Burning Solitude

di Spoocky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Disclaimer: sarebbe che non ho alcuna pretesa di possedere i personaggi e non guadagno nulla da questa storia.
Grossomodo la storia è ambientata tra "Missione sul Baltico" e "Duello nel Mar Ionio" 

Buona Lettura ^.^


Era una sera come un’altra ad Ashgrove Cottage.

I bambini erano andati a letto presto, sfiancati dalla gita del pomeriggio: essendo ospite dell’amico in seguito all’ennesima scappatella di Diana, Stephen si era offerto di prenderli con se mentre per distrarsi faceva un censimento delle nidiate nella proprietà.
Grazie a Dio, Jack aveva accettato il consiglio di Sophia di accompagnarlo altrimenti a quell’ora sarebbe stato ancora in giro, con i piccoli al seguito.  Al momento era scomparso, rintanatosi in chissà quale anfratto della biblioteca a fare esperimenti su qualunque cosa avesse raccattato mentre Aubrey non guardava.
Il che non era un male, almeno finché non avrebbero dovuto ripulirne le conseguenze, perché dava ai coniugi Aubrey un raro momento di tranquillità.

Seduti davanti al caminetto, si godevano il tepore delle fiamme che vi guizzavano allegre e il piacevole crepitio del legno, misto al fruscio della pioggia che scrosciava all’esterno.
Jack, Stephen e i ragazzi erano appena rientrati quando le cataratte del cielo si erano aperte dando sfogo ad una vera e propria tempesta primaverile che non dava cenno di smettere presto.
Ma i giorni in cui il tetto della residenza cadeva a pezzi e si formavano pozzanghere ovunque erano ben lontani: la stanza era inondata da una luce calda e da un tepore confortevole, nessuna preoccupazione e nessun problema all’orizzonte.

La Surprise, alla fonda a Portsmouth, era nelle mani capaci del tenente Pullings che ne avrebbe curato il raddobbo nei minimi dettagli mentre aspettavano gli ordini dell’ammiragliato prima di salpare alla volta dell’Irlanda.  Apparentemente li aspettava una ricognizione, in pratica  dovevano permettere al dottor Maturin di prendere contatto con un amico d’infanzia che era anche un’agente del Servizio Informazioni della Marina sotto copertura a Parigi e che la Surprise avrebbe poi sbarcato sulle coste della Britannia nel viaggio di ritorno.
Ma tutto questo era ancora a secoli di distanza.

Al momento i bambini erano a letto e l’abominevole Mrs Williams li aveva seguiti poco dopo, lamentando un fastidioso quanto inesistente mal di testa.
Qualunque cosa stesse facendo, Stephen era sicuramente felice nel farla e Jack non aveva altre preoccupazioni se non il tracciare il sorgere ed il tramonto di Venere in quel periodo dell’anno.
L’improvvisa tempesta aveva impossibilitato lo svolgersi di quella specifica attività e si era dovuto rassegnare alla lettura di un utile ma noioso manualetto sulla semina dell’orto, mentre Sophia ricamava un centrotavola.
Nessuno dei due avrebbe potuto prevedere quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
 

Bussarono alla porta e il facente funzioni di maggiordomo Preservato Killick accorse ad aprire.
Certo, il garzone del postino se lo ricordava un po’ diverso e non aveva certo l’abitudine di arrivare a quell’ora, ma aveva in mano una busta di tela cerata che rendeva impossibile scambiarlo per qualcun altro.
Per cui lo trattò di conseguenza: lo afferrò bruscamente per il bavero e lo trascinò dentro mentre urlava a Bill di mettere il fottuto cavallo di quello stramaledetto leccapalle trita coglioni nella stalla, che non stesse a nitrire davanti alla porta.
L’intera servitù, costituita interamente da marinai in pensione o congedati per invalidità, aveva approfittato dell’uscita del padrone per lucidare i pavimenti per cui il famiglio prese le dovute precauzioni prima di introdurre l’ospite indesiderato in salotto.

 
“Ci sarebbe qui il garzone del postino, signore.”
“Il postino? A quest’ora?”
Killick scrollò le spalle mentre si scostava per lasciare avvicinare il padrone al nuovo arrivato.
Come Jack aveva immaginato, quello era il garzone del postino tanto quanto poteva esserlo lui.

Onestamente, avrebbe fatto fatica anche lui a riconoscerlo in un primo momento: pallido, con i capelli arruffati, infradiciato dalla pioggia battente e con un’ombra di barba sulle guance, però quello era Thomas Pullings.
Sicuro come due più due fa quattro.

Il tenente abbozzò un timido sorriso per facilitare le cose al superiore, che ovviamente non si aspettava di trovarselo davanti ed era rimasto con la bocca aperta: “Vi prego di scusarmi per il mio aspetto, signore. Temo che Killick non mi abbia riconosciuto e appena sono entrato mi ha strappato di dosso il pastrano e la giacca, mi ha anche costretto a togliermi gli stivali.”
Jack strabuzzò gli occhi poi abbassò lo sguardo e vide i piedi nudi del giovane spuntare dai pantaloni dell’abito da lavoro. Non gli aveva lasciato nemmeno tenere le calze.

L’occhiata che lanciò al famiglio avrebbe trasformato chiunque altro in un bagno di sudore ma Preservato Killick si strinse di nuovo nelle spalle, con noncuranza: “Sarebbe che non volevo sporcasse di nuovo il pavimento, signore. Non dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per...”
“Sì, sì. Preparare subito una caffettiera per il Signor Pullings, che è meglio.”
“ ‘gnor sì, signore.”

Non appena il famiglio si fu rintanato in cucina, Sophia scattò in piedi.
Dopo aver riposto il ricamo sul tavolino tra le due poltrone, si avvicinò all’ospite per ovviare alla difficoltà del marito che non sapeva come comportarsi in tale circostanza.
Quando gli fu a un braccio di distanza si rese conto che stava tremando e che la pioggia gelida doveva essere penetrata fino alla camicia, era ancora umida.
Con dolce fermezza gli prese un gomito e lo accompagnò verso la poltrona che aveva occupato lei stessa fino ad allora: “Caro signor Pullings, che piacere vedervi. Venite: sedetevi accanto al fuoco. Dovrete essere terribilmente infreddolito, povero caro. Stephen adesso è impegnato ma volete che lo vada a chiamare? Sarà sicuramente felice di vedervi.”
Il tenente si lasciò condurre docilmente verso la sedia e vi si lasciò cadere come se non avesse più un’oncia di energia in tutto il corpo, cosa anche probabile dato il filo di voce con cui rispose alle premure della padrona di casa: “Vi ringrazio di cuore, signora Aubrey ma non c’è motivo di disturbare il Dottore. Non mi tratterrò a lungo.”

Sophia scambiò un occhiata con il marito che le comunicò silenziosamente di far preparare la stanza degli ospiti: era ovvio che il poveretto era esausto e non sarebbe riuscito ad andare da nessuna parte nel prossimo futuro, tanto valeva ospitarlo per la notte.
Lei lo capì e si congedò con la scusa di aiutare Killick con il caffè, lasciando i due uomini da soli.

Jack rimase per un momento a contemplare il profilo affilato del suo secondo: la luce aranciata del fuoco mitigava il pallore del suo volto ma evidenziava i cerchi scuri attorno alle sue palpebre gonfie. Raramente lo aveva visto tanto provato.
Riuscì tuttavia a dissimulare la propria preoccupazione quando finalmente si riscosse dal proprio stupore tanto da sedersi di fronte a lui e accettare finalmente l’involto che gli porgeva.

“Perdonate la scortesia di Killick, Tom. Ovviamente non vi ha riconosciuto, se lo avesse fatto...”
“Se lo avesse fatto si sarebbe comportato allo stesso modo, signore.” Un sorriso stanco ma sincero distese i lineamenti del giovane “Non avete niente di cui scusarvi. Anzi, sono io a dovermi scusare per essere piombato qui a quest’ora ingrata. Il capitano Dundas mi ha consegnato personalmente quella busta tre ore fa e mi ha fatto giurare che ve l’avrei consegnata a mano stasera stessa. Sono partito appena ho trovato un cavallo decente.”
“E la Surprise?”
“Ha preso lui il comando delle riparazioni, signore. Per ordine diretto dell’Ammiraglio Schank, mi ha spiegato. Poi mi ha dato in mano quella busta per voi: “Ordini di Lord Melville”  ha detto. Non mi ha lasciato scelta.”
“Sì, immagino.”

Mentre Jack apriva l’involto con l’aiuto di un tagliacarte, Killick depose senza troppa delicatezza il vassoio del caffè sul tavolino, facendo sobbalzare il povero Pullings che si era momentaneamente assopito.
Senza una parola di scuse per l’affronto di poco prima, il famiglio riempì una tazza e ci mise tre zollette di zucchero, il suo personalissimo modo di essere gentile, prima di metterla in mano all’ospite che non ebbe nemmeno il tempo di ringraziarlo prima che sparisse.
Ritrovatosi in mano la busta vera e propria, Aubrey capì subito che qualcosa non andava: la carta da lettere, l’involto e il sigillo erano quelli di Melville ma la grafia era di un altro.
Ormai riconosceva a colpo d’occhio la scrittura di Heneage Dundas, suo amico di lunga data e fratello minore dell’ammiraglio, enfant terrible della Marina di Sua Maestà e padre di un gregge in continua espansione. Non era la prima volta che ricorreva a simili sotterfugi per mandargli una lettera, spesso di natura privata, ma questa volta non si era nemmeno preoccupato di camuffare la propria grafia e il contenuto della lettera gliene spiegò subito la ragione.

Alla cordiale attenzione del Capitano Jno Aubrey,
Carissimo amico mio, sicuramente ti starai chiedendo la ragione della presente.
La questione è di una certa urgenza, pertanto verrò subito al sodo.
Melville è notevolmente contrariato con me. Penso abbia a che vedere con Amita, una graziosa giovane africana che ho conosciuto durante la mia ultima sortita al Capo.
Ci siamo piaciuti fin dal primo momento e... fatto sta che è incinta e non potevo certo lasciarla con suo padre: l’avrebbe linciata, quel barbaro.
Così l’ho portata con me e l’ho nascosta in un posto sicuro.
Non so come abbia fatto mio fratello a scoprire della sua esistenza ma si è imbestialito e mi ha messo gli ufficiali giudiziari alle costole, accusandomi di dovergli una discreta somma che ovviamente non mi ha mai prestato.
Il tutto nella speranza che gli riveli dove ho nascosto la madre di mio figlio perché possa rispedirla a casa.
Ad ogni modo, sai che non hanno giurisdizione sulle navi della Marina per cui stamane ho convinto Vecchia Puleggia ad assegnarmi la sovrintendenza alle riparazioni della Surprise. Mi conosci e sai che la tratterò con il dovuto rispetto, non hai nulla da temere per lei.
Quanto al tenente Pullings, che spero in questo momento sia nella stessa stanza con te, ti prego vivamente di tenerlo con te per qualche giorno. Non importa come: legalo, se devi.
Sono giorni che lo vedo affaccendarsi da solo su e giù per il sartiame, avanti e indietro per il ponte di coperta e di notte resta fuori per ore sulla barcaccia nella speranza di reclutare a forza qualche marinaio decente perché gli hanno assegnato solo degli incapaci. Non credo abbia fatto un pasto che possa essere definito tale da quando è arrivato e anche con me non ha quasi toccato cibo.
E’ un ragazzo d’oro e raramente ho visto ufficiali tanto efficienti ma, come sicuramente noterai, è sfinito.
Ieri l’ho invitato a mangiare un boccone con me: non ha quasi toccato cibo e per poco non mi crollava sul tavolo. Quando gli ho chiesto se avesse bisogno di riposare ha scosso la testa e mi ha detto: “Non sapete cosa darei, signore, per qualche ora di sonno. Ma è tutto sbagliato, tutto da rifare: giusto stamattina hanno montato le gomene dell’albero di maestra al contrario. Io sono stato nella stiva tutta mattina con il carpentiere e ora che me ne sono accorto era pomeriggio. Abbiamo finito di rimontarle appena prima che arrivassi qui.”
Non ho mai visto nessuno tanto sconsolato, te lo posso giurare.
Così ho pensato di prendere due piccioni con una fava e venire incontro ad entrambi sostituendolo.
Mi ha detto che il Dottore è venuto a stare da te in questi giorni e credo sia meglio se si faccia visitare: non ha una bella cera.

Purtroppo non ho molto tempo a disposizione e ti devo lasciare.
Non disturbarti ad accorrere qui: avrò cura della tua nave meglio che se fosse la mia.
Ti prego di portare tutto il mio affetto a Sophia e ai vostri bambini, i miei più cordiali saluti al Dottor Maturin.

Cap. George Heneage Lawrence Dundas

PS: Melville non sa e non deve sapere di questa lettera. 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Disclaimer: sarebbe che se lo volete è al Capitolo I ^.^

Buona Lettura ^.^


Jack lesse e rilesse la lettera per almeno altre due volte prima di convincersi che fosse tutto vero.
Non aveva problemi per la nave: sapeva di potersi fidare cecamente di Dundas.
Prendersi cura di Thomas Pullings, d’altro canto...

Cercando di evitare un cipiglio preoccupato, lo osservò attentamente: stando così vicino al fuoco aveva smesso di tremare ma teneva la testa abbandonata sullo schienale della sedia e le mani tenevano a malapena dritta la tazzina che aveva in grembo.
Era ancora molto pallido ma sulle guance si stava diffondendo un rossore poco rassicurante e aveva gli occhi chiusi.
La cavalcata di tre ore, per di più sotto la pioggia, dalla città ad Ashgrove doveva essere stata l’ultima goccia per lui.
Jack si schiarì la voce, facendo sobbalzare l’altro che per un pelo non si rovesciò addosso il poco caffè che era rimasto. Liberatolo del piccolo recipiente di porcellana, lo aiutò ad alzarsi tenendogli per precauzione una mano sul gomito.
L’ufficiale raggiunse la posizione eretta ma non fu in grado di mantenerla.
Si accasciò all’improvviso  e si sarebbe aperto la testa contro il tavolino da salotto se Aubrey non fosse intervenuto passandogli un braccio dietro la schiena.
Sentì chiaramente la pelle che scottava sotto la stoffa della camicia ed il panciotto leggero.
Quanto rapidamente poteva essergli salita la febbre?

“Killick! Killick, qui! Presto!”

Mugugnando qualcosa di inintelligibile, Preservato Killick si trascinò all’altro fianco di Pullings per aiutare a sorreggerlo.
Sotto lo sguardo impensierito di Sophia lo accompagnarono nella stanza degli ospiti. Faticava anche solo a mettere un piede davanti all’altro e la testa gli ciondolava sul petto.
Jack dovette tenerlo in piedi mentre il famiglio si affaccendava ad infilargli una camicia da notte che era stata del capitano ma che gli era diventata di due taglie troppo stretta. Nonostante per lui fosse sempre stata leggermente lunga calzava a pennello sul fisico longilineo dell’ufficiale.
Mai come in quel momento Aubrey fu grato per la fissa di Killick a non buttare nulla che fosse almeno lontanamente recuperabile. Per una volta il suo istinto di massaia prevenuta era servito a qualcosa.

Sophia si precipitò in biblioteca e, forse per la prima volta in vita sua, entrò senza bussare.
Stephen non era alla scrivania ma aveva lasciato tracce inconfondibili del suo passaggio: volumi aperti, fogli sparsi e un passerotto semi dissezionato in mezzo al tavolo.
Ormai abituata ad avere orrori simili sparsi per casa, la signora Aubrey non degnò il volatile squartato di un secondo sguardo ma si diresse verso l’angolo in cui sapeva avrebbe trovato il medico.
Era infatti appollaiato sulla scala a pioli con la schiena appoggiata ad uno scaffale, intento a sfogliare un volumetto sgualcito e a borbottare in una lingua che non era inglese.
Sophia dovette praticamente urlare per ottenere la sua attenzione. Quando ci riuscì, lui ripose il libro tra i suoi compagni, si sfilò gli occhiali e scese goffamente dal suo trespolo.

“Cara Sophie! Cosa posso fare per te? Jack sta bene?”
“Killick non vi ha avvisato?”
“Di cosa, mia cara?” una vena di preoccupazione s’insinuò nel tono del medico: non aveva il quadro della  situazione ma Sophie non lo avrebbe mai disturbato senza un motivo più che valido.
“Santo cielo! Beh, ora non c’è tempo per spiegare. Venite: vi racconterò tutto strada facendo.”
 

Il fuoco crepitava allegramente nel camino, diffondendo un gradevole alone aranciato nella stanza e riscaldando l’ambiente.
Dalla sua posizione al capezzale del letto, Jack avvertiva chiaramente il calore della fiamma sulla schiena e si sentiva più tranquillo pensando che anche il corpo disteso sotto le coperte ne beneficiasse.
Da che lo avevano fatto distendere, Pullings non aveva mosso un muscolo né detto una parola.
Teneva gli occhi chiusi ma era difficile capire se stesse dormendo o meno.

Un bussare leggero annunciò la presenza di Stephen e il padrone di casa si alzò per farlo entrare.
Si scambiarono un’occhiata veloce prima che il medico appoggiasse la valigetta degli strumenti sul comodino accanto al letto e si sedesse accanto al malato mentre Jack usciva senza dire una parola.

Gli prese il polso tra le dita ed estrasse l’orologio dal taschino: il battito era leggermente accelerato e la cute era sudata e più calda del normale.
Gli dispiaceva disturbare il suo paziente, sapendo quanto fosse stanco, ma non ebbe altra scelta che scuoterlo per una spalla fino a svegliarlo.
All’inizio gemette piano e impiegò parecchio ad aprire le palpebre. Si guardò intorno e sembrava non sapere dove fosse, quando incrociò lo sguardo del medico strinse gli occhi, come se non si aspettasse di trovarlo lì, cosa del tutto legittima, o come se non lo riconoscesse nonostante fosse illuminato dalla candela sul comodino.

“Buonasera, Tom. Come vi sentite?”
“Dottore? Dove sono? Cosa ci fate qui?” Sophie aveva ragione: davvero il poveretto sussurrava, anziché parlare e doveva fermarsi a prendere fiato tra una domanda e l’altra.
Ma la cosa più inquietante era la sua confusione.
Comunque Stephen accolse la sua domanda con un sorriso rassicurante: “Siete ad Ashgrove Cottage, caro ragazzo. Vi ricordate di essere arrivato qui, circa un’ora fa?”
Pullings strinse di nuovo gli occhi e parve riflettere per qualche minuto, forse anche qualcuno di troppo: “La casa del capitano? Sì... gli ho portato... una lettera, mi pare. Pioveva a dirotto. Killick mi ha strappato di dosso la giacca. C’era anche la signora Aubrey, credo... sì, c’era anche lei: mi ha accompagnato al caminetto, penso.”
“Non sembrate molto sicuro.”
“Non lo so, Dottore... è tutto così confuso.”
Un orribile presentimento iniziò a farsi strada nella mente di Stephen che però fece del suo meglio per essere il più obiettivo possibile mentre incalzava il malato di domande, prima che si addormentasse di nuovo.

Quello stato di debolezza era terribilmente preoccupante ma poteva avere infinite cause  e lui non poteva fare nulla per aiutarlo senza sapere da cosa fosse affetto: “Da quanto state male?”
Pullings sobbalzò e lo guardò stranito, come se non si aspettasse la domanda, e arrossì come un bambino colto con le dita nel vasetto della marmellata: “C- come fate a...”
“Suvvia, Thomas. Non ci si riduce così in una notte, nemmeno dopo ore sotto la pioggia battente. Da quanto va avanti?”
“Non ricordo. Una settimana circa.”
“Cosa vi sentite?”
“All’inizio ero... solo molto stanco... ma era normale... stavo lavorando molto, capite?”
“Ma è andato peggiorando.”
Il malato annuì debolmente: “Mi sento... molto debole... e mi fa molto male la testa... da giorni ormai... poi ho cominciato a sentire freddo... e mi fa male tutto... sono quasi caduto da cavallo... ho freddo...”
“Quando avete mangiato l’ultima volta?”
Di nuovo quello sguardo confuso: “Non lo so... forse... credo di aver cenato con il Capitano Dundas... ieri... o qualche giorno prima...”
“Poi più niente?”
“Credo che il capitano mi abbia offerto del caffè, prima. Ma non sono sicuro.”
“Va bene. Qualcos’altro?”
“Sì: ho un gran mal di schiena... e anche lo stomaco... mi sento le gambe e le braccia pesanti.”

Stephen si accigliò: il digiuno prolungato e l’esposizione alle intemperie spiegavano la debolezza e la febbre, possibile che fosse solo un brutto raffreddore? Ma non tossiva, non era congestionato e nemmeno starnutiva.
Doveva esserci sotto qualcos’ altro.

“Riuscite a mettervi seduto? Vorrei auscultarvi i polmoni.”
Con il suo aiuto, Pullings riuscì a tirarsi a sedere ma quando Stephen gli appoggiò l’orecchio sulla schiena non sentì alcun rumore strano: aveva il fiatone ma non respirava male, i polmoni erano completamente liberi.
Niente raffreddore, dunque.
Stephen lo aiutò a stendersi di nuovo e si stava lambiccando il cervello quando l’ufficiale disse qualcosa che lo dirottò sulla strada giusta: “Mio Dio, dottore! Sembra quasi... quello che è successo qualche anno fa.”
“Dite, Tom?”

Qualche anno prima il poveretto aveva contratto il tifo da alcuni prigionieri che la Leopard stava trasportando a Botany Bay e si era salvato solo perché erano riusciti a sbarcarlo in Brasile insieme ad altri convalescenti quasi altrettanto malridotti. In seguito Stephen aveva ricevuto una lettera dalle suore francescane alle cui cure lo aveva affidato: dicevano che la sua guarigione era stata un miracolo e che era stato male per tanto tempo da far loro temere per la sua vita nonostante le ottime cure somministrategli.
Era un’esperienza che non voleva ripetere.

“Siete sicuro?”
“Il mal di testa è lo stesso... e il dolore...”
“Vi sentite irrigidito? Soprattutto la schiena e la regione addominale?”
Il malato annuì ad entrambe le domande, fugando praticamente ogni dubbio: i sintomi corrispondevano tutti e Sophie gli aveva detto che tremava come una foglia quando era entrato.
C’era solo un’ultima cosa da verificare.

“Mi permettete di darvi un’occhiata?”
Pullings annuì debolmente e lo lasciò fare mentre abbassava le coperte ma arrossì violentemente mentre gli alzava la camicia da notte e distolse lo sguardo, nascondendo il volto nel cuscino.
“State tranquillo, Tom. Non vi farò del male.”
“Vi prego, dottore: non rasatemi di nuovo la testa.”
Stephen si concesse un sorriso: “Forse non ce ne sarà bisogno.”
Controllò scrupolosamente ogni millimetro del suo corpo, e frugò attentamente tra i suoi capelli ma non trovò la minima traccia di pidocchi. E l’eruzione cutanea era completamente assente.
Poi ispezionò i vestiti dell’ufficiale, accuratamente riposti sullo schienale di una sedia, e di nuovo non trovò nulla. Il dottor Maturin era capacissimo di vedere una formica nera in un mucchio di carbone nella penombra del crepuscolo quando non la stava cercando: se ci fosse stato quello che stava cercando lo avrebbe trovato di sicuro.
Eppure, era sicuro che si trattasse di tifo. A meno che fosse una sintomatologia ricorrente: aveva sentito parlare di casi simili alla Royal Society.

Come ultimo accertamento gli provò la febbre.
Il poveretto era talmente debole che dovette appoggiargli una mano sulla mascella per aprirgli la bocca e sorreggergli il mento per evitare che il termometro scivolasse fuori.
Quando finalmente lo estrasse segnava un orrendo 103,1[1].
Con un sospiro, il medico si alzò e ripose i suoi strumenti.
Prima di uscire rimboccò le coperte al paziente e gli mise una mano sulla spalla: “Adesso cercate di riposare, Tom. E state tranquillo: guarirete presto.”
Pullings emise un flebile gemito e si abbandonò sul cuscino.

Richiudendosi la porta alle spalle non fu sorpreso di trovarsi davanti i coniugi Aubrey che si stringevano le mani a vicenda. Impossibile capire chi stesse confortando chi.
“Per favore, Jack potresti farmi procurare dell’acqua dal pozzo nell’orto? Ha la febbre molto alta ma vorrei evitare di cavargli del sangue per abbassarla: è troppo debole.”
“Ho già mandato Killick a prenderla.”
“Come sta?”
“Non ha niente di contagioso, potete stare tranquilli. Sembra una recrudescenza dei sintomi del tifo. Si era ammalato, qualche anno fa, sicuramente te ne ricorderai, fratello.”
“Come fosse ieri. Ma come può non essere contagioso?”
“Sinceramente non te lo so dire ma ci sono molti casi documentati in cui i sintomi si ripresentano a distanza di anni pur non dando origine alla malattia vera e propria. Non ha nemmeno l’ombra di un pidocchio addosso e ormai si vedrebbero chiaramente i segni dei morsi, se li avesse. Quindi potete stare tranquilli: non c’è pericolo di contagio.”
“Pensi che ce la farà?”
“Per quanto ne sappiamo, la mortalità in questi casi è praticamente nulla. Tuttavia il suo fisico è molto debilitato. Ora come ora non mi azzardo a fare prognosi.”
“Di qualunque cosa abbiate bisogno, Stephen, potete contare sul nostro aiuto.”
“Vi ringrazio di cuore, mia cara, a nome del mio paziente. Comunque vada ha bisogno di riposo assoluto e il meglio che possiate fare è aiutarmi a garantirglielo. Domattina vi farò avere una lista di cose da prendere per i medicinali che mi servono ma per ora tenere la febbre sotto controllo è la cosa più importante.”
“Dite che sia il caso di mandare via i bambini?”
“Oh no, mia cara: sarà sufficiente impedire loro di entrare nella stanza per evitare che lo disturbino. Sarebbe anche bene che la signora Williams non gli si avvicini. Sapete bene quanto me che non è la compagnia ideale per un malato. “
Sophia sorrise e Jack alzò lo sguardo verso il soffitto: era risaputo che non andasse d’accordo con la suocera e che tra i due regnasse una fortissima, reciproca disapprovazione.
Ma il volto della signora Aubrey si rabbuiò all’improvviso: “Pensate sia il caso di mandare una lettera a sua moglie, per avvisarla?”
Anche Stephen si fece pensieroso alla domanda e sembrò soppesare attentamente diverse opzioni.
Jack invece non aveva idea di cosa stesse succedendo: “Quale sarebbe il problema?”
“Vedi, caro, la signora Pullings ha da poco perso un bambino. E’ stata male per giorni, ha addirittura rischiato di morire.”
“Non ne sapevo niente! Ma allora... Stephen è per questo che sei scomparso per giorni il mese scorso?”
Maturin annuì senza dire una parola.

Era rimasto al capezzale di quella povera donna febbricitante per giorni mentre la cameriera aiutava il marito distrutto a gestire la casa ed i figli di cinque e due anni. Tom aveva fatto tutto il possibile per aiutare ma al dottor Maturin sarebbe rimasta impressa a lungo l’immagine di lui che piangeva stringendosi al petto il corpicino della bambina nata morta. L’aveva tenuta in braccio, cullandola dolcemente, per un’ora ed era stato straziante vederlo mentre la deponeva nella minuscola bara e la seppelliva accanto ai propri nonni.
Catherine Pullings si era infine riavuta ma solo dopo aver trascorso giorni in preda ad una febbre che l’aveva quasi portata via.

In quel momento si trovava a Bath con i bambini e la sorella minore di Sophie, Cecilia, per la convalescenza.

Quella povera famiglia ne aveva passate davvero troppe in troppo poco tempo.
“Meglio di no. A meno che non sia lei a mandare una lettera, cosa della quale dubito, è senz’altro meglio lasciarla in pace: sicuramente è ancora molto provata e non le farà certo bene sapere che suo marito è gravemente malato. Sarà lui stesso a dirglielo, quando starà meglio.”
“Sembri molto fiducioso sulle sue speranze di guarigione, fratello.”
“Devo esserlo, mio caro.”
 
Note:
[1] 39, 5° Celsius.

E' possibile che i sintomi del tifo epidemico si ripresentino anche a distanza di anni e in ambiente non contaminato quando il paziente è immunodepresso. Di solito non è contagioso e la mortalità è quasi nulla.  In questo caso i sintomi sono aggravati dall'attività fisica eccessiva e dalla scarsa alimentazione.
La patologia è chiamata Malattia di Brill-Zinsser.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Disclaimer: lo trovate comodamente al Capitolo I 

Buona Lettura ^.^

Il mattino seguente, Mrs. Williams stava percorrendo il corridoio che da camera sua portava alla scalinata ed al piano inferiore.
Stava pregustando la colazione quando si accorse di qualcosa che fino al giorno prima non c’era.
Il pettegolezzo è spesso una passione segreta, uno sfizio irresistibile per la donna in generale ma Mrs Williams ne aveva fatto una ragione di vita. Difficile che sotto il tetto di Ashgrove Cottage o negli immediati paraggi avvenisse qualcosa senza che lei ne venisse a conoscenza. E quello che mancava dalle fonti dirette lo compensava con la propria limitata e ottusa immaginazione, spacciandolo poi per vero.
La sua disumana incapacità di comprensione era compensata da una maniacale attenzione per i dettagli che a tratti sfiorava la paranoia.

Non tardò dunque ad accorgersi del fatto che la porta della stanza degli ospiti, di solito chiusa a chiave per evitare che i bambini vi si intrufolassero e facessero danni, fosse invece leggermente aperta. E non poteva essere stato il Dottore perché aveva sempre avuto una stanza a lui riservata in un’altra parte della casa.
Impossibile resistere alla tentazione di indagare su una stranezza di tale portata.
Non si fece dunque alcuno scrupolo nell’aprire del tutto la porta e ad entrare nella stanza che sospettava non essere vuota.
Non si aspettava certo una rivelazione di tale portata.
Le imposte erano aperte e la luce mattutina inondava la stanza, rendendo ben visibile la figura distesa sul letto.

Il volto era tenuto in ombra dalle tende del baldacchino, tirate quel poco che bastava per riparare dal sole i cuscini e non disturbare la persona che stava dormendo rannicchiata sul fianco.
Dalla sua visuale ai piedi del letto, Mrs. Williams vedeva chiaramente i lunghi capelli castani sparsi sui cuscini e distingueva una corporatura troppo esile per appartenere ad un uomo.
Non ci poteva essere altra spiegazione: doveva essere l’amante del capitano.

Non ci si poteva assolutamente fidare dei marinai, gente che aveva almeno una donna per ogni porto! In cuor suo non aveva mai approvato il matrimonio della figlia, ma non si sarebbe mai aspettata una tale sfrontatezza!
Quello spregevole individuo aveva addirittura portato la propria concubina sotto il tetto di casa, a pochi metri dal talamo nuziale! E con la moglie in casa, per giunta!
Un tale scandalo non poteva che suscitare la curiosità innata della donna, che si avvicinò per vedere in faccia la causa della prossima infelicità della figlia.
Più si avvicinava, tuttavia, più la convinzione che qualcosa non andasse si fortificava.
Nonostante l’incarnato pallido, i capelli lunghi e i lineamenti delicati quella non poteva essere una donna.
A meno che non avesse trovato un modo per farsi crescere la barba: perché così da vicino si vedeva bene l’ombra scura che copriva il mento e le guance di quello che doveva per forza essere un giovanotto.

A quella sorpresa ne fece immediatamente seguito un’altra quando sentì la porta richiudersi alle sue spalle e sobbalzò, ritrovandosi faccia a faccia con un accigliatissimo Dottor Maturin che brandiva una ciotola di porridge e un cucchiaino da caffè.
Stephen mantenne a malapena la calma nell’apostrofarla con voce aspra: “Buongiorno, Mrs. Williams. Vedo che è venuta a porgere i suoi saluti al nostro ospite. Il Tenente Pullings è gravemente malato e resterà con noi per qualche giorno, affidato alle mie cure.”
“M- malato avete detto?” Mrs. Williams era ipocondriaca come pochi e Maturin lo sapeva bene “Malato come?”
“Gravemente.”
“Ma cos’ha?”
“Niente che possiate contrarre, ve lo garantisco. Adesso per favore uscite di qui e lasciatelo riposare in pace.”
“Non sta morendo, vero?”
“Forse no. Adesso andate.”

Stephen non si fece scrupoli a chiudere la porta in faccia alla ciarliera comare prima di sedersi di nuovo al capezzale del suo paziente e di svegliarlo quel tanto che bastava per dargli qualche cucchiaio di porridge.
Il corpo del tenente era di una magrezza impressionante: non si poteva dire emaciato ma non era di certo uno stato salutare. Era troppo debole per mangiare da solo ma aveva un bisogno disperato di riprendere peso se voleva avere qualche speranza di sopravvivere. Una modesta quantità di porridge ogni due ore era la soluzione migliore per riabituare il suo stomaco al cibo.
Riposta la ciotola sul comodino, Stephen gli stese una mano sulla fronte.
La febbre non sembrava essere salita ma non era neppure scesa, non era un buon segno.
Ma non si era neppure presentato lo sfogo tipico del tifo, quello era un buon segno.
 

Stephen si prodigava da ore al capezzale del malato ma non stava ottenendo miglioramenti: nonostante le puntuali somministrazioni di medicinali e gli impacchi freddi la temperatura restava ostinatamente al di sopra dei 102.2°. [1]
A onor del vero si era abbassata, durante la notte ad un certo punto sembrava sparita del tutto, ma erano solo le braci di un fuoco che si era ravvivato per ritornare più forte di prima e a intervalli regolari.
Era preoccupante ma anche abbastanza normale in quello stadio della malattia, non c’era bisogno di contromisure drastiche per ora.
Trascorse la mattinata a fargli spugnature su testa, viso e collo. Ogni ora e mezza gli dava una cucchiaiata di porridge e gli strofinava la gola per aiutarlo a deglutire. Aveva anche iniziato a massaggiargli le gambe con olio di rosmarino per prevenire il gonfiore e favorire la circolazione.

Verso le due del pomeriggio, Sophia entrò per dargli il cambio.
Tradizionalista come pochi, sia in mare che a terra Jack Aubrey pranzava categoricamente a quell’ora, di solito in compagnia di Stephen e della moglie. Quel giorno lei aveva fatto un’eccezione e aveva mangiato insieme ai bambini, alla madre e all’istitutrice, per permettere al medico di mangiare qualcosa.
Non ci sarebbe stato bisogno di spiegarle nulla: aveva avuto la sua razione di febbri e malanni con i bambini ed era ormai un’infermiera esperta. Bastò dirle di fargli mangiare qualcosa di lì a mezz’ora.

Si era appena seduta accanto al letto, quando il malato emise un gemito pietoso che le trafisse il cuore.
Il poveretto ansimava e si agitava, stringendo le coperte tra le dita pallide, ma sembrò provare sollievo quando lei gli passò la spugna bagnata sul viso.
Il giovane tenente aveva sempre fatto tenerezza a Sophia con la sua quasi commovente devozione verso suo marito. Lo conosceva da poco prima della promozione a ufficiale: un ragazzo semplice, timido fino all’inverosimile ma capace nel suo mestiere e sempre rispettosissimo verso di lei e la sua famiglia. Si era affezionata molto a sua moglie, tanto da assisterla – nonostante avesse lei stessa partorito da poco - nei giorni immediatamente successivi la nascita del loro primo figlio che avevano insistito a chiamare John, come Aubrey.
Vederlo così, debole e sofferente, la faceva star male quasi come se avesse davanti uno dei suoi bambini. La febbre era talmente alta che la sua pelle irradiava calore. Lo percepiva distintamente ogni volta che gli passava la spugna sulla fronte, quando il suo respiro caldo e irregolare le sferzava le braccia: era come se una fiamma inestinguibile lo stesse consumando dall’interno. E c’era ben poco che potessero fare, se non alleviare in qualche modo il vuoto e la solitudine che il dolore comportava.

Dopo un discreto trascorrere di tempo, Sophia riuscì finalmente a svegliare Pullings e ad offrirgli il porridge.
Lui accettò di buon grado l’offerta di cibo ma sembrava molto confuso nel trovarsela accanto. Gli occhi erano lucidi per la malattia e la voce era sottile quanto la sera prima ma era lucido abbastanza da riconoscerla: “Signora Aubrey? C- cosa ci fate qui?”
Sophia gli sorrise dolcemente e cercò di rassicurarlo mentre impregnava di nuovo la spugna: “State tranquillo, signor Pullings: il dottore tornerà presto. Nel frattempo mi occuperò io di voi.”
“Grazie.” Tom si lasciò sprofondare nel cuscino con un sospiro “Come sta Katie? La mia signora, sapete?”
Lei si bloccò completamente, la domanda l’aveva colta di sorpresa e non sapeva come rispondere. Stephen l’aveva avvisata che sarebbe potuto succedere: la febbre era troppo alta perché fosse del tutto presente.
Però lui non sembrava essersi reso conto della sua incertezza e continuò a parlare, come se niente fosse: “Abbiamo avuto una bambina, io e Katie. La nostra piccola! E’ tanto bella. Ha delle manine così piccine!” le mostrò la misura approssimativa separando l’indice ed il pollice “E dei piedini minuscoli. E’ perfetta: non ho mai visto una bambina tanto bella. L’ho presa in braccio e... lei non c’è più, vero?”
“No, caro. Mi dispiace moltissimo.” Sophia non aveva il pianto facile, per niente. Adesso però gli occhi le bruciavano e la vista le si era appannata.
Non passò molto prima che le lacrime iniziassero a cadere, dagli occhi di entrambi.
“Mi manca tanto. Avrei voluto... era tanto bella... le volevo bene... era la mia bambina... la mia piccola... la mia piccola...”
Il resto, se mai ce ne fosse stato uno, si perse in un sussurro incomprensibile mentre il poveretto crollava, falciato dalla debolezza e dalla malattia, e la federa si bagnava di sudore e lacrime silenziose. 


Note:
 
[1] 39°C . E’ normale nel tifo epidemico che la febbre si mantenga tanto alta.
[2] 39,5°C

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Il Disclaimer è al Capitolo I

Buona Lettura ^.^


Sollevato, anche se solo per poco, della dolorosa incombenza di assistere il proprio paziente, Stephen ritrovò la serenità necessaria a consumare il suo pranzo.

Non gli pesava per nulla il fatto di dover restare ore seduto al capezzale di un malato e il fatto che il sofferente in questione fosse un caro amico lo spingeva a farlo anche volentieri. Ma gli si spezzava il cuore a sentirlo invocare il nome della moglie che pensava ancora stesse per morire e la figlia che non avrebbe mai conosciuto ma la cui scomparsa aveva lasciato un vuoto tremendo nel suo cuore.
Non credeva che nessuno avesse mai conosciuto quel lato di Thomas Pullings e lui stesso si sentiva un invasore, un intruso in quella sfera intima e privata che faticava a comprendere ed accettare anche in se stesso.

Ne parlò con Jack ma senza dilungarsi in particolari che sapeva l’ufficiale avrebbe preferito tenere per sé, come avrebbe fatto se non fosse stato soprafatto dal delirio febbrile.
Il suo amico fu estremamente comprensivo e gli parve sinceramente dispiaciuto, tanto da promettere di fare un turno accanto al malato il prima possibile.
Furono i piccoli Aubrey, loro malgrado, ad offrire loro un piacevole diversivo da quei cupi pensieri.
Erano a metà della seconda portata, uno squisito stufato di vitello, quando i bambini entrarono nella stanza in processione come anatroccoli e si andarono a posizionare bene in riga accanto al padre, che non ebbe altra scelta se non concedere loro la parola.
Sapeva infatti che sarebbero rimasti a fissarlo in silenzio finché non li avesse ascoltati, sarebbe potuta durare ore.

“Sarebbe che vorremmo chiedervi il permesso di uscire a giocare in giardino, signore.”
“Fanny, tesoro, la signora O’Mara non ti ha forse insegnato a non iniziare le frasi con ‘sarebbe che ’?”
“Jack?”
“Eh?”
“Quella non è Fanny.”
“Ah! Non è lei?”
“No signore, io sono Charlotte!”
“Comunque, signore, sarebbe che il signor Killick inizia sempre le frasi con ‘sarebbe che ‘ !”
“Vedi, Charlotte... ”
“Sono Fanny!”
“Oh cielo! Scusami Fanny. Vedi, cara, tu non sei il signor Killick. Solo lui può farlo.”
“Perché?”
“Perché nessuno gli ha mai insegnato che non si fa. E, se qualcuno lo ha fatto, lui non lo ha capito.”
“E perché?”
“Perché...”

Ora Jack doveva misurare attentamente le parole perché c’era la certezza matematica che Killick sarebbe venuto a sapere di quella conversazione, o per bocca dei bambini o per vie traverse, e non voleva attirare su di sé l’ira di una creatura tanto permalosa e vendicativa. Lanciò un’occhiata verso Stephen, che però scosse la testa davanti a quella richiesta implicita di aiuto e continuò a mangiare con ostinata perseveranza, lasciandolo solo.
“Perché il signor Killick non è mai andato a scuola.” Niente di più vero, lo stesso famiglio non avrebbe avuto nulla da ridire su questo “Quindi non sa parlare bene... ma sono sicuro che se avesse potuto studiare parlerebbe anche meglio. Dovete ricordare sempre quanto siete fortunati a poter studiare e imparare le cose: tenetelo sempre a mente.”
“Ben detto, fratello.” Stephen se la stava ridendo sotto i baffi “Io stesso non avrei trovato parole migliori.”
Jack lo guardò male ma il provvidenziale intervento di George, che era rimasto in silenzio a succhiarsi il pollice fino ad allora, salvò il medico da una rispostaccia: “Quindi ci accordate il permesso di uscire a giocare, signore?”
“Ma sì, ma sì. Permesso accordato.”

Un inchino e due reverenze dopo i piccoli scapparono in cortile.
Nella sua lungimiranza Aubrey aveva però scordato la pioggia torrenziale del giorno prima ed il fango che aveva generato nei dintorni. Per sua fortuna Sophia si arrabbiava solo in circostanze estreme e, per quanto risentita dalla condizione dei bambini a fine giornata, non gliel’avrebbe fatta pesare.
Preservato Killick invece gli avrebbe tenuto il muso più del solito per una settimana a quella parte.
Perché spettava a lui l’ingrato compito di lavare i loro vestitini sudici.

Bussarono alla porta e Sophia ne uscì con il volto rigato di lacrime. Senza dire una parola corse dal marito e lo abbracciò forte.
Lui ricambiò, stringendola a se e accarezzandole dolcemente la schiena.
Non c’era bisogno di spiegazioni sul perché stesse piangendo: “Sta tanto male, amore. E’ spaventato come un bambino. Io ho provato a...”
“Shh! Cara la mia dolce Sophie! Stai tranquilla: sono sicuro che hai fatto del tuo meglio. Vedrai che presto starà bene. C’è Stephen con lui, adesso: se qualcuno può farlo stare meglio è lui.”

Con il cuore in gola, Stephen si fece strada nella stanza del malato.
Il respiro accelerato dalla febbre e qualche flebile lamento gli unici suoni nella camera.
Sedette accanto a lui e gli appoggiò una mano sulla fronte imperlata di sudore: ancora scottava. Quel gesto fu una scusa per accarezzargli i capelli e rimase di stucco quando l’altro cercò di seguire la sua mano, anelando il contatto.
Il cuore del medico ebbe una fitta perché nessuno meglio di lui sapeva quanto soli ci si sentisse mentre si giaceva a letto malati o feriti, mentre il mondo intorno si dissolveva in una macchia indistinta e il dolore imprigionava la coscienza in una bolla di sofferenza.

Pur presenti fisicamente si è assenti al mondo esterno e la vicinanza di altri esseri umani non viene percepita che come vaga e distante, come qualcosa che dovrebbe esserci ma in realtà non c’è.
Il paradosso di un’assenza nella presenza: perché nonostante la vicinanza fisica e i tentativi di conforto nessuno può partecipare attivamente alla dimensione del dolore che arde impietoso e brucia insieme alla febbre sia il corpo che l’anima, attivo e costante nonostante i medicamenti.
Impossibile da dimenticare e da ignorare.
Una solitudine bruciante, un calvario infinito.


Un tormento che in questo caso era esacerbato da un lutto recente, una perdita che avrebbe messo a dura prova chiunque ma che la febbre rendeva ancora più insopportabile.
Fu con la morte nel cuore che Stephen pose di nuovo il termometro tra le labbra del suo paziente.
Ancora una volta dovette sorreggerlo con una mano perché l’altro non aveva la forza di tenerlo in bocca.
103,1°F[1] fu il fatidico responso.

Era assurdo, pensò, assurdo che Pullings stesse rischiando la vita per la recrudescenza di una malattia contratta anni prima con tutte le peripezie e i pericoli mortali che affrontavano in mare ogni giorno.
Era ancora più assurdo che non potessero fare altro che passargli una spugna bagnata sulla fronte per alleviare le sue sofferenze.
Nel silenzio di quella stanza solitaria, pregò con tutte le sue forze che il Padre Eterno avesse pietà di quella povera anima e le concedesse presto sollievo.
 
Note:
[1] 39,5°C

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Se il Disclaimer vuoi trovare, al Capitolo I devi tornare!

Buona Lettura ^.^

Il calvario di Thomas Pullings durò nove giorni.

All’alba del decimo, quando ormai avevano seppellito anche l’ultima speranza per la sua guarigione, quando era talmente magro da formare a malapena un rilievo sotto le coperte, si svegliò in un bagno di sudore, con la pelle arrossata e tremando come una foglia.
Nella penombra riconobbe la sagoma del Dottore, assopitosi al suo capezzale, e strinse una mano scheletrica intorno al suo braccio, scuotendolo leggermente.
Stephen per poco non cadde dalla sedia vedendo l’uomo che ormai dava per morto tenere gli occhi aperti e addirittura sorridere.
Provò un sollievo immenso quando, con il suo aiuto, riuscì a mettersi a sedere e a tenere in bocca il termometro senza fatica.
97,7°F[1].
Finalmente era finita.   
                                                    

Pur sorretto da due cuscini, Pullings riuscì a rimanere seduto mentre il dottore lo lavava e gli passava la camicia da notte che gli avevano tolto giorni prima, per aiutare il suo corpo a dissipare, almeno in parte, il calore eccessivo della febbre.
Una volta decentemente pulito espresse il desiderio di farsi la barba, ma quando Stephen gli mise in mano il rasoio le sue dita tremavano troppo perché potesse usarlo senza ferirsi. Lo fece lui, quindi: gli passò il sapone sul viso e lo rasò con delicatezza, per poi pulirlo con un asciugamano, ancora incredulo per il suo recupero.

Avevano appena finito quando un bussare leggero annunciò la presenza di un visitatore.
Jack Aubrey mise il naso nella stanza e per poco non ebbe un mancamento: tutto si sarebbe aspettato fuorché vedere il suo luogotenente seduto e cosciente che parlava con il dottore.
Non ebbe la certezza che fosse vero finché non gli ebbe preso la mano e non l’ebbe stretta forte tra le proprie. Solo allora si lasciò andare al sollievo e gli porse le congratulazioni per l’ormai prossima guarigione.
Tom accolse l’augurio con un sorriso e ricambiò per quanto gli fosse possibile la stretta di mano ma era ancora molto debole e si accasciò quasi subito sui cuscini.

“Vieni, Jack: lasciamolo riposare. Tom, mio caro, sarò qui fuori se aveste bisogno di me.”
“Grazie, dottore. Signore...”
“Riposate, Tom. Parleremo con calma quando sarete più in forze.” Gli sorrise Jack, dandogli qualche pacca affettuosa sul ginocchio prima di seguire Stephen in corridoio “Complimenti, fratello. Pare che il nostro Tom si senta meglio.”
“E’ così, gioia, ma non certo grazie a me. Ancora non sappiamo cosa porti queste malattie a ricomparire dopo anni di tempo e poi a scomparire di nuovo. L’unica cosa sicura è che se l’è vista davvero brutta: ho temuto seriamente che non superasse la notte.”
“Ma la febbre è scesa, no? E’ un buon segno.”
“E’ senza dubbio un’ottima cosa.” Convenne Stephen “Ma avrà ancora bisogno di assistenza continua. Dovrà dormire e riposare molto se conti di averlo come secondo durante la missione, forse potremmo dover ritardare la partenza.”
“Se dovremo ritardare, ritarderemo. E’ vero che non abbiamo un minuto da perdere ma non mi fiderei di nessun altro per un incarico del genere: non sarei tranquillo senza un comandante in seconda affidabile, tanto varrebbe non partire proprio. Senza contare il fatto che la sua assenza mi suonerebbe male, come una pausa o una nota fuori posto. Tu sicuramente capisci che intendo, vero?  Comunque abbiamo ancora un mese: ha tutto il tempo di riprendersi. “
Maturin era molto scettico sulle parole dell’amico, tanto distanti dall’abituale  e angosciante fretta marinaresca, ma decise di assecondarlo: “Come preferisci. Ad ogni modo non dovrebbe avere nulla che buon cibo e un letto caldo non possano risolvere.”
“Come sono lieto di sentirtelo dire, fratello: davvero ho temuto il peggio. Stamattina ho capito cosa deve aver provato San Tommaso: ‘finché non tocco non vedo[2]’ eh? Proprio così, non sono riuscito a credere che fosse vivo fino a quando gli ho stretto la mano. Ah! Ah! Ah!”
Stephen rimase pensieroso per un attimo, come se stesse valutando diverse  opzioni: “San Tommaso, dici?” mormorò strofinandosi il mento con il pollice “Sì, penso proprio che San Tommaso abbia avuto parte attiva in questa guarigione. Accenderò una candela in suo onore la prossima Messa.”
 

 Pullings rimase costretto a letto per altri due giorni: era ancora troppo debole per camminare e Stephen voleva procedere con la massima cautela possibile, non si poteva escludere completamente la possibilità di complicazioni inaspettate.
Il terzo giorno, tuttavia, riuscì ad alzarsi da solo e il quarto poté addirittura uscire in giardino. Camminava appoggiandosi ad un bastone ma stava in piedi da solo ed era già un buon traguardo.

Perché fosse abbigliato in modo decente i marinai di servizio ad Ashgrove gli avevano confezionato con incredibile rapidità un’apprezzabile completo verde bottiglia con alcuni scampoli recuperati da Sophia in un baule.
Avevano preso le misure sugli abiti con cui era arrivato e il risultato era troppo largo per le sue attuali condizioni ma, con grande sollievo di tutti, mangiava di buon appetito e aveva un aspetto generalmente più sano.

Di certo non era dimagrito ancora, né avrebbe potuto farlo con Killick che continuava a riempirgli il piatto mentre non guardava.
Lo stesso Killick gli stendeva un plaid sulle gambe ogni volta che si sedeva da qualche parte, come facesse a sapere sempre dove trovarlo non era dato sapere, e non gli permetteva di uscire di casa senza avvolgerlo in almeno una mantella e con un cappello ben calcato in testa anche se la temperatura esterna era già quasi estiva.
La più protettiva delle chiocce non era nulla in confronto a Preservato Killick quando qualcuno dei “suoi” ufficiali era malato e questo causava frequentemente astio nei suoi confronti da parte del paziente di turno, di solito Stephen.
Pullings invece, forse per il suo buon carattere, forse perché ospite in casa d’altri, accettava di buon grado tutte le sue, più o meno rozze, premure e non si lamentava di nulla, neppure delle intrusioni di Mrs Williams che lo importunava a quasi tutte le ore per sapere della sua malattia o della sua vita privata.
Sia Jack che Stephen lo ammiravano profondamente per questo.


In quel periodo di convalescenza, i bambini furono un enorme conforto per lui: superati i primi istanti di timidezza reciproca, gli accorrevano incontro come ad un compagno di giochi.
Insistevano per essere loro ad accompagnarlo in giardino e lo guidavano per mano ad una sedia imbottita dove potesse riposare al sole, lo rendevano partecipi delle loro attività quasi più dei loro genitori offrendogli ramoscelli, lombrichi e altre peculiarità che rinvenivano nelle loro scorribande. Capivano d’istinto che, pur facendo egli parte della categoria superiore degli adulti, la differenza d’età ed il ruolo erano completamente diversi da quelli del padre o del bislacco “zio” Stephen e lo trattavano quasi come un fratello maggiore, pur con la dovuta reverenza.

Presto la loro allegria contagiosa fece effetto e il giovane ufficiale riprese a sorridere.
Nel giro di una settimana sembrò riaffiorare l’allievo dinoccolato e spensierato che era stato solo pochi anni prima, con grande gioia di Jack e Stephen.
All’inizio Pullings aveva faticato a restare in presenza dei piccoli Aubrey senza pensare alla sua figlioletta e uno dei primi giorni scoppiò addirittura a piangere.
Fu un pianto silenzioso, estremamente discreto: semplicemente nascose il volto tra le mani e iniziò a tremare. Perfino Stephen, che era seduto a mezzo metro da lui, non si era accorto di nulla ma Fanny e Charlotte lo avevano capito subito e corsero ad abbracciarlo. Accarezzandogli in modo un po’ maldestro le spalle e la schiena per consolarlo, gli rimasero vicino finché non si fu calmato, offrendogli addirittura i loro fazzoletti.

Stephen osservò lo svolgimento della scena senza intervenire, riflettendo su come per le bambine fosse del tutto naturale vedere un uomo piangere e non giudicarlo ma interpretare il suo gesto come un semplice sintomo di tristezza e agitazione. I ragionamenti sui diversi standard emotivi accettabili socialmente per adulti e bambini lo tennero occupato per il resto del pomeriggio.
 
- The End -
 
Note:
[1] 36, 5°C
[2] L’abilità di Jack nello storpiare – più o meno volontariamente - detti popolari, citazioni famose e proverbi è un tema ricorrente nei libri.

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