The Midnight Hitcher - L'autostoppista di mezzanotte

di Luce Lawliet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


 

                                                      

 

 

"Viaggiare è essere infedeli. Siatelo senza rimorsi. Dimenticate i vostri amici per degli sconosciuti."
(Paul Morand)






Volete sapere cinque cose interessanti?

Bene, partiamo:

1) la macchina che sto guidando è di mio padre, ma quando si accorgerà che l’ho usata per filarmela mentre lui era in coma sul sofà con la quarta lattina di birra vuota in mano, scoppierà l’inferno. Tanto io sarò già troppo lontana.

2) i sedili fanno pietà e puzzano di vomito. Dio, che schifo. Dopo appena trenta minuti di guida ho dovuto accostare perché i conati sono venuti a me.

3) la settimana scorsa hanno sfondato il finestrino e rubato lo stereo, l’unica cosa buona che questo cesso di macchina aveva; ho usato buona parte del mio gruzzolo per far riparare in fretta il finestrino e ho continuato a cantare per tutto il tempo per ingannare la solitudine, tanto che ora sento le corde vocali tese al massimo e la gola arida.

4) è quasi mezzanotte e sto guidando lungo una strada praticamente deserta e circondata dai boschi, location perfetta per il prossimo film horror di Wes Craven – troppa grazia mettere due fottuti lampioni in giro, eh? - e come se non bastasse, piove che Dio la mandi.

5) davvero, lo giuro, non mi sono neanche distratta, è sbucato dal nulla. Una figura incappucciata cammina – cristo santo! - proprio in mezzo alla strada…

Va bene, mi spiace, so di aver detto cinque, ma devo aggiungerne una…

6) credo di averlo ammazzato.

 

 

 

Ɛ




 

Porca puttana.

Porco il mondo.

Porco Tensing!

Por-no, calma, devo stare calma.

Non ho sentito alcun impatto, devo essere riuscita ad evitarlo mentre sterzavo il volante con tutto braccio. Gli pneumatici hanno striduto e la macchina è slittata senza controllo sull’asfalto e mentre io urlavo come un demonio, ho avuto il buon senso di schiacciare con forza frizione e freno.

Con troppa forza.

La cintura non ha fatto il suo dovere in tempo e ho sbattuto la faccia contro il volante, tanto che si è pure attivato il clacson.

Il dolore, porco…!

Mi premo la fronte con le mani e invece di ringraziare Gesù di essere viva e l’auto ancora tutta intera, prego di non svegliarmi domattina con un bernoccolo grande quanto una palla da tennis. Faccio un paio di respiri profondi per riprendermi. Nella frenata, la macchina ha preso una piega diagonale, rischiando di finire fuori strada e col muso dritto contro il tronco di un pino. Per fortuna non è successo.

No, un momento. Quale fortuna? Quella non c’entra un tubo, è tutto merito mio e dei miei favolosi riflessi da campionessa, tanto che Niki Lauda scansate proprio.

Mio Dio, ho le mani ghiacciate e le dita che ancora tremano. Intanto i tergicristalli continuano a pulire pigramente il parabrezza dalla pioggia violenta.

E dai, Kaia. Sveglia!

Prima cosa da fare: non andare nel panico. Ok, sì, sono tranquilla.

Seconda cosa: soccorrere il ferito. Ti prego Gesù, fa’ che non sia necessario. Oppure al massimo fa’ che mi sia sbagliata e non era una persona, ma solo un tasso bello grosso o un lupo che camminava su due zampe per qualche motivo a me incomprensibile…

Il bussare frenetico contro il finestrino alla mia destra sovrasta lo scrosciare della pioggia e faccio un balzo, voltando subito la testa. Un’ombra nera, che solo dopo qualche secondo riconosco come la figura incappucciata che avevo quasi rischiato di fare fuori poco fa, sta picchiettando contro il finestrino per attirare l’attenzione. Nello stesso momento lo vedo tentare di aprire la portiera – capisco che è un ragazzo dalla felpa maschile che indossa –, senza successo.

Di riflesso mi allungo a ruotare la manovella per abbassare il finestrino – quando ho detto che questa macchina è un cesso, l’ho detto per un motivo; era già vecchia quand’ero bambina io! - in modo da sentire quello che dice.

“Allora? Che fai, mi lasci salire o no?”

Per un attimo resto interdetta da quel tono monocorde e appena scocciato, tanto che non posso fare a meno di chiedermi se il tizio si sia reso conto di cosa sia appena successo.

“Ma...” esordisco, senza sapere bene come continuare. No, aspetta. Concentrati. Dovere di un buon conducente: sincerarsi dell’incolumità del pedone. Avanti, su. Chiediglielo. “Stai bene, vero?”

“Eh?”

“Non ti ho colpito, sei tutto intero?”

“Non mi hai neanche sfiorato. Sei proprio una schiappa.”

“?!” mi sforzo di non mettermi a sbraitare. “Guarda che l’intento era evitarti, mica ammazzarti!”

“Mh, allora complimenti, dieci e lode. Fammi salire, dai, piove a dirotto.”

“We, no, cosa, aspetta solo un secondo!” eh, no. Questo suo tono menefreghista inizia a darmi sui nervi, l’ha capito o no, che ho rischiato di restarci secca io per salvare il culo a lui? Non accetto che questo tipo, chiunque sia e qualunque siano le sue ragioni, ci passi sopra come se niente fosse. “Dì un po’, hai tendenze suicide o sei solo un povero deficiente?! Ti rendi conto che stavi camminando in mezzo alla strada, di notte, sotto un temporale del cavolo?”

“...che è precisamente il motivo per cui volevo fare l’autostop. Non tutti possono permettersi una macchina, Medusa.”

Medusa? Che? Si riferisce a me?

Come se mi avesse letto nel pensiero, infila un indice nella fessura aperta del finestrino, indicandomi. “I tuoi capelli.”

Si riferiva ai miei rasta. Non rispondo subito e resto a fissarlo, chiedendomi se si sia fumato qualcosa.

Di una cosa comincio ad essere assolutamente certa: è tutto intero e quindi posso anche andarmene per la mia strada.

“Sai? Mi sono sempre chiesto come facciano quelli con i capelli come i tuoi a lavarseli. Tu come fai?”

“Vaffanculo. E staccati dalla mia portiera.”

“No, mi piace! Davvero.”

“La portiera?!”

“Il tuo stile.” risponde lentamente, come se parlasse ad una minorata. Di nuovo non ribatto subito, sono troppo confusa.

E c’è un’altra cosa che mi dà fastidio: non vedo il suo volto, porta un cappuccio tirato giù quasi fino al naso, riesco a vedere solo il profilo della mascella e le sue labbra che si muovono. Però ha una voce molto sottile e giovane, deve avere la mia età o forse qualche anno in più.

All’improvviso volta bruscamente il capo per starnutire. Noto che ha anche il respiro pesante e se riesco a sentirlo da qui, sotto il rumore incessante della pioggia, forse non sta poi così bene. Accidenti. Chissà da quanto tempo se ne sta girando a piedi sotto questo tempaccio. Ma perché poi, mi chiedo, non ha preso un autobus? Ci sta che uno non abbia la propria auto, ma nessuno sano di mente se ne andrebbe a zonzo nel cuore della notte lungo una strada buia e senza marciapiede! O no?

“Allora, dove sei diretta?” mi domanda con una nota di impazienza nella voce piatta, dopo aver concluso una lunga processione di starnuti. Ne ho contati cinque.

“Senti” esordisco, lanciando un’occhiata alla strada; non c’è praticamente nulla, solo foresta per parecchi chilometri, inoltre è poco probabile che passino altri veicoli a quest’ora. Una parte di me non vorrebbe, ma mi costringo a dire quello che devo. Questo viaggio è troppo importante, ho una destinazione da raggiungere e l’ultima cosa che prevedevo era di avere compagnia. “non per essere scortese, ma non posso darti un passaggio.”

“Perché no? Di posto ne hai!”

Eh. Mi dimeno sul sedile, mentre una fastidiosa morsa di disagio prende a giocare col mio stomaco, sensazione orripilante, sul serio.

“Perché non offro passaggi agli sconosciuti. Non so chi sei e la macchina è mia, quindi decido io e poi non mi devo giustificare!” sbotto, sentendomi il suo sguardo addosso e facendo di tutto per non incrociarlo. A parte che sarebbe impossibile, quel cappuccio copre quasi tutto. “Ma non hai neanche un ombrello?” mi sfugge alla fine, per poi darmi della rincoglionita da sola.

“No” ribatte lui, stringendosi nelle spalle. “E questa felpa non è calda come sembra, e nemmeno impermeabile se ci tieni a saperlo.”

No, che non ci tengo. Empatia vattene via. Non voglio, non posso sentirmi in colpa, dannazione, devo mettere in moto e sgommare alla velocità della luce prima che il rimorso abbia effetto sulla mia già fin troppo malleabile psiche.

“Ehm” mi schiarisco la voce, perché è troppo debole e imbarazzata e se il tizio se ne accorge capirà tutto e se ne approfitterà. “Ti consiglio di metterti a lato della strada e di aspettare che passi la prossima macchina.”

“Stai scherzando? Tu sei la prima forma di vita che incontro da...non lo so, è da un pezzo che cammino.”

“Scusa, ma...dove sei diretto? Lo sai, vero, che la città più vicina è a circa venticinque minuti di macchina da qui? Per quanto tempo avevi intenzione di camminare?”

“Proprio per questo sarebbe magnanimo da parte tua darmi uno strappo, no?” coglie subito la palla al balzo, facendo anche un sorrisino gentile. Almeno, credo stia sorridendo, non vedo molto bene. Mi sono volati via gli occhiali durante il tête-à-tête col volante.

Quello però non è un sorriso gentile. È astuto. Cazzo! Lo sapevo, lo sapevo che sarebbe finita così, accidenti. E adesso che gli dico? Cosa mi invento?

“Tu dove stai andando?”

“A Fort Grove.” mi arrendo infine, rassegnandomi a mugugnare controvoglia la risposta.

“Fort Grove! Ma dai?” esulta, battendo una mano sul tettuccio dell’auto con un leggero entusiasmo che non mi convince per niente. “Anch’io vado da quelle parti.”

“Oh, quindi programmavi di arrivare nel Montana contando solo sulle tue scarpe?” commento, sarcastica.

“Qual è il problema? Meglio di così! Dai, allora? Ho dei soldi, possiamo dividere il costo della benzina, se vuoi.”

Non appena lo dice, mi si illuminano gli occhi alla sola idea; in effetti, dopo essermi fatta due conti prima di partire, ho realizzato che con i pochi spicci che ho probabilmente avrei fatto la fame nei prossimi giorni, ma questa nuova prospettiva mi fa ben sperare e…

No, stop. No.

“Mi dispiace e dico davvero.” bisbiglio a bassa voce, tanto che lo vedo chinarsi come può, per captare le mie parole. “Non posso portarti con me.”

Non sono affatto sicura che mi abbia sentita. Per un attimo nessuno dei due parla più e l’unico rumore assordante è quello della pioggia che batte furiosa contro il mio parabrezza, tanto che temo possa sfondarlo. Il ragazzo respira a labbra socchiuse. Nonostante sia buio pesto, riesco ad intravedere il suo petto alzarsi e abbassarsi ritmicamente.

“È perché hai paura che possa farti del male, vero?” domanda, improvvisamente. “Non mi conosci, perciò non ti fidi. Per quel che ne sai, potrei essere un malintenzionato, un ladro o un serial killer.”

O anche un pazzo, penso, senza ancora riuscire a capacitarmi del fatto che se ne vada a zonzo in mezzo alla strada di notte, senza ombrello e nemmeno una cazzo di giacca impermeabile. Lo vedo perfino da qui che sta tremando!

Stringo le mani sul volante e abbasso lo sguardo, senza sapere cosa fare.

Be’. Se devo essere onesta fino in fondo, l’unica cosa che mi impedisce di rimettere in modo il catorcio, raddrizzarlo e filare via è la pietà. Sì, questo ragazzo mi sta facendo compassione a livelli talmente elevati che non pensavo di essere una persona così sentimentale. Potrei sempre scaricarlo nella prima città in cui ci imbatteremo, mi inventerò una scusa. Però...il pensiero che possa portarmi guai non mi lascia in pace. È più forte di me, non riesco a fare a meno di pensarci, e la cosa mi preoccupa.

“Se mi dimostrassi in qualche maniera che non è così, allora per me non ci sarebbe problema, ma non puoi, quindi...”

“Sì che posso! Vuoi ispezionare il mio zaino?” mi chiede, stringendo il tessuto bianco delle bretelle dello zaino che si porta alle spalle. “Sono anche disposto a farmi controllare da capo a piedi, vuoi che mi spogli?”

Ma che…?

“Che fai, sei fuori? Fermo!” esclamo, incredula, quando fa per togliersi lo zaino e svestirsi. Ma questo è scemo. Però sembra determinato a farmi capire che non è un criminale e fino ad ora, l’impressione non me l’ha ancora data. Sospiro, ormai in procinto di arrendermi.

“Ok, ma voglio che paghi il pieno.”

“No.” sbotta, improvvisamente agguerrito. “Avevamo detto di fare a metà.”

“No, tu l’hai detto. Qui sono io che decido e se non ti sta bene, puoi anche sederti su quel masso laggiù e parlare alla luna fino a domattina, perché dubito beccherai un altro passaggio.”

Non riesco a restituirgli lo sguardo che mi lancia da sotto quel cappuccio, ma immagino che il suo al momento sia piuttosto truce.

“Ah, tra l’altro non ho soste in programma, a parte il bagno, quindi viaggeremo sia di notte che di giorno, in questo modo oltrepasseremo in fretta il confine e saremo a Fort Grove in meno di un paio di gior-”

“No! Cioè” mi interrompe lui, di nuovo energico. Lo vedo esitare, prima di rabbrividire nella felpa. “Io non posso viaggiare di giorno.”

Rimango interdetta per qualche istante, prima di chiedergli spiegazioni.

“Non posso farlo” grida attraverso il finestrino semichiuso, per sovrastare il rimbombo di un tuono “sto malissimo durante il giorno e non voglio crearti problemi.”

“Be’, questo è già un problema! Stai dicendo che dovremmo arrivare a Fort Grove guidando solo di notte? E cosa facciamo, tutto il giorno? Senza contare che ci vorrebbe come minimo il doppio del tempo per arrivare a destinazione!”

“Ok, ascolta” tende le braccia sul tetto dell’auto, appoggiandovisi “ti propongo una cosa. Ti pago tutti i pieni di benzina di cui avremo bisogno e il motel dove soggiornare durante il giorno, per riposarci. Che ne dici?”

Lo fisso con gli occhi fuori dalle orbite. Sta parlando sul serio?

“Sono serio, sì.”

Manco mi avesse letto nella testa. Mi mordo il labbro, più incerta che mai. Che faccio? Che faccio?

“Hai un ponfo in fronte.” dice di colpo, distraendomi momentaneamente dalla decisione più complicata della mia vita e d’istinto appoggio le dita alla fronte, causandomi una fitta bestiale. Eh già, il bernoccolone c’è e si sente. E tutto per salvare la vita a lui. Spero ne valga la pena, se non altro posso dire di aver compiuto una splendida azione in questa vita. Due splendide azioni, rifletto, quando la mia mano va a sbloccare la portiera dell’auto.

Lo sconosciuto la apre rapidamente e con un sorriso vittorioso e giulivo che mi fa quasi venir voglia di tirarmi indietro e cambiare idea, ma ormai è troppo tardi.

“Finalmente! Ti ringrazio, i sedili posteriori sono occupati?” mi domanda, verificando di persona senza aspettare la mia risposta.

“No, viaggio leggera, le mie cose sono tutte nel bagaglio, perché?”

Lo vedo sparire dalla mia vista per tre secondi, prima di tornare con una busta chiusa alla bell’è meglio, da cui spuntano un paio di rami con qualche foglia piatta e appesantita dalle gocce di pioggia.

“Tu vai in giro sotto un tempo del genere, portandoti dietro una busta con una pianta dentro?” non so nemmeno definire il tono che ho usato per parlare, dire che è incredulo è un eufemismo.

“È un ficus” mi informa, come se niente fosse. Lo sistema sul tappetino del sedile destro posteriore, per poi finalmente prendere posto accanto a me, chiudendo la portiera con uno scatto.

Rimaniamo in silenzio per qualche istante.

“E perché ti porti un f...” solo pronunciarne il nome mi mette in imbarazzo. “Perché te la porti dietro?” concludo, rinunciandoci.

Il cappuccio scuro si volta appena verso di me e intercetto un sorrisetto enigmatico. “Può darsi che te lo racconterò. Il viaggio è lungo, dopotutto.”

 

Metto in moto e mi raddrizzo sulla carreggiata, prima di ingranare la prima e partire, riprendendo il viaggio da dove l’avevo interrotto, ma non prima che lui si chini a raccogliere qualcosa da sotto il suo sedile.

“Sono tuoi?” mi porge gli occhiali, che infilo immediatamente, tornando a vedere alla perfezione.

Mentre il viaggio riprende, lo sento ancora rabbrividire accanto a me. I suoi vestiti sono impregnati di profumo di pino e rugiada, come se davvero avesse passato un sacco di ore all’addiaccio, e mi fiondo ad alzare il riscaldamento.

“Metti le mani lì.” gli suggerisco, per poi guardarlo di sbieco con aria stizzita. “Sai, potresti anche levartelo quel cappuccio, adesso. Mi piacerebbe vedere in faccia con chi parlo, mi metterebbe anche più a mio agio.”

D’un tratto, mi pare che si irrigidisca.

“Credo che in questo caso l’effetto sarebbe l’opposto.” risponde, di nuovo con tono distaccato e monocorde.

“Cioè?” borbotto, perplessa “E poi non ho afferrato il motivo per cui ti sentiresti male di giorno… in che senso, male? E poi, perché respiri come un caterpillar? Vuoi toglierti quel cappuccio o no?” sbraito alla fine, al limite della pazienza.

“Agli ordini!” risponde canzonatorio e quasi divertito, sollevando una mano a tirarsi giù il cappuccio fradicio e passandosi le dita tra i capelli bianchi e appiccicati, stropicciandoli un po’ per togliere i residui della pioggia.

No, un momento. Ho visto bene?

Guardo la strada per un secondo e torno a fissare il ragazzo, che adesso è voltato verso di me con un’espressione che sembra dire: “Contenta ora?”

Ha i capelli bianchi. Non sono tinti, né biondo chiaro, ma completamente bianchi. E non solo i capelli, anche le ciglia e le sopracciglia sono del medesimo colore, nonostante l’oscurità riesco a vederle.

Wow. È la prima volta, credo, che vedo una persona albina. La sua pelle è del colore della neve, perfino le labbra paiono confondersi con il resto del volto immacolato, privo di barba o nei.

“...Visto? Non ci voleva tanto, no?” ridacchio, tornando a fissare la strada, anche se con la coda dell’occhio noto che il mio inaspettato compagno di viaggio continua a fissarmi.

“Non sei a disagio?”

“Per cosa?” gli chiedo, sinceramente confusa. Sì, ok, magari i suoi tratti non coincidono con quelli della prima persona che beccheresti per strada, ma francamente non trovo nulla di così traumatizzante in lui.

“I miei occhi non ti fanno paura?” insiste, senza smettere di fissarmi.

“E perché...” lascio la frase in sospeso per rivolgergli un’occhiata dettata dalla curiosità. Il candore dei suoi capelli e delle sue ciglia riesce a spiccare perfino nell’oscurità, e poi siamo molto vicini, per questo sono riuscita ad accorgermene, ma non riesco a vedere bene il colore dei suoi occhi.

Non capisco, perché mi ha fatto questa domanda? Che cos’hanno i suoi occhi che non va? La curiosità mi divora, accidenti. Per una frazione di secondo prendo in considerazione l’idea di accendere i faretti interni dell’auto, sopra la mia testa, solo per verificare, quando senza preavviso, è il fulmine accecante che illumina il cielo e il paesaggio attorno a noi che decide al posto mio.

Nel momento in cui appare il lampo, ne approfitto per spostare lo sguardo verso di lui e allora capisco cosa intendeva dire, a proposito dei suoi occhi. Rimango talmente spiazzata che non guardo più la strada, tanto che lui alza un braccio di scatto, esclamando un: “Ehi!” allarmato, inducendomi a puntare gli occhi nella giusta direzione.

Merda! Stavo guidando nella corsia opposta, dritta verso il fosso a lato della strada. Mi rimetto in linea con una brusca sterzata che ci fa sballottare un po’ entrambi; mi lancia un’occhiata carica di emozioni negative che non so decifrare, probabilmente insulti, poi lo vedo cercare a tentoni la cintura e infilarsela prontamente.

Faccio un respiro profondo, mordendomi le labbra. Che figura di merda, penserà che sono una cretina. Probabilmente si sta già pentendo di essere salito in macchina con me, ma la vergogna per la figuraccia passa in secondo piano, quando la sua voce serafica raggiunge nuovamente le mie orecchie.

“Albinismo totale” mi spiega tranquillamente, stiracchiando le gambe “La mia è la forma più avanzata. È questo il motivo per cui non posso viaggiare di giorno, la luce del sole ed io non andiamo d’accordo.”

Lo ascolto parlare, senza avere abbastanza fiato per rispondere. Ok che la luce dei fulmini non è di per sé l’ideale, ma ha illuminato il volto eburneo di questo ragazzo quel tanto che bastava da farmi notare che i suoi occhi sono rossi. Rossi. Non sto scherzando.

Mi ricordo la prima volta che ho visto un coniglio affetto da albinismo, in una fattoria non lontana da casa, quando avevo quattro anni. Aveva il pelo più bello e soffice rispetto a quello degli altri, era più mansueto, ma mi ero rifiutata categoricamente di prenderlo in braccio e perché? Per via dei suoi occhi rossastri, che mi avevano fatto venire la pelle d’oca alle braccia senza alcun motivo.

Ripensando a quell’evento, non posso evitare di mettere le cose a confronto. Questo ragazzo è esattamente come quel coniglio. Sembra quasi di avere uno spettro in auto. Santo cielo, mi sta venendo la pelle d’oca alle braccia, di nuovo. Oh no, accidenti!

Malgrado il turbamento, cerco di fingermi disinteressata, mentre lui aggiunge: “Tra l’altro questa cosa si ripercuote anche sulla mia salute, soffro d’asma, per questo respiro come un… come avevi detto? Ah, giusto: come un caterpillar.” conclude, abbassando il tono, per poi non parlare più.

Ecco, ora sì che mi meriterei un altro tête-à-tête con il volante, ma bello forte, stavolta.

Faccio un sospiro mortificato, rendendomi conto di aver parlato con fin troppa leggerezza, quasi ridendo sopra la salute di questo ragazzo. Io, che più di chiunque altro dovrei sapere cosa significa. Che ironia.

“Scusami, non volevo.” è tutto quello che riesco a dire, senza staccare gli occhi dalla strada.

“Nah, tranquilla. Non so nemmeno cosa sia, un caterpillar, quindi per questa volta siamo a posto.” sorride lui, iniziando a frugare con curiosità dappertutto, nella macchina.

“A proposito, sono Kaia. Tu chi sei?”

“Kaia” ripete lui con aria compiaciuta, come per assaporare meglio il mio nome. “Epsi.”

“Come?”

“Epsi.” ripete lui.

“Scusa, non ho c… vuoi una pepsi?” dico perplessa “Ho un paio di lattine di aranciata dietro, se vuoi.”

“Ma no...” scuote la testa, lanciandomi un’occhiata che è a metà tra il divertito e il rimprovero. “Epsi è il mio nome.”

“Ah.”

Si risprofonda nel silenzio e questa volta sono veramente turbata.

Epsi. E che cazzo di nome sarebbe Epsi?

Mai sentito in vita mia, non sono neanche sicura che esista. Come si scrive?

Sembra uno starnuto! Epsìììì!

Manco a dirlo, il ragazzo al mio fianco starnutisce un paio di volte e allora non ce la faccio a trattenermi e scoppio a ridere sotto il suo sguardo interrogativo mentre si soffia il naso con un fazzolettino di carta che ha pescato nel mio cassettino sotto il cruscotto.

E prima ancora di accorgermene, qualcosa si è appena innescato tra di noi, dal momento in cui questo misterioso ragazzo dai capelli d’argento è salito in macchina con me, a mezzanotte è cominciato il nostro viaggio.






 

 

Ciao a tutti!

Che dire, è un periodo produttivo per me, a quanto pare XD

Questa storia non durerà molto, al momento non prevedo più di 12 capitoli quindi tranquillizzatevi, non è nulla di impegnativo ;) la nostra protagonista è coraggiosa a dare un passaggio ad un completo sconosciuto, a voi è mai capitato?

Grazie di aver letto fin qui e alla prossima

L.L.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** 2 ***




 

II.


 

Santo piripillo, quanto parla questo qui. Non ha chiuso quel becco da quando siamo partiti, peggio di radio rap! E non sembra volersi fermare.

All’inizio mi stava anche bene perché non ha una voce fastidiosa e il suo chiacchiericcio mi impediva di farmi venire improvvisi colpi di sonno, ma adesso stiamo esagerando, è più di un’ora che va avanti così. Almeno parlasse di cose interessanti in cui la mia opinione potrebbe contare e dar via ad una conversazione, no, è dallo svincolo della statale che non ha smesso un secondo di elencarmi le qualità di suo zio Bob. Ho appreso che il suo parente sarebbe capace di prendere a testate un bambino se solo questo si mettesse ad insultare gli Yankees o peggio ancora Sonny Gray; che una volta all’anno durante la sagra di paese vince regolarmente il primo premio nella gara a chi mangia un’anguria intera e sputa i semi più lontano; che tra Naomi Campbell e un boccale di birra scura sorseggiata durante la replica di una partita di baseball in tv con i colleghi pensionati, sceglierebbe la seconda opzione.

Oh, e che dire della zia Trudy invece? Lei è la migliore. Durante le visite settimanali pare sia solita regalare al nipote una montagna di scatole di cioccolatini e paste zuccherate che Epsi butta sempre via perché potrebbero seriamente nuocere la sua già fragile salute. Inoltre la cara zia, che a quanto pare è una parrucchiera, si offre praticamente sempre di provare a tingergli i capelli per dargli un’aria più “normale”, cosa che a quanto pare il ragazzo non apprezza.

Riesco ad infilare un “Perché no?” nel mezzo di quel monologo.

“Come perché? E la ricrescita? Sarebbe un circolo vizioso dal quale non uscirei mai più, con le sue mani sempre in testa e le sue unghie finte lunghe due centimetri che mi graffiano ovunque! Ho il terrore anche solo quando mi abbraccia! Lo sai che sono emofiliaco? Significa che un solo graffietto fatto nel punto giusto potrebbe farmi morire dissanguato.”

“Quanto la fai tragica, che cavolo...” sbotto, cercando di non sollevare gli occhi al cielo.

Lui fa spallucce, sistemandosi meglio sul sedile. Non ha fatto altro che muoversi per tutto il tempo. “Credi nella reincarnazione? Se un giorno rinascerai in un corpo simile al mio, ti capiterà di farla tragica molto spesso, credimi.”

“Potremmo scambiarci i rispettivi corpi in questo esatto momento, eppure sono certa che continueresti a lamentarti anche nel mio!”

“Oh no, nient’affatto!” ribatte energicamente, ispirato da questa ridicola ipotesi “Non potrei chiedere di meglio, qualsiasi fisico sarebbe meglio del mio! Sai quanti problemi mi lascerei alle spalle?”

“Ma come?” lo derido, sorpassando il cartello che indica l’uscita autostradale. Siamo quasi arrivati al confine. “E dovresti fare i conti con le mie ciocche rasta! Come farai, poi, a lavarti?”

“Posso sempre tagliarle” mi provoca con un sorriso stile Stregatto “ho un debole per le ragazze coi capelli corti.”

E cosa vuoi che me ne importi!, faccio quasi per rispondere, quando mi rendo conto che quel commento deve essere in qualche modo indirizzato a me e al mio aspetto. Niente con cui non abbia mai fatto i conti prima, sono consapevole di non essere miss universo, ma dopo aver sentito quelle parole mi sembra all’improvviso di essere tornata al liceo. Credevo di essermelo lasciato alle spalle nel momento in cui ho deciso di scappare di casa.

“I miei capelli non si toccano.” dico alla fine, lanciandogli quella che in teoria dovrebbe essere un’occhiata minacciosa, ma quando incrocio il suo sguardo mi si rizzano i peli delle braccia. Mi ero dimenticata il piccolo dettaglio dei suoi occhi e in effetti è il suo, lo sguardo spaventoso, anche se sta sorridendo. Gesù. A ben pensarci è questa, la cosa più agghiacciante: è inquietante mentre sorride.

Scrollo le spalle in un attacco nervoso, per scacciare la fifa blu che mi sta congelando le dita delle mani e dei piedi. Ovviamente lui si accorge del mio fremito – ho notato che è un osservatore fin troppo curioso – e chiede: “Che cos’hai?”

“Niente.”

“Oh.”

“Cosa?”

“Giusto per sapere, siamo a quel punto?”

“Quale punto?”

“Quello in cui una ragazza risponde niente, e l’uomo deve indovinare tutte le millantamila cose che in realtà non vanno.”

Spalanco la bocca, poi la richiudo, sbirciandolo di sottecchi. “Non so di che parli. Mi hai chiesto che cos’ho e ti ho risposto che non ho niente. Perché dovrebbe esserci qualcosa che non va?”

“Perché è così che funziona.” ribatte con una sicurezza che io non ho mai avuto in vita mia.

“E chi lo dice?”

“Gossip Girl.”

Tu guardi Gossip Girl?!

“Non io, mia sorella Bee. Spesso guardavo le puntate con lei, perché dopo iniziava Prison Break, che è la mia serie preferita. La tua invece qual è?”

“Non riesco a credere di aver incontrato un ragazzo che conosce Gossip Girl” non posso fare a meno di esclamare, ignorando la sua domanda.

L’acquazzone si sta calmando, finalmente. Ora scende solo una tiepida pioggerella che ci permette di parlare a volume di voce normale.

Epsi si stringe nelle spalle. Si è tolto la felpa zuppa, arrotolandola e appoggiandola sotto il sedile, davanti alla bocchetta d’aria calda. Sotto quella indossa una maglia color indaco e noto che ha una corporatura veramente esile. È magro come un chiodo e più bianco di un cadavere. Rabbrividisco di nuovo a quell’ultimo pensiero e stringo il volante tra i pugni, imponendomi di smetterla.

“Non avevo molta scelta; famiglia numerosa e un solo televisore...certe situazioni richiedono spirito di adattamento.” mi sorride, con l’aria di un uomo vissuto.

“Quanti fratelli hai?” adesso mi ha incuriosita.

“Sette.”

“Quanti?!”

“Set-te.” scandisce bene il numero, con voce tranquilla.

“Hai sette fratelli?”

“Be’, sei più una sorella, volendo fare i pignoli.” si corregge, pensieroso, abbassando lo specchietto sopra la sua testa per controllare se i suoi capelli sono asciutti.

“Come si chiamano?”

“Aaron, Bee, Caleb, Donnie, Florian, Godric, Henry.” risponde con una rapidità che mi lascia interdetta, e in un baleno mi faccio sospettosa.

“Ripetili.”

“Perché?”

“Fallo.”

“Inizio a pensare che tu abbia qualche problema alle orecchie. Aaron, Bee, Caleb, Donnie, Florian, Godric, Henry. Vuoi impararli a memoria, per caso?”

“Mpf” sbuffo, alzando gli occhi al cielo. Sette fratelli, wow. “Sono albini anche loro?”

“No, Bee ha i capelli rossi, ha preso tutto da nonna Millicent. Caleb, Donnie e Florian sono gemelli e hanno dieci anni più di me e sono tutti e tre già quasi calvi, mentre Godric è il preferito di mamma, penso sia perché ha i boccoli biondi, proprio come lei. Henry sì che è un’incognita: ha i capelli neri e nessuno in famiglia li ha, inoltre se te lo trovassi davanti penseresti immediatamente che ha origini messicane, penso sia il motivo per cui papà accusa sempre mamma di avergli fatto le corna con il giardiniere...”

“Insomma, si può dire che nella vostra famiglia ci siano tutti i colori dell’arcobaleno.” lo prendo in giro, ma senza cattiveria “Deve essere...movimentata. Immagino non ti sarai mai sentito solo.”

“Puoi scommetterci!” ribatte con uno slancio di entusiasmo ben controllato nella voce. “Non c’è mai da annoiarsi, nelle grandi famiglie. Immagino di essere stato molto fortunato!”

Gli lancio un’occhiata in tralice.

“E vai d’accordo con tutti?”

“Non rinuncerei a nessuno di loro, neanche per centomila dollari!” afferma con sicurezza, giusto prima che io lanci la bomba.

“E allora perché adesso non sei in macchina con uno di loro?”

Si zittisce all’improvviso.

La mia è stata una domanda a tradimento e ne sono perfettamente consapevole, così come so che lui sta pensando la stessa cosa; in quella frazione di secondi carichi di silenzio tra noi posso quasi percepire le rotelle nella sua testa lavorare, mentre lui si volta a guardarmi. No, non a guardarmi. A studiarmi con un’attenzione viscerale, che mi fa contorcere sul sedile dal disagio. È come se mi analizzasse, realizzando solo adesso di non aver capito che tipo di persona abbia a fianco e la cosa mi lascia perplessa, mentre un dubbio improvviso si fa strada nella mia testa: magari il sospetto non c’entra nulla, non è che gli ho fatto una domanda un po’ troppo personale?

“Il fatto è che” si mordicchia le labbra e la sua voce mi riscuote dal turbinio dei miei pensieri “ecco, nessuno di loro sa che sto andando nel Montana, in questo momento.”

Aggrotto la fronte. “E perché no?”

“Te lo direi, ma dopo dovrei ucciderti.”

A momenti mi sfugge di mano la leva, quando faccio per cambiare la marcia.

“Ma che…!” lo fisso con un’espressione sconvolta “Non è divertente, accidenti!”

Lui spalanca gli occhi, preso alla sprovvista dalla mia reazione.

“Stavo scherzando, non è così che si dice di solito?”

“Non me ne frega niente, non dirlo mai più!” bercio, con il terrore negli occhi. Cazzo, lo so benissimo che è una frase tipica e al posto suo anch’io forse avrei fatto la stessa battuta, ma un conto sono io, e io sono una persona perfettamente ordinaria, un conto è lui! Lui e quegli occhi demoniaci che stanno seriamente mettendo a dura prova la mia guida e la mia sanità mentale. Merda! Sono proprio ridicola.

“Ok. Scusa.”

Faccio un bel sospiro prima di voltare il capo verso il finestrino, per evitare che lui mi guardi in viso. Ha sempre lo sguardo puntato sulla mia faccia poi, oh, ma che cavolo ci trova di interessante? Non potrebbe limitarsi a guardare la strada, come faccio io? Che tipo snervante.

“Sei arrabbiata?”

Tengo gli occhi fissi sulla strada. In effetti sì, sono arrabbiata, mi sento particolarmente stizzita e non c’è nemmeno ragione di esserlo, e la cosa non fa altro che farmi incavolare di più.

“Sai, mio nonno Joseph dice di conoscere un metodo infallibile per far passare la xenofobia alle donne. L’ha fatto con mia nonna quando si sono conosciuti. Praticamente-”

“Xenofobia?” giuro, ci ho provato a stare zitta, ma 1) fare scena muta implicherebbe la ripresa dell’insopportabile cicaleccio da parte del fantasma al mio fianco e 2) che cavolo è la xenofobia? “Cioè? Cosa sarebbe, la paura dei gas?” mormoro, confusa.

Lui esita un attimo prima di mettersi a ridere e per un istante riesco addirittura a dimenticarmi la diffidenza e la stizza che provo nei suoi confronti. Ha una risata stupenda, niente a che vedere con il suo parlottio ronzante o il suo tono apatico e saccente.

“No, è semplicemente un altro termine per definire la diffidenza verso persone o cose estranee. Ad essere onesto, non credo esista un modo per definire la fobia per i gas. C’è la paura di morire soffocati, anche detta anginofobia.”

Ma santo cielo, come diavolo siamo arrivati a parlare di queste cose?

Xenofobia... anginofobia... e ho già mal di testa.

“Ti sei mangiato un dizionario o quello delle fobie è solo un hobby, per te?”

“Mi piace tenermi informato. Io per esempio sono ipocondriaco” ...e ti pareva. “e non ti dico quant’è lungo l’elenco delle mie personali fobie. Ne hai qualcuna anche tu?”

Sospiro rumorosamente, prima di brontolare che di certo non conosco i termini scientifici delle mie paure.

“Te li dico io!” ribatte, con le antenne improvvisamente dritte. Questi suoi scatti d’umore mi mettono in allarme, sono improvvisi e immotivati, e mi fanno sempre sussultare, mannaggia a lui. “Dai, sembra divertente! Descrivimi le tue paure e io ti dico il nome scientifico a cui corrispondono.”

All’improvviso intuisco il motivo del suo entusiasmo: per lui questo è un gioco. Lo vedo che mi osserva con curiosità e impazienza, con la massima attenzione, e in un attimo mi pento della piega che ha preso la nostra conversazione; non ho affatto voglia di fare questa cosa, significherebbe rivelare le mie più grandi paure, mettere allo scoperto una parte troppo intima e vulnerabile di me ad un completo sconosciuto.

Tuttavia comprendo anche che Epsi non sarebbe facile da dissuadere, per questo decido di truccare le carte.

“Come vuoi, mh. Ho paura degli animali.”

Con la coda dell’occhio, lo vedo accigliarsi. “Di tutti gli animali?”

“Non so...mh, sì?”

“Zoofobia.” borbotta, con aria quasi… delusa? “Sul serio hai paura di tutti gli animali?”

“A ciascuno le proprie fobie.” è ciò che di più intelligente mi viene da dire.

“Deduco che tu sia vegetariana.”

Cazzo.

“Ho anche paura dei tuoni.” aggiungo per cambiare argomento e sviare la sua deduzione, ovviamente sbagliata.

“Oh, quindi soffri di astrafobia? Strano, abbiamo guidato sotto un concerto di tuoni e fulmini fino a dieci minuti fa e non hai fatto una piega.” osserva, mentre il tono della sua voce nasconde un’implicita insinuazione che mi fa quasi imprecare per la mia stupidità. Non funziona, sta per accorgersene e si metterà a rompere.

Allora faccio un bel respiro, prima di confessare: “Ho sempre avuto paura dei ferri. Delle operazioni chirurgiche, intendo. È il motivo per cui sono l’unica a questo mondo a non amare Grey’s Anatomy, credo. C’è un termine anche per questo?”

“Certo che c’è. Tomofobia.” risponde con sicurezza, con un leggero sorrisetto sul viso eburneo. Si comporta come il secchioncello della classe che sa di poter far fessi tutti durante l’interrogazione a tappeto.

All’improvviso mi viene voglia di sfidarlo, sfidarlo sul serio però. Mi infastidisce il suo tono da dottorando e mi infastidiscono i suoi occhi vermigli. Se pensa di avere gioco facile con me, si sbaglia.

“Paura di finire sepolta viva. Ti avverto che appena sostiamo controllerò tutte le risposte.”

Il brillio nel suo sguardo mi comunica che accetta con piacere la sfida. “Mi sembra giusto. Tafofobia, comunque.”

“Paura del vomito delle altre persone!” esclamo, con aria vittoriosa. Questa è assurda, non può esistere una definizione per…

“Emetofobia.” replica lui, con il mio stesso entusiasmo, forse anche peggio.

Strabuzzo gli occhi, incredula. Non ci credo, non è possibile!

“Mi stai prendendo per il culo?”

“No! È la verità.”

“Paura dei contatti sociali.”

“Antropofobia.”

“Di quelli sessuali?”

“Erotofobia.” un leggero ghignetto prende forma per un secondo sulla sua faccia, prima che risponda.

“Paura di fallire.” inizio a incazzarmi.

“Atychifobia.”

“Di vedermi orribile.”

“...Atelofobia.”

La tensione tra noi si sta accumulando alla stessa velocità con cui continuo a parlare, senza quasi rendermi conto di quello che sto facendo.

“Di ammalarmi gravemente.”

“Patofobia. Ma, Kaia..”

“Della solitudine.”

“Autofobia.”

“E di soffrire. Continuamente.”

“Algofobia.”

Scalo di marcia, quando ci avviciniamo alle luci lampeggianti del casello autostradale.

“Be’, che dire. Complimenti.” mormoro, apparentemente rilassata. In realtà faccio una fatica terrificante anche solo a pronunciare quelle poche parole.

“Kaia...”

“Dammi cinque dollari, c’è da pagare.” allungo una mano nella sua direzione, arrestando l’auto davanti alla sbarra. Lui però non si muove ancora e la cosa mi fa stringere convulsamente il volante.

“Aspetta solo un secondo-” non fa in tempo a continuare, che lo interrompo bruscamente, quasi urlandogli addosso.

“Hai vinto, basta ora, ok? Non mi va più di giocare!”


 

Ɛ

 

 

L’atmosfera si è fatta decisamente pesante, da quando abbiamo superato il casello e siamo ufficialmente entrati nel Montana.

Guido nel più totale silenzio, facendo ben attenzione a fissare solo la strada, mentre il ragazzo seduto al mio fianco non ha detto una parola, sebbene più di una volta abbia preso fiato per dire qualcosa, per poi lasciar perdere. La tensione del silenzio è spezzata solo dal rantolio del suo respiro, so che non lo fa apposta, ma in questo momento sono talmente scombussolata che mi basterebbe pochissimo per esplodere e aggredirlo verbalmente solo per questo.

Ma...no. Mi impongo di non essere così meschina, di non fare una cazzata simile, in fondo Epsi non ha colpa per la sua salute cagionevole.

Però questo silenzio è orribile. Orribile.

E dire che prima avrei dato chissà cosa perché chiudesse il becco, adesso non sono più della stessa opinione; eppure non oso parlare per prima, anche se sono io ad aver creato il danno. Dio, che razza di codarda sono.

Mi dispiace, ok? Mi sento una merda per avergli sbraitato contro in quel modo, e per che cosa poi?

Sono una deficiente, una stronza. Epsi sembra un ragazzo spontaneo e, a suo modo, allegro. Oddio, forse allegro non è la parola adatta – non lo è per niente –, ma nonostante ciò possiede molta più gioia di vivere della sottoscritta. Ed è un signore, non ha provato a difendersi malgrado fossi io quella nel torto, il taglio di banconota più piccolo che aveva era venti dollari, mi sono tenuta il resto senza battere ciglio e non mi ha neanche mandata a fanculo.

Cazzo, devo chiedergli scusa. Devo farlo.

È inutile, non ci riesco!

Mi lascio andare sul poggiatesta del sedile, dichiarando la mia sconfitta morale e gettando nel cesso anche l’ultima briciola di dignità che potevo mantenere, prima che senza alcun preavviso, la sua voce mi strappi dalle mie elucubrazioni mentali.

“Possiamo fare sosta in autogrill? Devo usare il bagno.”

Meravigliosa, celestiale, la sua voce mi pare una manna dal cielo, una ciambella a cui mi aggrappo subito, come una disperata in mare aperto.

“Come? Certo, sì! Subito! Ehm, ce n’è uno tra nove chilometri!” leggo sul cartello indicatore a lato della strada, strizzando gli occhi da dietro le lenti dei miei occhiali.

“Grazie.” mormora, senza aggiungere altro.

“Prego.” rispondo con un po’ troppa enfasi, sentendomi una vera rincoglionita. Perfino un ritardato si accorgerebbe che voglio davvero continuare il dialogo, è solo che ho la lingua incollata al palato, la tensione e l’imbarazzo sono barriere insuperabili in questo momento ed Epsi sembra più che mai deciso a non interagire con me.

Dai, Kaia, tira fuori qualcosa! Qualunque cosa, chissene frega se è una minchiata! Entro l’anno, possibilmente…

“I tuoi fratelli hanno nomi normali. Come mai sembri essere l’unico della famiglia che i tuoi genitori hanno deciso di punire con un nome assurdo?”

Che cosa. Ho appena. Detto.

Mi mordo le labbra a sangue, rendendomi conto di quanto mi sia uscita male quell’osservazione, vorrei morire proprio adesso.

Lui pare riscuotersi, per poi cambiare posizione sul sedile, frugando con sguardo annoiato il paesaggio semibuio oltre il parabrezza.

“Epsi sta per Epsilon.” mi spiega, mentre cerco di captare qualsiasi traccia di ostilità nella sua voce. Non mi pare di sentirne e la cosa mi rincuora appena.

“Epsilon? Come la lettera dell’alfabeto greco?”

“Proprio quella.” sorride lui, tranquillamente. “Hai studiato greco?”

Mi ha sorriso. L’ha fatto. Grazie Signore, grazie.

“È tra i corsi elettivi che ho scelto di frequentare per il senior year.”

Di colpo la sua espressione si fa sospettosa e si volta a fissarmi.

“Aspetta, quanti anni hai?”

“E tu, quanti anni hai?” replico, incuriosita. È vero, accidenti, non ci avevo pensato, ma ora che ci faccio caso...Epsi è un’incognita, la sua voce suggerisce che sia un adolescente come me, ma il suo aspetto lascia pensare tutt’altro. Potrebbe avere sedici anni così come potrebbe averne...be’, molti di più.

“Te l’ho chiesto prima io.” battibecca, mettendo già un broncio che mi fa subito scattare nel panico all’idea di poterlo offendere nuovamente e far precipitare entrambi nel mutismo imbarazzante di poco fa.

“Diciassette.”

Solleva le sopracciglia, stupito. “Ma la patente di guida in Canada non è concessa dai diciott’anni in su? Come puoi guidare già?”

“Puoi ottenerla anche a sedici, se la tua famiglia è in una condizione particolare. A mio padre hanno sottratto la patente per guida in stato di ebbrezza e non si è mai preso il disturbo di riprenderla, e la mia sorellina aveva bisogno di passaggi a scuola, dato che da noi non passano mezzi pubblici, quindi...”

“E tua madre?”

Mi blocco, esitando. “Mia madre è venuta a mancare di recente.”

Epsi resta in silenzio per un paio di secondi, prima di riprendersi e presumo che ora stia per dire che gli dispiace, ma ancora una volta quello che dice mi coglie impreparata.

“Per questo piangevi?”

Lo fisso senza capire. Da dove siamo vedo l’insegna rossa e gialla dell’autogrill che brilla invitante da un lato della strada, facendosi sempre più grande e definita.

“Quando esattamente mi hai vista piangere?” gli domando, confusa, anche se un presentimento inizia farsi strada dentro di me.

“Quando hai rischiato di spalmarmi sull’asfalto” mi rinfresca la memoria, mentre si abbassa a recuperare la sua felpa umida. “Quando hai fermato l’auto mi sono avvicinato. Ho visto il tuo viso rigato di lacrime attraverso il riflesso del vetro.”

Con un soggetto del genere, mi domando a cosa possa servire provare a mentire. I suoi occhi sembrano scavarmi nell’anima, la luce dell’insegna dell’autogrill illumina le sue iridi di un’intensa sfumatura color rubino che mi impedisce di spostare lo sguardo altrove e in meno di un battito del cuore, mi trovo a dire la verità.

“Se n’è andata sette giorni fa. Mio padre ha dato il consenso per staccare la spina senza avvertirmi, perché sapeva che gliel’avrei impedito. Non mi ha concesso nemmeno di salutarla.”

Da parte di Epsi, un profondo silenzio.

Credevo avrebbe fatto più male dirlo ad alta voce. Ero certa che mi sarei messa a piangere di nuovo e invece mi riesce fin troppo semplice sostenere lo sguardo del ragazzo dai capelli bianchi, che batte le palpebre, incerto su cosa dire. È in difficoltà.

Che tenero, mi trovo a pensare inconsciamente, proprio lui che ha sempre la risposta pronta.

In questo caso, però, apprezzo molto il suo rispettoso silenzio.

“Io ho fame.” il brontolio nel mio stomaco suona un po’ come una conferma, e anche se in realtà potrei resistere fino a domani senza mangiare niente, il mio intervento serve a dare un taglio netto all’atmosfera pesante a cui ho dato vita “Mi sono portata dietro solo pane e burro d’arachidi e qualche lattina. Se devo guidare fino all’alba avrò bisogno di qualcosa di più sostanzioso, quindi via al saccheggio selvaggio, tanto paghi tu, no?” ridacchio, per poi indugiare mentre faccio per aprire la portiera, una volta accostata l’auto. “A meno che tu non voglia darmi il cambio e...”

“No, no!” si affretta a dire, sollevando le mani. “Sto bene al mio posto, grazie.”

“Non ti piace guidare?”

“Non so guidare.” ammette, guardandosi le scarpe sporche.

“Che cosa?” squittisco, incredula. Sto parlando con lo stesso tizio che un’ora fa osava darmi consigli tecnici su come dosare il peso del piede sull’acceleratore, per evitare gli strattoni dopo che cambio la marcia? Questa è bella. “Ma allora, prima, come cavolo ti sei permesso di contestare la delicatezza della mia guida, eh?! Vuoi che ti scarichi in tangenziale e tanti saluti?” continuo indispettita, mentre parlo alla sua testa bianca, visto che si rifiuta di guardarmi. Lo vedo aprire rapidamente il suo zaino e tirare fuori un’altra felpa asciutta, che si infila con gesti rapidi, per poi tirare su il cappuccio.

“E come mai?” gli domando mentre lui sgattaiola fuori dalla macchina.

“Amaxofobia.” borbotta, con un sorriso imbarazzato.

“Cosa?”

“Guidare mi mette una fifa blu.” mi confessa, prima di chiudere la portiera e svignarsela all’interno dell’autogrill.

Mi sgancio rapidamente la cintura, per poi affrettarmi a raggiungerlo.



 

 

SPOILER capitolo 3:

 

“Cazzo!! Ecco, visto? Mi hai fatto sbagliare l’uscita!”

“Io? Ah, è di nuovo colpa mia, quindi? Scusa, ma chi di noi sta guidando?”

“No!! Non ci provare nemmeno, capito?! Non dopo quello che mi hai fatto, perché ti giuro, sono a tanto così dall’ammazzarti!”

“Ma non l’ho fatto apposta-”

“E invece sì! Bastardo!”

“Ti dico di no, non avevo letto che era una bibita gassata.” Epsi indugia, indeciso se onorare la sua causa, e naturalmente prende la decisione sbagliata. “E poi tu non mi hai mai informato di essere allergica alle prugne.” borbotta, pentendosene subito quando sembro sul punto di saltargli alla gola. Purtroppo si salva perché al momento non posso accostare.

“Sì e infatti chi cavolo compra una bevanda energetica al gusto di prugna?! Nessuno sano di mente lo farebbe! Compri un succo d’arancia, di mela, di pesca, d’uva, di carciofo, ma non di prugne! Che schifo!”...e che male. Ho il viso butterato e rosso per via della reazione allergica. Ha iniziato a gonfiarsi subito dopo che Epsi ha aperto quella fottuta lattina, schizzandomi in faccia metà del contenuto e ora sto soffrendo come un cane. E ho lasciato la pomata per emergenze come questa a casa.

Tra gli insulti e gli spergiuri contro Epsi, credo di averlo anche minacciato che di questo passo solo uno di noi raggiungerà Fort Grove tutto intero; a pensarci bene però, visto come sono messa, mi domando chi di noi due. [...]

 



 

Eccoci col secondo capitolo.

...Che coppia di imbecilli XD * l’autrice porge le più sentite scuse, ma andava detto. Maggiori chiarimenti nel prossimo capitolo *

Essendo una storia di pochi capitoli verremo presto incontro a situazioni imbarazzanti, scomode rivelazioni e un possibile avvicinamento tra i nostri sprovveduti ragazzi. Qui non si perde tempo >:D

 

Grazie a chi ha inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate e a chi mi ha fatto conoscere la propria opinione nel capitolo precedente!

A presto!

 

LL

*Nella foto: Kaia Birkbeck

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Capitolo 3
*** 3 ***





III.

 

 

 

“Ma che schifezza è.” sbotto mentre rimetto a posto il cilindro impacchettato di biscotti che a prima vista mi erano sembrati attraenti. Poi ho letto il gusto: coca cola.

Seriamente? Ma chi li compra? E poi che significa esattamente, li hanno innaffiati nella coca cola e poi li hanno impacchettati? Bello schifo.

Oh, accanto c’è anche una versione peggiore: amarena e aranciata. Mmmh, slurp.

Lascio perdere i cookies e mi dirigo verso le torte. Sento ancora addosso l’amarezza della tensione di prima in macchina, di conseguenza ho bisogno di dolcezza e quindi via libera agli zuccheri.

Mentre sono persa nell’insostenibile leggerezza dell’essere indecisa tra la torta di zucca e quella di ricotta, qualcuno mi urta entrambe le spalle.

“Buuhh!”

Faccio un balzo in aria che perfino Epsilon rimane a bocca aperta. Scoppia a ridere dopo un attimo e io mi tingo di purpureo.

“Sei scemo? Non farlo mai più!” sbotto, per poi lanciare un’occhiata verso il fondo della corsia. Da qui riesco a malapena a intravedere il tizio dietro il bancone che controlla annoiato le registrazioni delle videocamere. Non si è mosso, ma non ha nemmeno riso, il che mi fa sperare che si sia perso il mio salto acrobatico.

“Oh, quindi sei anche-”

“Ti avverto: se stai per sparare un altro aggettivo che finisce con -fobica- ti arriva una testata che ti sbatto per terra. Per questa notte hai fatto abbastanza il saputello.”

“Sissignora!”

Ora che Epsi si è svuotato la vescica, pare di umore decisamente migliore.

“Allora, che si mangia stasera?” si informa, sfregandosi le mani pallide con aria affamata.

Mi giro verso le torte sotto vetro.

“Pensavo di prendere la torta di zucca, ti piace?”

Dalla sua faccia direi che la risposta è no.

“Be’, io l’adoro. Possiamo prenderne due, c’è abbastanza scelta qui!”

“Ti ingozzi sempre di dolci?” mi chiede, osservandomi sospettoso.

“Mh, non direi.”

Balle.

“Lo sai che gli zuccheri industriali sono la principale causa della crescita di tumori?”

“E tu lo sai che sei un tipo veramente spassoso?”

Epsi sbatte le palpebre, stupito. “Wow! Davvero?”

“No.”

Apro l’anta di vetro e tiro fuori una torta di zucca confezionata, per poi superarlo, dirigendomi nella corsia seguente. Epsi mi segue con discrezione.

Meno male che l’autogrill è vuoto, chi ci guarda penserebbe che siamo usciti dalla terza stagione di Stranger Things. In tal caso, Epsi sarebbe il numero…

“Cinque!”

“Mh?”

L’ho detto a voce alta? Ops.

Solo che Epsilon è la quinta lettera dell’alfabeto greco e mi è venuto naturale fare il collegamento.

“Niente” ribatto, imbarazzata, fissando con esagerata attenzione i pacchetti di Smarties “pensavo a Stranger Things.”

“Opporcamiseria, adoro quella serie! E ho anche la mia teoria sulla spiegazione del Sottosopra, la vuoi sentire? Praticamente...”

Ecco che si rimette a blaterare. Faccio il possibile per non ascoltarlo, quando mi rendo conto che la sua cosiddetta teoria è spaventosamente valida e sensata, e in un baleno mi viene la pelle d’oca alle braccia: Epsi ha dimostrato da circa un paio d’ore di essere un tipo sveglio e apparentemente intelligente, e quindi adesso giuro su Dio, se mi ha appena (anche involontariamente) spoilerato il finale di quella serie tv…

“Ehi, guarda qui.” mi sventola davanti alla faccia un pacchetto di...chips di mela.

“Che è questo schifo?” già arriccio il naso. L’immagine è troppo pulita, mi sa di sano. E nutriente. Ho una naturale avversione per i cibi sani e nutrienti.

“Non è uno schifo, di sicuro è meglio di tutto quello che hai preso tu.” replica Epsi, rigirandosi soddisfatto il pacchetto tra le mani. “Credo anche che sia la cosa meno cancerogena che vendano qui dentro, o quasi.”

Ecco, visto? Roba sana. Nope.

“Onestamente, sei tu quello che dovrebbe mangiare un po’ più di schifezze, sei pelle e ossa, un po’ di ciccia addosso non ti starebbe male...” ribatto, osservandolo di sottecchi. È magro come un chiodo, la felpa che indossa sarà almeno tre taglie più grande di lui. Ora che ci penso, non sembrano vestiti suoi.

Ancora non gli ho chiesto da dove sia arrivato; cioè, l’ho raccolto a lato della strada che ero già abbastanza lontana dalla città, quindi se lui era a piedi da dove diamine è partito? Non ci sono case da quelle parti, è una zona isolata e circondata da boschi.

Persa nelle mie cogitazioni, mi accorgo a malapena del: “Al volo!” di Epsi e mi volto smarrita, appena in tempo per vederlo lanciarmi un pacchetto che mi rimbalza contro il petto e finisce per terra.

Epsi solleva un sopracciglio. “Dormi?”

“Eh?” gli chiedo, osservando confusa il pacchetto di carotine pelate abbandonato sul pavimento.

L’albino si mette una mano sul fianco, con un mezzo sorriso. “Non era difficile da prendere. Hai sempre la testa così tra le nuvole o è solo mancanza di riflessi?”

Lo fisso a bocca aperta, incapace di muovermi, tanto che a un certo punto qualunque traccia di scherno scompare dal suo volto e i suoi occhi rossi si spalancano appena.

“Ma stai bene?”

“Senti, vado in bagno anch’io, tu intanto vai alla cassa.”

“Kaia, perché stai…?”

“Ah, e prendimi un succo di frutta, io faccio in un attimo.”

L’istante seguente mi fiondo in bagno senza dargli il tempo di dire altro.


 

 

Esco con calma, dirigendomi verso l’uscita. Vedo Epsi che mi aspetta accanto alla macchina, attraverso il vetro dell’Autogrill.

“Dobbiamo darci una mossa.” dico, sbloccando la portiera “Se non possiamo guidare di giorno perderemo un sacco di tempo e questo è un problema.”

“Perché tutta questa fretta di arrivare a Fort Grove?” mi domanda, mentre si infila la cintura.

“C’è qualcuno che mi aspetta.”

“Chi?”

Vado in retromarcia e mi immetto di nuovo in pista. Epsi è un maledetto ficcanaso. E non lo capisce, oh.

“Allora? Chi devi incontrare?”

“...Lo sai che sei peggio di un carciofo nel culo?” mi sfugge detto, e al diavolo l’educazione.

Epsi aggrotta la fronte. “Mh, non saprei, non conosco la sensazione.”

Mi ha risposto seriamente. Mi ha risposto seriamente.

“Non posso crederci.” sospiro, guardando fuori dal finestrino.

“Ah, quindi tu ci hai provato?”

“Che cazzo?!” torno a fissarlo esterrefatta.

“No perché a me sa di cosa parecchio dolorosa. I carciofi non hanno le spine?” insiste, scrollando le spalle. “Cioè, sono d’accordo con chi afferma che il mondo è bello perché è vario, eh. E non mi tiro mai indietro quando si tratta di sperimentare cose nuove, ma non vedo il motivo per cui qualcuno dovrebbe infilarsi un carciofo nel-”

“Era un modo di dire, che cazzo!” lo interrompo, più imbarazzata che mai. “Ma in che mondo vivi, si può sapere? Me l’hai preso, il succo di frutta?”

“Sì! Te lo do.” si sporge verso i sedili posteriori, dove ha appoggiato la borsa della spesa, per poi porgermi una bottiglietta di plastica. Si attarda ad aprirla, e all’improvviso sento un sibilo e mi arriva in faccia uno schizzo. “Ops, scusa.”

“Attento!” sbotto infastidita dalle goccioline finite sulle lenti dei miei occhiali. “Ma è gasata!”

Epsi mi fissa, curioso. “E allora? È comunque alla frutta, non è buona? Comunque, non mi sembrava un modo di dire. C’è gente che usa roba anche peggiore di un carciofo, per provare piacere.”

Il succo a momenti mi va di traverso.

“Bleah, fa schifo! Che cavolo, e comunque con quell’epiteto non intendevo certo dire che sei uno che piace! In realtà sei tremendamente fastidioso! Tutto quello che dici è fastidioso, perché sei un intollerabile ficcanaso!”

Premo con frustrazione la schiena contro il sedile, dopo quel piccolo sfogo. La strada è buia e l’ora digitale sopra il tachimetro segna quasi le tre del mattino.

Non avverto repliche e per un attimo penso di averlo offeso di nuovo. Però dopo, con la coda dell’occhio riesco a intercettare il suo sguardo e sta ghignando, lo stramboide.

“Be’, se non lo bevi lo metto via, è meglio guidare con due mani, no?” mi sfila la bottiglietta dalle mani e la chiude.

Ed eccolo che torna a fare il presuntuoso quando probabilmente non sa nemmeno come si tiene un volante.

Ma perché cazzo mi sono messa in macchina questo qui?

“Non vedo l’ora di trovare un hotel e mangiarmi quella torta...” sospiro in fretta, un po’ perché è vero, un po’ perché il mio stomaco ha gorgogliato così forte da farmi andare le guance a fuoco.

Epsi tira fuori il suo cellulare dallo zaino logoro per controllare. “Qui ne segna uno a circa sedici chilometri da dove siamo adesso. Ma se te la senti di guidare ancora per un po’ ce n’è uno tra quarantacinque chilometri, che ne dici?”

“Dico che per quarantacinque chilometri non voglio più sentirti cianciare.” replico con un sorrisino. “Apri il cassettino e tira fuori la radiolina.”

Epsi esegue, estraendo una scatolina di plastica, che si rigira tra le mani.

“Rammentami, in che anno siamo?” mi prende in giro, mentre gliela strappo dalle mani, sistemandola sul cruscotto.

“Non insultare la mia radio.” è una delle poche cose che mi sono portata dietro, prima di fuggire per sempre da quella casa. “O te ne torni a fare l’autostop.”

“Questa battuta inizia a diventare barbosa…”

“Non pensi che avrei le palle di farlo?” lo provoco, accendendo la radio e pigiando finché trovo un canale non disturbato.

“Sentiamo un po’ che succede nel mondo...” sospiro, mentre mi sistemo per l’ennesima volta sul sedile scomodo, volando con la mente in un universo parallelo in cui sono una schifosa riccona che governa tutti i mondi del sistema solare, alla guida di una Ferrari spaziale.

La radio inizia a vomitare una serie di notizie allegre, come al solito: una rapina a mano armata in una gioielleria questo pomeriggio; un incendio appiccato da un branco di teppistelli annoiati che poi se la sono fatta sotto e hanno allertato polizia, ambulanza e vigili del fuoco; un paziente fuggito da un ospedale che…

Non faccio in tempo a sentire altro che di colpo Epsi cambia stazione.

“Ehi! Che fai, stavo ascoltando!” rimetto il canale di prima.

“Ma è noiosissimo!” replica lui, cambiando di nuovo. E prima che possa fare qualunque cosa, afferra la radiolina e la piazza dalla parte opposta del cruscotto, lontana dalla mia portata. “Ecco, questa è decisamente meglio, no?” dice mettendo su una trashata di canzone che a momenti mi sanguinano le orecchie.

“Tu…!” mi mordo le labbra dal fastidio. Cristo, ma perché non tiene mai le mani a posto? “Questa è la mia macchina, insomma come te lo devo dire che non puoi fare tutto quello che vuoi?”

Per tutta risposta Epsi aumenta il volume, girando al massimo la manovella e facendomi uscire fumo dal naso. Mi sto incazzando abbestia. Lo sta facendo apposta per non ascoltarmi. Razza di maleducato!

E si è messo pure a cantare! Questo è troppo.

Stringo la mascella fino a sentire male mentre mi sforzo con tutta me stessa di contare fino a cinquanta. Lo faccio, ma la voglia di saltargli addosso e buttarlo fuori dalla macchina a padellate in testa non si attenua, e allora ricomincio da capo.

Faccio un respiro profondo e mi gratto una guancia, dando un’occhiata al paesaggio attorno a noi. Non c’è un cane per strada, a quest’ora. Inoltre, mi logora l’anima ammetterlo, ma questo cesso di musica sparata a palla mi sta tenendo ben sveglia. La verità è che sono stanca e senza forze, l’unica cosa che vorrei è gettarmi su un letto, ancora tutta vestita. Non so come caspita mi sia venuta la malsana idea di viaggiare sia di giorno che di notte con la presunzione di farcela, tutto sommato forse Epsi non ha avuto torto neanche su questo punto.

“Perché continui a grattarti?” mi chiede di punto in bianco, quando sento le guance prudere per la terza volta.

L’intera faccia mi prude, adesso. E anche un po’ il collo. Certo di ignorare la sensazione, ma non ci riesco e mi ritrovo di nuovo a grattarmi la faccia, imbarazzata, sapendo che mi sta fissando. Quanto sono sexy le ragazze che si grattano la faccia? Un sacco, ci scommetto.

“Kaia, ti stai gonfiando.”

“Che cosa?!” esclamo confusa, lanciandogli un’occhiata fugace.

“Smettila di grattarti!”

“Sì, facile parlare!” ruggisco, irritata. “Non sei tu ad avere il viso che sta andando a fuoco! Cazzo, che male!”

Ma che mi sta succedendo, santo cielo?!

Allungo il collo per dare un’occhiata al mio riflesso nello specchietto retrovisore e sbianco. La mia faccia...la mia povera faccia è tutta…

Trattengo il respiro dallo shock. E poi...

“MI HAI DATO DA BERE UN SUCCO DI PRUGNE!!!” urlo così forte da farlo sobbalzare.

“Eh?”

“Il succo che mi hai comprato! Quello che mi hai fatto bere prima, quella schifezza gasata, non mi dire che è al gusto di prugna? Io sono allergica alle prugne, cazzo! Cazzo, cazzo, cazzo!” accompagno ogni imprecazione con un secco colpo di clacson.

Nervosa e dolorante come sono, prendo la prima uscita, e solo mentre Epsi blatera una serie di minchiate sul fatto che devo rilassarmi e che un bravo conducente non dovrebbe giocare con il clacson, mi accorgo di essermi sbagliata.

“Cazzo!! Ecco, visto? Mi hai fatto sbagliare l’uscita!”

“Io? Ah, è di nuovo colpa mia, quindi? Scusa, ma chi di noi sta guidando?”

“No!! Non ci provare nemmeno, capito?! Non dopo quello che mi hai fatto, perché ti giuro, sono a tanto così dall’ammazzarti!”

“Ma non l’ho fatto apposta-”

“E invece sì! Bastardo!”

“Ti dico di no, non avevo letto che era una bibita gasata.” Epsi indugia, indeciso se onorare la sua causa, e naturalmente prende la decisione sbagliata. “E poi tu non mi hai mai informato di essere allergica alle prugne.” borbotta, pentendosene subito quando sembro sul punto di saltargli alla gola. Purtroppo si salva perché al momento non posso accostare.

“Sì e infatti chi cavolo compra una bevanda energetica al gusto di prugna?! Nessuno sano di mente lo farebbe! Compri un succo d’arancia, di mela, di pesca, d’uva, di carciofo, ma non di prugne! Che schifo!”...e che male.

Ho il viso butterato e rosso per via della reazione allergica. Ha iniziato a gonfiarsi subito dopo che Epsi ha aperto quella fottuta lattina, schizzandomi in faccia metà del contenuto e ora sto soffrendo come un cane. E ho lasciato la pomata per emergenze come questa a casa.

Tra gli insulti e gli spergiuri contro Epsi, credo di averlo anche minacciato che di questo passo solo uno di noi raggiungerà Fort Grove tutto intero; a pensarci bene però, visto come sono messa, mi domando chi di noi due.

Non faccio in tempo a chiedermelo che in un baleno il dolore si è fatto insopportabile e il mio compagno di viaggio ha saggiamente proposto di fermarci all’hotel che aveva visto su google maps poco fa. Anche perché ormai ho sbagliato l’uscita, siamo qui e non ho né la forza né l’intenzione di rimettermi a guidare.

La mia pelle frizza e tira. Il mio viso è talmente gonfio che sembra un pallone da basket.

Parcheggiamo nello spiazzo di fronte al modesto hotel a tre piani, di fronte a noi.

Epsi mi cammina a fianco, sforzandosi di non infastidirmi più in alcun modo, ma ciò non mi ferma dal dire tre parole in croce, ben precise: “Ti voglio ammazzare.”

 

Ɛ


 

“Buonasera! O buongiorno, veda lei. Vorremmo una doppia.” esordisce Epsi con un sorriso che non tocca minimamente l’espressione morta e scettica della vecchia dietro il bancone, che molla il suo giornalino di parole crociate e fa saettare gli occhi avvizziti da lui a me, ripetutamente, con aria prevenuta.

Dio santo, so a cosa sta pensando.

Immaginate di essere soli, nel cuore della notte, e all’improvviso nella reception del vostro hotel entrano due personaggi, uno dei due sembra un morto vivente appena uscito da un film di Stephen King, mentre l’altra ha una faccia larga come un pallone, che sembra un piatto di pustole.

Che cosa direste?

“...Le ho finite.”

La risposta della vecchia mi fa chiudere gli occhi, nel più totale sconforto. Che cazzo di nottata.

Ma Epsi non si dà per vinto. “Tutte quante? Non ne è rimasta neanche una?”

La donna si alza sbuffando dalla sedia girevole e si solleva sulle punte per afferrare l’unica chiave rimasta dal tabellone verde appeso al muro, alle sue spalle.

“Questa è l’ultima, una matrimoniale. Ma posso darvela solo per questa notte, una coppia l’ha prenotata da domani per tutto il resto della settimana. Vi sta bene?”

“Certamente!”

“No, col cavolo!”

Abbiamo parlato all’unisono. Ma che coppietta carina, scommetto che la vecchia nasconde un fucile sotto la scrivania che sta seriamente pensando di tirare fuori, lo vedo dalla sua faccia.

Epsi mi guarda come se fossi scema. “Kaia, non mi sembra il momento di fare la schizzinosa. Siamo già stati abbastanza fortunati a beccare l’ultima disponibile.”

Parla con il tono della saggezza nella voce. Odio quel fottuto tono.“Ho detto no.” sibilo, rabbrividendo al solo pensiero. “Non se ne parla.”

“Non la volete? Va bene.” fa spallucce la vecchia signora, per poi rimetterla al suo posto.

“La prendiamo!” decide infine Epsi, ignorando tutte le mie seguenti proteste. “Quant’è?”

“Venticinque dollari in totale.”

Epsi appoggia un paio di banconote sul bancone e prende le chiavi. Il tutto sotto i miei occhi allucinati.

“Primo piano, terza porta alla vostra destra. Niente animali, niente fumatori e soprattutto niente schiamazzi. Quindi regolatevi.” ci avverte l’anziana donna, guardandomi con un’occhiata impossibile da fraintendere, che d’istinto mi sento obbligata a chiarire una cosa.

“Non stiamo insieme!” sbotto mentre al prurito per la reazione allergica ora si aggiunge il bruciore sulle mie guance rosse dalla vergogna. La vecchia mi ignora e torna alle sue parole crociate. “Perché crede volessimo una doppia, altrimenti?” insisto, incapace di controllarmi, quando Epsi mi prende per un braccio e mi tira via.

“È la reazione allergica a farti comportare così? Ha detto: niente schiamazzi. Datti una calmata e rilassati, intanto vediamo la camera, dopo vado a prenderti del ghiaccio.”


 

 

Ovviamente non è una reggia, anzi.

È fin troppo piccola e per raggiungere il bagno dobbiamo farci stretti perché tra il fondo del letto e la parete ci saranno appena otto centimetri di spazio per passare.

Il letto.

Un letto matrimoniale, con pesanti coperte marroni e cuscini bianchi.

Lo guardo e mi assale il panico.

Epsi è uscito da un paio di minuti e io incrocio le braccia al petto, tentando di calmare la morsa che mi stringe il cuore, aumentandone i battiti. Guardo fuori dalla finestra, l’unica della stanza: la luce dei lampioni arancioni illumina quel poco di autostrada visibile da qui, prima che il tutto venga inghiottito dall’oscurità.

C’è ancora un po’ di strada da fare. Non è finita.

E in qualche modo, devo resistere fino a Fort Grove.

C’è solo una cosa che mi preoccupa in questo momento, e non è il disastro che ho al posto della faccia, ma il letto.

La porta della stanza si chiude e mi volto, vedendo che Epsi è tornato con un pacco di ghiaccio secco in mano.

“Tieni.” mi dice. “Nello zaino ho una pomata all’aloe, non so se può aiutarti a sgonfiare il viso, ma dovrebbe almeno attenuare il bruciore.”

Tira fuori una busta di plastica dallo zaino, rovesciando due o tre inalatori per l’asma, una scatola di compresse e antibiotici, un rotolo di bende pulite e cerotti, una boccetta di disinfettante e qualche tubetto di pomata sul materasso. Epsi viaggia portandosi dietro mezza farmacia.

“Il letto è mio!” balbetto imbarazzata, provocando la temutissima reazione interrogativa sul volto di Epsilon.

“Come, scusa?”

“Hai sentito.” rispondo, voltandomi verso la finestra per non doverlo guardare.

Un breve attimo di silenzio, poi: “Ma è a due piazze, ci stiamo comodi entrambi.”

“E invece no!” quasi strillo, ricomponendomi con un lungo respiro. “Io ho... ehm, una sincope.”

“Cos’hai, tu?!”

“Una sindrome! Intendevo sindrome, io ho una sindrome.” mi schiarisco la voce, imponendomi di continuare col massimo della credibilità. “Mi accade sempre di notte, è che ho il sonno molto agitato e la cosa si riflette sul mio...mh… sistema fisico-linfatico, perciò...”

“Ma che stai dicendo.” borbotta Epsi, tutt’altro che incline a cascarci.

“...Perciò, quando dormo, tiro calci a tutto spiano!” concludo, con aria mortificata. “E stiamo parlando di botte belle forti eh, te l’assicuro. Una volta ho colpito la mia sorellina talmente forte che non ha mai più voluto dormire con me.”

“Non credo a mezza parola.”

“Ma è la verità, ti dico!”

L’albino si mette le mani sui fianchi, per poi osservare il letto in silenzio.

“Ok e sentiamo, io dove dovrei dormire?”

Mi volto senza dire nulla, ma quando lui segue il mio sguardo i suoi occhi si incendiano.

“Fai sul serio? Per terra?! Che cavolo c’era in quel succo, hai visto le dimensioni di questa stanza? A momenti non riesco a muovermi in piedi, figurati se riesco a sdraiarmi!”

Non ha tutti i torti, eh.

“Però...” rifletto, più desiderosa che mai di terminare questa conversazione. “Il letto è rialzato e non c’è polvere, sotto dovresti stare comodo.”

La stronzata che ho detto è grossa quasi quanto gli occhi spalancati di Epsi e ovviamente il ragazzo scatta.

“Pensi davvero che dormirò sotto il letto?! Ma tu sei tutta matta! Io ho pagato per questa camera e quindi mi spetta metà del letto, che a te stia bene o meno! Chiaro? Perché non ho alcun’intenzione di strisciarci sotto, come il mostro delle fiabe.”

“Be’” nascondo la faccia dietro il pacco di ghiaccio, mentre mi lascio andare in una risatina imbarazzata “peccato, avresti potuto cogliere l’occasione per spaventarmi mentre dormivo. Non dire di non averci pensato, su!”

Epsi si blocca a fissarmi con una serietà che mi fa congelare a mia volta e in un baleno le mie risatine stupide terminano.

“Quindi è questo che sono io, per te?” mi domanda, senza muovere un muscolo. La fissità dei suoi occhi rossi mi fa scorrere un brivido in tutto il corpo. “È questo che ti sembro quando mi guardi, un mostro.”

Sento la bocca farsi asciutta e secca. D’istinto cerco di deglutire, ho troppa poca saliva in gola e le parole di Epsi mi hanno colta davvero impreparata. Non so come descrivere la sensazione che provo, sotto il suo sguardo che, ad ogni secondo che passa, mi sembra sempre più accusatorio.

“N-no...no no no, assolutamente no, non volevo mica...”

“Perché al momento, ti assicuro che tra noi due la più brutta sei tu.” aggiunge con un ghigno sottile che non riesce a nascondere del tutto e che in meno di un secondo scioglie definitivamente l’atmosfera di ghiaccio che era andata creandosi. Sento il viso tornarmi in fiamme e riparto all’attacco, furibonda.

“Sì e di chi è la colpa se ho questa faccia?! E ti permetti pure di ridere, che faccio se resto così per sempre?!” squittisco terrorizzata, mentre lui alza gli occhi al cielo, rimettendo a posto le cose nello zaino.

“Ma finiscila un po’. È solo una cosa temporanea, domani sarai come nuova. Vado a fare una doccia, continua a tenere su il ghiaccio.”

Lo vedo sparire in bagno, poi faccio una linguaccia alla porta chiusa.

 

 

Ɛ

 

 

Ho deciso che dormirò dalla parte della finestra, perché in quell’angolo c’è anche un minuscolo televisore, che accendo sdraiandomi sul materasso, mentre dal bagno lo scrosciare dell’acqua calda riempie la stanza di un leggero vapore muschiato. È piacevole. Mi aiuta a rilassarmi.

Certo che a Epsi piace starsene sotto l’acqua, è passata già mezz’ora e in tutto questo tempo ho continuato a usare il ghiaccio e ho applicato un po’ di quella pomata che mi ha dato. Il viso si è notevolmente sgonfiato, ma sono piena di macchioline rosse un po’ ovunque, sembra che ho il morbillo.

Al diavolo.

Faccio zapping sui canali e getto un’occhiata mio cellulare, appoggiato sul comodino di fianco al letto, accanto al telefono dell’hotel. L’ho tenuto spento per tutto il viaggio, non volevo rischiare di ricevere una chiamata improvvisa da un padre ancora mezzo ubriaco, che svegliandosi nel cuore della notte non ha più trovato né la figlia, né la macchina. Probabilmente, sarebbe più sconvolto per la seconda.

Quando mi stufo di Tom & Jerry, cambio di nuovo canale e finisco sul notiziario. Stanno parlando dell’incendio che quei quattro dementi hanno appiccato questo pomeriggio. Le mie palpebre tremolano appena, mentre sprofondo un po’ di più nel cuscino, e di colpo chiudo gli occhi. Sento che tra poco crollerò dal sonno.

Nel frattempo, la voce della giornalista mi accompagna nel dormiveglia, sempre più lontana…

Passiamo ora ad un’altra notizia; è avvenuta un’evasione dall’ospedale psichiatrico di Eston, questa notte, verso le undici. Eston è da dove vengo io, ma non presto molta attenzione. Ho troppo sonno. “Uno dei pazienti tenuti sotto osservazione è riuscito a fuggire, disattivando il sistema di sicurezza dell’ospedale. Le autorità sono state avvertite il prima possibile, uno dei medici primari dell’ospedale ha informato i media che non si tratta di un individuo violento, ma è mentalmente instabile e ciò potrebbe portarlo a diventare molto pericoloso per chi gli sta accanto. Ventun anni, un metro e settantotto, affetto da albinismo, risponde al nome di Ingemar Sandström.”

Come se qualcuno mi avesse scrollata con forza per risvegliarmi da un incubo, i miei occhi si spalancano di scatto.

Che cos’ha detto…?

Affetto da albinismo?

Questa è la sua foto. Se vedete il ragazzo, siete pregati di contattare questo numero, in modo da avvisare le autorità.”

Il mio sguardo si posa sul numero che lampeggia sullo schermo del televisore, proprio sotto la foto di Epsi.

Esatto, quello è Epsi.

Punto i gomiti e mi metto a sedere, senza riuscire a staccare gli occhi dalla foto del ragazzo.

Le parole della giornalista mi rimbalzano nella mente come particelle impazzite.

Paziente. Ospedale. Eston. Evasione. Pericoloso.

Mi avvicino al televisore, a quel viso immortalato nell’immagine che mi restituisce lo sguardo con quegli occhi color rubino, rifiutandomi di crederci.

E poi, ci ripenso.

Ho trovato Epsi fuori Eston, che camminava in mezzo alla strada sotto un temporale che avrebbe scoraggiato parecchia gente già solo ad uscire in macchina. Quale altro motivo avrebbe una persona, di vagare da solo sotto un tempaccio del genere e così lontano dalla città, se non...per fuggire?

Deglutisco, avvertendo le mie dita farsi gelide.

Io ho trovato Epsilon.

Io gli ho offerto un passaggio.

Tutte le cose che mi ha raccontato, tutto quello che mi ha detto, erano solo menzogne.

Mi copro la bocca con le mani, terrorizzata, ripensando alle parole della giornalista.

Mentalmente instabile…

Cammino verso il comodino e afferro tremando il cellulare, accendendolo.

Ciò potrebbe portarlo a diventare molto pericoloso…

“Andiamo, muoviti!” sussurro nervosa, mentre il cellulare si prende tutto il cazzo di tempo del mondo per accendersi e quando mi chiede la pin, le mie dita tremano così tanto che la sbaglio per due volte di fila.

Getto un’occhiata al televisore per leggere il numero di telefono da chiamare, quando la voce di Epsi mi ferma.

“Non lo fare.”

Il mio cuore perde un battito e mi volto di scatto. Epsi è uscito dal bagno, con un paio di pantaloni grigio scuro addosso. Ha la pelle umida e i capelli bagnati, sembra una tavola senza colori. Solo i suoi occhi risaltano e sono puntati su di me.

“Kaia. Mettilo giù.”

La mia mano stringe con più forza il cellulare e senza pensarci mi fiondo verso la porta, ma Epsi è più vicino e faccio appena in tempo ad abbassare la maniglia, aprendola, che con un colpo la chiude con violenza, senza più spostare il braccio.

Mi allontano da lui, incespicando contro il letto, per poi appiattirmi nell’angolo vicino alla finestra, il più lontano possibile da lui.

Epsi gira la chiave nella toppa, per poi infilarla nella tasca dei pantaloni, senza perdermi di vista un attimo.

Mi fissa con i suoi occhi contro natura, mi fissa come non ha mai fatto prima e in un istante avverto la paura prendere il sopravvento.

C’è un lungo momento in cui nessuno dei due fa niente; nessuno parla, nessuno si muove.

Poi Epsilon sorride mestamente, sospirando. “Ecco perché non si dovrebbero mai offrire passaggi agli sconosciuti.”

 

 

 

continua

 

 

 


Mi scuso per la lentezza negli aggiornamenti di questa storia, purtroppo tra studio e nuovo lavoro sono stata catapultata in una nuova routine giornaliera alla quale non sono riuscita ad abituarmi subito.

Ma ad ogni modo, eccoci qui.

Una “piccolo” colpo di scena, eh? Vi aspettavate qualcosa del genere?

Spero che il capitolo abbia suscitato il vostro interesse, nel frattempo ringrazio chi ha recensito la storia e arrivederci al prossimo aggiornamento; quale mistero si nasconde dietro il personaggio di Epsilon?

Credete che farà del male alla nostra Kaia?

A presto,

 

LL

 

 

 

 

 

 

 

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