarella. – disse Regina. Nella voce di lei c’era una minaccia, un pericolo in agguato. – È di mio figlio che stiamo parlando.

Uno strano, improvviso silenzio riempì la cucina, come se ognuno dei presenti stesse trattenendo il respiro. Emma avvertiva fin troppo chiaramente la forza della sua rabbia. E l’ombra della donna che era stata un tempo, la donna che aveva lanciato la maledizione e perseguitato Biancaneve.

Marian si mise tra Regina e il bambino e gli tese una mano. Lui la guardò, indeciso.

- Qui nessuno vuole farti del male. – disse Marian, sorridendo. Ed Emma si accorse subito di quanto fosse convincente il sorriso di lei. Di quanto fosse puro e assolutamente amorevole.

- Nemmeno la Regina?

Regina non avrebbe dovuto essere così ferita dalle parole di un bambino che poteva essere poco più grande di Roland, dalle parole di un bambino che era stata lei ad uccidere... eppure fu una pugnalata. Fredda. Glaciale. Come il colpo di spada che uno dei suoi soldati doveva aver inferto a lui. Si girò dall’altra parte, incontrando lo sguardo verdazzurro di Emma.

- Nemmeno la Regina. – rispose Marian. – Quelle persone... potrebbero non averti detto la verità, qualsiasi cosa ti abbiano promesso. Loro vogliono fare... delle cose brutte ad Henry. E lui è come te.

- Morto?

- No. Innocente. – Ora il tono di Marian era più serio, molto più determinato.

Il bambino si morse il labbro.

- Il biglietto dice che l’hanno portato alla libreria. – disse Lily, sottraendolo a Regina. – E sarà di certo una trappola.

- Loro hanno detto... che l’avrebbero portato là. Ma non hanno detto nient’altro. – ammise il bambino. – Non hanno detto che gli avrebbero fatto male. Solo che dovevano spaventare la Regina.

- Chi erano? Conosci i loro nomi?

- Uno sì. Parsifal. – Ci pensò su. Scosse il capo. – No, non era proprio così. Era...

Lily sgranò gli occhi. – Percival. Emma, andiamoci subito.

- Sì. – disse Emma. - Papà... vai con Killian a vedere che cos’era quel tornado. Cos’ha portato qui, almeno. Noi ci occuperemo di Percival. Fate attenzione.  

 

 
Foresta dei Morti. Più di trent’anni fa.

 
Regina riuscì a sgusciare fuori dai resti della sua carrozza, nonostante il dolore alla spalla destra.

Schiantandosi, il suo mezzo di trasporto aveva perduto una ruota ed era ora un ammasso legnoso e contorto. Il soldato che viaggiava con lei giaceva, forse morto, all’interno, con l’elmo ammaccato che gli pendeva sbilenco sulla testa e una gamba in una posizione innaturale. Il cocchiere era sparito. I cavalli giacevano poco più avanti.

Qualunque cosa avesse causato quel disastro non c’era più.

“Ma perché i miei uomini sono solo degli idioti incompetenti?”, mormorò Regina, districando lo strascico del suo lungo soprabito rosso da ciò che rimaneva del finestrino.

La spalla le doleva. Di certo era dislocata e il dolore le impediva di ragionare lucidamente. La indeboliva. Doveva andarsene da quel posto, su quello non aveva dubbi. Andarsene prima che Biancaneve acquisisse troppo vantaggio. Anzi, era più che probabile che fossero caduti tutti in una delle sue orride trappole.

“Saranno stati i suoi nani disgustosi.”, continuò, arrancando per allontanarsi dal luogo dell’incidente.

Si fermò. Qualcosa si muoveva, nel folto della boscaglia, proprio dietro di lei. Udì il secco spezzarsi di un rametto e un fruscio guardingo tra il fogliame del sottobosco. Suoni che andavano quasi perduti sotto il sussurro del vento tra gli alberi.

“Chi è là?”, chiamò con voce alterata. “Chi sei? Mostrati.”

Una figura alta ed incappucciata sostava fra due tronchi, ma lei non riusciva a scorgerne il viso. Era troppo buio. La luce della luna piena non era sufficiente.

“Mostrati, se ne hai il coraggio.”, insistette Regina.

L’uomo scostò leggermente i lembi del cappuccio, facendo in modo che lei vedesse solo una parte del suo volto. La linea della mascella. Le labbra sottili. Un occhio azzurro.

“Daniel...?” Il solo rendersi conto di quello che stava dicendo bastò a farla rabbrividire incontrollabilmente, come se fosse stata in preda ad un delirio mortale.

Ma era sicura di non sbagliarsi. Non avrebbe mai potuto scordare il volto del suo amore.

“Daniel, sei tu? Sei... tornato?”

Il ragazzo si voltò, mettendosi a correre.

“No, Daniel, aspetta!”, gridò Regina, seguendolo nelle tenebre della Foresta dei Morti. “Sono io. Sono Regina!”

Lui la stava distanziando. Fuggiva, come spaventato dalla sua presenza. Persino il modo in cui correva, il modo in cui si spostava tra un albero e l’altro, bastarono a farle capire che la sua mente sovraeccitata non la stava ingannando. Quel luogo era popolato dagli spiriti, che lo rendevano tenebroso con la loro presenza. Rischiavi, voltandoti, di vedere cose che potevano farti uscire di senno. Ma non voleva pensarci. Non c’era alcun bisogno di pensarci...  

“Daniel, qualsiasi cosa ti abbiano detto di me, non è vera.”, gridò Regina. “Devi credermi.”

Continuò a corrergli dietro, fino a quando non giunse in uno spiazzo in cui gli alberi erano stati tagliati e c’erano solo monconi di tronchi.

E una fossa. Una fosse molto profonda. Regina ci finì dentro con un urlo. Cadde, battendo la spalla già dislocata. Fu momentaneamente accecata dal dolore. Si morse il labbro e serrò le palpebre, aspettando che si placasse.

Infine, una risata. Proprio sopra di lei.

“Daniel?”

“Regina.”, rispose. E la voce aveva un’inflessione completamente diversa. Più dura. Era più profonda e rauca. “O forse dovrei chiamarvi... Regina Cattiva?”

“Tu non sei Daniel.”, constatò, sentendosi una vera idiota.

L’uomo si accucciò sul bordo della fossa. Avrebbe dovuto capirlo subito perché era più alto di Daniel e aveva le spalle più larghe. Inoltre, quando abbassò il cappuccio della mantella grigia, per quanto i lineamenti fossero simili e gli occhi del medesimo azzurro, i capelli erano folti e castano chiaro.

“Certo che no.”, rispose l’uomo, divertito. “Mio fratello giace sottoterra, Regina Cattiva. Da tempo.”

“William?” Regina si rialzò, tenendosi la spalla dolorante con una mano. “Daniel... lui aveva detto che te ne eri andato. Mi diceva... che non ti vedeva da anni. Eri partito in cerca di fortuna.”

“Ed è così. Ma sono tornato. Dopo la sua morte, sono tornato e ho saputo cos’è accaduto. Sai, Regina... io volevo bene a mio fratello. È anche per lui che me ne sono andato. Questo te l’ha detto? La mia fortuna sarebbe stata anche la sua. Eh? Τe l’ha detto?”

“Sì...”

“Ti dirò una cosa io, allora.” William intrecciò le mani. “So cos’hai fatto. Daniel è morto per colpa tua. L’hai ucciso tu. È giunto il momento di pagarne il prezzo, Regina Cattiva. E il prezzo è molto alto.”

 

 
Oltretomba.

 
Il tornado aveva lasciato dietro di sé una scia di cianfrusaglie, i pezzi di quello che sembrava un telone verde e persino una cuffietta bianca da neonato.

David l’ha raccolse, esaminandola, perplesso. Il cimitero, con le sue lapidi disposte in file irregolari, era deserto. Il tornado era passato in mezzo alle tombe, ma esse erano intatte.

Killian osservò le zolle di terra e i cespugli di alloro e ginepro divelti, in cerca di orme o di qualche altra traccia. Un vecchio salice era spaccato malamente e la rottura era così fresca che la sua polpa biancastra ancora perdeva linfa. Dall’altro lato c’era un pugnale. Lo prese.

- Quello apparterrebbe a me. – disse una voce, che fece sobbalzare Killian. – Potrei riaverlo?

L’uomo che si era rivolto a lui tendeva una mano, mentre reggeva con la sinistra una faretra piena di frecce, decorate con piume rosse.

- Penso di no, amico. – rispose Killian, occhieggiandolo, sospettoso. David si avvicinò, preparandosi ad estrarre la spada. - Chi sei?

- Mi chiamo Fiyero. Fiyero Tiggular. E vengo da Oz. – Lui occhieggiava l’uncino che aveva al posto di una delle mani.

- Non si direbbe. – rispose Killian. Fiyero aveva la pelle nerissima e le braccia ricoperte di tatuaggi a forma di diamante. Ne aveva anche sulle nocche e sul collo. – Io direi che vieni dai Mari del Sud. Dal profondo Sud. Quei tatuaggi... non sono in molti ad averli.

- Sì, devo dire che il mio vero padre veniva da là. – Fiyero liquidò la questione con un’alzata di spalle. - Avete viaggiato molto, a quanto pare. Ma la mia casa è nel regno dei Winkie. Mi trovavo ad Oz quando il portale...

- Sei solo? – domandò David.

- Non lo ero. Ma la strega è sparita con la bambina prima che potessi fare qualsiasi cosa.

- La Strega Perfida. Per tutti i diavoli... – Killian guardò David. Poi si rivolse di nuovo a Fiyero. – Forse è il caso che tu ci dica che cosa è successo. Poi, forse, potrai riavere il tuo pugnale.

- Beh, vi ringrazio. Però anch’io ho una domanda: perché il cielo di questo posto è rosso? Dove mi trovo esattamente?

 

 
Le porte della libreria erano chiuse. Quando Lily tirò i battenti per aprirli, la magia la respinse, scintillando.

- Un incantesimo di protezione. – disse Emma.

- State indietro. – Malefica aprì la mano destra e in essa comparve lo scettro. Lo impugnò saldamente, puntandolo contro le porte e scagliò il potere su ciò che proteggeva quel luogo. Regina, Emma e Lily si schermavano gli occhi.

La barriera andò in frantumi.

- Beh, non era così potente, come incantesimo. – osservò Lily.

- Già. Il che vuol dire che è una trappola. – concluse Emma.

A Regina poco importava che fosse una trappola. Spinse i battenti della libreria, spalancandoli e si precipitò dentro, chiamando il figlio a gran voce.

- Regina, aspetta... – disse Emma, cercando di fermarla.

Il ragazzino era appeso al soffitto, la corda legata intorno al collo, le braccia penzoloni lungo i fianchi e la faccia messa in ombra dal cappuccio della mantella. Muoveva ancora le gambe. Debolmente. I piedi calzavano le stesse scarpe che portava Henry quando era sparito, al cimitero. E portava gli stessi jeans.

Regina rimase là, raggelata. Sentiva che un urlo lacerante stava salendo dal profondo. Sentiva che il suo stesso equilibrio mentale cominciava a cedere. Era una sensazione troppo materiale. Autentica. Di certo, un albero sovraccarico di neve, durante una tremenda tormenta, doveva sentirsi così un attimo prima di abbattersi al suolo.

Lily ebbe la prontezza necessaria e abbrancò le gambe di Henry prima che soffocasse. Malefica bruciò la corda e il corpo cadde sul pavimento.

- Henry! – gridò Regina, gettandosi in ginocchio accanto a lui.

Quando scostò il cappuccio per scoprirgli il viso vide che non si trattava affatto di Henry. Era un ragazzo con la sua stessa struttura fisica e i suoi vestiti, ma...

- Regina, attenta! – Emma si lanciò su di lei e la spinse via prima che il pugnale la raggiungesse. La lama fendette l’aria tra di loro e la finta vittima grugnì il suo disappunto. Lily lo disarmò con un calcio e lo prese per il colletto della giacca.

Nel frattempo, ne arrivarono altri. O meglio, non arrivarono. Comparvero dal nulla. Come se l’unico ragazzo presente avesse iniziato a moltiplicarsi.

Uno cercò di colpire Emma e lei gli afferrò il polso. Con un piede, agganciò la sua caviglia e lo fece cadere. Prima che potesse rialzarsi, gli fu addosso, bloccandolo a terra con un ginocchio.

- No... – sibilava... l’essere sotto di lei, dimenandosi e torcendo il collo all’insù, gli occhi malevoli, quasi da insetto nel loro stupido odio. La faccia cominciò a mutare; era quella di Neal, dallo sguardo spento e fisso; era quella incredula di Graham nell’attimo in cui Regina aveva polverizzato il suo cuore; era quella di suo figlio, paurosamente pallida. Infine cambiò di nuovo e diventò il volto di un’entità con la fronte bassa, gli occhi gialli, la lingua appuntita e biforcuta.

Ma Emma non era l’unica a vedere altre facce in quelle dei demoni che le circondavano. Regina, prima di scagliare la sua sfera di fuoco, scorse la faccia di sua madre, che la guardava così come l’aveva guardata quando aveva usato le cinghie dei cavalli per legarla. Scorse le facce dei bambini del cimitero. Scorse la sua stessa faccia, i lineamenti distorti dalla furia.

Lily vedeva i suoi genitori adottivi. Prima suo padre e poi sua madre. Vedeva Murphy, che le sussurrava parole orribili, accuse e minacce. Le ricordava che aveva privato una bambina innocente di un padre, lasciandola sola al mondo.

Malefica atterrò uno dei demoni, mandandolo prima a sbattere contro uno scaffale e poi tenendolo fermo sul pavimento con la magia. Lui si portò le mani alla gola, annaspando. Batté i piedi e tese il corpo. Infine, rivolse la faccia a Malefica. Il suo viso divenne quello di un uomo urlante, quello di una donna le cui guance erano bruciate dal fuoco, quello di un giovane con i capelli ridotti ad un groviglio ardente. Divenne il volto di una ragazza che altri non era che lei, trecento anni prima, un drago inesperto, incapace di controllare il proprio potere, che aveva commesso una strage, uccidendo e distruggendo, salvo poi rintanarsi nella grotta dove la madre aveva protetto l’uovo da cui era nata.

- Τu perdi sempre, Malefica... vieni sempre sconfitta. Anche oggi. – gracchiò il demone.

Malefica l’afferrò per i capelli biondo grano e fece per spezzarle il collo. Poi vide che sua figlia era stata sospinta contro uno scaffale e le dita di uno dei mostri le arpionavano la gola. Stringevano. Lily annaspava. Malefica colpì con violenza l’essere che aveva assunto le sue sembianze e fece per scagliarsi in avanti.

Non vide l’altro, quello che sopraggiunse alle sue spalle. Non l’aveva neppure sentito.

La lama di un pugnale le trapassò la giacca e si piantò nella sua schiena.

 

 
Foresta dei Morti. Più di trent’anni fa.

 
Tenendosi la spalla dislocata, Regina sollevò la testa e spalancò gli occhi, esterrefatta. “Morto per colpa mia? Ma di che cosa parli? Come osi?”

“Come oso?” Lui rivolse la faccia alla luna. “Direi che ho tutte le ragioni per osare, Regina. Hai ucciso mio fratello. O non era vero che volevi fuggire con lui, nonostante il parere contrario della tua famiglia?”

“Io...”

“Mi hanno anche detto che lo amavi. Ma io non credo. Se ciò fosse vero, l’avresti lasciato in pace. Avresti...”

“Non sono io la colpevole, William!”, gridò Regina, sconcertata da quelle parole così intrise di veleno. “La vera colpevole è Biancaneve! Se non avesse rivelato il nostro segreto... saremmo riusciti a fuggire e Daniel sarebbe vivo!”

“Poco importa ciò che ha fatto Biancaneve. Non ho alcun interesse per quella bandita.” William posò un ginocchia a terra ed estrasse qualcosa dalla casacca. Se lo rigirò tra le mani per qualche istante, prima di sciogliere i lacci. “Sei stata tu a convincerlo a scappare. L’hai spinto a credere alle tue fantasie! L’hai spinto a credere che vivere una vita felice fosse possibile! Bugie.”

“Le bugie sono quelle che hanno raccontato a te.”, replicò Regina. “Lo amavo... lo amavo davvero. Non ho potuto impedirlo...”

“Potevi, invece.”, disse William, con un’arroganza e una testardaggine che lei non avrebbe mai creduto possibili. “Da quando una storia d’amore tra uno stalliere e una ragazza di nobile famiglia, promessa ad un re... è finita bene?”

“William... io pensavo...”

Il fratello di Daniel aveva smesso di ascoltarla. Non aveva la minima intenzione di stare là a sentirsi ripetere che era Biancaneve la causa di tutto. ‘Parla pure, Regina Cattiva’, sembrava dire la sua postura rigida, la sua fronte aggrottata, la bocca stretta in una linea piatta e dura. ‘Parla fino ad diventare blu. Non servirà a niente’.

Ma doveva provare. “William, smettila. Non voglio farti del male. Io voglio proprio ciò che vuoi tu. Vendetta per Daniel. Sto facendo questo per lui!”

“Non sei altro che una bambina viziata. La tua vita ti annoiava e hai pensato di gettare la tua noia su mio fratello. Sei bella...”, mormorò William, alzandosi in piedi e riversando il contenuto della sacchetta nella mano destra. “Sei bella e sono sicuro che sai persuadere chiunque. Sei una manipolatrice nata. Mi hanno parlato anche di tua madre, sai? Cora. Da come me l’hanno descritta, direi che le somigli.”

“Oh, non hai idea di quanto ti sbagli! Se mi dessi la possibilità di spiegare...”

William gettò nella fossa la polvere che aveva tirato fuori dalla sacchetta. Non appena i granelli dorati le scivolarono lungo il braccio, Regina avvertì i suoi muscoli indurirsi, contrarsi dolorosamente. Era una polvere magica.

“Sei già ferita. Mi sono assicurato che uscissi viva dall’incidente in carrozza, perché volevo che avessi modo di cadere in questa trappola, dove resterai. A lungo. Così potrai pensare ai tuoi errori. A ciò che avresti dovuto fare e non hai fatto, perché sei un’egoista.” Riversò su di lei quel fiume di parole senza nemmeno guardarla. “Una sirena di un regno lontano mi ha procurato questa sabbia. Mi disse che avrebbe neutralizzato qualsiasi magia. Quando ne sarai ricoperta... non potrai nemmeno uscire dalla fossa. E nessuno potrà aiutarti ad uscirne.”

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
- Mamma! – gridò Lily, raggiungendo Malefica e gettandosi in ginocchio accanto a lei.

Regina neutralizzò il demone che l’aveva pugnalata, spezzandogli il collo. Emma accorse a sua volta, dopo essersi occupata dell’ultimo mostro. La giacca grigia di Malefica era già zuppa di sangue. Nel tessuto si apriva uno squarcio, attraverso il quale Emma poteva vedere la ferita provocata dal pugnale.

- Mamma... – ripeté Lily, con una voce che ad Emma ricordò fin troppo il tono della ragazzina che si era nascosta nel garage della sua famiglia adottiva. La ragazza che aveva gridato il suo nome sporgendosi dal finestrino di un’automobile.

Malefica la fissò, da sotto le palpebre appena dischiuse.

È proprio come a Camelot, pensò Emma. Solo che quella volta era Lily ad essere in fin di vita. E lei aveva commesso l’errore di moltiplicare l’oscurità. Scacciò quel pensiero dalla mente con tutta la rapidità possibile.

Regina si concentrò al massimo delle sue possibilità per guarirla. Avvertì il potere che si faceva strada dentro di lei e cercava una via per uscire. La sua mano scintillò, emanò un’intensa luce bianca per alcuni secondi... poi si spense. A Regina sembrò di premere contro una robusta parete di gomma, che cedette un po’ permettendole di usare la magia, ma poi la risputò fuori.

- Che cosa succede? Perché non funziona? – domandò Lily, con il respiro corto per l’agitazione.

Regina fu presa dalla stizza. Aveva il cuore in tumulto e la testa che le bruciava. Sentiva un ronzio nelle orecchie che pareva un battito d’ali e avvertiva una presenza vicina che rideva di lei, dei suoi goffi tentativi.

Emma afferrò saldamente la sua mano e la strinse così forte che Regina ne fu sconcertata. – Insieme. Possiamo farcela.

Dopo un istante di incertezza, Regina annuì. Malefica rantolò, mentre la macchia di sangue si allargava sotto di lei, intaccando e macchiando la rilegatura di un libro precipitato da uno scaffale.

La magia proruppe di nuovo, più forte. La barriera invisibile che aveva respinto il primo attacco si tese, sembrò in procinto di scacciarle un’altra volta, rendendo vano anche il secondo tentativo. Emma sentì che la magia di Regina si univa alla sua in una girandola di potere.

Non era abbastanza. Quel mondo si opponeva con tutte le sue forze. La morte che impregnava ogni cosa nel regno di Ade si aggrappò a Malefica, cercando di trascinarla giù con sé.

Lily prese la mano libera di Emma, imponendosi di ricordare quello che aveva imparato da sua madre, e appoggiò l’altra sopra le dita intrecciate delle due.

 

 
Foresta dei Morti. Più di trent’anni fa.

 
“Basta, William!”, gridò Regina, sollevando entrambe le braccia e ignorando la fitta di dolore alla spalla.

Qualunque effetto dovesse avere quella sabbia magica, non fu quello sperato dal fratello di Daniel. Regina percepì solo una minima resistenza intorno a sé, poi la magia esplose verso l’alto in un mare di scintille rosse. William ne fu sopraffatto e il sacchetto gli cadde di mano. La sabbia si rovesciò, disperdendosi.

“Maledetta! Cos’è questo? Uno dei tuoi trucchetti, vero?”, esclamò il giovane, mettendo mano alla spada.

Regina scomparve in una nube densa e riapparve fuori dalla fossa, accanto a William. Usare la magia le stava rubando le energie, perché era già ferita. Aprì mani in segno di resa.

“Quella sirena ti ha ingannato, William. Molte sirene lo fanno.”, gli spiegò, rimanendo a distanza di sicurezza. “È la loro voce. Può ammaliarti e farti credere qualsiasi cosa. Più la sirena è vecchia, più è potente.”

William sostenne lo sguardo di Regina, ricambiandola con un’occhiata colma di odio e di furia omicida.

“Non voglio farti del male. Siamo dalla stessa parte.” Regina gli offrì la destra. Cercò il contatto con i suoi occhi azzurri, sperando di vedere qualche brandello di Daniel in lui.

Vide solo uno un lampo feroce, le sclere iniettate di sangue. William parlò con un tono reso stridulo dalla collera. “Non saremo mai dalla stessa parte! Hai ucciso mio fratello!”

“Io amavo Daniel! La colpa è di Biancaneve! Credimi!”

“Soffrirai per ciò che hai fatto a mio fratello! Io avrò la mia vendetta, in un modo o nell’altro.”, insistette William.

Sfoderò la spada e tentò un affondo che quasi la sorprese. Erano vicini. La lama aprì uno squarcio nell’abito rosso di Regina, all’altezza del fianco sinistro. Un rivolo di sangue scivolò sulla sua pelle.

“Voglio la stessa vendetta, William. Non lo vedi?” Regina lo stava supplicando. “Dobbiamo unire le forze. Insieme, potremo catturare Biancaneve.”

William menò un fendente deciso. Regina scagliò la sua magia contro la spada e lo disarmò all’istante.

“Sei tu l’assassina di Daniel! Cosa vuoi che mi importi di una bandita?” Estrasse un pugnale dalla cintura e si gettò contro di lei, la bocca spalancata in un urlo.

Regina, istintivamente, reagì spedendo un’onda di potere contro di lui. Usò molta più magia di quanta fosse necessaria.

William volò all’indietro. L’arma di fortuna gli sfuggì. Sbatté con violenza il capo contro il tronco di un albero e si afflosciò sulle radici che sporgevano dal terreno duro e sassoso. Emise un lungo sospiro, simile ad un rantolo. Quando Regina si avvicinò, lui la fissò come se la riconoscesse confusamente.

“William...”, mormorò, chinandosi. “William, no... io non volevo...”

Le palpebre dell’uomo tremolarono, mostrando uno spicchio di azzurro. Cercò di muovere la testa, ma il collo era rotto. Dalle labbra gli uscì un gorgoglio. Tentava di parlare. Regina afferrò qualche sillaba, però le parole erano indecifrabili.

“Non preoccuparti. Andrà tutto bene. Posso aiutarti.”, disse Regina, in fretta, lasciando scivolare le dita dietro la sua nuca. Aveva ancora abbastanza energie per guarirlo, forse. Poteva provarci.

“Non... puoi.”, disse William. Sorrise.

Quel sorriso. Era atroce.

“Non puoi... aiutarmi. Come non hai... potuto... aiutare Daniel.”

Regina avvertì nel suo alito l’odore della morte, delle ferite interne, del fallimento, della rovina. “No, io lo amavo...”

William cominciò a tremare tutto. Improvvisamente parve bloccarsi in ogni suo muscolo. Gli occhi divennero vuoti, senza sguardo, orlati di sangue. Si fecero vitrei.

Rendendosi conto di quanto era accaduto, Regina si girò da una parte per non guardare il morto e abbassò la testa.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
La ferita di Malefica si richiuse e scomparve. Fu una cosa lenta e graduale, tanto che Regina temette che non avrebbe funzionato, che nemmeno il potere di tre persone diverse sarebbe bastato a guarirla.

Invece funzionò.

Lily abbracciò sua madre non appena lei riuscì a rialzarsi. Il pugnale usato per colpirla giaceva sulle piastrelle, ancora sporco di sangue, ma i demoni si era trasformati in tanti mucchietti di cenere.

- Ce l’abbiamo fatta. – disse Emma, che continuava a stringere la mano di Regina.

- Sì. – rispose Regina, rimirando le loro dita intrecciate, ancora sorpresa e stordita. Fissò Emma negli occhi, così come non le capitava di fare da tempo. Per un attimo vide solo il verdazzurro di quello sguardo, come se la realtà non conoscesse altri colori. - Ce l’abbiamo fatta.  

Emma lasciò la sua stretta, lentamente. Appoggiò una mano sulla spalla di Lily.

- Forse possiamo ancora trovare Henry con un incantesimo di localizzazione. Credo che... ora funzionerà. – disse Regina. – Ho portato qualcosa di suo.

Estrasse la sciarpa del ragazzino.

Emma annuì. – Facciamolo. Lily... rimani qui con tua madre. Ci pensiamo io e Regina.

- E Percival? – chiese Lily.

- Percival vuole me. – rispose Regina, con risolutezza. – Sono io il suo conto in sospeso.

 

 
La scia luminosa dell’incantesimo di localizzazione le condusse direttamente al porto. Lì era ormeggiata una grande nave, con le vele rossastre come il cielo dell’Oltretomba e stracciate. Il legno era scuro e consunto. Lungo le fiancate, le bocche dei cannoni erano arrugginite. A prua, una figura femminile, con i capelli al vento e un serpente ad abbracciarne il corpo sinuoso, guardava verso l’orizzonte.

Sul ponte, Henry si destò, ancora confuso. Batté le palpebre più volte per mettere a fuoco l’ambiente.

- Henry! – gridò Regina, arrivando di corsa.

Percival afferrò il ragazzino per il colletto e lo costrinse ad alzarsi in piedi. Polsi e caviglie erano legati. Il cavaliere sguainò la spada che un tempo aveva cercato di usare contro di lei e gliela appoggiò sulla gola.

Emma si fermò con un piede già sulla scala che conduceva sulla nave.

Udì una risata divertita e un altro uomo comparve da sottocoperta. Non aveva armi. I capelli castano chiaro erano tutti arruffati.

Regina ebbe un tuffo al cuore. – William?

- Salve, Regina.

Henry spostò la testa a destra e a sinistra, si dimenò, ma Percival lo tenne ben stretto.

- È ancora vivo, vedi? – disse William, indicando il ragazzino. – Il tuo Daniel è ancora vivo. La domanda è: per quanto ancora? Basterebbe un graffio con la lama di quella spada per spedirlo dritto dalle Anime Perdute. La lama è stata bagnata nelle acque di quel fiume.

Emma e Regina si scambiarono un’occhiata.

- Non pensate neppure di usare la magia. – Il fratello di Daniel aveva un’aria annoiata. Nessuna esitazione. Si sentiva in netto vantaggio. – Se lo farete, Percival potrebbe essere più rapido di voi. O potrebbe ferirlo accidentalmente. Quindi... vogliamo giungere ad un accordo?

- Quale accordo? – chiese Emma, mentre la sua mente lavorava senza sosta alla ricerca di un modo per raggirare quei due.

- Regina sale sulla nave. Si consegna. A noi. – disse Percival. Sogghignò compiaciuto, come al ballo, prima di rivelare la storia del ragazzino a cui la Regina Cattiva aveva sorriso, dopo aver portato morte e distruzione nel suo villaggio.

- A noi. – ribadì William. – E noi, in cambio, lasciamo il ragazzo. In caso contrario, sapete che cosa accadrà.

Regina mosse un passo verso di loro. Emma la prese per un braccio.

- Emma, non abbiamo scelta.

- C’è sempre un’altra scelta, Regina.

- Non questa volta. È nostro figlio...

Scosse il capo con forza. - Forse se uniamo i nostri poteri possiamo fermarli.

- Percival potrebbe essere più veloce. Hai sentito? Basta un graffio. Henry non può pagare per le mie colpe. William... è il fratello di Daniel. – le spiegò. – Sono stata io, Emma. Si trova quaggiù perché l’ho ucciso io.

- Intendo contare fino a cinque. – disse William. – Percival ha una mano forte e ferma, ma la lama è ad un paio di millimetri dalla gola di Daniel. Basterebbe...

Regina alzò entrambe le mani.

- Anche l’Oscuro. – disse Percival, in tono riflessivo. – Porta l’Oscuro con te. Salite tutte e due. È un vero peccato che non ci sia anche la mia assassina. Ma ci sarà tempo per stanarla.

- Lascia Emma fuori da questa storia. – replicò Regina.

- No, Regina. Sono d’accordo con lui. – intervenne William, con le mani intrecciate dietro la schiena. - Ti prego, Oscuro. Vieni avanti. Il figlio è anche tuo. E credo che tu tenga molto alla Regina. E al tempo stesso dovresti avercela con lei. Ti ha tradita. Vieni e goditi lo spettacolo.

Emma li raggiunse senza pensarci. Henry fissò le sue madri, angosciato.

A Regina sembrò che il ponte della nave fosse lontano anni luce. Il cuore le rimbombava in testa e il sangue le si rimescolava nelle vene. Non voleva che suo figlio la vedesse morire. Non voleva nemmeno che Emma la vedesse morire, ma non poteva nemmeno permettere che Henry corresse un rischio terribile per colpa sua.

Τremotino aveva ragione quando aveva detto che l’Oltretomba era un posto orrendo. Ovunque si girasse i conti in sospeso la tormentavano. E li aveva voluti. Li aveva voluti lei. William, Percival, i ragazzini al cimiero... Marian. Persino Emma.

Sei stata cattiva troppo a lungo, le sussurrò Cora. Ora ne paghi le conseguenze.

- In ginocchio, Regina. – disse William.

- Libera nostro figlio, prima. – rispose lei, furiosa.

- In ginocchio. Lo farò quando avremo finito.  

Emma occhieggiò Percival e la sua spada. Henry la guardava con gli occhi sgranai.

Regina si inginocchiò davanti a William, che aveva gli occhi vivaci e scintillanti di un bambino pronto ad incendiare la tela di un ragno per studiare la reazione dell’insetto.

Nella mano destra di William comparve una spada. La fece roteare. – Sai, mi dispiace che tuo figlio debba assistere. Ma l’hai voluto tu.

Emma pensava di poter disarmare almeno uno di loro. Con il suo potere, forse poteva farcela. Ma due... in quel luogo la magia non funzionava nel solito modo. Avvertiva la propria magia, ma anche quella del regno di Ade. Era vigile. Aspettava che ci provasse, senza aiuti, stavolta. Si sentiva lenta e stordita. Henry era in pericolo. La lama di quella spada era vicinissima alla sua pelle. Regina stava per essere giustiziata...

- Questo è per mio fratello. – disse William, impugnando la spada con entrambe le mani. Alzò gli occhi azzurri sul complice. – Questo è per mio fratello... e per il bambino a cui una volta sorridesti dopo che i tuoi soldati avevano ucciso suo padre, lasciando il suo corpo nel fango.

Regina guardò Percival e notò che il bambino che ormai era un uomo adulto stava... sorridendo. Naturalmente.

William sollevò la spada, preparandosi a mettere tutta la forza che aveva nel colpo che le avrebbe mozzato il capo.

“Sei stata troppo cattiva. Per troppo tempo.”

La freccia sibilò vicino all’orecchio di Emma e centrò William al collo. Lui lanciò un grido gorgogliante, più per l’impatto improvviso che per il dolore. La mano lasciò cadere la spada.

Emma non riusciva a capire bene cosa fosse successo, ma capì che doveva approfittarne. Percival aveva allontanato la lama dal corpo di Henry, preso dallo sconcerto. Emma usò la magia per torcergli il polso. Compì uno sforzo titanico, che la costrinse a piegarsi su un ginocchio, ma alla fine Percival gemette. Henry gli rifilò un gomitata nello stomaco, spezzandogli il fiato e corse verso sua madre.

Regina si girò di schiena e si allontanò strisciando da William. Lui annaspava e barcollava. Dalla ferita non zampillava nemmeno una goccia di sangue, eppure l’uomo crollò in ginocchio, nella stessa posizione in cui si trovava Regina poco prima. Gli occhi azzurri, identici a quelli di Daniel, ma brillanti di follia, ruotarono, come cercandola, poi scomparvero, mostrando solo il bianco della sclera.

Una seconda freccia e poi una terza sfiorarono i capelli biondi di Percival, che si abbassò d’istinto e poi si gettò nuovamente sulla spada. Emma prese quella di William, voltandosi nel momento esatto in cui il cavaliere vibrò il fendente. Emma lo parò a fatica. Il colpo riverberò nel suo braccio, irrigidendole il muscolo.

Vide Marian che sfilava un’altra freccia dalla faretra e la incoccava.

Percival menò un poderoso manrovescio ed Emma rotolò sulle assi del ponte.

William si afflosciò. Un suono orrendo proruppe dalla sua gola, un suono raspante, di chi sta soffocando nel suo stesso sangue. Infine il suo corpo si dissolse. Diventò acqua, che scivolò tra le fessure delle assi.

Emma respinse nuovamente il cavaliere. Percival era rapido e agile, non appena Emma parava un colpo, gliene rifilava un altro.

- Facciamola finita, Percival. – disse Emma, mentre le lame si incrociavano. – Ormai sei solo.

- E tu sei morta, come me. – ribadì lui, spingendo e avvicinando di più la spada al suo viso. – Un piccolo aiuto per passare oltre ti serve, vero? Non andrai in un bel posto. Gli Oscuri non ci vanno mai.

Emma strinse i denti. Usò tutta la sua energia e la sua furia per spingere verso l’alto con le braccia e puntando un piede sul ponte della nave. Percival barcollò, sorpreso dalla sua forza e indietreggiò di un paio di passi. Allora Emma parò un colpo basso, ruotò rapidamente verso destra e, dando le spalle al cavaliere, eseguì alla cieca un affondo. Percival reagì in ritardo. La lama lo trafisse al petto, affondando attraverso gli abiti per quasi tutta la sua lunghezza.

Percival emise un rantolo. La spada di Emma non era incantata come la sua, ma il colpo l’aveva spiazzato. L’arma con cui aveva minacciato Henry cadde. Emma spinse una gamba in avanti e gli affondò il tacco dello stivale nel ventre. Percival arretrò e perse l’equilibrio. Emma si affrettò a prendere la spada che aveva perduto.

- Mamma! – gridò Henry ad Emma.

- Sto bene. – rispose lei, respirando a fatica. Puntò la spada incantata al collo del cavaliere.

- Che cosa stai aspettando? – domandò Percival, rabbioso, guardandola con aria di sfida. – Finiscimi, Oscuro.

“Finiscimi.”

Finiscilo, Emma Swan, suggerì una vocetta fredda.

Emma battè le palpebre per scacciarla.

Finiscilo. Voleva fare del male ad Henry. Finiscilo.

Per qualche terribile momento, ebbe la sensazione che la coscienza oscura che l’aveva posseduta per settimane le avesse invaso di nuovo il cervello, spandendosi come inchiostro nero. La respinse e avvicinò di più la punta della lama al viso di Percival.

Poi avvertì un’altra presenza. Questa sembrava più cauta. Non invase la sua mente, ma si limitò a penetrarvi con prudenza, quasi stesse tastando il terreno.

Lily.

L’altra si ritrasse, sorpresa. Forse aveva solo tentato di trovarla. Forse aveva voluto accertarsi di esserne ancora capace. E ci era riuscita. A fatica.

- Non deve finire così. – disse Emma. Vide Regina che si accostava a loro, con Henry al fianco. – Puoi venirne fuori.

- Venirne fuori? Credi che lo voglia? – domandò Percival, sprezzante e persino incredulo dinanzi alle sue parole. – Lei mi ha rovinato la vita. Ha distrutto la mia casa. E mi chiedi di venirne fuori?

- Regina non è più la persona che credi. – Emma le lanciò un’occhiata e le rivolse un leggero sorriso.

Anche Marian si avvicinò, una freccia ancora incoccata nell’arco. Quelle frecce erano rosse, proprio come le nuvole che incombevano sull’Oltretomba.

- Se le dessi una possibilità, te ne renderesti conto. – continuò Emma.

- Lei non merita una possibilità.

Regina aprì la bocca per dire qualcosa, ma un attimo dopo Percival non c’era più.

Emma si guardò intorno, sconcertata. Solo un secondo prima, era lì, steso sulle assi del ponte.

- Dov’è andato? – domandò Marian.

- Non ne ho la minima idea. – rispose Emma.

 

 
Percival precipitò nel vuoto, urlando. Pensò che, alla fine, il maledetto Oscuro l’avesse ucciso definitivamente, condannandolo alla pena eterna. Pensò di essere spacciato. Pensò che avrebbe continuato a precipitare in quel buio per sempre e maledisse sia Emma che la Regina Cattiva. Maledisse anche William, che l’aveva trascinato in un’impresa così folle. Maledisse Lily, che l’aveva bruciato vivo. Maledisse persino Artù.

Ma toccò il fondo. Rotolò su una piattaforma sospesa sul fiume delle Anime Perdute. Le acque non erano calme, ma ruggivano sotto di lui. Le grida e i sospiri dei gusci vuoti che si agitavano senza posa erano stridenti. Erano come artigli che avevano deciso di arpionare il suo cervello per distruggerlo.

- Che tristezza. – disse Ade, comparendo su uno sperone di roccia che si protendeva sul Fiume. – Davvero un tentativo idiota, Sir Percival. Ora capisco che come re avevate un mentecatto. I veri cavalieri non si comportano così.

Un cerchio di fuoco si accese, disegnando i bordi della piattaforma. Le fiamme si levarono alte, riflettendosi nell’acqua e sulle pareti nere del covo di Ade.

- Quaggiù avrete modo di riflettere sul vostro operato. E almeno non mi sfuggirete. – Il Signore degli Inferi aprì una mano e in essa comparve la spada che aveva usato contro il figlio di Emma e Regina.

Percival si alzò in piedi. – Che cosa intendete farmi? Volete torturarmi?

- Perché no? – rispose Ade. – Sapete, odio quando quell’orologio si mette a ticchettare. Significa che un’anima ha deciso di spiccare il volo e... non è ammissibile. Devo evitare che succeda troppo spesso.

Il cerchio di fuoco iniziò a stringersi. Percival indietreggiò, alzando un braccio per proteggersi da una lingua fiammante che si era buttata su di lui e voleva acciuffarlo.

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
Regina spalancò le porte delle sue stanze ed entrò, arrancando. Il lungo soprabito rosso era infangato. La spalla le doleva ancora e lei avanzò verso lo scrittoio, instabile. Alcune ciocche di capelli erano sfuggite all’elaborata acconciatura e le dondolavano davanti al viso.

Girò una chiave e aprì il cassetto.

“Dov’è?”, domandò Regina, frugandovi all’interno. “Dove diavolo è?”

La sua testa era ancora confusa, con le mani sporche del sangue di William, che aveva seppellito nella Foresta dei Morti, vicino al punto in cui lui aveva scavato la fossa per intrappolarla.

Aprì il secondo cassetto e trovò lo scrigno in legno, nel quale era custodito l’anello. Prese il dono che Daniel le aveva fatto quando lei era ancora la ragazzina che pensava di poter vivere felice con il ragazzo che amava.

“Daniel... mi dispiace.”, disse, ripensando al corpo senza vita di William, accasciato contro un albero. “Mi dispiace davvero.”

 Ripose l’anello al suo posto. Poi si tolse il soprabito sporco per prenderne un altro dall’armadio.

“Guardie!”, gridò. La magia guarì in un baleno la spalla dislocata.

Due uomini si affrettarono ad entrare e ad inchinarsi.

“Preparatemi il cavallo. Biancaneve non è lontana.” Strinse i pugni, lasciando che quella sensazione così familiare le invadesse il sangue. Rabbia, odio, frustrazione. Dolore. “E questa notte... non troverà pace.”

 

 
Oltretomba. Oggi.      

 
Malefica notò che gli occhi di sua figlia avevano assunto una colorazione diversa, mentre tentava di vedere attraverso gli occhi di Emma Swan. Aveva la fronte imperlata di sudore per lo sforzo. Lo sguardo assente era fisso. Non batteva neppure le palpebre.

Non la interruppe. Si limitò ad osservarla, sentendosi incredibilmente orgogliosa di quello che Lily sapeva fare.

- È sparito. – mormorò, rientrando in sé.

- Chi?

- Percival. È sparito. Non sono riuscite a... – Lily barcollò e sua madre la sostenne prima che potesse cadere.

- Emma e Regina stanno bene? – chiese Malefica, mentre la stringeva a sé e le scostava qualche ciocca di capelli dalla fronte.

- Sì... sì, loro stanno bene. E anche Henry. Ma Percival si è come volatilizzato.

Malefica abbassò il viso e posò un bacio fra i suoi capelli. Lily si scostò, voltandole le spalle.

- Va tutto bene?

- Sono io che dovrei chiederlo, non pensi? – Lily rispose usando un tono seccato.

- Beh... avete fatto un ottimo lavoro.

Lily rivolse uno sguardo alla madre. Le lunghe ciglia tremarono sugli occhi scuri della ragazza. – Sì, dopo che uno di quegli esseri ti aveva ferita perché hai ben pensato di aiutare me.

- Cosa avrei dovuto fare? Lasciare che ti uccidesse?

- Potevo farcela.

Lily la fissò in viso e vide la mortificazione nelle sue iridi azzurre. Quando parlò di nuovo, la voce di Malefica era cupa. Severa. – Non avevo questa impressione.

Lily tacque.

- Io sono tua madre. E anche se è difficile per te capirlo... quello che fanno quasi tutte le madri è proteggere i propri figli.

- Io non... – cominciò Lily. Si morse, nervosa, il labbro inferiore. – Non ho mai avuto bisogno di questo.

Malefica attese il resto.

- Non ho mai avuto bisogno di qualcuno che mi proteggesse. Ho sempre... fatto tutto da sola. – continuò, brusca, con una punta di disperazione. – Hai visto che cosa succede quando qualcuno cerca di aiutarmi. Sei quasi morta.

- Eri in pericolo. Sono pronta a rischiare per te. Ho già fallito troppe volte. – Le accarezzò i capelli, ma ritrasse quasi subito la mano, sapendo che certi gesti la innervosivano ancora di più. – Quando sei nata non ho saputo proteggerti. A Camelot... ho permesso che Emma ti trasformasse, riempiendoti di oscurità.

- Volevi salvarmi, l’ho capito.

- Sono stata egoista.

Lily non rispose. Alzò un sopracciglio.

- Ho molto da farmi perdonare. Ma tu devi... abituarti ad una madre che vuole proteggerti. – Malefica le sorrise, per incoraggiarla.

Lily non era sicura che sarebbe riuscita ad abituarsi tanto presto, ma un sorriso riluttante le incurvò gli angoli della bocca. Provò una sensazione di calore, un palpito nella mente. Lo avvertì come una cosa del tutto naturale, qualcosa che la spaventava, ma che era anche normale, qualcosa che le era mancato per trent’anni, persino quando era la madre adottiva ad abbracciarla o a toccarla.

- Τi sto complicando la vita. – disse Lily.

Malefica voltò la testa di scatto. – Lily... non hai affatto complicato la mia vita. L’hai completata.

 

 
Marian sedeva sul retro della casa degli Azzurri, a guardare la strada vuota e le ombre della notte che si facevano sempre più lunghe e buie.

David e Killian avevano portato con loro l’uomo arrivato con il tornado, che era un portale. Si chiamava Fiyero Tiggular. Aveva la pelle nerissima e ricoperta di tatuaggi a forma di diamante. Veniva da Oz e lei era convinta che non portasse buone notizie. Le facce degli altri parlavano chiaro.

Il bambino che aveva consegnato il messaggio dei due rapitori era stato restituito al padre. In ultimo, mentre Marian gli offriva conforto, Aidan, così si chiamava, aveva parlato di una nave. Quando l’uomo di nome Percival l’aveva reclutato, lui lo aveva incontrato al porto e aveva visto la grande imbarcazione. Marian si era detta che Henry poteva essere là e non alla libreria, dove di certo avevano preparato un’altra trappola.

Regina si avvicinò, con molta cautela.

Marian alzò gli occhi.

- Sono... – iniziò Regina. Si schiarì la voce. – Oggi mi hai salvato la vita.

- A quanto pare, sì.

- Potevi non farlo. Immagino quanto ti sia costato...

Marian strinse gli occhi. - Non mi è costato nulla. Ho fatto ciò che era giusto fare.

Seguì un momento di incertezza. Regina si sentiva confusa.

- Regina... sono una madre anch’io. Ero... una madre. – disse Marian. – So che cosa significa... fare di tutto per il proprio figlio. Riconosco quello sguardo. È una cosa che non puoi fingere. Ed io l’ho visto nei tuoi occhi.

Regina avrebbe voluto dire qualcosa, ma si limitò a fissarla.

- Molto tempo fa, quando mi hai catturata, ti ho detto che mi dispiaceva per te. Perché se avessi avuto una famiglia, qualcuno da amare... avresti capito che tutto ciò che stavi facendo era sbagliato. – Marian si alzò. La guardava dritta negli occhi. Doveva essere stata una donna fiera e coraggiosa, che non abbassava mai la testa nemmeno davanti al pericolo.

- Ti ho chiamata mostro e tu ti sei fatta beffe di me.

- Mi dispiace, io... – iniziò Regina. La osservò, smarrita e colta da un vuoto improvviso e doloroso.

- Non dispiacerti di qualcosa che nemmeno ricordi. – ribatté Marian, seccata. – Emma ha cambiato gli eventi di quei giorni, salvandomi... provando a salvarmi. Ma non ti ricordavi di me nemmeno prima. Ne hai uccisi talmente tanti...

Regina si sentì punta sul vivo. – Non sono più quella persona.

- No. Ti credo. – rispose lei. - Non sei più un mostro. Hai trovato una famiglia. Hai un figlio che ti ama, degli amici... sei venuta fino a qui per aiutare Emma. Lei... si fida di te. Molto. E Robin... ha visto qualcosa in te.

Regina non voleva sapere cosa provasse Marian nel pronunciare il nome del marito in presenza della donna che l’aveva uccisa.

- Potevo decidere di odiarti. – continuò Marian. – E l’ho fatto. Per parecchio tempo, mentre ero rinchiusa in quel labirinto.

- Lo so.

- Ma scelgo di non marcire nel passato. Se voglio davvero passare oltre, non posso sprecare il mio tempo odiando qualcuno per ciò che è accaduto. – La oltrepassò, lasciando là, a scrutare la notte che calava sull’Oltretomba.

“Scelgo di non marcire nel passato. Se voglio davvero passare oltre, non posso sprecare il mio tempo odiando qualcuno per ciò che è accaduto.”

Marian era più forte di quanto aveva immaginato. Di certo, era stata più forte di lei.

Lei era precipitata in un turbine di oscurità, fatto di odio, rancore, sete di vendetta, dolore. Aveva lasciato che i ricordi si trasformassero in una moltitudine di frammenti di vetro. Aveva lasciato che quei ricordi la pugnalassero, in modo da alimentare la sua furia. Così aveva sterminato villaggi interi e perseguitato Biancaneve. Così aveva ucciso suo padre.

- Regina.

Lei sobbalzò.

Emma sorrise, accostandosi a lei. – Ehi. Tutto bene con Marian?

- Sì. – rispose Regina. – Meglio di quanto credessi. Come sta Henry?

- Dorme. Era... sfinito.

- E tu?

Emma incrociò il suo sguardo. Gli occhi nocciola fissarono gli occhi verdazzurri. – Sto bene.

Lei non smise di osservarla e Regina si sentì avvolgere dal calore. – Cosa?

- Sono contenta che tu stia bene. – Lo disse con un tono fermo e dolce.

Deglutì.

- Henry non può perdere anche te.

- Henry non può perdere nessuna di noi, Emma.

In Regina c’era sempre qualcosa di duro e autoritario. La sua volontà era così forte che era difficile resistere quando insisteva.

- Regina, devi promettermi una cosa. – ricominciò Emma, seria.

- Un’altra? – Impallidì, avvertendo un peso che le gravava sul petto.

“Ricordi la promessa fatta a Camelot? Che avresti fatto tutto il possibile per eliminare l’oscurità?”

“Ho bisogno che tu mantenga quella promessa. E devi giurarmi che non lo dirai a nessun altro.”

Si sforzò di dominare il tremito che la scuoteva. La osservava, attenta, immobile, con uno sguardo fisso e scuro. Sentiva in bocca il sapore della paura, la sentiva battere alle porte della propria mente.

- Questa volta è diverso. Non è una punizione. – replicò Emma.

Regina udì le sue stesse parole riecheggiarle nella testa.

“Hai detto che ci meritiamo una punizione. È questa? Questa è la mia punizione per non aver avuto abbastanza fiducia in te a Camelot? È la punizione per averti rinchiusa in quella segreta?”

- Oh. Quindi quella lo era. – constatò Regina.

- L’ho fatto perché non avevo altra scelta, Regina. Credevo che uccidendo me avremmo distrutto l’oscurità per sempre. – disse Emma. – Ma io... dentro di me, ero furiosa... per quello che avevi fatto a Camelot e... sì, volevo punirti.

Regina la fulminò con un’occhiata, altrettanto furibonda.

- Ma ora... devo chiederti di pensare a nostro figlio e alla mia famiglia. Devi portarli via da qui, se le cose si mettono male. Devi portare via tutti.

Bastò l’intensità di quegli occhi a toglierle la concentrazione e il respiro. Quegli occhi che sembravano così verdi, così misteriosi. Eppure anche così limpidi. Regina avvertiva il battito accelerato del proprio cuore. Le tuonava nelle tempie e il sangue le ribolliva nelle vene. Era spaventata da quella richiesta, anche se la capiva, anche se sapeva che al suo posto le avrebbe domandato la stessa cosa. Era turbata da quanto la impaurisse l’idea di tornare indietro senza Emma. Senza la madre di suo figlio. Senza la Salvatrice. Senza...

- Regina. Devi promettermelo. – insistette Emma. – Se non potrò tornare indietro con voi, devi promettermi che lo farai.

Regina si passò una mano tremante sulla fronte. Quando rispose la sua voce suonò secca. – D’accordo.  D’accordo, lo farò. Sei soddisfatta adesso?

Emma le sorrise, senza badare alla sua rabbia. Le prese una mano, istintivamente e le carezzò con il pollice l’interno del polso.  

Provò un nodo alla gola. Una parte di lei avrebbe voluto ritrarre la mano, perché aveva come la sensazione che Emma le facesse qualcosa quando la toccava in quel modo. Gli occhi di Regina si posarono sulle sue labbra. La forma di quella bocca la affascinava, insieme alla luce che sembrava emanare con tanta chiarezza. Le mise una mano sulla guancia, tracciò con un dito il contorno ben delineato della mascella, poi risalì al mento, saggiando la pienezza del labbro inferiore.

Emma la fissava, con gli occhi leggermene sgranati. Il suo cuore ebbe un sussulto e sentì un calore vago trasformarsi in una sensazione distinta, quasi dolorosa. La mano che stava accarezzando il polso di Regina si sollevò e scivolò dietro la sua nuca.

Regina non ebbe la forza di ritrarsi e non volle neppure cercarla, quando Emma attirò a sé la sua testa.

- Emma... – disse solo.

In quel momento la bocca di lei toccò la sua e Regina la percepì fino alla punta dei piedi. Sussultò alla tenerezza di quel gesto, che era anche deciso. Regina incollò la bocca alla sua e la convinse ad aprirsi.

L’aria parve farsi elettrica. Non esisteva più nient’altro che le labbra di Emma sulle sue. Regina si aggrappò alle sue spalle.

 

_______________________

 

 

Angolo autrice:

 
Salve ;) Come sempre, voglio ringraziare quelli che sono ancora qui a leggere la mia storia. So che volete più Swan Queen e spero che questo capitolo vi sia piaciuto.

 
La storia di William, il fratello di Daniel, è una delle vicende narrate nel fumetto Out of the Past. La storia si chiama Ghosts.


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Capitolo 7
*** 7. ***


7

 

“I am a stag: of seven tines,
I am a flood: across a plain,

I am a wind: on a deep lake,

I am a tear: the Sun lets fall,

I am a hawk: above the cliff,

I am a thorn: beneath the nail,

I am a wonder: among flowers,

I am a wizard: who but I

Sets the cool head aflame with smoke?”

[Song of Amergin]

 

 

 
Oltretomba.

 
La notte nel regno di Ade era nera come la pece. Un’oscurità terribile e tinta di rosso porpora. Le nuvole sembravano più basse e incombenti. Le strade erano deserte e ogni edificio era immerso nel buio. Nessun lume. Nessun bagliore.

Però Uncino aveva la sensazione che molti occhi lo stessero fissando, mentre camminava, facendo attenzione a dove metteva i piedi. Si guardava costantemente intorno, sempre all’erta.

Posò la mano sulla maniglia di una porta e spinse. Si aprì e il suo arrivo fu annunciato da una breve scampanellata. Si fermò poco oltre la soglia, cercando di mettere a fuoco l’ambiente.

- C’è qualcuno? – disse.

Non ottenne risposta.

Gli oggetti nelle vetrine e sugli scaffali del negozio di Gold erano solo forme vaghe e sinistre. Sul bancone polveroso c’era un cubo sormontato da una pietra rossa. Il Vaso di Pandora. Killian si avvicinò lentamente, circospetto.

- Dunque siete venuto, capitano. – Il Coccodrillo scostò il tendaggio che separava il negozio dal retro e fece il suo ingresso. Calmo, placido come un vero coccodrillo che scivola silenzioso sotto il pelo dell’acqua e punta la preda con occhi maligni e furbi.

- Sono venuto per sentire che cos’hai da dirmi. – rispose Killian, acidamente. - Sono abbastanza sicuro che i tuoi accordi non mi interesseranno.

- Io non ne sarei così convinto. Non avete ancora sentito la parte migliore.

- Non esistono parti migliori, con te.

- Tuttavia siete qui. Ne sono lieto, perché quello che ho da dirvi riguarda anche voi. – asserì il Coccodrillo, con malcelata soddisfazione.

- Arriva al dunque, allora.

- Sì. – disse un’altra voce maschile alle spalle di Killian. - Arriviamo al dunque. Immagino che al capitano manchino il rum e la sua donna.

Killian sollevò l’uncino, girandosi di scatto, pronto a colpire.

La prima impressione fu quella di un ragazzino che aveva deciso di infilarsi gli abiti del padre per gioco. Era in giacca e cravatta, elegante e posato come Tremotino. Ma era impossibile non scorgere l’astuzia e la malvagità in quegli occhi verdi.

Pan rise, divertito. – Non siate così precipitoso, capitano.

- Tu, maledetto demonio. – sibilò Killian.

- Già, io. L’uncino non vi servirà. Potreste anche provarci, ma perdereste tempo. – Pan sfiorò il Vaso di Pandora con le dita. – Parliamo.

- Vi ho già detto che non farò niente che possa nuocere ad Emma. – replicò Killian, risoluto, guardandosi bene dall’avvicinarsi ai due.

- Non siamo qui per parlare di Emma, infatti. Capitano, perché dovremmo fare qualcosa per nuocere ad Emma Swan? Vi ho aiutati a liberarla. – osservò Tremotino.

- E abbiamo perso Milah!

- Un imprevisto. Si trova nelle prigioni di Ade. Possiamo ancora recuperarla. Ma prima... abbiamo altro a cui pensare. Mettetevi comodo.

Killian non si mise affatto comodo. Il suo pensiero andò improvvisamente a Belle. Lei era a Storybrooke, ignara di ciò che il marito stava facendo. Ignara di quello che Gold era diventato.

Di nuovo.

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Belle!”, gridò Tremotino. “Si può sapere dove siete finita?”

Belle lo ignorò e lottò per riuscire ad allacciarsi la mantella alla base del collo.

“Oh, eccovi, finalmente. Dove credete di andare, mia cara? Pensavate, per caso, di uscire?”, chiese l’Oscuro, appoggiandosi alla parete, con le braccia conserte.

“Sì, è proprio ciò che intendo fare, Tremotino.”, rispose lei, armeggiando ancora con la spilla, che aveva deciso di non collaborare e di non chiudersi. “Abbiamo bisogno di provviste. O almeno, io ne ho bisogno. Quindi andrò al mercato. Non preoccupatevi. Sarò di ritorno il prima possibile.”

“Ovviamente sì.” Scivolò alle sue spalle e allungò le mani, prendendo la spilla. In un baleno, le allacciò la mantella verde. “Non potreste andare lontano, del resto. La mantella è incantata. Se scappate, verrò a saperlo.”

“Mi chiedo quando capirete che sono una donna di parola. “, fu la risposta di Belle. “Ho promesso che sarei rimasta con voi e così sarà.”

Tremotino non commentò quell’esternazione. Le sistemò meglio il cappuccio sul capo. “Badate a non perdervi nella foresta. E non prendete freddo. Non vorrei mai che qualche malanno vi costringesse a letto.”

Belle uscì, portandosi un cestino e una sacchetta piena di monete. “Non converrebbe nemmeno a voi. Questo castello finirebbe col cadere a pezzi senza di me.”

 

Il villaggio era in fermento. I mercanti avevano esposto la merce poco dopo l’alba e si sgolavano per attirare i clienti. Alcuni soldati pattugliavano le strade.

Belle non impiegò molto tempo a rendersi conto degli occhi puntati su di lei. Due donne, una delle quali con un bambino piccolo tra le braccia, la fissarono a lungo e poi bisbigliarono qualcosa sull’Oscuro. Un paio di uomini si fecero da parte, come se temessero di intralciare Tremotino in persona.

Belle li ignorò e si avviò verso il banco della verdura. “Salve, Robert.”

“Oh!”, esclamò lui, levandosi il cappello e iniziando a sudare copiosamente. “Belle. Che piacere vedervi. Cosa posso fare per voi?”

“Ehm, veramente ero io il primo della fila...”, cominciò un uomo.

Il mercante gli diede una spinta tale che l’altro quasi finì gambe all’aria. “Dovrai aspettare. Prima le signore!”

“Posso attendere, Robert. Non ho fretta. Servi prima lui, ti prego.”, rispose Belle, gentilmente.

“No!” Robert scosse il testone calvo, risoluto. “Cosa cercate? Oggi ho tutto. Qualsiasi cosa. Non esitate a chiedere!”

“Mi servono delle patate. Se aveste qualcuna di quelle patate gialle...”

“Le ho! Beh, non molte... però le ho. Potete averle tutte.” Robert non se lo fece ripetere. Prese un sacchetto e mise dentro tutte le patate gialle che erano rimaste sul bancone.

Belle si costrinse a non badare all’agitazione che stava creando e pagò il mercante, infilando il sacchetto nel cestino.

‘Tremotino’, pensò, roteando gli occhi.

“Largo! Fate largo!”

La folla si divise subito in due ali, lasciando passare un carro trainato da un paio di muli stanchi e magri. Un soldato in cotta di maglia ed elmo guidava il carro, frustando gli animali. Sistemato sul retro, sopra ad un mucchio di sacchi di farina, c’era un uomo ferito ad una gamba.

“Muovetevi, bestiacce! E voi fate largo! Non vedete che è ferito?”

Una vecchia mormorò qualcosa a proposito degli orchi che infestavano le regioni a nord. Belle si fece da parte, osservando il giovane. La gamba destra era stata fasciata, ma le bende erano già intrise di sangue ed erano sporche di terra. Il ragazzo era incosciente e aveva la fronte madida di sudore. Era anche incredibilmente pallido.

Era...

“Fermi!”, gridò Belle, avvicinandosi al carro. “Fermi, lo conosco!”

L’uomo tirò le redini e i muli recalcitrarono. “Lo conoscete?”

Belle si sporse per guardare il ragazzo disteso sul carro. Quello sollevò leggermente le palpebre, fissandola con occhi verdi, arrossati e opachi.

“Samuel?”

Le palpebre si abbassarono di nuovo.

“Giocavamo insieme quando eravamo bambini.”, disse Belle.

“È una ferita molto seria.”, le spiegò il soldato, che era sceso dal carro. “Non guarisce. L’arma era incantata. Lo stiamo portando all’accampamento più in fretta che possiamo.”

“Quanto dista l’accampamento?”

“Due giorni di viaggio.”

Belle appoggiò una mano sul petto di Samuel. Pensò febbrilmente per alcuni secondi, mentre la gente si stava assiepando intorno al carro per vedere meglio. Era chiaro che Samuel non sarebbe mai sopravvissuto altri due giorni in quelle condizioni. La benda andava cambiata e la ferita doveva essere curata in qualche altro modo. Inoltre, doveva riposare in un luogo sicuro.

“Io posso aiutarlo.”, decise Belle.

 

 
Storybrooke. Oggi.

 
- Ehi, Neal. - Belle si chinò sulla culla che era stata riservata al figlio degli Azzurri e accarezzò la pancia del bambino, che gorgogliò qualcosa e socchiuse gli occhi.

Roland si avvicinò e infilò la testa tra le sbarre di legno, osservandolo. Allungò la mano, offrendo l’indice a Neal, che lo strinse leggermente con le dita minuscole.

- Come stai, Roland? – domandò Belle, scompigliandogli i capelli scuri.

- Le fate fanno i biscotti al cioccolato. – rispose lui, sfiorando la tutina azzurra di Neal. Sul davanti, Mary Margaret aveva cucito un unicorno con la criniera dorata. – Quando torna il mio papà?

Belle si diede da fare per trovare la risposta adeguata. – Presto. Lui deve... deve aiutare la tua sorellina. Vedrai che tornerà il prima possibile.

Voleva aggiungere qualcos’altro, rassicurarlo, ma le parole le morirono in gola e si rifiutarono di venir fuori. Intorno a lei, sembrava tutto normale. Le fate erano impegnate nelle loro attività. Alcune si occupavano dei fiori in giardino, altre tenevano d’occhio i bambini, altre ancora rassettavano e pulivano le stanze finché esse non risplendevano come specchi. Erano tutte cose che lei aveva fatto per Tremotino, molto tempo prima, quando ancora viveva nel suo castello.

Le aveva detto che non sarebbe stato via tanto, ma era trascorsa quasi una settimana e di lui non c’era traccia. La sera prima, spinta da un sogno distorto che l’aveva svegliata, si era recata sulle rive del lago, che era la porta per l’Oltretomba. Aveva guardato i raggi della luna riflettersi sulle acque calme e aveva atteso, sperando di vedere il fumo bianco che annunciava l’apertura dei cancelli, sperando di vedere la barca guidata dal demoniaco traghettatore con i suoi occhi cerchiati di fuoco. Sperando che Tremotino tornasse da lei.

Tornerà, si disse, decisa. Tornerà insieme agli altri ed Emma sarà con loro.

Mantenne la sua routine quotidiana e lasciò il convento delle fate per recarsi da Granny a prendere il pranzo. Quel giorno aveva ordinato anche qualcosa per Merida, che passava le sue notti alla centrale di polizia.

Posò il sacchetto con i panini e la crostata alla frutta preparata da Granny sulla scrivania di David. Scrivania sulla quale Merida aveva comodamente appoggiato i propri piedi.

- Ti ho portato qualcosa da mangiare. – annunciò Belle. Adocchiò Artù, disteso sulla branda nella sua cella. Era sveglio. I suoi occhi verde chiaro erano terribilmente vigili.

- Beh... grazie. – disse Merida, afferrando il sacchetto e sbirciandoci dentro.

- Granny fa un’ottima torta. Dovresti provare anche gli hamburger.

Artù si alzò, facendo cigolare la branda e si sgranchì il collo.

La porta della centrale si aprì. Ginevra entrò senza degnare di un’occhiata le due donne presenti e si diresse verso la cella.

- Ehi. Aspettate. Non potete stare qui. – disse Merida.

- È mio marito. Certo che posso. – Ginevra sorrise all’uomo nella cella. Aveva risposto con un tono di voce calmo, annoiato persino. Privo di qualsiasi inflessione. Si muoveva come se stesse fluttuando, come se non ci fosse niente da vedere eccetto l’uomo che l’aveva legata a sé con un incantesimo.

Artù tese le mani tra le sbarre e prese quelle di Ginevra. – Mia cara... sono felice che tu sia qui. Finalmente qualcosa di bello.

Merida roteò gli occhi. Provava solo repulsione per lui e teneva a freno a stento il desiderio di conficcargli una freccia in un ginocchio.

- Presto sarò fuori da questa cella. Questa gente non sa con chi ha a che fare. – disse Artù, parlando alla moglie. Passò il pollice sulle labbra di Ginevra con una lieve carezza. – La pagheranno cara.

- Con chi abbiamo a che fare? Con un re senza regno. – rispose Merida. Belle le posò una mano sul braccio per trattenerla.

- Camelot sarà anche stata distrutta, ma la ricostruiremo. Lo abbiamo già fatto una volta, vero? – disse Artù, sprezzante.

Ginevra annuì.

- Presto sarai tu quella senza regno. – disse Artù. – Avresti dovuto uccidermi quando ne avevi l’opportunità.

- Io non sono come te. – rispose Merida, duramente.

- No. Su questo sono d’accordo. Io sono un re. Tu... sei solo una pessima imitazione di ciò che dovrebbe essere una regina. Non sei stata nemmeno capace di aiutare tuo padre.

- Non parlare di mio padre!

Ma Artù perseverò. – Almeno lui è morto sul campo di battaglia. Tu avrai il coraggio di combattere e morire?

- Mi stai sfidando? – chiese Merida.

- Merida, no... – mormorò Belle.

- Sì. – rispose Artù. Lasciò le mani di Ginevra per aggrapparsi alle sbarre della cella. Il suo sguardo dardeggiava. La sua bocca era distorta in un ringhio. – Esigo un verdetto per singolar tenzone.

L’aria sembrò addensarsi e riempirsi di pericolo e morte. Belle lo leggeva nei lineamenti di Artù, nell’intensità con cui la guardava. Merida rimase perfettamente immobile, senza distogliere lo sguardo dall’uomo che aveva ucciso re Fergus, infilzandolo alle spalle. Dall’uomo che la fissava come un predatore che pensava di aver costretto la vittima in un angolo.

- Noi due ci affronteremo. Oggi, al tramonto. Ti lascio scegliere il posto. – Artù sogghignò. – Se perdi, morirai. Farò in modo che la tua gente abbia indietro la sua regina. A pezzi. La tua adorata madre riceverà la tua testa. I tuoi fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché si inginocchieranno a me.

Merida aveva l’impressione che gli occhi le bruciassero nelle orbite. Si sentiva intorpidita e distaccata dal suo stesso corpo. – Non lo faranno mai.

- Lo faranno. – ribatté Artù. – Quando vedranno cos’è capitato alla loro sorella, lo faranno. In caso contrario, ciò che avranno in cambio sarà la morte.

- Parliamo di cosa accadrà se tu perderai.

Belle notò che Artù non aveva la minima intenzione di perdere e non pensava che sarebbe successo. Finse di rifletterci. – Sentiamo. Cosa succederà? Detta le condizioni.

- Verrai con me a Dunbroch. Come prigioniero. E sarai giudicato dopo un processo. Sarai giudicato non solo da me, ma anche dal mio popolo.

A Belle gelò il sangue nelle vene. Stava ancora trattenendo Merida per un braccio. Lei era rigida come un tronco di legno, con gli occhi sgranati e fissi su Artù.

Il prigioniero sorrise. – E sia.  

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Sapevo che sareste tornata con qualcosa di più di un sacco di patate o un po’ di frutta.”, esclamò Tremotino, quando Belle fece la sua comparsa sul viale sterrato che conduceva al castello. Guidava un carro e dietro ad esso giaceva un uomo ferito e pallido.

Belle si affrettò a saltare giù e a correre verso Tremotino. “Ha bisogno del vostro aiuto!”

“E perché mai dovrei aiutarlo?”

“La vostra magia è ciò che gli serve. Morirà. Lui è... era un mio amico.” insistette Belle. Il soldato che lo stava trasportando all’accampamento non aveva protestato quando si era offerta di guidare il carro, soprattutto sapendo dove voleva condurre il ferito. Aveva persino rifiutato il denaro che Belle gli aveva teso.

“La vera domanda è: cosa ottengo io in cambio?”

Era furibonda. Gli puntò contro un dito. “Niente. È solo la cosa giusta da fare. Non siete in grado di vederlo?”

Tremotino sbirciò l’uomo sul carro. Si stava lamentando nel suo stato di incoscienza. “La mia dimora non è per gente come lui.”

“Siete orribile.”, fu la risposta di Belle. Si scostò, con una smorfia. “Non me ne starò qui ad aspettare che muoia. Provate ad impedirmi di portarlo dentro, se ne avete il coraggio.”

Tremotino ne avrebbe anche avuto il coraggio, tuttavia scrollò le spalle. “Bene. Portatelo pure dentro, allora. Ma non aspettatevi che vi aiuti. Non lo ucciderò, ma lascerò che sia il fato a scegliere. Se morirà... morirà.”

 

 
“B-Belle?”

‘Non lo ucciderò, ma lascerò che sia il fato a scegliere. Se morirà... morirà.’

Belle si voltò, udendo la voce smorzata di Samuel, che giaceva nel letto, con la gamba posata su una pila di cuscini. Aveva cambiato la fasciatura, ma la ferita era ancora aperta. Continuava a sanguinare e non accennava a guarire. La pelle intorno ad essa era violacea. Belle aveva preso tutti i libri che parlavano di armi magiche e li aveva portati nella stanza di Samuel. Li aveva sfogliati a lungo, fino a quando non aveva trovato delle pozioni che potevano alleviare il dolore e farle guadagnare tempo. Ma non aveva idea di quale arma lo avesse ferito.

“Sì, Samuel. Sono io... bevi.” Gli porse dell’acqua, sorreggendogli la testa.

“Dove... dove siamo?”

Belle gli scostò ciuffi di capelli biondi dalla fronte sudata. “Nel castello dell’Oscuro.”

“Oscuro?” Si allarmò, spalancando i grandi occhi verdi. “Siamo prigionieri?”

“No... non proprio. Tu non sei un prigioniero... ti ho trovato al villaggio e ti ho portato qui.”,  spiegò Belle.

“Non capisco.”

Belle prese una sedia e si accomodò accanto al letto. Gli raccontò tutto dall’inizio, ovvero da quando le truppe di suo padre avevano richiesto rinforzi contro gli orchi per proteggere i villaggi vicini fino al momento in cui Tremotino aveva proposto l’accordo.

“Belle... questo è... non è possibile. Dobbiamo andarcene. Siamo in pericolo.” disse Samuel, tirandosi su.

“Non devi preoccuparti. Andrà tutto bene. L’Oscuro ha promesso che non ti farà alcun male. E credimi... saresti già morto, se non fosse stato sincero.” Belle prese una pezza bagnata e gliela passò sulla fronte. Poi gli diede l’intruglio che aveva preparato. “Bevi questo. Non guarirà la ferita, ma dovrebbe abbassare la febbre.”

“Sei sempre... la ragazza gentile che ricordavo.”, sorrise lui, prendendo la tazza dalle sue mani e sfiorandole le dita. Le sue erano molto calde. Bruciavano, persino. “Non hai perso la speranza.”

“No.”, rispose Belle. “Ma ora raccontami cosa ti è successo. Come ti sei procurato quella ferita? Che tipo di arma era?”

Samuel aggrottò la fronte. Si portò una mano alla testa, come se gli dolesse più della gamba. “È... difficile ricordare. L’orco aveva una spada. Una spada con l’elsa argentata e piena di gemme rosse. Questo lo ricordo... qualcuno ha scagliato una freccia e lo ha centrato, ma poi... è tutto confuso.”

“È la febbre. Quando ti passerà, ricorderai.”

“Guarirò?”

Belle cercò di sembrare il più rassicurante possibile. “Certo. Lascia fare a me.”

 

 
Storybrooke. Oggi.

 
David le aveva detto dove trovare le armi se ne avesse avuto bisogno e Merida prese la spada che faceva al caso suo.

“Se perdi, morirai. Farò in modo che la tua gente abbia indietro la sua regina. A pezzi. La tua adorata madre riceverà la tua testa. I tuoi fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché si inginocchieranno a me.”

- Merida...

- Hai detto ai nani di tenerlo d’occhio? Non credo che scapperà. È troppo sicuro di vincere.

Belle la guardò mentre saggiava la sua arma, provava un affondo e poi un fendente. Non aveva idea di quanto fosse bravo Artù con la spada, ma era comunque preoccupata e non poté nasconderlo. – Merida, forse dovresti prendere tempo. Lui non combatterà lealmente.

- No, non lo farà. – ammise, portando la spada fuori dal deposito, accanto al Granny’s. – Ma non posso rifiutarmi di combattere. Ha ucciso mio padre. E mi ha sfidata.

- Gli altri torneranno presto. Forse David ed Emma...

- Sono andati nell’Oltretomba, Belle! Non sappiamo quando torneranno. Se torneranno.

- Certo che torneranno!

- Non puoi esserne certa.

- Lo sono! – Belle ripensò al sogno di quella notte. Non ricordava più molto, ma ricordava bene Tremo avvolto da una spirale di fiamme azzurre. Nel sogno aveva udito anche una risata beffarda.

- Spero che tu abbia ragione. Ma anche se fossero qui non potrebbero fermarmi. – Menò qualche altro fendente, con una e con entrambe le mani. La spada era robusta, ma poteva maneggiarla facilmente.

“Se perdi, morirai. Farò in modo che la tua gente abbia indietro la sua regina. A pezzi.”

- So che sei molto forte, Merida. – disse Belle. – Ma potrebbe essere una trappola. E se cadi in quella trappola... sarà la fine per il tuo popolo. Loro hanno bisogno di te. Tua madre, i tuoi fratelli...

“La tua adorata madre riceverà la tua testa. I tuoi fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché si inginocchieranno a me.”

- E mio padre ha bisogno di giustizia! – replicò Merida, furente. - Ho già fallito una volta. Questa volta non sbaglierò.

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Belle!”, gridò Tremotino.

Lei alzò il capo dal libro di erbe medicinali che stava consultando e lanciò un’occhiata a Samuel, che dormiva avvolto nelle coperte. Gli aveva messo la pezza umida sulla fronte e ogni tanto gliela passava sul viso arrossato per rinfrescarlo. La febbre era scesa grazie all’infuso che gli aveva preparato, ma era sicura che non bastasse. Era solo un sollievo momentaneo.

Andò alla porta e scivolò fuori dalla stanza. Tremotino se ne stava appoggiato alla parete, con il solito ghigno stampato sul viso verdognolo e squamoso.

“Si può sapere perché urlate?”

“Non si sa mai, mia cara. Sembrate così occupata con il vostro infermo.” Nella voce di Tremotino c’era un certo scherno, ma anche una qualche forma di fastidio e una punta di collera. “Se avessi saputo che avrebbe impiegato così tanto a morire...”

“Non morirà!”, esclamò Belle. “Non contateci. La febbre è scesa e troverò un modo per guarire la ferita.”

“Bene. In ogni caso, prima se ne andrà e meglio sarà.” Tremotino sbirciò il giovane nel letto. L’aveva visto chiaramente quando la domestica l’aveva trasportato in casa. Un bel giovane. Di sicuro Belle lo trovava piacente, con quei capelli biondo grano e i grandi occhi verdi, il fisico forte, un’ombra di spavalderia sul viso sbarbato e accaldato per la febbre.

Non che a lui importasse, ovviamente...

“Il castello è vostro. Devo occuparmi di certi affari.”, annunciò, poi, Tremotino.

“Ve ne state andando?”

“Non starò via molto, cara. Nel frattempo, evitate che quel soldatino combini qualche pasticcio. Ricordategli che è solo un ospite. Un mio ospite. Sono stato fin troppo magnanimo.” Detto ciò, svanì in una nube magica.

Belle roteò gli occhi e rientrò. Samuel dormiva ancora.

 

Più tardi, quella sera, Belle stava armeggiando con erbe e tazze per preparare un nuovo infuso e intanto sfogliava il libro alla ricerca di un’arma simile a quella che Samuel le aveva descritto. Una spada con l’elsa in argento e delle gemme rosse. Trovò svariati pugnali con un’impugnatura simile a quella, lance, frecce elfiche, spade di gnomi...

‘Gáe Bulg, la lancia dell’eroe Cù Chulainn, affidatagli dalla sua maestra d’armi, è stata ricavata dall’osso di un mostro marino, morto in combattimento contro un altro Leviatano...’

‘Claìomh Solais, detta la Spada di Luce, appartenuta a re Nuada dalla Mano d’Argento, splende non appena viene estratta dal fodero ed è invincibile in battaglia...’

‘Fragarach, conosciuta come ‘colei che dà risposte’, è una spada capace di placare i venti e di costringere chiunque a dire la verità, se puntata alla sua gola...’

‘Nothung, appartenuta all’eroe Sigfrido, è una spada dai prodigiosi poteri, estratta dal tronco di un melo secolare...’

“Tremotino!”, esclamò Belle, parlando con la stanza vuota. “Avreste anche potuto essere più gentile e aiutarmi. Ma state pur certo che quando tornerete ve le canterò, dovesse essere l’ultima cosa faccio...”

Portò il vassoio verso le scale e, nel farlo, dovette attraversare il salone dove Tremotino soleva filare.

Qui vide l’uomo in piedi davanti alla finestra.

“Che cosa succede?”

 

 
Storybrooke. Oggi.

 
Era venuta davvero molta gente.

Gli uomini di Artù erano schierati a destra e a sinistra, lungo il bordo dei marciapiedi. Gli abitanti di Storybrooke erano arrivati alla spicciolata e sostavano a gruppetti intorno all’area in cui si sarebbe svolto il duello tra Merida e il re di Camelot. 

La strada era spazzata dal vento e il sole stava tramontando, colorando il cielo di rosso e arancione.

Osservando le ombre della sera che avanzavano, Belle rabbrividì. Aveva passato le ultime ore in biblioteca, immersa nella lettura, cercando di non pensare a che cosa attendeva Merida. In realtà non era riuscita a concentrarsi sulle parole stampate e aveva spesso perso il filo, cosa che l’aveva costretta a ricominciare daccapo più di una volta. Aveva persino sfogliato un vecchio volume che parlava di armi magiche, che era sicura di aver già sfogliato molti anni prima, quando aveva soccorso un vecchio amico di infanzia, costringendo Tremotino ad accoglierlo nel suo castello.

“Se perdi, morirai. Farò in modo che la tua gente abbia indietro la sua regina. A pezzi. La tua adorata madre riceverà la tua testa. I tuoi fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché si inginocchieranno a me.”

Alla fine si era messa a leggere alcuni capitoli di un volume che parlava di duelli e verdetti per singolar tenzone.

Avanzò verso la prima fila e vide Merida che estraeva la spada dal vecchio fodero in cui era stata riposta. Aveva posato l’arco e la faretra sull’asfalto. Le persone la fissavano, incuriosite, bisbigliando fra di loro.

- Dov’è? Ho bisogno di sgranchirmi. – disse Merida.

- Suppongo che sarà qui a momenti. – Belle scorse Ginevra in mezzo al manipolo di cavalieri, sul lato opposto della strada.

“Non lo ucciderò, ma lascerò che sia il fato a scegliere. Se morirà... morirà.”

Continuavano a tornarle in mente le parole che le aveva detto Tremotino il giorno in cui era tornata dal mercato con Samuel.

“Il fato... se morirà... morirà.”

Belle vide che l’elsa della spada era molto lunga e su di essa erano incise delle parole in filigrana di ottone.

- Am gài i fodb fras feochtu, Am dé delbas do chind codnu. Coiche nod gleith clochur slébe. – lesse Merida, accorgendosi dello sguardo di Belle. – È la canzone di Amergin. Quando ero piccola, nelle notti di luna piena, alcuni uomini di mio padre la cantavano.

- Amergin?

- Era un druido e un bardo. A mia madre la canzone non piaceva. – Merida sorrise, presa nel vortice dei ricordi. A Belle sembrò immensamente giovane, quasi sperduta, per qualche momento. – Diceva che le metteva i brividi.

Vennero interrotte da un brusio concitato e dal rumore di passi in marcia. Artù fece la sua poco gradita comparsa circondato dai nani. Tre di loro camminavano dietro al re e due davanti a lui, tutti armati di picconi. Intanto Brontolo ed Eolo lo accompagnavano, tenendolo per le braccia. Quando giunsero al centro della strada principale di Storybrooke, Brontolo, con riluttanza, tirò fuori una chiave e la usò per aprire le manette che stringevano i polsi di Artù.

- Is maith an scáthán súil charad. – disse Merida.

Belle non ebbe modo di chiederle che cosa significasse, perché lei si allontanò, per raggiungere il centro della strada, con la spada in pugno. Artù la fissò con astio e domandò a gran voce che gli portassero la sua arma. Ginevra se la fece consegnare da uno degli uomini di suo marito che, nell’offrirgliela dentro al fodero nero, chinò il capo rispettosamente. Poi Ginevra raggiunse il marito e gli porse la spada.

- Fa attenzione. – disse ad Artù.

Lui le accarezzò una guancia. Infine prese l’arma e la estrasse dal fodero con un gesto deciso.

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Samuel.”, mormorò Belle. Il vassoio le scivolò di mano e la tazza, cadendo, si ruppe in mille pezzi. “La tua ferita...”

Samuel era in piedi davanti ad una delle finestre e aveva aperto una piccola borsa che portava legata alla cintura. Non sembrava che stesse male. Aveva persino spostato il peso sulla gamba malata e il suo viso era roseo. Nei suoi occhi brillava un certo senso di colpa.

“Come fai a... ad essere in piedi?”, domandò Belle, incredula.

“Mi dispiace.”, disse Samuel, allargando le braccia. “Forse è giunto il momento di spiegarti perché sono qui.”

“Era tutto falso. Erano bugie...”, disse Belle, precedendolo. “Non eri davvero ferito.”

“La ferita me la sono procurata con la magia. Ma faceva parte del piano.”, spiegò Samuel. “Sono stato da un mago di nome Knubbin. La ferita era un’illusione. Così come la febbre.”

“Quale piano?!”

“Tuo padre mi ha assoldato perché ti salvassi, Belle.”

“Vuoi dire che ti ha pagato!”, lo interruppe lei, furiosa. “Sei un mercenario, non è così?”

“Sono un messaggero. Durante gli scontri con gli orchi, facevo da tramite tra gli uomini di tuo padre. Portavo messaggi e all’occorrenza la gente mi pagava perché facessi loro dei favori.” Samuel appariva fiero dei suoi compiti. Il suo viso era duro, ma deciso. Gli occhi scintillavano di orgoglio. “Tuo padre mi ha trovato e mi ha chiesto di aiutarlo. Mi ha offerto un compenso notevole, ma l’ho fatto anche per te. So che ti ricordi di quando giocavamo insieme da bambini... eravamo amici.”

“Lo eravamo, sì...”, mormorò Belle.

Samuel le prese una mano, stringendola nella sua, grande e callosa. “Posso portarti via da qui, Belle. Lascia che ti aiuti.”

“Non puoi ingannare l’Oscuro, Samuel! Con chi credi di avere a che fare? E poi ho dato la mia parola...”

“La tua parola?” Samuele era basito. “Sei stata costretta a promettere! Ti posso liberare da quell’impegno. Non sei obbligata a restare qui con questa... con questa bestia.”

Belle incrociò le braccia al petto.

“Ascolta, ho qualcosa che può fermare l’Oscuro una volta per tutte.” Estrasse un oggetto dalla borsa appesa alla cintura. Era un cubo con strani intarsi contorti, sormontato da una pietra rossa.

“Che cos’è?”

“Il Vaso di Pandora. Una volta aperto, intrappolerà l’Oscuro.” Samuel glielo fece vedere più da vicino. “Non potrà uscire, Belle. E tu sarai libera.”

“Perché dovrei fare una cosa simile?”

“Per tutti. Pensa a come sarebbe il mondo senza l’Oscuro! Vendicheresti tutte le persone a cui ha fatto del male! Saresti un’eroina.” Il sorriso di Samuel era largo e abbagliante, il sorriso di chi credeva di avere la vittoria in pugno.

Belle pensò a suo padre e alla sofferenza che gli aveva causato quando aveva deciso di accettare l’accordo di Tremotino. Pensò a Gaston. Non era l’uomo che amava, solo lo sposo scelto da Maurice per lei, un giovane attraente, ma avido, che la vedeva come una delle sue tante conquiste. Non aveva idea di che fine avesse fatto, forse combatteva contro gli orchi per Maurice.

Pensò a sua madre... a com’era morta. A tutto il dolore che aveva provato quando si era destata e le avevano detto che era stata uccisa.

“Belle, non è quello che hai sempre fatto? Hai sempre aiutato gli altri. Sei sempre stata buona...”, continuò Samuel.

“È vero.”, rispose Belle, risoluta. “Hai ragione. Dobbiamo farlo.”

“Mi aiuterai, quindi?”

“Sì. Ti aiuterò.”

 

 
Storybrooke. Oggi.

 
L’atmosfera era schiacciante, grigia e pensatissima. Non si udiva cantare un uccello e tutto era avvolto da un silenzio di tomba angosciante che si appiccicava ai vestiti, come se dovesse trascinarli negli abissi più profondi.

- Questa è pazzia. Dovremmo usare i picconi e dargli una lezione. – disse Brontolo, scuro in volto.

- Noi dare una lezione a lui? – intervenne Gongolo.

- Perché no? Siamo in sette!

- E lui ha tutti i suoi cavalieri armati a disposizione!

- Noi abbiamo i picconi! Niente ferma il piccone di un nano! E abbiamo Granny! Lei ha il fucile.

Belle guardò con apprensione i due contendenti che si studiavano, ad una distanza di un paio di metri.

Merida stringeva l’elsa della spada così forte da sbiancarsi le nocche.

“Ah! Tua madre mi ha fatto promettere di tenerti al sicuro... così ho assunto un soldato perché ti addestrasse nell’arte della guerra.”

Toccava a lei vincere per tenere al sicuro sua madre e i suoi fratelli, ora.

“In combattimento non vince il più forte, ma il più furbo.”

I due contenenti si studiarono, muovendosi in cerchio, senza mai distogliere gli occhi l’uno dall’altro. Il re senza regno era anche senza armatura.

“Se perdi, morirai. Farò in modo che la tua gente abbia indietro la sua regina. A pezzi.”

Artù si mosse con rapidità, tentando un affondo deciso.

Merida lo parò e scivolò a destra. Rispose con un manrovescio, al quale lui si oppose, spingendo per allontanarla da sé. Merida vacillò sulle gambe, ma riuscì a parare anche il colpo successivo. Lo incalzò con una serie di mosse che miravano alle gambe e alle braccia. La lama lo raggiunse poco sopra il polso, aprendo un taglio superficiale. Artù balzò indietro, digrignando i denti.

Per Belle era difficile staccare gli occhi dai due.

- È una follia. Hai ragione! Non so perché l’abbiamo permesso! – sussurrò Eolo, pallido come se uno dei due contenenti fosse stato lui stesso.

- Sssh. – gli intimò Gongolo.

- Biancaneve potrebbe decidere di ucciderci e ne avrebbe tutte le ragioni. Ci ha detto di tenere d’occhio la situazione prima di partire... – continuò Eolo.

Gli altri nani strascicarono i piedi.

- L’abbiamo tenuta d’occhio! – esclamò Brontolo, irritato. – Che cosa vi avevo detto? Potevamo usare i picconi!

Merida menò un fendente che quasi sorprese Artù, ma lui lo fermò, incrociando la sua spada con quella dell’avversaria. Artù spinse con tutte le sue forze, fino a costringere Merida a piegarsi sulle ginocchia. A lei tremavano i muscoli delle braccia. Vide una furia cieca bruciare nello sguardo verde del suo nemico. Una furia che gli deformava i lineamenti.

- Morirai. Sei finita come tuo padre. – Spinse ancora più forte. Merida avvertì il morso gelido della lama vicino al suo volto.

“Se perdi, morirai. Farò in modo che la tua gente abbia indietro la sua regina. A pezzi.”

“In combattimento non vince il più forte, ma il più furbo.”

Merida afferrò la lama della spada di Artù con la mano destra, ferendosi. Ignorò il dolore e usò le sue energie per opporsi al suo tentativo di chiudere il duello. Artù si stupì di quell’improvvisa esplosione di forza e fu costretto ad indietreggiare di un paio di passi. Il clangore delle armi vibrò nell’aria, riecheggiando come se stessero combattendo in un lungo tunnel.

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 

“Dove mi stai portando?”, domandò Samuel, seguendo Belle fino ad una grande porta di legno vecchio.

“Nelle stanze sotterranee dell’Oscuro. Lui ci va spesso, soprattutto quando è di ritorno da uno dei suoi viaggi.”

“Dovrò aspettarlo là?”

“È il posto più adatto.”

Samuel sorrise. Belle aprì la porta e prese una delle fiaccole appese al muro di pietra, accendendola alla svelta. Davanti a loro, poco oltre la soglia, iniziava una serie di scalini che conducevano nelle viscere della dimora dell’Oscuro. La scala si avvitava, perdendosi nel buio.

“Sei sicura che sia per di qua?”, chiese Samuel, aggrottando le sopracciglia.

“Sì. Vivo in questo castello. Ormai conosco quasi ogni angolo.”

Samuel la seguì giù per le scale. Il passo di Belle era sicuro, le fiamme illuminavano i gradini uno dopo l’altro e ogni minimo rumore riecheggiava lungo le pareti, spandendosi in una serie di echi sinistri.

“Siamo arrivati. Devi passare da qui.”, disse Belle, sollevando la fiaccola perché Samuel potesse vedere la seconda porta.

“Quello non è il magazzino delle provviste?”, le fece notare lui. “Vuoi che mi riempia la pancia, prima?”

“No. Ma le camere dell’Oscuro sono protette dai suoi incantesimi. L’unico modo per raggiungerle è passando dai magazzini.” Aprì i chiavistelli arrugginiti. “Fidati di me. Ho imparato un bel po’ di trucchi da quando abito con lui. Non sono solo una domestica.”

Samuel intervenne per aiutarla a sollevare la trave che bloccava il passaggio. “Uff. Già... vedo che ti sei data da fare... uff. È una vera fortuna, Belle.”

Lei sorrise leggermente. Scostarono la trave e Belle aprì la porta, che cigolò orribilmente sui cardini. “Cerca di fare attenzione. Potrebbe accorgersi di te non appena metterà un piede nelle sue stanze.”

“Ma lui non ha il Vaso di Pandora.”, le ricordò Samuel, battendo una mano sulla borsa. Si infilò oltre la soglia. Prima di inoltrarsi nel magazzino, si girò un’ultima volta, guardandola, deciso. “Ci riuscirò, Belle, non preoccuparti per me. Ce ne andremo. Τuo padre sarà così felice di rivederti.”

“Ne sono sicura. E... non ho bisogno di preoccuparmi per te.”

“Beh...”

Belle gli chiuse la porta in faccia. Samuel non se l’aspettava e inciampò, cadendo lungo disteso. Lei afferrò la trave, scorticandosi i palmi e usò la forza che aveva per rimetterla al suo posto e bloccare la porta. Infine tirò i chiavistelli.

“Belle!” gridò Samuel, picchiando i pugni contro il legno. “Belle, che stai facendo? Qui non c’è  niente! Fammi uscire!”

Belle appoggiò le spalle contro il legno, respirando con affanno. “No, non c’è niente, Samuel. Non si tratta nemmeno del magazzino. Sei fuori dal castello. Vattene finché sei in tempo.”

“Non puoi farlo, Belle! Non puoi chiudermi fuori!”

“Posso. Τi ho già salvato la vita una volta. Se l’Oscuro scopre che cosa intendevi fare, morirai. Quindi va via. Per favore.”

Samuel si aggrappò alle sbarre della piccola grata che si apriva in cima alla porta. “Belle, no... come puoi farmi questo? Eravamo amici!”

“Un tempo lo eravamo. Sono passati anni.”, osservò Belle, incrociando le braccia. “E Τremotino sarà anche il Signore Oscuro, ma non merita di essere ingannato in questo modo.”

Quando Samuel parlò di nuovo, la sua voce aveva assunto un tono accusatorio, come quella di un bambino che voleva essere rispettato e trattato alla pari, ma che sapeva già di desiderarlo invano. “Io ero tuo amico. Sono venuto fino a qui per te. Ho rischiato la mia vita per riportarti a casa. Che cosa dirò a tuo padre? Che preferisci la compagnia dell’Oscuro a quella della tua famiglia? Lui ti ha traviata, vero? Ha usato la magia e ora fai ciò che lui chiede!”

Sul viso di Belle balenò un lampo di dispiacere. “Puoi dirgli quello che ritieni più giusto. E... no, nessuno ha usato la magia su di me. So quello che faccio. Al contrario di te.”

 

 
Storybrooke. Oggi.

 
Merida e Artù continuavano a scambiarsi colpi su colpi.

Ormai l’unico rumore era il clangore delle spade. Sembrava che la folla stesse trattenendo il respiro, in attesa della mossa che avrebbe deciso le sorti del duello. Artù aveva la fronte imperlata di sudore, ma non cedeva. Merida era evidentemente stanca, eppure continuava a parare gli affondi e a restituirli.

“In combattimento non vince il più forte, ma il più furbo.”

Artù cercò di sorprenderla con un colpo di taglio, dato dal basso verso l’alto. Sembrava un colpo lento, ma era anche molo potente. Merida lo sentì riverberare lungo il braccio. Fu sul punto di lasciar cadere la spada. Strinse l’elsa più forte che poté, sbiancandosi le nocche e lo respinse. Barcollò, trovandosi sbilanciata.

“Se perdi, morirai. Farò in modo che la tua gente abbia indietro la sua regina. A pezzi.”

Artù sollevò la spada, infierendole un colpo in diagonale. Merida fu costretta ad usare entrambe le mani per non essere disarmata. Dalle labbra le sfuggì un verso inarticolato.

- Arrenditi. - le disse Artù, fissandola tra le lame incrociate. – Arrenditi, maledetta. Non puoi vincere.

“La tua adorata madre riceverà la tua testa. I tuoi fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché si inginocchieranno a me.”

Ginevra assisteva al duello con gli occhi sbarrati, il pugno premuto contro la bocca. Belle avvertiva il battito accelerato del proprio cuore. Le rimbombava nelle tempie, frastornandola.

“Il fato... se morirà... morirà.”

Le lame slittarono e Merida scivolò via. L’arma di Artù colpì l’asfalto. Lui gettò un grido di rabbia e si girò di scatto. La spada fendette l’aria.

“La tua adorata madre riceverà la tua testa.”

Artù vibrò l’ennesimo affondo. Si scagliò contro di lei come una furia, mirando al suo petto.

“I tuoi fratelli riceveranno il corpo. Dopodiché si inginocchieranno a me.”

Merida si difese, parando l’affondo e Artù si ritrovò proiettato dal suo stesso impeto in avanti. Vacillò e, quando si voltò d’istinto, aspettandosi un nuovo colpo morale, Merida gli regalò un fendente che quasi gli tranciò le dita della mano destra.

Il suo polso cedette e Artù lasciò cadere la spada.

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Complimenti, mia cara! Davvero notevole!” Τremotino apparve dietro di lei, battendo le mani come se avesse appena assistito al migliore degli spettacoli. “Sono felice di essere arrivato giusto in tempo! Non avrei mai voluto perdermi una scena simile.”

“Τremotino...”, iniziò Belle, che se ne stava appoggiata alla parete, ignorando le grida di Samuel.

“Vi ringrazio per avermi aiutato a recuperare qualcosa che desideravo da anni.”, disse l’Oscuro, aprendo la mano. Vi fu un pof e il Vaso di Pandora, quella che avrebbe dovuto essere la sua prigione, si materializzò. Intanto, due fili di fumo violaceo uscirono dalla finestrella sopra la porta sbarrata. “Non ero mai riuscito a metterci le mani sopra, ma il vostro molesto amico l’ha portato direttamente da me.”

“Cosa avete fatto a Samuel?! Non lo avrete mica...”

“Oh, non preoccupatevi per lui, cara. Non l’ho ucciso. Ho promesso che non l’avrei fatto ed io mantengo sempre la parola.” Rise, accarezzando il Vaso con la punta delle dita. Fece scorrere l’indice sulla gemma rossa, che inviò un barbaglio luminoso. “Però... mi sono permesso di spedirlo da qualche altra parte... in un posto... molto lontano da qui e decisamente meno confortevole.”

Belle incrociò le braccia e sollevò il mento, con aria di sfida.

“Sì, giusto. Devo ringraziarvi per avergli impedito di rinchiudermi in questa... prigione.”, disse Tremotino, reggendo l’oggetto con due dia e sorridendole. “Avete fatto un ottimo lavoro e me ne compiaccio. Non oso nemmeno immaginare che cosa avrei combinato lì dentro. Non lo trovate stretto? Come avrei fatto a distendere le gambe?”

“Mi dispiace deludervi, ma non ho chiuso fuori Samuel per voi.”, lo interruppe Belle. “L’ho fatto per il popolo della Foresta Incantata. E perché sono una donna che mantiene la parola. Proprio come voi.”

“Oh?”

“Volevo credere alla storia di Samuel. Lo volevo davvero. Era un mio amico.”, spiegò Belle. “Ho provato a credergli anche quando ho scoperto che la sua non era una vera ferita, ma solo un incantesimo... un’illusione. Volevo credere che almeno lo stesse facendo per una buona causa.”

Lui non disse niente. Aspettò che continuasse.

“Ma mentiva. Ha sempre mentito. Quando mi ha raccontato come si era procurato la ferita, ho capito che qualcosa non andava nella sua storia e quindi ho frugato fra le sue cose.”

“Molto acuta.”

“Ho trovato una mappa che conduceva proprio qui e un disegno... rappresentava il vostro pugnale. Non era qui per rinchiudervi nel Vaso di Pandora. Era qui per il pugnale. Voleva rubarlo e controllarvi. Lui... e i suoi uomini.”

“Ah, il pugnale. Ma guarda...” Τremotino toccò la propria arma, accuratamente riposa in un fodero in cuoio appeso alla cintura.

“Era un mercenario. Se anche fosse vero che mio padre l’ha assoldato, era qui solo per il suo tornaconto. Non potevo permettere che accadesse una cosa simile.” Gli puntò contro l’indice. “Quindi, c’era di più in ballo della vostra vita.”

“Già. Questo lo vedo.”, osservò Tremotino, corrucciato. Era sorpreso e faticava a nasconderlo.

“Bene.” Belle si sistemò i capelli dietro le spalle. “Ne ho abbastanza. Me ne vado a letto, con il vostro permesso.”

“Fate pure.”, mormorò l’Oscuro.

“Ho solo una domanda.”, disse Belle, voltandosi di nuovo. Sulle labbra aleggiò un sorrisetto. “Dopo quello che è successo oggi... vi fidate di me?”

Τremotino annaspò, alla ricerca di una frase sensata da rifilare a quella domestica impertinente.

“Non importa.”, aggiunse Belle, scuotendo il capo. “Conosco già la risposta.”

 

 
Storybrooke. Oggi.

 
Belle trattenne il respiro ancora per qualche momento, dopo che Artù era stato disarmato.

Merida gli puntava la spada alla gola.

Le persone tacevano. Non uno fece un passo verso i due contendenti. I nani sembravano statue di sale, con i picconi in mano. Granny impugnò il fucile, aspettandosi una carica da parte degli uomini del re, che fissavano la scena come inebetiti. Ginevra era pallida, con i pugni serrati ai lati del corpo.

- È finita. – annunciò Merida. La sua voce risuonò forte e chiara, poiché il silenzio era denso, pesane come un macigno. – Rispettate la vostra pare dell’accordo. La ricordate, vero?

Artù non era mai sembrato così furioso. Così livido.

- Avete detto che sareste venuto con me a Dunbroch e che sareste stato giudicato da me e dal mio popolo per ciò che avete fatto a mio padre. – ripeté Merida.

- Ho detto questo, sì. – bofonchiò Artù.

- Credo che i vostri uomini non vi abbiano sentito.

- Ho detto proprio questo! 

Un brusio si diffuse tra la folla, percorrendola come un’onda anomala.

- E sappiate che così sarà. – Merida alzò gli occhi sui nani e fece loro un cenno.

Quelli appoggiarono i picconi sulla spalla e Brontolo recuperò le manette che aveva tolto ad Artù.

- Merida! – gridò Belle.

Aveva alzato gli occhi solo per un istante, sempre tenendo la spada puntata contro la gola dell’uomo. Con la coda dell’occhio, vide il guizzo della mano di Artù. Fu rapidissimo. Un lampo. Le dita scattarono come tenaglie verso l’arma che era caduta poco più in là. Quelle dita strinsero l’elsa e il braccio si mosse per sferrare il colpo morale.

“Ah! Tua madre mi ha fatto promettere di tenerti al sicuro... così ho assunto un soldato perché ti addestrasse nell’arte della guerra.”

“In combattimento non vince il più forte, ma il più furbo.”

Merida lo trapassò con la sua spada. La lama fuoriuscì dalla schiena, insanguinata. Schizzi di sangue volarono sull’asfalto e quasi raggiunsero le scarpe di Gongolo, che si ritrasse con un guaio ansioso, urtando Eolo. Capitombolarono a terra entrambi.

Ginevra gridò.

E quando Merida estrasse la spada, con gli occhi pieni di lacrime, fissando il corpo che si afflosciava, l’incantesimo con cui lui aveva tenuto la moglie legata a sé si dissolse.

Granelli di polvere luminosa piovvero dai capelli e dal vestito color porpora di Ginevra. Rotolarono sulle maniche dell’abito ed evaporarono prima di toccare la strada.

Ginevra battè le palpebre.

 

 
Oltretomba.

 
Mentre Killian Jones usciva dal negozio di Gold e si incamminava nuovamente verso l’appartamento degli Azzurri, invischiato in una fitta rete di oscuri pensieri, le lancette della torre dell’orologio scattarono.

Non si mossero in avanti, com’era accaduto quando il padre di Regina era passato oltre, ma all’indietro. 

Il suono secco vibrò nell’aria densa e buia di Underbrooke.

Ade, nelle profondità del suo covo, lo udì e sorrise, sorseggiando un calice di vino rosso.


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Capitolo 8
*** 8. ***


8

 
“Tali siamo
Quali la natura ci ha formato:
fragili”

[William Shakespeare, La Dodicesima Notte]

 

 

 
Città di Smeraldo. Oz. Anni fa.

 

Il sole era già sorto da quasi un’ora quando posò i fiori davanti alla tomba. Li aveva raccolti lungo il tragitto che da casa l’aveva condotta al mercato, solo un piccolo mazzo per abbellire  un pezzo di terra che rimaneva spoglio il più delle volte, perché suo padre era troppo ubriaco per pensarci o anche solo per alzarsi dal letto la mattina.

Accanto alla pietra tombale sulla quale era rozzamente inciso il nome della madre, Zelena vide una ragnatela tesa da un cespuglio ad un altro. Era grande e su uno degli angoli inferiori della tela stava raggomitolato un ragno delle dimensioni  del suo pollice. Un ragno verde.

Il morso dei ragni verdi era velenoso, lasciava la vittima paralizzata. Alla ragnatela erano sospese gocce di rugiada e molte mosche vi erano rimaste intrappolate.

Zelena inorridì, eppure fissò quelle creature in balia del ragno verde. Perché era così che spesso si sentiva. Intrappolata. Paralizzata. Senza via di scampo.

Ebbe paura e si allontanò in fretta e furia, stringendosi nella mantella e portando con sé il cesto nel quale aveva riposto il pane preso al mercato. Alzò lo sguardo, trovando le luci della Città di Smeraldo proiettate verso il cielo. Le luci del palazzo del Mago.

Arrivò a casa quasi correndo e, in cucina, trovò suo padre intento a bersi la sua scodella di latte. Aveva la barba lunga e i capelli in disordine, gli occhi rossi di chi aveva dormito male.

“Sì può sapere dove ti eri cacciata?”, domandò, rudemente.

“Scusatemi, padre. Al mercato c’era molta gente.”, si affrettò a rispondere. “Volete che vi faccia la barba?”

“Vedi di darti una sistemata e non pensare alla mia barba. Sei tutta sporca di fango!”

Zelena non perse tempo e andò sul retro, a prendere l’acqua dal pozzo. Poi la portò dentro e la scaldò sul fuoco. Era sporca di fango solo perché, nel correre a casa, era inciampata. La sera prima aveva piovuto a dirotto e la strada era un pantano.  

Ma, mentre gettava il secchio nel pozzo e  poi lo tirava su, scorticandosi le mani, Zelena sentiva qualcosa di molto brutto. Qualcosa di brutto che saliva da dentro, qualcosa che veniva da lontano, da un posto buio in fondo all’anima, qualcosa che era verde come il ragno del cimitero, verde come le luci della città e aveva gli artigli affilati, qualcosa che si preparava a dilaniare... perché Zelena faceva del suo meglio per non contrariare suo padre, però non andava bene comunque. Zelena era sempre gentile, gli faceva la barba quando a lui tremavano troppo le mani, lo temeva e lo rispettava. Ma non andava bene.

Le frustate che aveva ricevuto solo due sere prima le facevano ancora  male. Tutto perché si era permessa di approfittare di un momento in cui il padre era di buon umore per chiedergli se non fosse giusto per lei andare dal Mago di Oz. Se il Mago era davvero così potente, avrebbe potuto aiutarla a controllare i suoi poteri. Sarebbe stato meglio per chiunque.

Lui l’aveva ascoltata fino alla fine. Poi erano iniziate le frustate. Era sicura di non aver mai provato un dolore simile.

Quando tutto era finito, aveva immaginato di afferrare suo padre per il collo e gettarlo in fondo alla stanza. Aveva immaginato di prenderlo per la gola e stringere, stringere fino a farlo diventare viola. Aveva immaginato di scagliarlo fuori dalla porta. Non l’aveva fatto, ma uno scossone aveva fatto scricchiolare le fondamenta della casa, costringendo suo padre a ritirarsi in un angolo, impaurito.

Voleva sua madre. Sua madre era gentile con lei. Anche se Zelena pensava che temesse il suo potere, non comprendendolo, sua madre l’abbracciava. La proteggeva.

Ma sua madre era morta, ormai. Era sola.

Zelena si guardò alle spalle. Infine usò il suo potere per tirare su il secchio pieno d’acqua. La corda iniziò ad arrotolarsi ai suoi piedi, come un serpente che si acciambella all’ombra dopo essersi nutrito. Il secchio sbucò dal pozzo con un sobbalzo e lei lo prese.

 

 
Città di Smeraldo. Oz. Oggi.

 

Dopo il tradimento della Strega dell’Est e la scomparsa di Zelena e del principe Fiyero nel portale, Glinda si era dimostrata almeno temporaneamente incapace di qualsiasi tipo di decisione o spiegazione. Mulan aveva dovuto lottare e blandirla a lungo prima di riuscire a convincerla a lasciare andare il corpo di Locasta. Gli uomini di Robin Hood, incaricati di preparare le pire per i caduti,  avevano preso la donna senza vita e l’avevano portata fuori. Prima, Glinda aveva sganciato il medaglione dal suo collo, quello con la pietra bianca incastonata nel ciondolo.

Robin aveva cercato tracce di Zelena e della figlia ovunque, ma non c’era niente da trovare, se non un paio di streghe in miniaura che erano state parte del giostrino collocato in cima alla sua culla. Robin le aveva scagliate lontano.

Nessarose si era dissolta nel nulla. Si era letteralmente sgonfiata sotto gli artigli di Ruby e di lei non erano rimasti che gli abiti.

Toto era stato liberato dalla sua prigione e si aggirava ancora per la sala, saltellando e annusando ovunque.

- Lasciate fare a me. – aveva detto Knubbin, ad un certo punto, richiamando il proprio corvo, che era andato ad appollaiarsi sulla sua spalla.

Si era fatto portare uno specchio e aveva pronunciato poche parole. Le immagini conservate nella testa del corvo si erano riversate nello specchio e avevano preso forma, mostrando loro tutto ciò che era accaduto in quella sala, prima che gli uomini facessero irruzione.

- Non sappiamo comunque dove conduceva quel portale. – disse Robin, una volta che le immagini furono sparite.

- Non ancora. – rispose Knubbin. – E in ogni caso mi domando come sia possibile.

Glinda alzò leggermene il capo.

- La Strega dell’Est si è nascosta bene. – disse Mulan.

- Non parlo della Strega. Ma dello specchio. Lo specchio è magico. – Knubbin girò l’oggetto verso di loro, in modo che la superficie riflettesse i loro visi. Picchiettò l’indice contro la cornice.

- Io non vedo niente.  – rispose Mulan, aggrottando la fronte.

- Certo che no, tesorino. Lo specchio riflette la vostra vera natura. Se foste malvagie, questo affare lo svelerebbe all’istante. – Knubbin arricciò il naso. – Quello che mi chiedo è come può essere finito qui.

Gli uomini di Robin ornarono dal loro giro di perlustrazione. A giudicare dalla facce contrite, non avevano buone notizie.

- Allora? – chiese Ruby, apprensiva.

- Non ci sono prigionieri. Se le prigioni esistono, noi non le abbiamo trovate. – rispose John.

- Devono esistere per forza! Zelena faceva prigionieri. Forse non sono qui, ma devono esistere! – Era talmente piena di angoscia che il cuore stava per esploderle.

- Sta calma, Ruby. – disse Mulan, posandole una mano sulla spalla.

- Non posso. – replicò Ruby. - Vengo con voi. Userò il mio fiuto. Troverò qualcosa.

- Vengo anch’io. – tornò a dire Mulan.

Nessuno degli uomini di Robin si mosse per seguirla. La fissavano tutti con diffidenza.

- Mi unisco a voi. – intervenne, invece, Robin. - Portiamo anche il mago.

- Non sono molto bravo a trovare entrate segrete, signori. – rispose Knubbin.

Ruby mutò aspetto, trasformandosi nuovamente in lupo. Scoprì i denti, ringhiando.  Toto abbaiò.

Knubbin si fece rosso in viso. Era chiaro anche a lui che Glinda non era in grado di aiutare nessuno e l’ultima cosa che desiderava era di finire nelle fauci di un licantropo. – Bene. Andiamo. Fatemi strada.

 

 
Oltretomba.

 

Malefica sorvolò la casa in cui Zelena doveva essersi rifugiata dopo essere giunta nel regno di Ade.

Regina aveva detto che, durante la maledizione che aveva tolto loro i ricordi per la seconda volta, rispedendoli a Storybrooke dopo un anno trascorso nella Foresta Incantata, la strega aveva preso possesso di quella casa fuori città, dotata di una cantina nella quale aveva disposto la prigione di Tremotino.

Malefica planò leggermente, scrutando i dintorni. La casa sembrava deserta, ma intorno ad essa era stata sollevata una protezione. Il drago ci andò a sbattere contro e lanciò uno strepito infastidito, mentre scintille azzurre percorrevano l’aria rossastra dell’Oltretomba.

Poco dopo, il principe Fiyero, arrivato negli Inferi con Zelena, si accomodò sul ramo più basso di un vecchio  albero ad una cinquantina di metri dalla casa. Guardò in alto, inviando un segnale al drago. Poi sollevò una mano, facendosi vedere dalla donna di nome Marian, che si era offerta di controllare la Strega insieme a lui.

- Non sei obbligata a farlo, Marian. – aveva detto Emma, osservandola mentre riempiva di frecce una faretra.

- Lo farò, invece. – aveva risposto lei, risoluta. Il tono non ammetteva repliche.

Marian ci era andata perché quella donna l’aveva uccisa in un’altra versione del suo passato. E ci era andata perché Zelena aveva pur sempre con sé la figlia di Robin. Fiyero si era assunto quell’incarico... perché era curioso. Era consapevole che Zelena fosse pericolosa, ma era anche curioso di seguirla più vicino. Era sempre stato curioso, fin da ragazzino. Da ragazzino, anzi, era proprio un ficcanaso, lo doveva ammettere, ma col tempo aveva affinato quel lato del suo carattere.

C’erano delle cose che voleva capire.

Dentro casa, la bambina cominciò a piangere.

 

Zelena scese le scale di corsa e raggiunse la stanza in cui aveva sistemato la bambina. La culla era accanto alla finestra della sala da pranzo.

La prese in braccio e la strinse a sé.

Aveva visto il principe Fiyero appostato a pochi metri da casa sua. Aveva visto il drago sorvolare la casa e si era divertita nel vederlo andare a sbattere contro la barriera protettiva che aveva eretto con molti sforzi.

E sapeva benissimo dove si trovava.

Il portale l’aveva condotta dritta dall’ultima persona che avrebbe voluto incontrare, a parte Regina.

Posò la bambina nella culla e la coprì per bene.

Quando si voltò, sobbalzò, sconcertata.

Sul tavolo c’era un vasetto con un fiore appassito e un biglietto ripiegato. Un attimo prima quelle cose non c’erano. Nell’aria veleggiò una fiammella azzurra, che evaporò non appena Zelena prese il foglio di carta ingiallito.

 

Spero che tu abbia tutto ciò che ti serve.

Fai attenzione. Loro sono qui.

 

Il biglietto si disintegrò non appena Zelena terminò di leggere l’ultima parola. Diventò cenere, che piovve sul tavolo di legno.

“Spero che tu abbia tutto ciò che ti serve.”

Già. La casa. La casa era vuota, come in attesa della sua occupante. E tutto era in perfetto ordine. Tutto funzionava alla perfezione. L’acqua calda. Il forno. Il frigorifero. C’erano pure le provviste.

“Fai attenzione. Loro sono qui.”

Zelena spazzò via la cenere con un gesto secco della mano.

 

 
Cora arrancava lungo il ponte sospeso sulle acque del Fiume delle Anime Perdute, trascinando il carro stracolmo di sacchi di farina.

Inciampò nell’orlo dell’abito lacero da mugnaia e si mantenne in equilibrio per pura fortuna. Il ponte era stretto. Sarebbe bastato un piccolo passo falso per precipitare e trasformarsi in un guscio vuoto e ululante.

Intorno a lei non aleggiavano solo le grida delle anime condannate ad una pena eterna, ma le immagini della sua vita. Ed erano sempre le stesse.

Da una parte, Regina. Una giovane Regina legata con le cinghie per cavalli. Regina che reggeva il corpo senza vita dello stalliere di cui si era innamorata.

“Perché l’hai fatto?”

“Perché questo è il tuo lieto fine.”

Dall’altra parte, Zelena. La figlia che aveva abbandonato. Una mugnaia che sgusciava fuori dalla casa della donna che l’aveva aiutata a partorire, poco prima dell’alba. Una bambina con grandi occhi azzurri, adagiata in una cesta e lasciata nel cuore del bosco.

“Povera piccola. La vita è crudele. È piena di tradimenti. Questa è l’unica lezione che ho per te.”

Regina e Zelena. Zelena e Regina.

“...questo è il tuo lieto fine.”

“Ora ti devo abbandonare.”

“Perché l’hai fatto?”

“Per dare a me un’opportunità migliore. Finché avrò te, potrò essere solo la figlia del mugnaio.”

Cora riprese a camminare. Una volta giunta alla fine del ponte si sarebbe ritrovata nuovamente al punto di partenza. E sarebbe stata costretta a ripercorrere la strada daccapo. Avanti e avanti. E poi ancora indietro.

Intorno a lei le sue azioni e le urla delle Anime Perdute.

 

 
Città di Smeraldo. Oz. Anni fa.

 

Zelena non avrebbe dovuto farlo.

Non avrebbe dovuto perché suo padre era sempre stato contrario e l’avrebbe punita di nuovo, venendolo a sapere.

Si scostò i capelli rossi dal viso e alzò lo sguardo, spingendo indietro la testa, abbastanza da poter guardare le guglie del palazzo del Mago. Le luci sempre proiettate verso il cielo coloravano di verde anche la strada fatta di mattoni dorati, che si snodava per la Città di Smeraldo, usciva e si perdeva nelle praterie e nei boschi del regno di Oz.

Accanto alle porte del palazzo, c’erano due guardie che indossavano uniformi verdi, con le giacche chiuse da bottoni dorati.  Non le rivolsero nemmeno un’occhiata. Sembravano statue.

Le porte si aprirono per permettere ad un paio di uomini di uscire. Erano vestiti male, trasandati, con le barbe lunghe e i visi stanchi e scavati. Portavano dei sacchi sulle spalle e si allontanarono strascicando i piedi.

Zelena si domandò che cosa avessero chiesto al Mago e se lui li avesse accontentati. Restò là, indecisa sul da farsi.

‘Stavo pensando, padre... che potrei... andare dal Mago. Per i miei poteri... forse lui può aiutarmi.’

Ricordava ancora la faccia scura del padre. I suoi occhi che si riducevano a due fessure. La smorfia. ‘Non andrai da nessuna parte.’

‘Ma potrebbe aiutarmi a controllare i miei poteri. Sarebbe più facile, padre. Non dovreste più preoccuparvi di niente.’

‘Non andrai da nessuna parte.’, aveva ripetuto lui, come se Zelena non avesse nemmeno parlato. ‘Non voglio che si parli dei tuoi poteri. Più di una volta ti ho ordinato di nascondere la tua perfidia.’

‘Mi coprirò, padre. Nessuno mi riconoscerà. Mi vedrà solo il Mago.’

E poi, le frustate.

Zelena sedette su uno dei gradini che conducevano all’entrata, meditabonda. Si era coperta il capo con il cappuccio della mantella e portava una vecchia sciarpa di sua madre sul viso, cosicché nessuno poteva vedere la sua faccia, eccetto i grandi occhi azzurri.

Iniziò a piovere.

Avrebbe potuto entrare e ripararsi. Sarebbe stato facile. Tutti accedevano al Palazzo del Mago e lui riceveva gli ospiti uno alla volta, ascoltando le richieste. Ma aveva paura. Le tremavano le ginocchia e il pensiero del padre la tormentava.

“Non dovresti stare qui fuori. Piove. Ti ammalerai.”

Zelena guardò alla sua sinistra e si ritrovò a fissare un paio di stivali neri muniti di speroni d’argento. Negli stivali erano infilati un paio di pantaloni di cuoio. Più su c’era una giacca nera di ottima fattura. Allacciata alla vita, una cintura alla quale era appeso il fodero con la spada. Una spada lunga, con la lama ricurva e l’elsa costellata di piccole gemme. L’uomo si copriva con un mantello pesante, allacciato alla base del collo.

In realtà non era un uomo, ma un ragazzo. Era poco più grande di lei e aveva la pelle nera come la notte.

“Se sei venuta a parlare con il Mago di Oz ti conviene entrare. La fila è molto lunga, ma almeno starai all’asciutto.” La sua voce era calda e gentile.

“No, io... io no. Non sono venuta...”, balbettò Zelena, confusa.

“Tutti vengono qui per vedere il Mago. Non preoccuparti.”

Se la fila era davvero molto lunga, Zelena non avrebbe potuto tornare a casa per il tramonto. E cosa avrebbe raccontato a suo padre?

“Com’è?”, domandò Zelena. “Il Mago... che aspetto ha?”

Il ragazzo ci pensò un attimo. “Non lo so. Era dietro ad un tendone. Quando mi ha parlato per dirmi che cosa voleva in cambio del suo aiuto, ha assunto una forma, ma... non era la sua vera forma.”

“Quale forma?”

“Una testa. Una testa molto grande e senza corpo.”

Zelena si morse il labbro, provando ad immaginarsi una enorme testa che galleggiava di fronte a lei e parlava.

Il ragazzo non disse altro, ma si tolse il mantello e glielo posò sulle spalle, coprendole la testa. Quello di Zelena era zuppo da un pezzo.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

- Regina, aspettami! – esclamò Mary Margaret.

Per tutta risposta, Regina accelerò il passo. - Perché non ti sforzi di più per starmi dietro? Non è così difficile.

Mary Margaret arrancò per raggiungerla ed evitò di risponderle. Si stavano dirigendo verso la cripta. David, invece, era andato alla villa di Regina, accompagnato da Killian, mentre Marian e Fiyero tenevano d’occhio Zelena. Non aveva idea di che cosa stesse facendo Lily né tantomeno Emma e Regina pensava fosse meglio così.

Quella mattina non aveva fatto altro che evitarla. Aveva evitato di rivolgerle la parola anche solo per sbaglio e aveva evitato persino di guardarla. Aveva percepito i suoi occhi addosso, pressanti e forti come le labbra che l’avevano baciata la notte precedente. Ne avvertiva ancora il sapore. Ne avvertiva la concretezza, la dolcezza, il calore. Ogni tanto era tentata di toccarsi la bocca perché aveva l’impressione che Emma l’avesse baciata solo pochi secondi prima.

“Ma ora... devo chiederti di pensare a nostro figlio e alla mia famiglia. Devi portarli via da qui, se le cose si mettono male. Devi portare via tutti.”

“Regina. Devi promettermelo.”

Ma il problema era che aveva cominciato lei. Non Emma. Emma l’aveva attirata a sé per baciarla, ma era stata lei a cedere per prima e a toccarla come non aveva mai fatto.

- Siamo arrivate. – disse Regina, per colmare il silenzio.

Le porte della cripta erano aperte.

Qualcosa strisciò nelle vicinanze. Rumori di rami spezzati e foglie secche che crepitavano sotto un paio di scarpe.

Mary Margaret incoccò una freccia.

 

 
Città di Smeraldo. Oz. Durante la prima maledizione.

 

“Ho saputo che qualcuno di voi Munchkin ha rivelato a Dorothy che sono ancora viva.”, disse Zelena, camminando avanti e indietro davanti a quella gentaglia bassa e spiona. “E Dorothy è tornata qui, ha preso il mio Spaventapasseri e anche il cervello di cui avevo bisogno!”

I Munchkin tacquero, intimiditi. Alcuni nascosero le facce pallide sotto la tesa larga dei cappelli di paglia, altri si ripararono dietro qualche compagno più alto. Le donne si tormentavano le mani o si lisciavano pieghe inesistenti sulle sottane.

“Visto che vi piace tanto rovinare i miei piani... perché non provate a farvi perdonare? Potrei decidere di risparmiarvi.” Zelena si rivolse ad un Munchkin con la barba bianca e le sopracciglia arricciate. “Dov’è lo Spaventapasseri?!”

“Non lo sappiamo!”, esclamò il Munchkin, intrecciando le dita delle mani tozze a mo’ di supplica. “Davvero. Credeteci!”

“No. Non ti credo.” Con un gesto secco della mano, Zelena lo trasformò in polvere.

Tutti gridarono, spaventati e indietreggiarono.

“Allora... chi vuole farsi avanti e aprire la boccaccia?”, domandò, stringendo di più il manico della sua scopa. “Chi vuole essere il prossimo a diventare un mucchietto di cenere?”

“Fermi tutti! Non creiamo ulteriore confusione.”

Zelena si girò, aspettandosi di vedere un Munchkin un po’ più coraggioso degli altri e desideroso di voltare le spalle alla paladina di Oz. Invece, davanti a lei c’era un uomo distinto ed elegante, che non aveva nulla a che vedere con le creature basse e ridicole che la circondavano.

“Chi diavolo siete voi?”

“Oh, giusto, lasciate che mi presenti.” L’uomo avanzò, le prese una mano e le sfiorò le nocche con le labbra. “Io sono... Ade.”

“Il Signore degli Inferi?”

Un fiammante vortice azzurro esplose al centro del cortile del palazzo di Zelena. Il vortice spedì un Munchkin gambe all’aria e costrinse i rimanenti ad una fuga precipitosa. Nell’aria si diffuse un odore acre, pungente e nauseabondo.

Ade colse l’occasione per esaminare la Strega dell’Ovest, mentre lei fissava con un vago sorriso la piccola magia che aveva usato per mettersi in mostra. I suoi occhi erano dello stesso colore del vortice che si stava pian piano assottigliando. La pelle verde metteva in risalto quei capelli rossi raccolti sotto il cappello a punta. Emanava un potere ed una fierezza che lo sorprendevano, per quanto lui fosse immortale e ultramillenario e avesse conosciuto talmente tante creature da averne perso il conto.

“La mia fama mi precede.”, disse Ade. “Sono lieto di conoscervi. E mi dispiace per questa... irruzione inaspettata. Ma ho sentito molto parlare di voi.”

“Oh, sì? E in che modo?”

“In tanti modi diversi. Per questo sono venuto. Per aiutarvi.” La sua voce era sommessa, il tono rassicurante. “So che state sfidando una delle leggi più importanti della magia. State cercando di raggiungere... l’irraggiungibile.”

Il cuore cominciò a martellarle nel petto. “Irraggiungibile per la gente comune, semmai.”

“Oh, certo. E sono anche a conoscenza di una certa contadinella del Kansas che vuole mettervi i bastoni fra le ruote. Dorothy Gale.”

“La conoscete?”

“Mi sono informato a riguardo. È una donna... decisamente in gamba.” Lo disse con calma, come se fosse un dato di fatto.

“In gamba?” Zelena spalancò gli occhi, furibonda. “Non ha un briciolo di magia in corpo!”

“No. Ma ha qualcosa che tu, purtroppo, non hai.” Aveva abbandonato la forma di cortesia. La sua bocca si ammorbidì in un piccolo sorriso per niente spiritoso. “L’amore della gente.”

Zelena trattenne a stento l’ira. Mettergli le mani intorno al collo o strappargli il cuore non sarebbe servito a niente dato che era una divinità.

“Però io credo in te.”, aggiunse Ade. “Io credo che anche tu sia molto potente. E che Dorothy... abbia a sua volta più di un punto debole. Vuoi lo Spaventapasseri, giusto? È uno degli ingredienti che ti servono. Ed io sono l’alleato che ti serve.”

“E a te che cosa serve, esattamente? Oppure il diavolo è qui solo perché è colpito dalla perfida Strega dell’Ovest?”

“Non sono il diavolo. Sono un Dio, figlio di un Τitano, ma dettagli.” Ade le girò intorno. “Mi serve quello che serve a te.”

“Un viaggio nel passato? Perché?”

“Ogni cosa a tempo debito, Zelena.”

Il modo in cui lui pronunciò il suo nome le piacque e le fece sentire le farfalle nello stomaco. Era sicura che fosse semplicemente il potere che aveva su chiunque.

“Accetti?”, chiese, infine, Ade.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

Lily volava sopra la città, mantenendosi bassa e causando un certo panico per le strade.

Volò fino a quando le case non si fecero più rade e iniziò il lungo viale alberato che conduceva al confine di Storybrooke.

Allora si abbassò ancora di più. Vide il cartello con la scritta Storybrooke. Al nome impresso sullo sfondo verde mancava la lettera K e il segnale pendeva da una parte, parzialmente nascosto dalla vegetazione.

Con un ultimo battito d’ali, Lily si spinse oltre la linea di confine. Non aveva idea di che cosa aspettarsi. Non pensava che l’uscita si trovasse là e immaginava che oltre quella linea potessero esserci solo guai. Qualche trappola di Ade. Magari sarebbe finita dritta nelle sue prigioni.

Tuttavia, quando lo superò, il mondo divenne sfocato e si capovolse.

Trappola, pensò.

Ebbe la sensazione di precipitare in un vuoto senza fine, di essere risucchiata verso un abisso troppo profondo e dal quale non sarebbe mai riemersa.

Aiuto!

Invece riemerse. A Storybrooke. Nella stessa Storybrooke che aveva sorvolato pochi minuti prima, la Storybrooke infernale, immersa nella sua densa luce rossastra. Disorientata, Lily planò, atterrando direttamente sulla torre dell’orologio, semisepolta nell’asfalto. Gli artigli aprirono crepe nel cemento e i passanti si affrettarono a darsela a gambe.

Lily ripiegò le ali e riassunse la forma umana.

Storybrooke non aveva confini. Gli Inferi erano racchiusi in quella cittadina e oltrepassare una linea significava solo tornare al punto di partenza.

Lily udì un rumore secco. Un clac che riecheggiò più forte di ogni altro rumore. Guardando l’orologio si accorse che la lancetta dei minuti era scivolata all’indietro.

Indietro e non avanti. Forse un’anima aveva appena perso la sua battaglia per guadagnarsi un posto migliore.

Lily distolse lo sguardo. C’era qualcos’altro che doveva fare, ora. Qualcosa che si era ripromessa di fare da quando aveva visto Murphy precipitare nel Tartaro.

Si avviò.

Emma, avendo udito lo strepito del drago dopo che aveva oltrepassato il confine e la richiesta di aiuto, aveva istintivamente cercato la sua mente per assicurarsi che stesse bene.

Vedendo dove si stava dirigendo, la seguì.

 

 
La cripta era deserta. All’interno non c’era nessuno, solo un gran freddo e molto disordine.

Regina vide che tutti i libri, gli amuleti magici, le ampolle e le pozioni erano sparse alla rinfusa sulle mensole e sui ripiani, come se da lì fosse appena passato un tornado, ma erano anche pieni di polvere, segno che non venivano toccati da un bel pezzo. Qualunque cosa ci fosse nel bosco con loro si era allontanata.

Mary Margaret posò l’arco e prese a rovistare nei bauli, esaminando gli oggetti che le capitavano tra le mani. Regina aprì le ante dell’armadio che conteneva  i cuori dei  suoi  nemici e lo trovò vuoto. I cuori non c’erano. Lo richiuse con un colpo secco. Mary Margaret urtò un’ampolla, che cadde e si ruppe.

- Vuoi stare attenta? – esclamò Regina. – Non sappiamo cosa può succedere se rompiamo qualcosa!

- Scusami. L’ampolla era vuota. – rispose Mary Margaret.

- Non importa cosa conteneva o non conteneva l’ampolla. È la mia cripta. Fa attenzione!

Mary Margaret sospirò. Gettò a terra la faretra. – Regina, che cosa ti prende?

- Cosa mi prende? – Il libro che aveva aperto si richiuse da solo, sollevando una nuvola di polvere. – Non abbiamo idea di che cosa stiamo cercando né di come faremo a portare Emma fuori da questo maledetto posto. Ovunque io guardi c’è qualcuno che ha un conto in sospeso con me. William è morto... beh, lo era già, ma ora è condannato. E mia sorella...

- Non potevi fare niente per William. – la interruppe Mary Margaret, roteando gli occhi. – E poi io non credo affatto che sia questo il motivo del tuo malumore.

- Oh, davvero?

-  Credi che io non ti conosca, Regina? Vedo quanto sei preoccupata.

- Anch’io conosco la tua boccaccia! Non so perché ti ho chiesto di venire con me. Avrei potuto portarmi dietro tuo marito, almeno non avrei ascoltato tutte queste chiacchiere. – Regina evitava di guardare la madre di Emma. Non le piaceva il suo tono.

Mary Margaret non se la prese. – Che cosa succede con Emma?

- Cosa ti fa pensare che stia succedendo qualcosa?

- Non hai fatto altro che evitarla. A malapena le hai rivolto la parola. Vi ho sentite parlare in giardino ieri sera.

Il cuore iniziò a martellarle. – Abbiamo parlato di Henry.

- Allora dovreste smettere di parlare di Henry e iniziare a parlare di voi. Sarebbe... la cosa più giusta.

Non poteva credere alle sue orecchie. Si voltò, quasi Mary Margaret l’avesse appena pugnalata in mezzo alle scapole. Avrebbe tanto voluto trovare una risposta adeguata, ma la sua mente faticava a riordinare i pensieri.

- Ho cominciato a notarlo quando eravamo a Camelot. Ma forse l’ho notato anche prima e non riuscivo a capire che cosa stessi vedendo. – continuò Mary Margaret.

- Non dire un’altra parola.

“Ma ora... devo chiederti di pensare a nostro figlio e alla mia famiglia. Devi portarli via da qui, se le cose si mettono male. Devi portare via tutti.”

“Regina. Devi promettermelo.”

- So benissimo che non approvi, quindi non dire niente. – ribadì.

- Non ho mai detto che non approvo, Regina.

- E che ne è della tua approvazione per Capitan Mascara?

Mary Margaret si appoggiò ad un mobile. – Quello che voglio io è che Emma sia felice. E mi importa anche della tua felicità.

- Tutto questo è folle. Non ne avrai parlato con qualcuno, spero!

- Non ho parlato con nessuno, Regina. – Le si avvicinò. – E poi... effettivamente sì, è folle. Ma non mi stupisce. L’amore... è una cosa strana. Quando ho conosciuto Azzurro l’ho colpito in faccia.

E lei quando aveva conosciuto Emma le aveva offerto da bere e aveva cercato di capire quanto potesse nuocerle.

- Beh ed io volevo eliminare tua figlia. Volevo che se ne andasse... ed evitare che fosse la mia rovina. 

- Lo so. Ma sai... quello è il passato. Il presente è ben diverso. Tu... sei diversa.

Suo malgrado, Regina sorrise.

- Insomma, siamo tutti diversi. Guarda noi. Siamo qui a parlare tranquillamente nella tua cripta... all’Inferno. L’avresti creduto possibile solo un paio di anni fa?

- Immagino che la cosa ti diverta.

- Oh, sì.

Regina avrebbe voluto sentirsi più sollevata, eppure non lo era affatto. – Io non... non credo di...

- Ti fa paura, vero?

Non rispose.

- L’amore fa sempre paura. – Mary Margaret le appoggiò le mani sulle braccia, per confortarla. – Ma pensaci... io e David ne abbiamo passate tante, ma non abbiamo mai smesso di credere che ci saremmo ritrovati. Quello che ottieni in cambio quando ami qualcuno... supera di gran lunga i rischi.

- Io non sono come te. – replicò Regina. – Ed Emma è qui per colpa mia.

- Non è colpa tua, Regina. Abbiamo sbagliato tutti, a Camelot. E quello che ha fatto Emma... è stata una sua scelta. Voleva distruggere l’oscurità.

- Aveva chiesto a me, di farlo. – Regina si sentiva la gola stretta in una dolorosa morsa che quasi le impediva di respirare. La sua mente evocò l’immagine di una Emma ancora oscura che le chiedeva di ucciderla. Evocò le parole di Τremotino, che le diceva che non avrebbe portato a termine quel compito, perché lei non era più la Regina Cattiva. Evocò l’immagine di se stessa, con Excalibur levata sopra la testa, pronta a colpire. Ma era venuta meno alla promessa.

- Ora dobbiamo pensare a come uscire da qui. E credo che sia proprio questo il punto, Regina. – Mary Margaret aveva abbassato il tono di voce, come se temesse che qualcuno si fosse appostato nell’ombra per ascoltarle. Il che era possibile. Ade aveva occhi e orecchie un po’ ovunque.

- Di che cosa stai parlando, adesso?

- Killian non ha potuto aiutare Emma. Il suo cuore... non è servito. E il suo nome non è su quelle tombe, come i nostri. 

I suoi occhi verdi la fissavano con tale risolutezza che Regina ne fu sconcertata.

- E allora?

- Forse tu puoi, Regina. – concluse Mary Margaret. – Forse il tuo cuore può aiutarla.

 

 
Città di Smeraldo. Oz. Durante la prima maledizione.

 

Nessarose, la Strega dell’Est, entrò nella grande sala del palazzo della Sorellanza e trovò un uomo seduto al suo posto, intento ad ammirare il grande cristallo al centro della tavola rotonda.

Le altre tre sedie erano vuote. Glinda e Locasta non c’erano.

“Chi diavolo siete? Dove sono le mie sorelle?”, domandò Nessarose, sollevando una mano, pronta a scagliare la propria magia contro l’intruso.

“Non agitatevi. Stanno bene. Sono solo occupate.” L’uomo si alzò. “Ed io sono... Ade. Immagino che abbiate sentito parlare di me.”

Le porte si chiusero di scatto alle spalle di Nessarose e il chiavistello si mosse, infilandosi nell’anello di ferro.

“Che cosa state facendo? Cosa ci fate qui?”, chiese la Strega dell’Est, mentre la sua mente pensava febbrilmente ad un modo per difendersi.

“Non affannatevi. Nessuno verrà ad aiutarvi. Ma non sono venuto per combattere. Solo per parlare. E proporre un accordo.”

“Accordo?”

“Vi interesserà. Io so chi siete voi.”

Nessarose non capiva se il Signore degli Inferi fosse serio o la stesse prendendo sonoramente in giro. Non riusciva a leggere la sua espressione, né tantomeno comprendeva appieno l’inflessione della sua voce.

“Nessarose, la Strega dell’Est. Vediamo: che cosa dovrebbe rappresentare l’Est?” Ade si alzò, girando lentamente intorno al tavolo. “Oh. Ecco. Il coraggio. Quello che voi pensate di aver avuto quando avete posto fine alla vita di vostra madre e strappato il cuore a vostra sorella per soggiogarla.”

Nessarose rispose senza esitazioni. “Non so di che cosa stiate parlando.”

“Sul serio? Vostra sorella era nata per prima. E non solo. Era più potente. Vostra madre lo sapeva e per quanto  fosse gentile che entrambe... era più severa con la maggiore, perché avrebbe preso il suo posto.”

“E con questo?”

“E con questo... voi avreste voluto lo stesso trattamento. Siete sempre stata così, fin dal principio. E avete sempre saputo fingere bene.” Ade si accomodò sul bordo del tavolo. Sorrideva, ma la sua sembra una normalissima chiacchierata. “Come quando, a dodici anni, avete preso due gattini che piacevano tanto ad Evanora e li avete annegati nel fiume.”

Pur essendoci una grande distanza tra loro, Nessarose riusciva a sentire il suo profumo, pungente e viscido come quello di un fiore in putrefazione.

“C’e chi dice che cattivi non si nasce ma lo si diventa, solo che nel vostro caso non solo si nasce cattivi... ma lo si diventa sempre di più.”

“Mia madre sarebbe morta comunque. Ho solo alleviato le sue sofferenze.”

“Forse no. Evanora pensava di poterla salvare. Aveva trovato gli ingredienti per curarla. Voi, invece... avete usato la Sognombra. Che cosa terribile.”

Nessarose si morse il labbro. “Mia sorella era incapace di governare.”

“Quindi avete atteso che tornasse a casa con gli ingredienti e... l’avete aggredita alle spalle. Rubandole il cuore e usandolo contro di lei per... quanti anni? Molti, vero?”

Nessarose scagliò una sfera di fuoco contro Ade, che se ne infischiò e la spense semplicemente soffiandoci sopra.

“Suvvia, non fate così. Non sono certo venuto qui per giudicarvi.”, continuò, imperterrito. “Anzi, al contrario. Avete fatto passare vostra sorella per una tiranna, anche se in realtà era in vostro potere, avete schiavizzato un intero popolo e vi siete divertita a distruggere le vite altrui... e avete mandato molte anime nel mio regno. Davvero notevole.”

“Cosa intendete fare? Dirlo alle mie sorelle?”

“Le vostre sorelle sono delle incapaci. Su questo siamo entrambi d’accordo. Altrimenti vi avrebbero già smascherata. Lo avrebbero fatto il giorno in cui l’Est è stato liberato da una finta Strega Malvagia per consegnarne un’altra alla Sorellanza di Oz.” Ade rise di gusto. “No, io sono qui perché ho bisogno del vostro aiuto. Vogliamo tutti qualcosa.”

“Voi che cosa volete?”

Ade le parlò del suo incontro con Zelena, del suo piano per cambiare il passato. Le disse di suo fratello Zeus e di quanto desiderasse impadronirsi dell’Olimpo.

“Zelena non ci riuscirà mai. Non è fattibile.”, concluse Nessarose, in tono sprezzante.

“Oh, credetemi. È molto determinata. Una cosa che ammiro.”, le rispose, proiettando nella propria mente quegli sfolgoranti occhi azzurri. “Potrebbe riuscirci. Ma io non sono sicuro che si fiderà di me. E che mi aiuterà a far ripartire il mio cuore.”

“Ed io che cosa c’entro?”

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

Frugando nella cripta, Regina aveva ritrovato il libro di incantesimi di sua madre e l’aveva portato via con sé. Uscì con Mary Margaret alle calcagna, lei e i suoi dannati discorsi sulla speranza, che poco avevano a che fare con quella cappa rossa e fastidiosa che avvolgeva l’intera città.

- Regina...

- Ed io che ti ho pure dato retta. Ma che cosa mi passa per la testa? Deve essere questo posto. Dobbiamo andarcene il prima possibile!

Mary Margaret l’afferrò per un braccio, costringendola a voltarsi.

- Non provarci. – la minacciò Regina.

“Forse tu puoi, Regina. Forse il tuo cuore può aiutarla.”

Tuttavia la madre di Emma ci provò comunque. Non le importava niente dei suoi avvertimenti. -Puoi davvero aiutarla. Possiamo almeno tentare.

- No, non possiamo. E sai anche tu il perché.

- Non credo di saperlo.

Regina aveva una mezza idea di usare la magia per andarsene da quel posto da sola e lasciare che Mary Margaret tornasse a piedi. Era in grado di cavarsela anche all’Inferno e non avrebbe più dovuto affrontare un simile argomento, non davanti ad Uncino e a David.

Invece, affondò una mano nel proprio petto ed estrasse il cuore.

- Regina! – gridò Mary Margaret, colta di sorpresa.

- Guardalo. – le ordinò, reggendo il cuore nella mano destra. – Guarda il cuore che secondo te potrebbe salvare Emma.

- Lo conosco già.

- Guardalo lo stesso.

Mary Margaret osservò l’organo pulsante nella mano di Regina. L’oscurità si contorceva, aprendosi in alcuni punti  per lasciare spazio al rosso.

- Credi  davvero che io possa dividere questo cuore e darne una parte ad Emma... dopo che lei è morta per distruggere l’oscurità?

- Regina...

Lei sollevò l’indice per ammonirla. – No. La risposta è no.

- Sono disposta a tutto pur di salvare mia figlia. – replicò Mary Margaret, senza curarsi della sua espressione dura e sconvolta.  – Non la perderò di nuovo. E so che anche tu faresti qualsiasi cosa.

- E allora troveremo un altro modo! – Regina rimise il proprio cuore al suo posto, serrando le palpebre contro la fitta di dolore e trattenendo il respiro.

- E se non esistesse un altro modo?

Il cuore che Regina si era appena strappata era oppresso da una strisciante e spaventosa sensazione di perdita, la stessa che aveva provato quando aveva visto il corpo senza vita di Emma sulla barella, prima che lo portassero via. – Esisterà. Deve esistere.

 

 
Emma sostò dietro agli occhi di Lily mentre l’amica spingeva la porta del Granny’s Diner e lo attraversava, dirigendosi verso il bancone. La Strega Cieca diede un ordine secco ad una delle cameriere, piazzandogli in mano un vassoio con due tazze fumanti.

Non appena Lily si avvicinò, lei arricciò il naso e si sporse in avanti. – Conosco questo odorino. Lilith, vero?

- Lily. Cerco informazioni su una persona. – rispose, andando dritta al punto.

- Un’altra? Credevo l’avessi già trovata.

- Non Emma. Un uomo. Si chiama Murphy Logan. – Appoggiò i gomiti sul bancone. – Sei qui da un po’ di tempo. Immagino che tu conosca molta gente.

- In effetti... – iniziò la Strega Cieca. – È difficile dire da quanto tempo sono qui, ma deve essere molto... e in ogni caso non posso aiutarti. Che io sappia quel tizio... ha avuto ciò che si meritava.  

- Ed io vorrei solo qualche informazione. So bene che fine ha fatto. – precisò Lily, acidamente. In realtà, lo rivide mentre precipitava nel Τartaro. Le sembrò di udire di nuovo il suo grido, un attimo prima di cadere.

- Le informazioni non sono gratis. – si limitò a rispondere la Strega.

- Lo immaginavo. Che cosa vuoi?

Una mano si infilò sotto al banco e iniziò a tastare, fino a quando non afferrò qualcosa, che si rivelò essere un’ampolla. La stappò. – Soffiaci dentro.

Lily guardò l’ampolla, perplessa. – Come?

- Soffiaci dentro. – ribadì la Strega. – Non hai idea di quanto valga il respiro di un vivo al mercato nero. Mi serve. E quando ci appiccicherò sopra un’etichetta con scritto... Lilith... ti assicuro che faranno la fila!

Non perse alro tempo e consegnò uno sbuffo del suo respiro. La Strega si affrettò a appare nuovamente l’ampolla, con un sorriso soddisfatto.

- Ebbene? – disse Lily, impaziente.

- Oh, già. – La Strega si riscosse e andò sul retro del locale, a mettere al sicuro il respiro della ragazza via. Quando tornò, aveva una chiave in mano. – Prendi. La chiave della sua stanza.

- Viveva qui?

- Purtroppo sì.

Lily prese la chiave e la soppesò, come se volesse assicurarsi che fosse vera. Poi si diresse verso le scale che conducevano alle camera da letto, al primo piano.

Si può sapere che cosa pensi di fare?, domandò Emma. Che cosa pensi di fare con le chiavi della stanza di Neal, in particolare?

Lily corrugò le sopracciglia. Beh... non avevo idea che fosse la camera di Neal!

Lo é. Perché vuoi metterti a frugare in quella camera? Cosa pensi di trovare?

Non lo so. Forse niente. Forse qualcosa... sulla figlia di Murphy.

Arrivò in cima alle scale e svoltò a destra. La camera era in fondo al corridoio. Lily infilò la chiave nella toppa ed entrò, senza troppe cerimonie.

Un senso di inquietudine la pervase.

Vuoi cercare la figlia di Murphy, quindi?, domandò Emma, con cautela.

Sì. Devo farlo.

Lily, quello che è successo a Murphy... era inevitabile. Τi avrebbe uccisa.

Lo avrebbe fatto di cero. Ma sono stata io ad ucciderlo per prima. E ho lasciato il suo corpo in un’area di servizio, dopo averlo preso a calci.

Silenzio. Emma era ancora lì, ma non commentò. Lily cominciò a frugare in giro. Il letto era intatto, ma scostò comunque le coperte e mise le mani sotto la fodera del cuscino. Poi sollevò il materasso.

Come pensi di trovarla, sua figlia?

Quando orneremo a Storybrooke mi darai il nome di quel contatto... quello che ti ha dato una mano a trovare me.

Nell’armadio c’erano ancora dei vestiti, ma nulla che potesse esserle utile. Allora aprì i cassetti del comodino.

Avremo bisogno di qualche informazioni in più, Lily.

Stava per risponderle, ma poi scovò qualcosa fra le cianfrusaglie ammassate nel terzo cassetto. Estrasse la lunga catena arrugginita nella quale era infilato un grosso medaglione.

Che cos’è?, domandò Emma, improvvisamene guardinga.

Il medaglione era una grossa pietra rossa al centro di una fiamma bordata d’oro. E aveva l’impressione che non fosse una chincaglieria qualunque.

Non ne ho idea.

 

_________________________

 

 
Angolo autrice:

 
Eccomi. So che qualcuno magari si stava chiedendo dove fossi finita, ma i problemi con la mia tastiera continuano, inesorabili, quindi non riesco più a postare come vorrei.

Anyway, il nuovo capito avrebbe dovuto essere una cosa sola con il seguente, però era davvero troppo lungo quindi... l’ho diviso in due.


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Capitolo 9
*** 9. ***


9

 

“Sono giunta alla convinzione che bene e male 
sono nomi per ciò che fanno le persone,
non per quello che sono. La sola cosa che possiamo dire
è che questa è una buona azione perché aiuta qualcuno,
o che quest'altra è cattiva perché fa male a qualcuno.
Le persone sono troppo complesse perché le si possa etichettare.”

[Philip Pullman, Queste Oscure Materie: Il Cannocchiale d’Ambra]

 

 

Oltretomba. Oggi.

 

Henry fece molta attenzione quando azionò il passaggio che conduceva alla stanza segreta.

Mentre la sua famiglia era impegnata in varie zone dell’Oltretomba, lui aveva chiesto alle sue madri di poter raggiungere Lily per essere d’aiuto. Regina aveva protestato un bel po’ e anche Emma, ma alla fine era riuscito ad avere la meglio.

Ed era anche riuscito a convincere Lily a coprirlo mentre andava in un posto.

- Le tue madri mi uccideranno.

- Emma no. Non ti farebbe mai niente.

- Ma Regina sì. E poi dimentichi che Emma può vedere quello che faccio, se vuole. Fino a poco fa eravamo in contatto.

- Ma tu lo capisci quando succede. Non puoi bloccarla?

- Non sono ancora così brava ad usare questo... dono. E poi forse è meglio che io venga con te. Ti caccerai nei guai.

Henry aveva scosso la testa. – Tu hai altro da fare. Non preoccuparti per me. Me la caverò.

In realtà, aveva la costante impressione che qualcuno lo osservasse, nascosto nell’ombra. Non si sentiva al sicuro da nessuna parte, ma doveva fare ciò che aveva in mente.

La libreria dentro la grande villa era ancora là, con tutti i libri sistemati ordinatamente sugli scaffali. Ne prese un paio a casaccio e vide che erano bianchi. I tavoli e le poltrone erano coperti da teli bianchi e il pavimento era polveroso al punto tale che Henry notò le impronte delle sue scarpe ben impresse su di esso.

Deve essere qui, pensò.

Aveva provato anche in altri posti, ma non aveva fatto altro che tergiversare. Sapeva benissimo dove trovarla.

Udì un rumore alle sue spalle, come di qualcosa che grattava contro il legno.

Henry impallidì e si voltò, convinto di dover affrontare un intruso. Non aveva nemmeno un’arma con sé. Forse aveva davvero fatto male a venire lì da solo.

Attese che qualcosa si palesasse, ma la villa era ripiombata nel silenzio.

Allora vide la luce. Una luce pulsante e azzurrata che proveniva da una lampada sotto uno dei teli. Sembrava che lo stesse invitando ad avvicinarsi.

Henry sollevò il telo, sperando di non cascare in qualche odioso tranello del Signore degli Inferi e allungò una mano, tastando fino a quando non avvertì la consistenza della penna sotto le dita.

La sua penna. Era bella e luminosa. Emanava un’intensa luce e l’Autore la tenne tra le dita, osservandola, aspettandosi qualcosa. Qualche risposta, forse. Aspettandosi che la penna gli dicesse che cosa era più giusto e cosa era sbagliato. Aveva già pensato di usarla per riportare in vita suo padre, ma l’Apprendista l’aveva messo in guardia sul suo potere.

Però sapeva una cosa. Ora aveva un’arma.

Henry uscì dalla biblioteca.

Una mano guantata si chiuse sul suo braccio in una stretta d’acciaio.

- Dove credi di andare, giovanotto?

 

 
Zelena controllò la bambina, che dormiva beatamente nella sua culla e poi scostò le tende.

Malefica stava per aprire una breccia nella barriera intorno alla casa. Non ci era ancora riuscita, ma non ci avrebbe impiegato molto. Fiyero e Marian avevano le frecce pronte. Quindi immaginava che presto avrebbe combattuto contro un drago, contro il tirapiedi di Glinda e contro la ex moglie di Robin.

Zelena tirò le tende con un gesto secco della mano.

Allora vide il globo azzurro che fluttuava sopra al tavolo.

Era grande quanto una palla da bowling e ronzava, un ronzio abbastanza forte da ferirle le orecchie e farle battere i denti. Zelena provò a colpirlo con la magia per scacciarlo, ma quello sfrecciò a destra e a sinistra, schivando ogni attacco facilmente.

Infine si fermò all’altezza dei suoi occhi. Zelena sentiva la pelle che formicolava e uno strano sapore in bocca.

Il globo si avvicinò ancora e la toccò sulla fronte.

Un’esplosione accecante come un fuoco d’artificio cancellò la luce rossastra dell’Oltretomba e tinse ogni cosa di un celeste pallido.

 

 
Foresta di Oz. Durante la prima maledizione.

 
“A volte per trovare qualcuno devi avere... i giusti mezzi”, disse Ade a Zelena, recuperando un aggeggio arrugginito in mezzo ad una moltitudine di cianfrusaglie, tutte assiepate nel cuore della foresta di Oz. “Il rifugio di Dorothy non è lontano, ma è protetto da un incantesimo. Per questo le tue scimmie non sono riuscite a vederlo.”

“D’accordo, ma perché dobbiamo andarci... su quell’affare?”, domandò Zelena.

“Oh, già. Non ne avete, ad Oz.” Ade montò in sella. “Si chiama bicicletta. Vieni. Provala.”

Zelena non era molto sicura di cosa stesse per succedere e fissò Ade, perplessa e incuriosita.

“Oh, per favore. Fidati di me.”

Lei si avvicinò alla bicicletta con cautela, pensando a quanto fosse simile ad una scopa dotata di ruote. Poi si accomodò davanti ad Ade. Avvertì lo strano profumo del Signore degli Inferi, un sentore di fiori appassiti, ma non lo trovò sgradevole.

Ade esitò. A Zelena parve che il suo corpo si stesse irrigidendo. Poi lui gettò fuori il respiro che aveva trattenuto.

“Tutto bene?”, domandò la Strega dell’Ovest.

“Certo. Vogliamo andare?”

Era il suo cuore quello che aveva sentito? Un unico, flebile battito. L’aveva colto impreparato, perché era da millenni che il suo cuore non batteva, grazie alle geniali trovate di suo fratello.

Ade si mise a pedalare di buona lena.

Zelena lanciò un gridolino sorpreso quando la bicicletta prese velocità, scivolando lungo il sentiero che si snodava nella foresta. Il vento le sollevò qualche ciocca di capelli. Provò una strana ebbrezza, qualcosa di simile a ciò che provava quando cavalcava la scopa e si lanciava nel cielo di Oz. E la sua risata fu un’altra cosa che sorprese Ade. Gli sembrò un suono bellissimo, giovane e fresco, quasi innocente, in netto contrasto con l’animo tempestoso della Strega.

“Sì, è proprio come una scopa con le ruote!”, esclamò Zelena.

Poi la ruota anteriore cozzò contro una radice sporgente ed entrambi ruzzolarono su un tappeto di foglie morte. Zelena si ritrovò sopra di lui, che la fissò con un sorriso divertito.

“Presa.”, disse. “Vorresti rifarlo?”

“Beh, ovvio che sì.” Zelena si tirò su, rassettandosi il vestito nero ed Ade raccolse il cappello a punta della strega, rimettendoglielo sul capo. “Qual è la prossima mossa? Come farà questa bicicletta a condurci dallo Spaventapasseri?”

“Non è una bicicletta qualsiasi.”, rispose Ade. “È la bicicletta di Dorothy. E il luogo in cui l’abbiamo trovata è il luogo in cui la sua casa è precipitata. Serve un incantesimo, così possiamo localizzarla.”

“Non puoi farlo tu?”

“I miei poteri sono limitati al di fuori del mio regno.”, rispose, in tono piccato.

Zelena lanciò l’incantesimo di localizzazione.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

Che cos’è? domandò Emma.

Non ne ho idea.

Quando Mary Margaret e Regina tornarono dalla loro spedizione alla cripta, Emma era ancora connessa a Lily e, attraverso i suoi occhi, vedeva chiaramente lo strano amuleto che la ragazza aveva sgraffignato dalla stanza di Murphy Logan, al Granny’s.

David aveva trovato dei libri uguali a quello che Henry si portava sempre dietro durante l’ispezione della villa di Regina. Solo che le pagine erano bianche. Erano nella camera di Henry, forse in attesa del proprietario.              

- Che cosa succede? – chiese Regina, fissando Emma, profondamene a disagio.

- È molto interessante. -  commentò Τremotino, senza rispondere alla sua domanda. - I Cavalieri di Drago avevano un legame simile con i loro draghi. Era qualcosa di molto speciale e onorevole. Un vero peccato che si siano estinti.

A Regina non importava un bel niente. – Dove ti eri cacciato?

- A cercare un modo per andarcene da qui.

- Oh, davvero? E quali sarebbero questi modi di cui parli? 

- Ho i metodi. – In realtà appariva scuro in scuro in volto e meditabondo.

In quel momento Emma interruppe il contatto con Lily e rientrò in sé, guardandosi intorno. Batté più volte le palpebre, come se non fosse del tutto sicura di dove si trovasse.

- Lily ha trovato qualcosa? – domandò Mary Margaret.

- Non ne sono certa. – rispose Emma.

- Non deve passare troppo tempo nella mente di Lilith. È un consiglio. Le toglie le forze. – disse Tremotino. – Forse prima non se ne rendeva conto perché era un Signore Oscuro... ma ora dovrebbe.

- Sto bene. – disse Emma, alzandosi in piedi.

Subito la travolse un’ondata di vertigini e sentì le ginocchia molli come gelatina. Barcollò e Regina accorse per sostenerla.

 

 
Foresta di Oz. Durante la prima maledizione.

 
Dorothy Gale sedeva davanti alle braci morenti del fuoco insieme allo Spaventapasseri. La casetta in cui si era rifugiata era una stamberga di legno che avrebbe potuto ospitare al massimo una persona e Zelena immaginava che comunque Dorothy doveva stare molto stretta.

Lei e Ade erano nascosti nel buio, dietro ad un gruppo di alberi.

“Ora la vedi?”, chiese il Dio, divertito.

“Oh, sì.” Zelena aveva annientato l’incantesimo di protezione che circondava il luogo in cui Dorothy si nascondeva. “Le sorelle di Oz dovrebbero pensare a qualcosa di meglio.”

“Ne sono convinto. Vai e prenditi ciò che ti serve.” Le rivolse un sorriso sornione, ancora in sella alla scopa con le ruote che chiamava bicicletta.

“Volentieri. E se la mocciosetta si mette in mezzo, vedremo se il sangue si abbina bene al suo vestito.”

Zelena marciò con decisione fino al bivacco, sentendo montare la furia ad ogni passo. Ade la osservò, compiaciuto e apprezzandone la fierezza. Non vedeva l’ora di assistere ad una bella lotta. Impari, ma pur sempre una lotta. Forse avrebbe davvero visto scorrere il sangue. Sarebbe stato un gran bello spettacolo.

“Ridammi lo Spaventapasseri!”, gridò Zelena, piombando sul fantoccio, che lanciò uno strillo non appena la vide.

“Non ci pensare nemmeno!”, rispose Dorothy, estraendo la spada.

Zelena scagliò un semplice incantesimo contro di lei, congelandola. Poteva ancora parlare, ma dal collo in giù era paralizzata.

Poi la Strega dell’Ovest affondò la mano nella testa di paglia dello Spaventapasseri e si appropriò del cervello di cui aveva bisogno. Lo Spaventapasseri finì gambe all’aria ed iniziò a farfugliare a vanvera. “Questi contrattempi... non sai quanto li detesto.”

“Non ti lascerò vincere.”, disse Dorothy.

La sua cocciutaggine la sorprese e tuttavia non poté fare a meno di deriderla. “Oh, davvero? E qual è la tua idea? Posso farti molto male e lo sai.”

“Non ho paura.”

“Pessima risposta.”

“Dai pure il peggio di te. Io non avrò mai paura della Strega dell’Ovest.”

Zelena si accigliò. “Da dove viene tutta questa insolenza? Che cosa ti è capitato in Kansas?”

Dorothy sembrava in lotta con sé stessa, non solo con lei. Se aveva pronta una risposta adeguata, decise di tenersela.

“Ma in fondo non mi importa. Abbiamo finito.”, concluse, accarezzando il cervello che stringeva tra le mani. “E sai una cosa? Non ti ucciderò. Che tu ci creda o no, non voglio nemmeno farlo. Quello che voglio... è che ogni Munchkin, ogni Quadling, ogni abitante di Oz... capisca che Dorothy Gale non può proteggerli.”

Frustrata, Dorothy seguitò a fissare Zelena senza rispondere.

“E sono sicura che lo sai anche tu. Insomma, guardati intorno. Che cosa vedi?”

L’aria della notte, fredda e limpida. Il movimento costante delle chiome degli alberi. Il richiamo di un gufo. Il buio. Le stelle a milioni. La luna piena. E la voce balbettante dello Spaventapasseri che annaspava a terra e agitava le gambe.

“Niente.”, disse Zelena, ridacchiando. Scandì ogni singola parola, godendosi la sensazione di rigirare il coltello nelle piaghe della ragazzina venuta dal Kansas. La ragazzina che le aveva rubato il posto quando era solo una bambinetta con un ridicolo vestito a quadri azzurri. La ragazzina che voleva distruggere il suo piano, portandole via uno degli ingredienti per il suo incantesimo. “Niente. E nessuno. Non c’è nessuno in grado di aiutarti. Non hai amici, non hai una famiglia... non hai un amore. Non hai poteri.”

“Io ho...” cominciò Dorothy.

“Cosa? L’amore del popolo? Non ti servirà a niente.” Zelena sfiorò la lama della sua spada con la punta dell’indice ed essa si frantumò. Alla ragazza non rimase che l’elsa. “Loro non possono proteggerti. E nemmeno quelle streghe da quattro soldi che passano il tempo sedute a tavola pensando di avere in mano il destino di Oz. Almeno io... ho la magia. E sono temuta. Non ho bisogno di qualcuno che mi difenda.”

“Non esserne così sicura.”

“Lo sono. E sono anche sicura che tu non sia la paladina di Oz.” Zelena si allontanò da lei. “Sei la paladina del nulla.”

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
- Sai, credevo avessimo un accordo. – disse Crudelia, trascinandolo fuori dalla villa e stringendo il suo braccio in una morsa ferrea.

Henry cercò di divincolarsi, ma inutilmente. – Non ho mai detto di sì.

- No... però ero sicura che ci stessi pensando. È vantaggioso per entrambi. Riporti in vita me con la penna... e tua madre smette di essere un’assassina.

- Non ho nessuna penna. L’ho rotta.

- Siamo nell’Oltretomba, mio caro. – Crudelia era attorniata dal pesante odore di sigaretta, che fumava tramite il bocchino verde che reggeva ancora nella mano libera. Un ciuffo di capelli bianchi le ricadeva scompostamente sul viso magro e gli occhi azzurri bruciavano di collera. Gli venne la nausea quando gli alitò in faccia. – E quella non è una penna comune. Infatti sei venuto a cercarla.

- Non l’ho trovata. Non è qui.

- Invece sì. Stavi frugando in quella stanza.

Henry diede un altro strattone e quasi le sfuggì, ma lei non si lasciò cogliere alla sprovvista. Lo riacciuffò e gli infilò le mani guantate nelle tasche della giacca.

- Hai fatto male a venire da solo. Ti senti un eroe? – chiese Crudelia, mentre le dita si infilavano sotto la giacca. – Perché le tue mammine non sanno che sei qui, vero monellaccio?

Henry trattenne il fiato quando Crudelia raggiunse la tasca in cui aveva nascosto la penna. Pensava davvero che fosse finita per lui. Non sapeva se Crudelia l’avrebbe ucciso né se potesse farlo, visto che Isaac l’aveva resa incapace di fare del male, ma avrebbe perso la penna. E non voleva. Lui era l’Autore e l’idea di essere costretto a cedere la penna lo rendeva furioso.

Ma ora che era morta, forse il marchio di Isaac non valeva più. Quella volta, sul ciglio del burrone, l’avrebbe ucciso senza battere ciglio, ficcandogli una pallottola in corpo. E non c’era sua madre con la sua magia, ora. Non c’era nessuno.

Crudelia tastò e tastò. – Allora, dove l’hai nascosta?

Henry era sconcertato.

- Dov’è?! – chiese ancora Crudelia.

Sapeva che era lì, dove aveva già guardato, ma in qualche modo la penna non si faceva trovare.

Stava per risponderle che ovviamente non l’aveva, proprio come le aveva detto all’inizio. Ma un’ombra enorme oscurò entrambi e le chiome degli alberi vennero scosse brutalmente. Henry udì un forte sbatacchiare.

Crudelia alzò la testa, in tempo per vedere il drago nero scendere in picchiata, tenendo le ali aderenti al corpo. Henry approfittò della distrazione per sottrarsi alla presa della donna. Scappò in direzione di Lily e, non appena fu abbastanza distante da Crudelia, il drago sprigionò una vampa di fuoco.

Un vorace inferno inghiottì Crudelia.

Henry comprese immediatamente che dovevano andarsene e quindi era necessario che montasse in sella. Annaspando e scivolando, riuscì a salire sulla groppa del drago. La sua corazza era dura e calda. Lo stomaco si ribaltò quando Lily si staccò di nuovo da terra, sbattendo le grandi ali per prendere quota.

Ovviamente il fuoco non aveva scalfito Crudelia e nemmeno la casa o gli alberi che la circondavano, ma la torrenziale pioggia di fiamme incandescenti era stata accecante.

“Siamo nell’Oltretomba. E quella non è una penna comune.”

La penna non aveva voluto essere trovata. Non da una come Crudelia. Solo dall’Autore.

Henry guardò giù, ignorando le vertigini e vide la donna riversa in un letto di foglie e rami. Distinse i capelli bianchi e neri tutti arruffati e le scarpe di un rosso acceso.

Poi Lily sbatté le ali e virò verso il centro della città.

 

Poco dopo, il drago sbucò da una nuvola rossa ed atterrò con un tonfo poderoso davanti alla casa degli Azzurri. I muscoli delle cosce e delle spalle si incresparono di onde mentre assorbivano la potenza dell’impatto. Una forte corrente d’aria investì Regina, Emma e Mary Margaret e l’asfalto tremò sotto i loro piedi.

Regina mantenne a stento l’equilibrio e sgranò gli occhi quando vide Henry che scivolava giù dalla groppa di Lily.

- Henry. – Emma sembrava altrettanto incredula. Lily, ancora in forma di drago, notò che era anche provata, più pallida del solito. L’impressione generale era che fosse stranamente vulnerabile, per quanto si sforzasse di non darlo a vedere.

- Che cosa ti è saltato in mente quando hai pensato di caricarti mio figlio in groppa? – esclamò Regina.

- Era più veloce così. – si limitò a rispondere Henry, prima che Lily potesse farlo. Dalle narici del drago uscirono due fili di fumo. – Almeno è stato divertente. Non mi avevi detto che era così divertente.

Il drago riassunse la sua forma umana. Intorno al polso, Lily aveva arrotolato lo strano oggetto che aveva trovato in un cassetto della camera di Murphy, un medaglione a forma di fiamma bordata d’oro, con una grossa pietra rossa al centro, che ricordava molto quella incastonata sul coperchio del Vaso di Pandora.

- Sai cos’è? – domandò Lily a Regina, porgendoglielo.

- Non credo di aver mai visto nulla di simile. – ammise Regina. Sfiorò i bordi della fiamma e percepì il flusso di magia che vi scorreva all’interno. Ritrasse subito la mano. – Ma è decisamente qualcosa.

- Posso? – disse Tremotino, che si era tenuto in disparte fino a quel momento.

Lily lo fissò di sottecchi, ma Emma annuì e quindi glielo mostrò da vicino.

L’Oscuro ne saggiò la consistenza e sorrise. - Sì, è una protezione.

- Un amuleto protettivo? – chiese Lily.

- Più di questo. Contiene una parte dell’energia della persona che lo indossa.

Henry sgusciò in casa senza farsi notare e mettendosi una mano in tasca per controllare che la penna fosse ancora dove l’aveva lasciata.

- E perché Murphy avrebbe dovuto avere un oggetto simile? L’ha trovato qui? – domandò Lily.

- Oh, non credo che l’abbia trovato qui. L’ha trovato nella Foresta Incantata. Non era difficile entrarne in possesso. Molti maghi li avevano. – Tremotino allontanò le dita dal medaglione. - E forse a Murphy serviva per celare il suo vero aspetto. In questo senso, è una protezione. Tenetelo, potrebbe essere utile.

- Non lo portava quando l’ho conosciuto. Ne sono sicura. – rispose Lily.

- Forse non ne aveva bisogno nel vostro mondo. Nel mondo senza magia.

Nessuno disse più niente. Murphy veniva dalla Foresta Incantata?

Non che quella fosse la cosa più importante per Lily. A lei non importava nulla di Murphy, per quanto ancora lo vedesse cadere nel Tartaro quando chiudeva gli occhi. E lo vedeva cadere perché pensava a quello che le aveva detto prima di morire... no, prima di essere condannato per sempre al posto peggiore.

“Lo sai che avevo una figlia? Avevo una figlia! Lei non ha più nessuno per colpa tua! Quella stronza di sua madre se n’è andata dopo averla partorita! Quei soldi mi servivano anche per lei!”

In mezzo alla roba di Murphy aveva rinvenuto anche una fotografia, in cui si vedeva una donna bionda con una bambina di circa tre anni. Lei immaginava che quella fosse la figlia di Murphy. Si era messa la foto in tasca.

Ci avrebbe pensato una volta tornata a Storybrooke.

 

 
Oz. Durante la prima maledizione.

 
“Si può sapere che sta succedendo?” domandò Nessarose, quando Ade si ripresentò al palazzo della Sorellanza. Glinda e Locasta non erano ancora tornate.

“Non ho molto tempo. Devo sistemare alcune faccende.”, rispose lui, sbrigativo. “Ma sono venuto a portarvi qualcosa che potrebbe esservi utile. Anche se non subito, forse.”

“Ovvero?”

Ade vide che Nessarose stava consultando un grande libro con la copertina spessa e sgualcita. Le pagine ingiallite giravano da sole. “Noto che state studiando meglio la profezia che vi riguarda.”

“Profezia?”

“Oh, suvvia. Pensavo avessimo superato la ritrosia.”, disse Ade, roteando gli occhi ed avvicinandosi quanto bastava per leggere le parole stampate sulla carta. “La profezia del Libro degli Eventi... Glinda pensa che parli di Zelena. Il che è divertente, se si considera che in realtà parla di voi. Ed è questo il motivo per cui non vi siete ancora occupata di Dorothy.”

“Credete davvero che io abbia paura di una ragazzina senza poteri? La profezia parla di una strega. E Dorothy non lo è.”

“Le cose cambiano molto in fretta, sapete.” Ade tirò a sé il libro e scrutò le parole. Erano trascritte in una lingua antica e ormai morta, ma molte streghe la sapevano ancora leggere e comprendere. Beh, più o meno. “Un’eroina proveniente da un altro mondo, farà di Oz la sua casa fino a quando non avrà bandito il male più grande che questa terra abbia mai conosciuto. Un’eroina, capite? Non una strega. Le parole, in questa lingua, si somigliano. Glinda avrebbe dovuto prestare più attenzione. Ma il succo rimane lo stesso.”

Nessarose lo guardava, sprezzante. “Non c’è bisogno di leggerla nel modo giusto. È evidente.  Dorothy conosce a stento qualche incantesimo di protezione.”

“Però voi conoscete la profezia e quella vi preoccupa. Diciamo che... siete cauta. Non attaccate a caso perché sapete che non bisogna sottovalutare le profezie. Contrastarle significa perdere.” Ade sorrise, beffardo. “Credetemi. Mio padre ne sa qualcosa. Crono. Ve ne hanno mai parlato? Una profezia diceva che uno dei suoi figli lo avrebbe detronizzato e lui che cosa ha fatto? Si è mangiato ogni figlio che ha avuto. Me compreso. Peccato che mio fratello sia riuscito a farla franca. L’ha sconfitto comunque.”

“Perché siete qui?”, domandò Nessarose, tagliando corto.

“Per portarvi qualcosa che potrebbe tornarvi utile, quando giungerà il momento opportuno.” Aprì la mano ed in essa comparve un oggetto, una specie di lancia con due punte ondulate di cristallo e l’impugnatura dorata al centro. Gliela porse.

“Che cos’è?”

“La folgore olimpica.”, rispose semplicemente Ade. “Una cosuccia che ho rubato a mio fratello molto tempo fa. Gliel’hanno data i Ciclopi quando li liberò dalle catene.”

“Non ho bisogno di armi divine per sbarazzarmi di qualcuno.”

“No. Ma questo non è un’arma qualsiasi.” Sollevò la folgore ed essa brillò, colpita dalle luci gialligne della sala. “Quest’arma non si limita ad uccidere. Distrugge. Completamente. Dei vostri nemici... non rimarrebbe nulla. Non andranno da nessuna parte, perché la loro anima non esisterà più. Niente Oltretomba e niente Tartaro. Nulla.”

Nessarose sembrava compiaciuta. “E Zelena?”

“Zelena serve a me. Il suo piano mi piace.”

“E non solo il piano, mi sembra di capire.”

Ade si limitò ad un’alzata di spalle. “È un vantaggio per me. E potrebbe concludersi tutto oggi, se saremo fortunati. Io potrò lasciare l’Oltretomba e riprendermi l’Olimpo. Voi potrete liberarvi delle vostre sorelle e di Dorothy e regnare su Oz. Avete la folgore adesso. Qui sarà al sicuro. Mio fratello la cerca ancora ma non verrà a cercarla qui.”

“E se non dovesse funzionare? Se Zelena non vi ascoltasse?”

“Dovrete aspettare. Zelena non rinuncerà mai al suo piano né io rinuncerò al mio.”

“Quindi mi state chiedendo di avere pazienza? Siete folle.”

“Oh, no. Sono Ade e sono una divinità. Voi siete umana. Ed io so bene chi siete. Basterebbe molto poco per distruggere il castello di bugie che avete costruito. Le vostre sorelle saranno contro di voi e così anche Dorothy. Non avrete più alcun vantaggio e prima o poi vi distruggerebbero.” Ade ormai era diventato minaccioso, anche se la sua voce non era cambiata. Il tono era calmo. Pieno di boria, ma calmo. Tuttavia, i suoi occhi brillavano, ripieni di una sinistra luce azzurra. “Immaginatevi che cosa succederà. Immaginatevi le facce delle vostre Sorelle e non solo le loro...  quando verranno a sapere che Evanora era solo un burattino e che la vera Strega Perfida dell’Est siete sempre stata voi. Vi sconfiggeranno e dovranno riabilitare il nome di vostra sorella. Non credo sia una bella prospettiva.”

Cosa avrebbe fatto in quel momento Nessarose non era difficile da intuire, perché fiammeggiava dalla testa ai piedi in preda ad una rabbia incontrollabile, tremandone perfino. “Mi ricattate, dunque.”

“No. Non ne ho bisogno. Il nostro accordo è ottimo. Entrambi otterremo qualcosa.”

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
D’accordo. Forse era curiosa.

Forse voleva davvero sapere chi fosse Murphy Logan quando ancora viveva nella Foresta Incantata.

Lily aveva sempre dato per scontato che Murphy non fosse il suo vero nome e lei stessa si era fatta chiamare in modi diversi. Odile. Starla.

Aveva chiesto ad Henry se poteva prestarle il suo libro di storie. Solo per dare un’occhiata.

La difficoltà stava nel fatto che Murphy non aveva lo stesso aspetto nella Foresta Incantata. Avrebbe potuto essere chiunque.

Aveva finito di leggere la storia del Grillo Parlante, quando Emma la raggiunse e sedette accanto a lei.

- Ti senti meglio? – domandò Lily, appoggiando il libro sul letto, senza chiuderlo.

- Perché me lo chiedi?

- Beh, non sembravi molto in forma quando sono tornata con Henry.

Emma si scostò i capelli dal viso e si portò una ciocca dietro l’orecchio. – È colpa del contatto mentale. Tremotino dice che ci toglie le forze... se è troppo prolungato.

- Merlino non aveva detto niente.

- Non ne ha avuto il tempo, probabilmente.

Regnò il silenzio per almeno cinque minuti, mentre Lily ripensava al momento in cui aveva stretto il cuore di Merlino, disintegrandolo.

- L’hai trovato? – chiese Emma, esaminando il libro aperto.

- No. Ma non mi aspetto di trovarlo. O magari l’ho trovato, ma non me ne sono resa conto. – Le rivolse un fievole sorriso.

- A cosa pensi davvero?

La domanda era molto diretta e la spiazzò. Tuttavia, sapeva a che cosa si stava riferendo. – Penso a come dovrei sentirmi. Sono venuta... siamo venuti qui per salvarti. E lo faremo. Dovrei preoccuparmi solo di questo. Ma non riesco. Questo posto... mi costringe a pensare a tutto quello che ho fatto. E a prendere altre decisioni sbagliate.

- Se ti riferisci a Murphy, non avevi scelta.

- L’avevo quella sera, quando l’ho ucciso. – Scoppiò in una brusca e fredda risata, un suono strano, come l’acqua che scorre sulla nuda roccia. – Come ti senti quando uccidi?

I verdi occhi di Emma si ridussero a due fessure.

- Quello che intendo dire... – si corresse Lily. – Quello che intendo dire è... che cosa hai provato quando hai ucciso Crudelia? O quando hai ucciso quell’uomo, nelle prigioni di Camelot? Li vedi, quando dormi?

Emma si strofinò i palmi sui jeans. La sua espressione era tormentata e Lily si chiese se si sarebbe degnata di risponderle, quando lei ricominciò a parlare. – Ci penso, sì. Ho... ucciso Crudelia perché volevo salvare Henry. E ho ucciso quell’uomo nei sotterranei perché cercavo una via d’uscita... perché volevo punire la mia famiglia per avermi rinchiusa là sotto.

- La tua famiglia o...?

- Regina. Volevo punire Regina. Ma anche la mia famiglia per averle dato retta.

- Vorresti non averlo fatto?

- Vorrei aver saputo prima che Crudelia non era in grado di fare del male. Ma non lo sapevo. Se tornassi indietro... probabilmente lo farei di nuovo. Per Henry. E fermerei me stessa in quei sotterranei. - Stava per aggiungere che avrebbe fermato se stessa prima di trasformarla in un Oscuro, però non lo disse, perché sapeva che non era vero. L’avrebbe fatto ancora per salvarle la vita, anche se avrebbe significato condannarla.

- Lo vedi? Lo faresti per Henry. Io... ho ucciso Murphy perché lo detestavo e se tornassi indietro so che forse lo ucciderei ancora.

- Non puoi saperlo.

- Mi conosco. Lo so. – Quella di Lily era una risposta che non ammetteva repliche. - E quando l’ho ucciso in quella stazione di servizio... credi che poi me ne sia pentita? No. Non me ne sono pentita e non ho avuto incubi. Non penso mai nemmeno a Merlino. Non riesco... non posso perdonare tua madre per quello che mi ha fatto.

- Non ti ho mai chiesto di farlo.

- Tu li hai perdonati? Per quello che hanno fatto a Camelot.

- Sì. So perché l’hanno fatto.

Lily rimase in silenzio un altro po’. – Io sogno Murphy. Lo sogno mentre precipita nel Tartaro, ma so che lo sogno per via di quello che mi ha detto su sua figlia. Non perché non volevo che morisse.

Emma tese la mano destra e la posò su quella sinistra di lei. - Per questo sei entrata in quella camera? Per cercare qualcosa su sua figlia?

- Sì. – Prese la foto dalla tasca della giacca e gliela mostrò.

Emma osservò la bambina nella foto. La girò per vedere se c’era scritto qualcosa sul retro, ma non trovò niente. – Vuoi cercarla?

- Hai ancora il numero di quel contatto a Boston?

- Sì, ce l’ho. Non butto mai niente che possa tornarmi utile. – Poi sorrise. – Lo vedi? Non sei così male. Forse le tue emozioni sono... difficili da gestire, ma ti stai preoccupando per una bambina che nemmeno conosci. Stai facendo la cosa giusta.

Lily stava per risponderle, ma venne interrotta da un grido stridulo.

Era un grido attutito dalla distanza, eppure ebbe lo stesso effetto delle unghie che sfregano ripetutamente su una lavagna, tanto che sia Emma che Lily si ritrovarono a stringere i denti.

- Cos’è stato? – domandò Emma.

 

 
Malefica era quasi riuscita ad aprire una breccia nella protezione che Zelena aveva innalzato intorno al suo rifugio, quando una creatura alata sbucata dal nulla piombò giù dal cielo in picchiata, lanciando uno strillo che le straziò le orecchie.

La cosa la spinse da parte con un colpo d’ala brutale e lei, con la testa che rintronava e il sangue che le colava dall’orecchio sinistro, barcollò e cadde.

Altri due demoni alati si gettarono sul principe Fiyero e su Marian.

Subito Fiyero si buttò a terra, evitando per un pelo di essere acciuffato e dilaniato dagli artigli dell’uccello. Estrasse una freccia dalla faretra e la incoccò. Un attimo prima di scoccare il dardo vide chiaramente la cosa.

Aveva petto e volto di donna, ma era una faccia dura, distorta dalla crudeltà e dall’odio. Il corpo era quello di un uccello e, quando sbatteva le grandi ali scure, emanava un puzzo terribile, lo stesso odore di chi è morto da troppo tempo. Gli occhi erano accesi di furia e nelle orbite c’erano grumi di melma.

La freccia colpì l’arpia alla gamba. Quella scagliò un altro urlo assordante e passò sopra Fiyero, sbandando. Perse quota, rasentò il terreno, ma poi si rialzò in volo, incurante della propria ferita.

Erano in tre e sembrava che stessero proteggendo la strega che si nascondeva in casa con la bambina. Li spinsero lontano, li costrinsero ad arretrare e gridavano per disorientarli.

Marian scoccò una freccia, che andò a conficcarsi nella schiena di un’arpia. Furibonda, una delle compagne lasciò perdere Fiyero per occuparsi di lei. Marian guardò la bestia negli occhi, anche se la testa le doleva e la potenza di quelle grida l’aveva stordita.

- Vediamo se lottate con la stessa forza con cui strillate. – disse Marian, preparandosi a scagliare un’altra freccia.

Le labbra rosse dell’arpia si incresparono in un bacio beffardo. – Marian... cibo per Minotauri... il tuo bambino è solo. Gli manderò tanti incubi!

Marian le regalò una freccia. Erano tutte imbevute dell’acqua del Fiume delle Anime, ma le arpie erano immuni e, per quanto venissero colpite, non potevano morire. Con una freccia che spuntava dalla spalla, l’arpia si gettò su Marian con gli artigli spianati, puntando alla sua faccia. Marian si scostò più rapidamente che poté, ma venne comunque afferrata per i capelli e sollevata da terra. Lasciò cadere l’arco e si dibatté selvaggiamente, mentre l’arpia saliva verso il cielo rosso, sopra le chiome degli alberi.

- Il tuo bambino... il tuo bambino è solo con quelle stupide fate! Incubi, incubi per lui! – continuò a sbraitare il mostro, soffocandola con il suo tanfo nauseabondo. – E tu... tu finirai di nuovo nel labirinto! Ciiiiiiiiiiibo per il Minotauro! Il Minotauro è affamato!

Malefica raggiunse l’arpia in volo e la urtò con la coda. La creatura riprese a strillare e aprì gli artigli. Marian precipitò, mentre Malefica spalancava le fauci ed eruttava una colonna di fiamme che avvolse l’arpia in una tempesta di fuoco giallo e arancio. Il mostro roteò e roteò, urlante, maledicendo il drago e imprecando.

Malefica acciuffò Marian prima che potesse schiantarsi.

Le arpie si dissolsero in un baleno, ferite e ancora più arrabbiate di quando avevano iniziato ad attaccare.

- Beh, non un gran comitato di benvenuto. – commentò Fiyero, rialzandosi e raccogliendo il proprio arco.

- Non era necessario salvarmi. Sono già morta. – disse Marian al drago, che per tutta risposta socchiuse gli occhi, emettendo un basso brontolio. – Stavano proteggendo la strega, vero?

- Non si sono nemmeno avvicinate alla casa. Direi di sì. – disse Fiyero, scrutando il cielo. – Forse dovremmo tentare in un altro modo, invece di costringerla a consegnarci la bambina.

- E quale sarebbe, il modo?

- Il dialogo.

Una leggera brezza soffiò, facendo frusciare l’erba ai loro piedi e agitare i rami dei salici. Marian osservò gli steli ingialliti ondeggiare per qualche istante, ripensando alle minacce dell’arpia.

“Tuo figlio è solo!”

“Incubi! Incubi per lui!”

Malefica mostrava le zanne e Fiyero avrebbe giurato che fosse totalmente indignata dalla sua proposta.

- So che è difficile dialogare con la Strega dell’Ovest. Ma ho anche visto come si comporta con la bambina. – continuò il principe.

La radura si increspò di strane ondulazioni, mentre un sinistro scricchiolio percorreva il tronco del salice più vicino.

Poi, prima che Fiyero riuscisse a fare un solo passo, una radice grande quando il suo braccio spuntò dal terreno e gli si arrotolò intorno alla caviglia destra, immobilizzandolo. Radici ancora più grosse sbucarono ai lati di Malefica e le afferrarono la coda e le zampe, inchiodandola sul posto. Malefica ruggì, furibonda, morse con forza una delle radici e la scosse, ma non ottenne alcun risultato. Marian venne afferrata per la vita.

- Per tutti i diavoli! – disse Killian, arrivando di corsa, seguito dagli altri.

David sguainò la spada e menò un fendente deciso, tranciando una delle radici per liberare Marian. Un forte stridio riecheggiò nell’aria densa quando due rami sfregarono fra di loro. Uno di essi si protese e si attorcigliò intorno al collo di David.

Lily si precipitò sul salice in forma di drago e sputando fuoco. L’albero si incendiò, ma le fiamme si spensero nel giro di un battito di ciglia, senza scalfirlo.

Il ramo strinse di più la presa intorno al collo di David.

 

 
Città di Smeraldo. Oz. Durante la prima maledizione.

 
Zelena tornò al palazzo e trovò una tavola imbandita davanti alle tende che un tempo avevano nascosto il Mago di Oz. Ade aveva apparecchiato per due e acceso un paio di candele.

“A cosa devo tutto questo?” domandò Zelena.

“Beh, che domande... a te.”

“Quindi mi hai vista.”

“Ma certo che ti ho vista. Sei stata a dir poco magnifica.”

Zelena si sentì lusingata dal tono ammirato del Dio.

“Ed è per questo che ho una cosa per te.”, aggiunse Ade. Prese un fagotto che aveva lasciato su una sedia e lo srotolò, rivelando l’oggetto che voleva regalarle.

“Cosa ci dovrei fare con uno specchio?”, domandò Zelena.

“Questo non è uno specchio qualsiasi.”, replicò Ade, facendo scorrere le dita lungo la cornice dorata. “Questo, mia cara... è lo Specchio delle Anime. Se una persona ha una natura malvagia, lo Specchio la rivela. I suoi occhi... si illumineranno di quello che io chiamerei... un fuoco demoniaco.”

Appoggiò lo Specchio delle Anime sul tavolo e lo rivolse nella sua direzione.

Istintivamente, Zelena si voltò dall’altra parte, evitando di guardare il proprio riflesso.

“Oh, suvvia. Guarda. Non hai nulla da temere.”

Dopo qualche attimo di esitazione, Zelena fissò il proprio riflesso. In fondo, non pensava che un paio di occhi demoniaci non le donassero. 

“Io trovo che tu sia splendida.”, commentò Ade.

I suoi occhi non avevano niente che non andasse. Erano azzurri. Una ciocca di capelli sbucava da sotto il copricapo nero sfiorandole il viso verde.

“Ma io non vedo nulla.”, disse Zelena, toccando lo Specchio con la punta dell’indice.

“Certo che no.” Posò il dono e tese una mano. La sua voce era tranquilla, come se non fosse accaduto niente, come se non le avesse appena chiesto di svelare la sua natura guardando in uno specchio magico. “Vieni. Siediti.”

Zelena accolse l’invito, accomodandosi. “Quindi il dono e questa cena... sono un addio? Stai per tornare nell’Oltretomba?”

Oh, sì. Sarebbe tornato nell’Oltretomba e lei sarebbe rimasta di nuovo sola. Ade non poteva restare a lungo lontano dal regno dei morti.

La sua vita era questo. Un continuo abbandono. Prima la sua vera madre, poi la madre adottiva che moriva lasciandola nelle grinfie di un uomo che non avrebbe mai voluto avere una figlia con dei poteri, poi Tremotino, che l’aveva aiutata a controllarsi ma aveva scelto comunque Regina, poi Glinda, che aveva ceduto il suo posto ad una ragazzina piovuta dal cielo. Nessuno rimaneva. Non con una Strega Perfida.

“No.”, rispose, invece, Ade. “Non tornerò nell’Oltretomba, Zelena. Ma questo dipende anche da te.”

“Da me?”

Ade non ebbe bisogno di spiegarle nulla. Se ne stava in piedi dietro di lei, in attesa, sfiorandole appena le spalle.

“Oh. Tu credi... credi che il nostro sia...”

“Vero amore.”

Zelena reagì con un moto di incredulità. Le sembrava tutto estremamente ridicolo. “Ci siamo appena conosciuti!”

“Lo so. Ma non puoi negare di provare qualcosa.”, ammise, inginocchiandosi di fronte a lei. “Quando eravamo su quella bicicletta... e tu eri vicino a me... ho sentito qualcosa che non sentivo da molto tempo. Il mio cuore. Ha palpitato. Per un secondo, ma è successo e non potrei mai sbagliarmi.” Zelena la fissava con un’espressione indecifrabile e, dato che non aveva ricevuto risposta, Ade continuò: “E se tu... se tu mi baciassi, potresti liberarmi. Io potrò lasciare l’Oltretomba e non saremo costretti a separarci.”

Non solo avrebbe potuto abbandonare l’Oltretomba per sempre, ma avrebbe anche potuto usare i suoi poteri al di fuori del regno dei morti senza alcuna limitazione. Avrebbe potuto prendersi ciò che suo fratello si era preso come se gli spettasse. Lui, che era nato per ultimo. E Zelena sarebbe diventata una regina. Ade le avrebbe donato l’immortalità e avrebbero regnato insieme. Le avrebbe dato l’Olimpo, non l’Oltretomba. Le avrebbe dato il cielo e non un lugubre limbo abitato da mostri e defunti. Era sicuro di poter trovare degli alleati tra i suoi fratellastri e alla fine avrebbe vinto lui e non Zeus. Lo avrebbe fatto a pezzi e gettato nel Tartaro, insieme a quella scocciatrice di Era e...

Zelena gli affondò una mano nel petto e chiuse le dita sul suo cuore. Tirò per estrarlo, ma ovviamente un’altra forza oppose resistenza e glielo impedì.

“Zelena... cosa...”, boccheggiò Ade, sconvolto.

“Sai, ti ho quasi creduto. Per un secondo... ho pensato che stessi dicendo la verità. Che stupida!”, gridò, continuando a stringere. Il cuore muto del Dio era duro come un pezzo di roccia. “Tu vuoi gli ingredienti del mio incantesimo per te. Solo per te! Oppure pensi che non sappia delle tue macchinazioni con la Strega dell’Est?”

“Io... non è come credi...”

Zelena mollò la presa sul cuore ed estrasse la mano dal torace di Ade, che si aggrappò al tavolo per alzarsi in piedi.

“Non so cosa tu abbia visto...”

“Ho visto quanto basta e avresti dovuto tenerne conto, considerando che spio mia sorella da anni! Credevi davvero che non ti avrei spiato?”

“Diciamo che...” Ade si sistemò la giacca, cercando di ritrovare un certo contegno. “Speravo ti fidassi di me. La Strega dell’Est non è un tuo problema, Zelena. Non più. È solo parte del piano.”

“Le hai dato un’arma divina!”

“Gliel’ho data per uccidere Glinda e Locasta. E Dorothy. Farebbe comodo anche a te. E dovevo nasconderla da mio fratello. Non fa altro che cercarla. Non ho fatto nulla contro di te.”

“Oh, invece sì! Mi avresti rubato quel cervello e te lo saresti tenuto. Hai bisogno di quell’incantesimo per vendicarti di tuo fratello... proprio come io voglio vendicarmi di mia sorella. L’amore... non è abbastanza!”

“Non esiste più solo la vendetta, Zelena. Se staremo insieme... potremo avere tutto! Io ti darò tutto! Su questo non puoi avere dubbi!”

“Piantala con queste storielle! Sei una divinità e sei immortale. Non hai bisogno dell’amore. Così come non ne ho bisogno io.” Zelena aveva la voce rotta e il cuore che le martellava nelle tempie, seguendo i palpiti della sua rabbia. Mille immagini le scorrevano nella testa. Sua sorella, Tremotino, Dorothy, Ade. “Volevi trascinarmi nell’Oltretomba?”

“Volevo darti l’Olimpo!” Anche Ade era furioso. I suoi occhi scagliarono lampi azzurri e le luci della sala tremolarono.

“Non mi interessa il maledetto Olimpo!” Zelena gridò più forte. “Fuori. Adesso!”

Ade non si mosse. Tentò di avvicinarsi a lei, ma la Strega dell’Ovest si ritrasse, evitando il contatto.

“Te ne pentirai, Zelena.”, sibilò il Signore degli Inferi. “Te lo garantisco.”

“E cosa intendi fare? Uccidermi? Rapirmi?” Rise, infischiandosene delle sue minacce. “Puoi provarci. Sei una divinità, ma ti assicuro che dovrai darti da fare! E il tuo potere è comunque limitato fuori dal tuo regno. Lo hai detto tu stesso.”

Ade scomparve in una miriade di lampi e scintille azzurrate. Zelena si coprì gli occhi.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

Il volto di David diventò paonazzo e poi viola, mentre il ramo aumentava la pressione intorno al suo collo. Aveva la bocca aperta, ma non respirava quasi più.

Mary Margaret afferrò la spada del marito e si accanì contro il salice dotato di una coscienza, menando poderosi fendenti per spezzare il ramo, ma il potere di cui era dotato l’albero la respinse. Mary Margaret venne scagliata a qualche metro di distanza e atterrò sul prato in malo modo.

- Mamma! – gridò Emma.

Malefica ruggì di nuovo, scuotendo la testa.

Emma sapeva che cosa era necessario fare. Senza nemmeno chiederlo, afferrò la mano di Regina e lei gliela strinse istintivamente.

- Insieme. – disse Emma.

Regina annuì.

Quando diressero la magia contro il salice, avvertirono chiaramente la sua coscienza. Sembrava una coscienza spezzettata, frastagliata, che mutava di secondo in secondo. Era veloce e tagliente come una scheggia di vetro.

Il flusso di magia rossa avvolse il tronco e strisciò fra i suoi rami e quella coscienza gridò. Le voci trapassarono il cervello di Emma, che rischiò di perdere la concentrazione, ma si mantenne aggrappata a Regina, ignorando il dolore e la sensazione di avere decine di occhi che le sondavano i pensieri e vorticavano nella sua mente, tempestosi e maligni.

Qualcuno urlò il suo nome.

I rami abbandonarono Marian e Fiyero, che si affrettarono ad allontanarsi. Malefica riuscì a liberarsi di una radice che le bloccava una zampa e poi di quella che aveva intorno al collo.

Infine vi fu un’esplosione di luce e le presenze svanirono. Le radici si ritirarono nel terreno e i rami si ritrassero. David cadde in ginocchio, tossendo. Mary Margaret lo raggiunse subito, appoggiandogli una mano sulla schiena.

- Stai bene, amico? – domandò Killian. – Emma...

Emma pensò che fosse finita, ma all’improvviso vide tutto nero e davanti agli occhi presero a danzarle una miriade di stelline gialle.

Lily, ancora in forma di drago, perse quota e atterrò malamente, lanciando un ruggito lamentoso.

- Che cosa sta succedendo ad Emma? – chiese Mary Margaret.

Regina guardava Emma contorcersi e non aveva la minima idea di come fermare ciò che le stava accadendo. Gli occhi si rivoltarono nelle orbite e mostrarono solo il bianco della sclera. Dalla gola uscivano suoni inarticolati.

“Mi chiamo Henry. Sono tuo figlio.”

- Maestà, fate qualcosa! – urlò Killian.

- Non so che cosa le sta succedendo! – ribatté Regina. Tenne le mani sospese sopra il corpo di Emma, percependo un potere sconosciuto.

“Lei è la madre biologica?”

“Salve.”

Emma era cosciente, ma non poteva rispondere a Regina. Non poteva fare niente perché non aveva più il controllo del proprio corpo. Qualcosa stava strisciando nei suoi pensieri, nei ricordi... passandoli in rassegna.

“Sei qui perché è il tuo destino. Riporterai a tutto il lieto fine.”

“La smetti con queste stupidaggini?”

“Non sei costretta a fare la dura. Lo so che ti piaccio.”

Gridò. Ma non veramente. L’urlo era solo nella sua testa.

 “Propongo una soluzione per il bene di Henry.”

“Non ci penso minimamente.”

“Lascerò la città.”

La cosa sembrò soffermarsi su quel ricordo in particolare, come lo spettatore di un film che attende la parte migliore, già sicuro che arriverà.

“Ascolti, questa situazione è insostenibile. Sono disposta ad andarmene. Ma ho delle condizioni. Continuerò a vedere Henry, a fargli visita e a passare del tempo con lui.”

“Questo significherebbe restare nella sua vita.”

“Chiaro. Di solito in un accordo... le parti devono accettare un compromesso. Ma onestamente... sappiamo tutte e due che non è più possibile escludermi dalla vita di Henry. E questo è un dato di fatto che lei non può cambiare.”

“Ha ragione. Le dispiacerebbe seguirmi in cucina?”

- Mamma... perché non risponde? Cosa le sta facendo Ade? – chiese Henry, terrorizzato tanto quanto lei.

Poco lontano, Lily spalancò le fauci e rigettò una sfolgorante vampa di fuoco.

Poi le convulsioni terminarono e il corpo di Emma si rilassò.

- Emma? – chiamò Regina, controllando a stento la propria voce. Le sembrava di essere in fondo ad un tunnel. Il nome parve riecheggiare lungo le pareti della sua testa, frammentandosi.

Non ottenne risposta. Gli occhi si muovevano sotto le palpebre abbassate.

- Mamma? – Henry allungò con cautela una mano verso il viso di Emma. Le dita sfiorarono la fronte e subito le ritrasse perché la sua pelle era gelida.

Emma spalancò gli occhi.

Un’onda di energia spazzò l’intera radura e sia Regina che Henry si ritrovarono catapultati all’indietro.

 

 

Città di Smeraldo. Durante la prima maledizione.

 
Dopo la scomparsa di Ade, la sala del palazzo era sembrata vuota e desolata e Zelena aveva preso la sua scopa, sorvolando i cieli bui di Oz.

Sfrecciò a lungo sopra le chiome degli alberi e sopra i tetti delle case, spaventando a morte chiunque si trovasse per strada. Arrivò più alto che poté e poi scese in picchiata, rasentando le colline.

Volare la fece sentire molto meglio. Il vento nei capelli, la brezza fredda che le frustava il viso, l’aria più rarefatta a mano a mano che saliva, la vertigine, il vuoto nello stomaco... permisero alla sua mente di svuotarsi, anche se per poco. Pronunciò un incantesimo per proteggersi dal gelo e per poter salire ancora più alto senza risentirne. Quando passò vicino ad una nuvola, la condensa la accecò, riempiendole il naso e la bocca di fredde goccioline. Non se ne curò. Si aggrappò di più al manico della scopa e continuò a volare in mezzo alle nubi, guardando i villaggi e le tende degli accampamenti ridotti ad una versione piatta e minuscola di sé stessi.

Quando tornò a palazzo, due guardie si avvicinarono ed attesero che Zelena ordinasse loro di parlare.

“C’è qualcuno per voi.”, disse semplicemente uno dei due uomini in verde. Il suo tono era strano, monocorde ed incolore. Aveva uno sguardo vacuo, come se non fosse del tutto presente.

“Chi vi ha ordinato di far entrare qualcuno?!” gridò Zelena.

Le guardie stettero là, in piedi, a fissarla. Se la Strega dell’Ovest avesse tagliato le loro teste non se ne sarebbero nemmeno accorti. Avrebbero continuato a starsene in quella posizione.

C’era qualche incantesimo di mezzo.

Zelena corse nella grande sala e spalancò le porte, entrando come una furia. “Se sei ancora tu, puoi tornartene da dove sei venuto! I tuoi trucchetti non funzionano con me!”

Ma non si trattava di Ade.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
Regina non credeva ai suoi occhi. Le mancò il fiato quando si ritrovò faccia a faccia con Emma.

Con ciò che una volta era Emma ma ora era qualcos’altro.

Era come guardare una maschera di morte, ricoperta di pelle sottile come carta per darle una parvenza di vita. Aveva i capelli bianchi, come quando era il Signore Oscuro. Gli occhi rossi la fissarono, ghiacciandole il sangue nelle vene.

- Mamma? – disse Henry, sconcertato.

Con un gesto della mano, Emma lo spazzò via e così fece con tutti gli altri. Paralizzò i due draghi, prima che potessero intervenire e si mosse alla velocità della luce dirigendosi verso la casa in cui si era rifugiata Zelena. Scavalcò Regina e, nel farlo, le rifilò un poderoso calcio in faccia.

Le si oscurò la vista.

 

 

Città di Smeraldo. Oz. Durante la prima maledizione.

 

La donna indossava un lucido corsaletto dorato a placche, un paio di schinieri e un copricapo di forma cilindrica che tratteneva la folta chioma corvina. Il mantello era ornato di piume di pavone.

Zelena seppe all’istante che non era umana perché, quando gli occhi nerissimi si posarono su di lei, si sentì schiacciata da un potere decisamente più grande del suo.

“Se è Ade che vi manda, ditegli da parte mia che non ascolterò una parola né mi interessano i suoi accordi.”, disse, infischiandosene di come avrebbe potuto reagire quella donna.

“Oh, Ade.” Lei rise, un suono inquietante, dato che era al tempo stesso bello e freddo come ghiaccio. “Non ho bisogno di essere mandata da nessuno, figuriamoci da Ade.”

“Che cosa ci fate in casa mia, allora? Chi siete?”

“Credo che... il mio adorato cognato vi abbia appena illustrato il suo piano per cambiare il passato. Il piano non comprendeva forse... fare a pezzi me e mio marito per gettarci nel Tartaro?”

Zelena formò una sfera di fuoco con la magia.

“Oh, per favore.”, disse Era, la moglie di Zeus, sollevando entrambe le mani.

“Vi dirò quello che ho detto anche ad Ade. Potete anche essere una divinità, ma se volete uccidermi dovrete lottare.” Immaginava che Era non fosse bloccata da una maledizione che la costringeva in un determinato regno e che limitava i suoi poteri ogniqualvolta ne usciva. Ma Zelena non era intenzionata comunque a soccombere.

“Mi piace tutta questa follia.”, rispose Era, con noncuranza. “E so che si dicono molte cose su di me. State pur certa che sono tutte vere. Beh, quasi tutte.”

Zelena sollevò il braccio, pronta a scagliare la sfera di fuoco.

“E tuttavia non è per uccidervi che sono qui. L’avrei già fatto a questo punto. Non permetto alle mie vittime di chiacchierare, di solito.”

“Ed io non amo i giochetti.”

“Ne sono convinta.” Nel giro di un battito di ciglia, Era fu davanti a lei. Le fiamme si spensero nella mano di Zelena. “Sono impressionata dal modo in cui avete sfidato Ade. E avete rifiutato l’Olimpo. L’immortalità.”

Zelena fissò le iridi nere e scintillanti della Signora dei Cieli. “E allora?”

“Allora pensavo di complimentarmi. E di chiedervi dove Ade abbia nascosto la folgore di mio marito, come prima cosa.”

“Non so di che cosa stiate parlando!”

Era toccò la sua fronte con la punta dell’indice e Zelena avvertì un prurito terribile al centro del cranio. Non era dolore, ma qualcosa di immensamente fastidioso.

Barcollò quando la Dea la lasciò andare.

“Vedo che Ade è stato abbastanza accorto da cancellare il ricordo della folgore dalla vostra mente. Peccato.”, disse Era, sollevando le spalle. “Sapete... Ade ha un enorme potere sui mortali. È vero, quando è lontano dal suo regno, è limitato. Ma sa comunque essere molto persuasivo. E sa convincere qualcuno, sa piegare la sua volontà. Eppure voi gli avete tenuto testa.”

“Mi avrebbe raggirata.”

“Un giorno, sì. L’avrebbe fatto. O l’avreste fatto voi. Ma siete stata davvero caparbia. Non ha avuto il tempo di parlarvi dei suoi sogni, vero?”

“Quali sogni?”

“Sono secoli che sogna occhi azzurri e capelli di fuoco.” Era si allontanò di qualche passo, osservando il liquido verde che gorgogliava nelle colonne dorate. “Non ha mai capito di chi si trattasse, fino a quando non ha cominciato a sentir parlare di voi.”

Zelena sollevò un sopracciglio, incredula.

“E conosce anche la leggenda più importante che lo riguarda.”

Zelena avrebbe tanto voluto dirle che non le interessava nulla di ciò che stava dicendo, eppure non poteva fare a meno di ascoltarla.

“La storia del Dio degli Inferi che rapisce una fanciulla, costringendola a passare sei mesi nel suo regno e altri sei sulla Terra.”, cantilenò Era. “Non in tutti i mondi la storia è la stessa. A volte cambia da regno a regno. Chi aggiunge dettagli, chi li toglie... ma la vera leggenda... non è nemmeno una leggenda. È una profezia.”

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
Zelena riprese i sensi e si aggrappò alle sbarre di legno della culla. Si affrettò a controllare che la piccola stesse bene e la trovò sveglia, intenta a succhiarsi le dita.

Il globo di luce azzurra danzava al centro della cucina, come un disco volante in miniatura che si divertiva a prendersi gioco di lei. Quando l’aveva toccato, aveva visto tutto ciò che era accaduto tra lei ed Ade ad Oz, quando si erano conosciuti e non era sicura di sapere perché lui glielo avesse mostrato.

Scagliò il proprio potere contro la sfera, che si deformò e disintegrò in mille schegge azzurre. Schegge che poi si riunirono per formare un nuovo globo, più grande del primo.

Allora, preannunciata da una densa nube viola, comparve Emma Swan.

Oh, no. Non Emma Swan. Qualcosa che aveva preso possesso del corpo della Salvatrice morta.

La cosa aveva occhi rosso sangue, illuminati da una minaccia controllata e un ghigno gelido stampato in faccia.

- Chi sei? – sibilò Zelena.

- Il nostro nome non è importante. Siamo venuti a prenderti. – rispose l’essere... o gli esseri, protendendosi verso di lei.

Zelena reagì scaraventandola contro la parete opposta della cucina. - Ade non avrà mai la mia bambina!

- Non è la tua bambina che vogliamo. – Si alzò in piedi con un balzo agile e poi usò il suo potere per afferrarla per la gola.

Zelena annaspò.

Poi le terra sotto i loro piedi tremò con un boato e una crepa zigzagò lungo il pavimento della casa. Si aprì una voragine nera e dall’oscurità scaturirono grida e stridore di legno e metallo. Lei e la cosa che un tempo era stata Emma Swan vennero avvolti da una fitta nebbia grigia e tutto scomparve.

 

 
Città di Smeraldo. Oz. Durante la prima maledizione.

 
“Profezia?”

“Già. Lui adora parlare di profezie... quando riguardano gli altri.” Era rise sommessamente. “Una fanciulla con i capelli di fuoco che può far ripartire il cuore del Signore degli Inferi. La fanciulla che potrebbe diventare la sua regina. La donna che lui rapirà. È una profezia vecchia. Credo abbia almeno un paio di millenni.”

“Ade non mi ha rapita.”

“Non ancora. Stavo cominciando a credere che questa profezia fosse davvero una sciocchezza. E invece... la fanciulla è proprio davanti a me.”

“Io sono una strega, non una fanciulla! Sono...”

“La perfida Strega dell’Ovest? Che appellativo ridicolo. Mi sarei aspettata qualcosa di più appassionante, ma suppongo che sia il massimo che tu sia riuscita a trovare. Del resto, nemmeno tua sorella spicca per originalità. La Regina Cattiva...”

Zelena digrignò i denti, ma non accettò la provocazione. Scrutò il volto affilato di Era con attenzione, in cerca di un battito di ciglia, una smorfia delle labbra, qualcosa che le avrebbe suggerito la prossima mossa.

“Questo è il mio dono. La profezia che ti riguarda.”, disse Era, sorprendendola.

“Un altro dono? Ne ho abbastanza anche di doni.”

“Ma è molto più prezioso di uno Specchio Magico che rivela la vera natura di una persona.” La Dea sollevò lo Specchio delle Anime e rimirò il proprio riflesso in esso. Lo fece dandole le spalle, in modo che Zelena vedesse i suoi occhi neri che bruciavano come tizzoni ardenti.

“Non me ne faccio niente di una profezia!”

“Le profezie sono armi, Zelena. E sono pericolose.” Posò lo Specchio e si mosse così velocemente che Zelena nemmeno se ne accorse. Era le afferrò la mascella, stringendo senza farle male. Ma la sua presa era decisa. Salda. “Ade ha ragione quando dice che non bisogna sottovalutarle. Nemmeno lui dovrebbe sottovalutare la sua. Perché potrebbe essere la sua rovina.”

Zelena la guardò stoicamente.

“Non è l’unica cosa che ho per te.” Era la lasciò andare. “Da oggi in avanti... se avrai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere. So essere particolarmente fastidiosa, ma anche... generosa, Zelena.”

“Dovrei fidarmi di ciò che dice una divinità come te?”

“Sappi che se sarai nei pasticci, potrai sempre chiamare me. Posso sentirti ovunque tu sia. Persino nel regno di Ade. E puoi contare su quello che dico: mettimi alla prova appena puoi.”

 

 
Oltretomba. Durante la prima maledizione.

 
Un lago di zolfo liquefatto si estendeva per quasi tutta la lunghezza di un’immensa valle, esalando sbuffi di vapore mefitico che piaceva soltanto alle creature alate che sorvolavano la zona. All’estremità orientale di una catena di montagne, su un picco che dominava la valle, c’era una fortezza di basalto che sporgeva da una parete strapiombante come il braccio di un mostro addormentato e sepolto da millenni.

E sul lato più esposto della fortezza c’era un portoncino, davanti al quale una sentinella se ne stava appostata giorno e notte, intimando l’alt a chiunque osasse avvicinarsi. Il che non accadeva quasi mai, perché i morti erano là fuori, puniti in qualche oscuro modo, alla ricerca della porta che li avrebbe condotti in un altro posto, magari migliore di quello. Oppure erano nelle caverne sotto le montagne, torturati da Ade e dalle sue creature malefiche.

Presto sarebbe calata la notte e, come tutte le notti, sarebbe stata lunga, fredda e buia. Non il buio di una notte normale, ma un buio molto più denso, una tenebra di porpora come le nuvole che veleggiavano nel cielo.

La sentinella si chiamava Lewis e, un tempo, era il nostromo su una nave chiamata Jolly Roger, il braccio destro del capitano Killian Jones. E l’ultima cosa che si aspettava era di udire la voce tonante del Signore dell’Oltretomba, una voce che si espanse nella sua coscienza e in tutta la valle, raggiungendo qualsiasi anfratto, anche il più nascosto.

“Non credete anche voi che questo posto abbia bisogno di una bella ristrutturazione?”

Poi tutto cominciò a tremare, a sgretolarsi e a mutare forma.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
David salì le scale e trovò Henry seduto sul letto, meditabondo.

Non aveva voluto parlare con nessuno da quando erano tornati, nemmeno con sua madre.

- Ehi. – disse David, sforzandosi di sorridere. – Che cosa ci fai quassù tutto solo?

- Niente. Penso e basta.

- Beh, che ne dici se mi metto a pensare con te? – David si avvicinò e sedette dietro ad Henry.

Da fuori venne il ruggito di un drago. Sembrava un lungo grido pieno di angoscia e rabbia.

- Allora, a cosa pensiamo? – tornò a chiedere David.

- Non ne voglio parlare.

- D’accordo. Perché non parliamo di me? – Incrociò le braccia al petto. Intorno alla gola aveva dei segni violacei, un regalo del ramo vivente che lo aveva quasi soffocato. – Oggi è stata davvero... una pessima giornata. Ho cercato... e cercato e cercato qualcosa che potesse aiutare Emma. Sono stato ovunque. Sono preoccupato per Neal e non so come fare per accertarmi che stia bene. Sono stato persino in quel cimitero e ho trovato... la tomba del mio gemello.

Henry non rispose subito. – E com’era?

- Era un principe.

- No, intendo dire... com’era la sua tomba.

Sbirciò il nipote da sopra una spalla, accorgendosi che lo stava guardando. - Era... spezzata.

- Oh.

- Già. E non è finita. Sono quasi morto. Non sono riuscito ad aiutare Emma. Non riesco mai a fare niente per aiutarla, hai notato?

- Nessuno di noi poteva fare niente, nonno.

David sapeva perché era salito. Non era solo per parlare con Henry. Si era sentito sopraffatto da un senso di impotenza. Emma era sparita, posseduta da qualche spirito maligno inviato da Ade. Zelena e sua figlia erano svanite, forse portate via dalla creatura che usava il corpo di sua figlia. Stava perdendo. Loro stavano perdendo. Non aveva potuto fare nulla per evitare quel disastro. Aveva una spada e si era ridicolmente lanciato contro una pianta dotata di coscienza per essere subito disarmato e quasi strangolato. Aveva guardato Emma contorcersi mentre l’ennesima tortura di Ade si abbatteva su di lei.

Mary Margaret lo avrebbe rassicurato. Gli avrebbe detto che aveva fatto tutto quello che poteva, ma non era così. Non aveva fatto niente.

- Sono suo padre. – disse David.

- Ed io sono suo figlio. Sono l’Autore.

Il drago emise un altro cupo brontolio che riverberò fino a loro nonostante la distanza. Udirono uno schianto, forse un albero che crollava sotto la mole della figlia di Malefica.

- Ma non hai più la penna. – Gli diede una pacca sulla schiena. – E anche se l’avessi... siamo nell’Oltretomba. Qui le cose funzionano in modo diverso.

Henry tacque. Si sentiva sangue bollente battere sotto la pelle del volto. Ripensò a sua madre sdraiata ed in preda alle convulsioni. Ripensò allo sguardo smarrito dell’altra madre, Regina. Alla sua paura. Alla luminosità della penna che lo chiamava.

- Beh, se hai voglia di venire giù a parlare con tua madre... – prese a dire David. Gli mise una mano sulla spalla e gliela strinse. Non continuò. Il suo stato d’animo era ben peggiore rispetto ai giorni in cui Emma era l’Oscuro e loro non avevano idea di che cosa stesse tramando. Provava a non darlo a vedere, perché Henry era convinto che il Principe Azzurro non perdesse mai la speranza, ma i pensieri gli rombavano di terrore e confusione. Quando cominciò a muovere le gambe per dirigersi verso le scale, la sensazione non fu quella di camminare ma di cadere. Si sforzò di mettere un piede davanti all’altro.

- Aspetta! – esclamò Henry, come colto da un’illuminazione. – Devo farti vedere una cosa.

 

 
- La penna dell’autore! – disse Regina, quando suo figlio posò la propria arma sul bancone della cucina, mostrandola a tutti. – Pensavo l’avessi distrutta.

- Infatti. Per questo si trova qui. Non so come spiegarlo... ho avuto la sensazione che fosse qui fin da quando siamo arrivati. E l’ho cercata.

- Cosa ti ha fatto pensare che ti servisse? – Regina, come David, riportava i segni dell’ultimo scontro. Un grosso livido violaceo si stava espandendo sulla sua pelle, lungo la mascella.

- Crudelia. Almeno all’inizio. Voleva che la riportassi in vita.

- Perché dovresti aiutarla?

- Per aiutare Emma. – Si sentiva profondamente in colpa. Per aver tenuto nascosto alle sue madri di aver ritrovato la penna e anche del patto che aveva quasi stretto con Crudelia. – Lei diceva... che avrei potuto cancellare ciò che Emma aveva fatto, riportandola indietro. Non sarebbe più stata un’assassina.

- Non l’hai riportata in vita, vero? – si accertò Killian, immaginandosi l’auto di Crudelia che sfrecciava per le strade di Storybrooke.

- No. Non ho scritto nemmeno una parola. Ma ho capito... di avere tutto questo potere... e di ignorarlo. Io non voglio... vivere all’ombra degli altri. Voglio essere un eroe.

- Ma non è così che puoi diventarlo. – disse Mary Margaret. – Non è il modo giusto.

- Lo so! Per questo ve lo sto dicendo. Perché voglio fare la cosa giusta. Non riporterò in vita Crudelia... non farò nulla di... insensato. Scriverò le storie così come sono e comincerò con quella di Ade. Userò la penna per scoprire cosa ci nasconde.

 

 
- Ben arrivata, Zelena. Mi dispiace molto. Questo Spettro non era come me lo aspettavo. Tua madre non ha fatto propriamente un buon lavoro. – disse Ade, che si produsse in un inchino esagerato e infine le prese una mano per baciarle le nocche.

Zelena la sottrasse bruscamente e ignorò il fatto che avesse appena nominato la sua vera madre. - Siamo arrivati a questo?

- Per favore, lascia che ti spieghi...

- Spiegarmi cosa? So che cosa vuoi! Vuoi mia figlia per il maledetto incantesimo!

- Lo Spettro avrebbe dovuto prendere anche tua figlia. Mi dispiace. Cora non è riuscita a controllarlo. Era uno Spettro molto vecchio.

- Oh, che terribile notizia per te, vero? – Zelena alzò la voce, ma in realtà si sentiva immensamente debole, come sorretta da friabili filamenti di cotone. Se avesse provato a colpire Ade o a muovere un solo passo, si sarebbe accasciata come un pupazzo invertebrato. - Mia figlia è in quella casa, da sola! Ed io non ti permetterò di farle del male! Provaci e ti distruggerò!

- Non ho intenzione di fare del male alla tua bambina. – sentenziò Ade. – Non farò del male a lei e nemmeno a te. Volevo portarvi qui perché qui con me sareste state certamente al sicuro e non in balia di quegli eroi che se ne vanno in giro per il mio regno, sperando di trovare un modo per portare via Emma Swan. E prima ancora...

- Prima ancora hai fatto un patto con la Strega dell’Est.

- L’ho fatto sempre pensando a te. Volevo fare in modo che fossi lontana da Oz, lontana dall’uomo che vuole portarti via tua figlia. E la Strega dell’Est farà scoppiare una guerra, fino a quando Dorothy non la fermerà.

- Dorothy non può fermarla! La maledizione del sonno...

- La maledizione del sonno verrà spezzata. È destinata a sconfiggere la Strega dell’Est e presto o tardi lo farà.

Zelena avrebbe tanto voluto rintracciare i pensieri sotto il boato di paura che ormai la riempiva. La bambina era sola in quella casa e c’era uno Spettro che scorrazzava per l’Oltretomba nel corpo della Salvatrice. Una creatura simile non si sarebbe fermata neppure davanti ad una neonata. - E quei... globi di luce? Che cos’erano?

“Non è l’unica cosa che ho per te. Da oggi in avanti... se avrai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere. So essere particolarmente fastidiosa, ma anche... generosa, Zelena.”

- I nostri ricordi. – stava dicendo Ade. - Volevo che tu sapessi che non mi sono mai dimenticato niente. E che non ho mai smesso di pensare a te. A tutto quello che è successo.

- L’ultima volta che ci siamo visti hai detto che l’avrei pagata! Era questo che intendevi? Rapirmi è il tuo modo di farmela pagare?

“La storia del Dio degli Inferi che rapisce una fanciulla, costringendola a passare sei mesi nel suo regno e altri sei sulla Terra.”

- Ti ho detto che te ne saresti pentita. Non che l’avresti pagata. – la corresse Ade, come se contasse qualcosa. – E speravo che te ne pentissi. Perché sai che cosa provo per te. Per questo voglio che tu sia al sicuro e non farò niente alla piccola. Ho già un bambino. Tremotino me ne ha garantito uno. Lui... e Belle.

Zelena batté le palpebre, sempre più confusa. – Quindi mi stai dicendo...

- Ti sto dicendo la verità. Se avessi voluto la tua bambina, l’avrei già presa. E poi... – Allargò le braccia. - Non hai visto? Sai perché questo posto... assomiglia a Storybrooke? Un tempo non era così. L’ho fatto... per te!

Lei rimase in silenzio, contemplandolo attraverso il velo delle lacrime.

- So che volevi lanciare l’incantesimo per avere tutto quello che tua sorella ha avuto. - continuò Ade. 

- Quindi hai... hai costruito una Storybrooke... qui? Perché fosse mia?

- Non è perfetta. Me ne rendo conto. Purtroppo l’Oltretomba è... è un luogo di distruzione. Non cresce niente... per quanto mi impegni. E non è esattamente quello che vorrei darti. Lo sai. – Sorrise amaramente. – Queste... sono rovine. Ma sono le nostre rovine.

“Non è l’unica cosa che ho per te. Da oggi in avanti... se avrai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere.” La voce di Era era roboante. Ed era l’unica cosa che si faceva strada in mezzo alla confusione che aveva in testa.

- Zelena... potremmo non essere più soli. – Ade le prese una mano e questa volta lei lo lasciò fare. -Avere tutto è la miglior vendetta. La parte migliore deve ancora venire ma...

- No! – Zelena lo scacciò di nuovo. Il cuore le batteva troppo forte, sempre troppo forte in presenza di Ade e questo accresceva la sua furia. – Credi davvero che possa fidarmi di te dopo... dopo...

- Non puoi. Non ancora. Lo capisco. – la interruppe Ade, comprensivo. – Per questo sei qui. Possiamo parlare. Posso farti capire che puoi fidarti di me. Dammi una possibilità.

Zelena non rispose, ma dentro di sé desiderava che tutto finisse. Tutto. Era tornata ad Oz, sperando di poter essere lasciata in pace, ma ovviamente non poteva trovare pace da nessuna parte. Ovunque andasse, qualsiasi cosa facesse, Zelena non avrebbe mai trovato niente di buono, niente perché era la Strega Perfida. Ovunque andasse trovava solo rovine. Quella città non era come quella di Regina. Lo aveva detto anche Ade. Cadeva a pezzi. Era orribile. Il cielo era rosso, l’aria era troppo densa... ed era piena di gente morta. Gente con conti in sospeso.

Rovine.

Sì, voleva davvero che tutto finisse. Per la prima volta da quando la sua miserabile vita era cominciata, Zelena non desiderò la vendetta. Si scoprì a desiderare di essere morta.


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Capitolo 10
*** 10 ***


10

 

“Abbandonati siamo come bambini smarriti nel bosco.
Quando mi stai davanti e mi guardi,
che ne sai tu dei dolori che sono dentro di me
e che ne so io dei tuoi?
E se mi gettassi a terra davanti a te e piangessi e parlassi,
che ne sapresti di me più che dell’inferno
quando qualcuno ti viene a dire che è tutto fuoco e spaventevole?”

[Franz Kafka, Lettera a Oskar Pollak]

 

 

 
Foresta di Oz. Oggi.

 

In un punto remoto della foresta, un lupo ululò. Qui e là, nel buio, gli risposero i compagni, una decina di lupi che levavano le voci in una melodia discorde.

Ruby sentì formicolare il cuoio capelluto e la pelle delle braccia incresparsi, udendo quel richiamo. Poi, per un istante, gli ululati si fusero in un’unica nota, molto simile ad un grido di battaglia.

Si agitò, stringendosi nel mantello rosso.

- Cosa succede? – le domandò Mulan. – Pensi che i lupi ci daranno fastidio?

- No. – rispose Ruby, scuotendo il capo. Alzò la testa, osservando il cielo punteggiato di stelle e di stralci di nubi. - Credo che stiano insegnando ai cuccioli a cacciare. Non verranno da questa parte.

Mulan aggrottò la fronte. Era seduta a cavalcioni su di un vecchio tronco cavo, indurito e sbiancato dal sole. Ogni volta che si muoveva il tronco emetteva un acuto scricchiolio. In mezzo a loro, un piccolo cumulo di braci, i resti del fuoco, pulsava come un cuore. La fievole luce rossastra illuminava un tratto del suolo roccioso, qualche cespuglio e un abete poco distante. Sparse a pochi metri da loro c’erano le tende degli uomini di Robin. Ogni tanto si levavano i lamenti di qualche ferito.

- Ruby, andrà tutto bene. Le prigioni di Zelena sono là sotto. L’incantesimo è più forte di quanto ci aspettavamo, ma vedrai che...

- E nel frattempo quei prigionieri stanno morendo di fame. Forse sono già morti. E anche Dorothy...

- Non credo sia facile uccidere una come Dorothy.

Allora Ruby prese a singhiozzare. Singhiozzava come se avesse avuto il cuore spezzato. Mulan non l’aveva mai vista così e per un momento non fece nulla, tanto la sua reazione era stata improvvisa. Poi sedette accanto a lei e posò una mano sulla sua.

- Scusami. Non so che cosa mi prenda. Non riesco più a controllarmi. – disse, con la voce rotta.

- Fidati, so bene che cosa ti prende. - Mulan si accorse che lei stringeva un pezzo di stoffa a righe tra le dita. Doveva essere appartenuto a Dorothy. Avvertì un’improvvisa, ardente scintilla di collera nei confronti di Zelena, di Knubbin che non era in grado di cavare un ragno dal buco, di Glinda, che stentava a riprendersi da ciò che era successo...

- Non avrei dovuto chiederti di seguirmi. Pensavo che cercare il mio branco fosse la cosa più importante e che avrebbe aiutato anche te e invece... guarda dove siamo finite. – continuò Ruby.

Mulan stava per rispondere, quando Piccolo John si fermò proprio dietro di loro, in attesa. Ruby si affrettò ad asciugarsi le lacrime. Lui sembrò provare un vago senso di vergogna per averla sorpresa con la guardia abbassata.

- Il mago vuole vederti. – disse John, strascicando i piedi e lanciando solo una rapida occhiata a Mulan. – Adesso.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 

- Com’era? Descrivetemi Emma Swan. – disse Tremotino, quando lo misero al corrente di ciò che era accaduto.

Fu Mary Margaret a farlo. Era visibilmente stanca, pallida e con ombre scure sotto agli occhi. I suoi sogni erano stati disturbati dalla presenza maligna che aveva le sembianze di sua figlia. Il rosso di quelle iridi l’aveva seguita e così anche il ruggito sofferente del drago nei boschi.

- Uno Spettro. - concluse Tremotino. - Più di uno, stando a quel che mi racconta.

- Spettro? – intervenne Killian. – Parlo chiaro, Coccodrillo. Emma è posseduta da un maledetto fantasma?

- No, capitano. Non un fantasma. Uno Spettro. È ben peggio. – rispose l’Oscuro con tutta la calma del mondo, come se stesse parlando di uno spiritello qualunque. E tuttavia, nemmeno lui aveva una bella cera. L’espressione era grave e il suo sguardo sembrava perso dietro ad altri ragionamenti. – È una creatura malvagia, che ha origine quando un mago evoca spiriti più potenti di lui e ne perde il controllo. Di solito quegli spiriti si impossessano del corpo di chi li ha evocati, ma... credo che in questo caso il mago fosse abbastanza forte da dirigere gli spiriti verso un altro contenitore.

- Zelena? – domandò il principe Fiyero.

- Forse. Lei è molto potente. Potrebbe averlo evocato.

- Ma non ha alcun motivo di usare Emma. Lo Spettro... si è diretto verso casa sua. Sembrava cercasse proprio... mia sorella. – disse Regina, acidamente. – E non certo per ringraziarla.

Tremotino si accorse che gli occhi nocciola della sua ex allieva ardevano di un misto di rabbia e angoscia così violento da far pensare che le sue emozioni sarebbero potute esplodere da un momento all’altro per distruggere qualsiasi cosa nel suo campo visivo, in una vampa di incredibile intensità.

Ma lui la capiva.

- Come mai Lily sta così male? Dipende da ciò che sta accadendo ad Emma? – chiese David.

- Lo Spettro si sta nutrendo dell’essenza di Emma Swan. La sfrutta a sua vantaggio. Ne trae forza. Controlla i suoi pensieri. E Lilith ha una parte di Emma dentro di sé... grazie a lei e a sua moglie. – ci tenne a puntualizzare. – Sente quello che sta facendo lo Spettro.

- Emma è... – iniziò Mary Margaret. Non sapeva nemmeno lei che cosa stesse per chiedere.

Emma è ancora viva?

Emma è cosciente?

- Emma sa benissimo che cosa le sta succedendo, ma non può fare niente. Lo Spettro piega la sua volontà. Più lotta contro di esso... più soffre.

Calò un silenzio di tomba.

- Veniamo al dunque. – disse Killian. - Come liberiamo Emma?

 

 
- Ti vedo più rilassata. – disse Ade, porgendo un bicchiere di vino rosso a Zelena, che sedeva in poltrona. – Ne sono lieto. Ora possiamo parlare. E possiamo andare a prendere tua figlia.

Lei non disse niente. Una schiavetta del Signore degli Inferi, una ragazzina bionda e pallida, le porse del cibo su un vassoio d’argento. Nel farlo, chinò diligentemente la testa, evitando di guardarla in faccia.

Mele verdi, uva, bacche, dolci, mille altre leccornie...

Al centro, a decorare il tutto, c’erano due frutti tondi tagliati a metà e circondati da foglie lucide e strette. I semi erano di un vivido colore rosso ed erano attorniati da una polpa traslucida.

- Non ho fame. – rispose Zelena, seccata.

“La storia del Dio degli Inferi che rapisce una fanciulla, costringendola a passare sei mesi nel suo regno e altri sei sulla Terra. Non in tutti i mondi la storia è la stessa...”

- So che sei preoccupata. Ma lascia fare a me. Porterò qui tua figlia. – la rassicurò Ade. – Quegli eroi da strapazzo non la toccheranno. Tantomeno tua sorella.

- Dov’è mia madre, adesso? – domandò, invece, Zelena. – Hai detto che ti ha aiutato con lo Spettro. Dov’è?

- Sei curiosa? Vuoi conoscerla?

“Sappi che se sarai nei pasticci, potrai sempre chiamare me. Posso sentirti ovunque tu sia. Persino nel regno di Ade. E puoi contare su quello che dico: mettimi alla prova appena puoi.”

- Mi sono occupato anche di lei. L’ho torturata. Da quando è arrivata qui non ho fatto altro. Ed ora è tornata a trascinare carri stracolmi di sacchi di farina.

Zelena sorrise, perché quel pensiero la mise stranamente di buon umore.

- Sorridi. Bene.

- Mia madre mi ha abbandonata. Non dovrei sorridere, sapendo che la torturi? - Prese il bicchiere che Ade le offriva e seguitò a fissarlo. Gli permise di avvicinarsi e di inginocchiarsi davanti a lei.

“E puoi contare su quello che dico: mettimi alla prova appena puoi.”

- C’è qualcos’altro che posso fare per te? – domandò Ade. – Altre... torture che posso rivolgere contro Cora?

- Perché non contro mia sorella?

- La sto già torturando. Le ho gettato addosso alcuni dei suoi conti in sospeso, suo figlio ha rischiato la vita... e la sua adorata Salvatrice sta soffrendo. È in balia di uno Spettro. Perché credi che abbia ordinato a Cora di usare il corpo di Emma Swan come contenitore? Quello che fanno gli Spettri... è molto spiacevole, Zelena.

Tacque.

- Non hai nulla da dirmi?

Non gli disse un bel niente, ma usò il proprio potere per immobilizzarlo. Avvertì chiaramente la magia che si scontrava con una barriera, con un muro elastico, minacciando di rivoltarsi contro di lei. Ma si sforzò di dirigerla verso Ade.

L’incantesimo non lo paralizzò totalmente, ma gli bloccò le gambe fino alle ginocchia. Ade lanciò un’esclamazione di sorpresa, mentre annaspava, cercando di afferrarla. Zelena non gli diede il tempo di reagire e usò la magia per completare l’opera. Ade si ritrovò immobilizzato fino al collo, mentre Zelena ansimava per la fatica. Era un semplice incantesimo, eppure il suo corpo era fiacco, quasi avesse compiuto uno sforzo titanico.

- Zelena! – gridò Ade, lottando ferocemente contro l’incantesimo.

Non aveva idea di quanto tempo avesse. Era sicura che Ade potesse liberarsi da solo e che non avrebbe impiegato molto, quindi si gettò per terra, rimirando il proprio riflesso in uno dei fiumi che si dipartivano dalla piattaforma dove il Signore degli Inferi trascorreva la maggior parte del tempo.

Il Flegetonte. Impetuoso e fiammeggiante. Rosso e arancione come il fuoco che scaturisce dalla bocca di un drago.

- Bene, Era. – sussurrò Zelena, percependo un gusto amaro sul palato quando pronunciò il nome della moglie di Zeus. – Provami che vuoi davvero aiutarmi. Se mi stai ascoltando, aiutami a salvare mia figlia.

Non vi furono cambiamenti di sorta nelle acque del Flegetonte. Continuarono a scorrere. Dietro di lei si levarono i sospiri e i gemiti dei gusci vuoti che nuotavano senza posa nel Fiume delle Anime.

- Era, ti avverto che se ti stai prendendo gioco di me, non mi importerà della tua immortalità. Me la pagherai comunque.

Il moto della corrente cambiò all’improvviso.

 

 
La Strega Cieca non si aspettava niente di ciò che accadde quel giorno al Granny’s.

Aprì la tavola calda come ogni giorno, scostò le persiane, lasciando entrare la luce rossa che inondava l’Oltretomba, servì i primi clienti, intimando alle cameriere di darsi una mossa e diede un caffè nero a Crudelia che, a giudicare dall’odore e dai borbottii, doveva essere di cattivo umore. La sentì mentre svitava il tappo di una fiaschetta per versarne il contenuto nella tazza. Gin scadente rimediato al mercato nero. E la Strega Cieca sapeva anche da chi lo aveva rimediato. Dalla competizione...  ovvero zia Em.

Poi lo Spettro fece irruzione, scardinando la porta d’ingresso. Le poche persone presenti vennero costrette alla fuga, mentre tavoli e sedie spiccavano il volo.

La Strega Cieca annusò l’aria e l’unica cosa che avvertì fu un odore nauseabondo. Era mescolato ad un altro odore, ma quella fragranza si perdeva in mezzo alla putredine. Non assomigliava a niente che avesse mai sentito prima.

Infine una mano gelida l’afferrò per il corpetto e la trascinò dall’altra parte del bancone. L’essere non era certamente un morto qualunque. Era dotato di una forza disumana.

Le dita le serrarono il collo in una morsa d’acciaio e una mano affondò nel suo petto, in cerca del cuore.

Crudelia ebbe modo di vedere che la cosa che se ne andava in giro nel corpo della sua assassina non stava semplicemente torturando una donna a caso. Aveva spinto una mano nel torace della Strega Cieca ed ora ne risucchiava l’essenza. Era del colore della nebbia sulle acque immobili di un lago e fumava un po’ scivolando sul braccio di Emma Swan per poi entrare in lei passando dalla bocca e dalle narici.

La Strega Cieca si sciolse come neve al sole. Del suo corpo non rimase che una pozzanghera sul pavimento del Granny’s.

 

 
Foresta di Oz.

 
- Loro credono che io sia pazzo, ma la verità è che non hanno la minima idea di che cosa sia la pazzia. – disse Knubbin, quando Ruby mise piede nella tenda che gli era stata riservata.

C’era anche Robin.

- Eccovi, tesorino, finalmente. – Knubbin stava armeggiando con alcune ampolle, scrutandone il contenuto. Aveva le borse sotto agli occhi, il naso scarlatto e i capelli ritti sulla testa. Sembrava che non avesse dormito e che non si fosse fermato un momento da quando era arrivato ad Oz. – Spero che siate pronta per un viaggetto. Sarà un po’ movimentato.

- Quale viaggio?

- Incantesimo di localizzazione. Una specie.

Ruby batté le palpebre. Cercò di far ingranare al cervello una marcia che le permettesse di lasciarsi alle spalle quel senso di colpa e di impotenza, ma non ci riuscì. – Abbiamo già provato con un incantesimo di localizzazione...

- Con Dorothy non ha funzionato, ma noi rintracceremo la fonte del problema, tesorino.

- Zelena. - intervenne Robin. – Lei ha mia figlia. E se troviamo Zelena, saprà dirci che cosa è successo a Dorothy.

- Ma Zelena non è in questo mondo. È caduta in un portale!

Knubbin stappò un’ampolla e da essa scaturì del fumo color porpora. Lui starnutì più volte e il suo corvo si levò in volo, infastidito dall’odore acre emanato dalla pozione. - Non è in questo mondo, già, che disdetta. Ma il tornado che creeremo vi porterà direttamente da lei, ovunque si trovi. So che sembra complicato... non ho trovato le prigioni in quel dannato palazzo, ma quel posto è... come dire... una vera fortezza. Ci sono incantesimi in ogni dove!

- E pensate di poter creare un tornado che ci porterà... da Zelena?

- Sì. Abbiamo un po’ di cose che le appartengono, tesorino. Ma non basta. Mi serve dell’altro. E qui viene il bello. O il brutto.

Lei e Robin attesero che il mago continuasse.

- A cosa siete disposti a rinunciare?

 

 
Oltretomba.

 
Regina provava una sensazione terribile, cupa e schiacciante. La sensazione di essere sospinta verso la bocca di un tunnel in cui la attendeva ogni genere di brutti incontri, una sensazione accompagnata dal panico. Qualcosa dentro di lei voleva urlare di terrore e capì che se non avesse recuperato le redini di quella situazione al più presto quell’impulso non si sarebbe trattenuto.

Quello era davvero l’Inferno. Non un limbo. L’Inferno. Più restavano in quel dannato posto e più quel posto li corrodeva.

Chiuse gli occhi e cominciò a respirare a fondo.

- Regina.

Si rifiutò di credere di aver sentito la voce di sua sorella. Non poteva trovarsi lì. Lo Spettro l’aveva presa e portata da qualche parte, forse da Ade in persona.

Lo Spettro. Lo Spettro che era Emma. Nel corpo di Emma. E la torturava.

“Emma sa benissimo che cosa le sta succedendo, ma non può fare niente. Lo Spettro piega la sua volontà. Più lotta contro di esso... più soffre.”

- Regina, maledizione, dammi retta!

Spalancò gli occhi e fissò lo specchio appeso in camera degli Azzurri. La superficie trasparente si muoveva. La sua immagine riflessa sbiadiva, si deformava sotto le increspature. Pian piano, un altro volto emerse. Due occhi così azzurri da sembrare fari nella nebbia.

- Non posso credere che lo sto facendo.  

Lei si avvicinò allo specchio. - Ma che cosa...

- Regina, non ho molto tempo. Devi ascoltarmi. – disse Zelena, energica. – Si tratta di mia figlia. Io non posso aiutarla, ma tu sì.

- Dove diavolo sei, Zelena? Che cosa stai facendo?

- Tutto questo può aspettare. Mia figlia... è in quella casa. È sola. Devi fare qualcosa. Devi portarla via!

A Regina sembrava tutto immensamente surreale. Aveva così tanti pensieri per la testa che non aveva pensato al fatto che lo Spettro potesse aver rapito solo Zelena, infischiandosene della piccola. Scosse il capo. - Emma... Lo Spettro... è lì? È con te?

- Non ho evocato io lo Spettro, se è questo che credi! – gridò Zelena, increspando ancora di più la superficie dello specchio. - La nostra amorevole madre l’ha fatto per Ade! E poi non è riuscita a controllarlo!

- Che cosa vuole Ade da te?

- Regina, ti prego, mia figlia potrebbe essere in pericolo. Non possiamo rimandare?

- Non possiamo dato che non mi fido di te. – Puntò un dito contro lo specchio. – Devi dirmi qualcosa, se vuoi che la aiuti. Che cosa è successo fra te ed Ade?

Zelena fece una paura brevissima. Borbottò qualcosa che Regina non capì. Poi...

- Si è innamorato di me. – ammise.

Regina si sarebbe aspettata qualsiasi cosa, ma non questo. Era talmente incredula che faticò a trovare una risposta sensata. - Oh.

- Già. Ridicolo, vero? La sola idea che qualcuno possa amarmi... una divinità, per giunta. – Nel dirlo, si rese conto di due cose: che suonava ancora più ridicolo ora che lo aveva detto ad alta voce a Regina e che aveva appena attraversato un ponte. Non se lo era bruciato alle spalle, non ancora almeno, ma non avrebbe mai più potuto tornare sui suoi passi senza dare un mucchio di spiegazioni alla stessa donna che aveva sempre invidiato e alla quale aveva chiesto aiuto.

- Tu lo ami? – domandò Regina.

Zelena non le rispose. Serrò le labbra.

- Zelena, lui ci sta tenendo qua sotto. Non possiamo andarcene perché ha fissato i nomi di tre di noi sulle tombe! Forse è il momento di...

- È il momento di finirla con le chiacchiere e pensare a mia figlia! – la zittì. – Voglio che tu vada in quella casa e porti via la mia bambina. Tu o... qualcuno della tua banda di idioti. Possibilmente non il Principe Azzurro e la sua amata. Sono capaci di rovinare tutto!

Regina sospirò.

- C’è uno Spettro, là fuori, che non avrà pietà di nessuno, tantomeno di una bambina. Non so per quanto... potrò trattenere Ade. Per ora è fuori gioco, ma devi sbrigarti.

- Come facciamo con la barriera che protegge la casa?

- So come abbatterla. Quindi apri bene le orecchie, sorellina, perché non ho la minima intenzione di ripeterlo.

 

 
Foresta di Oz.

 
Robin e Ruby osservarono Knubbin mentre trafficava intorno al gigantesco pentacolo che aveva riprodotto usando rami e sassi.

Erano a circa una lega dall’accampamento dell’Allegra Compagnia, in una vasta radura ai margini della Città di Smeraldo. Sopra di loro, solo il cielo buio e le stelle. Intorno, nient’altro che qualche vecchio albero e... la strada dorata. La strada di mattoni gialli che attraversava il regno di Oz per terminare a quello che un tempo era stato il palazzo del Mago e che ora era la dimora di Zelena.

- Ecco fatto, tesorino. Iniziate a concentrarvi. – disse Knubbin. Aveva acceso delle candele e le aveva posizionate sulle cinque punte della stella inscritta in un cerchio. – Concentratevi tutti, è meglio.

- Non ci avete detto a cosa dovremmo rinunciare. – gli fece notare Robin.

- Mettetevi al centro del pentacolo, grazie. Solo tu e la ragazza. Gli altri conviene che restino fuori. Il cerchio serve per contenere il tornado. – Knubbin parlava in fretta, agitato e muovendosi intorno al pentacolo senza posa.

Mulan, John e i due uomini dell’Allegra Compagnia che erano venuti con loro si scambiarono delle occhiate incerte, ma rimasero all’esterno del cerchio.

- Ora, tesorini... la parte migliore. O peggiore, a seconda dei punti di vista.

Ruby non capiva perché Knubbin facesse continuamente pause enfatiche, come se si trovasse in un maledetto film e stesse per rivelare qualcosa di sconvolgente, qualcosa che avrebbe sovvertito la trama intera. In quel momento, con quei capelli bianchi ritti sulla testa, gli occhi leggermente sgranati e sporgenti dalle orbite, gli fece pensare a Doc, lo scienziato pazzo di Ritorno al Futuro.

- Dovete rinunciare ad un ricordo. – concluse Knubbin.

- Un ricordo? – chiese Robin, perplesso.

- Un ricordo a cui siete molto legati. Un ricordo speciale, diciamo. – Soffiò il vento e le fiammelle delle candele tremolarono, ma non si spensero. - Deve essere un bel ricordo, tesorini, o non funzionerà.

 

 
Oltretomba.

 
Fiyero recuperò l’ampolla dalla tasca della giubba rossa e tolse il tappo, colto da una potente sensazione di deja vu. Ma questa volta sperava che le cose andassero meglio.

Marian gli copriva le spalle, con l’arco in pugno e una freccia già incoccata. Non si vedevano arpie né tantomeno alberi dotati di coscienza, pronti ad acchiapparli per le braccia o per il collo. Niente Spettri. In lontananza, risuonò ancora il ruggito sofferente del drago.

Fiyero gettò l’acqua del Fiume delle Anime sulla barriera che proteggeva la casa in cui si era rifugiata Zelena, proprio come gli aveva detto di fare Regina.

Nella barriera si aprì una breccia, preceduta da uno sfarfallio.

Fiyero e Marian si diressero verso la casa. Lui provò subito la porta d’ingresso e la trovò ancora aperta. Prima di entrare, estrasse uno dei pugnali dallo stivale.

La casa sembrava deserta. Il corridoio e le stanze al piano terra erano libere. Tutte a parte la cucina, dove trovarono la culla con la bambina sveglia e molto vivace.

Marian si chinò sulla neonata, che allungò una mano minuscola verso di lei. La prese, avvolgendola accuratamente nella coperta bianca.

- Sembra tutto in ordine. – disse Fiyero, guardandosi intorno. Se lo Spettro aveva causato dei danni, non erano visibili. C’erano solo alcuni oggetti per terra, ma nient’altro.

- Andiamocene in fretta, allora.

- Perché lo state facendo? – domandò il principe, sempre tenendo d’occhio l’ambiente che li circondava, mentre tornavano verso la porta d’ingresso. – Io mi sono offerto volontario, ma voi... avevate molti motivi per non venire qui.

- È figlia di Robin. Ed è solo una neonata. Non ha nessuna colpa. – rispose Marian, senza esitazioni.

- No. E nemmeno voi.

Marian non disse niente. Aggiustò la coperta intorno alla bambina e uscì, precedendo Fiyero.

 

 
- Ditemi, capitano. Che cosa vi serve? – domandò Tremotino. – Avete pensato al nostro accordo?

- Non abbiamo nessun accordo, Coccodrillo. Ma potremmo, se servisse a salvare Emma. – Killian si appoggiò al bancone del negozio di Gold. L’Oscuro era solo, seduto con le gambe accavallate, come se là fuori non ci fosse una creatura pronta a distruggerli. Come se non si trovasse nell’Oltretomba ma a casa sua e stesse semplicemente aspettando il ritorno a casa della mogliettina ignara.

- Ho già spiegato a Regina come potete aiutarla.

- Avresti potuto spiegarlo a me.

- Non potete affrontare lo Spettro, capitano. Vi ucciderà. – Si alzò in piedi. Aveva un’aria pallida e il viso tirato, come se fosse stanco fino al midollo. – Inoltre non credo abbiate il coraggio di piantare una lama nel cuore della vostra amata senza battere ciglio. L’uomo che ho conosciuto secoli fa l’avrebbe fatto... quello di oggi no.

Killian sentì la rabbia montare come una marea. - Hai proposto di condannare Emma. Credi che Regina lo farà?

- Ho solo detto che per distruggere lo Spettro è necessario colpirlo al cuore con una lama imbevuta dell’acqua del Fiume delle Anime... cosa che condannerebbe anche la signorina Swan, certo. – Tremotino stava seriamente pensando di prendere il Vaso di Pandora, che era proprio lì sul bancone, aprirlo e chiuderci dentro Killian Jones una volta per tutte. Avrebbe messo il Vaso in un cassetto e lo avrebbe lasciato nell’Oltretomba, chiuso in una prigione quadrata dove non avrebbe potuto nemmeno distendere le gambe. Avrebbe potuto dire che qualche demone di Ade lo aveva dilaniato. – Non mi aspetto che Regina lo faccia. Come voi... anche lei non è più la stessa donna di un tempo. Se la colpisce al cuore usando una lama comune, lo Spettro lascerà il corpo di Emma, ma se ne prenderà un altro. Vi piace l’idea?

 

 
Dopo una lunga lotta, Malefica era riuscita a fermare Lily. Il giovane drago si era schiantato, sollevando un’ondata di foglie, rami e terra e sradicando alcuni alberi della foresta.

In quel momento, sua figlia la fissava da sotto le spesse palpebre abbassate. Era cosciente, ma stordita dall’incantesimo che aveva usato per impedire che si facesse del male.

Malefica odiava lo Spettro. Odiava quel posto con tutte le sue forze. E odiava anche gli Azzurri. Se non fosse stato per la maledizione dell’Apprendista non sarebbe stata costretta ad agire in quel modo.

- Mi dispiace, Lily. – disse Malefica, appoggiando una mano sulla fronte del drago.

Lo Spettro piombò su di lei ad una velocità inaudita. Malefica ebbe giusto il tempo di vedere un movimento guizzante alla sua sinistra, poi l’essere la colpì con la forza della sua magia e la scagliò lontano.

- Fatti da parte, Malefica. Dacci il drago. – sentenziò lo Spettro, con i capelli bianchi che fluttuavano intorno alla testa.

- Dovrai passare sul mio cadavere. – rispose lei.

Lo Spettro aveva una spada con la lama lunga, sottile e affusolata, con un guardamano a croce le cui estremità terminavano a punta. L’attaccò con quella e Malefica riuscì per un soffio a levare lo scettro per parare il colpo diretto al costato. Le armi cozzarono con un fragore che le fece battere i denti. Impugnò lo scettro con entrambe le mani e, facendo appello a tutte le sue forze, diresse la magia verso la testa dello Spettro. Lo evitò, deviando il fascio di luce contro l’albero più vicino. La sua rapidità aveva dell’incredibile.

- Devi fare di meglio, se intendi fermarci. – blaterò lo Spettro, ridendo di gusto.

Malefica indietreggiò, con le braccia che tremavano ad ogni colpo inferto dalla creatura e quei colpi diventavano sempre più potenti. Giocava con lei. Non aveva modo di ricorrere alla magia, poiché non le lasciava spazio di manovra e l’Oltretomba rallentava gli incantesimi.

- Emma! – gridò Regina.

Lo Spettro alzò la testa e si girò, come un jet guidato da un radar. Malefica approfittò della distrazione per riversare il proprio potere contro il nemico. Colto alla sprovvista, lo Spettro ululò di dolore, mentre spiccava il volo. Tuttavia, atterrò in piedi, piegando leggermente le ginocchia.

- Malefica, proteggi Lily. Ci penso io a lei. – Regina era armata proprio come lo Spettro. Anche lei aveva una spada

“Se colpirai al cuore lo Spettro con la lama imbevuta dell’acqua del Fiume delle Anime, lo distruggerai. Ma Emma Swan non avrà scampo.” La voce di Tremotino suonava lugubre, come una condanna.

Regina impugnò saldamente la spada. Lo Spettro si fece avanti. Guardando il viso di Emma, deformata dallo spirito maligno che dimorava nel suo corpo, Regina ebbe l’impressione di vedere il rogo dentro una stufa. Mai aveva visto in un paio di occhi una furia simile, una furia così totale e sragionante, senza scopo. Mai aveva sospettato che una furia del genere esistesse.

“Se non immergi la lama nell’acqua, lo Spettro lascerà il corpo di Emma, ma se ne prenderà un altro. E potrebbe andare molto peggio.”

“Mi stai chiedendo di uccidere Emma?”

“Emma Swan è già morta.”

“Siamo venuti qui per salvarla. Non per condannarla.”

“Siamo venuti nell’Oltretomba per provarci. Anzi, siete venuti. Io vi avevo avvertito, a riguardo. Questo non è posto per i vivi. Credi di essere Orfeo?”

- Dove sono i tuoi amici, Regina Cattiva? – sibilò lo Spettro, girandole intorno. - Ci aspettavamo di vederli.

- Hai ancora una scelta. Puoi lasciare quel corpo adesso. Potete lasciarlo.

- Non credo proprio.

- Allora dovremo combattere. Sono abbastanza brava. Niente magia.

- Niente magia? – Sorrise, maligno.

- Niente magia. Tu non la userai. Ed io non la userò.

- Hai voglia di morire. Meglio per noi. Oh, sì, meglio! – Gettò indietro la testa, ridacchiando. Parlava al plurale. Doveva aver ragione Tremotino. Non era un unico Spettro. Erano tanti spiriti riuniti in un unico corpo. – Ade mi ringrazierà per averti uccisa.

Regina cercava di ricordarsi tutto quello che aveva imparato, combattendo contro i suoi soldati, quando ancora era la Regina Cattiva. Tentò un affondo verso il petto del Spettro, ma quello rise di gusto e la respinse.

“Orfeo ha fallito. È una fortuna che io non sia Orfeo, Tremotino.”

“Già. Orfeo ha fallito perché era troppo impaziente. Era riuscito a commuovere Ade, ma è stato la causa della propria rovina. Anche a te potrebbe andare male, Regina. Lo Spettro è troppo forte. Potrei aiutarti io.”

“No.”

“Non ti fidi di me.”

“Dovrei? È anche colpa tua. Avresti potuto lasciare che l’oscurità venisse distrutta, invece di approfittartene e vanificare il sacrificio di Emma!”

“Tu non puoi capire.”

Lo Spettro era velocissimo. La incalzò con una serie di mosse rapide e Regina fu costretta ad indietreggiare.

Era più forte di lei, su quello non aveva alcun dubbio.

“Almeno ricorda che in battaglia non sempre vince il più forte. A volte, vince il più furbo.” Tremotino sembrava convinto che la sua fosse follia pura. Eppure appariva anche desideroso di darle qualche consiglio, come se fosse stato ancora il suo maestro. Un maestro preoccupato per l’allieva, anche se l’allieva era ormai cresciuta e aveva percorso molta strada.

“Lascia che venga con te.”, aveva detto David. “Si tratta di mia figlia.”

Ma Regina sapeva che nessuno poteva aiutarla. Doveva essere lei ad affrontare lo Spettro.

“Devo chiederti di pensare a nostro figlio e alla mia famiglia. Devi portarli via da qui, se le cose si mettono male. Devi portare via tutti.”

Regina parò un manrovescio e subito scartò di lato per evitare un affondo che mirava al suo torace. Lo Spettro ringhiò e provò un fendente, che falciò soltanto l’aria. La spada dell’essere sibilò pochi istanti dopo abbastanza vicino da aprirle uno squarcio nella giacca rossa e, nel mentre, un maglio le penetrò nel cervello.

Lo Spettro la stava attaccando con la mente. Ovviamente Regina non si aspettava che rispettasse l’accordo e non usasse dei trucchi per indebolirla. Tremotino le aveva insegnato anche a proteggere la propria mente e quindi Regina lottò per sollevare barriere abbastanza robuste da evitare che lo Spettro entrasse nella sua coscienza, distruggendola. Fece roteare la spada, cercando un varco nelle sue difese, ma lo Spettro parò il colpo senza sforzo.

“Devo chiederti di pensare a nostro figlio e alla mia famiglia.”

Regina si abbassò, piegando le ginocchia, prima che l’ennesimo colpo di spada la falciasse e poi indietreggiò ancora. Un terribile odio emanava dagli occhi rossi e brucianti. Lo Spettro iniziò a girare intorno a lei, restringendo lentamente il cerchio. Regina non lo perdeva di vista, ma gli attacchi mentali la stavano fiaccando. Un altro tentativo di abbattere le sue difese l’accecò momentaneamente e diede allo Spettro la possibilità di farsi sotto con la spada. La lama si abbatté su quella di Regina, che menò un colpo alla cieca. La forza dello Spettro la costrinse in ginocchio.

- La regina è stata piegata. – sogghignò la faccia di Emma.

Con il cuore gonfio di rabbia e di angoscia, Regina alzò gli occhi, cercando in quelle rossi una parvenza di ciò che Emma era stata. Vi trovò solo scherno e malignità.

Lo Spettro disse qualcosa in una lingua che lei non capì, poi puntò la punta della spada contro il suo petto per affondarla nella carne.

Un attimo dopo, Regina udì un rombo cupo e un’ombra gigantesca calò su di lei. Regina pensò che fosse Malefica, ma lei aveva le corna, mentre la testa del drago che sobbalzava contro le nuvole era frastagliata e più grossa. Dalle fauci spalancate eruttò una vampa di fuoco gialla e arancione. Lo Spettro, furibondo, alzò la testa e si difese con la spada, deviando le fiamme ai lati del suo corpo. Regina vide piccoli lapilli roventi disintegrarsi intorno a lei.

“Devo chiederti di pensare a nostro figlio e alla mia famiglia.”

La spada le era caduta, ma Regina, attingendo da un’insospettabile riserva di energia, prese il pugnale che teneva nascosto nello stivale. Fiyero glielo aveva ceduto come arma di riserva.

Colpì lo Spettro dritto al cuore.

L’essere, sconcertato, abbassò lo sguardo sul proprio petto. Aprì la bocca, ma invece di parole emise uno strillo terrificante. Afferrò l’elsa del pugnale come se volesse strapparsela dalla carne, ma le dita bianche erano ormai prive di forza.

Un turbinio notturno lo avvolse completamente e le tenebre scaturirono dal corpo, dividendosi in tanti rivoli sottili e disperdendosi nell’aria.

Regina provò ad alzarsi in piedi. Le gambe cedettero e lei cadde di nuovo in mezzo alle foglie. Le lacrime le riempirono gli occhi e le rigarono il viso. Provava orrore per quello che era stata costretta a fare.

“Ti ho salvata. Ora tu salva me. E se non puoi salvarmi, fa quello che nessun altro vorrebbe fare. Tu sei l’unica in grado di mettere da parte i sentimenti per fare la cosa giusta.”

Solo che non era vero. Non lo era più.

Lily, intanto, barcollò e rischiò di travolgere la sua stessa madre, che disparve in una nube magica per ricomparire a qualche metro di distanza. Il corpo massiccio del drago si abbatté contro un albero, sradicandolo dalle sue radici. Ruggì e poi ricadde di nuovo su un fianco, sollevando rami, foglie e pietrisco.

Il turbinio che aveva avvolto lo Spettro si dissolse ed Emma si afflosciò, incosciente.

I capelli erano tornati ad essere biondi, a parte un’unica ciocca bianca che le ricadde sul volto.

 

 
Foresta di Oz.

 
Il tornado si era portato via sia Ruby che Robin Hood e aveva spedito Knubbin gambe all’aria sul prato, anche se il pentacolo che aveva preparato era riuscito a contenerlo.

Mulan si chiese a quale ricordo avessero rinunciato per attivare l’incantesimo. Si chiese dove fossero andati. Ruby le aveva parlato del suo mondo più di una volta e a lei pareva assurdo, pieno di cose che non avrebbe mai capito. La cosa che la incuriosiva di più erano quelli che Ruby chiamava film. Anche Neal gliene aveva parlato.

“Mi hanno detto che esiste una storia su di me. Un film...”

“Oh, sì. Esiste. È molto carino.”, aveva risposto Ruby.

“Quindi sono in una storia...?”

“Ed è anche molto famosa.” Ruby aveva cercato di farle capire che cosa fosse un film e anche cosa fosse un cartone animato. “Racconta la tua vita.”

“E come la racconta?”

Glielo aveva detto, a grandi linee.

“Come fanno a sapere tutte queste cose? Chi gliele ha raccontate?”

“Esiste una leggenda su di te.”

Quello che Mulan aveva capito era che, non solo esisteva una leggenda su di lei, ma era esistito anche un uomo di nome Walt Disney che aveva narrato un sacco di storie come la sua. L’Autore. Il vecchio Autore, quello che aveva preceduto Isaac, un tizio che ora se ne stava rinchiuso in un manicomio.

“Cos’è un manicomio?”, aveva domandato Mulan, confusa.

Il mondo in cui era stata spedita Zelena era lo stesso mondo in cui era capitata Ruby anni prima?

Le sue riflessioni furono interrotte da qualcosa di gelido che le bagnava la faccia, scivolandole sulle guance. Pensò che fosse pioggia. L’aria si era fatta improvvisamente gelida. Poi guardò la propria mano appoggiata all’elsa della spada e coperta dal guanto di maglia.

Neve.

Piccoli fiocchi di neve.

- Sta nevicando davvero. – commentò Piccolo John, aprendo i palmi e osservando i fiocchi che si posavano sulla pelle callosa. – Non è inverno. È troppo presto. Com’è possibile che stia nevicando?

 

 
Oltretomba.

 
Marian sobbalzò udendo quello che le parve un grido così pieno di dolore da superare la distanza.

Invece, alzando la testa, vide solo un enorme tromba d’aria che attraversava il cimitero di Storybrooke. Il vento le scompigliò i capelli. Fiyero la prese per un braccio e la condusse al riparo dietro una tomba più grande, mentre la bambina di Zelena scoppiava a piangere.

Durò pochi secondi. Poi il vento si placò e il suono roboante del tornado scomparve.

Marian diede la piccola a Fiyero, che la prese goffamente, timoroso di farle del male. Marian incoccò una freccia e si sporse da dietro la tomba.

Silenzio. La via era sgombra.

Marian uscì allo scoperto. Fiyero la seguì, stringendo il coltello nella mano destra mentre con l’altro braccio sosteneva la bambina.

Si inoltrarono nel cimitero, tra tombe rovesciate e tombe spezzate. Passarono accanto a quella di Emma, sormontata dal cigno con le ali spiegate.

- Era solo una tempesta... infernale? – sussurrò Fiyero.

- Non lo so. Ma se è così è durata molto poco.

Fiyero fu il primo a notare il fagotto rosso vicino ad una tomba ricoperta di foglie ed erba. Il fagotto aveva anche due piedi che calzavano un paio di stivali. Il rosso del mantello gli ricordò...

Rinfoderò il pugnale ed accorse, seguito da Marian.

Ruby giaceva a terra, priva di sensi e in forma umana. Fiyero le tastò il collo per controllare il battito e lo trovò.

- Robin? – La voce di Marian sembrava quella di una persona in stato confusionale. Si chinò accanto a lui e lo scosse.

Lui aprì piano gli occhi. Impiegò qualche istante per riconoscere il volto che occupava il suo campo visivo.

Batté le palpebre un paio di volte.

- Marian?


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Capitolo 11
*** 11. ***


11

 

“Cercare e sapere riconoscere chi o cosa,
in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare e dargli spazio”

[Italo Calvino, Le città invisibili]

 

 

 

 Oltretomba.

 

- Non ti rendi conto di quello che hai fatto! – esclamò Ade. La sua faccia era una maschera di sgomento. – Hai consegnato la tua bambina alla donna che più odi. Che cosa ti è saltato in mente? Io l’avrei protetta!

- Preferisco pensarla con mia sorella che in tuo potere o sola in quella casa! – replicò Zelena. La sua voce era diventata stridula e riecheggiò lungo le pareti nere della caverna, il covo del Signore degli Inferi.

- Io ho già un bambino per l’incantesimo, Zelena. Ho il figlio di Belle e dell’Oscuro.

- Quel bambino deve ancora nascere.

- Ho molta pazienza. Sono millenni che aspetto. Posso attendere un altro po’.

Il cuore le funzionava a tonfi irregolari, gli occhi le bruciavano. E stava bruciando anche qualcos’altro, qualcosa sul polso. Si era ferita quando aveva invocato Era tramite le acque del Flegetonte? Non che la cosa avesse più importanza, ormai. Sua figlia era al sicuro. Quello contava davvero. – Sappi che ti impedirò di fare qualsiasi cosa tu abbia in mente per riprendertela. Posso fermarti, se voglio. Lo hai visto poco fa.

- Sai che ora anche il padre di tua figlia è qui? Anche se riuscissi ad andartene e ci riuscissero anche loro... non la rivedresti mai più!

Sentì due lacrime che le rigavano le guance e pensò che fossero dovute più alla stanchezza che al dolore.  

- Come hai fatto a comunicare con tua sorella?

- Ho usato la magia.

- Hai usato il Flegetonte. Solo io posso comunicare, usando il Flegetonte.

Zelena non rispose.

Ade le andò incontro, attraversando di fretta la piattaforma al centro della caverna, quasi gettandosi e, prima che lei potesse fermarlo, le aveva afferrato il braccio destro e l’aveva costretta a distenderlo, sollevandole anche la manica della camicia.

Un marchio rosso fiammeggiava sulla sua pelle. Una piuma di pavone.

Il marchio di Era.

 

 
Malefica aveva aiutato Regina a riportare Emma a casa. Lily aveva recuperato la forma umana e la madre l’aveva trasportata sul suo dorso insieme alla Salvatrice svenuta e a Regina, che si era tenuta aggrappata al robusto collo del drago.

L’appartamento degli Azzurri era sottosopra per l’arrivo di Ruby e Robin. Per lei fu un sollievo vederlo con la bambina in braccio, ma quando la strinse tra le braccia, Regina rimase rigida.

- Nell’Oltretomba? – stava dicendo Ruby. - Knubbin ha usato un incantesimo di localizzazione per portarci da Zelena.

- Anche Zelena è quaggiù. – disse Fiyero, seduto su una vecchia cassapanca accanto al letto.

- Sei venuta qui per cercare Zelena? Posso capire che ci sia venuto Robin, ma... tu perché sei venuta? – domandò David.

- Che cosa ha combinato mia sorella stavolta? – intervenne Regina, entrando nella stanza degli Azzurri.

Ruby disse loro di Dorothy e raccontò tutto quello che era accaduto ad Oz da quando vi aveva messo piede con Mulan, in cerca del branco. Raccontò dell’attacco al villaggio del Quadling, che si era rivelato opera della Strega dell’Est, il tradimento, la morte di Locasta. A Mary Margaret sembrò che stesse omettendo qualcosa di importante.

- Dorothy è andata ad affrontare Zelena senza dirci niente ed è scomparsa. L’abbiamo cercata ovunque. - Ruby aveva un’aria afflitta e si rigirava tra le mani il pezzo di stoffa a quadretti che era appartenuto alla paladina di Oz. Si morse il labbro. – Niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi mai andata ad Oz. Un’altra vita è in pericolo a causa mia.

- Ora non dire sciocchezze. Non è colpa tua e lo sai. – sentenziò Mary Margaret.

“Quando non hai un’idea migliore, dai sempre la colpa a te stessa?”, le aveva detto Mulan, mentre seguivano Dorothy nella foresta, dopo che Zelena aveva preso Toto. E continuava a sentir ripetere le stesse parole nella testa, si riciclavano come una registrazione che gira a vuoto.

- Troveremo Dorothy. – concluse Mary Margaret.

Ruby ricambiò il suo sguardo sicuro con un’espressione che era tutta speranza e candore.

- Zelena è nelle mani di Ade. Sarà molto difficile trovarla, se non arriviamo a Zelena. A meno che non riesca a comunicare di nuovo con noi. – disse Regina.

- Il vostro pessimismo non ci aiuta, con il dovuto rispetto. – commentò il principe Fiyero.

Il suo pessimismo veniva dal fatto che aveva appena affrontato uno Spettro, che quello Spettro era nel corpo di Emma e che lei era stata costretta a fare qualcosa di veramente spiacevole per liberarla. Le aveva piantato uno dei pugnali di quel tizio nel cuore. Lo Spettro si era momentaneamente dissolto, ma Regina non aveva usato l’acqua del Fiume delle Anime Perdute per distruggerlo. Mai e poi mai avrebbe sacrificato Emma.

Uscì da quella stanza, mentre gli altri ancora discutevano su come trovare la ragazza di Oz e andò a controllare che Emma stesse meglio.

Non la trovò sdraiata sul divano dove l’avevano lasciata. La coperta era gettata da una parte.

Regina vide che la porta della stanza dove avevano sistemato Lily era socchiusa.

- Non hai un così brutto aspetto per essere una che è sopravvissuta ad una possessione. – stava dicendo la figlia di Malefica.

- In effetti, tu hai un aspetto peggiore.

- Beh, grazie.

Sapeva che non avrebbe dovuto mettersi ad origliare, ma semplicemente non poté farne a meno. Sbirciò dentro la stanza e vide Emma seduta accanto al letto, di spalle.

- Ti dona. – notò Lily, allungando una mano per sfiorarle la ciocca bianca, l’unica cosa che le era rimasta dello Spettro. – So che forse non dovrei dirlo...

- Non importa.

Ci fu silenzio e Regina ebbe l’impressione che Emma si stesse preparando per dire qualcosa di grosso. Qualcosa di molto serio. Persino Lily attese, la schiena appoggiata ad una pila di cuscini. Era ancora pallida e aveva gli occhi arrossati.

- Lily, ci ho pensato... – iniziò Emma.

- A cosa?

- Dovremmo... dobbiamo annullare l’incantesimo dell’Apprendista.

Non ottenne risposta.

Regina non credeva alle sue orecchie.

- Questo dono... questa capacità che ci permette di vedere l’una attraverso gli occhi dell’altra... è troppo pericolosa.

Lily seguitò a non rispondere.

- Non sappiamo ancora come controllarlo, ma non è solo questo. Ci toglie le forze se lo usiamo a lungo. E noi... lo usiamo quasi senza rendercene conto, a volte. Lo usiamo perché... perché è una cosa naturale. Ma si rivolta contro di noi. Hai visto cos’è successo con lo Spettro. Lui... loro... risucchiavano la mia energia e facevano del male anche a te.

Lily non disse niente.

A Regina la conversazione sembrava perfettamente sensata, ma come se si svolgesse in lontananza. Più vicino c’era la sua collera, quasi a stringerle il collo con le sue braccia roventi. Una collera immotivata, una collera assurda perché a causarla non era stato ciò che Emma aveva proposto a Lily, ma il suo tono.

“Lo usiamo perché... perché è una cosa naturale. Ma si rivolta contro di noi.”

La sua voce era determinata, ma dolce. Come se le stesse facendo una carezza. Non voleva turbare l’amica, ma al tempo stesso voleva che capisse che quello che le stava dicendo era importante.

- Stai cercando di mettermi a disagio con la cura del silenzio? – chiese Emma. Ma ora era evidentemente a disagio. La sua sicurezza iniziava a vacillare. – Guarda che io...

- Merlino mi ha detto che è possibile. – rispose, invece, Lily. I suoi occhi non fissavano Emma. Erano persi dietro a qualche vecchio pensiero. – A Camelot... mi ha detto che è possibile invertire l’incantesimo. Ma tu dovresti riprenderti il tuo potenziale oscuro.

- Beh, d’accordo. È il mio potenziale. - Distese la mano per appoggiarla sopra quella di Lily. Un altro di quei gesti che faceva con naturalezza, senza rendersene conto.

Con gli occhi della mente, Regina vide sé stessa entrare in quella camera, coprire la distanza che la separava dalle due, spingere la sedia e rovesciare Emma sul pavimento. Vide persino gli occhi di Lily spalancarsi per lo stupore. Una visione estremamente realistica e assurda, come la sua rabbia.

- Merlino mi ha anche detto che è doloroso... che può...

“Può essere invertito. Non annullato. Le conseguenze sarebbero terribili.”

“Se anche riuscissi a sradicare quel potenziale oscuro, potrei farti del male. Sarebbe estremamente doloroso. Non credo che tu voglia questo.”

- So cosa vuol dire portarsi dentro questa oscurità, Emma. E Merlino aveva ragione. È una parte di me, da tantissimo tempo.

Regina decise che aveva sentito abbastanza. Si allontanò con cautela.

“E noi... lo usiamo quasi senza rendercene conto, a volte. Lo usiamo perché... perché è una cosa naturale. Ma si rivolta contro di noi.”

Finì dritta addosso a Malefica.

- Ah, Regina. Eccoti qui. – disse lei. – Devo parlarti. Ora. Abbiamo un problema.

 

 
Foresta di Oz.

 
- Robin Hood e Little John van per la foresta... ed ognuno con l’altro ride e scherza come vuol. Son felici del successo delle loro gesta... Urca, urca! Tirulero! Oggi splende il sol!

Non splendeva nessun sole e Robin Hood era sparito, risucchiato dal vortice che lo aveva portato ovunque si trovasse Zelena, insieme a Ruby.

Mulan arrancò in mezzo alla neve, che le arrivava ai polpacci. La bufera che quella notte aveva quasi sradicato le tende dell’accampamento si era placata, ma cadeva ancora qualche fiocco. Oz dormiva sotto un pesante manto bianco.

Faceva terribilmente freddo.

- Non pensavano ai rischi che correvan nel gettarsi in acqua per trovare ristor...

Si era buttata sulle spalle un pesante mantello con il collo di pelliccia e si dirigeva verso la tenda del mago Knubbin. Non aveva idea del perché strepitasse tanto per vederla.

- E che un subdolo Sceriffo e i suoi stupidi scagnozzi erano lì decisi a farli fuor!

Chiunque stesse cantando tacque all’improvviso. Il campo precipitò nel silenzio.

Mulan arrivò alla tenda riservata a Knubbin. Sentiva lo scalpiccio di quello strano individuo e i suoi borbottii da fuori. Stranamente, c’erano due uomini di Robin davanti all’ingresso, infagottati dalla testa ai piedi.

- Tesorino! Fortuna che siete qui. Sembrano tutti fuori di senno, oggi! Che sarà mai un po’ di neve? Non l’hanno mai vista, forse?

Mulan stava per rispondergli che il problema non era la neve, ma il fatto che l’inverno fosse arrivato così presto e da un giorno all’altro. Stava per dirgli che forse quello non era un inverno normale, ma il risultato di qualche magia. Forse era opera di Nessarose, la Strega dell’Est. Ma desistette. - Perché mi avete fatto chiamare? Che cosa succede?

Il mago aveva un aspetto terribile. I capelli argentei erano ancora più scompigliati del solito, sotto agli occhi aveva borse violacee e aveva una macchia rossa al centro della fronte, come se si fosse ripetutamente preso a sberle in quel punto.

- Ho commesso un terribile errore, tesorino! – esclamò. – Un terribile errore! Beh, comprensibile, certo, ma comunque avrei dovuto pensarci prima! Ho fatto chiamare Glinda. Dobbiamo andare al palazzo. So come tirarli fuori.

- Glinda? – Mulan non aveva più visto la Strega del Sud da quando il corpo di Locasta era stato bruciato insieme a quello degli altri caduti. La Strega dell’Est aveva tradito le sorelle e poi era scomparsa nel nulla. Glinda era prostrata dal senso di colpa e dal dolore. Dubitava che sarebbe venuta. – E... tirare fuori chi?

- I prigionieri di Zelena! Sono stato uno stupido, tesorino. - Knubbin allargò le braccia. Il suo corvo, Heathcliff, lo guardava dal trespolo su cui era appollaiato, con la testa incassata nelle piume. – Stanotte non riuscivo proprio a prendere sonno. Quando non riesco a risolvere un dilemma, non posso neppure dormire. Quindi mi sono scervellato per trovare la soluzione. E infine sono andato a trovare un paio di quelle guardie... quelle che non parlano se non invitati dalla Strega.

- Sono uomini di Zelena. Chi vi ha fatto entrare? Credevo fossero sorvegliati.

- Nessuno mi ha dato il permesso, in effetti. Ho chiesto gentilmente di vedere un paio di loro e quel ladro grassottello me l’ha impedito. Ma io avevo la polvere di papavero. Non molta, ma... credo stia ancora dormendo. Poco male. – Knubbin annuì, come se avesse avuto una delle idee più geniali della sua vita.

- Cosa avete fatto agli uomini di Zelena?

- Loro stanno bene. Beh, uno sarà un po’ tramortito, ma si riprenderà. Ho usato lo stesso incantesimo... no, non proprio lo stesso, uno molto simile... insomma, l’incantesimo che ho usato sullo specchio, per mostrarvi cos’era successo prima che irrompessimo nel palazzo. Avrei dovuto pensarci prima, ma è un incantesimo difficile. Usarlo su una persona... non l’avevo mai fatto, ecco.

- Avete guardato attraverso i suoi occhi?

- Qualche secondo. Ma mi è bastato. Le prigioni sotterranee esistono. C’è un incantesimo che le protegge. È un incantesimo complicato. Ho bisogno di un altro mago per abbatterlo.

- E i prigionieri di Zelena?

- Sono vivi. Lo erano pochi giorni fa... forse faremo in tempo, tesorino.

- E se Glinda non venisse? – In realtà Mulan pensava più a Ruby che a Glinda. Knubbin l’aveva spedita in qualche altro mondo e ora se ne usciva fuori con una soluzione al loro problema. Aveva voglia di afferrarlo per i capelli e scuoterlo con ferocia.

- Glinda verrà. – Knubbin si era fatto improvvisamente serio. – Ho mandato qualcuno da lei con un messaggio. Le ho fatto sapere che ho molto rispetto per il suo dolore, ma se non verrà qui a darmi una mano sarà responsabile della morte di altre persone, compresa la sua paladina preferita.

- L’avete minacciata?

- Non era una minaccia, tesorino. Non mi permetterei mai. - Il mago osservò il corvo sbattere le ali. Emise un gracchio. – Le ho detto solo la verità.

 

 
Oltretomba.

 
- Facciamo attenzione. Ade ha occhi ed orecchie ovunque. – disse Killian, guardandosi in giro come se si aspettasse di vederlo apparire da un momento all’altro.

- Dov’è questa... come l’avete chiamata? Cabina? – intervenne Marian.

- Beh, ha la forma di una cabina telefonica, ma ti aiuterà a comunicare con il mondo dei vivi. E con Roland. Dovremmo esserci, quasi. – rispose David. In realtà stava osservando Killian. Non si era fatto vivo per tutta la mattinata e quando era tornato aveva un’aria cupa e puzzava di rum. Aveva anche i capelli in disordine e i vestiti tutti stropicciati, come se fosse appena uscito da un lungo giro in lavatrice. E aveva evitato Emma.

Henry stava adocchiando la mappa che sua madre gli aveva dato.

- Cosa? – chiese Killian, accorgendosi che David lo stava fissando.

- No, sai... mi chiedevo se stessi bene.

La sua risposta fu molto evasiva. Rivolse lo sguardo altrove. - Perché non dovrei?

- Perché non hai un bell’aspetto.

Avrebbe potuto rispondere con una delle sue battute, ma non lo fece. Continuò a camminare, mugugnando qualcosa.

- Che sta succedendo? La fila è sempre così lunga? – domandò Marian, indicando un punto davanti a loro.

La cabina telefonica rossa era proprio davanti ad un vecchio emporio con la vetrina sbarrata da due travi di legno. Il vecchio telefono era montato all’interno. Quando David aveva fatto domande per capire come avrebbe potuto comunicare con Storybrooke e con suo figlio Neal, gli avevano indicato quel... metodo.

Solo che davanti alla cabina c’era un nutrito drappello di persone che brontolavano, contrariate. Un uomo stava cercando di sradicare uno dei pannelli di vetro opaco. Ne aveva già smontati due. Crudelia, stretta nella sua inseparabile pelliccia, osservava i lavori senza battere ciglio.

- Ehi! – gridò David, ma il venticello ormai freddo di promessa di pioggia gli strappò via le parole dalle labbra prima ancora che gli fossero uscite di bocca.

Nessuno si girò.

- Ehi, che cosa pensi di fare? – provò di nuovo David, rivolgendosi a Crudelia.

Lei gli regalò un’occhiata di sufficienza, aggrottando le sopracciglia. - Che cosa ti sembra che stia facendo, tesoro? Sono il sindaco e mi sto occupando di qualche miglioria urbana.

- Miglioria? – intervenne Marian. Usò un tono forte e chiaro che riteneva si impiegasse con le persone dure di comprendonio o in preda a qualche crisi isterica, anche se Crudelia sembrava lucidissima e sfoggiava una calma disarmante. – E queste persone come faranno a comunicare con i loro cari?

- Vuoi dire come farà il Principe Azzurro a mettere a letto il suo dolce bambino raccontando qualche terribile favola della buonanotte? – domandò Crudelia. – Suppongo che non mi riguardi. Non mi piacciono i bambini.

- Lo fai perché non voglio riportarti in vita, vero? – disse Henry.

Per qualche istante, gli occhi azzurri e gelidi come ghiaccio di Crudelia rimasero fissi su Marian. Balenò un fulmine. Poi gli occhi si spostarono su di lui. – Ma certo che no, Henry, caro. A dire il vero, non sono io che ho ordinato la rimozione della cabina. Ho solo appoggiato l’idea.

- Ade. – concluse David.

Altri lampi nel cielo, il ringhio viola e bianco di una potente scarica elettrica. Le persone intorno alla cabina alzarono le teste come se non fossero molto sicuri di dove si trovassero. Alcuni se la diedero a gambe alla spicciolata.

- Vi conviene sgombrare il campo, eroi. – prese a dire Crudelia. – Tra poco pioverà e non vorreste mai essere fuori casa quando...

Allora Marian tentò una sortita contro di lei, come un animale selvatico rimasto tranquillo solo per riprendere le forze, in attesa del momento opportuno. Crudelia barcollò, colta alla sprovvista. Marian le mollò un cazzotto così forte che la mandò gambe all’aria in mezzo alla strada. L’uomo che si stava occupando della rimozione della cabina si voltò di scatto e cercò di stendere David col pugno chiuso, ma lui si scostò appena in tempo e rispose afferrandogli il braccio e torcendoglielo dietro la schiena. Altre persone fuggirono.

Ancora un bagliore. Una nuova esplosione di tuono che sembrò espandersi per tutto il cielo rosso, mentre Marian dava un’altra vigorosa spinta a Crudelia e poi le sferrava un calcio dritto in faccia. Lo faceva come se non fosse totalmente presente, come se stesse galleggiando in aria e guardasse sé stessa menare un colpo dietro l’altro ad una donna morta che voleva impedirle di parlare con suo figlio. Lo faceva pensando alle arpie che avevano attaccato lei e Fiyero e che avevano minacciato Roland, augurandogli tanti incubi.

Un freddo gocciolone di pioggia si stampò sul collo di David. Gridò.

Il gocciolone era rovente. Gli bruciò un lembo di pelle.

Killian avvertì un orribile odore di carne bruciata e spinse l’amico dentro la cabina vuota. – Al riparo! Al riparo, presto!

Crudelia imprecò, alzandosi da terra, ma quando un’altra goccia precipitò sulla sua pelliccia, bruciacchiando l’orlo della manica, si affrettò a tagliare la corda.

Marian prese Henry e si rifugiarono dentro all’emporio più vicino.

Killian si ritrovò con il naso schiacciato contro la guancia di David e il gomito di lui nello stomaco. – Diamine, odio questo posto. Vedi di fare presto, amico.

- Come?

- Eravamo venuti qui perché tu potessi mandare un messaggio al bambino, giusto? Fallo adesso. Non so quanto durerà questa... diavoleria. Ma quando smetterà Crudelia tornerà e si occuperà della cabina.

David non aveva la minima idea di come avrebbe potuto dire al figlio ciò che doveva dirgli, né aveva idea di come si sarebbe manifestato quel messaggio nel mondo dei vivi. Temeva che non funzionasse affatto. Nonostante ciò, sollevò la cornetta, portandosela all’orecchio.

 

 
Regina girò la testa in direzione della finestra, quando udì un picchiettare sommesso contro il vetro.

Cadde uno spruzzo di pioggia che tamburellò contro i vetri e sfrigolò sul davanzale. Fili di fumo si levarono dalle ali nere del corvo.

- Ma che diamine...?

Il corvo lanciò un gracchio stizzito e Regina si decise ad aprire la finestra. L’uccello volò dentro e atterrò malamente sul pavimento. Richiuse immediatamente, comprendendo fin troppo bene che quella non era una tempesta normale.

Il corvo recava un messaggio legato alla zampa.

Regina si affrettò a srotolare la pergamena ingiallita. Poche righe. Un messaggio molto stringato.

Zelena.

Ancora non le era chiaro come facesse a comunicare dal luogo in cui si trovava, ma almeno ora aveva un’idea di quello che era accaduto a Dorothy.

Dorothy. È ad Oz, nelle mie prigioni. Incantesimo del sonno. Temo di non poter rimediare.

Le scarpette d’argento sono qui.

Scoppiò il temporale e l’acqua scese in scrosci intensi, fumanti; i fulmini si rincorrevano nel cielo, il tuono schioccava.

Incantesimo del sonno. Temo di non poter rimediare.

- Sorella. – sibilò Regina. – Non hai idea di quanto non ti sopporti.

Il messaggio si dissolse e così anche il corvo. Rimasero solo due sbuffi di vapore verde.

 

 
- Ha preso spunto da me. – disse Regina, roteando gli occhi.

- Beh, deve svegliarla. Deve... deve... – iniziò a balbettare Ruby, ma sembrava proprio che le mancassero le forze per proseguire. Il suo stato d’animo era vicino al panico. Il cuore le batteva forte e serrato nel petto.

Emma si guardò intorno, nel soggiorno oscurato dal temporale, come alla ricerca di una soluzione. – C’è un’unica cosa che può svegliarla.  

- Il bacio del vero amore. – fece Mary Margaret, dubbiosa. – Ruby?

- Non ha famiglia. Ad Oz era sola. E non ha... non ha un amore.

- Sei sicura che non ci sia proprio nessuno in grado di aiutarla? – domandò Regina. Cercava di concentrarsi sul problema, ma le riusciva difficile. Ed era per via di Emma. Continuava a sentire la sua conversazione con Lily; voleva smettere di pensarci e più si sforzava più le risultava impossibile togliersela dalla testa.

“Dobbiamo annullare l’incantesimo dell’Apprendista.”

“Non sappiamo ancora come controllarlo, ma non è solo questo. Ci toglie le forze se lo usiamo a lungo. E noi... lo usiamo quasi senza rendercene conto, a volte. Lo usiamo perché... perché è una cosa naturale.”

- Toto. – rispose Ruby.

- Toto? – Mary Margaret non capiva.

- Il suo cane.

Regina abbassò lo sguardo sulle proprie mani e poi tornò a guardare Ruby. Se il giorno non avesse assunto i connotati surreali di un incubo ne avrebbe riso. Henry era là fuori. Aveva voluto seguire David, Killian e Marian, usciti in cerca del modo per comunicare con il mondo dei vivi. Suo figlio... era là fuori e lei non aveva idea di dove fosse. Cercava di non pensare al fatto che quella pioggia avrebbe potuto coglierlo per strada e fargli del male. - Tu vuoi che un cane baci Dorothy per svegliarla?

Emma le lanciò un’occhiataccia.

- Beh, io non ho un’idea migliore, d’accordo? - gridò Ruby. - Quel cane è importante per lei. Gliel’ha regalato...

S’interruppe. Mary Margaret le appoggiò una mano sul braccio e tentò di parlarne con un tono di voce pacato.

- Zia Em. – disse Ruby, più che altro a sé stessa. Aveva avuto un’illuminazione e si diede dell’idiota per non averci pensato prima. - Zia Em! Lei può aiutarla.

- Dov’è questa zia Em? Ad Oz? – domandò Mary Margaret.

- No, è morta.

- E allora potrebbe essere qui. Dobbiamo solo trovarla. – disse Emma.

- Potrebbe essere qui, ma se usciamo là fuori credo che non arriveremo vivi... ovunque lei sia. – osservò Regina. – Questa non è una tempesta comune. Se avessimo le scarpette potremmo...

- Anche le scarpette sono qui. – Il frastuono che rintronò il cielo in quel momento coprì in parte la voce del principe Fiyero, che sostava con la mano sul montante della balaustrata. Nell’altra reggeva le scarpette d’argento.

- Come avete fatto a prenderle? – domandò Regina.

- Quando sono stato a casa di Zelena... a recuperare la bambina. Le ho viste e ho pensato fosse meglio portarle via, prima che venisse qualcun altro a prenderle. – Scese e le posò sul tavolo della cucina.

- Con queste possiamo andare dove vogliamo. – disse Ruby.

 

 
Foresta di Oz.

 
Mulan sbatté la tazza di tè sul tavolo con forza, rovesciando parte del contenuto. “Non ci dovresti andare!”

“Mulan, mettiti seduta.”, la implorò sua madre.

Lei la ignorò. “Ci sono tanti giovani a difendere l’Impero!”

“È un onore proteggere il mio paese e la mia famiglia.”, rispose suo padre, con un tono così calmo e rassegnato che Mulan si infuriò ancora di più.

Da quando il messaggero dell’Imperatore aveva messo piede al villaggio per annunciare l’invasione degli Unni guidati da Shan Yu, l’atmosfera si era fatta densa, pesante, piena di presagi di morte. Suo padre era stato richiamato per combattere e, per quanto la sua statura e il suo portamento fossero assolutamente dignitosi mentre camminava verso il messaggero per raccogliere la pergamena che lo invitava a presentarsi al campo di addestramento, tutti avevano visto come trascinava la gamba destra. 

“Allora morirai per onore?”

“Morirò facendo ciò che è giusto, Mulan.”

“Ma se...”

“Io so qual è il mio posto!”, la interruppe suo padre, alzando la voce. “È ora che impari qual è il tuo!”

Mulan sollevò le palpebre, una mano appoggiata all’elsa della spada.

- Tutti ai vostri posti! Siamo pronti! – disse Knubbin, appoggiando le mani al muro di pietra che nascondeva le prigioni di Zelena, nei sotterranei del suo palazzo.

Glinda appoggiò anche le sue contro la parete. La Strega del Sud appariva più rinfrancata rispetto all’ultima volta che Mulan l’aveva vista, dopo il tradimento di Nessarose e la morte di Locasta. Il messaggio che Knubbin le aveva recapitato doveva essere molto convincente, al punto tale da spingere Glinda ad uscire dal Palazzo della Sorellanza, nel quale era rinchiusa da giorni.

Il corridoio buio alle loro spalle era illuminato solo da qualche fiaccola, tenuta da John e da due uomini dell’Allegra Brigata.

“Io so qual è il mio posto!”, la interruppe suo padre, alzando la voce. “È ora che impari qual è il tuo!”

Mulan non capiva perché avesse pensato a suo padre proprio in quel momento. L’ultima notte era stata popolata da sogni distorti, che non erano neppure veri sogni ma ricordi. Era da tanto che non le capitava.

Intorno alle mani di Knubbin e Glinda avevano cominciato a formarsi aure color grigio-azzurro. Poi le aure formarono complicati disegni esoterici sulla pietra. Sulle prime a Mulan parvero lettere scritte sulla roccia, poi frasi scritte nella nebbia, che pian piano si allungavano, si dipartivano lungo la parete, illuminandola, rendendola traslucida.

La parete iniziò a pulsare. Le linee divennero crepe, che si allargavano sempre di più.

Mulan ebbe giusto il tempo di coprirsi gli occhi con un braccio. Infine vi fu un’esplosione di luce accecante.

- Ah! Che diavolo succede? – disse John.

Mulan batté le palpebre. Knubbin era caduto per terra e il mantello gli si era arrotolato intorno alla testa. Il suo corvo gracchiava e svolazzava, stordito. Glinda, piegata su un ginocchio, col fiato corto, si alzò e guardò il tunnel oscuro che si era aperto quando la parete era scomparsa. Non era crollata, ma semplicemente scomparsa. Un’illusione molto realistica.

Dal buio vennero dei lamenti. Gemiti e richieste di aiuto. Voci umane.

- Sono vivi. – mormorò la Strega del Sud. Con la magia, formò un globo di luce bianca e si inoltrò nel passaggio, senza attenderli.

Mulan estrasse la propria spada e la seguì.

 

 
Oltretomba.

 
Auntie era la concorrenza.

Così avevano detto le due cameriere spaventatissime del Granny’s, quando Regina aveva fatto loro qualche domanda su Emily Brown, la zia di Dorothy.

All’inizio si erano rifiutate di rispondere. Se ne stavano rintanate dietro al bancone e, quando avevano visto Emma, si erano messe a strepitare, pensando fosse ancora posseduta dallo Spettro. Ci era voluta tutta la buona volontà di Mary Margaret e, infine, anche qualche minaccia di Ruby, pronta a togliersi il mantello rosso, prima che le due ragazze si decidessero a fornire le informazioni di cui avevano bisogno.

- Dov’è la vostra padrona? – aveva chiesto Regina, non vedendo la Strega Cieca da nessuna parte.

- Morta.

- Qui siete tutti morti. Intendi dire che è... passata oltre?

- No. Non oltre. Peggio. - Aveva guardato Emma, che ricordava benissimo tutte le azioni commesse dallo Spettro.

Ma il peggio non era affatto arrivato. Non ancora.

Il peggio le aspettava da Auntie.

La prima cosa di cui Regina si accorse quando piombarono nella tavola calda fu che Emma le stava stringendo la mano. Si tenevano tutte per mano, perché le scarpette potessero trasportarle da un luogo all’altro, ma le dita di Emma erano intrecciate alle sue. E la mano che Emma stringeva era la mano che aveva stretto il pugnale che Regina aveva usato contro lo Spettro.

Si affrettò a districare le dita.

La seconda cosa che notò fu l’uomo che sedeva in un angolo, piegato in avanti, con gli occhi sbarrati e un piatto di pasticcio di maccheroni in bilico sulle ginocchia ossute. Altri clienti erano schiacciati contro la parete in fondo al locale oppure se ne stavano seduti sugli sgabelli davanti al bancone. Alcune sedie erano state ribaltate. Le luci traballavano, ronzando.

E poi c’era Ade.

Ade chiuso in un elegantissimo completo nero, che asciugava il pavimento con un vecchio straccio. La lucida scarpa nera andava su e giù, mentre il suo volto si apriva in un sorriso.

Asciuga il pavimento?, pensò Regina, sgomenta.

- Che cos’hai fatto?! – gridò Ruby, fissando la pozza d’acqua... che una volta non era affatto una pozza d’acqua. Era ciò che rimaneva di Emily Brown.

Una vecchia canzone usciva da una radio posata accanto alla cassa. E rendeva la scena ancora più assurda e orribile.

 

Somewhere, over the rainbow, way up high

There’s a land that I heard of, once in a lullaby

Somewhere, over the rainbow, skies are blue

And the dreams that you dare to dream really do come true...

 

- Non è ovvio? - Raccolse lo straccio e poi lo strizzò, lasciando fluire l’acqua in un barattolo di vetro. – Voi volevate aiutarla... e lei avrebbe aiutato voi.

- E avrebbe aiutato Dorothy, che guarda caso è anche l’acerrima nemica di Zelena. – sibilò Regina, puntandogli un dito contro. - Ti ha chiesto lei di farlo?

- Oh, fidati, lei non sa che mi trovo qui. – rispose Ade, chiudendo il barattolo. – Zelena ha un problema ben più grosso a cui pensare, qualcosa che nemmeno io posso risolvere. Ma in effetti... lo faccio anche per lei.

Regina capì che avrebbe colpito Ade. Capì che gli avrebbe rovinato il suo bel vestito e gli avrebbe scassato quel sorriso gongolante, magari gli avrebbe persino conficcato una scheggia di vetro in un occhio, anche se non sarebbe servito a niente. Perché adesso, sorprendendo persino sé stessa, capì di avere paura persino per sua sorella, che era sempre in balia di un essere simile. Oh. lo avrebbe fatto, niente al mondo avrebbe potuto impedirglielo, se non che all’ultimo istante qualcosa... qualcuno la ostacolò.

Le dita tese di Ade emanavano bagliori azzurrati. Probabilmente il Signore degli Inferi aspettava che Regina si facesse avanti, ma Emma gli coprì la visuale. Si mise fra i due, incurante del fatto che la magia del Dio poteva farle del male, anche se era già morta.

- Hai così paura di perdere questa battaglia da usare questi mezzucci, vero? – domandò Emma, furente.

Ruby fece per togliersi il mantello, ma Mary Margaret la fermò, afferrandola per un polso.

- Tu dici, Salvatrice? – Ade era estremamente divertito. – Zia Em non sarebbe molto d’accordo.

- Non finisce qui. – lo ammonì Emma, abbassando la voce quasi in un bisbiglio.

- No, hai ragione. – rispose Ade, in tono accondiscendente. Prese il barattolo e lo sollevò, in modo che tutti potessero vederlo. – Popolo dell’Oltretomba! Aprite bene le orecchie... lo vedete questo?

Nessuno aprì bocca.

- Questo è quello che accadrà a chiunque deciderà di aiutare questi... eroi. – continuò il Signore degli Inferi. Parlava lentamente, per inculcare ogni singola parola nelle teste dei presenti. – Succederà a voi e succederà a tutte le persone a cui tenete. Le vostre mogli, i vostri figli... un po’ di acqua del Fiume delle Anime e non sarete altro che gusci vuoti. Allora... c’è qualcuno che vuole ancora dare loro una mano?

Ovviamente le teste girate verso di loro si voltarono di scatto, concentrandosi sui piatti. L’uomo con i maccheroni in grembo ricominciò a mangiare, infilandosi in bocca una corposa forchettata del pasticcio di zia Em, senza pensare troppo al fatto che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe assaggiato un piatto del genere, perché la proprietaria non c’era più. Era andata. Non oltre, non nel posto migliore dove speravano di andare tutti. Era acqua sporca in un barattolo di vetro.

- Passate parola, amici. Vale per tutti. – concluse Ade. Si girò di nuovo verso Emma. – Difficile essere la Salvatrice quando nessuno vuole il tuo aiuto, vero? O quando sei già morta e ad un passo dal Tartaro.

 

Somewhere, over the rainbow, bluebirds fly

If birds fly over the rainbow, why, then, oh why can’t I?

 

Ade scomparve tra lampi azzurri e bianchi, portandosi via zia Em.

I clienti dell’Auntie li fissarono come se i cattivi fossero loro e non la divinità che li aveva appena minacciati.

 

If happy little bluebirds fly, beyond the rainbow,

Why, oh why can’t I?

 

Ruby li ignorò e si diresse verso il bancone. Alcuni si fecero da parte, notando il lampo selvaggio nei grandi occhi verdi e la bocca distorta in un ringhio.

Colpì la radio. La colpì più e più volte. La colpì senza curarsi delle nocche scorticate.

La colpì fino a quando Mary Margaret non riuscì a bloccarla e a trascinarla sul retro.

 

 
Foresta di Oz.

 
Le prime celle erano vuote oppure occupate da ciò che restava dei prigionieri. Vecchi stracci, ossa, teschi che li fissavano con le loro orbite nere e vuote.

Le celle in fondo ospitavano uomini ancora vivi. Alcuni erano in condizioni pessime, con i vestiti che penzolavano, i volti scarni e totalmente incapaci di reggersi in piedi da soli. John capì presto che avrebbero avuto bisogno di aiuto per portarli fuori. Erano almeno una quindicina e loro erano solo in sei.

- Direi che c’è anche bisogno di un bagno, eh? – aggiunse, coprendosi naso e bocca con il mantello.

- Siete venuti per ucciderci? – domandò un uomo, sporgendo la testa tra le sbarre.

- Nessuno è venuto ad uccidervi. La Strega dell’Ovest non vi darà più fastidio. Per ora.

Glinda non sembrava particolarmente toccata dalla puzza e usò i suoi poteri per aprire tutte le celle. Curò le ferite più superficiali, passando da un uomo all’altro come se facesse quelle cose ogni giorno.

Mulan strappò la torcia dalle mani di John e la puntò sul viso del giovane che aveva parlato. Si era trascinato fuori dalla cella, con i capelli lunghi che gli spiovevano sugli occhi e ai lati del viso. Sollevò una mano quando la luce lo colpì.

- Ehi, fate attenzione, soldato. – bofonchiò lui, strizzando le palpebre. – Non voglio diventare cieco.

Mulan scostò un po’ la torcia e l’uomo si strofinò gli occhi, cercando di metterla a fuoco. Fu sorpreso di vedere ciò che vide.

- Ah. Ma voi siete... siete una donna.

- Sì. E voi chi siete?

- Capitano Li Shang. – Riuscì a sorridere, nonostante la debolezza. I suoi occhi erano neri e a mandorla, la pelle olivastra era segnata da graffi e abrasioni e il volto ricoperto dalla barba nera era scavato, ma aveva ancora un’aria forte e risoluta. – Fa piacere vedere facce simili alla mia. Fa piacere vedere facce... che non siano verdi.

- Venite qui. – disse Glinda, che era andata avanti a controllare le altre celle.

Qualcosa, nella voce della Strega del Sud, indusse Mulan a muoversi rapidamente. Già si sentiva le gambe molli come gelatina. Già si stava chiedendo come avrebbe fatto a dire a Ruby che avevano trovato Dorothy e che Dorothy era stata uccisa da Zelena, sempre che non lo scoprisse da sola in qualsiasi mondo l’avesse spedita il tornado. Già si chiedeva come avrebbe potuto aiutarla e come avrebbe potuto farla pagare alla Strega Perfida...

“Mentre camminavamo... Dorothy mi ha chiesto che cosa stessi cercando. Ed io le ho detto che non lo sapevo.”

“E invece lo sai?”

“Credo... credo che stessi cercando qualcuno come lei.”

La cella di Dorothy non era neppure chiusa. La paladina di Oz giaceva su una lastra di roccia nera, con le mani in grembo come se stesse semplicemente riposando. Quando Mulan si avvicinò per tastarle il polso, si accorse che la temperatura del suo corpo era normale, anche se respirava appena e i battiti del suo cuore erano deboli. La chiamò un paio di volte, ma lei ovviamente non rispose.

Glinda tenne le mani sospese sopra il suo corpo per qualche momento. Mulan aveva l’impressione di sapere quale fosse il problema.

- L’incantesimo del sonno. – sentenziò la Strega del Sud, corrucciata.

- Aveva portato con sé un po’ della pozione che avevamo preparato per Zelena. – disse Mulan, sospirando. Guardò gli uomini di Robin fermi davanti alla cella. – Portiamola fuori di qui. Solo Ruby può aiutarla.

Nessuno chiese spiegazioni e due uomini entrarono per prendere Dorothy.

- Bene. – commentò Knubbin, grattandosi la testa. – Credo che ora possiate darmi un calcio nel sedere come ricompensa. Me lo darei da solo, se potessi.

Mulan non gli diede nessun calcio nel sedere. John, invece, sì.

 

 
Oltretomba.

 
Mary Margaret stringeva la mano di Ruby con delicatezza, mentre puliva le ferite sulle nocche. Lei la lasciava fare, ma guardava altrove, scura in volto.

Fuori, il temporale stava allentando la presa e la pioggia batteva contro i vetri in scrosci meno intensi.

- Non ho niente per medicarla. – disse Mary Margaret.

- Che cosa facciamo adesso? – domandò Ruby, sottraendo la mano.

Rispose senza alcuna esitazione, come se Ade non avesse appena minacciato tutti i clienti dell’Auntie. Come se non avesse versato ciò che restava di Emily Brown in un barattolo di vetro. - Quello che facciamo sempre. Sistemeremo tutto.

- E come lo sistemiamo? Nessuno può dare a Dorothy il bacio del vero amore.

- Sei sicura che non ci sia proprio nessuno, a parte... zia Em e un cane? – Mary Margaret sollevò un sopracciglio, fissando la sua migliore amica dritta negli occhi. – Perché io non credo che sia così.

Ruby sembrava molto confusa, disorientata, come se le sue parole la stessero cogliendo del tutto impreparata, ma Mary Margaret era propensa a credere che non fosse smarrita nemmeno per la metà di quel che voleva farle credere. E l’aveva colta un’intensa sensazione di deja vu. Stava rivivendo qualcosa che aveva già vissuto solo pochi giorni prima, nel bosco, con Regina.

“Ho cominciato a notarlo quando eravamo a Camelot. Ma forse l’ho notato anche prima e non riuscivo a capire che cosa stessi vedendo.”

“So che non approvi, quindi non dire niente.”

“Non ho mai detto che non approvo, Regina.”

- Chi le darà il bacio del vero amore? – chiese Ruby.

- Non lo so. – rispose Mary Margaret, facendo spallucce. – Forse... tu?

 

 
Tirava un venticello costante, ma quando il tuono crepitò ancora, Emma si accorse che era più distante. Si strinse nella giacca, rimuginando sulle parole di Ade.

“Difficile essere la Salvatrice quando nessuno vuole il tuo aiuto, vero? O quando sei già morta e ad un passo dal Tartaro.”

E poi...

“Somewhere, over the rainbow, bluebirds fly...”

Le era rimasta in testa quella dannata canzoncina, come qualcosa di enormemente inopportuno ma che non puoi fare a meno di ricordare.

- Non è sicuro stare qui. Dovremmo andarcene. – disse Regina, accostandosi a lei. – Dovremmo cercare Henry e gli altri.

- Sono sicura che Henry sta bene. – sentenziò Emma. – Lo saprei se gli fosse successo qualcosa.

- Lo sapresti?

- Anche tu lo sapresti. È nostro figlio. E mio padre lo avrà messo certamente al sicuro.

“If birds fly over the rainbow, why, then, oh why can’t I?”

Regina non replicò. Guardava Emma e pensava a quanto le sembrasse prostrata e stanca. Aveva gli occhi segnati, anche se brillavano come non mai. Brillavano di rabbia.

- Non preoccuparti di Ade. Hai ragione. Ha paura di perdere. È un Dio, ma ha paura di perdere. – disse Regina.

- E lui ha ragione su un’altra cosa. Non posso essere la Salvatrice, qui. Soprattutto ora che nessuno vorrà più aiutarci. O essere aiutato.

- Tu sei sempre la Salvatrice.

“If happy little bluebirds fly, beyond the rainbow...”

Emma si sforzò di sorridere. – Sono morta. Non sappiamo se tornerò indietro. E l’ultima cosa che ho fatto è stato distruggere.

- Quello era lo Spettro, non tu.

“...why, oh why can’t I?”

- Ma io sentivo tutto, Regina! – Scosse la testa, guardando la pioggia che batteva contro il marciapiede davanti all’Auntie. – Qualsiasi cosa... lo Spettro facesse, io la sentivo. Qualsiasi cosa pensasse, la sentivo. Non ero in grado di controllare niente. Non riuscivo... nemmeno a gridare. Se non l’avessi... fermato, avrebbe fatto del male a Lily e a Malefica e avrei potuto solo stare a guardare!

- Non avrei voluto... colpirti in quel modo. – disse Regina, incapace di trattenersi.

- Non stavi colpendo me. – si limitò a dire Emma.

- Sì, invece. Volevo fermarlo, ma stavo colpendo anche te. Era... il tuo corpo. E pensare che Tremotino mi ha persino suggerito di usare l’acqua del Fiume delle Anime per distruggerlo completamente.

- Avrei capito se l’avessi fatto.

Regina non credeva alle sue orecchie. Sbarrò gli occhi come se Emma avesse detto la peggiore delle assurdità. – Cosa?

- Avresti eliminato lo Spettro e non avrebbe più potuto fare del male a nessuno. Adesso... è ancora libero. Potrebbe prendere qualcun altro.

Era così risoluta che a Regina montò una collera terribile. Era ancora più in collera di pochi minuti prima. Ricordava di aver pensato di affrontare Ade, di fracassargli la faccia, ma quella era un altro tipo di collera.

Ed Emma si accorse di averla punta sul vivo. Regina colmò la distanza tra di loro sollevando i pugni come se stesse per chiuderle la bocca con uno di essi.

Emma indietreggiò di un passo e iniziò ad alzare un braccio per proteggersi.

Regina le piantò le mani ai lati del viso, bloccandole la testa con forza e costringendola a guardarla. Non le faceva male, ma la presa era salda. Eppure le sue labbra tremavano. Gli occhi nocciola si erano fatti lucidi e l’arpionarono, al punto che Emma non si sarebbe mossa nemmeno se Regina l’avesse lasciata andare.

- Non dirlo mai più. – disse Regina. La voce le uscì dalla gola sfiatata.

- Regina...

- Io non... non me ne andrò da qui senza di te. – La attirò ancora più vicino, fino a posare la fronte contro la sua. – Non ce ne andremo senza di te.

Regina portava i guanti neri ed Emma si ritrovò a pensare che avrebbe dovuto toglierli. Avrebbe tanto voluto che li togliesse, perché così avrebbe sentito il calore della sua pelle. Si rese conto che era ciò che più desiderava in quel momento. Non si disse che era sbagliato. Non lo percepiva come sbagliato. Era impossibile. Lo percepiva come qualcosa di assolutamente necessario.

- Qualcuno se ne andrà. – mormorò Emma, ma senza staccarsi di lei.

- Come?

- Qualcuno se ne andrà. Le scarpette possono portare almeno uno dei miei genitori fuori da qui.

Regina si scostò, fissandola con gli occhi ancora sgranati. – Vuoi che... se ne vadano?

- Mio padre può andarsene. Neal ha bisogno di almeno uno di loro.

 

 
La pioggia era cessata e la luce cominciava a calare per lasciare il posto alle tenebre. Tuttavia le nuvole basse brillavano ancora sopra le loro teste come tanti, malefici occhi rossi, incendiando le pozzanghere fumanti nella strada, nei vialetti e sui gradini delle case.

Le persone avevano ricominciato ad uscire, ma nessuno si avvicinò al gruppetto accanto alla cabina.

David si strofinava il collo, nel punto in cui il gocciolone di pioggia lo aveva colpito, lasciandogli una bruciatura. – Sarà meglio fare in fretta. Potrebbe ricominciare a piovere o Crudelia potrebbe tornare con qualche scagnozzo in più.

- Come fai a sapere che ha funzionato? – domandò Marian, osservando l’aggeggio dentro alla cabina.

- Non lo so. Ma lo spero. – rispose David. – Lo usano tutti per comunicare con i loro cari.

- Dite quello che dovete dire, milady. – intervenne Killian, con impazienza.

Marian aggrottò la fronte, parve riflettere, poi assentì impercettibilmente.

Henry la guardò entrare in quella cabina e gli sembrò una cosa surreale vederla prendere la cornetta e portarsela contro l’orecchio. Lì era tutto surreale, tutto era sottosopra, ma non poté fare a meno di trovare surreale anche quella scena. E si chiese, a margine, se il telefono raggiungesse solo il mondo dei vivi o anche... qualche altro mondo. Un mondo migliore, magari. Il mondo in cui era finito suo padre quando era passato oltre. Sapeva che Neal non era nell’Oltretomba. Lo aveva cercato non appena erano arrivati. La sua stanza al Granny’s era occupata, ma dal tizio di nome Murphy, quello che Lily aveva gettato nel Tartaro.

Non c’era traccia di lui e preferiva pensare che fosse riuscito ad andarsene... verso il posto migliore.

 

 
Zelena non aveva idea di dove fosse andato Ade, ma quella tregua le permise di guardarsi intorno. Non ci mise molto a rendersi conto che tutti gli schiavetti del Signori degli Inferi la trattavano con deferenza, come se fosse anche lei una regina, le chiedevano se desiderava qualcosa, se volesse andare da qualche parte.

Alla fine si rivolse ad un ragazzo emaciato, con gli occhi affondati nelle orbite violacee, i fini capelli biondi incrostati di fango. Indossava un vecchio abito sgualcito. C’era muffa sulle spalle e sul bavero della giacca. Usò un tono perentorio, ordinandogli di condurla nelle prigioni.

Non ci mise molto a trovare chi stava cercando.

L’illuminazione era scarsa e quasi tutta proveniva da una feritoia parzialmente coperta e da anemici fuochi fatui che danzavano nell’aria insieme ai granelli di polvere.

Zelena immaginava di doversi aspettare di tutto da Ade, ma quello che vide le gelò comunque il sangue nelle vene.

Al centro di quella prigione sotterranea, in verticale, sospesa tra il Flegetonte e il Fiume delle Anime, c’era una grande ruota a raggi, sorretta sul retro da una robusta sbarra metallica. Girava. Girava lentamente. La scarsa luce passava attraverso i raggi gettando ombre sbilenche sulle pareti nere. Ogni tanto la ruota rallentava fino a fermarsi del tutto. Si bloccava per qualche momento e poi ripartiva.

Appesa alla ruota, c’era Cora.

Aveva i polsi serrati alla ruota da due cinghie, un’altra cinghia più lunga le fasciava il busto. Le cinghie inferiori le stringevano le caviglie, mentre i piedi erano posati su due ceppi. Sua madre era paonazza, con gli occhi cerchiati e tracce di sangue sul viso e sugli abiti polverosi.

- Sei tu... – mormorò Cora. Si sforzò di sorridere.

Zelena chiuse gli occhi. Le impediva di sentirsi troppo stordita, soprattutto nei passaggi a testa rovesciata. Aveva l’impressione di essere legata alla ruota esattamente come la madre che non aveva mai conosciuto e che l’aveva piantata in asso nel bel mezzo di una foresta.

- Vedo che stai soffrendo molto, mamma. Non che mi dispiaccia... – disse, cercando di imprimere sicurezza nella propria voce.

- Non ti dispiace, forse... – disse Cora. – Ma sei venuta comunque.

 

 
- Non ho intenzione di andare da nessuna parte, Emma. – sentenziò David, per la terza o quarta volta da quando gli aveva detto che doveva tornare a casa.

- Neal ha bisogno di almeno uno di voi. La mamma non può andarsene, altrimenti manderei via anche lei. – replicò Emma, seduta sul bancone della cucina, con le braccia conserte e quel cipiglio risoluto che Regina non vedeva da un po’ di tempo.

- Emma... – cominciò Mary Margaret.

- No, non provarci. – la interruppe. – So che non vi piace separarvi.

- Non è questo il punto! – intervenne suo padre. Si avvicinò abbastanza per metterle le mani sulle spalle. – Sono tuo padre. Sono venuto quaggiù per riportarti indietro. Non posso andarmene ora. Non puoi chiedermelo.

Emma sembrava sorda a tutto ciò che David stava dicendo. - Non hai tempo da perdere. Ruby deve aiutare Dorothy. Dopodiché le scarpette ti porteranno a Storybrooke.

Mary Margaret notò che Regina non commentava, ma era sempre accanto ad Emma, abbastanza vicina da dimostrare che la stava appoggiando anche senza parlarne apertamente. Si era accorta di come Emma spesso scambiava occhiate con lei, di come Regina a volte si spostasse quasi volesse toccarla o anche solo sfiorarla per assicurarsi che fosse ancora lì.

- Neal è solo. – continuò Emma, imperterrita.

- Neal è al sicuro con le fate. – ribatté David.

- È indifeso e ha bisogno dei suoi genitori. Non sappiamo quanto durerà questa storia. E se durasse settimane? Mesi? Volete davvero che lui rimanga con le fate e senza i suoi genitori per tutto questo tempo?

- Siamo venuti qui per te, Emma. Anche tu sei nostra figlia.

- Non hai risposto alla mia domanda.

David esitò, a disagio. Con l’occhio della mente vide Neal nella sua culla, circondato dalle fate che lo tenevano al sicuro, lo immaginò mentre riceveva il suo messaggio, chiedendosi se in qualche modo potesse capire...

- Papà, so che siete venuti per me. Ma ora tu devi andare. – ricominciò Emma.

- E Robin verrà con te. – sentenziò Regina.

Fuori stava calando la solita oscurità di porpora. Robin, da quando era arrivato nell’Oltretomba con Ruby, non aveva parlato molto, se non per raccontare quello che era accaduto ad Oz. Per il resto, si era preso cura della sua bambina ed era parso vagamente inebetito e assente, confuso dall’atteggiamento di Regina e dalla presenza costante di Marian. Ma quella frase riuscì a scuoterlo.

- Vuoi che io... faccia cosa? – domandò, fissandola stupefatto.

- Voglio che tu porti tua figlia lontano da questo posto. Non possiamo proteggerla in eterno e Zelena ha detto...

- Zelena? Ora quello che dice tua sorella conta? – Robin stava alzando la voce.

- Zelena è la madre della bambina. L’ha messa in salvo da Ade. Ha chiesto a me di prendermene cura. E tu sei suo padre. – Regina si sorprese a parlare con una scioltezza insolita. Avvertì la mano di Emma dietro la spalla, come un incoraggiamento. – Questo luogo è troppo pericoloso per una neonata. Portala a Storybrooke dove sarà al sicuro.

- E... tu? – balbettò lui. I suoi occhi la scrutavano. – Non... non vuoi che rimanga?

Regina aprì la bocca per rispondere, ma venne anticipata.

- La Regina ha ragione. – disse Marian.

L’intervento sconcertò Robin ancora di più. Ad Emma parve che la tensione stesse salendo alle stelle.

- Marian... – bofonchiò Robin.

- Vieni fuori. Ora.

 

 
- Ero curiosa di vedere quale tortura ti avesse riservato Ade. Molto ingegnoso. Mi congratulerò con lui. – disse Zelena.

Durante un altro passaggio in alto, udì uno scatto e un lampo accecante attraverso il corpo di Cora, facendola urlare. I polsi si tesero contro le cinghie. Un bagliore forcuto di elettricità le guizzò dalla bocca come una lingua di rettile che saggiava l’aria. Zelena balzò indietro.

- Non posso... biasimarti... se sei felice di vedermi in queste condizioni. – ansimò Cora, sollevando appena la testa. – Ma sono certa... che non sei qui solo per questo.

- Cosa vorresti dire?

La ruota si bloccò di nuovo, sferragliando.

- Vuoi sapere... se rimpiango la mia decisione. – continuò Cora. – Se dopo tutti questi anni, sono dispiaciuta... di averti abbandonata.

Zelena era furibonda. Non solo in collera, ma completamente fuori di sé. I suoi occhi azzurri dardeggiavano come i lampi di elettricità che vibrano intorno a sua madre. – Non voglio parlare di questo. L’ho superato. Da anni.

- Non è vero. Quello che ho fatto... ha aperto una ferita rimasta infetta per decenni. – Buttava fuori le parole a fatica e arrivava alla fine delle frasi esausta. – Certo che mi dispiace... io pensavo... che sarebbe stato meglio per te.

La ruota riprese a girare con un altro, poderoso scossone. Le scariche elettriche tesero le braccia di Cora e le gonfiarono le vene sul collo.  

- Sai, mamma... credo che questo affare sappia bene quando racconti menzogne! – La voce di Zelena era acuta e intrisa di furia cieca, ma lo sguardo era quello vitreo e inorridito di una ragazzina che ricorda un incubo ricorrente. – Ed io non sono una stupida come Regina!

- Per me. – si corresse Cora. – Pensavo fosse meglio... per me.

- Abbiamo finito. – Zelena si voltò per andarsene.

- No. Affatto. - replicò Cora. – Non riesci a capire perché non posso lasciare l’Oltretomba?

Zelena la ignorò completamente; era sicura che sua madre, in un modo che le era difficile comprendere, si stesse insinuando nella sua testa. Aveva la terribile sensazione che avesse un potere anche quando non usava la magia. Che fosse capace di farti dubitare di qualsiasi cosa, di farti credere in qualsiasi cosa. Preferiva pensarla bloccata su una ruota che girava e girava, le braccia e le caviglie fissate ad essa dalle cinghie che le mordevano la carne.

Poi vi fu un suono. Dapprima pensò che fosse semplicemente la ruota che si fermava di nuovo. Ma il rumore divenne più acuto, più prolungato, simile ad un grido maniacale di qualche oscura creatura intrappolata nelle viscere della Terra.

Zelena si voltò in tempo per vedere la ruota andare in mille pezzi. Il frastuono riecheggiò lungo le pareti della caverna e una pioggia di schegge acuminate volò nella sua direzione.

Sollevò una mano per difendersi. Sollevò proprio il braccio che recava il marchio di Era, un marchio a forma di piuma di pavone, che sfolgorò, infuocato.

Le schegge la sorpassarono, passandole accanto e sfiorandole la testa.

Zelena levò la faccia perplessa ed incredula verso il punto in cui prima c’era la ruota e sua madre che blaterava scuse inutili.

Questo... no. Non è possibile.

Cora era libera dalle cinghie e fluttuava a mezz’aria.

Ma non era più sua madre. I capelli era diventati bianchi come neve. Un occhio era diventato strabico e guardava nel vuoto con una concentrazione gelida ed implacabile. L’altro era fisso su Zelena. L’iride era rossa. Rosso sangue.

Lo Spettro sogghignava.

- Mamma?

- Salve, mia regina. – disse l’essere con voce stridula, che non aveva più nulla a che vedere con quella di Cora.

Zelena era talmente confusa e stupefatta che, per un momento, pensò che lo Spettro la stesse scambiando per sua sorella.

- Salve, mia regina. – ripeté. – Dovete scusarci, ma non possiamo trattenerci. Dobbiamo proprio andare.

Lo Spettro si scagliò in avanti, ad una velocità inaudita e la urtò violentemente. Mancò poco che Zelena finisse dritta nel Flegetonte.

Salve, mia regina.

 

 
- Papà... non sono brava con gli addii. – disse Emma, sporgendosi per abbracciare David.

Lui ricambiò, appoggiandole una mano sulla testa e stringendola forte a sé. – Lo so. Credo sia una cosa di famiglia.

Ruby sistemò il pezzo di stoffa che aveva portato con sé nella crepa che si era formata sulla tomba di Emily Brown. Non poteva più fare niente per lei, ma sperava di poter fare qualcosa per Dorothy.

Ai margini del cimitero, Fiyero spaziava con lo sguardo intorno a sé e teneva d’occhio la situazione. In alto, Lily, in forma di drago, volava in cerchio. Il principe aveva deciso di restare. Regina era sicura che se ne sarebbe andato con gli altri per tornare ad Oz e nella sua terra, dove certamente il suo popolo lo attendeva. Invece, aveva scelto di rimanere con loro.

Marian tese una mano a Robin e lui la prese, incerto.

- Vorrei poter fare di più.

- Non c’è niente che tu possa fare. – rispose Marian, sorridendogli. – Troverò un modo per andarmene. Ora so di potercela fare.

- Continuo a pensare che non sia giusto andare via.

- Lo è. Devi badare a nostro figlio.

Regina si chiedeva come avesse fatto Marian a convincere Robin a tornare a Storybrooke. Di certo c’entrava Roland. Robin era preoccupato per lui, così come gli Azzurri lo erano per il piccolo Neal, ma non era l’unica cosa che aveva... usato. Marian sembrava tranquilla, straordinariamente serena e sicura di ciò che stava succedendo, al contrario di Robin. Regina li aveva sentiti discutere, a voce molto alta, ma si era rifiutata di mettersi ad ascoltare.

- Le scarpette ti doneranno molto, amico, quando le userai per tornare lassù. – osservò Killian, dando una pacca sulla spalla a David. Lo disse accennando un sorriso, ma la sua voce era priva di forza.

Sorrise, poi si rivolse a Mary Margaret. Lei intrecciò le mani dietro la sua nuca e lo baciò.

Guardali bene, sussurrò una voce nella testa di Emma. Una voce gelida, che le ricordava quella dello Spettro che l’aveva posseduta. Sembrava che stesse sussurrando nel suo orecchio, tanto le era parso concreto e sonoro quel pensiero. Guardali bene perché questa è l’ultima volta che li vedrai così. Per te non c’è speranza. Nessuno potrà mai salvarti. Non si possono riportare in vita i morti!

Mary Margaret afferrò la mano di Ruby. Poi con l’altra strinse quella di Robin Hood, che si sistemò l’arco e la faretra a tracolla. Con un braccio, reggeva la bambina, che singhiozzava e agitava le braccia. Rivolse un’occhiata a Regina, sperando che dicesse qualcosa, ma lei si limitò ad annuire.

Non si possono riportare in vita i morti.

Emma si allontanò, prima di vedere suo padre scomparire.

 

 
Regina raggiunse Emma davanti alla grande tomba sormontata dal cigno con le ali spiegate.

La sua tomba.

Sotto al nome EMMA SWAN era comparsa un’altra scritta. Lettere dorate impresse sul marmo bianco.

ERA LA SALVATRICE.

E più sotto, come una presa in giro: Somewhere, over the rainbow.

“Difficile essere la Salvatrice quando nessuno vuole il tuo aiuto, vero? O quando sei già morta e ad un passo dal Tartaro.”

- Almeno mio padre è salvo. – disse Emma, prima che Regina potesse aggiungere qualsiasi cosa.

- Starà bene. E presto lo rivedrai.

Emma sorrise, voltandosi. – Stai iniziando a parlare come mia madre, sai?

- Oh, questo dovrebbe essere un complimento?

- Lo è. Mia madre non perde mai la speranza.

Regina allungò una mano per scostarle la ciocca bianca dal viso. Gliela sistemò dietro l’orecchio, senza preoccuparsi di controllare ogni suo gesto. – E non devi perderla nemmeno tu.

Nemmeno Emma pensò che fosse meglio controllarsi. Per lei fu una cosa naturale, sporgersi in avanti per raggiungere le sue labbra. Come se l’avesse sempre fatto.

Regina dischiuse subito le proprie e lasciò scivolare una mano sotto i suoi capelli per attirarla di più contro di sé. Il cuore le batteva all’impazzata...

“Ascolti, questa situazione è insostenibile. Sono disposta ad andarmene. Ma ho delle condizioni. Continuerò a vedere Henry, a fargli visita e a passare del tempo con lui.”

“Questo significherebbe restare nella sua vita.”

Emma serrò le palpebre e poi le sollevò di scatto. Pur sentendo ancora le labbra di Regina contro le sue, vedeva anche quel ricordo come se stesse accadendo in quel preciso istante e lei fosse solo una spettatrice esterna.

“Chiaro. Di solito in un accordo... le parti devono accettare un compromesso. Ma onestamente... sappiamo tutte e due che non è più possibile escludermi dalla vita di Henry. E questo è un dato di fatto che lei non può cambiare.”

“Ha ragione. Le dispiacerebbe seguirmi in cucina?”

Anche lo Spettro, quando era entrato in lei e aveva rovistato nei suoi pensieri, si era soffermato su quel ricordo, come se fosse stato estremamente importante.

Regina estrasse il dolce dal forno. “Di preciso che cosa mi sta proponendo?”

“Non lo so. Troviamo una soluzione insieme.”

“Lui è mio figlio.”

“Sì.”

Emma staccò le labbra da quelle di Regina, pur rimanendo vicina a lei. Respirava con affanno. – L’hai visto anche tu?

- Sì... – Regina si guardò intorno, non molto sicura di trovarsi nell’Oltretomba. La sua cucina, il profumo del dolce, la luce del sole erano sembrati fin troppo reali.

Emma si portò le dita alle labbra.

 

 
Foresta di Oz.

 
- Ruby! – esclamò Mulan, quando vide l’amica comparire insieme a David e Robin, che stringeva la sua bambina tra le braccia. – David?

- L’hai trovata? – disse Ruby.

- Stavamo aspettando che tornassi. Lei è...

- Sotto l’incantesimo del sonno, lo sappiamo.

Dorothy giaceva su un altare improvvisato, al centro del giardino all’interno del palazzo di Zelena, circondata da fiori e da gruppetti di Munchkin venuti a vegliare la loro paladina, non appena si era diffusa la voce di come fosse stata preda dell’incantesimo del sonno. Erano arrivati soli o a gruppetti e tutti avevano portato qualcosa; ghirlande di fiori, cibo, amuleti. Avevano facce nervose e apprensive dietro le barbe folte o sotto le larghe tese dei loro cappelli. I bambini si tenevano attaccati alle gonne delle madri o si riparavano dietro ai padri. Toto, il cane di Dorothy, se ne stava accucciato vicino ai suoi piedi, la testa sulle zampe, in attesa.

Mulan si era accertata che ci fossero abbastanza uomini intorno al palazzo per evitare sgradite sorprese. Glinda aveva evocato un incantesimo di protezione. Nonostante il giardino fosse all’aperto, grazie alla magia di Glinda, la neve scivolava all’esterno e l’aria gelida non intaccava nessuno di loro.

- Che cos’è? Non è l’inverno, vero? È troppo presto. – aveva chiesto Mulan alla Strega del Sud.

- No. Non è naturale. – aveva ammesso Glinda, in tono sommesso.

David non le spiegò che cosa ci faceva lì né tantomeno da dove venivano, dov’erano stati. Fortuna che il mago Knubbin non c’era, altrimenti avrebbe iniziato a subissarli di domande. 

Ruby esitò, consapevole che molte persone la stavano fissando. Consapevole che tutti si aspettavano qualcosa da lei. Tutti sapevano. Sapevano che la paladina di Oz poteva svegliarsi solo grazie ad un bacio. E lei sapeva che avrebbe potuto non funzionare. Il vero amore era un passo a due.

- Ruby, vai. – disse David, appoggiandole una mano sulla schiena, come se volesse darle una spinta. Sorrise. – Puoi farcela.

 
Cappuccetto Rosso s’incamminò e la gente assiepata intorno a Dorothy la lasciò passare, aprendosi in due ali.

Esitò un attimo ancora quando fu davanti alla ragazza addormentata, poi le sfiorò i capelli con le dita e si chinò, posando le labbra sulle sue.

Immediatamente la magia del vero amore nacque da loro e la luce dorata si espanse, travolgendo i presenti, riversandosi su ogni Munchkin come una cascata di felicità e purezza.

Dorothy aprì gli occhi.

“Lupacchiotta?”

“Kansas!”

Henry Mills sostò un istante, la punta della penna che ancora toccava la pagina un po’ ingiallita del libro. Le parole sgorgavano seguendo gli eventi e si allineavano una accanto all’altra, imprimendosi sulla carta. Era un momento strano; Henry si sorprese a diventare un tutt’uno con la penna. Si sentiva rimpicciolire fino a ritrovarsi dentro la sottile arma che usava per scrivere le storie, a guardare il mondo con occhi nuovi: un mondo che era immenso e luminoso, un mondo che era pieno di personaggi e racconti, che diventava un luogo sconfinato...

La porta della sua camera si aprì e Lily entrò, portando con sé l’altro libro, quello che lui le aveva prestato quando aveva saputo che Murphy veniva dalla Foresta Incantata. Aveva l’aria di essersi ripresa del tutto dalla brutta esperienza con lo Spettro. - Sapevi che a questo libro mancano delle pagine?

- Sì. – disse Henry, posando la penna. – Me ne ero accorto. È la storia di Pinocchio.

- Si interrompe proprio qui. Poco prima che arrivi nel Paese dei Balocchi. - Lily parlava in tono concitato.

- Hai trovato Murphy? Nella storia di Pinocchio? - Henry prese il libro, scrutando i bordi frastagliati di quelle che una volta erano pagine.

- Sì. Oh, sì, è lui. Ne sono sicura.

Henry lasciò che Lily tornasse indietro di una pagina e gli indicasse un punto al centro del foglio. Sulla destra c’era un’illustrazione che ritraeva Pinocchio a bordo del carro che lo avrebbe poi condotto nel Paese dei Balocchi.

“Dovete sapere che, fra i compagni di scuola di Pinocchio, ce n’era uno a cui lui voleva particolarmente bene, un ragazzo con gli occhi d’argento che si chiamava Romeo.”

Occhi d’argento.

Romeo?

Quella era stata la prima cosa che aveva notato del tizio di nome Murphy. Aveva gli occhi color argento. Erano inconfondibili. Henry dubitava che si trattasse di una coincidenza.

“...un ragazzo con gli occhi d’argento che si chiamava Romeo. Ma per via del suo aspetto asciutto, secco e allampanato, tutti lo chiamavano...”

- Lucignolo. – concluse Henry, a voce alta. – Lucignolo.

- Ho ucciso Lucignolo e l’ho gettato pure nel Tartaro. – disse Lily. E a quel punto perse totalmente il controllo di sé e cominciò a ridere. La risata sembrava salire da un addome duro quanto un muro di pietre, ma comunque rideva.

Henry la fissava, come se fosse impazzita.

 

 
Storybrooke.

 
Roland sedeva sul tappeto al centro della grande sala, al piano terra dell’edificio in cui vivevano le fate e guardava lo spettacolo strano e affascinante che si svolgeva davanti ai suoi occhi.

La neve cadeva fitta da quella notte. Fiocchi grandi avevano imbiancato i marciapiedi e i tetti di Storybrooke. Il cielo era una lastra bianca e abbagliante. La gente girava imbacuccata nelle giacche pesanti.

Fino al giorno prima non faceva così freddo e le fate sembravano particolarmente agitate.

Roland, dal canto suo, non riusciva a preoccuparsi. Appiccicava il naso al vetro e osservava la neve cadere senza sosta.

Lo stava facendo anche in quel momento, quando avvertì la carezza.

Si portò una mano alla testa, convinto che una delle fate fosse dietro di lui.

Solo che non c’era nessuno.

Il salone era vuoto. C’era Neal, ma lui dormiva beatamente nella sua culla, con un pupazzo a forma di unicorno accanto.

La carezza si ripeté e Roland ebbe la sensazione che una voce gli stesse parlando, ma arrivava da molto lontano.

Era una voce femminile, ne era sicuro. Era una voce dolce e la conosceva.

Quella sensazione si mescolò alla voce di suo padre, la voce stanca ed incolore che gli diceva quanto gli dispiaceva, ma la mamma non sarebbe tornata.

“Cosa vuol dire che non tornerà?”, aveva domandato Roland. Le parole le aveva sentite, solo che non riusciva ad afferrarne il senso.

Suo padre aveva gli occhi rossi e appariva stanco. Gli era sembrato... malato. Non solo stanco, ma malato. “Non tornerà più, Roland.”

“Ma perché non tornerà? Dov’è andata?” E poi, come ripensandoci: “Chi è stato, papà?”

- Mamma? - sussurrò, ora, nella grande sala del convento della Madre Superiora.

 

 

- VENITE A VEDERE!

Belle aprì gli occhi di scatto, rendendosi conto di non essere nel suo letto, ma in biblioteca, con la testa appoggiata sulle pagine di un libro.

Le Cronache degli Oscuri.

Era arrivata alla parte dedicata a Gorgon, l’Oscuro che aveva assunto le sembianze di un enorme cinghiale sputafuoco. Poi si era addormentata.

- VENITE A VEDERE SUBITO!

La voce allarmata di Leroy la costrinse a muoversi, anche se aveva il collo dolorante perché aveva dormito nella posizione sbagliata. E anche se aveva la nausea. La stanza parve ondeggiare davanti ai suoi occhi, come se si fosse trovata a bordo di una nave nel bel mezzo di una burrasca.

Nevicava.

Nevica?, pensò Belle, sconcertata. Non era inverno. Era troppo presto per la neve.

Prese una giacca dall’attaccapanni e si tirò il cappuccio sulla testa, prima di uscire. Non appena mise un piede fuori, quasi scivolò su una piccola lastra di ghiaccio che si era formata davanti alla porta.

Nevicava davvero.

Di fronte alla libreria, c’erano bambini che giocavano, lanciandosi palle di neve. Uno di loro scivolò in avanti e finì a capofitto nel bianco, suscitando le risate degli amici.

Ma non era l’unica cosa assurda che stava accadendo a Storybrooke.

- Che diavolo è? Un’altra maledizione?

Belle seguì lo sguardo di Leroy e di altre persone che si erano fermate in mezzo alla strada, i nasi all’insù.

Veli e ruscelli di luce colorata erano sospesi nel cielo come cortine. Danzavano e ondeggiavano, annodati e festonati su uncini invisibili a centinaia di miglia di altezza. Verde pallido e azzurro. Svariate sfumature di rosso e rosa tremavano, trasparenti quanto una fragile stoffa.

Era uno spettacolo assurdo e meraviglioso.

- L’Aurora Boreale? – mormorò Belle.


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Capitolo 12
*** 12. ***


12

 

 
“Sapere chi sei senza illusioni o compassione
è un momento di rivelazione che nessuno sperimenta restando indenne.
Alcuni impazziscono davanti alla pura verità.
Quasi tutti cercano di dimenticarla.”

[Christopher Paolini, Eragon]

 

 

 

“Ha ragione. Le dispiace seguirmi in cucina?”

Regina estrasse il dolce dal forno. “Di preciso che cosa mi sta proponendo?”

“Non lo so. Troviamo una soluzione insieme.”

“Lui è mio figlio.”

Emma esitò qualche istante. “Sì.”

 

 
“...un ragazzo con gli occhi d’argento che si chiamava Romeo. Ma per via del suo aspetto asciutto, secco e allampanato, tutti lo chiamavano...”

“Lucignolo”, concluse Henry, a voce alta. “Lucignolo.”

“Ho ucciso Lucignolo e l’ho gettato pure nel Tartaro.”

Lily aveva continuato a ridere per almeno dieci minuti, dopo la scoperta fatta leggendo il libro di Henry. Non riusciva proprio a smettere.

Romeo. Murphy. Lucignolo.

Ora, se pensava a Murphy, non lo vedeva più sdraiato nel bel mezzo di una stazione di servizio, accanto ad una pompa di benzina, la faccia distrutta dai suoi calci. Non lo vedeva precipitare nel Tartaro. Vedeva Murphy con il passamontagna che si era messo la sera in cui avevano tentato la rapina, a Lowell, la stessa sera in cui era morto. Solo che dal passamontagna spuntavano due lunghe orecchie da somaro.

Quel pensiero rese la risata ancora più irrefrenabile.

Gli ultimi scoppi di risa si calmarono mentre scendeva in cucina. Il Principe Azzurro se n’era andato per davvero e sua moglie aveva la stessa faccia di una donna pronta al martirio. Regina aveva un’aria contrita, come se si stesse sforzando di ricordare qualcosa, come se stesse rincorrendo un pensiero, ma non riuscisse ad acchiapparlo per quanto veloci fossero i suoi ragionamenti.

- Che cosa stava succedendo lassù? – domandò Emma, riferendosi alle risa.

- Oh, niente. – rispose Lily.

Henry non parlò.

- Ne sei sicura? Non ti ho mai sentita ridere così. Facevi quasi paura.

- Sto bene. Ho solo... – Stava per dire che le ragioni delle sue risate erano dovute ad una barzelletta che aveva sentito al Granny’s non molto tempo prima. Il Granny’s del mondo dei vivi, non quello dell’Oltretomba. Qualcosa su tre prostitute che andavano da un prete a confessarsi. Nulla di così eclatante. Tutto a posto, sì.

Tutto a posto finché il tremito la prese con violenza tale che dovette aggrapparsi al bancone della cucina, ma le ginocchia le cedettero. Emma cercò di afferrarla e non fece in tempo, sfiorò soltanto l’orlo della sua giacca.

Il tremito la squassava tutta, la teneva in sua balia e Lily si sentiva impotente e atterrita. Non atterrita dall’Oltretomba o dagli incubi in cui Murphy precipitava nel Tartaro dopo avergli detto di avere una figlia, ma atterrita dalla possibilità di essere sul punto di diventare matta. Aveva l’impressione che dentro la sua testa si attorcigliasse un lungo filo rosso, un filo che si perdeva nel nulla più assoluto. Lo stava seguendo, quel filo, lo seguiva e sapeva che se lo avesse seguito fino in fondo sarebbe precipitata in qualche abisso molto più oscuro del potenziale che si annidava dentro di lei.

“Nessuno può aiutarti, Lilith. Sei sola con me. Come quella sera. Quando mi hai lasciato in una lurida stazione di servizio.”

“Sai che avevo una figlia? Avevo una figlia e lei non ha più nessuno per colpa tua!”

Poi Emma la circondò con le braccia. Emma afferrò quel lungo filo rosso che si perdeva nell’oscurità e strattonò, richiamandola a sé.

La porta d’ingresso si spalancò di colpo ed entrarono Fiyero e Marian. Lei guardò sconcertata Lily, che ansimava tra le braccia di Emma.

- Che sta succedendo? – domandò Regina ai due, notando le loro facce allarmate.

- Vi conviene barricarvi in casa. O trovare armi in grado di uccidere lo Spettro. – sentenziò il Principe dei Winkie.

- Ha preso qualcun altro?

- Oh, sì. – rispose Marian.

 

 
- Il tuo dannato Spettro era qui! – gridò Zelena, non appena Ade ricomparve. – Ha preso mia madre ed è fuggito!

- Sono contento di vedere che ti stai ambientando, cara. So che sei stata nelle mie prigioni. – rispose Ade, con nonchalance, quasi fosse appena rientrato da una normale passeggiata in mezzo ai morti. – Ero sicuro che ci saresti andata. Stai bene?

- Non provare a cambiare argomento! Avevi detto che te ne saresti occupato!

- Intendevo farlo, ma ho avuto qualche altra faccenda da sbrigare. – Le mostrò il barattolo che conteneva ciò che restava di Emily Brown, la zia di Dorothy. – La cara zia Em... appena imbottigliata.

- Credi che me ne importi qualcosa di una vecchia zia ammuffita?

- Forse non te ne importa in questo momento... ma almeno una persona che poteva aiutare Dorothy e quegli eroi è fuori combattimento. E non può nemmeno trovare la strada per il posto migliore. – Aprì il barattolo e versò il contenuto nel Fiume delle Anime. – Questa è musica per le mie orecchie. Dovresti essere felice.

- C’è un Spettro là fuori che potrebbe fare del male a mia figlia! Uno Spettro che è convinto che io sia la regina di questo Inferno!

- Questo non è l’Inferno. Si chiama Oltretomba. – precisò Ade, quasi ce ne fosse bisogno. – Ed è proprio questo il punto, Zelena. Lo Spettro potrà anche essere incontrollabile, ma non ucciderà la figlia della regina. Una figlia che, a dire il vero... non è più qui, mi dispiace deluderti.

- Che... che cosa?

- Tua sorella l’ha messa in salvo. Robin e il Principe Azzurro se ne sono andati. Con le scarpette. – Ade non sembrava affatto contento. Anzi. Zelena notò il lampo di furia nei suoi occhi.

Le parole le morirono in gola.

Beh, certo. Era meglio che fosse andata così. Era meglio che sua figlia se ne fosse andata, lontano da quel luogo orribile. E tuttavia sentiva che qualcosa stava sprofondando dentro di lei.

- Se anche tornassi a Storybrooke, sarà difficile che quel ladruncolo ti permetta di vedere la tua bambina. Lui pensa che tu sia malvagia. - C’era un’espressione, sul suo volto, che dapprima lei scambiò per compassione. Ma poi capì che era una sorta di tremenda pazienza.

- Questo lo vedremo. – sibilò Zelena.

Lui sorrise, magnanimo. – In ogni caso... la zietta è sistemata. Vedi, un’altra cosa che ho fatto per te. E spero che la punizione che ho riservato a tua madre sia stata... di tuo gradimento.

Credeva davvero in tutto quello che stava dicendo. Zelena aveva visto Cora appesa a quella ruota, che girava e girava. Ed era stata sicura che Ade l’avesse fatto per lei. Inoltre la condanna di Emily Brown non cambiava nulla. Avrebbe solo ritardato il risveglio di Dorothy. Ade non avrebbe guadagnato niente, se non un po’ di soddisfazione personale. - La cosa che più conta qui sarebbe liberarti dal marchio di Era.

- Una cosa che tu non puoi fare, ovviamente.

- Forse potrei. Potremmo essere entrambi liberi. Se tu...

Zelena avrebbe dovuto arrivarci prima, ma la sua testa era un turbinio di pensieri che non avevano più né capo né coda. - Ma certo, il bacio del vero amore. Quindi credi che anche il marchio sia una maledizione.

Nelle mani di Ade comparvero due bicchieri di vino. Gliene porse uno. – Tu come lo chiami un marchio sulla pelle... che indica solo che appartieni ad una divinità? Una divinità crudele... c’è chi dice che lei sia la più crudele di tutti.

Zelena non prese il bicchiere.

- Suvvia, non ti succederà niente se lo berrai. Quel... marchio... ti protegge anche da questo. Non che mi faccia piacere, ma è così.

Allungò una mano, sfiorando appena le dita di Ade.

- Allora... cominciamo da un bel brindisi. Se quello che volevi era che tua figlia fosse sana e salva... lontana da me... beh, eccoti accontentata. Possiamo brindare a questo.

- Forse è anche giunto il momento di parlare seriamente. – disse Zelena, annusando il vino. L’odore era lievemente speziato. Avvertì il marchio di Era pulsare sul polso. – Lo Spettro potrebbe uccidere mia sorella e tutta la sua famigliola felice... ma perché non l’hai fatto tu?

Ade rise sul serio. Rise di cuore, come se Zelena avesse appena raccontato un aneddoto divertente. – Oh, Zelena... finalmente hai fatto la domanda che mi aspettavo sin dall’inizio.

 

 
“Lui è mio figlio.”

Emma esitò qualche istante. “Sì.”

Regina era sorpresa che avesse ceduto così facilmente. Ma sapeva anche che non avrebbe mai potuto andarsene da Storybrooke. Qualcosa glielo avrebbe sempre impedito. Come il lupo che le aveva tagliato la strada, la sera in cui le aveva riportato Henry. Regina continuò a sorridere e prese un contenitore di plastica.  “Gradirebbe qualcosa per il viaggio?”

“Grazie.”

“Credo che le nostre vite si incroceranno spesso. Dobbiamo imparare ad essere cordiali.”

 

- Dov’è finita Malefica? – domandò Emma, dopo essersi assicurata che Lily stesse meglio.

- Dì a Lily di non preoccuparsi. Si sta occupando di qualcosa di molto importante. – Il tono di Regina aveva un che di enigmatico.

Emma aggrottò la fronte. – Tu stai bene?

Se stava bene? Le avevano appena detto che lo Spettro aveva preso sua madre e che se ne andava in giro a succhiare l’energia di persone a caso.

Oh, stava benissimo. Si sentiva come se avesse avuto la spada di Damocle sospesa sopra la testa. Solo che lei non vedeva la spada di Damocle, ma vedeva Excalibur, con il nome di Emma inciso sulla lama. Excalibur sospesa sopra il suo capo come una sciagura imminente.

- Ti sei ricordata di chiedermelo. – borbottò Regina, cupa.

- Beh, mi dispiace, ma stanno succedendo molte cose, qui. Ed io... – iniziò Emma.

- Sì, tu eri troppo occupata con la tua ragazza.

Emma la fissò, trasecolata. Per un momento ebbe l’assurda impressione di essere tornata sull’Isolachenonc’è, in mezzo alla giungla oscura che avevano attraversato alla ricerca di Henry. Erano tornate laggiù, al preciso istante in cui Regina le aveva chiesto se il piano che stavano seguendo le piaceva perché l’aveva escogitato il suo fidanzato.

- La mia ragazza?

Regina non aggiunse altro.

- Qual è il tuo problema?

- Non ho nessun problema.

- Invece sì. Ne hai uno. Ma non dovrebbe essere Lily. Dovresti chiederti perché abbiamo ricordato proprio quel momento...

- Ti ho già detto che non ne ho idea. L’unica cosa che è successa quel giorno è che Henry si è mangiato il dolce che era destinato a te!

- Dev’esserci qualcosa che abbiamo dimenticato. Potrebbe essere importante.

Forse era proprio quello il punto. A Regina non piaceva avere dei buchi di memoria. Soprattutto, non le piaceva avere buchi di memoria che riguardavano Emma e che non riusciva a spiegarsi.

 

 
In salotto, Mary Margaret controllò una per una tutte le frecce della sua faretra. Accanto, c’era quella del Principe Fiyero, i cui dardi erano distinguibili dai suoi per via delle piume rosse con cui erano decorati.

“Non hai nessun diritto di essere qui. E non hai nessun diritto di toccare quello.”

“Stavo venendo a portartelo.”

Non stava davvero pensando a quel momento. O almeno non solo.

“Annulleremo il ballo. Lo faremo per festeggiare la tua guarigione.”

“Non possiamo annullare il tuo compleanno. Andrà tutto bene. Sarò guarita per quel giorno. E poi voglio vederti indossare quella corona.”

“Non mi importa nulla del mio compleanno. Voglio solo che tu guarisca.”

E poi...

“Il pugnale, cara.”

“Basta!”

Il pugnale di Tremotino volò nella mano di Cora. “Sei una brava ragazza.”

“Ora hai ciò per cui sei venuta.”

Regina spinse il cuore nel petto di Johanna. Mary Margaret la sostenne insieme a David.

“Manca ancora qualcosa.”

La verità era che più passavano i giorni, più l’Oltretomba le ricordava cose che non avrebbe mai voluto ricordare. Dal momento in cui aveva saputo che Cora si trovava lì, sospesa tra il luogo peggiore e quello migliore, i ricordi erano tornati, pian piano, silenziosi e striscianti. Poi sempre più consistenti, sempre più invasivi.

“Sei una brava ragazza.”

“Vedi dove porta il bene?”

Non ne aveva fatto parola con David e nemmeno con Emma. Con nessuno. Aveva solo cercato di tenerli a bada.

Nella sua mente, a un tratto, udì, preoccupata e atterrita, la voce di sua madre.

Neve, tesoro, cosa vuoi fare? Stai contemplando una strada che non devi percorrere. Mai. Mai più. Lo hai già fatto una volta...

La fece tacere. Era proprio sua madre il punto focale. Sua madre e Johanna che precipitava dalla Torre dell’Orologio, schiantandosi sull’asfalto. E quello che aveva fatto a Regina. L’aveva usata come arma. Oh, quello era stato... terribile. Non avrebbe dovuto.

E Cora non avrebbe dovuto trovarsi lì. Avrebbe dovuto precipitare urlando nel Tartaro.

“Sei una brava ragazza.”

“Vedi dove porta il bene?”

Poteva mettere la parola fine a quella faccenda.

Davvero ne sei convinta?

Purtroppo sì. Ne era convinta. Ripetute volte, dopo la morte di Cora, si era detta che quella donna non meritava di vivere. Non meritava niente. Così come Regina non meritava il trattamento che le aveva riservato. Non meritava di essere ingannata in quel modo, dalla sua nemica giurata. Ma Cora sì. Cora lo meritava. Non si era mai levata dalla testa quel pensiero. Si era pentita di ciò che aveva fatto a Regina, ma... non di aver ucciso Cora. Nel profondo, lo sapeva.

“Ora hai ciò per cui sei venuta.”

“Manca ancora qualcosa.”

Si sentì crescere dentro una forza terribile, che raccolse tutte le sue emozioni, tutti i suoi ricordi, mutandoli in una solida spranga di rabbia.

 

Marian udì il rumore della porta sul retro che si apriva e si chiudeva.

Impugnò l’arco, sebbene non pensasse che uno Spettro avesse bisogno di entrare in casa passando dal retro.

Guardò fuori dalla finestra, in tempo per vedere Mary Margaret che si allontanava, con la faretra a tracolla, la giacca che svolazzava, il passo deciso di chi sapeva benissimo che cosa stava facendo.

Aveva notato che era molto pensierosa, da quando avevano portato la notizia dello Spettro. Lo era stata anche prima, ma da qualche ora il suo stato d’animo era sembrato diventare sempre più cupo, meditabondo, perso dietro a pensieri che non avevano niente di bello.

Certo, anche lei lo era. Pensierosa, in ansia, sempre con le orecchie tese. Robin se n’era andato e lei era riuscita a dirgli tutto ciò che aveva desiderato dirgli da quando era morta. Aveva mandato un messaggio a suo figlio Roland. Aveva persino perdonato la Regina.

Eppure non era ancora passata oltre. Qualcosa le sfuggiva.

- Dov’è andata? – domandò Fiyero. – Non è sicuro là fuori.

- Non lo so. Ma le cose si stanno mettendo male.

 

Dopo essersi assicurato il corpo di Cora, lo Spettro si spostò per l’Oltretomba, devastando ciò che restava del Granny’s Diner e costringendo tutti alla fuga. Chi non riusciva a fuggire, veniva acciuffato e ridotto al nulla, ad un guscio vuoto destinato al Fiume delle Anime, com’era successo alla Strega Cieca.

Tremotino trovò il suo negozio sottosopra, ma lo Spettro se n’era già andato. Non c’era traccia di Peter Pan, anche se a quell’ora avrebbe già dovuto trovarsi lì. Avevano un appuntamento. Il fatto che non ci fosse lo sorprendeva e pensò che lo Spettro fosse riuscito a prenderlo.

Mio padre? Sconfitto da uno Spettro?

Stentava a crederci. Doveva essersi trattato di un altro tipo di contrattempo.

Poi la porta del negozio si aprì e si richiuse.

- Oh, finalmente. – disse Tremotino, che sedeva dietro al bancone, rigirandosi tra le dita una piccola sfera di cristallo. Non si voltò nemmeno. – Questa volta vale il detto... meglio tardi che mai.

 

 
Regina continuò a sorridere e prese un contenitore di plastica.  “Gradirebbe qualcosa per il viaggio?”

“Grazie.”

“Credo che le nostre vite si incroceranno spesso. Dobbiamo imparare ad essere cordiali.” Regina mise il dolce nel contenitore di plastica e lo chiuse.

Emma pensava che quel sorriso soddisfatto e quell’offerta apparentemente spontanea fossero solo dovuti al fatto che Regina sentiva di aver avuto partita vinta. Però il profumo del dolce era davvero invitante.

“Sono famosa per questo dolce.”, continuò, chiudendo il contenitore. “Veramente delizioso.”

Emma non era sicura di cosa fosse più forte. Se il profumo di quella ricetta o il profumo di Regina. I suoi occhi nocciola la scrutarono, mentre le porgeva il tutto. Regina avrebbe potuto ottenere qualsiasi cosa con quegli occhi.

E sembrava stesse aspettando una reazione, una qualsiasi. Anche solo una semplice parola.

“La ringrazio.”, disse, invece, Emma.

“Spero che le piacciano le mele.”

 

 
Mary Margaret stava impiegando del tempo per rintracciare lo Spettro.

Trovava le sue tracce ovunque. Al Granny’s Diner. Al porto. All’Auntie. Le strade della Storybrooke infernale erano deserte. Il quadrante della Torre dell’Orologio, semisepolta nell’asfalto, era sfondato. Le lancette erano fisse sulle undici e quindici.

“Sei una brava ragazza.”

Vedeva facce addossate ai vetri, che fissavano la strada, ma poi si rintanavano nuovamente nel buio delle stanze.

“Vedi dove porta il bene?”

Persino nel bosco c’erano i segni del suo passaggio. Nella cripta di Regina le pagine di alcuni libri di magia erano completamente bianche, niente più parole stampate sopra, come se lo Spettro non risucchiasse solo energia dalle persone, ma anche la magia dai libri stessi.

“Vedi dove porta il bene?”

Mary Margaret arrivò in un punto nella foresta in cui scorreva il Fiume delle Anime, prima di gettarsi in mare. Nel cuore del bosco, il fiume era stretto e profondo, impetuoso e pieno di voci. Vide le ombre muoversi sotto la superficie dell’acqua, disordinate, senza scopo alcuno.

“Vedi dove porta il bene?”

La madre di Emma estrasse qualche freccia dalla propria faretra e immerse la punta nel Fiume delle Anime.

Marian e Fiyero l’aveva seguita e notarono ciò che stava facendo.

 

 
Lo Spettro, invece, trovò quello che stava cercando.

Regina non vide la creatura che aveva preso il corpo di sua madre, semplicemente la sentì. La sentì nella sua testa. Vi penetrò come un tornado. Aveva già combattuto contro lo Spettro e aveva un legame con Cora, quindi per la creatura fu molto facile abbattere le sue difese.

Regina tentò in ogni modo di resistere...

Vieni dalla tua mamma, Regina. Cosa stai aspettando? Vieni.

Ma l’impulso di seguire la voce era una vera coercizione. Nella testa aveva gli occhi rossi dello Spettro, che perlustravano ogni suo ricordo.

- Regina, che cosa fai? Dove vai? – La voce di Emma. Distante.

- Mamma?

Regina sollevò una mano ed Emma prese il volo, superando il bancone della cucina e andando a sbattere contro la credenza. Batté la testa e il colpo la stordì.

Si rendeva conto di quello che faceva, eppure non aveva più alcun controllo sulle proprie azioni. Urlava, ma solo dentro di sé. Con un altro, semplice gesto della mano, paralizzò Henry e Lily, che stava intervenendo per impedirle di uscire.

Killian l’afferrò per il braccio e vi si aggrappò. – Combattetelo, Maestà!

Non ci riesco.

Il pirata venne immobilizzato a sua volta.

Regina attraversò la cucina, il soggiorno e andò verso la porta. Guardò la mano destra tendersi verso la maniglia e abbassarla.

No, vi prego.

Vieni fuori, Regina. La tua mamma ti sta aspettando. Vieni fuori.

Il vento le scompigliò i capelli. La strada era deserta, fatta eccezione per sua madre... no, non sua madre. Fatta eccezione per lo Spettro. L’essere si girò a guardarla e sorrise, un sorriso terribile, gelido, atroce. I suoi occhi rossi lampeggiarono.

Solo uno, in realtà. Un occhio rosso. L’altro guardava il vuoto, essendo strabico.

Era impossibile resistere a quell’occhio e Regina avvertì un disperato crampo d’orrore alle viscere.

La Regina Cattiva. E così ci rivediamo. Credevi di avermi sconfitto, vero? Lo credevi?

Avresti dovuto usare l’acqua del Fiume delle Anime, Regina.

Lo Spettro continuava a frugare nei suoi ricordi.

E Regina vide nei suoi. Dapprima solo macchie confuse, forme nella nebbia, voci che parlavano una lingua che non conosceva. Poi divenne tutto più chiaro...

Erano i ricordi dello Spettro. Di ciò che era lo Spettro prima di diventare solo uno Spettro.

Non era uno solo. Erano in due.

I loro nomi erano...

 

 

Aegnor e Aeglos.

Sono fratelli. Erano... erano fratelli.

Vivevano come nomadi insieme ai genitori, nelle vaste pianure, a nord. Il loro clan li aveva scacciati e rinnegati, chiamando il padre ladro e spergiuro.

Sono... erano...

Aegnor era il maggiore. Era quello più robusto, più forte. Quello che andava a caccia e proteggeva il fratello più piccolo. Aegnor. Punta di Fuoco. Il clan lo chiamava Fuoco Funesto, il secondo significato del suo nome. Fuoco Funesto, perché funesto era stato il padre, a cui Aegnor assomigliava. Aegnor, in realtà, odiava il padre. Lo odiava per ciò che aveva fatto. Per aver spinto il clan ad abbandonarli.

Aeglos era più gracile, ma voleva comunque aiutare. Voleva aiutare la madre ad accendere il fuoco, a trasportare l’acqua. Voleva fare la guardia insieme ad Aegnor.

Aeglos. Punta di Neve.

Sua madre l’aveva chiamato così per via del suo aspetto. Aeglos era... come la neve. I suoi capelli, le ciglia, le barba che iniziava a crescergli sul mento e sulle guance, la sua stessa pelle... bianchi. Come la neve.

 

Regina cercava di controllare il torrente di ricordi, ma la loro forza era terribile, soverchiante.

Era un fiume in piena.

 

“Uno stile molto elegante.”, disse Henry, dando un bacio a sua figlia.

“Grazie, padre.”

“Elegante? Non è il termine che avrei usato io.”, osservò Cora.

“Non ti piace, madre?”, domandò Regina, mentre accarezzava il muso del cavallo.

“Cavalchi come un uomo. Una signora dovrebbe essere aggraziata. E dovrebbe usare una sella.” Le parlava come se l’avesse appena vista rotolarsi in un mare di melma. E aveva quella faccia... l’espressione che non lasciava presagire nulla di buono.

“Mi stavo solo divertendo.”

“Non sei un po’ cresciuta per queste cose? Chi vorrà la tua mano se ti comporti da popolana?”

“Ti prego, Cora, lasciala in pace...”

 

Regina lottò per sigillare la mente e cadde in ginocchio. Lo Spettro rideva. Rideva di gusto. Rideva come un folle.

 

Aeglos piange davanti alle tombe dei genitori.

Aeglos... Aeglos piangeva davanti a quelle tombe e si chiedeva perché i briganti non avessero ucciso anche lui. Stavano per farlo, ma quando uno di loro gli aveva abbassato il cappuccio della mantella, aveva visto com’era fatto e...

“Uno Spettro! Uno Spettro! Scappate!”

Aegnor non piangeva. Ora doveva pensare lui a tutto. Doveva pensare lui al proprio fratello. Nessuno li avrebbe aiutati.

 

“Ed io che nutrivo tante speranze.”

Lo stalliere intervenne. “Milady, provate questa sella...”

“Per oggi ho finito. E non osare mai più interrompere me o mia madre.”

Daniel si limitò ad annuire e prese in consegna il cavallo per riportarlo nelle stalle.

“Non capisco perché devi criticarmi sempre.”

“Non ti stavo criticando. Ti davo un consiglio.”

Regina la oltrepassò, cucendosi la bocca.

“Non andartene quando ti parlo!”.

Si sentì afferrata per le gambe e trascinata verso l’alto. Poi Cora la costrinse a voltarsi e a fronteggiarla.

“Madre... detesto quando usi la magia su di me.”

“Ed io detesto l’insolenza. Smetterò di usare la magia quando tu diventerai una figlia obbediente.”

“Perché non posso essere me stessa?”

“Oh, perché potresti essere molto di più se ti lasciassi guidare da tua madre.”

 

Aeglos sapeva che poteva essere molto di più se si fosse lasciato guidare da suo fratello.

Solo che a volte Aegnor lo spaventava. Era impulsivo. Prendeva decisioni rischiose. Diceva che lo faceva per il suo bene, per il bene di entrambi. Per sopravvivere.

Così quando rimase ferito... Aeglos non seppe che cosa fare. La ferita di Aegnor era infetta e lui aveva provato di tutto. Tutte le erbe che conosceva... niente sembrava in grado di salvare Aegnor. Il guaritore voleva troppi soldi per un antidoto. Lui non ne aveva così tanti. Stava pensando di offrirsi a qualcuno al bordello della città, quando il guaritore stesso gli aveva suggerito a chi rivolgersi. Chi invocare.

“Rothbart.”

L’Oscuro Signore comparve solo quando Aeglos lo invocò per la terza volta.

 

“Ancora con questa storia! Non mi importa dello status! Voglio solo essere...”

Per Cora aveva parlato anche troppo. Usò le cinghie che Regina teneva ancora in mano per legarla. Abbastanza stretta da farle male.

“Ti prego...”, implorò Regina. “Farò la brava.”

 

Rothbart guarì Aegnor e ad Aeglos bastava. Avrebbe pagato l’Oscuro in qualche modo, ma...

Aegnor implorò Rothbart di insegnargli ciò che sapeva. Voleva che Rothbart gli insegnasse ad usare la magia.

L’Oscuro accettò. Lo chiamava Fuoco Funesto. Diceva che era un bel nome e che doveva andarne fiero.

 

Lo Spettro usò le cinghie, le stesse che Ade aveva usato per legare Cora alla ruota, nei sotterranei della sua prigione.

Le cinghie schioccarono e Regina si ritrovò con il busto e le gambe intrappolate.

- Ah! – esclamò lo Spettro, sfoggiando di nuovo quell’orrendo sorriso. – Com’è divertente, vero? Noi pensiamo che sia divertente! Tu non lo trovi divertente, Regina? È quello che ti faceva la tua mamma. Non lo trovi divertente?

 

Aegnor e Aeglos vennero accettati da un’altra tribù, molto più grande del clan di cui avevano fatto parte fino a qualche anno prima.

Il maggiore continuava a prendere lezioni dall’Oscuro, anche se nessuno all’interno del clan lo sapeva.

Rothbart avrebbe voluto insegnare la magia anche ad Aeglos. Sosteneva che ci fosse del fuoco dentro di lui.

“C’è una cosa fondamentale che devi imparare, Aeglos. Ed è che tuo fratello sta facendo tutto questo anche per te. Dovresti ricambiare. Aiutarlo. Hai molto potenziale. La magia... è potere.”

Ma Aeglos non voleva. Aveva paura. E aveva trovato una ragazza, entrando nella tribù. Una ragazza che aveva la sua stessa età e non badava al suo strano aspetto. Era bella ed era dolce. Nessun’altro, a parte Aegnor e la madre, era mai stato così gentile con lui.

 

“Daniel. Se volete una vita insieme, una famiglia... c’è una cosa fondamentale che devi imparare. Sull’essere genitori. Bisogna fare sempre ciò che è meglio per i propri figli.”

“Grazie. Lo capisco. Ed è ciò che state facendo voi.”

“Sì. Proprio così.”

 

La tribù rivale aveva attaccato durante la notte, mentre tutti dormivano. Avevano ucciso gli uomini di guardia. Avevano ucciso molti suoi amici.

Avevano ucciso anche la ragazza. Le avevano tagliato la gola.

Il suo sangue era rosso sulle mani di Aeglos.

La rabbia che aveva provato non era semplice rabbia. Era furia cieca. Era odio puro. Aegnor aveva visto tutto e aveva evocato la magia. Aveva evocato gli spiriti come gli aveva insegnato l’Oscuro Signore. Lo aveva chiamato perché lo aiutasse, ma Rothbart non era venuto.

E Aegnor aveva perso il controllo degli spiriti. Era stato attaccato da loro. E avevano attaccato Aeglos. Si erano nutriti della loro energia vitale. Avevano distrutto i loro corpi.

Ma non tutto. Qualcosa di loro era rimasto. Qualcosa di Aeglos e Aegnor. Gli spiriti si erano fusi con i due fratelli diventando...

 

Lo Spettro prese Regina e affondò una mano nel suo petto, là dove c’era il suo cuore pulsante.

Regina si dimenò e scalciò, ma non ottenne niente. Era troppo forte per lei. La sofferenza le faceva inarcare la schiena e sopprimeva qualsiasi altro pensiero razionale.

Era finita. Ne era sicura.

Lo Spettro cominciò a risucchiare la sua energia.

 

“Daniel. Se volete una vita insieme, una famiglia... c’è una cosa fondamentale che devi imparare. Sull’essere genitori. Bisogna fare sempre ciò che è meglio per i propri figli.”

“Grazie. Lo capisco. Ed è ciò che state facendo voi.”

“Sì. Proprio così.”

Cora affondò una mano nel petto di Daniel, strappandogli il cuore. Regina urlò.

 

Per Regina era diventato impossibile persino urlare. Sentiva chiaramente la vita che defluiva dal suo corpo un pezzo alla volta, mentre gli occhi dello Spettro erano diventati neri, neri anche dove avrebbe dovuto esserci il bianco della sclera.

“Farò la brava.”

“Ti prego... farò la brava.”

Una freccia tagliò l’aria e lo Spettro l’afferrò con la mano libera, spezzandola in due.

“Farò la brava.”

“Farò...”

La seconda freccia lo raggiunse al collo e la creatura ruggì di dolore. Mollò la presa sul corpo di Regina, che si afflosciò sull’asfalto come un burattino a cui erano stati tagliati i fili e non si mosse più.

Una terza freccia gli sfiorò la testa, ma lo mancò perché lo Spettro si spostò all’ultimo istante, un ghigno sadico a deformargli i lineamenti. L’occhio rosso fissò Mary Margaret, che aveva già incoccato un altro dardo.

- Hai sbagliato, mammina! – gridò lo Spettro, con una voce stridula. – Non saresti mai dovuta venire! Mai!

La freccia seguente era decorata con due piume rosse e proveniva dall’alto. Fiyero, posizionato sul tetto di un edificio, cercò di attirare l’attenzione dello Spettro su di sé.

Il mostro acchiappò anche quella freccia e rise. – Quello che fate è inutile! Noi non possiamo essere fermati!

Marian scagliò la sua freccia, provando a sorprenderlo da un'altra angolazione. Lo colpì ad una gamba, ma lo Spettro usò il suo potere per scagliare Marian lontano.

- A noi, adesso, mammina! – gridò. Allungò una mano, come se volesse afferrarla e Mary Margaret si sentì trascinata verso lo Spettro. Lasciò cadere l’arco e la freccia che aveva già incoccato. Puntò i piedi nell’asfalto, tentando di resistere alla forza magica, ma fallì e lo Spettro la prese per il collo.

Mary Margaret guardò Regina. Non si muoveva. Sembrava non respirasse nemmeno.

- Spediremo la tua animaccia giù nel Tartaro! E poi la Regina verrà a farti compagnia. Oh sì! Verrà. Verrà presto! – sbraitò lo Spettro. L’occhio rosso che non fissava il vuoto splendeva come una sudicia lampada.

E... l’odore. Cielo, quell’odore.

Era un lezzo fetido. L’odore di marcio dei rifiuti.

Per un attimo, tutte le ossa di Mary Margaret diventarono di ghiaccio.

- Ci stavamo divertendo, lo sai? Ci stavamo proprio divertendo e tu... tu hai rovinato tutto. – Lo Spettro appoggiò una mano sul suo petto.

“Sei una brava ragazza.”

“Vedi dove porta il bene?”

Tutte le ossa di Mary Margaret erano diventate di ghiaccio, ma la mano che teneva in tasca no. La mano che teneva in tasca era salda e sicura.

Compiendo uno sforzo titanico, la estrasse. Lo Spettro fissò come instupidito il cuore pulsante venuto fuori dalla tasca, come un coniglio da un cappello magico.

- Che cosa...?

Mary Margaret spinse il cuore nel petto dello Spettro.

Lo Spettro rialzò lo sguardo, inebetito, portandosi una mano all’altezza del cuore.

Poi la lasciò andare e dalla sua gola uscì un orribile suono gorgogliante. Le dita arpionarono il collo, la faccia e i capelli, mentre il gemito diventava un grido e il grido diventava un urlo.

Mary Margaret si ritrasse, ma non distolse mai lo sguardo.

“Vedi dove porta il bene?”

Lo Spettro cercò di raggiungerla e la madre di Emma si fece in là, meccanicamente. L’essere cadde in ginocchio, sempre emettendo quell’urlo stridulo, che quasi le faceva sanguinare il cervello.

Marian si premette le mani sulle orecchie.

- Che cos’hai fatto? Che cosa ci hai fatto?

 

 
Oltretomba. Poche ore prima.

 

“Oh, finalmente.”, disse Tremotino, che sedeva dietro al bancone, rigirandosi tra le dita una piccola sfera di cristallo. Non si voltò nemmeno. “Questa volta vale il detto... meglio tardi che mai.”

Mary Margaret chiuse la porta del negozio dietro di sé e avanzò verso il bancone, con l’arco in pugno e la faretra a tracolla. A Tremotino ricordò la bandita che, un tempo, si nascondeva nelle foreste, braccata da Regina; lo stesso sguardo risoluto, lo stesso passo sicuro. Ma c’era qualcos’altro. Qualcosa di più. Qualcosa di diverso.

Qualcosa di oscuro.

La rabbia.

Tremotino sorrise, perché conosceva quello sguardo. Da sotto il bancone estrasse uno scrigno di legno e lo appoggiò sulla superficie di legno, spingendolo verso di lei. “Ecco.”

“Che cos’è?”

“Un otre incantato. Riempito con l’acqua del Fiume delle Anime.” Scandì bene le parole, perché fosse chiaro. “Ovviamente sembra un cuore. Un normale cuore. Il cuore di una persona viva.”

Mary Margaret aprì lo scrigno per accertarsene.

Il cuore era rosso. Rosso e pulsante. Lo sfiorò con la punta delle dita.

La voce di sua madre le rimbombò nel cervello: ‘Biancaneve... quella non era paura. Era forza. La forza di resistere all’oscurità. Ed io sono così fiera di te.’

“Immaginavo che sareste venuta. Sono l’Oscuro e come Oscuro leggo nell’animo delle persone. Adesso che in me c’è il potere di tutti gli Oscuri... è diventato ancora più facile.”, stava dicendo Tremotino. “Questo posto... alimenta i nostri ricordi. Alimenta la rabbia. È difficile non pensare al passato quando ci si ritrova qui.”

‘Vedi dove porta il bene?’

Mary Margaret prese il cuore e richiuse lo scrigno con uno scatto secco.

“Pensate di riuscirci... Biancaneve?”

 

 
- I cattivi non ottengono mai il lieto fine. – rispose Mary Margaret, con una voce così gelida che la riconobbe a stento come la sua. – Ed io mi sto assicurando che tu non sia l’eccezione alla regola, Cora.

Aveva creato apposta un diversivo per avvicinarsi allo Spettro.

Quando era uscita di casa per rintracciare la creatura che si era impossessata di Cora, sapeva che qualcuno l’avrebbe seguita. Marian e Fiyero erano troppo attenti, troppo guardinghi. L’avevano raggiunta nel bosco, mentre lei risistemava nella faretra le frecce imbevute dell’acqua del Fiume delle Anime.

“Non potete affrontare lo Spettro da sola. È una stupidaggine, milady.”, aveva detto Fiyero.

“Si tratta del mio conto in sospeso.”, aveva risposto lei, senza alcuna esitazione, caricandosi la faretra in spalla.

“Cora è il tuo conto in sospeso. Emma mi ha raccontato che cosa è successo a Storybrooke.” Marian aveva scosso la testa. “Lo Spettro non è Cora. Ha preso il suo corpo e ne fa ciò che vuole. Proprio come faceva con Emma.”

“Un motivo in più per eliminarlo. Non posso permettere che Cora venga liberata. Lo Spettro prenderà qualcun altro e Cora...”

Cora sarebbe stata libera a sua volta. Libera di risolvere i suoi conti in sospeso e di trovare la strada per il posto migliore.

Il posto migliore non era per quelli come Cora.

“Ha ucciso mia madre. Ha ucciso Johanna. Ha manipolato Regina per anni e le ha distrutto la vita. Non si è mai pentita, capite? Mai.”

Le frecce non avrebbero fermato lo Spettro. Ne era sicura. Poteva mirare al cuore, ma la creatura l’avrebbe comunque sentita. Sorprenderlo così era quasi impossibile. Ma l’avrebbe distratto. Doveva riuscire ad avvicinarsi abbastanza da poter usare l’otre incantato che le aveva dato Tremotino.

Era arrivata quasi troppo tardi. Lo Spettro era sul punto di uccidere Regina.

- Tu la pagherai! Pagherai quello che...

Lo Spettro iniziò a dissolversi. La sua pelle divenne bianca come neve e poi trasparente. Sotto non c’erano né carne né ossa, ma solo un turbinio notturno. L’occhio la fissò con odio.

Mary Margaret vide il volto della creatura cambiare. Era il volto di un ragazzo con le ciglia e la barba bianchi. Era il volto di un giovane uomo con i capelli rossi. Poi rimase solo il volto di Cora.

Per qualche secondo, lo Spettro non fu più lo Spettro, ma solo Cora.

Ululò di dolore mentre le tenebre pulsavano, spaccandole la pelle.

“Sei una brava ragazza.”

Emma, ripresasi dal colpo subìto quando Regina l’aveva messa fuori gioco, si precipitò fuori di casa seguita da Henry e da Lily.

- Mamma! – gridò Henry, inginocchiandosi accanto a Regina.

Emma cercò le pulsazioni, appoggiandole due dita sul collo.

Un ultimo grido agonizzante e il corpo di Cora si lacerò dalla testa ai piedi, liberando fiumi neri che si divisero in tre rivoli ed evaporarono all’istante.

“Sei una brava ragazza.”

Di Cora non rimase più niente.

Mary Margaret si piegò sulle ginocchia, improvvisamente svuotata di ogni energia.

“Pensate di riuscirci, Biancaneve?”

- Regina, sono io... rispondimi. – disse Emma, scuotendola.

Henry stringeva una mano della madre priva di sensi, in trepidante attesa, gli occhi sbarrati e le labbra strette in una linea piatta.

Regina non rispose.

- Ti prego... – implorò Emma, appoggiandole una mano sul petto. Il suo cuore batteva, ma era terribilmente debole.

Quanta forza le aveva risucchiato lo Spettro prima di essere abbattuto?

- Regina...

Nessuna risposta.

Killian andò ad aiutare Mary Margaret a tirarsi su. Lei barcollò, aggrappandosi al suo braccio, ma lo lasciò andare quasi subito. Fiyero raccolse l’arco e glielo porse. La osservava con un certo timore, ma anche con rispetto.

Emma sfiorò la fronte di Regina e alzò la testa, incrociando gli occhi impauriti di Henry.

Poi si chinò nuovamente sull’altra madre di suo figlio e, senza fermarsi troppo a riflettere, la baciò. Premette le labbra sulle sue con decisione.

 

“Sono famosa per questo dolce.”, continuò, chiudendo il contenitore. “Veramente delizioso.”

Emma non era sicura di cosa fosse più forte. Se il profumo di quella ricetta o il profumo di Regina. I suoi occhi nocciola la scrutarono, mentre le porgeva il tutto. Regina avrebbe potuto ottenere qualsiasi cosa con quegli occhi.

E sembrava stesse aspettando una reazione, una qualsiasi. Anche solo una semplice parola.

“La ringrazio.”, disse, invece, Emma.

“Spero che le piacciano le mele.”

Emma prese il contenitore e sorrise. Si girò per andarsene. Ma si fermò quando era già oltre la soglia della cucina.

“Ha dimenticato qualcosa?”, chiese Regina.

“Lei sa benissimo che non sono qui solo per un dolce, vero? Sa che cosa intendevo quando le ho detto che questa situazione è insostenibile. Che sono disposta ad andarmene.”

“Beh, la nostra situazione può danneggiare Henry. Immagino che, per una volta, sia riuscita a riflettere e a vedere le cose con chiarezza.”

“Io sì. E lei?”

“Io?”

“Sei molto più consapevole della situazione di quello che vuoi lasciar credere, Regina.”

Il cambio di tono la destabilizzò. Emma Swan non le aveva mai dato del tu. La fissò mentre appoggiava il contenitore sul ripiano.

“Se ne vada. Ha detto che vuole lasciare la città. E allora se ne vada.”

“Mi piace essere chiara, credo che tu l’abbia capito. Quello che c’è tra noi... non danneggia solo Henry. Potrebbe danneggiarci tutti.”

Regina avrebbe voluto tapparle la bocca prima che continuasse. Il dolce era lì, sul ripiano della sua cucina. Bastava che ne mangiasse un pezzo. Solo un pezzo e non avrebbe più avuto la Salvatrice tra i piedi. Bastava un pezzettino per mettere la parola fine a...

“Non mi vuoi intorno ad Henry, ma non mi vuoi nemmeno intorno a te. E stai pur certa che non sei la sola.”

“Io e lei veniamo da... mondi diversi. Avrebbe dovuto essere chiaro fin dal principio. Siamo inconciliabili. Quello di cui parla... non dovrebbe esistere. Mi fa piacere sapere che anche su questo la pensiamo allo stesso modo.”

Emma roteò gli occhi e poi l’attirò a sé prendendola per il colletto della camicia. Qualcosa che avrebbe voluto fare dal giorno in cui aveva salvato Henry, intrappolato nella miniera insieme ad Archie. O forse da prima. Non avrebbe saputo dire quando se ne era accorta, quando era cominciato.

Regina accettò il suo bacio. Era un contatto bruciante, prepotente e rabbioso. Non c’era alcuna dolcezza e Regina non si era mai aspettata niente di diverso da quella rude ragazzina di Boston.

Iniziò a spogliarla quasi subito. Gettò via la giacca rossa, afferrò l’orlo della maglia che portava sotto ed Emma se la tolse in fretta. Le dita della sua peggior nemica armeggiarono con i bottoni della camicia bianca. Ne strapparono due.

Emma la spinse contro il bancone della cucina. Regina non oppose resistenza, ma inclinò la testa e le concesse spazio. Chiuse gli occhi e gemette quando Emma le ricoprì il collo di baci ardenti, morsicando leggermente la pelle nel punto di congiunzione con la spalla. Poi le slacciò i pantaloni. Regina le infilò le dita fra i capelli biondi, trattenendola con forza contro di sé, mentre con la mano libera cercava di slacciarle il reggiseno.

A Regina mancava il respiro. Le sembrava che tutto stesse girando, intorno a lei. Il mondo girava veloce, era come una trottola impazzita e lei avrebbe voluto scendere, ma avrebbe anche voluto che non smettesse mai di girare.

La bocca di Emma cercò di nuovo la sua, la trovò e le loro lingue si intrecciarono.

Era troppo oltre. Era incapace di resisterle.

Regina graffiò la schiena della Salvatrice, affondando le unghie nella carne. Si eccitò ancora di più, sentendola gemere di dolore e di piacere.

Soffocò a stento un grido, quando Emma la baciò e scivolò dentro di lei, infilando una mano tra le sue gambe.

 

Regina attese che il respiro si calmasse e poi si alzò, abbandonando il pavimento freddo della cucina. Emma non l’aveva neppure sfiorata, ma era rimasta a fissarla con quei suoi disarmanti occhi verdi, che giocavano con la luce mostrando sfumature azzurrine.

“Deve andarsene.”, disse Regina, freddamente. “Lasci Storybrooke. È meglio per lei.”

Darle ancora del lei dopo quello che era successo suonava ridicolo, ma doveva erigere delle barriere. Ad ogni costo.

Emma si rivestì senza risponderle. Il dolce che Regina le aveva offerto era ancora nel contenitore, sul ripiano, in attesa che lei lo portasse via.

C’era qualcosa che doveva fare.

Doveva farlo assolutamente.

Regina si appoggiò al bordo del ripiano. Non era sicura di reggersi in piedi. Aveva le ginocchia deboli. Ma sì... doveva farlo.

L’espressione di Emma era contrita. Sembrava in procinto di dire qualcosa per riempire quel silenzio insopportabile.

“Può prendere il dolce. E... forse è il caso che beva qualcosa di forte, le pare?”

Emma batté le palpebre. “Qualcosa di forte. Oh, sì. Molto forte, se puoi. Il più forte che hai.”

Regina andò a prendere il bourbon più forte che aveva. E prese anche ciò che le serviva. Lo teneva in un cassetto chiuso a chiave. In caso di emergenza.

Prese due bicchieri, con le mani che tremavano. Rischiò di rovesciare il bourbon, ma si sforzò di controllarsi. Recuperò la fiala con la pozione e lasciò che il contenuto scivolasse in uno dei bicchieri.

E ne mise un po’ anche nel proprio.

Tornò in cucina e porse il bicchiere ad Emma. Lei lo prese e buttò giù il contenuto in un’unica sorsata, mentre Regina beveva il suo.

 

Emma riemerse da quei ricordi, boccheggiando.

Regina emise un lungo sibilo, simile ad un rantolo. Le sue palpebre tremolarono e poi aprì gli occhi, fissando Emma come se la riconoscesse confusamente. Poi guardò Henry, che sorrideva, sollevato.

- Henry... Emma... dov’è...?

- Lo Spettro è morto. È tutto finito. – disse Henry, continuando a stringere la mano della madre.

 

 
- Sarai lieta di sapere che il problema dello Spettro è risolto. – annunciò Ade, rientrando nel covo sotterraneo. – E... gli pseudo eroi hanno risolto anche il problema di tua madre. Cora ha cessato di esistere. Beh, in qualche modo esiste ancora... ma non potrà andare da nessuna parte. Mai più.

Alzò la voce quando disse mai più, come se si trovasse su un palco in un gigantesco teatro pieno di persone che aspettavano proprio quella battuta.

La sua voce riecheggiò lungo le pareti nere della sua fortezza e si perse, frammentandosi.

Nessuno rispose.

Ade guardò la piattaforma circolare. Ascoltò il lamento dei gusci vuoti che fluttuavano nel Fiume delle Anime. Vide una poltrona rovesciata. Cocci di vetro sparsi sulle piastrelle, i resti di un bicchiere.

Uno dei suoi schiavi giaceva riverso dietro la poltrona, svenuto.

- Che cosa diavolo è accaduto qui?! – gridò Ade, afferrando il ragazzo per i capelli biondi e strattonandolo fino a quando non riprese conoscenza.

Lui sbarrò subito gli occhi, spaventato dall’espressione mostruosa sul viso di Ade. – Ah... io... mio Signore, mi dispiace...

- Dov’è Zelena?!

- L’hanno... loro l’hanno presa.

- Loro? Loro chi?

Il ragazzo aprì la mano destra, rivelando la presenza di un foglio di carta ingiallito e arrotolato. Un messaggio.

Furioso, Ade glielo strappò di mano e lasciò cadere il servo, che si raggomitolò su sé stesso, in attesa di qualche altra terribile punizione.

Le parole erano semplici e chiare.

Gli occhi di Ade si accesero, diventando due buchi pieni di lampi e di fuoco azzurro. Sferrò un calcio, colpendo il ragazzo nella natica destra con la sua scarpa nera e appuntita. Poi premette il tacco di quella scarpa sul suo collo, quasi soffocandolo.

Le pareti della fortezza tremarono, scosse dalla rabbia del Signore dell’Oltretomba.


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Capitolo 13
*** 13. ***


13

 

 

Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,

in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.

Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:

ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;

se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:

se non è inventata la novella di quell'antico rapimento,

anche voi foste uniti da Amore.”

[Ovidio; Le Metamorfosi, X]

 

 

- Non dovresti essere qui. È buio. – disse Emma, avvicinandosi a Regina, che sostava davanti alle tre tombe sulle quali Ade aveva inciso i tre nomi.

Biancaneve

Lilith Page

Regina Mills.

Regina non si voltò nemmeno a guardarla. – Non ho bisogno della babysitter.

- Non sono venuta per farti da babysitter, infatti.

Le loro voci risuonavano in modo sinistro, come la brezza gelida che rumoreggiava tra le foglie.

Il cimitero era avvolto dai densi vapori rossi dell’Oltretomba, che strisciavano fra lapidi rovesciate e lapidi erette o spezzate, in compagnia delle ombre.

- Ti cercavo. Volevo parlarti.

Regina sapeva benissimo di cosa avrebbe voluto parlare Emma. Dei ricordi. Di quei ricordi che erano riemersi dopo...

Dopo il bacio del vero amore. Quando sei quasi morta per colpa dello Spettro.

Oh, no. Era pazzesco. Non poteva essere.

- Erano... voglio dire, lo Spettro era... non era soltanto uno. Erano in due una volta. – disse Regina, spezzando il silenzio.

- In due?

- Erano fratelli. – Regina le parlò di Aegnor e Aeglos, i due ragazzi che un tempo erano... solo quello, ragazzi. Ragazzi poco più grandi di Henry finiti nelle mani dell’Oscuro Signore.

Emma non disse niente.

- Emma... quello che abbiamo ricordato... – si decise infine, sapendo di non poter evitare l’argomento. – Io non...

- Hai cancellato la mia memoria. L’hai cancellata perché non potevi sopportare quello che era successo.

Regina la guardò per la prima volta. Stava per rispondere, stava per dirle che era molto più complicato di così, ma aveva la gola talmente secca che le sarebbe costato uno sforzo immenso parlare. Restò là, nell'oscurità, ad ascoltare il proprio respiro e quello della Salvatrice. Restò là a guardare gli occhi verdi che non lasciarono mai i suoi. L'espressione di Emma era fiera, risoluta, l'espressione della Emma che aveva conosciuto qualche anno prima, quella che aveva tagliato l'albero di mele, sfidandola apertamente. La stessa espressione della Emma che l'aveva salvata dalla folla inferocita dopo la rottura del sortilegio.

- Se ti baciassi ora, ricorderei qualcos'altro, secondo te? - chiese Emma, fissandole le labbra.

Regina deglutì a vuoto. - No... credo di no.

Emma le lasciò scivolare una mano sulla nuca, sotto i capelli. L'attirò a sé e Regina afferrò il risvolto della sua giacca rossa. Non esitò ad approfondire il contatto subito, non appena le bocche si toccarono. Sentì una mano di Emma fra i capelli, decisa e salda, calda anche se lei era morta e la notte infernale era gelida.

- Mi scuso se mi intrometto in questa tenera scenetta.

Emma si spostò di scatto e si girò, con gli occhi sbarrati. Regina aveva già sollevato un braccio, pronta a scagliare la sua magia contro Ade.

Lui non se ne curò. – Non sono venuto per farvi del male. In realtà sono qui per chiedervi... oh, caspita, questo sì che è difficile. Aiutarmi. Devo chiedervi di aiutarmi.

- In che modo potremmo aiutarti? – chiese Emma, aggrottando la fronte.

- Semplice. Sono tornato nel mio covo dopo aver sbrigato qualche... piccola faccenda. E ho trovato uno dei miei servi svenuto. Aveva questo. – Mostrò loro il pezzo di pergamena che aveva trovato nelle mani di quell’idiota.

Regina glielo strappò di mano e lo srotolò per leggere il messaggio. – No.

 

“Per questi luoghi paurosi,

per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno,

vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!”

 

 

- Zelena è stata rapita da Gold e da Artù? – Mary Margaret non riusciva a capire che cosa stessa succedendo. – Artù? Che cosa ci fa qui?

- Ha affrontato la regina di Dunbroch in duello ed è... morto. – disse Ade.

- E ha troppe cose in sospeso. - continuò Lily, contrita.

Il Signore dei Morti annuì, con aria grave. - Vogliono incontrarmi domani mattina.

- E Gold vuole che strappi il contratto che ti lega al suo secondogenito. – osservò Killian.

- Vedo che ne siete al corrente.

- Ovviamente. – Malefica aprì la mano e in essa comparve lo scettro. – Ci ho pensato io. Ho osservato l’Oscuro in questi giorni. Molto spesso. E ho sistemato il suo stesso padre. In questo momento Peter Pan è impegnato con il Minotauro.

- L’avete gettato nel labirinto? – chiese Marian, incredula.

- L’ho colto alla sprovvista. Non si aspettava intoppi né tantomeno... un drago.

Lily sorrise, immaginando Pan alle prese con l’enorme uomo-toro, in un labirinto dal quale era molto difficile uscire.

- Ottima mossa. – commentò Ade. – Ma non avete pensato al fatto che l’Oscuro può trovare altri alleati, se lo vuole.

- Che cosa aspetti a strappare quel contratto, quindi? – domandò Regina. – Io e Zelena non saremo in buoni rapporti, ma non posso permettere che Gold la uccida. Ha una figlia appena nata. Ed è comunque mia sorella.

- Nemmeno io voglio che le accada qualcosa. Per questo gli darò ciò che mi chiede.

- E Artù? Gli darei quello che ti chiede? – domandò Killian, alzando la voce e anche l’uncino. – Vuole tornare in vita. Glielo concederai?

- Cominciamo dal contratto. – tagliò corto Ade. - Come stavo dicendo, farò ciò che mi chiede, ma conosco bene l’Oscuro. Non manterrà la parola. Per questo devo avere un asso nella manica.

- Per fortuna ne hai uno. – disse Regina.

- Regina, no... – intervenne Emma.

- Sono d’accordo. Non possiamo fidarci dell’Oscuro, ma non possiamo fidarci nemmeno di lui. O di Zelena. – Killian si avvicinò di più ad Ade.

- Regina è molto motivata. Forse. Visto e considerato che... c’è di mezzo Emma. Ma Lilith lo è molto di più di lei, credo. – Spostò l’uncino che il pirata teneva a pochi centimetri dalla sua faccia con il dorso della mano. Gli fece molto piacere vedere la smorfia che gli deformò i lineamenti.

Lily attese di capire che cosa intendesse.

- Sei stata tu ad uccidere la Salvatrice. E sei stata tu ad avere la... brillante idea di condurre tutti quaggiù per riportarla indietro. Ora dovresti fare qualcosa per... aiutare le persone che ti hanno seguita e quella a cui tieni di più.

- Non avvicinarti a mia figlia, viscido essere... – iniziò Malefica.

- Lascia perdere, mamma. Ha ragione. – replicò Lily, ignorando lo sguardo costernato di sua madre. Guardò Ade negli occhi per dimostrargli che non aveva paura. – Cosa vuoi dire?

- Propongo un accordo. Se tu mi aiuterai e Zelena ne uscirà viva... cancellerò i nomi sulle tombe. E vi indicherò la via per andarvene.

- Sappiamo come andarcene. – rispose Mary Margaret. – Uno di noi può dare una parte del suo cuore ad Emma.

- E non funzionerà. Perché Emma è morta da troppo tempo. Il vostro adorato principe era... come dire... appena spirato e la sua anima non aveva ancora raggiunto questo regno.

Regina ebbe l’impressione di essere stata raggirata da tutto e da tutti. Non solo da quel bastardo di Gold, ma anche dal regno di Ade. Dal tempo.

- Ma io conosco un modo per uscire dall’Oltretomba. Non è una via sicura. Vi aspettano... momenti molto duri. Prove. – Ora fissava Regina, non più Lily.

- Non me la bevo. – sentenziò Killian. – Non fidatevi assolutamente.

- Lasciate che vi dimostri che le mie intenzioni sono buone. – Ade agitò una mano e una nube nera li strinse rapidamente nelle sue spire.

Il mondo si capovolse. Regina udì il grido di Mary Margaret e qualcuno che si aggrappava al suo braccio, forse Henry.

Poi le tenebre si diradarono e loro si ritrovarono di nuovo al cimitero, davanti alle lapidi con i loro nomi.

Regina Mills.

Lilith Page.

Biancaneve.

Ade esitò un istante, come se fosse indeciso sul da farsi. Poi si accostò alla tomba della figlia di Malefica. Posò due dita sul dorso freddo del marmo e rivolse un’occhiata ai presenti, quasi fosse un mago che voleva stupire tutti con qualche nuovo trucchetto. Infine, tracciò una linea sul nome di Lilith. Una linea con il dito indice.

Le lettere si illuminarono una alla volta. La luce azzurrata si espanse, racchiudendo la lapide in un bozzolo.

Lily fece per avvicinarsi, ma sua madre la prese per un braccio, trattenendola.

Il bozzolo si ruppe e tutti videro la pietra liscia. Eretta ed intonsa. Senza più nomi incisi.

 

“Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto

il tempo che le spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.”

 

- Mostratevi. – ordinò Ade, non appena ebbe messo piede nel vecchio Granny’s Diner, ormai deserto.

Tremotino apparve preceduto da una nube rossa, accompagnato dal re di Camelot, che stringeva un braccio di Zelena. Ade non riuscì subito a decidere quale dei due sorrisetti fosse il più odioso.


- Quindi è questo il Dio dei Morti. – lo sbeffeggiò Artù, puntandogli un dito contro. Indossava la sua armatura. Il mantello rosso era polveroso e sfilacciato. Il fodero appeso alla cintura era vuoto. Niente armi. Per lo meno... niente armi comuni. Nella mano libera reggeva la Folgora Olimpica. La
sua Folgore. Quella che aveva rubato a suo fratello moltissimo tempo prima. Il re senza più regno aveva due occhi scuri e orlati di rosso, gli occhi di un folle.

- Mi aspettavo di meglio. Qualcosa di più... terrificante, forse. – disse Artù, fingendosi enormemente deluso.


- Fidati, questa non è la mia vera forma. Se vedessi quella vera, non sopravvivresti. – Ade osservava Zelena per assicurarsi che non fosse ferita.


- Ho provato a fermarli. – disse lei. Sollevò un braccio per mostrare il bracciale nero agganciato al polso. – Ma...


- Non è certo colpa tua. È loro.  


- Oh, davvero? – Tremotino sembrava divertirsi un mondo. – Se non fosse per quel contratto, non saremmo qui. Avresti potuto strapparlo tempo fa, quando te l’ho chiesto.


Ade mostrò il contratto che lo legava all’Oscuro Signore. Lo srotolò davanti a lui, perché potesse constatare con i suoi occhi che non stava mentendo. Lo aveva portato. – Non era nel mio interesse.


- Ma ora sì. Bene. Faresti meglio a non muoverti, se non per strappare quel contratto.

Non perse tempo. Persino il sorrisetto di Artù vacillò quando le mani di Ade strapparono la pergamena e gettarono via i due pezzi, uno a destra e uno a sinistra.

- Non credevo che sarebbe stato così semplice. – disse Artù, mentre Zelena strattonava per liberarsi ma senza riuscirci.


- Beh, lo è stato. Ora lasciatela andare. - replicò Ade.


- La lasceremo andare. – rispose Tremotino. – Ma c’è ancora una cosa...


- Il suo cuore. – lo anticipò Artù. – Mi sono aggiudicato il suo cuore. Mi serve per tornare in vita. Un cuore che batte. Prendo volentieri quello di una strega perfida e potente. Ho molte cose da fare lassù. Ho una moglie che mi aspetta.


- E che ti odia, perché l’hai legata a te con un incantesimo. – commentò Zelena, acidamente.


- Le cose si possono aggiustare, strega. – Artù guardò Tremotino. – Allora?


Ade si scagliò contro il re di Camelot e fu allora che un’onda di magia viola piombò nel Granny’s dalla porta che conduceva sul retro e investì in pieno Artù, che perse l’equilibrio. La Folgore gli sfuggì di mano, slittò attraverso il linoleum, roteando e finì ai piedi di Ade, che si affrettò a raccoglierla.


- Non ero sicuro che ce l’avresti fatta. – disse Ade, rivolto a Lily, che entrò, andando a mettersi di fianco a lui.


- Ho imparato qualcosa negli ultimi tempi. Grazie a mia madre.


- E da quando Lilith Page risponde al Dio dei Morti? Te l’ha detto, tua madre, che è la squadra sbagliata? – L’Oscuro non sembrava affatto sorpreso. Era paziente. Come se aspettasse il resto. Uno scontro, magari. – Oh, ma dimenticavo... tu sei l’Anti Salvatrice. Il Dio dei Morti, per te, è un’ottima scelta.


- Sarò anche l’Anti Salvatrice, ma sono qui per salvare Emma e gli altri. Sparisci, Oscuro. – sibilò Lilith, con gli occhi dorati e pieni di fuoco. – Hai ottenuto ciò che volevi. Vattene e basta. Hai visto che cosa c’è qui? La Folgore Olimpica. Vuoi finire arrostito?


Tremotino rifletté qualche istante.


Ade ne approfittò per far sparire Artù. L’uomo imprecò contro di lui, prima di svanire in una nube nera. Le prigioni dell’Oltretomba lo avrebbero accolto volentieri. Aveva in mente tante belle torture. Forse avrebbe raggiunto Percival, il suo cavaliere. Si sarebbero fatti compagnia a vicenda e avrebbero lottato assieme contro il fuoco...


- D’accordo. Ammetto che hai ragione. – Tremotino scomparve a sua volta.


Ade corse ad abbracciare Zelena. Lily incrociò le braccia al petto, fissando la Folgore ancora nelle mani del Signore dei Morti. Quell’arma la rendeva nervosa. Forse avrebbe dovuto trovare un modo per sottrargliela. O avrebbe dovuto chiedergli di consegnarla. Non aveva ancora mantenuto la parola...


- Hai strappato quel contratto per me. Non credevo che l’avresti fatto. – Zelena appoggiò una mano sul suo petto, all’altezza del cuore, dopo che lui l’ebbe liberata dal bracciale che bloccava i suoi poteri.


- Ancora non hai capito che quello che ti ho detto quando ti ho... diciamo rapita... è vero. Farei questo ed altro per te.


Lily roteò gli occhi. Sbirciò fuori dalla finestra e vide sua madre, che disegnava ampi cerchi girando in tondo, in forma di drago, sopra al Granny’s.


Zelena lo baciò.

 
“Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo:
io non me ne andrò: della morte d'entrambi godrete!"
 
Il cuore di Ade riprese a battere con un potente sussulto.
 
 
Le lancette della Torre dell’Orologio giravano al contrario.
E la Torre non era più nello stesso posto. Non appena Zelena aveva baciato Ade, spezzando la maledizione, l’esilio era terminato e le lancette avevano cominciato a muoversi.
- Perché è qui? – chiese Mary Margaret.
- Perché è un portale. – rispose Ade. – Quando gireranno abbastanza velocemente, si aprirà. E potrete andarvene. Potremo andarcene.
Regina guardò sua sorella, aspettandosi di vederla sorridere, soddisfatta. Invece, notò che era scura in volto. Accennò un sorriso, ma era distratta. Continuava a sfregarsi l’interno del polso con il pollice.
- Allora che cosa aspetti? Togli gli altri nomi dalle tombe. Ora. – sentenziò Lily. – Ti ho aiutato. Adesso tocca a te.
Emma era tesa come una corda di violino. Si aspettava che il Signore dell’Oltretomba opponesse resistenza. Si aspettava che avanzasse qualche altra pretesa. Killian la stava fissando con insistenza, ma lei era troppo concentrata su Ade.
- Con piacere. – disse lui.
Con un unico, semplice gesto della mano, come se stesse usando uno straccio per pulire una lavagna, cancellò i nomi di Regina e Biancaneve dalle lapidi.
- Come promesso. Ora potete andare via. Beh... potreste. Immagino che...
- Immagino che ora ci occuperemo del resto dell’accordo. L’uscita. Vogliamo procedere? - domandò Regina.
 
“Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.”
 
 
- Euridice riuscì ad andarsene. Mangiò l’ambrosia. Il cibo degli Dei. – spiegò Ade, non molto felice di dover raccontare di nuovo quella maledetta storia. Mostrò la pagina dedicata a loro nel libro.
- Ma non è andata così. – disse Henry, sfogliando le pagine. – Orfeo non riuscì a riportarla indietro. Conosco il mito. Ha fallito. Gli era stato imposto di non voltarsi fino a che non avesse varcato le porte dell’Averno.
- Lui si è voltato. – concluse Ade. – Già. Gli avevo imposto quella prova. Suonava... così bene. La sua musica era celestiale. Persino le Furie e le Arpie si misero a piangere e a loro non era mai capitato. Fu davvero imbarazzante. Per tutti.
- E allora? – chiese Henry, incuriosito suo malgrado.
- E allora... la storia non finisce con il fallimento di Orfeo. Lui venne rispedito nel mondo dei vivi, ma rimase per sette giorni davanti alle porte. Implorò Caronte e ogni giorno il traghettatore lo scacciò. Era caparbio. Immagino che tutti sognino un amante così... coraggioso e fedele.
- Ha avuto una seconda occasione?
- Tempo dopo, sì. Se ne andava in giro a suonare quella sua lira, commuovendo chiunque incontrasse. Alla fine commosse Afrodite. Commosse una divinità.
- Che lo aiutò ad entrare nell’Oltretomba. – concluse Regina. Occhieggiò di nuovo Zelena. Era decisamente chiaro che stesse meditando. Che stesse macchinando qualcosa. Era sicura che non stesse solo pensando alla bambina che l’aspettava lassù, a Storybrooke.
- Costrinse Caronte a collaborare. – stava dicendo Ade. – Fatto sta che Orfeo non fallì quella volta. Riuscì a portarla con sé, dopo averle dato l’ambrosia. Però...
- Però? – chiese Emma.
- Euridice... non era più la stessa. – Ade fissava Emma. – L’ambrosia le aveva permesso di andarsene, ma questo posto... l’aveva corrotta. Era rimasta qui per... un po’ di tempo. E tornare in vita può comportare delle conseguenze.
Emma non chiese che fine avesse fatto Euridice, secondo le voci. Il gelo era tornato. Cercò di leggere la menzogna negli occhi di Ade. Non la trovò.
Lui non aggiunse altro e, con un gesto della mano, trasformò il muro di mattoni della biblioteca in un ascensore.
- Stai scherzando? Un ascensore? – domandò Lily.
- Sì, un ascensore. L’ambrosia... è potente. È come un bambino viziato. Vuole tutto il potere per sé. Laggiù la magia non funziona. – spiegò Ade. – Una volta scesi... sarete soli.
- E? Cosa succederà allora? – chiese Regina, scrutando l’ascensore.
- Non ne sono sicuro. So che la strada è lunga. E non facile. Ma non mi sono mai spinto così in profondità.
- Quindi vuoi che Emma vada nell’unico posto dove persino il diavolo ha paura di andare? – Killian non credeva alle sue orecchie.
- Non è la paura, il problema. – si affrettò a controbattere. – È la prima prova. Quella che va necessariamente superata perché le porte si aprano e voi possiate percorrere la strada che vi condurrà all’ambrosia. La persona che verrà con te, Salvatrice... sarà giudicata. Dovrà offrire il suo cuore.
- Ma non avremo la magia... – mormorò Emma.
Ade affondò una mano nel petto di Regina, senza curarsi di essere delicato, ed estrasse il cuore. Lei non ebbe nemmeno il tempo di gridare. Ade mise l’organo prezioso in un sacchetto e strinse i lacci per chiuderlo, come se si fosse trattato di tramezzino da mangiare durante un simpatico picnic.
- Non ci provare mai più. – sibilò Regina.
- Immagino che non ti dispiaccia poi così tanto. O forse sì. Dipende da cosa succederà là sotto.
Killian serrò le labbra e uscì dalla biblioteca con passo deciso, chiudendosi le porte alle spalle.
- A qualcun altro indubbiamente dispiace. – commentò Ade, cedendo il cuore a Regina. – Buona fortuna.
Henry si avvicinò alle sue madri e allargò le braccia per stringerla a sé entrambe. Lui aveva fiducia. Sapeva che ce l’avrebbero fatta. Non poteva essere altrimenti. Loro due insieme erano più forti. Anche senza la magia.
- Quello che è successo a tua madre... – disse Mary Margaret a Regina.
- Se ti stai domandando quando proverò ad ucciderti per aver eliminato mia madre... lo Spettro... sappi che non intendo farlo. – l’anticipò, pur rimanendo seria. Era troppo occupata a pensare al peso che reggeva nella mano destra. Il cuore. Quel cuore nero. Il suo passato era pesante quanto un macigno e la sola idea di essere giudicata la raggelava. Non si era nemmeno sentita sorpresa quando Ade aveva strappato il cuore senza chiedere, indicandola come colei che avrebbe accompagnato Emma in quel viaggio terribilmente pericoloso. Ma quel cuore...
Mary Margaret l’abbracciò.
- Prendi questo, Emma. – disse Marian, porgendole l’amuleto che Lily aveva trovato nella stanza di Murphy, al Granny’s. – Non so perché, ma... potrebbe servirti.
Lo prese e se lo mise al collo.
Lily la fissava, leggermente contrita. – Devo dire che il Re dei Morti ha ragione, per quanto mi costi ammetterlo. Regina è l’unica che può accompagnarti là sotto.
- Hai già fatto abbastanza. – replicò Emma, appoggiandole una mano sulla spalla. – Cerca di non metterti nei guai. E se al tramonto io non dovessi tornare...
- Tornerai.
- Ma non è detto. E allora voglio che tu te ne vada. Insieme agli altri. Non tornare, Lily. Mai più.
Sembrava un ordine e non una semplice richiesta. Gli occhi di Emma non scherzavano affatto. Erano verdi e duri, volevano tutta la sua attenzione.
Lily fece un profondo respiro, lo trattenne per qualche istante, lo lasciò andare. Le costò molto dire ciò che disse. – D’accordo. Lo farò.
 
“Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell’Averno...”

 
Lily seguì Emma, sostando dietro al suo sguardo, fino a quando le fu possibile.
Vide l’ascensore scendere sempre più in profondità e toccare il fondo. Vide un lungo tunnel illuminato da qualche fuoco fatuo, un tunnel che si perdeva nell’oscurità.
Poi il contatto s’interruppe. Calò un sipario nero e, per quanto si sforzasse, non riuscì a penetrarlo. Malefica le venne vicino e la tenne fra le braccia.
- Dobbiamo davvero rimanercene qui ad aspettare, quindi. – disse Fiyero, giocherellando con una delle sue frecce.
- È qualcosa che devono affrontare da sole. – rispose Ade. – Al tramonto ce ne andremo.
- Non senza di loro. – asserì Henry.
- La loro strada è lunga. Impiegheranno del tempo per arrivare all’Ambrosia. E se ci arriveranno e riusciranno a prenderla... le porte si apriranno per loro e passeranno. Ve lo garantisco.
- Non ci sei mai stato laggiù. Come fai a garantirlo? - chiese Fiyero.
- Non ci sono mai stato, ma so che non sarà facile uscirne. Tuttavia, se ne usciranno, non avranno bisogno del portale per passare. Torneranno a casa, semplicemente.
Silenzio. Tutti si fermarono a riflettere.
- E le persone che sono ancora intrappolate qui? Loro che fine faranno? Come faranno ad andarsene? – domandò Henry, allargando le braccia.
Ade si accorse di avere ancora la Folgore Olimpica in mano e la porse a Zelena.
- Perché la dai a me? – chiese lei, confusa, stringendo l’impugnatura d’avorio dell’arma divina. Vide Marian che, d’istinto, si allontanava di qualche passo mentre la Folgore veniva depositata in altre mani.
- Mi fido. Tienila tu. – commentò Ade. Poi si rivolse di nuovo ad Henry. – Ora che il mio esilio è finito, saranno libere di risolvere le loro questioni in sospeso. Potranno andarsene e nessuno glielo impedirà.
- Ma molti di loro non sanno quali sono... le questioni in sospeso. Forse... potrei dirglielo io, in quanto Autore. Potrei aiutarle. – Henry si tastò la tasca nella quale teneva la penna.
- Credimi, forzare una cosa simile potrebbe solo causare altri problemi.
- Non voglio forzarli. Voglio solo... aiutare. Una... spinta.
Mary Margaret intervenne, posando una mano sul braccio di Henry. – Non credo che tu possa farlo. Devono riuscirci da soli. Se Regina fosse qui te lo direbbe.
 
 
“In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.”

 
Il tunnel che si era aperto davanti a loro quando l’ascensore aveva raggiunto le profondità dell’Oltretomba diventò ben presto una caverna buia, nebbiosa, piena di curve, con il soffitto così basso che Emma e Regina furono costrette a proseguire piegate. Non dissero niente per un bel po’. Almeno fino a quando non raggiunsero l’uscita, ritrovandosi in una stanza sotterranea chiusa. Davanti a loro c’era una vecchia porta alta e a due battenti. Sigillata. Tra essa e le due visitatrici c’era una roccia, sulla quale era posata una bilancia.
Emma si avvicinò per leggere la targhetta che riportava le istruzioni. – È in un’altra lingua. Credo che dica...
- Amor Verus Numquam Moritur. – lesse Regina, senza ombra di esitazione. – È latino, Emma. L’Amore Vero non muore mai.
Emma aggrottò la fronte. - Oh, beh...
- Non ho studiato solo la magia.
L’Amore Vero non muore mai.
Certamente Orfeo, moltissimo tempo prima, aveva posato il suo stesso cuore su uno dei piatti dorati della bilancia, mentre Euridice osservava.
- Quindi... se non ho capito male, questo è il momento in cui vengo giudicata. – disse Regina, più a sé stessa che ad Emma.
- Questo è il momento in cui quello che provi... viene giudicato.
Amor Verus Numquam Moritur.
Regina avrebbe dovuto capirlo subito che il suo cuore non sarebbe stato giudicato per le azioni che aveva compiuto fino a quel momento. Non solo, per lo meno. Esitò. – Stai forse dicendo che... quello che c’è tra noi è...
- Vero Amore? – Emma fissò la porta chiusa. C’erano dei simboli intagliati nel legno. Simboli. Polvere. Ragnatele. – Stiamo per scoprirlo, no?
- Emma... il Vero Amore è la magia più rara e potente di tutte.
- E secondo la polvere magica di Trilli, non dovrei essere io. – concluse Emma. – Ma quello è successo molti anni fa.
- Non è solo per via di Trilli e della sua polvere. È per... non so, tutto il resto. Ci siamo odiate, ho cercato di distruggerti...
- Mi hai anche fatto dimenticare qualcosa di importante.
- Certo, perché temevo che mi avresti rovinata!
Emma non ricordava di aver mai sentito Regina esprimersi tanto a fatica e subito divenne molto più cauta. – D’accordo. Forse dovresti solo... sai, mettere il tuo cuore sulla bilancia. Lo scopriremo insieme. Insieme, va bene?
Regina la fissava, stupita, persino speranzosa. – E Capitan Mascara? A lui che cos’hai detto?
- La verità. – rispose Emma, risoluta. – Non volevo ferirlo, ma non potevo nemmeno mentire. Non ho tempo per i sotterfugi.
- Così adesso mi odierà ancora di più. La cosa positiva è che il sentimento è reciproco.
- Regina.
Lei capì che se avesse esitato ancora forse qualcosa le avrebbe impedito di farlo. Aprì la sacca ed estrasse il cuore. Nero e pulsante, sembrava suggerirle quanto folle fosse quello che stava per fare. Ricordò la conversazione avuta con Mary Margaret nella sua cripta. Allora la madre di Emma le aveva detto chiaramente che pensava che lei potesse aiutarla. Regina le aveva mostrato il cuore nero per farle capire che era una pazza se davvero credeva che tutta quell’oscurità avrebbe potuto salvarla.
Tra poco sapremo se avevi ragione, Biancaneve. Tuo marito sarà anche un idiota, ma tu non lo sei di certo. E mi tocca ammetterlo.
Sentiva su di sé lo sguardo di Emma, quindi mosse un passo verso la bilancia e poi posò il cuore su uno dei piatti.
 
“E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno.”

 
Sulle prime non accadde niente.
L’Oltretomba rimase in silenzio. La porta non si aprì. Il piatto non si mosse di un millimetro. Il cuore di Regina restò là, esposto, nero, pulsante, ad occhieggiare la caverna.
- Non credo che stia funzionando... – iniziò Regina.
Avvertì l’ombra del fallimento che aveva spinto Orfeo fuori dal Regno dei Morti solo per essersi girato quando avrebbe dovuto continuare a camminare.
Poi l’aria venne smossa dal passaggio di una presenza fredda ed entrambe udirono un boato, il tonfo di inimmaginabili piedi da mammut che calpestavano il terreno. Dapprima il rumore era lontano, ma si avvicinava, si avvicinava sempre di più.
Emma si voltò in tempo per vedere la caverna da cui erano arrivate che crollava, bloccando ogni via d’uscita.
Infine un rantolo. Regina si portò le mani al petto e crollò, il volto contratto in una smorfia di dolore.
- Regina!
- Emma... non so cosa... il cuore...
Emma non perse tempo e si lanciò sul cuore di Regina con le mani protese, ma qualcosa la trattenne. Il pavimento sotto di lei tremò e si spaccò. Due serpenti sgusciarono fuori dalle crepe e si attorcigliarono intorno alle sue caviglie. Emma strattonò con tutte le sue forze e non ottenne alcun risultato, perché i serpenti si arrampicarono fino alle sue ginocchia, inchiodandola. Erano terribilmente forti. Altri serpenti le serrarono i polsi, impedendole di arrivare al cuore sul piatto della bilancia.
Regina, nonostante il dolore, si aggrappò ad una sporgenza e si tirò su. Levò una mano solo per ricordarsi che non poteva usare la magia in quel luogo. Cadde di nuovo.
“E poi... effettivamente sì, è folle. Ma non mi stupisce. L’amore... è una cosa strana. Quando ho conosciuto Azzurro l’ho colpito in faccia.”
“Forse tu puoi, Regina. Forse il tuo cuore può aiutarla.”
Ignorando la sofferenza, Regina spiccò un balzo mentre i serpenti si appropriavano del collo di Emma, pronti a soffocarla. Abbrancò il corpo dell’altra madre di suo figlio, sentì una di quelle serpi sfiorarle la faccia, la lingua biforcuta che sibilava accanto al suo orecchio...
Poi baciò Emma sulle labbra.
 
“Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?)”

 
Emma e Regina atterrarono insieme, abbracciate. I serpenti sciolsero la stretta e si dissolsero con una serie di pop. Il piatto che sorreggeva il cuore di Regina si abbassò leggermente e uno scatto secco riverberò per tutta la caverna.
I battenti della porta si aprirono, lasciando filtrare una luce gialligna. Al di là, le forme degli alberi stagliati contro un cielo nuvoloso.
- Che cosa è successo? – domandò Regina, sollevando la testa e fissando l’apertura con gli occhi sgranati.
“Amor Verus Numquam Moritur.”
- Il Vero Amore. – mormorò Emma.

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Capitolo 14
*** 14. ***


14

 

“Tu hai fatto molto bene ciò che dovevi, Atreyu. Sono molto soddisfatta di te”
“No!” gridò Atreyu, quasi con furia. “È stato tutto inutile. Non c’è salvezza.” […]
Poi udì la voce che diceva: “Ma tu l’hai portato.”
Atreyu alzò la testa. “Chi?”
“Il nostro Salvatore.”

[Michael Ende, La Storia Infinita]

 

 

 
- Dove siamo? – domandò Regina, una volta oltrepassata la porta.

Una luce crepuscolare, di un grigiore di piombo, colmava il luogo che si era aperto davanti a loro.

Era una palude.

Qua e là c’erano mucchietti contorti di cespugli e alberi i cui tronchi marci si diramavano verso il basso in tante gambe storte, cosa che li rendeva simili a grossi granchi addormentati nell’acqua nera e melmosa. Era difficile capire in quali punti il terreno fosse solido e dove invece non era che una superficie acquosa coperta da una patina verde o da piante acquatiche. Coltri di nebbia navigavano tra gli alberi e dai rami pendevano liane simili ai tentacoli di qualche belva mimetizzata al fogliame.

Non c’è salvezza.

Emma batté le palpebre e si guardò alle spalle. Non c’era nessuno. Non c’era più nemmeno la porta attraverso la quale erano appena passate.

“Amor Verus Numquam Moritur.”

- Hai sentito? – domandò a Regina.

- No. Cosa?

Non c’è salvezza.

Era una voce. Una voce fantasma che fluttuava nell’aria. Era fastidiosa e la metteva a disagio, come se stesse cercando di penetrare ogni sua difesa. Ma lo faceva lentamente.

- Sbrighiamoci. – disse Emma. Allungò una mano, cercando quella di Regina.

Lei la prese e intrecciò le dita alle sue.

 

 

Storybrooke. Qualche anno prima.

 
“Mia madre è cattiva.”

Archie Hopper aveva avuto modo di confrontarsi con una vasta gamma di pazienti in quanto psichiatra. Storybrooke era una città piccola, ma i problemi non mancavano. Ragazzi anche più piccoli di Henry che cercavano di giustificare comportamenti sbagliati con scuse assurde e bugie nelle quali nemmeno loro credevano. Adulti soli, intrappolati in qualche dipendenza.

Ma una partenza come quella non gli era mai capitata. Erano alla terza seduta. Fino a quel momento, il figlio del sindaco non aveva mai espresso una simile emozione. Sembrava avercela con la madre adottiva per qualche motivo che Archie non era ancora riuscito ad afferrare.

Si tolse gli occhiali, recuperò uno straccetto dalla tasca della giacca e ripulì le lenti con cura.

‘Vede, signor Hopper, io sono una madre. Faccio del mio meglio con Henry. Ma sono preoccupata. Molto.’

Archie non dubitava che Regina Mills lo fosse. “Perché dici questo? Lei ha... forse detto qualcosa che ti ha turbato?”

“Non è per quello che dice.”

“No?”

“È semplicemente quello che è.”

Semplicemente quello che era. Regina Mills era il sindaco. Era una donna complicata; tutta la città lo sapeva. Metteva in soggezione chiunque. Perché aveva potere. Avere quegli occhi che potevano nascondere qualsiasi cosa. Anche delle cose terribili. Aveva le mani su tutto. Una vera sovrana che dominava da sempre. Non riusciva a ricordare bene il giorno in cui era diventata sindaco...

Archie aveva pensato ad un aggettivo per descriverla, che non fosse ‘complicata’ o... ‘cattiva’.

Crepuscolare. Ombrosa.

Lui si schiarì la voce. Fissò per qualche istante il proprio cane, Pongo, accucciato in un angolo. Era sveglio e sembrava stesse ascoltando la conversazione. “Cattiva... è una parola molto... forte. Te ne rendi conto, vero?”

“So cosa vuol dire.”

 

 

 Oltretomba. Oggi.

 
Emma si fermò con le mani sulle ginocchia e poi appoggiò una spalla al tronco marcio di un albero. Alzò gli occhi al cielo. Era basso e azzurro, ma era un azzurro cupo, pesante e la faceva sentire oppressa da un inspiegabile senso di angoscia.

Non c’è salvezza.

La voce la seguiva. Era ovunque. Era nella brezza gelida che soffiava, spostandole i capelli. Era nel rumore del risucchio prodotto dai suoi stivali quando entrava in una pozza melmosa. Era nel suo respiro. E ripeteva sempre la stessa cosa.

Non c’è salvezza.

- Emma, continua a camminare. – disse Regina, sempre tenendola per mano.

Emma guardò giù e vide l’acqua stagnare tra ciuffi di canne e bassi cespugli dalle foglie così larghe da far pensare a piante tropicali.

Non c’è salvezza.

Non aveva idea se Regina sentisse la stessa voce, ma a giudicare dalla sua espressione, c’era qualcosa che la infastidiva. Si voltava spesso per assicurarsi che nessuno le stesse seguendo. Serrava forte la sua mano. Se Emma si attardava, tirava per costringerla a proseguire.

- C’è qualcosa qui... qualcosa... – mormorò Emma.

- Lo so. Per questo devi continuare a camminare. Ignoralo.

Emma ci provava. Ci provava davvero, ma era come se il suo cuore fosse avvolto da un bozzolo di ghiaccio. Il gelo si diffondeva nel suo petto, nel sangue. Era come un veleno.

Riprese a camminare, ma dopo pochi passi sprofondò nel fango fino alle caviglie e rimase là.

- Emma, ti prego. Non fermarti.

- Io credo... non posso, Regina. Non... posso andare avanti.

Non c’è salvezza.

Non c’è...

- Non fare l’idiota, Emma. Muoviti. Stai sprofondando.

Emma era affondata fino alle ginocchia. Sabbie mobili. La tiravano verso il basso.

“Euridice non era più la stessa.”

“L’ambrosia le aveva permesso di andarsene, ma questo posto... l’aveva corrotta. Era rimasta qui per... un po’ di tempo. E tornare in vita può comportare delle conseguenze.”

Si rendeva conto del pericolo, ma era come se non le importasse. Improvvisamente le sembrava tutto inutile. Tutto privo di senso. I ricordi peggiori della sua vita si assiepavano nella sua mente e non riusciva a scacciarli. Si accalcavano dietro agli occhi. Era una sensazione schiacciante. E si sentiva spossata. Non semplicemente stanca, ma distrutta. A pezzi.

“Euridice non era più la stessa.”

Non c’è salvezza.

- Non puoi lasciarti andare proprio ora, Emma! – esclamò Regina, afferrandola per la giacca. Strattonò il tessuto, sperando di liberarla dalle sabbie mobili.

“Ma questo posto... l’aveva corrotta.”

“Euridice non era più la stessa.”

- Non c’è salvezza... – disse Emma, sollevando la testa per guardarla negli occhi. I suoi erano lucidi e arrossati. Era paonazza. Il medaglione che le aveva dato Marian incrociò i pallidi raggi di luce e mandò un barbaglio rossastro. – Lo senti anche tu, vero?

- Non ascoltare! Non sono venuta fino a qui per vederti sprofondare nelle sabbie mobili. Non ho estratto il mio cuore mettendolo su una maledetta bilancia per...

- Io non ho mai voluto questo. La Salvatrice... non l’ho mai voluto. – Emma sprofondò fino alle cosce. Non fece alcuno sforzo per evitarlo.

Regina gridò il suo nome e si aggrappò a lei.

 

 

Storybrooke. Qualche anno prima.

Henry piazzò il grosso libro con la spessa copertina marrone sul tavolo dello studio di Archie. Sorrideva. Come se avesse avuto un’illuminazione.

“Oh. È un bel libro?”, domandò Archie, levandosi gli occhi e tirandolo verso di sé. Il nome dell’autore non c’era. Il titolo era “Once Upon a Time”, in grandi lettere dorate. “Posso?”

“Non è solo un libro. È molto di più.”, sentenziò Henry.

Lo psichiatra aprì il volume e iniziò a sfogliarlo. Una raccolta di fiabe. Da Cenerentola a Biancaneve. Dalla Bella Addormentata a...

“Capisce?”, chiese Henry.

“Sì...”, rispose Archie, guardingo. “Sono storie. Dove hai trovato questo libro?”

“Non l’ho trovato. Me l’ha dato la mia insegnante. La maestra Blanchard.”

“Oh. D’accordo. E c’è qualcosa in queste storie che ha attirato la tua attenzione?”

“Non sono solo storie. Ci siamo anche noi in questo libro. Regina, ad esempio, c’è. E anche tu.”

“Io? Scusa, Henry, sto cercando di seguirti, ma vorrei che rallentassimo un attimo. Di cosa parliamo esattamente?”

Henry sfogliò il libro fino a quando non trovò un’immagine della matrigna di Biancaneve che si faceva largo in mezzo ad una folla di persone accorse per il matrimonio del Principe Azzurro con la sua amata. La figura vestita di nero era snella e minacciosa. Un’altra versione della storia di Biancaneve?

“La mia mamma è la Regina Cattiva.”

Archie tenne gli occhi fissi sull’immagine.

“E questo... questo sei tu, Archie.”

Il Grillo Parlante.

Un linguaggio. Ora capiva. Henry stava cercando di esprimere le proprie emozioni attraverso un determinato linguaggio. Identificare le persone che conosceva con i personaggi delle fiabe era un modo per... spiegare come si sentiva. E il Grillo Parlante era la voce della coscienza che cercava di orientare Pinocchio verso le scelte giuste. Era possibile che una parte di Henry volesse che lui lo aiutasse.

‘Ho cercato di avvicinarmi ad Henry, di non fargli mancare niente’, gli aveva detto Regina Mills, quando gli aveva parlato del figlio per chiedergli se potesse darle una mano a gestire le sue problematiche. ‘Ma lui... mi respinge. Sempre. E questo mi ferisce. Vorrei capire dove sto sbagliando.’

“Quindi... tu pensi di essere Pinocchio?”

“No.” Henry scosse energicamente la testa. “Io non ci sono, nel libro.”

 

 

Oltretomba. Oggi.

 
“Euridice non era più la stessa.”

Regina raschiò il fondo delle sue riserve di energia, tirando Emma per la giacca, nel disperato tentativo di estrarla dalle sabbie mobili. Riuscì a smuoverla di qualche centimetro, ma lei non l’aiutava per niente. Quel luogo l’aveva svuotata di ogni certezza, di ogni speranza. Emma era un peso morto ed era fredda come il ghiaccio.

- Emma, ti prego. – la supplicò ancora. – Non capisci che è un altro tranello di Ade? Non è reale. Non ascoltare.

E continuava a sentire la presenza, intorno a sé, del misterioso e pauroso potere che abitava la palude. Qualcosa di antico. Tremendamente antico.

Emma stava udendo una voce e percepiva tutto il peso di un’angoscia che la trascinava verso il basso. Ma anche Regina l’avvertiva. Da quando si erano inoltrate nella palude non aveva fatto altro che avvertirla. I brutti ricordi erano tornati a fiumi. E ruotavano intorno alle parole di Ade.

“Euridice non era più la stessa.”

“L’ambrosia le aveva permesso di andarsene, ma questo posto... l’aveva corrotta.”

Regina pensava ad Euridice e vedeva una specie di mostro sbucare dal buio.

Ma il mostro non era Euridice, il mostro era...

“È un mostro, Regina. Se non lo fermi tu, lo farò io!”

Daniel. Aveva avuto l’impressione che qualcosa le stesse seguendo, si era voltata più volte per assicurarsi che non ci fosse nessuno e aveva dovuto farsi forza per ricordare che, se anche ci fosse stato qualcuno, non poteva trattarsi di Daniel, perché lui era passato oltre. Aveva raggiunto il posto migliore. La sua tomba al cimitero era rovesciata.

Rovesciata. Rovesciata. Daniel sta bene.

Era poggiata a terra. Sta bene. Non è qui. Sta bene.

Mai si sarebbe immaginata che Emma sarebbe stata la prima a cedere.

- Regina, lasciami... – disse Emma. – Cadrai anche tu.

Si rifiutò di darle retta. Ormai era sprofondata fino all’ombelico.

- Regina... devi lasciarmi andare.

 

 

Storybrooke. Qualche anno prima.

 
Non era sicuro che la fortuna lo avrebbe assistito.

Mary Margaret Blanchard, la sua insegnante, era una donna dolce, che raramente rimproverava i suoi alunni. Non ricordava più chi era stata, come tutti in quella città, ma Henry dubitava che fosse totalmente sprovveduta. Tuttavia, doveva tentare. Aveva bisogno di un po’ di soldi per prendere l’autobus e per quel sito internet. Era costoso e lui non aveva ancora una carta di credito.

L’ultimo studente uscì dall’aula ed Henry rimase da solo con l’insegnante. Andò verso la cattedra.

“Posso aiutarti, Henry?”

Poteva ancora dirglielo. Poteva raccontarle ogni cosa. La maledizione, la Salvatrice che era sua figlia, la Regina Cattiva che tanto la odiava... In fondo, era stata Mary Margaret a darle il libro.

No.

Non poteva dirglielo.

“Sì.”, rispose lui. “Quel libro... sa, quello che mi ha prestato...”

“Non è un prestito, Henry. Puoi tenerlo.”

“Sì, d’accordo. Ecco... è davvero un bel libro. E quindi io pensavo...”

La porta dell’aula si aprì di nuovo e un bidello mise dentro la testa. “Signorina Blanchard... al telefono. Può venire?”

“Oh, certo.”, rispose Mary Margaret. Si voltò. “Ti dispiace aspettarmi qui un momento?”

“Faccia con comodo.”

L’insegnante lasciò l’aula ed Henry ringraziò chiunque avesse chiamato, distraendo sua nonna. Ma forse non era stato solo un caso. I cattivi non vincevano mai. E Regina era la cattiva che aveva lanciato la maledizione. Niente accadeva per caso. Ogni evento lo spingeva verso la sua vera madre, verso la Salvatrice.

Henry fece una cosa che non aveva mai fatto in vita sua. Odiava farlo, ma era per una buona causa. Aprì la borsa di Mary Margaret e frugò in tutte le tasche. Trovò biglietti da visita, le chiavi di casa e qualche altra cianfrusaglia. E trovò il portafoglio. Lo aprì. La carta di credito blu era nell’apposito scomparto.

Quanto ci avrebbe messo Mary Margaret a scoprire che la carta di credito era sparita?

Ma se se ne fosse accorta subito, non avrebbe potuto incolpare nessuno. Forse avrebbe incolpato sé stessa, ma lui doveva comunque sbrigarsi. Sarebbe corso a casa e avrebbe dato un’occhiata al sito. Avrebbe trovato sua madre. Ah e avrebbe cancellato le mail e i dati di navigazione, nel caso a sua madre fosse venuta la brillante idea di dare una sbirciata.

Sua madre, Regina.

Sua madre, la Salvatrice.

 

 
Regina aveva riscoperto il suo incubo peggiore e ne era preda, mentre Emma continuava a sprofondare; quando la Salvatrice aveva pronunciato quell’unica frase...

“Devi lasciarmi andare.”

...Regina aveva chiuso gli occhi, perché la sensazione era così vivida, il pensiero così concreto, che non aveva osato guardare di nuovo Emma. Non aveva mollato la presa, ma aveva impiegato qualche istante prima di decidersi a risollevare le palpebre per fissare il suo vero amore. Era convinta che, abbassando lo sguardo, avrebbe visto il viso congestionato di Daniel, così come lo ricordava dopo quella tragica resurrezione. Era convinta che avrebbe visto occhi azzurro scuri spiritati e pieni di una furia cieca che non era mai appartenuta a Daniel. Il suo Daniel.

“Poni fine a questo dolore.”

“Come?”

“Devi lasciarmi andare.”

Un furore incandescente, l’antitesi del gelo che le si era diffuso nelle ossa, montò dentro di lei.

No. La risposta era no!

Non c’era Daniel davanti a Regina, c’era sempre Emma e quando la strattonò per l’ennesima volta... riuscì a smuoverla dalle sabbie mobili, a strappare un pezzo consistente del suo corpo dalla morsa melmosa.

Emma sembrava fissarla, come instupidita.

- Dammi una mano, idiota! – gridò Regina. – Nostro figlio ha bisogno di entrambe! Io... io ho bisogno di te!

Nostro figlio.

Io ho bisogno di te. Nostro figlio.

Emma puntò le mani contro due zolle erbose e si diede una poderosa spinta. L’angoscia la circondava, la soffocava persino, ma trovò quel poco di forza che le rimaneva e si issò fuori dalle sabbie mobili.

Nostro figlio. Io ho bisogno di te.

Regina le strappò quasi la giacca rossa di dosso, nel tentativo di allontanarla dalla trappola mortale in cui era caduta e, alla fine, Emma emerse, sfuggendo all’abbraccio della palude.

- Emma... – mormorò Regina. Nonostante fosse imbrattata di fango, prese il suo viso tra le mani e se la strinse contro.

 

 
- Il tramonto è vicino. – annunciò Ade, osservando il cielo e la luce rossastra e morente che incendiava le nuvole. – Non abbiamo più tempo. Dobbiamo andarcene.

- E cosa ne sarà di Emma? – domandò Killian, rabbioso. – Non possiamo andare via senza Emma.

- Ce la faranno. – rispose Ade, quasi annoiato. – Emma Swan è la Salvatrice... ed è con il suo vero amore. Troveranno l’ambrosia e torneranno a Storybrooke. Ve l’ho detto. Le porte si apriranno per loro non appena Emma avrà mangiato l’ambrosia. Come fece Euridice.

Killian aveva la stessa faccia di chi aveva appena morso un limone.

Mary Margaret si voltò, scrutando tra le tombe del cimitero, verso gli edifici, sperando di vederle comparire. Non vide nessuno.

- Andate avanti voi, se non vi fidate. Il portale si chiuderà tra pochi minuti. Non abbiamo molta scelta. Non se ne aprirà un altro. – disse Ade. – Se quelle due sono abbastanza testarde come credo, riusciranno a passare. Emma passerà.

Henry strinse il libro al petto. Regina gli aveva sussurrato di mettersi in salvo prima che il portale si chiudesse. Gli aveva detto che avrebbe lottato insieme ad Emma. E lui ci credeva. Ma... poteva davvero lasciarsi alle spalle l’Oltretomba senza sapere che cosa stava succedendo alle sue madri?

- Se non volete entrare in quel portale, con il vostro permesso... Zelena. Vai tu per prima. – Ade indicò il portale roteante con un gesto della mano. Era un grande occhio arancione che aveva sostituito il quadrante dell’orologio. Un occhio senza palpebra dentro al quale sibilava un vortice che attendeva solo di inghiottirli.

La luce del tramonto si fece più intensa.

Invece che fare ciò che il Signore degli Inferi le aveva chiesto, Zelena sollevò la folgore olimpica, puntandola contro di lui.

 

 
Una volta che l’ebbe estratta dalle sabbie mobili, Regina non la lasciò subito andare. La tenne stretta contro di sé. Come se avesse voluto assicurarsi che fosse davvero lì, che fosse tutta intera e che non fosse sprofondata in quella palude.

Era sicura che se Emma fosse sprofondata del tutto, il Tartaro l’avrebbe inghiottita.

Le accarezzò i capelli biondi, mentre lei respirava affannosamente contro la sua spalla.

- Stai bene. – mormorò Regina, le labbra accostate all’orecchio di Emma. Non era una domanda. Aveva parlato soprattutto a sé stessa.

- Sì. – rispose lei, comunque. Sollevò la testa per guardarla.

Regina si vide riflessa negli occhi della Salvatrice. Occhi stanchi, acquosi e arrossati. Verdi, con vaghe sfumature azzurrate.

Unirono le bocche nel medesimo istante. Regina scivolò in quella calda di Emma senza curarsi di essere delicata. Le lingue si cercarono con urgenza, i denti morsero le labbra e le dita di Emma si intrecciarono nei capelli dell’altra.

Si separarono solo quando ebbero bisogno di respirare.

- Coraggio. Possiamo farcela. – le disse Regina, appoggiandole le mani ai lati del viso.

Emma annuì e la baciò un’ultima volta. Poi proseguirono.

Ben presto la sensazione di angoscia che l’aveva quasi uccisa iniziò a scemare, lasciando il posto ad una spossatezza incredibile, anche se Emma continuò a mettere un piede davanti all’altro. Regina camminava poco più indietro.

I tratti paludosi cedettero il passo a tratti più asciutti ed erbosi. Il terreno molle diventò più solido. Presero ad avanzare sotto agli alberi. Intorno non si udiva più alcun suono. Nessun rumore sospetto.

Emma si fermò, girandosi verso Regina. – Ci sono... degli scalini.

Erano alti, stretti e ripidi. Cominciò a salire e Regina la seguì, ma l’impressione del terreno che sfuggiva sotto i piedi le dava un senso di sgomento.

...dieci, undici, dodici...

Il vento si fece più gelido, tagliente. Intorpidiva la faccia. Nel guardare su, Regina si accorse che il cielo era scuro, punteggiato di stelle. Non sapeva quanto tempo fosse passato esattamente, né se il tempo scorresse nello stesso modo in quel luogo e nel resto dell’Oltretomba. Forse il portale si era già chiuso e loro avrebbero dovuto trovare un altro modo per uscire. Sperava che Henry fosse tornato a casa...

...venti, ventuno, ventidue...

Emma incespicò e passò la mano lungo la parete di roccia per ritrovare l’equilibrio.

Chi ha intagliato questi scalini? Perché? In cima c’è l’ambrosia?, si chiese, tastando meglio la roccia, accorgendosi che era strana, scheggiata e tutta scanalature.

Pelle rugosa. Ecco cosa sembra. Pelle morta...

Scostò la mano, sfregandola sui jeans e guardandosi alle spalle per assicurarsi che Regina stesse bene.

- Vuoi riposarti? – le domandò Emma, dolcemente. In realtà era lei la prima a volersi stendere da qualche parte. Voleva stendersi e chiudere gli occhi. Dormire. Le ginocchia erano molli come gelatina. La testa la stava supplicando di smettere. Era sporca di fango fino alla cintura.

- Ho l’aria di chi ha voglia di riposarsi dopo tutta la strada che abbiamo fatto? – rispose Regina, piccata. – E poi siamo quasi in cima.

Emma sorrise. Ricominciò a salire. Mancava poco.

...ventisei, ventisette...

- Ventotto. – concluse Emma.

Gli anni della maledizione. Gli anni che aveva quando era arrivata a Storybrooke con Henry per spezzarla. Gli anni che aveva quando Regina era corsa fuori ad abbracciare il bambino di dieci anni che era fuggito per cercare la sua vera madre. Gli anni che aveva quando...

“Lei è la madre biologica?”

“Salve.”

Afferrò Regina per un braccio e l’aiutò a salire l’ultimo gradino.

Emma si guardò intorno. Erano su una grande piattaforma erbosa e disseminata di ciottoli, che si protendevano davanti a loro come una lingua scura. I ciottoli formavano un disegno. Una spirale.

Al centro della spirale c’era...

- Questo non è possibile. – disse Regina.

Emma barcollò in avanti, pensando: ho perso i miei pensieri felici e ora precipito.

La sensazione era proprio quella. Non più l’angoscia provata nella palude, ma di precipitare, anche se aveva terreno duro e sassoso sotto i piedi.

L’albero dell’ambrosia era stato abbattuto.

Rimaneva solo un pezzo del tronco e una granulosa polvere marrone intorno ad esso.

Emma si chinò, come in sogno, raccogliendone una manciata.

- L’ambrosia... – mormorò Regina, con una voce che non sembrava più nemmeno la sua. – L’ambrosia è...

- È morta. – le rispose Emma. – L’ambrosia è morta.

 

 

Gli altri fecero un passo indietro e tutti estrassero le armi. Uncino puntò la spada, Fiyero afferrò velocissimo una freccia dalla faretra e Mary Margaret spinse Henry dietro di sé, impugnando l’arco.

- Zelena... – Il sorriso di Ade vacillò e cercò inutilmente di rifiorire.

- Che cosa sta succedendo? – domandò Lily, voltandosi verso il portale, che era ancora aperto, ma il sole stava scendendo rapidamente e presto sarebbe tramontato del tutto.

- State indietro! – gridò Zelena. – Questo è compito mio. È ciò che avrei dovuto fare fin da quando ha messo piede nel mio palazzo ad Oz!

- Zelena... – ripeté Ade, sollevando le mani. – Metti giù la folgore. Non c’è pericolo.

- Invece sì! Perché l’ho visto. – L’arma divina sorretta da Zelena si accese, emanando un’intensa luce azzurrata e sprigionando i primi lampi.

- Visto?

- Quando ti ho baciato. Prima che la maledizione si spezzasse e il marchio di Era scomparisse... ho visto che cos’hai intenzione di fare! – Strinse di più la Folgore Olimpica. – Vi ucciderà. Vi ucciderà tutti non appena saremo tornati a Storybrooke. E dopo avervi uccisi trasformerà Storybrooke nel suo quartier generale e darà inizio alla guerra contro Zeus! Come ha sempre desiderato!

- Lo sapevo che non potevamo fidarci. – disse Killian, avanzando verso Ade.

- Non muovetevi, capitano! Non è affare vostro. – Zelena, per un attimo, diresse la Folgore verso il pirata, che si tirò indietro, ma sempre impugnando la spada.

- Che ne è di Emma e Regina? – chiese Mary Margaret. – Ha mentito anche sull’ambrosia?

- No. – rispose Ade, prima che potesse farlo Zelena. – L’ambrosia esiste.

- Ne rimane ancora un po’, vuoi dire. Visto che hai abbattuto l’albero dopo che Euridice è riuscita a fuggire. – Zelena era totalmente fuori di sé, i suoi occhi dardeggiavano, azzurri come l’arma che voleva usare contro di lui. – Lui pensa che non la troveranno. O spera che non accada. Ma in ogni caso aveva già deciso cosa fare.

- Ho strappato quel contratto. L’ho fatto per te. - provò a dire Ade, scandendo le parole come se stesse parlando una lingua sconosciuta.

- L’hai fatto perché volevi spezzare la maledizione con il bacio del Vero Amore.

Ade allargò le braccia. - Io ti amo, Zelena. Non avrebbe mai funzionato, se questo non fosse vero. Loro... possono dirti che non lo è, ma io...

- Perché non ci uccide subito? Perché non ci ha uccisi tutte le volte che ne ha avuto l’occasione? – chiese Killian.

- Perché non può farlo. La sua maledizione è... complicata. – Ogni parola le costava uno sforzo enorme, tanto che arrivò alla fine della frase esausta. Le Folgore era pesante. Le tremavano i muscoli del braccio. Le fischiavano le orecchie. Le sembrava che la faccia di Ade fosse una faccia orribile, deformata dal potere emanato da quell’arma. – Se avesse ucciso dei vivi nel suo regno, il suo cuore si sarebbe trasformato in pietra. Considerando tutto ciò che ha fatto in passato, non mancava molto perché accadesse. Ucciderci avrebbe voluto dire... rimanere bloccato qui per sempre. Un cuore di pietra... è un cuore che non prova niente. Nessun sentimento.

Ade strinse le labbra.

- Andate via. Ci penso io!

- Non possiamo andarcene senza Emma e Regina! – gridò Killian.

- Certo che potete! Ce la faranno. Mia sorella era la Regina Cattiva e la sua amante è la Salvatrice... ci riusciranno! Sono eroi, no? – Zelena aveva uno sguardo folle, la pelle del viso era tirata e dimostrava almeno cent’anni con quella luce azzurra che le colorava il viso e le incendiava ancora di più le iridi.

Lily doveva farlo. Aveva promesso ad Emma che l’avrebbe fatto. Non voleva andarsene, ma se si fosse tirata indietro, sarebbero rimasti bloccati lì e non era ciò che Emma desiderava per la sua famiglia. Guardò sua madre, che annuì.

Lily afferrò Henry e lo spinse nel portale prima che lui potesse protestare. Il libro gli cadde di mano e lei lo raccolse, scagliandolo nel vortice. 

Poi prese Mary Margaret e la strattonò così forte che gridò, ma a Lily non importava. Killian non ebbe bisogno della spinta. Si voltò un’ultima volta verso Storybrooke, come se sperasse di veder comparire Emma e poi seguì gli altri.

- Non puoi fare questo, Zelena. Loro non ti crederanno mai! Non ti aiuteranno mai! Non ti... ameranno mai! – Ade allungò le mani, come se volesse abbracciarla.

- Nemmeno tu. – sibilò Zelena. Piangeva, ora. Piangeva davvero. Il battito cardiaco le corrispondeva nelle tempie con una serie di tonfi mostruosi.

- Zelena...

Zelena scagliò la Folgore Olimpica, centrandolo in pieno petto.

 

 

L’ambrosia è morta.

Morta. Morta. Morta.

Regina girò intorno all’albero abbattuto, cercando in ogni dove una traccia del maledetto Cibo degli Dei. Cercò in mezzo alla polvere, tra le radici, sotto le pietre. Pensò di scavare per cercare anche sottoterra, ma non aveva niente, nemmeno la magia.

- È stato Ade. – mormorò Emma. – Quando Euridice è riuscita a scappare, ha abbattuto l’albero. Per impedire che qualcun altro ci provasse.

- Deve essere rimasto qualcosa! Non può essere completamente morta.

- Regina...

Allora risuonò un ringhio basso e furente.

Emma tacque, mettendosi in ascolto. Regina si voltò verso il ciglio della piattaforma erbosa, con gli occhi sgranati e la bocca secca. Senza rendersene conto, schiacciò un mucchietto di ambrosia sotto lo stivale e la polvere scricchiolò.

Il guardiano dell’Oltretomba emerse dal crepaccio, piantando le poderose zampe anteriori nel terreno e spargendo il suo fiato mefitico dove un tempo cresceva l’albero dell’ambrosia.

“Te l’ho detto, cara, nessuno sa come arrivare all’uscita. E anche se riuscissi ad uccidere Cerbero, come porterai fuori la Salvatrice? Io credo che finirai nelle prigioni di Ade. Non è una bella esperienza... non che sia la cosa peggiore che possa capitarti...”

Regina non aveva più pensato alla sua conversazione con Crudelia. Aveva pensato unicamente a salvare Emma e non ricordava le sue parole. Il Guardiano. L’uscita era sorvegliata.

Emma fissò l’enorme mastino nero.

La testa centrale emise un latrato che scoppiò come un tuono, facendo tremare ogni cosa. Le altre due teste scoprirono file di denti aguzzi, mentre le orecchie si appiattivano sui crani. Tre paia d’occhi individuarono le prede sulla piattaforma. Erano occhi rossi, che ardevano come braci. La lunga coda frustò l’aria a destra e a sinistra.

Istintivamente Regina cercò di formare una sfera di fuoco con la magia e ovviamente non ci riuscì.

Niente magia. Niente armi.

Cerbero avanzò...


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Capitolo 15
*** 15. ***


15

 

“Questo Cane con tre Teste rappresenta
 il passato, il presente e l'avvenire,
che contengono, o come chi dicesse divorano, tutte le cose.”

[Zachary Grey]

 

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 

Marian si voltò per assicurarsi che Biancaneve fosse ancora dietro di lei.

Udiva gli zoccoli dei cavalli e gli ordini dei soldati, quindi sapeva che non erano lontani. Ma il tragitto che stava seguendo Marian era intricato, si perdeva nelle profondità della foresta, dove gli alberi erano più alti e nodosi, molto più fitti. Il sole sopra le loro teste era sparito. Solo foglie, rami spessi, altre foglie.

Biancaneve era senza fiato, ma continuava a muoversi spedita. Era abituata a scappare.

Marian indossava una mantella con il cappuccio e si copriva il volto con un fazzoletto rosso. Non aveva mai mostrato il suo viso alla bandita ricercata dalla Regina Cattiva, da quando l’aveva aiutata a trovare una via di fuga. C’era mancato davvero poco che la prendessero.

“Siamo quasi arrivati.”, annunciò Marian. Le tremavano le gambe, ma non poteva smettere di correre.

Biancaneve annuì, cerea.

Poco dopo, la foresta si aprì davanti a loro e Marian si fermò.

“Dove siamo?”, chiese Biancaneve, piegandosi sulle ginocchia.

“Al sicuro. Questa è la foresta di Sherwood.”

Davanti a loro, c’era una grande casa che non sembrava più una casa, ma un rudere. La vegetazione si stava impossessando del tetto e del lato sinistro. Sui gradini scalcinati c’era un ragazzo con una fitta massa di riccioli scuri che cantava, mentre un bambino magro e cencioso lo accompagnava con un tamburello.

“Ogni città qualche guaio ha, ma qui è là c’è serenità... ma non a Nottingham!”

Non aveva una bella voce e non smise di cantare quando vide le due donne avvicinarsi.

“Com’è triste subir questa tirannia e non poter volare via... dopo tanto pianto, dopo aver sofferto tanto... forse un po’ di gioia tornerà... ma non a Nottingham!”

Biancaneve era sicura che la gioia, di quel passo, non sarebbe mai tornata da nessuna parte, non solo a Nottingham.

Un uomo alto e con il viso tondo coperto dalla barba rossa, comparve sulla soglia e scese i gradini, intralciato dal pancione prominente e costringendo il ragazzo canterino a spostarsi. L’altro bambino sparì all’interno, portandosi dietro il tamburo.

“Milady, per tutti gli dei esistenti, finalmente! Pensavo che vi avessero presa!” L’uomo indossava una vecchia tunica marrone, stretta in vita da una cintura di corda. Guardò Biancaneve. Anche lei aveva il volto coperto e lo scrutò con diffidenza, tesa come la corda del suo arco nonostante la stanchezza. “Oh, l’avete trovata! Salve anche a voi, milady.”

“Ci è mancato davvero poco.”, ammise Marian. Appoggiò una mano sulla spalla di Biancaneve e sorrise, sebbene lei non potesse vederla farlo. “Siete al sicuro, qui. Fra’ Tuck è dei nostri.”

“Salve.”, bofonchiò Biancaneve. “Non voglio mettervi nei guai. Non mi fermerò a lungo.”

Fra’ Tuck sorrise, benevolo. “Voi siete la benvenuta qui, milady. Dispiace a me di non potervi offrire una sistemazione migliore. Questo è un posto... che sta in piedi per miracolo, ecco.”

“Andrà benissimo. Vi sono riconoscente.”

“E scusate Cantagallo. Si mette a cantare quando sa che sta arrivando qualcuno. È un avvertimento. Oppure lo fa per intrattenere gli ospiti e gli dei ce ne scampino.”

Cantagallo non disse niente.

“Devo tornare all’accampamento. Mio marito sarà preoccupato.” Marian si sistemò la faretra con le frecce a tracolla.

“Aspettate!” Biancaneve si tolse il fazzoletto dal viso. “Mostratemi il vostro volto. Almeno lo ricorderò e potrò ricambiare il favore, un giorno. Non eravate obbligata a salvarmi.”

“Non posso.”, disse Marian, scuotendo il capo. “Mi fido di voi, ma non mostro mai il mio volto. E non è necessario che sappiate chi sono. Pensate a restare al sicuro.”

 

 

Oltretomba. Oggi

 

Di Ade non rimaneva più nulla.

Nulla, a parte un mucchietto di polvere, dal quale sporgevano i resti della Folgore Olimpica, ormai ridotta a pochi pezzi di cristallo opaco. L’arma di Zeus aveva compiuto il suo dovere ed era perduta.

Zelena era caduta all’indietro e sembrava in preda alle convulsioni. Il suo corpo si contorceva e gli occhi azzurri erano diventati bianchi, sporgevano dalle orbite quasi fossero pronti ad esplodere.

Accecata dal lampo esploso quando la Folgore aveva trafitto Ade, Lily barcollò, cieca, per alcuni momenti. Udiva delle grida e udiva l’ululato del portale, ma il mondo pareva svanito.

Infine, sua madre la scosse. Lily batté le palpebre più e più volte, fino a quando non mise a fuoco Malefica.

- Mamma... – disse, stordita.

Lei strinse a sé la figlia e si gettò nel portale.

Fiyero agì più in fretta che poté e raccolse Zelena da terra, caricandosela sulle spalle. Lanciò un’ultima occhiata all’Oltretomba e poi si tuffò nel vortice, in procinto di chiudersi.

 

Marian aveva visto tutto quello che era successo da un punto sopraelevato. Non aveva voluto seguire la famiglia di Emma al cimitero, aveva solo chiesto a Mary Margaret di dire a Robin che sarebbe andato tutto bene. Avrebbe trovato un modo per passare oltre.

Sapeva cosa la tratteneva.

E sapeva anche che non poteva fare altro, se non aspettare. Presto sarebbe successo qualcosa.

“La Regina ha ragione, Robin. Devi prendere tua figlia e andartene.” Marian era stata molto chiara quando gli aveva chiesto di seguirla per potergli parlare a quattr’occhi.

“Non posso lasciare questo posto! E gli altri? Potrebbero avere bisogno di me.”

“E cosa potresti fare qui? Con una bambina piccola a cui badare, che cosa potresti fare? Non lo vedi che non puoi fare niente?”

Se l’avesse schiaffeggiato forse gli avrebbe fatto meno male. Ma Robin era così. Bisognava schiaffeggiarlo per permettergli di capire.

“Marian...”

“Ascoltami bene, Robin. Tua figlia dovrebbe venire prima di qualsiasi altra cosa. E anche Roland. Lui è solo. Ci hai pensato?”

“Non è solo. È al sicuro con...”

“Non me ne importa niente delle maledette fate! Ha bisogno di un padre. Avrebbe bisogno anche di una madre, ma io non posso andarmene per ovvie ragioni. Tu, invece, sì. Puoi portare in salvo la tua bambina.”

Robin era rimasto là, davanti a lei, meditabondo, rimuginando a lungo. Non sembrava più lo stesso uomo che aveva sposato un’eternità prima. Il Robin che aveva di fronte era disorientato, confuso, amareggiato.

“E tu? Cosa ne sarà di te?”

“Non essere in pena per me, Robin.”

“Mi chiedi un po’ troppo. Voglio essere sicuro che tu possa...”

“Trovare la via per il posto migliore? Nessuno può essere sicuro di questo. Forse la troverò. Dì a Roland che sto bene. Forse lui non si ricorda di me, era molto piccolo quando...”

“Lui ricorda. Te lo assicuro. Non molte cose, ma ricorda.”

La discussione era andata avanti a lungo. Marian aveva dovuto alzare la voce, aveva dovuto ricordargli una promessa che Robin le aveva fatto anni prima.

“Ti sei dimenticato quello che mi hai promesso quando ero incinta di Roland ed ero malata? Spero che tu non l’abbia fatto, Robin. Perché io me lo ricordo benissimo.”

“Non l’ho dimenticato.”

Marian tornò in città e attese.

 

 
“La Salvatrice ha deciso di rischiare, allora. È passato del tempo dall’ultima volta che qualcuno ha provato a passare.”

Emma pensò che la voce che stava sentendo fosse la stessa che l’aveva perseguitata mentre attraversavano la palude, ma questa era diversa, molto più alta e profonda, non era né maschile né femminile.

Gli occhi di fuoco dell’enorme mastino la fissavano. La testa a sinistra sembrava tenere d’occhio Regina.

“Combatti contro di me, Salvatrice. Solo tu ed io.”

Era Cerbero a parlarle. Una coscienza oscura e schiacciante le mandava messaggi, mentre le fauci sbavavano e le gole ringhiavano.

Emma si guardò intorno. Non c’erano armi. Sulla piattaforma c’era solo il tronco monco dell’albero dell’ambrosia, quella polvere marrone e le pietre disposte a spirale. Niente che potesse fare del male a Cerbero, che avanzò ancora di un passo, gettando la sua grande ombra su di loro.

E con lui avanzò l’odore.

Il suo fiato era terrificante. Pestilenziale. Come se dentro di lui fosse già tutto corrotto e decomposto.

Regina si coprì istintivamente il naso e la bocca.

“Cerchi un’arma? Lascia che te ne dia una. È giusto. Un combattimento alla pari.”

Immediatamente, Emma si accorse di stringere una spada nella mano destra.

- Emma, non lo fare... – disse Regina, guardando la lunga lama appena ricurva.

“Deve farlo, se vuole passare. Lo fece Orfeo. Ci provarono molti altri. Ora tocca a lei. A meno che tu non abbia troppa paura di me...”

- Taci, cagnaccio rognoso...

“Cara Regina... mi ricordi mia sorella, Idra, quando mi chiami cagnaccio. Avresti dovuto conoscerla per capire da quale pulpito veniva la predica... lei di teste ne ha nove.”

Cerbero rise e la sua risata era rumorosa come lo scoppio di una serie di petardi.

Poi tacque di colpo. La sua attenzione era tutta per Emma.

“Lascia che ti dica una cosa, Salvatrice. Se mi sconfiggerai, potrai passare. Se perderai... finirai dritta nel Tartaro. Niente posti migliori per te. E ti porterai dietro anche la tua amante. Se perdi... non c’è salvezza né per te né per lei.”

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Muoviti!”, ordinò il soldato, dandole una spinta e costringendola ad accelerare il passo.

Era molto difficile camminare dato che aveva la testa infilata in un cappuccio e i polsi legati, ma a loro non importava. Se cadeva, l’afferravano per il mantello o per i capelli e la minacciavano. Se inciampava, ridacchiavano. Uno dei tre uomini la pungolava con la spada.

Camminavano da ore, ormai.

“Che stai facendo?”, domandò una voce alla sua sinistra.

“Le sto dando da bere. La Regina vorrà interrogarla. Se arriva svenuta dovrà aspettare e sai che a lei non piace aspettare, quando si tratta di interrogare prigionieri che potrebbero sapere qualcosa di Biancaneve.”

“Non sprecare la tua acqua per una stracciona.”

“C’è un fiume qui vicino. Possiamo fermarci per qualche minuto e riempire di nuovo le borracce. Non lo senti?”

“Sinceramente no.”

“Apri bene le orecchie, allora.”

Una mano le tolse il cappuccio. Marian sbatté le palpebre, cercando di riabituarsi alla luce del sole. Erano ancora nella foresta, ma ben lontani da Nottingham. Il terreno era sassoso. La luce filtrava tra i rami bassi degli alberi.

Il soldato alla sua destra si avvicinò con la borraccia. Era giovane e di bell’aspetto, con la barba e i capelli castani. Il suo viso non era brutale e i suoi occhi sembravano stanchi, tormentati.

Le mostrò la borraccia e le versò alcuni sorsi d’acqua in bocca.

“Grazie...”, mormorò Marian.

Lui si limitò ad un cenno del capo.

L’avevano presa a meno di una lega dal punto in cui era accampato Robin con i suoi compagni. Sulle prime aveva creduto che fossero uomini dello Sceriffo di Nottingham, ma era bastata un’occhiata alle armature per capire che era finita in un guaio ben più grosso dello Sceriffo. L’unica fortuna era che non aveva niente addosso che la collegasse a Robin né tantomeno al rifugio di Fra’ Tuck.

‘Mi dispiace, Robin’, pensò.

I soldati si fermarono a riposare vicino al fiume, dove l’uomo che le aveva dato da bere riempì nuovamente la borraccia e poi si sedette accanto a lei.

Le avevano rimesso il cappuccio quindi quando il giovane parlò, Marian sobbalzò leggermente.

“Vorrei davvero aiutarvi, milady.” La voce era calda e gentile. Profumava di foresta, lo stesso odore di chi aveva trascorso la propria vita nei boschi. “Ma non posso. Non posso farlo.”

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
La testa centrale di Cerbero scattò in avanti e le fauci si aprirono per ghermirla.

Emma si spostò più rapidamente che poté, ignorando l’orribile tanfo emanato dalla gola dell’essere. Mulinò la spada e aprì uno squarcio in una delle grosse zampe del mastino. Tuttavia, lui non sembrò rendersi conto del colpo che gli era stato inferto. Si gettò nuovamente su di lei. Gli artigli l’acciuffarono per un istante e aprirono uno strappo nel tessuto della giacca rossa.

Udì il grido di Regina, ma non riuscì a vederla, perché il corpo di Cerbero le copriva la visuale.

La spada che le aveva dato il mastino era terribilmente pesante. La lama era lunga e l’elsa molto robusta, con una grossa gemma bianca incastonata nel pomolo.

“È la spada di Sigfrido. Si chiama Gramr. Non trovi che sia stato molto generoso? Ti ho dato la spada di un eroe.”

Emma girò, guardinga, intorno a Cerbero, impugnandola con entrambe le mani.

“Oh, sì. È pesante. Ma è pur sempre un’arma.”

Cerbero se la ghignava. Emma lo attaccò, mirando al fianco, ma riuscì solo a graffiarlo. Il suo sangue era nero, proprio come la sua pelliccia. Non appena toccò il terreno, iniziò a fumare e un odore ancor più nauseabondo del suo fiato si diffuse sulla piattaforma.

“Una volta hai ucciso un drago. Così mi hanno detto. So che era più grosso di me.”

Cerbero si gettò su di lei con tutto il suo peso e mancò poco che finisse schiacciata. Quando il mastino atterrò pesantemente, sollevando pietre e polvere, la piattaforma tremò sotto le enormi zampe. Emma barcollò e cadde. Rotolò subito via e si rimise in piedi. Approfittò di un momento in cui il mastino era molto instabile per affondare la spada nel collo della testa più vicina.

La testa destra emise un lungo latrato e andò a sbattere contro la testa centrale, nel tentativo di scrollarsi l’arma di dosso. Emma venne catapultata contro ciò che restava dell’albero dell’ambrosia e perse la spada.

- Emma!

Un getto di sangue nero piovve a pochi passi da Regina, che ne avvertì il calore bruciante ed indietreggiò. La testa colpita si voltò nella sua direzione, mentre le altre due ringhiavano contro Emma.

Regina non poté fare a meno di fissare quegli occhi di brace.

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Siamo davvero desolati, Vostra Maestà.”

Marian cadde in ginocchio e uno dei soldati le tolse il cappuccio. Il sole l’abbagliò per qualche istante. Una sagoma nera si stagliò sopra di lei.

“Credevamo fosse Biancaneve. Il mantello è identico a quello che portava la bandita.” La voce del soldato era la stessa di chi si aspettava una terribile punizione per non aver portato a termine qualche compito importante.

L’uomo gentile che le aveva dato da bere e le aveva parlato era in ginocchio, come gli altri.

“Lo vedo.”, rispose la Regina, stringendo il manico di una frusta nella mano destra.

Maria sollevò la testa, anche se sapeva che non avrebbe dovuto.

Vide gli stivali lucidi, i pantaloni in pelle nera, un’elegante soprabito rosso con le maniche lunghe, chiuso da tre grossi fermagli intarsiati, la generosa scollatura, il volto ombreggiato dalla tesa larga del cappello.

Le labbra piene si piegarono in un sorriso, ma gli occhi seguitavano a fissarla con una furia indicibile.

L’aveva sempre vista da lontano. Aveva udito numerose storie di sangue e morte. Decine di villaggi bruciati dalla sua sete di vendetta. Vederla da vicino era una faccenda ben diversa.

Era bellissima e terribile. Una bellezza oscura, da predatrice costantemente affamata, desiderosa di distruggere e piegare. Le parve che tutte le tenebre del mondo si stessero addensando intorno a lei.

Marian si rifiutò di abbassare lo sguardo.

“Avete la possibilità di sopravvivere. Può finire tutto adesso, se mi dite dove si nasconde Biancaneve.”

Lei non parlò.

“Potrei costringervi. Lo sapete bene.”

“Il mio cuore è protetto. Non potete prenderlo.”

Regina ci provò comunque, allungando una mano ad artiglio per affondarla nel suo petto. Si scontrò con una barriera magica che le spedì una fitta lancinante su per il braccio.

“State bene, Maestà?”, domandò subito un soldato, accorrendo per aiutarla.

“Certo, idiota. Dove avete trovato questa stracciona?”

“Non lontano dal villaggio di Nottigham.”

“Cacciatore... andate laggiù e setacciate ogni casa. Io mi prenderò questa prigioniera e... tutto sommato penso che la userò per aprire qualche bocca. Scommetto che c’è molta gente che protegge Biancaneve. Se vedranno cosa potrebbe capitare a chi la nasconde... forse parleranno.” Regina menò un colpo di frusta, colpendola in faccia. Marian lanciò un grido.

Il Cacciatore strinse le labbra e fu costretto ad obbedire.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
Emma voltò lentamente la testa. Attraverso una cortina di sangue, scrutò l’avversario e vide l’enorme zampa piombare su di lei e i lunghi artigli in cerca della carne da lacerare.

Rotolò sulle pietre e, nonostante il dolore, raggiunse la spada e strinse l’elsa. Sferrò un manrovescio furibondo e il mastino incassò appena sotto la testa centrale. Cerbero arretrò, digrignando tutti i denti.

Allora Emma si accorse che solo due teste erano concentrate su di lei. La terza guardava Regina, che sembrava in trance, con gli occhi sbarrati e le braccia mollemente abbandonate lungo i fianchi.

- Regina!

Si rese conto anche di un’altra cosa. La testa al centro portava un grosso collare di ferro, nel quale era incastonata una gemma e...

Solo che non era una gemma. Era un pezzo di ambrosia.

L’unico pezzo di ambrosia rimasto.

Le fauci di Cerbero si aprirono ed Emma fu costretta a farsi da parte. La zampa la colpì alla schiena, scaraventandolo contro il tronco monco dell’albero. Tuttavia si rialzò subito e si spostò velocemente verso la terza testa. Sentiva le orecchie sibilare e aveva la bocca piena di sangue.

“Dove corri, Salvatrice?”

Emma lo ignorò e si avventò sulla testa che aveva preso di mira Regina.

 

 
Foresta Incantata. Più di trent’anni fa.

 
“Hai ancora una possibilità. L’ultima.”, disse la Regina, camminando avanti e indietro, lentamente, dinanzi al patibolo. “Non do molte possibilità ai prigionieri. Dovresti coglierla al volo. Soprattutto se hai una famiglia.”

Marian guardava fisso oltre la testa della donna che l’aveva condannata a morte. Guardava la folla assiepata dietro ai soldati neri. C’era più gente del giorno prima, quando la Regina l’aveva sbeffeggiata e aveva minacciato gli abitanti di un intero villaggio. Aveva mostrato la propria prigioniera con i vestiti impolverati, che strizzava gli occhi abbagliata dalla luce, annaspava e implorava aiuto. La prigioniera che non aveva abbassato la testa e aveva osato rivolgere la parola ad una sovrana, chiamandola mostro.

“E sono sicura che tu ce l’hai. A giudicare da quello che mi hai detto ieri...”

Marian continuò a non aprire bocca. Però spostò lo sguardo su Regina. Poi fissò i soldati, cercando il giovane gentile che le aveva dato da bere e le aveva parlato. Avevano tutti le facce coperte dalle celate degli elmi, eppure pensava che lui non ci fosse. Nessuno aveva la faretra e l’arco. Erano per lo più armati di spade e lance. Il giovane, a parte le frecce, aveva un pugnale infilato nella cintura.

“Come vuoi.”, concluse Regina.

Uno dei soldati alla sua sinistra salì sul palco improvvisato e lo strattonò perché indietreggiasse fino a toccare il palo di legno con la schiena. La costrinse a sollevare in alto le braccia e legò i polsi sopra la sua testa.

“Questo è ciò che accade a chi nasconde Biancaneve. Accadrà a tutti voi se verrò a sapere che proteggete la bandita.”

Con la coda dell’occhio, Marian vide l’uomo che l’aveva legata prendere una torcia spenta. La immerse nel bacile dove scoppiettava il fuoco. Le fiamme attecchirono e la torcia si accese, guizzando.

“Ultime parole?”, domandò Regina, piegando le labbra carnose in un sorriso di puro scherno.

‘Mi dispiace’

Non le disse a voce alta. Rivolse gli occhi al cielo. Era azzurro, uno stormo di uccelli girava in circolo sopra le fronde degli alberi. Ci mise qualche istante a capire che erano corvi. Non avrebbero avuto niente perché il suo corpo sarebbe bruciato. Un mucchietto di cenere. Ecco cos’avrebbero trovato.

‘Mi dispiace’

Era per Robin, suo marito. E per Roland. Almeno loro erano salvi. Nessuno l’aveva ricollegata al ladro che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Né tantomeno a Fra’ Tuck.

Il soldato accostò la torcia ai fasci di legna ai suoi piedi. Marian avvertì l’odore acre del fumo e il calore intenso del fuoco.

La legna scricchiolò e le fiamme si levarono, abbrancando subito il vestito polveroso che indossava.

Alle spalle della Regina, un bambino nascose il viso nella gonna della madre.

 

 
Oltretomba. Oggi.

 
Emma conficcò la lama della spada alla base del possente collo.

La terza testa ululò di dolore e scattò all’indietro per sottrarsi.

Regina sussultò e cadde all’indietro, sollevando mulinelli di polvere e riemergendo da una visione in cui c’era solo fuoco e morte, odore di fumo e carne bruciata. Rientrò in sé stessa, dopo essere stata, per poco, la stessa donna che aveva condannato a morte Marian, tanti anni prima. Per qualche istante, trafitta dagli occhi di Cerbero, era stata la Regina Cattiva, la sovrana spietata, piena di rabbia, soffocata dalla sete di vendetta. Aveva sentito chiaramente quell’antico dolore, quella furia cieca. Ne era sgomenta, ma non era riuscita a sottrarsi, in balia del potere di Cerbero.

Emma gridò, mentre il mastino la trascinava lontano da Regina. Le mani rimasero saldamente ancorate all’elsa della spada e lei si sentì sollevare in alto. La lama era penetrata a fondo nella carne. I ruggiti di Cerbero le urtarono i timpani, conficcandosi nel suo cervello. La testa centrale urtò quella ferita ed Emma rischiò di perdere la presa, ma si rifiutò di cedere. Strinse i denti e poi piantò il piede nella carne di Cerbero. Si issò sul dorso poderoso del mastino e si aggrappò al pesante collare agganciato al collo della testa centrale.

Il mastino barcollò all’indietro, sradicò una radice dell’albero dell’ambrosia e ruggì di nuovo.

Poi una scheggia dolore le trapassò la testa. Toccò a lei urlare, mentre scivolava giù, inesorabilmente. Avvertì chiaramente gli occhi di brace di Cerbero frugarle nella mente, brucianti e feroci. Il dolore si diffuse in tutto il corpo.

Emma cadde sulle dure pietre.

“La Salvatrice pensava che fosse così facile.”, disse Cerbero. La spada era ancora conficcata in profondità, ma la voce che le parlava non tremava neppure.

Emma era incapace di alzarsi. Aveva la vista offuscata. La testa le doleva troppo e le sembrava che le braccia fossero pesanti come macigni. Regina urlò.

“Mi dispiace. Non sei Orfeo.”

Cerbero sollevò l’enorme zampa e sfoderò gli artigli.

Avrebbe potuto chiudere gli occhi, ma non lo fece. Sapeva che se fosse stata sconfitta sarebbe finita nel Tartaro e con lei anche Regina. Aveva perso. Avrebbe guardato la sconfitta piombarle addosso. Avrebbero voluto chiedere perdono ad Henry. Chiedere perdono ai suoi genitori. Chiedere perdono anche a Regina. Ma non aveva tempo per quello. 

Quando la zampa calò su di lei pronta a dilaniarla, Emma udì un sibilo e un fascio di luce rossa esplose dal medaglione che portava intorno al collo.

Emma ne rimane momentaneamente accecata. Sollevò lentamente un braccio per schermarsi gli occhi.

Cerbero emise un triplice ululato di dolore e sobbalzò all’indietro. Sangue nero spillò dal petto del mastino. La spada di Sigfrido conficcata in uno dei colli cadde.

- Emma! – Regina la raggiunse e si inginocchiò vicino a lei, aiutandola a tirarsi su.

Emma appoggiò la testa contro il suo petto e Regina la strinse a sé. Si portò una mano al ciondolo, quello che Marian le aveva dato prima che scendessero nelle profondità dell’Averno e che era appartenuto a Murphy, il ciondolo che lo aveva aiutato a mantenere la forma umana quando ancora viveva nella Foresta Incantata. Lo aveva completamente dimenticato.

La pietra al centro della fiamma era diventata nera. Era come un pezzo di roccia senza più alcun potere.

Cerbero precipitò su un fianco, emettendo un ultimo ringhio. Nuvole di polvere si levarono quando il corpo si schiantò sulla piattaforma.

- L’ambrosia... – mormorò Emma. – Nel collare...

Regina non perse tempo e andò a prendere la spada. Era pesantissima e dovette reggerla con due mani.

La testa centrale del mastino si mosse appena quando Regina si avvicinò. Le altre due teste avevano gli occhi chiusi e le lingue penzoloni. Fili di bava fumante sgocciolavano sull’erba.

Vide le iridi di brace che la seguivano, ma non ci fu alcun tentativo di fermarla.

Regina levò la spada e calò la lama sulla pietra al centro del collare.

L’urto fu violento e la catapultò in avanti, quasi addosso al cagnaccio puzzolente, ma il sigillo si ruppe in mille pezzi. La lama della spada, esaurito il suo compito, si sgretolò, diventando polvere bianca.

Regina gettò via l’elsa.

L’ambrosia, ciò che ne rimaneva, era dello stesso colore del miele. Piccoli spicchi duri al tatto, ruvidi, l’unica cosa che poteva salvare Emma e riportarla indietro.

Regina tornò dalla madre di suo figlio con l’ambrosia nel pugno. Temette che avesse perso i sensi e la scosse un po’. – Coraggio, Emma... apri gli occhi.

Lei sollevò le palpebre, guardandola confusamente.

Regina la costrinse a schiudere le labbra e poi le mise un pezzo di ambrosia sulla lingua. – Non fare l’idiota proprio adesso e mandala giù!

- Ti amo. – disse Emma, con un filo di voce.

Poi inghiottì l’ambrosia.

 

 
Marian era rimasta seduta ad uno dei tavoli del Granny’s, osservando l’aria rossa dell’Oltretomba dalla finestra. Le strade erano deserte.

Non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Ma il sole era tramontato, era calata la notte di porpora e poi era giunto un nuovo giorno.

Nulla sembrava cambiato anche se Ade era morto.

Una delle cameriere rimaste al Granny’s dopo la scomparsa della Strega Cieca decise che era il momento di un po’ di musica e si azzardò ad accendere la radio. Proprio mentre premeva il pulsante di accensione, la porta del locale si spalancò con un colpo secco.

Marian si voltò di scatto, con una mano che già stava muovendosi verso le frecce nella faretra.

Una luce bianca e potente vinse l’aria rossastra del regno di Ade. Illuminò le finestre e penetrò nel Granny’s , diffondendo sbuffi di nebbia bianca sulle piastrelle.

- Che cosa succede? – chiese la ragazza dietro al bancone, indietreggiando. Un paio di avventori la imitarono, pronti a scappare dal retro. – Che cos’è?

Marian non avvertiva nessun pericolo. Anzi, le sembrava bellissimo. Le parve di udire una voce che la chiamava, che la invitava ad entrare nella luce.

- È... per me. – disse lei, avanzando. Abbandonò l’arco sul tavolo e la faretra sulla poltroncina. – È il mio posto.

 

 
- Dove...? – cominciò Zelena, sbarrando gli occhi.

Aveva mal di testa, la gola secca e l’impressione di aver dimenticato mille sogni, mille avvenimenti importanti.

Ma ne ricordava uno, distintamente. La morte di Ade. La Folgore Olimpica che trapassava il suo petto. La sensazione che il mondo si stesse sfracellando in mille pezzi.

Poi si guardò intorno, ancora intorpidita. Non era più nell’Oltretomba.

Era seduta in mezzo ad un corridoio bianco. Un corridoio che sembrava non avere inizio né fine, perché entrambe le cose si perdevano nella nebbia. Era fiancheggiato da due file di colonne di marmo, colonne possenti, la cui sommità era invisibile per via del biancore che occupava ogni cosa.

Era sola. Dov’era la sua bambina?               

Una piuma di pavone svolazzò sopra la sua testa e si posò sul pavimento liscio e lucido come uno specchio.

Una piuma di pavone?

- Finalmente. – disse una voce femminile alle sue spalle.

Zelena evocò la propria magia per scagliarla contro Era, ma il potere non le venne in aiuto.

La moglie di Zeus rise di gusto. – Niente magia, Signora degli Inferi. Non qui. In casa mia.

In casa mia.

Signora degli Inferi.

- L’Olimpo?

- Beh, non proprio. Questa è l’anticamera dell’Olimpo.

- Ti distruggerò... dov’è mia figlia?! – gridò Zelena. La voce riecheggiò lungo il corridoio, si frammentò e tornò indietro come un boomerang, sibilando tra le colonne.

- Ma sì, è solo la Signora dei Cieli quella che vuoi distruggere. – Era si avvolse meglio nel lungo mantello decorato da un’infinità di piume di pavone. Ne aveva una, rossa, anche tra i capelli corvini. – E la tua bambina sta bene. Ma se continuerà a stare bene... beh, questo dipende da te. Quindi ti conviene aprire le orecchie, Signora degli Inferi.

- Io non sono la Signora...

- Invece sì. – Era la costrinse a terra quando cercò di alzarsi. Le afferrò la mascella, imponendole di guardarla. – Hai ucciso Ade con un’arma divina mentre si trovava ancora nel suo regno. Quando mi hai contattata tramite il Flegetonte ti avevo chiesto di aspettare. Di lasciare che abbandonasse gli Inferi. Ci avrei pensato io, ma tu non mi hai dato retta. A proposito, mio marito voleva ringraziarti. Ha di nuovo la sua Folgore.

- Non tornerò negli Inferi. – sentenziò Zelena. 

- No. Ti darò un vantaggio. Puoi passare i primi sei mesi nel mondo dei vivi. Ma il giorno del Solstizio d’Inverno ti presenterai a Caronte e tornerai negli Inferi. – Era parlava come se si fosse trattato di normale amministrazione. – E negli Inferi resterai per i sei mesi successivi. Perché quello è il tuo regno adesso. Poi potrai tornare a Storybrooke. O ad Oz. Non so, dove preferisci. E così via, fino a quando qualcun altro non prenderà il tuo posto. Dubito accada presto, in ogni caso. Solo le armi divine possono ucciderti.

- Sono... sono immortale?

Era fece spallucce e le girò intorno. – Tragico. Lo so.

Zelena era talmente sconvolta che non sarebbe riuscita a rialzarsi nemmeno se Era glielo avesse permesso. – Non puoi... non lo farò. Perché dovrei accettare? Non sarò la regina di un branco di anime incapaci di gestire i propri conti in sospeso!

- Invece lo farai. A meno che tu non voglia che io prenda tua figlia.

Zelena allungò una mano ad artiglio verso la Dea, che la respinse.

- Prenderò tua figlia, se rifiuterai. Non la rivedrai mai più. – La sua voce era calma e crudele, le parole erano gelide, le scandiva come se stesse parlando con una ritardata. - Dopodiché... maledirò il figlio di tua sorella. Maledirò la Salvatrice e i suoi genitori. Li perseguiterò. Fino a quando di loro non rimarrà più niente. Rimarrai solo tu... e Regina. La Strega Perfida e la Regina Cattiva, perché questo sarete quando avrete perso tutto. Vi farete a pezzi a vicenda.

Zelena, in cuor suo, maledisse Ade. Alla fine era riuscito a rovinarla.

- Sono felice che tu ci stia riflettendo su. Ti conviene. Tra sei mesi Caronte ti aspetterà e le porte degli Inferi si apriranno per te. – concluse Era. – Puoi aver spezzato una maledizione e cancellato il mio marchio, ma questo... questo va ben al di là di qualsiasi maledizione. Questo è molto più antico di qualsiasi incantesimo tu conosca. Il vero amore non può più aiutarti. Niente, se non la morte, potrà liberarti.

Prenderò tua figlia, se rifiuterai. Non la rivedrai mai più.

Era si incamminò lungo il corridoio, voltandole definitivamente le spalle. – Lunga vita alla regina!


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Capitolo 16
*** 16. ***


16

 

“E quindi uscimmo a riveder le stelle.”

[Dante Alighieri, La Divina Commedia; Inferno, XXXIV]

 

 

 

Storybrooke.

 

- Belle?

La porta sbatté alle spalle di Tremotino, mentre lui avanzava di qualche passo. Le assi di legno scricchiolarono sotto i suoi piedi. Sembrava non ci fosse nessuno.

Fuori aveva smesso di nevicare nel momento esatto in cui Ade era morto. I nani si stavano dando da fare per riportare un po’ di ordine in città. Spalavano la neve, accumulandola ai bordi delle strade. Gli Azzurri erano andati dritti all’istituto della Madre Superiora a recuperare il piccolo Neal.

Nel cielo veleggiava ancora l’Aurora Boreale.

- Belle, sono tornato.

- Lo vedo. – rispose Belle, uscendo dal retro. Era terribilmente seria, pallida e con gli occhi cerchiati.

Anzi, non era solo seria. Era furibonda. E Tremotino capì che sapeva già tutto. Tutto di lui, tutto ciò che era accaduto negli Inferi.

Lui estrasse il pugnale e lo posò sul bancone, davanti alla moglie. Lo lasciò lì. Belle vi posò gli occhi. La lama scintillò brevemente nella penombra. Il nome dell’Oscuro risaltava sullo sfondo nero.

- Riprenditi il pugnale. – disse, invece, Belle.

- Quello che ho fatto... l’ho fatto per te. Per nostro figlio. Ade mi aveva in pugno, non potevo permettere che...

- So benissimo che cosa è successo, Tremo. Malefica è stata qui. Mi ha mostrato ogni cosa. – Belle gli fece vedere un vecchio acchiappasogni. – Un piccolo incantesimo. Sai, Tremo, hai minacciato sua figlia.

- Minacciato? È Lilith che ha minacciato me. Se te lo ha mostrato, dovresti saperlo. Ha parlato di Neal a sproposito, usandolo per convincermi a condurla nell’Oltretomba e poi ha minacciato di farti del male!

- Lo credo bene, Tremo. Hai vanificato il sacrificio di Emma. E per cosa? Per il tuo grande amore. Il tuo vero amore. Il potere. – Belle buttava fuori ogni parola come se gli stesse lanciando contro delle pietre. Lo raggiunse, fermandosi di fronte a lui. Non smise di guardarlo nemmeno per un secondo. I suoi occhi azzurri erano pieni di amarezza e lacrime. Li aveva già visti, così. Quando lo aveva condotto al confine di Storybrooke e poi lo aveva esiliato, usando il pugnale. - Poi, negli Inferi, hai fatto di peggio. Malefica ti ha osservato. Più volte. Hai stretto un accordo con tuo padre, perché ti aiutasse con Ade. In cambio, tu lo avresti riportato in vita.

- Non gli avrei mai permesso di tornare in vita, Belle. Io stavo...

Ma Belle non gli permise di difendersi. – Non solo. Hai cercato di trascinare anche Killian Jones nei tuoi piani. Hai fatto leva sul fatto che Lilith avesse ucciso Emma per ottenere il suo aiuto. Avresti sacrificato Lilith. Ma Killian ha rifiutato l’accordo. E poi hai evocato lo Spettro... sei stato tu. Ade voleva usarlo contro i suoi nemici e ha raccontato che era stata Cora, ma in realtà... sei stato tu. Hai proposto tu di evocarlo. Era Lilith l’obiettivo dello Spettro, ma ne hai perso il controllo.

- Volevo aiutarli a riportare indietro Emma Swan e liberarmi di Ade. Lilith è pericolosa, Belle. Una vita per una vita... non mi divertiva, ma eravamo lì per la Salvatrice. Normalmente... non si può tornare indietro. Qualcuno deve morire. L’Anti Salvatrice...

- Non la chiamare in quel modo. – lo interruppe Belle. – E vattene via. Ho bisogno di restare sola.

Tremotino allungò le braccia, ma lei si ritrasse. - E il bambino?

Belle non gli rispose.

 

 
- Mamme!

Emma aprì gli occhi, scoprendo di essere ancora abbracciata a Regina.

Solo che non era più nell’Oltretomba. Era a Storybrooke.

Era nello stesso punto in cui si trovava quando era morta. Davanti al lago, che era la porta per raggiungere il regno di Ade. L’erba era coperta da un pesante strato di neve fresca. Gli alberi erano spogli e dai rami cadevano blocchi di neve. Però l’aria era limpida e il cielo non era rosso, ma azzurro.

E c’era qualcosa... dei colori che danzavano. Tendaggi colorati sospesi nel cielo.

Credette d’immaginarseli, ma anche Regina li stava osservando, perplessa.

Henry si precipitò da loro, correndo. Quando le raggiunse era senza fiato e le abbracciò entrambe.

- Siamo tornate. – mormorò Regina, stringendo suo figlio. Ancora stentava a crederci. Solo un attimo prima erano in balia di Cerbero. Solo un attimo prima Emma giaceva a terra, esanime, appena cosciente, appena in grado di inghiottire un pezzo di ambrosia.

Invece ora era lì, con la sua giacca rossa. Una giacca rossa intatta. Lo strappo provocato dagli artigli di Cerbero era scomparso.

- Ce l’abbiamo fatta. – disse Emma, sorridendo e prendendole la mano.

Mary Margaret teneva in braccio il piccolo Neal. Appoggiò la mano libera sul viso della figlia.

- Come sapevate che eravamo qui? – chiese Emma.

- C’è sempre qualcuno che sa dove ti trovi. – rispose David.

Lily aveva un aspetto di gran lunga migliore rispetto all’ultima volta che l’aveva vista. – L’ho sentito. È stata... una sensazione.

- Papà... stai piangendo? – chiese Emma, guardando David.

- Certo che no. Sapevo che saresti tornata. – In realtà aveva le guance bagnate.

 

 
- Ogni città qualche guaio ha... ma qui è là c’è serenità... ma non a Nottingham!

Marian batté le palpebre, sorpresa dai raggi del sole. I suoi stivali scricchiolarono, calpestando la neve.

- Com’è triste subir questa tirannia e non poter volare via... – La voce del menestrello si interruppe di botto, con un singhiozzo strozzato. Poi riprese, ma quando lo fece era molto più alta. – FORSE UN PO’ DI GIOIA TORNERA’! ANCHE A NOTTINGHAM!

Subito Marian udì i passi di corsa. Piccolo John scivolò, finendo gambe all’aria. Due compagni lo presero per le braccia e lo tirarono su.

- Che succede, Cantagallo?

- Mamma?

Marian fissò il bambino di quattro o cinque anni che veniva trotterellando verso di lei. Dapprima pensò, terrorizzata, che fosse successo qualcosa a Roland e che anche lui si trovasse nel posto migliore. Aveva semplicemente seguito la luce, le voci che la chiamavano... ma Robin le aveva assicurato che Roland era al sicuro con le fate.

- Marian, sei tu?

- Mamma!

Marian sollevò il suo bambino e lui le mise le braccia intorno al collo.

Robin fissava la moglie, incredulo. E questa volta era davvero sicuro che fosse Marian. Non era un trucco, non sembrava un incantesimo messo in atto per ingannarlo.

- Robin...? Sono... Dove diavolo sono?

- A Storybrooke, milady. – intervenne John, poiché Robin non riusciva ad emettere nemmeno un suono. – Siete voi, vero? Questa volta... siete voi.

Sono viva?

Guardò la bambina di Zelena addormentata tra le braccia di Robin e le facce sconvolte degli altri uomini. Persino Cantagallo la guardava con occhi che erano diventati enormi.

Non era il posto migliore. Era il mondo dei vivi.

Era tornata.

- Non capisco. Ero nell’Oltretomba. Credevo di essere passata oltre...

Poi tutto intorno a lei si fermò di colpo.

Tutti erano improvvisamente immobili. Robin, sua figlia, con le manine tese verso il volto del padre, John e l’Allegra Brigata dietro di lui, Cantagallo seduto su una roccia, a piedi scalzi e con la bocca spalancata. Persino Roland era come congelato, con un grande sorriso stampato sul volto e gli occhi marroni che brillavano.

Marian sentiva ancora il vento tra i capelli, ma i rami degli alberi non si muovevano.

- Bentornata tra i vivi, milady. – disse un ragazzo, passando in mezzo a due uomini di Robin.

- Cos’hai fatto? – gli domandò, indietreggiando di un paio di passi e stringendo di più a sé Roland. – Chi sei?

- Sono solo un messaggero. Non abbiate paura.

Quando fu abbastanza vicino, Marian si accorse che non era affatto un ragazzo. Lo sembrava, ma le sue iridi erano dorate ed erano quelle di un uomo immensamente vecchio. Era a petto nudo ed indossava un elmo e un paio di calzari, da ognuno dei quali spuntavano un paio d’ali.

- Il mio nome è Ermes. E voi siete qui per volere di mio padre, Zeus. Non so se sua moglie ne è contenta, ma quello non importa, ora. – Il Messaggero degli Dei sorrideva, furbescamente. – Mio padre vi ringrazia. È per questo che siete tornata.

Confusa, Marian scosse il capo. – Ringrazia... per cosa?

- Il medaglione che avete dato ad Emma Swan ha distrutto Cerbero. Quel cagnaccio infernale è morto. Ed è un bene. – Ermes si levò in volo davanti a lei e volteggiò a mezz’aria. Incrociò le braccia al petto. – Ade e Cerbero. Due in un colpo solo. Erano millenni che non ci divertivamo tanto. Siete stata molto coraggiosa. Anche quando eravate in quel labirinto. Avete meritato una seconda chance.

Il Labirinto. Il Minotauro. La sua lunghissima permanenza in quel posto aveva assunto i connotati di un sogno. Come se fosse accaduto a qualcun altro.

- Ed Emma?

- Sta bene. È con la sua famiglia e con la donna che ama. – Le ali sbatterono ed Ermes salì un po’ più in alto. – Andate, adesso. Tornate dalla vostra famiglia. Dove meritate di stare.

 

***

 

 
Granny non si era risparmiata.

Si era data da fare in cucina perché tutti potessero mangiare in abbondanza e non si era fermata un attimo. Nonostante tutto, non sembrava affatto stanca. Ma ognuno aveva comunque portato qualcosa. C’era chi aveva optato per le torte salate e chi per delle varietà di affettati e formaggi. Chi aveva portato dolci e chi del prosciutto affumicato.

Regina era arrivata con una teglia di lasagne e polpettine di carne. Ed era arrivata tenendo Emma per mano. Nessuno aveva fatto domande, sebbene le facce sorprese non fossero mancate.

Henry era corso incontro alle sue madri, abbracciandole e prendendo in consegna la teglia.

- Dove hai trovato il tempo di preparare le lasagne? – aveva chiesto David, ammirandole.

- La magia serve anche a questo. – rispose Regina.

Henry ovviamente si servì subito e aiutò a distribuire le porzioni. I nani si abbuffarono, sorseggiando birra da grossi boccali e incitando almeno una decina di brindisi.

E tutti vollero parlare con Emma. Lei li ricevette, accettando le strette di mano, le pacche sulle spalle e gli abbracci. La cosa iniziò ben presto a darle sui nervi, ma non voleva essere scortese. Non capitava tutti i giorni che qualcuno tornasse in vita senza conseguenze.

Apparentemente senza conseguenze. Non si era dimenticata ciò che le aveva detto Ade.

“Euridice non era più la stessa.”

“L’ambrosia le aveva permesso di andarsene, ma questo posto... l’aveva corrotta.”

Non si sentiva corrotta. Si sentiva un po’ confusa, spossata ed era sicura che molte delle cose che aveva visto nell’Oltretomba l’avrebbero seguita a lungo. Ma non percepiva nulla di sbagliato.

Decise di chiudere la mente a quei pensieri e chiese a sua madre di passarle il piccolo Neal.

 

 
- Mi chiedevo se non volessi un po’ delle mie lasagne? – domandò Regina alla sorella, che sedeva in un angolo, da sola, con gli occhi fissi sulla strada fuori dalla finestra.

- Non ho fame.

- Magari cambierai idea assaggiandole.  

Zelena si voltò, trafiggendola con uno sguardo di fuoco. Fissò il piatto che le aveva messo davanti, come se le stesse offrendo delle mele avvelenate.

Ma Regina sapeva benissimo che non era furiosa con lei. - Lo risolveremo, Zelena. Troveremo una soluzione.

- Ah, sì? E come? Sfiderai Era a duello? - la sbeffeggiò Zelena. – Stare troppo vicina agli Azzurri non ti fa bene. Inizi a parlare come la tua peggior nemica.

- Non è più la mia nemica.

- Ma almeno un passo avanti lo hai fatto. Con la Salvatrice, intendo. Pensavo sarebbe trascorsa un’altra mezza eternità prima che vedessi quello che avevi sotto al naso. – Parlava a raffica, ma almeno, pur essendo furibonda, aveva afferrato la forchetta e attaccato le lasagne.

Regina sorrise, osservando Emma con Neal in braccio. Il bambino si stava divertendo a torturare l’orecchio sinistro di Henry.

- Ho parlato con Robin. Domani potrai vedere la bambina. – disse Regina, sedendosi davanti alla sorella.

Zelena mangiò un altro pezzo di lasagna. A giudicare dall’espressione era molto soddisfatta. Tuttavia, rimase sul chi va là.

- Parlo sul serio. Potrai vederla quando vorrai.

- Ma che pensiero gentile... e perché hai fatto questo... per me?

- Perché so che grazie a lei puoi essere migliore. – Regina rispose senza esitazioni. – Quando eravamo nell’Oltretomba hai fatto la cosa giusta. Hai pensato prima di tutto a tua figlia. Amavi Ade, ma l’hai eliminato. So quanto deve essere dura per te.

- È molto più dura sapere che dovrò prendere il suo posto! – gridò, guadagnandosi qualche occhiata infastidita da parte dei vicini di tavolo.

Regina allungò una mano, quasi a voler stringere la sua, ma poi capì che Zelena non avrebbe gradito e quindi la ritrasse. – Ti prometto che cercherò una soluzione. Immagino che non sia facile per te credermi, ma... lo farò.

 

 
Lily entrò accompagnata da sua madre. Malefica si diresse al bancone, dove Granny l’attendeva, guardandola di sottecchi, come se si aspettasse un incendio nel suo locale da un momento all’altro.

- Pensavo non saresti più venuta. – disse Emma, offrendole una Heineken. 

- Sai che non sono una persona puntuale. – le rispose, prendendo la bottiglia. – Ma perché avrei dovuto perdermi una festa?

Emma l’attirò a sé per abbracciarla. Lily ne fu sconcertata lì per lì e ci mise qualche istante a ricambiare la stretta.

- Che cosa fai?

- Scusami. – disse Emma. – L’idea era quella di... ringraziarti.

Lily batté le palpebre, sorpresa. – Ringraziarmi per cosa? Non sono stata io a combattere contro un enorme cane infernale o ad accompagnarti... nelle profondità dell’Averno.

- No, ma tu... hai deciso di provarci. Tu hai deciso di... venire a prendermi, anche se sembrava una follia.

- Perché era giusto. Ti eri sacrificata per distruggere l’oscurità e invece lui... aveva vanificato tutto. Ma a chi la voglio raccontare, sarei venuta a prenderti comunque. Quella faccenda ha solo accelerato i tempi.

Emma sorrise.

- Dov’è, a proposito? Tremotino. Non è stato invitato?

- Credo che abbia ben altro a cui pensare. – Emma osservò Henry mentre mangiava il secondo piatto di lasagne con Neal sulle ginocchia. Mary Margaret aveva appoggiato la testa sulla spalla di David. Killian non era venuto, ma non si aspettava che lo facesse. Suo padre le aveva detto che era sulla sua nave. Sapeva che avrebbe dovuto parlare ancora con lui. Nell’Oltretomba non aveva davvero avuto modo di dirgli ogni cosa. 

Era tutto... di nuovo normale. Magari questa volta sarebbe durata. O magari no. Ma era comunque una bella sensazione.

- Vorrei quel contatto di Boston di cui mi parlavi. – le disse Lily.

- Quindi vuoi farlo? Vuoi cercare la figlia di Murphy?

- Penso proprio che lo farò, sì. Non ho idea di che cosa le dirò, ma... sento che devo.

Emma glielo diede. – L’importante è che tu non ti metta nei guai. Non so se potrò raggiungerti quando avrai superato il confine.

- Me la caverò. Non fare come mia madre.

- Tua madre, a volte, ha ragione. Sa che cosa hai intenzione di fare almeno?

- Non ancora. – Lily mise in tasca il biglietto con il nome e il numero del contatto. – C’è anche un’altra cosa...

- Cioè?

- Vuoi ancora... vuoi ancora farlo? Sai, quello che mi hai detto nell’Oltretomba, sul fatto che dovremmo spezzare l’incantesimo che ci lega... – Lily lo disse usando un tono guardingo. Forse avrebbe dovuto aspettare che le cose si calmassero un po’ prima di parlargliene. Ci aveva riflettuto a lungo, ricordandosi delle parole di Merlino, ma anche di quanto le era costato portarsi dietro il potenziale oscuro di qualcun altro. - Perché io non credo che sia una buona idea.

Emma sorrise e le strinse una mano. – Ero preoccupata. Credevo sarebbe stato meglio per te.

- Merlino diceva la verità. Possiamo separarci, ma questo... questa cosa... ormai è parte di noi. E lo sarà sempre.

 

 
Regina alzò la testa ed ammirò l’Aurora Boreale che veleggiava nel cielo scuro.

Non faceva più così freddo. L’inverno causato dal rapimento di Zelena stava svanendo, eppure quel fenomeno sembrava ancora al massimo della potenza, si rifiutava di cedere. Una strana, ipnotizzante magia.

- È qualcosa che dovremmo tenerci, secondo te? – domandò Emma, avvicinandosi.

- Non lo so. Non ho mai visto nulla di simile. – ammise Regina. Gli occhi della Salvatrice sembravano intenti a risucchiare i colori dell’Aurora. Le iridi furono verdi e poi azzurre e poi più tendenti al blu. Regina si lasciò scivolare tra le dita l’unica ciocca bianca di Emma.

- Sai, aveva ragione mia madre. Sul lieto fine, intendo.

- Ah, sì?

- Ricordi quando ci disse che il lieto fine non è sempre quello che ci aspettiamo?

Regina roteò gli occhi. – Come dimenticare. Se potesse guadagnare soldi ogni volta che fa questo genere di discorsi, sarebbe la donna più ricca del reame.

- Però ha ragione.

- Ho ancora qualche difficoltà ad ammetterlo, ma... sì.

Regina si sporse per baciarla ed Emma dischiuse le labbra, assaporando quel contatto. Era una cosa naturale, come se lo avessero sempre fatto.

Il bacio si intensificò quasi subito ed Emma si ritrovò a seguire la cicatrice di Regina con la punta della lingua.

Una nube scura le avvolse, cancellando il cielo e i colori dell’Aurora Boreale, e quando si dissolse erano a casa di Regina.

- A nessuno farà piacere sapere che abbiamo abbandonato la festa. – disse Emma. Però sorrideva. Strusciò il viso contro la mano di Regina, chiudendo gli occhi. Sfiorò il palmo con le labbra e poi depositò dei piccoli baci sulle vene del polso.

- Non se ne accorgeranno. Non subito, almeno. – Si chinò, seguendo la linea della mascella con le labbra. Poi le baciò il lobo e la pelle dietro all’orecchio. Nel frattempo le dita di Emma armeggiarono con i bottoni della sua camicia. – E poi credi che me ne importi qualcosa ora?

- Oh, sono sicura di no.

Regina la baciò ancora e prese la sua mano, conducendola sul proprio petto, nell’incavo caldo fra i seni. Emma l’attirò contro di sé, baciandole il collo.

Si spogliarono lentamente e Regina non ebbe alcuna esitazione quando scivolò sul letto, portandola con sé. Le sembrò che i loro corpi si incastrassero perfettamente, che la sua pelle non aspettasse altro che quel contatto. Lasciò che i capelli biondi della Salvatrice scivolassero sul suo viso. Le strinse le spalle, aggrappandovisi con forza, affondando leggermente le unghie nella pelle chiara di lei e avvinghiandole il bacino con le gambe.

Emma sollevò un po’ la testa per guardarla negli occhi. Nella penombra della stanza i suoi sembravano molto più verdi.

- Sei bellissima. – sussurrò Emma, con la voce spezzata.

 

***

 

 
Storybrooke. Una settimana dopo.

 

L’auto si fermò proprio a pochi metri dal confine della città e la parte anteriore del veicolo rigettò un bel po’ di fumo.

Lily mise in folle e provò a riaccendere il motore, incitandolo come se stesse parlando con un essere in grado di comprendere la sua lingua.

Nessun segno di vita, a parte un debole colpo di tosse.

Lily scese, sbattendo la portiera e colpendola con un calcio. Le dita dei piedi lanciarono un grido di dolore e lei si ritrovò a saltellare in cerchio, ripassando ogni imprecazione mai inventata e combinandolo in un unico capolavoro di volgarità. Ma tanto non c’era nessuno nei dintorni. Solo la strada. Gli alberi. Il cartello verde con la scritta LEAVING STORYBROOKE.

- Sei sicura che la macchina reggerà? Il confine di Storybrooke non è... molto stabile. – le aveva detto Emma, prima che Lily salisse in macchina. Nella tasca della giacca aveva la foto della figlia di Murphy. Il contatto di Emma era stato molto utile.

Doveva immaginarlo che sarebbe successo qualcosa che le avrebbe impedito di lasciare la città. E la macchina non era nuova. Ma sperava che l’avrebbe condotta fino a Boston.

- Problemi?

Lily si voltò, in tempo per vedere un tizio in sella ad una vecchia motocicletta fermarsi accanto al catorcio fumante.

Lo riconobbe. Era August. L’aveva visto al Granny’s più di una volta e sapeva che era amico di Emma.

Pinocchio.

- Molti. – rispose Lily, stizzita.

August slacciò il casco e scese. Si permise di dare un’occhiata all’auto, sollevando il cofano e agitando le mani per scacciare il fumo. – Direi che è andata. C’è poco da fare.

- Non è quello che avrei voluto sentire.

- Mi dispiace. Dov’eri diretta? – Si tolse un attimo il casco, rivelando i capelli corti e scuri. Il suo sorriso era gentile, molto amichevole. Indossava una vecchia giacca di pelle, i jeans sbiaditi e un paio di stivali da cowboy. Probabilmente anche lui stava lasciando la città perché c’erano un paio di borse agganciate alla motocicletta.

- A Boston.

- Boston... – ripeté lui. Abbassò il cofano, sfregandosi le mani. – Posso portare una persona in più. La mia motocicletta è in ottima forma.

- Non ti ha mandato Emma, vero?

Il sorriso di August si allargò, quasi si fosse aspettato quella domanda. – Credo che Emma sappia che te la puoi cavare da sola, Lilith.

- Come sai il mio nome, quindi?

- Ormai lo sanno tutti. Sei andata all’Inferno e hai portato con te tutta la famiglia di Emma. E siete tornati.

Lily fissò la motocicletta ferma accanto all’auto. Sapeva benissimo che in un modo o nell’altro doveva lasciare la città se voleva davvero trovare la figlia di Murphy.

Trovare la figlia di Lucignolo facendosi dare un passaggio da Pinocchio.

- Sono contento di vedere che sorridi. È un buon segno. – osservò August. – Non farò la stessa offerta una seconda volta.

Sopra di loro l’Aurora Boreale brillava ancora. Sembrava si stesse riducendo lentamente, ma ancora resisteva, come se una strana magia la tenesse ancorata al cielo. Una volta superato il confine, sarebbe sparita.

- D’accordo. – disse Lily. – Andiamo. 


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