Vampire Devil, ƒiяsт αcт.

di kurojulia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In qualche modo, l'inizio. ***
Capitolo 2: *** Sembra proprio una brutta giornata. ***
Capitolo 3: *** È tutto ciò che è. ***
Capitolo 4: *** Non sei felice? ***
Capitolo 5: *** Il colore dell'antagonista. ***
Capitolo 6: *** L'amore che fu destinato a finire. ***
Capitolo 7: *** La bonaccia prima del tifone. ***
Capitolo 8: *** Che peccato. ***
Capitolo 9: *** Gli occhi dell'indifferenza. ***
Capitolo 10: *** Io l'ho capito, perché tu non ci riesci? ***
Capitolo 11: *** Indistruttibili come l'acciaio, indistruttibili come loro. ***
Capitolo 12: *** Le divergenze della debolezza. ***
Capitolo 13: *** Un sole spavaldo sui visi immacolati. ***
Capitolo 14: *** Nel fondo. ***
Capitolo 15: *** Città di fiori. ***
Capitolo 16: *** "Takeshi". ***
Capitolo 17: *** Sta pendendo verso il baratro. ***
Capitolo 18: *** Il salvatore senza armatura. ***
Capitolo 19: *** Non smetterà di sognare. ***



Capitolo 1
*** In qualche modo, l'inizio. ***


01.

La figura dagli occhi rubino sollevò lo sguardo verso la volta notturna, puntellata da fulgide stelle, sorridendo appena. Le stelle. Adoravano splendere, manifestare tutta la loro imponenza, la loro grandezza in confronto ai microscopici esseri umani.

Ma, quella persona, aveva ben altro da fare che stare a rimirare gli astri celesti. Abbassò la testa, dando una fredda occhiata al corpo accasciato contro i mattoni dell'edificio, ormai esanime già da qualche minuto; una donna – il cui mestiere non andrebbe detto in giro – dai lunghi capelli biondi, impiastricciati dal rosso scarlatto del suo stesso sangue. Il collo, il petto prosperoso e i vestiti si erano sporcati allo stesso modo. Quell'odore veniva definito come abominevole.

Ma lui non la pensava affatto così e gli incavi sul collo di quel cadavere ne erano la prova. Adorava quell'odore nauseabondo, ferroso e acre. Il modo in cui impregnava l'aria.

Adorava il pensiero, la consapevolezza – che era opera sua se quella donna non era più in vita. Perché era in grado di strappare una vita con una facilità spaventosa. Allora guardò ancora il cielo, insaziabile, mentre s'incamminava per uscire dalla stretta stradina e infilarsi nelle tenebre di quella cupa cittadina – mentre i suoi occhi brillavano voracemente.


 

 

***


 

 

Come si potrebbe dire?


 

Lei era una persona un po' particolare, leggermente al di là degli schemi, molto e troppo fastidiosa, per certi versi, agli occhi delle persone che vivevano in quel paese immerso in un rigoglioso verde; non è che il termine "particolare" fosse per forza un giudizio negativo, - una critica -, e si potrebbe dire che nemmeno "fastidiosa" lo fosse poi così tanto.

Erano solo delle prerogative di Yuki Akawa.

Il problema con lei era che, sfortunatamente, era di una bellezza tale da credere fosse una bambola; aveva un paio di ambre incastonate, alla sinistra e alla destra del naso sottile, circondato dalle esangui guance, dove in basso, vicino al mento, c'erano labbra di un rosa chiaro ferme in una linea indistruttibile. I capelli albini sciolti sulla schiena come un quieto mare di neve che, ad ogni suo passo, ondeggiava piano piano, accompagnandola fedelmente. Non era bassa, ma neanche alta: era una via di mezzo che ripagava con uno sguardo truce.

Perché sì, era così, aveva uno sguardo truce. Non che lo avesse in tutte le occasioni, non era certo il suo marchio di fabbrica; ma doveva ammetterlo, con tutta l'onestà che riusciva a carpire da se stessa, provava una certa gioia ad aprire per bene gli occhi - la cui forma era a mandorla - e ad aggrottare le sopracciglia chiare, stringere la bocca e restare in un tetro silenzio.

 

Ma Yuki Akawa non era solo fastidiosa, truce e bella: era anche sola, eccezione fatta per la sua migliore amica. E sapete com'è... le persone si acchiappano a vicenda. E loro, in un certo senso, l'avevano effettivamente fatto.

Yuki adorava la sua personalità; lei era spumeggiante, come un drink alla frutta con un segreto retrogusto alcolico, il tutto mescolato e servito con un sorriso, un leggero ma intraprendente sorriso. Era minuta, dagli occhi azzurri e luminosi e le labbra carnose, i capelli che ricordavano i petali del fiore di ciliegio - rosa, di un delicato e tenue rosa.

L'albina faceva un sorriso, divertito, quando la coglieva nei suoi atteggiamenti, ed ogni tanto le diceva: «Non posso dirmi felice di essere qui, ma di certo, fra le opzioni, è il posto migliore in cui stare», già, giusto.

Sayumi Ichinomiya, in risposta, aggrottava la fronte. «Adesso non esagerare con le lusinghe».

 

Bisognerebbe menzionare un dato della personalità poco socievole di Yuki Akawa, - cosa che non accadeva con Sayumi Ichinomiya, detta "Yumi", in quanto pareva che il suo nome fosse troppo lungo da pronunciare per l'albina: era in grado di provare uno sconfinato odio per le cose più banali. Ad esempio, il rumore; i pettegolezzi; le chiacchiere insulse, in generale; il sudore; gli adolescenti, sebbene lei stessa lo fosse - nel pieno, fra l'altro; la benzina; gli insetti; le lumache, etc, etc.

Ultimamente, fra tutte queste, la sua classe aveva raggiunto il podio, piuttosto in fretta. Scalando coraggiosamente gli insetti e le lumache, si prestava verso l'alto, come se volesse raggiungere l'Olimpo.

«Eccola qui, la Principessina. Chissà che si strozzi con quella lingua velenosa».

«La Frigida. Rimarrà sola a vita».

«Oh, chiudete quelle fogne, prima che ve le riempia di cocci di vetro», aveva risposto Yuki, lasciando cadere un profondo e ostile silenzio fra i banchi. Sayumi rise di gusto, assaporando ogni singolo deglutire di quella gente - si sperava solo che il fastidio che servivano fosse solo il frutto di una spropositata noia.

«Adoro entrare in classe con te», disse, ridacchiando ancora. «Te l'avevo mai detto?».

«No, ancora no: questa me la sono persa. Accidenti».


 

La “Principessa di ghiaccio”, la “Frigida”, e via discorrendo. Ormai non ci faceva più caso e aveva perso anche il conto dei nomi. Dopo un po', la cosa non la faceva nemmeno indispettire, specialmente perché non aveva fatto nulla per interrompere le loro vite.

Ma letteralmente.

Era arrivata in quella scuola l'anno prima, qualche mese dopo l'inizio; non era mai stata una persona agitata, era raro che provasse ansia o nervosismo, ma doveva ammettere di essersi sentita un po' emozionata. Non voleva fare amicizia, non era lì per provare bellissime sensazioni in compagnia di ragazzini con gli ormoni alle stelle e la testa fra le nuvole. No, decisamente no: era lì per qualcosa di più importante. Quindi, non le sarebbe stato di nessun aiuto fare conoscenza con quelle persone – e non l'aveva fatto, proprio per niente, nemmeno per sbaglio.


 

«Ah, a proposito; stasera vieni con me», aveva detto Sayumi. L'albina, seduta al suo posto, prima fila, di fianco alla finestra aperta - l'aveva guardata. «Mh».

«Non mi dirai di no. C'è questa caffetteria, poco distante il negozio. Vinili, dolci, camino - attualmente spento - e serenità da vendere. Serenità».

Prima di poterle rispondere, colta in fragrante dalla seducente promessa di quiete e dolcezza, il professore Okamoto, che insegnava inglese, fece il suo ingresso in classe. Quello non era un motivo sufficiente per non rispondere, avrebbe potuto farlo eccome - infatti, non era quello ad aver bloccato la sua risposta sul nascere. Era stato un qualcosa di più fine, di più... intangibile. Sayumi non poteva saperne nulla e dubitava fortemente che ne sarebbe mai venuta a conoscenza, ma - proprio nelle sue orecchie, il suono inconfondibile di passi echeggiò, sfrontatamente. E a giudicare dall'arcata dei passi compiuti e la pesantezza, erano di un uomo.

Il vento le scostò i capelli.


 

«Yuki-chan?».

Silenziosamente, il tempo tornò a scorrere nei timpani dell'albina. Sorrise all'amica, appena preoccupata, e al dolce suffisso che aveva aggiunto al suo nome troppo corto. «Sì?», rispose lei.

«Il professore ti sta chiamando».

«Stai bene, Akawa?».

L'albina fece un leggero ma intuitivo cenno col capo. Certo che stava bene, non era mai stata meglio, specialmente quando coglieva in fragrante qualcosa che poteva rivelarsi divertente.

Yuki Akawa non era mai stata meglio.


 

 

***


 

 

La cosa affascinante della giornata scolastica è che può essere imprevedibile; ha più di una faccia, come un dado. Può essere infinita, come il deserto del Sahara, impercorribile e ingestibile, potrebbe portarti a stenderti a terra e aspettare la fine, in totale e doloroso silenzio, con la pelle a fuoco. Oppure, ancora, può essere rapida e incolore, insipida.    Ci sarebbe anche un altro aspetto, che capita di rado, in un modo totalmente disinvolto: può essere pieno di eventi. L'aspetto curioso è che quel tipo di evento non sarà né felice né triste, ma solo un evento.

E mentre sedevano sul polveroso pavimento del tetto della scuola, con i bentou del pranzo appoggiati sulle gambe, Yuki ripensò brevemente alle scie chimiche lasciate nel cielo, a mo' di impronta dell'uomo, come se stesse ricordando alla natura e alla Terra che i veri padroni erano loro. Si concedette un sorriso.


 

«Quindi, alla fine, prima cos'avevi? Ti eri fermata a guardare il vuoto, ho pensato fossi morta», disse Sayumi, prendendo le bacchette dal contenitore, fermandosi ad osservarle.

«Così. Invece, che dicevi riguardo quella caffetteria? Perché hai deciso di andarci stasera?».

«L'altro giorno c'è stata l'inaugurazione, ragion per cui questo dovrebbe essere il momento migliore per andarci... dovrebbe».

«Quel dovrebbe non mi piace».

«Eh. Effettivamente. Ma meglio adesso che il posto non è molto conosciuto rispetto a dopo, quando lo conosceranno tutti, no?».

Non aveva torto. La città contava circa 10,000 persone, a momenti persino di meno, ed era destabilizzante la velocità con cui tutti venivano a conoscenza di qualcosa, qualsiasi, che fosse un nuovo negozio o uno stupido scandalo da drama queen; quando era arrivata lì fortunatamente non aveva dovuto sorbirsi grossi fastidi, a parte dei brulicanti mormorii per la scuola e, qualche volta, per le strade della città. Una nuova famiglia, di cui solo la figlia albina era stata vista da qualche parte, sfuggevole come uno spettro, si era trasferita lì per un qualche amletico motivo. Ma, comunque, il vero problema risiedeva nell'aspetto della casa, che faceva presupporre subito che il denaro non mancava affatto; una residenza alta parecchi metri, una sorta di castello "in miniatura", gotico e affascinante, dalle luccicanti finestre all'esorbitante portone di ferro battuto.

«Mh. Beh, io-... ». Yuki si interruppe, lo sguardo alzato verso l'amica. La bocca rimase leggermente schiusa, come se stesse aspettando il permesso per richiudersi, mentre i muscoli della mandibola cominciavano ad infastidirsi non poco. Ecco qui, stava riaccadendo - era passato un po' di tempo, a ripensarci: Sayumi stava nuovamente guardando il vuoto.

No, sbagliato, non era il vuoto ad aver catturato il suo "interesse" - perché non era interesse quello che mostrava, ma solo due vacui bagliori azzurri: era il cielo. Nella sua soffocante immensità, a celare una pallida mezzaluna, privo di nuvole. Aveva di nuovo catturato quella ragazza. Era in silenzio, con la bocca chiusa, la mano destra aveva persino lasciato cadere le bacchette nel bentou.

Era di nuovo andata via. Si era perduta da qualche parte.

Chissà dove si trovava, proprio adesso.


 

 

***

 


 

Dopo circa cinque minuti, alla fine, Sayumi si era girata verso la sua migliore amica e aveva ripreso a parlare allegramente e, senza batter ciglio, anche Yuki aveva ripreso con i loro discorsi; avevano finito di parlare della caffetteria e stavano discorrendo della pochezza mentale di alcune persone nella città, di quanto fosse incredibilmente assurdo che esistesse una sola scuola superiore - se non altro, quella era bella grossa -, e del fatto che erano già al loro secondo anno, in qualche modo. Che il seguente sarebbe stato l'ultimo, se sarebbero andate all'università; se avevano dei sogni, degli obiettivi, qualcosa che avrebbero voluto fare per tutta la vita; e Sayumi aveva detto che non sarebbe mai stata capace di fare solo una cosa per il resto dei suoi giorni, no di certo; e Yuki aveva concordato, lei non era il tipo.

Avevano parlato di tutte queste cose, ma non avevano mai, nemmeno una volta, toccato quell'altro argomento. Una volta - la seconda, per l'esattezza -, l'albina le aveva chiesto, così, a bruciapelo, cos'è che stesse guardando in quel modo strano. Per risposta, lei aveva aggrottato le sopracciglia e le aveva detto che non stava guardando nulla, in realtà.

Dopo quella volta, Yuki non aveva più fatto domande. A volte era meglio così, no?

«La campanella sta per suonare. Che scocciatura. Adesso c'è matematica. Basta, mi uccido».

L'albina azzardò una risatina.

«Torniamo?».

«Sì, torniamo». Si fermò. «Oh, diamine. Dovrei fare una chiamata, prima. Facciamo così, avviati in classe... cinque minuti e ti raggiungo».

Sayumi sollevò le sopracciglia, sorpresa. «Fai presto. A dopo!».


 

Yuki rispose al saluto con la mano, seguendola con lo sguardo mentre si apprestava a rientrare nella scuola, chiudendosi la pesante porta di acciaio alle spalle. Il tonfo che udì le suggeriva che era chiusa, senza doverla guardare, e il ticchettare delle scarpe che Sayumi stava scendendo le scale - e quando le parve di udire solo un quieto silenzio, lei doveva non esserci più. Quindi, via libera. Richiuse attentamente il bentou col coperchio, poggiandolo sul pavimento, poi si alzò in piedi - bene, ecco fatto. Non c'era nessun suono adesso, il vento stava solennemente tacendo, ed era una bella giornata soleggiata. Non c'era eccessivo caldo. Si poteva dire la giornata ideale per Yuki Akawa, la Principessa di ghiaccio, la Frigida, quella per i fatti suoi dallo sguardo truce e molto, troppo bella.

«Che silenzio». Si appoggiò alla ringhiera di spalle, i gomiti su questa, il capo appena riportato indietro - il mantello niveo mosso lievemente nell'aria. I suoi occhi erano chiusi. «O, almeno, così dovrebbe essere. Ma c'è ancora quel fastidiosissimo suono. Il tuo respiro».

Inclinò il collo e guardò verso la porta che conduceva al tetto, sopra il tettuccio dell'entrata.

«Cosa credi di fare?», disse, ancora. «Posso stare qui tutto il giorno, se vogliamo fare quest'insulso gioco. Stalker del c--».


 

«Ehy, vacci piano». Si sentì una risata. Era un voce assai piacevole, quella che aveva avuto finalmente l'onore di udire. Un po' bassa, ma fresca, una carezza all'orecchio.

«Non ci vado piano con certa gente».

«Certa gente?».

«Senti, non farmi perdere tempo: che vuoi?».

Un leggero tonfo partì dall'entrata. Prima di scendere, quel ragazzo doveva essersi evidentemente sdraiato, in un modo abbastanza nascosto da non essere notato da Sayumi - ma non era questo il punto. Yuki voleva concedere un'occhiata a quella persona, a quello stalker, prima di dichiarargli il suo odio - e guerra. Voleva capire con chi aveva a che fare.

Era alto, forse un metro e ottanta di giovinezza e agilità; le spalle larghe erano fasciate dal sottile tessuto della camicia bianca dell'uniforme i cui primi due bottoni era lasciati aperti e le maniche arrotolate ai gomiti.

E si stava avvicinando. «Te l'hanno mai detto che non sei molto socievole?», disse, sorridendo appena. «Non mi chiedi nulla, a parte cosa voglio?».

Yuki corrugò la fronte.

«Come mi chiamo, per esempio».

«Non mi interessa».

«Potrebbe, però».

«Bella battuta. Ne dubito fortemente. Ora, di grazia, dimmi che accidenti vuoi. Perché mi stai seguendo?».

Il ragazzo le era davanti. Aveva le mani nelle tasche dei pantaloni neri - lunghe, lunghe gambe - e il capo leggermente inclinato di lato, con un espressione quasi addolcita in volto; i caldi occhi color caramello – dal taglio a mandorla ma più aperti e grandi –, contornati da folte ciglia nere, erano puntati sull'albina; le labbra, soffici ciliegie incurvate verso l'alto, in una mezzaluna sembravano proprio divertite, come se quella situazione non fosse assolutamente pericolosa. E quei capelli arruffati, scuri, e all'apparenza impettinabili.

«Qual è il tuo colore preferito?».

«Il lilla».

Il ragazzo sorrise intensamente.

«Mi adori».

L'albina aggrottò le sopracciglia. Ma che stava farneticando, quel tizio? «Stai sviando il discorso? Sei pazzo?».

«Hai degli occhi davvero particolari. Oro. E delle pupille così sottili... ».

Yuki socchiudette le palpebre, innervosita. Era riuscito a farla innervosire! Oh, no. «Se te lo chiedo per favore, mi dici cosa vuoi? Ho davve-... ».

«Oh, sarebbe divertente. Ti prego, chiedimi se per favore posso dirti le mie intenzioni... ».

La mano destra dell'albina ebbe un fremito, una specie di tic nervoso. Sentiva il sangue nelle vene scorrere ad una velocità indecente, le guance colorarsi e il petto scoppiare. Era davvero fastidioso. Cos'è che voleva? Prenderla in giro?

«Cos'è? Sono i soldi? Vuoi quelli per diventare un po' più ricco almeno materialmente? Oppure vuoi dirmi che ti piaccio tantissimo dal primo giorno che mi hai vista e, oh mio Dio, il tuo cuore batte così forte quando incroci il mio sguardo? O vuoi solo farmi saltare i nervi?».

Il ragazzo non rispose, aveva gradualmente smesso di sorridere da qualche secondo, ed era rimasto immobile. Aveva persino tolto le mani dalle tasche e ora le braccia penzolavano lungo i fianchi. Passò qualche altro attimo e continuò a insistere nel suo mutismo. Il silenzio persisteva - un silenzio assordante, che echeggiava nelle orecchie dell'albina come un mantra. Come una maledizione. E la malediva, la malediva.

La malediva. «No. Non è niente di tutto questo». Fece un passo avanti, Yuki lo guardò perplessa - e sentì le dita e le braccia stringerla a sé, il calore del suo corpo invadere il proprio, senza interrompere il contatto visivo.

«Tutto ciò che voglio... », un soffio, contro le sue labbra, nel silenzio. «... è perseguitarti, Yuki Akawa».




 

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Capitolo 2
*** Sembra proprio una brutta giornata. ***


02.

Nella sua testa rimbombò qualcosa, in modo violento e catastrofico, poteva persino dire doloroso. Non sapeva di cosa si trattava - o meglio, non voleva dire di saperlo; perché ciò che le martellava l'emisfero destro del cervello, l'emisfero un poco più serio della sua mente, quello che predominava come un leone, non era un semplice mal di testa. Era la sua voce. La sua morbida e avvolgente voce, simile alla luce del sole che inonda la città nelle prime ore del mattino – l'aveva pensato per un attimo, non poteva negarlo, e forse stava un po' esagerando.

Ma proprio quel timbro tanto intenso la stava risucchiando.


 

Le sue parole stavano ancora echeggiando quando l'improvviso suonare della campanella la riportò coi piedi sul tetto, in quella stupida e folle cittadina di 10,000 abitanti insulsi, pieni di pregiudizi e pensieri ristretti, pieni di...

«Lasciami andare!», premendo i palmi sul suo petto, riuscì a scansarlo da sé - aveva il respiro corto, si sentiva andare a fuoco. «Sei pazzo? Potrei denunciarti per molestie sessuali!». Lo vide toccarsi il petto con una mano, come se non riuscisse a credere che l'avesse spinto via - o forse era il fatto che lei sembrava molto più fragile e debole di così?

Il ragazzo, lo sconosciuto, alzò gli occhi su di lei e poi si guardò intorno. «Con la testimonianza del signor... ? Aria? Ossigeno? Cielo?».

«Ah-ah, che simpaticone», ma non poteva dargli torto, denuncia per molestie sessuali a caso non poteva certamente farle, sebbene l'idea avesse carezzato la sua spalla in svariate occasioni. «Anche se tu stesso hai affermato di... di volermi perseguitare? Devi proprio avere dei problemi - seri, direi».

Lui rise a bassa voce.

«Dì la verità, sei scappato da un manicomio? Questo spiegherebbe perché la tua faccia non mi è familiare».

«Ah, perché, tu fai attenzione alle persone che hai intorno?».

Mmh.

«Eh, no, vero?».

Qualche volta... «Sta zitto».


 

Yuki fece un passo indietro, toccando con la schiena la ringhiera, come un topo in trappola. Non pensava che lui le avrebbe fatto del male, onestamente, ma comunque quell'individuo non doveva essere molto normale: o questo o era davvero, davvero sincero... non che migliorasse la situazione. Il fatto che non c'era un alito di vento, adesso, la inquietava.

«Rilassati», disse lui, inforcando le mani nelle tasche.

L'albina sibilò, aguzzando lo sguardo come un gatto infuriato - solo in un secondo momento ricordò la campanella. Accidenti, quanto tempo era passato, esattamente? Sayumi doveva essere preoccupata mentre il professore adirato, che accoppiata vincente. Aveva totalmente perso la cognizione del tempo mentre veniva molestata da quel ragazzo.

«... come ti chiami?», disse, piano.

«Takeshi».

«Takeshi come?».

«Takeshi Katugawa, Yuki Akawa».

L'albina si chiuse in se stessa, come se volesse scavalcare la ringhiera. «Come fai a conoscermi?», chiese, mormorando, mentre si portava una ciocca dei morbidi capelli bianchi dietro l'orecchio. Quand'era stata la prima volta che l'aveva vista? Qual era stato il suo primo pensiero?

«Casomai, come ho fatto a non averti conosciuta prima».

«Cosa... ?», Yuki sbatté le palpebre, confusa. «Aaah, non importa. Ascolta Katugawa, ti consiglio vivamente di non farti più vedere. Non seguirmi. Non guardarmi. Non parlarmi. Non voglio avere niente a che fare con te, né ora né domani né mai».

Non ci fu risposta. Takeshi Katugawa si limitò a guardarla con uno sguardo indecifrabile ma con un sapore tutto suo, del tipo che sai bene quanto male farà ma ci ricaschi ogni volta - di quel genere. Senza dire una parola, i due si separarono; lei andò alla porta, lui restò fermò dove si trovava, non si dissero più niente. Lui non fece nessun commento, divertito, e lei non gli fece più nessuna raccomandazione o minaccia di denuncia - non ci fu niente, se non un fosco e solitario schiaffo d'aria.

 


 

***


 


 

Le dita strisciarono sulla parete, troppo liscia per aiutarla a reggersi sulle sue stesse gambe, gambe che erano diventate gradualmente deboli ed esili. I palmi erano sudati, piantati contro il muro, mentre l'altra mano andava alla gola e la circondava, in un gesto di disperato auto-salvataggio. Si sentiva bruciare, sarebbe arsa senza che nessuno ci avesse fatto caso. Sentiva le palpebre così pesanti che avrebbe potuto addormentarsi in quel vuoto corridoio del terzo piano. Non riusciva a sillabare una parola, a stento poteva trarre un respiro, una piccola boccata di ossigeno per i suoi polmoni affaticati.

Ah, lei non... non poteva chiedere aiuto. Né l'avrebbe mai fatto. Se doveva ripagarci, l'avrebbe fatto a testa alta.

Ma intanto, si sentiva svanire sotto il fragile filo della vita.

Se cominciava a provare queste angoscianti sensazione, significava che era arrivato il momento di provvedere a se stessa, al fine di sopravvivere a quella strana esistenza. In silenzio, si tirò su, ricominciò a camminare. Qualche volta poteva capitarle di non sentirsi esattamente... bene, ma poteva domare quegli effetti, sebbene con qualche fatica.


 

A quanto pareva, erano passati quindici minuti da quando si era separata con Sayumi; lei era tornata in classe circa quattro minuti prima che suonasse la campanella ed il professore aveva avuto un ritardo di cinque minuti. Quindi, aveva perso sette minuti di lezione che, alla fine, lezione non era stata dato che l'uomo aveva semplicemente parlato di alcune cose scolastiche.

«Ogni tanto mi spaventi. Sei viva, non mi dire. Che fine avevi fatto?», aveva chiesto Sayumi, alla fine dell'ora di matematica.

«Sono viva, già. Miracolo dei miracoli... te l'ho detto, dovevo fare una chiamata ed è stata più lunga di quanto credessi, sfortunatamente». E pensare che aveva detto che non avrebbe sprecato più di cinque minuti per quella "chiamata"...

«Ci sono dei problemi o qualcosa del genere?».

«Assolutamente. Tranquillo in modo indecente».

Yuki strinse i denti e mostrò un freddo sorriso senza crepe né svincoli. Era inaccessibile, un portone a due ante in ferro battuto. Non avrebbe lasciato a nessuno il modo per entrare, non si sarebbe fatta fregare e, soprattutto, non sarebbe di certo capitato a causa di un tale idiota.

Non si sarebbe lasciata scoprire.


 


 

***


 


 

«Senti, devo chiederti una cosa».

La precedente giornata si era conclusa senza ulteriori intoppi o stalker, era finita, si potrebbe dire, persino bene; avevano percorso la discesa-salita, quella che portava alla scuola, e si erano separate davanti ad un cancello di ferro socchiuso. Quel cancello di ferro conduceva al piccolo boschetto sulla fiancata della città dove, all'interno, ben nascosta, c'era la residenza dell'albina. Una casa in un bosco, esatto.

«Dimmi», disse Sayumi, mentre appoggiava sul banco il libro di letteratura giapponese e una penna, sottile e gialla. Yuki la guardò intensamente, cercando di captare nei suoi occhioni turchesi se, il giorno prima, magari avesse intuito qualcosa. «Conosci un ragazzo... ».

«Un ragazzo?».

«Sì, esatto, un ragazzo. Lui... ».

«Lui?».

«Takeshi?». Sì, non era riuscita a togliersi dalla testa quell'individuo. Voleva capire perché aveva fatto quello che aveva fatto, voleva sondare il terreno e non farsi vedere mentre, quatta quatta, avrebbe analizzato la sua personalità. E magari sarebbe riuscita ad intrappolarlo nella sua tela per mangiarselo vivo. Ma la sua migliore amica sembrava avere qualche dubbio.

Sayumi aggrottò la fronte. «Takeshi... ?».

«Takeshi Katugawa», disse piano l'albina, muovendo lentamente le labbra per pronunciare nome e cognome del ragazzo dello sconosciuto pedinatore, nel tono più silenzioso che conosceva, oltre al pensiero. «Credo sia del nostro anno. L'hai mai sentito nominare? O visto in giro... ».

La ragazza appoggiò le mani sul banco e spinse il corpo indietro, stiracchiando un po' la schiena. «Sì, l'ho sentito nominare, ma non l'ho mai visto. Penso che non venga molto spesso a scuola... delle nostre compagne di classe parlavano proprio di lui, ultimamente; di lui si dice che sia incredibilmente sexy e altrettanto silenzioso, che si faccia vedere un giorno su sei qui a scuola; qualcuno dice che sia un teppista, qualcosa del genere... che la sua famiglia sia della yakuza, insomma. Intorno alla sua classe c'è sempre un po' di gente e c'è sempre casino da vendere. Ma perché me lo chiedi?».

Yuki inarcò un sopracciglio. «Qual è la sua classe?».

Sayumi sembrò pensierosa, d'altro canto era il proprio il tipo di persona che si poneva cinquecento domande al secondo: era molto intelligente, a detta dell'albina. Si premette l'indice contro una tempia, riflettendo un istante. «Mi pare... 2-C? In ogni caso, è in fondo al corridoio. La chiamano "classe in fondo", guarda caso».

 

Che originalità, pensò Yuki, affondando i denti nel labbro, costringendosi a mettere a tacere il veleno dalla sua graziosa bocca - anche se Sayumi ne avrebbe riso fragorosamente. A lei non dispiaceva affatto - sorrise, incuriosita, mentre inclinava il capo d'un lato. «Allora? Perché tutte queste domande?».

L'albina aveva già girato lo sguardo e il torso, lasciando fluttuare i suoi pensieri e la sua concentrazione su qualcosa che non fosse un essere umano. «Eh?», sussultò appena, tornando a guardare l'amica ficcanaso. «Ah, beh... », sospirò. «... potrebbe esserci la remota possibilità che l'abbia incontrato. Di persona. Faccia a faccia. E respirava».

Sayumi rise allegramente. «Non avevo dubbi che respirasse!». Poi, fece un attimo di silenzio, come se stesse rielaborando la nuova informazione. «Ed è successo qualcosa? Se hai fatto tutte queste domande, temo che qualcosa possa essere successa».

Sebbene Sayumi Ichinomiya fosse una sua cara amica - la sua cara amica -, lei si era da sempre imposta di non allargarsi troppo. Mantenere un profilo che non faccia intendere più di tanto su se stessi, come forma di... prevenzione. Ragion per cui, poteva rilasciarle una certa quantità di informazioni, di verità e di omissione e doveva farlo con tranquillità o lei avrebbe notato qualcosa - questo era più che certo. «Ah, no, niente di ché. L'ho incontrato di recente e aveva bisogno di indicazioni, indicazioni che non sapevo bene fornirgli, lo sai. Poi ci siamo presentati. Non aveva un'aria familiare, quindi... ».

A volte c'era anche un po' di menzogna. «Oh, capisco!». Sayumi sorrise. «Ma quando l'hai incontrato? Forse-... ».

E proprio in quel momento, la campanella ruppe la loro conversazione e il chiacchiericcio di sottofondo, sostituendolo con un verso di dissenso - ma salvando la povera Yuki Akawa, costretta ad un angolo claustrofobico.


 


 

***


 


 

La scuola superiore frequentata da Yuki e Sayumi era costruita su tre piani, un grosso giardino dietro l'edificio e un tetto accessibile con un po' di forza bruta. Superato il cancello e l'atrio dall'asfalto in selciato, si sfociava al piano terra e, dopo tre scalini, si incontrava subito la segreteria della scuola, aperta fino alle 16:00; tutto intorno era pieno di numerose aule utilizzate per i club del pomeriggio con attività varie. C'erano poi la palestra, la sala insegnanti e l'ufficio del preside. I restanti piani ospitavano le classi degli studenti, divise per anno scolastico: Yuki e Sayumi frequentavano il secondo, quindi erano al secondo piano.

Una scuola in una cittadella del genere, per forza di cose, era gremita di soggetti discutibili - ma non in senso strettamente negativo; erano persone generalmente allegre, dall'atteggiamento spensierato ma, in realtà, profondamente stressate e angosciate con se stesse. E c'erano pregiudizi, pettegolezzi, chiacchiere ipocrite. Non erano cattive persone - cos'è che rende cattiva una persona? L'aver perso il senso del giudizio, forse?


 

Yuki stava ancora pensando a ciò che le aveva detto Sayumi: non si capiva niente, in pratica; c'erano troppi pareri, troppe possibilità, ma che in un modo o nell'altro portavano sempre allo stesso risultato: era il classico tipo da cui tenersi alla larga. In teoria, era da tenersi alla larga. Sapeva che era così. Ma restava preoccupata all'idea di esser realmente perseguitata da quel soggetto - più ci rifletteva, più si fondava in lei il fatto che fosse un tipo instabile.


 

Alla fine, stava camminando in corridoio. Le lezioni si erano appena concluse, da circa quattro minuti, e Sayumi aveva avvisato l'albina che prima di tornare a casa doveva andare in sala insegnanti - quale momento più propenso di quello per dare un'occhiata? Tanto per farsi del male?

In funereo silenzio, dunque, a testa alta e sguardo fisso davanti a sé come un generale dell'esercito, finì di percorrere il corridoio arrivando fino in fondo. «2-C», lesse, alzando lo sguardo all'angolo della porta. Era la classe di cui aveva parlato Sayumi. La "classe in fondo", quella rumorosa, con un sacco di gente intorno - normalmente. Ma il fatto che le lezioni fossero appena finite aiutava la calma ad aggrapparsi anche a quel posto.

Si avvicinò alla porta, affacciandosi appena appena col capo, lasciando che le grandi iridi oro guardassero ogni angolo, ogni lato, ogni centimetro quadrato dell'aula. C'era ancora qualche ragazzo, ma del suo obiettivo non c'era traccia - si notava subito, quello. La sua assenza le provocò un mix di emozioni, un po' di fastidio e un po' di sollievo.

Sarà a frantumare le ossa a qualcuno?, pensò, scostandosi dalla porta. Nell'istante in cui fece un passo indietro, la sua schiena si scontrò contro il petto di qualcun altro e una voce alle sue spalle la fece sobbalzare. «Hai bisogno di qualcosa, Akawa-san?».

«AH!».

Per un lungo, interminabile secondo, aveva creduto si trattasse di Katugawa e si era sentita tremare le gambe, come fossero diventate di gelatina. Invece, si trattava di un ragazzo dai capelli ossigenati e uno sguardo particolarmente... assonnato, si direbbe, e interrogativo, confuso, il ché si ben legava al tono della sua frase.

L'albina batté le palpebre e scosse il capo. «No, io non... come fai a conoscermi?», era riuscita a dire Yuki, non senza avergli rifilato uno sguardo truce, attraverso gli iridescenti occhi oro – per la sorpresa, aveva fatto qualche passo più in là e ora dava le spalle al corridoio che aveva appena percorso. Lo stava ritenendo come una figura sospettosa, dato che le era apparso alle spalle come una fittizia e informe ombra ossigenata. In un certo senso, quel ragazzo assomigliava ad un fuoco fatuo.

Il ragazzo aveva fatto spallucce, mentre lei pensava a come andarsene in modo teatrale. «Chi è che non ti conosce? Sei l'unica albina nella scuola, comunque».

«E tu sei l'unico finto albino, immagino», ribatté lei, incrociando fermamente le braccia al petto, come se stesse difendendo il fatto che lei fosse quella vera. In ogni caso, il ragazzo non fece una piega, limitandosi ad aguzzare la vista e gli occhi sottili per guardare dentro la 2-C. «Stavi cercando qualcuno?», chiese.

Oh, potrei... usare a mio vantaggio questo ragazzo..., pensò, per un secondo. Ma non era certa si trattasse di una buona idea; non aveva idea di chi fosse o di che rapporto avesse con Katugawa, quindi... era meglio investigare da soli. «Sei di questa classe, tu?».

«Sono Kazuki e sì, sono di questa classe».

«Sono andati tutti via?».

Il ragazzo stette in silenzio qualche attimo. Infine, rispose: «Puoi vedere da te, c'è ancora qualcuno. Ma dubito fortemente che si tratterranno. Sono usciti tutti dalla classe, però».

Il ché non assicura che siano tutti andati a casa... evidentemente, qualcuno mi sta consigliando di lasciar perdere questa stupidaggine e tornarmene a casa e basta, e avrebbe dovuto farli prima questi pensieri, molto tempo prima, anziché dirigersi lì davanti, proprio come aveva fatto lui. Fu proprio un minuto dopo che, alle sue spalle, - le sue rigide spalle che non si lasciavano sfuggire nulla - sentì il calore di una presenza. Di una persona.

Ma non si girò. Restò immobile, con uno sguardo quasi atterrito su Kazuki, quel ragazzo senza espressioni, i cui connotati facciali sembravano aver subito un brutto colpo.

«Ah, Katugawa-san, non eri andato via?», domandò quel ragazzo.

 

Quel calore si surriscaldò ulteriormente. Più forte, più vivo, sembrò avvicinarsi ancora di più alle spalle di Yuki - ancora immobile, inchiodata su quel punto. E quel ragazzo non rispose alla domanda di Kazuki, lasciandola aleggiare nell'aria come un virus virale - Yuki strinse le labbra, in una linea d'acciaio. «Già, non eri andato via? Non ti avevo detto di andare via?».

Lo sentì ridacchiare, dietro di lei, e si chiese mentalmente cosa ci fosse di tanto divertente in un ordine impartito e non accontentato. Lei si sentiva frustrata, per questo, si sentiva ridicolizzata, presa in giro: era stata chiara come la luna di notte. Ma, a quanto pareva, non abbastanza.

«Me l'avevi detto?», ripeté lui. La sua voce, bassa, si intrufolò vicino il collo immacolato di lei, scostandole i capelli, solleticandole l'orecchio. «Sì, mi pare di sì... per questo sono ancora qui». Poi sollevò la testa, scrollando le spalle. «E poi sei tu che sei venuta davanti alla mia classe. Sei tu che ti sei avvicinata».

«Solo per capire quanto avrei dovuto fare attenzione sulla strada di casa».

«Mi pensi parecchio, eh?».

«Ti consiglio vivamente di spostarti».

Poi, stupidamente, Kazuki decise di intervenire: «Era lui che stavi cercando tanto, prima? Potevi dirmelo, avrei potuto aiutarti».


 

Improvvisamente, Yuki sentì il sangue scorrerle nelle vene congelarsi come se qualcosa fosse stato tolto. Come la capacità di produrre calore. Insomma, era morta. E quel Kazuki, anche. Era mai possibile che potesse esistere un tale grado di idiozia? E quando sarebbe successo che lei lo stesse cercando tanto? Diamine, si era solo affacciata a quella classe, voleva solo dare un'occhiata. E non l'avrebbe più fatto, quella situazione si chiudeva lì, il sipario era chiuso, i biglietti conclusi; senza dire una parola, in un silenzio omicida, ruotò i piedi verso le scale parallele alla 2-C e cominciò a salirle, rapidamente. Il ticchettio delle sue scarpe sembrava l'unico suono in tutto il secondo piano, tanto era insistente e violento. Ma si sentiva così arrabbiata che avrebbe potuto spaccare i gradini sotto i suoi piedi con i propri passi.

Non voleva saperne più niente, di lui, di Kazuki, del sesso maschile, delle persone!, voleva liberarsene e chiudere gli occhi, lasciandosi cullare - o affogare - dal torpore di un bel sogno. Un sogno nel mezzo della primavera. L'idea era di tornare a casa, in quel castello che di reale sembrava non possedere nulla, se non la freddezza nell'aria, e chiudersi in camera sua per allietare la mente di cose più piacevoli, come qualche libro o un po' di musica.

E mangiare qualche dolce spropositatamente calorico.

«Perché stai fuggendo?», e davvero non voleva crederci, ma la stava seguendo lungo il corridoio del terzo piano, davvero, sul serio? Non gli concesse nemmeno un'occhiata, continuando imperterrita a seguire la strada. Aveva intenzione di scendere delle altre scale per tornare al secondo piano, prendere la sua borsa di scuola e andare via.

«Ehy, Yuki-».

Allora si fermò, puntando i piedi. «Mi hai appena chiamato per nome? Questo... è uno scherzo?».

Non si era ancora girata, preferendo rivolgere lo sguardo davanti a sé, anche a costo di fissare il pietoso nulla cosmico - seguì un silenzio, persino da parte del ragazzo. Poteva udirne il respiro leggero e regolare. Lui era tranquillo. Quieto come una giornata assolata. Mentre lei aveva i nervi a fior di pelle, percepiva le vene pulsarle nei polsi.

«Essendo il tuo nome, ti ho chiamata così».

«E non pensi di esserti preso un po' troppa confidenza? Dato che, io, Yuki, ti odio?».

Takeshi non rispose. Stette in silenzio, le iridi marroncine brillavano appena, di una calda e soffusa luce. «Perché mi odi?».

Non era una cattiva domanda. A conti fatti, lui non gli aveva fatto nessun torto, non le aveva fatto nulla di male; allora, perché lo odiava? Probabilmente era dovuto al pedinamento, a come l'aveva approcciata, a come le aveva fatto capire, bruscamente, che fosse interessato a lei. E Yuki Akawa, che non aveva mai amato granché le effusioni, si era sentita come se le avessero pestato la coda di proposito. Uno scherzo proprio di cattivo gusto. Uno scherzo che era durato fin troppo, per quanto le riguardava.

«Apri le orecchie», esordì - girò appena il viso, guardando i suoi colori con malavoglia. «Non voglio dirlo ancora: non avremo niente a che fare, io e te. Mi segui? Non voglio averti ancora intorno. Ti odio», inspirò profondamente, e lo guardò negli occhi. «Se ti ripresenterai, dovrò ucciderti».

In quel momento, Takeshi Katugawa ebbe dei pensieri su Yuki Akawa. Si chiese per che tipo di persona aveva provato interesse; si chiese come avesse fatto a pensare che fosse bella come un fiore e con un sorriso delicato e abbagliante come il sole di Agosto. Perché, una tale persona, parlava di uccidere con tanta facilità? Si rese conto di crederle. Non abbastanza da provare paura, no, ma era conscio che aveva il cuore freddo come l'acqua sotto i ghiacciai.

Era davvero una Principessa di ghiaccio.


 


 

***


 


 

«Grazie per aver deciso di accompagnarmi». La voce di Sayumi la riscosse. Le palpebre ebbero un guizzo, le strizzò parecchio - prima di aprire gli occhi e guardare la sua migliore amica e il suo sorriso affettuoso. «Non sono mai andata in biblioteca, credo».


 

Infine, Yuki era tornata nella sua classe; non aveva preso la borsa né era andata via istantaneamente come la sua testa le aveva all'inizio suggerito, si era soffermata, seduta al suo banco, mentre i caldi e rassicuranti raggi color arancio del tramonto ne carezzavano la superficie di legno, riscaldandola appena appena. In silenzio, a sospirare, a borbottare, aveva riposto i suoi oggetti nella borsa - e poi, come punizione divina, Sayumi era apparsa davanti a lei. A volte sembrava uno zashiki-warashi*.

Pareva che in letteratura giapponese Sayumi avesse degli evidenti cali e, di certo, non adatti per un liceo; l'insegnante l'aveva richiamata per parlarne a quattrocchi e alla fine le aveva consigliato caldamente - che, francamente, aveva tutta l'aria di un compito per casa - di andare nella biblioteca della scuola per prendere in prestito qualche testo. Di certo, cominciare qualche lettura le sarebbe stato utile.

«Figurati. Comunque resta assurdo che tu non sia mai venuta qui... o forse, ripensandoci, non lo è poi così tanto». Yuki aveva riso, beffeggiandola.

«Senti, ragazzina... non disdegno la lettura, ma non mi piace farlo perché me l'ha detto la professoressa. Che seccatura!».

Non poteva biasimarla. «Allora, hai qualche idea su cosa prendere?».

«Ho cercato su Internet e mi è uscito Genji Monogatari. Non so cosa sia. Tu che dici?».

«Ottimo inizio, anche se è piuttosto massiccio. Potresti metterci un bel po' prima di finirlo... », con lo sguardo che scendeva lentamente fino alle punte delle sue scarpe, rifletté per qualche istante. «Ma ne vale la pena, direi. Forza e coraggio, eh!».


 

Un lungo sospiro aveva accompagnato la risatina sommessa dell'albina mentre imboccavano la strada verso la biblioteca scolastica, al secondo piano: era una scuola grande sì, ma i piani in sé no. Quindi, per raggiungere qualsiasi luogo non c'era bisogno di grandi camminate o corse sfrenate.

Ciononostante, Yuki si sentiva come se ne avesse appena finita una - una lunga ed estenuante corsa contro il tempo, la luce e il suono. Si portò le dita al lato del collo, verso la carotide, per ascoltare il suo battito cardiaco: calmo ed elegante come il battito di un'aquila. La pelle era liscia e fredda, come un marmo tirato a lucido. Mentalmente, era quieta, distesa - fisicamente si sentiva consumata.


 

«Yuki?».

L'albina si riscosse con un piccolo sussulto, voltandosi con sorpresa verso la sua migliore amica; la guardava con la fronte corrucciata e la bocca un poco serrata, i grandi occhi color cielo punteggiati dall'apprensione. «Io... senti, c'è qualcosa che non va... ? Non so, è da un po' che mi dai l'impressione di non stare molto bene. Se è così e posso fare qualcosa per te... ».

La pelle liscia e fredda come il marmo cominciò a sudare. «Ehy, mammina, guarda che sto bene». Sorrise leggermente, appoggiando una mano sulla sua spalla. «Non è che sei tu quella a non stare troppo bene?».


 

E la cosa non era nemmeno tanto falsa né pensata all'ultimo istante per salvarsi in calcio d'angolo; Yuki aveva ben schiarita in mente l'immagine dell'amica mentre - i cui occhi erano vacui come uno specchio infranto - osservava il cielo, che esso fosse lucente o nuvoloso. Forse erano entrambe a non stare bene. Forse era questo. Avevano pochi tratti in comune, contati sulle dita di una mano, ed erano le omissioni e lo stato d'animo.


 

A quanto pareva.


 

Chiacchierando, raccontandosi del più e del meno, rilassandosi fra amiche - com'è giusto che sia -, continuarono a percorrere il corridoio che portava alla biblioteca della scuola; certo era strano che, trattandosi di un liceo piuttosto nella norma - o si potrebbe dire, mediocre -, vantassero persino una biblioteca e, all'interno, una piccola ma accogliente ed elegante caffetteria. Di recente era stata cambiata, con qualche ristrutturazione e aggiunta qui e lì, ragion per cui la curiosità di Yuki era alimentata. Giunte davanti la porta a due ante, l'albina la spinse lentamente per aprirle.

Si trattava di un ampio - e un pochino freddo - salone, con delle scale proprio davanti ai loro occhi che portavano a dei soppalchi. Le finestre erano coperte da pesanti tende di velluto color prugna e, proprio affianco ad esse - quelle del primo piano -, vi trovava un piccolo salottino con qualche poltrona e un divano mentre, alla sinistra dell'entrata, c'era la tanto decantata caffetteria. Ed era infatti elegante e raffinata, con il lucido legno scuro del bancone e le decorazioni dorate.

Vestito dalla radiante e splendida luce del sole era un posto meraviglioso e confortevole. Adesso, però, nelle tenebre del pomeriggio inoltrato, incuteva inquietudine mista a una strana tranquillità.


 

Sayumi era qualche passo avanti all'albina, tentando di decidere dove avrebbe potuto iniziare a cercare quel dannato mattone di carta; strano come nessuna delle due avesse pensato di cercare un interruttore e dare un po' di vita a quelle biblioteca - forse era stata l'esigenza di voler uscire da lì in fretta a non farle pensare affatto. Lo sguardo di Yuki toccò ogni angolo, ogni balaustra di legno scuro, ogni scaffale gremito di tomi.

«Yumi, perché non--», la voce dell'albina si raggelò, come se fosse stata strozzata a morte da una mano oscura.

Eccola di nuovo.

La stessa dolorosa e stupida sensazione, la stessa che aveva sentito dopo aver provato l'angoscia di conoscere quel Takugawa. Presa per l'esile collo bianco, sembrava andare a fuoco interamente, pezzo per pezzo, ogni centimetro del suo corpo. Non capiva. Non ci riusciva affatto - e non le importava nemmeno, voleva solo che quell'orribile sensazione sparisse. Si piegò leggermente sulle gambe, premendo una mano sulle clavicole, come se il gesto potesse darle conforto.


 

«Che dici se partiamo da sopra, al lato sinistra? Mi ispira fiducia... », Yumi, in tutto questo, non aveva fatto caso al malanno dell'amica, poiché era stata silenziosa e non aveva emesso un fiato. E così avrebbe dovuto essere: non doveva sapere niente. Era troppo apprensiva, troppo ancorata all'idea che la sua unica amica potesse lasciarla - per farle sapere che quell'idea poteva essere reale.

«Sì, vabbene», rispose Yuki, rimettendosi celermente dritta.

"Sì, vabbene", diceva lei. La vide indicare le ampie scale davanti ai loro occhi con aria distratta, per poi girarsi a guardarla. «Vieni, andiamo».

Si accinsero ad avanzare, arrivando ai gradini delle scale e cominciando a salirli lentamente. Il suono dei piccoli tacchi delle loro scarpe rimbombava rumorosamente nel tetro ambiente, vuoto come il guscio di una lumaca. In cima, sul pianerottolo, una finestra si ergeva arrogante, regalando una pallida e silenziosa luce lunare. Yuki si sentì quasi al cospetto di qualcosa di sacro - avrebbe dovuto inchinarsi a lei, alla luna che aveva accompagnato la sua vita.


 

Si fermò, davanti alla finestra.

Le fulgide gemme dorate, incastonate nelle orbite, ornate da ciglia nere come l'oblio - guardavano in alto, incrociando la sua figura luminosa. Era così bella da ammaliarla.

Avrebbe voluto rimanere lì. Priva di pensieri. Priva di dolore alcuno.

Priva della sua rigida anima.

Ma il bruciante dolore che aveva già avvertito, tornò ad infestarla, e la riportò sul pianerottolo, a guardare qualcosa che non avrebbe potuto aiutarla.


 

«Tutto okay?». La voce di Sayumi la catturò in un angolo. L'albina stava premendo ancora una volta quel punto, più o meno alla base del collo - i delicati lineamenti del suo viso si stavano infrangendo in una smorfia dolorante. «Sì, certo», rispose, impassibile.

Sayumi aggrottò le sopracciglia. «Non mi pare proprio. Guarda come sei pallida. Voglio dire, molto più del solito».

«Sto bene, sul serio», replicò l'albina, togliendosi quella mano per scuoterla - e Sayumi la prese, afferrandola saldamente.

«Perché sembra tu stia evitando le mie domande, invece? Credo sia da un po' che va avanti così. Schivi, evadi, scappi via e torni dopo un sacco di tempo. Io mi preoccupo, lo sai, quindi perché - anche per la mia sanità mentale - non puoi semplicemente dirmi cosa c'è che non va? Hai, non so, un qualche tipo di malattia? Io sono qui. Sarò sempre qui. Sono nata e ho vissuto fino ad adesso per un motivo, ne sono certa: conoscere la mia più cara amica».


 

Yuki la guardò. I suoi occhi erano appena sgranati, la bocca era socchiusa - la parola morte, in fondo alla sua gola.

Lei era nata e aveva vissuto per conoscerla. Perché loro due potessero conoscersi. Conoscersi, reggersi a vicenda, ricordarsi che non c'era niente di inaffrontabile.


 

Ma lei non poteva accettare questa realtà. Con un brusco scattò, liberò la mano dalla presa di Sayumi e indietreggiò, come un feroce animale ferito.

«Yu-».

«Lascia perdere. Lascia perdere!». La sua voce echeggiò come un tormento. Sayumi guardava quella ragazza, che le era tanto cara, ma riusciva a vedere solo lo spesso strato di maschera che celava le sue fattezze - con quella pelle bianca come una tormenta di neve. La guardava, Sayumi, la guardava anche mentre si voltava e metteva un piede in avanti per scendere il primo gradino. Vide come quel passo era stato calcolato male, come sembrava voler atterrare su una superficie invisibile - troppo ampio, distratto.

«Merd-». Rapidamente, Sayumi scattò in avanti e l'afferrò per il braccio che le era più vicino, sentendo come l'albina non stesse facendo nulla per semplificarle il salvataggio. Sembrava, più che altro, addormentata.


 

Ma poi qualcosa sembrò svegliarla - la vide aprire la bocca, sconvolta - e Sayumi dovette impiegare tutta la sua forza per tirarsela indietro, sul pianerottolo.

Accaldata, stanca e preoccupata a morte, Sayumi cercava lo sguardo dell'amica tra la massa di filamenti argentei. «Allora? Devo ancora lasciar perdere?». Cercava il suo sguardo, i suoi occhi, il barlume di amicizia e intimità che le avrebbe permesso di capire cosa stava succedendo - lo cercava, ma invano.


 

Quello che vide non era affatto lo sguardo di Yuki Akawa.

Occhi rossi come rubini splendettero nella penombra - il gelo di quel colore costrinse Sayumi a tremare.

«Yumi... », sussurrò l'albina, prima di raddrizzare la schiena, mentre tutta la sua figura veniva contornata dalla pallida luce lunare. Il luccichio rosso si fece spazio fra l'argento dei suoi capelli scompigliati. «Mi dispiace».


 

E poi, qualcosa di terribile accadde.

Cosa, poi, era difficile da dire - ma accadde, ad una velocità stordente: l'albina era scattata come una volpe, spostandosi alle spalle dell'altra per afferrarle con una sola mano entrambi i polsi, spingendola a tenere le braccia dietro la schiena e quest'ultima inarcata in avanti - i corti capelli lasciavano la trachea in bella vista. Sentiva il suo respiro farsi agitato, pesante. Sentiva che la sua preda si stava innervosendo, ma questo le piaceva, stuzzicava la sua fame.

E vorace, affamata, lasciò affondare i denti nella gola della sua migliore amica.


 

Di quella che aveva sempre voluto proteggere.


 


 


 

* zashiki warashi: "il bambino del salotto", è uno yōkai, cioè uno spirito, facente parte del folclore giapponese. Viene considerato come uno spirito domestico.

NOTA: 
Beh. Come potrei dirlo. 
Non pensavo che avrei pubblicato qualcosa di nuovo, a distanza di tutto questo tempo, ma alla fine ho ceduto a questo desiderio e ho ripreso a pubblicare (anche su Ao3, tra l'altro); prima di ogni cosa, ho pensato di riscrivere da capo tutto ciò che avevo scritto di Vampire Devil fino a questo momento - e non ho ancora finito, mannaggia a Cristina D'avena - soprattutto perché il mio modo di scrivere di qualche anno fa lo trovo un po' schifoso come poche cose al mondo brutto, obsoleto quasi. 
Quindi niente. Vampire Devil remake a 360°, in parole pavore. 
Spero sia di vostro gradimento e se vi va, lasciate pure una recensione!

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Capitolo 3
*** È tutto ciò che è. ***


03.

Pioggia.

Fitta, scrosciante e gelida pioggia primaverile, in una noiosa e tediosa domenica mattina. Takeshi sedeva al tavolo della cucina, il mento appoggiato sul palmo della mano e il gomito pigramente sulla superficie del tavolo - guardava fuori dalla grande vetrata della stanza, iscritta dagli innumerevoli rivoli d'acqua. Sentiva la pioggia battere freneticamente sull'asfalto, incastrarsi nelle grondaie e inondare la piccola cittadina, come a volerla trasformare in una mediocre Venezia. Pensava, mordendosi di tanto in tanto il labbro inferiore, le palpebre abbassate. Pensava, ricordava - rimembrava a proposito della notte scorsa. Quell'oscura e agghiacciante notte, silenziosa come un requiem della morte.


 

 

 

***


 


 

Quanto tempo era passato, esattamente? L'albina non avrebbe potuto dare una risposta nemmeno se avesse avuto il Big Bang davanti agli occhi - perché quest'ultimi erano impegnati a guardare il volto esanime di Sayumi, la sua migliore amica. Era svenuta a causa dell'improvvisa assenza di una grossa quantità di sangue dal suo organismo.

E adesso, l'odore ferreo e acre di quel così denso rosso impregnava la biblioteca, oltre alla divisa della ragazza, della vittima – e al mento e le labbra di Yuki


 

Perché sì, Sayumi era stata una vittima. Una vittima della fame di qualcosa che non poteva assolutamente essere definito come un essere umano. Nemmeno come un essere vivente, probabilmente. Lei, d'altronde, non era altro ché un mostro.

E Sayumi Ichinomiya era stata, ironia della sorte, l'elemento che lo dimostrava. Chissà cosa aveva pensato poco prima che la sua carne venisse assaporata in quel modo, un istante prima che i denti penetrarono nel suo collo. Doveva essersi sentita spaventata, questo era certo, l'albina stessa aveva fiutato la sua paura mentre i canini laceravano la pelle ed entravano voraci. E quale meravigliosa e rigenerante sensazione aveva provato dopo, quando finalmente il fuoco che le incendiava la gola era stato domato.

«A tuo discapito», mormorò, scostando una ciocca rosea dalla sua fronte, la testa poggiata sulle gambe di Yuki. Dopo essersi sfamata, si era scostata da lei e l'aveva fatta adagiare alla moquette del pianerottolo, con la testa sorretta dall'albina.


 

Yuki si chiese con quale coraggio provava quel tormento interiore, con quale coraggio osava sentirsi colpevole, pentita, addolorata - se lei non era altro che un mostro egoista. Non c'erano parole per descriverlo - l'orrore.


 

«Vattene».

Lo disse con un tono talmente alto e rigido che quasi i vetri tremarono. Sentiva la sua voce e il suo marciume. Lo percepiva limpidamente. Ma, adesso, non era importante. «Sei stato lì anche per troppo, non credi?». Mentre i suoi occhi continuavano ad esaminare il viso di Sayumi, sentì dei passi felpati accorciare una certa distanza, da una delle pesanti tende scure fino all'inizio della scalinata. A separarli, erano solo una decina di gradini. Takeshi li guardò, uno per uno, fino a risollevare lo sguardo incupito sulle due ragazze - ma, alla fine, lo lasciò cadere sull'albina.

E non seppe cosa fare. Non sapeva se respirare o restar così, con l'aria trattenuta nei polmoni.


 

«Presumo che sarai confuso», esordì lei. «E spaventato. Per mia natura, sono certamente un mostro, fra l'altro, egoista: ma non sono cattiva. Non ti ucciderò, anche se è colpa tua - dato che hai deciso di seguirci».


 

"Volevo conoscerti", erano state le parole, quelle che gli danzavano sulla lingua - ma non uscirono dalla sua bocca. La danza divenne sempre più fiacca e poco energica, fino a spegnersi totalmente. Le labbra serrate e i muscoli del corpo tesi come una corda di violino, la guardava ancora. «Se non sei cattiva, perché... ».

Come punta, Yuki sollevò di scatto la testa - irata, gli restituì l'occhiata. «Non l'ho uccisa».


 

Non avrebbe mai ucciso quella ragazza, quell'essere umano; quell'essere umano così leggiadro, dal sorriso dolce come il miele, capace di spazzare via qualsiasi spiacevole pensiero, capace di sostenerti quando meno te l'aspetti. Non avrebbe mai messo fine alla sua vita - a farlo, sarebbe stata la vecchiaia, coccolata dal calore di ciò che amava.

«Allora... », mormorò Takeshi, aguzzando gli occhi. Allora era svenuta, si disse, giunse a quella conclusione, sollevato. Per poco non sospirò di sollievo. «Perché l'hai fatto?», sbottò, chiudendo le mani in pugni fermi. «Questo non è... ».

«Non è ciò che farebbe un'amica? Te l'ho detto», e guardò la ragazza. «sono un mostro egoista. Ma, nonostante questo, Katugawa, ho bisogno di te». Il sangue che colava dal suo mento si fece presto sconfiggere dalla gravità, cadendo a picco sulla moquette, producendo un suono secco e chiaro. Si passò la lingua sulle labbra, raccogliendo una goccia di sangue.

«Hai bisogno di me», ripeté lui.


 

Si ripeté queste parole, probabilmente più del dovuto, chiedendosi cosa diavole stesse succedendo in quel luogo - in quella biblioteca; ciò che aveva davanti, non riusciva nemmeno ad immaginare cosa realmente fosse. Era stato stupido? Era stato stupido a provare quell'intenso interesse per lei, un giorno qualunque della sua qualunque quotidianità? L'aveva intravista, con lo sguardo svogliato che lo caratterizzava, mentre varcava i cancelli della loro scuola. E quel fulgido argenteo gli era rimasto impresso come marchiato a fuoco.

Quel ricordo, ora, era in netto contrasto con le labbra sporche di sangue che si stavano muovendo, che stavano formulando quelle frasi senza senso.


 

Stava dicendo qualcosa, ma le orecchie di Takeshi erano otturate. Otturate dal sangue sulla divisa della sua amica - otturate dal terrore che, purtroppo, stava provando.

E cominciava a sudare.

Cominciava ad agitarsi. A spostare lo sguardo ovunque. A stringere di più i pugni ormai doloranti. Ma lei non era cattiva. Lei lo diceva...


 

«So che ti sto chiedendo molto, ma puoi farlo?», sentì distrattamente.

Sollevò il volto, spaesato, con la bocca schiusa e gli occhi sgranati. I capelli che ricadevano sulla fronte oscuravano appena appena la sua visuale. «C-cosa?».

«Ti sto chiedendo di riportarla a casa sua», ripeté Yuki, piano. «Che equivale al negozio di fiori e piante di questa via, giù per la discesa. Penso che l'avrai visto, almeno una volta». Pazientemente, l'albina stava ripetendo ciò che aveva detto ma che Takeshi, preso dal panico, non aveva udito nemmeno per scherzo. Persino adesso si sentiva troppo agitato per formulare pensieri logici. «Nella sua borsa ci sono le chiavi di casa, che adesso dovrebbe essere vuota».


 

Takeshi inspirò. «Perché dovrei farlo?».

Lei sorrise. «Perché sei una brava persona».


 


 

***


 


 

Con i brividi per tutto l'esile corpo, Kukuri cominciò a percorrere la stradina che portava all'uscita della residenza Akawa, infestata dalla vegetazione e da alberi, quasi volesse nascondersi il più possibile - sospirava lievemente, stringendosi nell'impermeabile giallo. La pioggia continuava a scendere ma, se non altro, adesso era molto meno fitta e si era ridotta più ad una pioggerellina, il ché avrebbe reso il suo compito più facilmente eseguibile. Certo, era probabile che non avrebbe potuto introdursi nella scuola senza prendersi un raffreddore.

Calpestando silenziosa la terra ora fangosa, raggiunse la strada in salita che portava al liceo frequentato dalla sua padrona. Era sinceramente contenta di indossare quell'impermeabile che, col cappuccio chino sul capo dai corti capelli corvini, riusciva a coprirla abbastanza - anche se quel giallo la tradiva un po'.


 

Non aveva mai amato avere a che fare con le persone - o meglio, c'è da precisare: le veniva direttamente un attacco di panico. La sua incredibile, indicibile e ingestibile timidezza era uno dei motivi per cui era finita a lavorare come cameriera per il casato Akawa.

Era, naturalmente, onorata di prestare servizio per una famiglia così facoltosa e che l'aveva aiutata così tanto sin dalla tenera età ma, contemporaneamente, provava sempre un po' di timore a convivere con quelle creature - perché lei era un normale essere umano. Un essere umano fragile come tanti altri, se non di più.

Ma d'altro canto, se non lì, dove avrebbe potuto andare?

Con questi strani pensieri e le lenti rotonde degli occhiali appannate, era ormai giunta nei pressi della scuola - ma dovette fermarsi, sgranando gli occhi e boccheggiando.

Oh, no.


 

Proprio davanti ai suoi occhi, a circa una quindicina di metri, si ergeva la figura slanciata e incappucciata di quello che sembrava un ragazzo. Sembrava piuttosto alto, tanto da apparire più come un giovane adulto - ma l'abbigliamento faceva pensare ad un ragazzo; i jeans scuri, il cappuccio di una felpa grigio che spuntava da una giacca di pelle nera che, bagnata dalla leggera pioggia, splendeva lucida.

Una condizione del suo compito era di non essere vista da nessuno né di parlare con qualcuno - ma, trovandoselo lì davanti, non poté fare a meno di avvicinarsi un pochino. Poteva essere un buon esercizio per sconfiggere il suo timore di parlare con la gente.

Passo dopo passo, riuscì ad accorciare leggermente quella distanza - se non ché, il ragazzo si voltò prima che lei potesse arrivargli accanto.

Kukuri si fermò, come se fosse una ladra e lui il poliziotto. Per qualche secondo, si guardarono in viso, lui sorpreso e lei terribilmente indecisa e imbarazzata. Poi, per fortuna, lui decise di tornare a guardare verso la scuola.

Oh, e adesso che faccio?, si chiese, sospirando rumorosamente.


 

«Hai bisogno di aiuto?».

Kukuri sobbalzò. «Come?».

«Scusa, ti ho sentita sospirare... », il ragazzo girò appena il viso, sorridendo, e Kukuri si trovò a soppesare la domanda postale. Beh, sì, in effetti poteva aver bisogno di aiuto per entrare. Ma chissà se quel bel ragazzo poteva realmente aiutarla.


 

«Ah, è successo che-», balbettò. «Ho dimenticato la mia borsa in classe. Non... non sapevo come rimediare, e così... ».

«Vuoi entrare?», domandò lui. Kukuri annuì.

«Beh, l'entrata principale è chiusa, come vedi. Ci dovrebbe essere ancora qualcuno dentro, però», poi si fermò un attimo, aggrottò leggermente la fronte e squadrò la ragazza; guardò gli occhiali che scivolavano sul piccolo naso, gli occhi scuri come la notte incorniciati da folte ciglia e i capelli corti, molto corti, che carezzavano gli zigomi, le guance e un po' del collo. Aveva un'aria davvero timida. «Non credo di averti mai vista, comunque».


 

«Ah».

Kukuri tremò. Oh, ecco. Ecco ecco ecco. Era stata scoperta. Quel ragazzo aveva capito che stava lavorando in incognito per la sua padrona non-umana. Oh, accidenti. Non andava per niente bene.

La sua unica possibilità, l''unica cosa che poteva fare - sollevò la testa e schizzò via da quel punto, lasciando solo un'ombra al suo posto. Il ragazzo aveva sussultato, visibilmente sorpreso, per poi guardare l'esile figura gialla allontanarsi in tutta fretta lungo la discesa, temendo che potesse scivolare sull'asfalto scivoloso - aggrottò la fronte. L'ultima cosa che riuscì a vedere fu il retro delle sue ginocchia spuntare da sotto l'impermeabile.

… aveva forse detto qualcosa di male?


 


 

***


 


 

Kukuri era rimasta ferma, immobile come una marmorea statua greca, davanti alla porta d'ingresso degli Akawa, considerando caldamente l'idea di fuggire per qualche terra lontana e sconfinata; l'idea di entrare in quella casa e trovarsi faccia a faccia con la sua padrona che, ne era certa, l'avrebbe sgridata e punita per il suo fallimento le faceva venire i brividi su tutta la schiena - d'altro canto, per l'appunto, aveva fallito nel suo compito.

Sospirò. Non c'era molto da fare. La prossima volta che le fosse stato affidato qualcosa da fare, avrebbe fatto del suo meglio e anche oltre.

Silenziosamente, infilò la grossa chiave nera nella serratura e la girò per due volte, sentendo il suono un po' gracchiante della porta che si apriva. Tanto era assorta nei suoi desolanti pensieri che nemmeno aveva fatto caso al cessare della pioggia e, difatti, il cappuccio era ancora tirato su - sospirando, spinse la porta ed entrò. Ed eccola, come temeva, proprio davanti alle scale, ad aspettare il suo ritorno come aveva detto. Era di spalle, e aveva un affascinante postura slanciata, con le mani chiuse a pugno sui fianchi e le gambe leggermente divaricate. Aveva i capelli legati in un'alta ed elegante coda di cavallo. Sembrava proprio nel pieno delle sue forze. «Nobile Yuki... ».


 

Al suono della vocina smorzata di Kukuri - probabilmente un essere umano non l'avrebbe mai sentita -, la mezzosangue dai capelli argentei si voltò, di slancio, con una strana energia nei movimenti. «Bentornata. Dunque, come è andata la missione?».

Kukuri si strinse nelle spalle, come se volesse rimpicciolirsi o farsi risucchiare dall'impermeabile. «Ecco... io... sono mortificata, ma non sono riuscita ad entrare nella scuola e a recuperare la borsa. I-i cancelli... c'era... c'era una persona, un ragazzo... ed io non- si era offerto di prestarmi aiuto m-ma naturalmente ho rifiutato. Mi dispiace immensamente, Nobile Yuki». In un gesto riflessivo, Kukuri chinò la testa, ormai priva di cappuccio, afferrando la stoffa della gonna, stropicciandola fra le dita - attese, impaziente, qualcosa. Qualcosa che non arrivò mai.


 

«Kukuri?», la chiamò Yuki - per cercare il viso della ragazza, si piegò un po' in avanti. «Guarda che puoi stare tranquilla, non era indispensabile!», e ridacchiò appena, divertita dalla sua apprensione.

«Come?», balbettò l'altra, sollevando il viso. «Ma... ».

«Se proprio mi troverò in difficoltà... userò qualche trucchetto. Quindi tranquillizzati e togli quell'impermeabile bagnato, prima che ti venga un raffreddore».


 

E prima ancora che Kukuri poté formulare una risposta, Yuki le aveva già rivolto le spalle per poter risalire le scale, con passo lento ma deciso. La cameriera l'aveva seguita con lo sguardo fin quando la sua figura non era scomparsa oltre una delle tante porte della casa.

E, allibita, era rimasta immobile a fissare il vuoto.


 


 

***


 


 

Immersa nelle tenebre della notte, in un letto inondato dalla luce della luna, lei aveva lo sguardo puntato sul grande specchio posto sopra la scrivania dove, appena visibile, c'era il suo riflesso; era passata quella tragica sera di venerdì, quando aveva marchiato il candido collo della sua migliore amica, quando aveva sentito la vena pulsare incredibilmente veloce, agitata, terrorizzata; era passato un sabato silenzioso e il suo umore, rinfrescato da ciò che aveva preso forzatamente, si era risollevato - ma se da una parte era felice, sazia, dall'altra era a pezzi.

E poi, quella stessa notte, domenica notte.

Socchiuse le palpebre, lasciando incastrare fra di loro le ciglia superiori con quelle inferiore, nascondendo il luccichio inumano dei suoi occhi.

I suoi occhi. Quelle gemme dorate che avevano il potere di splendere anche in notti del genere. Quelle gemme dorate che di umano non avevano nulla.

Ancora, Yuki guardò la sua immagine riflessa nello specchio e si rese conto, ancora una volta, che lei era la persona che vedeva - e nient'altro.


 

Solo una mezzosangue.


 


 


 


 


 

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Capitolo 4
*** Non sei felice? ***


04.

Yuki appoggiò il piede sulla scrivania, piano, facendo attenzione a non urtare nulla. Si diede una spintarella, con le mani sui bordi della finestra, e riuscì così ad atterrare sana e salva sul pavimento della sua stanza. Con un sospiro di sollievo, si mise in piedi, spolverandosi le ginocchia.

Ancora una volta, la sua ronda notturna era giunta al termine, senza portare nessun risultato. Di nuovo, ancora, non aveva trovato nessuno che gli somigliasse, nessuna sua orma, un indizio qualsiasi.

Guardò il display del suo cellulare, aggrottando gli occhi, infastidita dalla luce. Segnava le 3.33.

Forse era il caso di dormire un po'.


 

 

***


 


 

Nei corridoi del suo liceo era appena suonato l'intervallo e gli studenti, contenti di avere qualche attimo di relax, erano sbucati come funghi per chiacchierare, appollaiati sugli scalini, vicino ai muri o davanti alle porte delle classi.

Ma di Sayumi Ichinomiya non c'era neanche una traccia.

Non c'era quella mattina alle 8.00 e non c'era in quel momento alle 12.00. E l'albina non poté fare a meno di chiedersi se il motivo dell'assenza fosse la salute - l'aveva uccisa?, si chiedeva, tremando dentro, impercettibilmente. Aveva ucciso la sua migliore amica? No, non era possibile, sapeva per certo che era solo svenuta. Ciononostante...


 

Con questa domanda per la testa, era uscita dalla sua classe, camminando come uno zombie. Perché sapeva chi era l'unica persona che poteva risponderle. L'unica persona che avrebbe potuto giudicarla come omicida - e sebbene l'idea non allettava il suo animo, era quella la giustizia che le spettava. Se non era una pazza assassina, era comunque un aggressione di grado elevato e, onestamente, era sorpresa che lui non l'avesse denunciata – o non fosse scappato a gambe levate. Forse voleva vedere come si sarebbe comportata? Forse non credeva fosse un pericolo? O più probabilmente, non aveva idea di come spiegare ciò che aveva visto in quella biblioteca.


 

Yuki allora si immerse in quell'atmosfera, concitata e chiassosa, alla ricerca della sua figura slanciata ed enigmatica, cercando quella sua aura ambigua, strana. Ma non lo vedeva. Per quanto si guardasse attorno, nonostante le loro classi fossero vicine, non riusciva ad adocchiare quel tizio da nessuna parte. Oh... se solo possedesse la forza di chiedere a qualcuno. Se solo riuscisse a interagire con quelle persone - ma, se non vedeva lui, vedeva gli sguardi che ogni tanto la sfioravano. Oppure i sussurri che facevano capolino, tra una chiacchiera e l'altra. Si ritraevano o distoglievano lo sguardo, come gatti scottati. «Al diavolo. Stupidi idioti». Fece una pausa, solo per fermarsi e respirare profondamente - esatto. Erano degli stupidi. «Stupidi stupidi stupidi stupid-».

Poi, qualcosa scivolò dalla sua spalla. Qualcosa di delicato e gentile decise di serpeggiare dalla spalla al collo fino alla mascella, invitandola a tendere il collo un po' indietro, quel poco che bastava per poter avere un contatto visivo - ed eccolo lì.

Takeshi Katugawa.


 

«Chi è stupido?».

Yuki batté le palpebre. «Ah. Eccoti».

«Eccomi».

Lo vide sorridere, un sorriso a mezzaluna. L'albina rimase immobile. «Stavo cercando proprio te, lo sai?».

«Così mi pare di capire».

«Bene. Volevo... beh... ». Lei era sicurissima di cosa volesse dire, ricordava alla perfezione il discorso che si era formulata in quella testa albina... eppure dalle sue labbra uscivano solo parole e frasi sconclusionate, tanto per farsi deridere da quello là. Il problema era quel contatto esagerato, quel contatto visivo con gli occhi del colore più caldo che avesse mai visto, quel cioccolato fuso che erano in grado di resettarle il cervello come per magia.

«Giusto, me ne stavo dimenticando», lui le lasciò il viso, per prenderla per il polso, come se nulla fosse. «Vieni, il libro di matematica è in classe».

L'albina boccheggiò, confusa come non mai - il libro di matematica?

Era quasi sicura che avessero dei tomi diversi, per quella materia. Ed era ancora più sicura che non si fossero scambiati i libri e che lui non ne aprisse mai nessuno, ma quella era più una sensazione. Si sentì trascinare, il polso stretto dalle sue dita - la pelle calda e appena ruvida - ed approfittò del percorso fino alla classe per guardarsi intorno. E si rese conto.

Chiaramente, se Takeshi Katugawa interagiva con un soggetto come Yuki Akawa, gli schiamazzi e le voci correvano subito, con la velocità di un razzo. Lei non ci aveva fatto caso, tanto era presa dal pensiero di Sayumi e dalla sensazione di fastidio che lui le trasmetteva.

 

«Ti sono mancato, quindi». Erano arrivati.

Yuki sollevò il mento, altezzosa. «No, niente affatto. Non capisco come faccia a venirti in mente una cosa del genere. Volevo solo... domandarti come è andata venerdì sera».

«Ti riferisci a... ».

«Sì, andiamo. Mi riferisco a lei. Come sta?». Quasi voleva tapparsi le orecchie per non ascoltare la risposta ad una domanda che aveva fatto lei stessa. Takeshi gettò un'occhiata trasversale, discreta, come se stesse semplicemente osservando il pulviscolo che danzava nei raggi del sole. «Sta bene».


 

Dio. Stava bene. «... oh. Perfetto. Grandioso. Grazie per avermelo detto - voglio dire, volevo solo assicurarmi di non aver combinato un guaio. Non mi importa chissà quanto... siete solo degli esseri umani. Un giorno, presto, morirete ugualmente».

«Wow. Ora sì che ho una prospettiva di vita felice». Lui sorrise. E lei ebbe la sensazione che la stesse beffeggiando. «Perché non parli onestamente? A te importa che quella ragazza sia viva, perché ti importa di lei».

Yuki fremette. Sentì il sangue scorrerle in senso opposto. Le guance scottare come marchiate da tizzoni ardenti. «Non sono affari tuoi». I suoi occhi si inchiodarono, le iridi color oro, tanto simili a spiagge deserte, si fissarono in quelle del ragazzo - con un colore così caldo, riuscivano ad essere glaciali. Decise che la conversazione era finita in quell'istante, che non c'era altro da dire - ma mentre tornava indietro, alla sua classe, non poté fare a meno di darsi dell'idiota.


 

 

 

***

 


 


Sono una stupida. Una stupida mentecatta. Capisco andarci a parlare per sapere di Yumi, ma farsi portare a spasso da lui? Sono una cretina, la cretina del secolo, per essere precisi! Come mi è venuto in mente di andare proprio da lui, dato che sto vedendo com'è fatto, che ha una testa bacata, io che dovrei evitarlo come la peste perché mi ha vista, mi ha scoperta - MA COSA HO NELLA TESTA--, fortunatamente i suoi pensieri ebbero modo di interrompersi quando, in piedi davanti alla porta della 2-B, Yuki vide il professore di inglese Yamato Okamoto, tra il braccio e il costato il registro di classe. Chissà cos'aveva pensato vedendo l'albina arrivare nella sua direzione, con le sopracciglia inarcate e l'espressione inviperita. Probabilmente che era un'isterica schizofrenica. «Akawa? Qualcosa non va?».

Lei si fermò di un passo dalla porta scorrevole, incurvando le labbra in un sorriso tirato. «Oh, mai stata meglio. Tutto ben-». In quel momento, un suono la interruppe. Un suono che echeggiò palese alle sue orecchie. E non sembrava un ragazzo stalker, stavolta. «Professore. Le spiace se vado in bagno, prima della lezione?».

L'uomo sembrava sorpreso, come suggeriva l'espressione, ma acconsentì. «Prego. Ma fai presto».


 

Lei cercò con tutta se stessa di sforzare un sorriso gentile; non ce l'aveva con quell'uomo che si era spesso dimostrato un ottimo esempio, di persona e professore, ma era talmente poco propensa alla calma, in quel momento, che dovette comunque impegnarsi parecchio. Si voltò e si diresse in direzione dei bagni, con andamento tranquillo - finché non sentì la porta chiudersi. Allora, a quel punto, cambiò rapidamente direzione e si diresse verso il terzo piano.

Nel terrazzo del suo liceo stava accadendo qualcosa, qualcosa di non molto bello.


 


 


***

 


 

 

Che strano.


 

Non ha l'aria di un luogo infestato, aveva pensato Yuki appena qualche secondo dopo aver varcato la porta. La terrazza sembrava tranquilla come al solito e, soprattutto, era vuota. Non erano in molti che salivano lassù. L'usuale polvere alzata dalla brezza primaverile, il vociare lontano degli studenti, le ringhiere blu usurate dal tempo. Era tutto come al solito.

Possibile che si fosse sbagliata?

Non era certo impossibile, ma... fino a poco prima, mentre saliva gli scalini, era certa di aver sentito bene. Passi, veloci e scattanti, rumorosi. Avevano continuato a farsi sentire finché Yuki non era giunta al terzo piano, quando aveva appoggiato la mano sulla maniglia – poi era calato quell'assillante silenzio. Un po' sconcertata, giunse alla conclusione che i pensieri su Takeshi e Sayumi l'avevano talmente esasperata che aveva avuto delle allucinazioni uditive.

Beh, ormai era fatta – l'aria era leggermente più calda del solito, segno evidente che si stavano avvicinando i mesi caldi dell'anno.

Sembra passato un secolo, da quando mi sono trasferita qui... , pensò, di sfuggita, gettando una lunga occhiata al cielo. Quasi si sentì di sorridere, di fronte a quel pensiero – ma si limitò ad alzare le spalle e a tornare indietro. Okamoto le aveva raccomandato di fare in fretta, d'altronde. Si voltò verso la porta e mosse un piede in avanti – ma ecco che quel suono tornò ad invadere i suoi padiglioni auricolari.


 

«Her life is over, Princess». Yuki si fermò, il passo sospeso. Respirò piano.

Qualcosa di freddo e appuntito prese a camminare sul lato del collo, lacerando appena la pelle sottile, a bruciare gradualmente. Il sangue prese a pomparle veloce.

«I'm here just for you, aren't you happy?».

«Chi sei?».

Con gli occhi fissi sulla porta d'acciaio semi chiusa, Yuki sentì due possenti braccia avvinghiarsi all'altezza delle clavicole - alle sue spalle, una risata maschile dal tono rauco e gutturale, quasi fossero due entità che coesistevano nello stesso corpo, come dei gemelli. C'era qualcuno dietro lei, qualcuno che non aveva intenzione di lasciarla andare. «Allora? Lo so che mi capisci».

«Non è importante», rispose la voce, profonda come il fondo di un pozzo. «Non è mai importato a nessuno chi fossi». Le unghie lunghe e nere come l'ebano le sfiorarono la linea della mandibola, come tentate dal candore della sua pelle. «Ma se morirai... a qualcuno importerà!».

Il suo grido squarciò la pace; in quel grido che le perforò i timpani, lei ne sentì l'intero dolore, lo stato d'animo penoso, la sua natura impazzita. Erano questi i suoi sentimenti? Mentre se lo chiedeva, gli occhi sbarrati dalla sorpresa, gli artigli ebano premettero e penetrarono la pelle sulla mandibola – lei ringhiò e reagì al dolore: afferrò i suoi avambracci e con uno sforzo notevole lo sollevò per lanciarlo contro la porta di ferro. L'uomo – la bestia – si staccò dalla porta che si era piegata leggermente all'impatto.


 

Con un gesto istintivo, Yuki sfregò il dorso della mano sul profondo taglio al viso - il sangue gocciolava a terra ritmicamente. «Non fare l'idiota, avanti. Lo sai a cosa vai incontro?».

«Ormai non ha più senso. Ormai è troppo tardi. Cosa vuoi saperne, tu... », e si zittì come se non riuscisse più a parlare, col respiro che si faceva pesante e affannoso. Di aspetto, assomigliava alla creatura mitologica Medusa, con quei capelli neri e lunghi, dalla forma ondulata, che gli nascondevano il viso lacerato dalle smorfie. Tutto ad un tratto, i suoi occhi si alzarono sull'albina e un urlo massacrò la tensione. «LURIDA MEZZOSANGUE!».


 

 

L'uomo si piegò sulle ginocchia e con uno scatto felino si buttò in direzione dell'albina, con l'intenzione di spingerla giù dalla ringhiera. Solo all'ultimo secondo, con i muscoli frementi, lei riuscì a schivare quell'attacco improvvisato e a rotolare di lato, strisciando le gambe a terra - aspetta, cosa? Dalla ringhiera?

Si sollevò in tempo sulle ginocchia per guardare alle sue spalle e paonazza gridò: «No, aspetta- ASPETTA!».


 

Con un tuffo al cuore, il corpo massiccio di quell'essere piegò la ringhiera malconcia col suo peso e volo giù. Come una farfalla dalle ali strappate, cadde pesante come piombo verso il baratro. Cadde a piombo verso la fine della sua esistenza.

Yuki trasse un respiro strozzato, ancora a terra, sconcertata. Si era buttato giù. E l'aveva fatto con tutte le intenzioni di uccidersi – e non di uccidere lei, no. O forse era solo la sua mera speranza a parlare? A squarciare la sua inquietudine fu un urlo distante, un urlo che confermò le sue paure: qualcuno aveva visto.

Issandosi in piedi, le gambe graffiate dalla rotolata improvvisa, raggiunse rapidamente il punto dove la ringhiera, ormai, era inesorabilmente incurvata in una piega – e guardò in basso, con cautela. Il suo corpo non c'era. Bene, almeno si era già dissolto.

Perché era ciò che accadeva ai demoni quando morivano, d'altro canto.

Sparivano.

 


 

 

***


 


 

«Potresti... ripetere?». Takeshi parlava lentamente, come un bambino alle prese con le prime parole. «Sei stata aggredita da un demone. Aspetta. Un demone». E ripeteva ciò che diceva subito dopo, stordito. «Un demone».

«Sì, Katugawa, un demone», confermò l'albina, la stessa che aveva le mani fra i capelli, disperata quasi quanto quello stesso demone – che non esisteva più, se non qualche granello di polvere. Erano nella terrazza, a pochi metri dalla porta un po' acciaccata e dalla ringhiera piegata. «Se parliamo tutti e due giapponese – e così mi pare –, hai capito perfettamente».

«Scusami tanto», disse lui, inarcando un sopracciglio. «se sono un po' confuso. Ma fino a venerdì non ero ancora stato informato dell'esistenza di certe cose». E poi si chiedeva perché fosse andata a cercarlo in classe, a chiamarlo nel bel mezzo della lezione. Perché proprio lui? E perché l'aveva cercato? Non credeva di esserle di nessuna utilità, specialmente perché aveva già "risolto" la situazione, a quanto pareva. «Perché sono qui, Yuki?».

Per un attimo, lei ebbe un fremito al suono del suo nome – il suo nome in coppia con la voce calma di lui. «Per nessun motivo particolare». Perché Sayumi non c'era e si sentiva davvero, davvero sfinita, come tutte le volte che veniva aggredita. Il tagliosul viso si era già rimarginato, i graffi sulle gambe erano solo un brutto ricordo – ma si sentiva ferita, perché aveva ascoltato quella voce. Quell'oblio era ancora nei suoi timpani.

Takeshi piegò la testa di lato, dubbioso. «E ora cosa farai?».

«Adesso aspetto gli Addetti».

«I cosa?».

«Sì, forse non parliamo la stessa lingua». Il tempo di guardare Takeshi con la fronte aggrottata che un suono, sottile e metallico, preannunciò l'arrivo degli interessati: gli Addetti. Yuki non era mai riuscita a capire di che suono si trattasse e Takeshi non aveva nemmeno fatto caso al loro arrivo, proprio dietro la ragazza. Un uomo e una donna, con addosso delle tute simili a quelle da meccanico, a maniche lunghe, di colore acquamarina. La donna aveva i capelli biondo chiaro, legati in una pratica coda, e la visiera di un cappellino copriva un po' gli occhi azzurri. L'uomo, invece, reggeva nella mano destra quello che sembrava uno schedario con sopra dei fogli – lui sembrava un po' più anonimo esteticamente, con gli occhi e i capelli scuri. «Non potevi che essere tu», aveva detto la donna, con un sospiro.

«Mmh», l'albina cantilenò, come fosse contenta di darle grattacapi. «Katugawa, gli Addetti. Addetti, Katugawa».

«Akawa, non abbiamo tempo».

«Voi non avete mai tempo».

«Già, allora fatti due domande. Forza, comincia».

Yuki si portò l'indice alle labbra sottili, alzando gli occhi pensierosa. «Dunque, credo fosse un demone già andato un po' oltre, il livello più basso, ma non ho potuto accertarmene. Era alto un metro e novanta, con spalle larghe e gambe molto lunghe. Capelli neri e lunghi, fino alle spalle, sembravano delle alghe. La pelle era tendente al grigiastro e gli occhi erano, chiaramente, neri. Non posso dirvi il nome, purtroppo, e neanche se avesse un codice di identificazione».

La donna annuì, incrociando le braccia. «Direi che se evitassi altri scontri, in futuro, ci renderesti la vita molto più semplice».

Yuki storse la bocca con una smorfia, piccata, ed indicò verso il punto dove la ringhiera ci aveva rimesso. «Dillo a loro!», e in quel momento la figura maschile – che aveva scritto dall'inizio alla fine la descrizione fatta da Yuki - si aggiustò la visiera del cappellino e si voltò, spiccando un salto verso il vuoto. Takeshi lo guardò sbattendo le palpebre. Si era appena gettato di sotto, sotto i loro occhi, e nessuno aveva fatto una piega, quasi fosse all'ordine del giorno – inconsapevole che, beh, lo era.


 

«Dio, è odioso. Quando ti strapperò le corde vocali ti verrà voglia di salutare».

«Forza Akawa, se ti impegni a non crearci fastidi, quel tizio non lo vedrai più».

La ragazza alzò gli angoli della bocca in un piccolo sorriso sinceramente felice, l'idea di non vedere quel tipo la rendeva veramente soddisfatta. Poi si volse a guardare Takeshi che, intanto, faceva ancora fatica a mettere tutti i pezzi in un ordine logico; se aveva digerito la notizia dei vampiri e dei demoni, adesso doveva vedersela con la visione di una Yuki Akawa tutta cordiale, che collaborava con qualcuno. Da quando tutto questo? Istintivamente, le sue spalle si scrollarono da sole.

Yuki Akawa, quale puzzle complicato. Quanti pezzi ancora le mancavano per completare quest'opera d'arte – quanto affondo doveva scavare, prima di trovare gli artefatti che mancavano?


 

«Katugawa?». Takeshi sollevò lo sguardo assorto e lo posò sulla ragazza, stupendosi di non trovare più l'altra donna. Quando era andata via? «Stai respirando ancora?».

«Smettila di chiamarmi così. Sono Takeshi, io». Al suono di quello che sembrava un capriccio di un ragazzino – Yuki rise, coprendosi le labbra con la mano in un gesto delicato. Le sorprese non volevano ancora finire, dunque.

Da quand'è che ha scoperto la risata?, pensò lui.

«Ascoltami, Takeshi, ormai hai visto molte cose appartenenti a... questa parte, quindi penso sia arrivato il momento di svelarti tutto il resto. Cosa ne pensi?».

«... è una domanda retorica?».

Yuki fece un sorrisone, contenta. «Già».

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Capitolo 5
*** Il colore dell'antagonista. ***


05.


Agitata, col cuore in gola, Yuki fece scorrere il polpastrello sullo schermo del suo cellulare, andando a schiacciare l'icona della rubrica; scese col dito per poco – non aveva una miriade di contatti, proprio no – fino ad arrivare alla lettera y.

Cercò il suo nome e premette la cornetta della chiamata, per poi portarsi il cellulare all'orecchio, deglutendo; se ne stava seduta sul pavimento della terrazza, aspettando la risposta dall'altro lato, e guardava Takeshi che si era appoggiato con la schiena alla ringhiera. Teneva le mani in tasca e un espressione calma dipinta in viso.

Non lo conosceva abbastanza per poterlo dire ma c'era qualcosa di strano nel suo sguardo, ora che si era presa il disturbo di notarlo – forse mancava quel guizzo da sociopatico che aveva visto durante il loro primo incontro?

L'albina continuava imperterrita a guardare il ragazzo, senza nemmeno rendersene conto, e lui le restituiva lo sguardo, quieto.

 

«Yuki... chan?». La sottile e incerta vocina di Sayumi la fece riscuotere. Il cuore non si decideva a tornare al suo posto.

In tutta fretta, l'albina spostò lo sguardo per puntarlo davanti a sé.

 

«Oh, ca-- Yumi, ciao. Ehm, come ti senti? Sai, da quando... no, non è il caso. O meglio, per ora è meglio non parlarne, giusto? Sono certa che avrai un sacco di domande e mi verrà il mal di testa a cercare di risponderti e sarò costretta ad andarmene in infermeria per prendermi una stupida medicina – non che mi serva davvero, sai, perché alla fine--... puoi venire a scuola più tardi?».

 

«Respira».

 

«Ah-ah».

 

 

Quasi le scappava una risata, con una bella marcata isterica – per caso ruotò gli occhi su Takeshi, alquanto divertito. Adesso era lei la sociopatica.

Come biasimarlo, pensò lei, devo calmarmi, su. Ci sarà una ragione se si ostinano a chiamarmi "Principessa di Ghiaccio", no? O quel che è, frustrata, strinse la presa al cellulare. «Allora, puoi venire qua?».

 

Sayumi, dall'altro capo, sembrò sospirare piano, forse per non farsi sentire dall'amica. «Sì, penso di farcela».

 

«Bene... bene. Inoltre, se ti chiedo di venire fin qui, è perché devi conoscere una persona. Diciamo che... gli devi una cortesia, ecco».

 

«Gli?», ripeté la ragazza. Yuki colse al volo il tono sorpreso quanto imbarazzato dell'amica. Sapeva che non aveva mai avuto grandi rapporti con l'altro sesso – ma non ne sapeva la ragione. Cercando di tranquillizzarla, usò un tono molto più addolcito. «Non preoccuparti, è una persona qualunque. E poi non sarete certo da soli, starò insieme a voi».

 

«Ca... capisco, credo. Okay, vabbene».

 

Non voleva che subisse altro stress o nervosismo; era importante che rimanesse calma e lucida, per ascoltare ciò che l'albina avesse da dire, ma soprattutto per la sua salute. Non le aveva preso una quantità esagerata di sangue, ciononostante non era il caso di andarci pesante così presto.

Alla fine della chiamata chiarirono di vedersi sul tetto alla fine delle lezioni pomeridiane, quando ormai il cielo sarebbe stato un esplosione di colori caldi – ah, il tetto; per loro era sempre stato naturale starci, in tutta tranquillità.

Yuki si lasciò sfuggire un sospiro mentre riponeva il cellulare nella tasca della gonna. Poi alzò la testa verso Takeshi, ancora appoggiato alla ringhiera. «A proposito, anche tu devi essere qui, alla fine delle lezioni. Conoscerai Yumi e poi... ».

 

«E poi ci spiegherai un po' la faccenda, no? Anche se qualcosa è già abbastanza chiara», sì, era chiaro che Yuki Akawa non fosse un essere umano. Era chiaro che fosse più simile ad un pipistrello che ad una giovane ragazza di sedici anni.

 

«Sì, es-- oh, mio Dio! Mi ero del tutto dimenticata che avevo detto di andare in bagno», si diede un colpo alla fronte col palmo, sbuffando. «Sarà passata mezz'ora ormai, che scocciatura. Devo andare subito».

 

 

Takeshi sollevò le spalle. «Che ti importa? Perché invece non resti qui con me fino alla fine delle lezioni? Tanto dovremo stare qui anche dopo».

 

«Ah, proprio no. A differenza tua, mi interesso un minimo alla scuola».

«Non lo capisco».

«Forse non vuoi capirlo». Yuki cominciò a camminare in direzione della porta, dando un'occhiata traversale al ragazzo, un'ultima prima di infilarsi dentro la scuola. «Se ti fossi deciso a starmi alla larga, come ti avevo detto, a quest'ora la tua vita sarebbe rimasta la solita monotona esistenza. E adesso, invece, tu dovrai capire fatti terribili». Poi l'albina scomparve, chiudendosi la pesante porta alle spalle, lasciandosi indietro l'argento dei suoi capelli.

 

 

Nonostante l'insensibilità e il veleno di quelle parole, Takeshi non si scompose affatto. Anzi, un sorriso spontaneo gli incorniciava le labbra carnose mentre, beatamente, sollevava il volto verso il glauco spettatore guarnito dalle nuvole. «E non ti è mai passato per la testa che mi sono interessato a te per questo motivo?».

Ma lei, ormai, non poteva più sentire quella sua dichiarazione.

 

 

 

**

 

 

 

Le 17.33.

Il cielo si era infine imbellettato di calde cromie, andando ad invadere anche le nuvole; gli spruzzi di arancione, giallo, rosso e persino di rosa avevano sommerso tutta la volta ed era diventato uno scenario romantico e rilassante. Non era niente male.

Solo la sua figura, orgogliosa, stonava con lo sfondo altrimenti impeccabile; avrebbe potuto essere il protagonista di una smielata storia d'amore ma, i suoi occhi ametista, lo mettevano nel ruolo dell'antagonista. Di un'antagonista senza libero arbitrio.

 

 

 

***

 

 

Sayumi infilò un braccio nel cardigan color crema e poi l'altro, abbottonandolo lentamente fino alla fine. Si guardò un'ultima volta allo specchio dell'ingresso di casa, spostando una ciocca di capelli dietro l'orecchio e sistemando quelli sulla fronte. Si accertò che la sciarpa cingesse bene il suo collo, i due fori lasciati dall'amica dietro le quinte.

Accidenti. Era proprio nervosa. Non si sentiva nemmeno le gambe.

Eppure... era una stupidaggine, stava per incontrare la sua migliore amica, non di certo un duca – beh, ad onore del vero, avrebbe incontrato anche un'altra persona, no? Sì, l'avrebbe incontrata, ma era consapevole che non fosse quello sconosciuto ad agitarla.

 

 

Era agitata all'idea di vedere Yuki Akawa.

 

 

Un espressione preoccupata, camminava lungo la salita che l'avrebbe condotta a scuola. A forza di pensare – da quando aveva ricevuto la chiamata – le era venuta un'emicrania.

 

Forse non doveva andarci, pensava. Forse era meglio restarsene a casa e basta. E poi cosa, però? L'avrebbe comunque incontrata prima o poi a scuola o anche nelle strade del loro minuscolo paese; una persona poteva uscire anche di rado ma, probabilmente, avrebbe incontrato un sacco di conoscenti in poco tempo. No, basta con le cattive idee e basta con i sospiri.

Cosa avrebbe pensato di se stessa qualora fosse fuggita, arrivata a quel punto? Lei e i suoi ricordi sapevano cosa Sayumi era davvero in grado di fare, le sue vere capacità.

Poteva gestire quella situazione.

 

 

 

«Mi scusi, signorina». Sayumi si fermò di soprassalto, impuntando le punte degli stivaletti beige. Si girò per rivolgersi al proprietario di quella voce e, imbarazzata, cercò di sorridere con cortesia.

 

«Mi scusi ma penso di essermi perso. Stavo cercando la scuola superiore del paese e-».

 

«Ah! Ehm, è proprio dove mi sto dirigendo io».

 

 

Sayumi si sorprese di se stessa, non sapeva dove aveva trovato la voce per rispondere ad una persona, ad un giovane uomo, così di bell'aspetto. Non pensava di aver mai incontrato una persona talmente bella, in realtà. Anche se Yuki gli faceva concorrenza.

Il viso del ragazzo s'illuminò, improvvisamente. «Allora, non è che potrei chiederle di unirmi a lei? Il mio senso dell'orientamento è proprio pessimo, sa».

 

Sayumi sembrò tentennare – uh, dovevano camminare insieme quel pezzo di strada? Lei e uno sconosciuto... «... ma sì, certo, nessun problema!».

 

Lui sorrise cordialmente. Una bella curva, rotonda ed avvenente. Ma c'era qualcosa di strano. Sembrava quasi non appartenergli, come se... stesse imitando qualcuno?

Sayumi lo guardò con sorpresa, mentre l'uomo si chinava nella sua direzione e prendeva delicato il suo mento fra le dita. «Capisco... la ringrazio infinitamente... ». In un solo attimo, le sue pupille si ridussero ad uno spillo per poi ringrandirsi come un buco nero, mangiando il viola nelle iridi.

 

«E... immagino che tu ci tenga al tuo stupido cuoricino».

 


 

***

 

 

 

Yuki e Sayumi si erano conosciute a scuola. La prima era entrata in classe con le mani chiuse in pugni serrati ed un viso serio, immobile come una statua di marmo; si erano subito levati dei mormorii curiosi. Il professore li aveva zittiti, permettendo a Yuki di presentarsi.

Aveva studiato la classe, i suoi componenti, le iridi baciate dai raggi solari osservavano i volti dei suoi presto compagni in modo scrupoloso. Sì, mancava solo qualche procedura e avrebbe fatto parte di quel posto.

Le erano sembrati nella norma, tutto tranquillo, non aveva avuto niente da ridire. Poi però, non c'erano state le solite domande che si facevano agli sfortunati nuovi arrivati ma solo un coro di bisbigli e occhiate complici, curiose, un pochino stranite.

 

Cominciava ad agitarsi. Ecco, lo sapeva: sapeva che era una pessima idea mischiarsi fra gli umani. Se l'avessero scoperta... poteva essere cacciata, potevano tentare di ucciderla, ma aveva voluto rischiare lo stesso. Per se stessa e per lui, quella persona che era scomparsa ormai da anni.

 

Il prof. Okamoto le aveva rivolto un sorriso per incoraggiarla. «Forza, presentati ai tuoi compagni».

 

Yuki aveva istintivamente sgranato gli occhi. Doveva presentarsi? A loro?

Come un automa, si era girata verso la classe, la valigetta stretta nella mano destra; doveva solo dire il suo nome, no? Ah, no, non solo. Doveva aggiungere qualcosa, del tipo che scuola aveva frequentato. Peccato che non ne avesse mai frequentate fino a quel momento.

 

I suoi hobby? Ma sì, certo, perché non parlare dei suoi hobby. Ad esempio che trovava molto appagante dissanguare vivo un umano. Trasse un respiro profondo. «Il mio nome è Yuki. Yuki Akawa. Mi sono trasferita qui a causa del lavoro di mio padre e...».

 

«Ci sono, ci sono, CI SONO!».

 

 

Proprio quando il panico stava per abbuffarsi del fegato dell'albina, la porta dell'aula si era bruscamente aperta, causando un forte trambusto. Una testa rosa era sbucata come un fungo. Sembrava un nido, tant'era scompigliata.

 

«Vedo», commentò Yamato, alzando un sopracciglio, poi le indicò il suo posto. «Non perdere tempo e siediti».

Ancora affannata, il nido rosa era piegato con le piccole mani sulle ginocchia, sembrava aver corso davvero a perdifiato. Poi, finalmente riuscì ad alzare la testa e mostrare un pimpante sorriso a trentadue denti. «E tu? Che bei capelli!». Le era andata vicina a grandi falcate, porgendole la mano.

 

«Molto piacere!».

 

Yuki aprì le labbra e tutto lo spavento e il panico – tutto si era dissolto come sabbia. Aveva appena deciso che quei dolci occhi cerulei sarebbero stati quelli della sua migliore amica. Sorrise, annuendo.

«Piacere mio».

 

 

 

***

 

 

 

Perché se lo ricordava proprio adesso?

Yuki si era posta questa domanda; seduta con le ginocchia al petto, a circondarle con le braccia, l'immagine del sorriso di quella ragazza era riaffiorato. Doveva esserle tornato in mente perché sentiva che l'avrebbe persa, alla fin fine. Aveva fatto un danno e adesso voleva ritirare la mano.

 

Erano ormai le 18.05 e della ragazza non c'era l'ombra. Il cielo era ormai sul punto di imbrunire del tutto, con qualche screzio del giorno sopravvissuto allo scambio fra il sole e la luna.

«Io me ne torno a casa», era stato l'improvviso sibilo della ragazza, freddo come l'Antartide, mentre si alzava in piedi. «Dovresti farlo anche tu». Aveva quindi dato le spalle a Takeshi ed era uscita dal tetto senza molte cerimonie, lasciandolo indietro – sorpreso, il ragazzo non se le era sentita di dire qualcosa, provare a fermarla.

 

 

Percorrendo il breve pezzo di marciapiedi in discesa, Yuki pensò se fosse il caso di passare davanti casa sua. Magari era stata male. Magari aveva avuto un imprevisto molto importante – un imprevisto più importante della loro amicizia, si scoprì a pensare l'albina, un pensiero davvero sciocco ed egoista. Capriccioso.

Dopo qualche minuto, aveva raggiunto il cancelletto di ferro; lo spinse per entrare in un sentiero senza asfalto, immerso in un verde rigoglioso. Forse era difficile da credere – o semplicemente, era un cliché troppo prevedibile – ma Yuki viveva in una casa in mezzo a quello che sembrava un bosco.

E, a onor del vero, quella non si poteva chiamare “casa”, ma piuttosto “castello”; lungo un sentiero di terra, ai lati lussureggianti alberi, cespugli e fiori, lungo una decina di metri, si raggiungeva infine residenza Akawa.

 

Alto due piani – escludendo quello terra – presentava una facciata che ricordava molto il periodo artistico classico, mischiato ad elementi gotici e rococheggianti, come le grandi vetrate del secondo e del primo piano, celate da pesanti tende porpora. Suddiviso in tre ordini, alle sue spalle aveva un piccolo atrio usato come giardino dove venivano coltivati ortaggi, frutta e verdura.

 

 

Yuki non aveva mai pensato di portare Sayumi a casa sua perché il suo aspetto la diceva lunga su quanto potesse essere normale; oggigiorno, se una persona aveva disponibilità economica, non si faceva costruire quella che sembrava quasi una cattedrale gotica, no? – ma piuttosto una villa.

Appoggiò la mano sulla maniglia e con l'altra infilò la grossa chiave nella serratura, girandola due volte, ed eccola là.

Era a casa.

 

 

«Sono tornata». La casa sembrava vuota, tant'è che era riuscita a sentire l'eco della sua voce. I suoi genitori erano in un viaggio di lavoro – forse? – mentre la sorella minore doveva essere con loro, se non si trovava a casa; un ingresso enorme, lungo dodici metri e largo diciassette, le dava il benvenuto. In fondo si apriva un'ampia scalinata percorsa da un tappeto rosso che si divideva in due corsie, una verso destra e l'altra a sinistra.

Yuki imboccò la via a destra, salendo quella manciata di gradini che la conduceva ad una stretta passerella con balaustra – e colonnine di legno scolpite. Sorpassando tre stanze, arrivava ad una quarta e, senza indugi, aprì subito la porta per richiudersela alle spalle.

 

La sua camera.

 

«Ahh... finalmente potrò rilassarmi... ».

 

Aveva tutte le intenzioni di farlo. Sdraiarsi sul suo letto a baldacchino e non alzarsi per le prossime 24h: ma proprio quando decise di guardare il suo letto, Yuki si spaventò.

Proprio lì, sul bordo del letto, c'era seduta Sayumi Ichinomiya. Alla vista della ragazza, le era quasi scappato un urletto e le mani erano corse alla bocca, lasciando cadere la valigetta sulla moquette.

 

Che accidenti..., confusa, l'albina lasciò scendere le braccia lungo i fianchi. Dopo qualche secondo di perplessità, decise di avvicinarsi di qualche metro, finché nel suo campo visivo non entrò anche una seconda figura: un ragazzo. O meglio, un giovane uomo.

Lenta ed estremamente cauta, Yuki continuò ad avvicinarsi, passo dopo passo, finché non raggiunse il lato del letto su cui era seduta la sua amica. Accanto alla ragazza, quello sconosciuto; era molto alto, forse un metro e ottanta, e sfoggiava biondi capelli, folti e lunghi sulle guance. Le palpebre erano chiuse sugli occhi ed era appoggiato al muro adiacente al baldacchino, con le braccia incrociate al petto. Le labbra carnose erano leggermente incurvate in un flebile sorriso, la luce del sole illuminava l'incarnato chiaro.

 

 

Yuki guardò prima l'amica e poi il ragazzo. Sayumi era pallida e non faceva un cenno, sembrava un guscio vuoto – un cadavere ambulante. Non emetteva un fiato e il suo sguardo era fisso sul pavimento, la testa reclinata in avanti. Perché faceva così?

 

«Tu chi saresti?», esordì Yuki, tornando poi a guardare l'ospite. Quest'ultimo aprì gli occhi, rivelando iridi viola, ametista. Un secondo, quegli occhi... li aveva già visti.

 

Lui fece un sospiro, teatralmente drammatico, lasciando scivolare una mano nella tasca del pantalone nero. Aveva un viso delicato e freddo, in netto contrasto col colore caldo dei suoi capelli. Sembrava divertito e un tantino deluso. Fece un altro sospiro, stavolta più contenuto, e scosse il capo.

«Quindi non mi riconosci?», disse. Aveva una voce... familiare. «Che tristezza. E dire che ci conosciamo da così tanto tempo, noi due... non è così, Yu?».

 

 

Yuki spalancò gli occhi.

Quel nome. Quel nome – o meglio, quel nomignolo – lo ricordava come se le fosse stato inciso addosso. Nessuno la chiamava in quel modo, nessuno. Eccetto lui. Eccetto la ragione che l'aveva spinta ad iscriversi in una scuola umana e l'aveva fatta trasferire in quel paese insieme alla sua famiglia. La ragione che la faceva uscire di notte.

Dopo tutti quegli anni.

 

 

«Te... tsuya?», un sussurro, un bisbiglio in uno stadio, ma lui parve comunque riuscire a sentirla come se avesse gridato. Il suo volto si illuminò di luce propria, raggiante e felice, e subito le si fece più vicino di due passi. Sembrava meravigliato quanto la ragazza e, senza farsi molti problemi, aprì le braccia per avvolgere le sue spalle in un grande abbraccio.

Yuki non riusciva a credere a cosa stava succedendo.

Dopo anni in cui quel ragazzo era sparito dalla città – dalla circolazione, da ogni dove –, adesso riappariva e si faceva trovare nella sua camera, all'improvviso, e... la stava abbracciando in un modo così confortante.

Si sentì andare a fuoco le gote mentre, pian piano, tentava di ricambiare quello stretto abbraccio. Certo che era un'ironia bella e buona: lei era andata a cercarlo ma lui l'aveva trovata. «Tetsuya... dove sei stato per tutto questo tempo? Ti ho cercato dappertutto, io-».

 

«Hai ragione, mi dispiace, ma come sai... dopo tutto quello che era successo, avevo bisogno di staccare la spina. Di andare da qualche parte. Mi dispiace di averti fatto preoccupare».

 

Yuki aveva la guancia schiacciata contro il suo petto, la pelle toccava il tessuto sottile della sua camicia. Riusciva a sentire il suo profumo chiaramente – era come un tuffo nei ricordi. Si sentiva al sicuro come nel calore di un bel sogno... peccato che poi il suo sguardo ricadde sull'amica.

Allentò la sua presa finché non riuscì a staccarsi da Tetsuya e lo guardò con disappunto. «Mi spieghi che bisogno c'era di soggiogarla? C'erano tanti altri modi per trovarmi, se questa era la tua intenzione».

 

«Non ho saputo resistere. Aveva una faccia così innocente... », ridacchiò sottovoce, facendosi poco più in là, permettendo a Yuki di farsi spazio di fronte alla ragazza soggiogata. L'albina fece un sospiro esasperato – era proprio uno sciocco – e si piegò sulle ginocchia di fronte a Sayumi, appoggiandosi sui talloni. La guardò in viso qualche istante, con un alone di senso di colpa.

 

 

«Yumi... », sussurrò l'albina. Le sue pupille si espansero all'improvviso, quasi ricoprendo l'intera iride, e poi diventarono minuscole come lo spicchio di una luna.

 

«Peccato. Era più graziosa da soggiogata».

 

 

 

Sayumi sollevò il volto di scatto verso il soffitto, boccheggiando come se fosse tornata dalla profondità marine, in apnea. Gli occhi cerulei erano spalancati come fari nella notte e subito cominciarono a guardarsi intorno, guizzando da una parte all'altra. Si accorse in fretta dell'amica e solo dopo del ragazzo dai capelli biondi, colui che l'aveva gettata in quello stato di semi incoscienza.

Sayumi riusciva a stento a respirare, con tutta quell'agitazione addosso. Cercò di sollevarsi dal bordo del letto ma le gambe le cedettero all'istante, se le sentiva di gelatina.

 

 

«Ehy, ehy», fece Yuki. Le prese le mani con le proprie, stringendole con dolcezza. «Va tutto bene. So che sei spaventata, ma ci sono io con te, stai bene... sei solo un po' disorientata. Adesso resta seduta, vabbene?».

 

Sayumi fece un piccolissimo cenno con la testa dato che le girava. Il ragazzo biondo alzò due dita prima posate sull'avambraccio, in segno di saluto – benché strafottente.

 

A dire il vero, Sayumi non riusciva a fidarsi ciecamente dell'albina, non dopo che i suoi denti si erano conficcati nella gola e le avevano portato via tutto quel sangue. Ma l'alternativa era di appoggiarsi ad un tizio che sembrava averle sottratto ogni volontà e potere.

Timorosamente, Sayumi si decise a studiare il volto del suo pseudo rapitore. Era proprio un bell'uomo. Forse, persino troppo.

 

«Yuki, ma... lui... chi è?». E cos'era?

 

Yuki si alzò in piedi appoggiandosi i palmi sulle ginocchia. Guardò entrambi, prima la ragazza e poi Tetsuya, con uno strano sentore attaccato alla pelle. «Lui è Tetsuya Tanigawa. Un mio caro amico di infanzia. Ed è un vampiro. Un... kyuuketsuki».

 

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Capitolo 6
*** L'amore che fu destinato a finire. ***


06.

 

Tetsuya Tanigawa era sempre stata una persona importante per Yuki.

Si erano conosciuti che entrambi erano solo dei bambini, di sei e nove anni, e lei era troppo strana, troppo timida e riservata, per riuscire parlargli per prima, nonostante il loro primo incontro fosse proprio a casa dell'albina. Allora fu Tetsuya, al tempo un bambino allegro e socievole, ad inseguirla, affascinato dal bagliore niveo dei suoi capelli.

 

Poi erano stati inseparabili. Amici, partner nella buona e cattiva sorte. Si guardavano le spalle a vicenda e mentivano spudoratamente senza indugi. Yuki aveva creduto di aver trovato la sua anima gemella, colui che l'avrebbe portata via dall'ombra malevola che era la sua natura.

 

Si era innamorata di lui. E lui l'aveva respinta brutalmente – poi, dopo qualche anno, la famiglia di Tetsuya era caduta in un baratro senza fine e lui era scomparso nel nulla, come un soffione rovinato. 
I suoi genitori si erano suicidati, suo fratello maggiore si era dileguato poco dopo, senza lasciare traccia.

 

«Ah, dimmi un po'», erano entrambi sulla soglia della porta di ingresso, seguendo con lo sguardo la figura di Sayumi mentre si allontanava nel sentiero costeggiato dal verde. Dopo mille raccomandazione, l'albina l'aveva mandata a casa. Con un gran sospiro. «Ce l'hai un posto dove stare?».

«Ho occupato una stanza al Consiglio. Cos'è quella faccia, ora?», lui allungò una mano, avvicinandola alla guancia dell'amica, ma lei la cacciò con la propria, dandogli le spalle per dirigersi verso le scale. Tetsuya sorrise, sghembo, pregustandosi le sue solite reazioni esagerate. «Temi forse per la mia vita? Credi proverebbero ad attaccarmi nel sonno?».

«No, non penso si prenderebbero una tale scocciatura, d'altronde la tua famiglia non fa parte del Consiglio – per fortuna. Penso solo che la tua sistemazione non sia fra le più comode».

 

Il vampiro la fissò con sguardo sinistro. Era fermo sull'uscio della porta, immobile. Se n'è udì solo un flebile sussurro. «Li odi così tanto?».

«Quasi quanto loro desiderano uccidermi, lo sai benissimo».

 


 

***

 


 

«Ancora con questa storia?».

 

Quando Sayumi Ichinomiya – detta come la “famigerata Yumi” – arrivava in classe in anticipo, significava quasi sempre che i problemi erano dietro l'angolo, in agguato; era una teoria che aveva ipotizzato Yuki dopo diversi episodi spiacevoli in cui l'amica era stata puntuale la mattina.
Una variante esisteva nel caso non fosse stata troppo puntuale. In quel caso, l'universo si limitava a rifilare alla città una pioggia piuttosto violenta e sinistra. Ma se invece si trattava di un anticipo come quello, di ben dieci minuti...


«Ho puntato la sveglia troppo presto e non mi andava di tornare a dormire», si giustificò la ragazza. «C'è proprio il bisogno di spaventarsi così? Si tratta di un caso, di una coincidenza, chiamala come vuoi».

«Una stupidaggine come le coincidenze, proprio non posso crederci».

«E invece puoi credere alla tua teoria?».

«La mia teoria – che per inciso è appropriatissima – è frutto di un osservazione costante e un attento studio alle abitudine di un certo animale di origine rara».

«... mi hai appena dato dell'animale?».

 

Yuki sorrise. Era da un po' che non sorrideva in modo così rilassato. Adesso parlavano al banco di Sayumi, la prima seduta sulla sedia e la seconda in piedi accanto al suo banco, le dita che tamburellavano sul banco. «Yumi, oggi devo parlarvi».
L'espressione di Sayumi cambiò rapidamente. Titubante, piegò la testa di lato. «A me e... quel ragazzo? Quello a cui devo un favore?».

L'albina asserì con il capo. «A questo punto è importante che sappiate in che situazione... siete. Diciamo così. Beh, specialmente tu... io... », accidenti, alla fine non riusciva ancora a sentirsi del tutto tranquilla e a suo agio, ogni volta cominciavano a sudarle le mani e non riusciva a parlare chiaramente. Quel giorno sembrava andare meglio.
E Sayumi, dal canto suo, provava delle sensazioni molto simili; non è che si sentisse in pericolo di vita, capiva che si era trattato di un momento di pura debolezza e non c'era l'intenzione di farle del male, l'albina non era partita da quel tipo di desiderio. Lo aveva capito. Ma aveva anche compreso che Yuki Akawa, la sua cara amica, non era un soggetto che poteva ritenere “nella norma”.


Alla fine alzò le spalle e le sorrise allegra, per rassicurarla. «Vorrà dire che passeremo finalmente un po' di tempo insieme».

L'albina annuì piano, ricambiando il suo sorriso, ringraziandola. Decisero poi che avrebbero parlato alla fine delle lezioni, nel loro solito ritrovo, tutti e tre.

 

Qualche minuto dopo fece il suo ingresso il professore Okamoto; teneva, come al solito, il registro sotto il braccio e una cravatta annodata al collo di colore porpora, a fare bello sfoggio su uno sfondo bianco. Nella mano destra, l'abituale valigetta di pelle nera che usavano i professori – in alternativa, c'era anche marrone.

«In piedi», esclamò la capoclasse. «Saluto. Seduti». Come robottini assonnati, i ragazzi eseguirono gli ordini dell'incaricata, tornando seduti con un sospiro stanco.


«Dunque», esordì Okamoto. Aveva un bel sorriso sulle labbra, sembrava di buon umore. «Come ben sapete, tutti gli anni la scuola organizza un'uscita didattica e, in quanto coordinatore di questa classe, ho il compito di informarvi sulla data, il luogo e tutti gli altri dettagli».

 

Ah, già! La gita!

Yuki si trattenne a stento dal darsi uno schiaffo alla fronte, desiderando ardentemente essere un mollusco: se ne era dimenticata del tutto. Si era dimenticata che, ora, avrebbe dovuto sorbirsi le suppliche e l'insistenza dell'amica per andarci – l'anno scorso l'aveva saltata, non conosceva nemmeno l'esistenza della gita... ma stavolta non aveva scampo. Quest'anno Sayumi l'avrebbe trascinata.

 

«Quest'anno la gita si terrà – udite, udite – il diciannove maggio!».

Gli alunni non fecero una piega.

«... al mare», aggiunse Yamato, poi – un esplosione di schiamazzi e di gioia si profuse nell'aula.

 

Al mare? Al mare? AL MARE?

«Un'ultima cosa, saremo in compagnia di una classe particolare quest'anno... la 2-C. Penso che la conosciate. Si fa chiamare la “classe in fondo”».

 


 

***

 

 


Era ancora turbata psicologicamente quando le lezioni pomeridiane giunsero al termine; Sayumi le aveva ripetuto un trilione di volte di non preoccuparsi così tanto perché, alla fin fine, era solo una gita scolastica e niente di più. «Intanto», osservò Sayumi, mentre si incamminavano per la classe di Takeshi. «L'idea di Kyoto e del mare è piuttosto originale. E poi non ci siamo mai andate insieme!».

Oh beh, almeno lei sembrava felice. Così tanto che avrebbe potuto iniziare a saltellare e piroettare.

«Ma al mare possiamo andarci quando vogliamo, noi due. Proprio non ci tengo ad andarci con quelle scimmie. Men che meno con la “classe in fondo”».

«Come la fai tragica, tu».

 

In qualche secondo erano giunte davanti alla classe 2-C. Yuki era già sul punto di chiedere all'amica di cercarlo da sola ma, sfortunatamente, la ragazza non aveva idea dell'aspetto e del nome di quello stalker. Sbuffò rumorosamente, come una bambina che fa i capricci, e si poggiò contro lo stipite della porta. Sporse la testa pian piano, facendo sbucare gli occhi dal bordo dell'uscio.
La classe che si apriva di fronte a lei era particolarmente in disordine; c'erano cartacce sparse sul pavimento, i banchi storti e le sedie lasciate alla rinfusa. C'era qualche cartellone attaccato alla parete e sulla lavagna era disegnato un enorme coniglio.

 

Takeshi non c'era.

 

A chiacchierare qualche metro in là c'era un gruppetto di quattro ragazzi – a cui avrebbero potuto chiedere informazioni – e nessun altro. Erano ragazzi con gli orecchini, i capelli tinti e la divisa portata in maniera sciatta, con il fiocco sciolto e la camicia sbottonata e fuori dai pantaloni.

«Beh?», incalzò Sayumi, non sentendosi granché a suo agio in quel posto. «C'è o no, questo tizio?».

Yuki si staccò dalla porta e tornò dall'amica. «Direi che non è qui. Quel ragazzo ha la brutta abitudine di non esserci mai nel momento del bisogno».

«Ma sbaglio o gli devo un grosso favore? Questo vuol dire che ha saputo esserci».

 

Yuki aggrottò la fronte. Paradossalmente, si era reso utile in un momento scomodo e parecchio critico, sebbene la situazione abbia poi messo nei guai l'albina. D'altro canto, grazie a questo, Sayumi era potuta tornare a casa sana e salva e di questo gliene era grata. Pensando questo, le venne spontaneo sorridere, facendo un piccolo cenno d'assenso col capo. «Questo è vero, ve lo concedo».

 

«Cosa è vero?».

 

Un'altra brutta abitudine di Takeshi Katugawa era l'eccessivo contatto fisico che stabiliva con le persone che gli suscitavano grande interesse; il ché, purtroppo, significava che spesso e volentieri avrebbe spudoratamente toccato il malcapitato, che lui lo volesse o meno. Come stava accadendo in quel preciso momento.
E guarda caso, sfortunatamente, Yuki aveva solo accennato all'amica di questo famigerato ragazzo, il suo salvatore; solo qualche commento vago, qualche accenno, dunque Sayumi non aveva idea che si trattasse proprio del ragazzo più discusso nella loro scuola. Non sapeva che proprio quel Takeshi Katugawa aveva un vizio simile e che ne usufruiva in particolare con Yuki.

 

Niente di niente – per questo, Sayumi si vide costretta a muoversi; rapida e con una forza innegabile, la ragazza fece uno scatto in direzione del ragazzo e puntò ad afferrargli il polso destro. Questo invece si spostò contro la parete lì vicina, sciogliendo in fretta la sua docile presa sull'albina.

 

«Yumi, ferma!». Solo l'esclamazione dell'amica riuscì a fermarla, come un interruttore premuto. Sayumi impuntò i piedi e raddrizzò la schiena, guardando prima Yuki e poi il nuovo arrivato, strabuzzando gli occhi incredula.


Cosa aveva appena fatto?

«Ah», balbettò Sayumi. «Oddio. Oddio oddio. Scusami tantissimo. Non so proprio come... ».

 

Takeshi Katugawa era ancora attaccato con la schiena al muro del corridoio, gli occhi leggermente sgranati e le labbra schiusa. Indubbiamente non si aspettava un aggressione al primo incontro – cauto, fece qualche passo in là, rinfoderando le mani nelle tasche del pantalone della divisa. Era ancora sorpreso, per fortunaera stato abbastanza celere o probabilmente avrebbe preso una brutta botta. Era vero che arrivare di punto in bianco alle loro spalle e abbracciare Yuki dalla vita non era stata l'idea del secolo – ma nemmeno la diretta interessata aveva fatto in tempo ad arrabbiarsi.

«Le ragazze di un tempo me le ricordavo diverse», commentò. «Voi due dovete essere degli alieni. Per forza, non c'è spiegazione altrimenti».

«Sayumi non è una ragazza come tante altre».

«M-mi dispiace infinitamente... ».

 

Takeshi sorrise leggermente, una curva color ciliegia. Piano – forse col timore di essere soppresso – allungò una mano verso la testa rosata di Sayumi e ne prese gentilmente una ciocca dalla fronte, tenendola fra le dita. «Non mi sembrano finti. Sembrano naturali. Che tipo di tinta usi?».

La ragazza si rimpicciolì dentro le spalle, scostando lo sguardo agitata. «No, beh... ».

«Ehy, lasciala stare». Yuki lo fulminò, prendendo per le spalle l'amica per sottrarla dalle grinfie del lupo cattivo.

«Che c'è? Gelosa?».

«No. Preoccupata. Non mi fido di te».

Takeshi sollevò gli occhi al cielo, esasperato. «Nonostante tutto, non ti fidi ancora di me? Cosa devo fare con te?».

Yuki socchiuse le palpebre, prendendo la mano di Sayumi per stringerla con premura. «Non devi fare niente di speciale. Limitati a non rendermi la vita più difficile».

 

 

 

***

 

 

 

«Tanto tempo fa... ».

La voce di Yuki era chiara e limpida. Teneva o sguardo sul pavimento ma non sembrava né amareggiata, né turbata. Aveva, piuttosto, un espressione lontana, come se dovesse rievocare fatti nostalgici. I suoi occhi erano trasparenti mentre contemplava il filo di polvere depositatosi sul pavimento. «... nacquero due persone molto importanti: un demone e una vampira. Loro due erano i figli dei primi vampiri e dei primi demoni mai esistiti al mondo. A quel tempo, la nostra comunità era popolata da pochi, pochissimi elementi, che formavano il Consiglio. La maggiore istituzione nella nostra comunità. Tra questi, loro due furono scelti per diventare gli Imperatori». Il suo tono si faceva man mano più distaccato. «Il nostro popolo era felice. Potevano appoggiarsi a qualcuno. Potevano chiedere il loro sostegno. Lamentarsi, abbassare la guardia... specialmente in quel periodo, in cui i demoni e i vampiri cominciavano a scoprire le peculiarità della loro natura».

 

Yuki staccò gli occhi da terra e li pose sui due ragazzi, l'uno accanto all'altro – si erano seduti a terra, con il crepuscolo alle spalle. Non si guardavano. Il momento della verità, se così si poteva chiamare.

L'albina socchiuse le palpebre, accecata da una luce invisibile.

 

«Cominciava ad essere palpabile il bisogno di un governo più solido e, a conti fatti, un matrimonio tra i due Imperatori era una conseguenza naturale».

«Un matrimonio... combinato?», chiese Sayumi, alzando le sopracciglia. Si sentì sorpresa, lei non sarebbe mai riuscita a sposare uno sconosciuto.

«Sì, ma poi si innamorarono. Da quello che mi è stato raccontato, si sono incontrati ad un ballo diplomatico e--».

«Aspetta, aspetta, aspetta!», urlò l'altra, sollevandosi sulle ginocchia, scattando come un gatto – anche Takeshi fece un balzo, preso in contropiede. «Mi hai fatto prendere un infarto».

«Mi stai dicendo che ci sono dei balli?!».

«Beh, sì, all'epoca erano abbastanza frequenti, adesso è un po' diverso... ».

 

Con un sospiro beato, Sayumi tornò seduta composta, scusandosi col ragazzo per quell'uscita improvvisa; Yuki non poteva capire perché tanto batticuore per quei party notturni, la maggior parte delle volte erano organizzati per uno scopo finanziario o per trattative importanti. «... ebbero modo di incontrarsi ad un ballo e durante i preparativi per il matrimonio finirono per conoscersi sempre meglio e si... ».

 

«... innamorarono». Il bisbiglio di Takeshi si insinuò fugacemente tra le parole dell'albina, come un serpente, catturandone l'attenzione. Lei gli diede un'occhiata di sottecchi, scoprendolo a fissarla con oculatezza – riprese il suo discorso, affrettata. «Erano tutti convinti che sarebbero stati tempi d'oro... per gli Imperatori, per la comunità... ma se c'è qualcosa di risaputo è che la felicità non è destinata a durare».

«Che visione pessimistica», osservò Takeshi.

«Finisci di ascoltarmi e poi capirai cosa intendo».

 

Ci mise qualche secondo a continuare. Doveva trovare, da qualche parte – in un posto che non esisteva – la voglia di continuare il racconto. «Sapete», ricominciò sottovoce. «I vampiri devono vedersela con il sole e la sete implacabile di sangue, il ché è una debolezza non indifferente... e i demoni sono noti per essere potenti e distruttivi. Sono forti. Loro... possiedono delle abilità, dei poteri, potremmo dire – ma c'è un prezzo da pagare per questa forza».

 

Un silenzio religioso precipitò sul terrazzo mentre un caldo vento avvolgeva i tre ragazzi; i lucidi filamenti argentei vennero mossi dalla folata, scompigliandosi leggermente. Sembrava quasi un dono della luna – Yuki socchiuse la palpebre, infastidita dallo spicchio di sole.

 

C'era qualcosa di anormale in quella scena.

«Quel prezzo è la loro sanità mentale».


«La sanità mentale?».

 

La sanità mentale – il senno. Quella breve frase risuonò come il rintocco di una campana funeraria.

Erano ormai passate le quattro da un bel po', forse erano persino le cinque del pomeriggio ma, in realtà, il discorso era appena al principio. Yuki allungò le gambe, poggiando i palmi sulle cosce. I due ragazzi erano ancora di fronte a lei, nella stessa posizione dall'inizio.

Fu Sayumi a rompere quello che sembrò un silenzio interminabile: «Che cosa vuol dir--».

«Vuol dire che impazziscono completamente. Non distinguono più la verità dalla falsità. I sogni dalla realtà, o dagli incubi. Per loro non... non esistono più amici o nemici». Il suo tono, come il luccichio negli occhi, era leggermente cambiato – sembrava ferita, in qualche modo, forse perché la riguardava da vicino. «Perdono qualsiasi capacità logica».

«Perché... succede?», chiese, lentamente, Takeshi.

«Non si sa ancora il motivo dietro questo effetto collaterale. Tuttavia... i demoni, alla fine, sono considerati come i figli del Diavolo. Magari è solo una sorta dipunizione da parte di qualche Dio lassù». L'albina si strinse nelle spalle. Era passato così tanto tempo eppure, per moltissimi di loro, quegli avvenimenti provocavano lo stesso dolore struggente, lo stesso sonno agitato.

«Quindi i demoni hanno questo... problema», osservò Sayumi. Aveva l'aria di non voler più ascoltare niente di quella storia. «E questo come si collega alla tua idea di felicità?».

 

Yuki allora dovette tornare indietro nel tempo; con la testa, con i ricordi, a quando era una ragazzina innocente, felice. Dovette ricordare quando le vennero raccontate queste storie perché era un suo dovere conoscerle e portarne rispetto, onorare la loro memoria meglio che poteva.

Scosse lentamente il capo, scuotendo i pensieri, sospirando silenziosamente. «Come vi ho detto, erano innamorati – follemente, si dice: niente avrebbe potuto dividerli. Ma lei era una vampira, lui un demone e... non mi fu detto cosa abbia portato l'Imperatore ad usare i suoi poteri per così tanto tempo, ma lo fece. Dopo undici anni, lui cominciò a cambiare. Stava visibilmente male, giorno dopo giorno peggiorava. Era cambiato come individuo fin nei recessi della sua anima... ».
Come tutti nella comunità, voleva cancellare ciò che aveva dovuto conoscere, ciò che era impresso a fuoco dentro di lei e che le sembrava di poter vedere come se l'avesse vissuto direttamente sulla pelle. Era tutto così triste, così doloroso. Una ferita ancora pulsante e che bruciava con ardore.

«Passarono dei mesi. Ma alla fine, non ce la fece. E allora, la uccise».


 

 

***

 

 

 

Cosa sapeva di quella donna? Cosa sapeva di quell'uomo?

 

«Dopo questo tragico incidente», magicamente, riuscì a ritrovare la voce. «ci furono delle conseguenze».

A onor del vero, lei non sapeva niente di concreto su loro due.

«Tenete presente che vampiri e demoni sono due cose differenti, diversi su molti punti di vista. Già prima che tutto si incasinasse, capitava che ci fosse qualche dissapore, qualche divergenza. Ma era normale, anche nel mondo umano succede, tutti i giorni. Purtroppo però, quanto accadde... fu considerato come un enorme oltraggio alla razza vampirica. Una congiura, se vogliamo».

«Ma non voleva... non è stata colpa sua!», esclamò Sayumi, colta da un fremito.

 

Yuki non rispose. Certo che non voleva: questo era ciò che sapeva lei. Ciò che i suoi genitori le avevano spiegato all'epoca e lei, comunque, ci riusciva a credere fermamente. Ma questo non escludeva che la verità potesse essere un'altra. Socchiuse le palpebre e riprese il racconto. «Fatto stà che andò tutto in rovina. Le due razze si separarono indissolubilmente e cominciarono ad odiarsi sempre di più. Ci furono guerre civili e l'intero popolo sovrannaturale fu messo in mezzo».

«Fu messo in mezzo in che modo?», chiese Takeshi.

«Beh, erano costretti a patteggiare per qualcuno. Il ché significava che i vampiri dovevano spezzare ogni legame con i demoni e viceversa», rispose lei. «Dunque molte famiglie furono costrette a separarsi. Tantissimi figli – anche di tenera età – si videro strappati dai fratelli o dai genitori».

«Ma è terribile... », mormorò Sayumi.

Yuki sentì le palpebre pesanti come macigni e dovette calarle sugli occhi, a nascondere il velo di tristezza; era terribile sotto qualsiasi aspetto, era una vita e una sorte dolorosa per tutti. Tuttavia, erano stati loro a creare quel mondo orrendo, erano stati loro a decidere di farsi trascinare da quella corrente. E ormai, erano passati decenni e decenni. Ben più di cinque secoli.

A quel punto, il racconto era quasi giunto al termine: non c'era bisogno di prolungarsi nei dettagli.

«Ecco», riprese. «penso che voi... abbiate pensato che io fossi un vampiro. Giusto?».

«In effetti, a giudicare da quello che ho visto, sì».

 

Quasi a disagio, si strinse nelle spalle, guardando a terra. «Beh... è vero. Sono un vampiro. Però, ecco... sono», deglutì e sospirò. «anche un demone».

 

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Capitolo 7
*** La bonaccia prima del tifone. ***


07.

«Scusami, eh, so che potrei sembrarti un'idiota ma», Sayumi si stava premendo le tempie quando, ormai, il sole aveva deciso di abbandonare quel palcoscenico per tornare nel suo covo. Il tempo era trascorso in fretta durante la storia raccontata da Yuki e i tre ragazzi si erano trovati a costretti a lasciare il terrazzo – in tutta fretta, non se ne erano mica accorti – e avviarsi giù per le scale. «Non hai appena detto che vampiri e demoni erano costretti a stare separati? Che intere famiglie venivano distrutte?».

 

L'albina, lo sguardo concentrato sulle punte degli stivali, annuì. «Sì, infatti. È così. Ma Yumi, io non sono nata nell'epoca rinascimentale. Questa legge venne emanata nel 1485. La morte dell'Imperatrice e il conseguente casino risale al 1480 e i miei genitori si sono conosciuti durante l'Ottocento. Certo, l'odio non era diminuito poi tanto, ma il fatto che facessero parte di famiglie importanti aveva agevolato la loro situazione e per questo riuscirono a sposarsi– poi, solo nell'epoca moderna hanno deciso di avere dei figli». .

 

«Dei figli?».

 

«Sì, me e mia sorella. Noi due siamo... delle mezzosangue. Demoni e vampiri».

 

 

Silenzio. Un silenzio che si introduce nelle orecchie e fischia con tutta la forza che possiede. Forte e doloroso. L'albina passò lo sguardo dal ragazzo all'amica, le labbra serrate e le sopracciglia aggrottate. Entrambi davano l'impressione di non aver capito bene qualcosa.

Proprio in quello strano silenzio, le iridi azzurre di Sayumi brillarono intensamente.

 

«... mi stai dicendo che hai una sorella?».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Frastornata dal sole che filtrava dal vetro lucido della finestra, un piccolo sorriso spuntò sul solito broncio della primogenita Akawa, mentre tirava la zip degli stivali e si sistemava il fiocco rosso agganciato al colletto bianco della divisa.

Stava pensando ai suoi amici. Per lei, Sayumi era un'amica anche prima di quel pomeriggio ma, da quando aveva conosciuto la sua natura sovrannaturale, si sentiva più legata a lei. E non doveva nemmeno mentirle di continuo.

Si tirò su le parigine fino alle cosce e si affrettò ad uscire dalla sua camera da letto; fuori dalla camera notò subito Kukuri all'entrata, impegnata a spazzare il pavimento con una scopa. La ragazza alzò lo sguardo e sorrise allegramente. «Buona giornata!».

 

«Grazie Kukuri, anche a te. A dopo!».

 

 

Fuori dalla residenza Akawa, mentre procedeva verso la sua scuola, rievocò con una risatina gli ultimi eventi del giorno prima.

 

Poco prima che i tre si furono separati, Takeshi aveva fatto notare a Yuki che non si era presa il disturbo di presentarli; la mezzosangue albina aveva dunque spiegato perché Sayumi doveva un grosso favore al ragazzo e i due si erano presentati, finalmente, non senza un po' di imbarazzo da parte della ragazza.

Poi lui aveva ricordato di aver visto Sayumi già altrove – ovvero, al fianco dell'albina. Se l'era ricordato ad un tratto, perché i suoi capelli rosa gli erano saltati all'occhio.

 

E Yuki l'aveva bellamente preso in giro.

 

«Accidenti, l'ho chiamato “il mio stalker”», mormorò, fra sé e sé, socchiudendo un occhio mentre i raggi solari si intrufolavano fra le fronde degli alberi. Con un sorriso sulle labbra sottili, si girò a guardarsi indietro, per controllare se ci fosse traccia di Sayumi. Niente.

Aveva superato già da un po' casa sua e stava percorrendo, sul marciapiedi, la solita salita verso scuola.

A dire il vero, adesso che ci faceva caso, on c'era traccia di nessuno in generale. Non c'era un singolo passante in strada, solo un lontano cinguettio di uccellini. Nemmeno il suono di qualche macchina lontana o l'interno delle case vicine.

 

«Sc-scusa... ».

 

Una voce femminile, soffocata da quello che sembrava un grande sforzo, la chiamò docilmente. Pensando che fosse Sayumi, la ragazza si voltò allarmata alle sue spalle – ma non era affatto lei, bensì una ragazza dai capelli neri; era accartocciata su se stessa, con la schiena ricurva ed entrambe le mani che premevano sul fianco, mentre il suo respiro era ansante. Indossava la divisa scolastica del liceo e aveva gli occhi socchiusi, probabilmente per l'insopportabile dolore.

«Ehy, che cosa ti prende?», esclamò l'albina.

Le si avvicinò e subito le porse la sua spalla, alla quale la sconosciuta si appoggiò con tutto il suo peso; Yuki ne prese il braccio sinistro con delicatezza per passarselo sulle spalle. Era piuttosto calda, forse aveva la febbre. E si teneva il fianco...

«Aspetta, non mi dire che stai soffrendo per un appendicite?». Incredibile, aveva sul serio trovato una sofferente di appendicite di prima mattina? Doveva essere parecchio fortunata quel giorno.
Certo, non era del tutto sicuro che la sua diagnosi fosse quella giusta – guarda caso, proprio quella mattina non c'era nessuno in giro. Si disse che se voleva raggiungere la scuola e chiedere aiuto avrebbe dovuto prenderla in braccio; piegò le ginocchia e passò un braccio sotto le gambe della ragazza e un altro dietro la schiena.

 

Sarebbe apparsa come stravagante se fosse stata vista – lei, una ragazza di soli sedici anni – mentre portava tranquillamente in braccio un'altra adolescente. Quindi si guardò di nuovo tutto attorno, aguzzando la vista per controllare sui balconi e nei giardini – quando fu sicura, riprese la strada per la scuola, stavolta correndo il più veloce possibile.

Nel giro di due minuti, stavano varcando i cancelli di ferro del suo liceo.

«Siamo arrivati», le disse con calma, per poi guardare la ragazza in viso; le sue palpebre lentamente rivelarono iridi nere come la pece, incorniciate da lunghe ciglia. Balbettò qualcosa di incomprensibile intanto che l'albina si piegava sulle ginocchia per adagiarla sugli scalini. «Asp--... no... ».

«No?», ripeté Yuki. «Senti, la mattina non ho proprio voglia di portare le persone in braccio come principesse, quindi ti sarei grata se collaborassi».

«Ma... non c'è il bisogno, idiota di una mezzosangue».

 

Nel tempo in cui Yuki si stava rialzando – per entrare e chiedere soccorso – il suo fiocco era stato afferrato e tirato, mentre qualcosa di freddo e aguzzo aveva sfiorato la sua carotide. Lei rimase immobile, ferma, spostando solo gli occhi in basso quel tanto che le bastava per notare la lama liscia e luccicante di un pugnale, la cui impugnatura rossa scarlatta.

Sorretto dalla mano di quella ragazza.

«Ah, capisco tutto». Una curva sfacciata sulle labbra sottili. «L'appendicite è passata, eh?».

«Adesso sto molto meglio in effetti. Grazie tante, miss Akawa».

 

Il cinguettio rasserenante degli uccellini aveva ormai lasciato il posto a quel fascio di luce che era magicamente spuntato dalla tasca della sconosciuta.

 

 


 

***

 

 

 

 

La ragazza dagli occhi neri come la pece – come il carbone rovente – si stava alzando in piedi, le gambe minute in bella mostra sotto la gonna della divisa, la stessa che indossava Yuki.
Non accennava ad allontanare la punta del pugnale dal suo collo e lei non pensava che l'avrebbe fatto, ma tanto meno che volesse ucciderla; credeva ciò perché, in uno scontro contro una creatura sovrannaturale, non potevi esitare né fermarti un istante. Se riuscivi a metterla con le spalle al muro e la tua lama fredda spingeva contro il suo collo, dovevi approfittarne, perché avevi vinto.

Yuki era più alta di quella ragazza e ne poteva vedere, dall'alto, un sorrisetto diabolico sulle labbra. La stretta attorno al manico era ferrea e salda, non tradiva nessuna emozione, nessun tentennamento. Allora cosa aspettava? Una sua mossa falsa?

Respirò lentamente e, con la stessa flemma, alzò la mano destra – e agguanto con il proprio palmo la lama al suo collo. Richiuse la mano attorno ad esso, dito dopo dito, avvertendo la sensazione bruciante del taglio penetrare nella carne; il sangue cominciò presto ad impregnarle le dita e il palmo, scivolando fino al polso per gocciolare a terra in uno stillicidio ritmico. Il suo profumo acre e ferroso stava già invadendo prepotentemente i sensi dell'albina.

 

La sconosciuta aprì gli occhi con fare sbalordito ma, come prima, la sua presa non esitò. «Oh, cavoli. Vedo che le voci su di te sono vere: sei incredibile come dicono tutti. Combattiva e senza paura».

Yuki assottigliò le palpebre. «Come fai a conoscermi? Cosa vuoi da me? Tu sei un essere umano, non è così?».

«Beh, sai come si suol dire, la fama ti precede. Io da te non voglio niente, in ogni caso». Un sorriso intenso apparve sulle sue labbra – mentre inclinava la testa di lato e scrollava le spalle. «Non devo avere un motivo speciale per assalire una come te».

 

Una come te, pensò brevemente lei. Si inflisse una serie di piccoli morsi al labbro inferiore, maledicendosi perché “era fatta così”.

Tornò a guardare la ragazza, specchiandosi nelle iridi nere. Erano scure come il più profondo dei pozzi senza cielo, ma avevano una certa luce, un baluginio. «Allora non ti farò domande superflue dato che abbiamo dedotto quanto tu sia pazza. Ti farò un'unica domanda».

«Spara».

 

Yuki non aveva paura. Non temeva di certo per la sua vita, o per il dolore fisico. Non era certo questo il suo problema – per questo, aveva la sfrontatezza, la stupidità, di avvicinarsi col viso a quello della ragazza. Un'ombra fitta si proiettò sui loro volti mentre lei scandiva, piano, una domanda che aveva lo stesso sapore della morte più violenta.

«Come vorresti morire?». Sorrise. Quelle familiari gemme dorate non esistevano più, avevano lasciato il posto al rosso, mentre questo già divorava il suo razioncinio. Splendente, ammaliante, vorace. Cominciava a sentirsi affamata, affamata di carne e sangue, attratta dal gusto dell'omicidio. «... ningen*».

 

Ci fu silenzio, per una manciata di secondi. Dopo di ché, il pesante sipario scomparve dietro la nube di rabbia della ragazza. «Ningen? Ningen? A chi stai dando... del ningen?».

Poi, ci fu un urlo agghiacciante.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Un urlo femminile, colmo di paura e terrore, aveva squarciato la tensione che si era annidata in quel momento. Quell'unico urlo era bastato a distrarre Yuki, a spingerla a guardare verso gli scalini dell'entrata, alle spalle della sconosciuta. Un urlo dal timbro familiare.
Incrinata e spezzata, la voce di Sayumi chiamò il nome della sua amica – nel frattempo, qualcosa accadde; quel pugnale diventava nuovamente un semplice fascio di luce, liberandosi fulmineo dalla presa di Yuki per tornare alla carica verso il suo viso. Lei si spostò di lato, ricavandone un lungo taglio dallo zigomo fino all'attaccatura dei capelli, schivando per un soffio l'occhio.

 

«Non ti distrarre», fu il sussurro della ragazza.

 

Yuki fece un salto indietro, con l'agilità di un gatto, atterrando piegandosi sulle ginocchia; con un fremito nervoso, la mezzosangue premette il pollice sul taglio, sfumandolo in un'ombra rossa – nel momento in cui lo attraversava col dito, la pelle dello zigomo si ricomponeva, pezzo per pezzo.

Senza staccare gli occhi dalla ragazza, urlò: «Vai via, Yumi!». La vide avanzare a passi calmi, giocherellando col suo pugnale. Stava prendendo la cosa come un gioco. Dio, se voleva farla a pezzi. «Cosa aspetti? Muoviti!».

«Ma non posso lasciarti! Tu sei già... ».

«Ferita? E allora? Non si muore per un taglio!».

 

Infatti, non sarebbe di certo morta per quello. Richiuse la mano impiastricciata di sangue mentre sentiva che anche il taglio alla mano si stava rimarginando. I processi di guarigione pizzicavano, bruciavano, la infastidivano. Socchiuse un po' le palpebre mentre faceva un sorriso forzato. «Se stai qui, non posso liberarmi di questa psicopatica».

La suddetta psicopatica impugnò più decisa l'arma bianca, con un espressione seccata in volto. «Inizi a scocciarmi con questi appellativi. Non fare tanto la furba, con me, non ti conviene».

Sbuffò sonoramente. «Non è più divertente. Chi l'ha invitata, a quella tizia? Io avrei un appuntamento da rispettare, quindi sbrigati a farti uccidere».

 

Appuntamento?, pensò Yuki, un ginocchio a terra. Ma non fece in tempo a riflettere sul senso delle sue parole perché un nuovo attacco arrivò celere; Yuki riuscì a schivarlo rotolando dal lato opposto ma, più veloce di prima, un secondo attacco la colse impreparata.

Un calcio che stava puntando alla sua testa, un calcio le avrebbe fatto molto male.

Chiuse gli occhi, accettando in cuor suo quel dolore, aspettandolo a denti stretti.

 

Ma non arrivò niente.

 

«Adesso basta».

Riaprì gli occhi di scatto, alzò la testa di scatto, ansante. La voce di Tetsuya era stata un fulmine a ciel sereno, una mano dal cielo. Intontita, lei non si era nemmeno accorta di aver cercato di parare quel calcio con le braccia incrociate vicino al suo viso – rapidamente, si era alzata in piedi, approfittando del momento per rimettersi in sesto: a lui era bastata una mano per fermare la sconosciuta. Una sola mano era bastata per fermare la sua gamba, agguantata sotto al ginocchio. Era ancora a mezz'aria quando l'albina fu in piedi.

 

«Tetsu», esclamò. Il vampiro dai capelli biondi non poté evitarsi un grosso sospiro, scocciato quanto esasperato, e con un gesto irritato spinse via la gamba della ragazza – come se fosse qualcosa di disgustoso. Poi, con calma, ignorandola totalmente, si voltò verso Yuki per prenderla per le spalle. «Guarda tutto questo sangue... come ti senti?».

«Ah, no, tranquillo... sto bene».

 

Batté le palpebre un paio di volte – guardò Sayumi, il suo tentativo per tornare alla realtà; era seduta a terra, le mani sul pavimento e aveva appena alzato il viso. Stava bene, angosciata, ma stava bene.

Sollevata, la mezzosangue prestò attenzione a Tetsuya. I suoi occhi erano ancora rossi, fiammeggianti come un fuoco dall'atteggiamento provocatorio. «Mi preme più che altro sapere cosa diavolo vuole questa squilibrata da me».

Non posso credere che volesse semplicemente uccidermi, pensò, senza uno straccio di motivo.

 

Tetsuya sembrò soppesare l'interrogativo dell'amica e, qualche istante dopo, si voltò per fissare la sconosciuta; se ne stava lì, le braccia incrociate al petto, una mano che teneva stretto il manico del pugnale, l'espressione seccata a deformare i morbidi tratti del viso. Sembrava in attesa, in un certo senso – d'altro canto, avrebbe almeno potuto provare a scappare.

«In effetti, vorrei saperlo anch'io», commentò Tetsuya, assottigliando gli occhi. Il viola di questi ultimi brillò per un secondo, una strana luce dai contorni cupi.

 

Seguì un insolito silenzio, carico di impaccio e tensione. Un silenzio fondamentalmente ingiustificato, in cui Yuki e Tetsuya non staccavano gli occhi dalla nuova arrivata e lei, dal canto proprio, aveva l'aria di star elaborando delle informazioni. Sayumi, intanto, stava aspettando in segretaria l'arrivo dell'amica per dirigersi in infermeria.
Quell'oblio perdurò, fin quando la lastra di acqua gelata non si cominciò a crepare sotto il peso della tensione. «... Hokori. Sono Hokori».

«Hokori?», ripeté Yuki, alzando un sopracciglio. «Hokori come?».

«Yamashita».

Un cognome abbastanza comune. «Quindi, Yamashita, assodato il fatto che sei solo un'umana... questo cosa vuol dire? Sei pazza, per caso?».

Hokori fece un cenno con la mano, sbrigativa.

 

Indubbiamente quella ragazza sapeva qualcosa. Forse, e ne era quasi sicura, Hokori Yamashita era strettamente collegata alla società dei vampiri e dei demoni. Forse, quella ragazza era una... «Hai infranto parecchie regole. Hai attaccato qualcuno senza esporre nessuna spiegazione e, ancora più grave, hai spaventato a morte la mia amica».

Hokori si voltò di lato, dandogli solo il suo profilo.

Portò l'indice e il pollice all'angolo delle labbra e le portò fino all'altro capo, mimando una cerniera che si chiudeva. Non era intenzionata a parlare.

 

Pareva proprio che Hokori Yamashita avesse appena iniziato a causarle problemi.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Takeshi fece un grosso sbadiglio. Ebbe l'accortezza di coprirsi la bocca con l'avambraccio, svogliatamente, prima di incrociare le braccia sul petto e tornarsene comodo sulla sua sedia – le gambe, lunghe come autostrade, sul banco. Insonnolito, si stava chiedendo se Yuki era assente da scuola quell'oggi; il fatto in sé gli risultava poco probabile poiché l'albina non mancava mai.

 

Chissà dov'era, chissà cosa faceva.

 

«Katugawa, giù i piedi dal banco», la voce della rappresentante di classe gli arrivò all'orecchio come un fastidioso ronzio saccente – aprì gli occhi e guardò la ragazza, rivolgendole un sorriso mite. Un sorriso che non sapeva di niente. «Certo, signorina capoclasse, tutto quello che vuoi».

Fece scendere le gambe a terra, una dopo l'altra, e si alzò pigramente dal suo posto per dirigersi verso il corridoio. Stava pensando di fare un giro di ispezione. Magari avrebbe incontrato quella sua amica – quella tempesta combattiva di Sayumi; l'aveva notata spesso accanto a Yuki in svariati momenti, quando varcavano i cancelli, quando gironzolavano, quando si dirigevano al tetto, il loro covo non molto segreto. Certo, era stato troppo occupato ad imparare l'esilaranti espressioni della mezzosangue per focalizzarsi su Sayumi.

Si inoltrò nel corridoio, pullulante di studenti, le pareti verde-acqua e i pavimenti di porcellanato grigio chiaro. Era suonata da poco la prima ora e sembravano già tutti sfiniti, restii all'idea di molte altre ore da trascorrere tra quelle mura. Il ragazzo sollevò gli occhi al cielo per un istante prima di tornare a guardare di fronte a sé – in tempo per una visione del tutto inaspettata. E in un certo senso, divertente.

 

«Ichinomiya?», disse.

 

Takeshi vide Sayumi in compagnia di un'altra ragazza dai capelli neri. La prima cercava di allontanare da sé le mano della seconda, intenta a strattonarla dal fiocco che pendeva al petto. Entrambe sembravano arrabbiate ma la prima, in particolar modo, era agitata e nervosa. D'altronde, non si trovava in una situazione favorevole.

Al suono del suo cognome, Sayumi sussultò e guardò alla sua destra, da dove proveniva la voce maschile. Balbettando, premette le dita sul dorso della mano di quella ragazza per allontanarla. «Ah, Katugawa--».

«C'è qualche problema?». Takeshi fece un passo in avanti, flemmatico, mentre scandiva lentamente la sua domanda, passando lo sguardo da Sayumi all'altra.

Con un brusco movimento, la ragazza dai capelli rosa riuscì a liberarsi dalla presa e fece un passo indietro, un po' barcollante. Tornò quindi a guardare Takeshi facendo un respiro profondo e rumoroso. «A... adesso no».

«Se avessi acconsentito alla mia richiesta, non ci sarebbe stato nessun problema, mia cara».

«Stai zitta».

 

Improvvisamente, tutta la sonnolenza che aveva provato poco prima era sparita, sostituita da una certa rabbia, un certo fastidio. Non solo Ichinomiya era stata semi aggredita sotto i suoi occhi, ma inoltre lui ne aveva le scatole piene di gente che faceva discorsi senza senso, in cui non capiva bene o male nulla.

Sayumi doveva aver colto i suoi pensieri perché si apprestò subito a spiegargli. «Questa tizia qui si chiama Hokori Yamashita e ha cercato di--», prima che poté continuare, però, Hokori aveva tappato la sua bocca col palmo della propria mano, con un gesto secco; Takeshi, preso in contropiede, non aveva esitato un secondo prima di afferrare l'avambraccio di Hokori, serrando le dita intorno ad esso.

Il suo sguardo era gelido, la bocca serrata. «Toglila», aveva sussurrato, rigido.

 

«Concordo».

 

Presi com'erano dalla loro simpatica conversazione, non avevano fatto caso all'arrivo di Yuki Akawa. Con un sospiro, si toccò il mento con l'indice. «Vi giuro, avevo davvero sperato che tutto questo fosse solo una messinscena... ma pare che non sia molto fortunata. Pare che debba essere tormentata».

 

Senza mollare la presa dal braccio di Hokori, Takeshi girò il capo per guardarsi alle spalle. Oh. Allora c'era. E chissà come mai, aveva la sensazione che questa ragazza c'entrasse qualcosa col suo ritardo. Sorrise, rincuorato, lasciando andare l'arto della ragazza per voltarsi.

Anche Hokori sembrò deporre le armi per qualche secondo, almeno finché non decise di farsi avanti verso l'albina. «Ah, Akawa! Qual buon vento! Te la sei presa comoda, eh?», ridacchiò. «Devo averti stancata più del previsto, eh?».

Yuki fece un largo sorriso, divertita. «Non ho certo schiacciato un pisolino. Ma sai com'è, la mia divisa era sudicia di sangue, grazie a te».

Hokori piegò la testa di lato e le ginocchia, dilettandosi in un inchino beffardo.

 

La mezzosangue stava ormai facendosi un'idea di che persona fosse ma, purtroppo, non riusciva ancora a focalizzare il suo obiettivo, certo era che non voleva fare amicizia con lei. Ignorando Hokori e salutando Sayumi – dopo, con più calma, si sarebbe assicurata che stesse bene –, sollevò il mento in direzione dell'unico sfortunato ragazzo ad assistere a quella bizzarra scena. Non riuscì a fare a meno di sorridere. Aveva protetto la sua amica. Magari non era tanto male?

«Non puoi proprio farne a meno, eh?».

Takeshi piegò placidamente la testa verso di lei – e ricambiò il sorriso. «È più forte di me». Dolce, dava vita a piccole fossette ai lati della bocca carnosa, così bene intonate ai profondi occhi cioccolato.

 

«Ah-ehm».

 

Oh, cavolo – i due ragazzi si guardarono per un secondo, brevissimo, per poi voltarsi verso le due ragazze. Sayumi brontolò, incrociando le braccia al petto: «Questa tizia mi ha praticamente minacciata. “Non devi dire una parola di quello che hai visto se non vuoi finire male”».

«Ma come, non ti disturba l'idea che la tua amichetta venga sequestrata da chissà chi per essere sottoposta a chissà cosa?».

«Divertente sentirti parlare così, dal momento che stavi per ucciderla!».

«Nah, non volevo farla mica fuori. Mi stavo solo presentando».

 

 

Ad interromperli fu la voce del professore della 2-C. Tutto intorno ai quattro ragazzi, gli studenti si stavano ritirando come le onde schiumose del mare, si sparpagliavano come formichine scosse dal terremoto – tutti, ad eccezione di Takeshi. Lui si attardò su quel punto e tenne gli occhi fissi in quelli di Hokori e lei, in quel momento, riuscì a notare un fatto inverosimile.

Il fuoco che lampeggiava nelle sue orbite era quello di un demone pazzo.

 

 

 

 

* ningen: significa "umano" in giapponese.

NOTA: 
Salve! 
Già a questo punto, eh? Abbiamo queste due entry, Tetsuya e Hokori, due personcine un tantinello complicate che ormai esistono da tanto tempo. Also, mi hanno fatto notare che la storia raccontata da Yuki, sui due imperatori, pecca di dettagli, quindi pensavo di precisarlo - non si sa mai; la storia è stata volutamente spiegata in questo modo, in modo, diciamo, sbrigativo, perché Yuki non era tenuta a raccontare nei dettagli ogni cosa. Inoltre, lei stessa ne sa poco, almeno rispetto a vampiri e demoni più anziani. Ma donut worry, arriverà il momento anche per quei dettagli. 
Stay tuned~

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Capitolo 8
*** Che peccato. ***


08.



«L'essere umano è dotato di un potere incredibile: la capacità di catturare una percezione.
Essi sono in grado di farla propria, racchiuderla con la mente, loro possono giocare con il pensiero. Questo è davvero... è incredibile. Ma, ciononostante, resta un “pensiero”. I vampiri e i demoni... tutto questo, ha sempre avuto una singola forma. Non abbiamo mai provato ad andare oltre, non possiamo giocare con ciò che siamo, perché qualcuno più forte di noi l'ha deciso tanto tempo fa. Qualche strano Dio, magari. Ci è stata proibita la libertà».

30/06/--

 

 

«Bael, io ho promesso di esserti fedele e sincera per tutta la nostra infinita esistenza: te l'ho promesso. Quindi sarò sincera.
Bael, stai diventando strano, ci hai fatto caso? Mi stai sorridendo così sporadicamente, parliamo così poco. Ogni volta che riesco ad incrociarti in questo enorme palazzo, tu sei sbrigativo, fuggi via da me. Mi stai sfuggendo dalle dita.
Per lo meno, so che dentro di me continueranno a vivere i tuoi sorrisi, il tuo modo di scompigliarmi i capelli, la luce calda dei tuoi occhi. Questo, almeno, lo so».

04/07/--

 

 

«Ho dimenticato il motivo per cui ho iniziato questo diario. Forse, a dirla tutta, non è mai esistito un vero motivo. D'altronde, deve esserci per forza una ragione per iniziare a fare qualcosa? – ma non è per questo che sto scrivendo, adesso.
Sono diventata una cavia. Se ci penso, mi vengono i brividi: ma sono la loro Imperatrice ed è giusto dargli tutto l'appoggio possibile. Non morirò mai e il mio compito è quello di aiutare la mia gente. I nostri scienziati lavorano giorno e notte per produrre qualcosa che possa compensare la mancanza di sangue e di cibo. Comunque, non sta funzionando. La mia fame non è di certo diminuita. Non mi nutro da due settimane, se ricordo bene. Chissà dov'è Bael».

10/07/--

 

 

«Ho appena sentito qualcosa.
Ho sentito qualcosa che – mi è familiare; sono qui, in camera da letto, sul davanzale della finestra, la luna mi è testimone. Non ho le allucinazioni per la fame, ho sentito bene. Mi tremano le mani, non riesco a scrivere per bene.
Ho sentito la carne che si dilaniava. Il suono netto dei denti che affondavano e stracciavano i legamenti... un crack, e poi un tonfo.
Non lo so. Ho paura. Sono qui da sola, e non voglio. Io ti odio per... », con un gesto veloce, tracciò un segno netto sulla frase che stava scrivendo e riprese con un'altra. «Non so cosa succederà da qui in avanti, non so se potrò continuare a scrivere ma, in ogni caso, sappiate che c'è qualcosa di pericoloso in questo palazzo... e deve essere fermato. Ve ne prego. Fate il vostro dovere, per tutti». 

 

18/07/--


 

 

 

***

 

 

 

Yuki aveva gentilmente chiesto al professore di quell'ora il permesso di intrattenersi un minuto fuori, per affrontare un discorso molto, molto importante con Katugawa. Aveva usato tutta la cortesia insita dentro di lei – erano in buone mani, insomma – ed era riuscita ad arraffarsi quel minuto.
I due decisero di allontanarsi dalla porta per salire la rampa di scale parallela alla classe di lei e fermarsi quindi sul pianerottolo. Yuki si era appoggiata alla ringhiera, nel punto incurvato, mentre Takeshi di fronte a lei. L'albina volle assicurarsi che fossero solo loro due e rimase in ascolto qualche breve istante. Niente, non c'era nessun altro in giro.
«Mi vuoi incoraggiare, per caso?», fu la prima frase di lui.

Yuki si portò una mano dietro al collo e la lasciò poi scivolare sul petto. «Cos'era quello sguardo?».

«A quale sguardo ti riferisci?».

«A quello».

 

Takeshi alzò gli occhi al cielo. Certo, si riferiva all'occhiataccia di prima, non c'erano dubbi. Perché, invece, quelli febbricitanti d'amore non la sfioravano? «Quindi, mi chiedi cos'era? Era solo un'occhiataccia».

«Non sono abituata a vederti così, Takeshi. In effetti ho fatto una domanda stupida».

«Mi hai chiamato per nome», lui sorrise. Una dolce curva vermiglia gli carezzò il bel viso, lo accese di una calda e confortante luce. Yuki si ritrasse leggermente, stringendo la mano sul petto in un pugno infastidito.

«In ogni caso», riprese la mezzosangue. Fece un passo di lato, guardando con la coda dell'occhio la porta della sua classe, chiusa. «Non è proprio di questo che volevo tanto parlarti. Volevo solo metterti in guardia da quella ragazza con i capelli neri: Hokori Yamashita. Ho avuto già modo di parlare con Yumi, anche se ho già visto come non ha seguito la mia raccomandazione».

«Yamashita, la ragazza di prima? Ce l'ha con te e Ichinomiya o mi sbaglio?».

Yuki sospirò grave, scrollando le spalle. «Bah, non so proprio cosa dirti. È un'umana e su questo non ci piove, eppure lei conosce il nostro mondo», mentre gli rispondeva, le tornò in mente che forse, probabilmente, Tetsuya era riuscito a strapparle qualche informazione perché lui sapeva come lavorare. Batté il pugno sul palmo dell'altra mano, annuendo con convinzione.
«Devo contattare Tetsuya, più tardi. Sono certa che avrà scoperto qualcosa, dato che ci ha parlato dopo lo scontr--- sconcertante incontro».

Istintivamente, forse aspettando che il ragazzo concordasse con lei, Yuki guardò verso Takeshi; lui aveva un espressione di assoluta calma, un pesante velo di quiete che aveva annullato qualsiasi emozione sul suo volto. Era inquietante.

 

«Chi è Tetsuya?».

«Un mio amico. Un mio amico di infanzia, in realtà. Ci conosciamo da tantissimi anni e qualche giorno fa... ci siamo rincontrati... che c'è? Cos'è quella faccia?».

«Io? Niente».

 


Takeshi non sapeva che mentire con un vampiro o un demone era altamente sconsigliato. Lei riusciva a sentire il battito cardiaco che accelerava visibilmente; intanto, poteva percepire nelle orecchie il suono del suo sangue scorrere alla velocità della luce.
Improvvisamente, mentre ascoltava, un'ombra cominciò gradualmente a coprirla – la distanza fra di loro si era ridotta al minimo. Chissà in quale istante, ma lui era riuscito a farsi vicino vicino, fino a far toccare le punte delle sue scarpe con quelle dell'albina. Finché le loro fronti non furono sul punto di toccarsi.

«Gentilmente, potresti spostarti? Devo andare in classe, ho già–».

«Cosa?».

«Togliti, insomma».

«Yuki».

 

Rispose all'appello e alzò la fronte, stupita. Con questo gesto, i loro nasi si toccarono. Oh, diamine. Era troppo vicino – non riusciva nemmeno a tenere gli occhi fermi. Si sentiva tremare le ginocchia, proprio come una ragazzina. Beh, era una ragazzina.

«Ti ricordi cosa ti dissi, al nostro primo incontro?», sussurrò lui. Il sorriso rendeva lievemente più sottili le sue labbra.

 

Yuki ricordava perfettamente cosa le aveva detto, quel giorno, quella mattina.

Non era passato nemmeno tanto tempo da quel fatidico incontro sul tetto, all'insegna di denunce e minacce, lei con le spalle al muro. 
Tuttavia, sebbene avesse stampato a fuoco quel ricordo, scosse lentamente la testa. «Takeshi, io non riesco a capire perché ti sia fissato così. Non potrai di certo essere felice, in questo modo, te ne rendi conto?».

«Eppure, mi hai già reso felice, Yuki».

 

 

 

***

 

 

 

«Andrai subito a casa?».

 

Era pomeriggio inoltrato e il cielo aveva assunto quella romantica gamma cromatica – il rosa, l'arancio, il giallo; le lezioni erano giunte al termine e, agli studenti, non rimaneva altro che lasciare le classi per dirigersi verso casa o i club del pomeriggio.
Yuki e Sayumi avevano parlato, la prima le aveva nuovamente raccomandato – circa duecento volte – di non avvicinarsi ad Hokori Yamashita, per nessuna ragione al mondo. Queste erano state le sue precise parole, le aveva fatto promettere di starle alla larga, di vedere in lei la peste nera, l'ebola, le sette piaghe d'Egitto.
Poi avevano deciso di andare a sciogliere i nodi della tensione con un gelato, fantasticando sulle calorie che avrebbero preso e su quanta soddisfazione avrebbero provato.
E si erano trovate Hokori ai cancelli della scuola. Yuki avrebbe voluto darsi uno schiaffo sulla fronte.

 

Se ne stava lì, con la schiena appoggiata al cancello, un espressione allegra in viso e un sorriso accattivante sulle labbra; i capelli corvini e corti sotto la mandibola erano luminosi e lisci come seta, gli occhi neri si guardavano placidamente intorno – solo quando intercettarono le due ragazze, le sue pupille vennero attraversate da un'ombra sadica.

Accentuò il suo sorriso e si staccò dal cancello, muovendosi per andare verso di loro ma, nel momento in cui fece per camminargli incontro, due figure slanciate si contrapposero fra di loro, come un grosso ed ingombrante muro di pietra. Sayumi dovette alzare parecchio il viso per capire chi le avesse intercettate a quel modo – con stupore, le due amiche si erano quasi scontrate con Takeshi e Tetsuya, l'uno affianco all'altro.

 

Alla vista del vampiro biondo, Sayumi indietreggiò velocemente, riparandosi dietro la schiena di Yuki, mentre l'albina sbatteva le palpebre con perplessità.

 

«Scusami», fece Takeshi, facendo un piccolo cenno col capo al vampiro.

In tutta franchezza, non aveva proprio fatto caso alla sua presenza, almeno fin quando non avevano cozzato bruscamente le spalle. Il ragazzo si spostò, con l'intenzione di rivolgersi all'albina, ma ecco che il suo proposito venne stroncato sul nascere da Hokori; con la delicatezza di un camionista, si era infiltrata tra i due ragazzi ed era sbucata come un fungo in mezzo, in uno spazietto minuscolo.

 

«Siete di mezzo», brontolò. «Avete letteralmente centinaia di metri a disposizione e dovete fermarvi proprio qua? Che storia. Bene, Akawa, stavi per caso andando da qualche parte?».

«Non penso che dispiaccia a nessuno se vieni interrotta, Yamashita», ribatté l'albina.

«Ancora tu?», dissero all'unisono Takeshi e Tetsuya – poi si guardarono di sbieco, per un nanosecondo.

«Senti, perché non ti cerchi un hobby? Dico davvero, penso che ci sia qualcosa che non funziona in te... potresti, che so, ingurgitare veleni».

«Ce l'ho già un hobby, simpaticona. Ora, non farmi ripetere le cose: dove stavi andando?».

 

Yuki allungò il braccio verso Sayumi, dietro di lei, afferrando la sua mano – più stretta che poteva. «Non sono affari che ti riguardano». Ma Hokori non sembrava convinta. Il suo sguardo si fece duro, freddo come il marmo di una casa abbandonata mentre accostava la fronte a quella della mezzosangue, sussurrando e sillabando lentamente. «Non potrai proteggerla ancora a lungo, Akawa».

 

«Vuoi scommettere?». Le sue dita erano ancora intrecciate a quelle di Sayumi quando, con l'altro braccio, l'aveva spinta via. Aveva dovuto contenersi, dato che alle sue spalle c'erano ancora Takeshi e Tetsuya. Il primo aveva seguito la scena con una certa tensione nei muscoli e poi, quando Hokori era stata scostata, l'aveva afferrata per le spalle, col solo obiettivo di allontanarla da quello spazio angusto. Era meglio se andava via, si fiutava nell'aria il pericolo.

«State attirando un po' troppo l'attenzione, voi tre», le ammonì.

 

Vide Yuki annuire e rivolgersi al ragazzo biondo, con un sorriso bonario sulle labbra e un velo di apprensione in viso – mentre Sayumi aveva un'aria piuttosto guardinga.

 

«Tetsu, per noi sarebbe meglio andare. Ci sentiamo appena le acque si calmano un po'».

 

Tetsu? Tetsu... Tetsuya, intende?, pensò Takeshi. Intendeva proprio quel tizio? Quel suo amico che poteva vantare di conoscerla da anni e che aveva rincontrato qualche giorno prima? Beh, gli faceva piacere sapere com'era fatto; indubbiamente, non si sentiva in pericolo solo perché quel tipo era bello come un semi Dio, solo perché aveva fluenti e ordinati capelli biondi, lucenti come il mare cristallino. Non ci pensava nemmeno al fatto che i suoi occhi erano calamite ammalianti, di un bellissimo colore freddo.

Tentennando, decise di guardarlo.

Sentì il vuoto nello stomaco.

 

 

 

***

 

 

 

Aprì gli occhi.

Con un colpo secco, spense la sveglia che stava impazzendo sul suo comodino, accanto alla lampada di bambù color crema. Stava continuando a strillare da un minuto abbondante, tremando sulla superficie di legno del comodino – Takeshi soffocò un sospiro, un imprecazione, e spostò le coperte.
Con calma, si issò a sedere, le palpebre basse sugli occhi insonnoliti e un pochino gonfi; nel medesimo stato, appoggiò i piedi sul tappeto, evitando accuratamente il pavimento troppo freddo per lui, e si mise in piedi. Si passò una mano fra i capelli, arruffati come non mai, e si diresse in bagno dove fece una doccia, cercando un po' di calore nell'acqua calda; adesso i capelli sembravano conoscere finalmente un ordine, qualche legge della fisica, e lui non era nemmeno tanto assonnato o infastidito dall'orario.

Indossò la divisa, i pantaloni neri, la camicia bianca, i primi due bottoni aperti, e le scarpe basse con doppia fibbia. Ponderò per un po' se indossare anche il cardigan e – sì, erano a Maggio, ma lui che poteva farci se stava morendo dal freddo? – alla fine cedette alla tentazione. Cercò la sua borsa, infilò il telefono nella tasca dei pantaloni.

 

 

«Ehy! Buongiorno!». Il trillo di quella voce era orribilmente familiare – Takeshi si fermò, nonostante tutto, e si voltò.

Hokori gli sorrideva con gentilezza, le labbra incurvate come una mezzaluna. «Come va?».

«C'è un tempo osceno e ho sonno».

«Ah, beh... sì, posso capirti». Lei rise un attimo, poi diede una veloce occhiata al cielo plumbeo, guarnito da nuvole scure. Takeshi soppesò la sua figura per qualche secondo, alzò le spalle e si volse verso la salita-discesa per continuare il tragitto.

«Ah, posso fare la strada con te?», esclamò lei, raggiungendolo spedita. «Solo se ti va, naturale».

«Mah, non è un grosso problema».

«Bene, meglio di niente, direi».

«Non puoi biasimarmi se non provo adorazione per te, Yamashita».

 

Hokori stette in silenzio a quelle parole. Giusto, non poteva biasimarlo, no di certo. Lei era del tutto d'accordo, infatti annuì, con un espressione pensierosa – anche il luccichio nei suoi occhi era sparito da un po'. Stava guardando il marciapiedi, quando esordì: «Sai, non ho mai frequentato il liceo. Voglio dire, il primo anno, non l'ho mai fatto. Ho iniziato a venire a scuola solo adesso, dopo che avevo finito le medie. Per questo, faccio una certa fatica a fare amicizia con le persone o semplicemente a comportarmi nel modo giusto. È un grosso problema, sai? Ho un fratello e anche lui ha questo tipo di problema. Dopo le medie, entrambi ci siamo dovuti allontanare dalla scuola per... beh, per degli impegni, apparentemente, più importanti».

Takeshi ascoltava senza emettere un fiato ma intanto la sua espressione era cambiata. Non era più tanto guardingo o freddo, bensì sorpreso, non si aspettava che lei cominciasse a parlare a ruota libera di fatti personali.

Decise di non disturbare il suo racconto e di ascoltare per bene.

«Ogni tanto mi chiedo se lo fossero davvero, arrivata a questo punto. Ma come si fa a distinguere ciò che è davvero importante e cosa non lo è?», socchiuse le palpebre e inclinò lo sguardo – i suoi occhi neri – verso il ragazzo. Le sopracciglia erano basse su di essi, le labbra chiuse e strette in una linea.

Voleva davvero una risposta?

 

Lentamente, il suo viso si sciolse in un altro sorriso, curvo. «Volevo chiederti scusa. Per come mi sono comportata, per quello che ho fatto, io... voglio fare amicizia con te, Katugawa-kun. Ecco, è questo... solo questo voglio dirti».

«... Takeshi».

«Come?».

«Chiamami Takeshi. Non ti servono le formalità per fare amicizia, no, Hokori?». Takeshi si strinse nelle spalle mentre anche lui sembrava aver trovato un po' di serenità. Sorrise, le mani nelle tasche.

Hokori sbatté le palpebre. «Oh... allora sia, Takeshi-kun!».

 

 

 

***

 

 

 

Quella mattina assomigliava al bianco di una tela. Un bianco non totalmente perfetto, più tendente a quello sporco della neve ammassata sulla strada, inquinata dallo smog. 
Alzarsi era stato più difficile del solito, l'aria si era raggelata e il cielo presagiva sorprese. Ad aggiungere, Hokori frequentava la loro scuola e questo vinceva a mani basse su qualsiasi altra catastrofe. 
A quanto pareva, aveva cercato di farsi inserire nella 2-B ma, essendo già molto numerosa, era finita nella 2-C, che era invece la più vuota – ma guarda un po'. Yuki non voleva nemmeno sapere dove sedesse, chi le prestasse i testi, con chi condivideva il pranzo.

Preferiva farsi una valanga di affari suoi.

 

Adesso, andava in giro e dichiarava di aver fatto amicizia con Takeshi.

 

«Sì, te lo giuro, proprio con quel Takeshi!», diceva, tra una risatina e un sorrisetto. «Quello della 2-C. Non trovi che sia molto simpatico? Come? No?».

 

Proprio in quel momento, la mezzosangue poteva vederla dalla porta della propria classe. Hokori se ne stava di fronte alla sua aula, appoggiata al muro, con le braccia dietro la schiena. Parlava con lui.

Ah, povera lei.

La poveretta, evidentemente, non aveva la benché minima idea di che genere di persona fosse davvero Takeshi; non aveva avuto l'onore di conoscere la sua strana malattia legata allo stalking. Magari l'avrebbe scoperto ad impatto, sulla propria pelle.

«Vorrei andare in quella gelateria con te», gli diceva.

 

Durante la pausa pranza era andata dalle ragazze, e aveva cominciato a raccontare piccoli aneddoti sulla sua vita scolastica con lui – anche se nessuna delle due voleva saperne niente; raccontava, con un grande sorriso, come lui incrociasse le braccia sul banco e vi ci poggiasse la testa – per poi addormentarsi come un ghiro.
Raccontava di come adorasse i panini con le polpette oppure di quando l'aveva notato tenere fra i denti il cappuccio della penna.

Raccontava, raccontava.

E rideva, tutta allegra.

 

Alla fine della pausa pranzo, la viper- cioè, Hokori si era dileguata, non prima di aver ringraziato Yuki per averglielo presentato.

«Quando vuoi», aveva risposto l'albina.

«Ma che accidenti vuole, si può sapere?», Sayumi sospirò. In silenzio, le teste immerse nei pensieri, le due ragazze erano tornare ai loro rispettivi posti. Le sedie erano fredde, l'aria non accennava a farsi meno pesante.

 

«Take the book and open it on page... two hundred and six», solo la perfetta pronuncia inglese del prof. Okamoto riuscì a raccogliere, come un cucchiaio, l'attenzione di Yuki.

Basta pensare a quelle stupidaggini, pensò, brusca, infilando le mani sotto al banco alla ricerca del testo. Ah, eccolo là.

 

Ma c'era qualcos'altro... o era una sua impressione? Le sue dita toccavano quello che era un quadrato di carta, piccolo quanto il palmo della sua mano. Confusa, fece scivolare il libro e il pezzetto di carta sulle sue gambe.

L'inglese era importante, ma probabilmente anche quel pezzo di carta.

 

 

 

***

 

 

 

Ci vediamo sotto al ponte dopo le lezioni, non mancare”.

 

Mai frase fu meno informativa di quella lì scritta.
Sotto al ponte? Quale ponte, esisteva un ponte? E chi l'aveva scritto? E perché? Fare un invito del genere proprio a lei... era totalmente privo di senso. Il mittente di questo messaggio, evidentemente, non aveva pensato che lei era un tantinello troppo insofferente per presentarsi ad un invito scritto da un signor. Anonimo.

 

«Un ponte, eh?». Sayumi si teneva il mento fra le mani, pensando un attimo. «Di ponti ne abbiamo solo uno, se escludiamo quelli minuscoli che collegano ai templi».

«E dove si trova?».

«Beh, hai presente il fiume dopo il lato commerciale?».

«Il fiume?», ripeté la mezzosangue. Il fiume, il fiume... ma sì, ma certo, adesso se lo ricordava. Non era tanto lontano come sembrava, poteva arrivarci in una decina di minuti senza molto sforzo. Bastava percorrere tutta la strada in discesa e arrivare al negozio di fiori Ichinomiya; dopodiché, si svoltava quell'angolo e si arrivava ad una rotonda; si passava anche quella, andando dritto, e si raggiungeva un pezzo di asfalto con il prato a sinistra – una ventina di metri più in là, il famigerato ponte; si ricordò che a Takeshi quel fiume piaceva parecchio, pareva che ci avesse passato molto del suo tempo quando frequentava le medie. La volta che si era intrufolato un demone a scuola e loro stavano aspettando gli Addetti, avevano parlato un po', del più e del meno.

 

possibile?, pensò, mordendosi il labbro. Possibile che fosse lui? Le eventualità erano infinite, specialmente perché la scrittura non le faceva venire in mente proprio niente. Poteva anche trattarsi di qualche demone o vampiro, per quanto ne sapeva, il ché avrebbe rappresentato un problema. Al pensiero, sentì un brivido di adrenalina lungo la schiena, a toccare le vertebre.

Aveva deciso, ci sarebbe andata. Se era qualche demone pazzo – o qualche vampiro estremamente stupido – era giusto che se ne liberasse.

 

«Ahh, che scocciatura, ha iniziato a piovere», brontolò Sayumi, lo sguardo sulle finestre.

Yuki la imitò.

L'odore della pioggia riusciva a filtrare dai vetri fino ad impregnare l'aria in classe, riempiendo l'ambiente riscaldato dai termosifoni. Batteva ritmica sui vetri, sui cornicioni e le grondaie come un orologio degli elementi. La pioggia non era male, quando non la prendevi. Sarebbe rimasta lì a guardare il suo scendere, il suo spiattellarsi a terra per poi perdersi nel cemento – l'atmosfera era diventata tranquilla.

 

«Yuuuuuuki-chan. Pensi di fissare là fuori ancora a lungo?».

Quasi cadde dalla sedia di fronte alle otto ottave di voce dell'amica.

«Mi hai fatto... accidenti a te. Sì, andiamo».

 

Qualche minuto dopo, stava camminando rapida da balcone a balcone, priva di ombrello, da sola; aveva lasciato Sayumi a casa sua, cioè il negozio di fiori, e aveva poi intrapreso la strada verso il famigerato ponte del fiume. In poco tempo, nemmeno troppo bagnata dalla pioggia, aveva raggiunto il centro della città, piena zeppa di negozi e boutique; superò la rotonda e la sua grossa quercia e continuò dritto fin quando, una ventina di metri, non intravide il grosso ponte con al di sotto il fiume. Purtroppo, quel pezzo di strada non aveva nessun posto dove ripararsi, e nel giro di qualche secondo era infradiciata dalla testa ai piedi.

Allora si guardò attorno per essere sicura di essere sola – quindi cominciò a correre, con la tipica velocità spropositata da creatura non-umana.
I suoi piedi calpestarono l'erba, brillante dalla pioggia, mentre il suo sguardo intercettò una figura slanciata e maschile, al coperto sotto al ponte e... sorrise.

Era Takeshi!

 

Doveva raggiungerlo al più presto, si disse, e riprese la sua corsa – ma appena un istante dopo che i suoi piedi si erano mossi, si dovette fermare, affondando le scarpe nel fango. A ben vedere, forse non c'era bisogno di raggiungerlo.

Perché lui, Takeshi Katugawa, era impegnato in un bacio con Hokori Yamashita.

 

 

 

 

 

NOTA: 
Piccola nota per dire che ci sono state delle modifiche all'inizio del capitolo 7 e alla fine del capitolo 6, a proposito di date. Intanto, spero che questo vi sia piaciuto!

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Capitolo 9
*** Gli occhi dell'indifferenza. ***


09.


Gli umani sono delle creature buone.

Sono gentili, gli umani, e sono dei sognatori. Loro decidono di salvare se stessi e gli altri; possono sorriderti con una tale dolcezza ed insegnarti ad amare e la sensazione di essere amati – ti fanno credere e sognare ad occhi aperti.

 

Gli esseri umani possono essere distruttivi.

 

Un bacio. Cos'era alla fine, se non il contatto ravvicinato di due bocche? Sayumi le aveva detto la sua, nel mezzo delle loro chiacchierate, durante un pranzo troppo rapido. «In via teorica, un bacio è proprio quello che hai descritto, oltre al fatto che c'è anche uno scambio di saliva. E di batteri. Insomma, non sembra il massimo». Allora Yuki le aveva chiesto cosa ci fosse di così speciale, di così fondamentale. «Beh, sai, è anche una scarica di adrenalina che si ripercuote in tutto il tuo corpo. Quello è... anche il momento in cui ti senti terribilmente amata e al sicuro... con qualcuno. Il momento in cui non sei sola».

 

Se solo Sayumi non le avesse aperto gli occhi di fronte a quella verità.

Se solo non avesse letto il biglietto sotto al suo banco – a quest'ora, non si sarebbe trovata sotto una pioggia battente. Adesso, la vista appannata, non avrebbe visto quella scena.

 

Voleva correre via. Voleva fare un rewind – le sue gambe non ascoltavano. Tremavano, si inzuppavano, le parigine diventavano sature di acqua, eppure non si muoveva da quel punto. Le scarpe erano affondate nell'erba fangosa.

 

Accidenti, gli occhi si stavano già riempiendo di lacrime.

 

Dietro di sé, c'era Tetsuya.

 

«Yu... ».

«Portami via, Tetsu».

 

 

 

***

 

 

 

Le sue dita scendevano, placidamente, lungo le pallide guance – e poi premevano, sempre più forte, sempre più veementi, come se con la sola pressione potesse scavare dentro quel viso dalla bellezza immutabile, privo di imperfezioni.
Il volto dell'irritante perfezione.
Tempo addietro, le era stato donato quell'appellativo – sgradevole; l'avevano fatto ma lei, a distanza di tempo, era riuscito a toglierselo dalla testa, come una lobotomia. E non era stato facile, per niente affatto. L'aveva dovuto fare per la sua povera testa, rinchiudendosi nella sua stanza, buia come il fondo di una tomba, con le mani nei capelli e gli occhi chiusi.

Quel metodo era doloroso. Doloroso per la sua gola, per la sua nutrizione, perché le negava di vedere chiunque, compresa la sua famiglia. Compresa la sua cara sorellina.

Ma, in tutto quello, non capiva. Perché quei ricordi tornavano? Si stava, forse, rendendo conto di qualcosa? Quella scena era stampata nitidamente nella sua testa.


Ah.

Ah, forse, stava capendo che – cavolo, era tutta una finzione? Aveva frainteso le sue intenzioni? Era solo tutto un gioco, uno scherzo, un tormento? Non l'aveva reso davvero felice.

Era tutto sfuggito come sabbia fra le dita; stava brandendo un coraggio che non possedeva – e non desiderava – per combattere quegli incubi che aveva sempre temuto. Con la strisciante agonia. Minuscole gocce di sangue spuntarono sulle sue braccia – mentre le unghie affondavano in esse.

 

«Sorellona?». Un bisbiglio si lanciò timoroso nell'oscurità e subito si fuse con le ombre della stanza. L'aveva sentito chiaramente. «Sorellona». Finalmente, Yuki sollevò il volto dalle ginocchia, cereo e dai capelli scompigliati. La sua sorellina. La piccola e ancora innocente Ai.

Ai Akawa era una bambina di undici anni, piccola ed esile, di bassa statura. Non sembrava una ragazzina normale nemmeno per sbaglio, con i suoi capelli rossi amaranto, una cascata di vino lungo la schiena. La frangetta, ordinata e folta, cadeva appena appena sugli occhi dorati. Nel suo vestito merlettato e dai toni violacei e scuri, stringeva al petto un pupazzetto indaco a pois porpora. Era in piedi, con la schiena appoggiata alla porta e sul viso un espressione gelida. Aprì le labbra sottili per sospirare.

«Non va per niente bene, sorellona». Quieta, si allontanò dalla porta per camminare verso la sorella. La mezzosangue levò gli occhi, cerchiati di rosso, con le palpebre semi aperte.

 

Voleva parlare, voleva dire qualcosa – e allora aprì la bocca, ma non nacque nessun suono sensato: niente che assomigliava vagamente ad una frase. Poté solo vedere la sorella salire sul suo letto e accoccolarsi vicino a Yuki, la testa dolcemente contro il suo braccio.

E da quella maledetta angolazione poteva scorgere le sue clavicole e una piccola porzione di collo. Riusciva a vedere le vene pulsare sangue ritmicamente, come una melodia nervosa. Era seducente, persino in una bambina.

Ai teneva la testa sempre su quel punto. «Non ricordavo di avere una sorella così... debole. Capirlo è doloroso, in un certo se–».

 

«Doloroso?!».

Yuki era ancora allo stato bestia ma era almeno riuscita a dare vita a suoni e parole – aveva parlato, in un impeto di frustrazione, perché si sentiva incapace e ingabbiata. «Mi dispiace essermi mostrata così, sai, ma niente è... non puoi dare per scontato che sia indistruttibile».

«Sei tu che hai dato questa immagine, a tutti noi. L'hai reso vero».

«E allora cosa avrei dovuto fare? Dovevo andare a piangere dai nostri amorevoli genitori, Ai?». Il suo tono era aggressivo, irruento come uno tsunami, nonostante si trattasse della sua tanto amata sorellina.

Yuki inarcò profondamente le sopracciglia, creando un solco fra di esse, e scosse la testa più e più volte. Chissà se un giorno si sarebbe sentita più libera – incrociò lo sguardo della bambina con le iridi ricolme di sangue. Malinconica, vinta, Yuki allungò una mano verso il viso bianco di Ai e lei già alzava il mento, ben conscia di come si sarebbero svolti i fatti.

L'istante dopo, i denti di Yuki erano affondati nel collo della bambina.

 

 

 

***

 

 

 

«... awa... Katu... Katugawa!».

 

Takeshi inclinò la testa in avanti, lesto, rischiando quasi di cadere dalla sua sedia – su cui era mollemente accomodato, come al solito. Si passò una mano fra i capelli, facendo scivolare il palmo sulla fronte e affondando i polpastrelli nei filamenti castani. Sospirò forte, trattenendo a stento una sbuffata, rivolgendo al suo interlocutore un'occhiata innervosita. Sicuramente, agli occhi di Kazuki – compagno di classe dai capelli ossigenati – sembrava molto strano che proprio quel Katugawa, quello che tutti conoscevano per la calma d'acciaio, ora apparisse agitato e stizzoso.

 

«Che c'è?», sbottò Takeshi, appoggiandosi allo schienale. Il ragazzo gli tenne gli occhi addosso per un po', per poi scusarsi. «Non volevo spaventarti o... disturbare la tua pennichella... avevo bisogno di chiederti una cosa su Akawa».

 

«Cioè?».

«Sicuro?».

«Spara».

Kazuki tentennò. «Quand'è... il suo compleanno?».

Takeshi aprì gli occhi; ecco che sensazioni di stordimento, di sorpresa e gelosia lo invasero, puntandogli fucili al petto, dichiarandogli guerra.

«Katugawa... ?».

Ah, giusto, doveva rispondere. In teoria non c'erano problemi, era una banalità quella che gli aveva chiesto, non aveva nessun fine quella domanda – probabilmente. Non gli aveva mica chiesto di accompagnarlo a comprare un anello di fidanzamento.

«Perché lo vuoi sapere?».

«Niente di ché, volevo solo farle un regalo».

 

Un regalo, diceva lui. Ma perché Kazuki – e nemmeno si conoscevano – voleva fare un regalo proprio a quella spietata, acida, fredda, coraggiosa, intelligente, meravigliosa... mezzosangue? Perché non si decideva a rispondergli?
«Beh, ti consiglio vivamente di lasciar perdere qualsiasi buon proposito con quella tipaccia. Esperienza personale». Si alzò dalla sedia, in tutta fretta, e si diresse verso il corridoio.

 

Alzò il polso destro: mancava qualche minuto all'inizio delle lezioni. Fino ad ora non aveva visto ancora nessuno. Aveva varcato l'uscita della classe, appurando quanta gente ci fosse in giro. Nessuno aveva fretta di mettersi seduto e aprire i libri, nemmeno i ragazzi più grandi.
Takeshi pensò che andava bene così. Le loro voci, il continuo chiacchiericcio – gli faceva venire l'emicrania. Tra le voci ammassate, cominciò ad attraversare quel pezzo di corridoio. 
Al suo passaggio, le ragazze si scansavano come se fosse fatto di fuoco; le amiche si facevano vicine fra di loro e ridacchiavano, lanciavano gridolini, se lo mangiavano con gli occhi, mentre i ragazzi osservavano i suoi gesti con diffidenza e sospetto. Le voci su Takeshi Katugawa erano più di quanto fosse necessario e soprattutto negative.

 

Si guardò intorno e poi davanti, di fronte a sé, riconoscendo subitaneamente la sua figura longilinea, con quel manto luminoso e l'andatura composta. La riconosceva, certo. Ne aveva imparato i contorni, i tratti. Pensava di conoscerla – ma, ora che la guardava, era talmente diversa da sembrare sfigurata. Quegli stessi contorni che lui diceva di conoscere erano orlati da un'aura nera che si agitava come l'insieme di lingue di fuoco.

 

Invisibile, impalpabile e doloroso.

I suoi occhi si sgranarono – disorientati – mentre quelli di lei lo guardarono, impassibili, immobili.

«Yuki?».



 

 

***

 

 

 

«Oh, Katugawa».

 

Il respiro tornò a circolargli nei polmoni. La giovane mezzosangue lo stava fissando con un sorriso vacuo sulle labbra. Un sorriso a mezzaluna. Era distante circa cinque metri, non si era avvicinata neanche di un passo, aveva solo alzato un pochino la voce per contrastare il brusio di voci.

«Katugawa?», ripeté lui.

«Katugawa», affermò lei, con calma; poi si voltò, porgendogli il profilo, e con un passo si fece inghiottire dal gruppo di studenti davanti alla porta.

Takeshi deglutì.



Katugawa. Katugawa.

Lui si rendeva conto che non aveva il diritto di sorprendersi o arrabbiarsi. Ma... quel ritorno drastico? A cosa era dovuto? Lei era... aveva appena cominciato a chiamarlo per nome. Aveva appena cominciato a vederlo.
Ma cosa accidenti era successo, nel frattempo – cosa era cambiato?

Poi, tutto ad un tratto, un lampo agghiacciante gli serpeggiò lungo la schiena. Un pensiero terribile lo agguantò, la sensazione che le pareti verde-acqua si stessero stringendo contro di lui.

Il ponte.

I suoi occhi si abbassarono a terra, un velo di angoscia. Possibile che lei fosse lì, in quel momento? Possibile che, tra tutti i momenti, l'albina aveva deciso di apparire proprio in quello?

Respirò forte e – dannazione – paonazzo marciò verso la 2-B.

 

Ora basta, pensò, ora basta.

Era stanco di navigare nell'incertezza. Era stanco di barcollare nel buio, solo perché non conosceva i fatti che accadevano nella sua vita, e lui, stupidamente, ne voleva anche fare parte.
Voleva sapere. Furono questi pensieri che riuscirono a smuovere i suoi piedi da quel punto, a far muovere la gamba in avanti, poi l'altra. Con questa sensazione di frustrazione dentro, attraversò il corridoio con il decoro di un soldato, giungendo alla porta scorrevole, già aperta. Ci appoggiò la mano sinistra e infilò un quarto del suo corpo, gettando una lunga occhiata indagatrice.

Ed eccola.

Lì, con le spalle alla finestra spalancata, i gomiti appoggiati sul davanzale e la freddezza in viso – ma la cosa che gli fece sbarrare gli occhi, era la gente che le stava intorno, come sudditi di una divinità tirannica. Si mantenevano ad una certa distanza, sorridendo guardinghi, parlando con lei con attenzione. Stavano parlando con lei.

Non c'era modo che quella fosse la sua Yuki.

 

 

«Ah, ma guarda chi si vede».

Al suono della sua voce, Takeshi si irrigidì, come un robottino andato in cortocircuito. Era un timbro vispo e un po' squillante, femminile e familiare. Lui si voltò, incrociando il suo sguardo, innervosito e scocciato. «Sayumi–», riuscì solo a dire, preso in contropiede, mentre lei gli passava accanto con apparente noncuranza. Solo quando sentì il suo nome, detto proprio da lui, la ragazza si fermò e – senza troppi complimenti, agguantò la cravatta un po' trasandata che gli stava al collo.

Si era dimenticato che quella ragazza vantava una certa forza – e un'aggressività niente male, purtroppo.

«Mi stai strozzando, tu–».

«E te lo meriteresti!». Lo lasciò andare, ma semplicemente per potersi mettere di fronte a lui e concedergli una brutta occhiata. Lo guardava dritto negli occhi, con i suoi limpidi specchi d'acqua, concentrati.

Sayumi aprì la mano, lasciando andare la sua cravatta, ed incrociò le braccia al petto. Era arrabbiata. «Apri bene le orecchie. Sii certo di sentire ogni sillaba, ogni accento di quello che sto per dirti: qui non c'è niente su cui scherzare. Da quando Hokori Yamashita e Tetsuya Tanigawa hanno fatto la loro magica e splendida apparizione, le cose sono diventate difficili all'improvviso e tu non hai di certo facilitato la situazione. Io e te... non ci conosciamo ancora abbastanza, ma... beh, se continuerai con questo atteggiamento così patetico, potremo anche evitare di sprecare tempo ed energie per conoscerci. Okay? Soprattutto adesso che mi hai chiamato per nome. OKAY?».

 

Inspiegabilmente, sembrava ferita. Un tulle di malinconia tradiva il tono di voce arrabbiato. Takeshi, dal canto suo, non capiva se era arrabbiata o triste; ciò che gli fu semplice da comprendere era, piuttosto, che Yuki e Sayumi erano amiche e che se avevano bisogno l'una dell'altra, non avrebbero tentennato un secondo per aiutarsi, nonostante le profonde differenze fra di loro. Capì anche che quell'odio – quel fastidio – non le donava affatto. Lei era fatta per sorridere con grinta.

Si voltò verso l'albina, guardandola, distante. Sembrava star esaminando la scena. «Lei è... lei è libera di fare come vuole, questo è ovvio. Eppure, c'è qualcosa di molto sbagliato».

«Aspetta, ascoltami un attimo, non è andata come credi tu».

«Oh, per favore. Voi maschi, per qualche ragione, pare che facciate sempre così. E poi, anche se stessi dicendo la verità, non è di certo a me che dovresti dirlo... dannazione, penso tu lo possa capire!».

«... sì, hai ragione».

 

Allora, cosa accidenti aspettava ad andare da lei? Fino a quel momento, non aveva mai avuto problemi – non se ne era mai fatti – per andare a disturbarla, nei momenti più disparati. Non si era mai preoccupato di metterla in imbarazzo, di dire qualcosa di sconveniente perché, alla fine, si trattava di lei.

Takeshi stette in silenzio. Sentiva le mani formicolare e un intenso malessere alla bocca dello stomaco, lo stesso di poco prima, e poteva giurare che i suoi organi si stessero contorcendo come vermi. Si sentiva male – e si appoggiò alla porta, con l'avambraccio; all'improvviso però, quando aveva pensato che le cose non potessero andare peggio di così, una mano aveva ad un tratto afferrato il suo braccio, tirandoselo contro con estrema forza.

Stupefatto, Takeshi aprì gli occhi, facendo in tempo a notare un paio di labbra pericolosamente vicine alle sue.

 

«Ehy, tu!».

 

Lui strizzò gli occhi – ora, entrambe le sue braccia erano contese; Hokori era davanti a lui e aveva le dita intorno al suo polso, la fronte corrugata e uno sguardo minaccioso, mentre Sayumi dietro. Lo aveva prontamente salvato, agguantandone l'avambraccio.

«Sei una ninfomane», sibilò Sayumi, lasciando andare il ragazzo solo per pararsi davanti a lui, aprendo le braccia.

L'altra, le palpebre basse sugli occhi, la squadrò come se uno gnomo stesse provando a difendersi da un troll. Con un sorrisetto, Hokori aprì la mano attorno al polso del moro, appoggiandosi le mani sui fianchi. «Oh-oh. Come siamo protettive, eh? Forse persino troppo per una semplice amica. Non sarà che... sei innamorata di Takeshi?».

 

Oh.

Un suono sordo si infiltrò nelle orecchie di Sayumi.

 

«Ah–», si schiarì la voce con un colpo di tosse, conscia del fatto che potesse mettersi a parlare, a smentire, poteva persino azzuffarsi con quell'intrusa – ma le sue gote parlavano per loro. Di quel rosa acceso ed egocentrico, Sayumi non sapeva che farsene.

Portò le mani alle guance, col vano tentativo di coprire il rossore, ma lo shock aveva già superato il suo raziocinio – poi, il rosso venne sostituto da un pallore improvviso. Guardò verso la finestra, e si sentì morire.

 

La mezzosangue aveva gli occhi rivolti verso di lei.

Quegli occhi.

Quei dannati occhi color del sole, fissi come punteruoli su di lei, colmi di fredda determinazione. Come se quella frase non l'avesse scalfita nemmeno per scherzo, come se stesse fingendo che non fosse capace di sentirla.

«Yumi!». Senza che se ne fosse accorta, aveva incurvato la schiena e portato una mano al petto. Sentiva dolore, sentiva male, ma sorrise ugualmente. Un sorriso più simile ad una smorfia, rivolto a Takeshi.

 

«Stai... bene?».

«Io, certo, certo che... sto benissimo, perché dovrei– ».

«No, non mi sembra tu stia bene». Lui ridacchiò mentre si piegava leggermente verso di lei.

«No, ti dico... che sto bene. Ma s-senti, quello che ha detto Yamashita, lei dice sempre un sacco di frottole, quindi non... ».

Takeshi alzò le sopracciglia e sorrise con dolcezza, proprio quella che mancava a tutta la gente lì rinchiusa. «Non preoccuparti. So che Hokori non è questa campionessa di sincerità. E poi, non ti sono nemmeno simpatico».
Sayumi tentò di ricambiare il sorriso e chinò lo sguardo a terra. «Già».

 

Eh, già. Eh già. Non riusciva proprio a farselo andare a genio, quello sciocco, soprattutto se faceva soffrire la sua migliore amica; non si perdeva affatto nelle dolci sfumature delle sue iridi e non stava nemmeno considerando l'idea di lanciarsi dalla finestra. Chiuse gli occhi e le sfuggì un singhiozzo.
Poi accaddero altre cose.
C'era Takeshi, sì, che si voltava verso Hokori e la rimproverava aspramente per i suoi atteggiamenti; lei si metteva a ridere, una risata fragorosa, disinteressata. Takeshi allora sospirava e scrollava le spalle. Yuki, di lei non si era mai dimenticata, con le dita intrecciate sull'addome e gli occhi vacui.

Era un enorme urlo.

«È tutto sbagliato».

«Eh?», fece qualcuno lì vicino.

«Ho detto: È TUTTO SBAGLIATO». Inspirò, mentre i polmoni andavano a fuoco. «Siete tutti solo... degli idioti!».

 

 

 

***

 

 

 

Un coro di mormorii, carichi di dissenso, avvolse l'intera 2-B come un telo, trasformando quelle quattro mura in un'orchestra di caos e schiamazzi. Punti nell'orgoglio, ognuno di loro cominciava a inveirsi contro, a dire cose spiacevoli e, lì in mezzo, Hokori non fu da meno. Aveva urlato di non metterla alla pari con loro.


«Ma come ti permetti?!».

«Come se tu fossi meglio! Tu che te la fai con tutti!».

«Non ha tutti i torti!».

«Sì, te incluso, genio!».

 

La situazione degenerava velocemente; ogni secondo che passava, ogni volta che qualcuno, lì dentro, dava sfogo al proprio stress, una carta di quel malconcio castello veniva sottratta. Tremava, fragile.
Sayumi era allarmata – cosa accidenti aveva combinato? – e si era subito guardata intorno, alla ricerca di Yuki e Takeshi. La prima non aveva lasciato il suo posto, con la freddezza di un giocatore d'azzardo, mentre il secondo stava cercando di raggiungerla.

«Guarda cos'hai fatto», ringhiò Hokori spalancando le braccia. «Guarda! Stanno litigando a causa tua. Sei la peggiore».

«Beh, se tu non ti fossi attaccata a Takeshi come la colla, tanto per cominciare, non saremmo mai arrivati a questa situazione!».

L'espressione di rabbia sparì dal volto di Hokori, sostituita da un sorriso. «Avevo ragione, eh? Tu sei innamorata di lui, ammettilo».

«Smettila!», urlò. Stava perdendo la bussola. No, non era vero. Non era vero.

 


È vero!, pensò, serrando i pugni, mentre il suo piccolo corpo da debole umana tremava. Titubante, levò lentamente gli occhi sulla ragazza, le labbra che vacillavano di fronte alla verità. Mormorò, a fior di labbra: «Non dirlo. Non dirlo a nessuno».
Ma Hokori Yamashita non era per niente d'accordo.
Sul suo volto si formò un altro strano sorriso, perfido come quello di un demonio, che la diceva lunga sulle sue intenzioni. «Soprattutto a quella là», disse indicando Yuki col mento. La osservò un po', notando come si fosse finalmente staccata da quella finestra mentre ascoltava Takeshi parlare animatamente. «Invece dovrebbe saperlo. Ho l'impressione che ne uscirebbe una bella storiella».

 

Con una risata compiaciuta, sotto gli occhi spauriti di Sayumi, si allontanò da quel punto. Questo non poteva succedere – con uno scatto rapido, Sayumi la raggiunse per afferrarle il braccio e tirarla indietro. «Smettila!», urlò, nel pandemonio della classe, immerse fino al collo negli schiamazzi. «Hokori!».

Spinta dalla paura, il corpo di Sayumi si mosse da solo e le sue unghie affondarono nel dorso della mano di Hokori, tracciando linee rosse – solo a quel punto, lei si fermò e si voltò.

Pensò che Yamashita aveva capito, che avrebbe dimenticato quella storia.

 

Ma poi accadde un atto di violenza. Hokori alzò il gomito e fece uno scatto in avanti, spingendolo repentina contro il petto di Sayumi, senza nessuna esitazione.

 

Un toonf gettò l'aula nel silenzio.

Takeshi si voltò.

E Yuki tornò in vita.

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Capitolo 10
*** Io l'ho capito, perché tu non ci riesci? ***


10.


Il suono di tacchi bassi risuonava, ritmico, e scandiva il tempo che sembrava essersi fermato.

 

In quello spaventoso silenzio, in cui ognuno era immobile come una statua, solo lei camminava, un passo alla volta.
Tutto nell'aspetto dell'albina era come al solito, eccetto per il luccichio rosso dei suoi occhi. Un rosso bollente, un rosso furibondo. Quegli stessi occhi, disumani in tutta la loro interezza, erano in preda all'ansia mentre guardavano il corpo esanime di Sayumi. La guardavano scrupolosi. Il suo petto si alzava lentamente, in modo quasi impercettibile – respirava, Dio.

«Ha ragione», esordì subito dopo, guardando in direzione di Hokori. «Siete degli idioti. E tu, Yamashita, sei la regina degli idioti».

Hokori sussultò, come resuscitata da una strana apnea. Con la coda dell'occhio, vide il corpo di Sayumi steso a terra, e deglutì. «Oh, Akawa–».

«Stai zitta». Come se il suo cervello l'avesse registrato, lei imitò la stessa identica mossa di Hokori, tagliando l'aria con il gomito fino a pochi centimetri dal suo naso. «Stai. Zitta». 
Subito alzò la gamba sinistra e la indirizzò verso il fianco di Hokori ma questa riuscì a schivarlo, indietreggiando goffamente; l'albina allora fece un altro scatto, improvviso, caricando il pugno destro verso la bocca del suo stomaco. Hokori aprì le mani a coppa davanti al suo addome, nel tentativo di pararlo – aveva la brutta sensazione che stesse usando solo una minima parte del suo potere. Nei suoi occhi vedeva un lampo, gelido. 
Yuki fece uno scatto e sollevò il ginocchio per sferrarlo verso di lei. Stavolta Hokori non fece in tempo e quel colpo riuscì a buttarla a terra poco in là. Sbuffò dalle narici, tossendo, alzando lo sguardo in tempo per vedere la mezzosangue tornare all'attacco. L'altra rotolò sul fianco, a terra, evitando un calcio.

 

«Take!», urlò l'albina, fermandosi un istante. «Sposta Yumi in un posto sicuro!».

 

Takeshi non se lo fece ripetere due volte; si gettò in mezzo alla gente, sgomitando, facendosi strada come uno squalo e raggiungendo il corpo di Sayumi. Si chinò su di lei, sollevandola in braccio per stenderla sul banco dell'albina. Non c'era modo, al momento, di arrivare all'infermeria, con tutta quella gente ammassata alle porte.

Le scostò i capelli dalla fronte, piano – era in pensiero per lei.
Aveva le palpebre schiuse, appena appena, come se stesse cercando di mettere a fuoco ciò che aveva davanti, come un neonato risvegliatosi dal torpore di un sogno. Stava bene.
«Yuki!», la chiamò il ragazzo.
La mezzosangue si fermò all'improvviso, gli occhi rossi che guizzarono verso di lui. Hokori alzò lo sguardo, con la schiena a terra, verso il ragazzo che ancora si preoccupava per quella sciocca umana dai capelli rosa. Si comportava da idiota, a dannarsi l'anima così, eppure Hokori non poté evitare di avvertire una fitta al petto.

Si sentì male guardando Yuki Akawa che non le prestava più attenzione, mentre raddrizzava elegantemente la schiena e si avviava verso i due – i suoi amici. Quei tre, insieme, avevano qualcosa che schiacciava il dovere. Il dovere di Hokori.

 

 

 

***

 

 

 

 

La scuola era stata assorbita da un silenzio ovattato. Le lezioni erano cominciate.

 

Di comune accordo, lei e Takeshi avevano deciso di accompagnare personalmente a casa la ragazza perché, arrivati a quel punto, la presenza di Hokori nella loro scuola rappresentava un grosso pericolo per Sayumi.
Il ragazzo se l'era messa in spalle, con un piccolo aiutino da Yuki – un leggiadro calcio al fondo schiena, tanto per farla riprendere da quello stato comatoso. E sì, si era ripresa, ma specialmente spaventata.

Tremante come una fogliolina, aveva stretto le gambe contro la vita di Takeshi e le braccia attorno al suo collo, rischiando ancora una volta di soffocarlo. Solo un altro calcio l'aveva fermata.

«Ma la pianti– mi farai uscire lividi a non finire!».

«E allora non strozzarlo».

 

A quel punto, Sayumi si era ripresa completamente, con un ritorno violento al presente: la prima cosa che i suoi sensi avevano captato era il profumo alla pesca dei capelli bruni, scarmigliati e morbidi, che aveva di fronte. Era un profumo buonissimo.
Poi, piano, aveva girato il volto per guardarsi alle spalle, dove Yuki stava camminando, con le braccia incrociate al petto.
«State bene?», esclamò Sayumi.

«Noi? Noi stiamo benissimo. Tu, piuttosto, come ti senti?», rispose Takeshi.

«Io... penso di stare bene. Certo, non mi aspettavo di... venire tramortita a quel modo». Con delicatezza – stavolta – era tornata a stringersi a lui, come se volesse assorbire il calore della sua rassicurante schiena.
Un momento. Schiena?, pensò mentre, finalmente, anche il senso del tatto tornava ad esserle familiare. Ricordava bene il colpo di Hokori e la durezza del pavimento, quando era caduta, ma ora perché era sulla schiena di Takeshi Katugawa?
Sayumi sapeva bene che qualsiasi ragazza, nella loro scuola, l'avrebbe invidiata da morire. E fortunatamente a quell'ora del mattino in giro non c'era praticamente nessuno se non qualche sporadico passante – che riusciva comunque a metterla in totale imbarazzo.

«Ahm, posso camminare, comunque. Puoi mettermi giù, Takeshi».

«Sei sicura?». Lei annuì, nervosa. Takeshi dunque si piegò sulle ginocchia, allentando pian piano la presa sotto le sue gambe, fin quando non fu sicuro che lei potesse scendere facilmente. Il suono delle sue scarpe, con il suo ticchettio, gli permise di rialzarsi e raddrizzare la schiena. Si voltò verso le ragazze, adesso ferme in quel punto del marciapiedi.

«Uff», sospirò Sayumi, massaggiandosi il collo e il petto, sgranchendo qualche osso intorpidito della schiena e le braccia. «Mi sento tutta rotta. Ma cosa ci facciamo qui, a proposito?».

«Ti stiamo accompagnando a casa», rispose Yuki.

«A casa?».

«Già».

 

Sayumi inclinò la testa di lato, sentendo un leggero dolore. Decise che non avrebbe fatto altre domande, almeno per quel giorno e che forse, in futuro, ne avrebbero potuto riparlare; decise che preferiva di gran lunga ascoltare il suono dei loro passi – mentre il ricordo di una Yuki furiosa si affacciava nella sua testa.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Riposati, mi raccomando. A domani». Parole sbocconcellate, colme della gentilezza tipica di una mamma, da parte di Takeshi.
Erano già fuori dal negozio di fiori, gestito dalla zia di Sayumi, quando l'albina sentì i passi dell'amica salire le scale, percorrere il corridoio e arrivare all'ultima porta, la sua camera. Meno nitidi furono i seguenti suoni ma, con ogni probabilità, aveva seguito il consiglio e stava per riposare.

 

Il negozio di fiori Ichinomiya era un posto piccolo e modesto; all'esterno faceva bella mostra un mobile con mensole, dipinto di verde smeraldo, con piante grasse, violette, rose, bonsai infilati l'uno accanto all'altro in graziosi vasetti di ceramica. Oltre la vetrata, c'era una totale immersione nel verde; le pareti bianche e il pavimento in parquet, c'erano scaffali e tavoli pieni zeppi di piante e vasi, e non mancava la zona di strumenti per il giardinaggio. Annaffiatoi, cesoie, rastrello, falcetta.
Casa di Sayumi era proprio sopra al negozio, al piano di sopra. Aveva un piccolo corridoio, un bagno in fondo a questo, due camere da letto sul lato sinistro e una cucina in quello destro.

Yuki diede un'ultima occhiata all'insegna e sospirò profondamente, scuotendo la testa.

Girò le spalle al negozio di fiori e riprese la strada, in salita; casa sua era molto più vicina a scuola rispetto a quella di Sayumi che, in parole povere, era ad un passo dalla piazza del paese, quella che rappresentava un po' il lato commerciale e attrattivo. La mezzosangue ci era stata sì e no cinque volte, quasi sempre per motivi scolastici o per acquisti essenziali, mentre Takeshi ci aveva passato la maggior parte del suo tempo – per un certo periodo della sua adolescenza.

Ci era stato con tante, troppe ragazze, tutte finte come un mazzo di rose di plastica, accomunate solo dal desiderio di notorietà.

Ai tempi, non era un problema, per Takeshi. Adesso il ricordo lo nauseava. Avrebbe rigettato ogni abbraccio, avrebbe rivendicato ogni bacio, avrebbe cucito quelle frasi dette a cuor leggero.

Furono proprio quei ricordi a scaturirgli una domanda.

 

«Yuki, aspetta, devo farti una domanda».

 

La mezzosangue rallentò il passo, senza fermarsi.
La vide mentre abbassava leggermente le palpebre, guardando la strada davanti a sé.
Non era ancora riuscito a spiegargli cosa aveva esattamente visto, sotto a quel ponte; non aveva fatto in tempo perché, appena qualche istante dopo, Hokori aveva deciso di abbattere come un cacciatore la povera Sayumi.

«Quale domanda?».

«Beh... », alzò le sopracciglia, incerto. «Tu hai... ».

«Mh?».

«A qualcuno... ».

«Concludi la frase».

«”Ti amo”».

Yuki sbuffò. «Ero pronta a prendere il cucchiaio, te lo giuro».

«... sii seria».


 

Sotto sotto, Yuki sentiva che avrebbe potuto ridacchiare, perché era divertente vederlo in imbarazzo per una volta. Le loro conversazioni erano spesso così, una barzelletta vivente.
Si strinse nelle spalle. «In effetti, sì».

Takeshi la guardò. «... mi stai prendendo in giro?».

«Ma sei scemo? Perché dovrei?».

«Mah», rispose lui. «Sarà perché non sei proprio la persona più affettuosa del mondo, che dici?».

«E tu, invece? Non mi sembri poi tanto affettuoso – tutt'al più, appiccicoso».

«Ah-ah». Ma, a dirla tutta, non sapeva bene come rispondere; era un tipo affettuoso, con la sua partner? Francamente pensava che, al momento, non poteva rispondere a quella domanda. Non aveva avuto relazioni serie, impegnative, relazioni che gli suscitassero un briciolo di sentimento. Non si era sentito affettuoso. «Non ho ancora avuto l'occasione per esserlo, presumo».

Lei lo guardò appena, con la coda dell'occhio, socchiudendo quest'ultimi; i raggi del sole rivestivano la salita timidamente, deboli, eppure quella tenue luce riusciva ad infastidirla abbastanza. Si era accertata che la sua amica stava bene e, incredibilmente, era riuscita a stargli accanto senza pensare troppo alla scena del ponte. E a quel bacio.

Ma adesso non aveva più ragione per restare lì insieme a lui. «Me ne torno a casa, allora».

«Cosa? Di già?».

«Sì, è meglio».

 

Lo sentì sospirare, impegnarsi per non risultare palesemente deluso. Anche a lei dispiaceva, inutile negarlo; avrebbe voluto, da una parte, continuare a chiacchierare, qualsiasi fosse l'argomento... ma d'altro canto, non poteva evitare di ricordare la schiena di Takeshi e le mani di Hokori che correvano al suo viso. Al bacio che faceva unire le loro labbra.

Strinse le proprie, gli diede un'occhiata fugace. Se ne sarebbe pentita, con ogni probabilità.

 

«Vuoi... accompagnarmi?».

 

 

Imboccando la salita, l'uno affianco all'altra, i due avevano percorso la strada verso la casa dell'albina. Una manciata di minuti più tardi – forse una decina, poco meno – avevano raggiunto la cancellata di ferro per il sentiero, e con una spinta, l'albina l'aveva spalancata. Takeshi appurò che già da quel punto si intravedeva la residenza, con la sua architettura tipicamente gotica; aveva notato quella casa un paio di volte ma non si era fermato a pensare a chi potesse vivere in un posto del genere.

Quando furono davanti alla porta di ingresso, aveva dovuto reclinare parecchio la testa all'indietro per vedere la casa in tutta la sua interezza.

«Quella cosa che stai facendo col collo mi fa un po' senso».

Il ragazzo aggrottò la fronte, facendo una smorfia con le labbra. «È bellissima», disse poi.

«Vuoi... entrare? Dare, non so... un'occhiata?».

Yuki era talmente abituata alla sua casa – a quella e alla precedente in cui aveva vissuto – che, ormai, riteneva incomprensibili le reazioni degli altri. Sembrava quasi una meta turistica, soprattutto se lei gli proponeva di “dare un'occhiata”. 
Takeshi riportò le sue attenzioni sulla ragazza, un espressione stupita. Credeva che fosse ancora arrabbiata, quindi non si aspettava una frase simile – prima che fosse troppo tardi e cambiasse idea, lui si apprestò ad annuire, con un cenno del capo.

 

«Bene», mormorò lei. Infilò la chiave nella serratura e aprì la porta.

Takeshi non si era immaginato così l'interno della super residenza; aveva un aspetto spoglio, malinconico, con l'ampio salone quasi del tutto privo di mobilio, eccezione fatta per un piccolo salottino vicino al sottoscala a sinistra. Il pavimento era di marmo antico, lucido e ben tenuto, e rifletteva il grosso lampadario al centro del salone, pieno zeppo di cristalli a forma di goccia che pendevano verso il basso.
Sia al piano terra che al superiore era pieno di porte; disposte l'una accanto all'altra, all'inizio della parete – sia a sinistra che a destra – c'era una porta più larga, a due ante. Quella a sinistra era socchiusa e giungeva un profumo di biscotti appena sfornati. Rispetto alle porte, c'erano pochissime finestre, di cui la maggior parte coperte dalle spesse tende di velluto color porpora.

 

L'albina superò la soglia, entrando dentro, seguita da Takeshi.

C'era un silenzio religioso. Non si sentiva una mosca volare, sembrava completamente vuota, sebbene, a rigor di logica, avrebbero dovuto esserci gli altri componenti della famiglia.

Improvvisamente, il ragazzo si ricordò che Yuki aveva una sorella minore – chissà com'era. Takeshi alzò il viso, osservando il pulviscolo volteggiare nell'aria, baciato delicatamente dalla luce.

 

«Fai presto», esclamò Yuki, con tono nervoso. «Non voglio che i miei ti vedano. E poi, devi dare solo un'occhiata».

Takeshi aggrottò la fronte. Non era un reietto, che diamine. «Qual è il problema?».

«Beh, è che... la mia famiglia è davvero fastidiosa, solo questo».

 

Senza soffermarsi oltre, l'albina salì le scale e svoltò a destra, verso la passerella, seguita da Takeshi; oltrepassarono le prime tre porte in tutta fretta, senza che il moro potesse concedersi il lusso di guardarsi intorno e meravigliarsi, e giunsero alla quarta. La mezzosangue appoggiò la mano sul pomello e spalancò la porta

Di fronte agli occhi del ragazzo si apriva un'ampia camera da letto, un immersione in tinte chiare e calde, dal colore crema al rosa antico al bianco, una camera che sembrava la fusione tra un adolescente e una ragazzina. Appena entrati, si aveva di fronte una finestra con delle tende semitrasparenti e, accanto a questa, c'era una specchiera di legno d'acero con sopra una spazzola e un rossetto lasciato aperto – lo specchio era bordato di giallo scuro.

Attaccato alla parete destra, un grande e ordinato letto a baldacchino. I veli scendevano dal tetto, allacciati poi alle colonne ai quattro angoli.

Oltre al letto e alla specchiera, c'erano solo un armadio e una cassapanca, il primo accanto e il secondo ai piedi.

«È... inaspettato».

«Inaspettato?», gli fece eco lei.

«Già. Mi aspettavo teste mozze che pendevano sopra il tuo lett– oh, un baldacchino».

 

Yuki fece una faccia rassegnata, incurvando leggermente la bocca in una smorfia, senza nemmeno prendersi la briga di lamentarsi di quello scemo; ma per chi l'aveva presa, la regina del paese delle meraviglie? Che di meraviglie, laggiù, non ve ne erano affatto.

«Ti va di mangiare qualcosa?».

«Non disturbo?».

«Ma va, arrivati a questo punto... ».

«... bastava un no».

 

Yuki sorrise, ridacchiando persino. Si inoltrò nella camera per lasciare la cartella sulla cassapanca di fronte al letto, poi indietreggiò verso la porta, puntando l'indice contro Takeshi: «Vado a cercare Kukuri. Tu fai il bravo e non rubarmi la biancheria. Chiaro?».

Il ragazzo stava già per mettersi a ridere e ribattere, dicendo che non si sarebbe abbassato al furto, perché lei stessa, un giorno, gli avrebbe fatto in dono la sua biancheria. Stava per fare lo stupido – quando, alle spalle della mezzosangue albina, apparve un grande ombra.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Yuki conosceva come il palmo della propria mano Tetsuya; già in tenera età, sin dal loro primissimo incontro – quando era andato appositamente a cercarla –, si comportava in modo molto ambiguo, apparendo spesso alle spalle della gente. Per questo, anche in quell'occasione, il vampiro dai capelli biondi si era manifestato alla porta come un fantasma e l'albina ci era andata contro con la schiena.

Con un bell'infarto, si era trovata all'improvviso tra le sue braccia, stretta in un abbraccio, sprofondando nel profumo della sua camicia.

«Te-Tetsu–».

 

In un altro momento, quell'abbraccio l'avrebbe accolto.

Ad undici anni, quando era innamorata di lui, sarebbe arrossita come un peperone e avrebbe timidamente ricambiato.
Ora, però, in quell'istante – non erano da soli e quella dimostrazione d'affetto sembrava più il morso di una pianta carnivora. Circondata dalle sue solide braccia, non riusciva a muovere un muscolo. «Tetsu, lasciami andare... », ma la sua presa non accennava a diminuire. «Lasciami andare!».

 

«Molla l'osso».

 

Yuki guardò la figura improvvisamente imponente di Takeshi, sgranando gli occhi. Aveva una mano sulla spalla di Tetsuya e le dita stringevano, in una presa ferrea e decisa, come... una minaccia. «Non vedi che non vuole?».

Tetsuya non rispose; le labbra si chiusero in una linea dritta e precisa mentre lo sguardo si posava, placido, sul ragazzo davanti a loro. Passarono dei secondi, interminabili, dove il silenzio regnò sovrano – fin quando, alla fine, Tetsuya non sciolse gradualmente quella stretta tenace.

L'albina subito ne approfittò per allontanarsi da quello che, in teoria, era il suo amico, e rientrò dentro la stanza sorpassando anche Takeshi. Si inoltrò fino a raggiungere la finestra parallela alla porta e solo in quel punto si voltò, in tempo per vedere i due ragazzi imitarla.

 

«Tu sei... Takashi, giusto?».

«Takeshi».

Il vampiro sorrise cordialmente; era entrato nella camera con le mani nelle tasche, cominciando a guardarsi intorno come un turista al Louvre, giungendo dopo al fianco dell'albina. Osservò fuori, con un sorriso tranquillo, per poi voltarsi verso la ragazza. «Non ci avevo fatto caso l'altra volta, ma qui è rimasto tutto uguale».

«No, no, prima non c'era quel baldacchino né la specchiera».

Strano, lui ha sempre avuto una memoria impeccabile, pensò Yuki.

Il vampiro non disse nulla in risposta all'amica, né diede l'impressione di volerlo fare, limitandosi a guardarla. Solo i suoi agghiaccianti e impenetrabili occhi ametista che la fissavano – poi, li spostò su Takeshi, come se si fosse appena reso conto adesso della sua presenza.

«Ascolta, Takashi», cominciò. «Voglio darti un consiglio: dimentica tutto quello che sai e torna a casa tua».

Takeshi, come a sfidarlo, fece un passo verso di loro, ignorando bellamente quello che pareva più un ordine che un consiglio. «Perché dovrei?».

«Non è già ovvio? Io l'ho capito, Takashi, perché tu no?».

«Hai capito cosa, Tetsaya?».

Con estrema calma, Tetsuya parlò alzando leggermente la voce – incurvando le labbra. «Lei è innamorata di me».

 

Solo sentendo quelle parole, Takeshi riuscì finalmente a capire cosa fosse quel vuoto alla bocca dello stomaco che aveva già avvertito in sua presenza. Era la gelosia. Era il brutto presentimento. L'invidia, persino – il suo cuore fece un suono sordo e pesante mentre cadeva nelle profondità della sua anima. Era tutto quel miscuglio di orrende sensazioni.

«Non scherzare». Ma la sua voce risultò più debole del previsto. «Non scherzare!».

Ed era serio, serissimo, lui non poteva scherzare su una cosa del genere, perché Yuki Akawa non si innamorava – per lo meno, secondo lei, non ne era più capace. Lei, proprio lei e nessun'altra, lo prendeva a calci quel sentimento melenso, lo derideva e lo scherniva, era solo un motivo per ridere fragorosamente.
Proprio per questo, la mezzosangue non si era mai accorta di niente, nemmeno quando era evidente come il sole in agosto. La mezzosangue aveva deciso di voltare le spalle e prendere la strada buia.

 

«Non sta scherzando», disse in un soffio Yuki, la causa di tutti i suoi mali.

Takeshi la vide abbassare lo sguardo a terra, serrando le labbra sottili, rinchiudendosi nelle spalle.

«E penso che... dovresti andare».

Tetsuya le mise un braccio sulle spalle. Takeshi fissò quella scena, poi chiuse gli occhi.

«Sì. Sì, adesso me ne vado. Hai ragione, è meglio che lascio questa stanza. Prima, però... ».

«No, dico dav– ».

«Stai zitta un attimo, okay?». Perché lui aveva deciso di fare quei passi e ormai non poteva più tornare indietro. Non poteva lasciare che quella confessione si decomponesse come un fiore sul ciglio della strada. «Yuki Akawa, tu sei la persona più brutale che abbia mai conosciuto. Sin dal nostro primo incontro, tu ti sei mostrata per quello che eri: scontrosa, crudele, senza scrupoli. Un tantino lunatica. Mi hai dimostrato subito che non volevi avere a che fare con me – perché tu, l'hai detto, mi odi. Beh, mi dispiace che proprio tu mi odi perché io mi sono innamorato di te. Yuki, io ti amo».

 

 


 

 

 

NOTA:

Ebbene, eccoci qui, al 10° capitolo.

Non è che abbia qualcosa da dire, onestamente, volevo piuttosto ringraziare chi si è preso la faticaccia di leggere questa storia e voglio che sappiate che vi sono grata, ad ognuno di voi. Questo è il miglior regalo che qualcuno possa farmi e voi me lo state facendo più e più volte.
Okay, direi che mo' la posso pure smettere, sì???
Mi sarò fatta condizionare dalla dichiarazione di Takeshi– anyway, come al solito spero che abbiate gradito il capitolo e che continuerete a seguire la storia!

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Capitolo 11
*** Indistruttibili come l'acciaio, indistruttibili come loro. ***


11.



"Ti amo".

Quella parola le stava ancora rimbombando nelle orecchie, ad oltranza, come un eco lontano, ma dolce e nostalgico; mentre correva nella fitta e rigogliosa foresta – che circondava in un abbraccio la casa –, le foglie e il vento picchiavano le guance e le gambe, sfrecciavano sulle parigine. Sentiva la testa offuscata.

 

"Ti amo".

E poi, cos'era accaduto? Si erano guardati dritti negli occhi, le iridi oro avevano cominciato a tremare. Senza parole, Yuki aveva boccheggiato, chiudendo e aprendo la bocca come un pesce rosso, ma della sua voce non c'era traccia. 
Aveva provato una sensazione fuori dal mondo. Qualcosa aveva colmato il suo cuore, una sensazione che non aveva mai provato in sedici anni, qualcosa in grado di superare l'estremo appagamento che le dava il sangue. Ed era stato meraviglioso.

Per i primi cinque secondi.

Poi si era girata, aveva aperto la finestra e si era buttata di sotto, atterrando con l'agilità di un gatto sul terreno. Ora correva in mezzo agli alberi, ai fiori e agli animali selvatici, invadendo lo spazio di quest'ultimi.

 

«Yuki! Yuki!», chiamò la voce di Takeshi. Non era nei suoi piani fermare quella corsa sfrenata, eppure il suo corpo decise in autonomia, ordinandole di piantare i piedi nell'erba incolta; la sua voce non sembrava vicina, quindi lei decise di approfittarne per farsi venire una crisi isterica. Si infilò le mani fra i capelli, afferrando le ciocche argentee, strizzando le palpebre. Non era pronta a guardare in faccia nessuno, men che meno lui. Eppure, per qualche ragione – per qualche strano capriccio, voleva vederlo.

«Dannazione, la smetti... di correre... via?», ansimò il ragazzo, giunto alle spalle della mezzosangue . Passò fra i rami insidiosi, piegando la schiena per passarci sotto; aveva il fiatone ed era palesemente agitato, ma mai quanto Yuki. Lei che era agitata. Cercava di nasconderlo, girandosi e dandogli la schiena, con una smorfia di imbarazzo sul volto solitamente candido. Era rossa come un tulipano.

«Pensi di rivolgermi la parola? O chiedo troppo?». Inconsapevole, emulò il gesto della ragazza, passandosi la mano sinistra tra i capelli arruffati. «Yuki. Non fare la bambina».

«Sparisci. Vai via. Non voglio parlare con te».

«Certo che sentirselo dire dopo una dichiar–».

«Ti ho detto che–».

«Yuki Akawa. Qual è il tuo problema con me?». Takeshi l'aveva interrotta, con lo sguardo e con la voce, con tutto se stesso, perché voleva essere ascoltato. Lei strinse i pugni, ruotando i piedi lentamente, fino a ché si trovarono faccia a faccia; doveva stringere le mani in pugni perché se li avesse aperti avrebbe finito per strozzarlo. «Tu. Tu sei il mio problema. Tu e le tue bugie da quattro soldi! Dovrei ucciderti, ora, sul posto! Tu, le tue stupide dichiarazione e quei biglietti della malora!».

«Che?», esclamò lui, sgranando gli occhi. «Che diavolo stai dicendo? Quale biglietto?».

«Ah, non mi dire. Il tanto acclamato gentleman fa il codardo e non si prende il disturbo di ammettere la verità. Il biglietto, Takeshi».

 

La verità, probabilmente, era che non riuscivano ad incontrarsi.
Preferivano stare così: con i pugni chiusi e le anime a soqquadro. Preferivano guardare a terra. Yuki si portò una mano al petto, nell'atto di afferrare quel poco che restava della sua bontà – chiuse le palpebre.
«Ti devi essere divertito... no? Immagino che tu non avessi niente di meglio da fare e hai giustamente voluto mostrarmi quel bacio con Hokori. D'altronde, tu vuoi perseguitarmi. Beh, ci stai riuscendo. Mi stai perseguitando Takeshi, e ti prego. Ti prego. Smettila di farlo. Lasciami in pace».

 

Lui non si capacitava di cosa stesse accadendo, di cosa stesse sentendo, non riusciva a capire nemmeno una singola parola di ciò che stava blaterando. Di cosa lo stesse accusando quella pazza isterica: un biglietto.
Eppure, di tanto in tanto, lui si era beato della loro adorabile e imbarazzante affinità. L'aveva scorta tra un'occhiataccia e l'altra.

«Idiota! Io non c'entro niente con questa storia! E per l'amor di Dio, non l'ho baciata io!».

«Sono stata io, infatti», disse Hokori.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

La sua voce era giunta alle spalle di Takeshi, accompagnata da passi silenziosi, ammorbiditi dall'erba; fece la sua comparsa spuntando dal nulla, come se avesse appena varcato qualche portale dimensionale, i capelli neri mossi dalla brezza pre-estiva. Takeshi si era girato di tre quarti, fissando, a poca distanza da lui, la figura di Hokori mentre si avvicinava. Aveva addosso la divisa scolastica e vestiva un espressione colpevole in viso. Takeshi ancorò gli occhi su di lei, vagamente consapevole, fortemente arrabbiato.

«Sono stata io», ripeté, scandendo le parole. «L'ho baciato io, contro la sua volontà. O meglio, cogliendolo di sorpresa».

«Tu... », boccheggiò l'albina.

«Ho scritto io il biglietto che hai trovato e l'ho messo nel tuo banco la notte prima. E poi, nel momento in cui sei arrivata al ponte... l'ho baciato».

«L'abbiamo scritto», intervenne una seconda voce, maschile, tristemente familiare alle orecchie di Yuki. Dallo stesso punto da cui era arrivato Takeshi, apparve la linea di Tetsuya. Portava lo stesso velo di colpevolezza della ragazza, la stessa malinconia. 
A quel punto, la mezzosangue aveva qualche problema ad elaborare le informazioni e a rendersi conto di cosa stava succedendo, in quel momento. Il suo migliore amico... aveva appena ammesso di aver collaborato con quella ragazza per farla soffrire – volontariamente?

«Tetsuya», sussurrò Yuki, aprendo le mani, ormai sudate. Il vampiro respirò profondamente.

«Perché?», sussurrò Takeshi.

«Io sono... una cacciatrice di creature sovrannaturali».

«Una... cacciatrice».

Hokori annuì. «Mi alleno da sei anni per uccidere – per cacciare – creature non-umane ritenute pericolose», la sua voce era afona e, in lontananza, si sentiva il rumore sommesso delle macchine, un rumore che portava un po' di realtà a quella situazione anormale. Silenziosamente, Takeshi cercò di ripensare e riflettere sulle parole che aveva registrato; un vampiro, una cacciatrice e una mezzosangue. E poi, lui: un banalissimo umano con una bella faccia.

E perché era lì?

Ah, giusto: perché si era innamorato di Yuki Akawa.
Ricordava perfettamente il giorno in cui l'aveva vista, dal tetto della scuola – un po' sfocata, la sua vista si era concentrata su di lei; la sua camminata composta, i suoi capelli liberi nelle sbuffate di vento, quel raro sorriso che faceva capolino sulle labbra, i modi di fare protettivi. La sua voce, alta e viva. «Quindi sei qui per me», concluse Yuki, memore del loro scontro semi mortale.

«Più o meno, Akawa».

«E cioè?», incalzò lei, impaziente. Vide Hokori sollevare gli occhi neri per spostarli in quelli ora sfuggenti del vampiro biondo, rivolgendogli un sorriso sornione. «È stato il tuo amico biondo a contattarmi, facendo le veci della tua famiglia. Mi ha chiesto un piccolo favore che ti riguardava. In parole povere, ti hanno scoperta. La tua famiglia sa di te e di questo ragazzo». E indicò Takeshi con un gesto del mento.

«Ma non ha senso», disse quest'ultimo. «Non c'è niente da “scoprire”».

«Ne sei sicuro, Takeshi? Eppure, un certo componente degli Akawa è sicuro al cento per cento che voi proviate sentimenti reciprochi».

«Cosa?», dissero, all'unisono, l'albina e il moro.
Sentimenti reciprochi? Ma che assurdità stavano... lei lo odiava, non c'erano dubbi su questo. Takeshi aggrottò la fronte, perplesso, scacciando con una mano una fogliolina appena caduta. «Guarda che–», ma si fermò. Accidenti.
Yuki era, se possibile, addirittura più rossa di prima. Era più del porpora. Oh, accidenti.

Serrava le labbra in una linea stretta e impenetrabile, con gli occhi distanti, non osando guardare nessuno dei due ragazzi ma Hokori era un'altra storia; levò lo sguardo da terra, con calma, mentre nelle sue guance continuava ad affluire e circolare il sangue. La maledì col pensiero, torturando l'orlo della gonna. «Eccola, la mentecatta più grande del mondo», per lo meno, riusciva a mantenere un tono di voce fermo. «Mi dispiace tu abbia spodestato Take- Katugawa. Se l'era guadagnato con un un sacco di impegno... o forse, nemmeno tanto».

«Yuki», sospirò, esasperata, Hokori. «Sono stata chiamata qui per tenerti d'occhio perché quel certo componente della tua famiglia è preoccupato per te».

Quel certo componente degli Akawa.

 

«... per me?», sussurrò, la voce spezzata, tornando ad osservare Takeshi – in piedi, ad un metro da lei. In quello spazio infinitamente grande e maestoso, immersi fino ai capelli nella natura, quei quattro erano incredibilmente vicini. Ognuno di loro era ad un metro dall'altro e ognuno aveva una battaglia interiore, dei sensi di colpa, una burrascosa malinconia. «Ve lo ripeto: non c'è niente, fra di noi. Niente».

Hokori alzò le spalle. «Fatto stà che hanno chiesto il mio operato. Il mio e... beh, per Tanigawa è un po' diverso; in ogni caso, dovevamo allontanarvi, non dovevate più provare niente. Né vedervi né sentirvi, tornare alle vostre vite – separatamente».

La mezzosangue, “il volto dell'irritante perfezione”, colei dal sangue freddo – aveva gli occhi pieni di lacrime. Si sentiva tradita nel profondo e proprio da quella persona. Da lui che l'aveva sempre rassicurata, stretta fra le braccia come il tesoro più prezioso, che le aveva ripetuto fino alla nausea quanto fosse coraggiosa e speciale. Da lui, che era una parte di sé. Eppure, l'aveva tradita.

Tetsuya l'aveva tradita, dannazione.

I suoi pensieri vennero stroncati da un violento tonfo – o meglio le sue orecchie. Era il tonfo di qualcosa che andava a scontrarsi impetuosamente contro qualcos'altro, un tonfo abbastanza deciso da spingere via.
Yuki alzò il viso di scatto, allarmata, in tempo per vedere Tetsuya indietreggiare e tenersi la mandibola con una mano. Takeshi scrollava la sua, con le nocche arrossate. Lo vide fare un passo indietro, finire nel mezzo di quel quartetto, con la furia negli occhi.
«E voi avete avuto il coraggio di immischiarvi nelle nostre vite. Avete obbedito ciecamente e siete venuti qui solo per allontanare due persone che, fino a prova contraria, non avevano niente contro di voi. Non vi è importato di nulla se non del vostro obiettivo. L'importante era portare a termine questa missione. No?», allora tirò un respiro, lungo e profondo, pregno di sentimenti negativi. «Andate al Diavolo».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Avevano parlato.

Avevano parlato per forse una mezz'ora abbondante; era stato un discorso stupidamente lungo ma pieno di verità, la stessa che Yuki e Takeshi volevano ascoltare. Era stato Tetsuya a parlare, a ruota libera, seduto ai piedi di un albero quasi fosse in punizione – la guancia aveva lentamente riacquistato il suo candore.
Yuki vedeva le espressioni dell'umano dagli occhi scuri; spesso spaesate, incredule e a tratti indurite, ed era certa che lui provasse un briciolo di inquietudine per il modo di fare di quelle persone. Lo leggeva nei suoi occhi, che sperava fosse uno scherzo.
«Perché avete deciso di parlarne, proprio ora poi?», aveva chiesto infine Yuki, piano.

Hokori socchiuse le palpebre, sospirò. «In classe, poco fa, mi sono resa conto di una cosa. Non puoi distruggere qualcosa di così bello. Sarebbe un reato, sarebbe... e voi due, insieme a quella nanetta dai capelli rosa, siete qualcosa di bello. Mi dispiace. Volevo rimediare e ci ho provato», poi guardò verso Takeshi, con un sorriso mesto. «Mi dispiace averti baciato, Takeshi-kun».

Yuki stentava ancora a crederci. Era difficile credere ad una cosa così.

A questo punto, aveva pensato che forse sarebbe stato meglio se quei due avessero fatto ogni cosa di testa loro, in totale autonomia, senza nessun intervento da terze parti. Lei avrebbe dovuto aspettarselo, semplicemente; conosceva il suo carattere, sapeva che tipo di persona fosse e che era ancora giovane, troppo giovane, e poteva capitare che facesse questo genere di cose. Sentiva il petto pizzicare, ma anche una rabbia crescente, non aveva idea di come domarla.
«Torno subito». Tornati a casa Akawa, la mezzosangue si era voltata e aveva aperto la porta, brusca, facendo per entrare, quando la voce del vampiro biondo la colse, spezzata dai sensi di colpa.

«Mi potrai perdonare?», aveva detto, in un sussurro - Yuki squadrò i visi dei tre adolescenti, annacquati in quel misto di preoccupazione e curiosità, e sorrise appena. Le faceva male saperlo, quindi cosa poteva fare? Doveva perdonare?

«Lo scopriamo adesso», rispose - si infilò dentro il salone, lasciandosi alle spalle solo il luccichio dei suoi capelli.


 

Non entrava molto spesso in quella stanza; la gamma di colori che tappezzava i muri e i mobili, per lei, erano più come un pugno nell'occhio che una scelta di design, quindi preferiva di gran lunga incontrarla in camera sua o da qualche parte in casa. Yuki salì in fretta le scale e si diresse verso la passerella a sinistra, superando la prima porta per raggiungere la sua destinazione. Senza esitazione, la aprì ed entrò in fretta, chiudendola piano; i muri rosa e le tende bianche, il grosso armadio accanto alla finestra color crema e il letto ad una piazza e mezzo che troneggiava al centro della camera, colmo di cuscini e peluche.
Ai Akawa sedeva sul tappeto di fronte al suo letto, stringendo forte il peluche a pois. La secondogenita del casato degli Akawa aveva un viso piccolo, in cui i grandi occhi color oro brillavano come astri celesti, finemente decorati, come un dipinto, dalle ciglia folte e nere - le labbra strette in un broncio ansioso, il naso piccolo con la punta leggermente all'insù, la pelle cerea. La chioma rossa amaranto scendeva come una cascata di lava sulla sua schiena. Aveva uno sguardo terribilmente colpevole, nemmeno quando mangiava i biscotti di nascosto faceva certe facce. «Sei... sei molto arrabbiata?».

Yuki non rispose subito, si prese il suo tempo. Si avvicinò al tappeto, piegandosi sulle ginocchia per appoggiarcisi. Sospirò, scuotendo la testa. «Non sono poi tanto arrabbiata. Sono ferita, Ai. Non dovevi farlo».

Le palpebre di Ai ebbero un fremito - aveva effettivamente ferito sua sorella, la sua unica sorella. «Io non volevo... ferirti».

«Però è quello che hai fatto, alla fine. Penso tu lo abbia visto con i tuoi occhi».

Ai sgranò gli occhi, puntandoli come fari in quelli di Yuki. Lo stesso colore. Lo stesso paio di ambra si stavano scrutando, ispezionando scrupolosamente, ed era quasi ipnotico. La luce era identica. «Volevo solo proteggerti!», protestò la piccola mezzosangue. «Quella scuola, quell'umano - ti stanno distruggendo e tu nemmeno te ne accorgi. Pensi che potrei mai lasciarti andare così, sorellona?!».


Ora si sentiva punta nel vivo. Con un gesto unico, si mise in piedi, dritta. Distruggerla? Nessuno poteva fare una cosa del genere; nessuno poteva minacciare il suo organismo, cercare di demolire, pezzo per pezzo, quel che era. Perché anche lei voleva proteggere e questo le imponeva di tenere tutti i suoi frammenti uniti. Voleva preservare i suoi cari ed era diventata la cosa più importante. Voleva proteggere anche quel piccolo demonio che ingannava gli altri con l'aspetto di una stupenda bambina.

Yuki sospirò, scosse il capo e incrociò le braccia al petto. «Ehy. Dimmi un po'. Chi credi io sia?».

«Mia... sorella maggiore... », singhiozzò la più piccola.

«Esatto! Esatto, dannazione. Il fatto che sia tua sorella maggiore dovrebbe darti già una risposta, dovrebbe farti capire all'istante cosa comporti. Ai, dei normalissimi umani come loro non possono scalfirmi. Vedi qualche graffio? Qualche lacrima?». Sciolse le braccia al petto per allargarle, accanto ai fianchi. «Non c'è niente. Io sono qui, tutta intera come al solito, al meglio di me».

«Ma tu... sei stata così male quando Takashi e quell'idiota si sono baciati!».

Yuki si irrigidì. Ugh, sperava che quell'argomento... - schioccò la lingua dentro il palato e scrollò la testa, esasperata. «Sì, certo, non mi ha mica fatto piacere. E non venirmi a chiedere perché. Ma Ai, tutti soffrono. Tutti, indipendentemente da chi sei o da cosa sei, dal tuo titolo nobiliare, dal sangue che scorre nelle tue vene. È una delle tante regole di questo stupido mondo. E quindi, cosa? Dovremmo abbandonare ogni cosa tutte le volte che stiamo male?».


Ai era appena una bambina di dodici anni, la sorella lo sapeva: una bambina dalla mentalità aristocratica. Per di più, un'aristocratica per metà vampira e per metà demone. Forse, quelle parole erano troppo in là per la sua giovane età, forse non avevano nessun effetto su di lei. Magari, sentendo quel discorso, Ai si stava chiedendo se l'albina non fosse già impazzita o, peggio, stava perdendo l'ammirazione che provava per lei.
«Quindi Ai, per farla breve», si piegò verso di lei - e la strinse nell'abbraccio più affettuoso che conoscesse. «Possiamo essere tutti indistruttibili e ci rialzeremo sempre».


 


 

 

***


 


 


"Marionetta".

Il potere in grado di prendere il possesso del corpo e della mente di chiunque. Il potere di Ai.
Tra i quattro nella famiglia, lei era l'unica a possedere un'abilità psichica; i poteri non si trasmettevano da genitore a figlio, bensì da antenato a discendente, quindi nessuno si era fatto molte domande sulla sua origine ma, tutt'al più, cercavano di tenerla d'occhio il più possibile. Era un potere pericoloso. Ai non poteva crescere come una donna viziata, non doveva essere superficiale, capricciosa - i suoi valori, le virtù, dovevano rimanere in cima. Se così non fosse stato, il suo potere non sarebbe stato affatto facile da gestire.

In questo caso, non aveva tenuto fede alla sua promessa, stretta con la sua famiglia: la promessa di fare la brava bambina ed essere giusta e razionale.

Aveva agguantato tra le dita il corpo e la mente di Tetsuya Tanigawa e adesso era necessario liberarlo da quella trappola. Dopo la chiacchierata, Yuki le aveva chiesto di farlo e di far entrare anche gli altri; Ai si era trovata costretta ad accettare, tra un broncio e uno sbuffo, e si era improvvisamente trovata in mezzo a quattro adulti, tutti seduti sul tappeto nella camera della ragazzina.

«Ma non sarà... arrabbiato?». Ai non aveva mai visto l'amico vampiro arrabbiarsi e di certo non voleva scoprirlo adesso, mentre intorno a lei c'era tutta quella gente - tutti quegli umani. Tetsuya sedeva accanto a Yuki, tenendo gli occhi fissi davanti a sé, fissando un punto impreciso della parete. Non batteva ciglio, a stento respirava.

«Tetsuya non si arrabbia mai», disse Yuki. «Andrà bene, fidati».


Ai annuì e si alzò in piedi, lasciando cadere a terra il suo peluche. Si avvicinò, compiendo solo un passo, e giunse alle spalle del vampiro. La sua schiena era così ampia da coprire tutta la parte inferiore del corpo di Ai; lei si mordicchiava le labbra mentre abbassava gli occhi e il collo di Tetsuya riceveva l'ordine, inclinando la testa in avanti in movimenti sconnessi. Con le piccole dita sulle sue tempie, le palpebre del ragazzo si chiusero lentamente.
Takeshi e Hokori osservavano la scena. Takeshi non poteva credere a cosa stava vedendo. Una cosa del genere era davvero possibile? Nel mondo esistevano sul serio cose così? Questo... non poteva essere vero, era un'assurdità - di fronte a lui, una bambina stava rilasciando la coscienza di un giovane uomo. Poteva sembrare una messa in scena, una menzogna, ma almeno Hokori era certa che fosse tutto reale. Che i vampiri e i demoni erano veri e possedevano poteri fuori dal comune.

 

Ad entrambi parve di sentire qualcosa dalle labbra della piccola mezzosangue. Sembrò sussurrare qualcosa, piano, il cui tono suggeriva una cantilena. Un istante dopo, calò un silenzio pesante che soffocava i polmoni.

Passò un tempo che aveva il sapore dell'eternità ma Tetsuya spalancò gli occhi. Il suo corpo fece uno scatto brusco, inaspettato, e trasse un profondo respiro, come se fosse appena riemerso dall'apnea più lunga del mondo. Le iridi ametista tornarono a possedere luce propria e le sue mani corsero al petto e alla gola mentre tossiva un paio di volte.

«Tetsu, è tutto okay». Yuki gli prese le spalle. «Ai ti ha liberato. Respira lentamente».


Lui era rimasto indietro nel tempo. Si era fermato al momento in cui era arrivato nella cittadina e aveva poi raggiunto casa Akawa. Poi, con l'inganno, era stato catturato come una farfalla. Da quel momento in poi, ogni sua azione era stata sotto il comando di Ai Akawa. Lui, in realtà, non aveva mai rincontrato Yuki. «... Yu... ?».

L'albina sorrise al nomignolo, con dolcezza. «In carne ed ossa». Era Tetsuya. Era lui. Il modo stesso con cui aveva pronunciato il suo nome, il suono di quel "Yu" - era lui. Yuki gli prese la mano, stringendola fra le proprie. «So che sei un po' stordito, ma adesso non hai di che preoccuparti. Tutto questo è... Ai?». La ragazza gettò un'occhiata alla sorella, chiusa a riccio nelle minute spalle.

«Tetsu... mi dispiace... di averti manipolato. Non volevo fare niente di... », strinse le labbra e rivolse gli occhi a Takeshi. «E mi dispiace di aver sbagliato di proposito il tuo nome, Taka-Takeshi... ». Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma le parole le morirono, a fior di labbra.


Tetsuya batteva le palpebre come se avesse appena riacquistato il senso della vista. Stava ancora rielaborando le informazioni, stava ancora cercando di capire cosa ci facevano lì, in quella camera, in quella casa. E che lui aveva ritrovato la mezzosangue. Ma, quando qualcuno ti fa delle scuse così sentite, non c'è altro da fare - abbozzò un sorriso, facendo un cenno. «Scuse accettate. Ma non farlo più... almeno, non con me».

Takeshi annuì. «Non è grave sbagliare diecimila volte un nome».


Yuki pensò che era piacevole tutto questo. Seduti sul tappeto di una bambina, a chiarire dei malintesi, a farsi delle scuse per gli scherzi commessi. Era tutto così umano.

«A proposito», Tetsuya aggrottò le sopracciglia, spostando l'attenzione sui due ragazzi umani. «... e voi chi sareste?».

«Vuoi dire che... », disse Takeshi, perplesso. «Non ti ricordi di noi?».

«Desolato, ma non ho idea di chi siate».

Yuki roteò le spalle, cercando di sgranchirle. «Non può ricordarsi di voi perché i suoi ricordi sono rimasti a prima che venisse manipolato da Ai. In pratica, tutto ciò che ha visto, fatto, pensato, è nei ricordi della mia sorellina».

«... è assurdo». Takeshi continuava a pensare che non avesse un briciolo di senso e quella spiegazione non rendeva le cose più probabili. Avrebbe potuto, al massimo, ricondurlo alla ben nota ipnosi, conosciuta per essere la più sciocca delle truffe. Nell'epoca moderna non ci credeva più nessuno. Adesso, però, il ragazzo avrebbe cominciato a nutrire dei dubbi. «Beh», scrollò le spalle, vinto. «Io sono Takeshi Katugawa».

«E io Hokori Yamashita. Certo che è strano presentarsi due volte».

«E siete due esseri umani, eh?».


 

Tetsuya guardò per un attimo i due e poi si voltò verso l'amica albina, con un espressione a metà fra il disappunto e curioso; aspettava solo di sapere perché mai Yuki aveva fatto amicizia con loro e cosa accidenti c'entravano nel loro mondo. All'apice di tutto ciò, indossavano tutti e tre la stessa divisa scolastica, con la differenza che le ragazze non portavano i pantaloni. Lei persistette nel suo mutismo, stendendo le labbra in un piccolo sorriso, all'apparenza tranquillo. Si tamburellava sulle gambe con le dita.

«Strano che tu stia frequentando una scuola», osservò il vampiro. «Umana».

«Ah? Ah, sì, beh. Non avevo di meglio da fare. Questa città non è proprio una metropoli di divertimento». Addosso sentiva lo sguardo della sorella minore. Naturalmente, aveva capito benissimo di cosa stesse parlando - sapeva che stava mentendo, non era divertimento ciò che cercava la ragazza. Inoltre, entrambe stavano pensando la stessa cosa.

Lei non aveva più ragioni per restare in quella scuola.


 


 


 

***


 

 


 

Poco tempo più tardi, Yuki era rimasta da sola. Takeshi, Tetsuya e Hokori avevano lasciato quella casa e il suo alone di mistero. Tetsuya era stato davvero felice di rivederla - si erano abbracciati, come i vecchi amici che erano, e avevano parlato.
Stava richiudendo il grosso portone all'ingresso quando si rese conto che, eccezionalmente, si era tutto risolto; oltre ai recenti avvenimenti - ai recenti problemi -, il suo migliore amico era tornato. E sta volta, per davvero.

Il suo migliore amico.

Il suo primo amore.

Mentre si apprestava a salire i gradini per andare nella sua camera e, magari, rilassarsi cinque minuti, si chiese se Tetsuya ricordava ancora la sua dichiarazione quando erano appena dei ragazzini. Erano così piccoli, così semplici. Eppure Yuki si era innamorata di quel bambino dai capelli biondi, color del sole, dai suoi modi gentili e delicati. Lei lo aveva fatto, ma lui no. Ed era stata rifiutata. Se riportava alla mente quei fatti - quei giorni talmente lontani -, era quasi contenta che Tetsuya non provasse lo stesso nei suoi confronti; alla fine, il loro rapporto si era un po' rovinato e non si erano visti per del tempo, fin quando non avevano raggiunto l'adolescenza e lui, a diciott'anni, era sparito dalla circolazione. Dopo quasi tre anni, si erano rivisti. Yuki aveva avuto paura. Paura che fosse scomparso a causa sua e della sua dichiarazione. Paura che fosse morto, ucciso da chissà cosa. Ma non era successo nulla di tutto ciò, a quanto pareva.


Allora lei si fermò, in mezzo alle scale, un piede poggiato su un gradino in più rispetto all'altro.

Un secondo. Un secondo.

Parlando di amore, ciò che ha detto Takeshi... , parlando di amore, le era tornato in mente. Tutte le azioni di Tetsuya erano sotto l'effetto del potere di Ai e Hokori stava collaborando, indi per cui, come aveva già detto lei stessa, anche il bacio era stato un piano architettato. Se tutto questo era stato pianificato... cosa doveva pensare delle parole di quello stupido stalker, esattamente?

 

Deglutì rumorosamente, e in un battibaleno il sangue era affluito nelle sue guance. Sentiva le mani sudate e nervose.

Oddio, pensò ancora, quello lì ha detto che mi ama.

Le gambe erano pesanti come macigni, i pugni sbiancavano mentre stretti, e la testa ciondolava pericolosamente con un lancinante mal di testa. Ci stava pensando troppo, era meglio smetterla subito; quindi respirò profondamente e alzò lo sguardo verso la cima delle scale che era... così lontana. Talmente lontana che le sue gambe si rifiutarono di muoversi ancora e diventarono improvvisamente di gelatina e lei cadde, atterrando sul duro e ghiacciato marmo color grigio dell'ingresso. Cadde, come un fiocco di neve, e chiuse gli occhi.

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Capitolo 12
*** Le divergenze della debolezza. ***


12.



Faceva caldo.

 

Yuki si girò faticosamente sul fianco, trascinandosi il braccio sinistro sul materasso, inchiodando gli occhi verso la porta. Cercò di respirare, ma il naso non voleva collaborare. Oltre che a sudare per il caldo, doveva anche morire per assenza di aria, di bene in meglio. Voleva solo alzarsi e mettersi seduta, non ne poteva più di stare stesa come una lucertola – ma sembrava decisamente troppo faticoso. Allora sbuffò, scocciata.

Chiuse le palpebre, lasciandosi andare alla stanchezza.

Quando le riaprì, qualche istante dopo, una figura alta e slanciata era in piedi accanto al suo capezzale. Indossava dei pantaloni neri di un tessuto semi lucido, una camicia bianca a maniche lunghe con un papillon al collo e un gilet nero di raso.
Sebastian - di cui sapeva a malapena il cognome, nonostante tutti quegli anni - aveva ormai raggiunto la sessantina ma aveva la stazza e l'energia di un trentenne in piena salute – un membro importante in quella casa, capo maggiordomo, responsabile dell'intero servizio domestico degli Akawa.

Yuki lo guardò una decina di secondi. «Sebastian. Guarda che non muoio per un po' di febbre. Piuttosto, controlla a che punto è la lavatrice, per favore».

L'uomo sembrò indugiare, forse preoccupato per l'adolescente, ma alla fine annuì e le raccomandò di non prendere freddo – sparì dalla camera, silenzioso.


 

La febbre.

 

Esatto, signori e signore, adesso possiamo farci tutti una bella risata; colei che vantava di essere indistruttibile si era ammalata di una cosa come la febbre. Faceva troppo ridere, da qualsiasi angolo la si guardasse. Era ciò che meritava per aver scelto quello stile di vita; passare tutta la giornata all'esterno, con il sole sulla faccia, sfamandosi quando era al limite, combattendo spesso per difendersi.
Se il Consiglio avesse scoperto di questa cosa, sarebbero stati felici per i prossimi dieci anni.
Quella situazione l'aveva ridotta ad un catorcio ambulante; la veste di colore indaco che indossava al momento, sopra le ginocchia, si era aderita a lei come un adesivo a causa del sudore e ci aveva combattuto per tutta la mattina – mentre la notte aveva patito il freddo. I capelli erano in disordine e dei cerchi neri contornavano gli occhi.

 

«Signorina». Poco tempo dopo, Sebastian fece ritorno. Aveva sempre questo tono di voce rassicurante. «Mi duole dirle che... purtroppo, la lavatrice non ha ancora finito».

«Sul serio? Ma va, e io che pensavo che avrebbe potuto andare peggio».

«Mi spiace molto».

 

L'albina scrollò la mano. «Tranquillo, non è certo colpa tua. È colpa della tecnologia, casomai. Farò da me». Con un altro cenno, la mezzosangue lo invitò a congedarsi; quella stessa mattina aveva chiamato Sayumi per avvertirla della febbre – sì, l'aveva presa in giro – e chiederle di giustificare la sua assenza a scuola. La ragazza si era anche proposta come infermiera.

Ah, se solo avessi preso un po' di sangue in più da Ai, pensò, sbuffando dal naso; ma ormai era troppo tardi per cercare sua sorella, perché di lei - e i loro genitori - era rimasta solo l'ombra, dopo che era partita per stare due giorni con i coniugi Akawa, fuori città.
Si sentiva sempre in colpa quando prendeva il sangue dalla sorella minore, soprattutto perché non vantava una grande resistenza; oltre a quello, era ridicolo che lei, la più grande, avesse bisogno di una minuscola ragazzina di undici anni per restare sana – e in vita.
In quanto maggiore, avrebbe dovuto insegnarle a cacciare, a procurarsi il sangue, a difendersi.

Invece le sto insegnando come dipendere dagli altri, grande.

Con questi pensieri, si lasciò sprofondare in un sonno affaticato.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Akawa ha la febbre?».

 

Sayumi fece un cenno col capo distratta, portandosi alle labbra un boccone della sua frittata, chiudendo poi gli occhi e sorridendo contenta. «Buona».

Hokori ghignò, mentre ancora reggeva fra le mani il contenitore del suo pranzo. «Non avevo mai sentito di una creatura sovrannaturale che si ammala!».

«Shh! Qui anche i muri hanno le orecchie, non lo sai?».

 

Avevano fatto quasi amicizia – in un certo senso; Hokori si era presentata al negozio di fiori e aveva chiesto della “ragazza con i capelli rosa”.
Quando Sayumi era apparsa dalle scale, all'interno nel negozio – con un coltellaccio da cucina in mano –, era rimasta sorpresa. Non aveva nessuna voglia di confrontarsi con lei ma, alla fine, si era fatta coraggio e l'aveva raggiunta fuori dal negozio.
Hokori si era scusata con lei, circa un trilione di volte, con un inchino. Si era scusata e le aveva chiesto di ricominciare, di diventare amiche, sebbene la cosa sembrava da pazzi. 
Sayumi l'aveva fissata, sbattendo le palpebre – e poi era scoppiata a ridere e l'aveva presa in giro per quel cambio di carattere. Ma l'aveva perdonata, dato che Yuki l'aveva probabilmente già fatto.

«Esagerata. Ah, a proposito», Hokori appoggiò i gomiti sul banco. «... nessuno si è fatto domande sugli occhi?».

«Oh, sì».

«Eeee... ?».

«Si chiedevano da quando aveva iniziato a fare cosplay», e alzò le spalle.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Era uno spazio immenso e buio. Sembrava infettato fino alle radici da quell'oscurità, priva di un qualsiasi spiraglio di luce. L'unica fonte luminosa erano i suoi occhi, miseramente schiacciati da tutto quel nero.

Dove sono?, fu il suo primo pensiero, a cui avrebbe voluto regalare la voce – ma non riuscì a trovarla da nessuna parte; ferma su quel punto, si guardò lentamente attorno, ma non riusciva a distinguere niente. Era opprimente. Era un po' come essere rinchiusi vivi in una bara.

Tu picchi il coperchio e ti metti ad urlare, ma non funziona. Allora resti lì.

 

Yuki inclinò la testa. Notò i propri piedi, nudi, che toccavano il nero più totale: era come respirare in un foglio di inchiostro – i suoi capelli galleggiavano appena appena, come pesci in fondo al mare. E poi, un istante dopo, quello spazio svanì risucchiato da un buco fumoso, trasportando l'albina in un altro luogo.

Un teatro?, pensò.

C'era luce, poteva finalmente vederci. Davanti ai suoi occhi si apriva un grande teatro dalla moquette amaranto, file di sedili e un palco in fondo, immerso nella luce dei fari in alto e in basso. Quando i suoi piedi toccarono quel pavimento, lo scoprì umido. Sobbalzò per lo stupore e arrancò per salire su uno di quei sedili.

Anche quello, sebbene illuminato a giorno, era vuoto. Non c'era un respiro, solo un silenzio che le assordava le orecchie.

Per secondi che parsero infiniti, non successe niente – alla fine, ci fu un rumore, un suono di passi felpati; poi però ne susseguì un altro, l'eco di una voce, e allora un terzo, delle urla. Improvvise, agghiaccianti, penetrarono nella testa della mezzosangue.
Spaventata, si buttò fra due sedili e si schiacciò le orecchie con le mani. Voleva solo che tutto finisse. Che smettesse.

Invece, sotto di sé la sensazione di umido si faceva più presente. Un odore nauseabondo si infiltrò nelle sue narici, facendole salire una bile lungo la gola – solo a quel punto capì che cosa fosse.

 

Quella non era moquette color amaranto.

Quello non era un semplice teatro.

E forse, proprio perché stava comprendendo, i suoni che aveva avvertito poco prima esplosero tutti insieme, in un'orchestra di lamenti, di urla, di voci innamorate, di voci calme e furiose. Esplosero con violenza, ammassandosi nella sua testa.

E poi, tornò quel silenzio assordante. Tutto cessò.

 

Tremante, Yuki si rimise in piedi e guardò verso il palco.

C'era qualcuno.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Si svegliò spalancando gli occhi come fari nella notte.
Sconvolta, si sentiva come un cervo in mezzo alla strada, poco prima di essere investita da un auto a tutta velocità. Cosa aveva appena visto? Cosa aveva sognato? Era stato così vivido da sembrare più tangibile della stessa realtà.
Il suo corpo tremava sotto la coperta, percepiva i muscoli rigidi come corde di violini, il battito cardiaco accelerato. Bruciava e respirava affannosamente. Eppure era stato solo uno stupido incubo – infatti, ora lei era nel suo letto, non in un qualche teatro.

Stava provando paura, ciononostante.

«... –ki».

Il suo petto si alzava e abbassava velocemente.

«Yuki, mi senti?».

 

Madida di sudore, spostò lo sguardo verso destra; ci vedeva un po' sfocato, come se avesse gli occhi pieni di lacrime. Solo dopo qualche secondo, riuscì finalmente a vederci; la forma aperta degli occhi, abbracciati dalle ciglia nere, il colore dolce delle iridi.
Accanto a lei, seduto sul bordo del letto, a scuoterle una spalla – c'era proprio Takeshi. Boccheggiante, l'albina agguantò le coperte per coprire metà del suo viso. «Ma tu cosa diavolo ci fai qui? Non– ».

«È il tuo modo per ringraziarmi? Non c'è di ché»

«Takeshi!».

 

Lentamente, scoprì il viso, guardandolo dalla testa ai piedi – molto vicino; aveva indosso una maglia grigia, dallo scollo largo e i bordi delle maniche che gli coprivano le nocche. Alle gambe dei jeans scuri e un paio di anfibi color petrolio, luccicanti – probabilmente erano di pelle. Quando inclinò la testa da un lato, sorridendo divertito, la mezzosangue notò un cerchietto dorato cingergli un po' più sotto dell'elice del suo orecchio. Brillava leggermente.
«Insomma», si riscosse lei, aggrottando la fronte. «Che ci fai qui? Non dovresti essere a scuola?».

Lui alzò le spalle, tranquillo. «Ho saputo che stavi male e sono uscito prima. Mi sono fatto dire dove abitavi da Sayumi ed eccomi qui».

«Ma che bisogno c'era? Non vedi che sto bene?».

Alle sue parole, Takeshi fece un espressione delusa e affranta. Con l'indice, le spostò una ciocca bianca dalla fronte, e lei arricciò il naso contrariata. «Ti rendi conto che quando sono arrivato ti stavi contorcendo come un'anguilla? Se quella è la tua definizione di “star bene”, sono davvero curioso di vederti stare male».

«Incubo. Il signore qui presente non ha mai incubi?».

 

Sollevò un pochino il viso per incontrare quello del ragazzo, schioccandogli un'occhiata stordita dalla febbre. Doveva assolutamente mettersi seduta, non sopportava quella differenza di altezza. Allora, con qualche movimento – molto, troppo lento – riuscì ad appoggiare la schiena alla testata del baldacchino, tornando a fissarlo con una punta d'ostilità. Sentiva la veste da notte attaccata alla pelle con lo scotch.

«Come tutti. Però, magari, posso provare a dissiparlo».

«Se sei un prestigiatore, forse».

«Mmh. Posso provare a metterti in imbarazzo. Così supererai l'ansia dal sogno».

L'albina stava per ammonirlo di non pensarci neanche quando, senza alcun preavviso, vide il suo volto farsi sempre più vicino; lui piegò la fronte in avanti e la posò, delicatamente, contro quella della mezzosangue, spostando con una mano i loro capelli.
Così vicino, sentiva chiaramente un profumo ai fiori di ciliegio.
Yuki teneva gli occhi aperti, fissando ipnotizzata le sue palpebre chiuse, le ciglia lunghe e nere e le spesse sopracciglia scure – poi, sorprendendola, lui staccò la fronte e tornò al suo posto.

«Ho deciso che oggi ti farò da dottore. Niente repliche», sentenziò lui. «La febbre sembra gestibile per il momento. Dove tenete le medicine? Hai già preso qualcosa?».

L'albina inspirò profondamente. «No. Non servono».

«Sono io o davvero hai detto qualcosa di... stupido?».

«Sei tu.. !», Yuki tirò qualche tosse di colpo, coprendosi la bocca col dorso della mano. «Non servono a niente con un non-umano, scemo». Ma Takeshi non era convinto, aveva bisogno di vederlo coi suoi occhi per determinare la verità. Allora si alzò, appoggiandosi le mani in vita. «Tentar non nuoce, no?».

Yuki si chiese perché stava sorridendo così, perché sembrasse divertito come non mai. E poi, la voce bassa e calma, sussurrò:

 

«Adesso, spogliati».

 

 


 

***

 

 

 

 

Davanti a lui, a quello che forse era un metro, una schiena appena ricurva mostrava la sua colonna vertebrale, dalla cervicale fino alla zona lombare, con le vertebre che spuntano leggermente dalla pelle cerea.
In un certo senso, faticava a immaginare la sua schiena. Vedeva sempre quella lunga chioma scendere, come un mantello, nell'atto di proteggerla. Difficilmente avrebbe potuto immaginare com'era fatta – come appariva gracile. Quei capelli, ora, non erano al loro solito posto.

Takeshi, le maniche della sua maglietta grigia raccolte fino ai gomiti, fece un passo, e le spalle di Yuki ebbero un forte fremito. Si stava ripetendo da cinque minuti abbondanti di concentrarsi su qualcos'altro. Sulla parete, per esempio. Sul velo trasparente che scendeva dal tetto del suo baldacchino, era un'idea, sì.
Tutto eccetto il fatto che, da lì a poco, lui l'avrebbe aiutata a lavarsi la schiena dal sudore. E che in parole povere, lei era mezza nuda – in sua compagnia, talmente vicini che poteva sentirne il palpito del cuore. No, non stava funzionando.

Okay, avrebbe pensato ai prati.

O ai compiti che doveva recuperare... no, così era quasi peggio.


«Tutto okay?», domandò Takeshi.

L'albina, per tutta risposta, tirò un po' il lenzuolo con cui stava nascondendo il seno e il bacino, stringendolo tra le dita.

Sentì l'aria spostarsi appena appena mentre si piegava sulle ginocchia e affondava la mano sinistra nella bacinella colma d'acqua. Recuperò la spugna gialla, la strizzò con forza e un istante dopo questa finalmente toccò la sua pelle, poco più sotto il collo. Usò l'altra mano per spostare i capelli che sfuggivano, con gentilezza e delicatezza, passando la spugna in ogni punto; con movimenti rotatori, scivolava sulle spalle e raggiungeva le scapole un po' sporgenti, per poi scendere lungo tutta la dorsale.

«Senti freddo?».

 

Yuki decise che era meglio non rispondere. Che era meglio chiudere gli occhi e focalizzarsi sul respiro del ragazzo, flebile sulla pelle bagnata.

come non detto, non funziona, pensò. Sollevò la testa, guardando l'angolo del muro. «Take?».

«Sì?».

«Sto morendo dalla vergogna».

 

Lui si mise a ridere, con un punta di nervosismo. «Non pensarci, non sta succedendo niente. Qualcuno ti sta solo aiutando perché sei troppo debole. Tutto qua».

«Qualcuno, dici?». Yuki aggrottò la fronte, le sopracciglia basse sugli occhi, non si sentiva molto convinta. «Quindi tu sei un qualcuno?». Eppure non sembrava una cosa bella, né da pensare né da sentire, e di certo non da dire; lo faceva apparire come una figura completamente grigia, senza contorni, che stava lì tanto perché era capitato.
Takeshi mosse l'indice sulla spugna, agguantandola meglio – sembrò rifletterci qualche istante, seriamente in difficoltà. «Non posso vedermi come un tuo conoscente e sicuramente non come un amico. Quindi sono un qualcuno, in alternativa».

Lei lo odiava. L'aveva detto chiaro e tondo un paio di volte ed era rimasto impresso a fuoco nella sua testa: la sua dichiarazione era stata solo uno sfogo, ecco qual era la verità; non si aspettava una risposta da lei, non si aspettava che fosse positiva – minimamente. «Potremmo dire che... sono qualcuno che odi».

«Ora è anche peggio».

Lui sorrise, malinconicamente, e si strinse nelle spalle. Anche se lei era voltata di spalle, non poté evitarsi di farlo. Non voleva parlare di quella cosa, non voleva aggiungere altro, e non voleva che lei si sentisse a disagio.

Ciononostante.

 

Ciononostante, le sue labbra toccarono la pelle di quella schiena, bianca e umida, quella che lui aveva lavato con cura – un lungo bacio, immobile ma morbido, con gli occhi chiusi.

Yuki respirò forte, raccogliendo tutta l'aria che poté nei polmoni, stringendo la bocca, tremante, riuscendo in qualche modo a tacere il balbettio. Aveva persino lasciato la coperta per la sorpresa.

«Mi metti... in difficoltà... », mormorò, raccogliendola velocemente.

«Tu fai lo stesso, lo sai? Ogni giorno che ti vedo», replicò lui – ancora a pochi centimetri da quel punto. Lasciò la spugna nella bacinella ad un passo dalle sue ginocchia e sospirò, colpevole.

«Ma... ». La mezzosangue girò la testa, quel poco che bastava per intravederlo. «... mi dispiace», disse infine. «Mi dispiace perché non voglio... tu non dovresti trovarti in difficoltà. Non te lo meriti, dopotutto».

 

A Takeshi veniva da ridere, perché mai si sarebbe aspettato che quella tipaccia gli avrebbe fatto qualche sorta di scusa – eppure era appena successo e, beh, poteva anche abituarcisi. «Ah, non fa niente. Non è male, è abbastanza divertente». E non disse altro: si cucì la bocca e gli occhi – che erano stati puri, nonostante la situazione.

Promise, a lei e a se stesso, di comportarsi bene fin tanto che fosse stata ammalata.

 


 

 

***

 

 

 

 

Quando lui fu tornato dalla lavatrice con una cesta di vestiti – Yuki aveva necessariamente bisogno di cambiarsi – e l'albina aveva finalmente cambiato quella vestaglia, la febbre era salita.
Non aveva senso; aveva preso tutte le medicine, avrebbe dovuto, se non altro, scendere almeno di un poco. Invece, adesso, lei respirava con fatica, soffocata dai 39.7°, con un macigno insopportabile sul petto. E lui cosa poteva fare?

Niente di ché.


Stava battendo un piede nervoso quando, alzatosi dalla sedia accanto al letto della ragazza, ci si era spostato, mettendosi sul bordo. Quasi voleva chiudere gli occhi e aspettare per un miracolo.

«Non pensi che», disse Yuki, parlando a fatica. «sia il caso di tornare a casa?».

Ma Takeshi sembrava non averla proprio sentita. «Perché questa febbre non scende? È anormale». Il suo sguardo ricadde sul viso della mezzosangue – stava sdraiata sul fianco, la guancia pressata contro il cuscino.

«Yuki?».

«Sì?».

«Non è che mi stai nascondendo qualcosa? Qualche cura miracolosa?».

«Cura miracolosa?», lei sorrise, abbozzando una breve risata. Ma la luce nelle iridi oro la dicevano lunga su quanto le andasse di ridere, avevano piuttosto una sfumatura negativa, un'aria turbata. Si girò sulla schiena, scostando il bordo della coperta dal petto, piano. Il tono della sua pelle sembrava scendere sempre di più, raggiungendo una cromia simile alla trasparenza – se cromia si poteva ancora chiamare – mentre gli occhi erano cerchiati di rosso, le labbra pallide. «Non esistono cure miracolose».

«Yuki».

«Non guarisco perché non è così che guariamo. Non sono le medicine o il riposo ad aiutarci».

Takeshi socchiuse le palpebre. «Che vuol dire? C'è un modo specifico?».

 

Lei non rispose, il suo sguardo si fece nuovamente strano, stavolta lontano. Inclinò la testa dall'altro lato, come ad evitare le occhiate inquisitorie del ragazzo. Ma Takeshi non aveva bisogno di risposte, gli bastava pensarci un attimo; gli bastava ricordare quella sera, nella biblioteca scolastica, quando i denti da vampiro dell'albina erano affondati nel collo di Sayumi e il sangue, denso e scarlatto – era stato versato. Aveva quel ricordo. Come il flash accecante di uno scatto, aveva questo ricordo.
Di lei su quel pianerottolo, i cui contorni erano pallidamente illuminati dalla luna alle sue spalle e gli occhi, non più suoi, non più umani, lo fissavano con freddezza – l'odore di ferro arrugginito.

«Il sangue», mormorò, con tono sconvolto. «Il sangue».

«Che?».

«Il sangue può aiutarti. Yuki, tu sei anche un vampiro», osservò. Premette la mano sinistra sul materasso, piegandosi verso di lei. «Adesso devi bere il mio sangue. Fallo».

 


Adesso devi bere il mio sangue, aveva detto lui.
Spalancò gli occhi, presa da un moto di ansia. Ma aveva almeno idea di cosa volesse dire – per lui, per lei? Aveva capito cosa comportava? Aveva visto l'espressione di terrore e di angoscia sul viso di Sayumi o in quel momento aveva distolto lo sguardo?
Yuki afferrò la coperta con entrambe le mani e aprì la bocca per dire qualcosa.
Aveva una fame tremenda.
Non era nemmeno sicura che sarebbe riuscita a fermarsi senza dissanguarlo, senza prosciugarlo fino all'ultima goccia.
Era un pazzo. Un pazzo suicida.

 

«Che stupido sei. Un pazzo», eppure si era messa seduta; anche se non era affatto d'accordo e lo ripeteva, a voce alta, pallida in volto più che mai, le sue mani corsero lo stesso alle guance del ragazzo, saggiando la leggera ruvidezza della sua pelle. Il suo colorito era bello, vivo, e il collo sembrava chiamarla con quella piccola vena che spuntava al lato.

Ne vedeva già le diramazioni, un miscuglio di verde e viola, ne percepiva già le palpitazioni. Sotto i polpastrelli, che si erano spostati sotto la linea della mandibola, il sangue fluiva in modo regolare, come l'andatura di un fiumiciattolo.

«Tipica idea da mentecatto... », le sue dita corsero alla carotide.

Senza pensarci, l'aveva spinto supino sul materasso e lei ci si era sdraiata sopra, lentamente – sentiva i suoi addominali contrarsi e il petto muoversi atipico. La sensazione che non sarebbe finita tanto bene gli stava affettando il respiro come una lama.
Dentro di sé, Takeshi provava una sorta di paura e di curiosità.
Poi si guardarono negli occhi. I suoi erano già rossi. «Sei ancora in tempo per... », lo guardò con le palpebre socchiuse, il colore rubino famelico – il colore che non avrebbe accettato un ripiegamento.

«Sto aspettando», Takeshi sorrise, sornione. Le sue braccia si allacciarono attorno ai fianchi di lei, nell'atto di avvicinarla a sé, percependo ogni morbidezza e ogni osso, il peso impercettibile sopra di lui e il profumo dei suoi capelli, scivolati sulle spalle.

Un attimo dopo, le labbra dell'albina erano sul suo collo, bollenti come lava. E i denti avevano perforato la carne.



 

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Capitolo 13
*** Un sole spavaldo sui visi immacolati. ***


13.

 



Con un gesto distratto, Yuki lanciò nel borsone, aperto e lasciato sul letto, un costume intero blu scuro.

Erano le 18.37, diciotto maggio, e nella residenza degli Akawa c'era un curioso e innaturale freddo, probabilmente proveniente dalle pareti stesse, pregne di anni e anni di vita. L'albina si sistemò la treccia sulla schiena, che continuava a caderle oltre la spalla. Brontolando, riuscì finalmente a trovare la bottiglietta di crema solare +50. Avrebbe somigliato ad un pupazzo di neve rinsecchito ma, certo, se l'alternativa era bruciacchiare come un alberello spoglio...

 

Le prudeva la schiena.

Forse era per la treccia che faceva andirivieni e la faceva esasperare, ma comunque... prudeva. La sentiva quasi bruciare, sotto i vestiti leggeri. O forse era a causa di ciò che era successo qualche giorno prima quando lui le aveva lavato la schiena con la spugna, quando le sue labbra avevano toccato la sua pelle e quando lei aveva affondato i denti nella carne del suo collo e si era portata via un po' del suo sangue, bollente come magma – si chiedeva ancora come aveva fatto a trattenersi.

Ma... nah, probabilmente era la treccia.

 

«Sorellona, lo riduci in poltiglia, se continui così».

Per tutta risposta – alla vocina di Ai, apparsa dal nulla – Yuki aveva lanciato un urletto, acuto e sottile come un filo, aprendo le mani e lasciando cadere la crema solare a picco davanti ai suoi piedi.

«Ma come, non mi avevi sentita?», disse Ai.

«Ah, beh... ».

«Tu mi senti sempre. E cos'era quell'urlo?», ridacchiò la rossa. Si era seduta sulla cassapanca ai piedi del letto e sorrideva divertita.

 

Yuki non ne era del tutto certa ma aveva l'impressione che sua sorella se la stesse ridendo alla grande, nel profondo. La bambina sapeva che qualcosa era cambiato, che qualcosa era successo in sua assenza, l'aveva letto negli occhi della maggiore non appena si erano riviste, al ritorno della minore. A volte era fastidiosamente intelligente. Forse era meglio un po' più tonta.
«Senti, ma non è che... c'è qualcosa di cui vuoi parlare? Non so, qualcosa... che ti è successo di recente, per esempio». Alla frase del tutto allusiva di Ai, l'albina roteò gli occhi e afferrò lo spazzolino da viaggio sulla scrivania – con un lancio preciso, lo buttò nella borsa.
Poi si piegò e raccolse la crema solare.

Sebbene un po' tediata, non poteva fare a meno di adorare quella piccola saputella dai capelli rossi. «Mh, no. Niente degno di nota. Niente di niente».

«Oh, davvero? Ne sono lieta, allora», Ai fece un sorriso, largo e forzato, come se l'avesse improvvisato sul momento. «ma se cambi idea, non esitare a parlarmene. Vabbene, sorellona?».

Prima che l'albina poté risponderle, Ai aveva ridacchiato ed era sparita oltre la porta di quella camera.


 




 

***

 

 

 

 

 

Il giorno seguente, il diciannove maggio, una massa informe di adolescenti se ne stava davanti ai cancelli del liceo del paese. La maggior parte di loro cercava invano di nascondersi sotto le ombre degli alberi sui marciapiedi mentre il conducente del pullman faceva un ultimo controllo al pullman e i professori parlottavano fra di loro, sventolandosi con i registri.
Quel giorno era sembrato restio a farsi avanti fino all'ultimo. La notte prima era stata la più lunga del mondo, per Yuki, che non aveva chiuso occhio un solo istante. Anzi, le era sembrato di aver dormito... per cinque minuti, poco prima del suono della sveglia. Già, era probabile.

Le due classi, la 2-B e 2-C, erano in totale fremito; avevano abbandonato gli alberi per mettersi in fila indiana davanti alle porte del pullman, salendo uno alla volta, come dei bravi scolari – nemmeno i professori riuscivano a credere a quella bufala.
Yuki e Sayumi aspettavano, parlando fra di loro, e Sayumi agitava le mani nel tentativo di rinfrescarsi. «Non è un caldo di questo mondo», disse, passandosi le dita fra i capelli, spostando quelli sulla fronte. Sembrava proprio che l'effetto serra volesse mangiarseli tutti.

Yuki tirò un sospiro profondo. Oh, su quello era più che d'accordo, non era un caldo normale.

«La spiaggia di Kotohiki sembra essere uno spettacolo», diceva intanto Sayumi. «Ho visto qualche foto su internet e ti giuro, vale la pena farsi questo viaggio. Peccato solo che Hokori non sia potuta venire, ci saremmo divertite insieme».

«Già», concordò l'albina, per poi abbassare nettamente la voce. «ma pare che avesse da fare per il suo lavoro da cacciatrice».

 

Con un gesto di pura eleganza, prese i lembi della gonna per smuoverla un po' – ah, le sembrava quasi di aver fatto un danno, sentiva più caldo di prima.
Stavano indossando la divisa estiva da circa una settimana e questa non differenziava molto dall'invernale; tutta bianca, ma a maniche corte, con i bordi azzurri e il solito fiocco rosso che pendeva tristemente al petto. Aspettando il loro turno per salire su quello che sembrava un tostapane con le ruote, Yuki giocherellava con la treccia sul petto – l'altra se ne stava quieta sulla schiena.

 

Aveva una cosa per la testa, però.
Non riusciva a non pensarci.
Con aria pigra e distratta, aveva spostato lo sguardo verso la seconda entrata del pullman, da cui la classe 2-C entrava, animata da una certa allegria; passò a rassegna i visi arrossati dal disco luminoso alto in cielo, i sorrisi e le risate che prendevano vita sulle labbra dei ragazzi.

 

Beh, di lui non c'era proprio traccia.

 

Si chiedeva dove fosse. Si chiedeva se era presente per quell'uscita con la scuola. Magari non voleva partecipare. Non avrebbe dovuto esserne così sorpresa – e delusa.

 

Imbronciata, decise di chiudere la bocca e tornare a guardare davanti a sé, cogliendo il loro turno per prendere posto. Ma poi, mentre Sayumi appoggiava il piede sullo scalino, la mezzosangue percepì una presenza alle sue spalle. Un calore tiepido ed improvviso.
«Tak-», si era girata, in uno scatto vivace, la bocca incurvata in un modo che nessuno poteva immaginarsi. Voleva salutarlo per bene, ecco, voleva dimostrargli che la gentilezza esisteva davvero dentro di lei, da qualche parte.

 

«Tanigawa, ben arrivato! Forza, forza», il prof. Okamoto sventolava la mano verso il vampiro, incitandolo a raggiungerlo, dato che da lì a breve sarebbero partiti.

 

Tetsuya Tanigawa era di fronte alle due ragazze. Salutò il professore con la mano e poi tornò dalle due, sorridendo incuriosito.
Yuki era fissa su quel punto come se i suoi piedi fossero stati inchiodati – le guance cariche di un rosa sgargiante – mentre Sayumi aveva spostato il piede per tornare sull'asfalto.

«Che caloroso benvenuto», disse il vampiro. Batté le palpebre, appoggiando una mano sulla spalla dell'amica mezzosangue – rivolgendosi a Sayumi, chiese: «È già arrabbiata? Ha uno sguardo che ucciderebbe anche un angelo».

«Gli angeli non esistono, Tetsu».

Il suo viso non si smuoveva da quell'espressione, un frullato di emozioni – turbata, innervosita, determinata. Ma Tetsuya alzò le spalle, ridacchiando. «Dai, ragazzine, andiamo».

 

 

Saliti tutti sull'autobus, era arrivato anche il momento di fare le solite raccomandazioni. Il professore Okamoto se ne stava in fondo all'autobus, appoggiato ai sedili ai lati con i gomiti, tenendo in mano il registro cartaceo. «Lasciatemi ripetere ancora una volta le regole che, guai a voi, non devono assolutamente essere trasgredite. Chiaro?», si levò un coro di assenso. «Prima di tutto: non lasciate l'hotel senza la nostra autorizzazione. Dobbiamo assolutamente sapere dei vostri movimenti, se possibile senza muoverci con gli elicotteri». Qualcuno si mise a ridere.

«Secondo: prestate attenzione ai cellulari. Nel caso sciagurato in cui voi vi perdiate, noi cercheremo subito di contattarvi al cellulare. Terzo e ultimo punto: come già sapete, ragazzi e ragazze sono separati; se vi troveremo insieme dopo le undici non ci faremo nessuno scrupolo a prendere severi provvedimenti. Intesi?».

Tra uno sbuffo e l'altro, le due classi risposero, promettendo di fare i bravi.

Yamato Okamoto sorrise soddisfatto. «Very well. Ora possiamo andare a divertirci».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

L'afosa temperatura di Kyoto fu in grado di farsi sentire già mentre, seduti in quel benedetto autobus, scorrevano le strade della città in direzione dell'hotel. Sull'hotel in questione gli studenti non avevano ricevuto molte informazioni, se non che fosse sulla spiaggia e che c'era una certa affluenza di turisti.

Sayumi, che non era al finestrino, non aveva fatto altro che schiacciare il viso contro il vetro accaldato per osservare qualsiasi scorcio di Kyoto che riuscivano a vedere, fosse anche il grigio dell'asfalto – con il risultato di buttarsi sull'amica ogni volta.

L'euforia generale, in realtà, aveva cominciato a crescere sin dall'entrata in Kyoto ma aveva raggiunto l'apice quando avevano iniziato a vedere il blu scintillante del mare.

 

«Scendete quando chiamo i vostri nomi», diceva il prof. Okamoto, gesticolando con una mano e tenendo nell'altra la lista dei nomi della 2-B.

Aspettando di essere chiamate dal professore, Yuki roteava la spalla nel tentativo di rassettare le ossa. Persino i capelli sembravano stanchi di starsene intrecciati, come dimostrava qualche ciuffo che sfuggiva. «Sono a pezzi. Ho bisogno di una doccia». Affianco a lei, Sayumi – accasciata – annuì. «A chi lo dici».

 

«Per vostra fortuna, avete una vasta quantità d'acqua a vostra disposizione». Il professore indicò alle sue spalle, verso un edificio in stile prettamente tradizionale, che le due ragazze riconobbero subito come un ryokan* - l'hotel che avrebbe ospitato le due classi –, e una linea azzurra che si stendeva a perdita d'occhio. Erano così concentrate sulla loro stanchezza da non aver fatto caso all'edificio.
Sayumi strabuzzò gli occhi a quella visione e fece un largo sorrisone, tutto emozionato, mentre si buttava ancora una volta sull'albina per ammirare in tutta la sua bellezza classica l'edificio a due piani, che dava direttamente sulla spiaggia, con un piccolo sentiero in roccia levigata dal parcheggio fino all'entrata.

Scese dal veicolo – o cella del calore – le due classi si avviarono in direzione del ryokan, le due amiche con gli occhi incollati su di esso, quasi temessero che chiudendo le palpebre sarebbe scappato a gambe levate.

Il lato che dava sul parcheggio era la fiancata e da quel punto si vedevano le finestre; solo dal retro e l'entrata principale si trovavano i balconi in legno, con le tende che svolazzavano dal vento.

 

«Bello, vero?».

 

Yuki sobbalzò, causando uno spavento anche in Sayumi. «Tetsu! Ma da dove sei uscito, tu?!». Essendo sempre vicine, capitava spesso che si provocassero spaventi fra di loro, senza farlo apposta, ma per una semplice reazione “a catena”.

L'albina guardò l'amico con la fronte aggrottata. «Mi spieghi cosa ci fai qui, in ogni caso? Non te l'ho ancora chiesto».

Tetsuya si mise fra le due ragazze, le mani nelle tasche. «Beh, sai... stare in paese da solo... sarei morto dalla noia».

«In effetti, siamo tutti qui. Immagino che per farti dare un posto nell'autobus avrai soggiogato qualcuno, eh? Il solito».

«Non preoccuparti, non ho soggiogato il vostro caro professore. Bastava il preside», poi si guardò intorno, vagamente, dall'alto del suo metro e ottanta. «A proposito, hai detto che siete tutti qui, giusto? Dov'è quell'altro? Quel Takeshi, sì».

 

 

Yuki imprecò mentalmente, stringendo le labbra fino a renderle una linea. Sentiva che prima o poi qualcuno le avrebbe fatto quella domanda, ma ancora non le era chiaro perché.
Tanto valeva attaccargli una cimice ai vestiti, o alle scarpe, così avrebbe potuto rispondere con facilità ogni volta.

«Sembra che tu non voglia rispondere», constatò il vampiro, alzando le sopracciglia, divertito dall'espressione stizzita dell'amica. Intanto erano arrivati al sentiero tra il parcheggio e l'entrata al ryokan, circondato da una rigogliosa edera che ne abbracciava la superficie. «Adoro vederti arrabbiata come una iena ma non quando inizi a soffrirne. Che hai?».

Sayumi, dal fianco del ragazzo, assunse una faccia preoccupata. Sì, era così anche per lei, più o meno: a lei non piaceva mai vederla arrabbiata. Odiava il fatto che non le parlasse mai dei suoi problemi.

«Beh», rispose Yuki. «Lo sai. Sono sempre arrabbiata».

 

Purtroppo era la verità e Tetsuya doveva decidere se farla arrabbiare ancora di più o lasciare che le passasse gradualmente.

«Mmh, Tanigawa-kun?». Una voce chiara e limpida richiamò la sua attenzione dal lato destro e lui si voltò, trovando solo il vuoto – poi si ricordò che la proprietaria di quella voce era molto più vicina all'asfalto di lui. Abbassando lo sguardo, incrociò quello turchino della nuova amica, trovandola a mordersi le labbra nervosamente.

«Sì?».

«Ma, tu, ecco... sei venuto davvero in gita scolastica per noia?».

«Pensi che potrei avere altri motivi reconditi?».

«Non ti conosco, non posso saperlo. Ma, a pelle... non sembri il tipo da usare così il proprio tempo. Non so come spiegartelo, ma ti immagino ovunque tranne che qui. Però sono contenta! Sono davvero contenta di stare qui con te!».

 

Tetsuya batté lentamente le palpebre, stupefatto – Yuki ritrovò improvvisamente parte del suo buonumore. Quella ragazza era un confetto. Un confetto super ingenuo.

«Certo, Yumi, e a quando le nozze?».

Sayumi sbottò, battendo i piedi. «Dai, smettila!».

«Ma come siamo simpatiche», cantilenò il vampiro. «Non eri arrabbiata, tu?».

Girò la testa e adocchiò il visino arrossato di Sayumi – adesso si sposava alla perfezione con i capelli rosa – e, inspiegabilmente, non poteva evitare di sorridere addolcito. Eppure non era qualcosa che capitava molto spesso – era raro sentirsi addolciti nel mondo dei vampiri e dei demoni, d'altro canto. «E tu puoi chiamarmi Tetsuya».

«Oh. Oh, vabbene. Ti chiamerò Tetsuya allora».

 


Chiuso il siparietto e le prese in giro, il percorso fino al ryokan era ormai concluso e loro lo usarono per lamentarsi del caldo opprimente e di come la luce del sole stesse diventando addirittura rischiosa per Yuki e Tetsuya, almeno fin quando non poterono ripararsi dentro. All'interno, rinfrescato dall'aria condizionata, i tre decidettero di sedersi – o meglio, stravaccarsi – sulle poltrone alla reception, mentre il prof. Okamoto si adoperava insieme all'altro insegnante per sbrigare il pagamento e l'assegnazione delle stanze.
La stanza dell'entrata principale era spaziosa abbastanza da farci entrare un'intera classe; superate le porte, si aveva di fronte il bancone in bambù della reception, dove una ragazza cercava di amministrare le stanze. Alla destra del bancone una fila di poltrone dello stesso legno, di colore bianco, e alla sinistra invece le scale accanto all'ascensore.

C'era inoltre un'altra uscita, una porta a due ante di vetro che dava bella mostra di una grande zona ristorazione, all'aperto con vista sulla spiaggia – si sentiva l'odore della sabbia. Invece, sulla parete a destra, un'altra porta larga di mogano che conduceva ad una grande stanza al chiuso in cui si potevano consumare tutti i pasti.

 

«Tetsu, dimmi un po', come pensi di farci da guida?», chiese Yuki, appoggiando la testa contro il muro.

«Chi ti dice che non conosca Kyoto?».

«Ah, sinceramente, per quanto mi concerne, potresti conoscere anche Timbuctù. Sei pur sempre stato ritenuto come una persona “scomparsa”».

 

Scomparso.

La parola stessa gli si era cucita sul petto, era diventata il suo marchio. E come tale, anche il tempo in cui fu fuori dalla società e da qualsiasi cosa avesse una sostanza, era parte di lui, un suo marchio. Lo sapeva bene, lo ricordava bene.
Inaspettatamente, l'aria fresca della reception era divenuta più soffocante di quella cocente all'esterno. Con un mezzo sorriso, deglutì e si alzò dalla poltrona, abbandonando la sua comodità. «Vado a parlare con Yamato per capire cosa sta facendo. Ci vediamo più tardi».

Yuki sorrise, scrutando la sua fuga, in tutta la sua eleganza. Oh, lei sapeva di averlo messo a disagio, e ne era lieta. Quello era un tasto dolente.

«... Dio, se vorrei chiederti di cosa stavate parlando».

«Chiedilo a lui, ti darà risposte più concrete», rispose la mezzosangue. Poi ci ripensò: «Beh, potrebbe reagire così. Meglio di no, in effetti».

Sayumi esalò un sospiro melodrammatico, alzando le spalle e scrollandole. «Allora dovrò cercare di convivere sapendo di non poter conoscere questa bella storia... ».

«... te ne parlerò. Ma non ora!».

«Yuki-chan! Ti abbraccerei, ma non ho nessuna intenzione di muovermi da qui».

 

Intanto, intorno a loro, l'afflusso di persone e di studenti che facevano su e giù – ma c'era anche chi aveva optato per le poltrone come le due ragazze – aumentava gradualmente, rendendo l'atmosfera più caotica e disordinata di quanto ci si aspetterebbe da un ryokan.
Yuki e Sayumi avevano già deciso di aspettare la fine. Volevo aspettare di essere le ultime – della loro classe – a poter avere la chiave della loro stanza e, nel frattempo, avrebbero approfittato delle poltrone per rilassarsi.
Chiudendo gli occhi. E continuando a ripetersi di non addormentarsi.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Signorina. Non dovrebbe addormentarsi qui. È pericoloso».

 

Yuki aprì le palpebre, strizzandole – santo Dio, aveva le spalle e la schiena anchilosate. La pelle appiccicosa e il collo indolenzito. «Cosa... ?», biascicò, sollevando il mento per incrociare lo sguardo di chi stava cercando quella stessa mattina, frustrata e delusa. Quello che, dopotutto, non era tanto male. «Ma allora ci sei, mentecatto. Dove diavolo eri, quando ti cercavo? Hai questa brutta abitudine di apparire quando vuoi tu, cosa ti costa essere un po' più... ». Chiuse le labbra all'improvviso, sigillandole, rendendosi conto solo dopo – con enorme imbarazzo – di cosa accidente stesse dicendo.

Ma lui stava sorridendo. «Sono qui».

Era davvero lì, su questo non c'era il benché minimo dubbio; lei, inchiodata alla sedia – Sayumi non c'era più – e lui, le mani sui braccioli, piegato verso l'albina. Con la sua schiena, faceva una grande penombra. Era così vicino. Poteva addirittura vedere l'ombra che proiettavano le sue ciglia.

Eppure, i suoi pensieri continuavano ad essere indecifrabili per lei, si erano immersi nel colore scuro dei suoi occhi.

«Sì, lo vedo», commentò Yuki, incassando un pochino la testa fra le spalle. «Fa caldo. Potresti spostarti? Prima di cadermi addosso».

Ridacchiò. «Che dolce».

«Ah-ah».

«Però ero serio, prima. Non devi addormentarti così. Qui è abbastanza tranquillo, ma non si sa mai. E tu sei pur sempre una ragazza». Finalmente, Takeshi si decise a staccarsi da quel punto, lasciando spazio alla ragazza per alzarsi. La guardò con la coda dell'occhio mentre faceva spallucce, e lui sospirò. «Non hai dormito abbastanza?».

«Così così».

 

In effetti, da quando aveva avuto quell'orrendo incubo – quando si era ammalata –, stava avendo più difficoltà del solito a prendere sonno, era diventata più pensierosa. Per lo meno, e ciò la rassicurava, si sentiva in forze e piena di energie e non rischiava di sbattere a terra da un momento all'altro.

Takeshi inarcò un sopracciglio, assumendo un espressione inquieta; fece per dirle qualcosa, ma l'albina, distratta, lo precedette – allora lui infilò le mani nelle tasche dei blue jeans, strappati sulle ginocchia.

«Hai visto Yumi da qualche parte?», chiese Yuki. «Era accanto a me».

«No. Quando sono arrivato non c'era».

«Abbiamo una dispersa».

«... ma che bello».

 

 

La mezzosangue aveva già la scena in mente; la sua migliore amica che si sbracciava nell'acqua tiepida del mare, incapace di stare a galla. Oppure: era stata inseguita e poi rapinata e uccisa, il suo corpo gettato da qualche parte. Ancora, andando sul fantascientifico: gli alieni l'avevano rapita e portata in Polonia.
Proprio quando tutti quegli scenari stavano passando per l'anticamera del suo cervello, si sentì toccare entrambe le spalle; sussultò piano, presa alla sprovvista, e si girò – aggrottando subito la fronte.

Sayumi e Tetsuya, insieme, l'una accanto all'altro: erano un'accoppiata buffa.

 

«Ah, ecco, parli del Diavolo e spuntano le corna», commentò Yuki, alzando un sopracciglio.

Sayumi portò le braccia dietro la schiena, con fare innocente, accorgendosi solo dopo che la sua amica non era sola. Sorrise al ragazzo, facendo un passetto in avanti per avvicinarsi e salutarlo. «Ehy, pensavamo che non saresti venuto! Adesso siamo tutti insieme».

«Sembri parecchio contenta, eh?», constatò Tetsuya – poi alzò il mento e guardò Takeshi mentre sorrideva e chiacchierava con Sayumi.

 

Takeshi Katugawa.

Era quell'essere umano che aveva scoperto la vera natura di Yuki, cogliendola in fragrante, nell'atto di nutrirsi. Che gran tempismo.

A quanto aveva capito, non si era comportato nel migliore dei modi con il moro, quando era stato sotto il controllo della piccola Akawa, ma non avrebbe fatto niente ugualmente; non si sarebbe scusato, ovviamente, perché un vampiro dal titolo aristocratico come il suo non si sarebbe di certo abbassato a fare delle scuse ad un umano – che sciocchezza.
Nell'istante in cui Takeshi si voltò, sentendosi osservato, il vampiro fece altrettanto, concentrandosi piuttosto sulla reception poco più in là.

 

Intanto, Sayumi aveva recuperato la chiave della loro stanza e la sventolava vittoriosa fra l'indice e il pollice.

Oh, Yuki l'avrebbe abbracciata molto volentieri, non vedeva l'ora di filarsela da là – prima si allontanava, meglio era. «A dopo», disse lei, mentre Sayumi li salutava con la mano. Un istante dopo stavano salendo le scale che conducevano al primo piano, lasciando i due da soli. Un vampiro e un umano, da soli, l'uno accanto all'altro.

Entrambi di poche parole.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Il programma originale prevedeva che, arrivati al ryokan, i ragazzi avrebbero avuto tre ore di tempo per rilassarsi come meglio credevano. Ognuno di loro aveva avuto la chiave della stanza e si erano subito sparpagliati come formiche, infervorati all'idea di essere liberi.

Yuki e Sayumi erano in stanza insieme, per fortuna – o magari c'entrava lo zampino di qualcuno, chi lo poteva sapere? –, ed entrambe avevano una certa passione per ciò che era tradizionale. La stanza stessa possedeva una bellezza quasi mistica; non appena si apriva la porca, si svelava una stanza ampia dieci tatami**, con di fronte una piccola veranda che dava direttamente sul mare. L'odore della salsedine era piacevole e la brezza pre-estiva non troppo calda. Si sentiva un vociare leggero provenire dall'esterno e il suono delle onde che scrosciavano.
Le finestre che davano sulla veranda erano socchiuse, forse per arieggiare la stanza, e al centro della stanza c'era un tavolino basso.

 

Yuki socchiuse le palpebre di fronte a quella luce, portandosi una mano alla fronte.

«È tutto così bello che potrei farmi murare. L'importante è che sia qui», disse Sayumi, entrando nella stanza e lasciando la sua borsa da viaggio sul tavolino.

«Concordo. Non riesco a credere che– … Yumi, che stai facendo?».

«Eh? Sto cercando il costume».

«E perché il pavimento è già ricoperto dalla tua roba?».

«Perché... il costume... è in fondo alla valigia... ».

 

L'albina vide l'amica alzarsi in piedi, tenendo nella mano il suo costume e, il tempo di battere le palpebre, Sayumi era già sparita oltre il bagno della camera.

«Yumi? Guarda che pulisci tu questo casino... Yumi?», l'albina sospirò, esasperata e arresa, e si avvicinò alla finestra. Oltrepassò la porta e appoggiò le mani sulla balaustra, sporgendo un po' la testa. Ad una decina di metri si iniziavano a vedere le persone; era ancora Maggio, per cui forse troppo presto per fare il bagno in mare, ma i bambini che scorrazzavano sulla spiaggia e si buttavano in acqua sembravano aver dimenticato quel particolare.
Lei era sicura che anche i compagni di scuola avrebbero fatto lo stesso.

 

«Finito!».

Yuki si voltò ed ecco che finalmente la sua cara amica tornava dal portale dimensionale che l'aveva fatta sparire in un secondo – mettendo decisamente in mostra ciò che madre natura le aveva concesso; l'albina l'aveva sospettato, ma il fisico di Sayumi non era solo snello e curvilineo, bensì soprattutto allenato, con gli addominali e le gambe toniche, le piccole caviglie sottili. Il tutto coperto da un costume a due pezzi rosso fuoco, annodato intorno al collo da un fioco.

«Wow, complimenti!», disse Yuki, alzando le sopracciglia – quasi le scappò un fischio d'approvazione. «Stai da favola».

«Eheh. Adesso tocca a te. Oddio, sarà imbarazzante».

«Imbarazzante?», ripeté l'altra. Tornò all'interno della stanza e si chinò per sprofondare le braccia all'interno della borsa, alla spasmodica ricerca del suo costume da bagno blu scuro. «Beh, non credo che staremo in compagnia della classe, quindi... ».

«Mh-mh».

 

La mezzosangue cominciava ad avere qualche dubbio. Dopo un minuto, riuscì a trovare tutto l'occorrente, che appoggiò poi accanto al tavolino. Intanto, Sayumi era rimasta in silenzio, dondolandosi sul punto, spostando il peso da una gamba all'altra. Quel movimento iniziava a farsi pedante, così tanto che Yuki l'aveva dovuta riprendere. «Yumi? Sei una sedia a dondolo?».

La sua amica aveva il viso in fiamme. Si era abbronzata nel frattempo o cosa?

«Sayumi Ichinomiya, ci sei?».

«Eh?», esclamò la diretta interessata, sussultando – poi annuì, un paio di volte. «Sì, sì, dimmi».

«Si può sapere cosa ti prende?».

«Niente, niente, stavo solo pensando che sarà proprio divertente».

«E perché hai il viso così rosso?». Yuki si girò completamente, dando le spalle alla valigia, al costume e alla crema solare. Con un pensiero per la testa. «Non mi dirai che tu... ».

 

 

 

* ryokan: è un tipo di albergo giapponese in stile tradizionale.
** tatami: è una tradizionale pavimentazione giapponese composta da pannelli rettangolari modulari, costruiti con un telaio di legno. La parola tatami viene anche usata come unità di misura edile, che è il nostro caso.

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Capitolo 14
*** Nel fondo. ***


14.



Yuki conosceva i suoi polli.

Li conosceva come le madri conoscono i propri figli, come un insegnante poteva conoscere i propri alunni dopo anni passati insieme.

Ciononostante, su quell'argomento era stata colta di sorpresa. Stava provando un senso di delusione nell'averlo dovuto capire da sola, all'improvviso, piuttosto che sentirlo direttamente da lei. Sayumi non diceva nulla. Si limitava a muoversi continuamente, adesso massaggiandosi il collo, poi pizzicandosi il gomito.
«... oh, Dio». Era tutto ciò che era uscito dalla bocca della mezzosangue, apertasi improvvisamente. «Ora ho capito», proseguì.

 

Sayumi aspettò. Trattenne il fiato nel fondo della propria anima ed aspettò impazientemente, guardando lo spettacolo che avrebbe reciso la loro amicizia, i cui motivi potevano essere molti: a partire dall'onestà che era mancata, da entrambe. Solo che, nel caso di Yuki, era stata costretta a mantenere un segreto così grande.

«C'è qualcuno che ti piace, non è così?», disse l'albina.

Silenzio.

«E questa persona... », e si zittì, una violenta tensione si calò nella stanza. In quel momento, quell'agghiacciante e infinita pausa faceva solo male. Quel silenzio smorzato solo dal leggero tintinnio di un furin lontano. Il vento soffiava leggero, quasi impercettibile. «... credi di dirmi chi sia, oppure è chiedere troppo?».

 

Sayumi quasi tossì.
Non ha capito che è Takeshi... , si rese conto, nei propri pensieri, incapace di pronunciare qualsiasi frase, e men che meno la verità dei fatti. Il suo nome. Non riusciva a dire quel nome, ma riusciva ad ammettere a se stessa quanto si sentisse stupida, in tutta quella situazione – faceva un po' troppo sitcom americana.

Sayumi strinse le labbra e guardò l'amica; era seduta in ginocchio, sui talloni, tenendo la schiena dritta e le trecce sulle spalle, non dava affatto l'idea di qualcuno che voleva godersi il mare. Sembrava piuttosto una bellissima e sovrannaturale geisha, con lo sguardo fisso davanti a sé ma ben consapevole. Riusciva persino a vederle addosso il kimono nero come la notte, elegante e appena contornato da una luce evanescente, quasi spiritica, mentre gli argentei capelli risaltavano come un fuoco fatuo su di lei.

La ragazza abbassò gli occhi sul tatami, annuendo appena appena. Aveva la gola secca. «... è un essere umano, prima di tutto. Una persona. Voglio dire, una persona... molto bella».

«Che vuoi dire con “bella”? Fisicamente? Interiormente?».

«No, voglio dire- ecco... credo tutte e due».

«Credi?».

 

La voce di Yuki era graffiante e fredda come la neve quando colpisce la pelle calda. Sayumi si sentiva intimorita, perché non credeva che avrebbe mai sentito la sua migliore amica parlare con quel genere di tono verso di lei – non sapeva più cosa guardare; e forse la mezzosangue l'aveva intuito, con la coda dell'occhio magari, perché quando parlò aveva un tono più ingentilito.
«Senti, non voglio di certo... farti un terzo grado. Assolutamente. Ma mi piacerebbe almeno sapere se è una persona di cui ci si può fidare, se posso stare tranquilla in quanto tua migliore amica. Non hai nemmeno specificato se si tratta di un ragazzo o una ragazza. Ti rendi conto che non so un bel niente? Non so nie– ».

«Da che pulpito viene la predica».

 

Yuki batté le palpebre. Cosa? Quella frase... era uscita dalle labbra di Sayumi?
No, non era possibile; di certo quella che aveva appena sentito non era la dolce e un po' stridula vocina di Sayumi, non era certamente sua. Allora, di riflesso, si guardò attorno in cerca di una terza persona, ma non c'era nessuno: solo loro due e la tensione.

«Che stai facendo?», disse Sayumi, bassa.

«Sto... », cosa? Cosa stava facendo? La voce inespressiva ma al contempo dura e incattivita era quella di Sayumi – della sua spensierata Yumi; la dolce adolescente un po' asociale, che riusciva a parlare davvero solo con lei. La guardò, la guardò mentre il suo incarnato delicato virava su un livido pericoloso.

«Senti. Eccoti un consiglio da un'umana scema che non capisce nulla: non dire niente. Ne va della tua coerenza». Fece una pausa, poi ripartì. «Sai quante dannate volte ho cercato di scoprirti, Yuki-chan? Quante volte ho ricevuto uno sguardo che non diceva assolutamente nulla? "Devi solo capirmi", e mi sarebbe piaciuto, lo sai?, mi avrebbe davvero fatto comodo per convivere con la sensazione di non essermi mai avvicinata a te, mai, nemmeno di un passo. Avrebbe fatto comodo. Ma come si fa a capire un manichino?».


 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Yu–... ».

Il vampiro biondo si morse il labbro inferiore, trattenendo un sospiro. Strinse la presa, piegando di più la schiena in avanti, stordito da quella forte sensazione. Una linea di sudore gli percorse la tempia, lambendo la pelle bianca.
Yuki si spinse indietro, soffocando un lamento, perché... stavano bruciando come lucertole al sole.
Forse non erano stati molto furbi, Yuki e Tetsuya, a sedersi sulle poltrone di fronte alla veranda che si trovava alle spalle del ryokan, cioè il lato che dava sul mare. I piedi immersi nella sabbia calda e il sole che batteva senza pietà sulle loro teste, i due potevano godersi la vista di quello sconfinato orizzonte blu, specchio riflettente del cielo – terso, brillante. Dopo cinque minuti però, si erano spostati da quel punto e si erano seduti nel salottino sulla veranda.

La spiaggia non era piena di gente come qualcuno aveva temuto; c'erano dei bambini che giocavano alla riva e diversi adulti e coppiette sparpagliate a metri e metri distanza fra di loro.

Quando lei aveva raggiunto quel punto del ryokan, aveva incrociato Tetsuya davanti alle porte a due ante di vetro, semi aperte, che precedevano l'uscita. Il lato posteriore del ryokan era fatto quasi interamente di legno, dal parquet scuro al bancone della seconda reception accanto all'uscita. Parallela a questa, si trovava un'altra zona ristorante, più piccola ma più intima, con un bar all'interno.
Tetsuya si era intanto cambiato e adesso indossava una camicia di lino azzurra e un paio di pantaloni bianchi – l'aveva intercettato mentre veniva assediato da un paio di ragazze. Lui le aveva salutate e con noncuranza si era avvicinato alla mezzosangue, come se non si fossero mai incontrati.

«Non male», aveva commentato, alla vista della ragazza con indosso il suo costume blu a pezzo intero, una giacca dal tessuto leggero sulle spalle - e lei aveva roteato gli occhi.

 

«E così avete litigato», Tetsuya bevve un po' del suo tè alla pesca, guardando verso il mare. «E lei se n'è andata da qualche parte».
Yuki annuì.
«Non ha del tutto torto», continuò Tetsuya, girando la testa per guardarla, mentre lei fissava imperterrita di fronte a sé. «Spesso e volentieri è difficile capirti, persino per me. Non posso darti un parere concreto, avendovi viste insieme solo qualche volta. Ciononostante, sono abbastanza sicuro che tu faccia così per un motivo preciso».

L'albina si strinse nelle spalle.

«Scommetto che lo fai solo per proteggerla».

«... lasciamo stare». Ritirò gli addominali mentre inspirò l'aria salmastra, guardando la sabbia che si faceva quasi dorata al contatto col sole. Si sentivano le cicale, era piacevole. 
Yuki si rendeva conto che senza di lui non sarebbe stato niente, non si sarebbe tenuta sulle sue stesse gambe; che fosse così tanto legato a lui, dopo tutto quello che era successo, era forse legato al suo DNA per metà vampirico? Esisteva qualche sorta di fratellanza?

 

Non lo poteva sapere.

 

«Ah, guarda là chi sta arrivando», disse Tetsuya con un sorriso – alla sua vista, lei sussultò sulla poltrona.
Lo vide camminare, ad un paio di metri da loro, mentre si tirava indietro i capelli bagnati con le dita lunghe, alzando lentamente il viso verso il cielo.
Le gambe lunghe, i polpacci definiti, gli addominali obliqui pronunciati, per poi salire all'addome dalle forme geometriche, tracciate da tante minuscole gocce d'acqua che scivolavano traslucide, disordinate e... stava davvero bene, con i capelli tirati indietro. Non c'era dubbio. Quando li notò alle poltrone, accelerò il passo finché non li raggiunse. «Eccovi. Avevo giusto qualche dubbio su vampiri e demoni che si fanno il bagno al mare».

«Takeshi».

«Mh?».

 

Yuki assottigliò lo sguardo. Stava considerando cosa dirgli e come dirlo – e se avesse allungato una mano? «... per caso hai visto Yumi?».

«Sì, l'ho incrociata al ristorante e... ma sbaglio o questa è la seconda volta che la perdi?».

«Perché continua a fuggire come una gazzella di qua e di là», si giustificò la mezzosangue, lasciando i braccioli per incrociare le braccia al petto, sbuffando. Takeshi allora mormorò qualcosa, come un «Capisco», e fece qualche passo per sedersi sulla poltrona, un po' più distante dai due.
Scrollò la testa, liberandosi dell'acqua in eccesso come un barboncino dopo il bagno, e schiuse le labbra con una goccia che sembrava indugiare su di esse, traballante. «C'è una cosa che vorrei chiedere», disse. Ci fu un breve silenzio, il cui unico suono era quello delle onde. Takeshi alzò lo sguardo e lo puntò su Tetsuya. «Come dovrei chiamarti?».

«Prego?», il vampiro si girò verso il moro, un espressione tranquilla in viso.

«Voglio dire: Tanigawa-san è okay? Oppure Tetsuya e basta?».

«Non mi piacciono gli onorifici, Tesuya è apposto».

«Tetsuya. Afferrato».

 

Il moro sospirò, con una punta di sollievo; era un cruccio che lo stava prendendo da un po' e che aveva bisogno di dissipare. Quel vampiro era una persona importante per Yuki e forse valeva la pena conoscerlo, conoscerlo per davvero, senza qualcuno dietro le quinte. E poi non sembrava tanto male.
Seduto sulla poltrona, Takeshi assaporò per un attimo il venticello sulla pelle bagnata e i brividi che andavano creandosi sulla spina dorsale. Si rivolse nuovamente ai due, guardando prima lei e poi lui. «Perché non venite a nuotare?», chiese.

«Perché il sole è troppo forte», rispose Yuki, incrociando le caviglie sotto alla sedia. «Potremmo bruciarci».

«Davvero? Peccato».


Si alzò, spostandosi da quel punto di due passi. La pelle si era quasi del tutto asciugata e aveva finalmente parlato con Yuki – e Tetsuya – quindi, tecnicamente, poteva anche andarsene in mare a farsi un'altra nuotata. Eppure. Eppure non era soddisfatto.
Con un'ampia falcata, si mosse sul parquet laminato, e si mise davanti alla mezzosangue e al vampiro, una mano sul fianco e l'altra a indicare dietro di sé. «Venite, in acqua non dovreste avere grossi problemi. Non fate storie».
Entrambi guardavano il moro come se gli fosse uscita una seconda testa sul collo. Cinici, si scambiarono un'occhiata sarcastica, chi con la bocca storta, chi aggrottando le sopracciglia.
«Guarda, come se avessimo accettato», fece lei – mentre si sentiva un tantinello in imbarazzo con i suoi occhi addosso, dato che quel costume lasciava molto in bella vista.

Takeshi ghignò, scuotendo la testa. «Il punto è che non era una domanda».

Con uno scatto rapido, il ragazzo afferrò i polsi di entrambi, tirandoli verso di sé per farli alzare da quelle sedie; si narrava che i vampiri fossero dei cadaveri e i demoni i principi del Diavolo – ma gli piaceva pensare che loro non fossero proprio questo. Che erano molto di più. Per questo non poteva lasciarli marcire su quelle poltrone, come anziani che fissano la morte nelle orbite.
Quindi decise di trascinarli e nel farlo sentiva Yuki urlargli contro imprecazioni e Tetsuya sbuffare, rassegnato.

In brevissimi attimi, che andavano dai tre ai cinque minuti, ecco che tutti e tre si trovavano l'acqua sopra alle ginocchia e i piedi che affondavano nella sabbia morbida e bagnata.

Yuki serrò la mandibola, stridendo i denti come una pantera incattivita, e alzò la testa di scatto. «Dannazione a te, mentecatto che non sei altro», esclamò, per poi guardare verso Tetsuya, anche lui bagnato fradicio.

 

Peccato che lui fosse stato trascinato in mare con tutti i vestiti addosso. L'acqua si era insidiata nei suoi pantaloni e la camicia era puntellata dagli schizzi.
«Grazie. Era proprio ciò di cui avevo bisogno!». Era davvero impensabile che uno come lui alzasse la voce ma, beh, era appena successo. Tetsuya infilò le mani nel mare, assaporando quella sensazione rinfrescante, e poi le alzò per attraversare i capelli, reclinando il collo per godere un po' di quel sole accecante sul viso – fin quando quel caldo non divenne eccessivo e dal suo zigomo cominciò a levarsi una sottile scia grigia. Un leggero odore di carne bruciata si insinuò nel naso dell'albina, che lo riprese subito.

«Tetsu, la tua faccia! Idiota!».

 

 

Giusto, pensò in un soffio il giovane vampiro, tirando in avanti la faccia, andandosi a coprire lo zigomo con una mano. Guardò a destra, poi a sinistra, e per fortuna era sempre lo stesso scenario: famiglie e bambini che giocavano e ridevano. Nessuno ci aveva fatto caso.

«Accidenti», Takeshi si avvicinò al biondo e, in un gesto riflessivo, gli mise una mano sulla schiena. «Stai bene? Mi dispiace, non avrei dovuto farlo».
Tetsuya sollevò le iridi viola, attraversando con lo sguardo quello dell'umano – apprensivo. Wow. Si stava preoccupando per un vampiro con doti curative oltre l'eccellenza. Tetsuya raddrizzò la schiena, affondando di nuovo una mano nell'acqua e appoggiandola poi sulla guancia.

«Sto bene, non era niente– ma ti preoccupi sempre così per tutti, tu?», disse, picchiettando l'indice sulla scottatura.

Takeshi sogghignò. «Oh, no, è un trattamento riservato solo per te, vampirello da strapazzo».

«Allora devo ring– ... cosa hai detto?».

 

Yuki scoppiò a ridere, fragorosamente, trattenendosi quel poco che bastava per non farsi sentire da tutta la spiaggia. Dovette tenersi la pancia per non esplodere. «Okay, questo è valso la pena farsi un viaggio in autobus».
Tetsuya la guardò con gli occhi sgranati, incredulo, mentre Takeshi si avvicinava all'albina, squarciando l'acqua con le gambe. «E non è ancora finita», bisbigliò il moro, allungando le braccia verso la ragazza – questa, prontamente, si voltò dall'altra parte e si mosse velocemente per distanziarlo
Mentre il chiasso si ammassava e palloni cadevano a picco sul filo dell'acqua, Yuki diede le spalle ai due, non prima di avergli detto: «Te la farò pagare, Takeshi».

Dopodiché, la sua schiena, latente dietro al manto argento, era sparita sott'acqua, lasciando quel marinaio indietro.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Le braccia si muovevano, prima la sinistra e poi la destra, ritmicamente e autonomamente, così come le gambe, che sembravano una vera e propria coda da sirena. La velocità cresceva vertiginosamente, l'acqua batteva contro l'addome e i capelli erano sospesi sulla superficie dell'acqua; non accennò a rallentare nemmeno dopo aver guardato verso la riva, rendendosi conto di aver messo una tale distanza da renderla sfumata e indistinta, come un miraggio. Andava avanti perché sapeva di non essere sola e voleva rendersi irraggiungibile all'ospite poco desiderato – poco.

Le era bastata una fugace occhiata, mentre buttava un braccio in avanti, per poter scorgere la figura atletica di quell'appiccicoso essere umano. Non sapeva quando arrendersi – e Yuki se lo aspettava, sapeva che l'avrebbe seguita. Con un placido sorriso, fermò la nuotata per un attimo, solo per rivolgergli uno sguardo di sfida.

 

"Credi di farcela?".

Si volse nuovamente, non prima di intercettare un po' di sorpresa nei suoi lineamenti, nella bocca vermiglia e i capelli scuri gocciolanti, le larghe spalle incurvate leggermente in avanti, per lo sforzo. «Ehy», lo sentì, come un dolce richiamo.

L'albina allora si immerse rapidamente, come se volesse raggiungere le profondità degli abissi.

 

Ma l'unico punto che voleva pervenire era uno abbastanza distante da lui – il punto sicuro; alla fine, spuntò col capo fuori dall'acqua e trasse un respiro, un po' affannata, l'aria che la infreddoliva e il profumo del mare che le bruciava le narici.
Con calma, si concesse un'occhiata per rendersi conto di dove fosse; alle sue spalle la riva era una specie di lunga linea orizzontale color crema, tempestata da tanti puntini variopinti, mentre intorno a lei non c'era altro che una vasta e continua distesa turchina. E proprio davanti ai suoi occhi si stagliava una lunga fila di scogli, tra cui un'incavatura simile ad una caverna.

Poi, all'improvviso, sentì qualcosa toccargli il fianco destro e sobbalzò.

«Non ti azzardare... », ansimò Takeshi. «... ad andare più in fondo... ».

La sua mano scivolò dal fianco dell'albina, ora che era certo che lei non sarebbe fuggita ancora, e ne approfittò per inclinare il collo roseo, infilando le dita affusolate nello scuro del capo.
Yuki lo vide distendere le labbra in un sorriso più tranquillo, come rassicurato di non averla persa chissà dove – e lei ricambiò quell'affettuosa incurvatura, contagiata. «Ben arrivato».

«Grazie. Grazie tante. L'hai fatto apposta, eh?».

«Cosa te lo fa credere? Non credi di essere un po' arrogante, tu?».

«Mi piace fare l'arrogante».

 

Lei inarcò un sopracciglio, mentre spostava una ciocca dietro l'orecchio, con un gesto leggero e debole e poi, con la tranquillità di un passerotto, gli dava le spalle per muoversi nelle acque che andavano scurirsi pian piano. Stava guardando quell'incavatura con un certo interesse. Voleva toccare con le proprie dita la roccia delle pareti, che appariva tagliente e dura. C'era qualcosa di dannatamente attraente in quel punto, lontano dalla civiltà.

La mezzosangue non avrebbe saputo dire con calcolata certezza quanta distanza avessero ricavato, di certo oltre la ventina – Takeshi la seguì, senza commentare quel piccolo gesto. Takeshi non aveva mai messo bocca sulle questioni vampiro o demone: non aveva mai messo bocca su questioni che non c'entravano direttamente con lui.

Mentre sollevava lentamente lo sguardo sull'albina e guardava come, con una certa abilità, si issava sulla superficie rocciosa con i palmi delle mani, si chiese se esistessero altre creature non umane. Vampiri e demoni. E che altro? – ciò che gli era sembrata la prassi, la normalità, gli apparì sbagliata. «Se continuiamo a stare in acqua», disse lui. «credo che diventeremo molli».

 

Ferma sul punto dove era salita, con un ginocchio appoggiato, lo guardò di traverso. «Allora avanti, sali anche tu». E sembrò avere un tentennamento, come se avesse voluto girarsi per porgergli una mano. 
Con un sorriso, Takeshi nuotò ed emulò gli stessi gesti di le per poter salire. Raggiunse l'albina che frattanto era andata poco più avanti, constatando che quell'incavatura avesse in realtà una misera profondità, di cinque metri forse. Si guardava intorno, ispezionando ogni spigolo, angolo, lato. Era solo un'incavatura rocciosa.

«Perché siamo qui?».

Già, perché?

Di fronte alla domanda del moro, lei non era certa di sapere la risposta. Sapeva solo che doveva essere in quel posto. «Non saprei dirti», rispose, spostando il peso da un piede all'altro, mentre incrociava le braccia al petto. «Ma ho la sensazione che ci sia qualcosa, qui». Si fermò, indugiando con le parole, mordendo avidamente il labbro inferiore – mentre scendeva il silenzio. Le punte dei suoi capelli gocciolavano, in uno stillicidio ritmico.

 

Ma sì, quella era solo una semplice caverna; illuminata debolmente dal riverbero della distesa d'acqua dietro di loro.

«Non sapresti dirmi». Piegò il capo nella direzione della mezzosangue, a cercarne lo sguardo.

«No. Ma mi aveva dato una strana impressione».

«Una strana impressione, dici?», ripeté Takeshi.

 

Il ragazzo tornò a guardare davanti, con un espressione un po' spaesata; la parete di roccia aveva linee irregolari, geometriche, che andavano a infrangersi fra di loro e a formare un inespugnabile muro. Yuki aveva delle sensazioni; e che cosa potevano significare, quelle sensazioni? Takeshi aveva la mezza certezza che quando aveva delle sensazioni, beh, volevano dire qualcosa.
«Non potresti aver visto questo posto da bambina?».

«Da bambina non sono mai andata al mare. Era raro che io e la mia famiglia ci spostassimo da qualche parte, era sempre troppo pericoloso».

 

A passo lento, Takeshi si allontanò dal fianco dell'albina, verso la parete sinistra, soppesando le parole della ragazza.
Guardando le pareti, a primo acchito, sembravano tutte identiche. Taglienti e irregolari, di un grigio screziato di azzurro. Takeshi aveva appena posato l'indice e il medio su un punto casuale del muro, camminando e tenendoci gli occhi fissi, con gli occhi vacui di un turista annoiato. «Che facciamo, torniamo ind–».

Ma ad un certo punto, il ragazzo si ammutolì.
Le sue dita avevano trovato il contorno carminio di lettere latine, incise in quella roccia – si ammutolì, quando vide sotto alla frase incisa due iniziali, una “L” e una “B”. «Yuki».

 

 

 

 

 

NOTA:
Salve! Capitolo 14, eh? Dovete sapere che ci siamo appena addentrati ad una parte della storia che ritengo importante, dato che accadranno alcune cose. E intanto, Yuki e Sayumi hanno una discussione, in cui Sayumi si sente troppo frustrata dal suo rapporto con l'amica e dai sentimenti che prova per Takeshi – sentimenti che non riesce ad accettare e a comprendere.

Yuki e Tetsuya decidono invece di arrostirsi al sole – decisione che dura molto poco – e Takeshi di trascinarli in acqua con lui.

E poi, ultimo ma non meno importante, la caverna.

Spero, come al solito, che il capitolo vi sia piaciuto e che continuerete a leggere questa storia!
 

Ps. ho dimenticato di aggiungere il significato di alcune parole nello scorso capitolo (prendetemi a testate), ma ho corretto.

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Capitolo 15
*** Città di fiori. ***


15.



Quando si sentì chiamare dal ragazzo, un metro o due più in là, Yuki si voltò con calma nella sua direzione, un espressione di quasi sorpresa in volto. I capelli avevano smesso di gocciolare, l'acqua alle loro spalle si era improvvisamente acquietata, e Takeshi stava fissando una delle pareti rocciose. Le punte delle dita stavano tracciando qualcosa lì, in quel punto, in modo lento e concentrato – non si sentiva una mosca volare, se non una leggera brezza.

L'albina si girò del tutto verso Takeshi e lo raggiunse con pochi passi. Lo guardò, aggrottando la fronte, e il ragazzo le restituì lo sguardo con la medesima perplessità. «Può essere», cominciò lui, lasciando cadere il braccio lungo il fianco. «che avessi ragione. C'è questa scritta rossa e sembra essere stata firmata da qualcuno».

Yuki allora osservò la scritta. Era rossa, assolutamente incomprensibile, e portava le lettere “L” e “B”. Sembrava essere stata incisa con una pietra o qualcosa del genere. «Si potrebbe anche pensare che questa è solo una stupidaggine di due innamorati», rifletté l'albina.

«Due innamorati stranieri. Questo di certo non è giapponese».

«No, indubbiamente... non riesco a riconoscerla».

Takeshi aguzzò la vista, stringendo le palpebre. «No, nemmeno io. L'unica cosa chiara è che è scritta con le lettere latine. Niente ideogrammi. Avremmo potuto capirci qualcosa, peccato».

Yuki si allontanò dalla parete, incrociando le braccia al petto. «Già», era davvero un peccato, in effetti; le possibilità che quel lascito avesse qualche sorta di rilievo erano basse, ma... era strano che proprio in un posto del genere, per cui lei aveva sentito una sensazione, c'era effettivamente qualcosa. Era quel particolare a non convincerla.
Ciononostante, nessuno dei due sapeva tradurre quella frase, e non avevano niente con loro per potersela appuntare.
L'albina alzò le spalle, sciogliendo le braccia. «Beh, dobbiamo metterci l'anima in pace. Noi non possiamo fare niente, qui».

«E Tetsuya? Potremmo fargliela vedere», disse Takeshi. «Forse potrebbe ricavarne un ragno dal buco».

«Potrebbe. Penso che in questi tre anni abbia viaggiato molto, o almeno... », nuovamente, corrugò la fronte, come se non fosse sicura – o contenta di immaginare il suo amico in girò per il mondo. «... così mi ha detto. Ma non so se vorrebbe venire a nuoto fin qui».

«Intanto, cominciamo a con chiedergli se conosce qualche lingua straniera», propose il ragazzo. «Ah, e portiamoci qualcosa per scriverla – anche se in acqua la vedo dura».


 

Yuki si girò verso il ragazzo e sorrise, un misto di divertimento e affettuosità. Le piaceva vederlo così coinvolto, prodigarsi per aiutarla a sciogliere dubbi... - un attimo, le piaceva? No, che esagerazione, non è che le piaceva. Lo trovava solo degno di lui, un comportamento come quello. Ecco tutto.

 

Per un'ultima volta, guardò la parete rocciosa con il dubbio negli occhi – prima di avvicinarsi al bordo dell'incavatura e tuffarsi in acqua.


 

 


 

***


 

 


 

«Uno alla volta, avvicinatevi e prendete il numero di almeno un professore. Assicuratevi di averlo salvato per bene. Nel caso in cui facciate qualche tipo di danno, quel numero telefonico potrebbe essere la vostra unica salvezza – o la vostra sospensione».

Yamato Okamoto aveva il compito di dettare al meglio le istruzioni che ogni gita scolastica impone. Con tono rigido e severo, in modo che i suoi alunni intendessero bene le conseguenze delle loro azioni. Nel silenzio, il nutrito gruppo di scolari annuì. Era strano cogliere quella trasformazione nel professore d'inglese; era conosciuto, oltre che per il suo bell'aspetto, per la sua gentilezza, la comprensione e l'ottima capacità di conversazione.

Yuki l'aveva osservato dal fondo dell'ampia hall, con un espressione imperturbabile, la bocca sigillata e gli occhi fissi come chiodi, calmi – lo ammirava; o meglio, lo considerava un esempio ineccepibile di essere umano.

Anche se avrà dei difetti persino lui, pensò.

 

«Se è tutto chiaro», riprese Okamoto. «potete andare». Al suono di questa frase, il gruppo si smembrò rapidamente, disperdendosi come tanti pesciolini spaventati e, in poco tempo, si erano formati diversi gruppetti, da tre a cinque persone.

E ora?, aveva pensato Yuki.

 

Appena lontano, notò Tetsuya, assieme ai quattro professori.

 

Si stavano scambiando qualche parola quando il vampiro fu intercettato da tre ragazze; l'albina sentì le loro voci sovreccitate, i toni acuti chiedere il numero di telefono del vampiro. E lui, con un sorriso di marmo, le raccomandò di fare molta attenzione. L'albina fece una smorfia, con una punta di sgarbo. Erano proprio delle sciocche se pensavano che a lui interessasse davvero della loro incolumità. Semmai, si preoccupava di tenere al sicuro carne fresca.

Avrebbe voluto avvicinare l'amico e trovare conforto - nella familiarità. Ma sarebbe sembrata strana o, peggio, stupida.

E poi, sapeva già con chi doveva parlare.

 

In silenzio, come persa in mare aperto, esplorò i capelli di tutti quegli adolescenti emozionati in cerca di quelli più strani, di quelli più impensabili – ed eccoli, vaporosi e corti, del colore dei ciliegi. Sembrava piccola come un pulcino ma, al contempo, intoccabile mentre si faceva strada fra gli altri. L'albina la vide sospirare.

 

I sospiri; persone pragmatiche come Yuki e Tetsuya avevano definito quei brevi e affranti respiri come un secondo modo per respirare, nulla di più. Si diceva che strappassero pezzetti di felicità – e dunque, cosa? A quei due erano davvero stati strappati pezzi della loro felicità? Durante l'infanzia, l'adolescenza, forse? Ma cosa avrebbero potuto dire del tempo, loro due, che non ne possedevano se non una qualche briciola? Sedici e venti. Due numeri messi l'uno di fianco all'altro, a fare bella mostra – e che altro?


 

Yuki respirò piano.

Ora Sayumi era di fronte a lei. La sua più cara amica. Teneva la testa un po' china, un braccio tormentata dalla mano dell'altro. I loro occhi non si incontrarono, nemmeno dopo diversi secondi.
La mezzosangue, però, non era in vena di tergiversare. «Vai. Vestiti. Preparati – e quando avrai finito, andrò io». Così disse. Non era fredda, non era calda, era solo il tono pratico di una persona che parlava con un'altra – era solo un tono come un altro.

Tutto qui.

 

 


 

***


 

 

 

In meno di un'ora, il ryokan si era quasi del tutto svuotato, tant'è che gli unici rumori che si udivano erano solo quelli che facevano i camerieri spostandosi da un punto all'altro. La cena, fissata per le 20.00, era stata prosciugata ad una folle velocità, cosicché gli studenti avessero poi il tempo di uscire in città senza l'estenuante guida dei professori. Un occasione troppo importante per lasciarsela sfuggire – specialmente perché avevano tempo fino alle 23.00.

Ridendo, sbuffando e e chiacchierando, la zona ristorante era stata rapidamente abbandonata alla solitudine e tutti i ragazzi si erano diretti nelle stanze per prepararsi prima di andare fuori.

Eccetto Sayumi, che aveva lasciato la sua cena prima ancora di finirla.

 

Yuki si era infilata una gonna di jeans, una blusa azzurra a righe bianche, a maniche corte, ed era uscita dall'entrata principale dell'albergo. Lì fuori, accanto alle porte d'ingresso, Takeshi stava con la schiena al muro. Aveva una camicia bianca e dei pantaloni nero opaco. Sembrava aver preso un po' di sole, il suo viso aveva un piacevole colorito.

Yuki non aveva niente da fare; aveva deciso di uscire dal ryokan perché non poteva perdere l'opportunità di visitare una città come quella – soprattutto perché non uscita quasi mai dal suo paese –, ma la sua amica era sparita nel nulla e Tetsuya era stato risucchiato dai professori.

 

Allora si era fatta trascinare dal ragazzo, che sembrava conoscere Kyoto molto meglio di lei.

 

«Ehy?». La voce di Takeshi suonava un po' incerta mentre chiamava la mezzosangue, cercando il suo sguardo col proprio, tentando di ottenere un cenno di vita – che si fosse addormentata in piedi come un cavallo? «Cherì, ti stai addormentando per strada? Stai prendendo un brutto vizio».
Ma Yuki era perfettamente sveglia, cosciente che stessero attraversando, insieme, quelle strade affollate illuminate dalle lanterne di carta scarlatta, a volte cozzando le spalle.
La strada selciata era piena di locande e bancarelle venditrici di stoffe ai lati e le persone si infilavano, arrivando persino da vicoli e strettoie, pur di percorrere quel quartiere così antico. Sembrava quasi che agli abitanti non bastasse la luce delle lanterne e venivano così accese altre luci, all'interno dei negozi e delle locande, e tutto diventava un'orchestra di piacevole caos e profumi di cibo – nel quartiere Kamishichiken*.

La vitalità eccessiva, colorata, chiassosa e felice, colma di allegria e aromi – che fossero di cibo, fiori freschi, incensi o delle persone che si trovavano in quella strada.
Yuki e Takeshi scontravano di nuovo le spalle e un fuoco d'artificio ovattò la voce del ragazzo mentre tentò di parlare. «... strana».

 

«Che?».

«Ho detto: sei strana».

«Scusami», mormorò lei, spostando appena gli occhi – doveva sollevarli verso la sua sinistra se voleva avere un contatto visivo con Takeshi, nei suoi bellissimi occhi di cioccolato. Sembravano confusi, mentre la trovavano, preoccupati, ma con quell'immancabile sfumatura calda che trasudava affettuosità. La gente intorno a loro non accennava a diminuire e i due, che già cercavano di non allontanarsi e stare vicini, finivano per stare attaccati.

«Stai bene?», chiese Takeshi.


Lei annuì, la bocca socchiusa e gli occhi un po' assenti – ma stava bene, sì. Specialmente con quell'invitante profumo di takoyaki**, di zucchero filato, di verdure bollite... «Sì, sto bene», e avrebbe voluto aggiungere qualcosa di sarcastico per far dissolvere qualsiasi preoccupazione, persino qualcosa come "Bella la camicia" sarebbe andato bene; ma nel suo sguardo si erano impresse varie scene a cui doveva riflettere. Sayumi, la grotta e la sua scritta... l'apprensione che provava quando le tornava alla mente quando vedeva quei due segni sul suo collo.

Un secondo fuoco d'artificio la fece sussultare.

C'era un'altra verità, una che non voleva dire. Se lei gli avesse detto a cosa pensava, Takeshi avrebbe dato il via ad una discussione, una botta e risposta tra due elementi totalmente diversi. «Sai, a pensarci bene», cominciò Yuki, distogliendosi dai suoi pensieri. «Non ho ben capito cosa ci facevi al ryokan, stamani. O meglio, non ho capito perché eri già lì».

Era tornata a seguire con gli occhi le figure colorate ed energiche dei turisti e dei concittadini mentre si mischiavano.

«Mio zio paterno è il cogestore del ryokan. Mi ha chiesto una mano e l'ho raggiunto prima».

Alzò le spalle, decidendo che non c'era altro da dire. Yuki, anche se avrebbe voluto indagare oltre, si limitò a sorridere. «Chiaro».

«Bene».

«Takeshi, volevo farti un'altra domanda».

«Ma certo, le mie fan vogliono sapere sempre un sacco di cose su di me».

«In questo momento mi viene più voglia di picchiarti».

«Questo non succede mai, invece. Dai, chiedi pure».

«Io... », si fermò un istante, stringendo le labbra e guardandolo con la coda dell'occhio. Era difficile fargli quella domanda, ma forse sarebbe stato l'unico momento per parlarne. «Volevo chiederti come stavi. Ti fa male, il collo? Hai riposato come si deve, per lo meno?». Yuki stava per continuare a bombardarlo di domande quando il ragazzo scoppiò a ridere, in una risata sincera e onesta, piuttosto che divertita. Con delicatezza, le prese la mano, nascosta dalla gente che avevano intorno. «Sto bene, Yuki. Grazie per esserti preoccupata. Mi faceva un po' male, ma è passato in fretta». L'albina stava per aprire le labbra in un sorriso sollevato – poi sentì la mano di Takeshi scivolare via dalla propria e tornare nella tasca.

La osservò per un secondo e poi in tutta fretta tornò a concentrarsi su dove metteva i piedi. «Oh, bene. Bene, bene».



Takeshi stava scrutando lontano, tra la folla che, finalmente, cominciava a diradarsi – per questo non si rese conto dello sguardo della mezzosangue.

Probabilmente, si stavano dirigendo per il grande spettacolo pirotecnico delle 23.00; avrebbero dovuto ringraziare proprio quello spettacolo se, a quel punto, sbucate come fiori in un terreno arido, erano apparse le sottili silhouette di una geisha e due maiko***; erano stupende, fasciate dal tessuto leggero degli yukata, decorati da disegni floreali e colori pastello, i visi delicatamente truccati e schiariti dal cerone. Lui le seguì con lo sguardo, discretamente, mentre le tre giovani donne gli passavano accanto ma nella direzione opposta. Si scambiavano occhiate, chiacchierando divertite «Sono bellissime, eh?».

Ma il ragazzo non sentì nessuna risposta – e azzardò un sorriso. «Sei bellissima anche tu, lo sai bene».

 

Ma ancora, il silenzio persistette da parte dell'albina. «Non mi dirai che sei arrabbiata... », e si voltò, con le sopracciglia alzate perché stentava a credere che si fosse davvero arrabbiata per quella ragione – e, se possibile, le sue sopracciglia si alzarono anche di più.

 

Perché di Yuki non c'era nessuna traccia.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Distrattamente, sollevò gli occhi dai gioielli con incisioni porpora della piccola bancarella, e si guardò intorno.

E si scoprì da sola.

Takeshi non non c'era – solo una notevole folla; ma, proprio poc'anzi, non avevano deciso di diradarsi? Quanto tempo era passato dunque? Era rimasta lì pochi secondi, per quanto le riguardava, ma forse erano passati più di due minuti.

Si maledì.

 

Era stato a causa di cosa avevano trovato lei e Takeshi, nell'incavatura rocciosa, di cui ignorava l'origine e il significato; a primo acchito era sembrata una semplice lingua straniera, si potrebbe addirittura dire antica, ma più l'avevano guardata meno avevano capito quale potesse essere. E poi, oltre a quella strana scoperta, aveva ancora in testa lo strano litigio con Sayumi. Bastava così poco per perdere la retta via.

Si staccò di qualche passo dal tavolo dei gioielli per infilarsi tra la gente. scalpitante e sudata. Riusciva a sentire ogni piccola cosa sulla pelle, ogni piccola alitata di vento, tessuto, grammo di polvere – avrebbe potuto percepire anche gli stati d'animo. E mentre qualcosa alle spalle la sospingeva in avanti, quasi a scontrarsi con il passante di fronte a lei, sentì tutto il viso andarle a fuoco.

La gola bruciava.

Dannazione.

Non era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva bevuto del delizioso, corposo sangue umano, giusto? Quello di Takeshi.

Probabilmente era troppo poco. Probabilmente avrebbe dovuto ucciderlo per rimettersi pienamente in forze.

 

 

Ma non doveva pensarci; brusca e rabbiosa, nuotò tra i corpi che premevano per schiacciarla, incastrando il labbro inferiore fra i denti, altrimenti era certa che avrebbe ringhiato. E se non ringhiava, imprecava sottovoce, sgomitando quel poco che bastava per farsi strada e, infine, riuscì ad appoggiarsi con le mani sul muro adiacente ad una stretta stradina, decorata solo dal fitto buio e dallo stillicidio delle tubature.

Quella avrebbe potuto diventare una serata interminabile.

Serata in cui potrei finire col dormire proprio qui, pensò, con l'immancabile autoironia, con l'amorevole compagnia di topi e ragni.


 

Terrorizzata all'idea che qualsiasi parte del suo corpo toccasse qualcosa di quella viuzza, si spostò i capelli sul petto e li tenne stretti fra le mani, mentre attraversava velocemente quel sentiero. In quel momento, mentre camminava nel buio, si sarebbe presa volentieri a testate per non aver chiesto il suo numero – e di chiamare i professori o Sayumi non ci pensava nemmeno. Mentre si malediceva e cercava di non pensare agli insetti che circolavano sui muri bui, arrivò dall'altro capo della strada.

Da quella parte, il quartiere era quasi identico a quello che aveva appena superato, dove però l'affluenza della gente era molto contenuta. Qualche coppietta, qualche famiglia. Da quel lato si vedeva la luna alta nel cielo.
Lontano e indistinto, c'era il vociare vigoroso di chi aveva voglia di fare baldoria e non pensare a niente. L'albina pensò di essere entrata dentro una bolla, tiepida e rassicurante. Aveva raggiunto la "sua" isola.

Però.

Mentre si sentiva finalmente al sicuro, parallelamente sentiva la debolezza farsi strada – era stata solo l'adrenalina a tenerla in piedi, le gambe non avevano mai avuto sostanza.

Qualche passo. Solo qualche passo, pochi metri, e avrebbe raggiunto quel piccolo ristorantino, dove avrebbe deciso come comportarsi – ma non ci arrivò. Il corpo la tradì dopo appena due passi, ad un metro dal centro della strada, lasciandola cadere pesantemente sulle ginocchia e poi, infine, distesa con tutto il corpo. Il silenzio di poco prima sparì improvviso e le voci si alzarono gradualmente, concitate e allarmate.

 

«Signorina, sta bene?».

«Accidenti, è cascata a terra... !».

 

E che la lascino dormire! Una volta tanto, che la lascino sprofondare dove voleva lei, che fosse lei l'agnellino, invece del lupo famelico: era sazia di quel ruolo.

Era tempo di dormire, pensava, mentre le palpebre diventavano macigni e si abbassavano, lente, con tutta la calma, coprivano gli stanchi occhi color oro – e mentre la vista si faceva sfocata, una voce impetuosa si fece largo fra tutte.

«Oh, che bella ragazza! ... voglio dire, scusami, stai bene?».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Voci che si ammassavano. Chiacchiericci e bisbigli che si intrecciavano fa loro. Una mano, che con delicatezza, toccava la sua spalla e poi il suo braccio. Yuki si sentiva soffocare.
Si domandava perché mai, dato che era molto distante dalle limpide acque di quella stessa mattina. Se lo ricordava bene, lei, stava percorrendo il selciato di quel quartiere con Takeshi, fianco a fianco, a scontrare le spalle ogni tanto. Ricordava le figure che si mischiavano, i colori fondersi e vorticare, il caldo farsi presente sulla pelle, l'espressione di lui un po' preoccupata.

Poi aprì gli occhi.

 

Ne incontrò un paio scuri, come una volta notturna, appena nascosti dalla visiera di un cappellino arancione. «Dicevo, stai bene?». E c'era quel particolare bagliore, un misto di apprensione e curiosità, come se stesse osservando una qualche strana creatura mitologica in preda a sofferenze varie. «Ti aiuto ad alzarti, dai». L'albina vide quella persona piegata vicino a lei, con un ginocchio a terra e l'altro alzato, alzarsi in piedi e porgerle una mano.

Yuki si era messa seduta, sollevandosi con un po' di fatica. «Ah-ah, sto bene», disse, borbottando; si issò in piedi, con l'ausilio delle mani, da sola. «Sto bene».

«Meglio così! Il mio mestiere è assicurarmi che tutti stiano bene e siano felici, d'altronde».

«Ah. Mestiere svolto egregiamente. Sono felice, felicissima. Come una Pasqua».

 

Quel ragazzo si ostinava a sorridere, un grande sorrisone che illuminava radiosamente il volto, dalla carnagione un po' più abbronzata. Si ostinava a sorridere nonostante Yuki non fosse stata uno zuccherino. Forse, più semplicemente, quel tizio non era in grado di cogliere l'ironia o il sarcasmo, e questo particolare avrebbe potuto esserle utile – e dire che una persona allegra era l'ultima che voleva sul suo cammino.


La mezzosangue corrugò la fronte, si portò due dita al setto nasale per premerlo leggermente. «Okay. Ho bisogno del suo aiuto. Devo... ».

«Aspetta, fammi indovinare. Sei una studentessa in gita scolastica e hai un coprifuoco da rispettare. Dimmi che ho ragione».

...

«... no?».

«».

«Sono un genio!».

Kami**** onnipotenti, e sebbene l'impulso di dar voce ai suoi pensieri era forte, dovette darsi un contegno. Aveva decisamente bisogno di quella persona per tornare al ryokan.

«Io ho diciott'anni, sai? Presto ne farò diciannove, proprio durante questo mese. Non ho mai finito la scuola, ma non me ne pento, sinceramente parlando. Però ho sempre sognato, insomma, mi piacerebbe molto frequentare un istituto d'arte, però sa-».

«Senti un po'– ». Dal setto nasale, le mani si spostarono sulle tempie. Aveva un forsennato bisogno di massaggiarle o sarebbe diventata una novella suicida; tra tutte le persone di un paese come Kyoto, lei, proprio lei, doveva incontrare quella più logorroica e assurdamente inutile? C'era da riderne – se solo non rischiasse grosso.
Le palpebre basse sugli occhi e le sopracciglia inarcate, esplose. «Io scommetto che sei una persona favolosa e piena di sogni, che vorrebbe vivere abbastanza e coronare il suo inutile sogno, non è vero? Allora apri le orecchie, mio caro povero idiota, e fai il tuo dannato mestiere. Aiutami. Devo tornare al mio albergo se non voglio essere sospesa ed eclissata dalla mia pace interiore. Okay? Ci siamo capiti?».

«... a».

«Cosa?».

«... povera. Tutt'al più».

 

Giustamente. Mancava solo questa. Era una ragazza – certo, una ragazza, una donna, un essere umano di sesso femminile. Si maledì – di nuovo –, mentre le concedeva un'occhiata più attenta, cercando di vedere oltre il suo odio e la visiera del cappellino; aveva un bell'aspetto, un po' da maschiaccio con una punta di delicatezza, i capelli scuri corti dietro la nuca, che spuntavano sotto il capello, superando appena la linea della mandibola. Le labbra erano carnose, rosee, e il naso piccolo e con la punta verso l'alto le dava un'aria particolarmente allegra – era una ragazza carina, sì. Ciononostante, perché doveva rivolgersi con quel boku****?

Questo spiegava la voce un po' troppo acuta.


«BENE! Non poteva andare meglio di così, devo avere qualche sorta di magnete», borbottò Yuki. Aprì le braccia, sbuffando esasperata, e le incrociò al petto. «Come ti chiami?».

«Makoto!».

«Makoto?».

«Makoto Aozawa. Ho un bel nome, vero?». Non poteva negarlo.

«Ascolta, Makoto, ho davvero bisogno di aiuto. Devo trovare i miei amici», anche se la parola "amici" sulle sue labbra stonava come una nota rotta, era quella la realtà. «Dove mi trovo? Come faccio a tornare alla spiaggia Kotohiki?».
 

Makoto appoggiò le mani sui fianchi, energica, guardandosi brevemente intorno, con aria professionale e per un attimo la mezzosangue credette che nemmeno lei aveva idea di dove fossero. «Fammi pensare. Devi essere dalla parte parallela al Kamashichiken, quindi devi per forza passare per il quartiere Miyagawachou. Avanti, ti accompagno!».

Non si fidava poi tanto di quella ragazza, di quella Makoto, ma l'alternativa era di vagare senza meta e non rispettare il coprifuoco.

E lì le cose sarebbero diventate difficili.

Sospirò. «Facciamo presto».

 

 

 

 

 

 

* Kamishichiken: è un quartiere della città giapponese di Kyoto, ed è conosciuto come il più antico dei cinque “hanamachi”, cioè città di fiori.
** takoyaki: sono polpette fritte di polpo a forma sferica, giapponesi.
*** maiko: è l'apprendista geisha, che si trova specialmente a Kyoto.
**** kami: significa “Dio” in giapponese.
***** boku: significa “io” in giapponese ed è per lo più usato dai maschi, cosa che ha creato più confusione per la protagonista.

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Capitolo 16
*** "Takeshi". ***


16.



Miyagawachou, una delle "città di fiori" di Kyoto.

Era conosciuto come il quartiere delle geishe, noto per la capacità di attrarre e intrattenere chiunque fosse semplicemente in cerca di arte – di bellezza; tempestato di numerose case da tè, piccoli teatri sulle rive del fiume Kamo, la distesa che faceva da madre al quartiere. Mentre percorrevano la strada, Yuki notò subito gli occhi sognanti di Makoto.
La ragazza alzava lo sguardo e ammirava i lati delle strade, qualche volta salutava i locandieri. Sembrava un po' la loro beniamina. «Di questi teatri ne sono rimasti pochi attivi. Non molti vanno ancora a guardare le rappresentazioni kabuki*, ormai». Alzò le spalle e guardò la sua "nuova amica". «C'è ancora il Minami-za, però. Yuki, non ti piacerebbe vederlo?».

Yuki si era riscossa, tornando a fissare la strada davanti a loro. «Sì, mi piacerebbe. Mi piace il teatro, ma temo non ci sia tempo».

 

Quando si era presentata anche la mezzosangue, Makoto aveva detto che quel nome sembrava le fosse stato cucito addosso. Yuki aveva ridacchiato perché la sua teoria aveva quasi un senso.

«Forse per vedere tutto lo spettacolo, ma potresti assistere un pochetto!», insistette Makoto.

«... Makoto, non so se è– ».

«Sarà divertente, vedrai!». Senza preavviso, Makoto le afferrò la mano e cominciò ad accelerare subito il passo, finché non divenne una corsetta vera e propria. L'albina faceva fatica ad equilibrare la sua corsa, non poteva rischiare di usare la sua vera velocità, ma non le andava molto di farsi trascinare.

Concentrata sul modo in cui doveva correre, non si rese subito conto che avevano raggiunto il famigerato teatro Minami-za

 

 

Era alto per tre piani e disseminato di luci gialle che andavano colorando i muri, di giorno bianchi, di un tenue dorato. Le finestre quadrate, piccole, il tetto tipicamente giapponese con la punta verso l'alto. Sopra la prima fila di finestre, si vedeva un lungo e stretto balcone, mentre l'ingresso presentava l'entrata e uno striscione rosso. Su quest'ultimo c'era scritto il nome dell'opera che stavano rappresentando: Shibaraku.
«L'avrò vista cento volte, ma continua a farmi lo stesso effetto. Non a caso è considerata una delle opere kabuki più famose, eh?», disse Makoto. «Anche se la Shibaraku non è esattamente un'opera, ma piuttosto una tragedia inserita tra uno spettacolo e l'altro».

Mentre parlava, le labbra di Makoto si erano già incurvate. Lei stava già assaporando l'eleganza di quelle creature mentre si muovevano da una parte all'altra, nei suoi occhi si specchiavano le luci invitanti e i loro colori sgargianti, il loro tocco tradizionale e le orecchie attendevano impazientemente di ascoltare quelle scene.

Yuki guardò con la coda dell'occhio Makoto e il suo viso – vivo e meraviglioso, era bellissima. Prima non l'aveva capito.
Prima, quando era occupata a pensare a se stessa, quando non aveva nemmeno capito che fosse una ragazza la persona che l'aveva aiutata – socchiuse le labbra, e sorrise leggermente.

 

«Beh? Entriamo o no?».

Lei sussultò come se fosse stata colta con le mani nel sacco. «... si capisce che muoio dalla voglia di andarci?».

«Neanche un po'».

 

 

L'interno del grande teatro era immerso in una penombra rassicurante; la maggior parte dei posti era stata occupata, sia da giapponesi che da stranieri, ma le due erano riuscite a trovare comunque due posti in fondo. C'era un silenzio rispettoso.
L'opera era già cominciata, il samurai Kamakura era sul palco, di fronte al santuario. Le luci puntavano sul palco e l'illuminavano la figura dell'uomo, la katana che pendeva al suo fianco.

Kamakura aveva appena gridato: «Shibaraku**!», forte e stoico, e il suo costume era talmente sgargiato da aver provocato una risata in Yuki. A quel punto, il samurai cominciava a raccontare la sua storia, seduto su uno sgabello.

Dopo qualche tempo dal monologo del protagonista, Makoto aveva toccato il braccio dell'albina e le aveva detto che dovevano andare – cominciava a farsi tardi; allora, tristemente e con la medesima velocità con la quale erano arrivate, erano scivolate via dalle proprie poltrone e si erano catapultate fuori


«Certo che quel costume era davvero assurdo», stava ridendo l'albina, mentre Makoto giocherellava con il cappello. «Beh, è vero, però ormai è una tradizione!», aveva ribattuto.

Chiacchierando, Makoto aveva accompagnato Yuki verso la strada che l'avrebbe condotta al ryokan, ridendo e scherzando come vecchie amiche. Avevano dovuto fermarsi un bel po' prima ma da lì in poi la strada sarebbe stata tutta dritta e Yuki non correva il rischio di perdersi.
«Ti accompagnerei volentieri», sospirava Makoto. «ma se mi allontano troppo, farò arrabbiare il mio capo».

Yuki scosse la testa, lasciandole un sorriso addolcito – incredibilmente. «Forza, torna indietro prima che il tuo capo ti uccida, io me la caverò», disse lei. «Al massimo, farò segnali di fumo».


Makoto accennò una risata – sincera come quella di un bambino.

 

 

 


 

***


 


 

 

Yuki aprì gli occhi.

La prima cosa che riconobbe di quel posto, fu il lampadario tradizionale della stanza. Poi la sua mano sinistra era scivolata fuori dal futono e aveva toccato la superficie liscia del tatami. Oh, ecco. Erano in gita e quello era l'albergo dove stavano pernottando.
Le pareti erano state contaminate da un'oscurità fitta. L'unico spiraglio di luce era quello fuori dala finestra – la luna era alta in cielo e osservava silenziosa la città.

L'albina tastò il pavimento finché non trovo il cellulare. Lo sbloccò e lesse l'orario sullo schermo: 2.30.

Solo due ore prima, la stanza si era riempita più di quanto Yuki e Sayumi si fossero aspettate. Qualcuno aveva bussato alla porta e Sayumi, pensando si trattasse di qualche professore, era andata ad aprire tranquillamente – ma fuori, sorridenti e spumeggianti, c'erano tre ragazze.
Sulle prime, Sayumi aveva pensato che si fossero soltanto perse, ma quelle tre non avevano affatto dimenticato dove si trovasse la loro stanza. Avevano tutte le intenzioni di andare da loro. Nessuno se lo aspettava, e men che meno le dirette interessate.
Era stata una cosa un po'... ecco, sulle prime avevano cercato qualche scusa per scrollarsele ma alla fine non avevano resistito e le avevano fatte entrare. Così, le tre ragazze avevano cominciato a parlare a mitraglietta, a chiacchierare sui più svariati argomenti – fin quando, ad un certo punto, una di loro non aveva fatto una domanda:


«Dì un po', Akawa, ma tu e Takeshi Katugawa state insieme?».


L'albina si era strozzata con il tè.
Sayumi aveva deglutito.

E silenzio.


 

Yuki si mise seduta, sollevò la schiena e avvicinò le ginocchia al petto – accanto a lei, Sayumi dormiva profondamente. Niente da fare, il sonno le era totalmente passato. Beh, questo voleva dire che sarebbe stata l'unica sveglia a notte fonda.

 


 

 


 

***


 


 


 


 Che peso morto, furono i pensieri scocciati di Takeshi mentre, facendo attenzione a non svegliarlo, si spostava dal petto il braccio di Kazuki. Non era nemmeno la sua stanza, Takeshi ne aveva una tutta sua, quindi che ci faceva lì? 

Ah giusto. Si era presentato alla porta con un sacchetto di patatine ed era entrato nella camera senza tanti complimenti. Takeshi stava cercando di ricordare quand'è che erano diventati così vicini.

Non è che lo odiasse.

Non proprio – ma era davvero fastidioso, alle volte.


 

In quel momento, tuttavia, il problema non era certo il suo rapporto con quello là, ma tutt'al più – stava ancora pensando alla sera appena passata; l'aveva cercata in lungo e largo, aveva corso per metri, forse km e... alla fine, quando era tornato al ryokan per avvisare i professori e Tetsuya, se l'era trovata all'entrata, ad aspettarlo con le spalle al muro. Takeshi si era sentito stupido.
Lui si era impanicato per cercarla ma lei era composta come al solito.

Okay, era contento che stesse bene, che fosse tornata. Ma si era sentito come se a lei non importava se il ragazzo si faceva marcire il fegato. Suvvia, Yuki doveva aver capito che Takeshi si era preoccupato, non poteva essere così... indolente.

Sospirando, era uscito dalla sua stanza. Era proprio una pessima idea – sarebbe stato impossibile addormentarsi se usciva fuori; ciononostante, sorpassò la soglia della camera e si chiuse la porta alle spalle e poi, le mani nelle tasche ed un espressione acciglia, aveva sceso le scale con calma, finché non aveva raggiunto il piano terra che dava sulla spiaggia.
E proprio lì, sulla veranda che precedeva la vasta distesa di sabbia, c'erano un paio di pantofole – in lontananza, una figura bianca.

 


 


 

 

***


 


 

 

 

La spiaggia era una landa desolata. Il dorato della sua sabbia, il leggero venticello e la luce bianca della luna – immersa nel silenzio notturno, la spiaggia aveva un ché di misterioso. Si sentiva solo lo scrosciare rilassato delle onde, le stesse che accompagnavano i passi smorzati di Yuki sulla riva, i piedi nudi che affondavano nella sabbia bagnata.
Aveva vari pensieri per la testa; aveva tante cose a cui pensare e così poche risposte, una grande urgenza dentro di sé, che la spingeva a vivere giorno dopo giorno. Inoltre, lei lo ricordava bene: c'era sempre qualche idiota a cui bisognava servire giustizia – qualche vampiro, qualche demone. Il tempo non bastava.

Una ventata più violenta sferzò sul suo viso e andò a smuoverle la chioma. Nello stesso momento, mentre guardava verso l'orizzonte nero come il petrolio, una mano fredda le aveva toccato la spalla destra, coperta dal tessuto dello yukata.

Aveva sentito la presenza di un'altra persona, seppure flebilmente, seppure distratta dai propri pensieri – ma non era riuscita a capire chi fosse. Così, Yuki aveva indossato una maschera di freddezza e si era voltata. La maschera era durata ben poco alla sua vista.

 

Sorpresa, un sorriso le era nato spontaneo sulle labbra.


Takeshi aveva i capelli arruffati, con ciuffi che spuntavano come molle da un vecchio letto, e gli occhi leggermente assonnati, le labbra rosse e – beh, era sempre lui. Aveva sempre un aspetto invidiabile, aveva sempre un'aura di dolcezza e mistero intorno a lui.
Takeshi aveva ricambiato il sorriso della ragazza e le aveva tolto la mano dalla spalla, per infilarle nelle tasche del pantaloncino al ginocchio. «Ehy», disse.

«Ehy», rispose lei.

«Ti va di camminare?».

«Sì, d'accordo».

 

Cominciarono a camminare, seguendo la strada che aveva intrapreso lei, quindi verso il lato destro della spiaggia. In lontananza, si sentiva il sommesso suono di qualche macchina solitaria.
«È un bel posto», disse Yuki. «Mi sento come se fossi fuggita da una grande metropoli. Beh, casa nostra non è proprio una metropoli... però il concetto è quello».

Takeshi aveva annuito. Camminava di fronte, abbastanza distante da darle solo la schiena, con le mani nelle tasche lo sguardo puntato in avanti. Lei, invece, guardava la sabbia e le orme che lasciava lui. Takeshi non sembrava volersi fermare molto presto. «È vero. Fa quell'effetto».

«Take, senti... ».

«Mh?».

«Stai bene? È tutto okay?»

 

Non rispose; il suo problema, uno dei tanti, era che sapeva di essere esattamente un tipo da fuga. Sopportare il peso della società, delle persone e tutti quei pregiudizi che li tenevano in piedi, di introdursi nel mondo come un adulto... no, non sarebbe mai stato in grado di sopportarlo. Non avrebbe mai avuto una forza simile.
Era in grado di stare con la gente, poteva far parte di quell'universo come ogni persona – aveva un effetto magnetico sulle persone, e il più delle volte queste si fidavano di lui. Ci sapeva fare, insomma.

Ma non voleva averci niente a che fare.

«Perché me lo chiedi?», rispose infine.

Yuki fece spallucce. «Non saprei, forse è che mi sono abituata alle tue stupidaggini. Arrivati a questo punto avresti fatto qualche battuta, per lo meno. Non sembri essere tranquillo».

«Sì, forse hai ragione».

«Ho ragione su cosa?».

Takeshi sollevò gli occhi al cielo e fece un sospiro pesante. «Non sembro essere tranquillo», mormorò. «Da una parte preferisco sia così. Gli altri non devono necessariamente sapere cosa mi frulla per la testa o come mi sento. Dall'altra, non è facile essere così». Finalmente, si decise a fermarsi, e l'albina riuscì a fermarsi un attimo prima di scontrarsi contro la sua schiena. «Ma con te non so come dovrei comportarmi. Non voglio mettere su una maschera ma non è il caso di essere onesto al 100%».

Yuki sollevò il viso. «Perché?».

«Perché non voglio rimanere ancora più scottato di così». L'albina lo vide abbassare la testa verso il basso, le braccia scoperte dalle maniche corte avere un fremito – come di rabbia. «Ho l'impressione di non potermi far vedere da nessuno. Per questo, fra tutte le scelte che ho, scelgo la fuga».

«Tu scegli la fuga?», ripeté la mezzosangue. Ascoltando le sue parole, le veniva quasi da sorridere, perché lui le stava parlando apertamente nonostante pensasse di non potersi mostrare a nessuno; al contempo, vederlo in quella lotta interiore, vederlo logorarsi di fronte a lei, la faceva sentire impotente.
Yuki socchiuse le palpebre e si torse il dorso della mano con l'altra. «Non è così», disse, piano. «Voglio dire, in tutto il mondo c'è qualcuno con cui puoi mostrare come sei senza remore. Almeno una persona c'è».

Takeshi si voltò verso di lei, con l'ombra di un sorriso spavaldo. «Stai parlando di te, per caso?».

«Beh... può essere».

«E tu invece? Sei davvero così come sei?».

«Certo. Non ho ragioni di nascondermi – cioè, non sto dicendo che tu... ».

«Lascia perdere me. Voglio sapere di te».


Per un attimo, gli occhi dell'albina brillarono, le guance si arrossarono leggermente. Un altro schiaffo di vento li avvolse, sconvolgendo i capelli di lui. Il fischio del vento era così sottile che sembrava stesse fischiettando. Yuki sollevò il volto e si spostò una ciocca dalle labbra. «Nonostante tutto, sono un po' come tutti», mormorò. «Siamo fatti tutti più o meno allo stesso modo, alla fin fine».

«Sommariamente», disse Takeshi, a voce bassa.

«Sommariamente», ripeté la mezzosangue.


Takeshi strinse le labbra, per poi socchiuderle e inspirare una gran boccata d'aria. Dopo pochi istanti, lasciò andare tutta quell'aria con un sospiro. «Quindi, morale della favola, tu non fuggi e sei uguale a noi, eccetto per qualche dettaglio». Takeshi abbassò le palpebre, osservando la conchiglia incastrata nella sabbia molle. Poi alzò gli occhi su di lei, l'ombra proiettata su un lato del suo viso. «Allora, anche tu ti senti sola come tutti gli altri?».


Ah davvero? Era questa la sua domanda?


«Sono domande sconvenienti, Takeshi».

«Lo sono perché ci ho azzeccato?».

Yuki lo guardò. «Sono sconvenienti», ripeté, scandendo lentamente, per accertarsi che lui l'avesse sentita. Il ragazzo allora alzò le spalle e si voltò, muovendo una gamba per riprendere il tragitto. L'albina, presa in contropiede, cominciò a seguirlo, perdendo l'equilibrio per un attimo.
Di nuovo, di fronte a lei c'era la sua ampia schiena. Indossava una maglietta che gli andava un po' larga sui fianchi, di colore cobalto. Aveva le mani di nuovo in tasca, e lei riusciva a vederne le gambe snelle, i cui polpacci si irrigidivano per un secondo ad ogni passo che compiva. Aveva le caviglie strette come i polsi. La pelle sulle gambe non era rosata come quella sul viso.


Yuki alzò il volto. «Qualche volta mi sento sola. Quando mi sento presa in giro o delusa, quando... », si sentiva la gola secca, ma si costrinse a proseguire. «... quando tu mi fai sentire speciale e poi fai lo stesso con le altre».


 

A quel punto, Takeshi arrestò il suo passo e si era girato in uno scatto repentino. «Non l'ho fatto... per quel motivo. Non l'ho fatto per nessun motivo, io non... », le parole stentavano ad uscire, un discorso sensato sembrava essergli del tutto estraneo. Non sapeva come doveva esprimersi.

Eppure, Yuki aveva capito guardando l'espressione costernata che snaturava i suoi lineamenti.

 

«Dici sul serio?», disse, la voce un po' instabile. Ci fu un attimo di silenzio, i suoi occhi tentennarono, prima che lui la prendesse per le spalle. «Dici sul serio? Perché se dici sul serio, io... ». S'interruppe.
Il suo sguardo non sapeva dove posarsi e alla fine si abbassò, verso la sabbia, e poi si immerse nella schiuma delle onde. Le labbra tremavano leggermente, in modo quasi impercettibile, ma era un tremolio che non poteva sfuggire alla mezzosangue. Alla fine, Takeshi la lasciò andare, e fece cadere le braccia lungo i fianchi – si stava dando dello stupido.


«Se dici sul serio... a me non dispiacerebbe essere per te ciò che dice il mio nome. Non mi dispiacerebbe affatto», inspirò, e la osservò con fermezza. «Sarei il tuo Takeshi****».

 

E per l'ennesima volta durante quella notte, Takeshi aveva fronteggiato di nuovo il lungo tragitto di sabbia, chiudendo le palpebre, con una sensazione di afflizione al petto. Sarebbe stato tutto ciò, per lei, se lei avesse voluto – ma niente di più.

Yuki seguì i suoi movimenti mentre si voltava e nuovamente, di fronte ai suoi occhi, c'era solo la sua ampia schiena. «Take... ».

«Dimmi».

«Take, io... sono innamorata di te. Idiota».

 

 

 



 

* kabuki: si indica un tipo di rappresentazione teatrale sorta in Giappone all'inizio del XVII secolo.

** Shibaraku: significa “solo un momento!”, che è anche il titolo dell'opera.

*** Takeshi: il nome Takeshi in giapponese significa "soldato".

 

 

 

 

NOTA:

….. AAAAAAAAAAH

Finalmente. Ci ho messo una vita, ma finalmente ce l'ho fatta. Sono riuscita a postare questo capitolo! - che di per sé, ha una certa importanza. Ci ho messo un po' per via degli esami e poi non riuscivo a dargli una forma che mi piacesse abbastanza, ma alla fine credo sia discreto.
Also, ultima cosa, sarò via per due settimane! Per cui gli altri capitoli – siamo verso la fine, teheh – usciranno solo dopo il diciotto! Beh, detto questo... spero vi sia piaciuto!

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Capitolo 17
*** Sta pendendo verso il baratro. ***


17.



Oh, no.


Oh... no.
Aveva combinato un enorme guaio. Non importava da quale lato vedesse la faccenda, Yuki aveva fatto un casino. Le labbra le tremavano e il suo sguardo si era lentamente sbarrato, come quello di un animale accecato. Qualcosa, nella sua testa, doveva evidentemente esserle sfuggito: il problema è che quella era la cosa più intollerabile.

Una creatura sovrannaturale e... un essere umano? Yuki conosceva almeno cinque buoni motivi perché quel tipo di rapporto non poteva vedere la luce – tuttavia, non era riuscita a negarselo. Man mano che lo conosceva, man mano che aveva potuto vedere tutti i suoi strati, l'albina aveva capito diverse cose. E aveva capito che lui non era "il tizio che odiava".

 

Aveva sentito il bisogno di dirlo.

 

Takeshi stava aprendo gli occhi e schiudendo la bocca, aveva il respiro fermo su di essa, in attesa. Si era fermato e l'aveva guardata, incapace di rispondere.
Aveva una sensazione assurda nello stomaco e un intenso fuoco si era concentrato nel lobo centrale del suo cervello. Battendo le palpebre, riuscì finalmente a parlare. «Yuki, stai-- ».

 

«NO!».

L'urlo della mezzosangue era stato così improvviso da farlo sussultare. Velocemente, si era coperta il viso con le mani, nel vano tentativo di nascondersi. Takeshi aveva richiuso la bocca, teso e perplesso, il ché era un fatto quasi insolito. Stava per impazzire, se lo sentiva.
Aveva bisogno di risposte. «Yuki».

«Ho detto: no».

«Non puoi dirmi no. Non puoi perché io sono stato il primo a farti la dichiarazione. Okay? Quindi adesso... », non avrebbe voluto fare altro che abbracciarla. Ma ai suoi occhi, lei si stava solo impuntando per via del suo caratteraccio. Con un sospiro, Takeshi gli prese le mani per scoprirle il volto.

Yuki aveva le guance rosse e le sopracciglia premevano sugli occhi. Ahh, era adorabile... ma anche una cretina.

Lui sorrise, stringendole le mani con le proprie, catturandone la freddezza con il calore dei palmi. «Adesso voglio che mi guardi. Guardami e parlami onestamente».

«È... è impossibile».

«Mh-mh».

«Takeshi, basta. Lasciami andare, lasciami stare».

 

Lui aveva insistito, senza staccarle lo sguardo di dosso, pressante e intenso, ma alla fine Yuki non aveva voluto spiccicare parola. E Takeshi si era stufato di insistere.
Mentre tornavano verso il ryokan, camminando a due metri di distanza l'uno dall'altra, entrambi stavano pensando più o meno le stesse cose; in silenzio religioso, Takeshi era nervoso e teso, mentre la mezzosangue continuava a darsi della deficiente con la cadenza di un mantra.

 

 

Come aveva fatto quella situazione a primo acchito meravigliosa a concludersi a quel modo?

 

Sono. Una. Deficiente, Yuki scalciava la sabbia con i piedi nudi.

Basta, mi rinchiudo in convento, e Takeshi sospirava pesantemente, tra un passo e l'altro. Il ragazzo non poteva capire né tanto meno immaginare cosa frullasse nei pensieri dell'albina, perché si era comportata in quel modo, perché si era nettamente e disperatamente rifiutata di parlare. Lui era convinto che c'era qualcos'altro sotto, qualcosa che riguardava il suo mondo – per questo non ne aveva voluto parlare.

Ciononostante, era scocciato. Ancora una volta, doveva brancolare nell'ignoranza.

 

 

Quando furono giunti di fronte alle scale che portavano alle camere degli alunni, Yuki aveva incrociato le braccia al petto e l'aveva finalmente guardato, cercando di sostenerne lo sguardo. «Allora... », proprio il Diavolo aveva parlato. «Quindi, ecco... », deglutì.

«Sì, infatti», disse lui.

«F-fa silenzio».

«No».

«... stupido mentecatto, smettila di guardarmi così».

Ma che cosa gli piaceva tanto di Yuki Akawa, poi?

«Non ti sto guardando in nessun modo».

 

Il fatto che fosse in grado di uccidere – compreso lui? La sua natura non-umana, che la rendeva speciale, “alternativa”? Il suo aspetto fisico? Takeshi, in quel momento, non riusciva a pensarci. Non voleva nemmeno pensarci.
Mentre si poneva quelle domande assurde, si trovò nuovamente a sospirare, grave; una cosa che sapeva per certo era che non voleva che finisse come l'altra volta, quando era stato lui a dichiararle i suoi sentimenti e... avevano finito per litigare.

Ogni volta che affrontavano i loro sentimenti finivano per discutere o in un'atmosfera pietosa come quella, ed era un fatto pazzesco. Quando aveva sentito quella frase dalla sua bocca aveva pensato di abbracciarla, aveva pensato di sorridere pieno di emozione – per una volta – e persino di baciarla fino a consumarle le labbra. Aveva immaginato tante cose ma di certo non quel finale.

 

«Buonanotte, Take». Takeshi la osservò. «Per quello che... beh, per quello che ho detto, fai finta di niente, okay? Vai a dormire, su».

 

Quel tono gli diede fastidio, ancora.

 

Inarcò un sopracciglia e strizzò gli occhi – okay. Voleva che andasse a dormire? L'avrebbe fatto, sarebbe andato a dormire.
Le mani scivolarono nelle tasche e sorrise, enigmatico, piegandosi verso di lei per baciarle la guancia – lo schiocco del bacio echeggiò nella hall, rumoroso.

«Buonanotte a te, cherì».

 

 

 

 

***

 

 

 


Al suo risveglio, nella camera, c'era solo Yuki; dopo una stupenda notte piena di emozioni, ciò che aveva trovato fu solo un bigliettino lasciato sul tavolino e un futon ordinato.
Con gli occhi appannati e la luce che fendeva le coperte, l'aveva dispiegato per leggerlo, riconoscendo la calligrafia di Sayumi; la esortava a scendere al piano terra appena si fosse svegliata e nel frattempo avrebbe detto ai professori che non si sentiva molto bene, per coprirle le spalle.

Yuki richiuse il bigliettino, seduta con le gambe al petto – sospirò profondamente, toccandosi la guancia, ricordando il bacio. Sentiva la testa fondere, solo pensandoci un attimo. Decise piuttosto di fare mente locale e riflettere sul programma di quel giorno.

Non riusciva a ricordare – almeno in quel momento – cosa avrebbe fatto la classe quella mattina. Si prese la testa, spremendosi le tempie con le dita, ma alla fine decise di prepararsi in fretta e raggiungere la hall come le era stato suggerito dall'amica.
Dopo essersi rinfrescata velocemente, aveva indossato la divisa della scuola e legato i capelli in una coda alta ed elegante che lasciava il collo scoperto, e si era diretta giù per le scale.

 

Mentre scendeva i gradini, pensò che la cosa peggiore della situazione era che non poteva parlare con chi le mancava di più; la vedeva sgusciare silenziosa e rigida fra i gruppetti formati nella giornata precedente, gli stessi della sera in cui erano usciti per Kyoto.

 

Anche quella mattina erano tutti pronti davanti all'ingresso, di fronte al prof. Okamoto e all'altro professore, come cadetti addestratissimi.
Yuki si attaccò alla parete in fondo alla stanza, vicino alle sedie, e ne approfittò per cercare i tre “amici”, ma trovò solo Tetsuya incastrato fra un paio di ragazze. Di Takeshi e Sayumi non c'era l'ombra.

 

 

«Ci siamo? Facciamo l'appello».

Yamato Okamoto era, come al solito, ligio al suo dovere e preciso nei suoi compiti. Stava squadrano i suoi alunni adesso riconoscibili con le divise; la mattina la passavano tutti insieme e per agevolare i compiti degli insegnanti gli alunni indossavano la divisa per farsi riconoscere. 
Mentre chiamava i nomi dei ragazzi e faceva viaggiare lo sguardo, incrociò quello della mezzosangue in fondo al nutrito gruppo. Ebbe appena un secondo per rendersi conto che, accanto a lei, non c'era Ichinomiya – erano come gemelle, sempre insieme.

Quando ebbe finito l'appello, si era avvicinato a passi lenti e cauti all'albina. Era consapevole del carattere poco socievole della ragazza e la sua espressione vaga e assente erano chiari segnali – per un professore come Yamato. «Akawa, eccoti qua. Come va?».

Yuki aveva alzato le spalle, braccia incrociate. «Discretamente bene».

«Discretamente, dici... », l'uomo aggrottò un po' le sopracciglia. «Vedo che Ichinomiya non c'è, sai dove si trova? Voi--».

«Non c'è. Almeno, non è qui con me. Ah, eccola, è lì». L'albina indicò in obliquo con il capo, verso la spaziosa sala dove si consumavano la colazione e il pranzo – Okamoto seguì la traiettoria ed eccola lì, seduta ad uno dei tavoli, le caviglie incrociate e il cellulare tra le mani.


Strano è strano, pensò.

 

Che Akawa avesse litigato con qualcuno, non era niente di sorprendente, ma che fosse successo con Ichinomiya... Quella ragazza dai capelli così strani non sembrava il tipo con la quale fosse possibile litigare.
Yamato tornò a guardare l'altra, fermando le labbra in una linea. Allora, annuì, riprendendo: «Capisco. Senti, Akawa, ho la sensazione che sia successo qualcosa di spiacevole tra di voi e sarebbe un peccato trascorrere la mattinata da sola, non pensi? Che ne dici, vuoi compagnia da un noioso adulto come tanti, per oggi?».

Compagnia, pensò l'albina, compagnia!

 

 

Con un sospiro, l'albina era già sul punto di rifiutare la cortese proposta del professore ma purtroppo le bastò un'occhiata per notare tutti i suoi buoni propositi. E poi non era male, quell'umano... «... come vuole».

Yamato sorrise energico alla sua risposta, con un cenno d'assenso del capo. «Vedrai, sarà bello».

«Come no».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Facciamoci una foto, Tetsuya-san!».

 

 

Il vampiro dai capelli biondi aveva incurvato la bocca in un sorriso forzato mentre cercava di mettere distanza fra lui e le tre adolescenti in fiamme – ora che voleva tornarsene a casa; non riusciva ad apprezzare le attenzioni di quelle ragazzine, umane per giunta, che si emozionavano e ridacchiavano, che cercavano di attaccarsi alle sue braccia.

«Tetsuyaaaa-saaan!». Erano delle piattole. La personificazione della salmonella. Sì, erano un batterio vivente, o non si spiegava come facevano ad essere così fastidiose, opprimenti e onnipresenti. Ciononostante, Tetsuya insistette col migliore dei suoi sorrisi, con le punte dei canini che facevano capolino. «Scusatemi ma devo davvero raggiungere gli altri professori». Un istante dopo si stava già incamminando verso il professore di inglese, appoggiato al parapetto di legno e la testa inclinata verso il basso a specchiarsi nel lago che circondava il tempio oro.

 

 

Per quella mattina erano andati a vedere il Kinkaku-ji*, l'antichissima villa per lo shogun** Ashikaga Yoshimitsu. Circondato da un ampio parco, era colmo di isolette e pietre. L'intero padiglione era ricoperto di foglie d'oro puro ed era composto di tre piani, e aveva il compito di contenere le reliquie del Buddha. La luce del sole batteva sulla superficie rendendolo quasi accecante.

Tetsuya si coprì la fronte con il palmo della mano, appoggiandosi con i gomiti sul parapetto, accanto a Yamato.

 

«Ah, Tetsuya», l'uomo girò appena appena il viso per sorridere al ragazzo.

 

Il vampiro guardò il professore, inespressivo. Yamato Okamoto non gli dispiaceva, benché fosse anche lui un essere umano. Gli stava piuttosto simpatico, a dirla tutta, forse perché si era dimostrata una persona molto intelligente e colta.
«Qualcosa non va?», chiese Tetsuya.

Yamato inspirò l'aria calda, intrisa del verdeggiante paesaggio tutto attorno, mentre il canto delle cicale riempiva le sue orecchie. Scosse la testa, con un espressione pensierosa. «Hai presente Yuki Akawa? Sai, la ragazza albina».

Tetsuya sollevò impercettibile le sopracciglia: la ragazza albina.

«Sì, ce l'ho presente. Non passa inosservata, eh?», osservò il biondo.

«Beh, indubbiamente, non passa inosservata. Ma, a parte il suo aspetto, questa ragazza non ha proprio un carattere facile e per questo non è riuscita a farsi degli amici. Eccetto una ragazza, Sayumi Ichinomiya, ma penso che abbiano appena litigato». Yamato si mise a fissare il palazzo d'oro, stringendo le palpebre.

«Ah, sì, me ne aveva par– ». Tetsuya riuscì a fermarsi in tempo, mordendo forte il labbro inferiore: tecnicamente, loro due non si conoscevano. Era stata una richiesta – o un ordine? – della stessa mezzosangue che non voleva assolutamente che si sapesse del loro stretto legame; Yuki aveva detto che Tetsuya era troppo di bell'aspetto per essere amici e che avrebbero sicuramente iniziato a circolare nuovi voci e lei non aveva nessunissima intenzione di averci a che fare. Punto.
Tetsuya avrebbe voluto farle notare che avevano già dato l'impressione di conoscersi, per esempio quando si erano seduti sulle poltrone in spiaggia, ma qualcosa gli diceva che non voleva essere contraddetta.

A volte si capiva palesemente che fosse una signorina di buona famiglia.


 

«E... sei preoccupato per Akawa?», chiese il vampiro, tornando al discorso.

«Abbastanza, non ti mentirò; come ti ho detto, non ha amici all'infuori di Ichinomiya e di questo ne sono quasi certo. Poi è un peccato restare per conto proprio in gita scolastica, non credi?».

«Beh, non mi sembra poi del tutto sola, l'ho vista con un... ragazzo». Non che gli andasse tanto bene. Tetsuya non riusciva ancora a digerire che la sua Yuki fosse così intima con Takeshi.

 

«Mi scusi, Tanigawa-san». La voce gelida – mescolata ad un tono assassino – giunse improvvisa alle spalle dei due, facendoli sussultare come gatti scottati. Tetsuya, che era stato per l'appunto chiamato, si era girato lentamente, preparandosi all'imminente attacco verbale dell'amica; poi però, i suoi occhi furono sorpresi di notare accanto all'albina una seconda persona. Una ragazza con un cappellino con visiera.

 

Yuki guardava il vampiro fermamente, stringendo nella sua mano quella della ragazza. «Devo parlarle di una cosa».

 

 

 

Tutti e tre, insieme, si avviarono verso un punto più nascosto e al riparo da orecchie indiscrete; quando furono abbastanza distanti e al sicuro, Yuki si era rivolta alla ragazza, appoggiandole una mano sulla spalla. «Tetsu, lei è Makoto Aozawa».
Tetsuya, composto come al solito, fece un verso distratto di assenso. Ahhh, sì? Makoto Aozawa? Il suo nome significava sincerità ed anche il suo volto, illuminato da un bel sorriso, trasudava proprio onestà. Aveva capelli corti e scuri che venivano scompigliati dalla leggera brezzolina. Avrebbe potuto scambiarla per un ragazzo.

 

«Molto piacere!», disse Makoto. Si era tolta il berretto con la visiera e aveva improvvisato un teatrale inchino – poi aveva guardato gli occhi ametista del vampiro, sfoggiando un bel sorriso.

Quando i loro sguardi si incrociarono, Tetsuya fece un sospiro incupito. «Piacere mio».

 


Quando erano arrivati al parco Yuki si era allontanata dal resto del gruppo per stare un po' da sola e mentre girovagava, aveva incontrato Makoto che stava sorvegliando la zona lì accanto. Le aveva fatto piacere vederla e allora non avevano resistito alla tentazione – e avevano cominciato a chiacchierare. Ma più le parlava, più la mezzosangue provava una sensazione molto strana.
Strana e brutta.

Più le parlava, più il suo odore diventava familiare e i suoi occhi splendevano di una luce particolare.
Allora le era venuto un dubbio, un dubbio che aveva dell'incredibile, non poteva... non poteva essere; l'aveva presa per mano, dicendole che voleva presentarle il suo amico, e grazie a questa scusa l'aveva trascinata verso il parco.

 

Lei non voleva ancora crederci, ed era per questo che era corsa da lui.

 

Anche se in cuor suo aveva già capito, anche se il disegno era chiaro e lei... lei avrebbe fatto volentieri a meno di quella verità. Ma non poteva lasciare Makoto in quella bolla.
Sentiva i dotti lacrimali combattere. «Makoto, senti... ».

 

Come poteva? Come poteva dire una cosa del genere mentre lei sorrideva, così graziosamente, docilmente? Si girava verso Yuki, sorpresa di sentirla parlare con un tono così debole.

Non aveva una dannata risposta.

«Makoto, devo dirti una cosa. Una cosa che potrebbe essere... dura da accettare. Una cosa che non dovrebbe nemmeno esistere ma è qui. Ha preso il sopravvento e adesso è qui – con te. Ma non devi avere paura perché io ci sarò per te e ti aiuterò e tu... e tu starai bene. È una promessa».

«Yuki, cos-».

«Non sei un essere umano».

Qualcosa, in lontananza, si ruppe. «Sei un demone».

 

 

 


 

***

 

 

 

 

 

«Sei un demone, Makoto».

 

Cosa?

 

Makoto batté debolmente le palpebre. Per un attimo, un fischio si era infiltrato nelle sue orecchie.
La sua testa ripeté – cosa? Lei era... un demone? Ma prima di tutto, cosa intendeva con demone? Intendeva quel tizio con forcone, corna e coda? No, forse aveva sentito male, perché la cosa sembrava quasi divertente.

Eppure Makoto non rideva.

 

La cosa non suonava ridicola come doveva.

 

Improvvisamente, era solo una rabbia furente ad animare i respiri irregolari di Makoto; una furia silenziosa accendeva i suoi occhi, protetti all'ombra di un albero. Lei non era così. Non era un demone. Come se quelle cose esistessero. Come se mostri del genere fossero reali. Eppure, ancora, dentro di lei non riusciva a negare quella faccenda.
Come a cercare una risposta, guardò Yuki. Era in silenzio. Chissà perché, poi? Aveva i pugni chiusi e le nocche che sbiancavano ma il viso era fermo e risoluto come quello di un comandante.

 

«Makoto», eccola, alla fine aveva parlato. «Makoto, devi ascoltarmi».

La ragazza cercava di ascoltare, di guardare l'albina negli occhi e sentirsi sicura di qualcosa – benché fossero bastate due frasette per far cadere l'unica certezza che avesse. Guardava Yuki forse alla ricerca della stessa ragazza scontrosa che era svenuta, su quella strada, e che l'aveva scambiata per un maschio. Ma non la trovava.

«Tu non sei Yuki. No, no no. Yuki è una brava ragazza. Lei è in gita scolastica. Lei non dice queste stupidaggini», Makoto fece un passo indietro, agitando nervosamente le mani.

«Makot--», e quella fasulla Yuki aveva allungato la mano verso la sua vittima, ricevendo uno schiaffo sulla mano. Uno sguardo di terrore che distorceva i suoi tratti.

Makoto aveva paura di lei ed era una paura sincera.

E la sua corsa, avventata ed insana, ne era la conferma.

 

La sua immagine si era dissolta velocemente. Al suo posto, una plumbea nuvola, frastagliata, violenta – Yuki aveva allungato la sua mano, forse per afferrarla, ma le sue dita avevano picchiato il nulla. 
Yuki richiudette la mano, ritirandola verso il petto.

«Hai fatto la cosa giusta». La voce di Tetsuya le arrivò calma, sembrava che la questione non gli tangesse minimamente – o magari credeva che si sarebbe aggiustato tutto.

Lei, aveva fatto la cosa giusta? Come poteva dirlo?

Tetsuya sembrò cogliere al volo quelle domande senza risposta. Le si parò davanti con un passo, guardandola in volto, mentre lei fissava la polvere a terra, la fronte imperlata di un leggero sudore.

«Yuki», disse in un sussurro. «Cosa credi che sarebbe successo se fosse andata avanti così? Un giorno avrebbe semplicemente accusato quei sintomi e poi sarebbe impazzita dal nulla, senza nemmeno sapere perché. Avrebbe pagato quella punizione senza capirci niente e sarebbe stato solo più ingiusto. Ti sembra corretto?».

L'albina scrollò le spalle. «No. Non mi sembra corretto. Però, lei... ».

«Lei è sul filo del rasoio. Lo so».

 

 

In un certo senso, Yuki aveva portato Makoto dal boia.

Ma Makoto Aozawa era davvero un demone sull'orlo del decadimento.

 

La mezzosangue strinse i pugni. Dannazione.

In quel momento voleva solo sapere cosa fare. Cercava solo la soluzione – schiuse le labbra, tremanti, e sollevò gli occhi sul vampiro biondo. Avrebbe tanto voluto essere confortata da lui, magari con un abbraccio. Già, un abbraccio. Proprio mentre Makoto stava facendo i conti con quella stupida verità, lei voleva un abbraccio – pensandoci, il suo sguardo si fece più tenace. «Abbiamo ancora domani per aiutarla. Per il momento, dobbiamo tornare con il resto della classe, in ogni caso Makoto non ci farebbe avvicinare di un passo. Deve cercare di smaltire la faccenda, in qualche modo».

Tetsuya annuì. «Muoviamoci stanotte per rintracciarla».

«Sì, è una buona idea, non penso ci metteremo tanto».

Tetsuya fece un cenno col capo, battendo le palpebre. Le posò una mano sulla spalla, con la sua solita premura. «Andrà tutto bene, vedrai».

 

 


 

 

***

 

 

 

 

 

Quando si guardò allo specchio, opaco dal vapore della doccia, vide i propri occhi riflessi sulla superficie; avevano una forma piuttosto normale, un poco più rotondi della norma, con lunghe ciglia nere. Il colore dei suoi occhi era scuro, quasi nero, ma avevano una strana luce blu – l'avevano sempre avuta.
Makoto si guardava sempre allo specchio dopo la doccia, sorrideva e cominciava la giornata. Si ripeteva che, un giorno o l'altro, avrebbe coronato quel suo stupido sogno da eterna adolescente. Si diceva che le piaceva la sua vita. Forse non era sempre sincera come suggeriva il suo nome.

A ben vedere, non lo era mai stata.

Si guardava, ora, e quegli occhi le sembravano solo pezzetti di un cielo rattoppato, ferito.

 

Le mani tremavano. Le sentiva bruciare. Sentiva tutto il corpo andare a fuoco, dalla punta dei piedi fino ai capelli. Miriadi di aghi pungevano ogni centimetro del suo corpo.
Rivolse i palmi verso il suo viso, cercò di focalizzare la sua attenzioni su quelli – era tutto così sfocato. Era tutto così... distrutto.
Ma in quel momento, capì qualcosa. Qualcosa di storto, eppure importante. Era una sensazione che serpeggiava come una scia di brividi.

 

La sua stanza, al mattino, rasentava sempre il disastro, la distruzione più totale.

I mobili erano rovesciati a terra, i vestiti sparpagliati nei posti più impensabili, lividi violacei sul suo corpo, e lei sapeva che soffriva di sonnambulismo. Ma forse c'era qualcosa di più.

Non capiva perché proprio lei. Non capiva proprio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

* Kinkaku-ji: o Tempio del padiglione d'oro è il reliquario di Rokuon-ji e fu inizialmente costruito per essere una villa e molto dopo fu convertito come tempio Zen.

** shogun: letteralmente, “comandante dell'esercito”, era un titolo ereditario conferito ai dittatori militari del Giappone.

 


 

 

NOTA:
Sono tornata? Sono tornata.
Dopo due settimane passate in vacanza, è arrivato il momento di scrivere, studiare, disegnare e FARE QUALCOSA DI PRODUTTIVO francamente ho il dubbio che non riuscirò a fare tutte queste cose come si deve, ma... farò del mio meglio!

Dunque, Yuki ha confessato improvvisamente i suoi sentimenti al nostro Takeshi e... e poi? E poi niente, ci sono talmente tante cose in ballo che lei non sa come comportarsi. Nel dubbio, decide di fare l'acida.

Tetsuya sembra essere un pochino geloso del rapporto di Yuki e Takeshi, d'altro canto era lui “quello importante” fino a poco tempo fa.

E poi, Makoto. La piccola – e neanche tanto – Makoto deve fronteggiare una verità assurda.
Come al solito, spero che il capitolo vi sia piaciuto e se vi va, lasciate un commento!

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Capitolo 18
*** Il salvatore senza armatura. ***


18.




«Yuki-chan?».

L'albina continuò a salire lentamente le scale, un gradino dopo l'altro.
Era stanca morta. Tutto quel sole e il pellegrinaggio per Kyoto le avevano risucchiato le energie. Aveva tutta l'intenzione di sdraiarsi su un letto e non alzarsi per un po'... almeno fino a notte fonda, quando sarebbe uscita di nuovo, insieme a Tetsuya.

Era così distratta e assorbita dalla spossatezza da non sentire la voce dell'amica.

«Ehy, non mi ignorare!». Yuki fermò un piede a mezz'aria, tentennando. Qualcuno la stava chiamando – si girò, appoggiandosi al corrimano per non perdere l'equilibrio: Sayumi era dietro di lei, appena qualche scalino, con la fronte aggrottata. Stringeva l'orlo della gonna come un salvagente – era nervosa? La vide raggiungerla, fino a che non si trovarono faccia a faccia. «Volevo... », s'interruppe, sospirando. «Volevo parlare con te».

Al suo contrario, la mezzosangue aveva una calma zen invidiabile. «Ti ascolto».

Sayumi sospirò. «Ecco, beh... Capisco di essere stata esagerata, prima. Brusca. Non voglio dirti che mi dispiace perché, se devo dirla tutta, non è così. Ho usato le parole sbagliate e mi sono arrabbiata quando potevo parlartene con calma, ma il concetto è sempre lo stesso. Mi pesa, questa cosa. Fa sembrare la nostra amicizia... una messinscena».

«Hai finito?».

«Ehm, s-sì».

«Tu vuoi che io ti parli di ciò che succede. Vuoi che io mi confidi con te. Ma ti rendi conto che questo vuol dire mettere in pericolo la tua vita? Mi stai chiedendo di farti correre rischi, anche se non voglio, anche se odio l'idea». Il suo tono era troppo freddo. Non era così che avrebbe voluto risponderle. «Eppure, sin dall'inizio... tu sei stata in grado di capirmi senza che ti rivelassi chissà che cosa».

 

Sayumi sapeva che non poteva darle torto, almeno in parte. Certo, ricordava il loro incontro, la loro reciproca simpatia, l'intesa che avevano stabilito fin da subito. Si erano capite ed incastrate come amanti.
Adesso sembrava così impossibile.

Vide l'amica passarsi la mano dal punto fra le sopracciglia fino alla radice dei capelli, scuotendo piano la testa. A guardarla meglio, sembrava stremata. «... va tutto bene?», sussurrò Sayumi, scrutandola di sottecchi.
Yuki guardò di lato, lasciando scivolare il braccio lungo il fianco, meccanica come un automa. Beh, no, non andava affatto bene. Ma poteva raccontarle quella storia senza che l'amica cercasse di ficcare il naso? Ma d'altro canto, Sayumi non poteva continuare a capirla solo con l'intuito o l'esperienza. Aveva bisogno che lei esprimesse a parole i suoi stati d'animo.

«Una ragazza», esordì a quel punto. «Ho conosciuto una ragazza ieri sera e stamani, quando l'ho rivista, io e Tetsuya abbiamo capito che è in realtà un demone. Solo che lei non lo sapeva».

 

Quella rampa di scale era vuota. L'unico suono era il lontano scalpitare dei camerieri mentre facevano su e giù, avanti e indietro. C'era anche il suono di posate e piatti di ceramica, forse qualcuno stava pranzando. Tintinni di bicchieri e passi veloci.

Sotto i suoi piedi, i gradini di legno scricchiolarono sinistri. «Sono preoccupata per lei. Non so dov'è, come sta... beh, sicuramente starà da cani».

«Capisco», rispose Sayumi abbassando appena le palpebre. Ci fu un attimo di silenzio in cui anche i rumori più lontani tacquero. «Cosa pensi di fare con lei? Devi... ».

«Devo aiutarla. Su questo non ci piove. Stanotte andremo a cercarla e le parleremo. Ecco tutto».

 

Avrebbe voluto aggiungere, acidamente, col tono di chi era stufo marcio, “sei contenta adesso?”, ma le si erano incollate le labbra. Si era sentita così tesa e a disagio a parlarne, ma probabilmente... era lei quella strana – che stava sbagliando.
Le diede le spalle, con l'ombra del pentimento in viso. «Vado in stanza», disse, per poi sparire per le scale.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Alle 23.43, Yuki fu svegliata dal suono di un sassolino contro la finestra.

 

Dopo pranzo – nel tardo pomeriggio – si era addormentata per racimolare un po' di forze, ma non credeva che si sarebbe svegliata così tardi. Quando si risvegliò, i suoi occhi videro il buio della notte, storditi dal risveglio improvviso. Nel futon accanto, Sayumi dormiva. Sollevò la schiena e si guardò intorno, come se non riconoscesse la stanza in cui si trovava, dove aveva appena dormito per ore. Provava una strana... sensazione. Si voltò lentamente, ancora un po' intontita dal risveglio, e si girò in direzione della finestra – alle loro spalle.
Ma certo, era Tetsuya, che sicuramente pregustava il rimprovero che le avrebbe fatto per aver dormito così tanto.
L'albina si mise quindi in piedi, stirandosi in fretta la gonna della divisa – non si era nemmeno cambiata d'abito, era letteralmente svenuta – e andò alla finestra, aprendola.

Alle sue spalle, un mugolio. Sayumi si era svegliata, borbottando confusamente. Sollevò la testa dal cuscino, scorgendo con la coda dell'occhio l'amica albina salire sul davanzale del balcone, vestita della divisa e con gli stivali ai piedi. «Che diamine stai facendo... ?», riuscì a biascicare.

Ma Yuki non rispose. Il piede e le mani sul davanzale, sembrava sul punto di spiccare un balzo – sembrava, perché era rimasta pietrificata. Allora Sayumi si mise a sedere, con aria preoccupata. «Ehy, che ti pre-».
All'improvviso, come un gatto spaventato, la mezzosangue si buttò di sotto. Sayumi saltò dal letto e corse verso il balcone, quasi inciampando, facendo in tempo a vederla atterrare sull'asfalto come se avesse appena superato un metro o due. Le era venuto un infarto.
Ma c'era qualcuno lì, oltre all'amica, e non sembrava proprio per niente il vampiro dai capelli biondi – era molto più bassa e aveva una figura femminile; portava un capello con visiera arancione e stava in piedi con le mani nelle tasche della sua felpa, spostando il peso da una gamba all'altra. Sembrava in attesa?

Sayumi si spostò dalla finestra, sedendosi sul futon, con un brutto presentimento addosso. Forse era quella Makoto di cui aveva parlato. Allora non doveva essere un problema.

 


«Makoto!!», urlò Yuki.

 

Makoto sollevò la testa.
Ah, eccola, l'aveva davvero raggiunta. Non ci aveva sperato molto. La ragazza aveva fatto qualche passo verso di lei, attraversando una manciata di asfalto.

«Makoto... finalmente. Ti fai desiderare, eh?». L'albina si passò la mano fra i capelli, scostandoli dalla fronte, respirando. Era così felice di vederla! «Allora, stai... », si fermò un attimo, titubante. «Stai bene?».

 

Stava bene?

Le era stata fatta una domanda semplice. Doveva dirle sinceramente come stava. Sentiva dolore? Sentiva gioia? Cosa accidenti sentiva? A questo punto, ogni sua sensazione avrebbe potuto essere una stupida farsa, ogni suo ricordo da essere umana era sparito nell'istante in cui aveva conosciuto Yuki Akawa. Ah... era colpa sua, evidentemente. Lei avrebbe potuto continuare la sua vita da ragazza qualunque, continuando a guardarsi allo specchio e a infondersi coraggio.
Avrebbe tanto voluto.

Makoto fissava Yuki con occhi duri, senza quella luce che animava il suo sguardo. «Come faccio a sapere che sono davvero... », la sua voce era trattenuta da una corda. «... un mostro? E tu come fai a saperlo?».

«Makoto, non sei un mostro. Sei tu che decidi come comportarti e che ruolo avere come... come un demone, è così per ognuno di noi», ribatté l'altra. «Io stessa sono per metà demone, per questo lo so».

«Ah», fece Makoto.

 

Sì, la cosa aveva un senso. E lei poteva ancora decidere. Non doveva essere per forza disumana, poteva ancora conservare qualche frammento della vecchia e buona Makoto.
Non doveva per forza mangiare le persone. Lacerare le carni altrui con le unghie e i denti, accarezzare con l'acquolina in bocca le pelle morbida, tenera... noLei voleva fare l'attrice. Partecipare a quegli spettacoli. Non era una bestia – un demone.

«Makoto», la voce di Yuki era lontana alle sue orecchie. «c'è una cosa che devi sapere».

L'altra la guardò, turbata. Leggeva nel suo sguardo che avrebbe preferito tagliarsi la lingua piuttosto che continuare a fare quel discorso.

«I demoni. Ognuno di loro nasce con una dote e questa viene chiamata “potere” o “abilità”. Sono potenti, enormi, e qualche volta ti aiutano in brutte situazioni, ma tu... devi promettermi che se imparerai a padroneggiarli, non li userai. Mai».

«Perché?», chiese, secca.

«Perché i poteri di un demone, se usati per un tempo continuato, finiscono per privarti della... sanità mentale. Finiresti per impazzire».

 

Razionalità.

Perdere il privilegio di poter pensare e arrivare ad una conclusione. La logica.

Dentro di lei, questi concetti rimbalzavano e producevano echi distanti. Conosceva il loro significato, non aveva nemmeno bisogno di cercarli sul dizionario, eppure... non capiva a cosa servisse. 
I suoi occhi brillavano, guizzavano da un punto all'altro. «Perdere la razionalità», mormorò. «Perdere. Perdere tutto. Il lume della ragione. Impazzire. Razionalità».

 

«No». Con uno scatto, le mani della mezzosangue afferrarono il viso di Makoto dalle guance, costringendola a guardarla dritta nelle pupille affilate. «Makoto. Smettila, basta. Devi stare calma. Hai tempo, è ancora presto. Andrà tutto bene, devi solo fidarti di me, vabbene? Se mi darai retta, se mi ascolterai, non sentirai nessuna differenza da prima, come se non fosse successo niente... Makoto? Mi stai ascolt-».

«AAAAAAAHHH!!». La testa di Makoto fece uno scatto repentino e i suoi denti agguantarono la mano sinistra dell'albina. Il sangue di quest'ultima schizzò dalla bocca di Makoto, imbrattando i canini e gli incisivi, il naso, gli zigomi, i capelli.

«AH--». Yuki alzò la gamba sinistra, sferrandola verso Makoto mentre le stava masticando la mano – quest'ultima fece un balzo indietro schivando il calcio laterale. Il sangue colava copioso dal suo mento mentre ci passava la lingua. Non ricordava che il sangue avesse un così buon sapore.
Aprì la bocca, avvolgendo l'indice per recuperare il sangue che le era sfuggito, e fece lo stesso con il medio e l'anulare. Poi si fermò, parzialmente sazia.

«Sai, io non penso proprio che esiste», disse lentamente. «Quella cosa. La razionalità». La sua voce era instabile. Picchi e ricadute continue. Il tono era sdoppiato. «La notte faccio dei sogni. Sogno che tutto si distrugge. Un vento strano distrugge la mia camera. E poi... e poi... ». Di nuovo, sembrò spegnere i suoi movimenti. La sua espressione si fece malinconica, per un attimo riaffiorò un po' di Makoto. «Tu cosa pensi?», ma fu solo un attimo. «Di sapere tutto? Di conoscermi? Pensi che io sia debole. Disperata, o che ne so».

La bocca si strinse in una linea tremolante e le sopracciglia si inarcarono. Una piccola vena comparve sul suo collo, disegnando una scia di rabbia. «... ma cosa vuoi saperne, tu che sei solo un MOSTRO!».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Makoto non era più Makoto.

Ed era stato solo a causa del suo sonnambulismo. Senza genitori, Makoto viveva con i suoi nonni e poi, una volta che aveva trovato un lavoro, aveva lasciato la scuola per mantenersi e andare a vivere da sola. E così, in cuor suo, sperava di aver ripagato i suoi nonni per tutti quegli anni.
Ma gli dei non erano ancora soddisfatti. Agli dei non bastava solo questo, evidentemente – allora, scontenti, l'avevano fatta sofferente di sonnambulismo.

Ogni notte, intorno alle tre, Makoto si alzava dal suo letto con gli occhi chiusi e raggiungeva il centro della sua piccola camera da letto. A quel punto alzava le braccia e un violento vento si sollevava.
Quel vento aveva consumato, pian piano, la corteccia cerebrale di Makoto Aozawa.

 


Yuki la guardò, pregando silenziosamente.

 

Sussurrava il suo nome ad intermittenza, come una trasmissione distorta, mentre gli occhi scuri di quella ragazza si screziavano di rosso e rosa, tagliati da una pupilla affilata come una lama e una sclera nera come il petrolio. La sua pelle scendeva di vari toni per diventare grigia, ombre nere circondavano le sue palpebre, le unghie si allungavano come gli artigli di un'arpia.
Quando i loro sguardi si incrociarono, Yuki si sentì trafitta da quello sguardo familiare – quello di un demone che, ormai, aveva raggiunto il suo dannato limite.

«Cosa devo fare?», urlò Makoto. «Ho fame, dannazione!!».

Si afferrava la testa fra le mani per scuoterla, grattandone la superficie con le unghie, cercando di insediarsi in quella poltiglia che era diventata il suo cervello.
Quest'ultimo non le permetteva nemmeno di vedere bene. Strizzava gli occhi, cercando inutilmente di focalizzare cosa avesse davanti; solo a stento riusciva a distinguere i filamenti bianchi smossi dal vento notturno.

 

Ma proprio quando l'immagine della mezzosangue tentava di farsi più nitida, un pensiero attraversò la mente di Makoto.
Si chiese se Yuki non fosse il Diavolo in persona. Se sotto quelle vesti, la sua pelle non fosse sporca e plumbea, se sotto gli occhi ambra non ci fosse che una luce perversa – orribile, da qualsiasi angolazione la si guardasse.

 

E se il suo compito fosse proprio quello di liberare il mondo da Yuki Akawa?

Sarebbe riuscita a rendersi utile, a quel punto.

 

«Makoto!», Yuki urlò il suo nome con rabbia.
Un attimo dopo, la sua figura schizzò in avanti, diventando una semplice macchia bianca. Saettò verso di lei, e Makoto abbassò lo sguardo in tempo per vedere il suo pugno destro colpire il suo stomaco – un dolore sordo la invase, lasciandola quasi senza fiato. «Ti farò tornare in te. A costo di romperti tutte le ossa», sussurrò la mezzosangue.

 

 

Tornare in lei? Ma... lei era lei.

Non si era mai sentita tanto se stessa. Quella sensazione che all'inizio tanto la ripugnava, adesso era la sua linfa vitale. L'adrenalina che affondava nel suo organismo, violenta e furente, che si propagava per tutto il corpo come una macchia d'olio, fino alla punta dei piedi e delle mani - adesso aveva capito.

Era il "potere".

Dal pugno chiuso di quel mostro albino, Makoto vide piccole scariche elettriche. A percorrere le sue nocche, il dorso della mano e il polso, c'erano delle scie elettriche.
Makoto le fissò con la bocca aperta e scoppiò a ridere, il collo reclinato, dando il viso alle stelle. «E quindi è questo che ci nascondevi? Cosa sei, Zeus?», disse il demone. A quel punto, Makoto sollevò il ginocchio di scatto affondandolo nel suo costato, con una tale forza che si udì un crack.

La mezzosangue barcollò indietro mentre anche l'altra si allontanava di qualche passo.

 

 

Dannazione. Questi demoni impazziti hanno sempre una forza assurda, pensò Yuki, premendosi una mano contro le costole. C'era l'alta possibilità che si fosse rotta qualcosa, forse il processo di guarigione sarebbe stato più lento. Inspirò profondamente e alzò gli occhi, scoprendo con un brivido che Makoto stava correndo verso la spiaggia. In men che non si dica, aveva già raggiunto l'angolo e l'aveva svoltato, sparendo come un'ombra– nello stesso momento, l'albina sentì il rumore di una finestra che veniva aperta.

Cavolo, pensò, avvicinandosi il più veloce possibile alla parete di fronte, qualcuno deve aver sentito.

Sopra la sua testa, qualcuno era uscito sul balcone e stava ispezionando il parcheggio. Ad occhio sembrava il professore della 2-C; rimase lì, a guardarsi intorno aguzzando la vista, e solo dopo infiniti secondi si decise a rientrare.
Yuki sospirò di sollievo – per pochissimo. Lentamente, si staccò dal muro e si piegò sulle ginocchia.

 

Non riusciva a reggersi in piedi. Ecco cosa significava nutrirsi solo quando si trovava al limite.

 

Cercò di fare mente locale, pensando ad un modo per raggiungerla – quando un tonfo pesante non squarciò il silenzio, e solo in quel momento si ricordò che doveva incontrarsi con Tetsuya.

Senza indugiare, iniziò a correre verso la spiaggia a perdifiato, mentre il dolore si faceva talmente intenso da toglierle la voce. Quando i suoi stivali affondarono nella sabbia, i suoi occhi avevano intercettato uno scenario agghiacciante.

Proprio a pochi metri di distanza, Makoto costringeva Takeshi a terra, con il suo peso, stringendogli i polsi con le mani impregnate di sangue. Il suo sguardo era disumano mentre quello del ragazzo arrabbiato.
Yuki si scagliò verso la ragazza, sfrecciando nell'aria, e l'altra balzò via da Takeshi per schivare il suo calcio. L'albina ripartì subito, attraversando la figura del moro con un salto, andando addosso a Makoto, ma quest'ultima era diventata troppo veloce e agile e riusciva a schivare tranquillamente l'offensiva della mezzosangue.

 

«Yuki, datti una calmata!», urlò Tetsuya.

Al suono della sua voce, l'albina si allontanò da Makoto rapidamente, gettando un'occhiata verso l'entrata posteriore del ryokan. Tetsuya stava prendendo la mano di Takeshi per aiutarlo ad alzarsi.

«CALMARMI? Se vi prendo, vi ammazzo tutti e due!», rispose lei. Tornò velocemente a guardare la sua avversaria che, intanto, stava avanzando verso di lei. «Porta al sicuro Takeshi, sbrigati!».

 

Il vampiro non se lo fece ripetere due volte e afferrò Takeshi per il braccio, trascinandoselo dentro l'albergo, anche davanti alle sue proteste e ai suoi tentativi di liberarsi. Dentro la hall, Tetsuya lasciò andare Takeshi solò per girarsi verso di lui e agguantarlo dalle spalle.
Gli occhi del vampiro erano pregni del rosso, sgranati e arrabbiati – e non ammettevano repliche. «Smettila di agitarti come un forsennato e ascoltami. Non puoi fare niente per lei, lo capisci? Non puoi aiutare Yuki né ora, né mai. Sei solo un essere umano e moriresti in qualche secondo. È un miracolo che tu sia sopravvissuto nonostante abbia cercato di bloccare quel demone. Tu hai voluto renderti utile per lei, ma sei debole».

Takeshi serrò la mandibola e gettò un'occhiata alle sue spalle, frustrato. Nel buio fitto della hall, strinse i pugni, annuendo lentamente. «Ti prego. Aiutala. Non lasciare che si faccia male».

Il vampiro allora lasciò le spalle del ragazzo e annuì anche lui, breve. «Con me non si è mai fatta troppo male. Mettiti al sicuro, piuttosto, e non voltarti indietro».

«Tetsuya».

«Cosa?».

«Io non volevo aiutare solo lei. Lo volevo per entrambi».

 

Tetsuya, sulla soglia dell'uscita, si fermò un attimo. Con l'ombra di un sorriso, il viso nascosto dall'oscurità, guardò il ragazzo con un espressione stoica – poi, senza dire un'altra parola, sparì.

 

 

 

 

 

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Capitolo 19
*** Non smetterà di sognare. ***


19.



Per un attimo aveva avuto paura.

 

Quando, all'improvviso, aveva visto una macchia fosca attraversargli la strada, aveva pensato che fosse un enorme gatto nero. Poi però, aveva percepito la presenza riprovevole di un demone impazzito e aveva capito cosa stava succedendo.
Si trovava in veranda quando l'aveva vista arrivare sulla sabbia, lui stava aspettando la sua amica. Poi, alle sue spalle, era apparso quello stupido essere umano e si era gettato addosso al demone come un folle suicida – evidentemente aveva sentito il chiasso che avevano fatto ed era accorso.

Tetsuya aveva sbarrato gli occhi.

Aveva visto Takeshi Katugawa mentre costringeva il demone con la schiena nella sabbia. Questo, almeno, per i primi secondi, poi il demone si era facilmente liberato dalla presa e aveva ribaltato i ruoli.

Subito dopo, era arrivata Yuki, un lampo bianco.

In quel momento avevo provato paura. Quando quella scena si era presentata di fronte ai suoi occhi, perché era fin troppo familiare per lui.

 

 

«Yuki!», subito dopo aver lasciato Takeshi nella hall, il vampiro era corso sulla spiaggia; voleva raggiungere la sua amica, che adesso si trovava vicino alla riva, a più di dieci metri dall'hotel. Tetsuya si piegò leggermente sulle ginocchia e con uno scatto macinò la distanza – fino ad arrivarle accanto.
Col fiatone, l'albina aveva dischiuso le labbra, mostrando un paio di canini aguzzi, cresciuti notevolmente in lunghezza. I pugni stretti, cercava di riconquistare la calma – perché non poteva continuare ad attaccarla come stava facendo o sarebbe rimasta senza energie. Anche Tetsuya lo pensava. Le mise una mano sul braccio, incitandola ad indietreggiare.
«La situazione è irrecuperabile».

 

Dentro di sé, la mezzosangue aveva la consapevolezza che l'amico avesse ragione. Accanto a lei, il vampiro aveva guardato la situazione con occhio critico e mente sgombra. Le era vicino. «Che cosa facciamo, adesso?».
Yuki chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì, vide che lui la stava guardando, in attesa, ma che i suoi sensi erano concentrati su Makoto.
«La metterò k.o».

«La metterò k.o?», ripeté il vampiro, storcendo i tratti del viso in un espressione scocciata. «Mi stai dicendo che vuoi combattere da sola?».

L'albina non rispose, guardando quel demone – quel demone che, appena un giorno fa, parlava, rideva e sorrideva. Aveva appena chinato la schiena e stava carezzando la sabbia fine con la punta delle dita. «Tu non– », cominciò l'albina.

«Io non te lo lascerò fare, Yuki. È fuori discussione», la interruppe Tetsuya. Anche lui guardò il demone, stringendo le labbra in una linea ferma. «Ho promesso a quell'umano che non ti avrei lasciata da sola. Che non ti saresti fatta troppo male. Vuoi che infranga quella promessa dieci secondi dopo avergliela assicurata?».

 

Forse, in un'altra occasione, l'albina si sarebbe messa a ridere. In quel momento, però, riuscì solo a penetrare i palmi con le unghie.

«Okay. Sia».

Quei quattro occhi di fuoco erano pronti.

 

 


 

 

***

 

 

 

 

 

C'era qualcosa che lei voleva fare per la sua nuova amica. Dopo che aveva visto i suoi occhi brillare, a teatro, Yuki aveva pensato di di voler fare qualcosa per lei – ma non sapeva cosa. Non sapeva quale potere potesse aiutarla.
Paradossalmente, le era stata offerta una chance, distruggendo la vita di quella che prima era solo un'umana.

«Allora?», esordì la mezzosangue. Un passo alla volta, accorciava sempre di più la distanza abissale che c'era fra di loro. Tetsuya la imitava, più lentamente. «Che intenzioni hai, Makoto? Cosa vuoi fare?».

Makoto sollevò flemmatica gli occhi, le pupille affilate, e li puntò sulla ragazza.

Più la guardava, più appariva come una creatura infernale – non era a quel genere di cose che credeva. Lei credeva in Dio, nella comprensione e nella misericordia, lei credeva nelle cose buone.
Ma, ormai, non poteva fare più niente di buono per gli altri.

 


«Uccidimi».

 

Era come un incubo: se si muore in sogno, si muore anche nella realtà.

Vide il corpo della mezzosangue avere uno scatto, le sue mani muoversi tremanti. Poi, come se non fosse accaduto niente, tornò immobile come una statua.

«Che senso ha vivere, a questo punto, per me? L'unica cosa che mi aiutava a restare in piedi era la consapevolezza che fossi una brava persona. Una brava persona. Capisci?», improvvisamente, sembrava essere tornata lucida. «Ma, alla fine, non ho nemmeno quello. Sono semplicemente sola in questo mondo enorme. Io pensavo di essere un umano, tutto qui».

Yuki macinò qualche metro, avvicinandosi.

«Io non desideravo altro che vivere la mia dannata vita in pace, non volevo altro... no, non è vero, e tu lo sai. Volevo fare l'attrice. Volevo sorprendere tutti, così non sarei più stata la mascotte di questo quartiere. Volevo che qualcuno mi considerasse».

Le sue gambe non si fermavano.

«Quella sera, quando ci siamo conosciute, non stavo nemmeno guardando dove camminavo. Fissavo il vuoto e mi chiedevo quando avrei raggiunto la pace che cercavo. Era tutto così vuoto. Così grigio. Poi ti ho vista, stesa a terra, sei apparsa come un miraggio. Mi hai chiamata idiota, mi hai scambiata per un ragazzo, tu sei stata così vera e io... io... ».

 

 

Makoto sentì gli angoli degli occhi bagnarsi di lacrime, quel sapore di sangue che albergava sulle sue labbra era diventato disgustoso tutto ad un tratto. Stentava a credere di averlo considerato delizioso. «Io non merito più niente, a questo punto».
Poi, proprio mentre stava per rimettersi in piedi, gli occhi pieni di lacrime, quel divario si annullò e un paio di braccia la strinsero a sé – Yuki la strinse così forte da sentirne il battito rassegnato del cuore.

«Sei una stupida bugiarda. Stupida bugiarda. Tu non vuoi morire, non è questo il tuo sogno. Non è a questo che puntavi quindi non raccontarmi balle. Posso ancora aiutarti, posso ancora fare qualcosa per te, ma tu me lo devi permettere, devi lasciar andare questa dannata rabbia e... lascia che io ti aiuti. Voglio conoscerti. Voglio vedere ancora quegli spettacoli, insieme. Non può finire adesso. Ti prego, non può».

 

Ma in realtà era già finita.

 

In uno scatto, Makoto aprì gli occhi, e allontanò la mezzosangue per bloccarla dalle spalle. Il suo braccio al collo dell'albina, con le unghie acuminate che puntavano alla giugulare, e l'altro braccio a bloccare quelle della ragazza.
Immobilizzata da quella presa, Yuki cercò di divincolarsi, agitandosi il più possibile. Makoto emise un basso ringhio, spingendo l'artiglio dell'indice contro il suo collo finché un punto rosso non comparve sulla sua pelle.
Tetsuya, a qualche metro di fronte a loro, si era mosso sin da subito per avvicinarsi ma quando aveva visto la macchia rossa sporcare il collo dell'amica, si era fermato di scatto.

 

«EHY! TU!», urlò Makoto. «Ci tieni alla tua amica? Allora fallo. UCCIDIMI».

Il vampiro impallidì. «Ti ha appena detto che puoi salvarti! Che cosa stai dicendo?!».

«Allora non volete capire. Io non voglio vivere come un demone. Io sono un essere umano, non posso accettare un destino del genere... non posso!», Makoto allontanò l'unghia dalla giugulare della mezzosangue e aprì la mano per stringerla attorno al suo collo, cominciando gradualmente a comprimere la presa, sempre più forte e più decisa. Sotto la sua morsa d'acciaio, l'albina si dimenava digrignando i denti, correndo con le mani a quella che le stava togliendo l'ossigeno.

Makoto sollevò lo sguardo, verso Tetsuya. Un'altra, la sua ultima lacrima, le rigò la guancia.

«Grazie... grazie», sussurrò lei.

 

Un istante dopo, Makoto spinse via Yuki e una fiammata colpì la prima, incendiandola interamente – Tetsuya aveva usato il suo potere del fuoco per salvare la mezzosangue.

 

 

 


 

***

 

 

 

 

In ginocchio, le fiamme del vampiro l'avevano presa. Come una rete, Makoto era stata intrappolata da un calore senza limiti e aveva cominciato velocemente a consumarsi.

L'albina la stava guardando, boccheggiando sconcertata. Era senza voce.
Non riusciva a muovere un muscolo. Davanti a lei, c'era solo un corpo che stava bruciando, che si rimarginava e si bruciava, si rimarginava e si bruciava. Il viso di Makoto, sul punto di carbonizzarsi, aveva un espressione dispiaciuta, un sorriso storto, un pianto senza lacrime.

 

Yuki si buttò verso di lei, prendendola fra le braccia con tutta la forza che le rimaneva.

«Yuki!», Tetsuya urlò il nome della sua amica mentre l'afferrava dalle spalle e cercava di tirarla indietro, ma lei, invece, abbracciò ancora più forte Makoto – al contatto con le fiamme, non si era allontanata di un centimetro.
L'aveva stretta ancora più forte perché, diamine, non voleva che lei andasse via – doveva proprio? Doveva andarsene per forza? Potevano stare ancora un poco insieme e poi l'avrebbe lasciata andare, sarebbe stata libera – lo prometteva.

Lo prometteva.

Il calore diventava più forte. Diventava insostenibile. Camminava sulle braccia nude della mezzosangue, macinando centimetri di quella pelle delicata, scorticandola pezzo per pezzo – la mangiava. Alla fine, Makoto la stava mangiando.

«Devi... », la sua voce le arrivò alle orecchie spezzata, sul procinto di annullarsi – la sentì tremare, col viso color carbone. «Devi andare... va bene?».

«No», e l'altra stava già singhiozzando. «No!». Un urlo strozzato e secco – no. Se l'avesse lasciata, sarebbe scomparsa, sarebbe svanita. Piangeva, piangeva talmente forte che sentiva che non ci sarebbe più riuscita, in un altro momento. Piangeva per lei, per la sua vita che si consumava – per il suo viso che andava a fuoco.
Dopo, divenne tutto nero, proprio come gli occhi di Makoto; proprio come la sua pelle carbonizzata, come i rimasugli dei suoi capelli, come le dita sottili, come la sua voce che non era più allegra.

Era diventato tutto nero.

 

 

 


 

***

 

 

 

 

Sul suo viso, pallido e freddo, c'erano ancora le tracce umide delle lacrime.

Fili quasi invisibili che segnavano profondamente la sua pelle.


Mentre saliva le scale, un passo dopo l'altro, si chiese se a qualcuno importava davvero delle persone; si chiedeva quale essere, là sopra, nei recessi del cielo, potesse fare una cosa del genere.
Perché esistevano cose come demoni e vampiri?
Perché i demoni dovevano morire in quel modo?
Perché l'imperatore l'aveva uccisa?

 

Con i dorsi delle mani, rossi dalle ustioni, cercava di cancellare disperatamente i segni agli occhi, sfregando a più non posso, nascondendo la paura nello sguardo meglio che poteva.
Quando vide Sayumi, sulla cima delle scale, le gambe cedettero. A terra, scossa da tremendi singhiozzi. Piangeva, tremava, sussultava, tenendo la testa incastrata fra delle spalle che non riconosceva – perché non erano mai state così deboli.

Un nodo che stringeva e afferrava la sua gola l'aveva resa muta.

«Va tutto bene», ma non doveva parlare. Non doveva farlo. «È tutto finito».

 

Le braccia di Sayumi l'avvolsero in una stretta amorevole, stringendo quelle spalle che non riconosceva, inquinate da tutti quei tremolii, ustionate e ferite.
Ma sì. Era tutto finito. Adesso, c'era la sua amica a proteggerla e sarebbe andato tutto bene.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Il cielo era terso nelle sue sfumature glauche. Era una mattina dall'aspetto rassicurante, rinfrescante e tutti erano di buon umore, aspettando fuori dall'autobus o seduti all'interno di quest'ultimo, nonostante quella fosse l'ultima mattina per vedere il mare e Kyoto.
La gita scolastica era giunta alla sua conclusione.
Fuori dall'autobus, Yuki sentì la voce del prof. Okamoto mentre si assicurava che fossero tutti presenti. «Ci siete tutti?», lo sentì dire.

L'albina guardava fuori dal finestrino, la guancia piegata contro le nocche di una mano. Non era triste. Stava solo guardando, in pace con se stessa, il mare che si stendeva all'orizzonte come una lunga macchia. Guardò il complesso del ryokan, le macchine parcheggiate l'una accanto all'altra e il piccolo sentiero lussureggiante che portava all'entrata dell'albergo.

«Si torna in paese, eh?», disse una voce maschile, estremamente familiare, che le dava un pizzico di nostalgia. Sentì che si era seduto e lei accennò un sorriso.

Già, giusto, lui avrebbe approfittato del pullman per tornare in paese. «Yumi mi ha detto che doveva parlare con Tetsuya di qualcosa, ma non ho capito cosa, e che anche tu volevi... farmi sapere delle cose, ma... », quando Takeshi si innervosiva, o si imbarazzava, cominciava a parlare come una mitraglietta senza concludere decentemente un periodo.

 

Chiusa nel suo silenzio, la mezzosangue aggrottò la fronte.

«Me l'ha detto e sono venuto qui», continuò. «Pare proprio che alla fine, quando si tratta di te, io non riesca a darmi un contegno. Ti seguo ovunque vai», poi fece una pausa, con un sospiro esasperato. «Questa che era da stalker».

Chiuse le mani e le riaprì, come se stesse torturando una pallina antistress.

Stette in silenzio, aspettando.

 

Le attese non avevano mai avuto un forte impatto su di lui; né quando andava a fare un vaccino, né per entrare in bagno la mattina, né per salire, quando era bambino, sulle giostre: in quel momento invece si stava corrodendo l'anima.

«Stai tranquillo un attimo, con quella mano», disse Yuki – un tono abbastanza gentile per i suoi standard. Poi, piano, spostò la mano dalla gamba per andare a stringere quella di Takeshi.
La tenne nella propria, percependo contro la propria pelle quella calda e liscia, morbida, di lui. Sentì le nocche, un po' contratte, distendersi sotto i polpastrelli della mezzosangue, come sciolti – poi, lei infiltrò le dita tra quelle di lui.
E stettero così, per molto, molto tempo, fin quando la mezzosangue dai capelli argentei non riuscì ad addormentarsi, con la testa sulla spalla di quel ragazzo che tanto odiava.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA:
Siamo alla fine. (di nuovo, ma okay)

Vampire Devil, first act, ha raggiunto la sua conclusione e la cosa riesce a crearmi sempre uno stato di semi malinconia mista a soddisfazione. È un finale un po' triste, almeno in parte, ma dall'altra ha un ché di dolce... ma soprattutto, non è davvero la fine, bensì l'inizio di altre avventure.

E di tanto angst, com'è giusto che sia.

So che qualcuno probabilmente avrà qualche domande – per esempio, a proposito del potere di Tetsuya – ma non vi preoccupate, sarà tutto svelato. :>

Beh. Spero proprio che il finale vi sia piaciuto... e che apprezzerete anche la continua!

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