Le cronache dei draghi e dei re - L'avvento dei Sette

di Rossini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Giuramento ***
Capitolo 2: *** Un regno debole ***
Capitolo 3: *** Il fuoco risorge ***
Capitolo 4: *** Il re Lannister ***
Capitolo 5: *** Donne forti ***
Capitolo 6: *** Da balia a Banfred ***
Capitolo 7: *** Due abili politicanti ***
Capitolo 8: *** Il vecchio leone ***
Capitolo 9: *** Drago dell'est, drago dell'ovest ***
Capitolo 10: *** La strategia di Tyresyah ***
Capitolo 11: *** Daessenya ***
Capitolo 12: *** L'ora del vespro ***
Capitolo 13: *** Notizie dall'oriente ***
Capitolo 14: *** Generale in gonnella ***
Capitolo 15: *** Risvegli ***
Capitolo 16: *** L'Alba ***
Capitolo 17: *** Un triste ritorno ***
Capitolo 18: *** Passioni e conflitti ***
Capitolo 19: *** Il folle piano di Licyane ***
Capitolo 20: *** Il veleno del serpente ***
Capitolo 21: *** Un grande giorno per le ragazze Lannister ***
Capitolo 22: *** Sospetti, minacce e ritorsioni ***
Capitolo 23: *** Colpa del drago ***
Capitolo 24: *** Il duello di Delta delle Acque ***
Capitolo 25: *** Le ombre della storia ***
Capitolo 26: *** L'uomo spezzato ***
Capitolo 27: *** Il libro ***
Capitolo 28: *** Una sorpresa per la regina ***
Capitolo 29: *** Il re e il drago ***
Capitolo 30: *** L'ultimo arrivederci ***



Capitolo 1
*** Il Giuramento ***


Capitolo 1
IL GIURAMENTO
 
 
 
                Molto tempo prima, quando gli uomini stavano via via divenendo simili agli uomini, e gli dèi e i demoni ancora si confondevano tra loro e tutti insieme abitavano la terra, il più grande maestro nell’elaborazione dell’energia proveniente dal buio e dalle tenebre, attendeva. Rifiutava per se medesimo l’appellativo di “Oscuro”, che pure la gran parte della massa delle genti del mondo, sia quelle sotto la sua giurisdizione che a maggior ragione quelle sotto la giurisdizione degli altri Grandi Sette, si ostinavano ad adoperare. Né preferiva quell’altro, usato da gente più colta e raffinata, ma comunque profondamente ignorante nella materia che riguardava la sua persona, ovvero “la Spia”. Né l’oscurità né tantomeno lo spionaggio c’entravano alcunché con il suo tipo di potere, che lui traeva sostanzialmente da quel fenomeno ancora pieno di misteri – anche se, come tutto il resto, di certo legato al potere dei Cinque Maestri – che era l’alternarsi del giorno con la notte. Differentemente da alcuni degli altri Grandi, lui non aveva appreso i suoi poteri direttamente da uno dei Cinque. Lui era uno di quei maestri umani che aveva in qualche modo “inventato”, o per meglio dire “scoperto”, la sua stessa arte. Non così era stato per quello che veniva chiamato il Sicario, che aveva appreso la sua arte direttamente da Requiem, né per il Guerriero, che l’aveva appresa da Kyrios, né ancora per il Folle, che l’aveva appresa da Kimera, e né per l’Eremita che l’aveva appreso da Luxia, la più vicina tra i Cinque Maestri, per cuore e anima, al mondo degli umani.
                Il maestro Nidhogg, invece, era l’unico tra le cinque creature dell’origine che ancora non aveva definitivamente “sciolto” la propria magia. Con questo termine comunemente s’intendeva il momento in cui uno dei Cinque decideva di affidarsi completamente a un uomo e confidargli i suoi segreti: quello che sapeva, o aveva intuito, sul mondo che circonda gli uomini, le bestie, le piante, i diavoli e gli dèi. Nidhogg era buono e profondamente disponibile: aveva insegnato a molti uomini, ma ancora nessuno era esplicitamente stato scelto come suo discepolo.
                E poi c’erano quelli come lui, il maestro del giorno e della notte, vale a dire: il Guardiano, che aveva sperimentato un originalissimo modo di sfruttare l’energia di Kyrios, gestendo il fuoco dell’interno della terra non per crearne fiamme, ma per sommuovere lo stesso sottosuolo e controllarne sabbie e rocce, e il Servo, totalmente – e anzi quasi ciecamente – devoto ai Cinque, che invece aveva rivolto il proprio sguardo – come lui – al mondo di sopra, anziché a quello di sotto, e che era riuscito a carpire molti segreti della volta celeste, e in particolare nei momenti in cui essa si trovava in uno stato di tempesta.
                Dei segreti di quelli che in un certo senso avrebbe potuto definire suoi “confratelli”, in quanto tra gli esseri umani più evoluti e potenti mai esistiti (e che in verità non gli erano neanche lontanamente parenti), il maestro del buio in realtà poco altro sapeva. Sapeva di quello che riguardava lui personalmente: che era in grado di controllare tutte le ombre, la sua e quelle altrui, e di dargli uno spessore materiale. Che si era raffinato talmente tanto in quell’arte della materializzazione delle ombre, da essere in grado di dargli perfino forma simile a quella umana e, d’altro canto, poteva mutare a suoi piacimento la sua stessa carne n sottile ombra, per poi tornare di nuovo sottoforma di uomo quando meglio credesse. Era probabilmente la più o meno consapevolezza che fosse in grado di fare qualcosa del genere, unitamente al ruolo che aveva deciso di ritagliarsi nella società degli uomini, che aveva fatto in modo di attribuirgli quel tristo epiteto: quello di Spia.
                Parte dei suoi “confratelli”, e in particolare: il Folle, l’Eremita e il Guardiano, avevano scelto – chi in una maniera chi in un’altra – la via dell’insegnamento agli uomini, o comunque dell’allontanamento dal potere derivante dal rapporto con le cinque creature dell’origine, e dal ruolo di “signori degli uomini” che tale potere inevitabilmente era finito per significare. Gli altri tre: il Sicario, il Guerriero e il Servo, invece – anche loro ciascuno in una sua originalissima maniera – erano completamente devoti alla causa o dell’ausilio diretto ai Cinque, o del controllo sugli uomini, cosa che comunque li legava in qualche modo alla volontà dei Cinque. Lui invece era l’unico dei Grandi Sette a trovarsi a metà: insegnava parte del suo sapere a giovani uomini che desideravano conoscere. Anzi, condividere la sua scienza era uno dei momenti più interessanti della sua giornata. Tuttavia non aveva scelto, come il Folle, l’Eremita e il Guardiano, di slegare completamente questa sua attività dal rapporto con i Cinque e con gli altri fra i Sette Grandi maestri (il Sicario, il Guerriero e il Servo). Dunque non praticava un’attività di distaccamento dal resto della società, ma anzi governava quel pezzo di mondo che dai Cinque gli era stato assegnato. La metà delle genti del mondo conosciuto, poteva reputarsi sua suddita, mentre l’altra metà veniva governata dal maestro Guerriero.
                Tuttavia questo suo modo di fare, talvolta ammiccante alla stretta filiazione con i Cinque e talvolta invece a una certa indipendenza, veniva secondo lui visto con un po’ di sospetto un po’ da entrambe le compagini. Ed era anche per questo che si era finito per ribattezzarlo “la Spia”. Se poi a questo si aggiungevano il suo genere di studi, che riguardavano la creazione di cose simili agli uomini ma che uomini non erano, che riguardavano la metamorfosi della carne umana in qualcosa di molto più oscuro, misterioso, impalpabile, e che negli ultimi tempi lo avevano portato a sperimentare nuovi anatemi in grado in minima parte di controllare la volontà degli uomini meno savi; di entrare nelle loro teste e lì creare immagini di cose che in realtà non accadevano… ecco tutto questo faceva della figura del maestro delle ombre, una figura ambigua, non esplicitamente considerata malvagia dalla povera gente, come certe altre erano finite per divenire, ma certo degna di sospetti e speculazioni.
                Ma tutte quelle differenze stavano per terminare. Lui, e tutti e sei i suoi confratelli, erano stati scelti per andare a giurare a Cair Dedalos. Aveva provveduto affinché il più saggio dei suoi discepoli potesse continuare a tramandare le sue conoscenze ai posteri ma… egli non conosceva neanche la metà delle cose che lui conosceva. Dunque molta della magia del giorno e della notte era destinata ad estinguersi con lui. Era pur sempre un uomo, sebbene tra i più savi mai esistiti, e la sua natura si sostanziava di dubbi e paure. Aveva deciso, come gli altri suoi confratelli, di affidarsi ai Cinque. Loro erano le creature più sagge di tutte, le più perfette. Avevano insegnato agli uomini quello che gli uomini sapevano, ed erano la causa di molte delle cose che li riguardavano. Erano i loro padri e madri. E dunque nessuno dei sette maestri era stato in grado di opporsi alla loro tragica decisione: i sette sarebbero divenuti le creature più potenti del cosmo, perfino forse anche degli stessi Cinque che li avevano scelti. Ma sarebbero rimasti per sempre vincolati a un incantesimo inscindibile, che avrebbe fatto di loro non più degli uomini, ma qualcosa di… profondamente diverso. Creature completamente vincolate alla stessa magia che li rappresentava e nella quale erano specializzate, e dunque completamente schiave. Sette schiavi supremi al servizio del genere umano, così inquietantemente confuso e incattivito in quei tempi infausti. Sette schiavi magici che avrebbero dovuto proteggere per l’eternità il genere umano… da se stesso. Ma il prezzo richiesto ai più grandi fra gli uomini, era incredibilmente alto: ne andava della loro stessa natura di uomini… e questo gettava il maestro delle ombre in preda alle più oscure paure ed inquietudini.
                Da tempo ormai si trovava in questa condizione, poiché da tempo i Cinque lo avevano avvertito. E così presumibilmente avevano fatto con gli altri sette savi fra gli uomini. Ed era quasi sicuramente per questo che una missiva dell’Eremita lo aveva di recente informato di prepararsi, perché sarebbe venuto a prenderlo… e insieme avrebbero dovuto recarsi a Cair Dedalos: la città dei draghi.
                L’Eremita dapprima bussò alla sua porta, e dopo entrò senza attendere il permesso. Tra loro due tali formalità non erano necessarie: non lo erano mai state. Era anziano, con il viso scarno e pochi capelli sparuti e bianchi. Il naso era adunco, e un po’ lungo. Le labbra sottili. L’espressione sul viso, estremamente savia eppure insieme estremamente pacifica, come sempre. E, come sempre, indossava il suo consueto e povero saio di sacco, stretto in vita da una corda, e poi ai piedi un paio di vecchi sandali consumati. Quella era la consueta divisa con la quale non era raro osservare non solo lui, ma anche tutti quelli che – in ogni parte del mondo – potevano essere annoverati come suoi discepoli. Un ordine di individui, particolarmente devoti a Luxia, che si riunivano in comunità e andavano insieme ad alloggiare in vecchi ruderi, dove sostanzialmente condividevano quasi ogni momento della loro vita: quello della preghiera comune, quello del lavoro della terra, quello dell’ausilio ai poveri come loro, quello del pasto, quello del sonno, quello del comune studio delle arti del Maestro Mawldor.
                «Fratello Mawldor…» salutò dunque il maestro delle ombre «Da quanto tempo!»
                «Davvero tanto, vecchio amico mio. Davvero tanto. Sei pronto?»
                «No. Ma che cosa cambierebbe? Dobbiamo farlo comunque…»
                «È per il bene degli uomini»
                «Per il bene degli uomini esclusi noi stessi, vorrai dire»
                «Vecchio mio, ci sono già fin troppi confratelli pervasi dal dubbio. Non dirmi che anche tu ti annoveri tra loro: l’incantesimo non funzionerà se non verrà percepito un senso di amore e totale – cieca – fiducia nei confronti di quello che ci accade. E il nostro sacrificio in quel caso potrebbe essere vano. So che hai paura: anch’io ne ho molta. Ma la diffidenza è un lusso che… ormai non possiamo più permetterci»
                «Sì, lo so bene. So bene ogni cosa che m’aspetta, e sono convinto di farlo e di seguirti in questa avventura. Solo… se pensi che il mio cuore non tremerà quando il momento sarà venuto… io questo non posso assicurartelo. Non posso assicurarlo a te, come non posso assicurarlo a nessun’altro dei nostri confratelli, né ai nostri padri e alle nostre madri. E men che meno posso assicurarlo a me stesso»
                «Tremerà anch’io il mio, fratello, te l’assicuro… tremerà anche il mio. Vogliamo andare?». E fu così che s’incamminarono, ma non prima che il grande maestro del giorno e della notte non ebbe preso congedo da tutti i suoi numerosi e affezionati discepoli. E specie dal più preparato di loro, l’unico che in parte aveva appreso l’arte della manipolazione delle ombre: il caro e affezionatissimo Yusseth.
                Il segreto della magia di Mawldor si trovava nell’acqua, l’arte di cui più su tutti era maestra il drago Luxia: era lei che sostanzialmente gli aveva aperto la strada. Naturalmente, il maestro del giorno e della notte non aveva la benché minima idea di come il suo confratello facesse, ma a Mawldor bastava una quantità minima d’acqua – una pozzanghera – per decuplicarne le dimensioni e servirsene come più volesse: come arma, come più comodo mezzo per l’irrigazione degli svariati terreni di proprietà dei monasteri sotto il suo controllo, perfino come mezzo di trasporto. Si dice che una delle sue frasi più celebri, fosse: «Datemi una goccia d’acqua, e io vi creerò un mondo». Ma quest’ultima informazione era più saggiamente da annoverare tra le voci relative alla leggenda sul personaggio, piuttosto che a quelle relative alla sua storia. Eppure, l’acqua sapeva davvero usarla, e sapeva usarla in maniera impressionante.
                Pure i discepoli del maestro Guardiano, come quelli dell’Eremita, erano finiti per organizzarsi in monasteri. Non si sapeva chi davvero per primo avesse cominciato a sperimentare questa originale forma di organizzazione della vita degli studiosi, però almeno un dato di fatto era incontestabile: l’Eremita aveva esteso molto di più del Guardiano il suo sapere per il mondo e dunque, normalmente, se ci si trovava di fronte a un savio in tonaca e sandali usurati, era assai più probabile che si trattasse di un discepolo di Mawldor piuttosto che di uno del maestro delle sabbie e delle rocce.
                Quando, trasportato l’uno dalle acque e l’altro dalle ombre, i due savi confratelli raggiunsero il luogo dove abitava il Maestro Helmon, i pochi discepoli di quest’ultimo li indirizzarono verso un sentiero che li avrebbe condotti a una valle con un mastodontico monolite al centro. Lì Helmon usava recarsi quando desiderava restare un po’ da solo. E lì i due confratelli si diressero: avevano ciascuno la stessa confidenza con Helmon, che normalmente avevano fra di loro; disturbare Helmon mentre fosse in preghiera o in meditazione era una questione che nient’affatto l’impensieriva. Ma giunti lì, il maestro delle rocce, il Guardiano, non c’era. «È strano…» constatò l’Eremita, chinandosi a raccogliere con la punta delle dita dell’acqua da una pozzanghera, e assaggiandola con la punta della lingua. I due non ebbero il tempo di speculare oltre; un uomo incappucciato venne fuori da dietro un faggio in penombra e lì attaccò. Per un normale uomo, sarebbe stato folle attaccare anche uno solo di loro. Ma quello non era un normale uomo: i movimenti erano troppo repentini e troppo ben studiati. Quello era qualcuno addestrato, come loro, nelle arti magiche.
                Era agilissimo, nonostante possedesse una massa senza dubbio superiore a quelle della Spia e dell’Eremita, i quali erano uomini abbastanza gracili. L’Eremita provò a riversargli contro un’onda d’acqua, ma egli mutò tale onda in sabbia e tornò a indirizzarla verso chi l’aveva evocata. Il maestro del giorno e della notte, invece, provò il suo nuovo trucco di recente sperimentazione: tentò di penetrare la mente del suo avversario. Non vi riuscì: era dunque un tipo dalla salda volontà, non un gaglioffo qualsiasi mandato lì ai ciechi ordini di qualcuno. Ma la stazza, e il fatto che avesse un potere legato alla terra, già fece sospettare alla Spia qualcosa; a ulteriore conferma, finalmente, accadde quello che ormai da troppi secondi si aspettava…
                La terra incominciò a tremare. Dunque quell’individuo doveva essere un discepolo del confratello Guardiano, l’uomo che aveva studiato il potere delle forze che animano la terra e generano le rocce e le montagne: il Lipomante. Ma un discepolo forse traditore?
                L’Eremita e la Spia persero l’equilibrio. Subito, il secondo – una volta che fu con la schiena per terra – mutò in ombra e rese invisibile il suo corpo, in modo da non permettere all’aggressore di sferrargli il suo colpo definitivo. Una pioggia di sassi fece per abbattersi sul solo vecchio Eremita, il quale sarebbe stato spacciato, se da invisibile che era il maestro del giorno e della notte non avesse scagliato un denso fumo di tenebre attorno al grosso aggressore incappucciato, impedendogli di prendere una mira corretta, e facendo in modo che la tempesta di sassi si abbattesse da tutta un’altra parte. Nel frattempo, il maestro delle fonti, con l’ausilio del proprio potere, riuscì a sgattaiolare fuori dalla mira dell’aggressore. Dunque, creò una pozzanghera sotto i piedi di quest’ultimo, che scivolò all’indietro perdendo l’equilibrio. Funi d’ombra gli strinsero i polsi e le caviglie; il maestro Eremita gli salì addosso e puntandogli la mano alla gola fece: «Un solo brusco movimento… e riempio i tuoi polmoni di tanta di quell’acqua da farti perdere qualsiasi possibilità di respiro seduta stante». La risposta dell’aggressore misterioso sorprese non poco i due confratelli. Sostanzialmente, si trattò di una grassa risata. Una grassa risata che culminò con le parole: «Devo dire – ahahah – che siete sempre due temibili avversari – ahahah – ma a mia difesa – ahahah – faccio notare che avete dovuto agire in combinazione. Non è stato così l’ultima volta, eheheh». Insieme, il maestro delle fonti e quello del giorno e della notte domandarono con immenso stupore: «Helmon?!»
                «E chi, se no?» rispose quello, togliendosi il cappuccio e mettendosi in piedi. Praticamente non era più la stessa persona che i due più anziani maestri ricordavano. L’ultima volta che l’avevano visto, non era molto più che un ragazzino. Oh, certo: avevano udito anche loro le storie di quel loro comune discepolo, che si era specializzato nelle arti della terra, che era riuscito a elaborare anatemi che nessuno mai era riuscito a fare. Che, come lo stesso Mawldor aveva già fatto diverse decadi prima, si era spogliato di ognuna delle sue proprietà terrene, aveva raccolto quello che all’inizio era un piccolo gruppo di accoliti, e si era rifugiato tra i meandri di una foresta. Ma non l’avevano più rivisto. Helmon era un giovanotto di statura certamente già considerevole, ma certo non lo ricordavano così alto! E poi, Helmon non aveva mai avuta tutta quella massa, né tutta quella barba. Era magro e glabro, ai tempi in cui Mawldor gli aveva insegnato i segreti dell’acqua e la Spia quelli delle ombre. Solo il suo sorriso giocondo era rimasto il medesimo.
                «Ti avremmo sconfitto anche singolarmente» polemizzò ancora il vecchio Mawldor «Solo che ci avremmo impiegato ancor più tempo e fatica»
                «Come volete voi, maestro, ahahah»
                «Sei divenuto davvero abile» constatò invece seriamente il maestro del giorno e della notte «Mi domando come tu ci sia riuscito… la mia arte, si presumeva sarebbe stata l’ultima e invece… spunti tu con questa cosa del fuoco nel sottosuolo, e della materia che compone le rocce e tutte le altre pietre. Sbalorditivo, a dir poco sbalorditivo»
                «Grazie, maestro»
                «Helmon» riprese il vecchio maestro delle fonti «Tu sai perché siamo qui»
                «Ma certo, il giuramento di Cair Dedalos. Abbiamo ricevuto tutti quel messaggio»
                «Sì, ma… più nel dettaglio?». A questa questione, Helmon non aveva una risposta. Perse del breve tempo per tentare uno sforzo, e poi concluse: «No, più nel dettaglio non saprei che dire». Fu allora che Mawldor si liberò in ciò che meglio sapeva e che più adorava fare: una lunga, appassionata, spiegazione. «Siamo tutti dei dottori molto esperti ciascuno nella propria disciplina qui» cominciò «Eppure ritengo che perfino voi non sapreste darmi una risposta soddisfacente a una domanda semplice, quand’anche profonda. Dunque, miei illustri e stimati colleghi, vi domando: qual è… la magia più potente di tutte?». Nessuno rispose, e il vecchio dominatore dell’acqua proseguì da solo: «Non avete una risposta, come è giusto che sia. O meglio: ne avete mille, il che sapete bene che corrisponde… a non averne una. Dentro di voi vi starete domandando, ma dov’è che il vecchio vuole arrivare? Voglio arrivare… alla magia comunitaria. La maestra Luxia e il maestro Nidhogg c’insegnano… che non esiste forma di magia più potente da quella che scaturisce dal confronto con un altro. L’amore, l’odio, la paura, la rabbia, il coraggio. Sono tutte forze che ci connaturano e che fanno di noi… esseri dalle potenzialità magiche. Siamo esseri nati per fare gruppo, ed anche la magia è una nostra caratteristica… che non si estranea da questa connotazione»
                «Ah» fece la Spia «Ho capito»
                «Che?» chiese il giovane Guardiano «Cosa?
                «Vuole raggiungere il Folle, ma per farlo… ha bisogno di noi»
                «È così» confermò l’Eremita «Non posso rintracciarlo senza il vostro aiuto»
                «Ma perché cercare Meredjuxor?» si domandò ancora Helmon «Abbiamo ricevuto tutti il messaggio: è sicuro. Lo vedremo a Cair Dedalos»
                «Non dubito… che tutti e sette abbiamo ricevuto il messaggio. Dubito… che tutti e sette parteciperemo. E quel genere di magia, ho i miei dubbi che riuscirà con tutti presenti, figurarsi se qualcuno come Meredjuxor decidesse di farsi da parte»
                «Voi l’avete conosciuto! Ne è davvero il tipo?»
                «Questo è inesatto, mio vecchio allievo. Io in passato, l’ho veduto. Spesso ci ho parlato. Ma conoscere è un azione che richiede ben oltre questo. Richiede quantomeno essere in grado di aspettarsi… cosa un uomo potrebbe essere orientato a fare in determinate circostanze e cosa no. E non è questo il caso»
                «Meredjuxor» cominciò a spiegare anche il maestro delle ombre «È un uomo molto complicato. Lo sai anche tu: la pensa molto diversamente rispetto a tutto ciò che il maestro Mawldor ha testé illustrato. È ancora alla ricerca di un sapere sempre più alto e, per farlo, ha preso tutte quelle teorie, che tutti noi conosciamo, relativamente alla vita lontana dal terreno e… le ha condotte all’estremo, isolandosi da tutto e tutti, fuorché gli alberi e il vento. C’è chi dice che sia stato avvistato meditare seduto sopra una colonna, per un periodo di tempo che – stando alle dicerie – potrebbe andare da pochi giorni a… anni. E per tutte queste ragioni, è praticamente introvabile. Nessuno lo vede da non si capisce quanto»
                «Ma la magia comunitaria che lui tanto depreca…» concluse il vecchio Mawldor «Può fare il miracolo di portarci da lui. Tuttavia ho bisogno di entrambe le vostre energie per mettere in pratica un incantesimo del genere. A Cair Dedalos sono sicuro che ci saremo tutti: noi tre, e poi Corarus, Tararus e Xenorus. Il Guerriero, il Servo e il Sicario. Nessuno di loro ha ragioni per non esserci, né la tempra per contravvenire a una disposizione dei Cinque. Su Meredjuxor invece… conservo parecchi dubbi».
                Il giovane e vigoroso maestro Helmon non aggiunse altro. Anche lui, come già aveva fatto il maestro del giorno e della notte, salutò i suoi allievi in un ultimo, commosso, congedo. Poi giunse le proprie mani con quelle della Spia e dell’Eremita, ed enunciò la formula che ben conosceva, anche se mai aveva tentato di applicare. Lo fece ripetutamente: due, quattro, dieci volte. Per un lungo tempo non accadde nulla. Poi però, tutti e tre i manti videro una luce… divennero un tutt’uno di acqua, ombra, sabbia e terra. E raggiunsero la foresta del maestro Meredjuxor.
                Il maestro che più di ogni altro – da un punto di vista delle abilità – era vicino ai Cinque, in quanto in grado di instaurare uno speciale rapporto non con un singolo elemento naturale, bensì con l’intero sistema stesso che governava il mondo, i segreti della nascita, della crescita e della morte, e quindi in definitiva quelli della vita nel suo completo, quelli che erano utili per comunicare con le forme di vita animali e vegetali, ecco esattamente lui era Meredjuxor. E se ne stava là: sulla cima di un albero spoglio, seduto a gambe incrociate, mentre sopra di lui ruggiva e scoppiava la tempesta. Stremati per l’incantesimo che erano stati costretti a fare, Mawldor, Helmon e il maestro del giorno e della notte furono costretti a ripararsi: con la pioggia fitta che c’era, i loro pur funzionali cappucci non sarebbero serviti a molto. Ciascuno si riparò come meglio poté: l’Eremita, meglio di tutti, usò il suo potere per fare in modo che la pioggia semplicemente evitasse la sua persona. La Spia si posizionò sotto un ramo particolarmente robusto di una grossa quercia secolare lì accanto. Il Guardiano fece librare un grosso e piatto masso e se lo posizionò a pochi piedi da sopra la testa. Dunque, furono pronti a parlare.
                Ma il maestro Meredjuxor, il Folle, lui non lo era. Non si voltò a guardarli, non scese giù dall’albero e neanche aprì gli occhi. Continuò la meditazione, come se non avesse udito lo scroscio procurato dall’arrivo al suo cospetto degli altri tre maestri. Dunque Mawldor fece: «Meredjuxor». Il maestro delle fonti era il più anziano della compagnia, e l’unico che poteva permettersi di rivolgersi chiamandolo per nome al maestro della natura. Il maestro delle ombre e quello delle energie della terra, al massimo, avrebbero osato usare il nome solo se accompagnato dall’epiteto “maestro”: Meredjuxor doveva avere qualcosa come trecento anni.
                La reazione del vecchio in cima all’albero, una volta giunto lo stimolo del collega, fu odiosa quanto chiaramente non sorprendente. Il maestro del giorno e della notte se l’aspettava, e infatti arrivò: un colpo di tosse, niente di più. Neanche troppo forte, un cosa giusto per dire: “so che siete qua, ma non mi interessa”. Allora Mawldor prese e decise di optare per qualcosa di più impegnativo: usando la su arte, cominciò a realizzare dinanzi alla faccia del più vegliardo dei maestri una serie di mirabilie fatte con l’acqua piovana: cose talmente belle, che raramente la Spia avrebbe potuto dire di averne viste di simili nell’intera sua esistenza. Meredjuxor però rimase imperturbabile. Non restava altra scelta: a un cenno del sempre più esperto maestro delle fonti, Helmon si decise a poggiare una mano sulla spalla del vecchietto, permettendosi per giunta un: «Hey!». Non l’avesse mai fatto. Rapidamente, prima una parte del corpo dello stesso maestro della natura mutò in legno e imprigionò la mano del più giovane dei maestri. Dopodiché, due rami di pianta rampicante, lunghi e ben saldi, gli si attorcigliarono sulle caviglie e tirando forte lo strattonarono via dal loro padrone. Quello che accadde in seguito, è presto detto: dapprima, rami su rami riuscirono a imprigionare contemporaneamente tutti e tre gli ospiti che si erano presi la briga di interrompere le meditazioni del vecchio. Dopodiché, a turno, chi in una maniera e chi in un’altra, i tre ospiti riuscirono a liberarsi, per poi ricadere in ulteriori trappole, sempre diverse. Trappole fatte di vegetali e talvolta persino di animali. Il fatto di fondo fu che nessuno riuscì ad interrompere la preghiera di Meredjuxor fino a quando la notte non fu piena e la tempesta non si fu placata. Circostanze che casualmente corrisposero al momento in cui l’anziano maestro delle forze della natura ebbe deciso che la sua meditazione era finita.
                Continuando ad evitare di rivolgergli la parola, il vecchio maestro guidò dunque l’Eremita, la Spia e il Guardiano – i suoi “confratelli” – verso una specie di grotta che aveva agghindato come luogo dove riposare ed eventualmente conservare del cibo. Lì offrì perfino delle misere fette di pane mezzo rancido ai suoi ospiti. Dunque, gli fece capire – sempre senza parlare – che se volevano potevano cercare di trovarsi un’alcova lì dentro, infine si mise a dormire. Mawldor non provò nemmeno ad insistere. Si adeguò alla situazione e fu il secondo a crollare. Quella notte, al di fuori della grotta, i due più giovani dei quattro maestri presenti si confrontarono su quello che stava per accadere. Il maestro del buio invidiava quello delle rocce per lo spirito solare con cui aveva deciso di affrontare la situazione. Gli domandò se anche lui non avesse paura di rinunciare alla propria umanità: quello gli rispose che in effetti già da lungo tempo aveva abbandonato tutta una serie di costumi, che molti uomini perseguivano, e che secondo lui lo avrebbero allontanato dalla grazia degli dèi. E questa era già una verità: il maestro del giorno e della notte sapeva bene che il suo giovane, aitante, collega, da lungo tempo ormai aveva optato per una vita di pane e acqua, quando lui continuava a bere vino e ingurgitare piatti prelibati; una vita di sostanzialmente solo lavoro e preghiera, quando lui partecipava a gare di caccia con il falcone e assisteva a spettacoli di guitti itineranti. Ma la sua domanda, quello che più torturava il suo cuore in quella dannata notte prima della loro comune e definitiva mutazione, in realtà poneva una questione assai più profonda. Un circostanza che Helmon non aveva ancora capito. Fu così che allora che il maestro delle ombre decise di affrontare la questione un po’ più direttamente. «Sì ma, Helmon, essere uomini» disse «Non significa solo quello di cui tu stai discorrendo… cibo e passatempi sono solo uno degli elementi che connaturano l’umanità. Essa è fatta di… una serie di cose che… che non possono essere calcolate. Vanno al di là della nostra stessa logica, e sono talmente mutevoli e impenetrabili che si mischiano e si compongono diversamente per ciascuno di noi. La… rabbia, la paura…»
                «Vecchio mio, mi stai davvero dicendo che temi il Giuramento per la rabbia e la paura?»
                «Sì, ma non soltanto. Anche per la gioia, e per l’odio… e per l’amore»
                «L’amore?»
                «Tu, per esempio… conduci una vita distante dalle pressioni del mondo, è vero. Ma lo fai in cenobio. Non sei affezionato ai tuoi discepoli? Non ti commuove pensare che non ritroverai più quello tra loro più competente, quello più svogliato, quello più scalmanato, quello più dolce, quello più affezionato, quello più freddo e… insomma… via discorrendo?»
                «Senza dubbio. Ma i Cinque ci hanno insegnato che le vie del destino non sono mai univoche. Non… si tratta di un capitombolo costante verso un dirupo. Si tratta di una rete di strade, come nelle grandi città. Questa è la vita. E perciò… anche se ammetto che le prospettive sul breve termine non sembrerebbero suggerirlo, debbo anche necessariamente pensare che non è possibile escludere che… un giorno… li rincontrerò. Con altri volti forse, con altre storie. Ma lo farò»
                «Helmon…»
                «Sì»
                «Tu hai mai conosciuto l’amore?»
                «Senza dubbio, vecchio mio. L’amore per gli dèi. L’amore per gli dèi». Il maestro del giorno e della notte a questo punto non seppe bene cosa concludere. Non capiva se il suo giovane vecchio allievo delle sabbie e delle rocce fosse estremamente saggio o estremamente ingenuo. Ma non se la sentì di indagare oltre, pensava che non avrebbe trovato in lui le risposte che stava cercando. Pensava che in realtà non avrebbe davvero potuto trovarle in niente e nessuno. Se è vero che tutti gli uomini sono simili, ma diversi, allora le sue paure erano sue soltanto, e poteva riuscire a comunicarle solo fino a un certo punto. Si addormentò probabilmente per ultimo, in preda a sempre più imperiosi dubbi e confusioni. Ma non lo disse. Non lo disse più.
                Quando si svegliò, Mawldor stava parlando a Meredjuxor e Meredjuxor stava rispondendo. Probabilmente aveva manifestato delle contrarietà all’inizio, mentre ancora il maestro del buio era nel meglio del suo sonno più profondo, ma apparentemente, stando a quello che si poteva comprendere, aveva deciso di attenersi alla decisione di Kimera, il drago di cui lui era il più fedele e affezionato discepolo. Non era convinto, ma Kimera lo era. E se Kimera lo era, per lui andava bene così. Mawldor era stato piuttosto astuto a buttare l’argomento su quella questione, la quale in effetti – dal punto di vista di Meredjuxor, uomo senza dubbio tutto d’un pezzo per non dire ostinato – era definitivamente inattaccabile. La sua fede nelle cinque creature dell’origine, e in particolare verso la sua maestra, era decisamente fuori discussione, un critico avrebbe detto persino “cieca”.
                Fu così che il viaggio riprese, questa volta senza magia. All’inizio a piedi, fino al villaggio degli uomini più vicino, e poi a cavallo fino alla città dei draghi. A raggiungere Cair Dedalos fu una compagnia di quattro maestri: giorno e notte, energie del sottosuolo, fonti e vita. Quanto agli altri tre Grandi fra gli uomini, la compagnia dei quattro li avrebbe incontrati direttamente lì, nel centro abitato più popoloso del mondo conosciuto. Tararus (il Servo), maestro delle energie del cielo in tempesta, era l’attendente diretto dei Cinque. Lavorava per loro, e per loro amministrava la città indipendente di Cair Dedalos: non l’aveva praticamente mai abbandonata. Corarus (il Guerriero), discepolo di Kyrios, sarebbe giunto probabilmente con tutto il suo seguito fin dalla remota capitale della regione occidentale, area del mondo degli uomini di cui lui era re. Da dove invece Xenorus (il Sicario), maestro dei ghiacci e discepolo del drago Requiem, sarebbe giunto, questo nessuno lo sapeva. Svolgeva delle mansioni al diretto comando dei Cinque, anche lui come Tararus, ma differentemente dal Servo, lui normalmente veniva mandato in giro per il mondo ad occuparsi dei compiti più svariati.
                Il primo di questi tre altri confratelli che la Spia, l’Eremita, il Guardiano e il Folle incontrarono, fu per l’appunto Tararus, che li accolse nella reggia delle Cinque Torri e gli offrì il prelibato nettare degli alberi di Audorya. Tutti l’avevano già bevuto, ma decenni e decenni prima: e non è il tipo di vivanda che può trovarsi in alcun altro luogo, diverso da quello della sua origine. Dunque è scontato dire che i quattro viandanti appena sopraggiunti alla città furono ben lieti dell’offerta gratuita appena ricevuta dal signore di Cair Dedalos. Ma non ebbero il tempo di trastullarsi oltre: con Tararus, ammantato con raffinati abiti da principe e accompagnato dal più bel destriero bianco che forse il maestro delle ombre avesse mai veduto in vita sua, i quattro viandanti si diressero subito ad Audorya.
                La foresta che guarniva tutt’attorno la città, come un prezioso collare su una pelle bianca cui il marmo di Cair Dedalos rassomigliava, veniva appunto denominata Audorya. Così come lo stesso nome prendeva la montagna dalla quale si distaccavano poi le cinque irregolari colline che componevano le dimore dei cinque draghi. Una volta giunti a un’immensa radura quasi al centro della foresta, che tutt’e cinque ben conoscevano, Tararus, Helmon, Meredjuxor, Mawldor e il maestro delle ombre attesero. Non sapevano se prima sarebbe arrivato qualcuno dei draghi, oppure i due tra i sette più savi degli uomini che ancora tardavano: Corarus e Xenorus. Ma l’attesa non fu lunga: e fu proprio quest’ultimo ad arrivare per primo, in groppa ad uno dei suoi più unici che rari falchi giganti ammaestrati. Creatura senza dubbio bellissima e impressionante, così come impressionante era l’idea che Xenorus fosse stato in grado di ammaestrarne qualcosa tipo tre di quegli animali, dalla natura normalmente così libera e selvaggia. Passò poco, e all’arrivo di Xenorus fece seguito quello di Corarus, il re del mondo occidentale. Abiti da soldato di alta classe, furioso corsiero da guerra, nero come il carbone, grossa, pesante e puntuta corona di acciaio di un brillante grigio-scuro. Al suo seguito, come prevedibile, un’orda di galoppini ed inservienti: qualcuno armato, ma non tutti; qualcuno a cavallo, ma non tutti. Tutti invece profondamente rumorosi e scalpitanti: un urto piuttosto evidente e fastidioso con l’armonia e la pace che normalmente risiedevano tra le fronde di Audorya.
                Venne il turno dei Cinque, nella loro forma artificiale, prodotta dalla magia, che in qualche modo li faceva assomigliare agli uomini, anche se senza dubbio uomini al di fuori dal comune. Tutti bellissimi. Tutti algidissimi. E tutti decisamente troppo alti, più di qualsiasi uomo sulla terra. Tanto che il falcone gigante da ricognizione sul quale viaggiava Xenorus, al loro confronto era perfino quasi proporzionato. Giunsero insieme, ma per primo da est marciò Kyrios, in mantello rosso e gonna di scaglie. Le sue sembianze erano decisamente quelle più legate al primevo aspetto che caratterizzava lui e i suoi fratelli e sorelle. non aveva capelli e i suoi stretti e glaciali occhi rossi erano senza dubbi più simili a quelli di un serpente che a quelli di un normale uomo. Accanto a lui, c’era suo fratello Nidhogg, l’unica creatura dell’origine che non aveva tra i sette presenti un discepolo di riferimento, anche se da tempo pareva avere un rapporto molto speciale con una donna degli uomini di Cair Dedalos di nome Phira. Nidhogg aveva fulgidi capelli dorati e lunga barba del medesimo colore. Ma il suo sguardo, e in generale l’espressione sul viso, si sarebbe detta da “uomo più maturo”, rispetto all’altro drago maschio e biondo, il quale si trovava completamente alla punta ovest: Requiem. Un giovane bellissimo, anche lui dai lunghi capelli dorati, ma senza barba e dai brillanti occhi azzurri color del ghiaccio. Nidhogg aveva una elegante veste rossa e azzurra, mentre Requiem teneva in mano una lancia, e indosso un corpetto da combattimento e una cintura chiodata. Al centro tra i due, si trovavano le due femmine: Luxia e Kimera. Entrambe molto simili, di un biondo quasi bianco, entrambe vestite di una semplice tunica di un candore quasi abbagliante. Ma i capelli di Luxia erano sciolti sulle spalle, mentre Kimera li aveva raccolti in due stretti chignon, con due vezzosi nastrini multicolori. Gli occhi della prima erano di un azzurro quasi glaciale, molto simili a quelli di Requiem, gli occhi della seconda erano di un verde scuro che virava verso il castano, come un germoglio primaverile che non ha ancora deciso se essere ramo o foglia. Per quanto riguardava la sola Luxia, poi, essa perfino nel suo aspetto richiamava la sua più stretta vicinanza al mondo degli uomini, più di qualsiasi altro suo fratello o sorella: come infatti le sembianze di Kyrios parevano esser quasi più vicine a quelle di un rettile che a quelle di un uomo, quelle di Luxia erano praticamente pressoché umane osservate grossomodo da qualsivoglia punto di vista.
                Fu Luxia a prendere la parola per prima: «Benvenuti, nostri discepoli». Poi Kimera: «Vi ringraziamo per l’impegno che avete acconsentito a prendere per il bene dei vostri simili». Nidhogg: «Riteniamo che questa sia l’unica delle strade percorribili, e purtroppo richiede un vostro sacrificio». Requiem: «Ma chi più si sacrifica in vita primeva, più vivrà di grazia a vita nova». Kyrios: «Così almeno ci pare che debba essere». Infine ancora Luxia: «Per il bene dell’esito dell’esperimento, è giusto che vi chieda se vi sentite davvero pronti. Maestro Corarus?»
                «Sì, signora» rispose l’unico fra i maestri ad avere una corona sulla testa.
                «Maestro Xenorus?»
                «Sì» rispose quello che era appena sceso giù da un falcone gigante.
                «Maestro Tararus?»
                «Sì» disse il maestro ammantato come un principe, governatore della città libera di Cair Dedalos.
                «Maestro Meredjuxor?»
                «Sì, mia signora. Sono pronto» fece Meredjuxor, e parlò forse più di quanto il maestro delle ombre non lo avesse mai sentito fare.
                «Maestro Mawldor?»
                «Sì, mia signora»
                «Maestro Helmon?»
                «Sì, signora»
                «E… maestro Braff?». Per un attimo il maestro del giorno e della notte si confuse. Per un attimo sperò non essere quello il suo nome, o dimenticò che lo fosse. Per un attimo, il sorriso dei suoi studenti, e di Yusseth in particolare, gli parve essere l’unica alternativa del mondo. Ma tornò subito in sé e rispose con un semplice: «Sì»
                «I maestri hanno acconsentito!» proclamò a questo punto Luxia, e Kimera procedette: «L’incantesimo del Giuramento di Cair Dedalos può cominciare!». E fu subito un’intensa luce di mille colori che lo sprofondò nell’abisso più oscuro dell’inconsapevolezza. Il maestro Braff non seppe più niente: né dov’era, né cos’era. Non c’erano più i suoi confratelli, lì attorno a lui. Né i suoi padri e le sue madri lì a difenderlo. Si trovava disperatamente da solo in mezzo al suo più profondo dolore. Il corpo fisico, quasi fin da subito non riuscì più a percepirlo. Ma la sua anima… era come se tutto il dolore che si potesse provare nel corpo, in quel momento lo stesse subendo una parte di lui che neanche sapeva che esistesse. Ma anche il dolore non era nulla: nulla in confronto alla vera prova. Probabilmente era questo che rinunciare alla propria umanità significava, era questo il vero prezzo che l’incantesimo del giuramento richiedeva di pagare: più il corpo di Braff si spegneva, e più nella sua mente si susseguivano, sempre più vivide, le immagini della sua vita di tutti i giorni. I momenti in cui, da governatore della sua regione – quella orientale – aveva rischiato di venire alla guerra con il re di quella occidentale, proprio quel confratello allievo di Kyrios, Corarus, che adesso probabilmente stava patendo i suoi medesimi dolori. E poi i momenti in cui era sceso per le strade, tra la gente, acclamato o contestato. I momenti in cui gli era stato richiesto di dirimere questioni di grande rilevanza tra parti in contesa. I momenti in cui aveva assistito i poveri, o le vittime di una grave alluvione che aveva sconvolto una certa area. E poi c’erano i momenti con i suoi allievi, qualsiasi momento: mentre insegnava, mentre rimproverava, mentre rideva… mentre vedeva crescere negli occhi di un suo allievo la consapevolezza di aver capito qualcosa, di aver raggiunto un traguardo, di esser stati in grado di fare quello che era loro obiettivo fare. Quello sguardo negli occhi di Yosseth, poi, era stato qualcosa di indescrivibile, di inimmaginabile. Tanto che in quel momento il maestro delle ombre non poté che domandarsi se davvero la conoscenza, prima la scoperta e poi la consapevolezza del proprio stesso sapere, potesse ispirare una gioia talmente potente. Quei momenti passati ad apprendere sempre di più, sempre più nel dettagli, con sempre più passione e amore.
                Più la sua umanità si andava perdendo, e più quelle immagini non volevano saperne di allontanarsi dalla sua memoria. Tutto ciò fino a quando il corpo non fu completamente mutato, e divenne un denso accumulo di fumo e ombra, tutto percorso da continui refoli di potere e magia, con al centro un teschio nero e su di esso un paio di occhi rossi come il sangue.

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Capitolo 2
*** Un regno debole ***


Capitolo 2
UN REGNO DEBOLE
 
 
 
                Era da lungo tempo che quella riunione era cominciata: si era tirata appresso praticamente tutto il pomeriggio. Il sole era ormai tramontato. E Lord Alexis Braff aveva come l’impressione che non si fosse discusso praticamente di niente: Gabryaerys era nuovo alle dinamiche di governo perfino di una singola città, figurarsi dell’intero regno. E questo si notava; si notava parecchio. Aveva vissuto migliaia e migliaia di anni eppure esisteva ancora qualcosa di cui chiaramente non ci capiva niente: non sarebbe durato molto senza l’aiuto del Maestro dei Sussurri, suo servo e demone delle ombre. Eppure era apparentemente convinto di poter fare da solo: da circa un’ora ormai parlava da solo, con gli altri tre demoni – quello delle energie, quello delle nevi e quello degli elementi – che non facevano praticamente nient’altro se non assentire. Probabilmente il re nutriva dei sospetti verso il suo capo delle spie. Probabilmente era questo che aveva voluto dirgli quando, mentre Braff sgozzava per lui il suo predecessore, gli aveva detto qualcosa del genere: “ci sono molte cose che devi chiarirmi”. In tutti quegli anni il demone delle ombre aveva imparato a conoscere il suo padrone, tanto bene da preferire di gran lunga il continuare a servirlo sì, ma a distanza. Lavorare nell’ombra appunto, nella Capitale, dove aveva corso mille rischi e aveva messo in piedi mille sotterfugi pur di preparare l’opportuno terreno per l’insediamento del nuovo re. Probabilmente Gabryaerys non lo aveva ancora capito, non se n’era ancora accorto… ma una volta giunto in occidente aveva trovato contro un avversario dalla forza assai più ridimensionata rispetto a quello che avrebbe potuto essere. Ma spiegare tutto ciò al nuovo re sarebbe stato futile, così la pensava il demone delle ombre: il nuovo re era un uomo totalmente accecato dalla sua boria, e ciecamente animato da un continuo desiderio di riscatto che forse mai sarebbe potuto essere soddisfatto. Era continuamente impaurito e sotto pressione perché temeva che quello che aveva gli potesse venir tolto. Ecco perché non si fidava del suo demone delle ombre: perché era una creatura fin troppo indipendente dalla sua volontà. E d’altro canto almeno in questo Braff non poteva poi dargli tutto questo torto: lui rimaneva ancora vincolato al potere del sigillo, ma in giro per il mondo c’era un demone che – chissà come – era stato in grado di ridimensionare il vincolo impostogli dal giuramento di Cair Dedalos, e che dunque ora non rispondeva più alle chiamate del loro comune signore. Un altro dei servitori, il demone degli spiriti, era probabilmente perito tra le nevi dell’Estremo Nord, non molto distante dalla fortezza dell’Ultima Porta. Il re, come Braff e come tutti gli altri servitori presenti, non ne avvertivano più neanche la presenza sulla faccia del mondo, cosa che invece continuavano a percepire del demone “traditore”, l’Idromante.
                Fu proprio in merito a quest’ultimo che la discussione stava vertendo quando Braff, perso nei suoi pensieri di quando era umano e aveva degli affezionatissimi allievi, e di quando aveva rinunciato suo malgrado alla sua umanità presso la città dei draghi, venne riportato bruscamente nella sala delle riunioni di Roccia del Re. Il re gli aveva appena urlato contro, come di consueto. Lui si vide costretto a rispondere: «Come dite, sire?»
                «Ti ho chiesto» fece Gabryaerys della Casa Targaryen con tono rabbioso «Se hai una qualche vaga idea di dove quel dannato demone delle fonti possa trovarsi: altrimenti mi chiedo che cosa diavolo me lo tengo a fare io un maestro delle spie…»
                «Signore, non si tratta di un individuo connaturato da comuni caratteri di rintracciabilità… stiamo parlando di uno di noi, e uno di noi… che ha eluso l’incanto di Cair Dedalos. Si tratta di un precedente fino ad ora mai riscontrato, dunque… di difficile decifrazione. Posso giurarti che mi metterò da subito a lavoro, ma molto di più… no, non posso fare»
                «Mi domando quanto valga un tuo giuramento a questo punto, “Lord Braff”» il tono del re a questo punto divenne insieme provocatorio e beffardo «Il demone che prese un nome…»
                «Mio signore» provò a questo punto ad intervenire il demone degli elementi: era dall’intera riunione che ci provava, ma… non era un gran parlatore. Per Braff non fu affatto complesso interromperlo: «Maestà, se mi posso permettere, ci sono ben altre cose di cui dovresti preoccuparti. È vero: la questione dei miei confratelli, tre dei quali qui presenti, e poi però uno sconfitto e defunto nel nord, uno apparentemente volatilizzato nel sud, e un altro disertore, è importante e preoccupa anche me. Tuttavia direi che non è impellente»
                «Ah, no? E cosa lo sarebbe allora, Maestro dei Sussurri?»
                «Maestà ,il tuo è un regno debole. A nord hai un apparente alleato nei Worchester che prima o poi, pur continuando a giurarti fedeltà, si consoliderà come una realtà assolutamente indipendente, specie se – come tutte le premesse paiono suggerire – comincerà tra poco una guerra contro i Bolton cui tu stesso sarai costretto a partecipare, visto che il figlio del defunto re tuo predecessore è in realtà figlio di Henrich signore di Forte Terrore, e dunque un tuo diretto concorrente: il bambino di cognome fa Lannister. Qui al centro, ai nostri più diretti confini, tu Sire di problemi ne hai due: uno più ovvio e naturale, l’altro più oscuro e al momento meno impellente. A nord hai l’Incollatura e la Valle di Arryn, governate dall’unico signore dell’occidente su cui sostanzialmente non sono mai stato in grado di fare delle indagini adeguate: Lord Petyr Baelish. Egli se n’è stato buono con Axelion e dubito che abbia ragioni per non farlo con te, però ti vede più debole e con meno amici e dunque… avrebbe senza dubbio meno remore a voltarti le spalle. Inoltre una conclusione su cui sono arrivato solo di recente è che Baelish sia legato a doppio filo con i Goldsmith di Braavos, suoi diretti dirimpettai al di là del Mare Stretto. Questo aprirebbe il ben più complesso problema dell’oriente, cosa che ancora non posso fare perché non ho finito con i nostri dirimpettai»
                «Bene. Uno è Baelish, e ci siamo…» fece il re, che dunque almeno lo stava seguendo, «E l’altro chi sarebbe?»
                «Castel Granito, Maestà. Essa è l’antica roccaforte di quelli che per il momento sono i tuoi più diretti e pericolosi avversari: due Lannister sono tuoi prigionieri, Lady Hana e Napoleon. Axelion, Lionel e Duhenlar sono morti. Ma c’è ancora Constant, che tramava per consegnare a Lorthan Tyrell il Trono di Spade, c’è ancora Marcus, che qualcuno giurerebbe di aver intravisto presso la battaglia che abbiamo da poco alle spalle, c’è ancora Mirietta, la cui sorprendente audacia non si confarebbe alla giovane età, e c’è ancora Daniel, che da qualche parte nel nord si addestra con la magia. Se, come pare, questi tuoi nemici sono al momenti divisi, allora ciò significa che tu hai tempo, ma non molto»
                «E cosa dovrei fare?»
                «Ci sono due mosse che suggerirei: la prima, devi prendere la capitale dei Lannister e manifestare così il tuo potere. Sarebbe una manovra piuttosto facile: Castel Granito è ben protetta da una robusta cinta muraria, da un’area piuttosto stretta di colline rocciose e dal mare. Ma al momento è politicamente isolata, e presentarti da vincitore di un’ennesima battaglia in una roccaforte nemica assediata sarebbe senza dubbio qualcosa di estremamente vantaggioso, in termini di propaganda. Inoltre lì vicino c’è Altogiardino e io posso fin d’ora assicurarti l’appoggio di Gino della Casa Barron in ogni modo possibile: politico, militare, logistico»
                «Gino della Casa Barron, dici?»
                «Sì. Deve a me il suo ruolo, ed è un mio buon amico»
                «Ah» rise Gabryaerys «Sentito ragazzi? Il demone delle ombre adesso ha perfino degli amici». Inutile dire che il demone delle energie, degli elementi e delle nevi risero a loro volta, dato che il loro re e padrone gli aveva appena comandato di farlo. Niente da fare: il re doveva avere un terrore matto che anche Braff finisse per comportarsi come il demone delle fonti, e d’altro canto lui ormai da tempo aveva concluso che avrebbe dannatamente voluto. Solo che non ne aveva il potere: Cair Dedalos era ancora così fortemente vincolante nei suoi confronti… come diamine aveva fatto quel vecchio eremita di un Idromante a spezzare l’incantesimo?
                Braff si era ancora distratto, e ancora era tornato alla sua vecchia vita di decine di migliaia di anni prima. Di nuovo Gabryaerys lo riprese, sempre con quel suo tono da impaziente nevrastenico: «Allora? Qual è l’altra mossa da giocare con i Lannister?»
                «L’altra mossa…» ripeté il Maestro dei Sussurri, tornando per l’ennesima volta alla triste e amara realtà, «L’altra mossa è… Maestà, sull’altra mossa io… debbo dirvela, sono tenuto a farlo come vostro servitore, sarebbe l’azione politica più saggia da fare, ma… voi non dovete prenderla malamente… insomma… siete voi il re, potete sempre rifiutarvi, per cui…»
                «Insomma! Ma che ti prende? Di quando in qua sei diventato così vile, Braff?»
                «Maestà, l’altra mossa consisterebbe… in un matrimonio»
                «Non se ne parla neanche»
                «Ecco: lo sapevo! Potrei… potrei semplicemente esprimervi…»
                «Sei solo un demone tu, Braff, certe cose non le capisci»
                «Sì, è vero, Sire, ma io volevo solo esporre un fatto…»
                «Ah» si rassegnò miracolosamente il re, con un sospiro. Poi disse: «Spara. Di che si tratta?»
                «Se il vostro sangue e quello dei vostri più diretti avversari potessero mischiarsi… allora il vostro discendente avrebbe forse la combinazione che più di tutte nella storia abbia mai garantito la pace nei Sette Regni»
                «Targaryen» rifletté il re «E Lannister… insieme»
                «Lady Hana è pura a quanto mi risulta, e ancora molto giovane: era la quartogenita e penultima di Lionel»
                «Ci devo riflettere»
                «Maestà, io…»
                «Ho detto che ci devo riflettere» scandì dunque il re, ponendo fine alla questione. Poi proseguì: «C’è altro?». E il demone degli elementi: «Sì, mio signore, io…»
                «Non avrei finito» lo interruppe quello delle ombre «Con la mia disamina sul perché il vostro sia un regno debole, Maestà. Il terzo punto è certo meno pressante della guerra che si prepara a nord e di quella che dovremmo preparare a ovest. Ma, a essere franchi, è pure quello che mi preoccupa di più, visto che è quello su cui sono meno informato. Sul continente orientale è ormai chiaro che stia avvenendo qualcosa, lo si percepisce nell’aria: non c’è uomo che abbia la propria residenza tra la laguna sorvegliata dal titano braavosiano e la Baia dei Draghi e che non sappia che lì prima o poi succederà qualcosa. Qualcosa di dirompente ed eminentemente nuovo: mai visto nella storia del mondo. Un re dell’est»
                «Un re…» balbettò Gabryaerys, incredulo, «Dell’est?»
                «Sì, signore, un re con tutti i crismi: un esercito, una capitale, un’aristocrazia. E uno spropositato potere contrattuale in termini sia politici che economici. Immagino saprete bene dove voglio arrivare: tre quarti del proprio fabbisogno al momento le grandi città dell’ovest, e specialmente la Capitale, lo prendono dall’Essos. E se crolla l’Essos crolla la Capitale. E se crolla la Capitale, Maestà… crolliamo tutti, voi per primo. E mi permetto di segnalare che già fin d’ora, data la guerra che abbiamo alle spalle, la popolarità dei governanti è scesa al minimo qui a Roccia del Re. Veniamo fischiati tutti: dal più alto funzionario di corte, al più basso servitore morto di fame che per campare ci pulisce il pitale. Già sotto Axelion questa città è stata sull’orlo della guerra civile e… ora che la guerra esterna è finita… il popolo non ci metterà molto a tornare a concentrare le proprie attenzioni sulle sue tavole vuote, e le sue pance gorgoglianti di fame. Non stiamo messi bene, Maestà: bisogna lavorare. E bisogna lavorare da subito, da questo momento»
                «Ed è quello che faremo» chiuse dunque il re «Parlerai il prima possibile con Irwin e con Baelish, come disposto. E così farai pure con Abigail. Questa questione del Concilio si deve chiudere entro oggi, Maestro delle Spie»
                «Sì, maestà». Braff non era affatto convinto che Gabryaerys avesse, come si dice in gergo politico, “trovato la quadra”. Non se la sentiva di insistere, perché era stanco, lo era il re e lo erano un po’ tutti. Ma l’ultimo dei Targaryen – il cui vero cognome in realtà era Naharis – anche il quel caso stava commettendo un errore: avrebbe riempito l’intero Concilio Ristretto di adulatori se non fosse arrivato ancora una volta il consiglio salvifico del suo demone delle ombre a redarguirlo. Riempire il Concilio di stretti collaboratori era una cosa che ormai non funzionava da decadi: non era più la funzionalità la qualità su cui era più opportuno far vertere le nomine, era la condivisione del potere. Se si accontentava più gente, certo il Concilio diveniva animato da una politica meno unitaria, ma richiamava più forze a una responsabilità e dunque liberava parzialmente il re da quest’ultima. La premessa di Gabryaerys era che avrebbe messo i più fidati dei suoi demoni all’interno del Concilio, e su questo rimase irremovibile. Creò appositamente una specie di incarico da “super-maestro” che riuniva insieme le funzioni di quello delle leggi con il Primo Cavaliere. Tale carica avrebbe normalmente preso quest’ultimo nome, e sarebbe stata ricoperta dal demone delle energie, la guardia del corpo di Gabryaerys, il suo servitore che mai lo lasciava. Sulla carica di Maestro delle Armi, lasciata libera dalla defezione e fuga di Lord Henrich Bolton, invece, Braff era riuscito quanto meno ad instillare una pulce nel ragionamento del re. Il demone delle energie, cui sarebbe spettato il primo cavalierato, era almeno di dimensioni normali: certo, la maschera di carne umana che Gabryaerys aveva fabbricato appositamente per lui per nascondere il suo spoglio cranio nero non sarebbe stato il massimo davanti a un pubblico di comuni mortali, rimostranza che il Maestro dei Sussurri aveva fatto in mille modi al re. Ora, sul Primo Cavaliere Braff aveva fallito, ma sul Maestro delle Armi… c’era poco da fare! Il demone degli elementi non aveva solo teschio nero: era alto e grosso due volte qualsiasi uomo ed il suo corpo era completamente costituito di roccia. Come si poteva pretendere che la guardia reale avesse mai eseguito gli ordini impartiti da una creatura così palesemente inumana? Ecco perché, su suggerimento di Braff, il re aveva accettato di affiancare al suo demone di roccia un co-maestro che si sarebbe dovuto occupare delle funzioni più strettamente amministrative e burocratiche (e dunque politiche), lasciando al demone il più circoscritto ambito militare. Per la carica di co-maestro delle armi ci si era infine accordati sul nome di Senus della Casa Willoughby. Il nord aveva bisogno di un maggiore peso in quel nuovo governo, questo era un dato acclarato cui perfino il re non aveva avuto modo di segnalare alcuna opposizione. E il più illustre membro del nord uscito vincitore dalla questione con gli Applegate lì presso la Capitale era proprio il vecchio Senus. Non c’erano altri ruoli, visto che al conio sarebbe andato – stando alle intenzioni del re e del suo Maestro dei Sussurri – Petyr della Casa Baelish, mentre alle scuole e agli ospitali si sarebbe tentata la riconferma di Adlai Irwin, apparentemente molto saldo nel suo controllo delle scuole sia della Capitale che del Regno Unificato. Braff poteva vantarsi di aver conseguito il successo di lasciare almeno uno dei suoi “colleghi” fuori dal governo del regno: il demone delle nevi, che a questo punto era fuori dalla discussione. E d’altro canto, presentare un secondo individuo con una maschera di carne umana avrebbe ulteriormente contribuito ad arricchire di antipatie e sospetti un governo che da questo punto di vista stava già partendo piuttosto male. Il potere del Maestro dei Sussurri almeno, visto che era da una vita che lavorava con le ombre e con gli inganni, gli consentiva di rendere il suo aspetto del tutto presentabile agli occhi di qualsiasi morto di fame di Fondo delle Pulci, del tutto umano per così dire. Oh, anche la sua vera e più profonda natura si sostanziava in un teschio spoglio e nero, con orbite animate da una luce rossa, questo lui lo sapeva bene, visto che lo vedeva ogni sera prima di andare a letto. Ma per il resto della sua giornata, egli aveva deciso di divenire e rimanere un uomo di mezza età, con stempiatura, capelli rossi e ricci, e baffi e pizzo del medesimo colore. Questo era Lord Braff, e sarebbe stata una figura decisamente più rassicurante di qualsiasi gigante di roccia e mostro con maschera di pelle che di lì a poco avrebbero ricoperto gli incarichi politici più alti nella vita di Roccia del Re.
                Il re e la sua spia avevano deciso di affidare a Baelish il ruolo di Maestro del Conio, promuovendolo quindi di grado data la posizione di solo Lord Ambasciatore della propria casa che Lord Petyr ricopriva, appunto perché non sapevano bene cosa aspettarsi da lui e, in vista di un eventuale conflitto con i Bolton di Forte Terrore, il suo ruolo di governatore del territorio in mezzo che collegava il sud al nord del continente diveniva fondamentale. Insomma, meglio – molto meglio – farselo amico un tipo del genere, che nemico. Il principio era il medesimo per il giovane Gran Maestro, il quale non deteneva un peso in termini di controllo su di un determinato territorio, ma deteneva un peso in termini di controllo su di una determinata porzione di sudditi. Ma l’incarico di convincere due così delicate e importanti personalità, Gabryaerys – che non era un politico – aveva pensato bene di affidarlo a Braff, il quale ora si ritrovava con questa patata bollente di andare a convincere quei due boriosi signori. Ma poco importava: d’altronde era anche questo il mestiere di Maestro dei Sussurri.
                Così il Concilio Ristretto era pressoché tutto formato. Rimanevano incarichi secondari come quello di Maestro delle Strade e quello di Altissimo Segretario. Il primo non era assolutamente urgente: era stato creato appositamente da Lionel per metterci il suo pupillo, e validissimo ingegnere, Pamir Gaholla. Ma… insomma… a fini strettamente pratici, un lord ingegnere serviva solo nel caso in cui fossero capitate impellenze di squisito carattere architettonico o urbanistico. E, in quei suddetti casi, il consiglio che Braff aveva dato al re era di tornare a rivolgersi allo stesso Pamir Gaholla, che lo volesse o meno. Pamir Gaholla, il quale in quel momento, insieme ad altri fedeli del vecchio re e membri del suo Concilio – ovvero Lady Hana, sorella di Axelion, e Lord Finnis Gushing, Maestro delle Leggi uscente – si trovava ancora dietro le sbarre di una galera. Naturalmente, si trattava di prigionieri politici non di pericolosi criminali, messi in quelle condizioni nell’istante dopo la presa del potere; presto si sarebbe discusso del loro trasferimento in appartamenti privati ed eventualmente di una definitiva liberazione, o almeno così la pensava Lord Braff. Per quanto concerneva invece l’Altissimo Segretariato, era un ruolo un po’ più interessante: il voto diretto del re all’interno del Concilio, visto che il re non poteva votare. Ecco perché Lionel lo aveva dato a sua figlia, ed ecco perché Axelion lo aveva lasciato a sua sorella. Tuttavia, un’altra idea interessante balenò nella mente del Maestro dei Sussurri: ancora una volta, fare di un nemico un potenziale amico. La cosa era decisamente più complessa, visto che Abigail Baratheon non era solo una “figura complicata e sospetta” (come Baelish o Irwin), bensì la madre di un lattante che poteva rivendicare benissimo per sé il Trono di Spade. Accecata com’era dal desiderio di potere e dall’ira per aver perso, sicuramente Abigail non sarebbe stata facile da convincere, ma se Lord Alexis fosse stato in grado di compiere quest’impresa allora si sarebbe potuto parlare definitivamente di capolavoro politico. Era difficile, quasi impossibile… tuttavia non c’erano ragioni valide per non tentare.
                Il Maestro dei Sussurri, fece dunque per abbandonare la sala, lasciando il re in compagnia dei suoi più affezionati leccapiedi: il nuovo Primo Cavaliere, il nuovo Maestro delle Armi, e… il demone delle nevi, che fortunatamente era rimasto senza incarico, almeno per un po’…
                Prima che Braff potesse definitivamente andarsene per tornare al suo lavoro, recandosi a parlare con Baelish, con Irwin e con Abigail, il demone degli elementi ebbe l’inaudita rapidità e lucidità per dire, senza mai lasciare la sua fedele ascia bipenne: «Maestà, scusami se mi permetto, ma purtroppo devo darti una notizia che complicherà ulteriormente il quadro già difficile fornitoti dallo Spettromante»
                «Lord Braff» lo riprese il Maestro dei Sussurri; e il grosso omone di roccia: «Sì, come vuoi. Quando sono arrivato dall’est, Padrone, eri ancora nel pieno dell’assestamento dopo la vittoria nella tua guerra, ragion per cui sono rimasto in silenzio. Ma la questione è urgente e, se permetti, vorrei infine comunicartela»
                «Ma certo, demone degli elementi» fece Gabryaerys; poi aggiustò subito il tiro: «Anzi: certo, Maestro delle Armi. Riferiscimi pure la tua questione».
                Braff non adorava sentir parlare quel bestione. Lui, il demone delle energie, e quello delle fiamme – per quanto quest’ultimo non esattamente ”ciarliero” – erano riusciti a rielaborare, con fatica e duro lavoro, dal momento del loro comune risveglio, un modo di muovere le ossa che gli rimanevano in grado di far uscire una voce pressoché uguale a quella degli altri esseri umani. Il demone delle fonti, era praticamente sparito quasi fin da subito. Quello degli spiriti, l’unico al momento riuscito a trovare quella pace eterna a cui in teoria ciascuno di loro era condannato a non giungere mai, non era mai stato in grado di emettere suoni diversi da urla, strepiti e mugugni. Svariati e numerosi: certo. Ma mai una parola. Per quanto riguardava i due restanti, i presenti demoni delle nevi e appunto degli elementi, in realtà erano in grado di parlare, solo che le loro voci… non erano molto umane. Inquietantemente stridula quella del “collega” dei ghiacci e delle energie fredde, inquietantemente cupa e bassa quella del mago delle rocce, le sabbie e la terra. Ecco perché sostanzialmente il Maestro dei Sussurri, quando poteva, evitava di esser presente a una comunicazione verbale del Lipomante o del Necriomante. Purtroppo, troppo spesso non vi riusciva.
                «Maestà» fece ancora il primo di questi due, con la sua profonda voce inumana, «La ragione per cui ho lasciato il mio incarico di guardiano della città morta e della prigioniera che vi era rinchiusa, è che essa è stata liberata»
                «Cosa?!» reagì subito Gabryaerys; e Lord Braff chiese: «Liberata?!», al quale si aggiunse perfino il demone delle energie che constatò: «Che dici! Impossibile!»
                «Stranieri venuti dall’oltremare in groppa a un leone alato» continuò a spiegare il Lipomante «Sono riusciti a distruggere la sfera. Per sconfiggerli, sono stato costretto ad andare in forma espansa. Ma sono riusciti a scappare. Il mare si è calmato. L’esiguo numero di uomini-bestia rimasto sotto il mio comando si è dileguato… e…»
                «E?!» domandò Braff, forse perfino più agitato del suo re in quel momento, «Parla, stupido idiota! Non capisci che è forse la cosa peggiore che ci poteva capitare?! Tutto quello che ho detto fino ad ora sono stronzate, se Kimera si trova libera nell’est!»
                «Le b-bestie» balbettò l’omaccione di pietra «E i v-vegetali… hanno cominciato a comportarsi in modo anomalo»
                «E ci credo!»
                «A… riprodursi rapidamente e poi…»
                «Poi…!?» gridò il re Targaryen, in preda al furore, e anche se continuava ad avere gli occhi coperti dal suo lungo cappuccio violetto, Braff non poté non immaginarseli iniettati di sangue, «COSA?!?!»
                «Sono stato allontanato»
                «Allontanato?» fece il demone delle energie «Come?»
                «La terra… le acque…»
                «Cosa?»
                «Era come se tutte le forze al di dentro delle isole non mi volessero più con loro, e… sono stato respinto»
                «BRAFF!» comandò a questo punto il re Naharis, in preda all’esagitazione, «Quando hai finito con quello che abbiamo già detto! Metti in moto tutti i fumi e le ombre di cui disponi e cerca di farmi sapere di ogni singola foglia che si sposta in quel maledetto continente!»
                «Sì, maestà!» fece Lord Alexis, e se ne approfittò per lasciare la sala. Ma non poté non continuare ad ascoltare la voce ringhiante del re gridare: «TARARUS! Cerca in ogni biblioteca possibile, ogni informazione anche vaga: devo sapere cosa aspettarmi da queste creature che nessuno ha mai conosciuto da chissà quante migliaia d’anni a questa parte! Demone delle nevi! Prendi il tuo falcone, va lì e riferiscimi ogni cosa. E quanto a te, idiota di uno scoglio con le braccia, sparisci! Non voglio vederti per almeno una settimana!!».
                Lord Braff accelerò il passo, ma sapeva che anche tutti gli altri demoni sarebbero usciti dalla medesima porta. Temeva che sarebbe accaduto quello che stava per accadere, ma fu animato da un alito di speranza quando, tutti accelerati, il demone delle nevi e quello delle rocce lo oltrepassarono senza degnarlo di uno sguardo nemmeno fugace. Così non fece il demone delle energie il quale, sempre ammantato nei suoi abiti da principe, con il suo mantellino e la sua coroncina sul cranio spoglio, praticamente neanche fece un passo dal soglio della porta chiusa della camera delle riunioni. Disse soltanto: «Braff!», e Braff si fermò: non poteva non farlo. Rispose: «Tararus» e, senza voltarsi, attese che quello lo raggiungesse. «Sembrerebbe che ti dobbiamo molto» sorrise il teschio nero. Poi, calzò la terrificante maschera di carne senz’anima, e continuò: «Sembrerebbe che senza il tuo lavoro nessuno di noi si troverebbe qui oggi. Il Padrone non sarebbe il re, e noi non lo staremmo servendo in una reggia senza eguali»
                «Vacci piano a definirla “senza eguali”, amico mio» rispose il Maestro dei Sussurri al Primo Cavaliere «Abbiamo abitato ben più splendide regge in altri tempi, in altri luoghi, rammenti?»
                «Diciamo che questo è il meglio che ci si offre adesso, allora»
                «Sottoscrivo» confermò Braff, e facendo per andare, concluse: «Ora vado: ho molto lavoro da fare. Ce l’abbiamo tutti!». Ma il demone delle energie lo riprese, insistendo: «Braff!». E Braff rispose: «Che c’è ancora?»
                «Ero ironico»
                «Ma non mi dire! Io invece sono sarcastico»
                «Mi chiedo quanto effettivamente dobbiamo al tuo lavoro per la vittoria che abbiamo alle spalle. E non dobbiamo invece al lavoro fatto nell’est. Alla cattura di Kimera e alla creazione degli uomini-bestia»
                «Dobbiamo tanto. A tutti e due. Insomma, dove vuoi arrivare?»
                «Voglio arrivare che non riesco a capire perché continuiamo a tenerti con noi. Con le tue parole fumose, i salamelecchi, e le mille cose che sostieni di aver fatto e che pure nessuno saprebbe dimostrare»
                «È parte del mestiere di Maestro dei Sussurri»
                «Vecchia scusa»
                «No, è la verità. E ti spiego anche il perché: abbiamo la prova di un nostro fratello nella sfortuna, il maestro delle fonti, che è stato in grado di svincolarsi da Cair Dedalos. E per tanto, libero dal proprio obbligo di servire Gabryaerys, non si è più visto. Non è più qui, né a nord, né ad est. Non è più da nessuna parte. Io sono qui: se davvero volessi tradirvi, e avessi il potere di farlo, allora sarei davvero uno stupido a rimanere dove sono, non trovi? Non ti sono mai stato simpatico, Tararus, tu non lo sei mai stato a me. Ma pensi davvero che io sia così stupido? E tu invece? Perché, da uomo come da diavolo, continui a dedicarti anima e corpo alla causa cieca del servizio a un padrone? Cos’è che ti spinge ad essere il più ruffiano dei ruffiani? A fare anche quello che non è l’incantesimo ad obbligarti? Perché il giuramento di Cair Dedalos tu ce l’hai dentro quella lucida e spoglia testa nera?»
                «Siamo stati creati per questo»
                «Per essere schiavi»
                «Per servire. Servire è un atto divino, Braff. Gli dèi non sono servi degli uomini. Ma servono gli uomini»
                «Sei un pazzo. Lo sei sempre stato» concluse di nuovo il Maestro dei Sussurri. Lanciò al suo vecchio confratello un sorriso provocatorio da sotto i baffi rossi. Dunque gli diede definitivamente le spalle, con tutta l’intenzione di non voltarsi più. Tararus tornò ad urlargli: «Ti terrò d’occhio Braff! Voglio che tu lo sappia questo. Ora che ne ho la diretta opportunità, io ti terrò d’occhio!»
                «Non me ne fai paura, demone delle energie della tempesta» gli rispose il demone delle ombre «Faccio questo mestiere da troppo tempo ormai. Ho gente in grado di tenere d’occhio quelli che tu userai per tenermi d’occhio! Ahahah». Non c’era altro da dire. Un governo del Regno con al suo interno membri che si spiano, si minacciano, si odiano: decisamente questo Gabryaerys Naharis della Casa Targaryen non stava partendo molto diversamente da tutti gli altri.

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Capitolo 3
*** Il fuoco risorge ***


Capitolo 3
IL FUOCO RISORGE
 
 
 
                «Su, svegliati Brendan» gli disse fratello Trenton, quello che una volta era stato il suo vicino di casa Trenton Hammerhead su a Banefort, all’ultimo picco del Golfo dell’Uomo di Ferro, esattamente di fronte alla città di Pyke, una volta capitale di una famiglia arricchita di corsari riuscita perfino ad avere un ruolo piuttosto rilevante nelle antiche storie del Westeros, quando i regni erano sette e i re forse pure di più. Era parte del continente Banefort, eppure aveva molte più cose in comune con quegli scogli dannati che aveva come dirimpettai che non con il resto delle regge nobili e assolate che aveva alle spalle. Banefort era sul mare, però era fredda. Il cielo era quasi sempre grigio e in tempesta. E il mare… il mare sempre gonfio, adirato e pericoloso come un ubriaco solitario dopo una notte di bagordi alla locanda. A tutto quello, Brendan semplicemente non sentiva di appartenere. Fin da quand’era nato si era sentito diverso da tutto quello che lo circondava, e d’altronde anche tutto quello che lo circondava era così marcatamente diverso da lui. Così bruno e grigio l’ambiente della scogliera, così candido e solare lui. Sempre così felice e spensierato in un luogo dove non rideva quasi mai nessuno. Brendan sognava di scappare da quei dannati scogli il prima possibile e alla fine aveva trovato il modo per riuscirci.
                Nascere ignorante in una famiglia di pescatori ignoranti, certo non gli aveva agevolato il compito. essendo lui un ragazzotto bassino e non particolarmente atletico, anzi proprio minuto. Di capelli era arancione come una carota, mentre gli occhi li aveva di un celeste d’un chiarore impressionante. Normalmente si sarebbe detto che occhi chiari significano un bel paio d’occhi, ma per Brendan non era così, e lui ne era il caso lampante. Troppo chiare quelle palle che aveva sul cranio, talmente tanto da farlo sembrare talvolta più uno spettro che un ragazzo. E a questo si aggiungeva il fatto che anche la sua carnagione ne aveva più del pelo candido di una pecora che non della rosea pelle umana. Certi uomini del sud e dell’est, la pelle l’avevano perfino del colore dell’ebano, ma lui no. Lui, in tutto il suo aspetto, di evidente aveva solo i capelli rossi. Per un certo periodo degli anni della sua infanzia, aveva cercato di vestirsi in maniera quanto più sgargiante possibile pur di cercare di dare una personalità al suo aspetto. Ma non c’erano molti abiti da uomo sgargianti per i poveracci di Banefort. Dopodiché, era sopraggiunta la vita monastica, e in quel caso l’unica cosa che al giovane Brendan – entrato a monastero il giorno del suo decimo compleanno – fu concesso di indossare, fu un laido saio di seconda o terza mano che gli veniva largo alle braccia e lungo ai piedi.
                Eppure la vita monastica il giovane Brendan l’aveva accolta come una festa. L’aveva proprio cercata. Non sapeva che fare della sua vita, visto che si rifiutava di andare oltre con la pesca e il mare, e la notizia del vicino giovane Trenton – ma almeno di dieci anni più grande di Brendan, forse anche qualcosa di più – che aveva lasciato gli Hammerhead per diventare un septon, gli aveva illuminato la strada. Anche gli Hammerhead erano pescatori (la metà degli abitanti di Banefort lo era) ma per qualche motivo in quella famiglia circolavano sempre maggiori danari rispetto che in quella di Brendan. Hammerhead padre aveva quattro imbarcazioni, di cui una bella grossa, e aveva uomini che lavoravano per lui. Portava a casa ogni volta un quantitativo di pesce superiore di almeno dieci volte rispetto a quello del padre di Brendan. E forse era anche per questo che gli Hammerhead si erano potuti permettere di avere la bellezza di sette figli, di cui Trenton era l’ultimo. E Trenton, differentemente da Brendan, non aveva dovuto elemosinare alla porta del monastero di campagna lì accanto per intraprendere la strada della fede. Si era permesso un viaggio fino a Roccia del Re, dove era divenuto, a quanto si diceva per le strade di Banefort, un importante fiduciario dell’Alto Septon, il più puro degli uomini.
                Brendan non aveva avuto molte alternative che bussare a Shawney, il luogo di preghiera nelle campagne fra Banefort e Lannisport, e lì era stato accolto. Ma la vita al monastero di Shawney era solo parzialmente migliore rispetto a quella nel mare del golfo. Certo, c’era di buono che lì leggere e scrivere, cosa che Brendan adorava pur se proveniva dalla famiglia da cui proveniva, non era considerata una stranezza, anzi era la norma. Solo che gli argomenti dei quali si leggeva e scriveva… erano piuttosto monotematici. La storia della religione dei Sette Dèi era antica e piena di sfumature, ma a Shawney se ne tramandava una sola versione. Molto presto, per Brendan neanche il piccolo monastero fu più abbastanza. Fu un azzardo quello su cui decise di scommettere per dare un ulteriore slancio alla propria esistenza…
                La sua famiglia non aveva alcun rapporto con gli Hammerhead. Erano vicini di casa praticamente da sempre, ma a stento si salutavano. Che Brendan ricordasse, o che gli fosse mai stato detto, di effettivi screzi tra suo padre e il capofamiglia degli Hammerhead, questo non si poteva dire che ce ne fossero mai stati. Tuttavia, tutti quegli anni ad abitare così vicino e a fare praticamente lo stesso mestiere senza mai scambiare altre parole fuorché di tanto in tanto un buongiorno o una buonasera, non erano certo indice di un’inclinazione a un qualche genere di simpatia. Anzi, Brendan pensava che suo padre intimamente odiasse gli Hammerhead, anche se non glielo aveva mai detto né aveva fatto in modo di far sfociare quell’odio in qualcosa di peggio. Dal canto loro, i figli – visto che già i genitori non è che si calcolassero granché – più o meno mantennero questa tradizione, anche se man mano che ci si avvicinò alle generazioni più giovani i buongiorno e i buonasera tesero ad essere accompagnati ad un sorriso. Peraltro, come già detto, Brendan sorrideva sempre e a chiunque. Brendan aveva avuto due fratelli: uno più grande di lui e l’altro più piccolo. Il primo era morto, e il secondo era nato con lo stesso strano male che aveva colpito il più grande e che presto o tardi si sarebbe portato via anche lui. Paradossalmente era Brendan l’unico di quella cucciolata ad esser venuto su sano e in salute. Gracile e basso, ma molto più in salute dei suoi fratelli: su questo non c’erano dubbi.
                Ora, visti i rapporti che le famiglie avevano, certo Brendan non si sarebbe detto che avrebbe fatto un affare a puntare tutto su Trenton Hammerhead, rampollo della famiglia di pescatori rivale. Eppure Brendan, in realtà molto più ardito di quanto a guardarlo si sarebbe detto, una volta giuntagli la nuova che Trenton sarebbe risalito a Banefort per un certo periodo di tempo, decise di lasciare il monastero per andare a trovare il vecchio vicino di casa e domandargli di portarlo con lui, una volta che sarebbe ripartito per la Capitale. Lasciare il monastero era impegnativo: non era una piazza, dalla quale entrare e uscire quando e come meglio si credesse. Se Brendan lasciava Shawney, non poteva mica pretendere di tornare a bussarci di nuovo. O meglio: poteva anche farlo, ma non lo avrebbero più accolto come loro confratello. Eppure Brendan lasciò Shawney lo stesso.
                A quel punto, quello che aveva davanti a sé gli era ignoto. Si salutavano da una vita con Trenton Hammerhead, e si sorridevano. Gli pareva perfino un tipo simpatico, ma non aveva mai udito la sua voce. Dunque poteva succedere la qualsiasi. Poteva succedere che sorridendogli Trenton gli avesse detto che non gliene fregava un bel niente di Brendan e del fatto che aveva lasciato Shawney per inseguire la chimera di divenire un septon della Capitale. Poteva succedere che Trenton, una volta aperta la bocca, parlasse con un timbro di voce comico da eunuco, che a udirlo Brendan fosse scoppiato in una grassa risata e che Trenton a quel punto, offeso, rispondesse a quella risata dicendo che a Roccia del Re non avevano bisogno di buffoni. Infine poteva anche succedere che semplicemente Trenton gli avesse teso la mano e che Brendan gliela stringesse, cominciando in questo modo una nuova amicizia. Inutile dire che era su quest’ultima eventualità che il giovane minuto Brendan puntava ormai ogni cosa.
                Per un po’ prima, Brendan si ritrovò a sospettare non poco che la sua scelta fosse stata sbagliata. Al suo arrivo a Banefort non trovò nessun Trenton Hammerhead ad aspettarlo, e così fu per oltre una settimana. Settimana nella quale sua madre lo riabbracciò, trattandolo come il suo cucciolo – l’unico con una potenziale aspettativa di vita di qualche genere – finalmente tornato alla tana, suo padre lo guardò di traverso, infastidito del fatto che fosse tornato di nuovo dopo aver sdegnato il mestiere che era stato di suo padre e del padre di suo padre, e infine lui stesso aveva passato le ore e i giorni in preda a una sconfinata malinconia e disillusione. Ma al decimo giorno Trenton giunse a Banefort.
                Brendan chiese un incontro col suo vicino di casa e, visto che non c’erano ragioni perché non accadesse, lo ottenne. Il ragazzotto minuto e rosso di capelli cercò di essere diplomatico come meglio poté, conversando del più e del meno. Ma sapeva che Trenton sapeva che anche lui era stato a monastero, a Shawney, e che probabilmente di quello prima o poi si sarebbe finito per parlare. Dapprima forse Trenton si sarebbe aspettato un discorso appena un po’ più “teologico”. Forse pensava che il monaco Brendan avesse delle questioni di tipo spirituale da sottoporgli, e si vedeva che era tutto bramoso di rispondere a quel genere di quesiti. Quesiti che però alla fine non arrivarono, o non quanto e come lui se li aspettasse. Brendan gli chiese di portarlo con lui a Roccia del Re e lui… fu sorpreso, all’inizio forse persino confuso. Ma alla fine non trovò valide ragioni per non accettare, sorrise al vicino di casa come sempre aveva fatto in tutti quegli anni, e gli disse che lo avrebbe portato con sé. Non si sarebbe occupato lui della sua formazione, non aveva né la voglia né la preparazione, ma conosceva i luoghi dove andare e le persone con cui parlare: era piuttosto sicuro che non avrebbe disilluso il volenteroso giovanotto. Così partirono, con un cavallo solo, quello di Trenton, il quale non era certo uno stallone da guerra, tuttavia si rivelò abbastanza giovane e forte da condurli – con qualche pausa – sani e salvi a Roccia del Re.
                Infine, giunsero alla Capitale. Nel corso del viaggio Hammerhead aveva detto a Brendan che avrebbe sottoposto il suo caso al suo diretto superiore, ma che era molto meglio se Brendan fosse stato presente, presentabile e preparato. Dunque, fu con una certa ansia da prestazione che il giovane monaco si addormentò quella sera, pregando i Sette Dèi di fare in modo che tutto andasse bene. L’indomani mattina, il fratello Trenton lo risvegliò poco dopo l’alba e gli disse di fare le sue preghiere e poi prepararsi: il momento dell’incontro di una vita era alfine arrivato.
 
 
 
                Alla fine tutto era stato predisposto. Uryon Worchester stava mantenendo la sua promessa: aveva detto a Daniel di Cowain che avrebbe fatto il possibile per rendere migliore la sua condizione di prigioniero e, una volta giunto a Biancavilla del Nord, si era messo subito a lavoro per risolvere quel problema. Era un uomo saggio, Uryon: questo lo sapeva mezzo continente occidentale. E un uomo saggio sa che, se non ci sono ragioni esplicite, è sempre molto più vantaggioso trattare i propri prigionieri dignitosamente. Questo almeno risultava anche al principe (o forse ormai non più principe) Daniel, il quale non era proprio all’asciutto di scienza politica, materia per la quale non aveva mai provato simpatia, ma che pure gli era stata insegnata da ragazzo, ai tempi della sua primissima adolescenza presso Roccia del Re.
                Probabilmente molta meno gente del continente occidentale sarebbe stata d’accordo nel definire “uomo” Lord Uryon. Era passato più di un mese ormai da quando il gigante deforme era entrato nella tenda presso la quale era stato portato Daniel, una volta fatto prigioniero nel bel mezzo della battaglia di Alberocasa. In quelle settimane, il nuovo signore assoluto del nord si era presentato più volte al cospetto del giovane Lannister, spesso solo per parlare di cose apparentemente senza una vera importanza. Di tanto in tanto rinnovava a Daniel la sua promessa, ma chiaramente il punto per il giovane Piromante non furono gli argomenti di quelle conversazioni. Fu la sorpresa di osservare una creatura simile, e di osservarla riuscire ad argomentare in maniera tanto forbita ed espressiva. Con un lieve difetto di pronuncia dovuto alla deformità della sua bocca, ma per il resto si era trattato di alcuni dei monologhi più interessanti che Daniel avesse mai ascoltato in vita sua. Eppure era ancora indeciso se classificare la natura di quell’essere precisamente nella categoria degli uomini oppure no. Per certi versi, senza dubbio Uryion manifestava umanità: non solo per la sua immensa cultura, le doti affabulatorie, lo scilinguagnolo. C’era qualcosa in lui che a Daniel ricordava certi stati d’animo che, se non esclusivamente umani, certo non potevano connaturare creature demoniache come i giganti, che avevano abitato l’Oltrebarriera e che erano stati disumani quanto crudeli, o così almeno avevano sostenuto la gran parte dei testi che il Piromante aveva avuto modo di consultare in giovinezza. Quale bambino ricco del Westeros non conosceva creature come i draghi o i giganti, i metalupi o gli estranei? Niente di tutto ciò era Uryon. I suoi occhi erano tristi. La sua bocca, bestiale e piena di denti aguzzi, spesso in preda a un tremolio indeciso che quasi ogni volta poi finiva per trasmutarsi in parole: parole ricercate, parole importanti… ma nonostante tutto questo, quello che Daniel poteva osservare nel suo momentaneo carceriere, era una forma di silente, assolutamente ben celata, eppure così vessata fragilità. Era come se dietro a tutta quella immensa massa deforme di carne maldistribuita, schiacciato tra un grosso osso piatto e un pezzo di adipe senza apparente sostegno, si trovasse un gattino orfano e denutrito.
                Grossomodo era questo che Daniel di Cowain pensava di Lord Uryion Worchester, il nuovo sedicente “re del nord”. Un odioso carceriere esperto di giochi politici e assolutamente freddo nel calcolo di tutte le manovre utili per farlo salire sempre più in alto nella ripida scala del potere; l’uomo che persino aveva ucciso suo padre: ma tutto ciò era una maschera, un costume da avanspettacolo. La sua sete di riconoscimento in verità era dovuta all’enorme desiderio di riscatto che una vita di vessazioni doveva avergli procurato. Daniel non lo conosceva, ma avrebbe giurato che fosse questa la condizione di Uryion. E questo non lo rendeva affatto un nemico meno pericoloso: maggiori sono gli orrori subiti, maggiori sono quelli che una vittima è disposta a compiere pur di ottenere rivalsa. O di provarci almeno.
                Ora erano a Biancavilla da forse più di una settimana. E Uryon, il malvagio Uryon, l’abietto Uryon, il calcolatore Uryon, il senza scrupoli Uryion, il diabolico Uryon, stava procedendo alla liberazione del suo prigioniero. Naturalmente Daniel era stato con quel grosso pezzo di Pietra di Luna appoggiato addosso sostanzialmente sempre. E questo era il minimo: Lord Uryon era cresciuto in quella che forse era la biblioteca più grande mai vista, era perciò un uomo abbastanza saggio da immaginare che se solo si fossero azzardati a togliere il magico oggetto di dosso al principe anche per un istante, Daniel non ci avrebbe messo molto a fare di tutto quello che lo circondava cenere e fumo. E lo avrebbe fatto senz’ombra di dubbio: chi non l’avrebbe fatto trovandosi in una condizione simile?
                Era stata predisposta una specie di ampia lettiga di un legno umido, non molto facile a prender fuoco. Si era atteso che fuori nevicasse, e fu fuori dal castello che la procedura venne incominciata. Qualcuno riferì a Daniel, che non poteva muoversi né parlare, che Uryion Worchester avrebbe assistito al procedimento da lontano, in alto in una delle sue torri, osservando tutto con speciali apparecchiature create dai suoi savi maestri. Ma Daniel quel giorno Uryon non l’aveva visto: e il Lord di Biancavilla non era tipo che non saltava all’occhio.
                Dopodiché, un mastro artigiano con un piccolo scalpello e un martelletto cominciò a lavorare sulla Pietra di Luna, scalfendola. I problemi che ne scaturirono a questo punto per Daniel furono di due tipi: sarebbe stato difficile distinguerli specificamente in uno “più fisico” e l’altro meno, visto che ambedue dipendevano dal potere che esercitava la pietra su di lui, non solo in quanto uomo comune, ma proprio in quanto Piromante. La Pietra rimaneva attratta dalla sua carne, e vi restava appiccicata per la sua stessa natura, ovvero proprio perché in Daniel scorreva ormai il fuoco della Piromanzia. Forse non ardente come quello del migliore dei Piromanti, né altrettanto dirompente, ma c’era ed era quello l’elemento del suo corpo che portava alla reazione della pietra. Dunque da una parte, il torace di Daniel subiva il rinculo dovuto ai colpi di martello e scalpello che il maestro al servizio di Worchester stava così incurantemente assestando sull’oggetto sferico. Dall’altra, era come se una parte di energia contenuta dentro la pietra reagisse sull’energia contenuta dentro Daniel, e questo faceva perfino di gran lunga più male rispetto ai colpi sulla pelle. Era lancinante: probabilmente né lo scalpellino, né i maestri che avevano studiato i tomi presso la biblioteca di Amergoth e neanche Lord Uryon in persona avevano una vaga idea della sofferenza interiore che in quel momento stavano impartendo al giovane apprendista di fuoco, ecco perché procedevano praticamente senza remora alcuna. E d’altro canto, Daniel non era nelle condizioni di gridare, perché le sue corde vocali, come d’altro canto una buona parte del resto del suo corpo, non funzionavano, e dunque gli astanti erano perfino giustificati, visto che non avevano ragioni per smettere il lavoro comandatogli dal loro padrone.
                Daniel fece di tutto per non concentrare più la propria attenzione su quello che il suo fisico in quel momento stava provando. Fu difficile, ma cercò di trasportare la sua mente verso altri orizzonti. Purtroppo i primi che gli vennero alla mente non furono neanche lontanamente piacevoli come lui li ricercava. Per qualche ragione, i suoi pensieri vagarono nel suo passato più recente: dapprima, l’improvvisa cattura ad Alberocasa e la sconfitta degli Applegate. Il Lord di quella famiglia quasi impazzito, e quello della famiglia Willoughby che nel bel mezzo della battaglia gli piazzava la Pietra di Luna nel petto. Infine Worchester, che entrava nella sua tenda di prigioniero e gli diceva che era il nuovo signore quasi assoluto del nord, e che al sud suo fratello Axelion era morto.
                Axelion, sempre così buono con lui, e Marcus. Daniel e Marcus erano cresciuti praticamente insieme, si toglievano davvero pochi mesi, ma Axelion invece, quando Daniel e Marcus erano poppanti ciuccia-latte, era già un bimbetto di otto o anche nove anni. Era cresciuto da solo, certo sicuramente con qualche amico forse sincero o con qualcuno invece appositamente mandato dalla corte per divenirgli amico, ma… senza fratelli. Forse per questo il rapporto che Daniel aveva avuto con il primogenito era da sempre stato così differente rispetto a quello che aveva avuto con Marcus. Probabilmente Daniel avrebbe risposto che gli aveva voluto bene alla stessa esatta maniera, ma con Marcus volersi bene aveva spesso significato punzecchiarsi, provocarsi e talvolta litigare anche seriamente. Con Axelion tutto ciò non c’era praticamente mai stato, era sempre troppo affabile, troppo buono, troppo concentrato su quelle cose “da grandi” di cui gli toccava occuparsi e che non sarebbero mai toccate ai suo fratelli più piccoli.
                Marcus, Daniel lo aveva lasciato con una bella litigata. Forse non la peggiore che avessero avuto, ma quasi. Eppure non aveva molti dubbi sul fatto che suo fratello gli volesse quel medesimo immenso bene che lui dal canto suo voleva a Marcus. Se si concentrava attentamente, la gran parte dei ricordi della sua infanzia, Daniel non li aveva condivisi né con Axelion (troppo grande) né con le ragazze (troppo piccole). Li aveva vissuti con quel fanfarone, dal carattere così diametralmente opposto al suo, che Marcus altro non era.
                Con Hana e Mirietta, la prima di circa quattro anni più piccola di Daniel e la seconda di circa quattro anni più piccola della prima, Daniel aveva il tipico rapporto che un fratello grande ha con le sorelle più piccole. Certo, Mirietta aveva un carattere apparentemente molto più tosto di Hana, ma era la piccola di famiglia e nessuno mai avrebbe potuto fare in modo che questo dato di fatto cambiasse. Daniel era protettivo con entrambe, anche se con Hana questo significava consigliarla ed ascoltarla in merito alle sue preoccupazioni relative alla corte, al lavoro, alla politica. Con Mirietta invece significava di tanto in tanto riprenderla, e stare sempre attenti da una parte che non si cacciasse nei guai, dall’altra che non si sentisse troppo soffocata da un controllo di cui Daniel non si sarebbe mai voluto prendere la responsabilità: che Mirietta odiasse qualcun altro per essere troppo asfissiante nei suoi confronti, non lui. Lui c’era, ma le era amico, mica tutore.
                L’idea che tutto quello non ci fosse più ormai da tempo, e che forse non ci sarebbe neanche mai più stato, gettava Daniel in uno sconforto quasi assoluto, uno sconforto che in negativo superava perfino il dolore interno che la Pietra di Luna gli stava causando. Avrebbe rivisto più i suoi fratelli e sorelle? Axelion no di sicuro. Gli altri forse, ma non sarebbero stati gli stessi e dunque non sarebbe stata più la stessa cosa. Una nuova cosa avrebbe detto il maestro Nidhogg con il suo profondo amore per la vita, una nuova cosa tutta da scoprire.
                Axelion lasciava un figlio piccolo che Daniel non aveva neanche mai visto. E lo aveva lasciato per sempre. Sir Cordell, il vecchio cavaliere ardimentoso, lo aveva lasciato pure. E così aveva fatto Nidhogg, la creatura più saggia e interessante che Daniel aveva avuto la fortuna di conoscere, e che buona parte dell’umanità non avrebbe mai visto e non avrebbe mai saputo che fosse esistita, e che cosa aveva fatto per loro. Daniel voleva pensare a qualcosa di positivo, ma con tutti i cadaveri di persone (e creature varie) a lui care che di recente aveva visto e di cui di recente aveva sentito… ecco, non era un’impresa molto facile. Sentì delle lacrime scorrergli dagli occhi alle guance, ma non seppe dirsi se quella sensazione fosse vera o se se la stesse solo immaginando. A un certo punto, per qualche ragione, le immagini che aveva dentro la testa si mischiarono tutte assieme fino a confondersi in un magma di ghiaccio e neve di un acceso colore azzurro. Magma che a poco a poco acquistò sempre più materia e prese forma, dividendosi in due pietre preziose, due iridi incandescenti da quanto freddo condensavano nei loro nuclei. Due occhi: quelli di Anylice, la ragazza di ghiaccio che per breve tempo Daniel aveva conosciuto e di cui solo ora si stava accorgendo essersi infatuato. Quei soli occhi di ghiaccio erano stati in grado di distogliere la sua attenzione non solo da Biancavilla del Nord e dallo scalpellino che in quel momento gli stava squarciando il petto, ma anche da tutto il male, gli orrori e le tristezze del mondo. Quel paio di occhi disumani furono già di per sé bastevoli per compiere tutto questo.
                All’improvviso, lontano ma vicino, Daniel udì un suono. Era distante, ma non era fuori da sé. Era dentro, nella sua pancia, nelle sue viscere, nella sua gola… si ritrovò ad avere di nuovo cognizione di sé, del suo respiro, del suo corpo, dei suoi movimenti: delle palpebre che battevano quasi incessantemente. E si ritrovò ad essere un piccolo uomo legato a una lettiga di legno umido, in preda ad atroci urla e copiose gelide lacrime.
 
 
 
                Lord Gino della Casa Barron, primo di quella famiglia a sedere sul trono di Altogiardino, aveva incominciato la sua attività di Lord, la quale era al contempo noiosa e impegnativa. Noiosa perché, per quanto Gino cercasse di renderla quanto più “movimentata” possibile (ogni qual volta che c’era un problema, il protettore dell’altopiano tendeva a recarvisi di presenza indipendentemente da dove si trovasse), in realtà gran parte del lavoro era da farsi seduto su una sedia attorno a un tavolo, non al galoppo di un cavallo, con una spada alla cintola e il sole sulla faccia. Impegnativa perché in effetti ogni giorno c’era qualcosa di nuovo di cui occuparsi: disordini di ogni genere caratterizzavano la vita di una regione apparentemente pacifica come quella dell’Altopiano. Chiunque, in qualsiasi angolo periferico si trovasse, invocava il suo aiuto per qualcosa, anche per cose su cui chiaramente Gino aveva ben poco da fare.
                Naturalmente cercò di personalizzare la carica quanto più potesse. Era nella sua natura un po’ di attività fisica, e dunque riusciva spesso – anche se non quanto desiderasse – a ritagliarsi del tempo per un addestramento alla spada o per una caccia al cervo o al cinghiale, tra i boschi. Capitava anche che i servi di Lord Braff, i guerrieri-ombra mai veramente dipartitisi dalla sua guardia, continuassero ad addestrarlo nella loro speciale arte, ma da tempo ormai il giovane Lord Barron aveva concluso che quello che gli stavano insegnando era solo una parte di un tutto molto più ampio di cui era e sarebbe stato per sempre autorizzato a conoscere solo una parte.
                Eppure la presenza degli uomini di Braff era forse l’unica cosa che continuava a farlo sentire al sicuro. Senza dubbio, da quando stava ad Altogiardino, c’erano guardie con la rosa dorata appuntata un po’ dovunque, appositamente pagate per controllarlo, dunque adibite alla sua sicurezza in maniera anche più esplicita dei guerrieri-ombra. Ma la rosa dorata non era il simbolo di Gino, era il simbolo dei Tyrell. Il simbolo di Gino era la rossa volpe dei Barron, la quale ancora stentava a vedersi negli stendardi e nei sigilli del capoluogo dell’altipiano.
                Shanty dal canto suo continuava a trotterellargli intorno come se quella fosse più casa sua che di Gino: ed effettivamente, essendo cugina di Lorthan e Shane Tyrell, conosceva il castello decisamente meglio. La cosa non impensieriva il giovane Lord: aveva udito anche lui storie in merito a regine che, una volta infilatesi nei letti dei loro re, avessero cospirato contro di loro fino persino a ucciderli. Ma chiaramente non era questa la tattica adoperata per il momento da Shanty e da coloro che le stavano dietro. La ragazzina intendeva diventare davvero la sua compagna, e davvero volentieri si sarebbe donata in toto al suo signore, e a quanto pareva ai Lord suoi genitori e fratelli la cosa andava benissimo. Era a questo punto che sopraggiungeva per Gino il vero problema: Shanty non lo attraeva più di un qualsiasi pezzo di arredamento dei suoi appartamenti. Gino sapeva che, come uomo, era piuttosto rara questa sua caratteristica: chiunque al suo posto si sarebbe fatto piacere la sua promessa, anche se fosse stata mille volte più brutta di Shanty, la quale brutta non era. Ma l’idea di doversi legare a una tale bambina, peraltro così palesemente idiota, non riusciva ad aizzare neanche lontanamente l’uomo appassionato e cavernicolo che giaceva dentro di lui. Avrebbe preferito farsi qualsiasi cortigiana di bassa lega purché fosse in grado di intavolare con lui una mezza discussione, piuttosto che quella dannata ragazzina che gli avevano abbarbicato addosso. Forse c’era perfino di più: c’era l’idea che Gino quella cosa dovesse farla per dovere, che più di ogni altro aspetto rendeva così visceralmente impossibile per lui anche alzare una mano verso la giovanissima Tyrell. Era già accaduto un paio di volte che ella si fosse presentata ignuda nelle sue camere mettendo in bella mostra tutto quello che avesse da offrirgli. Una di queste volte, Gino aveva avuto perfino la forza di non concentrare la propria attenzione sull’espressione vacua della ragazza quanto piuttosto sui suoi graziosi seni sodi e sul suo ampio e ben calibrato ventre. Ma era bastato che Shanty aprisse la sua miseranda bocca nell’istante in cui Gino ebbe messo le proprie mani sul di lei prosperoso davanzale, per fargli d’improvviso cadere molle verso il basso tutto quello che aveva dal collo in giù, braccia e gambe compresi. Non la voleva: non la voleva punto e basta. E poi pensava a Daessenya…
                Sir Jon Barthalo, nuovo signore di Lungotavolo e in teoria capo della sua guardia, era agli occhi di Gino infido ancor più che Shanty Tyrell e tutta la sua famiglia. Più Gino lo osservava e più si accorgeva che Jon non agiva nei suoi confronti come legato da un vero vincolo di lealtà. Più che altro, cercava di mostrarsi quanto più indipendente possibile ed eseguiva gli ordini di Gino solo quando questi erano espliciti. Per il resto, il giovane Barron vedeva tutti i giorni il brutto ceffo del suo vecchio rivale d’infanzia, ma si trattava perlopiù dei pranzi e le cene e di altre occasioni di questa portata. Gino domandò perché diamine dovesse continuare a provare a fidarsi di uno che proprio non gliela raccontava giusta, ma tutte le volte che aveva fatto al suo amico e consigliere Lord Braff quel genere di rimostranze, quello gli aveva replicato che i Barthalo ormai erano parecchio influenti ed era impossibile governare l’area della Dodecapoli senza la loro amicizia. Questo non significava che Braff, la miglior spia del continente occidentale, non avrebbe continuato a monitorare le operazioni dei Barthalo sia al di dentro che al di fuori di Altogiardino, e dunque anche in merito a questa materia Lord Barron tendeva ad essere piuttosto sereno: di Braff lui si fidava veramente.
                Rollo infine, il suo vecchio tutore, l’uomo che più di tutti era un piacere vedere attorno a sé continuare a servirlo in quel di Altogiardino, era tuttavia parecchio strano da quando Gino era tornato all’Altopiano. Non strano nei suoi confronti, anzi nei suoi confronti era dolce come sempre, forse l’unico vero amico che in quel momento della sua vita Gino sentiva di avere davvero accanto: quell’uomo lo aveva visto crescere, per certi aspetti era stato per lui come un padre anche più di quel suo stesso padre che Gino pure meditava, per una questione d’onore, di vendicare. Poteva dire che Rollo, nella sua vita, l’avesse perfino visto nudo, come sua madre: a Lord Barron senior questo probabilmente non era mai capitato. Sempre troppo impegnato con la politica e il falcone era stato Lord Barron padre.
                Ad ogni modo, Rollo era strano. Era come se fosse costantemente spaventato, come se sentisse che qualcosa stava per accadere, proprio in quel contesto in cui la guerra l’avevano anzi avuta alle spalle e dunque non c’era molto altro da fare se non ricostruire. Questo naturalmente il vecchio non lo esplicitò mai alla presenza del suo padrone, eppure i suoi occhi e il suo atteggiamento per Gino erano ben chiari: parlavano praticamente da soli. Solo che con l’andare del tempo, non trovando altro da pensare, il Lord Protettore dell’Altopiano non poté non attribuire la cosa al semplice fatto che il suo anziano servitore era sempre più vecchio e che per un vecchio uscire dalla propria casa per andare in un’altra normalmente non è la più piacevole delle esperienze. Tuttavia Gino aveva preteso Rollo, e anche un paio degli altri uomini che lo avevano servito a Lungotavolo, accanto a sé presso il nuovo maniero sulla collina: andare a fare un mestiere come quello, completamente impreparato e peraltro senza neanche facce amiche attorno, quello sì sarebbe stato fisicamente insostenibile; Gino non ci sarebbe mai e poi mai riuscito, dunque, anche se gli spiaceva che Rollo dovesse sentirsi un pochino fuori posto, non aveva trovato e continuava a non trovare alternative valide da mettere in pratica.
                Fu proprio il suo vetusto tutore a consegnargli il messaggio quella mattina. Gino aveva appena finito di ascoltare una discussione tra feudatari che litigavano in merito al possesso di un piccolo colle con relativo mulino. Non aveva preso una decisione, visto che non era ancora in possesso di tutti gli elementi del caso, e dunque aveva congedato i due signori e si era messo di fretta a organizzare una piccola battuta di caccia da attuare tra la mattinata ancora non definitivamente persa e l’ora di pranzo. La missiva che il vecchio Rollo gli consegnò nelle mani sconvolse clamorosamente i suoi piani.
                Già l’intestazione era, quando non proprio curiosa, abbastanza sorprendente: a mandare il messaggio era Lady Xalandra dalla assolata Cowain. Ovviamente, pensando anche a Daessenya, Gino s’incuriosì e aprì subito il messaggio alla presenza del suo servitore. Come già detto, se c’era qualcuno in quel di Altogiardino che considerava amico, quello di certo era Rollo. Il contenuto del messaggio tuttavia lo sconvolse: si trattava non tanto di una richiesta d’aiuto, quanto di un’implorazione. Cowain era di nuovo in difficoltà, e di nuovo si ritrovava a richiedere l’ausilio di Gino e non del re degli Andali, il quale era troppo distante e la situazione era emergenziale. Il demone di fuoco che si era portato via l’occhio di Gino si era risvegliato. Non era ancora nel pieno della sua forza, ma il teschio aveva ripreso ad animarsi e controllava una stanza della reggia, le cui pareti erano divenute di fiamme. Progrediva di giorno in giorno, di ora in ora. Nel momento in cui l’ex cortigiana divenuta signora di uno strategico centro del sud del continente aveva deciso di prendere carta e penna e scrivere all’amico Lord di Altogiardino, la creatura aveva perfino cominciato a parlare. Non molte parole, ma colme di significato quanto di orrore: «presto finirete tutti in cenere».
                La ragazza pure soprannaturale ma dai poteri opposti e superiori a quelli del demonio con la faccia nera si era dileguata. Aveva tenuto a bada lei il diavolo di fuoco fin tanto che era rimasta nella ridente Cowain, eppure a un certo punto era scomparsa, senza dare alcun genere di spiegazioni. E naturalmente nessuno ne conosceva l’indirizzo né alcun altro tipo di recapito. Dunque giustamente Xalandra non aveva idea di che pesci prendere (curioso per una che veniva da un borgo la cui gran parte degli abitanti erano pescatori), e allora si era rivolta al più vicino Lord comandante di un esercito organizzato, il quale guarda caso era pure uno che si era portata a letto.
                Gino ricordava ancora bene quella creatura, la rivedeva tutte le volte che si guardava allo specchio e osservava una benda di – per quanto raffinata – pezza, al posto del brillante occhio castano che una volta aveva avuto. Ricordava il suo enorme potere e il dannato caldo dell’aria che aveva attorno. Ricordava quel suo sorriso malefico stampato in una bocca di denti scoperti, mentre con il suo spadone nero a due mani annientava i nemici a dozzine, e altri ne carbonizzava scagliando vampate di fuoco dal palmo delle mani. Quella creatura era ancora viva e in salute, e anzi si stava persino rimettendo. Era vicina, molto più vicina di quanto il giovane Protettore dell’Altopiano avesse mai potuto sperare che non accadesse. Gino era confuso a questo punto, e anche lui come Xalandra si trovava nella fastidiosa situazione di non poter darsela a gambe, di dover per forza affrontare il problema senza esitazioni, e di non avere la più pallida idea di come farlo. Decise che voleva vedere da sé la situazione. Che sarebbe partito subito per il sud, senza neanche pranzare. Tuttavia, decise anche di girare la missiva a Roccia del Re. «All’unico che possa avere una qualche idea sul dafarsi» sancì Gino, rivolto a Rollo, il quale si sarebbe subito messo in moto per la gabbia dei corvi. Rollo domandò: «Il re, mio signore?»
                «No» rispose Gino «Il Maestro dei Sussurri».
 
 
 
                Con fratello Trenton Hammerhead, Brendan raggiunse un grande edificio circolare di solida pietra. Un edificio che da fuori dava tutta l’impressione di essere un luogo di preghiera, e non preghiera per pochi: un luogo da grandi cerimonie religiose. Tuttavia, Brendan, una volta dentro, non vide mai l’area di quell’edificio che fosse adibita a quello che si era immaginato. Vide lunghi e stretti corridoi e un’infinità di scale da scendere e da salire, al termine dei quali finalmente raggiunse l’ufficio dell’uomo che doveva giudicarlo, fratello Patchett. All’inizio, osservandolo da dietro, nel bel mezzo della preghiera, Brendan non poté non constatare che l’anziano confratello fosse un pingue ometto, basso quasi quanto lui. Quando tuttavia si voltò, vide in Patchett un’espressione di estrema serietà, dietro a un paio di foltissime sopracciglia quasi unite nel mezzo della fronte e a un paio d’occhi cisposi.
                Fratello Hammerhead ricordò a Patchett la ragione per cui lo stava disturbando e Patchett gli disse che naturalmente non c’era bisogno. Per un primo momento, esaminò il gracile ragazzetto dalla punta dei capelli arancioni sino a quella delle scarpe, senza dire una parola. Fu allora che Brendan si aspettò delle domande: sulla fede in generale e su quella sua personale, sul perché fosse lì, sul perché desiderasse entrare a far parte dei confratelli, sul cosa pensasse di questa o quell’altra questione teologica. Invece Patchett si rivolse a Hammerhead cambiando argomento, e deludendo profondamente il giovane novizio.
                Il fratello anziano comunicò a quello più giovane che, anche se aveva detto che avrebbe esaminato Brendan quella mattina, in realtà era sopraggiunto un altro più gravoso impegno comandatogli direttamente dall’Alto Septon. Doveva scegliere altri tre confratelli e, insieme a loro, recarsi a parlare con un nuovo predicatore che di quei tempi stava animando la vita della plebe della città. Ne erano sorti tanti nella storia di Roccia del Re, aveva continuato a sostenere Patchett, e di tanto in tanto rispuntavano, specie nei momenti di maggiore tensione sociale: quando c’erano state guerre, che avevano portato crisi economiche e monetarie, e dunque licenziamenti, disoccupazione e aumento delle tasse, e poi crisi degli approvvigionamenti, e dunque carestie e malattie di varia natura. Tutto quello stava vivendo la povera gente di Roccia del Re in quel momento: erano disperati e sempre più ignoranti e bisognosi di qualcosa di nuovo in cui credere, o qualcuno. Ecco dunque che rispuntavano soggetti di questa natura, abili nei sotterfugi e nei giochi di magia, molto spesso volgari e violenti nel modo di parlare, ma dannatamente esperti nell’arte della conquista del volgo, fino addirittura talvolta a portarlo alla sommossa, con tutte le conseguenze del caso: la morte di quelli contro cui il volgo stesso si rivoltasse, oppure quella dei rivoltosi. In ogni caso, individui di questo genere normalmente portavano allo spargimento di sangue e l’Alto Septon intendeva impedire con ogni mezzo tale situazione. Tuttavia per prima cosa bisognava conoscere il nuovo nemico e vedere se costui fosse già passato alla conclusione di mandare il popolo al macello, oppure se ci fosse ancora la possibilità non tanto di convincerlo quanto di comprarlo.
                La bella notizia fu che Patchett, oltre ad altri due confratelli di a quanto pare maggiore esperienza, scelse come terzo suo accompagnatore proprio Hammerhead e disse a Hammerhead che se voleva poteva portare il suo novizio, a patto che rimanesse tranquillo e in silenzio. Dunque la mattinata non era sprecata: Trenton chiese a Brendan se se la sentisse di partecipare a quella specie di riunione col nemico, e lui – come già detto, già di per suo molto curioso e appassionato – non perse tempo e subito acconsentì. Anzi, fu lui a pregare fratello Trenton di portarlo con sé, cosa che – alla presenza di Patchett – Trenton non si sentì di rifiutare. Fu così che, dopo neanche troppo tempo, la compagnia partì per il covo di questo sedicente predicatore. Dovettero solo aspettare l’arrivo degli altri due confratelli, l’uno dal presbiterio e l’altro dalla biblioteca, poi si diressero ancora una volta per le vie della Capitale.
                Quel luogo a Brendan piaceva. Probabilmente sul suo giudizio pesava anche parecchio il fatto che non avesse mai visto luoghi del genere in vita sua, e dunque ogni cosa nuova gli pareva enorme e splendente. Vero: passando per certe strade, attraversando certi quartieri, di tanto in tanto si sentivano certi odori sgradevoli, ma essi facevano parte della bellezza di quel contesto. Valevano il prezzo degli enormi edifici dalle mille e mille statue e colonne, delle immani strade e piazze dalle mille forme diverse, della massa eterogenea di individui dai mille volti, e mille abiti, e mille occupazioni, e mille direzioni. Cosa valevano rispetto a tutto questo qualche vicolo olezzante di piscio e qualche bancarella con un po’ di pesce avariato?
                Il luogo dove risiedeva il capopopolo del momento, a quanto pareva, era ben conosciuto a tutti: Hammerhead, Patchett e gli altri due confratelli compresi. Ma questo non significava che esso fosse facilmente agibile visto che, prima di arrivarci, fu necessario passare per una ressa di uomini, donne e bambini dall’aspetto un po’ pietoso per le loro condizioni di fame e malattia, ma un po’ minaccioso per i loro sguardi di collera nei confronti degli uomini del clero che stavano invadendo la loro casa. Li osservavano un po’ come un branco di cani randagi e affamati avrebbe guardato un gruppetto di grossi polli da spiedo. Erano primariamente affamati e lo erano talmente tanto che Brendan avrebbe detto che si sarebbero mangiati pure loro, con tutti i loro sai di corda e i loro gioielli, pur di soddisfare quella loro pressante esigenza. Ecco quella probabilmente si rivelò la prima vera esperienza di Roccia del Re che non gli risultò affatto gradevole. Ma passò in fretta nel momento in cui, dopo un aggrovigliato nodo di vicoli tutti comunicanti tra loro e tutti uguali, finalmente fu indicato al gruppo di confratelli della religione dei Sette di varcare una certa soglia, coperta esclusivamente da una tenda.
                Quello che seguì fu decisamente inquietante. Primaditutto, a Brendan come probabilmente a nessun altro della squadra diplomatica, non passò inosservato che, prima che loro entrassero in quel luogo, c’era solo una sottile tenda a indicare la soglia, mentre alle loro spalle, e dietro la tenda, si chiuse invece una spessa porta di massiccio legno. Il secondo elemento fu il buio: dovunque si trovassero, erano difatti chiusi in una stanza completamente senza luce. Brendan, come gli altri, annaspò con le mani avanti e concluse di trovarsi come in uno stretto corridoio con al suo davanti una specie di ringhiera. I loro passi procuravano un suono metallico: forse c’era una ringhiera anche sotto di loro e non solo davanti. Da qualche parte, in basso, si accese dunque un fuoco e, anche se ancora la camera non venne illuminata nel suo completo, le ipotesi del giovane novizio vennero confermate. La questione curiosa era che data la porticina nel vicolo per la quale erano entrati, Brendan si sarebbe aspettato davanti a sé una piccola camera o al massimo uno stretto corridoio. Invece si trovava in un edificio piuttosto curioso: loro erano al primo piano, mentre la camera si estendeva verso il basso come in una specie di palcoscenico di cui loro erano gli spettatori. Era ampia, dunque, e tutt’attorno a loro si poteva ben percepire il tipico frusciare di una folla che borbotta sottovoce, come un paiolo gorgogliante. Osservando meglio, Brendan riuscì perfino a distinguere qualcuno verso l’estremità della sala. Forse perfino molti individui, solo che costoro non erano alla luce. Erano anche loro spettatori, spettatori alla stessa altezza del teatrante che di sicuro da un momento all’altro sarebbe apparso nell’area illuminata dalle grandi torce.
                «Fratelli e sorelle» declamò a un certo punto una voce dall’ombra «Possa il Signore rendere grazia a ciascuno di noi. Per mano e modo del suo figlio che ora vi presento: Yashua!». Il brusio si fece più animato. Brendan udì perfino fratello Patchett sussurrare a uno dei due confratelli che non gli erano stati presentati: «Figlio di un dio?», e l’altro convenire: «Quale pacchiana blasfemia!».
                Il giovane novizio di Banefort fece appena in tempo ad accorgersi di come lui e gli altri confratelli si trovassero in una specie di gabbia, visto che alle spalle erano stati chiusi, che davanti avevano un’alta ringhiera e che di sotto, così come aveva già avuto modo di ipotizzare quando la luce non c’era, si trovava come una specie di griglia. La loro non era affatto la tribuna d’onore di quel teatrino, nonostante si trovasse collocata là dove normalmente una tribuna d’onore si colloca. La loro era una cella di metallo. Brendan fece solo in tempo a notare tutto ciò, e a preoccuparsi relativamente, quando questo Yashua venne fuori andandosi a sistemare esattamente dove le regole della messinscena dettavano: presso l’area più illuminata.
                Era giovane, molto più di come Brendan se lo fosse immaginato: se aveva davvero qualcosa come trent’anni d’età, li portava decisamente bene. Aveva una lunga barba e dei lunghi capelli castani, ed era vestito poveramente come la gran parte dei suoi seguaci. Come loro, era smunto e apparentemente alla fame. Ma diversamente da loro, i suoi occhi brillavano di tutta la luce della passione e del carisma. Non facevano trasparire certo gaiezza, ma una profonda consapevolezza di sé, tutto il contrario dello stato di confusione che normalmente albergava nei poveracci di Roccia del Re.
                Subito Yashua guardò verso di loro, alla “tribuna d’onore”, e subito parlò: «Ma… c’è un bambino lì con voi… che ci fa lì un bambino?»
                «Non sono un bambino!» proclamò Brendan, subito contravvenendo al comando che gli era stato dato, ovvero quello di star zitto. Solo che quando gli era stato impartito quell’ordine, nessuno aveva contemplato l’idea che lui venisse direttamente interpellato, e invece così fu. Il ragazzo se la sentì di specificare: «Io ho quindici anni!»
                «Beh, sei molto minuto, ragazzo» constatò Yashua «Ne sei proprio sicuro?»
                «Sì, signore. Decisamente, signore»
                «Bah: sei troppo piccolo lo stesso. Vieni: ti voglio qui!»
                «Mio signore!» lo interruppe fratello Patchett «Pensavamo di esser venuti qui a conversare su squisite questioni teologiche che concernono la nostra benedetta dottrina! Che cos’è questa mascherata?»
                «Oh, converseremo, fratello septon: sicuro» fece Yashua, con tono molto dolce a dire il vero, «Ma prima… vorreste farmi compagnia quaggiù figliolo? Davvero: mi sento solo. Non vi verrà torto alcun capello, lo giuro sul dio che è mio padre, e voi sapete che io non mentirei mai dopo un simile giuramento, vero confratelli?»
                «Vero! Non lo farebbe mai!» confermò un uomo dal fondo. E poi una donna: «Se Yashua promette, Yashua mantiene!»
                «Diversamente dai tuoi confratelli…» insistette il predicatore «Tu sei talmente minuto da riuscire a passare attraverso quell’inferriata, dico bene? Aiutatelo, fratelli!». E mentre alcuni fra i più alti discepoli di Yashua si affrettarono ad allungare le loro braccia verso la tribuna d’onore arrugginita, Brendan lanciò un’occhiata verso Trenton, il quale gli fece cenno di poter assecondare l’ambigua richiesta del giovane capopopolo. Brendan dal canto suo non trovò altro da fare, e dunque si approssimò ad assecondarla anche lui.
                «Miei signori septon dei Sette Dèi: conversiamo» proclamò dunque Yashua, e Brendan, da accanto a lui, mentre veniva trattenuto dalle stesse mani del predicatore, non poté non osservare un sinistro bagliore provenire dal suo sguardo. Yashua continuò: «Siete venuti a dirmi che voi custodite la verità e io sono un eretico e i miei seguaci dei fanatici? Miei signori, sono tutte cose che sapevamo già» rise, beffardo. Patchett invece gli rispose serissimo: «State scherzando col fuoco, signore, sappiatelo! I Sette Dèi sono sempre pietosi, ma gli uomini che li servono possono non esserlo…»
                «Sto scherzando… col fuoco, dite?» rise ancora Yashua, quasi in imbarazzo. Fu Patchett a continuare: «Speravamo di poter avere almeno un confronto alla pari. Da soli. E invece voi ci state trascinando in qualcosa che non può in alcun modo essere costruttivo»
                «Ah, no? Avete qualcosa da nascondere, mio septon? Non sono forse questi vostri fratelli e sorelle e figli, come lo sono a me? Temete voi forse l’opinione degli uomini e le donne che in virtù del vostro potere pretendete di guidare?»
                «Basta così!» si alterò un altro septon, ma Brendan non poté non notare con delusione lo sguardo perduto degli uomini che avrebbero dovuto essere i suoi mentori. «Fate in modo che tutta questa gente lasci la sala almeno, o altrimenti non abbiamo più nulla di cui parlare. Siamo già stati troppo caritatevoli a scendere nella tana di un eretico bastardo»
                «Oh! Eretico bastardo. Ora sì che vi riconosco, signori. Perché voi questo siete. Cani. Cani nutriti per troppo tempo al desco del padrone, e che ora che neanche il padrone non ha più ossa da buttargli, ringhiano e uggiolano con tutto lo squallore che li contraddistingue. Di’, figliolo» fece dunque Yashua, rivolgendosi adesso direttamente a Brendan, «Sei proprio sicuro di voler consacrarti con uomini del genere?». Non attese una risposta: non gl’importava. Quella era pur sempre una recita, e lui era il mattatore. Si rivolse alla folla scalpitante: «Miei fratelli e sorelle voi sapete bene che io non sono come questi uomini. Conoscete bene loro e conoscete bene me. Voi per anni avete ascoltato le tronfie e vuote declamazioni di individui di questo genere, e che cosa vi hanno lasciato? Quali sono i miracoli cui avete assistito da quando loro si sono accaparrati l’onore di potersi chiamare predicatori di questa somma città? Voi invece avete veduto me! E avete visto le cose che il Padre ha deciso che voi vedeste! Non avete atteso anni e anni. I miracoli sono qui, davanti a tutti noi!»
                «Inganni!» esclamò con rabbia uno dei septon che a Brendan non erano stati presentati. E fratello Trenton: «Puri trucchi da mercato rionale!»
                «Dissero coloro che non li hanno visti» rispose Yashua, osservandoli quasi con pietà, «Coloro che non hanno mai visto un miracolo in vita loro. Coloro che in vita loro non hanno mai veduto niente! Io ho veduto la vita che si cela dietro la morte. Ho visto il viale illuminato che piano si allunga verso le terre dell’aria e del cielo e che conduce gli uomini savi, e a me per primo stava conducendo, nella casa del giorno e delle fiamme benedette. Qualcuno di voi, fratelli, era là! Era già pronto con la vanga a seppellirmi in una fossa, quando d’improvviso ancora una volta le fiamme del Signore hanno preso la mia pelle e l’hanno rimessa insieme. Pezzo dopo pezzo io sono risorto! Mi sono rialzato! E sono tornato tra voi perché è tra voi che Dio mi vuole! Ora io vi domando, fratelli septon, rimettete le vostre colpe e finalmente vi inginocchiate davanti alla grazia del vero Dio? Siete venuti per pentirvi o per continuare a corrodere la vostra anima con il bieco puzzo della menzogna e dell’eresia?!»
                «Eretici?!» si adirò Patchett «Noi!?»
                «Eretici sì, ma non temete, fratelli. Io vi epurerò dalla vostra condizione di dannati. Solo vi chiedo: tornerete alla casa del Padre contriti in ginocchio come è giusto che sia? O marcerete in piedi, ancora convinti delle vostre malsane ragioni, sino a quando non sarà la fiamma della grazia di Dio a salire da voi dal centro della terra per condurvi in alto sottoforma di cenere e fiamme?». Il discorso era naturalmente delirante, e deliranti erano Yashua e tutti quegli individui lì accorsi a quel genere di sciarada. Brendan non avrebbe saputo cosa rispondere, e difatti nessuno dei suoi confratelli lo seppe. Si animarono solo nell’intenzione di lasciare la sala, accorgendosi solo ora di essere intrappolati in quella gabbia di ferro. Brendan osservò il panico impossessarsi delle loro membra, dopodiché vide Yashua dirigersi verso due grossi tubi apparentemente lasciati lì scoperti appositamente per una qualche sua speciale esigenza. Vi poggiò le mani e improvvisamente fece scaturire dai suoi palmi raggi di fuoco che entrarono nei tubi e si propagarono per tutta la sala fino alla griglia sistemata sotto ai piedi di fratello Trenton, fratello Patchett e degli altri due confratelli, septon dei Sette Dèi. Arsero quasi fin da subito, in preda a strazianti urla, mentre la folla gridava la sua approvazione, e Yashua sorrideva malignamente. Con le lacrime agli occhi, Brendan non seppe cosa pensare, non seppe neanche cosa fare. Si domandò se ci fosse una ragione per cui quel criminale avesse deciso di risparmiare a lui il servizio che aveva appena servito ai suoi confratelli; e nell’istante in cui pensò questa cosa, come se gli stesse leggendo nella mente, il mostruoso Yashua rivolse a lui la propria attenzione. E gli sorrise.

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Capitolo 4
*** Il re Lannister ***


Capitolo 4
IL RE LANNISTER
 
 
 
                Era la tarda serata quando Lord Constant della Casa Lannister raggiunse l’isolotto di Nyshareth, uno scoglio dal nome orientale sperduto nell’arcipelago che connetteva l’area di Dorne con quella del sud dell’altro continente. Lì si trovava ancora il suo campo base, e lì aveva lasciato il suo ultimo candidato al Trono di Spade: Shane della Casa Tyrell. In altri tempi, sarebbe stato rischioso continuare a militare in quella zona, formalmente sotto il controllo del nemico: in teoria Dorne ora apparteneva perfino a un altro principe, non più a Shane, bensì a un certo Gino della Casa Barron, che Constant aveva conosciuto durante la battaglia di Cowain. Aveva conosciuto pure suo padre, un uomo piuttosto nella media in ogni campo salvo che in quello della scaltrezza politica, cosa che d’altro canto si trovava ben simboleggiata nel suo stemma: una rossa volpe su campo verde-bosco. Ma come i Barron fossero passati al nuovo re, e come mai al trono di Altogiardino fosse asceso il giovane e non il vecchio, questo Constant non lo poteva sapere. Dava per scontato che con tutta quella storia in qualche modo c’entrasse Lord Braff, ma in realtà non era molto preoccupato in merito. Gino non aveva il controllo sul sud, perché non era stato ancora in grado di organizzare un efficiente e ben ramificato apparato burocratico, data la situazione turbolenta che stava per il momento sconvolgendo tutto il continente. Constant avrebbe probabilmente potuto anche organizzare una credibile resistenza lì al sud, magari andando a parlare con l’ultima superstite dell’antica famiglia decaduta della zona, Saestrya Martell. Eppure per qualche ragione pensava che il contraccolpo dovesse arrivare quanto prima possibile e dovesse abbattersi ancora una volta su Roccia del Re.
                Era stato Bastian a mettergli quella strana idea in testa. Il giovane ex comandante al servizio del Signore delle Dune – e forse di lui fratello o forse no – si era rivelato un buon consigliere per lui, e un ottimo acquisto anche. Egli avrebbe potuto essere Primo Cavaliere a quell’ora; avrebbe potuto trionfare insieme con l’uomo che in quel momento se ne stava seduto sul Trono di Spade, e invece aveva deciso di rimanere con il Lord dei Lannister. Senza dubbio aveva i suoi interessi: non si trovava bene con quel suo “fratello”, questo era ovvio. Ma avrebbe potuto tradirlo in qualsiasi altro momento, prima o dopo la presa della Capitale, e invece aveva deciso di affiancarsi a lui. Di tornare a combattere ancora una volta, per la causa di un re migliore. Un re che sarebbe stato sicuramente meglio di un pazzo venuto dall’oriente che nulla conosceva del mondo occidentale, o di un neonato sotto il giogo di una delle donne con minori scrupoli nel regno, o di qualche altro dei suoi nipoti, nelle vene dei quali scorreva lo stesso sangue di quell’assassino che suo fratello re Lionel altro non era stato.
                Gliene aveva dati altri Sir Bastian di consigli, nel corso di quella loro nuova amicizia. Anzi, più che consigli, quelle che gli dava erano suggestioni, orientamenti. Il giovane cavaliere dell’oriente dai capelli biondi ramati di rosso tendeva a comunicare ad alta voce dei ragionamenti, e talvolta essi si rivelavano piuttosto sensati. Oltre a quella cosa della ribellione al sud, una volta aveva anche sparato in merito a possibilità di immischiarsi nelle faccende dell’oriente. Quest’ultimo era difatti in preda a sconvolgimenti perfino più gravi che quelli del Westeros, benché ancora non proprio esplicitamente manifesti. E una cosa era certa: non tutt’e tre le grandi forze che dominavano quel mondo sarebbero state dalla stessa parte; Goldsmith, Loackland e Panecha tutti alleati in unico regno dell’Essos era qualcosa di sostanzialmente inimmaginabile. E dunque ci sarebbe stata una guerra: e che ci sarebbe stato di male nell’intrufolarsi pure in quel conflitto cercando di ritagliarsi un ruolo da “ago della bilancia”, per poi pretendere armi, finanziamenti e magari anche uomini per la guerra in occidente? Certo, questa prospettiva avrebbe richiesto molto tempo, molto più di quanto Constant intendesse aspettarne. E oltretutto, se esisteva una grande famiglia del Regno Unificato cui Constant non si sarebbe mai alleato, quelli erano proprio i Loackland, i veri responsabili della morte di Ladylynn, anche più dello stesso Lionel. Ma la intuizione politica del suo nuovo amico lo aveva non poco stupito. Ci stava che il nuovo re lo avesse predestinato al ruolo di Primo Cavaliere. E ci stava ancor di più da parte sua di tenerselo ben vicino al proprio fianco.
                Poi c’era stata perfino quella volta in cui, dopo aver alzato un po’ troppo il gomito sulla barca che li stava riportando a Nyshareth, Bastian aveva perfino affermato – sostenendo la cosa con quasi inattaccabili argomenti – quello cui Constant si era da sempre rifiutato di pensare. Gli aveva detto: «Mio signore, non trovi questa cosa dell’odio irragionevole verso il tuo sangue profondamente stupida?». Era alticcio Bastian, come lo era anche Constant, anche se quest’ultimo provava di non farlo vedere. Per cui, il guerriero orientale poté serenamente proseguire: «Insomma, anche ammesso e non concesso che il tuo odio verso il sangue di tuo fratello sia così viscerale da non tollerare l’idea dei tuoi nipoti sul Trono di Spade… insomma, che diavolo c’entra questo con te?»
                «È» affermò Constant tutto a un tratto serissimo, nonostante la vista un po’ sfocata, «Lo stesso sangue»
                «Sì, ma in maniera più indiretta, no? Insomma il tuo sangue tecnicamente è il sangue di tuo padre, più che quello di tuo fratello»
                «È lo stesso sangue» si ritrovò a ripetersi il Lord di Lannister «Dove vuoi arrivare, Bastian?»
                «Stiamo parlando del trono del Regno Unificato, mio Lord. Forse l’occupazione più difficile di questo mondo. Tenere tutto assieme, non è compito che può darsi a un neofita. Ci vuole un uomo d’esperienza: e dunque uno che in qualche modo è già a conoscenza delle nozioni fondamentali che urgono per quel delicato ruolo. E quale esperienza migliore che aver affiancato, nel bene o nel male, il re precedente per un numero abbastanza importante di lustri?»
                «E infatti… una volta messo Shane sul trono… ecco… io continuerò ad affiancarlo come Primo Cavaliere»
                «Bene signore, siamo arrivati al punto dove volevo arrivare, che è: ma se l’intenzione è quella di fornire al reame un buon re, allora perché mettere sul trono uno che potrebbe non esserlo e affiancarlo da uno invece che sa cosa deve fare… e non mettere direttamente quest’ultimo al posto di comando? Constant… non è che la verità è… che semplicemente avete paura?»
                «Io? Paura?»
                «Supponiamo… ecco: supponiamo che Shane non ci fosse… e voi foste costretto a scegliere tra uno dei vostri nipoti e mio fratello e voi stesso… anche in quel caso rifiutereste il trono?»
                «Io… mi adopererei per cercare qualcuno in grado di…»
                «Ma non ve ne viene nessuno in mente, non è così? Perché non c’è. Perché sareste voi il maledetto miglior candidato a sedere sulla dannata sedia di ferro»
                «Bastian, tu dimentichi una cosa: la mia priorità non era il trono del Regno Unificato, era Ladylynn. E adesso che qualsiasi possibilità di riportarla in vita è sfumata, la priorità continua a non essere il trono del Regno Unificato: è trovare quell’essere abbietto di Requiem e mozzargli via il capo dal resto del suo squamoso corpo. Che il Regno Unificato vada al diavolo!».
                Quel discorso era finito per agitarlo non poco. Certo, era cominciato come una delle solite sparate di Bastian quand’era ubriaco, ma era finito per farlo pensare a Ladylynn e alla sua rabbia verso Requiem, cosa cui non smetteva mai di pensare da sobrio di giorno, e che ultimamente di rado lo faceva dormire di notte. La verità era che stavano temporeggiando: non c’era ancora un piano ben preciso. E stavano temporeggiando, anzi lui stava temporeggiando, perché in realtà sapeva benissimo che anche se mai avesse trovato Requiem, non avrebbe avuto alcuna speranza di rivalsa nei suoi confronti: un drago nei suoi pieni poteri non era avversario alla stessa altezza di un mante qualsiasi, e non lo sarebbe stato qualsiasi cosa il suddetto mante avesse fatto per rivoluzionare la situazione. Ecco perché Constant si era diretto a Nysharheth e stava per il momento lavorando su Shane e sul Trono di Spade: fino a quella sera non lo aveva ancora ammesso con se stesso, ma era solo quello che per il momento poteva fare, visto che non sapeva dov’era Requiem, e non sapeva come fargliela pagare.
                Alla fine, Constant aveva optato per andare a dormire. Lui l’alcool lo smaltiva in un altro modo rispetto a Bastian, anziché fare battute e ridacchiare, diventava irascibile e tendente alla rissa. E non voleva malmenare il povero Bastian: come già concluso, era un sorprendentemente valido consigliere. Ma se, anziché aver avuto il buonsenso di andare a letto, fosse rimasto, senza dubbio gliel’avrebbe detto. Gli avrebbe chiesto come mai se la sentiva sempre di fare così il simpatico scherzando su quello che il suo nuovo Lord doveva o poteva fare o non fare, mentre invece era sempre molto silenzioso quando si parlava di lui, e del suo diavolo di rapporto col nuovo re degli Andali e dei Primi Uomini. Una volta, Bastian era perfino arrivato a dirgli che il Signore delle Dune non era veramente suo fratello… ma allora qual era l’origine dell’enigmatico personaggio che adesso sedeva sul Trono di Spade? E quali rapporti aveva con il drago Requiem? Com’era legato a quelle strane creature dagli spogli teschi neri che da troppo tempo ormai camminavano sul suolo dei vivi, pur chiaramente non essendo tali? Constant sapeva che Bastian poteva ragguagliarlo in merito a tutto ciò, eppure si ostinava a non farlo. Perché non scherzava su questo, anziché su Constant seduto sul Trono di Spade? Non era una cosa sulla quale scherzare, quella: se davvero Shane non fosse stato in gioco, allora il vecchio fratello del re avrebbe dovuto necessariamente considerare per davvero di… divenire lui il sovrano.
                Da quella sera probabilmente Bastian aveva capito che aveva esagerato. Oppure semplicemente non gli era più venuto in mente di tornare sull’argomento. Ma il fatto fu che, anche da ubriachi, non se ne parlò più. E, una sera del sud particolarmente serena, raggiunsero infine l’isolotto di Nyshareth.
                Constant, a far da guardia al piccolo dei Tyrell, aveva lasciato solo un paio di mercenari che aveva reclutato di recente come sua guardia personale, il cui capo si chiamava Talcott. Bastian, dal canto suo, aveva contribuito con tre uomini-bestia, a questo punto gli unici rimasti sotto il suo diretto comando, visto che il grosso era passato alla guardia di Roccia del Re, e dunque al nuovo sovrano. Quando li rivide tutti assieme, uomini e animali, subito il Lord Lannister si accorse che qualcosa non andava. Erano tutti in imbarazzo, compreso Talcott, uomo tutto d’un pezzo senza particolari devozioni se non al dio danaro. Erano talmente atterrite le facce di quei suoi sottoposti, che Constant decise subito di domandare: «Beh, che succede?»
                «Signore, nella giornata di ieri» lo informò Talcott, alzandosi in piedi in tutto il suo vigore muscolare, «Lord Shane ha tentato di togliersi la vita».
 
 
 
                Lady Hana della Casa Lannister non avrebbe saputo dire da quanto tempo ormai marciva in una cella. Per un po’, prima era stata rinchiusa insieme agli altri tre incorruttibili rappresentanti della precedente casa reale: il Maestro delle Leggi Lord Gushing, quello delle Strade Lord Gaholla e la ex regina consorte Lady Abigail della Casa Baratheon. Quest’ultima tuttavia era stata quasi fin da subito presa e collocata da un’altra parte, chissà per quali ragioni. Dunque la prigionia tra i tre membri decaduti del Concilio ristretto proseguì in questo modo: prima gli furono tolti gli abiti e sostituiti con delle vesti più logore; senza dubbio più consone alla situazione, ma molto meno adatte alla protezione contro il freddo e l’umidità della cella. Poi pasti scarsi e senza possibilità di scelta: non precisamente pane e acqua, ma quasi. A questo punto, forse un mese era passato… o almeno un paio di settimane, quando qualcuno decise che quella cella non andasse più bene per tre prigionieri, e Gushing e Gaholla vennero allontanati, lasciando il vecchio Altissimo Segretario del re a marcire da sola. Per ancora diverse ore, o forse addirittura un paio di giorni, Hana non ebbe altra compagnia se non quella di un pressoché muto carceriere. Pensò e ripensò, immaginando che cosa diamine potesse star accadendo al di là di quelle sbarre. Di una cosa era certa: se avesse dovuto morire, sarebbe morta con suo fratello Axelion presso i sotterranei della città, o poco più tardi. Ma lasciarla viva per tutto quel periodo, per poi a un certo punto decretare una pubblica condanna a morte… non sarebbe stata una mossa assennata da parte dei suoi avversari politici. Questo beninteso sottendendo che i suoi avversari politici fossero dotati di un senno…
                Il suo cuore sobbalzò e non poco quando a interrompere quella tetra monotonia non le venne inviato un volto amico: Lord Braff, ormai palesemente rivelatosi come un mostro in grado di praticare la stregoneria, apparve dal nulla nella sua cella, circondato all’inizio da una nuvola di fumo nero. Poi il fumo si dissolse, tranne che in una minima parte, che permise allo stregone di crearsi uno sgabello sopra il quale sedersi.
                «Braff…» fece la sorella del vecchio re, tra i denti, ma subito quello la interruppe dicendole: «Mia Lady, indipendentemente da qualsiasi cosa tu possa pensare, in questo momento devi cercare di non creare trambusto. È per te che sono venuto, ma non ho intenzione di rischiare di scoprirmi: perciò dillo prima se hai intenzione di vomitarmi addosso tutto quello che giustamente avrai rimuginato in questo periodo, e io semplicemente me ne andrò con tutta l’intenzione di dire che secondo me la prigione ti ha fatto diventare un po’ tocca, se oserai parlare di questa mia visita»
                «Se anche il carceriere sentisse, non saresti in grado di usare uno dei tuoi trucchi per non fargli davvero ascoltare quello che sta ascoltando, o vedere quello che sta vedendo? A questo punto, sono sicura che ne sarai in grado…»
                «In effetti… potrei provare, ma non sono pienamente sicuro dell’esito, e dunque sta’ zitta e ascoltami»
                «Come puoi pretendere che lo faccia! Tu hai ucciso mio padre e mio fratello»
                «In merito all’assassinio di tuo padre non ho avuto alcun ruolo, te l’assicuro»
                «E perché dovrei crederti?»
                «Perché sono qui… per salvarti la vita, bambina»
                «Non ci credo»
                «E stenterai a crederlo nonostante quello che ti dirò, eppure lo sto facendo lo stesso. Il lavoro di un Maestro delle Spie, è un’opera che può ammirarsi solo sul lungo termine. Mai su quello breve. Sei dunque disposta ad ascoltarmi?»
                «Parla» fece ancora la Lady, trattenendo la rabbia.
                «Tu» proclamò Lord Alexis «Sposerai Gabryaerys»
                «Cosa?!» esclamò ancora la fanciulla, disperata, «No, mai!»
                «Per Sua Maestà si tratta di un’occasione troppo ghiotta. Suo figlio avrebbe insieme il sangue dei Targaryen e dei Lannister e questo farebbe di lui… il re più legittimo di sempre. E in qualche modo… ancora una volta sul Trono di Spade siederebbe un re Lannister»
                «Considero quel mostro di un usurpatore il responsabile dell’omicidio di mio fratello almeno quanto te»
                «E non saresti molto distante dalla ragione. Oltretutto, non hai neanche errato di molto il termine con cui lo hai chiamato»
                «“Usurpatore” dici?»
                «No. Quell’altro. Gabryaerys è dotato di una caratteristica… di cui inevitabilmente ti accorgerai, se diventerai sua moglie. E lo diventerai, credimi»
                «Io… non accetterò mai una sua proposta! Non importa cosa dici! Come può essergli venuta in mente un’idea del genere!»
                «Perché sono stato io a suggerirgliela». Un breve silenzio seguì quest’affermazione di quel vile assassino, al termine del quale Lady Hana non resistette dal domandargli: «Tu… che cosa sei esattamente, Lord Braff?»
                «Sono un’entità… completamente vincolata al volere di un padrone, a causa di una potente magia. Essa non può essere spezzata, anche se c’è chi abbia imparato ad aggirarla talmente tanto e talmente bene da rendere il vincolo molto meno… pressante. Io non sono così bravo. Ci ho provato, ci provo costantemente, te l’assicuro. Ma… se l’ordine è esplicito, allora io devo eseguirlo»
                «Allora perché sei qui?»
                «Nessuno mi ha ordinato esplicitamente di non venire. E nessuno… mi ha ordinato di non farti presente che esiste un modo per lenire le tue future pene», a questo punto il Maestro dei Sussurri estrasse dalla manica una piccola ampolla con all’interno un liquido di un intenso colore violetto. «Certo, questo gioco potrà durare per un paio di mesi» continuò il politico, consegnandogli il piccolo contenitore vitreo tra le bianche mani, «O se siamo fortunati… di anni. Ma per il momento non mi è venuto in mente molto altro. Quando non funzionerà più, c’inventeremo qualche altra cosa»
                «Che cos’è?»
                «Il tappo è anche contagocce. Mettine tre sotto la lingua poco dopo che ti sarà entrato dentro, ogni volta che ti verrà dentro. E nessun bambino verrà mai al mondo. Non ci sono controindicazioni, né lascia alcun genere di tracce. Le gocce devono essere tre, se per caso ti capita di inghiottirne qualcuna in più non fa niente, ma non di meno. Mai di meno, se non vuoi divenire la madre di un piccolo mostro»
                «Hai detto che…» solo allora Hana fece attenzione a quelle parole che il politico gli aveva detto qualche momento prima «il re è dotato di una caratteristica di cui inevitabilmente mi accorgerò… di che si tratta?»
                «Non ha senso parlarne ora» concluse Braff e, alzandosi in piedi, fece sparire il suo sgabelletto di fumo, pronto a lasciare la cella e la sua prigioniera. Ma disse ancora: «Se ha del buonsenso, te lo mostrerà un po’ prima di portarti a letto, magari anche un po’ prima di portarti all’altare»
                «Ma che significa, Braff?» fece la Lady, confusa, «Prima consigli al re di darmi un figlio, poi mi dài una pozione per fare in modo che non nasca: da che diavolo di parte stai?»
                «Un curioso intruglio, non è vero? Ne parlai una volta a Septimus, discorrendo di bordelli e puttane. Lui mi spiegò il perché non temesse di metter mai incinta nessuna, e quando io gli spiegai invece che vivevo in quel costante terrore, me la fece vedere… e io non mi dimenticai mai di quel particolare contenitore, né di quel così suggestivo colore. Quando il vecchio morì, al momento di passaggio del testimone con il giovane e ben più avveduto Irwin, trafugai parte delle sue scorte… non c’era una vera ragione per prendere quell’ampolla, eppure… ne fui attratto. Ogni cosa accade per una ragione, Hana, ed eccola la ragione: di quella pozione sarai tu a servirti, bambina»
                «È tutto molto interessante, ma non è quello che ti ho chiesto, razza di viscido e oscuro verme»
                «Ogni-cosa» scandì a questo punto Lord Braff «Accade-per-una-ragione, mia signora. Il mio ruolo è quello di servire il mio padrone, e a questo non potrò mai venire meno. Ma ho anche un’altra mansione: consigliare il mio re. Ottenere la sua fiducia e anche in questo non intendo contravvenire, visto che dei sospetti in materia metterebbero a rischio la mia stessa posizione. Ma amavo tuo fratello» a questo punto Hana non poté trattenersi dall’assumere una espressione di disgusto, tanto che il Maestro dei Sussurri si vide costretto a ripetere: «Sì, lo amavo. Io l’ho visto crescere, così come ho visto crescere te, e Mirietta, e Daniel e Marcus. Se credi che fare quello che devo fare mi arrechi un qualche piacere, sei completamente fuori strada»
                «Non intendo ascoltarti oltre»
                «Fa’ come vuoi. Non pretendo che tu capisca, e non pretendo la tua amicizia. Spero solo che se ti troverai completamente da sola e le uniche porte a cui bussare saranno quelle di persone che ritieni tue nemiche… è a quella di questo nemico che tornerai»
                «Vattene, Braff» concluse la Lady, e mentre lacrime cominciavano a gonfiargli gli occhi, non trovò molto altro da dire se non le stesse parole appena pronunciate, ma con ancora più rabbia nel tono: «Non intendo ascoltarti oltre».
                Prima di sparire in una nuvola di fumo nero, incredibile solo a dirsi, quel viscido vigliacco trovò pure la faccia tosta per sorriderle. Un bagliore oscuro illuminò il suo occhio sinistro, e poi scomparve. Fu l’ultima visita che Hana ricevette per un tempo che le parve infinito, molto più di quello che la Lady di Lannister aveva atteso prima dell’arrivo di Braff dentro quella sua cella. Per un po’ Hana pensò perfino che tutto quello che Braff gli aveva rivelato non fosse stato altro che un ultimo, crudele, scherzo di quell’uomo malvagio, prima del definitivo abbandono della prigioniera alle sue solitudine e follia. Anzi, l’ultimo crudele scherzo di quel mostro.
                Poi però il momento avvenne. Il nuovo re le fece visita e Hana comprese che quello di Braff non era stato uno scherzo, ma un avvertimento. Comprese che le cose erano molto più complesse di come potessero sembrarle: non era ancora sicura che Braff le avesse detta tutta la verità, non era sicura che gliel’avesse mai detta, né che gliel’avrebbe mai detta in futuro. Eppure… adesso era venuto ad ammonirla, e certo questo si conciliava benissimo con quel suo discorso delle mille ragioni che stanno dietro alle cose, delle mille verità. Anche se questo non significava minimamente potersi fidare di lui. Non significava minimamente potersi fidare di nessuno.
                Re Gabryaerys Naharis disse a Lady Hana tutto quello che lei già sapeva. Costantemente alla presenza di quell’inquietante figuro con cui Hana lo aveva visto per la prima volta – un mostro con un teschio nero e spoglio al posto della faccia, con indosso sfarzosissimi abiti da antico principe orientale – egli sostanzialmente non usò mai parole troppo minacciose, ma neanche le chiese la mano. Le disse che si sarebbero sposati, e che lei gli avrebbe dato un erede con sangue Lannister, senza domandarle alcun consenso o parola di partecipazione, anzi senza praticamente farla nemmeno parlare. Il tono della sua voce era contrariato, ed era come se lui per primo percepisse quella cosa come una fastidiosa incombenza da risolvere quanto prima. Ma la cosa davvero curiosa fu che per tutto il tempo che parlarono, così come ogni volta che Hana aveva avuto modo di vederlo, Gabryaerys non le diede modo di guardarlo negli occhi. Come sempre, rimase ammantato nel suo lungo mantello con cappuccio a punta, tirato giù fin quasi alla punta del naso. Certo, questo incuriosì la Lady sua promessa, ma alla fin fine non le interessò più di tanto… qualsiasi cosa quell’usurpatore avesse nascosto sotto il suo cappuccio, non le avrebbe fatto provare molto più orrore per lui di quanto già lei non ne provasse dai tempi della battaglia.
                Ancora una volta, la giovane Hana sorprese se stessa nel notare che razza di animale politico lei fosse. Doveva aver ereditato quella caratteristica da un qualche suo nonno, perché né suo padre né alcuno dei suoi fratelli possedevano o avevano posseduto mai simili capacità diplomatiche. Per solo una volta le scappò tutto il disprezzo che provava per lui: quando Gabryaerys le disse «Tu metterai al mondo un re», e lei non si trattenne dal rispondergli: «Che sarà sempre figlio di un usurpatore». Ma per tutto il resto si mantenne di una seraficità davvero sorprendente per una prigioniera in quelle condizioni, tanto da renderla quasi orgogliosa di se stessa. Non proprio tutta sorrisi e salamelecchi (e chi al suo posto ne avrebbe avuta la forza), però ci andò vicino.
                Quando Gabryaerys infine lasciò la sua cella, seguito dal mostruoso servitore in abiti eleganti e piccola corona sul cranio spoglio, le promise che di lì a breve – molto breve – lei avrebbe lasciato quella cella per appartamenti ben più consoni. Lei ringraziò, sorrise e improvvisò persino un inchino, salutandolo con un: «Maestà…». Quando la porta di ferro fu definitivamente chiusa però, Hana venne presa dall’ansia e corse subito alla piccola ampolla che Braff le aveva donato e che lei aveva sapientemente nascosto: non ci sono molti nascondigli in una cella vuota di prigione, dunque l’unica cosa che aveva potuto fare per eclissare quell’intensa luce viola che la boccetta di vetro emanava, fu quella di ricoprirla con i grigi ammassi di polvere che nessuno evidentemente ripuliva da chissà quanti anni e che probabilmente le avevano provocato, insieme al freddo, quella fastidiosa tosse secca che almeno da qualche settimana le torturava la gola.
                Il re l’aveva chiesta in moglie, e le aveva detto che voleva un figlio da lei. Qualsiasi altra ragazza del Regno Unificato sarebbe stata grata e onorata, quando non proprio felice della cosa. E invece lei non vide l’ora di tornare a stringere tra le mani l’ampolla trafugata dalle scorte del vecchio Septimus, lieta del fatto che figli dal re lei non ne avrebbe mai avuti.
 
 
 
                Era la tarda serata quando Shane Tyrell si accorse del ritorno di Constant Lannister presso Nyshareth. Lo osservò raggiungere in barca il piccolo molo sulla spiaggia, dall’alto della più alta balconata del modesto palazzo locale nel quale era prigioniero. Capì subito che le cose non dovettero essere andate secondo i piani, vista la scarsa compagnia con cui Lord Constant era rientrato, e il suo piglio inalberato sul volto stanco. Non sarebbe stato dell’umore adatto per conversazioni complicate Lord Constant, e d’altra parte nemmeno lui lo era granché. Non dormiva serenamente da un tempo che ormai non sapeva più neanche bene inquadrare. Di sicuro, stava già parecchio male da quando Constant era lì. Ma naturalmente non gliel’aveva detto: aveva assentito e gli aveva sorriso, come sempre aveva fatto. Shane era fatto così: lui sorrideva e assentiva. Aveva sempre sorriso e assentito a suo padre, il vecchio Lord Maestro del Conio di re Lionel; lo aveva fatto quando, senza mai una vera e propria ragione valida, capitava che il Lord ci tenesse a sottolineare quanto suo fratello Lorthan fosse migliore di lui, e fosse destinato a un destino più radioso, mentre a Shane sarebbero sempre toccati gli scarti. Aveva sorriso e assentito a suo fratello, quando una volta gli aveva rivelato che in realtà loro padre tendesse a bistrattare anche lui, criticandolo in continuazione per il suo approccio a mansioni che nessuno (Lord Tyrell incluso) gli avesse mai spiegato. Dunque, Shane aveva assentito e sorriso quando Lorthan gli disse che voleva far fuori il vecchio, il quale non si faceva più vedere da un pezzo, da quando erano dei bambini, e che le rare volte in cui li vedeva, gettava fango su entrambi, giustificando la cosa con ragioni tendenzialmente uguali e contrarie, a ciascuno privatamente. Dopodiché, il più piccolo dei fratelli Tyrell aveva sorriso e assentito quando Lorthan gli aveva detto che, con Constant Lannister, il Gran Maestro Septimus e forse qualche altro alleato, aveva teorizzato un piano per impossessarsi del Trono di Spade. Ed era stato lui ad accogliere i nuovi alleati, una banda di mostri odiosi alla vista che avevano visitato i suoi peggiori incubi per quello che lui aveva giudicato troppo tempo. Aveva sorriso e assentito quando li aveva accolti. Praticamente nella sua vita non aveva fatto molto altro a parte sorridere, assentire e assassinare suo padre. Certo, era una vita giovane ma… senza più una bussola.
                Nel bene o nel male, Lorthan era da sempre stato il suo punto di riferimento. L’unico probabilmente. Conosceva i difetti di suo fratello: prima fra tutti la sua eccessiva e quasi ossessiva ambizione. Se fosse esistita una carica superiore a quella di re degli Andali e dei Primi Uomini, sicuramente sarebbe stata quella che Lorthan avrebbe puntato. Anzi, per Shane era già una fortuna che suo fratello maggiore non fosse mai arrivato all’estremo irrazionale, cominciando a parlare di livello metafisico e divino della sua posizione. Da sovrano in carica, lo avrebbe fatto sicuramente.
                Ma tra loro c’era sempre stata una buonissima sintonia. Specialmente da quando, dodicenne Shane e un po’ più grande Lorthan, si erano finalmente confrontati sulla figura del padre, il quale davvero faceva il doppio gioco tendendo a maltrattare entrambi i suoi figli. Forse era proprio questa l’idea migliore che Lord Tyrell aveva di essere padre. Ma loro due la pensavano in maniera diversa e la sensazione di sentirsi maltrattati, unita alla cieca ambizione del primogenito, li portarono alla fine a prendere la decisione definitiva. E questo sancì per sempre il loro sodalizio. Dal momento dell’assassinio del loro padre, Shane e Lorthan non furono più solo fratelli. Furono complici.
                Shane aveva partecipato attivamente a tutte le idee brillanti del fratello per la sua scalata verso il potere. E d’altro canto, anche per lui si prospettavano ruoli di primissimo piano nel regno, questo lui non poteva negarlo a se stesso. Senza dubbi lui era molto meno ambizioso di Lorthan, ma nemmeno avrebbe mai rifiutato alcun incarico che suo fratello gli avesse affidato una volta divenuto re del Regno Unificato. Aveva legato a suo fratello praticamente la gran parte delle proprie prospettive, e ora che lui era venuto a mancare a quel modo… si sentiva smarrito.
                Lord Constant ci aveva provato a fornirgli delle nuove ragioni, ma era un tipo abbastanza frigido e tutto d’un pezzo. Aveva tutta una sua mentalità e dei suoi obiettivi, una specie di conto personale con la vita che non aveva nulla a che vedere con Shane. Da giocatore, Shane era passato a pedina di quella scacchiera. Oh, certo: Constant gli offriva il trono. Ma non glielo offriva come sovrano realmente attivo: non erano amici lui e Constant, quel Primo Cavaliere non gli avrebbe mai dato i suoi consigli per aiutarlo a crescere e farlo diventare un buon re. Quel Primo Cavaliere avrebbe fatto il re. E Shane cosa sarebbe divenuto allora? Solo un nome di una lista, compilata in qualche vecchio volume da qualche barboso e barbuto uomo sapiente che nulla avrebbe scritto di quel sovrano se non qualcosa tipo: primo della sua dinastia, ma in tutto e per tutto sotto il controllo del Lord suo Primo Cavaliere.
                Considerato tutto ciò, al giovane Shane non rimanevano molte alternative. Certo: c’era la fuga verso nuovi orizzonti, alla volta di nuove e imprevedibili avventure. Ma le casse della Casa Tyrell erano state quasi tutte pressoché prosciugate da una causa che era finita per avvantaggiare il nuovo effettivo re Targaryen, e non Lorthan e nemmeno Constant. Sostanzialmente i Tyrell erano stati derubati. Ma se anche ci fossero stati danari da spendere, di sicuro Constant non gli avrebbe mai permesso di allontanarsi portando con sé servitori, attendenti, cortigiani e chi più ne ha più ne metta. Quel genere di fuga era da farsi in solitudine, e tendenzialmente “leggeri” di qualsiasi peso. Ma Shane non era il tipo di sopravvivere a quel genere di vita: francamente neanche lo attraeva lontanamente l’idea di un’esistenza da girovago, vestito di stracci, per le strade dei mercati dell’est o per gli spogli villaggi del nord. La verità era che non trovava risposte. Per lungo tempo dentro di sé le aveva cercate e continuava a non trovarle. Sapeva che non sarebbe stato re: solo questa era la sua unica certezza. Tutto il resto era il vuoto.
                Conservava ancora delle vecchie amicizie in Dorne: niente di serio, niente che lo potesse aiutare a trovare una svolta; erano soprattutto dei vecchi amici di suo padre che lo avevano visto crescere e che in alcuni casi si erano schierati con i nuovi signori del sud alla dipartita del vecchio. Certo, qualcuno aveva voluto fare il duro, qualcun altro aveva mostrato esitazione. Ma la gran parte di loro si era semplicemente adeguato alla nuova situazione: in verità Lord Tyrell non era mai stato un tipo semplice per nessuno. Ecco, fra questi nobili signori, c’era in particolare una certa Lady di un’isola della baia, particolarmente appassionata di intrugli, veleni e alchimie di varia natura. Era la madrina di Shane e, sebbene con la cadenza di circa una volta all’anno, l’aveva visto spesso nella sua vita, tanto da poter dire che l’avesse veduto crescere. Lei non si sarebbe rifiutata di inviargli via corvo un qualche modo per avvelenare qualcuno, e non avrebbe chiesto chi Shane avesse voluto eliminare. Naturalmente la cosa si era resa necessaria dopo quella volta in cui, in preda allo sconforto, Shane aveva deciso per il volo dalla balconata, ed era stato prontamente fermato da Talcott e dagli altri mercenari di Lord Constant lasciati lì per far da balia a lui. Da quel momento, Shane non veniva mai lasciato solo, né di giorno né di notte, dunque si rendeva necessario un metodo diverso. Ecco perché domandò alla sua madrina di inviargli quel veleno ed ecco perché da poche ore esso era arrivato: una polvere di un marroncino chiaro simile a lievito – dall’odore peraltro simile – da sciogliere in acqua e bere tutto d’un fiato. Esso era giunto giusto in tempo: naturalmente Shane non aveva previsto del ritorno di Constant e quando il vecchio cavaliere Lannister avrebbe saputo che aveva tentato il suicidio, considerando che per qualche ragione egli voleva Shane sulla maledetta sedia di ferro, non gli avrebbe più permesso nemmeno di respirare senza che venisse osservato e costantemente controllato. Shane doveva morire e doveva morire subito. Così, quando osservò la barca di Constant giungere al molo dell’isolotto, capì che era giunto il momento, e capì anche che doveva fare di fretta. Il mercenario davanti alla sua porta si sarebbe insospettito se lo avesse visto armeggiare con una polvere giunta da chissà dove, dunque anche lui doveva morire. Con una scusa, Shane lo distrasse, riuscì a sottrargli il pugnale dalla fodera e glielo piazzò nel cuore. Purtroppo non ebbe modo di evitare l’urlo di dolore della guardia, ma aveva ancora tempo. Prese la brocca dell’acqua, ne versò parte del contenuto nella sua tazza. Ascoltò lo scalpitare di mille piedi salire mille scale, ma quando arrivarono la polvere era già stata mischiata. Fu davanti agli occhi iniettati di sangue dell’ex Primo Cavaliere che bevve la sua pozione, guardandolo con aria di sfida.
                Nel suo perfetto piano di morte però Shane si rese conto solo adesso di non aver calcolato una cosa: il dolore. Si sentì immensamente stupido. Ma non ebbe il tempo di rimproverarsi niente. Mille serpenti con mille denti gli punsero tutti assieme il petto da dentro. Tutto attorno a sé cominciò a girare. Vomitò, prima di morire. Vomitò per il dolore. Ed ebbe tutto il tempo di osservare la scena. L’uomo dai capelli biondo-rossicci che aveva consigliato Constant chissà a quale titolo, si mise al centro della sala, sostanzialmente rubandogli tutta l’attenzione. Dunque proclamò: «Miei signori, adesso siete al cospetto di Constant della Casa Lannister. Unico vero re degli Andali e dei Primi Uomini. Signore del Regno Unificato e Protettore del Reame”. Shane poté perfino osservare tutti i presenti inginocchiarsi, l’uomo che aveva declamato quelle parole compreso. Solo allora trovò la forza per chiudere gli occhi e infine spirare.

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Capitolo 5
*** Donne forti ***


Capitolo 5
DONNE FORTI
 
 
 
                Lì la festa pareva tirar su fino alle mattinate. Xenya aveva sperato di poter essere lei quella ad avere in mano il controllo della situazione, ma dopo diverse ore passate ad osservare il delirio di cibo, giochi, danze, urla e sesso di quella popolazione di invasati che gli uomini-drago del nord del continente altro non si erano rivelati, guardò negli occhi Jorando Pashamanyna e Tampepe l’arciere Sayun-sama e si rese conto che erano stremati. Prima di arrivare in quella collina, nascosti tra le fronde, avevano trascorso una lunga giornata a scalare sentieri e rocce. Riuscirono a passare solo pochi altri minuti a spiare il nuovo, interessantissimo, re lucertola che era uscito fuori dalla montagna… poi Tampepe crollò per primo. Jorando lo seguì poco dopo. E infine anche lei poggiò il suo sacco a mo’ di cuscino e si addormentò come una bimba. Quando si risvegliò, qualcuno la stava tenendo per le braccia e trascinando bruscamente: gli uomini-drago li avevano trovati.
                Xenya aveva sperato che prima o poi anche quegli energumeni, essendo pur sempre umani, avessero sentito l’esigenza fisiologica del riposo. Dunque, riposando lei e i suoi compagni per primi, si sarebbero anche svegliati per primi e dunque addormentarsi relativamente scoperti non sarebbe stato poi questo gran problema. Oltretutto, tutto questo ragionare la giovane esploratrice lo aveva fatto in quel momento di ubriacatura che precede un sonno profondo, quando gli occhi si chiudono da soli e i suoni da soli si attutiscono. Sonno e ragionamento sbagliato si erano rivelati due pessimi soci, che insieme avevano condotto lei, Jorando e Tampepe tra le braccia del nemico prima ancora che il loro riposo si fosse completato e che le prime luci dell’alba avessero illuminato il cielo notturno. Era ancora notte fonda e parte dei selvaggi danzavano ancora quando i tre “forestieri” vennero gettati ai piedi dell’immenso re della montagna. A guardarlo da vicino, i tratti demoniaci del sovrano dei selvaggi si erano decisamente accentuati. I suoi piedi… parevano scimmiottare l’umanità più che imitarla: erano enormi e anziché le consuete tre dita che Xenya avrebbe voluto aspettarsi, vide tre molto più grossi ammassi di carne, più o meno di lunghezza identica l’uno con l’altro, coronati da tozze e appuntite unghie da animale. La muscolatura del resto del corpo, quella delle gambe, o delle braccia, o del collo, era davvero molto più simili a quella di un toro che a quelle di uno qualsiasi dei selvaggi lì presenti. La pelle… era traslucida, come una cosa nuova, appena venuta fuori da un grembo… o da un uovo. Ma la cosa più inquietante naturalmente fu il viso: completamente spoglio di qualsiasi pelo o capello, pieno di venature che come una ragnatela si infittivano dal cranio giù verso le spalle e il torace. E poi due occhi con all’interno una sottilissima iride color del fuoco; e uno sguardo molto più simile a quello di un uccello rapace che a qualsiasi mammifero di questo mondo.
                Xenya aveva viaggiato parecchio nella sua vita, e diverse volte si era trovata in situazioni critiche come quella. Tuttavia, non appena il diavolo della montagna, dalla sua altezza simile a quella di due uomini – o forse addirittura qualcosa in più – aprì la bocca per farne uscire dei suoni che incatenati parevano simili a una lingua degli uomini, ma che Xenya non conosceva, allora la schiena dell’esploratrice fu travolta da una sequenza di brividi difficili da nascondere. Ce la fece, essendo lei una donna tutta d’un pezzo, abituata al pericolo e al rischio della vita, ma lo trovò parecchio difficoltoso. La verità era che Xenya si era trovata perfino in situazioni più difficili nel corso dei suoi viaggi nel nord o nell’est, dunque se stare inginocchiati davanti a un suo potenziale assassino fosse stato l’unico elemento di minaccia, lei sarebbe rimasta anche più che serena. Ma in un individuo con quell’aspetto, in tutti i suoi viaggi, Xenya l’esploratrice non si era mai imbattuta. E una voce come quella, in tutti i suoi viaggi, non l’aveva mai udita.
                Il mostro incoronato d’ossa intanto, vedendo che non riceveva risposta a quella sua questione enunciata in quella lingua sconosciuta, si decise alfine a cambiare lingua. E ancora una volta né Xenya, né Jorando, né Tampepe risposero. Alla terza lingua che cambiò, tuttavia, questa volta l’arciere Sayun-sama si apprestò a rispondere: disse qualcosa, ma Xenya lo interruppe quasi da subito, comandandogli di tradurre per lei. A quel punto, un sorriso euforico si dipinse sul volto del mostro, mentre i suoi occhi si spostavano dall’arciere alla esploratrice. Il re della montagna parlò e Tampepe tradusse letteralmente: «S-siete un gruppo guidato da una femmina… non è la prima volta che vedo una società guidata da una femmina, m-ma… la cosa mi… desta curiosità ogni volta»
                «Lasciateci liberi» disse Xenya pacatamente, e Tampepe tradusse.
                «Voi s-siete liberi, figli miei. Desideravo solo darvi uno sguardo. Io adoro osservare quanto voi siate divenuti differenti gli uni dagli altri, eppure così simili… così simili… a noi»
                «Voi… chi siete?»
                «Soddisferò la vostra curiosità come voi state soddisfacendo la mia… ma la vostra piccola mente… ehm… lontana dal tempo… e dalle ere… non può… ehm… non può comprendere appieno quello che potrei dirvi o m-mostrarvi»
                «Mostraci»
                «Sei ardita, o femmina, come un cavaliere… no, ehm… come un cavalcatore di wanchi, non so cosa sia…»
                «Hai detto di averne già viste, ardite come me»
                «Di più. Sono stato… ehm… allo stesso livello di una come te, stesso ruolo, stesso potere… o forse lei perfino qualche cosa in più»
                «Dunque… che cosa sei tu?»
                «Ti ho promesso una risposta, eccola: sono la stirpe che… che… precede il tempo. Sono parte di coloro che hanno visto… fondersi la luce e le ombre. Io ho veduto gli uomini crearsi da loro, e poi da loro distruggersi. Sono sempre rimasto. Sono sempre… stato»
                «Sono… estremamente felice di avere avuto la possibilità di una simile conoscenza… ma ora, visto che ci hai lasciati liberi, non intendiamo andare presso la nostra casa…»
                «Io vi ho lasciati liberi, mia signora, di vivere la vostra vita. Ma non posso p-permettervi di lasciare questo luogo, oramai»
                «Che cosa?!»
                «V-vi troverete bene tra i miei figli, loro sono una razza superiore. Pensate che li ho c-creati solo maschi e da soli hanno trovato il modo p-per generare l-la f-femmina»
                «Le leggende non erano poi così mendaci, allora» commentò Pashamanyna a bassissima voce, alludendo a una diceria dei selvaggi del sud che narrava gli uomini-drago come solo maschi. Tampepe continuò a tradurre: «Voi non siete n-nemmeno i primi Sayun-sama a visitare questo luogo, e nessuno di voi lo ha mai lasciato. Si sono trovati sempre bene tra i miei figli»
                «Noi non siamo dei Sayun»
                «Q-questo… è financo molto meglio»
                «No, io non la penso così. JORANDO!». In anni e anni di lavoro insieme, Xenya e Pashamanyna avevano imparato a conoscersi anche oltre la semplice comunicazione verbale. Avevano trovato una perfetta sintonia personale, oltre che a una più che solida amicizia, che gli permetteva di capirsi a prescindere, anche senza parole specifiche, anche senza uno sguardo. Xenya era perfettamente consapevole che il suo secondo era ormai da qualche minuto che stava aspettando un suo cenno. E urlando il suo nome, lei glielo diede.
                Pashamanyna camminava sempre armato fino ai denti. Disponeva di tutta una serie di lame orientali in cui solo lui o pochi altri erano davvero addestrati, almeno dalla parte occidentale del Mare Stretto. Ed erano dannatamente leggere: alcune si lanciavano semplicemente, di piatto, possibilmente puntate verso la gola o il fianco dell’avversario. Altre erano legate a delle corde e si facevano ruotare. E poi c’era un bastone fatto di canne che andava montato all’occasione, e sulla punta naturalmente si disponeva come una specie di grosso coltello da cervo o da cinghiale. Ma per prime Jorando decise giustamente di utilizzare le lame da lancio: Xenya lo sapeva che avrebbe scelto quelle. E con esse liberò se stesso ed entrambi i suoi compagni dai muscolosi uomini-drago che li stavano tenendo fermi al cospetto di quello strano re lucertola. A questo punto, anche lei estrasse i suoi due piccoli fedeli e storici pugnali, e Tampepe rapidamente incoccò il primo dei suoi dardi. Ne sterminarono diversi di quei selvaggi bastardi, ma più ne ammazzavano e più ne spuntavano: erano impreparati e disarmati, ma dannatamente grossi, numerosi e agguerriti. Xenya non riusciva a vedere soluzioni, tranne una…
                Quando riuscì a trovare un po’ di spazio, prese e con un agile salto balzò dietro il re della montagna. Puntò entrambi i pugnali alla larga gola del gigante e tutto si fermò. Tampepe e Pashamanyna smisero di massacrare uomini-drago, ma soprattutto perché gli uomini drago, e le donne e i vecchi e i bambini si erano tutti fermati. Osservavano preoccupati la gola del loro re. Per diversi secondi fu il silenzio assoluto. L’esploratrice cominciò: «Bene. Adesso, Tampepe, di’ a questi esauriti che se loro…». Fu costretta ad interrompersi. Qualcuno stava ridendo. Il re stava ridendo. Una risata profonda e insieme metallica. Come connessa con tutte le energie del sottosuolo e delle rocce dentro la montagna. La risata più terribile e spaventosa che Xenya, sempre nella sua immensa esperienza di esploratrice, avesse mai ascoltato.
                D’improvviso, qualcosa sotto di lei tremò. Ma non era la terra, come accaduto qualche ora prima. Era proprio il re della montagna. Egli stava… mutando. In pochissimo tempo, divenne immenso: centuplicò le proprie dimensioni. E in pochissimo tempo, da dietro la schiena di un avversario particolarmente alto, ma con in pugno la situazione, Xenya si ritrovò confusa sul dorso di… qualcosa. Un animale a scaglie, come quelle di un serpente, però… dure. Non intendeva crederci, eppure quello che i suoi occhi parevano suggerirle era che si trattasse… di un drago.
                Ma i draghi di cui aveva letto lei, quelli di cui avevo visto illustrazioni presso svariate biblioteche, per quanto enormi e terribili… non erano neanche lontanamente grossi come quell’animale sulla cui schiena a scaglie adesso lei si ritrovava… quello era tipo “il re dei draghi” o roba simile. Ma Xenya non ebbe il tempo di specularci più per ancora molto; con un movimento oscillatorio di spalle prima e di braccia poi, l’enorme animale la fece cadere soavemente. Dopodiché la imprigionò tra gli artigli del suo arto superiore destro, la guardò, e muovendo il suo muso allungato e le sue fauci piene di denti come una comune bocca umana, disse: «Sei stata audace, femmina. Molto audace».
 
 
 
                Gino raggiunse l’assolata Cowain in una mattina particolarmente calda, in cui tutti gli abitanti della ridente cittadina, evidentemente non consapevoli del demone rinvigorito presso la magione della loro signora, sorridevano ed erano gentili, e l’odore della primavera sprizzava da ogni fiore, foglia o ramo. Era inutile negarlo: Gino adorava il caldo, Cowain sarebbe stata volentieri la sua città di preferenza, anche per uno stabilimento definitivo. Tuttavia quel giorno il caldo era decisamente asfissiante; tanto che Gino decise di spogliarsi di qualsiasi insegna e abito sfarzoso: bussò alla dimora di Xalandra agghindato come un qualsiasi garzone da bottega, solo che continuava ad avere un seguito di una trentina di cavalieri.
                «Lord Gino!» lo salutò Xalandra, andandogli in contro, quando Barron raggiunse la sua piccola sala di rappresentanza. Come al solito, quel luogo era pieno di donne… e a Gino rivederle tutte, e tutte assieme, suscitò insieme meravigliosi ricordi e anche un po’ di imbarazzo: poco tempo prima, la metà di quelle ragazze Gino aveva avuto la possibilità di portarsele a letto. Con Xalandra, sempre con quel suo modo di fare affrettato, come se avesse di meglio e più urgente da fare che accogliere il suo vecchio amico e importante potenziale alleato, invece, il sentimento di meraviglia si appiattiva, lasciando decisamente molto più posto a quello dell’imbarazzo. Xalandra doveva esser stata una bagascia divina qualche secolo prima, ma quell’unica volta in cui aveva preteso la carne di Gino… beh si trattava di poco tempo addietro, e dunque… della stessa anziana signora coi capelli dipinti di un colore che non esiste e decisamente troppo truccata che in quel momento gli stava andando in contro, con quel suo fare affrettato.
                «Milady Xalandra» replicò Gino al saluto, e con estremo garbo prese anche la mano della sua ospite e la baciò. «Sai che non sono una Lady, ma va bene così: ho rinunciato a fartelo presente» fece quella, decisamente più brusca, e Gino ancora più ruffiano: «Siete una Lady per il mio cuore, mia signora»
                «Sì, io e quante altre? Ad ogni modo, mio Lord Protettore dell’Altopiano, mi perdonerai se intendo saltare i convenevoli, ma – come avrai intuito – la situazione ci sta sfuggendo di mano di ora in ora»
                «Sì, l’avevo intuito in effetti»
                «Novità dalla costa orientale?» continuò a chiedere la reggente di Cowain, incamminandosi per i corridoi della sua magione, «Hai fatto presente al re della nostra situazione? E lui ti ha dato dei consigli? Oppure hai parlato con qualcuno ancor più navigato in materia? A essere franchi, anche se questo nuovo re sostiene di essere un Targaryen, a me dà tutta l’impressione di un tipetto abbastanza ignorante in merito alle cose di questo mondo»
                «Questo è plausibile. Ed è per questo che mi sono rivolto a qualcun altro…»
                «Sì? E a chi?»
                «A Lord Braff»
                «Temevo che facessi quel nome»
                «Beh, sai bene anche tu che Braff invece è in politica da molto più tempo del re, ed è un uomo particolarmente… eclettico, se non vogliamo dire saggio»
                «Di’ pure quello che vuoi! Quali sono i suggerimenti di quel vecchio cialtrone?»
                «Lui non mi ha risposto. Non gli ho dato il tempo: sono venuto qui subito. Desideravo toccare con mano il problema…»
                «O e lo toccherai, mio signore… lo toccherai e ti scotterai, fidati»
                «È lì che stiamo andando adesso, mia signora? Lo chiedo per… prepararmi psicologicamente, ecco»
                «Beh, preparati psicologicamente a questo, giovinotto: al momento ti sto conducendo da un’altra parte, perché c’è un’altra gatta che devi pelare… sorpresa!»
                «Di che si tratta?» a questo punto il tono di Gino si fece parecchio serio: non adorava i giochetti, e men che meno le trappole, anche se a tendergliele fossero state persone quando non proprio amiche, almeno orientativamente degne di un certo grado di fiducia, come Xalandra senza dubbio a suo avviso era. Dopo circa una decina di passi, Gino si accorse che l’ex puttana non gli stava rispondendo, dunque insistette: «Xalandra! Di che si tratta?»
                «Hai combinato un bel guaio, ragazzino»
                «In che senso?»
                «Non posso dirti oltre, non intendo farlo. Lo farà lei, anche contro la sua volontà: praticamente la sto costringendo»
                «Daessenya?»
                «Quando ha saputo che mi ero rivolta a te, e evidentemente percependo che saresti venuto, ha deciso di fare i bagagli e lasciare il mio servizio. E io desidero che rimanga. A te il compito di convincerla, Barron, sono stata chiara?»
                «Cosa? Ma se io non…»
                «Mylord! La fanciulla lascia il mio servizio per sempre, senza neanche dirmi dov’è diretta, perché non intende rivederti. E io ti sto portando da lei! Buon lavoro» concluse la Lady reggente, indicando la porta dinanzi al quale si erano entrambi fermati. Gino la aprì soavemente, e penetrò.
                Stava davvero facendo i bagagli. C’erano fagotti un po’ dovunque in quella camera, quasi tutto incartato, pronto per una spedizione definitiva. Lei si trovava dietro una modesta libreria, ma piena di scaffali e volumi. Stava cercando di sistemare un ultimo pacco dentro un baule chiaramente già troppo pieno; dunque era di spalle… Gino fu tentato, seriamente tentato, di prenderla per la vita, voltarla e baciarla come se il mondo dovesse finire di lì a un minuto. Si avvicinò piano; lei era evidentemente troppo indaffarata con quel pacchetto per ascoltare il suo arrivo. Lui riuscì ad avvicinarla, ed effettivamente le poggiò con la delicatezza di un vasaio la mano sul fianco destro. Lei si voltò di scatto, dapprima sorpresa e quasi scossa dal fatto che qualcuno la stesse distraendo da quella sua delicatissima operazione geometrica di inserimento dell’ultimo bagaglio nel baule colmo. Ma poi subito si accorse che era lui: il suo sguardo si fece tenero, languido. Gino desiderò più di ogni altra cosa baciarla, per pochi attimi decise di resistere; non era giusto che lo facesse lui: se voleva, doveva essere la signora a farlo. Gli istanti trascorsero e divennero secondi. Vide gli occhi di Daessenya piano piano riempirsi di lacrime; forse lo stavano facendo anche i suoi… infine, lei spezzò l’incantesimo. Distolse lo sguardo e, voltandosi, riprese a fare quello che stava facendo. Disse: «Che sei venuto a fare?»
                «Lady Xalandra ha richiesto il mio ausilio» rispose il giovane Barron «Per quella cosa del demone risorto: so bene che sai di cosa sto parlando»
                «È così, sì»
                «Daessenya, io…»
                «Ma io intendevo sapere… cosa sei venuto a fare qui, nei miei appartamenti. È la vecchia ad avertici condotto, non è così? O hai avuto perfino la faccia tosta di chiedere da te le informazioni su dove esattamente risiedo adesso?»
                «Faccia tosta? Ma di che stiamo parlando?»
                «Del fatto che io non intendevo rivederti» rispose lei, freddissima, praticamente pugnalandolo al cuore. Era perfino riuscita a infilare quel suo maledetto pacchettino nel baule da viaggio e si era di nuovo voltata, guardandolo dritto negli occhi mentre diceva quella cosa. Ora non c’erano più lacrime. Gino ormai aveva concluso che ne sarebbe andata della sua felicità, perciò si scoprì: «Che cosa vuoi? Dimmi cosa vuoi e… io farò di tutto per…»
                «Voglio che mi lasci in pace»
                «Come faccio: sono innamorato di te, l’hai capito questo, sì? E… lo sei anche tu». Lei chinò lo sguardo: palese segno che Gino aveva ragione. Dunque il giovane Lord se la sentì di rilanciare: «Allora perché dobbiamo negarci la possibilità di essere felici?»
                «Gino, pensavo di esser stata ben chiara l’ultima volta: non possiamo permettere di continuare con questa messinscena. Tu sei il Lord di Altogiardino e io… non sono adatta a fare la moglie e men che meno la concubina. Dunque, se davvero c’è un sentimento, è meglio reciderlo da subito prima che possa diventare una fissazione… e torturarci. Parlo soprattutto per il tuo bene, guarda. Io sto per andare e…»
                «Ma dove vai?» fece Barron preoccupato, percependo che davvero si stava per mettere un punto a tutta quella storia, «La tua vita è qui…»
                «La mia vita… è dovunque io possa essere una donna libera. E finché tu saprai dove sto di casa, donna libera non sarò mai»
                «Daessenya ti prego…» non riuscì a resistere alla sua bellezza, s’inginocchiò «Ti prego…»
                «Finitela, mylord. Che diamine, chi nella mia vita doveva dirmi che un giorno… avrei fatto inginocchiare un Lord» e per la prima volta quel giorno, Gino la vide sorridere. Sorridere quasi sinceramente. Sorridere quasi come sorride una donna innamorata. Fu lei stessa a porgergli il braccio e farlo rialzare; dopodiché, riconducendolo verso la porta, gli disse: «È stato davvero bello, Gino, voglio che tu lo sappia. Voglio che tu sappia che per un certo periodo tu hai reso una povera donna, quella più felice del mondo. Sento… un debito di gratitudine nei tuoi confronti, davvero. Ecco perché ti dico questo: ero già una donna libera prima di conoscerti, ma conoscendoti ho avuto la forza di aggiungere una sfumatura in più a questa mia libertà. Sono una donna forte, vissuta tra donne forti. E continuerò su questa strada: ho sentito dire di una donna, più giovane di me e di te, che in questo momento regge un importante e strategico castello. È lì che ho intenzione di presentare le mie referenze. Qui a Cowain sono stata bene: ma talvolta ci si stufa di servire sempre lo stesso padrone. E la prima delle libertà è quella di poter scegliere a chi prestare il proprio servizio»
                «Ma dove, Daessenya? Dove…?». Come un ebete, il Protettore dell’Altopiano non riuscì a pronunciare altre parole. Quando giunse davanti alla porta chiese: «Dove?», quando la porta venne aperta chiese: «Dove?», e quando fu fuori dalla camera della sua amata, e la porta fu chiusa, il giovane Barron chiese: «Dove?».
                Più tardi, Gino ebbe modo di visitare pure l’area del castello caduta sotto il controllo del diavolo di fuoco. Prima naturalmente, dovette sorbirsi pure il rimbrotto di Xalandra, la quale – che era sicuramente consapevole delle sofferenze di Gino in materia – insensibilmente non fece altro che lamentarsi del fatto che stava perdendo quella che a suo dire (ma Gino ci credeva) era la migliore tra le sue collaboratrici. In realtà, Gino pensava che Xalandra voleva anche che il Lord suo amico convincesse la sua sottoposta ad amarlo, a restare accanto a lui, ma la puttana reggente non era il tipo di donna che facilmente cedeva a quel tipo di sentimentalismo. In realtà, poche donne lì nei dintorni di Cowain erano quel tipo di donna.
                La situazione per quanto riguardava il demone era esattamente per come Gino se l’era immaginata: una stanza in preda a fiamme costanti, al centro della quale il teschio nero sorrideva maligno e diabolico, esattamente per come il giovane Barron se lo ricordava dal campo della battaglia di Cowain… solo… senza un corpo, che probabilmente ancora quel mostro non era stato in grado di ricostituire a dovere. Inoltre le minacce e le oscenità che quella bocca senza pelle e senza labbra riusciva a pronunciare nell’arco di pochissimo tempo, lasciarono il giovane Lord seriamente sconcertato. Neanche nelle peggiori bettole dei peggiori rioni si ascoltavano oscenità di quella categoria, alcune delle quali ora indirizzate allo stesso Gino Barron, che con massima cura cercò di non farsi vedere da quel potente nemico, ma che comunque evidentemente il potente nemico riuscì a intercettare in qualche maniera, visto che gran parte delle porcherie che disse, il diavolo dal teschio nero cominciò a coniugarle al maschile.
                E l’altra cosa che purtroppo rimase esattamente come nelle aspettative del Barron, fu che, visto che era giunto senza soluzioni a Cowain, senza soluzioni rimase. Quello che cambiò, fu l’intonazione della sua nuova missiva inidirzzata a Lord Braff, la quale – data ora la consapevolezza della situazione – assunse ben più tragici e disperati toni.
 
 
 
                Shirley la chimera era evidentemente stremata. Non era mai stata ferma da quando Marcus era arrivato dall’altro continente con un compagno stregone di fuoco che ora probabilmente giaceva sotto le macerie di Roccia del Re. La povera bestiola aveva affrontato una battaglia: miracolosamente senza ferirsi in modo grave. Poi, dopo dunque un viaggio da un continente all’altro e un sanguinoso conflitto, era stata costretta a viaggiare ancora. Certo, la piccola imbarcazione su cui Mirietta viaggiava insieme a tre fedeli compagni, aveva avuto modo di fermarsi di tanto in tanto presso seni di terra i più possibili nascosti da occhio umano. Tuttavia erano pur sempre dei fuorilegge, dei fuggiaschi… e dunque non erano mai rimasti per troppo tempo fermi nella stessa baia, e non si erano mai avventurati nell’entroterra in cerca di cibo o amicizia. Così Mirietta aveva comandato, e così Marcus – evidentemente il secondo in comando lì in mezzo, in quanto Cavaliere della Chimera, oltre che individuo nelle cui arterie scorreva sangue reale – aveva condiviso. Ma riposare per poche ore era come quasi non riposare affatto, e infatti Shirley praticamente non ce la faceva più e questo Marcus, che con la sua chimera era legato da un nodo che esulava e di molto il normale rapporto cavaliere/destriero, lo percepiva chiaramente. Fu con questo pensiero fisso, e con il pessimo ricordo della sua città natale distrutta e invasa da mostri, della donna che amava sperduta in mezzo a una ressa di soldati, e del cadavere del suo mentore senza più vita steso su una strada come una carcassa qualsiasi, che Marcus infine rivide le luci del porto di Lannisport.
                A Lannisport, Mirietta sosteneva di essere sicura. Marcus lo era di meno, ma decise di fidarsi: numero uno, perché non c’erano molte alternative. E numero due, perché in effetti la sua piccola sorellina si era dimostrata dotata di una grandissima forza politica. I suoi uomini a Roccia del Re pendevano dalle sue labbra: in molti erano morti per lei. E, d’altro canto, non era poi così illogico pensare che in quella roccaforte Mirietta sarebbe stata beneaccetta: aveva passato lì la gran parte dei suoi anni grossomodo da quando Marcus aveva cominciato a trascorrere i suoi alla Valle del Leone. Se c’era un luogo dove viandanti con sangue Lannister avevano qualche possibilità di rimanere al sicuro, quello era Lannisport.
                E tutto in effetti andò a meraviglia. A Lannisport Marcus mangiò bene come non mangiava da chissà quanto tempo. Bevve vino fino all’euforia. Rise, si divertì, e poi si addormentò in un comodo letto, fino alla tarda mattinata del giorno dopo.
                L’uomo di fiducia di Mirietta lì a Lannisport era un tale Sir Cauldron. “Sir” chissà poi quanto: Marcus non aveva mai sentito quel cognome, probabilmente si trattava di un qualche cavaliere errante nobilitato da un’azione valorosa o che in qualche altro modo aveva conquistato le simpatie di gente molto in alto, magari della stessa Mirietta. Fu proprio questo Sir ad accoglierli per primo al porto e fu lui a organizzare il banchetto. Inoltre, era lui che aveva predisposto la nuova ricchissima flotta di cui Mirietta nel corso del viaggio gli aveva parlato, e con la quale l’intento era di partire al più presto alla volta dell’occidente. Non più per visitare o esplorare il nuovo continente, bensì per assoggettarlo. Quel vecchio Sir Muldrow che si era insediato in quel paradiso grazie ai Tyrell, era una volpe che per troppo tempo ormai si era cibata di quel pollaio. Avrebbe fatto storie sicuramente non appena Mirietta gli avrebbe comunicato che sostanzialmente i Tyrell non c’erano più; era un personaggio scomodo, e bisognava necessariamente toglierlo di mezzo. Non ucciderlo per forza, ma costringerlo a mollare il suo soglio di unico sovrano dei Sayun-sama questo sì. E quale modo migliore che presentarsi al suo cospetto armati di tutto punto?
                Mirietta e Marcus avevano bisogno di rifornimenti e di uomini per riprendersi Roccia del Re e assicurare che la corretta linea dinastica tornasse a sedere sul Trono di Spade. E il nuovo continente era la più logica risposta a questo loro problema. Per tali ragioni finalmente la sua piccola sorella era riuscita a convincere chi di dovere a finanziare una spedizione per come fin dall’origine lei se l’era immaginata. E per tale ragione, di lì a poco la sua flotta sarebbe partita dal porto di Lannisport.
                Era con questa prospettiva per la testa che Marcus, come detto a mattina inoltrata, si svegliò dalla sua comoda branda e raggiunse sua sorella, la quale gli chiese di prepararsi alla bell’e meglio e seguirla a una colazione da soli loro due insieme a Sir Cauldron. Marcus in realtà non stava morendo dalla voglia di introdurre ancora roba nello stomaco, dato l’immenso quantitativo di cibo che aveva ingurgitato la sera prima. Era un uomo alto e discretamente possente, ma data la fame che aveva preceduto quella cena, aveva infine mangiato più come un bue che come un normale principe del Regno Unificato, e l’idea di una ulteriore colazione in tutta franchezza non lo entusiasmava più. Ma non c’erano ragioni per rifiutare: c’era sicuramente un motivo per cui quella colazione la Lady sua sorella avesse deciso di farla in privato, e d’altro canto lui era come una specie di sovrano indiretto di quel luogo. Se non avesse voluto mangiare, gli sarebbe bastato limitarsi a non farlo.
                Giunto al tavolo della colazione, Marcus si rese subito conto che in realtà era stato Cauldron a chiedere quell’incontro, e non Mirietta. Lui aveva pensato che si trattasse di qualcosa che riguardava, magari, la predisposizione del viaggio o altre questioni logistiche di quella portata. Invece quello che il Sir disse fu: «Mia signora, so che il tuo entusiasmo per questo nuovo itinerario è alle stelle, e lungi da me voler deludere questa tua prospettiva… ti prego di considerare che sono solo un latore, e che non prendo decisioni…»
                «Su, Cauldron» fece la piccola Lady, sorpresa ma risoluta, «Spara: non tenermi sulle spine»
                «Ehm… v-vostro zio Pylgrim, o prozio, o quello che è… come sapete è stato il principale finanziatore della flotta»
                «Tecnicamente… sono io la reggente di Lannisport, signore, dunque in realtà me la sono finanziata da sola»
                «Sì, ma… oh, insomma, milady, tu sai bene che tuo zio ormai è un importante giocatore della partita della vostra famiglia. Castel Granito risponde a lui, non a te. Ti vuole bene, così come sono sicuro tu ne vuoi a lui, ma tutto quello che ti chiede è… di ritardare la tua partenza di qualche giorno…»
                «E perché, sentiamo?»
                «Vuole parlarti… di persona»
                «Allora perché non è venuto lui direttamente a…»
                «Mia signoria, il Leone Nero è un uomo anziano e…»
                «Ah» rise Marcus «L’anziano più risoluto che abbia mai conosciuto in vita mia»
                «Ti prego, mia signora» fece ancora Cauldron «Non rendere complessa una cosa che potrebbe risolversi in poco tempo…». A questo punto, l’Andalo non poté non percepire l’espressione di profondo disappunto sul volto della sua sorellina. La verità era che non c’erano ragioni per non assecondare la richiesta del vecchio: probabilmente voleva solo qualche delucidazione in più in merito alla loro partenza, o perfino addirittura rivederli e salutarli visto che sostanzialmente i soldi per quella nuova avventura, checché Mirietta ne dicesse, li stava uscendo lui, non la giovane e pure determinata fanciulla.
                Pylgrim Lannister, detto il Leone Nero, non era loro zio. Era più facile chiamarlo a quel modo, ma era l’ultimo dei fratelli di loro nonno, e fratello del compianto Primo Cavaliere Duhenlar, dunque zio già di loro padre e di loro più giustamente “prozio”. Era molto giovane per essere uno che apparteneva a quella generazione: un vecchio rampante, che per tre quarti della sua vita aveva combattuto. Uno dei cavalieri più noti e stimati del continente occidentale. Detto Leone Nero poiché la sfumatura del castano dei suoi capelli e della sua barba, che ora erano grigi, un tempo era stata parecchio scura. Stando alla tradizione leggendaria, tutti i Lannister erano biondi o castani chiari: tuttavia col tempo il mito si era via via sfatato, il sangue si era mischiato, ed erano cominciati ad intravedersi delle tonalità più scure; lo stesso Marcus, o anche Daniel ad esempio, biondi non era neanche alla lontana. Ma scuri, di pelo e di pelle, così come il vecchio Pylgrim, in effetti di Lannister non se ne erano mai visti e ancora non se ne vedevano: ecco perché era saltato fuori “il Leone Nero”, attributo decisamente accattivante che Marcus l’Andalo avrebbe scambiato senza pensarci con quello invece che veniva associato a lui.
                Da anziano, Pylgrim si era alfine insediato a Castel Granito, cuore difensivo della famiglia Lannister e una volta loro capitale. Castel Granito continuava ad essere la roccaforte presso la quale si accumulavano la gran parte delle ricchezze della famiglia, anche se il movimento dell’entrate e delle uscite si trovava a Lannisport, che invece era il cuore pulsante della famiglia Lannister, il luogo degli scambi e del prestigio. Il Leone Nero era stato un servitore leale della famiglia da sempre, e da sempre metteva una buona parola su tutto. Non c’era nessuno, da Constant a Lionel, da Axelion alla stessa Mirietta, cui Marcus aveva mai sentito dire qualcosa di male sullo zio Pylgrim. Il vecchietto faceva il suo lavoro supportato oramai da una significativa esperienza, e di conseguenza lo faceva anche bene. Non c’era una sola ragione per cui Mirietta potesse rifiutarsi di assecondarlo, salvo il suo capriccio di partire subito, perché – Marcus ormai l’aveva capito – lei adorava tutta quella situazione, adorava l’idea del nuovo continente, e adorava quella di potersi rendere utile, e dunque era sicuramente contrariata a causa di questo imprevisto dello zio al quale, d’altro canto, non aveva vere ragioni per dire di no. Mirietta inoltre era una fanciullina molto matura per la sua età, anche questo Marcus ormai doveva riconoscerlo. Non proprio una donna fatta e finita (solo l’idea lo faceva sentire già vecchio, raggrinzito e in punto di morte), ma una femmina abbastanza intelligente da capire che non era opportuno fare scenate senza senso davanti a un suo diretto sottoposto, questo sì. Anche se la bimba dentro di sé avesse voluto piangere e strepitare, e voler partire prima di subito.
                Marcus dal canto suo non si pronunciò: sapeva che sua sorella avrebbe fatto la scelta giusta, e la fece. Disse a Cauldron di preparare un piccolo manipolo: ritardare il viaggio all’occidente sì, ma ritardare anche quello per Castel Granito… per quale ragione?

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Capitolo 6
*** Da balia a Banfred ***


Capitolo 6
DA BALIA A BANFRED
 
 
 
                Garhel Sawela ufficialmente non era più un Lord. Era una di quel genere di cose che accadeva puntualmente al cambio di una dinastia: la modifica anche radicale di tutta una serie di organi costituzionali del Reame, e di conseguenza il suo intero assetto istituzionale. Questo re non era più un diretto erede di quelli che lo avevano preceduto, o almeno non degli ultimi dieci, o forse cento. Dunque erano cambiati gli interessi, e con essi le politiche. A questo re chiaramente, e così differentemente da Lionel Lannister (da qualche parte noto come “Lionel l’orientale”), dell’Essos non interessava granché. Non aveva interessi a fare nuove amicizie, né ad aprirsi in qualsiasi modo. Da quel momento in poi si sarebbe tornato alla più gelida delle relazioni: quella di tipo meramente economico. L’Oriente non era più parte del regno, tornava ad essere una semplice colonia da spremere come un limone, anche con l’uso della violenza se necessario. Questo re sottovalutava però un dato storico invece assai rilevante: grazie proprio a Lionel, l’Oriente non era più quello di una volta. Le elite avevano cominciato ad annusare nuovi odori, quelli non più relativi al solo scambio con la terra al di là del Mare Stretto, ma a tutti i vantaggi che derivavano dalla possibilità di poter amministrare direttamente i territori dei quali si ritenevano signore e padrone. E inoltre anche la gente comune non è che si fosse esattamente arricchita… ma certo da quando l’est aveva iniziato a far parte del Regno Unificato, qualcosa del comune benessere occidentale pure tra i morti di fame dell’Essos era cominciato ad arrivare. C’era più ricchezza nell’aria: sempre poca, troppo poca. Eppure l’Oriente ormai aveva iniziato a percepire concretamente come si stava al di là del mare: e quel cane non avrebbe mai più mollato la presa su quell’osso, questo Garhel lo sapeva bene. Sarebbe stato così anche a prescindere dalla sua azione: il popolo se ne sarebbe trovato un altro di capo della rivoluzione. E allora perché non cavalcare l’onda, visto che la sua vita era in quel luogo ed in quel momento?
                Lo smantellamento della comunità religiosa del predicatore Yashua aveva tuttavia causato non poche incognite. Un numero non facilmente calcolabile – eppure decisamente spaventoso – di sbandati era tornato a vivacchiare per le bancarelle di Marrah Cankhubhia, adesso perfino convinti di essere guidati dalla volontà di un qualche dio che presto o tardi avrebbe rivoltato la situazione. Tutto ciò andava chiaramente verso la direzione contraria che le trame di Justus Panecha avevano fin lì organizzato.
                Contrariamente a quanto si sarebbe potuto pensare, alla fine Sawela non aveva incontrato poi molte volte Lord Justus. Anche all’interno del Concilio Ristretto del Re, ai tempi di Lionel, in realtà si erano beccati ben poche volte. Sawela non adorava Roccia del Re: era splendida, e aveva una storia secolare, e tutto quanto, ma… sentiva semplicemente di non appartenervi. Era un luogo di lavoro e, quando per un intera giornata aveva dovuto passarci il suo tempo, poi alla sera avrebbe sempre voluto prendere il primo battello per tornarsene a casa, anziché doverci pure dormire in quella specie di grosso porto che puzzava di pesce, letame, e vecchie ossa di drago. Panecha, uomo decisamente di tutt’altra pasta, anche se in fondo provava il medesimo disagio, l’ho soddisfaceva in maniera diversa rispetto al semplice scappare via appena possibile. Lui spostava Marrah in occidente, soggiornando per mesi interi, e riempiendo Roccia del Re di animali che per quella gente erano esotici, di ballerine e prostitute, di sete pregiate e frutti rari: la corte di Lord Justus si era così via via trasformata in una specie di circo itinerante. Ma a conti fatti Sawela era stato a Roccia del Re molto spesso, molto più di quanto avesse mai desiderato fare. Panecha no: aveva visitato la capitale del Regno forse tre o quattro volte in tutto.
                Adesso tutto quello non contava più niente: con una semplice notifica a firma regia, era stato reso noto che non esistevano più all’interno del Concilio Ristretto né i Lord Ambasciatori delle Case più eminenti del Regno né i Lord Tribuni Popolari, a gran voce richiesti dalle plebi, e in particolar modo da quelle orientali, qualche decade prima. Era bastato un colpo di penna e l’est e l’ovest erano tornati ad avere i loro tradizionali pessimi rapporti. Evidentemente il nuovo re non godeva della stessa luce che aveva irradiato i suoi più immediati predecessori, oppure ancora più semplicemente erano i suoi consiglieri a non goderne. E Garhel Sawela non era più abilitato a dargliene, di consigli. Certo, l’est avrebbe prima dovuto risolvere tutte le sue questioni interne, se davvero voleva proclamare un’indipendenza che fosse poi difendibile dall’automatico contrattacco del fin troppo cieco sovrano del Westeros. E forse era proprio di questo che quel giorno Panecha gli avrebbe parlato, o almeno questo era ciò che Garhel aveva ipotizzato.
                La città-mercato era sempre più splendente a quell’ora del pieno meriggio. In realtà Garhel era originario di un piccolo villaggio un po’ più lontano, ma aveva visto Marrah Cankhubhia fin da adolescente, e ne era subito rimasto folgorato: si trattava di una massa di gente che viveva la gran parte della loro giornata stretta come in un caloroso abbraccio, che magari puzzava anche un po’ di scarso liquore e di sudore, ma che faceva sentire tutti a loro agio, tutti come degli stretti cugini, quando non proprio dei fratelli. A partire da un certo orario, in giro per qualsiasi strada della gigantesca città, si vedevano più bancarelle che abitazioni. Le abitazioni stesse si abbassavano e divenivano bancarelle e si moltiplicavano e si gettavano in quel gorgo affettuoso, quel caldo abbraccio, che le vie e le strade di Marrah altro non erano.
                Era da una vita che Garhel si domandava se Panecha conoscesse davvero la città di cui era divenuto, al termine di delle sanguinose guerre servili, l’indiscusso signore. Si vantava di esser stato un mercante di frutta secca, o di spezie, o di chissà quale altro prodotto (ma Garhel ricordava che si trattasse di alimenti), eppure – se davvero così era stato – dovevano esser passate decadi da allora: notoriamente il palazzo del sovrano degli elefanti era uno dei più splendidi mai costruiti, con la sua immensa pianta sviluppata in orizzontale, e le sue dozzine di giardini interni e le sue migliaia di palme e cactus. Pensare che chi lo abitava un tempo fosse stato povero, era davvero complicato.
                All’incirca quando il sole ebbe raggiunto il suo massimo punto di altezza nel cielo di Marrah, a Garhel Sawela fu concesso di entrare nelle stanze del re mercante, con il suo splendido abito color della sabbia acquisito con i danari dovuti allo stipendio di Tribuno Popolare, e la sua spilla a forma di serpente che ogni volta veniva conferita a qualsiasi ospite del palazzo. Panecha accoglieva i suoi ospiti sempre in una camera differente: il suo palazzo era costruito come un labirinto di giardini, scale e corridoi, cosa che chiaramente faceva parte di una strategia: un eventuale aggressore avrebbe trovato difficile riuscire ad orientarsi all’interno di quel nodo gordiano, cosa che naturalmente non risultava complessa né a Panecha né ai membri della sua famiglia e del suo staff, che in quel luogo ci vivevano.
                «Caro, caro Garhel» lo salutò affabile il grasso nobiluomo, sollevandosi dal suo sofà di morbidi cuscini e andandogli in contro; una lucida striscia di sudore che gli imperlava l’ampia fronte. Sawela ricambiò: «Lord Panecha». Quello lo osservò con uno sguardo complice e gli disse: «Lo sai bene… non siamo più dei Lord, quel titolo è decaduto ormai»
                «Sì lo so, ma non saprei come rivolgermi altrimenti»
                «Cosa ne dici di Justus? È vero, sono molto più anziano: ma i rispettivi ruoli che abbiamo assunto in questa città fanno di noi come dei… colleghi, non trovi?»
                «Non so di che “ruoli” stai parlando»
                «Suvvia, amico mio, io so benissimo qual è la situazione. So che sei diventato una specie di numero due all’interno di quella congrega di fanatici che era guidata da Yashua. E so anche che, per quanto tu probabilmente non detenga più il controllo di tutta quella massa che a lui si sottometteva, molti di loro continueranno a guardare a te»
                «A questo non avevo pensato»
                «Sì, come no. È incredibile come, sebbene all’apparenza certe cose cambino così radicalmente, in realtà talvolta le dinamiche che sottendono alle grandi forze di questo mondo continuino a rimanere sempre uguali. Non importa se i draghi vivano o ci abbandonino, la pioggia continuerà a cadere dall’alto verso il basso e il sole a scorrere da est verso ovest. Non importa che i continenti che galleggiano sul mare siano due o tre: al nord continuerà a far freddo, e al sud caldo. E non importa se sul trono di spade sieda un Lannister o un Targaryen, tu e io dovremo continuare a collaborare, che ci piaccia o meno. Ho bisogno di te per governare serenamente questa città, Garhel. E ho bisogno di governarla serenamente, se davvero siamo intenzionati a muovere guerra verso Pentos o verso Braavos»
                «Dunque ci sono i piani per una guerra, ma non ci sono gli avversari, mio signo… ehm… Justus»
                «Oh, certo che c’è l’avversario. Un nemico molto potente che da anni ci attanaglia e ci soffoca, depredandoci di tutte le nostre ricchezze e privandoci di tutti i nostri diritti, primariamente di quello che riguarda la nostra libertà»
                «L’autogoverno…»
                «E cos’altro, se no?». A quella domanda, Garhel Sawela non riuscì a trovare una risposta: quello che Justus Panecha stava dicendo era tutto vero. Ragion per cui, dopo un silenzio un po’ troppo lungo, fu lo stesso signore degli elefanti a continuare: «Il nostro nemico è il re del continente occidentale chiaramente, ma non sappiamo come le altre famiglie che stanno da questa parte del Mare Stretto possano mai reagire a una nostra eventuale proposta di amicizia. Entrambi i Lord Loackland e Goldsmith hanno soltanto da guadagnare con la loro vicinanza al re. I primi, insediati lì da Lionel stesso dopo un sanguinoso e fin troppo lungo periodo di lotte intestine atte a comprendere quale delle numerose famiglie di quella regione fosse la più conveniente. I secondi, il cui nome è così inscindibilmente legato alla più potente banca mai esistita e, tramite essa, alla famiglia il cui cognome probabilmente corrisponde a quello dei più arguti doppiogiochisti della nostra storia antica e recente: i Baelish della Valle. La partita è complessa, caro Garhel, ragion per cui ho la necessità di comprendere se la gente di questa città e di quelle vicine sia effettivamente dalla mia parte e… qualora non lo sia… se tu ce la puoi portare»
                «Ma tu… presumo che abbia già delle simpatie, non è così? Delle trattative intavolate con l’uno piuttosto che con l’altro degli altri due ambasciatore dell’est…»
                «Questo è probabile»
                «Non vuoi andare oltre con le tue informazioni? Vedi, Justus, mi chiedo che amici siamo se con me decidi di condividere solo quello che interessa a te? Sai com’è… la gente fuori da queste mura potrebbe insospettirsi»
                «Suona come una minaccia»
                «Non mi permetterei mai»
                «Facciamo così: prometto che sarai il mio più vicino consigliere, il più informato dei miei collaboratori, se tu prima… mi dimostrerai di essere degno della mia fiducia, facendo qualcosa per me e per l’intera città»
                «E questa… dovrebbe suonare a me come una minaccia?»
                «Dipende da come la interpreterai. Bada: è una storia molto curiosa…»
                «Procedi»
                «Qualche giorno fa, un mio referente si trovava presso le coste del nostro continente che si trovano davanti l’arcipelago valyriano»
                «Oh, no… ancora la dannata città perduta…»
                «Sì, ancora lei… non le sarebbe stata assegnata quell’accezione se non fosse continuamente caratterizzata da eventi inspiegabili, misteriosi»
                «E che cosa è capitato adesso?»
                «Quelle medesime acque che così innaturalmente avevano cominciato a perturbarsi mesi orsono, senza mai arrestare la loro rabbia, e questo indipendentemente dal fatto che il cielo sopra di loro fosse sereno o in tempesta, ora si sono calmate»
                «Curioso, ma di certo non interessante: mandaci qualcun altro»
                «Calma, figliolo: non ho concluso. Conscio del mio altamente probabile interesse in merito alla situazione, visto che qualsiasi cosa concerna Valyria prima o poi va a inferire con il nostro suolo, i nostri porti e i nostri mercanti, il mio avveduto referente ha pensato bene di proseguire: ha preso un traghetto e ha raggiunto l’arcipelago. E allora quello che ha veduto, lo ha decisamente tramortito…»
                «Ovvero?»
                «D’improvviso su quelle terre, è come se dall’oggi al domani fosse venuta fuori una foresta. Una flora incredibilmente rigogliosa ha arricchito una terra che forse da millenni era… diciamo brulla. Il luogo che forse più d’ogni altro su questa terra era legato al concetto di marcio e morte si presenta oggi come… pimpante e ricco di vita»
                «E questa non dovrebbe essere una buona notizia per te? Si tratta di luoghi che teoricamente sono stati ascritti alla tua diretta giurisdizione: puoi farne territorio coltivabile»
                «Sono ascritti alla mia giurisdizione perché nessuno li voleva, Garhel»
                «Insomma: vieni al dunque!»
                «Non è l’esuberanza della natura in sé che mi spaventa, è l’inaudita rapidità con cui essa si sia manifestata. Questo, unitamente alla condizione in cui il mio referente è tornato: ferito nello spirito e nel corpo, grondante sangue e in preda a un delirio che lo faceva parlare di alberi semoventi e liane assassine. Se a questo ci aggiungi che a partire in realtà sono stati in tre, e che solo uno sia ritornato… comprenderai tutti i miei crucci. Tu sei un guerriero, Sawela, io un mercante. La mia arma è sempre stata la lingua, la tua la sciabola, dunque per quanto mi riguarda sei tu l’esperto. Chiedi quello che vuoi: dieci uomini? Venti? Io non ne ho idea se per una spedizione simile sia meglio essere in pochi o molti… ma mi necessita qualcuno di fiducia, e qualcuno… che sia in grado di ritornare»
                «Ma perché io, Justus? Se, come dici tu, sono la tua controparte nel governo della città, insomma… potrei essere tuo nemico. Potrei rivoltarti contro la gente in qualsiasi momento, eppure…»
                «Una massima politica che tutti i governatori saggi del mondo conoscono, o dovrebbero conoscere, è che se i tuoi avversari non puoi batterli, allora devi unirti a loro. E tu, Garhel? Tu pensi di potermi battere?»
                «Questo non lo so, ma posso dirti che la gente nella tua città muore di fame e osserva tutti i giorni te e altri pochi vivere nel lusso e nell’oro e questo, caro mylord, è un tappo che sta per saltare. E non ci sarà strategia politica, o alleato, che tu potrai chiamare quando ciò accadrà»
                «Allora… dobbiamo prendere tutta questa energia e convogliarla verso nuovi orizzonti. Insieme. Che la gente povera di questa città comprenda che non sono i pochi ricchi che la governano a detenere il vero potere, e con esso le chiavi delle loro catene. Esse sono molto lunghe e i loro ceppi si trovano nel Westeros»
                «Tra la povera gente non molti sono in grado di comprendere questo»
                «Tuttavia molti saranno in grado di comprendere quello che tu gli dirai. Ma prima viene Valyria». Nel corso della conversazione, il vecchio ex Lord mercante si era spostato con disinvoltura dall’area dell’ingresso in cui aveva accolto Sawela a nuovamente i comodi divani da cui era partito, dopodiché si era alzato di nuovo e adesso con nonchalance osservava delle carte che si trovavano su un ampio tavolo in legno pitturato di rosso. «Allora?» proseguì «Quanti uomini?»
                «Se abili, anche pochi» rispose Garhel Sawela «Due o tre»
                «Abili in cosa?»
                «Ricognizione»
                «Adesso sei troppo specifico… ne ho di piccoli e silenziosi»
                «Se è quello che puoi darmi»
                «Sì, è quello che posso. Porterai mio figlio con te»
                «Che cosa?!»
                Era stato con lo sguardo completamente rivolto ai suoi documenti che Justus Panecha aveva affermato quelle parole. Piano, come se si fosse trattato di una cosa da poco, e comunque già decisa. Il tono fu esattamente il medesimo quando ripeté: «Ho detto che porterai mio figlio con te»
                «E tanti saluti a tutto quel grazioso discorso sulla fiducia, la reciproca collaborazione e via dicendo, giusto?»
                «Non capisco di che parli»
                «Tu non mandi me quale tuo referente a Valyria, tu mandi Banfred»
                «No, mio signore, ti assicuro che stai travisando»
                «Il mio compito è di fargli da balia, non è così? Un cane da guardia, niente di più. Beh, vecchio mio, se pensi di cercare di darmi dei comandi, anche se velati da melliflue parole, come se io fossi uno qualsiasi dei tuoi servitori…»
                «Garhel, Garhel… un attimo solo…»
                «No, mio signore: in questa faccenda ci sono troppe condizioni dettate da una parte sola, e io tutto nella mia vita sono stato, tranne uno che prende ordini». Detto ciò, Garhel Sawela diede le spalle al gran signore e fece per andare, piuttosto rapido, fuori dalla sua porta.
                Fu costretto a fermarsi quando Lord Panecha gli disse: «Ti porterò con me, a Braavos. Quando il tavolo delle trattative sarà ufficialmente aperto, così come una buona corrispondenza coi Goldsmith ha fino ad ora lasciato intendere, la parte popolare di questa città parteciperà al negoziato. La sua presenza sarà assicurata da me, mediante la rappresentanza dell’ex Tribuno Popolare Garhel Sawela»
                «Hai già pianificato tutto, vedo»
                «Solo il necessario» concluse il re mercante, aggiustando la spilla a forma di serpente sul petto del suo ospite, «Ma va da sé che mio figlio dovrà tornare dalla vostra avventura valyriana sano e in salute»
                «Va da sé» confermò Garhel, grattandosi la gola, sotto la folta barba nera, mentre parte del suo pensiero andava alla strana opinione che via via si andava facendo di quell’uomo. Non capiva se più lo invidiava per il suo essere così intelligente e navigato nelle cose del mondo e della politica, o più lo odiava per il suo essere così smaccatamente manipolatore, e perché da sempre soprattutto cercava di manipolare lui e, suo malgrado, spesso ci era anche riuscito: Sawela non poteva negarlo questo. La verità era che nel bene o nel male gli interessi suoi e quelli del re degli elefanti troppo spesso avevano combaciato; e Panecha sapeva meglio come difenderli. Se le cose fossero andate per come Garhel avrebbe fatto, troppo spesso sarebbero finite nella polvere, quando non proprio nel sangue. Meno male che Marrah Cankhubhia aveva Justus Panecha! «Di’ ai tuoi uomini piccoli e silenziosi di raggiungermi al tramonto. Immagino che le tue spie sapranno dove…»
                «Le sopravvaluti, temo»
                «Allora correremo questo rischio» finì l’ex Tribuno Popolare, giusto per il gusto di provocare: sapeva benissimo che le spie di Justus Panecha sarebbero state in grado di contare anche le volte che in una giornata lui visitava il gabinetto.
                Ma al di là di qualsiasi ironia, Garhel era invece piuttosto contrariato. Con quel ricatto camuffato da offerta che lui non aveva potuto rifiutare, e che avrebbe riguardato la sua eventuale presenza a un futuro tavolo delle trattative con i Goldsmith di Braavos, Panecha lo aveva raggirato come al suo solito. Ma il vero punto della questione era che la riunione coi Goldsmith sarebbe avvenuta in futuro, mentre la sua discesa nella oscura Valyria, a far da balia al principe Banfred, sarebbe avvenuta subito. E in tutto ciò, Garhel doveva anche sopravvivere ai pericoli che avrebbe trovato nell’arcipelago del sud, qualsiasi essi fossero stati. E sopravvivere solo dopo Banfred, perché se Banfred moriva, allora tanti saluti non solo alla trattativa coi Goldsmith, ma anche probabilmente a tutti e quattro i suoi arti, o magari alla sua testa. Garhel era un guerriero abile ed esperto, e non aveva ragioni per non provare fiducia nelle sue stesse capacità… ma quello che poteva trovare a Valyria non poteva saperlo, ed era questa incognita che lo spaventava più di tutto. Da sempre la vecchia città morta esercitava su di lui, come a suo parere anche sulla gran parte degli uomini che abitavano il sud del continente orientale, uno strano potere: ne provava orrore, eppure ne era attratto. Sentiva che in quei luoghi avrebbe trovato la morte – una sensazione talmente vivida da apparire quasi come una certezza – eppure desiderava, anelava, agognava di andarci. Poche volte c’era stato, ma ogni singola volta era stato come se avesse visto solo una parte di quello che avrebbe potuto o dovuto vedere, e quello che c’era lì andava invece visto e capito per forza interamente, o almeno Garhel sentiva che lui doveva vederlo, respirarlo, toccarlo, averci a che fare in tutti i modi umanamente possibili. Era strano il rapporto che un uomo del sud dell’Essos aveva con la città perduta, ma decisamente non raro: Sawela si era confrontato spesso con uomini e donne di tutte le estrazioni sociali e – ciascuno a modo proprio – tutti avevano confermato questa ambigua circostanza.
                Uscendo dal palazzo orizzontale dei Panecha, Garhel non poté fare a meno di osservare il lungo arazzo appeso sulla parete del corridoio di uscita. Lo conosceva bene, lo aveva visto diverse volte, e sempre la sua lunghezza spropositata lo aveva impressionato. Ma questa volta l’attenzione dell’ex Tribuno Popolare non ricadde su essa; si concentrò sull’ultima parte dell’arazzo, quella maggiormente in prossimità alla porta. Lì da sempre se ne stava ricamato Lord Justus, con i suoi elefanti e gli schiavi che teoricamente aveva reso liberi grazie a quelle celeberrime guerre servili che avevano insanguinato il continente qualche lustro prima. Accanto a lui, piccolino, nell’ultimo posto disponibile prima di un rimaneggiamento tessile, se ne stava la figura del giovane Banfred, il figlio primogenito ed erede di Panecha. Quest’ultimo avrebbe potuto piazzare suo figlio dovunque nel suo arazzo, il cui protagonista assoluto era lui soltanto, in mille delle sue imprese – molte delle quali inventate ad hoc – eppure aveva scelto di metterlo all’angolino: perché Banfred era brutto, grasso come lui ma molto meno imponente, ed era viziato e non molto intelligente, e la gente non lo amava. Ci stava lavorando Lord Justus e da un pezzo anche (una ventina d’anni il giovanotto ormai avrebbe dovuto averli), e probabilmente il mandarlo a Valyria era un altro dei tentativi che il ricco re mercante stava provando per fare di suoi figlio un politico valido anche solo la metà di suo padre, ma proprio non ci riusciva: questo era palese. Che poi Banfred non era neanche così malvagio, a parer di Garhel che l’aveva conosciuto; viziato sì, ma niente di irrecuperabile… solo che era molto stupido, e profondamente, quasi visceralmente, impopolare. Banfred era il tipo di re che, asceso al trono dopo un padre carismatico, non riesce a reggere il confronto e finisce per combinare qualche danno, come minimo a se stesso, quando non pure agli altri. E con quello Garhel doveva andare a Valyria: quel giovanotto grassoccio, inceppato, lento di andatura e comprendonio, slavato e sudaticcio che Banfred Panecha altro non era. La vera impresa non sarebbe stata scoprire cosa stava succedendo a Valyria, bensì tenere Banfred al sicuro…
                Riconsegnò la maledetta spilla a forma di serpente e se ne tornò al covo dove aveva in programma di condividere una cena con i suoi più vicini amici e alleati.
                A loro Garhel Sawela riferì il tutto, così come sempre faceva: non sapeva bene chi avrebbe preso il suo posto in caso di una sua non poi così improbabile, anche se malaugurata, dipartita, ma certo qualcuno avrebbe dovuto farlo e dunque era necessario che quel qualcuno fosse a conoscenza di tutte le informazioni, e in particolare della promessa di Panecha di far partecipare la “fazione popolare” di Marrah alle trattative con i Goldsmith di Braavos. Dopodiché il pomeriggio passò rapidamente, come sempre accade quando si è in buona compagnia: quegli uomini, ancor prima che i discepoli e in qualche modo i “commilitoni” di Garhel, erano i suoi amici. Alfine giunse il tramonto, con i piccoli e silenziosi emissari di Panecha al suo seguito e il giovane grassoccio Banfred a rendere tutto il quadretto tanto ufficiale quanto preoccupante. Alla sera la compagnia si mise in viaggio, alla tarda notte si misero a riposo e nel primo pomeriggio dell’indomani erano già giunti presso la costa. Si misero in mare che il sole picchiava forte e l’’acqua era piatta come una tavola: quella era una delle ragioni per cui Garhel ringraziava sempre l’unico dio per averlo fatto nascere laddove era nato; quel mare meraviglioso e brillante al bagliore del sole come l’acciaio di una lama ben arrotata.
                Fu ancora sopra la zattera mezza scassata che avevano preso per raggiungere l’arcipelago, che videro la prima delle tante cose assurde che si aspettavano. Fu impossibile non notarla, visto il fragoroso urlo rombante che la precedette. Il primo pensiero naturalmente, date l’assoluta rarità del ruggito e la sua provenienza apparentemente dalla volta celeste, andò ai draghi, e al loro glorioso passato, così inscindibilmente legato alla città morta che stavano per visitare. Poi lo videro: una cosa che non solo sicuramente nessuno aveva mai veduto, ma che neanche le cronache antiche contenevano… un uccello gigante, fatto solo di ossa e cartilagini. Terribile alla vista, così come terrificante era stato il suo urlo demoniaco. E il suo volo era orientato esattamente nella medesima direzione cui anche la compagnia di Sawela era diretta. Perfino Banfred si accorse quest’ultima cosa, e infatti incominciò a piagnucolare, dicendo che bastava quello che avevano visto e “comandando” di andarlo subito a raccontare a suo padre: Garhel si morse le mani pur di trattenersi dall’assestargli i due sonori ceffoni che si meritava. In realtà la sua era una tensione se possibile perfino peggiore rispetto a quella del principino, e delle sue piccole e silenziose guardie del corpo. Lui aveva visto chi teneva le redini di quel mostro fatto di ossa. E subito la sua memoria andò alle ultime settimane in cui era stato con il maestro Yashua, quelle in cui un Cavaliere della Chimera dal titolo principesco – e il cui cognome era Lannister – era stato inviato da Panecha per aiutarlo a far luce sulla congrega di fratelli che il prete figlio del Dio Rosso era riuscito in un tempo relativamente breve a riunire. In quel tempo, grazie alle superbe doti del predicatore, quel mostro dai capelli di neve e il teschio nero era stato perfino loro prigioniero. E adesso invece era libero e volava verso Valyria. Sawela stava perfino per rivelare ai suoi momentanei compagni di tutto quel discorso del diavolo dai poteri di ghiaccio, quando si rese conto che non c’era motivo… e dopo aver risposto alla domanda: «Ma che diavolo di uccello è quello?», con un: «In realtà non è neanche questo che mi preoccupa», riuscì subito a riparare la situazione. Il suo interlocutore, uno dei due piccoli e silenziosi, tornò a domandargli: «E cosa allora?». E lui rispose: «Se quel coso non ha penne e piume… cos’è che lo tiene in aria?».
                Decise che, qualsiasi cosa stesse per accadere, sarebbe stato molto meglio coglierla in flagrante. Urlò ai due piccoli e silenziosi – e a partire da un certo momento pure a Banfred stesso – di remare con quanta più forza possibile e fu così che riuscirono a tenere il passo dell’uccello gigante: a un certo punto lo persero ovviamente di vista, ma quando raggiunsero la terra non dovevano essere passati molti minuti dall’atterraggio del mostro volante e del suo glaciale cavaliere.
                La compagnia si sarebbe naturalmente soffermata per un tempo maggiore sulla rigogliosa foresta che dal nulla era spuntata su quell’isola, e Banfred in effetti una breve constatazione la fece, ma quasi da subito i quattro avventurieri non poterono non dirigersi verso la zona in cui si udiva chiaramente uno strano trambusto. Quel luogo era come un paradiso incontaminato, eppure c’erano cose che stavano combattendo da qualche parte…
                Costantemente protetti da cespugli e frasche che sbocciavano rigogliosi sostanzialmente su ogni punto della spiaggia, alla fine Garhel Sawela, Banfred Panecha e quegli altri due riuscirono a raggiungere un punto da cui bene osservare cosa stava accadendo sotto di loro, senza altrettanto bene essere visti. Il diavolo di ghiaccio stava cercando di prevalere con tutte le sue forze su… un nemico che Sawela non avrebbe saputo definire diversamente da “l’isola stessa”. Più quel mostro dal teschio nero e lame di indistruttibile ghiaccio alle mani provava a rendere tutto attorno a sé sterile e ghiacciato, più la natura reagiva coprendo lui e quello che lui creava di nuova rigogliosa erba fresca. Era uno spettacolo chiaramente assurdo, eppure era questo che stava accadendo, e il demone di ghiaccio pareva peraltro che si stesse affaticando parecchio. S’affaticò talmente tanto, che a un certo punto la natura rigogliosa lo dominò definitivamente, ricoprendolo di radici e rami e liane e conducendolo rapidamente via da quel seno sul mare; tanto rapidamente che sparì quasi subito alla vista di Sawela, il quale non poté che rinunciare a un inseguimento.
                L’ex Tribuno Popolare stava giusto chiedendosi che fine avesse fatto l’enorme uccello di ossi, ormai senza padrone, quando cominciò a sentirsi come osservato… solo in quel momento si rese conto che i fiori dai vividissimi colori che sbocciavano dal suolo e dal cespuglio a lui di fronte appartenevano a una categoria che lui non aveva mai visto. I petali non parevano sottili e delicati come quelli di una comune margherita, ma grassi come la polpa di un frutto succoso. E poi erano sette… quale dannato fiore al mondo aveva sette petali? Per un attimo, si sentì un pazzo, eppure ebbe come la sensazione che quei grossi inquietanti fiori a sette petali… lo stessero osservando…

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Capitolo 7
*** Due abili politicanti ***


Capitolo 7
DUE ABILI POLITICANTI
 
 
 
                Quel mattino di buon’ora, il Lord Maestro dei Sussurri Alexis Braff si alzò dal letto con tutta la determinazione di chi vuole concludere la partita da vincitore. Da troppo tempo stava deludendo il suo re e padrone, e questo naturalmente gli causava tutte le prevedibili conseguenze – dalle urla forsennate di Gabryaerys al sorrisetto compiaciuto di Tararus, il Primo Cavaliere in grado di usare la forza di un cielo in tempesta – ma stava deludendo soprattutto se stesso, e questo sì era davvero inaccettabile: questione da non farlo perfino dormire la notte.
                Inutile negare che le cose fin ad allora non erano andate come prospettato: il signore della Valle, Petyr Baelish trentottesimo, aveva declinato l’offerta del re di sedere nel suo nuovo Concilio quale Maestro del Conio, cosa a dir poco preoccupante. Da secoli ormai il dominio della Valle coincideva con l’Incollatura, e i nobili signori che risiedevano nella palude tra il nord e il sud del continente erano legati a un filo troppo doppio con Baelish: in primo luogo per ben radicate e quasi incrollabili motivazioni di natura economica. D’altro canto, Baelish era notoriamente il Lord più ricco dell’occidente, di sicuro molto più di un sovrano Targaryen appena insediato, e probabilmente solo di poco meno dell’intera istituzione monarchica e della città che ne era la Capitale. Il Lord di Baelinstratth aveva addotto come ragione del suo rifiuto una semplice volontà di tornare al suo territorio di riferimento al fine di accudire tutto un nutrito gruppetto di figlioli e nipotastri – la metà dei quali di nome Petyr – da cui a suo dire per troppo tempo era stato lontano. Ma uno che di politica del Westeros un pochino ne sapeva avrebbe serenamente concluso che queste altre non erano che stronzate, e che un Lord il quale anziché farsi vicino al nuovo re va a rintanarsi nella tana dove è più sicuro, desta il neanche troppo celato sospetto che sente puzza di guerra, o comunque di affari sospetti, e dunque si prepara a ben altro.
                Il sostituto era stato quasi fin da subito trovato in Senus Willoughby, il quale avrebbe garantito perlomeno la vicinanza dei potenti Worchester del Nord, e che infine avrebbe lasciato il solo demone degli elementi ad occuparsi dell’esercito, con la promessa di mantenere per sé almeno una funzione di ausilio e controllo. Ma Gabryaerys – come d’altro canto Braff diversamente non si sarebbe mai aspettato – era comunque andato in escandescenze, percependo anche lui che un Baelish lontano dalla Capitale fosse un Baelish pericoloso. Lord Braff non seppe che dirgli, in effetti in questo caso il re – al di là dei toni – tutti i torti non li aveva, e dunque si prese il rimprovero e rimase in silenzio a rimuginare tra sé.
                Con il Gran Maestro Irwin le cose sarebbero senza dubbio andate diversamente: Irwin non deteneva un potere territoriale e non aveva una roccaforte nella quale rinchiudersi, fatti salvi i suoi appartamenti a Roccia del Re. E oltretutto Irwin non aveva un esercito. In teoria non c’erano davvero ragioni per cui il colto giovine avrebbe dovuto rifiutare una sua riconferma da parte del nuovo re; ma dato che con Baelish Braff aveva prospettato una cosa e poi era andata in maniera decisamente differente, adesso il Maestro dei Sussurri si guardava bene dal sentirsi in tasca vittorie che tecnicamente non aveva: magari anche Irwin avrebbe accampato una scusa per defilarsi dalla responsabilità di un’amicizia ingombrante come quella con Gabryaerys Naharis, anche se al momento Braff non riusciva a immaginarne le eventuali ragioni.
                Quel mattino di buon’ora, Braff si alzò dal letto con tutta l’intenzione di non permettere al Gran Maestro di dirgli di no. Scelse la sua migliore cappa e preparò il più sfavillante dei suoi sorrisi. E così armato, bussò alfine alla porta del Gran Maestro. Sapeva bene che quest’ultimo, così come d’altronde anche Baelish, era dal canto suo un buon politico, e infatti anche il Gran Maestro lo accolse con un gran sorriso che lo stesso Lord Alexis avrebbe giudicato perfino più sincero del suo. Come con Baelish, sarebbe di sicuro stato un duello non poco interessante.
                «Lord Maestro dei Sussurri» salutò Irwin.
                «Mylord Gran Maestro…»
                «Desideri che faccia portare qualcosa?»
                «No grazie, ho già fatto colazione… ehm… tu immaginerai già perché sono qui»
                «Ma certo: la riconferma»
                «Sì, è così»
                «Ammettiamolo, Braff: questo nuovo re non ha molti amici. E un re senza amici… non rimane re a lungo. Non lo dico per minacciare, beninteso. Lo dico per ammonire»
                «Beh, pensi davvero che io avessi bisogno di tale monito?»
                «No, ma certo»
                «E tu, Gran Maestro? Pensi che potrai essere un amico di questo nuovo re?»
                «Io non ho ragioni per lasciare le mie mansioni. Tuttavia mi pare ovvio che quando si conclude un accordo, è il caso di fornire l’un l’altro delle garanzie… io garantisco che sarò fedele a Gabryaerys, e così le scuole e gli ospitali del Regno»
                «Però?»
                «Però… mi sento in dovere di pressare il Concilio di cui farò parte, e con esso il re che servirò, in merito a una questione di pubblico interesse che da un paio di settimane suscita le mie preoccupazioni, come anche spero… le tue, Maestro dei Sussurri»
                «Di che si tratta?»
                «Le tue spie… immagino ti abbiano già informato in merito a un certo sommovimento di carattere spirituale che sta sconvolgendo i sudditi di questa città, no?»
                «Ti riferisci al nuovo predicatore i cui miracoli stanno facendo scalpitare la plebaglia?»
                «Esattamente»
                «Va bene, ma io tendo a non credere a magie che non ho avuto modo di osservare coi miei occhi»
                «Questo non ha alcuna importanza. Quell’uomo sta cercando di sovvertire un sistema secolare in un momento della vita di questa città che… beh, spiacerà saperlo al nostro buon nuovo re, ma bisogna ammetterlo: in questo momento Roccia del Re assomiglia a una polveriera»
                «Ancora… non capisco dove vuoi arrivare…» fece Braff, ma invece proprio in quel momento stava finalmente capendo tutto. Per una qualche ragione sulla quale non era stato in grado di venire esattamente a capo, esisteva una sorta di rapporto preferenziale tra il giovane e fresco Gran Maestro della città e l’uomo che in quel momento ricopriva la più alta carica religiosa del regno, l’Alto Septon dei Sette Dèi. Era una cosa… molto oscura, di cui si parlava pochissimo e su cui Braff aveva avuto non poche difficoltà a trovare validi sussurri veramente chiarificatori, eppure adesso il dato era sicuro: il Gran Maestro proteggeva l’Alto Septon, e l’Alto Septon proteggeva il Gran Maestro.
                Fu lo stesso Irwin a proclamare con una certa innocenza: «Il mio amico, l’Alto Septon, è molto preoccupato. Ogni giorno vede sempre meno fedeli assistere alle sue messe, e suoi collaboratori lo informano che il popolo di Roccia del Re è confuso e pieno di dubbi. Inoltre, quattro egregi suoi confratelli, più un giovane novizio, parrebbero scomparsi nel nulla da quando egli decise di inviarli a parlamentare con questo nuovo sedicente profeta. Quest’ultimo episodio ha naturalmente sconvolto il religioso, il quale domanda più certezze: vuole che i suoi fedeli ritornino ai Sette, e soprattutto vuole sapere cosa ne sia stato dei suoi confratelli e del novizio»
                «E naturalmente non possiede la forza di scoprirlo da solo, certo»
                «Mylord, oltre che ovviamente scoprire tutto ciò… l’Alto Septon non sgradirebbe un intervento… come dire… incisivo della Corona in merito alla questione. Questo losco figuro di nome Yashua parrebbe aggirarsi nei quartieri più pericolosi della città, e non sarebbe difficile pensarlo come a un… ben protetto criminale»
                «Ah, allora è questo che vuole l’Alto Septon» “e con lui anche tu”, pensò il Mestro dei Sussurri, «Vuole che la Corona gli presti la mano armata di cui lui non dispone»
                «Signore, è pur sempre di un uomo di fede che stiamo parlando… non richiederebbe simili servigi, se la cosa non riguardasse profondamente la lotta per la salvezza dell’anima di questa città»
                «Certo» confermò Braff, non trattenendosi però dal mostrare una certa ironia, «Solleverò la questione personalmente al re, il quale – da me consigliato – non credo opporrà resistenze di genere. Tuttavia, Gran Maestro… prima di andare, non posso esimermi dal porti un’ultima domanda…»
                «E io non mi esimerò dal risponderti, se posso»
                «Hai detto che tu e l’Alto Septon siete amici» Braff sapeva che probabilmente su quella questione non avrebbe ottenuto chissà quale chiarezza da Irwin, ma pensò che in fondo non ci fossero ragioni per non tentare, e comunque non riuscì a resistere, «Mi ragguaglieresti un po’ meglio in merito? Egli è un uomo non anziano come il tuo predecessore – il Gran Maestro Septimus – ma certo nemmeno nel fiore degli anni, mentre tu sei il più giovane Gran Mestro della storia di Roccia del Re. Egli ha fatto una carriera diversa dalla tua: lui è un uomo di fede e tu uno di scienza. Per cui… mi sfugge questo legame»
                «Scienza e fede non sono nemiche, Lord Braff» rispose quello, nella maniera più furba e odiosa che il Maestro dei Sussurri mai si sarebbe aspettato, «Anzi, dirò di più: per tutto un periodo della storia degli uomini, esse hanno collaborato talmente strettamente da quasi combaciare. Poiché che cos’è infine la fede, se non un tentativo di conoscere cose su cui ancora non sia stato bene approntato un più sicuro metodo analitico?»
                «Peccato»
                «Peccato per cosa?»
                «Avevo sperato in un’apertura, un piccolo passo che tentasse di instaurare tra noi un’amicizia, è per questo che ho voluto farti una domanda personale, una domanda alla quale certamente non eri tenuto a rispondere. Tu però non ti sei aperto, Gran Maestro Irwin. Hai voluto usare con me il vecchio trucco delle belle parole che tra abili politicanti sappiamo bene adoperare. Questo significa che tra noi due, per il momento, continuerà ad esserci esclusivamente un rapporto da collaboratori, colleghi nell’infausto compito del governo di una città che… qualcuno mi dice, di recente sia sempre più simile a una polveriera. È un peccato, ma va bene così» detto ciò, Lord Braff porse la mano al “collega”, lieto di vedere finalmente una – seppur trattenuta – espressione di perplessità sul suo viso. Era convinto che quell’Adlai Irwin, date le impressionanti condizioni di partenza, sarebbe stato un ottimo partecipante a quel “gioco del trono”, ma purtroppo la sua esperienza non era neanche minimamente comparabile a quella di Lord Braff. Lui a quel gioco ci giocava da un’era.
 
 
 
                Daniel di Cowain era di nuovo un uomo libero. Beh non esattamente libero, ma visto che nella vita aveva perfino sperimentato la condizione della totale immobilità, della impossibilità di parlare, di esprimersi in qualsiasi modo, perfino di sentire i suoi stessi polmoni contrarsi e poi dilatarsi nell’atto del respirare, o la sua stessa pelle nell’atto di entrare in contatto con qualsiasi altra cosa al mondo, quando si è sperimentato tutto ciò… il semplice tornare a muoversi, camminare e parlare gli pareva già da solo assumere il più pieno significato di “libertà”.
                Certo, era ancora in ceppi: due grosse ganasce di ferro gli stringevano le caviglie, connettendole tra loro con una catena. E certo, era ancora costantemente sorvegliato: il tempo passato da guerriero Piromante gli era stato sufficiente per far di lui uno che si accorgeva di quando qualcuno lo osservava e da quando Worchester aveva permesso il suo rilascio, c’era sempre stata una guardia per lui, con l’aria feroce e l’orso rampante inciso da qualche parte sugli indumenti. Oltretutto la Pietra di Luna non aveva mai realmente lasciato il suo corpo. Sostanzialmente era stata spaccata fino a lasciarne grossomodo una biglia; poi la biglia era stata trascinata fino alla gamba e lì incastonata e serrata insieme con il ceppo che bloccava la sua caviglia destra. Ciò aveva permesso che lui tornasse a muoversi e parlare, eppure continuava ad impedirgli di produrre le sue magie di fuoco: Daniel non ci aveva provato esattamente subito, appena finita l’operazione quel giorno tra le nevi del campo antistante il castello di Biancavilla, però non appena si era reso conto di quello che era successo, aveva provato e… la magia semplicemente non era venuta. Anche questo erano stati in grado di fare quei dannati libri della biblioteca di Amergoth, scrupolosamente custoditi dall’orrendo Lord dei Worchester.
                Uryon era come sparito. Prima, quando Daniel era sostanzialmente un vegetale, lo andava a trovare quasi ogni notte, inscenando per lui interessanti teatrini che si sostanziavano in dissertazioni di carattere generale sulle materie più variegate: la politica innanzitutto (Uryon era chiaramente un politico raffinatissimo), ma anche il diritto, la storia, la filosofia, la religione, l’astronomia; l’enorme uomo dall’aspetto d’un orco era pure in possesso di qualche nozione di botanica e di zoologia. Praticamente poteva dirsi che pure in quello l’orso del nord fosse “un mostro”. Eppure, da dopo l’operazione di riduzione della Pietra di Luna, egli si era come volatilizzato dal castello. Non solo non era più andato a trovare Daniel, ma neanche il principe Piromante aveva avuto modo di intravederlo in giro per la magione, e Lord Worchester non era certo il tipo che passava inosservato…
                Era pur vero che Daniel era sempre un prigioniero e come tale veniva trattato, anche se un prigioniero di riguardo: non è che poteva andarsene in giro per tutto il castello; c’era un’aria selezionata che andava dalla camera da letto alla latrina, da una sala dove normalmente gli veniva servito il desco a uno stretto giardino che conduceva al parco degli dèi, con un imponente albero-diga al centro. Quel tipo di strutture avevano perso la loro funzione teologica da lungo tempo ormai: persino gli uomini del nord adesso veneravano il dio dai sette volti. Dunque quei luoghi non erano altro per Daniel oltre che un posto nel quale passeggiare e prendere un po’ d’aria fresca. Nei confronti degli stessi Sette Dèi d’altro canto il principe di Cowain nutriva non pochi dubbi.
                Accadde però che un giorno freddissimo – ma particolarmente caldo visti i precedenti che si erano susseguiti tra le mura di quel maledetto castello in quello stramaledettissimo nord – infine il Lord degli orsi decise di tornare a visitare il suo pregiatissimo prigioniero. «Spero vivamente» fece Lord Uryon, cordiale ma diretto, entrando nella sua camera dopo che Daniel gli aveva dato il permesso di farlo, «che considererete di dire sul mio conto ciò che vorrete – ma che di sicuro io sia un uomo di parola – quando sarete di nuovo libero». Uryon pronunciava male le “s” e anche le “r”, Daniel ormai aveva imparato a conoscerli quei difetti del suo carceriere. Il Lord degli orsi continuò: «Avevo promesso che mi sarei adoperato per farvi uscire da quella condizione larvale… abbiamo letto i libri che c’erano da leggere, abbiamo studiato quello che c’era da studiare… e ora… siete ancora un prigioniero, ma un po’ più libero»
                «E quando lo sarò del tutto» rispose Daniel con tono orgoglioso: lui era pur sempre un principe della casa reale, che Worchester intendesse riconoscerlo o meno, «un uomo libero?»
                «Questo non posso saperlo, mi dispiace. Abbiamo già avuto modo di parlare di politica, voi ed io. Vi ho detto che forse è l’arte più complessa fra tutte perché nel momento in cui ne si svelano gli arcani… la si indebolisce. È una scienza che si connatura di menzogne, la politica. Se non è menzognera, non è politica. O perlomeno non buona»
                «E quante menzogne avete detto voi a me da quando sono vostro prigioniero, Lord Worchester?»
                «Quelle necessarie, Daniel di Cowain, che fu principe della casa reale»
                «Non si cessa mai di essere membri di una casa reale, lo si è per diritto divino»
                «Già così raccontano le ballate, non è vero? Eppure Gabryaerys adesso è il re, un re che vanta nientemeno il sangue di un’antica dinastia la cui legittimità si fonda laddove si annienta la vostra. E dunque chi è il vero re? Vi avverto: non vi conviene sfidarmi per quanto concerne la storia dei Sette Regni, ho passato rinchiuso in una biblioteca metà della mia vita»
                «Dunque che ne farete di me?»
                «Intanto mi assicurerò che non andiate in giro per il mio regno ad abbrustolire cose o persone, eheheh». Era più forte di lui: quando Uryon rideva, Daniel provava orrore. Sapeva che non era garbato, che non stava bene, ma quell’uomo aveva i detti aguzzi, come gli animali predatori. Proprio come quegli orsi che si trovavano suoi stendardi e i suoi vessilli. Solo che per la prima volta, al suo orrore corrispose un’espressione sul suo volto; e per la prima volta Lord Worchester ebbe moto di notarlo. Non la prese bene, ma non reagì con rabbia, anzi… chinò il capo e apparentemente ferito disse: «Io vi spavento, mylord… Diamine, ho avuto la noncuranza di dimenticare che oggi per la prima volta voi potete reagire alla mia presenza. Eppure, fin tanto che parlavamo, la cosa non mi aveva neanche sfiorato la mente… con il vostro sguardo invece… avete detto più di mille parole». Daniel era in imbarazzo. Ma davvero si trovava in una circostanza per cui stava per provare pietà nei confronti dell’uomo che lo teneva prigioniero, distante dalla sua famiglia e i suoi affetti, e inoltre da una posizione di dichiarato nemico della sua casata? Non intendeva farlo: rimase in silenzio, e attese che fosse Uryon a riprendere: «Voglio che vediate una cosa, seguitemi, per piacere». Così concluse e uscì dalla camera del suo prigioniero Lannister, lasciando tuttavia la porta aperta.
                Uryon era sempre gentile nei modi di fare, ma quello che gli aveva dato chiaramente non era stato un interrogativo, bensì un comando. Vero che il principe Lannister non avrebbe mai detto di preferire un carceriere più “esplicito” ai modi attutiti e ruffiani dell’orso del nord… ma arrivando a quel punto, tutti quei convenevoli stavano cominciando a dargli la nausea. Era grato che non fosse capitato nelle mani di un sanguinario tiranno dalla frusta facile, ma l’ideale sarebbe stato non dover neanche sorbirsi tutte quelle sceneggiate da avanspettacolo. Checché il gigante ne pensasse, Uryon un comando gli aveva dato. E, vestendosi pesante e andandogli dietro, fu un comando che Daniel eseguì.
                Il principe di Cowain pensò di esser quasi divenuto un uomo del nord, quando uscendo ed entrando in contatto con quell’aria fresca, non poté non concludere quello che già aveva ipotizzato da dentro la camera: la temperatura si era lievemente innalzata. Qualunque uomo del sud, dinanzi a quell’infinita distesa di neve e a quel cielo grigio e nebuloso, si sarebbe lamentato del gelo e in preda al battere dei denti avrebbe stretto la pelliccia e strofinato il corpo con le braccia. Ma non lui: lui si trovava al nord da un tempo che ormai non se la sentiva più di contare…
                Alla fine, dopo un tragitto non esattamente complesso ma che Daniel non avrebbe saputo benissimo replicare da solo, il signore di Biancavilla lo condusse fino alla Torre-biblioteca di Amergoth. Essa era immensa, mille e mille volte di più di come Daniel se la fosse immaginata, nelle sue memorie di quando da giovane a Roccia del Re leggeva libri e il suo tutore Lord Braff lo informava in merito a tutte le curiosità di questo mondo. Solo un’altra biblioteca – a quanto Braff diceva – era esistita e tradizionalmente veniva considerata più grande, quella della città perduta di Cair Dedalos. Ma si trattava di storie talmente ancestrali, da poter benissimo essere considerate leggende. Cair Dedalos era la città dei draghi, quando molti più draghi popolavano le terre conosciute, e quando le stesse terre conosciute in realtà non avevano ancora la forma dei due continenti che adesso gli uomini di Roccia del Re, e di tutte le altre città del Westeros, conoscevano. Amergoth invece era lì, davanti ai suoi occhi… una specie di quartiere cittadino, composto solo di scaffalature in legno e carta di libri. C’era anche tutto un movimento di persone che andavano da una parte o dall’altra dell’immensa struttura a pianta quasi perfettamente circolare: impossibile pensare vuoto un posto di quelle dimensioni; di sicuro Worchester pagava persone perfino per dormirci, là dentro.
                Daniel avrebbe voluto trattenersi, ma non ci riuscì: gli occhi gli si sgranarono, la bocca gli si aprì. Chiunque sarebbe rimasto impressionato da quello spettacolo, anche uno che non sapeva leggere. Uryon rispose con ironia a cotanto entusiasmo: «Un’espressione decisamente differente da quella che avete fatto quando avete osservato il mio viso, principe Daniel…»
                «Io… sì…» fu costretto ad ammettere Daniel, colto di sorpresa, «Mi dispiace…»
                «Questa è la biblioteca che ha permesso di fare di me uno degli uomini più ricchi, potenti e – permettetemi di dire – colti, che in questo momento abitano il nostro continente. Ed è… la biblioteca della nostra amicizia, figliolo. I libri in essa contenuti, mi hanno permesso di trovarvi e catturarvi prima e… rendervi libero poi. E mi hanno permesso di consigliare a Henrich Bolton la giusta strategia… per rimettere vostro nipote sul trono»
                «Che cosa? Voi… voi siete alleato dei Willoughby, dei… del re Targaryen»
                «Solo gli sciocchi non cambiano di posizione, una volta tanto. E, detto tra noi, questa volta non dovrò neanche sporcarmi le mani. Se tutto andrà come previsto, solo due uomini verseranno sangue: niente eserciti, niente accampamenti né piani di battaglia»
                «E cosa otterrete in cambio?»
                «Bolton si farà pacificamente da parte. E giurerà fedeltà a due re: a Napoleon quale re del sud… e a me quale re del nord»
                «E perché dovrebbe farlo?»
                «I miei informatori mi dicono che la ragione primaria per la devozione che il Lord di Forte Terrore ha nei confronti del neonato risieda in Lady Abigail della Casa Baratheon. A quanto pare Bolton è animato come da una cieca follia per quella donna, ed è questo che al momento spiega ogni suo gesto. Ivi incluso mettere da parte il suo stesso onore, e quello della sua casa, pur di mettere sul trono il di lei figlio. Ma, al di là di qualsiasi pettegolezzo su cui non mi voglio incartocciare, va da sé che un re così giovane necessiterà di una buona mente politica – che Abigail, a quanto mi dicono le mie fonti, potrebbe saper essere – e di un robusto braccio armato… quella carica Bolton se la starebbe ritagliando per sé»
                «I Bolton al sud… e a voi tutto il nord… sarebbe questo il piano?»
                «L’idea è questa, sì»
                «E in che modo… Lord Bolton riuscirebbe a cacciare il re Targaryen dal Trono di Spade, senza l’ausilio di esercito alcuno?»
                «Beh, la questione richiederebbe un approfondimento politico e storico che in questo momento non abbiamo il tempo di affrontare, amico mio»
                «E perché no?»
                «Non abbiamo finito il giro di quella che, se vorrete, sarà la vostra nuova prigione o – come mi piace pensare – la vostra nuova casa»
                «Amergoth?»
                «Sì. Volete risiedere qui nei giorni del vostro soggiorno, principe?»
                «Sono ancora vostro prigioniero, mylord?»
                «Sentite: non me la sento ancora di lasciarvi libero finché i tempi non saranno maturi, perciò se volete mantenervi ostile e considerarvi un prigioniero, beh: fatelo. Ma… solo idealmente… potreste considerare di farmi l’onore di pensare a voi stesso quale mio ospite
                «Un ospite in ceppi, con una pietra costantemente appoggiata alla caviglia che ne inibisce… le piene potenzialità?»
                «Sì. Ma che risiede in uno dei luoghi più belli del mondo» Uryon sorrise, e questa volta i denti aguzzi nella sua bocca suscitarono in Daniel un fastidio solo superficiale: pochi istanti, e riuscì a superare il disagio. E questa volta, il Lord degli orsi parve perfino neanche accorgersi del suo orrore: forse davvero qualcosa di simile a un rapporto pacato con quello strano uomo immenso si poteva anche tentare di costruire. Ma era presto per parlarne,e d’altro canto la mente di Daniel venne – mentre ancora con Uryion visitava i meandri più interessanti della torre – distratta da un piccolo, ma curioso evento. Una fanciulla, giovane, magra, dalla carnagione chiara e con un caschetto di capelli corvini, inciampò verso un’estremità della biblioteca, richiamando per un breve istante l’attenzione del giovane principe: stava trasportando una massa di tomi decisamente troppo pesante per una ragazzina dalle ossa secche, quale lei era. Era una normale ragazza del nord: bella sì, ma non particolarmente appariscente eppure… a Daniel parve Anylice. Era umana, vero che la carnagione era chiara, ma non più di quella della metà degli uomini del nord lì presenti, Uryon Worchester compreso. Ma allora perché le sembrò così tanto la ragazza di ghiaccio? Saranno forse stati gli occhi azzurri? Che poi anche gli occhi… erano azzurri certo, ma non di quell’azzurro disumano che aveva caratterizzato gli occhi della Criomante che il principe Daniel aveva incontrato mesi e mesi prima…
                Durò pochissimo: un inserviente più alto di grado, prese la ragazza per un braccio, la sgridò con virulenza e poi la spintonò fuori dalla linea visiva del principe Piromante. L’acustica della sala, e il discreto numero di gente che c’era dentro, non permise a Daniel di percepire il suo nome… ma soprattutto, quasi da subito egli tese ad attribuire il significato della cosa alla suggestione che quella ragazza di tanto tempo fa era riuscita a creare dentro il suo cuore e la sua anima. Forse lui avrebbe anche voluto rivedere Anylice, la ragazza di ghiaccio, ma quella non era lei…
                Quando Uryon fece per congedarsi, lasciando Daniel alla sua nuova “casa” e ai suoi libri, dopo avergli spiegato naturalmente tutti i dettagli sulla sua nuova sistemazione, sulle persone cui rivolgersi in caso di bisogno, e sulle strette regole della biblioteca (la possibilità di prendere determinati volumi, l’obbligo di riconsegnarli entro un certo termine), a un certo punto il signore del nord si congedò seriamente, ma fu Daniel stesso a fermarlo: «Mio signore» gli disse «Voi però non avete voluto essere preciso con me sulle cose più importanti! E come possiamo essere amici se non mi dite ciò che più conta?»
                «Ovvero?» rispose l’orso del nord «Che cos’altro volete sapere, Daniel?»
                «Ho conosciuto Lord Bolton: è un uomo tutto d’un pezzo. Pensare che davvero sia disposto a cedere la roccaforte della sua antica famiglia per l’infatuazione nei confronti di una donna… francamente non sta in piedi. E… anche se fosse… non mi avete spiegato in pratica come farebbe a vincere Gabryaerys senza una guerra?»
                «Beh, per quanto riguarda quest’ultima questione vi suggerisco di scegliere Storie recenti delle più antiche casate del maestro Vayne fra le vostre prime letture: ripassare la vicenda di come re Tyresyah Lannister ricondusse di nuovo il nord tra i Sette Regni – il quale è lo stesso nord che da allora non si è più distaccato, grazie alla profonda amicizia tra Bolton e Lannister – penso che lo troverete oltremodo illuminante»
                «E per quanto concerne quell’altra questione?»
                «Per quella vi chiedo di non domandarmi oltre: sarei costretto a riferire dicerie di cui non ci sono le prove, e che francamente mi disgustano»
                «Forza, Uryion: sputate il rospo!»
                «Beh… diciamo che tra i bassifondi di Roccia del Re, e… tra i più sinistri corridoi della più abietta politica, c’è chi sussurra che… in effetti… non sia solo un’infatuazione quella tra Lord Henrich e Abigail… c’è chi dice che il rapporto sia sostanzialmente stato consumato, più volte…»
                «State… state forse dicendo che Napoleon… non è il figlio di mio fratello?»
                «Non io: quegli osceni sussurri della Capitale»
                «Beh, è questo che insinuano?»
                «Ebbene… sì. Ed è pur vero che questo spiegherebbe un po’ meglio il perché Bolton intenda spendersi così ostinatamente. Ma… Daniel… se, gli dèi ce ne scampino, le voci fossero vere… questo farebbe di voi il legittimo re degli Andali e dei Primi Uomini».
 
 
 
                La pesante giornata di Lord Braff non era ancora finita. La delusione subita dal rifiuto di Baelish di entrare nel nuovo Concilio Ristretto del re Naharis non poteva essere risollevata dalla riconferma di Irwin: uno, perché il Gran Maestro aveva molte più ragioni di restare. E due: perché quel biondino dal sorriso più fasullo del suo aveva perfino preteso qualcosa in cambio, ovvero che la Corona si occupasse della questione del nuovo prete fanatico della città, questione che per il momento agli occhi del Maestro dei Sussurri non andava annoverata nemmeno tra i “fastidi” dal punto di vista del governo del re.
                Al tardo pomeriggio, invece, Lord Alexis aveva fatto quello che pensava un capolavoro. Era riuscito a convincere di passare dalla parte del re niente meno quella che probabilmente era stata la sua più acerrima nemica nel corso degli ultimi anni di politica alla Capitale, la regina uscente Abigail Baratheon. Beh… non acerrima nemica in termini di reale concorrenza, visto che Braff si reputava un politicante ben superiore rispetto alla sua rivale, però per quanto riguardava i potenziali fastidi che Abigail era stata in grado di procurargli, in primis perché armata di un discreto apparato di fedeli spie, e in secondo luogo perché chiaramente accanita nei suoi riguardi, da questo punto di vista Braff non poteva che ammettere: Abigail era stata una vera e propria spina nel fianco.
                Se si fosse trattato di rapporti personali, di sicuro Lady Barstheon non avrebbe accettato la proposta di Braff: ma qui si trattava di circostanze particolari. Al re serviva di ripulire la propria immagine dinanzi a una cittadinanza per la quale fino a quel momento non era stato altro che un conquistatore straniero. Più vecchi volti Gabryaerys aveva al fianco nelle manifestazioni pubbliche – e magari meno mostri – e più il popolo di Roccia del Re avrebbe cominciato a considerarlo come il suo nuovo effettivo sovrano. Abigail, dal canto suo, si trovava ancora confinata in prigionia: un’aurea prigionia, visto che si trovava nelle sue camere, con il piccolo Napoleon costantemente al suo fianco ma… certo questa sistemazione non avrebbe mai potuto reggere alcun paragone con la libertà quasi totale che Braff le aveva offerto (alla regina semplicemente sarebbe stato vietato di lasciare la città). Fu così che l’accordo venne fatto, e Abigail firmò la carta di nomina ad Altissimo Segretario del Re quella sera stessa; lo fece con uno strano ghigno, e un sinistro bagliore negli occhi, che Braff non poté fare a meno di notare e che per un momento lo inquietarono. Ma passò oltre: aveva ben altro da fare, e se quella dannata vipera velenosa che Lady Baratheon altro non era si fosse permessa di preparargli una qualche sorpresa, le sue ombre quanto prima gli avrebbero riferito il tutto, viaggiando in abiti da spia e in ali d’insetto.
                Quando ebbe concluso il colloquio con Abigail, il suo personale successo della giornata, il Maestro delle Spie di Roccia del Re passò all’ultimo incontro di quel giorno, colui cui andò a riferire delle nuove adesioni nella compagine di governo: il nuovo primo Cavaliere e demone delle energie, il cui antico nome risaliva all’era in cui anche Braff era un vero uomo, e insieme erano confratelli nel culto dei Cinque, ovvero Tararus, sostanzialmente la guardia personale di re Gabryaerys. Il re in quel momento era occupato nel primo incontro “ufficiale” – ovvero in pubblico – con quella che sarebbe stata la sua futura sposa, Lady Hana Lannister, sorella del defunto re Axelion e figlia del re ancora precedente Lionel. E Braff doveva partire immancabilmente: nell’ultima missiva, il suo amico Gino Barron aveva accentuato i toni allarmati nel momento in cui aveva visto con i propri occhi la situazione a Cowain. E seppure ormai tutti i demoni erano passati dalla parte in cui anche Gino, tramite Braff, e con lui Altogiardino, si erano schierati, il demone delle ombre non sapeva se quello delle fiamme, Corarus, fosse bene aggiornato sulla situazione. Di tutto il regno necessitava, meno del rogo di una intera innocente cittadina, con al suo interno un signore di altissimo rango, cosa dal quale sarebbero scaturite le peggiori storiacce riguardanti ipotetiche affiliazioni tra questi pericolosi diavoli dai poteri inumani e il re di recente acquisizione, di cui tutto si poteva dire in quel momento meno che fosse popolare.
                Dei suoi vecchi confratelli dell’origine, Tararus era forse quello con cui meno Braff aveva avuto rapporti, tanto che tendeva a provare un certo fastidio nel definirlo “fratello”. Oh, certo anche con lui – come con gli altri sei, ivi incluso il defunto demone degli spiriti Meredjuxor – Lord Braff condivideva l’amara sorte di essere servo di quel dannato sigillo al momento nelle mani di Gabryaerys, però era inutile negare che con alcuni di loro, quand’era ancora in vita, il maestro delle ombre aveva intrattenuto un qualche genere di rapporto. Con Corarus, Tararus e Xenorus niente: troppo distanti i loro modi di pensare, troppo diversi gli stili di vita che avevano scelto di condurre. In mezzo ad allievi devoti Braff; in mezzo ai draghi quale loro principale servitore Tararus. L’uno attratto dalla conoscenza, l’altro dal potere. L’uno più simile a un uomo, l’altro più simile… a un mostro.
                Col tempo, Braff sperimentò che di tutti gli ex “manti”, lui era probabilmente l’unico che conservava ancora una memoria vivida dei tempi andati; il che ovviamente era più una tortura che altro. Aveva provato spesso a rievocare le vecchie storie con Meredjuxor o con Helmon e per certi versi loro ricordavano ma… per altri proprio no. Quanto al migliore dei suoi amici, il maestro delle fonti Mawldor, lui si era volatilizzato, lasciandolo sostanzialmente da solo a cercare di far ragionare un padrone che chiaramente era ormai accecato dal proprio stesso potere. Quello che i draghi avevano teorizzato, non si era realizzato: avevano sperato che solo un uomo illuminato avesse mai potuto dominare un potere tale da controllare Cair Dedalos. Che stupidi: il male poteva raggiungere i medesimi livelli del bene, e questo nuovo padrone ne era la più lampante delle prove. Avevano condannato i loro figli e discepoli a una pena peggiore della morte: a quella del dolore e della guerra, prima del dolce arrivo della fine di tutto.
                Trovò il Primo Cavaliere già in attesa presso i giardini privati del re. Quel dannato idiota non aveva ascoltato i suoi consigli: se ne fregava altamente se un suo confratello gli diceva qualcosa, gli ordini per Tararus o arrivavano direttamente dal padrone o non arrivavano. Era vestito pressoché esattamente per come era arrivato alla Capitale: completo blu, mantellina e calzari gialli, piccola corona da principe, lucido e ghignante teschio nero orgogliosamente in mostra come se si trattasse di una cosa bella.
                «Demone degli uomini!» salutò dunque Tararus, posizionando quei suoi osceni denti d’osso alla maniera di un sorriso umano, «Di quali fallimenti mi aggiorni questa sera?»
                «Di nessuno» esclamò Braff con un certo orgoglio «Ho ottenuto la conferma del Gran Maestro e… ho fatto di Abigail Baratheon il principale degli assi nella manica di Gabryaerys»
                «A che cavolo serve l’ex regina nel Concilio?! Con magari diritto di voto anche?»
                «Sappiamo benissimo che il voto ormai sotto Gabryaerys si limiterà ad essere niente più che un atto formale. Ma risponderò lo stesso alla tua domanda: una presenza confortante e di bell’aspetto, in mezzo a un’orda di mostri di cui la gente non può che essere spaventata, ecco cosa rappresenterà Abigail. E d’altronde… ce n’è chiaramente il bisogno visto che tu per primo dici di voler aiutare il re ma non indossi la maschera di carne che lui ti ha riservato»
                «Quella maschera è più inquietante del mio teschio spoglio. E poi… questo problema della “gente” è sempre un cruccio che riguarda i governanti deboli, come te. A me di tutte queste manovre che fai non importa un fico secco, francamente le capisco a stento. Ai miei tempi gli uomini si governavano con la paura, e dubito che siano cambiati molto nell’arco dei millenni… Si tratta di animali, non molto diversi dagli altri. Li sfami, li impaurisci, li domini: è così che la penso io»
                «Mio caro Tararus a me pare che dimentichi un piccolo passaggio: anche tu sei stato un uomo, in passato». La cosa parve offendere il demone delle energie celesti. Finalmente la smise con quel suo sorriso terrificante.
                «Sai» riprese quest’ultimo «Dovesti smetterla con questo atteggiamento “demone degli uomini”»
                «Quale atteggiamento? E perché mi chiami in quel modo?» Braff era la prima volta che glielo sentiva utilizzare quel termine «Che razza di provocazione è? Non è mica offensivo…»
                «Certo. Per te no di sicuro. Ma per uno che ha raggiunto condizioni più elevate…»
                «Ma ti senti quando parli Tararus? No, perché pare che tu non comprenda il fatto che anche tu, come me, come Helmon e come gli altri… non siamo altro che schiavi»
                «È questo che ci differenzia, vecchio mio: la posizione che abbiamo assunto nei confronti di Cair Dedalos. Per me, un dono che mi rende simile a un dio. Per te, una catena che ha ridotto in schiavitù la tua condizione di umano. È per questo che ti chiamiamo a quel modo, sai? Io e Xenorus, il nostro confratello dei ghiacci e delle nevi»
                «Ah perché parla ora, Xenorus?»
                «Parla il giusto: come faccio io. La parola è una delle poche cose che ancora purtroppo ci rendono simili a quelli che eravamo un tempo»
                «Diamine, quanto sei pazzo… lo sei sempre stato, ma ora…»
                «Non chiamare pazzo uno che frequenta gli dèi e ne è il confidente. Chiama pazzo uno che si circonda di giovanetti per trarne stimolo e piacere»
                «Tu non stai servendo gli dèi in questo momento, Tararus. In questo momento stai servendo il diavolo»
                «Beh, sempre meglio essere il suo braccio destro che mettersi sul suo cammino»
                «Volentieri ti lascerei ai tuoi deliri, fratello: ma non è solo per dirti di riferire al re della nomina di Irwin e di Abigail che sono venuto»
                «E per cosa?»
                «Per darti una mansione»
                «Una mansione? Tu a me? Solo il re può farlo, mi spiace»
                «Senti: fa come vuoi. Ma per restare nel Concilio Irwin ha preteso che la Corona si occupasse di qualcosa di cui prima o poi deve occuparsi. C’è un fanatico che sta prendendo tutta la rabbia della massa e la sta condensando per utilizzarla lui stesso. Prima ce ne occupiamo e meglio è»
                «E perché lo vieni a dire a me? Questi non sono affari che riguardano la tua stretta competenza?»
                «Sì, è così. Ma io parto»
                «Parti? E perché? Per dove?»
                «Cowain»
                «E dove cazzo è Cowain?»
                «Al sud. Vado a recuperare Corarus, se tutto va bene»
                «E se tutto va male?»
                «Se tutto va male lui non ci sarà e io avrò passato un piacevole soggiorno in un luogo di mare. Ma non è così: è là lui. Arrivederci, fratello mio»
                «Ma… Braff, aspetta…».
                Decise di non dargli la soddisfazione di un ulteriore risposta. Lì, davanti a lui, fece quello cui Tararus tanto piaceva: si manifestò in tutta la sua essenza, espandendosi a uno stato fumoso ampio quasi quanto l’intero giardino. E in quella forma, spiccò il volo. Ma non poté non riflettere su quanto odiasse Tararus, e Gabryaerys e tutta quella situazione. E quanto rimproverasse a Mawldor di essere sostanzialmente sparito dalla circolazione, lasciando a lui da solo tutto questo.

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Capitolo 8
*** Il vecchio leone ***


Capitolo 8
IL VECCHIO LEONE
 
 
 
                Marcus e Mirietta giunsero a Castel Granito a volo di chimera, più di mezza giornata prima del piccolo gruppo di uomini fedeli alla giovane fanciulla che erano partiti da Lannisport. Per qualche ragione, Mirietta ebbe la sensazione che non fosse il caso di presentarsi dal Leone Nero senza la guardia personale. Marcus non condivideva, ma si limitò ad assecondare i dettami della piccola. Insieme lasciarono Shirley libera nei pressi di una costa rocciosa non troppo popolata: Marcus aveva sempre il suo fedele fischietto al collo per convocarla quando meglio ritenesse opportuno. Dopodiché i due fratelli Lannister visitarono il mercato della città: la piccola aveva sempre adorato quel genere di cose. Marcus ricordava chiaramente che molto tempo prima, a Roccia del Re, usavano spesso sgattaiolare dalle lezioni di Braff cui Axelion e Daniel rimanevano incatenati per dovere – e Hana per puro piacere – per correre fuori dalla corte e duellare con bastoni secchi racimolati per la strada; o gareggiare a chi per primo acchiappasse un pollo appositamente liberato dalle cucine (e di solito peraltro nessuno dei due ci riusciva). Di tutti i suoi fratelli, Marcus non poteva non riconoscere che con Mirietta aveva un rapporto speciale: e non poteva essere altrimenti, visto che lei era la più simile a lui per temperamento, interessi, e perfino tratti somatici. E fu anche in memoria di quei meravigliosi tempi andati – i tempi in cui loro padre e loro fratello maggiore erano vivi – che Marcus assecondò con piacere i capricci della giovane Lady. Le parve che in tutti quegli anni lei fosse rimasta sempre la stessa. E in cuor suo sperò che anche lei avesse di lui la medesima sensazione: il giovane Cavaliere della Chimera non riceveva un po’ di sincero affetto da un tempo che ormai non gli piaceva più ricordare. Passarono così quella mattinata: a guardare il pesce vivo e lucido sulle bancarelle, a scambiare battute con gente del volgo che chiaramente non potevano riconoscerli, e sul finire perfino a rubacchiare ortaggi dalla cassetta di un anziano zappatore che gli urlò contro alcune delle peggiori bestemmie che Marcus avesse mai udito in vita sua. Eppure tutto ciò si verificò essere bello: meravigliosamente bello. E tutto andò alla perfezione, sin quando Marcus, dopo una sfiancante ulteriore corsa con la sorellina, non si rese conto che qualcuno li stava seguendo: un individuo ammantato in abiti da straccione, ma abbastanza lunghi da celarne il viso e le membra.
                Non poteva trattarsi di un uomo dello zio Pylgrim: non aveva alcuna ragione per non rivelarsi. Né di un uomo del re Targaryen: era decisamente troppo presto perché anche un’abile spia come Braff riuscisse ad assoldare un valido sicario in grado di trovarli in così breve tempo. Eppure Marcus da tempo era ormai addestrato alla carriera del soldato: non aveva dubbi sul fatto che l’uomo incappucciato li stesse seguendo.
                La stessa Mirietta, Castel Granito lo conosceva poco: Marcus aveva dei vaghissimi ricordi d’infanzia e basta; anche quelli più remoti tendenzialmente lo collocavano a Roccia del Re, non nella tradizionale dimora dei Lannister, che quando suo padre Lionel era re veniva gestita da Duhenlar, Constant o lo stesso Pylgrim. Mirietta in teoria avrebbe dovuto conoscere meglio l’antica capitale dei leoni dell’occidente, visto che per un certo periodo ne era stata la ufficiale reggente, nomina fornita persino di copertura legale grazie a un decreto del re degli Andali e dei Primi Uomini, suo padre Lionel. Il vecchio re aveva voluto affidare alla sua ultima figlia quell’importante dominio, pur se sempre coadiuvata da uno dei suoi anziani zii, al fine di addestrarla nell’arte del governo di una città. E aveva lasciato tale importante ruolo a Mirietta in quanto gli altri due figli maschi – per un antico costume del nuovo regno – dovevano essere allontanati al fine di evitargli la tentazione di avocare per sé il Trono di Spade. Non che Marcus e Daniel fossero interessati a sottrarre quella scomoda sedia di ferro al regale posteriore del loro fratello maggiore Axelion, ma era così che andavano le cose da secoli, e così anche Lionel decise di fare. Rimaneva Hana, la quale però fin da giovane aveva dimostrato uno spiccato senso delle arti della diplomazia e della politica, ragion per cui Lionel volle premiarla tenendola al suo fianco presso il Concilio Ristretto del re quale suo Altissimo Segretario. Fu per tali ragioni che proprio a Mirietta venne attribuito l’oneroso incarico della gestione delle terre d’occidente. Ma anche Mirietta conosceva poco di Castel Granito, al di fuori della magione in sé, e questo spiegava il perché anche lei non fosse bene in grado di orientarsi tra le piazze e le strade della cittadella. Conclusione: i due fratelli cercarono di sfuggire al loro inseguitore infiltrandosi per i meandri di un dedalo in verità tutt’altro che conosciuto.
                A un certo punto i due riuscirono a recuperare un certo vantaggio nei confronti del tizio incappucciato. Costui era senza dubbio ostinato, e un buon vantaggio ancora non significava molto, tuttavia c’era terreno per parlottare tra loro senza farsi sentire, e di conseguenza organizzare una strategia. Andava inoltre detto che, sebbene la situazione fosse abbastanza inquietante, Marcus non avrebbe descritto il tipo come qualcuno di minaccioso: il fatto che non mostrasse la sua identità lo era senza dubbio, ma per il resto… la corporatura, sotto tutti quegli strati di abiti vaporosi, doveva essere quella di un uomo mediamente magro. E la statura era quella di un uomo più basso che altro: che genere di assassino, spia, o altro tipo di aggressore era dunque quel mingherlino?
                Pensarono che la cosa migliore fosse dividersi, e lo fecero. Ma avevano ipotizzato che l’aggressore avrebbe inseguito Marcus, e invece andò dietro Mirietta. Un senso di ansia lo sconvolse: ora la sua sorellina era da sola, perché nel momento stesso in cui lui si accorse di non essere inseguito, vide pure che dietro di lui il delirio del mercato s’era perfino ingrossato: la massa di gente presente doveva essere raddoppiata rispetto a quando lui e Mirietta avevano raggiunto quel labirinto di bancarelle. Subito cercò di fare il percorso all’indietro, ma più correva e più si accorgeva di dettagli che in precedenza non c’erano, e di conseguenza sentiva di aver perso completamente l’orientamento. Confuso, stanco, sudato, adirato e in preda al fiatone, pensò che l’ultima chance fosse quella di chiamare Shirley, lì davanti a tutti. Aveva già poggiato il suo fedele fischietto sulle labbra, quando per fortuna la voce di sua sorella lo arrestò, dicendo: «Marcus!». Non era neanche troppo distante: non si era trattato di un urlo.
                Mirietta avanzò verso di lui, accompagnata da una ragazza dal viso dolce e i capelli biondi, ammantata dei vestiti vaporosi che erano stati del loro inseguitore. «Questa è Daessenya» presentò la giovane Lannister «e viene da Cowain. Ha conosciuto nostro fratello Daniel»
                «Mia signora “conosciuto”» si permise la spigliata fanciulla «è un termine un po’ esagerato. Ho avuto occasione di parlarci un paio di volte. Ma ho servito Lady Xalandra, che del principe Daniel era invece molto amica»
                «Come…» interrogò Marcus «Come ci hai riconosciuti?»
                «Beh, mio principe, perdonami la franchezza, ma due aristocratici che gironzolano per un quartiere popolare – sebbene cerchino di non essere riconosciuti – non passano certo inosservati, specie agli occhi di chi i quartieri popolari li ha conosciuti bene. Ma… più nello specifico… la verità è un’altra. Come dicevo a vostra sorella, in realtà vi stavo proprio cercando»
                «Cercandoci in un quartiere popolare di Castel Granito? È un po’ sospetto, ragazza»
                «No, no, mio signore» rise la bionda giovane Daessenya «Forse mi sono spiegata male: non è che sapessi esattamente dove vi avrei trovato… ma sapevo, come tutti sanno, che Lady Mirietta è la reggente delle terre dell’ovest, ed esseno Castel Granito la più importante delle città dell’ovest… ho ritenuto corretto raggiungerla. E il fato ha voluto che mi accorgessi di voi due, eccentrici viandanti, giusto nel momento in cui raggiungevo il mercato della città… io non credo nel destino, miei signori, ma certo non posso non giudicare quest’ultima una fortunata circostanza»
                «Già davvero fortunata» confermò l’Andalo con un certo sospetto, poi domandò: «E cosa esattamente ti stava conducendo dall’assolata Cowain al nostro felice scoglio nell’occidente, Daessenya?»
                «Beh io… naturalmente queste cose le avrei dette solo una volta ottenuta udienza da milady Mirietta…»
                «Hai ottenuto la tua udienza» confermò Mirietta, molto più sorridente del fratello, «Parla»
                «Ecco io… sono una buona contabile, e mio occupavo del tesoro e di buona parte dell’amministrazione del palazzo a Cowain. Cowain è la mia città e non l’ho abbandonata a cuor leggero: è forse uno dei pochi luoghi nel continente occidentale retto, pressoché in ogni cosa, solo da donne. Ed è questa caratteristica che mi ha portato a pensare alle terre dell’occidente per un nuovo impiego. Perché, come Cowain, anche Castel Granito ha una signora come reggente»
                «E cosa è accaduto alla tua cara, affezionata, Cowain» continuò a incalzarla Marcus «Tanto da costringerti ad abbandonarla?»
                «Ragioni personali che non hanno niente a che vedere con la mia professione. Io… ho qui delle referenze portanti il sigillo della mia signora Xalandra, nella quale viene ben descritto che…»
                «Il sigillo che è di mio fratello, vorrai dire»
                «Mio principe, il principe Daniel ha abbandonato il soglio di Cowain anni fa ormai. Ed è stato lui stesso a indicare Xalandra come reggente in sua vece…»
                «Ma certo: la ridente Cowain, la “città delle donne” non è così?»
                «Marcus» s’intromise Mirietta «Esattamente qual è il tuo problema?»
                «Nessuno» rispose il principe Cavaliere della Chimera «Solo un indole spiccatamente sospettosa»
                «Beh, forse per questo potrai anche essere un buon soldato… ma mai un buon condottiero, e decisamente non un valido politico»
                «Non è neanche nelle mie prospettive peggiori, sorellina»
                «Neanche nelle mie: ma io ho dovuto farlo. E ti posso assicurare che un buon governante abbisogna sempre di un valido burocrate di cui potersi fidare. Tuttavia, Daessenya, il mio problema è un altro…». L’ultima dei Lannister non fece in tempo a specificare quale fosse questo suo altro problema. Vide, come anche gli altri due fecero, una sfilza di armigeri sfilare per la città, diretti al palazzo: portavano con loro i vessilli della chimera, e dunque era pressoché certo che si trattasse di Sir Cauldron e degli altri uomini di Mirietta che erano partiti da Lannisport. I due fratelli dunque non procedettero oltre con l’interrogazione della giovane Daessenya; le permisero solo di fare strada con loro, mentre a loro volta si dirigevano verso la magione del Leone Nero.
 
 
 
                Che tragico, tragico momento che stava vivendo la vita spirituale della città forse più importante del mondo. Di questo Brendan era ormai convinto da un po’. Doveva essere prigioniero del sacerdote del dio rosso da un paio di settimane, e non aveva avuto notizie neanche vaghe da parte del clero ufficiale di Roccia del Re, quello dei sette dèi: il giusto Padre, la pia Madre, l’audace Guerriero, la candida Fanciulla, il fedele Fabbro, la saggia Vecchia e l’occulto Sconosciuto. Nessuno dei suoi confratelli aveva pensato a Brendan, e questo poteva significare solo due logiche cose: che essi non fossero in potere di predisporre la sua scarcerazione, o che altrimenti la cosa non gl’importava.
                Il culto gli aveva insegnato a non portare rancore e a non essere malizioso, così anche in questa tetra circostanza il giovane solare ragazzo di Banefort stava cercando di pensare al meglio: che la situazione era complicata e che per tali ragioni si stava perdendo del tempo, ma che presto qualcuno sarebbe venuto a reclamare la sua libertà, con le buone o con le cattive.
                In tutto ciò, Brendan cominciò anche ad avere il tempo di speculare su fatti più generali – che non riguardavano la sua più diretta persona – ed erano tali riflessioni che lo avevano condotto a concludere che Roccia del Re doveva trovarsi davvero sull’orlo di una sorta di baratro spirituale, se un oscuro aguzzino come quel Yashua era stato in grado in così poco tempo di adescare così tante pecorelle teoricamente appartenenti al gregge dei Sette. Per un po’ prima, Brendan non poté non arrendersi a un certo panico, visto che aveva avuto modo di osservare con i propri occhi una folla immane di gente andare in visibilio per un rogo di fratelli Septon intrappolati e arsi in una griglia di ferro, come se si fosse trattato di turpi eretici della peggiore risma. E uno di loro era stato fratello Trenton Hammerhead, che Brendan in qualche modo aveva conosciuto da una vita. Ora Trenton era polvere, e con lui fratello Patchett e gli altri due confratelli che Brendan non aveva modo di ben conoscere. Un evento che lo aveva scosso e che, insieme con il pensiero di essere rimasto lui invece vivo, nelle mani di quei fanatici aguzzini, era probabilmente tra le principali ragioni dei suoi incubi notturni.
                In realtà, come prigioniero, Brendan non poteva neanche dire di esser stato trattato ignobilmente: nessuno fino ad allora lo aveva picchiato, o minacciato in qualsiasi altro modo, e gli erano stati serviti tre pasti al giorno non poi così peggiori rispetto a quelli che il giovane aveva ricevuto al desco del monastero di Shawney, dove pure aveva passato un certo periodo della propria esistenza. Ma ovviamente tutta questa incertezza cominciava a snervarlo, il che era brutto per un uomo di fede quale lui era ma… era inutile negarlo: certe volte il bisogno di informazioni, informazioni qualsiasi, può divenire impellente tanto quanto esigenze più logicamente naturali, e legate alla stretta sopravvivenza.
                E alla fine il giorno delle informazioni arrivò. Yashua non inviò un qualche suo araldo a compiere quella mansione, cosa che sul momento fece pensare a Brendan che forse c’erano ragioni – che lui non aveva modo di prevedere, ma che non dovevano essere poi così irrilevanti – che giustificavano la sua detenzione; che giustificavano l’aver fatto di lui l’unico sopravvissuto al giorno del rogo dei Septon.
                «In tutto questo tempo» fece il predicatore, con quel medesimo tono pacato con cui aveva già cominciato la discussione con i confratelli di Brendan il giorno del rogo: un pessimo segno, «Non abbiamo ancora avuto modo di domandarti qual è il tuo nome. Di questo sono spiacente, ma la vita di questa città è così frenetica, quando si vive in mezzo ai poveri e agli ultimi»
                «Poveri e ultimi che non hai avuto remore a dileggiare con i tuoi trucchi»
                «Oh andiamo, figliolo, non parlare come quei vecchi boriosi Septon con cui sei giunto presso la nostra comunità… sono sicuro che tu sei migliore di loro! È incredibile come quelli che vorrebbero essere le guide mistiche di questo posto, in realtà siano così ciechi davanti a un miracolo quando davvero gliene si presenta uno. Non lo trovi uno sconcertante controsenso? Ma chi è qui che fa da tramite tra dio e gli uomini? Uomini davvero predisposti? O malfidati e grassi volponi che hanno perso perfino il primario tra i sensi della nostra missione: quello della meraviglia! Bene, ti farò un altro esempio, visto che il primo non ti è bastato». Detto ciò, il predicatore intercettò probabilmente uno sguardo d’orrore negli occhi di Brendan, ragion per cui trovò corretto specificare: «Oh: sta’ tranquillo, ragazzo. Non ti darò fuoco come ho fatto con i tuoi confratelli: a loro differenza, tu sei ancora giovane, e dunque ancora utile»
                «Anche fratello Trenton lo era» ribatté Brendan con rabbia «Eravamo quasi coetanei!»
                «Non ha alcuna importanza» disse quindi il predicatore con paurosa freddezza «Adesso: osserva». Fece comparire una fiammella sul palmo della propria mano: abbastanza interessante da vedere, senza dubbio, ma Brendan aveva udito anche di guitti dell’Essos in grado di dormire su chiodi puntuti, incantare serpenti e far librare tappeti per aria: un’esibizione di quel tipo non garantiva alcun genere di miracolo per quanto lo riguardava, lui non era mica membro integrante di quel popolino ottuso che ascoltava le messe di Yashua! Il predicatore infatti disse: «Non sei stupito: lo capisco. Non è un trucco, visto che chi pratica questo genere di arti normalmente tiene sempre le maniche lunghe, che in questo momento non fanno parte della mia tenuta. E inoltre ti do questa dritta: se dovessi mai vedere qualcun altro operare tale genere di esibizione, fa attenzione al palmo, normalmente è impregnato di sostanze lucide con toni che danno sul verdastro o sul bruno, o talvolta su entrambi. Tuttavia non è questo su cui voglio che concentri la tua attenzione al momento: cerca di guardare la fiamma in sé; il suo danzare oscillante, i suoi colori caldi mischiarsi in un amalgama indistinto, il centro del suo potere». Brendan non trovò molto altro da fare se non assecondarlo, anche se tutta quella situazione in realtà non solo non gli stava piacendo, ma a tratti gli stava parendo perfino piuttosto idiota. Ma questo non lo disse naturalmente: si limitò ad eseguire ciò che Yashua gli stava chiedendo, dirigendo i propri occhi sulla fiammella che danzava sopra la mano del predicatore. Per un po’, non vide altro che fuoco: scie gialle che spingevano altre scie rosse, che si nascondevano dietro altre scie blu, che abbracciavano altre scie color arancio. Stava cominciando ad annoiarsi, quando a un certo momento distinse chiaramente una piccola porzione della fiamma divenire di un grigio trasparente. Il fuoco continuava a crepitare come se nulla fosse, eppure al suo di dentro era sorta come una specie di fumosa nuvoletta, coesa e mischiata al resto delle fiamme, eppure diversa…
                E dentro la nuvoletta, Brendan vide se stesso. Era una situazione molto strana, che naturalmente non gli era mai capitata, e di cui non aveva mai letto alcun riscontro in nessuno dei testi sacri che pure aveva avuto modo di studiare nell’arco della sua breve esistenza. Era come se il fuoco conoscesse una parte di lui. Non distinse chiaramente molto, ma gli parvero eventi futuri, oppure di una realtà parallela, in cui lui era libero e leggermente più grande (con delle acerbi basette a testimoniarlo). Si trovava in una sorta di consulto con l’Alto Septon, e con una Septa dall’aria austera ma serafica, e infine con quello che doveva essere un Maestro della Cittadella – vista la composita catena di metalli diversi che gli pendolava dal collo – anche se così ambiguamente giovane, e a suo modo prestante.
                Più le immagini si facevano nitide, e più Brendan percepiva nella sua testa delle parole… parole insieme oscure e confortanti, pronunciate all’inizio con un tono normale, ma poi sempre più lentamente, e sempre più lentamente, e sempre più lentamente. Erano: «Apri la tua mente. Apri la tua mente. Apri la; tua mente. Apri la; tua mente. Apri; la; tua; mente». All’inizio, il giovane novizio dei sette avrebbe giurato che quelle parole provenissero dal predicatore rosso; ma più la sua mente si concentrava sull’immagine tra le fiamme danzanti, più era come se quella voce appartenesse alla sua testa, e non alla bocca del suo oscuro carceriere.
                Con la poca lucidità che gli rimaneva, Brendan decise di non prestarsi più ai giochi di quel farabutto, che chissà cosa voleva da lui, e chissà perché intendeva ancora continuare a trattenerlo in quella farsa, mentre dei suoi confratelli non aveva avuto remore a fare ceneri e fumo, ivi incluso il giovane Trenton Hammerhead. Fu per questa ragione che decise di chiudere gli occhi e allontanarsi dalla fiammella sulla mano dello stregone.
                «Perché l’hai fatto?» domandò dunque Yashua, non ancora irritato, ma il cui tono di voce era senza dubbio cambiato rispetto all’inizio di quella visita. Brendan non rispose e il predicatore continuò: «Sei ancora convinto che i miei siano trucchi? Che non ci sia un vero dio dietro a tali… manifestazioni?»
                «S-sì» balbettò Brendan, che sapeva che non era il caso di assecondare quel mostro, anche se naturalmente non riuscì a non lasciar trasparire almeno un poco dei dubbi che ormai lo avevano pervaso. Ma non aveva intenzione di dare ragione a Yashua, dunque raccolse tutta la forza che aveva, e ribatté: «Fiamme dalle mani e specchi danzanti! Non sono queste le manifestazioni che un dio invierebbe agli uomini. Invierebbe segnali di pace e amore, non di violenza»
                «Sei un ragazzo davvero molto ostinato. L’unico dio vuole conoscere il tuo nome»
                «Non è uno il dio, ma sette!»
                «Non è importante quello che crediate voi uomini dell’occidente in merito a tale argomento. Il dio mio padre ha assunto molte forme nell’arco delle ere»
                «Due bestemmie in una volta sola…» rise Brendan con un certo sarcasmo «Quindi voi sareste figlio di un dio?»
                «Non sei tu a fare le domande, ragazzino. E la mia pazienza comincia ad esaurirsi: dimmi il tuo nome». Brendan ci pensò su e considerò l’idea di mentire. Ma non lo fece: se non ne andasse strettamente della propria vita o della propria fede, o della vita o fede di qualcun altro, a un novizio dei Septon era sostanzialmente vietato dire menzogne. E una volta che lo seppe, Yashua il predicatore proseguì serenamente: «Molto bene, giovane Brendan, mi spiace rivelarti che ancora per un po’ di tempo dovrai trovarti prigioniero per le camere di questa povera abitazione così altruisticamente messa a disposizione da un nostro comune confratello. Ma ti assicuro che faremo in modo da farti imparare ad osservare con i tuoi stessi occhi; a camminare con le tue gambe verso gli orizzonti che il Padre ha creato per noi. Imparerai a vedere come per un troppo lungo tempo uomini abbietti si siano allontanati dalle grazie del divino fingendo di servire gli uomini e invece in verità servendo solo se stessi. Ti accorgerai di come non sia consono per un clero che si rispetti vestire abiti di qualità troppo migliore, e mangiare troppo più cibo, e vivere in case troppo più grandi rispetto agli uomini e alle donne di una comunità che in realtà dovrebbero servire. Ne hai senza dubbio la predisposizione. E lo farai»
                «Io sono un novizio» replicò Brendan, ormai piuttosto stanco di dire grossomodo sempre le stesse cose, «del culto dei Sette Dèi e non intendo…»
                «Sì è vero: non intendi» sorrise Yashua maligno «Ma grazie a noi tu intenderai, fratello Brendan. Grazie a noi, tu intenderai».
 
 
 
                Marcus, Mirietta e Daessenya raggiunsero il palazzo dove da lungo tempo ormai risiedeva l’anziano Pylgrim Lannister, noto da più parti del continente occidentale con il soprannome di “Leone Nero”. Varcarono le porte dorate del maniero con una compagnia di venti uomini al comando del veterano Sir Cauldron, uomo che in realtà non godeva di troppa fiducia da parte del principe Cavaliere della Chimera, ma d’altro canto… da un po’ di tempo Marcus era piuttosto sfiduciato nei confronti un po’ di chiunque e di qualunque cosa.
                Lo zio Pylgrim era ancora quel vecchio leone rampante di cui Marcus si ricordava vivamente: vecchio sì, ma con un fisico robusto. Non consunto, né sovrappeso: il tipico fisico che qualunque uomo medio avrebbe voluto avere giunto alla veneranda età che era quella del Leone Nero. Era alto, tonico e dei lunghi e fulgidi capelli grigio-nerastri gli contornavano il viso da una parte, mentre dall’altra cresceva una barba ricciuta culminante con un lungo pizzo.
                «I miei affezionati nipoti!» salutò dapprima il Leone Nero, allargando le braccia come a volerli acchiappare tutt’e due. Solo con Mirietta ce l’avrebbe fatta sicuramente, e con Mirietta e Daessenya (che però non conosceva) pure, ma anche Marcus aveva messo su un bel paio di spalle rispetto all’ultima volta che aveva visitato Castel Granito, e forse per tale ragione lo zio decise di trattenersi. Rimase comunque sorridente, e scambiò qualche amichevole pugno con Mirietta; doveva essere un qualche modo di salutarsi – o un qualche gioco – che i due avevano dovuto elaborare negli anni della loro convivenza nell’occidente: la giovane Lady sua sorella come reggente de iure, e il vecchio zio scuro come reggente de facto.
                Ma quando ebbe finito con le sue calorose esternazioni verso la fanciulla, lo zio Pylgrim si rivolse pure a Marcus, esclamando il suo nome e dandogli un bacione sulla guancia. Tutti gli altri – inclusi Daessenya e Cauldron – sostanzialmente non li degnò di uno sguardo.
                Marcus e Mirietta avevano lasciato la conversazione con la fanciulla di Cowain a metà. Mirietta si era mostrata piuttosto aperta nei confronti di Daessenya, facendole trasparire la possibilità di un eventuale impiego, cosa che a Marcus non era piaciuta affatto: non era così che dovevano capitare queste cose, non è che chiunque poteva bussare alla porta di un gran signore per proporsi maestro di corte, ciambellano o chissà cos’altro… tutto quel discorso non funzionava, e in tutto ciò Marcus non aveva potuto fare a meno di notare che alla fine la ragazza del sud non aveva tirato fuori la sua lettera con la firma della signora Xalandra. Ne aveva parlato, se n’era vantata – auto-glorificandosi come se fosse stata una specie di genio dei conti e dei numeri – ma poi non l’aveva cacciata fuori, e adesso Marcus e Mirietta se la ritrovavano praticamente in casa. Avrebbe affrontato l’argomento quanto prima: non si sarebbe addormentato fin quando non fosse stata fatta chiarezza su quella strana fanciulla che li aveva pedinati per mezza città, tuttavia adesso era il momento dei convenevoli e del desco.
                Il Leone Nero fece preparare per loro un abbondante pasto: a Marcus non era più capitato di trovarsi più di una portata al tavolo da non sapeva più quanto maledetto tempo. Fu Mirietta a fare arrivare ufficialmente la fase delle discussione: non aveva pensato ad altro per tutto il giorno, questo Marcus oramai lo aveva capito bene; sua sorella voleva risolvere quella questione al più presto e al più presto tornare sul suo affezionato nuovo continente.
                «Allora, zio… sai bene che io e mio fratello stiamo per partire di nuovo» cominciò la ragazza, neanche finendo di masticare il pezzo di pane pepato che aveva ingollato, «C’è qualcosa… che desideri sapere da noi?»
                «Sì, figliola» rispose il vecchio leone «Ora tu parti: è vero. E lasci però la nostra comune casa in una situazione complicata»
                «Niente che un esperto cavaliere come te non sappia condurre»
                «Oh, su Mirietta: non scherziamo. Quello che è accaduto, e che sta accadendo, non ha precedenti nella storia recente: nessuno di noi è preparato. Insomma: un cambio di dinastia. Vicende… che hanno sovvertito un sistema millenario»
                «Una ragione in più per tornare all’occidente. Arrivarci per primi e fare in modo che tutto quello che c’è possa giocare in nostro favore»
                «Una mossa saggia, che condivido, e che non sono qui per dirti di non fare, se è questo ciò che temi». A queste parole Mirietta rimase in silenzio, e lo zio se ne approfittò per dire: «È così, non è vero? Temevi una mia contrarietà per la tua partenza. Ma no, figliola! Certo che no! Per quale vecchio imbecille mi hai preso? Come se non mi conoscessi dall’intera tua vita! Come se io non ti conoscessi da quando le uniche parole che uscivano dalla tua bocca erano solo gugu e gaga. E anche Marcus lo conosco da allora! E Daniel, e Hana e Axelion!»
                «Hai ragione, zio» ammise Mirietta «Ma allora… mi trovo costretta a ripetermi: cos’è che vuoi?»
                «Analizzare la situazione, per il momento: possiamo? Per come stanno le cose, il cognome che condividiamo ci rende tutti nemici del regno. Che siamo noi qui a Castel Granito, o la povera vostra sorella prigioniera, insieme col vostro nipote infante, a Roccia del Re, o Daniel chissà dove nel nord… Tutti i Lannister sono in pericolo»
                «Che notizie hai degli altri?» s’intromise Marcus, interrompendo l’attività di sbucciamento di una pera che lo stava impegnando, «Aggiornaci, zio, ti prego»
                «Poche, purtroppo. So che Hana è prigioniera, ma nulla delle sue condizioni. E così anche di Napoleon e di Abigail. Di Daniel nessuno sa niente da molto più tempo, né di Sir Cordell che lo accompagnava… è… una pratica di uso piuttosto comune che il futuro Primo Cavaliere non lasci una corrispondenza troppo fitta, in primis perché si trova all’altro capo del mondo e poi… perché è bene che il luogo preciso in cui si trovi rimanga ben protetto. Tuttavia, comunque, l’assenza di missive da vostro fratello è ormai divenuta in un modo che definire “allarmante” non sarebbe scorretto… e poi…»
                «Poi?»
                «Poi c’è vostro zio Constant. Fonti recenti, ma attendibili, mi rivelano che si sia proclamato re»
                «Non mi avevi detto» disse Mirietta «Che cospirava con i Tyrell per mettere Lorthan sul trono, ai tempi in cui mio fratello Axelion era vivo?»
                «Sì. Ma le cose cambiano… ora Axelion è morto, e anche Lorthan e pure Shane. Dunque, Constant ha pensato di proclamarsi re lui medesimo»
                «Il re…» constatò Marcus a questo punto «È il neonato. Il figlio di mio fratello e di Abigail»
                «Un infante in balia di nostri nemici» fece il Leone Nero a sua volta «Che prima era in balia di altri nostri nemici»
                «C’era mio fratello allora» disse Mirietta «Il figlio era anche suo…»
                «Sì, ma ripeto» insistette Pylgrim, e Marcus si chiese dove volesse arrivare, «Vostro fratello ora è morto e anche se il piccolo porta il cognome dei Lannister, in realtà quando e se riuscisse a divenire re… Sarebbe Abigail Baratheon a regnare, questo è chiaro. Oltretutto… devo dirvelo: voci sempre più insistenti vorrebbero Napoleon non figlio di Axelion bensì di Henrich Bolton, il precedente Maestro delle Armi della Capitale». Né Marcus né sua sorella se la sentirono di replicare a quella infamante accusa; entrambi in realtà non avevano avuto più a che fare da molto tempo con il loro fratello re e quello che conservavano di lui erano solo… ricordi. Lo stesso Cavaliere della Chimera pensava a suo fratello come un giovanotto garbato, infinitamente buono, sempre sorridente e pronto a proteggerlo, ma tutto questo era poco… troppo poco. E si domandò dentro di sé se Mirietta non avesse del defunto primogenito dei ricordi ancora più scarsi… Cosa potevano fare? Difendere a spada tratta un fanciullino che non avevano neanche mai veduto?
                Quest’ultima fu apparentemente la conclusione di sua sorella, la quale disse allo zio: «Lotteremo con le unghie e con i denti fin quando non avremo rimesso Napoleon sul trono. E quando ciò sarà accaduto, ci sarò io a vigilare, e ci sarà Marcus»
                «Sì, Mirietta» insistette lo zio «Ma se il piccolo… fosse davvero un Bolton? Dicono che Lord Henrich stia radunando il più agguerrito esercito del nord possibile per rientrare alla Capitale e liberare suo figlio. Dicono che…»
                «Bene, quindi i Bolton sono dei nostri potenziali alleati da questo punto di vista»
                «Sì, ma, mia appassionata nipote… sempre nel nord, mentre noi combattevamo e perdevamo la nostra guerra nel sud… Lord Worchester, l’orso deforme di Amergoth, ha preso i suoi amici Willoughby e li ha messi al posto dei secolari Applegate, sovvertendo anche lì un sistema consolidato. E anche qui, all’occidente, i nostri diretti dirimpettai non sono più i Tyrell. Una casa millenaria è stata fatta fuori, l’Altipiano è come imploso, e adesso ci ritroviamo come vicino di casa un certo Gino della Casa Barron di cui non sappiamo assolutamente niente. E in tutto questo caos… nipote mia, tu mi chiedi di restare da solo». Ancora silenzio. Ancora Marcus e Mirietta non sapevano che cosa rispondere. Lei, era chiaramente un po’ più infastidita, ma si contenne. Lui era più che altro confuso. In buona sostanza, attesero che fosse di nuovo il vecchio leone a parlare: «Nipoti» disse Pylgrim con un certo tono solenne «Noi dobbiamo scegliere una fazione e appoggiarla»
                «Te l’ho detto!» si lasciò sfuggire la piccola «Napoleon è il re, per quanto mi riguarda»
                «Ah» sospirò il vecchio, rassegnato, «Sì, lo so! LO SO! È quello che dovremmo fare, ed è quello che mio padre avrebbe fatto, e mio fratello che fu vostro nonno e mio nipote che fu vostro padre ma… Perdinci, quella è una strada senza sbocchi al momento: bisogna ammetterlo»
                «Anche se non volessi considerare Napoleon un vero Lannister…» azzardò Marcus «Il re sarebbe mio fratello Daniel»
                «Disperso tra le nevi perenni del nord»
                «Allora…», Marcus non ebbe il coraggio di continuare quella frase, soltanto l’idea lo impauriva, lo sconfortava e lo confondeva: no, assolutamente no. Quel piano non era da considerare né come primario, né come secondario, né come niente. Lui non era in grado, non poteva e non sapeva farlo: dunque prima si passava ad altro, meglio era.
                «Questo ha senso» ammise però Pylgrim dal canto suo «Se solo considerassimo l’idea… solo momentanea… di un… sovrintendente Lannister in grado di animare un po’ di gente. Che sia conosciuto anche al di là di queste dannate rocce, che… abbia già fatto politica e dunque…»
                «Zio: non starai parlando di Constant?», si scandalizzò Mirietta. E lo stesso Marcus si ritrovò a ricordare al vecchio condottiero: «Ma non hai detto tu stesso che Constant si è già proclamato re? Come possiamo fidarci di uno che prima ha cercato di tradirci alle spalle, e ora lo fa dichiaratamente?»
                «Io… veramente…» balbettò lo zio «Ho parlato di un sovrintendente»
                «E chi gl’imporra di abbassare le aspettative?» chiese Mirietta «Tu?!»
                «Veramente» a questo punto il tono dello zio si fece quasi sommesso, come se avesse vergogna di ciò che stava per dire: «Ci ho già parlato»
                «COSA?!» esclamarono Marcus e Mirietta in coro.
                «Mi è parsa la cosa più giusta da fare! Non avevo vostre notizie da un pezzo! Non sapevo dove eravate! Che potevo fare, completamente da solo?! Io… ci ho scambiato qualche lettera, secondo me c’è la possibilità di convincerlo su questa cosa del sovrintendente»
                «Zio!» a questo punto Mirietta si scaldò «Napoleon è il vero e unico re degli Andali e dei Primi Uomini!»
                «E tu?» fece Pylgrim cupo, rivolto a Marcus, «La pensi così anche tu?»
                «Sì» si ritrovò ad ammettere il principe Andalo, senza il minimo dubbio, «Il piccolo è il re. E la questione per quanto mi riguarda è chiusa»
                «Sir Gyles» ordinò a questo punto l’anziano guerriero «Va’ dagli uomini dei miei nipoti e digli che adesso lavorano per me: non accettare risposte negative. Sir Wendell, confisca il fischietto della chimera a mio nipote! E fallo all’istante, prima che gli venga in mente di metterselo in bocca!». Marcus ci provò, ma Sir Wendell fu più rapido. Ancora una volta, nella sua vita, il più Andalo tra i Lannister si ritrovò prigioniero; e questa volta di un Lannister.

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Capitolo 9
*** Drago dell'est, drago dell'ovest ***


Capitolo 9
DRAGO DELL’EST, DRAGO DELL’OVEST
 
 
 
                Il viaggio di Garhel Sawela, di Banfred Panecha e dei due piccoli omini silenziosi che il Lord di Marrah Cankhubhia aveva messo a guardia del figlio, era proseguito con molta più serenità di quanto le premesse avessero lasciato presupporre. Il loro primo giorno nell’arcipelago, avevano prima osservato il demone di ghiaccio a cavallo di un uccello gigante fatto interamente d’ossa e cartilagini, e poi questo medesimo soggetto battersi con le piante e i fiori dell’isola stessa, venire sconfitto e infine ingurgitato e condotto chissà dove, in quell’area del fitto della boscaglia dove tutto diveniva di un inquietante color verde intenso tanto raro che forse l’ex Tribuno Popolare non aveva mai avuto modo di vederlo in natura nell’intera sua esistenza: il verde della natura selvaggia.
                Sostanzialmente, sebbene lui per primo non si fidasse di piantar le tende presso quel luogo così misterioso, Sawela e gli altri a un certo punto si ritrovarono talmente stanchi dentro i meandri della prima isola che o si appostavano, o si sarebbero ritrovati accasciati per terra a dormire laddove il sonno li avrebbe definitivamente pigliati. Non c’era alcuna possibilità di tornare a un “luogo sicuro”, a meno che non avessero deciso di mollare baracca e burattini e ritornare da Lord Justus con la coda tra le gambe, cosa che sicuramente il grasso, goffo e piccolo Banfred non avrebbe affatto disdegnato, così come in fondo anche le sue guardie del corpo silenziose, o almeno questa era la sensazione di Sawela, il quale in pratica era l’unico vero guerriero presente in quella compagnia. Guerriero nel senso insomma che aveva combattuto, e spesso vinto, delle battaglie.
                Dunque alla fine Sawela e gli altri capirono che seppure l’isola sapeva della loro presenza, e seppure li osservava, comunque nei loro confronti non aveva le medesime intenzioni ostili che aveva avuto con il mostro a cavallo dello scheletro d’uccello. Forse reputava quelle quattro creaturine fatte di carne e armate di ferro talmente poco offensive da non poter essere messe in termini di minaccia accanto a quell’altra creatura neanche lontanamente. O forse aveva semplicemente una simpatia nei loro confronti, oppure ancora aveva schemi e regole che esulavano dalla possibilità di speculazione da parte di Sawela che, sebbene nella sua vita fosse addirittura stato chiamato per un certo periodo di tempo “Lord”, in realtà non era nient’affatto un uomo colto. Lui era un guerriero.
                Quando raggiunsero il luogo dove, stando alle coordinate che Sawela – avendolo già visitato più volte – bene conosceva, una volta era sorta l’antica città di Valyria, e che adesso era un immenso agglomerato di macerie, il gruppo di Sawela in realtà non vide un immenso agglomerato di macerie. Esse c’erano, Garhel le riconobbe, ma si trovavano ricoperte da strati e strati di nuova vegetazione rigogliosa. Rampicanti si erano agganciati alle pareti, radici avevano sostituito le fondamenta, fronde, foglie e rami avevano ricoperto le tettoie e le terrazze. Inoltre un penetrante profumo dolciastro, che mai l’ex Tribuno Popolare aveva odorato in vita sua, era riuscito a ricoprire interamente il tanfo di polvere e vecchie ossa che una volta aveva caratterizzato la città perduta. Era senza dubbio una sorta di odore di fiori, ma molto meno delicato di qualsiasi fiore mai annusato, e soprattutto, se un fiore davvero c’era, quell’odore viaggiava per lunghe distanze, visto che Garhel, Banfred e gli altri non ne videro da nessuna parte: quel luogo era pieno di fiori, ma tutti di dimensioni ordinarie, mentre quell’odore non poteva non provenire da una cosa che avesse almeno le dimensioni della testa di un bove. Alla fine, guidati dall’indiscutibile senso dell’orientamento del Tribuno, i quattro raggiunsero il più antico dei palazzi, quello costruito su uno strapiombo che conduceva dritti dritti fino alle profondità abissali, e dove Garhel era stato prigioniero insieme a Yashua e al principe Marcus dell’occidente. Lì qualcuno di profondamente misterioso, ma con i demoni dal teschio nero al suo servizio, aveva condotto quei suoi satanici esperimenti che lo avevano portato alla sintesi di un terribile ibrido tra uomo e animale. Poi di quegli ibridi ne aveva fatti tanti da costituirci un esercito, e poi quell’esercito lo aveva messo su delle navi e lo aveva condotto via mare al Westeros. E sempre lì, sempre quel misterioso avversario probabilmente collegabile al nuovo re Targaryen, aveva pure tenuta prigioniera una creatura di solo spirito contenuta dentro una sorta di ampolla magica. E Yashua, Marcus e Sawela insieme l’avevano liberata.
                I ricordi di quei luoghi erano ancora vividissimi nella mente dell’ex Tribuno, ma ora ogni cosa era profondamente diversa. Come se in un tempo brevissimo fossero passati in realtà centinaia – o perfino migliaia – di anni. E in un ambiente così alieno ogni cosa poteva rivelarsi letale, perfino la più innocua: in merito a questo, quello che era accaduto al diavolo del ghiaccio poteva essere considerato un esempio lampante.
                Ma se davvero dei pericoli potevano esserci, a questo punto non potevano che trovarsi all’interno del maniero a strapiombo sul mare: se li volevano, Garhel e gli altri dovevano solo andare a cercarseli. Ancora una volta, il decaduto Tribuno Popolare decise per la cautela e, siccome era notte, decretò che bisognava accamparsi: all’indomani mattina – una volta freschi e riposati – il momento della corsa verso l’ignoto.
                Ma fino alla tarda notte, Garhel Sawela non riuscì a chiudere occhio. La cosa lo innervosì parecchio, perché non c’era abituato. Da bravo guerriero, lui sapeva che il ristoro era un elemento fondamentale per vincere una battaglia; e dunque da una vita si era ormai abituato a dormire nelle situazioni più scomode e improponibili. Riusciva a trovar sonno dovunque e in qualsiasi circostanza, se lo voleva. Ma quella notte: niente da fare. Si girava e si rigirava come se stesse sdraiato su un letto di spine, anziché in uno dei comodi saccoletti generosamente concessi dal Lord di Marrah che, per inciso, era uno dei migliori in cui aveva dormito nella sua lunga vita di avventuriero: non sapeva da chissà quale animale fosse stato preso e lavorato quel pelo, ma era dannatamente soffice e caldo, quasi come l’abbraccio di una donna. Naturalmente la sua insonnia non aveva nulla a che vedere con l’avventura prospettata per l’indomani: certo, si sarebbe trattato di una di quelle cose memorabili che nella vita capitano una volta soltanto… ma insomma: Sawela era perfino riuscito a prender sonno in un cunicolo nei pressi dell’insediamento nemico a poche ore da una battaglia in cui il nemico aveva la netta superiorità numerica, dunque… non c’erano ragioni per non dormire! Assolutamente nessuna ragione che in quel momento gli venisse in mente. A un certo punto, gira che ti rigira, finì per ascoltare i suoni della notte. Grilli perlopiù. Grilli in amore che strillavano le loro canzoni appassionate. Un gufo, una volta, che svolazzava annoiato. E poi… un singhiozzo. Nervoso, disarmonico, e intervallato da rumorosi refoli nasali e da qualche scatarrata: da chiunque provenisse quel singhiozzo, doveva avere problemi a respirare.
                «Banfred!» fece Garhel quando, alzatosi e seguita l’origine del suono, trovò Panecha seduto dietro all’ampio tronco di un grosso sicomoro. Quello subito smise di singhiozzare e gli rispose balbettando: «Lo-Lord Sa-Sawela», e Garhel: «Non sono più un Lord. Non dovresti allontanarti: se ti succedesse qualcosa, tuo padre mi farebbe la pelle. Prima a me e poi ai membri della mia comunità»
                «Oh n-no si-signore» rise il ragazzino, impacciato, «N-non lo farebbe»
                «Che dici! Certo che lo farebbe»
                «S-signore, non so che opinione a-abbiate voi di mio padre, m-ma…»
                «Banfred! Banfred: ascolta. Smettila di balbettare: m’innervosisce. Non ci sono ragioni per farlo. Sei l’ultimo qui che rischia la vita: io non posso permettermi che tu muoia. E comunque… non moriremo: se l’isola avesse voluto fagocitarci, lo avrebbe fatto prima: ne abbiamo già parlato»
                «Signore!» Garhel aveva ottenuto esattamente l’opposto di ciò che voleva: il ragazzo ricominciò copiosamente a lacrimare «Io non sono come voi! Non sono adatto per… per queste cose! Ho implorato mio padre perché non mi mandasse, m-ma lui ha detto… ha detto: “o-ormai sei un uomo Banfred! Devi… devi prenderti le tue responsabilità!” Posso farvi una confessione, mylord?»
                «Beh, io veramente…»
                «I-io non so se lo voglio fare…»
                «Che cosa?»
                «Il mestiere di mio padre! Lui… Lui è pieno di amici, e sa come piacere alla gente. Capisce da che direzione tira il vento, e sa sempre chi vincerà una guerra o… o una battaglia, o un conflitto di qualsiasi altra natura. M-Ma io non sono così! Questa vita non è per me. Io lo so… lo so che nel mondo ci sono tanti ragazzi come me, o più giovani che… che… non hanno quello che ho io: so di essere fortunato! Ma… Io sono così stanco di tutto questo, così stanco!». Banfred pianse. Pianse in maniera davvero umiliante. E, incredibile solo a pensarsi, Garhel Sawela provò pietà per lui. Se quello che gli stava davanti fosse stato un uomo fatto e finito, lui di certo si sarebbe irritato: lo avrebbe costretto ad alzarsi e con due sberle a rigare dritto. Ma Banfred era poco più che un bambino: troppo grasso e viziato, ma… insomma: non aveva colpe per questo. Le colpe erano di Lord Justus, il quale a quanto pareva aveva un ulteriore faccia tra le cento che l’ex Tribuno aveva avuto modo di scoprire negli anni della sua esperienza di frequentazione del Lord degli elefanti: la faccia del padre severo e pretenzioso – chissà a questo punto magari anche assente – dinanzi alla quale il vecchio Lord Justus teneva la maschera dell’uomo pacato e tendenzialmente conservatore per quanto riguardava l’ambito del famigliare e del privato.
                Ma a Garhel di rado erano successe situazioni del genere: di solito la gente non si confessava con lui, al massimo lo faceva con Yashua. Era piuttosto in imbarazzo, non sapeva che dire, dunque si sporse verso il ragazzo obeso, allungò il braccio – ma non lo strinse – e gli diede qualche pacca dietro la schiena. Poi disse: «È tutto a posto ragazzo. Per ora vediamo di sopravvivere a questo delirio, dopodiché… dopodiché… parlerò io con tuo padre, va bene? Ci parlerò io». Beh, non sapeva per dirgli cosa, ma non si trattava di una menzogna: con Lord Panecha, Garhel Sawela prima o poi avrebbe dovuto davvero conversare di nuovo.
 
 
 
                Xenya fu costretta a dare un calcio a Tampepe l’arciere, il quale nonostante la presenza di un secondino dei figli del drago, e la manifesta volontà di quest’ultimo di farsi notare, stava dormendo il migliore dei sonni profondi. Ma lei non lo capiva il selvaggio senza l’intermediazione dell’altro selvaggio un po’ meno selvaggio, e dunque scelse per un risveglio brusco ma rapido: un bel calcione sull’avambraccio. Quello, tutto agitato, cominciò a chiedere che cosa fosse accaduto; l’esploratrice fece un cenno e chiese seccamente: «Che cos’è che vuole?»
                «Voi, signora» rispose l’arciere, svogliato. Poi, rigirandosi completamente, concluse: «Dice che il re vuole parlare con la femmina». Xenya si prese d’animo e lasciò che il secondino la liberasse dalle catene con cui lei e i suoi compagni erano stati legati alle pareti di roccia di quella grotta oscura. Poi venne spintonata fino all’antro del re.
                Una volta dentro, il secondino lasciò la sala (una sorta di tana spoglia con nulla di interessante da notare): Xenya si ritrovò per la prima volta da sola col drago, anche se tornato nella sua forma umanoide; questo significava che, com’era ovvio, nessuno temeva una nuova aggressione dell’esploratrice ai danni del re, né un qualsiasi altro tentativo di fuga.
                «Lo sai…» cominciò l’immenso re, girandole attorno e scrutandola con quei suoi inquietanti occhi da rettile, «Tu mi ricordi lei…»
                «Lei chi?». Xenya era molto brava a nascondere le proprie emozioni: le veniva naturale, fin da quand’era bambina. Le altre bambine, ridevano sempre come matte o piangevano sempre come disperate, mentre lei restava sempre… lei. In realtà in quel momento il cuore le stava battendo probabilmente al massimo che potesse fare senza lasciarla secca, ma era con tutta la freddezza del mondo che aveva fatto quella domanda. E, quando il re perse un po’ di tempo per risponderle, perso com’era nella sua disamina, l’esploratrice ebbe pure il fegato di ripetere: «Allora? Lei chi?»
                «Luxia» rispose il re, e un brivido attraverso la schiena di Xenya, pure se non aveva idea di che cosa il suo interlocutore stesse parlando, «Non è una questione di carne. I suoi capelli erano biondi, e la sua pelle… algida. Era la più simile ai nostri figli. La più simile tra noi»
                «Voi…?»
                «I draghi dell’origine. Non è un termine nostro: noi non ci chiamavamo in nessun modo. Lo avete inventato voi»
                «E… noi invece…»
                «Gli umani. I nostri figli. Figli quasi nel vero senso della parola, stando all’opinione di miei fratelli come Luxia e Nidhogg. Requiem invece… per lui forse il termine più adatto era “sudditi”. Oppure “schiavi”. E tu sei come lei, come Luxia. Percepisco dentro di te quello spirito combattivo tipico della madre che protegge i figli. Oh, tu non hai figli: lo so bene. Ma tutto quell’ardore, e quella bruschezza non sono altro che questo: il desiderio di proteggere coloro che ti sono cari. Beati i tuoi amici». Il sorriso del drago fatto uomo continuava ad essere inquietante: un viso di quel genere non poteva in alcun modo risultare rassicurante, per quanto quelle parole sembravano indirizzate proprio a quello scopo. Ma il suo sguardo… era così animalesco, come quello delle feroci lucertole giganti delle paludi delle Terre dei Fiumi. Indipendentemente da cosa stesse dicendo, quello che i suoi occhi parevano comunicare era: “mi fai appetito e intendo mangiarti prima di subito”.
                «E tu?» si ritrovò comunque a domandare l’esploratrice «Tu come ci chiamavi?»
                «Non vi chiamavo. Trovavo esagerate entrambe le posizioni, almeno a quei tempi. Poi… ho visto l’orrore di Requiem e… la mia sensibilità ha teso sempre più ad avvicinarsi a quella dei miei altri fratelli, lasciando lui sempre più isolato. Non ritenevo di potervi chiamare figli, perché il processo di generazione dei vostri antenati era avvenuto con la magia, e non con le altre strane tecniche che utilizzate voi per riprodurvi. Inoltre, se figli erano, figli erano solo i primi, e non certo tutta quella massa di individui che pure Nidhogg, Luxia e anche Kimera chiamavano figli, e che invece erano venuti fuori da un processo riproduttivo generato da un processo riproduttivo generato da un altro processo riproduttivo e poi via così per decadi. Quelli non erano figli! Non erano nemmeno nipoti… eppure per Luxia lo erano. Poi, venne la guerra. Requiem mise gli umani prima contro loro stessi e poi… contro di noi. Fu allora che voi conosceste l’odio. Osservai i fratelli combattere contro i fratelli. I figli uccidere i padri, le figlie maledire le madri. Ho visto tanto di quel sangue da ricoprire la mia mole per cento volte. Allora me ne chiamai fuori. Da allora non ho più rivisto i miei fratelli e sorelle, anche se mi risulta che, poco a poco, anche loro abbiano deciso di defilarsi dalle vicende degli uomini. Eppure… di recente un tremito ha scosso l’etere dormiente in cui per millenni ha riposato la nostra magia»
                «E che cosa è accaduto?»
                «Io presumo che uno di voi, uno dotato di poteri assai superiori rispetto ai quali ormai sarete abituati, abbia rotto Cair Dedalos e si sia impossessato del supremo potere dei sette manti»
                «Ora sì che sono confusa…»
                «Va bene: lo capisco, non è necessario che tu conosca tutto ciò. Io desideravo solo che tu m’informassi. Vedi… quando sono venuto in questa landa desolata, all’inizio ero solo. Ma col passare del tempo, ho generato loro» con quel gesto rivolto all’esterno, Xenya intuì che il re della montagna stesse intendendo gli uomini-drago, «Sono i miei figli. E, avendo loro, io non ho più trovato ragioni per un contatto né con i miei fratelli – che peraltro presumevo deceduti – né con il resto dei nostri figli traditori. Una nuova era è ricominciata da qui. E i miei figli, salvo rare eccezioni, non si sono mai uccisi tra di loro. Eppure tu sei diversa: non sei una di loro, e non sei una Sayun-sama, né una Kowacz. Dunque devi provenire dalla terra in cui una volta noi risiedevamo. Io so che, di tanto in tanto, un po’ di magia debba essersi manifestata, anche nel vostro mondo. È inevitabile: si tratta di una forza insopprimibile, in costante movimento, che non può non venir fuori a volte. È questa la ragione per cui uno dei vostri ha potuto rompere il sigillo di Cair Dedalos. Ed è questa la ragione per cui alcuni di voi, talvolta, siano stati in grado di compiere atti memorabili, no? Specialmente con il sangue e con il fuoco». Xenya questo punto ripensò alle antiche storie che circolavano per il Westeros: quelle relative ai sovrani Targaryen (“Fuoco e sangue” era il loro motto tradizionale), o ad altri individui “magici” di varia natura. E ripensò a storie anche contemporanee: la gran parte dei religiosi di cui lei aveva sentito parlare giustificavano la loro autorità grazie all’ausilio di un qualche tipo di “potere”. E i santoni orientali, quelli spesso utilizzavano il fuoco nei loro numeri cosiddetti “prodigiosi”.
                Dunque l’esploratrice non poté non domandare: «Perché il fuoco e il sangue?»
                «Sul sangue è presto detto: è la linfa vitale della vostra natura, dunque – a prescindere da ciò che accade – voi tendenzialmente ne rimanete impressionati. Col fuoco invece… il discorso è differente. Di tutti i miei fratelli, io sono quello che da sempre riesce a sopprimere meno i suoi istinti più naturali. Dunque, nonostante tutti i miei sforzi di scomparire da questo mondo, inevitabilmente la mia magia lascia tracce. E quindi in conclusione: è per causa mia che avvengono i fatti di magia anche da voi, qualora avvengano. È un fenomeno che esula perfino dalla mia volontà. Si limita a succedere: come il fatto che parte dell’aria che io respiro in questo momento possa arrivare dentro di te, così è con la magia del fuoco che mi connatura. Solo… a un raggio di distanza molto più elevato».
                Tutti quei discorsi stavano perfino andando oltre le migliori previsioni di Xenya. Credeva che il drago l’avesse convocata per continuare a minacciarla, quando non per dilettarsi nel torturarla e infine sfamarsi di lei. Ma non era andata così, anzi: Xenya sarebbe uscita da quell’antro più illuminata di come ci era entrata. E qual’era il miglior proposito di un buon esploratore, se non ottenere conoscenze, sempre maggiori conoscenze, in grado di spiegare i fenomeni del mondo? Era incredibile solo a rendersene conto, eppure quell’esperienza si stava rivelando utile perfino per gli obiettivi professionali di Xenya, oltre che per la soddisfazione della sua sete di conoscenze. Il bello era che se fino a pochi minuti prima voleva affrettare quanto più possibile quell’incontro, sperando che il re drago le concedesse di tornare al sicuro presso la parete dove se ne stava incatenata con Tampepe e Jorando Pashamanyna, adesso Xenya avrebbe voluto prolungare la conversazione: sarebbe rimasta lì dentro almeno per qualche altra ora.
                «Il fuoco è il segreto della gran parte delle cose del mondo, giovane femmine umana. E in questo luogo particolarmente è determinante. Esso risiede dentro di me. Risiedo dentro i miei figli. Risiede dentro la montagna che ci fa da dimora. E, distendendosi oltre le valli e le foreste, raggiunge anche il mare. Qui è il fuoco che regna, ed io ne sono il re. Qui siamo liberi, ed io sono re di una razza di umani che vivono come fratelli: non si uccidono per interesse, non provano invidia l’uno per l’altro. Ora, tuttavia, gradirei ascoltare un po’ delle tue storie, giovane femmina umana»
                «Molto bene» fece Xenya, capendo bene che in un rapporto sano – se davvero si vuole ricevere – un poco bisogna anche dare, «Ma ho una cortesia da chiedere prima…»
                «Sì?»
                «Il mio nome non è “giovane femmina umana”. È Xenya. Xenya l’esploratrice».
 
 
 
                Naturalmente fu Garhel a precedere il gruppo entrando di buon mattino, ristorati e in seguito a una discreta colazione (perfino buona, date le circostanze) dentro la magione ricoperta di fronde. Si trattava probabilmente del castello più antico della città di Valyria, uno degli edifici ancora relativamente stabili più vecchi al mondo: forse il più antico, per quanto Sawela ne sapesse, ma Sawela non era un uomo colto.
                In verità dentro non c’era molta luce: il fitto degli alberi, i rampicanti e le altre piante permettevano un accesso solo limitato ai raggi del sole pur essendo piena mattina: sostanzialmente, il piccolo gruppo si ritrovò a marciare in penombra, al fresco, e costretto a prestare costante attenzione a dove mettesse i piedi, visto che grosse e robuste radici avevano ormai sradicato l’impianto liscio dell’antica pavimentazione di pietra. Ancora una volta, la sensazione che Garhel ebbe fu quella di qualcuno che li osservasse ma preferisse lasciarli fare. Il canto degli uccelli sopra i tetti,aveva qualcosa di strano, artificioso, e buona parte del loro cammino fu accompagnata della presenza di quei grassi fiori a sette petali che davano in tutto e per tutto l’impressione di occhi grandi, profondi ed estremamente attenti. Era una sensazione davvero pessima: si sentiva come un lattante a capo di un gruppo di lattanti ancora più piccoli che avevano appena cominciato a muovere i primi passi e che, convinti di fare chissà quale percorso, in realtà stavano solo facendo dal tavolo alla sedia, costantemente sotto l’osservazione della mamma o della balia.
                Ma a un certo punto l’incantesimo venne spezzato. Visto che fino a quel momento non era successo, un avventuriero un po’ più sprovveduto avrebbe considerato la cosa a dir poco sorprendente, ma Garhel era un uomo d’esperienza e non aveva mai creduto alla farsa dell’isola “innocente”. Sebbene Banfred e i due omini piccoli e silenziosi vennero agganciati quasi subito da alcuni rampicanti agitati da una qualche volontà magica, lui gli rese le cose un po’ più complesse. Resistette per un bel po’. Tagliò con la sua sciabola rami e radici, tutti indirizzati ad acchiappargli i polsi, le caviglie, o altre parti del corpo. Ma era palesemente una partita persa in partenza: quando capì che non avrebbe ottenuto alcun risultato oltre che stancarsi, si fermò di colpo e si fece annodare come un salame. Una voce si propagò a questo punto dall’alto. Una voce femminile, per quanto estremamente solenne, quasi aulica, come se fosse il tetto stesso dell’edificio a parlare, o le fronde degli alberi, o qualcosa ancora più in alto…
                «Che cosa volete?» chiese. Dopodiché lo ripeté più forte, mentre i rami e le radici li scuotevano come ancora una volta dei poppanti, ma stavolta in braccio a giganti. «Non abbiamo intenzioni ostili!» rispose Garhel tra i denti, ma non era quello che i rami volevano sentirsi dire, visto che per la terza volta la voce ribatté: «CHE COSA VOLETE?»
                «Vo-vogliamo capire!» balbettò Banfred Panecha, lasciando Sawela piuttosto di stucco, sebbene ancora abbastanza lucido da fargli capire che probabilmente era il caso di lasciarlo fare. Banfred d’altro canto era più colto di lui e aveva studiato le discipline più utili nelle migliori scuole: forse si sarebbe rivelato un imprevedibilmente efficace asso nella manica.
                La voce continuò con una nuova domanda: «Capire cosa?»
                «Capire…» fece Banfred «Capire cosa sta accadendo su quest’isola e… nelle altre»
                «E perché la cosa dovrebbe riguardarvi?»
                «Ehm… perché… perché… io sono Banfred Panecha, principe di Marrah Cankhubhia. Mio padre è un importante sovrano, di un regno vicino. Regna su molta gente. Molti… ehm… molti esseri umani». A questo punto, la voce aulica di donna non rispose più. Non rispose più per un periodo abbastanza preoccupante a giudizio di Garhel Sawela: cinque, anche sei minuti. Poi lui e gli altri vennero semplicemente trasportati, sempre via rami e radici, da un’altra parte dentro il castello in rovina; un’altra “sala”. E lì, da una sorta di enorme tenda a cascata fatta interamente di liane, l’essere cui apparteneva la voce infine si manifestò. Si trattava di una donna, ma una donna le cui dimensioni e proporzioni erano praticamente disumane. Era alta almeno quanto due uomini adulti, e qualcosa nel di lei sguardo dava l’impressione come se tutto quello che stesse osservando fosse nuovo. Non tanto e non solo Sawela e il resto del gruppo che con lui aveva violato la santità del suo tempio, ma anche semplicemente la luce, l’aria. Era una donna gigante con nello sguardo la meraviglia di una neonata.
                Con i capelli biondi, ma di un chiarore quasi bianco, raccolti in due strette crocchie annodate da nastri multicolori e gli occhi di un bel verde sottobosco tendente al castano, la creatura dalla voce aulica se ne stava ammantata in una sorta di tunica celeste (anche questo dai toni chiarissimi) e li osservava senza proferire parola. Per qualche ragione, dapprincipio nemmeno loro spiccicarono una parola: né Garhel – a cui secondo lui sarebbe spettato in quanto capo della spedizione – né Banfred – che poco prima aveva mostrato un’imprevedibile audacia – e né gli ometti piccoli e silenziosi: d’altro canto erano ormai per definizione silenziosi. Ma a un certo punto, l’ex Tribuno Popolare si rese conto che andando avanti a quel modo la possibilità di essere liberati si sarebbe allontanata sempre di più. Era dunque pronto a proferire parola, quando finalmente la donna gigante disse, lentamente e scandendo quasi ogni parola: «Devo ammettere che non mi sarei mai aspettata che degli uomini trovassero per prima me. Pensavo che sarei stata io a raggiungervi sulla terraferma, una volta che la guerra fosse cominciata»
                «Che guerra?» chiese Sawela, cercando di mascherare il fatto che se la stava facendo sotto.
                «La guerra della vita ai danni della morte»
                «E perché questa guerra coinvolgerebbe gli uomini?»
                «Gli uomini fanno parte di una delle due fazioni. Quella della morte. Come razza è ormai chiaro che voi abbiate preso il percorso della violenza e della distruzione. Ed è necessario che tutto questo si arresti, se il resto delle creature di questo mondo vuole mantenersi in vita. E per accadere questo, mio malgrado, gli uomini debbono perire. Sto raccogliendo le forze e le energie in questo luogo dove un esercito umano non può raggiungermi. E quando sarò pronta… io vi estinguerò». Sawela invocò a quel punto il dio che Yashua lo aveva aiutato a conoscere, ingoiò il rospo che gli si era formato in gola e fece per intervenire. La folle donna gigante lo interruppe di nuovo: «Sono la prima a provare immenso rammarico, e vi assicuro che ho ripensato tanto su questa mia conclusione. Ci ho pensato… per millenni. Gli uomini erano i nostri figli. Ma ci hanno ucciso, e si sono uccisi tra loro, e ora stanno uccidendo ogni cosa. Essi debbono perire»
                «M-ma» balbettò Garhel, sentendosi per un momento Banfred, il quale invece doveva essere già morto d’infarto, «Ma… c-chi sei tu? Chi siete voi?»
                «Io sono Kimera. E presiedo a tutte le forze della natura e della vita. Quelle stesse forze che presto determineranno il crollo del regno di Panecha se – a quanto ho capito – esso è il più vicino. E dopo di esso, il crollo di tutti gli altri regni della terra. Noi eravamo i draghi dell’origine. Kimera, Luxia, Requiem, Nidhogg e Kyrios. È a noi che gli uomini devono la loro esistenza. Dalla nostra magia si generarono i primi. E poi quelli generarono tutti gli altri… siete i nostri figli, la più benedetta delle creature. Eppure avete tradito la vostra stessa natura… siete divenuti demoni. E sarete sterminati per questo. Io, e gli altri miei fratelli, vi abbiamo difeso fino alla fine dalla furia di Requiem, ma voi siete infine divenuti tutti suoi schiavi. Schiavi della morte, schiavi del dolore, schiavi del peccato. Questa umanità non ha dunque più senso»
                «S-sì» continuò a balbettare Sawela «Ma non siamo tutti così! Alcuni uomini sono migliori!»
                «Certo, è ovvio. Ma è un numero risibile rispetto al resto, e comunque la mia scelta non può più essere messa in discussione, men che meno da un umano. Non avrei sgradito un confronto con i miei fratelli, se non pensassi che ormai sono tutti morti. Sono rimasta io sola, e io sola mi prenderò questa responsabilità. Tuttavia penso onestamente che forse, già che siete venuti, potrei utilizzare la vostra presenza in qualche modo a mio vantaggio. O potrei non farlo. Ma nel dubbio, vi terrò in vita come già ho fatto con quell’altra creatura. Gli uomini di questo mondo necessitano ancora solo di acqua e frutta per sopravvivere?»
                «Beh» fece Garhel confuso «Sì, e dell’aria che respiriamo»
                «Farò in modo che ne riceverete tutti quanto prima» concluse la donna e poi accadde quello che ancora di più sconvolse il Tribuno Popolare, quello che mai nella sua vita si sarebbe sognato di vedere. Una di quelle cose che raccontano i detti popolari e che però… insomma: non accadono! Certo, Garhel ormai con Yashua si era pure abituato a credere ai miracoli, nonostante lui di base fosse stato eretico e miscredente verso qualsiasi dio, ma… ma quello no. Andava al di là del più roseo dei suoi sogni.
                Accadde praticamente tutto assieme: mentre sul tetto le fronde si animavano aprendo sostanzialmente una voragine, con il sole che tornava prepotentemente a splendere sui visi dei prigionieri, e con tutto ciò la scoperta di non trovarsi in una sala al chiuso del castello bensì all’aperto, la donna si trasformò in drago. Pelle a scaglie, ali triangolari, muso allungato. Solo gli occhi rimasero praticamente dello stesso colore. Un drago immenso molto più grande di quanto Sawela se li fosse mai immaginati.
                Dopodiché, la draghessa spiccò il volo, lasciando Sawela e il resto del gruppo inchiodati in quella sala tra le fronde, profondamente stretti da rami, radici ed altre escrescenze arboree di varia natura. A quel punto, Garhel ebbe perfino modo di notare un’ennesima cosa sconvolgente, in quel periodo in cui certo queste ultime non erano mancate. In quella “sala” ora all’aperto lui, Banfred e gli omini piccoli e silenziosi non erano da soli. C’era anche il teschio nero del demone di ghiaccio. Di nuovo spoglio, di nuovo senza un collo, un busto, due braccia e due gambe al suo di sotto. Come ai tempi di Yashua, esso era di nuovo prigioniero. Solo che anziché visitato di tanto in tanto da uno stregone che lo ricoprisse di fiamme, adesso era circondato come da un’aura verde. Una sorta di polveri sottilissime dell’acceso colore del pisello si abbatteva costantemente sulle lisce ossa di quel cranio dannato. Dovevano essere necessariamente frutto della magia della malvagia Kimera. Ma il teschio non era preoccupato. Puntò le sue orbite vuote verso l’ex Tribuno Popolare e… parve sorridergli.

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Capitolo 10
*** La strategia di Tyresyah ***


Capitolo 10
LA STRATEGIA DI TYRESYAH
 
 
 
                Daniel della Casa Lannister aveva osservato la ragazza dagli occhi azzurri e il caschetto moro. L’aveva studiata con attenzione, più di qualsiasi altra cosa in quella biblioteca, fin dal suo primo giorno di “trasferimento di cella”: dagli angusti appartamenti non distanti dalle camere di Uryion Worchester alla mastodontica torre-biblioteca di Amergoth, l’occhio dell’orso. Lei non era uno di quelli che dentro Amergoth ci vivevano, come quei tre o quattro maestri, o gli altri impiegati di varia natura. Faceva lavori manuali: spostava volumi, o scaffali, o serviva gli inservienti di grado più alto in altro modo. Era una sorta di sguattera, solo che non lavorava in cucina. Era una sguattera da biblioteca.
                Daniel non aveva più letto Storie recenti delle più antiche casate del maestro Vayne, il volume che gli aveva consigliato Lord Worchester per capire cosa i Bolton – su suggerimento dello stesso orso del nord – avessero intenzione di combinare al sud, ora che Gabryaerys Targaryen era il re. I primissimi giorni alla biblioteca li aveva sfruttati per ambientarsi e capire un po’ meglio come funzionavano le cose lì dentro: era tutto, se non proprio difficile, piuttosto articolato e non semplicissimo da memorizzare. Chi era il vero capo, a chi spettavano le ultime decisioni logistiche sulla sistemazione di una nuova collezione piuttosto che sulla riorganizzazione o aggiornamento di un determinato settore, questo il principe Piromante non l’aveva ancora capito. Formalmente, come sempre in questi casi, l’ultima decisione spettava al Lord, ma neanche il coltissimo Uryon Worchester sarebbe stato in grado di capire le più complesse trame della biblistica di livello mondiale, come era quella di Amergoth presso Biancavilla del Nord. Poi c’era tutta una serie di impiegati che grossomodo corrispondevano alla “area” nella quale Daniel si poteva muovere: cioè se aveva un qualche genere di problema, non era mica necessario che si rivolgesse al capo assoluto della biblioteca, bastava tutta una serie di sottoposti, ultimo dei quali era un ragazzotto leggermente in sovrappeso dai capelli biondicci che doveva essere di poco più grande di lui e il cui nome era Kohler. Era molto espansivo e molto preparato: impossibile per Daniel non stringerci amicizia quasi fin da subito, data la sua disponibilità per ogni esigenza che il prigioniero di sangue reale aveva manifestato.
                Dopo questi primi giorni di “assestamento”, infine Daniel aveva cominciato ad approcciarsi a qualche libro, ma i primi su cui era andata la sua attenzione non avevano riguardato storie di re o vecchi Lord. Avevano riguardato i draghi. Anche perché quello del maestro Vayne era un libro specifico che il principe di Cowain avrebbe dovuto cercarsi, mentre quei libri sui draghi li aveva capitati quasi casualmente. Trattavano comunque di draghi minori: le creature magiche, ma un po’ bestiali, che si erano evolute solo dal sangue del sangue del sangue dei draghi dell’origine, la cui vicenda il principe Piromante aveva avuto modo di conoscere grazie alla sua frequentazione con l’immenso Nidhogg. Poi a un certo punto però Daniel finì per annoiarsi. Cominciò dunque a cercare di recuperare Storie recenti delle più antiche casate.
                Per farlo, su consiglio del buon Kohler – come Daniel aveva cominciato a chiamarlo – dovette rivolgersi alla zona della biblioteca dove normalmente saltellava quella sorta di piccola Anylice rediviva. E per chissà quale combinazione astrale, fu proprio a lei che il principe fu costretto a rivolgersi per cercare il suo volume. Assolutamente non lo fece capitare apposta: il maestro del settore, e tutti i suoi sottoposti parevano troppo impegnati, infinitamente perfino troppo più impegnati rispetto pure agli altri impiegati degli altri settori di Amergoth, per degnarlo anche solo di una risposta. Quella che si fermò fu la ragazza uguale ad Anylice e fu a lei che il principe Daniel si rivolse. Una volta che la ragazza definitivamente si fermò e rivolse a lui la propria attenzione, le disse: «Starei cercando Storie recenti delle più antiche casate del maestro Vayne. Kohler mi ha detto che dovrebbe trovarsi in questa zona…»
                «Mh… sì, dal titolo sembra un due-tre-sei in effetti» rispose la fanciulla, mentre Daniel annuendo faceva finta di sapere cosa diavole fosse un “due-tre-sei”, «Kohler. Chi è Kohler?»
                «Oh beh, lavora al settore della zanna. Capelli biondi…»
                «Ah sì! Capelli biondi, leggermente in sovrappeso»
                «Sì»
                «Simpatico!» sorrise la fanciulla «Seguimi!». E Daniel la seguì. La osservò bene per un periodo abbastanza soddisfacente, visto che il volume di Vayne lo trovò, ma lo trovò circa al sesto o settimo tentativo. E più la guardava, più Daniel non riusciva a non pensare che quella effettivamente fosse Anylice. Solo… senza quell’aspetto magico che l’aveva connaturata la prima volta che lui l’aveva vista. Non aveva la pelle color del ghiaccio, non aveva gli occhi di un azzurro disumano simili a cristalli. Ma al di là di queste due caratteristiche, poi la sguattera di Amergoth era praticamente lei: la Criomante scomparsa all’Ultima Porta. Certo era passato del tempo. E certo Daniel non poteva non considerare la possibilità che in realtà la sua non fosse altro che suggestione: vedeva Anylice perché voleva vedere Anylice.
                Decise di giocarsi la carta della simpatia e, quando lei gli consegnò il libro, si lamentò del suo volume. «Oh no!» fece infatti, con non poca ironia, «E chi se lo sarebbe mai immaginato che un testo comprendente centinaia d’anni di storia avesse tutte queste pagine?»
                «Non ami leggere, mio signore?»
                «Il giusto. E tu invece?»
                «Oh, io lo adoro, mio signore. C’è una storiella curiosa in realtà: devi sapere che per tutto un lungo periodo io ho dormito»
                «Mh… in che senso?»
                «Beh, che… sì insomma: a un certo punto, non mi sono più svegliata. Come morta, ma con il respirto e il battito del cuore. Per un lunghissimo periodo a dire il vero»
                «Tipo quanto?»
                «Anni. E… io sono una ragazza del volgo: non sapevo leggere, così come non sanno farlo la mamma e il papà, né alcuno dei miei fratelli e sorelle. Solo che… poi mi sono svegliata e… adesso leggo. Un dono degli dèi, così la penso io. O almeno, questa è l’unica spiegazione che riesco a darmi. E siccome non è che leggo così, “benino”, ma leggo proprio fluentemente e con una certa rapidità… la mamma mi ha detto, ha detto: “Va’ ad Amergoth. Va’ a crearti una vita lì”, e così ho fatto»
                «La tua famiglia è del nord?»
                «Sì, mio signore. Un piccolo villaggio non distante da Deepwood Motte. E tu, invece? Com’è che sai leggere?»
                «Mi chiami “mio signore”» fece Daniel, rispondendo alla domanda un po’ alla lontana, «Come sai che sono un Lord?». Daniel riteneva quella curiosità piuttosto lecita, visto che non vestiva dei veri abiti comodi – da “signore” – da non sapeva più quanto tempo. Praticamente era giunto al nord già agghindato in sacco e pelli di scarso valore, ai tempi in cui Nidhogg non era ancora entrato a far parte della sua vita, e lui non era altro che un giovanotto un po’ viziato e un po’ spocchioso che con un certo malincuore giungeva al monte di Cabuk in groppa a un onagro, accompagnato forse dal più petulante e testardo dei galantuomini del sud: il suo compianto amico e protettore Sir Cordell. Dunque, dato tutto ciò, Daniel veramente si domandava come faceva una villana qualsiasi ad accorgersi a una prima occhiata che c’era del sangue nobile nelle sue vene.
                La ragazza rispose: «Beh, vedi: tu non mi crederai, ma da quando mi sono svegliara ho letto veramente tantissimo e… di mille argomenti. Ehm… animali, strategia militare, le stesse grandi nobili case del sud» queste ultime parole, le disse indicando il volume del maestro Vayne, «Ed ecco… ho avuto modo di apprendere che un nobile non è soltanto uno che è ben vestito o… porta un emblema ricamato da qualche parte. Un nobile ha un certo portamento, incede in un luogo che non conosce… in modo diverso, rispetto a come farei io o mio padre o mio fratello. Naturalmente non tutti i nobili, non quelli investiti solo recentemente ma… un nobile vero, sì»
                «Mi domando che genere di libri avrai letto per arrivare addirittura ad accorgerti di queste cose»
                «Oh molti, mio signore: davvero molti. Da quando mi sono svegliata io… ecco passo a leggere la gran parte delle mie giornate»
                «Io leggo fin da quand’ero un soldo di cacio. Eravamo obbligati, che ci piacesse o meno»
                «Hai avuto dei precettori
                «Oh sì, uno degli uomini più illuminati dei Sette Regni: Lord Braff»
                «Hai parlato al plurale. Tu e chi eravate obbligati?»
                «Io e… i miei fratelli e sorelle» e a questo punto una profonda malinconia di nuovo, come sempre ormai quando ci pensava, si impossessò del principe Piromante, «Non li vedo da moltissimo tempo. Mirietta sarà diventata grande ormai. L’indiscussa signora di Lannisport. Quanto ad Hana e Marcus sicuramente si saranno ritagliati un qualche ruolo primario nell’opposizione a questo nuovo re, probabilmente lei da dentro – con la sua abilità nelle arti della politica e della diplomazia – lui da fuori, con la sua abilità nel… essere Marcus». Marcus “l’Andalo” come molti lo chiamavano, proprio per merito o per colpa di Daniel. Marcus il selvaggio, ma anche… Marcus l’imprevedibile. Marcus il guerriero. Marcus il cavaliere.
                Quanto ad Axelion, lui non c’era più… inutile girarci attorno: suo fratello il re era morto. Già pensarlo re, per Daniel non era poi stato così semplice: sebbene Axelion fosse abbastanza più grande di lui e abbastanza più “serio”, e fosse stato preparato abbastanza meglio di tutti loro per il ruolo che un giorno avrebbe dovuto ricoprire, comunque Daniel non ce l’aveva fatta ad immaginarselo diverso da un ragazzetto con in capo una corona. E ora il vero re era addirittura un neonato: il piccolo figlio di Axelion che Daniel non aveva mai conosciuto. A quell’altra cosa, quella smargiassa cattiveria che così astutamente l’orso del nord aveva voluto rivelargli qualche giorno prima… Daniel semplicemente non intendeva crederci, non intedeva neanche degnarla anche di un quantitativo minimo delle sue attenzioni. Ma certo tutt’assieme realizzò il motivo per cui si trovava lì in quel momento. Sapere che cosa di nuovo sarebbe successo al sud, ora che –a voler essere ottimisti – lui rimaneva il secondo in linea di successione al trono, era la vera ragione per cui quel giorno si era recato nel settore “zampe” della biblioteca, e aveva richiesto alla ragazza Storie recenti delle più antiche casate. Decise che la priorità andava al volume, per quanto sofferta potesse essere la decisione. Dunque si fece promettere che avrebbero parlato di nuovo e prese congedo.
 
 
 
                Erano passati mesi dal giorno dell’insediamento del re Targaryen, settimane da quello della proposta di matrimonio di quest’ultimo a Lady Hana Lannister, eppure Hana aveva come la sensazione che si trattasse invece di intere decadi. Questo era senza dubbio un dato positivo, visto che guardava con orrore all’idea di trovarsi nello stesso letto con quell’impostore e assassino che Gabryaerys altro non era, ma c’era un aspetto negativo: visto che nessuna altra novità era giunta da nessun’altra parte, era come se il mondo stesso si fosse completamente congelato, e tutte le vicende degli uomini insieme ad esso. D’altro canto lo stesso re Naharis se provava un qualche entusiasmo in merito all’idea di maritarla, di sicuro non la dava a vedere. La visitava nei nuovi appartamenti dove la sorella dell’ultimo vero re era stata alloggiata – una sorta di aurea prigione – e la visitava anche spesso, ma quasi mai menzionava parole che andavano oltre il domandarle come stava e aggiornarla su facezie in merito alla sua giornata di governo. Hana non avrebbe potuto scommetterci, ma avrebbe giurato che tutta quella cosa del matrimonio stesse mettendo il re a disagio almeno quanto lei. Avvertiva della poca convinzione quando Gabryaerys la visitava, poca convinzione che spesso le dava proprio l’impressione di un dovere; un dovere che il re teoricamente condivideva, ma che a malapena riusciva ad assecondare. Ma tutto questo non poteva che essere positivo per Hana della Casa Lannister.
                Suo nipote Napoleon era cresciuto ad una velocità sconvolgente. Non sapeva se tutti i bambini passavano dall’immobilità del fagotto al bipedismo quasi completamente autonomo in così poco tempo: lei era stata la quarta figlia di sua madre e suo padre, ed era troppo piccola quando Mirietta dovette muovere i primi passi per ricordarselo adesso a distanza di circa un ventennio. Eppure il mutamento gli parve davvero repentino. Ricordava benissimo il giorno in cui Napoleon era nato, e ricordava benissimo come mezza corte fosse passata dagli appartamenti regi, annunciando che il piccolo somigliasse a suo fratello Axelion piuttosto che a Lady Abigail o viceversa. A lei pareva che quel piccolo ammasso di carne in quel momento non assomigliasse né a suo padre né a sua madre, né a nessuno dei suoi parenti per parte di Axelion; i parenti di Abigail invece Hana non li conosceva. Però adesso era chiaro come la luce del sole che quel marmocchio apparteneva alla razza dei Baratheon: negli occhi grandi e intensamente verdi, nei voluminosi capelli di un castano ramato, nelle grandi labbra carnose e il naso un po’ a patata, quel bambino pareva essere di esclusiva espressione di Abigail. Sembrava un suo ritratto un po’ parodistico. Ed era… bellissimo, non si poteva aggiungere altro da questo punto di vista. Tutti i bambini sono belli, ma Napoleon era bellissimo davvero.
                Hana si trovava in compagnia del piccolo e di Abigail, quando a un certo punto del medio pomeriggio inviati del re suo promesso vennero a comunicare a tutte loro che era in corso un particolare – pressoché unico – avvenimento che richiedeva la presenza dell’intera corte presso una delle più popolari ed ampie piazze della Capitale: si trattava di qualcosa decisamente fuori dal protocollo, che Hana in vita sua non aveva mai studiato, mai sentito dire, e ma neanche ipotizzato. E che cosa poteva mai star succedendo da costringere l’intera corte a muoversi tutta assieme senza un opportuno preavviso? E, quale che fosse la ragione, poteva mai essere da imputare a Gabryaerys? Perché, se così fosse stato, allora ancora una volta il re Targaryen si stava rivelando preoccupantemente “fuori dagli schemi”, esattamentre per come la sua genie veniva tradizionalmente descritta dalle più antiche canzoni. Un pazzo. Un pazzo pericoloso e imprevedibile, a questo stava per andare in sposa Hana della Casa Lannister.
                Quanto ad Abigail, la vera ragione per cui aveva deciso di reggere il gioco di un uomo che aveva rovinato la sua vita e tutte le sue prospettive e i suoi progetti molto di più di quanto non avesse fatto con Hana, questo la principessa ed ex Altissimo Segretario del re non era riuscito a capirlo. Anche Abigail era brava con la politica, questo Hana lo sapeva da un pezzo. Anzi, probabilmente Abigail era l’unica donna al mondo più brava di lei: era sempre un passo avanti e, per quanto alla Lady di Lannister seccasse ammetterlo, in realtà aveva imparato molto dalla sua vecchia cognata, la madre di suo nipote. Abigail era addirittura riuscita ad accettare un ruolo all’interno del Concilio Ristretto del nuovo re! Il re che aveva assassinato suo marito! Ora, Hana non era una stupida: sapeva bene che Abigail non amava Axelion, ed era benissimo a conoscenza delle dicerie che si dicevano su suo nipote, e in effetti l’aspetto del bambino pareva confermarle tutte, quelle dicerie. Ma in nessun caso, mai lei avrebbe accettato quello che Abigail aveva accettato. Lady Baratheon era molto ambiziosa, e voleva che suo figlio fosse re: doveva esserci necessariamente qualcosa sotto, ma Hana non era una sua amica, e di sicuro non le avrebbe chiesto cosa…
              Questo era il clima che si respirava in quel momento presso Roccia del Re. Questa era la nuova vita di Hana Lannister: non aveva più nessu amico, nessun fratello. Gushing e Gaholla praticamente non le era consentito vederli. Si era ridotta a rimpiangere perfino la compagnia del traditore Lord Braff, che le era parso di capire fosse partito per chissà dove: partiva sempre Braff, era un Maestro dei Sussurri molto… movimentato. Eppure Hana in quel momento lo avrebbe voluto lì. Avrebbe preferito mille volte farla con Braff, piuttosto che fianco a fianco ad Abigail, quella camminata in pasto alla folla che nemmeno aveva capito che cosa voleva da lei.
                In teoria anche il piccolo Napoleon sarebbe dovuto essere presente: non era più erede al trono, ma continuava a far parte della compagine Lannister. Quando Hana avrebbe sposato Gabryaerys, Napoleon sarebbe potuto divenire cugino di primo grado del figlio della nuova coppia reale. Una prospettiva che solo a figurarla metteva i brividi alla giovane donna. Ma Abigail decise che invece il bambino non sarebbe venuto, e in effetti anche la sua posizione non era minimamente contestabile: il piccolo stava dormendo. La guardia insistette, perché a quanto pareva il re aveva ordinato esplicitamente la presenza della corte nel suo complesso. Eppure il corteo era ormai già quasi in movimento, Abigail contnuò a mostrarsi irremovibile e gli uomini-bestia del re Targaryen finirono per assecondarla. Non era molto brillanti gli uomini-bestia del re Targaryen.
                Giunta nella piazza, Hana – come il resto della corte – apprese che Lord Henrich Bolton, esule Maestro delle Armi dei re Lionel e Axelion, e per questo già da un pezzo dichiarato dalla Corona se non proprio un nemico quanto meno una personalità ostile, che sarebbe dovuta venire a prestare giuramento alla Capitale quanto prima, bene: proprio lui era entrato a Roccia del Re alla testa di un robusto esercito. Minaccioso tanto da poter sovvertire l’ordine costituito? Forse no, ma da scuoterlo sicuramente. Oltretutto Bolton non aveva neanche dichiarato guerra: dunque tecnicamente si sarebbe trattato di un atto di inaudita viltà, che sarebbe rimasto inciso su qualsiasi menzione relativa alla sua persona e forse perfino all’intera sua Casata. E poi, tutto si sarebbe potuto dire a Lord Bolton tranne che fosse un vile: Hana lo aveva conosciuto piuttosto bene. Ma dunque cosa voleva?
                A questa domanda, le venne risposto che non era molto chiaro, ma che a quanto pareva Bolton era entrato in città strepitando sul fatto che avesse intenzione di dichiarare quanto più pubblicamente possibile una cosa al re, e che quella cosa doveva essere ascoltata da tutta la cittadinanza. Richiesta quantomai anomala, che Hana nei suoi lunghi anni di studi di storia non aveva mai sentito… se non forse una volta. Un re Lannister che si chiamava… qualcosa tipo Tyresyah. Lui aveva preteso che tutti ascoltassero, perché solo in quel modo avrebbe potuto ottenere quello che voleva.
                I convenevoli tra il re sulla sua torretta, con alle spalle la corte, e il Lord nella piazzola durarono veramente pochissimo. Bolton riconobbe l’autirità di Gabryaerys chiamandolo “Vostra Maestà”, Gabryaerys replicò sostenendo che, stando ai suoi maestri, tutta quella situazione aveva dell’inaudito. Al che Lord Henrich rispose di nuovo: «Beh, Maestà: devo correggerti. Oh meglio: correggo i tuoi maestri. Questa medesima cosa invero è accaduta. Sette secoli fa. Al mio posto: Tyresyah Lannister, già re del sud e poi re dell’intero Regno Unificato. Al tuo posto: Walton Stark, re del nord. Allora venne sancita un’unione. Io quest’oggi candido il nord a una nuova indipendenza»
                «Quindi» replicò ancora il re «Sei pazzo»
                «Al contrario, Vostra Grazia» insistette il Lord di Forte Terrore «Non solo sono lucidissimo. Ma sono anche perfettamente entro la dimensione più squisitamente legale di questo Regno. Io non dichiaro la guerra: non verrà versato sangue né del nord e né del sud. Fatta eccezione che per i due campioni. I due campioni che si sfideranno in singolar tenzone per determinare se il nord di questo continente sarà ancora soggetto all’autorità del re Naharis, oppure no»
                «Io sono un re Targaryen, e questa è chiaramente una provocazione»
                «Potete prenderla come vi pare, Vostra Grazia. A questo tipo di procedura non presiedete voi, né qualsiasi uomo con in capo una corona. Solo gli dèi possono farlo. Ed è proprio davanti a tutti loro, i Sette Dèi della nostra splendida tradizione, con l’intero popolo della Capitale a fare da testimone, che io, signore, sfido voi! Vi sfido per l’indipendenza delle mie genti, delle loro case, dei loro fiumi, mari e montagne. Il popolo vi ascolta, re Naharis, e voi non potete rifiutarvi»
                «Quando…» chiese il re, evidentemente colto in fallo, «Quando dovrebbe accadere questa sceneggiata?»
                «Ti invito a domandare ai tuoi maestri che si informino meglio, ora che sanno pure il nome dell’individuo che sette secoli fa compì un simile gesto: Tyresyah Lannister. Egli concesse al re del nord sette settimane. E queste io ti propongo, invitandoti a riflettere sulla sacralità di tale tempistica, visto che sette secoli sono passati e che sette sono i nostri sommi dèi. Quanto al luogo invece, la tradizione impone un luogo neutrale. Petyr Baelish della Valle si è già offerto volontario e sta predisponendo il tutto»
                «Un duello nella valle di Arryn?»
                «Nelle Terre dei Fiumi,  che pure sono sotto qulla giurisdizione»
                «Perdonami, Lord Bolton, ma… se hai già deciso il luogo dove ci scontreremo, in accordo con il signore di esso… allora come diavolo si può anche solo pensare di dichiararlo neutrale? Quel luogo me lo stai imponendo tu, e io intendo rifiutarlo»
                «Maestà, permettimi di farti riflettere che non c’è nulla più a nord che possa essere considerato neutrale per te, e nulla più a sud per me»
                «Gino Barron dell’Altopiano è un Lord del medesimo rango di Petyr Baelish dell Valle»
                «Sì, ma neanche frustando i nostri cavalli fino ad ucciderli io riuscirò mai a spostare la mia intera compagnia fino all’Altopiano rispettando le sette settimane, sire. E le sette settimane… contano. Chiedilo ai Septon. Chiedilo ai tuoi sudditi». A questo punto Hana distinse chiaramente lo sguardo di Gabryaerys rivolgersi alla folla, numerosissima. Era disgustato, ma insieme anche ansioso. E loro erano… attentissimi. Una folla immensa di uomini e donne della plebe che stavano in silenzio assistendo a quella masnada. Gabryaerys non resistette e si lasciò sfuggire tra i denti: «Hai proprio pensato a tutto, gran pezzo di bastardo». Dunque aggiunse: «E sei io adesso ordinassi ai miei uomini di spiccarti via la testa del collo e farmela portare su un vassoio d’argento?»
                «Potresti farlo. E sono sicuro che otterresti ciò che vuoi. Ma prima verrebbe versato del sangue. Molto sangue. Tra i miei, tra i tuoi e tra la brava gente di questa città. Uno scoppio irrazionale di violenza dovuta a cosa? A un re che pretende che i suoi sudditi combattano per lui, ma che non combatterebbe per loro…». Ancora una volta Hana guardò Gabryaerys, il quale ancora una volta guardò la folla. Sarà stata un’impressione, ma le parve che quello nel volto del re Naharis fosse terrore. E le parve che quello sul volto della plebe fosse… una voglia di scattare da un momento all’atro. La gente di Roccia del Re non si era ancora ripresa dalla battaglia che aveva messo quel nuovo re sul trono. A lei risultava che qualche iniziativa, soprattutto ad opera di Braff, fosse stata presa ma… risultati ancora niente. La gente stava male e aveva fame: tutto un altro mondo rispetto a come quando suo padre – re Lionel – era al governo dei Sette Regni. Adesso, anche se la guerra era finita, per la gente era come se non lo fosse. Quelli erano processi lenti: di questo Hana se ne rendeva conto. Eppure aveva come la sensazione che qualcosa non stesse funzionando…
                «Molto bene» fece dunque il re, alzandosi in piedi e richiamando su di sé tutta l’attenzione: viso rigorosamente mascherato dal naso in su, «Dinanzi ai Sette Dèi e alla brava gente di Roccia del Re… io accetto la tua sfida, Lord Henrich Bolton di Forte Terrore».
                Era comunque stato un colpo di scena. Forse era l’unica cosa che un re saggio avrebbe potuto fare, messo alle strette per come quel volpone di Bolton lo aveva messo. Ma… Hana conservava diversi dubbi sul fatto che effettivamente Gabryaerys fosse un re saggio. D’altro canto si stava dimostrando debole, ricattabile: decisamente accezioni che normalmente non assonavano bene con il cognome Targaryen. Hana non avrebbe escluso un colpo di mano, come per esempio fregarsene altamente di quello che sarebbe stato del popolo e decretare che la testa di Bolton era quello che ci voleva, lì e subito. E invece la scelta del re venne perfino applaudita. All’inizio non da tutti, e senza dubbio la festa fu incerta per la gran parte della sua espressione. Ma quando ai primi applausi spontanei del pubblico si aggiunsero quelli doverosi della corte, allora una qualche esplosione tra la folla di Roccia de l Re ci fu. Non l’applauso più scrosciante della vita di Hana, ma di tutto rispetto, ben lontanto insomma da quanto la promessa sposa del re si sarebbe mai immaginata.
                Bolton lasciò la città con la sua armata pochi istanti dopo che il re aveva accettato la sua sfida. Si congedò con un cenno brusco, ma d’altro canto Gabryaerys non gli concesse neppure quello. Erano uomini profondamente diversi, di questo si sarebbe accorto qualsiasi osservatore anche disattento. Ma Bolton era tutto d’un pezzo. Era il tipico uomo d’arme, cresciuto a pane, lama di spada e sella di cavallo. Suo padre aveva fatto crescere Lord Henrich come un soldato quando Axelion Lannister probabilmente era ancora a scuola da Braff. Bolton era un po’ più anziano rispetto al defunto fratello primogenito di Hana, ma in fin dei conti neanche troppo. Eppure, proprio l’idea che Bolton altro non fosse che un soldato fece insospettire non poco la Lady di Lannister. Bolton era un tipo da strategia militare: non sarebbe stata sorpresa se avesse cercato e magari trovato un modo per assediare la città, uno cui lei in quel momento non pensava. Ma quella cosa del duello legittimato dall’episodio storico… era più una cosa da Axelion, o da Daniel, o da mille altri uomini del Regno… ma non uomini come Henrich Bolton.
                E il re? Era in grado di maneggiare una spada? A occhio, Hana avrebbe giurato di no: era alto Gabryaerys, ma al di là di questo il suo fisico non dava affatto l’impressione di essere un fisico “allenato”. Era pur vero che il re Naharis andava camminando in giro ancora con sontuosi e vaporosissimi abiti da principe orientale che non lasciavano intuire in realtà granché della sua corporeità (questo, anche se secondario, era uno dei tantissimi elementi per cui Hana guardava con orrore alle sue future nozze con quel misterioso personaggio). Ma, nonostante tutto, Lady Hana non avrebbe scommesso un soldo sul suo prossimo marito. Al di là di tutto, era probabile che la cosa si sarbbe rivelata una trappola: in questo almeno Gabryaerys l’aveva avuta l’intelligenza di capire che nessuno dei grandi Lord del continente occidentale agiva per niente, e men che meno uno che di cognome faceva Baelish. Difatti, fosse stata lei una degli individui coinvolti in quella amministrazione, non ci avrebbe messo un attimo a suggerire che Baelish andava a questo punto assediato per due distinte vie: con le spie da una parte, e con una certosina attività diplomatica dall’altra. Ma lei non era stata coinvolta, e francamente non sentiva neanche tanto quello come un problema suo. Però era curiosa… perché Gabryaerys aveva accettato in quel modo, vale a dire quasi ciecamente? Sì, aveva polemizzato un poco ma… troppo poco. Hana avrebbe giurato che lo sguardo con cui il nuovo re si era più di una volta, nell’arco della sceneggiata di Bolton, rivolto verso i suoi sudditi era stato uno sguardo di puro orrore. Come se si sentisse praticamente già sconfitto. Però aveva accettato, e aveva accettato subito, e questo era quello che ad Hana Lannister non quadrava. Gliel’avrebbe anche chiesto, se avessero avuto un rapporto da comuni fidanzati, ma purtroppo anche questo non era così. E allora: amen. Le sue curiosità in merito alla potenziale morte dell’uomo che aveva ucciso suo fratello e adesso intendeva metterla incinta, non sarebbero state soddisfatte. Poco male.
                Ma la sorprendente giornata di Hana Lannister non si era ancora conclusa. Sino ad allora le sorprese avevano riguardato lei come la gran parte del resto degli abitanti di quella lercia città. Adesso invece la questione riguardava lei soltanto…
                Da quando l’aveva chiesta in moglie, e sostanzialmente obbligata ad accettare, Gabryaerys aveva cenato con lei forse una volta. Che poi lei aveva cenato… lui si era limitato ad assaggiare solo parte delle portate di carne, e poi per il resto non aveva messo in bocca nient’altro: non aveva neanche bevuto! Ad Hana quella serata era rimasta impressa, così come molti dei momenti che passava con il re le rimanevano impressi. D’altro canto, anche se ancora il re Naharis non aveva fatto nulla di memorabilmente deprecabile nei suoi riguardi (non l’aveva picchiata, o provato a farlo, non aveva neanche mai tentato di minacciarla), comunque per lei quello era il suo aguzzino e… le faceva orrore punto e basta.
                Neanche quella sera Gabryaerys cenò con lei, ma la venne a trovare non appena la Lady di Lannister aveva concluso il gustoso dessert con panna e fichi sapientemente preparato dai cuochi del castello. Lei capì da subito che c’era qualcosa di diverso dal solito. Anche se non poteva intuirlo dalle espressioni facciali – come al solito invisibili dietro al lungo cappuccio viola – lo percepì quasi senza ombra di dubbio dagli atteggiamenti dell’assassino di suo fratello. E poi realizzò che in effetti quella doveva esser stata una giornata dura anche per lui: la messinscena di Bolton aveva colto tutti di sorpresa, ma certo il re particolarmente. Così decise di essere lei stessa la prima a prendere la parola, e domandò al suo promesso marito: «Maestà, immagino che questa trovata di Lord Bolton ti abbia impensierito…?»
                «Sì» rispose secco il re, e da quella semplice sillaba Hana capì subito di avere ragione: Gabryaerys era agitato eccome, «Ma non per quello che immagini»
                «E per cosa allora? Si tratta del duello? Mio signore, non c’è un modo per evitare di doverlo combattere direttamente e… che so: magari nominare un vostro campione?»
                «No. L’unico precedente è quello tra Tyresyah e l’ultimo re del nord, ed entrambi duellarono di persona per i loro rispettivi regni. Bolton è stato astuto: ha lanciato quella sfida davanti alla città, e la città non mi perdonerebbe mai se nominassi un campione per combattere al posto mio. Certo, forse non si ribelleranno per questo: ma da quel momento in avanti, nelle loro bocche io sarei Gabryaerys il cordardo, Gabryaerys il debole, e Gabryaerys lo spergiuro. E questo alla lunga frustrerebbe il mio nome e si accompagnerebbe bene a qualsiasi agitazione popolare motivata da altre ragioni… per esempio quella che ancora diversi quartieri della città patiscono la fame più nera»
                «Sono… rammaricata, Maestà» chiuse Hana, chinando il capo. Aveva deciso di essere falsa fino al midollo, di sorridere sempre a quel suo re carceriere, anzi di sorridere tanto ampiamente quanto vasto era l’odio nei suoi confronti. Ma oltre a quello, la giovane sposa promessa non trovò altro da dire.
                Fu lui a riprendere, sorprendentemente loquace quella sera: «Hana… te lo chiedo solennemente, e solennemente voglio che tu mi risponda: hai tu nulla a che fare con il rapimento di tuo nipote?»
                «Napoleon? Rapito? Da chi?»
                «C’è anche il tuo zampino oltre a quello palese di Lady Baratheon? Mi è stato detto che eri con lei quando ha deciso di lasciare il bambino in camera contravvenendo esplicitamente a un mio comando»
                «No, signore. Sì, ora che mi ci fai pensare… ricordo che Abigail lo abbia fatto. Le guardie hanno insistito, ma lei hai insistito di più e allora…»
                «So bene quello che è accaduto. E, mentre quell’infame di Bolton mi ingiuriava pubblicamente ricattandomi in questo suo ignobile giochetto, qualcuno ha ucciso gli uomini-bestia di guardia e poi è penetrato negli appartamenti di Lady Baratheon sottraendone il piccolo. Attendiamo ancora alcune conferme, ma certe spie al soldo di Braff mi dicono che si è trattato di uomini di Bolton. Quel farabutto mi ha fregato due volte quest’oggi: una dinanzi alla cittadinanza tutta, e l’altra alle spalle. Con Lady Baratheon come subdola complice. Non tollererò oltre questo genere di atteggiamenti. Io sono re da poco: ma sono il re, e ben presto farò in modo che se ne accorgano tutti in tutti e sette i regni»
                «Come tu dici, Maestà»
                «E c’è un’altra cosa. Desidero che tu sia preparata, per questo te lo dico adesso. Ti lascerò qualche ora, e poi questa notte… io ti prenderò. Voglio un erede il prima possibile, data la situazione»
                «M-ma» balbettò Hana «Io pensavo che avessimo atteso il giorno del matrimonio, come vuole la tradizione»
                «La tradizione non ha nessunissima importanza. Importante è che la tua verginità mi appartenga, prima o dopo il matrimonio: questo dicono le scritture»
                «Qualche ora… non è certo il tempo adatto per prepararsi a una simile…»
                «Scusami, mia signora, in quale punto di ciò che ho detto prima ti è parso di capire che stessi affermando che la cosa richiedesse anche la tua opinione?»
                «In… nessuna, Maestà»
                «Molto bene. Preparati, allora» concluse il re, andandosene e lasciandola nella sua rassegnazione.
                Ovviamente lei non dormì. Lesse un po’ del libro sulle ribellioni che si era fatta mandare dalla biblioteca e che aveva interrotto grossomodo dai tempi in cui era stata incaricata da Lord Braff per sostituirlo temporaneamente quale Maestro delle Spie di Axelion: pareva passata un’era da quel momento di forse un anno prima. Era una donna libera lei, allora. E adesso invece… stava per essere violentata nel corpo e nell’anima.
                Gabryaerys la raggiunse poco prima che la notte fosse veramente tarda e il sonno la prendesse. Lei si era imbellettata il minimo indispensabile per non apparire totalmente avversa a quell’unione, visto che il re Naharis – a quanto pareva – quel sospetto ce l’aveva e l’aveva pure dichiarato piuttosto esplicitamente. Ma soprattutto preparò la pozione color viola intenso datagli da Braff, che collocò sotto la sua parte del letto matrimoniale: intendeva prenderla un istante dopo che il re si fosse addormentato, se avesse deciso di condividere con lei il letto, oppure se ne fosse andato.
              Non parlarono. Neanche si salutarono. Lei tolse la vestaglia e slacciò parte del corpetto, giusto per far risaltare un po’ i seni, poi attese. Capì che neanche lui aveva troppa fretta, che intendeva procedere lentamente. Il re rimase in piedi osservandola, mentre lei lo attendeva seduta. Poi fece qualcosa di molto curioso: si mise di profilo e tolse via il cappuccio. Era molto bello. L’occhio castano intelligente, ma soprattutto fulgidi capelli mossi del tipico colore dei Targaryen di cui lei nella sua vita aveva solo letto. Era di un biondo quasi argenteo. Nell’intera sua nudità il re non era affatto male, o almeno: il suo profilo destro non lo era. Perse del tempo: un’eternità. Era come se avesse paura di voltarsi, ma fosse troppo orgoglioso per dirlo. Nonostante fosse bello, Hana rimase ovviamente delle sue condizioni iniziali: voleva togliersi quanto prima quel pensiero. Dunque decise di prender lei l’iniziativa: prese la lunga mano del re Naharis e se la mise sul petto. Poi, poco a poco, lo costrinse a voltarsi. Quello che vide allora, la turbò – e in negativo – molto più che qualsiasi tipo di capelli di qualsiasi leggendario colore potessero mai essere.
                Gli sovvennero a quel punto in mente le parole di Braff, la volta che le aveva fatto visita in prigione comparendo dal nulla. La medesima volta che le disse che il re intendeva sposarla, e le diede l’elisir per non  rimanere gravida. Lei aveva detto di considerare quel “mostro di un usurpatore” il responsabile dell’omicidio di Axelion almeno quanto Braff stesso; al che Braff le aveva risposto che non avrebbe avuto torto, e che il termine da lei utilizzato calzava a pennello. Lei chiese: “il termine usurpatore?”, e Braff rispose: “No, quell’altro” e poi lo stesso Maestro dei Sussurri aveva condotto il confronto verso altri lidi. Il termine era “mostro”. Gabryaerys era un mostro: non solo e non tanto metaforicamente. Lo era nella sua corporeità. Buona parte della metà sinistra del suo volto a partire dalla guancia, passando dall’occhio e andando a coprire l’intero cranio fino al collo era come ricoperta da scaglie. Ma non scaglie simili a quelle dei malati di morbo grigio di cui Hana aveva avuto modo di leggere diverse volte. Erano come le scaglie di un drago. L’occhio era probabilmente la cosa più terribile. Era spropositatamente più grande di quello “normale”. Non era corredato da ciglia, sopracciglia e neanche palpebre! Era solo spoglio e circondato da scaglie: una palla insomma. Una grossa biglia gialla incastonata sul cranio, con una piccola iride stretta come quella di un rettile.
                Hana cercò di trattenere il proprio orrore, ma probabilmente era impossibile, ed era impossibile che Gabryaerys non se ne accorgesse. E infatti l’imbarazzo era chiaramente percepibile in quella… creatura che adesso era il re del Regno Unificato. Combattuta tra la voglia di correre via urlando e l’ambigua curiosità che una mente illuminata tende a provare verso ciò che è nuovo, la Lady di Lannister non riuscì a non continuare il percorso di osservazione di quel corpo deforme. La pelle a scaglie brunastre, quasi nere, procedeva sempre dalla metà sinistra del collo lungo la schiena. E lì un altro terribile particolare: più o meno all’altezza della scapola: una sorta di piccolo arto abortito, gonfio di carne e ossa, fuoriusciva dalla schiena del re. Era una sorta di ala. Un’ala senza vita. Vedendola, Hana non riuscì a trattenere come una sorta di guaito, che subito determinò una reazione del re. «Quand’ero giovane ho provato in mille modi a tagliarla via» fece contrito Gabryaerys «Mi sono rivolto anche a dei Maestri. Ma… per quanto non possa ovviamente usarla e neppure muoverla… è integralmente parte di me. Piena di sangue e terminazioni: mi provocherebbe un dolore immane, e sicuramente perderei moltissimo sangue. Non me la sento» dunque ripetè con maggiore convinzione, come se si trattasse di una formula sperimentata, com se volesse convincere primariamente se stesso: «È parte di me».
                Hana non seppe più come reagire e, per un tempo che le parve lungo una vita, neanche Gabryaerys fece niente a parte guardarla, forse cercando di studiarne le reazioni. Infine però, il mostro a scaglie che adesso sedeva sul Trono di Spade, le chiese pacatamente se era pronta. Non attese una risposta, la costrinse a mettersi di schiena e la prese senza troppi sentimentalismi. Le fece un po’ male, ma durò poco, molto meno di quanto lei si sarebbe mai aspettata. Non provò alcun piacere e da quello che percepiva neanche Gabryaerys lo aveva provato. Il re Naharis semplicemente si rivestì in fretta e lasciò i suoi appartamenti. Lady Hana prese dunque con una certa serenità la pozione color viola da sotto il letto, la stappò e ne mise tre gocce sotto la lingua. Si addormentò con molta più serenità di quanto fino a pochi secondi prima – fino a quando il re drago era ancora dentro di lei – si sarebbe mai immaginata. Quanto meno non avrebbe avuto un piccolo mostruoso Targaryen dentro di sé, quella notte.
 
 
 
                Daniel lesse e rilesse la vicenda di re Tyresyah, il primo re dell’intero regno dopo la definitiva – e fino ad allora ancora mai crollata – riunificazione. La lesse da cima a fondo per circa quattro volte, inclusi ogni singolo commento e appunto annotato a margine da autori successivi al Maestro Vayne, che aveva scritto il volume. Fu solo alla fine dell’ultima lettura tuttavia che il Piromante finalmente se la sentì di concludere una versione di quello che Uryon Worchester aveva potuto veramente suggerire a Lord Bolton. Il principale problema interpretativo era legato al fatto che con quella mossa del duello tra re, il vecchio Tyresyah aveva reclamato un’unificazione, e non una secessione. Daniel intuì che invece ora la situazione sarebbe stata al contrario: quello stesso nord che aveva perso la propria indipendenza sotto l’ultimo re del nord Walton Stark, adesso intendeva reclamarla alla medesima maniera. Si trattava di un’idea molto interessante, ma Daniel nutriva qualche dubbio su quanto in effetti alla fine si sarebbe realizzato di essa. Prima di tutto, tutta quella pensata faceva leva su un determinato valore da affidare a un evento che ormai era più leggendario che storico, essendo passati ben sette secoli. E quanto valore poteva mai dare il nuovo re alla tradizione? Tanto da perdere il proprio seggio sulla sedia più importante che il genere umano avesse mai fabbricato? Improbabile. Improbabile a meno che non fosse esistita una maniera – che Daniel ignorava – per dare tratti “più pragmatici” alla manovra. Ma anche in quel caso parecchi dubbi rimanevano…
                Senza quasi accorgersene, finì per passare ad Amergoth la gran parte della sua giornata, troppo preso dai mille nomi di luoghi, di nobiluomini e di casate ormai decadute (in primo luogo quella degli antichi re del nord Stark). Si accorse che spesso la ragazza tipo Anylice nel settore di fronte lo guardava, o questa almeno era la sua impressione. Di sicuro c’era che lui guardava spesso lei: praticamente era l’unica distrazione che era finito per concedersi tra un capitolo di trame e giuramenti solenni e uno dedicato a facezie varie e storie d’amore. Una delle ragioni per cui Walton Stark aveva accettato quel duello era perché sua sorella, di cui era innamorato, era prigioniera presso un castello del sud e re Tyresyah aveva giurato che l’avrebbe subito liberata all’indomani dell’assenso del re del nord alla propria cavalleresca iniziativa. Si era trattato di una delle più belle ragazze Stark mai esistite, almeno stando alle parole del venerabile Maestro Vayne.
                Alla fine però tutte le teorie del principe Lannister vennero confermate quando, a sera quasi ormai sopraggiunta, fu la stessa sguattera del nord a venirlo a distrarre, senza nemmeno provare di accampare scuse di genere alcuno. Nonostane la biblioteca fosse frequentata notte e giorno da centinaia di persone che andavano e venivano costantemente, si era ormai giunti a un’ora talmente tarda che forse in tutta l’immensa torre erano ormai rimasti in una trentina. E forse era solo un’impressione dovuta all’atmosfera, ma la ragazza parve al principe Piromante un po’ più bella e anche un po’ più audace del solito. Gli disse infatti, appoggiandosi al desco su cui lui teneva ancora aperto il ponderoso volume: «Devono interessarti proprio parecchio queste vicende di uomini vissuti centinaia d’anni fa. Praticamente non hai fatto altro che leggere tutto il giorno»
                «Beh, a essere onesti…» ribatté Daniel un po’ sornione «Sono vicende che in qualche modo mi riguardano»
                «Riguardano te? Davvero? E come mai?»
                «Uhm… sai in effetti non mi viene alcun motivo per non dirlo: in questa torre, in questo castello, in questa città e volendo anche in tutta questa regione… io sarei un prigioniero politico». Le ultime parole Daniel le disse sottovoce. Maliziosamente sottovoce. Poi specificò: «Lord Uryon mi tiene qui in vista di un potenziale scambio, o una trattativa o roba di questo genere…»
                «Davvero? E chi sareste, di grazia, mylord
                «Daniel Lannister. Axelion, l’ultimo re degli Andali prima di quello che siede momentaneamente sul trono… era mio fratello». Da simpatica, come quasi da una che stava allo scherzo ed intendeva reggerlo, improvvisamente lo sguardo della fanciulla si fece confuso. Confuso e serio. Lui le domandò: «La cosa ti reca qualche pensiero, mia signora?»
                «Effettivamente, parli davvero come un Lord. Tu lo sei veramente!»
                «Certo. Non scherzerei su queste cose…»
                «Daniel Lannister, hai detto?»
                «Sì. Ti ho detto dei mio fratelli e sorelle…»
                «Pensavo scherzassi! Sei… figlio di re Lionel?»
                «Eh, sì»
                «M-ma allora… allora… tu non dovresti essere a nord? Cioè più a nord? Non dovresti essere al Monte Cabuk ad apprendere le più segrete arti magiche per il primo cavalierato? Aspetta… aspetta… vorresti farmi credere che tu… tu sei una sorta di… di stregone?»
                «Ho imparato qualcosa, ma non ho ancora terminato il mio apprendistato. Eventi superiori mi hanno costretto a lasciare il mio addestramento e… il mio maestro e… adesso sono stato fatto prigioniero», si indicò i ferri alle caviglie e la piccola gemma parallela alla sua pelle che a stento riusciva a scorgersi. Dunque fece: «Quella è una pietra molto rara che limita le mie potenzialità»
                «Per gli dèi antichi e nuovi!»
                «E tu, madamigella? Qual è il tuo nome?». Purtroppo proprio nell’istante in cui il giovane apprendista di fuoco pronunciò queste ultime parole, un evento distrasse l’attenzione sia sua che della ragazza. Era una di quelle cose che inevitabilmente costringevano tutti a interrompere tutto e a occuparsi solo di essa: l’immenso Lord Uryon era appena entrato ad Amergoth, in compagnia di tre distinti maestri che gli saltellavano tutt’attorno. Uryon pareva impegnato nei suoi affari ed ascoltava distrattamente quello che i suoi consiglieri gli stagvano dicendo, mentre goffamente incedeva sulle sue mastodontiche stampelle di legno. Eppure per un secondo i loro sguardi si incrociarono. Daniel guardò Lord Worchester e Lord Worchester guardò Daniel, mentre la ragazza – ritornando a concentrare la propria attenzione sul principe di Lannister – rispondeva: «Lyciane. Lyciane Stark».

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Capitolo 11
*** Daessenya ***


Capitolo 11
DAESSENYA
 
 
 
                Il modo di interpretare la prigionia di sua sorella Mirietta era molto diverso dal suo: su questo Marcus l’Andalo non aveva più dubbi. Era nervosa, e si sfogava con la provocazione, cosa che ovviamente non la portava da nessuna parte. Marcus aveva subito incarceramenti peggiori: un comodo appartamento, ampie finestre e tre pasti al giorno nel castello che era da millenni il seggio della sua famiglia, lui neanche l’avrebbe chiamata “prigione”. Per Mirietta invece lo era eccome. La verità era che il Cavaliere della Chimera fino a un certo punto il ragionamento dello zio Leone Nero riusciva a comprenderlo. La sua disamina sul come in verità, in tutto quel contesto di cose cambiate, loro fossero completamente soli era inattaccabile. Oltretutto, da quando erano stati costretti agli appartamenti di Catel Granito, gli erano giunte ulteriori voci preoccupanti: a quanto pareva, il buon Lord Braff – l’uomo che gli aveva insegnato grammatica, storia e altre cose di cui Marcus non si ricordava – era stato uno dei principali artefici del tradimento della loro casa, ed era legato a doppio filo col re Targaryen. E Gino di Casa Barron era legato a doppio filo con lui, visto che era stato proprio il Maestro dei Sussurri a metterlo sul soglio di Altogiardino, facendo definitivamente da parte i Tyrell. Dunque, guardando verso sud, Castel Granito era fottuto. E lo era abbastanza anche guardando verso nord, pure se in effetti la situazione era un po’ diversa: il nuovo protettore del nord, Uryon Worchester, lo era diventato con il beneplacito del re Targaryen, ma non era un suo amico. E c’era ancora Bolton, e c’era ancora Baelish della Valle e dell’Incollatura, certo uomini di cui a Marcus non erano mai arrivate voci di chissà quale fedeltà al trono, ma anch’essi momentaneamente non amici del re Targaryen, anzi Lord Henrich perfino nemico, visto che intendeva scendere al sud per liberare Napoleon. Marcus aveva avuto modo di conoscere pure Henrich Bolton, anzi di tutti quegli uomini era quello che aveva più fresco, visto che in qualche maniera era stato “il suo capo”; anche se il Lord Maestro delle Armi non poteva proprio dare ordini diretti a un Cavaliere della Chimera giurato, il suo lavoro inevitabilmente poteva mettere alle strette quello del comandante dei cavalieri, e di conseguenza anche i cavalieri medesimi. Il comandante poi, ai tempi in cui ancora Marcus bazzicava la Valle del Leone, era stato un certo grassone di nome Winston Cleghorn, totalmente asservito all’autorità proprio di Bolton, dunque sì: Marcus aveva conosciuto Lord Henrich.
                Concludendo: una buonissima parte di tutto ciò che il Leone Nero aveva pensato, probabilmente anche Marcus stesso l’avrebbe pensata. Considerare una sovrintendenza di un uomo navigato e saggio come lo zio Constant, era probabilmente l’ipotesi ancora migliore sul tavolo: certo, non era da poco il problema che Constant si fosse procalamato re: difficile che uno che abbia la superbia di procalamarsi re, poi trovi l’umiltà per smentirsi, e d’altro canto in questo era Mirietta che aveva la ragione: se non esisteva alcuna prova stringente della illegittimità di Napoleon, allora il piccolo era il loro re, un re Lannister, e in quanto Lannister loro avevano il dovere di difenderlo. In merito a ciò, lo zio Pylgrim si era effettivamente manifestato un po’ claudicante: diceva che la pensava come loro, però nel dubbio aveva preferito “imprigionarli”, anche se in quei comodi appartamenti del castello. Già questo da solo, giustificava la rabbia di Mirietta, che pure Marcus sentiva di provare: uno zio che conoscevano fin da bambini che gl’imponeva arbitrariamente la sua decisione, era di sicuro una profonda delusione. Ma anni e anni di vita dedita ai doveri presso la Valle del Leone, gli avevano insegnato la virtù dell’autocontrollo: un solo pugno ben studiato e assestato poteva fare ben più male che mille colpi continui scaturiti da un impeto d’ira funesta. Mirietta non mangiava e tendeva a ributtare polemicamente il piatto in faccia ai servi che glielo portavano. Rimaneva sveglia fino a tardi, cantando canzoni sconce a voce alta nella speranza di dar fastidio e, più in generale, cercava di rendersi odiosa a chiunque. Marcus aveva provato a dirgli la sua, ma non c’era niente da fare: la piccola era venuta su abile, scaltra, forte, decisa e… infinitamente ostinata.
                Era forse il terzo giorno di prigionia, quando tutt’assieme – e senza un apparente ragione – a Marcus sovvenne alla mente quella fanciulla che aveva deciso di farsi notare da loro, il primo giorno a Castel Granito, quella Daessenya. Dunque, mentre ancora trangugiava i suoi legumi, e rivolgendo di tanto in tanto lo sguardo verso una Mirietta particolarmente isterica che solo da pochi attimi aveva gettato per terra i suoi di legumi, decise di buttarla lì: «Chissà che fine avrà fatto…?»
                «Chi?» rispose Mirietta, e quando Marcus non le disse nulla perché stava inghiottendo, ripeté subito: «Chi
                «Quella ragazza…»
                «Daessenya?»
                «Sì. Mi chiedo se lo zio l’abbia considerata come… insomma: parte della nostra compagnia, o… se magari abbia trovato il modo di uscirsene tranquilla da tutta questa faccenda: era piuttosto linguacciuta, e tecnicamente non aveva alcun motivo di pagare anche lei la nostra… incriminazione»
                «Era brava. Se le hanno permesso di parlare, sicuramente avrà trovato un modo per cavarsela»
                «Per svenderci»
                «Sinceramente: ancora non ho capito le ragioni di tutta questa antipatia»
                «Non ho detto che mi è antipatica. Ho detto che finché aveva un interesse nei nostri confronti, allora aveva un senso essere così carina. Adesso è un uccello libero»
                «E ci mancherebbe altro»
                «Già»
                «Io invece la trovo molto bella. Non la trovi molto bella anche tu?»
                «Intendi… fisicamente?»
                «Beh, sì».
                La mente di Marcus subito si proiettò su Jasmina. Daessenya era una bellissima fanciulla, ma era praticamente tutto il contrario della ragazza che il principe Andalo aveva conosciuto alla Valle e di cui si era innamorato. Tanto bionda e chiara la ragazza di Cowain, quanto scura e un po’ orientale quella della Valle. Bassina e formosa la prima, alta e tonica la seconda. Beh, Jasmina era un po’ più bassa di Marcus ma… di poco. E questa era una delle tante cose di lei che lo facevano impazzire. Tornando tuttavia a Castel Granito, il cavaliere di Lannister non riuscì a rispondere altro che: «Mah… è graziosa»
                «Graziosa? Io direi che è proprio stupenda, con quegli occhi azzurri»
                «Va bene: è bella. Ma dove vuoi arrivare?»
                «Tu non hai notato…?»
                «Che cosa?»
                «Ah, niente»
                «Dài! Che cosa?»
                «La ragazza sta bene» s’intromise una voce maschile. Lo zio Constant era appena entrato nella stanza. Lo zio re. Si fece avanti, quasi cauto, e si andò a sedere al tavolo, in mezzo tra i suoi due nipoti. Prese un po’ d’uva e incominciando a ingurgitarla, continuò: «Ci ha spiegato la situazione. Era venuta per voi, ma non sapeva che foste dei traditori. Ora che lo sa, è andata per la sua strada»
                «Visto?» non si trattenne Marcus, rivolto alla sorellina, «Ci ha svenduti»
                «Traditori?!» fece invece Mirietta con rabbia, direttamente allo zio, «E da quand’è che lo saremmo diventati?»
                «Il vecchio Leone Nero mi ha detto che non avete voluto riconoscere la mia legittimità» agli occhi di Marcus, lo zio faceva di tutto per apparire indifferente: mangiava, guardava altrove con un fare un po’ annoiato, ma il Cavaliere della Chimera non avrebbe saputo dire se quell’atteggiamento fosse naturale o meno. Constant continuò: «E da che mondo è mondo, chi non riconosce la legittimità di un re legittimo, viene chiamato traditore»
                «Napoleon è il legittimo re» si difese Mirietta, che invece lo guardava fisso e in cagnesco, «Lo sai benissimo»
                «No: tu sai benissimo che il neonato non è figlio di tuo fratello. Lo sanno tutti!»
                «Hai le prove?»
                «Certo che le ho! L’altro giorno Bolton si è introdotto con una scusa a Roccia del Re e ne ha sottratto Napoleon: a me sembra lampante»
                «No, invece: magari si è solo scomodato nel fare quello che noi avremmo dovuto fare. Salvare il legittimo re»
                «Mirietta» fece zio Constant serio, per la prima volta contraccambiando lo sguardo di sua nipote, «Ti prego: non insitere. È lampante come in realtà stiano le cose. Napoleon è figlio di Bolton. Daniel…»
                «Daniel allora è il re, zio»
                «È morto anche lui, per gli dèi! Mi spiace dover essere io a costringervi a tornare a fare i conti con la realtà: ma Daniel non manda missive da mesi. A nessuno. Quindi… gli unici legittimi eredi rimasti sono qui: tra le mura di Castel Granito. E Marcus è un Cavaliere della Chimera; non esiste un divieto ufficiale, ma non ci sono precedenti: nessun cavaliere consacrato della Valle del Leone è mai asceso del Trono di Spade. In teoria… loro dovrebbero condurre un’altra vita»
                «Ma… Ma…» balbettò Mirietta con le lacrime agli occhi, probabilmente quelle parole su loro fratello Daniel le avevano fatto più male di quanto previsto, «Ma non esiste un divieto ufficiale. E… e le circostanze sono estreme, non ci sono precedenti, per cui…»
                «Mirietta» fece Marcus, scurendo in volto, «Io non voglio essere re. Solo l’idea m’inorridisce. Non lo sarò mai, mi spiace»
                «E neanche io avrei voluto» disse zio Constant, anche lui molto serio, «Se voi pensate che la mia sia una sorta di manovra di potere: toglietevelo dalla testa. Per anni ho lavorato al fianco di vostro padre, perché per quanto mi riguardava l’unica cosa che contava a questo mondo era Ladylynn e lei è morta. Immagino che vostro padre abbia avuto modo di raccontarvi questa storia, anche se dal suo punto di vista, ma il discorso è quello: nessuna ambizione ormai. Solo devozione. Alla corona. Alla mia famiglia»
                «Per questo stavi cospirando contro di lui al fine di mettere Lorthan Tyrell sul Trono di Spade?»
                «Sentite, varcando quella soglia ho deciso di risolvere questa questione oggi. Di ritrovare qui i miei tanto cari nipoti, e non degli avversari rabbiosi. Per cui opto per la sincerità. È vero: non desideravo più vostro padre sul trono. Non era mai stato particolarmente portato e senza il mio aiuto sarebbe durato ben poco ,ma con la vecchiaia… era divenuto perfino più inutile e poltrone, e rimandava ogni decisione perfino la più importante: il regno implorava di essere governato, lui non era più in grado e io ancora non avevo lontanamente considerato l’idea di sostituirlo. Voi eravate tutti giovani e inesperti – compreso Axelion – così mi orientai su Lorthan. Era assetato di potere e decisamente senza scrupoli… ma differentemente da vostro padre era uno che aveva l’interesse di governare, anzi… non aspirava ad altro!»
                «Queste sì che puzzano di stronzate» affermò Mirietta, sempre incattivita e il cui sguardo era sempre più fisso su quello del suo zio, vecchio Primo Cavaliere. Marcus l’Andalo decise di intervenire: da una parte, era come al solito il caso di placare la sorella che continuando con quell’atteggiamento sarebbe benissimo potuta finire per essere lei quella a dire cose di cui si sarebbe pentita. D’altra parte però, nonostante Marcus apprezzasse l’intenzione dello zio di venire a patti con loro, anche lui aveva la sensazione che tutte quelle parole in realtà servissero ad edulcorare qualcos’altro. Così decise di chiedergli: «Zio, chi ha ucciso nostro padre secondo te?». Constant volse il proprio sguardo dalla nipotina impertinente a quello “più bravo”. Smise di mangiare e si alzò in piedi.
                Dunque assunse un tono assai più conciliante, e rivelò: «Non ho mai detto a nessuno quello che sto per dire, neanche ai miei più fidati consiglieri. Si tratta di cose delicate, di cui sono certo ma… se manipolate potrebbero perdersi e dunque…»
                «Va’ avanti, zio»
                «Ho avuto modo di prendere il cadavere di vostro padre appena fresco di avvelenamento. La sostanza che lo ha ucciso e già piuttosto curiosa, visto che non ha agito immediatamente: lo ha addirittura lasciato cosciente per un po’. Probabilmente era intenzione di chi lo ha assassinato, fare in modo che Lionel si “godesse” – per quanto lui potesse fare – quella riunione del Concilio Ristretto fino alla sua fine. Ma avrà confuso le dosi: sta di fatto che questo ha agevolato di molto le miei indagini. Ho scoperto di che sostanza si trattava. Questo non ci dà un colpevole definitivo, ma ci aiuta a restringere gli orizzonti… il veleno proviene da una vipera delle castagne. Animale raro e piuttosto schivo, che è difficile da trovare e ovviamente ancor più difficile è estrarne il veleno. E… non usa vivere in ambienti che non siano montani»
                «La Valle di Arryn» concluse Mirietta.
                «O il nord» aggiunse Marcus.
                «Certo» assentì Constant «È da lì che veniva. Ma non sappiamo chi se n’è servito»
                «E…» se la sentì di insistere Marcus, cercando di buttarla sullo scherzo, «Non sei stato tu…?»
                «No, ovvio che non sono stato io. Non amavo mio fratello, ma non lo volevo morto»
                «Beh» insistette Mirietta «Rimane comunque tutto molto sospetto»
                «E di mia sorella Hana?» chiese a questo punto Marcus «Hai novità?»
                «Non molte. Solo quella che sono sicuro già saprete: sposerà Gabryaerys e gli darà un figlio mezzo Lannister e mezzo Targaryen»
                «Mezzo Naharis» specificò Mirietta.
                «Ad ogni modo» riprese lo zio «Come vedete sono venuto con le migliori intenzioni. E non ho nessuna voglia di riconquistare il Trono avendovi miei nemici. Siete i miei nipoti, e io vi voglio con me. Siamo qui, insieme, come una volta, attorno allo stesso tavolo. Non è cambiato nulla tra di noi: assolutamente nulla»
                «Salvo che mio padre e due miei fratelli dici che sono morti, che una è prigioniera dei nostri nemici e che non vuoi riconoscere la legittimità di mio nipote»
                «Eh, no! Però se è questo l’atteggiamento… Marcus…» ora Constant si rivolse direttamente a lui «Mirietta è ancora giovane: non riesce a distinguere che differenza c’è tra le cose come vorremmo che fossero e le cose per come stanno. Puoi metterci una buona parola?»
                «Vedi, zio» concluse il principe Andalo «Io apprezzo molto questo tuo atteggiamento. Ma, come è stato detto prima, le circostanze sono estreme e senza precedenti. Ragion per cui, la sicurezza che posso darti è che io non pretenderò mai il Trono di Spade. È già qualcosa, no?» non attese risposta «Ma se pretendi che dia per scontato che mio fratello sia morto solo perché è da un po’ di tempo che non riceviamo sue notizie, o che mio nipote non sia davvero mio nipote perché un Lord del nord ha deciso di prenderlo con sé, se è davvero così che stanno le cose, allora sbagli interlocutore. Quando siamo giunti qui, lo zio Pylgrim ci ha parlato di una tua sovrintendenza, ed è questo il massimo che potrai mai vederti riconosciuto da me. Sarai il reggente, fin quando mio fratello Daniel o mio nipote Napoleon non saranno ritornati al sicuro, a casa loro».
 
 
 
                La sensazione di sentirsi inutile cresceva di ora in ora per Gino della Casa Barron. Era il signore dell’Altopiano, una delle personalità più influenti dell’intero Westeros, eppure in quel momento si sentiva completamente inutile. Anzi, non soltanto inutile: ma interamente dipendente da qualcuno, e quel qualcuno era Lord Braff. Peraltro quella non era neanche la prima volta in cui, nella sua vita recente, aveva provato una sensazione simile, quella della dipendenza da Braff. Anzi, più ci pensava più Gino non poteva ritornare su un pensiero che spesso di recente lo aveva tormentato: nulla o quasi di quello che aveva fatto per arrivare da inserviente dei Tyrell a Lord di Altogiardino, lo aveva fatto in totale indipendenza. Oh, certo: le cose erano andate bene, e dunque il giovane Barron non poteva che essere grato al Maestro delle Spie, ma… se fossero andate male invece? Sarebbe stato sempre Braff l’imputato delle sue accuse, oppure se medesimo? Era questo il dubbio che più di ogni altra cosa lo confondeva in merito a tutta quella questione.
                Probabilmente era solo un po’ frustrato e un po’ incattivito dato, che oltre ai fattori esterni di certo non trascurabili (uno sboccato demone di fuoco che incombeva su di lui e una popolazione che pendeva dalle sue labbra ma cui lui non aveva più idea di cosa dire), c’era anche un pesante fattore interno alla sua anima che pure aveva contribuito al mancato miglioramento del suo stato emotivo: la donna che amava se n’era andata, in completa polemica con lui. Che cosa Daessenya avesse voluto davvero, in effetti Gino non l’aveva capito. Forse semplicemente qualcosa che lui non era in grado di darle: un mondo in cui lui poteva continuare ad essere Lord dell’Altopiano, lei una donna libera, indipendente e svincolata dai più soffocanti doveri coniugali di alto rango, e in cui però comunque potessero stare insieme. Ma il fatto era che se n’era andata, contrita, magari anche lacrimando per un po’, ma alla fine se n’era andata. Era una delle cose principali per cui Gino l’aveva amata: assolutamente dura e pronta a prendere la decisione migliore, al di fuori di sentimentalismi e debolezze varie.
                Solo che adesso il giovane Lord era ancora più amareggiato. Se già affrontare da solo quella situazione che la responsabilità di grande signore gl’imponeva gli sarebbe risultato complicato con Daessenya al suo fianco, adesso era assolutamente impossibile. Non sarebbero mancate – e non mancavano – le occasioni di intrattenersi con fanciulle almeno altrettanto belle, disposte a fare molto più di quello che Gino non avesse fatto con Daessenya, ma nessuna di loro sarebbe stata pienamente appagante, perché nessuna di loro brillava di quella rara luce, composta di dolcezza, intelligenza, caparbietà e un risoluto e indiscutibile rispetto per sé, che solo Daessenya – fra tutte le donne che Gino aveva fin d’allora incontrato – aveva avuto. Il pericolo incombeva, e Gino si sentiva quanto mai solo, così distante dall’unico essere su quella terra di cui sentiva di potersi ancora fidare. Certo: c’era Rollo, ma era ormai ridotto a uno stato di quasi moribindo. E Braff… Gino aveva pure sentito delle voci in quel breve periodo di assenza del Maestro dei Sussurri dalla sua cerchia. Gente malpensante, e normalmente poco informata in generale, diceva che Braff… fosse stato uno degli artefici più diretti della sparizione dell’ultimo re da questo mondo. C’era insomma chi diceva che Braff era stato presente alla morte di Axelion Lannister. Che ne era stato persino il regista… Gino ovviamente non lo credeva vero, ma se lo fosse stato… come ci si poteva fidare di un individuo del genere? Axelion era stato il suo re, il re del quale Braff era il fidato Maestro delle Spie e Braff… lo aveva ucciso?
                Non chiudeva occhio da qualcosa come tre giorni consecutivi quando finalmente una sera, immediatamente dopo l’ora di cena, l’amico Alexis Braff raggiunse la ridente cittadella di Cowain. Ad accoglierlo, naturalmente il protocollo imponeva per prima Xalandra, la reggente della città, stranamente elegante quella sera, in un abito dai toni caldi ma non eccessivi come il rosso dei suoi capelli. Ma naturalmente i due pesi massimi della serata sarebbero stati loro due: il Lord dell’Altopiano e il Maestro dei Sussurri, “vecchi” amici riuniti per risolvere insieme il problema, uno con il titolo di più importante signore della zona e l’altro come diretto inviato reale. L’incontro privato a tre tra il Maestro delle Spie, il primo Barron di Altogiardino e la Lady ex puttana non fu esattamente risolutivo, ma certo era innegabile dire che sorprese Gino e Xalandra non poco. Braff infatti sostenne di avere una proposta da fare al demone, da parte del re, che il demone difficilmente avrebbe rifiutato. Ma per tale servigio, la Corona richiedeva il massimo della segretezza, e dunque Lord Alexis doveva incontrarsi con il mostro di fuoco da solo. Né il Lord dell’Altopiano né la signora di Cowain avrebbero potuto ascoltare qual era il prezzo che Gabryaerys avrebbe pagato per liberare la cittadina dall’ingombrante presenza, ma certo mille dubbi sovvennero sia a Gino che probabilmente a Xalandra quando Braff ebbe finito col suo monologo. Insomma la cosa aveva dell’inquietante: cosa mai si poteva proporre a una creatura simile per convincerla a fare qualsiasi cosa? Come si faceva semplicemente a trattare con un orrido essere magico di quella portata? Naturalmente la cosa destava mille sospetti, a prescindere dagli interessi stessi di Cowain o dello stesso Altopiano. Ma d’altro canto né Gino né Xalandra avevano alternative… e fu così che a malincuore, storcendo il naso, finirono per accettare.
              Non passò neanche un’ora e – come Gino in effetti si era aspettato – Braff lo venne a trovare nei suoi appartamenti, privatamente. Al Lord dell’Altopiano era appena giunta la notizia che l’operazione del Maestro dei Sussurri era andata a buon fine e che il diavolo di fuoco aveva abbandonato la cittadella. Gino dal canto suo era ormai abituato al fatto che spesso Lord Alexis decidesse di andarlo a trovare per parlare con lui da solo, e dunque probabilmente stava venendo a vantarsi. Dopo essersi fatto annunciare, il Maestro dei Sussurri bussò comunque alla sua porta e, dopo aver ricevuto il permesso di entrare, si fece avanti sommessamente, in un lungo abito di una sfumatura a metà fra un grigio brillante e un nero non molto convinto. «Il problema è stato risolto» annunciò, accennando un sorriso sotto i baffetti rossicci. Braff sorrideva spesso ma poco, e se uno non lo conosceva, non se ne sarebbe accorto. Ma Gino ormai lo conosceva.
                «Ma…» cominciò subito polemico Gino, che era lieto di vedere l’amico, ma amareggiato per mille altre cose, «Non sei venuto a dirmi come»
                «Nossignore» rispose Braff, secco, «Non posso»
                «E allora perché sei venuto?»
                «Immaginavo» fece Braff, forse Gino avrebbe azzardato un po’ confuso, «Che ti avrebbe fatto piacere. Parlare. Non ci vediamo da molto, e… tu sei il Lord dell’Altopiano ora»
                «Sei qui per vantarti, dunque? Per farti dire che bel lavoro sei riuscito a metter su?»
                «Sei… ostile…»
                «Non sto benissimo, in verità»
                «E che cos’hai?»
                «Perché dovrei dirtelo?!». In fondo al cuore, Gino sapeva che tutta la rabbia che aveva in quel momento non era affatto dovuta a Lord Braff, ma certo anche Braff aveva le sue colpe…
                «Pensavo che avessimo superato questa fase» affermò il Maestro dei Sussurri «Quella in cui non ti fidi di me. Pensavo che da un po’ noi potessimo considerarci amici. Mi sbagliavo?»
                «È difficile considerarti amico con uno che vuole sapere i tuoi segreti, ma non dice i suoi»
                «Lo capisco, è parte del mio mestiere, il quale a sua volta… è parte della mia vita. Ma pensavo che lo avessi accettato»
                «Perché? Perché sei riuscito a farmi arrivare a un’altezza alla quale non desideravo arrivare? Perché sei riuscito a fare in modo che tutti mi chiamino “Lord”, anche se poi per risolvere un problema qualsiasi ho bisogno sempre del tuo aiuto?»
                «Gino: frena un attimo. Non sei diventato il Lord dell’Altopiano, perché dal nulla io ti ho preso e ti ho messo lì. Eri figlio di un importante signore di quella zona, e… tuo padre è morto e… i Lord prima di te hanno tradito la corona, queste sono cose che esulano dai miei, pur meravigliosi, poteri. Era scritto che tu diventassi il Lord dell’Altopiano»
                «E che Gabryaerys sostituisse Axelion era scritto pure? Era scritto che tu fossi presente alla morte del re che è venuto prima di quello che attualmente siede sul Trono di Spade?»
                «Questo chi te l’ha raccontato?»
                «Un uccellino…»
                «Dimmelo»
                «No, Lord Braff. Tu hai tuoi segreti, e io ho deciso di avere i miei. Ero un giovane apprendista di scorta a Lorthan Tyrell quando mi hai conosciuto, ma ora – sia il tuo aiuto stato decisivo o meno – sono il Lord dell’Altopiano. E il Lord dell’Altopiano non può raccontare ogni cosa al Maestro delle Spie della Capitale»
                «Gino…» disse piano Braff, accompagnando tale parola a qualcosa di davvero insolito. Si avvicinò, gli prese la mano e lo guardò dritto negli occhi: peccato che il suo sguardo continuò a parere al Lord dell’Altopiano troppo furbo per apparire sincero. Braff continuò: «Io ti giuro… che prima di essere servitore di Gabryaerys, o di Axelion, o di chiunque sieda sul Trono di Spade… io sarò tuo amico»
                «Allora da amico ti chiedo di non insistere: non ti dirò chi mi ha riferito che forse eri presente al momento del decesso del vecchio re». Come volevasi dimostrare, la sincerità di Lord Alexis durò il tempo di una sceneggiata. Tornò subito freddo, mollò la mano del suo “amico” e lo guardò tetro.
                «Molto bene» ribattè il Maestro delle Spie di Roccia del Re «Sei il Lord dell’Altopiano, e non tolleri la mia collaborazione. Eppure devo comunicartelo ufficialmente: non sono venuto qui solo per il demone di fuoco, in verità quello era il minore dei pensieri. Sono venuto a dirti che a sud, presso Dorne, l’ultima discendente in vita della dinastia del serpente, Saestrya Martell, parrebbe esser riuscita a tessere una robusta tela di potenziali traditori. È un problema con cui i Lord dell’Altopiano, a distanza di qualche secolo, finiscono per impattare: questi Martell e il loro insopprimibile orgoglio. Da secoli inchinati, da secoli piegati, da secoli spezzati, eppure da secoli sempre pronti a rimettere in discussione la sovranità millenaria di Altogiardino su quelle sabbie e quegli scogli; paradossalmente è un problema ancor prima tuo piuttosto che di Gabryaerys. Ovviamente nessuno sa dove Saestrya si nasconda esattamente. E non si capisce bene chi l’appoggi apertamente e chi sommessamente: posso darti dei cognomi se vuoi, ma di nessuno ho certezze matematiche»
                «Lasciami pure una lista appena possibile. Scenderò a Dorne in questi giorni»
                «Mylord… tu non hai mai veramente concluso il tuo addestramento come guerriero delle ombre e, se tu lo vuoi, vorrei aiutarti a riprendere. Posso mettere al tuo servizio l’uomo che ha sostituito Kellan al vertice della organizzazione al mio servizio, un abile sicario di nome Caden»
                «Mi era parso di intendere, Lord Braff… che io mai avrei potuto completare quel tipo di addestramento»
                «Difatti non puoi. Ma questo non significa che non hai ancora altro da imparare: non sei giunto neanche a metà di quello che puoi apprendere, da quanto mi risulta»
                «Grazie per tutti i tuoi servigi, Lord Braff. L’Altopiano ti ringrazia, come di sicuro fa anche il regno, per il tuo aiuto a Cowain. E come Lord di Altogiardino ti sono grato per le informazioni su questo… problema dei Martell. Ma non intendo avere ancora tuoi collaboratori tra i piedi. Risolverò la questione di Dorne, da solo. Buonanotte»
                «Come desideri» fece Braff deluso «Buonanotte».
                A Gino quell’uomo lo confondeva. Fino a poco prima, era fiero di non esser cascato in un suo tipico tranello psicologico: lo aveva preso per mano e guardato negli occhi ostentando una sincerità che in realtà non aveva, e il suo atteggiamento immediatamente successivo lo aveva dimostrato. Eppure proprio in quel momento, proprio ora che se ne stava andando, proprio quell’ultimo “come desideri, buonanotte”, a Gino era parso che Braff lo avesse detto con quanta più contrizione esistesse al mondo. Gino avrebbe addirittura detto – e senza esagerare – che il Maestro dei Sussurri aveva pronunciato quelle parole col cuore spezzato. Dunque cambiò repentinamente idea: sapeva che forse non era giusto, sapeva che forse era quello che Braff voleva, ma per qualche ragione se la sentì di bloccare ancora il vecchio amico alla porta, dicendogli: «Alexis!»
                «Sì?» domandò semplicemente quello, senza voltarsi.
                «Tu… hai presente Daessenya, non è vero?»
                «Certo»
                «E… sai anche…»
                «Certo»
                «Beh, lei… lei se n’è andata»
                «So anche questo»
                «E sai anche dove?»
                «No. Ma posso scoprirlo»
                «Lo faresti?»
                «Certo. Allora… era per questo? Tutta questa rabbia?»
                «Io… non lo s… forse… forse sì»
                «Beh, non usarmi mai più come tuo sfogo personale, ragazzino» quella voce, intanto, era come se improvvisamente non fosse prodotta più da un uomo, ma da un blocco di ghiaccio, «Sei avvertito». E concludendo ciò, il Maestro delle Spie fece una cosa che veramente inquietò il Lord di Altogiardino. Spinse la manopola della porta, come a volersene andare, e una metà di lui in effetti andò oltre la soglia, ma l’altra metà… l’altra metà prima di scomparire dalla stanza, divenne fumo di un nero intenso, scuro come di sicuro nessun’altro fumo al mondo avrebbe mai potuto essere. Inodore, e non ulteriormente caratterizzabile, se non con le parole “nero come la notte”. La curiosità naturalmente fu più forte del rispetto, e Gino andò incontro alla porta rimasta aperta. Guardò il corridoio, ma non era rimasto più niente: né Braff né il fumo. E fu allora che una domanda molto semplice sovvenne al signore di Altogiardino e Protettore dell’Altopiano: ma lui esattamente… di che cosa diavolo era diventato “amico”?
 
 
 
                Naturalmente Mirietta non aveva accettato il fatto che Marcus avesse riconosciuto il ruolo di sovrintendente allo zio Constant. E per tutto il pomeriggio gli aveva tenuto il broncio. Il che metteva l’Andalo in una situazione davvero complicata: si trovava ad avere a che fare con due personalità estremamente ostinate. Perché d’altro canto nemmeno lo zio Constant si era mostrato malleabile in alcun modo: Marcus gli aveva detto che per lui sarebbe stato il sovrintendente, e quello aveva tagliato la conversazione con un “fa’ come vuoi”, e poi se n’era andato. La situazione di prigionia dei due figli di re Lionel non era da allora cambiata di una virgola. Prigionieri erano stati sotto il Leone Nero e prigionieri rimanevano sotto lo zio stregone. Solo che adesso a Castel Granito risiedeva anche un uomo che pensava di potersi definire “re”.
                Durante il loro incontro peraltro Constant ci aveva tenuto a specificare alcune cose delle quali Marcus non aveva tenuto conto. Era vero e inattaccabile che se veramente avesse voluto la corona per sé, avrebbe cercato di strapparla dalle mani del fratello molto prima della dipartita di quest’ultimo. Ed era vero e inattaccabile che all’inizio aveva complottato per dare il trono a Lorthan non a se stesso: e perché mai farlo, se in fondo quello che voleva era il trono? E infine: era vero e inattaccabile che lo voci sul piccolo Napoleon c’erano, ed erano insistenti: non le aveva inventate lui; Marcus ne aveva ascoltate perfino quando era alla Valle, di quelle dicerie. Solo che all’epoca la cosa non era per lui importante, com’era adesso, e d’altro canto in quel periodo della sua vita il massimo a cui pensava era spalare la merda, non certo starsene lì a dibattere su chi sarebbe dovuto essere il vero re. Una parte di Marcus voleva ancora assecondare Mirietta, essere al fianco della sua sorellina indipendentemente da ciò che avrebbe detto o scelto o fatto. Però non poteva più negare a se stesso qual era la verità della situazione: che se solo avessero appoggiato Constant, pur convinti di chiamarlo “sovrintendente”, e se lui fosse riuscito in qualche modo a detronizzare il re Targaryen… poi loro zio avrebbe avuto tutto il potere, e probabilmente gli appoggi, di prendere la corona e mettersela sulla testa. E se quelst’ultima cosa fosse accaduta, allora tanti saluti al regno di Napoleon, fosse egli figlio legittimo o illegittimo della Casa Lannister. Quindi in questo Mirietta non aveva tutti i torti a manifestarsi ostile fin da subito: aiutare Constant adesso… significava aiutarlo e basta, o almeno così era probabile che sarebbe andata secondo Marcus.
                «Puoi finirla?» disse a un certo punto, stanco, rivolto alla sorella minore, «Sai benissimo che farò quello che dici alla fine, e dunque questo broncio è inutile»
                «Hai dato segnali di apertura a quell’individuo»
                «È nostro zio»
                «Ha ucciso nostro padre!»
                «Ma non è stato lui! Ci ha detto quella roba del veleno, e il resto»
                «Sì? E da quando uno con la preparazione dello zio dovrebbe intendersene di veleni? Non è mica un alchimista o un Maestro della Cittadella. È solo un mago, non c’entra niente questo con i veleni»
                «Beh, ma m-magari…» balbettò Marcus, ma alla fine rimase in silenzio. Continuava a non pensare che Constant avrebbe mai ucciso loro padre, ma… non considerava queste ultime parole di Mirietta poi così sbagliate. Invece le disse: «E che facciamo, allora? Hai qualche nuova brillante idea?»
                «No» ammise Mirietta, e questa volta fu lei a chinare il capo, sconfitta. Marcus la riprese, dicendole: «E allora è per questo che sei arrabiata!», ma se ne pentì quasi subito. Immaginava a questo punto una reazione irascibile della sorellina, ma per fortuna non arrivò. Mirietta invece si diresse malinconica alla finestra, cominciando a guardare l’orizzonte con un po’ di disinteresse. Passò così un altro po’ di tempo. L’Andalo era lì lì per dire qualcosa alla sorella che potesse consolarla, o almeno renderla un po’ meno amareggiata di quanto fosse, quando proprio mentre spostava di nuovo lo sguardo su di lei, vide il viso della fanciulla illuminarsi tutto assieme, liberando un sorriso a più che trentadue denti.
                Le chiese: «Che succede?»
                «Daessenya!» esclamò la piccola, raggiante. Di lì al suono di qualcuno che bussava alla porta fu un attesa quasi risibile. La fanciulla bionda di Cowain aveva il fiato grosso e tutta l’aria di una che stava commettendo un illecito passibile di condanna a morte. Non appena la vide, Mirietta (anche un po’ esagerando a giudizio di Marcus) l’abbracciò come fosse una sorella. Poi Daessenya cacciò fuori il fischietto di Shirley, e anche Marcus l’abbracciò come fosse una sorella. Mirietta chiese: «Ma come hai fatto?»
                «Beh, sarebbe un po’ lunga da raccontare nei dettagli adesso» rispose la ragazza di Cowain «Ma diciamo che non tutte le guardie reggono la forza congiunta di un bel po’ d’alcool, una bella donna, e una giornata stancante. Però, miei signori, non credo che abbiamo proprio moltissimo tempo»
                «No, hai ragione!» concluse l’Andalo, risoluto. Si affacciò dalla balconata e fischiò sull’apparecchio. La chimera arrivò quasi subito, e se anche sicuramente gli uomini di suo zio e dell’altro zio l’avessero notata, comunque non avrebbero avuto il tempo di organizzarsi. In tre, ci stavano comodamente, e fu così cheDaessenya, Mirietta e Marcus l’Andalo lasciarono volando la torre nella quale da troppi giorni questi ultimi due erano prigionieri. Quando il castello della loro famiglia era ormai abbastanza lontano e si sentirono sicuri, Daessenya fece la domanda che da un po’ Marcus voleva fare e di cui temeva la risposta. Chiese: «Dove siamo diretti, miei signori». E Mirietta, senza neanche l’ombra di un dubbio vago: «A occidente».

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Capitolo 12
*** L'ora del vespro ***


Capitolo 12
L’ORA DEL VESPRO
 
 
 
                Ostinatamente il piccolo, solare, fratello Brendan continuava a credere nei suoi Sette Dèi. Perché essi erano sempre infinitamente saggi, infinitamente buoni e infinitamente chiari, non come quel dio del falso sacerdote Yashua, così oscuro e malvagio. Però un’entità esisteva: forse un mese o poco più di prigionia, servì bene al fulvo confratello originario di Banefort per concludere con assoluta certezza questo dato di fatto. Non era un dio, e non era uno dei demoni tradizionalmente associati al culto dei Sette, o almeno non uno di quelli famosi. Forse esisteva qualche vecchio manuale, rinchiuso in qualche vecchia biblioteca di qualche monastero arroccato tra gli scogli che descrivesse alla perfezione quelle magie identiche che sotto Yashua Brendan aveva avuto modo di osservare. Ma… insomma: non erano cose note, e neppure cose apparentemente molto conosciute.
                Yashua manipolava il fuoco in qualunque maniera, era come se ne fosse l’assoluto padrone. Anzi non solo lo manipolava, ma lo creava pure dal niente. Era come se lo contenesse già dentro di sé, sotto forma di energia o chissà che cos’altro. Inoltre era in grado di creare quella sorta di immagini che comparivano dentro le fiamme e mostravano cose, che non potevano essere riprodotte mediante alcun trucco. Non erano manichini o oggetti sensibili di altro tipo: erano come ombre, o riflessi su uno specchio… ed erano la cosa che più di ogni altra inquietava il giovane confratello, la cosa che più di ogni altra lo portò alla conclusione che il “dio” di Yashua era reale, anche se non era un vero dio. Che poi, a detta dello stesso sacerdote del dio rosso, in verità lui non creava le immagini, le immagini avevano un’esistenza per conto loro, un’esistenza dentro le stesse fiamme. Lui era solo in grado di permettere a qualcuno di vederle, facendo in modo di “aprire la sua mente”, queste erano le parole che normalmente utilizzava.
                L’esperienza stava sfiancando Brendan oltre ogni dire. Perfino i suoi leggendari sorrisi, che tendeva a considerare come un suo cavallo di battaglia, ormai stavano divenendo sempre più incerti. Aveva vissuto altre pressime condizioni: la sua infanzia era passata sostanzialmente a continuo cavallo tra la semplice povertà e l’indigenza assoluta. E anche Shawney era stata dura, in compagnia di quel gruppo di confratelli Septon praticamente apatici. Ma la costante ansia di addormentarsi senza sapere se all’indomani gli sarebbe toccato o no morire, o essere punito, o rimanere in vita ancora un po’… era questa la vera tortura che quell’oscuro stregone stava in realtà praticando nei suoi confronti. Ed era una cosa crudele, davvero molto crudele, anche se Brendan ci aveva messo assai tempo per rendersene conto.
                Il novizio dei Sette aveva inoltre cominciato ad assistere ad alcune delle pratiche rituali che quella vasta congrega tendeva a mettere in atto, sotto la guida del sacerdote orientale. E in realtà era tutto molto meno impressionante rispetto a come se l’era immaginato. Venendo dal rogo dei confratelli, e dalla folla esaltata che lo aveva esaltato, Brendan aveva temuto che ogni singolo momento d’incontro di quel sempre più numeroso gruppo che giorno dopo giorno sottraeva fedeli alla vera chiesa, prima o poi si risolvesse a quella maniera: minimo minimo con un qualche sacfricio animale, ma comunque versando del sangue. Il sangue era importante per quella religione, Brendan aveva avuto modo di scoprirlo sentendolo pronunciare spessissimo sia da Yashua che da suoi adepti e collaboratori. “Sangue” era una delle parole chiave insieme a “luce” o “sole”, ed era insieme ad esse secondaria solo a “fuoco”. Ma in fin dei conti, il grosso dei fedeli del dio rosso alla fine non era poi così dissimile da quello dei Sette. I fedeli di tutti le religioni probabilmente si assomigliavano, erano gli apparati ad essere profondamenti distinti: le chiese e gli uomini di cui erano formate. Anzi, a voler essere proprio onesti, Brendan trovava una differenza non trascurabile in cui i fedeli di Yashua erano perfino migliori. Troppo spesso, durante le messe di un Septon, aveva assistito a un gruppo di uomini lì presenti quasi “per dovere”. Si trattava della sua magra opinione, ma aveva ancora ben chiari in mente come se ne fosse capitato uno ieri, diversi momenti in cui la platea era invasa da grandi Lord in preda ai più sonori sbadigli, a donne della plebe il cui sguardo andava dovunque tranne che sul Septon, a bambini palesemente e orgogliosamente annoiati, pronti a far di tutto pur di essere scortati fuori. Nelle messe di Yashua questo non accadeva. Sì, forse, un bambino una volta, troppo piccolo, si era messo a piangere, ma per il resto la partecipazione era assoluta. Il che naturalmente spiegava anche le ragioni del successo di quella nuova religione presso la popolazione della Capitale. La fede in occidente aveva bisogno di una scossa da tempo, e Yashua – più nel male che nel bene – gliela stava dando. La situazione era tragica e toccava un livello che i Septon al tempio non avevano ancora ben considerato: non si trattava di eliminare Yashua, o chi per lui, per riportare i fedeli alla casa dei Sette. Si trattava di tornare a convincerli, perché se così non fosse stato… prima o poi sarebbe venuto un altro Yashua, e poi un altro ancora e poi un altro ancora. Come fare capire tutto ciò ai vertici del Credo era un problema tanto grosso quanto avere modo di farglielo capire ritornando libero da quella condizione di prigionia nel quale Brendan si trovava.
                Di tanto in tanto Yashua continuava a fargli visita. Era un tipo al quale piaceva far la figura del “buon carceriere”: questo ormai era evidente. Era malvagio, spietato e folle fino all’osso, ma adorava rituali e altre formalità. Difatti anche quel giorno passò diverso tempo soffermandosi sui soliti convenevoli, prima di venire al dunque di quella sua nuova visita. Chiese a Yashua se stava bene, se aveva visto che fuori era un bel giorno, se gradiva qualcosa in particolare piuttosto che qualcos’altro per la prossima libagione, fermo restando che il gruppo di Yashua aveva da dargli quello che aveva: carne poco pregiata di solito, unitamente a ortaggi o frutta, sempre gli stessi due o tre tipi. I cereali erano invece un po’ più scarsi, e il pesce molto raro, anche quello di scadente qualità. Dopodiché infine lo stregone del dio rosso passò al nuovo e più importante argomento: «Tu che ne sai dell’organizzazione della chiesa dei Sette, fratello Brendan?»
                «Beh, la componente più in basso della gerarchia ecclesiastica è rappresentata dal noviziato, che si trova su tutto il territorio…»
                «No, no» lo interruppe Yashua sorridendo «M’interessano i vertici»
                «I-Il Sommo Septon è il principale interprete della voce degli dèi su questa terra, e il suo soglio è quello della città più popolosa dell’occidente, ovvero il sacro tempio di Roccia del Re»
                «Ma chi è l’Alto Septon lo sai? Qual era il suo nome prima di assurgere a quella carica? Qual è la sua storia? Chi sono i suoi amici?»
                «Un Septon rinuncia a ogni legame quando…»
                «Sì, e questa è la principale delle truffe della vostra chiesa, quella da cui poi si dipana tutta una ragnatela di verità celate e vere e proprie menzogne. E la cosa davvero triste e che tutti voi accettiate questo stato delle cose così per com’è. Senza dubbi, senza curiosità»
                «Beh un certo mistero è una componente essenziale della nostra scelta di vita, mio signore»
                «Non sono un signore»
                «Se avessimo voluto certezze scientifiche, tutti noi avremmo scelto la via della Cittadella. E la tua stessa figura non si basa forse sul mistero? Qual è il tuo passato? Qualcuno lo conosce? E chi sono i tuoi amici?»
                «Sulla seconda domanda, la risposta è presto detta: i miei amici sono i miei figli e fratelli»
                «Questa è una risposta che qualsiasi Septon potrebbe dare»
                «Forse uno di campagna. Ma i Septon delle grandi città, e con essi l’Alto Septon e tutti i suoi accoliti, dubito che condividano il loro pasto con i loro fedeli, come faccio io. Che conversino con loro ogni giorno, ogni volta possibile. Che dormano in una camera a distanza di una porta dal più umile di loro, dal più solo, il più reietto e abbandonato». Brendan non trovò risposte da controbattere a quest’ultima affermazione. Sapeva che veramente la gran parte dei Septon non faceva quello che Yashua diceva. E d’altro canto osservava giorno dopo giorno il sacerdote Yashua effettivamente mangiare con i propri fedeli, parlare con i propri fedeli e dormire con i propri fedeli. Così lo stregone del fuoco continuò: «Le mie fonti mi dicono invece che ci sono altri amici… altri fattori esterni che determinano l’andamento delle scelte del Credo. Tu lo sapevi?»
                «La Corona?»
                «A quanto pare no, o almeno non molto direttamente, e non con questo nuovo re». Yashua decise di fare una pausa, approfittandosene per guardare Brendan in quel modo, quella maniera oscura che tanto spaventava il novizio dei Sette e che lo faceva sentire snudato di ogni sua difesa fisica e soprattutto morale. Dopodiché il sacerdote decise: «Interrompiamo per un momento questo discorso. Tu mi hai fatto due domande e a due domande io intendo rispondere. La mia storia è quella di un ragazzo cresciuto nella povertà tra le coste dinanzi al Mare di Giada. Non ho idea di chi fosse mio padre e anche di mia madre conservo pochi ricordi. Erano abbastanza vividi fino a poco tempo fa, e diversi anni fa… erano ancora più vividi. Nonostante tutto, nonostante le mancanze, nonostante la consapevolezza che da qualche parte qualcuno vivesse una vita un po’ migoiore della nostra, per tutto un periodo avevo una certezza: quella che una mamma non abbandona mai il proprio figlio, questa è la certezza di cui ogni bambino gode. E invece è morta. Così. Dal nulla. All’improvviso, come molte cose della vita. Vagai solo, triste, denutrito per lunghissimo tempo nel mezzo del deserto… senza più speranze, senza più obiettivi. Sostanzialmente attendendo la morte. La notte del deserto… è traditrice e assassina. Non ti aspetti tutto quel freddo, dato il caldo che ti ha soffocato nel corso della giornata. Quello fu il momento in cui pensai che tutto era finito. E sai la cosa più brutta? Pensai che la morte sarebbe stata una liberazione. Il gelo mi aveva ormai preso le gambe, e i fianchi e il busto, pregustavo già il sapore del nulla fino a quando, arrivato ai gomiti… esso si arrestò. Un tepore, come di un focolare domestico, come di quei forni che io e mia madre talvolta osservavamo nelle case dei ricchi, ebbene questo mi pervase tutto. Era il dio del fuoco. Mi disse che ero suo figlio e che da quel momento gli appartenevo. Mi diede il dono di vedere. E mi diede il dono di trasmettere la sua sapienza e il suo potere mediante la fiamma che mai si estingue» a queste parole, Yashua associò anche uno dei suoi trucchi: sfregò le mani e quando lo sfregamento ebbe fine, una scia infuocata illuminò i suoi avambracci giù sino ai gomiti. «È questa la mia storia» concluse Yashua sorridendo con pacatezza «Neanche molto originale in realtà»
                «No» ribattè Brendan, polemico, «Ci sono un mucchio di santoni in oriente che raccontano grossomodo la stessa cosa»
                «È vero. Però permittimi di farti riflettere sul fatto che un mucchio di gente in oriente è povera e patisce la fame. E Un mucchio di persone avrà avuto a che fare col deserto»; un ultimo sorriso, a dire il vero stavolta un po’ più falso degli altri, fece capire al novizio dei Sette che Yashua aveva finito con quell’argomento. Adesso veniva il punto: «Fratello Brendan, ho bisogno che tu faccia qualcosa per me. Troppo spesso, anzi si direbbe quasi con frequenza, gli uffici privati di sua sacralità l’Alto Septon sono visitati da due figuri in qualche modo invischiati con le vicende di governo di questa città. Due “pesi massimi” se così vogliamo dire. Uno è il giovane Gran Maestro delle scuole e degli ospitali, da cui dipendono tutte le scuole e gli ospitali del regno, filo diretto coi savi della Cittadella a Vecchia Città. L’altra è la pià anziana e, a quanto si dice, ancora la più influente tra le Septa donne e le Sorelle del Silenzio, tutta una branca del settore interno al Credo che naturalmente… copre il suo peso. Ora, se siano Septa Sharma e il Gran Maestro Irwin a servirsi dell’Alto Septon per ottenere sussurri dal popolino o altri favori di carattere politico, o se sia sua sacralità a servirsi della Septa Madre e del Lord Gran Maestro per scalare la china ed entrare nei corridoi del Palazzo Reale e nei meandri del Concilio Ristretto, di cui ufficialmente non fa parte… questo non è chiaro. Magari entrambe le cose sono verosimili. O magari sono solo amici» qui Yashua rise. Non sguiatamente, ma rise. Sinceramente confuso, Brendan chiese: «Ma… non capisco tutto questo cosa c’entri con me». Al che Yashua chiarì: «Tu sei un novizio dei Sette. Avresti modo di entrare in contatto con quelle persone qualora potessi, e con questo intendo… se fossi libero. Ecco perché noi ti ridaremo la libertà. Bada bene: è un contratto che firmi quando lasci questa cella, non un regalo che abbiamo voluto farti. Nulla è gratuito a questa vita, e men che meno la libertà di un prigioniero»
                «Ma… il mio ritorno al tempio non desterebbe dei sospetti?»
                «Dirai ai fratelli Septon e alle sorelle Septa che hai trovato il modo di scappare. Inventa da te i dettagli»
                «Non sarebbe molto credibile»
                «Mi fido di te: lo renderai credibile. E anche se ci vorrà un po’ di tempo, anche se ti parrà complesso, tu troverai il modo di entrare in contatto con l’Alto Septon. Svuotagli il pitale, lustragli le scarpe: non mi interessa come, ma lo farai. E quando avrai capito qualcosa, quando solo ti saranno venuti dei dubbi in merito a sua sacralità, e alla Septa Madre, e al re e al Lord Gran Maestro, tu me li dirai. Farò in modo che con cadenza settimanale noi due potremo rientrare in contatto. C’è anche questo, tra i miracoli del fuoco em del sangue che mio Padre mi ha insegnato»
                «Yashua: io sono un confratello del Credo dei Sette Dèi, e un confratello non può dire bugie. Quello che mi chiedi è un lavoro che – se anche lo volessi – non potrei svolgere»
                «Dimmi, fratello Brendan, è più utile per un confratello dei Sette morire pur di non sorvolare su qualche risibile dogma scritto da qualche parte in qualcuno dei vostri testi sacri, o rimanere vivo e servire gli dèi come meglio possibile?»
                «Ri-rimanere vivo»
                «Bene, allora sappi che io giuro davanti all’unico vero Dio che se tu non farai adeguatamente questo lavoro per me… troverò il modo di trovarti e di riprenderti. Se tu provassi a scappare da questa città, io troverò il modo di trovarti e di riprenderti. Se tu oserai soltanto pensare di chiedere aiuto a uno dei tuoi confratelli, o a una guardia reale, o a chiunque tu voglia, ti troverò e ti riprenderò. E quando accadrà, non potrai che guardare con invidia alla sorte capitata ai confratelli con i quali per la prima volta sei venuto presso il mio tempio».
 
 
 
                Questo fatto che la ragazza possedesse un cognome di quella portata e che non si fosse fatto alcuno scrupolo però sulla sua origine destava davvero parecchi sospetti. Specialmente considerato anche il fatto che lei, per chissà quale grazia divina, era per sua stessa ammissione una lettrice tanto accanita. Daniel di Cowain ci aveva provato tanto a non lasciarsi prendere dal pensiero maligno: la ragazza, Licyane, era gentile, alla mano, sempre radiosa e particolarmente carina… non lo meritava! Però la logica è la logica: e possedere un cognome del genere senza neanche aver mai provato a capire il perché era qualcosa di veramente illogico. E “dormire per lungo tempo” invece cosa significava? Che senso aveva? E poi… prima di questo strano, misterioso, sonno non sapeva leggere, ma una volta sveglia leggeva volumi a iosa, continuamente e di tutti i generi! C’era già tutto questo, e… il cognome Stark. Non poteva essere un caso! L’ipotesi “caso” era già di per sé scartata; ne rimanevano due: o per qualche motivo oscuro la ragazza gli stava mentendo e cercava di prenderlo in giro, o per un motivo ancora più oscuro tutte quelle cose erano legate…
                Ma nonostante tutti quei pensieri lo arrovellassero, comunque Daniel aveva continuato a lasciar trascorrere quei giorni come se niente fosse, zoppicando da uno scaffale all’altro di Amergoth alla ricerca di questo o quel volume: il ceppo ai piedi naturalmente continuava a costringerlo a un’andatura non del tutto naturale, anche se ormai un po’ il callo il principe di Cowain se l’era anche fatto. E poi l’altro passatempo era quello di fare amicizia: impossibile non riuscirci, anche per muto. Se uno passava lì dentro il quantitativo di ore che Daniel ci passava – e così come lui tanti altri dotti, curiosi o semplicemente appassionati – neanche se muti, ciechi e sordi si poteva evitare di fare amicizia. C’era gente di tutte le razze e i colori che girava per Amergoth: nonostante quella dannata biblioteca fosse piazzata nel maledetto punto più a nord del continente, di tanto in tanto si potevano beccare perfino dei dorniani, e una volta Daniel vide anche una sorta di cavaliere ornato con abiti di una fattura che non poteva non appartenere al continente orientale. Purtroppo non aveva avuto modo di intrattenercisi: per una ragione o per un’altra, quando lui era libero, il principe dell’Essos non era a portata di sguardo e quando lo era, Daniel stava andando da qualche parte o finendo di leggere una pagina particolarmentre ostica. Un vero peccato: sarebbe stato il primo uomo d’oriente con cui Daniel avesse parlato nella sua vita da adulto, fatta eccezione per Pamir Gaholla, il Maestro delle Strade così legato a suo padre. Ma Lord Pamir era più uno di famiglia che altro, Daniel invece avrebbe voluto parlare con uno di quei principi e gran signori dalla pelle scura e i turbanti di piume che quand’era ragazzino vedeva di tanto in tanto alla corte del padre, ma con cui non aveva mai seriamente fatto una conversazione neanche breve.
                Le visite di Lord Worchester alla biblioteca erano rare ma periodiche, su questo ormai Daniel avrebbe messo tutt’e due le mani sul fuoco. Anche se apparentemente c’erano sempre ragioni specifiche che portavano l’orso del nord alla sua biblioteca (mostrare la torre a un ospite illustro, conversare privatamente con questo o quell’altro maestro esperto di questa o quell’altra tematica), in realtà i momenti con cui avvenivano tali visite parevano invece scanditi al millesimo. Peraltro sempre o al pomeriggio tardi, prima della cena, o alla sera tardi, dopo la cena. Inutile dire, che di tutti i conversatori, quel goffo gigante dall’aspetto deforme, era il più abile e il più appassionato: parlava con tutti – dalla più misera delle sguattere al più altero dei Lord – e tutti volevano parlare con lui, anche di superficialità qualsiasi. Daniel non veniva trattato come un “prigioniero speciale”: le attenzioni di Worchester si rivolgevano a lui, tanto quanto almeno a un’altra decina delle persone che bazzicavano la torre-biblioteca.
                E poi c’erano dei momenti che erano quelli preferiti di Daniel. I momenti in cui la torre si addormentava. Quasi sempre tutt’assieme, la folla che per tutto il giorno aveva riempito la struttura, scompariva in un ultimo rapido scalpiccio confusionario. E poi era il silenzio… oh meglio: rimanevano ancora le voci sommesse degli impiegati e degli altri – come Daniel – che nella torre ci vivevano…. ma dieci o venti voci sussurate, era come se neanche esistevano in una struttura come la torre di Amergoth. Talvolta capitava che un gruppo ristretto di quei suddetti abitatori e impiegati – Daniel, Kohler, spesso anche la stessa Licyane – rimanessero a conversare un po’ di più, anche dopo la cena. Erano colloqui molto interessanti, perché quasi tutti gli astanti avevano spesso storie interessanti e molto eterogenee da raccontare. C’era l’anziano maestro mezzo sordo che sapeva un mucchio di cose sulla storia e sulle stelle, e un altro un po’ più giovane e austero che ne sapeva un sacco sulle piante, gli animali e i popoli dell’oriente. Poi c’era invece un garzone che diceva di aver frequentato tutti i bordelli del nord e di avere conosciuto almeno una donna in ciascuno di essi. I cavalieri erranti invece, amavano decantare le loro quasi sempre inverosimili imprese, ma così facendo – oltre ad assicurare degnissimi racconti di fantasia cavalleresca – aggiornavano anche un po’ la biblioteca sulla storia recente, sulle nobili case e le altre realtà politiche che in quel momento si destreggiavano nei meandri del governo continentale, sia ad alti livelli che in termini più locali. Era giunto per esempio un baronetto, quasi imberbe, proveniente dalle Isole di Ferro, che cercava nella torre-biblioteca un qualche documento che potesse comprovare la sua legittimità al governo di un’isolotto sperduto nel mare, a suo dire sottratto da una combriccola di cugini tutti messi d’accordo contro di lui. Inutile dire quanti e quali incredibili duelli avesse fatto per giungere sino al profondo nord e quanti e quali madamigelle procaci avesse deflorato e branchi di lupo avesse ucciso prima di arrivare…
                Era una situazione del genere quella in cui Daniel si trovava adesso. Il Lord di Biancavilla aveva concesso a tutti i presenti carne di agnello per ringraziare un certo Maestro Krystar dell’aiuto fornitogli in merito a una questione di ingegneria. Dell’agnello però avevano potuto beneficiare tutti i presenti, ivi incluso il prigioniero politico Daniel di Cowain. Erano già tutti piuttosto sazi visto che oltre all’agnello avevano anche ingurgitato patate bollite, cipolline di fiume e una salsa che Daniel non aveva capito bene di cosa fosse fatta, quando il Maestro Krystar chiese gentilmente a qualcuno del personale di andare a posare i tre ingombranti volumi con cui aveva lavorato tutto il giorno: uno era di dimensioni davvero inverosimili, forse il più grande testo rilegato che il principe avesse mai visto in vita sua, tanto che si chiedeva come facessero tante pagine a stare insieme senza esplodere. All’inizio nessuno si propose per la fastidiosa quanto necessaria mansione, ma poi, probabilmente notando la stazza degli altri impiegati – il biondo giovane Kohler incluso – e calcolando che quella sera si erano un po’ tutti ingozzati come suini, fu la stessa Licyane a prendere l’iniziativa e incamminarsi verso gli scaffali che d’altro canto conosceva come le preghiere della sera. Daniel colse l’occasione per seguirla.
                Aveva deciso che voleva parlarle, voleva chiederle di più su quel maledetto cognome. Ma non aveva avuto ancora il coraggio di farlo perché… la verità era che era leggermente in imbarazzo quando si trovava da solo con lei. Ovviamente non balbettava, e non andava completamente in panico come aveva sentito dire che certuni facevano quando si trovavano a che fare con una bella ragazza, ma… insomma non giudicava le sue prestazioni né verbali né argomentative ai massimi livelli, non dava tutto quello che normalmente avrebbe potuto dare. Faceva conversazioni molto più serene col suo carceriere Lord Uryon, e la cosa lo infastidiva. Dunque anche se le occasioni c’erano state, Daniel non aveva ancora affrontato quell’argomento. E decise che il momento era giunto. Si propose di portare i libri alla ragazza, ma lei si rifiutò. Finirono per concludere un compromesso: a lei quello enorme, a lui gli altri due, e fin qui tutto bene. Il volume gigante era già stato sistemato, quando lungo la strada per posare gli altri due che andavano praticamente messi sullo stesso scaffale (in uno dei settori più remoti della biblioteca però, in cima a una tortuosa scala a becco di gabbiano), il principe di Cowain si prese di coraggio e fece: «Mia Lady Licyane, posso dirti una parola?»
                «“Mia Lady”? Non credo che nessuno mi ci abbia mai chiamato prima d’ora. Sono tutto meno che una Lady, purtroppo»
                «Beh mio padre diceva sempre che ogni donna può essere una Lady agli occhi di chi la guarda»
                «È… molto carino» chiuse la fanciulla del nord mezzo imbarazzata, e fingendo di continuare a guardare i libri che aveva appena sistemato pur di non mostrare il palese imbarazzo che il complimento le aveva provocato. Fino ad allora, tutto era andato per come Daniel si era accuratamente preparato. Ora veniva il difficile. Balbettò: «Ehm… ci-ci sarebbe una cosa che devo dirti»
                «Sì» rispose Licyane, e dicendo ciò già sorprese il principe Lannister, «Anch’io»
                «Ve-veramenre? E cosa?»
                «No» Licyane scese dalla scala e si mise in modo da guardare Daniel dritto negli occhi «Prima tu»
                «Ehm… ok. C-come è possibile che… una fanciulla tanto colta come te, che abbia letto tutti quei libri…»
                «Così mi fai arrossire»
                «Sì, ma dico… come è possibile che non ti sia mai posta il problema di conoscere come mai… ecco… ti chiami Stark. Sai chi erano gli Stark, no?»
                «Ma certo» fece Licyane, chinando il capo un po’ delusa, «Gli antichi re del nord»
                «E… allora?»
                «Le uniche informazioni che posso darti, sono quelle che mi arrivano dalla mia famiglia, e… loro mi hanno sempre semplicemente detto che da molti secoli ormai il nome Stark non è più un nome necessariamente aristocratico. Senza dubbio ci sono ancora degli Stark che vantino una qualche tradizione secondaria, ma non è il nostro caso, non sono parenti miei. Io faccio parte degli Stark “del popolo”, per così dire. Ho cercato di rintracciare il momento in cui questi due macro-rami si siano divisi, senza dubbio un antenato comune ci sarà stato, ma… non ho trovato niente, e ho concluso che non sia stato molto importante»
                «Tutto qui?» fece Daniel, non riuscendo a nascondere una certa amarezza. Per qualche motivo, la sua mente aveva escluso totalmente l’ipotesi su cui Licyane lo stava testé illuminando e che, ora che se ne accorgeva, era la più semplice e dunque anche la più probabile. Sempre per qualche motivo, una parte di lui aveva deciso che quella storia dovesse nascondere un intrigo, e che quella fanciulla dovesse essere molto più di quello che in realtà era: una semplice ragazza del nord. Probabilmente Licyane interpretò quella sorpresa di Daniel come una delusione: si rabbuiò in viso e fece strada per tornare alla tavola con gli altri ospiti della biblioteca. Invano il principe l’arrestò per chiederle: «E tu? Cos’è che volevi sapere?», lei rispose un po’ vagamente che l’aveva dimenticato, e che molto probabilmente si trattava dunque di qualcosa di non importante.
                La sorpresa arrivò quando tornarono alla tavola. Uryon Worchester era lì, con le sue stampelle giganti, i denti aguzzi e il volto mostruoso. Spiegò che era solo venuto a ringraziare personalmente il maestro Krystar e a scambiare due chiacchiere con gli altri membri del suo personale e i suoi ospiti. Ma il modo con cui si congedò inquietò Daniel fino al midollo: niente di oscuro, almeno nelle sue parole, che si limitarono ad essere le solite gentilezze forbite. Ma lo sguardo… lo sguardo che Uryon ebbe negli occhi un momento prima di voltarsi per tornare ai suoi appartamenti, era cupo e torvo, ed era rivolto a Daniel e Licyane.
 
 
 
                All’ora del vespro, Yashua stava tenendo una messa. Una di quelle importanti, cui grossomodo chiunque era tenuto a partecipare, ivi incluso il confratello prigioniero Brendan. Il sacerdote faceva le sue operazioni quotidiane come se qualche ora prima non lo avesse minacciato di morte e tortura. Mangiava coi fedeli, sorrideva, raccontava aneddoti, era sempre al centro dell’attenzione. Per uno che era un suo seguace, o solo un simpatizzante, Yashua poteva essere scambiato benissimo come un profeta qualsiasi; anzi meglio: come un profeta che davvero credeva in quello che professava, che davvero era in grado di fare miracoli, che davvero tendeva a risultare agli occhi della massa almeno convicente. E invece era un feroce assassino, ricattatore e manipolatore. Uno stregone senza scrupoli che intendeva insinuarsi in ogni più capillare meandro della città. E Brendan non poteva che permettergli di farlo. Yashua non gli aveva lasciato alternative a parte quella di morire, e Brendan voleva vivere. Ci si era arrovellato parecchio per tutto il giorno, e ancora non riteneva la sua decisione definitiva, forse non l’avrebbe ritenuta mai definitiva… sapeva che un Septon più eroico al suo posto sarebbe morto, così come molti martiri le cui storie erano per sempre incise nelle scritture sacre. Ma Brendan non voleva essere un martire, voleva diventare uno di quei Septon utili alla gente. E in questo Yashua aveva maledettamente ragione, e per questo sostanzialmente il suo era un ricatto perfetto: non si può essere molto utili quandi si è morti. In verità, se proprio avrebbe dovuto fare quel lavoro, Brendan era certo che avrebbe fatto il minimo indispensabile. Questo sì che era pronto a giurarlo sulla sua stessa vita: il minimo indispensabile perchè Yashua fosse soddisfatto, ma mai, mai, mai nulla di più.
                Il novizio dei Sette stava ancora rimuginando su tutto ciò, quando qualcosa interruppe la messa dello stregone del fuoco. Era inusuale, anzi proprio inaudito che qualcuno interrompesse il suo canto mentre si accingeva a versare del vino da una brocca a una coppa sostenendo che fosse il sangue di dio. Una intensa luce artificiale penetrò tutto assieme dal varco senza porta che costituiva l’ingresso dei fedeli. La folla ammassata, disperata e un po’ laida era numerosissima, come a ogni singolo rituale. Era gente abituata ai miracoli di Yashua, eppure si sollevò ugualmente un grido di stupore e orrore non appena la fonte della luce si mostrò interamente. Era il nuovo Lord Primo Cavaliere del Re, uno dei numerosi mostri abbietti che il re Targaryen si era portato appresso dall’oriente. Non una delle numerose guardie dai tratti animaleschi nelle quali ormai si poteva dire che spesso ci si poteva imbattere lungo le strade della città. Una di quelle rare: con gli abiti da umani, ma un teschio spoglio e nero al posto della faccia. Gli abiti in particolare di questo diavolo, poi, erano sfacciatamente eleganti, quasi antiquati a giudizio di Brendan. E sulla superficie spoglia del cranio portava perfino una piccola corona da nobilotto. Con una voce che non aveva niente di umano, la creatura Primo Cavaliere disse solo: «Yashua!»
                «Sono io» rispose, pacato, il sacerdote all’altro capo della navata: neanche l’accenno di un timore nel suo atteggiamento, «E voi state interrompendo un rituale sacro, o abbietta creatura!»
                «Che tutti i bravi cittadini che non intendono essere coinvolti lascino immantinente la strutta» proseguì il Primo Cavaliere come se nulla fosse; dopodiché indicando Yashua: «Tu vieni con me!»
                «E per andar dove, di grazia? E a far che? I miei figli e fratelli mi vogliono qui»
                «Per andare in una cella a marcire. Io non me ne intendo molto di cose di religione. Ma servo il re. E il re ha deciso che solo un credo può essere professato nel suo regno, il credo dei Sette. E chiunque pratichi qualsiasi cosa d’altro è un eretico per la Chiesa. E un criminale per la Corona»
                «Sei una creatura…» fece Yashua, sorridendo, «Assolutamente magnifica. Una contraddizione vivente. Così potente e luminosa, tratti che normalmente si attribuirebbero a qualcosa di libero. Il sole è libero. Il fuoco è libero. Eppure tu… rimani uno schiavo. Un cane così fedelmente asservito al suo padrone. È questa la cosa più curiosa della tua natura»
                «Tu non mi temi!
                «No. E nessuno dei miei fedeli lo fa».
                Dallo spalto in alto in cui era collocato insieme ai due che dovevano tenerlo d’occhio, Brendan riuscì comunque ad osservare che sebbene in molti dei presenti lo sguardo era convinto e senza paura, in molti altri invece il seme del dubbio quella creatura satanica era riuscita a piantarlo. Comunque nessuno si mosse, né uscì dall’immensa sala ricavata da una buca sul terreno, urlando e strepitando, né si allontanò facendo finta di niente. Tutti rimasero al loro posto in silenzio, e la tensione divenne talmente tesa da potersi tagliare con un coltello da burro. Brendan si concentrò sul Primo Cavaliere: era come se la sua stessa figura irradiasse quella luce che lo aveva annunciato; c’era come un’aura splendente tutt’attorno al suo corpo, dalla punta del cranio fino agli eleganti calzari da principe. Solo che a un certo punto… Brendan vide chiaramente quella luce farsi più intensa.
                Il Primo Cavaliere disse: «Dunque non intendi venire volontariamente?»
                «No» rispose Yashua, mentre Brendan si accorgeva solo in quel momento di un ulteriore dettaglio: mentre Yashua aveva un’orda di fedeli che lo separavano dal suo avversario, quest’ultimo era completamente solo: niente guardie armate o sgherri di qualsivoglia altro genere.
                «Intendi opporre resistenza?» insisté il Primo Cavaliere
                «Io. E tutta la mia gente» proclamò Yashua.
                «Speravo che lo dicessi» concluse il demone vestito da uomo, e la luce gialla che lo attorniava si fece molto più intensa, si spostò rapidissimamente andandosi a concentrare prima verso le braccia e poi verso le punte delle mani, mentre un ghigno malefico gli si dipingeva in quella bocca senza labbra e senza lingua e in quelle orbite vuote, senza occhi. S’udì il suono come di un forte ronzio, come se mille e mille zanzare tutte assieme avessero deciso di precitarsi all’unisono nella sala. Gli astanti che quella malaugurata sera, all’ora del vespro, avevano deciso di seguire la messa, cominciarono a temolare, scossi da una qualche energia. Poi caddero tutti a terra, le loro membra fumanti. Quella era stata la loro ultima messa.
                Di tutti gli individui che si trovavano coi piedi poggiati allo stesso pavimento su cui si trovava il mostro che era Primo Cavaliere, solo Yashua, da dietro il suo altare, rimase completamente illeso, anche se vistosamente scosso. Accorgendesene, il demone chiese semplicemente: «Come?». Yashua non rispose con le parole. Si librò semplicemente nell’aria, mostrando al suo nemico, e agli altri che potevano vederlo (i pochi rimasti sugli spalti), che era in grado di farlo e che dunque lo stava facendo anche mentre il demone massacrava i suoi fedeli. Non era entrato in contatto con la scossa energetica con cui il demone aveva massacrato i fedeli del dio rosso. Non rimase molto altro da dire evidentemente. Solo l’inviato del re si lasciò scappare un’entusiasta: «Ora ci divertiamo!» prima di lanciarsi in volo sul sacerdote del dio rosso, le possenti braccia scheletriche scagliate in avanti, e circondate da vortici d’intensa luce gialla che Brendan a poco poteva paragonare, se non a come normalmente – nella sua testa – si immaginava l’energia di una folgore. Yashua, dal canto suo, si preparò a scagliare la sua consueta energia delle fiamme, e di lì a poco probabilmente i due avrebbero raso al suolo non solo quella stessa struttura ma anche tutte quelle limitrofe.
                Brendan si guardò attorno: nessuno dei due fedeli che Yashua gli aveva messo alle calcagna era rimasto sul piccolo palchetto di mattoni. Lasciando dunque la struttura diretto il più lontano possibile da lì, il novizio dei Sette pensò a quanto ironico potesse essere il disegno degli dèi: mandare un diavolo per liberare un confratello giurato della vera fede dalla morsa di un eretico stregone.

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Capitolo 13
*** Notizie dall'oriente ***


Capitolo 13
NOTIZIE DALL’ORIENTE
 
 
 
                Era da lunghissimo tempo che Constant Lannister non rivedeva i luoghi tradizionali della sua famiglia. Quelli che in parte erano stati la sua residenza infantile, anche se parte della sua infanzia re Constant l’aveva passata a Roccia del Re, e un’altra parte in quel di Myr, la città dell’oriente dove aveva conosciuto la sua Lady Ladylynn. Ma Castel Granito era la millenaria roccaforte dei Lannister, l’inespugnale castello così poche volte occupato dai nemici in tutta la storia dell’occidente, e pur se temporaneamente occupato, sempre riconquistato. Quelle mura, quei ponti, quelle torri e quei corridoi non potevano che farlo sentire al sicuro, farlo sentire a casa. Il rosso scuro cha tappezzava la gran parte delle pareti interne della magione, era il suo colore, quello della sua famiglia. La famiglia che ben presto sarebbe tornata a regnare sul Regno Unificato, grazie al lavoro di lui stesso: re Constant, primo del suo nome. Aveva pensato di andare all’oriente, visto che c’erano molte forze che lo spingevano in quella direzione, prima fra tutti la presenza di un governatore regionale, su una stretta lingua di terra tra i territori dei Goldsmith e quelli dei Loackland – e che era quella che, attraversando le paludi, andava a finire alla Valle del Leone – il quale illo tempore era stato profondamente legato a suo fratello Lionel e in particolare al suo Maestro delle Strade Gaholla, di cui era fratello. Il ruolo di Gaholla in tutto quel caos che si era venuto a creare dopo l’insediamento de Signore delle Dune riscoperto Targaryen-Naharis, era rimasto per Constant piuttosto misterioso. Così come in realtà misterioso rimaneva tutto l’oriente, e con esso i vari signori e signorotti che vi regnavano. Eppure l’oriente era una parte fondamentale del regno, una che – qualora coordinata – poteva determinare le sorti di un conflitto intercontinentale. Ma quella tentazione di raggiungere l’oriente era ormai stata definitivamente accantonata: certo l’oriente era utile, ma prima bisognava che facesse chiarezza al suo interno. E, nell’attesa di ciò, tanto valeva consolidare i propri avamposti in occidente. Tanto valeva cercare di racimolare quanti più alleati ancora possibili: e quali migliori alleati della sua stessa famiglia? Suo zio Pylgrim aveva già sostanzialmente ceduto, mentre i suoi nipoti Marcus e Mirietta… beh loro prima o dopo l’avrebbero fatto.
                Constant veniva or ora da un primo confronto coi suoi nipoti, quando, stanco, decise di rientrare nelle sue camere private per mettersi a riposo. Dentro una di esse tuttavia, con il caminetto già acceso, il nuovo re Lannister vi trovò il suo consigliere di più recente acquisto: Sir Bastian, mancato Primo Cavaliere e fratello dell’uomo che adesso sedeva sul Trono di Spade. «Maestà» cominciò Bastian, come sempre molto a modo e molto riverente. Ma Constant era veramente stanco, e d’altro canto – anche se era ancora convinto che il coltello dalla parte del manico lo possedesse lui – i suoi cari nipotini non gli avevano reso affatto piacevole la serata. Dunque fu il re a interrompere il suo collaboratore, domandando bruscamente: «Che vuoi, Bastian? Stasera sono molto provato»
                «Maestà se vuoi possiamo rimandare a domani, ma… è giunto un corvo dall’oriente: nella lettera è inciso il sigillo dell’urgenza assoluta»
                «E di che sigillo si tratta?»
                «Una chimera incoronata. Con un martello tra le zampe»
                «Lord Gaholla» constatò infine il re. Incredibile: aveva pensato a lui, e alla situazione in oriente fino a pochi istanti prima, e ora il governatore dei territori reali in oriente era spuntato fuori con un tempismo a dir poco sospetto. Il re si fece passare la missiva dal suo consigliere, il quale gli domandò se doveva restare o rimanere. Constant optò per la seconda alternativa. Dunque lesse a voce alta: «A Sua Mestà re Constant della Casa Lannister. Ho di recente ricevuto diverse pressioni dai Lord di Braavos e Marrah Cankhubhia affinchè partecipi a una riunione la quale sancisca un definitivo allineamento dell’intero continente volto a soprrimere la dominazione dei Loackland sulla zona centrale del medesimo. Ho provato a informarmi sugli orientamenti del re sul Trono di Spade in merito alla questione, e mi è parso di capire che costui si manifesti totalmente disinteressato a quello che potrebbe avvenire. Chiedo dunque al vero re, quello che porta il cognome della famiglia alla quale dobbiamo il nostro successo, e della quale saremo sempre strenui sostenitori, un parere su cosa sia conveniente fare. Attendiamo una risposta, con estrema preoccupazione». Bastian non disse nulla. Re Constant invece si concesse un po’ di tempo. Dunque constatò: «È frigido»
                «Mio signore» disse il guerriero dell’oriente «È solo formale. Sta parlando con un re»
                «Un re, che non è quello cui avrebbe mai sperato rivolgersi. Tu non lo sai: era mio fratello l’idolo di Gaholla. Praticamente mantenne lui un’intera famiglia dell’oriente, crescendone i figli come suoi. Tutto partì dalla sua simpatia per Pamir, così innatamente abile nelle questione di ingegneria, nella costruzione di strade e ponti, nella riparazione di torri e castelli. Un dono. Un dono che Lionel seppe riconoscere e nutrire fino a quando non fece di Pamir il suo Maestro delle Strade personale. L’altro fratello, Juxas, aveva doti più banali, così fu ovviamente indirizzato alla politica. Scalò quello che doveva scalare, e in quello in cui non riusciva venne aiutato. E infine fu messo al governatorato. Lionel aveva bisogno di qualcuno che non l’avrebbe mai tradito, e i fratelli Gaholla non l’avrebbero mai fatto: Pamir è ancora sotto arresto a Roccia del Re a quanto mi risulta, e proprio per tale ragione»
                «Una ragione in più per invocare il tuo aiuto e non essere costretto ad andare a baciare i piedi a Gabryaerys»
                «Sì, questo è ovvio. Eppure sarei curioso di sapere che cosa Gaholla pensi del ruolo del mio piccolo pronipote, a questo punto probabilmente quasi giunto presso le gelide mura di Forte Terrore. E dei miei altri nipoti. Quello disperso a nord… e quello a noi così vicino a sud»
                «Ma si è rivolto a te. Ti ha chiamato “Sua Maestà”. Lui ha già scelto»
                «Certo, perché è disperato»
                «Una ragione in più per farselo amico: se è disperato, sarà più facile». Silenzio di riflessione. C’era qualcosa in Juxas Gaholla che a Constant non aveva mai convinto. Nemmeno quand’erano più giovani: Juxas era strano. Non aveva mai fatto niente: assolutamente niente che avesse potuto farlo sospettare anche solo per un momento di nutrire dubbi sulla sua amicizia con la Casa Lannister. Che diamine: lui e il fratello avevano perfino deciso di mettersi la chimera dei Lannister come loro effige personale (anche se correndandola con un martello da artigiani, che faceva tanto “poveri dall’oriente”). Però era sempre stato molto freddo; forse lo era di carattere, o forse era semplicemente il suo essere sempre così vicino al fratello a renderlo tale. Pamir era infatti fin troppo “eccessivo” nella sua manifestazione di affetto nei confronti di Lionel, tanto che un atteggiamento assolutamente consono all’etichetta come quello di Juxas, tendeva ad apparire come il minimo sindacale. In fin dei conti, forse Juxas era semplicemente troppo simile a Constant, e per questo il re non lo tollerava: c’era spazio per un solo Constant, primo del suo nome re degli Andali e dei Primi Uomini, al mond. Unico ed inimitabile.
                Constant si era ancora perso nei suoi pensieri quando il silenzio venne interrotto dal vecchio Pylgrim, con un volto sulla faccia che non diceva nulla di buono. «Mio signore» fece il vecchio, contrito. E Constant: «Che cosa c’è, zio?»
                «I tuoi nipoti» rispose il Leone Nero «I-il fischietto è in qualche modo arrivato nelle mani del ragazzo e… sono scappati a dorso di chimera». A questo punto Constant non si contenne. Avrebbe voluto farlo, ma non lo fece. Gridò: «PER GLI DÈI!» e diede un calcio a una cassapanca lì vicina, sfondandone la parte superiore, «Ma come gli è stato possibile?!»
                «Questo… lo stiamo appurando» balbettò lo zio «Ma, Constant, io intendo assumermi tutte le responsabilità dei miei uomini, se…»
                «Certo che te la devi assumere la responsabilità! Di chi cazzo credi che sia la responsabilità se non TUA?» sbottò il re, spintonando il vecchio zio fuori dalla sua camera e sbattendo la porta. Dopodiché Constant si mise a sedere su una morbida poltrona, massaggiandosi le tempie: aveva un gran mal di testa. Sir Bastian ci mise un bel po’ – una vita! – prima di trovare il coraggio di azzardarsi a riaprir bocca. Ma lo fece: non aveva altre alternative se intendeva congedarsi; non si scappa via dal proprio re senza domandare il permesso.
                Difatti fece piano: «Maestà, io…»
                «Vattene, Bastian. Voglio restare un po’ da solo»
                «No, non è vero. È l’errore che commetteva spesso mio fratello. Non commetterlo anche tu: non pensare di essere speciale, anche se lo sei. Trova sempre un amico con cui confidarti, un…»
                «Sai, Bastian, più passano i giorni da re, più mi rendo conto che c’è una sfilza di individui che intendono che io li consideri miei fedeli sudditti, fratelli, amici, servitori, cugini e… qualsiasi altro tipo di relazione che si possa avere con una persona»
                «Oh no, ti prego…»
                «Devo pensare che tutti siano realmente fedeli? Sarei un re saggio, se ragionassi in questo modo? Mio padre avrebbe ragionato in questo modo? E mio fratello?»
                «Non sei né tuo padre, né tuo fratello, né mio fratello. Sei il legittimo re del Regno Unificato»
                «Ah, stronzate. Vattene via!»
                «Ritieni che io non ti sia sincero?»
                «Lo sei?»
                «Davvero ritieni che non lo sia? Dopo che ho abbandonato un comodo seggio da Primo Cavaliere a Roccia del Re, per unirmi alla tua causa»
                «Dubito che  - trono a parte – qualsiasi seggio sia comodo con un re di quel genere»
                «Dopo che io stesso ti ho consigliato di prendere da te e per te la corona?»
                «Consiglio che non ti ho mai chiesto»
                «Constant…»
                «Vostra Maestà. Sai, Bastian, è vero: hai fatto tutte quelle cose per me. Ma le hai fatte perché ti aggradavano. Non nego che i tuoi interessi e i miei coincidano e possano continuare a coincidere in futuro. Ma essere amici non può essere una quesione di interessi. È una questione di sincerità. E, se vuoi continuare a giocare questo gioco, è la tua storia che io voglio»
                «Quale storia?»
                «Quella vera. Quella che parla di te e dell’uomo che una volta chiamavi “fratello”. Lo stramaledetto re Targaryen Naharis Signore delle Dune dei miei stivali».
 
 
 
                Il clima dentro quella prigione fatta di fronde e fitti rami era asfissiante. Le razioni di acqua e frutta arrivavano regolarmente, ma stavano cominciando a stufare Garhel come presumibilmente anche Banfred e i suoi due uomini di scorta. L’unico che non mangiava, era il teschio nero tenuto prigioniero dalla strana energia di un verde trasparente propagata dalla draghessa Kimera, teschio nero che peraltro non aveva più la forza di fare nulla, oltre che continuare costantemente a sorridere in quella maniera terrificante. Atterriva Garhel – che era un guerriero fatto e finito – chissà quali paure doveva risvegliare nel povero, viziato, obeso e figlio di papà Banfred Panecha! Kimera dal canto suo non era più ritornata: aveva detto che forse si sarebbe servita della presenza di quei prigionieri umani, che forse in qualche modo avrebbe trovato la maniera per renderseli utli, ma il tempo era passato. Diversi soli e diverse lune: l’ex Lord Tribuno Popolare ne aveva contati circa dieci o dodici per ciascuno. Il che forse era anche un bene: non era affatto detto che un aiuto utile per Kimera sarebbe significato qualcosa di positivo anche per Garhel, Banfred o gli altri prigionieri, o per il resto dell’umanità magari.
                Banfred aveva già pianto diverse volte, e una volta l’aveva perfino fatto uno dei due omini piccoli e silenziosi, quando Sawela decise che aveva completamente perso la pazienza. Era ormai pronto a cacciare un atavico grido di rabbia, quando venne fermato. Forse consapevole dell’imminente sfogo di Sawela grazie alle sue doti magiche, o forse per un mero colpo di fortuna, il demone al centro della stanza di rami, per la prima volta da quando era prigioniero di Kimera insieme a quello scalcagnato gruppetto di esploratori, fece udire la sua voce. Era da lungo tempo che Garhel non la udiva, e naturalmente la cosa lo fece rabbrividire. Ma a essere onesti, lui ricordava di averne ascoltate due di quelle voci di ossa e male: la prima, quella proprio del diavolo che ora aveva di fronte, e che per lungo tempo era stato prigioniero di Yashua, il sacerdote del dio rosso. Mentre quell’altra era appartenuta a un mostro probabilmente di uguale origine, ma di natura diversa. Come tra gli uomini alcuni vengono bassi e alcuni alti e alcuni mori e altri biondi, così quei due mostri avevano in comune il teschio nero e la facoltà di saper fare magie. Ma le magie del primo c’entravano col freddo e il ghiaccio, le magie del secondo con qualcosa che aveva a che fare con le viscere della terra, le rocce e le montagne. Il primo era di corporatura normale, come quella di un uomo comune, ma possedeva un guanto artigliato, i cui artigli parevano essi stessi fatti di ghiaccio. Il secondo aveva un corpo di pietre e metalli, ed era gigantesco: ora, non esattamente come quello della draghessa Kimera nella sua forma umanoide, ma certo una via di mezzo tra quest’ultimo e una normale corporatura umana. Infine il diavolo di ghiaccio aveva un fedele “pennuto” gigante, fatto anch’egli di soli ossi, con il quale volava in giro per il mondo. Insieme al demone di roccia invece, Garhel non aveva avuto modo di osservare una creatura simile: anche se questo in effetti non significava necessariamente che non ce ne fosse uno.
                Il teschio disse: «Noi ci conosciamo…» Garhel non rispose «Sì. Eri il secondo in comando di quel mago infuocato, convinto di essere figlio di un dio» Garhel non rispose «Eravamo nemici. Anche lui, come Kimera, riusciva a tenermi prigioniero. Solo che anziché mantenere un’energia costante su di me, di tanto in tanto veniva a rinnovare il lavoro. Ti ricordi, sì? Giù in quel labirinto di terra sotto le dune». A questo punto Garhel rispose: «Sì, mi ricordo, allora?»
                «È buffo non trovi? Ora siamo entrambi prigionieri, di un nuovo nemico. Uno più forte. Uno da cui potremmo anche fuggire, se lavorassimo insieme»
                «E come?»
                «È da qualche giorno che sono piuttosto convinto di aver trovato un modo. Ma non te lo dico, se non mi fai la tua promessa solenne che, una volta libero, libererai me a tua volta. E d’altro canto… ti verrebbe assai difficile scappare in fretta da questo luogo prima che le creature di Kimera non si accorgano di noi. Avete bisogno di me per fuggire in fretta»
                «E rischiare di provocare un danno ancora maggiore? Chissà quali orribili cose faresti, una volta libero»
                «Sì, ma questo non è il problema più imminente, dico bene? Vivi oggi per combattere domani, guerriero delle sabbie. Un veterano come te queste cose le dovrebbe sapere…». A questo punto Sawela si concesse un momento per riflettere. In altre situazioni non avrebbe naturalmente mai prestato neanche la minima attenzione alle parole di un teschio parlante imprigionato dentro una bolla di energia verde brillante. Ma quella non era per niente una situazione comune: si trovava prigioniero dentro una sorta di cella fatta di rami, incatenato mani e piedi da liane, arbusti e rovi, con la responsabilità del figlio di Lord Panecha, e sotto la minaccia di una donna gigante che all’occorenza poteva tramutarsi in drago. Pensò alle conseguenze non palesate di quello che sarebbe potuto accadere: dopo che il mostro gli comunicava come liberarsi da sé, lui lo liberava e… quello seduta stante li trasformava tutti in tanti cubetti di ghiaccio. Era la cosa più probabile, e una volta accaduta, tanti saluti alla agognata libertà. Senza pensare alla reazione che la draghessa Kimera avrebbe potuto avere, una volta resasi conto – se se ne fossa resa conto – che quello che probabilmente era il suo prigioniero più prezioso era stato liberato da quegli altri piccoli bocconcini di carne che aveva già lì a disposizione, surgelati. Niente da fare: Garhel aveva bisogno di delle garanzie.
                Procedette: «Chi mi dice… che tu ci riveli come liberarci, noi lo facciamo, poi liberiamo te e… poi non ci congeli tutti quanti?»
                «Io ve lo dico»
                «Non basta»
                «Perdonami, Lord come-ti-chiami, ma francamente non credo che la scelta spetti a te, visto che non sei tu quello che ha la lampante possibilità di rendersi libero, ora, in quest’istante»
                «E…» chiese dunque Sawela, non poco sorpreso, «Chi allora?»
                «Evidentemente il ragazzo grasso».
                Ancora una volta, e tutto nell’arco di pochi secondi, Sawela non poté fare a meno di prendersi del tempo per riflettere sulla situazione. Osservò Banfred: i polsi, le caviglie, le altre parti del corpo che i rami al servizio di Kimera erano riusciti ad avvolgere. Non c’era nulla di diverso nella condizione del ragazzo da quella di Garhel o di quegli altri due tizi. Lui era un buon osservatore, e non c’era assolutamente nulla di diverso: il mostro stava bluffando. Garhel concluse che non intendeva cedere a quel ricatto, ma non lo disse ancora. Fu il mostro a dire: «Allora, figliolo? Abbiamo un accordo?»
                «I-io…» balbettò Banfred, e non poté dire altro. Il vento si alzò, i rami si spostarono e la draghessa Kimera tornò dentro la cella di rami dove teneva rinchiusi i suoi prigionieri. Quasi subito mutò in donna: in realtà si era servita della sua forma, diciamo “estesa”, esclusivamente per planare al suolo. Ma quando toccò terra, furono i piedi della donna che raggiunsero le radici della camera, non le zampe unghiate di un leggendario essere rettiloide. «Esseri umani!» fece dunque la creatura loro carceriera «Siete regolarmente nutriti?»
                «Mh…» temporeggiò Garhel, giusto il tempo di dare a Banfred il tempo di replicare: «S-sì, mia signora. Nutriti e dissetati»
                «Molto bene». A quel punto Kimera rimase in silenzio. Cominciò ad osservare tutti i suoi prigionieri ad uno ad uno, fatta eccezione per il demone dal teschio nero. Aveva gli occhi che brillavano come pietre preziose, e l’espressione sul suo viso Lord Sawela l’avrebbe giudicata solare. Non sorrideva, ma era come se lo facesse. Quando infine la leggendaria creatura ebbe avuto modo di osservare accuratamente ciascuno dei suoi prigionieri, Garhel decise di dire: «Mia signora…»
                «Sh, sh!» lo interruppe subito quella, la quale evidentemente non aveva ancora finito con la sua disamina. Tornò da Sawela, il viso le si rabbuiò. Lesse il volto del Tribuno Popolare come se si trattasse di un antico, interessantissimo, libro. Dopodiché, distogliendo l’attenzione e tornando a una distanza meno ravvicinata, fece: «Noi ci siamo già incontrati, guerriero umano». A quelle parole, il primo pensiero di Garhel fu: “oh, no, anche lei”. Ma non disse niente; lasciò che fosse la draghessa stessa a spiegarsi: «Non abbiamo comunicato direttamente, ma tu sei già venuto in questi luoghi, non molto tempo fa. Eri con due umani entrambi più giovani, uno dei quali dotato di abilità magiche. Vi siete battuti con i miei carcerieri, e poi… siete fuggiti via a cavallo di una creatura alata».
                Ecco dov’era che Garhel aveva già sentito quall’aulica voce di donna. Non se l’era sognato, allora! Fin dalla prima volta che l’aveva ascoltata, il Lord ex Tribuno Popolare, nonostante la unicità del suono che stava scoltando, aveva avuto come l’impressione che non gli venisse nuovo. Come se in qualche luogo, e in qualche tempo, gli fosse già capitato di assistere a quell’evento che in qualche modo aveva del miracoloso. Ma Garhel era sicuro che in vita sua non aveva mai assistito a veri e propri miracoli, e quelli stessi che aveva visto fare a Yashua… certo erano eventi piuttosto sconvolgenti e inspiegabili… ma lui aveva appoggiato Yashua per il suo valore politico, non certo per quello religioso o sacrale! Quella voce invece era qualcosa di indescrivibile. Udirla, era come mangiare miele: era il suono più perfetto, più epurato da qualsiasi anche minimo difetto, che un uomo in una vita poteva mai ascoltare. E che molti non avrebbero mai ascoltato! Questo era la voce di Kimera. E Garhel, l’aveva già sentita…
                «Vi chiesi di aiutarmi, ma non lo faceste» continuò la donna-drago «Non la prima volta, almeno. Ma loro tornarono. Combatterono ancora. E io fui libera. Libera dopo decadi. Gli uomini mi combatterono. Combatterono me e i miei fratelli. Gli uomini mi fecero prigioniera e sfruttarono il mio potere senza il mio consenso, violentandomi e torturandomi. Ma gli uomini… mi liberarono, anche. Due di loro: i tuoi amici. Quando lo fecero, gli giurai che gliene sarei stata grata per sempre, e davvero lo sono. Sono in debito con due esponenti di quel gruppo che io oggi considero il mio memico. Tu sei ancora loro amico?»
                «Mh… non era esattamente un rapporto di amicizia che ci legava» per qualche ragione, Garhel pensò che la via pià saggia fosse quella della sincerità, «Il più giovane era nostro prigioniero. Prigioniero… per volontà di quell’altro» e qui, con suo enorme rammarico, il vecchio Tribuno Popolare non poté non accorgersi di una chiara espressione di rabbia improvvisamente dipingersi sul volto della donna gigante, ma proseguì ugualmente: «L’altro era… un profeta. Un profeta di un dio in cui credevo, almeno… almeno finché non ho visto te, e i diavoli dal teschio nero… e tutti quegli altri fenomeni della vita di cui non mi riesco a spiegare»
                «Sai perché hanno deciso di tornare?»
                «No. Ma posso immaginare che… Yashua fosse un uomo sinceramente attratto da tutto quello che esula la nostra comprensione e dunque… nel bene o nel male, ha pensato che fosse meglio averti dalla nostra, anziché da quella dei nostri nemici»
                «La vostra? E chi siete voi? Gli umani?»
                «Eh, questa sì che è una bella domanda» rise Garhel «Le società degli uomini sono divise, mia signora. Per questo non ha molto senso muovere una guerra contro tutti… non al momento. Perché può ancora darsi che uno dei gruppi sia più… sensibile ai problemi che tu stessa poni per la salute del nostro mondo»
                «Bella? Come fa una domanda ad essere bella?»
                «È… solo un modo di dire. Mia signora, hai… inteso il mio discorso sulle società degli uomini?»
                «E che cos’è esattamente un modo di dire
                «Una maniera di usare le parole per… oh ma, mia signora, sarebbe molto più importante se tu…»
                «Sì, guerriero umano, ho udito le tue parole, le ho udite bene. Come le ho udite per secoli, prima della finale disfatta. C’è sempre un uomo che ragiona bene, c’è sempre una parte migliore di un’altra, e pensare in questo modo è stato uno dei nostri più storici errori. Mio, e dei mie fratelli. Ma purtroppo almeno su una cosa Requiem aveva ragione: è insito nel concetto stesso di guerra, il fatto che per vincere inevitabilmente anche degli innocenti dovranno cadere. Se non cadono innocenti, allora non è una guerra. Ed è una guerra che io intendo muovere al mondo degli uomini». Garhel ci aveva sperato, ma in effetti ora che considerava bene la cosa… quella era una creatura millenaria: davvero lui, povero quarantenne dell’Essos, intendeva raggirare con le parole una cosa che di quarantenni come lui nella sua infinita vita ne aveva visti a milioni? E dire che Sawela non era neanche il più forbito degli oratori. Chinò il capo, deluso. Kimera continuò: «Ad ogni modo, una qualche vicinanza tra te e gli uomini che m’hanno liberata c’era, visto che collaboravate, e visto che uno era addirittura il profeta del tuo dio. Una vita per quattro. Loro mi resero libera, e ora io renderò liberi voi. E dal momento in cui lo sarete, considererò estinto il mio debito: nessuna trattativa potrà mai più essere intavolata. E nessun umano risparmiato. Questo è quello che ho deciso». La donna-drago non attese una risposta. I suoi rami e le sue piante allentarono semplicemente la loro presa su Garhel, su Banfred e sugli altri due. Non rimase molto altro dire, Garhel non ebbe neanche il fegato di ringraziare. Dalla sua posizione grossomodo all’altezza della cintola di lei, si limitò ad osservare la bellezza della draghessa fatta donna, attendendo che anche gli altri del suo gruppo fossero pronti. Poi tutti assieme corsero via più in fretta possibile. Ma solo un attimo prima che ciò accadesse, avvenne qualcosa che avrebbe potuto giudicarsi uguale e contraria a ciò che era testé avvenuto con Kimera. Una minaccia. Il demone dei ghiacci fermò Garhel dicendo: «Lord guerriero delle sabbie!» e Garhel non poté che arrestarsi «Mi ricorderò che oggi tu non mi hai aiutato. E verrà un giorno in cui anche tu te ne ricorderai».
 
 
 
                «Sai, è buffo: la nostra storia non è poi molto diversa da quella dei fratelli Gaholla» cominciò Bastian «Anche in questo caso si tratta di famiglie povere dell’oriente. E anche in questo caso si tratta di una storia di pietà. Ti ho già detto che la mia era una famiglia di mercanti poveri, smerciavamo quello che potevamo, e quello che potevamo normalmente proveniva da ricchi usurai coi quali mio padre era impelagato da prima che io nascessi»
                «Sei più grande» lo interruppe Constant «di Gabryaerys?»
                «Beh… anche questa è una cosa che in verità non so molto bene. A occhio, si sarebbe detto di sì… ecco, noi non sapevamo quale fosse la sua origine. Una notte, nell’ora più buia del deserto orientale, un forte boato ci svegliò tutti. Svegliò tutta la città. Diamine, per quanto ne so avrebbe potuto svegliare perfino tutto il mondo. La terra tremò. E, per un istante, il cielo s’illuminò. Non della stessa luce che fanno i fulmini: ero già abbastanza grande per capire che non lo fosse, conoscevo i fulmini e ne avevo paura. Ma sapevo che dovevo aspettarmeli, quando pioveva e il cielo era grigio. Quella notte non pioveva. E il cielo non era grigio. E quella luce era… qualcosa di artificiale. Qualcosa che dubito qualcun altro abbia mai visto, al di fuori di quella notte. La cultura dell’uomo medio orientale, è quella della preservazione. Tutti si rintanarono nelle loro case, barricando le porte e sperando che quella notte nessun dio o demone venisse a bussare alla loro porta. Ma non io. Ero un bambino piuttosto curioso: mio padre usava chiamarmi “Bastian fumantino”, perché ero sempre in movimento, e difficilmente mi si poteva prendere. Ero rapido allora. E… non molto ligio all’autorità paterna. Ero convinto di aver intercettato l’origine del boato, non quella della luce, che aveva rischiarato l’intera volta celeste, ma del suono sì. Ignorai i lamenti dei miei e andai incontro al suono. Fui l’unico a farlo. Conoscevo il deserto come le mie tasche, eppure quella sera m’imbattei in una cosa mai vista: una immensa voragine si era aperta, scostando le sabbie e mostrando la terra arida che normalmente c’era al di sotto. E al centro di essa: un infante. Doveva avere tre o quattro anni; io ne avevo sette. Uno scricciolo biondo, che se ti ci mettevi con attenzione potevi contargli tutte le ossa che aveva in corpo. Io decisi subito di portarlo a casa con me, già nell’istante in cui lo vidi raggomitolato al suolo, sereno. Decisi che era mio fratello. Anche quando, guardandolo bene, mi accorsi che al posto di due normali occhi come tutti gli esseri umani che conoscevo, ne aveva solo uno come tutti gli altri. Quall’altro invece era come quello di un serpente… o di un drago. La pelle tutt’attorno a quest’occhio era come a scaglie»
                «Oh, Madre, proteggici»
                «Scaglie che continuavano, e si protendevano lungo il collo e poi per metà del petto, e sul fianco. Ma era mio fratello. E rimase mio fratello pure quando lo portai a casa, e udii i miei genitori litigare mentre – pensando che dormissimo – decidevano cosa farne di quello strano essere. Rimase mio fratello pure quando la gente lo additava, mentre camminavamo per le vie del mercato, o pregavamo al tempio, o giocavamo in piazza. Rimase mio fratello pure quando mentre io crescevo, lui rimaneva sempre uguale. Sennonché una notte decideva e… recuperava tutte le differenze, e aumentava di peso e misure, e i suoi tratti si modificavano. Ma quello che per me era un fenomeno graduale e quasi impercettibile, in lui… accadeva nel giro di una notte. Come se lo decisse lui. Ma rimase mio fratello. Pure quando, il giorno del mio undicesimo compleanno, vennero a farci visita degli strani tipi. Strani almeno quanto lui. Erano in sette. Ed era come se volessero imitare una forma umana che non era nella loro natura. Alcuni non ci riuscivano per niente; altri erano più abili. Domandarono a mia madre dov’era il loro padrone, mia madre rispose che in quella casa non c’era nessun padrone. Ma poi videro mio fratello: e non solo loro riconobbero lui, ma anche lui riconobbe loro. Non li fece mai diventare parte della nostra vita, non si presentarono più alla nostra casa, né condivisero mai il nostro desco. Ma quando lui decideva che voleva vederli, loro accorrevano. Finimmo per venire coinvolti nella morte di un individuo che in tutta franchezza lo meritava: uno dei creditori di mio padre. Ma era un uomo potente e la sua morte non sarebbe mai e poi mai passata inosservata. Nostro padre ci convinse a partire, con il solo aiuto delle creature che erano serve di mio fratello. Non rividi mai più i miei genitori, non da vivi. Tornai diversi anni più tardi al villaggio e, per fortuna, almeno recuperai le lapidi nel bel mezzo di un cimitero ampio quanto una maniero. In cuor mio, accusai sempre mio fratello della cosa, visto che fu su suo ordine che uno di quei mostri ammazzò il creditore di mio padre, ma… non avevo più nessun’altro al mondo. Né un posto dove andare. Così… anch’io divenni suo servo»
                «E i sette… com’erano? Cioè… cosa distingueva gli uni dagli altri?»
                «Oh, due di loro erano quasi umani. Uno aveva un potere che gli consentiva di mutare il suo aspetto e tramite esso poteva rimanere umano quanto più gli aggradava. Diversi umani a volte. Ma la sua figura preferita era quella di un uomo di mezza età, ben vestito e con un’ampia stempiatura di capelli rossi»
                «Stempiatura di capelli rossi, dici?»
                «Sì. Un altro invece, era umano nella sua forma regolare, cioè senza l’ausilio di magia. L’aspetto era quello di un vecchio, alto e ossuto. Tanto vestito male, quanto quell’altro si vestiva bene. Eppure sul viso aveva un difetto… quel nero dei crani spogli che caratterizzava tutti gli altri suoi “fratelli”, veniva fuori per solo un pezzettino, su una guancia. Rispetto agli altri, aveva un aspetto rassicurante. Eppure macchie di quel genere non esistono: non era un neo, non era una voglia, né un vezzo di qualsiasi altro genere. Era un pezzo del suo teschio spoglio che per qualche motivo gli veniva fuori dalla carne. Quest’ultimo mostro fu al centro di un “caso” all’interno del rapporto che mio fratello aveva con i demoni, e i demoni tra di loro. A un certo punto sparì, a quanto pare contravvenendo a quella che era una regola praticamente mai violata. Loro sono servi di Gabryaerys, e sono legati a lui dalla magia. Ma il demone con la macchia nera sul viso si è reso praticamente libero da questo incantesimo. Solo lui. Neanche lo stempiato ci è mai riuscito»
                «Bene. Poi?»
                «Poi ce n’erano tre, che erano sostanzialmente scheletri con i vestiti, ma almeno… di dimensioni umane. Uno vestito poveramente, l’altro da guerriero e l’altro da aristocratico. Questi ultimi due avevano pure una corona sul teschio lucido, il primo nera e ampia, il secondo piccola e dorata»
                «È l’unico che ho conosciuto anch’io, no? Quello che si muoveva sul campo della battaglia di Cowain, ondulando come un fantoccio. Con la sua spada a due mani tenuta con un pugno soltanto»
                «Sì, Maestà era lui. Quello dai poteri di fuoco. Quello vestito poveramente, invece, era a sua volta caratteristico: è l’unico a cui rimanevano cose che potessero essere assimilate a capelli, anche se parevano fatti più di nevischio. E poi aveva un guanto artigliato e a suo piacimento poteva invocare un uccello gigante, fatto d’ossa»
                «Cosa? Adesso mi prendi in giro!»
                «No, signore» insisté Bastian, serissimo, «È tutto vero. Vero come veri erano gli altri due demoni: un colosso brandente un’ascia bipenne, il cui corpo si sarebbe detto fatto di sola roccia. E l’altro… una sorta di folle primate peloso, più simile a un animale che a una scimmia. Quest’ultimo demone, forse, stando a quello che mi è parso di capire dalle parole di mio fratello, sarebbe stato definitivamente sconfitto, al nord. Lui… ecco non esiste più, e la sua dipartita ha segnato anche un indebolimento delle potenzialità magiche di Gabryaerys»
                «Quindi, se loro vengono eliminati… anche lui subisce dei contraccolpi»
                «Apparentemente sì, Sire, anche se non abbiamo indizi così schiaccianti da determinarne delle prove certe»
                «Beh, ma in caso di scarsezza, bisogna accontentarsi di quel che si ha… convieni?»
                «Sì, signore, certo»
                «Sai, Bastian, tu hai reso questo mio finale di giornata un po’ più felice: ti ringrazio per questo»
                «Non c’è di che, Maestà»
                «Ma c’è un problema»
                «Di che si tratta?»
                «Se tutto quello che dici è vero… perché tuo “fratello” si proclama figlio di una donna vissuta migliaia di anni fa?»
                «Questo… non lo so, Sire, davvero. Ho scoperto il vero cognome di mio fratello – se lo è davvero – come tutti, il giorno della sua proclamazione»
                «Sei libero di andare ora, se vuoi» concluse re Constant, consapevole di star finalmente dando al suo ormai più fidato consigliere quello cui lui da molti minuti stava certamente anelando. E doveva essere in effetti così, visto che il Sir dell’oriente lasciò di corsa le stanze del suo re. Lasciando Constant nella sua solitudine, ma pure nella sua ritrovata fiducia in un futuro che quella giornata fino a quel momento non aveva voluto dipingergli sereno. A questo punto, rimaneva a Constanti una scelta tra solo due alternative: seguire i suoi nipoti in una folle caccia all’occidente, o andare in oriente e farsi amico Juxas Gaholla. Due prospettive decisamente non molto entusiasmanti. Da solo, nelle sue camere, il re degli Andali e dei Primi Uomini ebbe modo di riflettere; e finì per sussurrare a sé stesso, pochi attimi prima di cadere addormentato: «Stempiatura di capelli rossi, stempiatura di capelli rossi».

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Capitolo 14
*** Generale in gonnella ***


Capitolo 14
GENERALE IN GONNELLA
 
 
 
                Il viaggio in volo, come in effetti era prevedibile, era stato assolutamente sfiancante. Non era il primo di quel genere che Marcus e Shirley facevano insieme: nel passato più recente del principe Cavaliere della Chimera, c’era una traversata dell’Essos sino a Roccia del Re in compagnia dello stregone Yashua. Eppure era quell’ultimo, quello che da Castel Granito li aveva condotti fuggitivi presso il nuovo continente, ad aver stancato più Marcus e soprattutto la sua chimera. Prima di tutto, avevano viaggiato in tre e non in due sulla groppa dell’animale, che giustamente aveva anche risentito di quel peso in più. Poi c’era stato il fatto che si erano librati in volo non su di una superficie terrestre, bensì sul mare. Marcus a un certo punto aveva pure pensato che quell’immensa tavolta blu non fosse mai finita e che, nonostante tutta la fiducia che nutrisse nella sua sorellina, in realtà quel millantato nuovo continente nemmeno esistesse: come poteva mai esistere un continente, dopo tutto quel mare? I continenti che conosceva lui erano in effetti separati da un mare, ma era un mare che veniva definito “stretto”. E le correnti oceaniche non avevano nulla a che vedere con quelle continentali: erano dannatamente fredde, ostinate e cattive. Tanto che a un certo punto i tre cittadini del Westeros più la chimera Shirley erano finiti per precipitare e chissà per quale bontà divina erano riusciti a raggiungere, nuotando per poco, una sorta di grosso scoglio dove erano finiti per passare la nottara, stanchi, bagnati, salati e infreddoliti. Appena raggiunto lo scoglio, per la spossatezza Daessenya aveva vomitato. E Marcus pure si sentiva lì lì per farlo, anche se alla fine non lo fece. Poi, quando la tempesta si calmò, decisero di riprendere subito il viaggio: si trovavano su uno scoglio praticamente senza vita e, anche volendo restare, non avevano di che nutrirsi e stavano morendo dalla fame, visto che la fuga dal loro zio re li aveva costretti a un viaggio di giorni senza provviste di alcun genere.
                Anche raggiunto il nuovo continente, Daessenya vomitò. Era pallida come la morte, anche più dei suoi regali compagni di viaggio, tanto che Marcus pensò che ormai avrebbe perduto i sensi da un momento all’altro. Dinanzi a lui, il Cavaliere della Chimera vide un’immensa distesa di sabbia bianca, e poi un fitto verde di palmeti e altre piante similari. Ma nulla che lo facesse pensare a una qualche realtà organizzata; a un mercato di qualsiasi genere dove poter patteggiare per un boccone. Anche Shirley era in condizioni pietose, ma lei almeno, capendo che quello su cui si trovava era qualcosa di molto meglio che uno scoglio, trovò subito la forza per addentrarsi nella foresta a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Da questo punto di vista erano selvagge le chimere: non potevano essere addestrate come cani da caccia. Quello che trovavano, lo mangiavano, e per il tanto affezionato padrone – cui per davvero era affezionata, questo ormai Marcus lo sapeva – tanti auguri. Era una questione di natura, non di affetto.
                Sostanzialmente strisciando sulla sabbia, la giovane, bionda e bella amministratrice di Cowain, cui Marcus e Mirietta dovevano la loro vita, riuscì a portarsi dietro un cespuglio, per un qualche motivo che Marcus non riuscì a intuire: se davvero stava per perdere i sensi, perché diamine isolarsi? Caracollando anche lei stancamente, ma decisamente con più forza, la principessa sua sorella decise di andare a vedere le condizioni della nuova amica. Marcus non ebbe la forza: rimase appoggiato con la schiena su un tronco di palma un po’ più grande degli altri e… o perse i sensi o si appisolò.
                Presumibilmente qualche minuto dopo, venne svegliato da Mirietta, con le mani sporche di sangue (non grondanti, ma diciamo “macchiate”), la quale gli strappò, senza chiedere un permesso che Marcus comunque non avrebbe avuto la forza di concedere, un pezzo del mantello da cavaliere, e poi lo portò di nuovo con sé verso la zona dove era spartia Daessenya. A occhio, per quanto stordito, Marcus avrebbe giurato che sua sorella in qualche modo aveva ripreso almeno un po’ delle sue forze: doveva ave trovato della frutta o qualcosa di simile da mangiare, la furba. Magari un mollusco sotto uno scoglio; ma non ci fu il tempo per ulteriori analisi: Mirietta sparì di nuovo, e Marcus tornò ad appisolarsi.
                Passò qualche minuto e venne di nuovo svegliato. Con quel ritmo, il sonno che riusciva a farsi non era un sonno con dei sogni. Fu dunque abbastanza sicuro, non appena sveglio, che quello che gli stava davanti non era sua sorella Mirietta. Era una sorta di uomo dalla pelle scura, come ce n’erano pure in oriente. Ma diversamente da quelli in oriente, i suoi occhi scuri erano stretti come fessure. Non era vestito, salvo che per una sorta di foglia lavorata che gli copriva i genitali, e altri orpelli secondari simili a collane, bracciali e cose di questo genere. E poi era truccato: dovunque. Sugli occhi, sul naso e sulle guance, sulla fronte, sul collo, sulle spalle e le braccia, il torace, le gambe e via dicendo. Era coperto di strisce per lo più bianche, ma anche di altri colori. E non appena vide che Marcus era sveglio, subito il selvaggio gli puntò una sorta di pugnale rudimentale (fatto di pietra e non di metallo) alla gola nuda. Marcus trovò saggio non dir niente, ma fu quel suo nuovo simpatico amico a farfugliare qualcosa tipo: «Garrubszée! Dahantujha!». E poi di nuovo: «Garrubszée! Dahantujha!». E infine spazientito e chiaramente minaccioso: «DAHANTUJHA! KATHOMOMOW!».
                Una grossa pietra rotante colpì a questo punto il selvaggio su una zona a metà tra la tempia e la guancia sinistra. Il colpo fu talmente d’impatto, che costui venne scaraventato fianco a terra. Si sollevò velocemente e guardò verso il punto da dove la pietra era partita. Anche Marcus lo fece, con molta meno rapidità. Sua sorella stava guardando il selvaggio con aria di sfida, quasi minacciosa. In piedi, con tutta la forza in corpo che Marcus non riusciva ancora a trovare, la ragazza disse pure, anche se balbettando un pochino: «Ehm… Pi… Pisztemì garrubszée ga… ghanakni!». Marcus non aveva idea che Mirietta parlasse quella lingua dal suono così spigoloso, e naturalmente rimase basito. E fu sempre più sconvolto, quando si accorse che la sorella non conosceva solo una frase a effetto, ma era anche in grado di articolare ragionamenti in grado di farsi comprendere dal selvaggio. Continuarono così a sibiliare per un poco, fino a quando sostanzialmente il selvaggio non desistette dal suo assalto e decise di sparire anche lui nella boscaglia, con il suo coltello di pietra e le sue natiche scoperte. Mirietta, che da quando era andata in aiuto di Daessenya praticamente non era stata ferma un attimo, andò a prendere la fanciulla di Cowain e, sostenendola con le braccia, annunciò a lei e al fratello cavaliere: «Se tutto va bene, se sono riuscita a farmi capire, stanno venendo a prenderci»
                «Cosa?» fece Marcus preoccupato, per la prima volta reagendo ad alcunché da quando erano atterrati sul nuovo continente, «Come… come fai a…? Beh, a me non è parso molto amichevole»
                «Certo! Non ti conosceva. E tecnicamente la spiaggia è la loro»
                «Loro? Loro chi?»
                «I Kowacz. O almeno: è loro a sud fino alla lunga cala dalla forma a becco di gabbiano. Poi comincia una sorta di territorio neutro nel quale non ho capito se comandano loro, o i Sayun-sama ma sempre per delega loro. Mentre a nord… a un certo punto non c’è niente a nord; non via costa»
                «E sono… “amici”?»
                «All’inizio non lo erano, ma poi si sono dati una calmata. Riconoscevano me e Xenya l’esploratrice come i capi della spedizione di uomini che venivano dal mare. Ci chiamavano “snazapr dzosa”. Che significa qualcosa come “capi che vestono da donna”; all’esploratrice è venuta la sciocca idea di tradurlo “generali in gonnella”. E da allora, tra noi, è rimasto»
                «Ahahah» rise Marcus, quasi intenerito, «Sei un generale in gonnella, dunque?»
                «Una sorta. Ma l’importante è che mi abbiano riconosciuta. A quanto pare, Xenya non è più all’accampamento ufficiale. Quando l’ho lasciata io, voleva sapere cosa ci fosse a nord». Marcus si rese conto di star capendo tutto troppo poco; era come se Mirietta gli parlasse di una materia che lei aveva avuto modo di studiare per anni, e di cui Marcus conosceva a malapena qualche frontespizio di qualche testo che non aveva mai aperto. Concetto questo, che ancora il Cavaliere della Chimera, non se la sentiva di articolare appieno; ragion per cui rispose semplicemente alla sorella: «Scusami se ti faccio troppe domande, ma… qui per me è tutto nuovo. Non sapevo neanche che ci fosse un nord». A quelle parole, la piccola Lady di Lannister non rispose: era tutta concentrata ad aiutare Daessenya a sistemarsi sul giaciglio più comodo che si potesse trovare in quel contesto. Quando la ragazza di Cowain fu messa a posto, Mirietta le disse: «Come ti senti? Meglio?»
                «Sì, Milady» rispose Daessenya «Ti ringrazio per tutto quello che stai facendo»
                «Ma figurati: dovere. Siamo una squadra ormai, no?»
                «Una… squadra?» rise – un po’ imbarazza – la fanciulla, bionda almeno quanto i capelli di Mirietta erano corvini, «Mia signora, il mio intento era quello di servirti. Non di essere un peso…»
                «Mi servirai. Mi hai già servito benissimo permettendomi una fuga insperata. Ma purtroppo ora ci troviamo in circostanze eccezionali. Se fossimo a palazzo, mi serviresti gestendo gli operatori e… rendicontando i bilanci. Ma non lo siamo. Dunque finché siamo qui… non sarà mica difficoltoso chiederti di considerarmi… un’amica?»
                «È proprio vero allora!» una luce di soddisfazione illuminò il volto di Daessenya «È come dicevano… la piccola Lady di Lannister è una comandante tanto abile e risoluta, quanto pochi uomini. Lasciando la signora Xalandra a Cowain, non avrei potuto chiedere di meglio, mia signora»
                «Ma va là!» si schermì Mirietta «Evita di chiamarmi “signora”, se vuoi davvero mantenerti al servizio di questa “comandante tanto abile”, come dici tu. Solo “Mirietta”, almeno finché ci troviamo qui. Va bene?». La risposta della ragazza di Cowain fu un debole cenno con il capo. Dopodiché si addormentò. Pochi minuti dopo lo fece anche Marcus.
                Si fece sera, e poi notte. E gli amici di Mirietta non arrivarono. Marcus si rese conto che quando uno viveva tutta una concatenazione di avvenimenti particolari, tutti concentrati assieme nel tempo, poi ritrovare una vera tranquillità diveniva complesso. Era come se subito dovesse fare qualcosa di nuovo, dovesse essere pronto a tutto, e quindi non poteva riposare più di tanto. Il riposo, quello lungo, sarebbe arrivato solo quando Gabryaerys sarebbe stato sconfitto. E un Lannister tornato a sedere sul Trono di Spade: un Lannister che non fosse lui. Questo per dire che nel cuore della notte si svegliò: non aveva fatto bei sogni. Aveva sognato Daniel, morto da qualche parte nel nord, un minuto dopo essersi rannicchiato infreddolito mentre sopra di lui imperversava una tempesta di neve. Forse glielo si leggeva negli occhi, visto che una Mirietta – incredibilmente sempre sveglia e dall’aria preoccupata – guardandolo fisso negli occhi, gli domandò: «Non hai dormito bene?»
                «No»
                «È normale. Ci troviamo in una situazione del tutto particolare»
                «Già. E tu? Non dormi?»
                «Provo, ma non riesco. Penso per la stessa ragione. O…» la giovane Lady volse il proprio sguardo dal fratello alla debole amica che riposava lì accanto «Per qualcos’altro…»
                «Ma che cos’ha?»
                «Non lo intuisci?»
                «Non molto veramente. È… deperita? La fame?»
                «Sì, certo, questo contribuisce parecchio»
                «Ma…?»
                «Se ti dico “problemi da donne”?»
                «Ah» fece cenno l’Andalo, convinto di aver capito. Certo, le donne avevano anche quell’altro problema: quel periodo della loro vita che di tanto in tanto capitava, e che le rendeva deboli, spesso di umore malinconico e… talvolta gli faceva perdere parecchio sangue, il che motivava lo strappo del mantello di Marcus da parte di Mirietta qualche momento prima. Fu lo stesso principe Andalo a riprendere: «Si riprenderà? Voglio dire… il posto dove andremo non appena quei… tizi saranno tornati… è accogliente? C’è riparo, cibo, acqua e un fuoco acceso?»
                «Senti…» in verità l’espressione sul volto di Mirietta non piacque affatto a Marcus della Casa Lannister «La situazione era d’emergenza, non è che avevo molto altro da fare: dunque ho chiesto aiuto a loro… Ma…»
                «Ma…?»
                «Hanno detto una cosa che mi ha lasciata un po’ perplessa»
                «E cioè?»
                «Hanno fatto riferimento a Muldrow. Hanno detto… hanno detto: “sì, certo: torniamo subito. Avvisiamo quelli di Muldrow e veniamo»
                «E chi è questo Muldrow?»
                «È un vecchio Sir, chiaramente dell’occidente, che quando siamo arrivati qui gestiva un traffico di materie prime tra qui e la capitale dei Tyrell»
                «Altogiardino aveva allungato i suoi tentacoli sino a qui?»
                «A quanto pare sì»
                «Muldrow? È un cognome che non ho mai sentito»
                «Nemmeno io. Secondo me se l’è inventato. La storia dei contatti con Lorthan sarà anche stata vera, ma non quella che sia un cavaliere, né quella che sia… completamente disinteressato»
                «Ma… i Tyrell ora non regnano più sull’Altopiano»
                «Già»
                «E mi chiedo quanto questo Sir Muldrow ne sappia di questa storia»
                «Me lo chiedo anch’io».
 
 
 
                La notte dell’aurora polare era ormai arrivata. Era da quando era prigioniero ad Amergoth che Daniel ne aveva sentito parlare. Le voci erano divenute via via sempre più insistenti fino alla corrente settimana, dove sostanzialmente non s’era parlato d’altro. Tutti, a tutti i livelli, erano impazienti di assitere al fenomeno che non si ripeteva da decine d’anni: lo stesso Lord Uryon ne aveva viste solo due in tutta la sua vita, di cui una quando era poco più che un soldo di cacio. Essere un uomo del nord – anzi anche solo essere un uomo che si trovava al nord – e non assistere a quell’ambiguo fenomeno meteorologico in cui alcuni riscontravano la prova del divino, era praticamente inconcepibile. Il fenomeno era caratterizzato sostanzialmente da una sorta di scia luminosa – o forse più d’una – che per qualche minuto illuminava di verde il cielo nero della notte polare, danzando come una biscia in amore, o almeno così Daniel aveva avuto modo di leggere su di un volume relativo all’argomento.
                Il principe Piromante non aveva visto Licyane per tutto il giorno, altrimenti volentieri l’avrebbe invitata a guardare il cielo insieme: ormai erano una sorta di “migliori amici”, questo era innegabile. Ma Licyane non aveva fatto capolino: forse era malata, così gli avevano detto gli altri inservienti. Male, ma poco male: Daniel si sarebbe accontentato di osservare l’aurora con il grasso Kohler e gli altri del suo gruppo. A un certo punto, a aurora già cominciata da qualche minuto, Licyane arrivò. Daniel non riuscì a non ammettere a se stesso una certa soddisfazione, e anche la ragazza Stark le parve piuttosto su di giri: un po’ trafelata forse, ma decisamente non malata. «Che hai fatto?» domandò lui a lei; lei rispose: «Oh niente, problemi… ma nulla di tragico»
                «Problemi a casa?» interrogò ancora il principe Piromante, non staccando gli occhi dal miracolo che stava avvenendo sopra le loro teste. Licyane rispose un po’ confusamente: «Sì. Cioè no… non esattamente… più no che sì»
                «Ti vedo un po’ confusa, Stark»
                «No no, sono solo un po’ stanca. Lannister». Si sorrisero, e la cosa si chiuse lì. Non era la prima volta che Daniel non sapeva se pensare che Licyane fosse un po’ confusa di carattere, o se invece le piacesse fare la misteriosa, se insomma si trattasse di una vera cosa atavica di carattere, o di un mero atteggiamento. Stava di fatto che la cosa era una di quelle di lei che la facevano impazzire. Daniel ne aveva contate per lo meno un’altra dozzina, ma… ecco, non intendeva assecondare più di tante queste sue “simpatie”. Licyane era una ragazza simpatica, ma il suo destino era al nord. Il destino di Daniel – checché Uryon della Casa Worchester ne pensasse – era invece al sud, prima o poi.
                Per un breve momento, durante un bagliore di luce particolarmente intenso, Daniel fu tentato di spostare il suo sguardo su Licyane. Durò veramente poco, eppure si accorse di tutto: il suo viso splendente, il suo sorriso un po’ incerto. La sua vita un po’ troppo stretta, i suoi fianchi non troppo larghi, ma decisamente accoglienti, e poi… gli strappi che la ragazza aveva sulle maniche all’altezza degli avambracci, abbastanza ampi da permettere di vedere la pelle sotto. E sulla pelle… qualcosa di molto simile a lividi, brutti e di un viola scuro quasi nero. Era come se qualcuno o qualcosa l’avesse afferrata per entrambe le braccia e stretto con forza. Decise anche di chiederle nuovamente cosa fosse accaduto ma, con la scusa del caos provocato dalla massa di gente accorsa ad osservare il fenomeno dell’aurora polare, e il conseguente rumoroso chiacchiericcio, lei fece finta di non capire e lui non trovò ragioni per insistere.
                Quando l’aurora finì, il principe di Lannister andò di nuovo all’attacco, al fine di ottenere migliori informazioni dalla ragazza, quella sera così evasiva. Ma lei si confermò evasiva: salutò velocemente Daniel, come Kohler, come gli altri del gruppo, e se ne andò. Anche il grasso ragazzo biondo se ne accorse: era grasso, ma decisamente non stupido. Suggerì al principe Daniel, quando la ragazza se ne era definitivamente andata: «È rimasta poco, no?»
                «Sì, è vero»
                «Allora?»
                «Allora cosa?»
                «Che fai? Non la segui?»
                «Seguirla… no, io…»
                «Mio signore, oggi è una notte magica. Le luci danzano. I cuori sono in alto. E le fanciulle non dovrebbero fuggire così, senza spiegazioni, dagli uomini di cui sono innamorate…»
                «Ma che…?» domandò Daniel, stupito, non capendo davvero a cosa Kohler volesse alludere, insomma dove volesse arrivare. Però lo assecondò comunque. Inseguì Licyane.
                Ma trovare la fanciulla non si verificò impresa facile. Era come se già voltato l’angolo fosse sparita a iarde e iarde di distanza, nel suo letto fuori dal castello. Daniel la chiamò anche un paio di volte, ma l’eco che gli rispondeva dai corridoi finì per farlo un po’ sentire in imbarazzo. E d’altro canto, se la fanciulla Stark avrebbe voluto farsi trovare, lo avrebbe fatto. Quella sera non era interessata ad alcun ulteriore intrattenimento oltre all’aurora che era appena passata, e Daniel si convinse che fosse il caso di assecondarla. Perché, d’altro canto, nonostante quello che Kohler avesse detto senza troppi mezzi termini, il principe in realtà rimaneva convinto del fatto che, per quanto una sorta di naturale simpatia e complicità tra lui e Licyane era innegabile che ci fosse, quel confine tra un rapporto da “migliori amici” e uno da “infatuati” – che lo fosse lei di lui o lui di lei – non era minimamente stato varcato, e dunque amen. A Daniel piaceva Licyane, ma non tanto da andare oltre un inseguimento lungo un paio di corridoi del castello. Era praticamente giunto quasi all’esterno, quando un suono che purtroppo non era la voce della fanciulla lo incuriosì non poco. Erano colpi. Colpi di roba sbattuta contro pareti sottili… ma non c’erano pareti sottili lì vicino, fatta eccezione… ma certo: per le strutture in legno delle stalle! E oltretutto Daniel si accorse che c’era qualcos’altro che si intervallava ritmicamente ai colpi nella stalla. Una voce. La voce di Licyane, che all’inizio non era riuscito a intercettare.
                Il principe di Cowain seguì il suono: non era bello. C’era qualcosa di lamentevole, di contrariato nella voce della fanciulla. Raggiunse una sorta di piccola finestra che dava nel piano ammezzato che era uno dei luoghi presso cui veniva custodita una parte della scuderia signorile di Lord Uryon.Vi si trovava una grossa giumenta color beige in particolare, cara a Worchester per ragioni che a Daniel risultavano oscure. E lì Daniel non poté che distinguere chiaramente la scena, con profondo orrore. Tre energumeni, tutti più grossi e più pelosi di lui, stavano abusando della povera villana dalla pelle candida. Due di loro la trattenevano, e l’altro le teneva una mano sulla bocca, cercando di penetrarla, anche se Daniel non avrebbe saputo dire con quanto successo, visto che Licyane comunque si dimenava tanto da sembrare che per tenerla ferma ci fosse stato bisogno almeno di altri due gaglioffi grossi uguale agli altri. Lo strano suono della voce di Licyane era dovuto al fatto che la mano sulla bocca non le veniva tenuta bene, e troppo spesso l’aguzzino sfuggiva da quel compito ausiliare quanto importante per i suoi fini. I colpi sulle assi di legno invece erano naturalmente dovuti all’amplesso, o quello che era.
                Daniel decise che doveva intervenire. Correndo verso l’ingresso della stalla, urlò il nome di Kohler, di Holler e degli altri della compagnia, ma c’era ancora troppa ressa per via delll’aurora e sapeva che difficilmente costoro avrebbero udito. Non era molto saggio, visto che non aveva i suoi poteri, e quelli erano tutti più grossi di lui, ma… non ebbe neanche molto tempo per pensarci. Quando capì definitivamente che stava sbagliando, era già davanti agli energumeni e forse aveva pure detto qualche eroica frase infelice di cui era talmente pentito che subito l’aveva dimenticata. I tre distolsero tutti insieme le attenzioni dalla povera Licyane – che rimase in lacrime distrutta, accasciandosi lì al suolo – e si concentrarono su di lui. Per prima cosa gli ruppero il naso, facendogli schizzare una copiosa quantità di sangue. Dopodiché prima iniziarono con dei pugni sulla bocca dello stomaco e poi, una volta lui per terra, proseguirono con dei calci. Daniel non capì neppure se forse qualcuno gli avesse rotto qualche osso intorno alla spalla: in effetti udì un crac verso quella zona a un certo punto, ma il dolore allo stomaco era assai più intenso e continuo. Fin quando, una voce dentro di lui gli comunicò che non ne poteva definitivamente più. Non né poteva definitivamente più del nord, degli uomini del nord, e di quel loro fare gelido. Non ne poteva definitivamente più di quella maledetta pietra legata alle caviglie che gli impediva di essere quello che con immensa fatica – e la morte di due cari amici – era riuscito a diventare. Non ne poteva definitivamente più di non sentirsi più a casa, mai, neanche alla Grande Quercia, neanche nella Alberocasa ancora sotto il dominio Applegate, e quindi prima dell’occupazione Willoughby. Per solo alcuni momenti in tutto quel periodo Daniel si era sentito a casa e questi erano stati… le sere a ridere in biblioteca, e le passeggiate lungo i viali del castello, e quella notte, la notte dell’aurora polare. In tutte quelle sere Daniel era stato circondato dai suoi nuovi amici del nord. E soprattutto da Licyane. La stupenda e candida Licyane, che di cognome faceva Stark. Il primo “basta” fu un “basta” introspettivo, che Daniel probabilmente comunicò solo a se stesso. Il secondo riuscì ad udirlo, almeno lui. Ma il terzo fu come il ruggitto delle mille chimere furenti che campeggiavano nei vessilli e stendardi della sua casa. Quello fu il «Basta!» di un principe. Di un principe Piromante.
                All’improvviso, tutto nella stalla si accese. Daniel neanche capì bene come. Ma la stecca che gli imprigionava la caviglia si spezzò, e la Pietra di Luna rotolà via dalle sue gambe. I tre gaglioffi presero fuoco, e forse pure Licyane stessa. Forse pure lui. La paglia, lo sterco, le balle di fieno e tutto il resto di erbe più o meno secche legate agli animali, quello prese fuoco. E forse pure qualche cavallo. Daniel fin da subito non vide più bene. Respirò fumo e si ritrovò in uno stato simile alla perdita dei sensi. Riconobbe le mani e le braccia bianche di Licyane che con fatica lo trascinavano via dalla stalla, mentre intanto la fanciulla trascinava se stessa. Riconobbe lo scalpiccio della gente accorsa troppo tardi a capire cosa stesse accadendo. Riconobbe la voce di Kohler, Holler e gli altri. E infine perfino Uryon Worchester, già nella zona per via dell’aurora. Il Lord disse qualcosa tipo: «Evacuate tutto quello che si può evacuare, e organizzatevi per raccogliere l’acqua dal pozzo e dal fiume. E, per carità degli dèi, rimettete un pezzo di Pietra di Luna tra le gambe del principino. Uno più grande». Dopodiché Daniel svenne definitivamente.
 
 
 
                Lo sguardo preoccupato con cui la stessa Lady sua sorella si guardava attorno mentre un manipolo di una ventina di selvaggi scortavano lui, lei e Daessenya dalla spiaggia a quello che presumibilmente doveva essere il loro villaggio, scoraggiava Marcus non poco. Forse erano le lance acuminate, mediante le aste delle quali di tanto in tanto i selvaggi “punzonavano” i loro ospiti, che rendeva la giovane Mirietta confusa? O forse era la strada? Troppo lunga rispetto a quello che si ricordava? O troppo contorta? Marcus non ebbe modo di chiederlo: la situazione era chiaramente delicata, e mettersi a sussurrare all’orecchio della sorella dinanzi a quelli che ormai palesemente non erano per niente “amici”, non gli sembrava la più brillante delle idee. Accettò in silenzio il suo destino, come ormai da un po’ di tempo si era abituato a fare. Così fecero sua sorella e la bionda Daessenya, la quale era sempre più pallida e debole.
                Giunti a quello che chiaramente era un insediamento più o meno stabile, ricco di capanne e addirittura qualche abitazione in mattoni, Marcus dovette ammettere che qualcosa dentro di lui si sentì consolata non appena vide lo sguardo di diversi uomini e donne lì presenti improvvisamente illuminarsi all’arrivo di Mirietta. All’inizio piano, ma poi sempre più forte, la comunità iniziò a sussurrare le parole “snazapr dzosa”, cioè quello che ormai lui sapeva – sempre mediante Mirietta – significare “generale in gonnella”. Un ragazzo, addirittura, alto, scuro, muscoloso, di circa vent’anni, si precipitò dalla fanciulla urlando: «SNAZAPR DZOSA!», e abbracciandola. Venne prontamente quanto bruscamente allontanato dallo squadrone di suoi consimili incaricati di scortare i prigionieri. A un certo punto, Mirietta si domandò tra sé, ma in modo che Marcus l’ascoltasse: «Ma… non siamo arrivati? Siamo arrivati». E invece no: proseguirono. Attraversarono tutto il villaggio. E raggiunsero l’ultima casa, la più grande e più vistosa di tutte. Una cosa cadente e minimale rispetto alle regge dei signori di Westeros, ma… quella che chiaramente poteva essere l’abitazione del signore di quel luogo, dato il contesto. Entratono. Attraversarono un paio di stanze, finirono in una sorta di cortile privato. Lì, un vecchietto in saio da monaco stava dando da mangiare a creature simili a polli, che però non erano né anitre né galline né fagiani. Erano una quarta specie, una che Marcus non aveva mai veduto in vita sua.
                Chiramaente Mirietta riconobbe l’individuo, visto che alzando orgogliosamente la testa, si auto-annunciò proclamando: «Sir Muldrow!». Il tipo era di spalle: era piuttosto alto, per essere un vecchio senza capelli. Si voltò e subito l’attenzione di Marcus non poté che concentrarsi non tanto sul nasone un po’ gonfio ma tutto sommato comune dell’uomo, né sull’ancora più comune coppia di baffetti bianchi. Muldrow aveva una macchia sul viso veramente strana. Era di un nero quasi brillante e… se solo non fosse stato incredibile a pensarlo, il principe avrebbe detto che si fosse trattato di una sorta di osso scarnificato che emergeva dal di sotto dello strato epiteliale. Strano, veramente strano come “vezzo”da esporre sulla pelle del viso. Il principe Andalo si decise comunque a distogliere la sua attenzione sia dalla macchia, sia dal desiderio profondo di domandare all’uomo di che diavolo si trattasse. Semplicemente si limitò ad ascoltare la conversazione tra lui e il generale in gonnella. I toni: schifosamente mellifluo quello del primo, come la sua storia da politico consumato gl’imponeva. Trattenuto e deciso quello della Lady sua sorella. «Milady» salutò il vecchio «Siete tornata alla fine»
                «Sì. È così»
                «E siete… solo in tre?»
                «Sì. Vi aspettavate un esercito, Muldrow?»
                «Beh, francamente poteva anche essere. Dato quello che mi dicono sia successo in occidente… magari pensavate di poter trovare un modo di riorganizzarvi qui, con le risorse di questo mondo». Con aria beffarda, il vecchio politico del nuovo mondo tornò a distribuire mangime ai suoi rari polli alieni. Non trattenendosi da una pacata ridacchiata, aggiunse: «Mia Lady, dal vostro sguardo… noto che siete sorpresa. Veramente non vi aspettavate che mi tenessi informato su vicende tanto importanti del Westeros? Che diamine, quella era pur sempre la mia vecchia casa»
                «E la vecchia casa dei vostri padroni»
                «Sì» confermò Muldrow, anche se Marcus notò che in parte il colpo venne anche accusato: il vecchio non amava forse definirsi un servo, «I Tyrell sono stati sconfitti. Anzi, quasi completamente debellati: rimossi dal soglio millenario che era stato dei loro padri. Dunque ora… liberi tutti»
                «Che cosa intendete?»
                «Che le cose sono cambiate con tanta e tale rapidità da determinare sconvolgimenti inauditi in tutte le terre conosciute. E anche in quelle “sconosciute”, per così dire, ovvero come quella dove adesso voi vi trovate»
                «Ah» sospirò Mirietta, un po’ disillusa, «Sir Muldrow, a nome di Napoleon, re degli Andali e dei Primi Uomini, io…»
                «A nome di Napoleon, dite, Lady Mirietta? Perché parla il vostro infante nipote? No, non mi risulta. Non tanto da poter dare ordini o direttive a chicchessia, comunque. Al massimo potrà chiedere un po’ della tetta di Lady Abigail»
                «Quando il re è un lattante, allora le norme prevedono…»
                «Quale re? Il re sul Trono di Spade? Targaryen mi risulta che si chiami adesso. Gabryaerys Targaryen. O sono forse in errore?»
                «Sir Muldrow, le circostanze sono cambiate con rapidità: lo avete detto voi. Ed è tempo che il Lord sovrintendente del nuovo continente si faccia da parte per…»
                «Oh, ma io questo l’ho già fatto. Il nuovo continente si è già fatto da parte, non intervenendo per nessuno dei contendenti in gioco. E finché io sarò in vita… continuerà a farlo»
                «Così è questo che siete ora? Una sorta di sovrano indipendente?»
                «Ah, Mirietta bando ai vostri schemi da mentalità occidentale: questo è un nuovo continente!» si irritò Muldrow «Con regole tutte sue. A lungo abbiamo cercato d’imporre, con le buone o con le cattive, i nostri metodi alle popolazioni che abitano questi scogli, e in parte abbiamo ottenuto quello che volevamo. Ma per altra parte, le loro idee più recondite, i loro costumi più ancestrali, la loro natura più assoluta, tutto ciò è rimasto sempre uguale e mai cambierà. Questo è il monento in cui Kowacz e Sayun-sama e anche uomini-drago possono finalmente liberarsi da questa idea che certi stranieri malauguratamente sopravvenuti dall’oriente siano superiori a loro. Per loro è giunto il momento di dimenticare, mia Lady»
                «Lo ritieni davvero possibile? Pensi davvero che, se anche io tornassi indietro, dimenticandomi di tutto e morendo senza far menzione con nessuno al mondo che esiste all’occidente un nuovo continente, non verrebbe qui qualcun altro, Muldrow? I tempi sono maturi, i mezzi tecnologici. Quello che tu vorresti tentare qui è una sorta di interruzione della strada che il progresso ha ormai intrapreso, e non basterà un vecchio, stanco, Sir del Westeros ad impedire che essa venga ripercorsa. Con più rabbia e più violenza di prima, se non intendiamo oggi trovare la soluzione più razionalizzata possibile»
                «Sono… sono parole molto sagge, Mirietta» fece Muldrow, veramente colpito da quel “generale in gonnella” che aveva dinanzi, «Non ti nego che questa è una riflessione che fino ad oggi non aveva balenato i miei pensieri, non in questi termini comunque. Ciò nonostante: alcune cose dopo la tua partenza sono accadute. Cose che hanno a loro modo permesso a quella strada del comune progresso degli uomini e le donne di questo continente di dipanarsi, orientarsi, ma farlo però in un modo tutto loro. Tutto interno. Senza coercizioni di nessun tipo, senza armi, né altri espedienti di pretesa superiorità dell’uomo che viene dal mare sulle imbarcazioni Tyrell, o Lannister. Dopo la guerra, e il conseguente massacro che tu e quell’altra sprovveduta di Xenya l’esploratrice avete causato tra il popolo dei Kowacz e quello degli uomini della montagna…»
                «Non siamo state noi!»
                «Dopo quel massacro… i Kowacz si sono divisi. Alcuni hanno continuato a volersi mantenere fedeli alla pallida speranza che le due donne bianche gli avevano fornito: la speranza di combattere e sconfiggere gli uomini-drago e, così facendo, ampliare i loro interessi verso quel nord da così lungo tempo a loro oscuro e misterioso. Altri, più realisti, hanno pensato che la cosa migliore fosse l’alleanza con il vecchio schiavo Sayun, e con me e le mie armi che sparano fuoco: credevate davvero che le mie risorse si fossero esaurite con il vostro patetico ladrocinio? Che non avessi le mie riserve personali, assai più segrete?. Ecco perché oggi mi trovate qui, per la prima volta dopo lungo tempo anche io nella casa dei Kowacz. E d’altro canto… la vostra Xenya, così tanto promettente, non è mai tornata dalla montagna di fuoco. E le speranze dei più sono state definitivamente accantonate. Qui ora sono io a comandare, Lady Mirietta. E finché ci sono io, il Westeros ha finito di portare il suo sangue e la sua morte all’interno di questo continente»
                «Xenya? Non è tornata dal nord?»
                «No, non l’ha fatto»
                «Sir Muldrow» la voce della sua sorellina assunse a questo punto un tono solenne: la ragazza ragionava bene e in fretta, era come se avesse sempre un piano, sempre qualcosa da dire o da fare, «Da quel poco che ho avuto modo di riscontrare dai nostri incontri, direi che voi siete un uomo onesto. Non condividiamo le stesse idee oggi, così come non le abbiamo condivise ieri, ma… i nostri rapporti non sono stati mai segnati da scontri che andavano al di là delle parole e… voi mi parete una persona dabbene»
                «Milady, voi dimenticate che mi avete derubato»
                «È stata l’esploratrice…»
                «Ma questo non potete dimostrarlo, non è vero?»
                «Su, Muldrow: non vi serve tenermi prigioniera»
                «No. È per questo che vi concederò il riposo a voi, e ai vostri amici. E vi concederò tutto il tempo di rifocillarvi. Dopodiché ripartirete per il Westeros, e non tornete mai più»
                «Esilio forzato. Lo capisco. Temete che la mia presenza qui possa inclinare i vostri rapporti appena ristabiliti con il popolo Kowacz» la giovane Lady attese dal vecchio Sir una risposa che non arrivò. Dunque riprese il suo ragionamento: «Ma penso non vi siano differenze per voi, purchè l’esilio sia irreversibile e destinato lontano»
                «Volete decidere voi dove andare?»
                «Sì, a nord»
                «Ah» rise, sarcastico, il vecchio con la macchia nera «Non se ne parla neanche. C’è quell’altra faina di Xenya l’esploratrice laggiù»
                «L’avete detto voi: non è tornata. Magari è morta»
                «O magari ci sta preparando una bella sorpresina insieme con quelle creature immonde che gli uomini-drago altro non sono»
                «Oh, Muldrow, andiamo: per millenni nessuno – né Kowacz né Sayun – è mai riuscito a creare qualcosa di neanche simile a un’amicizia con quelle creature. E ora Xenya, una donna bianca dell’oriente, sarebbe perfino stata in grado di coinvolgerli in un progetto di guerra nei vostri confronti e in quelli dei selvaggi che abitano più a sud? Questo è assurdo». Muldrow rimase in silenzio, e la principessa se la sentì di insistere: «Non riuscite a pensare che cosa ho per la testa: vi capisco. Ebbene non riguarda in alcun modo un conflitto nei vostri confronti. Né l’imposizione di un volere che esuli dal vostro desiderio, e comando, di restare estraneo – voi e i Sayun e i Kowacz – dalle guerre sul vecchio continente. Avete la mia parola»
                «La vostra parola?»
                «Lo so, sono giovane. Ma sono una Lady»
                «Voi, mia signora, sicuramente saprete di quella vecchia storiella che si dice su quelli della vostra famiglia, no? Quella che riguarda i Lannister e i loro debiti»
                «Sì, che li ripaghiamo sempre»
                «E considerereste la mia autorizzazione a lasciare il villaggio Kowacz per il territorio degli uomini-drago come una sorta di debito che avete in sospeso con me?»
                «Sì, Muldrow: dal momento in cui lasceremo il villaggio sarete mio creditore»
                «Allora che sia così, fanciulla. E che la sorte vi accompagni».

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Capitolo 15
*** Risvegli ***


Capitolo 15
RISVEGLI
 
 
 
                «È sveglio?»
                «Sì, signore, ma ancora un po’ assonnato… ci penso subito!»
                «Molto bene».
                Queste voci Daniel le aveva sentite assai distanti, come in un sogno. Oppure come se esse stessero fuori dal sogno e lui invece ci fosse ancora dentro. Un sogno senza il freddo del nord e della sua gente, ma con il caldo invece del sud, e delle puttane, e del buon vino, delle risate, della famiglia. Ma il colpo che lo svegliò scuotendolo, quello sì, Daniel di Cowain lo distinse chiaramente. E distinse ancora più chiaramente il tono scontroso con cui quell’inserviente si rivolse a lui dicendo: «Forza! Apri gli occhi! Lord Worchester vuole parlarti!»
                «Ehm… basta» comandò a questo punto l’orso del nord «Basta così». E Daniel se lo ritrovò davanti. Lui disteso su un letto e il Lord di Biancavilla seduto accanto a lui, con le sue stampelle e il suo volto deforme. Non proprio una bella visione, come prima cosa da guardare appena svegli, confusi e insonnoliti. Perché questo era lo stato del principe di Lannister in quel momento: confuso e insonnolito. E sentiva anche un po’ di freddo, a dirla tutta. C’era sempre freddo in quella maledetta Biancavilla, ma questa volta Daniel era debilitato. Aveva usato i suoi poteri da Piromante: ora ricordava. Erano venuti fuori nonostante la Pietra di Luna. Ed erano venuti fuori per salvare Licyane. Licyane Stark, la ragazza così simile ad Anylice. Anylice, la ragazza di ghiaccio. Ricordò tutto assieme ma, anziché ottenere maggior chiarezza, entrò ancor più in confusione. Le tempie cominciarono a pulsargli. Aveva un leggero mal di testa, come se avesse l’intero cranio inserito dentro un casco che attutiva suoni e colori.
                A poco a poco, Daniel cercò di prendere coscienza della situazione. Realizzò che non era mai stato in quella stanza. E realizzò che alle gambe aveva un ceppo assai più grosso dell’ultimo che gli aveva imprigionato le caviglie. E un pezzo di Pietra di Luna assai più grosso del precedente se ne stava freddamente a contatto con la pelle della sua gamba.
                «Voglio che sia chiaro» esordì il mostruoso signore, denti aguzzi e strane escrescenze carnose sulla fronte e le guance, «Che primariamente l’interesse che abbiamo protetto con questo trattamento è quello del castello che è stato di mio padre. Della sua struttura, e di coloro che la abitano. Non deve succedere mai più, principe Daniel, che in preda a rabbia, o dolore, o chissà quale altro stato psicofisico, voi esplodiate in un turbine di fuoco che mi arrechi dei danni ulteriori. È per questo il ceppo. Poi, naturalmente, c’è la questione della vostra aurea prigionia. Vi avevo promesso garanzie, vi avevo promesso libertà e – per quanto sono veri gli Dèi – io ho mantenuto la mia promessa: non potete certo dire il contrario»
                «Uryon» provò a immischiarsi il principe Piromante «Potete definire la mia prigionia come meglio credete, ma…»
                «No, aspettate: fatemi finire. Poi, certo: ammetto che mi seccherebbe molto se voi decideste di scappare, davvero molto, per cui sì: ho ritenuto quel ceppo necessario, e ho anzi pensato pure di peggio. Ho pensato di tenervi in questa stanza per sempre, o almeno finché mi serviate. Io posso. Io sono un re, ora, e cose come quelle dell’altra sera non si devono verificare nel castello di un re. Che figura ci farei se permettessi che succeda di nuovo? Che figura ci farei io, Daniel, se per colpa vostra tutta Amergoth con tutte le sue ricchezze pigliasse improvvisamente fuoco? Secoli e secoli di ricchezze racchiuse in volumi di pergamena, per sempre perduti! Un danno inestimabile. Lo ripeto: ho seriamente considerato per voi una prigionia più “canonica”, anche per questioni di comodità. Ma perché debbo crearmi pensieri? Vi rinchiudo da qualche parte, getto via la chiave e tanti saluti. Ora potete parlare. Che avete da dire?».
                Daniel ci pensò un po’. In effetti un po’ pensava che non fosse più il caso e un po’ gli seccava provocare Uryon dicendogli che non se ne faceva niente della sua viscida pietà. Però trovò qualcos’altro da chiedere: «Come sta la ragazza?», fece. Uryon gli rispose: «È sana e salva. E non so se farvela vedere mai più francamente»
                «Oh, no…»
                «Potrei mandarla a lavorare da qualche altra parte, o… molto più semplicemente farla sparire»
                «Uryon vi prego»
                «Eppure c’è qualcos’altro che ho da aggiungere. Io non intendo tollerare nessun crimine nel mio regno e men che meno nel mio castello, mai. Voi avete dato alle fiamme la mia scuderia: è un crimine, e lo state scontando. Ma cercare di violare una ragazza è per chi vi parla un crimine anche peggiore. Voglio che sappiate che i responsabili di quell’atto sono stati prontamente intercettati e puniti per fustigazione. E voglio che sappiate che il Re del Nord vi è grato per averla salvata, perché salvando lei avete fatto in modo che la giustizia continuasse ad avere luogo tra queste mura. La giustizia vi avrà sempre luogo finché io regnerò». Dicendo ciò, Uryon si alzò in piedi. Aprì la porta della piccola camera e lasciò entrare qualcuno che si trovava apparentemente dietro all’uscio, in attesa. Era Licyane. Uryon non aggiunse altro, li lasciò semplicemente da soli, chiudendosi la porta alle spalle.
                Per un tempo lunghissimo, in realtà Daniel e Licyane non si dissero assolutamente nulla. Si scambiarono degli sguardi a giudizio del principe di Lannister già bastevoli per far capite tutto. Lei gli era profondamente grata, anche se Daniel non pensava di aver fatto poi nulla di così speciale: ora si stava esagerando. E poi l’affetto. Un profondo affetto e una profonda confidenza: Daniel nemmeno se lo riusciva a ricordare chi era stato l’ultimo con il quale aveva condiviso un sentimento così profondo di assoluta sicurtà, assoluto “senso di stare in famiglia”. Molto probabilmente era stato con Cordell, ma… non se ne ricordava. Si commossero anche un pochino, lei di più. Dunque scambiarono qualche parola. Poi un’altra, e poi intere frasi, e poi interi argomenti. Infine, quando si fece sera, lei con tutta la naturalezza del mondo gli si fece accanto. Trovò uno spazio sempre più vicino a lui e vi si sistemò. Passò un tempo lunghissimo, e si fece ancora più vicino. Poi un tempo ancora più lungo, e lei si fece più vicino. E poi ancora e ancora. Infine, con tutta la naturalezza del mondo, lo baciò.
 
 
 
                Nonostante fosse stato uno dei pochissimi a poter essere annoverato tra i sopravvissuti al grave incidente del tempio del dio rosso, Brendan in realtà si rese ben presto conto che tanto bene non stava neanche lui. Riuscì ad arrancare fino a quello dei Sette, quasi senza respiro e col cuore che sentiva potergli venir fuori dal torace in qualsiasi momento. E quando arrivò tra le braccia di un confratello, semplicemente perse i sensi e non si risvegliò prima di sette giorni. Gli avevano spiegato che poteva anche accadere che uno shock dovuto a qualcosa di veramente sbalorditivo poteva già di per sé causare problemi di quella natura: perdere le forze dalla paura e lo sconforto. I maestri a servizio del Credo d’altro canto erano tra i migliori del continente occidentale e Brendan, che era un povero novizio della costa occidentale, non aveva ragioni per dubitare della loro parola, specie se garantita dai confratelli del Credo dei Sette. Se tuttavia a quello schock si poteva anche aggiungere lo stato fisiologico di aver respirato, senza neanche accorgersene, un mucchio di fumo tossico dovuto alle polveri e al chiuso del luogo in cui l’incendio era scoppiato, allora il suo lungo riposo pareva quasi una logica conseguenza.
                Quando fratello Brendan si risvegliò, si ritrovò in una situazione francamente sorprendente. In piedi davanti a lui c’era il Sommo Septon in persona, di cui lui aveva sempre sentito parlare ma che mai aveva visto di presenza. E seduta di fianco a quest’ultimo, la venerenda Sharma, Septa Madre a capo di tutte le consorelle dell’ordine femminile. Di fianco a lei, il Sommo Septon pareva quasi un giovinastro, anche se fisicamente le parole migliori che a Brendan sarebbero venute in mente per descriverlo erano: “un paffuto cinquantenne”. Molto paffuto, anzi proprio rotondo, con una barba bianca molto curata, un paio di folte sopracciglia dello stesso colore, e una testa quasi intermanete calva. E non calva per la tonsura: proprio arida di cuoio capelluto. Quei due pesi massimi della Chiesa riuniti insieme al suo capezzale all’inizio parvero a Brendan un affare parecchio strano. Ma poi, siccome era un ragazzo furbo, capì da subito che cosa potevano volere: sapere per primi tutto quello che c’era da sapere su Yashua, il suo dio e la sua gente. Brendan decise di accontentarli per quanto poteva, ma ovviamente la sua testa era ancora dolente e i suoi ricordi un po’ offuscati, così dissero i maestri, e così il Sommo Septon e la Septa Madre accettarono. La figura di Septa Sharma in particolare destò in Brendan non poche curiosità: primariamente, perché forse era la persona più vegliarda che Brendan avesse mai visto. Quanti anni mai poteva avere una donna con una pelle bianca e raggrinzita a quei livelli? Novanta? Cento? Più di cento? Nessuna di queste ipotesi poteva escludersi. Ma la cosa più curiosa non era quella. La cosa più curiosa era… che Brendan non riuscì a capire se fosse cieca oppure no. Gli occhi della anziana consorella erano dell’azzurro più chiaro che il giovane novizio di Banefort avesse mai veduto: quasi bianchi. E poi, nel corso della loro conversazione, spesso guardava il vuoto, ascoltando il suo interlocutore in uno stato di apparente assenza mistica che faceva sembrarla decisamente orba. Tuttavia, appena decideva di parlare, o avvertiva qualcosa nel discorso altrui che le pareva abbastanza interessante, spostava lo sguardo di scatto verso l’origine del suono con una precisione che non poteva appartenere a un cieco.
                Il dubbio sulla effettiva cecità di Sharma rimase in Brendan anche nelle due volte successive in cui l’illustre coppia di teologi lo andarono a trovare. In quelle due volte, Brendan completò il suo discorso sugli avvenimenti della strage del vespro, ma non quello sulla sua prigionia. Le volte dopo, per altre tre in totale, fu il solo Sommo Septon ad ascoltare le sue parole. Poi Brendan venne dimesso e destinato a un nuovo incarico… a diretto servizio di Sua Sacralità. La rapidità di tutto questo gli apparve incredibile. Da prigioniero del più terribile eretico dei loro tempi a diretto servitore dell’uomo più santo di quegli stessi loro tempi. Un salto di qualità che invero a pochi nella storia degli uomini doveva essere capitato. E in più, e questo era l’aspetto veramente inquietante, incredibilmente Brendan si ritrovò nella posizione che tanto a Yashua sarebbe piaciuta, qualora fosse stato ancora vivo. Yashua voleva che lui spiasse l’Alto Septon, lo aveva obbligato a giurarglielo, gli aveva detto in poche parole: “trova un modo per servirlo o io ti ucciderò”. Ma Brendan contava sul fatto che mai e poi mai l’Alto Septon avrebbe permesso a un novizio qualsiasi di avvicinarlo. E invece la vicenda della strage del vespro gli aveva tristemente aperto questa opportunità.
                Brendan non sapeva che fine avesse fatto l’attendente precedente di Sua Sacralità, visto che era improbabile che quest’ultimo non ne avesse già uno o più di uno. Ma stava di fatto che a fare l’attendente lui venne messo. Serviva a Sua Sacralità da mangiare e da bere, gli passava gli oggetti sacri durante le cerimonie e le messe, dormiva nella camera accanto a lui in vista di qualsiasi evenienza. Ma il vero compito di Brendan in verità era chiaramente continuare a ricordare e riferire ogni minuzia, ogni particolare, del suo soggiorno presso le prigioni del dio rosso. Il Sommo Septon, dal canto suo, era uomo istruito nell’arte dell’oratoria e pareva saper sempre bene come tirar fuori cose da Brendan cui lo stesso giovane novizio non aveva all’inizio neanche fatto caso. Brendan si domandò che cosa però il suo altissimo datore di lavoro voleva arrivare a sapere e non poteva anche chiedersi… se, una volta scopertolo, il suo servizio presso Sua Sacralità non finisse per essere sospeso per sempre. Ma d’altro canto, Brendan concluse che questi erano problemi inutili: anche se avesse voluto restare a far quel mestiere per sempre, quali possibilità aveva per imporre il suo volere? L’unica risposta era: nessuna. E fu con questa rassegnazione che il novizio di Banefort continuò a vivere i suoi giorni.
                Venne infine una mattina in cui, a colazione – o meglio: alla colazione di Sua Sacralità, visto che Brendan aveva già mangiato nelle sue stanze – il vecchio sant’uomo gli annunciò che di lì a qualche ora avrebbe avuto un incontro con sua Maestà re Gabryaerys, alcuni suoi consiglieri – potenzialmente il Maestro dei Sussurri Lord Braff e il Lord Primo Cavaliere – e inoltre Lord Irwin, il Gran Maestro delle Scuole e degli Ospitali. Fin qui tutto nella norma: il Sommo Septon era un’importante personalità del Regno e gli capitava d’incontrare altre importanti personalità del Regno, talvolta le più importanti. Tuttavia, e questa fu la vera sorpresa, Sua Sacralità aggiunse anche a Brendan che anche il novizio stesso avrebbe dovuto essere presente, anzi più nello specifico: che la sua presenza era necessaria. Necessaria la sua presenza a un incontro con il re e gli altri grandi politici della città? Questo naturalmente non aveva alcun senso, eppure Brendan si stava ormai abituando a tutte quelle sorprese, era come se da quando risiedeva a Roccia del Re stesse scontando tutte le banalità della vita fino ad allora vissuta, dunque… decise di non ripeterselo più, che era sorpreso e sbalordito, e semplicemente accettò quello che di lì a poco gli sarebbe accaduto. Certo, man mano che passava il tempo dell’attesa, cresceva nel giovane monaco una certa emozione e tuttavia con essa anche una lucida consapevolezza: era ovvio il perché il Sommo Septon voleva Brendan alla riunione con il re: desiderava che Sua Maestà conoscesse le stesse cose che già Brendan aveva avuto modo di dire al suo diretto superiore, ovvero di Yashua, della strage del vespro e di tutto il resto. Ma per dire tutto a Sua Sacralità, e molto a Sharma, Brendan aveva impiegato dei giorni. E forse non aveva ancora finito. Si chiese dunque che cos’era che il Sommo Septon desiderava che il re sapesse e, non sapendo bene cosa aspettarsi, gli prese l’ansia. Andò avanti così per un paio di decine di minuti; dopodiché concluse che le sue preoccupazioni non servivano a niente, e che quello che il Sommo Septon voleva fare, solo il Sommo Septon lo sapeva. E di solito un Sommo Septon sa il fatto suo.
                Naturalmente il momento dell’arrivo degli importanti signori alla sala destinata da Sua Sacralità per l’incontro, fu per il novizio dei Sette non poco emozionante. Il re e i suoi consiglieri, ammantati in quelle ricche vesti pregiate; le corone sia del re che del Primo Cavaliere, ampia e poggiata su un cappuccio che gli copriva parte del volto la prima, piccola da baronetto la seconda, sopra il cranio spoglio e nero che Brendan aveva ormai imparato a conoscere. Perché c’era anche questo da aggiungere: quella cosa che era il Primo Cavaliere della città, Brendan l’aveva già vista. Anzi, l’aveva vista pochissimo tempo prima. Anzi, era una delle ultime cose che aveva veduto prima di perdere i sensi per sette giorni e sette notti. E adesso era lì. Che cosa mai doveva raccontare Brendan a quelle persone: quello che già sapevano? Che il Lord Primo Cavaliere aveva sterminato la massa dei fedeli di Yashua, e che dunque era colpevole di genocidio agli occhi degli dèi? La cosa lo inquietava a dirla tutta. Lo inquietava parecchio.
                Sebbene pure lui ben vestito, il Maestro dei Sussurri Braff senza dubbio spiccava in diversità rispetto ai suoi anomali colleghi e superiori. Certo Gabryaerys era meno strano del suo Primo Cavaliere, ma era anche un re che curiosamente ci teneva a tenere celata almeno una parte del suo viso e della sua testa. Così non era per Braff, il quale era un uomo comune. Un uomo di media altezza, con un paio di baffetti e un pizzo piuttosto curato, una stempiatura di capelli rossi e non molto altro di interessante. Ma uno che per lavoro passava diverse ore della sua giornata seduto a un tavolo a parlare con mostri come il Primo Cavaliere, beh tanto “normale” un uomo così a giudizio di Brendan non poteva essere neanche lui.
                Quanto a Irwin, ecco lui sì che appariva ben diverso dal resto dei membri del Concilio Ristretto di cui Brendan stava facendo la conoscenza. Quanto meno, il giovane vestiva con abiti molto meno lussuosi di quelli dei suoi colleghi, e in generale se ne andava in giro ammantato di quell’umiltà che era più dei monaci che dei maestri della Cittadella. Buffo, a vederlo vestito a quel modo e atteggiarsi a quel modo, Brendan avrebbe pensato che Irwin fosse un suo confratello qualsiasi, se l’avesse incontrato al di fuori di quel contesto. Certo, di diverso rispetto ai comuni monaci dei Sette Irwin almeno due cose le aveva: uno, la catena al collo costituita da diversi anelli di metalli diversi; e due: Brendan pensava che il Gran Maestro rientrava appieno nella categoria di quelli che avrebbero potuto definirsi degli uomini piacenti – con i suoi occhi chiari, i capelli biondi, l’altezza elevata ma non in maniera esagerata – mentre i monaci perlopiù, anche quelli giovani, erano di solito d’aspetto piuttosto sgradevole. Insieme a Irwin, appoggiata al suo braccio ed arrancando a passi brevissimi, era pure arrivata la non senza dubbi cieca Septa Sharma. Da quello che aveva avuto modo di capire, intercettandolo da discorsi non esplicitamente rivolti a lui ma comunque non a lui nascosti con chissà quali arzigogoli, Irwin aveva rappresentato una sorta di pontiere di quell’incontro. Se il re e il Sommo Septon, insieme a tutti gli altri convenuti, in quel momento si stavano incontrando, era primariamente per lavoro di Irwin, o almeno così Brendan aveva capito.
                Infine, superato il momento dei convenevoli, venne quello di Brendan. Il Sommo Septon spiegò il perché della sua presenza, e sostanzialmente – con sorpresa ma anche con sollievo del giovane novizio – non parlò della sera della strage. Si concentrò invece su tutto quello che era accaduto prima, e che Brendan gli aveva pure raccontato. Insomma, Brendan era lì per confermare le cose che riguardavano Yashua e i suoi interventi spesso si limitarono a un’affermazione dei lunghi sermoni del suo superiore. Fu proprio la parte del Credo a intervenire per la gran parte del confronto: se la parte del Reame fosse attiva, lo era nell’ascolto, molto meno nell’intervento. Quando dunque Sua Sacralità ebbe finito, allora il Maestro dei Sussurri intervenne. «Le informazioni fin qui conferiteci, grazie all’aiuto di questo giovanotto» esordì Braff «Sono senza dubbio di vitale importanza per la Corona, e ti ringraziamo per averle condivise con noi, Vostra Sacralità. Esse combaciano con tutto quello che ho fin qui avuto modo di raccogliere, e confermano che l’individuo con cui avevamo a che fare fosse pericoloso per l’intera comunità, e non solo per il Credo, e per tali ragioni siamo lieti che sia tutto finito. E ora…»
                «Ora, Vostra Sacralità» il re interruppe il suo Maestro dei Sussurri «Ci sarebbe un’altra questione che la Corona intende porre al tuo sapiente giudizio»
                «Un’altra questione?» fece il Sommo Septon, che rivolse il suo sguardo di disappunto al Gran Maestro Irwin, per poi rapidamente riportarlo su Sua Maestà, «Di questo non eravamo stati avvertiti. Di che si tratta?»
                «Sua Sacralità avrà sicuramente preso notizia di ciò che è accaduto qualche settimana fa» riprese il re «quando un esercito nemico si è introdotto tra le nostre mura per conclamare una illecita provocazione»
                «Ah, sì, senza dubbio. Una vigliaccata, non saprei come altrimenti definirla. E quella questione del rapimento di Napoleon Lannister, poi… davvero inaudito! Si trattava pur sempre del figlio del fratello della vostra promessa»
                «E si trattava… dei miei appartamenti privati. Del mio palazzo!»
                «Mh… sì, non c’è dubbio»
                «Bene, Vostra Sacralità, quello che volevo domandare alla più alta delle espressioni di sapienza di cui la nostra comune fede ci fa la grazia è… di quale copertura “religiosa” per così dire, gode questo palese provocatore? Cioè… quale pena rischierei se io… disattendessi le mie promesse?»
                «Maestà voi mi chiedete qualcosa su cui, nonostante le vostre graziose parole, non sono affatto versato. Non ho idea di come la gente, e nella fattispecie i vostri sudditi, e nella fattispecie i sudditi di questa città, potrebbe reagire dinanzi a un vostro palese spergiuro. Con tutto il rispetto, Maestà, questi sono affari che riguardano strettamente le facoltà della Corona»
                «Sì, ma potrebbe non essere così…»
                «Non vi seguo»
                «Non mi sono forse dimostrato un re fedele al Credo, io, avendo operato al fine di spazzare via alla radice ogni forma di eventuale eresia che pure pareva star prendendo rapidamente campo in questa città?»
                «Un momento, signore, badate bene: se voi avete fatto quello che avete fatto, era per dovere nei confronti del vostro dio, non certo perché un suo umile servo possa mai ripagare eventuali debiti che non sono mai stati chiesti da lui per il suo bene personale»
                «Ascoltami bene, stupido vecchio!»
                «Ehm, Maestà…» s’intromise Braff, cercando di riparare una situazione forse ormai irreperabile. Infatti Gabryaerys proseguì comunque, furioso come un fiume in piena: «Io manterrò il Credo dei Sette quale unica fede di questo regno, ma solo finché voi grotteschi, pacchiani, cialtroni non vi manterrete fedeli a me. In caso contrario, non solleverò più un dito al prossimo fanatico esaurito che aizzerà la folla contro i vostri pizzi e le vostre sete, mi sono spiegato?! E avverrà, avverrà molto presto, visto che di mollare un poco del vostro oro verso i vostri così tanto decantati figli e fratelli voi non ci pensate nemmeno, quindi non venite a farmi la morale!»
                «Ehm…» riprovò Braff con ancor meno fiducia «Maestà…»
                «Io andrò a Delta delle Acque, e affronterò Lord Bolton: questo ve lo posso assicurare. Ma a Delta delle Acque potrebbe comunque capitare qualcosa che potrebbe mettere in discussione la mia sincera parola e voi, qui a Roccia del Re, dovrete giurare – e spergiurare se necessario – che tutti e Sette gli dèi sono con me, e con loro la loro Chiesa, sono stato chiaro, vecchio?!»
                «Andate via!» fece il Sommo Septon, con rabbia, ma anche mantenendo una certa dignità di cui Brendan non fu proprio sorpreso, ma quasi. «Questa Chiesa non è il luogo delle minacce, e io non sono uomo pronto ad assecondarle!» porseguì il più saggio dei confratelli dei Sette «FUORI!». Gabryaerys lanciò un ultimo mezzo sguardo di puro odio e se ne andò facendo svolazzare il lungo mantello violaceo. Lord Tararus, il Primo Cavaliere, lo seguì senza fiatare, anche se Brendan non poté non interpretare come un diabolico sorriso quello strano ghigno che quella bocca senza labbra assunse un attimo prima che il mostro seguisse il suo padrone. Braff invece disse qualcosa prima di andare, ma anche da lui purtroppo non arrivò nulla di significativo. Il Maestro delle Spie fece infatti: «Avete sbagliato oggi, tutt’e due. Sua Maestà nei toni chiaramente, ed io opererò perché migliorino, ma purtroppo questa è parte della sua natura e tutti noi dovremo abituarci a convinverci. Mentre voi, signore… voi avete sbagliato nelle vostre scelte». E lasciò così anche lui quella riunione, un po’ sincero ma un po’ misterioso, forse un po’ utile ma anche decisamente inutile.
                Brendan rimase con Sua Sacralità, il Gran Maestro Irwin e Septa Sharma, i quali ultimi due non avevano quasi proferito parola nel corso dell’intera colluttazione. Ebbene, quello fu proprio il momento in cui la vecchia forse cieca se la sentì di intervenire, con una frase enigmatica almeno quanto quelle normalmente proferite dal Maestro dei Sussurri: «La minaccia è figlia della paura»
                «Cosa pensi, Sharma?» fece a sua volta il Sommo Septon «Che abbia qualche asso nella manica?»
                «Non possiamo saperlo» intervenne Irwin, che ancora a Brendan non era chiaro quale diavolo di posto ricoprisse in tutta quella storia. Se era un membro del Concilio Ristretto del re, allora perché si trovava ancora lì? «Questo genere di cose non le condividerebbe con me nel Concilio per via ufficiale» proseguì Irwin «Se ne parla, ne parla coi suoi»
                «E Braff è dei suoi?» domandò l’Alto Septon.
                «Forse, ma meglio indagare un altro po’»
                «Beh, fallo». Prima di eseguire quello strano ordine proveniente da quella strana autorità, il Gran Maestro Irwin rivolse il proprio sguardo a Septa Sharma, come in attesa del permesso. E Brendan lo vide. Un osservatore disattento forse non l’avrebbe notato, date la vetustà, la cecità e la quasi immobilità dell’anziana donna, eppure fece un cenno quasi impercettibile del capo. E Irwin corse via dalla sala, apparentemente rivolto verso la stessa direzione da cui anche il re e i suoi “sgherri” se ne erano andati. Brendan rimase col Sommo Septon e la Septa Madre, una compagnia decisamente imbarazzante per un novizio. Ascoltò ancora l’uomo rivolgersi alla sua molto più vecchia interlocutrice, domandando come si sarebbe fatto tra maestra e allievo: «Per quanto alla lunga la possiamo tirare ancora? Checchè possiamo dirne, la nostra base è debole. E il suo esercito invece… molto agguerrito. Siamo in una situazione parecchio delicata»
                «L’orgoglio non è mai un bene, figlio mio» affermò a questo punto la saggia donna cieca «Ma la dignità invece può esserlo. E le condizioni non sono talmente avverse da poter calpestare la nostra diginità di Credo millenario dei Sette». Brendan intuì che questo significava continuare la guerra con il re, anche se naturalmente non ne fu sicuro. Sicuro invece fu l’Alto Septon, che congedò Brendan intimandolo a disporre tutti i paramenti per la messa successiva, mentre lui riaccompagnava Septa Sharma presso i di lei appartamenti.
 
 
 
                Lady Hana si svegliò in preda a lancinanti dolori allo stomaco e alla testa. Era come se il suo corpo fosse nella condizione di dover vomitare, ma non c’era niente da tirar fuori. Aveva i conati, ma non le cose da vomitare: una sensazione pessima che non aveva mai provato.
                Gabryaerys non si faceva vedere al suo desco da più di una settimana, e al suo talamo da anche di più. Quella questione del duello con Bolton che si avvicinava di giorno in giorno lo aveva sconvolto molto più di quanto gli piacesse ammettere. Non ne parlava con lei, ma lei sapeva che era così. Peraltro pensava che, anche se era strano, Gabryaerys proprio con lei uno sfogo simile lo avrebbe fatto, se proprio avesse desiderato di sfogarsi con qualcuno. Il suo regale marito difatti aveva maturato una strana concezione di questo loro matrimonio che, sebbene avesse dei lati che di matrimoniale non avevano proprio alcunché, per altre cose era come se Sua Maestà volesse sforzarsi di rendere la cosa “un po’ più seria”. Ecco perché le parlava, ed ecco perché spesso le domandava cose di lei, anche se palesemente gliene fregava meno che nulla. Quando si vedevano, era come se lui per davvero volesse fare il marito, anche se poi evitava di fare in modo che si vedessero più di tanto. Le volte in cui la prendeva, Hana per fortuna le considerava piuttosto rare. E non erano quasi mai le stesse in cui le parlava. Arrivava agitato, si spogliava senza neanche una parola, e la penetrava. Hana aveva anche concluso che il re avrebbe potuto essere annoverato fra i begli uomini, se non fosse stato per tutto quel complesso di mostruosità che gli deturpavano una buona metà del corpo. L’altezza e i capelli alla Targaryen c’erano, e facevano molto. Finché rimaneva coperto, era plausibile che una qualsiasi villana pensasse che Gabryaerys Targaryen poi tanto male non fosse, almeno nella sua immediata estetica. Per il resto, Sua Maestà era collerico e tendenzialmente viziato. Non era superbo nel senso che non prestava ascolto agli altrui consigli, ma quando decideva una cosa essa era già di per sé legge: in questo era inamovibile, e re nella maniera più letterale del termine, molto più di quanto non fossero mai stati il padre di Hana, Lionel Lannister, o suo fratello Axelion Lannister.
                Di tanto in tanto, il re domandava alla sua promessa se riscontrava qualche esito dai loro rapporti, come se avesse fretta di avere quel bambino. Di tanto in tanto, una Hana un po’ più maliziosa, pensava che in verità tutto quel teatrino di Gabryaerys dipendesse dal fatto che volesse un figlio, maschio, in salute e quanto prima. Lei aveva continuato a prendere la pozione che Braff aveva trafugato dalle scorte dell’ex Gran Maestro Septimus, e fino a quel giorno aveva dormito più che serenamente ogni sonno dal momento della sua liberazione presso le real prigioni. Ora però stava davvero male. E stava male in maniera strana. Come tutti, lei poteva dire che nella sua vita aveva avuto diversi mal di testa e diversi mal di pancia, talvolta insieme. Ma mal di testa e pancia come quelli che la stavano prendendo in quel momento, Hana non ne aveva mai visti.
                Era già andata a letto con una sensazione come di leggera nausea, ma non si era preoccupata più di tanto: aveva ipotizzato un raffreddore, magari dovuto all’ampiezza delle sale dei suoi appartamenti e al fatto che ultimamente, per ragioni varie, spesso porte e finestre erano rimaste aperte, tanto da creare delle correnti. Ma quello con cui si risvegliò raffreddore non era, e nemmeno influenza.
                Cercò di trattenersi quanto più poteva, ma a un certo punto il dolore finì per costringerla ad accasciarsi a terra e le sue damigelle di compagnia giustamente chiamarono aiuto. Hana detestò il modo con cui le consorelle la visitarono. Le fecero domande indiscrete. La palpeggiarono come non si conviene a una signora, in una maniera tale che… non si conviene assolutamente a una signora. E mentre lo facevano, sorridevano. Erano liete, forse persino un po’ euforiche. Lei non resistette. Era pur sempre la loro futura regina, e sbottò: «Ma si può sapere cosa avete da ridere?»
                «Maestà» fece la più anziana delle tre, sogghignando come una scimmia, «Voi portate in grembo un erede».

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Capitolo 16
*** L'Alba ***


 Capitolo 16
L’ALBA
 
 
 
                La lista dei nobili galantuomini che ricoprivano cariche di una qualche rilevanza – e tra queste in primis il governo delle principali città – tra la soleggiata Cowain e la punta più orientale del continente, che il Lord Maestro dei Sussurri Braff aveva fatto recapitare al Lord dell’Altopiano Gino Barron, conteneva sostanzialmente tutti i nomi che Gino avrebbe potuto anche trovare da solo: tra confusi, simpatizzanti e apertamente schierati, alla causa di Saestrya Martell aderivano grossomodo un po’ più della metà delle Grandi Case tradizionali dei deserti di Dorne. Che poi Braff sostanzialmente non aveva consigliato a Gino di combatterle apertamente, bensì di tenerle sott’occhio, il che poteva significare tutto ma anche niente. E dunque in pratica il Signore dell’Altopiano concluse che poi, fatta eccezione per avergli segnalato il problema (che comunque era il suo compito), il Maestro delle Spie molto altro non avesse fatto. Era l’astio il sentimento con cui Gino lasciò la ridente cittadella delle puttane; e sostanzialmente Lord Alex non c’entrava niente, c’entrava Daessenya e con lei le incontrollabili, imperscrutabili, insormontabili ingiustizie della vita. Ma Braff non aveva aiutato per niente. Anzi, non aveva fatto altro che provocarlo: aveva risolto in quattro e quattr’otto il problema del demone di fuoco nel quale l’intervento di Gino era stato sostanzialmente inutile; gli aveva riproposto quella cosa dell’addestramento per guerrieri-ombra, consapevole del fatto che Gino sempre sarebbe rimasto un allievo a metà; si era dimostrato consapevole del problema di Daessenya, ma non aveva proposto una soluzione costruttiva che una; infine lo aveva pure caricato di quel peso in più del “problema Martell”, riuscendo in tal modo nel conseguimento di due ben “gloriosi” obiettivi: riportare Gino alla realtà dei suoi doveri, e insieme ricordargli quanto a ciò fosse inadeguato.
                Ma l’aspetto positivo di tutto questo era stato che infine Gino una sua decisione veramente autonoma era finita per prenderla. C’era stato un momento – come ce n’erano sempre – in cui, toltasi la benda dallo smarrito occhio che aveva lasciato sul campo della battaglia di Cowain, e guardatosi nella profondità di quell’unico altro specchio rimastogli, con l’ausilio di un riflesso, si era detto che non ce l’avrebbe fatta, che non sapeva cosa fare e che non era il caso di avventarsi. Era molto più conveniente chiedere scusa e tornare a invocare l’aiuto di Braff che accozzare in un piano vagamente coerente con quelle vaghe idee che gli giravano per la testa. Ma dopo un po’, fissando sempre più lo specchio, ritrovò una sua dignità e con essa la risposta. Quelle poche vaghe idee potevano avere un senso, ed era il senso di Lord Gino della Casa Barron, Signore dell’Altopiano. Il suo senso personale, così diverso da quello che un politicante come Braff avrebbe potuto tramare, eppure forse altrettanto utile. Utile di sicuro, per come Gino la pensava e vedeva il mondo.
                Primaditutto andò personalmente alla ricerca di alcuni uomini che poteva ritenere di sua assoluta fiducia. Circa quattro li trovò tra i suoi recenti acquisti, nel nuovo esercito dei Tyrell di cui lui stesso era di fresco divenuto il primo capo in comando. Non che fossero i suoi migliori amici, ma erano giovanotti che gli erano parsi abbastanza validi, abbastanza fedeli e con cui aveva scambiato più di quattro chiacchiere e aveva concluso di potersi fidare: lui era il loro Lord e loro suoi alfieri. E se anche ancora si reputassero più alfieri della Casa Tyrell che non suoi, era ormai ben chiaro che qualcosa la Casa Tyrell con lui aveva investito, visto che avevano deciso di farlo maritare con la principale delle loro rampolle, l’odiosa, logorroica e stupida Shanty. Dunqu rischi con quegli uomini Gino aveva concluso di non correrne, e ci si era sempre trovato anche piuttosto bene. Il resto della squadra invece il giovane Barron lo recuperò per davvero tra i suoi vecchi amici d’infanzia, tutti scudieri o inservienti della Dodecapoli, ma in ogni caso bravi ragazzi (e quelli che non erano “bravi ragazzi” Gino semplicemente non li aveva chiamati). Uno era addirittura un nipote del vecchio educatore di Lungotavolo, Sir Rollo: si chiamava Shaylmer Occhi di Ghiaccio, “nipote” nel senso che Rollo gli veniva in qualche maniera zio, non nonno. Infine Gino aveva deciso di convocare anche Jon Barthalo. Per prima cosa, perché Barthalo sarebbe stato forse il migliore di loro in strategia militare e questioni del genere, e in secondo luogo anche perché – nonostante ormai il vecchio Jon fosse ufficialmente il nuovo signore di Lungotavolo – Lungotavolo era fin troppo vicina ad Altogiardino, e Gino non intendeva lasciare il seggio più importante dell’Altopiano a ben due distinte ma comunque velenose serpi: i Tyrell da un canto e i Barthalo dall’altro. O l’uno o l’altro. E Gino preferì scegliere Jon, piuttosto che la sua tanto “amata” promessa: anche se doveva ammettere che pure l’idea di portarsi Shanty dappresso in una missione rischiosa, circondata da soli uomini, lo aveva per un certo momento stuzzicato non poco.
                Alla fine risolsero di essere in dodici, e Gino usò tutto il suo carisma di Protettore dell’Altopiano per fare in modo che nessuno dei suoi convitati conoscesse le ragioni della loro tempestiva convocazione fino a quando non fossero stati tutti insieme al suo cospetto. Dovevano tutti accollarsi l’impresa, senza chiedere oltre: era una delle questioni che un importante Lord dell’occidente poteva serenamente porre ai suoi sottoposti. Ovviamente gli presentò la cosa come un comando, non come una richiesta, di modo da evitare eventuali rifiuti. Scopo della missione: trovare Saestrya Martell, infiltrarsi nei meandri della sua copertura e ucciderla. Obiettivo non semplice senza dubbio, ma invece organizzare una scacchiera nei deserti di Dorne al fine di mettere una metà di quei signori contro l’altra metà era davvero poi così semplice o rapido? Non per Gino della Casa Barron. Gino della Casa Barron voleva nella vita essere un uomo di azione, e per gli dèi da uomo di azione si stava comportando.
                C’era ovviamente il problema della segretezza, che era piuttosto tosta come grana e che ancora una volta fece pensare al giovane monocolo signore di Altogiardino di, almeno per quello, rivolgersi al suo vecchio amico Braff, che senza dubbio avrebbe risolto il problema. Ma Gino era ostinato a fare per un volta tutto senza Braff. Ma come risolvere quindi la questione della vacanza dal suo seggio senza che si venisse a sapere, e men che meno a Dorne? Non esisteva che un personaggio pubblico del calibro di Gino – o meglio del calibro che la carica che ricopriva a Gino imponeva – d’improvviso sparisse. Lui decise di lasciare la reggenza a Shanty e ai suoi parenti, cosa che naturalmente mai e poi mai quelle zecche assetate di potere avrebbero rifiutato, ma non era abbastanza. Il Westeros si sarebbe cominciato a domandare dov’era che il Lord Protettore dell’Altopiano si fosse diretto. Chiedere alla famiglia di Shanty di mentire per lui era semplicemente improponibile, eppure… Shanty non era la sua famiglia. Non era ugualmente manipolatrice e accorta nelle questioni politiche. Continuando di quel passo, magari un giorno ci sarebbe diventata: primo perché buon sangue non mente, e secondo perché comunque era in questo modo che quegli avvoltoi Tyrell la stavano addestrando. Ma Shanty era una ragazzina, ed era goffa nelle cose del mondo almeno quanto Gino, se non di più. Era Shanty che doveva mentire.
                Siccome, sebbene le provasse tutte per convincerlo, Gino sapeva benissimo che più che essere innamorata di lui, Shanty era innamorata di quello che lui rappresentava, allora il giovane Barron non poteva porre la questione solo in termini di sentimento; non poteva dire a Shanty: “se mi ami, coprimi”, perché lei avrebbe detto di sì ma poi, spinta dalle pressioni, non sarebbe mai riuscita a resistere dalla sicura insistenza dei suoi genitori, fratelli e zii e cugini vari ed eventuali, e avrebbe cantato ogni cosa. Il sentimento, sebbene a una prima occhiata interessante, in realtà non era la corda giusta con la quale suonare a Shanty la canzone della sua partenza. Ci voleva lusingarla, fare di lei una reale complice e… prometterle quello che maledettamente voleva. Dunque Gino si vide costretto a giurare solennemente quello che mai e poi mai avrebbe voluto: disse a Shanty di attuare una politica del doppio gioco; un colpo al cerchio ed uno alla botte. La fanciulla della rosa avrebbe infatti dovuto dire ai suoi parenti in primis e al resto della corte poi, che Gino o non stava bene, o si trovava da una parte o da un’altra e quando quelli verificavano che non c’era, inventarsi subito una cosa simile. In compenso ella avrebbe ottenuto quello che più d’ogni altra cosa il suo cuore anelava: poteva iniziare fin da subito i preparativi, perché all’indomani esatto del suo ritorno – indipendentemente da quali sarebbero state le sue condizioni fisiche e mentali – Gino l’avrebbe sposata.
                Partì dunque alla volta di quelle sterili colline rocciose che poco a poco si abbassavano formando un deserto e finivano per congiungersi con il mare. Con lui, dieci uomini più o meno fidati, tra cui vecchi amici e qualche valido membro del suo nuovo esercito, e infine Jon Barthalo, che forse per la prima volta in vita sua si trovava in minoranza nel suo partito dell’antipatia ad oltranza nei confronti di quello che da sempre era il suo signore, figlio del suo signore. L’ambiente e il clima fin da subito furono le due prove che segnalarono a Gino di esser giunto di nuovo in ambiente non esattamente amico. Gino era già sceso diverse volte presso Dorne e provava uno strano sentimento per l’ultima regione del Westeros: gli piacevano da sempre gli ambienti cittadini, così originali e diversi dal resto del continente. Sopra Dorne, anche se ogni grande regione e ogni grande famiglia aveva le proprie tradizioni, grossomodo le vesti da donna e specialmente quelle da uomo e da cavaliere una certa somiglianza ce l’avevano. Si assomigliavano i castelli, gli arazzi e i decori; e si assomigliava la gente. A Dorne invece tutto era come se volesse forzatamente distinguersi: era come se Dorne urlasse al resto del continente di essere un’altra cosa, di essere magari più Essos che Westeros, e tutto ciò la rendeva inevitabilmente attraente. Le donne che Gino aveva conosciuto a Dorne erano diverse da tutte le altre, e diversi da tutti gli altri erano i vini e le vivande. Ma fuori dalle città le cose cambiavano…
                Le vie di collegamento fra un centro abitato e l’altro erano aride, desolate e sostanzialmente senza fonti d’acqua. Tanto era vero, che normalmente anche uno stesso dorniano medio faceva carte false pur di non dover lasciare il proprio centro per recarsi ad un altro a far chissà cosa. Se poteva, un dorniano doc rimaneva nella sua città natale e, se proprio doveva spostarsi, preferiva farlo via mare. Preferiva raggiungere via mare le coste dell’altro continente che non via terra la prima città fuori dalle porte della propria. Gino aveva sentito dire che c’era almeno un’altra area di quel continente in cui le condizioni erano più o meno uguali e contrarie: il nord, ma era molto distante e lui non c’era mai stato. Ma come al nord il troppo freddo rendeva la gran parte dei suoi ambienti inospitali, così a Dorne era il caldo a farlo. Anche l’Altopiano era un ambiente che Gino avrebbe definito “caldo”, e pure Roccia del Re. Ma ad Altogiardino e alla Capitale il caldo era “fresco”, era un caldo dei raggi solari, della luce. A Dorne invece calda era l’aria, di giorno come di notte, e più c’era vento più c’era caldo. Un ambiente ostile a dir poco, data anche la mancanza d’acqua.
                Così, muoversi tra le dune di quel deserto senza una vera e propria meta, fu per Gino e i suoi compagni un’impresa abbastanza sfibrante. Gino aveva immaginato un’attività di ricognizione: farsi ospitare quali cavalieri serventi e raccogliere informazioni tra i grandi nobili del deserto. Certo il rischio di risultare troppo invasivi sia con le domande che con le richieste di ospitalità era alto, ragion per cui aveva imposto a se stesso e ai suoi di non soggiornare in un medesimo castello o casa padronale per più di due o tre giorni. Ma dopo la prima, la seconda, la terza e fino alla sesta città del sud, Gino dovette concludere che quel lavoro non stava portando alcun esito postitivo: i nobili di Dorne erano chiaramente restii a parlare di Saestrya Martell; lo sarebbe stato anche lui in effetti se un gruppo di sconosciuti aitanti e armati avesse cominciato a fare domande su una delle personalità più ricercate del regno. Così fu con un profondo senso di sfiducia e mancanza di idee fresche, che il signore di Altogiardino in incognito chiese rifugio nella villa di un importante mercante residente nell’ottava città dal gruppo visitata. Non era da buon signore effettivo di quei luoghi, ma Gino stentava a ricordarne perfino il nome: era un po’ complesso, e lui era molto stanco, e quei dannat nomi erano tutti uguali. Un nido di qualcosa, o una tomba di qualcuno. Quello che Gino sapeva, era che si trovava più o meno a metà del percorso che c’era tra Cowain dalla quale era partito, e che si trovava alla punta occidentale della regione, e la Reggia dei Girasoli, che si trovava all’altro capo ed era l’antica residenza estiva dei signori di Dorne. In altre parole, lui e la sua compagnia erano finiti nel bel mezzo del deserto. E meno male che avevano trovato l’ospitalità del grosso mercante, perché la prima porta cui avevano bussato (quella del signore della città) li aveva rifiutati, e loro stavano letteralmente morendo di sete.
                Anche tra le mura di quella bella casa sperduta tra le dune, Gino fece il discorso che aveva fatto presso tutti i suoi ospiti precedenti: non aveva raccolto in quel di Cowain quei suoi fidati compagni per far sì che si trastullassero tra le oasi di Dorne per troppo tempo, con donne troppo lascive e vini troppo inebrianti. Ma ancora una volta, quando parlò di Saestrya Martell al grasso mercante di Dorne, quello s’incupì, abbandonò la conversazione con una scusa e lasciò Gino da solo nei suoi sospiri di disillusione. Il Protettore dell’Altopiano aveva ormai benissimo compreso che la sua strategia non stava funzionando: la gente non si fidava dei cavalieri di ventura, e men che meno di cavalieri di ventura che non cercavano incarichi per denaro, bensì altre strane informazioni. Detto ciò, Gino doveva pure ammettere che l’atteggiamento di quel mercante in particolare in effetti si stava mostrando pure più curioso di qualsiasi suo predecessore. Nessuno aveva interrotto il confronto con una simile goffaggine già immediatamente appena sentito il nome di Saestrya. E poi quello era un mercante, un mercante famoso. Doveva saper mentire in maniera migliore rispetto a quella con cui aveva mentito a Gino, altrimenti come sarebbe mai stato possibile per lui divenire il così rinomato mercante che era, l’uomo forse più potente dell’intera sua città? Gino stava continuando a rimuginare su tutto ciò, senza in verità riuscire a vedere alcuna luce in fondo al tunnel, quando si rese conto che il mercante lo stava facendo attendere molto di più di quanto fosse convenevole anche nei confronti di un semplice cavaliere di ventura. Concluse che la cosa non gli piaceva affatto quando già era troppo tardi. Aprì la porta della grande sala dov’era stato lasciato con il fine di raggiungere i suoi compagni e dirgli che non era più il caso di restare. Arrivò in ultimo a gridare anche: «JON! Ce ne andiamo!», quando tuttavia un uomo armato di spada gli venne in contro da oltre la porta. Gino ci duellò e lo uccise. Ne arrivarono altri due e Gino ci duellò e li uccise entrambi, anche se per farlo dovette ricorrere a un vecchio trucco da guerriero-ombra, e comunque uno dei due lo scalfì leggermente tra la spalla e il braccio destro. Poi in fila ne arrivarono altri… troppi altri, e Gino era da solo. Desistette, gettando a terra la propria lama. Venne preso di forza e condotto dai suoi compagni, i quali, non avendo idea di cosa fare senza il loro capo in comando, si arresero a loro volta: Gino li capì; lui avrebbe fatto lo stesso. Quando il gruppo di “stranieri” ospiti presso Dorne venne definitivamente neutralizzato e la tenzione abbassata al minimo, il mercante spuntò di nuovo fuori, in compagnia di una donna. Molto bella, anche se molto ossuta. Era strano: aveva dei lineamanti marcati e la pelle olivastra, che la facevano somigliare a un serpente, eppure Gino non avrebbe potuto definirla brutta. E quelle vesti poi… estremamente sontuose, come così sontuose erano quelle del mercante, e pure tutte quelle dei suoi guerrieri, così diverse da quelle di un comune guerriero del Westeros, così diverse da quelle che Gino e i suoi stavano indossando in quel momento, morbide, e colorate vivacemente, e ricche di ornamenti.
                Senza il minimo ripensamento, la bella donna dall’aspetto di serpente si fece avanti, richiamando su di sé tutta l’attenzione. Era molto alta, per essere una donna. Infine proclamò con un leggero sorriso beffardo rivolto a Gino e ai suoi: «Sono Saestrya Martell».
 
 
 
                «Io quell’obeso di un vecchio lo faccio a pezzi!» stava gridando Gabryaerys, re degli Andali e dei Primi Uomini, «Chissà che fila di altri vegliardi boriosi e assettati di soldi, fama e potere si formerebbe domani se io lo uccidessi stanotte. Ci scommetto che arriverebbe da qui all’Altopiano e ritorno!»
                «Maestà…» disse Braff sommessamente.
                «Attendo un tuo ordine, Maestà» fece invece Lord Tararus, il Primo Cavaliere dagli abiti da baronetto, con un tono assai più risoluto del suo collega, «E un’altra massa di inutili insetti si ritroverebbe al suolo dentro a un tempio, come l’altra volta»
                «Ah sì» ora il Maestro dei Sussurri aveva un tono ironico: non nutriva lo stesso rispetto per Tararus, come quello che nutriva per Gabryaerys, «E quali meravigliosi vantaggi abbiamo ottenuto da un atteggiamento del genere! Il Credo che ci volta le spalle. E i sudditi che continuano a vederci come dei mostri invasori»
                «Altri insetti» constatò Tararus; ma fu un altro a replicare al Maestro delle Spie. A quell’incontro del Concilio infatti partecipavano anche Lord Senus Willoughby – il garante dell’intesa con il nord, o almeno una parte del nord: quella che non rispondeva a Bolton, insomma – e l’immenso titano di pietra, munito di alabarda, che era stato messo al comando di tutti gli eserciti e le altre forze armate della città. Abigail Baratheon invece era assente: la sua nomina ad Altissimo Segretario era durata meno di un soffio, e ora la distinta ex sovrana, moglie di un re e madre di un pretendente erede al trono, se ne stava di nuovo confinata nei suoi appartamenti, lasciando vacante la carica che in precedenza era stata di Hana Lannister. Il diavolo di roccia disse: «Ma sei stato proprio tu se non sbaglio, demone degli uomini, a consigliare a sua Maestà di scegliere la vecchia religione piuttosto che quella nuova. E sono stati proprio i Septon a chiedere di far fuori il sacerdote di fuoco»
                «Il sacerdote, certo» replicò Braff «Ma non tutti i suoi discepoli. Se vuoi tu la lana, allora uccidi il pastore, non le pecore. Ma, come sappiamo, l’inclinazione del Lord Primo Cavaliere verso la teatralità è da lungo tempo un vizio cui ben favorevolmente egli ama concedersi»
                «Io non gli ho ordinato di commettere quella strage» si difese il re.
                «Sì» insistette Braff, un po’ irritato, «E quali provvedimenti ha preso Sua Maestà in merito a questo atto che, oltre che contrario alla sua augusta volontà, ci ha anche messo tutti quanti in una situazione peggiore rispetto a come non fossimo già?».
                Il re non rispose. Al suo posto lo fece il vecchio Lord Willoughby, cambiando leggermente argomento: «E che cosa suggerisci ora, Lord Braff?»
                «Di sparire! Per un po’ di tempo, noi tutti non dovremmo neanche farci vedere: la gente ne è piena fino all’orlo di politicanti assassini. Non ha avuto pace dal momento della guerra. E ora la guerra è finita, e loro continuano a morire. In massa. E gratuitamente. Dopodiché suggerisco che a poco a poco, se proprio dobbiamo ritornare a farci vedere, che lo facciano quelli tra noi d’aspetto meno vistoso. Ovvero il sottoscritto, Lord Willoughby, il Gran Maestro Irwin e… Sua Maestà la regina, magari. Non di più». Giusto! Hana si stava accorgendo solo allora di un importante assenza a quella riunione: il Gran Maestro delle Scuole e degli Ospitali, Adlai Irwin. Bisognava pure ammettere che la giovane regina non si trovava nelle migliori delle posizioni per potere concludere bene affermazioni come chi stesse partecipando o no alla riunione. Origliava da dietro la porta ormai da qualche minuto: lo faceva spesso. Aveva imposto, con tutta la forza d’animo che la caratterizzava, di poter partecipare alle riunioni, reclamando così un suo diritto, formalmente scritto in un articolo statutario: la regina consorte può assistere alle riunioni del Concilio Ristretto. Ma c’erano due piccoli incovenienti: primo, lei non era ancora la regina consorte bensì la promessa. Secondo: non poteva non notare che inevitabilmente per certi argomenti, quando lei era presente, lo zoccolo duro del re – ovvero lui stesso e i suoi mostri – tendeva a glissare. Non volevano che la regina sapesse proprio tutto, anzi Hana doveva pur ammettere con se stessa che già aver vinto quella battaglia della sua presenza ai tavoli del Concilio contro la follia Targaryen di Gabryaerys era già piuttosto gratificante. Così, per sapere proprio tutto certe volte Hana origliava, fingendo poi di esser lì lì per entrare nella sala. Aveva scoperto che era una tattica utile e quasi inattaccabile.
                «Io intendevo» disse a questo punto il re con calma inusuale, rivolgendosi al Maestro dei Sussurri, «Avere quest’oggi dal mio Consiglio, e in particolare da te, Lord Braff, o Demone delle ombre, o degli uomini, o in qualsiasi altro modo vuoi che ti si chiami…»
                «Alex va bene, Maestà»
                «Intendevo sapere…» ripeté il re, scandendo irritato le sue parole, «Come risolvere il problema del voltafaccia che ho decretato di fare al mio pubblico giuramento. E nella fattispecie: come costringere Sua Sacralità a dichiarare le mie future azioni non empie, ma anzi benedette dal piano divino. Mi hai detto di uccidergli il sacerdote rosso, e io l’ho fatto…»
                «Avete ucciso la gente, Maestà»
                «E adesso? Cos’altro ci vuole per convincerlo?»
                «Maestà, nel corso del mio ultimo viaggio» rispose Braff «ho avuto modo di riflettere, e osservare. Ho constato che quello che pensavo un fenomeno esclusivo della Capitale in verità è un po’ più ampio»
                «Che fenomeno?»
                «Beh ho riscontrato che un po’ ovunque di questi tempi, la fede vacilla. Il principio atavico che ci porta tutti a credere in qualcosa di benevolo che ci assiste dalla volta celeste, o dalle viscere della terra, e che… ci attende e attende che noi ci comportiamo in determinate maniere che lo appaghino, non è in discussione. Ma quanto ai Septon… direi che la loro non sia una buona fama, al momento, nel nostro continente»
                «Braff: vieni al dunque»
                «Ho pensato che forse non è poi così sbagliato appigliarsi a… illusioni “nuove”. Che forse la nuova religione ha le sue ragioni. E questo d’altro canto giustifica il suo seguito in una città popolosa come questa benedetta Capitale»
                «Stai forse suggerendo» fece Willoughby, confuso, «Di passare ai pagani?»
                «E come?» aggiunse il diavolo di roccia «Il loro sacerdote ormai è polvere e cenere»
                «Su questo sei in errore» riprese Braff «Non chiedetemi come, ma egli vive. Da qualche parte di questa città, distante da dove ha predicato l’ultima volta, il sacerdote Yashua è tornato. Le sue carni… si sono ricomposte. È strano: è chiaramente un mago, anche se noi non ne riusciamo a comprenderne i segreti. E noi qualcosa di magia ne dovremmo capire, vecchi amici»
                «Che c’è da capire!» fece il Primo Cavaliere «È un umano in cui l’energia si è risvegliata, come Sua Maestà»
                «Due nella stessa epoca?» chiese a questo punto il mostro di roccia «Direi che è estremamente inusuale»
                «E poi i suoi poteri sono diversi dai miei» ammise Gabryaerys «Meno eterogenei, ma più… »
                «Penetranti?» provò Braff.
                «Concentrati» disse il re, e riprese: «Dunque dici di parlare con lui? C’è la possibilità?»
                «Tentare non nuoce mai, Maestà»
                «Scopri dove si trova con precisione, Maestro dei Sussurri. E chissà… magari quello che non vuole darci il Credo, ce lo darà questo nuovo… stregone di fuoco»
                «Tornare da lui dopo quello che gli abbiamo fatto?» domandò Lord Tararus.
                «Che tu gli hai fatto» fece il re «Fai presente che il re non desiderava un trattamento del genere quando lo incontrerai, Lord Braff»
                «Certo, Maestà»
                «E… buon lavoro!»
                «Grazie, Maestà»
                «Mio diletto!» esclamò dunque Hana, entrando nella sala e scoprendosi da sé prima che fossero loro ad accorgersi di lei, visto che la riunione era al termine e di lì a poco le porte sarebbero state aperte. La regina promessa proseguì, rivolta al regale marito: «Il maestro di spada ti attende…»
                «Già» confermò Gabryaerys Naharis e fu il primo a lasciare la sala, non prima di aver dato un tenero bacio sulla fronte della sua promessa. Gli altri lo seguirono, Braff per ultimo.
                La questione del duello a Delta delle Acque impensieriva intimamente Sua Maestà molto di più di quanto egli non ci tenesse a mostrare, e men che meno con il popolino. Gabryaerys voleva fare il superiore, quello allenato, ma anche se giovane e fisicamente prestante (era alto e non in sovrappeso), in verità la sua abilità con la spada era molto scarsa. Anzi, quando lo vedeva allenarsi, Hana dubitava che quell’uomo fosse mai veramente stato addestrato con la lama. Avrebbe scommesso su qualsiasi dei suoi fratelli, gli intellettuali Axelion e Daniel compresi, piuttosto che su suo marito. Gabryaerys d’altronde non aveva un’educazione da grande nobile: la scherma semplicemente non gli era mai stata insegnata. Ma la prospettiva di incontrare in duello un Lord notoriamente “militare” come Bolton (che era stato Maestro delle Armi e gli Armamenti) ovviamente non impensieriva Sua Maestà solo per il duello in sé, nel senso che Gabryaerys non rischiava solo la propria incolumità; rischiava il seggio che con tanta dedizione si era andato a prendere: il Trono di Spade. Ed era quello invero che non lo faceva dormire la notte: se doveva fare carte false, il re le avrebbe fatte. Si sarebbe procalamto spergiuro, due volte spergiuro, tre volte spergiuro pur di non perdere il trono, che riteneva essere suo per diritto di sangue. Un osservatore disattento, avrebbe detto che in realtà Gabryaerys non perdeva niente, visto che quello che Bolton reclamava era l’indipendenza della parte nord del continente, e più in particolare di quella sotto il suo dominio… ma il Regno Unificato aveva un senso proprio in quanto il nord e il sud si trovavano uniti sotto una medesima Corona. Senza il nord, Gabryaerys sarebbe rimasto un re dimezzato. Non un vero re degli Andali e dei Primi Uomini, ma un ragazzo la cui vicenda secondaria, appuntata da qualche parte negli annali, avrebbe raccontato che si era seduto sul Trono di Spade, anche se in un regno non unito, e che forse aveva avuto un figlio.
                E questo condusse il ragionamento di Hana tutt’assieme verso il vero lido che intendeva raggiungere quella sera. Il vero motivo che l’aveva portata al Concilio Ristretto del suo futuro marito. La vera ragione che non le permetteva di chiudere occhi ormai da diversi giorni: lei era incinta. E solo incinta di Gabryaerys poteva essere. La pozione di Braff non aveva funzionato: e Braff ora doveva spiegarle il perché. Doveva dirle qual era la prossima mossa: lui doveva farlo! Hana si odiava tremendamente per essere giunta a questa conclusione, ma più ci rifletteva e più non poteva che ammettere a se stessa che l’assassino di suo fratello era finito per essere la sua unica speranza. E la sua unica valvola di sfogo. Non il suo unico amico, Hana non avrebbe mai più chiamato con quel termine un individuo di quel genere. Ma… le sue damigelle di compagnia erano prigioniere come lei, vivevano sostanzialmente la sua stessa situazione. E i suoi fratelli, qualora ancora vivi, erano sparsi per il mondo: gli unici altri cui Hana poteva fare riferimento erano Lord Gaholla e Lord Gushing, ma si trovavano in una condizione di carceramento ben peggiore della sua. Aveva uno zio: Pylgrim il Leone Nero, cui senz’altro poteva instaurare un rapporto epistolare, ma Pylgrim era l’uomo forte delle terre dell’occidente e non le avrebbe mai lasciate, men che meno in quel momento così difficile per la storia dei Lannister.
                Dunque Hana aveva deciso che la via migliore era quella del realismo: Braff c’era e a Braff lei si sarebbe rivolta. Fermò il Maestro dei Sussurri davanti alla porta, mentre tutti gli altri “Lord” membri del Concilio Ristretto andavano a sbrigare i loro affari e il re ad incontrarsi con il suo maestro di spada. «Mylord Braff, posso parlarti un istante?». A Braff non piacque quella sorpresa, lei lo capì subito dall’irrigidimento di quel braccio del politico dai capelli rossi che lei aveva prontamente afferrato. «Proprio adesso, Maestà?» rispose Lord Alexis «Vostro marito mi ha appena dato un compito importante, dubito che siano di quegli affari che “possono aspettare”»
                «Vi ruberò solo poco tempo» insistette Hana «Ve lo prometto». Hana attese di intercettare un’espressione di serenità nel Maestro dei Sussurri. E il Maestro dei Sussurri attese chiaramente che tutti i suoi colleghi fossero abbastanza lontani. Al che fu proprio lui, seduto al tavolo delle riunioni, a domandare: «Figliola, ma che diavolo vi prende? Cos’è questo atteggiamento sfacciato, vogliamo far credere a tutti quei serpenti che siamo confidenti? Vogliamo farlo credere a vostro marito?». Hana si sedette a sua volta, nel posto di fronte al suo interlocutore. Dopodiché rispose: «Che la regina promessa possa domandare una consulenza al Maestro dei Sussurri… non ci trovo niente di sospetto. Può capitare. Se poi il re, o un altro membro del Concilio Ristretto dovesse beccarci nel corso di un colloquio segreto, o più di uno… allora mi preoccuperei. Ma non vedo nessun rischio nell’essere escpliti»
                «Tu sottovaluti la malignità di questa corte, bambina»
                «Beh, non importa. Dovevo parlarti con urgenza»
                «Che cosa vuoi?»
                «Sono incinta»
                «Beh, congratulazioni». Braff sorrise beffardamente sotto i baffetti purpurei, e si alzò, facendo per andare.
                «La tua pozione non ha funzionato» insistette Lady Hana.
                «La m-mia…» balbettò ancora il politico, guardandosi intorno. Poi sospirò, si prese di coraggio e fece: «Era di Septimus, non mia. Aveva detto che funzionava in quel modo, non l’ha fatto. Mi spiace, davvero. Ma continuo a chiedermi che cosa tu voglia, ora, da me»
                «Idee. Suggestioni. Un aiuto»
                «Non ne ho, piccola, mi spiace. Ma se vuioi posso darti la mia opinione spassionata. E lo faccio gratuitamente»
                «D’accordo»
                «Tienilo. Curalo. Amalo. E chissà: magari potrai anche essere felice». A questo punto il Maestro dei Sussurri fu rapido, troppo rapido. Scansò la sedia di Hana e abbandonò la sala. Quello non fu precisamente quello che la promessa sposa del re si sarebbe aspettata. Aveva sperato in una via di fuga che non esisteva. Siccome si era rivolta forse all’uomo più brillantre che conosceva, si era illusa. E invece quello non aveva saputo aiutarla, o non aveva voluto, comunque non cambiava: Hana quel figlio da Gabryaerys l’avrebbe avuto. E questo cambiava tutto. Nel momento in cui il piccolo sarebbe nato, lei sarebbe passata dalla parte del nuovo re non più solo formalmente, ma con tutta la sua forza e e le sue convinzioni. O meglio: avrebbe sempre riconosciuto la legittimità al trono di un Lannister, ma ora qualsiasi Lannister avrebbe però dovuto giurare di non far del male al suo bambino, figlio del re usurpatore, e dunque potenziale nuovo usurpatore a sua volta. E poi… in verità anche suo figlio sarebbe stato un Lannister. Un Targaryen, e un Lannister.
                Così confusa, delusa e sconfortata – ma soprattutto confusa – Hana passò il resto delle sue ore di quella lunga giornata. Si concesse un po’ di tempo per andare a trovare i vecchi amici Gushing e Gaholla, i vecchi Maestri delle Leggi e delle Strade sia di suo padre che di suo fratello. La loro vicenda era stata completamente dimenticata dalla politica del re: erano ancora al carcere duro, tenuti quasi alla fame. Ed erano entrambi molto più anziani di Hana: Gaholla non era più un ragazzo, anche se in effetti ancora neanche un pelo bianco gli era spuntato in nessuna parte visibile del corpo. Quanto a Finnis Gushing, il capostipite della sua famiglia, un importante casata da secoli alfiera dei Lannister, lui più o meno aveva l’età che avrebbe avuto re Lionel se fosse stato ancora vivo: erano vecchi amici d’infanzia. E ora Hana era lì, debole, senza poter far nulla, Lord Finnis era in galera e i Gushing in rivolta. Un caos che una semplice liberazione avrebbe facilmente risolto. Hana ne aveva parlato col re più volte, ma più volte era rimasta inascoltata. Nelle sue intenzioni, vedere i vecchi amici quel tardo pomeriggio avrebbe dovuto renderla più allegra, ma invece la fece sentire ancora più inutile e tapina.
                Ormai era sull’orlo del panico. Non sapeva dove andare, cosa fare, con chi parlare. A cena non mangiò niente: pietanze e bevande erano entrambe come insapori, e non sapeva se attribuire la cosa al suo monentaneo stato mentale o alla gravidanza, quel suo recente momentaneo stato fisico. Provò a dormire, ma come di consueto neanche il sonno decise di favorirla. Fece su e giù dal letto per tutta la notte fino alle prime luci dell’alba. E all’alba venne anche Gabryaerys: capitava spesso che la raggiungesse nella tarda notte, ma così tardi non l’aveva mai fatto. Il re aveva dei suoi appartamenti privati dove di tanto in tanto gradiva dormire per conto proprio e, finché i due non erano sposati, la cosa nemmeno suscitava le malelingue del popolino. Anche per tali ragioni, francamente Hana una visita del suo regale consorte ormai quella notte non se l’aspettava più. Normalmente a quell’ora Gabryaerys sceglieva di non disturbarla e di andare a riposare presso le sue camere private. E invece, tanto per confermare la particolarità di quella giornata, il re la visitò. Hana immaginava che si sarebbe spogliato come di consueto e che come di consueto l’avrebbe presa senza dirle una parola. E invece il re Naharis semplicemente si sedette ai piedi del letto. Anche se i primi caldi raggi del sole penetravano nella camera come stilettate sanguinolente, c’era comunque troppo buio perché lei si accorgesse che cosa Sua Maestà stesse facendo. Ma dopo un po’ capì: stava piangendo. Piano, ma insistentemente. Era andato presso il talamo della sua promessa per essere consolato, come un bambino. «Mio diletto?» fece dunque Hana, e quando lui non rispose ripetè: «Mio diletto? Cosa ti turba?». Lui non rispose. Lei si mise a sedere dietro di lui, e lo abbracciò poggiando i seni sulla sua schiena: avevano assunto posizioni ben più intime di così. «Braff…» fece il re piano «Non riesce a trovare il sacerdote. È sicuro che sia vivo, ma non lo si riesce a trovare. E se non lo trova Braff… non lo trova nessuno. È sparito. E io non so che fare». Ah: lui non sapeva che fare! E sempre lui piangeva disperato. E ancora lui chiedeva piuttosto esplicitamente di essere consolato. E lei decise di consolarlo: era pur sempre il futuro padre del suo futuro figlio. Disse dunque Lady Hana, sussurrando: «Sh! Non portare i tuoi cattivi pensieri in questa stanza. In questa stanza ci siamo solo noi. Tutto il resto può aspettare». E lui la baciò. La baciò in modo diverso, rispetto a come aveva usualmente fatto. L’aveva fatto raramente e sempre in modo goffo, frettoloso e poco convinto. Questa volta la baciò come un marito dovrebbe baciare una moglie, o almeno come Hana se lo era sempre immaginato. Non le piacque affatto, non quella sera, non durante quell’alba. Però fu diverso: molto diverso.
                Non fecero l’amore. Lui si addormentò quasi subito e lei poco dopo, accarezzata dai raggi di sole che piano piano sempre più impetuosi invadevano la camera da letto. Non viveva un’alba così serena da moltissimo tempo. Magari quello era l’inizio di un nuovo corso, oltre che di un nuovo giorno: fu questo che la fece addormentare serenamente. Quella mattina cominciava una nuova storia: una in cui lei non era una prigioniera disperata, ma una regina consorte. Con un bambino dentro la pancia, e un altro steso addormentato accanto a lei.
 
 
 
                La notte tra le dune del deserto di Dorne era da sempre sorprendentemente calda. Ogni volta Gino se ne dimenticava ed ogni volta ne pagave le spese. C’era caldissimo di giorno e forse più caldo di notte in quella dannata regione teoricamente ancora sotto la sua giurisdizione. Teoricamente visto che ora il Lord dell’Altopiano era prigioniero di quella ribelle Saestrya Martell per intercettare la quale si era partito dalla sua roccaforte insieme a undici più o meno fedeli compagni. Il suo vantaggio era che Saestrya non aveva capito chi fosse e ovviamente, finché non scopriva se dietro di lui ci fosse qualcosa di ben peggiore, non intendeva farlo fuori. Avrebbe eliminato piuttosto uno ad uno ogni suo compagno per suscitare la rabbia e la disperazione in lui, ma lui… non lo avrebbe mai scalfito, di questo Gino Barron era certo. A una prima occhiata, Saestrya gli era parsa risoluta, ma non spietata. Esotica, un po’ tra le righe, ma decisamente non instabile. E dunque potenzialmente piuttosto intelligente, oltre che maledettamente bella. E d’altro canto non si arrivava a quei livelli di complessa macchinazione politica, e probabile guida di una rivoluzione, senza avere un minimo di sale in zucca. Sulla di lei bellezza c’era tutto un capitolo da aprire e da capire: Gino l’aveva vista una volta, e forse c’era ancora molto da studiare. Ma non si poteva non ammettere che la particolarità dei suoi tratti la rendesse di per sé attrattiva. Saestrya era troppo strana, troppo diversa per non apparire conturbante. E questo certo poi si associava alla sua fama di guerriera abilissima con la lancia leggera, e di cospiratrice e spia.
                Per un certo periodo di tempo aveva anche frequentato il Concilio Ristretto del Re, il che faceva di lei necessariamente una donna di almeno una generazione più grande di Gino, anche se questo il giovane Barron a guardarla non avrebbe potuto dirlo. Naturalmente gli aveva chiesto chi era e perché voleva informazioni su di lei. Gino si era preparato: aveva risposto alla prima domanda quello che già aveva risposto anche ad altri, ovvero che lui e i suoi compagni erano cavalieri di ventura. Sulla seconda domanda la risposta fu inedita, ma comunque preparata e inattaccabile: volevano associarsi al suo progetto di ribellione nei confronti dell’Altipiano. Ma questo a Saestrya non bastò. Il fatto che fosse una donna piuttosto navigata nelle conoscenze del luogo, la fece insospettire sulla loro provenienza, e i loro abiti, armi e maniere confermarono questo suo sospetto. Si manifestò sicura che Gino e i suoi provenissero dall’Altopiano, cosa che Barron decise di non smentire: la vipera cospiratrice gli parve troppo sicura e arrampicarsi sugli specchi avrebbe solo peggiorato la situazione. Dunque Saestrya passò al ragionamento seguente: perché cavalieri di ventura dell’Altopiano dovrebbero traditre il potente Lord dell’Altopiano, sulla carta assai più potente e più ricco della stessa Martell? Gino non ebbe la risposta pronta anche su questo, e lei decretò che venissero tutti messi in prigionia sopra una torre, mentre rifletteva sul dafarsi.
                Il Protettore dell’Altopiano si riscoprì sropreso. Sapeva che il suo era un piano azzardato e sapeva di correre un mucchio di rischi. Ma onestamente a quello non aveva mai pensato. Che fosse Saestrya a trovare lui per prima, e che fosse lei a mettere lui in difficoltà no. Gino al massimo si era immaginato uno scontro aperto, nel quale entrambe le parti avrebbero saputo che l’altro esisteva e che dunque fosse il caso di incontrarsi per un duello o una battaglia. Dunque, in tutta onestà, aveva sperato di avere tutto il tempo per organizzarsi e vincere quella battaglia. Ma per arrivare a quell’obiettivo, prima doveva scovare Saestrya, che chiaramente aveva in mente di operare con tutt’altri metodi. E infine era stata lei – la vipera delle sabbie – a stanare lui. Non sapeva ancora chi era, ma quanto tempo sarebbe passato prima che a Dorne si accorgessero che il Lord di Altogiardino da settimane non sedeva nel suo seggio? Poco sicuramente. E questo significava che Gino doveva trovare il modo per scappare. Scappare subito. L’unica idea che gli veniva in testa era di parlarle, convincerla che lui davvero si sarebbe messo al suo servizio, ma… Gino non era Lord Braff. Non era poi così bravo con le parole; avrebbe avuto bisogno di molto più tempo per studiare le cose esatte da dire. Poteva sedurla: Gino era ormai piuttosto consapevole di essere un bel ragazzo, nonostante l’assenza dell’occhio destro. Era alto, moro, giovane e fisicamente prestante, e non doveva faticare molto perché le ragazze gli si concedessero. Ma era goffo, e fino ad allora erano sempre state loro a sedurre lui, lui non sapeva come si faceva… e poi le donne non erano gli uomini: non avevano esattamente i medesimi appettiti, e non cedevano con la medesima cecità ai bisogni della carne. Lo facevano pure, ma in maniera diversa, e Gino non lo sapeva qual era questa maniera. Niente da fare: la via diplomatica era fuori discussione. Rimaneva uno scontro fisico ma… come arrivarci? Lui e i suoi non avevano amici lì a Dorne, o almeno non nel bel mezzo del deserto, e dunque addio punti di riferimento a cui mandare missive che non tornassero dopo mesi. A meno che…
              Lord Barron guardò sconfortato i suoi compagni, che non lo dicevano esplicitamente ma pendevano dalle sue labbra, in attesa del nuovo ordine che potesse risolvere la situazione. Solo Jon Barthalo lo guardava diversamente. Lui lo guardava con tutta la rabbia e la disistima con cui lo aveva guardato per entrambe le loro esistenze. Sì, la soluzione c’era e Gino doveva accantonare il suo orgoglio per dimostrarsi superiore ad esso. Per dimostrarsi il grande Lord che i suoi lì presenti sottoposti si aspettavano che fosse: avrebbe scritto a Lord Braff. Lui era distante, ma aveva metodi tutti suoi, metodi… oscuri. E mediante essi avrebbe saputo agire celermente, se Gino gli scriveva di farlo. Ma concluso tutto ciò, ora il giovane Barron aveva bisogno di un foglio di pergamena, e aveva bisogno di una penna e di un corvo. Tutti oggetti non molto facili da recuperare se si è prigionieri dentro una torre.
                I pensieri di Gino st stavano rivolgendo proprio a quest’ultimo problema, quando all’improvviso il giovane Lord, ed evidentemente tutti quelli che si trovavano confinanti nella sua stessa prigione, udirono un forte scroscio provenire da fuori. Era come di qualcuno che volesse operare in silenzio ma non ci stesse riuscendo tanto bene. Gino si affacciò, li vide per la prima volta in vita sua, e rimase estasiato: gli elefanti. Un gruppo di tre elefanti se ne stavano sotto la torre. Accanto a loro, più piccoli, un gruppo di uomini: sei o sette in tutto, vestiti alla dorniana, stavano armeggiando tutti affaccendati con corde, ganci e altri oggetti. E parlottavano anche. A un certo punto un di loro alzò lol sguardo alla punta della torre e si accorse di Gino, affacciato alla finestra con le sbarre. «Oh!» disse a voce alta «Siete già lì! Molto bene: mi evitate il passaggio di urlarvi affinché mi prestiate attenzione!». C’era buio, e Gino aveva un occhio solo, eppure era convinto di conoscerlo quel dorniano laggiù dal grande sorriso smagliante: ma sì, era uno di quelli che dentro la torre ce lo avevano messo. Un uomo di Saestrya. Dunque il giovane Lord dell’Altopiano replicò: «Siete un uomo di Milady Martell»
                «Non esattamente» fece quello e lanciò con grande precisione la punta di una fune verso la finestra di Gino. Agganciato c’era una sorta di arpione. Il dorniano continuò: «Volete per favore incastrare il gancio alle sbarre della finestra, mylord?»
                «Perché dovrei fidarmi?» domandò invece Gino, e ripetè: «Siete un uomo di Saestrya Martell!»
                «Dovete fidarvi perché vi sto liberando! Che diavolo: mi avevano detto che foste un giovane molto brillante! Che cosa avete da perdere?». Niente. In effetti Gino non aveva niente da perdere, e così tutta la sua compagnia. Domandò al dorniano che cosa doveva fare, e quello aggiunse al già precedente ordine di agganciare gli uncini dell’arpione alle sbarre della finestra, quello di farsi da parte, lontano dalla finestra stessa; lui e tutti i suoi uomini. Così Gino eseguì e quello che accadde fu ancora più incredbile e straordinario degli elefanti: i grossi mammiferi proboscidati infatti erano a loro volta dotati di ganci che connettevano i loro ampi dorsi con le funi stesse che ora, tese, stavano tirando le sbarre della finestra, e con esse l’apertura stessa e con essa l’intero muro. Il tonfo fu immenso ma, in men che non avrebbe mai giurato, Gino fu libero. E senza neanche mandare missive a chicchessia. Sempre su consiglio dell’uomo sorridente di Dorne, usò le funi stesse per scendere dalla torre, e così si apprestarono a fare gli altri ragazzi.
                Non riuscendo a distogliere lo sguardo dagli immensi pachidermi dalla pelle grigia, il giovane Barron tuttavia fece le domande che chiunque avrebbe fatto al suo posto, un istante dopo che entrambi i suoi piedi tornarono fissi al suolo. Chiese: «Chi siete? Perché lo state facendo? E… come… come sapete chi sono io? Avete detto che qualcuno vi aveva riferito che fossi un giovane brillante!»
                «E lo siete evidentemente» sorrise il dorniano. Solo allora Gino si accorse che era vestito in maniera abbastanza diversa da tutti gli altri. Cioè era sempre strampalato, esotico e multicolore come tutti i dorniani ma… più chic, più elegante, più da principe che da mero alabardiere. Il dorniano continuò: «Mylord, risponderò a queste vostre domande e a tutte le altre che desiderate farmi, appena saremo al sicuro: ve lo prometto, ma… ecco, abbiamo abbattuto un muro e… gli elefanti non sono esattamente bestie rapide. Dobbiamo correre! Ragion per cui, risponderò solo ad una delle questioni che già mi avete posto: sono Darkhon. Darkhon Dayne». Più lo guardava e più Gino rimaneva incuriosito. Quell’uomo era del tutto dorniano nei modi e negli abiti, ma non aveva nulla di dorniano nell’aspetto. Era di un biondo molto chiaro: non esattamente come quello di un Targaryen ovviamente, ma chiarissimo. E poi aveva gli occhi azzurri e la pelle chiara in una regione del mondo in cui tutti avevano gli occhi neri e la pelle olivastra. Infine era alto, molto alto. Di una spanna più di Gino, che a sua volta si considerava da solo uno degli esseri umani più slanciati con cui avesse avuto a che fare. Quello di Darkhon era il vero aspetto di un cavaliere da ballata, non fosse stato per gli abiti da dorniano: un dorniano non era mai il cavaliere di una ballata, non di quelle che cantavano nell’Altopiano almeno.
                Anche quel cognome “Dayne” a Gino qualcosa comunicava. Non erano i Dayne una delle vecchie famiglie alfiere dei Martell, ora decadute, ma che se pure fossero mai rispuntate sarebbero state dirette vassalle dei signori dell’Altopiano, ovvero suoi? Ma sì: i Dayne di Stelle al Tramonto, quei cavalieri leggendari con quella spada… com’era che si chiamava? Alba. Era una storia che conoscevano tutti, ogni marmocchio di qualsasi ceto sociale nel continente occidentale. E una spada alla cintola Darkhon in effetti l’aveva. Grossa. Di quelle che s’impugnano a due mani. Sarebbe mai stato possibile che…?
                «Amici miei abbiamo una gran fretta» disse Darkhon quando tutti i compagni di Gino furono scesi dalla torre «Abbiamo fatto molto baccano e siamo in devastante minorità numerica. Dobbiamo andare di corsa, ma prima… ho bisogno che mi diciate… c’è qualcuno tra di voi che si chiama per caso Willys o Willas?»
                «Sì, io signore» si fece avanti uno dei giovanotti che Gino aveva reclutato dal suo esercito dei Tyrell: era il secondo più giovane del gruppo, un bambino praticamente. Ma non importò a Darkhon Dayne, il quale gli sorrise, attese un sorriso di risposta, poi estrasse il suo spadone e lo conficcò dritto dritto nello stomaco di Willas o Willys. Prima di rinfoderarlo, Dayne attese che uno dei suoi aiutanti che lo avevano accompagnato sotto quella torre coi tre elefanti, gli si avvicinasse e gli pulisse con un telo la spada dal sangue del povero ragazzetto dell’Altopiano. E Gino ebbe la conferma: quella era davvero Alba, la spada leggendaria dei Dayne. E questo faceva di Darkhon Dayne… la Spada dell’Alba! La lama dell’arma era qualcosa di meraviglioso, di un bianco scintillante che… aveva del divino: non esisteva in natura un materiale del genere. Ma non c’era tempo per la meraviglia; Gino disse con orrore all’uomo che lo aveva appena liberato: «Ma che cosa avete fatto?! Quel ragazzo aveva famiglia!»
                «Beh, mi spiace» rispose Dayne «Ma tutti l’abbiamo»
                «Signore: esigo sapere perché avete ucciso quel mio compagno» insistette il Lord dell’Altopiano «Altrimenti non muoverò più un passo da questo suolo»
                «Lord Gino: il ragazzo era una spia. Andava cantando via corvo dei vostri spostamenti da quando siete partiti da Altogiardino»
                «Co-come lo sapete questo?» domandò ancora Barron, impressionato. La troppa serie di eventi fortuiti e su cui lui non c’entrava niente cominciava a confonderlo: era una situazione alla Lord Braff, ma senza Lord Braff. Ma che sfortuna che aveva questo nuovo Lord dell’Altopiano! Poi Gino riprese: «Q-Quella è… l’Alba! La spada Alba della Casa Dayne»
                «Sì, Mylord. Anche se il nom effettivo sarebbe “Alba”, non “l’Alba”. Ma poco importa: chiamatela come volete. Avremo tempo di discuterne, avremo tempo di osservarla insieme, chissà magari ve la farò brandire. Ma per tutte le altre perplessità» scandì Darkhon, con il tono di uno che non ammetteva più repliche, «Vi prego di rimandare a luogo più sicuro». I compagni di Gino, prima ancora di lui, non se lo fecero ripetere due volte. Al giovane Lord dell’Altopiano, e legittimo signore di quelle lande desolate, venne perfino concesso da Dayne di salire sul suo elefante. Ma tutti e ventidue trovarono spazio abbastanza comodo in groppa alle tre mastodontiche bestie dell’oriente. E riuscirono a lasciare la magione del mercante traditore. Incredibilmente prima ancora che le truppe armate di Sestrya potessero realmente raggiungerli.

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Capitolo 17
*** Un triste ritorno ***


Capitolo 17

UN TRISTE RITORNO

 

 

 

In tutta onestà Garhel Sawela non avrebbe potuto giurare che la sua impresa presso l’antica città perduta di Valyria avrebbe potuto definirsi un successo. Lord Justus di Marrah, il re mercante, lo aveva incaricato di recarsi lì in avanscoperta, capire che cosa stava succedendo e ritornare: e tutto questo era stato fatto. Poi il Lord degli elefanti gli aveva anche imposto di portare con sé Banfred, suo rampollo ed erede al soglio più alto della città dei mercanti, e di fare in modo che anche quest’ultimo ritornasse, e senza un graffio. E così in effetti era stato fatto. Eppure Garhel era un tipo pratico, un guerriero ed ex militare. Uno che non lasciava mai la schiena a un nemico ancora benissimo in grado di colpirlo mortalmente. E invece questo era accaduto: per la prima volta nella sua vita Garhel non si era salvato con le proprie mani, bensì era stato risparmiato. Aveva un debito di vita con qualcuno, anche se, stando alla logica della draghessa Kimera, era stata lei – in maniera un po’ curiosa e forzata a giudizio dell’ex Tribuno Popolare – a riportare a zero i conti col proprio nemico.

E si trattava di un nemico che fino a che non s’era manifestato, Garhel, Banfred e tutti gli altri non sapevano nemmeno di avere. Così come non lo sapeva Lord Panecha a Marrah, né qualsiasi altro Lord dell’oriente o dell’occidente, eppure era con l’intera umanità che Kimera intendeva iniziare una guerra. Garhel si chiese se lo sapeva Kimera che tra gli uomini da lunghissimo tempo esisteva un istituto chiamato “dichiarazione di guerra”: una semplice missiva, indirizzata da un re a un altro, o da un re a un Lord o da un Lord a un altro Lord, che serviva sostanzialmente per avvisare che l’uno avrebbe cercato di sterminare l’altro. Per dargli modo di prepararsi psicologicamente quanto logisticamente. Era un’usanza onesta, che ormai nessuno in nessuno dei continenti si rifiutava di fare, perché sebbene fosse bello attaccare di sorpresa, non lo era altrettanto essere attaccati. E se uno cominciava a fare il furbo, allora prima o poi doveva anche aspettarsi di essere… vittima di un furbo.

Ma Kimera era diversa. Il conflitto con lei sarebbe stato di una natura completamente differente. Non un re avrebbe affrontato un altro re, ma un drago. E non un vero esercito sarebbe stato chiamato a raccolta contro un altro, bensì un’energia mistica fatta di piante semoventi, belve ribelli, e chissà quali altre mostruosità. Era questo quello che importava. Ed era questo che Banfred e Garhel erano tenuti a raccontare al padre del ragazzo. Da qui il primo problema: Lord Justus ci avrebbe creduto? Perché quello di cui i suoi inviati alla città perduta gli avrebbero parlato era una cosa che andava molto al di là di qualsiasi ragionevolezza, e di questo Garhel era ben consapevole. Se non avesse visto tutto con i propri occhi, neanche lui avrebbe mai creduto a quella storia di teschi parlanti e immense donne-drago. Aveva pensato e ripensato alla maniera più “pragmatica” di raccontare quei fatti al Lord di Marrah nel corso del suo viaggio di ritorno dall’arcipelago maledetto alla decisamente più tranquilla città-mercato. E aveva concluso che non ne esistevano: la verità andava raccontata per intero e senza edulcorazioni di sorta e nello stesso modo andava ascoltata e recepita.

Tutto ciò non tolse che fu con un certo imbarazzo che l’ex Tribuno Popolare entrò nuovamente nella sala di rappresentanza di Panecha, in compagnia di Banfred e pure dei due omini piccoli e silenziosi che sostanzialmente si erano rivelati inutili per tutto il corso dell’operazione. Fu Banfred a cominciare, tentennando un pochino, ma sostanzialmente riuscendo ad andare quasi fin da subito al fondo della discussione, tutto da solo e con una certa sicurezza su cui fino a qualche settimana prima Sawela non avrebbe scommesso neanche uno zecchino contraffatto. Garhel intervenne solo di tanto in tanto, per aggiustare qualche eccesso; gli omini piccoli e silenziosi mai; Lord Justus ascoltò con una certa attenzione solo la prima parte ma, arrivando a metà, Sawela si accorse chiaramente che il re mercante cominciò a dare segni di cedimento. Non gli parve di intercettare il dubbio negli occhi del Lord, non era questo il problema: Panecha stava credendo alle parole del figlio con tutta la sincerità possibile. Ma il vero problema era che era stordito. Completamente senza idee o pensieri. Ci stava credendo, ci stava credendo molto e… non aveva la più pallida idea di come comportarsi. Lui: una delle più brillanti menti politiche del mondo, uno che aveva creato dal nulla ricchezze a mai finire, che si era creato da solo uno dei regni del continente orientale, su cui dominare e pascersi, proprio lui in quel momento era… un uomo finito.

Panecha aveva dei piani per l’Essos, su questo era stato più o meno esplicito con Garhel Sawela: voleva mettere in moto un processo di indipendenza dalla corona dell’occidente. Era un affare complesso che coinvolgeva inevitabilmente gli altri due grandi Lord della regione: Goldsmith di Braavos e Loackland di Myr, senza contare poi alcune forze minori pure piuttosto determinanti, dipendentemente se coalizzate o meno con l’uno o con l’altro: l’importante lingua di terra di diretta giurisdizione della Corona e su cui per ultimi i Lannister avevano messo per reggente un loro quanto mai losco tirapiedi, lo zoccolo duro di città del sud affiliate un tempo ai Tyrell e ora a chissà chi, e poi i Cavalieri della Chimera alla Valle del Leone, assolutamente da non sottovalutare. Ma tutto ciò naturalmente non aveva più alcun significato, se al sud un nemico ben peggiore – addirittura un drago – stava per preparare una guerra contro l’intera umanità. Non c’erano più Lord, né re dell’oriente o dell’occidente. C’erano soltanto gli uomini tutti assieme, tutti indistintamente coinvolti in questa comune battaglia che non avevano richiesto e alla quale probabilmente sarebbero stati impreparati, date tutte le loro rivalità e incomprensioni interne. Tutto questo Lord Justus lo sapeva, e tutto questo Garhel gli stava leggendo in volto. Attese con rispetto un paio di secondi; dopodiché il vecchio Tribuno Popolare dell’est domandò al signore di Marrah: «Qualche idea, Justus?»

«Ehm… è…» balbettò il gran signore e Garhel provò un tonfo al cuore, pensando che se anche Panecha era rimasto senza parole allora la situazione era veramente tragica, «È tutto vero, è così?»

«Sì» confermò Sawela «È così»

«Giuro: se mio figlio fosse stato il solo a raccontarmelo avrei pensato, se non proprio a una fantasia, comunque a un profondo ingigantimento della situazione… ma se anche un uomo di mondo come te, Garhel Sawela, me lo conferma… allora siamo spacciati. Qua-quale esercito di uomini potrebbe mai combattere un condensato di forze della natura e chissà quali altri sortilegi che gli si scaglia contro? Naturalmente… dovrei osservarlo con i miei stessi occhi prima di emettere sentenze definitive, ma… certo sarà anche sbandierando questa informazione che tra qualche settimana ci recheremo alla grande riunione dei Lord dell’oriente presso Braavos, insieme»

«E che cos’è» domandò a questo punto Garhel, sospettoso, «Che stiamo tramando, per convocare questa riunione?»

«Oh, ma non siamo noi che l’abbiamo convocata. È stato Gaholla». Lord Juxas Gaholla era il mastino dei Lannister nell'Essos. Anche se “mastino” non era il modo ideale per definirlo da ormai molti anni. Era stato un valido guerriero un tempo, molto alto e fisicamente prestante. Ma poi… era accaduta qualcosa nella sua vita personale e da quel momento sostanzialmente il vecchio Juxas era impazzito. In preda alle grinfie dell’avida moglie e di tutta una serie di figlie legittime e non, Juxas Gaholla si era dato alla vigna e soprattutto al cibo. Era divenuto un individuo flaccido, obeso e gottoso, confuso, irascibile e vendicativo. E aveva problemi con entrambi i suoi due di lui più ingombranti vicini: Lord Goldsmith a nord e Lord Loackland a sud, anche se con quest’ultimo avrebbe teoricamente dovuto essere in rapporti di stretta amicizia, dato il loro comune asservimento alla casa occidentale della chimera. Eppure a quanto pareva le cose non andavano più così; Lord Panecha puntualizzò: «I soliti problemi di vicinato con Loackland: le città a confine si lamentano e lui ha girato la lamentela a Goldsmith e Goldsmith gli ha suggerito di convocare un’assemblea nella sua Braavos»

«Non sembrerebbero questioni che ci riguardano» constatò Garhel Sawela.

«Non apparentemente, ma se il nostro obiettivo prima del vostro infausto viaggio a Valyria era cercare di mettere insieme un’unità, allora c’era bisogno che un paio di questi tronfi signori venisse… assorbito. E se la cosa avesse dovuto cominciare da una bega tra di loro, dalla quale noi saremmo apparsi i più disinteressati fra tutti, allora: tanto meglio». Sawela osservò Panecha con rabbia: era sempre il solito elefante triplogiochista che muoveva molte più pedine degli altri, molto prima, e senza che gli altri se ne accorgessero nemmeno. Panecha riprese: «Ci sarà anche Baelish della Valle di Arryn». Garhel non sapeva perché Lord Justus glielo stesse dicendo: Petyr Baelish era un altro che muoveva pedine, altrettanto abilmente del Lord degli elefanti. Dire a Garhel che sarebbe venuto alla riunione, era una sorta di ammissione di pacata debolezza. Era come se gli stesse dicendo: “guarda che pure io avrò le mie grane, mica sarà un compito facile”. Ma la ragione per cui stesse condividendo quel pensiero con lui, a Garhel proprio sfuggiva. Sembrava quasi che Lord Justus veramente intendesse tessere una sorta di rapporto di fiducia con lui, cosa che in tutta franchezza Sawela non aveva creduto sin da quando per la prima volta era entrato nel suo palazzo orizzontale per farsi dare il velato comando di accompagnare Banfred a Valyria e riportarlo sano e salvo.

«Allora andiamo lì» Garhel decise comunque di incalzare Panecha: non era suo amico, era un ricco opulento signore che affamava una popolazione di migliaia di individui, tra cui vecchi, donne e bambini, «Senza un piano ben definito? Ad ascoltare come i grandi Lord dell’oriente intendono pugnalarsi tra loro, mentre qui al sud sta per scoppiare la guerra delle guerre?»

«Lo ammetto: sono un po’ senza idee. Ma sommessamente faccio notare a mio vantaggio che talvolta le idee vengono con il tempo, magari accompagnato da un lungo viaggio in cui s’incontra e si parla con gente e si osservano nuovi cieli e orizzonti»

«L’Essos è tutto dune, mylord» fece Garhel sarcastico ma se ne pentì quasi subito.

Con la pacatezza che lo contraddistingueva, il Lord di Marrah concluse, sostanzialmente annichilendo le opposizioni del suo amico avversario: «E tu invece, Lord Tribuno Popolare? Hai qualcosa da proporre?» attese il silenzio di Sawela, poi aggiunse: «Lo immaginavo. Non per mancanza di rispetto nei tuoi confronti, Garhel, questo devi saperlo. Ma lo immaginavo perché la questione è veramente veramente delicata. Un fenomeno più unico che raro ci si para dinanzi, qualcosa che non credo abbia precedenti nella storia degli uomini e, se dovesse averne, risalirebbero comunque a migliaia, e migliaia, e migliaia di anni or sono. Non avrebbero idee neanche i più savi tra gli antichi, figurati cos’è che tu e io possiamo fare. Andremo a Braavos»

«Quando?»

«Molto presto. Te lo faremo sapere noi»

«D’accordo. Allora torno a casa e…»

«A casa? E cosa andresti a fare? Tornare ai poveracci e ai cospiratori di questa città che mugugnano e armeggiano sottobanco? Pensavo che ormai fosse chiaro, Lord Sawela: tu adesso sei un mio uomo. È per me che lavori»

«Spiacente» fece Garhel, guardando Lord Justus un po’ confuso, «Questa cosa non è semplicemente in discussione, Lord Justus. Io sono un uomo libero. Ed è solo per me stesso che lavoro»

«Ah, ancora con questi vecchi slogan!» sbottò Panecha «Tu sì: ma certo. E non sei mica uno schiavo, se per il lavoro che fai ti pago lautamente, e ti garantisco vitto e alloggio in quantità»

«Certo, ma in cambio dovrò sempre prendermi una lama prima che essa colpisca te o il qui presente principino»

«A me sembra molto equa come transazione»

«A me per niente, spilorcio di un venditore di datteri che non sei rimasto per tutto questo tempo. Lo vuoi capire? Il mio posto è tra la gente, finché essa non starà bene!»

«Ossia mai»

«Allora finché a essa non verrà garantito almeno il minimo indispensabile per vivere! Il che significa finché essa non avrà pubblico acceso ad almeno la metà di quanto detengono i pochi ricchi di questa città, o magari di più, o magari tutto»

«Pura utopia! Una brillante mente come la tua sacrificata sull’altare della più vana delle illusioni. Un peccato, un vero peccato. Ma tuttavia ha un lato positivo: io credevo veramente, Garhel, di poterti cambiare; credevo che tu avessi l’intelligenza per farlo, una volta introdotto entro i giusti confini della politica più squisita. E invece no: è questo il nucleo più centrale della tua natura. La lotta più cieca e senza quartiere. Allora: va’, lord Tribuno Popolare. Torna alle tue inutili arringhe e ai tuoi disperati. Uno come te, per il lavoro che intendo fare, mi sarebbe solo d’intralcio. Non farti più vedere nel mio palazzo». Garhel Sawela non disse altro. Sbatté semplicemente la porta di quella camera e fece per lasciare l’edificio. Ma giunto a metà strada, venne fermato dal giovane buon Banfred.

«Mylord, Sawela!» fece il ragazzo obeso, in preda al fiatone per raggiungere di corsa Garhel lungo gli stessi corridoi dove quest’ultimo aveva appena camminato. «Sì, Banfred» fece Garhel «Che cosa vuoi?»; era frustrato per la piega che aveva preso la situazione, dato che era sempre la stessa piega da fin troppi anni. Panecha era convinto di poter modificare una situazione che non poteva essere modificata, se prima lui non mostrava almeno un’apertura in merito alla causa di cui Lord Sawela aveva fatto la sua vita: proteggere gli ultimi dalle grinfie degli uomini che stavano ai vertici della società. Tuttavia Garhel non se la sentiva di prendersela con il figlio per le colpe del padre. Aveva come la sensazione che in definitiva neanche quel dialogo con il principino avrebbe avuto chissà quale esito di vitale importanza, ma fare il frigido e chiudere la porta in faccia a quell’ennesima vittima delle politiche di uno spietato mercante senza scrupoli non lo trovava corretto. Forse non era conveniente, ma non era neanche giusto non prestare ascolto alle ultime parole che il suo compagno di viaggio a Valyria aveva intenzione di rivolgergli.

«Mylord, e-ecco io…» esordì Banfred, naturalmente balbettando, «Io intendevo comunicarvi… ehm… comunicarti la mia gratitudine»

«Oh, davvero» si schermì l’ex Tribuno «non ce n’è di bisogno»

«No, mylord, non solo perché siamo arrivati sani e salvi a casa: so bene che non pensi di aver fatto molto, visto che la draghessa Kimera ci ha concesso la libertà, anche se sicuramente ricorderai di come in verità prima di raggiungere quella roccaforte in rovina abbiamo dovuto affrontare diversi pericoli, e lì mi hai aiutato eccome. M-ma… m-ma non è di questo che ti sono grato. Devi sapere che spesso nella mia vita ho ascoltato storie… storie che parlavano di un grande condottiero che liberava schiavi e salvava vite umane. E-e non erano storie inventate, leggende ascrivibili a chissà quale eroe del passato. Esse erano la cronaca della mia infanzia. Quel grande condottiero eri tu. Naturalmente mio padre ha sempre poco saputo di queste mie letture, e men che meno di queste m-mie… simpatie. Non sto dicendo che tradirei mio padre: non lo farei mai; lui è mio padre. E anche lui è un uomo buono, solo che trova la giusta v-via con i suoi metodi, che sono senza dubbio un po’ più lenti e un po’ meno “eclatanti” dei tuoi. E non voglio nemmeno dirti che sto provando a convincerti a collaborare con lui: eheh, so anche che questo è impossibile. Ma io ti sono grato perché… ora che ti ho anche conosciuto, i-io sento che dentro di me, da qualche parte molto remota, forse potrebbe anche venir fuori un mezzo Garhel Sawela, o un quarto eheh» Sawela stava provando un po’ di pietà: le parole di Banfred lo lusingavano, ma allo stesso tempo gli stavano mettendo in corpo una certa tristezza. Il giovane proseguì: «V-vorrei farti capire che io non sono interamente come mio padre. E… non sono come te, in v-verità… eheh… io non so bene come sono, m-ma… se lo sono, è anche grazie a te»

«Banfred, io…» anche Sawela si scoprì quasi prossimo al balbettio, ma si riprese subito; lui era un uomo tutto d’un pezzo e non usava mostrarsi “sentimentale” mai, in nessuna maniera, «Sono stato felice di conoscerti. Se solo fossi tu il signore di Marrah forse oggi le cose sarebbero diverse. Buona fortuna figliolo, ne avrai bisogno» concluse, e diede le spalle al giovanotto in sovrappeso, sperando sinceramente che non accadesse quello che invece accadde: Banfred lo fermò di nuovo.

«M-ma signore» tornò a balbettare, bloccando il guerriero Lord per la seconda volta, «Io non sarò il signore di Marrah, ma… beh anch’io mi trovo in una posizione unica, che è solo mia: nessun’altro la ricopre. Io prenderò il posto di mio padre un giorno, e vorrei che tu mi facessi da consigliere, se non anche da amico»

«Di questo discuteremo molto dopo, temo»

«M-ma signore… io andrò a Braavos con mio padre. E-e assisterò a quelle riunioni, perché lui vuole che impari. S-se ti portassi come mio seguito, e non suo… lui non potrebbe obiettare»

«Pensi che te lo concederebbe mai? Con tutto il rispetto, ragazzo, ma – anche se hai fatto progressi – non ti ci vedo molto a imporre la tua volontà su quella di Lord Justus»

«Lo farò!» si affrettò ad esclamare Banfred in tutta fretta: evidentemente aveva provato nella sua testa quel discorso più e più volte e fino ad allora era andato per come aveva sperato. Proseguì: «Vieni con me quale mia guardia personale e consigliere, Lord Sawela. Accompagna me a Braavos. Niente vincoli, o patti di nessuna natura»

«Banfred, tu… sei molto grazioso, ma…»

«Interessa anche a te quali decisioni verranno prese. Interessa anche a te sapere cosa diranno Goldsmith, Loackland e Gaholla sulla guerra che si prepara al sud. Molti dei sudditi di questa città sono più leali a te, che a mio padre. Se è la loro sicurezza che vuoi, allora devi esserci a Braavos». Sawela si prese un attimo di silenzio: era vero. Banfred aveva dannatamente ragione. Bisognava considerare le priorità: il problema più impellente. E il problema più impellente non era il suo orgoglio, e la sua guerra personale con il Lord degli elefanti. Era il drago magico che stava al sud, e il suo improbabile esercito di piante. Era quella la prima questione da risolvere; e come poteva risolverla? Smobilitando tutti i poveracci di Marrah attraverso il deserto verso una nuova casa? Era strada pressoché impraticabile… bisognava prepararsi al più grande dei conflitti, e farlo significava ammucchiare quanti più eserciti possibili. E c’era bisogno di Goldsmith e Loackland per quegli eserciti.

 

 

 

Erano probabilmente passati dei mesi da quando Xenya, Jorando e Tampepe erano stati fatti prigionieri dal popolo degli uomini-drago e dal suo re dentro la montagna. Erano caduti come in una sorta di incantesimo che gli faceva passare per cose assolutamente normali e accettabili circostanze che nell’altro continente, a casa, Xenya avrebbe giudicato perlomeno sconvenienti. Gli uomini-drago urlavano sempre, ridevano in modo smaccato e cantavano spesso a squarciagola. Anche se parevano avere almeno una vaga idea del pudore, visto che una sorta di primitive mutande in pelli esistevano, una buona metà di loro andava sempre in giro completamente nuda, e quando non camminava nudo uno poteva darsi che camminava nudo un altro, ma era piuttosto normale vedere un enorme quantitativo di nudità sia maschile che femminile ogni giorno: c’erano tanti “nudi”, quanto “vestiti”. Poi i selvaggi non si lavavano spesso, e di conseguenza puzzavano. Sapevano cuocere la carne, e gli piaceva cotta, ma anche cruda non la disdegnavano affatto e non era raro osservare perfino bambini addentare una creatura così per come il papà gliela portava dalla caccia: nessuno li rimproverava per quello. E poi c’erano le danze e il forte vino di chissà cosa che circolava in quella montagna, e i riti simil-sacrali che si ripetevano due notti sì e una no e poteva capitare che, almeno per una parte degli astanti, finissero in orgia. Non c’erano violenze, nonostante il comune stato di ebrezza, e raramente l’esploratrice aveva avuto modo di osservare un uomo-drago insistere più del dovuto quando veniva rifiutato: il punto era che c’era talmente tanto delirio, che se non penetrava la prima donna che gli capitava a tiro, ne avrebbe sicuramente trovate altre in pochissimo tempo e a pochissima distanza, quando non due o tre insieme, oppure un altro maschio, o più raramente un animale. Certi spettacoli erano veramente disgustosi, e più volte Xenya – che si reputava una donna di mondo – era stata costretta a lasciare la zona per non rigettare la sempre abbondante cena che le facevano trangugiare. Ma a volte anche lei stessa non era stata in grado di resistere al fascino animalesco di quelle creature che, salvo il fatto che fossero tutte dannatamente alte e muscolose, e dai tratti assai spigolosi, erano però d’altronde umani quasi interamente: avevano due mani, due gambe, due piedi, due occhi, una bocca, dei denti, un cuore, uno stomaco e… un organo genitale con tutte le carte in regola: niente di mostruoso insomma.

Alla fine, anche Xenya aveva avuto un rapporto con un uomo-drago in un momento di ubriachezza, e non era stato niente male peraltro. Ma certo non si potevano instaurare rapporti: a parte che Xenya non era affatto interessata a legami di nessuna natura con nessuno, ma anche un’amicizia o una simpatia con un uomo-drago era praticamente impossibile. Erano troppi, e troppo “selvaggi”: erano in costante movimento, difficile trovare uno sempre in uno stesso posto e poi… sì, beh: Xenya neanche ricordava bene il volto dell’uomo con il quale aveva giaciuto; erano tutti uguali! E non solo nell’aspetto, così perfettamente apollineo e abbronzato, ma pure nel tono della voce ad esempio, o nei gesti che facevano. Nella loro semplicità, erano veramente creature quasi perfette. A ciò si aggiungeva che praticamente vivevano in uno stato di sostanziale armonia, perché quello di cui Kyrios il drago si era vantato era tutto vero: i suoi figli non provavano invidia l’uno dell’altro, né rancori di qualsiasi altro genere. Cacciavano, mangiavano, bevevano e scopavano tutto il tempo: che cosa poteva mai turbare questo equilibrio perfetto? Solo l’uomo occidentale forse, e questo probabilmente il vecchio Kyrios lo sapeva.

Le aveva detto il suo vero nome al loro quarto incontro: Xenya non lo aveva più dimenticato. Né aveva dimenticato quelli dei suoi altri due fratelli e sorelle: Nidhogg il drago del fuoco empatico, Requiem il drago del gelo, Kimera il drago della natura e Luxia il drago della vita. E molte cose il drago dentro la montagna si era anche fatto raccontare: erano diventati una specie di amici loro due. Una volta, probabilmente al loro sesto o settimo incontro, si era fatto trovare di nuovo nella sua forma animale, e non in quella pure mostruosa ma quanto meno umanoide cui con tanta fatica l’esploratrice del Westeros si era infine abituata. Ma al drago quello vero, quello con le scaglie e le corna e le ali e i denti aguzzi… a quella figura probabilmente non si sarebbe abituata mai. Infatti glielo chiese, a Kyrios, di non farsi più trovare in quel modo, e in effetti quello non l’aveva più fatto. Un drago aveva accettato una sua richiesta.

Anche se la sensazione era quella che, se avessero voluto, avrebbero potuto farlo quando volevano, in realtà Xenya sospettava che il drago avesse operato su lei e i suoi due compagni, forestieri in quei luoghi, una sorta di magia “buona” che… praticamente gli aveva tolto via la voglia di andarsene. Non ne aveva parlato direttamente con Kyrios per non offenderlo, ma era come se quel luogo semplicemente facesse dimenticare. Era bello, quasi utopico dal punto di vista dell’assenza di guerra e tristezza, ma… c’erano anche un mucchio di altre cose belle al mondo, che lì non c’erano. Vivere lì, significava vivere solo una parte del tutto, anche se decisamente una buona parte. Le fragole per esempio! In quel posto non c’erano fragole, e Xenya andava matta per le fragole, era malata di fragole ma… da quando si trovava lì, era come se si fosse dimenticata del sapore di quelle magnifiche bacche che, fino a un tempo che lei sapeva poco lontano, aveva adorato.

Tutto ciò non andava bene: non andava affatto bene. Xenya aveva una missione, anzi per la verità ne aveva due. Una più ufficiale: Mirietta l’aveva mandata lì per studiare le popolazioni del nord sì, per conoscerne natura e abitudini certamente, ma con l'obiettivo finale di usarle eventualmente per gli scopi della causa dei Lannister, la quale – se con ciò significava la causa di Mirietta – allora Xenya sapeva anche essere la migliore sul tavolo. Dopodiché l’esploratrice aveva anche una missione più personale e meno politica, la missione della sua vita, la quale era lasciare sempre libero quel suo innato istinto di non mettere mai radici, di essere sempre in movimento, costantemente sospinta dal vento verso orizzonti sempre nuovi. Capì che la situazione che stava vivendo alla montagna di fuoco rappresentava tutto il contrario di quello che lei in verità era. Se ne rese conto tutto assieme, come finalmente libera da un incantesimo, quando una mattina si ritrovò da sola, davanti a uno specchio d’acqua pochissimo distante dal villaggio nella quale era una prigioniera senza catene, ad osservare lungamente la sua immagine riflessa (che non aveva mai adorato) e in particolare il suo sguardo (che invece senza false modestie riteneva uno dei più intensi che avesse mai veduto nella sua vita di viaggiatrice). Quella dal canale al villaggio fu la corsa più agguerrita che forse aveva mai fatto. Aveva tutta l’intenzione di fare i bagagli e lasciare per sempre quel continente, con o senza Tampepe e perfino con o senza Jorando, che la accompagnava da almeno un decennio. Ma era risoluta: si era resa conto che quel luogo aveva esercitato su di lei una sorta di stregoneria, e voleva fuggirne quanto più lontano possibile.

Al villaggio tuttavia una insolita ressa fermò per un momento la sua foga. Non capitava mai che al villaggio degli uomini-drago una folla si riempisse tutta assieme senza che ci fosse un rituale di mezzo: e non poteva esserci un rituale, perché erano ciclici e Xenya ormai conosceva bene tutte le scadenze, sia delle manifestazioni più lunghe che di quelle di scarsa durata. L’ultima volta che Xenya aveva visto una ressa di quel genere, era dovuta al fatto che i maschi avevano portato al villaggio una sorta di cervo di dimensioni veramente ciclopiche, molto più di qualsiasi altra “preda” che l’esploratrice aveva visto da quando si trovava alla montagna. E la volta ancora prima… era stato quando lei, Pashamanyna e Tampepe erano arrivati al villaggio!

Qualcuno di nuovo era arrivato al villaggio, e non prigioniero, con mani e piedi legati, o senza sensi, magari dopo una botta in testa. Fieramente e a testa alta. Solo dei pazzi culi nobili avrebbero avuto questa sfacciataggine: Mirietta era tornata al continente. Con lei, c’erano anche un bel giovanotto dai colori simili ai suoi, ma alto e prestante: Mirietta da un punto di vista strettamente fisico era una normale ragazzina della sua età, molto minuta. E poi un’altra ragazza invece totalmente diversa: bionda e con la pelle molto chiara. Doveva essere nettamente più grande della principessa, forse dell’età di Xenya più o meno. Erano tre, come Xenya, Tampepe e Pashamanyna quando erano arrivati. Ed erano incuriositi, ma non poi così spaventati. Così come naturalmente spaventati non erano gli uomini-drago, che avevano già incontrato un gruppo di persone dell’altro continente, e che comunque tendenzialmente non temevano nulla. Il maschio in particolare pareva particolarmente esaltato: tutto quello che lo circondava pareva divertirlo, e chiaramente non aveva un’idea neanche vaga di cosa fare. A un certo punto, tipico maschio stupido, senza motivo sguainò una spada, provocando negli uomini-drago uno stupore ammirato, specialmente nei maschi stupidi come lui. Le ragazze-drago dal canto loro lo guardavano con una certa simpatia, e lui guardava loro come un mammalucco: erano tutte alte pressoché quanto lui.

Nell’istante stesso in cui si accorse di lei, la principessa Mirietta si fece spazio nella ressa e le corse incontro per abbracciarla. Per un po’ prima parlarono di futilità: come stai, come non stai. Era strano a dirlo, e Xenya non era affatto tipo da convenevoli: ma anche quello faceva parte del pacchetto di umanità che da troppo tempo aveva via via abbandonato per vivere come una selvaggia. Intendeva riabbracciare il suo vecchio occidente nella sua interezza, anche negli aspetti che meno l’avevano interessata finché ne era intrisa: in quel momento ne aveva bisogno. Dopodiché Mirietta la aggiornò della situazione in occidente: di uno zio traditore che si era proclamato re e li aveva messi in prigione su una torre e di un altro prozio dalla nomea leggendaria che lo aveva aiutato. Del fatto che ora Mirietta, e quel suo fratello Marcus – che era il ragazzo giunto con lei – era rimasta praticamente l’unica a sostenere il diritto del nipote infante al Trono di Spade, e che dunque intendeva dotarsi di un esercito quanto prima: un esercito di selvaggi sarebbe andato più che bene. Sicuramente meglio che “niente esercito”.

Era tutto molto interessante, e come al solito Xenya non poté non condividere ogni singola parola di quella che ormai reputava una cara amica, e di parteggiare per lei, pur tuttavia le novità che lei presentò a Mirietta furono ben più dirompenti: e non poteva essere altrimenti d’altronde. Xenya lesse bene negli occhi dell’amica il profondo conflitto tra la sua anima realista e sospettosa – che mai e poi mai avrebbe ceduto alla richiesta di credere nell’esistenza di un drago parlante – e la sua fedele stima nei confronti di Xenya. Alla fine le disse di sì, che ci credeva, ma insistette comunque moltissimo per vedere Kyrios quanto prima, e comunque l’esploratrice concluse che in definitiva la vecchia amica non le aveva affatto creduto. Era normale: neanche lei lo avrebbe fatto se si fosse trovata al posto della principessa. Attese il tempo necessario, fece ambientare gli ospiti nel mondo degli uomini-drago, e fece ambientare gli uomini-drago con i loro nuovi ospiti. Quando decise che era tutto pronto, li portò tutti e tre da lui.

La ragazza bionda che era giunta con i principi Marcus e Mirietta alla montagna infuocata si chiamava Daessenya. Aveva manifestato una simpatia recente nei confronti della principessa di Lannisport e aveva aiutato lei e il principe Marcus ad evadere dalla torre-prigione del loro zio. Anzi: senza Daessenya i due probabilmente non sarebbero proprio riusciti a scappare. Data tale cieca fiducia della fanciulla nei confronti della principessa Mirietta, e questo elemento in comune con la stessa esploratrice, alla fine Xenya concluse che anche lei poteva benissimo incontrare il drago. Lasciare una fanciulla con la carnagione chiara in mezzo a quell’orda di selvaggi che i figli del drago altro non erano non l’avrebbe ritenuta una scelta altrettanto saggia, fermo restando che gli uomini-drago erano molto meno pericolosi ed irragionevoli rispetto a quel che si diceva in territorio Kowacz o Sayun-sama.

Kyrios era nella sua forma “umanoide”: quella creatura strana, glabra, alta più del doppio di un maschio medio di comune essere umano, con gli occhi da serpente e tre dita per piede anziché cinque. Ma perlomeno non aveva le squame, le scaglie, le ali, la coda, i denti aguzzi e una dimensione di molto più estesa. Comunque fece fin da subito il suo effetto a Mirietta, Marcus e Daessenya, che lo vedevano per la prima volta. Forse il drago sarebbe stato meglio: un drago almeno puoi identificarlo, sai che cos’è, com’è fatto, anche se non ne hai mai visto uno. Hai sentito storie, letto racconti! Ma quella cosa mediante la quale Kyrios usava manifestarsi, appariva quasi come un affronto alla razza umana, una cosa che voleva imitarla, ma che palesemente non lo era. Xenya si era abituata, e preferiva quella cosa al drago vero e proprio. Ma per Marcus, Mirietta e Daessenya forse ci sarebbe voluto il drago. Visto che il drago non parlava chissà per quali oscure ragioni, e che i tre neofiti erano dal canto loro troppo pietrificati per azzardarsi persino a muoversi, fu la stessa esploratrice ad esordire condividendo l’opinione che si era fatta: «Kyrios» fece Xenya «Forse sarebbe il caso di mostrarti nella tua forma… estesa»

«Hai detto che non la gradivi» replicò il drago, mentre palesemente i tre ospiti tremavano dal panico nell’osservare la creature umanoide riuscire ad esprimersi nella loro lingua.

«L’ho detto» riprese Xenya «Ma quello valeva per me. Questi nostri ospiti forse sarebbero più a loro agio con una creatura che nella loro vita hanno già…»

«Visto?!»

«No. Ma avuto modo di conoscere. I draghi fanno parte della nostra cultura: popolano i nostri racconti e leggende. Mostrati nella tua vera forma, Kyrios». E il re della montagna si mostrò accondiscendente nei confronti della piccola, determinata, esploratrice del Westeros. Divenne drago: uno molto più grosso di qualsiasi altro rappresentato in proporzione in una qualsivoglia antica pergamena conservata nelle biblioteche del vecchio continente. L’espressione nei volti di Marcus, Daessenya e Mirietta d’altro canto non mutò. Intimoriti erano con la creatura umanoide, e intimoriti rimasero con il drago.

«Allora» fece quest’ultimo, una volta completata la sua rapida mutazione, «Chi siete, nuovi esseri umani che avete avuto il coraggio di risalire fino alla montagna infuocata?»

«I-il mio nome» balbettò un po’ Mirietta: e chi altri avrebbe mai risposto se non lei? «I-il mio nome è Mirietta di Lannisport, figlia di Lionel della Casa Lannister e principessa degli Andali e dei Primi Uomini. Questi è Marcus, mio fratello, Cavaliere della Chimera e…»

«Chimera? Cosa è una “chimera”?»

«U-una creatura» rispose a questo punto il principe Marcus, sentendosi direttamente interpellato, «Meravigliosa. Con lunga criniera e forti ali»

«È strano. Dove hanno preso gli uomini questo nome? Chimera»

«Non lo sappiamo» rispose Mirietta «È molto antico. Come la parola drago: non sappiamo cosa significhi, sappiamo che c’è da sempre, in tutti i libri, perfino i più antichi»

«Ahahah» rise il drago, e Xenya non poté non trattenere il brivido di orrore che gli corse lungo la schiena, «E ci sono forse altre creature… chiamate Luxia, o Nidhogg? O Requiem, o… Kyrios»

«No, signore»

«Peccato. E che cosa vi porta qui, principessa Mirietta, principe Marcus e…»

«Ehm… Daessenya» balbettò pure la fanciulla dai capelli biondi «So-solo… solo Daessenya»

«Solo Daessenya… cosa ti porta alla casa del drago? Nelle tue condizioni…»

«I-io sono una convinta sostenitrice della mia Lady Mirietta. E per lei affronterei qualsiasi viaggio»

«Mah… siete sempre stati strani voi umani eppure, nonostante vi conosco da millenni, trovate sempre la maniera per sorprendermi. E tu, principessa degli uomini dell’altro continente? Tu cosa vuoi?»

«U-un tiranno ha occupato la mia casa» fece la fanciullina, con una certa audacia: Xenya non poteva dimenticare che i Kowacz le avevano ribattezzate insieme “generali in gonnella”, «E minaccia il legittimo trono di mio nipote, al momento occupato da un secondo lestofante»

«Sei piena di nemici, per essere così piccola»

«Beh… io sono una principessa» concluse Mirietta, e Xenya capì che l’amica in questo modo voleva alludere al fatto che è più che naturale che una persona che ricopre una carica come la sua si occupi di affari di questo genere. Tuttavia Xenya temette che il drago non avrebbe capito tale allusione e decise di ammorbidire la cosa, dicendo: «Kyrios, la principessa Mirietta sa bene che tu sei una creatura immensa e millenaria, ed è col massimo rispetto che ti racconta queste cose. Ma lei rappresenta qui una dinastia anch’essa molto lunga, anche se per nulla paragonabile alla tua infinita vicenda. Talmente lunga da potersi definire “quella legittima”. E i due avversari cui lei ha fatto riferimento, non sono altro che usurpatori: né più né meno. Ladri che non hanno avuto pietà di niente e nessuno per ottenere il loro legittimo bottino»

«Sì, io capisco tutto ma» rispose Kyrios «non vedo come la cosa possa riguardarmi. Interessarmi certo: qualsiasi storia di una fanciullina agguerrita venuta qui fin dall’oriente potrebbe interessarmi… ma ho idea che la principessa qui mi stia chiedendo qualcosa, e non capisco di che si tratta in tutta franchezza»

«Mio signore: è inutile negarlo» fece Mirietta con sempre più coraggio, ma anche meno buonsenso: Xenya aveva concluso che il drago in realtà aveva capito tutto; era un passo davanti a loro e in questo momento sostanzialmente stava giocando, «I tuoi guerrieri-drago sarebbero devastanti in battaglia per la riconquista del seggio che ci spetta. Cosa possiamo fare per convincerti a fare in modo che combattano con noi?»

«Assolutamente nulla, madamigellina. I miei figli sono puri: non conoscono l’odio e l’avidità che voi portate qui dall’altro continente. E continueranno a non conoscerli. D’altro canto, io non voglio mancarti di rispetto, ma in verità non ho avuto modo di udire alcuna altra campana, e chissà mai se ce l’avrò. Chi mi dice che non sei tu la vile usurpatrice e i tuoi nemici i reali possessori dei troni che stanno occupando?»

«E sia» fece Mirietta, sorprendendo Xenya non poco, visto che l’esploratrice si sarebbe aspettata dalla principessa come minimo un altro po’ di insistenza, «Ti farò allora un’altra richiesta, drago Kyrios»

«Tutto quello che vuoi, piccina»

«I tuoi uomini-drago… hanno tuttavia un antico nemico»

«Sì? Quale?»

«Un avversario con cui da sempre diatribano per questioni di confine. Non sarebbe dunque poi così innaturale, così come lo sarebbe portare i tuoi “figli” oltremare a scontrarsi con avversari che nemmeno conoscono, chiedergli di aiutarmi in un’impresa contro il loro antico nemico…»

«Credo di aver capito a cosa fai riferimento»

«I Kowacz. Sono giunta in questo continente molti mesi or sono. Ero riuscita ad instaurare una pace tra loro e i Sayun-sama e a crearmi… una leadership. Ma un individuo abbietto almeno quanto gli altri due di cui parlavo prima, li ha costretti a mettersi contro di me. Da una creatura che guida un popolo, a un’altra che prova a farlo… è questo che ti chiedo: aiutami a riconquistare la fedeltà dei miei vecchi…»

«Sudditi?»

«A-amici. Non credo che sarà necessario un vero e proprio spargimento di sangue. Basterebbe un’intimidazione e insieme ad essa… l’eliminazione dell’usurpatore che al momento li comanda»

«Principessina: i rapporti tra i miei figli e i cosiddetti Kowacz sono di cattivo vicinato da secoli, quando non da millenni. È vero: talvolta ci scappa il morto da noi, talvolta da loro. Ma una guerra è accaduta rare volte, e costante questa caratteristica io voglio mantenere. A me dispiace per i tuoi affari davvero: sia per quelli al di là del mare che per quelli al di qua… ma… non sono i miei. E nemmeno quelli dei miei figli»

«Ma signore…»

«Non sopporto che il sangue di anche uno solo di loro venga versato inutilmente, e non accadrà. Questa è la mia ultima parola in merito alla questione che gentilmente hai voluto pormi».

Xenya aveva provato, la sera prima, a spiegare a Mirietta che le speranze erano davvero poche. In primis, perché Kyrios era testardo almeno quanto lei. Era un drago millenario, un “drago dell’origine”: ne aveva tutti i diritti. Ma non transigeva nelle questioni neppure minimali: figurarsi se il problema era mandare quei suoi tanto affezionati selvaggi a morire, almeno una parte di loro, per una causa qualsiasi. Mirietta aveva replicato che aveva un asso nella manica, e forse contava sulle sue abilità affabulatorie, o forse sull’idea di rivalità che esisteva tra gli uomini-drago e i popoli che stavano più a sud. In entrambi i casi, aveva preso un abbaglio: Kyrios non si faceva convincere, e Xenya ci avrebbe scommesso fin dall’inizio. Il punto ora era: Mirietta cosa avrebbe dunque fatto? Questo Xenya non riusciva proprio a immaginarselo…

Quando placidamente, ma comunque rispettosamente, i quattro lasciarono l’antro del drago, l’esploratrice attese per un momento di rimanere sola con l’amica. Dopodiché le fece la domanda fatidica: «Allora? Che intendi fare?»

«Intendo combattere una guerra, Xenya» rispose la principessa, risoluta, «Intendo comunque combattere una guerra».

 

 

 

Ritornando a casa dal palazzo-giardino di Lord Panecha, Garhel Sawela ebbe tutto il tempo di pensare all’offerta di Banfred, e in particolare alle sue ultime parole. L’ex Tribuno Popolare risiedeva in un complesso alla periferia estrema di Marrah, immediatamente fuori dalle mura e ad esse appoggiato, formato da un’accozzaglia tutta mischiata di mono e bilocali, nella quale lui e la sua famiglia tendevano a spostarsi di volta in volta, e questo da sempre, o almeno da quando Garhel aveva fatto la sua scelta di divenire il portavoce di qualsiasi esigenza popolare in quel mondo, il che significava sempre. I ricchi all’inizio lo chiamavano il Formicaio, e col tempo anche loro stessi – lui e tutti quelli che lì ci abitavano – erano finiti per assumere quella denominazione: orgogliosi dell’etichetta spregiativa attribuitagli da un gruppetto di grassi elefanti avidi e senza scrupoli. Non aveva dei dati ufficiali, ma a Sawela risultava che col tempo il Formicaio era divenuto il secondo ghetto più popolato dell’Essos, e le cifre tendevano a crescere rapidamente di anno in anno. Non si stava bene a Marrah, ma si respirava una certa aria di libertà, di indipendenza, di battaglia, e questo in parte era dovuto a Garhel. In altra parte era stato dovuto a Yashua, e alla sua antica – ma, dati i tempi correnti, modernissima – religione che predicava ideali di altruismo ed uguaglianza. La gente era la vera forza della politica di Garhel, e probabilmente anche della sua persona e della sua vita. E dunque il problema della gente era centrale: la maggior parte degli abitanti di Marrah stava male, malissimo. Ma qui si trattava di priorità: era sacrosanto combattere Panecha, e con lui la classe ricca della città, ma prima ancora della sopravvivenza economica veniva quella fisica… ed era la sopravvivenza fisica della gente di Marrah che la draghessa al sud Kimera si stava preparando a minacciare. E il vertice di Braavos da questo punto di vista avrebbe potuto essere determinante. Non solo: Banfred gli offriva di parteciparvi, senza fare di lui un diretto segugio del re mercante. Certo, in realtà – checché Banfred ne dicesse – alla fine sarebbe stato Lord Justus a decidere, con un sì o con un no se Sawela sarebbe andato: il vecchio Tribuno Popolare del Concilio del re non intendeva negarsi questa ovvietà. Però stava cominciando a convincersi che questa differenza di forma sarebbe contata: una cosa era mettersi sotto l’ala di Justus come suo alleato e galoppino, altra cosa era affiancare Banfred come libero amico. Se a un certo punto avrebbe deciso che le cose per come stavano andando non gli stavano bene, Sawela avrebbe potuto salutare l’amico, ma non rescindere un tacito contratto. Ecco perché la proposta di Banfred andava considerata seriamente.

Sì: la conclusione dell’ex Lord Tribuno Popolare alla fine fu quella. Avrebbe scortato Banfred. Giunse a casa già con questa consapevolezza, anche se in verità non volle ammetterlo a se stesso. Si disse da solo che si sarebbe concesso dell’altro tempo per pensarci. Ma di tempo ne rimaneva poco, e comunque la decisione era già presa. Stava ancora rimuginando su tutto questo, quando si accorse di qualcosa che lo impressionò non poco. Tutta una lunga parte del Formicaio nelle sue pareti esterne risultava fortemente annerita, come se il Formicaio… avesse preso fuoco. E in effetti anche l’odore che c’era in giro era molto penetrante, e sapeva di bruciato. Parte dei tetti erano crollati, e poi… in giro non c’era nessuno, completamente nessuno. Non accadeva quasi mai, forse durante una qualche riunione importante convocata da Garhel stesso, ma anche in quei casi… le donne, i vecchi e i bambini per lo più rimanevano a casa, on in giro. Dov’erano finiti tutti?

All’improvviso Sawela si accorse di un’unica piccola anima, in fondo alla strada, che armeggiava con una sorta di carriola da una parte, e un’accozzaglia di due o tre fagotti sottobraccio nell’altra. Le andò incontro, la riconobbe: era Sallah, la figlia decenne di Meroh, suo amico di infanzia e stretto collaboratore: era uno di quelli che provvedeva alla sua famiglia quando lui era fuori città, il che poteva significare mesi interi, se si considerava il seggio di Garhel al Concilio Ristretto di re Lionel e la sua collaborazione col sacerdote Yashua. Per interi mesi, sua moglie e i suoi figli erano rimasti soli e gente come Meroh se n’era occupato: lui e altri. Perché questo era il senso del Formicaio di Marrah: una numerosa – ma coesa – famiglia, in cui tutti aiutavano tutti. «Sallah!» fece Sawela preoccupato, leggendo il profondo sconforto negli occhi della bambina – «Ma che è successo?». Prese due dei tre fagotti della piccola: il fratellino di un anno e mezzo e un’anfora contenente probabilmente acqua. L’altro fardello, il fratello ancora più piccolo, che aveva solo poche settimane, la bambina ostinatamente lo tenne con sé. Così come tenne stretta la presa sulla carriola dov’era contenuta quella che a Garhel parse una sorta di farina di scarsa qualità. Dunque costui completò: «Dove sono i tuoi»

«Loro sono… andati. Con l’incendio»

«Che incendio?»

«Il grande incendio. Ha bruciato tutto il Formicaio»

«Cosa? Come è successo?»

«Non lo so. È stato improvviso. Papà è riuscito a gettarci tutti quanti dalla finestra, perché per le scale non si poteva. Ma… lui e la mamma sono rimasti, e loro sono… e poi, il piccolo… dev’essersi rotto qualcosa» Garhel fece per vedere, ma la bambina tornò ad allontanarsi, «Sta male. Sta morendo»

«Ma Sallah… e… i cerusici?» aveva dieci anni, ma Garhel la conosceva bene ed era troppo sveglia perché non sapesse che qualcuno malato va mandato dal cerusico, Garroh e Makhoto?»

«Garroh è andato anche lui con l’incendio… Makhoto ha resistito per un po’ ma poi è morto intossicato per i fumi»

«C-cosa?» balbettò l’ex Tribuno Popolare, e quella rispose piangendo. Infine Sawela fece la domanda che chiunque avrebbe fatto al suo posto: «Sallah, dove sono mia moglie e i miei figli? Dov’è il resto della città?»

«Loro sono a una riunione. Yagoh ha convocato una riunione»

«Mia moglie e i miei figli, o il resto della città?»

«Il resto della città»

«E mia moglie e i miei figli? Loro dove sono?». Il silenzio fu più eloquente di mille parole. La bambina chinò il capo, con gli occhi lucidi e le guance rigate. Si riprese l'anfora e il fratellino sano e ricominciò a marciare.

Disperato, con il cuore improvvisamente saltatogli alla gola, Garhel Sawela corse verso quella che avrebbe dovuto essere l’ultima alcova della sua famiglia. Strada facendo osservò pure le mura talvolta divenire sempre più nere e l’odore più nauseabondo, per poi scemare un poco, e poi intensificarsi di nuovo. Incuriosito, a un certo punto Garhel Sawela deciso perfino di allungare le dita verso quelle mura… erano come unte. Avvicinò dunque il naso: il Formicaio era stato incendiato. Era stata usata una sostanza che permette al fuoco di appiccare facilmente ma… per combinare un danno di quella portata ce ne volevano a litri di quell’intruglio! E accumularne tanto era un’impresa da super ricchi: non da comuni mercanti, beninteso. Da ricchi di quelli ricchi veramente. E chi avrebbe mai voluto spendere così tanto denaro per dar fuoco a una massa così indifesa di poveracci, inclusi vecchi, donne e bambini? Con le idee sempre più confuse, Sawela varcò l’uscio dove un tempo si era trovata la porta di casa sua. Dentro non c’era nessuno. Uscì di nuovo, vide una dirimpettaia affacciata dal primo piano e le chiese: «Ma… che ne è stato della famiglia che abitava a questa porta? Una… una donna e i suoi figli?»

«Sono morti» rispose la vecchia «Mi dispiace».

Confuso, completamente stonato da quella informazione così definitiva che come una mannaia era calata sulla sua anima, Garhel Sawela finì coi ginocchi a terra, costretto da una forza invisibile che lo schiacciava come un piede umano schiaccia un insetto. Gli mancava il respiro, sentiva i sensi lentamente defluire via via dal suo corpo. Pianse. Cacciò un urlo, che nel silenzio di tomba che il Formicaio era diventato risuonò per mille e mille strade e vicoli deserti. L’olezzo pungente di quella sostanza diabolica gli infiammava sempre più le narici quando, una volta dispersa definitivamente la sua eco, Garhel udì un suono. Era il suono di qualcuno che parlava a voce alta. Non era facilmente distinguibile: il locale delle riunione per la gente del Formicaio era costruito in modo tale da passare inosservato, e nessuno ci avrebbe fatto caso se non lo avesse conosciuto. Ma Garhel lo conosceva bene: era lui a parlare in quella sede di solito. Solo che stavolta stava parlando qualcun altro. Stava parlando Yagoh.

Il vecchio Tribuno Popolare del Concilio del re del continente occidentale riuscì a trovare fuori dall’edificio un telo col quale incappucciarsi e se lo mise in testa; dopodiché entrò nell’immenso piazzale nascosto tra le rovine che costituiva uno dei cuori pulsanti della comunità del Formicaio: il luogo da dove da sempre Garhel aizzava la folla. Tuttavia ora il vecchio Tribuno Popolare era curioso di vedere qualcun altro all’opera: un uomo che da sempre si era dimostrato contrario alla sua politica tra la gente di Marrah Cankhubhia quasi più per principio che per altro. Yagoh apparteneva a quella minoranza di individui sempre pronti a fare rimostranze per ogni decisione presa: inutili, oltre che fastidiosi. E adesso cosa voleva? Intendeva spiegare le ragioni dell’incendio? Intendeva versare il sangue di chi lo aveva provocato? Perché in tutti questi casi, Garhel Sawela mai e poi mai si sarebbe comportato con lui così come lui si era comportato con Garhel. In tutti questi casi, Garhel Sawela lo avrebbe appoggiato. Ma Yagoh non stava dicendo niente. Parlava di ipotetici nemici che “forse” – e diceva solo “forse” quando in realtà era sicuro – avevano appiccato volontariamente l’incendio causando la morte di moltissimi individui. Diceva che avrebbe fatto chiarezza, quando la mano intenzionale di qualcuno era troppo evidente e dunque non c’era niente da chiarire. Poi cambiò discorso, e la buttò sul generale: disse che bisognava piangere i morti e prepararsi a una stagione di pace perché, essendo esigui nel numero, ormai gli abitanti del Formicaio non avrebbero contato più niente e quindi con Panecha e gli altri grandi mercanti bisognava trattare. Una vergogna: una vergogna inaudita.

Ad arringa definitivamente conclusa, Sawela – sempre rigorosamente incappucciato – chiese a un altro suo vicino di casa, un tipo sveglio che conosceva di vista ma di cui non ricordava bene il nome, più o meno da dove avevano cominciato a propagarsi le fiamme. E l’incendio era praticamente nato in una stalla vicinissima alla casa di Garhel, e solo poi si era propagato raggiungendo perfino le punte più estreme del Formicaio. Garhel era sempre più incattivito e sospettoso, quando definitivamente decise di mostrarsi agli uomini di Yagoh – che fino a pochissimo prima erano anche i suoi – e di farsi accogliere dal nuovo improvvisato capo della comunità. Yagoh non avrebbe semplicemente neanche potuto rimandarlo quell’incontro, anche se avesse voluto. Garhel Sawela era Garhel Sawela: il predone più grande, l’arringatore più fluente, l’uomo del Formicaio la cui storia era più conosciuta in entrambi i continenti. E Yagoh davanti ai suoi avrebbe fatto la figura di quello che scappa, se non avesse accolto l’ex Tribuno Popolare. Dunque così fece.

Parlarono poco dei convenevoli: più Yagoh la buttava sul dove Garhel fosse stato in quel tempo e che cosa avesse fatto e visto, più Garhel ritornava all’incendio e al come fosse possibile che uno che si trovasse nella posizione in cui Yagoh si trovava ne sapesse così poco. Il nuovo capo del popolo ammise il dolo: ammise che anche lui aveva riscontrato la sostanza appiccata sulle pareti dell’immensa struttura, e ammise che non ne aveva voluto parlare perché attendeva prove definitive. Ma più Garhel insisteva sul nome che avrebbe voluto sentirsi dire, più Yagoh glissava, e questo innervosiva l’ex Tribuno Popolare più di ogni dire. Era come se, oltre aver perso la moglie e i figli, adesso quell’individuo volesse pure prenderlo per stupido. E chissà perché poi…

A un certo punto, Yagoh ebbe l’infelice idea di uscirsene con la frase: «Senti, Garhel, a me spiace parecchio per la tua famiglia: tutti conoscevamo tua moglie e i piccoli, ognuno di noi, ma…»

«Chi ti ha detto di parlarne» rispose Sawela aggressivo «Io non ti ho mica chiesto questo, Yagoh. Non ne voglio parlare e men che meno con te»

«Ma dài! È per questo: è solo per questo che sei così nervoso. Domani stesso farai il tuo bel discorso e l’assemblea intera tornerà ad essere completamente tua. Il popolo stravede per te: lo sappiamo entrambi, perciò non rompermi le palle! Tutti abbiamo subito la tragedia dell’incendio, ognuno di noi ha perso qualcuno…»

«Sapevi che è stato appiccato nei pressi di casa mia?»

«Sì, sì, certo lo sapevo»

«Allora era proprio dalla mia famiglia che doveva cominciare lo sterminio»

«Non lo so: francamente non credo sia così»

«E chi te l’ha detto?»

«Cosa?»

«Che è stato appiccato vicino al luogo dove stava la mia famiglia»

«Non lo so chi me l’ha detto»

«CHI?!»

«Beh, forse… forse Meroh. Sì, adesso che mi ricordo è stato proprio Meroh!». Perfetto: Yagoh era caduto nella trappola che Garhel gli aveva testo. Quello sporco maledetto doppiogiochista venduto! Meroh non avrebbe mai potuto dirgli niente, perché anche Meroh era morto: gliel’aveva detto poco prima la sua bambina, la piccola Sallah. Naturalmente Yagoh aveva voluto usare un nome che sapeva legato alla sicurezza della famiglia di Garhel, anzi il primo di quei nomi. Ma aveva fatto la scelta sbagliata. Yagoh sapeva cose che solo chi aveva a che fare con l’incendio avrebbe potuto sapere, e questo era ormai assodato. Garhel lo prese per le spalle e lo scaraventò forte a terra: a Yagoh piaceva raccontare di essere un guerriero valido, ma Sawela stentava da sempre a crederlo, vista la corporatura pelle e ossa del suo momentaneo “interlocutore”. Dovette strappargli una ad una quattro falangi prima che Yagoh facesse definitivamente il nome che Garhel voleva sentirsi dire: Lord Justus Panecha. Poi Garhel gliene strappò una quinta, e si fece dire che Panecha aveva organizzato tutto: aveva mandato Garhel via dalla città per poter liberamente colpire il Formicaio, a partire dai più cari all’ex Tribuno Popolare; dalla sua famiglia. In questo modo avrebbe per sempre ridimensionato il potere della plebe a Marrah Cankhubhia, o se non proprio per sempre almeno per un periodo medio-lungo, abbastanza sufficiente per dedicarsi intanto all’espansione e diventare re dell’oriente. Certo, c’era l’incognita del ritorno di Sawela – che l’elefante di Marrah avrebbe a questo punto preferito morto sull’isola di Valyria – da gestire: ed ecco la brillante idea; portarlo subito a Braavos, non permettergli nemmeno di ritornare a casa e vedere quello che era accaduto. Ma in questo Lord Justus, per quanto avesse sperato di farlo, non riuscì a trovare la quadra. Tutto ciò portava a due evidenti conseguenze: la prima, che neanche ora, neanche lì, Garhel era più al sicuro: un individuo così diabolico e avvertito come Panecha non si sarebbe mai accontento di un’incognita; erano di sicuro in arrivo dei sicari freschi freschi per lui. La seconda conseguenza era che Lord Justus non era il solo ad essersi avvantaggiato di quell’immonda macchinazione. Anche un individuo rabbioso, assetato di potere ma mai in grado di sfiorarlo neanche con lo sguardo finché la presenza di Garhel Sawela era attiva e vicina, anche lui aveva ottenuto un vantaggio: Yagoh sarebbe stato il capo del popolo, un popolo misero, asservito e quasi dimezzato dopo l’incendio, però disposto a guardare a lui come nuova guida e faro verso l’orizzonte. E d’altro canto: come faceva Lord Justus a sapere dove risiedeva la famiglia di Garhel? Come sapeva quale pagliaio andare a colpire per scatenare l’inferno e uccidere primariamente la famiglia di Sawela? Lo sapeva perché qualcuno doveva aver tradito. Forse molti: ma molti sicuramente coordinati da un’unica mente di serpente. Quella di Yagoh. Ecco perché, alla fine dell’illuminante ed esaustivo colloquio, quel verme che altro non era non si ritrovò solo senza più un paio di falangi, ma anche senza la testa. Garhel Sawela gliela spiccò via dal collo con la sua sciabola. Poi lasciò quel covo e quindi l’intero Formicaio. Forse per sempre.

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Capitolo 18
*** Passioni e conflitti ***


Capitolo 18

PASSIONI E CONFLITTI

 

 

 

La strategia di Hana della Casa Lannister era cambiata. Per un po’ di tempo – qualche giorno, o al massimo qualche settimana – aveva riflettuto sul come muoversi in quelle circostanze cambiate così impetuosamente in così poco tempo. Ogni cosa era stata stravolta. Eppure lei aveva studiato il modo per adeguarsi mantenendo però dritta la barra: non c’era riuscita. Un figlio era una cosa sulla quale non si poteva trascendere. Il punto era chiaro: bisognava proteggere il nascituro a ogni costo e solo da lì si poteva partire. Questo significava, allo stato delle cose (con tutti i parenti disseminati in giro per il mondo e tutti gli amici imprigionati da qualche parte), assecondare il re. Se poi fosse accaduto qualcosa in grado di mettere in discussione l’egemonia di Gabryaerys, allora e solo allora Hana avrebbe potuto rischiare una contromossa, ma la rivolta da lei di certo non poteva partire. In quel momento era una prigioniera inerme, e da prigioniera inerme non aveva che da comportarsi. Tutto ciò implicava un chiaro rischio: affezionarsi al suo futuro marito. Gabryaerys era l’uomo che aveva ordito un complotto per rovesciare la sua famiglia, ed era l’uomo che aveva ordinato la morte di suo fratello Axelion, morte alla quale aveva assistito e che il suo demone delle ombre aveva eseguito: il traditore maledetto Braff che Hana mai e poi mai avrebbe perdonato. Ma il re era un uomo strano; uno che sicuramente, dietro a tutta questa sua spocchia e desiderio di rivalsa e di potere, nascondeva in realtà un’anima assai fragile: di questo ormai la Lady di Lannister, futura regina, era ormai certa. Gabryaerys era incerto, confuso e pauroso. Pauroso di cosa – essendo circondato serenamente da una congrega di mostri che parevano essergli non solo fedelissimi ma perfino amici – Hana non avrebbe saputo determinarlo. Eppure era un uomo debole e stanco, anche se molto giovane, che ormai una sera sì e una no l’andava a trovare nel suo letto. Peraltro nella maggior parte dei casi non avevano neanche più rapporti fisici. Siccome si vedevano spesso, capitavano anche quelli, ma Hana aveva tratto la seguente conclusione: Gabryaerys da lei voleva un figlio e nient’altro, e un figlio aveva avuto. Dunque, qualsiasi fossero i suoi altri istinti – se davvero ne aveva – di sicuro non era nel talamo di Hana che preferiva sfogarli.

Per tutte queste ragioni la situazione era assai delicata: Hana voleva dimostrarsi devota, fedele: voleva fare in modo che mai e poi mia Gabryaerys pensasse male di lei e che anzi pensasse che lei ormai avesse scelto la strada della più cieca adesione al volere di quello che era il padre di suo figlio. Ma farlo significava continuare ad assecondarlo, fare la moglie, il che inevitabilmente comportava una vicinanza al re che portava come conseguenza una frequentazione, e chissà a quali inaspettati approdi una frequentazione a lungo termine poteva arrivare a portare. Solo il fatto che prima provasse esclusivamente disgusto, mentre invece ora provava compassione per il re Targaryen, la faceva insieme impaurire e venire i brividi. Gabryaerys… aveva un suo fascino, con quell’aria da goffo mostro maledetto che si portava appresso nei momenti in cui non era uno strano tipo incappucciato che si affacciava da un balcone per gridare la sua boria a una folla costretta ad amarlo. Hana si chiedeva se qualcuno l’avesse mai amato: aveva detto di essere figlio di Daenerys Targaryen. Quella Daenerys, la regina delle più antiche e meravigliose storie millenarie. Ma il “re Naharis” – come lo chiamavano le malelingue – era poco più che un ragazzo! E anche questa strana contraddizione in termini determinava un certo fascino. Purtroppo.

Per esempio, quella mattina Gabryaerys l’aveva mandata a chiamare presso il campo fuori dalla città dove il re usurpatore usava praticare i suoi allenamenti alla spada e alla lancia, e lei… una volta l’avrebbe fatto controvoglia, freddamente, cercando di far pesare tutto il suo diniego. Invece stavolta semplicemente si vestì adeguatamente e si fece accompagnare senza un fiato. Lungo il percorso in carrozza, aveva buttato un occhio alle condizioni della città: erano pessime. Roccia del Re non era mai stata uno specchio da quando lei la conosceva e ci viveva, ma certo l’avvicendamento di un nuovo re sul Trono di Spade non dava una sensazione nemmeno vaga di reale cambiamento, il che era tragico; se ti approcci a governare una città, la prima cosa che prendi sono provvedimenti quanto meno propagandistici per dimostrarti superiore al tuo predecessore: tipo pulire le strade, liberarle dall’esercito di accattoni che le occupava, o fare qualcosa per attenuare il puzzo di pesce misto a sterco. Nulla di questo era un vero cambiamento radicale: il vero cambiamento radicale doveva intervenire sulla povertà e la sicurezza, e questi erano problemi che nessuno riusciva mai a risolvere e forse non sarebbero mai stati risolti. Quando si stava apparentemente bene, era perché la città non era sovrappopolata, tutto qua. Erano cose che Hana aveva appreso ben presto, quando le era stata data la possibilità di occuparsi attivamente di politica: suo padre re Lionel voleva fare di lei una sorta di Primo Cavaliere non dichiarato e per questo aveva rispolverato un’antica carica, formalmente praticamente inutile, come l’Altissimo Segretario; era per fare sedere lei al tavolo del Concilio Ristretto, e per nient’altro.

Tutto questo ragionamento sulla città e la politica spinse Hana a riflettere che anche suo figlio un giorno sarebbe stato re, forse. E dunque forse un giorno anche suo figlio avrebbe dovuto affrontare le stesse questioni che al momento si ponevano al re suo futuro consorte, Gabryaerys Naharis. In effetti Hana non considerava la cosa così seriamente dal giorno in cui aveva deciso di rivelare il suo stato di gravidanza a Sua Maestà. Prima o poi se ne sarebbe accorto da solo, dunque Lady Lannister aveva pensato che tanto valeva rendere partecipe il suo real consorte di quella “lieta novella”. Ovviamente quest’ultimo si era quasi fin da subito manifestato entusiasta: certo, cercò di mantenere un controllo regale, non si mise mica a saltare. Ma la baciò più volte, le sorrise, le disse parole affezionate e poi volle portarsela appresso per una intera settimana: agli incontri, alle riunioni, agli allenamenti. Non sempre era stato piacevole: il re continuava ad essere nervoso primariamente per quella questione del duello con Bolton la cui data si avvicinava sempre più drasticamente. Naturalmente non si sfogava certo con la sua promessa né con il nascituro, anzi tendeva a usarli come calmanti: si arrabbiava con altri, poi volgeva il proprio sguardo ad Hana e alla sua pancia sempre più gonfia e si scioglieva in un sorriso liberatorio. Tuttavia, accompagnando il re nell’esercizio delle proprie funzioni, Lady Hana venne anche resa partecipe di alcune importanti informazioni. La prima era che ancora il re non otteneva le aperture che pretendeva da parte del Credo dei Sette, nonostante la solerte attività di mediazione del Lord Gran Maestro Adlai Irwin; l’Alto Septon difatti era restio a scendere a patti con un sovrano che, volente o nolente, aveva acconsentito ad uno sterminio tra la povera gente della città, anche se così facendo sostanzialmente quel re gli aveva fatto un grosso favore. Lord Braff dal canto suo aveva spulciato ogni vicolo e contrada della città alla ricerca del sacerdote Yashua, in merito al quale voci insistenti gli avevano riferito che non fosse morto davvero. E alla fine lo aveva trovato. Braff era stato un po’ confuso, a quanto pareva, nella descrizione di quell’evento, e ancora più confuse arrivarono le informazioni ad Hana, visto che non le arrivarono direttamente dal Maestro delle Spie. Ma a quanto aveva capito, neanche quell’individuo – come d’altro canto i principali collaboratori del suo regale consorte – era del tutto umano. E non aveva manifestato proprio una netta apertura, perché né era nelle condizioni né c’erano le condizioni. Tuttavia Braff aveva detto che Yashua pareva acconsentire almeno all’apertura di una trattativa, il che – visto che fino ad allora il massimo che Gabryaerys aveva fatto era stato sguinzagliargli contro il suo Primo Cavaliere vestito da baronetto e sterminargli i fedeli – era di sicuro qualcosa di estremamente inatteso. Ovviamente però ogni cosa restava confusa, e il fatto che non fosse Braff a dirla rendeva Hana piuttosto scettica. E qui si veniva alla terza ed ultima novità: Braff non riferiva, perché Braff non era lì. Era stato improvvisamente sballato in missione in occidente, perché altre voci – ma pure quelle sempre più insistenti – dicevano che a Castel Granito lo zio di Hana, Constant Lannister, si fosse autoproclamato re, senza alcuna legittimità peraltro a giudizio della giovane regina promessa, visto che l’erede di diritto era suo nipote Napoleon, e se non lui: suo fratello Daniel e se non lui: suo fratello Marcus, dei quali nessuno dei tre lei aveva notizie da moltissimo tempo ma… che fossero tutt’e tre morti, Hana non lo credeva plausibile. E neanche voleva crederci.

Ovviamente la notizia che un ennesimo re fosse sorto su di una roccaforte a non moltissima distanza da Roccia del Re indeboliva ulteriormente la figura del re seduto sul Trono di Spade, Gabryaerys Naharis Targaryen. E Braff era corso a “risolvere” l’annosa questione. Non certo risolvere da subito con una chiacchierata, Hana sapeva benissimo come andavano questo genere di cose… ma tastare il terreno: informarsi sulle ragioni che avevano spinto Constant a fare una scelta simile e quali fossero i suoi punti di forza e di debolezza. E, già che c’era, Lord Alex avrebbe sicuramente studiato pure le ragioni di una simile scelta non tanto del vecchio zio di Hana, quanto dei suoi accoliti, delle loro forze e debolezze e… della loro possibilità di essere persuasi. Era bellissimo il mestiere di Braff, Hana lo invidiava. Per un certo periodo, aveva avuto il modo di esercitarlo almeno in parte e l’aveva trovata l’occupazione più interessante della sua vita. Poi naturalmente era venuta la guerra, e la morte di Axelion, e il tradimento di Braff, e Gabryaerys e… tutto il resto.

Persa nei suoi pensieri, Lady Hana Lannister si accorse a un certo punto che la carrozza la stava portando un po’ troppo distante rispetto a dove si sarebbe aspettata: quello non era più il luogo di addestramento del re suo marito, che lei conosceva bene. Si ritrovò in una sorta di collina ricoperta di fiori, il che era già di per sé un fenomeno naturale alquanto curioso: ad Hana risultava che tutto attorno a Roccia del Re il terreno fosse o completamente brullo o coltivato a cereali e patate. Si fece perfino scappare un «Ma che...?», ma non poté dire altro; il re le venne incontro fin da subito.

Era splendido. Apparentemente più alto e più vigoroso del solito, forse perché la giornata era particolarmente radiosa, e la luce solare colorava i suoi capelli (normalmente di un biondo scuro) di una sorta di strano ramato sovrannaturale. Certo, era pur sempre un colore che non aveva nulla a che vedere con quello che la tradizione attribuiva ai veri Targaryen: i famosi capelli bianco-argentati di quella che Gabryaerys sosteneva essere la sua madre naturale, e che ormai erano estinti da secoli. Però comunque c'era qualcosa che Hana avrebbe definito “regale” in quella figura. Molto più di quanto non ce ne fosse stato nelle figure di re Lionel e di Axelion, che certo non erano brutti, però neanche sostenevano di essere dei Targaryen. Neanche i capelli dei Lannister d'altro canto erano più da secoli gli stessi che la tradizione gli attribuiva: né Hana infatti, né alcuno dei suoi fratelli aveva i capelli biondo-dorato, non li aveva avuti Lionel, e lo zio Pylgrim, attuale reggente di Castel Granito, era addirittura chiamato “Leone Nero” proprio perché aveva i capelli scuri.

Prestandoci maggiore attenzione, Hana si rese conto che quello che le sembrava un fenomeno ambiguo ma naturale era in realtà artificiale. Quella vasta macchia di fiori che ricopriva la collina non era composta da fiori radicati ai loro gambi e alle radici. Erano stati raccolti chissà dove e poggiati sulla valle. Alcuni erano particolarmente appariscenti e curiosi: tanto che Hana non era sicura di averli già visti nella vita. E poi l'odore: c'era un meraviglioso profumo dolce ma non eccessivo che, respirandolo, faceva pensare a un posto simile al paradiso: la futura regina consorte non pensava di saperlo esprimere in altro modo.

«Mia diletta» esordì il re.

«Vostra Maestà» salutò Hana con la consona cortesia: erano pur sempre all'aperto, e non precisamente soli (c'erano i cocchieri, la scorta, una parte della servitù). Gabryaerys continuò: «Ti piace?» e con il braccio indicò la distesa ricoperta di fiori dai mille colori. In effetti era bellissima; glielo disse. Dopodiché il re le chiese di accompagnarlo lungo una camminata per quel giardino appositamente creato. La fece parlare di cose personali: della sua famiglia prima, poi delle sue idee sulla famiglia e poi sulle sue opinioni in merito ai bambini. Hana neanche lo sapeva, ma si riscoprì particolarmente desiderosa di avere il piccolo. Le cose stavano cambiando in fretta, troppo in fretta, e questo la confondeva e la spaventava. Il re la consolò, la abbracciò, la baciò. Poi, giunti sotto un bellissimo ciliegio fiorito – con grande sorpresa della Lady di Lannister – decise di inginocchiarsi e... le chiese ufficialmente di sposarla. Solo in quel momento Hana fece i conti e si accorse di una situazione che forse per qualcuno di più lucido, per qualcuno di non direttamente coinvolto, sarebbe stata perfino banale. I fiori disseminati per un intero pezzo del contado esterno alla cinta muraria della città. La presenza di bambini in lontananza che giocavano, saltavano. Il re, la sua bellezza, i suoi modi, i suoi argomenti. Quel re aveva fatto qualcosa che non molti in quel mondo barbaro e inquinato per troppi aspetti dalla politica usavano fare: aveva deciso di ricorrere al gesto romantico, e... l'aveva sorpresa. La sua stessa commozione, la sorprese. E la sorprese la commozione di lui. Si sarebbe detto che si trattasse veramente di due innamorati, e non di un Targaryen e una Lannister che si univano per ragioni politiche. Stava accadendo tutto troppo velocemente e Hana non sapeva se avrebbe mai potuto amare quell'individuo, non sapeva neanche se avrebbe potuto semplicemente affezionarglisi. Ma sapeva che lui era il re e probabilmente in quel momento l'uomo più potente del continente occidentale, forse l'uomo più potente del mondo. Infine Hana della Casa Lannister sapeva che portava suo figlio in grembo. Concluse dunque che non poteva non accettare, e di conseguenza lo fece. Si godette con serenità il resto della giornata insieme al suo reale futuro consorte. E così anche il resto delle settimane a venire.

 

 

 

Re Constant Lannister si trovava ancora presso Castel Granito. Aveva considerato di inseguire i suoi nipoti Marcus e Mirietta in quella loro folle traversata verso l'ipotetico continente all'occidente. Non ne aveva parlato direttamente con loro: erano stati per troppo breve tempo ospiti (prigionieri) nell'antica roccaforte dei Lannister, però Constant sapeva delle intenzioni probabili di Marcus e Mirietta; il Leone Nero e altri attendenti gliel'avevano raccontato. La folle caccia di uomini e risorse verso un nuovo, del tutto ipotetico, continente: tanto affascinante quanto inverosimile. Poi aveva considerato di accettare un ritiro temporaneo nell'Essos: dove altre carte si stavano nel frattempo mescolando, carte che avevano perfino portato i Lord dell'Oriente ad organizzarsi in una storica riunione presso la ridente e antica città di Braavos, sede della Casa Goldsmith. Tuttavia il re Lannister aveva infine deciso di attendere. Lo aveva fatto perché probabilmente, in cuor suo, nessuna delle due ipotesi era poi così entusiasmante: l'occidente aveva il fascino dell'ignoto, ma anche tutti i suoi limiti; l'oriente era un covo di serpi, lo era da sempre, e Constant sapeva già che gli avrebbe riportato pessimi ricordi del suo passato. Ma Constant aveva anche atteso, perché un illustre ospite aveva deciso di chiedergli un incontro, un ospite inaspettato e che sollevava nel re non poche curiosità, specie di questi tempi. E quella mattina il suo ospite era arrivato: si trattava niente meno di Lord Braff, il Maestro dei Sussurri.

C'era stato un appassionato, anche se rapido, scambio di missive già da quando il traditore era partito da Roccia del Re. Braff non intendeva entrare nella tana del leone senza garanzie. L'ultima volta che si era visto con Constant, infatti, era finito prigioniero presso le celle di Lord Barron a Lungotavolo. Dopodiché, chissà come, era successo che era riuscito ad evadere, Lord Barron era morto e il di lui figlio Gino si era trasferito ad Altogiardino come Lord Protettore dell'Altopiano, andando a sostituirsi alla millenaria famiglia dei Tyrell. Molte cose erano dunque cambiate, ma non era cambiata la posizione di avversari che Constant e Braff mantenevano fra loro. E non era cambiato il fatto che su parecchie di tutte quelle storie il Maestro delle Spie della Corona doveva ancora chiarire diversi punti, o almeno era questo che Constant avrebbe preteso.

Braff dal canto suo aveva veementemente richiesto di accedere in qualsiasi luogo re Constant avesse voluto accoglierlo insieme all'intera sua scorta personale, fatto decisamente insolito per qualcuno che arrivava in missione diplomatica. Eppure non fu possibile farlo arretrare di un passo in merito a tale problema. Una parte dentro Constant avrebbe voluto volentieri far saltare il banco. Una parte dentro di lui avrebbe detto a quel dannato ruffiano di starsene a casa, che la sua presenza a Castel Granito non era gradita e che un giorno il re avrebbe avuto la sua testa. Ma Constant era un uomo illuminato e sapeva che d'istinto era un po' troppo impulsivo, ecco perché aveva avuto la lungimiranza di circondarsi di consiglieri che potessero riportarlo a riflessioni più pacate. Quel confronto con Braff avrebbe potuto essere utile, e il Leone Nero e Sir Bastian insieme lo fecero ben notare questo a re Constant. Ecco perché infine l'incontro stava avvenendo, alle condizioni di Braff.

Per l'incontro venne scelta la Sala Grande del castello, con trono in posizione centrale e pregiati arazzi di porpora ad ogni parete. Si era inoltre optato per la pompa magna: trombettieri, giullari, roba da mangiare in quantità e... l'intero corpo dell'amministrazione del suo momentaneamente piccolo regno, ivi inclusa l'intera guardia armata in gran spolvero. Braff voleva i suoi sicari? Bene: allora Constant lo avrebbe accolto con l'intero corpo dei cavalieri dell'occidente.

Però c'era da ammettere che quelle creature, che già Constant aveva avuto modo di vedere, ammantate delle tipiche bardature della guardia del regno, facevano veramente impressione. Erano più animali che uomini a giudizio del re di Lannister, ma camminavano tutti su due gambe. Qualcuno aveva gli artigli, qualcun alto la coda, qualcuno ancora i denti affilati. Eppure di solito avevano cinque o quattro dita per mano, ecco perchè non erano poi così assurdi con le loro spade alla cinta o i loro archi e dardi alla faretra. Uno spettacolo davvero sconcertante. Eppure, la guardia personale del Lord Maestro delle Spie era perfino peggio. Se Constant poteva dire di aver già visto gli uomini-fiera che da un po' di tempo avevano cominciato a servire l'usurpatore che sedeva sul Trono di Spade, le creature che servivano Braff poteva dire di conoscerle perfino bene, visto che il Maestro dei Sussurri se ne serviva già dai primissimi tempi del suo arrivo alla Capitale, quando i figli di re Lionel erano tutti più bassi di un tavolo da cucina, e il rosso uomo politico aveva cominciato a far da istitutore al più grande della cucciolata: il futuro re Axelion, nipote dello stesso Constant. Anzi, si poteva perfino dire che le guardie di Braff fossero uno dei mezzi mediante i quali il vecchio politico si occupasse dei suoi affari. Inutile negare che parte della forza di Braff risiedeva in quel suo gruppo di sicari professionisti, addestratissimi e silenziosissimi e a lui estremamente devoti. Qualcuno a corte aveva cominciato a chiamarli guerrieri-ombra, ed era così cui di solito anche Constant si riferiva a quegli esseri. Differentemente dalle bestie provenute dall'oriente, i guerrieri-ombra di Braff a un primo acchito sarebbero parsi del tutto umani. E tuttavia in loro c'era qualcosa di profondamente inquietante. Erano quasi tutti alti uguali, quasi tutti biondi e di carnagione chiara, quasi tutti esteticamente piuttosto scialbi. Erano quasi tutti di una fisicità che oscillava tra il tonico-atletico e la vera e propria magrezza, eppure si muovevano con una consapevole e letale sinuosità che li rendeva estremamente rapidi e silenziosi. Che fossero umani, Constant non avrebbe potuto giurarlo, anche se in effetti non li aveva mai visti volare o... lanciare palle di fuoco dal palmo delle mani, come pure Constant stesso era stato addestrato a fare. Tuttavia era anche vero che Constant non aveva mai visto uno dei guerrieri-ombra di Braff mangiare, dormire o andare al gabinetto.

L'ingresso del politico della Capitale fu maestoso e teatrale: gli uomini-belva per primi, gli uomini-ombra tutti in un turbinio di balzi, capriole e strani offuscamenti. E poi Braff, al centro della sala, senza che Constant – dal suo soglio scolpito a forma di leone – neanche si fosse bene accorto di quando e da dove fosse effettivamente entrato. «Mylord di Lannister» s'inchinò il Maestro dei Sussurri, falso e garbato come sempre. Fu Sir Bastian a replicare in nome del re: «Sua Maestà re Constant è un re. Gli appellativi a cui tutti dobbiamo rivolgerci a lui sono dunque “Sua Maestà” o “Vostra grazia”. E con tutti intendo anche voi, mylord»

«Questa è una di quelle fasi della storia in cui ci sono parecchi re» esordì dunque seriamente Lord Braff «Uno qui a Castel Granito, uno a Roccia del Re. Uno a quanto pare da poco giunto presso l'insolito soglio regale di Forte Terrore. E pure il nostro amico e teoricamente alleato Uryon Worchester, mi dicono, di tanto in tanto gradisca tra gli amici di farsi chiamare re. Ma quello che mi chiedo è... se tutti sono re, non è logica conseguenza dire che in realtà non lo è nessuno?»

«Lord Braff, voi vi rivolgerete...» riprese Sir Bastian, ma Constant lo interruppe. Lui era un uomo pragmatico, e per quel genere di cose non aveva né il tempo né la voglia. Disse il re: «Orsù, Alexis, bando alle ciance. Sappiamo entrambi che non sei venuto qui per disquisire di storie e termini. Siamo entrambi due uomini pratici, anche se io esplicitamente e tu... alla maniera tua»

«Molto bene, Constant. Vengo a portarti una parola del re»

«Constant Lannister» fece ancora Bastian, polemico: in tutte le corti c'era sempre qualcuno che si assumeva quel ruolo, «è il re»

«Del re» smorzò Braff «sul Trono di Spader, allora»

«E qual è questa parola?»

«Ti invita alle sue nozze con tua nipote, Lady Hana della Casa Lannister. E alla conseguente pace che ne scaturirà su tutti Sette Regni»

«Non ci sarà mai una pace finché io sarò in vita. Questo regno merita un sovrano come si deve. Per troppo tempo ne è alla ricerca disperata, e io penso di poterglielo dare»

«Perdonami la battuta, Lord Constant, ma stando alla logica della discendenza dei Lannister – che io non rappresento – non è forse Napoleon Lannister il vostro legittimo re? E, se non lui, non lo è forse Daniel Lannister, e dopo di lui Marcus Lannister?»

«Ogni tempo richiede delle sue priorità, Lord Braff. E io sono la priorità di questo tempo. Ad ogni modo... sicuramente il ragazzino che siede sul soglio che è stato di mio padre non ti ha mandato qui solo per mandarmi inviti provocatori cui di certo non si aspetterà un assenso. Ti ha mandato a negoziare, no? È probabile che io non accetti in nessun caso, ma sono curioso: che cos'è che il re Naharis mi offre?»

«Sua Maestà Gabryaerys della Casa Targaryen non offre altro che la sua amicizia, compendiata dall'invito per te e la tua corte al suo matrimonio. Tuttavia ti invita anche a riflettere su un paio di cose: lui detiene insieme il corpo regolare dell'esercito del regno più una nuova armata particolarmente poderosa proveniente dall'oriente, di cui hai davanti agli occhi un esempio. C'è di più: il re può contare sul saldo appoggio dell'Altopiano e, qualora necessario, anche sugli uomini del nord. Mentre tu, Lord Constant... tu hai Castel Granito».

Constant si era preparato a quel genere di discorso. Certo, sulla carta il discorso di Gabryaerys per bocca di Braff non faceva una grinza. Ma qualche postilla poteva essere annotata: «Quando dici “gli uomini del nord”, Lord Braff, sappiamo entrambi che non intendi i Bolton... i Bolton che sono più vicini a voi di quanto Worchester non sarà mai. E mi risulta che quella dei cavalieri dell'uomo scuoiato sia una delle armate più aggressive, efficienti e forse numerose del continente... io non sono bravo coi conti, ma può essere che la vostra ipotetica vittoria sul “solo” Castel Granito non sia altro che una sorta di autoconvincimento? Ai Targaryen, d'altronde, piace da sempre raccontare di avere draghi anche quando hanno gatti e sorci. Sono... un po' eccessivi»

«Come dicevo prima» fece Braff beffardo «L'esercito degli uomini-belva lo puoi ben vedere in alcuni esemplari qui davanti a te. Se tutto ciò, unitamente alle forze della Capitale e di Altogiardino ti pare poco, allora accetta la sfida e buona fortuna. Debbo dunque riferire a Sua Maestà che il suo invito è rifiutato?»

«Sì, è così che devi dirgli. E aggiungi che quello che Constant Lannister vuole è solo il bene del regno. E il bene del regno è Contant Lannister re»

«La guerra allora è dichiarata. Sarete annichiliti ancor prima che Lord Bolton possa avere notizia della messa in marcia delle truppe del re. E tu questo lo sai, non è vero, Constant? Sai che nei conflitti il fattore tempo è essenziale. E per quanto tu voglia mostrarti sicuro di te, sai benissimo che Bolton non farà mai in tempo a raggiungerti neanche se lo contattassi stasera stessa. Lo hai detto tu: sei un uomo pratico. Allora immagino tu abbia degli assi nella manica perché, stando le cose per come stanno ai miei occhi, Castel Granito è già capitolata in questo momento»

«L'ultimo volta che ci siamo visti, Lord Braff, qualcosa nei tuoi piani non ne è andata per come immaginavi. Sei stato sorpreso, da Lord Barron. E fatto prigioniero. Quello che posso assicurarti è che Castel Granito farà di tutto per sorprenderti di nuovo»

«Mylord dimentichi che dopo Lord Barron è morto. Suo figlio ha lasciato il soglio di Lungotavolo a Jon Barthalo e ora è il più fedele alleato del re con il titolo di protettore dell'Altopiano. E io... mi trovo qui, libero, dinanzi a te»

«A proposito Braff... mi devi una spiegazione. Come è possibile tutto questo? Come è successo che, senza l'ausilio dei tuoi preziosi giovanotti-ombra tu sia riuscito a evadere dalle carceri di Barron e... a ucciderlo?»

«Mylord» fece Braff seriamente stranito «Gino Barron sa che tu hai ucciso suo padre»

«Evidentemente è un po' confuso, il ragazzo»

«Già» chiuse il Mestro delle Spie del re alla Capitale, e un impercettibile ghigno Constant riuscì ad intercettargli all'angolo della bocca. Poi il politico completò: «Può darsi», e a un suo cenno un nugolo di uomini-bestia e guerrieri-ombra cominciarono a gironzolargli attorno come saltimbanchi. Quando finirono, Braff non era più nella sala. Dopodiché quest'ultima venne lasciata anche dalle truppe straniere.

Irritato, Constant lasciò a sua volta il trono che era stato di suo padre praticamente un istante dopo dei suoi avversari. La situazione era chiaramente pessima: Braff aveva ragione su tutta la linea; la Corona aveva tutto l'interesse di soffocare in fretta ogni sacca di resistenza al sud per poi concentrarsi su Bolton. E l'unico fastidio serio che avevano era a Castel Granito. Con i cavalieri dell'Altopiano al loro fianco, gli uomini-bestia e le armate regie non avrebbero sostanzialmente avuto alcun ostacolo dai Lannister, pur considerando re Constant e i suoi poteri. I suoi poteri avrebbero al massimo potuto salvare lui, ma mai i suoi uomini. La partita era davvero già conclusa: tanto valeva dichiararsi sconfitti e salvarsi la pelle, cercando di recuperare magari qualche spazio di manovra per il futuro (un posto al Concilio Ristretto, qualche accordo commerciale). Constant aveva pensato rapidamente a tutto questo sulla strada dalla sala del trono al suo appartamento. Aveva un mal di testa che sentiva come se le tempie gli stessero scoppiando. Si preparò un analgesico dalle sue scorte, mentre Bastian lo raggiungeva alle spalle. Chiese dunque il re al suo servitore: «Ma di questo Gino Barron che cosa sappiamo?»

«Poco, purtroppo» rispose Bastian «Troppo poco. È un ragazzino: come tutti i ragazzini, non ha una lunga storia alle spalle. Solo Lungotavolo e un breve periodo a servizio come attendente presso Lorthan Tyrell»

«È pochissimo davvero» commentò Constant «Senza dubbio non ci sono spiegazioni diverse in merito alla sua presa di Altogiardino: ce l'ha messo Braff. E questo significa che ha avuto tutto il tempo e il modo di irretirlo a dovere. Ci sarà anche scritto “Barron” su quell'esercito, ma è “Lord Braff” che si legge. Quella via è dunque impraticabile: l'attacco da Altogiardino arriverebbe, e arriverebbe con uguale violenza di quello da Roccia del Re. Dannazione!»

«Puoi sempre scappare» la buttò lì il suo consigliere, forse neanche rendendosi conto di quanto grossa la stesse sparando: ma aveva notato lo smarrimento nel suo re e dunque aveva tentato la carta dell'acqua sul fuoco. Proseguì pure: «In questo momento della storia... il ruolo di Castel Granito è chiaramente minoritario. Ma il tuo non lo è, Maestà. Lascia l'occidente»

«Per andar dove» ringhiò Constant, trangugiando il suo intruglio, «Bastian?»

«In oriente, dove sei richiesto. Lì potrai riposare e magari intessere qualche nuova interessante relazione»

«Te l'ho già detto: l'oriente per me è traumatico. Non ci torno dai giorni dei fatti che coinvolsero Ladylynn, e... non voglio andare»

«Allora... non rimane che una rotta, Maestà». Constant si voltò verso il suo consigliere. Il mal di testa gli si stava già miracolosamente affievolendo. Comandò: «Manda qualcuno dei nostri a sorvegliare i generali di mio zio: che non gli venga in testa di trescare con quella piovra di Braff. Dopodiché... predisponi tutto per il mio viaggio».

 

 

 

Da quando erano successi i fatti del vespro, Brendan non osservava più il tramonto con gli stessi occhi. Prima, la notte era solo il naturale susseguirsi del giorno: un evento che aveva a che fare con la meccanica della natura e con nient'altro. Ma adesso... adesso la notte era il luogo delle paure e degli incubi; di spettri e demoni. Anche se provava a dimenticare, una notte sì e l'altra pure il giovane monaco di Banefort si ritrovava a svegliarsi in preda ai sudori. Quello che stava succedendo in quella città non era chiaramente nella grazia degli Dèi. Doveva esserci un qualche passo del libro dell'apocalisse in cui si parlava di tutti quei mostri che improvvisamente uscivano fuori dalle fondamenta putride della terra per venire a infestare questo mondo: Brendan l'aveva letto. E il Lord Primo Cavaliere di re Gabryaerys era sicuramente uno dei suddetti mostri. Chissà: forse pure il re stesso lo era. E forse pure Yashua, il sacerdote del dio del fuoco sconfitto la notte del vespro, lo era stato. D'altronde le forze del male non risiedono in minor parte un po' dentro tutti? Forse per qualche ragione Brendan meritava di assistere a tutto questo. Forse aveva commesso un grave errore e neanche se ne rendeva conto. O forse qualcuno voleva metterlo alla prova...

Fu con un po' di panico, e con tutta l'intenzione di tornarsene quanto prima nella sua cameretta, che Brendan accettò ed eseguì l'ordine di andare a prendere l'acqua al pozzo. C'erano certe cose che si dovevano fare, e che in particolare un novizio che aveva avuto la fortuna di essere elevato al ruolo di assistente personale dell'Alto Septon, non poteva assolutamente rifiutarsi di fare. Lui doveva solo limitarsi a ringraziare ogni volta che potesse l'Alto Septon e tutti i Sette Dèi, innanzitutto per essere vivo. In secondo luogo per essere a Roccia del Re, e in terzo luogo per essere così utile per così tanta gente. Non tutti i monaci conducevano la vita “sociale” che conduceva lui. Anzi, la maggior parte dei suoi confratelli viveva in uno stato di quasi clausura. Ma quello non era il compito che la vita aveva attribuito a fratello Brendan. E quella sera Brendan aveva da prendere l'acqua al pozzo.

Stava rimuginando su Septa Sharma, e sulla sua sensazione che in realtà proprio nei freddi e acquosi occhi di quella vecchia era come se si potesse rintracciare la vera leadership religiosa di quella città, e non nel paffuto, venale e talvolta sciocco e prevedibile Alto Septon: Brendan ormai lo conosceva e avrebbe saputo dipingerne ogni limite. Sharma invece era enigmatica, parlava per massime e in pochi riuscivano a comprenderla davvero: ma tra questi c'era Sua Sacralità l'Alto Septon, e Sua Sacralità l'Alto Septon alla fine finiva per fare quello che Sharma diceva, questo ormai per Brendan era chiaro come il sole. Il giovane novizio dei Sette stava proprio concludendo questo, quando a un certo punto della sua camminata ebbe la strana sensazione di sentirsi osservato. Gli capitava spesso quando era solo di notte. Meglio: gli capitava spesso quando era solo di notte, da quando erano successi i fatti del vespro e prima la sua prigionia presso il diavolo Yashua. Eppure c'era qualcosa di strano quella sera. Nelle nubi grige e immobili che se ne stavano appollaiate sul cielo. Nell'aria, come leggermente rarefatta. Nel silenzio, il silenzio assoluto di una città normalmente chiassosa.

E a un certo punto, mentre il secondo dei tre secchi che Brendan si era portato appresso dalla chiesa si trovava ancora giù nel pozzo, la ragione di tutto saltò fuori palese e dichiarata, quasi una provocazione rabbiosa nell'inquietante sereno che l'aveva preceduta. Tutta una parte delle nubi nel cielo sopra Brendan si fecero rosse come sangue. Dal nulla, da un luogo che Brendan non riuscì chiaramente a scorgere nonostante la sua totale mancanza di problemi ai riflessi, venne fuori il sacerdote Yashua. Era diverso. Sembrava invecchiato, e parte della pelle era come piena di croste da ustione. Chiazze vuote gli si intervallavano tra i capelli così come tra i peli della barba. Eppure era lui: quell'espressione in parte seria e in parte malvagia Brendan non l'avrebbe più dimenticata. Lo stregone gli disse: «Ne è passato di tempo, giovane novizio»

«La-lasciatemi in pace» balbettò Brendan, dandogli le spalle e lasciando lì i secchi dell'acqua. Yashua gli rispuntò davanti: «Lo sai che non posso. Sono venuto a prenderti»

«Pre-prendermi? I-io non ho nulla da fare con voi. Nulla da dirvi!»

«Io ti auguro di avere molto da dirmi. Su Sua Sacralità e sulla Beata Fede di questa città. E chissà: magari anche sul re e sui suoi servitori. Sulle rivalità e le alleanze. Le passioni e i conflitti che governano questo regno»

«Invece no»

«Devi averne, fratello Brendan. Perché se così non fosse... allora per te l'unica altra alternativa sarebbe... la morte».

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Capitolo 19
*** Il folle piano di Licyane ***


Capitolo 19

IL FOLLE PIANO DI LICYANE

 

 

 

Licyane non era Anylice. Licyane era umana sotto ogni aspetto, e questo Daniel di Cowain aveva ormai avuto modo di verificarlo con assoluta precisione. Da quando il principe prigioniero presso la casa di Uryon Worchester si era ripreso, lui e la ragazza avevano avuto modo di fare l'amore otto volte. Le aveva contate una a una come fossero oggetti da collezione. Voleva conservare quei ricordi per sempre dentro di sé; quello che più di tutti lo aveva meravigliato era stata la sorpresa, il fatto che neanche nei suoi sogni più rosei il principe avesse considerato l'idea di tornare ad avere una donna prima della sua ridiscesa al sud. Non lo aveva considerato fin tanto che era stato apprendista presso il drago Nidhogg, in quanto sapeva bene che nel corso di quel genere di apprendistati gli incontri amorosi erano espressamente vietati. E poi ovviamente non lo aveva considerato durante la sua “aurea” prigionia presso la città di Biancavilla del Nord.

C'era stata la ragazza di ghiaccio: era vero. Ma Anylice era stata più un sogno che altro. Daniel era rimasto colpito senza dubbio: dal colore quasi disumano della sua pelle, dal fatto che fosse in grado di fare magie totalmente opposte alle sue, e con un atavico ma superiore grado di conoscenza. Lo aveva colpito ma... Daniel non aveva mai pensato a nulla di carnale con lei: sarebbe stato come minimo curioso. Anylice... non apparteneva al mondo della carne. Ma Licyane... lei era di carne eccome.

Da prima ancora che Daniel si fosse ripreso definitivamente, ovvero già ancora da quando si trovava costretto a letto, Uryon gli aveva fatto montare alle caviglie un ceppo ancora più grande del precedente. Con un pezzo di Pietra di Luna molto più grosso di quello prima. Ma poi... dov'era che Uryon riusciva a trovare tutta quella materia che, sulla carta, avrebbe dovuto essere qualcosa di estremamente inusuale? Vero: il Lord deforme era l'uomo più potente del nord e uno dei più potenti al mondo, e se qualcuno avesse potuto avere disponibilità di Pietra di Luna, forse proprio lui poteva anche essere quel qualcuno ma... che sfortuna sfacciata! Che dannata sfortuna sfacciata.

Ormai Daniel aveva rinunciato a decifrare l'individuo enigmatico che chiamavano “orso del nord” e che lo teneva prigioniero. Era malvagio e molto spesso suscitava nel principe di Cowain sentimenti negativi come rabbia e odio. Ma al tempo stesso, quando provava quei sentimenti per il Lord di Biancavilla, Daniel si sentiva anche un po' in colpa: era più forte di lui, non lo faceva apposta. Avrebbe voluto odiarlo davvero il suo carceriere, avrebbe voluto augurarsi la sua morte ma... non se l'augurava. Oh, certo: si augurava che prima o poi Uryon fosse sconfitto e che qualcuno in qualche modo lo avesse liberato, però... la morte no. Non sarebbe stato un trattamento equo per un individuo a suo modo colto e pieno di sorprese come Uryon Worcheste era.

Tuttavia Daniel aveva smesso di interrogarsi oltre su di lui. Il loro rapporto aveva preso una pessima china: Uryon lo aveva fatto prigioniero e Daniel lo aveva odiato, poi Uryon lo aveva parzialmente liberato e gli aveva concesso di vivere ad Amergoth, l'immensa torre-biblioteca. Ma poi qualcosa nei poteri di Daniel era andato storto: erano riusciti a scoppiare nonostante la Pietra di Luna, parte del castello era andato a fuoco, e Uryon lo aveva fatto tornare alla condizione iniziale: un prigioniero ai ceppi. E non più ad Amergoth per giunta: il re del nord era rimasto scioccato da quello che era accaduto nel quartiere delle stalle e non intendeva correre i medesimi rischi con i tesori della biblioteca. Era come se le ragioni fossero contingenti, come se non ci fosse in realtà qualcuno con cui prendersela, ma Daniel doveva vivere da prigioniero e Uryon lo stava costringendo a farlo.

Per fortuna c'era Licyane. Sempre più legata, sempre più affettuosa, sempre più simpatica, sempre più calda. Fu così che trascorsero i mesi: tra la rabbia della condizione di prigioniero e la gioia della condizione di innamorato. Un contrasto talvolta anche combattuto senza dubbio: Daniel Lannister non era uno qualunque, aveva dei doveri, una famiglia, un futuro importante... non si poteva rinunciare a tutto quello a cuore leggero. Eppure il suo amore per Licyane cominciò a fargli dimenticare molte delle cose che in una vita precedente avevano destato l'interesse del principe di Cowain. Licyane aveva per lo meno questo potere. Ed era proprio mentre si trovava perso in quest'incantesimo, mezzo nudo e con Licyane seduta sulle sue ginocchia che all'improvviso il fulmine della verità esplose nel ciel sereno di quella sopita quotidianità. Interrompendo l'appassionato bacio che gli stava dando, Licyane gli disse: «Dobbiamo andarcene da qui»

«C-cosa?» balbettò Daniel, mezzo rintronato, e continuò a baciarla.

«Sì» rise lei, ed interruppe un altro bacio, irritandolo non poco, «È giunto il momento»

«Cosa?» ripeté il principe di Cowain, serio stavolta, ed interruppe lui le effusioni e ora definitivamente. Costrinse Licyane a scendere e si mise in piedi, al solito caracollando un pochino per via del ceppo alle caviglie. «Immagini... questo nel tuo futuro?» gli chiese Licyane, dolcemente. «Francamente» rispose il principe «Non immagino molto del mio futuro»

«Daniel, sei un prigioniero. Mantenuto in vita per fini politici. E se quei fini politici dovessero cambiare....». In effetti a questo lui non pensava da un po'. Cioè: certo, era chiaro. Daniel poteva anche essere usato come merce di scambio, o come minaccia. Se avesse voluto, Uryon avrebbe potuto tagliargli via un pezzo alla volta per mandarlo alla Capitale, o chissà dove si trovassero al momento i Lannister più influenti. E naturalmente avrebbe anche potuto ucciderlo. La situazione era pessima, solo... che non c'era niente da fare... oppure c'era? Era a questo che la giovane impiegata della biblioteca voleva arrivare?

Daniel provò a mantenere i toni comunque bassi. Disse: «Beh, ma in questo momento... non stiamo forse bene? Non è adesso la nostra vita, e in questo castello?»

«Non necessariamente. E comunque non per sempre, non può esserlo». A questo punto la ragazza fece un gesto che al giovane principe piacque davvero poco. Prima lo guardò dritto negli occhi con tutta la serietà del mondo, e poi... si passò una mano sulla pancia. E non a dire, come pure Daniel si sarebbe augurato: “Mh... che appetito”. No, voleva dire quell'altra cosa. Ma quanto, come e chi questo Daniel non lo sapeva, o meglio: in quel momento la sua testa non fu in grado di dargli alcuna risposta, neanche le più semplici. Era completamente intontito. Disse solo: «Sei sicura?»

«No, non è questo il punto» Licyane tolse la mano dal proprio ventre «Il punto è che è stato bello vivere la giornata in questi mesi, conoscerci per come ci siamo conosciuti, e ridere e passare le serate alla biblioteca con Kohler e gli altri. Ma ora voglio cambiare. Me ne voglio andare e... vorrei che tu venissi con me»

«Ma come faccio? Sono controllato a vista! C'è gente che mi spia esplicitamente, e c'è sicuramente gente che mi spia senza farsi vedere. Uryon non mi lascerebbe mai andare»

«Non ho detto che sarebbe stato facile» fece Licyane un po' delusa «Volevo solo capire se volevi farlo»

«Mi stai chiedendo se vorrei essere libero? Certo che lo vorrei! Solo non credo ci sia modo»

«C'è un modo. Non sei più uno sconosciuto venuto dal nord la cui identità Uryon teneva strettamente segreta. Sei Daniel, ti conosciamo, sei nostro amico»

«Nostro? Intendi coinvolgere altri?»

«Sono sicura che Kohler e i suoi sarebbero più che felici di...»

«Licyane ma a che cosa stai pensando esattamente? Perché io non vorrei passare come quello che non intende uscire fuori e stare insieme a te e vedere quello che il mondo ha da offrirci.... ma è rischioso. E pericoloso: per me, per te. E anche per qualcun altro. Non intendo mettere a rischio vite innocenti se...»

«Ho un piano e funziona! Lascia che te lo spieghi». Non era la prima volta che Licyane usava quel tono con lui. E lui non riusciva a non restarci incantato. Ascoltò il suo piano.

Era una cosa da pazzi! Però poteva funzionare. Era una cosa che avrebbe fatto andare Uryon su tutte le furie, lo avrebbe fatto schiumare di rabbia. E non semplicemente per l'affronto di tentare la fuga. Uryon aveva avuto di recente quell'esperienza, l'aveva odiata e spesso ne aveva parlato, ricordando quanto aveva rischiato e quanto non avrebbe tollerato di nuovo quella situazione. Ed era proprio su questo che il piano di Licyane avrebbe fatto leva. La cosa che più di tutte il mostruoso orso del nord temeva era di vedere Amergoth bruciare. E proprio un incendio alla torre era quello che Licyane intendeva causare.

Naturalmente, come con tutti i piani rischiosi, l'ipotesi di un fallimento non andava neanche considerata. Daniel non voleva nemmeno immaginare alla lontana che cosa Uryon gli avrebbe fatto se loro avessero messo in atto il folle piano di Licyane e poi, in qualche modo, il re del nord li avesse riacchiappati. Probabilmente a Daniel avrebbe riservato un'armatura in Pietra di Luna da indossare giorno e notte, visite alla latrina comprese.

Ma se Amergoth fosse bruciata, subito tutte le energie del castello si sarebbero spese in quella direzione, incluso magari il manipolo di guardie normalmente messo a sentinella del principe di Lannister. O, diceva Licyane, se non tutte magari una buona parte tanto da lasciare quelle altre poche indifese per un eventuale assalto da parte di Kohler, Holler e gli altri della compagnia. Perché però Kohler e i suoi avrebbero mai dovuto sobbarcarsi un rischio simile Daniel non lo capiva. Erano gente del nord, loro. E al nord si trovavano le loro famiglie. Qualcuno di loro aveva a casa una ragazza con un paio di frugoletti, qualcun altro dei genitori ammalati. Il lavoro al castello per loro era determinante : non avevano un caldo regno al sud tutto per loro, come il principe di Cowain. La loro vita era irrimediabilmente legata a quel maledetto nord del continente: non avrebbero mai accettato di fare quello che Licyane era intenzionata a chiedergli, o almeno così la pensava Daniel.

E invece Daniel si sbagliava. Continuò a stentare a crederci anche mentre Licyane, di cui teoricamente si fidava ciecamente, glielo stava spiegando: i loro amici del nord avevano intenzione di aiutarli perché da tempo programmavano di lasciare quel luogo; avevano ammucchiato un po' di soldi e intendevano fare un viaggio verso sud possibilmente per rimanerci. Era un sogno che coltivavano in comune praticamente da sempre. Certo: l'idea era quella di andarsene pacificamente all'inizio, e Licyane aveva dovuto calcare un po' la mano per convincerli. Ma in fin dei conti avevano deciso di accollarsi quel rischio: Daniel era diventato un caro amico per loro. E poi era un Lannister, e un Lannister paga sempre i suoi debiti: se mai Daniel fosse stato libero, e se mai fosse tornato al sud, o pur rimanendo a nord fosse tornato ad occupare il suo rango... loro sarebbero stati quegli amici del nord cui quel principe di Lannister avrebbe dovuto la vita. E avevano accettato.

Mai e poi mai Licyane avrebbe bruciato i libri della biblioteca: era affezionata a quel luogo, e a quei volumi, forse perfino quanto Uryon stesso: a suo dire, in qualche modo anche lei c'era cresciuta in quella torre. E poi non si dava fuoco a un tesoro inestimabile così a cuor leggero: Daniel avrebbe sfidato qualsiasi plebeo pecorone e ignorante a farlo. Beh, sì: forse qualcuno del popolo più alla deriva lo avrebbe fatto, ma certamente non tutti. Quindi: fuoco ad Amergoth, possibilmente in una zona scenografica ma non troppo rischiosa per i volumi seriamente importanti (Licyane conosceva la biblioteca come le sue tasche); dopodiché fuga di Daniel dalla finestra della torre in cui lui a sua volta era rinchiuso, e infine incontro tutti assieme in un luogo sicuro appositamente concordato e che tutto il gruppo conosceva bene.

«Ho un solo ultimo dubbio, che mi rimane» disse Holler, che di Kohler era praticamente il migliore amico, ad una riunione preventiva che stavolta l'intero gruppo stava discutendo, tutti beatamente riuniti negli appartamenti-prigione del principe di Cowain. Era vero: c'erano dei gaglioffi di Uryon che scortavano Daniel notte e giorno se non proprio in ogni camera in cui si trovasse, normalmente in quelle accanto. Ma Licyane e anche gli altri in verità diffidavano delle reali capacità cognitive di quegli energumeni, e Daniel decise di fidarsi. Daniel pareva anche il meno convinto da tutta quella operazione, ma non voleva dare una delusione a Licyane, che invece non solo era la più convinta: era praticamente certa che tutto sarebbe andando per il meglio. Anche ammettendo che alla fine entrambi si sarebbero ritrovati davvero liberi e al sicuro da qualche parte più a sud, almeno un imprevisto il principe di Cowain l'avrebbe dato persino per certo. Il rosso Holler proseguì col suo dubbio: «Anche ammesso che riusciamo a lasciare i confini di Biancavilla, anche ammettendo di riuscire a cavalcare per miglia e miglia, senza fermarci a riposare... a un certo punto, di una tappa avremo bisogno. Non si può attraversare l'intero nord fino all'Incollatura senza qualche pausa. E Uryon riempirà il suo regno di taglie, specialmente se riusciremo nell'impresa di far scappare anche Daniel. Io non posso tornare a casa di mio padre, e comunque non ci staremmo mai tutti quanti, e poi... insomma viviamo in un villaggetto che sì è piccolo, ma pieno di gente che parla e osserva. Pure troppo. Immagino che siamo messi così un po' tutti»

«No» fece Licyane, seria, «Non io. La mia famiglia ha un capanno in campagna. E una comoda stalla per greggi. Si trova un po' prima di Piazza di Torrhen. Se nessuno ha nulla da contestare, andremo là». Bene o male assentirono tutti. Poco dopo, si congedarono. Daniel e Licyane rimasero da soli ancora una volta. Lei percepì qualcosa in lui, tanto che gli chiese: «Che c'è?»

«Che c'è?» rispose il principe Piromante «Niente»

«Non sei convinto»

«Beh, sai come la penso... è sempre un rischio, ma... ne abbiamo già parlato»

«Sì» sorrise lei, prendendogli la mano, «Andrà tutto bene. Poi che altro?»

«Ma niente.... sono solo stanco. E...» anche Daniel sorrise «Sei riuscita a convincere tutti»

«Non lo pensavi possibile, eh? Tu credevi che fosse solo una sparata, quando te lo raccontai la prima volta non è vero? E invece ora... sta per essere fatto»

«Sì»

«Allora meno muso lungo, ok? Tu mi piaci sempre, ma quando sorridi migliori di parecchio»

«Sono solo preoccupato. Abbiamo costruito tanto e ora... lo stiamo mettendo a rischio»

«Daniel, per favore, anch'io sono un po' stanca e non me la sento di rifare gli stessi discorsi ancora una volta. Tu dici che abbiamo costruito un buon rapporto con Uryon, io dico che è il tuo carceriere e il despota di questa parte di mondo. Tu dici che qui siamo stati bene, io ti dico che ora voglio qualcos'altro e qualcos'altro si può costruire solo al di fuori di queste mura. Hai paura. Te le confesso: ne ho anch'io. Anch'io so che stiamo rischiando qualcosa ma... Daniel, io... io sento che è la cosa giusta». Lo baciò, gli diede un'ultima occhiata un po' incerta e poi, praticamente sulla soglia, un attimo prima di sparire, gli disse pure: «Ti amo».

E lo lasciò così, come se nulla fosse. Era la prima volta che uno dei due lo diceva all'altro e lei lo aveva sprecato così, senza attendere una risposta, come un bambino che corre via dopo aver lanciato un sasso da uno spalto. Era bello, bellissimo e Daniel non se l'aspettava e... e ricambiava, ricambiava disperatamente ma... lei non gli aveva dato modo di esprimersi a sua volta. Così come, in fondo, non gli aveva dato neanche modo di esprimersi per tutto quell'affare della fuga dalle grinfie affilate di Worchester. Licyane aveva detto che sentiva che quella era la cosa giusta da farsi. Buon per lei: Daniel sentiva che non lo era affatto.

Concordarono tutti insieme un giorno in cui finalmente sarebbero stati pronti e misero in pratica il folle piano di Licyane. Con un senso di apprensione e aspettativa, non scevro di dubbi, il principe di Cowain trangugiò una cena veloce e poi attese. Osservò l'aria di fuori farsi piano piano sempre più tesa. Voci che in un altro momento avrebbe considerato assolutamente normali, in quel momento erano sempre più insistenti. Sussurri si rincorrevano al di dentro e soprattutto al di fuori del castello. Poi un'insolita luce innaturale proveniente da una parte non direttamente osservabile della magione, ma che Daniel sapeva benissimo a che cosa imputare: l'incendio era stato appiccato ed era già bello grosso. Il piano stava procedendo. Le voci si fecero sempre più insistenti e caotiche. I fratelli Wren e Shren, del gruppo di Kohler, irretirono le guardie di Daniel raccontandogli di come Lord Uryon avesse ordinato a tutti gli uomini in grado di sollevare pesi di muoversi in direzione della biblioteca per dare un aiuto allo spegnimento del fuoco. Incredibile: stava davvero andando tutto per il meglio! Solo pochi minuti dopo, Kohler e Holler furono sotto la finestra del principe, alla guida di un carro ricolmo di paglia e tenero fieno, trainato da quattro possenti stalloni. Una lieve stretta al cuore, per qualche secondo, prese il principe di Cowain quando – come da programma – si gettò giù dalla sua torre-prigione. Se avesse sbagliato anche di poco la mira, sarebbe finito spiaccicato al suolo. Ma anche questo non accadde: Daniel il Piromante atterrò morbidamente sulla paglia e il fieno del carro.

Dopodiché venne la grande corsa: la prigione di Daniel, come il resto del castello di Worchester, si trovava nel bel mezzo della cittadella. Il carro dovette inevitabilmente affrontare tutta una ragnatela di vie e viottoli per lasciare quanto più celermente la città, e prendere inoltre almeno altri due gruppi di congiurati disseminati per Biancavilla: uno che aveva appiccato il fuoco, un altro messo ad osservare gli spostamenti del Lord dell'orso. Anche questo avvenne tutto quasi perfettamente, ma con l'inconveniente di attirare l'attenzione: vero, c'era il caos per la città, ma anche un carro guidato in maniera forsennata alla fine un po' di attenzione stava cominciando a destarla. Le autorità se ne accorsero a circa due o tre strade dalla fine. Gli tirarono qualche freccia, una incendiaria, un'altra sfiorò Wren e non lo prese per miracolo. Ma alla fine l'impresa riuscì. Otto uomini, una donna, quattro cavalli e una bella balla di paglia e fieno in fuga dal più influente degli uomini del nord. E adesso?

 

 

 

Il programma era di correre tutta la notte fino alla fattoria dei genitori di Licyane, non molto distante da (guarda caso) Grande Inverno, un'antica capitale dell'epoca dei grandi re e regine, distrutta e ricostruita più volte, fino all'ultimo grande conflitto del nord di qualche secolo prima. Era la sede degli Stark, i leggendari guerrieri che cavalcavano lupi grossi come cinghiali e brandivano spade fatte di ghiaccio. Storie antichissime, di cui poco era rimasto, anche perché a un certo punto della loro storia, se Daniel non ricordava male dai suoi studi infantili, gli Stark avevano pure subito una sorta di damnatio memoriae. E comunque erano cose che sapeva lui, che aveva avuto la fortuna di ricevere un'istruzione: per la gran parte del popolino invece, Daniel temeva che non fosse rimasto più che un nome – Stark per l'appunto – e poco più. Ebbene da qualche parte nelle foreste non lontane dal vecchio soglio degli Stark abitavano il papà e la mamma di Licyane. Lì si diresse il carro in fuga.

Per tutta una buona parte della giornata l'ansia di essere ripresi dagli uomini di Uryon non accennò a scemare. Eppure la cosa non si verificò: il piano di Licyane aveva davvero funzionato alla perfezione; Amergoth che bruciava era troppo più importante di un prigioniero in fuga, anche di un prigioniero dell'importanza di Daniel Lannister. E quindi alla fine tutte le attenzioni dovevano esser state rivolte alla torre-biblioteca. Ciò non tolse che il viaggio fu lungo e tormentato. Oltre alla paura e ad un'altra serie di svariati disagi psicologici, la compagnia di fuggiaschi a un certo punto incontrò anche la neve. Neve densa e continua, per fortuna non accompagnata da un altrettanto abbondante vento, altrimenti davvero sarebbero stati costretti a fermarsi troppo presto. Ma quando giunsero alla fattoria dei genitori di Licyane, più della metà di loro era nel pieno di un sonno profondo, e tutti gli altri – incluso il guidatore – avevano almeno un occhio già chiuso. Erano infreddoliti, e alcuni di loro affamati. E in queste condizioni bussarono alla porta di quella sorta di rudere immerso nel nulla, oltre che nella neve.

L'accoglienza non fu delle più calorose. Daniel non era un uomo del nord e nonostante da fin troppo tempo bazzicasse quella regione del continente (tanto da non poterne proprio più) non aveva conosciuto abbastanza persone da sapere come funzionassero tutte le “interazioni”. In linea di massima, dire che al nord la gente non fosse proprio espansiva non era dire nulla di così sbagliato. Ma se Daniel avesse dovuto descrivere con una parola l'espressione con cui il genitore di Licyane accolse la figlia non appena la vide alla propria porta, di sicuro “gioiosa” non sarebbe stata quella parola. “Sorpresa” e forse anche un po' “indisposta” ci sarebbero state decisamente meglio. Era un ometto decisamente anonimo: sui quarant'anni passati, ma chiaramente non vicino ai cinquanta. Lieve barba incolta, pochi radi capelli sul grigio, un tipico fisico da manovale: robusto ma non prestante, temprato ma non sportivo. Il resto della famiglia, erano una donna anonima almeno quanto il marito dal grosso naso e i ricci capelli rossi, due ragazzi – un maschio e una femmina – poco più grandi o poco più piccoli di Licyane, e poi una sfilza di marmocchi, per lo più maschi, sostanzialmente di tutte le età. C'era anche il lattante. Nessuno accolse Licyane con il medesimo calore con il quale l'inserviente bibliotecaria salutò e abbracciò ciascuno di loro. Addirittura uno dei piccoli, quello odioso di quindici anni circa e i capelli a caschetto, rifiutò di salutare la sorella. Rhomas si chiamava. Già non appena la vide, Rhomas fece con un tono sgradevole rivolto alla madre: «Mamma...». E poi più di una volta ripeté, sempre più convinto: «Mamma... mamma!». Ma la madre non lo degnò di risposta. Nessuno lo fece. Cosa voleva, non venne scoperto. Però un giudizio Daniel di Casa Lannister su Rhomas del nord se lo fece lo stesso: insopportabile.

Sostanzialmente, la fattoria dei genitori di Licyane non si verificò essere niente da diverso da come la si potesse immaginare: un immenso capanno, con un enorme fuoco al centro e un pentolone, e poi tutt'attorno una serie di sedili di paglia in cui tutti quanti i residenti, e pure una decente quota di ospiti, potevano non solo sedersi, ma perfino coricarsi più che comodamente. La paglia non mancava, ma neanche la sporcizia naturalmente e l'odore della carne che bolliva nel pentolone, non riusciva a coprire il fetore degli ovini nelle stalle accanto. Gli ovini erano davvero fetidi. Tutti gli animali di campagna, per Daniel che era un “bamboccio di città”, non erano il massimo dell'igiene. Ma pecore e capre puzzavano da morire, molto più di maiali, ciuchi o vacche.

Se l'accoglienza per Licyane, che era di casa, non era senza dubbio stata nulla di entusiasmante, con gli altri della compagnia gli “Stark” si mostrarono addirittura frigidi. Di sicuro, primariamente si chiesero chi fossero e cosa ci facessero lì a quell'ora della notte con la loro figlioletta, cosa che di per sé non poteva che destare almeno qualche sospetto anche nel più imbecille degli uomini, e tutti i contadini sono tutto meno che imbecilli. Ignoranti e spesso di cattive maniere certamente. Ma stupidi invece affatto: tutti lo sapevano questo, era ben noto. Era possibile che fosse proprio per questo che i genitori di Licyane, e un po' pure i fratelli, non si erano manifestati chissà quanto gioiosi. Erano uomini del nord, e quindi tendevano a non avere una grossa inclinazione all'esternazione dei sentimenti, ma a questo si aggiungeva il panico per gli sconosciuti. Da qui Daniel decise la sua nuova strategia per la serata: bisognava sciogliere quei bifolchi nordici, quindi spiegare tutto esattamente per come stava, conquistando la loro fiducia e collaborazione. E poi magari cercare di rendersi simpatici; fare due battute ogni mancata risata di un parente di Licyane: quella temporanea convivenza era per loro indispensabile, e d'altro canto alla compagnia di Kohler non sarebbe certamente risultato complesso esternarsi per i soliti babbioni infantili e giocherelloni che lui già conosceva da tempo.

Daniel ci mise un po' a espandere a tutti i membri del gruppo la parola, ma alla fine ci riuscì e verso la notte inoltrata un certo clima disteso pareva esser stato raggiunto. Nessuno si sbellicava dalle risate, ma tutti sorridevano, tranne Rhomas che chiaramente doveva avere qualche problema, come molti degli adolescenti di quella età cui pure Daniel era appartenuto fino a poco prima. Per qualche ragione questo lo spinse a credere a pensare che poteva essere proprio lui l'unico in grado di “sciogliere” il fratellino di Licyane. Poteva benissimo farsi gli affari suoi, forse sarebbe stata l'idea migliore: quasi tutta la famiglia ormai si era rasserenata, perché andare a rischiare con il cavallo pazzo? Perché un tempo, in parte, lo era stato anche lui, forse per questo. O forse perché gli faceva pena. Comunque il principe Daniel di Cowain, a un certo punto della nottata quando una metà dei convitati dormivano beatamente e l'altra chiacchierava amorevolmente, decise di raggiungere il fastidioso Rhomas presso la stanza delle galline.

Come previsto, anche se aveva detto che cambiava stanza per “dormire meglio” visto che il troppo chiacchiericcio altrui non glielo permetteva, Rhomas invece era sveglissimo. Ammantato di una valanga di panni per coprirsi dal freddo, stava comunque tremando dato che lì dentro non c'era fuoco: molto prosaicamente sua madre aveva detto nel momento in cui Rhomas aveva lasciato l'altra sala, che sarebbe tornato o sarebbe morto assiderato. Ma più probabilmente sarebbe tornato. Daniel, che per qualche motivo si sentiva esperto della situazione, pensò che non fosse il caso di essere lui il primo ad aprire una conversazione: certo, il rischio che neanche Rhomas gli avesse parlato c'era ed era alto, ma andava corso perché se Daniel parlava per primo, Rhomas sarebbe stato quello forte dei due, quello a cui non gliene fregava niente. E invece era il principe Piromante a dover condurre il gioco. Semplicemente, il principe di Lannister prese delle coperte che si trovavano distribuite a collina in un angolo, e si mise a sua volta nel posto delle galline, lontano ma non troppo dal giovane “Stark”.

Passò molto tempo, tanto che Daniel credette che la strategia ormai era più vicina al fallimento che al successo, e tutto ciò al prezzo di dormire al gelo mentre nella stanza accanto Kohler, Holler, Licyane e gli altri riposavano al calduccio. In quella fase un attimo prima del sonno profondo, in cui pensi che i tuoi pensieri siano lucidi come nelle più alte ore del giorno, mentre invece anche quelli sono più sogni che altro, Daniel si perse ad analizzare i volti di coloro che lo stavano ospitando. Nessuno di loro pareva uno Stark, almeno per come Daniel se li era sempre immaginati, gli Stark. Al di là del fatto che non fossero guerrieri leggendari e non avessero metalupi da cavalcare, cosa piuttosto prevedibile da parte di una famiglia di contadini ultima di una generazione di contadini vecchia di secoli. Ma non erano nemmeno alti, anzi medio-bassi. E non erano castano scuro di capelli: a parte il padre che era brizzolato e con pochi capelli, tutti gli altri figli, se non rossi come la madre, erano di un castano chiaro. Certo il principe di Cowain si rendeva conto che le sue erano solo elucubrazioni un po' insensate: comunque i veri Stark erano estinti da millenni e dunque ci stava abbondantemente che esistessero al mondo persone con quel cognome ma che non avessero alcuno dei tratti “tipici” delineati dalla tradizione.

A questo punto Daniel dovette addormentarsi, ma non per un periodo di tempo lungo e non con un sonno molto profondo. Il primo nuovo ingresso nella stalla delle galline lo svegliò fin da subito. Era il padre di Licyane, che tutto preoccupato gli disse: «Figliolo, ma perché non vieni a dormire di là con noi?»

«Mh... non so» bofonchiò Daniel, con la bocca un po' impastata, «Pe-pensavo di convincere lui», con un cenno del capo indicò il giovane Rhomas, lui invece ormai caduto nel migliore dei sonni. «Convincerlo? Rhomas?» rise papà Stark «È testardo come una giumenta! Impossibile». A questo punto il patriarca si prese una pausa, per riprendere con un tono un po' più serio: strano a dirsi, ma Daniel avrebbe detto che si fosse trattato di un tono quasi confidenziale, come quello che si assume per confidare un segreto a un amico: «Lui... lui non è in buoni rapporti con la sorella. Per la verità... nessuno di loro lo è»

«S-signor Stark» fece ancora Daniel, con tutta l'intenzione di mantenere la conversazione, almeno col vecchio patriarca di quella fattoria, «Licyane è la maggiore dei vostri figli?»

«Ehm... no» rispose quello, tutto serio, «Non lo è. Verresti con me figliolo?»

«Dove?»

«A prendere la legna. Sei l'unico rimasto sveglio, a quest'ora della mattinata»

«Mh... sì», concluse Daniel e seguì il padre di Licyane fuori dal capanno. Onestamente non comprendeva per quale ragione ci fosse tutta questa necessità di una passeggiata notturna al gelo, anche se di nevicare aveva smesso. Gli era parso che sì la legna fosse sul finire, ma il fuoco era ancora bello vivo: fino alla tarda mattinata dell'indomani probabilmente sarebbe durato... ma il principe era ancora mezzo assonato e quindi magari non riusciva bene a fare conti che per Stark erano semplicissimi: lui invece era bello sveglio. E poi Daniel non ne capiva molto di quel genere di cose: a corte, era sempre la servitù ad occuparsi del fuoco, e pure nel corso della prigionia a Biancavilla le cose non erano state affatto differenti, da quel punto di vista. Quindi si fidò e seguì il vecchio.

Si pentì della cosa non appena ebbe fatto i primi passi fuori dal capanno. Il freddo era ancora assai tagliente e soprattutto... lui aveva il ceppo ai piedi; il ceppo quello grande che Uryon aveva preteso di mettergli alle caviglie dopo il primo incendio ad Amergoth. Era gelido e non gli permetteva di muovere bene le gambe. Cercò di segnalarlo al signor Stark, ma quello bofonchiò qualcosa tipo che alla fine si stava portando dietro Daniel più per compagnia e che avrebbe portato da sé le casse con i ceppi, magari rinunciando a una parte del carico.

«Quindi» domandò il principe di Cowain «Rhomas viene dopo Licyane? E i due ragazzi più grandi... loro sono i maggiori? O... c'è un altro fratello»

«No» sospirò il padre di Licyane «No»

«Ehm... vivete qui da lungo tempo?» Daniel intuì che l'argomento non entusiasmava il patriarca e lo cambiò, sperando che non fosse proprio la conversazione in genere a risultare ostica per il bifolco.

«Io ci sono nato » rispose Stark «in quella fattoria»

«E sua moglie invece?»

«Lei è nata più a valle. È figlia della foce; io sono figlio della sorgente»

«E chi è il diretto signore di questa zona, signor Stark?»

«È l'orso del nord, dicono. Uryon Worchester»

«No... intendo chi è il diretto facente funzioni? Chi viene a riscuotervi le tasse?»

«Ah, ehm... è lo sceriffo. Chrom». A questo punto, Daniel non trovò più molto altro da domandare, e piovve un momentaneo ma gelido silenzio. Quando all'improvviso il fulmine a ciel sereno: «Io non mi chiamo Stark»

«Cosa? Li-licyane... lei mi ha detto...»

«Era il cognome inciso sulla lapide presso cui l'abbiamo trovata»

«Trovata?»

«Aye. Era una notte d'inverno gelido... Molto, molto più di questa. E lei se ne stava lì, per qualche ragione appollaiata su quella tomba. Io e mia moglie avevamo già fatto visita ai nostri, stavamo per tornare a casa. E anche se all'inizio la presenza di quel cadaverino grigio lì ci aveva insospettito... eravamo già di nuovo sulla nostra strada; siamo uomini del nord noi: ci facciamo gli affari nostri»

«E... e poi?»

«Il cadaverino ha parlato. Pelle bianca come il latte, occhi azzurri come il ghiaccio. E si lamentava. Poi ha cominciato a muoversi e... alla fine era sveglio»

«Quindi Licyane non è vostra figlia! L'avete solo cresciuta?»

«Cresciuta? Ragazzo, il cadavere che io e mia moglie trovammo quella gelida notte d'inverno non era di una bambina. Era di una ragazza bella che cresciuta! È successo otto o nove mesi fa!»

«Cosa?!»

«Ma sì: abbiamo fatto quello che potevamo, poi quando non potevamo più mantenerla l'abbiamo convinta ad andare ad Amergoth a lavorare! Non ricordava nulla del suo passato, ci ha fatto pietà e le abbiamo detto che era figlia nostra, che quelli erano i suoi fratelli, e che si chiamava Licyane Stark: abbiamo preso il primo nome che ci è venuto in mente, quello che c'era sulla tomba dove l'abbiamo trovata, magari indovinavamo un qualche legame»

«Licyane Stark? Sicuri che era quello il nome?»

«Stark è sicuro... Licyane... la pietra era vecchia, qualche lettera era cancellata, ma ci parse che fosse Licyane»

«È una fanciulla senza passato, che con voi non ha nulla a che vedere quindi? Per questo Rhomas non la sopporta? E tutti gli altri?»

«Per parecchie settimane ci ha portato via parte del nostro pane... e ora torna e porta ancora più bocche da sfamare, siamo già in tanti noi!»

«E dirle la verità, invece?». Fu l'ultima domanda del principe di Cowain. Quel verme d'uomo lo aveva condotto dritto dritto a un'imboscata, piena di uomini armati comandati da un cavaliere in sovrappeso dalla barba nera. Costui venne salutato dal “padre di Licyane” con un «Sceriffo Chrom»; poi si rivolse a Daniel e gli disse: «Mi dispiace, figliolo. La ricompensa era troppo alta. Noi abbiamo bisogno». Daniel fece appena in tempo a ricomporre tutti i pezzi: pensò alla freddezza con cui Licyane, lui e gli altri loro compagni erano stati accolti alla fattoria; poi rifletté anche sul momento in cui il patriarca aveva mandato uno dei figli a sbrigare non si capiva quale commissione al villaggio, commissione che – ora Daniel se ne rendeva contro – poteva benissimo esser stata una denuncia alle autorità. Infine il principe di Cowain ascoltò l'uomo scuro in sovrappeso comandare ai suoi di andare a recuperare tutti gli altri. Poi il Piromante venne tramortito con un colpo alla testa, e tutto fu buio.

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Capitolo 20
*** Il veleno del serpente ***


Capitolo 20

IL VELENO DEL SERPENTE

 

 

 

Era passata la notte, poi un altro giorno e poi un'altra notte. E Garhel era ancora vivo. I sicari di Panecha non lo avevano raggiunto perché si era dato alla macchia, e quando uno come lui decideva di sparire, spariva. Non aveva avuto la forza di suicidarsi: ci aveva pensato, ma poi si era reso conto che una scelta di quel genere – anche con la tragedia che lui aveva sulle spalle – era molto meno semplice di quanto si potesse pensare. Non aveva mangiato, né bevuto e aveva dormito poco. Forse questo alla lunga avrebbe potuto ucciderlo meno clamorosamente, ma ancora non era questo il caso. E poi l'ex Tribuno Popolare aveva trovato una nuova momentanea ragione: un motivo per prolungare ancora per poco la sua misera esistenza. Uccidere Justus Panecha.

Si trattava naturalmente di un'operazione altamente complessa. Da una parte Sawela era anche uno dei più grandi guerrieri della storia recente, uno che sapeva come uccidere qualcuno. Ma dall'altra Panecha era probabilmente l'uomo meglio protetto dell'intero continente orientale. Non solo il suo palazzo orizzontale era un labirinto nel quale poteva anche capitare di entrare senza poi riuscire ad uscire. E non solo quell'edificio era più pieno di guardie armate di affilate lance e sciabole piuttosto che di qualsiasi altro genere di impiegato. Ma Panecha stesso notoriamente era più agile col fioretto di quanto a una prima occhiata la sua stazza non avesse lasciato immaginare. Sawela non l'aveva mai visto duellare, ragion per cui era orientato a pensare che quelle voci non fossero altro che il genere di dicerie cui di norma viene ammantata una figura “mitica” come il re-mercante era serenamente definibile. Alcune voci nascevano spontaneamente, altre venivano messe in moto dalla corte stessa. Per esempio una volta Garhel aveva sentito dire che Lord Justus parlasse più di mille lingue, e chi diceva quella scempiaggine la diceva con convinzione: ma un uomo di mondo come lui sapeva che per quanto entrambi i continenti fossero luoghi pieni di popoli dalle mille culture e i mille segni, le lingue del mondo a mille di sicuro non ci arrivavano. Rasentavano forse il centinaio. Da un altro punto di vista però bisognava ammettere che era prassi piuttosto comune per un grande nobile addestrarsi in tutta una serie di arti militari tra cui principalmente la scherma; ecco questo era altrettanto incredibile: pensare che mai Panecha, siccome era grasso, avesse impugnato una spada nella sua vita doveva necessariamente essere una panzana almeno grande quanto quella che parlasse mille lingue. Quindi ciò che preoccupava Garhel davvero era: trovare un modo per entrare a palazzo, orientarsi sterminando guardie fino a trovare un modo per trovare il Lord e poi, una volta fatto ciò, stanco, debilitato, affamato e assonnato avrebbe dovuto usare la sua sciabola contro quella sì di un grasso elefante, ma un grasso elefante fresco, profumato e forse ben addestrato. Era un'impresa pressoché impossibile, a meno che...

Banfred! Il giovane, grasso, rampollo poteva benissimo essere la chiave per risolvere tutto quel dilemma. Certo, anche lui era protettissimo, ma meno di Justus. Forse anche lui nella vita aveva preso in mano una spada, anche più di una volta, ma sempre meno di Lord Justus. E lui era più facilmente manipolabile, e dunque avvicinabile. Garhel non l'avrebbe ucciso, se le circostanze non lo avessero richiesto. Ma avrebbe potuto ferirlo, fargli versare qualche goccia di sangue, comunque spaventarlo seriamente. Questo avrebbe fatto di lui quell'aguzzino di innocenti cui nella vita non era mai stato, anche se una certa propaganda a lui avversa aveva tentato di descriverlo a questo modo.

Non fu affatto un'impresa semplice. Più di una volta Garhel fu sul punto di ripensarci: usare un giovane innocente e mettere a rischio la sua vita per cosa? Uccidere Justus e poi? Risolvere cosa? Costruire che cosa? Quale speranza poteva ormai avere il suo avvenire senza sua moglie e i suoi figli? Quale futuro, quali ambizioni? A nessuna di queste domande si poteva rispondere con la morte di Justus Panecha. Eppure certamente avrebbe potuto considerarsi un segno il fatto che proprio la volta in cui si era deciso, la volta in cui aveva ringuainato la sciabola e stava per dirigersi al di fuori del palazzo-labirinto, esattamente in quell'istante Banfred venne fuori. Un gruppo di sei uomini lo stava scortando al di fuori dei cancelli. Garhel si ritrovò perplesso. Ci pensò e ripensò mille volte in pochissimi secondi. Dopodiché decise di lasciarsi guidare dallo stomaco anziché dalla testa e, precipitando dall'alto, piazzò un pugnale in ciascuna delle schiene dei due malcapitati guardiani su cui era finito per abbattersi. Altri due, sguainarono le loro di spade e si scaraventarono sul Lord Tribuno, mentre gli altri due ancora spingevano Banfred via da quella situazione. Ma Garhel non ci mise molto a raggiungerli: lasciò entrambi i suoi avversari per terra, anche se uno dei due non morto al cento percento, e raggiunse l'ultima avanguardia a difesa del principino. Turbinò, svolazzò, danzando nell'aria e nella sabbia come solo lui sapeva fare, e infine rimase da solo con Banfred. Lasciò un altro dei gaglioffi in piedi, anche se disarmato, e lo intimò di raccogliere l'altro ferito e insieme di avvertire Lord Justus che lui era lì: Garhel Sawela, con una lama posata sul collo flaccido del principino.

Panecha venne e con lui praticamente un esercito di sicari. Era chiaramente infervorato: in un modo tale che Garhel non lo aveva mai visto. Lord Justus infatti era il campione della calma e del controllo, con quella sua voce felpata e quel tono pacato anche quando si stesse parlando di tragedie. Solo che questa volta la tragedia lo riguardava personalmente. Per la seconda volta in poco tempo un atteggiamento del Lord mercante sorprese il vecchio Tribuno Popolare del re. L'ultima che l'aveva visto, l'aveva visto sconvolto per la questione della guerra con la dea-drago. Lui, che aveva sempre un'idea, stavolta non ne aveva avute. E adesso era perfino incazzato!

«Voglio essere molto chiaro, Garhel» disse l'elefante al suo vecchio nemico «Ci sono una cinquantina di dardieri armati contro di te. Una ventina di loro sono tra i meglio addestrati di questo continente. Sono più che sicuro che almeno dieci di loro sarebbero in grado di colpirti alla fronte a un mio cenno, molto prima che tu possa spingere la lama verso il collo di Banfred. È già finita, prima di cominciare. Mi spiace»

«È un rischio che sono disposto a correre, mylord... e tu?» bluffò Sawela, facendo sgorgare un po' di sangue dal primo grasso strato della pelle del ragazzo, «Lo sei?»

«Che cosa vuoi?»

«Voglio te! Disarmato, al suo posto». Ogni volta, con Justus, era come giocare una partita a qualche gioco mentale complicato. Garhel in realtà non ne conosceva, ma pensava che era in quel modo che ci si doveva sentire, ed era in quel modo che bisognava guardare l'avversario. Costantemente come se avessi il controllo della situazione. Da agitato che era all'inizio, il Lord elefante era di nuovo tornato serafico. Disse: «Molto bene. Mi serve del tempo per pensare». Pensare? Ma pensare a cosa? Per quanto tempo? La potenziale risposta preoccupò Sawela non poco, quando Lord Justus tirò le redini del suo cammello e fece marcia indietro, mettendoci pure un pacato «Con permesso». Che voleva fare? Stancarlo? Garhel Sawela era un uomo che aveva appena perso moglie e figli: non si sarebbe stancato. Magari la sua minaccia nei confronti del suo storico nemico aveva avuto una qualche presa... anzi, doveva esser proprio così se Lord Justus era passato in pochi secondi da: “ti ammazzo lo stesso anche se fai il minaccioso”, a “Ok, come vuoi, ci penso e magari mi presto al tuo desiderio”, cosa che – detta in questi termini – appariva piuttosto assurda. Anche se era un diplomatico, Panecha di norma martellava fin quando non otteneva ciò cui il suo cuore maggiormente anelava. E in quel momento il suo cuore anelava Banfred, vivo, in salute e quanto più possibile lontano da lì.

«L-Lord... Lord Garhel» a un certo punto sussurrò il principino al suo potenziale aguzzino «Ma perché stai facendo questo? I-io pensavo che i rapporti tra te e mio padre fossero migliorati! P-pensavo c-che...»

«Tu pensi troppo, figliolo, è questo il tuo problema» rispose Garhel sbrigativamente, che in quel momento a tutto stava pensando meno che alla più appropriata risposta da dare alla sua vittima. Povero Banfred: era una vittima di un gioco sporco e schifoso. Un vecchio gioco che Garhel e Lord Panecha giocavano da anni e che aveva già seminato altri caduti: la bellissima moglie e i piccoli figli di Sawela tra questi. Il tempo trascorse senza che Banfred ebbe ottenuto soddisfazione delle proprie domande. Alla fine ritornò Lord Justus, per un tempo che sì a Garhel Sawela parve infinito, ma che non si prolungò oltre il quarto di giornata. Panecha accettò di piegarsi al ricatto del Lord Tribuno Popolare; ma a questo punto Banfred tornò ad esclamare, con maggiore veemenza, quasi gridando: «Non farlo Lord Garhel! Che ti è preso? Perché stai facendo tutto questo?!»

«Perché NON HA PIÙ SENSO!» gridò a sua volta Garhel, forse per la prima volta sfogandosi davvero dalla perdita. Proseguì: «Nulla ha più senso da quando quel maiale di tuo padre ha fatto quello che ha fatto. Non ha senso la guerra, non ha senso il popolo. Non abbiamo senso né te, giovane Banfred, né io, né tuo padre, né nessun altro. E allora facciamola finita e basta. Io e te, Lord Justus: finiamola, come l'abbiamo cominciata». Nella sua testa, tutto quello che aveva detto aveva un significato. Ma si rese conto che alla fin fine non aveva poi nulla di chiaro, se il grassoccio Banfred, sempre più disperato e confuso, tornò a fare domande, questa volta a suo padre: «Q-quello che ha fatto? Padre? C-che cosa avete fatto?»

«Era necessario» fece Panecha serissimo, cattivissimo, «Talvolta in guerra siamo costretti a commettere atti di cui... non ci si può che vergognare. Ma è per il bene comune...»

«Oh, finiscila con questo alibi del bene comune, Justus!» gridò ancora Garhel, la mano ben salda sul pugnale che premeva sulla gola del piccolo Banfred, «È una scusa vecchia e logora! Hai ucciso centinaia di persone! Hai ucciso donne e bambini! Tu... hai ucciso LA MIA FAMIGLIA!» gridò Garhel, e pianse. Anche Banfred piangeva. In lacrime, domandò a suo padre: «P-padre... è... è v-vero?»

«Ho già detto che provo profonda vergogna...» rispose il re-mercante «Ma più di così non posso fare. Forza, Garhel. Lascia mio figlio e prendi me... è me che vuoi». Per un istante, un solo brevissimo istante, Garhel ci pensò davvero. Non ci aveva pensato per tutto quel tempo, l'idea non lo aveva neanche sfiorato, ma ora che l'elefante aveva barrito quelle parole, forse... forse la tentazione di ammazzare proprio Banfred non era poi in lui così lieve. Forse era questo che Lord Justus meritava: non la morte. Meritava la vita. La vita senza il suo unico figlioletto. Pressò la lama del proprio pugnale sulla gola del principino, il sangue sgorgò, Banfred urlò di dolore, Justus gridò: «No!» e corse verso suo figlio con tutta la rapidità che la sua mole potesse permettergli. Dopodiché Garhel gettò in terra il principino, vivo, e afferrò il padre. Lui non era un mostro come Lord Justus. Avrebbe voluto esserlo, ma non lo era. E forse per questo, alla fine, non avrebbe potuto che perderla quella loro vecchia guerra.

«Adesso racconta!» ringhiò il vecchio Lord Tribuno «Dillo a tuo figlio, dillo a tutti»; e infine urlando ancora: «DIGLI DI COME HAI UCCISO LA MIA FAMIGLIA! Digli che è vero! DIGLI CHE È VERO!»

«Ehm... è... è vero». Ormai anche Banfred piangeva a dirotto. Tanto che Lord Justus decise anche di aggiungere: «Ma, Banfred, vedi... con una parte dei ribelli ridotta di numero e un Lord Sawela come nostro alleato a Braavos, avremmo forse potuto eliminare per sempre tutta la pressione che loro esercitavano su di noi. Per quante notti abbiamo parlato dicendoci che la principale minaccia per la nostra famiglia era la plebe agitata che da quando Sawela soffia sul fuoco della rivoluzione s'è via via ingrossata sempre di più, sempre di più»

«M-ma quella è la nostra gente» balbettò Banfred, per una volta dieci, cento, mille volte più saggio del proprio stesso padre, «Noi dovremmo accoglierla, comprenderla... non sterminarla»

«Ora è tardi» chiuse Garhel, piangendo anche lui, «Addio Banfred. Sarai un Lord molto migliore di tuo padre. Saluta anche lui». Era tutto pronto. Anche sul collo del grasso Lord degli elefanti il pugnale di Garhel Sawela cominciò a pressare, e ancora sangue venne versato. Ma di meno: molto meno. Sawela fu costretto a mollare la presa. Un pizzico, come un morso di qualche ridicolo insetto, lo prese all'incirca verso l'anca destra. Poi a poco a poco Sawela sentì perdere i sensi. La vista gli si annebbiò. Sentì prima afflosciarsi il braccio del pugnale, poi l'altro e poi le gambe. Cadde a terra. L'ultima cosa che vide fu qualcosa di piccolo, lungo e verde smeraldo attraversare per meno di un secondo il suolo nel quale aveva appena battuto la testa.

 

 

 

L'atmosfera e il clima delle dune di Dorne stavano inebriando il Lord Protettore dell'Altopiano. Gino neanche sapeva più quanto tempo fosse passato dalla sua partenza: mesi sicuramente. Ma... addirittura un anno, forse? La buona notizia era che da Altogiardino non arrivavano cattive notizie: Gino era ancora formalmente il Lord, quelle serpi dei parenti della sua promessa – Shanty Tyrell – se avevano allungato gli artigli sullo scranno più alto, lo avevano fatto senza troppo rumore. D'altro canto, non c'erano maschi di quella famiglia in grado di reclamarlo, lo scranno più alto: erano tutti o dei poppanti o dei vecchiacci prossimi al trapasso. Shanty era la loro carta migliore, e Gino con lei. Però avrebbero potuto insospettirsi...e il fatto che non giungevano neanche voci troppo roboanti sul fatto che il Lord dell'Altopiano fosse sparito lasciava intendere che per quel momento ancora il piano di Gino aveva funzionato: Shanty stava temporeggiando bene; il Lord dell'Altopiano c'era, anche se non si vedeva. Tuttavia giorno dopo giorno quella strategia si affievoliva e l'ansia del giovane Barron il Guercio cresceva: più tempo rimaneva a Dorne, più aumentavano i rischi per la sua posizione di Lord.

Questa del Guercio era nuova. Gino l'aveva sentita pochi giorni prima, mentre uno dei suoi compagni lì a Dorne parlava con Jon Barthalo. Lo faceva sentire strano avere un nomignolo, un modo con cui i suoi sottoposti si riferivano a lui quando pensavano che non ascoltasse. Da una parte gli faceva ancora male guardarsi allo specchio e trovare un'orbita vuota al posto del suo bellissimo occhio destro color castagno. Dall'altra però, “Guercio” era un epiteto da duri. Che unito alla discreta barba nera che ormai gli cresceva e si stava lasciando crescere, e unito a quel suo modo di combattere tutto strano ma letale che gli veniva dalle sue vecchie lezioni con Kellan e gli altri guerrieri-ombra, gli facevano credere che ormai il suo ruolo di Lord fosse piuttosto assodato. Non c'era più suo padre, e Constant Lannister doveva ancora pagare per questo. Non c'era più sua madre, fin da quando era ragazzino. C'erano solo i Tyrell, i Barthalo, Braff e altre serpi simili... e lui era lì in mezzo a loro. Avrebbero potuto chiamarlo “Gino il prono” o “Gino l'asservito”. E invece lo chiamavano “Gino il Guercio”.

C'era tuttavia una seconda non proprio buonissima cosa che conseguiva a tutto questo ragionamento sul suo rapporto con i suoi sottoposti. Quando aveva pianificato la missione a Dorne, scegliendo accuratamente tra uomini di cui potersi fidare (Barthalo escluso), Gino era convinto di poter instaurare con loro un rapporto di amicizia. E questo significava che se volevano chiamarlo Guercio avrebbero dovuto farglielo anche in faccia, invece lo dicevano di sottecchi, come cercando di evitare una sua reazione rabbiosa. Era il clima che di solito Jon Barthalo riusciva a creare, fin da quando erano piccoli: era stato un errore portarselo appresso, di questo Gino “il Guercio” Barron ne era ormai convinto da diverse settimane. E d'altro canto, cercare di farseli amici sì, ma insistere... Gino non era Braff, tutta quella cosa della diplomazia decisamente non era il suo mestiere. Se quelli con lui non volevano diventare amici, se preferivano rimanere nel loro ruolo da sottoposti cospiranti con Jon Barthalo, beh... che ci rimanessero pure. Tanto lì a Dorne erano tutti stranieri: alla fine dei conti, sarebbero comunque stati costretti a fidarsi l'un l'altro quando l'occasione lo avrebbe richiesto.

Certo, se si considerava anche tutta quella storia del giovane Willys o Willas, anche quest'ultima conclusione poteva non essere vera. Stando a Darkhon Dayne, il giovanotto cantava degli spostamenti di Gino fin da quasi la loro partenza, a metà delle famiglie nobili di Dorne, amiche, nemiche o neutrali. Questo significava che altro che chiamarlo “Guercio” di nascosto: il Lord di Altogiardino, lì a Dorne, potenzialmente non poteva fidarsi di nessuno. Questa “Spada dell'Alba” poi era anch'essa a sua volta non poco misteriosa. Prima di tutto, Gino non aveva mai sentito parlare di una Spada dell'Alba nel tempo presente, di un cavaliere vivente quindi che portasse tale nome. Le Spade dell'Alba erano guerrieri leggendari cui raramente nella storia veniva affidata la possibilità di brandire quella strana spada forgiata di quello strano metallo biancastro. Dovevano essere particolarmente valorosi nelle loro imprese e nascere in momenti ben precisi della storia. Perché le Spade dell'Alba non erano cavalieri che spuntavano uno ad ogni generazione, anzi: per intere generazioni quella spada leggendaria era rimasta rinchiusa gelosamente dentro a una teca. Si trattava dunque di una cosa troppo “grande” per non esser mai giunta alle orecchie di Gino. Che poi questo Darkhon Dayne era pure relativamente giovane: non dell'età di Gino, ma manco di quella di uno che veniva narrato nelle ballate. E per inciso: tutte le Spade dell'Alba venivano raccontate nelle ballate. Peraltro, Dayne aveva confinato Gino in un posto che quest'ultimo non aveva ben capito. Davvero: in quel momento, il signore assoluto di quei territori non sapeva bene dove si trovasse. Se Darkhon avesse voluto ucciderlo e autoproclamarsi Lord dell'Altopiano, anche ammettendo che Darkhon non fosse poi chissà quale Spada dell'Alba e Gino invece ricordasse ogni trucchetto appreso dai guerrieri-ombra, Darkhon era a casa sua ed era circondato – lui sì – da uomini davvero fedeli. Gino invece su questo terreno era chiaramente in difficoltà. Mai e poi mai avrebbe voluto ammetterlo – e lo avrebbe ammesso – ma quella era la tipica situazione che gli faceva rimpiangere Lord Braff. Braff che da sempre faceva sentire Gino un pupazzo animato per le sue imperscrutabili ragioni politiche. Braff che ancora gli doveva spiegare come mai Gino mai e poi mai avrebbe potuto ricevere un allenamento completo da soldato-ombra che gli potesse permettere di divenire un sicario abbastanza abile da raggiungere Constant Lannister da solo e da solo ucciderlo; quel Constant Lannister che a sua volta aveva ucciso suo padre.

Insomma la confusione nel cuore e soprattutto nella testa di Gino ormai regnava sovrana. C'era bisogno di un qualche tipo di svolta importante. L'ideale sarebbe stato l'arresto di Saestrya Martell ma col cavolo che quella era rimasta nello stesso nascondiglio dove Gino l'aveva beccata la prima volta, il che riportava tutti i progressi di nuovo a zero. Poi c'era la solita alternativa: una lettera a Braff, ma Gino non intendeva tornare a dare soddisfazione a quell'individuo che l'ultima volta neanche si era degnato di renderlo partecipe su come aveva risolto il problema: il famoso caso del demonio di fuoco magicamente convinto semplicemente a lasciare la zona. Gli restava di tornarsene a casa con la coda tra le gambe. Una dichiarazione di sconfitta quindi, ma la dichiarazione di sconfitta di un Lord orgoglioso che non poteva più lasciare che i fatti del mondo lo dominassero a quel modo. Fu così che Gino decise: per il momento avrebbe accantonato l'affare Saestrya Martell e sarebbe ritornato a casa a pensare. Questo significava due cose bruttissime: uno, sposare Shanty, che sicuramente lo aspettava già se non con l'abito bianco, quasi. Due: rischiare che Saestrya accrescesse ancor di più la propria influenza su una Dorne già abbastanza traballante. I Dayne, se Darkhon Dayne ne era davvero un rappresentante, avrebbero potuto essere un buon baluardo, un vessillo da portare in giro per il deserto a far vedere che Barron aveva amicizie anche lì. Ma... bisognava convincere Darkhon.

Fu così che il giovane Lord richiese d'incontrarsi col suo ospite: subito. Gli avrebbe riferito della sua decisione di tornarsene ad Altogiardino e lo avrebbe gentilmente, ma autorevolmente, invitato a venire con lui. Rimase un po' stranito quando gli assistenti di palazzo gli domandarono se voleva cordialmente raggiungere Sir Dayne presso le terme di quello strano castello sperduto nel deserto. Gino non era mai stato a delle terme: alla Dodecapoli non ce n'erano. A Roccia del Re ne aveva sentito parlare, ma figurati se aveva avuto il tempo, il permesso o perfino il pensiero finché era stato il tirapiedi dell'ormai deceduto Lorthan della Casa Tyrell. Decise quindi di assecondare la un po' bizzarra richiesta di Dayne.

Certo: forse si sarebbe aspettato un'accoglienza un po' più istituzionale una volta sceso in quel posto. Erano sempre delle terme, quindi chiaramente ci si metteva nudi a fare un bagno caldo, ma... siccome Gino era di questioni politiche che voleva ragionare, aveva sperato che almeno lui e Darkhon fossero da soli. Invece la stanza era piena e dentro quella immensa pozza calda, oltre che Darkhon – che all'inizio Lord Barron fece fatica a scorgere – c'erano anche praticamente tutti i suoi cavalieri, e anche qualcuno della compagnia di Gino (ma non Jon Barthalo). C'erano poi alcune donne, tutte giovani naturalmente e poppute e... praticamente non ancora esattamente occupate in atti carnali, ma sostanzialmente già addosso ai cavalieri al servizio di Dayne. Situazione ambigua a dir poco. Già quello non gli piaceva, e poi non gli piaceva l'idea di immergersi in acqua calda in quella dannata Dorne che era già calda di suo. Tutto quel caldo lo avrebbe fatto impazzire! Tuttavia pensò che era da buon Lord e uomo di mondo accettare qualsiasi usanza di un'altra terra, specie se gli uomini e le donne di quella terra dovevano in realtà finire per essere suoi sudditi e alleati. Non appena quindi, tutto rumoroso e sorridente, Darkhon allungò il braccio verso la sua direzione invitandolo ad entrare, Gino si mise nudo ed entrò, cercando di non mostrare esitazioni. Esitazioni poi che sicuramente non gli venivano dal fatto di mettersi nudo, visto che in tutta franchezza non pensava di avere tra le gambe nulla di vergognevole, ma per il fatto che lì dentro c'era troppa gente e lui se ne aspettava nessuna, e poi per il fatto che già, per via del calore, stava cominciando a sudare fin dalla punta del più lungo dei suoi neri capelli.

Purtroppo tamponando qualche natica e qualche gamba pelosa, alla fine il Lord dell'Altopiano raggiunse il padrone di casa. Era davvero una situazione disturbante. «Mio Lord» fece Darkhon e il gran sorriso pareva sincero «Non sai che onore è averti qui nelle nostre vasche. Tieni: prendi una...» e Darkhon fece letteralmente per passargli una delle tre baldracche che aveva dintorno; peraltro quella rossa: Gino aveva un debole per le rosse. Imbarazzato, il Guercio provò a balbettare: «Ehm... n-no io...»; ma davvero doveva intrattenere una conversazione di geopolitica mentre era in erezione? Era questo che Dayne pretendeva da lui? Per un attimo la sua testa andò a Daessenya, e si ritrovò ad insistere: «No, Sir Darkhon, d-davvero, i-io»... ma Daessenya non faceva più parte della sua vita: Gino doveva rassegnarsi a questo. I suoi pensieri andarono dunque a Shanty, e all'esercito di parenti-serpenti che la sua promessa aveva alle spalle. Allungò dunque la mano sul culo della baldracca, e cominciò la discussione come se nulla fosse.

«Dunque, cavaliere...»

«Chiamami solo Darkhon, mylord, per favore»

«Bene: Darkhon. Io ho preso una decisione»

«Ah, sì?»

«Torno ad Altogiardino. Ho bisogno di risistemare le mie carte sul caso di Saestrya e... fare un po' di mente locale. Sento che la situazione mi sia sfuggita di mano e non voglio perdere altro tempo. Ti chiedo di venire con me quale mio... speciale rappresentante presso la terra di Dorne». Improvvisamente, l'espressione sul viso di Dayne cambiò. Adesso c'era di nuovo quella intelligenza un po' maligna che Gino gli aveva visto la prima volta e che non si era ancora manifestata quella sera, ma che meglio si confaceva a un tizio che aveva organizzato un'orgia d'alta classe presso le terme di un palazzo nobiliare, per quanto dorniano. «Mylord» rispose Dayne «Io sono in imbarazzo perché... non so bene come declinare un'offerta tanto onorevole nei miei confronti»

«Non declinarla» rispose Gino da Lord risoluto.

«Sì, ma...» riprese Darkhon «Io non sono buono a queste cose. Quindi, ecco... sarebbe per il tuo bene ed interesse e per la stessa Casa che rappresenti, se non accettassi un simile lavoro. Se insisti, lo farò: dovrò farlo, sono tuo servo come le regole prescrivono ma... ecco, mi sento di suggerirti qualcosa di diverso...»

«Qualcosa di diverso... t-tipo?» chiese ancora Gino, non riuscendo a non lasciarsi scappare un tremito dovuto al fatto che la rossa gli aveva appena acchiappato il membro. «Io comprendo» fece ancora Dayne «che il tipo di piano che hai scelto sembrerebbe essere più dispersivo e confusionario, ma per il territorio e l'ambiente di Dorne, è la strategia giusta. Hai scelto, mylord, di avviare una corretta azione e adesso sarebbe un po' un peccato abbandonarla, visto che hai me, che sono stato per volere della mia famiglia a contatto con Saestrya per tutto questo tempo»

«E quindi?»

«E quindi quello che ti suggerisco è...» Darkhon si avvicinò, cercò di allungare la propria bocca verso l'orecchio di Gino, «Di fidarti di me. Io so quali altri sono i covi di Saestrya, e dubito che abbia fatto in tempo a tessere nuove alleanze in così poco tempo. Non mollare: io posso aiutarti»

«Ah» concluse Gino, e con un affrettato «Molto bene», scaricò di nuovo la puttana addosso al suo legittimo “proprietario”, prese sudore, erezione e nudità e lasciò quel luogo. A un certo momento, aveva avuto come la sensazione che quel qualcosa, sicuramente appartenente a Darkhon, che lo aveva sfiorato sotto all'acqua un po' torbida, non fosse stato una gamba, né un piede o un ginocchio. E visto che aveva già pure adocchiato più di un soldato maschio baciare un altro, un po' come le puttane facevano tra di loro, decise che il rispetto per la tradizione era doveroso e opportuno. Ma che non fosse neanche sbagliato difendere un po' i propri di costumi, e alla Dodecapoli, così come sull'Altopiano, di norma le orgie tra aristocratici non andavano poi così di moda. Non che, alla sua giovane età, a lui questo risultasse.

 

 

 

Una secchiata d'acqua gelida svegliò di soprassalto l'ex Lord Garhel Sawela. Nonostante tutto, era ancora vivo. E nonostante tutto, erano ancora vivi sia Lord Justus che suo figlio Banfred. Sawela in effetti non sapeva se l'acqua che lo aveva appena svegliato da un sonno senza sogni simile alla morte fosse davvero gelida. La sua temperatura corporea non era quella di una persona sana chiaramente: stava tremando dal freddo. Era sudato, sporco e puzzava. Ci vedeva, ma sempre con una certa difficoltà, come se una nebbia di un grigio chiaro accompagnasse il suo sguardo tutto attorno a ciò che lui osservava. E poi non sentiva completamente la parte inferiore del suo corpo; quella superiore la sentiva a stento. Era legato come un salame con le braccia disposte a croce sul petto. Infine era appeso al soffitto, e la testa gli scoppiava.

Da quello che riuscì a distinguere, non c'erano solo Lord Panecha e il suo rampollo con lui in quella stanza. C'erano degli altri ma... erano sullo sfondo e lui non li distingueva. Tuttavia fu Banfred a parlare per primo: «Lord Garhel come sono dispiaciuto... io... io ti chiedo scusa in ginocchio per quello che è successo». E lo fece davvero: si mise piegato a terra, come se avesse lui una qualche colpa in tutta quella storia. Uno spettacolo inutile e umiliante, che Garhel non voleva vedere. In quel momento, voleva solo una coperta. O morire: una delle due.

«Su, figliolo» con un sussurro il Lord degli elefanti incoraggiò la propria creatura, che rialzandosi fece: «I-io lo so che la tua perdita non potrà mai essere ripagata e... neanche quello che adesso stai subendo può essere ripagato, m-ma... oh, lord Sawela, tu hai tutte le ragioni del mondo: dico sul serio. Ma ti scongiuro: non morire. Resta e combatti. Pensi davvero che tua moglie e i tuoi figli vorrebbero questo? Che tu li raggiunga subito o... che prima di farlo uccida qualcuno o... che muoia nel tentativo di farlo? Sono davvero queste le uniche alternative che abbiamo? Ti-ti chiedo di provare a considerare qualcos'altro. No: ti supplico di farlo. Ho parlato con mio padre. L'offerta è ancora valida. Lasciamoci il passato alle spalle: tu avrai ancora tutte le ragioni di odiarlo ma è con me che verrai a Braavos, per me non per mio padre. E così... in qualche modo continueresti a rappresentare gli interessi del popolo, no? Se davvero una guerra contro gli dèi ci si prepara... allora non trovi sia il caso che uno come te sia presente al tavolo delle decisioni degli uomini?». Garhel provò a rispondere. Voleva dire di sì, o almeno accennarlo con la testa, ma non ci riuscì. E poi chiaramente non sarebbe stato un sì sincero o ragionato. Sarebbe stato un sì giusto per assecondarlo. Per qualche ragione, Banfred invece si convinse che il cenno assertivo fosse arrivato. Gli altri presenti, e suo padre per primo, lo incoraggiarono su questa strada, anche se Garhel dubitava della loro sincerità. Dunque il principino si congedò e rimase il diabolico grasso Lord degli elefanti.

«Scommetto» fece Lord Panecha con tono mellifluo «Che ti senti intorpidito non è così? Non solo perché incatenato e appeso al soffitto. Quando finirò di dirti ciò che devo, i miei uomini ti metteranno giù e forse ti slegheranno. Ma tu continuerai a sentirti intorpidito. Se ne andrà, certo che se ne andrà... ma mai definitivamente. Delle volte, mentre sei al caldo nel tuo letto, o in compagnia di una bella donna di cui dal trapasso di tua moglie hai una chiara necessità. O mentre stai pisciando o defecando o parlando o... combattendo. Ebbene, alcune volte tale stato d'intorpidimento ritornerà, così come anche un accecamento temporaneo. Tutto quando meno te lo aspetti. È uno degli effetti sconvenienti se si sopravvive al veleno del crotalo di Juxia. Questo e talvolta la morte per febbre, quando il mal capitato che ne viene morso non venga subito curato con i dovuti unguenti e messo a testa in giù, come te adesso. Dicono che ha un morso... che nemmeno te ne accorgi. Un pizzico, mi hanno detto. Io non lo so, perché naturalmente non l'ho mai provato. Mi perdonerai se ho scelto uno dei più pericolosi della mia riserva, ma mi serviva di metterti al tappeto subito e senza esitazioni, capisci? Ne andava della vita di mio figlio o... della mia. Così ho fatto in modo che il piccolo s'insinuasse nelle tue vesti. Non ha morso me perché mi conosce, di rado le bestie attaccano chi conoscono, anche le più letali. Ma tu... eri tu che dovevi subire quel morso e ora... ne pagherai le conseguenze per tutta la vita, purtroppo». Nel corso di tutto questo monologo, il Lord si era anche avvicinato con passi soffici e si era permesso pure di carezzargli la testa e la guancia. «Non doveva finire così: giuro che non era nelle mie intenzioni, questo. La morte della tua famiglia, e di alcuni altri morti di fame del Formicaio, loro sì dovevano decedere, era una cosa che ormai avevo metabolizzato. Ma dover ridurre in questo modo una figura della tua importanza, e della tua capacità! Delle tue abilità! No, questo non l'avrei mai voluto. Mio figlio potrà anche prenderti come sua guarda personale, ma diamine... tu non ti muoverai mai più come prima, e neanche parlerai bene come prima. Mi preme tuttavia dirti questo, Lord Sawela: tu vivrai, e verrai con noi a Braavos, perché questo è il volere di mio figlio, questo è quello che lui mi ha chiesto. Ma sarai costantemente osservato. Per tutta la vita. E se mai dovessi farmi qualche altro scherzetto, sappi che sarà un vero piacere per me tornare ad avvelenarti con una dose doppia di liquido dello Juxia. Doppia, o anche tripla. Fino a renderti cieco e sordo. Fino a renderti un vegetale immobile, se necessario. Ma mai ad ucciderti. Mai» si concesse un'ultima carezza a Sawela, questa volta con il dorso della mano. Poi chiuse: «Questa è una promessa che ti faccio, Lord Garhel». Detto ciò, Justus Panecha presumibilmente lasciò la cella. I suoi uomini poi liberarono Garhel dalle catene e lo lasciarono alla sua solitudine. E al suo freddo e dolore. Alla sua condanna.

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Capitolo 21
*** Un grande giorno per le ragazze Lannister ***


Capitolo 21

UN GRANDE GIORNO PER LE RAGAZZE LANNISTER

 

 

 

Per Marcus Lannister quel luogo era incredibile. C'era rimasto qualche settimana e avrebbe voluto rimanerci per sempre. Donne sempre nude, disponibili e quasi sempre interessate a incontri carnali. Cibo in quantità e una sorta di bevanda inebriante che non era vino ma che causava effetti molto simili se non, per così dire, migliori. E poi c'era lì sua sorella: la sua famiglia. E c'era lì Shirley, la sua chimera: che era molto più che un'amica con le ali e gli artigli. Tutto andava benissimo: in quella montagna di fuoco era come se il cielo non ne volesse proprio di piovere. E poi erano sempre tutti allegri, e sempre tutti cantavano e ridevano. Anche negli unici momenti di comune cordoglio, ovvero quando un anziano moriva... in realtà era come se gli uomini-drago preferissero lasciarsi quasi subito tutto alle spalle: dopo la sepoltura, si tornava a mangiare, bere, ballare e scopare come dannati. Era come una sorta di paradiso. Marcus si era quasi da subito abituato a quasi tutti i costumi di quel popolo: andava in giro in mutande di pelle come loro, e aveva cominciato a frequentare un po' più spesso una delle loro donne, che non era la sua donna fissa... ma era quella con cui tendeva a unirsi più spesso. Da un po' di tempo era come se si sentisse inebriato, come se stesse dimenticando parte della sua vita precedente. Insomma non pensava più, oppure ci pensava molto poco, alla bella Jasmina della Valle del Leone: la ragazza che aveva baciato per la prima volta nella vita, e con cui aveva condiviso quel periodo piuttosto duro, sotto l'austero comando di Sir Winston Cleghorn e il rigido codice dei Cavalieri della Chimera. Continuava a sentirsi un Cavaliere della Chimera per certi versi... ma per altri era libero.

Aveva avuto qualche timore all'inizio a portare anche Shirley al villaggio. Quei maledetti colossi di uomini del nuovo continente mangiavano sostanzialmente tutto ciò che uccidevano, e uccidevano sostanzialmente tutto ciò che si muovesse e non fosse un uomo. Però... erano anche creature curiose ed era come se attendessero che il mondo al di fuori della loro montagna gli venisse spiegato. Così Marcus provò a chiarire, per quanto potesse, che non c'era niente di pericoloso in Shirley se non la si minacciava di morte, un po' come anche con loro. E poi gli fece vedere come quell'animale gli permettesse di salire sul suo dorso e volare con lei. Rimasero tutti estasiati, e da quel momento cominciarono a guardarlo con un rispetto perfino superiore alla già squisita ospitalità che gli avevano dimostrato. E poi una volta aveva mostrato Shirley pure a Kyrios, che si era dichiarato entusiasta delle splendide forme che la magia della vita era riuscita a prendere autonomamente da quando lui e in suoi fratelli e sorelle si erano fatti da parte nel dominio del mondo. E, anche se all'inizio piuttosto atterrita, alla fine anche Shirley aveva tollerato lo sguardo mostruoso del drago su di lei, almeno finché Marcus le rimase al fianco.

L'unica cosa che un po' spezzava questo sogno idilliaco di perfezione era proprio la sua sorellina che chiaramente era insofferente. Lo si vedeva bene: passava buona parte delle sue giornate a parlottare con diversi uomini e donne-drago di non si sapeva che cosa. Era come se cercasse di farseli amici, ma poi non adorasse condividere l'abbondanza del loro cibo, di cui tendeva sempre ad accettare poco. E poi non beveva il vino e chiaramente non si concedeva ai maschi che ci provavano. Primo perché era piccola. Secondo perché era una principessa. E terzo perché Marcus avrebbe ucciso chiunque avesse osato sfiorarla. Quindi, insomma, di tutto quel ben degli dèi la piccola poteva godere solo a metà. Le altre due ragazze, Daessenya e Xenya l'esploratrice, si divertivano molto di più: anche se Daessenya ormai era chiaro come la luce del sole che proprio bene fisicamente non stesse. E che anche loro si divertissero si poteva dire sia di quell'uomo dell'Essos galoppino di Xenya, Jorando Pashamanyna, sia di quell'altro che si erano portati appresso: il Sayun-sama di Muldrow dal nome ridicolo.

Era da un po' di tempo che il principe cavaliere voleva parlare con la sua sorellina, ma temporeggiava perché non sapeva bene da dove cominciare. Pensò quindi di rivolgersi a Daessenya: lei era una ragazza, e stimava Lady Mirietta. Avrebbe senza dubbio trovato il modo di aiutarlo. Certo, aveva anche pensato all'esploratrice e senza dubbio si sarebbe rivolto a lei, se non ci fosse stata Daessenya. Ma delle tre l'esploratrice era forse la meno “femminile”. In ogni caso si trattava di ragazze dal carattere forte, questo era ormai molto chiaro ed evidente a Marcus come a tutti. Però, a corte, Daessenya e Mirietta Marcus le avrebbe viste vestite da signore: sua sorella, d'altro canto, l'aveva già vista vestita come una ragazza del suo rango dovrebbe, al di fuori del contesto estremo di un villaggio sperduto su una montagna in un continente sconosciuto. Xenya invece no. Xenya era tipo da calzoni in tutti i casi. Per questo il principe scelse Daessenya come sua emissaria presso il cuore della Lady sua sorella.

Pianificò dunque di parlare con Daessenya a sera, dopo la cena comune. Si era anche preparato un discorso in testa: niente di machiavellico, qualcosa del genere: “mi pare che mia sorella non stia bene, vedi un po' tu che problemi abbia”. Ma quella sera il piano non poté essere realizzato. Il drago richiese la loro presenza e quando il drago chiamava, tutti andavano al suo antro.

All'inizio Kyrios discusse di cose che a Marcus parvero generali e francamente già affrontate in precedenza. Non che non fosse sempre piacevole avere una occasione di parlare con un drago, ma... la sensazione era che la creatura millenaria stesse un po' girando attorno alla vera questione. Dopodiché, quasi dal nulla, rivolgendosi alla principessa esclamò solennemente: «Lady Mirietta, io so già che cosa ti frulla per la testa. E permettimi di dirti che, anche se so che probabilmente è inutile e anche se so che probabilmente non interverrò in alcun modo per impedirtelo, stai commettendo un gravissimo errore». Xenya, Marcus, Daessenya, Pashamanyna e Tampepe rivolsero tutti il proprio sguardo, un po' imbarazzato, alla giovane Lady del Westeros che invece, dal canto suo, chinò il capo di scatto non senza un poco di orgoglio ferito. «Da quando siete qui, la Lady vostra signora ha cominciato un lavoro incessante e operoso. Un lavoro di una pazienza davvero ammirevole: sta cercando di entrare nel cuore dei miei figli, con avventurosi racconti e vane illusioni. Gli dice quello che pensa loro vogliano sentirsi dire e gli promette di cose che loro neanche possono immaginare. Io so che cosa significa lavorare con il cuore, Lady Mirietta: alcuni dei miei fratelli ne sono stati i primi maestri. So che vuoi convincere una parte dei cosiddetti uomini-drago a venire con te al sud e a sovvertire con il loro aiuto il regno del Sir dell'occidente. Ma ci sono cose che neanche tu sai. Ci sono segreti che scompaginerebbero tutto, e lo faranno... se partirai per il sud. Permettimi dunque di insistere: non andare Lady Mirietta. E non portare nessuno dei miei figli con te. Vivi libera e felice. Qui con noi»

«Beh non sono l'unica qui che manipola la gente», rispose a un certo punto Mirietta con le lacrime che le rigavano le guance ma senza dubbio tutto il cuore di chimera che una donna Lannister si diceva avesse. Sfidare un drago era una questione da cuore di Lannister che neanche Marcus aveva. Marcus che provò un impeto di stima e insieme di invidia verso la sua sorellina. E che soprattutto si terrorizzò della cosa: ma dove cavolo voleva arrivare? La principessa insisté: «Parli di segreti, Kyrios? Quali sono? Perché non vuoi dirceli? Tu conosci il futuro?»

«Io... conosco gli uomini» provò il drago, ma non fu sufficiente. La principessa riprese con la sua arringa: «Pensi che non mi sia chiaro quello che stai facendo? Cos'è, un incantesimo? Questa atmosfera che hai creato... questo posto che si presenta talmente tanto splendido e paradisiaco da farci dimenticare che esiste altro. Che c'è un mondo al di fuori di questa montagna infuocata. Non è forse così? Non sono forse l'unica a resisterti in questa tua magia?». Il drago rispose: «Non è magia. È la forza del cuore. È la connessione che unisce tutto ciò che è puro. Gli uomini con la terra e mediante essa... con me»

«Perché vuoi tenerci qui? Cosa c'è al di là del mare che tanto ti spaventa?»

«NULLA mi spaventa, bambina. Io posso anche morire e grazie alla forza del cuore vivere e rivivere altre mille volte: se avessi conosciuto Luxia o Nidhogg tu lo sapresti questo. Tuo fratello Daniel, che di Nidhogg è stato allievo, dovrebbe saperlo questo». Marcus non capiva più che cosa stava accadendo. Daniel? Il drago Nidhogg? Ma che cos'era tutto quello? E come faceva a saperlo Kyrios se da millenni se ne stava confinato nella sua montagna?

«È così, allora?» fece Mirietta, forse stavolta esternando i pensieri un po' di tutti, sicuramente quelli di suo fratello, «Tu conosci cose... che sono al di là del nostro mondo»

«Io conosco cose che sono al di là della vostra comprensione»

«Diccele allora! Tu... vedi qualcosa al sud non è così? Perché non vuoi farci partire per la guerra? Che cos'è che accadrà, drago Kyrios?»

«BASTA ORA!» ringhiò il drago, e Mirietta rimase zitta. Anche lei provava terrore: era chiaro. Era stata coraggiosa, ma forse in questo modo aveva anche giocato l'altra faccia della moneta dell'audacia: la stoltezza. «Fai come vuoi, bambina. Io ti ho avvertito. E ti dico che se scenderai al sud sarà peggio per te. Rimpiango solo le vite di quelle donne e uomini miei figli che porterai con te... ma sono una creatura millenaria e osservo le cose al di là dei limiti del tempo: la mia stirpe tornerà a vivere più rigogliosa di prima. Sarai tu che non tornerai». Detto ciò, il drago diede la coda che di norma significava che l'incontro era finito. Nessuno prima di allora aveva avuto il coraggio di insistere una volta che Kyrios si era voltato e, anche se quella poteva essere l'occasione in cui ancora un'altra cosa nuova sarebbe accaduta, ebbene – per fortuna – questa non accadde. Mirietta tacque, chinò il capo e fu la prima a lasciare la caverna nel vulcano.

Ma nessuno le permise di andare oltre: era doveroso che desse delle spiegazioni e così tutti, ma proprio tutti, senza neanche mettersi d'accordo tra loro, le andarono dietro ciascuno formulando le domande in maniera diversa. Ma il punto era chiaro: Mirietta aveva davvero convinto degli uomini-bestia a fare la guerra ai Kowacz facendo promesse che non poteva mantenere? Si era dunque servita della propria abilità retorica per manipolare una massa di gente chiaramente troppo semplice e ingenua per non cascare nelle sue trappole? Mirietta non rispondeva e dava le spalle, come Kyrios. Era nervosa. E la minaccia sulla sua vita che il drago aveva fatto sicuramente pesava sul suo cuore di ragazzina come un macigno, anche se non lo avrebbe ammesso mai. Marcus solo provò a prenderla anche da quella parte, e rimase per ultimo a richiedere spiegazioni. Rimase un po' con lei anche non insistendo più. Rimase con lei e basta, mentre la principessina sostanzialmente faceva i bagagli. Alla fine, con tutta l'audacia di un cavaliere, lei disse a lui: «Mi vuoi bene, Marcus?»

«Sì» rispose il Cavaliere della Chimera «Certo che te ne voglio»

«Bene, allora è giusto che tu sappia che questo è il mio ultimo giorno a guardare il drago entrarvi nella testa. Domani comincia il mio viaggio e la mia guerra contro Sir Muldrow. Mi farebbe piacere che tu venissi con me». Detto ciò, lo cacciò a forza fuori dalla sua tenda. E con immenso orrore di Marcus, fece invece entrare al suo posto tre dei più temibili e nerboruti cacciatori degli uomini-drago.

Col passare delle ore e poi dei giorni, Marcus si rese conto che quei tre erano i membri del consiglio di guerra della principessa. Consigli di guerra cui naturalmente pure Marcus, Daessenya, Xenya, Pashamanyna e Tampepe erano invitati. Ma Marcus non li adorava: non ci capiva molto di strategia militare e men che meno di altre furberie politiche. Xenya, in forte polemica con la sua amica, aveva deciso di restare con gli uomini-drago della montagna di fuoco, forse per la prima volta in aperta contesa con la Lady di Lannisport. E Pashamanyna, come di dovere, era rimasto con l'esploratrice. Rimanevano Daessenya e Tampepe: la prima donna molto intelligente, ma ormai chiaramente da tempo in preda a un qualche grave malore. E Tampepe invece... beh, con difficoltà parlava la lingua degli altri.

La maggior parte di questi consigli di guerra, si tennero prima in viaggio dalla montagna alla baia dei Sayun. E poi in una sorta di avvallamento non distante dal vero e proprio villaggio dei Kowacz, il luogo dove Marcus e Mirietta avevano incontrato Sir Muldrow per l'ultima volta. E da questo momento in poi una serie di avvenimenti importantissimi lasciò percepire l'inizio della fine: il primo tassello del domino era stato lanciato. Non passò molto tempo infatti, che i Kowacz si accorsero della presenza nemica alle porte, e Tampepe il Sayun lasciò l'accampamento dei nemici per tornare alla casa madre: avrebbe avuto un sacco di cose da raccontare al suo vecchio Sir, quel selvaggio spione. La cosa abbatté non poco Lady Mirietta che naturalmente sentì in capo a se stessa la responsabilità del fatale errore: avrebbe dovuto pensarci non una ma cento e mille volte che, una volta giunti lì, Tampepe, il quale da sempre era stato una spia più o meno esplicita, avrebbe preso arco e faretra e se ne sarebbe andato. Ci voleva dunque una botta di incoraggiamento per la piccola Lady; e arrivò: grazie alla stima che aveva nei suoi confronti, tutta una parte (se non metà, quasi) del popolo Kowacz decise non solo di schierarsi al suo fianco – cosa prevedibile – ma di farlo accanto all'antico e temibile nemico degli uomini-drago: a detta di molti degli osservatori, una impresa che aveva valore storico. Naturalmente furono certi capi Kowacz a parlare per tutti, ma Mirietta sapeva che quei sette o otto individui avrebbero spostato dalla sua parte dozzine di guerrieri. Sulla carta, metà Kowacz e uomini-drago contro metà Kowacz e pacifici e tradizionalmente servi Sayun, sarebbero stati i primi a vincere. Questo significava che davvero Mirietta aveva possibilità di vittoria? No: Muldrow aveva ancora tutta la sua polvere di fuoco che, a quanto aveva lasciato intendere l'ultima volta che aveva discusso con Mirietta e Marcus, doveva ancora essere numerosa e devastante. Questo sbilanciava l'intera partita verso la compagine del vecchio Sir: gli uomini di Mirietta avrebbero pure potuto combattere valorosamente ma... sarebbero stati sconfitti.

Di questo nessuno aveva il coraggio di parlare alla principessina, neppure Daessenya. Allora Marcus, ancora una volta assumendosi il ruolo di fratello maggiore che gli competeva, prese e affrontò la piccola ma determinata ragazzina, da soli, nella sua tenda. Fu la recita di una commedia che aveva già previsto: Mirietta sapeva già tutto, e non aveva bisogno che Marcus glielo ricordasse. Ella sapeva che era più probabile che avesse perso, e sapeva che questa consapevolezza unita alla previsione del drago Kyrios di qualche settimana prima sul suo futuro... poteva arrivare a significati veramente agghiaccianti. Dunque Marcus scelse di cambiare la carta dell'informazione con quella della prostrazione: pregò Mirietta di non insistere. La pregò di lasciar perdere Castel Granito e i loro zii, e tutto quello che pianificava. Di lasciare che il tempo facesse sedimentare un po' tutti gli avvenimenti: sopravvivere adesso per combattere domani. Ma Mirietta temeva l'influenza del nuovo continente: temeva che a forza di stare alla montagna di fuoco o alla baia dei Sayun prima o poi si sarebbe dimenticata chi era e qual era il suo posto. Disse dunque a Marcus che la sua decisione rimaneva quella di affrontare Sir Muldrow.

Differentemente da Daessenya, che non poteva, Mirietta decise di scendere in battaglia con i suoi uomini. Chiaramente non era una guerriera: non era mai stata addestrata per farlo, ma almeno all'inizio sapeva che era fondamentale che gli uomini e le donne (molte tra le figlie di Kyrios) del suo esercito la vedessero con loro sul campo di battaglia. Anche Marcus partecipò naturalmente, e a cavallo di Shirley. Al momento dell'ultimo incontro sul campo, il vecchio Sir Muldrow non si disse sorpreso di quello che definì un voltafaccia e che, anzi, aveva approntato nuove e raffinate armi per devastare lo squadrone avversario. A giudizio di Marcus, per quel minimo di esperienza che il principe cavaliere aveva, Muldrow aveva un po' la faccia di uno che la sparava grande per nascondere una qualche tragica debolezza, ma non intendeva con questo illudere se stesso, o peggio sua sorella, basandosi solo su una sua sensazione personale.

Lo scontro dunque avvenne. Quello schifoso di Tampepe doveva aver raccontato ai suoi della chimera di Marcus, e forse Muldrow anche a questo alludeva, visto che l'esercito del Sir tirò fuori una sorta di grossa balestra meccanica apparentemente portata sul campo esclusivamente per lanciare arpionate a Shirley mentre era in volo. Marcus schivò un paio di colpi, ma alla fine decise che non intendeva rischiare la vita della sua cara amica zannuta, ragion per cui si concesse del tempo per atterrare, tornare al covo, legare ben stretta la chimera e poi precipitarsi nuovamente a combattere al fianco di sua sorella. In realtà, anche Mirietta alla fine decise, poco dopo, di desistere: aveva fatto più del suo dovere, ma non era una guerriera, era una ragazzina gracile e stanca e quindi sarebbe stato meglio per lei continuare a seguire lo scontro da lontano. Il comando passò tutto dunque in capo a Marcus.

E Marcus vinse. Alla fine, il vecchio Sir non aveva fatto altro che fingere. La sua tattica era stata proclamare molto più di quello che aveva: per un po' prima l'archibugio appositamente creato per uccidere la sua chimera spaventò il principe cavaliere non poco, ma poi si rese conto che armi con la polvere nera praticamente non ce n'erano e questo riportava tutto alla situazione di base: metà Kowacz e violenti e agguerriti uomini-drago contro metà Kowacz e pacifici Sayun. Muldrow perse dunque, anche se la sua presenza sul campo di battaglia in realtà il principe non la scorse fin da quasi l'inizio dello scontro armato. Il vecchio si era comportato né più né meno come Mirietta: si era fatto vedere dai suoi, e poi si era ritirato.

Tutto ciò significava che Mirietta aveva avuto la meglio! Che la profezia di Kyrios in qualche modo era stata erronea. Marcus era vivo, Shirley era viva, era viva Mirietta ed era viva Daessenya. Prima dello scontro, non avrebbero potuto sperare di meglio. Marcus sapeva che la furia della battaglia non era il caso che si disperdesse, ragion per cui spinse Kowacz e uomini-drago all'inseguimento del vecchio verso quello che i Kowacz sapevano essere il suo “palazzo” presso il villaggio Sayun. Si trattava di una sorta di baita arroccata su uno scoglio, ma non di facilissima penetrazione in quanto preceduta da tutta un'altra serie di costruzioni non dissimili. Nella furia della caccia al nemico tutte le porte vennero abbattute una dopo l'altra fino ad arrivare a quella degli appartamenti privati del vecchio Sir. Lui era lì. Non appena Marcus tentò di abbattere l'ennesimo uscio, e trovando questa volta una inattesa resistenza, fu lo stesso Muldrow ad annunciarsi: «Non tentare oltre, principe» disse «Sono sconfitto. Se osservi all'angolo, vedrai la mia spada conficcata al suolo. Lasciami prigioniero nei miei appartamenti». Chiaramente non esisteva: poi, se una volta preso, fosse stato il caso di ucciderlo o meno, su questo si poteva discutere. Marcus aveva una mezza idea di portarlo da Mirietta e far decidere lei. Ma... il vecchio doveva uscire da quella stanza. «Sai meglio di me che non posso farlo, cavaliere» rispose il principe al vecchio Sir, «Avrai anni di esperienza di battaglie sulle tue spalle... saprai bene che il nemico va preso, prima di esser fatto prigioniero»

«Sono preso, mylord»

«Oh, andiamo Muldrow! E chi mi dice che lì dentro non sei pieno di uomini pronti a cospirare nuovamente contro la tua nuova signora? O che non hai uno dei tuoi tanto millantati archibugi che ci sterminerebbero tutti?»

«Oh, andiamo principe, questo è impossibile»

«Beh, ad esempio, come fai a bloccare questa porta? Di che materiale è fatta dentro? Neanche la si riesce a scalfire con spade e asce!»

«Beh, non è un materiale a bloccarla»

«Allora, cosa?»

«Ah... ti prego, principe, sono stanco... ti do la mia parola d'onore che nessun pericolo giungerà mai per voi da questa porta. La parola di un cavaliere»

«Tu non sei un cavaliere, non è vero, vecchio?» azzardò dunque Marcus esclamando qualcosa che da un po' girovagava fra i suoi pensieri, «Muldrow non è certamente una Casata dell'Altopiano, cui pure sostieni di appartenere. Certo, potresti pure essere un cavaliere di ventura... ma di solito i nomi di costoro sono anche più noti di quelli legati a un casato o grande borgo. Comincio a dubitare pure che tu abbia mai davvero servito i Tyrell»

«Ahah» rise il vecchio «Beh qui abbiamo un principe e cavaliere di rara perspicacia... o rara immaginazione. Peccato, Lord o Sir Marcus, che tu questa verità non la conoscerai mai. Vedi: non è un materiale particolare o un ingegnoso meccanismo a bloccare questa porta. È la magia».

Marcus rabbrividì dopo quelle parole. Il vecchio Sir gli parve stra-serio e d'altronde perché non avrebbe dovuto esserlo? Per bluffare? Ancora? Perché era sconfitto? Ma certo doveva avere – lui sì – parecchia fantasia per sparare una roba del genere, se non era vero. Irritato, il Cavaliere della Chimera ordinò ai suoi: «Abbattete questa porta!». Dopodiché si recò personalmente da sua sorella a confermarle quello che di certo già le era giunto: che erano stati vittoriosi e che dunque... lei era la nuova signora assoluta di quelle terre. Che Kyrios l'avesse previsto o meno.

 

 

 

Quello era un giorno grandioso per Hana Lannister. Era il giorno in cui avrebbe preso in sposo Gabryaerys della Casa Targaryen, sancendo così la decisiva unione tra due tra le più antiche e famose casate della storia del Westeros e del mondo intero. Lei era radiosa, glielo dicevano tutti: amici o nemici, lontani o vicini. Dicevano che la gravidanza le donava. Incredibile come le cose fossero cambiate in fretta! Fino a pochi anni prima, o addirittura mesi, Hana Lannister era una fanciulla la cui massima ambizione era fare la politica, come e meglio di suo padre. Non solo l'idea di sposarsi e fare dei figli non veniva da lei considerata neanche alla lontana, ma Hana era anche uno di quei tipi che guardava con una certa sufficienza le altre ragazze che sceglievano quella vita, che poi erano la schiacciante maggior parte. Pensava che fosse un vero peccato, per chi potesse permetterselo, rifiutare una vita più “da maschi”; una vita rivolta più al pubblico che al privato. E non rinnegava niente di quello che era stato: i suoi anni al fianco di suo padre prima e di suo fratello dopo le avevano dato gratificazioni e bei ricordi. Ma da quando c'era il piccolo, la soddisfazione di Hana Lannister era... diversa. Forse altrettanto intensa, o forse perfino maggiore. Sentire crescere una vita dentro di sé era qualcosa di unico e speciale. Fino a qualche mese prima, lei non si sarebbe mai detta una donna che la pensava in questo modo, ma adesso farlo era inevitabile: portare in grembo una vita davvero modificava il carattere.

Il discorso cambiava quando si parlava del presunto re. Senza dubbio, anche nei suoi confronti, ormai era chiaro: Hana non provava il sentimento che avrebbe dovuto. Avrebbe dovuto continuare a odiare letteralmente quel tizio, e invece non lo faceva. Lo tollerava. Alcune volte provava pietà per lui, altre perfino una certa empatia. I rapporti andavano migliorando giorno per giorno, e con lei il re era inappellabilmente buono. Di recente, aveva acconsentito alla richiesta della sua promessa di liberare i Lord Gushing e Pamir Gaholla, finalmente. I due vecchi amici di re Lionel certo sarebbero stati dei sorvegliati speciali dentro le mura della Capitale, ma liberi. E liberamente avrebbero potuto partecipare al matrimonio della Lady di Lannister. Tuttavia il re che non aveva strettamente a che fare con Hana era un re diverso, oscuro e minaccioso. Prima di tutto, si ripetevano malelingue tra la gente e anche talvolta in qualche corridoio più in alto, che il re non fosse in verità chi sosteneva di essere. Veniva dall'oriente certo, era un personaggio strano, influente e forse magico senza dubbio. Ma non era un Targaryen, e men che meno il figlio di una regina esistita migliaia e migliaia di anni prima. Questo era già piuttosto assurdo detto così, e in più non c'era una straccio di prova. Quindi, sostanzialmente, ammettendo che i Targaryen potessero davvero vantare un qualche diritto, in realtà da secoli perduto, sul Trono di Spade, allora bisognava pure considerare la possibilità che ne saltasse fuori pure un altro di questi personaggi, e poi magari anche un terzo e un quarto.

Ma la vera cosa che più su tutte faceva vergognare Hana era che quel suo futuro consorte così dolce nei suoi confronti e in quelli del loro comune figlio che stava per nascere, massacrava gli oppositori ed affamava la povera gente. Accadevano episodi relativi alla prima questione almeno una volta al mese: oppositori non erano necessariamente uomini del palazzo, ma anche capipopolo, anche giovani. La gente invece veniva affamata perché si veniva da una guerra e da una carestia, combinazione che portava inevitabilmente le casse della Corona a soffrire. Ma la nobiltà, e il re con essa, naturalmente non mollava di un piede sulla questione sociale, e questo rendeva tutto disperatamente esplosivo. Il clima era quello di un regime, in cui lo strapotere dell'autorità s'imponeva a tutto campo sulla povera gente. Eppure più s'imponeva, più l'autorità temeva e faceva bene a farlo, a giudizio di Hana. In conclusione, il regno e la Capitale in particolare stavano vivendo insieme due temperature diverse: quella fresca e rilassata dentro la corte, fatta di banchetti e futuri matrimoni, e quella incandescente delle piazze e dei quartieri poveri.

Era una vita... sul filo. Come costantemente in attesa di qualcosa. Qualcosa che poteva essere di tutto, positivo o negativo: il matrimonio, la nascita, un altro figlio, oppure la rivolta, il sangue, la morte. Hana si chiedeva se, qualora la folla si fosse ribellata, i rivoltosi avessero risparmiato la sua vita e quella del suo piccolo. Perché una donna e un bambino non avevano colpe in merito alla politica degli uomini adulti. Oppure anche perché quella donna e quel bambino erano Hana Lannister e suo figlio, e quindi la figlia e il nipote dell'ultimo re sotto il quale aveva regnato la pace e pure un certo benessere. I morti di fame c'erano stati anche allora: ce n'erano sempre e da sempre. Ma sotto Lionel molti di meno. Tuttavia la speranza era vana: la folla non conosceva né ragione né pietà, e quando e se avesse perso il controllo allora il sangue versato avrebbe potuto essere quello di chiunque, uomo o donna, adulto o bambino, laico o religioso.

A proposito di religioso: i rapporti tra Credo e Corona continuavano ad essere non idilliaci. Gabryaerys pretendeva dai Septon, e dal loro capo in particolare, una copertura su tutta la sua politica che il Credo si ostinava a non dargli, rivendicando una sua indipendenza. C'era poi qualcosa di più specifico nel calderone del re, pure importante e pure legato alla questione del Credo, ma che né Hana né molti altri cui Hana si era rivolta avevano bene inteso: questioni segretissime tra Sua Maestà e Sua Sacralità.

Infine c'era il duello con Bolton: sostanzialmente accantonato nei giorni del matrimonio, dimenticato, posto sotto sale per esser conservato e poi rimesso sul tavolo al momento opportuno. La questione innervosiva il re Targaryen e – Hana aveva concluso – lo spaventava. Era la prima questione “spinosa” che realmente stava minacciando il suo ancora così breve regno: avrebbe dovuto imparare, il presunto figlio della madre dei draghi, che sempre, costantemente, un regno è minacciato: questo Hana, che aveva trascorso tutta la vita a palazzo, lo sapeva molto bene. O era una rivolta a nord, o una cospirazione a sud, un re tranquillo non poteva mai stare. Il segreto era conviverci. Forse quel matrimonio avrebbe potuto rappresentare il momento d'inizio di questa nuova fase per Gabryaerys: l'inizio di un nuovo atteggiamento che lo portasse ad essere maggiormente uno che domina gli eventi, non che si lascia trascinare da essi. Le premesse c'erano tutte: anche Gabryaerys – almeno a giudizio della sua prossimissima consorte – appariva molto sereno in quei giorni. Sereno lui, radiosa lei: le circostanze migliori possibili per un matrimonio che, nonostante tutto, era pur sempre un matrimonio politico.

Lady Hana pretese che la cerimonia fosse quanto più sobria possibile: prima di tutto, perché per gusto personale preferiva più – per esempio – le linee morbide e i colori freddi piuttosto che i fronzoli e i colori sgargianti. Preferiva gli accostamenti ai contrasti e le cose brevi a quelle troppo lunghe. Secondo: quello era uno di quei momenti della storia in cui esibire troppo sfarzo non faceva bene a chi poteva permetterselo, e questo in tutti i casi. Quindi, oltre che una scelta di gusto, era pure una scelta di opportunità. Forse, chi lo sa, perfino di sopravvivenza: eventi come quelli erano occasioni che portavano calche immense di individui ad ammassarsi tutte assieme. E in queste circostanze, la storia insegnava, le rivolte diventavano sempre più probabili. Hana decise chiaramente di non pensarci: non poteva fare la morale a Gabryaerys sul non lasciarsi trasportare dalle sue ansie e paure, e poi passare l'intera giornata del suo matrimonio con la prospettiva che il popolo sarebbe andato di matto. Ed in effetti non lo fece...

Il giorno del suo matrimonio, Hana Lannister fece una scoperta che la sorprese non poco: il popolo provava simpatia per lei. Nel momento in cui necessariamente dovette entrare in contatto con loro, quando cioè uscì dal Palazzo Reale per fare in carrozza fino al tempio, uno scrosciante, inatteso, inaudito applauso la accolse come una vera, amata, regina. L'emozione fu tale, che la Lady di Lannister non poté dichiararsi mai sicura di questo: ma le parve di sentire più volte, e da diverse voci, cose tipo “Lady Hana sei tu la nostra vera regina” e, peggio ancora: “Lady Hana, SALVACI”. Il popolo la percepiva come un'alleata. Un'alleata contro chi, questo era tutto da discutere. Ma di sicuro qualcuno di a loro vicino, forse il più vicino all'interno della classe dei palazzi e dell'alta politica.

Il matrimonio andò come andò: parole, formule, una cordicella ad unire le braccia e le mani sue e del re. Un Gushing sinceramente emozionato per lei: il Lord vecchio amico di suo padre fu colui che l'accompagnò sino all'altare per consegnarla a Gabryaerys. Un Gabryaerys sorprendentemente più emozionato dello stesso Gushing: solenne, obiettivamente molto bello, ma anche obiettivamente a un passo dalle lacrime. Per coprire la parte deforme del suo viso, stavolta non aveva optato per il solito squallido cappuccio viola, bensì per una sorta di fascia che, posta sotto la corona, probabilmente da lontano neanche si vedeva. Il popolino avrebbe pensato che per questa occasione il re aveva deciso di non starsene nascosto ai loro occhi: non aveva nulla da nascondere dunque, non era un mostro.

Ma la vera novità, e la sua vera preoccupazione, era che lo stato d'animo della regina Hana di Casa Lannister era di nuovo cambiato tutt'assieme. Già qualche mese prima, il suo improvviso sentimento di “non odio” nei confronti di Gabryaerys la sorprese e la stravolse. E adesso di nuovo, la storia della sua emotività si stava ripetendo, di nuovo all'improvviso e a poca distanza dall'ultimo sussulto: continuava a non odiare Gabryaerys, e continuava a pensare che doveva fare buon viso a cattivo gioco. C'era loro figlio in ballo. Ma questo non le proibiva minimamente di essere se stessa: il popolo la reclamava e lei gli si sarebbe donata. Era questo che voleva fare, era questo che doveva fare: sottilmente, ma scrupolosamente, sostituire un sovrano francamente claudicante sulle questioni della politica del regno. Era il suo matrimonio, ed era bello, e lei era contenta. Ma ciò che più la rese felice, all'uscita da quel tempo, non fu mettersi sulla stessa carrozza di suo marito e baciarlo: manco per idea. Ciò che la rese più felice fu rompere gli schemi, sorprendere Gabryaerys e tutti i suoi consiglieri, e andare di sua iniziativa verso la gente. Non la temeva: sentiva di non avere niente da temere. E si fece toccare la mano, il braccio, fino a condividere un simbolico abbraccio con la ressa tutta. Poi, in un gesto teatrale ma quasi spontaneo, la nuova regina del regno prese un fiore dal suo bouquet e lo consegnò a una bambina particolarmente graziosa che le aveva appena tirato la gonna. Dopodiché Lady Hana si chinò, sorrise, e baciò sul capo la piccolina. Il re intanto non aveva fatto altro che guardarla e attendere pazientemente, come un bravo segugio. Quindi la regina andò a lui, e solo allora, al suo comando la carrozza partì di nuovo. Lady Hana era tornata.

 

 

 

Mirietta chiaramente aveva fretta. La sua amica Xenya, l'esploratrice, ormai riusciva a capirlo perfino da qualsiasi impercettibile gesto che la principessina facesse. Si poteva serenamente dire che ormai le due si conoscevano da un pezzo, e molto si dovevano l'una con l'altra. Senza Xenya, Mirietta non avrebbe mai conosciuto il nuovo continente, e dunque tutta questa cosa di crearsi un nuovo esercito e un potenziale per le sue – assolutamente legittime – mire politiche, semplicemente non sarebbe esistita. D'altro canto, Xenya era una che voleva sempre viaggiare e conoscere luoghi sconosciuti. Altro che volere: lei doveva farlo, sentiva che era nella sua natura, sentiva che se non l'avesse fatto dopo o prima sarebbe morta. Però era anche vero questo: che senza l'appoggio e il finanziamento di Mirietta, a quest'ora lei ancora sarebbe stata tra gli scogli della sponda occidentale del Westeros a trastullarsi coi gabbiani. E invece adesso erano lì, ed erano due donne vittoriose.

Tuttavia questa cosa del ritorno al vecchio continente con l'intenzione di fare la guerra, Xenya non solo sentiva che non fosse proprio nelle sue corde (lei non era affatto una combattente), ma aveva pure il presentimento che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato e pericoloso. Che fosse una partita vinta sulla carta, ma ancora tutta da giocare nella sua dimensione pratica. Ed essendo che francamente a lei di tutte quelle cose di regni e sovrani non fregava niente, non poteva non negare a se stessa che l'idea della ripartenza la demotivava non poco. Lei sarebbe ripartita sì, anche da sola: ma costeggiando il nuovo continente sempre più a nord ad esempio, o più a sud. Oppure avrebbe voluto vedere dove finisse la montagna infuocata: cosa ci fosse dietro quello che da millenni era il covo di un drago. Eppure, non poteva farlo. Questa volta avrebbe fatto la brava, e avrebbe seguito l'amica. Le si era già opposta di recente, decidendo, con il suo secondo Jorando Pashamanyna, di dissentire dalla sua strategia di attaccare il vecchio Sir nel sud, e di restare dove anche Kyrios voleva che loro stranieri rimanessero: tra i suoi figli.

Non che anche il drago non stesse giocando una qualche sua oscura partita: questo ormai per Xenya era chiaro. Il drago aveva creato tutto attorno a loro un clima onirico che a poco a poco stava annichilendo parte delle loro personalità, ed anche a lui prima o poi era necessario disobbedire. Dalla sua esperienza, Xenya sapeva che la necessità di disobbedire era uno degli ingredienti fondamentali della vita. Una colonna portante. Se di tanto in tanto non ci si ribella, alla fine si muore. E quindi assecondare la sua vecchia e cara amica adesso, almeno significava non fare da sponda una seconda volta al drago, il che era positivo. La verità, era che Xenya avrebbe voluto seguire il suo cuore, ma dato il recente “mini-tradimento” che aveva attuato nei confronti della principessina di Lannisport, si sentiva in dovere per lo meno di riaccompagnarla a casa. Anche se forse non di combattere la sua guerra.

D'altro canto, la sconfitta del vecchio Sir Muldrow alla baia dei Sayun-sama si era anche portata appresso un alone di mistero. In una serata di consiglio, alla presenza anche di Daessenya, Jorando e qualche altro capo dei selvaggi, il principe cavaliere Marcus aveva riferito a Mirietta non solo che Muldrow fosse ancora vivo, ma che si sapeva pure bene dove fosse e che comunque non lo si potesse catturare come prigioniero di guerra. Aspetto ancora più inquietante: il vecchio si era sigillato nei suoi appartamenti, mediante un qualche meccanismo sconosciuto dei suoi. Aveva perfino parlato di una magia, anche se una volta confrontatosi con gli altri, il principe Marcus fu il primo a dire che in effetti non solo la cosa era già incredibile di per sé, ma pure facilmente smentibile. Non era infatti assurdo pensare che proprio Muldrow, che in quel continente aveva avuto l'intelligenza di trovare una sostanza che gli permettesse di sparare del fuoco da alcune armi, fosse stato in grado di elaborare nuove tecniche con nuovi e più resistenti materiali. La conclusione rimase dunque che prima o poi quella porta sarebbe stata aperta; ci sarebbero stati uomini di Mirietta e Marcus a sorvegliare. Fermo restando che ormai era assodato che buona parte della popolazione di quel continente, un terzo circa, adesso sarebbe stato occupato con le guerre in oriente: la sconfitta di Muldrow aveva permesso infatti a Mirietta e i suoi di impossessarsi anche delle maestose navi mercantili del vecchio cavaliere, la cui capienza era davvero formidabile.

Per l'ennesima volta, e nella forma di drago, Kyrios chiese a Mirietta di non partire: si trattava del pomeriggio prima del giorno prescelto. Avrebbe dovuto essere il momento dell'addio – e lo fu – ma Kyrios comunque ci tenne a sottolineare il proprio dissenso. Per Xenya, era pure vera una cosa però: se il drago davvero avesse voluto opporsi al viaggio di tutti quei suoi figli e figlie, che teoricamente Mirietta aveva lasciato liberi di scelta essendosi limitata a proporre la cosa senza mai imporla, allora avrebbe benissimo potuto uscir fuori dalla sua caverna e mettersi fisicamente di traverso. Nessuno sarebbe mai stato in grado di opporglisi. Quindi, se alla fine gli uomini-drago stavano partendo, un suo molto limitato e tacito consenso di fondo doveva pure esserci. Mirietta, testarda come un mulo, chiaramente rifiutò: e l'indomani mattina le navi salparono...

La giornata era splendida, il sole alto e caldo. Certo sarebbe stata una faticaccia, perché prendere Castel Granito immediatamente appena sbarcati, dopo un minimo di quattro o cinque giorni interi di navigazione, sicuramente non sarebbe stata un'impresa da poco. Gli uomini di Mirietta sarebbero stati assai più numerosi, e chiaramente più agguerriti, e avrebbero avuto dalla loro il fattore sorpresa. Ma la storia voleva che la capitale dei Lannister fosse inespugnabile, e che rarissime volte una vera e propria occupazione si fosse veramente verificata. Si trattava quindi in ogni caso di un azzardo: ma d'altro canto, la guerra non lo è forse sempre?

All'inizio, il principe Marcus preferì legare la sua chimera Shirley a una delle navi: disse di non volerla affaticare troppo. Poi però, quando vide che la chimera stava peggio in mare che in aria, decise di fare parte del viaggio in volo e quindi sostanzialmente lasciò la nave in cui lui, Xenya, Mirietta, Pashamanyna e Daessenya viaggiavano insieme. Al comando delle altre navi, erano stati messi uomini dei Kowacz o dei Sayun, in ogni caso fidati dalla principessa. I guerrieri-drago, invece, non avevano il temperamento per esser messi al comando di alcunché: nessuno di loro. Vedere la chimera librarsi per aria, era sempre uno spettacolo entusiasmante. Solo che, naturalmente, andando essa piuttosto più veloce rispetto alle ingombranti navi del vecchio Sir prigioniero di se stesso alla baia, a un certo punto del primo giorno di viaggio il principe sparì. Venne in questo agevolato dal cielo che, da luminoso che era, poco a poco nel pomeriggio si rabbuiò e, a sera, cadde anche una leggera – ma compatta – pioggerellina. Xenya era un animale da navigazione ed era abituata a quella vita. Decise di andare sul ponte, ad osservare un po' il cielo per vedere se avesse l'intenzione di peggiorare o di continuare su quella china nonostante tutto serena. C'erano già sul ponte la sua Lady e amica Mirietta e quell'altra ragazza, la bionda Daessenya, che chiacchieravano amabilmente, ammantate da dei cappucci. Rosso Lannister quello della Lady, giallo paglierino quello della ragazza del sud. Anche Xenya stessa decise di prendere una parte della sua mantella grigia e avvolgersela sul capo a mo' di cappuccio un po' raffazzonato. La pioggia, d'altro canto, non era tale da penetrare così tanto i tessuti da inumidirli in poco tempo: una chiacchierata tra donne sul ponte si poteva anche fare.

«Milady» salutò dunque l'esploratrice, aggiungendo poi: «Daessenya»

«Mia cara amica!» fece Mirietta «Che bello averti qui con noi. Non dormi?»

«Quando sono in mare, è difficile. Non perché non ci sia abituata eh, ma... il mare mi emoziona. Posso dormire così tante volte sulla terra, non vedo perché farlo anche in mare di notte. Il mare di notte... è uno spettacolo straordinario»

«Anche un po' inquietante, devo dire»

«Sai che è solo apparenza? È una di quelle cose che fanno un effetto strano solo perché non le si conosce. Non voglio assicurartelo per tutti i luoghi del mondo, né lo so bene per le profondità di questo oceano a noi sconosciuto... ma sai che la gran parte delle acque del mondo, la sera, sono calde?»

«Davvero?!»

«Sì, è così. Raccolgono tutto il calore del sole nell'arco del giorno, e quindi si riscaldano la notte»

«Posso confermarlo» aggiunse Daessenya «Quanti bagni di notte mi è capitato di fare quando ero a Cowain. Sia quando ero a servizio da Lady Xalandra che anche prima... prima insomma del mio malinconico viaggio verso nuovi orizzonti. Prima di voler dimenticare il male che gli uomini possono farti». Dopo queste parole ci fu un momento di silenzio. Mirietta era ancora troppo piccola per poter parlare di uomini seriamente, e Xenya era sempre stata troppo affaccendata per le storie con gli uomini. Avrebbero potuto fare ancor più le amiche e chiedere di che cosa si trattasse nell'esattezza, ma l'esploratrice ebbe come la sensazione che Daessenya in realtà non volesse realmente parlare di quegli affari, e che la cosa le fosse semplicemente sfuggita. Lady Mirietta poi tolse tutte dalla fastidiosa incombenza, cambiando discorso e rivolgendosi a Xenya: «Sai, ci era parso di intravedere mio fratello volare da qualche parte. È ormai tardi, dovrebbe tornare a momenti per riposare lui e far riposare la chimera. Io sono convinta che fosse lui, mentre Daessenya dice che non si è trattato d'altro che di una nuvola e di un leggero lampo che l'abbia illuminata»

«Mi sembra difficile» fece Xenya con un po' di saccenza «Le temperature sono stabili, il vento pure. Dubito che il tempo andrà a peggiorare rovinando in tempesta. Cosa, peraltro, che non credo sarebbe mai un problema per queste robuste navi»

«Il vecchio cavaliere era decisamente bene armato» commentò anche Daessenya «Per essere uno i cui scambi commerciali si limitavano al solo Altopiano»

«Ne ha di cose curiose, il tizio, da raccontare»

«Hey, guardate!» fece la piccola principessa, spingendosi verso il mare, «C'è davvero qualcosa che si muove in lontananza!».

E c'era in effetti. Solo che non era ad altezza cielo. Era una delle loro navi, la più distante. Stava facendo dei movimenti anomali. Qualcosa di rapido e sinistro, che Xenya non aveva mai veduto nell'intera sua vita. Era troppo distante per capire bene, ma che cosa diavolo mai poteva spingere un'imbarcazione di quella portata a muoversi a quel modo?

Il cuore le sobbalzò alla gola, come anche sicuramente alle sue lì presenti amiche, quando vide che anche un'altra delle navi lo stava facendo. E dopo di quella, un'altra ancora, e intanto la prima colava definitivamente a picco. Alla quarta nave colpita, il dubbio ansiogeno dell'esploratrice mutò in certezza: era chiaramente un gigantesco tentacolo quello che stava scuotendo le navi Fino a portarle giù nelle profondità oceaniche. Atterrita e insieme sbalordita, senza difese, senza sapere cosa pensare, la piccola Mirietta rivolse il proprio sguardo all'esploratrice chiedendo: «Mirietta... ma... che cos'è?»

«È-è u-un... krak...» arrivò a balbettare l'esploratrice, senza neanche riuscire a emettere l'intera parola. Dopodiché furono tentacoli e tentacoli e tentacoli. E urla e grida, e urla e grida, e urla e grida. E poi il mare. Acqua, acqua e ancora acqua. E poi per un certo momento non fu più niente. E, dopo quel niente, fu Jorando Pashamanyna.

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Capitolo 22
*** Sospetti, minacce e ritorsioni ***


Capitolo 22

SOSPETTI, MINACCE E RITORSIONI

 

 

 

«E quindi... queste sono le sue condizioni. Una resa totale, su tutta la linea. Dice che non abbiamo neanche un'idea della forza con cui la vendetta per i suoi confratelli e consorelle calerà su di noi tutti. E su,l nostro comune tempio»

«Ah» si lasciò scappare, sommessamente, una insolitamente allarmata Septa Sharma.

«Dice che è sicuro che questa volta Sua Maestà, con i suoi diavoli, non interverrà» continuò il giovane fratello Brendan «E se anche dovesse farlo... quell'intervento non potrà che essere solo successivo alla morte di Sua Sacralità e di tutti i Septon la cui casa è al tempio»

«Dovete subito inviare una bolla che sancisca il trasferimento dei vostri fratelli presso altre sedi, le più disseminate possibili» si affettò a dire il Lord Gran Maestro Adlai Irwin.

«E conclude che il dio suo padre abbia pietà delle nostre anime. Perché lui – Yashua – non ne avrà dei nostri corpi»

«IO NON CI STO!» esclamò invece l'Alto Septon, totalmente fuori controllo. Era da quando Brendan aveva cominciato il suo monologo che Sua Sacralità manifestava una certa cieca impazienza, che testimoniava sì tutto il suo essere appassionato e agguerrito, ma anche il suo essere letteralmente terrorizzato. Faceva così perché non aveva idea di come comportarsi. Era disperato; la più sacra tra le guide spirituali del regno, totalmente in preda alla disperazione. Disse ancora il pingue omuncolo: «Io mi rifiuto! Mi rifiuto di starmene con le mani in mano mentre questo losco figuro beatamente si permette di minacciare le fondamenta stesse della nostra società!» esclamò rabbioso rivolto verso Septa Sharma; e poi al Gran Maestro Irwin: «Mi rifiuto anche solo lontanamente di cedere a un patteggiamento con questo cialtrone, di fare anche solo mezza delle cose che lui abbia chiesto o voglia che facciamo! Ivi incluso manifestarci deboli e intimoriti, sospendendo le attività e mandando a casa i Septon! Non esiste!»

«E allora cosa intendi fare?» domandò Irwin, e Brendan si accorse bene di tutto il senso di disgusto che pervadeva il Gran Maestro nei confronti del suo interlocutore: si era permesso perfino di dargli del “tu”, tanto la situazione lo permetteva. «Quel bastardo deve morire!»

«Non c'è modo di farlo» continuò Adlai, anche lui evidentemente agguerrito e preoccupato della cosa, «Gabryaerys gli ha mandato il migliore dei suoi sicari: una creatura demoniaca con poteri paranormali e Yashua è sopravvissuto! È uno stregone, non lo si abbatte allo stesso modo con cui si abbatte un uomo»

«Non è possibile questo! Non esistono cose di questa natura: non lo sai? O forse alla Cittadella non te l'hanno spiegato?! I miracoli non esistono! La magia NON ESISTE!»

«E allora» intervenne Sharma, sempre più pacata, «Cosa credi sia accaduto la notte del vespro? Degli uomini sono morti...»

«Certo. Ma noi di questo non abbiamo alcuna prova, o sbaglio?»

«Abbiamo Brendan!» esclamò Irwin «Ora non ti fidi neanche di un tuo confratello giurato?! È davvero a questo che sei giunto?»

«Il ragazzo è chiaramente in preda al delirio. Lo avranno torturato durante questi giorni di prigionia presso quell'eretico bastardo: è certamente così»

«Non sono in preda al delirio!» esclamò Brendan, ma la risposta di Irwin fu ancora più irritata: «Ti sei allontanato così tanto dai poveri e dagli ultimi da non riuscire più neanche a prestare ascolto a loro! A quella che dovrebbe essere la tua gente! Loro hanno perso padri, e figli, e fratelli e sorelle quella notte. E tu non hai il minimo rispetto per questo». A quest'ultima provocazione, quello stupido vecchio – perché di stupido vecchio si trattava: ormai anche Brendan ne era assolutamente convinto, pur se non avrebbe mai avuto la forza di dirlo – non ebbe nulla da controbattere. Rimase in silenzio per qualche istante, poi con la stizza di un bambino viziato rispose: «Dovresti tornartene dal tuo re, Irwin, data la tua ormai conclamata inutilità. Torna al desco dove mangi con più piacere. Qui innervosisci soltanto». Irwin diede dunque le spalle e fece per andarsene sul serio. Septa Sharma però lo fermò davanti alla porta, con un flebile: «Adlai: aspetta». E lui si fermò. Eseguiva gli ordini di quella donna come se si trattasse della propria madre. Ruffiana, come assecondando un pazzo, la vecchia Septa cieca si rivolse dunque a Sua Sacralità: «Allora: qual è il vostro comando infine, o Altissimo?»

«Non lo so» ammise l'uomo che avrebbe dovuto essere il più sacro sulla terra e invece era solo ridicolo «Non abbiamo un modo di eliminarlo? Di occuparcene da noi stavolta? Non voglio più lo zampino del re in tutta questa storia»

«Adlai» disse ancora Sharma «Tu non dicevi che esiste qualcuno all'interno della cerchia del re di... più libero pensiero? Una colomba libera che si libri nell'aere, piuttosto che un falco che subito si precipiti sulla spalla del suo padrone a un pacato richiamo?»

«I-io... sì, ho un'idea che questa cosa potrebbe anche essere reale, ma... non posso garantirlo»

«Semina il terreno, figliolo. Semina il terreno e vediamo che frutti si possono cogliere. Perché, se la colomba è la stessa che penso io, allora è l'uomo più adatto ad informarci sul dove il sacerdote eretico si nasconda. Una volta saputolo, faremo ciò cui il cuore di Sua Sacralità anela»

«Non abbiamo tutto questo tempo!» s'oppose l'Alto Septon «Hai sentito le parole del ragazzo!»

«E Sua Sacralità» proseguì la vecchia, sostanzialmente scavalcando la replica del sommo sacerdote, «Imparerà che solo col dono della pazienza certe mete possono essere raggiunte». Ancora una volta, il volto del Sommo Septon si contorse come a voler vomitare qualche altra scemenza. Ma non lo fece: si accollò il rimprovero dell'anziana consorella. Irwin, dal canto suo, come un militare che esegue gli ordini del suo comandante, proclamò: «Richiederò subito un incontro con Lord Braff. Da soli» e sparì nel battito di un occhio.

Poco dopo, anche Sharma lasciò quella sala privata del tempio, accompagnata da tre solerti consorelle lì appositamente sopraggiunte per riportare la vecchia savia a casa. E Brendan rimase da solo con quel tronfio personaggio che una volta e per tutte era venuto fuori per quello che comunque già si era intuito che fosse: un miscredente, del tutto avulso a una vera ispirazione teologica o illuminazione divina, che per anni si era servito della propria carica per fare i suoi porci comodi. Spiaceva ammetterlo, ma quando faceva quei discorsi non è che Yashua avesse qualche ragione: l'aveva su tutta la linea. E c'era senza dubbio questo dietro al suo eclatante successo tra la povera gente della città. Adesso il diavolo era tornato, e la riposta dell'uomo a capo della più grande religione del mondo continuava a non essere all'altezza. Aveva ragione Irwin: non si poteva uccidere quello che Yashua era, qualsiasi cosa egli fosse, con le mere armi degli uomini. Infatti, anche la scelta di Sharma di assecondare il delirio del vecchio per Brendan non aveva molto senso: doveva esserci qualcosa sotto. Era chiaro ormai che fosse Sharma a comandare veramente lì dentro, con un Gran Maestro che pendeva dalle sue labbra esplicitamente, e un Alto Septon che invece veniva raggirato come un bambino. Gli si diceva che si sarebbe fatto quello che lui voleva, e poi invece si faceva altro: questa era la strategia di Sharma, che – anche questo ormai Brendan aveva avuto modo di concludere – era tutto fuorché una vecchia nonna che si limitava a dare amabili consigli. Sharma decideva: decideva pure più di Sua Sacralità.

Quanto al giovane novizio di Banefort, Brendan dei Sette Dèi, lui certamente non poteva che limitarsi ad osservare quanto deciso. Era stato lui ad esser scelto dal sacerdote oscuro Yashua come tramite per i suoi minacciosi messaggi. Poi, come al solito, la minaccia era sempre stata molto sottesa: ancora una volta, Yashua non aveva torto un capello che uno al novizio dei Sette, ma l'aveva preso con la magia e se l'era portato da qualche parte fuori dalle mura della città. Lì l'aveva tenuto prigioniero presso una sorta di accampamento molto temporaneo, nel quale Brendan aveva sentito molte voci, ma solo una volta aveva visto un fedele fare visita al suo profeta sbagliato: un forsennato mezzo nudo e in preda ai deliri, ma che aveva eseguito senza esitazioni i comandi del suo padrone; niente di cui Brendan però avesse capito molto. In quel momento aveva ben altro a cui pensare: tipo confessarsi, perché temeva ben presto di raggiungere la casa dei padri e delle madri.

Invece ancora una volta non era successo: Yashua non l'aveva ucciso, gli aveva dato un comando. Gli aveva detto di portare ai vertici della Chiesa dei Sette un messaggio di avviso: la rappresaglia sarebbe presto arrivata per Sua Sacralità l'Alto Septon e per chiunque bazzicasse il suo tempio (quindi solo confratelli maschi nei giorni comuni e una pletora di fedeli invece nei giorni di messa); niente più e niente meno rispetto a quello che Yashua credeva di aver subito il giorno della strage del vespro, quando il Primo Cavaliere, in nome e per conto di re Gabryaerys ma soprattutto di Sua Sacralità, aveva ucciso un numero sconcertante di fedeli del dio rosso. Una strage, per l'appunto. E probabilmente con una strage il mago del fuoco Yashua intendeva rispondere. Proponeva tuttavia un'alternativa: un'alternativa che chiaramente sapeva che l'Alto Septon non avrebbe mai accettato. La proclamazione coram populo della adesione personale di quest'ultimo, e insieme della Chiesa che rappresentava, alla fede del dio dell'oriente, di cui Yashua sosteneva di essere figlio e profeta. Ma siccome l'alternativa era quasi più assurda della minaccia, allora sia Brendan sia chiunque altro avrebbe giurato che in realtà era allo scontro che il sacerdote del dio rosso voleva arrivare. Solo l'Alto Septon, nella sua infinita cecità (più cieco lui della vecchia Sharma), non aveva compreso la situazione. E la situazione era la seguente: che probabilmente molti dei confratelli dei Sette, forse pure Brendan stesso, sarebbero morti nei giorni a seguire. E che invece lui, Sua Sacralità, sarebbe morto di sicuro. Non voleva accettarlo l'Alto Septon, ma era già un martire. Un morto che diceva messa.

 

 

 

In termini di politica, la conferma più interessante della grande dieta di Braavos in cui si stavano riunendo alcune delle più importanti personalità del regno – e nella fattispecie del continente orientale Essos – era quella di Lord Petyr Baelish trentottesimo, dalla Valle di Arryn. La sua presenza in quelle riunioni significava che l'ovest non mollava. Per quanto, da quando si era insediato, il nuovo re Gabryaerys non aveva manifestato grossi interessi in merito al continente dal quale pure – si diceva – provenisse, comunque i due continenti erano inevitabilmente legati a doppio filo. L'est forniva all'ovest di che sostentarsi, e l'ovest, in cambio, ricopriva pochi uomini fidati d'oro e altre ricchezze dalla testa ai piedi, ma col giuramento solenne di tenere a bada la plebe che, manco a dirlo, moriva di fame. Si trattava degli uomini che Garhel Sawela aveva combattuto per una vita intera, tutti riuniti adesso in una stanza sola. Se solo fosse stato in altre condizioni, se solo quello fosse stato appena qualche mese prima della sua vita, avrebbe preparato un'arringa con parole di fuoco per quella gente, così come diverse volte aveva fatto ai tempi del Concilio Ristretto, quando tuttavia il re era Lionel, un re comunque inadeguato per il continente orientale, ma senza dubbio migliore di questo che era venuto adesso.

Se Baelish tuttavia, con i suoi sorrisetti e abiti pesanti, rappresentava la presenza politica più interessante, volta a comunicare che anche l'occidente – o almeno una parte di esso – a quello che succedeva tra quelle sabbie e quelle rocce in qualche modo era interessato, certo i più appariscenti rimanevano i Gaholla. Tutti insieme al completo, Sawela li aveva visti una volta sola, a Roccia del Re, ma non se n'era mai più dimenticato: erano uno spasso. I Gaholla erano un po' come Garhel o come Justus Panecha, anche loro di origine estremamente recente: il loro stemma era mutuato dalla chimera dei Lannister, perché era stato proprio grazie a Lionel che si erano arricchiti. Inoltre, non ricoprivano una vera e propria carica nobiliare: il loro ruolo era definito “governatorato”; rappresentavano insomma direttamente il re su una lingua di terra che andava da Pentos (la loro capitale) e poi risaliva fin su alla Valle de Leone, altro territorio di diretta giurisdizione della Corona. Anche per questo, il simbolo dei Gaholla era paro paro alla chimera dei Lannister, solo con un martello da operai tra le zampe, e qualche colore diverso. Comunque la principale differenza tra i Gaholla e Garhel o Lord Justus era che quelli di cercare di mettere da parte i loro costumi da popolani neanche ci provavano. Erano chiassosi e avevano un particolare gusto per la derisione; sfottevano prima di tutto loro stessi: padre, madre e figli non erano loro se non si riprendevano costantemente gli uni con gli altri in maniera grossolana e rumorosa. E poi naturalmente sfottevano gli altri: un dileggio assolutamente democratico, visto che comprendeva regnanti e plebei, maschi e femmine, vecchi e bambini. Non c'era cattiveria nei Gaholla, solo una profonda ignoranza e un gigantesco cattivo gusto.

Quel pomeriggio, alla dieta di Braavos, erano sei in totale, più una pletora di consiglieri e traduttori vari: c'era Lord Juxas il patriarca dai movimenti impediti per la gotta e il sovrappeso, sua moglie Lady Gertrude, e poi le loro tre figlie: Gelynda, Gelhangela e Gernarda. Chiudeva il gruppo Sir Poll, fratello gemello di Gelhangela, soprannominato un po' ovunque “il cavaliere smunto”, perché pallido e molto secco, anche se – a quanto si diceva – più abile col fioretto di quanto il suo aspetto un po' malaticcio non lasciasse presupporre. C'erano poi altre due bambine più piccole in famiglia, ma che giustamente il resto dei Gaholla non aveva ritenuto opportuno portare.

Gelynda, Gelhangela e Gernarda erano tutte bruttissime: di un biondo scialbo e di un pallore cadaverico. Biondo, scialbo e cadaverico era anche Poll, ma nel complesso, data almeno una certa altezza e larghezza di spalle e una certa delicatezza di lineamenti del viso, il cavaliere smunto era il migliore della famiglia. Almeno le sue battute erano un po' più “raffinate”, cosa che però lo faceva apparire un po' un pesce fuor d'acqua in mezzo a quel marasma di voci urlanti che il resto della famiglia altro non era. Quello che Sawela sospettava era che l'animo più gretto dei Gaholla provenisse dal gene di Lady Gertrude piuttosto che da quello di Lord Juxas, cosa che spiegava lo stile leggermente superiore dei due maschi della famiglia. Solo che da quando gli era morto il figlio primogenito, Lord Juxas era diventando un vecchio sempre più grasso, più passivo e più silenzioso, sua moglie una matrona sempre più pretenziosa, agitata e rumorosa. Purtroppo, il lutto è qualcosa che ognuno gestisce a suo modo, e Lord Juxas l'aveva gestito proprio male. Ma su di questo, Lord Garhel Sawela non intendeva riflettere oltre.

Gli altri convitati quel pomeriggio, a Braavos, erano: Lord Goldsmith, il padrone di casa con tigre rossa in campo oro, detto il Lord banchiere; Lord Loackland di Myr, con i suoi tre serpenti intrecciati; e da ultimo Panecha, con Banfred e Garhel al suo fianco, pronto a gettare la bomba che avrebbe causato il caos in quella già troppo prevedibile riunione. A quanto Garhel ne sapeva, la riunione si stava facendo perché Gaholla lamentava degli illeciti sconfinamenti di uomini, a suo dire, facenti capo al vicino Loackland, presso città e altri abitati più piccoli sotto la sua giurisdizione. Goldsmith se ne sarebbe approfittato per bersagliare anche lui Loackland, suo antico avversario, e Lord Justus avrebbe fatto, al solito suo, il “pacato connivente”: con la scusa della pace come unica alternativa, e insieme con quella che in realtà i suoi territori erano ancora più ad oriente e quindi lontani da quelle beghe, si sarebbe tirato fuori da qualsiasi partecipazione a qualsiasi conflitto, in questo modo tuttavia determinando la sicura disfatta della casata della serpe a tre teste. Lo sapevano tutti: se una vera guerra doveva scoppiare in oriente, allora sul campo di battaglia avrebbero dovuto affrontarsi gli eserciti di Goldsmith e di Panecha. Se ciò non avveniva, tutto il resto sarebbero sempre rimaste delle mezze guerre, delle guerricciole.

La procedura formale della riunione, così piena di lungaggini e futilità, stava annoiando non poco l'ex Tribuno Popolare. L'incontro durava da ore, e di tutto si era discusso meno che degli affari di vicinato tra Loackland e Gaholla. Ciò che incuriosiva, e insieme un po' turbava, il vecchio Tribuno Popolare era che, oltre che la sua, la faccia su cui più di ogni altra si leggeva lo scazzo era quella del Lord di Pentos, di sua moglie e della loro comune progenie. Quelli che si divertivano di più erano proprio Panecha, Goldsmith, e tutti i loro araldi e consiglieri. Quanto piacevano alla tigre e all'elefante i tempi lunghi delle convenzioni! Nei tempi lunghi, una tigre studia nei minimi dettagli il suo agguato. E in tempi ancora più lunghi, l'elefante accresce la sua mole fino a divenire sostanzialmente inattaccabile. Questo Garhel lo sapeva: era uno che aveva viaggiato tanto Lord Sawela, nelle sue vite precedenti, e conosceva sia le bestie che gli uomini.

Quando alla fine di tutto, si arrivò alle rimostranze di Gaholla, la cosa ovviamente durò pochissimo. Lo stesso Gaholla, che era tenuto a denunciare pubblicamente la questione, non era stato il massimo nella scrittura del suo discorso, che difatti finì in sceneggiata: lui stanco e sudato, la moglie strepitante, le figlie scalpitanti. E Poll, assolutamente perso nei suoi sicuramente futili pensieri. Arrivarono le minacce, i paroloni. Arrivò il momento in cui sostanzialmente le tre case più grandi avrebbero dovuto unirsi contro il piccolo governatore al soldo del re. Loackland disse: «Io direi di dichiarare chiusa questa farsa: Lord Gaholla non ha prove per giustificare le sue rimostranze, dovesse insistere per l'intera nottata. Non avrà più il mio ascolto!»

«Ah, s-sì?» balbettò il Lord operaio «Allora a-avremo quello del re!»

«Di che re?» fece Baelish, sottilmente. Saggiamente, Gaholla tacette. Ma purtroppo non lo fece la sua grassa e brutta moglie, che invece – ormai senza completamente freni inibitori – esclamò tutta convinta: «L'unico vero re del Regno Unificato! Lord Constant Lannister!». Un silenzio imbarazzante piovve nella sala. Perfino quelle cagne delle figlie si erano rese conto della colossale cazzata che Lady Gaholla aveva appena pronunciato, lì davanti a tutti.

Qualcuno tra i consiglieri di Loackland esclamò: «Tradimento!»

«No!» fece Goldsmith a sorpresa: era il padrone di casa e, in qualche modo, presiedeva la seduta «Un momento, non acceleriamo. Mylady Gaholla, mylord... se non vi foste lasciati prendere dal panico, e non vi fosse appena scappata quella che ritengo una somma castroneria, avrei aggiunto che ci sono io»

«A far che?» domandò Loackland, arricciandosi i baffetti. La cosa doveva averlo un po' stranito.

«Ad appoggiare la loro mozione» proclamò il Lord banchiere. «Sono convinto che si debba votare, Loackland, e, se il caso, che voi dobbiate risarcire i signori di Pentos dei vostri torti». Era un colpo di scena. Anziché con la casa media, quella grossa si stava unendo con quella piccola. A quale fine, era tutto da vedersi: Garhel non ci capiva mai niente, quando i politici cominciavano a far politica in quella maniera. Mosse e contromosse in preparazione di eventuali mosse e contromosse dopo altre mosse e contromosse di copertura. Nelle armi non era così; nelle armi si preparava una strategia, ma poi bisognava metterla in atto subito, altrimenti la battaglia era perduta. Volevi fare il furbo? Bene: potevi farlo, ma sempre nei tempi in cui un campo di battaglia lo permetteva. E invece no, Goldsmith, per quanto lo riguardava, in quel momento stava giocando un'altra partita. Una che Garhel onestamente non conosceva.

Tutti gli sguardi a questo punto si rivolsero verso Panecha. Se Panecha decideva di appoggiare come al solito Goldsmith con la sua non belligeranza, allora Loackland chiaramente sarebbe finito per fare la fine di un Gaholla qualsiasi. Ma se Lord Justus, per qualche ragione, avesse deciso di non appoggiare il salto mortale dell'amico banchiere, decidendo di sostenere la pure vecchia sua alleanza con il baffuto Lord di Myr, allora forse davvero quella Dieta di Braavos sarebbe potuta entrare nella storia.

Fu così che il grasso Lord di Marrah si alzò solennemente in piedi, avvolgendosi nelle sue vesti gialle e vaporose, e sentenziò: «Io ritengo... che uno scontro, anche se lecito, non sia mai la soluzione. E quindi qualsiasi provvedimento, anche solo economico, verso il nostro comune amico Loackland sia fuori luogo. Tuttavia non posso intervenire perché non si decida il contrario, impelagando la mia regione in questioni che poco o niente la riguardano. Auspico in ogni caso una soluzione comune e costruttiva». Sawela si chiedeva se prima o poi Goldsmith non si sarebbe stancato di quel tronfio alleato che gli permetteva sempre di far tutto, ma faceva sempre fare a lui il ruolo del cattivo. Alla fine, Loackland sarebbe stato multato e nessuno avrebbe potuto farci niente: Goldsmith e Gaholla insieme facevano due contro il solo Loackland, e Panecha che si asteneva. Petyr Baelish invece non aveva alcun diritto attivo in quella riunione, si limitava ad assistere. E il bello era che quei soldi che Loackland avrebbe dovuto pagare a Gaholla, alla fine sarebbero comunque arrivati a Goldsmith: tutti in oriente avevano debiti con Goldsmith.

Ma Justus Panecha non aveva ancora finito; decise di utilizzare quello stesso momento per annunciare la questione del drago di Valyria. Continuò: «Una soluzione comune e costruttiva è infatti necessaria, amici, tra noi e con l'occidente, se vogliamo sopravvivere alla grande sfida che ci si para dinanzi. Una sfida che non ha precedenti nella storia». Da vicino che era a Lord Panecha, Garhel si accorse benissimo di un Lord Goldsmith che, coprendo la bocca con la mano, si avvicinò al Lord elefante e disse: «Justus... ma che stai dicendo?». Panecha lo ignorò e proseguì: «La notizia è assolutamente sicura e confermata. Siamo in guerra. E lo siamo tutti come umanità. Un essere mezzo donna e mezzo drago, sedicente millenario ed imbattibile, ha già quasi pronto un esercito di mostri e demoni presso l'antica roccaforte di Valyria. Ivi va fermato. Ma io da solo non posso. E non possiamo in due, forse non possiamo in dieci né in mille. Eppure dobbiamo provarci: periremmo tutti assieme, anziché uno dopo l'altro. Fratelli, non nemici. Fratelli nella comune battaglia».

A ben pensarci, questo sicuramente scompaginava i piani di Goldsmith. Lui voleva i soldi da Loackland e li voleva prima di subito, data la sanguisuga assetata che tutti sapevano fosse. Tuttavia ora quella questione rimandava a dopo qualsiasi altro affare. Compresi gli affari del Lord di Braavos, che chiaramente era il primo a non potersi sottrarre dall'afferrare questa patata bollente. Ora l'importante era che non facessero gli stronzi, e seppellissero l'ascia di guerra per andar tutti a combattere Kimera.

All'inizio le reazioni furono tiepide, chiaramente molti stentavano a credere a quelle parole. Ma Lord Justus non era noto per essere uno che inventava, anzi era noto per essere un individuo piuttosto pragmatico. Sicuramente si aspettava quello che gli altri chiedevano: tempo. Avrebbero inviato ciascuno le proprie spie per andare a vedere se davvero nell'arcipelago del sud stava avvenendo quanto l'elefante aveva barrito. Tempo non ce n'era: ma Panecha sapeva che non c'era neanche molto altro fa fare. I Lord erano tutti individui malfidati e sospettosi, e quello era il minimo. Poi c'era da vedere chi in effetti avrebbe aderito alla causa, e chi invece avrebbe fatto orecchie da mercante. E in ultimo c'era da avvisare il re dell'occidente: da quello che tutte le premesse lasciavano presupporre, Sua Maestà non avrebbe preso a cuore il problema ma... tentare era necessario in ogni caso.

Si concluse così la grande Dieta di Braavos, senza ulteriori sorprese o novità. Ce n'erano già state abbastanza per quei vecchi volponi di Loackland, Goldsmith e Petyr Baelish. Anzi no: una importante novità ci fu. Nel bel mezzo della notte, negli appartamenti privati nei quali era alloggiato e non molto distante da quelli di Lord Panecha e dello stesso Garhel, il baffuto Lord Loackland, la serpe a tre teste, venne assassinato.

 

 

 

Gino della Casa Barron sentiva di trovarsi ormai disperso in una sorta di vortice, chiaramente dovuto alla terra di Dorne, il quale tendeva a mischiare insieme ogni cosa: il tempo, la sua lucidità mentale e la sabbia. Era come costantemente in una sorta di stato di ebbrezza; anche quando non abusava del buon vino del deserto o delle splendide ragazze che puntualmente gli venivano fornite a un suo cenno, Gino si sentiva ubriaco. I giorni passavano tutti uguali, anche se le cose in realtà formalmente parevano mutare. Sotto la guida di Sir Darkhon Dayne, la spada dell'Alba, il signore dell'Altopiano e dell'intero sud del continente si era imbarcato in una disperata ricerca di Saestrya Martell che, sebbene a giudizio di Dayne fosse la cosa giusta da fare, in realtà ancora stentava a dare dei frutti.

Dayne diceva di conoscere tutti i nascondigli della principale fomentatrice di dissidi all'interno del regno del giovane Barron, eppure già due ne erano stati visitati, e in nessuno dei due Saestrya si era fatta vedere. Anzi, il signore assoluto di quei luoghi aveva anche fatto una gran brutta figura con dei suoi potenziali sudditi e alleati, accusati immotivatamente di cospirazione e costretti a controlli forzosi nelle loro proprietà che piacevoli non potevano chiaramente essere. Dayne sosteneva di conoscere quella gente, e continuava ad assicurare Gino che quelle cose non avrebbero avuto chissà quali ripercussioni. La gente di Dorne era per sua natura molto abituata alle grandi scene: reagiva male e in maniera teatrale, ma in realtà giustificava qualsiasi colpo di teatro, ivi inclusi quello che Gino e Sir Dayne stavano mettendo atto in quei giorni.

Fu così che con un po' di disincanto il giovane Lord dall'unico occhio partecipò all'ennesimo raid consecutivo condotto in suo nome dall'uomo cui effettivamente il caso aveva dato la facoltà di brandire la spada millenaria, fatta di una pietra lucente di cui nient'altro era fatto al mondo. Da settimane si conoscevano, eppure Dayne non gliel'aveva fatta provare una volta! Faceva tutto l'espansivo: offriva cibo esotico di qua e puttane di là, ma tutto era come se facesse parte di un suo gioco. Chiaramente offriva anche ragazzi: Gino non aveva alcun dubbio ormai sul fatto che alla corte dell'esotico Sir non venisse disdegnato nessun bene della natura, ma ovviamente il Lord dell'Altopiano non ne aveva accettati. Ubriaco sì, ma ancora non fino al punto di cedere a cose che andavano al di là di ogni suo possibile gusto. Lo sorprendeva che almeno una metà anche dei suoi, la dozzina di guerrieri che si era portato giù dall'Altopiano, aveva ceduto pure a quelle tentazioni che Dorne offriva. Ma Dorne era Dorne, e dunque la sorpresa poteva esserci solo fino a un certo punto.

La sorpresa vera e propria invece finalmente giunse e fu una bella sorpresa: Lord Barron, il Guercio, vide con il proprio occhio Saestrya Martell rifugiarsi all'interno della nuova magione dove Darkhon li aveva condotti quella sera. Finalmente Dayne ci aveva preso: Saestrya era lì, in quella impronunciabile villa di mattoni dorati, esattamente uguale alle altre che si erano ripetute nel corso di quella operazione. Gliel'avevano detto, ma Gino non ricordava neanche esattamente il nome del signore che vi avrebbero trovato dentro. Era stanco; stanco di sentirsi assuefatto a un contesto a lui così estraneo e fintamente piacevole. Era un po' come l'acqua nel deserto, tutta quella situazione. Finché stavi ad Altogiardino o a Roccia del Re, l'acqua era un bene comune, quindi sì: bevevi per dissetarti, ma mica ti piaceva il sapore dell'acqua! Ti piacevano il vino, e le carni, e la frutta, e le spezie. Invece nel deserto, quando per interi giorni di acqua non ne vedevi, laggiù l'acqua aveva un sapore; un sapore dannatamente buono. E così le baldracche di Darkhon, o le su smancerie, o la sua finta ospitalità, o i suoi piani ridicoli: non erano dei buoni piani. Erano piani buoni perché si trovavano a Dorne, e lì funzionavano. Solo lì.

Gino lo aveva già notato quando per un breve periodo era stata Saestrya a catturare lui: la giovane rivoltosa era un rarissimo esempio di donna più affascinante che bella. Sembrava un serpente e, detto così, chiaramente non richiamava nulla di bello. I suoi tratti erano spigolosi, i suoi occhi scuri, sospettosi e letali. Era piuttosto minuta sia per altezza che per massa: aveva giusto un paio di seni appena sopra la sufficienza, e un ventre che tre quarti delle puttane di Dayne ce l'avevano migliore. Eppure aveva il fascino della libertà, il fascino della rarità e dell'emancipazione. Il fascino di una donna che dava comandi a un esercito di uomini. Che non temeva, anzi che combatteva. Era questa la sua vera forza: Saestrya era bella perché era libera e selvaggia, come un fiore del deserto. Solo che, come un fiore del deserto, avrebbe potuto pure rivelarsi mortale e anzi, per quanto concerneva la sfera degli interessi di Lord Gino della Casa Barron, lo era ed era il caso che smettesse. Fu così che la compagnia guidata da Barron e Dayne fece irruzione nel castello dell'ennesimo ricco dorniano dal nome strano.

Saestrya li vide, scappò guidata dal padrone di casa. Uomini armati di scimitarra bloccarono la via di Gino e i suoi. Un gruppo fu costretto a fermarsi subito, ma non Gino, Darkhon e qualche altro, che invece proseguirono. Poi altri si arrestarono ancora, sempre bloccati da gaglioffi che spuntavano fuori dai corridoi come rettili striscianti. Anche Darkhon fu costretto a fermarsi stavolta, ma non Gino, che raggiunse praticamente da solo l'ennesima anticamera dove Saestrya e il vecchio si erano rifugiati e questa volta fermati.

Il vecchio si mise da parte, terreo in volto come un panno appena uscito dalle lavande. Lei invece tirò fuori due mezzi spadini, una sorta di pugnali un po' più lunghi e appuntiti, e sfidò Gino in singolar tenzone. Con l'obiettivo di ammazzarlo.

«Sei bello» commentò la rivoluzionaria «Cercherò di riconsegnarti alla tua famiglia senza ulteriori sfregi su quel bel faccino»

«Mi dispiace, milady» rispose il Guercio a tono «Non ho più una famiglia»

«Oh, mi stai spezzando il cuore»

«Addirittura! E a me che avevano detto che Saestrya Martell fosse una frigida calcolatrice, un pezzo di ghiaccio senza alcuna emozione»

«Saestrya Martell?» rise la donna «Forse. Ma io...».

Fu un peccato, un vero peccato. Era un bel duello e Gino avrebbe voluto condurlo fino alla fine: uccidere la serpe con le proprie mani. Invece vennero interrotti, e anche il discorso della ribelle venne troncato di netto. Stava per dire qualcosa di importante, l'espressione sul suo viso era cambiata: Gino lo lesse chiaramente questo. Ma il fato invece non ebbe rispetto di questa svolta. Darkhon Dayne piazzò una lunga lancia nel ventre di Saestrya, scagliandola dalla distanza. Gino non aveva mai visto nulla di simile: all'Altopiano non si usavano quel genere di armi. La donna finì appesa alla parete dietro di lei, floscia come un manichino di pezze: uno spettacolo disarmante.

Lì per lì, Gino si adirò pure per l'accaduto. Non ci rifletté e sbottò: «Ma che diavolo fai? Stava per parlare!»

«Parlare?» fece la Spada dell'Alba «E per dir cosa?»

«I-io non lo so! Forse avremmo potuto beccare altri complici, oppure... Quando l'ho chiamata Saestrya Martell... e-ecco lei ha fatto una faccia' strana»

«Mylord, lo capisco: ma se non ti fosse chiaro, siamo nel bel mezzo di un'operazione delicata e siamo inseguiti! Non ci ho pensato, l'ho vista e l'ho ammazzata! Posso scortarti fuori adesso, prima che questo posto divenga letteralmente un bivacco di manipoli?»

«Sì...» fece ancora Gino, francamente un po' confuso, «Sì, andiamo». Non voleva Saestrya morta, e aveva ancora l'impressione che quella donna, prima della morte improvvisa, stesse per rivelargli qualcosa di importante. Ma anche lui al posto di Darkhon quasi sicuramente si sarebbe comportato alla maniera in cui Darkhon si era comportato. Quindi decise di mettere un punto a quella paranoia e andare avanti: bisognava lasciare quel villaggio in fretta, e poi riassestare le idee. Saestrya Martell era morta, e Gino della Casa Barron aveva portato a compimento la sua missione.

 

 

 

Un incubo. Daniel si era appena svegliato. Aveva fatto un bel sogno: lui e Licyane a corte a Roccia del Re, con suo padre e i suoi fratelli e le sue sorelle, tutti vivi. C'erano anche Sir Cordell, il suo vecchio amico, Lord Braff il suo vecchio tutore e Lady Xalandra, la sua vecchia... amica pure lei. E poi, come spesso accade nei sogni, tutto improvvisamente divenne sfumato e Daniel si ritrovò nella sua vecchia cara Cowain. A scopare con Licyane, sulla battigia; le onde del mare tiepide e avvolgenti. E poi tutto sfumò di nuovo, e Daniel aprì gli occhi. Non c'era più sole attorno a sé, c'era grigio. E chiaramente non c'era caldo, ma un freddo gelido e penetrante, nonostante la coperta pesante che aveva addosso. Insomma il principe di Cowain si risvegliò in un incubo. Si risvegliò nel mondo reale, ma il mondo reale era un incubo. Un incubo dove il sole c'era, ma era sempre nascosto e il suo bagliore era come addormentato. Un incubo dove il caldo sostanzialmente non esisteva. Un incubo chiamato Biancavilla del Nord.

Non ci mise molto lo sceriffo Chrom a prendere prigionieri tutti gli ospiti della fattoria di quei padre e madre di Licyane che madre e padre di Licyane realmente non erano mai stati. Dopodiché il barbuto uomo d'arme del nord aveva passato il testimone a un manipolo più armato del suo sui cui scudi era inciso l'orso rampante della Casa Worchester. E poi un lungo viaggio, mezzi morti e mezzi addormentati. E poi la prigione di nuovo. Di nuovo in quella camera della magione di Lord Uryon dove da troppo tempo restava e per chissà ancora quanto tempo il principe di Cowain sarebbe rimasto; forse per sempre. Del momento in cui lo avevano ricondotto in camera Daniel onestamente non si ricordava. Così come non si ricordava nemmeno di quello in cui qualcuno, per ordine di Uryon, gli avesse messo dei nuovi piccoli frammenti di Pietra di Luna addosso, stavolta in due piccoli ceppi ciascuno incatenato ad uno dei polsi del principe.

La cosa brutta, pessima, terribile, era che in quelle condizioni sicuramente lui non era l'unico. Lo aveva detto a Licyane! Gliel'aveva detto e ripetuto che non era il caso di coinvolgere altra gente, anzi non era il caso proprio di farla, quella pazzia di scappare dalle grinfie dell'orso. Non così, e non in quel momento. Maledetta testarda di una nordica! Dov'era ora? Qual era la punizione che Uryon aveva scelto per lei? E quale la punizione per Kohler, Holler e gli altri amici che per tutto quel tempo al nord avevano fatto in modo di rendere le sue giornate molto meno amare di quanto in realtà non potessero essere? Ma soprattutto chi era davvero, Licyane? Era Anylice? Quel pensiero gli cominciò a girare per la testa persino più di qualunque altro. Era assurdo: avrebbe dovuto pensare alla sua salute, alle sue condizioni, e alle condizioni degli amici che lo avevano seguito nell'attuazione del folle piano di Licyane. Eppure quella cosa così secondaria, in quel momento, per il Daniel immobile, indolenzito e ancora mezzo addormentato nel letto di quella camera, risultava invece determinante. Una fanciulla con gli occhi di ghiaccio e la pelle bianca, addormentata su una tomba degli Stark, otto o nove mesi prima. Era lei... Doveva essere lei. La magica ragazza dai poteri di ghiaccio assai più sviluppati dei suoi di fuoco, che per un certo periodo lo aveva accompagnato verso il nord più a nord e... di cui lui si era innamorato, e che poi era scomparsa. Era lei? Era riapparsa? Quindi Daniel si era innamorato di lei due volte, anche se in effetti le due ragazze, sebbene simili, non fossero proprio identiche... Daniel si ricordava bene: Anylice aveva dei tratti disumani, che in Licyane francamente non riusciva a rintracciare. Doveva essere una mezza dea o un mezzo diavolo la prima ragazza, la seconda invece era fatta di carne e sangue e ossa. E di una vulva fantastica, oltre tutto.

Il tempo di rifletterci oltre non gli venne dato. Il principe Piromante non sapeva come, ma ebbe la sensazione che Uryon sapesse che si fosse destato. Si lasciò anticipare da una serie di attendenti che lo aiutarono ad entrare dentro. Con lui lì, quella camera che Daniel avrebbe definito di medie dimensioni, rimpicciolì al livello di un bugigattolo. Sembrava poi invecchiato, Lord Uryon... o forse semplicemente i pochi giorni che aveva passato senza vederlo avevano concesso al Piromante il piacere di dimenticarsi del volto deforme del mostro di Amergoth, con le sue troppe ossa o troppi ammassi di carne sistemata in maniera anomala sul faccione da creatura delle fiabe, di quelle che si raccontano per spaventare i bambini: e non solo loro.

Il signore del castello sorrise al principe del sud, con un fare un po' strano. Come se fosse imbarazzato per qualcosa, o come se avesse qualcosa da nascondere. A Daniel non gli piacque. A Daniel, Uryon non piaceva mai, ma proprio in quel momento gli stava piacendo molto meno rispetto al solito. «Sono rammaricato» fece l'orso del nord, «Veramente rammaricato. Non è colpa mia... Talvolta nel mondo accadono cose di cui, anche se ci limitiamo ad essere spettatori, non possiamo che restare lì a guardare, con un certo senso di colpa. Forse solo perché... felici del fatto che quelle cose capitano agli altri e non a noi. Tragedie, calamità, catastrofi. Tutti eventi nei quali non abbiamo il minimo controllo. E così non ne ho io, ora». In questa, il signore di Amergoth, afferrato alle sue stampelle, fece un cenno a qualcuno vicino al letto di Daniel. Lo misero in piedi, e fecero per condurlo da qualche parte: in quelle condizioni, il principe di Cowain si rese conto di non avere neppure la forza per muovere i piedi. Uryon continuò: «Ci ho riflettuto lungamente. Mi sono detto: quale può essere la pena esemplare? Che cosa posso fare io, per ottenere che sua Grazia il principe... smetta di fare del male a se stesso e agli altri con questi illogici tentativi di schierarsi contro di me. I nostri interessi sono convergenti, principe Daniel. Tanto è vero che, se tu non fossi fuggito, ora tutto questo non sarebbe accaduto. Cose di cui ti ripeto tutto il mio rammarico. Ma è stata colpa tua, non mia. Io ho cercato di essere ospitale con te, e cortese. E tu mi ripaghi... costringendomi a tutto questo. Devi guardare, e guarderai da solo. Io non ne ho la forza». Uryon rimase indietro, mentre i suoi uomini, con la presa sempre ben salda su Daniel, conducevano quest'ultimo davanti alla finestra.

Dapprima il principe vide il sole; il solito pallido sole del nord, un po' smorto un po' coperto, ma comunque in grado di permettergli di osservare bene tutto ciò che c'era dintorno. All'inizio lo sguardo del principe si perse sulle montagne, poi sulla valle. Solo dopo udì come delle urla soffocate, urla di chi... non ha neanche più la forza di aprir la bocca. Piano piano, il suo sguardo si spostò sempre più giù. Holler, Kohler, e tutti gli altri bravi ragazzi del nord che lo avevano aiutato a scappare, erano stati impalati. Sangue nerastro sgorgava copioso lungo tutte le loro immote nudità. Uno spettacolo raccapricciante. Ma il peggio, era quello che veniva sotto...

Le urla sopite erano di Licyane. Anche lei era sanguinante, ma viva. Uno di quei porci imbecilli ignoranti che già una volta ci aveva provato, la stava violentando con l'andazzo di un animale. Altri due la tenevano ferma, mentre un altro ancora... un altro ancora... Daniel non capì bene che cosa le stesse facendo, o non volle capirlo. Non erano solo quei quattro balordi del giorno del primo incendio che Uryon aveva chiamato per quell'osceno lavoro. C'erano anche alcuni suoi soldati, una decina in tutto. Tutti messi lì a turno ciascuno autorizzato a sfogare qualsiasi più primitiva inclinazione sulla bella addetta alla biblioteca di cui il principe di Cowain aveva avuto lo sfortuna di innamorarsi. Soffriva Licyane, ma non aveva più voce per manifestarlo. Gridava e piangeva, ma i suoi gemiti non riuscivano a risalire la torre dove il suo Piromante si trovava e la osservava. Daniel avrebbe voluto esplodere. C'era già riuscito una volta, e non capiva perché ancora non stesse succedendo...

Non successe nemmeno quando, dopo fin troppo tempo, finalmente il diabolico orso del nord non disse ai suoi di rigirare il principe. Non scaturì alcuna scintilla da Daniel di Cowain quel giorno, se non dallo sguardo. Lo sguardo di odio con cui decise di continuare ad osservare Uryon, mentre lui, tutto contrito, se ne stava pure in quella stanza a guardarlo a sua volta. Licyane fuori continuava a subire quello che stava subendo, ma né Daniel né Uryon facevano alcunché. Erano dentro la camera-prigione del principe di Lannister. E si guardavano. Ancora e ancora. Fino alla fine del trattamento.

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Capitolo 23
*** Colpa del drago ***


Capitolo 23

COLPA DEL DRAGO

 

 

 

Il sapore del risveglio, per Xenya l'esploratrice, ebbe un gusto di sale e sabbia. Erano anni che navigava: e per anni una roba del genere non l'aveva mai vista. Una volta, da ragazza, pure le era capitato un naufragio per via di un'avaria, ma si trattava di un piccolo battello neanche la metà della nave con la quale si era appena lasciata alle spalle il nuovo continente: oppure non l'aveva lasciato?

Lei era un tipo duro, reattivo. Ci mise pochi secondi, una volta rinvenuta, a mettersi in piedi con tutta la foga di una combattente, di una donna-drago. Continuò a tossire e a sputare acqua ancora per diversi minuti. C'era anche un po' di sangue, anche se non in una quantità che avrebbe definito preoccupante. Dopodiché mise a fuoco la situazione: era in una zattera. E accanto a lei, per fortuna, l'amico di una vita, il fratello, il suo secondo che in realtà era primo tra i suoi affetti: il dolce caro Jorando. Gli chiese: «Per quanto sono rimasta senza sensi, signor Pashamanyna?»

«Non saprei dirlo, mi spiace»

«E... dove siamo?»

«Di ritorno verso il nuovo continente. Più o meno abbiamo concordato che fosse la scelta migliore: si vede la terra già». Xenya si voltò verso la direzione indicatagli dal suo navigatore. Quest'ultimo gli passò un cannocchiale, lei lo afferrò, ci mise dentro l'occhio e sì vide che la terra era ormai a poche miglia. «È un disastro» commentò. Poi proseguì: «Quale l'entità del danno?»

«La flotta» fece Pashamanyna piano, amareggiato, «È affondata»

«Tutta?!»

«Tutta. Rimangono solo queste due scialuppe... che, come vedi, non sono neanche al massimo della capienza». Xenya rivolse lo sguardo ancora una volta verso una direzione indicatagli da Jorando: era forse ancora presa un po' dal sale, e doveva ammettere di non vederci benissimo. Vide infine l'altra scialuppa che solcava le onde, adesso tranquille, orientata nella loro medesima direzione. Annuendo disse dunque: «Quanti sopravvissuti in tutto?»

«Ventidue qui. E ventuno nell'altra imbarcazione»

«Mh...»; Xenya non voleva farla quella domanda: la risposta la terrorizzava. Ma pensava che avrebbe avuto una brutta risposta per una valida ragione: Lady Mirietta non era lì con lei. Ingoiò il rospo e fece ancora al suo secondo: «Dov'è la principessa?»

«Lei... non... non era tra le persone che abbiamo avuto modo di recuperare in mezzo ai relitti, mi dispiace»

«Era» provò ancora Xenya, quasi senza parole, «Era con me quando è successo... con me e con l'altra ragazza, Daessenya»

«Sì, ce lo ha detto anche lei. Daessenya, dico. Lei è sopravvissuta. E anche il principe Marcus, anche se... comprensibilmente al momento non ci sta molto con la testa».

Xenya restò in silenzio: quel ragazzo aveva appena perso una sorella più piccola di lui. Non era curioso che fosse probabilmente un po' fuori di sé. La curiosità vera invece, la domanda delle domande, fu: «Jorando... ma che diavolo era quel coso? In anni di navigazione, io...»

«E neanch'io, mia signora... Si... si di-direbbe...» neanche voleva dirlo. E neppure lei voleva. Mostri di quel genere appartenevano solo alle leggende, e leggende di quelle brutte. Leggende di quelle che narravano di equipaggi che alla fine dei loro viaggi affondavano tutti. Come d'altronde era successo anche a loro. Era esistita un'importante vecchia dinastia del Westeros, una volta, che si era perfino permessa di mettere quel genere di demoni sui loro stessi emblemi. E di venerarli come se fossero dèi, e non invece animali tra i più rari e pericolosi del mondo. Xenya non ricordava il nome di quella dinastia, non era mai stata chissà quale cima in storia.

Mentre osservava le increspature del mare ormai in bonaccia, l'esploratrice si perse un po' nell'infinito dei suoi spazi profondi. Tanto determinata e sicura si sentivs per il suo nuovo futuro nel Westeros, tanto più quel “semplice” evento naturale le aveva sconvolto qualsiasi piano mentale. Che cosa avrebbero fatto ora nel nuovo continente? Quale sarebbe stata la decisione migliore? E con Daessenya e il principe Marcus? Avrebbe dovuto mantenere quel rapporto di amicizia che la legava alla scomparsa Lady Mirietta, o poteva fare come faceva di solito: prendere baracca e burattini, smontare e andarsene via da sola, con Jorando? Per qualche ragione, quest'ultima cosa – che era quello che normalmente avrebbe fatto – non le piaceva. L'affetto per quella ragazzina l'aveva cambiata fino al punto di farla sentire come se le dovesse qualcosa. Lei. Una lupa di mare, una che con tutte quelle cose di regni e politica non ci masticava assolutamente niente. Eppure abbandonare il principe nel momento del bisogno era un'opzione che più ci pensava più sentiva che doveva scartare. La piccola Mirietta era riuscita a compiere almeno questo piccolo miracolo.

«Il principe Marcus...» disse a un certo punto Jorando, un po' dal nulla, «All'inizio diceva che non intendeva rassegnarsi. Che, una volta ristabilite le forze, avrebbe preso la sua chimera e cominciato a scandagliare l'oceano finché non avesse trovato la principessa»

«Uh» commentò Xenya: non c'era molto da aggiungere, lei non aveva mai perduto una sorella; magari tutti al posto di Marcus avrebbero sparato una simile fandonia.

Ma Jorando le disse ancora: «E poi, il principe... nella sua confusione dovuta al lutto, ha detto un'altra cosa...»

«Sì?»

«Lui... accusa il drago della tragedia avvenuta in mare»

«Il drago?».

 

 

 

Tutti gli ospiti di Lord Goldsmith a Braavos erano temporaneamente stati alloggiati in una sorta di piccolo villaggio privato, tutto di tufi e marmi e con persino l'accesso a una sorta di baia privata. Tuttavia, sebbene piccolo e abitato sostanzialmente da nobiluomini e dai loro soldati (o, nel caso dei Gaholla anche delle loro famiglie), non poteva neanche dirsi che Panecha, Baelish, Loackland e Gaholla risiedessero esattamente vicini. Ciascuno di loro aveva infatti a disposizione una piccola magione e visto che tali magioni erano a loro volta intervallate da scalinate, strade e piazzole interne, si poteva benissimo dire che ognuno potesse godere serenamente del proprio diritto al privato. E l'aspetto privato in queste cose era determinante: non tutti davvero pensavano quello che dicevano a quelle riunioni o dicevano davvero quello che poi avevano intenzione di fare. Era giusto così: faceva parte del gioco della politica e ciascun giocatore ne era al corrente, tranne forse – Sawela avrebbe detto – quei poveri Gaholla che erano più che altro dei pesci fuori dall'acqua in una rete troppo più grande di loro.

Tutto questo significava che anche lo stesso ex Tribuno Popolare Garhel Sawela, pure declassato al ruolo di guardia del corpo del delfino del Lord di Marrah, non poteva che essere isolato da qualsiasi fattore esterno. Inoltre chiaramente, con la scusa del dovere di guardargli il figlioletto –come da troppo tempo, volente o nolente, già Garhel faceva – Lord Justus imponeva a Sawela una sorta di “vicinanza particolare”. Non poteva mica allontanarsi dalle stanze del principino senza il principino: gli dèi ce ne scampino, fosse successa qualcosa, finalmente Lord Justus avrebbe avuto la scusa di prenderlo, scuoiarlo vivo e metterci il sale. Eppure tutto ciò non impedì a qualcun altro di visitare Lord Sawela, in un momento del suo privato a dir poco inopportuno, con tutta l'indiscrezione che contraddistingueva i dannati nobili Lord dell'occidente, e pure con un fastidioso sorrisetto sotto il baffo da sparviero.

«Lord Baelish» fece Garhel, che era un uomo tutto d'un pezzo e, anche se colto alla sprovvista, non intendeva fare la figura dello sprovveduto. Sostanzialmente Baelish gli apparve da dietro a una tenda; niente di sorprendente: tutti gli edifici di quel genere avevano dei passaggi segreti e a Roccia del Re Baelish era uno di quei due o tre che li conosceva tutti. L'unica vaga forzatura era che conoscesse anche quelli di un edificio nuovo come quello: ma niente di così sorprendente.

«Lord Sawela» salutò il politico della Valle di Arryn, gentile e mellifluo come sempre.

«A cosa devo... questa tua improvvisata?»

«Dovrai ammetterlo mylord: sebbene per anni abbiamo frequentato i Concili Ristretti di Lionel, invero non abbiamo mai avuto un vero e proprio confronto diretto, io e te»

«Sì, lo ammetto. Ora ce l'abbiamo. Che cosa vuoi?»

«Comincio col dirti che trovo la tua storia, sia nei suoi passaggi più noti e rinomati, sia in quelli leggermente più “edulcorati”, davvero una storia da invidiare»

«Sì? Anche quella parte di storia in cui Panecha ammazza mia moglie, i miei figli e buona parte dei miei amici e conoscenti, e poi mi riduce a galoppino personale di suo figlio? So che conosci anche questa...»

«No, chiaramente» fece Lord Petyr della Valle, serissimo, «quella la depreco con tutto il mio cuore. Ed è anche per questo che sono qui, mylord»

«Non sono più un Lord, Lord Baelish»

«Oh, certo che lo sei. Chiedi alla gente di Marrah o di Myr o di Pentos. Tu sei un uomo dei loro che s'è fatto Lord, Lord Sawela e questo non solo è un dato innegabile ma... anche da sfruttare»

«Non c'è più niente da sfruttare, signore. La mia vita è finita con l'incendio del Formicaio». A questo punto Baelish rimase silente. Rispettoso, ma comunque contrariato. Probabilmente non si aspettava una chiusura così totale da parte del vecchio Tribuno, ragion per cui decise di scoprirsi insistendo ancora: «Ti voglio con me alla Valle, Sawela. Proprio perché sappiamo entrambi che servire Panecha non è nelle tue corde, direi che quest'occasione che ti propongo sia vantaggiosa per entrambi»

«Da te? Sempre come galoppino?»

«No, affatto. Come ospite. E come consulente militare. Vedi, questo è un ruolo che al momento mi è particolarmente necessario: ho idea che molto presto la necessità di armi e di chi sappia usarle si sposterà sull'altro continente. Forse addirittura prima che questa vostra... draghessa di Valyria si decida a mettercisi definitivamente contro. D'altro canto: non l'ha fatto per millenni, perché dovrebbe cominciare ora? Io invece ho molta fretta: partirò al più tardi domani mattina. Gli affari del Westeros mi attendono»

«Mylord, noto una certa sfiducia nelle tue parole. Che, forse, hai perso fiducia nel tuo vecchio amico Justus? O è la parte di storia che parla di “draghi” e insospettirti?»

«Veramente io mi fido» sorrise il Lord della Valle «Però...»

«Ti interrompo, Lord Baelish: non servono altre parole. La tua offerta mi onora e mi incuriosisce, davvero. Chissà quali sono questi impellenti affari che ti costringono a un così prematuro rientro a casa. Davvero: verrei. Ma, per quanto io detesti la situazione, bisogna però che ammetta che tra fare il servo a casa mia o a casa di qualcun altro, allora preferisco farlo a casa mia»

«Non capisco cosa vuoi dire»

«Justus mi dà da mangiare, da bere e da dormire. Tu mi daresti da mangiare, da bere e da dormire. Io odio Justus, ma non odio te. Tuttavia, con Justus io vivo nel sole e nel mare di casa mia. E per troppo tempo ci sono rimasto lontano. Perdonami, mio signore, ma un luogo gelido come so essere il tuo castello... non è più una meta in cui mi sento di dimorare. È chiaro ora?»

«Sì, ma...». Inutile: Baelish era il tipico politico del Westeros, anzi era fra i migliori. Non avrebbe concluso quella conversazione facendosi dire di no; le cose erano due: o Garhel lo buttava via a calci nel suo ben rivestito deretano, oppure doveva accadere un imprevisto. E un imprevisto in effetti accadde.

Un urlo squarciò il velo di silenzio in cui la tarda notte aveva gettato tutti gli abitanti del villaggio privato, momentaneo alloggio degli illustri ospiti di Lord Goldsmith a Braavos, il Lord banchiere. Un urlo di morte. Vicino, molto vicino. Garhel si affacciò: il fatto era avvenuto poco lontano dalla sua finestra. Un uomo era stato appena ferito a morte; un altro gli stava davanti, con le spalle verso la finestra di Sawela, e brandiva un pugnale. L'istinto da eroe di Sawela lo tradì: lui in fondo era davvero quello di cui le ballate parlavano. Non era proprio nella sua natura starsene con le mani in mano mentre sotto la sua finestra stava avvenendo un crimine. Comunicò a Baelish: «Qua sotto!», poi in pochi secondi studiò il modo più rapido per raggiungere il luogo del delitto e arrestare il sicario, si lanciò dalla finestra e mediante una complessa acrobazia di appigli e piroette raggiunse subito la vittima e il suo aggressore.

Quest'ultimo si girò verso di lui. Puzzava di vino scadente e ascelle mai lavate. Il pugnale, era di una fattura forse perfino più di bassa lega dello stesso aggressore. Costui aveva pochi denti lerci; più lerci erano i capelli grigi. Disse solennemente: «Questo è per mano di Constant Lannister, l'unico vero re!». E poi si trafisse anche lui mortalmente. Garhel gli andò incontro, cercò di bloccare la ferita alla gola per come meglio potesse, ma... il sangue continuò a sgorgare assai copioso e in pochi altri istanti anche quel folle ubriacone raggiunse l'altro mondo.

Senza dunque poter fare ormai nulla per il pugnalatore, Lord Sawela decise quindi di osservare le condizioni del pugnalato. Era ancora più morto di quell'altro. Tuttavia, differentemente dal suo aggressore, non puzzava e i suoi abiti erano di una fattura assai superiore. Ed era anche Lord Loackland, la serpe a tre teste. Sawela fece appena in tempo a riconoscere l'importante politico dell'Essos, che qualcos'altro ancora attirò la sua attenzione. Un piccolo colpo, soffuso. Come di qualcuno che si sia scoperto per un attimo dal suo nascondiglio, e poi abbia cercato di fare il disinvolto. Garhel si avvicinò quindi a una misera porticina di legno lì accanto, una di quelle che davano sulle cucine, e... la aprì di scatto. Vennero giù due ragazzetti dall'aria impaurita. Anche loro ben vestiti. Anche loro culi nobili.

Era strano che i due ragazzetti aristocratici, di cui la faccia di uno dei due a Sawela non risultava neanche poi così poco familiare, si trovassero in quel luogo desolato in quel momento. Primo, perché il villaggio era sostanzialmente tutto addormentato. E secondo perché posti come le cucine o le cantine di solito, la notte, risultavano ancora più spettrali che altri. La meraviglia e il sospetto presero ancora di più il vecchio Tribuno Popolare quando alla fine focalizzò chi fosse il ragazzo già conosciuto: era Poll, il delfino dei Gaholla. Tuttavia Garhel fece appena in tempo di dire: «Ma tu che ci fai...» quando venne interrotto da un'altra voce, ben più roboante e strafottente della sua. Una voce che se ne stava altamente fregando dell'ora della notte che in verità era.

«MA CHE COSA SUCCEDE QUI?!» esclamò l'energumeno, uno dei gaglioffi di Lord Goldsmith: fra i più alti cavalieri presenti alla baia. Poi, a poco a poco ma repentinamente, dietro di lui si presentò la metà dei residenti: più di una dozzina di cavalieri, più di una ventina di membri del personale ed altri soggetti autorizzati a bazzicare il luogo, e poi i Lord: Baelish, Goldsmith e Panecha col principino, e Lady Gaholla con almeno la metà delle sorelle di Sir Poll – il cavaliere smunto – le quali sciamarono subito attorno al ragazzo, cercando di strapparlo via dal luogo del delitto. Il cavaliere alto, quello con la voce roboante che per primo era sopraggiunto, non lo permise. Furono le sorelle galline a raggiungere il giovane cavaliere pallido, ma non riuscirono a trascinarlo verso il resto della mischia. Disse il Sir dei Goldsmith di cui Garhel non conosceva il nome, solennemente: «Ferme lì, madame. Ho visto chiaramente questi tre uomini aggirarsi vicino ai cadaveri freschi di Lord Loackland e di questo... popolano»

«No, un momento» fece Sawela, allarmato, «Non è così che è andata!»

«Mi spiace, Lord Sawela» ribatté l'uomo con la tigre sullo stemma, che evidentemente conosceva molto bene l'ex Tribuno, più di quanto Garhel non conoscesse lui, «Ma è quello che ho visto»

«Che siano messi alle carceri!» esclamò a questo punto qualcuno dalla folla, evitando palesemente di metterci la faccia. E un altro: «Giusto. In attesa di capire quello che è successo!»

«...che è successo!» ripeté l'energumeno dei Goldsmith, avvicinandosi a Sawela e concludendo, rivolto a tutti e tre i “sospetti: «Vi prego, signori, di non fare resistenza. Se siete innocenti, sono sicuro che tutto sarà chiarito a vostro beneficio». Naturalmente Garhel aveva la sensazione che quelle parole fossero maggiormente rivolte a lui che al cavaliere smunto; e d'altro canto, fu verso di lui che il cavaliere testimone mosse il primo timoroso passo, guardandolo con soggezione.

Sawela rinunciò alla resistenza: da una parte, credeva parzialmente in quello che gli era appena stato detto; era vero che a volte si mettevano in scena teatrini per condannare determinati soggetti, ma primo: normalmente questi soggetti erano di solito di basso rango, e secondo: lui era il protetto di quello che forse era il più potente in assoluto fra i presenti in quella dannata baietta di marmi e tufi. D'altra parte: non aveva nulla da nascondere, e non comprendeva come mai potesse succedere che qualcuno fosse in grado di dimostrare il contrario. Un piccolo pensiero tuttavia, nel momento dell'arresto gli sovvenne. «Lord Baelish!» chiamò. E poi ripetendo più forte: «Lord Baelish!». Eppure un testimone avrebbe potuto essergli utile: il fatto che fosse sicuro che tutto sarebbe andato bene, non lo metteva nella posizione di potersi permettere di rinunciare a eventuali “bonus” a lui favorevoli. Dunque ripeté per la terza ed ennesima volta: «Baelish!». Niente da fare, il nobile dell'occidente fece orecchie da mercante. Peggio: fece orecchie da nobile dell'occidente, forse il peggior tipo di orecchie al mondo, quando ti serve una mano.

 

 

 

Il principe cavaliere Marcus della Casa Lannister non intendeva rassegnarsi. Sua sorella Mirietta non era il tipo che moriva. E men che meno in mezzo ad altre centinaia di persone. E ancora meno a mollo in acqua: Mirietta era una nuotatrice provetta fin da quand'era una marmocchietta. Se Marcus non si sbagliava, lei era stata la più precoce della famiglia a imparare sia a nuotare che a camminare. Questo significava che Mirietta in verità doveva esser lì da qualche parte in attesa di un aiuto!

Per questo motivo, Marcus Lannister aveva fatto su e giù tra la spiaggia e il mare – ora piatto – per ore. Lo voleva fare a volo di chimera questo lavoro, ma la tempesta aveva spossato Shirley come chiunque altro, e lui non se la sentiva di imporre pure alla sua amica alata questo sacrificio, che in effetti riguardava precipuamente la sua persona. Era lui il fratello maggiore, e lui doveva trovare la piccola. S'immerse dunque, poi tornò, si riposò, e poi s'immerse di nuovo, per un numero di volte che non ebbe il pensiero di contare. Non pensò ad altro, non considerò nient'altro. Ci mise davvero più di mezza giornata prima di ammettere a se stesso che probabilmente quel coso coi tentacoli sua sorella se l'era portata giù negli abissi più profondi. E che quindi c'era ancora poco da cercare. Pianse come forse mai aveva fatto nella sua vita. Si disperò come forse mai aveva fatto nella sua vita. Dopodiché cominciò a ragionare: per un po' prima la sua mente lo portò a speculare sui kraken. Sul fatto che probabilmente da secoli non se ne sentivano più notizie, ragion per cui la gran parte degli intellettuali del Regno li aveva ormai bollati come “estinti”, decisione in particolar modo sancita dai savi della Cittadella, il che significava praticamente verità assoluta. Ma i savi della Cittadella si sbagliavano. Si sbagliavano sui kraken come si sbagliavano sui draghi, e ancor di più su draghi in grado di parlare, raccontar storie, imporsi su una genia di umani come loro padroni e signori. Robe che appartenevano più al mito che alla speculazione scientifica, e che dunque avevano questa cosa in comune. Sia il drago che il kraken erano creature millenarie. Questo naturalmente non bastava a giustificare un legame che, invece, nella testa del giovane principe stava divenendo via via sempre più chiaro. Fin'ora si era trattato di meri sospetti, speculazioni suggestive ma poco probabili. Eppure il drago aveva detto e ripetuto che non desiderava che Marcus, Mirietta e gli altri tornassero a dirigersi verso il Westeros. Marcus lo ricordava bene: Kyrios era parso particolarmente insistente in questa richiesta, e schiumante di rabbia una volta saputa la decisione definitiva da parte del principe e della piccola principessa. Ecco perché, secondo Marcus, aveva comandato al suo servo tentacolato di attaccare la flotta e... ucciderli tutti.

«Questo non ha senso!» esclamò quella insopportabile esploratrice amica della sua defunta sorella, inseguendolo mentre in tutta fretta lui si stava inerpicando tra le rocce con tutta l'intenzione di raggiungere l'antro del drago. Poi continuò: «Con la flotta, sono morti anche un mucchio di suoi figli e figlie: non l'avrebbe mai permesso! Lui stravede per loro!»

«Sì, questo è quello che dice»

«E invece? Come credi che sia, sentiamo?»

«Io dico che il suo obiettivo, per qualche oscura ragione, fosse non farci arrivare al Westeros. Ad ogni costo»

«Nah, non è così. E poi non pensi a un'altra cosa: se davvero non avesse voluto farci partire, potente com'è, ci avrebbe direttamente divorato no? O ordinato a qualcuno dei suoi di sgozzarci tutti nella notte. Non ha fatto niente di tutto ciò, Marcus. Ragiona, ti prego». Dicendo questo, Xenya lo aveva raggiunto e costretto a voltarsi verso di lei e guardarla dritto negli occhi. Era tutto il contrario di quello che una donna doveva avere per attrarlo. Però era sincera e.... aveva ragione. O meglio: aveva torto, ma Marcus non aveva una buona risposta per smentire quello che aveva appena sostenuto. Quindi le diede nuovamente le spalle e tornò alla carica verso Kyrios. Era lui quello che doveva dargli delle spiegazioni.

«DRAGO!» urlò una volta dentro la caverna. Ripeté: «DRAGO! Dove sei?». Si fece attendere un po', il bastardo. Dopodiché venne fuori, nella sua forma umanoide: la forma che teoricamente avrebbe dovuto rassicurare un osservatore umano e che invece era perfino più terrificante rispetto a quella simile a un grosso rettile con ali e scaglie. Non riusciva proprio Kyrios a sembrare umano, e quell'aspetto, quando lo assumeva, sembrava quello di un rettile con le ali e le scaglie che però si sforzava di apparire umano, riuscendoci poco e male. Gli occhi poi non cambiavano affatto: quelli di un demonio; in altro modo il principe cavaliere non avrebbe saputo descriverli.

«Dunque, siete sopravvissuti» fece l'essere millenario, rivolto evidentemente sia a Marcus che all'esploratrice: gli unici altri due presenti dentro quell'antro.

«È così!» esclamò adirato Marcus, fuori di sé, «Se ci vuoi morti, dovrai farlo tu personalmente!»

«E quanti dei miei figli... sono riusciti a sopravvivere?»

«Cosa importa! Sacrificheresti anche loro pur di ottenere ciò che vuoi!»

«Ciò che voglio?»

«Già. Tenerci lontano dal vecchio continente. Non farci tornare a casa nostra!»

«Mio caro principe, di quello che voi facciate delle vostre stupide esistenze a me non riguarda. A me riguarda dei miei figli e delle mie figlie, che so per certo inadatti al luogo da cui voi venite. Inadatti a qualsiasi luogo che sia distante da me. E pure vi ho concesso di fare quello che avete fatto, e guarda cos'avete combinato»

«Mia sorella è morta! Per colpa tua!»

«La principessina... sì. Ora che me lo fai notare, avverto chiaramente che la sua anima non è con voi. Dispersa negli abissi. Come i miei figli. Che tragedia. Che tragedia»

«Smettila!» pianse Marcus «Smettila di dire così! Sei stato tu! Sei stato tu a mandarci quel mostro!»

«Quel mostro» occhi chiusi e cranio rivolto verso l'alto, la cosa che Kyrios era diventato parve concedersi una sorta di silenzio riflessivo. Come a cercare da qualche parte, in un mondo lontano dal comune sguardo, risposte che in quel momento non aveva. Dopodiché disse: «Sì. Una creatura che da lungo tempo non solcava le onde si è risvegliata. Sì, è per colpa sua che i miei figli e le mie figlie sono morti. E... la vostra principessina. Sì. Oh, sì ora è chiaro»

«Chiaro? Cosa è chiaro?»

«Cair Dedalos»

«Cair...?»

«I Sette. I Sette sono in questo continente. Ma in una versione... che mai avrei potuto immaginare. Mai un'evoluzione della magia a questi livelli io e i miei fratelli avremmo mai potuto pensare. Ah» rise il drago, quasi meravigliato, «Alla fine Nidhogg aveva ragione: la magia sorprende sempre»

«Insomma, drago! Vuoi dirmi di che cosa vai blaterando?!»

«Te lo dirò, cavaliere. Io parlo di vendetta. La vendetta con la quale renderai giustizia e pace alle anime dei nostri comuni defunti»

«S-sei... s-sei stato tu...» balbettò a questo punto il principe cavaliere, come recitando una filastrocca cui neanche lui ormai credeva più.

«Non sono stato io» affermò dunque il drago, definitivo. «È stato» fece ancora «È stato il nostro vecchio allievo, Mawldor. O almeno... quello che resta di lui»

«Mawldor? Chi è?»

«Decine di migliaia di anni fa, quando lentamente il mondo che conoscevo decise di spezzarsi e dividersi in mille parti, Cair Dedalos con il suo libro rimase al suo posto. Cair Dedalos: la città dei draghi. Sono stati gli altri a spostarsi, ma non io. Io sono rimasto dove mi spettava, e il libro che custodivo insieme a me. Poi sono venuti i miei figli e la mia montagna e... io mi sono dimenticato»

«Drago, non ti stai chiarendo. Anzi, confondi le miei idee anche peggio!»

«A sud, Marcus! È a sud che troverai ciò che cerchi. Da qualche parte in quel dannato accampamento Sayun il vecchio reggente deve custodire un libro. Trova il libro, principe. E avrai le tue risposte».

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Capitolo 24
*** Il duello di Delta delle Acque ***


Capitolo 24

IL DUELLO DI DELTA DELLE ACQUE

 

 

 

Più il tempo passava e più Garhel Sawela perdeva la pazienza. Ma chi glielo doveva dire di trovarsi invischiato in una brutta faccenda simile? Più passavano i giorni dentro quella cella, e più non si capacitava che Panecha non fosse riuscito a tirarlo fuori. Il piccolo Banfred aveva fatto ogni cosa per avere Sawela al suo fianco: non era possibile che il vecchio Justus lo avesse accontentato prima e non adesso! Banfred lo voleva con lui, e Justus gliel'aveva concesso. Cos'era cambiato nel corso del loro viaggio fino a Braavos? Niente. E allora l'unica alternativa non era che il Lord di Marrah non volesse intervenire per liberarlo, ma che non potesse. E se a uno come lui non veniva concessa una cosa del genere, allora la situazione era veramente grave. Vero che era morto quella serpe di Loackland, e questo di sicuro doveva avere dei risvolti di un certo peso: ma Panecha era Panecha, l'uomo più potente dell'oriente. Forse Goldsmith gli poteva fare un po' di concorrenza da questo punto di vista, visto tutti i soldi che in teoria gestiva, ma Goldsmith era un banchiere: i soldi li pigliava, ma li reinvestiva anche. Panecha no: quello che aveva, restava tutto nei marmi e negli ori del suo magnifico castello orizzontale. Il fatto che ancora, dopo giorni, non gli venisse spiegato niente, e nulla lui da solo riuscisse a spiegarsi, diveniva per Garhel sempre più preoccupante e con sempre più insistenza i suoi pensieri indugiarono su quell'altro verme di Baelish, che avrebbe potuto benissimo dire una parola – o anche mezza – per aiutarlo ad essere scagionato, visto che Baelish sapeva benissimo che lui con l'omicidio di Loackland e del popolano che era stato davvero l'assassino materiale del Lord, non c'entrava neanche spinto con la forza. In realtà, anche i due ragazzi – il cavaliere smunto e quell'altro cui un'identità Garhel non era in grado di attribuire – forse avrebbero potuto dargli una mano considerevole. Però erano due ragazzi, e la loro parola sarebbe stata utile ma imparagonabile rispetto a quella di uno stimato e autorevole Lord dell'occidente. E poi... erano pure loro sotto accusa.

Infine, all'alba del terzo giorno di prigionia, il secondino annunciò a Garhel che aveva delle visite. Quest0ultimo pensò subito a Panecha, ma l'individuo tutto coperto che si stava dirigendo verso di lui era troppo scarno per essere il vecchio Justus. Pensò quindi a Banfred, ma... era troppo scarno anche per lui. Era Baelish dunque? Non era più partito per i suoi gravosi impegni all'occidente? Aveva deciso di dargli una mano, magari convinto che questo avrebbe “ammorbidito” Garhel in merito al suo eventuale viaggio insieme a lui a Nido dell'Aquila? Il bello era che, pur di uscire da quella situazione di incertezza, Sawela forse questa volta avrebbe pure accettato. Se ne sarebbe pentito un istante dopo magari, però avrebbe accettato. E, d'altro canto, se non Baelish chi altri poteva essere? Lui non aveva più nessuno in quella baia della lontana Braavos. Né parenti, né amici, né vecchi alleati o anche solo conoscenze: solo Justus, suo figlio, e di recente Lord Baelish, che aveva manifestato un interesse nei suoi confronti.

Così la sorpresa fu ancora maggiore quando, una volta tolto il cappuccio, Sir Poll dei Gaholla si presentò a lui, bianco come un lenzuolo: ma era il suo colorito tipico. Visita del tutto inattesa chiaramente: Garhel era già tutto pronto a rispondere con una battuta pungente al fastidioso sorrisetto del Lord della Valle di Arryn, e invece il giovane volto del ragazzino lo stupì. Che voleva? Cosa doveva dirgli? E Garhel cosa poteva mai rispondergli? Ma poi... perché diavolo al ragazzo era stato concesso di lasciare la gattabuia presso la quale era sicuramente stato gettato esattamente come l'ex Tribuno Popolare? O invece no, non gli era stato concesso?

«Mio signore» fece subito il ragazzo, un po' trafelato, come se stesse facendo tutto ciò per dovere ma con tutto il contrario del piacere, «Mi spiace disturbarti mentre ti trovi in questa brutta situazione. Non lo avrei fatto se non fosse stato necessario»

«Figurati, figliolo» rispose Sawela garbato, anche se temette di lasciar trasparire un po' troppo la sua sorpresa. Ma d'altro canto: che cosa diamine c'era da vergognarsi? Continuò: «Sono curioso di sapere cosa posso fare per te, da sospettato di omicidio a sospettato di omicidio»

«Oh, signore: non è così. Tu non sei sospettato di omicidio»

«E come puoi saperlo tu, questo? Come hai fatto a farti dare il permesso di raggiungermi?»

«Nel modo più vecchio che c'è: ho corrotto la guardia. In fondo lui non rischia niente: non sto evadendo, mi ha portato lui qui. E quando avrò finito di dirti quello che devo, mi ricondurrà nella mia cella»

«Quanto ti è costata questa scemenza?»

«Non importa: è una questione di vita o di morte»

«Sì, lo capisco. Dicevi che non sono sospettato...?»

«Signore, non posso darlo per assoluto, ma ci giurerei sopra tutto quello che ho»

«Questo non basta»

«È sicuro! Vedi... tu sei capitato in un gioco più grande di te. Non posso spiegarti tutto: la guardia mi ha dato un tempo limitato, ma... Lord Loackland, il pazzo che l'ha assassinato e poi si è tolto la vita, e noi lì vicino... niente di tutto questo è stato casuale»

«Ragazzo, non puoi dirmi che non hai tempo e poi uscirtene con questa frase!»

«Lord Sawela, sono venuto a chiederti un favore. Io mi appello alla bontà del tuo cuore. È un uomo disperato che ti parla: te lo chiedo in ginocchio»

«Oh, ti prego» si schermì Garhel quando il ragazzo in effetti fece come aveva detto, piegando le gambe in avanti, «Non è il caso, non sono tipo da tutto questo... questo teatro. Su, su mettiti in piedi! Dimmi qual è il problema»

«Mylord» il cavaliere smunto si rimise in piedi «Quando ti chiameranno a testimoniare... Tu devi dire che sono stato io a uccidere Lord Loackland e il popolano. Io soltanto»

«Che cosa?!»

«Devi farlo! So che sei un uomo d'onore e mentire non è nella tua natura, ma vedi... il processo che si terrà non avrà nulla di obiettivo, e tu sei l'unica carta che ho da spendere»

«Figliolo, sarà la verità a venire a galla, vedrai! Se non intendo prendermi colpe che non ho, non intendo nemmeno costruire castelli per aria attribuendone ad altri che non ne hanno! Non so mentire, si vede lontano un miglio! Ma perché voi nobili siete sempre così complicati? Mi spieghi perché dovrei?»

«Perché in questo modo salveresti un'anima innocente. L'altro ragazzo con cui mi hai visto quella notte dannata... vedi... è per lui che è stato montato tutto questo. È il figlio illegittimo di Loackland, Rickard. E, creando questa situazione, i suoi fratellastri, figli di Lord e Lady Loackland, si sono tolti di mezzo con un sol colpo sia il loro ingombrante padre che il fratellino che odiano da sempre»

«Loackland aveva un figlio illegittimo?»

«Sì, Rickard. Sempre tenuto nascosto. Tranne che alla famiglia con cui ha convissuto, finché suo padre ha potuto proteggerlo. Ma ora più passa il tempo e più Rickard è un uomo morto. E più io scopro che loro stanno ottenendo ciò che vogliono... più sento che è giusto che lui viva»

«Ma l'uomo che ha ucciso Loackland... ha urlato chiaramente di averlo fatto in nome di Constant Lannister: sono sicuro che l'avete sentito anche voi, dietro quella porticina»

«Era un individuo instabile, mentalmente menomato. Non dirmi che non l'hai visto anche tu... e poi c'è il suicidio a testimoniarlo»

«E i tuoi accusatori? Che cosa diranno? Non potranno mica dire: “siamo sicuri che sia stato lui perché era figlio di nostro padre”. Non hanno prove, ragazzo, rasserenati! Dirò la verità: non andrà male»

«No, signore» e di nuovo qui Poll s'inginocchiò, gli afferrò la veste, quasi pianse, «Tu non li conosci! Sono delle serpi di nome e di fatto! Hanno fatto uccidere Lord Loackland, e faranno uccidere loro fratello. L'unica alternativa è accusare me»

«Non...» a questo punto Garhel rimase seriamente molto confuso dall'atteggiamento un po' esagerato del ragazzo «Non hai risposto alla mia domanda. Hanno una tesi, loro?»

«Sì. Sosterranno che io e Rickard siamo amanti. E che abbiamo ucciso suo padre perché non accettava la nostra... relazione contronatura»

«E tu invece? Perché saresti pronto a dare la vita per questo... figlio bastardo di un nobile rivale?»

«Perché io... te l'ho detto, mylord: trovo giusto che loro perdano questa causa, e che lui viva»

«E perché lo trovi giusto?»

«P-perché... p-perché i-io». Proprio quando Garhel si rese conto di aver capito fin troppo di tutta una vicenda ingarbugliata che fino a qualche attimo prima completamente ignorava, e di cui ancor meno gl'interessava, si cominciarono a sentire dei pesanti passi fuori dalla cella. Gli dispiaceva, e gli dispiaceva anche molto per il giovane cavaliere: lui era un uomo di mondo, ne aveva viste di cotte e di crude e non si imbarazzava né straniva per niente. E il suo cuore non rimaneva freddo davanti a un uomo disposto a dare la vita... per chiunque fosse. Ma il gesto del cavaliere smunto, giudicato da una esterna mente lucida, era più un tentativo disperato che una mossa sensata. E Garhel non pensava fosse opportuno assecondarla. Poll riprese: «Ti prego Lord Sawela, aiutami. Io... io...»

«Non c'è niente che puoi promettermi, Sir Poll: basta. Anche se ti assecondassi, poi saresti morto, quindi non hai promesse da farmi. E io trovo il tuo un tentativo... disperato. Voglio che tu sappia che io rispetto le tue ragioni. Ma proprio perché ti rispetto, ti dico che mi sembri... un innamorato un po' pazzo. La strategia più conveniente rimane dire la verità. Magari vi salverete entrambi»

«No, mylord! Tu non conosci i Loackland, ti prego! TI PREGO!», e così il cavaliere smunto venne portato via a forza dal suo carceriere, piangendo e strepitando. E lasciando nello stomaco di Lord Garhel Sawela una pessima sensazione di disagio. Dopo la visita del cavaliere smunto, l'ex Lord concluse che la sua vita probabilmente sarebbe stata salva. Ma, se avesse lasciato morire due ragazzi, anziché solo uno, sapendoli entrambi innocenti... cosa ne sarebbe stato invece del suo onore? E della sua coscienza?

 

 

 

Alla fine il tempo era giunto. Il re si era preparato, si era addestrato ma non era pronto. A differenza di Henrich Bolton, il re non era un guerriero e men che meno un cavaliere. Non avrebbe vinto quello scontro diretto e quindi avrebbe perso il nord. Ma non era neanche uno stupido: aveva un asso nella manica talmente complesso e segreto che neanche alla sua regale consorte aveva voluto rivelare. Forse c'entrava il Credo, era l'unico indizio dal quale Hana da settimane cercava di far scaturire una prova; ma non ce n'erano. E dire che ultimamente la fiducia tra i due era arrivata ai massimi livelli, quasi come quelli che davvero un marito e una moglie sinceri avrebbero dovuto avere. Quella cosa del rapporto con la plebe, di cui all'inizio Hana aveva creduto che Gabryaerys non si fosse accorto, era invece più palese di quanto la Lady di Lannister avesse creduto. Fu insieme che decisero di sfruttarla. Così un giorno, non molto prima della partenza, a un discorso alla plebe che Gabryaerys in realtà odiava fare ma che purtroppo andava fatto in quanto si trattava di una celebrazione religiosa cui il Credo tanto teneva, Gabryaerys disse solo due parole e poi si fece da parte per far parlare lei. La giovane futura madre, figlia dei sovrani legittimi. E fu un successo: la folla applaudì, gridò, si entusiasmò anche quando non c'era un bel nulla da entusiasmarsi. Per qualche motivo vedevano in lei una garanzia contro il potere della corte di cui però, ed era questo l'aspetto più curioso, lei faceva parte. Da quel momento in poi, Gabryaerys la invitò ad ogni riunione del Concilio, con Braff e gli altri mostri nella squadra del re: quello vestito da baronetto, quello pure incoronato ma dall'andatura più instabile, e quello gigante le cui braccia e gambe parevano fatte di roccia. Con la mediazione di Hana, e vista anche l'impellente esigenza di riordino strutturale di cui la città necessitava, a un certo punto anche Pamir Gaholla venne chiamato a ricoprire il vecchio ruolo che aveva già avuto sotto Lionel: Maestro delle Strade. Nulla da fare per Lord Gushing invece, la cui troppa lealtà con il defunto padre di Hana non è che esattamente preoccupava il re, però neanche lo faceva andare in brodo di giuggiole.

Naturalmente tutta questa apertura e disponibilità dell'usurpatore nei confronti della sua più legittima consorte, ancora di più stonava con il “piano segreto” che era ormai assodato Gabryaerys avesse per Delta delle Acque. Si dicevano tutto, sembravano una squadra inattaccabile, avrebbero cresciuto un re insieme e su ciascuna di queste cose Hana ormai si sentiva piuttosto sicura. Ma allora perché nasconderle che cosa aveva in mente per il giorno del duello con Bolton? Più ci pensava, più Hana si irritava e a volte le veniva in testa perfino che un giorno – dato l'atteggiamento del suo consorte– avrebbe potuto o dovuto muoversi per conto proprio nella politica del Regno. Sempre al fianco di Gabryaerys, ma in realtà giocando una sua partita, cosa che per il momento non stava facendo. Anzi, per il momento lei e il re erano una squadra, almeno da quello che le risultava. Una volta glielo chiese perfino direttamente: «Che cos'hai in mente per il giorno del duello?», e lui tergiversò nella maniera più banale e poco credibile possibile, tanto che Hana decise di metterci un punto più che altro per pietà. Non era un grande mentitore re Gabryaerys, né un grande diplomatico. Anzi era un individuo piuttosto passionale cui la parte “politica” del governo chiaramente stava strettissima. Che poi era quello che più Hana apprezzava, del governare. Erano diversissimi: e forse per questo si completavano.

Eppure alla fine il tempo era giunto e il re, la regina e tutta una parte della corte si misero in viaggio. Non tutti i Maestri consigliarono alla regina di spostarsi dato il suo stato interessante, ma la maggior parte diede il suo parere positivo e Hana preferì andare. L'evento aveva una rilevanza storica assai importante: la secessione per duello di una parte del regno era una di quelle cose che nel bene o nel male rimaneva negli annali. E la terra dei fiumi non era poi così distante dalla Capitale: come tutti i viaggi istituzionali, sarebbe stato pesante perché a muoversi non sarebbero stati solo il re, la regina e i loro cavalli ma tutto un pezzo della corte, vale a dire un grosso e lento elefante; tuttavia certo andare a Delta delle Acque non era come andare a Biancavilla del Nord o a Dorne o nell'oriente regio dei Gaholla. Vivere la storia sacrificando un paio delle sue notti e delle sue comodità era secondo Hana la scelta giusta da fare, e quindi fu lei per prima a decretare definitivamente che avrebbe accompagnato il re suo marito nella terra dei fiumi. Con loro partirono anche il mostro di roccia e quello nuovo, quello il cui corpo non pareva fatto esattamente di una consistenza solida. Il Primo Cavaliere e il Maestro dei Sussurri rimasero invece a governare la Capitale. Gabryaerys concesse pure ad Hana di portarsi Gaholla, ma ancora una volta non Gushing, sempre costantemente monitorato dagli sgherri del sovrano. Anche il Credo dei Sette era stato costretto dal re a mandare una propria delegazione, ma – stando all'opinione di Gabryaerys – non stava realmente mandando alcuno di “grosso”, lasciando dunque proseguire il re nei suoi sospetti di finta o troppa poca lealtà da parte dell'Alto Septon e degli altri grandi gerarchi della più professata religione dell'occidente.

Il castello di Delta delle Acque era una di quelle grandi abitazioni del continente che secondo Hana era giusto visitare almeno una volta nella vita. Per un certo periodo di secoli era stato residenza ufficiale di un regno indipendente che dominava sull'interra valle fluviale collocata tra il freddo nord e il caldo sud del continente. Per millenni la famiglia che lo aveva abitato – i Tully – era riuscita a mantenere questo ruolo di mediazione diventando una tra le più stimate e ascoltate tra le case nobili del mondo. Poi, Hana non ricordava come, ma a un certo punto i Tully avevano perso tutto e la potestà del castello era passata ai lontani signori della Valle di Arryn, che così cominciarono a detenere un potere sia di monte che di valle, diventando per un certo periodo forse tra le due o tre casate più importanti del Westeros. I Baelish della Valle continuavano a detenere quel potere, solo che giustamente i due castelli erano assai lontani e diversi l'uno dall'altro: maestoso ma arroccato tra le alte rocce di una montagna Nido dell'Aquila, lussureggiante e ricco di luce Delta delle Acque, armoniosamente appoggiato alle sponde del suo fiume e cucito con i suoi affluenti e i suoi canali mediante un complesso sistema architettonico di ponti e gallerie. Una meraviglia insomma, un castello unico nel suo genere che Hana Lannister aveva visitato fin da piccolina e che occupava un posto speciale nel suo cuore. Ma il fatto che le due sedi ufficiali della famiglia Baelish fossero così distanti e così diverse, sebbene ormai connesse da un secolare rapporto economico che le rendeva interdipendenti, creava il problema di dover mettere sempre qualcuno di fiducia su entrambi i sogli. Il metodo che il primo Baelish a detenere entrambi i castelli decise di attuare, fu quello di creare una sorta di sistema dinastico scambiato, di modo che non ci fossero mai due fratelli in due castelli, ma sempre un padre e un figlio, confidando nella speranza che gli scontri tra genitori e figli fossero sempre meno comuni di quelli tra fratelli. Quindi quando un Baelish padre risiedeva alla Valle, il suo figlio primogenito era sempre signore della Terra dei Fiumi, e quando il patriarca moriva il figlio primogenito del figlio primogenito ereditava la Valle e così via discorrendo. Mai fratelli, solo padri e figli. Tuttavia ad accogliere la delegazione del regno quel giorno a Delta delle Acque chiaramente ci sarebbero stati entrambi: Baelish padre, un noto e furbo politico dal sorriso ammaliante, e Baelish figlio, un dodicenne sotto tutela di una madre mezza plebea, a quanto si diceva viziato e irritante come pochi. Solo che il padre sarebbe stato un ospite, come Hana Gabryaerys e tutti gli altri in teoria. In pratica Hana sapeva che si stavano per introdurre nel covo di una delle più affamate volpi dell'intero occidente.

In verità, a parte che era chiaro che il Lord della Valle non sarebbe stato solo un generoso ospite perché sempre Baelish giocava la sua partita e non era mai uno spettatore, purtroppo Hana molto altro non sapeva sul ruolo del vecchio politico in merito a tutta quella storia. Alla fine, i suoi rapporti con l'ingombrante vicino Bolton di Forte Terrore non erano mai stati idilliaci, uguali se non peggiori a quelli che Lord Petyr aveva con l'altro vicino più a sud: il regno sotto la giurisdizione della Corona. Quindi in conclusione quel duello sarebbe stato combattuto solo in via pratica dal re e dal Lord di Forte Terrore, in realtà in campo c'erano almeno altre due forze: il Lord della Valle, e signore di diritto della sede dell'incontro, e il Credo dei Sette Dèi, chiaramente in una fase di confusione dovuta alla concorrenza recente del “nuovo” vecchio dio dell'oriente, ma sempre e comunque dotato della grande arma della presa su buona parte delle anime e delle lealtà dei sudditi del Regno Unificato. Ed entrambe queste ultime due forze si muovevano con fare oscuro, misterioso: non si sapeva bene cosa volevano, o cosa avrebbero fatto nel caso della vittoria dell'uno piuttosto che dell'altro contendente. Tutto ciò a Lady Hana era chiaro, ma purtroppo il tempo stringeva e non c'era più altro da fare: bisognava andare nella Terra dei Fiumi, sperare nel successo del re suo marito, e vedere come si sarebbero disposte le carte una volta costretto Bolton fuori dai giochi.

Raggiunsero così il meraviglioso castello in mezzo ai fiumi e vennero accolti da un ricco banchetto in una sala grande che aveva ben poco da invidiare a quella del palazzo presso Roccia del Re. Forse era l'amore per quel castello e per i ricordi d'infanzia che le suscitava, ma ogni cosa ad Hana parve assolutamente impeccabile: i Baelish non si erano attenuti semplicemente al protocollo, avevano voluto fare le cose in grande, contribuendo a rendere quel momento ipoteticamente storico: il tempo in cui il regno perse o rischiò di perdere la sua tanto glorificata unità, che era stato deciso di mettere persino nell'intitolazione ufficiale; Gabryaerys infatti non era semplicemente il re, o un re fra tanti, era il re del Regno Unificato. In qualunque modo fosse andata, quel momento sarebbe rimasto nella storia, e Baelish l'aveva intuito, ecco perché aveva reso tutto così teatralmente accattivante. Solo su una cosa lasciò Hana parecchio perplessa: al momento dell'arrivo della delegazione regia in quel castello, il padrone di casa non c'era ad accoglierli. C'erano solo Petyr il piccolo e sua madre, prima moglie di Lord Petyr il grande, Lady Oona. Ma l'ospitalità del giovanotto un po' viziato, temperato da una madre sì plebea ma che da anni aveva capito come comportarsi tra i nobili, comunque non fece rimpiangere poi tanto la presenza del vecchio baffuto e fascinoso Lord della Valle. Non la fece rimpiangere per il giorno dell'arrivo e del banchetto, e neanche per quello di “riposo” che precedette il giorno del duello. Non era esattamente “da protocollo” che Baelish non ci fosse, ma d'altro canto predispose tutto per non farlo minimamente pesare. E questo era apprezzabile.

Il giorno prima del duello, Hana non riuscì a intercettare suo marito quasi completamente. Il re infatti se ne rimase isolato con la sola compagnia dei suoi più stretti collaboratori (i due diavoli che s'era portato appresso quindi), sostenendo che intendeva allenarsi duramente nel corpo e soprattutto nello spirito. E quando tornò nel talamo che condivideva con la sua regina, si proclamò troppo stanco e si mise subito a dormire. Passò così l'ultimo momento a disposizione prima che tutto corresse il rischio di cambiare. Secondo Lady Hana nulla sarebbe cambiato, ma il rischio del contrario – almeno minimamente - bisognava pure valutarlo. E il re non aveva voluto dirle niente; non aveva voluto confidargli niente. Si era semplicemente addormentato, come l'incolto barbaro orientale deforme che altro non era. Quella notte Hana decise dunque di interrompere il fragile, silenzioso, patto: da quel momento la sua partita nel gioco del trono sarebbe stata sua e basta. Sua e del figlio che portava in grembo.

Un suono di fanfare ridondanti annunciò l'inizio della procedura rituale che si sarebbe conclusa con la resa o il trapasso di Gabryaerys o di Henrich Bolton di Forte Terrore, che nella sua magione nel nord teneva nascosto il piccolo pretendente al trono di nome Napoleon, che di Hana era nipote. Il sacerdote inviato di Sua Sacralità l'Alto Septon, si alzò in piedi dal suo scranno al centro dell'arena dicendo: «Nel nome dei Sette Dèi, annuncio in questo giorno voluto dalla Madre e a lei consacrato, che re Gabryaerys, primo del suo nome, signore e protettore del Regno Unificato, oggi si confronterà alla punta di spada con Lord Henrich Bolton, signore di Forte Terrore, che qui qualora vittorioso proclamerà l'indipendenza della regione a nord del regno, e a lui facente capo. In caso contrario, il Regno Unificato rimarrà tale. Il duello non si concluderà fino a quando uno dei due contendenti non sarà spirato ovvero non avrà annunciato la sua incondizionata resa gettando al suolo la proprio spada. Che possa il Guerriero avere pietà di voi»

«Io ho un annuncio!» esclamò dunque Gabryaerys giù dall'arena nella quale era collocato insieme al suo avversario. Hana udì mormorare qualcuno non distante da lei che la cosa fosse del tutto poco ortodossa. Lei non lo sapeva, ma chiaramente rimase un po' stupita e un po' turbata dalle parole di suo marito. Dunque, come il resto degli astanti, si limitò ad ascoltare: «Io Gabryaerys, figlio di Daenerys Targaryen nata dalla tempesta, PROCLAMO» fece il re, tutto impettito, quasi gridando, «Sir Helmon mio campione per questa battaglia!».

Dunque il colpo di scena era infine giunto. Così era questo che Gabryaerys le aveva tenuto nascosto: intendeva passare per vigliacco, eppure vincere. Una furbizia per certi aspetti ma una sonora idiozia per altri: vero, Bolton non aveva alcuna possibilità di vincere contro quel mostro gigante di pietra che il re chiamava “Sir Helmon”. Però quel genere di cose rimanevano nella memoria collettiva: le voci si sarebbero sparse e dall'Ultima Porta a Lancia del Sole Gabryaerys, oltre che un re usurpatore e straniero, sarebbe anche stato un re codardo che metteva altri a combattere al suo posto. Poteva anche vincere questa battaglia contro Lord Henrich, ma alla lunga non avrebbe vinto la guerra contro la sua stessa impopolarità che – lui non se ne accorgeva – ma lo stava già schiacciando. Lo schiacciava da quando si era insediato: l'unica cosa di popolare che Gabryaerys aveva, era lei.

Naturalmente fin da subito un coro di proteste si sollevò un po' da tutte le parti, in primis nell'area dei Bolton, dove Lord Henrich in persona aveva ululato il suo disperato: «IO PROTESTO!». Ma molte voci di dissenso Hana riuscì ad udirle pure a lei vicino; forse un po' più sommesse, ma c'erano. Il legato dell'Alto Septon a questo punto, cercando di far spiccare la sua voce mediante la speciale postazione che occupava in quell'arena, semplicemente sancì: «Il Credo approva questa richiesta di Sua Maestà» e frettolosamente tornò a sedersi. Alla fine Gabryaerys Naharis aveva ottenuto ciò che voleva da Sua Sacralità: era questo che doveva succedere nel suo piano malato, che il Credo dicesse ai suoi fedeli quanto lui fosse comunque un re legittimo e santo (nel senso di riconosciuto dai Sette Dèi), nonostante quello spropositato gesto di incapacità. Ma il legato dell'Alto Septon disse quella frase con una faccia contrita e quasi dispiaciuta, apparentemente già pentito un istante dopo averla detta. Gabryaerys invece era tutto sorridente e scintillante, ora che il suo mostro aveva preso il suo posto nell'arena.

Il duello cominciò con una carica del titano di pietra, a tutta velocità. Una velocità disumana, che raggiunse Bolton con troppa virulenza per non farlo subito saltare al suolo. Hana ne vide solo una parte: a metà dell'azione aveva già distolto lo sguardo, temendo il peggio. Poi udì ancora qualche urlo, e qualche altro suono dalla folla che poteva significare sia stupore, che meraviglia, che terrore. Fu a quel punto che un suono diverso attirò l'attenzione della Lady di Lannister, e solo la sua. Una voce infatti le sussurrò, mentre una mano le batteva la spalla: «Mia regina. Te ne prego, vieni con me». Era Pamir Gaholla. In effetti anche lui era scomparso per l'intero corso della giornata. All'inizio Hana lo aveva cercato sperando di poter avere la sua compagnia per il duello, ma né lei personalmente né le sue dame riuscirono a trovarlo, così Hana si limitò a pensare che il Maestro delle Strade fosse da qualche parte a studiare un ponte o a provarci con una bella fanciulla. Perché quello alla fine a Gaholla interessava: i ponti e le donne. E invece no, anche Pamir nel suo piccolo aveva agito senza che lei ne sapesse niente. E adesso si stava manifestando.

Il tono del Maestro delle Strade pareva consapevole dell'eccezionalità di ciò che stava chiedendo alla sua regina, e il suo sguardo ancora di più. C'era qualcosa che bolliva in pentola, qualcosa di cui Hana non era consapevole, e questo la infastidiva grandemente. Ma purtroppo comprese che si trovava in uno di quei momenti della vita in cui bisognava prendere in fretta una decisione. Decise di fidarsi del vecchio protetto di suo padre: a differenza del re suo consorte, Gaholla lei lo conosceva da una vita! Non era proprio come un fratello per lei, ma come un cugino sicuramente.

Mentre il duello di Delta delle Acque dunque proseguiva, la regina del Regno si allontanò silenziosamente dall'arena e seguì Gaholla lungo tutta una rete di ballatoi, ponti e ponticcioli assai ramificata. Per uno che di quel castello era ospite, sarebbe stato piuttosto difficile orientarsi, anche se all'apparenza così poteva non sembrare. Pamir invece stranamente si muoveva benissimo ed anche questo destò la curiosità della giovane, gravida, regina che quanto a spirito di osservazione non aveva da invidiare nessuno. Alla fine si ritrovarono in una grande anticamera del palazzo a lei sconosciuto e di lì ad una saletta molto piccola, quasi un ripostiglio, con un tavolo e alcune sedie. Doveva essere una sorta di sala da pranzo se non proprio della servitù più bassa di grado, per lo meno dei maestri di camera o di cerimonia. Lì la regina e il suo vecchio amico attesero, mentre da qualche parte fuori la folla continuava ad urlare e spaventarsi e meravigliarsi.

Infine colui che Pamir e la regina stavano aspettando, arrivò. Anche lui incappucciato, anche lui come se ci si trovasse nel bel mezzo di una cospirazione: e in effetti così doveva essere. Il nuovo arrivato era infatti Petyr Baelish padre, il padrone di casa, che per tutto quel tempo non aveva fatto vedere il suo pizzo ben curato nei dintorni del castello di suo figlio. Ma quindi non era in oriente, come i referenti della regina le comunicavano fin dalla sua partenza da Roccia del Re. Era lì e... stava tramando qualcosa. Ma questo significava che Hana era in pericolo? Nella tana del lupo? No: Pamir sarebbe morto pur di non prestarsi a una cosa del genere, su questo la regina degli Andali e dei Primi Uomini avrebbe messo entrambe le proprie bianche mani sul fuoco fino ad abbrustolirle. Quindi... Baelish aveva un'offerta? E di che genere? Non aveva alcun senso fin tanto che Hana aspettava un figlio da Gabryaerys Targaryen.

«Milady Hana» cominciò il Lord della Valle «Sono lieto che tu stia bene». Premesse formali e anche un po' preoccupanti a dire il vero secondo la Lady di Lannister: perché mai doveva essere diversamente? Baelish continuò: «Oggi avverrà qualcosa di epocale, è importante che tu e il tuo... bambino, siate qui al sicuro»

«Al sicuro da cosa, Lord Baelish?»

«Dalla situazione in cui il tuo stesso consorte ti ha portato e dalla quale io ti sottrarrò. Napoleon è il vero re, lo sai benissimo». Su questo Hana non aveva molto da replicare: nei termini della legge, era vero. «Quindi io, e con me la gran parte dei nobili del continente orientale Essos che qui rappresento, abbiamo deciso di rivendicare il suo diritto a sedere sul trono che fu di suo padre e suo nonno prima di lui»

«Sono una prigioniera quindi...»

«Un ospite. Libera di muoverti dovunque vorrai, dentro e fuori i territori sotto il mio controllo. Ma solo dopo oggi»

«E che cosa avverrà oggi?»

«Arresteremo l'usurpatore che hai sposato, insieme ai suoi più stretti collaboratori. C'è tutto l'esercito della Valle fuori e con esso contingenti dei Lord Panecha, Goldsmith, Loackland... e Gaholla». A questo punto Lady Hana decise di spostare per un breve momento lo sguardo sul suo vecchio amico Pamir. Era così che l'oriente entrava in campo nel gioco della politica del Regno. E la famiglia di Gaholla con esso. Pamir non la stava tradendo secondo lui, e infatti non lo stava facendo consapevolmente: era convinto che per Hana liberarsi dalle grinfie del re Naharis fosse positivo e d'altronde come dargli torto? La simpatia di Hana per il re, la sua collaborazione con lui, erano aspetti della sua vita che rimanevano silenziosi, non espliciti. Esplicitamente lei, per il Maestro delle Strade, non era altro che una cuginetta indifesa da proteggere in tutti i modi e sulla base di questo aveva agito, consegnandola all'ambiguo Lord della Valle di Arryn.

«Come intendete fare?» domandò Hana «Mio marito dispone di due validi guerrieri personali che dubito abbatterete facilmente»

«Ci serviremo del nostro numero naturalmente» sorrise beffardo il Lord di Nido dell'Aquila «E di un'altra piccola strategia. Un mio confidente della zona di Valyria una volta ci ha raccontato di questo tipo le cui carni sono fatte di roccia che adesso siede al Concilio Ristretto e proprio ora si prepara ad uccidere il Lord di Forte Terrore. Oh sì, queste creature non sono saltate fuori dal nulla e... per uno che possiede una discreta rete di amicizie non è difficile trovare notizie su chiunque a questo mondo. I nostri amici... soffrono particolarmente quando la testa gli venga spiccata via dal corpo, lo sapevi? Certo è un po' dura da staccarsi e, anche una volta staccata, sembra che continui a parlare ed elargire minacce ma... con molto minori risultati pratici del solito». Il monologo del Lord venne a questo punto interrotto da una serie di urla fuori, molto diverse dalle altre che fino ad allora avevano preceduto. Subito Baelish lasciò la sala per dirigersi verso un altro corridoio e lì aprire una finestra, con Hana e Gaholla immediatamente dietro di lui. La Lady di Lannister, nonché regina, non ci avrebbe scommesso che, data tutta la tortuosa strada che aveva fatto per arrivare fin lì, potesse ancora avere una così chiara visuale sull'area del duello e invece tutto era lì davanti a lei, a circa due piani di distanza. La ressa confusa, scandalizzata, anche un po' impaurita. Il Septon impallidito, gli amici di Bolton sconcertati. Lord Henrich a terra in una pozza di sangue, non trafitto da una spada ma... proprio fatto a pezzi e poi lui: il bestione di pietra sostanzialmente uguale a come quando aveva cominciato il duello. Solo con qualche porzione di abito strappato. «Visto?» commentò Baelish il grande «Lo dicevo, io, che l'avrebbe ucciso»; dunque cambiò rapidamente discorso: «È il caso che io vada dunque. Il mostro nell'arena mi preoccupa relativamente, è ben esposto, solo, e possibilmente “stanco” per la tenzone. Anche se non so se sia il caso di parlare di stanchezza. Quello tra gli spalti invece mi preoccupa un po' di più... ma non allarmarti, mia Lady, ho organizzato tutto con estrema precisione. Posso chiederti di badare a lei, Lord Gaholla? Almeno fin tanto che suo marito non sarà arrestato»

«Regina» disse dunque Hana. In un certo senso le era scappato: non ci aveva riflettuto molto, forse riflettendoci non era la cosa più saggia da dire. Però voleva dirlo: un impeto furioso le si scatenò fuori controllo dalla bocca dello stomaco fin su alla gola, e dunque si limitò ad aprire la bocca e lo disse.

Baelish fece il finto tonto: «Come, prego?»

«Regina» continuò Hana, a questo punto inarrestabile, «Mi hai chiamato “mia Lady”. In questo momento io sono la tua regina, Lord Baelish»

«Come vuoi» replicò il Lord e, sostanzialmente più fuori dalla stanza che dentro, concluse: «Almeno per un altro po'». Dopodiché Hana rimase sola in quella stanza con ampia vista su ciò che accadeva fuori, insieme al suo amico Pamir, l'amico che l'aveva tradita. Lo guardò storto e quello chinò il capo, segno che in realtà sapesse che Hana dentro di sé non era poi così felice di quella situazione, o almeno che lo presupponesse. Dunque i due udirono anche lo scroscio di metallo tipico di un piccolo contingente sicuramente messo fuori dalla porta da Baelish per sorvegliarla. Dunque non rimase molto da fare: Lady Hana e Lord Pamir si misero alla finestra ad osservare quello che succedeva fuori...

L'esercito della Valle circondò l'intera area dove si era appena concluso il duello con la tragica sconfitta del Lord di Forte Terrore. Con esso si accompagnava anche un eccentrico contingente di lancieri e alabardieri bizzarramente vestiti che dovevano appartenere alle famose Casate dell'Est di cui Baelish aveva parlato: i Gaholla, i Panecha e tutti gli altri. Subito, senza attendere ulteriori comandi o direttive di altro genere, alcuni di questi soldati raggiunsero il campione del re, lo costrinsero a inginocchiarsi e, con un po' di fatica, gli spiccarono quello strano cranio spoglio che aveva al posto della testa via dal resto della sua massiccia figura. Lo fecero abbastanza rapidamente, ma dovettero occuparsene in dieci. Quindi, il demone di fuoco dagli spalti si accese; cominciò forse a fare qualche vittima ma non gli rimase altro tempo. Un giavellotto gigantesco, impossibile da lanciare per un uomo comune, gli si precipitò al collo – o quello che era – con celerità e violenza inaudite. Hana spostò lo sguardo verso la possibile direzione di partenza di quel micidiale colpo e vide chiaramente una enorme balestra meccanica sistemata sul tetto di una delle torri, messa lì da chissà quanto tempo. A quel servo del re era stato dunque riservato quel posto con estrema precisione, e con estrema precisione il fendente era partito ed anche lui era stato abbattuto, anche lui con il teschio imprecante fuori dal corpo.

Dunque venne infine fuori dai serrati ranghi del suo così imponente ed eterogeneo manipolo, il Lord della Valle, delle Terre dei Fiumi e così anche di quel castello in cui Lady Hana – come il re suo marito – si trovava. Sfavillante nella sua corazza con su inciso lo storico tordo canterino, simbolo della sua antica Casata, Lord Petyr, rivolgendosi al re, si lanciò nel più ampio dei suoi sorrisi e fece: «Gabryaerys Nahairs: io dichiaro voi e tutti i vostri alleati da questo momento prigionieri di Napoleon Lannister, l'unico legittimo re del Regno Unificato»

«Mh» rispose il re, con un'espressione in viso per la sua sposa piuttosto indecifrabile a quella distanza, «Avrei dovuto intuirlo che Bolton non avrebbe mai potuto organizzare da solo la fuga del neonato dalla Capitale. La volontà c'era, ma le sue spie sono le più rumorose del Westeros. Le tue invece, Baelish, sono abili»

«Non è più il tempo delle chiacchiere, signore. Ora mi seguirai presso la prigione che ti è stata destinata».

 

 

 

Per qualche motivo, Lord Sawela si era immaginato un processo in grande, un po' come facevano in occidente: pubblica adunata, giudici imparziali; il Lord di Braavos era particolarmente avvezzo a copiare i costumi dell'altro continente in effetti, a farli un po' suoi e portarli nella sua città-banca. E invece, quel giorno in cui finalmente chi di dovere si decise di fare uscire Garhel dalla sua prigione, lo portò in una sorta di stanzetta oblunga, anche un po' angusta. La bella notizia fu che il giovane Gaholla aveva ragione: quel processo non era stato montato per Lord Sawela, e questo il vecchio Lord Tribuno poté verificarlo fin da subito. I due ragazzi infatti, il cavaliere smunto e il bastardo dei Loackland, se ne stavano nel tipico palchetto al centro dove vanno piazzati i principali imputati, mentre lui venne messo in uno più piccolo, di lato: quello dove di norma vanno piazzati i testimoni. Conduceva l'interrogatorio, seduto al centro di un alto e austero tavolaccio, il padrone di casa, Lord Goldsmith. Ai suoi lati, giudici a latere: Lord Justus e uno strano Lord un po' scarno con tutta l'aria di essere un religioso. Garhel ci dovette mettere un po' per capire dove l'avesse già visto, poi realizzò: quel Lord scheletrico era stato il passacarte di Baelish per tutto il tempo che il Lord di Nido dell'Aquila aveva bazzicato la baia di Braavos. Ma allora Baelish c'era. Non era lì con il corpo, ma diamine aveva il principale dei suoi vice a rappresentarlo: che cosa gli sarebbe costato fare in modo che il suo galoppino mettesse il becco negli affari del processo e lo facesse quanto meno uscire dalla cella? E in caso portarlo a testimoniare, ma da uomo libero: non incatenato, come se fosse correo di una cosa che in realtà non aveva fatto, e che peraltro neanche i ragazzi avevano commesso!

A tal proposito: i due fanciullotti dovevano essere proprio imbecilli. Se il loro intento era dimostrare di non avere un sentimento l'uno per l'altro, e che dunque non avessero mai consumato quei rapporti contronatura di cui Poll aveva parlato a Lord Garhel durante la sua repentina visita nella cella dell'ex Tribuno, allora potevano almeno dimostrarsi un po' più virili! Distaccati: almeno per il tempo del processo. Quelli invece stavano vicini vicini, ci mancava poco che si abbracciassero o si prendessero per la manina. Garhel sapeva cosa passava per la testa del cavaliere smunto: era pronto a mettersi in mezzo, si vedeva. Non era armato, ma per com'era messo – sia per la grinta della disperazione e sia per questo fisico pseudo deboluccio come il suo, che poteva ingannare molto – un'arma di sicuro la trovava. Sarebbe morto difendendo il suo amante probabilmente: la stanzetta era zeppa di guardie, oltre che di una ventina di autorizzati tra cui tutte le parenti di Poll, i fratelli-carnefici del piccolo Loackland e Banfred, per una volta lontano dalla gonna di papà. Ma dieci o quindici guardie contro un singolo cavaliere, sebbene addestrato, avrebbero di sicuro avuto la meglio, dunque Poll dei Gaholla non avrebbe in tal modo risolto alcunché. Anzi avrebbe peggiorato la situazione, lasciando il povero bastardo solo e abbandonato.

Eppure, mentre li osservava nel tragitto verso il suo palchetto da testimone, Garhel Sawela si riscoprì a provare quasi una certa invidia nei loro confronti. Quelli come lui, nella vita, avevano bisogno di qualcosa per cui combattere. Anzi: per uno come lui, qualcosa per cui valeva la pena combattere, e magari morire, era quasi necessario. Le ragioni sono il carburante dell'esistenza. E in quel momento lui aveva completamente smarrito le sue. Con l'incendio del Formicaio, era come se fino a quel momento Garhel Sawela avesse mandato avanti un corpo morto. Un cadavere di cui non importava niente di quel processo, niente degli interessi di Justus Panecha, niente delle simpatie di suo figlio Banfred, e men che meno della sorte di tutti gli uomini e le donne che calcavano quella lercia terra. In verità non ci aveva mai ragionato seriamente, forse perché i suoi stessi pensieri – mutati così rapidamente nelle ultime settimane – un po' lo imbarazzavano e un po' lo facevano vergognare. Ma di fondo, quello che la sua testa davvero pensava era che se la draghessa avesse fatto un po' di pulizia, male in fondo non sarebbe stato. Certo: un peccato per gli innocenti. Ma una occasione ghiottissima per tutti quei maledetti culi nobili che, ad esempio, affollavano quelle quattro mura quel giorno. Forse solo gli imputati esclusi, ma giusto perché Garhel Sawela tendeva ad avere un debole per i vessati e gli ultimi, e Poll e il piccolo Loackland in quel momento erano gli ultimi.

Ma Sir Poll gli stava dando una lezione. In quella sala, in mezzo a tutte quelle ragioni che Sawela non poteva che considerare troppo labili, effimere, e in definitiva troppo poco efficaci per dare un vero senso alla sua e alle altre esistenze, il giovane Poll aveva una ragione più che valida. La più vecchia del mondo: combattere per qualcuno. Chi, dentro quella sala, poteva dire di stare in effetti facendo questo? Lì dentro ognuno combatteva al massimo per se stesso. Era Poll il vero leone. Un leone forse un po' diverso da quello dei Lannister: un leone con un martello. Anzi: una chimera, pronta a usare ogni suo artiglio per chi intendeva difendere. E Garhel... Garhel invece non aveva più nessuno. Come lo invidiava.

«Lord Sawela» gli fece dunque subito Lord Goldsmith, una volta che Garhel venne posizionato dove di dovere, «Sei qui per dirimere forse una questione di immensa rilevanza. Si tratta della morte di uno dei grandi signori dell'oriente: Lord Loackland. Tu, insieme con i qui presenti imputati, sei stato trovato nel luogo del delitto. Ora, abbiamo un problema assai complicato: il giovane Gaholla sostiene di essere stato lui ad uccidere il Lord della serpe e quel popolano suo amico. Mentre il giovane Loackland, o come diamine si chiamino i bastardi presso la loro zona, sostiene che unico responsabile sia il popolano medesimo, che abbia prima ucciso Loackland, e poi rivolto la propria arma contro se stesso, inneggiando peraltro al nome di Constant Lannister», fastidiose risatine dal Lord e da tutta una parte degli astanti. Ma non da Lord Justus, che invece stava leggendo qualcosa da un foglietto. Quell'uomo era incredibile: pareva completamente disinteressato a quello che stava succedendo. Due giovani uomini, forse innocenti, forse sarebbero stati accusati di omicidio e giustiziati, e lui se ne stava lì a leggere le sue inutili missive. Goldsmith concluse: «Tu eri presente, Sawela. Qual è la tua versione dei fatti? Ti ricordo che qui ne va della vita o della morte di delle persone. E della dignità di una nobile e specchiata Casa dell'Essos»

«Temo che la mia voce non porterà chiarezza, mylord» decise di esordire Garhel, «perché purtroppo né la versione del giovane Gaholla né quella del giovane Loackland, o come si chiama, corrispondono a realtà. I ragazzi al momento dei fatti erano chiusi dietro a una porta, che io stesso ho aperto perché avevo udito qualcosa di strano accadere là dietro. E non potevo permettermi testimoni. Visto che sono stato io stesso a uccidere Lord Loackland e il popolano». Quelle sue parole naturalmente scatenarono il delirio. La voce tutta confusa di Lord Goldsmith, il cui schema era chiaramente saltato per aria con il solo mezzo di un paio di frasi ben calibrate, arrivò al massimo a dire: «Ma cos...?». I ragazzi Loackland, riconoscibili per la solita serpe a tre teste sulle vesti e gli accessori, veri protagonisti di quella mascherata, si alzarono subito in piedi, sbattendo i pugni e urlando: «Mentono, mentono tutti e tre!» e «I ragazzi si proteggono tra loro e creano confusione! Sono due pederasti!». Anche Banfred si sentì in dovere di alzarsi: puntò dritto su quello che considerava un suo amico, anche se Garhel mai in tal modo lo aveva considerato, e gli disse cercando di sussurrare: «Lord Garhel! Ma che stai combinando?!»

«ORA BASTA!» gridò invece Lord Justus, alzandosi in piedi. Tutti si fermarono quando il Lord elefante fece questo. Aveva barrito un po' più degli altri, e con una voce un po' più profonda. Ma non era per questo che tutti si erano fermati. Lo avevano fatto perché Lord Panecha era Lord Panecha, e bisognava vedere che cosa aveva da dire...

«Sono costernato, Lord Goldsmith, di interrompere questo così importante processo, e chiedo venia ai parenti delle vittime» proclamò dunque il Lord di Marrah «Ma situazioni di grave emergenza, richiedono soluzioni talvolta poco ortodosse. E so che non è ortodosso: ma io adesso prenderò con me il tuo testimone, farò i bagagli e correrò verso il mio regno. Ho testé saputo che il drago, con il suo esercito di diavoli, è ormai a poche miglia dalla città di Marrah, ben distinguibile ed esplicito nella sua minaccia. Anzi: chiedo a tutti gli uomini d'onore che sono qui presenti e che hanno ruoli di responsabilità su questo continente, di armare i loro eserciti e venire con me. Tempo non ce n'è più. E la battaglia per la vita è, si può dire, ormai cominciata».

 

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Capitolo 25
*** Le ombre della storia ***


Capitolo 25

LE OMBRE DELLA STORIA

 

 

 

Il Protettore dell'Altopiano e delle Terre Basse, Gino di Casa Barron, non ci mise molto a organizzare il suo viaggio di ritorno. Dorne l'aveva stufato e francamente non vedeva l'ora di tornare in un posto con climi e temperature più consoni alle sue abitudini. Certo, non poteva chiamare nemmeno Altogiardino propriamente “casa”, visto che ci aveva risieduto solo per qualche settimana ed era invece nato e cresciuto presso la ridente Lungotavolo, soglio tradizionale dei Barron recentemente passato a Jon Barthalo dopo l'avvicendamento di Gino nel castello ex dominio di Casa Tyrell. Ma almeno ad Altogiardino il caldo era un dolce abbraccio, non una fastidiosa patina appiccicaticcia costantemente aderente alla pelle. E poi il vino, il cibo, le donne... tutto buonissimo ma... era tutto il contrario di casa.

La Spada dell'Alba se lo erano lasciati in uno dei suoi tanti covi pieno di puttane e cicisbei dall'insolito nome orientaleggiante, tipo Astrya o qualcosa del genere. Sì: “villaggio di Astrya del sud”, il che lasciava intendere per altro che ci fosse da qualche parte pure una Astrya del nord che Gino men che meno conosceva. Era stato un sollievo: con quella spada leggendaria, una discreta abilità nell'usarla, e soprattutto quel suo insopportabile carattere dirompente ed eccentrico da dorniano pazzo, il giovane Darkhon era finito per affascinare un po' tutti, Gino compreso. Ma soprattutto: la compagnia con cui Gino era sceso dall'Altopiano ai deserti e con la quale doveva ripartire, e sai che bellezza essere un giovane Lord guercio e un po' goffo a confronto di un “cavaliere leggendario”. Leggendario poi più per il ruolo che per il nome: nessuno conosceva Darkhon Dayne, ma tutti rimanevano sempre incantati dalle storie delle leggendarie Spade dell'Alba che si erano intervallate nel corso dei secoli. Ancora una volta: Gino compreso. Perché sarebbe stato uno spergiuro, se avesse detto che lui – diversamente da tutti i bambini del Westeros – non fosse cresciuto a pane e sogni di diventare un giorno degno della spada leggendaria.

Ma tutto ciò poco contava, e da diverse ore ormai il Lord dell'Altopiano era finito perfino, e con sua grande gioia, per non pensare più al leggendario cavaliere e alla sua spada biancastra. Il confine tra le terre verdi e quelle gialle ormai incombeva, quando tutt'assieme Jon Barthalo si avvicinò al suo cavallo. Gino guidava la schiera, mentre Jon la chiudeva; ora però il nuovo signore di Lungotavolo si era spostato in avanti verso il nuovo signore di Altogiardino. Non erano amici, non parlottavano del più e del meno e neanche comunicavano se non si trattava dello stretto necessario. Gino aveva un pessimo ricordo di Jon, di quando erano piccoli, e col cavolo che avrebbe preso l'iniziativa ora che erano grandi. Quanto a Jon... era come un muro. Quindi il loro rapporto era semplicemente quello di un Lord e del suo sottoposto e niente altro. Dunque: se Jon gli si avvicinava, Gino non poteva che immaginare che l'informazione che il Lord di Lungotavolo intendesse dargli fosse strettamente necessaria, e comunque esclusivamente per i fini della loro comune missione e quindi nella fattispecie del caso corrente: il loro comune ritorno all'Altopiano. «Mylord» fece dunque Barthalo «Quella...» ed indicò a Gino un oggetto assai curioso. Una piccola cittadina illuminata si estendeva lungo tutto il perimetro di una pure piccola isola verde collocata sul delta di un fiume mentre si gettava sul mare del sud. Jon concluse: «È Stelle al Tramonto»; ed ecco che Darkhon Dayne ritornò di prepotenza ad occupare i pensieri del giovane, e guercio dell'occhio destro, Gino Barron.

Così era quella la tradizionale dimora dei Dayne... uno scoglio troppo sviluppato collocato come a simulare un piccolo rigurgito della terra. Curioso e orripilante insieme: decisamente tutto, meno che una reggia. Neanche il castello si vedeva bene, anche se a intuito doveva essere quel tetto un po' più in alto sistemato in mezzo a quel complesso di capanne di sassi e paglia. Se era stato un luogo leggendario, di sicuro Stelle al Tramonto non doveva esserlo più da secoli. Ecco perché da tempo non si vedeva più una Spada dell'Alba! Ed ecco perché la storia di Darkhon puzzava maledettamente... quel cavaliere estremamente abile, e con quella spada, era veramente uscito fuori da quel pollaio sgangherato su uno scoglio che Stelle al Tramonto a Gino altro non pareva?

Decise che avrebbero fatto tappa lì: era curioso di conoscere i parenti di Darkhon e tutto quello che avrebbero avuto da raccontare sul loro figlio eroe che quasi senza motivo aveva aiutato Lord Barron e in definitiva ucciso Saestrya Martell. Un alleato un po' ribelle insomma. Cosa ne pensavano i suoi di tutto questo, ovvero Lord e Lady Dayne, se erano vivi? In realtà – in quanto supremo signore di Dorne, oltre che dell'Altipiano – Gino avrebbe dovuto saperlo se i Dayne erano vivi: erano suoi diretti vassalli. Ma non aveva ancora studiato bene tutta la galassia dei suoi sottoposti, che erano un numero assai considerevole specialmente man mano che si scendeva verso il deserto. Però qualcuno a comandare nel castello doveva esserci! Ed era con lui che Barron aveva tutta l'intenzione di parlare... Sì, insomma: lui o lei.

Man mano che venivano annunciati da araldi che facevano le corse tra il loro manipolo e il castello di Stelle al Tramonto, a Gino venne maggiormente spiegato da Jon Barthalo chi vi avrebbe trovato: l'anziano Lord rimasto vedovo, Quaenthor, e sua sorella di lui perfino più grande, di nome Quinya, a quanto si diceva la vera reggente del casato. In che condizioni fossero tuttavia, se in salute e ricchezza o in malattia e povertà, di questo né Jon né nessun'altro sapeva niente. Non erano più influenti, questi Dayne, da secoli e i vecchi che adesso reggevano il castello erano personaggi di secondissimo piano nella politica globale. Ma erano i parenti di Darkhon. E teoricamente i custodi di Alba almeno fino a un certo punto della loro vita. Qualcosa da raccontare avrebbero pur dovuta averla.

«Mio Lord» si presentò dunque il vecchio, incedendo lentamente nella sala grande del castello, sorretto per il braccio dalla sorella vistosamente più anziana ma più arzilla di lui (lui era anche un po' in sovrappeso, mentre lei uno stecco). «Mi perdonerai» continuò Quaenthor Dayne «Ma le mie gambe non sono più buone per inginocchiarsi. Potrei farlo, ma poi resterei in quella posizione per – presumo – troppo del tuo sicuramente più utile tempo»

«Non preoccuparti, Lord Dayne. Non sono un tipo così attaccato al protocollo. Vengo a chiederti la tua ospitalità»

«Mylord il castello è piccolo e le risorse poche. Spero vivamente non si tratti di un lungo assedio, ma in tutti gli altri casi... che diamine, è da secoli che Casa Dayne è vassalla e fedele a chi siede sul seggio dell'Altogiardino. E io non disonorerò i miei padri contravvenendo a questa sacra tradizione. Stelle al Tramonto è tua, mylord»

«Grazie. Resteremo solo per una notte. Abbiamo scovato e ucciso una ribelle di nome Saestrya Martell, sono sicuro che l'avrai sentita nominare»

«Come no! Fomenta rabbia e livore da anni in questi lidi. Decenni»

«Addirittura? Non la facevo così anziana, quando l'ho incontrata»

«Beh, immagino sia il sole di queste parti. Prima forse si muoveva un po' più nell'ombra... nel concilio di re Lionel. Ma poi lui è morto. E l'avvicendamento ha creato il caos giusto per poterne approfittare. Vuole solo Dorne, lei. Libera e selvaggia, come lei stessa»

«Voleva, mylord»

«Ah, beh sì. A questo punto sì. Ora, se vuoi scusarmi...»

«Te ne vai già?»

«Avevo in programma di detergere con un po' di unguenti queste vecchie ossa. Non fanno passare il dolore, ma lo affievoliscono di molto. E i Maestri pretendono che siano passati in orari precisi del giorno. Non volevo arrecarti uno sgarbo, mylord, ma... hai interrotto il mio bagno. Ma fa comunque come fossi a casa tua. Ho già detto a chiunque che questo è il tuo castello. Il maestro di palazzo soddisferà ogni vostra richiesta, o... farà del suo meglio insomma»

«Può almeno restare tua sorella? Magari lei può continuarci a fare compagnia, raccontandoci qualche vecchia storia di Alba e delle sue leggendarie Spade». Beccato. Gino lo vide bene: un refolo di imbarazzato spavento corse dallo sguardo del vecchio Lord diretto verso la sua ancor più vecchia sorella. Quaenthor balbettò: «M-mia sorella non è una donna di molte parole... chiedi al maestro di palazzo, o ai servi come ti dicevo. Questa è pur sempre la dimora di una spada ancestrale. Conoscono tutti le storie di Alba»

«E se invece ne stessi cercando una in particolare? Una storia... più recente? Un mistero dei nostri giorni?». Ci volle così poco. Il vecchio si arrese e cambiò subito registro. Peraltro Gino non avrebbe saputo dire se forse era più una questione di impressione, ma gli parve che Lord Quaenthor improvvisamente fosse ringiovanito di un paio d'anni. Da vecchio ammalato si fece antico cavaliere risoluto.

E rispose: «Mylord. Voglio che tu sappia che qualsiasi diceria tu abbia sentito in giro, è infondata. La mia famiglia ha sempre onorato ogni suo dovere. E siamo qui difatti a testimoniarlo»

«E chi lo mette in dubbio questo?»

«Mi hanno detto che circolano voci più a est, oltre il deserto. Ma è tutto falso ti dico»

«Eppure Saestrya è morta»

«E questo cosa c'entra?»

«Beh, tuo figlio l'ha uccisa. Darkhon, la nuova Spada dell'Alba»

«Darkhon? Lord Gino, il mio unico figlio, Kylor, ci ha lasciati prematuramente parecchi anni or sono»

«Ma allora a cosa ti riferisci?»

«Ad Alba»

«Ma anch'io! L'ho vista con i miei occhi: impossibile imitarla»

«Hai visto la spada?! Dove?!»

«Nelle mani di Darkhon Dayne»

«Che io sappia non esiste nessun Darkhon Dayne. Ma esiste un ladro che ha rubato la spada ancestrale».

 

 

 

Lord Braff, che da tempo ricopriva il ruolo di capo delle spie del re – e non soltanto di questo re – si era manifestato un po' freddo alla richiesta del Lord Gran Maestro Irwin di trovargli il nuovo covo di Yashua, con i mezzi a sua disposizione. Non aveva detto esplicitamente di no, anzi aveva detto di sì, però aveva anche aggiunto qualche particolare in merito alla complessità della situazione dato che il re si trovava in quel momento prigioniero di Lord Baelish a Delta delle Acque, insieme alla moglie gravida e a metà della corte. Questo, secondo Adlai che però un poco Braff lo conosceva, significava che col cavolo che il Maestro delle Spie li avrebbe mai aiutati. A questa notizia, Sua Santità l'Alto Septon – che ormai Brendan letteralmente si riscoprì ad odiare, nonostante la sua indole docile e il suo essere praticamente sempre a disposizione del vecchio, in quanto suo personale servitore domestico – aveva reagito con tutte l'impazienza e mancanza di lucidità che da qualche tempo ormai lo contraddistinguevano. Più ci rifletteva, più fratello Brendan pensava che la guida spirituale dei fedeli dei Sette non potesse essere più quell'uomo, che in qualche modo era il caso di sostituirlo. Ma non spettava a lui pensare al come e in generale a quel tipo di cose, quindi non condivise questa sua opinione con nessuno, il che la faceva rimanere dunque niente più che un'elucubrazione. Tuttavia fratello Brendan era sicuro che anche Septa Sharma e il Gran Maestro Irwin fossero ormai giunti alla medesima conclusione.

Quello che Sua Sacralità alla fine ingiunse, e venne operato, fu un tentativo di ricerca da parte del Credo per conto proprio. Venne detto in tutte le lingue al Sommo Septon che in questa maniera i tempi anziché restringersi si sarebbero allungati, ma egli non comprese e ancora una volta ottenne la realizzazione di ciò che, senza riflettere, aveva ordinato. Passarono settimane intere senza notizie. L'accampamento in cui Brendan era stato prigioniero sostanzialmente poteva esser stato dovunque attorno al muro perimetrale della città. E dovunque Yashua non venne trovato. Le ricerche erano ancora nel pieno, quando alla fine la minaccia di Yashua tornò a presentarsi. Si manifestò direttamente agli appartamenti di Sua Sacralità questa volta, senza attraversare porte o finestre, come un diavolo o uno spettro. Fu sorprendente, ma la cosa non sorprese poi tanto Brendan: lui sapeva che Yashua fosse in grado di farlo. L'Alto Septon cominciò a sbiancare, mentre un copioso sudore freddo cominciò a scorrergli lungo tutto il corpo, a partire dalla ampia fronte. Erano da soli in quella camera da giorno, loro tre. Brendan aveva appena portato a Sua Sacralità dei pasticcini: l'Alto Septon era molto goloso di dolciumi. Poi, com'è che Yashua fosse riuscito a beccare giusto giusto il momento in cui anche lui, e soltanto lui oltre al vecchio e al demone, si trovasse in quella stanza, Brendan non avrebbe saputo dirlo. Vero: era spesso in compagnia dell'Alto Septon, anche solo perché, per dovere di tanto in tanto, doveva andare a domandare se avesse bisogno. Però diamine: non passava ogni dannato minuto in compagnia di quel crapulone, eppure Yashua era entrato in quel minuto. Non era il vecchio Yashua: questo ormai era evidente. Era deperito e aveva un che di marcio nel suo aspetto, quando in verità la prima volta che lo aveva visto Brendan avrebbe detto che lo stregone del dio rosso assomigliasse più che altro a un giovane dai colori brunastri.

«A me pare» esordì dunque il profeta del dio rosso, sedendosi su di una delle comode poltrone che l'Alto Septon si era fatto fabbricare per i dolori alla schiena, ed imbrattandola tutta di polvere e fango, «di non esser stato abbastanza chiaro. Oppure è fratello Brendan a non essersi espresso bene. Ti sei espresso bene, fratellino?». Brendan venne preso da un impulso di lasciare la stanza e correre via il più lontano possibile, ma in qualche modo la magia di Yashua sigillò la porta, sbattendola pure forte contro il muro, con l'ausilio di un vento invisibile, senza colore né densità. «A proposito» proseguì il mostro con barba, capelli e fattezze umane, «Cosa ci fai ancora qui? Non hai capito che presto ogni abitante di questo edificio potrebbe ritrovarsi cenere? Dovresti andartene. E continuare a pregare gli dèi che vuoi, via da questa città. È l'ultimo avvertimento anche per te. Quanto a voi, Alta Sacralità» si rivolse ora direttamente al vecchio sacerdote dei Sette «Domani è la messa in occasione delle festività per la Vecchia: lo so bene, come bene so che avete inviato vostri sensali per tutta la città in cerca della mia persona. È tardi: domani, dopo la messa, dichiarerete la vostra fedeltà al dio rosso. Annuncerete che tutti e sette i vostri dèi non sono altro che emanazioni dell'unica e reale potestà di questo mondo, che è il dio rosso. E inviterete i vostri fedeli a passare alla nuova chiesa della luce, che presso i vostri stessi templi presto sorgerà e avrà in me, Yashua, figlio e sacerdote dell'unico vero dio, il suo profeta e la sua voce. Questa chiaramente è la vostra fine, Sacralità. La fine del sacerdote, ma non necessariamente la fine dell'uomo. Ed è anche la vostra unica alternativa». Pronunciata questa sua ultima minaccia, il sacerdote rosso ancora una volta guardò verso Brendan e ripeté il concetto: «E tu fuggi, figliolo. Non sei più utile per nessuno qui».

A questo punto, in una nuvola di fiamme e ombre così come era apparso, Yashua lasciò la stanza da giorno dell'Alto Septon. In verità, non era stata la volta più terrificante in cui Brendan aveva visto quel diavolo di un sacerdote eretico: aveva avuto molta più paura il giorno della strage del vespro, quando Yashua si era scontrato con il Primo Cavaliere del re in un duello tra inquietanti esseri sovrannaturali. Ma Sua Santità invece era terrorizzato. Non era strano questo: per lui era la prima volta con Yashua, che peraltro lo aveva appena minacciato di morte. Chiaramente quello che aveva negli occhi era uno sguardo di paura, oltre che di incredulità: paura matta. Probabilmente, nonostante tutte le avvisaglie, non aveva neanche mai preso in considerazione l'eventualità che quello che era appena accaduto potesse mai accadere. Brendan pensò al suo ruolo, e pensò che comunque i Sette Déi lo avessero messo lì per una ragione: servire quel vecchio uomo stanco e confuso. Dunque, incedendo a passi lenti e insicuri ma incedendo, il giovane novizio di Banefort si avvicinò a quel debole vecchio spaventato e gli disse: «Vostra Sacralità... tutto bene?»

«Non è accaduto!» esclamò quindi il più grande tra i sacerdoti, voltandosi di scatto verso di lui e afferrandogli il braccio, «Hai capito?!»

«M-ma io...» balbettò Brendan e in quel momento si rese conto che era troppo tardi: Sua Sacralità era impazzito. Lo sguardo che aveva negli occhi non era solo quello di un uomo spaventato bensì quello di un uomo che aveva perso ogni lume di qualsiasi possibile ragione. «Tutto questo non è accaduto! Non è accaduto» continuò a ripetere follemente il Sommo Septon, mentre la sua presa sul braccio di Brendan si stringeva sempre di più e cominciava a trascinare con lui il giovane novizio fuori dai suoi appartamenti. Scesero le scale. Attraversarono camere su camere ed antri su antri fino a raggiungere l'ampio altare per la messa dell'indomani, quella dedicata alla saggezza della Vecchia. C'era un che di comico in tutta quella storia: proprio alla vigilia del giorno dedicato alla saggezza, Sua Santità era arrivato al punto limite del suo più illogico smarrimento. Una volta giunti a una colonna vicina all'altare, l'Alto Septon schiacciò un mattone come se si trattasse del pulsante di un qualche meccanismo. Ed in effetti di questo si trattava: un portale si aprì quindi: un passaggio segreto nel bel mezzo del tempio, a tutti sconosciuto: tranne al Sommo Septon in persona. Il vecchio non aggiunse nulla, a parte le solite parole: «Non è mai accaduto». Poi tirò Brendan per il polso e lo spinse nel buio di quel minuscolo antro. Dopodiché il portale di spesse pietre di nuovo si mosse per chiudersi, con Brendan dentro. E il giovane novizio di Banefort non vide né udì più niente. Soltanto il buio ed il silenzio.

Tutto Brendan si sarebbe aspettato, meno che quello. Che cosa significava? Negare ciò che era accaduto: quale pro avrebbe mai portato a Sua Sacralità nascondere l'evidenza per poi comunque morire l'indomani, dopo la messa per la Vecchia? Nessuno chiaramente. Si era trattato del gesto folle di un uomo ormai impazzito. E Brendan c'era andato di mezzo, come al solito. Si chiese se prima o poi qualcuno lo avesse liberato o se invece fosse condannato a morire lì dentro, di sete e di fame. Si chiese se, prima di morire, l'Alto Septon avesse avuto almeno il buonsenso di comunicare a qualcuno l'esistenza di quel bugigattolo accanto all'altare. Si chiese se qualcuno non lo sapesse già, tipo una personalità importante del Credo, come il vice dell'Alto Septon oppure Sharma, la madre superiora delle Septe di Roccia del Re. In realtà, si trattava più che altro di speranze. Si chiese se non fossero un po' troppe le prove cui i Sette stavano sottoponendo la sua fede. Non trovò risposte. E, quando non trovava risposte, conosceva un'unica soluzione. Incominciò a pregare.

Passò del tempo: parecchio. La speranza tremò, la fede vacillò. E alla fine il portale venne riaperto. Il Sommo Septon gli buttò addosso una ciotola con una poltiglia calda: doveva essere la sua colazione. Doveva essere la mattina, ancora pochi momenti prima del massacro. Il cibo, una sorta di minestra un po' rappresa, era ormai versato tutto per terra. Brendan cercò di recuperare quello che poteva, mentre l'Alto Septon richiudeva il portale con lui dentro, al buio. Quando intuì che la sala stesse cominciando a riempirsi, il giovane novizio decise di urlare a squarciagola. Ma nessuno lo udì: quel cunicolo era fatto apposta per non permettere a chi fosse dentro di farsi sentire al di fuori. Per quanto riguardava le voci da fuori, Brendan cominciò a sentire qualcosa: il fruscio di una folla numerosa. E poi le parole auliche del vecchio pazzo: quelle si sentivano quasi distintamente. Il vecchio celebrò i suoi rituali. Non disse niente né di Yashua né del dio rosso. La messa terminò, la Vecchia venne doverosamente onorato, e Yashua non venne per compiere il suo massacro. Alla sera, dimenticandosi di portargli il pranzo, il vecchio portò a Brendan la cena: la stessa poltiglia della mattina. Niente acqua. Niente parole. Nulla di nulla. Peraltro era vittorioso: non si era piegato, ed era ancora vivo, quindi poteva cantar vittoria, perché non lasciar Brendan libero adesso? Perché avrebbe testimoniato della sua follia e crudeltà? Non poteva: Brendan era un confratello giurato dei Sette preposto al servizio di Sua Santità, non era nei suoi poteri mettere il vecchio sotto accusa. Nulla sarebbe venuto fuori, almeno che qualcuno non gli avesse fatto delle domande esplicite sulla questione, cosa pressoché impossibile: nessuno, oltre a Sua Santità, sapeva dei suoi giorni di prigionia. O almeno: sarebbe stato da stupidi rivelarlo a qualcuno, cosa che il vecchio era ma... non fino a questo punto, probabilmente...

Nel momento in cui per la terza volta il Sommo Septon chiuse Brendan oltre il suo portale di pietra, qualcosa accadde. Non era chiaro: non si sentiva bene. Le mura erano spesse, e quello che stava succedendo non coinvolgeva né una folla numerosa come quella della mattina né un momento di coralità in cui qualcuno si poneva al centro dell'altare garantendo le migliori condizioni di ascoltabilità. Era qualcosa di diverso. Erano urla vaghe, un po' lontane e un po' vicine, distribuite a macchia di leopardo. Se ci fosse stato anche il grido dell'Alto Septon tra queste, Brendan non avrebbe saputo dirlo. Seppe solo che anche questo fu un fenomeno momentaneo, come la messa per la Vecchia. Venne e poi passò. E Brendan ritornò nel buio e nel silenzio. Ritornò alle sue preghiere e alla sua disperazione.

Stava dormendo, o forse era morto, quando il portale venne aperto ancora. C'era puzza di morte in effetti. C'era sangue e c'erano cadaveri oltre la luce che gli si aprì attraverso lo spiraglio sull'altare. Era... Sua Sacralità, no? Sì: il Sommo Septon morto sgozzato a qualche piede da Brendan di Banefort. E una consorella stava spostando il corpo. Altre, ne stavano spostando altri. Brendan cercò di andare incontro a tutto quel dolore, perché d'altro canto – sebbene orribile – quella era l'unica strada che gli si parava davanti. Venne fermato. Septa Sharma si mise in mezzo tra lui e la morte. Lo vide. Era cieca, ma lo vide. Perché gli sorrise. E gli disse anche: «Oh, figliolo, sei tu! Questo è un miracolo!».

 

 

 

Quindi il problema del vecchio Quaenthor non era nascondere qualcosa in merito al suo misterioso figlio o nipote o quello che era, dato che non esisteva nessun figlio o nipote o quello che era dal nome Darkhon, bensì era semplicemente che lui aveva perso la custodia della spada leggendaria. In teoria, ma Gino questo lo scoprì quel giorno, il signore dell'Altopiano avrebbe dovuto punirlo per quella storia, perché la spada era un bene coperto da una serie di norme che – sebbene ne facessero dei Dayne i custodi – imponevano un trattamento talmente speciale da poter essere fatta risalire al sovrano in persona. In teoria, anche Gabryaerys avrebbe dovuto punire Gino per la stessa cosa. Ma si trattava chiaramente di cavilli cui solo Dayne stesso poteva fare attenzione, in quanto riguardavano un bene come la sua millenaria spada. Non c'era alcuna arma, né altro oggetto, del genere custodito ad Altogiardino. Quindi Gino fu più indisposto dal fatto di essersi interessato per niente piuttosto che per la questione della spada, di cui poco gli importava, anche se aveva dell'epocale: mai – proprio mai – nella storia un Dayne si era azzardato di perderla. Una volta, sempre da racconto di Lord Quaenthor, era capitato che qualcuno l'avesse persa di vista per qualche momento, che avesse rischiato grosso magari, ma perderla per dei mesi: mai. Convinto com'era che questa fosse un'onta irreparabile per l'intera sua famiglia, Dayne aveva pensato che Gino fosse lì per punirlo e quindi aveva cominciato a dissimulare. Ma non era ad Alba che Gino voleva realmente arrivare, bensì al suo attuale detentore che – a questo punto – era ormai lecito pensare essere il vero e proprio ladro di quel tesoro millenario.

Quale fosse la vera identità di “Darkhon” e perché avesse agito in aiuto di Gino a Dorne, questo rimaneva un mistero. Ma un mistero che il guercio signore dell'Altopiano non era intenzionato a tollerare oltre. Non spiegò nulla a nessuno e con nessuno condivise ulteriori riflessioni. Sellò soltanto il suo cavallo e quando Jon Barthalo si permise di domandargli: «Che stai facendo, dove stai andando?», Gino si limitò a rispondere che stava andando ad Astrya del Sud, con tutta l'intenzione di fare finalmente luce sulle ombre che il ladro di Alba aveva consapevolmente voluto gettare su tutta quella storia.

Il villaggio di Astrya del sud non era né lontano né vicino da Stelle al Tramonto. Con una cavalcata disperata ci si poteva arrivare entro una giornata, e questo divenne il nuovo obiettivo di Gino. In gruppo, cavalcando a una marcia senza fretta, non era tragitto da potersi compiere in poco tempo. Ma Gino intendeva risolvere tutto e subito, prima che “Darkhon” decidesse di sparire da qualche parte oltre il deserto. Aveva ucciso una sua prigioniera contravvenendo a un ordine più o meno diretto del suo Lord e poi... era il ladro di un oggetto che godeva di protezione reale: c'erano tutte le ragioni per pretendere e ottenere da lui finalmente dei chiarimenti.

Raggiunse così il palazzo dove aveva lasciato il falso Lord. Si fece annunciare in amicizia, di modo di poter restare da solo con lui, senza intermediari: a “Darkhon” piaceva apparire come una persona sempre amichevole e ospitale, ci sarebbe cascato. A differenza sua però, Gino non era un buon attore. E nonostante non ci volle molto per farsi accogliere dal millantatore nelle sue camere, ebbe come la sensazione che dal suo volto invece uno come Darkhon potesse essere benissimo in grado di capire che non tutto andava bene. Gino non voleva mica arrivare necessariamente alle mani: voleva solo farsi consegnare la spada e... capire chi quell'uomo fosse veramente. Quando lo raggiunse nei suoi appartamenti privati, Darkhon era come al solito in compagnia di un ragazzo e una ragazza, mezzo svestito e probabilmente brillo. Congedò dunque i due giovani, e chiese a Gino di assaggiare della frutta esotica e di prendere del vino. Il vino probabilmente poteva essere una buona arma a vantaggio del Lord dell'Altopiano: forse fu proprio grazie ad esso che Darkhon non si accorse dell'atteggiamento ostile che il Lord dell'Altopiano invece aveva tutta la sensazione di star manifestando in quel momento, pur non volendolo. Avere un avversario ubriaco era un vantaggio; ma lui non doveva cadere nella stessa trappola. Rifiutò il vino e prese il frutto. Gli diede un morso: faceva schifo; lo sputò.

«Eh» rise Darkhon, guardandolo maliziosamente, «È un sapore impegnativo. Comprendo non possa piacere a tutti. Molte cose del sud sono così»

«E tu...» gli rispose Gino a tono «Sei molto esperto di cose del sud»

«Infatti. Talvolta una guida è necessaria, per non perdersi in territori sconosciuti»

«Lord Darkhon io sono ritornato qui...»

«Per quale ragione? Malinconia del deserto, forse? Delle sue donne, dei suoi frutti

«No. Mi è sovvenuto un dubbio sulla tua persona, in realtà»

«Un dubbio su di me... così importante da mollare tutto e ritornare indietro? Da solo?!»

«È...» in questa Gino si voltò, fingendo di essere attratto dalla ricca tavolata, ma in realtà con tutta l'intenzione di non mostrare il suo troppo “leggibile” viso al suo avversario, palesemente esperto di bluff e sentimenti umani. Continuò: «Una cosa importante»

«Ne sono sicuro. Ma non è soltanto questo, non è vero? Non ci sono solo le cose importanti. Ci sono cose che non hai rivelato, forse neppure a te stesso. Cose effimere. Superficiali. E forse per questo così dannatamente... Attraenti!».

Accadde davvero: Gino non aveva bevuto vino, ed era assolutamente lucido e nel pieno delle sue funzioni, non aveva dubbi in proposito. Era una cosa senza senso, ma ormai ne aveva viste talmente tante che sapeva che in realtà un senso doveva esserci, solo che lui ancora non conosceva quale fosse. Aveva visto mostri nella sua vita, e li aveva combattuti. Gente librarsi nell'aria, uomini-bestia, uomini-ombra e teschi parlanti. Anche quello era vero, anche quello accadde veramente: una forza invisibile lo prese per il membro. Gino si girò di scatto; esclamò: «Darkhon! La spada Alba. Non può essere impugnata, qualora un Lord non decida di concederla. A te chi l'ha concessa?»

«Alba?» domandò Darkhon, mentre il vento invisibile mollava la presa su Barron, «Mio padre. Quaenthor Dayne»

«Ed è... un uomo anziano?»

«Mh... sì»

«Quanto? Molto? Lo definiresti ammalato?»

«Ehm... no. Questo no. È un ex guerriero, ancora piuttosto vigoroso. Non so se lo metterei in prima linea durante una battaglia, ma... cavalca e brandisce una spada ancora bene, come quando aveva vent'anni di meno»

«Ah sì, eh?» Gino sguainò la sua di spada «Quaenthor Dayne è un vecchio curvo che a stento si muove. E tu sei un volgare ladro. Non volevo che Saestrya Martell morisse, eppure tu l'hai uccisa. Per questo, oltre che per il ladrocinio della spada millenaria, io pretendo che tu ora venga con me come prigioniero, “Darkhon”. O qualsiasi altro sia il tuo nome». Ancora una volta, tutto accadde in un attimo: il falso Dayne sollevò rapidamente il braccio destro, cosa che causò come il prodursi di una sorta di energia di colore nero: un'ombra densa come un forte vento o un fumo assai concentrato. Gino non perse l'equilibrio, ma venne sbalzato e parte del fumo gli prese l'occhio buono. Darkhon invece arrivò in tempo per prendere la sua spada bianca, e contrattaccare.

Era abile, e molto vigoroso. Lo era anche Gino. Però Gino era un po' troppo goffo: da lungo tempo ormai non veniva più allenato nello stile di combattimento dei guerrieri-ombra di Lord Braff e forse stava anche dimenticando un po' troppo. Darkhon invece era agile: fin troppo, per un uomo della sua stazza, che comunque era sostanzialmente pari a quella del giovane Barron. Però era veloce, troppo veloce. Quasi come un guerriero-ombra. Ancora ombre nella vita di Gino, ancora misteri. Chi era quel giovane? Un vecchio allievo pentito della setta di Braff? Una sorta di membro di “un altro” ramo del medesimo, misterioso, oscuro ordine? Assomigliava a Kellan in effetti, il vecchio maestro d'arme che Braff aveva reclutato per addestrare Gino in quell'arte e che era morto a Cowain, scontrandosi con una creatura ben più mostruosa di lui. Come Kellan, anche lo pseudo Dayne era biondo; ma molto più alto. Però la pelle era chiara, come molti degli uomini di Braff e come non molti dorniani in effetti, il cui colorito tipico era l'olivastro. Il cervello di Gino stava impazzendo, probabilmente tutte quelle elucubrazioni non avevano alcun senso, e Darkhon era solo un abile millantatore. Che cosa mai poteva entrarci Braff con quella storia? Braff non era tipo da Dorne! E poi primariamente la mente di Gino era occupata a parare tutti i colpi che gli arrivavano da quella dannata Alba: il duello infatti era chiaramente in mano a Darkhon, Gino era sulla difensiva. Osservare e schivare ogni colpo era già piuttosto difficile; a quel mistero delle ombre avrebbe potuto dedicarsi successivamente, qualora fosse sopravvissuto.

Questa volta sentì di non avere speranze: Darkhon era un guerriero obiettivamente superiore a lui. Era troppo rapido e troppo ben addestrato. Gli avrebbe infilzato Alba in qualche punto vitale: era questione di minuti. Doveva cambiare strategia. Decise di fare una delle cose che un guerriero serio non fa mai; parlare: «Lo sai» disse, mentre schivava un fendente diretto al suo fianco sinistro, «Quando hai ucciso Saestrya ci sono rimasto male»

«E perché?» controbatté “Dayne” «Eri venuto a Dorne per ucciderla. E io te l'ho uccisa»

«Non te l'ho mai detto esplicitamente, ma non la volevo morta. Dentro di me, speravo che in qualche modo avessi comunque intuito questo mio desiderio. Speravo che, anche senza parole, riuscissi a capire che cosa io pensassi veramente. Per un certo periodo, l'ho creduto davvero»

«Allora avevo ragione: tra di noi c'era un'intesa». Dicendo questo il ladro di Alba abbassò per un attimo – un brevissimo istante – la sua guardia. E Gino gli spiccò la testa via dal collo: Alba era una buona spada, ma neanche quella del Lord dell'Altopiano era tanto male. Lord Barron non resistette perfino dal rispondere con un'ultima affermazione conclusiva, pur capendo bene che la testa del falso Dayne ormai non potesse più ascoltarlo. Rispose: «Affatto», e poi osservò l'intero corpo di quello strano cavaliere a poco a poco dissolversi, ancora una volta come in una specie di “nuvola d'ombra”. Alla fine, evaporò anche la testa. E Gino , in preda all'ira oltre che alla confusione, venne colto da un'insopprimibile voglia di parlare con quel misterioso, bugiardo e maledetto Lord Alexis Braff.

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Capitolo 26
*** L'uomo spezzato ***


Capitolo 26

L'UOMO SPEZZATO

 

 

 

«Lo sai: anticamente un trono di spade molto più imponente di quello che c'è adesso campeggiava dentro un palazzo reale, anch'esso più imponente di quello che c'è adesso» fece Lord Braff «La Capitale aveva molti più abitanti, pur essendo essa anche oggi la città più popolosa dell'occidente. E nelle guerre c'erano più caduti. Questa non è più l'era degli uomini: essi ormai sono in declino. Hai scelto il momento peggiore per ergerti al loro governo, padrone»

«Parli degli uomini come se tu non fossi mai stato uno di loro, Braff» rispose re Gabryaerys «Come se per tutta una parte della tua esistenza il sangue non sia corso nelle tue vene. E il tuo cuore non abbia battuto»

«Il drago Requiem sta per rivolgere tutta la propria violenza su di noi: lo sai questo. Sai che lo hai tradito, e che quindi per lui tu sei solo uno degli altri piccoli esseri fatti di carne che debbono essere spazzati via, per ricominciare. Troverà degli alleati in questa sua battaglia, forse chissà perfino suoi fratelli o sorelle. Oppure deciderà di metterci più semplicemente l'uno contro l'altro e fare in modo che ci sterminiamo da soli. Potrebbe essere davvero questa la soluzione: lui adora lavorare nell'ombra»

«E tu sei un esperto di questo, non è così? Chi meglio di te può giudicarlo?»

«Non sono io che ti ho tradito: sai bene che non posso farlo. Mi hai ordinato di uccidere un ragazzo, che avevo visto crescere e mi considerava suo amico e maestro. L'ho sgozzato davanti ai tuoi occhi dopo tuo ordine diretto! Non era la fine che Axelion meritava»

«Hai detto bene: gli ordini diretti»

«Maestà: due dei tuoi servitori, il demone delle rocce e il demone delle fiamme sono in questo momento, come te, prigionieri. Il primo non distante da qui, sempre a Delta delle Acque, dove una serie di sgherri del Lord del tordo spazzano via costantemente il pietrisco con cui cerca di ora in ora di riformarsi. Il secondo è stato condotto alla Valle di Arryn: un luogo considerato più conveniente, dato che lui invece si rigenera col fuoco e la valle è ricoperta di neve e ghiaccio. Il demone delle energie è abbastanza occupato con il governo della città difficile che hai voluto lasciargli, in preda a un delicato caso di dissidi tra culti diversi. Il demone degli spiriti è morto nell'estremo nord, e quello delle fonti, lui sì: non ha mai risposto alla tua chiamata. Riesce a eludere i tuoi comandi e di conseguenza... ti ha tradito. C'è il demone delle nevi, che non brilla certo per iniziativa. E c'è il demone delle ombre che si trova qui davanti a te. Sono la tua unica carta, padrone: dimmi cosa vuoi e sarà eseguito»

«Voglio essere libero. Voglio che mia moglie, mio figlio e l'intera mia corte vengano condotti via da questo acquitrino. E, se possibile, voglio che chi ci ha imprigionati la paghi caramente»

«Eheh, adesso mi viene in mente un'altra storia, che però fatalmente risale pure a quel periodo che ti dicevo, in cui il primo trono di spade venne liquefatto dal fuoco di un drago. Prima insomma che – secoli dopo – si creasse questo secondo soglio dove anche tu usi sederti. Per un breve periodo, meno di cento anni, era stato deciso che la carica di monarca dei Sette Regni non dovesse essere più ereditaria, bensì elettiva. Le grandi casate dell'occidente si riunivano alla Capitale dopo la morte del re e... sceglievano qualcuno tra i loro capostipiti e lo nominavano»

«Dove vuoi arrivare?»

«Le grandi casate sono come l'aria per il regno degli uomini, purtroppo. Non se ne può fare a meno: sono vitali. Eppure – se troppo forti – rischiano di spazzare via ogni cosa. Bisogna sapersi destreggiare, essere degli esperti equilibristi. In questo momento non giocano a tuo favore, tuttavia... questo potrebbe cambiare»

«Quindi tu non suggerisci di dire a Tararus di prendere un esercito, venire qui e sterminare tutti?»

«Saresti il re che continua a farsela coi mostri. Che stermina gli innocenti. E che per un suo interesse personale lascia il governo della Capitale in preda a un delirio mistico di quelli che non se ne vedano da anni. Fidati: quei pazzi bigotti sono pericolosi»

«Quindi? A chi dovrei rivolgermi?»

«Sei stato buttato in questa trappola da uomini del nord, per logiche e termini che riguardavano il nord, con una strategia tutta da uomini del nord. Che sia il nord a liberarti allora», sorrise infine il Maestro dei Sussurri. Era stata una pessima giornata per lui: prima la notizia che uno dei suoi storici guerrieri-ombra era stato assassinato. Poi la convocazione del suo re e padrone, che gli aveva imposto un “viaggio” d'emergenza: tutte le volte che Braff usava i suoi poteri per spostarsi velocemente sentiva che una parte della propria energia ne veniva scossa. Si stancava, e non riusciva a produrre più niente per giorni: per questo odiava farlo. Peraltro, odiava farlo proprio per quel re e padrone, ma... come sempre, era stato obbligato. Se Gabryaerys chiamava con la magia, lui necessariamente doveva rispondere. Era la sua maledizione: l'aveva accettata millenni, a Cair Dedalos, e per tutt'altre ragioni. Ragioni nobili, per le quali adesso doveva pagare quel fio. Almeno finché Gabryaerys avesse avuto con sé il sigillo.

 

 

 

Differentemente da tutti gli altri che lo avevano accompagnato durante la sua folle fuga da Biancavilla, di Licyane Daniel non vide mai il cadavere. Kohler e gli altri erano stati impalati, mentre Licyane violentata e poi? Poi niente: a Daniel non venne concesso di continuare a guardare, venne spostato con il viso rivolto al grugno mostruoso dell'orso del nord. Avrebbe voluto chiedere, avrebbe voluto urlare, e invece decise di fare un'altra cosa: a Uryon piaceva passare come un buon conversatore, un Lord raffinato e tendenzialmente di indole docile. Aveva sostenuto che tutto quello che aveva fatto, lo aveva fatto per impartire una lezione a Daniel, e che la cosa lo aveva distrutto interiormente. Eppure a partire già dall'indomani era ritornato con tutta l'intenzione di chiacchierare di corbellerie, dimostrando tutta la sua superficialità e profonda malvagità. E Daniel non rispose. Più Uryon voleva chiacchierare, più lui non intendeva mai più rivolgergli la parola. A costo di non sapere cosa ne fosse stato della ragazza del nord, o di quello che ne rimaneva.

Naturalmente questo gli spezzava il cuore, ma Daniel era già un uomo spezzato. Era spezzato nello spirito, da quando aveva osservato quello che gli uomini di Uryon lo avevano costretto ad osservare. Ed era spezzato nel corpo visto che, in quanto Piromante, l'energia di fuoco incanalata dentro le sue vene era costantemente annichilita dalle Pietre di Luna che il mostro Worchester gli aveva piazzato ai polsi, oltre che alle caviglie. Che il nord fosse la regione del mondo più ricca di quel minerale, Daniel lo sapeva bene: ma come mai Uryon fosse in grado di uscirne un quantitativo simile, questo rimaneva per il principe di Cowain un mistero: il fatto che le Pietre di Luna si trovassero a nord, non significava per niente che non fossero rare. Anche questa sarebbe stata una bella conversazione da fare con Uryon. Chissà forse in altri tempi, se le cose fossero andate diversamente, loro due avrebbero potuto pure essere amici: Daniel non avrebbe semplicemente mai dovuto salire a nord; anziché un apprendista Primo Cavaliere sarebbe dovuto rimanere il reggente di Cowain e allora, magari, un giorno Biancavilla e Roccia del Re avrebbero potuto incontrarsi. Ma troppe cose erano andate diversamente, e ora per Daniel di Cowain il Lord dell'orso semplicemente non esisteva più, se non come nemico da annientare al più presto.

«Questa strategia di continuare a non parlare prima o poi finirà lo sai, vero?» gli disse a un certo punto Lord Uryon, dopo che per un'intera mattinata aveva provato a farlo partecipare su curiosità e aneddoti della storia del nord, di cui l'orso con le stampelle era come una specie di enciclopedia vivente. Erano anche cose interessanti: ma lui aveva massacrato Kohler e gli altri, e aveva fatto stuprare e torturare Licyane. E quindi non meritava risposta. Fu dunque sempre l'uomo deforme a guida della più importante città del nord a proseguire nel suo monologo: «A un certo momento, smetterò di parlarti del passato. Non menzionerò più i tempi in cui le grandi casate oltre la barriera neanche esistevano, Applegate o Willoughby che siano. Non ti dirò più di quei ribelli confinati in un nord di cui ancora non si conosceva la fine, e che per loro avevano scelto il nome di “popolo libero”. E smetterò anche di parlarti dei così detti “estranei”, e del loro “re della lunga notte”. Vuoi che ti parli del presente, principe Daniel? Vuoi che ti dica... che la tua ragazza del nord è ancora viva? Posso anche sorprenderti, se vuoi: posso parlarti del futuro. Dovrei dirti di prepararti, perché stai per accompagnare me e il mio esercito verso il sud. Andiamo a conoscere il tuo nipotino».

 

 

 

E alla fine la guerra contro il drago venne combattuta. Tre quarti dello schieramento delle forze del Lord degli elefanti vennero ammassati davanti alle porte della città-mercato di Marrah, in attesa che questo nemico alieno venisse a mostrarsi in tutto il suo orrore. Ma tre quarti degli uomini del Lord elefante Justus Panecha non sarebbero stati sufficienti! Tutte le vedette e gli araldi lo avevano confermato: quello che sopraggiungeva dalla città perduta di Valyria non si sarebbe arrestato dinanzi a qualche daga e qualche lancia. C'era bisogno di tutta la carne umana possibile, e tutta la carne umana alla fine non era sopraggiunta.

Lord Justus all'inizio ci aveva sperato davvero: aveva sperato veramente che quel giorno lui e i Lord dell'oriente avrebbero combinato qualcosa di storico, perché mai in tutta la sua esistenza quel continente aveva visto un reale spiegamento di tutte le forze in campo contro un unico nemico: l'occidente, ad esempio. Quello che Justus nei suoi più segreti sogni bramava era usare il nemico valyriano come controprova del proprio stesso potere. Se l'oriente da solo fosse stato in grado di difendersi dal drago, allora l'indipendenza dal re oltre il Mare Stretto sarebbe stata solo una questione di tempo. Una certezza, e non più solo una possibilità. Era questo che il Lord mercante voleva realizzare, e Garhel Sawela – che lo conosceva ormai da anni – lo sapeva bene. Tuttavia alla fine anche l'elefante fu costretto a inciampare. L'intelligenza politica superiore di tutto l'Essos aveva finalmente compiuto uno sbaglio, un fatale sbaglio: gli altri Lord del deserto non erano venuti. Lord Justus si era fidato troppo del suo peso politico: probabilmente era convinto che ormai nessuno avrebbe potuto dire di no al grasso elefante che il suo impero era diventato; ricco, opulento, e quasi indipendente dal resto del mondo. Cioè: se, per assurdo, Lord Goldsmith di Braavos si fosse ritrovato con tutti i ponti abbattuti verso l'occidente, il suo piccolo regno di banchieri sarebbe fallito in un alito di vento. E così valeva anche per Loackland e soprattutto per Gaholla. Ma il regno di Marrah Cankhubhia no: esso commerciava con l'occidente, ma quel commercio non era vitale per la sua stessa esistenza. E, consapevole di questo, spinto anche dalla minaccia a meridione, Lord Justus aveva deciso di alzare la posta: tutti in guerra, e subito. Contro il drago prima, e contro Gabryaerys poi. Ma nessun gigante, per quanto agguerrito, va molto lontano senza amici. E i Lord dell'oriente più che augusti governanti era appropriato definirli un covo di serpi. Goldsmith, il più vergognoso, mandò una delegazione di meno di cinquanta uomini, allegandogli un brevissimo messaggio di scuse, e con alla guida uno che gli veniva lontanissimo cugino bastardo. I Loackland fecero quasi lo stesso: sessantacinque cavalieri in tutto, una sorta di mercenario mezzo analfabeta come capitano, e due righe su pergamena in cui sostanzialmente dicevano che erano ancora troppo depressi (“formalmente disorganizzati” si scriveva testualmente nella missiva) per un'impresa come quella che si prospettava dinanzi alle porte della città-mercato. Un po' meglio i Gaholla, che mandarono in battaglia quanto meno il cavaliere smunto che, sulla carta, era il meglio che avevano da offrire.

L'episodio “curioso” relativo all'avvento della compagine dei Lord costruttori fu che lo smunto Sir Poll, in un dialogo con Panecha mentre lo accoglieva tra le fila del suo esercito, domandò protezione per quel bastardo dei Loackland che era stato con lui imputato al processo di Braavos, e che il giovane rampollo dei Gaholla si era portato appresso con tutta l'intenzione di metterlo al sicuro tra le pareti della casa del Lord elefante. Però i Gaholla erano stati onesti: erano la forza meno numerosa e potente del continente orientale e nonostante ciò avevano mandato per quella battaglia un centinaio di uomini, che erano sì sempre pochi, ma un numero considerevole rapportato alle loro forze. Con quei numeri tuttavia, la battaglia degli uomini contro i mostri non sarebbe mai stata vinta. E il Lord di Marrah questo lo sapeva bene. Organizzò una riunione coi suoi fedelissimi la sera prima del presunto giorno in cui le forze della draghessa sarebbero infine arrivate davanti alle porte della sua città. In quell'occasione giurò vendetta nei confronti di tutti, Gaholla compresi, e sostanzialmente si rivelò come l'uomo disperato che era. Sebbene ancora in piedi e relativamente serena in quella sua ultima notte, in realtà Marrah era già caduta.

Anche se all'inizio aveva programmato di scendere in battaglia, Justus alla fine optò per barricarsi dentro il suo castello orizzontale, con il resto delle guardie che gli rimanevano e il suo piccolo rampollo Banfred a fargli compagnia. Garhel invece venne messo al comando dell'ala orientale dell'esercito, a diretto contatto con le forze dei Gaholla e in totale opposizione invece a quelle congiunte dei Goldsmith e dei Loackland. L'ipotesi fuga era ormai fuori portata: tutti quelli che si trovavano nei dintorni di Marrah prima o poi si sarebbero imbattuti nelle forze di Kimera: questioni di minuti. Dunque, tra scegliere di morire dentro una stanza come alla fine Justus aveva fatto, oppure sul campo e comandando un plotone di bravi uomini, Sawela decise che la seconda alternativa fosse più nelle sue corde. Sarebbe morto fianco a fianco di Sir Poll probabilmente; una bella coppia: da una parte un vecchio ex Tribuno Popolare e dall'altra un cavaliere smunto e invertito.

La danza delle stranezze incominciò con una pioggia. Nella sua vita, Sawela aveva visto piovere a Marrah forse cinque volte. E mai con l'intensità con cui tutt'assieme s'annunciò l'inizio della fine. Dopo la pioggia, un'ondata verde smeraldo occupò l'orizzonte, come un intenso, stranissimo, fumo. Ma non era niente di fumoso: era la natura stessa che andava riproducendosi a velocità inaudita. Alberi, rovi, fiori e foglie avanzavano come un'orda barbarica in preda a una carica dissennata. C'erano molti animali di tutti i generi: scimmie, cinghiali, rettili, felini e sciacalli. L'unica cosa di vagamente umano era invece Kimera, che aveva deciso di condurre il suo assalto da donna bionda e gigante anziché da drago. Le ragioni naturalmente furono per Garhel sconosciute. Così come quasi sconosciuto si sarebbe presentato il campo di battaglia: in primis a causa del nemico, armato di rami e radici anziché di frecce e lame. E in secondo luogo per quella maledetta pioggia: la pioggia nel deserto era una condizione in cui Garhel avrebbe sconsigliato una passeggiata, figurarsi una guerra.

Fu così che lo scontro per la difesa di Marrah incominciò. Molte volte Sir Poll dei Gaholla gli salvò la vita. E molte volte Garhel Sawela la salvò a Poll. Finché non si persero. Il nemico era troppo forte, troppo penetrante. Poteva farsi in mille piccoli pezzi e poi ricomporsi. E quello stesso umido che per gli uomini era un clamoroso svantaggio, per le piante era come una sorta di lubrificante naturale, che gli permetteva di scorrere, accrescendo in efficacia e rapidità. Era una battaglia già persa prima di cominciare. A un certo punto, molto presto, fu solo il caos. Garhel cominciò a picchiare con la sua sciabola ovunque vedesse verde, e tutto attorno a sé vedeva solo verde. Solo nemici e niente più alleati. Ebbe la sensazione che il giovane cavaliere afferrato da mille liane poco distante da lui e portato via come fosse un pacco qualsiasi, fosse proprio il biondo rampollo dei Gaholla. Ma non avrebbe potuto giurarlo.

Garhel ne aveva viste di battaglie caotiche nella sua vita, ma quella sostanzialmente non era neanche più una battaglia. Era una disfatta. E insieme una totale invasione; di più: una sorta di inglobamento. I rampicanti cominciarono a salire le mura: e nessuno poté farci niente. Qualcuno di tanto in tanto aveva provato col fuoco. Ma troppo di rado, e in maniera troppo disorganizzata. Alla fine, il vecchio Tribuno Popolare del re si ritrovò da solo a sciabolare a destra e a manca senza neanche più sapere verso chi o che cosa. Aveva ormai perduto ogni piano e iniziativa, e ci mise un bel po' prima di concludere che fosse il caso di rientrare anche lui dentro le mura. Urlò anche un non troppo convinto: «RITIRATA!», ammesso che ci fosse ancora qualcuno in piedi che prendesse in considerazione gli ordini del proprio comandante. Dopodiché, diede vigliaccamente le spalle al suo nemico e si defilò verso il cuore di Marrah: quel genere di nemico, non faceva molto caso se il suo avversario fosse stato un vile o un uomo d'onore. In realtà sì, certo, Garhel aveva deciso di fuggire dal pericolo imminente, ma non per salvarsi la vita: probabilmente entro l'alba sarebbe morto lo stesso, come il resto di coloro che abitavano Marrah. Ma aveva una cosa da fare e il marasma della battaglia rendeva l'occasione fin troppo ghiotta. Raggiunse il palazzo orizzontale di Lord Justus.

Orientarsi dentro, naturalmente, fu un vero problema, come sempre. Quel posto era un labirinto, e solo chi ci viveva era in grado di distinguere un corridoio dall'altro, un arazzo dall'altro. Senza guide, di alto lignaggio (come un maggiordomo) o di basso (come una guardia) che fossero, molto lontano non si andava. E poi anche il castello era preso d'assalto da mostri e demoni. Proprio mentre era dentro, attraverso una finestra, Garhel vide anche che Kimera si era pure trasformata in drago e aveva sfondato le mura fino a giungere nella grande piazza dinanzi al castello orizzontale: la piazza del grande mercato. Sawela doveva quindi affrettarsi: sarebbe stato un uomo morto entro pochi minuti.

A un certo momento, scorse il grande recinto interno a un arzigogolato giardino, dentro il quale Panecha teneva i suoi elefanti personali. Non quelli da battaglia, quelli da parata. Lì vicino di sicuro si trovavano i tradizionali appartamenti del Lord: questo Garhel lo ricordava bene. E alla fine lo trovò. Seduto su di un comodo cuscino, mentre beveva qualcosa che ad occhio Sawela avrebbe detto tè. Esattamente per come il Lord ex Tribuno se lo sarebbe aspettato quel tronfio elefante: assolutamente serafico, come il pachiderma sul suo sigillo. La città stava cadendo, i suoi sudditi morivano a frotte. E lui beveva tè.

«Ti aspettavo, Garhel. Vuoi del tè? Prima che tutto si compia?»

«E» rispose Sawela «se l'avessi avvelenato?»

«Non ne avrei avuto il tempo. Che tu ci creda o no, fino a qualche ora fa io ero convinto di vincerla questa battaglia. Quindi non avevo ragioni di prepararmi un tè del suicidio», bevve una lunga sorsata. Poi riprese: «Allora, come lo farai? Quanto mi farai soffrire?»

«Sempre troppo poco rispetto a quello che tu hai fatto soffrire a me. Meriteresti di morire bruciato, così come hai arso la mia famiglia. E i miei amici»

«Potresti consegnarmi al drago, allora. Mi pare di aver intravisto che sputa fiamme esattamente come tutti gli altri, nonostante sia un essere speciale che parla e ci muove contro una guerra»

«Arderesti troppo rapidamente» fece ancora Lord Garhel, sguainando la sua sciabola, «Il fuoco dei draghi è a una temperatura più alta di quella di una comune pira allestita da noi uomini»

«Sei sempre stato un uomo molto più colto di quanto non sembri. La voce dell'esperienza! Forse è per questo che ho sempre gradito conversare con te»

«Beh questa sarà la nostra ultima conversazione»

«Sì. Sì, è così» per un attimo finalmente Garhel intravide un alito di sottile malinconia nello sguardo del vecchio elefante. Non paura, però come un senso di riconoscimento della sconfitta: che non era da poco, per un opulento ex mercante divenuto indiscusso imperatore. Garhel si preparò a colpirlo con la sua lama, ma ancora una volta quello lo interruppe: «Ho un'ultima richiesta da fare. Sarà pure lecito un desiderio per un condannato alla pena capitale, per quanto dura»

«No, non lo dovrebbe. Tutto questo è assurdo. Tu non meriteresti questa conversazione: meriteresti che ti trascinassi fuori e che ti scuoiassi vivo»

«Eppure non lo farai, non è vero? Sei un uomo dall'animo troppo buono»

«Io non ci giurerei, questa volta»

«E, proprio perché lo sei: devo chiedertelo. Banfred. L-lui è fuori, al recinto degli elefanti: gli ho detto di liberarli, ma so che non è in grado e che perderà del tempo. Raggiungilo. Salvalo. Se sopravvivrete a questa notte, lui sarà sempre mio figlio. Il legittimo erede della fortuna che mi sono costruito. Fortuna che potrete rivendicare un giorno, insieme. Ma dovete sopravvivere per questo. E so che con te c'è una speranza»

«Io non credo. Tu non hai visto le forze del drago, come le ho viste io. Non lasceranno nemmeno un filo d'erba»

«Allora dovrai tentare»

«Dovrò? Io non ti devo niente, razza di grottesco cialtrone. Sei un vile assassino, e la tua anima è dannata. Sarà questo quello che dirò al principino, quando gli strapperò fuori gli occhi dalle orbite. Che suo padre era un mostro. E che un mostro lui ritroverà all'inferno». Queste furono le sue ultime parole. Garhel non attese la replica che sicuramente Lord Justus aveva già pronta. Gli squarciò l'addome e si dilettò nell'osservare la vita scivolare via dagli occhi dell'elefante di Marrah, mentre il suo pensiero andava al principino che aveva sperato di salvare. In realtà Garhel era stato fin troppo buono con Panecha, visto che lo aveva ucciso con relativa rapidità. E sarebbe stato clemente con Banfred, che aveva tutta l'intenzione di salvare: visto che, a differenza di Lord Justus, lui non era un mostro e non sterminava gli innocenti. Ma il Lord di Marrah era morto con la consapevolezza che ciò non sarebbe accaduto, e – secondo Garhel Sawela – questa era una cosa più che buona e giusta. Banfred avrebbe vissuto la sua vita; ma Justus morì col terrore che il suo rampollo lo avrebbe ben presto raggiunto nell'oltretomba.

Con tutto l'intento di cercare il principino, finito con il re dei mercanti, Garhel Sawela si diresse dunque verso il recinto degli elefanti. Un grave problema era sorto in quell'area interna del palazzo: la pioggia aveva bagnato a tal punto il terreno già fin troppo morbido da rendere il tutto un pantano. E gli elefanti erano in effetti tutti e sei pressoché impantanati. Se a ciò si aggiungeva il fatto del terrore che li aveva presi, visto che in quanto creature dotate di intelligenza avevano percepito la condizione generale di pericolo, e il fatto che lungo una sorta di canalina per l'abbeveraggio l'acqua era finita per formare un agguerrito fiumiciattolo, allora la situazione era chiaramente complicata.

Garhel scorse l'obeso Banfred, intento a fare qualcosa a metà tra saltare sopra uno fra i più piccoli dei mammiferi proboscidati e non lasciarsi trascinare dall'acqua. Non stava riuscendo ovviamente in nessuno dei due propositi. Povero, impedito, Banfred: senza suo padre a proteggerlo, in un modo invaso dai draghi, per ben poco tempo sarebbe ancora sopravvissuto. A forza di frequentarlo, Garhel aveva capito che il giovane grasso era pure dotato di una discreta perspicacia, oltre che di una cultura fuori dal comune dovuta al contesto in cui era cresciuto... ma senza la forza di farsi strada in un mondo duro come quello che stavano vivendo, allora le sue speranze sarebbero davvero state poche. Forse ucciderlo da parte di Garhel sarebbe stato perfino un atto di pietà.

Cominciò dunque ad avvicinarglisi, cercando di fare resistenza con un'acqua intrepida che gli arrivava fino alla cintola e batteva verso di lui come un martello batte verso un chiodo. Ma Garhel, anche se ormai vecchio, era un soldato. E la sua corporatura non era come quella di Banfred Panecha; raggiunse quindi il giovane e lo aiutò a dirigersi verso un punto fermo cui aggrapparsi, lì vicino. Dopodiché Garhel si distrasse. Perse l'equilibrio. Lo fece anche l'elefantino sotto panico. Caddero, scivolarono, l'acqua li trascinò per decine di metri. E poi l'elefante gli finì addosso. E gli spezzò le gambe.

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Capitolo 27
*** Il libro ***


Capitolo 27

IL LIBRO

 

 

 

Per Xenya, il principe Marcus e Pashamanyna accedere alla biblioteca del vecchio Muldrow fu un'impresa non poco complessa. Costrinsero uno dei pacifici Sayun-sama ad aiutarli, ma anche così la cosa continuò a mantenersi problematica. Purtroppo, anche se non si sarebbe detto, quella costruzione di legno sulla baia che il vecchio Sir un tempo al soldo dei Tyrell si era fatta costruire, anche se non sembrava molto più che una casa sull'albero – però appoggiata su uno scoglio piuttosto che su un abete – era invece un labirintico castello. Il vecchio non era più uscito dalle sue camere, per quanto Kowacz e Sayun, ormai alleati di loro westerosi, ne sapessero. Il che non poteva che significare che era morto: tutte le sue finestre davano sul baratro, e per settimane non aveva bevuto né mangiato. Aveva smesso di comunicare con i suoi e poi alla fine doveva aver ceduto verso l'ultimo sonno. Però prima di farlo, quel maledetto, aveva deciso di compiere un ultimo sgarro: la tanto agognata biblioteca doveva trovarsi proprio in quegli appartamenti che lui, chissà come, aveva sigillato. I Sayun avevano riferito a Xenya, Marcus e Jorando infatti che i luoghi di custodia di tutte quelle pergamene con cui il vecchio spesso si accompagnava non potevano che essere due: una angusta saletta aperta a tutti e non più grande di una spelonca, e un'altra – più segreta – cui al solo Muldrow era dato accedere, e che si trovava dentro i suoi appartamenti.

Scegliendo di togliersi subito il pensiero, i tre occidentali visitarono prima quella “biblioteca” aperta a tutti che con ogni probabilità non poteva essere il luogo di custodia di un libro antico e sacro come quello che il drago gli aveva descritto. Appena vista, Xenya si sentì quasi male: si trattava forse del bugigattolo più triste e angusto in cui fosse mai entrata nella vita, fatta eccezione per qualche cambusa di qualche nave: ma non tutte. Ci misero meno di dieci minuti a cercare: il libro non era lì. Ora il problema era riuscire a penetrare nell'area del “castello” che Muldrow si era sigillata dietro. Oltretutto si sarebbero pure imbattuti nello spiacevole incontro con il cadavere di quest'ultimo che, in effetti, non puzzava come dovrebbe... Xenya ci era passata davanti alla sua porta, per provare comunque a dire qualcosa nonostante i Sayun gli avevano già detto che ormai non c'era nulla da fare e... no, il vecchio Sir non aveva risposto. Ma puzza di cadavere in tutta onestà non ce n'era.

Alla fine presero la decisione di penetrare con la forza da un'altra parte, perforando una parete: era pur sempre legno, prima o poi ci sarebbero riusciti. Il problema fu che tutta una parte di quei dannati appartamenti privati del vecchio Sir dava sullo strapiombo: se le era scelte bene, Muldrow, le sue camere; si sarebbe detto appositamente costruite per la difficile penetrazione in caso di invasione nemica. D'altronde, se la storia sulla sua vita era vera, tutta una parte della propria esistenza il vecchio l'aveva passata assaltando fortilizi nemici: la costruzione strategica delle sue camere non poteva quindi essere così sorprendente. Riuscire a penetrare fu però di conseguenza assai arduo: non tanto per il materiale con cui quelle pareti erano fatte, quanto per l'edificazione di un ponteggio sul baratro. I Sayun e i Kowacz coordinati personalmente da Xenya ci misero più per costruire tale struttura che per creare il buco nella parete. Cominciarono che era mattina presto, e finirono che era tardo pomeriggio: ma, alla fine, Marcus, Xenya e Pashamanyna penetrarono.

Dentro: nessun cadavere, ma almeno sei altre porte. Molte davano su altre camere dalle funzioni prevedibili: il gabinetto, ad esempio. Ma una era chiusa e, stando al dire del principe Marcus che per primo provò a forzarla, chiusa a chiave. La porta principale invece, quella a causa della quale erano stati costruiti il ponteggio e forata la parete, era chiusa ma non si capiva come: magia, adesso non c'erano più dubbi. Né nella prima, né nella seconda e fino alla quarta porta, si trovava Sir Muldrow, vivo o morto. La penultima porta era quella chiusa a chiave, e l'ultima... finalmente: l'immensa biblioteca. Stando alle probabilità, il vecchio doveva essersi lanciato: cosa che giustificava l'assenza del cadavere, ma non l'inspiegabile chiusura della porta principale. Niente spiegava quella, se non davvero qualcosa di metafisico, cui però tendenzialmente Xenya l'esploratrice non era portata a credere. Di recente nella sua vita aveva perfino visto un kraken, ma... neanche quello era magico, checché ne avrebbe detto la maggioranza delle persone che si fosse mai imbattuta in una delle leggendarie creature: compreso Jorando, ad esempio.

La biblioteca “grande”, come tutte le biblioteche degne di questo nome, era un luogo splendido. Xenya non era neanche chissà quale grande lettrice: in tutta la vita i libri che aveva letto forse arrivavano a una dozzina, ma sulla bellezza delle biblioteche, quelle serie, non c'era nulla da dire. Non belle come un tramonto all'orizzonte a prora di un veliero, ma molto bella comunque. Tra i tre “investigatori” dentro quella immensa stanza – lei, il principe e Jorando – di sicuro il più eccitato era senz'ombra di dubbio quest'ultimo che, in una delle sue mille vite, era anche stato scriba e traduttore di remoto un Lord dell'oriente. Ora la nuova missione era recuperare il libro. Certo: anche il mistero di quella seconda porta chiusa prima o poi andava svelato secondo Xenya, che non era tipo da lasciare nell'oscuro una cosa che poteva essere illuminata, ma la priorità inevitabilmente doveva andare e andò a quel famoso libro di Cair Dedalos (o come si chiamava!) di cui il drago gli aveva parlato. Doveva essere grande, particolarmente ricco di istoriazioni e... beh, insomma: visivamente il libro più importante di quella intera collezione. E quella biblioteca ne conteneva a centinaia di singoli volumi.

Ci persero delle ore, tanto che dal pomeriggio si fece la sera. Si fecero portare qualcosa di piccolo e rapido da mangiare: roba che se c'era una Daessenya – che da quando Xenya l'aveva conosciuta era sempre stata malaticcia – probabilmente sarebbe svenuta. Il naufragio aveva poi dato alla ragazza un colpo forse fatale: quando l'avevano lasciata all'accampamento aveva una cera tale che Xenya l'esploratrice non avrebbe giurato di ritrovarla in vita. Spiacevole, ma non si poteva indugiare su questo adesso. Bisognava trovare il libro, e il libro fuori non veniva. Dormirono qualche ora a turno, ma anche con l'avvento delle prime luci dell'alba, a lavoro quasi ultimato, il volume non c'era. Eppure la luce dell'alba a qualcosa fu pure utile...

Pashamanyna notò che mediante la luce rosata che entrava da un abbaino, un piccolo ornamento floreale dipinto su di una mattonella sul pavimento, era come se indicasse uno scaffale particolare. Su quest'ultimo: in mezzo ai tanti, un singolo volume che – a ben vedere – trovava inciso sulla costa lo stesso medesimo simbolo. Un ideogramma complesso, a tratti confuso, dalle numerose e attorcigliate punte, che Xenya non aveva mai visto nell'intera sua vita. La navigatrice osservò dunque la speranza illuminarsi negli occhi del suo secondo. Lui si alzò di scatto in piedi, diretto verso quel libro; lei e il principe Marcus gli andarono immediatamente dietro. Il libro era un falso: sebbene inserito in mezzo ad altri volumi reali, era più un pezzo ben mimetizzato dello scaffale che non un oggetto di tela e pergamena. Non si poteva estrarre tutto, ma solo inclinare leggermente. Una volta fatto, il meccanismo che si celava dentro quella biblioteca venne finalmente azionato. Una libreria, sotto un arco, da tutta un'altra parte, si spostò meccanicamente e finalmente la stanza del libro venne rivelata.

Era piccola e pareva dare esclusivamente sulla scogliera, esattamente come il resto del castello ligneo del vecchio Sir. Eppure era anche raccolta, e... con qualcosa di mistico che l'avvolgeva, anche se una persona razionale come Xenya tendeva a dare buona parte delle ragioni di questo più alla splendida luce dell'alba che ad altro. Comunque il gioco di luci, dovuto ad un'accurata sistemazione di specchi e vetri era sicuramente assai suggestivo. Il libro se ne stava là: non troppo grande, come Xenya se lo sarebbe aspettato, però comunque molto particolare e grandemente istoriato. I motivi che vi si potevano trovare incisi, erano gli stessi che in parte si vedevano alla parete: draghi. Almeno cinque, di colori e fattezze diverse. E poi uomini: almeno sette, dalle strane caratteristiche un po' angeliche e un po' demoniache. Un unico seggio fisso di pietra se ne stava dinanzi al piccolo leggio dove il volume era appollaiato. L'esploratrice non resistette: superò i suoi due compagni maschi in velocità e si sedette. C'era come uno spazio vuoto in copertina, anch'esso con lo strano simbolo già apparso sul falso volume e sulla mattonella. Era come se qualcosa vi si potesse incastonare sopra, qualcosa di più o meno esagonale. Ma qualunque cosa fosse, ora non c'era più. Dunque Xenya l'esploratrice incominciò a sfogliare...

Il libro non era scritto nella sua lingua, eppure qualcosa di strano avvenne appena lei incominciò a sfogliarlo. I caratteri cambiarono, si risistemarono davanti ai suoi occhi. E così anche le parole e le frasi. Xenya avrebbe giurato che la lingua in cui era scritto quel volume quando lei si sedette fosse una lingua morta e ai più sconosciuti. Ma ora, a distanza di pochissimi secondi, aveva in mano un libro scritto nell'idioma comune. Incredula, la giovane esploratrice rivolse il proprio sguardo prima al suo secondo e dopo al principe. Avevano negli occhi la sua stessa espressione: di una che ha appena assistito a un miracolo. Con il cuore in gola, non avendo idea di che cosa avrebbe potuto trovarsi, l'esploratrice cominciò a leggere tutto d'un fiato. E così anche il principe cavaliere da una parte e il navigatore, interprete e tuttofare dall'altra.

Prima di tutto, si trattava di indicazioni: una formula magica da recitare e un invito ad impugnare un sigillo che però chi aveva scritto il libro aveva dato per scontato fosse lì da qualche parte, quando in realtà lì non c'era niente di tutto ciò. Dopodiché le precauzioni, da leggere prima di compiere testualmente “l'atto di tutti i regni e le ere”. Per avere il coraggio di impugnare il famoso sigillo, bisognava disporre di una certa – così almeno c'era scritto – “tempra magica”, visto che riuscire a sostenere quel tipo di magia non era da fattucchieri qualsiasi. Quindi insomma: solo un mago per lo meno da anni versato in quel tipo di attività sarebbe mai stato in grado. In caso contrario, le controindicazioni non è che si limitavano al semplice fatto che quello che doveva venir fuori non lo faceva. Anzi, il libro di Cair Dedalos si perdeva in diverse pagine per elencare tutto quello che di spiacevole poteva accadere se si pronunciava male quella parola piuttosto che quell'altra, o se non si impugnava il famoso sigillo scomparso con la dovuta convinzione, o se non si eseguiva l'incantesimo alla luce del giorno. Tra le mille conseguenze d natura fisica, peraltro inserito in mezzo tra cose potenzialmente meno dannose, anche la morte.

Quindi l'esito: se la formula veniva elencata perfettamente, tenendo il sigillo con il giusto stato d'animo, e alla giusta ora del giorno, allora i sette maghi più potenti mai esistiti si sarebbero materializzati per eseguire ogni richiesta diretta del loro nuovo padrone. Dunque il libro proseguiva con una puntuale quanto inquietante descrizione di tutti i vari tizi servi magici del padrone mago pure lui, ma – da quanto Xenya stava capendo – tutti più potenti di lui. Si trattava di coloro che avevano partecipato al cosiddetto “giuramento di Cair Dedalos”.

Il Maestro Corarus, il guerriero, era un sovrano, oltre che abile mago e guerriero tra i più potenti della storia degli uomini. Venne talmente venerato come combattente e come savio fattucchiere che, pur non essendo nobile di dinastia, un gruppo di uomini lo elesse suo re. Fino all'epoca registrata dal libro, era l'umano che meglio, fra tutti nella storia, fosse riuscito a controllare l'energia infuocata proveniente dal centro della terra; energia di cui una delle principali cause e origini era – guarda un po' – il drago Kyrios. Il Maestro Corarus, indipendentemente da quale forma il tempo e la magia sarebbero finiti per fargli assumere, aveva deciso di indossare al momento del giuramento la sua corona nera d'ossidiana. E sempre e per sempre con quella sulla testa si sarebbe manifestato.

Pure lui dotato di corona, ma di fattura meno eccessiva, più piccola e dorata, e di abiti principeschi si sarebbe presentato Tararus, il servitore. Egli era il reggente della splendida e popolatissima antica città di Cair Dedalos, che però era la città dei draghi, fondata da loro perché ci vivessero i loro primevi figli. Quindi il Maestro Tararus era più un amministratore e un servo dei veri sovrani, i cinque draghi cui per ultimi sarebbe comunque spettata la parola in tutte le faccende degli uomini o del resto del creato. Il Maestro Tararus era stato in grado, nella sua vita, di studiare approfonditamente e meglio di chiunque altro la correlazione tra l'energia del corpo umano e quella con le energie sprigionate da un cielo in tempesta. Era il massimo esperto di tuoni e saette, e per tale unica e indiscussa preparazione venne scelto sia per il governo della città dei draghi che per il giuramento di Cair Dedalos.

Il Maestro Xenorus, il sicario, era invece il principale allievo del drago Requiem, e si era occupato per la gran parte dei suoi studi di una cosa a metà tra il ghiaccio e la morte. C'era una sorta di connessione tra le due cose, garantita e supportata da questo Requiem e da lui poi insegnata, almeno in parte, a un allievo originariamente umano ma particolarmente in rapporto con la natura selvaggia. Era uno studioso di animali volanti, in particolare un genere di falco gigante, peraltro raffigurato nel libro e di cui Xenya sperò si trattasse di un animale estinto. Ma poi, al seguito del drago, si raffinò anche nell'uso delle energie provenienti dalle temperature fredde e nel curioso rapporto tra le cose in vita e le cose morte, e di questi studi divenne il massimo esperto. Prima di prestare giuramento, come tutti gli altri, tra gli alberi di una certa foresta di Audorya, Xenorus inoltre era divenuto pure lui un servo ai diretti comandi dei cinque Draghi dell'Origine, ma anziché governare la città dei loro figli come Tararus, si occupava invece di missioni in luoghi lontani. Caratteristica del maestro dei ghiacci – oltre che la cavalcatura di un falcone gigante – era un guanto artigliato, composto di sole durissime stalagmiti praticamente indistruttibili.

Poi c'era il Maestro Meredjuxor il folle, che aveva scelto una stringente vita ascetica in totale solitudine. Lo aveva fatto per ampliare le sue conoscenze provenienti dal mondo della natura, tutto ciò quindi che non aveva avuto a che fare con il regno degli uomini: animali selvatici e piante rare in primis. Prima di questa vita, Meredjuxor da giovane era stato allievo della draghessa Kimera, anche lei assai in linea con la natura selvaggia e, dopo tali lezioni, si dice che il maestro avesse appreso il controllo su molte delle piante e degli animali che circolavano su questa terra.

Quanto al Maestro Helmon, il guardiano, era stato pure lui per un periodo allievo, come Corarus, del drago Kyrios, solo che più che sulla parte relativa al fuoco aveva deciso di dedicare le proprie attenzioni su quella relativa alla morfologia del territorio: le rocce, le montagne, i vulcani. Di lui si diceva inoltre che, oltre che il più giovane tra i maghi che avevano giurato a Cair Dedalos, fosse anche di un'eccezionale prestanza fisica: un portento, per quanto possibile a natura umana. Helmon era infatti robusto, altissimo e forzuto, ma anche agile come una gazzella e veloce come un roano. Di Helmon, come dei due successivi, il libro diceva inoltre che avesse aperto una scuola e si fosse dedicato all'insegnamento.

Fece questo anche il Maestro Mawldor, l'eremita, ma in maniera più settaria: scegliendo pochissimi allievi e portandoli da qualche parte in cui le loro anime non potessero essere corrette dalla vita frenetica dei tempi moderni: un po' come Meredjuxor insomma. Solo che anziché completamente solo, quella vita Mawldor aveva scelto di condividerla con pochissime, selezionate, altre anime elette. Costui era il maestro dell'energia proveniente dal mare e da tutte le altre fonti d'acqua, uno studio particolare che per un periodo lo aveva legato sia al drago Nidhogg che alla draghessa Luxia, la quale però preferì sempre non fare favoritismi tra i suoi figli umani ai quali era particolarmente legata, non prendendo mai con sé un allievo. Neanche Nidhogg fu un vero e proprio maestro per Mawldor il quale è certo che apprese parte della sua capacità di gestione dell'energia fredda dal drago, ma non di quella calda, che invece pure Nidhogg gestiva, visto che era il drago soprattutto della magia corporale degli uomini. Tutto ciò non impedì al mago eremita di diventare il principale conoscitore dei segreti delle fonti nel mondo degli uomini, in grado perfino di parlare con e controllare ogni creatura acquatica, dalla più piccola alla più grande.

«“E infine il Maestro Braff, la spia”» fece per concludere Xenya. Tuttavia queste brevi parole suscitarono una reazione inaspettata. Nel medesimo istante in cui le aveva udite, il principe cavaliere esclamò: «Come?! Braff?»

«Mh...» esordì l'esploratrice, un po' confusa, «Sì: così c'è scritto. Perché?»

«Mh, niente...»

«Principe, ritengo sia inutile ricordarti che ora come ora qualunque informazione condivisa è meglio di un'informazione tenuta segreta. Questo vale per tutti e tre noi. Non sei d'accordo?»

«Sì, hai ragione... Vedete, Braff è il nome del mio pedagogo fin da quando ero bambino. Mio e di tutti e cinque i miei fratelli. Non so bene da dove provenisse, ma era maledettamente ferrato praticamente in ogni cosa, soprattutto la storia e la politica. Col tempo, finì per diventare forse il principale tra i consiglieri di mio padre e... Maestro delle spie».

Certo: tutto ciò metteva i brividi. Poteva trattarsi chiaramente di un caso di omonimia, anzi rimaneva l'ipotesi più probabile. Però certo: se quelle creature fossero state davvero in vita e camminassero tra gli uomini, allora... non era improbabile che, avendo vissuto per secoli o addirittura millenni, fossero diventate particolarmente sagge in ogni ambito dello scibile umano. Tuttavia, Xenya preferì non dir nulla e continuare a leggere: «“Il Maestro Braff fu particolarmente vessato negli studi del fenomeno che porta il giorno a mutare in notte e viceversa, quindi dotto in tutto ciò che è luce, e ciò che è oscuro. Ha appreso importanti abilità nel mutare la propria forma, nel mutare quella di oggetti diversi da lui, nell'irretire e nel confondere. Se piante e animali terrestri possono cadere sotto il controllo del Maestro Meredjuxor, animali dell'aria sotto quello del Maestro Xenorus, e animali delle acque sotto quello del Maestro Mawldor, allora gli uomini sono fuor di dubbio competenza di Braff, che ha il potere di ingannarli e dominarli”. Maestro delle spie hai detto, giusto?» domandò a questo punto la ragazza esploratrice: non seppe resistere, troppe cose quadravano. Ma prima che il principe allevatore di chimere potesse risponderle, annunciò definitivamente: «“Inoltre, il Maestro Braff possiede anche il controllo di tutte le creature piccole e invisibili normalmente inserite sotto la classe degli insecta, ed avendo avuto numerosi e celebri allievi, potrebbe fuor di dubbio considerarsi il maestro di magia di maggiore successo tra i sette che giurarono il giorno di Cair Dedalos”. Insegnante e spia. Non sono sostanzialmente le stesse due mansioni che caratterizzerebbero questo tuo vecchio amico?»

«Mah... io...» balbettò a questo punto il principe Marcus, confuso.

«Io però» l'interruppe Pashamanyna, che fino a quel momento era rimasto zitto e al suo posto, apparentemente totalmente immerso nelle storie dei sette maghi e dei cinque draghi. Fece: «C'è una cosa secondo me più urgente che debbo farvi notare». Portò quindi il suo dito affusolato sul nome del Maestro precedente a Braff: Mawldor. Poi di lì, spostò la punta del suo dito alle parole: “in grado perfino di parlare con e controllare ogni creatura acquatica, dalla più piccola alla più grande”.

Illuminata, e insieme assai allarmata, l'esploratrice affermò: «Mawldor... Muldrow. Si pronunciano in maniera molto simile. E soprattutto... sono quasi le stesse lettere!»

«Io ho sempre dato per scontato» disse ancora Pashamanyna «Che si scrivesse Muldrow con la “u”. E se invece fosse... Maldrow con la “a”? Allora sarebbero esattamente le stesse, con una piccola inversione interna»

«Marcus!» riprese dunque Xenya: «Il kraken!»

«La porta chiusa!» esclamò dunque il principe cavaliere e, sguainata la spada, subito si diresse verso quell'ultima meta: il famoso penultimo ingresso sbarrato da una serratura, che avevano tralasciato per dedicarsi alla lettura del libro. Xenya e Jorando lo seguirono.

 

 

 

Deluso, in preda a una profonda crisi mistica: perché essere carcerato senza ragioni e vessato da quella che in teoria avrebbe dovuto essere la sua guida spirituale, un segno nel profondo inevitabilmente gliel'aveva lasciato, fratello Brendan di Banefort ormai non faceva altro che lasciarsi trasportare. Sharma, la più anziana delle Septe della Capitale, era arrivata per prima e perciò lui proprio con l'anziana religiosa era finito per passare queste sue ultime settimane. Ma se a recuperarlo fosse stato un qualche confratello invece più vicino al vecchio, defunto e stupido Alto Septon, lui non si sarebbe opposto. E se a recuperarlo fosse stato il diavolo Yashua, o uno dei suoi accoliti, lui non si sarebbe opposto. Aveva ormai rinunciato a cercare di interpretare l'imperscrutabile volere degli dèi. Era ormai chiaro che lo odiassero o che avessero deciso di metterlo seriamente a dura prova: ma in entrambi i casi molto da fare non c'era. Rassegnarsi, accettare passivamente. E questo lui aveva deciso di fare. Ricordava, prima di arrivare a Roccia del Re, di un se stesso che una volta era stato solare, curioso, e più la vita poneva domande più lui tentava di dare risposte. Ma quello non era più il tempo delle domande. Le troppe cose che aveva visto e vissuto avevano stancato il suo spirito critico. Adesso Brendan sentiva che era solo il tempo della preghiera.

Ricoverato in uno dei rifugi delle Septe, che di norma erano molto meno appariscenti e grandi di quelli dei Septon maschi, Brendan si stava semplicemente godendo la sua convalescenza spirituale. Pregando ogni giorno, leggiucchiando testi sacri, e bevendo brodino. I ricoveri delle sorelle consacrate ai Sette Dèi erano sparpagliati per i quartieri poveri di tutta la città; l'idea era che le Septe in particolare dovessero essere il braccio del Credo più vicino ai bisogni della povera gente, e dunque di norma esso viveva con loro. Ed era anche bello, perché per quanto la vita fosse umile (come d'altro canto anche quella di sua Sacralità e degli altri confratelli del tempio avrebbe dovuto essere), era anche una vita fuori dalle costanti luci e attenzioni che sia una vicinanza a Sua Sacralità sia una a Yashua inevitabilmente finivano per portare. E questo Brendan poteva dirlo per esperienza, purtroppo. Paradossalmente stava infine vivendo un momento di maggiore serenità, proprio ora che il Credo era caduto, l'Alto Septon morto, il tempio era stato dissacrato e il sacerdote del dio rosso praticamente aveva vinto.

Ma la vita a Roccia del Re lo aveva ormai abituato ai colpi di teatro. E quel giorno, all'incirca all'ora di cena (visto che Brendan – insieme a Sharma e ad altre poche consorelle – si trovava al desco), per l'ennesima volta piovve dal cielo sereno il dannato colpo di teatro. Il Gran Maestro Irwin, tutto trafelato, che di corsa irruppe nella piccola saletta ed esclamò: «Sharma! Ti chiedo scusa, ma devi correre: è una cosa che non puoi per niente perderti».

Così, lungo il cammino dal ricovero delle Septe al Grande Tempio, Brendan si ritrovò a rimuginare tra sé come spesso faceva. Solo all'inizio si interrogò su che cosa ci fosse di così importante da vedere al tempio, tale da aver portato lui, Sharma e il resto delle consorelle a interrompere la sacra cena di quella giornata. Poi però la mente di Brendan decise di indugiare su nuovi quesiti, uno in particolare che non per la prima volta catturava l'attenzione del giovane monaco: il rapporto tra Irwin e il clero e in particolare tra Irwin e Sharma. Perché il giovane Gran Maestro era il referente della religiosa in merito agli affari della Corona? E perché la vecchia Septa riferiva a lui degli affari del Credo? Cosa giustificava un tale ambiguo intreccio? Era difficile che lo fossero, visto che Brendan avrebbe detto Sharma troppo anziana perfino per avere nipoti di quella età, ma sembravano parenti. L'unica alternativa valida era che, magari, il Lord Gran Maestro anziché un trentenne come al massimo sembrava, fosse in realtà un ultra-quarantenne ma... anche così era tutto troppo forzato: Brendan aveva la sensazione che ci fosse qualcos'altro sotto, però non riusciva a inventarsi nulla di credibile così... anche quel mistero rimaneva velato. Un altro dei mille che il novizio di Banefort aveva trovato lungo la sua strada dentro la più grande città degli uomini.

Ogni pensiero tuttavia sparì nel momento in cui furono i suoi increduli occhi a mostrargli il nuovo imperante problema che necessitava di soluzioni e di perché. Il tempio dei Sette era alle fiamme. Però, osservandolo meglio, non si trattava di fiamme selvagge scoppiate per una qualche candela dimenticata accesa la notte o per qualche cero fuori controllo. Si trattava di altissime colonne regolari, una sorta di spaventoso gioco. Terribile e così impuramente affascinante. E poi, oltre le colonne, cerchi e altre figure geometriche. E, affacciato dalla finestra dell'Alto Septon, il sacerdote diabolico. Malvagio come non mai. Impegnato in una infiammata arringa in cui delirava di nuove ere e di oceani di fedeli. La cosa veramente terrificante, era in effetti che la piazza era piena. Piena come Brendan non l'aveva mai vista durante una messa esterna del defunto Alto Septon: messe esterne che peraltro il vecchio non di frequente faceva e mai con troppo piacere. Certo, il fatto che la massa fosse cospicua, non significava in automatico che tutti quelli fossero nuovi adepti del dio rosso: Brendan, Irwin, Sharma e le consorelle lì presenti non lo erano. Magari coloro che erano accorsi per ragioni disparate – dalla curiosità al dovere professionale (tipo la guardia cittadina) – erano di più rispetto ai reali fanatici accorsi per inneggiare al loro sacerdote. Ma l'esito dell'intera faccenda, a occhio, risultava comunque epocale. Aveva avuto ragione Irwin a chiamare di corsa Sharma: quella era una cosa che sarebbe stata scritta nelle cronache di storia. E questo non per il discorso in sé: tronfio e delirante per come troppo Brendan ne aveva già ascoltati provenire da Yashua e dai suoi accoliti. Ma per l'efficiente immagine scenografica con la quale il sacerdote rosso era stato in grado di ammantare la propria persona e con essa le cose che stava facendo. Poco contenuto alla fine: non troppo dissimile da qualcosa che qualsiasi curato di campagna avrebbe potuto pronunciare in una delle sue più mediocri omelie. Ma tantissima forma: unica nel suo genere. Roba che nessuno né aveva visto né in vita sua avrebbe visto mai più. Roba di cui ogni singolo individuo che avesse assistito alla sceneggiata ben difficilmente si sarebbe dimenticato.

Però a un certo punto molte cose cominciarono a ripetersi. Tanto che la vecchia cieca Sharma si risolse a dire: «Va bene: basta così. Non aggiungerà null'altro d'importante, credo. E, se lo farà, ce lo racconteranno. Andiamo: prima che un gruppo di Septe tutte assieme possa suscitare attenzioni di cui non necessitiamo». Una cosa era chiara per tutti: da quello storico momento, era il Credo dei Sette ad essere l'eresia formale. E quel mito del dio rosso padre di Yashua era la religione ufficiale, se non nel Westeros per lo meno nella sua capitale: il che di per sé era già piuttosto eclatante. Da quel momento in poi, tutti i credenti nei vecchi dèi avrebbero dovuto preoccuparsi di pesare sempre le loro parole, di prestare costantemente attenzione alle loro azioni. Una vita grama e oculata spettava a tutti loro, e in particolare a coloro i quali avevano preso i voti. Già da quella notte, Sharma prese disposizioni in merito: mettere il becco fuori dai ricoveri solo se necessario e, se necessario, svestire gli abiti sacri. Era un gesto forte, ma necessario, perché il punto ora non era morire da martiri: per nessuno. Il punto ora sopravvivere, per combattere Yashua e restaurare il vecchio status quo. D'altro canto, l'unico vero credo non poteva mica lasciarsi soppiantare da un manipolo di fanatici, per quanto coreografici, che aveva deciso di imporsi con la stregoneria e il sangue! Quella notte, tuttavia, avvenne anche un'altra cosa...

Sempre alla riunione con tutte le consorelle della città (o quasi), in questo enorme piazzale sotterraneo connesso a diverse catacombe situate in più quartieri della città, dopo aver parlato di quello che Yashua aveva fatto e di come combatterlo, Sharma proclamò: «Infine, sorelle, c'è un'ultima cosa da fare. Adesso siamo organizzate, siamo agguerrite. Ma continuiamo ad essere pecorelle senza un vero pastore. Poiché, d'altro canto, quando mai nella storia un gruppo di consorelle come noi ha potuto realmente essere nel pieno della propria comunione coi Sette, senza l'ausilio insieme pragmatico e autoritario di un Septon? Non c'è Credo, senza un Alto Septon. Non c'è religione, senza un grande sacerdote»

«Ma tutti i confratelli della città sono morti!» fece giustamente notare una Septa dalla seconda fila.

«Hai detto bene, sorella» le rispose la vecchia cieca «La dimensione cittadina è importante: poiché da decine di secoli Roccia del Re è la città del Credo Consacrato, e l'Alto Septon dei Sette è il grande sacerdote che vive ed opera a Roccia del Re. Non può avere dimora da un'altra parte: non sarebbe l'Alto Septon. Eppure c'è qualcuno qui presente, che è uomo e ha preso i voti». A queste parole, il cuore di Brendan decise di fare un salto verso la giugulare del ragazzo. Una consorella in quarta fila giustamente notò: «Ma il Lord Gran Maestro non ha mai preso i voti, sorella Sharma!»

«Infatti, è così» confermò la più vecchia e la più cieca dei presenti, dirigendo per un breve istante il proprio sguardo vacuo al giovane membro del Concilio Ristretto, al braccio del quale se ne stava aggrappata. Continuò: «Irwin, sebbene nostro fedele amico e alleato non è uno di noi. Ha preso tutta un'altra strada rispetto a quella che ne stesse abbiamo deciso di varcare, sorelle. Ma così non è per questo giovane novizio» e indicò Brendan «Egli è un confratello consacrato dei Sette, sebbene da poco tempo, visto che la sua breve fin d'ora vita non ha potuto concedergli altrimenti. Ma sono sicura che quando avrà preso l'impegno di essere il nostro pastore, la fede negli Dèi e il loro ausilio, unitamente a sessioni di preghiera intensiva e al nostro umile e devoto servizio, lo condurranno ad essere l'ottimo gran sacerdote che già il destino, d'altro canto, ha voluto che lui fosse. Perciò, fratello Brendan dei Sette io ti saluto come nostra nuova guida e pastore, Septon più alto della città di Roccia del Re, dei suoi fedeli e dei fedeli al di là dei suoi confini. Nel nome del padre, della madre e del guerriero»

«Nel nome del fabbro e della fanciulla» fece a questo punto una consorella dalle file in fondo. Irwin aggiunse: «Nel nome della vecchia», e intanto Sharma terminò: «E nel nome dello sconosciuto». Dopodiché tutto un coro si sollevò dalla pubblica piazza. Qualcuno ripeté: «Nel nome del padre e della madre», e qualcun altro: «Nel nome della fanciulla!»

«Nel nome dello sconosciuto!»

«Nel nome del guerriero!»

«Nel nome della madre!».

Brendan nel frattempo non poté che continuare a guardarsi intorno, in profondo imbarazzo: quando e come si poteva dire che tutto questo non faceva per lui e non aveva intenzione di accettarlo? Non gli permisero di farlo. Il cuore, che gli era saltato in gola, mise su corda e paletti e piantò tenda definitivamente tra le sue corde vocali. Non disse nulla, neppure un “amen”. Rifletté solo sulla sua vita giovanile, tra le campagne di Banefort. Sull'odore di pesce appena pescato che facevano il mercato e la sua casa. Su quanto si sentisse grato agli Dèi, a prescindere da tutto. E poi forse – anzi molto probabilmente – svenne.

 

 

 

Anche se era spessa e ben sigillata, la furia di Marcus non permise all'ultima porta di sbarrare ulteriormente la sua strada, e quella dell'esploratrice Xenya e del suo secondo Pashamanyna. Con la spada sguainata, si ritrovò in un ennesimo appartamento privato: quella casa di legno sulla scogliera si stava rivelando un vero e proprio labirinto, molto più grande e arzigogolato di quanto una parziale e limitata vista esterna potesse coglierne. Anche quell'aula di legno era piena di tavoli e libri, e tavoli con libri. Poi infine: un'uscita, che dava su una scalinata di pietra la quale, quasi perpendicolarmente, percorreva la scogliera fino ad una minuscola baia apparentemente inaccessibile se non dalla porta che i westerosi avevano appena varcato e dalla scala che avevano appena disceso. Il mare era calmissimo, piatto come una tavola. E l'intera atmosfera suggestiva, tanto che per un attimo Marcus pensò di portarci Jasmina, l'assistente veterinario ai tempi della Valle del Leone, un giorno. Se Jasmina fosse stata ancora innamorata di lui...

Muldrow era lì, di spalle, con la schiena alla scogliera, e il viso al mare, alla luna, all'orizzonte, all'infinito. Il suo solito lercio saio questa volta aveva la parte finale, quella della gonna, arrotolata fino alle caviglie del vecchio Sir, quest'ultime invece immerse a contatto con l'acqua. Ripensando a quello che aveva appena letto nel libro sul mago di tutte le fonti, questo inquietò un po' Marcus, ma comunque il principe cavaliere decise di non manifestarlo. Stava invece per dire qualcos'altro, giusto per richiamare l'anziano cavaliere, quando fu proprio quest'ultimo a parlare interrompendo qualsiasi iniziativa del cavaliere, dell'esploratrice o del navigatore orientale. Disse: «Io ammiro la pertinacia degli uomini, sapete? Credo di non averla mai avuta neanche quando ero un uomo anch'io: figuratevi ora che non lo sono più»

«Sei il Maestro Mawldor?», domandò Xenya.

«Lo sono stato. Ora non sono più neanche quello. Non so cosa sono. Non sono neanche un servo del possessore del sigillo. Non eseguo i suoi comandi; non l'ho mai fatto, neanche quando, millenni or sono, risvegliò i miei fratelli leggendo la formula magica. Quando lui la lesse, io ero già fuori. L'unico tra coloro che hanno giurato a Cair Dedalos ad essersi liberato per conto proprio. Ho atteso per anni qui nella città dei draghi, o nel luogo che è divenuta dopo l'auto-genocidio dei figli dei Cinque e la rinascita della nuova stirpe dovuta al solo Kyrios. Ho atteso che qualcuno mi liberasse dalla mia solitudine, ma quando infine lo stregone arrivò dall'est, egli non mi piacque. Non era come ce l'eravamo immaginato, né noi né i draghi. Era... malvagio. Avevamo giurato a Cair Dedalos pensando che solo un uomo di immense e positive virtù avrebbe raggiunto mai un potere tale da impugnare il sigillo. Invece lo fece un fattucchiere mediocre, e un uomo abbietto, tutto intriso di ambizioni e desiderio di vendetta. L'incantesimo gli deturpò parte della faccia, ma non ebbe nessun altro effetto collaterale. Egli divenne il signore di sei demoni su sette. Anche se con un occhio di drago. Ma d'altro canto, chi sono io per parlare di volti deturpati» a questo punto del suo racconto, e solo a questo punto, Sir Muldrow o... il “Maestro Mawldor” si voltò verso i suoi interlocutori. La solita macchia nera sul viso che di solito caratterizzava solo una piccola parte della sua guancia, ora pareva al principe Marcus divenuta vistosamente più grande.

«Ci vuole» proseguì dunque il mago leggendario «buona parte della mia attenzione magica per mantenere costante questo mio aspetto “umanoide”. Se pensate che di recente ho anche dovuto... occuparmi d'altro, allora capirete come mai la mia mutazione abbia in questo momento perso un po' della sua forma originaria». Marcus voleva interromperlo. Voleva chiedergli del kraken, voleva chiedergli se era stato veramente lui a mandarlo sulla loro flotta e perché. Voleva sapere se era davvero quello strano tipo la persona da accusare per la morte di sua sorella. Venne interrotto da Pashamanyna, che invece se ne uscì con una delle sue elucubrazioni intellettuali, come se quello fosse davvero il momento. Il navigatore, secondo in comando di Xenya l'esploratrice, vinto dalla curiosità, chiese: «E come avete fatto ad infrangere l'incantesimo? Se è un incantesimo di tale fattura che ha impegnato cinque draghi e sette tra i più potenti maghi per essere realizzato... come è stata possibile una deroga?»

«Questo non lo so. Fa parte dei tanti misteri cui nessun drago, mago o dio riuscirà mai a dare risposta, credo. Al massimo, potrei azzardare con una delle consuete e ben note tesi del nostro maestro Nidhogg, il drago dell'empatia: il segreto è l'amore» si concesse qualche secondo, prima di continuare: «qualche tempo prima che il possessore del sigillo venisse qui dall'oriente e risvegliasse i miei fratelli, costringendomi a nascondermi da lui, un altro gruppo di uomini della vecchia genia venne a trovarci, dopo che per interi millenni nessuno lo aveva fatto. Il gruppo era capeggiato da una ragazza: Arya. Sai, mi ricorda un po' te, giovane esploratrice. Percepii la sua enorme forza di volontà fin dai vetri del sigillo. Capii che era bellissima e impavida come una virago. Forse me ne innamorai sin da subito, o forse semplicemente un'altra forza pure insopprimibile si impossessò di me: la curiosità. Quella per la donna guerriero. Quella per la donna a capo di un esercito di soli uomini. Una cosa che nella loro pur secolare esperienza i miei occhi non avevano mai veduto. Saltai fuori dal sigillo, usai la magia per rendermi ancora più giovane e umano di quanto non ci riesca adesso e... consumai con lei un rapporto d'amore lungo quanto la sua vita. Esplorammo insieme il nuovo mondo: così cambiato per me, così sconosciuto per lei. Navigammo, combattemmo, ci innamorammo. Poi lei morì, troppo giovane, punta dalla cuspide di uno scorpione, ed io tornai qui in attesa del mio padrone e dei miei fratelli. Credo che sia proprio grazie a lei, alla sua caparbia e al suo immenso amore per la vita, che io mi affrancai dalla mia maledizione. Cosa che purtroppo nessuno dei miei confratelli ha avuto la possibilità di fare. Neanche Braff, il più erudito tra noi di sentimenti umani. Povero Braff... starà servendo quel fanatico ora, come un comune tirapiedi. Che brutta fine che Cair Dedalos ci ha destinato»

«Hai detto che ammiri la nostra pertinacia» constatò Xenya «A cosa alludevi?»

«All'ostinazione degli uomini. Ve l'ho detto: forse la mia Arya ne è stata l'esempio più fulgido, di questa così straordinaria, unica, caratteristica. Senza la sua testa dura, io non sarei mai stato libero»

«Sì, ma tu lo hai detto nell'istante in cui siamo arrivati qui, in questa baia!»

«L'ho detto, sì. Sei stata dannatamente ostinata, Xenya l'esploratrice, a sopravvivere nonostante tutto...»

«Hai mandato tu il kraken?» domandò a questo punto Marcus l'Andalo, mentre timidamente una insolita Xenya provava a trattenerlo sussurrandogli: «Marcus...»

«Hai ucciso tu la mia sorellina?!» insistette Marcus «RISPONDIMI!»

«Ah, dunque l'altra piccola amazzone è invece perita. Avrei dovuto intuirlo, visto che non è qui con voi pure lei a fare le sue domande e battere i suoi pugni. Non disperare, Marcus della Casa Lannister, tu stai per raggiungerla!»

«Perché vuoi ucciderci?» chiese questa volta Pashamanyna, molto intelligentemente, «Hai detto che ami gli uomini: hai amato un'umana per un'intera vita, nel suo spirito come nella sua carne. Ammiri la nostra natura, la nostra ostinazione. Allora perché stai agendo a questo modo?»

«Beh, ma voi non siete umani qualsiasi, dico bene? Siete umani che portano un cognome. Un cognome per sua natura nemico di quello di colui che in questo momento detiene il sigillo. E, per quanto io disprezzi quell'individuo, non posso permettere che voi scalfiate il suo potere. Se lui viene ucciso, allora il sigillo verrebbe distrutto insieme a lui. E con esso l'incanto di Cair Dedalos e tutti i maghi ad esso legati. Compreso me stesso. E io... tengo troppo alla vita, per quanto grama essa possa essere»

«Potremmo non ucciderlo!» propose Xenya «Potremmo limitarci a farlo prigioniero o...»

«È un uomo superbo e combattivo, accecato dalla rabbia, dall'invidia e dal dolore. Non si arrenderebbe mai. E comunque non intendo rischiare: preferisco pur sempre questa mia esistenza un po' emaciata, che comunque sorprese potrebbe riservarmi, rispetto che un salto nel vuoto, nel nulla cosmico. Vi prometto che non proverete molto dolore: in questo momento non avrei la forza di evocare neanche un pesce rosso, figurarsi un kraken. Mi limiterò a seppellirvi in una rapida tomba d'acqua!». A questo punto, accadde l'inverosimile: Mawldor o Muldrow o Maldrow, a poco a poco mutò la propria forma. A partire dal viso, la pelle e la carne cominciarono a farsi da parte per fare strada a... un teschio nero. Uno come quelli che già Marcus aveva avuto modo di vedere, nel mostro di ghiaccio e nel mostro che sollevava vento e sabbia. Allora erano questi i fantomatici maghi del giuramento di Cair Dedalos: i mostri dal teschio nero! E il reggente di quel luogo, che fino ad allora si era spacciato per un vecchio cavaliere al servizio dei Tyrell, non era altro che una di quelle oscure creature. La macchia che Muldrow aveva sempre avuto sul viso, non era altro che un pezzo scoperto del teschio nero che in realtà rappresentava la sua più naturale essenza.

Quanto al resto del corpo invece, divenne acqua. Acqua di mare, e cominciò a confondersi con tutto quello che gli stava attorno. Solo che, mentre in precedenza il mare attorno al vecchio mostruoso era stato calmo e pacifico, adesso cominciarono ad alzarsi delle onde anomale che in qualche modo era come se formassero una sorta di corpo abbozzato – troppo grosso, con braccia di schiuma e senza gambe – attaccato, senza collo, a quel teschio nero e inquietante, in una figura instabile e traballante quanto minacciosa, visto che era rigonfia di masse d'acqua potenzialmente infinite.

Marcus non aveva idea da dove cominciare con un nemico di quel genere: non se ne incontrano spesso. Ma in verità in quel momento non era neanche troppo lucido mentalmente: quella cosa aveva pochi giorni prima assassinato sua sorella. La parte andalica del suo animo prevalse, e il principe cavaliere – un po' ingenuamente – si ritrovò a correre verso le onde indemoniate con la sua spada lunga ben predisposta. Combattere su quel “terreno” rallentava ogni movimento, inoltre prendere a spadate l'acqua naturalmente non serviva a nulla. Era una battaglia persa. Però, forse incoraggiati dall'iniziativa del principe Andalo, o forse perché in effetti ormai non restava molto altro da fare, Marcus vide bene che anche Xenya e Pashamanyna si disposero all'assalto nei confronti del mostro d'acqua. Xenya, saltellando agilmente con un piccolo pugnale appuntito per mano. Pashamanyna con arco e frecce; proprio lui diede la strada per l'alternativa che da quel momento Marcus Lannister considerò la più valida. Il navigatore scagliò uno dei suoi letali dardi direttamente sul teschio, che non venne neanche lontanamente scalfito, visto che il dardo in pratica rimbalzò via dall'osso, però... al demone tutto ciò non piacque: se ne lamentò. A questo punto, anche Xenya e Marcus mirarono a quel bersaglio. Per loro non fu facile: non avevano armi da lancio, e il mostro dimenava ondate d'acqua come fossero le sue membra, tenendoli ben distanti dalla sua “faccia”. Il principe cavaliere bevve un quantitativo d'acqua salata maggiore di tutta quella, messa assieme, che gli era capitato di bere occasionalmente nella vita, includendo quindi gli anni dell'infanzia.

La cosa andò avanti così, e a Marcus fu chiaro che a quel modo sarebbero ben presto annegati tutti e tre; Pashamanyna forse per ultimo. Non poteva essere questo l'unico modo di combattere il demone delle fonti, eppure altri in mente non gliene sovvenivano. E intano beveva e ribeveva acqua salata. Era oramai spossato, aveva perso ogni speranza, quando all'improvviso una ambigua luce rossastra venne dal nulla e si precipitò sulle onde indemoniate, peraltro nella zona del teschio. Era come fuoco, ma un fuoco che o non si spegneva al contatto con tutta quell'acqua, oppure si spegneva e risorgeva nel tempo di un baleno. Eppure la cosa distrasse sicuramente il demone, visto che permise al principe cavaliere, tutto bagnato, di allontanarsi per sputare via qualche secchiata d'acqua. Come ebbe a riprendersi, Marcus osservò meglio il nuovo convitato: era una palla di energia sia calda che fredda. Era sì ammantata di fuoco, ma attorno al fuoco era come se ci fosse del ghiaccio, e un raggio di energia rosso, ma anche blu e azzurro, promanava dalla fonte luminosa colpendo continuamente il teschio nero in preda alle imprecazioni. Osservandolo meglio, il globo aveva una forma più ovale che sferica. Anzi: più allungata che ovale, e quello che c'era dentro aveva come una forma umana. Due gambe, due braccia, una testa: sì, era decisamente umano. E poi stivali, un mantello lungo, un corpetto con su incisa la chimera incoronata dei Lannister: sì, era decisamente lo zio Constant.

Marcus non era tipo da restare con le mani in mano e, nonostante l'aiuto dello zio stregone, non appena si riprese, corse di nuovo con la spada verso il teschio. Lo colpì; venne sbalzato di nuovo via da un'onda assatanata. Voleva tornare una terza volta all'assalto, ma non gli fu dato il tempo. Constant insistette talmente tanto con quel suo raggio luminoso che alla fine il teschio cedette e tutt'assieme si polverizzò, andandosi a disciogliere nell'acqua, tornata improvvisamente piatta come prima che il vecchio Sir si tramutasse nell'orribile mostro. Non c'era più teschio. C'era solo Constant, a mezz'aria, con la sua magia. Il quale perse i sensi e precipitò a sua vota nelle acque di quella baia. Marcus si chiese che cosa diavolo ci facesse lì suo zio e... perché gli avesse appena salvato la pelle.

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Capitolo 28
*** Una sorpresa per la regina ***


Capitolo 28

UNA SORPRESA PER LA REGINA

 

 

 

Dopo ormai parecchi giorni di prigionia, forse addirittura un mese, sua maestà la regina Hana cominciava a spazientirsi. Quello scemo di Pamir Gaholla – poiché di uno scemo si trattava – era a suo estremo agio con mappe, conti e schemi, ma per quanto concerneva la politica... lasciamo perdere! Per assecondare la sua famiglia di bifolchi dell'Essos, e reggere il gioco di quella volpe – lui sì – di Baelish della Valle, ora sostanzialmente era prigioniero come lei, e neanche se ne rendeva conto. Se la tua libertà viene limitata, anche se entro i confini del piano nobile di un lussuoso palazzo, o financo per tutto il palazzo, o financo per tutta la città che quel palazzo contiene, se viene limitata dalla minaccia delle armi, allora sei un prigioniero. In questa situazione era la giovane Lannister, e in questa situazione – che se ne rendesse conto o meno – era pure Gaholla.

La partita a quel dannato gioco da tavola che da anni le spiegavano e che da mai lei comprendeva, stava volgendo sempre più tragicamente verso una sua ennesima sonora sconfitta, e verso una nuova vittoria per il suo sciocco amico Maestro delle Strade. Quant'era bravo Lord Pamir con le strategie che riguardavano un tabellone quadrato e un esercito di pedine grandi quanto bottoni. Il problema era quando gli si richiedeva di fare strategia con le persone vere e con gli eserciti. A quel gioco non era tanto bravo. Ma Hana non intendeva dirglielo: che senso aveva infierire verso uno che manco si rendeva conto di aver sbagliato, e che anzi pensava di aver fatto primariamente gli interessi di un'amica? Era dunque ormai avviata, come in una specie di sbornia passiva, a muovere pedine a casaccio per il resto del tempo che le restava, mentre il bimbo che stava dentro di lei di tanto in tanto lanciava un calcetto per ricordarle che esisteva, che era fatto bello grande, e che tra un po' sarebbe venuto il tempo di consegnarlo al mondo. Il nuovo futuro re del Regno Unificato. Un Targaryen e un Lannister: qualcosa di cui nessuna pagina di storia aveva mai osato parlare.

La regina sul tabellone che apparteneva alla squadra del suo vecchio amico, aveva appena “mangiato” la sua (o era accaduto qualcosa del genere, almeno), quando Sua Maestà all'improvviso udì un suono ormai tristemente noto alle sue candide orecchie. Erano guardie armate. Di un numero indefinito, che rapidamente si stavano spostando per i corridoi della magione dove lei era prigioniera. All'inizio non avrebbe potuto giurare che stessero venendo per lei, ma quando udì aprirsi e chiudersi le giuste porte, e avvicinarsi i passi, allora non ebbe dubbi. Su chi potessero essere questa volta e su cosa volessero da lei, Lady Hana invece i dubbi li aveva. Ma di una cosa era certa: la sua reazione. Da lungo tempo ormai aveva imparato a manifestarsi sempre come se nulla di quello che le stesse accadendo fosse imprevisto. Un bluff necessario, per una regina, almeno secondo lei. In realtà, ogni volta che accadeva qualcosa di imprevisto Hana moriva dentro, pensando a quali terribili e misteriose conseguenze si stessero per predisporre non tanto per lei quanto per la vita che aveva in grembo. Non c'era una mosca che ronzava da una parte a un'altra, senza che Sua Maestà non pensasse che cosa questo provocasse nel suo bambino quasi nato. Però questo lo teneva per sé: al di fuori, aveva imparato ad indossare la maschera dell'imperturbabilità. Una regina è più in alto di tutto, e di conseguenza non teme niente. Una regina moglie di un Targaryen poi, non sapeva neanche il significato del termine “paura”. O almeno così Hana aveva deciso di fingere.

Non poté che non sciogliersi in un sorriso liberatorio quando il primo a varcare la soglia della porta fu il re suo marito, anche lui stranamente sorridente: era un fenomeno piuttosto raro vedere Gabryaerys sbizzarrirsi in un così sincero sorriso, e Hana non poté fare a meno di goderselo a sua volta. C'era della sincera gioia nell'aria, questo era innegabile. Forse anche dell'amore.

«Mia diletta» si annunciò dunque Sua Maestà il re «Siamo liberi»

«Come è stato possibile?» fece lei incredula, andando ad abbracciare il suo amato.

«Il tuo consorte non è poi così solo nel governo di questo regno. Ha degli amici. Scendi, ti faccio vedere. C'è anche una bella sorpresa per te».

Caro, caro, mille volte caro era divenuto questo sovrano straniero per lei. Alla caduta di suo fratello Axelion, Hana ovviamente non ci avrebbe scommesso un soldo. E così anche per molte settimane e mesi a venire da allora. Eppure ora provava affetto per quello strano tipo dal volto deturpato e il passato pieno di misteri. E il fatto che dentro di sé portasse suo figlio probabilmente c'entrava solo parzialmente. Hana ne era innamorata. Era un amore molto strano, molto “indipendente”. Poteva capitare di non vedersi per intere giornate. E anche in quelle giornate, Hana stava bene. C'era una certa loro strana regolarità che saldava il rapporto. O forse era proprio nella natura di una ex politica di mestiere, la quale Hana era, considerare parte del suo tempo utile a fare altro, oltre che la brava madre o la brava moglie, il che le aggradava alquanto. In questa strana situazione di paradosso in cui la giovane regina aveva faticato per ottenere un proprio equilibrio e una propria libertà, ora – francamente almeno con se stessa – non poteva che dire di stare bene. E di non provare alcuna paura verso il re suo marito. Ancora non lo rispettava, come una moglie devota e perfetta si conveniva che facesse, però provava un sincero affetto. Il che era piuttosto sorprendente, visto che quello era l'uomo che aveva fatto deporre e assassinare suo fratello.

Hana, Gabryaerys e Pamir scesero insieme le molte scale di quella torre di Delta delle Acque nella quale per fin troppo tempo la regina e il suo amico Maestro delle Strade erano stati confinati. Attorno a loro, un recinto di cavalieri armati fino ai denti: gli stendardi dei Targaryen e dei Lannister – il drago e la chimera – che di tanto in tanto facevano capolino fuori dalla massa di ferro e acciaio. Dopodiché, all'orizzonte dall'ultima rampa di scale restante, finalmente Lady Hana vide un nuovo indizio; nuovi stendardi si stagliavano dinanzi a lei, stendardi... del nord. Profondo nord. Soli bianchi su cieli neri, vette dalle mille forme, strani alberi e strani animali... Lucertole grosse come cinghiali, e poi... Un orso. L'orso rampante della Casa Worchester.

Giunta che fu finalmente fuori dalla sua maledetta prigione, Hana poté quindi distinguere chiaramente un intero esercito disposto in trionfo. Delta delle Acque era stata espugnata e costretta alla resa: non poteva essere altrimenti. E l'operazione doveva anche esser stata rapidissima, perché notti e giorni nel tentativo di prendere un bastione, prima o poi fanno sentire le loro voci e i loro suoni persino in una cella di massima sicurezza come quella in cui Hana era stata sbattuta. L'attacco doveva esser stato condotto a sorpresa, forse persino senza neanche uno straccio di dichiarazione di ostilità. E, di fronte a praticamente tutto il nord riunito (anche se non si vedevano vessilli dei Bolton), alla fine la città dei fiumi non aveva potuto che tracollare. Ora, da quanto tempo quel nord fosse amico di suo marito lo straniero (e di fatto usurpatore), o da quanto fosse stata intrapresa una corrispondenza tra Sua Maestà e Uryon l'orso del nord, questo Hana non lo sapeva, cosa che la infastidiva non poco. Ancora una volta il marito di cui voleva fidarsi, prendeva decisioni lasciandola all'oscuro, sebbene si fossero detti di essere amici e alleati, oltre che consorti, o almeno così ad Hana il re Targaryen aveva fatto capire. Ma quello non era il momento dei sospetti, era il momento del giubilo. Quello grande per la sua liberazione, e... uno più piccolo ma che per una donna curiosa come lei era sempre stata, aveva la sua importanza. Da lungo tempo infatti, forse da tutta la vita, Lady Hana riceveva notizie di questo mostro del nord che governava Amergoth, l'occhio dell'orso, forse il più grande luogo di cultura dell'intero nord. Non doveva essere molto più grande di lei in termini d'età, Lord Uryon, eppure il suo nome era leggenda da quando, morti i suoi, da uomo a quanto pare storpio e deforme qual era, aveva preso il potere ed era riuscito a mantenerlo perché mirabilmente intelligente e colto. Una sorta di fiaba mischiata alla cronaca, che non poteva non suscitare interesse nella bambina curiosa che Hana era stata e nella regina che adesso era. Voleva vedere Uryon, ed evidentemente stava per farlo.

Timidamente, l'orso del nord fece capolino da una carrozza che in lontananza pareva un palazzo con le ruote. E per uscirne, dovette comunque chinare il capo. Già da lontano, e nonostante il sole alto, Hana poté distinguerne in parte i lineamenti animaleschi. Ma qualcos'altro la sorprese e la distrasse: un uomo, dalle forme e le dimensioni normali, sceso insieme al Lord del nord dalla sua carrozza, si mise a correre in loro direzione. Veloce, sempre più veloce, spinto come da un forte sentimento o emozione. Hana non seppe come reagire: suo marito, accanto a lei, era serafico e le guardie lì attorno pure. Poteva essere un pazzo, un assassino armato ma... nessuno mosse un dito, fino a quando in un attimo l'anonimo corridore non le fu praticamente addosso. Era suo fratello Daniel, il principe di Cowain, e colui che avrebbe anche dovuto essere Primo Cavaliere di Axelion, una volta imparata la magia.

La regina non riuscì a reggere: tutto quel passato assieme che le si scaraventava addosso fu troppo per lei. Troppi ricordi, condensati in unica persona. Daniel, e Marcus, e Mirietta e Axelion e il loro papà. Erano tutti lì insieme compressi nel sorriso di suo fratello, l'apprendista mago.

«Hana!» esclamò lui.

«Oh, Daniel!» replicò lei, e pianse. Piansero entrambi. «Io non... non so cosa dire» decise di riprendere lei, ma con la voce rotta dall'emozione, «Non so... non so nemmeno da dove cominciare!»

«Ahahah come stai?!» fece lui, tutto allegro, dopodiché si accorse del dettaglio: «Oh, ma tu... ma tu sei...» gli mise la mano sul grembo, «Tu sei... Sei una mamma! Per gli dèi, una mamma!»

«Sì, sì, è così» a questo punto Hana decise di calmarsi, asciugandosi le lacrime, «E sono... la regina»

«Sì, eheheh... questo lo sapevo». Daniel fece allora qualcosa di insolito: il re non l'aveva neanche degnato di uno sguardo, ed era andato in contro al più illustre ospite Worchester. Ad Hana, parve che Daniel volle prima verificare tale situazione ed essere sicuro, per poi prenderla per un braccio e dirle: «Come stai?! Come ti trattano?»

«Cosa? No. Non male come si direbbe. Beh, all'inizio c'è stata un po' di diffidenza chiaramente però poi...»

«Ti ha imprigionata, vero? Per quanto tempo?»

«Sì, lo ha fatto, ma... devi capire... devi capire che ora...»

«E... e Pamir? E Gushing? E Mirietta?»

«L-loro... Daniel parlarne forse è un po' complicato, ma ti assicuro che ho la situazione sotto controllo per cui...»

«Mia diletta!» li interruppe il re, riavvicinatosi all'improvviso. Il mostro del nord era accanto a lui. Era forse l'uomo più alto che Hana avesse mai veduto, ma non era possente, anzi dava l'idea del malato, di un qualcosa che potrebbe da un momento all'altro ripiegarsi su stesso. Aveva infatti due enormi stampelle di legno tutte incise con fauci e artigli d'orso. Dopodiché, oltre alla statura e all'andatura, di mostruoso aveva degli ammassi di carne sistemati sulla faccia, come bozzi, un po' ovunque, e i denti... quasi aguzzi.

«È un vero onore Maestà» disse il mostro «Mi sono già scusato con il re vostro marito per non essermi inchinato, ma vedete... la mia situazione non lo permette bene. Domando scusa anche a voi»

«Sono... onorata, Lord Uryon. E grazie per esservi disturbato a scendere fin qui per noi»

«Maestà, con tutto il rispetto che il vostro ruolo e la vostra graziosa persona non possono che impormi, io in realtà non sono venuto qui solo per voi. Sono venuto per il bene del Regno Unificato».

 

 

 

Quando Gino Barron riportò la spada Alba presso il suo legittimo possessore, ovvero il vecchio Quaenthor della Casa Dayne, a Stelle al Tramonto, successe qualcosa che lo onorò molto. Erano tempi confusi e non molto felici per lui: le troppe responsabilità, le guerre implicite ed esplicite, la politica, i complotti, i misteri, i traditori, gli impostori... tutto ciò lo aveva stufato. Avrebbe voluto prendersi un lungo periodo di pausa da tutto quello: un periodo nel quale riflettere sul come risolvere molti dei troppi affari pendenti o magari abbandonare proprio tutto e ritornare alla vecchia vita di giovane scudiero. Molti dei suoi coetanei, del suo rango, era probabilmente quello che in quel momento stavano facendo. Sentiva di essere invischiato in qualcosa di troppo più grande di lui. E il viaggio di ritorno non gli riservava alcunché di buono: il luogo cui era diretto, anche se avrebbe dovuto cominciare a farlo, non gli veniva proprio di chiamarlo “casa”. Altogiardino non lo era: era un covo di serpi. Casa era Lungotavolo, ora perduta per sempre nelle zampe di quegli arraffatori dei Barthalo.

Così, fu un evento davvero sorprendente e felice per lui, un riconoscimento non meritato ma così appagante, quando Lord Quaenthor si offrì di lasciargli la spada leggendaria. Lui era vecchio e un ladro gliel'aveva già sottratta una volta, temeva che sarebbe potuto succedere di nuovo. Contava nel senso di cavalleria di Gino, che gli aveva dimostrato riportandogli Alba indietro pur non essendoci affatto tenuto. Così, un po' per gratitudine e un po' per opportunità, decise che proprio Gino avesse dovuto essere il nuovo detentore di Alba, l'unica promessa che avrebbe dovuto fargli era di rispedirla a Stelle al Tramonto quando sarebbe stato anziano e non più in vigore. Tutto qua: un prezzo più che ragionevole per disporre della più bella e preziosa spada mai esistita. Eppure all'inizio il giovane Barron pensò che fosse il caso di rifiutare. Glielo disse al vecchio, gli disse che non solo in fin dei conti non gli pareva di aver fatto niente di così cavalleresco, ma che non si sentiva all'altezza di quel compito. Cioè era bellissimo, ma seriamente: lui non aveva nulla a che fare con le Spade dell'Alba! Non aveva compiuto imprese, non aveva combattuto draghi o demoni. Beh, in realtà contro qualcosa di mostruoso sì, ma non aveva mai vinto. Aveva per lo più resistito. A meno che non si considerasse anche “Darkhon” tra quelle creature. Lui lo aveva ucciso.

Alla fine si accordarono: Dayne insistette, e Gino gli disse che avrebbe portato Alba con sé e l'avrebbe custodita. Ma non intendeva usarla, ed era intransigente su questo. Non se ne sentiva ancora degno. Forse un giorno lo sarebbe stato, o forse mai. Di certo non lo era adesso, e non intendeva infangare una storia così gloriosa e millenaria. Semplicemente, mise Alba tra i suoi bagagli, si congedò dai vecchi Dayne di Stelle al Tramonto e fece strada verso il suo Altipiano.

Cavalcando verso la capitale del suo regno, nuove ombre offuscarono i suoi pensieri. Quell'esperienza a Dorne lo aveva incattivito. O forse gli aveva aperto gli occhi. O magari entrambe le cose. Era stato messo a governare una delle regioni più importanti del Regno, e allora – per tutti gli dèi! – era il caso di cominciare a governare. Da solo: senza Braff, senza i Tyrell. Quelli avrebbero dovuto essere dei suoi strumenti, e invece fino a quel momento Gino non aveva avuto altro modo di pensarli se non come dei fini. Accontentare i Tyrell, seguire i consigli di Braff: ora basta. Ora le decisioni dovevano risedere in capo a lui. Fino a qualche mese prima, non avrebbe mai giurato che quello era il futuro che gli sarebbe spettato, ma era andata così. Era in un gioco difficile, un gioco dove vinci o muori. E lui si era stancato di passare sempre la mano: era giunto il momento di portare a casa qualche punto. Non per piacere o per vanità: ma perché questo era il suo ruolo.

Troppe rose se ne stavano accampate nel castello più alto della collina. Quando Gino spalancò le porte del suo palazzo, fu molto chiaro con gli intendenti e gli altri servi che lo accolsero: bisognava togliere tutto e subito e sostituire i drappi della magione con nuove stoffe raffiguranti la volpe dei Barron. E bisognava cominciare subito, senza attendere oltre. Uno dei maggiordomi, anzi il loro capo, si arrischiò perfino a chiedergli: «Ma... signore... e Lady Tyrell è d'accordo?»

«Questo non è un vostro affare» affermò Gino, e concluse perentorio: «Ora mettetevi subito a lavoro, perché se domani al risveglio non vedrò il castello ricoperto di volpi, finirà che qualcuno la dovrà pagare». E, se il capo dei maggiordomi non era scemo, avrebbe lucidamente compreso che con questo Gino intendeva riferirsi precisamente a lui.

Chiuso questo capitolo, cominciò a chiamare personalmente la piccola Shanty e a dire al personale di servizio di chiamarla. Arrivò nei suoi appartamenti, dove non si sentiva meno spiato che in qualsiasi altra parte del castello. Chiuse ogni fessura, ogni tapparella. Barricò la finestra. E, solo dopo tutto ciò, prese un lungo baule stagionale, ne scaraventò il contenuto sul letto (vesti per lo più) e vi depose Alba. Chiuse il baule a chiave, mise la chiave in tasca, raccomodò quello che poteva, e fece per uscire dalla stanza, aprendo la porta. Lì lo attendeva sorridente Lord Braff.

«Sei tornato, quindi», disse il Maestro dei Sussurri.

«Anche tu» rispose Gino, «Altogiardino non è casa tua, eppure parrebbe piacerti. Inoltre, se non erro, l'ultima volta che ti avevo visto, ti eri sentito in qualche modo offeso»

«Ho pensato che il tempo avesse potuto appianare qualche dissidio, se un'amicizia è solida e antica di solito funziona. Però intuisco che sei tornato da Dorne più invelenito di prima»

«Più deciso, Lord Braff. Più temprato. Prima non sapevo cosa fare, e ora... QUALCUNO PUÒ TROVARMI LADY SHANTY?» gridò all'improvviso il Lord dell'Altopiano, rivolto ad alcune serve che avevano appena raggiunto lui e il politico della Capitale.

Lord Braff lo incalzò: «E ora...?»

«Ora ho un piano. Per me. Per l'Altopiano. Un piano che non ti riguarda»

«Hai risolto con Saestrya Martell?»

«Sei il Maestro dei Sussurri: dimmelo tu»

«Ragazzo, non andiamo da nessuna parte se non mi dici ciò che ti turba davvero»

«Oh, niente mi turba. Faccio solo un mestiere che non volevo fare, in una casa dove non volevo abitare, circondato da gente di cui mai mi sarei voluto circondare»

«Tu neanche te ne rendi conto, ma la tua vita è cambiata in meglio»

«Per di più vivo in una sorta di campana fumosa fatta di intrighi e misteri, dove di tanto in tanto mi capita di incontrare cose che appaiono e scompaiono come in nuvole di fumo. Oh, non prendermi per il culo, Braff: tu sai benissimo di Darkhon Dayne, e di quello che diavolo era! Io non lo so: ma tu sì! Per troppo tempo ti ho chiesto di rivelarmi i segreti dei tuoi uomini-ombra. Per troppo tempo hai fatto domande senza mai ricevere una risposta. Non possiamo essere amici: prendine atto. Io l'ho fatto, dal canto mio»

«Se solo tu sapessi...»

«Beh: non so. È questo il problema. E da questo momento farò da solo. Arrivederci, Braff, ci vediamo alla Capitale»

«D'accordo, vado. Ma lascia che ti conceda il mio ultimo servizio. Che tu ci creda o no, io so molte cose, ma non so tutte le cose. Hai chiesto di fare da solo, e io rispetterò questa tua posizione, in nome di una vecchia amicizia che per me c'è stata e per te forse mai: ma Dorne non è stata ripresa. La donna che Darkhon Dayne ha ucciso non era Saestrya Martell. Ella è una ragazza molto scaltra e un osso duro, nelle battaglie come negli intrighi. Ama circondarsi di sue sosia, che sparpaglia per il deserto e paga lautamente per fare in modo che si spaccino per lei. Di norma, sono anch'esse delle abili guerriere. Sta' di fatto che potresti incontrarne altre mille per la tua strada, e intanto lei tesse la sua tela. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, tanto che non potrei giurarlo, ma azzarderei che in meno di un mese la vera Saestrya salterà fuori, nuova signora di un'indipendente Lancia del Sole. La tua Lancia del Sole. Quella che ti sei lasciato sfuggire tra le mani mentre ti scopavi quel Darkhon con cui io, che tu mi creda o no, non ho niente a che spartire»

«Non me lo sono scopato» fece Gino tra i denti, con rabbia e umiliazione, «Le tue ombre ti hanno informato male»

«Non ti va di ridiscendere nella quasi perduta e appena lasciata Dorne, Lord Protettore?» continuò invece Braff come se nulla fosse, «Allora dà una mano al re: a nord dell'Altopiano, presso Lannisport o Castel Granito, o in un altro di quegli scogli dove i leoni di Lannister amano appollaiarsi, governa serenamente un certo Pylgrim, detto Leone Nero, formalmente ancora nel nome e per conto di Sua Maestà, ma in verità con tutta l'intenzione di continuare a nascondersi nella criniera il vecchio Primo Cavaliere Constant. Constant il mago, che voci di corridoio – o, come le chiami tu, ombre – mi sussurrano aspirare in verità alla insignificante carica di re degli Andali e dei Primi Uomini. E non ci vuole essere degli assi in geografia per capire che, con una Saestrya formalmente al potere al sud e un potenziale usurpatore a nord, l'Altogiardino di Gino Barron potrebbe cominciare a sembrare una preda piuttosto succulenta»

«Sì? Beh, a me che m'importa di chi è il re?»

«Giovanotto, io capisco voler fare da soli, e lo rispetto. Ma a forza di governare una delle regioni più ricche del regno, a un certo punto un re dovrai pure sceglierlo. Fin'ora hai sempre lavorato per il drago, anche se, lo ammetto, sotto la mia supervisione. Se non vuoi farlo più: è una scelta tua. Ma mi sento di consigliarti, nonostante tutto, di non mollare capra e cavoli senza garanzie. Spero vorrai accettare questa mia ultima, spontanea, indicazione. Detto ciò, ti ricordo che – prima o poi –Gabryaerys si augurerebbe un incontro formale con te, anche se a questo punto direi più poi che prima, visto che al momento si trova in quel della Terra dei Fiumi. Beninteso: tutto ciò, solo se nella tua assoluta indipendenza e decisione, vorrai continuare a sottometterti a lui. Detto ciò, ti saluto e ti auguro ogni fortuna, Lord Barron. È stato bello esserti amico». E pronunciate queste ultime parole, facendoglielo per la prima volta davanti agli occhi, Lord Braff si dissolse in una nuvola di fumo. Un istante prima, Gino parlava con il solito distinto signore dai baffi e il pizzo rossi, e un istante dopo lui era sparito. Era rimasto solo un sottile fumo, che a sua volta si dissolse nell'aria nel giro di pochissimo. Come al solito, il Maestro dei Sussurri lo aveva riempito di informazioni. Solo che questa volta non gli aveva dato una soluzione: lo aveva lasciato libero, come Gino gli aveva chiesto. E Gino adesso era più confuso che persuaso, oltre che estremamente stanco, irritato e forse pure un po' spaventato.

Venne una servetta e gli disse il punto esatto degli appartamenti di Lady Shanty, dove la piccola Tyrell si stava intrattenendo con un nugolo di dame di compagnia. Era piccola ma già molto popolare, evidentemente fin troppo. Gino pretese ed ottenne che le galline da compagnia lo lasciassero da solo con la sua promessa. Dopodiché le strappò i vestiti di dosso e la prese con tutto il disprezzo di chi non vorrebbe farlo, non in quel momento e non con quella persona. I Tyrell volevano un accordo matrimoniale, magari un piccolo volpino con odor di rosa? Bene: e allora era su quello che quella unione, come tutte le altre simili, avrebbe dovuto fondarsi. Sul doveroso e non troppo piacevole sesso tra due persone che né si conoscono, né si stimano, e tanto meno si amano.

 

 

 

Un piccolo miracolo era accaduto. Anzi due: uno grande e uno piccolo. Quello grande, ma ormai metabolizzato da qualche ora, era che lo zio Constant – che tanto Marcus e Mirietta (quand'era ancora viva) avevano osteggiato – aveva appena salvato la vita del principe cavaliere, di Xenya l'esploratrice e del suo secondo Pashamanyna. Il nemico contro il quale avevano deciso di battersi era troppo superiore: un demone o un diavolo dell'acqua. E solo un altro demone o diavolo avrebbe potuto combattere alla pari contro di lui. Demoni, diavoli o uomini dotati di poteri magici. E si dava il caso che Constant Lannister, avendo ricevuto l'istruzione da Primo Cavaliere del re, era proprio annoverabile tra questi ultimi. Solo che anche per lui l'impresa era stata ardua e alla fine aveva perso i sensi senza riprendersi più. Non era morto: il suo cuore batteva ancora, e un refolo di respiro continuava a riempirgli il petto. Ma era come congelato in una sorta di sonno mistico dal quale non pareva volersi riprendere, e nessuno era in grado di tirarlo fuori. Lo stesso Pashamanyna, che in quella landa desolata del mondo era probabilmente l'uomo più colto, non aveva la benché minima idea di che cosa fosse accaduto e si potesse fare per risolverlo.

Lo zio Constant, poi, non era chiaramente giunto da solo, lì all'occidente sconosciuto. Era arrivato con un manipolo di dieci o quindici cortigiani, mezzi guerrieri ma mezzi bottegai, tutti al servizio della Casa della Chimera, il cui primus inter pares era una sorta di intrigante faccendiere biondino, dall'accento semi-sconosciuto, che rispondeva al semplice nome di “Sir Bastian” e che aveva detto ai nipoti del malato che questi, prima di perdere i sensi, aveva deciso di mettersi a disposizione proprio dei suoi nipoti. E che quindi, finché Constant non si fosse risvegliato, adesso gli uomini del vecchio continente – Bastian incluso – rispondevano tutti al principe Marcus. Non che fosse poi così utile una dozzina di individui non a loro agio con le armi in un continente sconosciuto, ma era meglio che niente.

Quanto al secondo miracolo, quello piccolo, che non aveva salvato la vita di nessuno tranne forse quella dello stesso che il miracolo rappresentava, alla fine Daessenya in quel di una capanna alla baia dei Sayun-sama, aveva sgravato. Un minuscolo cucciolo d'uomo, che non aveva nulla a che fare con i tratti della mamma, era venuto fuori dalla pancia mugolando un po' falsamente come se gli seccasse piangere come tutti i lattanti appena sfornati. Marcus si sentì un cretino: non aveva capito che la ragazza fosse incinta. Che stesse male sì, ma incinta proprio no. Lei si era sempre coperta bene, e il piccolo in effetti era piuttosto mingherlino: un punto sopra al livello che il principe Cavaliere della Chimera avrebbe definito “preoccupante”. E poi era scuro di carnagione e con i capelli più neri che castani: la sua mamma invece era bionda e piuttosto chiara. Con chi lo avesse avuto, per Marcus rimase un mistero. Così come rimase un mistero il perché Xenya e Pashamanyna, e probabilmente pure Mirietta, avessero intuito la condizione della giovane donna, mentre lui no. Lui che nella vita aveva persino partecipato al parto di una chimera! Anzi: proprio di Shirley, la sua chimera.

Stava di fatto che per qualche tempo l'atmosfera si fece più lieta in quella baia oltre l'oceano conosciuto. Erano arrivati dei nuovi alleati ed era sbocciata una vita: piccole cose, ma significative della solitudine e alienazione che da un po' di tempo Marcus Lannister stava provando su quel continente, con le sue antiche e millenarie storie e le sue creature arcaiche e sconvolgenti, che lo facevano sentire così piccolo e in influente delle cose del mondo. Era ininfluente nelle guerre d'occidente: non vi aveva alcun ruolo, e ora che Mirietta se n'era andata non sentiva più neanche alcuna ragione di tornare al Westeros per rivendicare cosa? Con quali alleati? E con quali scopi?

Era stato ininfluente il giorno dannato del kraken: nessun comportamento da vero cavaliere, nessuna azione da eroe come il suo rango avrebbe dovuto richiedergli. Si era fatto sommergere, come tutti gli altri. E non aveva salvato una sola vita. Né quella di Mirietta, né di nessun altro. Ed era stato ininfluente nella lotta contro il demone di Cair Dedalos. Senza l'ausilio di suo zio Constant – al quale doveva la vita – Marcus sarebbe perito con l'esploratrice e il navigatore al suo seguito.

Il principe cavaliere stava ancora rimuginando su tutto questo, da solo in un angolo del piccolo castello sullo scoglio che era stato dimora per chissà quanto tempo del vecchio intrigante Muldrow dalla macchia sul viso, che poi corrispondeva pure al leggendario mago Mawldor, il demone delle fonti. Venne raggiunto da una popolana Sayun che gli fece capire la buona nuova che lo zio si era svegliato. Perché che Constant fosse di nuovo vigile era per lui una buona notizia, giusto? Oppure no?

Quando raggiunse l'unico Lannister, oltre se stesso, che bazzicava il nuovo continente, Marcus si trovò davanti un uomo molto più anziano di come se lo ricordasse, come se quell'affare della eliminazione del demone lo avesse di colpo fatto invecchiare di parecchi anni. Nel corpo era ancora abbastanza robusto, ma il suo volto era come profondamente segnato e il suo sguardo... talmente sereno da parere quasi quello di un moribondo. Nella stanza dove Constant stava proseguendo il suo doveroso riposo, lo zio e il nipote non erano da soli: Xenya, Pashamanyna e Sir Bastian erano con loro. «Sono io che ho richiesto la loro presenza» spiegò lo zio, incominciando il suo intervento, mentre tentava un po' maldestramente di mettersi con la schiena più ritta sulla testata del letto. «Quello che ho da chiederti» proseguì Constant «È molto importante: è meglio se ci sono dei testimoni»

«Zio», Marcus sapeva poche cose, ma una sì e su questa voleva essere molto chiaro: «Prima che cominci, voglio che tu sappia che so che ti devo la vita e ti sarò per sempre infinitamente grato per questo. Ma la mia idea sul Trono di Spade, per quanto la politica non sia il mio mestiere, rimane quella che era di Mirietta. Il mio re è Napoleon, figlio di mio fratello Axelion. Così la pensava mia sorella, e così la penso anch'io»

«Lo ammetto» replicò lo zio «La questione della corona è molto importante a mio avviso, anzi campale. Eppure c'è una cosa che è a mio avviso pure più importante e di cui voglio discutere con te». Constant fece una pausa, Marcus non ebbe nulla da rispondergli, e così continuò: «Per quanto riguarda il re che tu hai davanti e che dici di non voler riconoscere, questo continente ora ha un nome. E ce l'ha da quando mi è stato riferito, al mio risveglio, che la mia adorata nipote è scomparsa, affondata nelle sue acque. Mentre con l'audacia che solo una leonessa dei Lannister poteva avere, combatteva per portare in alto, a suo modo, il nostro comune nome. Per me e per chi sarà mio suddito, tre saranno i continenti di questo mondo: l'Essos, il Westeros e il Miriedos. Voglio chiederti: chiamerai, insieme a me, la terra su cui ora poggiano i nostri piedi “continente di Mirietta”?». Il principe Marcus non si trattenne: gli occhi gli si gonfiarono, e il viso cominciò a rigarglisi. Pensando alla ragazzina ben più audace di lui che non era stato in grado di proteggere, disse dunque solennemente: «Sì. Ci troviamo nel Miriedos»

«Ci troviamo nel Miriedos!» esclamarono quasi in coro Xenya, Jorando e Sir Bastian, alzando dei calici ,spuntati chissà da dove. E lo zio Constant, sorridendo, a sua volta: «Sì. Ci troviamo nel Miriedos».

Marcus sperò che a questo punto la conversazione con re Constant – non il suo re – fosse conclusa, ma chiaramente non fu così. Però Constant, diversamente anche un po' da come il principe cavaliere se lo ricordava, si rivelò molto abile nella conversazione. Fu affabile e sempre a modo, e mai ritornò sulla questione del trono. Disse solo a Marcus che avrebbe voluto essere accompagnato a fare visita al drago, appena le forze glielo avrebbero permesso. E Marcus non trovò ragioni per non acconsentire.

 

 

 

Alla fine di una lunghissima e un po' frenetica giornata, finalmente, Hana poté ritagliarsi un momento per stare da sola con la sua sorpresa, suo fratello Daniel di ritorno dal nord, e con Pamir anche. Era stato detto chiaramente ad entrambi – Daniel e Hana – che molto presto l'armata del nord sarebbe ripartita per Biancavilla, e Uryon non aveva concesso di mollare il principe prigioniero, che diceva di considerare un suo ospite ma che in realtà gli serviva come inevitabile pedina per i suoi interessi personali. Gabryaerys lo sapeva, lo aveva capito benissimo, ma non intendeva incrinare fin da subito i rapporti con il potente alleato appena trovato. Hana all'inizio insistette un pochino, in uno dei brevi istanti in cui poté confrontarsi con il re suo marito, e capì che non c'erano scenate che potevano ottenere vantaggi. Se fosse stata al posto di Gabryaerys, probabilmente avrebbe preso la stessa esatta decisione. Avrebbe preteso da Uryon un trattamento ottimale per il principe Daniel, che naturalmente non gli fosse torto un capello, e che il suo ritorno definitivo alla sorella fosse avvenuto molto presto, con il miglioramento dei rapporti tra corona centrale e corona del nord, e questo in effetti Gabryaerys le disse di aver fatto. D'altro canto: era chiaro a tutti che partendo di nuovo Daniel verso nord, i rischi aumentavano. Uryon poteva garantire quello che voleva, e poi comportarsi al contrario rispetto a quello che aveva garantito, e questa era la ragione per cui Hana si sentì un po' in imbarazzo quando riferì a suo fratello il mago lo stato delle cose. Pensò che lui non avrebbe compreso, che avrebbe detto ad Hana che non si fosse impegnata abbastanza. E invece Daniel era intelligente esattamente per come Hana se lo ricordava: capì che quella era la situazione e non fece granché rimostranze. Chiese solo che tutte quelle belle cose che Uryon aveva promesso, il re se le facesse mettere per iscritto, e Hana si impegnò a far muovere il re in tal guisa non appena possibile.

Dopodiché, nel corso della cena riservata che la regina, il Piromante e il Maestro delle Strade si fecero preparare negli appartamenti in cui lei era stata ospitata (questa volta non come prigioniera), i tre passarono ai commenti della giornata. Era stato un giorno dal grande significato simbolico quello in cui il nord aveva liberato il nuovo re; di quelli da appuntare, per gli scrittori di annali. Il duello di Delta delle Acque si era alla fine rivelato come una doppia trappola: da una parte, quella di Gabryaerys preparata al defunto Henrich Bolton per vincere il duello e mantenere unito il regno. Dall'altra quella dei Bolton e dei Baelish, ordita su Gabryaerys perché fosse fatto prigioniero con l'intera sua corte, cosa che in effetti accadde. Ma un'epocale e leggendario duello in effetti non ci fu: ci fu un massacro; un mostro gigante fatto di roccia aveva schiacciato il povero Lord Bolton come una pustola. Invece, l'abbraccio tra l'orso e il drago poteva essere l'inizio di una vera e propria nuova era, una di pace sotto il sovrano Targaryen, o almeno era su questo era che probabilmente Gabryaerys aveva tutta l'intenzione d'investire. E quindi, la loro liberazione da parte di Uryon era un evento degno di memoria, e per questo venne celebrato con tutti gli onori. Il pranzo durò per ore: anche per questo, farsi concedere la possibilità di una cena triviale tra amici fu meno difficile del previsto. Circa una ventina di portate, balli e canti, e uno spettacolo di animali esotici direttamente condotti per l'occasione dal nord più estremo. Si era parlato di politica e del nuovo splendido avvenire dell'orso e del drago, fino allo sfinimento. Probabilmente era di questo che si stava continuando a parlare negli appartamenti privati del re, mentre Hana, Daniel e Pamir mangiucchiavano il loro pollo arrosto con le mani, ungendosi e lordandosi come quando erano ragazzini. E poi c'era stato anche il terribile episodio delle ritorsioni sugli sconfitti. Perché quello erano Petyr il giovane e la sua madre plebea: dei nemici di guerra, appena distrutti. E, agli occhi del re e del suo nuovo potente alleato del nord, dovevano pagare.

Petyr il vecchio si trovava ormai serenamente arroccato alla sua Valle di Arryn, con il Demone delle Fiamme suo prigioniero. Il Demone di roccia invece, era stato liberato come il resto della corte del re. A giudizio di Lord Uryon e di altri, mentre se ne discorreva durante l'infinito pranzo come se si stesse parlando di giostre e taverne, entrambi i parenti del congiurato disponibili a Delta delle Acque dovevano morire. Alla scelta del re stava solo di decidere del quando e del come. Cercando di manifestarsi come semplicemente appassionata e non come sconvolta dall'idea di giustiziare un ragazzino, per quanto antipatico, Hana fece valere tutte le sue ragioni su quanto ridicolo fosse eliminare i due Baelish e non usarli come pedine politiche. Anche Uryon era un bravo conversatore e le sue idee di violenza non le dipinse come tali, ma anzi ribatteva alle parole di Hana punto per punto. La sua tesi di fondo era che la Valle era troppo isolata per rappresentare un vero pericolo: schiacciata dal nord, dal sud e ora pure dalla terra dei fiumi, gli unici contatti che probabilmente era in grado di mantenere erano quelli con l'oriente. E l'Essos non interveniva mai direttamente sulle questioni del continente occidentale. Quindi, con Baelish il vecchio non era più necessario trattare: bisognava distruggere.

Alla fine, il re optò per una soluzione di mezzo: avrebbe risparmiato il ragazzino e fatto uccidere la madre, quello stesso pomeriggio, dopo il pranzo. A opinione della regina la soluzione sarebbe stata atroce comunque: il re decise pure che il ragazzino avrebbe dovuto assistere. E fu ancora più terribile per lei la semplicità con cui il suo consorte rispose alla domanda diretta postagli da Worchester, su come eseguire la sentenza. Disse infatti il re semplicemente, quasi con noncuranza: «Siamo nella terra dei fiumi no? Annegatela». Certe volte la crudeltà naturale di suo marito la imbarazzava. Sapeva che un re doveva essere anche severo, e sì: persino crudele in certi casi. Ma a quel re la cosa veniva maledettamente naturale. Daniel glielo fece pesare un po' quella sera. Sebbene Hana fosse stata in grado di difendere il marito, e di far capire a suo fratello che – nonostante tutti i suoi dubbi doverosi – lei in realtà si sentiva al sicuro, e non andava salvata da niente, sulla crudeltà di Gabryaerys aveva dovuto tentennare un bel po'. C'erano stati anche episodi di misericordia da parte del re suo marito, e tutti Hana li spiegò all'incredulo Daniel. Ma sulla questione della condanna a morte avvenuta quel pomeriggio, non ebbe come difenderlo. La moglie di Baelish venne annegata nelle acque della Forca Rossa, e solo per un pelo Hana riuscì a convincere il suo “diletto” a fare in modo che Baelish il giovane alla fine non fosse costretto a guardare. Un pallido atto di clemenza di cui Hana poté comunque servirsi sempre a cena con Daniel, per dire che suo marito non era proprio un mostro. Ma nulla da fare: suo fratello non si convinse.

Lo sorprese, e si accollò, il fatto che Hana si sentisse sicura. Ma del re Naharis Targaryen, Daniel continuò a non fidarsi. Continuò a considerare sua sorella prigioniera di Gabryaerys almeno quanto lui lo si sentiva di Uryon. Finita la cena, la rimpatriata cominciò via via ad acquisire un non inatteso profilo malinconico. Alla fine, arrivò pure il momento dei ricordi e... dei saluti. Daniel e Hana non sapevano se si sarebbero lasciati l'indomani o il giorno dopo ancora, ma sapevano che il momento in cui Uryon sarebbe ripartito per il nord, riportandosi Daniel con sé, sarebbe arrivato molto presto: sia il re che il suo potente alleato erano stati molto chiari su questo. Pamir si addormentò quasi subito, e così Daniel e Hana finirono per parlare del loro padre, re Lionel. Di quanto fosse stato, in vita, sempre severo, ma giusto. E più appassionato di eventi che di riunioni. Poi di Axelion e della sua prematura scomparsa, cosa che mise Hana di nuovo in imbarazzo: Daniel le chiese se anche lei pensava che, nella remota ipotesi in cui il piccolo Napoleon (probabilmente ancora rinchiuso a Forte Terrore) risaltasse fuori, lei avrebbe avuto l'intenzione di riconoscere lui come suo re. Hana non sapeva sinceramente cosa pensare: non aveva mai realmente preso in considerazione la cosa. Così si concesse una fugace risposta positiva, ma poi cercò di glissare finché non si cambiò argomento.

Di Marcus e di Mirietta nessuno dei due aveva notizie, quindi non si parlò al presente ma al passato, così come si parlò al passato anche dello zio Constant e del loro comune precettore Lord Braff. Quindi si addormentarono, praticamente abbracciati. Come quando erano ragazzini.

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Capitolo 29
*** Il re e il drago ***


Capitolo 29

IL RE E IL DRAGO

 

 

 

Passò meno di una settimana. La richiesta all'inizio un po' velata di “re” Constant di visitare il drago, si fece via via più pressante man mano che lo zio del principe cavaliere si rimetteva; e ora si stava rimettendo piuttosto rapidamente. All'inizio, quando grazie alla sua magia il demone Mawldor si era disciolto su se stesso con tutto il suo orrendo teschio nero, Constant pareva non doversi riprendere più. E invece eccolo là, sei giorni dopo, di nuovo rivestito di tutto punto come solo un sovrano poteva essere vestito.

Tutta quella situazione era da un po' che a Xenya cominciava a risultare pesante. Lo era già dai tempi di Mirietta, ma alla principessina aveva voluto bene, l'aveva percepita come un'anima simile alla sua, per quanto decisamente non uguale. Ma ora che la piccola non c'era più, l'esploratrice sentiva di fare tutto ciò che faceva come per inerzia. All'inizio, aveva voluto aiutare il principe cavaliere perché... Mirietta, quand'era in vita, gli voleva bene, e lei voleva bene a Mirietta e fin qui tutto regolare... ma ora era arrivato anche questo loro zio, che anziché aiutare aveva complicato ulteriormente le cose! Ma perché avrebbero dovuto riguardarla pure 'sti conflitti familiari? Che se li risolvessero da soli, erano uomini maturi e certamente ben vaccinati, molto più di lei senza dubbi.

Xenya aveva già fatto fagotto il giorno dopo la lettura del libro e la morte del demone. Era lì: pronto, che aspettava lei per tornare a una navigazione in solitaria; alla scoperta di nuovi orizzonti, nuove mete, nuove persone, nuovi usi, nuove danze, nuovi alimenti. L'esploratrice era fatta così: dopo un po', si stancava; doveva rimettersi in viaggio. Sentire sotto di sé l'oscillare delle maree, e non la banalità tranquilla di una terraferma. Tuttavia il fagotto attese un po' troppo, tanto che arrivò una nuova che malauguratamente convinse Xenya a ritardare di un altro po' la sua ormai inevitabile partenza: il re voleva abboccarsi col drago. E lei non aveva intenzione di perderselo, visto che lo “zio” Constant, non era né Marcus e né Mirietta, e non si sarebbe sicuramente approcciato al drago allo stesso modo dei suoi nipoti. Poteva succedere qualcosa di nuovo e interessante, e le cose nuove e interessanti –a un'anima progressista come la sua - risultavano spesso irresistibili.

Così, fu anche con un sorriso stampato in volto che affrontò il giorno dell'ennesimo viaggio dal sud a nord del nuovo continente, quello che il re Constant aveva ribattezzato “Miriedos”. Una cosa un po' pacchiana, secondo l'esploratrice, che riteneva di esser stata negli ultimi tempi un'amica più sincera per la piccola Mirietta di quanto quel Constant non fosse mai stato un vero e proprio zio. Cose da culi nobili, insomma: dare nomi ai continenti! I continenti dovrebbero avere il nome deciso da chi per primo gliene abbia dato uno, e quindi un nome Kowacz o Sayun, o un nome degli uomini-drago. Che poi, stando a quello che l'esploratrice aveva capito dal demone Mawldor, erano tutti parenti, tutti figli in qualche modo del solo Kyrios, mentre gli uomini al di là del grande oceano erano l'esito di varie miscellanee della magia di più draghi. Forse per questo, anche se tutte diverse, i tre popoli del Miriedos parlavano però tre lingue comunque impronunciabili. Almeno per lei, che rimaneva una donna del Westeros, per quanto cosmopolita potesse sentirsi. E quindi, solo per la ragione di cui sopra, avrebbe acconsentito: anche lei si sarebbe riferita a quel continente chiamandolo Miriedos.

Il suo sorriso intanto insospettì Jorando che, lungo la strada per la terra degli uomini-drago, si prese di coraggio e le domandò come mai fosse così allegra, lei che tendenzialmente sul volto aveva sempre e comunque un'espressione austera, da comandante deciso e senza esitazioni. All'inizio, Xenya l'esploratrice tentò di glissare, ma poi ammise piano al suo secondo che non vedeva l'ora di scoprire che cosa il re avrebbe detto al drago. Questa sua malizia, sorprese un poco Pashamanyna, che le fece notare come la cosa cozzasse con il clima generale del gruppo. Re Constant aveva perso una nipote, il principe Marcus una sorella e lei una amica. E non andavano al nord a chiacchierare, bensì a predisporre una guerra, o comunque a discutere di cose che avevano a che fare con tensioni e conflitti nel mondo. All'inizio Xenya, testarda per com'era, rispose con qualcosa tipo: «Beh, e allora? Sono problemi miei?», poi però, quando si accorse – dopo ancora poca insistenza da parte del suo secondo – dell'espressione tetra che aveva Marcus sul viso mentre a sua volta marciava verso il vulcano di Kyrios, non riuscì a non sentirsi in colpa. Così, prese l'iniziativa e decise di andare a parlare al principe, pur non sapendo esattamente di cosa.

«Hey, principe» esordì lei.

«Hey, esploratrice» rispose lui.

Poi ancora lei: «Pensi ancora alla piccola?»

«Sì»

«Pensi ancora che avresti potuto salvarla?»

«Sì»

«Quanto risulterei odiosa se ti ripetessi per l'ennesima volta quello che tutti ti ripetono da giorni, ovvero che: no, non potevi»

«Non mi risulteresti odiosa. Ma neanche utile»

«Non sono utili le parole di chi cerca di consolarti: lo capisco e lo rispetto, il dolore è troppo grande. Ma... continuare a ripetersi colpevole di una cosa di cui palesemente non lo si è, non è altrettanto inutile? Anzi, perfino distruttivo?»

«E che importa?»

«Che importa autodistruggersi?»

«Sì: che importa?! La mia vita è ormai verso un'inarrestabile declino! Non sono più un Cavaliere della Chimera, l'intero ordine ormai può dirsi sostanzialmente finito. Non ho più una famiglia: tutti quelli a cui volevo bene sono morti o dispersi. Conservo un pallido ricordo di una cosa che ho chiamato “amore” nella mia testa, e che forse non lo è mai stata: d'altronde, cosa importa? Dubito che ne rincontrerò mai più l'oggetto per cui, quello che ti chiedo, esploratrice è... tutto questo che senso ha?»

«Beh, se posso permettermi, principe...»

«Che importa?»

«Cosa?»

«Che importa se te lo puoi permettere o meno, ti conosco abbastanza bene da ritenere che comunque me lo diresti»

«Sì, è vero: te lo direi comunque. E infatti te lo dico: Mirietta»

«Mirietta cosa?»

«Mirietta è il senso di tutto questo. Sai cosa penso? Penso che tutto questo tuo modo di ragionare sia in realtà profondamente egocentrico. Non è per i Cavalieri della Chimera, o per i tuoi familiari, o per l'amore che dici di aver perduto, che hai gettato la spugna... è per te stesso. Per il tuo dolore. Perché non vuoi accettare le sfide che ti si parano davanti»

«Oh, questa è bella!»

«È bella ed è la verità. Dimmi un poco, principe, credi che è questo che Mirietta vorrebbe? O farebbe se fosse al tuo posto?»

«Io...»

«E i tuoi parenti, cui tanto dici di essere affezionato? È a questo che vorrebbero arrivare? Un Marcus arrendevole e piagnucoloso? È questo che voleva tuo padre il re, quando ti ha mandato alla Valle del Leone?»

«I-io...»

«Principe Marcus: tu sei chiaramente un caro ragazzo. E hai subito prove molto dure, durissime, per la tua giovane età. Ma adesso basta: c'è un drago da convincere e una guerra da preparare. Se davvero vuoi rendere orgogliosa Mirietta, e tutta la tua famiglia: calcia via il culo del Targaryen dal trono che vi spetta».

Tutto questo, le venne dal cuore. Non era programmato: non sapeva che le sarebbero uscite quelle parole di bocca quando si era diretta verso il principe cavaliere con tutta l'intenzione di tirarlo un po' su di morale. Tirarlo un po' su, va bene, ma non sfornare fuori il discorso dei discorsi. E invece era questo che le era riuscito. Il principe rimase senza parole: Xenya aveva ragione in tutto e per tutto, punto. E fu con un'altra espressione sul viso che Xenya lo vide continuare il suo viaggio verso nord, più distesa. Come di chi sia ancora pieno di ferite, ma per lo meno sulla via della cicatrizzazione.

Gli uomini (e le donne) drago, accolsero il rinnovato gruppo di estranei dell'altro continente con il solito calore: incredibile che fino a che non erano arrivati ai piedi di quella favolosa montagna infuocata, Xenya e gli altri avevano creduto - travisando le descrizioni dei Sayun – che avrebbero avuto a che fare con delle specie di mostri. Gli uomini-drago erano in effetti piuttosto anomali, come stirpe. Tutti ben più alti della media degli uomini del Westeros (comprese le loro femmine), erano tutti fisicamente prestanti e dai tratti spigolosi. Il fisico era asciutto e lo sguardo un po' inquietante: quello sì, forse non esattamente umano. Ma per il resto erano uomini: avevano tutti gli organi interni ed esterni al loro posto, mangiavano, bevevano, morivano e facevano l'amore. Questo Xenya lo sapeva bene, visto che più di uno di quei giganti aveva giaciuto nella sua tenda personale.

Una volta condotto e guidato i neofiti al cospetto dei figli più diretti del drago Kyrios, a loro volta ormai abituati a queste sporadiche ma costanti incursioni di gente dal sud, si aprì un breve dibattito tra Marcus, Xenya e Jorando da una parte e re Constant e i suoi tirapiedi dall'altra. Il re sosteneva che non fosse il caso di introdursi “da solo”, senza neanche una piccola scorta, all'interno di quella faglia sulla montagna proseguendo la quale si arrivava all'antro del drago. E aveva peraltro, su questo, l'appoggio appassionato ed incondizionato di quel grassoccio, petulante, Sir Bastian che Xenya cominciava a non tollerare più. Per di più, Sua Maestà si era mostrato piuttosto contrariato quando aveva capito che sarebbero stati i tre che già il drago conosceva, ad introdurlo: si era accordato perché dicessero il suo nome e spiegassero che era un re, ma poi non altro. Era fondamentale per lui confrontarsi col drago autonomamente, chissà perché. Xenya, il principe e Pashamanyna spiegarono al re che il drago non amava le sorprese, e avrebbe potuto prenderla molto a male sapendo che loro tre avevano portato un quarto, nuovo, figuro nel suo antro. Era per questo, non per un capriccio, che i tre insistevano: per ottenere proprio quello che il re voleva, arrivare dal drago incolume, senza farlo irritare ed evitando in questo modo di finire abbrustoliti. Kyrios era maestro dell'energia incandescente del centro della terra: se avesse voluto, avrebbe potuto renderli cenere senza che nemmeno se ne accorgessero.

Constant capì, ma in parte. Accettò di essere introdotto, ma non oltre. Accettò di entrare da solo nella faglia, con Xenya, Marcus e Pashamanyna e con... sir Bastian, molto dietro, che non si sarebbe dovuto far vedere dal drago. E fu così che i cinque cominciarono il loro ultimo percorso prima della tanta agognata (dal re) meta.

Fu Marcus a riferire a Kyrios della novità. Per la verità, già dallo stesso arrivo del principe e dell'esploratrice nel suo antro, il drago aveva manifestato una maggiore freddezza. Disse che si era illuso di non dover mai più rivedere le loro facce: era sicuro che non sarebbero sopravvissuti all'incontro con il mago, cosa che in effetti non sarebbe mai successa senza l'aiuto di Constant. Fu purtroppo proprio questa la piega che prese quella presentazione: Marcus si vide costretto a dire che chi lo aveva salvato era lì con lui e che era suo zio Constant. A questo punto, quest'ultimo fece di testa sua ed interruppe il confronto tra il principe e il drago. Ora erano un re e un drago che stavano per confrontarsi.

Xenya dal canto suo percepì come una specie di ansia nel re: un timore che Marcus dicesse di lui qualcosa che non doveva dire, ma che il re non poteva dire a Marcus di non dire. Era tutto molto ingarbugliato, eppure proprio questa apparve a Xenya la situazione. Ma durò poco: Constanti era un politico più anziano del giovane Cavaliere della Chimera e, anche se non era la lingua più fluente che l'esploratrice durante i suoi viaggi avesse mai ascoltato, si rivelò comunque abbastanza fluente per convincere il drago a parlare da soli. E per convincere lei, Marcus e Jorando a smammare. Prima di uscire dall'antro, l'esploratrice si ritrovò il volto bolso dello spocchioso Sir Bastian. Volentieri gli avrebbe alzato le mani, ma per un soffio si trattenne. C'era qualcosa che non la convinceva in quel figuro, anzi c'era qualcosa che non la convinceva in tutta quella combriccola a traino del re. In verità non era neanche troppo sicura del re medesimo, e più ci pensava più si stava per convincere che non era stata una buona idea lasciarlo da solo in compagnia del drago.

Ma venne smentita. Non passò molto che anche Constant venne fuori dall'antro di Kyrios, tutto smagliante in un sorriso soddisfatto. Annunciò dunque a lei, al principe e a tutti gli altri: «Buone nuove! Il drago ha acconsentito ad un'alleanza organica. Tutti i suoi figli combatteranno al nostro fianco».

 

 

 

Quando l'ex Lord Garhel Sawela riaprì gli occhi, pensò che quello che stava per vedere non avrebbe avuto nulla a che fare con il mondo terreno in cui era già stato, e dove aveva avuto l'immenso onore di poter vedere tante cose. Pensò invece di poter rivedere sua moglie, le sue figlie, e tutti gli amici perduti con l'incendio doloso del Formicaio. Cieli rossi, mari gialli e fuochi blu. E invece no: rivide Banfred Panecha.

Il grasso principino, sorridente, con i suoi occhi a mandorla e le guance paffute, non si rivolse tuttavia direttamente a lui, ma a qualcun altro che non doveva essere lontano. Chiese: «Quindi... ora sta bene?»

«Non ho detto che sarebbe stato bene» rispose una voce ben più matura di quella di Banfred, che tuttavia Garhel si rese conto di poter sentire solo molto attutita. «Ho detto» riprese l'uomo più maturo «che non avrebbe provato dolore»

«Beh sì» confermò il figlio dell'elefante; anche la sua voce era attutita in effetti, «Ma adesso... si è svegliato... Ehm... può sentirmi?»

«Chiediglielo»

«Ehm... Lord Sawela» tentò dunque l'elefantino, avvicinando ancora di più il suo giocondo faccione, «Tu puoi sentirmi?». Garhel provò a farfugliare qualcosa, ma si rese conto che dalla bocca non uscì esattamente quello che voleva dire. Anzi, più che altro venne fuori un tristo mugugno. «Ehm... ha problemi a parlare» riprese Banfred «Però, è chiaro che mi sente»

«La voce tornerà di certo» disse l'uomo misterioso «È sull'uso delle gambe che mantengo forti perplessità». Ah, già: le gambe! L'ultima volta che era stato sveglio sulla terra, Garhel ricordava benissimo che uno degli elefanti di Panecha gli era crollato addosso, mentre stava cercando di salvare il principino dal guado di fango che era diventata una parte del castello orizzontale. Era da quel momento che poi il buio lo aveva preso, illudendolo che tutto fosse finalmente finito per sempre. E invece no: al peggio non c'è mai fine. Garhel Sawela era vivo, senza l'uso delle gambe, e in grado solo di fare versi anziché esprimere parole sensate. Un incubo nell'incubo.

E il brutto era che non c'era assolutamente nulla da fare. Garhel era completamente nelle mani dei suoi due nuovi aguzzini: gli uomini che pretendevano di tenerlo in vita in quel modo, storpio e senz'anima. Che mondo tapino era mai quello in cui i draghi potevano uccidere gli uomini a frotte, e un uomo che voleva uccidersi neanche poteva farlo? Un mondo oscuro: questa era la risposta. Molto molto oscuro.

Fu così che Garhel Sawela non poté far altro che rassegnarsi, e ascoltare con una calma obbligata, tutto ciò che Banfred desiderava dirgli. Ascoltò tutti i suoi ringraziamenti e salamelecchi vari per avergli salvato la vita, cosa che Garhel aveva fatto più d'impulso che ragionandoci sopra. Poi l'amarezza per la situazione, personale (come figlio di un padre che era morto, ucciso da chissà chi), e globale (come giovane abbastanza colto da capire che quello che era accaduto era un fatto storico per l'intero genere umano; storico e negativo). Dunque le cose che Sawela non sapeva: che si erano salvati raggiungendo uno speciale rifugio per le emergenze, che quel diavolo di Lord Justus l'elefante si era fatto costruire nei sotterranei del castello, e che a quanto pare – data l'ondata di fango – non era stato in grado di raggiungere. Seconda cosa che Garhel non sapeva: tra quelli che si erano salvati, oltre Banfred e se stesso, trascinato dal principino fino al rifugio, c'era stato anche il pregiatissimo medico primario della corte di Panecha, l'uomo che aveva fatto in modo che Garhel si mantenesse alla vita. Gli aveva somministrato intrugli e pozioni fino a fargli perdere moltissima della sensibilità: era per questo che Garhel non riusciva più a parlare. Ma quel trattamento gli aveva permesso di sopravvivere al dolore per le gambe spezzate, che infatti Garhel non si sentiva minimamente. La speranza era che un giorno, col tempo, sarebbe potuto tornare ad essere il vecchio ex Lord guerriero. Ma intanto doveva pazientare in questo modo: come una larva.

La terza e ultima cosa, la più sconcertante, era che Banfred aveva preso la decisione di andare a parlare col drago, il loro comune nemico, che aveva appena invaso e occupato la loro casa, Marrah Cankhubhia. Solo così, suonava già come una cosa abbastanza folle e, se avesse avuto modo di farlo, Garhel avrebbe preso le orecchie di Banfred, e tirandogliele, gli avrebbe gridato tutta la propria contrarietà. Ma non era finita: Banfred intendeva parlare col drago, al fine di trattare la resa. La logica era la seguente: c'era stata una guerra; una volta morto suo padre, lui rappresentava la parte sconfitta, dunque doveva misurarsi con la controparte e cercare di ottenere quanti più vantaggi possibili, date le condizioni: ovvero il mantenimento in vita di coloro che erano sopravvissuti. La cosa illogica era invece che quella resa Banfred intendeva trattarla con una creatura vecchia di milioni di anni, che probabilmente non aveva idea di neanche cosa fossero le buone norme del costume militare prima, durante e dopo un conflitto armato. Ma quella più illogica di tutte, era che Banfred c'era quando Garhel aveva incontrato la draghessa. Ci avevano parlato insieme: lui sapeva cos'era quella creatura, e, nonostante un aspetto che un po' lo scimmiottava, in realtà non aveva nulla a che fare con il genere umano. Davvero Banfred aveva dunque questa intenzione? Azzardare un dialogo con una creatura che molto probabilmente non lo avrebbe capito? E tutti quei consiglieri e amici che aveva là sotto nel rifugio, perché non gli dicevano niente? Che aspettavano a prenderlo per il pazzo che era, e a dirgli che facendo quello che aveva intenzione di fare sarebbe finito arrostito pressoché sicuramente?

Tutto questo Garhel non lo capiva, e l'impossibilità di poterlo comunicare lo fece innervosire. Ci perse un po', prima di arrivare alla solita conclusione: l'unica via, era la pazienza. E, sempre con la pazienza, dovette tollerare l'ennesima decisione di Banfred: portarlo con lui. Il giovane elefante avrebbe messo Sawela sulla schiena, imbrigliato come una specie di zainetto, e l'avrebbe portato con sé dalla draghessa poiché, a suo dire, ella avrebbe gradito la presenza di due tra i primi uomini con cui aveva dialogato da quando si era risvegliata dopo secoli e secoli di sonno. Era un'idea semplicemente... semplicemente... sensata! Era vero: Banfred e Garhel erano stati risparmiati da Kimera. Lei odiava l'umanità come genere ma verso loro due, come individui, aveva provato... compassione. Forse c'era ancora tempo per intervenire su questo...

Così fu con la speranza nel cuore, e con molta maggiore attenzione rispetto a come si stava predisponendo, che Garhel si lasciò trasportare come un peso qualsiasi sulla schiena di Banfred dapprima dal passaggio sotterraneo al piano terreno. Poi, osservando Banfred che in effetti la draghessa non aveva deciso di sistemarsi nel vecchio castello di Lord Justus, percorrendo i lunghi corridoi fino a fuori, alla piazza centrale. Era lì che Kimera aveva deciso di sistemarsi, circondata dal suo esercito di piante e fiere ruggenti, e innalzata in un trono di sterpi e foglie. Tutta la piazza di Marrah era improvvisamente divenuta di un verde intenso, brillante come lo smeraldo, quasi accecante. La situazione era di una sacralità un po' terrificante. Se davvero Banfred l'elefantino si fosse esposto, sarebbe probabilmente stata l'unica creatura umana in tutto l'orizzonte. Quel primo passo non sarebbe stato facile. E infatti l'elefantino tentennò, cosa di cui Garhel non fu affatto sorpreso. Tentennò per i primi secondi, poi perfino per dare il tempo a uno degli animali, una iena, di avvicinarsi alla draghessa – lei in forma umana – come a volerle comunicare qualcosa. Un comunicato effettivamente avvenne. Da qualche parte dal fondo della piazza divenuta tempio naturale, ci fu un passaparola tra le belve, e poi un certo discostarsi. All'inizio piccola come un bambino, e poi invece sempre più grande, venne manifestandosi un'altra figura della medesima natura della draghessa. Impossibile non capirlo: era un uomo disumanamente alto e disumanamente prestante, circondato della medesima aura mistica che circondava la donna-drago Kimera. Come nel caso di lei, i capelli di lui erano biondi. Ma quelli di Kimera erano raccolti in due scenografiche crocchie, mentre quelli dell'uomo-drago era lasciati selvaggi verso le spalle, più mossi che ondulati. Kimera da donna disumana aveva occhi castani, mentre lui li aveva di un intenso, infinito, azzurro. Mentre lei indossava una sorta di lunga tunica bianca, sotto il quale poteva praticamente esserci qualsiasi cosa, lui invece era vestito come un soldato orientale. Aveva una lunga gonna, ma gli arti superiori erano due braccia muscolose e perfettamente formate. Ai loro estremi, due mani con cinque dita. E sul volto, un inquietante sorriso demoniaco, che non aveva nulla a che vedere con l'austerità serafica della regina Kimera, assisa sul suo trono.

«E così» cominciò la regina drago «Anche tu hai ritrovato abbastanza energia magica per mutare la tua forma, fratello»

«Ebbene sì, è accaduto. E tu: hai accumulato un così immenso potere da azzardare una guerra contro i nostri figli mortali, sorella. E dimmi: quante altre battaglie, oltre a questa che hai vinto, prevedi?»

«Due all'incirca, o tre. Solo un'altra su questo continente. Poi sugli altri: chissà. Obiettivo fondamentale non è debellare tutti gli esseri umani. Ma è imporre di nuovo il nostro controllo su di loro»

«Nostro? Quando dici questa parola... di chi è che parli esattamente? Kyrios della terra è rimasto confinato per tutti questi millenni dentro la sua casa: e nessuno lascia pensare che mai deciderà di uscirne. Nidhogg degli uomini è morto. Per l'ennesima volta. È ritornato a vagare tra gli spiriti ancestrali. E per quanto concerne Luxia, è l'unica di noi che davvero non è mai tornata»

«Tutte queste cose... tu come le sai?»

«Beh, vedi, mentre tu concentravi tutte le tue attenzioni per accumulare un esercito e venire a fare una guerra qui agli angoli del mondo degli uomini, io invece... ho speso il mio tempo nel viaggiare. E ho imparato un po' di quello che è diventato il mondo da quando noi lo abbiamo lasciato. È così che ho capito il destino di Kyrios, Luxia, e il tuo. Quanto a Nidhogg... sono stato io ad ucciderlo», a queste parole tutta una parte degli animali presenti cominciò a strillare, agitata. Garhel invece, come Banfred e come chiunque altro avesse mai assistito a quella conversazione surreale, semplicemente non ci stava capendo niente. «E ho appreso anche altro nel corso dei miei viaggi» ricominciò il drago-uomo dagli occhi azzurri e disumani «Ho appreso che la nostra magia è sedimentata così a lungo, sparsa in tutta la terra, che ora potrebbe persino superarci nell'intensità. Non dico nella durata chiaramente, ma nell'intensità sì. Certi uomini, Kimera, farebbero spavento persino a un drago. Alcuni particolarmente. Alcune nostre vecchi conoscenze...»

«Alludi ai Sette Manti?» rispose la regina «Davvero si sono risvegliati? Davvero un unico uomo, con il suo solo potenziale magico, è stato in grado di spezzare il sigillo di Cair Dedalos»

«Sì, è così»

«Devo ammettere che questo è sorprendente»

«Ed è per questo, cara sorella, che con mio grande rammarico devo correggerti: l'umanità non va controllata. Va annientata in ogni sua forma. Onde evitare che il suo potere portato all'estremo possa distruggere tutto ciò che noi abbiamo creato e, con esso... noi medesimi». Già dall'inizio della conversazione, il drago fatto uomo si era lentamente avvicinato alla sorella assisa al trono. Con fare sempre più ondulante e suadente, era dunque arrivato a pochi palmi da quella cui si rivolgeva come a una antica, antichissima conoscenza.

«È incredibile» constatò Kimera «I millenni sono passati, eppure tu sei rimasto nella tua stessa posizione. La tua tesi è rimasta la medesima, imperitura, e pure così clamorosamente sbagliata. Io non nego che pure le posizioni di Nidhogg e Luxia mi lasciassero perplessa, ai tempi. Ma se c'è una cosa che l'umanità ci ha dimostrato, caro fratello, è che alla fine sopravviverà. Sempre. Come ha sempre fatto. Ma questo tu non vuoi proprio comprenderlo, non è così? Requiem?»

«Beh, sorella» sorrise il maschio, sadico, «D'altronde come possiamo confutare una tesi, senza mai neanche aver tentato di prenderla in considerazione?». Dicendo ciò, l'uomo gigante dai lunghi capelli mossi e biondi, afferrò con slancio inaudito una lunga lancia che aveva fino ad allora tenuto sulla schiena. Dunque la puntò al petto della sorella e lì la conficcò per bene, fino ad ucciderla. A questo punto, quello a cui Garhel e Banfred assistettero fu come uno scambio di strane luci fuoriuscire dall'aura dell'uno per mischiarsi con quelle dell'altra, mentre il cielo cambiava rapidamente e mille volte colore, e le creature tutto attorno al trono si agitavano come dannate. Qualcuna di esse si lanciò pure sul drago “Requiem”, ma tutte quelle che ci provavano, finivano sballate a metri di distanza e già cadaveri mentre erano per aria, così ben presto questa tattica venne messa da parte. Quindi un'intensa esplosione di luce, sicuramente collegata alle parole gridate dal nuovo drago come se stesse provando un immane dolore: «NATURA! GHIACCIO! E... MORTE!». Quando l'incantesimo finì, Kimera non era altro che un corpo morto, riverso più sul terreno che seduto sul suo trono ormai disciolto. E i suoi figli e le sue figlie, piante, uccelli e fiere... erano sotto il comando di un nuovo padrone. Uno decisamente più inquietante di lei.

 

 

 

Forte Terrore: un uccello rapace, tutto nero e mezzo morto, appollaiato su di un freddo scoglio imbiancato di ghiaccio. Tutta la grandezza e la bellezza del nord che Biancavilla rappresentava (aveva preso il posto del distrutto Grande Inverno in questo), era capovolta nella capitale dei Bolton. Era così da millenni: eppure, Grande Inverno era fallita. Invece Forte Terrore, tra alti e bassi, era da sempre sopravvissuta. E così la casata nobiliare che sedeva sul suo soglio più alto: quella dei Bolton. Ma questa volta l'ultimo dei Bolton, Lord Henrich, era morto (al duello di Delta delle Acque), senza un erede ufficiale. La vedova di re Axelion Lannister, l'intrigante Abigail della Casa Baratheon, che proprio a Forte Terrore si trovava quando Daniel raggiunse quel soglio insieme con la corte dell'orso, insisteva tuttavia che il proprio figlioletto, Napoleon, un pargolo di circa due anni, fosse in verità un Bolton, perché figlio di un adulterio commesso proprio con il defunto Lord Henrich. Questo ella disse – un po' ingenuamente – ad Uryon e all'intera sua corte quando arrivarono. Ma Uryon la invitò a fare silenzio.

Le ragioni per cui era stato deciso che il corteo regio, di ritorno dall'incontro con re Gabryaerys, facesse tappa nelle terre dei Bolton, all'inizio risultarono in effetti a Daniel di Cowain piuttosto oscure. Vero: Biancavilla era molto più a nord di Forte Terrore, e qualche tappa – anche più d'una – sarebbe stata inevitabile, come aveva anche dimostrato l'esperienza dell'andata. Ma Forte Terrore era molto più a est e raggiungerla aveva significato una deviazione non secondaria. Certo, era la seconda città del nord per popolazione, nord di cui Uryon ormai praticamente si proclamava re in ogni dove, ma... bastava questo a giustificare una deviazione così importante e faticosa? Non per Daniel: doveva esserci qualcos'altro.

E il qualcos'altro il principe Piromante lo scoprì proprio quando arrivarono al forte. In assenza di Lord Henrich, Lady Baratheon – con la scusa di essere la madre di un Bolton ma anche di un Lannister – si era imposta come governatrice pro tempore della regione. Ma questo, non era sfuggito alle spie dell'orso di Amergorth, a cui arrivavano nuove perfino dall'oriente, figurarsi se non dai luoghi che considerava “casa sua”. E, mentre ancora tesseva trame ed elaborava progetti con il re del sud, pensava a come rendersi “comoda” la situazione in quella parte di nord.

Aveva promesso a Gabryaerys che gli avrebbe inviato il figlio di Axelion una volta liberato Forte Terrore dai nemici della corona. E un bambino aveva intenzione di mandargli in effetti, biondo come Napoleon e della medesima età di Napoleon, ma non precisamente Napoleon. Quest'ultimo sarebbe rimasto a Forte Terrore con la madre, a suggello così di un nuovo sodalizio tra l'orso e il cervo. A lui serviva un governatore di quella zona che gli fosse fedele, perché grato. E lei sarebbe rimasta una donna di potere, così come il suo cuore – tutti sapevano – anelava. Certo, non era più la regina dei Sette Regni. Ma era la padrona assoluta di uno dei centri d'importanza determinante all'interno del continente occidentale. E sarebbe rimasta fedele, fin tanto che Uryon le avesse garantito sicurezza per il piccolo: non c'erano assolutamente dubbi a riguardo.

In quanto “protetto” del Lord di Amergoth, Daniel dovette pure assistere alla tristissima scena di Abigail e del crudele Lord dell'orso che esaminavano il ragazzino, dettando le ultime indicazioni a lui e ad una sorta di “nutrice” che sarebbe stata inviata con lui alla corte del re del sud. Costei, era una nobilotta di campagna appositamente incaricata da Abigail di trovare il sosia perfetto, e colpevole peraltro di aver strappato il bimbo ai propri madre e padre, risarcendoli a quanto pare con una ammenda in danaro che loro non avevano accettato. Il brutto era che la nobilotta, Abigail ed Uryon si erano pure messi a ridacchiare, rinfrescandosi la vicenda l'uno con l'altro. Che esseri abietti che erano i nobili di Westeros.

Alla fine di quel disgustoso incontro, Daniel si ritrovò da solo con Uryon nelle camere del castello di Forte Terrore disposte per accogliere il re del nord. Capitava spesso che Uryon costringesse Daniel a fargli compagnia, anche se ormai erano mesi che Daniel aveva deciso di non partecipare a quelle conversazioni. Forse l'opinione dell'orso del nord era che la speranza fosse l'ultima a morire; o forse semplicemente pensava che non avesse niente da perdere nel tentare con quella strategia: come dargli torto? Ma Daniel non rispose alle sue squallide giustificazioni su come lui, Abigail e quell'altra nobildonna avessero strappato un bambino ai genitori per spedirlo in pasto al drago di Roccia del Re. E non rispose neanche quando Uryon cambiò argomento; quando decise di rinvangare la vecchia storia di quello che aveva fatto – o per meglio dire: fatto fare – a Licyane. Un modo decisamente poco sensato di convincere Daniel a partecipare alla conversazione. Specie insistendo sempre e solo con le stesse giustificazioni: che l'aveva fatto per il bene del loro rapporto, del suo potere, dell'intero nord, e altre stronzate così. Eppure lo fece, recitò tutta la scenetta. E poi concluse: «Lo sai perché ti sto dicendo tutto questo, principe Daniel?». Daniel non rispose. «Penserai» continuò «che sono abbastanza ingenuo a continuare a parlare di tutto ciò: tutto quello che voglio è la pace, con te. E, parlando di queste cose, invece attizzo un clima di guerra. Ma era necessario, per ricominciare. Noi due ricominceremo infatti da questo mio discorso e da questo... mio gesto». A questo punto, il mostro del nord si sollevò sulle sue mastodontiche stampelle, e si diresse verso una porta secondaria. La aprì. C'era Licyane, oltre quella soglia. Ancora visivamente ferita da tutto quello che aveva dovuto passare, ma sorridente. Sinceramente sorridente. Nel frattempo il cuore di Daniel aveva avuto tutto il tempo di saltargli alla gola, ridiscendere al suo posto, risaltare e poi scendere ancora. Uryon li lasciò da soli.

C'era da ammetterlo: il Lord dell'orso sapeva bene come si gioca il gioco dei sentimenti umani. Certo, Daniel non lo avrebbe mai perdonato, e nulla sentiva che nel suo cuore avrebbe potuto cambiare questo dato di fatto. Però, senza dubbi, quella era la miglior cosa che l'orso di Amergoth avrebbe potuto fare, nelle sue condizioni. E la fece. A Daniel non era più stato permesso di rivederla da quel fatale, orrendo, giorno dell'abuso. Lei era... come ancora tramortita, nel suo fisico, nonostante fossero passati dei mesi. Col sorriso dolce del suo sguardo, gli fece capire che quello era il massimo della gioia che poteva manifestare, in quel momento, al sicuro con lui. Ma la verità fu che Licyane praticamente non spiccicò parola per l'intero loro incontro. Pur se Daniel provò a stimolarla, si limitò a rispondere in maniera molto succinta alle sue domande, e lei di domande non ne fece. Non era curiosa, non era realmente felice, era come... spenta. Daniel provò a stuzzicarla sul viaggio che aveva dovuto fare da Biancavilla fino a quella fredda torre di Forte Terrore. Le disse che aveva rivisto sua sorella Hana, e mille altre cose di Delta delle Acque e del suo viaggio al “sud”. Lei sorrise. E poi, alla sera, dopo una frugalissima cena, si limitò ad addormentarsi, accucciata su di lui, come una piccola bambina un po' stanca. E a Daniel andò bene. Tutto quello, anche se poco, gli era mancato. Quindi, per lui, andò tutto benissimo.

Alla mattina, quando il principe si svegliò, la ragazza non era più lì. Lui la cercò fin dal primo minuto. Chiese agli altri inservienti di Uryon, e al personale di Abigail e del castello. Nessuna traccia. Al tavolo della colazione, chiese direttamente all'orso, il quale gli spiegò che la ragazza era stata messa a lavorare come sguattera, ma che francamente non conosceva la gerarchia esatta di tutti i suoi superiori fino ad arrivare a qualcuno cui lui stesso, il Lord, potesse rivolgersi. Sembrava una mezza fandonia, ma il principe Piromante non vide altro da fare se non rinunciare a quella strada per cercare di percorrerne un'altra. Passò così un'intera mattinata e più di mezzo pomeriggio: Daniel non trovò Licyane da nessuna parte. Si maledisse quando, a sole già quasi tramontato, gli venne il colpo di genio: la biblioteca! Se c'era un luogo cui la ragazza era appartenuta più di altri, ai tempi che risiedeva nel castello di Uryon, era la biblioteca. Ed essa era pure il luogo dove loro si erano guardati la prima volta. Doveva esserci una biblioteca, anche piccola, in quella schifosa Forte Terrore! Domandò in giro: tutti si stranivano per questa domanda. I Bolton erano tradizionalmente guerrieri: tutti. Difficile trovare un intellettuale, anche risalendo alla loro più arcaica genealogia. Daniel non aveva mai sentito parlare di un “Maestro Bolton” o di un “Lord Bolton il Saggio”, o “il Lungimirante”. Erano tutti “Lord Bolton il duro”, “il feroce”, “la sciabola” e cose di questo genere. Alla fine, un'anziana addetta alle cucine si fece venire alla mente uno “scriptorium”; un piccolo angolo della sale signorili dove i Bolton tenevano i loro documenti più importanti. Verso quel luogo, a sera ormai sopraggiunta, Daniel decise di recarsi.

Ma la sua ricerca venne interrotta: fuochi, luci, urla e strepiti giunsero verso la cinta muraria, più o meno intorno alla porta est del cortile esterno del castello. Era fatalmente molto vicino a dove si trovava lui in quel momento. Decise di andare a guardare. Un gruppo di uomini a cavallo e incappucciati, era riuscito ad aprire una breccia, e stava combattendo con gli uomini dal vessillo dell'uomo scuoiato. Questi ultimi stavano perdendo. C'era uno in particolare degli aggressori, più basso e globalmente più piccolo degli altri, che anziché con le spade, combatteva con la magia. Raggi di fuoco e ghiaccio gli fuoriuscivano dalle troppo lunghe maniche. Il principe di Cowain si sentì chiaramente chiamato dalla cosa; raggiunse così il campo di battaglia, e aiutò quelli che ce l'avevano coi Bolton, per quello che poteva, visto che la Pietra di Luna sempre agganciata ai suoi piedi dai tempi della fuga da Amergorth, ovviamente non gli permetteva di fare magie. Gli uomini dei Bolton furono sconfitti in ben poco tempo: probabilmente non erano preparati per un simile attacco improvviso. Il capitano degli uomini incappucciati, tolse il cappuccio: era Elthon Applegate. «Principe Daniel» gli disse sorridendo, con un po' di fiatone, «Non ci hai fatto fare neanche la fatica di venirti a cercare!»

«Presto!» gridò il piccolo uomo magico: tolse il cappuccio anche lui. Era il vecchio Terwyn Lannister, l'ometto che sorvegliava l'ingresso all'antro di Nidhogg, una figura sempre piuttosto misteriosa per Daniel, la cui vita il principe di Cowain pensava strettamente connessa con il luogo in cui viveva. Invece evidentemente Daniel si sbagliava: Terwyn era sceso laggiù, a Forte Terrore, insieme agli Applegate, per liberare lui. «Abbiamo gestito bene una guarnigione disorganizzata» continuò Terwyn «Ma non avremo altrettanto successo se cominciamo a trastullarci tra le mura di una roccaforte piena di nemici». A queste parole, gli uomini di Elthon presero Daniel di peso, e lo caricarono su un cavallo. «No, aspettate» balbettò Daniel «Io d-devo... devo!». Ma la decisione era già presa, e i cavalli erano già partiti. «No!» urlò Daniel «Licyane! Licyane!». Alla seconda esclamazione del nome della ragazza che amava, il principe di Cowain era sostanzialmente già fuori dalle mura di Forte Terrore. E fu a distanza di diversi piedi che per la terza volta, più per disperazione che con qualche utilità, si ritrovò a gridare: «LICYAAAAAAAANE!».

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Capitolo 30
*** L'ultimo arrivederci ***


Capitolo 30

L'ULTIMO ARRIVEDERCI

 

 

 

Molto tempo prima.

Il cielo stellato di quella notte era uno di quelli che rendevano piacevole una bella passeggiata all'aria aperta, orientando il proprio orizzonte verso l'alto. Uno di quelli che qualcuno avrebbe definito “poetico”. Il maestro del giorno e della notte aveva visto molti soli, molte luna e molte stelle nella sua vita. Li aveva studiati, approfonditi, sviscerati. Perciò, certo: era una discreta serata d'estate, ma lui ne aveva di certo viste di migliori. Aveva vissuto, nella sua vita di maestro dei Sette, tante di quelle serate uniche per la vita di un uomo, che quella alla fine non rappresentava in effetti nulla di particolare. Almeno nella sua estetica. E poi, quella era stata per lui una serata tutt'altro che felice. L'ultima, della sua vita, in compagnia dei suoi affezionati allievi. Tutti, tranne Yusseth. Lui aveva deciso di rimanere, nonostante l'insistenza del maestro che andasse con tutti gli altri. E dire che il vecchio mago dal pizzetto rosso non era neanche stato troppo tenero: lo aveva maltrattato, quel suo povero discepolo, lo aveva minacciato, aveva imprecato contro di lui... Ma Yusseth – che era intelligente – aveva capito: tutto quello serviva ad allontanarlo, e lui non intendeva farlo e difatti non sì allontanò. Rimase con il suo maestro anche quando l'ultimo dei suoi compagni lasciò l'Accademia. E ci rimase anche quando il maestro gli diede dell'imbecille. Qualche momento dopo tuttavia, a battaglia ormai perduta, il maestro integrò quella parola con un affettuoso “tenero”. Yusseth era un tenero imbecille. E lo era davvero, se questo significava talmente affezionato al suo maestro che non intendeva lasciarlo, nonostante le scenate e le brutte parole.

Quello che Yusseth non aveva capito, era che Braff non era per generosità che voleva allontanarlo, ma per egoismo. Non è che il vecchio maestro voleva evitare di procurare al giovane una grande amarezza; bensì voleva evitare di procurarla a se stesso. Perché separarsi da tutti i suoi allievi, e dunque dalla sua attività accademica, significava già di per sé subire una ferita assai profonda. Ma separarsi da Yusseth avrebbe potuto ucciderlo: ecco perché il colpo avrebbe dovuto essere rapido e deciso. E invece il giovane scelse di infliggerglielo – e infliggerlo a se stesso – lento e tremendamente doloroso.

Yusseth era giovane, e di conseguenza testardo. E per tutta la durata della loro grama cena, gli fece delle domande su ciò che sarebbe dovuto succedere. Era come se avesse intenzione di accompagnarlo fino all'ultimo istante; fino a quando il maestro del giorno e della notte sarebbe per sempre svanito dentro a un sigillo con l'impronta di un drago. Secondo lui, Braff glielo avrebbe permesso: lo avrebbe lasciato lì, da solo, lontano da casa, in una foresta incantata, circondato da mostri e spettri, senza più nessuno a proteggerlo. Era pazzo! Già mentre gli rispondeva, il maestro stava pensando a un modo per impedirglielo; un modo per liberarsi di lui. E uno c'era: era difficile, ma si poteva fare...

«E quindi» fece Yusseth, ingoiando un acino d'uva, a fine serata, «Dopo pronunciata la formula... semplicemente... sparirai?»

«Sì» rispose il maestro delle ombre, “la Spia”, «E tornerò solo quando evocato da uno stregone degno di questo nome. Sperabilmente mai, perché tale evocazione dovrà avvenire esclusivamente se le cose per il genere umano si saranno fatte... beh: ancora più serie di come non siano già adesso»

«Ma tornerai in una forma...»

«Diversa da quello in cui sono ora, certo, come ti ho detto»

«E che forma?»

«Non è chiaro. Per ciascuno di noi Sette Manti l'aspetto servile potrebbe prendere una direzione diversa, sulla base del nostro stesso potenziale magico e... del potere che l'incanto eserciterà su di noi. È una cosa molto complicata, che io stesso comprendo per meno della metà»

«Ma allora... se la comprendi per meno della metà... cioè... perché lo stai facendo?». Quando il giovane sollevò il capo, il maestro non poté non accorgersi che stava piangendo a dirotto. Che età piena di passioni quella che Yusseth stava vivendo: un momento prima pareva essere uno spavaldo menefreghista, padrone del mondo, e un momento dopo un cucciolo smarrito e pieno di ferite e lacerazioni. E così sarebbe andata, e così doveva andare: avrebbe sofferto e pianto per la separazione, certo. Ma si sarebbe ripreso e rifatto alla grande, di questo Braff era ancora più sicuro. O almeno, era questo che in fondo al cuore strenuamente sperava.

«Lo sto facendo» il maestro prese la mano dell'allievo «Perché gli Antichi Cinque sostengono che sia la cosa migliore. E la cosa migliore è quella che deve essere fatta»

«Non sai niente!» pianse ancora Yusseth «Non hai alcuna garanzia! L'incantesimo potrebbe andar male; potrebbe non produrre il risultato sperato, tu potresti semplicemente... semplicemente...»

«Morire?» gli tolse la mano dalla mano, e gli accarezzò il volto, «La morte non mi spaventa. Perché mi è stato insegnato – e ho imparato ad esserne sicuro – che nulla finisce. Ma che viviamo in un contesto di costanti mutazioni» gli asciugò le lacrime «Io ti rincontrerò un giorno. Saremo... molto diversi. Magari tu sarai più vecchio di me. E più saggio e coi...» gli arruffò la zazzera «capelli grigi. E uno di noi potrà essere una donna; o tutt'e due, magari» rise. Poi improvvisamente serissimo: «Ma saremo noi. Come oggi, come ora, per sempre... Noi».

Non finirono di mangiare. Non sparecchiarono. Andarono fuori, sotto quel famoso cielo stellato, bello, ma non così speciale. Almeno esteticamente. Perché in termini d'importanza, era sì assai speciale. Erano le ultime ore che il maestro del giorno e della notte passava con il suo Yusseth, il migliore e il più affezionato dei suoi allievi. Il fattucchiere più brillante. E il sorriso più sconvolgente. Lì fuori, il maestro e la l'allievo si scambiarono, sotto la luna splendente, i più sinceri messaggi di rispetto e d'amore. Gli ultimi di quelle loro vite. Braff diede al giovane ciò che lui voleva. Si divertirono così tanto che alla fine si stancarono e caddero assopiti sulle amache.

Ma Yusseth fu colto da un sonno più profondo, beato. Il sonno degli angeli. Nel bel mezzo della nottata, il maestro Braff si destò. Diede un'ultima occhiata al più bello dei suoi allievi, con quei boccoli neri e quella pelle, turgida e vigorosa, del colore dell'ambra. E quell'unico occhio chiuso che aveva, del taglio come quello di un uomo delle dune orientali. L'occhio destro, Yusseth lo aveva perduto: era coperto da una benda. Aveva raccontato diverse storie in proposito, su come l'aveva perso, sia al suo maestro che ai suoi compagni. Storie troppo diverse l'una dall'altra, sconnesse. Braff sospettava che la verità su quell'episodio se ne stava nascosta sotto qualche dramma familiare. Di tutto infatti parlava Yusseth, e su tutto scherzava, tranne che della e sulla sua famiglia. Anche questo era un piccolo cruccio che restava nell'animo del maestro delle ombre: non aver saputo cosa aveva in verità tormentato il suo diletto, nella sua vita precedente.

Ma ormai era troppo tardi; il tempo era giunto. Braff si sollevò dall'amaca sulla quale aveva finito di addormentarsi. Preparò l'incantesimo. Era dura: ci volle quasi un'ora. Alla fine, riuscì ad aprile il portale, quasi attaccato all'amaca di Yusseth. Svegliò il giovane con uno schiaffetto. Il cielo era ancora tempestato di stelle, questa volta quasi magico per davvero. Incredibile: in poco tempo, la notte era cambiata. Ora era diventata speciale. Qualcosa nella volta sopra le teste degli uomini stava brillando molto più del solito...

Yusseth, che però era per sua natura un tipo sveglio, nonostante la dolce carezza del maestro, si rese subito conto che qualcosa non andava. Con uno scatto troppo rapido, si voltò e vide il portale aperto dietro di sé. «Che cosa hai fatto?» chiese. E continuò: «È una magia che non hai mai prodotto!» pianse «Quanto ti è costata? Cosa ci è voluto?»

«Niente» lo consolò il maestro delle notti e dei giorni.

«Come niente?! Questa cosa inficerà la tua preparazione di domani! Hai faticato troppo per questo! Che stupido, che stupido che sei! Sei uno stupido vecchio ostinato!»

«Andrà tutto bene»

«Tu morirai... morirai perché non farai bene a Cair Dedalos, e qualcosa andrà storto e morirai... ed è tutto colpa tua!»

«Non morirò, scemo. Ma sparirò comunque, e tu non mi vedrai più.-Non ci vedremo... per un po' di tempo. Tu conoscerai tante belle persone. E un paio le amerai»

«No, no»

«E vedrai mille e mille cose: qualcuna orribile. Qualcuna buffa»

«No!»

«Qualcuna simpatica, qualcuna meravigliosa, qualcuna sconvolgente, qualcuna travolgente»

«No...»

«Sì. Io ho visto cose sconvolgenti nella mia vita, tantissime. Ma l'ultima in ordine di tempo, è qui davanti a me»

«No...»

«Sì. Come ti ho detto ieri: oggi. Ora. E per sempre: noi». Fu la sua ultima parola. La pluralità, come quella tanto amata ed insegnata dal maestro Nidhogg. Non esisteva uomo, senza la comunità degli uomini. E in quell'ultimo tempo Yusseth proprio quello era stato: la sua comunità. La sua famiglia. Lui, e gli altri allievi dell'Accademia. Ma lui un po' di più. Il maestro deciso dunque di sorridere al proprio allievo. Dopodiché lo spinse con tutta la forza che aveva dentro il portale. E chiuse il portale. Rapidamente, ma non con poca fatica. Non poteva dirglielo nel momento del loro ultimo arrivederci, ma anche su quello Yusseth aveva ragione: quell'incantesimo lo aveva affaticato molto. Non pensava, il maestro Braff, che la sua Cair Dedalos fosse in discussione. Credeva sinceramente che comunque sarebbe andato bene, che i Cinque avrebbero fatto in modo che tutto andasse serenamente in porto. Altrimenti, sarebbe morto e rinato. E avrebbe rivisto il suo Yusseth.

Non lo spedì poi così lontano: una locanda a nord che lui stesso conosceva, ma anche molti allievi. Però collocata in un a posizione abbastanza utile da dare serenamente al maestro mago di attendere l'arrivo del suo prossimo ospite, un vecchio amico di nome Mawldor. Costui non venne nella prima mattinata, dando così la possibilità a Braff di riprendersi dall'incantesimo fatto nella notte e di fare una abbondante colazione. Quando il sole era già piuttosto alto, anche se ancora non perpendicolare all'orizzonte, alla fine il maestro delle fonti, l'Eremita, arrivò. Entrò nelle camere di Braff senza domandare permesso: lo faceva sempre. E dopo che quest'ultimo lo ebbe salutato, domandandogli da quanto tempo non si vedessero, il vecchio maestro delle fonti rispose: «Davvero tanto, vecchio amico mio. Davvero tanto. Sei pronto?»

«No» rispose Braff, confessando dunque tutte le paure e ansie che non aveva avuto il coraggio di raccontare al suo Yusseth, «Ma che cosa cambierebbe? Dobbiamo farlo comunque».

Dopodiché qualche formalità ancora, ma giusto quel poco che poteva starci tra vecchi amici che non si vedevano da un po' di tempo, e qualche parola su quello che di lì a breve li avrebbe aspettati: perché ci si poteva anche scherzare, ma in fondo Braff e Mawldor rimanevano uomini. E qualsiasi uomo avrebbe affrontato quella avventura con un minimo di tentennamento.

Dunque: il viaggio. La tappa presso il Maestro Helmon, che entrambi non vedevano da anni e che – per gioco – decise di non manifestarsi e di attaccarli. Quando si rivelò, furono ovviamente grasse risate. La situazione fu un po' più complicata con Meredjuxor, il maestro della natura selvaggia. Fino alla fine, non si capì bene se lui avesse intensione di aderire a Cair Dedalos, come i Cinque avevano chiesto. Inutile dirlo: senza tutt'e sette i savi manti, l'incantesimo non sarebbe mai riuscito. Ma il nome della draghessa Kimera – una delle Cinque creature originarie – convinse il vecchio e folle stilita.

Dunque l'arrivo alla splendida città dei draghi, governata dal maestro Tararus, e i suoi raffinati abiti da principe. La foresta di Audorya, con le sue sequoie alte come castelli, e l'arrivo di Xenorus, a cavallo del suo splendido falcone da ricognizione; e quello del maestro sovrano, Corarus il Guerriero, dalla pesante corona di acciaio nero. Dopodiché l'avvento dei Cinque: Kimera, Kyrios, Luxia, Nidhogg e Requiem, bellissimi e spettrali come sempre. Il loro appello definitivo ai Sette: Corarus, Xenorus, Tararus, Meredjuxor, Mawldor, Helmon, Braff. La formula sacra; tutti loro giurarono. Dunque l'inumano dolore, mentale e fisico, della totale mutazione. Un dolore talmente lancinante che niente il maestro delle ombre poté opporgli, se non la sua lucidità, il suo pensiero, il suo ricordo. Più dolorosamente il maestro Braff infatti mutava, e più decise di concentrare la sua attenzione sulle immagini che con la propria mente riusciva a proiettare.

Il profumo di una madre, mentre lo stringeva nei suoi candidi abbracci.

Quello del pane col sesamo, appena sfornato.

Le mani di cartapesta di una nonna, mentre lo accarezzavano durante una febbre.

Lo scroscio dell'acqua della fonte dove gli piaceva giocare da bambino, e le risate dei suoi cari e dei suoi amici mentre lo facevano.

Il calore del primo incantesimo riuscito, e la soddisfazione che da esso ne scaturì. Il suo orgoglio e la sua autostima.

I complimenti di uno dei maestri, mentre lo dichiarava uno dei Sette Manti.

Gli esperimenti con Mawldor e con un giovane Helmon, non ancora pienamente formato.

Il suono del canto degli uomini, e quello dei figli di Audorya con le loro arpe fatte di corallo.

Le notti fredde passate a studiare le stelle.

I giorni caldi passati a studiare il sole, e di tanto in tanto a visitare il mare.

Il mutare ciclico della volta celeste, con la sua angelica sincronia.

I sorrisi dei suoi allievi soddisfatti, quando capivano una cosa. Il loro sconforto durante un compito un po' complesso. La loro rabbia per una valutazione giudicata ingiusta. Il loro amore, e la loro passione e dedizione, quando capivano che loro, per il maestro, erano come dei figli.

La passione la dedizione di Yusseth.

E Yusseth.

E Yusseth.

E Yusseth...

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