Leggende del Fato: Figli della Trama di Vago (/viewuser.php?uid=905411)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 0: Due volti ***
Capitolo 2: *** Capitolo 0.5: A volo di rondine ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1: Fuoco purificatore ***
Capitolo 4: *** Capitolo 1.5: Rimasugli del passato ***
Capitolo 5: *** Capitolo 2: Nel nome di Aria ***
Capitolo 6: *** Capitolo 2.5: Esisteranno ancora gli ispettori? ***
Capitolo 7: *** Capitolo 3: Odore di Mare ***
Capitolo 8: *** Capitolo 3.5: Cosa sto seguendo? ***
Capitolo 9: *** Capitolo 4: Come un ratto ***
Capitolo 10: *** Capitolo 4.5: Bestia o uomo? ***
Capitolo 11: *** Capitolo 5: Gioia per i gabbiani ***
Capitolo 12: *** Capitolo 5.5: Dove vuole andare? ***
Capitolo 13: *** Capitolo 6: Quiete tra le tempeste ***
Capitolo 14: *** Capitolo 6.5: Ha dei poteri? ***
Capitolo 15: *** Capitolo 7: La fine di un viaggio ***
Capitolo 16: *** Capitolo 7.5: Vicino ***
Capitolo 17: *** Capitolo 8: Un aiuto insperato ***
Capitolo 18: *** Capitolo 8.5: Un passo indietro ***
Capitolo 19: *** Capitolo 9: Maschera da assassino ***
Capitolo 20: *** Capitolo 9.5: Maschera dal passato ***
Capitolo 21: *** Capitolo 10: Strada per casa ***
Capitolo 22: *** Capitolo 10.5: Strada per il mare ***
Capitolo 23: *** Capitolo 11: Gli ultimi passi ***
Capitolo 24: *** Capitolo 11.5: Rapporto ***
Capitolo 25: *** Capitolo 12.01 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 12.5: Mia salvatrice ***
Capitolo 27: *** Capitolo 13: L'accordo ***
Capitolo 28: *** Capitolo 13.06: Profezia ***
Capitolo 29: *** Capitolo 13.5: Ritorno alle macerie ***
Capitolo 30: *** Capitolo 14: Prigioniero ***
Capitolo 31: *** Capitolo 14.1: Storia ***
Capitolo 32: *** Capitolo 14.5: Riflessioni ***
Capitolo 33: *** Capitolo 15.2: Mistero, Terrore, Danza ***
Capitolo 34: *** Capitolo 15.5: Errore ***
Capitolo 35: *** Capitolo 16.27: Melodia, Passione ***
Capitolo 36: *** Capitolo 16.5: Memorie antiche ***
Capitolo 37: *** Capitolo 17: Il punto più basso ***
Capitolo 38: *** Capitolo 17.35: Mito ***
Capitolo 39: *** Capitolo 17.5: Piano di battaglia ***
Capitolo 40: *** Capitolo 18: Scelte ***
Capitolo 41: *** Capitolo 18.41: Tragedia ***
Capitolo 42: *** Capitolo 18.5: Primo debito ***
Capitolo 43: *** Capitolo 19: Respiro ***
Capitolo 44: *** Capitolo 19.48: Epistola ***
Capitolo 45: *** Capitolo 19.5: Secondo debito ***
Capitolo 46: *** Capitolo 20: Direzioni ***
Capitolo 47: *** Capitolo 20.49: Epica, Commedia ***
Capitolo 48: *** Capitolo 20.5: Termine del contratto ***
Capitolo 49: *** Capitolo 21: Confusione ***
Capitolo 50: *** Capitolo 21.5: Duetto ***
Capitolo 51: *** Capitolo 22: Il precipitare degli eventi ***
Capitolo 52: *** Capitolo 22.5: Fermi a un presente passato ***
Capitolo 53: *** Capitolo 23.5: Intoppo ***
Capitolo 54: *** Capitolo 23: Fine della discussione ***
Capitolo 55: *** Capitolo 24: Picchiata ***
Capitolo 56: *** Capitolo 24.5: L'inizio della fine ***
Capitolo 57: *** Capitolo 25: Pedoni ***
Capitolo 58: *** Capitolo 25.5: Tagliabile ***
Capitolo 59: *** Capitolo 26: Confronti ***
Capitolo 60: *** Capitolo 26.5: Spinta in avanti ***
Capitolo 61: *** Capitolo 27: Regicida ***
Capitolo 62: *** Capitolo 27.5: Giuria e carnefice ***
Capitolo 63: *** Capitolo 181: Epilogo della Trama ***
Capitolo 1 *** Capitolo 0: Due volti ***
Una figura si mosse rapida e silenziosa nella notte, avvolta nel suo mantello scuro che la rendeva quasi indistinguibile dai possenti alberi che regnavano tutto intorno. Il tessuto scuro faceva sì che fosse quasi irriconoscibile tra gli alti tronchi, rendendolo poco più che una macchia nella notte. Sopra il suo cappuccio, i ponteggi più bassi di Gerala risultavano silenziosi e vuoti, illuminati fiocamente dai lampioni accesi poche ore prima che seguivano il reticolo stradale come centinaia di piccole lucciole fisse tra i lontani rami. Una notte perfetta. La bianca luce lunare non riusciva a raggiungere il terreno se non come un pallido ricordo di sé stessa, gettando l’ambiente e la figura nell’oscurità quasi totale. Un pugnale lucente scivolò nella manica della figura, per essere preso dalla stretta sicura della mano sottostante. Le dita percorsero il profilo dell’impugnatura, assicurandosi una presa sicura sul ferro che la componeva. Pochi metri più avanti, un uomo camminava velocemente sul sottobosco, come se i suoi occhi riuscissero a distinguere le forme sul terreno anche con quella poca illuminazione. La borsa che teneva stretta al petto sobbalzava al ritmo del suo passo, una banale ventiquattrore in pelle, null’altro. La punta della sua scarpa sinistra faticò per un attimo a trovare il terreno, un’incespicazione dovuta a una radice troppo sporgente, quell’attimo bastò alla figura ammantata alle sue spalle per raggiungere l’uomo e superarlo. L’inseguitore, quindi, si voltò verso la sua preda. Il suo volto era piatto, affusolato ed appuntito, assolutamente non umano. Così come non erano umani la sua carnagione bianco-grigiastra, il sorriso sottile come una fessura che gli tagliava il volto da una guancia all’altra e gli occhi, piccole ferite socchiuse e spigolose. Furono proprio le ferite posizionate al posto degli occhi e della bocca come un ghigno malefico a risplendere per una frazione di secondo di un’abbagliante luce blu, tanto intensa da costringere l’uomo ad alzare la borsa per coprirsi gli occhi da quella luce innaturale. Pochi attimi dopo, un coltello dalla spessa lama si faceva largo tra le costole del malcapitato, trafiggendogli il cuore e costringendolo a cadere scompostamente a terra. - Spero di non averla spaventata troppo. – disse con voce ovattata la figura, sciogliendo la salda presa sul manico dell’arma. Alti guizzi fiammeggianti si attorcigliarono lungo l’impugnatura metallica del coltello, nascendo direttamente dal petto immobile dell’uomo e rischiarando così con la loro luce rossastra le tenebre che dominavano nel sottobosco, facendo nascere dalla sua calda luce tremolante centinaia di ombre danzanti. La figura incappucciata riprese la sua arma non appena il metallo si fu raffreddato, riponendola nel fodero che portava appeso alla cintura. Su diresse quindi rapidamente verso il montacarichi più vicino, in modo da raggiungere il cuore pulsante di Gerala prima che un’improbabile girovago notasse il cadavere per terra ed avvertisse le autorità. Lungo la strada, non perse l’occasione di strappare un manifesto di cattura inchiodato al tronco di un albero. Cento monete d’oro offerte dall’attuale Giudice Maggiore per la cattura, vivo o morto, dell’uomo nelle cui vene scorre il sangue di Reis. Ricercato per sovversione, omicidio e istigazione alla rivolta. Non era suo compito, quello. Quell’uomo non era una preda nel suo mirino.
Noir venne svegliato a notte fonda dal latrare dei cani. Non appena i suoi occhi si furono aperti scattò in piedi, conscio di quello che poteva perdere se si fosse attardato. La sua mano si allungò meccanicamente sotto il letto, per prendere il grosso zaino che lì, pieno degli oggetti necessari a una fuga rapida, riposava. Con le spesse scarpe infilate nei piedi si precipitò verso il retro della casa, inciampando su di una sedia fuori posto che, però, non frenò la sua corsa. Dall’esterno, ora, passi umani si sovrapponevano al verso dei cani, diventati paurosamente forti e vicini. Con un balzo felino l’uomo dai capelli neri si issò sulla sella già stretta del suo cavallo, che fino a pochi minuti prima riposava legato ad una mangiatoia di fortuna. Con uno schiocco di redini, gli zoccoli cominciarono a battere ritmicamente sul terreno, lasciandosi alle spalle il villaggio in subbuglio. Solo quando le verdi spighe appena nate si sostituirono alle case, l’uomo osò voltare lo sguardo alle sue spalle. Il villaggio che lo aveva ospitato per ben dieci mesi era illuminato a giorno, un’enorme lucciola splendente nella notte. Decine di torce si muovevano nell’aria, dirigendosi nella sua direzione precedute da altrettanti cani. L’uomo si calò il cappuccio, coprendo la lunga frangia che gli cadeva sugli occhi. Un cane, più veloce del resto del branco, si riuscì ad avvicinare al cavallo galoppante. La sua mandibola si aprì, per poi chiudersi rapidamente sulla gamba del cavaliere. I denti dell’animale cozzarono contro qualcosa di più duro dell’acciaio, una lancia, poi, nacque da quella superficie trafiggendo il cranio della bestia, per poi svanire lasciandola cadere priva di vita a terra. L’uomo diede un fugace, triste sguardo alla carcassa che si era lasciato alle spalle, per poi spronare il suo destriero a correre ancor di più per scomparire nella notte. Entrarono per un breve tratto nelle propaggini della Grande Vivente, per poi immergersi ed oltrepassare uno dei rami più bassi del Vrag settentrionale che lì scorreva, in modo da far perdere le loro tracce ai segugi che, sicuramente, erano ancora alle loro calcagna. Non avrebbero mai smesso di inseguirli, finché avessero avuto anche una sola traccia della via che avevano percorso.
Solo dopo due giorni dopo l’uomo osò fermarsi in una radura lontana da qualsiasi forma di civiltà per riposare il corpo e la mente spossati. Immerse le mani nell’acqua che in quell’ansa rallentava la sua corsa, portandosela al viso con un gesto deciso. Il suo riflesso, per un attimo, comparve sulla superficie cristallina, per poi venire ferocemente cancellato dalle gocce che, compiuto il loro dovere di pulizia, ricadevano nel luogo da cui erano state prelevate. La fronte era insolitamente rugosa per un uomo di trent’anni, caratteristica accentuata dalla lunga frangia che gettava la sua ombra su di questa. La folta e disordinata barba nera ricopriva quasi interamente la parte inferiore di quel viso, lasciando unicamente una piccola parte scoperta per permettere alle sottili labbra di vedere la luce. Un coltello affilato corse lungo la gola dell’uomo.
Angolo dell'Autore:
Sono in ritardo. Che strano. Beh, almeno quel venerdì è arrivato, finalmente. Davvero, non pensavo che le revisioni mi potessero portare via così tanto tempo. Certo, avessi considerato che preparare un paio di esami richiede buona parte della voglia di vivere di una persona, non avrei mai dato delle scadenze. Ma non guardiamo troppo al passato. Ho un paio di informazioni di servizio da lasciare. Scrivendo, procedendo con questa storia, mi sono reso conto che sta uscendo strana, o, per meglio dire, diversa da quelle che ho concluso. I capitoli sono corti, quasi fossero degli episodi. Il fatto di avere tre personaggi che si muovono indipendentemente l'uno dall'altro, poi, non aiuta. I capitoli, quindi, almeno per ora, saranno brevi. Ho bisogno di procedere ancora un po' per capire se è una condizione temporanea o più duratura, nel secondo caso, potrei anche pensare di pubblicare due capitoli a settimana o tre ogni due settimane. Ma in tutto questo c'è una quantità di forse tendente all'infinito. Passiamo a qualcosa di più certo. Avete appena conosciuto due dei tre personaggi di cui narrerò il fato in queste settimane. Li avete riconosciuti? Beh, ovviamente non entrambi, dopotutto Noir non lo avevate mai incontrato... Ma l'assassino demoniaco? Vi lascio pensare un po' a queste domande. Intanto, ultima informazione di servizio. Come vi avevo anticipato, il Viandante sarà, finalmente per lui, un protagonista della storia, questo implicherà una quantità smodata dei capitoli X.5 a cui vi ho abituati con il Ritorno dell'Ombra. Bene, vi ho intrattenuti fin troppo. Al prossimo venerdì. Vago |
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Capitolo 2 *** Capitolo 0.5: A volo di rondine ***
È tutto sbagliato. Innanzitutto sono un falco, ora. E le rondini mi disgustano, per giunta. Questo dovrebbe farvi capire che, finalmente, riesco di nuovo a leggere la Trama del Reale, o almeno il suo strato più superficiale. Mi ci saranno anche voluti vent’anni per guarire dalla ferita che mi inflisse quel pezzente di Follia, però ho per lo meno la certezza che prima o poi mi riprenderò completamente. La seconda cosa sbagliata è questo, tutto questo. La Trama non si era mai concentrata intorno a me così tanto da… da mai. Nemmeno quando seguivo quei cinque araldi mi sentivo così oppresso dal suo intreccio. Perché lo fa? Perché gli eventi mi vogliono ingabbiare così tanto?
Un falco dal piumaggio scuro sfrecciò nel cielo, apparentemente ignorando i piccoli animali che si muovevano spaventati sul terreno sotto di lui. La piuma candida che svettava sulla sua coda fremeva sotto l’incedere del vento che avvolgeva lei e le sue gemelle dal colore brunito. Lepri, serpenti ed altri piccoli animali correvano a ripararsi nelle rispettive tane, per poi tornare alle loro quotidiane attività quando il predatore si allontanava a sufficienza non rappresentare più un pericolo per loro. Le ultime colline coperte di vitigni si trasformarono nelle pedici dei Monti Muraglia. Non un singolo vegetale copriva le pareti rocciose della catena, i cui pendii avevano assunto una colorazione nera, carbonizzata, apparendo così ancor più inospitali di quanto già non fossero.
Non è un bello spettacolo. In effetti non lo fu nemmeno quando Loro lo ordinarono. Avvenne poco dopo la sconfitta di Follia, quando il palazzo di giustizia, così come i principali organi governativi di quella che adesso chiamano Terza Era, vennero spostati nuovamente sulla vetta mozzata del Flentu Gar. Ragioni di sicurezza, dissero. Che scusa patetica, mi chiedo come possa ancora funzionare dopo tutto questo tempo. Ovviamente, per rendere meno appetibile un nuovo ripopolamento di quella che fu la Terra degli Eroi, l’allora in carica e attuale re dei draghi Vanenir II ordinò a dei suoi sottoposti di incenerire qualunque cosa fosse presente su quei monti. Non so cos'altro potevo aspettami da lui, dopo la fine che ha fatto fare ai suoi fratelli. Fu un rogo indiscriminato, nulla sopravvisse a quell’inferno.
Il paesaggio desolato si stendeva per chilometri in tutte le direzioni. Il falco continuava a prendere quota, superando il muro di nuvole che nascondeva le vette alla vista degli uomini e portandosi poco più in alto dello spiazzo pianeggiante sulla sommità del re di quei monti. Nessuno si era preso la briga di rimuovere le macerie lasciate da un’epoca passata, macerie che ora continuavano a ricoprire quel terreno infertile. L’unica struttura ancora utilizzabile era una piccola casupola in mattoni, minimale, che era stata fatta costruire tra ciò che erano stati gli uffici del primo governo e i Palazzi che ospitarono prima l’Ordine, poi la Setta dei Sei. Il volatile scomparve in un turbinio di piume a meno di un metro da terra. Un paio di scarpe nere si appoggiarono al suolo, sovrastate da un pantalone scuro e da una lunga giacca che svolazzava alle spalle dell’elfo che copriva. Uno sbuffo di fumo si levò dalle spalle dell’elfo con il tatuaggio romboidale sulla guancia, ma apparì più come un colpo di tosse, che subito si dileguò nell’aria.
No, ancora non ci siamo. So che è stupido continuare a provarci, ma non posso farne a meno. Voglio tornare a disgregarmi, voglio tornare quello che ero prima di essere immischiato dagli affari dei mortali. Ma, soprattutto, voglio che il buco che mi trapassa ancora da parte a parte si rimargini.
L’elfo percorse tutto il diametro della vetta mozzata a passo spedito, fermandosi solo quando i suoi piedi non trovarono più del terreno davanti a loro sul quale poggiarsi. Lontano, a oriente, la porzione di continente che era stata allontanata dal potere di Terra appariva come una linea scura sull’orizzonte, appena visibile agli occhi di chi sapeva cosa cercare, invisibile a chi non ne fosse stato a conoscenza.
Non mi hanno ancora convocato, ufficialmente per lo meno. Ancora vent’anni di questo schifo e poi ho finito. Non sembra quasi vero. Dovrei ripetermelo più spesso. … Potrei farci un salto, una campata veloce, giusto per fargli pesare un po’ la sua condizione. E poi gliel’avevo promesso.
L’elfo fece un’ulteriore passo avanti, lasciandosi cadere verso il mare che, centinaia di metri più in basso, infrangeva le sue onde sull’alto muro di roccia. Il corpo magro, avvolto dalla giacca svolazzante, oltrepassò come un proiettile la porzione della meravigliosa Izivay Magnea rimasta nella porzione occidentale. Nulla raggiunse mai i flutti. Un falco sbattè più volte le ali per riprendere quota, destreggiandosi sicuro tra le correnti, con il sole pomeridiano alle spalle. |
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Capitolo 3 *** Capitolo 1: Fuoco purificatore ***
Tredici camerieri in tenuta elegante entrarono a passo sicuro nella sala dove si stava svolgendo il ricevimento, dividendosi come le venature di una foglia per coprire tutto l’ambiente con le portate che tenevano in mano. Le pareti in legno scuro erano state impreziosite da fiori che correvano dal giallo canarino al rosso intenso, colori che parevano resi ancora più intensi e gioiosi dalle lampade ad olio che illuminavano l’ambiente dalle loro nicchie. Un gran vociare degli invitati riempiva l’atmosfera di un’aria festosa. In fondo alla sala, su di un piccolo palco rialzato sul quale era stato predisposto un tavolo, gli sposi del giorno scambiavano poche parole con coloro che erano riusciti a raggiungerli facendosi largo nella folla che li precedeva e circondava. La sposa portava i lunghi capelli corvini raccolti dietro la nuca, poche ciocche, lasciate sapientemente sciolte, ricadevano sul lungo abito celeste che avvolgeva il suo corpo sensuale. Lei sorrideva raggiante alle persone che le sostavano dinnanzi e, in quel sorriso, i suoi denti candidi parevano scintillare. Tra questi, i canini pronunciati svettavano. Al fianco della donna stupenda, un uomo in abito elegante le teneva la mano. I suoi occhi azzurri si spostavano in continuazione dagli invitati al viso della moglie. Dieci vassoi di antipasti uscirono dalla cucina, seguiti da altri tre sui quali erano stati disposti con cura alti bicchieri di cristallo nei quali danzava, al ritmo dei passi, un vino chiaro. Quelle ventisei suole battevano leggere sul pavimento legnoso, sul quale era stato inciso da mani abili il logo del ristorante, due tralci di una vite rigogliosa si intrecciavano circolarmente, al suo interno, una volpe di profilo si ergeva sulle zampe posteriori, fiera. Le ore passavano, ma la festa pareva appena accorgersene. Il vociare si era smorzato, nonostante questo, però, non sembrava che nessuno dei presenti avesse intenzione di lasciare il proprio calice o il proprio posto. I dieci vassoi rimasti serpeggiavano tra gli invitati stanchi, portando i piatti principali, profumate e calde leccornie che la cucina aveva appena sfornato. I bicchieri non riuscivano a rimanere pieni a lungo e l’allegria della serata non poteva che giovarne. La luce che filtrava dalle finestre quadrate si fece rossastra con il sopraggiungere della sera, la volta verde che sovrastava la città sospesa assunse toni sempre più caldi man mano che il sole andava a concludere il suo cammino giornaliero. Il rumore di sottofondo si fece più intenso nella sala per coprire lo sferraglio che dai locali destinati ai dipendenti si stava alzando. Nessuno, però, si scomodò per far presente il suo fastidio ai cinque camerieri che ancora turbinavano nella sala con i rispettivi vassoi, tutti quasi completamente depredati di ciò che avevano contenuto. Quando le lampade della stanza furono l’unica fonte di luce e all’esterno una manciata di elfi procedevano lenti per accendere i lampioni che costellavano i bordi dei ponti sospesi, la frutta di stagione che avrebbe dovuto concludere il banchetto venne introdotta ai commensali da un unico cameriere. Buona parte degli invitati all’interno della sala si erano abbandonati alla stanchezza, lasciandosi cadere flosci sulle rispettive sedie. Anche i festeggiati, appagati dalla giornata, si erano seduti comodamente, aspettando di potersi congedare dai loro invitati. I passi del cameriere falciarono la stanza rapidi in direzione della coppia appena sposata, solamente un mormorio lo accompagnava in quella marcia. Il lucido vassoio venne appoggiato sul tavolo sopraelevato con un gesto elegante, sopra a questo, frutta di stagione dal colore acceso era stata disposta come una composizione artistica. Il cameriere, quindi, seguì il profilo della tovaglia candida con le dita magre, finché le sue mani non raggiunsero le spalle della sposa, che reagì a quel contatto con un mormorio privo di alcun significato. - Gerala è una città meravigliosa, non trova? È incredibile cosa possano nascondere le sue vie e i suoi ristoranti. – Le mani del cameriere si strinsero sull’abito della donna, facendo increspare il tessuto chiaro sotto i suoi polpastrelli. - Mi ci sarebbe potuta volere una vita a trovare tutte queste… cose, se avessi dovuto scovarle una per una. – riprese l’uomo avvicinando le proprie labbra all’orecchio della sposa ed abbassando la voce, come se le stesse confidando il più intimo dei suoi segreti – Lei, invece, le ha riunite tutte assieme, qui, oggi, mia dolce ed ignara aiutante. Nemmeno riesco a dispiacermi per quest’uomo, qui, al nostro fianco, raggirato al punto da chiedere la sua mano. Lo sa anche lei che nessun uomo sano di mente vorrebbe mai legare il suo futuro ad un abominio quale lei è. – Il cameriere si allontanò nuovamente dalla guancia della donna, i cui occhi appannati erano persi nel vuoto davanti a lei. - Spero che il vino sia stato di vostro gradimento e che la mia piccola aggiunta non ne abbia alterato il dolce sapore, sarebbe un peccato. Non avremo modo di vederci ancora, temo, quindi colgo l’occasione per ringraziarla del grande servigio che sta per farmi. – Dalla manica destra dell’uomo scivolò un paletto in legno, che, con un movimento fluido del polso, venne piantato poco sopra il seno della fanciulla, trafiggendone il cuore in un unico, sicuro colpo. La sposa ebbe appena il tempo di boccheggiare prima che dal suo petto sgorgassero fiamme danzanti. - Lascerò che sia il tuo fuoco a purificare tutte queste cose. – La mano dell’uomo di posò sulla schiena lasciata scoperta del corpo ormai morto dinnanzi a lui, spingendo il cadavere in avanti, verso il tavolo imbandito. L’ultima cosa che l’assassino vide prima di chiudersi la porta d’ingresso alle spalle fu la tovaglia prendere fuoco, fungendo da base per l’incendio che, di lì a poco, si sarebbe appiccato e avrebbe consumato tutto ciò che gli stava intorno. Un sorriso soddisfatto si disegnò sul suo viso, mentre le sue gambe lo portavano lontano da quell’edificio. La città scorreva rapida intorno a lui, con i suoi ponti sospesi e le case costruite con il legno degli alberi circostanti. Ne aveva prese altre venticinque. La caccia a Gerala si era rivelata più fruttuosa del previsto. Un colpo di fortuna assistere a una discussione riguardo quel matrimonio, quella mattina. No, non era stata fortuna. Il Fato lo doveva aver guidato poiché potesse procedere con la sua missione. L’uomo si fermò in un angolo non illuminato dai lampioni di una piazza laterale, situata ai piani bassi della città. Nessun occhio indiscreto sembrava poterlo vedere. La sua mano sicura si intrufolò in un’imperfezione del legno, che gli permise di accedere al buco sottostante. Ne tirò fuori una borsa di pelle consumata, dalla quale prese abiti più comuni rispetto a quelli eleganti che aveva dovuto indossare fino ad allora. Sistemò meglio la maschera chiara tra le poche cose che aveva e si rimise in cammino, cercando di distinguere tra i rumori della notte le urla delle prime persone accortesi dell’incendio appena nato. |
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Capitolo 4 *** Capitolo 1.5: Rimasugli del passato ***
Ecco, lo sta facendo di
nuovo. La Trama si sta di nuovo concentrando su di me.
Onestamente, non capisco
nemmeno perché abbia deciso di farlo ora. Dopotutto, non ho
in programma di fare niente di incredibilmente interessante.
Eccola lì,
intanto, la metà orientale delle Terre.
Fa schifo esattamente
come me la ricordavo.
Nella grotta che guardava al mare, il sole fece splendere la figura in
oro che ne adornava le pareti.
Il falco atterrò poco oltre l’apertura
d’ingresso.
Non appena le sue zampe da rapace toccarono il terreno, lasciarono il
posto alle scarpe eleganti dell’elfo tatuato, che si permise
pochi passi all’interno dell’enorme sala.
Si fermò poi rigido quando, davanti ai suoi piedi, le
bianche ossa di uno scheletro vennero oscurate dalla sua ombra.
L’elfo si chinò lentamente su quei resti,
sollevando il cranio da terra per portarlo all’altezza dei
suoi occhi, facendosi cadere come apposta una ciocca di capelli bianchi
davanti agli occhi, come per farla risaltare ancor di più
sui capelli color pece che gli adornavano la testa.
- È incredibile come vent’anni possano cambiare
qualcosa. – la voce dell’elfo dalla lunga giacca
rimbombò tra le pareti di pietra assediate dalle centinaia
di tele di ragno che si erano andate sovrapponendosi negli anni
– Nessuno, visti i tuoi resti, potrebbe riconoscere la
ragazza che sei stata. Nessuno, eccetto chi ti ha conosciuta. Presto,
però io sarò l’ultimo superstite della
Seconda Era, così come lo sono già ora della
Prima e del vecchio mondo. –
La mano dell’uomo si alzò al di sopra della sua
testa, facendo sì che gli ultimi raggi della sera potessero
illuminare le vuote cavità del teschio.
Pietra.
Ormai non sei altro che
mera pietra.
Voi mortali siete
così privi di significato che mi fate ridere, vivete con
l’unica certezza che diverrete concime, almeno
finché non sarete nemmeno più quello.
La mano tornò a calare verso il pavimento.
- Nonostante tutto, però, mi intrigate. Siete parte degli
eventi, motori degli avvenimenti e pedine gli uni degli altri. Non
riuscirò mai a capirvi. –
Il cranio tornò a toccare il suolo, ritornando nella sua
posizione originaria. L’elfo, quindi, si rialzò
voltandosi verso l’apertura dalla quale i suoi occhi potevano
cadere sulle onde che, più in basso, cozzavano le une con le
altre.
- Buon riposo, Seila. –
I vestiti si fecero piume, mentre i corpo dell’individuo si
rimpiccioliva per assumere la forma del rapace che era entrato in
quella sala poco tempo prima.
Pochi battiti d’ali furono sufficienti per permettergli di
uscire all’aria aperta e fargli sorvolare le basse vette
rimaste integre.
Ho ancora una tappa
obbligata nel mio viaggio, prima di tornare da Loro.
Non rinuncerei a
quest’occasione per nulla al mondo.
Il falco si posò nuovamente poco meno di una decina di
minuti dopo, ai piedi delle poche colline che dividevano la Piana
Infinita dalla catena montuosa dal quale arrivava.
Poco distante, un bosco cresceva indisturbato, cercando di rubare
terreno alla desolazione che lo circondava.
Le piume scomparvero nuovamente. Questa volta, però non
comparve la lunga giacca scura, né l’elfo che
doveva riempirla.
Uno spettro nero poggiò i suoi piedi sul terreno coperto
solo in parte da una bassa erba coriacea. Attorno al suo corpo
aleggiava una densa nube scura, quasi catramosa, attraverso la quale si
potevano riconoscere chiaramente solo i due occhi splendenti della
creatura e una bocca, un taglio altrettanto lucente flesso in un
ghignò quasi compiaciuto.
- Spero che non ti sia sentito troppo solo, in questi anni. –
Davanti a lui, una formazione nera svettava dal terreno. Centinaia di
sottili filamenti neri si intrecciavano come i rami di un albero
attorno a un grigio scheletro dagli arti troppo lunghi, cercando di
rappresentare, con scarso successo, una forma antropomorfa.
- Oh, non ti preoccupare se non puoi rispondermi. Non mi
offenderò. Ti sei divertito, tutto questo tempo? Tu, qui, da
solo, con i vermi e le mosche che si insinuavano nella carte di quel
corpo in cui ti eri inserito. Prima i tessuti molli, poi la pelle e i
muscoli. Sarà stata una lunga attesa, aspettare che ogni
singolo brandello di questa carne mortale ti scivolasse via di dosso.
–
Il ghigno dello spettro si fece più largo, mentre i suoi
passi lo portarono a girare attorno allo scheletro, come uno squalo
attorno alla sua preda.
- Guardati, oh grande Follia. L’immortalità non
è poi così bella, dopotutto, vero? Specialmente
ora, che l’unico corpo che puoi permetterti è
pietra su pietra. Magari, alla fine del mondo, verrò a farti
compagnia per assistere allo spettacolo, tanto sarai qui per
aspettarmi, no? –
L’intreccio di rigidi fili neri parve fremere, facendo
assestare le ossa incastrate dentro quella gabbia.
- Lo prenderò per un “Certo, mio buon
amico”. Ma non è per invitarti ad uscire che sono
qui. Sai che quella ferita che mi hai inferto non era niente male?
Certo, se non fosse stata in alcun modo rimarginabile sarebbe stata
molto più problematica, ma già così fa
la sua porca figura. –
La gabbia di filamenti vibrò di nuovo.
- Come? Non lo sapevi? Purtroppo sì, sto guarendo. La
prossima volta dovresti impegnarti un po’ di più.
E già che ci sei, prendi qualche lezione di scherma, il
primo ad essere stato ferito, dopotutto, sei stato tu. –
Il reticolo vibrò ancora, facendo cadere a terra la sabbia e
la polvere che gli si erano sedimentate sopra negli anni.
Lo spettro gli diede le spalle, guardando il cielo sopra le colline che
si innalzavano a nord.
Mi deve aver visto.
Scontato, visti i sensi
che ha sviluppato.
Sarebbe una bella
rimpatriata, ma, al momento, trovo più interessanti i morti
o i presunti tali.
I vivi, specialmente
quelli nella sua condizione, non mi ispirano molto il dialogo, adesso.
Devo sbrigarmi ad
andarmene.
- Non dovresti agitarti così tanto, Follia. Sarebbe un
peccato se quel meraviglioso sistema circolatorio pietrificato andasse
in frantumi. Vedrò di venirti a trovare ancora, mi
raccomando, fatti trovare con il tuo abito migliore. –
Lo spettro fece una decina di passi veloci verso ovest, verso i monti
che impedivano alla vista di raggiungere il mare.
Il fumo denso che avvolgeva quel corpo nero divenne ancor
più solido, dividendosi in decine di piume color pece
destinate a coprire le carni che si stavano rimpicciolendo.
Un corvo si levò in volo, puntando rapido verso
l’altra porzione delle Terre.
Un imponente rapace atterrò sulle zampe posteriori,
artigliando il terreno.
Le grandi ali bronzee si richiusero lungo il corpo slanciato, mentre
gli occhi scuri pattugliavano i dintorni.
Nulla si muoveva attorno all’intrico di filamenti
pietrificati.
La creatura fece qualche passo, spazzando la terra sabbiosa con la coda
piumata che gli si apriva alle spalle.
Quando fu certo che non ci fosse nessuna anima viva nei dintorni e che
i suoi occhi gli avevano giocato un brutto scherzo, tornò a
spiegare le ali al vento, sbattendole un paio di volte per sollevare la
sua mole da terra e tronare nel suo ruolo di pattuglia nei cieli sopra
quella pianura.
Angolo dell'Autore:
Dopo due settimane di silenzio, rieccomi qui.
Ho un paio di cose da dire.
La prima riguarda il formato di questo capitolo, l'editor di EFP sta
facendo i capricci e mi sto ritrovando a usare altre vie che non so se
daranno lo stesso risultato di formattazione. In ogni caso, se mai
dovesse uscire qualcosa di diverso dal resto, vedrò di
sistemarlo il prima possibile.
La seconda è, per fortuna, una buona nuova. I prossimi
capitoli saranno più lunghi, corposi e... sanguinolenti,
direi. Troverò anche lo spazio per spiegare qualcosina che,
finora, è rimasto in sospeso.
Grazie a tutti voi per seguirmi, grazie a Oldkey e la ragazza
imperfetta per le loro meravigliose recensioni e, gente, alla prossima
settimana.
Vago |
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Capitolo 5 *** Capitolo 2: Nel nome di Aria ***
Noir guardò il suo riflesso nell’acqua increspata
dai pochi peli rimanenti.
Ora che le guance e il mento non erano più nascoste dalla
folta barba il suo volto dimostrava almeno dieci anni di meno.
Ripose il coltello nella fondina che portava alla cintura e si
rialzò, pulendosi con i palmi i pantaloni sporchi di
fanghiglia.
L’uomo tornò a dirigersi verso il suo cavallo,
misurando a lenti passi la distanza che stava percorrendo. Intanto, i
suoi pensieri correvano veloci lungo i quindici anni che aveva passato
spostandosi da una città all’altra.
Metà della sua vita era stata impegnata nel nascondersi e
scappare.
La Grande Vivente, ormai, per lui non era più un luogo
sicuro. Qualunque villaggio lo avrebbe riconosciuto, figurarsi le
città con la loro guardia cittadina. Doveva lasciare quella
foresta, almeno per qualche anno.
Dove poteva andare, allora?
L’impero sotterraneo dei nani era imploso con il crollo della
fitta rete di cunicoli che aveva scavato nel corso degli anni. Ormai,
le poche famiglie rimaste di quella razza non potevano nemmeno sperare
in una nuova alba del loro dominio del sottosuolo.
Una delle Chiritai. Se fosse riuscito a superare il controllo
all’ingresso di una di quelle cittadelle, avrebbe potuto
trovare una buona sistemazione. Ma era un’impresa
impossibile, introdursi all’interno di quelle mura.
Avrebbe dovuto cercare fortuna oltreoceano. Si sarebbe dovuto
introdurre in una delle navi dirette verso il continente.
O forse no. Poteva provare a farsi accogliere in un tempio, per lo meno
i sacerdoti avevano l’obbligo di ospitalità.
Ma se l’avessero riconosciuto? Sarebbero stati in grado di
ucciderlo?
L’uomo si sistemò il mantello sulle spalle, prima
di rimontare sulla sella.
Sul volto di Noir comparve un sorriso tirato quando i suoi talloni
premettero sui fianchi del destriero. Sarebbe stato comico se coloro
che avevano consacrato la loro vita agli dei gli avessero davvero
offerto la loro ospitalità.
La Piana Umana, ora divenuta una conca a causa del collasso del regno
nanico, era vuota, silenziosa, sotto quel sole al suo culmine. Avevano
sicuramente perso le sue tracce.
Il cavallo dal manto scuro procedette risalendo il fiume verso sud, per
poi staccarsi da esso appena incrociò il secondo braccio del
Vrag, le cui acque, scorrendo verso ovest, si sarebbero poi buttate nel
mare, passando però prima attraverso l’immenso
lago che ora riempiva buona parte delle Terre non coperte dalla folta
Grande Vivente.
Noir percorse la sponda senza fretta, guardando le acque limpide che
correvano al suo fianco. Nelle zone meno profonde, erano ancora
riconoscibili i ruderi dei villaggi che prima erano stati coinvolti nel
collasso della terra e poi erano stati sommersi per diventare la dimora
dei pesci d’acqua dolce che lì si erano insediati.
In lontananza si sentì il sibilo del treno che percorreva da
ovest ad est le terre, seguendo le centinaia di chilometri di rotaie
costruite negli ultimi anni della Seconda Era.
A un paio di centinaia di metri dalla terraferma, un campanile pendente
svettava dalla superficie calma del lago, i mattoni consumati erano
assediati dalle alghe e dai muschi che lì cercavano il caldo
tocco del sole.
Lontano, in direzione dei monti, scure nubi si stavano avvicinando
velocemente, sospinte dal vento di alta quota.
Il riverbero di un tuono si spanse nell’aria, mentre il sole
veniva inghiottito dall’oscurità gettata dalle
pesanti nuvole che stavano conquistando il cielo.
L’uomo batté i talloni sui fianchi del cavallo,
incitandolo ad aumentare l’andatura per evitare il temporale
che stava arrivando. Nonostante ciò, le prime gocce di
pioggia riuscirono a raggiungere il mantello scuro del cavaliere chino
sulla sella.
Un lampo squarciò il cielo scuro, illuminando le gocce
d’acqua che cadevano con frequenza sempre maggiore e una
struttura alta che si stagliava sulla sponda del lago.
Noir serrò la presa sulle briglie che teneva in mano,
facendo dirigere il cavallo galoppante verso quel segno di
civiltà.
Un secondo lampo serpeggiò tra le nuvole temporalesche,
illuminando un tempio in mattoni racchiuso in un piccolo recinto di
legno, che pareva abbracciare il giardino davanti al portone.
Noir legò velocemente il suo destriero sotto una tettoia
sghemba, costruita su un muro laterale del tempio, per poi precipitarsi
a capofitto sotto il cornicione dell’ingresso, cercando
riparo dalla pioggia che si era fatta battente.
La sua mano corse al battacchio in ferro appeso al possente battente in
legno, sollevandolo e lasciandolo ricadere più volte.
Il cupo suono che produssero i colpi riverberò per il legno
della porta e le pareti murarie della struttura, superando per un
istante il fragore dell’acqua.
I secondi in cui nulla si mosse parvero eterni.
Un vento gelido si levò, spirando dalla superficie del lago
verso nord, verso l’entroterra e la Grande Vivente che
là si ergeva.
L’uomo si strinse nel mantello fradicio, cercando riparo
dalle intemperie che parevano averlo preso di mira.
Finalmente il portone si smosse, facendo filtrare verso
l’esterno la luce delle candele che dietro a questo ardevano.
Un uomo dal cranio rasato si sporse da quella feritoia, guardando con
gli occhi socchiusi chi aveva bussato alla sua porta.
Noir sorrise da sotto il suo cappuccio, sperando che
l’assenza della barba fosse sufficiente a non farlo
riconoscere.
- Posso mendicare un giaciglio per la notte? –
provò a chiedere, appoggiando la propria mano sulla porta.
L’uomo calvo parve incerto, poi, chinando la testa, si decise
ad aprire completamente la porta, in modo da far entrare il mendicante.
- La ringrazio. – continuò Noir, facendo pochi
passi oltre l’ingresso.
L’uomo si voltò, facendo ondeggiare la tonaca
bianca che portava addosso, e avviandosi per il corridoio dal quale era
arrivato.
Noir lo seguì, guardandosi attorno, cercando di memorizzare
qualunque cosa lo potesse aiutare o ostacolare durante una fuga.
Il corridoio d’ingresso era lungo, stretto, con le pareti
ricoperte di legno spoglie, se non per le candele appese ad intervalli
regolari.
A sette metri dall’ingresso, il sacerdote in tunica candida
si fermò quei pochi secondi necessari per aprire la porta
che si trovarono davanti. Oltre a questa, inginocchiati su spesse
panche di legno pieno, altri nove uomini rispettavano il religioso
silenzio di preghiera.
Il sacerdote che aveva aperto la porta indicò con un gesto
della mano una panchina vuota contro il muro, sulla quale Noir si
sedette senza dire nulla.
Un’ora e mezza passò lentamente, non una volta uno
dei sacerdoti si alzò o si sistemò in quella
scomoda posizione.
Attraverso le sottili pareti della struttura si riusciva perfettamente
a sentire il battente suono delle gocce di pioggia che impattavano sul
terreno e sulla superficie dello specchio d’acqua.
Fu il suono di un campanello appeso alla parete a risvegliare la stanza
dallo stato catatonico in cui era caduta.
Un sacerdote si avvicinò al trentenne, il fisico magro era
malcoperto da una tonaca azzurra e il viso dimostrava almeno
quarant’anni in più del confratello che era andato
ad aprire la porta allo sconosciuto.
- Perché hai bussato al nostro tempio? – chiese
seccamente l’anziano, con una voce resa rude da troppi anni
passato in isolamento in quel tempio.
Noir si sforzò nel sembrare il più onesto e
candido possibile, sorridendo bonariamente a quel viso rugoso che lo
stava squadrando. – Vede, sono stato preso alla sprovvista
dal temporale che sta imperversando durante il mio viaggio. So
perfettamente che voi, in quanto sacerdoti devoti ad Aria, predicate
uno stile di vita lontano dalla caotica civiltà, ma vista la
mia posizione ho ipotizzato che avreste potuto offrirmi un tetto per
questa sola notte. –
Lo sguardo del sacerdote non sembrò mutare a quella
spiegazione. Nonostante ciò fece un passo indietro,
allontanandosi dal mendicante che il suo confratello aveva fatto
entrare.
- Ti offriremo riparo per questa sola notte perché il Fato
ti ha condotto a noi. –
- La ringrazio infinitamente. –
Nessuno si preoccupò di guidare il trentenne dai capelli
neri all’interno di quell’edificio consacrato,
lasciandolo da solo con i propri pensieri in quella sala della
preghiera per un’ulteriore ora. Quando, finalmente, una
tonaca candida ricomparve da una delle porte, fu per riferirgli che di
lì a poco sarebbe stata servita la cena.
Noir si ritrovò una manciata di minuti dopo in una stanza
laterale che si sarebbe potuta scambiare per un largo corridoio lungo
il quale, contro il muro di destra, erano stati sistemati piccoli
tavolini, il cui unico compito era ospitare la nera fetta di pane e
poche verdure probabilmente colte dall’orto accudito dai
confratelli stessi.
Non una volta, durante la parca cena, un sacerdote provò a
parlare con l’ospite sconosciuto, chiedergli il nome o la
storia che l’aveva condotto fino al loro uscio. Di quando in
quando un di loro alzava lo sguardo nella sua direzione, squadrandogli
il volto per diversi secondi, per poi far tornare i suoi occhi in
direzione del piatto.
La stanza silenziosa fu attraversata da un attimo di fremito, generato
forse da una parola, forse da un gesto che, comunque, Noir non
riuscì a cogliere.
Che l’avessero riconosciuto?
No, in quel caso si sarebbero già mossi.
Noir si portò alle labbra le poche briciole che erano
rotolate fuori da suo piatto, aspettando che qualcuno lo scortasse al
pagliericcio che lo avrebbe dovuto ospitare per la notte.
I piccoli loculi destinati ad ospitare i corpi dei sacerdoti durante le
poche ore di sonno che questi si permettevano durante la notte erano
stretti, al punto da riuscire ad ospitare solamente una brandina e
nulla più.
Noir si sdraiò in silenzio, con il suo zaino al fondo della
stanza a far compagnia ai suoi piedi. Non appena il sacerdote che
lì l’aveva condotto se ne fu andato, facendo
perdere il suo sguardo contro il soffitto legnoso che lo divideva dalla
pioggia scrosciante.
Non potevano averlo riconosciuto, si disse. Avrebbero reagito
immediatamente, scappando o attaccandolo. Oppure sapevano chi era, ma
avevano preferito rimanere fedeli alla loro natura di devoti religiosi.
Il trentenne chiuse gli occhi, cercano di rallentare il battito
frenetico del suo cuore.
Cullato dal suono dell’acqua, si addormentò poco
dopo.
Ancora non capisco
perché abbiano creato questo.
Nessuno penserebbe mai
di tornare sulla cima del Flentu Gar, dopo quell’inferno che
avete scatenato. A questo punto, mi chiedo, perché abbiate
nascosto tutto sotto queste spoglie, piuttosto che far erigere un
normale palazzo.
Noir sentì il sangue fremergli nelle vene, farsi bollente,
scaldandogli le carni e facendolo svegliare di soprassalto.
Conosceva quella sensazione. L’aveva provata troppe volte
nella sua vita, prima nell’Oasi, poi durante le sue fughe.
Avvertì qualcosa di viscoso colargli sul petto.
Sangue.
Sangue tiepido, sgorgato da una ferita appena inflitta.
Aprì gli occhi, con la cornea che pareva nera sotto la poca
luce della luna che riusciva a filtrare dalla stretta finestra sopra di
lui. Non uno dei capillari intorno alle sue iridi era rimasto integro,
facendo sì che il loro contenuto venisse sparso senza
criterio.
Noir boccheggiò per un attimo, intuendo cosa fosse la
macchia sfocata che vedeva di fronte a sé.
Un sacerdote stava imperioso su di lui, con gli occhi spalancati e la
mascella pendente. Il suo petto era stato trapassato da una lancia
nera, che si sarebbe detta nata direttamente dalla pelle sullo sterno
del trentenne, ora sporca di quella linfa vitale.
La lancia si ritrasse nuovamente, tornando nel corpo
dell’uomo dai capelli neri, togliendo così
l’unico sostegno che teneva ancora in piedi il confratello,
che crollò a terra già privo di vita.
Il pugnale che teneva in mano tintinnò contro il legno prima
ancora che il corpo toccasse il pavimento.
Noir si alzò, evitando di toccare il cadavere riverso che
continuava a spargere il proprio sangue ai piedi del letto, prendendo
il suo zaino e rimettendoselo in spalla.
Doveva scappare. Quel sacerdote aveva provato ad ucciderlo, sapeva chi
era, e nessuno avrebbe tentato una cosa del genere da solo.
Nessuno sarebbe stato tanto folle da sfidare il suo sangue in un leale
duello. Per quanto potesse essere leale un duello contro di lui.
Noir, ripercorse a passo svelto la strada che lo separava dalla sala
della preghiera. In nessuno dei loculi che oltrepassò
riuscì a trovare un sacerdote, vegliante o dormiente che
fosse.
Il dormitorio terminò con la porta che lo avrebbe condotto
alla stanza principale, che sì aprì non appena i
suoi avambracci impattarono contro il legno. Il trentenne non dovette
nemmeno rallentare il suo passo, lasciando che fosse lo slancio del suo
corpo a far muovere i cardini.
La larga sala centrale si presentò oscura e silenziosa
all’uomo.
Le strette feritoie poste in alto lasciavano appena filtrare il poco
bagliore lunare che era riuscito a farsi strada tra le nubi
temporalesche.
I candelabri erano immobili, appena riconoscibili senza la fiamma
ardente delle candele consumate che su di essi riposavano.
A sinistra, sulla parete contigua a quella attraversata da Noir, si
poteva immaginare la porta che lo divideva dalla mensa. Superato ancora
l’angolo successivo, da qualche parte, doveva esserci
l’accesso al corridoio che lo avrebbe portato
all’esterno.
L’uomo proseguì dritto, stringendo a sé
lo zaino con una mano, mentre l’altra tastava
l’aria sul suo percorso nel caso un inginocchiatoio si fosse
frapposto sul suo percorso.
Le dita del trentenne si appoggiarono sulla parete opposta, seguendone
il profilo finché non incespicarono su un montante.
L’anta si mosse, silenziosa, facendo penetrare nella stanza
oscura una lama di luce rossastra, vivida, intensa al punto da
infastidire le pupille dilatate di Noir.
Il corridoio era illuminato a giorno, una dozzina di candele ardevano
sui loro bronzei supporti sulle pareti, gettando la loro luce sui volti
dei nove sacerdoti che lì stavano fermi, in piedi, schierati
come le pedine su di una scacchiera.
I loro volti apparivano ora cadaverici ora demoniaci con il danzare
delle ombre scure sui lineamenti di quei visi.
Sulla barba dell’uomo più anziano, a capo di
quello schieramento, i riflessi delle fiammelle parevano accendere
tizzoni ardenti, che danzarono, quando le labbra asciutte si mossero
per proferire parola.
- Cosa hai fatto al nostro confratello? – chiese quel vecchio
con voce inquisitoria, voce che parve riverberare tra le pareti
rivestite di pannelli di legno.
- Ha avuto quel che si meritava. Magari la vostra dea l’ha
punito per aver attentato alla mia vita durante il sonno. –
- Tu, mostro. Tu, creatura dal sangue impuro. – il sacerdote
fece un passo avanti, stringendo tra le mani un lungo bastone da
passeggio. – Tu non potrai più sporcare le Terre
con la tua vita invisa agli dei, noi non ti permetteremo un ulteriore
passo. –
Noir, flesse leggermente le ginocchia, cercando di riportare alla mente
i dettagli che aveva cercato di memorizzare la sera precedente.
Fosse riuscito a superarli tutti rapidamente, si sarebbero trovati
impacciati nel voltarsi, offrendogli una buona finestra di vantaggio.
Un metro alle sue spalle lo divideva ora dalla sala della preghiera.
Un metro davanti a lui c’era il primo sacerdote con, dietro
di sé, due metri abbondanti occupati dai suoi confratelli.
Tra gli uomini in tonava bianca e la porta d’uscita
rimanevano poco più che due metri. Due metri di vantaggio
per scappare.
Noir fece un passo indietro, cercando di prepararsi per quello che
avrebbe dovuto fare.
- Ascoltate. – provò a dire il trentenne alzando
lentamente le mani. – Non voglio farvi del male. Se mi
lascerete uscire non vi farò nulla e potrete andare a
seppellire il corpo di quell’altro. È una
promessa. –
- Tu ci stai offrendo una seconda possibilità? Nel nome di
Aria, giuro che ti fermeremo ed epureremo il mondo dal tuo sangue.
–
L’uomo sospirò, facendo mutare il suo sguardo in
uno più serio e concentrato. – Non credo che Aria
ne sarà molto felice. –
Noir scattò in avanti, colpendo il sacerdote con una
spallata che gli fece perdere l’equilibrio. Si mosse quindi
di lato, spingendo il primo uomo in tonaca che incontrò
contro i suoi vicini.
Sfruttò lo spazio che si era andato a creare per lanciarsi
contro l’ultima linea di persone che si frapponevano tra lui
e la sua libertà.
Le sue suole impattarono contro il petto del sacerdote in mezzo al
corridoio, facendolo cadere schiena a terra. Una pozza di sangue
cominciò a spandersi sul pavimento sotto la nuca
dell’uomo caduto.
Il trentenne dai capelli neri non si trattenne a constatare le
condizioni del confratello sul quale era atterrato, scattando in
direzione della porta, così vicina.
Un rigolo di sangue cominciò a colare dal naso di Noir,
quando questo impattò contro l’uscio, chiuso a
chiave. |
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Capitolo 6 *** Capitolo 2.5: Esisteranno ancora gli ispettori? ***
L’elfo dal tatuaggio romboidale aprì la porta
della casupola che, da sola, si ergeva sulla vetta mozza del Flentu
Gar. Ad attenderlo, dalla parte opposta, una scala che proseguiva verso
il cuore di quel monte.
I suoi passi rimbombavano tra le pareti di pietra, accompagnandolo
nella sua discesa.
Due vie si presentarono davanti a quegli occhi scuri.
Una porta, sulla sinistra, e il proseguo della scala, davanti.
Che odio.
Il sottosuolo, intendo.
Così cupo, privo di vita. Per lo meno il palazzo di
giustizia di Gerala era in mezzo al verde.
Potrei continuare a
scendere, arrivare fino alle segrete, continuare a scendere ed andarla
a trovare. Non saprei però cosa dirle e detesto incontrare
qualcuno senza una storia da donargli.
La prossima volta. La
prossima volta.
Ma, per ora…
L’elfo appoggiò la sua mano sulla maniglia,
facendo scattare la serratura e spingendola verso l’interno.
La stanza in cui entrò era illuminata da un imponente
candelabro in vetro appeso al soffitto. Su di esso ardevano centinaia
di candele.
Su alti scranni, dalla parte opposta rispetto all’unico
ingresso, sei figure si voltarono nella sua direzione, attratte dal
suono dei cardini che ruotavano.
Strano. Anzi, non
strano, particolare.
Sono passati…
almeno un migliaio di anni dall’ultima volta che Loro si sono
lasciati vedere in faccia, senza ripararsi dietro una coltre di
penombra.
Sei…
è un numero medio. Negli anni li ho visti oscillare tra i
due e i ventiquattro membri, non mi stupisce, quindi, vederne un numero
così… canonico.
Numero o non numero,
questa Loro formazione non ha ancora sfruttato i miei servigi.
È arrivato il momento di rifare quel discorso imbarazzante.
- Salve a voi. Potete chiamarmi con il nome di Viandante. Come vi
avranno riferito i vostri predecessori, sono un mutaforma legato alla
vostra società da un contratto stipulato secoli fa. Se voi,
come chi vi ha preceduto, firmerete il mio contratto e vi impegnerete
nel mantenerlo, potrete contare sulle mie abilità e sulla
mia lealtà.- l’elfo fece una pausa, quasi avesse
finito di parlare. Un idea, poi, balenò per un attimo nella
mente del mutaforma. – Ci tengo, però, a
ricordarvi che la scadenza del mio contratto è fissata da
qui a vent’anni. Sono fiducioso che manterrete la parola che
venne data, in ogni sua clausola. –
Il plico di fogli venne estratto dallo scrigno in cui era riposto da un
uomo dalla stempiatura marcata, la cui fronte alta quasi
scintillò alla luce del candeliere. L’uomo sorrise
alla vista del contratto, per poi tornare a guardare l’elfo
che ancora restava in piedi, immobile.
L’età
non è stata particolarmente gentile con lui.
Oh, già,
nessuno l’ha ancora chiamato per nome. È Vanenir
II, solo con quasi meno capelli che fratelli in vita e un po'
più d'esperienza.
E poi
c’è quello scrigno. Quel maledetto ammasso di
legno, ferro e sigilli magici delle più disparate culture.
Se solo potessi toccarlo
non sarei rimasto al loro servizio così a lungo.
Vanenir II, re dei draghi, sullo scranno più a sinistra,
porse i fogli all’uomo più vicino.
La penna inchiostrata passò di mano in mano, tracciando le
cinque firme che ancora mancavano.
Lakar Maoi, uomo a capo della gilda mercantile più influente
delle Terre, colui che decide il valore di ogni singola merce in
circolazione.
Sarah Dan Rei, l’elfa che si è arricchita grazie
agli introiti del treno Nube, l’unico mezzo, ad ora, in grado
di permettere spostamenti sufficientemente veloci e sicuri dai Muraglia
alle maggiori città che si affacciano sul mare occidentale
e, da lì, a Gerala.
Rast Mareu, l’uomo protettore dei governatori delle Chiritai,
colui che ha il potere di muovere a piacimento gli equilibri politici
delle città tecnologicamente più avanzate delle
Terre.
Johanne Fenter, la donna poco più che trentenne che si era
aggiudicata la carica di Giudice Maggiore dopo la prematura scomparsa
del suo predecessore.
Krave Dunnont, colui che gestisce il traffico dei sempre meno numerosi
Demo che abitano le terre.
Chi non darebbe fiducia
a soggetti del genere?
Un re regicida,
l’uomo che si arricchisce giocando con l’economia,
la donna che controlla i traffici principali delle Terre,
l’effettivo governatore del conglomerato di città
più potente in campo tecnologico, la signora che gestisce
ogni sentenza elargita e l’uomo che traffica nei migliori
schiavi esistenti.
Ora le cose importanti.
Finora, solo Vanenir
aveva posto la firma necessaria per ordinarmi qualcosa. Questa
cerimonia la fanno solo quando devono spedirmi a fare qualcosa di
importante.
- Ora che avete siglato i termini del mio contratto, mi permetto di
chiedervi qual è la ragione della convocazione. -
Il re dei draghi si alzò dal suo scranno, prendendo da terra
una cartellina in legno. Ne tirò fuori diversi fogli delle
più disparate dimensioni che porse all’elfo in
piedi.
Relazioni, referti medici, schizzi, bozzetti di corpi riversi, la
piantina di un edificio e dichiarazioni di guardie cittadine e di
civili.
Non vedevo cose del
genere da… questa è tosta.
Credo dai tempi di
Jackie, cioè, di Jack lo Squartatore. Avete presente, no?
Inglese vittoriano, inquietante, poca igiene personale e una splendida
ossessione per le prostitute, o meglio, per le loro interiora.
Non riuscirono mai a
catturarlo, quindi mi ordinarono di ucciderlo, alla fine. Povero Jackie.
- Queste a cosa fanno riferimento? – chiese l’elfo
tatuato, facendo scorrere rapidamente il suo sguardo sulle centinaia di
parole in pessima grafia che stringeva tra le mani.
- Negli ultimi tre mesi, il numero di omicidi di… miei
sudditi è aumentato in maniera vistosa. Al momento, le
guardie cittadine non hanno idea di chi stia portando avanti questa
serie di morti o del perché lo sta facendo. –
L’elfo tatuato alzò gli occhi scuri dai documenti,
per posarli sull’alta fronte liscia del re dei draghi, lucida
al punto da mostrare un vago riflesso delle candele che, poco
più in alto di questa, illuminavano la stanza.
- Quali sono i vostri ordini? –
Lo so, può
sembrare una domanda assolutamente inopportuna e senza senso, in questo
momento con le informazioni che possiedo, ma, visto chi ho davanti, non
voglio lasciare nulla al caso.
Avanti, il capellone che
ho davanti è diventato re ordinandomi di assassinare
Réalta. A questo punto, da lui, posso aspettarmi qualunque
cosa, anche il dare una mano all’assassino o il dover
insabbiare il tutto.
Non che mi farebbe molta
differenza il dover svolgere l’uno o l’altro
compito.
- Devi fermarlo con le tue… capacità. Ti
forniremo tutti i documenti necessari per muoverti come nostro inviato,
potrai servirti del supporto di qualunque dipendente del governo che ti
parrà necessario e ti verrà conferito un grado
sufficiente a farti avere accesso a tutto ciò che
sembrerà utile, ovviamente senza dover rivelare cosa
realmente sei. –
Hanno preso un
po’ troppe precauzioni, questa volta.
Capisco che, ora che
Follia è diventato un’opera di arte moderna, le
missioni “importanti” che mi possono affidare, al
massimo, possono includere il mio intervento negli affari dei mortali,
però…
Qualcosa continua a non
convincermi. Oppure mi stanno infinitamente sottovalutando.
- Perché tutte queste precauzioni? Devo assassinare un
assassino, nulla più. Cosa vi preoccupa di questo soggetto?
–
Vanenir tornò al suo posto, sedendosi sullo scranno a lui
assegnato.
- Non sappiamo quale sia il suo volto, non sappiamo dove si trovi in
questo momento, non sappiamo nemmeno se sia opera di un’unica
persona. –
L’elfo tatuato sfogliò velocemente i fogli che
teneva in mano, assorbendo il più velocemente possibile i
dettagli rilevati durante i ritrovamenti.
- Cosa sapete, esattamente? –
- Le sue probabili ultime vittime. – cominciò il
re dei draghi, venendo interrotto dal tintinnio di un bicchiere di
cristallo, quando il Giudice Maggiore posò il proprio calice
sul tavolino di fronte a lei.
Vanenir attese un attimo, in modo da dare il tempo alla nota
cristallina di disperdersi, per poi riprendere il suo discorso.
– Sappiamo che sa come uccidere in maniera efficace, che non
si preoccupa dei danni collaterali, al punto che ha appiccato un
incendio in uno dei piani più alti di Gerala. –
Ecco che si spiegano
molte cose.
- Quindi è un pericolo in quanto è una mina
vagante che vi ferisce a fondo in maniera inconsapevole. –
L’imponente trafficante di Demo si alzò dalla sua
sedia, puntandosi con le braccia grassocce sui braccioli dello scranno.
La camicia candida di ottima fattura si tese sul suo ventre gonfio
quando fu in piedi.
- Come osi parlarci con un tono così irriverente. Tu non sei
altro che un servo per noi firmatari, impara a restare al tuo posto!
– tuonò il pallido Krave indirizzando il suo dito
tozzo verso il volto dell’elfo.
Il corpo dell’individuo in piedi, davanti alla porta, fu
scosso da un fremito. I fogli che teneva in mano caddero a terra quando
lui aprì la bocca, facendo deformare il tatuaggio che gli
copriva la guancia.
- Io, un servo? – tuonò una voce possente,
lontana, come un rombo di tuono o una frana roboante – Io
esisto da millenni, figlio degli dei, figlio di colui che ti scrisse e
ti seppellirà. – Il corpo dell’elfo
crebbe di dimensione, scurendosi. I suoi occhi si fecero dardeggianti,
due corna ritorte nacquero dalla sua nuca e una coda ossea dal suo
coccige. - Io ti sopravvivrò e non sarà una firma
su un contratto ad impedirmi di danzare sulla tua tomba. Sono
immortale, ho visto l’inizio e vedrò la fine di
tutto, io ho dato il via alla Guerra degli Elementi, io ho duellato con
il demone che quasi fece sprofondare il mondo nel caos incontrollato ed
io rimango fedele ai vostri ordini perché il contratto
è incantato, ma il costo del mio tradimento non è
la mia vita, bensì quella del vostro prigioniero. Senza di
lui come merce di scambio, però, cosa credi mi possa
trattenere dal ridurre questo continente in una ardente distesa
inospitale? –
Ora un essere infernale alto al punto da sfiorare il soffitto si ergeva
a ostacolo per l’unica via d’uscita presente.
- Dunnont! Torna immediatamente al tuo posto! –
urlò imperioso Vanenir, tornando ad alzarsi, mentre le sue
viscere fremevano, pronte a riacquistare le loro fattezze draconiche.
Il mercante di schiavi tornò a riempire la seduta dello
scranno alle sue spalle con la sua mole senza proferire parola.
Il calice del Giudice Maggiore Fenter venne sollevato lentamente, per
portare il chiaro liquido alle labbra della donna.
Era da un po’
che non mi esibivo in una performance del genere. Probabilmente, avessi
un analista, mi direbbe di farlo più spesso. Aiuta a
distendere i nervi.
- Bene, - riprese il drago, rilassando il proprio corpo –
Viandante, torna a un aspetto più consono a una discussione
civile quale questa deve essere. –
L’essere infernale mutò il suo sguardo, tornando a
rimpicciolirsi e a rivestire gli abiti formali dell’elfo.
- Ottimo. – Vanenir fece un cenno del capo in direzione del
Giudice Maggiore.
La donna bionda si alzò, abbandonando il calice sul tavolino
per preferire ad esso una busta scura, attraverso la quale si poteva
riconoscere la carta destinata ai documenti ufficiali, porgendola al
mutaforma con un sorriso sornione dipinto sul volto ed incorniciato dai
boccoli chiari.
L’elfo li prese rispondendo al sorriso, per poi chinarsi per
recuperare tutti i documenti che aveva lasciato cadere.
- Viandante, hai tutto ciò che ti serve per iniziare il tuo
compito. Non tornare se non una volta che il tuo incarico si
sarà concluso. – terminò Vanenir.
L’elfo tatuato si voltò, facendo oscillare la
lunga giacca alle sue spalle, per poi varcare la porta e tornare a
risalire i gradini verso la luce del sole.
Quel mercante di schiavi
mi ha fatto venire l’ulcera.
Io ho visto
più regni cadere dei soli che lui ha visto sorgere, e
vorrebbe mettermi i piedi in testa.
Avrei dovuto puntare su
qualcosa di più cattivo, il bestione muscoloso e cornuto
è forse troppo classico.
Mi fossi potuto
disgregare avrei potuto pensare a una colonna di fumo, magari con un
cuore pulsante di luce… la prossima volta, magari.
…
Devo andare a Gerala,
l’ultimo morto che è stato associato quasi per
certo al mio obiettivo è stato ritrovato
là… e poi c’è stato quel
casino nel ristorante, dovrei andare a controllare anche lì.
Un incendio potrebbe essere tanto accidentale quanto voluto.
E poi
c’è la cosa che mi infastidisce di più.
No, non
l’assassino, quel tipo o tipa che sia ha i minuti contati, e
nemmeno il fatto di dovermi far passare per un normale incaricato del
governo. Cosa dovrei essere, un ufficiale? Un ispettore? Ma, poi,
esisteranno gli ispettori, o avranno un altro nome?
Sono stato per troppo
tempo fuori dal giro…
Quello che non mi tedia
è che dovrò aver a che fare con i mortali. Con i
dannati mortali. Anzi, peggio, con i mortali sui quali gli dei non
hanno progettato nulla.
Guardie, medici, civili
e chissà che altro.
Non credo di aver voglia
di rapportarmi con qualcuno che non siano le voci nella mia testa.
Angolo dell'Autore:
Ammetto che, ultimamente, sono stato un po' avido di questi angoli.
Chiedo venia.
Prima le cose importanti.
Devo tornare a porgere i miei ringraziamenti a la ragazza imperfetta,
OldKey e, new entry, whitesky, per le recensioni che continuano a
lasciarmi e la fiducia che continuano a riporre nelle mie storie.
Grazie davvero.
Passiamo ora al capitolo.
Bene si, questa storia sta diventando una sorta di giallo. Un giallo in
cui voi conoscete sia il colpevole che l'inseguitore. O, almeno, del
colpevole conoscete unicamente le sue azioni.
Ho in programma, per un lontano futuro, una storia Thiller, Noir o
Gialla, ovviamente molto diversa da questa, però
sarà interessante provare questo stile qui, con voi.
Spero vi possa piacere questa deriva del Fantasy verso qualcosa che non
è raccoglibile in un solo genere.
Mi farete sapere cosa ve ne parrà. Spero.
Un'ultima
cosa, più importante.
La settimana prossima sarò disperso sui monti senza nessun
contatto con la civiltà.
In un primo momento, ho pensato di non pubblicare direttamente il
capitolo, saltando quindi la pubblicazione settimanale, e riprendere
con quella successiva... poi, però ho cambiato idea. Non so
perchè, per masochismo, forse.
In ogni caso, oggi un pomeriggio ho tirato giù per intero il
capitolo 3, in modo che, domenica prossima, non appena sarò
tornato, potrò pubblicarvelo.
Quindi a domenica prossima, miei cari lettori.
Vago |
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Capitolo 7 *** Capitolo 3: Odore di Mare ***
Il bastone calò con violenza sulla schiena del trentenne,
impattando e rimbalzando su una placca nera che sembrava essere
fuoriuscita dal corpo stesso dell’uomo.
Il sacerdote che aveva vibrato il colpo rimase interdetto, paralizzato
dalla comparsa improvvisa di quell’armatura che ben poco
sapeva di naturale.
La superficie della placca nera parve divenire liquida per un momento,
vibrante, per poi deformarsi verso l’esterno come la punta di
una lancia, trapassando il cranio dell’uomo devoto ad Aria e
schizzando il suo sangue, scintillante alla luce delle candele, contro
le pareti in legno, per poi ritirarsi verso il punto
d’origine e cercare come riparo all’interno delle
membra del trentenne.
Noir si voltò, pulendosi con un dito il sangue scuro che gli
aveva sporcato il naso. Alle sue spalle, la porta chiusa del tempio gli
impediva la fuga, davanti a lui, i rimanenti otto sopravvissuti stavano
aggirando il cadavere ancora tiepido per raggiungerlo.
- Ascoltate, se mi date le chiavi di questa porta e mi lasciate uscire
giuro che non ci saranno altri morti. –
- Non avrai pietà da noi, malosangue. – fu la
risposta secca, meccanica, dell’uomo dalla lunga barba resa
ardente dalle fiammelle che illuminavano l’ambiente.
- Io non credo che dovreste attaccarmi… potremmo ancora
risolvere la situazione senza altri spargimenti di sangue. –
Noir alzò di riflesso le braccia a protezione del viso, non
appena i suoi occhi colsero i due bastoni che gli si stavano
avvicinando.
Dalla pelle degli avambracci, un frammento di secondo prima che questi
venissero urtati dal duro legno delle verghe, parve venir trasudato un
liquido denso, scuro come una notte senza né stelle
né luna, grumoso, che si indurì attorno agli arti
per formare i bracciali su cui i bastoni sarebbero andati ad impattare.
Il trentenne alzò le mani al soffitto, gli avambracci ancora
avvolti da quella protezione parvero assorbire tutta la luce che li
circondava.
- Davvero, non ho intenzione di uccidere nessuno! –
tentò ancora l’uomo dai capelli neri.
I bracciali, lentamente, vennero riassorbiti dalla pelle e dalla carne
sottostante, scomparendo così come erano apparsi.
Un’altra vergata venne direzionata sulla traiettoria per
intercettare la tempia sinistra del giovane.
Dal palmo sinistro alzato di Noir comparve una sferetta della stessa
consistenza dei bracciali, saldamente legata alla sua pelle, che con
uno scatto repentino si allungò, divenendo una sottile lama
appuntita che trapassò prima il bastone, bloccando la sua
corsa, poi il cranio del sacerdote che lo brandiva.
Dalla mano opposta, come proporzionalmente, comparve una lama identica
alla prima, che scattò per impalare due sacerdoti che
avevano osato avvicinarsi troppo con la stessa velocità con
cui la precedente si ritirava verso il suo punto di partenza.
Il corpo dell’anziano alla destra di Noir cadde, privato del
sostegno della lama nera, così come fecero i corpi dei suoi
confratelli, non appena la seconda arma si fu ritirata.
- La tua anima si sta appesantendo, malosangue! Quanto peso potrai
sopportare ancora? – salmodiò l’anziano
in tunica azzurra, facendo un passo avanti, mentre le sue dita ossute e
callose si stringevano sulla sua verga.
Fu un attimo, poi sei degli otto bastoni stretti ancora nelle tiepide
mani dei sacerdoti calarono su Noir con violenza inaudita.
Gli occhi del trentenne si fecero neri come la pece, non uno dei vasi
sanguigni che incorniciavano le sue iridi verde scuro ricevette
pietà dall’impietoso ribollire del suo sangue.
La melassa nera trasudò dalla tempia destra, dalla scapola
sinistra, dal fianco sinistro, dal polso destro e dal ventre.
Noir cadde a terra rantolante quando il duro legno di uno dei bastoni
gli falciò il polpaccio destro, aprendogli un taglio poco
sotto il ginocchio.
Il trentenne si cercò di accovacciare, esponendo unicamente
la schiena ai colpi che continuavano ad infierire su di lui, tutti,
però, trovarono unicamente la piastra nera che si era creata
per proteggere il suo dorso.
- Vi prego, non intendo uccidervi. – la voce
dell’uomo dai capelli neri si spanse nell’aria
ovattata, attutita dalla posizione in cui era costretto il suo
proprietario.
- Taci! – tuonò il sacerdote più
anziano.
I colpi si fecero sempre più rapidi, il legno dei bastoni
sempre più desideroso di profanare la pelle e i muscoli
dell’uomo che cercava di colpire.
Il busto di Noir si inarcò verso il soffitto. Il trentenne
proruppe in un urlo disperato di dolore e dalle sue labbra caddero
decine di gocce di saliva, che si persero alcune sulle pareti, alcune
sul pavimento.
La placca nera che riusciva a stento a coprire la schiena
dell’uomo a terra parve vibrare, perdere in parte la sua
solidità tornando ad essere quasi liquido.
Un bastone venne ancora calato su quella protezione.
I muri di legno vennero irrorati da decine di schizzi di rosso sangue,
che brillava cremisi alla luce della fiamma tremolante delle candele.
Noir restava immobile, i suoi abiti erano strappati in più
punti, là dove lance nere erano nate per impalare gli otto
sacerdoti che vessavano il suo corpo.
La melassa scura ritornò a farsi malleabile, ritraendosi nel
corpo del trentenne.
L’uomo si rialzò lentamente, puntellandosi sulle
mani per sorreggersi. La sua schiena, là dove era i vestiti
non la coprivano, mostrava profondi tagli e brandelli di pelle cadenti.
Noir si mosse verso i cadaveri, curvo, cercando tra i loro abiti la
chiave che gli avrebbe permesso di lasciare quel luogo.
Si sarebbe dovuto medicare, prima di partire, si disse mentre le sue
dita si stringevano su un freddo oggetto di metallo.
Noir guardò il cavallo che lo aveva accompagnato negli
ultimi otto mesi allontanarsi nella Piana Umana verso nord, saltando
agilmente le due rotaie di lucido metallo che avevano raggiunto.
L’uomo mosse un paio di volte braccia e spalle, saggiandone i
movimenti che le strette bende con cui si era fasciato gli permettevano.
Non era molto, ma se lo sarebbe fatto bastare.
In lontananza, verso i Monti Muraglia, la locomotiva splendente sotto
il primo sole del mattino si avvicinava, seguita dalla scia di fumo
denso che si lasciava alle spalle.
Locomotiva, vagone per il carbone, poi solamente vagoni per il bestiame.
Non avanzava troppo velocemente, ma, avesse sbagliato, nemmeno la sua
maledizione lo avrebbe salvato completamente dalla carica di
quell’animale di metallo.
La locomotiva passò accanto a Noir, facendo sobbalzare i
sassi sul terreno e riempiendo l’aria dell’acre
odore del suo fumo.
Il trentenne si flesse, preparandosi.
Il primo vagone proseguì lungo le rotaie, con le sponde alte
ad impedire al prezioso carico di combustibile di disperdersi lungo il
tragitto.
Il portellone laterale dell’ottavo vagone era socchiuso.
Sarebbe stato sufficiente.
Noir saltò allungando la mano destra in direzione del treno.
Immediatamente prima dell’impatto che lo avrebbe privato
della mano, la densa melassa avvolse l’arto dalla punta delle
dita fino a metà dell’avambraccio, impedendo
all’uomo di avvertire alcunché dal
violento contatto che ne seguì.
L’uomo si trovò appeso al montante del portellone,
con le gambe a penzoloni sul terreno che correva veloce e il viso
investito da un forte vento caldo.
Le sue braccia si contrassero, le bende che gli fasciavano il busto si
tesero e un rigolo di sangue vermiglio gli imbrattò la
schiena, ma lo sforzo fu ricompensato quando le suole delle sue scarpe
si poggiarono sulla base della carrozza.
Una lama di luce, a stento, riusciva a filtrare
dall’apertura, proiettando l’ombra di Noir
all’interno di quell’ambiente.
Una dozzina di figure scure, avvolte dall’ombra, si mossero
contro la parete opposta alla comparsa di quel nuovo arrivato.
Un muso tozzo, animalesco, adornato da due lunghe zanne, si sporse in
avanti, incrociando il suo cammino con la luce solare.
Un Demo. Un discendente dei Demoni creati dal Re per combattere la
Guerra degli Elementi. Schiavi.
Il naso schiacciato di quel muso annusò l’aria,
per poi ritrarsi di scatto, spaventato, terrorizzato.
In pochi secondi l’agitazione si propagò ai suoi
vicini, a macchia d’olio, finché tutti i Demo
presenti nel vagone non si precipitarono contro l’angolo
diametralmente opposto all’ingresso, accompagnati dal rumore
metallico delle catene che li tenevano legati.
Noir si sedette contro la parete di coda, con lo sguardo perso oltre i
Demo ammassati, la parete dietro di loro e la locomotiva ancora
più in là, invisibile al suo sguardo. Non
c’era più spazio per lui sulle Terre, doveva
lasciarle inevitabilmente.
Il trentenne si spostò leggermente, cercando una posizione
più comoda. Quel piccolo gesto fece partire dalla piccola
folla al lato opposto della carrozza una cacofonia di grida, mentre i
loro corpi ricoperti dal corto pellame si addossavano ancor di
più alla parete, tendendo le catene al massimo della loro
estensione.
L’uomo nascose il volto tra le mani, sconsolato.
Perfino gli esseri più innaturali presenti sulle Terre lo temevano.
Il treno corse sul suo metallico tracciato per altre quindici ore.
Il sole era basso sull’orizzonte e il suo riflesso rossastro
illuminava il piattume indisturbato del mare.
Noir balzò fuori dalla carrozza non appena il treno ebbe
rallentato a sufficienza, rotolando sull’erba secca che
ricopriva il duro terreno.
L’aria, tutto intorno, era pregna dell’odore di
salsedine e pesce e, in lontananza, si potevano riconoscere le voci
tonanti dei pescatori di ritorno dalle battute di pesca giornaliere.
Seguendo le rotaie per pochi chilometri verso nord, si potevano
riconoscere le mura protettive della città di Derout, la
più antica della zona. Il suo centro storico, in buona
parte, risaliva ai tempi del Cambiamento e i banchi di pesci che
passavano spesso poco distante dai suoi moli garantivano
l’agiatezza a chiunque avesse voluto investire nel commercio
del pesce.
Noir Ispirò un’ultima volta l’odore di
mare che lo circondava, così simile a quello che aleggiava
nell’Oasi in cui era nato, per poi partire a piedi in
direzione della città marittima.
Angolo dell'Autore
Come promesso, rieccomi qui.
Noir, così pericoloso da poter uccidere una dozzina di
uomini da disarmato, così terribile da spaventare dei Demo,
certo, Demo schiavi, ma non per questo meno discendenti dai demoni del
Re. Il suo potere, però, è molto particolare,
diverso da qualunque cosa io vi abbia già mostrato in questo
nostro lungo viaggio. Ora la domanda è: qual è la
fonte del suo potere?
Ci daremo una risposta, prima o poi.
Per ora, però, devo ringraziare OldKey, la ragazza
imperfetta e whitesky per le loro meravigliose recensioni, per poi
passare a ringraziare tutti voi. Non mi stancherò mai di
dirlo, se non ci foste voi a leggermi, non avrei mai scritto tutti
questi capitoli.
Alla settimana prossima!
Vago |
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Capitolo 8 *** Capitolo 3.5: Cosa sto seguendo? ***
Un uomo dai ricci capelli biondi misurò a passi lunghi la
distanza tra gli imponenti tronchi. Il completo color corteccia lo
rendeva quasi invisibile nella luce mattutina.
L’uomo si passò una mano sul volto, sul tatuaggio
romboidale che solcava la guancia, e rivelando tra i capelli una ciocca
scura, nera come il carbone.
Davanti a lui, a guidarlo, una guardia cittadina sfrecciava spedita
sotto il poco peso della corazza in cuoio che portava sul petto.
Detesto dover cambiare
il corpo di sicurezza. Quello nuovo da sempre un prurito sotto la pelle.
Ma non potevo nemmeno
continuare ad usare quell’elfo, dopo settant’anni
che in giro si vede sempre lo stesso individuo senza una ruga in
più, anche i più tardi cominciano a farsi domande.
Gli occhi verdi incorniciati dalla pelle ambrata si posarono a terra,
quando la schiena che li precedeva si fermò bruscamente.
- … Quindi, secondo lei, è possibile che al
tribunale ci siano posti vacanti? – terminò la sua
frase la guardia, voltandosi verso l’uomo che lo seguiva.
- Si, certo. Tutto è possibile. È questo il
posto? –
- Come? –
Ti prego, è
l’alba, non essere così dannatamente stordito.
- Il corpo, è qui? –
- Oh, sì, certo! Il corpo è dietro
quell’albero. -
Grazie!
L’uomo si diresse nella direzione indicatagli, percorrendo il
perimetro del grosso tronco che gli ostacolava la strada per
raggiungere la cosa nascosta sotto una spessa coperta dalla parte
opposta.
Tre guardie dai volti più anziani di quella che lo aveva
scortato fin lì controllavano che nessuno dei pochi curiosi
rimasti potesse avvicinarsi alla coperta.
L’uomo biondo estrasse dalla tasca interna della giacca un
documento piegato, vergato su carta pregiata, mostrandolo ai tre uomini
senza dire una parola. Così, nel medesimo silenzio,
varcò il perimetro che avevano creato, per andare ad
inginocchiarsi accanto alla protuberanza celata alla vista.
Con mani salde prese gli angoli superiori della coperta, ripiegandoli
verso il fondo, in modo da mostrare cosa si nascondesse sotto di questi.
Davanti alle iridi brillanti comparve un viso cadaverico dagli occhi
sbarrati di terrore. Le pupille del morto erano strette come aghi,
nonostante non un singolo raggio di sole li riuscisse a raggiungere.
Sul petto della salma, all’altezza del cuore, uno squarcio
carbonizzato si apriva tra le sue carni.
Accanto al petto, integra, riposava una valigia in pelle aperta, con i
documenti che conteneva accuratamente riposti al suo interno.
Quella documentazione
non mi interessa. Ho letto il rapporto sul contenuto di quella borsa e
non mi servirà a nulla rovistarci di nuovo.
I referti medici che mi
hanno lasciato sono abbastanza chiari… Ma sono stati redatti
dai mortali, quindi è meglio che ricontrolli tutto.
L’uomo posò il proprio pollice sulle labbra
esangui del cadavere disteso insolitamente composto a terra, sollevando
quello superiore in direzione del naso.
Un bianco, sporgente canino fece la sua comparsa nella chiostra di
denti.
Il dito dell’ispettore biondo si sollevò, ma il
labbro non parve intenzionato a tornare alla propria posizione
originale.
Drago. Quasi sicuramente
è un drago.
L’altra
possibilità sarebbe ammettere che quest’uomo ha
speso una fortuna da un buon dentista per farsi impiantare questa roba.
Ora, però, la
cosa importante.
L’indice e il medio dell’uomo si fecero strada
nella ferita del cadavere, trascinando nella loro discesa scaglie di
carne carbonizzata. Toccato il fondo del taglio, l’ispettore
ritrasse la mano, pulendo le dita annerite sull’erba su cui
si era inginocchiato. Il suo volto si contrasse per una frazione di
secondo in un’espressione tra il preoccupato e lo stupito.
- Ci sono problemi? – La voce della giovane guardia che lo
aveva scortato fin lì ruppe il silenzio di quella mattina.
L’ispettore biondo si rialzò in piedi, sbattendosi
i pantaloni dal terriccio che vi era rimasto attaccato.
- Signore? – ritentò il giovane.
L’uomo dai capelli ricci alzò un dito verso il
cielo, intimandogli di fare silenzio.
L’apparato del
drago è completamente perforato.
Chi ne
può conoscere così bene la posizione?
Un drago, o un medico.
C’è
una sola ferita… un colpo rapido e preciso.
Intanto, un
po’ di anatomia dei draghi. Sia in forma umana che da
rettile, i draghi posseggono un organo cavo accanto al loro cuore. Lo
scopo di questa sacca è quella di produrre e conservare una
secrezione estremamente infiammabile se esposta all’aria. Le
fiamme che possono eruttare non sono altro che la vaporizzazione di
questa secrezione nel loro fiato. Ed è anche per questo che
ho sempre mirato a questa sacca, quando ho dovuto uccidere dei draghi.
La fiammata che ne scaturisce uccide il drago senza
possibilità di errore.
Come è
successo qui, del resto.
Ha le pupille strette.
Deve essere stato messo davanti a una forte fonte di luce.
Più forte di una lampada ad olio.
È morto di
notte, non ci sono dubbi, quindi, cosa può aver prodotto un
lampo così accecante? Non ci sono segni di uno
sparo…
Mi manca qualcosa.
Qualcosa scappa alla mia
comprensione.
E la Trama non accenna a
volermi aiutare, qui si sono intrecciati troppi destini
perché io possa, nel mio stato attuale, leggere cosa
è avvenuto.
Mi mancano i bei vecchi
tempi.
Ricapitoliamo quello che
so per certo.
Un drago è
stato ucciso.
Draghicidio.
Un solo colpo da arma da
taglio all’apparato del drago.
Qualcuno che sa cosa sta
facendo.
Zona poco frequentata.
Premeditazione?
Possibile.
Non ha rubato nulla.
L’uomo biondo fece alcuni passi, con gli occhi persi verso un
punto lontano.
Una volta che ha portato
a termine il draghicidio, cosa ha fatto?
Se ne è
andato, ma non lontano, era notte.
Drago, umano o elfo?
In ogni caso con le
tenebre non sarebbe riuscito ad andare lontano.
È salito
verso Gerala.
Mi sto avvicinando a
qualcosa.
Da dove è
salito?
- Tu. – disse l’ispettore voltandosi di scatto nel
suo completo marrone e indicando con l’indice affusolato la
giovane guardia che lo osservava – Il montacarichi
più vicino per Gerala, qual è? –
Il giovane rimase ancora per un attimo in silenzio con gli occhi che
saettavano da destra a sinistra e la bocca leggermente aperta,
nonostante non ne uscisse nessun suono.
- Il montacarichi del quartiere medico. – fu la risposta di
una delle guardie poste a controllare la salma. – Dovrebbe
essere a cinque minuti in quella direzione. –
- Ottimo. – disse l’ispettore biondo incamminandosi
nella direzione indicatagli – Potete portare via il corpo,
oramai non ha più nulla da dire. –
Il montacarichi del
quartiere medico.
È davvero
così vicino quell’affare?
Non sono abituato a
muovermi a piedi.
Eccolo lì
davanti, cinque minuti, più o meno.
Una volta salito deve
aver cercato un riparo per la notte… in uno dei quartieri
vicini. Non tutti sono così fortunati da avere una sorella
persa da anni con una casa in quel quartiere, no?
L’uomo passò il palmo della sua mano lungo il
corrimano del montacarichi.
Niente.
Non ha lasciato uno
straccio di prova che mi possa dire con cosa ho a che fare.
Qui a Gerala non ho
ancora finito.
Il marmocchio?
Non
c’è, ottimo, così farò prima.
I ricci biondi scomparvero, seguiti dal corpo e gli eleganti abiti
sottostanti.
Un nero corvo si levò verso il cielo, sbattendo un paio di
volte le ali per prendere quota, superare i ponteggi più
bassi della città e raggiungere lo strato intermedio, colmo
di gente che ne affollava le vie sospese.
L’uomo biondo raggiunse l’ingresso della
costruzione incenerita a passo svelto, mostrando alla guardie poste
davanti a questa la sua documentazione.
Sopra il suo capo, foglie imbrunite sventolavano sotto la leggere
brezza. Sotto le sue suole, le assi della piazzetta sulla quale
l’abitazione si affacciava erano state intaccate dal fuoco,
prima che l’incendio fosse domato.
L’ispettore si fece strada nel corridoio d’ingresso
appena riconoscibile, guardandosi intorno.
L’incendio
è partito dalla stanza di sinistra, quindi dovrò
cominciare dalle cucine, a destra.
L’uomo smosse i rimasugli della porta carbonizzata.
Davanti ai suoi occhi chiari, si presentarono quindici corpi
completamente carbonizzati, sdraiati l’uno accanto
all’altro come se qualcuno li avesse posti così di
proposito.
L’ispettore si chinò su ognuno di loro.
Non un solo drago.
E, tra
l’altro, sono stati tutti strangolati.
Questo non ha senso.
Chi sono?
Camerieri e cuochi.
La dichiarazione del
proprietario del ristorante parlava di tre cuochi e tredici
camerieri… mi manca un corpo. La stanza era prenotata per
quaranta persone… sarà una lunga mattinata.
L’uomo riccio uscì dalla cucina, per dirigersi
verso quel poco che rimaneva della sala da pranzo, occupata da pochi
rimasugli della mobilia in legno e da decine di cadaveri rinsecchiti e
carbonizzati, accartocciati su loro stessi per mimare malamente una
posizione seduta.
Finalmente, ho finito.
Quaranta cadaveri, dei
quali venticinque erano draghi. Doveva essere stato un matrimonio misto.
Sono tutti morti
bruciati… tutti tranne la festeggiata del giorno. Queste,
però, non è una ferita lasciata da un coltello,
è troppo larga.
Un paletto. In legno,
visto che non ne rimane traccia.
Manca un cadavere, un
cameriere si è salvato. Un uomo.
Sto facendo passi avanti.
L’assassino si
è fatto passare per un cameriere. Potrei risalire al nome
che ha lasciato, andando per esclusione dopo aver riconosciuto i
cadaveri di là… ma non credo mi sarà
di qualche utilità un nome falso.
Si è fatto
passare per un cameriere e a notte fonda ha pugnalato la sposa, un
drago, nella sua sacca del fuoco. La fiammata provocata è
uscita dal petto ed ha innescato l’incendio.
È lui.
È il mio assassino.
Ora, però,
devo capire come mai tutti gli altri non sono scappati. E i camerieri?
I cuochi?
Io sono un assassino,
sto lavorando con le vittime. Uccido poco a poco i camerieri, i cuochi
sono troppo indaffarati per rendersene conto. Arrivo al termine della
sera che ho ucciso tutti i lavoratori. Con i cuochi devo aver lottato,
oppure li ho attirati uno dopo l’altro in un'altra stanza,
per poi ucciderli man mano.
Ho poi messo i cadaveri
in un’unica stanza, prima di uccidere il mio obiettivo.
Perché?
Perché non
potevo accatastare quei quindici morti in un angolo?
Perché sono
innocenti, forse. Perché non sarebbero morti, se non fossero
stati qui.
Mi dirigo verso la sposa
con un paletto in legno in mano.
Nessuno dei presenti
tenta di fermarmi.
Cosa li trattiene?
Sono quaranta persone,
non posso legarli tutti senza che se ne rendano conto. E sono tutti
vivi.
E la sposa?
Il foro nel suo petto
è pulito, non si è dimenata, nonostante lui
l’abbia colpita da dietro, non potendo essere sul tavolo.
Li deve aver drogati.
Tutti.
Con cosa?
Il cibo.
Ma il cibo, uscito dalla
cucina, viene immediatamente preso da dodici vassoi diversi. Non
c’è il tempo di drogare tutte le porzioni.
L’uomo si sedette sui propri talloni, guardando il volto
irriconoscibilmente sfigurato di quella che doveva essere la sposta,
caduta scompostamente a terra.
Come?
Il bere.
Le bottiglie sono
facilmente accessibili.
Potrebbe funzionare come
modello.
Ora le domande
fondamentali si riducono a una sola. Cosa sto seguendo?
- Il signor Vander? - Un uomo in tenuta elegante comparve da dietro il
muro annerito che separava la sala da pranzo dall’ingresso,
ma subito scomparve, alla vista delle salme.
L’uomo alzò lo sguardo in direzione
della voce, riemergendo dal mare di riflessioni in cui era affogato.
- Arrivo. –
Che nome terribile che
mi hanno affibbiato, anzi, cognome. Questa forma, evidentemente, non ha
nemmeno un nome.
Vander…
comunque meglio di quel Comvia che mi era uscito sui Muraglia, quella
volta.
Bah, che brutti ricordi.
L’ispettore si rialzò dalla cenere, dirigendosi
verso l’impiegato che lo aveva chiamato.
- Cosa c’è? – chiese seccamente
l’uomo biondo, non appena l’elfo che lo aveva
cercato entrò nel suo campo visivo.
Era giovane, magro, le orecchie a punte erano quasi interamente celate
dai capelli lisci lunghi una spanna. Gli abiti che portava indosso non
lasciavano dubbi sul fatto che lavorasse in un ufficio governativo.
In mano, stretto tra le dita, teneva una busta di carta sigillata,
sulla quale svettava il sigillo del Giudice Maggiore.
Cos’altro
hanno trovato…
- Mi manda l’ufficio del Giudice Maggiore Fenter…
ho dei documenti per lei. –
L’elfo porse con uno scatto delle braccia la busta,
abbassando lo sguardo verso terra.
Non ho dimenticato di
nuovo qualcosa, vero?
Due occhi, una bocca, un
naso, due orecchie, i capelli.
Gli occhi sono dello
stesso coloro? Spero di si.
Non credo di essermi
dimenticato qualche piuma della mia forma da corvo.
Devono essere quei
cadaveri a fargli questo effetto.
L’ispettore prese i fogli con un gesto elegante.
- Puoi andare. –
L’elfo non se lo fece ripetere due volte, voltandosi e
correndo oltre l’uscio, quasi scappando da quel ristorante
carbonizzato.
Vediamo
cos’altro hanno per me… |
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Capitolo 9 *** Capitolo 4: Come un ratto ***
Noir rallentò il passo quando le mura di Derout cominciarono
a gettare la loro ombra su di lui.
Era tardo pomeriggio e già il sole cominciava a riflettersi
distintamente sulla superficie del mare alla sua sinistra.
Due ore, poi sarebbe calata la notte, si disse.
La città marittima aveva solamente tre ingressi, da quel che
aveva sentito, più il porto che dava sul mare occidentale.
In una situazione normale, il trentenne avrebbe evitato una trappola
mortale come quella in ogni maniera, ma la sua non poteva definirsi
tale.
Erano pochi gli scali che potevano vantare partenze verso il continente
e quello di Derout era sicuramente il più accessibile.
Una nave alla settimana e due durante l’autunno, quando
venivano spediti oltremare i raccolti dei contadini. Quella era la
normale tabella di marcia che utilizzavano quella città e i
suoi capitani.
Doveva riuscire a salire sulla prima possibile senza farsi riconoscere,
in quel caso niente lo avrebbe potuto salvare dalle guardie cittadine.
Noir prese un po’ di terra sul palmo, sporcandosi
ulteriormente la faccia per coprire ancor più i suoi tratti,
poi riprese a camminare in direzione dell’ingresso
meridionale, dal quale gli ultimi carri mercantili stavano lentamente
accedendo alle strade cittadine.
Tre guardie erano state messe lì a sorvegliare
quell'ingresso. I loro volti bruciati dal sole erano un segno
più che sufficiente che avevano perso da un bel pezzo la
voglia di proteggersi nella guardiola dai raggi roventi di mezzogiorno.
Sicuramente sapevano fare il loro lavoro.
Noir maledisse tutti gli dei, per poi chinare il capo e proseguire in
direzione di quell’ingresso.
Le sue numerose fughe gli avevano insegnato una cosa, il cappuccio
calato sul capo non faceva altro che aumentare i sospetti nei tuoi
confronti. Per questo camminò a viso scoperto contro la
prima guardia che gli si presentò.
Se non avesse fatto domande, sarebbe potuto passare indisturbato.
L’uomo in armatura alzò il braccio.
- Fermo. –
Il trentenne maledisse nuovamente gli dei.
- Salve… - provò a rispondere, alzando appena la
fronte per poter guardare negli occhi la guardia senza rivelare troppo
del suo volto.
- Motivo del suo arrivo? –
- Io… io vorrei imbarcarmi per il continente. –
balbettò Noir, cercando malamente di sorridere.
- Non sembri in grado di poterti permettere un biglietto. –
constatò l’uomo – I mendicanti non sono
beneaccetti. –
Il braccio della guardia si fece più avanti, come per far
indietreggiare il vagabondo di qualche passo.
- No! No! – esclamò vivamente risentito il
trentenne, passandosi una mano sul viso per togliere
l’evidentemente troppo terriccio che si era spalmato
– Ho i soldi! Sono mesi che li sto mettendo da parte!
–
La sua mano corse al borsello legato alla cintura, slacciandolo dal suo
supporto per mostrare alla guardia il suo contenuto, composto da
diverse Laire d’oro ammucchiate malamente le une sulle altre
e intervallate dallo scintillio di quelle in argento.
- Oh, mi scusi, allora. –
Noir sorrise involontariamente, cercando poi di trasformare
quell’espressione compiaciuta in una più simile
alla gratitudine.
L’imbarazzo della guardia le avrebbe fatto prestare meno
attenzione all’uomo che aveva davanti.
- Si figuri, lei sta facendo solo il suo lavoro e, in fondo, il viaggio
non è stato clemente con me. Sa, tra la pioggia e tutto il
resto… -
- Certo, certo. Vada, forza. E si goda il suo viaggio. –
- Grazie! –
Noir tornò ad incamminarsi verso nord.
Quella che doveva essere stata la guardia con il grado più
alto gli aveva dato il suo benestare, le altre due non avrebbero dovuto
opporre resistenza al suo passaggio.
Lo stavano però fissando?
Si, lo stavano fissando.
Noir abbassò il capo, lottando contro le sue gambe che
tentavano di accelerare il passo.
Stavano valutando che tipo di mendicante era riuscito a passare il
controllo del loro superiore? Oppure lo avevano riconosciuto?
Il suo cuore aumentò i battiti, Una goccia di sudore si
scavò un solco tra lo sporco che infestava la sua fronte.
Doveva far deviare la loro attenzione da lui.
All’interno delle mura un mugolato si levò al
cielo.
Un Demo stava trainando un’enorme carro coperto a quattro
ruote, che cigolavano ad ogni quarto di giro. Su di questo, seduto su
un panchettino in legno, il suo proprietario stringeva una frusta
sporca di sangue tra le mani, pronto a incentivare l’essere
davanti a lui al primo accenno di rallentamento.
Noir alzò lo sguardo di scatto, puntando le sue iridi nere
sul corpo ricoperto da corto pelo del Demo. Cercò di
caricare quello sguardo con tutto l’odio di cui era capace,
immaginando di riversare su quella povera creatura ogni frustrazione
che aveva accumulato.
L’essere dalla pelliccia scura alzò il suo muso
animalesco, fiutando con il naso schiacciato l’aria intorno a
sé e scrutando i dintorni con i suoi piccoli occhi infossati.
Non appena il suo sguardo disperatamente rassegnato incrociò
quello duro del trentenne, il Demo si scrollò vigorosamente,
graffiando con gli artigli aguzzi l’imbragatura che lo teneva
legato al carro, tentando di liberarsi. I suoi versi terrorizzati
riempirono l’aria, sovrastando il vociare della folla che
lì intorno si stava ammassando e le urla del suo padrone
che, cercando di non venire scalzato dalla sua posizione, tentava di
riportare alla quiete la creatura imbizzarrita.
Appena il carro cominciò ad ondeggiare, tanta era la foga
con cui il Demo si scrollava, le tre guardie poste
all’ingresso dovettero accorrere per quantomeno cercare di
allontanare i curiosi che, incuranti del pericolo in cui potevano
incorrere, si avvicinavano, cercando una migliore visuale per godersi
lo spettacolo.
Noir oltrepassò l’ampio arco, tenendosi il
più possibile lontano dalla folla in crescita.
Era salvo, era riuscito a passare prima che le guardie lo
riconoscessero.
Non si sarebbe fermato in nessuna locanda per la notte, decise, doveva
andare al molo per programmare la sua mossa successiva.
I raggi del sole non riuscirono più a superare le alte mura
di cinta e la sua rossa luce morente illuminava appena il molo
attraverso l’apertura creata appositamente per lasciar uscire
le navi. Tutte le vie della città erano invece rischiarate
dai lumi ardenti posti sui muri delle case che le descrivevano.
Gli ultimi lavoratori stavano rincasando e il trascinio dei loro piedi
sembrava rimbombare tra le vie vuote.
Le prime prostitute si affacciavano quasi timidamente dalle loro case,
valutando i lontani echi delle locande per decidere se era
già giunta la loro ora.
L’odore di salsedine, legno e scarti di pesce aleggiava
nell’aria come ne dovesse essere parte integrante.
Noir proseguì spedito, rimanendo sempre ben lontano dalle
finestre illuminate e dai pochi passanti che incontrava.
Il porto, quello era il suo obiettivo.
Le barche, dai più piccoli pescherecci alle trialbero,
ondeggiavano placidamente all’alzarsi della mare, con
solamente le ancora e le poche funi che si opponevano alla loro spinta
verso il mare aperto.
Le sartie cadevano flosce là dove sarebbero dovute ricadere
le vele una volta spiegate.
La banchina era deserta, così come i moli in legno che si
protendevano come le dita di una mano verso occidente.
Un tabellone scritto da una mano incerta era stato inchiodato malamente
alla parete del laboratorio di un carpentiere. Sopra di questo, appena
leggibili sotto uno spesso strato di sale e sporcizia, erano state
annotate le informazioni basilari per le partenze e gli sbarchi.
Per ulteriori informazioni, rivolgersi alla biglietteria.
Così quasi ogni riga terminava, cercando di dare una
spiegazione alle poche informazioni che riportava.
La partenza più prossima per il continente era prevista tra
due giorni. L’”Ala di Albatros”, questo
era il nome della nave che sarebbe dovuta salpare.
Il trentenne si passò una mano tra i capelli mentre i suoi
pensieri correvano rapidi, saltando da una possibilità
all’altra senza sosta.
Non poteva rischiare di farsi arruolare tra la ciurma. Anche avessero
trovato un posto da mozzo per lui, sarebbe rimasto troppo esposto e
qualcuno lo avrebbe riconosciuto.
Non poteva nemmeno salirvici sopra come passeggero.
Si sarebbe dovuto intrufolare all’interno della stiva,
nascondendosi tra le provviste. Quella era la sua unica
possibilità per lasciare le Terre da vivo.
Percorse il pontile per tutta la sua lunghezza, scrutando i fianchi
scuri delle navi in cerca del nome che le identificava.
Doveva sapere qual era quella giusta.
La trovò ormeggiata accanto a un veliero ancor
più maestoso, che gettava la sua scura ombra sul nome
consumato dell’Ala di Albatros.
Tre corpulenti marinai erano impegnati in una partita a dadi a lume di
lampada là dove la passerella toccava le assi del molo,
altre quattro luci si muovevano ondeggiati più in alto,
oltre il parapetto.
Diversi sacchi di provviste erano stati appoggiati accanto ai pilotti
attorno ai quali erano state legate le cime di ormeggio.
Noir appoggiò la sua schiena contro il muro di
un’abitazione dalla parte opposta della banchina, valutando
le dimensioni di quei sacchi e l’attenzione che i marinai
posti di guardia ci prestavano.
Forse, attirando la loro attenzione dalla parte opposta della chiglia,
avrebbe potuto raggiungere quelle provviste, ma dubitava che il loro
contenitore fosse stato grande a sufficienza per ospitare il suo corpo
senza farne trasparire le fattezze.
Doveva cambiare strategia.
Con un colpo di spalle si allontanò dal muro, tornando sui
suoi passi prese a studiare il lato in ombra della trialbero, quello
separato solo da pochi metri dalla più imponente
“Punta di Lancia”.
Da un piccolo foro circolare scendeva la catena assediata dai gusci di
decine di molluschi, da qualche parte, sotto la superficie
dell’acqua, si sarebbe legata all’ancora calata.
A metà strada tra il parapetto e il profilo delle basse onde
alzate dalla marea, una fila di finestrelle chiuse tradivano la
presenza dei cannoni, posti per fronteggiare
l’eventualità di un attacco di una delle navi
pirata che ultimamente affollavano il mare a meridione del Gorgo del
Leviatano.
Una di queste non era troppo distante dalla catena
dell’ancora, avrebbe potuto usarla per intrufolarsi
all’interno della stiva, sperando che nessuno fosse stato
posto là per controllarla.
Aveva ventiquattr’ore per organizzarsi. La nave sarebbe
salpata di prima mattina, la notte successiva era il momento di agire.
Noir ripercorse nuovamente la banchina, lasciandosi alle spalle il
tabellone delle partenze e l’odore di mare.
Non si fidava ad affidare le sue ultime ore di notte a una locanda o un
ostello. Doveva evitare qualsiasi luogo affollato.
Si rannicchiò al termine di un vicolo cieco, circondato
dall’odore dei liquami versati nel canale centrale e dallo
squittio dei topi, intenti a cercare riparo dalle grinfie di un magro
gatto spellicciato che si aggirava famelico davanti ai buchi
delle loro tane.
Il trentenne si strinse nel mantello consumato in cerca di riparo dalla
frescura notturna. Le sue mani, intanto, corsero allo zaino,
estraendone un pezzo di pane stantio, che fissò sconsolato.
Si portò alla bocca la triste cena, facendo cadere diverse
decine di briciole dure sui suoi abiti.
Un miagolio sommesso attirò la sua attenzione, seguito da un
sibilo.
Il gatto randagio puntava con il naso graffiato un buco nella parete
dal quale uscivano un paio di chicchi di grano mordicchiati.
Noir strappò un pezzo della sua pagnotta, dando origine a
una nuova cascata di briciole, per poi lanciare il pezzo al felino che
gli si avvicinò diffidente, per poi stringerlo tra i denti e
raggiungere i cornicioni con un paio di salti, giunto lì,
poi, scomparve dalla vista dell’uomo, che tornò a
mangiare in solitario silenzio.
La luce del sole raggiunse il suo volto infreddolito solo a mattina
inoltrata, quando l’astro fu sufficientemente alto da far
superare le mura di cinta ai suoi raggi.
Il trentenne si alzò da terra, scrollandosi di dosso la
melma che si era aggrappata al suo mantello, per riprendere la via del
porto.
Aveva bisogno della luce del sole per verificare un’ultima
cosa, prima di tentare la sorte.
Deviò il suo cammino solo quando questo incrociò
quello di quattro donne che, parlottando tra loro, portavano in braccio
otri colmi d’acqua.
Il pozzo non si fece trovare molto distante.
Era stato costruito al centro di una piazzetta stretta, rinchiusa tra
le case a tre piani che sembravano voler imprigionare il cielo terso.
Le mani di Noir si immersero nel liquido cristallino contenuto nel
secchio che tirò su dal fondo, portandolo al volto e ai
capelli.
Una cascata d’acqua marrone ricadde sul selciato,
inzaccherandogli le scarpe, ma questo non fu sufficiente per farlo
desistere da portarne una seconda manata al volto, per eliminare le
ultime tracce della notte.
Con i capelli ancora grondanti e le gocce fresche che, correndo sul suo
collo, si infiltravano sotto la spessa camicia sporca, il trentenne
riprese a camminare verso il mare con sguardo deciso.
Dei pescherecci che avevano affollato i moli la notte precedente non vi
era traccia, se non per le macchie scure che, di tanto in tanto,
parevano comparire sull’orizzonte.
Solo i velieri erano rimasti ad occupare i ponteggi, immensi al punto
che le loro ombre oscuravano le onde per un buon tratto di mare.
Attorno all’Ala di Albatros ronzavano decine di uomini,
intenti a caricare i sacchi rimasti all’aperto la sera prima
e diverse centinaia di metri di corde e assi scure.
Di tanto in tanto, un’imprecazione colorita rivolta agli dei
o alla famiglia di qualche poveraccio troppo lento nel suo lavoro
riempiva l’aria, seguita quando da una risata di gruppo,
quando da un’imprecazione ancor più forte e
colorita.
Noir si tenne il più possibile lontano da quel movimento di
persone, cercando di studiare la catena dell’ancora in modo
da non destar sospetti.
Gli anelli erano lunghi quanto il suo avambraccio e larghi la
metà, con un po’ di attenzione poteva scalarli,
decise.
La sua attenzione quindi passò sulle appuntite conchiglie
che costellavano il ferro.
La sua maledizione avrebbe protetto le sue mani e i suoi piedi dai
taglia che quelle potevano causare, ma avrebbe dovuto far attenzione ai
suoi vestiti, non avevano bisogno di altri strappi nel loro tessuto.
Un gruppo vociferante di giovani gli passò accanto, senza
dargli troppa attenzione. Dimostravano venti, venticinque anni, forse
il più vecchio di loro ne aveva una trentina, tutti loro,
però condividevano una pelle solo blandamente abbronzata.
Probabilmente erano tutti cittadini in cerca della buona paga che
offrivano sulle navi.
Il più vecchio tra di loro proruppe in una risata allegra in
risposta ad una battuta scadente. Era insolitamente magro per un
aspirante marinaio, ma i suoi muscoli erano ben definiti là
dove terminavano le maniche arrotolate sopra i gomiti e i pantaloni
tagliati all’altezza del ginocchio. Sul polpaccio destro, era
ben visibile il segno di un ustione, che gli aveva deturpato buona
parte della pelle. I suoi occhi scuri, due sfere di ossidiana
incastonate su quel volto, si posarono un attimo su Noir, che si
ritrasse a quello sguardo, per poi tornare sulla sua compagnia.
Una pacca sonante calò con forza sulla spalla
dell’uomo dagli occhi neri, che si voltò divertito
verso il ventenne decisamente più muscoloso di lui che
l’aveva sferrata, tornando a ridere più forte di
prima.
Il trentenne indietreggio lentamente, chiedendosi da quanti uomini
potesse essere composta la ciurma di quella nave. Fossero stati troppi,
non ci sarebbe stato un solo buco sicuro per lui.
Il mare tornò a tingersi del rosso del sole morente.
A est, poco sopra il limitare delle mura, una pallida luna crescente
tentava di distinguersi dal cielo che si stava inscurendo.
Coppie di uomini vagavano per le vie con lunghe canne in ferro, con le
quali accendevano i lampioni ai lati delle strade.
I pescatori avevano quasi tutti fatto ritorno ed ora arrancavano sotto
il peso delle casse di pescato in attesa di essere pulito.
Noir si osò avvicinare all’Ala di Albatros
solamente quando la popolazione di quella banchina si fu ridotta ai
pochi marinai rimasti a guardia della nave ormai carica.
Il trentenne premette il mantello nel suo zaino, cercando di coprire al
meglio il poco contenuto che lo occupava, poi fece scorrere il suo
sguardo sull’acqua nera.
Lentamente si lasciò scivolare nell’acqua fredda,
cercando di far meno rumore possibile, per poi nuotare verso la catena
lasciando solamente la testa sopra la superficie scura.
Dopo essersi assicurato che nessuno, né dal parapetto
né dalla banchina, potesse scorgerlo, strinse le proprie
dita intorno agli spessi anelli in ferro.
Immediatamente, prima ancora che una piccola imperfezione del metallo
potesse graffiare la sua pelle, la melassa nera sgorgò dai
suoi palmi, ricoprendogli le mani per proteggerle da qualsiasi cosa
provasse a ferirle.
Noir iniziò la sua lenta salita, incastrando la punta delle
scarpe fradice nei piccoli interstizi tra un anello e
l’altro, per poi issarsi verso il successivo.
Poteva quasi toccare il pannello di legno posto a coprire il buco del
cannone quando la suola della sua scarpa scivolò dal suo
appiglio, facendogli sbattere violentemente il petto contro la catena.
La melassa si attivò subito, fuoriuscendo copiosa dal suo
petto per frapporsi ed attutire la botta, ma non riuscì a
coprire per intero il suo busto, non potendo così evitare
che una dura conchiglia lasciasse un taglio all’altezza della
clavicola.
Il trentenne provò a riprendere il passo, ma la sua scarpa
sinistra pareva non voler lasciare l’appiglio in cui si era
incastrata. Fu così che, a malincuore, dovette far scivolare
fuori il piede per poter proseguire, vedendo poco tempo dopo la scarpa
floscia ricadere nelle acque sotto di lui.
Riprese a salire. Il piede destro protetto dalla spessa suola della
scarpa rimasta, quello sinistro e le mani avvolte dalla melassa nera,
indurita abbastanza da proteggerli ma non troppo da impedirgli i
movimenti.
Allungandosi verso le assi della fiancata, riuscì con la
punta delle dita a sollevare la tavola di legno. In quello stesso
momento le poche bende che ancora gli fasciavano la schiena si
strapparono, cadendo mollemente intorno alla sua vita.
Noir sospirò, spostandosi con un corto salto dalla catena al
buco ora scoperto.
L’interno della stiva era silenzioso.
I dieci cannoni, cinque per fianco, riposavano legati al centro della
sala.
A sinistra, verso la prua appuntita, una scala saliva verso il ponte
principale.
A destra, verso poppa, una scaletta a pioli scendeva verso la chiglia.
All’esterno si levarono diverse urla.
Il trentenne si affacciò appena al buco dal quale era
entrato per vedere cosa avesse causato quel caos, prima di chiudersi
alle spalle la tavola.
La periferia settentrionale della città era rischiarata dal
rossore di un fuoco. Un incendio, forse.
Poi lasciò ricadere la tavola per farla tornare nella sua
posizione originaria, per dirigersi verso la scala a pioli.
Nel piano sottostante, erano state ammucchiati decine di sacchi, barili
e casse, in buona parte contenenti cibarie, ma non erano state
disdegnate pelli, tessuti e ornamenti dal poco valore.
Noir prese un paio di arance da un barile, per poi rannicchiarsi dietro
una muraglia di sacchi ricolmi di farina chiara.
Non era meglio dei ratti di quel vicolo, si disse, cominciando a
sbucciare il frutto che teneva in mano.
La maschera demoniaca guardò per un’ultima volta
il corpo riverso a terra, illuminato appena dai raggi del sole calante.
Il suo sorriso tagliente, una mezzaluna nera, pareva ancora
più terribile con quella poca luce, così quei
suoi occhi, due strette v rovesciate che non permettevano di vedere le
pupille sottostanti.
La sua mano guantata lasciò il paletto in legno un attimo
prima che questo venisse avvolto da fiamme scoppiettanti.
L’assassino prese velocemente il cadavere per i lunghi
capelli, sollevando quella che fu una fanciulla non ancora maggiorenne
quel tanto che gli bastava per scaraventarla contro la parete accanto.
Il fuoco che le scaturiva dai seni appena accennati cominciò
a lambire la calce e il legno del muro sulla quale era stata gettata,
risalendo lungo i suoi vestiti ed avvolgendola.
L’essere dal volto demoniaco si allontanò
rapidamente, sfilandosi la maschera solo quando due vie lo separavano
dall’incendio che stava nascendo.
Quegli occhi socchiusi e la bocca ghignante vennero fagocitati dal suo
zaino, mentre l’uomo si allontanava ora tranquillamente per
le vie non ancora illuminate dalla luce dei lampioni, puntando in
direzione della locanda in cui aveva prenotato una stanza.
Angolo dell'Autore
Ciao a tutti.
Grazie per essere arrivati fin qui, come al solito un enorme grazie a
OldKey, la ragazza imperfetta e whitesky che investono un po' del loro
tempo per farmi sapere cosa pensano del capitolo.
Passiamo al capitolo.
Non so se sia stata colpa della sessione di Dungeon and Dragons che sto
ultimando o di qualcos'altro, ma questo capitolo è nato
così. Ho descritto, ho riempito pagine di descrizioni di
Derout concentrando in una manciata di righe qualsiasi azione possa
avvenire. Spero vi sia piaciuta come soluzione, per quanto possa essere
non completamente volontaria.
In ogni caso, alla prossima.
Vago |
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Capitolo 10 *** Capitolo 4.5: Bestia o uomo? ***
Un corvo dal piumaggio color pece atterrò su di una piccola
spiaggetta di sabbia di deposito sulle sponde del grande lago.
Dopo pochi, rapidi scatti della testa, la sua forma cominciò
a crescere, assumendo una forma antropomorfa dalla riccia zazzera
bionda. Le sue piume parvero schiarirsi, divenire marroni e cucirsi le
une con le altre per formare un abito elegante.
L’ispettore guardò in silenzio la superficie del
lago ed il campanile che da questo fuoriusciva.
Poveracci i nani.
Certo, avrebbero potuto
ascoltare le mie parola quando mi presentai loro come un eminente
scienziato, dicendogli che non potevano scavare a quel ritmo…
Quanti saranno i morti,
là sotto?
Decisamente parecchi.
Comunque, sono rimasti
tardi fino alla fine. Re Vroyer, all’epoca, non era altro che
l’archetipo perfetto del nano cocciuto.
Non hanno capito fino
alla fine che, tra lo scavare il cuore roccioso di una montagna e la terra
al di sotto di una pianura, sulla quale scorre un fiume, tra
l’altro, c’è una leggera differenza
geologica.
In effetti,
probabilmente, neanche quando il mondo gli è collassato
sulla terra avranno capito perché è successo.
Benedetta ignoranza.
Più che altro
mi spiace per quel che c’era sopra di loro.
Certo, decine di
villaggi erano disabitati, ma alcuni erano ancora popolati. Zadrow per
primo, ma non solo.
Vabbè, spero
almeno che i pochi sopravvissuti di quella razza testarda abbiano
imparato la lezione e non ricomincino a giocare a fare le talpe che
so… sotto la Grande Vivente.
- Chi è lei? –
L’ispettore si voltò in direzione della voce.
Un uomo in abiti scuri lo stava guardando da un paio di metri di
distanza, in attesa di una risposta.
Un dipendente del Giudice Maggiore, probabilmente.
L’uomo biondo estrasse i fogli dalla tasca interna della
giacca, alzandoli nella sua direzione.
È di una
scomodità infinita doverseli portare dietro. Per fortuna
sono riuscito a ricavare un simpatico spazio vuoto al posto dello
stomaco della mia forma da corvo, così non sono costretto a
portarmi dietro un borsello mentre volo.
- Mi ha mandato il Giudice Maggiore Fenter per indagare sulle morti che
qui sono avvenute. –
L’ispettore estrasse anche la lettera che aveva ricevuto a
Gerala. Una comune comunicazione che lo informava di un massacro
avvenuto in un tempio.
- Ci era giunta notizia del suo arrivo, ma non pensavamo facesse
così in fretta. –
- Non importa. Mi può portare sul luogo? –
- Certamente, mi segua. –
Ovviamente sapevo di
quale tempio si stava parlando, li conoscevo tutti quelli esistenti,
posizione, numero di sacerdoti e fedeli.
Non è
però così brutto far credere ai mortali di poter
essere utili in qualcosa.
È strano,
però. Da quanto mi risulta non uno dei sacerdoti era un
drago, qui. Che ne stessero ospitando uno e anche loro, come i cuochi e
i camerieri a Gerala, ci siano andati di mezzo?
Devo togliermi diversi
dubbi.
Il tempio sembrava decisamente fuori luogo, in quel posto isolato, come se l'intera piana dovesse essere sua,
della piccola recinzione che lo circondava e di quell'orto decisamente ben
curato, senza che nessun altro potesse rivendicarne la proprietà.
- Se vuole entrare. – disse l’uomo facendosi da
parte davanti all’ingresso – Spero abbia lo stomaco
forte. –
- Lo stomaco sicuramente non è il mio problema. –
gli rispose l’ispettore biondo, portandosi una mano al ventre
– Prima però voglio controllare qui
all’esterno. -
Beh, ultimamente non me
lo posso nemmeno più permettere uno stomaco. Tra lo spazio
per i documenti nella forma di corvo e la posizione della mia ferita in quelle
antropomorfe, una sacca piena di acidi gastrici è
l’ultima cosa che mi interessa possedere.
L’uomo in abito marrone seguì il profilo esterno
del muro, valutando il terreno ancora fangoso dall’acquazzone
che gli si era abbattuto sopra.
Quando raggiunse la piccola tettoia di legno, si fermò
qualche secondo a controllare gli anelli in ferro lì
presenti e il terreno sotto di questi.
Ci sono dei buchi, qui
sotto. È possibile che un cavallo sia stato legato qui,
quando è arrivato l’acquazzone.
Questi sacerdoti devono
aver accolto qualcuno per la notte.
Il drago?
Sarebbe strano, il
tempio, da quanto so, è costruito in legno e muratura, con
la fiammata di ritorno dell’Apparato del Drago sarebbe dovuto
diventare un’enorme fiaccola in onore di Aria.
È inutile
restare qui fuori, la pioggia ha eliminato qualsiasi cosa potesse
essermi utile.
L’ispettore tornò sui suoi passi, salendo i pochi
gradini che lo separavano dal portone per poi schiuderlo con una
leggera spinta.
Nove corpi occupavano il pavimento, accavallati gli uni sugli altri,
caduti scompostamente nel loro stesso sangue.
Le pareti, ricoperte da lunghe tavole in legno, erano macchiate da
lunghi schizzi di rossa linfa vitale.
L’uomo biondo fece qualche passo nella loro direzione,
cercando di distinguere i singoli corpi in quell’ammasso di
membra e vesti.
Un crampo addominale, violento e rapido come il passaggio di un
fulmine, lasciò boccheggiante l’ispettore. La
garza candida che gli cingeva il ventre si sporcò del suo
stesso sangue scuro sotto gli abiti eleganti che la celavano.
Cosa è appena
successo?
Perché la
ferita si è riaperta?
È da quando
il demone è stato sconfitto che la ferita che mi ha inflitto
non si faceva sentire. Perché ora?
Respira, Viandante.
Riprendi il controllo.
L’ispettore ritornò in posizione eretta sotto gli
occhi preoccupati dell’uomo che lo aveva guidato fin
lì.
- Signor Vander, sta bene? –
- Certo. – rispose lui passandosi il dorso della mano sulle
labbra per pulirle dalla saliva che ne era fuoriuscita - È
solo la mia malattia. Avrò bisogno di sei uomini, oltre a lei. E un
coltello. –
- Un… coltello, signore? – chiese incerto il
dipendente.
- Si, un coltello, o un pugnale se è più facile
da recuperare. Stia tranquillo, non voglio ammazzare di nuovo questi
poveracci. –
- Si, subito. –
L’uomo nel completo scuro svanì oltre
l’uscio in tutta fretta.
Da quando i sottoposti
hanno preso a fare domande riguardo a un ordine?
Se voglio il mio
maledetto coltello, tu mi porti il maledetto coltello. Se ti chiedo un
dannato salame con cui utilizzare il maledetto coltello, tu mi porti il
dannato salame in modo che io possa usare il maledetto coltello.
Ora, però,
vediamo cosa è successo a questi vecchiacci.
Speriamo che la Trama
del Reale qui non sia troppo fitta… Non dovrebbe, essendo questi sacerdoti eremitici.
…
…
…
…
…
…
…
…
Questo è
insolito.
Probabilmente
è colpa mia. È sicuramente colpa mia o della mia
ricaduta. Non deve esserci altra soluzione.
La Trama non
è per niente fitta, qui. Ci sono solo dieci destini che si
intrecciano gli uni con gli altri, le intromissioni sono minime.
Non mi sarei aspettato
altro da questi vecchi solitari.
Però,
qui… questo è il punto della Trama in cui sono morti.
C’è
un buco. C’è un dannato buco nella Trama!
Com’è
possibile?
Una situazione del
genere si può avere solo nel caso di un intervento divino, o
mio.
Solo gli esseri senza un
proprio capitolo all’interno del Libro del Fato non lasciano
dietro di loro una traccia.
Io non lascio una
traccia tra i destini che incontro, il Fato non la lascia,
così come non la lasciano tutti quanti gli altri
dei… e lei.
Che sia una Loro prova
di buona volontà? Che l’abbiano liberata il tempo
necessario per fare questo lavoro, solo per dirmi che è viva?
Lo scoprirò
tra poco, la sua mano è decisamente riconoscibile.
Sette uomini entrarono nel tempio. In testa, l’impiegato con
il pugnale stretto in pugno e il volto trafelato.
Ci voleva molto a
portarmi il maledetto coltello?
- Ottimo, ora ascoltatemi attentamente. Controllerò i
cadaveri uno a uno, una volta che avrò terminato, vi
lascerò la salma da portare all’esterno.
–
I sette uomini stettero in silenzio, assimilando gli ordini che gli
venivano impartiti.
L’ispettore liberò il primo cadavere
dall’abbraccio dei suoi confratelli, quello che rappresentava la vetta della catasta di corpi, l’ultimo ad
essere stato ucciso.
Punto uno, drago o umano?
L’indice dell’uomo in completo marrone mosse il
labbro superiore del morto, rivelando la chiostra di denti consumati.
Umano.
Mi
semplificherò la vita parecchio, trovando degli elfi in
questo mucchio. La forma antropomorfa dei draghi non comprende le
orecchie a punta.
Punto due, come sei
morto?
L’ispettore sollevò il capo del morto, facendogli
rotolare via di mano il bastone che gli era rimasto tra le dita fredde.
Foro di ingresso nel
cranio largo quanto un dito.
Schizzi sul muro in
direzione del corridoio.
Bastone tra le mani.
Si stava difendendo da
qualcosa che… stava entrando?
Aspetta, Viandante.
Proiettile?
Sul muro non ce
n’è segno.
Il coltello si fece strada nella fronte del sacerdote, scavando tra le
sue cervella in cerca di qualcosa di metallico.
Niente, come immaginavo.
Non poteva fare un affresco del genere un proiettile rimasto
all’interno di un cranio.
Quale arma
può essere stata, allora?
I suoi piedi, dove sono?
Qui, non li ho spostati.
Gli altri fori
d’ingresso nei suoi confratelli?
Possibile che…
Fai che mi stia
sbagliando.
- Voi sette, cambio di programma. Tu, vieni a tenere in piedi questo
corpo qui, in questa posizione. Voi altri, con me. –
L’ispettore assegnò ad ognuno dei sette uomini un
cadavere da sostenere, cercando di ricreare la loro posizione poco
prima di ricevere il colpo fatale.
Solamente due cadaveri rimanevano ora riversi a terra.
- Così può bastarmi. Rimanete immobili.
–
L’ispettore girò attorno alla composizione come un
felino attorno alla sua preda per diversi secondi, studiando i fori e
la loro disposizione.
Non erano allineati. Non erano neanche lontanamente combaciabili.
L’uomo si tornò a spostare verso la porta,
là dove tutti i volti erano direzionati.
No, non ancora, gli
schizzi non combaciano con la mia prospettiva.
Non devo concentrarmi su
cosa li ha provocati, ma da dove. Da dove è partito il dardo?
Cominciamo a ricomporre
il quadro, ogni pezzo al loro posto.
- Tu, da ora sarai Uno. – disse imperioso
l’ispettore indicando il dipendente in abito nero –
Fai piegare in avanti il busto del tuo cadavere. Tienigli la testa in
asse. –
Foro e schizzo
combaciano.
- Tu, Due, ruota il tuo cadavere leggermente verso la porta. Bene, ora
fallo guardare un po’ più verso il basso.
Perfetto, rimani così. –
Di nuovo combaciano.
- Tu, Tre. Tienilo bene su e piegalo leggermente in avanti. Forza! E
tienilo saldamente, è un morto, non ti può
mordere. –
L’uomo passò al suo vicino con lo sguardo.
- Tu, Quattro, rimani immobile così… anzi, fallo
guardare leggermente verso destra. Perfetto. –
L’ispettore fece pochi passi verso la porta, per avere una
visione migliore del quadro generale.
- Tu, Cinque, sei perfetto. Non ti muovere. –
Una mano passò velocemente tra i ricci biondi, mentre gli
occhi verdi saltavano dai corpi alle pareti imbrattate.
- Sei, si tu. Fallo guardare verso terra. Un po’ di
meno… perfetto. Immobile. –
Con uno zampettio l’ispettore si mosse di poco a destra
rispetto alla sua precedente posizione.
- Infine, Sette, fagli ruotare un poco il busto verso sinistra,
tienigli la testa un po’ più bassa. Bene.
–
L’uomo biondo strizzò gli occhi, verificando se
tutto fosse perfetto.
È giusto.
È tutto giusto. Loro sono giusti.
Ma da dove sono partiti
i colpi?
Stanno guardando
tutti… dove?
A terra, verso il basso.
L’ispettore si sdraiò sul pavimento, tra le pozze
di sangue, senza perdere di vista i corpi.
I colpi sono partiti
tutti da… qui.
Questo è il
punto da cui tutto è nato.
Il viso dell’uomo si trovava ora a poco meno di mezzo metro
da terra e a un metro dalla porta.
Un rumore di zoccoli si levò dall’esterno.
- Potete portarli via tutti. Non mi interessano più.
– disse ai sette uomini rimasti immobili.
- Lei, ora, cosa pensa di fare? – provò a chiedere
l’impiegato, lasciando scivolare a terra il suo cadavere.
- Manca un corpo. Qui sono nove i cadaveri, i sacerdoti, da quanto so,
erano in dieci. –
Detto ciò, l’uomo superò i cadaveri
ancora riversi, per proseguire lungo il corridoio fino alla porta sulla
parete opposta.
Quale arma
può aver fatto un macello simile? Alta cinquanta centimetri
circa, in grado di sparare almeno nove dardi con una potenza tale da
perforare dei crani e far schizzare una notevole quantità di
sangue dal foro di uscita. Senza, tra l’altro, lasciare
traccia del proiettile.
Questa, decisamente, non
è opera del mio assassino. Per quanto possa essere malato,
ha dimostrato finora di riservare una certa umanità nei
confronti delle sue vittime non draconiche. Per di più, il
suo stile è estremamente pulito. Pugnala con un singolo
colpo, strangola, probabilmente avvalendosi di corde.
No, questa è
più l’opera di una bestia che sua.
Dove termina il decimo
fato?
Per di qua.
Che posto è
questo?
Devono essere i
dormitori.
Ed ecco il cadavere.
Come hai fatto a morire
qui?
Il mio modello
è sbagliato, allora.
Il suo foro
è… è estremamente angolato.
Ma l’arma
utilizzata è decisamente la stessa, non si sono dubbi.
A questo punto posso
escludere tranquillamente anche lei. Se c’è una
cosa che ha sempre adorato sono i combattimenti e questo lo avrebbe
definito un aborto della nobile arte della guerra.
Rivediamo il modello.
Lui è stato
il primo a morire. Il suo fato è stato il primo ad essere
stroncato dal buco nella Trama.
Per terra
c’è un pugnale. Potrebbe essere suo.
Fosse così,
questo sacerdote era disposto a macchiarsi di un omicidio nei confronti
di qualcuno che dormiva in questo letto.
Ma l’arma
è stata più veloce del coltello.
Perché non lo
hai provato a pugnalare nel sonno?
Oppure lui stava
fingendo di dormire, aspettando la tua mossa?
Tu sei morto e lui
è scappato.
È scappato
passando per il dormitorio senza mietere vittime, per poi incontrare i
tuoi nove confratelli dall’uscita.
Come mai,
però, gli schizzi di sangue erano direzionati nella
direzione opposta?
La porta
d’ingresso.
Ha provato a fuggire.
Forse tu eri il suo solo
obiettivo.
L’indice dell’ispettore aprì le labbra
del morto, trovandoci solo comuni denti da umano.
Ha provato a raggiungere
la porta, ma era chiusa.
I sacerdoti sapevano che
ti aveva ucciso e hanno cercato di fermarlo.
Le domande rimaste ora
sono due.
Di quale arma
è in possesso?
Ma, soprattutto, questa
creatura è più una bestia o un uomo?
L’impiegato entrò trafelato nel dormitorio,
seguito da un secondo dipendente del tribunale in abito scuro.
- Cosa c’è ora? – chiese stizzito
l’uomo dai ricci biondi.
- Una missiva da parte del Giudice Maggiore per lei. – disse
il secondo uomo in abito scuro.
Di nuovo.
Cosa vogliono ora?
Che vada a controllare
altri cadaveri, magari sui Muraglia? Oppure vogliono che gli porti del
caffè, tanto, oramai, non mi stupirei più.
- Forza, dammi quelle informazioni. - |
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Capitolo 11 *** Capitolo 5: Gioia per i gabbiani ***
La nave ondeggiò pericolosamente quando un’onda
più alta delle precedenti impattò sul suo fianco, sprigionando nell'aria una cascata di schizzi bianchi che brillavano come perle alla luce del sole.
Noir si dovette aggrappare ai sacchi di farina che gli stavano davanti
per non cadere a terra. Sopra di lui, i cannoni si muovevano
pesantemente avanti e indietro, seguendo l’inclinazione del
ponte su cui si trovavano, accompagnati dal raschio metallico delle
catene che li legavano nella loro postazione.
L’uomo tornò a sedersi con la schiena appoggiata
contro la parete in legno. L’aria umida gli entrava con forza
nelle narici, portando con sé l’odore del mare e
delle cibarie che gli facevano compagnia in quel viaggio.
La luna di quel primo giorno di navigazione sarebbe sorta alle spalle della nave di lì a poco, mentre la raggi rossastri del sole faticava sempre più a raggiungere il ventre di quel mostro di legno in cui Noir si era rintanato, tagliando l’aria
con sottili e sporadiche lame di luce che arrestavano la loro corsa
sulle assi scure.
La nave si inclinò nuovamente, facendo scricchiolare le assi tutto intorno.
Noir abbassò lo sguardo sul piede nudo, dal quale il freddo
si insinuava nel suo corpo. La sua mano destra si appoggiò poi cautamente sulla camicia, là dove lo strappo impediva al
tessuto di coprirgli il petto e dove la catena dell'ancora aveva lasciato un corto taglio superficiale .
Una volta giunto sul continente si sarebbe dovuto procurare dei nuovi
abiti, ma ne era valsa la pena.
Allungò una mano verso il barile agganciato al suo fianco,
prendendone un’arancia.
Si sarebbe dovuto esporre, prima o poi, se non voleva trovarsi sommerso
da quelle bucce. L’accesso più vicino al mare era
rappresentato dagli oblò riservati ai cannoni, sul ponte
immediatamente superiore.
Fino ad allora, però, non sarebbe uscito da quel
nascondiglio che lo proteggeva dal mondo.
La nave continuò a boccheggiare e rollare per diverse ore, seguendo il
profilo delle onde che il vento notturno sollevava e le scagliava
contro da ogni direzione.
Un battente rumore frenetico raggiunse le orecchie di Noir,
costringendolo ad abbandonare immediatamente lo stato sonnecchiante in
cui versava per fargli drizzare la schiena.
Cos’era quel suono? Da dove veniva?
Le catene che legavano i cannoni sferragliavano ad ogni movimento dei
loro prigionieri, coprendo a sprazzi qualunque altro rumore. Ma non
quello che lo aveva costretto a svegliarsi, quello si riusciva a
distinguere sempre, forte e vicino.
Il trentenne indietreggiò ulteriormente, facendo premere la
propria schiena contro la parete alle sue spalle.
Potevano essere passi frettolosi? Oppure erano alcuni marinai scesi a controllare la situazione al ponte immediatamente superiore?
Non riusciva a capirlo. Le assi sul suo capo, intanto, continuavano a vibrare, diffondendo quel suono ovunque nell’aria.
- …cosa ti ho fatto? Lasciami immediatamente! Non… -
Una voce lontana, roca, raggiunse per poco più di un
secondo Noir, portando con sè uno sprazzo di conversazione, per poi tornare ad essere coperta dai rumori del ponte superiore e dal suono del mare.
Forse due marinai stavano litigando, magari dopo aver alzato troppo il
gomito.
Non sarebbero scesi, ne era certo. Nessuno si sarebbe spinto
così tanto in basso su quella nave senza un motivo
più che valido, nemmeno da ubriaco.
Osò rilassarsi un poco, permettendosi di tirare un sospiro
di sollievo.
Di nuovo si udirono i colpi rapidi sulle assi, questa volta decisamente
più vicini alla scala per il ponte inferiore.
Erano i passi rapidi di un'unica persone, ormai non aveva più dubbi a riguardo.
- Ho detto di starmi lontano! Lasciami! – continuò la voce roca, in direzione del suo interlocutore silenzioso.
La rissa avrebbe potuto raggiungere anche il suo piano, comprese
l’uomo con i vestiti in brandelli, abbassando il capo per nasconderlo sotto il livello dei sacchi che gli stavano accanto.
I passi rapidi scesero gli stretti scalini, accompagnati da un respiro
affannoso e rantolante.
Dovevano già essersi scambiati un paio di colpi e l'uomo che aveva raggiunto la stiva doveva esserne uscito perdente.
I passi rapidi incespicarono un attimo quando l'uomo rantolante raggiunse il ponte più basso e la sua sagoma massiccia, più scura dell’oscurità avvolgente che ammantava quel piano, si definì vagamente davanti
agli occhi di Noir.
Era certamente alto, muscoloso e aveva il profilo della nuca perfettamente definito che tradiva i capelli corti o la loro totale assenza.
La sagoma del capo si volse in direzione della scala in un movimento simile a quello che avrebbe fatto una bestia in trappola, mostrando al clandestino il profilo del suo naso.
- Maledetti gli dei! – bofonchiò con il fiato corto l'uomo, cercando riparo nell'oscurità il più lontano possibile da quell'unica via d'accesso.
L'altro uomo? Sarebbe sceso anche lui, portando la loro rissa fino a quel piano?
Un lampo azzurro illuminò a giorno il ponte mediano, facendo scintillare l'acciaio opaco dei cannoni e gettando i suoi raggi dal colore innaturale anche su quello inferiore.
Le pupille di Noir si ridussero improvvisamente all'arrivo di quella luce accecante, costringendolo a coprirsi gli occhi con una mano. Quando fu di nuovo in grado di vedere, maledisse gli dei.
La luce era più che sufficiente a rischiare anche la stiva, definendo con la sua innaturale colorazione i sacchi e le casse che essa ospitava, oltre che l'uomo calvo rannicchiato contro alcuni bassi bauli legati assieme da una spessa rete. E se il clandestino era in grado di distinguere il marinaio, l'altro occupante poteva fare altrettanto.
- Tu! Tu stai con lui, non è vero? Vi siete messi d'accordo per mettermi in trappola ma... ma non mi avrete! – cercò di urlare con la poca voce rimastagli il marinaio che era uscito sconfitto dallo scontro precedente, in direzione di un allibito Noir.
L’uomo dalla voce roca si issò incerto sulle
proprie gambe e il trentenne avrebbe giurato di veder il suo corpo
vibrare, aumentando e diminuendo di dimensioni come un grosso mantice.
Dopo un secondo di ulteriore incertezza, il marinaio si scagliò quasi con disperazione contro il clandestino, con le braccia
protese in avanti e le mani aperte, pronte ad afferrarlo.
Noir tentò di evitare la presa, ma le assi dietro la sua
schiena gli impedirono qualsiasi movimento evasivo in risposta alla
sovrumana rapidità di quell’uomo muscoloso.
Le mani callose del marinaio si strinsero con forza attorno al collare nero che cingeva il collo del suo avversario, stringendolo con
l’intento di romperlo e raggiungere così la carne
sottostante.
La luce si affievolì fino a scomparire, accompagnata da lento cigolare dei cannoni.
- Ti prego... - provò a dire Noir, con il fiato caldo del suo avversario sul volto - Non voglio farti del male. Non so nemmeno con chi tu stessi combattendo. -
La presa delle tozze dita si strinse ulteriormente attorno al collare, non riuscendo però nemmeno a deformarlo.
- Dovrei crederti? Ho un buco nel petto... - il respiro del marinaio si fece più veloce - non ne voglio un altro. -
Il clandestino sospirò, disperato. Non voleva uccidere quel pover'uomo, che probabilmente aveva avuto una giornata peggiore della sua, ma sentiva il proprio sangue ribollire, teso come la corda di un arco poco prima di scagliare la freccia.
Non sarebbe riuscito a fermarlo, come non ci era mai riuscito in passato.
Qualcosa, nell’oscurità che era nuovamente calata allo scomparire della luce azzurra, si mosse rapido, letale.
Le mani ruvide del marinaio mollarono la presa sul collare senza nemmeno aver premuto per un secondo sulla pelle che questo proteggeva, cadendo mollemente verso il pavimento.
Noir sentì la sua fronte farsi improvvisamente pesante e il
sangue nel suo corpo spingere contro le pareti delle sue vene.
Un lampo azzurro, meno accecante e duraturo del precedente,
scaturì dalla scala, illuminando la scena immobile dei due
corpi.
Uno spesso spuntone nero era nato dalla fronte di Noir, conficcandosi e
trapassando il cranio calvo dell’imponente uomo che gli stava
di fronte. Il pover'uomo, ora, fissava con gli occhi vitrei il viso di
fronte a sé, mentre il suo corpo era tenuto sollevato da
terra solamente dalla lancia che lo aveva ucciso.
Dietro il cadavere, uno schizzo di sangue aveva imbrattato la iuta di
cui erano composti i sacchi.
Lo spuntone si ritirò tanto velocemente come era apparso,
così come il collare che avvolgeva il collo di Noir, senza
lasciare tracce della loro esistenza e permettendo al trentenne di
voltare il capo in direzione della fonte di luce, ora di nuovo scomparsa.
Il clandestino si alzò in piedi di scatto, sconvolto dalla rapidità e dalla furia con cui era appena stato attaccato, mentre i suoi occhi fissavano il punto nell’oscurità dove sapeva esserci il cadavere.
Cos’era appena successo? Perché
quell’uomo lo aveva attaccato con tutta quella ferocia? E
come aveva fatto a muoversi così velocemente?
Voltò nuovamente il capo verso la scala, silenziosa.
E la luce? Cosa poteva produrre una luce blu così intensa?
I Budnear, gli uomini pesce dell’Oasi, quand'era bambino gli raccontavano storie sugli spettri dell’acqua, creature dal corpo luminoso come un lago illuminato dai raggi del sole che perseguitavano chiunque sconfinasse nel loro territorio.
Se non fossero state solo storie? Se la nave fosse entrata all’interno del territorio di quegli spettri?
Con le mani tremanti dall'agitazione, Noir spogliò il marinaio dei suoi
abiti integri, lasciandogli addosso i propri.
Ora le bucce d’arancia non era più il suo principale problema.
Prese il cadavere per le ascelle, trascinandolo silenziosamente fino alla scala e, da lì, con immensa fatica, fino al ponte mediano.
Non sembrava più esserci nessuno ad occuparlo.
Lo spettro contro il quale quell'uomo sembrava aver combattuto era scomparso.
Cercando di evitare ogni possibile contatto con le catene e i cannoni in costante movimento, il trentenne raggiunse uno degli oblò e, verificato un’ultima volta che non ci fosse nessuno in grado di vederlo, issò il corpo, spingendolo contro l’asse mobile che proteggeva l’interno dagli agenti atmosferici, facendola scostare.
Lentamente, il corpo scivolò oltre la parete della nave, per poi precipitare nei flutti sottostanti.
Noir tornò rapidamente al ponte inferiore, evitando il suo precedente nascondiglio in favore di uno stretto spazio tra tre casse in legno sigillate e diversi sacchi chiusi che non lasciavano intendere cosa contenessero.
Si rannicchiò lì, con lo sguardo puntato verso le assi del pavimento e le dita intrecciate tra i capelli della sua nuca.
Non riusciva a credere a quello che era appena visto.
Cos’era davvero quella luce? Poteva essere davvero opera di uno spettro? Sarebbe tornata anche per lui?
Maledisse gli dei per la sua malasorte e sperò con tutto il
cuore che nessuno scendesse nuovamente ad importunarlo, umano, elfo o
qualunque cosa fosse. Soprattutto qualunque altra cosa fosse.
Sapeva che la sua maledizione poteva uccidere gli uomini, gli elfi, i
Budnear e, probabilmente, i draghi, quantomeno nella loro forma umana.
Qualunque altra creatura poteva essere immune a quel potere con cui era
nato.
Strinse ancor più le gambe al petto, sperando che il sole
sorgesse il prima possibile e trascinasse via quella notte infausta e
le creature che l’avevano abitata.
Per quanto riguardava il marinaio che l’aveva aggredito, i
gabbiani avrebbero festeggiato sul suo cadavere. Almeno loro ne
sarebbero usciti vincitori al tramonto di quella luna.
Angolo dell'Autore:
Capitolo revisionato.
È sera, o meglio, notte. Domattina dovrò
svegliarmi più presto del solito, perchè
dovrò sostenere un esame particolarmente rognoso, e, invece
di andare a dormire come qualsiasi persona sana di mente, eccomi qui, a
scrivere questo angolo dell'autore.
Ma c'è un motivo, se ho fatto questa scelta. O meglio, ce ne
sono diversi, ma, escludendo quelli che riguardano la mia labile
sanità mentale, ne rimane uno solo.
Questo capitolo è corto, circa la metà del
capitolo medio, ma non è questo che mi spinge a battere
ancora caratteri sulla tastiera.
Questo capitolo non sarebbe mai dovuto esistere.
Di questo voglio parlarvi, forse per compensare al poco materiale di
lettura che vi ho lasciato, forse per saziare la mia voglia di
raccontare, voglio dirvi cosa c'è dietro la produzione di
questo capitolo.
Fino ad ora ho mantenuto uno schema chiaro: capitolo normale seguito da
un X.5, e così via. Non è stata solo una mia
fissazione, ma ho fatto questa scelta narrativa per darvi una corretta
impressione dello scorrere del tempo e del muoversi dei personaggi al
suo interno.
Già, il tempo. Potremmo parlarne per ore senza mai giungere
a una conclusione soddisfaciente.
Specialmente in questa prima parte di storia, dove Il Tempo ricopre un
ruolo fondamentale in questa caccia del gatto al topo.
Mi sono dunque trovato al termine dello scorso capitolo con un Noir
nascosto in una stiva, l'assassino che dà fuoco a
un'abitazione e il Viandante che ispeziona la carneficina nel tempio di
Aria. Avrei voluto fortemente continuare a parlare di Commedia, della
sua ricerca e della sua caccia, non avevo voglia di far volgere il mio
e il vostro sguardo su un uomo che rimane rintanato assieme a delle
scorte alimentari.
Poi, però, mi sono ricordato di un piccolo, minuscolo
particolare.
Io ho continuato a scrivere a braccio, senza una tabella temporale a
cui fare riferimento.
Quanti giorni erano passati dall'inizio effettivo della vicenda,
dall'uccisione di quel primo drago?
Mi sono costretto a lasciare la tastiera, prendere carta e penna e
rileggere ogni singolo passaggio che ho scritto, in cerca di
riferimenti al passare dei giorni.
Ebbene, se quel primo drago è stato ucciso la notte di
quello che chiameremo primo giorno, trentasei ore prima dell'incendio
al ristorante, questa è la notte del sesto giorno.
Sono passati solo sei giorni dall'inizio di questo nostro viaggio,
quasi non ci credevo.
Questo, però, non mi risolveva un problema. Il Viandante non
poteva avere immediatamente un altro capitolo per sè. Doveva
avere un motivo per andare avanti, per seguire la nave che è
salpata alle prime luci del sesto giorno, mentre il nostro ispettore
biondo sta cercando di capire come siano morti i sacerdoti. Ecco che
così è nato questo capitoletto.
Una notte è passata, nulla più.
Una notte movimentata per Noir, una notte di viaggio per il Viandante.
E il susseguirsi di capitoli normali e X.5 è continuato
indisturbato.
Ora, tornando alle cose terrene.
Mi sento in dovere di ringraziare Oldkey, la ragazza imperfetta e
whitesky per le meravigliose recensioni che mi lasciano. Grazie a
quelle righe, spesso, forse all'oscuro anche di chi le ha scritte, mi
sono trovato a riflettere su nuove strade da percorrere, senza contare
che mi si illuminano gli occhi a leggere di teorie plausibili a cui, a
volte, nemmeno io avevo pensato.
Grazie a te, lettore silenzioso, per continuare a leggermi. So che
è prematuro, ma mi piacerebbe che, una volta finito anche
questo viaggio, chiuso il libraccio che narra delle Terre, mi lasciassi
scritto cosa te ne è sembrato di questa trilogia,
dell'evolversi del mio stile e dei miei personaggi. Sarebbe un bel
coronamento, per me. Ma ci sarà modo di parlarne tra diverse
decine di capitoli.
Dulcis in fundo, voglio dirvi una cosa che mi ha fatto emozionare. Le
storie non possono morire. Sembra una cosa stupida da dire, ma non lo
è. La mia prima storia, la guerra degli elementi, ha sempre
delle nuove visite ad attendermi e, ogni tanto, mi sorprende con un
nuovo seguito tra le preferite o le ricordate, ed è passato
un anno e mezzo da quando l'ho conclusa.
Smetto di divagare e vi saluto.
Alla prossima settimana, con il Viandante più carico che mai.
Vago |
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Capitolo 12 *** Capitolo 5.5: Dove vuole andare? ***
Questo assassino comincia
a darmi sui nervi.
Il giorno che
riuscirò a prenderlo giuro che non lo riconoscerà
nemmeno sua madre.
A Gerala si è
lasciato alle spalle ventisei cadaveri, un ristorante bruciato e un
intero livello della città nel panico.
Spero non sia opera sua,
qui a Derout, o, per lo meno, non segua la stessa trafila. Non ho
intenzione di mettere di nuovo le mani addosso ad altri venti cadaveri,
oggi.
…
Cosa sentono le mie
narici! Altro meraviglioso odore di bruciato. Legno e calce, a
giudicare dall’aroma acre, con una punta di carne
carbonizzata. A quante pessime grigliate lo avrò
già sentito?
Dubito, però,
che qualcuno si sia messo a grigliare costine in un vicolo.
L’ispettore solcò a lunghi passi una delle vie
principali, aggirando un pozzo in muratura, per raggiungere la
periferia nord, da qui serpeggiò tra i vicoli laterali,
stretti tra i muri della case, puntando verso la colonna di fumo che si
alzava flebile verso il cielo.
Mano a mano che l’uomo si avvicinava alla fonte di quel fumo,
il numero di civili diminuiva, venendo soppiantato da un crescente
numero di guardie cittadine dalla pelle scurita dal sole.
Una palazzina su tre piani, o meglio, il suo cadavere carbonizzato, era
crollata sotto il peso dei suoi stessi calcinacci sulla strada,
bloccando completamente il passaggio. Ora, decine di uomini
era chini sulle macerie, intenti a spostare gli ultimi detriti fumanti
rimasti sul selciato dopo il giorno di lavoro che già era
stato concluso.
- Chi è il più alto di grado, qui? –
urlò l’uomo biondo camminando verso le macerie,
avvolto nel suo abito marrone.
Un elfo sulla cinquantina si staccò dal gruppo per andare
incontro al nuovo arrivato. Negli occhi scuri albergava uno sguardo di
sfida.
- Sono io, cosa vuoi? L’accesso a questa zona è
permesso solo agli incaricati dal tribunale. –
Non un altro tizio pieno
di sé, Fato, ti prego.
Vabbè, per lo
meno potrò sfogare un po’ di rabbia repressa. Devo
solo cercare di non diventare di nuovo un demone gigante. Sarebbe un
casino spiegare ai sopravvissuti cosa hanno visto.
Un bel respiro e
cominciamo.
- Davvero? Non sapevo di non poter accedere a questa zona. Sono
desolato. Nessuno dei suoi uomini mi ha messo al corrente di questa
direttiva. Se lei è davvero il più alto di grado,
dovrebbe controllare meglio i suoi sottoposti. Non mi sembra un compito
adatto a uno nella sua posizione, quello di fermare gli estranei. Anzi,
se mi lascia il suo nome, potrei parlare di lei con Johanne…
-
L’elfo parve disorientato a quella risposta. La sua bocca era
rimasta leggermente aperta, mentre il suo cervello cercava di capire se
il discorso del suo interlocutore fosse un complimento, un affronto o
una minaccia.
Intanto, l’uomo biondo continuava a sorridere bonariamente,
con uno strano scintillo negli occhi.
- Johanne? – balbettò l’elfo.
- Si, certo, Johanne Fenter, il Giudice Maggiore. –
- Giu… Giudice Maggiore? – gli occhi
dell’ufficiale si spalancarono all’udire quella
carica.
- Si, mia cara scimmia. Il Giudice Maggiore Fenter, lo stesso Giudice
Maggiore che mi ha affidato l’indagine sul draghicida che sta
girando per le Terre. Davvero quel tuo cervello non è
riuscito a capire che nessun civile sarebbe mai giunto qui cercando la
carica più alta? Adesso, hai due minuti per aggiornarmi
sulla situazione, se davvero ci tieni alla tua posizione. –
L’elfo si irrigidì a quelle parole.
- Si… certo signore. –
Ti prego, ridillo.
Da quanto tempo non
sentivo la parola signore utilizzata nei miei confronti. Mi ci potrei
riabituare velocemente.
Ora, piccola scimmia
leccapiedi, muoviti a parlare se non vuoi finire a scacciare i topi
dalle cantine.
- L’altra notte un incendio è stato appiccato in
questa palazzina. Le guardie poste di guardia a questo quartiere sono
riuscite a domare le fiamme. Non capisco perché ti abbiano
mandato qui, non sembra esserci la mano del tuo uomo. –
- Tu non devi capire. Quante sono le vittime? –
- Nella palazzina c’erano due anziani, una famiglia di tre
persone e una donna. Non ci sono sopravvissuti. –
- Nel viale c’era qualcuno? –
- Non che noi sappiamo. Stanno rimuovendo le ultime macerie in questo
momento. –
- Sapete la razza delle vittime accertate? –
- La razza delle vittime? – ripeté
l’elfo.
- Si, la stramaledetta razza delle vittime. Umani? Elfi? Draghi?
Budnear? Fate? Nani? Cani? Scoiattoli? Alberi? Forza, voglio una
risposta. –
- Questo quartiere è principalmente occupato da draghi,
presumo che lo siano anche loro… -
- Presumi che siano draghi… - l’ispettore dai
capelli biondi si passò una mano sul tatuaggio romboidale.
– Vattene, torna a togliere macerie. –
Maledetti mortali.
Presumo che lo siano
anche loro. Che razza di risposta è questa? Ti pagano per
sapere le cose, non per presumere. Per quello ci sono già io.
Un quartiere di draghi.
Se l’incendio si fosse propagato avrebbe potuto fare parecchi
danni.
Che ore erano quando
è stato appiccato?
C’era scritto
su quei documenti che mi hanno consegnato… le undici di
notte, circa.
A quell’ora
molti sarebbero già stati a letto, molte possibili vittime
del fuoco.
Probabilmente
è lui l’artefice. È come se il
ristorante a Gerala fosse stata una prova generale per verificare
l’efficacia delle fiamme.
Probabilmente troveranno
un cadavere carbonizzato sotto quelle macerie. Se così
sarà, non avrò dubbi sulla paternità
di questo incendio.
Il mio compito
però non è far giustizia ai morti. Devo trovare
quel dannato piromane assassino e spaccargli il cranio con tutto il mio
amore nei suoi confronti solidificato in forma di badile.
Quindi ora pensa,
Viandante. Sai che il casino nel tempio di Aria non è opera
sua, quindi non devi considerarlo.
Le sue tracce
più recenti sono di Gerala.
Lì ha ucciso
ventisei draghi, per poi far perdere le sue tracce.
Quanti giorni di viaggio
può aver impiegato a raggiungere Derout? Due? Tre se proprio
se l’è presa comoda.
Deve aver lasciato la
Grande Vivente la notte stessa in cui ha appiccato
quell’incendio.
Tu hai avuto uno
svantaggio iniziale nei suoi confronti di circa tre giorni dalla sua
prima vittima, che si riducono a due giorni prendendo in considerazione
l’incendio del ristorante. Sono poi andato al tempio di Aria
e poi qui nel giro di una notte.
Di quanto è
in vantaggio, quindi, lui su di me?
Questo incendio
è stato appiccato trenta e qualcosa ore fa, circa. Ha un
giorno su di me, si e no, se questo è una sua opera.
Perché,
però, lui è venuto qui? Avrebbe potuto rimanere
nell’ombra per qualche settimana, per far calmare le acque.
Poi avrebbe potuto riprendere ad uccidere.
Era di fretta. Ma
perché?
- Signore! Abbiamo trovato un cadavere sotto i detriti. –
urlò l’elfo cinquantenne dalla pila di detriti in
direzione dell’uomo biondo.
- Questo già lo so! Era ovvio che ci fosse! –
urlò in risposta l’ispettore –
Lasciatemi riflettere in pace! –
Perché
è venuto subito qui?
Ma, soprattutto,
perché ha fatto un lavoro così approssimativo?
Non è mai stato così tanto avventato.
Ha dovuto accelerare i
tempi, sperando che le pareti fossero sufficientemente infiammabili.
Avrebbe potuto spendere
più tempo per predisporre al meglio tutto, ammucchiare
carbone nel luogo dal quale avrebbe voluto far scoppiare
l’incendio o creare una pira di legno e paglia per farlo
prendere meglio.
Cosa ti premeva di fare,
mio caro assassino?
- Tu, scimmia! – urlò l’uomo tatuato
– L’ultima nave partita da questo porto, quando
è salpata? –
- Io… ecco... – balbettò
l’elfo – Tra ieri e l'altro ieri ne è
partita una per il Continente. –
- A che ora? –
- Io… questo non lo so. Il molo non è di mia
competenza. – l’elfo scese dalla pila di detriti
con il passo incerto di chi non ha più la forza nelle gambe
di un ventenne.
- Signore? – chiese con voce incerta una delle guardie poste
a delimitare l’area, in direzione dell’ispettore.
- Che c’è? Spero che tu abbia un motivo valido per
disturbarmi. – L’uomo tatuato si voltò
di scatto con gli occhi che lasciavano trasparire tutta la sua
seccatura.
- La nave, quella per il Coninente. È partita ieri mattina
alle sei e mezza. -
L’ispettore rimase un attimo immobile, con lo sguardo fisso
sugli occhi viola di quel giovane mezzelfo che si era fatto avanti,
mentre il suo cervello elaborava quelle informazioni.
Ieri mattina, sul presto.
Avrebbe avuto sette ore
abbondanti per prepararsi per salpare, dopo aver incendiato questo
quaritiere..
Che non abbia optato per
il mare?
- Ottimo, lavoro. Grazie per l’informazione. –
rispose quindi l’uomo biondo.
Il Continente. Un ottimo
posto per ricominciare dall’inizio. O meglio, per uccidere
sfruttando l’effetto sorpresa.
Potrebbe effettivamente
essere riuscito a salpare con quella nave.
Come passeggero? Oppure
è riuscito a farsi assumere come marinaio?
Nessuno conosce il suo
volto, non è ufficialmente ricercato. Potrebbe essere
riuscito a procurarsi un biglietto per quel viaggio.
Adesso ha più
di un giorno di vantaggio su di me… non che questo sia un
problema vero, posso recuperarlo, se solo sapessi esattamente
dov’è.
- Signor Vander… - disse timidamente una giovane ragazza
dentro a un’armatura da guardia cittadina, decisamente troppo
grande per lei.
- Zitta. Sto ragionando. –
Perché si sta
muovendo così tanto in fretta?
Sa che lo sto seguendo?
No, non credo. Se stesse
scappando da me non mi avrebbe lasciato questo enorme cartello
fiammeggiante che indica che via ha seguito.
A meno che non abbia
intenzione di ingaggiare una battaglia psicologica con me.
Se volesse farmi credere
che sta andando verso il Continente, mentre lui è rimasto
qui sulle Terre?
Avrebbe senso. Non
c’è modo per lui di essere a conoscenza dei miei
poteri. Probabilmente.
Se conoscesse la mia intelligenza sufficientemente bene, probabilmente,
avrebbe preso quella nave, sapendo che io avrei pensato che lui mi
stesse indicando il mare per rimanere qui.
L’unico
modo che avrebbe per esserne a conoscenza sarebbe l’essere un
Loro inviato. Ma questo non avrebbe senso.
A meno che Loro non
stiano cercando di uccidermi o sviarmi, anche a costo di decine di vite.
Sto forse
esagerando…
- Signor Vander, è importante… - di nuovo la
ragazza tentò di richiamare l’attenzione
dell’ispettore biondo davanti a lei, occupato in una
conversazione con sé stesso.
- Ho detto che sono occupato! –
La ragazza ammutolì, mordendosi le labbra per star zitta
sotto lo sguardo pesante dell’uomo.
I secondi passarono in silenzio, senza che lo sguardo
dell’ispettore smettesse di pesare sulla nuca della giovane
guardia.
- Allora? – disse l’uomo – Vuoi dirmi
quello che devi? –
La ragazza non seppe cosa fare per alcuni istanti, per poi decidersi a
riaprire la bocca per tornare a parlare. – Vede, sono stata
incaricata di portarle un ordine da parte del Giudice Maggiore Fenter.
–
- Forza, quali sono questi ordini? –
- Si, ecco… Il capitano della nave salpata ieri, questa
mattina ha inviato un messaggio tramite un piccione. È
scomparso un marinaio dalla sua Ala di Albatros, era un drago, per
questo sono stati avvertiti gli uffici del tribunale e quello del
Giudice Maggiore. –
Forse sto diventando un
po' troppo rude.
Ma quel maledetto assassino comincia a stancarmi davvero troppo.
...
Un drago
scomparso da una nave su cui era impiegato.
Evidentemente
l’assassino è molto meno intelligente di quanto
pensassi, oppure non è a conoscenza di me alle sue calcagna.
Deve essere salpato con
quella maledetta nave.
L’ispettore si dileguò dalla scena di quel
crimine, lasciandosi alle spalle le guardie con cui aveva parlato e la
ragazza che gli aveva consegnato il messaggio, ancora mortificata.
Non appena la via che ebbe imboccato si fece deserta,
l’ispettore biondo scomparve in un turbine di piume color
pece.
Un corvo dalla coda scura tagliata da una piuma bianca si
alzò in volo, sorvolando i gruppi di randagi che avevano
conquistato i tetti piatti delle case e puntando verso il mare, con il
sole che gli scaldava le spalle.
Non me lo sarei lasciato
scappare, non ora che si è rinchiuso da solo in una prigione
in mezzo al mare.
Una freccia scura solcò il mare, sospesa a poco
più di un metro dai flutti su cui la sua ombra andava a
stagliarsi.
La sua figura sottile tagliava le correnti, sicura, puntando
là dove il sole sarebbe andato a morire.
Cos’è
questa sensazione che avverto in queste carni? Così antica
che quasi l’avevo dimenticata.
Il brivido della caccia,
l’eccitazione del momento subito precedente alla cattura
della preda.
Da quanto tempo
è che non lo avvertivo? Troppo, finora non
c’è stata creatura che potesse nascondersi al mio
sguardo.
Finora.
La mia parziale
cecità alla Trama è uno svantaggio non da poco,
specialmente ora che mi ritrovo a dovermi confrontare con uno sfuggente
assassino e un buco della Trama impazzito.
Il mondo continua ad
essere un palcoscenico troppo grande perché io lo possa
riempire con un monologo, ma finché avrò fiato e
forze mostrerò a tutti le meraviglie di cui sono capace.
Anche senza una parte
dei miei poteri.
…
L’aria
è fredda e umida, ma non sa di mare.
Ci deve essere stata una
tempesta.
Una nave del genere non
avrà avuto problemi a superarla, ma nessuna vela
può sostenere un vento tanto forte.
Devono aver perso tempo.
Questo mi da un
vantaggio ulteriore.
Le piume della coda del corvo fremettero, mentre le sue ali si
piegavano appena per lasciarlo penetrare in una nuova corrente calda,
che lo avrebbe sospinto sempre più veloce verso la sua meta.
Sull’orizzonte, a stagliarsi sul nulla, il profilo di una
nave comparve in tutta la sua possanza.
I tre alberi si sollevavano dalla superficie del mare come magre
vedette e, su di questi, le vele si gonfiavano sotto un vivace vento
proveniente da sud. Non il migliore, forse, per navigare, ma
sufficiente per permettere al mostro di legno e cordame di mantenere
una buona velocità verso la sua meta.
Il corvo lo raggiunse in poco meno di mezzora, riducendosi alla
metà delle dimensioni che vantava durante il suo vantaggio
per permettersi di entrare nella cabina del capitano attraverso un
tondo oblò socchiuso.
Nella stanza racchiusa tra scure assi di legno rossastro non sembrava
esserci anima viva. L’ambiente già stretto era per
lo più stato conquistato dalla massiccia mole di una pesante
scrivania coperta da carte nautiche e da due alte librerie in cui libri
dai dorsi rossi e neri si tenevano gli uni con gli altri per non cadere
a terra quando il mare colpiva con la sua furia la nave su cui erano
stati portati.
Sulle due pareti contigue a quella che ospitava la porta, due lampade
a olio erano state assicurate attraverso gambi in ferro scuro
che potevano ricordare l’intrecciarsi di un vitigno.
Il corvo si guardò rapidamente intorno, in modo da
accertarsi che davvero fosse lui il solo occupante di quella stanza in
grado di respirare.
Un fremito spaventato proruppe da un pesante tendaggio posto in un
angolo, in modo da coprire qualcosa dalla forma di cupola.
Il corvo si disperse, lasciando il passo all’ispettore dai
ricci biondi.
Ora che ci penso,
dovrò cambiare molto presto questo corpo di sicurezza, sono
troppe, ormai, le persone che lo hanno visto.
L’uomo tatuato si avvicinò con passo felpato al
drappo scuro, sollevandolo con cautela. Sotto di questo,
all’interno di una gabbia dalle sottili barre metalliche, tre
piccioni saltellavano vivacemente, portandosi dietro il piccolo
contenitore cilindrico che, ognuno di loro, teneva stretto alla
caviglia.
Piccioni viaggiatori.
Ovvio.
La porta d'ingresso della cabina si socchiuse, seguita dal sussulto
dell'uomo che stava entrando alla vista dell'estraneo.
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Capitolo 13 *** Capitolo 6: Quiete tra le tempeste ***
Gerard Rencliff sorrise ancora una volta volta all’elfo dai
vestiti costosi che si ostinava a parlare di fronte a lui e che pareva
non essere intenzionato a lasciarlo tornare ai suoi compiti.
La stanza si inclinò di qualche grado verso babordo, facendo
tintinnare i calici in vetro accuratamente riposti
all’interno della vetrinetta presente in quella cabina.
- Signor Herren, perdoni la mia scortesia, ma sarà il caso
che vada a controllare la rotta. Non vorrei che si stesse avvicinando
un’altra tempesta come quella di questa notte. Potremo
continuare questa conversazione durante il pranzo, non manca molto,
pertanto colgo anche l’occasione per lasciare a lei e alla
sua signora tempo per prepararsi. –
- Oh, per Terra, spero proprio che il tempo non ci riservi
un’altra tempesta come quella. A dopo, capitano Rencliff, nel
mentre cercherò nelle valige uno dei ciondoli di cui le
parlavo. –
- Aspetto di poterlo ammirare con ansia. A dopo. –
L’uomo dalla giacca bianca e azzurra si chiuse alle spalle la
porta, cercando di non sbatterla troppo forte. Alzò il viso
abbronzato verso il cielo, socchiudendo gli occhi quando questi
arrivano a vedere il sole giunto al suo zenit. In lontananza, verso
sud, un banco di nubi scure occupavano una buona porzione della volta
celeste.
Il capitano della Ala di Albatros si incamminò con passo
tranquillo verso il timone, posto sulla torretta rialzata che svettava
in poppa alla nave. La sua mano sinistra salì quasi
meccanicamente al mento per lisciare la barba che cresceva rigogliosa
sul suo viso.
In cima alla scala, Saraga teneva saldamente tra le mani incallite i
pioli in legno piantanti nella ruota del timone, gli occhi segnati
dalle molte stagioni che aveva passato sul ponte delle numerose navi su
cui aveva servito come timoniere restavano fissi verso la prua, come se
l’esperienza che avevano accumulato negli anni fosse
sufficiente per sostituire la guida sicura della bussola in avorio
incastonata nelle travi di legno lì a fianco.
- Come va la navigazione, vecchio mio? – chiese il capitano,
dando una sonora pacca sulla spalla ossuta dell’uomo dai
capelli grigi che gli stava accanto.
- Fa schifo come al solito, Gerard. Come se non fosse bastata la
merdosa tempesta di questa notte, con la scomparsa di Michael mi
ritrovo circondato da mozzi incompetenti. Ho dovuto mollare
più volte il timone per fissare una fune mal legata. Quando
ti deciderai a prendere un equipaggio come si deve e non i primi
disperati di passaggio? –
- Quando il governo si deciderà ad alzarmi la paga. Ho
spedito un piccione diretto verso Gerala appena mi hai detto che
Michael non si riusciva più a trovare, dovrebbero mandarci
un loro agente appena possibile. –
La gola di Saraga gorgogliò un attimo, nel tentativo di
liberarla dal catarro che la infestava.
- Quello schifoso tabacco che ho preso Jidan mi sta facendo sputare
l’anima. Sai, vero, che non ci sono molte imbarcazioni
più veloci di questa, vero? E nessuna di quelle
toccherà Derout per diversi mesi, la più vicina
dovrebbe essere la Freccia di Rame del capitano Darren, ma era in rotta
per Sarnasj, l’ultima volta che ho sentito di loro. Come
pensi che riescano a spedirci anche un solo uomo sull’Ala?
–
- Non lo so, Saraga. Ma conosci anche tu gli ordini. Il nostro
l’abbiamo fatto, che il Giudice Maggiore ora si risolva i
suoi problemi. –
- Gerard, comunque, anche ci comparisse sul ponte un inviato di quella
strega della Fenter, noi abbiamo sempre un uomo con
dell’esperienza in meno. Dovessimo incontrare
un’altra tempesta o quei dannati pirati da qui a Jidan
potremmo avere dei problemi a portare l’Ala fino a
destinazione. –
- Sono davvero così incapaci? –
- Togliendone un paio, gli altri non sanno nemmeno fare un buon nodo.
–
- Abbiamo visto di peggio. –
- Abbiamo visto anche di meglio. Ora vai a fare quello che dovrebbe
fare il capitano e lasciami a timonare in santa pace. –
- A quando le nozze con quel timone? – chiese sorridendo il
capitano dagli abiti chiari, mentre tornava a scendere la scala che lo
aveva portato fino al timone.
- Me lo sposerò il giorno che riuscirai a contare tutte le
onde del mare. A dopo Gerard e che Acqua ce la mandi buona, almeno per
oggi. –
- Che ce la mandino buona pure tutti gli altri. – fu la
risposta dell’uomo dalla barba castana, poco prima che questi
raggiungesse il ponte principale.
Sulla sua testa, un paio dei marinai che aveva assoldato per quel
viaggio stavano risalendo rapidi le sartie che tenevano fisso
l’albero centrale.
Non gli parvero così male quei due, per non avere nessuna
esperienza di come ci si dovesse comportare su di una nave di quella
portata.
La mano del capitano si fermò sulla maniglia della porta che
lo avrebbe condotto alla sua cabina.
Doveva verificare che la tempesta di quella notte non li avesse
condotti su una rotta errata.
La porta si aprì verso l’interno con il solito
cigolio sommesso dei cardini.
Gerard Rencliff entrò distrattamente nella sua stanza,
appoggiando il proprio cappello con un gesto meccanico
sull’attaccapanni accanto all’ingresso. I suoi
pensieri, intanto, erano tutti direzionati al cassetto destro della sua
scrivania, dentro al quale riposavano due bicchieri di vetro e una
bottiglia quasi intonsa dell’ottimo liquore che aveva
comprato a Derout.
Si sarebbe permesso un goccio per darsi forza in vista del pranzo in
compagnia della famiglia Herren.
L’uomo richiuse la porta alle proprie spalle, alzando lo
sguardo sulla propria stanza.
Il capitano si immobilizzò, come paralizzato.
Un uomo in abiti eleganti gli dava le spalle. Non lo aveva mai visto a
bordo di quella nave, non faceva parte né
dell’equipaggio che aveva scelto né dei passeggeri.
I capelli biondi si mossero appena quando il volto di
quell’uomo si voltò in direzione della porta e,
sul suo viso, comparve un sorriso che sembrava più adatto
alla bocca di un serpente.
- Il capitano Rencliff, suppongo. – disse con voce allegra
l’uomo ben vestito, perdendo interesse nella piccionaia che
aveva scoperto dal drappo scuro e voltandosi completamente in direzione
della porta.
- Si… sono io. Posso sapere il vostro nome? E il motivo per
cui siete sulla mia nave? –
- Certamente che potete chiedermelo, anzi vi risparmierò
questa fatica. – l’uomo biondo si fece avanti, con
la mano distesa di fronte a sé.
Gerard Rencliff titubò un attimo davanti a quella mano in
attesa di una risposta, mano che sembrava più terribile
delle decine di enormi creature che avevano già provato ad
attaccare l’Ala di Albatros. Alla fine strinse il palmo che
gli stava venendo porto.
Il sorriso serpentino dell’uomo biondo si allargò
ulteriormente a quel contatto.
- Sono l’ispettore Vander. L’ufficio del Giudice
Maggiore Fenter mi ha mandato sulla sua nave per indagare sulla
sparizione del suo marinaio. Era un drago, se le informazioni che mi
hanno dato non sono errate, vero? –
- Si… Michael era, è un drago. Come ha fatto lei
ad arrivare qui con così poco tempo a disposizione? Ho
mandato il piccione con il messaggio a Gerala solamente questa
mattina… -
- Troppe domande! – esclamò l’ispettore
spostandosi la ciocca di capelli nera che gli deturpava la chioma
chiara – Ho i miei modi. Ti deve bastare questo. –
- Non sarà anche lei uno di quelli che hanno la magia?
–
L’uomo dagli abiti eleganti sbuffò infastidito,
oltrepassando il corpo del capitano per raggiungere la porta.
- Il drago scomparso, da quanto lo conosceva? Era una persona
affidabile? Potrebbe essere volato via di notte? –
- No… non credo abbia lasciato la nave volontariamente.
Michael naviga con me da tre anni, oramai, e non mi ha mai dato modo di
pensare male di lui. –
- E gli altri uomini sulla nave? Cosa mi sa dire di loro? –
- Il timoniere è un mio vecchio collega, lo conosco da una
vita, oramai. Gli altri sei sono tutti nuovi, di questa nave e del
mestiere. –
- Dovrò parlare con ognuno di loro, ma dopo. Cosa mi sa dire
sui passeggeri? –
- Non è questa la stagione migliore per i turisti. A bordo
ho solamente una coppia facoltosa di Gerala e una famigliola di tre
persone con il suo carico di farine. –
- Non c’è nessuno altro su questa nave?
– il sorriso dell’ispettore si fece spaventoso,
come quello di un cacciatore pronto ad azzannare la sua preda
– Ci sono solo tredici persone a bordo? –
- Si, è corretto. –
La nave si inclinò pericolosamente di lato, mentre, poco a
poco, il picchiettio della pioggia si fece sempre più
intenso.
- Maledizione! – imprecò il comandante tornando
sui suoi passi, per tornare sul ponte, con lo sguardo volto alle vele
ancora spiegate che si gonfiavano sotto il vento che si era alzato.
- Saraga, tieni il timone! – urlò il capitato
verso la torretta sopra la sua testa.
Una voce coperta dal rumore della pioggia ritornò al ponte
principale ovattata. – Devo ancora sposarmelo, non posso
già lasciarmelo scappare! –
- Dove sono suoi uomini? – chiese
l’ispettore, ora senza la giacca a coprire la camicia chiara
che gli copriva il petto.
Gerard Rencliff non si preoccupò di chiedere dove
quell’indumento fosse finito.
- Due sottocoperta con i cannoni, due in cima di vedetta e gli ultimi
due avevano il compito di pulire il ponte. –
- Vada a chiamare quelli di sotto. Io salgo a issare le vele.
–
- Non lascerò che uno che non è del mestiere vada
là sopra. –
Lo sguardo dell’ispettore si fece di pietra, mentre ogni
traccia del suo sorriso inquietante scompariva. – Non
è la mia prima volta su di una nave. Ne ho condotte di
più grandi in tempeste peggiori. Ho sicuramente visto
più ponti io di quelli che lei possa mai sperare di vedere
in tutta la sua vita. Ora, capitano, vada immediatamente a chiamare i
suoi marinai. –
L’ispettore biondo si andò ad arrampicare
velocemente su una sartia lì vicina, venendo sballottato dal
vento ad ogni raffica, raggiungendo la traversa a cui era saldamente
assicurata la vela principale in poco più di un minuto.
Là, due marinai già stavano lottando con i nodi
per liberare la tela dalla loro stretta e poterla così
ritirare.
Il capitano dell’Ala di Albatros scomparve sottocoperta poco
prima che la vela cominciasse a ripiegarsi verso l’altro.
Il rumore del vento e dell’acqua, fuori dalla cabina, copriva
qualunque rumore potesse essere prodotto.
L’ispettore Vander, con i capelli biondi lievemente bagnati,
scrutava i volti dei sei marinai che gli stavano di fronte.
Accanto alla parete lì di fianco, il capitano e il suo
secondo se ne stavano in disparte, con gli occhi bassi, come se lo
sguardo accusatore del nuovo arrivato fosse puntato su di loro.
L’uomo dagli abiti eleganti annusò
l’aria per un paio di secondi come se fosse un segugio, per
poi rompere il silenzio con la sua voce melodica. - Devo parlare con
ognuno di voi, ma separatamente. Ora, voglio un volontario che mi segua
da solo nella mensa. Pretendo che la verità su quello che
è successo al drago venga a galla. -
Angolo dell'Autore:
Ultimamente mi sono ritrovato a riflettere su EFP e sul tempo che ci ho
trascorso sopra.
Nonostante mi sembri ieri quel primo giorno in cui incerto creavo
questo account, sono passati tre anni, da allora.
Sembra pazzesco, a pensarci.
Posso dire di essere uno dei più "vecchi" attivi che
pubblica in questa sezione, ogni tanto do uno sguardo alle storie che
vengono caricate e sono ben pochi i nomi che ricordo esserci stati
anche quando incominciai.
Ma non è di questo che voglio parlarvi oggi.
Posso dire di essermi fatto un minimo di esperienza su questo sito,
dopo tutto questo tempo, ma molte cose ancora le ignoro.
Ho oramai inquadrato e accettato il fatto che le originali siano molto
meno seguite delle fanfiction, che il fantasy (come i principali
generi) sia una battle royale di storie in cui si cerca di rimanere a
galla per più tempo possibile per cercare
visibilità, come, per finire, il fatto che le storie scelte
siano oramai un meraviglioso mausoleo dedicato, probabilmente, ai primi
coloni di questa piattaforma.
Tutto questo non mi stupisce più come faceva un tempo.
C'è una cosa, però, che ancora non comprendo,
probabilmente perchè sono troppo esterno al mondo delle
fanfiction per capirci qualcosa, d'altronde non ho mai imparato e mai
imparerò cosa stiano a significare tutte quelle sigle che
vengono utilizzate.
Le ff sono probabilmente un mondo a parte, ma spesso, girando senza
meta tra le sezioni, mi sale l'amaro in bocca.
Io sono fermamente convinto che una storia debba raccontare qualcosa
per essere definita tale, originale e non. Non capisco quindi come ff
di qualsiasi genere e sorta, nate con il solo intento di far vedere
avverata la ship desiderata dall'autore, possano riscuotere un successo
enorme in termini di recensioni e visualizzazioni.
Con questo non voglio criticare i gusti altrui, assolutamente,
così come non voglio far trasparire il concetto che gli
originali sono migliori delle ff, men che meno le mie storie, che so
essere... non così perfette. Sto cercando di capire, invece,
come mai i lettori di questo sito sembrino attirati dalle coppie
proposte, piuttosto che dalle trame.
In ogni caso, ora me ne torno nel mio angolino buio a scrivere.
Grazie a Oldkey, la ragazza imperfetta e whitesky che finora mi hanno
sempre sopportato e recensito.
Grazie a tutti voi, lettori, per darmi, ognuno di voi, un motivo per
continuare.
Alla prossima.
Vago |
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Capitolo 14 *** Capitolo 6.5: Ha dei poteri? ***
Non è
possibile, sono finito su una nave di inetti.
Ora devo riuscire a
cazzare questo tirante e questa vela non dovrebbe rovinarsi
troppo…
Dannazione! Quel babbeo
rischia di far perdere l’albero di prua a questa nave!
L’uomo dai ricci capelli biondi si cercò un
appiglio migliore con la mano sinistra alla traversa in legno che gli
stava davanti, già viscida per colpa della pioggia. Strinse
quindi tra i denti il capo libero della corda che aveva davanti,
tirando con forza con la mano libera il resto della sartia che si
trovava dalla parte opposta del nodo che aveva creato per assicurare la
tela di cui era composta la vela al più saldo legno,
bloccandolo.
Si voltò quindi verso il marinaio che aveva notato con la
coda dell’occhio, aggrappato malamente alla scaletta a pioli
diretta verso la coffa, che ora restava vuota in cima
all’albero.
Il mozzo era completamente proteso in avanti, con la mano sinistra e le
punte dei piedi disperatamente aggrappate alla scala e le dita della
mano destra che, senza successo, cercavano di far girare la corda
pendente che aveva di fronte attorno alla traverso sulla quale era
riuscito ad appoggiare la vela issata.
La pioggia cominciò a cadere sempre più
violentemente, mentre la roboante voce dei tuoni si faceva sempre
più vicina, facendo tremare il cielo scuro.
Non
c’è tempo per fare il fine.
L’altro
marinaio, che fine ha fatto?
Eccolo,
sull’albero di poppa. Ottimo, sembra che se la stia
cavando… e mi da pure le spalle.
Non potevo chiedere di
meglio.
Le dita della mano dell’uomo tatuato lasciarono la presa di
colpo, permettendo a quel corpo di cadere verso il ponte principale.
La camicia e i pantaloni scuri scomparvero in un turbinio di piume
chiare, mentre un gabbianello ne prendeva il posto levandosi in volo e
combattendo contro il vento che lo investiva, il suo capo, nero come la
pece, così diverso dal resto del corpo da sembrare quasi un
errore di assemblaggio, era puntato verso prua.
Un gabbianello? Davvero,
Viandante?
Perché ho
preso proprio questa forma?
Vabbè, sulle
scelte del mio subconscio mi interrogherò un’altra
volta.
Per fortuna in questo
secolo dal cambiamento nessuno ha ancora avuto così tanto
tempo di reinventarsi la psicoanalisi… certo, con me non
avrebbe grandi risultati, non ho nemmeno una madre con cui avere
questioni in sospeso.
Non ti distrarre!
C’è un mozzo che, oltre a volersi ammazzare, vuole
trascinarsi dietro tutti i membri dell’equipaggio.
Il gabbianello si posò sulla traversa alle spalle del
marinaio in difficoltà. Lì, le zampe che
artigliavano il legno divennero dita, mentre un corpo umano veniva
generato rapidamente a partire da quella mano.
- Fatti da parte un attimo. – disse l’ispettore
biondo, in elegante equilibrio tra le funi e la traversa che gli
stavano attorno.
Il marinaio si voltò di scatto verso l’origine di
quella voce, perdendo l’incerta presa che lo teneva dritto,
cominciando così a cadere.
Oh, avanti. Dovevi
proprio farlo?
Va bene, prima lui, poi
la vela.
L’uomo biondo mosse il braccio libero verso il basso,
permettendo alla sua presa di stringersi attorno alla camicia
dell’uomo, interrompendone la caduta.
La mano destra, le cui dita erano strette intorno alla traversa,
scivolò un poco verso il basso, strattonata dal nuovo peso
che era costretta a dover sopportare.
Uhm.
Questo non va bene.
Il tipo pesa troppo,
queste dita non sono sufficientemente forti per tenerci entrambi appesi
e io, comunque, non ho abbastanza arti per assicurare anche la
maledetta vela.
Ti butterei in acqua,
fossi di umore peggiore.
Per ora considerati
fortunato che qui intorno non ci sia nessuno in grado di vedermi.
Le dita della mano destra divennero dinoccolate come serpenti e, come
teli, si avvolsero intorno alla traversa in legno, stringendosi su di
essa come tentacoli.
L’ho sempre
detto che le ossa sono inutili.
Ora devo pensare a lui.
All’altezza del gomito sinistro dell’ispettore
nacque un nuovo avambracci, più lungo, che si
portò davanti al volto del marinaio. Qui, la terza mano, si
appoggiò con forza sul naso e la bocca dell’uomo,
privandolo della capacità di respirare.
Dopo un paio di disperati scrolloni, l’uomo muscoloso rimase
immobile, penzolante con i piedi rivolti verso il ponte della nave.
Se tutti i mortali
passassero la loro vita privi di sensi, la ma esistenza sarebbe
incredibilmente più facile.
Ora… devo
essere rapido.
E un braccio lungo una
dozzina di metri sarebbe troppo vistoso.
Le dita della mano sinistra si allungarono, fino a cingere
completamente il torso del marinaio. Non appena le due punte opposte si
furono toccate, queste si fusero, per poi mutare in una lunga corda
intrecciata che nasceva dall’unico avambraccio sinistro
rimasto all’uomo dal volto tatuato.
Come se un argano si fosse messo in funzione, la corda
cominciò a calare senza mai fermarsi, se non quando il corpo
privo di sensi non fu completamente adagiato al suolo.
Ottimo, ora, senza
quell’imbecille tra i piedi, posso sistemare questa maledetta
vela.
Dopo, con calma,
potrò studiare tutti i membri dell’equipaggio.
Nemmeno la fine del
mondo potrebbe fermarmi dal trovare quel dannato assassino.
La porta si richiuse alle spalle del capitano dell’Ala di
Albatros.
La stanza era illuminata dalla luce rossastra di un paio di lampade ad
olio, mentre, all’esterno, il vento e la pioggia facevano da
sottofondo ai passi del capitano Rencliff durante il tragitto che lo
avrebbe condotto al fianco del suo secondo.
- Come mi aveva chiesto, ispettore, ha davanti a sé tutto
l’equipaggio della mia nave. Ha pieni poteri di comando su di
loro. –
L’ispettore si prese qualche secondo per scrutare i volti
degli uomini che aveva di fronte. Sporchi, sudici, arrossati dal poco
sole che avevano incontrato durante quei primi giorni di traversata.
Le narici dell’uomo biondo si allargarono, mentre i polmoni
aspiravano l’aria che gli circondava il volto con forza.
C’è
odore di magia, qui.
Nulla di grosso. Non
penso siano stati fatti incantesimi o ci sia qualche oggetto incantato.
C’è però una nota di mana che aleggia
qui intorno.
È vero che la
magia è diventata praticamente inesistente in questo mondo,
cento anni di utilizzo spropositato del mana lasciato dal Cambiamento
hanno prosciugato questo mondo di quasi tutta la sua energia,
però qualche persona che nasce con un po’ di magia
innata c’è ancora.
Nulla di che,
normalmente questi individui non sanno nemmeno di possederla o, al
massimo, riescono a sfruttarla per far comparire fiammelle o tenere
alla larga le gocce di pioggia, nulla in confronto a quello che ho
visto far fare agli incantesimi della Prima Era di questo mondo.
- Devo parlare con ognuno di voi, ma separatamente. Ora, voglio un
volontario che mi segua da solo nella mensa. Pretendo che la
verità su quello che è successo al drago venga a
galla. – disse poi l’ispettore, voltandosi per
incamminarsi verso la porta accostata alle sue spalle.
Oltrepassato l’ingresso che lo avrebbe condotto alla mensa,
l’uomo biondo si sedette a una delle prime sedie che gli si
presentò, con il volto nella direzione da cui era arrivato,
in attesa del primo volontario.
Non mi interessano
davvero loro, l’unico motivo per cui voglio vederli
singolarmente è per poter vedere i loro destini in un luogo
dove la Trama del Reale non sia troppo spessa.
Dopotutto, se uno di
loro ha ucciso quel drago, avrà ancora delle tracce di
sangue addosso, per quanto possa essersi pulito.
Se uno di quei sei
è l’assassino, non ha possibilità di
scappare.
Scacco matto.
La porta si aprì una prima volta.
L’ispettore raddrizzò la schiena nel vedere il
corpo spesso che oltrepassò la soglia.
Era il marinaio che aveva salvato da morte certa mezzora prima.
L’uomo rimase sull’attenti, in piedi di fronte alla
sedia occupata.
La muscolatura marcata premeva contro la camicia e i pantaloni ancora
bagnati dalla pioggia. I suoi capelli neri scuri erano talmente corti
da apparire già asciutti.
Non mi serve a niente,
lui. Nato da genitori contadini, donnaiolo, incapace, aspirante
suicida, ma, soprattutto, non ha mai visto Gerala in vita sua. Ha
girato talmente poche città che il suo destino è
incredibilmente poco intrecciato con quello di altre persone.
Non è lui.
- Puoi andare, mandami un altro dei tuoi compari. –
- Signore, non vuole farmi qualche domanda? – chiese il
marinaio, quasi risentito.
- No. Puoi andare. –
L’uomo si voltò verso la porta, uscendo dalla
messa con passi pesanti.
Il secondo marinaio ad entrare era magro, alto sopra la media, con il
volto smunto e gli occhi incredibilmente chiari.
I suoi abiti erano appena inumiditi sopra le spalle e
all’altezza delle ginocchia, segno del poco tempo che aveva
trascorso sopra coperta.
Questo è
già più rognoso. Ha viaggiato parecchio e il suo
fato è maledettamente coperto da quelli che ha incrociato.
Vediamo cosa riesco a
scoprire di lui…
È nato a
Derout, e i suoi primi anni sono stati poco movimentati… per
colpa di una malattia.
Ho un ipotesi, su di lui.
- Lei è malato, non è vero? –
Il marinaio spalancò gli occhi, stupito.
- Si… come fa a saperlo? – rispose poi con voce
incerta.
- Sono stato mandato qui dal giudice maggiore, so molte cose. Tra
queste cose, però, non figura perché…
- l’ispettore fece una pausa, inumidendosi le labbra.
Forza, trova qualcosa a
cui attaccarti. Tipo… questo.
- Non figura perché sei andato a Gerala, un mese fa, prima
di raggiungere Derout. –
- Beh, ecco… io ho viaggiato molto. Da medico a medico,
intendo. Ho una malattia del sangue e, ogni volta che trovo uno
specialista, questo mi manda da un suo collega… non sono mai
stato in cura per molto tempo dalla stessa persona… -
- Va bene, ho un’ultima richiesta per te. Mostrami
l’avambraccio. –
Questa cosa
farà sicuramente più schifo a me che male a te,
te lo assicuro.
Ma ho bisogno di uno
spillo.
Non appena l’uomo mostrò la pelle candida del suo
avambraccio, l’ispettore mostrò l’ago
che teneva tra le dita, piantandolo nella carne del marinaio che gli
stava davanti. Sfilato poi il pezzo di ferro, l’uomo dal
volto tatuato raccolse una goccia di sangue fuoriuscita dal buco sul
polpastrello dell’indice, portandosela alle labbra.
Non facevo una cosa del
genere da quando i vampiri erano di moda.
Comunque, ora, ho la
certezza che lui non possa essere l’assassino. Con la
quantità di globuli rossi sani che si ritrova mi chiedo come
faccia a rimanere in piedi.
Fossi il suo prossimo
medico, non gli darei più di un paio d’anni di
vita.
- Può andare e mi mandi il prossimo. –
Lo smilzo uscì dall’uscio, trascinando quei piedi
sproporzionatamente grandi, rispetto alle gambe secche.
Per la terza volta, qualcuno entrò nella mensa.
Il corpo di quel marinaio era poco massiccio, pur essendo muscoloso, ma
ciò che colpì l’ispettore furono gli
occhi, simili a pietre nere incastonate su quel viso, e la pelle
ustionata sul suo polpaccio.
Un altro viaggiatore.
Ottimo.
Questo è nato
sui Muraglia, si è mosso poco fino a… oh. Mi
spiace per lui.
Deve aver abbandonato la
vita da montanaro quando Loro hanno ordinato ai draghi di radere al
suolo tutto quello che ci fosse lungo le pareti dei Muraglia.
Da quel punto in
poi… ha viaggiato parecchio. Forse troppo.
Non riesco a leggere
nulla di lui, almeno degli ultimi anni.
Dovrò
scoprire qualcosa alla vecchia maniera.
Ma, prima, le sue
mani…
Non ha segni di sangue,
addosso.
Lui un po’
odora di magia, ma non sembra esserne al corrente.
- Bene, dovrei farle un paio di domande. –
- Certo, se questo potrà aiutarla a ritrovare Michael,
faccia pure. – rispose il marinaio, con il viso rilassato.
- Quell’ustione, come te la sei procurata? –
- Questa? – chiese in risposta l’uomo dagli occhi
scuri, alzando il tessuto che gli copriva la gamba per mostrare la
porzione di pelle rovinata – Ci convivo da una vita, oramai
non ci faccio più caso. Mi è crollata la casa
addosso da bambino, era in fiamme. Tutto sommato me la sono cavata
ancora con poco. –
- Sa il motivo di quell’incendio? –
Gli occhi penetranti dell’uomo si adombrarono. –
No. È successo durante l’immenso incendio di
qualche anno fa, sa, la nostra era una casa sui Muraglia e per buona
parte era fatta in legno. –
Per ora non ha provato a
coprire le sue origini. Posso supporre che sia abbastanza sincero in
quello che dice.
- È stato a Gerala, ultimamente? –
Il marinaio parve stupito dalla domanda. – No,
cioè, non proprio. Ho passato una notte in uno dei piani
più bassi della città, mentre ero in viaggio per
Derout, però non ho avuto il tempo per visitarla. –
- Basta così, piò andare. Mandi un altro al suo
posto. –
Il quarto marinaio a presentarsi era un elfo dalla fronte alta e i
capelli estremamente radi. La pelle del viso non era ustionata, anzi,
pareva non avesse dovuto sottostare né ai raggi del sole,
né alla pioggia sferzante di quel viaggio.
Non sembrava essere particolarmente fisicamente prestante, nonostante
questo, però avanzava sicuro di sé in quella
stanza.
Sorrise sornione all’ispettore, mostrando un incisivo
spaccato sotto le labbra sottili.
Gli abiti che portava addosso sembravano poco adatti al lavoro da
marinaio, erano di ottima fattura, prodotti con materiali di
qualità, abiti da ricchi.
Un altro facile da
gestire, per fortuna.
Questo ha vissuto a
Gerala per… tutta la sua vita?
Praticamente non si
è mai mosso di là.
Non sembra un elfo
particolarmente pericoloso… proprio per questo potrebbe
essere l’assassino.
- Lei cosa ne pensa dei draghicidi di Gerala? –
- Saranno dovuti a una guerra tra draghi. Lo studiano i marmocchi a
scuola che quelli sono belve, anche se fanno finta di essere degli
umani. –
- Lei sta dicendo che è stato un bene per la
città l’assassinio di quel drago alla base dei
tronchi e l’incendio del ristorante? –
- Io sto dicendo che quelle bestie dovrebbero starsene nel loro
vulcano. – il marinaio si sporse verso l’uomo dal
volto tatuato, con uno sguardo altezzoso che gli illuminava le iridi
marroni – Non capisco perché quegli animali
possano vivere con esseri civilizzati come noi. –
- Di Michael, cosa ne pensa? –
- Sarebbe stato un servitore incredibile, se solo il capitano
l’avesse tenuto al guinzaglio. –
Rencliff mi ha dato
pieni poteri sui suoi uomini.
Ora voglio tirare una
moneta.
- Mi mostri le mani. Immediatamente. –
L’elfo le alzò svogliatamente le mani con i palmi
verso l’alto, forse orgoglioso dell’assenza di
calli che poteva vantare.
Peccato, non ci sono
segni di sangue o lotta.
Dovrò
trattenermi.
L’ispettore si alzò dalla sua sedia, facendo un
passo in direzione dell’elfo.
- Sai, credo che tu abbia sbagliato razza. Di nascita, intendo. Quelli
come te dovrebbero nascere mosche, in modo da poter sguazzare a
piacimento nel letame, come gli compete. –
- Lei mi sta minacciando? – chiese ancora il marinaio,
sorridendo divertito.
- No, assolutamente. Non è nel mio stile fare minacce.
Adesso, le chiederei di uscire… ma non lo farò.
–
Un pugno colpì con violenza inaudita la bocca
dell’elfo, al punto da rompere anche l’incisivo
intatto e far cadere d schiena il marinaio sulle assi del pavimento.
- Ringrazia la tua buona stella, perché non posso perdere
tempo con te. Vedi però di non farti più rivedere
lungo la mia strada, perché, la prossima volta, non
sarò così gentile. –
continuò a dire l’ispettore, avanzando.
Una suola rigida impattò sulla fronte dell’elfo,
facendogli perdere i sensi.
La porta si aprì con forza per lasciar passare
l’ispettore e il corpo dal volto coperto di sangue che si
stava trascinando dietro.
Il marinaio svenuto venne malamente scaraventato per terra, davanti ai
suoi compagni.
L’uomo biondo alzò lo sguardo verso la platea
ammutolita che lo fissava, sorridendo in risposta.
- Forza, entri uno degli ultimi due. –
Dovettero passare un paio di minuti, prima che uno degli ultimi due
marinai rimasti si facesse abbastanza forza per entrare nella mensa.
Era un elfo dal corpo ben proporzionato, i lineamenti sottili del viso
erano incorniciati dai capelli castani, che in parte coprivano le
orecchie appuntite.
Le sue iridi, vagamente, rilucevano di un riflesso violaceo,
probabilmente dovuto alla presenza di un umano o un mezzelfo nella sua
discendenza.
L’elfo sorrise incerto, porgendo la mano tesa
all’ispettore che aveva di fronte.
- Scusi se l’ho fatta attendere. Jiray Kavvan, piacere.
– la sua voce tremava lievemente.
L’uomo biondo lo squadro per qualche secondo, sistemandosi la
ciocca scura nella sua chioma riccia, senza mai smettere di sorridere.
Questo puzza di magia in
maniera terrificante.
Sa di possedere un
potere innato e lo utilizza fin troppo spesso.
Proverò a
farvi capire cosa le mie narici sentono.
La magia consuma mana
per funzionare, so di non dirvi nulla di nuovo, ma aspettate ancora un
attimo.
Fate finta che un mago
sia una pistola, l’incantesimo la pallottola e il mana la
polvere da sparo, bene, lanciato l’incantesimo, innato o
meno, il mana consumato rimane ad aleggiare intorno al corpo
dell’utilizzatore.
E ha un odore orribile.
Dopo un po’,
ovviamente, scema, però un minimo si riuscirà
sempre ad avvertire.
Il tipo di prima, quello
con l’ustione, è possibile che abbia usato il suo
potere mentre dormiva, o una volta per caso, ma non lo può
usare troppo di frequente e, sicuramente, non lo ha utilizzato da
questa mattina, lo avrei avvertito più nitido, altrimenti.
Questo qui sembra essere
dipendente dal suo utilizzo, davvero.
L’ispettore strinse la mano dell’elfo.
- Come posso aiutarla? – continuò il marinaio,
ritirando il braccio.
Chi sei?
Puoi essere il mio uomo,
ma non voglio sbagliarmi.
- È stato a Gerala, ultimamente? –
- Le interessa davvero saperlo? –
Ancora
un’altra zaffata di mana utilizzato.
E, comunque, si, mi
interessa saperlo.
- Si, certo che mi interessa. Non glielo avrei chiesto, altrimenti.
–
L’elfo parve stupito della risposta, ma mantenne il suo
contegno.
- Si, sono stato a Gerala, la settimana scorsa. –
L’ispettore squadrò ancora meglio
l’individuo che gli stava davanti. I suoi occhi, intanto, si
strinsero, andando a somigliare a quelli di un rettile.
Non mi piace come
risponde.
Per niente.
È troppo
sicuro di potermi aggirare e non so come mai.
Lui non sa chi sono,
cosa so fare e cosa posso vedere.
Certo, su di lui il cosa
posso vedere vale poco, ha viaggiato troppo e ha incrociato troppi
destini perché adesso, nelle mie condizioni, io riesca a
leggere bene le sue mosse degli ultimi anni.
Che sia convinto di
potermi uccidere, se le cose si mettessero male per lui?
Ci provasse solo,
così mi toglierebbe ogni dubbio.
Bene.
Da qui comincia la mia
sfida.
Devo braccarlo, in modo
da vedere perché è così spavaldo.
- Cosa faceva a Gerala? –
- Niente di importante… non si preoccupi. –
Ancora
quell’odore di mana…
Non capisco cosa stia
cercando di fare.
Anche se…
Ho un dubbio e la
risposta potrebbe non piacermi.
- Vuoi cominciare a rispondere alle mie domande? Ricordati che sono qui
a nome del Giudice Maggiore e, anche se non rientra della mia missione
principale, posso comunque arrestarti e farti passare i prossimi
trent’anni in prigione. –
La fronte dell’elfo si imperlò di sudore, mentre
lui cominciava a perdere la sua compostezza e il suo autocontrollo.
- Preferirei davvero non dover rispondere a questa domanda. –
L’odore di
mana sta diventando insopportabile.
Sta provando a fare
qualcosa, ma, evidentemente non gli riesce…
…
Sono un cretino.
Mi meriterei
un’altra impalata per un errore così stupido.
Certo che non gli riesce.
Su di me non hanno
effetto incantesimi di modificazione sensoriale, ovvio, i miei sensi
vanno oltre quelli dei mortali.
Deve avere un potere che
influisce sulla mia percezione, o, almeno, tenta di farlo.
- Ascolta, - sussurrò sibilante l’ispettore,
sporgendosi verso l’elfo sudato – so cosa stai
facendo e ti consiglio di smettere di provarci. Non ha effetto su di
me. Se non vuoi uscire di qui come quello che ti ha preceduto, per
favore, rispondi bene alle mie domande. –
L’elfo sospirò, abbassando lo sguardo in segno di
resa.
- Va bene, spero di non aver incrinato il nostro rapporto… -
- Rispondimi, cosa ci facevi a Gerala? E, già che cominci a
parlare, perché ti sei imbarcato su questa nave? –
- Vede, ho degli affari a Gerala, diciamo che grazie alla
mia… capacità sono un ottimo intermediario per
spostare l’ago della bilancia. Ero nella metropoli sugli
alberi per chiudere un grosso affare riguardo un gruppo di Demo, certo,
il mio mandante non sarebbe molto felice di sapere che io sto parlando
dei suoi affari a uno sconosciuto. Mi sono imbarcato semplicemente
perché il mio prossimo cliente è del Continente e
perché dovrei pagare un biglietto, se il capitano si
è rivelato così entusiasta di pagarmi per farmi
fare il tragitto? –
- Mostrami le tue mani. – disse imperioso l’uomo
biondo.
Nulla, nemmeno una
macchiolina di sangue.
- Facciamo un patto. Io ho un potere, tu hai un potere. Facciamo uno
scambio, tu mi spieghi cosa cercavi di farmi e io ti mostro quel
è il mio potere. – L’ispettore sorrise,
allargando il taglio che era diventata la sua bocca fin quasi in
maniera eccessiva.
Per la seconda volta, l’elfo sospirò, per poi
tornare ad alzare lo sguardo verso il suo interlocutore.
- Io posso… rendere più amichevoli le persone.
Posso spingere gli altri a volermi rendere felice. Semplice, no?
–
Un potere di charme,
praticamente.
Ecco il
perché della sua sicurezza.
Questo non lo elimina
dalla mia lista di sospettati, però.
Il tempismo con cui era
a Gerala e a Derout è coincidente ai draghicidi.
Lo devo tenere
d’occhio.
Ora, però, ho
un problema più grosso. Devo pagare il prezzo della mi
curiosità.
Andiamoci piano.
- Bene, ora ti mostrerò di quale potere sono in possesso io.
–
Il volto dell’ispettore mutò, divenendo
più fine, minuto, carino, gli occhi si scurirono, passando
dal verde primaverile al marrone, i capelli sul suo capo si
allungarono, tingendosi di rosso.
L’elfo, ora, si trovava di fronte a un uomo sul cui collo era
stata come attaccata a forza la testa di una giovane fanciulla dalle
orecchie a punta.
- Puoi andare. – disse ancora la fanciulla, prima di
scomparire per far tornare le fattezze dell’uomo tatuato.
L’ultimo ad entrare nella sala fu il marinaio più
corpulento. Si muoveva pesante sotto il peso della pancia da
alcolizzato che doveva trasportare.
Il colorito della sua pelle, giallognolo, risaltava alla luce delle
poche lampade accese, le cui lame rossastre gettavano ombre scure tra
le pieghe di grasso che erano nate sotto il mento e sulle braccia
dell’uomo.
Per questo non ho
nemmeno bisogno di provare a leggere la Trama.
Ubriacone in cerca di
soldi facili, senza famiglia né di un lavoro stabile.
La puzza di alcol e
sudore che emana è forse persino peggiore di quella di mana
che mi ha assillato fino a un attimo fa.
…
Come immaginavo.
Originario di Derout,
cresciuto e vissuto tra le taverne e le birrerie.
Nelle sue condizioni non
potrebbe nemmeno sperare di uccidere un bambino, figurarsi un drago.
Non mi interessa.
- Puoi uscire. Non mi servi più. –
l’ispettore accentuò il suo comando con un gesto
rapido della mano.
Il marinaio, che ancora non aveva raggiunto la meta che si era
prefissato, si voltò brontolando, per tornare nella stanza
precedente.
C’è
ancora una cosa che devo controllare.
Ho dato uno sguardo ai
passeggeri, prima di atterrare, e nessuno di loro è stato a
Gerala nell’ultimo mese.
Esistono però
i clandestini.
Devo scendere
sottocoperta per stanare qualche topo.
L’ispettore si fece largo tra i pali che supportavano il
ponte principale, le reti e i cannoni incatenati alle pareti, avanzando
con cautela mentre i suoi occhi spaziavano tutto intorno.
La pioggia aveva diminuito la sua intensità e, con il suo
permesso, il capitano aveva potuto far servire il pranzo.
L’uomo biondo si mosse ancora verso la scaletta che lo
avrebbe portato al livello inferiore.
Non riesco a vedere
nessun destino qui presente.
Se solo Michael non
fosse stato così a lungo impiegato su questa nave avrei
potuto cercare di capire se la sua vita sia finita qui o
meno…
Ma è passato
per questi locali troppe volte, è come cercare di trovare il
punto in cui è stata staccata la matita dal foglio nello
scarabocchio di un bambino.
Devo scendere ancora, ma
non credo troverò qualcosa.
I passi dell’uomo fecero scricchiolare la scaletta.
Nella stiva tutto taceva e nulla sembrava intenzionato a muoversi.
L’ispettore strizzò gli occhi, guardandosi
attorno, mentre il suo naso annusava l’aria come quello di un
segugio.
Qui
c’è odore di sangue.
Potrei aver trovato la
mia scena del delitto.
L’uomo biondo fece ancora qualche passò avanti,
per poi bloccarsi di colpo.
Automaticamente i suoi avambracci si strinsero sul ventre, mentre lui
cadeva in ginocchio agonizzante.
Sulle assi del pavimento, di pari passo con l’aumentare dei
sussulti di quel corpo, si allargava una pozza di un viscoso liquido
nero.
Di nuovo…
No, questa volta
è diversa dalla crisi al tempio. È peggiore.
C’è
qualcosa che non va nella mia ferita.
Non stavo
così male…
L’ispettore provò ad alzarsi sulle gambe mal
salde, ma non riuscì a fare più di tre passi
verso la scaletta, prima di ricadere a terra violentemente.
Non stavo
così male da quando gli Araldi non provarono ad uccidermi
sull’Isola dei Draghi.
Che la maledizione che
mi ha lanciato Follia abbia cominciato solo ora ad avere effetto?
Devo tornare a fargli
visita con…
L’uomo si trascinò disperatamente verso la
scaletta, issandosi poco a poco verso il livello superiore, scivolando
di scalino in scalino e lasciandosi alle spalle una scia scura e opaca.
Devo tornare a fargli
visita con un grosso martello.
Sempre se
riuscirò a uscire di qui sulle mie gambe, o
zampe… o qualunque cosa abbia in quel momento.
Angolo dell'autore:
Vi devo chiedere scusa, forse, per questo capitolo interminabile. Avrei
dovuto mozzarlo, ma non sapevo nè come, nè dove.
Non voglio trattenervi oltre, adesso.
Innanzi tutto ho dei ringraziamenti particolari con cui iniziare oggi,
diretti a quei meravigliosi folli che leggono i nuovi capitoli appena
li pubblico, praticamente. Mi complimento con voi per avere ancora la
forza e la lucidità mentale per leggere il nuovo proseguo
della storia nell'arco di tempo che separa la mezzanotte dalle sette di
mattina. Chapeu, davvero.
Ovviamente grazie alle meravigliose OldKey, la ragazza imperfetta e
whitesky per le loro recensioni e la compagnia che mi tengono in questo
viaggio.
E, infine, grazie a tutti quei lettori che non rientrano nelle
sopracitate liste, per il semplice motivo di esistere.
Vi saluto.
Alla prossima.
Vago |
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Capitolo 15 *** Capitolo 7: La fine di un viaggio ***
Noir si cinse le gambe rannicchiate con le braccia, cercando di
scaldarsi.
Fuori, all’esterno, sentiva il nuovo temporale che era nato
abbattersi con forza sulla nave che lo stava ospitando.
Dei passi rapidi giunsero sul ponte a lui immediatamente superiore.
Si fermarono.
Forse il trentenne udì una voce, ma il vento che fuori
ululava non gli permise di riconoscere quel suono fino in fondo.
La barca strattonò violentemente, segno che le vele non
erano state ancora completamente ammainate.
Ancora passi, questa volta erano di più, si stavano
allontanando, fino a sparire al suo udito.
Per diverse ore l’unico suono percettibile fu
l’ululare del vento contro le pareti esterne della stiva,
inframezzato dallo sciabordare delle onde.
La pioggia diveniva più e meno intensa ciclicamente, come se
stesse eseguendo una danza che ne definiva la violenza.
L’aria si fece sempre più umida, generando un
brivido che percorse tutta la schiena di Noir. I capelli neri gli si
incollarono alla fronte, madidi, e, in tutta risposta, il suo viso
scomparve tra le ginocchia che stavano strette al suo petto, nel
tentativo di non sprecare nemmeno il calore che il fiato gli portava
via.
Lentamente, la tempesta parve affievolirsi, riducendosi a un lento e
costante battito di gocce sulle assi che proteggevano il carico
dell’Ala di Albatros.
Il trentenne si cercò di sistemare meglio nel piccolo spazio
che si era ricavato dietro la muraglia di sacchi e casse, continuando a
tenere le orecchie all’erta nel caso qualcuno fosse di nuovo
sceso.
Dei passi decisi, misurati, cominciarono a far vibrare le assi sopra la
testa di Noir, spostandosi verso il centro del ponte superiore e, da
lì, lentamente, verso la scaletta che avrebbe permesso al
loro proprietario di scendere ancor più in basso nel ventre
della nave.
Il trentenne dai capelli neri si cercò di fare piccolo,
scivolando ben sotto alla protezione delle merci che gli stavano
davanti.
I passi, dopo un tempo infinitamente lungo, si lasciarono alle spalle
l’ultimo scalino, toccando il pavimento di
quell’ultimo ponte, per poi fermarsi.
Una vibrazione dovuta all’impatto di una suola rigida sul
legno, poi un’altra, un’altra e un’altra
ancora.
Ci fu un secondo di silenzio di troppo a precedere il suono del quinto
passo, che non arrivò.
Al suo posto ci fu un tonfo, accompagnato da un verso di dolore.
Gli scricchiolii che seguirono quel momento potevano essere dovuti al
nuovo arrivato che si rialzava, se era caduto, oppure al suo
appoggiarsi contro una parete.
Noir, in quel momento, decise che era meglio non indagare su cosa fosse
successo.
Di nuovo la stiva silenziosa fu percorsa da vibrazioni dovute ai passi,
questa volta direzionati nuovamente verso la scaletta che li avrebbe
condotti via di lì.
Un altro tonfo, questa volta più forte fece vibrare tutto il
pavimento violentemente, facendo scivolare un poco più verso
il basso i sacchi di farina che erano stati ammucchiati là
dove ora si trovava la sorgente di quel rumore.
Lo struscio dei tessuti contro il legno si fece sentire,
lento, continuo, a volte coperto dal mugugno dell’uomo che si
stava trascinando via.
Passò mezz’ora, prima che Noir si osasse alzare
dal suo nascondiglio.
Non c’era più traccia dell’essere che
aveva prodotto quei suoni, al suo posto, invece campeggiava una pozza
di liquido scuro, sbavato come da un grosso pennello verso la scaletta,
sui gradini e, appena visibile, sul ponte mediano.
Il sangue del trentenne cominciò a fremere, scaldarsi,
spingere contro le pareti delle vene e delle arterie, costringendo quel
cuore ad aumentare il ritmo dei suoi battiti.
Noir cominciò a sentire le tempie pulsare, mentre la sua
vista si fece offuscata.
Non gli era mai capitata una cosa del genere, non si era mai sentito
così, non sapeva cosa gli stava succedendo.
Sapeva solamente che doveva andare verso quella possa di sangue. Voleva
andare verso quel sangue.
Riluttante, il piede destro si fece avanti, trascinandosi sul pavimento.
Il sinistro lo seguì, più veloce.
I passi si fecero via via più decisi, crescendo inversamente
alla lucidità che il trentenne poteva vantare.
Noir si ritrovò con le punte delle scarpe a pochi millimetri
dalla pozza di liquido.
Il petto pareva volergli esplodere, sentiva ogni millimetro della sua
pelle in tensione, pronto a strapparsi sotto la pressione che si stava
generando tra i muscoli.
La camicia che copriva il petto dell’uomo parve esplodere,
strappandosi là dove un’enorme dito nero proruppe
per andare a piantarsi all’interno della pozza, che
cominciò a ribollire, diventando sempre più
liquida e meno viscosa.
L’artiglio si ritrasse dalla pozza solo dopo diversi secondi,
permettendo alle gocce di liquido scuro di cadere sul suolo.
Il trentenne riprese lentamente coscienza di sé, guardando
sconvolto la creatura nera che gli era nata dallo sterno.
Con un colpo di frusta secco l’artiglio si ritirò,
tornando a celarsi nel corpo dell’uomo dalla camicia
strappata.
Noir si chinò sulla pozza, immergendoci due dita
all’interno, nel tentativo di capire cosa avesse scatenato in
lui quella reazione.
Non era sangue, era un liquido nero, leggero.
Poteva essere una trappola per portarlo a scoprirsi?
A quel pensiero fece un balzo indietro, puntando il suo sguardo verso
la scaletta, aspettandosi di trovare l’intera ciurma della
nave pronta ad attaccarlo.
Non c’era nessuno.
Il trentenne tornò rapidamente al suo nascondiglio, sperando
unicamente che nessuno volesse scendere nella stiva.
Sapeva che la durata del viaggio verso il continente poteva variare tra
il giorno e mezzo e la settimana, dipendentemente dalla
velocità massima con cui la nave poteva viaggiare e dalle
condizioni che questa incontrava sul suo percorso.
L’Ala di Albatros sembrava un buon veliero, ma le
due tempeste in cui si era imbattuta le aveva fatto perdere sicuramente
molto tempo.
Non aveva idea di quanto tempo ci sarebbe ancora voluto per raggiungere
il porto di Largan, ma doveva essere pronto a sgusciare fuori dalla
nave prima che i marinai cominciassero a scaricarla delle merci che
trasportava.
Si sentirono ancora dei passi sul ponte mediano, ma nessuno di essi si
avvicinò mai alla via che li avrebbe condotti alla stiva.
Il cielo, fuori, si era fatto scuro e la poca luce rossastra che
riusciva a filtrare nel ventre della nave era sufficiente appena per
abbozzare i contorni di ciò che vi era custodito
all’interno.
La temperatura scese velocemente, facendo accapponare la pelle
dell’uomo nascosto.
Una campana suonò più volte, fragorosa, spandendo
la sua voce in tutta la nave.
Terra.
Dovevano essere arrivati.
Noir si alzò incerto sulle gambe intorpidite, spostandosi
verso la scaletta facendo ben attenzione ad evitare di mettere il piede
nella pozza di liquido scuro.
L’ultimo marinaio che aveva camminato sul ponte mediano se ne
doveva essere andato una ventina di minuti prima, o almeno questo era
quello che le orecchie del trentenne avevano percepito.
Salì rapidamente gli scalini scricchiolanti, per poi
sgusciare dietro uno dei pali che supportava il ponte principale.
Lì attese, nascondendosi nelle ombre, cercando di capire se
fosse davvero solo in quell’ambiente.
Tutto continuò ad essere immobile e silenzioso.
Superò il cannone che gli ostacolava la via verso la parete,
andando poi a scostare l’asse che copriva il buco destinato
alla bocca dell’arma che lì era stata assicurata.
In direzione della prua della nave si potevano riconoscere decine di
luci rossastre, luci di civiltà.
Non ci sarebbe voluto più di un quarto d’ora per
raggiungere terra, stimò Noir, se avessero continuato a
viaggiare a quella velocità.
La campana, intanto, tornò a farsi sentire con una decina di
rintocchi.
Il porto era sempre più vicino, solo una ventina di metri
separavano la nave dai lumi che si stavano avvicinando.
I marinai, sul ponte superiore, cominciarono a muoversi rapidi,
predisponendo tutto per lo sbarco.
Noir guardò verso il basso, oltre l’apertura che
gli stava davanti.
L’acqua sembrava una distesa di nera ossidiana, su cui la
luna si rifletteva quasi perfettamente.
Una volta che l’ancora fosse stata calata e le cime legate al
molo, per lui sarebbe stato molto più complicato scendere
senza farsi notare.
Controllò che lo zaino in cui aveva riposto le poche cose
che possedeva fosse ben saldo sulle sue spalle e contro la sua schiena.
Avrebbe dovuto anticiparli.
Portò le gambe oltre la cornice dell’apertura, con
solo la forza delle sue braccia che gli evitavano la caduta.
Guardò un’ultima volta il molo, sempre
più vicino, poi lasciò la presa, lasciandosi
cadere verso la superficie nera del mare.
Cerchi concentrici si generarono nel punto dove era caduto, ma il suo
corpo parve non aver intenzione di risalire in quel punto.
Bucò, invece, la superficie d’acqua diversi metri
più avanti, muovendo affannosamente braccia e gambe in
direzione della terra ferma.
Si issò su un pontile isolato, a cui erano state ormeggiate
solo piccole barche, inadatte sia a lunghi viaggi che alla pesca.
Non sembrava che nessuno fosse lì nei dintorni.
Noir fece alcuni passi sul pontile, aspettando che il grosso
dell’acqua che gli inzuppava i vestiti si riversasse sulle
assi di legno che stava calpestando.
Non poteva permettersi di perdere tempo in quella città,
sarebbe stato molto più al sicuro cercando di ricostruirsi
una vita in un piccolo villaggio, magari uno di quelli abitato da
boscaioli e allevatori di cinghiali che erano sorti
all’interno della foresta che infestava la porzione orientale
del Continente.
Il trentenne guardò il cielo.
La luce di quella luna calante bastava appena per illuminare
contorni dei ponteggi e delle prime, piccole case costruite a ridosso
del mare.
Per quanto la sua maledizione lo potesse proteggere, sarebbe stato
estremamente stupido da parte sua avventurarsi su strade che non
conosceva con l’oscurità.
I suoi piedi si mossero quasi da soli, puntando verso ovest, verso
l’entroterra.
Quantomeno, voleva essere pronto a partire il mattino seguente,
sfruttando la notte per attraversare indisturbato la città.
Imboccò quindi la via che gli si presentò
davanti, fiancheggiata e stretta tra le case in rossi mattoni che la
delimitavano.
Angolo dell'Autore:
Ciao a tutti e grazie, a voi che siete giunti fin qui.
Ovviamente un grazie "più grazie" a Oldkey, la ragazza
imperfetta e whitesky, per le loro fantastiche recensioni.
...
Attenzione:
AVVISO ALLA FINE, se volete saltare la parte discorsiva, l'AVVISO
è nel paragrafo successivo a quello che segue.
Gli angoli dell'autore, ultimamente, sono diventati un po' come quel
lungo tavolo in cui si può parlare del più e del
meno con i commensali, e non mi dispiace sia così. Per lo
meno in questa serie, che è la mia principale, almeno per il
momento.
Il loro formato è estremamente discorsivo, dovuto al fatto
che li scrivo nel momento stesso in cui pubblico il capitolo, avendo
alle spalle solo un'idea generale dei temi di cui vorrei parlarvi.
Questo angolo, inizialmente, doveva essere riservato al condividere con
voi alcune chicche sul Viandante che ho riscoperto quando ho riaperto
vecchi file e appunti cartacei, roba che è ferma a prendere
polvere da anni.
Arrivato a questo punto, però, mi sono reso conto che non
è la cosa principale che avrei voluto comunicarvi, oggi.
Mi spiace, le cose imbarazzanti sulla nascita e sull'adolescenza del
buon Commedia (con tanto di piccola informazione sull'altra musa)
vengono rimandate, per far posto a un argomento un po' più
serio.
L'avviso sopra citato.
Ho ricominciato questa settimana le lezioni universitarie, che mi
stanno portando via decisamente molto più tempo di quello
preventivato.
Per ora riesco ancora a scrivere, revisionare velocemente e pubblicare
i capitoli con cadenza settimanale (capitoli in quanto conto quello al
venerdì di questa storia e quello al sabato della
fan-fiction in cui mi sono cimentato). Detto questo, è
possibile che, per impegni di vario genere, non riuscirò ad
essere sempre impeccabile. Potreste trovare, quindi, da ora in poi, un
grosso avviso prima dell'Angolo dell'Autore in cui vi dirò
che la settimana dopo non riuscirò a pubblicare.
So che è una cosa da poco, ma ci tengo a fare un lavoro
pulito e avvisarvi in tempo delle mie possibilità.
Detto questo, alla prossima!
Vago |
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Capitolo 16 *** Capitolo 7.5: Vicino ***
L’ispettore biondo riaprì gli occhi di scatto,
improvvisamente, facendo sobbalzare l’uomo dalla pelle
abbronzata che gli stava accanto.
Acqua.
Acqua che mi cola lungo
la fronte verso le orecchie.
Sono sdraiato.
Non sento lo scrosciare
delle onde. Non mi hanno buttato in mare.
Ottimo, una rottura di
meno.
Devo capire cosa mi sta
succedendo. Devo farlo il prima possibile.
Ma, per ora: dove sono?
Assi sul tetto e ai miei
fianchi.
Da quanto ho visto
l’ultima volta che ci ho dovuto fare tappa, Largan
è stata costruita prevalentemente in mattoni.
Devo essere ancora sulla
nave.
Quanto tempo
sarà passato?
Dannazione! Non posso
essermi riuscito a far scappare di nuovo l’assassino!
C’è
qualcuno accanto a me.
Chi?
Dannazione. Non ero
ridotto così male da quando Follia mi ha ferito.
L’uomo dal volto tatuato si mise seduto lentamente.
La camicia chiara che portava addosso era macchiata
all’altezza del ventre da un liquido scuro.
Si passò la mano tra i ricci chiari, guardandosi intorno con
insolita chiarezza mentale, per un uomo nella sua condizione.
- Ispettore Vander! – bofonchiò il vecchio
timoniere della nave, prendendo il ferito per le spalle e tentando
inutilmente di farlo tornare sdraiato – Non dovrebbe muoversi
con una ferita come quella! Non dovrebbe nemmeno essere cosciente!
–
Il capo dell’ispettore si piegò verso il basso,
mentre le sue mani prive di calli alzavano il tessuto sporco per
scoprire la ferita.
Un taglio largo ricoperto da una crosta nera come la pece si
faceva strada nel ventre dell’uomo, perfettamente allineato
con quello gemello che nasceva all’altezza dei reni.
Poteva andare peggio.
Non vorrei rischiare di
essere ottimista, non sarebbe da me, ma ho l’impressione che
sia riuscito a far saldare un pezzo di pelle in più del
solito.
No, non credo che sia
possibile.
Sono anni che cerco di
farla guarire, ma quello schifo che mi ha messo dentro Follia non
è mai uscito da lì.
In ogni caso, non ho
tempo da perdere.
Appena sarò
lontano da questa nave vedrò di far rigenerare le bende per
nascondere la ferita e una nuova camicia. Non posso permettermi di
andare in giro con la mia linfa sugli abiti.
- Non ti preoccupare. Non è nulla. –
l’uomo biondo fece scendere i piedi dal letto, sospirando
quando un nuovo schizzo di linfa impregnò i suoi abiti
– Piuttosto, dove siamo? Da quanto sono svenuto? –
Saraga guardò di sbieco il liquido lucente che colava lungo
la camicia chiara che gli stava davanti, ritardando di qualche secondo
la sua risposta.
- Siamo sbarcati a Largan un paio di ore fa. Ti abbiamo ritrovato
sottocoperta quando oramai le manovre di sbarco erano state completate.
–
- Qualcuno è sceso dalla nave? –
continuò l’ispettore, imperterrito.
- Sceso? Stai scherzando? Sono scappati tutti non appena le cime sono
state legate. –
- Chi è rimasto a bordo, allora? –
- Solo io ed il capitano. Uno dei nostri passeggeri tornerà
domattina con un paio di garzoni per portarsi via il carico. –
- Capisco. Ti chiedo solo un’ultima cosa, sai se uno
di… - le parole dell’ispettore vennero coperte dal
fragoroso suono di quelle che dovevano essere enormi campane della
città.
Saraga si alzò rapidamente dalla sua sedia, abbandonando la
conversazione senza troppe scuse per catapultarsi fuori dalla stanza,
in modo da vedere il motivo di quel trambusto.
L’uomo biondo si alzò a sua volta, lasciandosi
alle spalle una chiazza scura sul letto e uscendo dalla stanza con
passo deciso.
La notte era illuminata di rosso. Il colore dei mattoni risaltava
vivido, acceso dalla luce danzante del fuoco che stava divorando il
pontile a cui era attraccata l’Ala di Albatros.
- Per il buon nome di Acqua… - borbottò il
timoniere, correndo all’argano per ritirare a bordo la
pesante ancora che teneva ferma la nave – Gerard! Muoviti e
vieni a darmi una mano se vuoi avere ancora una nave! –
Urlò ancora in direzione della cabina del capitano, la cui
porta si stava aprendo fin troppo lentamente.
No! No! No! No!
L’ha fatto di
nuovo!
Dannazione!
Ma non può
essere andato lontano, questo fuoco è stato appena appiccato.
Perché
chiudersi in questa maniera la più vicina via di fuga per le
Terre?
Deve avere qualcosa in
mente e vuole evitare che arrivino dei rinforzi da oltremare.
Adesso o mai
più. Devo riuscire a fermarlo.
L’ispettore accelerò il suo passo,
arrivando a correre in direzione del parapetto della nave che
saltò agilmente, gettandosi tra le fiamme che si stavano
alzando sempre più, ignorando l’umidità
di quella notte.
- Che le è preso? Morirà! –
urlò ancora il vecchio timoniere verso l’uomo
biondo che sembrava aver deciso di morire.
Le ultime cime della nave caddero in acqua, permettendo alla risacca
notturna del mare di trascinare l’enorme mostro di legno e
cordame verso il largo.
L’uomo dai ricci biondi atterrò agile sulle assi
in fiamme, proseguendo la sua corsa verso l’interno della
città senza preoccuparsi delle lingue di fuoco che cercavano
di accarezzarlo.
Dal suo corpo si levava un fitto vapore grigio, simile a quello di un
ramo non ancora secco posto sul fuoco.
Sto sprecando moltissima
materia per tenermi al sicuro dalle fiamme.
Ma avrò modo
dopo di preoccuparmene.
Devo trovarlo.
Come?
Il corpo, prima di tutto.
Deve esserci il cadavere
di un drago dove si è innescato l’incendio.
Da
quest’altezza, però, non riuscirò mai a
vederlo.
La camicia macchiata e i pantaloni dell’ispettore si
scurirono, divenendo un tutt’uno con il carpo, che si
rimpicciolì, modificando le sue proporzioni.
Con un battito d’ali e un ultimo sbuffo di vapore per
allontanare le fiamme, un uccello dal piumaggio color pece si
levò in volo al di sopra delle fiamme, percorrendo
rapidamente tutta la lunghezza del pontile per cercare il punto in cui
quell’incendio era nato.
Forza! So che
c’è un drago morto da qualche parte.
Nessun innesco normale
sarebbe riuscito a far nascere una cosa del genere con
l’umidità di questo posto.
Forza!
Dove sei? Dove sei?
Eccoti, maledetto.
Il corvo si abbassò di quota quel tanto che bastava per
permettere ai suoi occhi di riconoscere la postura in cui il corpo
riverso tra le fiamme era rimasto.
La testa puntava verso il mare, i piedi verso la città. Le
sue mani carbonizzate erano per lo più nascoste dal suo
ventre, schiacciato contro le assi su cui aveva camminato fino a poco
prima.
Doveva essere diretto
verso la nave, quando lo ha attaccato.
Come faceva a sapere che
era un drago? Lo conosceva?
Era già stato
qui?
In ogni caso, vista la
postura è probabile che lo abbia trafitto dal petto,
lasciandolo cadere in avanti.
È entrato
nella città. Quale strada può aver utilizzato?
La più grande
e affollata, conoscendolo.
Devo muovermi.
Il corvo accelerò la sua andatura, sorvolando la via
centrale che dal porto conduceva in direzione della piazza principale
della città.
Gruppi di uomini dalla periferia cominciavano a mobilitarsi per la
strada, dirigendosi verso il fuoco come falene attratte dalla luce per
cercare di spegnerlo.
Più avanti sul suo percorso, seduti a un tavolo
all’esterno di una birreria, tre dei marinai che avevano
lavorato sull’Ala di Albatros ridevano già
ubriachi, ignorando totalmente le campane che suonavano e le urla della
gente.
La piazza principale si aprì, infine.
Il corvo si abbassò su uno degli ultimi tetti che la
precedevano, scomparendo in un turbinio di piume per lasciare il passo
all’uomo biondo, vestito ora con il suo completo
perfettamente pulito.
Gli occhi dell’ispettore scrutarono la piazza buia, troppo
grande per essere illuminata completamente dalle poche lanterne che
erano state lasciate accese per quella notte.
Poche persone si muovevano all’interno di quello spazio vuoto.
Per lo più civili che, svegliati dal suono delle campane,
erano scesi per vedere perché queste suonassero.
Sul lato sinistro della piazza due degli uomini che aveva interrogato a
bordo si stavano dirigendo verso l’insegna di una locanda.
L’uomo dai ricci biondi storse il naso, percependo il puzzo
di mana utilizzato che uno dei due si lasciava alle spalle.
Un’ombra si mosse sul lato opposto. Curva, veloce, attaccata
al muro delle case e ben attenta a non lasciarsi illuminare dalla luce
delle lampade.
Non riesco a vedere il
fato di quella persona.
Forse mi sono sbagliato.
Forse il Buco della
Trama che ha sterminato gli abitanti di quel tempio è anche
il mio assassino.
Poco male.
Ucciderò due pericoli con un solo colpo.
L’ispettore fece un passo avanti, superando il cornicione e
lasciandosi cadere verso la strada sottostante. Nella sua mano,
intanto, comparve la lunga lama di un coltello.
Non appena le sue suole toccarono terra, l’uomo si mise
all’inseguimento dell’ombra. I suoi occhi erano
puntati su di lei, sicuri di non poterla perdere di vista.
Non sono mai stato bravo
a produrre armi.
Non è mai
stato il mio campo, in fondo.
Tendenzialmente le lame
che creo tendono ad essere poco resistenti durante i combattimenti, per
questo preferisco usare delle armi forgiate dai mortali per combattere,
se proprio non posso evitare lo scontro.
Per questa volta mi
farò andare bene questa, comunque.
Per quanto possa essere
bravo, io lo sono certamente di più.
La distanza tra le due figure si fece sempre più esigua e
non ci volle molto tempo prima che l’ombra si rendesse conto
che l’uomo biondo la stava puntando.
Entrambi aumentarono il loro passo. Il primo cercando di sfuggire
all’inseguitore svoltando ogni volta che le vie laterali
glielo permettevano, il secondo stando ben attento a non perderlo mai
di vista.
La distanza tra i due diminuì ancora.
L’ispettore incespicò un secondo, venendo colto da
una fitta al petto, ma riprese subito l’inseguimento,
stringendosi il ventre dolente con la mano sinistra.
L’ombra svoltò per l’ennesima volta a
destra, trovandosi davanti a un vicolo cieco. Si voltò
ansimante, pronto all’apparizione imminente del suo
inseguitore, che non mancò di presentarsi.
L’uomo dai ricci biondi svoltò l’angolo.
La sua schiena era curva in avanti, la mano all’altezza dello
stomaco era pregna di un liquido scuro che continuava a cadere sotto
forma di gocce verso il terreno. Il viso solcato da un tatuaggio
romboidale era segnato, ma gli occhi brillavano di esultanza.
L’ispettore fece qualche passo avanti, trascinando i piedi e
tossendo più volte. Alle sue spalle la scia di sangue si
faceva sempre più spessa.
L’ombra, un uomo dai vestiti troppo grandi, venne
attraversato da un fremito, ma restò al suo posto.
Ti ho preso, maledetto
Buco.
Ora facciamola finita.
La lama stretta nella mano destra dell’uomo dagli abiti
eleganti si fece avanti, puntandosi contro il petto della sua preda.
- Non so come riesci a farmi questo, ma questa notte smetterai di fare
qualsiasi cosa. Non potevi sfuggirmi per sempre. –
- Davvero, non so di cosa tu stia parlando. Ti prego, se ci tieni alla
tua vita ti conviene andartene di qui. – provò a
dire timidamente l’ombra alzando le braccia di fronte a
sé.
L’ispettore avanzò ancora.
I suoi muscoli si irrigidirono all’unisono, la
quantità di sangue che fuoriusciva dalla ferita si fece
ancora più importante, ma l’uomo rimase ben saldo
sulle sue gambe, deciso a non lasciarsi sfuggire
quell’opportunità.
L’ombra si voltò un attimo verso il muro, puntando
il suo sguardo verso l’alto.
Non può
scappare.
È fisicamente
impossibile.
La notte venne riempita da un’intensa luce azzurra, accecante.
Gli occhi da felino dell’ispettore vennero presi alla
sprovvista da quell’improvviso cambio di illuminazione,
mandando scariche di dolore alla mente del loro padrone.
Cosa è
successo?
Perché
c’è odore di mana, adesso?
È questo il
suo potere?
Perché non mi
ha attaccato, in questi attimi di mia debolezza?
Non sento dolore, non
avverto ferite.
Le pupille si strinsero oltre la loro naturale estensione, tornando ad
ingrandirsi non appena il bagliore si fu dissolto.
Dell’uomo a cui aveva dato la caccia non era rimasto nulla.
Dannazione!
Gli ero arrivato
così vicino!
Il coltello scomparve dalla mano dell’uomo biondo che,
stizzito, si voltò verso est, verso il mare.
Da quella via in cui era finito non si riusciva a scorgere il bagliore
rossastro degli ultimi fuochi.
L’ispettore scomparve, tornando in forma di corvo per poi
alzarsi in volo. Sotto di lui, però nulla più si
muoveva tra le vie tornate buie e silenziose. |
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Capitolo 17 *** Capitolo 8: Un aiuto insperato ***
Un leggero rosseggiare si levò alle spalle di Noir per
illuminare la notte.
Il trentenne rallentò leggermente il suo passo per
verificare quale fosse la fonte di quella luce. I suoi occhi,
però, non riuscirono a superare i massicci muri in mattoni
che limitavano la strada che stava percorrendo.
Il rossore arrivava dal molo.
Era possibile che uno dei lampioni che stavano accendendo avesse
improvvisamente emesso una vampata.
La luce aumentò sempre più di
intensità, ma Noir non rimase a guardarla.
Doveva portarsi alla porta nord della città.
Sapeva che gli abitanti dell’Oasi si erano trasferiti al di
sotto del Gorgo del Leviatano, quando lasciarono la sicurezza del lago
sul lato orientale delle Terre.
Lo avessero riconosciuto anche nei paesi del Continente, poteva, come
ultima spiaggia, cercare riparo nella Nuova Oasi, se solo fosse
riuscito a raggiungerla, sotto i flutti di quell’imponente
mulinello.
Il suo passo accelerò quando, dalle case, i primi gruppi di
uomini cominciarono a riversarsi nella strada, attratti dal rossore
come falene.
Non voleva rimanere in mezzo alla calca.
Rimase attaccato ai muri delle abitazioni che costeggiavano il lato
destro della via, tenendo la testa ben incassata tra le spalle e lo
sguardo basso, evitando con gran cura tutti i coni di luce che i
lampioni proiettavano.
Delle risate sguaiate risuonarono sul lato opposto della strada,
provenienti da un tavolino posto appena fuori la porta di un locale
ancora aperto a cui erano sedute tre imponenti figure.
Noir riconobbe il profilo di una di queste, o almeno così
gli parve. Era quasi certo che uno di loro fosse nel gruppo di marinai
che aveva visto a Derout la notte in cui era salito sulla nave.
Proseguì per il suo percorso, fermandosi solamente quando,
di fronte a lui, si aprì una larga piazza nella quale
piccoli e sparuti gruppi di persone ancora si muovevano nonostante
l’ora tarda.
Lì sarebbe stato esposto a chiunque.
Non poteva e non doveva farsi riconoscere.
Chinò la schiena, premendosi contro le mura che gli stavano
a fianco e allungando il passo per lasciarsi alle spalle quel posto il
prima possibile.
Le lampade appese alle pareti intonacate proiettavano i loro coni di
luce verso il centro deserto della piazza, permettendogli di passare
nelle zone d’ombra senza mai venire illuminato.
Proseguì veloce, senza curarsi delle persone che gli stavano
intorno, delle finestre buie e di quelle illuminate delle locande.
Un movimento veloce alle sue spalle lo fece sussultare.
Un uomo lo stava puntando, camminando rapidamente nella sua direzione.
Noir a sua volta accelerò, cercando di seminarlo, ma
sembrava non riuscire a prendere terreno sul suo inseguitore.
Raggiunse la continuazione della via principale che conduceva verso
nord, imboccandola.
Alle sue spalle, ancora, l’uomo che lo inseguiva non si era
arreso, anzi, continuava a far ridurre la distanza tra di loro senza
nemmeno dover correre.
Noir sentì il sangue dentro le sue vene ribollire
incontrollato, eccitato da qualcosa, come poche ore prima nella stiva
della nave.
Il trentenne accelerò ancora, cercando di attirare troppo
l’attenzione dei pochi passanti su di sé mentre il
suo sguardo cercava disperatamente una via di fuga.
Una nuova scarica di energia gli percorse il corpo.
Noir sentì chiaramente i capillari all’interno dei
suoi occhi scoppiare, facendo rovesciare il loro scuro contenuto
all’interno della bianca sclera.
In un disperato tentativo di fuggire il trentenne svoltò in
un vicolo a destra, rinunciando, almeno momentaneamente, alla sua meta.
Si insinuò poi in un viuzza sulla sinistra, appena questa
gli si presentò davanti.
Proseguì quasi correndo tra quelle strette e sporche pareti,
avvertendo dietro di sé i passi del suo inseguitore.
Svoltò a destra, dietro una cassa abbandonata a
sé stessa su cui un gatto randagio miagolava agli uomini che
avevano invaso il suo territorio, per poi svoltare nuovamente a destra.
Un muro gli comparve davanti, per occludergli la via.
Noir si voltò, disperato, cercando un’altra via
per fuggire.
In quel momento, dall’imbocco di quel vicolo cieco comparve
nell’oscurità la sagoma di un uomo curvo, ansante.
Una mano era premuta sul suo ventre, mentre l’altra, libera
da vincoli, pendeva lungo il suo fianco, impugnando qualcosa.
La figura si avvicinò ulteriormente, trascinando i piedi
sulla melma che ricopriva il suolo. I capelli ricci gli ricadevano
sulla fronte, così chiari da sembrar risplendere alla luce
della luna.
Noir avvertì un’altra scarica attraversagli gli
arti. Ogni fibra del suo corpo sembrava attratta da
quell’uomo che gli stava davanti, dal sangue che sentiva che
stava perdendo dal ventre.
Si trattenne, tremante. Non poteva avvicinarsi al suo inseguitore.
L’uomo dai capelli chiari sorrise pericoloso, come una serpe,
portandosi di un faticoso passo più vicino alla sua preda.
Il suo braccio destro si alzò in direzione del petto di
Noir, puntando verso di questo la lama che teneva stretta in mano.
- Non so come riesci a farmi questo, ma questa notte smetterai di fare
qualsiasi cosa. Non potevi sfuggirmi per sempre. – disse
minaccioso l’inseguitore dagli abiti eleganti, ansimando.
Noir provò un brivido di terrore. Sentiva che
quell’essere non era umano, il suo sangue era tanto attratto
da lui quanto spaventato. Poteva essere lui l’essere che la
sua maledizione poteva non essere in grado di uccidere.
- Davvero, non so di cosa tu stia parlando. –
tentò di dire il trentenne alzando le mani davanti a
sé - Ti prego, se ci tieni alla tua vita ti conviene
andartene di qui. –
La sua voce non riusciva ad essere minacciosa. Gli tremava e,
nonostante tentasse con tutte le sue forze di calmarsi, il suo cuore
sembrava non essere intenzionato a diminuire il numero di battiti.
L’uomo si fece ancora avanti, per poi fermarsi di scatto per
piegarsi in avanti in un gesto di dolore.
- Ehi, tu. – Una voce leggera provenne da sopra il muro che
impediva a Noir di scappare.
L’inseguitore si rimise in piedi. A giudicare dal suo sguardo
non doveva aver sentito la voce.
Il trentenne si voltò per un secondo, cercando la fonte di
quelle parole.
Il viso innaturalmente bianco di un uomo si intravedeva appena da sopra
il termine di quel vicolo.
- Sei quello che stanno cercando nelle Terre? –
Noir annuì d’impulso, incurante delle conseguenze
di quell’affermazione.
- Chiudi gli occhi, ti aiuto io a scappare. –
Il trentenne fece appena in tempo ad ubbidire a quel comando che, dalla
posizione dell’uomo che gli aveva parlato venne sprigionata
una luce accecante, che illuminò il vicolo e il cielo
soprastante con l’intensità di decine di soli.
- Vieni! –
Noir vide davanti a sé una mano protendersi verso di lui
come un’ancora di salvezza.
La prese saldamente, issandosi sui tetti che circondavano quel vicolo
che sarebbe potuta essere la sua tomba.
- Non rimarrà accecato ancora per molto. Seguimi! –
La figura scura si calò dal lato opposto del muro,
scivolando all’interno di un ingresso dalla porta aperta.
Il trentenne lo seguì, entrando anch’egli nel
piccolo locale dal soffitto invaso da decine di ragnatele.
La figura portò un dito all’altezza del taglio che
doveva essere la sua bocca, rimanendo immobile per diverso tempo in
quella posizione.
Noir non osò parlare, fissava il volto del suo salvatore, o,
meglio, la maschera che copriva il suo volto.
Gli occhi erano due strette V rovesciate, dietro le quali non si
riuscivano neppure ad intravedere le iridi del suo possessore. La
bocca, a sua volta, era un taglio sorridente, stretto, ma non per
questo la voce che giungeva da dietro di essa sembrava venire ovattata.
Lentamente, l’uomo mascherato abbassò
l’indice dal suo volto, assumendo una posizione
più rilassata.
- Ti devo ringraziare… senza il tuo intervento non so cosa
sarebbe potuto succedere poco fa. –
- L’ho fatto per sdebitarmi con te… per
l’aiuto che mi hai offerto. –
- Aiuto? – Noir aggrottò la fronte, cercando di
capire a cosa si riferisse la maschera che aveva davanti.
- Sull’Ala di Albatros. Stavo dando la caccia a
quell’uomo da diverso tempo, tu l’hai ucciso per
me. –
La maschera alzò la mano sinistra all’altezza del
petto. La sua pelle cominciò a emanare una flebile luce
azzurra, appena sufficiente per illuminare l’ambiente intorno
ai due.
- Come fai a sapere chi sono? – chiese seccamente Noir dopo
un attimo di pausa, alzando il capo – Se un cacciatore di
taglie? –
- No. Non utilizzo le mie capacità per un compito
così basso. –
- Come fai a sapere allora chi sono? –
- Ti conosco per fama. Comunque, Noir, non ti ho salvato per farmi due
chiacchiere con te. –
- Cosa vuoi davvero? –
- Ho bisogno del tuo potere per un lavoro. –
- No. No, mi dispiace ma non ho intenzione di farmi coinvolgere in
nulla. Sono venuto qui per scomparire ed è quello che
cercherò di fare. –
Noir tornò a dirigersi vero l’esterno,
soffermandosi sull’uscio per controllare che il suo
inseguitore non fosse nei dintorni per tornare a braccarlo.
- Vuoi davvero uscire là fuori con quell’uomo
pronto a darti la caccia? Hai visto di cosa è capace, no?
–
Il trentenne si voltò di scatto verso la maschera.
- Cosa sai di lui? Chi è? –
- Non so molto a riguardo. Ma quel tatuaggio che porta sul viso
continua a ripresentarsi in giro per le Terre e, evidentemente, anche
qui. Ho viaggiato molto, ho parlato con molte persone e, sempre, in
tutti i paesi ci sono vecchi che affermano di aver visto giovani umani
o elfi con quel tatuaggio. –
- Fa parte di un’organizzazione? –
- Forse, non lo so con precisione. La mia unica certezza è
che quel tatuaggio non porta mai buone notizie. –
Il salvatore si portò una mano all’altezza della
maschera, sfiorandola.
- Chi sei? Tu mi conosci, ma io non so nulla di te. Se vuoi davvero il
mio aiuto, voglio almeno conoscere il tuo nome. –
L’uomo mascherato sospirò, scuotendo le spalle.
Strinse la superficie grigia dell’oggetto che gli copriva il
volto e se lo sfilò dal capo.
Sotto la maschera comparvero due occhi neri come frammenti
d’ossidiana, incastonati su un viso arrossato dal sole.
- Tu… tu eri su quella nave. Ti ho visto mentre ti
imbarcavi. Sei quello con l’ustione sulla gamba. –
disse Noir, puntando il proprio indice contro il suo interlocutore.
- Il mio nome è Razer Donier. –
- Cosa vuoi da me, Razer? Cosa vuoi davvero dalla mia maledizione?
–
- Hai mai ucciso, Noir? Oltre alla scorsa notte, intendo. Su di te
aleggiano molte storie, ma dubito che gli uffici del Giudice Maggiore
possano essere una fonte attendibile. Forse sono ancor meno attendibili
dei pochi girovaghi che osano parlare della traccia che ti porti dietro
e della taglia che pende attorno al tuo collo. –
- Ho ucciso per necessità. Non l’ho mai fatto per
piacere. –
- Noir. – riprese ancora l’uomo dagli occhi duri
che gli stava di fronte – Sono anni che viaggio
perché ho un compito. Guardati attorno, cosa vedi? Umani,
elfi, gente che vive la propria vita. Ma non tutti loro sono
ciò che sembrano. Tra di loro ci sono dei mostri, mostri che
non si pongono problemi nello strapparti via ciò che hai di
più caro o marchiarti a vita con il fuoco. Ho passato buona
parte della mia vita viaggiando per imparare a riconoscerli, mi sono
allenato in ogni singola arte che potesse tornarmi utile contro di loro
ed ora, Noir, dopo tanti tentativi ho capito che ho bisogno di te per
ripulire il mondo velocemente da quei mostri. Ti prego, quindi, di
seguirmi, almeno qui sul Continente. Se mi aiuterai a purificare una
città caduta in mano a quelle creature, ti prometto che ti
porterò in un luogo in cui potrai vivere senza temere che
qualcuno ti scacci. –
- Perché dovresti volere qualcosa da me? La mia maledizione
potrebbe ucciderti in ogni momento e, ti assicuro, la cosa non mi
toccherebbe. –
- Sei un ricercato, ogni persona con cui parli, per te, è un
potenziale nemico. Io ti chiedo di collaborare per un paio di giorni
soltanto. Un paio di giorni, in cambio del resto della tua vita.
–
- Cosa mi assicura che non mi venderai al governo? O a
quell’uomo che mi stava inseguendo? –
- Ti assicuro che dopo quello che faremo non avrò intenzione
di avvicinarmi a Gerala. –
Noir sospirò, arretrando in direzione del centro della
stanza illuminata dalla luce azzurra dell’uomo che lo aveva
salvato.
Avrebbe preferito non farsi coinvolgere in questioni che non lo
riguardassero.
Voleva soltanto scomparire dalla faccia del mondo.
Non sapeva nemmeno se poteva davvero fidarsi di quell’uomo
che gli stava davanti, soprattutto perché sembrava
conoscerlo.
Lo aveva salvato, certo. Ma poteva essere complice dell’uomo
da cui era sfuggito.
Cosa sarebbe successo se avesse rifiutato quell’offerta?
Quell’invasato poteva rivelarsi pericoloso?
Quel lavoro che gli stava proponendo, sarebbe stato davvero
così tanto orribile. Quelle creature di cui aveva parlato,
chi erano? E cosa intendeva con purificare una città caduta
in mano loro?
Probabilmente si sarebbe pentito della decisione che stava per
prendere, ma la possibilità di avere un luogo sicuro dove
vivere era troppo allettante.
Se le cose si fossero messe male, poi, la sua maledizione lo avrebbe
sicuramente protetto. Dopotutto quello che gli stava davanti era solo
un uomo.
- Va bene, per il momento. Ma voglio saperne di più, su
tutto quanto. –
Razer sorrise soddisfatto, tornando a nascondere il proprio viso sotto
la maschera grigia.
- Ogni cosa a suo tempo. Quell’uomo non lascerà
velocemente la presa, dobbiamo prima di tutto lasciare questa
città, ma non questa notte. -
Angolo dell'Autore:
Ho molte cose da dirvi, già dalla settimana scorsa, in
realtà. Mi sono trattenuto fino ad adesso solamente
perchè non mi piace mettere il naso in un capitolo dove
è il Viandante a tenere le redini della storia.
Ma prima le cose importanti: I miei più sinceri
ringraziamenti a OldKey, la ragazza imperfetta e whitesky, che mi
accompagnano da tempo immemore, mi vien da dire, in questo lungo
viaggio. Grazie, poi, a voi tutti per seguirmi.
Cosa posso dirvi, oggi? Ho troppe cose da raccontare, ma ci
sarà tempo per far tutto, in futuro.
Per ora, mi limiterò a qualche appunto sul capitolo e un
paio di informazioni sul come mai i prossimi capitoli potrebbero
arrivare con un po' di ritardo.
Innanzi tutto, che ne dite del nome che ho scelto per il nostro
assassino? Per la maschera demoniaca che ha messo a ferro e fuoco le
principali città delle Terre?
Scoprirete ancora parecchie cose su di lui, o magari le ricorderete.
Tra l'altro, la convivenza forzata tra Noir e l'assassino
svelerà alcuni dettagli sulle loro identità che,
altrimenti, non avreste mai scoperto.
Riguardo al mio... lavoro, chimiamolo così. In queste
settimane mi trovo a dover produrre quattro "capitoli" quasi in
contemporanea.
Quattro?
Si, avete capito bene.
Quello per questa storia, quello per Corsa contro la fine e quali altri?
Riprenderò a breve la campagna di D&D che ho
masterato fino alla primavera appena passata e, quantomeno per i primi
tempi, dovrò dedicare un po' delle mie attenzioni alle
ambientazioni e ai personaggi con cui i miei giocatori dovranno avere a
che fare.
Il quarto "capitolo" a cui sto lavorando è qualcosa di
più serio. Qualcuno di voi saprà che sto
studiando ingegneria, vi dico ora per la prima volta che il mio corso
è "Cinema e Mezzi di Comunicazione", ebbene, assieme a un
piccolo gruppo dovrò girare un cortometraggio del quale sto
contribuendo a scrivere la sceneggiatura. Nulla di impegnativo sul
lungo tempo, ma in queste settimane dovrò dare un po' di
attenzioni anche a lui.
Ebbene, grazie a tutti, ancora.
Ci vediamo la settimana prossima!
Vago |
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Capitolo 18 *** Capitolo 8.5: Un passo indietro ***
Un corvo planò lentamente sui coppi di uno degli ultimi
tetti che precedevano il mare.
Pochi, rapidi battiti d’ali gli permisero di rallentare a
sufficienza perché i suoi artigli potessero arpionare il
rivestimento del tetto prescelto.
Le ultime fiamme si stavano lentamente estinguendo, circondate da una
massa di corpi frementi.
Più volte il suo scuro becco colpì il coppo che
gli stava davanti, facendolo risuonare ritmicamente.
Non posso nemmeno darti
la colpa di tutto questo, Fato maledetto.
Quel tipo che stavo
inseguendo non è nemmeno una delle tue creazioni.
Devo calmarmi. Non posso
permettere alla frustrazione di offuscarmi la mente.
Ragiona.
Cosa è
successo in quel vicolo?
Aveva le spalle al muro.
Poi ha fatto qualcosa e io ho avuto un’altra ricaduta.
Com’è
possibile? Quel Buco della Trama che poteri ha su di me?
Poi quella stramaledetta
luce.
Come ha fatto a
produrla? Non mi sembra avesse qualcosa con sé e un bagliore
di quell’intensità avrebbe bisogno di una fonte
bella grossa.
Che abbia un potere
anche lui?
Mentre mi parlava
sembrava abbastanza sicuro di potermi uccidere…
Il corvo zampettò avanti, raggiungendo la grondaia che
delimitava la superficie di quel tetto.
Il suo becco si aprì verso il cielo, lasciando il suo rauco
gracchiare spandersi verso le stelle di quella notte.
Non ha senso.
Ponendo come punto uno
che lui era convinto di potermi uccidere da disarmato e, come punto
due, che il suo potere comprenda quella luce, non riesco a far
coesistere queste due cose.
Lui era sicuro di quel
che faceva.
Sapeva che non lo avrei
potuto colpire, almeno, questa era l’impressione che dava.
Deve avere
qualcos’altro nascosto.
E lui non può
essere l’assassino.
Troppo impulsivo, non
conosceva la città per nulla e, fosse stato il mio uomo,
avrebbe avuto con sé almeno un coltello, quello che ha
ucciso il drago al molo.
Mi manca un tassello.
No, non un tassello, una
linea di collegamento. Una orribile linea di collegamento dal colore
insopportabile che mi sta tra le gambe con il solo intento di farmi
inciampare.
Detesto le linee di
collegamento di questo tipo.
Qual è la
miglior mossa che posso fare, ora?
È buio, non
credo si muoverà fino all’alba. Con la notte
potrei vedere troppo facilmente riconoscere la luce che produce.
Il corvo si levò in volo, superando il molo con pochi
battiti d’ali.
La luna, arrivata al culmine del suo arco, faceva risplendere le piume
nere dell’uccello di screziature violacee.
Quanto tempo ho ancora,
prima dell’alba?
…
Cinque ore, circa.
So che lui, o loro,
visti gli ultimi eventi, sono come topi in trappola dentro la
città e lo saranno per le prossime cinque ore.
Devo sfruttare questo
tempo nel modo giusto.
Devo calmarmi e trovare
un buon posto per riflettere.
Il corvo si fermò a mezzaria, immobile, planando rigidamente
verso la superficie del mare.
Le sue ossa si fecero, morbide, malleabili, per poi fondersi con le sue
carni e il suo sangue.
Quel corpo divenne quasi liquido, appallottolandosi su sé
stesso in una sfera che cominciò a precipitare verso la
superficie scura dell’acqua.
Una medusa allargò i propri tentacoli al di sotto della
propria testa
Meglio, molto meglio.
L’ultima volta
che ho assunto questa forma ero sulla costa dell’Isola dei
monaci… e ci sono rimasto per oltre due anni.
È sicuramente
una delle migliori per pensare senza doversi preoccupare di dover fare
cose inutili, come battere le ali, nuotare o respirare.
Dunque, dove ero rimasto?
Il sole sorse sulla linea dell’orizzonte, tingendo di rosso
le onde del mare.
Un gabbiano si levò in volo, schizzando tutto attorno
scintillanti gocce d’acqua. Il suo ventre scivolava a pochi
centimetri dalla cresta delle onde che si dirigevano verso la riva e i
suoi piccoli occhi neri fissavano le assi in parte carbonizzate che
componevano la banchina.
Tre uscite, ci sono
solamente tre uscite.
Nord, ovest e sud.
Dubito che voglia
tornare nelle Terre dopo aver ucciso appena un singolo drago.
Devo salire
più in alto.
Le piume del gabbiano si scurirono tutte, meno quella centrale della
coda, che rimase candida. Il suo corpo si ridusse di dimensioni, mentre
le ali continuavano a battere per fargli compiere stretti cerchi verso
l’alto.
Bene, da qui riesco a
vedere tutta la città. Una buona visione
d’insieme, non mi interessa vedere i singoli, ora come ora.
Sto facendo un passo
indietro, rispetto a prima, ma potrebbe essere il modo per uscire dal
vicolo cieco in cui sono caduto.
Questa città
si è sviluppata poco, nonostante sia uno dei pochi moli
sicuri del Continente. Non può essere un bersaglio
allettante.
Dimenticati del tipo che
ti è scappato.
Dimenticati anche della
luce.
Ora non sono importanti,
sono inutili tasselli da mettere alla fine al loro posto.
Spero.
L’assassino,
cosa sai di lui con certezza? Devi eliminare ogni cosa che non
è sicura.
Ha ucciso a Gerala, due
volte. Cosa differenziava i due tentativi?
Il primo drago, quel
burocrate, non è stato carbonizzato in un rogo. Era ai piedi
della città e il draghicida ha lasciato cadere il suo corpo
sul terreno, dopo averlo pugnalato. Non ha dato origine a un incendio,
quella volta.
Poi si è
evoluto, nel ristorante. Ha studiato con attenzione il luogo, ha
strangolato i camerieri e i cuochi senza destare sospetti e, nel
contempo, ha somministrato una droga ai commensali, per poi ucciderli
tutti grazie all’incendio generato dalla sua unica vittima,
quella sposa.
Stava ancora
sperimentando.
Come ha fatto a
scappare, una volta appiccato il fuoco? Gli interni erano di legno e
tessuto, utilizzando la tovaglia come miccia, il fuoco non ha impiegato
più di due minuti a crescere.
Due minuti…
Inoltre sapeva dove
prendere il montacarichi alla base di Gerala nonostante fosse notte.
C’era
già stato, per forza.
Forse addirittura
più di una volta.
Poi è stato
il turno di Derout.
Di nuovo,
un’unica vittima per ucciderne molte, o almeno
così sperava.
Un intero quartiere di
draghi…
Ma qualcosa è
andato storto. Le case intonacate e l’aria marina umida hanno
fermato l’incendio a una singola abitazione, limitando le
vittime.
Di nuovo è
poi riuscito a scappare senza attirare su di sé attenzioni,
che conoscesse anche quella città?
In quel caso,
però, ha commesso un errore, non conosce così
bene le fiamme come immaginavo, non è stato in grado di
valutare di quanta esca avesse bisogno il fuoco per poi estendersi per
tutto il quartiere.
La scomparsa di quel
Michael sulla nave non posso considerarla. Non ho trovato il corpo, non
ci sono state fiamme, non ho nulla che lo ricolleghi o lo possa porre
su quella barca.
Fino a quando non siamo
arrivati qui.
Non ci fosse stato
l’incendio sulla banchina avrei anche potuto credere di
averlo perso.
Quel drago,
però, è stato ucciso con il suo stile.
Le domande qui sono due.
Come faceva a sapere che
era un drago? Lo conosceva o ha trovato una maniera per riconoscerli?
E, in secondo luogo,
è già stato qui?
Probabilmente, visto
come si è comportato prima, le risposte sono, in ordine
inverso, “si” e “la prima”.
Ha sempre attaccato
posti che conosceva e in cui sapeva muoversi. Quindi, supponendo che
sia già stato qui, prima di cominciare a mietere vittime,
potrebbe aver conosciuto gli addetti al porto e, tra questi, quel drago
là.
Non è
inverosimile che fosse sulla banchina per andare a scaricare alcune
merci dall’Ala di Albatros, quando è morto.
Il quadro, fino ad ora,
è plausibile.
Passato e presente sono
verosimili, non mi resta che provare ad indovinare il futuro.
Devo alzarmi di
più.
Il corvo riprese a battere le ali con foga, alzandosi sempre di
più verso il cielo cristallino che si stava rischiarando.
Al molo, i pescatori le cui barche non erano state coinvolte nel rogo
stava levando gli ormeggi per iniziare la loro giornata, dalla parte
opposta delle case, i primi viaggiatori cominciavano a dirigersi verso
le tre porte di terra che collegavano la cittadina agli altri
insediamenti, che, come macchie scure, cercavano di risaltare sullo
sfondo rigoglioso.
Ha avuto un processo di
evoluzione, il mio assassino.
Ha sperimento cose
sempre più complesse, prima di arrivare qui.
Qual è il suo
obiettivo?
L’isola dei
draghi mi sembra troppo al di là delle sue
possibilità.
Mi serve qualcosa come
un villaggio con una buona percentuale di draghi, oppure un loro
quartiere rinomato.
Pensa, Viandante. Cosa
può essere una preda allettante?
Case, villaggi,
quartieri, draghi potenti, draghi con nomi importati, casate,
cittadine, città…
Città!
Sono un idiota, dovevo
pensarci immediatamente.
C’è
Aravan a nord. La città dei draghi.
Letteralmente.
Una città
fondata, costruita ed abitata unicamente dai draghi.
Tra l’altro
è una delle mete turistiche più gettonate,
ultimamente, da parte di tutte le razze.
Si sente davvero
così pronto per una cosa del genere?
È una
città, maledizione, come pensa di poterla mettere a ferro e
fuoco?
Spero non abbia un altro
asso nella manica.
In ogni caso, ora so
dove devo andare, e non avrà modo di sfuggirmi.
Il corvo aprì il becco per lasciarne uscire un gracchio di
gioia, le sue ali, quindi, si irrigidirono, in modo da farlo planare
verso nord.
L’aria gelida d’alta quota gli avvolgeva le piume
scure, scaldandosi a mano a mano che scendeva verso il livello del mare.
I primi carri pieni di merci cominciavano a mostrarsi tra le vie sotto
il suo ventre fasciato. |
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Capitolo 19 *** Capitolo 9: Maschera da assassino ***
Noir si guardò intorno, agitato.
Il sole stava per sorgere e il suo salvatore lo stava conducendo a viso
scoperto per le vie centrali della città.
Si erano lasciati alle spalle la periferia della città in
cui avevano passato la notte ancor prima che i pescatori uscissero
dalle loro case, riprendendo la via verso nord che li avrebbe condotti
alla porta settentrionale.
Il sole era poi sorto sul profilo del mare, accompagnato dal verso dei
gabbiani e dal cigolare lento dei cardini delle porte delle case.
Razer sembrava conoscere il luogo, muovendosi tra le vie principali e
laterali con una disinvoltura quasi paragonabile a quella di un suo
abitante.
Noir lo seguiva con il viso basso e il collo incassato tra le spalle.
In quel momento avrebbe voluto avere ancora i capelli lunghi, in modo
da poter coprire almeno la parte superiore del suo volto.
- Come pensi di andartene? Con me, intendo. Le porte non sono
controllate? –
Razer si fermò di colpo, voltandosi per poter
guardare con occhi divertiti l’uomo sporco che lo stava
seguendo. Gli sorrise poi, invitandolo con un ampio gesto a coprire la
piccola distanza che li separava per potergli stare accanto.
- Ho lavorato per un po’ qui sul Continente e un
po’ di persone mi devono qualche favore. Non ti scoccia dover
essere un mercante di vasellame, per le prossime ore, vero? –
- Ma… io, il mio volto è… -
- Non ti preoccupare di quello ora. E poi, le città da
questa parte del mare non sono così fedeli al governo di
Gerala, al Tribunale o anche a quel porco del re dei draghi. Ora
però muoviamoci, non voglio che quel cane del governo possa
ritrovarci per caso. –
Razer tornò a camminare come se nulla fosse, con il suo
zaino pulito stretto sulle spalle.
Noir sospirò, tornando a guardare il terreno su cui i suoi
piedi continuavano a posarsi.
Forse avrebbe fatto meglio a rifiutare quell’offerta e
continuare per la sua strada cercando un posto tra i boschi di quella
terra.
I raggi mattutini avevano appena cominciato a tingere di rosso la parte
superiore dei muri intonacati, quando Razer decise di fermarsi davanti
a un portone a due battenti.
Un carretto trainato da un cavallo robusto passò alle sue
spalle, riempiendo l’aria dello scalpiccio dei suoi zoccoli
sulla pavimentazione della strada.
Dei pescatori che fino a poco prima avevano riempito quelle vie
già non c’era nemmeno più
l’ombra, le loro barche, probabilmente, avevano lascato la
banchina da diversi minuti, consce che non vi avrebbero più
attraccato fino a pomeriggio inoltrato.
Razer tornò a sorridere in direzione del suo compagno di
viaggio.
- Per favore, bussa tu. –
- Perché dovrei? È tuo il contatto. –
- Voglio vedere se ti riconosce, avendoti davanti. Non ti preoccupare,
anche pensasse di denunciarti non farà un passo fuori da
quel portone. –
Leggero, in sottofondo, si sentì il fruscio prodotto da una
lama d’acciaio che scivola contro il proprio fodero.
Noir sospirò, rassegnandosi a quel compito che gli era stato
dato.
Avvertì un odore selvatico forte provenire da dietro quei
battenti, ma cercò di non farci caso mentre sollevava la
mano per afferrare il battacchio lucido del portone.
Lo batté tre volte con forza, quasi sperando che nessuno
andasse ad aprirgli.
I battenti in legno si mossero verso l’interno, per poi
bloccarsi.
Un Demo dai denti snudati fece la sua comparsa ringhiando e
avventandosi sugli estranei che attendevano poco oltre la soglia.
Ebbe appena il tempo di fare un paio di falcate, prima di arrestarsi di
colpo.
I suoi ringhi divennero mugolii alla vista dell’uomo dai
capelli neri che gli stava davanti e le orecchie appuntite che gli
ornavano il muso schiacciato si appiattirono sul suo capo.
La creatura dal corto pellame si ritirò dietro una colonna,
tremante, con le mani dalle lunga dita artigliate che gli coprivano le
tempie.
- Speravo mi mostrassi il potere omicida che ti viene attribuito, ma mi
farò bastare questo. – disse Razer facendo qualche
passo avanti, per poi spostare la sua attenzione verso il cortile
interno che si nascondeva oltre quell’ingresso –
Rakre! Rakre! Dove ti sei cacciato? –
Si avvertirono dei borbottii dall’interno
dell’abitazione principale, poi una bestemmia rivolta al
Fato, infine la porta laterale si aprì, permettendo di
uscire dalla casa a un basso umano tarchiato, dai capelli rossastri e
le guance perfettamente rasate.
In mano stringeva un frustino, che calò quattro volte sulle
spalle del Demo rintanato, accompagnando ogni frustrata con
un’imprecazione.
- Rakre! Da quanto tempo che non ci vediamo! –
L’uomo tarchiato si voltò verso il portone, per
mettere a fuoco il viso dell’uomo che gli stava rivolgendo la
parola.
- Farget? Che ci fai qui? Te l’avevo detto l’ultima
volta di passare dalla porta sul retro per evitare questo stupido
animale. –
Razer rivolse un ultimo sorriso al suo compagno di viaggio, per poi
avvicinarsi al mercante dai capelli rossi.
- Scusa, me ne sono dimenticato. –
- Non so cosa gli sia preso, avrebbe dovuto lasciarvi moribondi.
–
- Credo sia colpa del mio compagno di viaggio. I Demo hanno paura di
lui, credo che sia per il suo odore, sai… -
- Farget, ma ti ascolti quando parli? Un Demo addestrato che ha paura
dell’odore di un uomo? –
- Eppure… - gli rispose Razer con uno scintillio negli
occhi. – Comunque, non sono qui per parlare con te dei tuoi
cuccioli. Ho bisogno di un favore. –
Il volto di Rakre si fece serio, con un’ultima frustata
ordinò al Demo di rintanarsi nella piccola cuccia che gli
era stata adibita, poi si voltò verso l’uomo dagli
occhi scuri che gli stava parlando.
- Cosa vuoi? –
- Due cose, ma solo una è il favore. Ho bisogno di lasciare
questa città in fretta e raggiungere Aravan ancora
più in fretta. Senza attirare troppo l’attenzione,
ovviamente. –
- L’altra cosa, invece? – lo sguardo del mercante
si fece truce, mentre le sue mani torturavano il frustino piegandolo
fin quasi a spezzarlo.
- Affari. Quanta polvere esplosiva hai pronta? –
- Polvere esplosiva? Sai che per produrre quella roba ci vogliono
più liberatorie da parte del Tribunale di Gerala che anni di
vita. Non ne ho niente. –
- Rakre. – Razer pose la sua mano sinistra sulla spalla del
mercante, stringendo la sua presa sul tessuto pregiato che gli
componeva la camicia – Sappiamo tutti e due che nessuno si
è mai potuto permettere un Demo da guardia con gli introiti
prodotti da del vasellame scadente. Te la pagherò come se
non ci conoscessimo e… sai, ho un’ottima memoria,
mi ricordo perfettamente dove abbiamo nascosto quell’agente
del Tribunale che ti aveva scoperto. Non vorrei mai che qualcuno
cominciasse a fare domande su di te. –
- Dai, Farget, siamo amici, no? Abbiamo lavorato così bene
assieme… -
- Quindi, Rakre? –
Il mercante abbassò lo sguardo, con le spalle che gli
tremavano. – Va bene. Ne ho diciassette di orci pieni, quanti
te ne servono? –
- Li prendo tutti. – fu la risposta secca di Razer, mentre
lasciava la sua presa.
- Ma sei impazzito? Come pensi di portare fuori dalla città
tutta quella roba, soprattutto ora che c’è almeno
un Demo di guardia? Quelli ci scopriranno subito. –
- Non credo. Avevo progettato un’altra cosa, ma la
capacità del mio socio di spaventare i Demo con la sua sola
presenza ci renderà molto più facile il nostro
lavoro. –
- Quando vorresti partire, quindi? –
- Il prima possibile, mio caro Rakre. Ho degli affari a Aravan che mi
aspettano. –
- Con tutta quella polvere esplosiva? Ce n’è
abbastanza per far sparare almeno cinquanta colpi a una
città intera. Stai progettando qualcosa di grosso?
–
- Non ti preoccupare, non ho in mente di dare inizio a una guerra, se
è questo che ti preoccupa. Ora, se andassi a preparare il
carro, te ne sarei incredibilmente grato. –
Il portone si richiuse alle spalle del carro, trainato da un paio di
cavalli muscolosi. Tre uomini erano seduti sulla panca in testa,
davanti a decine di orci riposti gli uni di fianco agli altri e coperti
da un telo bianco fissato a dei montanti di ferro.
Con uno schiocco di redini, le ruote presero a muoversi lungo la
strada, lentamente, portando il carro ad incolonnarsi dietro ad una
decina di suoi simili, tutti in attesa di ricevere il benestare delle
guardie cittadine per lasciare la città.
Il sole aveva fatto in tempo di arrivare ad illuminare il manto
stradale quando il carico di Rakre raggiunse la guardia e il Demo
incatenato che presiedevano quella porta nelle mura.
Razer fece un cenno all’uomo magro al suo fianco, facendo a
cambio di posto sulla panca con lui poco prima che la guardia gli si
avvicinasse con passo pesante e occhi spenti, già stanco di
quell’incombenza che lo teneva occupato da ore.
- Alt, fermi. – disse la guardia con voce meccanica
– Cosa state trasportando? –
Razer gli sorrise in risposta. – Vasellame, signore.
–
- Dove li state portando? –
- Heraga, a nord, signore. Deve controllare il carico? –
La guardia diede un’occhiata rapida al telone teso, sotto il
quale riposavano gli orci. – Passate lentamente di fianco a
quel Demo. –
Noir prese fiato per un attimo, per poi alzare il suo sguardo sulla
povera creatura dal corto pelo scuro incatenata al muro di cinta,
cercando di riportare alla mente come aveva fatto per spaventare quelli
all’ingresso di Derout.
Le orecchie del Demo si drizzarono per un momento, mentre il naso
schiacciato fiutava l’aria. Poi si bloccò di
colpo, appiattendosi contro la parete, tremante.
Il carro gli passò accanto, ma la creatura non
accennò a voler abbandonare quella posizione in cui si era
rannicchiato.
La guardia la guardò di storto, ma non fece parole e non
tentò di fermare il carro che aveva ormai passato la soglia.
Rakre cominciò a respirare affannosamente, tanto
più quanto si allontanavano dalla città.
- Ottimo lavoro, Noir. – Disse solamente Razer, senza
staccare gli occhi dal dorso dei due cavalli.
Il carro continuò a viaggiare per i due giorni successivi,
procedendo verso nord stoicamente.
Solamente nel tardo pomeriggio le costruzioni esterne di Aravan si
fecero strada nel paesaggio.
Il mare era lontano, a est, invisibile a occhio nudo. Dalla parte
opposta, la foresta reclamava il suo spazio, stagliandosi fin sui
pendii delle montagne lontane.
- Rakre, vai a farti un giro in città, per questa sera
potrai tornare a casa con il tuo carro e i tuoi soldi. –
- Ma Farget, non… -
- Rakre. – ripeté Razer con voce dura –
Ascoltami, vai a farti un giro. –
Il mercante tarchiato abbassò il capo, bofonchiando qualcosa
sommessamente, per poi scendere dal carro e incamminarsi verso la
città, facendosi lasciare indietro dalla propria merce.
- Cosa vuoi fare, ora? – chiese Noir scivolando verso il
posto vuoto che era stato lasciato sulla panca su cui erano seduti.
- Preparazione, questa notte purificheremo questa città.
– il sorriso di Razer non era divertito, aveva in
sé qualcosa di inquietante, così come la
scintilla che infiammava i suoi occhi scuri.
- Davvero dici che tutti gli abitanti sono… -
- Sono tutti mostri. Tutti gli abitanti. –
- Davvero, se ti aiuto in questo, mi darai un posto sicuro dove vivere?
–
- Te lo giuro sulla mia vita. –
Noir sospirò, nascondendo il proprio volto tra le mani.
– Cosa vuoi che io faccia? –
- Dobbiamo sistemare questi barili. –
Il sole calò presto dietro la cortina verde della foresta,
gettando una sottile coltre di oscurità tra le vie cittadine.
Razer stava in piedi accanto al carro, posto a fianco della via che da
oriente entrava nella città che, lentamente, stava svuotando
le strade dei propri abitanti, di ritorno dai campi.
Rakre comparve da una viuzza laterale, leggermente barcollante. Quando
fu sufficientemente vicino, Noir storse il naso per l’odore
di alcol che si alzava da lui.
- Sai Farget, - biascicò l’uomo avvicinandosi a
Noir senza staccare lo sguardo appannato da Razer – mentre
ero alla taverna mi sono chiesto perché mai uno come te
avesse bisogno di tutta quella polvere esplosiva in un posto del
genere. –
- Non ti interessa, te lo dico io. – fu la risposta
dell’uomo dagli occhi duri e penetranti, che non perse il suo
sorriso.
- Già. È la stessa risposta che mi sono dato. Non
mi interessa. Se però vuoi che tenga la bocca chiusa,
sarebbe il caso che mi paghi un po’ di più per il
disturbo. Si, sarebbe decisamente il caso che tu lo facessi. –
- Avanti, Rakre, sei ubriaco. Vai a casa e non fare qualcosa di cui
potresti pentirti. – continuò Razer, estraendo di
qualche centimetro il coltello che teneva al fianco dal suo fodero.
Con un movimento troppo sicuro per un uomo ubriaco, il mercante
tarchiato afferrò Noir per il collo, tirandolo a
sé e puntandogli la punta di una lama in ferro sotto il
mento.
- No, no, Farget. Mettilo via o il tuo amico farà la fine di
quel tipo del Tribunale. Ora parliamo di affari. –
Noir sentì il sangue ribollire nelle sue vene, premendo
contro le pareti, pronto a esplodere.
Il coltello dell’uomo dal polpaccio ustionato
tornò al suo posto, mentre le sue mani si alzavano verso il
cielo, aperte.
- Davvero, Rakre, non ti conviene continuare su questa strada. Dovresti
temere più quell’uomo che stai minacciando, che
me. –
- Non farmi ridere. Non è armato, l’ho controllato
la scorsa notte. Non può farmi nulla. –
Il coltello del mercante cominciò a premere verso
l’alto, cercando invano di avvicinarsi alla pelle protetta da
un sottile strato di dura melassa nera.
Il respiro di Noir si fece più corto, mentre i capillari nei
suoi occhi cominciavano a esplodere uno dopo l’altro,
incapaci di contenere la pressione che veniva esercitata al loro
interno dal suo sangue scuro.
- Ultima possibilità, Rakre. Non credo avrai ancora modo di
tornare indietro. –
- Balle! –
La punta del coltello premette con forza ancora maggiore per un paio di
secondi, per poi cadere pesantemente a terra, privata della presa che
la teneva sollevata.
Il corpo del mercante scivolò verso il suolo poco dopo, con
il cranio trapassato da un buco circolare.
Razer rimase un attimo immobile, come se stesse studiando la scena.
- Non mi aspettavo un potere del genere, da te. Ora, forza, nascondiamo
il cadavere, il nostro lavoro non è ancora finito.
–
Quando il cadavere del mercante fu ricoperto da uno strato di terra e
foglie sufficientemente alto, i due uomini tornarono a dirigersi verso
l’interno della città.
- Hai capito come devi colpirli? – chiese Razer frugando nel
suo zaino per tirarne fuori la maschera grigia che aveva indossato la
notte in cui Noir lo aveva conosciuto.
- Si, ma… non ho un’arma. –
- E quella roba che hai fatto prima? Non puoi rifarla? –
chiese indignato l’assassino, controllando
l’affilatura del proprio coltello.
- Non funziona a comando. Il mio potere mi protegge, non posso
controllarlo a piacere. –
Senza preavviso, Razer lanciò il coltello in direzione dello
sterno del compagno di viaggio, ma la lama di questo impattò
su una corazza nera che non si scalfì nemmeno
all’impatto.
- Funziona su tutto il corpo? – chiese ancora
l’uomo mascherato, raccogliendo la propria arma da terra.
- Si. –
- Mi basterà. Ricordati, un colpo al cuore, fai attenzione
alla fiammata di ritorno e impila i corpi a fianco dei barili. Ne
basteranno tre per far esplodere il primo orcio, gli altri lo
seguiranno. –
- Va bene… - fu la risposta insicura di Noir mentre seguiva
i passi dell’assassino che lo precedeva.
Avevano piazzato quattro orci in una via accanto all’uscita
di una birreria quasi al centro della città. Il locale era
gremito di gente e una calda luce rossastra usciva dai vetri sporchi
delle sue finestre.
- Non rischiamo. Il primo gruppo numeroso di quei mostri deve essere
nostro. – disse Razer con fermezza, sporgendosi appena oltre
il muro che lo nascondeva.
Era un uomo diverso da quello che aveva conosciuto nei giorni
precedenti, comprese Noir, osservando la figura scura che brandiva il
coltello che gli stava accanto.
Un vociare interruppe i pensieri dell’uomo dai vestiti troppo
larghi, riportandolo nel presente.
Due donne e un ragazzo che da poco doveva essere entrato nella maggiore
età si stavano avvicinando, parlando a voce alta tra di loro.
Razer si irrigidì appena, in attesa che gli arrivassero
più vicini.
- Sei sicuro che… - provò a dire sottovoce Noir,
ma venne interrotto da un gesto stizzito del suo compagno di viaggio.
Il gracchiare di un corvo si udì nella notte calante,
lontano.
Le donne si fecero ancor più vicine, seguite dal ragazzo,
intento a calciare una pietruzza sulla strada.
- Preparati. – disse unicamente l’assassino.
Il corpo dell’uomo mascherato scattò come una
molla, facendolo atterrare su una delle donne, gettandola a terra e
pugnalandola con un unico colpo.
Mentre le prime lingue di fuoco si alzavano da quel corpo, la lama del
coltello era già stata lanciata verso il suo compagno di
viaggio, che la prese con la mano protetta dalla melassa nera.
Noir ebbe un momento di ripensamento, alla vista del volto terrorizzato
della donna che aveva davanti a sé. Non appena,
però, questa fece per aprire a bocca per urlare,
l’istinto dell’uomo ebbe la meglio, facendogli
muovere la mano verso il punto che Razer gli aveva indicato.
Fiamme ardenti avvolsero il polso di Noir, ma non trovarono nulla da
bruciare, se non la solida melassa.
- Comincia a disporli. – disse l’assassino con la
voce modificata dalla maschera, rubando il coltello dalle mani del suo
complice, per poi scattare in direzione del ragazzo che era rimasto
attonito dalla scena.
Noir distolse lo sguardo, concentrandosi sul proprio compito per
spostare i corpi il più velocemente possibile verso quella
che sarebbe stata la loro posizione finale.
Un uomo comparve dal nulla a mezz’aria, atterrando in mezzo
alla strada.
Noir percepì il proprio sangue ribollire alla vista di quel
viso tatuato.
- Non vi lascerò scappare di nuovo. – disse
l’uomo dai ricci biondi a denti stretti, la sua mano,
intanto, stringeva saldamente un sottile stiletto.
Angolo dell'autore:
Incredibilmente, anche questa settimana sono riuscito a portarvi il
capitolo. Considerando che ho scritto un buon 60% solo di questa sera,
mi ritengo soddisfatto.
Innanzitutto, grazie a OldKey, la ragazza imperfetta e whitesky per...
tutto, più o meno. E, ovviamente, grazie a tutti voi che mi
seguite.
Oggi ho poco da dirvi, quindi, conoscendomi, verrà fuori un
poema in questo angolo.
Finalemente il Viandante si trova davanti a Razer e Noir, senza
nascondigli, senza modi per fuggire. Succederà qualcosa,
qualcosa di grosso. Al punto che, anche se scappassero, il nostro caro
ispettore Vander (per quanto abbia rinunciato a quelle vesti
burocratiche da un po' di capitoli) li potrebbe rintracciare con
facilità.
Piccolo spoiler. Nel prossimo capitolo il Viandante si darà
dell'idiota e, probabilmente, voi che mi seguite da tempo farete lo
stesso.
La prima delle due verità sta per venire a galla.
Alla prossima.
Vago |
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Capitolo 20 *** Capitolo 9.5: Maschera dal passato ***
Forse ho corso troppo,
ho impiegato meno di un’ora per una tratta che un uomo a
piedi percorrerebbe in quattro giorni…
Vabbè, tanto
sarebbe stato inutile pattugliare le strade.
Ora sono qui, in ogni
caso.
Aravan è
cresciuta dall’ultima volta che ci sono venuto.
Beh, è anche
vero che l’ultima volta che sono venuto l’ho
fondata, ha avuto un buon motivo per crescere in tutto questo tempo.
Da che parte arriveranno?
Sud, se fossero persone
normali.
Ma loro non lo sono.
Est o ovest sono al
secondo posto.
Per arrivare da nord
dovrebbero viaggiare sui sentieri dei cacciatori, non ci sono strade
che aggirano la città.
Un corvo chiuse un ampio cerchio sopra i tetti della città,
battendo le ali per portarsi più in alto.
Il minimo tempo
impiegabile è un giorno, raggiungibile se si galoppa su un
cavallo ben allenato.
Una normale carrozza o
un carro impiegherebbero almeno un giorno in più.
Andando a piedi ci si
impiega quattro giorni, se si è in buone condizioni fisiche.
Se sei me ci impieghi il
tempo che vuoi.
Sono sicuro che non
siano partiti a piedi.
Il mio draghicida
conosceva il marinaio che ha ammazzato sulla banchina, conosceva la
città e posso scommettere qualunque cosa sul fatto che
sapesse anche dove procurarsi un mezzo di trasporto.
Ponendo che non ho visto
cavalli allontanarsi da Largan al galoppo, sarebbero stati troppo
riconoscibili.
Che abbiano rubato un
carro o una carrozza?
Probabile, forse certo.
Ho un giorno di
vantaggio per studiare la città.
Io so che sono diretti
qui.
Lo so.
Devo solo convincermi di
aver letto bene le mosse dell’assassino.
Il sole sorse due volte da dietro il mare, illuminando fievolmente i
muri delle prime case della città.
I carri dei mercanti che avevano viaggiato durante la notte stavano
lentamente arrancando sulla strada, pronti ad attraversare la
città per spingersi verso le più grandi
città del nord per vendere i loro beni.
Poco più ad ovest di Aravan, qualcosa brillò nel
cielo come una gemma, talmente in alto da superare persino le fronde
della foresta che si allungavano verso le nubi chiare.
Ok.
Bene.
Adesso devi avere almeno
due paia di occhi…
Cioè, no. Un
paio bastano e avanzano.
L’ultima volta
che mi sono preso sul serio ho creato una rivolta popolare. Ancora mi
chiedo perché quel maledetto villaggio di pezzenti avesse
paura di una capra con quattro occhi.
Vabbè,
lasciamo nel medioevo ciò che è successo in
quegli anni.
Dovessero servirmi,
potrei provare a sfruttare anche quei due…
Giusto, voi non
l’avrete riconosciuto, probabilmente. Ma come darvi la colpa,
dopotutto la Trama fa quel che può nel descrivere
ciò che non fa parte dell’intreccio scritto dal
Fato.
Lo scintillio che
c’è stato, di là, è una
nostra conoscenza.
Vi do
un’aiutino. Divino, grosso, squamoso, alato, fatto di
cristallo o quel che è, legato a una tipa che lancia frecce
e uccide persone.
Avevo perso le loro
tracce, dopo la sconfitta di Follia…
Cioè, non
proprio tutte. Sapevo che Seila era ancora morta dove l’ho
lasciata e che Jasno non ha lasciato quella parte di continente.
Riguardo agli altri quattro, non mi sono impicciato molto.
Hile e Keria dovrebbero
essere in qualche villaggio bucolico in mezzo a questa foresta,
dopotutto dubito che qualcun altro possa permettersi un drago di
cristallo e non credo che siano andati a vivere in un posto rumoroso
come questa città.
Nirghe e Mea…
boh, credo siano ancora a Gerala o da quelle parti.
Quei quattro hanno perso
di interesse nel momento stesso in cui hanno finito la loro missione.
Comunque, per quanto mi
dia fastidio ripensare al passato, quell’assassino mi sta
ancor più sui nervi.
Due giorni. Non dovrebbe
mancare molto al loro arrivo.
Devo solo riuscire a
riconoscerli.
Questa notte ho fatto
una rapida ricognizione lungo la strada meridionale, ma non ho
incontrato accampamenti di due persone.
Non ci posso mettere la
mano sul fuoco, ma dubito che gli uomini che sto cercando siano
più di due. Avrebbero lasciato molte più tracce
dietro di loro, se così non fosse.
E poi non ho una mano da
mettere sul fuoco, ora come ora.
Potrebbero aver preso
uno dei sentieri che costeggiano la costa, ma mi pare improbabile, sono
esposti e poco trafficati. Li avrei dovuti notare.
Ovest.
Mi rimane solamente
quella porzione di città lì da controllare.
Sono fiducioso di
riuscire a prevenire qualunque cosa abbiano in mente, devo solo
pattugliare quella porta e non lasciarmi scappare nulla.
Un corvo sorvolò più e più volte i
quartieri occidentali di Aravan, attirando su di sé gli
sguardi dei piccoli marmocchi che giocavano per le vie e le piazze
sottostanti, incuriositi da quell’uccello che si vedeva
così raramente sul Continente.
Ogni tanto, il suo gracchiare riempiva il cielo, quasi volesse battere
le ore della giornata che stavano passando.
Il sole continuò la sua ascesa, cercando di scaldare le
schiene degli uomini che si erano addentrati all’interno
della foresta vicina.
Ogni tanto, sporadicamente, un drago dalle lucenti squame compariva
dalla vegetazione, trascinando dietro di sé cataste di legna
che sarebbero diventate ciocchi da bruciare durante l’inverno.
Il corvo continuò a volare in larghi cerchi anche dopo che
l’astro che gli illuminava le piume iniziò la sua
discesa e che gli ultimi uomini ritornarono nelle loro case
portandosi dietro i piccoli avanzi di legno che gli erano rimasti sotto
le fronde.
L’oscurità cominciò a calare di pari
passo con l’accendersi dei lumi ai lati delle strade.
Il corvo gracchiò frustrato, portandosi sopra
l’ingresso occidentale alla città.
Non posso essermi
sbagliato.
Devono essere diretti
qui.
Che abbiano lasciato
passare un giorno, prima di partire?
Potrebbero quindi
arrivare domani.
La domanda principale,
ora, è come il mio assassino pensa di poter uccidere una
gran quantità di draghi qui.
Mattoni e pietra, solo i
tetti sono in legno. Sarebbe più facile far crollare questi
muri, piuttosto che darci fuoco.
Un guizzo rossastro illuminò per qualche secondo un vicolo
poco distante dal centro cittadino, seguito da una seconda luce calda.
No!
No! No! No! No! No! No!
No! No!
Ho sbagliato!
Dannazione! Ero troppo
sicuro di me.
Devo correre, non
c’è tempo da perdere.
Il corvo saettò nel cielo, confondendosi nel buio della
notte, in modo da portarsi sopra i tetti che delimitavano la zona da
cui erano arrivati i lampi.
Cinque corpi occupavano la strada, di cui due erano riversi a terra.
Ho sbagliato tutto.
Ma avrò tempo
dopo per darmi dell’idiota.
Devo fare in modo che la
situazione non peggiori ancora.
Devo rischiare un poco.
Spero che la mia arma
regga. Non ho tempo di trovarne una forgiata dai mortali.
Un uomo comparve dal nulla a mezz’aria, atterrando in mezzo
alla strada a denti stretti.
No! Non di nuovo!
La ferita mi si sta
riaprendo.
Dannazione.
Devo resistere, non me
li farò scappare di nuovo.
- Non vi lascerò scappare di nuovo. – disse
l’uomo dai ricci biondi a denti stretti, la sua mano destra,
intanto, stringeva saldamente un sottile stiletto.
- Finisci il tuo lavoro! – comandò un uomo con il
volto celato da una maschera grigia in direzione di quello che doveva
essere un suo sottoposto – Io posso tenergli testa.
–
Tu puoi tenermi testa?
Non ci sperare troppo,
lurido verme. Avresti fatto meglio a rintanarti in un piccolo buco e
non uscire mai più di là.
Ora sei mio.
…
Ho una strana
sensazione, addosso e no, non è colpa della ferita, stavolta.
C’è
qualcosa di familiare in quell’omuncolo.
Vabbè,
avrò modo di pensarci quando sarà morto.
L’uomo dai corti capelli neri accelerò il passo,
riempiendo la via con il suono frusciante prodotto dal cadavere che
stava trascinando in una stradina laterale. Sul petto del morto, ancora
lungi dall’essere flebile, ardeva una fiammella che sembrava
uscire dalla ferita che si apriva sul suo petto.
L’assassino si gettò in direzione del nuovo
arrivato con il coltello in mano, pronto ad affondare la sua lama in
quell’ospite fastidioso.
Affondò una volta, in avanti, per poi flettersi sul piede
d’appoggio per tentare un colpo verso l’alto,
seguito da un fendente.
L’uomo biondo schivò tutti i colpi con
facilità, senza scomporsi o dover ricorrere alla propria
arma per difendersi.
La percepisci la
differenza di potere che c’è tra di noi?
Non hai
possibilità di sopravvivere. Prima tu, poi il tuo amico.
La maschera si rimise in posizione eretta, stringendo le dita
sull’impugnatura della sua arma.
Le sue gambe si mossero veloci, ancora una volta in direzione del suo
rivale.
La via si illuminò a giorno di una luce azzurra,
abbagliante, tanto intensa da cancellare ogni forma o ombra alla vista
di chiunque.
Dannazione!
Quindi eri tu quello con
il potere della luce.
Non vedo il
colpo… non sarebbe stato un problema se la Trama non avesse
cominciato a farmi il muso.
Dovrò
ricorrere ai buoni vecchi sensi materiali, mal che vada mi
farà un buchetto da qualche parte, nulla che non possa
guarire.
Il coltello dell’assassino scattò in avanti,
letale, invisibile.
Ci fu un rumore di ferro contro ferro, poi un suono secco, seguito dal
tintinnio prodotto da qualcosa di metallico che cadeva a terra.
Il buio tornò ad essere padrone della notte, lasciando il
compito alle lanterne appese sui muri di illuminare il campo di
battaglia.
I duellanti erano immobili, come congelati da un incantesimo.
L’assassino era proteso in avanti, con la lama a svariati
centimetri di distanza dal petto dell’uomo che gli stava di
fronte.
L’ispettore aveva una mano di fronte a sé, nella
quale stringeva una parte dello stiletto di cui era armato. Il moncone
sperso della lama era a terra, rottosi nella collisione con
l’altra arma.
Evidentemente non sono
bastati i miei millenni di vita a rendermi un buon armaiolo. Continuo a
fare schifo con queste cose.
In ogni caso non ho
perso il mio tocco.
Ed ora…
La porzione rimanente della lama divenne per un secondo evanescente,
per poi andare a crescere pe riformare ciò che le era stato
portato via.
Con un rapido e secco colpo di polso l’ispettore fece volare
lontano l’arma avversaria, tanto in alto da farla atterrare
su uno dei tetti circostanti.
Gran finale.
La suola dell’uomo dal volto tatuato si posò sul
petto del suo nemico con violenza, gettandolo a terra e non
rialzandosi, per non permettergli di scappare da lì.
Finalmente l’ispettore poté guardare il volto
cinereo che gli stava davanti con calma, facendo pesare il suo sguardo
come un macigno.
Sono
un’idiota. Certo che mi è famigliare.
L’ho creato
io, questo.
Cioè, non ho
creato io l’assassino, ma la maschera è
decisamente una delle mie. Anzi, è la mia.
Maschera della Commedia
teatrale, leggermente rivisitata dal sottoscritto.
Questo vuol dire che
sono un completo idiota! Il mio errore di previsione
sull’ingresso che avrebbero usato, a questo punto, non vale
più nulla, è completamente dimenticabile.
Ci avrei dovuto pensare
prima.
La luce blu, di quella
maledetta luce blu ne avevo già sentito parlare, prima.
E i Muraglia! I draghi!
Tutto ha senso!
Ha una mezza ragione
valida per odiare i draghi!
Viandante, sei
un’idiota!
Ma, quindi
l’altro chi sarebbe…
L’altro!
Dov’è
finito l’altro?
La spalla del secondo uomo impattò contro il petto
dell’ispettore, cogliendolo alla sprovvista e costringendolo
ad indietreggiare, facendogli così lasciare la presa che
aveva sull’assassino.
Un’esplosione fragorosa riempì la notte, mentre
una colonna di fuoco si stagliava verso il cielo.
Cosa hanno fatto?
Per l’amor del
Fato, cosa hanno fatto?
Un muro si sgretolò facendo cadere una gran
quantità di calcinacci sulla strada.
L’uomo biondo si voltò verso il suo nuovo rivale,
affondando con velocità inumana il suo stiletto in direzione
della testa nemica.
La punta dell’arma si spezzò non appena
impattò contro una dura superficie nera, comparsa
improvvisamente a protezione del corpo sottostante.
Ora basta.
Questa faccenda sta
diventando ridicola.
Basta.
La piastra formatasi sulla fronte dell’uomo dai capelli neri
tremolò, per poi scattare in avanti e impalare il cranio
coperto dai ricci biondi.
Un secondo dopo, la lancia di melassa scura si era già
ritirata senza lasciare tracce del suo passaggio al di fuori del corpo
dal cranio traforato che giaceva a terra.
Noir fece alcuni rapidi passi verso il suo compagno di viaggio,
aiutandolo ad alzarsi.
Un’altra esplosione riempì l’aria,
portandosi dietro altra distruzione, accompagnata da urla di terrore.
L’ispettore si rialzò in piedi mentre il buco che
gli si apriva in mezzo agli occhi rapidamente andava risaldandosi.
Una terza esplosione fece la sua comparsa, creando ancora
più rumore.
L’uomo dal volto tatuato parve indeciso sul da farsi, i suoi
occhi saettavano tra i due uomini in fuga e la nuova colonna di fuoco
che si alzava verso il cielo.
Maledizione.
Non posso lasciare che
quel pazzo faccia una strage di questa portata.
Devo interrompere la
reazione a catena.
Non importa.
Non importa che riescano
a scappare, che riescano a lasciare questo continente o facciano
qualche casino sul loro percorso.
So chi sei, maledetto
verme e so qual è la tua meta.
Non ho bisogno della
Trama per conoscerti adesso.
Assassino, Draghicida,
Marinaio in servizio sull’Ala di Albatros. Il tuo
stramaledetto nome è Razer Donier e tanto è vero
che quella maschera è mia, verrò a riprendermela.
Riguardo al tuo
compagno, ho paura di sapere chi possa essere.
Quel Buco della Trama
è la dimostrazione vivente che il passato è fatto
apposta perché possa tornare per complicarmi la vita.
Ora devo trovare il
prossimo anello della reazione a catena prima che questa
città diventi un ammasso di calcinacci ardenti.
L’ispettore scomparve in un turbinio di piume, il corvo che
comparve al suo posto si levò rapidamente in volo,
dirigendosi troppo velocemente per un esemplare della sua razza nella
direzione dalla quale arrivavano i bagliori dei falò
lasciati dalle esplosioni. |
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Capitolo 21 *** Capitolo 10: Strada per casa ***
Razer corse zoppicando per la via che avevano imboccato.
Davanti a lui Noir controllava ogni angolo e ogni punto cieco per paura
di veder ricomparire l’uomo che li aveva messi
all’angolo
Un’altra esplosione illuminò la notte.
L’assassino sorrise da sotto la sua maschera. Nonostante quel
contrattempo il suo piano aveva comunque funzionato alla perfezione.
Doveva migliorare ancora un paio di dettagli, ma sarebbe sicuramente
riuscito ad epurare il mondo da quei mostri. Ne era certo.
Il polso destro gli fece arrivare una scarica di dolore dritta nel
cervello.
Durante quei pochi istanti di combattimento aveva perso il suo coltello
e, probabilmente, si era rotto il polso.
Chi era quell’uomo biondo?
Da dove era arrivato?
Era certo di averlo visto comparire dal nulla a mezz’aria,
così come era certo che era lo stesso uomo che lo aveva
interrogato a bordo della nave con cui era arrivato sul continente.
Strinse il polso con la mano sinistra, continuando stoicamente a
correre lungo quella strada.
Noir si voltò un attimo nella sua direzione, come per
sincerarsi che l’assassino lo stesse ancora seguendo.
Un’altra esplosione fece sentire la sua voce, ma era stata
meno fragorosa di quelle che l’avevano preceduta.
Un ruggito potente e cristallino squarciò il cielo,
muovendosi rapido verso la zona cittadina colpita da quella terribile
disgrazia di fuoco.
Razer tremò nell’udire quel suono.
Non lo conosceva. Non lo aveva mai sentito prima.
Gli mancò il respiro, come se le pareti delle case attorno a
lui gli si stessero stringendo attorno.
Lui conosceva tutti i versi di quei mostri. Lui doveva conoscerli
tutti. Doveva.
Perché quello non lo conosceva?
Nessuna versione di quelle aberrazioni ruggiva in quel modo. Poteva
sembrare quasi un suono prodotto da un oggetto, invece che da una
creatura vivente. Se un uomo avesse fatto suonare un enorme calice di
cristallo, forse, avrebbe fatto lo stesso suono.
Ma quello era un ruggito, ne era certo.
Aumentò la sua andatura, ignorando il dolore al polso per
riuscire ad accostarsi all’uomo che lo precedeva.
- Come hai fatto a far esplodere quei barili senza il terzo corpo? Il
calore non sarebbe dovuto essere sufficiente. –
- Ne ho aperto uno e ci ho appoggiato sopra uno di quei cadaveri.
– rispose tranquillamente l’uomo dai capelli neri,
allungando lo sguardo per scoprire le forme dietro una cassa a lato
strada – Togliti quella maschera, sei troppo riconoscibile.
–
Razer si sfilò prontamente il guscio bianco dal volto,
nascondendolo sotto la camicia che portava indosso.
- Poteva esploderti in faccia. Hai rischiato di morire. – gli
fece notare, stringendosi il polso dolorante contro il petto.
- Non ho rischiato nulla. – continuò Noir senza
smettere di muoversi per la via – La mia maledizione non mi
permetterebbe di morire. –
Si stavano dirigendo a sud, verso la radura in cui avevano lasciato il
carro con cui erano arrivati.
La loro intenzione, fin dall’inizio, era quella di tornare al
porto di Jidan per imbarcarsi sulla prima nave disponibile.
Razer aveva parlato col nostromo dell’Ala di Albatros,
durante la traversata che li aveva portati lì. A suo dire,
un’altra nave passeggeri sarebbe arrivata nel girò
di sei giorni per gettare lì l’ancora. La Freccia
di Rame, l’aveva chiamata nella sua ubriachezza. Il capitano
doveva essere un certo Bertran Darren.
Qualcosa dalla pelliccia scura sfrecciò accanto ai due
uomini, dirigendosi verso il centro della città.
Poteva essere un grosso cane randagio, ma Razer preferì non
fermarsi per accertarsene.
Raggiunsero l’estremità meridionale della
città, per poi inoltrarsi nella boscaglia che sembrava
guerreggiare con le strutture umane per guadagnare terreno su cui
crescere.
Un cavallo brucava tranquillamente le chiazze d’erba che
erano riuscite a crescere sotto quelle fronde, quasi indisturbato dalle
esplosioni che erano scoppiate fino a poco prima, alle sue spalle era
ancora saldamente fissato il carro con i quali erano arrivati.
- Muoviamoci. Quell’uomo potrebbe averci seguito fin qui.
– disse rapido Razer, balzando sulla panchina destinata al
cocchiere e prendendo in mano le redini.
Noir si fermò, immobilizzandosi ai piedi della carrozza.
– Quel tipo non era umano, vero? – chiese con voce
tremante.
- Proprio tu mi stai chiedendo se non era umano? E, poi, che
altro vuoi che sia? Ora sali. Dobbiamo andarcene di qui. –
Noir non fu convinto di quello che sentì, ma non
provò a controbattere, prendendo il suo posto a fianco del
conducente.
- Continuerà a seguirci, vero? –
- Non potrà se copriremo bene le nostre tracce. –
le redini schioccarono, costringendo il cavallo ad alzare il muso da
terra e intimandogli di incamminarsi a passo sostenuto.
Noir rimase per diverse ore in silenzio, con lo sguardo perso davanti a
sé. La sua mente non era davvero lì, era persa a
ragionare su quello che aveva visto e provato quella sera.
Ne era certo, quell’uomo biondo era comparso dal nulla in
aria.
Così come era certo che la sua arma si fosse prima rotta e
poi rigenerata.
Quell’arma era davvero fatta d’acciaio?
Si, si rispose, ne era sicuro.
E quella sensazione che gli attanagliava le viscere? Non aveva mai
sentito il suo sangue ribollire in quel modo.
La sensazione era stata più forte, sulla nave,
perché?
Sperava unicamente di non dover ritrovare nuovamente sul suo percorso
quell’uomo biondo. Poteva essere lui la creatura in grado di
ucciderlo.
Il carro uscì dal fogliame, tornando a far girare le sue
ruote lungo la strada battuta che lo avrebbe riportato a Jidan.
L’unica cosa a cui Razer riusciva a pensare era la strada
più veloce per tornare a casa.
Avrebbero dovuto imbarcarsi senza dare troppo nell’occhio
sulla Freccia di Rame, arrivare a Derout e, immediatamente, cercare di
salire a bordo del treno Nube in direzione dei Muraglia e rimanerci
sopra il più possibile.
Di lì in avanti, poi, non avrebbero dovuto far altro che
seguire uno degli antichi sentieri che percorrevano i fianchi desolati
dei Monti Muraglia.
Chi sarebbe mai andato a cercarli su quelle montagne carbonizzate?
Erano il nascondiglio perfetto per chiunque.
Di lì in avanti, poi, avrebbe potuto servirsi di quel potere
incredibile di Noir, qualora ne avesse ancora avuto bisogno. Poco gli
importava di chi fosse il sangue che gli scorreva nelle vene, il suo
passato o il fatto che fosse un ricercato dal governo.
Era un alleato importante, per lui.
Sua sorella non avrebbe avuto difficoltà a occuparsi anche
di lui.
L’assassino si voltò verso l’uomo che
gli sedeva accanto, studiandolo per pochi secondi.
Sembrava così tranquillo, così inerme.
Un brivido corse lungo la schiena dell’uomo dal polpaccio
ustionato.
Sapeva che, se mai avesse provato ad attaccarlo, probabilmente, avrebbe
fatto la stessa fine di Rakre, se non una peggiore. Non lo conosceva o,
per lo meno, non conosceva a sufficienza il suo potere.
Forse aveva un punto debole, scoperto, ma non ne era certo.
Aveva visto bene cosa era successo con quel mercante da quattro soldi.
Il suo potere aveva protetto la sua gola dal coltello e, quasi
contemporaneamente, aveva trafitto la testa dell’uomo che gli
stava alle spalle, quasi come se avesse una coscienza a sé
stante.
Razer fu quasi sollevato che Noir fosse umano e non uno di quei mostri
a cui dava la caccia. O, per lo meno, quasi interamente umano.
Le voci che circolavano su di lui erano molteplici e discordanti. Aveva
viaggiato molto, prima di imbarcarsi in quella missione, aveva raccolto
informazioni su tutte le Terre, spingendosi fin sul continente per
essere pronto ad ogni evenienza.
Durante quei viaggi aveva incontrato decine di bardi e girovaghi, senza
contare le pattuglie al servizio del Tribunale di Gerala, ed ognuno di
loro aveva dipinto un quadro diverso dell’uomo che gli stava
accanto in silenzio.
Chi diceva che era un mostro, chi un demone, chi un essere maledetto
dagli stessi dei. Si diceva che potesse cambiare volto, che uccidesse
chiunque incrociasse con lui lo sguardo, erano decine le storie
riguardanti interi villaggi ridotti in polvere dal suo potere.
Razer non sapeva a cosa credere, ma era abbastanza certo che non
fossero tutte infondate.
Dopotutto, si era fatto esplodere un barile di polvere nera a pochi
centimetri dal corpo e ne era uscito illeso.
L’assassino tornò a concentrarsi sulle briglie,
sconvolto da quei pensieri.
Angolo dell'Autore:
Ciao a tutti!
Oggi inizierò con un'informazione tecnica, per poi passare
ai miei soliti deliri solo in un secondo momento.
La settimana prossima, mi duole dirlo, non riuscirò a
pubblicare nulla. Il mio portatile ha deciso di cominciare a fare le
bizze seriamente e questo sta rallentando davvero troppo la mia
produzione dei capitoli.
Se tutto va bene, però, il primo dicembre dovrei tornare in
piena forma, probabilmente con un nuovo pc, se questo continua su
questa strada.
Detto ciò, continuo a ringraziare OldKey, whitesky e la ragazza
imperfetta per le loro recensioni, sempre preziosissime, e voi tutti
che continuate a leggermi settimana dopo settimana, alcuni addirittura
aprono il capitolo a dieci minuti dalla sua pubblicazione che,
avvenendo questa tra mezzanotte e l'una, è una cosa non da
poco.
Mi spiace davvero tanto dover saltare una settimana. Per farmi
perdonare, vi voglio lasciare qualcosa su cui riflettere.
Il prossimo capitolo sarà dedicato al Viandante, ci saranno
dei piccoli cameo, un ritorno agli albori e altre piccole chicche.
Sarà un capitolo sicuramente lungo.
Ma, soprattutto: Ci sarà un quak quak davvero importante per
la trama.
Spero di avervi dato un po' di hype per il prossimo capitolo, davvero.
Oh, giusto, con il 10.5 si scoprirà finalmente chi
è Noir. (in quel momento potrete anche canticchiarvi le
canzoni de "La sirenetta" se volete, saranno abbastanza azzeccate.)
Vorrei lasciarvi almeno l'introduzione di quel capitolo ma... mi
spiace, non c'è ancora nulla nero su bianco.
Alla prossima, miei cari lettori.
Alla prossima e, adesso che una parte importante di questa
storia si è conclusa, se qualcuno di voi avesse voglia di
lasciarmi i suoi pareri riguardo la trama, i personaggi o qualunque
altra cosa gli passi per la testa, giusto per farsi due chiacchiere,
è il benvenuto.
Qui Vago passa e chiude. |
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Capitolo 22 *** Capitolo 10.5: Strada per il mare ***
So di aver fatto la
scelta giusta.
So chi sono, non mi
serve più seguirli.
Tra l’altro,
dal cielo, posso intuire che direzione abbiano preso. Le esplosioni si
stanno allargando verso nord, probabilmente raggiungeranno la zona
meridionale della città solo in un secondo momento.
Potrebbero star tornando
a Jidan, ora.
Non è molto
importante, comunque.
Più che altro
mi chiedo se questi draghi non siano un inutile perdita di tempo, ho
una tappa da fare, prima di tornare nelle Terre… Magari
dovrei poi anche passare da Loro a fare rapporto, non sarebbe una
brutta idea.
Vabbè, mi
sento buono, oggi.
Farò in modo
che la città non cada a pezzi, poi partirò verso
nord.
Un’altra esplosione rischiarò la notte di
arancione, portandosi dietro il rumore sordo di calcinacci che crollano
al suolo.
Un corvo dalla coda spezzata a metà da una piuma bianca
sorvolò l’aria, scrutando il terreno con i suoi
occhi scuri, in cerca di qualcosa di preciso tra le mura dei quartieri
non ancora colpiti da quell’onda di distruzione.
È inutile che
tenti di togliere il prossimo barile di esplosivo, arriverei comunque
troppo tardi.
Devo raggiungere quello
ancora successivo e interrompere la catena.
Un ruggito cristallino riempì l’aria, mentre
qualcosa di maestoso sorvolò il cielo al di sopra del corvo
dal manto scuro.
Possenti folate di vento spazzarono il terreno, facendo perdere diversi
metri di quota al volatile irritato.
Non ci vediamo da
vent’anni e mi saluti cercando di farmi schiantare a terra?
Rettile ingrato.
Io ti ho salvato le
squame, non dovresti dimenticarlo.
Strano, mi sono
sbagliato. Hanno deciso di abitare più vicino di quanto
immaginassi.
Questo però
mi fa venire in mente un’idea non malvagia.
Che io faccia pena nel
fabbricare armi è appurato, ma se ne prendessi una di buona
fattura in prestito… Dopotutto se c’è
lei, perché no?
Ho bisogno di lui.
Ma soprattutto ho
bisogno di ricordarmi che faccia avessi usato all’epoca. Mi
sembra fosse qualcosa di molto horror, con un po’ di fumo
attorno.
Oh, a chi interessano i
particolari. Tanto non se li ricorderanno nemmeno loro.
In ogni caso devo
raggiungerli, prima di poter dare il via alla scena.
Uno spesso sbuffo di fumo si levò dal piumaggio del corvo,
disperdendosi nell’aria intorno a lui.
Sto guarendo.
E lo sto facendo in
maniera tanto veloce da essere sospetta.
Si, decisamente
l’Oasi sarà la mia prossima tappa.
Il volatile dal manto scuro accelerò la sua andatura,
puntando il becco affilato verso la piazza e che, a poco più
di un centinaio di metri davanti a lui, cercava di ritagliarsi un posto
tra i muri delle case ancora integre.
Un paio di piedi neri, nudi, atterrarono sul lastricato.
Un paio di persone rimaste indietro cercarono di mettere a fuoco la
sagoma scura che era comparsa come dal nulla nella piazza, ma non
riuscirono a distinguerla dalla notte che la avvolgeva.
La creatura distese la schiena verso il cielo, portandosi in posizione
eretta, per poi aprire gli occhi, due fari dorati nel buio notturno.
Con uno sbuffo, quell’oscuro corpo antropomorfo venne avvolto
da uno spesso strato di fumo che gli turbinava addosso come un manto
vivente.
Uh, mi mancava potermi
disgregare, anche se solo in parte.
Follia me la
pagherà per lo scherzo che mi ha fatto, quando
sarà tutto finito.
Ora, però,
devo pensare all’esplosivo.
La creatura si guardò intorno con quei suoi occhi
risplendenti, in cerca di una forma particolare tra quelle della notte.
Una cassa, un contenitore, un vaso.
Un vaso come quello posizionato ai piedi di un muro intaccato
dall’umidità.
Lo spettro si lanciò in direzione del vaso, stringendolo con
forza e spostandolo dalla sua posizione, privandolo della miccia che,
rapidamente si stava consumando, spostando la fiamma che trasportava
verso il buco nella terracotta in cui era stata inserita.
Bene, anche oggi la mia
buona azione l’ho fatta.
Posso andarmene con la
coscienza pulita.
È un peccato,
avrei voluto incontrarli. Vabbè, sarà per la
prossima volta.
Una nuova esplosione echeggiò per i muri della
città, provenendo da nord.
Oh, Fato!
Davvero?
Davvero dovevano aver
creato un secondo percorso proprio al vaso esplosivo precedente a
quello che ho disinnescato?
Vedi di mandarmela
buona, adesso.
Ora non mi conviene
nemmeno tornare in forma di corvo, a piedi farò certamente
prima.
Lo spettro cominciò a correre per le vie cittadine,
lasciandosi dietro una scia del denso fumo che lo avvolgeva, come
impronta del suo passaggio.
Una folata di vento diretta verso il suolo turbò per pochi
secondi il suo manto, ma scomparve rapidamente come era apparsa.
Un ululato risuonò da qualche parte tra le vie.
Alla faccia degli
assassini che agiscono nell’ombra.
Comunque dovrei essere
quasi arrivato a destinazione.
Lo spettro svoltò in una via alla sua destra, cercando di
non perdere di vista il punto dell’ultima esplosione.
Un piccolo spiazzo si aprì davanti a lui. Qui la strada che
aveva seguito si biforcava, continuando verso nord da una parte e
andando a morire sotto un arco in mattoni dall’altra. Sotto
quest’ultimo, con fare innocente, riposava un orcio.
Una fiammella timida comparve sulla strada da sopra un muro, scendendo
rapida mentre seguiva il tracciato che le disegnava davanti la sua
miccia.
Viandante due, tutti gli
altri zero.
Lo spettro prese tra le mani la miccia, sfilandola dal pertugio in cui
era stata inserita e gettandola a terra, in direzione opposta al vaso
che attendeva la fiammella.
Quando il fuoco raggiunse il capolinea della sua corsa
scoppiettò appena, entrando in contatto con i pochi residui
di polvere esplosiva che erano rimasti attaccati.
Un’altra
proficua giornata di lavoro.
Altre esplosioni che
vogliono rovinarmi i festeggiamenti?
…
No? Bene.
Qualcosa raggiunse il picco slargo di corsa.
Il grosso corpo era ricoperto per la sua interezza da una folta
pelliccia grigia, il muso canino vantava grosse zanne e la postura
sembrava indecisa tra il rimanere a quattro zampe o tornare eretta.
La creatura ferina si sfocò, si deformò,
lasciando il passo a due corpi distinti.
Un grosso lupo grigio si sdraiò sulla strada, alzando le
orecchie in direzione dello spettro che gli stava davanti.
Un uomo che doveva aver superato la quarantina si fece avanti,
socchiudendo le palpebre per cercare di vedere cosa gli stesse davanti,
sotto la poca luce della luna.
- Sei tu? Il servitore? –
Davvero? È
tutto quello che sai dirmi in questo momento?
Bah.
Stiamo al gioco, forza.
- Si, sono io. – gli rispose lo spettro – Sono qui
per conto degli dei, ma non preoccuparti, non richiedono un vostro
ritorno. –
L’uomo alzò un braccio verso il cielo, facendo
luccicare qualcosa alla luce delle stelle.
Magari fossi stato
mandato qui dagli dei.
Mi sarei divertito
sicuramente di più.
Tra l’altro
non mi interessa fare una rimpatriata, voglio solo uno dei suoi
maledetti coltelli incantati.
- Hile, ascoltami. – riprese il servitore con voce
più cupa – Ho bisogno che tu mi dia uno dei tuoi
coltelli da assassino. Quello incantato. Dovrebbe essercene rimasto uno, no?–
- L'ultimo coltello incantato è sul fondo dell'oceano. Ti va bene un'altra di quelle vecchie lame? Non le tocco da una vita, oramai.
–
Non mi interessa se non
le tocchi da una vita o le usi per tagliare il formaggio.
Io ne ho bisogno ora.
- Non importa, mi saprò accontentare. Ne ho bisogno… per il mio compito. –
Un corpo aggraziato atterrò sullo spiazzo, ammortizzando
sulle ginocchia la caduta da quelli che sembravano essere decisamente
tanti metri.
Vabbè, a
questo punto tanto vale che faccia un po’ di luce…
Gli occhi dello spettro iniziarono a risplendere sempre più
vividamente della loro luce dorata, fino ad illuminare tutte le pareti
delle case che gli stavano attorno.
L’uomo cominciava a mostrare diverse ciocche di capelli
bianchi, la cicatrice che gli solcava lo zigomo si poteva quasi
confondere con le prime rughe sottili che gli adornavano il viso.
Con la donna il tempo sembrava essere stato più clemente,
lasciando quasi intatto il suo volto solcato da una lunga cicatrice
obliqua.
Anche quella opera del
caro Follia.
Voleva proprio essere
ricordato, quel demone.
- Allora? – incitò il servitore, incrociando le
braccia all’altezza del petto.
Hile infilò goffamente la mano destra in una tasca, estraendone un coltello che fece vorticare attorno al proprio palmo.
Le dita dell’uomo si chiusero sulla lama, fermandone la cosa.
Dai polpastrelli cominciò a colare un leggero rigolo di
sangue.
- Sono decisamente fuori allenamento… - borbottò
il Lupo, porgendo l’arma allo spettro che gli stava davanti.
Questi la prese, facendola scomparire tra le volute di fumo che lo
avvolgevano. – Forse è meglio così.
Dopo quello che avete fatto, non dovreste più toccare armi
per tutto il tempo che vi rimane da vivere. –
Lo spettro scomparve e, con lui, la luce che produceva.
Da qualche parte, nell’oscurità, si udì
il fruscio di un paio d’ali piumate che sbattevano con forza.
E anche l’arma
me la sono procurata.
È stato molto
più facile di quanto avessi immaginato.
Ora rotta verso nord est.
Ho un tizio
d’acqua a cui rovinare la giornata.
Il sole sorse sopra le vette lontane dei Monti Muraglia, gettando i
suoi raggi rossi sulla superficie burrascosa dell’occhio del
Gorgo del Leviatano.
Poco più ad ovest si potevano vedere i vulcani
più alti dell’isola patria dei draghi.
Il corvo sorvolò un’ultima volta il gorgo,
studiandolo con i suoi occhi scuri.
Che pessima idea hanno
avuto i Budnear e le fate con loro.
Perché
diavolo andare a nascondersi qua sotto? È proprio un modo
per dire che vuoi solo isolarti dal mondo civilizzato.
Devo trovare un modo
divertente per tirare fuori di lì quel vecchio sadico di
Proteo.
È da un bel
po’ che non uso il quak quak.
Bene, votazione finita.
Si apra il sipario.
Il corvo scomparve, le sue piume si fecero più chiare, il
suo becco si allargò, tingendosi di arancione, le sue zampe
si fecero palmate.
Una papera cadde pesantemente in mezzo al vortice del Gorgo del
Leviatano, nuotando tranquilla in mezzo alle correnti inferocite.
- Quak quak. –
Forza, vecchio sadico,
fatti vedere.
Non ho tutto il giorno.
Cioè, ce
l’ho, ma non voglio sprecarlo qui.
- Quak quak. Quak quak. –
Dai, abbocca al mio amo,
pesciolino.
Forza, su…
Non farti pregare.
- Quak quak. Quak quak! –
Dai, so che ci sei.
So anche che mi stai
guardando.
Quando ti
ricapiterà di poter avere tra le mani una bella papera come
me?
Forza, vieni a giocare
con questa paperella.
Il moto dei flutti si fece meno violento, creando una zona di calma
esattamente là dove le zampe arancioni della papera
affondavano nell’acqua marina.
- Quak quak. –
Dai non farti pregare.
Vieni qui, pesciolino,
vieni da questa bella paperella.
Una sagoma quasi antropomorfa cominciò a formarsi al di
sotto del pelò dell’acqua. Nello stesso istante
una mente antica cercò di far breccia all’interno
di quella della papera che continuava a galleggiare placida,
scoprendola più profonda e contorta di quanto non si fosse
aspettato.
L’ala destra del volatile mutò, divenendo un
braccio piumato, che affondò nel mare per poi riemergere
tenendo saldo nella sua stretta il collo di un essere interamente
composto d’acqua.
Ha beccato la paperella
sbagliata, questa volta.
- Proteo, ho bisogno di accedere agli archivi dell’Oasi. A
tutti gli archivi. –
L’essere gorgogliò qualcosa di incomprensibile,
mentre le sue mani cercavano disperatamente di far allentare la presa
che gli stringeva la gola.
Non è un
essere così incredibile, se conosci il trucco.
Per potersi liquefare ha
bisogno di concentrarci, cosa complicata se una papera con un braccio
antropomorfo sta cercando di soffocarti.
- Ho detto, fammi raggiungere gli archivi dell’Oasi.
–
- Tu… tu non sai chi sono io. Ho conosciuto il primo
Farionim, ho aperto le porte del mio cancello ai sei eroi…
ho… - gorgogliò Proteo.
- Sentimi, pesce troppo evoluto. Io conosco gli dei, sono stato
forgiato durante la creazione, ho visto imperi sorgere e cadere, ho
visto l’esilio di Follia dalla mia tribuna d’onore,
ho visto il Cambiamento sia dalla Volta degli Dei che da quello che
divenne Zadrow, la linea temporale all’epoca
risentì di quell’evento, ho conosciuto Farionim,
Drake, Nestra e Reis, ho guidato i sei Eroi, ho salvato i sei Araldi e
sto per porre fine alla tua inutile esistenza, se non mi darai quello
che ti ho chiesto. –
Proteo ammutolì.
I flutti del gorgo si aprirono, rivelando una voragine che precipitava
nell’oscurità per diverse centinaia di metri.
Bravo il mio pesciolino.
Ora però tu
vieni con me.
La papera si lasciò cadere nella voragine, trascinando con
sé l’essere d’acqua.
I loro corpi bucarono una manciata di secondi dopo la superficie
traslucida di una bolla, ricadendo pesantemente su un terreno che
pareva essere quello della superficie.
Un uomo dai ricci biondi si rialzò da terra.
La mano destra stringeva ancora saldamente la gola del suo ostaggio, la
sinistra passò sul tatuaggio romboidale che gli solcava la
guancia, ripulendolo dalla polvere che la caduta aveva sollevato.
Bene, vediamo…
Era estate, mi pare,
quando finì la Guerra degli Elementi.
Estate… forse
Luglio o Agosto.
Ma a chi interessano i
mesi? Sono passati cent’anni da allora, posso permettermi un
poco di imprecisione.
Facendo due rapidi
conti…
Marzo, circa.
Conoscendo Farionim
sarà tutto ben schedato. Quanto mi stanno simpatici i
burocrati.
…
Non credo passino in
questa sezione degli archivi da decenni.
Perché
dovrebbero, dopotutto?
…
Certo che farei prima,
se non dovessi trascinarmi dietro Proteo. Purtroppo è il mio
biglietto d’uscita, quindi non posso lasciarmelo scappare.
…
Trovato. Marzo.
Ora devo solo trovare il
documento giusto.
…
Bene.
“23 Marzo.
Anno primo dalla caduta di Reis. È infine nato.
Ciò che temevamo è successo, Reis e il demone che
lo guidava sono riusciti a generare una prole da Nestra. Lei non
sarà più in grado di avere figli dopo il parto.
Come da accordi si è provato a sopprimere il figlio del
demone, ma una sostanza senziente contenuta nel suo sangue lo ha
protetto da ogni nostro intento. Il Consiglio ha discusso sul da farsi.
Cresceremo Javer come nostro figlio tenendo tutti all’oscuro
della sua natura, lui per primo. Pare inoltre che per via della
sostanza nel suo sangue non supererà i
quarant’anni, nel migliore dei casi. Farionim.”
…
Dunque Reis si
è dato da fare, quando aveva Nestra nella sua reggia. Ottimo.
Ma non mi basta, devo
essere sicuro.
Devo andare avanti nel
tempo. Sarà una lunga mattinata.
Tra l’altro
odio questa nuova gestione degli anni. Anno X dal Cambiamento, anno Y
dalla caduta di Reis, anno Z dall’istaurazione del nuovo
Governo.
Dovrebbero sceglierne
uno e continuare a usare quello.
…
“11 Ottobre.
Anno trentacinquesimo dal Cambiamento. Una serva ha partorito, morendo
nell’atto. Javer, la cui salute è sempre
più cagionevole sostiene di non aver avuto nessun rapporto
con lei, ma il neonato presenta il suo stesso potere, seppur in maniera
minore. Abbiamo notato infatti che la sostanza senziente presente nel
suo sangue non è in quantità sufficiente per
rivestire tutto il suo corpo come fa con il padre. Cautamente potrei
avanzare l’idea che, con le generazioni, questa traccia del
potere di Reis scomparirà. Come lasciato dal grande Farionim
nessun, se non i miei successori, verranno messi al corrente della
verità. Terzo Gran Visir dell’Oasi,
Tarquan.”
…
È possibile
che il suo potere sia come un parassita che fa di tutto per preservare
la genealogia?
Sia maledetto questo
Tarquan. Non mi ha lasciato il nome del bambino nato dalla
serva…
…
“Pratica di
affido per bambina di razza umana, Careen senza parenti vicini, orfana
di padre, madre morta di parto. La bambina presenta un insolito potere,
non ancora catalogato negli Indici per la Manifestazione Spontanea
della Magia negli Individui. Si presenta come un guscio gelatinoso in
grado di avvolgere in gran parte il corpo della bambina. Si inviano i
moduli per l’aggiunta all’indice del suddetto
potere. Ufficio affidi dell’Oasi. Anno cinquantasettesimo
dalla caduta di Reis.”
…
Hanno fatto proprio un
bel lavoro per nascondere le loro origini.
Per fortuna che
c’è questa traccia del potere.
…
“I genitori
affidatari, il marito e gli amici più stretti voglio dare un
ultimo saluto a Careen Sarhan in Drakar, morta di parto. 22 Novembre
anno settantaquattresimo dalla caduta di Reis.”
…
Famiglia fortunata. Se
sono loro.
Non ho trovato nessun
riferimento al potere del demone, qui.
…
“Rapporto sui
dispersi durante la marcia di esodo dal lato orientale delle Terre.
Anno primo dalla rifondazione dell’Oasi.
Si contano duecentoventi
dispersi e morti durante l’attraversamento dei
Muraglia.”
Sarà una
lunga lettura, questo rapporto.
Almeno ho
un’idea di che cognome sto cercando.
…
…
…
…
…
Non sono nemmeno in
ordine alfabetico!
E poi che diavolo di
conteggio degli anni è uno che parte dalla rifondazione di
una città?
…
…
…
“Drakar Noir,
di anni otto. In possesso di una magia innata pericolosa.
L’ufficio del Giudice Maggiore verrà informato
della sua scomparsa.”
…
Quindi quegli
scarabocchi appesi qua e là per le Terre non erano dei
semplici spauracchi.
A mia discolpa posso
dire che il ritratto sopra alla dicitura “uomo nelle cui vene
scorre il sangue di Reis. Ricercato per sovversione, omicidio e
istigazione alla rivolta” non è proprio quello del
tizio che mi ha trapassato la testa.
Dannazione, potevo
immaginare che Reis avesse avuto una discendenza, probabilmente prima
di diventare amicone con Follia, ma non per queste i suoi pronipoti
sono da perseguitare. Certo che se questi pronipoti sono imparentati
anche con Follia, la melodia cambia decisamente.
Quanto è
pericoloso questo suo potere?
E quanto la
volontà di Follia è forte in lui?
In ogni caso, il suo
sangue spiega perché le particelle che quel simpatico demone
mi ha ficcato in corpo diventano matte quando mi si sono avvicinato a
lui sulla strada… e nel vicolo cieco… e, a questo
punto, nella stiva della nave… e il tempio che sorgeva in
quella che era la Piana Umana.
Dannazione, continuo a
ritrovarmelo tra i piedi.
Il fatto che sia il
frutto della volontà di sopravvivere di Follia, è
anche la spiegazione al fatto che sia un Buco nella Trama. Se solo quel
demone se ne fosse stato al suo posto, lui non sarebbe mai nato, come
il Fato ha progettato in quel suo libraccio.
L’uomo dai ricci biondi fece calare il suo sguardo sulla
creatura d’acqua che tentava disperatamente di fuggire dalla
sua presa.
- Pesciolino, io qui ho finito. Torniamo su? – |
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Capitolo 23 *** Capitolo 11: Gli ultimi passi ***
Le strette pareti che circondavano Noir sobbalzarono
un’ultima volta, prima di tornare a toccare il suolo con una
botta secca.
- Fate attenzione, maledizione! È merce delicata! Forza, ora
tornate a prendere anche gli altri. – disse una voce
dall’esterno di quell’oscurità.
Noir si spostò appena per sistemarsi meglio tra la paglia
che lo circondava. Ai suoi piedi gli facevano compagnia decine di cadaveri di
arance e briciole di pane ormai indurite.
Ci furono altri rumori tutto intorno, qualcosa di pesante in legno che
sbatteva contro la pietra del molo di Derout.
Il trentenne aspettò in silenzio che qualcuno gli desse il
via libera per uscire.
Il suo compagno di viaggio, non appena erano tornati a Jidan, era
entrato a casa del mercante che era rimasto ucciso, svaligiandola di
qualsiasi cosa di valore. Con quei soldi era riuscito a comprare un
biglietto per la traversata fino alle Terre per lui e la sua merce,
contenuta in tre diverse casse abbastanza grandi da contenere una
persona.
La Freccia di Rame del capitano Darren non aveva dovuto combattere con
nessuna tempesta durante il suo viaggio, arrivando senza ritardi al
porto che li attendeva ed ora, su quella banchina, Razer stava
aspettando che i marinai andassero a dilapidare il loro stipendio in
una taverna per togliere i sigilli alla sua merce e controllarne
l’integrità.
Vasi in vetro, aveva risposto alla domanda riguardo in cosa
commerciasse.
Le assi che componevano la cassa in cui si era rintanato Noir
cigolarono quando la testa scura di un piede di porco si fece largo
negli interstizi che le separavano l’una dall’altra.
I chiodi che tenevano attaccato il coperchio con il resto della
struttura si piegarono fino a sfilarsi completamente dai pertugi che
si erano creati quando erano stati piantati.
Noir puntò i palmi delle mani contro la superficie piatta
che lo separava dal cielo, premendo su di questa finché non
si smosse, permettendo all’aria salmastra di invadere il
piccolo spazio in cui era stato rinchiuso.
Il viso di Razer si stagliò contro il cielo, di profilo,
intento a controllare che nessuno avesse deciso di tornare sui suoi
passi.
- Muoviti, dobbiamo andarcene il prima possibile da questa
città. – disse solamente l’uomo dagli
occhi scuri, scostandosi a sufficienza per lasciar emergere il suo
compagno di viaggio dal suo nascondiglio.
Le strade erano particolarmente disabitate e il silenzio che pervadeva
i vicolo era rotto solamente dal miagolare dei gatti randagi che
infestavano i tetti piatti delle case circostanti e dai tonfi sordi
prodotti dai passi dei due uomini che si stavano allontanando dal molo.
I raggi del sole mattutino non riuscivano ancora a scaldare la
pavimentazione delle stradine, andando ad infrangersi come onde
arancioni sui muri delle abitazioni che davano sul mare.
Un odore acre di bruciato arrivò alle narici di Noir quando
il loro percorso li portò vicino a una via del quartiere
settentrionale limitata dai cadaveri carbonizzati di una decina di
case. Per terra, accatastante nelle canaline laterali, riposavano
centinaia di macerie che dovevano essere cadute dai tetti e dai muri
lì attorno.
- Sei stato tu? – chiese con un filo di voce il discendente
di Reis, temendo ad alzare lo sguardo dal manto stradale.
Razer non rispose continuando a camminare con la sua andatura spedita
verso est.
- Ho bisogno di saperlo, Razer. È opera tua? –
proseguì il trentenne.
- Non devi dire il mio nome. Mai. – ringhiò
l’uomo dal polpaccio ustionato, voltandosi di scatto
– Si, sono stato io. Ma ho sbagliato, evidentemente,
perché non sarebbe dovuto rimanere nulla di questo posto
infestato. –
- Infestato? – chiese Noir fermandosi a sua volta –
Parli dei tuoi mostri? –
- Si. Ovvio che parlo di quegli esseri. Ora andiamo, non voglio perdere
il Treno Nube di questa sera. –
- Devo farti un’ultima domanda. Perché parli tanto
dei tuoi mostri, ma non li chiami mai draghi? Non sono stupido, so che
sono draghi quelli che uccidi. –
- No. Non sono draghi. I draghi sono quelli dei Cavalieri, i veri
draghi sono quelli della Prima Era, dell’Era degli Eroi.
Quelli che io uccido non sono draghi. Sono mostri. Sono solo maledetti
mostri che si nascondono tra le persone con volti che non sono i loro,
che uccido gli innocenti con il loro fuoco. Adesso andiamo. –
Razer si tornò a voltare verso est, riprendendo a camminare.
Noir lo guardò con un misto di compassione e
perplessità nello sguardo. Non capiva cosa potesse portare
un uomo a odiare così tanto una razza intera. Doveva
essergli qualcosa di terribile, per spingerlo ad intraprendere la
strada che ora stava seguendo.
Anche il discendente di Reis riprese a camminare.
Non aveva paura del suo compagno di viaggio, in uno scontro lui ne
sarebbe certamente uscito vincitore, aveva paura delle situazioni in
cui sarebbe finito standogli accanto.
Le guardie della porta orientale furono troppo occupate a cercare di
calmare i due Demo legati a quell’ingresso per poter
controllare i due uomini che stavano uscendo indisturbati in quel
momento dalla città.
- Perché fai quell’effetto sui Demo? –
chiese Razer, scoccando una rapida occhiata alle creature dalla corta
pelliccia che si erano accucciate tremanti contro il muro di cinta.
- Non lo so. – tagliò corto Noir –
Avvertiranno il mio sangue, o il mio potere. –
Il treno Nube partì con uno sbuffo di fumo grigio, seguendo
la sua scintillante strada d’acciaio verso est.
Ogni tanto, dai vagoni di coda, si potevano sentire i versi spaventati
dei Demo che venivano trasportati verso le Chiritai, dove avrebbero
trovato un buon utilizzo.
La locomotiva splendente costeggiò il lago che si era
formato là dove, una volta, c’era stata la Piana
Umana, specchiandocisi sopra.
Noir alzò lo sguardo sulle creature scure abbarbicate
l’una sull’altra, nel disperato tentativo di
allontanarsi da lui il più possibile.
Cos’era che gli spaventava?
Molti lo definivano come un discendente del Re o, comunque, una sua
creazione.
Suo padre, quand’era bambino, non gli aveva detto nulla a
riguardo. Sua madre… avesse saputo che suo figlio sarebbe
stato un mostro del genere, probabilmente, non avrebbe dato la sua vita
per metterlo al mondo.
Aveva un potere terribile, certo, ma non sapeva se questo lo legasse
davvero al Re della Prima Era.
I Demo potevano avvertire, quindi, i suoi antenati? Oppure fiutavano la
pericolosità che gli conferiva il suo potere?
Le possibilità erano tante. Forse, banalmente, sentivano che
lui non provava alcuna forma di paura, nei loro confronti.
Il treno Nube frenò di colpo, facendo battere la nuca del
trentenne contro la parete che aveva alle spalle.
Dovevano essere quasi arrivati alla prima delle colonie di Chiritai.
Era arrivato il momento, per loro, di abbandonare quel mezzo di
trasporto per procedere da soli per i sentieri montani.
Due ombre balzarono giù dalla terzultima carrozza destinata
al bestiame, scomparendo tra i cespugli spinosi che infestavano i lati
delle rotaie.
Nessuno si accorse di quella loro fuga, né il capotreno e i
suoi sottoposti, né le guardie cittadine di stanza alla
Chiritai vicina, che stavano controllando una a una le carrozze che
sarebbero entrate nella loro città.
- C’è un valico comodo, poco più a sud
di noi, poi non dovremo far altro che puntare verso il Passo Marino, la
mia casa è lì vicina. –
- Sei certo che nessuno potrà trovarmi, una volta che saremo
là? –
- Hanno reso i Muraglia mucchi di terra bruciata, nessuno ci vive
più da anni. Sarai al sicuro. –
- Chi abita là, oltre a te? – continuò
Noir, preoccupato.
Una volta che avesse deciso di procedere fin su quei monti, gli sarebbe
stato difficile tornare sui suoi passi per cercare un altro luogo dove
vivere.
- C’è solo mia sorella. Nessun altro. Ora
mettiamoci in cammino, non abbiamo un grande dislivello da superare, ma
la nostra meta è comunque lontana. – Razer si
sistemò lo zaino sulle spalle, incamminandosi prima verso
sud, per allontanarsi dal treno che ancora non sembrava voler
ripartire, poi verso est, dove i Muraglia lo attendevano.
Angolo dell'Autore:
Vi voglio tanto bene, miei cari lettori, al punto da scrivere questo
angolo e pubblicare il capitolo subito dopo il mio ritorno da un signor
concerto di Caparezza, per vostra fortuna ho bisogno delle dita, ora, e
non della voce.
Sono esausto, ma cercherò di dire tutto quello che devo,
dopotutto nel capitolo scorso ne sono successe di cose.
Iniziamo dalla cosa principale, dal nucleo degli ultimi avvenimenti.
Noir. Il discendente di Reis, o meglio, di Follia.
Preparatevi a mangiarvi le mani, perchè io, fin dal primo
capitolo, vi avevo scritto nero su bianco chi poteva essere il povero
Noir.
Ora vi disegno la mia mappa mentale, in modo che possiate seguirmi.
Nel capitolo 0, Razer incrocia nella sa fuga un manifesto che mette una
taglia sulla testa dell'"Uomo nelle cui vene scorre il sangue di Reis",
so perfettamente che sono piccoli particolari che non potete
ricordarvi, specialemente potendo leggere un solo capitolo alla
settimana, ma mi sono divertito a lasciare quell'indizio
così tanto presto rispetto alla sua reale utilità.
Tra l'altro lui non è certo se sia la verità o
meno, questo titolo che gli è stato conferito.
Razer, dall'altra parte, ha ancora qualcosa da rivelare e la sua cara
sorella mi aiuterà in questo.
La prossima settimana il Viandante tornerà a dire la sua e
preparatevi ai fuochi d'artificio.
Alla prossima.
Vago
|
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Capitolo 24 *** Capitolo 11.5: Rapporto ***
D
Bene, ora non ho
più dubbi su chi sia quel secondo uomo.
Devo starci attento, non
vorrei trovarmi con un secondo buco, magari in una posizione facilmente
nascondibile come in mezzo alla fronte.
Devo anche ammettere che
la sua capacità di richiamare fuori dal mio corpo le
particelle che mi ha lasciato Follia potrebbe tornarmi utile.
Posso quasi tornare a
disgregarmi. Quasi.
Avrò modo di
pensarci più avanti, se lo ritroverò ancora sul
mio cammino o se decideranno di renderlo un mio obiettivo.
Per il momento devo
concentrarmi unicamente sull’assassino.
Spero sia un tipo
sentimentale, altrimenti potrei impiegarci qualche giorno in
più a rintracciarlo, ma cosa mi interessa, ora? Conosco il
suo nome, me l’ha detto lui stesso, all’epoca,
quando gli creai quella maledetta maschera.
Dovrei smetterla di
affezionarmi ai mortali o provare compassione per loro, finisce sempre
che incasino tutto.
Ho praticamente
costretto il Fato a inventarsi un sotterfugio per non far morire Niena
durante la Guerra degli Elementi, ho incasinato la Trama del Reale,
donando le mie energie a Vago per far resuscitare quella banda di
disadattati protetti dagli dei, ho sconfitto Follia, per quanto sia
stato inutile e, infine, temo di aver partecipato alla generazione
dell’assassino.
Perché non mi
faccio mai gli affari miei?
Maledizione.
Un corvo dal piumaggio nero sorvolò la costa occidentale
delle Terre, l’unica piuma bianca che svettava sulla sua coda
vibrava sotto il soffio del vento.
Il becco del volatile puntava verso est, verso i monti più
settentrionali che limitavano quei territori e, dall’altro
versante, cadevano inesorabilmente nel mare.
O
Il corvo sbattè ancora un paio di volte le ali, alzandosi di
quota per evitare uno stormo di anatre selvatiche che tagliavano le
correnti con i loro starnazzi.
Nonostante l’estate fosse arrivata al suo limite, facendo
tingere i campi coltivati di tinte dorate, la Grande Vivente sembrava
volersi ribellare alla presa dell’autunno avanzante,
mostrandosi ancora coperta del suo manto di verdi foglie rigogliose.
Non credo di avervi
spiegato ancora il motivo per cui ho un marchio su tutte le mie forme.
La piuma bianca, la ciocca bianca sui capelli neri o quella era sulla
chioma bionda, gli occhi e la bocca luminosi su un corpo color pece.
Ve lo
spiegherò un’altra volta, tipo quando
starò per morire. Si, mi sembra un’ottima idea.
Per ora ho cose
più importanti da fare, rispetto all’esporvi un
processo mentale evoluto durante qualche migliaio di anni di
schiavitù e solitudine.
La mia prossima meta
sarà far rapporto a Loro, così non potranno dirmi
nulla riguardo al mio operato.
Il passo successivo
sarà andare a prendere quel maledetto assassino a casa sua,
trascinarlo là fuori cercando di non fare troppi danni alle
montagne e portarlo a loro. Quello che Vanenir vorrà fare di
lui sono problemi loro.
Il terzo punto della mia
lista sarà seguire soddisfatto uno di loro fin dentro le
viscere del Flentu Gar, guardarlo compiaciuto mentre apre la gabbia in
cui è imprigionata Lei e lasciare questo posto per sempre,
trattenendomi dal fare una strage. E trattenendo Lei dal fare una
strage, questo sarà più complicato.
Mi sembra un ottimo
piano.
Potrei anche trovare un
momento per fare un salto nella Trama del Reale, è da un
po’ che non ci entro e non sono aggiornatissimo su cosa sia
successo durante la mia caccia nel mondo.
Le solite cose, immagino.
Tra l’altro,
forse, grazie alla mia guarigione potrei anche riuscire ad andare un
po’ più in profondità, la prossima
volta.
V
Il corvo gracchiò soddisfatto al cielo, mentre sotto il suo
ventre la Strada Sospesa, l’intrico di vie arboree che
correva da una parte all’altra dell’immensa
foresta, scorreva veloce trascinando co sé gli uomini che la
stavano percorrendo in entrambe le direzioni.
Il sole era arrivato quasi all’apice del suo cammino,
lasciando il posto per pochissime ombre sul terreno.
A sud, un banco di scure nubi si stava avvicinando dal mare, portando
con loro una pioggia lieve che ben presto avrebbe increspato la
superficie del grande lago che aveva colmato il bacino lasciato dalla
caduta del regno nanico.
Non ho voglia di
bagnarmi le piume.
Acqua perdonami, ma oggi
non ho particolarmente voglia di danzare sotto la tua pioggia.
Il corvo cominciò a battere le sue ali sempre con maggiore
foga, allontanandosi ad ogni folata che provocava verso il cielo ancora
limpido.
E
Si sentì un leggero botto riecheggiare sopra la volta verde,
un bambino che in quel momento stava giocando pacificamente sulla
Strada Sospesa aprì la bocca e indicò con il dito
paffuto il cielo, dove i suoi occhi avevano visto scomparire il corpo
di un uccello scuro.
Una piuma nera cadde dolcemente verso terra diversi chilometri
più a est.
Forse ho esagerato con
la velocità. Rompere il muro del suono con un corpo
così poco aereodinamico è sempre un casino.
È andata bene
che ho perso solo una piuma, durante il tragitto. L’ultima
volta che ho fatto un errore così grossolano ero sotto la
forma di calabrone… diciamo che sono arrivato a destinazione
con qualche interiora in meno.
In ogni caso, sono
arrivato.
Forza, Viandante. Entri,
fai rapporto, esci.
Questione di dieci
minuti, se va male.
Le zampe escoriate del corvo non ebbero il tempo di toccare il suolo.
Le sue piume divennero un unico ammasso scuro che pian piano
virò verso il marrone, le sue proporzioni mutarono, gli arti
si allungarono, le ali lasciarono posto a delle braccia sottili, il
becco appuntito scomparve per mostrare un sorriso soddisfatto incollato
si di un capo incorniciato da una zazzera bionda.
Con un gesto rapido l’ispettore si sistemò addosso
il cappotto marrone che lo proteggeva dalla fredda aria
d’altura. La sua mano destra, poi, corse alla fronte per
scostarsi i ricci chiari dagli occhi e mettere in risalto la ciocca
scura che tra questi compariva.
Ho toppato in pieno con
questo corpo, non mi piace per nulla.
Per fortuna non
dovrò usarlo ancora per molto, come questo maledetto
tatuaggio romboidale che devo continuare ad indossare.
Potrei salvare,
però, qualcosa. Il cappotto non mi dispiace, almeno
è caldo.
L’ispettore biondo si avviò a passo deciso verso
quell’unica, piccola struttura che sorgeva sulla brulla vetta
mozzata, aprì la porta con gesto rapido e
cominciò a discendere le scale che gli si presentarono
davanti con un gesto meccanico, non venendo neppure colpito dal
pensiero che potesse non arrivare un nuovo gradino sotto le sue suole
al passo successivo.
M
Continuò a scendere, avvolto nel buio più
completo, finché sulla sua sinistra un piccolo pianerottolo
interruppe la monotonia della parete liscia.
Le scale, intanto, continuavano a scendere verso il centro della Terra.
La mano dell’ispettore si posò sulla maniglia
della porta al suo fianco.
Mi chiedo cosa spinga
Loro a passare così tanto tempo in un posto del genere.
Dieci ore per tre giorni
alla settimana, trenta ore alla settimana rinchiusi sotto terra. Le
restanti, ovviamente, le passano rinchiusi nei loro uffici, circondati
da delegati e contabili.
Non è un
compito che svolgerei volentieri, quello del burocrate.
La maniglia si abbassò, permettendo alla porta di aprirsi
verso l’interno e lasciando uscire una lama di luce rossastra
dalla stanza che si nascondeva oltre quella soglia.
I
L’ampio candelabro risplendeva contro il soffitto, riuscendo
nel difficile compito di illuminare quel locale a giorno.
Una frase venne interrotta a metà quando l’uomo
dal tatuaggio romboidale fece il suo ingresso.
Quattro figure si voltarono verso il nuovo arrivato, mentre un calice
ricolmo di un vino scuro tornava ad appoggiarsi tintinnando
sul tavolino che stava davanti alla proprietaria.
Io uno dei presenti non
l’ho mai visto, dal vivo per lo meno.
Qualcosa mi puzza, qui.
Mancano tre di Loro e
c’è un nuovo ingresso.
Ora, non che mi
dispaccia questa cosa, meno sono, meno ci sono probabilità
che debba rimetterne qualcuno al suo posto.
Vediamo…
Ci sono Sarah Dan Rei,
Johanne Fenter e Krave Dunnont. La proprietaria del treno Nube, il
Giudice Maggiore e colui che gestisce il traffico di Demo.
Questo vuol dire che i
posti vuoti appartengono a Lakar Maoi, Rast Mareu e Vanenir II, in
ordine il signore dei commerci sulle Terre, il signore delle Chiritai e
il re dei draghi, persone di poco conto…
E poi
c’è la nuova recluta. Puzza di drago.
La cosa non mi piace.
Non tanto
perché sia un drago, sia chiaro, dovessi decidere a chi
lasciare il governo di tutto a una razza, probabilmente sceglierei loro.
Quello che mi spaventa
è che sia qui in sostituzione a Vanenir II. E Vanenir era il
viso più rassicurante che ci fosse qui dentro.
Dovranno rispondere a
qualche domanda.
- Viandante. – disse il Giudice Maggiore tornando a sedersi
eretta dopo aver abbandonato al suo destino il calice di cristallo che
fino a poco prima reggeva tra le dita – Qual è il
motivo che ti porta qui? Hai completato la tua missione? –
Dunque sei stata tu a
prendere in mano le redini della baracca.
Beh, meglio
un’alcolizzata che quel ciccione borioso di Krave Dunnont.
T
- Vorrei poter parlare delle mie ragioni solo in presenza dei
firmatari. – rispose l’uomo biondo, guardando
rapidamente il drago che occupavano lo scranno destinato a Vanenir II.
- Non ti preoccupare di lui. È qui in veste ufficiale.
–
- Non è usanza che la mia esistenza sia rivelata al di fuori
della Vostra cerchia. Potete mettermi al corrente del motivo di questa
decisione? – l’ispettore si mosse appena,
incrociando le braccia dietro la schiena.
- Durante la tua assenza sulle Terre sono successi degli…
spiacevoli inconvenienti. Rast Mareu è stato deposto da
un’insurrezione congiunta dei suoi protettorati, il governo
di Chiritai è stato costretto a imporsi sulle cittadelle
prima che queste diventassero un pericolo. Il compianto re Vanenir II
è stato colpito da un ritorno di fiamma del Morbo della
Squama Grigia, probabilmente un ceppo che ha contratto in una delle sue
visite alle città draconiche abbandonate su quello che fu il
versante orientale delle Terre, prima del Cataclisma che
spezzò a metà il continente. Lakar Moai ha
preteso di uscire da questa cerchia, non potendo permettere a qualcuno
di essere a conoscenza di ciò che succede sotto questo
monte, sono stata costretta a incriminarlo di alto tradimento e
cospirazione verso il Governo e impartirgli la pena capitale.
–
- Sono morti tutti e tre, quindi. – constatò
sollevando un sopracciglio l’ispettore.
- Precisamente. – fu la risposta tranquilla della giovane
donna bionda.
- Ciò vuol dire che quel drago è… -
proseguì l’uomo biondo, senza muoversi dalla sua
postazione, situata di fronte alla porta dalla quale era entrato.
- Il principe Shardan, attendente al trono dei draghi. La sua effettiva
incoronazione dovrebbe avvenire nel giro di pochi giorni, quando gli
incaricati ai funerali di Vanenir saranno sicuri di potersi avvicinare
alla salma senza il rischio di generare una nuova epidemia. –
- È già un firmatario? –
- No, non ancora. Ora che la signorina Fenter ti ha messo al corrente
di cosa è avvenuto, dicci come mai sei venuto qui.
– s’intromise ad alta voce il mercante di schiavi
Dunnont, battendo un pugno grassoccio sul bracciolo del proprio scranno.
R
Il demone cornuto
dell’ultima volta non è bastato.
Potrei provare con il
serpente piumato, quello faceva scalpore, un millennio fa.
Purtroppo non sono
ancora in grado di disgregarmi completamente, il vortice di fumo ha un
suo fascino, specialmente se dentro ci aggiungo qualche saetta e un
paio di occhi ardenti.
La prossima volta spero
di poterglielo mostrare.
Ora che ci faccio caso,
però, qua dentro c’è odore di Follia,
cioè, del demone.
Non credo che lui sia
tornato, dovrebbe essere ancora saldamente incastrato sul lato
orientale delle Terre, in allontanamento a velocità di
crociera.
Sarà un
rimasuglio del nostro ultimo scontro che è arrivato fin qui,
poco male.
Tornando al presente, il
serpente piumato.
Il corpo dell’uomo biondo cominciò a tremare,
mentre il cappotto alle sue spalle iniziava a sformare per lasciare
spazio a quella che sarebbe dovuta essere l’impalcatura per
due imponenti ali candide. I lineamenti del suo viso si fecero
più duri, mentre i suoi occhi diventavano simili a quelli di
un rettile.
- Giudice Maggiore Fenter, per lei. – disse la voce dura
della donna bionda in direzione di Krave.
Cosa?
- Cosa? – chiese lo schiavista.
- Ho detto che per lei sono il Giudice Maggiore Fenter. E non mi
interrompa mai più quando parlo o potrei non punire il
Viandante per un eccessivo uso della violenza su di lei. Ci siamo
intesi? –
- Certamente, Giudice Maggiore. – sibilò
l’uomo grassoccio artigliando i braccioli della sua sedia.
O
Sicuramente è
una donna carismatica.
E ha guadagnato un punto
per il modo in cui ha zittito il ciccione.
Non per questo,
però, ho smesso di provare un odio viscerale nei suoi
confronti.
- Come ti diceva il signor Dunnont, - riprese la donna bionda
– il principe Shardan non è ancora firmatario, ma
presto lo diverrà. –
- A meno che io non riesca a portare a termine quest’ultimo
incarico che mi grava addosso. – ci tenne a precisare
l’ispettore.
- Ovviamente. Dunque, Viandante, perché sei qui a far
rapporto, oggi? –
- Ho trovato e smascherato l’uomo alla base
dell’omicidio di diversi draghi, umani ed elfi,
nonché causa degli incendi di Gerala, Derout, Jidan e
Aravan. Appena uscirò da qui andrò a recuperarlo
per portarvelo. La sua probabile abitazione è situata sulle
pendici dei Monti Muraglia, a nord del Passo Marino. Dovrei essere in
grado di portarvelo entro domani mattina, preferisce che lo conduca qui
o nel suo ufficio a Gerala? –
V
Il Giudice Maggiore si concesse un lento sorso dal suo calice, mentre
pareva valutare le parole che aveva sentito.
- È pericoloso? –
- Decisamente. –
- Puoi renderlo incapace a combattere o fuggire senza ucciderlo?
–
- Ne dubito fortemente. –
- Portalo qui, ma lo voglio vivo. –
- Come desidera. Mi congedo. –
L’uomo dal volto tatuato accennò un leggero
inchino, mentre i suoi piedi si muovevano lentamente per farlo
indietreggiare verso l’uscio, che lo fagocitò.
Fatto anche questo.
Andiamo a finire questo
lavoro, la mia libertà è dietro
l’angolo.
L’uomo biondo uscì dalla casupola, sistemandosi la
zazzera bionda con un passaggio della sua mano tra i ricci.
Si avvicinò al limitare occidentale delle terre a passo
lento, inspirando profondamente l’aria montana.
Questi sono gli ultimi
momenti di servitù che dovrò vivere.
Vado a prendere quel
tipo, lo trascino qui per un orecchio e glielo scarico in cantina, di
fianco alla cella di diamante, così non devono neanche
sbattersi troppo per farla liberare.
Il corvo si levò in volo, puntando verso sud con le ali
gonfiate dalle brezze che serpeggiavano tra i canaloni montani. Le sue
piume vibravano, spandendo un suono tremolante tutt’attorno,
come le corde tese di uno strumento vivente in mano al più
grande dei bardi.
Le correnti provenienti dalle vali sottostanti gli sibilavano
attorno, gelide.
Arriverò
sicuramente prima di loro, là.
Non è
possibile che abbiano impiegato così poco tempo per
raggiungere i Muraglia.
Ho un enorme vantaggio e
lo sfrutterò al meglio.
Questa volta so a cosa
sto andando incontro.
O |
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Capitolo 25 *** Capitolo 12.01 ***
Noir si fermò di nuovo, voltandosi verso la strada che
avevano già percorso.
Il sentiero si snodava per il versante della montagna, una linea chiara
che più volte si confondeva tra le pietre e le sterpaglie
che cercavano di ricrescere su quella terra profanata.
Le rocce, annerite dal fuoco dei draghi, parevano carbone sul punto di
ridare vita alle fiamme che l’avevano ridotto in quella
condizione.
Saltuariamente, sui lontani picchi a sud, si potevano riconoscere
piccole macchie marroni muoversi lungo le pareti scoscese, animali
testardi che si rifiutavano di lasciare quei monti nonostante la loro
sterilità.
A quella vista, l’uomo sospirò rattristato.
Erano anni che non si avventurava su quei monti, l’ultima
volta era solo uno dei tanti bambini del convoglio che li avrebbe
dovuto portare alla nuova Oasi.
Ricordava ogni istante di quei giorni.
Suo padre, intento a svuotare casa di ogni cosa utile, cara o preziosa.
La nube nera che vedeva ogni volta che Proteo gli permetteva di uscire
dallo stagno in cui vivevano e che, ogni giorno, era sempre
più imponente e minacciosa.
Ed infine la partenza. Le decine di carri, uomini e Budnear che si
muovevano assieme verso ovest, trascinandosi dietro centinaia di litri
d’acqua prelevati da quello specchio d’acqua che
era stato la loro casa per più di un secolo, al fine di
mantenere idratati gli uomini pesce fino al loro arrivo al mare.
Poi c’era stata la lenta e faticosa risalita lungo il
versante orientale di quei monti, ora così lontano.
I bambini e i pochi adulti seduti sul suo carro.
Le facce estasiate dei giovani al tocco freddo dell’aria
montana e quelle terrorizzate degli anziani, che mai avrebbero voluto
lasciare le loro case.
Proteo, rinchiuso tra le quattro pareti trasparenti di una vasca, che
continuava a guardare dalla testa della colonna il laghetto che aveva
protetto da ben prima che Farionim arrivasse per edificare
l’Oasi.
Le notti fredde e i giorni assolati di viaggio.
La distanza che aumentava sempre più tra i componenti di
quella carovana.
La nebbia che li aveva colti di sorpresa quando il valico era
così vicino.
Le urla dei più piccoli tra loro.
La ruota del carro che si spostava troppo a sinistra, non trovando
più un sentiero sul quale appoggiarsi.
La caduta nel baratro sottostante, vertiginosa.
L’aria che gli fischiava attorno, le urla, i corpi che
fendevano l’aria intorno a lui, gareggiando per arrivare al
suolo.
Il silenzio.
Si ricordava del dolore che avvertiva in tutto il corpo, della pelle
lacerata, mentre la melassa che scorreva assieme al suo sangue si
ritirava nelle sue vene. Si ricordava delle numerose ferite che aveva
addosso, là dove la sua maledizione non era riuscita a
proteggere le sue membra.
Lui, però, era vivo, al contrario delle decine di cadaveri
che lo circondavano, in parte coperti dai resti del carro su cui
avevano viaggiato.
Aveva urlato fino a stare male, là, in mezzo alla nebbia, ma
nessuno lo aveva sentito.
Solo diversi giorni dopo era riuscito, da solo, a raggiungere la
sommità mozzata del Flentu Gar e vedere, finalmente, i
territori occidentali.
All’epoca, quei monti non erano ancora una distesa bruciata, la
Piana Umana esisteva ancora, così come il regno nanico che
sotto di essa scavava per ampliare le sue città.
Della sua carovana non vi era alcuna traccia.
- Noir! Muoviti! Non voglio che arrivi il buio mentre siamo ancora qui.
–
La voce di Razer lo riscosse dai suoi ricordi.
- Scusa, hai ragione… - borbottò il discendente
di Reis, tornando a guardare verso la loro meta, ovunque essa fosse sui
monti che gli stavano di fronte – Quanto dovrebbe mancare?
–
- Non molto, è una questione di ore. Se non ti fermi ogni
dieci minuti potremmo arrivarci per questa sera. –
- Va bene. Andiamo. –
Noir non era certo che quella fosse la cosa migliore da fare, ad ogni
passo era sempre più tentando di voltarsi e tornare a
nascondersi sotto il folto della Grande Vivente, sperando che nessuno
riconoscesse il suo volto.
D’altra parte, però, l’assassino che
stava seguendo era l’unico uomo che, da
vent’anni a quella parte, era stato in grado di
dargli una certezza.
Riprese quindi a camminare, cercando di ignorare il vento
che…. sotto la… giacca.
La Trama si sta
contraendo in maniera decisamente anormale.
Non è come
quando quei cinque assassini idioti evocarono Terra in persona su
questi monti, all’epoca era stata scossa da un potere che non
poteva contenere, adesso è come se qualcuno stia
cercando di forzarla…
Strano.
Non avevo mai visto una
cosa del genere e, dannazione, non sono ancora guarito abbastanza per
andare a cercare al suo interno la causa.
Sarà una
delle prime cose che farò quando sarò libero.
I destini dei mortali si intrecciavano gli uni sugli altri,
scambiandosi di posto, allontanandosi, per poi riunirsi, come fili
colorati che, a chi riesce a vedere l’insieme, danno vita a
un drappo ricamato.
Quei destini dipingevano una collina, un luogo paradisiaco, sulla cui
sommità la struttura di un piccolo teatro si ergeva come un
tempio.
Melodia sa cosa deve fare.
Il vento soffiava lieve tra le canne che erano cresciuti poco lontano
da quel luogo, riempiendo l’aria di un dolce suono al quale
si sovrapponeva il gracidio delle raganelle.
Figure diverse affollavano l’area circostante e gli spalti in
pietra che si sollevavano per pochi metri come una massiccia scalinata.
Umani, animali, figure eterei dai bordi poco definiti.
Una bambina dai capelli rossi come il fuoco scoppiettante si dondolava
al di sopra del palco, seduta sulla traversa alla quale era stato
legato un sipario, ora aperto. I suoi abiti erano sgargianti, i larghi
pantaloni dorati e la camicetta verde come l’erba primaverile.
Davanti a questa, seduta composta sul livello più basso
dello spalto, stava una sagoma umana dall’uniforme colore
grigio, che puntava il volto piatto, privo di ogni imperfezione o
accenno a degli orifizi, verso la scena che sembrava non voler
cominciare.
Accanto a lui turbinava una nuvola densa, dall’odore acre,
che scrutava il mondo con gli occhi di brace che si potevano
riconoscere al suo interno.
Due livelli più in alto, dietro di loro, una donna dal seno
prosperoso guardava il cielo, sdraiata sulla piatta superficie di
pietra. Solo ogni tanto rompeva la sua immobilità per
portare alle labbra carnose incorniciate da boccoli mori lucidi acini
d’uva.
Un gatto sornione le si accoccolò sul ventre, lisciandosi la
pelliccia fulva prima di appoggiare la testa e socchiudere le palpebre.
Sul palco si trascinò un uomo magro, deperito e martoriato
da decine di tagli e abrasioni. Gli occhi spenti, disperati,
guardavano un punto non ben definito davanti a lui.
L’ultimo atto
di questa storia.
Il momento culminante in
cui bisogna rapportarsi con la realtà e fare i conti con
ciò che si è fatto.
Passi tonanti scossero il teatro. Suole metalliche battevano un ritmo
militare.
Un adone rinchiuso in un’armatura lucente si portò
di fronte al disperato, scrutandolo con occhi severi attraverso le
fenditure del suo elmo dorato.
Le sue mani si strinsero sull’imponente spada dalla lunga
impugnatura che stavano sorreggendo.
La lama si alzò verso l’alto per poi abbattere la
sua punta sul capo dell’uomo, come una ghigliottina
inarrestabile.
Tutto tacque, il vento tra le canne, il gracidio delle raganelle. Un
silenzio tombale aveva preso il possesso dell’area.
Un paio di mani cominciarono a battere affannosamente, mentre la
bambina che le possedeva si dimenava sul suo trespolo,
finché non perse l’equilibrio e cadde di schiena
sul palco, poco lontano dal cadavere che lì giaceva. I
capelli rossi le ricaddero sul viso, coprendo il volto tondeggiante.
Dovevi proprio?
Non riuscivi a
trattenerti?
La donna sdraiata sugli spalti soffocò un risolino cercando
di trattenerlo, mentre un altro acino scompariva tra le sue labbra.
- Non potevi rimanertene da parte a guardare? – chiese
stizzito il cadavere, inchiodato al suolo dalla pesante arma che gli
trapassava il cranio.
- Certo che no. Avanti, Tragedia, se non fossi caduta Passione non
avrebbe mai riso! – protestò la bambina con voce
stridula, rimettendosi in piedi e spolverando i suoi abiti da una
polvere che solo lei vedeva.
Lo spadone si mosse, staccandosi dalla superficie del palco per alzarsi
di qualche decina di centimetri. Il piatto della lama colpì
poi il petto della bambina, facendola cadere fuori dai limiti del
teatrino.
- Oh, avanti, perché l’hai fatto? –
piagnucolò la bambina alzandosi nuovamente da terra,
guardando con una tenera faccia imbronciata l’uomo in
armatura.
- Hai ridicolizzato la morte di un uomo distrutto. – disse
con voce cavernosa il soldato, tornando ad appoggiare lo spadone per
terra.
- Ma era così noioso! – continuò
petulante la bambina dai capelli rossi, pestando un piede per terra
– E poi Tragedia fa sempre le stesse cose. Muore uno, muore
l’altro, muoiono tutti, uno si salva per poi morire, uno
muore, resuscita e muore di nuovo, uno vede i suoi parenti assassinati,
ammazza il loro aggressore e poi ci muore. Morte, morte e morte!
È una noia! –
- Non è una noia. È triste. E la tristezza ti
aiuta a stare meglio. – disse pacatamente il cadavere
alzandosi in piedi, mentre le ferite che gli costellavano il corpo
scomparivano, venendo coperte da una pallida carnagione cadaverica.
- Beh, a me no! – La bambina si voltò facendo
qualche passo per allontanarsi dal palco, per poi bloccarsi di colpo
– E se proprio lo volete sapere, Melodia è
più bravo a suonare quando lo faccio divertire io.
–
La bambina tornò a camminare, scendendo pian piano verso il
laghetto dove una raganella sguazzava spensierata.
Maledetta irresponsabile.
- Non sei stato un po’ insolente? – chiese
l’anfibio uscendo dall’acqua e avvicinandosi alla
nuova arrivata.
- Insolente? – chiese la bambina dai capelli rossi con una
voce totalmente differente, matura, sicura di sé, sedendosi
sulla sponda sassosa – Sono la regina
dell’insolenza! Porterò le meraviglie
dell’insolenza a tutti gli uomini di tutto il mondo,
canteranno dell’insolenza! Balleranno
sull’insolenza! Saranno insolenti con l’insolenza!
– Le labbra di quel viso paffuto si piegarono in un sorriso
divertito, mentre la sua voce tornava ad essere acuta e petulante
– E, poi, Tragedia è veramente noioso.
Perché papà l’ha fatto così,
secondo te? –
La raganella gracidò sommessamente, facendo vibrare la sua
gola gonfia.
- Beh, ha fatto te. – rispose poi l’anfibio
– Lui è già un bel passo avanti.
–
La bambina proruppe in una risata cristallina mentre la sua schiena
scendeva all’indietro finché non si
posò sul terreno.
- Melodia? – tornò a dire con voce matura la
creatura dai capelli rossi.
- Si? –
- Mi suoni qualcosa con le canne? –
- Cosa vuoi? –
- Qualcosa di tranquillo, vorrei far finta di dormire. –
La bambina chiuse i suoi occhi chiari, attendendo che la musica
giungesse alle sue orecchie.
Un leggero vento si levò serpeggiando sul laghetto e
avventurandosi tra le alte e fini canne che vi crescevano
all’interno, facendole vibrare, dapprima piano, poi sempre
con maggiore intensità, in un lento crescendo. Le
più piccole spargevano note chiare nell’aria,
dando vita al sottofondo cupo prodotto da quelle più anziane
e spesse. |
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Capitolo 26 *** Capitolo 12.5: Mia salvatrice ***
Il corvo atterrò di fronte ad una piccola casupola su due
piani che si ergeva stoicamente in mezzo ad un paesaggio desolato.
Le pietre che ne componevano la base erano state annerite dallo stesso
fuoco che aveva reso quei monti sterili; salendo più in alto
nella struttura, le pietre erano diverse, forse estratte da
un’altra cava in un secondo momento, dopo il passaggio di
quel terribile incendio.
La porta in legno risultava fuori posto in quel luogo che sembrava aver
deciso di non ospitare più nessun vegetale.
Il corvo crebbe di dimensioni, assumendo fattezze umane.
Che viso avevo
all’epoca?
Ero sicuramente un elfo
dai capelli neri, magro e alto, quindi immagino avessi anche il viso
appuntito.
Mi pare fosse un corpo
molto simile a questo.
Un elfo in abiti eleganti si sistemò la giacca scura che
copriva il suo corpo snello, lisciandosi i capelli scuri che gli
incorniciavano il volto.
Si, molto meglio i
capelli neri con la ciocca bianca.
L’ispettore
biondo è stato decisamente un momento buio della mia
esistenza.
Le suole rigide batterono più volte sulle rocce annerite,
fino a raggiungere la soglia di quella dimora, dove si fermarono.
Un pugno batté quattro volte sulla superficie nuda della
porta, per poi ricadere lungo il corpo.
L’elfo rimase rigido davanti a quell’ingresso,
respirando appena.
Non pensavo che sarei
mai tornato qui.
L’ultima volta
non mi ero reso conto di quanto fosse forte l’odore salmastro
del mare.
A quanti metri di
altitudine sarò? Duemila? Duemila e cinquecento? Forse un
po’ di meno, con il Passo Marino così vicino.
Vabbè.
Avrò modo di esporre un reclamo ad Acqua quando
avrò finito qui.
Si sentirono dei passi leggeri dall’interno
dell’abitazione. Erano incerti, corti, ma direzionati verso
la porta a cui avevano bussato.
Qualcosa frusciò contro il legno di
quell’ingresso, per poi arrestarsi con un clangore metallico.
- Razer? Sei tu? – chiese una voce femminile, ovattata,
dall’interno dell’abitazione.
- No, sono un suo amico. Ci eravamo dati appuntamento qui
l’ultima volta che ci siamo visti. Pensavo mi stesse
precedendo, ma, a quanto pare, sono stato più veloce io.
–
- Fa affari con mio fratello? – continuò la donna
dalla parte opposta di quell’ingresso – Comunque,
non mi stupisce che sia in ritardo ad un appuntamento. È
sempre in giro a lavorare, torna a casa solo ogni tanto. Posso sapere
il suo nome? –
Cos’avevo
detto, all’epoca?
…
Oh, si. Certo.
Quello schifo di nome. E
io che speravo di non ritrovarmi mai più ad usarlo.
- Comvia, signorina. –
- Comvia? – chiese lei quasi ridacchiando – Mi
sembra di averlo già sentito questo nome. È da
tanto che conosce mio fratello? O forse è un amico di
vecchia data di mio padre? –
- Credo di potermi definire più un conoscente di sua madre,
ci siamo intrattenuti a parlare di teologia, una volta. A proposito,
come sta? Dovrebbe avere una cinquantina d’anni, oramai,
quella buona donna. –
- Oh… lei non lo sa… I nostri genitori sono morti
quando queste montagne vennero bruciate. Ma non si preoccupi,
prego, venga dentro, potrà aspettare mio fratello al calore
della nostra stufa. –
- Date sempre ospitalità ai viandanti che vi passano davanti
all’uscio, vedo… -
La serratura scattò, accompagnata dal suono di un
catenaccio che sbatteva contro la superficie di legno che bloccava il
passaggio.
La porta si aprì verso l’interno, accompagnata
dalla mano guantata di una donna con indosso un largo abito marrone. Il
suo volto era solcato da profondi segni lasciati da
un’ustione estesa, che gli coprivano gli occhi e avanzavano
quasi a raggiungere le guance, i suoi capelli faticavano a ricoprire
buona parte della fronte, marchiata da quelle cicatrici.
- Mia madre ci ha sempre insegnato a lasciare la nostra casa aperta a
tutti. È stato mio fratello a costringermi ad usare il
catenaccio, ha paura che qualche malintenzionato possa sfruttare la mia
condizione. Prego, signor Comvia, mi segua. –
La donna si voltò e, appoggiata la mano sinistra contro la
parete per guidarsi, percorse tutto il perimetro della stanza, fino a
raggiungere i montanti di una porta che si apriva sulla parete a
sinistra rispetto all’ingresso principale di
quell’abitazione.
Potrei cominciare ad
immaginare perché quell’assassino sia diventato
tale.
Non se la sono vista
bella.
Di sicuro, lei non ha
più visto nulla, da quando Loro ordinarono
l’epurazione di qualunque cosa su queste montagne…
Non credo di essere
molto in vena di battute, a riguardo.
L’elfo si fece avanti, misurando i suoi passi.
Distrattamente si chiuse la porta alle spalle, mentre il suo sguardo
studiava gli interni spogli intorno a lui.
La stanza era per la maggior parte vuota, le pietre a vista delle
pareti sporgevano senza un apparente motivo, dando alle stanze una
parvenza rurale. Nessun tappeto era stato sistemato per terra per
cercare di trattenere il calore dell’aria, non
c’era nessuna tovaglia a coprire il tavolo mal piallato che
occupava il centro di quell’atrio, solo la massiccia trave in
legno che percorreva il soffitto donava una nota calda alla dimora.
L’elfo continuò a camminare lentamente, passando
sotto all’architrave della porta che poco prima era stata
superata dalla donna.
La cucina era piccola, una stanzetta invasa dall’aria
bollente in cui una stufa in ferro conservava una fiamma ardente. Ai
suoi piedi, disposti per formare una piramide la cui parte superiore
era stata asportata, erano stati impilati numerosi pezzi di legno.
- Posso mettere sul fuoco dell’acqua per un tè, se
le fa piacere. – riprese la donna, abbandonando la sicurezza
del contatto con il muro per avvicinarsi a una credenza senza ante, in
cui del pentolame riposava solitario.
- Volentieri, grazie. Se vuoi posso darti una mano. – fu la
risposta dell’elfo tatuato, che subito si mosse per
raggiungere la cieca.
- Non si preoccupi. L’ho già fatto centinaia di
volte. –
Le mani della donna si mossero verso l’alto,
finché le sue dita non urtarono un pentolino, su cui si
strinsero per portarlo verso il basso, dove in un barile ristagnava
dell’acqua limpida, che subito riempì il
recipiente che gli venne immerso dentro.
Con le mani guantate ancora gocciolanti, la donna si voltò
in modo che il calore emanato dalla stufa le scaldasse il viso, fece
pochi passi avanti, per poi fermarsi ed appoggiare il pentolino sulla
piatta superficie di ferro che precedeva l’uscita della canna
fumaria annerita, che scompariva poco più in alto nel
soffitto della stanza.
- Sa, - continuò la donna , tornando sui suoi passi fino
alla credenza, dai cui ripiani più bassi trasse una teiera
in ceramica e un sacchetto di tela chiuso da un legaccio –
dopo un po’ ci si abitua a tutto quel che il Fato ci mette
sul cammino. –
- Vorrei proprio sapere cosa stava pensando quando ha scritto di te.
– le rispose l’elfo, guardandola armeggiare con le
foglie profumate contenute nel sacchetto con uno sguardo rattristato.
- Mia madre direbbe che mi ha voluto mettere alla prova. –
- Tua madre era troppo ottimista quando parlava di lui. –
- Può essere, ma perché io e mio fratello saremmo
sopravvissuti, se il Fato non avesse un piano per noi? –
Questa è
un’ottima domanda a cui voglio trovare una risposta.
Tu sei presumibilmente
nata e cresciuta su queste montagne, questo vuol dire che il tuo
destino ha incrociato quello di altre persone relativamente poche volte.
Posso essere indebolito,
ma un fato così pulito riuscirei a leggerlo anche da
bendando.
…
…
…
Dannazione.
Ho fatto un casino.
Cioè il Fato
ha fatto un casino, ma io ho fatto il misfatto.
Lei è un Buco
nella Trama, come quel disgraziato di suo fratello e io ne sono la
causa.
…
Forse è il
caso, a questo punto, che vi spieghi bene cosa siano i Buchi nella
Trama.
Le persone hanno tutte
un destino, potete immaginarvelo come uno spesso filo di lana non teso.
Ogni volta che due persone si incontrano, i loro fili si intrecciano
per un tempo più o meno lungo, variando leggermente il loro
percorso.
Su ognuno di questi fili
ci sono, di tanto in tanto, dei chiodi inamovibili a cui sono fissati,
quelli sono i Punti Fermi, le Mete, quello che il Fato ha
effettivamente scritto su quel suo libraccio.
Una persona normale,
nella sua vita, ha infiniti possibili tracciati da percorrere, ognuno
dettato da quanti e quali incontri ha fatto, ma qualunque di queste
possibilità porterà sempre alla Meta successiva.
Poi possono succedere i
casini.
Esempio veloce, quel
Noir.
Il Demone ha preso
possesso di Reis, stravolgendo il suo destino e facendo saltare tutti i
chiodi delle sue Mete. Ha rapito Nestra, ma questo potrebbe non aver
corrotto il suo capitolo nel libro del Fato, tuttavia, l’ha
messa incinta. Non c’è da nessuna parte un
capitolo dedicato a quel Noir, lui non esiste nel piano originale del
Fato, quindi non ha un suo filo di lana. Ogni volta, quindi, che lui
entra in contatto con una persona normale rischia, a sua volta, di far
saltare dei chiodi o, peggio, di troncare dei destini prima del tempo,
come quei sacerdoti nel tempio.
Ora, questo era il caso
semplice, quello a forma piramidale in cui c’è una
causa univoca, l’aver messo incinta Nestra, che provoca una
serie di eventi a catena.
Mettiamo, invece, che un
gruppo di persone entri in contatto con un essere privo di un fato
scritto, come può esserlo un dio, un servitore o un Buco
nella Trama, cosa potrebbe succedere? Nel migliore dei casi, nulla, nel
peggiore, ovvero quando si è prossimi a una Meta, si
può provocare una reazione a catena in quel destino e creare
una scheggia che continua a vagare.
Io sono
l’essere senza fato in questione e questa ragazza,
probabilmente, sarebbe morta insieme ai suoi genitori, se non fosse
entrata in contatto con me.
Il Fato mi
avrà anche salvato la vita, ma ha creato un mostro e una
creatura sofferente.
- Probabilmente hai ragione. – le rispose l’elfo
con un sorriso triste sul volto.
Non appena l’acqua cominciò a borbottare dentro la
pentola abbandonata sulla stufa, la donna si precipitò a
spostarla da lì, per rovesciarla, poco a poco,
all’interno della teiera in cui erano state sminuzzate le
foglie contenute nel sacchetto, ora adagiata sullo stesso tavolino a
cui era appoggiato l’elfo in abiti eleganti.
- Tra poco sarà pronto. – disse soddisfatta la
donna quando la pentola che teneva tra le presine in stoffa si
alleggerì completamente - Che sbadata che sono,
ancora non mi sono presentata, il mio nome è…
–
- Lucya, se non mi ricordo male. –
l’anticipò l’elfo.
- Giusto… mi continuo a far mettere fuori strada dalla sua
voce. Se ha conosciuto i miei genitori, sicuramente le avevano parlato
di me. Se posso permettermi, quanti anni ha? La sua voce sembra
così giovane. –
- Troppi da portare sulle spalle ma troppo pochi per continuare a farmi
dare del lei. – fu la risposta scherzosa
dell’ospite.
Non è mai
bello per un immortale rivedere le persone che si sono già
incontrate.
Il tempo è
sempre inclemente con tutti, che siano eroi, assassini o la bambina a
cui devo la vita.
In questo caso, poi, la
pillola è resa ancora più amara dalle condizioni
in cui è adesso.
Ci si può
quasi convincere che il tempo non stia procedendo, se si incontrano
solo persone nuove e non si torna mai sui propri passi.
- Dimmi… Comvia, eri mai stato qui, prima
dell’incendio? –
- Probabilmente si. Dopotutto sono stato quasi ovunque, su questo
mondo. Potrei anche già averti incontrata, magari quando eri
più piccola. –
- Non so proprio, ma il tuo nome non mi è nuovo. –
Lucya si interruppe di colpo, annusando l’aria con il naso
sformato dalle ustioni – Credo che il tè sia
pronto. –
La cieca tornò ancora una volta indietro. Dalla credenza
prese a colpo sicuro due delle sette tazza che erano state sistemate
una accanto all’altra nel ripiano più basso di
quel mobile.
Appoggiate anche queste sul tavolo, alzò il capo, cercando
di indovinare la posizione dell’ospite in distratto silenzio.
- Posso chiederti di riempire tu i bicchieri? –
L’elfo sorrise divertito per un momento, quasi si fosse
dimenticato che non poteva essere visto dalla donna che gli stava
davanti. – Certamente. –
L’acqua dal colore verde intenso gorgogliò fuori
dal beccuccio della teiera, cadendo all’interno delle due
tazze che le stavano sotto.
- Mi spiace, ma non ho più del miele per addolcirlo. Mio
fratello dovrebbe portarmene un po’ quando
arriverà. –
- Non importa. Dimmi un po’… - l’elfo
prese un sorso della bevanda bollente, prima di continuare il suo
discorso.
Per fortuna la
propensione all’omicidio non è un tratto di
famiglia.
Devo capire cosa ha
portato Razer ad essere quello che è, a fargli rendere la
MIA maschera un simbolo di morte.
Dannazione, a saperlo
prima non mi sarei mai privato di quei cinque centimetri
d’altezza.
È anche vero
che all’epoca ero quasi morto, con due costole in meno e
buona parte degli organi interni sacrificati per tamponare la mancanza
di sangue. Probabilmente il prevedere che quel dono potesse portare
alla morte di decine di draghi non era alla mia portata.
- Dimmi un po’ - proseguì – Tu e tuo
fratello avete ereditato i poteri innati di vostra madre? Mi ricordo
che lei era in grado di generare luce. –
- Mi ricordo che mio fratello sapeva lampeggiare debolmente di blu, ma
non so se negli ultimi anni abbia imparato a fare altro. Io, invece,
non sono mai riuscita a fare nulla. –
- Sai, ho incontrato Razer meno di una settimana fa, sul Continente. Ci
siamo appena incrociati, il tempo di uno scambio di colpi, potremmo
dire. Comunque non mi aveva detto nulla della vostra situazione.
– continuò l’elfo, tornando a
sorseggiare il suo tè.
- Non mi stupisce, non gli piace parlare molto… della nostra
situazione. Penso che i suoi continui viaggi di lavoro gli servano per
non pensarci… -
Il volto rovinato dal fuoco di Lucya si adombrò, mentre le
sue mani scendevano sempre più giù,
finché il fondo della sua tazza non toccò la
superficie del tavolo.
Ci fu un momento di silenzio.
La tazza dell’elfo si appoggiò sul tavolo,
accompagnata da un suo sospiro.
- La sera è ancora lontana e non voglio starmene con le mani
in mano. Dimmi, mentre aspetto tuo fratello, cosa posso fare per
ripagarti dell’ospitalità? –
- Niente, davvero. Non potrei mai… -
- Ti proibisco di lasciarmi con le mani in mano. Avanti, avrai bisogno
di qualcosa. –
- Potresti… portare un po’ di legna in casa
prendendola dalla legnaia che c’è fuori. Ma, per
favore, non stancarti troppo per me. –
- Ci vorrà molto di più per farmi stancare. Tu
riposati e non preoccuparti. – furono le ultime parole
dell’elfo prima di lasciare la stanza.
Non so come si
concluderà questo capitolo.
Cioè lo so
perfettamente. Arresterò, con le buone o con le cattive,
quell’assassino che ha infangato la mia maschera e,
probabilmente, condannerò a morte certa Lucya qui, da sola,
su queste montagne.
…
Odio questa situazione.
Ho già
ucciso, in tempo di guerra, in tempo di pace, persone, animali, ricchi,
poveri … Oramai ho troncato tanti di quei destini prima del
tempo da averne perso il conto.
Però…
però.
Qui siamo su un livello
totalmente diverso. Al di là che sto cominciando a provare
un briciolo di compassione per un pluriomicida, quei due mi hanno
salvato la vita.
Se Lucya, guidata o meno
dal Fato, non mi avesse trovato moribondo, dubito che sarei arrivato a
sbeffeggiare un Follia sconfitto, per quanto, probabilmente, Seila
sarebbe comunque riuscita a morderlo, in qualche modo.
Potrei provare a trovare
una via di mezzo. Un “abbiamo lottato ed è finito
in un crepaccio”.
Dovrei però
riuscire a convincerlo a fermarsi, per quanto ce l’abbia con
i draghi.
E, a questo punto,
capisco anche come mai ce l’abbia con loro.
Un bambino che guarda in
cielo, vede qualche lucertolone volante che incendia qualunque cosa si
trovi su questi monti, gli distrugge la casa, gli uccide i genitori e
gli acceca la sorella… minore, se non ricordo male.
Dannazione, il mondo
è davvero troppo complicato, per me.
Il sole scese sempre più in basso, arrossando prima le
fronde della Grande Vivente, per poi riflettersi sul mare lontano.
L’aria, sui pendii di quei monti, mentre il cielo si incupiva
in attesa che la luce argentata della luna superasse le creste
più alte per illuminare il terreno profanato, si fece
più fredda.
L’elfo infilò un ciocco di legno nella stufa,
ammirando per un paio di secondi le fiamme lambire vivacemente la
superficie spaccata da un’accetta, prima di richiudere lo
sportello metallico, ormai rovente.
Ho avvertito un
movimento insolito nella Trama, mentre ero fuori.
La sensazione generale
era come vedere la pinna dorsale di uno squalo fendere
l’acqua. Un Buco nella Trama che si muove nel Creato.
Credo che Razer sia in
dirittura d’arrivo, con almeno un giorno di anticipo sulla
mia previsione, tra l’altro.
- Credo di aver visto qualcuno muoversi sui sentieri che portano al
Passo Marino, prima. – disse l’elfo, raggiungendo
la cieca che stava seduta su una sedia nella sala principale
– Probabilmente era tuo fratello che stava arrivando.
–
- Lo spero tanto. – fu la risposta speranzosa della donna,
che sorrise.
Dei colpi decisi si abbatterono sulla superficie della porta.
Lucya si alzò dal suo posto, avvicinandosi con le braccia
protese di fronte a sé alla fonte di quel rumore.
- Razer, sei tu? –
- Si, Lucya. Sono tornato. Sulla via ho trovato un uomo che avrebbe
bisogno di ospitalità, non è un problema per te,
vero? In ogni caso potrà darti una mano. –
Dannazione, si
è portato dietro la progenie di Follia.
Non tanto per quel
poveraccio ricercato, quanto per gli effetti che la sua presenza ha sul
mio corpo.
Vabbè,
vedrò di sfruttare l’occasione per liberarmi
completamente della mia menomazione, sperando che abbia capito
correttamente come reagisce questa ferita.
Per fortuna ho
già cestinato l’aspetto dell’ispettore,
non possono riconoscermi.
La porta si aprì, permettendo ai due uomini infreddoliti
dalla notte di entrare nell’abitazione.
- Oh, Razer! È venuto un tuo amico a trovarci. Si chiama
Comvia, mi ha detto che conosceva anche i nostri genitori. –
L’elfo dal viso tatuato sorrise sornione, portandosi
l’indice destro alle labbra per intimare ai due nuovi
arrivati di rimanere in silenzio. Chiuse poi il pugno, soffiandoci
sopra, mentre i suoi occhi non si staccavano dal viso dal colorito
cadaverico di Razer.
Un fazzoletto bianco cadde a terra lentamente quando le dita smisero di
serrarsi.
Angolo dell'Autore:
Si, è un capitolo X.5, e sì, questo è
un angolo dell'autore.
Ho avuto... incidenti di percorso, ultimamente. Niente di importante,
ma sono rimasto impantanato e non tutto quello che volevo fare
è stato realizzato.
Comunque, mi sono perso l'occasione di farvi gli auguri di Natale,
lasciatemi almeno farvi quelli per il nuovo anno.
Ho tante cose di cui parlare, il mio silenzio è stato troppo
lungo.
Iniziamo dal Viandante e dal suo nuovo-vecchio incontro..
Ho bisogno di sapere, sono stato abbastanza specifico da permettervi di
capire chi sia Razer in realtà. Oramai, secondo il mio metro
di misura dovrebbe essere chiaro a tutti, dovrei essere riuscito a
farvi riaffiorare i ricordi riguardo a quello di cui stiamo parlando.
Razer e Lucya Donier.
Gli stessi personaggi che, da bambini, incontrarono il Vindante, che lo
salvarono portandolo a casa loro nel capitolo 50.5 del Ritorno
dell'Ombra. Un ritorno non male, no?
Ho lasciato degli indizi, lungo il percorso, per permettervi di
avvicinarvi alla vera identità dell'assassino. La maschera,
quella maledetta mescherà che Commedia creò
direttamente sul volto di Razer, il potere di utilizzare la luce e,
poi, i riferimenti alla sorella e alla casa sui Muraglia.
Oramai, dopo la bellezza di troppi capitoli conoscete la VERA
identità di tutti i personaggi. Una Musa, la progenie del
Demone e il bambino della storia precedente.
Dall'altra parte abbiamo le frasi in grassetto e... l'excursus sul
passato, potremmo dire, anche se non è ambientato in un
momento definito.
Vi ho solo cominciato a presentare alcune delle muse, ma ne ho ancora
molte da scoprire. E da uccidere, perchè lo sappiamo tutti,
qualcosa le ha uccise tutte meno che due.
Ringrazio tutti voi che siete arrivati qui, OldKey, whitesky e la
ragazza imperfetta per le recensioni e, quest'ultima, per il lavoro che
fa per me dietro le quinte e... boh.
Buon anno a tutti, ci torniamo a vedere il primo venerdì del
2018.
Vago
|
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Capitolo 27 *** Capitolo 13: L'accordo ***
Erano passate più di due settimane da quando aveva lasciato
quei sentieri montani, in favore delle strade che, dalle ultime colline
ai piedi dei Muraglia, si diramavano verso la Grande Vivente e, da
lì, in direzione del mare occidentale.
Si sarebbe dovuto fermare a comprare del miele, durante il viaggio di
ritorno.
Razer strinse le spalle, ci avrebbe pensato durante la sua prossima
uscita.
Aveva guadagnato a sufficienza, nella prima settimana a Gerala. Presto
sarebbe riuscito a pagare qualcuno perché rimanesse con sua
sorella mentre lui era in viaggio.
Noir, alle sue spalle, arrancava sempre più a fatica lungo
il pendio adombrato dalla sera.
- Muoviti, non ho intenzione di dormire all’esterno quando
sono così vicino a casa. – lo riprese
l’uomo dal polpaccio ustionato, fermandosi nuovamente.
- Sai… - gli rispose ansante il trentenne magro –
Nell’ultimo anno sono rimasto fermo in un piccolo villaggio
ad intrecciare ceste e conciare pelli, non sono proprio in forma.
–
- Non mi interessa. Avanti, meno di un’ora e avrai un
maledetto tetto sulla testa. –
Aveva bisogno di lui. No, aveva bisogno del suo potere.
Sarebbe rimasto tranquillo per un po’, lasciando calmare le
acque, per poi tentare qualcosa di grande, avrebbe ucciso il re di quei
mostri, avrebbe mozzato la testa di quella razza infame.
I due uomini superarono la cresta che gli stava davanti,
iniziando così a scorgere le mura di pietra di una casupola,
dalle cui finestre si spandeva debolmente la luce rossastra di un fuoco
ardente.
Razer si fermò davanti all’ingresso, battendo
più volte i piedi, per far staccare i rimasugli di terra,
che erano rimasti intrappolati nelle suole.
Noir gli era rimasto pochi passi indietro, come se avesse paura di
avvicinarsi a quella porta.
Le nocche dell’uomo dagli occhi scuri batterono
più volte contro la superficie di legno, facendo vibrare i
cardini di ferro. Il catenaccio che la teneva chiusa dalla parte
opposta tintinnò.
- Razer, sei tu? – chiese una voce femminile
dall’interno.
- Si, Lucya. Sono tornato. Sulla via ho trovato un uomo che avrebbe
bisogno di ospitalità, non è un problema per te,
vero? In ogni caso potrà darti una mano. –
Il catenaccio si mosse, permettendo alla porta di aprirsi.
Razer fece per abbracciare la sorella.
- Oh, Razer! È venuto un tuo amico a trovarci. Si chiama
Comvia, mi ha detto che conosceva anche i nostri genitori. –
L’uomo dal polpaccio ustionato si bloccò, voltando
il capo per cercare di capire a chi si riferisse la sorella.
L’elfo dal viso tatuato sorrise sornione non appena lo
sguardo di Razer si posò su di lui, per poi portarsi
l’indice destro alle labbra per intimare ai due nuovi
arrivati di rimanere in silenzio.
L’assassino riconobbe immediatamente il tatuaggio che
svettava sulla guancia sinistra della persona che stava seduta nella
sua casa. L’avevano mandato quelli del Tribunale di Gerala,
come del resto dovevano essere stati loro a mandare
l’ispettore biondo con cui si era scontrato ad Avaran.
L’elfo chiuse il pugno, alzandolo fino all’altezza
delle labbra per soffiarci sopra, mentre i suoi occhi non si staccavano
dal viso dal colorito cadaverico di Razer.
Un fazzoletto bianco cadde a terra lentamente quando le dita smisero di
serrarsi.
- Lucya, potresti prepararci un po’ di tè, per
favore? Devo parlare un attimo con Comvia. –
- Razer? C’è qualcosa che non va? – la
voce della donna dal viso sfregiato si tinse di apprensione.
- No, non ti preoccupare. – disse l’uomo dagli
occhi profondi cercando di controllare la propria voce –
Dobbiamo solo parlare di un po’ di cose serie. È
solo lavoro, tranquilla. Possiamo discuterne fuori, per favore?
–
L’elfo allargò ulteriormente il suo sorriso in
risposta. – Il tuo amico si unirà alla nostra
conversazione? –
Razer parve dubbioso sulla risposta da dare a quel quesito. –
Si. Penso che sia meglio che ci sia anche lui. –
- Ottimo. – sibilò l’elfo, alzandosi
dalla sedia che lo aveva ospitato fino ad allora. – Andiamo?
–
I tre uomini lasciarono nuovamente l’abitazione per
avventurarsi nella penombra della notte incombente.
- Chi sei? – chiese duro l’assassino non appena la
porta gli si fu richiusa alle spalle.
- Un attimo, ho una manifestazione d’affetto da fare.
– gli rispose l’elfo quasi ignorandolo.
Il corpo snello rinchiuso negli stretti abiti eleganti si mosse,
incurante di Razer, in direzione di Noir, che fece un passo indietro
alla vista di quel movimento.
L’elfo aumentò ulteriormente la sua andatura, in
modo da raggiungere l’uomo magro che gli stava davanti, per
avvinghiarlo in un abbraccio saldo.
- Ma che diavolo stai facendo! – urlò Razer,
cercando di raggiungere il suo compagno di viaggio.
Il corpo di Razer vibrò vistosamente, un segno premonitore
che anticipò la comparsa di un imponente aculeo che dal
ventre del discendente di Reis trapassò quello
dell’elfo tatuato, impalandolo in quella posizione in cui lo
aveva colto.
- Dannazione, fa più male di quanto immaginassi. –
sibilò l’elfo, sciogliendo l’abbraccio e
iniziando, pian piano, a sfilare il suo corpo da quella
stalattite di melassa nera.
- Come è possibile che tu non sia morto? –
balbettò Noir terrorizzato, mentre le sue gambe lottavano
per non farlo cadere nella direzione di quel nuovo peso che portava sul
ventre.
- È una lunga storia, - gli rispose l’elfo senza
smettere di spingere il proprio corpo verso la punta di
quell’aculeo. – diciamo che lo spirito del tuo avo
aveva un po’ più di volontà di uccidere
rispetto a te. –
- Ripeto. – provò ad intromettersi Razer, cercando
di riportare l’attenzione su di sé – Chi
sei? –
Lo zaino dell’assassino, intanto, aveva toccato il suolo,
aprendosi.
L’elfo continuò ad ignorare il padrone di casa, i
suoi occhi e le sue mani erano troppo occupate a controllare la
corretta guarigione del foro, che gli si apriva all’altezza
dello stomaco. Non appena i lembi di pelle si furono completamente
risaldati, sotto al tessuto degli abiti rovinati, le sue spalle si
mossero in senso rotatorio, come per scioglierle dalla tensione.
Dagli abiti eleganti si sollevò una sottile nebbia nera che,
dopo essere salita verso il cielo per una decina di centimetri, venne
risucchiata nuovamente nella giacca scura.
- Grazie ragazzino. – concluse l’elfo voltandosi
verso Razer – Ora possiamo parlare. Ti è piaciuto
il mio trucco di magia? –
- Chi sei tu? Come sei sopravvissuto? –
- Gliel’ho già spiegato. Non voleva uccidermi,
dopotutto non lo stavo attaccando. Lo schifo che ha nel sangue voleva
solo prendersi i rimasugli di demone che avevo nel corpo. E,
poi, davvero Razer, non mi riconosci? Non sono nemmeno invecchiato
dall’ultima volta. Cioè, dalla penultima volta.
–
La mano dell’assassino venne estratta rapida dallo zaino,
trascinando con sé il fodero contenente un lungo coltello e
la maschera ingrigita, dal volto ghignante.
- Non lo farei se fossi in te. E, poi, il colore di quella maschera si
è già sporcato per colpa del fuoco, non vorrei
doverla macchiare anche di sangue. – continuò
l’elfo avanzando verso l’assassino con le mani
leggermente sollevate.
Razer si sistemò con un gesto meccanico la maschera sul
volto e sguainò il coltello con un movimento fluido, facendo
cadere il suo fodero a terra.
- Davvero non sai chi sono? – continuò
l’elfo, divertito da quella situazione. – Comunque,
se vuoi giocare non sarò io a fermarti. –
L’essere in abiti eleganti si portò il palmo
sinistro al volto, come per nasconderlo.
Una sostanza bianca gli avvolse il naso, spandendosi poi lungo tutto il
viso, fino a celarlo completamente dietro le fattezze di una candida
maschera dal sorriso aguzzo, identica in tutto e per tutto, fatta
eccezione per il colore immacolato, a quella che gli stava di fronte.
Nel palmo della mano destra si aprì una ferita lunga e
sottile, che, però, non parve aver intenzione di sanguinare.
Bensì ne scivolò fuori la lama di un pugnale da
lancio, che venne saldamente stretto dalle dita affusolate.
- Questo non lo spezzerai facilmente. – disse ancora
l’elfo, con la voce ovattata dall’oggetto che gli
copriva le fattezze.
L’assassino gli si lanciò contro, tentando
più volte di colpire il collo o il torace del suo
avversario, ma ognuno dei suoi tentavi veniva facilmente evitato da
piccoli movimenti, il coltello rivale non tentava nemmeno delle parate,
tanto erano superflue.
Noir osservava la scena inginocchiato per terra, ansante, sfinito.
L’essere in abiti eleganti fece un passo avanti, tanto veloce
che Razer a stento se ne rese conto, ma non fu sufficientemente rapito
per evitare l’indice che gli avrebbe impattato la fronte, se
non ci fosse stata la maschera a proteggerla.
Una cortina di cenere abbandonò la superficie della
maschera, lasciandola perfettamente bianca, per depositarsi sugli abiti
dell’assassino.
- Molto meglio. – disse compiaciuto l’elfo,
guardando attraverso le strette fenditure a forma di V rovesciata il
volto del suo rivale, che prima risplendette di una violenta luce blu e
poi, urlando, fendette con il coltello l’aria attorno a lui,
tentando di far culminare la mezzaluna che stava disegnando nel torace
del suo rivale.
L’essere scomparve in uno sbuffo di vapore, senza lasciare
traccia di sé alle sue spalle, per poi ricomparire dietro
l’assassino.
La mano sinistra dell’elfo artigliò con ferocia la
nuca protetta dallo strato candido dell’uomo dagli occhi
profondi, tirandola verso di sé per fargli scoprire la gola,
alla quale la lama della sua arma corse.
- Ero decisamente fuori forma ad Avaran. – disse quasi tra
sé e sé l’essere, concedendosi pochi
secondi di quiete prima di continuare.
Razer ansimava immobile, con il freddo metallo del pugnale premuto
contro la gola.
- Uccidimi, forza. Così potrai portare il mio cadavere a
quei cani dei tuoi superiori. –
- Questa è l’idea principale. – ammise
l’elfo, mentre la maschera che gli copriva il viso scompariva
nell’aria, come se fosse stata solamente un miraggio
– Ma ho un debito. Speravo che questo viso, questo nome e
quell’inutile trucco del fazzoletto ti facessero tornare alla
mente chi io potessi essere, ma, evidentemente, mi sono sbagliato. Tua
sorella mi trovò in fin di vita poco distante da qui,
vent’anni fa. I tuoi genitori mi curarono le ferite e tu,
maledetto moccioso, mi portasti persino un piatto di minestra. Ancora
non ti ricordi? –
- Non è possibile che quell’uomo sia tu.
–
- Mi hai visto creare la tua stessa maschera dal nulla e scomparire
davanti a te. Cosa non sarebbe possibile? Oh, già, a
proposito della mia maschera. –
Il pugnale dell’elfo si mosse rapido, scivolando lungo il
braccio destro dell’assassino, impattando contro il
guardamano del coltellaccio nemico, facendolo scivolare via dalla mano
del suo proprietario. Completato il suo compito, il pugnale da lancio
venne riassorbito dalla mano che lo aveva brandito, scomparendo.
La mano sinistra dell’essere si sollevò dal capo
di Razer, portando con sé la maschera che stringeva.
Non appeno fu libero, Razer si allontanò di pochi passi dal
suo avversario, per poi voltarsi verso di lui solo quando
c’era una buona distanza di sicurezza tra di loro.
- Sai - riprese l’elfo, incurante di tutto – questa
maschera è un simbolo, il simbolo della commedia con una mia
leggera reinterpretazione. Te l’ho data sperando che le dessi
un significato positivo, ma tu l’hai macchiata di sangue.
Questa maschera, la MIA maschera, è stata l’ultimo
volto che quei draghi hanno visto prima di spirare. –
Le dita dell’essere si strinsero in un moto d’ira
sulla superficie candida, spaccandola in più frammenti.
- Ed ora, parliamo di affari. – riprese l’elfo
– Io ho un compito, portarti dai miei mittenti, vivo o morto.
Dall’altra parte, però, devo la vita a tua sorella
e tu, lurido cane, sei quello che le permette di rimanere in vita. Ho
un patto da proporti, tu la smetti con la tua inutile crociata contro i
draghi e io dirò Loro che, sfortunatamente, sei caduto in un
burrone. –
- Davvero mi vorresti far credere di avere una possibilità?
–
L’elfo scomparve in uno sbuffo di vapore, per poi
rimaterializzarsi a pochi centimetri dal volto dell’uomo
dagli occhi profondi.
- Potrei ucciderti in qualunque momento, ma non l’ho ancora
fatto. Non credere che il mio solo debito con la tua famiglia mi possa
trattenere ancora per molto dal mandarti nella Volta Celeste.
–
Razer deglutì vistosamente, mentre
l’oscurità della notte cominciava ad infittirsi.
Il voltò dell’essere si diresse verso il corpo di
Noir, che ancora non si era rialzato da terra. – Per quanto
riguarda te, non mi interessi. Hai sistemato quello che il tuo avo ha
rotto, quindi per me puoi andare. Cerca solo di non uccidere altri
sacerdoti. –
Razer indietreggiò ancora di un passo, come se stesse
cercando di scappare.
– Davvero mi risparmieresti? – chiese diffidente.
- Solo alle mie condizioni. Se moriranno altri draghi, se dovessi anche
solo trovare un indizio che mi possa portare a te, non
risparmierò nessuno. Né te, né tua
sorella, né altri tuoi alleati. –
La porta della casa si aprì, sopprimendo qualunque discorso
potesse ancora nascere in quel momento.
- Scusate… se vi fermerete a cena, posso chiedervi una mano
nel prepararla? – chiese la donna cieca, appoggiata allo
stipite della porta, con un lieve sorriso cordiale sulle labbra.
Gli occhi di Razer saettarono tra la sorella e l’elfo
tatuato, per poi abbassarsi, sconfitti.
- Certo, qui tanto abbiamo finito. –
I tre uomini si mossero svelti verso… timorosi
della… che… rincorrerli con… manto
scuro.
Angolo dell'Autore:
Rieccomi qui, tediarvi con altri lunghi sproloqui su robe. So che vi
sono mancato.
Prima le cosse importanti. Grazie a OldKey e la ragazza imperfetta, per
il loro continuo supporto, e grazie a tutti voi per essere arrivati fin
qua.
Ora iniziano gli sproloqui che da tanto mancano al fondo dei miei
capitoli.
I Nomi.
Mi sono ritrovato a riflettere su roba abbastanza seria, ultimamente, e
il concetto di nome mi ha dato di che riflettere.
Al di là del nome che ci è stato dato, quello
può piacerci come no, ma difficilmente ce ne separeremo.
Stavo riflettendo sui nomi che noi possiamo dare.
In primis il nome, nick, che ognuno di noi ha. Sicuramente, dietro
ognuno dei nomi che mostriamo qui, in rete, c'è una storia,
o almeno un ragionamento. Sull'origine di Vago potrei scriverci una
buona one-shot senza problemi. Ho iniziato da qui perchè
è quello che ci accomuna tutti, noi tutti abbiamo un
personaggio, più o meno fedele alla persona dietro la
tastiera, che si è generato attorno al nome che noi stessi
abbiamo scelto e, probabilmente ha guidato anche l'evoluzione del
personaggio stesso. Dubito che se mi fossi chiamato festaioloXD mi
sarei potuto permettere i discorsi che Vago mi permette di fare, o
forse no.
A cascata ci sono i personaggi dei racconti. Ho prodotto decine di
nomi, persone, cose, incantesimi, città, continenti, barche,
armi, mostri, sono talmente tanti che dubito riuscirei a ricordarmeli
tutti. I nomi importanti, però, hanno tutti una loro storia.
Ardof è stato il primo che ho scritto, il primo in assoluto,
nato da un ragazzino che prima ha provato a fare l'anagramma di drago e
poi, insoddisfatto dall'Ardog uscito, l'ha modificato a suo gusto.
Vago doveva essere Dranos Tocsin, anche qui dovuto allo stravolgimento
dell'anagramma di "drago scrittore". Ma, ammettiamolo, fa schifo. Ma
tutto questo è successo talmente tanto tempo fa da non
permettermi di ricordare se fosse nato prima il suo nome finale o il
mio nick.
Commedia non era una musa, così non era nemmeno il
Viandante, ma la sovrapposizione di più strati di scrittura
ha generato questo personaggio a cui calzano perfettamente questi nomi,
che rappresentano le due metà del suo carattere. Commedia
prende spazio nei momenti di divertimento e spensieratezza, il
Viandante è il cane mandato ad esseguire oridini.
Ma questi sono solo esempi.
Facciamo un balzo in avanti, fino ad oggi.
Noir deve il suo nome, ovviamente, almeno per me, al colore della
melassa che gli scorre nelle vene e perchè il nero
è associato al male, sempre, e lui come personaggio cerca
disperatamente di combattere contro questo pregiudizio che si ha nei
suoi confronti. Lui è semplicemente un bravo ragazzo con un
potere ereditato dal più "cattivo" esistito.
Razer, dall'altra parte, lo pensai parteto da rasoio. Perchè
già sapevo cosa avrebbe fatto, da grande, e volevo dare
l'idea per cui lui camminasse sulla lama di un rasoi, da una parte una
vita tranquilla, dall'altra quella di assassino ed ora, con questo
accordo, ha dovuto scegliere da quale parte cadere.
Sono nomi, solo nomi, ma agnuno di loro ha un suo piccolo significato,
magari importante solo agli occhi di chi gliel'ha dato.
Bene, ho parlato a sufficienza.
Buona epifania a tutti, ci vediamo venerdì prossimo.
Vago
|
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Capitolo 28 *** Capitolo 13.06: Profezia ***
Il mondo si piegò appena quando le maglie che lo
componevano si allargarono le une dalle altre, per permettere ad un
uomo esile di passarci attraverso. I suoi abiti erano consumati,
sporcati dal fango di centinaia di paesi e macchiati dal colore di
migliaia di tinture. Il venticello che lo accarezzava ne tratteneva in
parte il profumo, spandendo nell’aria la fragranza di decine
di spezie esotiche rubate.
Il suo volto pareva un’accozzaglia di fisionomie diverse, su
quel viso svettava una fronte alta, dalla quale nasceva un piccolo naso
affilato ed ai cui lati erano stati posizionati due occhi leggermente
a mandorla. La bocca fine era incorniciata da una spessa barba castana
incolta, che copriva il mento aguzzo.
La borsa che portava a tracolla, pur essendo vuota, sembrava pesante, e
la cinghia che gli si appoggiava sulla spalla pareva potersi strappare
da un momento all’altro, tanto era logora.
La punta del bastone da viaggio a cui si sorreggeva si
appoggiò sul suolo verdeggiante, precedendo i passi che lo
avrebbero portato verso la cima della collina.
La dolce melodia intonata dal vento continuò a suonare
indisturbata, ignara di quel nuovo arrivato.
L’uomo magro salì sul palco del teatrino, battendo
più volte il suo bastone contro le assi di legno che lo
sorreggevano, per attirare l’attenzione dei presenti.
I suoi occhi scuri scrutarono gli spalti, torvi.
È strano che
sia venuto fin qui. Non ci fa visita da molto tempo, oramai.
Cosa succede nel Reale di
tanto importante da richiedere la nostra attenzione?
Spero per quel maledetto
viandante che sia importante, non sono in vena di feste.
- Credo che qualcuno voglia parlare. – disse Melodia
gracidando sommessamente, mentre il venticello si dileguava, smettendo
di far vibrare le canne nate nello stagno.
- Oh, non ne ho voglia! – gli rispose lagnosa la bambina dai
capelli rossi, battendo i piccoli pugni per terra.
- Quando smetterai di recitare, con me? –
- Quando non mi darai più soddisfazioni. – gli
rispose la bambina con una voce decisamente più matura, per
poi tirare fuori la lingua dalle labbra con un gesto scherzoso.
- Andiamo, forza. – riprese Melodia –Il vento porta
un canto che non sentivo da molto tempo. Facciamo a chi arriva prima al
teatro. –
La raganella mutò rapida in un pettirosso che, cinguettando,
prese il volo verso la sommità della collina.
- Ehi! Non vale! Non hai detto via! – gli urlò
dietro la bambina, per poi scomparire a sua volta, lasciando il posto a
una lepre dal manto argenteo.
Il sole percorse in un attimo buona parte del suo tragitto verso
occidente, smettendo di scaldare con i suoi caldi raggi pomeridiani la
sommità dell'altura, in favore di una luce serale
più rossastra e soffusa. Spumose nubi bianche assunsero
tinte calde, contrapponendosi pesantemente all’azzurro del
cielo terso.
- È molto che non ti fai vedere, Epistola! –
urlò la donna formosa dallo spalto su cui era sdraiata.
Un acino d’uva perfettamente ovale attraversò l'aria, fino a raggiungere il palco su cui l’uomo restava in
piedi, da solo.
Un pettirosso e una lepre raggiunsero il piccolo anfiteatro correndo,
fermandosi, poco dopo, per poter studiare chi fosse il nuovo arrivato.
La spada del soldato in armatura si piantò nel terreno,
vibrando per la potenza del colpo.
- Fratelli e sorelle. Vorrei che le circostanze che mi hanno portato a
fare ritorno alla Trama del Reale fossero più liete. Giungo
qui perché questa è la volontà di
nostro fratello Profezia. –
- Non poteva venire direttamente quel vecchiaccio a parlarci, invece di
mandare te? – lo interruppe la bambina dai capelli rossi che
lo guardava, sdraiata per terra.
- È impossibilitato a venire. Pare che l’ultima
profezia sia stata formulata. –
- Epistola, ti rendi conto di quello che dici? – intervenne
l’essere amorfo dal pallido colorito grigio, alzandosi in
piedi – Siamo muse, non smetteremo di fare il nostro dovere
fino alla fine dei tempi. –
- Purtroppo, fratello Mito, la situazione attuale pare contraddirti.
Nostro padre è al momento impegnato e non ci può
dare udienza, vi chiedo quindi, a nome di Profezia, di seguirmi per
ascoltare le sue parole. -
Epistola ha viaggiato
troppo con i mortali. Non è possibile che Profezia abbia
terminato la sua mansione.
Nessuno di noi
terminerà mai il suo compito, non finché
rimarrà una sola mente in grado di forgiare i nostri spunti
per creare meraviglie.
Il grosso gatto che pareva essersi addormentato sul ventre di Passione
si destò, alzandosi in piedi e scendendo con grazia gli
scaloni degli spalti.
La grossa coda pelosa si muoveva lieve dietro di lui, come per
accarezzare l’aria.
- Epistola, non credi che l’essere stato per così
tanto tempo al fianco dei mortali, ti abbia fatto dimenticare quali
sono i limiti della nostra esistenza? – chiese il felino con
la voce soave di una ragazza.
- Fratelli e sorelle, vi assicuro che so bene quel che dovrebbe essere.
Ma vi posso altresì dire che Profezia, quando mi
mandò qui, fu più serio di Tragedia. Vi prego,
ancora una volta, di seguirmi. –
Il turbine di fumo dagli occhi roventi prese a vorticare ancora
più velocemente, sollevandosi dal suo seggio. La voce
cavernosa che ne seguì parve non avere un’origine
precisa.
- Nulla ci trattiene dall’andare. Avanti, cosa mai
potrà succedere, se andassimo a far visita un attimo a
nostro fratello? –
- Grazie, Terrore. – disse sollevato Epistola dal palco che
aveva occupato.
La Trama del Reale, di nuovo, ridusse la tensione dei fili che la
costituivano, permettendo alle creature che l’avevano
occupata di passarle attraverso, diretti verso ciò che si
trovava al di là e che continuava a tessere la sua forma.
Il gruppo male assortito comparve in mezzo alla fredda aria montana di
un picco innevato. Tutto intorno, diverse centinaia di metri al di
sotto, si potevano riconoscere le centinaia di montagne che
circondavano quella su cui erano arrivati.
L’aria era rarefatta, a quell’altezza, non che a
quelle creature la cosa desse particolarmente fastidio. La loro
attenzione, invece, era rivolta verso la figura ricoperta di un sottile
strato di candida neve, che restava seduta immobile di fronte a loro,
in contemplazione dell’immensità del paesaggio che
gli si apriva attorno.
- Profezia. – disse la voce cavernosa, mentre la colonna di
fumo dagli occhi ardenti superava Epistola, per potersi avvicinare
all’essere seduto – Volevi dirci qualcosa?
–
La creatura non rispose e non parve volersi smuovere.
- Fratello Profezia … - tentò timidamente
Epistola, muovendosi verso quest’ultimo.
La neve gli arrivava ben sopra le ginocchia, rallentando il suo passo.
La mano minuta del viandante barbuto si posò su quella che
doveva essere una spalla ricoperta dalla bianca cortina che continuava
a cadere dal cielo.
Il corpo di Profezia cadde indietro, facendo impattare la sua schiena
contro il soffice strato che ricopriva il suolo. Il suo viso era
rugoso, bruciato dal sole, con gli occhi vitrei che puntavano qualcosa
di lontano ed irraggiungibile. Un’immensa barba, che si
sarebbe potuta confondere tra la neve, gli adornava le guance e la
bocca, ricadendogli sui cenci di un saio che gli copriva a stento le
membra incurvate da sforzi che, probabilmente, non aveva mai compiuto.
Tragedia si fece avanti con uno sguardo adombrato.
Profezia? Cosa gli
può essere successo?
L’esile corpo martoriato si piegò su quello del
vecchio, tastandolo in cerca di una risposta di qualunque genere, che
non ricevette.
- Temo che la vita di Profezia sia terminata. Non capisco come
ciò possa essere possibile. Dobbiamo chiedere immediatamente
udienza a nostro padre. Lui saprà sicuramente il significato
di ciò. –
- Oh, avanti, Tragedia! – squittì la bambina dai
capelli rossi – Sei sempre troppo serio! Profezia non
può essere morto. Noi non possiamo morire, è
impossibile! Guarda! –
La bambina si avvicinò saltellando al corpo immobile del
vecchio barbuto, per poi afferrargli le spalle e scuoterlo
vigorosamente.
Non è
possibile. Profezia non può essere morto.
È qualcosa che
il Fato non può aver concepito, la nostra fine.
- Forza, Profezia! Non fare il solito noioso! Avanti, ci hai chiamato
tutti qui, ora non fare l’offeso! –
Il corpo non ebbe accenni di vita, dalla sua bocca socchiusa,
però, cadde un piccolo rotolo di pergamena, che si
adagiò tra le volute bianche della barba.
- Credo che Tragedia non stia sbagliando, piccola…
– Le disse dolcemente Passione, stringendo la bambina
incredula tra le sue braccia, in un caldo abbraccio.
Tragedia raccolse la pergamena tra le dita esili, srotolandola con
attenzione.
Centinaia di piccoli caratteri si susseguivano, tracciati con una
grafia perfetta, impossibile da associare alle dita raggrinzite del
vecchio immobile.
La Musa la lesse ad alta voce, nel silenzio generale che era calato.
Il Nero nacque fuori dal
trono.
Prima del salto sul mondo tastò lo stesso, concedendo
essenza a chi ne brama.
Donando la spada dalla lama non forgiata d’acciaio, che
può mietere anche le pietre.
Da qui, di tutti ne rimangono due, uno in sacrificio, l’altro
sacrificato.
La patria rinchiusa per salvarla da chi non deve vederla.
Finché l’ultimo non vedrà il Nero
fallire ed iniziare.
Io ho deciso di non essere né l’ultimo,
né l’altro. Addio, fratelli miei.
- Ottimo, non è riuscito ad essere chiaro nemmeno con il suo
ultimo respiro. Dobbiamo contattare nostro padre il prima possibile.
– disse risoluto il soldato, facendo cadere la neve dalla sua
armatura – Ma dobbiamo anche mettere in guardia
coloro che non sono presenti. Epistola, comincia a correre, devi
trovare le Muse mancanti e portarle da noi. Dì a tutti che
è un mio ordine. –
Il viandante dalla barba castana si batté il pugno destro
all’altezza del cuore, in un gesto privo di qualunque
intenzione di scherno ma, bensì, intriso di un profondo
rispetto. Il suo corpo poi scomparve, così come il profumo
esotico che emanava, venendo trasportato lontano da quel vento montano.
Il gatto scomparve, lasciando il posto ad una giovane fanciulla dai
sottili abiti che, leggiadra, camminò fino al corpo esanime,
tanto leggera da non affondare nella coltre gelida. Lì si
piegò con un gesto dolce, accarezzando la fronte rugosa
dell’uomo, chiudendo le palpebre affaticate dalle troppe cose
che aveva visto.
- Io ho deciso di non essere né l’ultimo,
né l’altro… - mormorò la
fanciulla, ritirandosi.
- Danza, cosa vuol dire quell’ultima frase, secondo te?
– chiese la bambina con la voce incrinata, sinceramente
spaventata.
- Non credo di saperlo… - le rispose sorridendo la
fanciulla – Dopotutto le parole non sono il mio forte. -
- Vuol dire che ha deciso di morire. – le rispose brusco il
soldato, voltandosi là dove le maglie della Trama del Reale
si facevano più larghe – Ed ora non cominciare a
piangere Commedia, penseremo ai morti quando nostro padre ci
assicurerà che una cosa del genere non potrà mai
ripetersi. - |
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Capitolo 29 *** Capitolo 13.5: Ritorno alle macerie ***
L’ho portato
esattamente dove volevo.
Lo sto ricattando,
usando sua sorella, ma almeno eviterò che altri draghi
muoiano per mano sua.
Ho fatto il mio lavoro e
questo sarà il miglior pasto che potrò mai fare.
Domani partirò presto per Gerala a reclamare la mia e la sua
libertà e poi… Boh, credo viaggeremo.
Non ci è
rimasto nessun posto a cui tornare, quindi dovremo farci bastare il
creato.
L’elfo in abiti eleganti lanciò la patata che
aveva appena sbucciato nel pentolone che gli stava accanto, per poi
passare a quella successiva.
La cucina sarebbe stata immersa nel silenzio, se, in quel momento, la
donna cieca non stesse fischiettando un motivetto allegro,
con le mani impegnate attorno alla carota che stava tagliando.
L’essere scostò il proprio ciuffo di capelli
candidi dagli occhi con un gesto repentino del capo, per poi alzare lo
sguardo verso la donna dai capelli castani, che pareva allegra, seppur
non avesse una ragione apparente per esserlo.
Le corde vocali dell’elfo si strinsero mentre, attorno a
loro, le pareti della gola si serravano. I suoi polmoni si riempirono
della tiepida aria montana che colmava quella casa, pronti a
restituirla all’ambiente circostante sotto l’ordine
del loro padrone.
Una serie di fischi che toccavano perfettamente le note a cui puntavano
uscì dalle sue labbra, come fosse stato il canto di un
usignolo. La nuova melodia si conciliò a quella
che già risuonava tra quelle pareti, accompagnandola come
uno strumento accordato nelle mani di un abile musicista.
Gli occhi dei due uomini, per un attimo, si posarono esterrefatti e
spaventati sulla sagoma dell’elfo, che non degnò
loro di attenzioni.
Il fischiettio di base si interruppe di colpo per permettere alla donna
di parlare.
L’accompagnamento terminò pochi istanti dopo.
- Chi è che sa fischiare così bene? Ti prego,
continua. È bellissimo. –
- Ero io. Ma non mi piace essere la voce principale, Lucya, riprendi
tu, io seguirò il tuo motivo. –
La melodia principale riprese, prima incerta, come se temesse di
sbagliare, poi mano a mano più sicuro di sé.
L’essere aspettò pochi secondi, immobile,
assaporando le note che gli colpivano i timpani, poi riprese il suo
ruolo, accompagnando quelle note con le sue, che mai coprivano la voce
principale.
L’acqua del pentolone cominciò a bollire
vigorosamente sopra il fuoco scoppiettante della stufa. Al suo interno
salivano e scendevano ritmicamente i pezzi di ortaggi.
Razer prese da parte la sorella, portandola fuori dalla cucina con in
volto una punta di preoccupazione.
L’elfo e Noir, rimasero soli tra le quattro mura che
ingabbiavano la stanza; il primo con uno sguardo serpentino e un largo
sorriso sul volto, al contrario del secondo che faceva rimbalzare i
propri occhi come una preda in trappola, osservando per pochi attimi
l’essere che aveva davanti per poi distogliere lo sguardo,
incapace di mantenere gli occhi fissi su di lui.
Finalmente il discendente di Reis osò aprire la bocca, ma il
suo sguardo continuava a rifuggire la figura maschile che condivideva
con lui la stanza.
- Cosa sei, in realtà? Cosa hai a che vedere con i miei
antenati? –
- Non ti piace girare attorno a ciò che ti interessa, vedo.
– gli rispose l’elfo alzandosi dallo sgabello che
lo ospitava, facendo sobbalzare di paura Noir.
- Ti prego, rispondimi. –
- Non credo che potrei spiegarti cosa sono in tempi
sufficientemente brevi. Adesso sono Comvia e tu devi solo sperare di
non incontrare mai il Viandante. –
- E i miei avi? Cosa sai di loro? Sei opera del Re? Ti creò
lui, come quei demoni? –
L’elfo sbuffò, in modo seccato.
- Io sono nato ben prima dell’essere che si
impossessò della mente di Reis ed io ho contribuito a
mettere la parola fine alla sua esistenza. La fonte del potere che ti
scorre nelle vene è, in un certo senso, di origine divina e
l’essere che la possedeva riuscì a ferirmi. Questi
sono gli unici collegamenti degni di nota che ho con i tuoi avi.
–
- Tu quindi sai cos’è il mio potere? –
continuò il trentenne dai capelli neri, con una scintilla di
speranza negli occhi, che osarono alzarsi sul loro interlocutore.
- Ne so qualcosa. –
- Ti prego, allora. – Noir si gettò in ginocchio
ai piedi dell’elfo – Dimmi come controllarlo. Non
voglio uccidere ancora. –
Il viso dell’essere dalla chioma color pece tagliata dalla
ciocca bianca si adombrò per un attimo, prima che la sua
bocca si muovesse per liberare le parole che conteneva.
- Non puoi controllarlo. Non è nemmeno tuo, per
l’esattezza. È come se avessi un animale ferito,
dentro di te. Un animale che non può vivere senza
l’ospite. Cosa fa, allora? Cerca di proteggerti
nell’unico modo che conosce, attaccando. Non puoi
controllarlo, a stento puoi trattenerlo, ma, se lo impari a conoscere
bene, puoi imparare ad accarezzarlo. –
La mano dell’elfo si appoggiò sul petto di Noir,
quest’ultima venne subito ricoperta da uno spesso strato di
melassa scura, che rimase lì immobile, a frapporsi tra la
mano di quell’essere immortale e la camicia del proprio
padrone.
- Cosa sai di lui? – continuò L’essere.
- Che uccide qualunque cosa si avvicini a me e mi protegge quasi sempre
dagli attacchi. –
- Ti sbagli. Non mi sta ferendo, adesso. Lui avverte la
volontà di uccidere che ha attorno e reagisce di
conseguenza. Lui ora sa che non ho la benché minima
intenzione di farti del male, ma, nel momento in cui la dovesse
percepire… -
Uno spuntone nero nacque improvvisamente dalla placca sul petto di
Noir, per poi ritirarsi pochi secondi dopo essere comparsa.
Il buco nel palmo dell’elfo si rimarginò quasi
immediatamente.
Non so perché
lo sto facendo.
Poco importa, comunque,
domani sarò libero e potrò lasciarmi alle spalle
anche questo strascico di esistenza di Follia.
- Poi, ho visto su di te delle cicatrici. Come te le sei procurate, se
il tuo potere ti protegge? –
- Mi protegge quasi sempre… solo che a volte non basta.
–
- Appunto, non basta. Tu hai una quantità limitata
di… essenza, dentro di te. La quantità che tua
madre ti ha fatto ereditare. Ora, lui fuoriesce dalle tue vene, si fa
strada nella tua carne per ricoprirti il corpo come se fosse
un’armatura, ma non è sufficiente per coprire
tutto. Devi quindi sapere quanto questa tua impenetrabile difesa
può davvero proteggere e quando non potrà
più farlo. –
- Ma… non c’è un modo per toglierlo dal
mio corpo? Io non la voglio questa maledizione. –
- No. Puoi solo imparare a convivervi. –
Razer accompagnò sua sorella fino alla sedia nel salotto,
tenendole la mano finché lei non fu seduta.
- Lucya, stai bene? – le chiese, preoccupato – Ti
vedo pallida. –
- Sto bene, tranquillo… probabilmente ho preso solo troppo
freddo. Ma tu non preoccuparti. Piuttosto, è simpatico, il
tuo amico. – gli rispose lei, mostrandogli un caldo sorriso.
- Si… A proposito di lui, fai attenzione è un
tipo particolare. –
- A me è sembrato un uomo buono. Quello che hai portato con
te dalle Terre, invece. Chi è? Non l’ho quasi mai
sentito parlare. –
- Lui… è un poveraccio che aveva bisogno di un
po’ di fortuna ed io avevo bisogno di lui. –
- Voglio vederlo. – disse risoluta Lucya, alzandosi dalla
sedia su cui il fratello l’aveva fatta adagiare e puntando la
porta dalla quale era stata fatta uscire.
La donna oltrepassò la porta d’ingresso sfiorando
appena lo stipite destro, come per sincerarsi che fosse davvero quella
la strada corretta per la sua meta.
- Noir… - chiamò Lucya, incerta nel pronunciare
quel nome – Posso chiederti di venire qui davanti a me?
–
Il trentenne si irrigidì, sentendo pronunciare il proprio
nome. Si guardò intorno, cercando consiglio, ma tutto quello
che trovò fu l’elfo rinchiuso nei suoi scuri abiti
eleganti che sorrideva cinico alla sua insicurezza.
Si alzò dalla sua sedia, muovendosi lentamente in direzione
della donna dal volto sfigurato.
- Sono… sono davanti a te. Come posso aiutarti? –
L’uomo restava rigido, come un piccolo animale spaventato
davanti al suo predatore naturale.
- Voglio vederti. – fu la risposta della cieca.
Lucya alzò le mani al volto del trentenne che
cercò di sottrarsi a quel contatto improvviso, ma non fu
abbastanza veloce da evitarlo.
Le dita della donna si appoggiarono delicatamente sulle guance di Noir,
tastando con i propri polpastrelli il profilo degli zigomi del
trentenne, soffermandosi là dove le piccole e sottili
cicatrici che si sovrapponevano costituivano un intreccio di lievi
solchi.
Gli occhi si mossero repentini verso l’elfo, disorientati.
L’essere dai capelli color pece allargò
ulteriormente il suo sorriso, rendendolo serpentino, per poi alzare le
spalle.
Le dita della donna dai capelli castani si spostarono verso la fronte
di Noir, saggiandola nella sua intera lunghezza, per poi scendere fino
al naso e, da lì, arrivare al mento passando sopra le labbra
spaccate dal sole e dalla fredda aria montana.
Ritrasse poi le braccia, ora il volto di Lucya non mostrava
più il sorriso radioso che l’aveva ornato fino a
un secondo prima.
- Hai molte cicatrici e la tua fronte è piena di rughe di
preoccupazione. Hai vissuto in luoghi in cui non eri benvoluto, prima
di arrivare qui, non è vero? Non ti preoccupare,
però. Qui non scacciamo chi il Fato mette sulla nostra
strada. –
L’elfo sbuffò silenziosamente, appoggiandosi allo
schienale della sedia che lo ospitava.
Il Fato non ha messo un
bel niente sulla vostra strada.
Probabilmente non sa
nemmeno che esistete, adesso, voi tre. Siete tre maledetti Buchi nella
Trama e spero che la mia decisione di lasciarvi in vita non incasini il
mondo.
E se il Fato ha qualcosa
da ridire, che scenda qua per prendermi a schiaffi.
Noir si toccò delicatamente il viso con le dita, incredulo
che un paio di mani estranee fossero riuscite a toccare la sua pelle.
- La minestra sarà quasi pronta. Vado a chiamare mio
fratello e potremo mangiare. – tornò a dire Lucya,
facendo ricomparire il suo caldo sorriso.
Il cupo cielo notturno, fuori dalle finestre, si illuminò
improvvisamente di rosso e giallo.
La temperatura nella casa aumentò vertiginosamente, la poca
mobilia in legno prese fuoco, così come la trave portante
del tetto.
Bastarono pochi secondi di quell’inferno perché il
tetto, ora privo di un sostegno, cedesse sotto il suo stesso peso al
piano superiore, per poi continuare a precipitare, portando con
sé il pavimento del secondo piano. Le pareti resistettero
poco di più, prima di collassare verso l’interno
dell’abitazione con un fragore assordante che si spanse lungo
tutto il versante della montagna, fino ad essere udibile dal vicino
Passo Marino.
Un paio di possenti zampe protette da uno spesso strato di squame
rasparono i detriti che erano caduti su quello che una volta era il
salotto, finché non incontrarono un corpo privo di coscienza.
Un paio di mani umane trascinarono la figura ricoperta di sangue sul
piccolo spiazzo che precedeva quello che fu l’ingresso della
casa, poi, di lui, lì, non rimase nulla.
Possenti folate spazzarono il terreno, pulendolo dal pulviscolo che su
questo si era adagiato.
Un masso saltò in aria, per poi ricadere decine di metri
più lontano. Una creatura nera nella notte scura si eresse
tra le macerie, zoppicando verso sud, dove cominciò a
scavare poco lontano dai detriti smossi poco prima, finché
non trovò ciò che cercava.
La creatura cadde in ginocchio, in un moto di disperazione, mentre i
suoi occhi scuri si levarono verso la luna argentea, che osservava
distaccata la scena dal suo seggio nella volta celeste.
L’essere nero si rialzò dopo diversi minuti e
zoppicando fuori dal cumulo di detriti, si diresse verso ovest con la
schiena curva. Lasciando alle sue spalle una sottile striscia di
liquido scuro.
Il sole sorse sullo scuro terreno profanato su cui, una volta, sorgeva
la casa, ora ridotta in macerie.
Un bulbo oculare si mosse, ammirando la grigia polvere che gli si era
posata addosso.
Accanto a lui, un molliccio ammasso di carne era stretto nella morsa
delle pietre che lo circondavano.
Che cosa ho fatto?
Davvero sono diventato
un blob informe di carne?
Che schifo.
Potevo essere un
po’ più pronto di spirito.
Almeno mi sono ricordato
di eliminare ossa, sangue e organi interni. Poteva essermi fatale
questo inconveniente.
Il blob si mosse scompostamente, facendo levare dalla sua superficie
una lieve nebbia che serpeggiò tra i massi che lo
sovrastavano, fino a raggiungere l’aria aperta.
Il corpo di un elfo in abiti eleganti si formò là
dove la nebbia andò a compattarsi.
Le sue spalle si mossero come per sincerarsi che le articolazioni
fossero ancora funzionanti, poi il suo capo si voltò a
destra e sinistra, studiando l’ambiente che lo circondava
alla luce del sole mattutino.
Niente veleno, questa
volta? Gli attentati alla mia vita stanno diventando sempre
più inefficaci.
Ora devo solo capire
cosa diavolo è successo e perché.
Qualche testa
cadrà per mano mia, probabilmente.
L’elfo
scomparì di nuovo in uno sbuffo di fumo, i cui tentacoli
eterei serpeggiarono tra le macerie, tastando ogni anfratto vuoto in
cerca di qualcosa che non fosse fatto di pietra. |
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Capitolo 30 *** Capitolo 14: Prigioniero ***
Razer urlò di dolore quando, a un suo piccolo movimento, i
cappi che gli stringevano i polsi e le caviglie toccarono le
escoriazioni che gli ricoprivano il corpo.
Era stato portato in una stanza senza finestre, avvolta nella
più completa oscurità. Sentiva il peso
dell’acciaio sulle caviglie, percepiva la sua fredda
superficie butterata premergli attorno ai polsi, tenendoglieli alti
sopra il suo capo.
Alle sue spalle, premuta contro la sua schiena, c’era
solamente una parete umida.
Il corpo gli bruciava in più punti, sentiva gli abiti
appesantiti da qualcosa di liquido e il volto pulsante.
Cercò ancora una volta di scrollarsi di dosso le manette, ma
non riuscì a completare il movimento senza urlare.
Uno squarcio rossastro si aprì nel buio.
La porta si richiuse, ma ciò non fece scomparire la nuova
fonte di luce.
Poco a poco, gli occhi di Razer si abituarono al bagliore,
permettendogli di riconoscere le forme che gli stavano davanti.
Riusciva a distinguere dei piedi piccoli, dietro a quello che poteva
essere un grosso scudo alto quanto una persona. E dietro quella stessa
protezione ardeva una fiamma, appartenente forse ad una torcia, forse
ad un candelabro.
- Chi sei? Perché mi hai portato qui? –
provò a dire, ma le parole gli uscirono pesanti dalle labbra.
- Sei sicura che non possa colpirci? Sai che potrebbe avere la magia.
– disse una voce maschile, giovane.
- È una protezione risalente all’epoca dei
Cavalieri. Nessuna magia può attraversarlo –
rispose una voce femminile.
- Ehi! – tentò di dire di nuovo Razer, senza
ottenere risposta.
– Ehi! – ripeté a voce più
alta, non riuscendo a trattenere una smorfia di dolore.
- Zitto! – lo riprese seccamente la voce femminile, per poi
tornare a parlottare con il suo interlocutore – Tu stai
indietro e lascia parlare me. –
- Come preferisci. –
- Tu, assassino. Ammetti di essere colui che ha ucciso decine di draghi
nelle ultime settimane sulle Terre e nel Continente. –
Razer rimase cocciutamente muto.
- Non importa. – continuò la voce femminile
– Sappiamo chi sei. Il nostro miglior cane ha fatto un ottimo
lavoro. –
L’assassino sbuffò. Conscio di essere stato
tradito, alla fine.
Una donna si sporse appena da dietro il grosso scudo, portando con
sé il candelabro che teneva in mano. Il suo era un viso
aggraziato, incorniciato da capelli color oro, che assumevano riflessi
ardenti alla luce delle quattro candele che teneva tra le mani. Le sue
labbra si curvarono in un sorriso compiaciuto, mentre osservava il
prigioniero che le stava davanti.
La luce del candelabro, per un attimo, colpì la protezione
dietro la quale era stata celata fino ad allora.
Era un alto scudo rettangolare in legno, sulla cui superficie numerosi
segni longilinei si rincorrevano all’infinito.
Era un oggetto antico, lo dimostrava l’usura del legno, che
probabilmente era passato di mano in mano per decine di volte nei suoi
anni di vita.
Razer venne avvolto dalla disperazione.
Non poteva far nulla in quello stato. Nulla se non cercare di
spaventare quella donna che gli stava davanti.
Attinse a tutta l’energia che percepiva dentro di
sé, liberando la magia che il suo corpo conteneva,
risplendendo della sua luce azzurra.
Per un momento la stanza venne avvolta dalla luce accecante, ma un
secondo dopo, questa, come un liquido color cobalto, parve scivolare
verso lo scudo, venendone inghiottita.
- Solo questo? Solo questo è il tuo potere? Mi aspettavo una
magia molto più… violenta da un uomo che ha
ucciso così tanto. – commentò scocciata
la donna, muovendosi verso il suo prigioniero con passo sicuro.
- Cosa vuoi da me? - chiese Razer, cercando di appiattirsi il
più possibile contro il muro che gli stava alle spalle, per
allontanarsi da quella giovane donna.
- Da te? Non mi importa nulla di te. Voglio renderti un esempio per
tutti, facendoti giustiziare nella pubblica piazza. Ma, prima, ti
spremerò ogni informazione in tuo possesso, come
ringraziamento per il lavoro che hai fatto. –
L’assassino strinse le palpebre, sputando sul volto della
donna che gli stava davanti il misto di saliva e sangue che gli
invadeva la bocca.
Si avvertì chiaramente, nella poca luce della stanza, il
suono metallico di una lunga lama estratta dal suo rigido fodero.
Una larga elsa in metallo colpì il volto di Razer,
lasciandolo a stento cosciente.
- Prima o poi cederai. Oh, se cederai. Ma io non mi fermerò.
Ti spezzerò in ogni modo possibile e quando non avrai
più nulla da darmi, verrai giustiziato. – disse la
donna gelidamente, pulendosi il viso.
La luce del candelabro cercò di illuminare la lama scura
tenuta nella mano opposta a quello che lo sorreggeva, ma la spada parve
non aver intenzione di risplendere.
- Vai a chiamare un medico. Non voglio che muoia prima di quando voglia
io. – disse ancora la donna, colpendo una seconda volta la
tempia di Razer con l’elsa della propria arma, facendolo
svenire.
Il prigioniero aprì gli occhi con un forte dolore alla testa
a fargli compagnia.
La stanza era piombata nuovamente nell’oscurità e
i cappi che lo tenevano imprigionato erano ancora saldi, decisi a non
lasciarlo andare.
Sua sorella, non potevano averla presa. Quella donna non avrebbe perso
l’occasione di utilizzarla per fargli del male.
Magari era sopravvissuta.
Sopravvissuta a cosa, però?
Cos’era successo, quando aveva perso conoscenza?
Razer si ricordava del calore insopportabile che l’aveva
avvolto, si ricordava degli scricchiolii delle pietre che componevano
le pareti, finché il soffitto non era collassato su di lui.
Quel cane tatuato in viso doveva aver deciso che non valeva la pena
lasciarlo in vita. Oppure aveva intenzione di tradirlo fin
dall’inizio, assaporando la sua vittoria già
preparando la cena.
A quel punto, l’unica cosa sicura era che non avrebbe ceduto.
Non li avrebbe messi a conoscenza di sua sorella.
Non gli avrebbe nemmeno consegnato l’erede di Reis a cui,
magari, il Fato avrebbe dato il compito di uccidere i suoi aguzzini.
Il suo destino era ormai segnato, non avrebbe trascinato con
sé nessun altro.
Qualcosa di umido gli colò lungo la fronte, seguendo il
profilo del suo zigomo per arrivare fino all’angolo della sua
bocca.
Sapore di erbe mediche, come quelle che sua madre pestava per produrre
i suoi medicamenti.
Noir si trascinò avanti lungo il sentiero.
Era vivo, la sua maledizione lo aveva salvato, anche se non lo aveva
fatto restare illeso. Ovviamente, però, si era preoccupata
solo delle sue membra.
Era destino che non potesse trovare un luogo sicuro, ormai ne era
certo. Aveva solo cercato di imbrogliarsi, credendo che Razer potesse
davvero offrirgli una prospettiva di fuga.
Stava percorrendo un sentiero che serpeggiava tra i Monti Muraglia
più meridionali, alla sua sinistra poteva vedere chiaramente
la distesa splendente del mare riflettere la luce del sole nascente.
Doveva trovare un altro luogo dove rifugiarsi. Un piccolo paese isolato.
Aveva sentito parlare dei villaggi di pescatori che erano stati
costruiti sulle sponde meridionali del grande lago che occupava quella
che era stata la Piana Umana.
Forse, lì, sarebbe stato al sicuro, almeno per un
po’.
Il ginocchio destro gli cedette, facendolo cadere bocconi sulle rocce
del sentiero, che però non riuscirono a penetrare le
ginocchiere nere che prontamente lo protessero.
Un rigagnolo di sangue tornò a fuoriuscire dal lato esterno
della sua articolazione, andando ad imbrattare il pantalone
già sporco di quel liquido scuro.
Gli era caduta addosso una casa e quella era stata l’unica
ferita che era riuscito a procurarsi.
Non poteva vivere su quelle Terre, ma, evidentemente, non gli era
concesso nemmeno morire.
Il trentenne si rialzò a fatica, tornando a zoppicare verso
la civiltà.
Gli scuri versanti bruciati dei monti lo accompagnavano lentamente nel
suo cammino, ancora pervasi dalla penombra lanciata dai raggi del sole
che non avevano ancora superato quelle vette.
Poche nubi sparse si… attraverso la volta… da un
leggero vento che non… percepire nel vallone in cui
si… |
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Capitolo 31 *** Capitolo 14.1: Storia ***
Otto figure comparirono una dopo l’altra sulla cima della
collinetta, come una processione silente in memoria di Profezia.
- Non è più questo il luogo di cui abbiamo
bisogno. – disse il soldato con tono severo.
La
pesante spada che teneva in mano si abbatté sul terreno,
facendolo
vibrare e deformare come se fosse stato uno specchio d’acqua
verde in
cui fosse caduto un masso.
I destini che intessevano quel mondo
vibrarono, smantellando il teatro e gli spalti su cui si affacciava,
senza lasciare nemmeno dei detriti ad indicare dove sorgesse.
Al suo
posto, sulla sommità di quel rilievo, si andò ad
intrecciare un tavolo
ovale con dodici sedie a circondarlo. La lunga plancia pareva essere
stata intagliata da un unico blocco di legno scuro, antico.
- Epica,
per favore, cerca di essere meno duro. Siamo tutti sconvolti per quello
che è successo. – disse il pettirosso, zampettando
sul terreno.
Meno duro?
Sconvolti?
-
Non mi dire quello che devo fare. – gli rispose bruscamente
il soldato,
voltandosi per fissare il piccolo pennuto, con gli ardenti tizzoni che
si intravedevano all’interno del suo elmo – Con
quale serietà, poi, me
lo riesci a dire in quella forma. –
Il pettirosso cinguettò
irritato, per poi scomparire in favore di un uomo brizzolato, con il
viso ornato da una corta barba. I suoi occhi, verdi come
l’erba che
stava pestando, guardarono seccati il soldato in armatura che gli stava
davanti.
Melodia si sistemò il pesante mantello grigio scuro che lo
avvolgeva, prima di tornare a parlare.
-
Epica, posso capire che sei stato scelto come custode di questo luogo,
ma ciò non ti dà il permesso di abusare della
nostra pazienza. Commedia
è sul punto di scoppiare in lacrime, Passione non ha
più detto una
parola da quando abbiamo lasciato quella vetta, Mito sta tremando. So
che non sei portato all’empatia, ma cerca di non scordarti
che il tuo
ruolo non toglie il fatto che noi siamo i tuoi fratelli e le tue
sorelle. –
- Melodia. – sibilò il soldato con la sua voce
cupa – il
mio ruolo è assicurarmi che questo luogo sia sicuro per voi.
Ora
muovetevi, Epistola non tarderà ancora molto ad arrivare.
–
Il gruppo si spostò fino al tavolo, dove ognuno prese posto.
- Passione … - sussurrò la bambina dai capelli
rossi alla donna che le sedeva accanto – secondo te il Fato
ci ha abbandonati? –
Passione
si voltò nella sua direzione, guardando la piccola dagli
abiti
sgargianti con occhi dolci. – No. Commedia, piccola mia, non
ti
preoccupare, non importa quel che accadrà, ricordati sempre
che il Fato
fa tante cose, ma non ci abbandonerà mai. Tutto questo
finirà presto e
noi torneremo a sorridere. –
La creatura di fumo scuro fece voltare
i propri occhi dardeggianti in direzione della donna dai boccoli mori.
– Passione, - disse con voce stridente – quando
è stata l’ultima volta
che il Fato ci ha degnati della sua attenzione? –
- Terrore,
fratello, davvero credi che nostro padre si sia dimenticato di noi? Io
voglio credere, no, io so, che lui ci abbia spianato la strada, anche
senza avere i nostri nomi su quel suo libro. –
- Sei troppo ottimista. Forse perché ti sei crogiolata
troppo nell’amore dei mortali. –
Stanno venendo sprecate
troppe parole.
- Forse sarò io ottimista, oppure sei tu che stai solo
proiettando su di noi le tue paure. –
Le maglie che componevano quel mondo si ammorbidirono, preparandosi al
passaggio di nuovi corpi.
-
Silenzio! – urlò Epica battendo il guanto di ferro
che gli avvolgeva la
mano destra sulla superficie del tavolo. – Stanno arrivando
–
Le
maglie si allargarono completamente, permettendo a due serie di passi
di accedere a quel luogo. A loro e al peso che si trascinavano dietro.
Il
viandante dalla barba incolta fece il suo ingresso sulla collina,
accompagnato da un uomo magro, dalle guance scavate e la fronte alta.
Un paio di piccoli occhiali gli ornavano il naso, mentre il suo corpo
era coperto da tristi abiti marroni, anonimi.
Dietro di loro, il
corpo ingombrante di un uomo corpulento veniva trascinato
sull’erba. Un
paio di occhialetti tondi e gli spessi baffi neri sovrastati dal naso
paffuto conferivano al suo volto una rotondità cordiale.
L’abito blu,
che indossava , era sporco sul petto da qualcosa di scuro, quasi nero
quanto i suoi capelli.
- Cosa è successo? – esclamò
preoccupato Epica, alzandosi di scatto dalla propria sedia.
- La situazione è ancora peggiore di quanto immaginassimo.
Storia è stato ucciso. Il suo petto è stato
trafitto da un’arma. –
- Com’ è possibile una cosa del genere?
– continuò Epica, avvicinandosi.
-
Epistola, se permetti, spiegherei io la sua situazione. –
disse l’uomo
magro, chinandosi sul corpo ed aprendo la giacca color cobalto per
poter mostrare il ventre gonfio.
- Certo, Mistero. Nessuno meglio di te potrebbe farlo. –
--
Storia è stato colpito al petto da un’arma
affilata. – disse, mostrando
con le dita la ferita sottile che squarciava la pelle poco sotto allo
sterno.
- Com’è possibile che un’arma dei
mortali abbia ucciso uno
di noi? – chiese Passione, chinandosi a sua volta per
accarezzare la
guancia paffuta del cadavere.
- Non è possibile, a meno che non
avesse deciso lui di morire. – le rispose Mistero –
C’è, però, questa
polvere scura lungo i bordi della ferita, potrebbe essere un veleno. Ma
non ho modo di accertarmene, non ora. –
Come possono i mortali
aver ucciso un nostro fratello? Non dovrebbe essere possibile.
Non
voglio nemmeno credere che questa sia opera di uno di noi. Nessuna Musa
ucciderebbe mai un suo simile. Siamo già pochi, non possiamo
permetterci altre perdite.
- Mistero, quando potrai dirci
qualcosa di certo? – chiese il soldato, spostando i tizzoni
che aveva
al posto degli occhi sull’uomo magro.
Mistero si permise un profondo respiro, mentre il suo sguardo
scandagliava il volto e il petto del cadavere che aveva davanti.
Danza si mosse aggraziatamente dietro di lui, appoggiando le sue mani
esili sulle sue spalle ossute, come per rassicurarlo.
-
Ho bisogno di più informazioni. Se Epistola mi ha detto
tutti i fatti
senza averli modificati, è probabile che Profezia si sia
lasciato
morire. Ciò fa di Storia la prima vera vittima. Devo tornare
nel luogo
in cui l’abbiamo trovato, voglio scoprire di più
riguardo a questa
polvere. –
- Potrai andarci, ma non da solo. Danza, vai con lui.
Terrore, tienili d’occhio. – concluse Epica,
battendo lievemente la
spada sul terreno.
- Come preferisci, torneremo tra trenta ore esatte del Creato, che
venga trovato qualcosa o meno. –
La maglia di quell’intreccio di destini si rilassò
nuovamente, permettendo alle tre figure di lasciare quel mondo.
Commedia prese la mano di Passione con la sua, stringendola in cerca di
conforto.
- Non ti preoccupare. Mistero sa quello che fa. Quando
tornerà avrà certamente delle risposte.
– le disse la donna, sorridendo.
Ora
c’è ben altro a cui pensare.
Ci sono stati due morti,
siamo rimasti solo in dieci.
Dubito che il Fato
creerà mai altri nostri fratelli e sorelle.
-
Adesso non perdiamo tempo. – disse il soldato, facendo
scomparire
nell’aria la spada dalla quale non si era ancora separato
– Dobbiamo
chiedere udienza a nostro padre. –
- Non ce ne sarà bisogno. –
Una
voce profonda riverberò per tutta la collina, facendo
tremare la terra.
Un uomo dalla pelle olivastra comparve accanto alle sette muse, con le
quattro massicce braccia incrociate all’altezza del petto.
- Visto? – sussurrò la bellissima donna dai
boccoli mori alla bambina che le stava accanto – Non ci
abbandonerà mai. –
- Padre … - riprese il soldato, incerto –
Spiegaci, come è possibile ciò che è
avvenuto? –
Il
volto del nuovo arrivato non mostrò nessuna emozione.
– Non lo so. I
poteri che vi ho concesso dovrebbero permettervi di sopravvivere a
qualunque cosa un mortale vi possa fare. Ciò che
è avvenuto a Storia
non ha precedenti né spiegazione, ai miei occhi. Devo quindi
chiedervi
di stare all’erta, perché avverto un potere
indomito e iracondo che
infesta il Creato. –
- Cosa vuol dire? – continuò Epica, facendo un
passo avanti.
-
Tra i mortali c’è qualcosa di divino. Qualcosa in
grado di uccidervi,
qualcosa che potrebbe addirittura portarli in questo luogo. Tu sai che
bisogna evitare quest’eventualità in ogni modo,
vero Epica? –
- Mi stai davvero dicendo che dovrei sigillare la Trama del Reale, la
nostra dimora? –
- Solo in caso di necessità. –
Il
corpo del soldato fu scosso da un fremito, poi il suo capo coperto per
intero dall’ elmo bronzeo si reclinò verso il
terreno, in segno di
resa. – Come preferisci. Spero di non dover mai giungere ad
una
soluzione così drastica. –
Se
la Trama del Reale dovesse venire sigillata, i destini smetterebbero di
intessere questo mondo, diventando solamente una matassa grigia di vite
che si intersecano. Non ci rimarrebbe nessuna patria.
È
anche vero, però, che i timori del Fato non sono infondati,
se qualcuno
riuscisse ad accedervi, potrebbe andare in ogni luogo, che questo sia
il Creato o la Volta degli Dei.
Non possiamo permettere
che ciò accada.
-
Non ci resta che aspettare il ritorno di Mistero, quindi. –
sospirò
Melodia, tornando al suo posto. Tra le sue mani comparve un piccolo
flauto di legno, pronto a plasmare l’aria dei suoi polmoni
sotto la
sapiente guida delle sue dita – Padre, solo, dimmi che
veglierai suoi
tuoi servitori. – Le ultime parole si persero nel vento. La
creatura
dalle quattro braccia era scomparsa, senza aver lasciato traccia di
sé
in quel luogo.
Una melodia lieve cominciò a danzare nell’aria,
facendo da sottofondo alle preoccupazioni che affollavano la mente dei
presenti.
Angolo dell'autore:
Rieccomi, dopo un tempo che mi è parso eterno.
Non ho molto da dirvi e darvi, oggi, in questo angolo, se non brutte, o
per lo meno noiose, notizie.
Questo è un periodo caldo, molto caldo per me. Purtroppo,
essendo la scrittura un'arte che non permette di campare se non si ha
alle spalle una buona fanbase o non si ha un grandissimo colpo di
fortuna, sono costretto a continuare a studiare. Maledetti musicisti e
disegnatori.
Tutte queste parole inutili sono state buttate lì per dirvi
semplicemente che la settimana prossima io sarò in pausa per
colpa della mia vita reale. Ci rivediamo venerdì 16.
Prendo al volo l'occasione per dirvi che, se aveste tempo da dedicarmi, mi
farebbe piacere lasciaste una recensione con i vostri pareri, i vostri
dubbi e, soprattutto, le vostre critiche, sul capitolo, sulla storia
e... sul mio lavoro in generale come autore. Voglio migliorare per me e
per voi, ma senza i vostri feedback è una scalata
infinitamente lunga.
Alla prossima!
Vago
|
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Capitolo 32 *** Capitolo 14.5: Riflessioni ***
La nebbia densa allungò i suoi tentacoli sotto ogni masso,
ogni calcinaccio, ogni pietra di quella casa distrutta. Si
ritirò solo quando la ebbe scandagliata tutta con le sue
propaggini, assicurandosi che non avesse perso nessuna informazione da
quell’esplorazione.
Maledizione.
Mi hanno preso alla
sprovvista.
Sono stato
un’idiota, dovevo controllare la Trama, cercando tutti i
destini che dovessero visitare questo luogo in questi giorni.
Sto invecchiando male e
l’avere continuamente a che fare con dei Buchi della Trama
che mi incasinano il Creato, non fa che peggiorare la situazione.
Non mi aspettavo una
cosa del genere. Perché, poi?
Perché fare
un raid di quella portata se c’ero già io ad
occuparmi della situazione?
È stata tutta
colpa mia, non dovevo abbassare la guardia, dovevo aspettarmi un
tradimento da parte Loro. Se solo avessi letto dell’arrivo di
quei draghi prima che fossero qui, non sarebbe successo nulla di
irreparabile.
Dannazione.
Per fortuna gli ultimi
millenni hanno allenato i miei riflessi. Per quanto quella massa
informe di carne e bulbi oculari facesse senso a vedersi, mi ha salvato
la vita.
Devo smetterla di
utilizzare corpi fragili con organi vitali. Se una di quelle pietre mi
avesse colpito prima della mia mutazione, nel migliore dei casi, mi
sarei potuto beccare un trauma cranico.
Maledetti cervelli
mollicci.
La nebbia si contrasse su sé stessa, addensandosi per dare
forma al corpo che era stato invitato ad entrare in quella dimora.
L’elfo avanzò tra le macerie della casa, con il
sole mattutino che compariva oltre gli alti picchi di quei monti. Si
fermò poco più a sud di dove era riemerso,
chinandosi su un cumulo di detriti smossi.
Lì un corpo restava scompostamente disteso tra i massi, con
la veste marrone inzuppata di sangue e il volto reso quasi
irriconoscibile dalla cascata di pietre che l’aveva
investito. I capelli castani erano ricaduti pesantemente attorno alla
fronte deturpata dal fuoco ed ora ricoperta di polvere.
Un raid per un unico
cadavere.
Spero che il Fato si
senta più soddisfatto, ora. Un Buco della Trama in meno a
rovinare il suo lavoro, per quanto questo fosse l’unico
davvero non dannoso.
Maledizione…
L’elfo serrò le dita della mano destra contro il
palmo, colpendo con le nocche un masso lì vicino, per
scaricare su quell’oggetto inanimato tutta la frustrazione
che sentiva crescergli in petto.
Maledizione.
Se solo avessi letto del
loro arrivo mi sarei preparato. L’avrei salvata, non mi sarei
perso quell’assassino, né l’erede di
Follia.
Ora sono punto a capo.
Anzi, peggio.
La creatura ritirò il proprio pugno dalla superficie
butterata che aveva colpito, lasciandosi alle spalle una macchia scura.
Rapidamente, le nocche rovinate si risanarono, arrestando quasi
immediatamente lo sgorgare del liquido color pece.
Devo fare qualcosa.
Devo risolvere questa
situazione, far tirare fuori Lei da quella maledetta gabbia e andarmene
per sempre da questo posto.
Posso farlo, devo solo
tornare me stesso.
Sono stato il Viandante
per troppo tempo. Lo sono rimasto per così tanto, da
sfociare in quell’ispettore.
Questo non sono io.
Questo non devo essere io, se voglio uscire da questa situazione
salvando il salvabile.
Devo fare qualcosa. Devo
mettere in moto questo corpo, ho bisogno di pensare, di rimettere
assieme i miei pezzi.
L’elfo si alzò dal cadavere, muovendosi fino
all’esterno del perimetro di quell’abitazione
distrutta. Nella sua mano comparve una lunga asta di legno, alla cui
estremità si andò a plasmare la piatta superficie
metallica di una pala.
Lo strumento si conficcò per pochi centimetri nel terreno
che aveva preceduto l’ingresso di quell’abitazione,
asportando parte di quel materiale.
Devo tornare me stesso.
Cosa diavolo vuol dire?
Chi sono, adesso, io?
Mi sono perso di vista,
negli ultimi tempi.
Non sono sicuramente il
Commedia che creò mio padre. Non posso più
esserlo. Non riuscirei in nessun modo a ritrovare
quell’allegria, non dopo averli persi davanti ai miei occhi.
È da quando ho proposto le condizioni che quel Commedia
è stato seppellito.
Non voglio nemmeno
essere il Viandante. Ho lavorato troppo al Loro servizio per poter
accettare ancora quel nome, per quanto il Viandante rispecchi
perfettamente ciò che sono. Non ho più una patria
ed il mio unico destino possibile è quello di vagare fino
alla fine dei tempi.
Non sarò mai
più quel maledetto ispettore Vander. Non sono Mistero, per
quanto abbia dovuto imitarlo negli ultimi tempi, non è la
morte che deve condurmi lungo la mia strada.
Cosa mi rimane?
Il Servitore del Fato.
Sono stato anche quello contro Follia.
Devo quindi liberarmi di
questa schiavitù per diventare il galoppino del Fato a tempo
pieno?
L’elfo raddrizzò la schiena, stringendo le dita
attorno al manico della pala che teneva in mano.
Si guardò intorno, senza nemmeno sapere cosa stava cercando.
La buca che aveva scavato ormai era profonda a sufficienza, facendogli
arrivare il terreno montano all’altezza delle spalle.
L’essere scomparve in una nube di vapore per un istante, per
poi tornare ad aggregarsi all’esterno della fossa che aveva
scavato, senza la pala che aveva stretto fino ad un attimo prima.
Si mosse piano, quasi danzando tra le macerie, fino ad arrivare accanto
al cadavere che ancora giaceva riverso tra quei massi.
Sollevò piano quel corpo esile, martoriato dai calcinacci
che gli erano franati addosso, portandolo con incredibile cura fin
dentro la fossa che aveva scavato.
Sono diventato
incredibilmente apatico, ultimamente.
Sono un essere
immortale, quasi divino, le emozioni non dovrebbero far parte di me.
Una volta, però, le sentivo ancora.
Adesso so che
è inutile seppellire questa carcassa di carne e ossa
spezzate, so che non servirà a nulla, se non per fare un
dispetto agli animali che ci avrebbero banchettato.
Ho pianto poche volte
per la morte di qualcuno, dopo la fine della mia razza. Seila
è stata un caso isolato ed allora mio padre riconobbe la
gravità delle sue azioni.
Oggi però non
sarà qui, perché non gli importa nulla di un Buco
della Trama morto.
Io non voglio essere il
suo galoppino in eterno.
Sono stato qualcun
altro, a ben pensarci. Per un attimo, forse, ma è stato un
attimo ripetuto nel tempo.
C’è
stato un momento in cui la battaglia non mi spaventava, ma mi divertiva.
Ero divertito dal poter
agire a modo mio.
Nel mio primo scontro
contro Follia, un pochino forse nel secondo, poi, di nuovo, quando ho
proposto il mio accordo a Razer. Ero divertito.
Potrei prenderlo come
punto di partenza per quello che voglio tornare.
L’elfo fissò il mucchietto di terra smossa di
fronte a sé.
Non era sudato, non c’era traccia di quel terreno
né sulle sue mani né sui vestiti, ma i suoi occhi
mostravano una profonda stanchezza.
Devo tornare
assolutamente da Loro.
Voglio delle risposte,
voglio sapere che cosa pensavano di fare, mandando quei due draghi. |
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Capitolo 33 *** Capitolo 15.2: Mistero, Terrore, Danza ***
- Le trenta ore sono quasi passate e ancora non sono tornati.
–Tragedia tambureggiava violentemente le proprie dita sulla
superficie lucida della tavolata. I suoi occhi incavati erano rabbuiati
dai pensieri lugubri che gli offuscavano la mente.
- Mistero è partito da ventinove ore e cinquantuno minuti.
– gli rispose seccamente il soldato, immobile, in piedi
dentro la sua armatura bronzea che nulla mostrava del suo corpo.
- Trenta ore o poco meno! – sbottò
l’essere dal corpo cadaverico alzandosi in piedi dal suo
posto e battendo le nocche sul tavolo con tanta rabbia che parve
potessero rompersi – Cosa vuoi che cambino quei pochi minuti?
Non sono tornati dopo più di un giorno da quando sono
partiti! –
- Aspetteremo ancora. – fu l’unica risposta che
ricevette.
La bambina dai capelli rossi si avvicinò timida a Melodia,
che osservava in silenzio lo scambio di battute dal suo posto.
- Melodia… secondo te stanno tutti e tre bene? –
L’uomo brizzolato non rispose immediatamente. I suoi occhi
puntarono il cielo limpido, come se cercassero in esso una risposta.
- Non lo so, Commedia. –
Le maglie che componevano quel mondo si allargarono e un corpo
insanguinato venne vomitato sulla collina verdeggiante.
Danza si cercò di alzare, ma l’unico braccio che
le rimaneva non riuscì a sorreggere il suo peso, facendola
ricadere al suolo.
Gli abiti sottili che portava addosso erano impregnati dalla sua linfa
vitale e le ricadevano pesanti lungo il corpo e sulle ferite che in
esso si aprivano.
Cos’è
successo?
Cosa può
averla ridotta in questo stato?
Non posso permettere che
altre Muse possano fare una fine del genere.
Terrore? E Mistero? Cosa
ne è stato di loro?
Quanto è grave
la situazione?
Il soldato fu il più veloce a raggiungerla. I suoi guanti
metallici sollevarono il corpo martoriato della Musa morente, mentre i
suoi occhi percorrevano il suo corpo attraversato da molteplici ferite.
Un braccio le era stato troncato di netto da qualcosa di affilato ed
ora, sul moncone, una spessa crosta nera si era sedimentata. La stessa
crosta aveva infestato i profondi tagli che si aprivano sul ventre e
sul torace della fanciulla.
- Danza, perché non ti rigeneri? – chiese
preoccupato Epica, con una nota di disappunto nella voce.
- Questa cosa… la sento dentro. Non riesco a liberarmene.
– Il volto della fanciulla si contrasse in una smorfia di
dolore, lacrime che parevano rugiada le rigarono le guance sporche del
suo sangue nero – Mistero, Terrore… loro non ce
l’hanno fatta. Loro avevano quella cosa,
quell’arma. Quell’arma che non potevamo evitare.
Epica, possono raggiungere questo luogo. Ne hanno il potere. Sigilla
tutto finché non è troppo tardi. Voi tutti,
scappate. Non potete affrontarli. –
- Cosa vuol dire questo? –
Danza provò ancora a parlare ma un colpo di tosse le
tagliò il fiato, facendo zampillare la sua nera linfa vitale
sull’elmo del soldato.
La giovane fanciulla si spense pochi secondi dopo, accasciandosi tra le
braccia avvolte nell’armatura.
- Dicevi, Epica? Dovevamo andare a cercarli prima, li avremmo potuti
salvare tutti. – Tragedia si voltò in modo da dare
le spalle al cadavere.
- E se la stessa sorte fosse toccata anche a noi? – disse
Passione indispettita nei confronti del corpo scheletrico–
Hai sentito cosa ha detto Danza, c’è qualcosa che
può ucciderci, che può ferirci e che non possiamo
fronteggiare. Erano in tre, là. Tre Muse sono state
annichilite da dei mortali. –
- Lo so! Ma qui, nella Trama, ci sono ancora sette Muse, di cui una
è Epica. Quale esercito può fronteggiare dieci
creature nate dallo stesso Fato? Passione, io non voglio morire. Non
voglio morire per davvero ed ogni qualvolta che un nostro fratello
perde la vita le nostre probabilità di sopravvivenza si
riducono. –
Epica parve non prestare attenzione al discorso che si stava tenendo
alla sue spalle. La sua massiccia armatura si mosse lentamente in
direzione del tavolo, sulla cui plancia adagiò il corpo
della Musa che teneva tra le braccia.
- Preparatevi. Lasceremo questo luogo oggi stesso ed io
sigillerò la Trama. –
- Epica! Non ti sembra di esagerare, adesso? Non siamo nemmeno sicuri
che possano accedere a questo luogo. –
- Mito, questa è la mia decisione. Non tornerò
sui miei passi. –
Sette creature dalla forma umana comparvero nella periferia di una
cittadina rinchiusa da una parte, da un mare calmo e, da quella
opposta, da un deserto che si estendeva a vista d’occhio.
Le case della cittadella erano massicce, dai tetti piatti e le finestre
piccole. In mezzo alle dimore, tanto alto da stagliarsi contro il cielo
terso, un’imponente costruzione di pietra si ergeva possente.
La quantità di informazioni e nozioni che la riempivano
creava una cappa densa sopra di lui, agli occhi delle muse, tanto
pesante da apparire come una pallida imitazione della Trama del Reale.
Epica si voltò verso le maglie larghe che avevano permesso
loro di raggiungere il piano materiale. Tra i guanti del soldato
comparve l’enorme spada di cui si era privato alla morte di
Profezia. I suoi occhi ardenti percorsero l’intera lunghezza
della lama con una lentezza esasperante.
- Fermo! – Tragedia si piazzò tra il colosso in
armatura e le larghe maglie della Trama. Il suo pallido corpo
scheletrico risultava ancor più piccolo ed esile
all’ombra di Epica – Ti prego, pensaci! Quella
è l’unica arma che ci ha donato il Fato,
è l’arma elementare perduta! Niente di
ciò che noi potremmo mai creare raggiungerà mai
la perfezione di quella lama! Ti prego, non farlo ancora! –
Epica esitò un attimo di troppo.
- Epica, Tragedia ha ragione. – Passione si portò
alle spalle dell’adone, posandogli le mani vellutate sugli
spallacci metallici – Teniamola con noi ancora un
po’, è l’unica cosa che ci
può mantenere in vita e tu con lei. –
La spada tornò a scomparire, mentre la ferita che collegava
la Trama del Reale all’umanità si rimarginava in
fretta, quasi avesse compreso la tensione della situazione e se ne
volesse dileguare il prima possibile.
- La terrò ancora per un po’ con me, ma, se ci
troveremo davvero in difficoltà non esiterò a
sigillare la Trama. –
- Immagino di non poter ottenere di più dal preferito di
nostro padre. – disse gelido Tragedia, aspettando che
l’apertura delle maglie che aveva alle spalle si rimarginasse
completamente prima di spostarsi.
- Tragedia… - provò a dire Melodia, ma senza
riuscire ad ultimare la frase, con così pochi argomenti per
contrastare quell’affermazione.
- Dobbiamo sbrigarci. – riprese Epica senza alcuna
incrinatura nella voce – Più rimaniamo fermi,
più siamo un facile bersaglio. Epistola, dove è
morto Storia? –
- In una sala posta sul retro della Biblioteca. – il
viandante dalla lunga barba parve essersi riscosso solo in quel momento
dal torpore che lo aveva assalito – Non possiamo,
però, avvicinarci con queste spoglie. –
Ha detto una cosa
corretta, Epistola. Dobbiamo passare inosservati per addentrarci in
quel tempio dedicato a noi Muse.
Dobbiamo anche essere
pronti a scappare, nel caso gli aggressori dei nostri fratelli fossero
ancora qui.
La spada del Fato, forse,
è davvero l’unica cosa che può
proteggerci da quei bruti.
- Perché mai non potremmo? – Mito lo
guardò torvo con i suoi occhi grigi.
- Mito, fratello. Questa tua forma non ha un volto, Epica
indossa un’armatura non adatta a quest’epoca dei
mortali, io sono di ritorno dalle terre d’oriente e di loro
porto gli odori addosso. Non dobbiamo attirare
l’attenzione… –
- Animali. – disse solamente Epica con voce dura.
- In realtà… - provò a controbattere
timidamente Epistola – Io vi avrei consigliato volti
mediorientali, capelli scuri e vestiti semplici, in modo da uniformarsi
ai cittadini di questo luogo. –
- Ho detto che prenderemo la forma di animali. Animali piccoli, in
grado di muoversi velocemente e scomparire nella calca in caso di
necessità. – ripeté Epica.
- Come preferisci. – si arrese Epistola, abbassando il capo.
Quattro animali scattarono veloci e furtivi lungo le vie della
città. Una volpe dal manto brillante e gli occhi dorati, un
procione dalla pelliccia grigia uniforme, eccezion fatta per la
maschera di peli neri posta sugli occhi, un ermellino candido, che non
perdeva occasione di strusciare il proprio capo contro le caviglie
delle poche persone che incontrarono lungo la periferia che stavano
attraversando, ed un piccolo servalo maculato, sulla cui coda
spiccavano cinque distinte strisce bianche.
Più in alto, a stagliarsi contro il sole, tre volatili le
seguivano, facendosi sospingere dalla brezza calda che soffiava. Un
falco dal piumaggio bronzeo, che sapiente si districava tra le correnti
che incontrava sul suo cammino, un piccolo pettirosso che batteva
frenetico le sue ali ed un corvo dal piumaggio color pece che vibrava
ad ogni suo battito d’ali.
- Melodia, ti prego, spiegami. – disse il pettirosso con un
fil di voce – Come mai, tra tutti i volatili con un
meraviglioso canto, hai deciso di diventare un corvo? Non capisco.
–
Il corvo gracchiò divertito, permettendosi un battito
d’ali prima di rispondere. – A cosa serve avere una
bella voce, quando puoi far cantare tutto ciò che hai
intorno? Ma non è questo il motivo per cui ho scelto questa
forma. Il corvo è un simbolo di protezione e mai,
più di ora, noi tutti abbiamo bisogno di essere protetti.
–
La struttura squadrata di pietra si fece avvicinare molto velocemente,
mostrando ai sette animali le sue dimensioni reali.
- C’è una piccola finestrella sul retro
dell’edificio che ci permetterà di accedere alla
stanza in cui è morto Storia senza dover passare dai
corridoi principali. – disse il falco – Seguitemi,
vi ci porterò. –
La stanza in cui i sette animali entrarono era piccola, resa ancor
più angusta dalla mobilia distrutta riversa sul pavimento e
dalle pergamene che su questi erano ricadute.
Un liquido denso, scuro, aveva ricoperto quasi completamente il
pavimento. Al centro della stanza, come sorgente per quel
liquido, giaceva riverso il corpo di Mistero, che ancora teneva in mano
il suo stiletto, sporco di un sangue carminio. Lo stesso sangue si
poteva riconoscere nelle strisce che intervallavano il liquido scuro e
che si dirigevano verso l’unica porta d’accesso che
quelle mura presentavano.
Sul muro posto alla sinistra della finestra da cui erano entrati,
un’ombra scura senza alcun proprietario rimaneva immobile
sulla pietra, come fosse stata un affresco.
L’ermellino fece un passo avanti con le zampe bianche
sporcate da quel liquido scuro che stava pestando, colpendo
involontariamente una delle daghe argentee che era solita usare Danza
in combattimento.
- Epica, - disse l'ermellino sfiorando con la punta del naso la daga che si era trovato di fronte - sono morti combattendo. Come è possibile ciò? -
Il soldato in armatura tornò ad ergersi sopra i suoi
compagni senza dir nulla, i suoi passi erano tanto pesanti da disturbare la quiete del liquido che stava pestando mentre si avvicinava all’ombra sulla parete. Sulle pietre grigie la sagoma era composta da
un particolato tanto fine da non essere distinguibile dalla polvere,
sul petto di quella sagoma vagamente umana, però, erano chiaramente riconoscibili squarci attorno ai quali il pulviscolo era denso, quasi
tangibile, così come il liquido rappreso che doveva essere
fuoriuscito da quelle stesse ferite.
- Dobbiamo andarcene. Subito. – disse Epica.
Terrore non lascia mai la
sua forma incorporea.
Mai.
Lo hanno ucciso in quella
forma, come è possibile?
Che arma può
fare una cosa del genere?
Hanno combattuto e hanno
perso. Avranno mietuto anche delle vittime, ma ciò non
giustifica la loro sconfitta. Erano tre Muse nel pieno delle forze.
- Epica, dove andremo ora? – chiese il pettirosso, intimorito.
- Non lo so. Ma lontano da qui. Non voglio altre perdite tra le nostre
fila. In questa stanza, adesso, ci sono le ultime sette Muse al mondo.
–
|
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Capitolo 34 *** Capitolo 15.5: Errore ***
Non ho intenzione di
perdere tempo con la normale procedura.
Ho terminato la mia
missione, sono libero.
Farò quello
che devo.
Il Giudice Maggiore ha
preso il comando dell’organizzazione? Ottimo, ne
subirà le conseguenze.
Il corridoio d’ingresso del tribunale di Gerala fu spazzato
da una folata di vento, che, al suo passaggio, smosse gli ornamenti in
tela delle armature delle guardie cittadine che presiedevano quel luogo.
Alla fine tutti questi
anni sono serviti a qualcosa.
Non credo che nessun
altra Musa, all’epoca, fosse in grado di controllare la
propria forma disgregata.
Eccetto Terrore,
ovviamente. Fu lui a scoprire che potevamo divenire fumo o vapore e che
si poteva mantenere una vicinanza accettabile tra tutte le particelle
del nostro corpo.
La brezza si insinuò nei corridoi legnosi della struttura,
serpeggiando tra grigi elfi intenti a portare plichi di fogli da una
stanza all’altra e umani chini sulle proprie scrivanie.
I pochi arazzi antichi che ogni tanto rompevano la monotonia delle
pareti si muovevano appena al suo passaggio, facendo cadere a terra
qualche lieve spira di polvere che brillava alla luce soffusa.
La brezza si arrestò davanti alla porta presso la quale era giunta, quello
era il motivo per cui si era spinto fino alla capitale arborea,
tornò quindi tangibile nella sua uniforme marrone.
I ricci biondi ricaddero sugli occhi chiari dell’ispettore,
che diede un violento colpo alla porta. Questa si aprì
silenziosa.
Oltre la soglia una segretaria elfica dai capelli neri stretti dietro
la nuca alzò lo sguardo dal suo lavoro, con aria
visibilmente scocciata da quell’intrusione.
- Ha preso un appuntamento? – chiese con voce rauca la donna.
Non ucciderla, fa solo
il suo lavoro. Male, ma lo sta facendo.
- Sono stato convocato dal Giudice Maggiore in persona. Sono
l’ispettore Vander, incaricato direttamente dal tribunale per
la cattura del draghicida. –
Nonché essere
immortale che deve scodinzolare davanti alla donna che ti paga a fine
mese.
- La signora Fenter al momento non è presente. È
in viaggio di lavoro dalla giornata di ieri. Se mi lascia il suo
recapito in città, le farò consegnare una missiva
quando il Giudice Maggiore sarà tornata. –
- Non sarà necessario. So perfettamente dove si trova.
– L’ispettore si voltò con uno scatto
stizzito, tornando a dirigersi verso la porta dalla quale era entrato.
- Non credo che la signora Fenter voglia essere disturbata durante
questo viaggio di… -
- Le mandi una missiva, allora. – la interruppe
l’uomo dai ricci biondi – Sempre che riesca a
fargliela consegnare prima del mio arrivo. –
La porta si richiuse alle spalle dell’ispettore, lasciando la
segretaria a fissarla confusa su quello che avrebbe dovuto fare a quel
punto della discussione.
L’elfa piegò improvvisamente la testa di lato,
quando la sua mente elaborò le ultime parole
dell’uomo che se ne era appena andato.
L’aveva forse minacciata?
La Fenter non
è presente. C’è un solo posto dove
può essere, allora.
C’è
però una domanda più importante a cui devo
rispondere: Perché sono venuto fin qui senza controllare che
ci fosse?
È vero, sono
anni che non posso più accedere alla Trama, ma ora
è un problema risolto.
Perché non
l’ho fatto?
Comunque, lo
farò ora, per scaramanzia.
Devo solo riprendere un
po’ la mano, dopo tutto questo tempo.
…
…
…
Dannazione.
…
…
Com’è
possibile che non ci sia?
Non è da
nessuna parte nella Trama.
Questo non è
normale. Non è normale per niente.
Lei non è un
Buco della Trama, ne sono certo. Quando hanno firmato il mio contratto
sono riuscito a leggere il suo strato superiore, lei c’era.
Dov’è
finita, allora?
Dannazione, di nuovo.
Spero sia solo colpa
mia. Probabilmente sono solo arrugginito, con un po’ di
pratica riuscirò a rivederla… spero.
I mortali non possono
sottrarsi al loro Fato, è impossibile. Cioè,
è praticamente impossibile.
No, non è
possibile, quell’oggetto non esiste più. Non
è possibile che sia tornato sul piano materiale.
È stato esiliato, non c’è modo che
siano riusciti ad ottenerlo.
Follia?
No, Follia è
una statua a centinaia di chilometri di distanza. Non può
aver creato nuovi Buchi della Trama.
Calmati, Commedia,
calmati.
È solo colpa
del fatto che sei reduce da una brutta settimana di lavoro.
Tranquillo.
…
L’umano dai ricci biondi superò a passo svelto le
due guardie che controllavano il corridoio centrale e che, stranite, lo
guardarono allontanarsi e uscire da quella struttura.
…
La situazione non
è delle migliori per nessuno. Non sono sicuro che, visto il
loro regalo di fuoco dal cielo, siano così ben disposti nei
miei confronti.
Forse è il
caso che mi armi.
Nella mano destra dell’ispettore comparve un lungo stocco
argenteo, che venne scrutato dallo sguardo serio del suo possessore.
Quanto sono sicuro delle
mie capacità?
So perfettamente quanto
sono incapace nel generare armi decenti. Ho paura che questo stocco
farebbe la fine di tutte le altre armi che ho creato. Spezzato.
No, non voglio rischiare.
Anche se posso
disgregarmi.
Anche se i miei
avversari, questa volta, sono solo dei mortali.
Devo trovare
un’arma migliore. Migliore, quantomeno, del coltello che mi
sono fatto dare da Hile ad Aravan.
Non voglio arrivare a
dover combattere con quella sola lama.
…
Potrei voler essere
troppo sentimentale, ma dal collasso della Setta dei Sei ho solo
un’altra scelta.
Voglio quella spada.
Loro so dove sono, tanto.
L’ispettore biondo scomparve in una nuvola di vapore dalla
piazza che antecedeva la struttura del Tribunale.
Quattro nocche batterono contro la porta di una delle case dei livelli
intermedi di Gerala. Sopra quello stipite, scritta in caratteri neri
che parevano essere un tutt’uno con il legno su cui erano
stati sistemati, spiccava la parola “Medico”.
Com’è
comica la vita, ogni tanto.
Medico.
Non so cosa li abbia
portati a fare una scelta del genere.
La porta si aprì verso l’interno.
Una donna dai capelli blu screziati di grigio squadrò
l’elfo dal volto tatuato che le stava davanti, soffermandosi
sulla ciocca candida che spiccava sulla chioma corvina.
La mezzelfa si sporse fuori dalla propria abitazione, guardando la
strada attorno all’ingresso, come se fosse alla ricerca di
qualcosa.
- Vuole? – chiese infine la donna dagli occhi viola.
- Ho bisogno di un favore, ma non da te. – L’elfo
sgusciò verso l’interno dell’abitazione
schivando il corpo snello della donna per farsi largo nella sala che si
trovava dalla parte opposta dell’ingresso.
Piccole escrescenze si levarono dalle assi che componevano il
pavimento, queste cercarono di richiudersi attorno alle caviglie
dell’uomo, fallendo miseramente.
L’elfo atterrò dal piccolo balzo che aveva
spiccato, facendo svolazzare attorno alle sue cosce
l’estremità inferiore della giacca scura che
portava addosso.
- Non sono più abituato alla magia. – disse,
muovendo la mano come per liquidare qualcuno visibile solo a lui.
I tentacoli di legno si ritirarono verso il luogo dal quale erano
sorte, senza lasciare tracce della loro esistenza.
- Chi sei? – disse a voce più alta la mezzelfa,
facendo un passo verso l’esterno dell’abitazione e
portando il piccolo foglietto che teneva tra le dita nella tasca
più vicina dei suoi pantaloni.
Oh, ti prego.
Davvero?
Cioè, non
intendo “davvero non mi hai ancora riconosciuto”,
dopotutto non hai mai visto questo mio volto. Io stavo intendendo un
“davvero pensi che riuscirete a prendermi di
sorpresa?”.
Vabbè,
starò al gioco.
O forse no.
L’elfo sorrise in direzione della mezzelfa dagli occhi duri.
Il suo volto decorato dal tatuaggio romboidale venne avvolto per un
attimo da una cappa di fumo nero, tanto denso da lasciare visibili solo
due occhi gialli incredibilmente luminosi e un taglio largo
all’altezza della bocca della stessa tonalità.
- Cra cra. – disse solamente in quella forma, prima di
tornare al suo aspetto originale.
La donna fece un ulteriore passo indietro, mentre i suoi occhi si
spalancavano per ciò che avevano appena registrato e che
già era scomparso.
Provò ad aprire la bocca per dire qualcosa, ma non fece in
tempo.
Qualcosa si mosse rapido alle spalle dell’elfo,
l’istinto omicida era percepibile nell’aria.
L’ospite si mosse rapido di lato, abbassandosi e voltandosi.
La sua mano si strinse sul polso dell’aggressore, mantenendo
così le distanze tra sé e il coltello con il
quale aveva cercato di ferirlo.
L’aggressore fu sbattuto sul pavimento e disarmato, sotto gli
occhi viola della mezzelfa.
- Credo che sia il Servitore del Fato. – riuscì
finalmente a dire la donna, tentando di ricomporsi.
L’elfo costretto a terra cercò di divincolarsi
dalla presa che lo tratteneva, senza successo.
L’ospite dal volto tatuato sospirò, lasciando poco
a poco il polso che stava stringendo.
– Non sono qui per ricordare i bei vecchi tempi. –
continuò l’elfo dalla ciocca candida rialzandosi
in piedi – Ho bisogno di un favore. Ho bisogno della spada
che ho utilizzato contro Follia. –
- Il demone è tornato? – chiese confuso
l’elfo rialzandosi in piedi.
Un grosso gatto nero zampettò sornione per la sala,
soffermandosi appena nell’annusare la caviglia
dell’ospite.
- No. Il vostro dovere l’avete già fatto e non vi
è richiesto altro. Questi sono solo affari personali.
–
- Dunque anche il Servitore del Fato ha degli affari personali?
– controbattè l’elfo scocciato.
- Quando non ci sono prescelti a spaccare i continenti, qualcuno deve
pur pensare a sistemare tutti i casini che ci sono. Forza, ora. Ho
bisogno di quella spada. –
L’elfo si allontanò visibilmente seccato, per poi
tornare poco meno di un minuto dopo con un fodero tra le mani, come se
fosse un debole neonato bisognoso di protezione.
L’ospite prese quel fodero con cura, sfoderando la spada che
dentro vi riposava.
La lama era sbeccata in più punti, la parte piatta era
solcata da numerosi graffi e, là dove la punta
dell’arma del Demone era calata più volte nel
tentativo di trafiggere il volto del Corvo, si apriva un vistoso solco.
- Mea, Nirghe, vi auguro una vita lunga e felice. – concluse
l’elfo dal volto tatuato, riponendo la lama al suo posto e
tornando a voltarsi verso l’ingresso.
- Davvero te ne vai così? – chiese il Corvo
guardando torva l’essere che si era intrufolato nella sua
casa.
- Cos’altro dovrei dirvi? Avete adempiuto al vostro destino,
siete liberi da vincoli, siete felici nella capitale a curare la gente
con la magia. Ripeto, vi auguro una vita lunga e felice. –
L’essere uscì dalla casa sotto lo sguardo dei due
proprietari, del gatto accoccolato sulla soglia e da un paio di pupille
scure che volteggiavano nel cielo.
Ora sono pronto. |
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Capitolo 35 *** Capitolo 16.27: Melodia, Passione ***
Sette creature antropomorfe si fermarono tra gli alberi che componevano
l’immensa foresta in cui si erano nascoste.
Erano simili nei lineamenti e nella corporatura, dai loro volti non si
sarebbe potuto riconoscere il loro sesso, il mento e le guance erano
glabre, le braccia e le gambe snelle, i capelli scuri e corti sui loro
crani.
- Qui va bene. Siamo sufficientemente lontani dai mortali. Possiamo
riposarci, per un po’. –
- Epica… - la seconda creatura a prendere parola tremava di
paura – Saremo costretti a scappare per sempre? –
- No. – rispose seccamente la prima –
Finché la Trama non sarà sigillata potremo sempre
farci ritorno. Prima di farlo, però, dobbiamo scoprire
perché Danza ci ha detto che i mortali possono raggiungerci.
Fino a quel momento non aprirò passaggi per non indebolire
l’intreccio dei destini. –
- Epica, un mortale non può in alcun modo accedere alla
Trama. È impossibile. L’unico modo sarebbe avere
il permesso di un dio. –
- Si, Mito, è impossibile. Come è impossibile che
siano morte cinque muse, eppure siamo qui. –
La seconda creatura che aveva parlato si sedette a terra con le gambe
strette contro il torso.
- Perché il Fato ci lascia qui in pericolo?
Perché non ci porta con sé nella Volta? E
perché devo tenere questa forma? Non mi piace, è
troppo grossa. –
Una quarta creatura si avvicinò a quella che stava per
scoppiare in lacrime, abbracciandola. Sotto la leggera camicia chiara
che portava indosso si riusciva a riconoscere un abbozzo di seno, che
mancava alle altre figure. – Oh, piccola Commedia.
Tranquilla. Il Fato sa sicuramente cosa sta facendo. Ha sicuramente
fiducia in noi, per questo non ci ha condotto nella Volta. –
- Passione, non puoi sempre consolare Commedia ogni volta che frigna.
–
- La maniera in cui si è lamentata potrà non
essere di tuo gradimento. – disse seccamente un quinto essere
– Ma ciò non toglie che abbia ragione ad essere
spaventata, come lo siamo tutti. Tutti, forse, tranne te. –
- Ciò che ho detto a Passione vale anche per te, Melodia.
Guardate che personalità ha sviluppato Commedia grazie a
voi. A stento compiva il suo lavoro di Musa, per paura del mondo
mortale. –
Melodia si mosse nella direzione di Epica con uno sguardo glaciale
negli occhi. Il vento tacque, così come il frusciare delle
rigogliose foglie estive e il canto degli uccelli. Il mondo parve
essersi ammutolito attorno a quella discussione.
Una mano strinse la camicia che copriva il petto di Epica, cercando di
diminuire le distanze tra i due volti.
- Epica, non mi interessa se nostro padre ti ha affidato la sua arma,
non mi interessa se sei l’unico dal quale quella spada si fa
maneggiare. Nostro padre, adesso, non è qui. Siamo soli con
noi stessi e, non so te, ma io ho intenzione di sopravvivere.
–
- Tu mi stai minacciando? –
Cos’è
questo odore?
Credo di averlo
già sentito, ma è così diverso,
così strano.
Cos’è
questa sensazione? Può essere paura?
Ma paura di cosa? Di un
odore?
C’è
qualcosa nel mio essere che mi dice che è pericoloso.
- No, io ti sto esponendo le mie ragioni. –
- In ogni caso, - riprese Epica liberandosi dalla presa del suo simile
– qui siamo al sicuro. Non riusciranno mai a seguire le
nostre… tracce… - la Musa incespicò
sulle ultime parole, come se fosse stata distratta da qualcosa
nell’aria.
- Epica, cosa succede? – chiese Mito, spaventato da quel
comportamento anomalo.
- Andiamocene. Adesso. –
- Ma non avevi detto che… -
- Ho detto andiamocene. – Epica si voltò verso
l’essere che ancora le si parava di fronte, che ancora non
gli aveva tolto gli occhi gelidi di dosso – Melodia, hai
altre ragioni da esporre? –
Il rumore di decine di passi lontani attutiti dal sottobosco che
stavano pestando ruppero il silenzio anormale che era calato.
- No. Per il momento non obietterò. –
Il gruppo si mosse rapido, prima spostandosi sulle gambe di quei corpi
antropomorfi, poi mutando per assumere le minute sembianze di animali.
Per quanto corressero, per quanto le loro ali sbattessero velocemente
tra i rami e le loro zampe lasciassero appena del terriccio smosso al
loro passaggio, il rumore di passi era sempre lì, alle loro
spalle, come se sapessero esattamente dove fossero.
La volpe dalle iridi gialle si fermò di colpo.
- Dobbiamo andarcene più lontano. Non possiamo
fuggire da loro se manteniamo questa velocità da mortali.
Mille chilometri verso ovest, è lì che ci
incontreremo. –
La volpe scattò in avanti, lasciando pochi ciuffi di peli
dove prima c’era stato il suo corpo.
Con un rombo di tuono le creature scomparvero da quella foresta,
finalmente riuscendo a mettere del terreno tra loro e i cacciatori.
Una collina coperta da vitigni male allineati fu scossa da un fremito.
Le larghe foglie verdeggianti danzarono sotto un’improvvisa
corrente.
Sette animali comparirono tra i filari, andando a creare un piccolo
cerchio.
Una volpe dagli occhi dorati, un corvo dai duri occhi scuri e le piume
color pece, un candido ermellino dal manto lucente, un falco dal
piumaggio bronzeo e gli artigli affilati, un servalo dalla coda divisa
da cinque strisce di pelliccia bianca, un pettirosso che impaziente
saltellava sulle esili zampe e un procione dalla maschera nera che si
stagliava sul pellame grigio.
- Epica, erano loro, là, vero? – chiese il
procione, dubbioso.
- Credo di sì. –
- Come hanno fatto a trovarci? – continuò
l’animale dal manto color metallo.
- Non lo so. Ma ora non importa, non ci possono raggiungere, non ci
possono trovare. Siamo salvi, per il momento. –
L’aria vibrò come una corda di violino.
Le sette figure rizzarono il pelo che ricopriva i loro corpi,
avvertendo i fili dei destini che componevano la trama venir squarciati
da una forza inarrestabile.
Uno squarcio si aprì nella vigna, una ferita
nell’aria.
Ne uscirono una decina di figure umane, avvolte in sfarzosi abiti
rossi. Non parevano combattenti, non pareva nemmeno che fossero stati
addestrati alla battaglia.
Il primo di loro, però teneva in mano una spada lunga e
sottile, dal guardamano appuntito che pareva esser nato da un intrico
di rovi fossilizzati.
La lama, nera come la linfa che scorreva nei corpi delle Muse, a stento
rifletteva i raggi del sole battente.
Le muse rimasero per un attimo paralizzate, terrorizzate.
I loro corpi non si muovevano alla vista di quelle apparizioni.
Perché non
riesco a muovermi?
Cosa mi sta succedendo?
Chi sono loro e che
potere hanno tra le loro mani?
La volpe, a fatica, ritornò ad assumere le sembianze del
guerriero imprigionato nella sua armatura splendente. Tra le sue dita
serrate splendeva la sua arma.
Il soldato avanzò a fatica, come appesantito da un masso
che, improvvisamente, gli fosse stato legato sulle spalle.
L’uomo che impugnava la spada dalla lama scura, dal volto
comune e gli scuri capelli ricci tanto corti da superare appena il dito
di lunghezza lo guardò senza mostrare segni di emozione.
Non era ostile, ma ciò non lo rendeva meno pericoloso.
Poco a poco, gli animali tornarono in forme a loro più
consone, come incantati da un sortilegio. Quella spada li attraeva a
sé come il fuoco di una torcia attraeva gli insetti notturni.
La bambina dai capelli rossi si alzò lentamente, imbambolata
a guardare quell’arma che le si stava avvicinando.
- Commedia, stai indietro… - biascicò il soldato,
cercando di muoversi per frapporsi tra la Musa e l’uomo.
La bambina parve non sentirla. I suoi occhi limpidi non riuscivano a
staccarsi dall’oggetto mortale che le andava incontro e che,
ora, era a pochi passi dal raggiungerla.
- Commedia, rinsavisci! – tuonò Epica, cercando di
riscuotersi dal terrore che l’aveva avvolto.
La bambina dai capelli fiammanti battè più volte
le palpebre, come se si fosse appena risvegliata da un sogno.
Riconobbe solo dopo un secondo di confusione la punta metallica che
stava per trafiggerla.
I suoi simili erano in gran parte a terra, impotenti.
Epica era lontano, non poteva salvarla.
La Musa fu presa dal panico. Il suo piccolo corpo fu scosso da fremiti,
per poi sparire in una nuvola di vapore poco prima che la spada che la
stava puntando potesse raggiungerla.
Cos’hai fatto?
Con uno sforzo di volontà immane, Melodia si
disgregò a sua volta in un denso fumo scuro, che
serpeggiò a pochi centimetri dal terreno per poi tornare
tangibili a creare una sfera cava.
Al suo interno si potevano intravedere piccole schegge fluttuanti che
cercavano disperatamente di avvicinarsi le una alle altre, senza
successo.
La sfera cominciò a stringersi verso il suo centro, aiutando
le schegge a trovarsi le una con le altre.
- Non farlo mai più. – disse Melodia, continuando
a comprimere quella forma – Ti ci sarebbero voluti secoli a
riaggregarti, nel migliore dei casi… -
La lama scura trafisse la cupola, per poi calare verso il basso, per
aprire uno squarcio in quella dura superficie.
Dalla ferita, un denso liquido scuro cominciò a sgorgare.
Prima a fiotti, poi sempre meno, ostacolato dalla crosta che si stava
creando sui lembi dello squarcio.
- Melodia… no… - un costrutto appena abbozzato,
simile in alcuni tratti alla bambina che lo aveva preceduto cadde all'indietro, con lacrime cristalline che cominciavano a sgorgare dai suoi
occhi.
La spada dalla lama scura si alzò una seconda volta al di
sopra della testa di Commedia, pronta a ferire mortalmente anche quella
seconda preda.
La lama calò rapida, come se avesse una volontà
propria, come se non avesse bisogno di quel braccio che la sorreggeva
per uccidere.
La spada del Fato si frappose alla sua calata, interrompendo il suo
arco di morte.
Ci fu un mormorio alle spalle dell’uomo che brandiva
l’arma da parte dei suoi compagni. Un mormorio di stupore,
pareva essere.
La spada sporca della linfa vitale della Musa morente cercò
di abbattersi un’altra volta sulla bambina , ma di nuovo la
lama bronzea si frappose.
Una donna splendida si fece avanti, cercando di far risultare il suo
passo sensuale il meno incespicante possibile.
La morsa di terrore che li aveva attanagliati si stava facendo sempre
più debole, ma ancora risultava sufficientemente opprimente
da far tremare l’essenza di cui erano composti quei corpi.
- Prego, signori. – disse raggiante la donna, sfoggiando un
sorriso dai denti candidi – Non vedo perché sia il
caso di ricorrere alle maniere forti. Sono convinta… - per
un attimo il discorso si interruppe in un gemito sopito da parte della
creatura – Sono convinta che possiamo dar voi qualcosa che
bramate. Questo, in cambio delle nostre vite. –
Un’altra sequenza di mormorii si levò dal piccolo
gruppo che, da lontano, osservava la scena.
Gli occhi dell’uomo che brandiva la spada, per un attimo, si
accesero di una scintilla di coscienza, per poi tornare vuoti.
L’arma si voltò verso la donna, puntando la
propria punta verso il suo viso.
Non un’altra.
Non può morire un’altra Musa.
Ne abbiamo perse fin
troppe. La lista era già sufficientemente lunga prima che il
nome di Melodia vi facesse il suo ingresso.
Passione non ha speranze
di sopravvivere.
La musa, a sua volta, fece un passo avanti, senza perdere il suo
sorriso e il suo sguardo lucente, lo stesso sguardo che aveva fatto
cadere ai suoi piedi migliaia di mortali.
- Passione! Cosa stai… - cercò di dire Epica, nel
tentativo di frapporsi tra la lama e il suo nuovo obiettivo, ma venne
zittito da un gesto noncurante della mano della sua simile.
- Avanti… - riprese Passione, facendo un ulteriore passo.
- Andatevene tutti lontano! È un ordine! –
ruggì Epica in direzione delle figure che ancora stavano
cercando di rialzarsi sulle gambe malferme – Adesso!
–
Uno scoppio di tuono seguito da una folata di vento tempestosa
spazzò la vigna, accompagnando lo scomparire delle creature
che non erano coinvolte in quello scontro.
Ora, su quel terreno coltivato, i dieci uomini dalle tuniche sanguigne
fronteggiavano solamente due creature divine.
- Avanti, - riprese la Musa con voce suadente, avvicinandosi
ulteriormente – So che c’è qualcosa che
volete. Lascia cadere quella spada e otterrai tutto ciò che
desideri. Ti basterà solamente chiedere. –
La mano dell’uomo dai corti capelli ricci si strinse
sull’impugnatura che tratteneva. Per la prima volta, il suo
volto parve colto dal dubbio.
- Passione, non fare un passo avanti. Non ti potrò
proteggere, altrimenti. – le intimò il soldato con
le dita salde sulla propria arma.
La donna, incurante, non ascoltò il consiglio, avvicinandosi
ancor di più all’uomo, al punto che egli potesse
percepire il suo fiato caldo sul viso.
- Devi solo lasciar cadere quella spad… -
La lama trapassò il petto di Passione obliquamente,
penetrando il suo ventre per fuoriuscire dalle sue scapole, sporca
della sua nera linfa vitale. L’arma venne sfilata, per poi
ripiantarsi nel capo della donna non appena questa si fu accasciata a
terra.
- Passione! – urlò disperato il soldato,
avventandosi contro l’uomo che stava mietendo vittime tra i
suoi simili.
Il suo primo fendente fu parato, così come quelli
successivi. Per quanta forza impiegasse nei suoi colpi non riusciva a
far breccia nella guardia del suo avversario.
Quell’uomo non poteva essere mortale. Nessuna creature del
Creato poteva possedere una forza o dei riflessi che potessero
competere con quelli di una Musa.
La Trama del Reale tremava ogni volta che le lame cozzavano, facendo
increspare il tessuto della realtà.
- Chi sei? – chiese la Musa sui denti, mentre spingeva con
tutta la forza che possedeva la propria lama contro quella rivale.
L’uomo non rispose. Il suo volto era tornato una maschera di
cera, privo di emozioni, con lo sguardo perso sulla lama scura.
La Musa continuò ad attaccare, muoversi e cercare di
colpire, ma non una singola volta la sua arma riuscì a
ferire l’avversario.
L’uomo fece la sua prima mossa offensiva.
La lama si mosse rapida, saettando verso il ventre del soldato e
costringendolo a fare un passo indietro.
Ripeté il movimento, provocando la medesima reazione da
parte del suo nemico.
Gli occhi dorati di Epica si strinsero fino a diventare due fessure
all’interno del suo elmo.
Sapeva riconoscere un combattimento che non poteva vincere.
Si voltò per correre il più lontano possibile.
Ruppe il muro del suono zoppicando, il terreno sotto le suole metalliche
che portava correva talmente rapido da apparire una superficie dal
colore uniforme.
Siamo rimasti solamente in cinque.
Angolo dell'Autore:
Questo fastidioso angolo a piè di pagina sta diventando un
rubrica mensile, più che il momento che io volevo fosse.
Probabilmente uno delle mie prime migliorie di questo nuovo ciclo (tra
poco vi spiegherò cosa intendo) sarà quella di
far tornare queste righe il luogo in cui cerco di annullare le distanze
tra me e voi.
Sapete tutti come funziona, oramai. Sono anni (si, dannazione, anni)
che porto avanti questo Angolo, sempre più o meno con lo
stesso formato. Non è obbligatorio che lo leggiate, non
aggiungerò nulla al capitolo. Sarà solo un
momento di mia divagazione e mia condivisione con voi di Cose con la C
maiuscola.
Oggi avrei tanto di cui parlare, specialmente dopo questo capitolo in
cui (con la mia solita chiarezza spalmata su trentacinque capitoli) vi
ho dato tutti i suggerimenti possibili per capire chi delle cinque (o
quattro, togliendo Commedia) muse rimaste possa essere quella
imprigionata. Per un veloce recap. rimangono Commedia, Mito, Tragedia,
Epica ed Epistola.
Avrei veramente molto di cui dire, adesso, sul perchè ho
scelto queste due dipartite, in questo capitolo, sul significato che
hanno e su che conseguenze avranno, MA, ho notato che c'è
qualcosa di più importante da fare.
Mettiamo quindi anche questo argomento nella lista di "cose di cui
discutere più tardi".
Ecco, dunque, di cosa voglio discutere con voi oggi.
Riprendendo l'inizio, questo è il primo capitolo di quello
che posso considerare per me stesso un nuovo ciclo.
Mesi fa mi ero concesso di scrivere una storiella da poco, nel paio di
mesi che avevo lasciato tra la fine dell'Ombra del Passato e l'inizio
di questo Figli della Trama. Beh, da quegli otto/dieci capitoli che
avevo preventivato ne sono usciti trentotto... dopotutto non ho
sbagliato di molto, no?
Comunque, quella storia finalmente è finita, permettendomi
di concentrarmi unicamente su questa.
Ciò, però, non ha risolto un mio problema. Ho
sempre dei ritardi mostruosi nel finire la stesura ed io non riesco a
capire by myself se la qualità finale di questi "prodotti"
è sufficiente.
Finora vi ho chiesto molte cose, in questi Angoli, ma oggi ho un favore
particolare da chiedervi.
Se, da ieri in avanti, dovreste trovarvi a fare fatica a leggere i miei
capitoli perchè oggettivamente scritto male, vi chiedo di
lasciarmi una critica.
Mi basta un "NO", solo un "NO" scritto sotto una bandiera rossa.
Un'eventuale aggiunta sul motivo per cui non avete apprezzato
può essere utile a me, ma già il solo feedback
che qualcosa non va può essermi incredibilmente utile.
Da lì in poi toccherà a me prendere provvedimenti
su me stesso.
Grazie per essere arrivati fin qui.
Grazie per continuare a leggermi ed alla prossima.
Vago
|
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Capitolo 36 *** Capitolo 16.5: Memorie antiche ***
La porta di quell’ultima casupola che infestava
ciò che rimaneva della Terra degli Eroi si aprì
senza sforzo, come sempre.
In piedi davanti ad essa c’era l’ispettore dalla
zazzera bionda. Il soprabito marrone sembrava essersi sbiadito durante
la missione che gli avevano affidato e, sotto di questo, si poteva
riconoscere il profilo di un fodero legato al fianco.
Non credo di doverla
usare, questa spada.
Non possono essere
così pazzi da combattere con una Musa.
L’uomo dal volto tatuato si guardò il palmo della
mano sinistra. La pelle si flesse verso l’esterno, per poi
lacerarsi per permettere alla lama lucente di un coltello da lancio di
vedere la luce del sole che li sovrastava.
In ogni caso, ho un asso
nel mio palmo.
Non possono uscire vivi
da una battaglia con me, soprattutto ora che sono tornato nel pieno
della forma.
…
Beh, quasi nel pieno
della mia forma. Ancora non riesco a trovare la Fenter nella Trama.
Il suo Fato deve essere
avviluppato a quello di centinaia di persone, per essere
così ben nascosto.
Le suole rigide batterono sull’ingresso della casupola,
varcandolo per dirigersi verso la scala che pareva puntare nel cuore di
quella montagna.
Un’aria pesante permeava la scalinata umida, l’aria
sembrava essere troppo pigra per scostarsi al passaggio di quel corpo
che le impattava contro.
La polvere a stento si alzava, per poi ricadere quasi immediatamente
sulle superfici.
Lo sento ancora.
Questo è il
fetore di Follia.
Com’è
possibile?
Quel Noir non aveva il
suo odore, addosso. Anche se dovesse essere stato catturato non
potrebbe comunque riempire questo luogo di un tanfo tanto forte.
Forza
Viandan… Commedia.
Forza Commedia, le tue
sono solo paranoie.
Sta andando tutto bene.
Tutto.
Adesso arrivi
là sotto, fai quattro parole con la signora Johanne Fenter.
Si, la signora Johanne
Fenter. Johanne Fenter è solo un’umana.
Commedia, non devi
essere spaventato da quell’alcolizzata. L’unico
motivo per cui non riesci a trovarla nella Trama è
perché sei fuori allenamento e non sei più
abituato a lavorare con l’emicrania da claustrofobia che
c’è tra quelle maglie.
Il muro che scorreva inesorabile alla sinistra della scala si
allargò quel tanto da permettere a un pianerottolo di
esistere nelle viscere di quella montagna dalla vetta mozzata.
La mano dell’ispettore dovette rilassare il pugno in cui si
era chiusa, per riuscire a muovere il pomello che impediva
l’accesso alla porta che si affacciava su quel piccolo piano.
I cardini girarono su sé stessi senza rumore, scorrendo
perfettamente sullo strato oleoso che gli era stato applicato sopra e
permettendo all’intensa luce prodotta dal candeliere di
cristallo appeso al soffitto, di tagliare anche la penombra che
dominava le scale, là dove non arrivava completamente la
luce delle poche torce che si susseguivano.
L’uomo dai capelli biondi fece il suo ingresso con passo
sicuro, sfoggiando il miglior sorriso che possedeva per
quell’occasione.
- Miei signori, sono giunto fin qui per portarvi quello che
è il mio ultimo rapporto. –
Un tintinnio di vetro contro vetro si inserì prepotentemente
sopra al vociare sommesso che riempiva l’aria di quella
stanza.
Il Giudice Maggiore terminò con deliberata lentezza di
riempire il proprio calice del liquido scuro che conservava nella
bottiglia di cristallo che teneva nella mano destra.
Quando ebbe terminato quel compito e riposto la bottiglia al di sotto
del tavolino che le stava davanti, alzò lo sguardo verso il
nuovo arrivato, sorridendogli.
- Non credo di aver capito ciò che hai detto. –
disse, con un tono che poteva sembrare sincero.
- Signora Fenter, sto parlando di questo compito che mi avete affidato
durante gli ultimi giorni di validità del mio contratto.
Abbiamo pattuito un prolungamento della mia servitù
finché non avessi fermato il draghicida… Grazie
al mio precedente rapporto avete potuto inviare una squadra di draghi a
radere al suolo la sua abitazione. Reputo di aver compiuto il mio
dovere al meglio delle mie possibilità. –
- Non hai ucciso il draghicida, siamo dovuti intervenire noi.
–
- Non avevo ancora ucciso il draghicida, vorrà dire. Stavo
raccogliendo da lui informazioni riguardo a dei possibili aiutanti,
prima di ucciderlo. –
- E ne aveva? –
- … -
Sapranno di quel Noir?
Questo è il
momento per me di scommettere.
Non gli darò
un centimetro di più di quanto già non si siano
presi.
Una vita per una vita.
Noir per Lucya.
Se al Fato non importa
della sorte dei Buchi della Trama, deciderò io per loro.
- Viandante, rispondimi. – disse in maniera più
decisa la donna dai capelli dorati, sporgendosi verso l’uomo
con cui stava parlando.
- No. Non ne aveva. Aveva solamente una sorella cieca che è
morta durante il vostro attacco. –
- Ottimo. –
- Ora che ho ultimato il mio compito, confido che voi manteniate
l’accordo e andiate ora a liberare la vostra prigioniera.
–
L’imponente corpo di Krave Dunnont si alzò dallo
scranno che occupava. – Davvero credi che un foglio di carta
ti garantirà la libertà? -
- Lo credo. –
Seguì un momento di silenzio. Il trafficante di Demo
deglutì rumorosamente mentre gli sguardi di Sarah dan Rei e
del re dei draghi Sharadan si mossero su di lui, in attesa di una
risposta.
Il bicchiere di cristallo si alzò dal tavolino che lo aveva
sorretto, facendo ondeggiare il liquido che conteneva per poi farlo
scorrere verso le labbra della donna che guidava quella riunione.
- Signor Dunnont, prego, si sieda. – disse poi il Giudice
Maggiore non appena il suo bicchiere si fu staccato dalle sue dita.
– Per quanto riguarda te, Viandante. Temo che non
rispetteremo il contratto che ci lega ai tuoi servigi. –
Davvero?
Davvero osano farmi una
cosa del genere?
Adesso capiranno chi
hanno di fronte.
- Come osate parlare a me in questa maniera? Io sono un figlio del
Fato, sono l’essere eterno che ha guidato le ere. Volete
davvero mettere alla prova la mia pazienza? Sono disposto a lasciare il
mio simile nella prigione in cui l’avete messa per altri
mille anni, in attesa di un mortale che apra quella porta. Non mi siete
così necessari da potervi credere al riparo dalla mia ira.
–
- Viandante, il motivo per cui questo gruppo è riuscito a
sopravvivere alle stesse ere che ti abbiamo fatto guidare è
perché ci tramandiamo tutte le informazioni in nostro
possesso. Noi sappiamo di come sei stato asservito. – Johanne
Fenter si alzò in piedi, circumnavigando il proprio scranno
per fermarsi alle sue spalle – sappiamo cosa sei e di come
quel tuo simile è diventato nostro prigioniero. –
Il rumore di una lama d’acciaio sguainata rimbombò
tra le pareti di pietra.
L’ispettore si irrigidì sul posto, talmente teso
da non riuscire a raggiungere con la propria mano la spada che portava
al fianco.
Questa sensazione... non
può essere lei.
Non esiste
più su questo piano
No, è
un’altra spada, ne sono certo.
Non può
essere la stessa.
Il Giudice tornò sui suoi passi, reggendo nella mano destra
l’elsa di una spada dalla lama tanto scura da non riflettere
la luce rifratta delle candele appese al soffitto.
- Come hai avuto quella spada? – chiese
l’ispettore, cercando di mascherare il malessere che in lui
continuava a crescere alla vista di quell’arma.
- Molti nostri testi parlano della “spada che uccide gli
dei”. L’ho riconosciuta immediatamente quando uno
dei draghi al servizio di Vanenir II ce l’ha portata dopo
averla rinvenuta conficcata nel dirupo che si è aperto in
questi monti. –
- Non è possibile, quell’arma è stata
bandita molto tempo fa. –
- Quanto sei disposto a scommettere sulle tue convinzioni, Viandante?
Potremmo verificare di persona se davvero questa lama ha il potere di
uccidere gli immortali. –
- Cosa volete ancora da me? Uccidermi? –
- Sì. –
- Allora ditemi cosa… - l’ispettore dai ricci
biondi interruppe bruscamente la sua frase, elaborando solo in un
secondo momento la risposta ricevuta.
Cosa?
Vuole davvero uccidermi?
Dannazione, no.
Assolutamente non mi
lascerò uccidere.
- Perché? Vi ho serviti per secoli, perché
vorreste uccidermi? –
- Perché questa spada mi ha mostrato la verità.
So cosa siete tu e quell’altro essere e so che potere sareste
in grado di generare se vi ricongiungeste. Quest’arma mi ha
mostrato la mia morte, se solo quell’altro essere dovesse
uscire dalla sua prigione. –
Non di nuovo.
Non di nuovo, per favore.
Non posso combatterla,
l’effetto di terrore di quella spada si sta a malapena
attenuando, non ho possibilità di sconfiggerla.
Devo andarmene.
E devo controllare che
Lei stia bene. Potrebbero averla già uccisa.
- Vi pentirete tutti voi di quello che mi avete fatto. –
disse l’ispettore, sfumando rapidamente in una nube di fumo
chiaro che, rapida, si insinuò sotto la porta, evitando la
lama che era stata mossa con deliberata lentezza verso il suo petto.
Quella spada, quella
spada è tornata.
Devo capire come sia
possibile, deve esserci una spiegazione.
Ora, però, ho
altre priorità.
Spero unicamente che non
l’abbiano ancora uccisa.
|
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Capitolo 37 *** Capitolo 17: Il punto più basso ***
Il pomeriggio si stava spegnendo lentamente, mentre l’aria si
raffreddava sempre più.
La superficie del lago era calma, immobile, neppure le poche barche che
ancora dondolavano a largo riuscivano a smuoverla.
Noir si strinse in una coperta logora, cercando di allontanare
l’umidità dal suo corpo.
L’aveva trovata nel fango quel pomeriggio, poco fuori
dall’ultimo villaggio di pescatori che aveva attraversato.
Non l’avevano riconosciuto, ma, comunque, nessuno aveva avuto
il buon cuore di ospitarlo per la notte.
La ferita sul ginocchio si stava rimarginando velocemente per i canoni
umani, ma, nonostante questo, ancora zoppicava vistosamente.
Era riuscito a rubare un pezzo di pane, che ora teneva tra le mani.
Doveva ricominciare da capo, di nuovo. Non era servito a nulla
viaggiare con quel Razer. L’aveva incontrato quando era senza
una casa sicura ed era sopravvissuto a lui nella stessa condizione.
Sapeva che la Grande Vivente gli era preclusa. Troppe persone
conoscevano il suo volto, senza contare che Gerala era il centro
nevralgico che gestiva la caccia che lo perseguitava.
I controlli alle porte delle Chiritai erano serrati, per qualche
ragione lo erano ancor più nei giorni in cui avevano
attraversato le colline per raggiungere i Monti Muraglia.
Le Terre non avevano più nulla da offrirgli.
Uno strisciare lento di piedi ruppe la quiete della sera, ma Noir non
vi prestò attenzione. Strinse ancora più la
coperta infangata sul suo corpo, appoggiando la schiena sulla corteccia
dell’albero sotto cui si era seduto.
Sarebbe dovuto tornare sul Continente. In pochi lo avevano visto
durante il suo primo viaggio e i manifesti che lo ritraevano erano
sporadici.
Poteva provare a ricominciare una nuova vita. Di nuovo. Senza Razer che
lo trascinassero lontano dalla sua meta con promesse inverosimili.
I passi si fecero più vicini, finché la sagoma di
una ragazzina deperita non comparve nella sera che si andava scurendo.
I vestiti che portava addosso non erano stati pregiati nemmeno quando
erano ancora integri ed ora le ricadevano addosso troppo grandi per il
suo corpo esile.
Si trascinava avanti a fatica, lasciandosi alle spalle, sporadicamente,
gocce di sangue scuro.
I suoi occhi chiari erano spenti, le labbra spaccate e i capelli scuri
incrostati di sporcizia.
Procedeva avanti, lentamente, come se fosse ignara di ciò
che la circondava.
Superò l’albero sotto cui si era rintanato Noir
senza neppure piegare il capo.
La parte posteriore della camicia che le copriva il petto era stata
strappata in più punti, lasciando intravedere la carne viva
sottostante.
La pelle, così come quell’abito, le era stata
strappata da qualcosa di simile a una frusta.
- Ehi. – cercò di chiamarla Noir, alzando appena
il capo nella sua direzione.
La ragazza parve non udirlo, continuando nel suo incedere.
- Ehi! – ripeté Noir, alzandosi per raggiungerla.
Le mise una mano sulla spalla per fermarla, ma non appena lei
avvertì quel contatto si voltò di scatto,
portando le braccia sopra la testa e spalancando gli occhi, colmi di
terrore.
Il discendente di Reis sospirò a quella vista. Quella era
una sensazione nuova, per lui. Molte persone avevano avuto paura di lui
per quello che era, ma il terrore di quella ragazza era qualcosa di
diverso, di slegato da quello che gli scorreva nelle vene.
Gli ultimi raggi del sole illuminarono il viso giovane della figura che
gli stava di fronte, gettando lunghe ombre sulle guance scavate e sul
collo esile.
Tremava, forse per il freddo.
Noir si permise un secondo sospiro, togliendosi di dosso la coperta
lurida che aveva trovato.
Dopotutto non ne aveva così bisogno.
Lasciò ricadere la mano lungo il fianco, sperando che
l’assenza di quel contatto rassicurasse la ragazza che gli
stava di fronte.
Le porse quindi la coperta che teneva nell’altra mano.
– Prendi. –
Gli occhi della ragazza scintillarono per un secondo di una strana luce
che l’uomo non riuscì a decifrare, poi le sue mani
esili quasi agguantarono il rettangolo di lana sporco di fango,
strattonandolo verso il suo petto.
- Sono Noir. – continuò il trentenne, lasciando
ricadere anche la seconda mano, ora vuota.
La ragazza non rispose, si portò solamente la coperta al
petto, stringendola.
Noir si portò una mano al volto, strofinandoselo.
Se ne sarebbe certamente pentito, più avanti.
- Tieni, credo che tu abbia più fame di me. –
continuò porgendole il pezzo di pane che avrebbe dovuto
rappresentare la sua cena.
Questa volta la ragazza non ebbe un attimo di esitazione.
Strappò la pagnotta dalle dita del suo benefattore,
addentandola voracemente.
Il trentenne rinunciò a qualunque altro tipo di
conversazione. Sapeva che non avrebbe ricevuto nessuna risposta da
quella ragazzina.
Tornò in silenzio a sedersi contro il tronco
dell’albero che aveva designato come suo rifugio per la
notte.
Chiuse gli occhi, cercando di evitare di pensare all’umida
cortina fredda che, lentamente, si stava levando dalla superficie del
lago.
Cosa poteva essere successo a quella ragazzina? Si chiese, mentre la
sua mente cercava di rassegnarsi alla stanchezza.
Era povera, poteva essere scappata da casa sua o dal luogo in cui era
stata impiegata come schiava.
Era magra, probabilmente erano diverse settimane che non mangiava.
Le ferite sulla schiena, però, non si erano ancora
cicatrizzate.
Poteva essere stata la schiava di un padrone particolarmente violento,
oppure era stata vista mentre cercava di rubare qualcosa, venendo
picchiata per questo.
Le possibilità erano troppe, solo lei avrebbe potuto
chiarire quale fosse quella corretta.
La coperta di lana sfregò contro il terreno ai piedi di
Noir. Un rumore accese in lui la curiosità di sapere da cosa
fosse stato prodotto.
Aprì appena le palpebre.
La ragazza si era sdraiata a una decina di centimetri dalle sue gambe,
per terra, avvolta quasi completamente dal suo nuovo indumento.
Qualunque fosse la sua storia, decise il trentenne, quella,
probabilmente, era la cosa che più si avvicinava a un
ringraziamento o a un gesto di fiducia nei suoi confronti.
Richiuse nuovamente gli occhi.
L’ultimo pensiero che il suo cervello riuscì a
formulare prima di assopirsi completamente fu che quella ragazza era
stata incredibilmente fortunata ad aver incontrato lui. Nessun altro
uomo sulle Terre poteva permettersi di abbassare la guardia con un
estraneo senza temere per la sua incolumità. Ma lui aveva la
sua maledizione a proteggerlo da tutto e tutti.
Razer aprì gli occhi a fatica.
Era buio esattamente come quando li aveva chiusi.
Nessuno era più venuto a fargli visita da quando quella
donna se ne era andata.
Non sentiva più le braccia e le gambe, inchiodate al muro
dai pesanti ceppi in ferro che gli avvolgevano i polsi e le caviglie.
Aveva anche smesso di soffrire i morsi della fame da diverse ore.
Sarebbe morto in quella cella umida, ne era certo.
Riuscì appena ad alzare il capo quando, al di là
della porta che impediva alla luce di raggiungerlo, udì dei
passi affannati.
C’era qualcuno, là fuori.
- Apri! Apri! – provò ad urlare, ma la gola secca
e la lingua impastata produssero solamente una cacofonia di suoni
confusi.
I passi, però, si fermarono.
La porta si aprì di colpo e la luce rossastra che si
riversò all’interno della stanza costrinse Razer a
chiudere gli occhi lacrimanti.
- Sei tu, quindi. – disse una voce maschile. La porta venne
socchiusa, dopo di che, dei passi ancor più leggeri di
quelli che li avevano preceduti si mossero verso il prigioniero.
- Ho bisogno che tu faccia qualcosa per me. –
continuò la voce, ora poco distante dall’uomo
incatenato.
Razer si costrinse ad aprire gli occhi.
Davanti a lui vide due occhi chiari che lo fissavano
dall’alto di un viso tatuato.
Riconobbe immediatamente il tatuaggio romboidale che compariva sulla
guancia di tutti i cani del Tribunale, impiegò invece
qualche secondo in più a riconoscere nelle fattezze di
quell’uomo dai capelli ricci le stesse
dell’avversario che lo aveva quasi sconfitto ad Aravan.
Quello era l’uomo che lo aveva inseguito fin sul Continente,
quello che solamente alla fine del suo viaggio era stato sostituito
dall’elfo che aveva rintracciato casa sua.
Un grumo di saliva densa uscì dalle labbra
dell’uomo, andando a sporcare il viso
dell’ispettore biondo.
- Cosa vuoi da me? –
Un pugno impattò sullo zigomo sinistro del prigioniero,
facendolo ammutolire.
- Bene. – tornò a dire l’ispettore
pulendosi il volto – Ora che ci siamo salutati posso
liberarti. Ho bisogno che quelle tue manine da mortale facciano una
cosa per me. Devi aprire una gabbia. –
- Perché mai dovrei aiutarti? –
Razer scrollò le braccia, cercando di allontanare le mani di
quel suo nemico dai ceppi che lo costringevano.
- Non fare il bambino lagnoso. Fatti liberare maledetto. –
mentre le dita dell’uomo si affaccendavano attorno alla
serratura, i suoi capelli si scurirono, si accorciarono, si lisciarono,
le sue orecchie crebbero in lunghezza, assottigliandosi e appuntendosi.
- Sei tu? Sei sempre stato tu? – Razer ricominciò
a scrollarsi, questa volta più violentemente, ignorando le
urla di dolore che i suoi polsi mandavano al cervello.
- Rimani fermo, maledetto… - borbottò a denti
stretti l’elfo in abiti scuri, cercando di tenere immobile il
pezzo di ferro che stava cercando di scassinare.
- So cosa hai fatto! So che hai venduto me e mia sorella! Le tue erano
solo parole, non avrei mai dovuto credere alle tue buone intenzioni!
–
- Sentimi, piccolo verme. Io non ho venduto nessuno. Se proprio vuoi
saperlo, quello tra i due che è stato fottuto sono io.
Quindi ascoltami bene, adesso ti fai liberare, in qualche modo ti
faccio firmare il mio contratto, poi tu mi seguirai nel punto
più basso di questa struttura e libererai la ragazza che
tengono imprigionata. Hai capito? –
- Io non ti aiuterò mai. –
- Maledizione! – la voce dell’elfo
rimbombò tra le pareti lucide di umidità
– Fai come vuoi, marcisci pure in questo posto, se
è quello che desideri. Ricordati però che non
sono io l’artefice della morte di tua sorella,
perché sì, lei è morta,
così come non lo sono i draghi. Al momento, là
fuori, c’è qualcuno con l’unica arma che
può uccidere qualunque cosa e quella stessa persona, al
momento, controlla il mondo. L’unica possibilità
che io e te abbiamo per sopravvivere è liberare
l’unica creatura che è mai riuscita a tenere testa
a quell’arma. Hai capito bene? –
La serratura del ceppo che cingeva il polso destro di Razer
scattò, facendolo aprire.
- Le tue sono solo parole. –
L’elfo dal volto tatuato fece un passo indietro.
- Bene. Ti auguro una morte piena di sofferenze. –
La figura scomparve in una nube di fumo mentre all’esterno,
lontani e rimbombanti, una serie di passi si avvicinavano in gran
fretta.
La porta della cella, come da sola, si chiuse completamente,
abbandonando Razer nell’oscurità. |
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Capitolo 38 *** Capitolo 17.35: Mito ***
Il soldato dall’armatura bronzea ricomparve su una spiaggia
che si affacciava verso oriente. I suoi stivali metallici affondarono
nella sabbia umida, mentre la spada che stringeva convulsamente tra le
mani scompariva nell’etere.
- Epica… - disse la vocetta terrorizzata della bambina dai
capelli rossi – Melodia e Passione stanno arrivando, vero?
–
Il soldato bronzeo non rispose per qualche secondo, i suoi occhi
dardeggianti si posarono sulla figura minuta come un macigno.
- No. – rispose infine – Sono entrambi morti.
–
Epica fu costretto a fare un passo indietro quando venne colpito da una
mano sul largo petto corazzato.
- Ti sembra questo il modo di portare una notizia del genere?
– tuonò Tragedia, riducendo ancor più
le distanze tra il corpo smunto che indossava e il viso del soldato
– Ma cosa mi sarei dovuto aspettare da te? Il tatto non
è mai stata una delle tue poche qualità. -
- Ti chiedo scusa, fratello, se non mi sono mostrato gentile.
– sibilò Epica, indurendo lo sguardo –
Ma mi è difficile preservare la nostra razza se i singoli
componenti non fanno altro che cercare di provocare la morte degli
altri. –
- Epica, smettila, ti prego. – Epistola fece un passo avanti
a sua volta con lo sguardo basso. Il suo viso bruciato dal sole ora
appariva molto più vecchio e provato – Commedia
è stato preso dal panico e ha cercato di disgregarsi,
chiunque di noi avrebbe fatto una cosa del genere. –
- No, io non avrei fatto una cosa del genere. Mito non avrebbe fatto
una cosa del genere, neppure Tragedia avrebbe osato fare una cosa del
genere. Solamente tu e Terrore eravate in grado di controllare la forma
eterea affinché non si disperdesse nell’aria e
soltanto Terrore la padroneggiava completamente. –
- Questo non vuol dire che devi addossare la colpa a Commedia per quel
che è successo! – di nuovo, le mani di Tragedia si
appoggiarono sulla corazza che gli stava di fronte, spingendola
indietro – Melodia sapeva esattamente cosa stava
facendo, è stata una sua scelta salvarlo. –
Dei singhiozzi ruppero la discussione, che però riprese poco
dopo, come un fuoco che si affievolisce per poi, scoppiettando,
riaccendersi più intenso di prima.
- Siamo rimasti in cinque. – disse Mito truce, inserendosi
nella conversazione – Davvero la vita di Commedia valeva
quella di Melodia e Passione? Saremmo potuti essere in sei, ora.
–
- Non lo hai detto davvero, spero. – Tragedia si
voltò furente in direzione della figura grigia dal volto
privo di lineamenti che aveva appena parlato – Non
è questione di valore della vita. Melodia ha fatto una
scelta che noi possiamo considerare corretta o meno, ma ciò
non cambia il fatto che sia stata una sua scelta. Sai una cosa, Mito?
Io non l’avrei fatto, ma ho un profondo rispetto per la morte
che si è scelto lui. Passione, invece, non c’entra
nulla con questa situazione, ha deciso di tentare un’altra
via. Non so come sia finito il suo tentativo, ma sappi che ha avuto
più coraggio di tutti noi messi assieme per fronteggiare
quella spada. –
- Cosa dovremmo fare, adesso? Continuare a sacrificarci l’uno
per l’altro finché non ci sarà
più nessuno a proteggere l’ultimo rimasto?
–
- Mito, smettila. – gli intimò Epistola, cercando
di moderare il proprio tono – Quello che è
avvenuto è stato un caso. Perfino tu dovresti averlo capito.
Ora taci e cerca quantomeno di apprezzare una scelta di una Musa.
–
- Cosa stai insinuando, ora? – Mito si spostò a
passi rapidi verso il viandante barbuto.
- Non sto insinuando nulla. Sto solo dicendo che non sei famoso per i
tuoi guizzi di creatività, o non sei forse tu la Musa che
raccoglie tutto ciò che i mortali creano in autonomia?
–
I toni si stanno facendo
sempre più accesi.
I millenni di pace dalla
nostra creazione non ci hanno preparati a questo.
Siamo troppo tesi, tutti.
E Commedia non vuole
smetterla di piangere, qualcuno deve farlo stare zitto.
- Basta! – la voce di Epica risuonò per tutta la
spiaggia desolata, facendo tacere ogni suono, compresi i
singhiozzi che avevano fatto da sottofondo alla discussione.
- Non importa quale viaggio ci ha portati qui. Siamo in cinque e in
cinque rimarremo. Epica, Epistola, Mito, Tragedia e Commedia. Questi
sono i nomi delle muse che sopravvivranno fino alla fine dei tempi.
Adesso, abbiamo visto che le distanze non ci proteggono e che le
foreste non ci nascondono. I nostri cacciatori sono mortali e come
tutti i mortali hanno dei limiti. Per tutta la durata delle loro vite
rimarremo nelle profondità dei mari, dove la vita gli
è preclusa. Noi sopravvivremo in eterno. Avete obbiezioni?
–
Nessuno osò dire qualcosa.
Lentamente, come un corteo funebre, le cinque figure si mossero verso
l’acqua profonda. I loro piedi divennero pinne, i loro corpi
si ricoprirono di squame e ampie branchie si aprirono ai lati delle
teste.
Nuotarono rapidi verso le oscure profondità, verso i fondali
che non erano mai stati raggiunti dai raggi del sole.
- Qui saremo al sicuro. – disse il pesce in testa al banco
– E qui rimarremo finché le loro ossa non saranno
tornate alla terra. La superficie ci sarà preclusa per gli
anni a venire. –
- Epica, sei sicuro che non possano raggiungerci? –
- Queste profondità non sono accessibili agli uomini
mortali. –
- Sei ancora convinto che quelli siano mortali? Hanno ucciso dei nostri
simili. –
- Tragedia, basta. Quelli erano mortali. –
Un boato scosse l’acqua, che parve volersi allontanare dalla
fonte di quel suono. Si creò una sfera d’aria, una
bolla che non sembrava risentire della pressione che l’oceano
applicava sui suoi confini.
Al centro della sfera, ritti, erano comparsi i dieci uomini dalle
lunghe tonache. La spada dalla lama nera li capeggiava tutti, come
terribile monito di morte.
I pesci ricaddero verso il basso, ora che non c’era
più acqua attorno a loro per sorreggerli.
- Saremo al sicuro, vero? –
- Sta zitto Tragedia. – replicò gelido Epica,
permettendo al suo corpo di mutare nuovamente e alle squame argentee di
saldarsi le une alle altre per forgiare la sua armatura.
Le pareti della bolla parevano non aver intenzione di lasciar scappare
alcun che dal suo interno, frapponendosi come una muraglia tra
l’aria e l’acqua dell’oceano.
Ci hanno intrappolato.
Non capisco cosa sia
quest’energia che ci ha circondanti, è
così simile a quella di nostro padre…
In ogni caso, il senso di
terrore non è più così opprimente come
quella prima volta.
Possiamo combattere.
Possiamo vendicare i
nostri fratelli caduti.
- Rimanete dietro di me. – disse Epica, stringendo tra le
dita la sua spada bronzea.
- No, no! – urlò Mito, riassumendo una forma
antropomorfa solo per avere delle mani con cui tastare le pareti
interne della sfera, in cerca di un punto debole che potesse divenire
la sua via di fuga.
- Mito, cerca di rimanere calmo. – continuò a dire
Epica, con gli occhi lucenti che non osavano staccarsi
dall’arma avversaria.
- Epica… - la voce di Epistola era appena percepibile
– Qualcosa non va. Guarda il loro riflesso
sull’acqua…. –
Le pareti della bolla riflettevano appena le figure al suo interno,
illuminato da un’eterea luce fievole. Le sagome dei dieci
uomini ammantati erano appena riconoscibili ma, distinguibile da loro,
si poteva riconoscere un’undicesima forma, un’ombra
scura che aleggiava alle spalle dell’uomo che
brandiva la spada.
La figura era come china, in modo che la distanza tra il suo viso e
l’orecchio dell’uomo fosse la minore possibile.
Mito continuava ad agitarsi lungo la parete, spingendo con i propri
palmi sulla superficie.
L’uomo con la spada parve perdersi per un attimo nei suoi
pensieri, barcollando per qualche secondo sul posto, per poi riaversi
improvvisamente ed avventarsi sulla figure che gli stavano di
fronte.
Le due spade cozzarono l’una sull’altra,
squarciando con il loro clangore la quiete che abitava quel fondale.
- Non c’è una via d’uscita! Non
c’è una dannata via d’uscita!
– Mito era ormai preda della disperazione, al punto che
nemmeno si concentrava più sul combattimento che infuriava
alle sue spalle.
Nessuno osava parlare.
I nove uomini intonacati osservavano con reverenza il loro campione
farsi guidare da quella spada.
Tre Muse guardavano disperate il soldato che silenzioso e inamovibile
combatteva.
Nessuna delle due parti pareva riuscire a prendere vantaggio.
L’uomo in tonaca fece un passo di lato, perdendo interesse
nel soldato in armatura con la stessa rapidità con cui
l’aveva acquistata.
La spada dalla lama nera trafisse qualcosa.
Il corpo grigio di Mito ebbe uno spasmo. Le sue mani dalle dita prive
di unghie si agitarono attorno al punto in cui la lama della spada, che
lo aveva trapassato, aveva colpito la superficie della sfera, bucandola.
La Musa quasi non sembrò accorgersi della ferita che gli era
stata inflitta. L’unico pensiero che la sua mente riusciva ad
elaborare era quella piccola via di fuga ostruita solamente da un pezzo
di metallo sporco.
La spada si ritrasse appena in tempo per deviare il colpo che si stava
abbattendo sul suo possessore.
Il corpo di Mito si accasciò lentamente senza emettere
suoni, spegnendosi come una candela che aveva esaurito tutta la cera a
sua disposizione ma che, ancora, lottava per mantenere viva
l’esile fiammella sul suo stoppino.
Mito…
Non un altro.
Perché?
Perché devono morire tutti?
Epica calò il colpo con tutta la forza che aveva in corpo,
lottando disperatamente per rompere la guardia del suo avversario.
- Epica, converrai con me che questo campo di battaglia non ci
avvantaggia. La tua spada può aprirci una via di fuga.
–
- Tragedia, taci. –
- No. Non importa per quanto potrai combattere, non potrai mai
proteggerci tutti. Aprici una via di fuga. –
Il corpo esile di Tragedia si insinuò tra i due combattenti,
serrandosi come una morsa attorno all’uomo che aveva ucciso
tanti suoi fratelli.
La spada del Fato aprì uno squarcio nella superficie della
bolla, l’acqua del mare, però continuò
a non voler entrare in quell’ambiente.
La spada dalla lama nera si mosse diagonalmente ferendo la schiena
dell’essere che tratteneva il suo possessore.
- Epistola, porta via Commedia. – Ordinò il
soldato mantenendo la guardia alta.
Due figure si gettarono nello squarcio, scomparendo
nell’oscurità degli abissi.
- Non ti lascerò morire su un campo di battaglia.
– continuò Epica tra i denti.
Il pesante guanto d’arme afferrò il corpo morente,
trascinandolo con sé oltre la fenditura nella parete della
sfera.
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Capitolo 39 *** Capitolo 17.5: Piano di battaglia ***
La nuvola di vapore scese per diversi metri lungo la scalinata che
pareva voler raggiungere le viscere della terra. Solamente quando i
passi alle sua spalle non furono più udibili permise alle
particelle che la componevano di aggregarsi, per tornare a dare un
volto all’elfo dai capelli neri e dai vestiti eleganti che
per più di due decenni aveva calcato le Terre al Loro
servizio.
La lunga giacca che portava addosso si muoveva scompostamente alle sue
spalle mentre le suole rigide delle scarpe continuavano a toccare ed
abbandonare la superficie degli scalini.
Devo controllare che Lei
sia viva. E soprattutto, che sia ancora lei, là sotto.
L’apparenza
non mi è mai interessata, dopotutto i corpi non sono altro
che involucri.
Che possa essermi
lasciato sfuggire che l’abbiano sostituita con una mortale
dalle fattezze simili?
Lei potrebbe essere
stata uccisa quando mi hanno fatto attaccare dai draghi, oppure
potrebbe essere morta da molto più tempo ed io non me ne
sono mai reso conto.
Dovevo farmi venire
questi dubbi secoli fa.
Dovevo farmeli venire
nell’esatto momento in cui ho visto in quella Niena
Garvà il suo volto.
Potrei aver dato troppe
cose per scontate e adesso ne pagherò le conseguenze.
Devo assicurarmi che sia
Lei, quella imprigionata.
La sua prigione in
diamante non mi permetterà di avvicinarmi a quel corpo, ma,
almeno, posso verificare se porta la ferita di quel giorno.
L’elfo raggiunse il gradino più basso di quella
scalinata, sbattendo un paio di volte le palpebre mentre le sue pupille
si allargavano ben oltre le loro potenzialità per
permettergli di vedere nell’oscurità di quel
sotterraneo.
Purtroppo non posso
ancora liberarti, ma ci riuscirò, te lo prometto.
L’elfo si mosse a passo svelto, con il tatuaggio romboidale
teso sul volto preoccupato.
Le sue gambe gli fecero oltrepassare il primo lato del cubo in cui
l’altra creatura era stata imprigionata. Il suo corpo era
sorretto da rigidi cavi; mentre negli arti, degli esili tubi che non
appartenevano a quell’epoca, si insinuavano nel suo apparato
circolatorio, stillando costantemente la miscela che la manteneva
dormiente.
L’elfo continuò a camminare velocemente, mentre i
suoi occhi cercavano di precedere i piedi, sperando di poter vedere
prima di quanto gli fosse concesso, la schiena della figura
addormentata.
Gli abiti leggeri che coprivano il corpo esile erano stati rovinati
all’altezza delle scapole. Lì si poteva vedere una
parte della schiena della creatura, solcata da una lunga ferita che
né sanguinava né pareva volersi rimarginare.
La ferita
c’è.
È lei.
È ancora lei.
Bene.
Bene.
Devo sistemare ancora il
mondo, ma lei è ancora qui ed è viva.
Il rumore dei passi di quattro persone si cominciò ad udire
dalla tromba delle scale, appena percepibile, poco più di un
fruscio, ma fu sufficiente per far allontanare l’elfo dal
cubo trasparente.
- Devo andare. Te lo prometto, ti tirerò fuori da qui.
–
L’elfo si disgregò in una nube lattiginosa che si
dileguò risalendo la scalinata. I suoi piccoli particolati
serpeggiarono attorno alle quattro figure che stavano scendendo verso
le viscere della terra, stando bene attenta a non avvicinarsi alla lama
scura che, brandita dalla donna dai capelli biondi, capeggiava la
spedizione.
Serpeggiarono attorno anche a un quinto corpo, ma non gli dedicarono la
loro attenzione.
La porta della casupola che, da sola, si ergeva su quella che fu la
Terra degli Eroi si aprì di colpo.
L’elfo tornò a formarsi per poter riappoggiare i
propri piedi sul suolo.
Hai ancora del tempo.
Non la uccideranno, non
subito, almeno.
Per lo meno uno di loro
si porrà il dubbio che averla viva è un
vantaggio, più che uno svantaggio.
Lei è
l’unico motivo che mi porterebbe a rimettere piede
là sotto.
Non così,
però.
Adesso non sono in grado
di fronteggiarli. O meglio, fronteggiarla.
Sono diverso
dall’ultima volta che l’ho incontrata sul mio
cammino.
So combattere e posso
uccidere, adesso.
Ma non con queste armi.
Per quanto la Setta nei
suoi anni d’oro avesse le migliori armi
disponibili, queste lame non sono in grado di fronteggiare quella spada.
Ora ragiona, Commedia.
Come possono essere
entrati in possesso di quell’arma?
Tu sai che fine aveva
fatto, c’eri.
Come può
essere tornata nel Creato?
…
…
Maledizione.
Dannazione.
Non era stato
sufficiente quasi distruggere il dannato mondo.
Il casino provocato
nella Trama quando Mea ha evocato Terra deve averla sbrogliata dalle
maglie della Trama del Reale, facendola ricadere qui.
Dannazione.
Questo però
mi da un vantaggio, so dove è successo e, se è
stata liberata quella spada, probabilmente anche l’altra
è tornata nel Creato.
Devo solo trovarla.
…
La libererò
sicuramente, ma avrò bisogno di una seconda arma, quando
anche Lei comincerà a combattere.
Dovrò
chiedere indietro parecchi favori, oggi.
Ho aiutato troppe
persone perché possano rifiutare di aiutarmi.
Prima, però
devo trovarla ed ho solo un intero fondale in cui cercarla.
Detesto questa
situazione.
L’elfo si mosse a passo rapido in direzione
dell’alta scogliera che, centinaia di metri più in
basso, si gettava nei flutti del mare.
Non si fece fermare dal terminare della terra, portò ancora
avanti il piede, permettendo al proprio corpo di cadere verso
l’acqua lontana.
Un oggetto metallico
cade per diverse migliaia di metri prima di colpire la superficie
dell’acqua. I flutti sono verosimilmente smossi
dall’allontanamento di due placche tettoniche neocreate da un
dio alle prime armi.
Devo solo tenere conto
dello spostamento delle correnti, del calore che produce
l’ebollizione delle acque in profondità, dei
banchi di pesci in fuga e, ovviamente, di tutti i possibili punti di
partenza.
Cosa potrebbe mai andare
storto?
Sarà il caso
di mettersi un buon paio di branchie.
Le acque gelide avvolsero il corpo dell’elfo tentando di
impregnare le vesti che, attorno al suo corpo, perdevano di
definizione, diventando simili a un essere vivente che lentamente
ingurgitava il corpo al suo interno. |
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Capitolo 40 *** Capitolo 18: Scelte ***
Razer guardò la porta della sua cella richiudersi con gli
occhi pieni di collera.
Non poteva accettare l’aiuto dell’uomo che li aveva
venduti.
Lui aveva detto di non essere l’artefice della morte di sua
sorella. Avevano quindi ucciso Lucya?
Lo zigomo gli pulsava là dove il pugno lo aveva colpito.
Il dolore delle altre ferite che gli costellavano il corpo, invece,
pareva essersi attutito, come soppresso
dall’umidità della roccia che lo circondava.
L’uomo chiuse gli occhi, cercando di ricordare, ancora, cosa
fosse accaduto a casa sua.
Rivide il muro di fiamme vermiglie che avvolgevano le finestre e che,
poco a poco, si infiltravano nel soffitto del pian terreno.
I draghi, ancora loro.
Quella era la stessa immagine che lo perseguitava da quando era
bambino. Anche nella notte in cui perse i suoi genitori aveva visto
quelle fiamme fuori dalla finestra. La trave portante del secondo piano
cedette, cadendo a terra in fiamme e causando la nascita di una
barriera di polvere.
Cos’era quello? Era davvero appena successo o erano le
immagini che gli si erano impresse quando era più piccolo.
Lucya, sua sorella, aveva mosso le mani per cercarla, ma non aveva
trovato nulla, nè la sua mano, né le sue vesti.
Qualcosa gli schiacciava entrambe le gambe, un pezzo di calcinaccio era
caduto di traverso, fermandosi a pochi centimetri dal suo volto.
Non vedeva nulla, non riusciva a muoversi.
L’aria divenne improvvisamente di nuovo calda e pesante.
Non riusciva a respirare.
Sentiva che sarebbe morto.
Non aveva idea di come avesse fatto a sopravvivere la prima volta che
aveva visto i draghi, ma quella sarebbe stata sicuramente la sua ultima
occasione di vedere quelle fiamme.
Come mai, allora, era lì imprigionato?
Doveva essere morto, a quel punto.
Probabilmente sua madre si sbagliava, non esisteva nessuna volta degli
dei, esistevano solo altri carnefici.
E quell’essere che aveva visto?
Non poteva davvero essersi trasformato davanti a lui. Era impossibile
che un uomo si trasformasse in un elfo.
No, lui doveva essere morto e quello che vedeva, tutto, non era reale.
Quel dolore al volto, però, era reale, lo sentiva.
La manetta che gli stringeva il polso destro si aprì di
scatto sotto il peso del suo braccio, ora che la serratura che lo
costringeva era stata sbloccata.
La mano di Razer cadde mollemente verso il basso, intorpidita,
impossibilitata a raggiungere il terreno solo per via del braccio che
ancora la teneva ancorata al corpo.
Le cinque dita si mossero svogliatamente sotto il comando del loro
padrone, cercando di liberarsi delle formiche che pareva
l’avessero presa d’assedio.
Un rumore di passi fece vibrare la porta di ferro della sua cella, ma
nessuno di essi parve intenzionato ad entrare per controllare le
condizioni del prigioniero immerso nel buio.
Solo quando quel suono fu quasi completamente sparito Razer si permise
di muoversi.
Non era la prima volta che veniva ammanettato.
Da ragazzo spesso lo avevano scoperto mentre, nel mercato di una delle
tante Chiritai che costellavano quel che rimaneva della Piana Umana,
rubava qualcosa da portare a casa.
Aveva imparato ad essere pronto a qualsiasi evenienza, sempre.
Sollevò lentamente la mano libera, sentendo le dita
intorpidite che, a poco a poco, ricominciavano a rispondere
correttamente alle sue richieste.
Le portò più in basso che poté lungo
la gamba, facendole stringere attorno a qualcosa di duro ed appuntito,
cucito direttamente nel tessuto dei pantaloni.
Aveva almeno una mezza dozzina di ferri da scasso nascosti in quegli
abiti, pronti per essere presi in qualsiasi condizione.
Tutto ciò che gli serviva era una mano libera.
Il pezzo di metallo si sfilò dalla trama del tessuto,
venendo accompagnato da quelle dita abili fino al polso opposto e,
lì, infilato nel buco che avrebbe dovuto ospitare una chiave.
L’oggetto appuntito si divincolò tra i cilindretti
metallici, sollevandoli dalla loro sede al suo passaggio per
incastrarli là dove non avrebbero potuto bloccare la sua
fuga.
La serratura si aprì di colpo.
Razer cadde in avanti, ora che nessuna catena gli teneva la parte
superiore del corpo legata al muro di quella cella.
La botta gli fece male.
Come poteva essere morto e avvertire ancora il dolore?
Si rigirò su di un fianco a fatica, facendo tintinnare gli
anelli metallici che ancora lo bloccavano.
I due ceppi alle caviglie si aprirono uno dopo l’altro
ubbidienti a quell’attrezzo.
Un lieve bagliore bluastro si levò dal corpo
dell’uomo, illuminando la stanza e quel suo unico
ospite.
I polsi e le caviglie quasi non mostravano più traccia della
pelle che li aveva protetti, lasciando invece all’aria la
carne viva che gli stava sotto.
Lunghe colate di sangue incrostato gli sporcavano gli abiti, ma pareva
che ormai anche lui avesse deciso di arrendersi e avesse smesso di
fuggire da quel corpo.
Razer riuscì appena a reggersi in piedi, quando
tentò di alzarsi.
Sentiva le sue articolazioni deboli e le gambe gonfie per tutte le ore
in cui era rimasto lì, fermo.
Non doveva lasciarsi cadere o rialzarsi sarebbe stato ancora
più difficile.
Appoggiò le sue dita alla parete fredda lasciandole
strisciare sulle pietre di pari velocità con il suo passo.
La porta metallica non lo ostacolò, aprendosi al suo tocco
senza opporre resistenza.
La scalinata che vide oltre quella soglia gli fece tremare le ginocchia.
Alla sua destra saliva, alla sua sinistra scendeva.
Poteva essere in una torre?
Ne dubitava, in nessuno dei suoi viaggi aveva mai visto una struttura
tanto imponente nelle Terre.
Era più probabile, invece, che si trovasse nelle segrete di
qualche villa.
Decise di salire, cercando di ignorare il dolore costante che ogni
passo gli procurava.
La scalinata era eterna, continuava a salire alla sola luce di torce
assonnate che solo ogni tanto si degnavano di comparire attaccate al
muro.
Un vento gelido gli serpeggiò attorno, proveniente dalle
profondità di quella prigione.
Qualunque cosa ci fosse sotto di lui, era certo che non avrebbe voluto
incontrarla.
Un pianerottolo comparve alla sua destra, ma Razer non
abbandonò la scalinata, continuando scalino dopo scalino, la
sua lenta e claudicante salita.
Il sole lo costrinse ad alzare un braccio per potersi proteggere gli
occhi quando aprì la porta che si trovò dinnanzi.
Nessuna villa aveva atteso la sua fuga, solamente la vista desolata
della Terra degli Eroi, sotto lo sguardo cupo e silenzioso di una
casupola.
Razer si guardò intorno, spaesato.
Era ancora sulla catena dei Monti Muraglia, non si era spostato quasi
per nulla.
L’uomo si voltò, in preda a un senso di vuoto in
quel paesaggio desolato ma, tutto ciò che riuscì
a scorgere con la coda dell’occhio fu un uomo gettarsi oltre
il limite di quella terra.
I suoi piedi si mossero da soli nella direzione opposta a quella
prevista dalla sua mente. Si avvicinò a quel confine
orientale, cercando con lo sguardo verso il basso qualcosa che potesse
rivelare dove quella figura si fosse andata a nascondere.
La parete del dirupo era perfettamente integra per centinaia di metri,
forse, in lontananza, si poteva distinguere la bocca di una caverna, ma
quella zona d’ombra non poteva essere raggiungibile se non
dopo almeno una giornata passata su quella parete scoscesa.
Doveva essersi sbagliato, nessuno si sarebbe mai gettato da
quell’altezza. Nessuno sarebbe mai riuscito a sopravvivere a
una caduta simile.
Si costrinse ad allontanarsi verso occidente, non doveva lasciarsi
catturare di nuovo.
Sarebbe tornato a casa, decise.
Doveva controllare con i propri occhi le condizioni di sua sorella.
E quel Noir? Di lui cosa ne avevano fatto?
Poco gli importava, in realtà della sua sorte.
Quell’uomo era un pericolo per chiunque gli stesse vicino e,
se non poteva con certezza chiamarlo alleato, preferiva mantenerlo a
distanza.
Era tornato solo nella sua battaglia contro i draghi.
Quel cane del tribunale lo aveva perfino privato del suo volto da
vendicatore, ma nulla lo avrebbe fatto desistere
dall’uccidere ogni singolo mostro sputafuoco che gli fosse
capitato sotto il coltello.
La caviglia sinistra tremò quando il peso corporeo
dell’uomo si riversò su di lei, la carne esposta
stillò qualche goccia di sangue che subito si perse, colando
sul piede.
Razer si costrinse a non cadere.
Doveva allontanarsi il prima possibile da quel luogo.
I primi raggi del sole fecero breccia nel sonno di Noir.
La ragazzina era ancora sdraiata ai suoi piedi, avvolta nella coperta
lurida che le aveva lasciato.
Non poteva far altro per lei, si disse.
Il trentenne si alzò in silenzio, aggirando quel corpo magro
per riprendere la via che lo avrebbe portato verso i porti occidentali.
La ragazzina si mosse appena al suo passaggio, voltando il capo verso
l’alto.
La sua carnagione era pallida, quasi cadaverica, la sua fronte era
imperlata da lucenti gocce di sudore.
Respirava appena, a fatica, muovendo a stento le sottili labbra
spaccate.
Noir si maledisse.
Quella ragazzina stava vistosamente morendo.
L’uomo si morse l’interno della guancia, in preda
ai suoi pensieri.
Non poteva salvarla, non ne era in grado. Non poteva, però,
nemmeno lasciarla a morire lì, sul ciglio della strada.
L’avrebbe portata fino al villaggio più vicino,
per poi abbandonarla davanti alla casa di un medico, si disse.
Quello era il massimo che poteva fare per lei.
Si mise quindi quel fagotto in spalla, battendo più volte il
piede destro per terra per controllare che il suo ginocchio ferito
fosse in grado di reggere quel nuovo peso.
L’articolazione si era ormai completamente ripresa, senza
lasciare una via di fuga da quella decisione che il suo padrone aveva
preso.
Noir si mise in cammino, sotto quel sole nascente.
Non aveva idea di quanto fosse distante il primo centro abitato, non
era nemmeno sicuro che la ragazza che aveva sulle spalle sarebbe
riuscita a rimanere in vita, fino ad allora.
Maledisse la vita e tutti gli dei per quello che gli stava accadendo.
Tutto ciò che chiedeva era poter scomparire in mezzo alla
folla per poter vivere una vita normale.
Il silenzio era quasi assoluto, su quella riva. Non c’erano
animali a far frusciare l’erba e le barche dei pescatori
erano troppo lontane perché la voce dei loro proprietari
fossero udibili a chi era rimasto a terra.
Il rumore di una serie di zoccoli ruppe appena quella calma pacifica. |
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Capitolo 41 *** Capitolo 18.41: Tragedia ***
Un viandante barbuto emerse in tutta fretta dalle fredde acque
dell’oceano, trascinandosi dietro il corpo esausto di una
bambina dai capelli scarlatti.
- Ti prego, Epistola! Dobbiamo aiutarli! Dobbiamo salvare Tragedia ed
Epica! Ti prego! – la voce della piccola uscì
esausta dalla sua bocca, rendendo la supplica ancor più
inconsistente di quanto non fosse già.
- Commedia, per favore, smettila di comportarti come una mocciosa.
Epica ci ha ordinato di salvarci ed è quello che faremo. E
poi, sono sicuro che si saranno salvati entrambi. –
- Epistola… lo credi davvero? –
- Io non credo a nulla che non abbia visto con questi occhi.
Ciò che conosco, però, è la forza di
Epica. –
- Quindi sono morti… - la voce di Commedia si era ridotta al
punto da diventare un sussurro disperato.
- No, non lo sono. Lo hai visto anche tu, la spada del Fato
può proteggerci. –
- Epistola… - La bambina si interruppe, forse resasi conto
della stupidità della domanda che stava per porre.
- Dimmi. –
- Che cos’è quella spada? E l’ombra in
più riflessa, chi era? –
Il viandante dall’odore esotico rimase per un attimo in
silenzio, con lo sguardo perso lontano, oltre l’orizzonte del
mare. La sua mano destra iniziò a lisciare distrattamente la
lunga barba che gli ricopriva il volto.
- Non lo so. Se non conoscessi gli dei, ti direi che è stata
forgiata da loro. –
- Un’arma divina? Come quella di nostro padre? –
- So che sembra incredibile ma… si. È
incredibilmente simile alle armi divine. Alla spada di nostro padre, al
suo libro e alle armi degli dei primigeni. –
- Gli dei non ci faranno mai del male, vero? – la bambina
fece un passo avanti, verso il viandante.
L’uomo si voltò con uno sguardo duro negli occhi
stanchi – Gli dei non ci faranno mai del male. –
La ragazzina parve non essere convinta di quel che aveva sentito.
La superficie increspata dell’oceano si gonfiò,
anticipando l’apparizione di una figura imponente.
Il soldato si trascinò avanti, cercando di raggiungere la
spiaggia. Sulla sua spalla sinistra il corpo di Tragedia restava
immobile, zuppo di acqua salata, nella mano destra la spada del fato
risplendeva, tagliando a tratti i flutti cristallini.
Il viandante si mosse rapido verso i nuovi arrivati, immergendosi fino
alle ginocchia in quell’acqua.
- State bene? – furono le prime parole a evadere da quella
barba.
Dall’interno dell’armatura non arrivò
nessuna risposta. Il soldato continuò stoico ad avanzare,
per poi deporre il corpo che aveva portato con sé sul
terreno asciutto.
- Ne ho uccisi tre, prima di riuscire a scappare. – disse
tonante e grave la voce proveniente dall’elmo bronzeo.
- E… Tragedia? – continuò il viandante
ritornando sui suoi passi.
- È ancora vivo, per il momento, almeno. Ora datemi una mano
a stabilizzarlo, non impiegheranno molto a ritrovarci e raggiungerci,
di questo passo. –
Il soldato si piegò sul corpo pallido che aveva portato fin
lì. I guanti metallici che gli coprivano le mani
scomparvero, permettendo al vento marino di accarezzare la pelle
olivastra delle dita nascoste sotto la loro protezione.
- Muovetevi! – sbottò l’adone in
direzione delle due creature che alle sue spalle lo fissavano.
Le tre creature squarciarono gli abiti leggeri che coprivano il corpo
malaticcio di Tragedia. La schiena della creatura era nera come il
carbone sotto la camicia ingiallita, su di questa, svettavano otto
dritte righe bianche tagliate diagonalmente dallo squarcio aperto dal
passaggio della lama nera.
- Perché la sua schiena è così?
– chiese la bambina avvicinandosi incerta a piccoli passi al
corpo riverso.
- È stato ferito da una lama, come pensavi sarebbe stata la
ferita? – lo riprese il soldato, mentre le sue dita cercavano
di accostare i lembi del taglio.
- No, non dico la ferita. Perché la pelle si è
fatta nera solo sulla schiena? E quei segni bianchi? –
Epica sbuffò dall’interno del suo elmo, scocciato
da quella domanda. – Non ne ho idea. Se
sopravvivrà a oggi potrai chiederglielo direttamente.
–
Piccoli uncini metallici bucarono la pelle del corpo creato da Tragedia
per tenere uniti i lembi che cercavano di scostarsi l’uno
dall’altro. Un bendaggio lindo, poi, comparve a fasciare
l’intero busto della creatura.
- Cosa pensi delle sue condizioni? – chiese Epistola
alzandosi da terra.
- È stato ferito solo superficialmente. Può
farcela, ma ne saremo certi solo quando avrà energie a
sufficienza per svegliarsi. Dobbiamo evitare in ogni modo che possa
tornare nella sua forma base, non potremo difendere una pozza di sangue
del Fato da quella spada. –
- Sei davvero convinto che possano ucciderci nella nostra forma base?
–
- Possono impedirci di guarire le ferite su questi corpi,
perché non dovrebbero essere in grado di trafiggere la
nostra essenza? –
Un silenzio pesante cadde sulla spiaggia.
Il viandante ed il soldato erano ritti accanto al corpo magro steso a
terra, alle loro spalle la bambina era combattuta tra il guardare la
scena e il distogliere lo sguardo.
- Dobbiamo andarcene. – disse il soldato con voce dura
– Potrebbero arrivare da un momento all’altro.
–
- Dove credi che saremmo al sicuro? –
- In nessun luogo sul creato. Ma appena riusciremo a trovare un posto
sufficientemente riparato implorerò nostro padre per
ottenere la protezione della Volta degli Dei. –
- La Volta? Sei sicuro? E se quei mortali dovessero riuscire a
raggiungerla nell’inseguirci? –
- In quel caso lascerò che sia nostro padre ad impugnare la
spada che ci ha donato. Ora muoviamoci, non possiamo perdere altro
tempo. –
Il soldato mutò in un massiccio cavallo da battaglia dal
manto protetto da pesanti placche di metallo, sulla sua groppa una
sella aspettava solamente di accogliere il corpo di Tragedia.
- Volate. – aggiunse il cavallo – Se doveste vedere
qualcosa all’orizzonte avvertitemi e scappate. –
- Sei sicuro di questo? – chiese incerto il viandante,
stringendo le palpebre fino a far diventare i suoi occhi due linee
sottili.
- Sì, so che Tragedia non può sopravvivere a un
altro Loro attacco, soprattutto in queste condizioni. Io posso
combattere e, senza dover proteggere nessuno, so di poter ancora
mandare alla Volta le anime di qualcuno di quei mortali. –
- Come preferisci. – il viandante si ridusse di dimensioni,
mentre un piumaggio bronzeo come la barba che gli aveva adornato il
viso gli ricopriva il corpo.
Un falco si alzò in volo, cominciando a girare in stretti
cerchi sopra al destriero.
- Commedia, non fare l’immatura, vai con Epistola e cercate
di allontanarvi il più possibile da qui. –
La bambina fece ondeggiare i suoi capelli rossi quando scosse il capo
in segno d’assenso.
Il suo corpo esile si ridusse, lasciando il posto ad un pettirosso
impaurito. Non rimase molto in quella forma, però,
perché le piume si scurirono, adattandosi a un corpo
più grande del precedente.
Un corvo color pece si alzò sbattendo freneticamente le ali
sotto lo sguardo scocciato del cavallo, che partì al galoppo
verso nord.
I due volatili lo seguivano come puntini nel cielo limpido, con gli
occhi fissi sul terreno di fronte a loro.
Il sole cominciò a calare, permettendo al manto nero della
notte di coprire le forme.
Il destriero si muoveva rapido e sicuro sui suoi zoccoli ferrati, le
placche dell’armatura che lo proteggevano non facevano il
benché minimo rumore.
Il suo cavaliere si stava lentamente riprendendo, alternando tratti di
veglia a momenti di incoscienza.
Una foresta accolse il trotto forsennato, come un abbraccio fidato che
pareva volesse proteggere le due creature per la notte.
Il passo della cavalcatura si fece più lento
all’ennesimo mormorio incomprensibile proveniente dal suo
dorso.
Il soldato tornò a pestare con i suoi calzari metallici il
terreno, in quel luogo nascosto da un basso sottobosco erboso, tra le
sue mani reggeva il corpo esile che aveva voluto salvare.
- Tragedia, riesci a parlare? – disse piano, come se avesse
paura di disturbare gli abitanti del luogo che li aveva accolti.
- … Male. – le labbra esangui si mossero appena.
- Non importa, rimani sveglio. Ti rimetterai, vedrai. –
- … Non riesco a far rimarginare la ferita… -
- Sei ancora debole per quello. È già incredibile
che tu sia riuscito a mantenere questa forma. –
- … Epica, perché mi hai portato con te? Dovresti
lasciarmi qui e scappare da solo. –
- Non ti lascerò indietro. Non lo farò con
nessuno di voi. –
- Non puoi salvare tutti. –
- Posso salvarne abbastanza. –
- Epica… Io non voglio morire… -
- Non morirai, non te lo permetterò. –
- No… lasciami finire. Non voglio morire così.
Non voglio morire per una stupida ferita in un posto dimenticato. Non
è questa la morte che voglio. –
- Vedrai, se mai dovrai morire, lo farai tra molto tempo come tu
vorrai. –
Tragedia non rispose, si limitò a rimanere in silenzio, con
gli occhi socchiusi.
- Commedia avrebbe voluto sapere il perché di quei segni
bianchi sulla tua schiena. – disse dopo un tempo
interminabile il soldato.
Le labbra dell’uomo scheletrico si piegarono in un sorriso
stanco che minacciò di volerle strappare, tanto si tesero.
- Sono ricordi. Se è vero che la morte è il punto
più denso di significato della vita, una volta che
è passato l’attimo, a chi è rimasto nel
Creato non rimane altro che il ricordo. Io non voglio dimenticare
nessuno. Profezia, Storia, Mistero, Danza, Terrore, Melodia, Passione,
Mito. Voglio che i miei corpi si ricordino di loro. Ogni tacca
è un fratello che abbiamo perso. –
- Davvero credi che ti sia utile? –
- No, ma mi consola. È difficile pensare alla morte, quando
dovresti essere immortale… Epica, io credo di aver paura di
morire senza aver compiuto nulla. –
Il soldato non rispose, fissando con gli occhi ardenti il suo
interlocutore.
La Trama del Reale si contrasse, per poi dimenarsi come un animale
improvvisamente cavalcato.
- Epica, stanno arrivando. Vattene e lasciami qui. –
l’uomo esile si rimise a fatica in piedi –Voglio
morire sapendo che potrai proteggere gli altri. –
- Io non ti lascio qui. –
- Devi. Questa non è una normale ferita,
c’è qualcosa di sbagliato in lei. Ha tagliato la
mia essenza, l’ha avvelenata. Vattene adesso. –
Uno squarcio si aprì nella Trama del Reale, aprendo
un’uscita sulla strada che stavano percorrendo gli uomini
rimasti in veste scura.
- Epica, trova un modo per fermarli. Vattene! –
Il soldato esitò.
Negli occhi scuri dell’uomo cadaverico che gli stava davanti
abitava una luce di sicurezza che lo mise a disagio.
L’uomo nell’armatura si voltò
scomparendo nel pelo di una volpe dagli occhi dorati, che si perse tra
le radici delle alte piante poco prima che la spada dalla lama nera che
la stava seguendo, riuscisse a oltrepassare interamente lo squarcio.
Angolo dell'Autore:
Era da un po' che non mi facevo sentire.
Non vi chiederò "Allora, cosa pensate che sia successo alle
Muse? E la Musa imprigionata nel presente, quindi?", a questo punto le
possibilità sono poco più di un paio.
Purtroppo questo angolo è stato "costretto" dalle
festività. Devo infatti avvertirvi che la settimana prossima
non ci sarà nessun capitolo nuovo. Ci ritroveremo
Venerdì 4, con il capitolo 18.5, tutto dedicato a Commedia.
Buon 25 Aprile, buon 1 Maggio, io qui chiudo.
Alla prossima!
Vago |
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Capitolo 42 *** Capitolo 18.5: Primo debito ***
Un corpo impattò contrò la superficie
dell’acqua, senza lasciare traccia del suo passaggio quando
si andò a inabissare.
Dove potrebbe essere
finita?
Sul fondale, ovvio, ma
dove?
Dannazione, odio
l’acqua. Non posso nemmeno disgregarmi per fare
più in fretta.
Avanti, stai cercando un
oggetto metallico in fondo al mare, ci deve essere un modo
più rapido per trovarlo di setacciare ogni centimetro.
Intanto,
finché non mi verrà un’idea migliore,
facciamo un po’ di luce.
Dalla fronte di quel lungo corpo ricoperto di squame lucenti crebbe una
sottile appendice, terminante con un globo lucente come il sole.
La coda pinnata si mosse rapida, fungendo da propulsore per quel corpo
per portarlo sempre più in basso.
Come è
possibile che i draghi abbiano trovato la spada nera?
Nessuno di loro
può spingersi così in basso.
Cosa mi ha rivelato la
Fenter?
…
Pensa Viandante, pensa!
E Commedia, per
l’amor del Fato, chiamati con il tuo nome.
…
Sapeva della sua
esistenza dai Loro testi, ovviamente. Sia prima che dopo averla perduta annotarono tutto ciò che la riguardava.
I draghi,
però, dove mi ha detto che l’hanno trovata?
Ha detto che i draghi al
servizio di Vanenir II gliel’hanno portata.
Ma loro non si sono
spinti nel fondale.
La Fenter aveva detto
chiaramente che l’avevano rinvenuta conficcata nella parete
del dirupo.
Questo cambia tutto.
Le spade non sono cadute
in mare perpendicolarmente alla sua superficie, altrimenti
quell’altra non si sarebbe potuta incastrare nella roccia.
No, sono probabilmente
vicino alla porzione occidentale delle Terre, puntando verso questa.
La zona di ricerca si
è fatta molto più ridotta.
Devo solamente
rastrellare una parete rocciosa.
L’essere dalla protuberanza luminescente ruotò
velocemente su sé stesso, tornando a muoversi verso la
porzione di continente dal quale era arrivato, arrestandosi solamente
quando l’angolo creato dal dirupo verticale e dal fondale
sabbioso gli impedì di procedere oltre.
Sfrutterò per
una volta le leggi create da Natura.
Non che ce ne siano di
realmente utili, ma tra un paragrafo sui rumori durante un momento di
silenzio e uno sulla crescita dei licheni qualcosa di sfruttabile
c’è.
La creatura scese ancor più di profondità, fino a
quando la larga pinna in cui terminava il suo corpo non si
adagiò sulla pesante sabbia del fondale.
Le braccia rachitiche coperte da una spessa pelle si allontanarono dai
suoi fianchi, distendendo le dita palmate verso i lati del corpo.
Le articolazioni si cominciarono ad allungare, distendendosi di pari
passo con il ridursi della dimensione di quel corpo che di naturale aveva ben
poco.
Una fine asta di un materiale scuro, denso ma non completamente solido
toccò quasi contemporaneamente
l’estremità meridionale e quella settentrionale di
quella porzione di Terre.
Era appena visibile, un filo teso tra le acque di
quell’oceano.
Non mi ricordavo i
continenti così difficili da abbracciare.
Quanta materia ho
sacrificato in questi anni?
Avrei dovuto riassorbire
quella che sprecavo in armi che, poi, puntualmente si spezzavano.
Non importa, ora.
Tanto devo rimanere
disteso ancora per poco.
Il filo parve sublimarsi, liberando in un attimo migliaia di bolle che,
accarezzando la parete rocciosa, iniziarono la loro corsa verso la
superficie.
Le piccole sporgenze e gli anfratti della pietra non rallentavano
l’avanzata delle bolle d’aria, che sempre di
più si avvicinavano alla luce ovattata del sole.
Dalla superficie dell’oceano si levò una nebbia
grigiastra che continuò a salire, cercando di non rallentare
nella sua corsa.
Le volute di vapore continuarono a rastrellare la superficie sulla
quale scorrevano, imperterrite, palmo a palmo.
Una cascata di scintille sì alzò dal dirupo. Le
incandescenti lucciole rossastre attraversarono la cortina grigia che
la ammantava, cadendo poi verso la superficie color zaffiro che le
aspettava a qualche decina di metri.
Maledizione!
Anche dopo tutto questo
tempo, ancora non mi reputa adatto!
La nube si contrasse su sé stessa, condensandosi dalla linea di volute sottili che era in una scura nuvola temporalesca, al cui interno, là dove i raggi del sole la tagliavano, si riuscivano a distinguere volute di polvere.
Di nuovo, non appena la nube fu sufficientemente vicina alla parete,
una cascata di scintille roventi illuminò l’aria.
Dannazione!
Perché?
Perchè,
ancora, non ti fidi di me?
Qualcosa di solido bucò la superficie evanescente della
nube, colpendo con forza la parete rocciosa al punto da farne staccare
qualche detrito.
Là dove la crepa era stata allargata qualcosa di bronzeo
tornò a vedere la luce, splendendo incerto sotto un pesante
strato di pulviscolo.
La protuberanza solida cercò di assumere una forma
più comoda, sviluppando dita e articolazioni in grado di
brandire qualcosa.
Il palmo cercò di chiudersi attorno all’elsa
dell’arma che era stata rivelata, ma subito dovette ritrarsi,
fumante, accompagnata dalla cascata di particelle incandescenti.
La nube ondeggiò ansiosa, indecisa, poi l’arto che
da questa compariva tornò alla carica, tentando di nuovo di
stringere l’impugnatura che le stava davanti.
Le dita si strinsero con uno scatto, cercando di sopprimere le
scintille che sotto di esse si stavano generando. Il bagliore che si
diffondeva nell’aria divenne più intenso, al punto
da far risplendere anche la lama dell’arma incastonata.
La mano dovette abbandonare la presa, ritirandosi fumante
all’interno della sicurezza della nube.
Fato!
Fato!
Spiegami questo!
Perché non
dovrei essere io il nuovo protettore?
Non è rimasto
nessuno che possa impugnarla, adesso!
Perché io non
posso prendere quel posto, almeno per una volta?
Spero che tu ti stia
rendendo conto delle conseguenze che questa decisione avrà
su di noi, le tue stramaledette creature!
E che fine ha fatto la
fiducia che mi avevi detto aver riposto in me?
Era comodo avere
qualcuno che combattesse il Demone in tuo nome, vero?
…
Maledizione.
…
Maledizione!
E ancora, e ancora,
maledizione!
Perché non mi
permetti di impugnare questo maledetto pezzo di ferraglia?
Guardami! Ho combattuto
più guerre di quante Epica possa aver immaginato!
Ho sporcato queste mani
di sangue solo per vedere lei libera!
Sono l’ultimo
barlume di speranza per una razza che è stata dimenticata!
Perché non
vuoi permettermi di impugnare quest’arma?
È
perché l’ho sigillata, vero?
Ce l’hai con
me perché ti ho privato del piacere di armare il tuo Tempio
con una spada di questa portata, piuttosto che con quel tuo
dannatissimo libraccio.
…
Dannazione.
…
Posso provare a capire
il tuo desiderio di non avere a che fare ancora con i mortali, ma qui e
adesso non vedo come potresti interferire con i loro affari!
Sono circondato da buchi
della Trama e oggetti che avrei preferito dimenticare.
La spada di Follia!
Maledizione, quella
maledetta lama nera non sarebbe mai dovuta tornare alla luce!
Io ho rinunciato alla
mia patria per poterla non vedere mai più!
Ed ora tu non mi
permetti nemmeno di potermi difendere.
…
…
Maledizione!
- Non è mia intenzione interferire con te. – la
Trama del Reale vibrò possente, facendo increspare le maglie
di cui era composto il crepaccio e l’aria circostante.
La nube barcollò tentando di mantenere aggregata quella
forma che aveva scelto e, al contempo, non perdere quota.
A si? Cosa staresti
facendo, quindi, ora?
Sarai anche mio padre,
ma non per questo dimenticherò i debiti che hai nei miei
confronti.
- Non dimentico nulla. Ma tu hai frainteso. La mia spada non
è mai stata interdetta a nessuno di voi. –
E allora come mi spieghi
queste meravigliose ustioni nella mia materia?
- Quella lama ha un potere immenso in sé. Trasforma
l’intento di chi la brandisce in concretezza per
sé stessa. –
Questo cosa
vorrebbe dire?
Guardami!
Voglio liberarla! Voglio
tirarla fuori da quella prigione! Voglio proteggerla!
- Fermati, Commedia. Il moto di Epica era proteggervi tutti. La sua era
una lama larga per poter frapporsi a ogni colpo. Io non ti ho creato
così. –
E se fossi cambiato
negli ultimi millenni?
Io voglio proteggerla,
questo non mi porterebbe al livello di Epica?
- Non è questo che sto dicendo. Fermati un attimo, guardati
dentro, dimmi, vuoi davvero proteggerla? O quella lama ti
servirà per altro? –
Non lo so a cosa mi
servirà quella spada!
So che ne ho bisogno per
andare avanti in questo viaggio, so che ho bisogno di qualcosa in grado
di fronteggiare quella spada nera!
- Commedia, tu non vuoi proteggere qualcuno, tu vuoi portare
libertà. Guarda nella tua essenza e dimmi se non
c’è qualcosa che brami di più della
libertà. –
…
…
…
- Prova a brandirla ora, dicendole perché la vuoi davvero.
–
L’arto si protese nuovamente verso l’elsa, tremante
e incredibilmente lento.
Scintille azzurre percorsero per tutta la sua lunghezza la lama bronzea
che si ridusse, schiarendosi e ripulendosi del sudiciume che
l’aveva ricoperta.
L’acciaio parve riforgiarsi, finché tra le dita
che nascevano dalla nube non rimase un pugnale dalla lama
d’argento lunga poco più di una spanna.
È uno
scherzo, vero?
Come dovrei poter
combattere con un arnese del genere?
A questo punto avrei
fatto prima a recuperare lo stiletto che doveva essere la chiave per la
trappola dedicata a Follia!
- Quella lama sa cosa ti serve impugnare. Non preoccuparti del suo
aspetto, preoccupati di mantenere sempre chiaro il motivo per cui la
impugni. –
Le maglie della Trama si placarono lentamente, facendo tornare il
paesaggio alla sua immobilità.
La nube stringeva l’arma con un misto di timore e seccatura,
rigirandosela tra le dita e studiando i dettagli poco curati della lama
splendente, del piccolo guardamano e dell’elsa appena
sufficiente per ospitare la sua mano.
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Capitolo 43 *** Capitolo 19: Respiro ***
Noir si spostò sul lato della strada, abbassando il capo in
direzione del terreno. Non voleva che i cavalieri che sentiva
avvicinarsi lo riconoscessero.
Forse, se si fosse lasciato catturare, la sua vita sarebbe migliorata.
Non sarebbe più dovuto fuggire, si sarebbe fatto bastare la
cella buia in cui lo avrebbero sbattuto e quei frugali pasti sicuri che
non si possono negare nemmeno ai prigionieri.
No.
Lui non sarebbe stato un comune prigioniero.
Lui era il discendente di Reis.
Nessuno avrebbe avuto pietà di lui, sarebbe certamente stato
messo al patibolo.
Si chinò ancor più su sé stesso, a
quel pensiero.
Sentiva qualcosa di diverso scorrere nelle sue vene, da quando aveva
incontrato nuovamente quel cacciatore di taglie davanti
all’abitazione di Razer, da quando lo aveva trafitto con la
sua maledizione.
Gli poteva quasi sembrare di sentire una nuova eccitazione nel suo
potere, come se una parte assopita si fosse risvegliata e bramasse di
uscire dal suo corpo.
Non lo avrebbe ferito. La sua maledizione non lo avrebbe mai ferito, si
disse.
Sentiva il corpo magro della ragazza che aveva deciso di portare fino
al villaggio successivo pesargli sulla spalla, ma riusciva a reggerlo
con sufficiente sicurezza da permettergli di non cadere.
Lo scalpiccio degli zoccoli si fece sempre più vicino,
facendo tremare i sassi sparsi sulla via di terra battura.
Sei cavalli gli passarono di fianco al trotto, portando con loro
l’odore della stalla in cui avevano passato la notte.
Quell’odore era particolarmente forte, vivo. Non dovevano
essere in viaggio da molti giorni.
L’urlo di un uomo fece fermare le bestie.
- Tu, uomo! – il tono era saccente, come se il proprietario
di quella voce si stesse sforzando di parlare allo straccione che aveva
incrociato.
Noir alzò di poco lo sguardo, cercando di non svelare troppo
il suo volto all’interlocutore.
- Cosa porti nel fagotto che tieni sulle spalle? –
- … Le poche cose che possiedo. –
Il trentenne sapeva di essere ricercato per quello che era, non voleva
che qualcuno lo scoprisse a trasportare il corpo di una ragazzina
morente.
- Non mi paiono poche cose. Apri quella coperta. – Il tono
dell’interlocutore si era fatto più aspro,
accompagnato dallo scalpiccio dei cavalli che, lentamente, venivano
portati dai loro padroni ad accerchiare lo straccione.
Gli occhi gli si indurirono improvvisamente, ma il cappuccio era
sufficientemente calato da nascondere quello sguardo di stizza.
- La prego, è tutto quello che ho… -
tentò ancora il trentenne, stringendo i denti in risposta al
ribollire sempre più violento del suo sangue.
- Capitano! –
Un uomo corpulento scese dal proprio destriero per avvicinarsi a passo
pesante a Noir, strattonando poi il fagotto che teneva in spalla per
rivelare il suo contenuto.
Le dita del trentenne persero la presa e la ragazza, avvolta nella
coperta fangosa, cadde a terra, gemendo appena.
Con un calcio il capitano smosse parte della coperta, rivelando il
volto sbiancato dalla febbre.
Noir non riuscì a contenere la rabbia che il gesto gli
provocò, colpì con una manata il petto del
capitano, facendolo indietreggiare di un passo.
L’uomo impiegò qualche attimo per elaborare cosa
gli era stato fatto, ma quando lo fece un pugno guantato
colpì in pieno volto il trentenne.
Una spessa patina nera protesse la guancia di Noir dal colpo, ma la
forza con cui fu colpito lo fece comunque cadere a terra.
Il capitano si erse su di lui, guardandolo con occhi furenti e le punte
dei suoi stivali cercarono quattro volte di raggiungere il ventre molle
dell’uomo a terra.
Il trentenne non riuscì a muoversi dalla posizione china in
cui era caduto. I muscoli del suo corpo erano tesi, intenti a
trattenere il sangue ribollente all’interno della pelle.
Neppure sentì i calci che cercarono di raggiungerlo.
Sentiva nelle orecchie il violento sciabordare del mare rosso che il
suo cuore pompava, gli occhi gli lacrimarono ad ogni capillare esploso.
Avvertì appena le persone che lo circondavano parlare.
La ragazza venne privata della coperta che la proteggeva e sollevata
malamente da terra per essere buttata sul dorso di uno dei destrieri.
Una seconda ombra campeggiò su Noir, ancora riverso.
La voce ovattata del nobilotto borioso raggiunse a stento il cervello
del trentenne.
Con gli occhi iniettati di sangue Noir vide appena quell’uomo
alzare un piede sopra al suo capo e abbassarlo violentemente per
pestare la sua fronte.
Immediatamente la melassa nera fuoriuscì dai pori del volto
di Noir, proteggendolo dalla suola che gli si stava per abbattere
addosso. Alla melassa, però, quello non bastò.
Appena lo stivale la toccò, il materiale nero gli si
avviluppò attorno, serrandosi attorno alla caviglia del
proprietario come le mandibole di un animale feroce.
Lo sciabordare nelle orecchie di Noir si fece meno potente,
permettendogli di sentire le urla dell’uomo che tentava
disperatamente di divincolarsi.
Fu un aculeo nero a eliminare la fonte di quel rumore, facendolo
sostituire, però con altre cinque voci.
Il trentenne si sentì mancare.
La sua maledizione non era mai stata così ingombrante.
Qualcosa era cambiato in lei, sicuramente.
Sentiva un desiderio nuovo in quella sostanza che si mischiava al suo
sangue, voleva sangue, bramava la morte.
Noir cercò disperatamente di controllare quegli spuntoni, ma
non poté far altro che guardare con gli occhi iniettati di
sangue gli aculei che, chirurgici, trapassavano i corpi dei cavalieri,
sporcando di sangue i finimenti e facendo scappare le bestie con
nitriti acuti.
Il corpo della ragazza fu sbalzato violentemente a terra e
lì stette, immobile in mezzo ai sei cadaveri.
Gli aculei neri rimasero ancora per qualche secondo ritti
all’esterno del corpo del trentenne, in attesa, come
predatori che perlustravano l’ambiente circostante in cerca
di altri nemici in agguato.
Solo quando si furono accertati di essere da soli si permisero di
ritrarsi, lasciando visibili le lacerazioni sulla pelle di Noir, che si
alzò in piedi tremante.
Si guardò stralunato le braccia, dove larghe ferite si erano
aperte e stillavano sangue vermiglio.
Non aveva abbastanza bende per fasciarsi.
Avrebbe potuto distruggere la coperta, ma la ragazza, certamente, ne
aveva più bisogno di lui.
Si maledisse per essere troppo buono.
Preso il corpo febbricitante, lo riavvolse nella coperta lurida e se lo
rimise in spalla, allontanandosi il più velocemente
possibile dal campo di morti che si era lasciato alle spalle.
L’avrebbe lasciata al primo villaggio e se ne sarebbe tornato
per la sua strada, si ripeté.
Poi un’altra domanda gli sorse. Perché la stavano
cercando? Chi erano quegli uomini che aveva ucciso?
Certamente loro non avrebbero più potuto rispondergli.
Uno di loro era sicuramente un nobile, o, per lo meno, aveva un buona
cultura viste le parole che aveva utilizzato per rivolgersi a lui.
In ogni caso, ora che erano morti il motivo che li aveva spinti fin
lì non era più importante.
Razer arrancò sulle vie sterrate che ancora percorrevano i
versanti dei Muraglia.
Le conosceva tutte, una a una. Decine di volte le aveva percorse con
suo padre mentre andavano a caccia, prima che tutte le foreste
rigogliose in cui gli animali si nascondevano fossero ridotte in braci
fumanti.
Casa sua non era lontana, lo sapeva.
E sua sorella non poteva essere morta.
Non doveva essere morta.
Angolo dell'Autore:
Purtroppo questo angoletto a fondo pagina sta diventando un portatore
di cattive notizie, piuttosto del momento di rilassatezza e parlata
libera che volevo fosse. Prima o poi riuscirò a farlo
tornare ciò che dovrebbe essere.
Ma, fino ad allora, vi beccate questa comunicazione di servizio.
Sono in un periodo particolarmente "caldo" della mia vita universitaria
e non riesco fisicamente a tenere i tempi che mi sono sempre imposto.
Fino a nuovo ordine, quindi, mi costringerò a pubblicare una
volta ogni due settimane, invece che settimanalmente come ho (quasi)
sempre fatto. Spero, con tutto questo tempo che mi sto concedendo, di
portarmi avanti sui capitoli, arrivando magari ad avere una base su cui
contare per tornare il prima possibile con i soliti tempi di
pubblicazione.
"Non può piovere per sempre", dopotutto. (un biscotto a chi
riconosce la citazione)
Cercando di chiudere staccandosi dai problemi che ho incontrato, vi
giro una domanda.
Perchè, secondo voi, mi sto soffermando così a
lungo (tre capitoli, mi pare) sull'incontro tra Noir e la ragazzina?
E no, la risposta giusta non è che sono a corto di idee e
sto cercando di allungare il brodo con cose inutili. Il brodo di base
è giù abbastanza allungato di suo.
Alla prossima, nonchè venerdì 25, e scusatemi
ancora per l'inconveniente.
Vago |
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Capitolo 44 *** Capitolo 19.48: Epistola ***
Un falco e un corvo si rincorrevano, volando in cerchio sopra una
catena di alti monti innevati. Un battente vento gelido faceva vibrare
le loro piume, ma i due uccelli non parevano risentirne.
- Epistola … tu credi che Epica e Tragedia siano riusciti a
scappare? –
Il falco non schiuse nemmeno il becco, continuando a battere le proprie
ali per mantenere la quota.
- Sai, pensavo che potremmo scappare … potremmo chiedere
aiuto agli altri dei! I loro servitori potrebbero ospitarci nel Palazzo
del Sole o in quello della Luna! Nessuno riuscirebbe ad arrivare fin
là! –
Il falco sospirò, socchiudendo per un attimo gli occhi
dorati. – Non possiamo rischiare di condurre quei mortali ai
Servitori. Se si rivelassero più potenti di quanto ci
abbiano mostrato finora, potrebbero mettere a rischio la
stabilità del Creato. –
- Ma i Servitori … i Servitori potrebbero proteggerci!
–
Il falco tornò a chiudersi nel suo silenzio, le pupille
erano intente a scandagliare il terreno in cerca del più
piccolo movimento sul soffice manto candido che ricopriva quelle vette.
Il vento ululò nel silenzio che era calato, portando con
sé il suo odore gelido di ghiaccio.
- Secondo te … perché Epica non scappa da solo?
Se non dovesse proteggerci sopravvivrebbe di sicuro con la spada del
Fato. – riprese il corvo con voce tremante.
- Non lo so. Quando nostro padre gliela diede, lo prese in disparte per
dirgli qualcosa. Epica non ci ha mai rivelato di cosa si trattasse. La
mia idea a riguardo è che gli abbia dato
quell’arma facendogli promettere che ci avrebbe sempre
protetto. –
- Ma da quanto mi raccontava Storia, solo Aria, Fuoco, Terra e Acqua
forgiarono le loro armi. Quella del Fato, quindi, da dove viene?
–
- Non lo so. Nessuno lo sa, probabilmente, oltre a nostro padre. Si
dice che abbia usato quell’arma per marcare i destini sul suo
libro. –
- Quel libraccio? Ma è impossibile! Una spada del genere
avrebbe strappato tutte le pagine! –
- Hai ragione, infatti sono convinto che fosse una delle poche
invenzioni di Mito, questa storia. È anche vero,
però, che nessuno di noi aveva mai visto quella lama, prima
del momento in cui Epica l’ha portata da noi. –
Di nuovo, il silenzio cercò di sopraffare
l’ululato del vento e il frusciare delle piume.
La temperatura si era alzata quel poco che bastava per permettere a un
leggero nevischio di lasciare le nubi per depositarsi al suolo.
Il cielo grigio a stento si riusciva a distinguere dalla coltre candida
che ricopriva quelle vette, quasi la solidità non fosse
altro che un ricordo di qualcosa di sparito.
La Trama rimaneva immobile, impassibile tutto intorno. Nessuno stava
provando ad attraversarla o squarciarla.
Qualcosa sollevò un ventaglio di neve farinosa al suo
passaggio, troppo veloce perché un occhio potesse coglierlo.
Una creatura dalla pelliccia chiara si fermò sulla neve
improvvisamente, scrutando l’ambiente circostante. Fu un
fischio acuto ad attrarre i suoi occhi dorati verso il cielo, dove i
due volatili scendevano rapidi in stretti cerchi.
- Tragedia? – chiese il falco non appena le sue zampe
artigliate furono fagocitate dalla coltre bianca.
- Ha deciso di rimanere indietro. – fu la risposta secca che
ricevette.
Il corvo atterrò, scrollandosi leggermente per far cadere i
fiocchi gelidi più ostinati dalle sue piume color pece.
- Devo sigillare la Trama, adesso. Potremmo non avere
un’altra occasione in futuro. – continuò
con tono duro la volpe, che rapidamente mutò fino a tornare
a vestire l’armatura dell’adone.
Una mano magra cinse il polso del soldato con una presa ferrea.
- Non torniamo a discuterne. Tragedia aveva ragione allora come ora che
è morto. Non possiamo privarci di quella spada, non ora. O
vuoi davvero sancire così la fine della nostra razza?
–
- Vuoi davvero che finisca tra le loro mani? –
- Ma riesci a sentire le tue stesse parole? Quella spada non si lascia
impugnare dai tuoi stessi fratelli, credi davvero che dei mortali la
possano brandire? –
La lama bronzea si piantò pesantemente nella neve fresca
mentre il soldato le si sedette dietro, guardando il suo stesso
riflesso sulla superficie lucida.
- Cosa dovremmo fare, Epistola? Tu, che conosci tutto il Creato, dove
pensi che dovremmo andare? Siamo rimasti solo noi tre … -
Il corvo atterrò poco distante, silenzioso, quasi avesse
paura di intromettersi nella discussione.
- Epica, non lo so. Non so come potremmo sopravvivere, ma sicuramente
privarci di quella spada non è una possibilità.
Sappiamo che ci possono seguire, ma non sanno ancora muoversi agilmente
nella Trama. Li possiamo sentire arrivare, possiamo scappare in tempo e
poi … potremmo provare a confonderci. Potremmo andare in un
foresta e lì rimanere mimetizzati nella fauna. Potranno
anche raggiungerci, ma non riusciranno ad ucciderci, se non ci
riconoscono. –
- Davvero? Davvero questo è il tuo piano? Nasconderci
finché loro non saranno morti? –
- Conosco dei posti, migliaia di esemplari ci vivono. Perché
non potremmo rinunciare alla nostra libertà per un secolo?
Un solo secolo per il resto dell’eternità.
–
- Ti rendi conto di quel che stai dicendo? Quanto poco vale, per te, la
libertà? –
La Trama vibrò leggermente, come un’arpa le cui
corde vengono accarezzate lievemente.
- Epica, Epistola, stanno arrivando … - disse debolmente il
corvo tremante.
- Sono ancora lontani. Prepariamoci ad andarcene. – il
soldato si rialzò da terra, lasciando che la lama sparisse
nell’etere.
La spada dalla lama nera tagliò la membrana
dell’aria con precisione quasi chirurgica, facendola appena
increspare al suo passaggio, piantandosi con violenza al centro del
torace di Epistola, che rimase attonito, con le labbra appena socchiuse
e un sibilo fioco che fuggiva dalla sua gola.
Gli occhi del viandante barbuto si fecero fiochi, vitrei, mentre le
marcate rughe che increspavano la sua pelle bruciata dal sole di
centinaia di deserti si distendevano.
Una scintilla di volontà si accese nel suo petto.
Le folte sopracciglia castane si piegarono, stringendosi là
dove il naso aquilino nasceva.
Le scarpe consumate, troppo leggere per quel terreno ghiacciato,
affondarono ancor più nella neve quando le gambe che su di
loro si reggevano cercarono un appoggio più sicuro.
I muscoli sottili si tesero in un ultimo sforzo, costringendo il corpo
impalato ad allontanarsi dalla lama che lo aveva quasi interamente
trapassato.
L’ossuta mano sinistra si strinse là dove
l’armatura bronzea del soldato terminava per permettere
all’elmo di incastrarsi, le dita della gemella si chiusero
sulle zampe magre del corvo, sollevandolo dal manto candido di forza.
La neve depositata cercò di porre resistenza a quella corsa
disperata, ma non poté impedire ai tre corpi di sparire da
quelle vette quando il portatore di quella lama si fu appena affacciato
al taglio che aveva prodotto nella Trama.
Il soldato e il corvo vennero scagliati su un sottobosco infestato da
rovi e piccole piantine appena germogliate. Dietro di loro, il
viandante cercò di mantenere l’equilibrio, ma dopo
pochi secondi cadde di volto sulla poca erba che era riuscita a
crescere all’ombra degli immensi alberi che la circondavano,
scrollandosi di dosso la neve che si era portato appresso.
Sulla sua schiena si apriva un profondo squarcio dal quale nemmeno la
sua linfa vitale pareva aver intenzione di sgorgare.
Il suo petto si muoveva sconnessamente, mentre le palpebre rugose
continuavano ad essere trapassate da spasmi disperati di dolore.
L’adone si rialzò in fretta per raggiungere il
viandante disteso.
La barba si mosse appena quando, una volta che il volto su cui era
cresciuta fu sollevato dal terreno, provò a parlare.
- Abbiamo fatto un altro errore … – disse
debolmente Epistola, lasciando che quelle parole scivolassero via dalle
sue labbra socchiuse.
Un pugno bronzeo si abbatté sul suolo, rimbombando nel
silenzio della foresta e facendo scappare i piccoli animali che si
erano avvicinati.
- Dannazione. – si lasciò scappare Epica
dall’elmo.
La Trama ritornò a vibrare debolmente.
- Presto! Andatevene! Lasciatemi! –
Il soldato guardò gli occhi induriti di Epistola, le cui
iridi scure stavano via via perdendo di vitalità.
- Perdonami. – disse ancora l’adone, prima di
deporre il corpo morente a terra e rinunciare alla propria armatura per
assumere le fattezze della volpe, che si dileguò nel
sottobosco inseguita dal corvo color pece.
Angolo dell'Autore:
Dannazione se è stato difficile decidere quando interrompere
questo capitolo. Davvero.
La mia prima intenzione era (spoiler a metà) chiamarlo
Epistola, Epica, Commedia. Così, per chiudere in bellezza
questi capitoli sul passato. Poi, però, ho deciso di far
coincidere i tempi dei capitoli dedicati al Viandante con quelli delle
Muse, in modo da far terminare il capitolo 20.49 per quasi conitnuarlo
con il 20.5.
Ho dei grossi progetti in mente, per quanto riguarda la gestione dei
tempi e spero di riuscire a trasporlo in maniera perfetta sulla carta.
Per ora vi lascio, ma ho davvero molto da dire e vi prometto che mi
prenderò il tempo necessario per snocciolare questi capitoli
punto per punto.
Alla prossima pubblicazione, purtroppo ancora tra due settimane.
Vago |
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Capitolo 45 *** Capitolo 19.5: Secondo debito ***
Maledizione! Un pugnale!
Con tutto quello che il
Fato poteva lasciarmi, sono rimasto con un pugnale.
Come dovrei fare a
liberarla?
Se anche riuscissi a
tirarla fuori da quella gabbia, non posso pensare di ucciderli tutti
con solamente quest’arma.
Non importa quanto Lei
sia brava a forgiare armi, quella maledetta lama nera sarà
comunque in grado di rompere ogni nostra creazione.
Devo armarla, devo darle
qualcosa con cui possa combattere ad armi pari con Loro.
…
Commedia, è
il momento di dare fondo alla tua scorta di debiti da riscattare. E,
per quanto a loro possa non piacere, non riusciranno a farmi cambiare
idea.
Lo stiletto si fece etereo, mescolandosi alla materia di quelle braccia
fluttuanti che, a loro volta, sparirono per tornare un
tutt’uno con la nube che le aveva generate.
È passato
parecchio tempo da quando ci sono entrato l’ultima volta.
Una piccola fessura si aprì nella Trama del Reale.
La nube ci serpeggiò dentro venendone quasi risucchiata.
Odio questa sensazione.
Ogni singola volta
è sempre così.
Detesto dover infrangere
le barriere erette da Tempo per mantenere la bolla intatta.
I mortali non hanno idea
di quanto siano fortunati a doverla attraversare una sola volta nella
loro vita… Beh, la maggior parte, almeno, visti i casini che
mi sono capitati nell’ultimo secolo...
Un secolo, anzi, qualche
anno in più. Che strano pensarci adesso, è
già passato tutto questo tempo dal Cambiamento…
Un giardino rigoglioso si spalancò davanti alla nube
turbinante.
Una brezza lieve faceva frusciare i fili d’erba e le foglie
degli alberi, creando una musica d’atmosfera per quel luogo
meraviglioso.
Devo tornare solido, non
ho intenzione di disperdermi per tutto il Giardino delle Anime e
ritrovarmi a vagare disperatamente in cerca dei miei pezzi mancanti.
Alcune figure si affacciarono tra i tronchi.
Le loro forme non erano chiare, alcuni ricordavano animali, altri
persone. Creature piccole svolazzavano attorno ad alcune più
grandi, a volte tanto grandi da poterne ospitare altre ancora sui loro
corpi.
Dai a un mortale la
possibilità di assumere qualsiasi forma e lui si
limiterà a sceglierne una per le eternità.
Spero che quelle anime
non vengano ad intralciarmi, non ho voglia di perdere tempo con degli
esseri curiosi.
Certo che, essendo
già qui, potrei anche gettare uno sguardo a quegli eroi
scappati di casa… o a Seila. Lei non ho idea di che fine
abbia fatto, qui dentro.
Ho deciso, forma da
Servitore del Fato. Loro dopotutto mi hanno sfruttato come se
effettivamente lo fossi.
Una figura nera mosse i primi passi sul sentiero che stava pestando.
La pesante cortina di fumo nero che gli aleggiava attorno danzava
appena sotto la brezza che la accarezzava ad ogni soffio.
I due occhi splendenti si strinsero fino a diventare poco
più di spiragli luminosi su quel volto privo di lineamenti.
I suoi passi battevano pesanti sul tracciato, cadenzati, sempre diretti
verso la struttura bianca che campeggiava al centro del giardino.
La Volta era rimasta immutata, le pareti di materia bianca
serpeggiavano e si intrecciavano per salire verso il cielo, sotto al
quale si richiudevano come una cupola candida.
Il tavolo che la presiedeva era vuoto, silenzioso.
La creatura fumosa gli si avvicinò decisa, impassibile,
battendoci un pugno sopra tanto forte da far vibrare la plancia.
Il colpo risuonò tremante per tutta la Volta.
Un rivolo d’acqua si arrampicò sulla gamba di uno
degli scranni.
La brezza cambiò direzione repentinamente, invadendo
l’interno della volta.
Una scintilla si accese, ardente.
Un piccolo turbine di sabbia si mosse.
- Musa, perché sei venuta qui senza nostro ordine?
– una voce potente si levò dalla scintilla che,
lentamente, cominciava a divampare sopra lo scranno su cui era comparsa.
Commedia, stai per fare
qualcosa di veramente pericoloso.
Giusto così,
per dirtelo, nel caso non te ne fossi accorto.
- Sono qui per chiedervi di ripagare il debito che avete con me.
–
- Noi non abbiamo debiti con te, ora vattene. – la scintilla
tornò a cimire, cercando di spegnersi.
- Ho badato alle vite dei vostri templi. – disse lo spettro
fumoso a voce alta, facendo rimbombare le sue parole nella Volta e
riportando l’attenzione degli dei su di sé.
- Ho badato alle vite dei vostri Templi. – ripeté,
più piano – Sotto vostro ordine ho assunto le
sembianze dei vostri servitori per portagli l’ordine di
attaccare. Ho utilizzato la mia forza vitale per permettere a Vago di
riportare con successo in vita ben quattro dei suoi compagni, quando la
sua non sarebbe bastata a farne resuscitare uno solo. Ho combattuto tre
volte contro quel Follia che neppure voi siete riusciti ad uccidere
quando ce lo avete avuto di fronte, qui, nella Volta. Ho rischiato la
mia stessa esistenza per eseguire i vostri ordini. Ho permesso al
vostro Creato di continuare ad esistere. Io sono stato il fautore della
sconfitta di Follia, quando i vostri servitori non si sono neppure
mostrati. Adesso, io vi chiedo di rendermi il debito che avete con me.
–
- Cosa vorresti da noi? – il mulinello di sabbia
tremò, ingrandendosi e richiamando a sé pietruzze
più grandi di quelle che già lo componevano.
- La spada degli Abissi. –
- L’arma di Acqua? Mai! – la scintilla si
infervorì, divampando.
- Voglio liberare l’altra Musa e per farlo ho bisogno di
un’arma divina. La mia scelta è ricaduta su quella
spada. –
- Perché credi che ti darei mai la mia arma? – il
rivolo si agitò incerto sullo scranno e la voce che ne
fuoriusciva pareva ancor più titubante.
Ottimo, stanno
cominciando ad avere dei dubbi.
Devo farli crollare. Ho
bisogno di quell’arma.
Ho bisogno di un aiuto
dall’interno e so di non poter contare su mio padre. Lui non
si abbasserà mai ad intervenire in discussioni di questo
genere.
- Io non credo nulla. Io so che mi lascerai utilizzare la tua arma.
Dopotutto, non è forse vero che, se io non ci fossi stato,
quel Terra che vedete al vostro fianco non sarebbe mai esistito?
–
Spero non comincino ora
a vagliare i possibili multiversi in cui i loro Templi non fossero
stati resuscitati da Vago.
Devo essere io
l’unico qui dentro a sapere che, se loro non fossero stati
ancora in vita, non sarebbero arrivati alla Rocca e, di conseguenza,
Terra, il vecchio Terra, non si sarebbe dovuto sacrificare assorbendo
quel colpo.
Loro devono solo pensare
che io sia di importanza vitale e per farlo non devo lasciargli il
tempo di riflettere.
In fondo anche le loro
menti hanno dei limiti.
- Ripeto, non è forse vero che quell’ammasso di
sabbia non sarebbe qui se io non gli avessi permesso di tornare in
vita? –
Devo continuare
così, asserzioni che hanno senso solo se prese fuori dal
contesto generale.
È inopinabile
che se non avessi fatto risorgere quei quattro disgraziati, Codero non
sarebbe mai potuto diventare Terra.
- Forse, Acqua, questa Musa non ha torto… - il mulinello di
sabbia e pietruzze parve rallentare nel suo ruotare.
- Terra, stai in disparte. Il tuo cambio di ricettacolo non ti fa
vedere i fatti in maniera chiara. –
- Fuoco! – ruggirono le pietruzze, tornando a roteare con
forza e richiamando a loro ancora più frammenti di roccia
– Io sono il fulcro di questa discussione. Davvero puoi
affermare che lui non abbia ragione? –
Ottimo, Terra sta
facendo esattamente quello di cui ho bisogno.
Tocca ancora a me, Fuoco
non deve pensare ai possibili risvolti.
- Quello che mi ha portato fin qua non è il voler seminare
discordia tra voi. Vi chiedo solamente in prestito la Spada degli
Abissi, solo quella. –
- Taci, Musa. La tua voce mi irrita! –
Oh, buon vecchio Fuoco,
perché mi preoccupo del fatto che tu possa anche solo
pensare di pensare a qualcosa?
Sei una testa calda, e
non solo quando ti manifesti con quella chioma fiammeggiante.
Avanti, Terra e Fuoco
stanno litigando come bambini. Una forza inarrestabile si sta
scontrando con un muro indistruttibile.
Lo sanno tutti, questo.
Ora ho bisogno che
qualcuno di loro si prenda l’incarico di paciere. Io non
posso, ovviamente, altre parole da parte mia non farebbero altro che
incasinare di più la situazione.
Me ne starò
tranquillo e remissivo nel mio angolino.
Sono venuto qui con
l’intento di far casino e prendere tutto quello che mi viene
lanciato. Non sono così ingenuo da pensare che la Spada
degli Abissi mi possa venir affidata con leggerezza, ma le armi
elementari, in fondo, sono quattro.
- Fuoco! Basta così! – il ventò che
turbinava nella stanza si abbatté con forza sui presenti,
iracondo – Non è tuo specifico compito mettere a
tacere chi viene in udienza a noi, per quanto abbia portato una domanda
discutibile. –
No! No, Aria!
Non soffiare ancora sul
fuoco!
…
Battuta infelice, in
questo momento.
Non è mia
intenzione vedervi discutere, sono io l’essere su cui dovete
concentrarvi!
- Per quanto vorresti la mia arma? – chiese il rivolo,
facendo sì che la sua voce sopraffacesse il rumore che
affollava la Volta.
- Cosa hai detto? – ruggì la scintilla che ormai
era divampata incontrollabilmente.
Cosa?
…
Cioè, tutto
secondo i piani…
- Te la verrò a riconsegnare nell’esatto momento
in cui avrò liberato l’altra Musa e saremo
entrambi al sicuro da una possibile morte. Non solo,
consegnerò oltre la Spada degli Abissi, se mi
sarà possibile, anche la spada che in sé porta
ancora il potere di Follia. –
L’assemblea ammutolì.
Avessi una bocca, in
questo momento, mi passerei volentieri la lingua sulle labbra per
attenuare la tensione.
Forse ho fatto una
scelta giusta nel non mostrarla, questa volta.
Non devo far trasparire
il mio reale stato d’animo.
Acqua è colei
che so essere più di tutti propensa al dialogo.
Posso ancora trattare in
modo che tutti ne abbiano un ritorno.
Una scintilla di energia azzurra si condensò a mezzaria,
abbassandosi verso il piano del tavolo e assumendo fattezze
identificabili di pari passo.
- Prendila e vattene. Se dovessi compiere qualcosa di abbietto con
questa spada, ne pagherai con la tua vita. –
Vorrei poterle chiedere
cosa intende esattamente con abbietto.
Uccidere mortali
può essere considerata un’azione abbietta?
Questo ultimatum gode
della proprietà transitiva? Se dovesse essere Lei a compiere
qualcosa di spiacevole con questa lama ne pagherei comunque io il
prezzo?
Questo è un
contratto troppo fumoso, per i miei gusti.
Ma, ehi, sono venuto fin
nella Volta degli Dei senza invito, ho scatenato una faida divina e ne
sono uscito illeso con ciò che avevo chiesto.
Prendi e porta a casa,
Commedia.
E ricordati di chinare
il capo.
Lo spettro fumoso strinse le proprie dita sull’elsa della
spada, la cui lama era nascosta alla vista da un fodero che pareva
fatto di flutti vorticanti.
- Te ne sono grato. – disse ancora, chinando la testa verso
il suolo in segno di rispetto al rivolo d’acqua.
- Vattene ora, prima che possa cambiare idea. – rispose
gelida la voce interpellata.
Lo spettro scomparve alla vista dei presenti, facendosi risucchiare da
una sottile crepa della Trama che collegava quel luogo al Creato.
Adesso che ho tutto
quello che mi serve, ho solo bisogno di qualcuno che apra quella
maledetta gabbia di diamante.
Quel maledetto
draghicida non tornerà mai sui suoi passi, ho bisogno di un
altro mortale.
Quell’altro
dovrebbe andar bene e, sicuramente, sarà più
facile costringerlo a seguirmi. |
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Capitolo 46 *** Capitolo 20: Direzioni ***
Razer cadde con le ginocchia premute contro il suolo.
Le macerie della casa che lo aveva ospitato erano sparse al suolo, di
nuovo, come se la ricostruzione di quella dimora non fosse mai avvenuta.
Le dita dell’uomo affondarono nella terra smossa su cui si
era accasciato.
Non gli era rimasto nulla.
Sua sorella.
Aveva perso anche sua sorella.
Gliel’avevano strappata dalle braccia. L’avevano
uccisa.
Chi?
Di chi era la colpa?
Avrebbe rimesso la maschera, sarebbe tornato a cacciare.
La maschera …
Le dita di Razer si strinsero ancor più attorno al terreno
smosso che precedeva quello che era l’ingresso della casa.
Quell’essere l’aveva presa e gliel’aveva
distrutta sotto gli occhi.
Le palpebre dell’uomo dagli occhi scuri si serrarono per un
momento, come per trattenere all’interno di quelle iridi
scure il dolore che gli stava crescendo dentro.
Se quell’essere non gli aveva mentito in
quell’incontro nelle segrete, erano entrambi alla ricerca di
vendetta.
Lo avrebbe aiutato.
Si, lo avrebbe aiutato certamente. E gli avrebbe ridato la sua maschera.
Sarebbe tornato a uccidere con quel volto.
Razer si alzò a fatica.
Le ferite che gli segnavano i polsi stillavano ancora sangue,
macchiandogli le maniche che le celavano.
Gli occhi gli bruciavano alla fioca luce del sole calante, troppe erano
le ore di sonno che aveva perso, chiuso in quella cella.
Aveva ancora un compito da portare a termine, nessuno sarebbe
sopravvissuto al suo passaggio.
L’uomo dal polpaccio ustionato avanzò
ulteriormente verso le macerie della casa, muovendosi tra i detriti per
raggiungere la posizione in cui, prima, c’era la sala da
pranzo, il tavolo e, su questo, il coltello che aveva posato.
Quella lama non era ancora sazia di sangue.
Voltò il viso verso la vetta mozzata del Flentu Gar,
guardandola con odio.
Avrebbe vendicato tutti, non avrebbe permesso alle ferite del suo corpo
di rallentarlo.
Si rimise in piedi, con le suole salde sui resti di una parete che nel
collasso era rimasta integra. Avrebbe voluto urlare al cielo, ma la
polvere che ancora aleggiava gli irritava la gola al punto da
impedirgli di emettere alcun verso.
Scese con un balzo incerto dal podio su cui si era ritrovato,
imponendosi di non cadere a terra all’atterraggio, per quanto
le sue caviglie scorticate tremarono non appena il peso corporeo venne
di nuovo caricato su di loro.
Mise un piede avanti, poi l’altro, poi di nuovo il primo.
Ognuno rivolto verso quella che un tempo fu la Terra degli Eroi.
Noir avanzava a fatica sulla strada disconnessa.
La terra era attraversata per tutta la sua lunghezza da profondi solchi
lasciati dalle ruote dei carri sul suolo bagnato dalla pioggia,
passaggio dopo passaggio, costringendolo a camminare sul limitare di
quella via, là dove l’erba quasi gli ghermiva le
ginocchia.
Il fagotto che portava in spalla non reagiva a nulla. Non reagiva
all’incespicare del trentenne o ai saltuari scrolloni che le
dava quando la coperta gli scivolava dalla spalla e minacciava di
fargli perdere la presa.
Noir non osò mai aprire quel cencio arrotolato per scoprire
se stesse trasportando o meno un cadavere.
Tutte le ferite che gli si erano aperte sul corpo durante
l’esplosione di violenza della sua maledizione ora erano
coperte da una spessa crosta nera e rigida.
Il grande lago che si era creato a seguito della caduta del regno
nanico splendeva alla sua destra sotto i raggi di quel sole che,
lentamente, cercava di nascondersi dietro la linea scura della Grande
Vivente.
Le sagome di pochi tetti di legno si cominciarono a delineare
là dove quella via pareva voler condurre.
Doveva trattarsi di un piccolo villaggio, troppo distante dal lago per
appartenere a una comunità di pescatori.
Noir cercò di accelerare il passo, ma le sue gambe
mantennero ostinatamente la stessa andatura zoppicante che
l’aveva condotto fin lì.
Una volta che si fosse liberato del peso di quella ragazzina che si
portava appresso, avrebbe finalmente potuto raggiungere Derout e, da
lì, il Continente.
L’avrebbe solamente dovuta lasciare davanti alla casa di
qualcuno, bussare e scappare. Ci avrebbero pensato poi loro al resto.
Continuò la sua avanzata, cercando di non mettere i piedi in
fallo all’interno dei solchi che accompagnavano il suo passo.
Lunghe distese di campi seminati gli si aprirono a sinistra, come ad
accoglierlo in quel paesello che, finalmente, si era lasciato
raggiungere.
Le assi della scala che permettevano di raggiungere la porta di
ingresso della prima casa scricchiolarono sotto il peso di Noir.
Il fagotto venne calato con cura sul piccolo soppalco che precedeva
l’uscio e lì rimase, appena ansante.
Era ancora viva, per lo meno la sua non era stata una fatica inutile.
- Oh, ti prego, non un altro. – disse una voce seccata alle
spalle del trentenne.
Noir si voltò di scatto, spaventato da quella voce che lo
aveva preso di sorpresa.
Un abitante? Poteva essere un’abitante di quel paesello?
L’elfo dai capelli scuri non lo degnava della sua attenzione,
tutta diretta alla coperta di cui si era appena liberato.
- Tu … come mi hai trovato? - Il trentenne non
riuscì a trattenere lo stupore del trovarsi di fronte lo
stesso elfo che li aveva aspettati alla dimora di Razer.
- Hai salvato questa mocciosa. Doveva crepare per le botte che gli
avrebbe dato il suo padrone, ma, qualcuno, ha incasinato qualche
capitolo. Maledizione, la Trama si sfibrerà completamente
con tutti i buchi che si ritrova. E poi chi lo sente quel vecchio?
–
- Che cosa sei tu? – continuò Noir con voce rotta,
facendo un passo indietro, verso l’ingresso di quella dimora.
L’elfo parve non sentirlo neppure, salì i pochi
gradini che lo separavano dal fagotto e ci si chinò sopra.
- Certo che ti hanno ridotta proprio male, mocciosa. – disse
borbottando tra sé e sé – Potresti
crepare domani e risolvere ogni mio problema, o potresti campare
cent’anni e lasciare dietro di te uno squarcio nella Trama
del Reale tanto profondo da permettermi di ritornare in patria
… comunque, benvenuta nel gruppo. Per ringraziarti di avermi
fatto trovare tanto velocemente Noir, voglio darti una
possibilità. Tanto, per ora, al Fato non interessa che io
possa giocare con i Buchi. –
- Cosa vuoi farle? – Noir si scostò ancora, la sua
voce tremante rendeva quelle parole poco più di sussurri.
L’elfo si piegò sul fagotto, scoprendo il viso
bianco cadaverico all’ultima luce che il sole poteva regalare
al terreno. Il corpo in preda agli spasmi della febbre fu percorso da
un brivido gelido, tutti i muscoli, a stento distinguibili dalle ossa
appuntite che ricoprivano, si tesero, facendo parere la ragazza ancor
più minuta.
- Non sarà la febbre ad ucciderla. – disse
l’elfo voltandosi con occhi duri in direzione del discendente
di Reis – Ora tu verrai con me. –
- Cosa? – il trentenne cercò di fare qualche passo
indietro, ma il corrimano della scaletta che anticipava
l’ingresso della casa al quale si era avvicinato lo costrinse
a bloccarsi.
- Ho bisogno che tu faccia un lavoro per me. –
l’elfo appoggiò la propria mano destra sulla
spalla dell’uomo, stringendo le dita fino a far increspare la
stoffa consumata della sua camicia.
Sotto la pelle di Noir qualcosa si mosse, piccoli serpenti agitati che
scivolavano lungo le vene più superficiali, come per tastare
l’ambiente esterno a quel corpo.
L’elfo scompare in un turbinio di piume chiare, trascinando
con sé Noir che, paralizzato, assisteva impotente ai suoi
piedi che perdevano il loro appoggio sullo scalino.
Le ali di un’immensa aquila si spiegarono nel cielo, facendo
calare violente folate sulla superficie del lago scuro.
Angolo dell'Autore:
Detesto non procedere con questa storia, detesto non potervi portare
ogni settimana un nuovo capitolo.
Mi prendo ancora, a malincuore, una settimana di rallentamento, quindi
la settimana prossima non pubblicherò, poi, da quella ancora
successiva, ogni venerdì al vostro risveglio avrete un
capitolo nuovo.
Per il resto, in sottofondo sto lavorando per voi, stiamo lavorando per
voi, visto che nelle retrovie non ci sono più solo io da
qualche mese a questa parte, e sul mio desktop ora campeggiano alcuni
file con i prossimi capitoli belli impacchettati.
Stiamo per arrivare al giro di boa, alla fine di questa seconda parte
di questa storia, là dove le tre tracce che abbiamo seguito,
i mortali, il passato e Commedia, si intrecceranno per l'ultima volta
prima di chiudere tutto.
Per ora chiudo, perchè non voglio bruciarmi tutti gli
argomenti che voglio trattare nel maxi-Angolo che vi troverete tra
qualche settimana.
Vago |
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Capitolo 47 *** Capitolo 20.49: Epica, Commedia ***
Un corvo dalle piume color pece saltellò appena sul ramo su
cui si era posato, facendo scappare tra le frasche uno scoiattolo che
gli si era avvicinato troppo.
Ai piedi di quello stesso albero, una volpe dai dorati occhi lucenti si
accarezzava la folta coda con il muso appuntito.
Come posso salvarci da
questa situazione?
Arriveranno,
probabilmente in questo momento ci avranno quasi rintracciati.
Stanno diventando sempre
più rapidi e precisi nei loro spostamenti.
Com’è
possibile che abbiano un simile controllo sulla Trama del Reale? Come
possono aprirsi un varco attraverso la sua maglia? Dove hanno trovato
quell’arma in grado di ucciderci?
Non me lo diranno mai,
tanto.
…
Commedia non
può combattere, a stento riesce a sopravvivere quando
è solo.
Perché Melodia
si è sacrificato per lui?
Poteva lasciarlo
disgregarsi e disperdersi nell’aria. In questo modo Commedia
non sarebbe stato in pericolo finché non fosse riuscito a
riaggregare tutto il suo essere e Melodia non sarebbe stato ferito.
Cosa abbiamo guadagnato
in tutto questo inutile correre e nasconderci?
Nulla.
Sappiamo solo che possono
ucciderci.
No, non è
vero, Passione ha ottenuto qualcosa, li ha fatti titubare.
Questo, però,
non mi servirà a nulla. Per quanto possano provare ancora
sentimenti umani, mi sembra evidente che siano oscurati dalla loro sete
di morte.
Commedia, cosa posso
farmene di te?
L’aria era pesante e calda e pareva che nessun vento
passeggero avesse intenzione di trascinare via quella cappa che
aleggiava tra gli alti tronchi.
Il corpo di Epistola non era altro che un lontano ricordo nel
sottobosco, lasciato alla natura su cui si era accasciato.
- Tragedia… - disse la volpe, incespicando su quel nome.
Solo dopo qualche secondo di pausa riuscì a riprendere
parola – Tragedia mi ha detto il perché di quei
segni sul suo corpo. –
Il corvo abbassò di scatto il capo per poter puntare i suoi
occhi neri sulla creatura bronzea che aveva parlato.
La volpe, non ricevendo risposta, continuò a parlare,
tornando ad accarezzarsi la coda. – Mi ha detto che gli
servono per ricordare i nostri fratelli caduti. Ne avrebbe uno in
più, adesso, se solo ci fosse ancora. –
Il corvo dovette aprire più volte il becco, prima di
riuscire a farne uscire qualcosa.
- Secondo me è una scemenza. –
- Cosa? – la volpe alzò il capo di scatto, presa
alla sprovvista da quel commento.
- Perché marchiare chi abbiamo perso? Sappiamo tutti chi non
c’è più. Piuttosto si sarebbe dovuto
segnare chi era ancora vivo, per ricordarsi per chi poteva ancora fare
qualcosa. –
La volpe tornò lentamente a strusciare il proprio muso sulla
folta coda, pensierosa.
Forse.
Ma a che scopo segnarsi
chi dovresti proteggere, se non puoi far nulla? Se sei impotente di
fronte agli eventi?
- Epica, cosa pensi di fare ora? –
La volpe rimase in silenzio, muovendo appena il capo.
- Epica? – insistette il corvo saltellando in direzione della
punta del ramo su cui si era posato.
- Non lo so ancora, devo riflettere sulle possibilità che
abbiamo. Ho bisogno di tempo. –
Dovrei sigillare la
Trama, Loro non dovrebbero essere in grado di spostarsi attraverso di
essa in quel modo, in teoria.
Ma se potessero?
Ci troveremmo senza la
spada del Fato in balia del Loro potere.
La Trama tremolò appena, facendo ondeggiare lievemente i
tronchi come se fossero stati visti attraverso una corrente
d’aria bollente.
Non ho più
tempo per pensare.
Stanno arrivando. Saranno
qui a momenti.
Non posso combatterli,
non posso vincere contro di loro.
Ne ho uccisi tre,
è vero, ma il campo di battaglia mi era favorevole.
Non posso combatterli.
- Commedia, vattene. Scappa lontano. –
- Epica, non posso lasciarti qui! –
- Vattene, posso combatterli, se sono solo. –
- Ma, Epica… -
- Ho detto vattene! –
Dannazione, Commedia,
obbediscimi!
Scusami…
Il corvo si alzò in volo, scomparendo tra le frasche
pendenti.
Pochi attimi dopo, cinque figure nascoste dalle lunghe tuniche scure
comparvero tra gli alberi, calpestando la poca erba che lì
era riuscita a ricavarsi uno spazio nel sottobosco.
La figura di una giovane donna dal corpo magro e dai corti capelli neri
gli stava di fronte, ritto, con gli occhi gialli come l’oro
che risplendevano in direzione dei loro volti.
- Finalmente hai smesso di scappare. – disse il primo della
colonna, alzando nella sua direzione la punta della lama nera.
- Avete ucciso tutti i miei fratelli. Non vi basta ciò?
–
- Dobbiamo epurare il mondo da creature come voi e lo faremo fino in
fondo. – L’uomo si tolse dal capo il largo
cappuccio che teneva in ombra i suoi lineamenti.
Un paio di occhi verdi dalla sclera completamente annerita si posarono
sulla fanciulla, duri come rocce. Il capo completamente rasato
luccicava appena per le gocce di sudore che lo imperlavano.
- Ne siete proprio sicuri? Posso… posso fare qualsiasi cosa
vogliate, potrò essere chiunque voi mi chiediate di
diventare. –
Un bassissimo vociare si levò dai quattro uomini ancora
interamente ammantati. La punta della spada, fino ad allora sollevata e
perfettamente immobile, quasi fosse stata una statua ad impugnarla, fu
percorsa da un tremolio.
- No. Dobbiamo ucciderti. – il capo dell’uomo
armato si arricchì di nuove gocce di sudore.
Chi sei?
Perché stai combattendo le tue pulsioni umane?
È quella
spada? Che possa essere qualcosa di più di una semplice arma?
Spero che Commedia mi
abbia obbedito, ma non posso voltarmi per controllare.
- Non dovete uccidermi per forza… - la fanciulla
piegò il capo di lato, esattamente come aveva visto fare a
Passione decine di centinaia di volte – Pensate a quante cose
potrei fare… -
Il vociare si levò di nuovo dal gruppo rimasto indietro, ma
subito fu zittito da un gesto della mano dell’uomo dalle
sclere nere.
- Tu morirai. – disse ancora con fredda risolutezza.
Uno degli uomini che gli stavano alle spalle gli si avvicinò
quasi con riverenziale timore.
- Maestro, ne è sicuro? Pensi al potere… -
La lama nera si aprì un passaggio all’interno del
torace del secondo individuo, sfilandosi poi solo per permettergli di
accasciarsi a terra per fare gli ultimi boccheggi della sua vita.
L’uomo che impugnava l’arma fu percorso da un
brivido, i suoi occhi si allargarono, guardando il corpo morente a
terra come stupito da quello che lui stesso aveva fatto.
Tornò quasi subito, a rivolgersi alla creatura femminile che
gli stava davanti.
- Quest’oggi tutto finirà. –
L’imponente spada dalla lama bronzea comparve
nell’esile mano della fanciulla dagli occhi dorati. Le labbra
fini si serrarono, così come le palpebre che ridussero i
suoi occhi a fenditure lucenti.
Perché ho
provato a trattare con loro?
Non avrebbe mai potuto
funzionare.
Devo combattere, se anche
perirò in battaglia, Commedia dovrebbe essere al sicuro. Non
sospettano della sua esistenza, credo.
Numerosi rami si ruppero al passaggio rocambolesco di un adone in
armatura bronzea, comparso a un paio di metri di altezza dal terreno.
L’armatura impattò sulla fanciulla armata,
strappandole i bianchi abiti leggeri che indossava e scorticandole la
schiena. La testa incorniciata dai corti capelli neri colpì
violentemente terra, per poi non muoversi più.
La spada bronzea si piantò nel terreno, vibrante.
- Fermi! – rombò una voce dall’interno
dell’elmo lucente, fluttuando di intensità e tono
– Non uccidetela. Vi ha mentito, siamo rimasti in due.
–
- Ci hai risparmiato il disturbo di darti la caccia, creatura.
– gli rispose l’uomo armato, dirigendo la punta
della spada che impugnava in direzione della sua gola.
- Avete visto ciò di cui sono capace, ho ucciso tre vostri
compagni e farò altrettanto con tutti voi, se ucciderete
questa Musa. Voglio offrirvi però un accordo. –
Una lunga pergamena comparve tra le mani dell’adone, sulla
sua superficie centinaia di caratteri si rincorrevano.
L’oggetto provocò un vociare ancora più
intenso tra i restanti uomini ammantanti, che osarono fare pochi passi
avanti per poter leggere di cosa trattasse.
- È un contratto legato alla mia magia. Se lo firmerete, io
diverrò vostro servitore per sei secoli, concedendovi la
possibilità di aumentare questo tempo in caso di miei
errori, in cambio voi vi impegnerete a mantenere in vita
quest’altra Musa, ovviamente come vostra prigioniera.
–
Uno degli uomini ancora incappucciati si levò il manto dal
capo sudato, avanzando ancora verso il contratto che gli veniva posto.
- Maestro, ci pensi, a cosa ci serve ucciderle se possiamo sfruttarne
il potere? La prego, firmi. –
L’uomo armato parve tentennare a quelle parole, non riuscendo
però a staccare gli occhi dalla sclera nera
dell’adone.
- Maestro, la prego! – si intromise un secondo uomo, osando
appoggiare una mano sulla spalla del suo interlocutore.
L’uomo armato si voltò di scatto, puntando la sua
spada in direzione di chi lo aveva sfiorato.
- Maestro, torni in sé! Possiamo avere tutto! –
riprese il primo chiudendo le proprie dita attorno al polso del suo
maestro, tentando di fargli mollare la presa
sull’elsa che stringeva.
Dalla lama nera proruppe un’esplosione di denso fumo che
gettò a terra i tre uomini che tentavano di riportare alla
ragione la loro guida. Una nera figura indistinta si stagliò
tra gli alberi.
- Uccidili tutti! – ruggì in direzione del suo
servitore armato. Questi, però, in un disperato
guizzò di ragione o scintilla di terrore a quella vista
perse la presa sulla spada che gli era stata affidata, lasciandola
cadere in direzione del suolo.
L’adone si mosse tremante ma veloce. Le sue dita lasciarono
la presa sul contratto per permettere ai suoi guanti d’arme
di chiudersi attorno all’elsa della spada bronzea,
illuminandosi delle centinaia di scintille che questa produsse.
Fendette poi il terreno nella quale si era piantata, fino ad aprire uno
squarciò là dove la spada nera sarebbe caduta.
Solo quando la fenditura fu sufficientemente grande si permise di
lasciare la presa, lasciando cadere la sua arma nello stesso taglio che
aveva prodotto, seguita dalla sua rivale.
- Io ti sigillo. – disse ancora il soldato bronzeo con il
fiatone e i palmi dei guanti ustionati fin nel profondo della loro
essenza.
La fenditura si richiuse, facendo contorcere e accartocciare la Trama
del Reale che tutto intorno li circondava.
- Hai fatto una cosa grave, tu! – ruggì
l’ombra fumosa – Ma non importa. Non potrete in due
tenere a bada tutte le forze di questo mondo e presto potrò
riprendere il posto che mi spetta al tavolo degli dei! –
L’ombra si dileguò nell’aria, lasciando
l’adone ansimante inginocchiato a terra, attorniato dal corpo
privo di sensi di una fanciulla dalla schiena ferita e da quattro
mortali dagli occhi colmi di terrore.
Poche gocce di sangue vermiglio caddero sul fondo della pergamena.
- Il tuo patto è stato siglato. – la voce flebile
di uno dei seguaci che aveva osato opporsi al proprio maestro si
avvertì appena nella cappa di aria calda che aleggiava.
L’adone abbassò il capo verso il terreno in segno
di resa, non muovendosi neppure quando due di quei mortali si
caricarono sulle spalle il corpo della ragazza che aveva cercato di
proteggere, trascinandola fuori da quella macchia di verde.
Una solitaria, spessa riga bianca comparve sull’elmo bronzeo.
Angolo dell'Autore:
Con oggi siamo arrivati a ben due momenti estremamente importanti per
questa storia.
Il primo, come anticipato, è la ripresa delle pubblicazioni
settimanali. Quindi la settimana prossima preparatevi per un capitolo
talmente corto e poco studiato che vi ci vorranno un paio di ore per
finirlo. Il capitolo 20.5 è colossale, molto più
di quanto avevo preventivato.
Il secondo, più evidente, è il punto della storia
a cui siamo arrivati. Tutto è successo, le Muse sono state
sconfitte, Commedia ha appena posato l'ultimo mattone per aprire la
strada al Viandante e, finalmente, è stato rivelato come mai
è Epica ad essere imprigionata e Commedia quella libera.
Io spero vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto.
Alla settimana prossima, dove, dopo un capitolo lungo,
seguirà un angolo dell'autore altrettanto pregno.
Vago |
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Capitolo 48 *** Capitolo 20.5: Termine del contratto ***
Un’imponente aquila fece ricadere la propria ombra sulla
desolata pianura che aveva preso il nome di Terra degli Eroi. I suoi
artigli si distesero, permettendo al peso che si stava trasportando
dietro di toccare il suolo.
Noir cadde pesantemente, costringendo la melassa nera che si agitava
dentro di lui a fuoriuscire dai suoi pori per proteggere i palmi e le
ginocchia dal terreno sconnesso.
- Cosa vuoi da me? – chiese terrorizzato il trentenne,
alzandosi in piedi e sollevando il capo per guardare l’enorme
rapace che stava scendendo di quota.
- Devi firmare un contratto e aprire una gabbia, null’altro.
Poi ti porterò dove vorrai, ovunque. –
- Davvero? –
- Lo giuro su… - una serie di lunghi fischi acuti ruppe la
quiete, attirando l’attenzione dell’aquila.
Un gruppo di guardie comparve da dietro le poche macerie che erano
rimaste ad ingombrare quel suolo, muovendosi veloci in direzione dei
nuovi arrivati nelle loro armature leggere.
Magia?
No, non intendo il fatto
che non li avessi visti prima, dopotutto non mi ero nemmeno sforzato di
dare uno sguardo per verificare se qualcuno ci stesse aspettando.
No… hanno con
loro qualcosa di magico.
Ho un brutto
presentimento.
Loro quanto sono
riusciti a salvare del periodo della Guerra degli Elementi?
- Fai attenzione. – disse ancora l’aquila, prima di
assumere le fattezze del pallido elfo dalla guancia tatuata.
Non devo ancora rivelare
le mie carte.
Ho due armi divine, con
me, ma non posso già mostrale.
Le terrò ben
nascoste dentro questo corpo, per ora, tanto sono solo mortali,
basteranno le lame che sono in grado di produrre.
Nella mano destra dell’elfo comparve un lungo pugnale
argenteo, tanto grande da poter essere scambiato per una corta spada.
- Hai un’arma anche per me? – chiese il trentenne
incerto, facendo saettare il suo sguardo tra le guardie che
continuavano ad avvicinarsi e crescere in numero.
- Non credo ti servirà, visto quello che sei capace di fare.
Comunque, questo vuol dire che mi aiuterai? –
- Voglio sopravvivere, intanto. E, poi, io non posso controllare la mia
maledizione. –
- Immagino che se ti lanciassi in mezzo a loro avresti dei buoni
risultati. –
Noir sospirò avvilito, guardandosi i palmi delle mani
sporchi.
- Sono comunque in troppi, la mia maledizione non può
proteggermi completamente… -
- Non ti toccheranno neppure, ci penserò io a quelli che ti
si avvicineranno troppo. –
- Rimarresti ferito se ti avvicinassi! –
Gli occhi scuri dell’elfo si fecero improvvisamente duri.
– Ascoltami, io ho combattuto e sconfitto l’essere
da cui è nata la tua maledizione. Non mi spaventa quella sua
brutta copia che ti porti dentro. Ora, a meno che non vuoi aspettare
che arrivino loro da noi, sarebbe il caso che cominci a corrergli
incontro. –
Sopravvivrà
di sicuro.
Perché,
però, l’essenza di Follia che ha ereditato non
può proteggerlo interamente?
Non è
abbastanza. Non ne ha abbastanza.
Probabilmente di
generazione in generazione la quantità di quella roba
è andata diminuendo. Almeno so che, tempo un secolo, anche
quest’ultima traccia sarà sparita.
Noir caricò a testa bassa i soldati, chiudendo gli
occhi per non vedere la folla contro cui si stava scaraventando.
Il sangue nelle sue vene cominciò a pulsare sempre
più rapidamente, incapace di adattarsi al battito del suo
cuore.
Profondi strappi si aprirono nella pelle del trentenne, da questi la
melassa nera che risiedeva nel suo corpo fuoriuscì,
unendosi, fondendosi e dividendosi per formare sette aculei che
trapassarono, impalandoli, altrettanti uomini.
Ok, va bene…
Mi hai preso un po’ troppo alla lettera, non intendevo con
“corrergli incontro” caricarli a testa bassa come
un ariete, ma me lo farò andar bene.
Forse è il
caso che mi muova anch’io, se la mia analisi è un
minimo corretta, quasi la completa quantità
dell’essenza di Follia contenuta nel suo corpo ora sta
formando quegli spuntoni, quindi non gliene rimane molta ancora a
disposizione per proteggersi da eventuali attacchi.
L’elfo si mosse rapido sul terreno brullo, con il braccio
teso al suo fianco e la sua arma ben salda tra le dita. La ciocca di
capelli bianchi sobbalzava appena sulla chioma nero pece al ritmo dei
suoi passi.
Una frusta cercò di ferire il braccio sinistro di Noir, ma
le sue spire si avvinghiarono attorno a un sottile guscio nero.
Una frusta?
Davvero?
Davvero davvero?
Avanti, che arma
è la frusta?
Le volute dell’arma si incendiarono improvvisamente,
costringendo il trentenne ad allontanare l’arto dal corpo per
non permettere alle fiamme di attecchire sugli abiti cenciosi che
portava addosso.
Una frusta di fuoco,
magari, è da tenere un pochino più sotto
controllo.
Era esattamente di
questo che avevo paura. Cimeli dell’Era della Magia,
dannazione, perché hanno creato della roba del genere dopo
la caduta di Reis? Di cosa avrebbero mai dovuto aver paura?
E poi, tra
l’altro, sono tutte cianfrusaglie che saranno state
dimenticate in qualche armeria nascosta dopo la caduta
dell’Ordine.
E io che speravo di
essermi tolto per sempre il problema della magia… adesso mi
ritrovo con un tizio che si illumina, con il pro pro pro e qualcosa
nipote di un demone semidivino, armi incantate, una spada forgiata
dalla stessa essenza del demone semidivino sopracitato e un maledetto
contratto che non sono in grado di spezzare da solo.
Dannazione.
…
Non importa, quanti sono
loro?
…
Ventiquattro.
Ho visto molto di peggio.
Veloce, preciso, mortale
e aggraziato.
Una lama sgozzò l’uomo che brandiva la frusta
infuocata, che subito si spense non appena la mano del suo possessore
lasciò la presa.
Ventitré.
Sette corpi caddero pesantemente a terra, irrorando il suolo con il
loro sangue, mentre gli aculei si ritraevano, andando a rimodellare le
placche che proteggevano il corpo del loro ospite.
Una spada provò a farsi strada nel polpaccio di Noir, ma non
poté andare oltre la corazza nera che l’aveva
ricoperta. Rimase però contro di questa, senza ritrarsi. La
sua lama fu percorsa da scintille elettriche che, creando luminosi
archi voltaici nell’aria si scaricarono nel corpo del
trentenne, gettandolo a terra boccheggiante.
Elettricità?
Io speravo di non
vederla più per almeno qualche centinaio d’anni
dal Cambiamento.
Posso capire come la
possa produrre, come funziona la magia non è un segreto,
all’interno di quella spada si andranno a formare le stesse
condizioni di un temporale facendo fuoriuscire dalla lama i fulmini,
essendo quella un conduttore, ma dove trova l’energia per far
ciò? Non credo che quel soldato di bassa lega abbia una
riserva di mana tale da produrre più di qualche scintilla.
Spero non
l’abbiano progettata per…
La punta della spada venne puntata contro il trentenne a terra. Lungo
tutta la sua superficie scoppiettarono scintille e piccole saette che
si disperdevano nell’aria.
Un lungo arco voltaico nacque dalla punta metallica, puntando in
direzione di Noir utilizzando come appoggio per quel viaggio il corpo
di una delle guardie che non si era spostata abbastanza dalla sua
traiettoria.
Un lungo pugnale si frappose fra l’attacco e il corpo
dell’uomo protetto in buona parte dalla melassa nera.
La scarica deviò il suo corso, convogliandosi prima nella
lama dell’arma, poi nel corpo del suo possessore per poi
scaricarsi a terra passando attraverso una lunga barra metallica che
dalla vita dell’elfo si andava a piantare nel suolo.
Conosco ancora
abbastanza bene le leggi imposte da Natura da non farmi fregare da
trucchetti così prevedibili.
Il corpo dell’uomo che impugnava la spada cadde a terra
fumante.
Dannazione se ho capito
il trucco.
Queste armi, se non
trovano una riserva di mana o la finiscono passano ad attingere
all’energia vitale del proprietario, senza farsi fermare dal
suo rubinetto di emergenza.
Ricordate il discorso
sul rubinetto d’emergenza del mana che vi avrò
fatto un’ottantina di anni fa? Il fatto che gli umani sono
animali con un rubinetto mal funzionante e rischiano di crepare se
lanciano incantesimi al di là delle loro
possibilità e tutto il resto?
In ogni caso, ventuno,
grazie al suo assist.
Nove fini aghi fecero ondeggiare al loro passaggio i lembi cadenti
degli abiti strappati di Noir, impalando altrettante guardie e facendo
cadere rumorosamente a terra le armi che queste brandivano.
Dodici.
Perché mi
stavo preoccupando di non riuscire ad arrivare alla sua prigione?
Potrei mettermi seduto
in un angolo e comunque mi verrebbe spianato un passaggio per quella
scalinata maledetta.
Dai, forza Commedia, fai
finta di essere utile.
L’elfo scattò in avanti a lunghe falcate, muovendo
la lama della sua arma nell’aria, facendola scivolare negli
anfratti delle armature e lasciando profondi solchi al suo passaggio.
Tre voci distinte alzarono al cielo le loro urla di dolore, prima di
affievolirsi lentamente.
È davvero
troppo facile, però, così.
Nove.
Potevano almeno
addestrarli ad usare queste armi.
- Viandante, fermati! È un ordine di un firmatario, questo!
–
Davvero credono che,
dopo quello che mi hanno fatto, mi atterrò ancora a quel
patto?
Ho solo bisogno di avere
quel maledetto rotolo di pergamena per dare a qualcun altro il potere
di aprire quella gabbia.
Una figura si fece avanti coperta da una spessa corazza metallica.
Sulla superficie lucida, lunghe e sinuose spirali di glifi si
rincorrevano rapidi.
Come l’hanno
ottenuta, quella?
Maledizione!
Aria, ora vieni qui e
risolvi questo casino.
Dannazione!
Perché
è ancora sul Creato quella roba?
Era troppo difficile
riprendersela ottant’anni fa, a guerra finita? O, per lo
meno, vent’anni fa, visto che Fuoco si era ricordato di
averla scaricata in questo posto?
“Trado, il
dominatore dei venti, il cavaliere degli uragani, il serpente piumato
della Signora dell'Aria.”
Hanno solo riesumato
l’armatura che la stessa Aria ha forgiato e ha donato al suo
tempio nel Creato, cosa vuoi che sia?
Come si può
anche solo pensare di lasciare un simile artefatto in mano ai mortali?
Ed ora come la butto
giù, quella?
Non voglio tirare ancora
fuori le armi divine in mio possesso. E, poi, lo stiletto di
papà Fato sarebbe inutile contro quella montagna di metallo
incantato, mentre non ho la forza, senza un’adeguata
accelerazione, per sfondare le sue difese con la Spada degli Abissi.
Mai una volta che le
cose mi possano andare bene.
- Come siete entrati in possesso di quell’armatura, signora
Dan Rei? Non era l’egemonia sui trasporti nelle Terre
l’unica sua competenza? –
Uno spuntone di roccia scura eruttò dal terreno, lanciando
in aria Noir, accovacciato in posizione fetale e quasi interamente
coperto, all’esterno del suo corpo, da uno spesso guscio nero.
Una delle guardie sopravvissute cadde a terra, esanime.
- Non potevamo lasciare oggetti così meravigliosi a marcire
tra le mura cadenti dei palazzi che qui sorgevano. I nostri
predecessori, prima di instaurare la Setta degli Assassini, hanno
provveduto a recuperare tutto ciò che potesse essere
utile. –
Un largo scudo a torre interamente fatto di legno venne issato in
difesa della donna bardata.
Non farti prendere
dall’agitazione, cerca di essere metodico e logico.
Analizza.
Otto persone, di cui una
è Sarah Dan Rei, firmataria.
Come sono armati?
Armatura di Trado,
divina, al di sopra delle mie attuali possibilità.
Scudo…
annulla magia? Qualcosa del genere, in teoria deve convertire le
particelle di mana espulse durante l’incantesimo in aria.
Due spade, una in grado
di aumentare il proprio peso, l’altra capace di generare
fiamme. Poca fantasia, peccato.
Un arco non incantato,
ho paura che quelle frecce abbiamo delle brutte sorprese.
Uno stocco in grado di
ridurre la dimensione dell’utilizzatore. Spero per lui che
non gli abbiano rivelato il suo reale utilizzo, altrimenti è
un’incosciente a essere venuto a combattere.
Una picca che richiama a
sé tanta terra quanta è l’energia che
viene incanalata in essa. Ponendo che non siano in grado di dosare le
forze impiegate, è probabile che, la prima volta che la
proverà ad utilizzare, richiamerà a sé
un paio di massi e morirà lì, probabilmente prima
per mancanza di energia vitale e poi per l’impatto.
Un’ascia che
devia gli incantesimi. Pericolosa, ma solo se usata con consapevolezza
di cosa si sta facendo.
Nel peggiore dei casi
quelle frecce sono avvelenate, devo proteggermi.
Cosa ho io, dalla mia?
Noir e il potere di
Follia, le armi divine, le mie armi e… basta.
No, non basta. Ho ancora
la spada di Nirghe. Come ho fatto a dimenticarmi di averla?
Dovrei fare un
po’ di ordine tra le cose contenute nel mio corpo,
avrò ancora dei documenti delle missioni che mi sono state
affidate nei decenni passati, da qualche parte.
Serve un piano di
battaglia.
Prima di tutto devo
avvicinarmi a quell’ascia senza usare la magia.
Poi ci sarà
quello scudo che renderebbe ogni attacco elementare inutile.
Non posso batterli,
posso però ridurre ancor più le loro fila.
Se è salita
solo Sarah Dan Rei, vuol dire che gli altri membri non sono presenti,
per il momento.
Non devo per forza
ucciderli tutti.
Un paio di imponenti ali si generarono dalla giacca scura
dell’elfo per distendersi, prima, e poi muoversi con possenti
colpi verso il terreno.
L’elfo si mosse rapido in aria, con gli occhi fissi
sull’arco di legno venoso che, freneticamente, stava venendo
incoccato.
Una freccia sibilò nell’aria, seguita da una sua
gemella poco dopo.
Le piume che componevano le code vibravano nella loro corsa
all’inseguimento delle punte scintillanti.
Le dita dell’elfo strinsero qualcosa.
Le frecce interruppero violentemente il loro viaggio, per poi ricadere
a terra.
Ottimo.
La melassa nera si ritirò nuovamente nel corpo di Noir,
tenuto in aria solamente dalla forza dell’elfo che lo reggeva.
- Sai maneggiare una spada? –
Un’altra freccia sibilò nell’aria, per
poi schiantarsi nella nuova protezione nera di Noir senza essere
nemmeno riuscita a scalfirla.
- Perché? – la voce del trentenne era rotta,
perfettamente abbinata al suo corpo coperto di cenci che a malapena
bastavano per coprire gli strappi che gli si aprivano nella pelle.
- L’energumeno con l’ascia. Uccidiamo quello ed
entriamo. Allora, la sai maneggiare? –
- Più o meno. –
- Me lo farò bastare. –
Il braccio sinistro dell’elfo si tese, irrigidendosi e
perdendo la presa sul corpo dell’uomo che gli faceva da scudo
contro i dardi, per aprirsi lungo tutta la sua lunghezza come la
copertina di un libro. Dai tessuti aperti fuoriuscì
lentamente il fodero lindo di una spada.
Noir lo afferrò timoroso, sfoderando la lama che dentro a
questo riposava e guardando schifato i muscoli di quel braccio tornare
a saldarsi per chiudere lo squarcio che si era aperto.
- Io ti porto là, tu lo ammazzi, va bene? –
Noir non ebbe il tempo di rispondere. Le imponenti ali cambiarono
angolazione, spingendo i due corpi verso il gruppo di uomini che li
guardavano avvicinarsi con le armi strette in pugno.
Lunghe penne nere caddero dolcemente al suolo, incapaci di rimanere
attaccate alla struttura alare che doveva ospitarle.
Lunghi aghi si aprirono come i petali di un fiore rinsecchito dal petto
del trentenne, cercando di allargarsi tra i sopravvissuti alla
carneficina a cui quello spiazzo brullo aveva assistito, ma furono
calamitati da una forza superiore alla loro volontà che li
attirò sullo scudo di legno ancora levato. Lì si
arrestarono, senza riuscire a trapassarlo.
Avrei dovuto perderci
qualche secondo in più nella creazione di queste ali.
Se avessi fatto un
lavoro anche leggermente più sommario probabilmente saremmo
precipitati al suolo appena avessi afferrato Noir.
Sarà per la
prossima.
Manca poco.
Per fortuna lo scudo si
è attivato prima dell’ascia.
Ho corso un rischio
enorme.
La spada fendette l’aria, scontrandosi duramente contro
l’ascia che si era sollevata per frapporsi al suo passaggio.
Un pezzo d’acciaio dal filo tagliente e segnato da numerose
tacche seghettate, tintinnando, cadde sul terreno.
La restante parte della lama spezzata della spada continuò
la sua mezzaluna di morte, trascinandosi dietro lunghi schizzi di
sangue arterioso dopo il suo passaggio all’interno della
guardia verso la quale era stata direzionata.
- Bel lavoro. Ora preparati all’impatto. –
- Cosa? – Noir non ebbe il tempo di chiudere gli occhi.
L’elfo continuò il suo volo in linea retta, senza
accennare a fermarsi.
Solo quando la porta della casupola fu a pochi palmi dal viso
impallidito del trentenne le ali scure andarono a posarsi lungo i
fianchi dell’essere dalla ciocca di capelli bianchi, tornando
ad essere solamente una lunga giacca.
La porta in legno si ruppe nello scontro con uno spesso strato di
melassa nera, rallentando appena la corsa dei corpi che gli si erano
scagliati contro, nemmeno sufficientemente da impedirgli di raggiungere
le scale che poco più avanti li aspettavano.
Noir rotolò più volte su sé stesso,
con la melassa scura che continuava incessantemente ad entrare e
fuoriuscire dai suoi pori per impedire agli scalini in pietra di
colpire il suo corpo.
Una foschia grigia lo seguiva rapida, serpeggiando tra le strette
pareti della scalinata.
Una mano salda fece arrestare la caduta rovinosa di Noir,
costringendolo a fermarsi di fronte a un pianerottolo su cui si apriva
una porta.
- Dobbiamo prendere una cosa. – disse secco l’elfo,
quando i suoi piedi appena risolidificati toccarono il pavimento liscio.
L’essere aprì la porta che gli ostruiva la via
violentemente, facendola sbattere sul muro interno sul quale andava ad
aprirsi. Si mosse poi rapido, puntando prima allo scranno centrale per
poi aggirarlo, in cerca di qualcosa dietro di esso.
Ne trasse uno scrigno di legno fittamente scritto.
- Aprilo. – disse ancora, porgendolo al trentenne.
Noir raccolse con mani tremanti il contenitore. Le sue dita si
spostarono sul coperchio non protetto da nessun lucchetto.
L’oggetto, nonostante non ci fosse nulla a bloccarlo, non
parve aver intenzione di aprirsi.
- Non ci riesco… - disse il trentenne a bassa voce,
remissivo e rammaricato.
Gli occhi dell’elfo si accesero di una fiamma nuova, strinse
la scatola con le dita della sua mano destra, per poi scaraventarla per
terra.
Maledizione!
Maledizione!
Dannazione!
Perché?
Perché?
Lui è per
almeno cinque sesti mortale. Non basta questo?
Dannazione!
Ora cosa faccio? Come la
libero?
Il rumore delle suole rigide sui gradini rimbombò tra le
pareti.
Stanno
arrivando…
Devo… devo
fare qualcosa.
La scatola, devo tenerla
con me.
Due guardie occuparono interamente lo spazio tra i due montanti della
porta, per poi entrare all’interno della sala con lo scudo e
la spada sollevati. Alle loro spalle le sagome di altri due si
presentarono a bloccare la via d’uscita.
- Cosa pensi di fare, ora, Viandante? Dammi quello scrigno e torna a
leccarci i piedi. – disse da dentro la sua armatura la
proprietaria del Treno Nube, facendosi largo tra i bruti armati per
poter vedere in viso l’elfo dal volto tatuato.
- Io… -
Non posso
consegnarglielo.
È
l’unico modo che ho per liberarla.
- Io non … –
Il grido di dolore di una delle guardie rimaste nella retrovia
interruppe il discorso attirando l’attenzione dei presenti.
Un lampo azzurro illuminò a giorno le pareti e il soffitto
della scalinata, accecando la prima fila di guardie che lì
si trovavano.
Un rumore metallico vibrò nell’aria, limpido.
Questo era lo stocco.
Sei rimasti in vita, tra
cui Sarah Dan Rei.
E quella luce io
l’ho già vista.
Devo intervenire, posso
ancora liberarla.
- Fermatelo! – Urlò la firmataria
dall’interno della sua armatura.
- Sarah Dan Rei! – tuonò l’elfo con voce
cavernosa – Perché sei venuta solo tu a fermarmi?
Gli altri firmatari hanno troppa paura per fronteggiarmi senza quella
protezione? –
- Tu taci! –
Cosa fare?
Prendi lo scrigno.
Hai bisogno di una
distrazione.
Devi salvare Razer, lui
ti serve vivo.
La spada di Nirghe si
è spezzata.
Cosa fare?
L’ordine,
l’ordine è importante.
- Scusami ragazzo. – disse solamente l’elfo prima
di afferrare il tronco di Noir e, con una forza che non si sarebbe
potuta attribuire a quel corpo snello, scaraventarlo contro le due
guardie che avevano fatto da apripista.
Una rosa di aculei si aprì, per poi convergere verso il
centro dello scudo di legno.
L’elfo si mosse rapido, chinandosi per raccogliere da terra
la scatola di legno e poi scattando verso la porta.
La sua mano sinistra afferrò senza troppo riguardo il
braccio di Noir, trascinandolo con sé. L’incavo
del braccio destro, la cui mano era occupata per tenere il contenitore
incantato, andò ad incastrarsi sotto il mento dell'uomo che
era giunto sul pianerottolo per ultimo e che ancora stringeva il
pugnale con cui aveva ferito a morte la guardia che gli stava di fronte.
Devo rallentarli.
Un terzo braccio nacque all’altezza del gomito sinistro,
afferrando la sottile corazza del primo uomo che incontrò
per gettarlo a terra, davanti ai piedi dei suoi compagni che parevano
non sapere su chi concentrarsi.
I piedi dell’elfo si muovevano rapidi sugli scalini,
saltandone molti per la foga.
- Voglio un’altra maschera da te… - disse con voce
strozzata Razer, non potendo far altro che guardare alle spalle
dell’essere che lo stava trascinando nella sua folle corsa
verso le viscere di quella montagna.
- Ne riparleremo. Devi fare una cosa per me. –
Sto arrivando e, adesso,
ti tirerò fuori da lì.
Hanno fatto incazzare la
Musa sbagliata, Commedia o Viandante che fosse.
Le tre figure si arrestarono in una larga sala scura, al cui
centro una gabbia di diamante scintillava alla poca luce che le torce
della scalinata riuscivano a far penetrare in quel luogo.
- Razer. – ruggì l’elfo lasciando cadere
a terra il discendente di Reis sconvolto per potersi concentrare sul
mortale che aveva di fronte – Apri questo scrigno.
Ora! –
Le mani del draghicida persero per un momento la loro
sicurezza, apprestandosi tremanti a sollevare il coperchio del
contenitore di legno.
All’interno, una pila di fogli fece disperdere
nell’aria numerose particelle di polvere. Su tutti questi, un
rotolo di pergamena ingiallita lottava contro il tempo per non
deteriorarsi.
- Dammi la mano. – continuò l’elfo.
- Cosa? – provò a ribattere l’uomo,
cercando di sottrarsi alla presa dell’essere che aveva
davanti.
Dalla mano dell’essere comparve uno spuntone metallico, che
si insinuò tra la carne del palmo della mano che aveva
catturato fino a farne sgorgare tre gocce di sangue vermiglio, che
caddero sul contenuto dello scrigno, macchiando la carta su cui si
ammassavano centinaia di firme diverse tracciate con i più
disparati inchiostri.
- Ora vai ad aprire quella prigione. – l’essere
fece voltare a forza Razer, spingendolo contro la parete di diamante.
- Cosa dovrei fare, esattamente? –
Le mani del draghicida si appoggiarono sulla superficie perfetta della
gabbia, in cerca di quella che potesse essere una porta.
A quel contatto, una riga sottile si aprì sulla parete
trasparente, allargandosi fino a formare uno squarcio in quel materiale
impenetrabile.
L’elfo si fece avanti, incerto, con le gambe che a stento lo
reggevano. La fanciulla dai corti capelli neri cadde in avanti, non
più sorretta dalla forza che sembrava aver riempito quella
prigione fino a poco prima.
I tubi cavi che si insinuavano nella sua pelle si strapparono uno dopo
l’altro sotto il peso di quel corpo, riversando sul pavimento
scintillante il proprio contenuto.
Il corpo esile si afflosciò tra le braccia
dell’elfo dai capelli neri. I suoi occhi vennero trapassati
da un lieve fremito.
- Finalmente ti ho tirata fuori da lì … - disse
con un filo di voce la creatura dalla lunga giacca nera, sotto lo
sguardo perplesso dei due uomini che si era trascinata dietro.
Fiamme rilucenti nacquero dall’interno dello scrigno,
illuminando le palpebre della fanciulla che, lentamente, cercavano di
aprirsi.
Due iridi dorate luccicarono a quella luce tremolante.
- Stai bene? – riuscì a chiedere l’elfo
con sguardo preoccupato.
La fanciulla provò a rispondere, ma un conato di vomito le
spezzò il fiato, facendole rimettere una sostanza dal colore
indefinito sugli abiti eleganti dell’essere che gli stava di
fronte.
- Non mi aspettavo una riunione così… profonda.
– commentò l’elfo disgustato, cercando
di scalciare via dai suoi pantaloni la sostanza, senza però
lasciare cadere la figura che teneva tra le braccia.
- Ora dobbiamo solo uscire da questo posto. – disse poi
rivolto ai due uomini.
- Che cosa è lei? – chiese Noir, facendo un passo
indietro, spaventato.
- L’unico essere nel Creato che, al momento, è in
grado di aiutarci ad andarcene vivi. -
Angolo dell'Autore:
Ebbene, come anticipato eccomi qui.
Per un capitolo lungo ci vuole un'altrettanto importante angolo a
concluderlo, per non sfigurare, ovviamente.
Andiamo per punti, però. Non vorrei mai dimenticare qualcosa
per strada.
Il capitolo, per cominciare.
Questo capitolo chiude una parte di questa storia. Ma facciamo un passo
indietro.
Nella mia progettazione avevo diviso questo racconto in tre parti.
"Presentazione", in cui, ovviamente, vi avrei presentato i nuovi
personaggi in maniera molto più graduale rispetto al passato.
"Roba che succede", questa parte centrale, in cui c'è
un'evoluzione dei personaggi, vi presento il passato delle Muse(*) e,
oggi, l'entrata in scena dell'altra Musa.
"La Grande Fuga", l'uscita da questa prigione e la fine di questa
storia.
Siamo quindi appena entrati nella fase tre.
Perchè il (*)?
Perchè non doveva essere qui il passato sulle Muse, volevo
scriverlo, ma farlo come un extra, come una storiella a sè
stante fuori da queste pagine. Poi una buona dose di recensioni mi
hanno fatto riflettere e decidere per questa soluzione.
Le Muse, quindi.
Ho già perso fin troppo tempo in passato a raccontarvi di
come non esistesse all'inizio la figura del Viandante, men che meno
Commedia in quanto Musa con tutta la sua storia alle spalle.
Mi piace, però, come da quel barlume di idea che ho avuto
sia nata un'intera "side-story".
Rimpianti?
Maybe.
Forse, con il senno di poi, avrei gestito diversamente tutte le Muse,
le loro morti e le loro caratterizzazioni, dando più spazio
se non a tutte, ad almeno alcune di loro.
Già, la gestione.
Mi sono posto un paletto mentre scrivevo. Cosa rara a ben pensarci.
VOLEVO che l'ultimo capitolo delle Muse, quello che si doveva
concludere con la cattura di Epica, fosse immediatamente precedente a
quello della sua liberazione. Volevo che fossero l'uno la continuazione
dell'altro nonostante i secoli di narrazione che intercorrono tra di
loro.
Ho preso leggermente male le misure, finendo per non poter tagliare
questo capitolo a metà, ma mi piace come è uscito
e, soprattutto, mi fa piacere aver rispettato quel paletto.
Epica, tra l'altro, non è mai stata nominata nei capitoli al
"presente", prima di ora.
Commedia stesso, in passato, ha ripreso acidamente il Fato intimandogli
di non pronunciare il suo nome, almeno finchè non fosse
stata liberata.
E, a proposito di nominare, voglio mostrarvi qualcosa.
Provate a seguirmi, voglio portarvi a percorrere un tortuoso sentiero
di un mio ragionamento narrativo.
Ho creato la figura eterea della Trama del Reale. Più o meno
tutti voi vi sarete disegnati in mente una sua concezione, la mia
è che sia un intreccio di frasi, come se ogni persona si
lasciasse alle spalle una coda di parole che raccontano quello che ha
fatto e che ogni filo si vada ad intrecciare con gli altri fino a
formare, appunto, la trama su un'immenso orditoio.
Torniamo un po' più concreti, sapendo questo.
Ho voluto intendere la narrazione fisica, le frasi che voi leggete,
come appunto fosse parte della Trama.
Le Muse hanno ricevuto il dono di essere completamente slegate
dall'intreccio, al punto che, prima che questo venisse sigillato, ci
vivevano all'interno, ed è per questo che la Trama, la
narrazione, se vogliamo rompere il parallelismo, non può
riferirsi a loro chiamandole per nome. Un po' come un passante che deve
descrivere un evento che gli è accaduto davanti. Se non
conosce qualcuno, non potrà riferirsi a lui con un nome ma
dovrà ricorrere a delle descrizioni.
"L'elfo dai capelli neri"
"L'essere"
"La creatura"
"La nube"
Non ho mai utilizzato un nome, qualunque esso fosse, durante la
narrazione. L'unico momento in cui li avete letti è stato
durante i dialoghi oppure durante le riflessioni di Commedia.
Un minuto di pausa. Potete riprendere fiato e rimettere assieme il
cervello.
Siamo entrati nell'ultimo terzo della storia, ho detto.
Non che non sia corretto, ma... non lo è.
Io non ho scritto tre "libri", tre racconti per meglio dire.
Ne ho scritto solo uno.
I personaggi hanno bisogno di una storia con un inizio per presentarsi,
uno svolgimento per agire e una conclusione in cui i nodi vengono al
pettine.
- La Guerra degli Elementi: Conoscente il Viandante, lo scoprite pian
piano, lo ascoltate nei suoi deliri fino a scoprire che cosa
effettivamente è e, nell'ultimo capitolo, venite a
conoscenza di Lei.
- L'ombra del Passato: Commedia comincia ad agire, si fa carico di
alcuni compiti fino ad arrivare al culmine in cui combatte contro
Follia e lo sconfigge. Ma arriva qui profondamente cambiato rispetto
all'inizio del viaggio.
- Figli della Trama: Follia è sconfitto, Lei è
stata liberata, Commedia non è più asservito, si
è scoperto chi sono Loro. Si va per una conclusione
definitiva.
Potremmo dire, a questo punto, che le Leggende del Fato, quali che siano i
sottotitoli, non siano altro che i capitoli, gli Atti teatrali, della
storia di Commedia.
Resistete, manca poco.
Manca poco, in realtà, anche alla fine di questa storia.
Non ho idea di quanti capitoli manchino, ma non penso che saranno
ancora tanti.
Quando poi avrò messo la parola fine a questo progetto,
poi... prenderò una pausa, per lo meno da lavori di questa
portata.
Mi piacerebbe provare a scrivere degli esercizi di stile, in cui
portare all'esasperazione le descrizioni per creare dei capitoli "da
leggere a occhi chiusi" per arrivare a rendervi nitido quello che io ho
immaginato.
Magari, se avrò voglia e ispirazione, sarebbe interessante
partecipare a qualche contest, per mettermi alla prova con tematiche
che non mi appartengono.
Vedremo.
Per il momento, alla prossima.
Vago |
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Capitolo 49 *** Capitolo 21: Confusione ***
L’assassino non osò voltarsi verso le scale che lo
avevano condotto fin lì. Aveva paura di quegli uomini contro
cui si era messo, ma temeva ancor più quelle creature che
gli stavano a pochi passi di distanza.
Doveva andarsene. Doveva trovare una via di fuga da quel pozzo in cui
l’avevano portato.
Avrebbe potuto usare Noir come diversivo, gettandolo in mezzo a quegli
uomini armati, e nella confusione sarebbe potuto scappare o, per lo
meno, uccidere la donna che portava quell’armatura e che
sembrava essere al comando di quelle guardie.
Un odore acre si spanse nella stanza quando la ragazza che aveva
liberato cominciò a vomitare.
Razer fece un’ulteriore passo in direzione
dell’erede di Reis, tirandolo a sé per la manica
della camicia distrutta.
- Dobbiamo andarcene di qui. Non voglio aver a che fare con le loro
faccende. – gli disse con un filo di voce, appena
percettibile.
Noir impiegò qualche secondo per rispondere, i suoi occhi
non riuscivano a staccarsi dal duo che gli stava di fronte, poi
annuì.
I due uomini si voltarono di scatto, correndo in direzione dei gradini
di pietra che rappresentavano la loro via di fuga.
- E quelle guardie? – chiese Noir, come se si fosse appena
ricordato della loro esistenza.
- Le uccideremo e ci faremo strada tra i loro corpi. –
Sento delle
presenze…
La sua presenza!
Devo fermarlo, devo
ucciderlo prima che quel demone possa diventare un pericolo per la
Volta.
La ragazza si rimise a fatica dritta sulle gambe esili, drizzando la
schiena e socchiudendo gli occhi dorati che ancora non riuscivano a
mettere a fuoco quel che la circondava.
Devo fermalo…
assolutamente.
Il suo braccio destro si tese, le dita arpionarono l’aria,
piegandosi come gli artigli di una belva su qualcosa che solo lei
vedeva.
Per un secondo abbondante mantenne la posizione, immobile.
Perché non
viene da me? Dov’è la spada del Fato? Ne ho
bisogno ora.
Che mio padre non mi
reputi più all’altezza della sua arma?
- Epica, calmati. –
Di chi è
questa voce?
Razer fu costretto a fermarsi quando, una decina di scalini sopra di
lui, comparve lo stesso largo scudo di legno che già aveva
visto nella sua cella.
Il rumore delle suole d’acciaio dell’armatura
riempiva l’aria e faceva vibrare le pareti a ogni suo passo.
Si concentrò, liberando tutta l’energia che era
riuscito a raccogliere.
Forse, se avesse generato un lampo abbastanza potente, li avrebbe
storditi per un tempo utile.
La tromba delle scale si accese di azzurro, ma fu solo per una frazione
di secondo. La luce innaturale parve scorrere come le acque di un fiume
verso lo scudo, per spegnersi al suo tocco.
L’assassino guardò di fianco a sé.
Noir avrebbe fatto qualcosa con il potere che possedeva, sicuramente ne
avrebbe uccisi almeno due.
Il trentenne dalla camicia strappata aveva il volto cinereo e gli occhi
sbarrati in una maschera di terrore. Il suo piede sinistro
tornò sui suoi passi, ricadendo sullo scalino che aveva
appena lasciato.
Chi sei per conoscere il
mio nome?
Questa bocca funziona
ancora? Posso comunicare con lui?
Devo metterlo in guardia
dal pericolo che ci sta vicino.
- Vattene da qui, devo… - la sua voce si spezzò
quando la gola di quella forma fu di nuovo riempita dalla sostanza
dall’odore acre – devo fermarlo. –
La fanciulla si voltò verso le scale che a stento
distingueva dalla parete, muovendosi verso quei gradini con le gambe
rigide.
Oh, ti prego, smettila
di essere così testarda, ho già abbastanza
problemi per conto mio.
Chi sei?
Perché
continui a parlarmi?
Se solo ti calmassi,
magari avresti una visione leggermente più limpida delle
cose e schifata delle mie scarpe.
Razer scese di uno scalino, guardando di fronte a sé in
cerca di uno spiraglio dal quale trarre vantaggio.
Nulla.
Il largo scudo di legno svettava di fronte a lui e l’unico
spiraglio lasciato libero del corridoio in cui si trovava era stato
occupato dalla lama arrossata di una spada.
Cosa gli avrebbero fatto?
Scese un altro scalino, sempre senza mai voltare la schiena ai suoi
nemici.
La spada si arroventò di colpo, facendo innalzare dal
metallo alte fiammate cremisi.
L’assassino non poté far altro che alzare le
braccia in protezione del viso, aspettando solamente il contatto tra
quel fuoco e il suo corpo.
Non avvertì altro che l’aria scaldata impattargli
sulle braccia.
Che Noir lo avesse salvato?
Qualcosa di pesante cadde a terra, seguito dal tintinnio prodotto
dall’acciaio contro la pietra.
- Maledizione! – imprecò una mascherata voce
femminile.
Che imbecilli.
Razer scostò lentamente le braccia dalla sua visuale.
Lo spadaccino che gli aveva puntato la lama contro ora giaceva a terra,
esanime. Lo scudo davanti a lui brillava raggiante, circondato dalle
pareti annerite dal calore.
Noir gli stava alle spalle, in preda al panico, tremante.
Non aveva tempo per chiedersi cosa fosse successo, al primo accenno di
movimento di quell’ultimo stuolo di guardie si
voltò ripercorrendo gli scalini in discesa di gran carriera
e portando con sé il discendente di Reis, che pareva aver
perso ogni volontà propria.
Viene verso di
me…
Lo sento.
Devo essere pronto a
difendere tutti da lui…
Non può star parlando di Follia, lui è bello che
pietrificato su un continente a sé stante e in continuo
allontanamento.
Può star avvertendo la spada?
Il Giudice Fenter è già arrivato, quindi?
Perché allora non la avverto? Al di là che grazie
a quella spada maledetta è diventata anche lei un Buco nella
Trama, ovvio.
Ho paura che ci sia qualcosa di estremamente sbagliato che mi stia
sfuggendo.
Follia?
Spada?
Continente?
Cosa… cosa
stai cercando di dirmi?
Fato, sei tu?
Perché non riesco a richiamare la tua spada?
Maledizione, di questo
passo impiegherò comunque centinaia di anni a farle
ritornare un minimo di senno e ad uscire da qui.
Non solo non riesce a
capire quel che sente nella Trama, ma mi crede il Fato. Che bella
notizia.
Mi serve un piano
d’azione che anche Epica da drogata possa seguire.
Io so che, in questo
momento, solamente Sarah Dan Rei e quelle sue guardie male addestrate
sono presenti in questo posto.
L’unico
pericolo è lei, ma solamente perché non posso
ucciderla senza dover ricorrere alle armi divine in mio possesso. E
lei, certamente, non è in possesso della spada di Follia,
altrimenti avrebbe già cercato di uccidermi.
All’appello
mancano il giudice maggiore, quel nuovo re dei draghi e quel ciccione
di Dunnont.
Se solo riuscissi ad
andarmene da qui prima del loro arrivo, basterebbe poi prendere il volo
e nessuno, nemmeno uno stormo… branco…
rombo… vabbè, quello che è di draghi
potrebbe starci dietro.
Ho bisogno che Epica
distrugga quello scudo, quindi devo farla ragionare un minimo,
possibilmente senza farla vomitare. Di nuovo.
Due braccia magre afferrarono le spalle della fanciulla, facendola
arrestare e voltare.
- Cosa pensi di fare, mortale? Sto cercando di difenderti.
Tu… tu non hai idea di cosa hai davanti. –
Si, certo fratellone.
Un gettò d’acqua gelida colpì in pieno
viso la fanciulla, facendole ricadere i ciuffi di capelli bagnati sulla
camicia rovinata.
I suoi occhi dorati batterono più volte, cercando di
liberarsi dalle gocce che parevano non volersene andare.
- Cosa vuoi da me? –
Una serie di passi concitati tornarono a riverberare
dall’uscita della scala.
Per il momento lasciamo
perdere la comunicazione attraverso la Trama, finirebbe per capire una
parola ogni migliaio.
- Epica, non abbiamo molto tempo. Guardami. –
La presa delle mani si fece più salda, mentre gli scuri
occhi dell’elfo si facevano duri .
- Chi sei? Cosa vuoi da me? –
- Epica, concentrati. Devi riconoscermi. –
La mano sottile della fanciulla si alzò, andando ad
appoggiarsi sulla guancia tatuata dell’elfo che la tratteneva.
- Non è possibile… tu… tu
sei… Tragedia. –
Cosa?
No!
No, no e poi no!
Tragedia è
schiattato male qualche millennio fa.
Dannazione!
- Non sono Tragedia. Lui è morto, ricordi? Devi guardarmi e
riconoscermi, forza. Scaccia le droghe che ti hanno somministrato in
questi secoli. –
Gli occhi luminosi della ragazza si persero per qualche secondo nel
vuoto, appannandosi.
- Forza! – la incitò l’elfo, facendo
danzare il suo sguardo tra il volto della fanciulla e la scala alle sue
spalle, sulla quale si potevano cominciare a riconoscere i piedi di due
uomini in fuga.
- Tu… Commedia, sei tu? Cosa ti è successo?
–
Bene, è
abbastanza lucida.
- Tante cose. Ora però ascolta, c’è una
persona cattiva con un largo scudo, devi romperlo, va bene? Ti
darò io un’arma. –
- Ma tu, Commedia… tu non usi armi. –
- Fidati. Ora ti metto un’arma in mano, tu rompi solo lo
scudo. Va bene? –
- Si, certo… lo scudo. –
Età mentale
riscontrata… tra i tre e i sei anni, pressappoco.
Spero che si riprenda in
fretta.
Razer e Noir rientrarono in gran fretta nella stanza, sterzando il
primo a destra e il secondo a sinistra per togliersi il prima possibile
dalla visuale di quell’apertura nella parete.
Un’elsa azzurra venne appoggiata sul palmo aperto della
fanciulla, che le strinse le dita attorno in un gesto meccanico.
Angolo dell'Autore:
Eccovi una lieve anticipazione di quello che succederà, ma nulla che
non ripeterò ancora. La settimana prossima
pubblicherò il capitolo, come di norma, venerdì,
quella anora successiva sarò leggermente impossibilitato
come... ogni anno. In ciascuna delle mie storie arriva un momento in
cui mi metto a scrivere un Angolo solamente per informarvi che la
pubblicazione salterà una settimana.
Questo è anche un bel modo per andare piazzare temporalmente
quando ho pubblicato un capitolo, andando indietro nel tempo.
Comunque, tornando al capitolo, da adesso in avanti le cose si faranno,
narrativamente, più complicate. I punti di vista dei quattro
personaggi si andranno ad intrecciare, i pensieri di Epica e quelli di
Commedia lasceranno centinaia di righe bianche tra le descrizioni e
voi, probabilmente, uscirete confusi da alcuni passaggi. In ogni caso,
spero di essere riuscito a rendere il più chiare possibili
le scene.
Alla settimana prossima.
Ma, prima di lasciarvi, voglio fare qualcosa che è da un po'
che mi scordo di scrivere.
Grazie a tutti voi per essere arrivati fin qui. Lasciate che vi dica
che state riponendo, seguendomi, molta fiducia in uno scribacchino dal
dubbio talento e potenziale, ma lo state anche invogliando a continuare
a coltivare questa passione. Quindi grazie a tutti voi.
Vago |
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Capitolo 50 *** Capitolo 21.5: Duetto ***
Forse ho riposto troppa
fiducia nelle sue capacità.
Non vorrei che per colpa
mia venisse ferita.
Per lo meno,
finché non vedrò arrivare quella spada maledetta,
non rischia nulla di serio.
Una figura esile scattò avanti, serpeggiando nella penombra
della stanza. La luce delle torce che illuminavano la scalinata venne
riflessa dalla lama azzurra che stringeva in pugno.
Lo scudo.
Devo distruggere quello
scudo.
E poi eliminare la
minaccia.
Non gli
lascerò ferire nessuno.
La lama azzurra si posizionò parallela al suolo, con la
punta rivolta verso la superficie in legno.
Il metallo impattò sullo scudo. Centinaia di scintille si
levarono nell’aria, illuminando l’ambiente di
sfumature calde.
Quello scudo
è stato incantato da degli umani, non è possibile
che possa assorbire in sé tutto il potere contenuto nella
spada di uno degli dei. Vero?
Vero?
La guardia che reggeva lo scudo cadde a terra, privo delle forze
necessarie per reggere il peso di quell’oggetto protettivo
che lo separava dalla creatura che lo aveva caricato.
Il legno si incrinò, si incavò fino a
frammentarsi.
Il soldato a cui era stato affidato quell’artefatto
esalò il suo ultimo respiro, prosciugato di tutte le sue
energie nel tentativo di impedire a quella spada di procedere oltre.
Lo scudo è
stato rotto.
Ora devo uccidere la
minaccia.
Ottimo, senza
quell’artefatto non possono difendersi da Noir.
Quali armi gli
rimangono…
…
Aspetta.
Ha parlato di minaccia?
Di chi sta parlando, ora?
Dannazione!
- Razer, occupati di loro, puoi usare la tua magia. –
urlò l’elfo in abito scuro.
Devo fermarla.
Maledizione, non volevo
tirarlo fuori ora.
La fanciulla fece un rapido balzo indietro, muovendo le braccia per
portare l’elsa della spada accanto al proprio fianco.
Il suo busto si voltò di lato, facendo sì che la
punta evanescente si puntasse verso il busto di Noir.
Ecco, l’unico
essere in grado di ucciderla e lei vuole pure buttarglisi addosso.
- Noir! Mettiti al riparo dietro la cella! Ora! –
Le gambe dell’uomo si mossero, ma molto più
lentamente di quanto avrebbe voluto. Le vene spingevano contro la sua
pelle, a stento in grado di contenere il liquido che gli si agitava
all’interno.
L’elfo gli si mise davanti, coprendogli la fuga. Nella mano
destra gli comparve un lungo pugnale argenteo, nella sinistra uno
stiletto sottile.
La punta della spada azzurra impattò sul piatto della lama
del pugnale, arrestandosi.
Perché ti
metti contro di me?
Tu non sei uno dei miei
fratelli.
Chi sei?
Perché lo
proteggi?
- Farò finta che tu ti sia resa conto di avere una bocca in
grado di produrre un modello sonoro. Epica, se solo ti fermassi un
attimo, potrei anche… -
La spada divina si alzò di una ventina di centimetri, per
poi riabbattersi dove prima aveva impattato.
L’elfo alzò l’arma che teneva a sinistra
per bloccare il colpo. La lama azzurra rimbalzò di un paio
di centimetri, lo stiletto si spezzò nell’esatto
punto in cui era stato colpito.
Giusto, le mie armi
fanno schifo.
Poco male, è
sostituibile.
L’elfo lasciò cadere l’elsa oramai
inutile, andando subito a sostituirla con un secondo stiletto
perfettamente identico al suo predecessore.
Gli occhi dorati della fanciulla si ridussero a due fessure. Le sue
dita si strinsero sotto la guardia della sua arma, preparandosi a
combattere.
La lama azzurra si mosse rapida, in ampi gesti fluidi che si
concatenavano come i passi di una danza studiata.
Il pugnale deflesse il primo colpo.
Uno stiletto spezzato cadde a terra, tintinnando sul pavimento in
pietra.
Il pugnale parò la lama.
Uno stiletto spezzato cadde a terra frantumato.
Il pugnale corse lungo la lama nemica, deviandola.
Uno stiletto spezzato cadde a terra.
Un’abbagliante luce azzurra invase la sala e le scale che a
questa permettevano l’accesso.
Il pugnale parò un altro colpo, senza dar segno di accusarlo.
Uno stiletto spezzato cadde a terra, raggiungendo i frantumi dei suoi
predecessori.
Questa situazione sta
diventando imbarazzante.
Il pugnale deflesse il colpo.
Uno stiletto spezzato cadde a terra, rimbalzando un paio di volte prima
di riposare immobile.
Il pugnale si frappose ancora al colpo in arrivo.
L’urlo di morte di un uomo rimbombò nella stanza.
Almeno Razer sta facendo
qualcosa di utile.
Devo solo evitare che
Epica si avvicini a Noir, non voglio che muoia impalata da quella roba
che ha nelle vene solo perché un aculeo le ha trafitto
qualcosa di importante.
Lei, al contrario di me,
ribolle di intento omicida e quella roba non la risparmierà.
…
Uno stiletto spezzato volò in aria, la sua punta
rimbalzò sulla parete diamantina della cella prima di
giungere ai piedi di Noir, rannicchiato nella penombra.
Il pugnale fece un largo movimento verso l’esterno,
intercettando la lama avversaria e cercando una breccia nella guardia.
Le braccia della fanciulla si strinsero immediatamente per compensare
quell’apertura.
Uno stiletto spezzato cadde a terra, tintinnando su un’elsa
precedentemente caduta.
…
Pensaci, è
passato già parecchio da quando l’hai liberata.
Perché non
è ancora rinsavita completamene?
Potrebbe avere ancora un
po’ di quel miscuglio in corpo?
Possibile.
Il pugnale bloccò la punta della spada intenta in una
stoccata verso il petto del suo obiettivo.
Uno stiletto spezzato cadde sulla pietra.
Il pugnale stridette quando la sua lama scivolò sul filo che
tentava di ferire il suo portatore.
Uno stiletto spezzato cadde a terra, smuovendo i resti su cui era
caduto.
Quella spada
potrà uccidermi?
Probabilmente la
risposta è si, ma l’unico modo che ho per
prenderla di sorpresa è fare qualcosa che non si aspetta.
Se i suoi meccanismi di
difesa sono più lucidi di lei, tutta la droga che
è ancora presente in lei è convogliata nello
stomaco di quel corpo.
Devo farla vomitare. Di
nuovo.
Ma questa volta
sarò preparato.
Un altro lampo di luce azzurra risplendette nella sala.
Uno stiletto integro cadde a terra, tintinnando sul pavimento in pietra.
L’elfo scomparve in una nuvola di nero fumo che
scattò in avanti, attraversando la lama azzurra per tutta la
sua lunghezza, avvolgendo gli avambracci della fanciulla.
Un corpo dai capelli neri e il volto tatuato riprese le sue fattezze,
con le braccia esili strette sotto l’ascella sinistra. La
lunga giacca andava a coprire un paio di pantaloni plumbei, coperti dal
ginocchio in giù da un paio di sgargianti stivali gommosi da
pescatore.
Ecco un ritrovato
tecnologico direttamente da prima del Cambiamento.
Una macchia nera si cominciò a spandere sull’abito
scuro, all’altezza del ventre.
Il lungo pugnale argenteo si mosse fulmineo. La punta della sua elsa si
andò a conficcare nella morbida carne che ricopriva la
pancia della ragazza, che si piegò in avanti, vomitando
altra sostanza scura.
L’elfo si fece da parte, coprendo con la mano libera il
profondo taglio che gli si apriva all’altezza dei reni.
Mi mancava
così tanto avere un buco in pancia…
Questa però
dovrebbe guarire in tempi un po’ più rapidi.
Un terzo urlo pose il punto finale alla vita di un altro uomo.
Tre nemici rimasti, tra
cui Sarah Dan Rei con quella maledetta armatura.
- Epica? Epica, riesci a sentirmi? –
Il volto della fanciulla dagli occhi dorati si alzò appena.
Il suo corpo era flesso in avanti, tutto il suo peso era posato sulla
spada piantata per terra di fronte a sé, suo unico sostegno.
- Mi riconosci? Ce la fai a capire chi sono? – gli occhi
dell’elfo non riuscivano a rimanere fissi sul quel volto che
gli stava di fronte, ogni pochi secondi doveva alzarli per controllare
la situazione all’ingresso della stanza.
- Tragedia? –
- No! No! Commedia! Guardami bene! Sono Commedia! Andiamo! –
- Commedia? – la voce della fanciulla si tinse di una nota
incerta – Perché hai quel corpo? –
Il corpo.
Lei si preoccupa del
corpo!
- È una lunga storia. Riesci a capire cosa ti circonda?
–
- C’è quell’essere, dobbiamo fermarlo,
dobbiamo fermarlo prima che… -
- Follia è stato sconfitto, Epica. –
- Follia? –
- L’essere era un dio della Creazione che… lascia
perdere. Non è lui quello che senti. –
- Ma io lo sento… -
- Non importa, non devi preoccuparti di quello ora. Non devi attaccarlo
per nessun motivo, capito? Ripetimelo. –
- Non devo attaccarlo… Perché mi stai dando degli
ordini? –
- Stai tornando lucida, bene. Poi ti spiegherò tutto. Per
ora, però, non attaccarlo. C’è
un’armatura divina, là dietro. Dobbiamo uccidere
chi la sta portando. Hai la spada di Acqua a disposizione. Te
la senti di combattere? –
- Commedia, stai indietro, ti porterò via di qui. –
- Non preoccuparti di me. Pensa a sopravvivere e non attaccare quella
presenza che senti. –
- Commedia, cosa intendi fare? Ricordati cos’hai fatto con
Melodia! Ora fatti da parte. –
Placche metalliche bronzee andarono a ricoprire il corpo della
fanciulla, saldandosi in un armatura che luccicava anche con la poca
luce che riusciva a filtrare nella stanza.
- Fai attenzione alle due guardie che la proteggono. –
Mi spiace Epica, ma
questa volta sarai tu che dovrai riuscire a starmi dietro.
Una volta che Sarah
sarà morta, non sarà difficile liberarsi di quei
due soldati.
L’elfo si vaporizzò, portando con sé il
lungo pugnale che aveva brandito fino ad allora, sfrecciando in
direzione delle scale.
La nube impattò su qualcosa di rigido. Le pareti di una
sfera scura gli si chiusero attorno, imprigionandola e costringendola a
guardare la donna in armatura risalire velocemente gli scalini,
lasciandosi alle spalle i due sopravvissuti che l’avevano
seguita fin nelle viscere del monte dalla vetta mozzata.
Angolo dell'Autore:
Ciao a tutti. Oggi sarò breve, promesso.
Innanzi tutto vi voglio ricordare che la prossima settimana sarete elfi liberi da questa storia, perchè non potrò pubblicare, ci rivediamo il 10 di Agosto.
In seconda battuta, vorrei far posare la vostra attenzione sulla comicità di Commedia che, dal lento riaffiorare che ha avuto ultimamente, continuerà la sua evoluzione. Il Viandante ha toccato il suo momento più basso, più depresso, per poi lentamente tornare in sè stesso. Per ora le battute sono tese, dovute anche alla situazione e alle condizioni di Epica, ma muterà ancora, ve lo assicuro.
Mi sono divertito parecchio, ammetto, a descrivere questo scontro, per quanto sia stato un susseguirsi di copia-incolla. Mi sono divertito perchè descrivere i pensieri di Commedia in una situazione del genere è surreale, come il fatto che lui continui a perdere e ricreare lo stiletto nella mano sinistra.a
Per ora chiudo. Grazie a tutti per essere arrivati fin qui.
Vago |
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Capitolo 51 *** Capitolo 22: Il precipitare degli eventi ***
Razer ansimava rumorosamente.
Il suo petto si alzava e abbassava a un ritmo serrato, quasi quanto
quello a cui batteva il suo cuore.
Sentiva l’adrenalina ribollirgli nel sangue, abbeverando i
suoi muscoli contratti. Erano anni che non provava quella sensazione,
erano passate intere stagioni dall’ultima caccia
che lo aveva reso così euforico.
Stringeva il suo pugnale, sulla cui lama scorreva il sangue degli
uomini che aveva trafitto misto a quello che era sgorgato
dalle ferite che gli costellavano la mano.
Scrollò un’unica volta il braccio destro,
facendogli dare un colpo secco in direzione del suolo per liberarsi
della linfa rossa che gli rendeva viscida l’impugnatura.
Un ventaglio scarlatto si manifestò sul pavimento e sulla
parete lì a fianco, vivido alla luce del fuoco delle torce.
I draghi gli avevano tolto il piacere della caccia, la soddisfazione
del piantare una lama nel corpo della preda e sentire il sangue
sgorgare di pari passo con gli ultimi respiri.
Quei mostri non sanguinavano, bruciavano senza concedere nemmeno la
più piccola soddisfazione al loro cacciatore. Senza poter
provare lo stesso dolore che avevano causato i loro simili.
Il corpo esanime di una guardia scivolò di un gradino
più in basso, trascinando con sé la faretra che
portava al fianco e riversando il contenuto sui pochi scalini
sottostanti e sul pavimento che seguitava a questi.
Due uomini si scambiarono uno sguardo rapido, terrorizzato.
La donna in armatura era fuggita, talmente lontana da non rendere
udibili nemmeno i suoi passi metallici sulla superficie di pietra.
La guardia armata di spada fece un passo indietro, timorosa di
distogliere lo sguardo dalla bestia che gli stava di fronte.
La picca venne puntata alla gola di quest’ultima, nel
tentativo di mantenere una distanza di sicurezza tra il suo possessore
e il coltello sporco che aveva mietuto i suoi commilitoni.
Razer cercò di fare un respiro più lungo.
Cercò di distendere i muscoli del viso, contratti in un
sorriso arcuato che quasi ricordava quello della maschera che gli era
stata donata quando era un innocente bambino.
Ultimi brandelli di energia sfrigolavano ancora nei recessi della sua
mente, pronti per farsi strada attraverso la sua pelle e risplendere
nell’aria.
Poteva ancora generare un paio di lampi prima di esaurire interamente
la sua riserva, valutò l’assassino, allargando
ancor più il ghigno compiaciuto.
Uno gli sarebbe stato sufficiente.
Si preparò, permise a quell’energia magica che
albergava in lui da quando era nato di superare la barriera in cui era
custodita, lasciandola serpeggiare in tutto il suo corpo e accumulare
appena al di sotto della pelle, dove si ammucchiava, si pressava,
scalpitava per uscire ed illuminare l’aria.
Il rumore prodotto dall’acciaio contro altro acciaio e da
armi che cadevano a terra improvvisamente si interruppe.
Una corrente d’aria fu sospinta in direzione del viso
dell’assassino, come se qualcosa si stesse spostando verso di
lui.
Noir guardava la scena da dietro la prigione diamantina. A pochi passi
da lui si erano accumulati un numero di stiletti spezzati tale che il
bagliore che riflettevano fosse sufficiente da dar fastidio agli occhi.
L’elfo e la fanciulla continuavano a scambiarsi colpi e non
una singola volta l’essere dai capelli neri su cui svettava
una ciocca bianca tentò di colpire il suo avversario.
Sarebbe voluto fuggire da lì, ma la sua unica via
d’uscita era presieduta da due cadaveri ed altrettanti
soldati.
Vedeva solo di sfuggita Razer muoversi, solamente quando si spingeva
tanto avanti da superare l’angolo della gabbia che lo celava
allo sguardo del discendente di Reis.
Il suo corpo scattò indietro, cadendo a terra, quando
l’elfo scomparve in una nube di vapore, lasciandosi dietro
solamente lo stiletto che stava impugnando in quel momento. Ricomparve
pochi attimi dopo più avanti, con le braccia della sua
rivale saldamente bloccate sotto il braccio libero.
Il braccio destro dell’essere dall’abito scuro si
mosse rapido e la fanciulla fu costretta a chinarsi, boccheggiante.
L’aveva uccisa, si disse Noir, portandosi una mano davanti
alla bocca.
L’aveva portato fin dentro il ventre di quella montagna solo
per uccidere la creatura che avevano liberato.
Non ne sarebbe uscito vivo, si disse, e non seppe se quel pensiero gli
poteva procurare più angoscia o serenità.
Un’altra volta l’odore acre si fece largo nella
stanza, accompagnato dai conati della creatura dalle fattezze femminili.
L’elfo lasciò la morsa, scomparendo nuovamente in
una densa nube che tentò di sfrecciare verso le scale.
La fanciulla alzò lo sguardo a fatica, i muscoli del suo
corpo erano tesi, impegnati a reggere il peso di quella figura
sull’elsa della spada che impugnava, la cui lama era stata
piantata nel pavimento in pietra. Le placche metalliche che erano
comparse per coprire i vestiti troppo leggeri e poter fornire una
protezione parevano ricadere mollemente su quella creatura magra.
Una scintilla vivida risplendette in quegli occhi dorati.
Il corpo esile si inarcò, perdendo di solidità.
Le dita lasciarono la presa sull’elsa azzurra, abbandonando
la spada là dove era stata piantata. La pelle, i muscoli e
le ossa si appiattirono, assumendo un’uniforme tinta grigia e
richiudendosi come un guscio attorno alla nube che tentava di scappare,
celandola alla vista.
No!
Maledizione, lasciami
andare!
Razer fu costretto a fare un passo indietro perché la
superficie che era apparsa a mezzaria non lo potesse colpire.
La sfera gli fluttuava a fianco, immobile e silenziosa. Poi
pulsò, stringendo il proprio diametro di qualche centimetro.
Un'altra pulsazione e un altro restringimento.
E, ancora, una terza pulsazione.
La guardia armata di spada si voltò, precipitandosi a
risalire gli scalini che lo avrebbero condotto alla salvezza.
La picca si alzò, crepitante di energia.
Non va per niente bene.
Non deve usare quel potere qui, al chiuso.
Devo liberarmi.
Mi spiace Epica, ma non
mi lasci scelta.
Profonde crepe si allargarono sulle pareti, sul soffitto e lungo il
pavimento, serpeggiando, diramandosi e allargandosi a ritmo incalzante.
I primi pietrischi si sollevarono in aria, sfrecciando verso la lama
dell’arma, poi fu la volta di piccoli sassi che andarono ad
accrescersi di dimensioni fino a divenire massi.
Il soffitto non poté più sorreggere il peso della
montagna sovrastante, franando. Altrettando fece il pavimento della
sala che, privo di sostegni , permise a una voragine di inghiottire la
cella di diamante e tutto ciò che gli stava attorno.
Il guscio grigio fu perforato da una lunga lama argentea, che lo
costrinse a ritirarsi, sanguinante del liquido nero che gli scorreva
all’interno.
Un tentacolo appena abbozzato cinse la vita di Razer, trascinandolo
verso il blob informe da cui quella propaggine nasceva.
Una seconda appendice si strinse attorno all’elsa della spada
dalla lama azzurra che stava precipitando nel medesimo istante in cui
un paio di mani afferrarono ciò che rimaneva della sfera.
Una torcia cadde nel vuoto, perdendo gocce di liquido infiammabile che
bruciarono nell’oscurità della loro caduta come
lacrime incandescenti, facendo brillare una lama argentea sporca del
liquido nero pece.
Dannazione, non riesco a
trovare Noir!
Odio i Buchi di Trama,
odio questi maledetti massi che mi riempiono di punti ciechi.
Dannazione, Epica,
dovevi proprio bloccarmi? L’avrei potuto uccidere prima che
si suicidasse, quel tizio, e adesso non staremmo precipitando.
...
Precipitando?
Aspettate tutti un
momento.
Dal basso, là dove le rocce si stavano riversando, un
bagliore cominciò a farsi strada tra la polvere.
I raggi di quella luce definirono una sagoma antropomorfa che agitava
inutilmente braccia e gambe, mentre i massi rimbalzavano sulla corazza
che compariva e scompariva sul suo corpo con movimenti tanto naturali
da ricordare lo sciabordare dell’acqua di mare sulla spiaggia.
Il roboante suono dei primi massi che impattarono nuovamente su un
terreno duro fece vibrare la roccia rimasta ostinatamente immobile al
suo posto.
So di non pensare spesso
a cose scontate e so di pormi domande spesso fuori contesto.
A che
profondità hanno costruito la cella di Epica?
A occhio e croce un paio
di centinaia di metri dalla piana ricavata eliminando la vetta del
Flentu Gar.
Si, sto precipitando, ma
ora ho problemi più grossi da risolvere.
Izivay Magnea, quanto
era stata scavata in profondità?
Non molto di
più, ci si poteva arrivare attraverso il cunicolo a cui si
poteva accedere dal vecchio palazzo del Governo.
Quel cunicolo
sarà sicuramente crollato su sé stesso quando
quei sei mocciosi hanno evocato un dio che ancora non aveva capito una
mazza del Creato, questo potrebbe spiegare perché non hanno
sfruttato le costruzioni preesistenti.
…
Izivay Magne, non ci
andavo da… una vita.
Cioè, la mia
vita non può essere considerata
un’unità di misura e, tecnicamente, sono entrato
nella porzione di quella sala che è rimasta sul versante
occidentale delle Terre dopo la divisione, per rendere omaggio alle
spoglie di Seila, ma l’avete capito il senso del discorso.
Forse è il
caso di non permettere a questi mortali di farsi uccidere da un paio di
pietre.
Noir vide qualcosa di informe serpeggiare verso di lui, qualcosa di
umido che scintillava alla fievole luce che riusciva a farsi strada
nella cortina di polvere grigia che si era levata e che, ora, lo
ammantava.
Un artiglio metallico si piantò saldamente nella roccia
ancorata alla montagna, arrestando la caduta dei pesi a cui era legato.
L’erede di Reis si sentì strattonare quando
qualcosa lo afferrò alla vita. Un masso che fino ad allora
l’aveva solo inseguito gli rovinò addosso,
costringendo ancora la melassa che fremeva nelle sue vene a farsi
strada attraverso i pori della pelle per proteggerlo
dall’impatto di cui si accorse appena.
Il trentenne fu strattonato una seconda volta, in direzione del suo
fianco sinistro.
Il soffitto di un salone immerso in quella nebbia di pietra frantumata
comparve davanti agli occhi dell’uomo
all’improvviso, andando a interrompere con il suo impatto
l’oscillazione che stava riportando Noir verso
l’alto.
Solo uno spesso strato di melassa nera indurita impedì al
suo naso di fratturarsi contro la levigata lastra di pietra.
Un grappolo di corpi si ritrovò ad ondeggiare a mezzaria,
sorretto unicamente da un cordone impolverato ancorato alla parete del
pertugio da cui erano caduti.
Il molle nocciolo centrale di quella composizione si contrasse in
maniera da poter esprimere il suo disappunto mentre gli ultimi massi
impattavano sul terreno sottostante, sprigionando nell’aria
altra polvere di roccia.
Chi sei davvero tu?
Per favore, Epica, stai
zitta per un attimo come ai bei vecchi tempi e lasciami lavorare in
santa pace. Mi fai venire nostalgia della solitudine degli ultimi
millenni.
Angolo
dell'Autore:
Dopo una settimana di silenzio, rieccomi.
Avevo in programma un altro discorso, un altro nocciolo di discorso da
cui cominciare a delirare, ma ho trovato qualcosa di più
particolare.
Era parecchio che non creavo qualcosa di nuovo. Tendezialmente non
scrivo storie diverse nello stesso momento, ho sempre paura di farle
mescolare e rovinare la loro unicità, per questo mi
trattengo e annoto i lavori sperando di avere tempo e memoria in futuro
per dargli una vita.
Beh, ho in programma una sessione da almeno dodici ore di gioco di
ruolo e devo creare una storia per far giocare cinque cazzoni, il tutto
racchiuso in un mondo che non possano mettere a ferro e fuoco se non
con un impegno immenso.
Tutto ciò per dire che mi ero quasi dimenticato quanto fosse
bello creare qualcosa da zero. Era da quando ho cominciato quella
fanfiction sui pokèmon che non lo sperimentavo e,
dannazione, mi sto divertendo davvero tanto a farlo.
Sono negato a disegnare. E nella musica. In realtà sono
negato in tutte le forme artistiche e questa è quella in cui
posso nascondere questa mia incapacità al meglio.
Credo, comunque, che la base di tutte le "creazioni" sia la stessa,
un'idea che ti faccia dire "Cazzo se quasta è l'idea del
secolo", anche se è un'idea del tutto normale e priva di
particolare originalità. L'importante è quel
momento in cui senti che hai qualcosa da dire in un modo tuo.
Sono stronzo con i miei giocatori e, questa volta, ho deciso di fargli
rivivere lo stesso giorno in loop, ogni volta che si chiude con la loro
probabile morta per via di un meteorite. Non è
particolarmente originale come idea di base, ma da quella sono partito,
costruendoci attorno un mondo pronto a ucciderli che possa dare una
ragione a quegli eventi.
Era una cazzata, ma ci tenevo a raccontarvi perchè,
probabilmente, continuerò a scrivere. Posso finire tutte le
storie che voglio, ma la sensazione che mi da cominciare qualcosa di
nuovo mi invoglierà sempre ad andare avanti.
Alla settimana prossima.
Vago |
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Capitolo 52 *** Capitolo 22.5: Fermi a un presente passato ***
Non poteva andarmi
peggio.
Cioè, poteva
andare molto peggio, in migliaia di modi diversi, tra l’altro.
Il punto è
che ora ho un problema in più.
Avevo Sarah Dan Rei
davanti a me, potevo aprire quell’armatura come una cozza e
cosa succede?
Epica mi ferma.
Cosa le è
passato per la testa?
Il boato delle rocce che impattavano a terra smise di far tremare le
pareti.
La Giudice maggiore
sarà sicuramente arrivata, a quest’ora. Gli
avranno trasmesso un allarme appena ci hanno individuato.
Ho bisogno di Epica in
piena forma per tenere a bada quella donna alcolizzata. Certo, ora non
c’è Follia che la guida passo a passo, ma non so
se la possibilità di agire nel pieno possesso delle sue
facoltà mentali sia un bene o un male, parlando di Johanne
Fenter.
La polvere cominciò lentamente a depositarsi su tutte le
superfici, permettendo ai raggi di un sole sempre più
lontano di fendere la nebbia che si era levata.
Qualcuno tossì, cercando di liberare i polmoni invasi da
quel pulviscolo grigio.
Ho bisogno di una forma
più comoda e di non oscillare per poter pensare lucidamente.
Il tentacolo arpionato alla parete rocciosa si cominciò ad
allungare lentamente, facendo calare il grappolo verso il terreno
sconnesso che lo attendeva diversi metri più in basso.
Dall’apertura che, in quella sala, dava
sull’esterno penetrarono gli ultimi raggi di sole che
anticipavano lo zenit, prima che l’occidente reclamasse il
sole per sé. Quei pochi raggi furono sufficienti a far
risplendere la sala del color dell’oro, infrangendosi e
rimbalzando sulle linee curve del prezioso metallo che adornavano le
pareti.
Una porzione della testa di quello che era un serpente
luccicò, quasi completamente soffocata dai massi e dalla
polvere che la ricoprivano.
Tre corpi vennero adagiati a terra, seguiti da un paio di suole rigide.
Solo successivamente si andarono a formare le scarpe lucide a cui
appartenevano.
Lentamente il blob viscoso cedette la sua massa alla creatura che,
risalendo dalle caviglie, si stava andando a formare. Di pari passo i
tentacoli ancora impegnati si ritrassero, conducendo al proprietario la
spada azzurra che uno di questi tratteneva.
Una lunga giacca scura sventolò appena attorno alle
ginocchia del proprietario non appena fu libera di farlo.
Due occhi scuri si mossero su quello che era un abbozzo di viso
affilato, posandosi sulla lama eterea che, sentita presasi in causa,
richiamò a sé i pochi liquidi che
riuscì a recuperare nella stanza, permettendogli di
avvolgerla per celarla a quello sguardo.
La mano libera dell’elfo dalla ciocca bianca passò
sul suo volto, in un moto di stanchezza.
Non devo essere
impulsivo, ora.
Se facessi un errore,
con quella spada ancora in giro, segnerei la fine per la mia razza.
Posso considerarmi
più forte delle Muse che cercarono di scappare allora, a
quei tempi eravamo giovani e inesperte, ma non posso ancora
fronteggiare quell’arma e il suo potere.
Ho bisogno di Epica e
impiegherò tutto il tempo necessario per farla tornare in
sé.
Cosa vuoi da me?
Ci vorrà meno
tempo del previsto, evidentemente.
L’elfo dall’abito scuro si voltò verso
la fanciulla che, solo in quel momento, aveva deciso di ritirare
all’interno del suo corpo le pareti ferite del guscio che
aveva creato. Le suole delle sue scarpe fecero rimbombare il rumore dei
pochi passi nella stanza.
Ancora con quel corpo.
La sua essenza deve sentirsi ancora in emergenza e sta ritornando
all’ultima forma assunta…
- Epica, riesci a capire quel che ti sto dicendo? –
Le ginocchia di Noir smisero di reggere il peso del suo corpo,
facendolo cadere a terra. La melassa nera che gli ribolliva in corpo
non tentò nemmeno di proteggere le sue ginocchia
dall’impatto contro la superficie butterata dei massi.
Il suo viso era una maschera di sangue vermiglio, così come
lo erano i suoi vestiti zuppi della sua linfa vitale che continuava a
sgorgare dalle migliaia di strappi presenti sulla sua pelle, aperti
dalla furia con cui la sua maledizione si era fatta strada attraverso i
suoi pori.
L’elfo distolse lo sguardo con un moto stizzito. Le dita
della sua mano sinistra tamburellarono frementi sul tessuto dei
pantaloni scuri che gli coprivano la coscia.
- Stai indietro. – disse glaciale la fanciulla, facendo un
incerto passo in direzione di Noir – Devo finire un vecchio
lavoro. –
La fanciulla tese il braccio destro, con la mano a malapena aperta, in
attesa di qualcosa. Qualcosa che non arrivò.
L’elfo sospirò avvilito. Alla poca luce che
riusciva ancora a permeare la sala parve che la sua forma fisica
perdesse di consistenza, tanto quel sospiro era profondo.
Le suole rigide si mossero lentamente sui massi ed il pulviscolo.
La lunga giacca scomparve, tornando ad essere un tutt’uno con
quel corpo in continuo mutamento.
Una mano piccola si posò sulla spalla della fanciulla,
mentre il suo possessore le si metteva davanti.
Una chioma di capelli rossi ricadde sulla schiena della bambina che
calpestava le macerie.
I suoi occhi cozzavano così tanto con i vestiti sgargianti
da sembrare fuori posto, così lugubri e profondi.
- Per favore, Epica, basta. – La bambina parlava con voce
lenta e seria.
La figura magra, si scansò da quel contatto sulla sua
spalla, facendo uno spaventato scatto indietro. Nei suoi occhi si
poteva leggere una scintilla di paura.
- Cosa vuoi da me? Vuoi tormentarmi con quel viso? Vattene! Non ho
bisogno che qualcuno mi ricordi in cosa ho fallito! –
La fanciulla a stento tratteneva la voce dall’alzarsi troppo.
La bambina sospirò ancora. – Epica, lasciami
spiegare, ti prego. –
- Non chiamarmi con il mio nome! Non ne hai il diritto! –
Basta, ora la lascio qui
e me ne vado a finire questo lavoro.
Nemmeno la mia forma di
quell’epoca la riesce a tranquillizzare.
Perché tutte
a me?
- Epica, sono io. Sono Commedia. –
Uh…
Da quanto tempo non
dicevo con calma il mio nome ad alta voce?
Che
sensazione… strana.
La fanciulla portò un piede avanti, chinandosi per portare
il proprio viso alla stessa altezza di quello della figura dai capelli
scarlatti.
- … Commedia? Cosa ti hanno fatto? –
Una mano magra si alzò per appoggiarsi alla nuca della
bambina.
- Se mi lascerai spiegare, ti racconterò tutto. –
La fanciulla si ritrasse, facendo tornare duri i suoi occhi dorati.
- Dopo il tuo tentativo di salvarci ho agito d’istinto e ti
ho stordita. Ho proposto loro un contratto migliore di quello fornito
da te. Loro hanno accettato, io ho sigillato nella Trama del Creato la
Spada del Fato e la spada nera e tu sei stata imprigionata fino allo
scadere del mio contratto. Da allora sono successe un po’ di
cose, tutte cancellate dall’esilio del semidio Follia dalla
Volta degli Dei che ha provocato il cambiamento di questo mondo e
l’apparizione della magia nei mortali. Ci sono state due
generazioni di prescelti degli Dei che hanno portato alla sconfitta
definitiva di Follia. Nel farlo, però, sono state liberate
dall’intreccio entrambe le armi che avevo sigillato. Oh,
già, l’attuale Terra non è quello che
conoscevi. Ovviamente il mio contratto non è stato
rispettato e tu non sei stata liberata da Loro, quindi ho dovuto
prendere la situazione in mano e tirarti fuori da là. Ora
non ci resta che uscire da qui e andarcene. Le uniche cose che ce lo
impediscono sono una donna con indosso l’armatura del
Servitore di Aria, la spada nera che è stata ritrovata e uno
o più draghi. –
Sulle labbra della fanciulla comparve un sorriso sarcastico.
- Smettila di scherzare. Avanti, dimmi la verità.
È stato Tragedia, vero? È sopravvissuto ed
è arrivato per salvarti. –
- Epica. Sono mortalmente serio. Tragedia è morto. Melodia
è morto per colpa mia. Passione, Danza, Mito, sono tutti
morti da millenni. –
Il sorriso si spense sul volto della ragazza magra.
La bambina riprese a parlare solo quando fu sicura di essere ascoltata.
– Epica, prima potevo uccidere la donna con
l’armatura divina, perché mi hai bloccato?
–
- Tu? Uccidere qualcuno? Ti sei fatta di nuovo prendere dal panico e ti
sei vaporizzata. Dovevo evitare che ti disperdessi. –
Oh, santissimo me stesso.
Perché a me?
La bambina non riuscì a trattenere un altro sospiro.
- Sono cambiate tante cose, da quando sei stata imprigionata.
–
L’istante dopo la bambina parve disgregarsi, riducendosi a
polvere bianca nell’aria.
La fanciulla reagì d’istinto, scattando in avanti
e cercando di abbracciare la nube con le proprie braccia che,
altrettanto rapidamente, si erano allargate al punto da divenire le due
metà di un guscio. Si fermò però
qualche secondo dopo, sconcertata, alla vista di quella nube compatta
che le vorticava attorno, intrufolandosi tra le macerie che stavano
calpestando.
Due suole rigide tornarono a calpestare la pietra sconnessa.
- Sono successe davvero tante cose e ho avuto modo di imparare molti
trucchi in tutto questo tempo. -
Angolo dell'Autore:
Ho una brutta notizia da darvi, anche se brutta, al momento e in questo
contesto, mi sembra un termine utilizzato impropriamente. Ma lasciatemi
spiegare, e ve lo sto dicendo come se poteste interrompermi nel mio
parlare.
Questo è l'ultimo dei capitoli di scorta che avevo, di nuovo
sono senza un salvagente al quale aggrapparmi in caso di blocchi dello
scrittore o problemi di altra natura che mi hanno tenuto lontano dalla
scrittura.
E questo ci scaraventa al punto successivo.
La mia settimana non è stata delle migliori. Gli ultimi due
mesi, in realtà, non sono stati dei migliori, ma nulla che
potesse incasinare la mia vita molto più di quanto non lo
sia normalmente. Non saranno un paio di problemucoli di salute o
l'avvicinarsi (di nuovo) della sessione di esami universitari che mi
faranno desistere dal perdere tempo scrivendo.
No...
Questi ultimi giorni sono stati di fuoco, nonostante il ferragosto a 21
gradi.
Morale della favola: al momento sono molto incasinato e se lo ammetto
io, vi assicuro, intendo parecchio infognato nella merda. Un po' come
il Titanic, solo che io posso scherzarci ancora sopra e non ho
un'orchestra ad accompagnarmi. Oh, già, e non c'è
quell'odiosa canzone in sottofondo a perseguitarmi.
Passerà sicuramente, immagino anche presto visto il tipo di
casini che sono saltati fuori, ma so che non potrò
concentrarmi su tutto questo per un po' di tempo con la dovuta
serenità di uno che si diverte scrivendo.
La settimana prossima è certo che non potrò far
uscire il capitolo di cui ho gettato nero su bianco una manciata di
righe. Manciata di righe che potrebbero uscire il 31... o forse no.
Vorrei poter essere più corretto e preciso con voi, ma, al
momento, non mi è concesso. La cosa più probabile
è che pubblicherò qualche capitolo, in gergo
tecnico, a cazzo di cane, finchè non riuscirò a
rimettermi in carreggiata. L'unica sicurezza è che lo
farò di venerdì, quantomeno per darvi una corda a
cui aggrapparvi per ritrovarmi tra le decine di storie che vengono
aggiornate ogni settimana. Quindi riempitevi di sveglie il
venerdì, per correre a controllare se mi sono fatto vivo.
Cambiando discorso, per oggi avevo programmato una mezza richiesta da
farvi, con tanto di spiegone dietro per chiarire il suo
perchè.
Vi lascerò qui la versione breve.
EFP è stato in buona parte lasciato a sè stesso e
la possibilità di emergere in mezzo a questo mare di parole
è diventato un terno all'otto quando si sta giocando a scala
quaranta.
I pochi modi che abbiamo (tutti noi che pubblichiamo) per arrampicarci
sull'albero maestro di questa nave che sta affondando sono tutti legati
a voi. "Numero di parole per recensione positiva" e "Nei preferiti di
TOT persone". Ora, non lo dico solo per me, se volete che un'autore
valido su questa piattaforma venga messo in mostra, recensite i suoi
capitoli o, se siete come me e vi bloccate nello scrivere recensioni,
aggiungete la sua storia tra le preferite. Ve lo dico perchè
continuo a vedere storie impolverate e mai completate ferme sui loro
scranni quando tante altre storie, che tengo a specificare non sono le
mie, si meriterebbero quel posto, ora. Basta davvero un piccolo click
da parte vostra.
Per concludere, ricordatevi che non può piovere per sempre.
A volte grandina.
Ci vedremo, spero, presto.
Vago |
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Capitolo 53 *** Capitolo 23.5: Intoppo ***
Perché
nessuno ha fiducia in me?
Anzi, non nessuno.
Sarebbe stata
incredibilmente facile la mia esistenza se nessuno avesse avuto fiducia
nelle mie capacità.
Più breve, ma
almeno facile.
Invece no, Loro hanno
visto il mio potenziale e l’hanno sfruttato fino
all’osso.
Mio padre mi ha avuto
davanti ai suoi maledetti occhi onniveggenti e solo ora si è
scomodato dal suo maledetto scranno per mollarmi la sua arma
impolverata perché me la riuscissi a cavare da solo.
Epica non ha mai
protetto me, io avevo solo la fortuna di essere stato gettato dentro il
gruppo di muse importanti e, di conseguenza, c’era qualcuno
che combatteva anche per me. Quel maledetto, o quella maledetta, si
è scomodata di più per salvare Tragedia di quanto
non abbia fatto per me.
Stava per farsi
ammazzare, alla fine. Almeno, una volta morta, la mia sopravvivenza non
sarebbe stata più un suo problema.
Sono dovuto intervenire
io, nel punto forse più basso della mia esistenza, a
salvarla.
Quella Musa è
eroica solo davanti a un pubblico. Che gran prova di coraggio, invece,
morire in un’ultima battaglia, invece di continuare a vivere.
Non avrei nemmeno dovuto
liberarla. Non ancora, per lo meno.
Tutto quello che ho
guadagnato è stata una rabbia che non provavo da millenni.
Ero riuscito a sigillare
il mio passato prima del contratto, dietro una porta della mia mente
che doveva rimanere chiusa.
L’elfo si mosse rapido attraverso la sala. Il suo corpo
pareva pesare troppo per le sue dimensioni e le suole rigide, ogni
volta che toccavano lo strato di macerie, con un tonfo sordo,
sollevavano in aria polvere e schegge di pietra.
Due ampie ali piumate si spiegarono alle sue spalle, nascendo
là dove la lunga giacca e la sua schiena parevano essere un
tutt’uno.
Due propaggini morbide, come tentacoli di un polipo, si avvinghiarono
attorno ai toraci dei due uomini, aderendo ai loro corpi.
Voglio solo vedere la
fine di questa roba.
E ora più che
mai, non ho intenzione di creparci.
L’incazzatura
mi ha persino fatto perdere l’interesse in produrre dei corpi
che possano sembrare naturali. Tanto, a questo punto, a chi devo celare
ancora la mia vera essenza?
Commedia, fermati.
Taci.
Ti preferivo quando eri
drogata in quella prigione di diamante. Mi ero addirittura riuscito a
convincere che mi ascoltassi quando ti raccontavo le mie disgrazie.
Tu pensa quanto la
solitudine mi avesse fatto idealizzare la tua figura.
Comunque, adesso, dopo
aver salvato il Creato un paio di volte, ho tutta
l’intenzione di salvare anche la mia vita.
Le maestosi ali scure si aprirono, facendo sporgere le loro
estremità al di fuori della caverna.
I due occhi verdi incastrati sul viso da elfo vennero per un attimo
nascosti dalle palpebre, come se queste volessero godersi la lieve
brezza marina che riusciva ad intrufolarsi in quella sala in rovina.
Una possente folata di vento si abbatté sul terreno,
sollevando i tre corpi legati e scagliandoli oltre il ciglio di quel
dirupo.
Noir non riuscì a trattenere l’urlo di terrore che
gli nacque in gola.
Stava precipitando, stava di nuovo precipitando, come quando era
bambino. Ma, questa volta, non c’era la dura ma sicura terra
ad aspettarlo.
C’era solo il mare sconfinato sotto di lui.
Uno strattone al torace gli tolse il respiro, costringendolo a ripulire
la mente dai lugubri presagi che l’avevano affollata.
Ai lati del suo campo visivo piume nere comparivano e scomparivano
ritmicamente, trascinandolo lontano dalla superficie scura su cui
penzolavano i suoi piedi.
Il trentenne avvertì appena la sua maledizione farsi strada
attraverso i pori della porzione sinistra del suo corpo per proteggerlo
dalle membra dell’uomo che gli si scontrò poco
dopo addosso.
- Dove ci vuoi portare? – riuscì ad urlare il
discendente di Reis, sovrastando il rumore del vento che lo investiva.
- Lontano da dove potreste farvi uccidere. – fu la risposta
gelida dell’elfo alato. La sua voce tagliente raggiunse le
orecchie dei due mortali come se le sue labbra fossero state accanto
alle loro orecchie.
Già, lontano.
Ma quanto
dovrà essere lontano questo lontano per metterli davvero al
sicuro?
Non mi interessa se poi
si uccideranno a vicenda o meno, una volta che me ne sarò
andato, dopotutto sarebbe una loro scelta.
Sono diventati Buchi
della Trama per colpa di noi immortali, non voglio che muoiano anche
per colpa dei nostri casini.
…
L’elfo superò rapidamente il ciglio di
ciò che restava della desolata Terra degli eroi, risalendo
ancora per nascondersi alla vista di chi fosse stato lì.
I suoi occhi si sforzarono di riconoscere le sagome nella pianura
brulla.
Non vedeva Johanne Fenter, ma il suo essere tremava percependo quella
spada maledetta vicina.
Un gruppo di creature dalla pelliccia nera parve agitarsi a terra, i
loro corti musi si alzavano e abbassavano fiutando con ostinazione
l’aria.
Cosa sono quelli? Demo?
Anche se lo fossero, non
possono avermi fiutato. Non ho un odore da fiutare e anche se lo
avessi, la distanza che ci divide è troppa anche per il loro
olfatto.
All’interno di uno dei tentacoli che nascevano dal corpo
dell’elfo qualcosa si mosse agitatamente, indurendosi,
tornando morbido, espandendosi e contraendosi.
- Noir! Smettila di agitarti! – tornò a sussurrare
la voce dell’elfo all’orecchio del discendente di
Reis.
- Non ci posso fare nulla! La mia maledizione, lei sente qualcosa!
È come quando ti avvicinavi a me prima di… prima
di quella cosa che è successa sui monti. –
Maledizione.
Non sono i Demo il mio
problema.
Lui sta avvertendo
l’essenza di Follia e, adesso, quella roba è
presente in solo tre posti.
Il cadavere pietrificato
di Follia.
Il suo corpo.
E quella maledetta spada.
Ci deve essere Johanne
Fenter, laggiù, da qualche parte. Lei e quell’arma.
Ma ci saranno anche i
suoi lacchè?
Sicuramente
là, ad aspettarci o a festeggiare per la nostra morte
c’è Sarah Dan Rei.
Quel porco di Krave
Dunnont si sarà portato dietro la sua selezione di bestiole
da guardia.
Chi faceva ancora parte
della combriccola?
…
Maledizione!
Tutte quelle morti
mentre non ero presente mi hanno fatto perdere il conto.
C’è
il drago, l’attuale re dei draghi. Quello che ha seguito la
tradizione di famiglia, facendo ammazzare il suo predecessore. Quello
è il cucciolo del Giudice Maggiore, figurati se non
è arrivato con lei. La domanda, a questo punto,
è: Si sarà portato dietro la scorta reale?
- Attento! –
Piume scure caddero lievemente verso il lontano terreno. Da uno spesso
strato di pelle ricoperta da squame azzurre pendevano
nell’aria le estremità delle ali scure, un paio di
gambe avvolte in eleganti pantaloni e i due tentacoli a cui erano
aggrappati due uomini esterrefatti.
Un paio di enormi ali membranose sbatterono ancora una volta per
frenare l’avanzata rapida del corpo a cui erano legate.
Il paio di gambe si mosse con frustrazione, cercando di
smuovere la mascella che si era chiusa poco sotto il bacino a
cui erano attaccate.
Le fauci serpentine si serrarono con ancor più forza,
affondando la chiostra di denti più a fondo nel corpo della
preda che avevano catturato.
Tra le nubi chiare d’alta quota si mossero un paio di figure
dalla mole imponente, fendendo le correnti con i loro corpi sinuosi.
Dannazione.
Ero talmente concentrato
su chi ci può essere ad attendermi a terra che mi sono
dimenticato il piccolo particolare che i draghi hanno le ali.
E le sanno usare.
Che situazione
fastidiosa.
Mi chiedo se questo sia
il palato di un re dei draghi o meno.
Comunque, non
è un mistero cosa debba fare ora.
Libero le braccia dai
denti che le hanno trapassate, rendo questa bocca un deposito di carne
trita con la Spada del Fato e faccio scivolare la materia che adesso
è imprigionata fuori da qui, mentre questo grosso rettile
sta precipitando.
Poi è solo
questione di non spiaccicarsi al suolo.
Le fauci vennero scosse violentemente.
Qualcosa tirò verso l’alto la coppia di tentacoli.
Angolo dell'Autore:
Rieccomi. Onestamente, non avevo dato per scontato l'esserci,
questa settimana.
Avrei centinaia di cose da dire, dopotutto sono rimasto indietro.
Cercherò, però, di trattenermi e non generare un
nuovo capitolo qui, ai piedi di quello che avete letto.
Per questa volta, parlerò di voi.
Il fatto che non riuscissi a scrivere o pubblicare alcunchè
non mi ha impedito di controllare cosa stesse succedendo sulle mie
storie e, davvero, sono rimasto sorpreso positivamente da voi.
Questo è il centosettantunesimo capitolo che pubblico in
questa trilogia. 171 capitoli pubblicati in quelli che sono quasi tre
anni. Sono un'infinità.
Non so quanti di voi mi seguono dall'inizio, molto probabilmente mi
avete trovato dopo parecchio tempo dalla pubblicazione del primo
capitolo, ma il pensare che, comunque, nel giro di tre giorni cinquanta
persone vegano a leggere il nuovo capitolo tutte le settimane mi rende
davvero incredulo.
Il sapere, poi, che c'è chi mi accompagna dall'inizio
è un regalo enorme.
Siete incredibili, davvero. Specialemente in queste ultime settimane in
cui l'incostanza è stata la mia firma.
Non lo ripeterò mai abbastanza. Grazie a tutti voi.
Vago
|
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Capitolo 54 *** Capitolo 23: Fine della discussione ***
Razer fece qualche passo indietro, stringendo ancor più
forte il coltello che nemmeno durante la caduta aveva lasciato andare.
Anche quella creatura era come l’elfo?
Aveva anche lei gli stessi poteri?
I suoi occhi neri si posarono sulla lama che stringeva tra le dita.
Cosa poteva fare contro di loro?
Il piede sinistro retrocedette ancora, appoggiandosi sulla superficie
irregolare di un masso. La suola non riuscì a rimanere salda
sulla pietra, scivolando per qualche centimetro verso il basso e
rischiando di far cadere l’uomo che la sovrastava.
Lo sguardo dell’assassino si spostò su Noir.
Su di lui poteva contare. Sul suo potere poteva contare, se la
situazione si fosse rivoltata contro di lui.
Il volto del discendete di Reis era cadaverico. Il trentenne aveva
quasi raggiunto la parete alle sue spalle e il suo sguardo non si
discostava dalla fanciulla che, a più riprese, aveva cercato
di raggiungerlo.
Il suo potere sarebbe stato sufficiente a uccidere quelle creature?
La lama del coltello tornò a nascondersi nel suo fodero.
Non era quello il momento di combattere con quella lama.
L’elfo stava continuando a parlare con la fanciulla, senza
prestargli troppa attenzione.
Doveva trovare un modo per uscire da quel posto.
L’uomo guardò in aria da dove erano caduti. Ora
imponenti parti di montagna avevano richiuso la frattura creatasi,
lasciando solamente pochi spiragli a tradire la loro esistenza.
Razer si mosse sui massi, silenzioso come quando inseguiva i draghi che
aveva preso di mira. Si perse solo un attimo nei riflessi dorati che,
ogni tanto, comparivano sotto i detriti.
Quanto materiale prezioso era stato incastonato in quelle pareti?
Gli ultimi raggi del sole lasciarono la caverna in cui erano
precipitati, oltrepassando le guglie delle montagne per far gettare
loro le ombre sul mare orientale.
L’uomo raggiunse il limitare di quella caverna, guardando il
precipizio che lì si apriva sul mare sottostante. Si
guardò poi attorno, cercando un sentiero tra le rocce e le
riseghe per poter risalire in superficie, fallendo.
Non poteva uscire da quella situazione. Non da solo, per lo meno.
Involontariamente il suo piede destro fece un passo indietro, come
volesse allontanarsi da quel precipizio che gli si apriva davanti.
Si morse l’interno della guancia, cercando di allentare la
tensione.
Chi erano i suoi nemici, ora?
Voleva ancora uccidere tutti i draghi. Avrebbe vendicato la sua
famiglia fino al suo ultimo respiro.
Ma, adesso, aveva scoperto di chi era la colpa. Chi aveva provocato
tutta quella morte.
Quante vite avrebbe dovuto strappare con il suo pugnale? Quante erano
le persone a cui stava dando la caccia?
Alle sue spalle percepiva frammenti del discorso tra le due creature
che l’avevano portato in quella voragine con loro, ma le sue
orecchie si rifiutavano di dar peso a quelle parole.
Razer scacciò quell’infondato timore che il
baratro davanti ai suoi piedi gli muoveva nelle viscere, portandosi
nuovamente sul ciglio con cui terminava quel luogo antico.
Per un attimo l’uomo fu tentato di fare un passo avanti,
mentre davanti ai suoi occhi la realtà si sovrapponeva con i
ricordi sbiaditi del bambino che aveva visto le Terre
d’Oriente ancorate alla catena dei Muraglia.
Suo padre l’aveva portato sul Passo del Messaggero, durante
una delle sue battute di caccia e da quel passaggio ricordava di aver
visto una pianura allungarsi davanti ai suoi occhi, che si andava a
perdere oltre l’orizzonte in una distesa di terra rossastra.
Se solo avesse avuto ancora otto anni e avesse trovato quella sala in
una delle esplorazioni con sua sorella, probabilmente, le avrebbe
raccontato la leggenda della sala del tesoro dei nani. Quelle creature
avevano lasciato dietro di loro più leggende che tesori.
Un artiglio arpionò la camicia del trentenne, tirandolo a
sé e, con poca delicatezza, gettandolo a terra sulle macerie.
- Ho bisogno di ancora un po' di tempo, qui. Vedi di non ammazzarti
ancora per una decina di minuti. – gli disse con voce seccata
l’elfo dai capelli color pece, facendo scomparire il sinuoso
tentacolo nero sotto la lunga giacca scura.
Razer non gli rispose, limitandosi a guardarlo con sguardo infastidito.
Non si sarebbe mai gettato da quel precipizio. Quella creatura avrebbe
fatto meglio a preoccuparsi per la propria vita, piuttosto che per la
sua.
- Scusami… chiunque tu sia, davvero. – Noir
provò a spostarsi verso le due creature che ancora stavano
parlando, ma non poté fare a meno che fermarsi quando la sua
voce attirò su di sé lo sguardo dorato della
fanciulla – Cosa… cosa dovremmo fare adesso?
–
L’elfo si passò le dita tra i capelli corvini,
smuovendo la ciocca candida, prima di rispondere. – Non
appena avrò finito di mettere mia sorella al corrente dei
principali avvenimenti dell’ultimo millennio vi porteremo in
superficie, dove, probabilmente, ci sarà un cospicuo numero
di combattenti ad attenderci. Con buona
probabilità là le nostre strade si divideranno.
–
- Davvero ci porteresti in superficie solo per lasciarci in balia dei
soldati? – Noir cercò di dare alla sua voce una
nota di rabbia o indignazione, ma tutto ciò che tinse le sue
parole fu una rassegnata disperazione.
L’elfo in tenuta elegante si voltò di scatto
completamente in direzione del discendente di Reis, facendo ondeggiare
la giacca attorno ai suoi polpacci. I suoi occhi scintillarono, come se
avessero riflettuto un lampo notturno.
- No, non ho intenzione di gettarvi sulla Terra degli Eroi ed
andarmene. Ho intenzione di gettarvi oltre la Terra degli Eroi,
tornarci, distruggere una volta per tutte l’arma che il
demone che si impossessò del tuo avo forgiò
all’alba dei tempi e solo in seguito, abbandonare questo
scoglio troppo cresciuto che non ha fatto altro che rovinarmi
l’ultimo secolo di vita. –
- Tu? Tu! – la fanciulla proruppe in una risata violenta, che
rimbombò tra le pareti e costrinse il trentenne dal
polpaccio ustionato ad ascoltare il discorso da cui erano state
generate quelle risa – Tu vorresti distruggere quella spada?
Perché non gli dici la verità? Che hai intenzione
di mollarli il prima possibile e scappare con la coda tra le gambe
lontano da chi ora brandisce quell’arma? –
La scintilla negli occhi dell’elfo divampò in un
incendio. Per un attimo il suo corpo parve non riuscire a mantenere la
forma che aveva assunto, divenendo prima vagamente etereo, per poi
sovrapporsi a centinaia di altre figure, umane e bestiali, migliaia di
occhi iracondi si posarono nel medesimo istante sul volto della
fanciulla, centinaia di braccia mossero altrettante armi eteree dalle
forme più svariate, la giacca scura che ricadeva rigidamente
verso il suolo pareva non essere abbastanza grande per contenere i
torsi e le propaggini che si dimenavano sotto e attraverso di essa.
Bocche di ogni forma e dentatura fecero per aprirsi e permettere
così a chissà quale cacofonia di voci di
prorompere, ma si costrinsero a rimanere serrate.
I capelli, lentamente, si districarono dalla selva di aghi, piume,
serpi e corna, tornando a coprire compostamente un capo dalla pelle
chiara su cui un solo paio di occhi verdi rimase a fissare il volto
magro di fronte a loro.
La lunga giacca tornò ad essere composta di tessuto morbido,
cedendo nuovamente al volubile passaggio dell’aria ad ogni
movimento.
Tutte le braccia meno le due più appropriate a quella forma
si dissolsero completamente, sfuggendo al limbo in cui erano rimaste
bloccate.
Lo sferragliare di armi scomparve, venendo sostituito dal tonfo sordo
di una sola suola che batteva contro il pavimento di fronte a
sé.
Una mano magra afferrò il bavero della camicia della
fanciulla, tirandola a sé fino a quando gli occhi verdi e
quelli dorati non furono che a pochi centimetri di distanza.
Non permetto a mio padre
di valutare le mie azioni, anche se quel vecchio inutile è
un fottuto dio.
Non sarà di
certo la sorella che ho liberato dalla sua prigionia a farmi abbassare
il capo. Non dopo quello che mi hanno costretto a fare da quando gli ho
proposto quel contratto.
- Ascoltami bene, Epica. Tu non hai ancora minimamente idea di cosa io
possa o non possa fare. Non volevo dirtelo così, o
quantomeno non ora, ma evidentemente hai bisogno di darti una
ridimensionata dopo la fine dell’effetto di quelle droghe.
– sul palmo della mano destra, libero di muoversi, si
aprì una fenditura dalla quale sgorgò come acqua
dalla fonte la lama argentea della spada del Fato – La vedi
questa? Papà non è mai stato in grado di fare
qualcosa per noi, ma, come puoi vedere, mi ha dato la
possibilità di fare da me ciò che è
necessario. Ecco dov’è la tua tanto potente spada
del Fato, nella mano dell’unica Musa che, a quanto pare, non
intendevi davvero proteggere. Quindi, ora, vedi di farti bastare la
Spada degli Abissi che sono riuscito a farmi dare, perché
più di quello da parte degli dei e da parte mia non avrai.
–
La mano sinistra della creatura dalla ciocca bianca
abbandonò le vesti della fanciulla, permettendo al corpo di
cui era parte di allontanarsi.
- Voi due - la voce dell’elfo cercava di apparire priva di
emozioni – guardatevi attorno, perché non vedrete
mai più una delle due metà di Izivay Magnea. Ora
vi porto lontano da questa follia. -
Angolo dell'Autore:
Non era così scontato ritrovarci qui, oggi.
Con il "ci" in ritrovarci intendo voi e il mio spettro languido e vago.
Qui non sarò molto più di quello, il mio cervello
non me lo permette e, credetemi, nel mio stato di stanchezza attuale
sto facendo fatica a mettere le parole una dietro l'altra con un filo
logico decente a tenerle unite.
Non sono qui per infestare queste righe, vi lascio solamente detto e
ripetuto che l'uscita del capitolo la prossima settimana non
è certo, così come non lo sarà nelle
settimane successive.
Ancora vi chiedo scusa per il disagio, spero di poter riprendere ad
essere il buon vecchio Vago ossessionato dalla puntualità.
Alla prossima.
Vago |
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Capitolo 55 *** Capitolo 24: Picchiata ***
Qualcosa tra le nubi vaporose scintillò, rifrangendo la luce
solare.
Noir sentì chiaramente la sua maledizione premere contro le
pareti delle sue vene nelle quali era nascosta, pronta a fuoriuscire
dal suo corpo in un istante.
Non sapeva qual era il pericolo che l’aveva risvegliata, ma
quel senso non poteva che preannunciare qualcosa di terribile.
I suoi piedi pendevano a centinaia di metri dal terreno e, per un
attimo, il trentenne si chiese se la sua maledizione potesse
proteggerlo anche da una simile caduta.
No, si rispose. Non sarebbe riuscito a sopravvivere in nessun modo.
Quella consapevolezza non lo spaventò più di
tanto e un angolo del suo cervello si trovò a sperare che il
tentacolo che lo avvolgeva perdesse la presa.
La maledizione spinse ancor più forte contro le pareti che
la delimitavano, strisciando tra i muscoli e facendosi largo attraverso
la pelle.
- Attento! – riuscì ad urlare, prima che la voce
gli si spezzasse in gola, soffocata dalla corazza scura che
strappò la cute pur di ricoprire il suo corpo.
Un muso spigoloso, ricoperto da lucenti squame azzurre comparve davanti
all’uomo, per poi scomparire dietro ad una chiostra di lunghi
denti d’avorio, che si richiusero con uno scatto secco
attorno alla vita dell’essere che li stava trasportando,
lasciando fuoriuscire solo le gambe di quella creatura.
Un battito delle ali di quel drago fu sufficiente per strattonare i due
uomini appesi alle propaggini, facendo guadagnare loro
un’altra decina di metri di quota.
Lo sguardo di Noir si mosse verso il suo fianco, dove Razer aveva
afferrato il tentacolo che lo sosteneva, cercando di scalarlo per
raggiungere la creatura. Al suo fianco pendeva il fodero del suo
coltello da caccia.
Voleva uccidere quella bestia?
E se anche ce l’avesse fatta, sarebbe riuscito
quell’essere, quel Vander, a tenerli in aria?
Quantomeno sapeva che era vivo, visti i movimenti stizziti delle gambe
che lo sovrastavano.
Un dardo dorato saettò nell’aria.
Le squame che proteggevano la fronte dell’imponente creatura
color zaffiro si lasciarono penetrare dal metallo iridescente senza
opporre resistenza.
Schizzi di sangue bollente caddero addosso ai due uomini, colando lungo
la superficie nera della corazza che ancora ricopriva Noir.
Una zampa artigliata strinse i tentacoli che legavano i tre corpi nella
sua morsa, mentre le ali membranose del drago sbatterono
un’ultima volta in preda alle convulsioni, prima di cadere
assieme al maestoso corpo scintillante verso il suolo.
Da quelle fauci prive di vita fuoriuscirono sottili filamenti a stento
solidi, talmente fini da lasciarsi scompigliare dalle folate
d’alta quota come una chioma corvina.
La lunga lama si sfilò dal cranio del rettile come se stesse
uscendo dal suo stesso fodero.
Sei arrivata solo per
dimostrarti eroica?
Potevo ucciderlo in un
secondo anche da solo, ancor prima che questo mortale lo infilzasse
nello sterno.
Lasciami andare. Devo
portarli ancora al sicuro.
L’aquila bronzea sollevò con un movimento
innaturale la zampa sinistra, in cui brandiva la spada dalla lama
azzurra, per poi calarla sui tentacoli neri che stringeva nella zampa
destra, tranciandoli.
Le gambe dalle quali nasceva solamente la zazzera filamentosa si
ritrovarono senza un supporto che le potesse sostenere in aria,
cominciarono così a precipitare all’inseguimento
del cadavere draconico.
I piedi, ancora cinti dalle scarpe della suola rigida, si mossero
frustrati, calciando l’aria che li circondava.
Gambe e filamenti si dissolsero in un nugolo di denso fumo scuro,
bollente, che risalì per potersi portare
all’altezza del becco del rapace.
Cosa
c’è?
Ti sei stancata fino a
questo punto di me?
L’aquila fece per aprire il becco, ma tornò
immediatamente sui suoi passi.
Dovresti smetterla di
parlare.
L’aquila sbatté più volte le massicce
ali, sollevando il suo corpo e quelli che trasportava di diversi metri.
Una fiammata scarlatta investì la nuvola nera,
costringendola a risalire ancor di più verso gli astri,
trascinata dalle neonate correnti ascensionali.
Come hai fatto
a sopravvivere fino ad ora se non ti sei nemmeno resa conto dei
combattenti che ci circondano?
Non potrai andare da
nessuna parte, se non sfonderai la barricata che hanno creato.
Quanto è
strano sentire qualcuno che si riferisce a me al femminile…
Con chi stai parlando,
ora?
Con nessuno, se non me
stesso.
E che vengano ad
attaccarmi, mi eviteranno la fatica di doverli inseguire.
- Voglio scendere. Adesso. – La voce di Razer era dura, come
se stesse impartendo un ordine.
- Non se ne parla. Non creperai per colpa dei nostri trascorsi.
– gli rispose con un tono rimbombante la nube scura.
- Tu hai parlato del re dei draghi. Lo voglio uccidere con queste mani,
non mi interessa sopravvivere, voglio solo vendicarmi sul colpevole
della morte della mia famiglia. –
La nuvola vaporosa roteò su sé stessa, irritata.
Ed ora come faccio a
dirgli che QUESTO re dei draghi non è lo stesso che gli ha
sterminato la famiglia? Tolta sua sorella, ovviamente.
Dannazione, nessun uomo
sano di mente vorrebbe farsi lasciare in quel carnaio là
sotto, perché non può semplicemente…
- Va bene. –
L’aquila batté le ali per riprendere
velocità, puntando il proprio becco in direzione del terreno.
Cosa?
No! Non va bene per
niente!
C’è
della roba, là sotto, che non è alla loro portata!
Se il suo desiderio
è combattere, perché dovrei fermarlo?
Perché
è un mortale!
E non è
logico mettere un mortale contro la spada di Follia! O contro
un’armatura forgiata dagli dei! O contro un maledetto drago!
Sono mortali, per
l’amor del Fato!
Proprio perché
sono mortali hanno il diritto di scegliere di che morte morire.
Il suo spirito non
vorrà spegnersi in un letto.
Non mi interessa cosa
vuole il suo spirito. Non mi interessa se vuole morire in un letto, in
un fosso o sul dannato cucuzzolo di una montagna come Profezia.
Sono io che non voglio
che qualcuno muoia sotto la mia protezione o per colpa mia.
E l’altro? E
Noir?
Lo puoi temere
finché vuoi, ma anche lui ha il diritto di sopravvivere a
questo.
A lui non
capiterà nulla, se non sarà un suo desiderio.
Maledizione.
Noir si aggrappò al tentacolo che lo sorreggeva
con tutte le sue forze.
Perchè Razer era così ostinato?
Lui voleva solo andarsene da quel luogo che pareva eccitare
così tanto la sua maledizione.
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Capitolo 56 *** Capitolo 24.5: L'inizio della fine ***
L’aquila atterrò nei recessi di quella piana
spoglia, permettendo al carico che trasportava di poter tornare a
reggersi sulle proprie gambe.
La lama del coltello di Razer baluginò, scivolando rapida
fuori dal suo fodero.
- Chi di loro è il re dei draghi? – chiese
l’uomo dagli occhi profondi, guardando di fronte a
sé.
Quattro figure si stagliavano all’orizzonte, risplendenti ai
raggi del sole calante. Ai loro piedi si agitavano diversi corpi chini,
ricoperti da del pellame scuro.
Tre imponenti creature coperte da squame lucenti atterrarono poco
distanti, quasi calpestando il cadavere maciullato del loro compagno
caduto.
- Il tipo magro che si sta nascondendo dietro la donna con la spada.
– gli rispose una voce eterea, accompagnata
dall’arrivo di un vortice di denso fumo nero – Ma
non andarci contro ora. Non è lui il più
pericoloso. –
- Non mi interessa sapere chi è il più
pericoloso. Io lo voglio solo ammazzare. –
L’uomo dal polpaccio ustionato si lanciò a testa
bassa verso il gruppo che si stagliava verso l’orizzonte,
afferrando con la mano destra Noir per costringerlo a seguirlo con uno
strattone.
Idiota!
Un tentacolo nero si allungò dalla nube che si stava
addensando, saettando in direzione dei due uomini.
La lama della spada eterea si frappose sul suo percorso, bloccando
quell’appendice.
Hai detto che non sarebbe successo a Noir, se lui non
l’avesse voluto!
Epica, sei sempre stata una maledetta primadonna, ma questa non sei
più tu. La vera te avrebbe davvero salvato
quell’uomo.
Toccherà a me, allora, risolvere questo casino. Come ho
fatto negli ultimi millenni.
Non gli
succederà nulla, ci penserò io a lui.
Spero vorrai scusarmi, ma non ho più fiducia in te.
Un elfo dai capelli neri partì
all’inseguimento dei due uomini, stringendo in pugno uno
stiletto argenteo.
Razer strinse le palpebre, alzando lo sguardo dal terreno per
correggere la sua corsa. Le sue dita migliorarono la loro presa sul
braccio di Noir.
Aveva bisogno di lui, almeno all’inizio. Poi lo avrebbe
lasciato andare.
Cinque belve vennero liberate dai loro vincoli e sguinzagliate contro i
due intrusi.
Le loro urla disumane che riempivano l’aria, si spensero non
appena furono abbastanza vicini dal fiutare l’odore delle
loro prede. Le grida divennero lamenti, mentre le pellicce irte si
appiattivano lungo i corpi scarni e le mani artigliate venivano alzate
al di sopra dei crani animaleschi.
Le membra di Noir vennero buttate in direzione di quegli esseri, che si
aprirono, permettendo all’uomo con il pugnale stretto in mano
di proseguire nella sua corsa attraverso di loro.
Un urlo, questa volta umano, si levò dal gruppo.
Bastò quel verso per riscuotere dal loro terrore i Demo che,
tenendosi lontani dal corpo caduto a terra di Noir, si mossero rapidi e
rabbiosi verso Razer, che non accennava a voler rallentare la sua corsa
verso il suo obbiettivo.
L’elfo dalla ciocca bianca si chinò su Noir,
alzandolo di forza dalla terra nuda. I suoi occhi verdi, intanto, si
puntarono sull’uomo dal polpaccio ustionato, seguendo i suoi
movimenti che si stavano per incrociare con quelli degli esseri immondi.
…
Perché?
Solamente… perché?
Ti salverò, questa volta, ma non credo lo farò
volentieri.
Gli occhi dell’elfo si strinsero in maniera
serpentesca, mentre la sua stretta si sistemava attorno
all’elsa del pugnale divino che stringeva in pugno.
I suoi piedi si mossero rapidi, emettendo solamente flebili tonfi ogni
volta che si appoggiavano.
Un lampo dorato gli passò accanto, seguito dai latrati di
dolore dei Demo, che caddero a terra, macchiandola del loro sangue
scuro.
La Spada degli Abissi fendette l’aria a vuoto, facendo cadere
dalla sua lama eterea le gocce di linfa vitale che le erano rimaste
legate.
La fanciulla, ora, nascondeva buona parte delle sue fattezze
all’interno di una spessa armatura bronzea, probabilmente
troppo grossa per il corpo esile che aveva mostrato fino ad allora. La
fine lama cristallina dello spadone che impugnava, d’altro
canto, sembrava non essere adatta a quell’armatura,
così massiccia.
Il soldato si fermò di colpo non appena il suo braccio
concluse la mezzaluna che aveva cominciato, riponendo con un gesto
fluido la lama nel fodero che gli pendeva al fianco.
Rimase quindi rigida, attenta, con gli occhi dorati che puntavano la
schiena dell’uomo ustionato che non si era degnato nemmeno di
rallentare alla morte dei suoi inseguitori.
Quella spada…
Gli occhi dell’elfo si adombrarono per un
attimo, le sue iridi verdi quasi si offuscarono per un secondo, come se
non potessero più vedere il mondo davanti a loro.
Forse con qualche decina di anni di giovinezza in più, Frida
sarebbe anche riuscita a dare due colpi utilizzando in una mano quella
spada e nell’altra il suo spadone originario.
…
Dannazione! Perché mi tornano alla mente questi ricordi?
Non mi servono. Non mi servono ora e non mi serviranno mai in futuro.
Sono morti, sono andati.
I Cavalieri sono definitivamente morti e non ho intenzione di rientrare
nell’esistenza di quegli assassini senza futuro.
I mortali passano e io devo andare avanti.
Non gli devo nulla.
Di cosa vai
blaterando?
Nulla.
Nulla che ti possa riguardare.
E non era il caso che tu intervenissi, li avrei uccisi in un istante.
Non era tuo
compito quello di toglierli di mezzo.
E sarebbe tuo, questo compito?
No. Ma il
mio compito, al momento, è accompagnare quell’uomo
verso la sua gloria.
Tu sai che questi sono entrambi Buchi della Trama?
Nessuno di loro ha davvero un destino glorioso.
Certo che me
ne sono accorto, ma, rispondimi, perché non dovrebbero
averne diritto, loro?
Sono comunque dei mortali
e come tali ho intenzione di trattarli.
Non è questione di essere mortali con un destino o meno!
Non voglio che il sentiero che si stanno tracciando davanti venga
spezzato dai nostri!
Questi
mortali, per quanto mi paia strano da dire, condividono con noi il
nostro peso.
Non siamo stati noi a
condurli su questo cammino, non sei stato tu. Sono state unicamente le
loro scelte, che si sono incrociate con le tue.
Qual è la differenza?
La
differenza sta nel chi sta guidando ora i suoi passi.
Tu hai provato a fermarlo
e lui non ti ha dato ascolto, non è stata questa una scelta
libera?
E tu? Cosa avresti fatto o non fatto, tu?
Io?
Sto facendo quello che ho
sempre fatto con tutti.
Lo sto accompagnando
verso la sua scelta.
L’elfo non riuscì a trattenere uno
sbuffo stizzito, facendo un passo avanti. I suoi occhi verdi tornarono
a farsi duri, concentrati.
Per una volta prova a far finta che io sia un’altra Musa. Una
qualunque.
O un tuo commilitone, come ogni tanto ti lasciavi scappare, quando
tornavi da una campagna di quel vecchio mondo.
Cosa vuoi fare con quelli là?
Aspettare.
Gli occhi dell’elfo si strinsero ancor
più.
Non mi avevi appena detto che vuoi accompagnarlo?
Questo non
vuol dire che voglio lasciarmi sconfiggere per lui, mai lo farei per un
mortale.
E allora?
Cosa vuoi aspettare?
Il mio obiettivo
è la spada nera. Non appena lei si muoverà, io la
intercetterò.
Non avverto lo stesso
potere di quando mi imprigionarono, non credo sia potente come allora
il suo portatore.
All’epoca c’era Follia che utilizzava quel
poveraccio come marionetta.
Non so se le manie di un semidio siano più pericolose di
quelle di un mortale…
…
E l’armatura divina? Come intendi gestirla?
Senza dimenticarsi del re dei draghi e dei suoi servitori. Anzi, se
vuoi proteggere il tuo eroe moderno ti conviene andare ad impalare
quelle lucertole prima che lo carbonizzino una volta per tutte.
Una cosa
alla volta.
Basterà
reagire alle loro mosse.
Un’ultima cosa, considerala un piacere personale.
Krave Dunnont, quel grassone, è mio. Devi solo lasciarmelo.
Angolo dell'autore:
Ebbene, rieccomi e, come un corvo, portatore di brutte notizie. Brutte
per chi sperava di veder la fine di questa storia in tempi molto brevi,
per lo meno.
Iniziamo con la solita premessa, tanto ormai ci siete abituati.
Avrete sentito tutti del blocco dello scrittore o della sindrome da
pagina bianca.
Sono difficoltà leggermente differenti tra di loro che ogni
autore sperimenta almeno una volta, e li conosco fin troppo bene
entrambi.
Il primo è un'incapacità di scrivere qualcosa,
avere una storia e non riuscire a metterla nero su bianco. La seconda,
invece, è il contrario, aver voglia di scrivere e non avere
una storia da raccontare e, quindi, rimanere a fissare la pagina bianca.
Al momento, tranquilli, non ho nessuno dei due.
Ho, però, una difficoltà nello scirvere. Ho la
storia, la tirò giù, nero su bianco, ma non mi
piace, la qualità dei capitoli si sta abbassando, almeno ai
miei occhi.. Mancano pochi capitoli alla fine di questa storia, meno di
una decina, e non voglio rovinare tutto. Non voglio che il lavoro di
anni, e per una volta sono mortalmente serio, vada sprecato in un
finale rozzo.
Tornerò a pubblicare una volta ogni due settimane, almeno
finchè non avrò ripreso un po' di ritmo di
scrittura.
Mi dispiace, davvero, ma, per lo meno, non dovrò scusarmi
più avanti per aver tirato fuori un finale brutto.
Potevo anche prendermi una pausa, è vero, ma, conoscendomi,
non avreste visto per mesi gli ultimi capitoli di questa storia.
Voglio finire questo viaggio, è arrivato il momento.
Ci ritroveremo, quindi, venerdì 12.
Scusatemi ancora e, ironicamente, scusatemi se mi sto scusando
così tanto, ma questa situazione mi da sui nervi.
Grazie per essere arrivati fin qui.
Vago
|
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Capitolo 57 *** Capitolo 25: Pedoni ***
Razer procedeva a passo spedito sulla piana spoglia, incurante delle
figure a cui andava incontro. I suoi occhi profondi erano puntati
solamente sull’essere che gli era stato indicato come il re
dei draghi.
La lama del suo pugnale si ostinava testardamente a brillare sotto i
raggi del sole calante, nonostante la polvere di roccia che le si era
depositata sopra.
Le tre figure mastodontiche che avevano da poco raggiunto quella che fu
la Terra degli eroi si mossero pesanti nella direzione di quel pazzo
che gli correva incontro. Le zampe ornate da artigli lucenti facevano
rimbalzare i sassolini sul terreno ogni volta che impattavano su questo
e le sinuose code squamate lasciavano alle loro spalle un solco nella
polvere che ricopriva quella terra priva di vita.
Un ruggito si levò al cielo, ma l’assassino non
parve neppure udirlo.
Mi chiedo quanto quello
che faremo impatterà sulla Trama.
Cosa intendi?
È che... cosa
sarebbe successo se avessi deciso di accompagnare uno di quei draghi,
invece di Razer? Quanto stiamo incasinando il mondo?
E perché
Razer ha deciso definitivamente di smettere di ragionare?
Si sta suicidando,
correndo in quella maniera.
Commedia, smetti di dire
cose senza senso, non è questo il momento.
…
Niente. Non importa.
Questo è il
motivo per cui, nonostante tutto, non sono diventato te.
Forse, quando tutto
questo sarà finito, ti racconterò la storia del
Viandante.
Smetti di parlare, devo
concentrarmi.
Fai quello che
vuoi…
Il terreno cominciò a tremare quando i tre draghi
cominciarono la loro carica verso l’uomo solitario, ma lui
parve non temerli, come un pastore che guarda dei cuccioli appena nati.
La sua mano si strinse sull’impugnatura del coltello che
brandiva.
L’armatura bronzea scattò in avanti come una
folgore, impugnando l’iridescente spada azzurra che le era
stata data. Non un lembo di pelle della fanciulla che era stata
liberata ora si vedeva sotto le piastre metalliche.
Maledizione.
…
Sarà il caso
che faccia anch’io qualcosa e non credo che il sedermi in un
angolo per aspettare questi eventi sia tra le possibilità
che mi sono concesse.
Noir starà
bene, qui. Non credo che uno di quelli là si
muoverà per lui. Non finché noi altri saremo in
piedi.
L’elfo si incamminò a passo veloce, facendo
fuoriuscire svogliatamente la lama di un lungo pugnale argenteo dalla
fenditura che gli si era aperta nel palmo della mano destra. Alle sue
spalle la lunga giacca sventolava, mossa dalla corrente che quel
movimento aveva generato.
Dovrei cambiare
vestiario, non vorrei inciampare in questi abiti.
O che questi pantaloni
vengano strappati in combattimento…
Non è stata
un bella esperienza…
La giacca parve vaporizzarsi, così come i capelli
dell’elfo e il resto del suo vestiario. Le volute di fumo
nero si addensarono attorno al corpo scuro dalle forme indistinte. Due
occhi dorati, due soli splendenti, si aprirono sulla superficie piatta
priva di imperfezioni.
Chissà come
mai mi è uscita proprio questa forma, quando mi sono trovato
faccia a faccia con Follia.
Stai un attimo in
silenzio.
…
Una fiammata scarlatta si spiegò sulla piana, scaldando
l’aria e rendendo le immagini che questa trapassavano quadri
tracciati da mani insicure.
Razer si gettò a fianco a sé, a terra, per
evitare il fuoco che gli correva incontro. Si rialzò,
però, quasi immediatamente, deciso a portare a termine
ciò in cui si era lanciato.
La spada dalla lama iridescente aprì una ferita nel muro di
fiamme, che si piegarono come in un inchino al rapido passaggio
dell’armatura. La stessa lama si conficcò nel
ventre del drago che stava sputando quell’inferno, facendo
zampillare fiotti di sangue bollente sul terreno arido.
L’enorme cranio della creatura ebbe un sussulto, la vampata
che veniva spinta fuori dal suo petto si andò ad
affievolire, perdendo di luminosità e calore, fino a
spegnersi completamente.
La testa del drago dalle squame smeraldine impattò sul
suolo, sollevando una coltre di polvere in cui l’armatura
bronzea si nascose alla vista degli altri due esponenti di
quella razza.
…
Un paio di possenti mascelle si chiusero con uno scatto secco sullo
spesso pulviscolo, senza riuscire a incrociare nulla sul loro percorso.
La lama azzurra turbinò una prima volta per scacciare la
coltre che la circondava.
L’armatura bronzea risplese per una frazione di secondo, una
statua antica dalla lucentezza invidiabile, immobile davanti
all’essere che la fissava con i suoi occhi scintillanti come
pietre preziose.
I pesanti stivali metallici del soldato si mossero quasi
impercettibilmente, senza produrre suono o smuovere la polvere che di
nuovo si era depositata.
La spada si mosse ancora, tracciando un ampio arco che dal basso
cercava di raggiungere il cielo, non curante della resistenza che il
muso squamoso che si frappose al suo passaggio cercò di
esercitare.
Una scia scarlatta di sangue, come la coda di una cometa,
solcò l’aria rovente.
La mascella ricoperta da squame color perla si spalancò in
un ruggito d’ira, che si ruppe quando il getto di fuoco
arrivò fino alla gola della creatura, per illuminare prima
il cielo, poi il terreno dove fino a poco prima si era trovata
l’armatura, ora scomparsa alla sua vista.
Una zampa dello stesso colore delle profondità marine
spazzò il terreno, ghermendolo con i suoi artigli,
costringendo il soldato a fare un balzo indietro e serrare anche la
mano sinistra sull’elsa dello spadone che brandiva.
Epica sta giocando un
po’ troppo con loro.
Per quanto siamo
creature immortali, non è piacevole essere avvolti dalle
fiamme quando si ha un corpo materiale.
Io ho avuto parecchio
tempo per sviluppare delle contromisure, seppur queste mi costringano a
perdere parte della mia materia per mantenermi protetto, ma lei non
è in grado di vaporizzarsi senza disperdersi.
Se dovesse abbassare per
un attimo la guardia, rischierebbe di dover fare a meno di ben
più di quel pugno di materia che io sprigiono.
So perfettamente quali
sono i miei limiti.
Smettila di distrarmi con
le tue chiacchiere, sei ancora più fastidioso di quando ne
ho memoria.
La Spada degli Abissi fendette l’aria una terza volta,
affondando la propria punta nel fianco scoperto del drago, perforando
qualunque cosa ci fosse sotto le spesse scaglie verdi.
Nuovamente il cielo che si andava scurendo venne illuminato da fiamme
vermiglie che avvolsero per una frazione di secondo
l’armatura scintillante, per poi spegnersi di colpo.
Uno spettro ammantato di nebbia rimase sdraiato sul muso del drago dai
riflessi blu scuri, anche quando il ventre massiccio del suo corpo
impattò contro la polvere, non più sorretto dalle
zampe.
Il lungo pugnale era stato conficcato a forza in mezzo al cranio
spesso, precisamente a metà tra i due occhi che adesso si
spalancavano vitrei.
Dicevi?
Stai zitto.
Epica, sono serio.
Non devi prenderli
troppo poco sul serio, questi. Sono la cosa più vicina alla
magia che è rimasta, probabilmente. Sono pericolosi, anche
per noi.
E tu li staresti
prendendo sul serio?
Stai sbeffeggiando il suo
cadavere, rimanendoci sdraiato sopra.
Chi ha detto che non
posso prendere sul serio anche non prendendoli sul serio?
E poi, non meno
importante, io li conosco e conosco davvero i miei limiti.
Quasi nulla di quello
che è presente su questo pezzo di roccia arida
può uccidermi, al contrario di te.
Dovresti imparare a
diventare immateriale, è comodo in molti casi.
Non mi interessa cosa sai
o non sai fare.
Ti sei intromesso, di
nuovo.
Stanne fuori da questa
storia, non ti compete.
A no?
Lo spettro si puntellò con il braccio sinistro sulle squame
della nuca del drago ormai privo di vita, utilizzando
quell’appoggio per balzare a terra. A metà del
movimento la mano destra strinse l’impugnatura della sua arma
argentea, estraendola dal fodero di carne in cui era stata conficcata.
Passò quindi tranquillamente di fianco
all’armatura diventata incandescente a causa del soffio che
l’aveva investita. La mano libera fece per dare una pacca
sullo spallaccio metallico, ma si trattenne.
Non credo che
papà sia d’accordo con te.
Te l’ho detto,
la morte, la vita, le guerre e i casini dei mortali, ormai, competono
molto più a me che a te.
Non vorrei dirtelo in
questa maniera, ma non mi lasci scelta. La bambina che ti sei
trascinato dietro per mezzo mondo, quella che ha brandito la tua Spada
del Fato senza esserne in grado pur di sigillare la Trama del Reale,
è morta. È morta, se non quel giorno, non molto
tempo dopo.
Puoi continuare a
chiamarmi Commedia, perché quello è il nome che
quel vecchio fannullone di nostro padre mi ha dato, ma non sono
più quel Commedia.
Potremmo dire che sono
diventato il ricettacolo che ha conservato le ceneri rimaste della
nostra razza.
Ora terminiamo
velocemente quello che abbiamo cominciato, Acqua rivorrà
indietro la sua spada.
Lo spettro si allontanò ancora di qualche passo dalle tre
carcasse splendenti, sollevando lo sguardo verso Razer, che non si era
degnato di rallentare per assicurarsi che i suoi inseguitori fossero
effettivamente tutti morti.
Quello lì si
farà ammazzare prima ancora di essere riuscito a mettere un
dito su Sharadan.
Tra l’altro,
Johanne Fenter non permetterà mai che qualcuno possa ferire
il suo animaletto preferito, considerato in che posizione la pone avere
il re dei draghi come fedelissimo.
Dannazione.
E poi voglio spaccare la
faccia a quel porco di Krave Dunnont. Ne ho un bisogno fisiologico per
scaricare le frustrazioni degli ultimi millenni.
…
E, si. Non ho
considerato coscientemente Sarah Dan Rei. Lei non è un vero
pericolo, a meno che non abbiano un altro asso nella manica di cui non
sono a conoscenza. Ma non dovrebbero possederlo, perché
nascondermelo finora, dopotutto?
…
Noir avvertì la sua maledizione tornare a turbinare nelle
sue vene.
Davanti ai suoi occhi, la fanciulla in armatura turbinava rapida e
letale tra i tre imponenti draghi nella loro forma natia, rimanendo
illesa dai loro attacchi e fendendoli con quella sua lama che gli era
così familiare, come se una parte della sua mente
l’avesse già vista, da qualche parte.
L’elfo al suo fianco prima mutò fino a diventare
una nera e fumosa figura indistinta dagli occhi di luce, per poi
scomparire dalla piana.
Un muro di fuoco gli impedì di seguire i movimenti del
combattimento, isolandolo dal resto del mondo.
Angolo dell'Autore:
A quanto pare il mio essere piantato con i capitoli si estende anche a
questi angoli a piè di pagina.
Sono privo di argomenti, per una volta, e il riempire righe tanto per
fare non fa altro che aumentare la mia frustrazione. Ecco, se la
frustrazione avesse una faccia, probabilmente sarebbe la mia, in questo
momento. Questa per me, adesso, è la classica situazione in
cui l'universo ha deciso che nulla deve andare secondo i piani.
Ma vabbè. Capita, è capitato e
ricapiterà.
Molto più utile da parte mia, invece, ringraziarvi tutti.
Voglio ringraziarvi perchè mi leggete, perchè mi
seguite, perchè mi avete dato fiducia e questa
possibilità. Voglio ringraziarvi per le recensioni e per il
semplice passaggio, davvero. Ma, soprattutto, voglio ringraziarvi per
sopportarmi, ho la vaga sensazione di essere stato un po' pesantuccio
da digerire, ultimamente.
Siamo appena entrati nella boss rush finale. Un'ultimo sforzo e,
finalemente dopo anni, vedremo la fine di questa storia, la meta a cui
ha portato tutto quello che vi ho raccontato finora.
Grazie ancora.
Vago |
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Capitolo 58 *** Capitolo 25.5: Tagliabile ***
Quanto tempo pensi serva
a Razer per rischiare la prossima morte?
L’armatura bronzea alzò lo sguardo celato
dall’elmo verso est, in silenzio.
La sua mano rinfoderò in un gesto fluido la spada,
nascondendo quella lama iridescente ai raggi del sole.
Un minuto e ventiquattro.
Quanto sarà
morto in quel momento?
Sarà alla
portata della spada nera.
Dannazione, speravo di
avere più tempo, mi sarebbe piaciuto togliere di mezzo
almeno uno di quei due leccapiedi.
Sono solo due mortali,
impiegheremo più tempo a raggiungerli che ad ucciderli.
Mi preoccupa la
sfortuna. Uno di loro ha un’armatura divina e, anche con
queste armi, dovremmo perforarla, prima di colpire il suo possessore. E
non voglio credere che l’altro sia venuto fin
quassù con un manipolo di Demo e null’altro.
Allora concentriamoci
entrambi sul riappropriarci di quell’armatura.
…
Armatura e spettro si mossero assieme in direzione di Sarah Dan Rei,
che addosso ancora portava l’ultima polvere di roccia dovuta
al crollo del cunicolo in cui poco prima si era trovata.
L’armatura che indossava continuava però a
scintillare nonostante lo strato grigio che la ricopriva,
così come gli antichi glifi che si intrecciavano sulla
piatta piastra pettorale rimanevano ostinatamente visibili, nonostante
non ci fosse più nessuno in grado di comprendere cosa
dicessero.
Lo spettro aggiustò la presa sull’arma che gli era
stata affidata, i piedi avvolti nella coltre di nebbia impattavano
appena contro il suolo e i suoi occhi luminosi erano fissi sul suo
obbiettivo, in cerca di un’imperfezione da sfruttare in quel
lavoro divino.
- Finiamo qui questa messinscena. Mi occuperò io di tutto .
–
Cosa?
Lo spettro si fermò di colpo, voltando il suo sguardo verso
il gruppo principale di mortali, dalla quale erano arrivate quelle
parole.
Johanne Fenter fece un passo avanti, preparando la spada a tagliare
qualunque cosa passasse sul suo cammino.
- Lascia che mi occupi io di loro, Johanne. – le disse da
dietro l’uomo snello dai capelli bruniti perfettamente
ordinati, sfilandosi dalle spalle la pregiata giacca che lo proteggeva
dall’aria montana.
- Non sarà il caso, principe, non vorrei farti rovinare quei
capi ora, quando la tua incoronazione a re è così
vicina. –
- Come preferisci. –
Il Giudice Maggiore si lasciò alle spalle il principe dei
draghi, con la giacca del suo abito smeraldo ancora tra le mani.
I suoi occhi erano gelidi e non uno dei suoi capelli dorati sfuggiva
all’acconciatura per intaccare la sua vista.
La lama della spada che impugnava vibrava, emettendo un suono cupo e
ovattato che poteva essere definito il canto di quell’arma.
Epica, non credo avrai
tempo per giocare con quella.
A quanto pare il pezzo
grosso non ha voglia di aspettare il nostro arrivo nella sala del trono.
Commedia, di cosa stai
parlando? Di quale sala del trono?
È un
riferimento al fatto che…
Fa nulla.
Non importa.
Comunque il tuo minuto e
ventiquattro si sarà appena dimezzato.
Le narici della donna ispirarono a fondo l’aria montana mista
alla particolare essenza che quella spada emetteva, poi si permise un
sorriso.
Aveva letto tanto su quell’arma. Aveva letto tutto.
Leggende di viaggi attraverso l’aria e forza disumana, della
caccia alle Muse e dell’ombra della spada, che seguiva
chiunque la impugnasse.
Tutti fatti che potevano essere accaduti o meno, ma che visti
attraverso degli uomini che poi li avevano trascritti dovevano aver
preso sfumature fantastiche.
Non c’era nessun’ombra a seguire quella spada.
Non c’era nessuna forza sovrumana né forma di
spostamento dovuta ad essa, per quanto avesse sperimentato.
Ma la caccia alle Muse, quella era avvenuta, e se degli umani erano
riusciti a tener testa a decine di creature come il Viandante, allora,
lei non avrebbe avuto problemi a sconfiggere, da sola, quelle quattro
formiche che le si erano parate davanti nella sua continua scalata.
La lama nera si levò nel cielo serale, cantando il suo inno.
La senti?
Si, ma onestamente non
mi ricordo se all’epoca facesse lo stesso.
Per me,
quell’epoca era ieri.
E no. Non cantava.
Sembra stia risuonando
con qualcosa.
Epica, ricordati che
Follia non è morto, è solo imprigionato in una
pietra sanguigna o quel che sia quella roba.
Non vorrei che,
essendoci una parte di lui in quell’arma, possa liberarlo.
Io non l’ho
sconfitto, l’ultima volta, neanche lontanamente, non voglio
pensare cosa possa fare ora che è incazzato con me e che
è rientrato in possesso della sua spada.
Ma, soprattutto, ora che
è incazzato nero con me.
Deve poter cadere anche
lui.
Gli dei cadono?
Io, lui l’ho
visto solo precipitare.
…
La spada ridiscese verso il terreno, accompagnata
dall’ennesimo passo avanti di Johanne Fenter.
Il corpo di Razer le era di fronte, con la fronte imperlata e gli occhi
stretti. Nelle sue iridi scure non pareva essere
più presente alcun pensiero. Quegli arti si muovevano
meccanici, ogni muscolo ripeteva le azioni che aveva imparato,
uccisione dopo uccisione, prima e dopo ogni fiammata di ritorno che
aveva provocato.
Non si accorse neppure della mezzaluna di morte che lo voleva
incontrare.
La spada nera cantò più forte, spandendo
cristallino quel suono cupo e tramante per diversi metri attorno a
sé.
Un artiglio di melassa l’aveva raggiunta, conficcandosi sul
suo filo, pochi centimetri sopra la larga guardia che proteggeva la
mano di chi la brandiva dalla sua bramosia di sangue.
La sostanza nera si ricontrasse, ma non parve voler lasciare la presa
che si era conquistata. Richiamò invece a sé
l’altra estremità con tutto quello a cui era
legata.
Noir si trovò improvvisamente coinvolto in un tiro alla
fune, dove il suo stesso petto, da cui era nato quel lungo artiglio che
serpeggiava nella piana, gli lottava contro.
Le gambe, stanche e piene di tagli, cedettero, incapaci di sostenere
ulteriormente quello sforzo.
Il trentenne non poté far altro che urlare in cerca di aiuto
mentre cadeva a terra, per poi venir trascinato verso il luogo in cui
già si avvertiva la tensione di uno scontro imminente.
Nelle sue vene, in quel momento, era rimasta così poca
melassa che a stento riusciva a proteggerlo dai sassi più
grossi sui quali veniva fatto strisciare, ma, come una lenza da pesca,
il suo corpo la stava recuperando velocemente. O forse era lei che gli
ci si gettava dentro a forza.
Rotolò sulla terra, sui sassi e sulla polvere, rimbalzando a
ogni dosso o imperfezione del terreno e lottando disperatamente per, se
non fermarsi, almeno riuscire a rimettersi in piedi.
L’artiglio di melassa lo trascinò verso
l’alto, consegnando il suo peso sulla lama a cui era
avvinghiato e facendolo gravare sul braccio del Giudice Maggiore.
Johanne Fenter guardò con disprezzo
l’estroflessione nera e il corpo ai suoi piedi che cercava di
rialzarsi. Le avevano impedito di uccidere immediatamente
l’assassino di draghi. L’avevano sfidata.
Smise di contrastare il desiderio dell’arma di calare,
assecondandola.
La lama della spada nera tranciò l’aria, si fece
strada come nel burro caldo attraverso la corazza che era nata per
proteggere il proprio ospite e affondò nella spalla di quel
corpo a stento inginocchiato, penetrando fino a raggiungere
l’altezza del cuore.
Noir alzò gli occhi spenti dall’elsa che gli
perforava il petto, alle sue spalle la punta che gli bucava la schiena
gettava la sua lunga ombra sul terreno come un’immensa
meridiana.
La spada lanciò un inno nel vento montano.
Non gli sarebbe successo
niente, vero?
Dannazione, quando mi
ascolterai?
Io volevo portarlo via
di qui!
Lui è solo
l’ennesimo che ci crepa per colpa nostra! E non doveva
succedere!
Commedia, cerca di
calmarti.
Calmarmi?
Io dovrei calmarmi?
Volevo fare una cosa
veloce e pulita qui. Ma no, dovevi voler far avverare i sogni suicidi
di Razer contro quel maledetto drago.
Dannazione!
Risolveremo tutto.
Abbiamo ancora le armi
degli dei.
Non mi interessano le
maledette armi degli dei. Sono dei dannati reperti da museo.
Lui mi interessava.
Questa maledetta Spada del Fato poteva anche spezzarsi nel momento in
cui mi è stata consegnata, non me ne sarebbe fregato nulla,
ma quel Buco della Trama non si meritava questo, non dopo quello che ha
passato.
Commedia, non sei lucido,
rimani in disparte, per il tuo bene.
Dovrei rimanere in
disparte? E per cosa?
Per vedere anche Razer
venire ucciso a caso per colpa di una guerra a cui non dovrebbe
partecipare?
L’armatura non rispose, limitandosi a lasciarsi alle spalle
lo spettro e spostarsi verso la spada nera, perdendo interesse
nell’armatura di cui voleva rientrare in possesso.
- Sharadan, in realtà potrei aver bisogno di essere
alleggerita da un peso. – disse a labbra strette la giovane
donna bionda, mentre il suo braccio si contraeva ritmicamente nel
tentativo di liberare la sua spada dal corpo in cui era piantata.
Il drago sorrise compiaciuto, increspando appena la sua pelle chiara.
La giacca smeraldo cadde a terra lieve, mentre il petto del suo
possessore veniva percorso da spasmi violenti e i suoi lineamenti si
facevano più spigolosi. |
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Capitolo 59 *** Capitolo 26: Confronti ***
L’ombra oblunga di un immenso drago si stese sulla piana.
Stracci laceri pendevano sulle squame arancioni come per coprirne la
brillantezza e, attorno al collo, gli si dispiegò una fascia
in cuoio decorata che ancora mostrava i segni delle innumerevoli pieghe
in cui era stata costretta.
Le fauci ornate da impeccabili denti d’avorio si chiusero sul
corpo immobile di Noir, sfilandolo di forza dalla lama della spada che
sembrava aver scelto lui come suo fodero.
L’imponente rettile dagli occhi lucenti alzò il
muso serrato al cielo, schiudendo appena le labbra squamose per
permettere ad arzille fiammelle di fuoriuscire da
quell’immenso forno di carne e scaldare l’aria
serale.
Razer batté un paio di volte le palpebre, quasi si fosse
risvegliato da un lungo sogno. La sua bocca si allargò per
farne uscire un urlo.
L’uomo si gettò in avanti, con il coltello teso.
Il suo cervello aveva già trovato la piccola conca appena
sotto la clavicola attraverso la quale l’apparato del drago
era facilmente raggiungibile.
Gli sarebbe bastato solo quel colpo.
La spada nera si piazzò davanti al suo tragitto, impattando
di piatto contro la punta del coltello e facendolo volare a terra,
sotto la mole del drago, per poi roteare lungo la sua lunghezza in modo
da mostrare al trentenne dal polpaccio ustionato il suo filo mortale.
Si mosse quindi verso di lui, fendendo l’aria orizzontalmente.
Lo spettro si guardò attorno, sconsolato. I suoi occhi
lucenti si posarono sull’armatura argentea, facendola
brillare.
Mosse a turno le dita sull’elsa della spada del Fato,
sistemando al meglio la presa che aveva su di essa.
Piegò e stese il braccio sinistro, pensieroso.
Calciò qualcosa a terra, facendolo cadere poco
più avanti nella polvere.
Con uno sbuffo di fumo fece sparire la propria arma.
In una seconda voluta ridimensionò il proprio corpo.
Un corvo color pece diradò il poco pulviscolo rimasto con un
colpo d’ali, per poi sollevarsi da terra quel tanto che
bastava per portarsi sul tetto di quell’unica casupola
lì vicina.
Le piume della sua coda si spiegarono come una mano di carte, spezzate
a metà dalla penna bianca.
Razer non riusciva più a muoversi.
I pensieri passavano troppo lentamente nel suo cervello.
Era partito per vendicarsi, non aveva altra ragione di vita.
Poi aveva visto Noir morirgli davanti.
Non si era affezionato a lui, ma quell’immagine gli aveva
fatto venire un dubbio. Poteva essere ucciso anche lui da quella spada
prima di adempiere al suo compito? Da quella spada che era riuscita a
ferire quell’uomo dal potere così potente?
Ed ora gli stava davanti e gli veniva incontro.
Non aveva nulla per difendersi, ma, tanto, qualcosa dentro di
sé gli diceva che non ci sarebbe riuscito.
Ci fu un cozzare di ferro contro ferro, la lama nera si
specchiò in quella eterea della Spada degli Abissi.
L’armatura alzò lo sguardo sul diretto contendente
e, nelle profondità oscure dell’elmo, si accesero
due fiamme rosseggianti.
- Ho visto trucchi migliori dal Viandante, non credere di intimorirmi
con così poco. Dopotutto tu sei solo la musa che
è stata catturata da noi. –
- I miei non sono trucchi. –
La spada eterea premette contro la rivale, facendola indietreggiare di
qualche pollice. Altrettanto fece Razer, ritornando per un attimo sui
suoi passi.
Non ho intenzione di
entrare in quella lite.
Che se la risolvano tra
di loro.
Quel verme di Dunnont,
invece, che fine ha fatto?
La spada nera cozzò contro la lama cristallina, venendone
respinta
-Conosco la storia. So che questa spada ha ucciso decine di creature
come voi. Puoi combattere, ma non puoi scappare dal suo potere.
–
- Tu non conosci nulla. Tu non sai nulla. E ogni morte tra le nostre
fila è stata colpa mia, non vostra. Ma oggi
metterò la parola fine a questo spargimento di sangue.
–
L’armatura bronzea si stagliò contro il cielo che
cominciava a tingersi di rosso, i tizzoni che brillavano
nell’interno oscuro dell’elmo rimanevano saldamente
puntati sulla donna dai capelli biondi.
Un Demo ferito si trascinò a fatica dal suo proprietario,
facendo strisciare le zampe posteriori sul terreno, incapace di
muoverle.
L’imponente Krave Dunnont respirava a fatica, gonfiando e
sgonfiando il largo petto come il mantice di una forgia appena entrata
in funzione. I capelli scuri ricadevano sporchi sulla fronte arrossata
dallo sforzo.
Il tessuto dei suoi vestiti si tirava ritmicamente sul ventre gonfio,
muovendosi di pari passo con le gambe tozze che cercavano di portarlo
lontano da quel luogo.
Dal muso schiacciato del Demo proruppe un verso lugubre, che a stento
riusciva a superare le zanne sporgenti che comparivano da quelle labbra
scure.
Il mercante di quegli esseri si voltò in direzione di
ciò che rimaneva della sua scorta, continuando a scrutarsi
attorno come un topo in gabbia, poi, con un goffo movimento
dell’anca diede un calcio sul fianco scheletrico
dell’animale, gettandolo a terra mugolante.
- Maledetto. – bofonchiò a corto di fiato
– Siete creature inutili, tutti voi. –
Un altro calcio raggiunse il ventre della creatura, seguito da un terzo.
- Inutili bestie senza cervello. Dovevate ucciderli tutti. –
Krave Dunnont sputò sulla pelliccia sporca di sangue e
polvere del Demo, provato dallo sforzo.
- Tu non metterai nulla a tacere. Io conquisterò tutto
ciò che bramo. Niente potrà mettersi tra me e le
mie ambizioni, non finché avrò il potere di
questa spada dalla mia parte. –
- Non capisci con che forze stai combattendo. – fu la
risposta gelida dell’armatura – Quella spada non ha
più alcun potere ed è a causa vostra e del vostro
istinto di sopravvivenza. –
- Tu menti. Non sai niente, sei stata nella nostra prigione per secoli,
non sai nulla di quello che abbiamo fatto. –
La voce lontana proveniente dai meandri di quell’armatura
appartenuta a un’altra epoca si fece più bassa,
quasi temesse che qualcuno potesse star origliando quella conversazione.
- Sono rimasto particolarmente ben informato di tutto quello che
avveniva nel mondo esterno, durante la mia prigionia. –
- Non dovresti trattare così le uniche creature che ti sono
state fedeli. – disse una voce rimbombante.
Krave Dunnont fece un balzo indietro, riuscendo a stento a mantenere
l’equilibrio.
- Dimmi, perché ti sei portato questi cani da guardia fin
quassù? Il Giudice Maggiore non ti reputava adatto ad avere
una delle armi incantate della vostra collezione? O forse
perché non riuscivi ad entrare dentro
quell’armatura? –
Il volto del mercante di Demo si fece ancor più paonazzo.
Il Demo a terra si rialzò a fatica sulle zampe lunghe
anteriori, smuovendo lo sporco che si era sedimentato tra i corti peli
che ricoprivano il suo corpo.
I suoi occhi si accesero della stessa luce emanata dal sole, mentre le
sue membra si risistemavano per permettergli di assumere una posizione
eretta.
Una densa nube avvolse quel corpo scheletrico, celandolo alla vista
dell’uomo che gli stava davanti.
- Non sai da quanto tempo aspettavo questo momento. – disse
lo spettro, avanzando verso l’uomo che a stento respirava.
- Risparmiami, ti prego… è colpa di Johanne
Fenter, è lei che ha orchestrato tutto! –
l’uomo retrocedette incerto, come se dietro ogni suo passo
potesse nascondersi un burrone.
- Oh, lo so. Un verme come te avrebbe sfruttato il mio potere appena a
un ottavo di quello che effettivamente mi avete chiesto di fare. Ma non
è questo il motivo per cui sono qui. Volevo renderti
partecipe di quanto sei fortunato. –
- Fo… fortunato? –
- Oh, si, certo. Fortunato. Proprio molto fortunato. – lo
spettro fece un passo di lato, permettendo agli ultimi raggi del sole
che gli riscaldavano la schiena di arrivare fin sul volto
dell’uomo corpulento – Guarda che splendido
tramonto. Ed è ancora più bello degli altri,
questo. Sai perché? -
L’uomo sudato scosse la testa, facendo sobbalzare il doppio
mento che gli ornava la gola mentre deglutiva.
- Perché, quando questa sera il sole sarà
tramontato, io non ucciderò più. E tu, pensa
quanto sei fortunato, parteciperai al mio ultimo giorno da assassino.
–
- No, no, ti prego. Risparmiami! Farò qualsiasi cosa vorrai!
–
- Qualsiasi cosa? –
- Ogni cosa dirai sarà un ordine per me. –
- Chiedimi di mettere fine a questa follia. –
- Devo… devo chiederti di… -
- Di mettere fine a questa follia. Non mi sembra troppo difficile.
–
- Metti fine a questa follia. – bofonchiò
l’uomo, con la voce strozzata nella gola gonfia.
- Ridillo, voglio sentirlo per bene. –
- Metti subito fine a questa follia! – urlò
l’uomo con ogni briciolo di fiato che i suoi polmoni
ospitavano ancora.
- Speravo ti venisse un infarto. Peccato. Comunque, si,
metterò fine a questa follia. –
Nella mano avvolta dal fumo dello spettro risplendette la lama della
Spada del Fato. Bastò un solo movimento perché il
corpo massiccio di Krave Dunnont cadesse a terra con la gola resa una
fontanella di sangue gorgogliante.
Immaginavo questo
momento molto più soddisfacente.
Peccato che non ce ne
siano altri di lui su cui accanirsi.
In lontananza, un’armatura argentea sferragliava
rumorosamente mentre si allontanava sulla piana.
Dovremo andare a
recuperarla, dopo.
Sarà una gran
rottura, ma non penso che con tutto quel metallo riuscirà ad
andare lontano.
Razer alzò lo sguardo sulla corazza brunita che gli dava le
spalle.
Avvertiva da lei lo stesso potere che aveva percepito quando si era
trovato il cane del Tribunale di Gerala davanti a casa.
Non poteva competere con quel potere.
I suoi occhi si spostarono sulla mole del drago poco lontana, che a sua
volta pareva incerta su cosa fare, con le mandibole ancora serrate
sulla preda che aveva incenerito.
Il pugnale da caccia era ancora sotto di lui, avvolto dalla polvere di
terriccio che lo circondava. |
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Capitolo 60 *** Capitolo 26.5: Spinta in avanti ***
Che gran seccatura.
Avrebbero potuto
rispettare semplicemente il contratto e non sarebbe successo tutto
questo casino.
…
Sono libero, ora,
teoricamente.
…
Mi aspettavo una
soddisfazione maggiore da tutta questa faccenda.
Ho gettato al vento
millenni di esistenza seguendo i loro ordini ed ora mi pare tutto
così… inutile.
Il novanta percento del
mio operato è stato cancellato dal Cambiamento e buona parte
di quel che ho fatto dopo è riassumibile con
“controlla o proteggi i prescelti, nomina capi di stato e fai
il lavoro di quegli incapaci del Tribunale”.
Non ho idea di quel che
farò ora… è passato così
tanto tempo che non credo riuscirei a riprendere il mio ruolo
originale. A questo punto, con tutti i millenni che lo hanno eroso, non
so nemmeno se il mio nome mi appartenga ancora…
Il sole ora illuminava rosseggiante la distesa brulla di terra con i
suoi ultimi raggi.
Sotto di lui la Grande Vivente si stendeva maestosa, come per
proteggere tutte le città e i villaggi che erano sorti ai
piedi degli imponenti alberi che la componevano.
Figure scure, rese minuscole dalla distanza, si affrettavano sulla Via
Sospesa, che si snodava al di sopra delle fronde.
Il suono vibrante di acciaio contro acciaio riempì
l’aria per un momento.
Epica è
davvero fuori allenamento.
Era riuscita a fare ben
più danni, all’epoca, benché ci stesse
cercando di proteggere.
Taci per un momento.
È
sufficientemente fastidioso essere costretto ad ascoltare i deliri di
questa donna, non affollare la Trama anche con i tuoi commenti fuori
luogo.
Lo spettro scalciò per terra, spostando la polvere che
continuava a risalire nell’aria e a sedimentarsi sul suolo,
muovendosi a lunghi passi verso la casupola che nascondeva
l’accesso alla struttura sotterranea in cui l’altra
Musa aveva dimorato in prigionia fino ad allora.
Si chinò appena su qualcosa di lucente, soppesandolo con una
nota di dubbio negli occhi splendenti.
Tra le mani avvolte in guanti di denso fumo stringeva la lama spezzata
di una spada, sul cui filo ancora si vedevano i segni dei violenti
combattimenti a cui aveva partecipato.
Non penso gliela
riporterò mai indietro…
Chissà che
fine ha fatto l’altro pezzo. Sono quasi sicuro che ce lo
fossimo portati dietro nella prima parte della caduta…
Commedia!
Si, si, certo. Ho capito.
Me ne sto qui a
guardarti combattere.
…
Se non fosse che se quel
drago cominciasse a ragionare con la sua testa potrebbe creare una
situazione complicata da gestire.
Lo sguardo dello spettro si spostò leggermente alla destra
della scena che stava osservando.
Razer era evidentemente teso di fronte al combattimento che si stava
svolgendo a pochi passi da lui, ma, rimasto disarmato, non poteva far
nulla per intervenire.
Poi, dietro all’uomo dal polpaccio ustionato, si ergeva
imponente l’attuale re dei draghi, una gemma arancione
scintillava alla luce del sole morente. Dalle sue mascelle serrate
pendevano mollemente stralci di materia bruciata.
Proprio quelle mascelle si aprirono, permettendo al puzzo di
carne bruciata di fuoriuscire da quella voragine. Brandelli di materia
nera, non ben riconoscibile, scivolarono lungo la base delle zanne
d’avorio, colando a terra.
Il re dei draghi ruggì violentemente verso il cielo, per poi
rivolgere i suoi occhi all’armatura bronzea che gli stava di
fronte.
Dannazione. Il cosmo
esiste per complicarmi la vita.
Quel drago deve morire
subito.
Non mi sono rimaste
molte frecce al mio arco. Letteralmente.
Non ho intenzione di
rinunciare alla Spada del Fato per la possibilità di
uccidere qualcuno.
Darò una
spintarella al Fato di qualcuno.
- Razer! – tuonò una voce tanto potente da far
tremare i sassi sul terreno intorno al suo proprietario.
Un’asta scintillante roteò nell’aria
serale, andando a conficcare la punta con cui terminava nel terreno, a
pochi centimetri dai piedi del draghicida.
L’uomo dagli occhi profondi guardò la lama
spezzata con sguardo turbato, per poi raccoglierla con cura per non
tagliarsi i palmi o le dita con il filo lucente.
Si voltò quindi verso il colosso squamoso, con una luce
diversa nelle pupille.
Vedremo se
sarà abbastanza bravo da sfruttare il mio aiuto.
Commedia, smetti di
chiacchierare! Sei destabilizzante!
Si,si. Ora penso a te.
…
Devo solo capire come.
Vediamo…
Smettila!
Stai solo un attimo zitto!
Se mi lasciassi un
attimo tranquillo potrei anche pensare a come aiutarti con
quell’ubriacona.
Ma cosa…?
Vediamo quali altre
carte mi rimangono nelle braccia.
O nella cassa toracica.
O nel cranio.
In realtà
potrei avere assi nascosti e dimenticati in tutto il corpo.
…
Sarà una
lunga ricerca. Dovrei fare un po’ di pulizia.
Ti prego, stai zitto per
un secondo e lasciami finire questo combattimento in santa pace.
…
…
…
…
Uhm.
…
Questo l’avrei
dovuto buttare secoli fa.
…
Ah, ecco qualcosa che mi
potrebbe essere utile.
Ti scongiuro, mi sta
scoppiando la testa.
Epica, ti ricordi come
ho fatto a non farti uccidere, quella volta?
Cosa c’entra
ora?
Pensa solo che stia per
rifare una cosa del genere.
Adesso.
Reagisci di conseguenza.
E fidati.
…
In questo modo dovrei
aver sistemato tutti.
Angolo dell'Autore:
È relativamente presto, in questo momento nel quale scrivo.
Sono appena le 22 e, normalmente, avrei lasciato passare ancora queste
due ore che mi separano da mezzanotte prima di cominciare a tirare
giù un paio di righe per l'angolo dell'autore.
Anzi, non avrei nemmeno fatto questo sforzo mentale questa volta, vista
la mia reticenza a dare una mia opinione su qualsiasi cosa nei capitoli
.5, per quanto negli ultimi tempi questo genere di capitoli si sia
appianato come tipo di narrazione a quelli "canonici".
Ma questo è solo un preambolo inutile, in realtà.
Non voglio scusarmi certamente per aver inserito un angolo ai piedi di
questo capitolo, non è questo l'argomento per cui vi voglio
chiedere scusa e riguardo al quale darvi qualche spiegazione.
Nell'ultimo periodo, se avete visto un calo nei miei lavori, beh...
probabilmente era una sensazione fondata.
Avrete, avrai, tu che mi stai leggendo, qualunque siano l'ora o il
giorno per te ora, presente il classico periodo sfigato. Beh,
evidentemente nell'ultimo periodo l'universo ha cominciato a giocare a
freccette con la mia faccia o, come potrebbe metterla un giocatore di
ruolo, sono io che ho rollato un bell'1 sul d20. Se non hai capito la
citazione, non preoccuparti.
Comunque, ultimamente ho pensato più volte lasciar perdere
tutto, tra cui figura anche questo passatempo, per un po', pur sapendo
che, per come son fatto, avrei ripreso a scrivere tra dei mesi, se va
bene.
Questa era la prima scusa che volevo porgervi. Scrivere quando si ha
altro per la testa non produce gli stessi risultati di quando lo si fa
con "l'ispirazione" che, che ci crediate o meno, esiste davvero.
Ancora, e soprattutto, adesso mi sto chiedendo se ne è valsa
la pena scegliere la costanza delle pubblicazioni alla
qualità che queste potessero avere. E chiariamoci, io ho
degli standard altissimi, specialmente per quello che riguarda
ciò che ho fatto io. Non credo che qualcuno mi
criticherà mai più duramente di quanto non faccia
da solo.
Ma c'è un ma.
Per quanto non so se la scelta che ho fatto sul mio cammino sia la
migliore, mi ha portato a questo capitolo 26.5, anche detto
sessantesimo, ed ora, davanti a me, vedo al massimo tre capitoli prima
della meta.
Tre capitoli.
Avrò bisogno di parecchio tempo per metabolizzare questa
nozione.
Sono cresciuto con questa storia, come scrittore e letteralmente
invecchiando. Saranno passati nove anni da quando un piccolo me stesso
imberbe riempiva le prime pagine di quella che diventerà La
Guerra degli Elementi per far passare un'estate senza compiti delle
vacanze, reduce dalla fine della terza media. I ricordi non sono poi
tutti così belli, Ardof piatto come una tavola, Vago con
l'improbabile nome di Dranos e la totale assenza del Viandante. Era una
storia obiettivamente brutta, per quanto non fosse la peggiore che
avessi scritto, anzi, forse è stata la prima cosa decente
che sono riuscito a tirare fuori.
Sto diventanto prolisso e logorroico. Scusatemi anche per questo. Un
paio di cose veloci ancora e poi chiudo, lo prometto.
La prima è un libro che vi vorrei consigliare, mai avrete
l'occasione di trovarlo. È una trilogia, in
realtà, ma avendola ricevuta come regalo in un unico volume
fatico a riferirmi a lei come tale.
La trilogia di Bartimeus è il titolo e Jonathan Stroud
è l'autore. Se vi è piaciuto il Viandante
ringraziate lui e il djinn Bartimeus, perchè è
lì che mi sono innamorato di quel genere di personaggio.
La seconda non so come definirla. Non è nè una
richiesta nè una possibilità. Stiamo per arrivare
al termine di questo lunghissimo viaggio e dubito toccherò
mai più questo universo, il finale chiuderà in
maniera sufficientemente ferrea tutta la storia. Non vi chiedo ancora
una recensione su tutto questo lavoro, mancano ancora i capitoli
più importanti per poterlo fare. La mia intenzione
è, invece, quello di togliervi dei dubbi, di qualsiasi
genere e sorta.
Vi lascio carta bianca: Avete dei dubbi sulla storia, volete degli
spoiler (perchè siete brutte persone, ovviamente, i buoni si
tengono alla larga dagli spoiler), vi siete persi nelle centinaia di
pagine e nelle decine di angoli che ho lasciato e avete bisogno di
ricapitolare un qualsiasi argomento, davvero, qualsiasi cosa, io sono
qui. Qualunque cosa vogliate da me lasciatemi una recensione, un
messaggio privato, un piccione viaggiatore e vi risponderò
nel modo migliore.
Cosa intendo per modo migliore? Se è qualcosa che non
è il caso di rendere troppo pubblico perchè
potrebbe non interessare molti i messaggi privati sono perfetti, se
sono spiegazioni che potrebbero aiutare qualcuno a raccapezzarsi,
risponderò in maniera più fruibile, che sia come
una risposta a una recensione o nei pochi prossimi angoli dell'autore.
E questo varrà sempre, finchè mi
ricorderò di aprire ancora questo sito.
Come promesso ora chiudo.
Grazie a tutti voi e scusatemi (X3) per questo angolo eterno, volevo
recuperare il tempo perso.
Alla prossima, e a quelle a venire, fino alla fine.
Vago
|
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Capitolo 61 *** Capitolo 27: Regicida ***
Le dita di Razer si strinsero sull’aria che gli occupava il
palmo sporco di terra.
Era davanti a lui il colpevole della morte della sua famiglia. Era
finalmente giunto davanti a lui e non poteva finire ciò che
aveva iniziato.
Tutti quegli anni a prepararsi, a studiare quei mostri, a tentare e
ritentare di ucciderli, prima i cuccioli, poi gli adulti, a
sperimentare le armi sui loro corpi, a sezionare i cadaveri dei loro
defunti per capire cosa fosse quello che gli anziani chiamavano
apparato del drago.
Nulla di tutto quello sarebbe servito a qualcosa e sua sorella sarebbe
morta solamente per un capriccio del destino.
Ogni dubbio che fino ad allora era rimasto sopito sotto il guscio
asettico della maschera che gli era stata donata da bambino,
cominciò come un tarlo a scavargli il cervello, facendogli
perdere parte della sicurezza in cui aveva sempre riposto la
sua forza.
Il suo pugnale brillava debolmente di un riflesso rossastro sotto il
ventre del re dei draghi, quasi implorasse il suo padrone di portare a
termine ciò che aveva cominciato.
Il duello a pochi passi da lui infuriava, ma ai suoi sensi pareva non
essere altro che una scaramuccia lontana.
Con un rumore umido le mascelle del rettile si aprirono quel poco che
bastava per permettere alla carne carbonizzata, che era rimasta
intrappolata tra le lucenti zanne, di cadere a terra spargendo il suo
odore nauseabondo tutto attorno.
Quei pochi stralci di carne e quei frammenti che dovevano essere state
ossa erano tutto ciò che rimaneva dell’uomo con il
potere più temibile che le Terre avessero mai visto.
- Razer! –
Una voce tuonò il suo nome, facendogli tremare le gambe al
solo udirla.
Ebbe appena il tempo di voltare lo sguardo dalla scena macabra per
vedere un’asta scintillante roteare nell’aria
serale, andando a conficcare la sua punta nel terreno a pochi
centimetri dai suoi piedi.
L’uomo dagli occhi profondi guardò la lama
spezzata con un senso di turbamento, per poi raccoglierla con cura. La
lama che gli era stata lanciata doveva essere appartenuta a una lunga
spada, come tradiva il filo sbeccato in più punti, ma
nascondeva la sua reale età dietro un acciaio che,
nonostante i trattamenti che doveva aver subito ultimamente, continuava
ostinatamente a scintillare.
Si voltò quindi verso il colosso squamoso, con una luce
diversa nelle pupille. Avrebbe dimostrato a tutti quello che era
realmente in grado di fare. Avrebbe vendicato tutti i morti che lo
rincorrevano.
Strinse la lama, facendo attenzione a non far calare le proprie dita
sul filo.
Non poteva pensare di uccidere il colosso che gli svettava davanti con
quell’arma, non avrebbe mai potuto imprimere una forza
sufficiente per perforare quelle squame lucenti con la presa incerta
che poteva permettersi.
Fissò con una ritrovata fiducia il muso del drago.
Lo avrebbe ucciso, si disse.
I suoi piedi si mossero quasi da soli nella direzione del suo nemico e
la sua mente si strinse in uno stato unicamente devoto al
combattimento. Rimosse tutto intorno a lui, così come quando
si posava la maschera sul viso.
In quel momento non c’erano altri che lui e la sua preda.
Una zampa arancione impattò sul suolo a poca distanza da lui
e, benché il tremore della terra e la folata provocata lo
fecero incespicare, le suole delle sue scarpe non abbandonarono il
suolo al quale ritmicamente si ricongiungevano.
Doveva colpire là dove le zampe anteriori andavano a legarsi
al torso, dove le squame si facevano meno spesse per non intralciare i
movimenti della bestia.
Doveva essere veloce e preciso e lo avrebbe sicuramente azzoppato.
Il corpo del trentenne dal polpaccio ustionato risplendette
violentemente, emanando un acre odore di mana consumato che
riempì la percezione dell’armatura bronzea e quasi
gli diede il capogiro.
La piana per qualche istante perse il colore autunnale di cui il sole
morente l’aveva tinta, assumendo invece tonalità
che ricordavano un paesaggio riflesso su uno specchio d’acqua
limpida.
Le pupille di Sharadan si strinsero fino a diventare poco
più che dei tagli nelle iridi brunite, mentre il suo ruggito
si spandeva in aria.
La lama sbeccata si piegò appena di lato, in modo da
assumere la stessa angolatura che possedeva quella spalla muscolosa.
Razer socchiuse gli occhi in modo da farli riabituare prima alla luce
naturale che era tornata ad illuminargli il cammino. Respirava a fatica
dopo lo sforzo che aveva appena compiuto, ma sapeva che ne era valsa la
pena, poteva vedere il punto che avrebbe colpito proprio davanti a lui.
Qualcosa lo colpì al fianco, tanto forte da mozzargli il
respiro e fargli avvertire distintamente qualcosa nella sua cassa
toracica che perdeva la sua normale forma.
La massiccia coda del drago terminò la sua larga spazzata
scaraventando l’uomo a terra.
Un secondo ruggito iracondo riempì le orecchie sibilanti del
draghicida.
Razer cercò di alzarsi prontamente in piedi, ma una fitta al
fianco destro lo costrinse a piegarsi su sé stesso,
facendogli tossire il suo stesso sangue vermiglio.
La lama spezzata della spada era ancora in suo pugno, sporca della
linfa vermiglia fluita fuori dai polpastrelli che, nello scontro, si
erano appoggiati sul suo filo.
Una rabbia bruciante gli gonfiò il petto.
La punta di quell’arma rotta si piantò nel
terreno, per aiutarlo nell’impresa di farlo rimettere ritto
sulle sue gambe tremanti.
La mano libera corse alle sue labbra, pulendole dal sangue che era
rimasto.
I larghi occhi del drago parevano schernirlo, mentre
l’imponente bocca continuava ad aprirsi e chiudersi di pochi
centimetri, come se si stesse ripulendo degli ultimi rimasugli rimasti
dell’uomo che aveva incenerito.
La mente di Razer si chiuse ancor più in sé
stessa, eliminando ogni urlo di dolore che il corpo martoriato potesse
provare a gettare.
Lo avrebbe ucciso.
Il collo del drago ebbe uno spasmo, segno che l’Apparato del
Drago stava per rilasciare l’inferno che covava al suo
interno.
Nessuno di quei piccoli segnali era sconosciuto alla memoria muscolare
dell’uomo. La sua mente, meccanicamente, riportò
alla luce ogni informazione che aveva raccolto e imparato da quando i
draghi lo avevano lasciato orfano.
La fiammata sarebbe cominciata come una striscia frontale e solo in un
secondo momento si sarebbe allargata lateralmente, seguendo
l’apertura di quelle fauci.
Aveva poco tempo per spostarsi.
I muscoli delle sue gambe si contrassero, pronti a scattare come una
molla carica.
Le labbra del drago si scostarono appena e, da lì, si
poté intravedere il bagliore delle fiamme risalire la gola.
Nell’esatto momento in cui le lingue di fuoco lasciarono
l’antro dal quale erano nate, Razer si gettò a
sinistra, cercando di non pesare sul fianco ferito.
La fiammata pareva allargarsi per inseguirlo nella sua corsa.
Il calore cominciò ad insinuarsi sotto la stoffa sgualcita
degli abiti del trentenne, facendogli colare gocce di sudore lungo la
schiena, che tracciarono lunghi solchi nello sporco che lo ricopriva.
La lama spezzata si mosse infine verso il terreno, conficcandosi nel
piccolo spazio che separava le dita artigliate della creatura.
Sharadan emise un ruggito di dolore, spandendo ancor più la
fiammata ovunque muovesse il capo, per poi estinguere
l’inferno nato dalle sue viscere.
- Come hai osato ferire il re dei draghi, piccolo parassita? Io sono
Sharadan, figlio di Vanenir II, discendente di uno dei draghi
leggendari e della prima regina della mia gloriosa razza. Io sono il re
e signore dei draghi, le mie fiamme ardono nella sala del trono dei
signori, nelle viscere di El Terano, sulle ceneri lasciate da quelle
dei miei avi. E tu, piccola mosca, pagherai per le tue offese.
– La voce del sovrano usciva ovattata dalle fauci
di quella bestia.
Razer alzò lo sguardo in direzione del muso squamoso,
sorreggendosi sulla lama che era riuscito a piantare nella carne di
quella zampa.
L’uomo sputò a terra la saliva mista a sangue che
gli riempiva la gola, boccheggiando in cerca di aria.
Non riusciva a trovare il fiato per parlare, ma non sarebbe caduto
finché quella creatura non fosse stata divorata dal suo
stesso fuoco.
Le fauci di Sharadan scattarono verso il suo aggressore serrandosi con
uno schiocco secco.
Razer rotolò a terra, inebriato come un ubriaco dal dolore
che ormai percorreva in lungo e in largo il suo corpo, coprendo ogni
sensazione che questo potesse provare.
Sopra i suoi occhi, ora, l’immenso petto del drago gettava la
sua ombra, contraendosi ed espandendosi come un mantice in una fornace
divina.
La sue mani si mossero disperatamente attorno al suo corpo, trovando
pace solo quando una di queste cadde sulla ruvida elsa del pugnale che
aveva sostituito quello perso ad Aravan.
Poteva far sì che tutto finisse in quel momento.
Doveva solo alzarsi e conficcare quella lama d’acciaio
là dove l’Apparato emanava il suo tepore.
Disperatamente ogni muscolo del suo corpo si impegnò nel
sollevare il peso di quel corpo, avvicinando sempre più il
pugnale a quelle squame lucenti.
Il drago sopra di lui, intanto, si muoveva goffamente, cercandolo
mentre tentava di liberarsi da quel pungiglione metallico che si era
fatto strada nel suo corpo.
Con un ultimo, esausto, sforzo, Razer riuscì ad appoggiare
la punta di quella lama sotto il ventre della creatura che sopra di lui
si muoveva, premendo contro la corazza naturale con quanta forza gli
era rimasta.
La pelle coriacea si lasciò trapassare, permettendo
all’arma di entrare in quel corpo e al sangue bollente di
fuoriuscirne e colare sulle braccia dell’uomo dal polpaccio
ustionato, che non demorse.
Bastavano pochi centimetri e tutto sarebbe finito in una fontana di
fuoco.
Il coltello riuscì a penetrare ancora un poco in quella
carne, per poi vedersela portar via, mentre le ali membranose portavano
in alto il corpo di quella creatura.
Razer guardò il re dei draghi allontanarsi verso il cielo
che gli era precluso, con lo spirito in frantumi e la pelle delle mani
arrossata dal liquido bollente che le aveva ricoperte.
Il coltello cadde a terra quando le dita non riuscirono più
a reggerlo, per poi venir raggiunto dal corpo del suo proprietario, a
stento cosciente.
Sopra di lui Sharadan ruggiva vittorioso, preparandosi a liberare
un’ultima volta l’inferno su di lui.
La vista di Razer si fece fumosa, permettendogli di riconoscere
solamente un opale di fuoco che fendeva il cielo serale.
Nelle sue orecchie risuonavano lontani e riverberanti i colpi che le
due spade si scambiavano, ma non fu in grado di capire da che parte
questi provenissero.
Dannazione, non dovevo
lasciare tutto a lui.
Non posso intervenire
abbastanza velocemente.
Cioè, potrei,
ma se lo agguantassi alla velocità necessaria per
raggiungerlo di lui rimarrebbe una poltiglia.
…
Dannazione!
Sharadan ridiscese fiero verso il terreno, con il ventre gonfio.
Le sue ali batterono per riposizionarlo sulla traiettoria che gli
avrebbe permesso di non interferire con lo scontro in cui era vista
impegnata Johanne Fenter.
La sua coda guizzò tra le correnti, domandole in modo che
non gli fossero d’intralcio nella discesa.
I muscoli del petto si tesero.
La gola fece largo alle fiamme che la risalirono.
Le fauci tremarono, cercando di trattenere per un ultimo secondo quel
getto rosseggiante.
Una pioggia carminia si riversò sulla terra.
Razer sentì il suo corpo bruciare, mentre la sua vista si
tingeva di rosso.
La terra tremò, sollevando un polverone che per decine di
passi impedì a qualunque forma di stagliarsi nitida.
L’uomo dal polpaccio ustionato si rialzò a fatica
in piedi, avvertendo distintamente il sangue bollente colargli lungo il
corpo e scottargli la pelle.
Zoppicò in avanti, trascinandosi a tratti, mosso unicamente
dal desiderio di vedere il suo nemico crollato a terra.
La mole del drago era scompostamente abbracciata al terreno sformato,
circondata da un corteo funebre di polvere e detriti. Nel suo cranio
diversi buchi quasi perfettamente circolari si erano aperti e, da
questi, ne fuoriuscivano altrettanti spuntoni neri, coperti di sangue e
materia organica.
Razer si piegò sul muso del cadavere, stringendo tra le mani
la sua mandibola e costringendo il proprio corpo a un ultimo sforzo per
separare le due chiostre di denti l’una dall’altra.
Dallo spiraglio che si creò nella gabbia d’avorio
si fece largo un’ovale nero, seguito da
un’indistinta forma a questo legata.
Solo quando la creatura informe si fu completamente trascinata sul
terreno smosso la crisalide nera che l’avvolgeva si
ritirò all’interno di quelle membra.
Noir tossì più volte, desideroso di respirare
aria fresca.
I suoi vestiti erano stati completamente ridotti in stracci che solo in
piccola parte riuscivano a rimanere attaccati a quel corpo provato per
desiderio di pochi fili integri.
In più punti la pelle dell’uomo era stata spaccata
dalla furia del suo potere, così come i muscoli sottostanti,
permettendo a Razer di intravedere le ossa sottostanti. Non una singola
goccia di sangue, però usciva da quelle ferite, dove la
carne viva era ricoperta da uno spesso crosto di materia nera.
Non appena il discendente di Reis ebbe ripreso fiato a sufficienza,
guardando il cielo con sguardo spiritato, urlò con quanta
aria i suoi polmoni potessero permettersi di contenere, portandosi le
mani al volto per scacciare la tensione.
Una sola delle due, però, raggiunse il suo viso.
In preda al terrore l’uomo dai capelli neri si
cercò di mettere seduto, ma qualcosa mancò di
fungergli da appoggio, facendolo cadere sul fianco sinistro.
Razer fu mosso da un senso di pietà per l’uomo
seminudo che gli stava di fronte.
Buona parte del suo corpo era stato protetto dal suo potere, ma, ora,
due moncherini anneriti dalle fiamme di Sharadan si muovevano
convulsamente. Il primo poco sopra il gomito sinistro,
l’altro all’altezza del femore di quello stesso
lato del corpo.
Il draghicida si piegò su di lui, aiutandolo a mettersi
seduto e compensando l’appoggio che quegli arti non potevano
più offrirgli.
Con il dissiparsi dell’adrenalina che lo aveva mosso, il
trentenne dal polpaccio ustionato cominciò a sentire sempre
più distintamente le fitte lancinanti risalire dal fianco
contro cui aveva impattato la coda del drago. Là, si rese
conto abbassando lo sguardo, la sua camicia si era tinta di vermiglio.
La testa del draghicida perse di nuovo un attimo il contatto con la
realtà, rimanendoci aggrappata labilmente. Persino la spalla
dell’uomo che gli stava accanto perse di consistenza sotto le
sue dita.
Angolo dell'autore:
Sono qui, sono di nuovo qui con buone nuove.
Ho smesso di scrivere da una settimana, non sto scherzando. Ho finito.
Non ho più nulla da raccontare, a me stesso, quantomeno.
Per quanto riguarda voi ho ancora due capitoli di storia da regalarvi.
Per darvi una piccola preview di ciò che vi aspetta, posso
dirvi che il prossimo tratterà di dubbi esistenziali,
pinguini e collaborazioni. E forse ci sarà un piccolo extra
nato in un mio momento di delirio, ovviamente dedicato ai pinguini.
L'ultimo capitolo sarà, come di consueto, un epilogo, o
meglio, un'epilogo degli epiloghi.
Ma, soprattutto, ho voglia di finire questa maratona che porto avanti
da tre anni. Voglio concludere questa trilogia, voglio arrivare ai
ringuraziamenti finali, voglio potervi chiedere di lasciarmi una
recensione riguardante TUTTA la mia trilogia, dagli albori ad ora.
Torno a pubblicare tutti i venerdì.
L'ho detto.
Ci sarà il capitolo la settimana prossima e quella ancora
dopo e lì tutto si concluderà.
Ho tutto pronto, potrei accelerare ancora più i tempi, ma mi
pare esagerato.
Per il momento, alla prossima.
Grazie a tutti voi.
Vago
|
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Capitolo 62 *** Capitolo 27.5: Giuria e carnefice ***
L’armatura prendeva via via sempre più confidenza
con l’arma che impugnava.
Ogni parata o colpo che la vedeva protagonista risvegliava in lei
ricordi delle battaglie passate.
Il volto della donna di fronte a lei virava costantemente
dall’autocompiacimento alla rabbia,
dall’indignazione alla fiducia in sé.
La lama nera si muoveva rapida quanto la Spada degli Abissi
mossa dalla mano della creatura bronzea, forse addirittura
più velocemente, come se in quell’acciaio fosse
rimasto ancora un rimasuglio della volontà del suo
forgiatore e il Giudice Maggiore se ne inebriava, permettendo a quegli
echi di una volontà passata di utilizzare il suo braccio
come mezzo per raggiungere il suo scopo.
I capelli biondi ricadevano sporchi sul viso della donna, coprendo i
suoi occhi alla vista del suo avversario, ma lei pareva non prestarci
attenzione, né esserne disturbata.
Il mondo, per qualche istante, si accese di blu e delle sue gradazioni
di colore, come se un vetro colorato fosse stato frapposto fra gli
occhi di ciascuno e le figure che ad essi si mostravano.
All’interno della tenebra che albergava dentro
l’elmo si andò ad intrufolare un acre odore di
mana, disorientando per un attimo la creatura che animava
quell’armatura.
La spada nera parve accorgersi di quell’incertezza,
scivolò lungo tutta la lunghezza della lama eterea,
stridendo, nel tentativo di superare la guardia di quell’arma
e ferire il suo portatore.
L’armatura fu costretta per la prima volta
dall’inizio di quello scontro ad allontanarsi di un balzo
dalla sua avversaria, scuotendo l’elmo e ciò che
vi albergava per dissipare quel capogiro che l’aveva colta.
Epica è
davvero fuori allenamento.
Era riuscita a fare ben
più danni, all’epoca, benché ci stesse
cercando di proteggere.
Taci per un momento.
È
sufficientemente fastidioso essere costretto ad ascoltare i deliri di
questa donna, non affollare la Trama anche con i tuoi commenti fuori
luogo.
L’armatura si riscosse, rinvigorendo i tizzoni che le
illuminavano lo sguardo.
Nuovamente le spade cozzarono l’una contro l’altra,
saggiando la reciproca tempra.
- Perché semplicemente non ti arrendi? Hai già
perso una volta contro quest’arma, perché pensi di
poter cambiare questo risultato? – un sorriso tra il sornione
e il compiaciuto si fece largo sul volto in parte coperto dai capelli
dorati.
Dall’interno dell’elmo si levò uno
sbuffo di irritazione, mentre la lama azzurra calava nuovamente
là dove sperava di trovare uno spiraglio attraverso il quale
farsi strada.
- Tu non sai niente e, se solo fossi a conoscenza di ciò che
è avvenuto in passato, mi temeresti. –
Johanne Fenter spinse con il proprio corpo contro la sua spada,
vincendo lo scontro di forza e facendo nuovamente allontanare le due
lame.
- Questa lama ti conosce, me lo ha detto. Conosce ogni tua mossa e non
ti teme. Noi vinceremo. Avremo la meglio su di te e sul Viandante.
–
Non è
possibile che quella spada abbia una coscienza.
È solo
un’arma.
Deve essere
l’eco del suo padrone, come l’ha chiamato Commedia?
Follia.
Durante i nostri scontri
deve avermi studiato e capito.
Devo superarmi. Devo
essere meglio di quanto non fossi allora.
…
Chissà che fine ha fatto l’altro pezzo. Sono quasi
sicuro che ce lo fossimo portati dietro nella prima parte della caduta
…
Commedia!
Si, si, certo. Ho capito.
Me ne sto qui a
guardarti combattere.
…
Se non fosse che se quel
drago …
L’armatura fu costretta a fare un passo indietro, non
più perfettamente concentrata sull’avversaria che
le stava di fronte.
- Hai capito di quale potere sono entrata in possesso? Io ti
batterò, ti schiaccerò e non rimarrà
nessuno che si possa levare al di sopra dei mortali di questa terra.
–
- Fraintendi le mie azioni. Ti posso assicurare che il mio principale
nemico, al momento, non sei tu … -
- Puoi rintanarti dietro le tue scuse per tutto il tempo che vorrai, ma
questo non ti salverà dalla realtà che ti sta
venendo incontro. –
La spada nera si mosse nuovamente con rapidità sovrumana,
mietendo l’aria in attesa di qualcosa di materiale attraverso
cui farsi strada.
Vedremo se
sarà abbastanza bravo da sfruttare il mio aiuto.
Commedia, smetti di chiacchierare! Sei destabilizzante!
La Spada degli Abissi deflesse maldestramente l’attacco,
costringendo il polso del suo possessore a ruotare più di
quanto questo avesse voluto.
Un secondo colpo della lama nera volle sfruttare
quell’apertura, euforico
dell’opportunità che gli era stata data.
Si, si. Ora penso a te.
…
Devo solo capire come.
Vediamo …
L’armatura fu costretta ad indietreggiare e la spada nera,
ancora, non affondò in nulla.
La terra tremò lievemente quando una delle possenti zampe di
Sharadan andò ad impattarci contro, permettendo ai due
avversari di riposizionarsi e azzerare i passi che ciascuno aveva fatto
in direzione della propria vittoria.
Smettila!
Stai solo un attimo zitto!
- La vedi la differenza tra di noi? Il signore dei draghi mi ha
promesso la sua fedeltà, quasi la totalità delle
razze sottostà alle mie regole e voi, che non siete
né dei né mortali, cosa avete dalla vostra parte?
Neppure quell’uomo che sembrava poter avere
un’influenza sulla mia spada ha potuto fermarmi. –
Un ruggito tonante scosse l’aria, coprendo ogni altro suono
udibile.
Se mi lasciassi un
attimo tranquillo potrei anche pensare a come aiutarti con
quell’ubriacona.
Ma cosa …?
- Crepa maledetta. Fai la fine che ti avrebbero dovuto riservare i miei
predecessori. –
Lo scontro riprese, ma nessuna delle due parti parve voler perdere
terreno sull’altra. Le due lame si muovevano come se stessero
seguendo un balletto dai passi studiati e memorizzati, in cui entrambe
si inseguivano in una spirale che non voleva chiudersi addosso a
nessuno.
… In
realtà potrei avere assi nascosti e dimenticati in tutto il
corpo.
…
Sarà una
lunga ricerca. Dovrei fare un po’ di pulizia.
Ti prego, stai zitto per
un secondo e lasciami finire questo combattimento in santa pace.
L’armatura riuscì a fare un passo avanti, rompendo
per un attimo la guardia del Giudice Maggiore, ma non bastò
il fluido movimento che concatenò a quel primo colpo per
ferire quel nemico, mosso dalle memorie della sua arma.
In quel momento, una lucente fiammata accese di rosso le placche
metalliche che ricoprivano il corpo di quella creatura, gettando
addirittura in ombra i tizzoni che ardevano nelle sue orbite oscure. Ne
seguì un altro ruggito che i due avversari a stento udirono,
concentrati l’uno sull’altra.
… Uhm.
…
Questo l’avrei
dovuto buttare secoli fa.
…
Ah, ecco qualcosa che mi
potrebbe essere utile.
L’armatura bronzea perse il passo di vantaggio che aveva con
così tanta fatica conquistato, non riuscendo a fronteggiare
completamente la forza con cui la lama nemica le era arrivata contro.
Ti scongiuro, mi sta
scoppiando la testa.
Epica, ti ricordi come
ho fatto a non farti uccidere, quella volta?
Le spade continuavano a cozzare l’una contro
l’altra, instancabili, quasi non potessero far altro per il
resto della loro esistenza.
- Quando capirai la tua inferiorità? Quando ti piegherai al
mio volere? -
Cosa c’entra
ora?
L’armatura dovette fare un passo indietro per colpa di una
falla nella sua concentrazione sulla battaglia che la vedeva partecipe.
Pensa solo che stia per
rifare una cosa del genere.
Adesso.
Reagisci di conseguenza.
E fidati.
…
Il cielo si tinse di rosso, centinaia di piccole gocce vermiglie
cominciarono a cadere su quella terra priva di vita, sulle quali il
sole morente che quasi aveva raggiunto il limitare del suo regno
cercò di dipingere il suo arcobaleno.
Un urlo che conteneva in sé tracce di rabbia e dolore
scaturì dalla bocca del Giudice Maggiore che, coperta dal
sangue bollente del re dei draghi, perse la tranquillità che
aveva segnato il suo viso, abbandonandosi a una furia che
deformò i suoi lineamenti delicati in uno sguardo di odio.
- Io ho ben più di un popolo dalla mia parte. –
disse piano l’armatura, incurante se la sua avversaria
potesse sentire la sua voce attraverso lo scroscio della pioggia di
sangue e il cozzare delle lame.
L’essere che teneva in pugno la Spada degli Abissi si
abbassò all’improvviso, come per evitare la carica
di un nemico invisibile che le si era avventato contro alle sue spalle.
Mi sono fidato.
La spada dalla lama nera concluse il suo arco, pronta a ricadere verso
il basso, dove il suo avversario non avrebbe potuto evitare il suo
tragitto.
Nella pioggia di sangue un coltello da lancio risplese, roteando su
sé stesso tra le gocce fino a conficcarsi nella fronte di
Johanne Fenter, facendola cadere a terra priva di vita.
Questo era il mio ultimo
asso nella manica.
Almeno quei quattro
mocciosi possono dire che non mi dovranno più un favore.
Questa non è
un’arma creata da te, vero?
È
un’altra lunga storia. Diciamo che gli dei non sono gli unici
che mi dovevano dei favori.
Un artiglio nero nacque dal petto di Noir, collassato a terra e si
avvinghiò sotto gli occhi allarmati dell’armatura
alla lama della spada nera, trascinandola fino al suo proprietario.
Lì quella propaggine perse parte della sua
solidità, avvolgendo quell’arma antica con le sue
spire e costringendola a fendere il corpo di Noir.
Al passaggio di quella lama, però, non seguì
nessuna ferita, come se la melassa che gli riempiva le vene
l’avesse resa parte di sé.
È finita?
Quella spada non
tornerà più a minacciarci?
Non ne ho idea, ma credo
che sia questo che mi spingerà a fare molte altre cose, in
futuro, e, possibilmente, lontano da questo lembo di terra.
Devo ancora andare a
controllare se i pinguini sono sopravvissuti al Cambiamento, me lo ero
ripromesso.
I pinguini?
Lascia stare,
è un discorso troppo complicato e dovrei tornare indietro di
un secolo per spiegarti tutto.
Ora, piuttosto, dobbiamo
pensare a recuperare l’armatura che quella codarda di Sarah
Dan Rei si è portata via.
Angolo dell'Autore:
Piccola nota iniziale:
Questo angolo è diviso in due, la prima parte è
un mio classico delirio e, se non avete voglia di leggere un
approfondimento, se così vogliamo chiamarlo, sui pinguini
citati in questo capitolo potete saltarla, la seconda avrà
dei toni leggermente più seri.
Pinguini.
A volte la mia mente funziona in maniera strana. Non illogica, solo
strana. Con il tempo ho imparato a convivere con questa sua
caratteristica, testualmente "fidandomi del me del passato",
perchè so che, bene o male, nella stessa condizione ho le
stesse idee, per quanto tempo possa essere passato.
Molto spesso faccio atti di fede, sperando di aver, di nuovo, avuto la
stessa idea che mi era arrivata in passato.
Lo stesso vale per i pinguini.
Voglio rendervi partecipi di una delle conversazioni medie che ho con
la Beta-reader che permette a questi capitoli di giungere a voi in
maniera leggibile. In questa in particolare spiego, anzi narro, come si
sia svolta la stesura di questo capitolo, lascio la parafrasi in coda.
Era una sera tendente alla notte buia e tempestosa, per quanto per
dirso tempestosa ci sarebbe dovuto essere un forte vento, mentre quella
sera la pioggia cadeva perpendicolarmente al terreno. Dunque, quindi,
sarebbe più corretto dire che era una sera tendente alla
notte buia e piovosa e il nostro eroe dai capelli quanto più
possibilmente in disordine potessero essere sedeva chino su una sedia
dell'Ikea scomoda e neanche lontanamente ergonomica ma, per quanto
potesse detestarla, non aveva altra seggiola rimasta per lui nella
stanza della casa paterna.
Il computer acceso sulla scrivania gettava una fredda luce lattiginosa,
pur screziata dai riflessi vermigli gettati dalla retroilluminazione
della tastiera del suddetto portatile.
I suoi occhi continuavano a saltare tra le righe del capitolo ormai
quasi ultimato che gli stava di fronte, mentre la mano dominante gli
grattava il capo, scompigliando, se possibile, ancor di più
la sua capigliatura nera.
I suoi pensieri erano rivolti al trovare una chiusura d'effetto alla
narrazione su cui si era cimentato, cercando di dipingere davanti ai
suoi occhi cosa il personaggio in questione avrebbe potuto pensare in
un momento simile.
Si ricordava, in un anfratto della sua mente contorta, che quel
personaggio bramava il poter esplorare quel nuovo mondo in cui si
trovava. Ed ecco che da quel pensiero ne nacque un altro come se una
lontana parte del suo essere gli stesse suggerendo che in un lontano
passato aveva discusso della fredda e desolata Antartide.
Può una persona cambiare così tanto da modificare
anche i processi mentali che contraddistinguono i suoi deliri?
Si fidò dunque di quel pensiero errante, legandolo a un
terzo anello di quella catena che andava a formarsi. Perché
mai avrebbe voluto andare in un posto simile, vista l'indole con la
quale lo aveva dipinto? Cosa mai poteva averlo spinto a scrivere di
quel luogo in passato?
Un'altro pensiero errante, disperso tra i meandri del tempo e delle
sinapsi, vagante per quei luoghi probabilmente preposti alla
glorificazione di quella bevibile creazione umana detta alcol, gli
suggerì un'idea, un concetto metafisico e concreto
racchiudibile in nessun modo se non con una singola, semplice parola.
Pinguini.
L'eroe dalla barba che cresceva scompostamente sul mento
corrugò la fronte, cercando di capire cosa quella parola
volesse significare e per quale aulica ragione un volere superiore
gliel'avesse donata.
Pinguini.
Quale oscura verità si poteva celare sotto quelle lettere,
di quale dimenticato dio erano esse messaggere e profeta?
Seppur questo eroe non potesse fregiarsi divina memoria ferrea, gli
parve di aver già sentito quella parola e che le sue dita
già altrove avessero osato digitare quei sacri caratteri.
Egli, allora, osò affidarsi a quell'istinto atavico che lo
aveva sfiorato per rivelargli la verità, osando narrare nel
suo lavoro del desiderio di incontrare codeste creature coltivato nel
cuore del suo personaggio.
Seppur è vero che per pochi minuti la bestia fatta di
istinti che in lui si celava aveva preso il sopravvento, la ragione
ebbe da dire la sua, prima di concedergli il lusso del riposo al
termine del lavoro. Così, con una conclusione di capitolo
che narrava di Pinguini già pronta, andò a
cercare la siddetta parola nelle sue precedenti opere, meravigliandosi
di come la tecnologia gli avesse reso così facile
individuare dove, effettivamente, aveva osato incidere quella parola.
Bene o male, seppur con la predominanza del male, ho detto qui sopra
che è successo.
Con una catena di ragionamenti dettati probabilmente dalla stanchezza
mi è tornato alla mente il desiderio di Commedia di vedere
che fine avessero fatto i pinguini (capitolo 15 della mia prima storia,
"Messi ai voti", se vi interessa andare a controllare. Quale
meravigliosa funzione il "trova" di word) e mi sono fidato di
quell'istinto, per poi andare a verificare di non essermi confuso con
qualcos'altro.
Pinguini, quindi.
Tornando seri e cercando di essere breve, per lo meno ora.
La prossima settimana uscirà l'ultimo capitolo, l'epilogo di
questa storia e di questa trilogia. Come vi ho detto la settimana
scorsa, è già pronto per essere pubblicato.
Nel mentre sto perdendo tempo, publlicando assolutamente in maniera
casuale e non studiata, una volta ogni tanto, una raccolta di oneshot
in cui mi sgranchisco le dita. Queste, per lo meno, ho la certezza che
non diventeranno una "Corsa contro la Fine 2.0", una storia che
prospettavo breve e che è finita per essere composta da 38
capitoli e vantare più recensioni di quante ne abbia viste
la prima parte di questa trilogia che si sta per chiudere.
Voglio lascaire lo sguardo al passato per il prossimo capitolo,
così come i ringraziamenti.
Oggi voglio parlare un po' dei miei programmi per il futuro.
Sicuramente ho intenzione di chiudere questa storia, terminare la
microraccolta di oneshot e, nel mentre, magari, passare qualche esame
universitario. Tutto questo ci porterebbe circa a marzo 2019.
Ho due nuove storie in mente, totalmente diverse da tutto quello che ho
fatto finora.
Una la vedrei veramente bene immortalata sulle tavole che compongono un
fumetto ma, ahimè, se son poco bravo a scrivere, lo sono
ancor meno a disegnare. Quella storia starà a prendere
polvere ancora per un po'.
L'altra ha l'intenzione di essere molto più simile a una
serie tv, divisa in episodi che ancora devo capire se sono da
racchiudere in un'unico grande tomo o se fare una storia a "saga"
potremmo dire. I temi principali saranno l'investigazione e il
paranormale macchiato di fantasy. Voglio poter parlare di licantropi e
spettri, di fantasmi, fate e banshee e di poter ambientare il tutto tra
le strade fumose e grigie di una metropoli.
Voglio una squadra, da gestire, voglio un cattivo con, perdonatemi il
termine, i controcoglioni e voglio scostarmi da quello che ho fatto
finora.
L'unica certezza che ho, e la cosa non so se mi piaccia o mi faccia
dispiacere, è che lo spirito del Viandante
aleggerà ancora, perchè e difficile, quando si
scrive, eliminare completamente parte della propria
personalità.
Vedremo.
Non mi dispiacerebbe, infine, allargare i miei orizzonti. Devo solo
decidermi a creare una copertina sotto cui pubblicare queste storie su
Wattpad. Mi sono lamentato tanto di questo sito e, comunque, non mi
sono mai deciso a provare altro. Certo è che non
abbandonerò questa piattaforma, che mi ha svezzato come
autore.
Di nuovo, vedremo.
Io vi ringrazio tutti per essere arrivati fin qui.
Alla settimana prossima, con l'epilogo degli epiloghi.
Vago |
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Capitolo 63 *** Capitolo 181: Epilogo della Trama ***
L’armatura si mosse in direzione di occidente, fronteggiando
le ultime auree rossastre che il sole riusciva ancora a gettare su
quella terra coperta di cadaveri.
Lo spettro la raggiunse svogliatamente, con gli occhi splendenti fissi
su un punto non ben definito del cielo.
Che schifo…
E... che schifo. Ogni volta finisce sempre così, con questo
gusto amaro sulla lingua, certo, se solo avessi una lingua...
Questa volta ho vinto? Non riesco ad esserne sicuro.
Commedia, quindi questa
è la Trama da quando la hai sigillata? Questo groviglio di
fati?
Oh, si, ma ci farai
l’abitudine con il tempo.
Intendi dire che riesci a
leggerla?
Si, la maggior parte
delle volte. Sempre ammesso che un semidio impazzito non mi trafigga o
che non mi trovi di fronte a dei Buchi della Trama.
Ultimamente quei
maledetti si sono fatti dannatamente numerosi.
Non sarà un
lungo inseguimento, allora, quello che ci attende per riprenderci
l’armatura di Aria.
Riesci a leggerla, quella
donna, non è vero?
Sì, non
è stata influenzata così tanto dal Giudice
Maggiore da diventare anche lei un Buco.
Ma il nostro eroico
inseguimento non è necessario.
Cosa stai dicendo? Vuoi
lasciare un artefatto forgiato direttamente dagli dei in mano ai
mortali?
Sei totalmente impazzito?
Probabilmente
sì, la mia mente non è più
perfettamente sana, ma mio malgrado so ancora capire quando qualcosa
potrebbe rivelarsi fastidioso, in futuro.
...
Hai voglia di metterti alla prova nel tiro con l’arco?
Cosa pensi che le mie
frecce possano farle, anche riuscissi a colpirla?
Ti ho chiesto se vuoi
metterti alla prova, non di colpirla.
Se solo la colpissi non
scalfiresti nemmeno quelle piastre.
Dovresti colpire Sarah
Dan Rei esattamente tra la seconda e la terza vertebra, se davvero
volessi ucciderla.
Cos’è
questa pazzia, come credi che un colpo del genere possa superare le
difese di un’armatura divina?
Lo spettro ruotò il capo di scatto in direzione
dell’armatura, stringendo gli occhi fino a farli diventare
due fenditure dorate. Il manto fumoso che lo rivestiva si mosse
stizzito attorno alle sue forme celate.
Ti voglio raccontare una
storia, parla di un’elfa che aveva appena superato i
vent’anni, costretta a combattere una guerra che sembrava
persa in partenza.
Ella avrebbe potuto
indossare qualsiasi armatura, qualsiasi elmo, nascondersi nella
più profonda delle fosse, ma una freccia si sarebbe fatta
strada tra la seconda a la terza vertebra del suo collo, uccidendola.
Questo perché era scritto nel suo destino.
Sono state forgiate
quattro di quelle armature, di cui una è stata destinata a
lei.
Persino se gli dei
avessero anticipato il loro dono lei sarebbe morta.
Come fai a dirlo?
Sarebbe potuta diventare
un Buco nella Trama, l’intervento divino può far
saltare i punti fissi dei destini.
Non in quel caso. Non ho
mai letto le pagine a lei dedicate, ma so per certo una cosa, non
c’era modo di farla vivere.
Come puoi esserne
così sicuro?
Tu hai provato a salvarla?
Io ero lì.
In mezzo alla ressa del
combattimento io ero lì e li stavo proteggendo con tutte le
mie capacità, per quanto non mi fosse stato ordinato.
Non sono riuscito a
salvare lei.
Non sono riuscito a salvare nessuno di loro.
Sono morti in quattro,
quel giorno, davanti a me senza che potessi far nulla per far saltare
quel punto fisso e, credimi, ho tirato con tutte le mie forze.
Cinque, per quanto il
desiderio di morte del quinto fu di porre rimedio al volere del Fato.
Ti è
sufficiente come risposta?
L’armatura non rispose, rimanendo in silenzio per qualche
secondo mentre i tizzoni che ardevano all’interno del suo
elmo scorrevano sui versanti montani che, dal baratro ai suoi piedi, si
dispiegavano.
Perché non
l’hai fatto tu, visto che già sapevi di questo
difetto?
Guarda
laggiù, oltre la Grande Vivente, oltre Gerala e Derout,
oltre il mare, oltre il Gorgo del Leviatano, oltre all'Isola dei
Draghi, al Continente, ad Aravan e tutto quello che
c’è alle loro spalle.
Il paesaggio si andava scurendo oltre i picchi della catena dei Monti
Muraglia, aspettando che la luna sorgesse per illuminarlo con la sua
luce argentea.
…
Cosa dovrei guardare? Gli
astri?
Non mi pare che la loro
posizione sia variata più di tanto durante la mia prigionia.
È
l’astro che non puoi vedere quello al quale mi stavo
riferendo.
Davanti a quel sole
morente ho promesso che al calare delle tenebre non avrei
più ucciso nessuno.
Io la spintarella nella
direzione giusta te l’ho data, ora tocca a te farne quello
che vuoi.
Tornerai mai ad essere il
Commedia di cui ho ricordi?
Lo spettro si allontanò da ciglio della Terra degli Eroi,
dirigendosi in direzione dei due uomini malconci che tentavano di
rimettersi in piedi a poche decine di metri da lui, inseguito solo dal
denso fumo nero che ne nascondeva le forme corporee.
Alle sue spalle, l’armatura bronzea perdeva di
consistenza come un miraggio del deserto al calare della notte. Sotto
al chiarore della luna, a guardare la distesa di picchi che,
avidamente, cercavano di trattenere un po’ della neve caduta
nell’inverno passato, rimase solamente una giovane fanciulla
patita, con appena delle chiare vesti leggere a coprire il corpo
asciutto che non si sarebbe detto capace di affrontare neppure una
folata di vento.
Una brezza fredda spazzò la piana, trascinando con
sé odore di sangue e cenere.
La nube dello spettro ne rimase quasi indifferente, rimanendo
saldamente ancorata al corpo che la vestiva.
La veste che ricopriva mollemente il corpo della fanciulla si
gonfiò al passaggio di quegli odori pesanti, mostrando per
pochi attimi una pallida schiena deturpata da orrende cicatrici dovute
a uno scorticamento appena al di sotto dei corti capelli castani
tagliati sommariamente e del collo che questi faticavano a nascondere.
Non ti sei ancora
stancata di quella forma?
Ho bisogno di avere i
miei errori sempre davanti agli occhi per potermi migliorare.
Fai come vuoi.
Per lo meno potevi non
imitare le ferite che ti provocai. Quelle non sono dovute a un tuo
errore.
…
Nelle mani della fanciulla comparvero un lungo arco ligneo, leggermente
intagliato solo là dove le dita andavano a chiudersi sulla
sua superficie, e una singola freccia dal piumaggio dorato e dalla
punta splendente.
Lo spettro raggiunse i due uomini, guardandoli per un momento
attraverso gli occhi splendenti che deturpavano il suo volto oscuro
privo di lineamenti, dal quale parve venire espulso il viso
dell’elfo dai capelli neri e la guancia tatuata.
Le dita sottili incoccarono la freccia, tendendo la rigida corda di
quell’arco ben oltre le capacità che quelle
braccia fini dimostravano di possedere.
L’elegante lunga giacca nera ricadde attorno alle gambe
dell’elfo, assorbendo in sé ogni rimasuglio della
nube che ancora cercava di vorticare nell’aria, mentre i suoi
piedi si fermavano poco distante da quelli dei due mortali a cui era
andato incontro.
Una nuova folata gelida accarezzò il viso della fanciulla
armata, pulendole le labbra dal sospiro che ne stava uscendo.
L’elfo tatuato appoggiò le dita sulle spalle di
Noir, facendo fluire da quei polpastrelli uno spesso tessuto che
potesse proteggere quelle membra provate e menomate dall’aria
della notte.
Gli occhi dorati si strinsero come quelli di un falco che sta per
agguantare la propria preda nella sicura stretta dei suoi artigli.
La mano dell’essere dalla ciocca bianca corse poi al volto di
Razer, impattando non troppo gentilmente su quei lineamenti duri.
La corda dell’arco fu lasciata libera di tornare in una
posizione a lei più congeniale, trascinando con
sé la freccia che le era stata affidata.
Una materia bianca, come dotata di vita propria, eruttò dal
palmo dell’elfo per avvolgere il volto del draghicida con
furia animalesca.
La freccia ruotava appena lungo il suo asse, viaggiando indisturbata
dalle correnti e accompagnata dal frusciare del piumaggio che le stava
in coda.
La creatura in abiti eleganti allontanò il proprio arto
dalla faccia dell’uomo che gli stava di fronte, leggermente
proteso in avanti con le braccia strette al petto.
Sarah Dan Rei non si voltò mai verso la vetta mozzata dalla
quale scappava, fiduciosa della protezione dell’armatura che
le era stata affidata. Non si voltò né quando i
distanti ruggiti dei draghi facevano vibrare l’aria
né quando il silenzio calò luttuoso alle sue
spalle.
Sarebbe stata lei il seme per il futuro del loro circolo. Sarebbe
ripartita da quell’armatura tramandata come quella donata a
Trado dell’Aria dagli dei stessi e dai manufatti incantati
che avevano raccolto e custodito i suoi predecessori.
Nulla sarebbe cambiato.
Avrebbe trovato altri che, come lei e come colui che l’aveva
reclutata, sapevano di essere superiori alla feccia che riempiva le
città e il treno che aveva fatto costruire.
I sentieri sotto i suoi stivali metallici erano troppo impervi per
permetterle di muoversi agevolmente, ma il desiderio di allontanarsi il
più possibile dal re di quella catena montuosa era
sufficiente a non farle rallentare il passo, per quanto incespicante
potesse essere.
La fanciulla si permise di chiudere per un istante le palpebre,
tornando a far circolare aria dentro il corpo che vestiva.
La melma bianca si irrigidì sul volto di Razer, definendo
una superficie senza imperfezioni rotta da un largo sorriso ad arco e
due U rovesciate là dove dovevano esserci gli occhi.
- Perché? – riuscì a scandire il
draghicida, sfilandosi la maschera candida dal viso.
- Perché voglio credere che questa maschera non
diventerà un simbolo di morte. Voglio che ogni volta che la
guarderai, ti ricorderai che, se mai dovessi tornare sui tuoi passi,
questa non sarà l’unica cosa che ti
porterò via. –
- Ci lasci qui così? –
- Si. Vi lascio entrambi qui. Ormai non potete correre più
rischi per colpa mia e, quindi, non sono tenuto a portarvi lontano.
– Gli occhi verdi dell’essere si posarono su Noir,
ancora seduto a terra, per poi tornare a rivolgersi agli occhi profondi
dell’uomo che gli stava davanti – Lui potrebbe
essere un buon modo per ripartire, Razer. Andate a Gerala, in uno dei
piani più bassi della città
c’è un medico che sa utilizzare la magia, dovresti
conoscere la zona, dico bene? –
- Si, ma… -
- Dicevo, potrebbe essere una buona idea andare da lei. Portategli la
lama della spada che ti ho lanciato e il coltello con cui è
stata uccisa il giudice Fenter e ditegli che vi manda il Servitore del
Fato. Non farà troppe domande. –
L’elfo si voltò, riprendendo a camminare con
sguardo deciso in direzione della fanciulla. La Spada del Fato sembrava
intravedersi attraverso la pelle e i vestiti che ricoprivano il suo
braccio destro, nel quale quell’arma albergava.
La punta della freccia si insinuò precisa nel piccolo
spiraglio che l’elmo lasciava scoperto alla base del collo,
dividendo chirurgicamente le due vertebre che sotto a quel lembo di
pelle in vista si nascondevano.
Sarah Dan Rei cadde a terra sul sentiero che stava percorrendo, i suoi
occhi vitrei guardavano ancora fissi davanti a loro.
È finita, ora?
…
Si. È
finalmente finita.
…
La realtà si frantumò come uno specchio colpito
da un sasso attorno alle due creature, il tempo si distorse mentre lo
spazio diveniva un concetto che non riusciva a trovare una propria
dimora in quel luogo.
Oh, ti prego, ho solo
voglia di andarmene e dimenticare gli ultimi millenni.
L’elfo e la fanciulla si ritrovarono trasportati di fronte a
un largo tavolo circondato da dodici sedie, di cui solo una era
occupata. Poco lontano giacevano scompostamente per terra i pezzi
lucenti dell’armatura di Aria.
Un uomo distinto li guardava compiaciuto, con uno spesso tomo rilegato
in pelle nera appoggiato di fronte a sé.
La fanciulla si genuflesse al suo cospetto, piegando il capo in segno
di rispetto.
Dalla lunga giacca che copriva le spalle dell’elfo si
levò uno sbuffo stizzito di fumo scuro che rimase ad
aleggiare intorno a lui. La sua mano scese in direzione della
fanciulla, quasi strappandole di mano la spada dall’eterea
lama azzurra per appoggiarla sul tavolo che gli stava di fronte,
accanto ad essa fece cadere la lama argentea della Spada del Fato,
partorita dal suo braccio.
- Cosa vuoi ancora da noi, vecchio? – chiese la creatura
dalla ciocca bianca – Abbiamo finito, laggiù, ho
restituito quello che vi avevo chiesto in prestito, ora lasciaci
andare. –
Commedia!
Oh, si. Questa
è un’altra delle cose che ti sei persa.
Io e nostro padre
abbiamo sviluppato un rapporto… complicato. Diciamo che
è cominciato tutto quando mi ha trascinato qui appena reduce
dalla vostra scomparsa per assistere all’esilio di un semidio
malvagio nel Creato, o per lo meno credo che sia nato in quel momento.
- Commedia, credi davvero che il tuo lavoro sia finito? Le tue azioni
hanno avuto ripercussioni ovunque. – L’uomo
aprì il libro che gli stava di fronte, facendo scorrere le
pagine di fronte ai suoi ospiti per mostrare le decine di pagine
rovinate e imbrattate che le riempivano.
- Cosa dovrei fare io? Non sono un restauratore. –
- No. Tu sei una Musa. Riprendi in mano la mia spada. –
Svogliatamente l’elfo recuperò dal tavolo
l’arma splendente, vedendola mutare tra le sue dita in una
lunga penna nera dalla punta sporca d’inchiostro scuro.
- Potrai liberarti di quella piuma e di questo libro solo quando avrai
sanato tutti gli strappi che ti sei lasciato dietro nel tessuto della
realtà. E, ricorda, il libro sceglie sempre quali pagine
mostrare al suo lettore. –
Gli occhi dell’uomo si spostarono sulla fanciulla
inginocchiata reverenzialmente.
- Per quanto riguarda te, Epica, anche tu dovrai scontare i tuoi debiti
con il Creato. Ti avevo affidato la mia arma perché tu
potessi proteggere i tuoi fratelli e le tue sorelle e tu hai fallito.
–
- Ne sono consapevole, padre. Accetterò qualunque pena voi
decidiate. – rispose la fanciulla senza alzare lo sguardo da
terra.
Gli occhi dell’uomo si accesero di una luce divertita.
– Bene, in questo caso ecco la mia decisione.
Finché Commedia non avrà terminato il suo
compito, sarai costretta a rimanere al suo fianco. Questo è
il mio mandato per te. –
- Ma padre! – provò a replicare la fanciulla,
senza trovare parole per proseguire.
Lo specchio della realtà si ricompose, tornando a riflettere
la vetta mozza del Flentu Gar.
Le due creature erano ancora una a fianco dell’altra, a
fissare un punto inesistente verso occidente.
L’elfo guardò infastidito il libro che reggeva tra
le mani, aprendolo con un gesto di stizza.
Decine di pagine rovinate da righe d’inchiostro e strappi
nella carta si presentarono davanti a lui come soldati in formazione.
Si fermò ad una pagina a caso.
Razer Donier.
Riprese a far scorrere le pagine con ancor più risentimento
nei loro confronti, bloccandone poi una tra le dita.
Noir Drakar.
Dannazione, non mi
dà nemmeno l’impressione che sia una mia scelta il
fato su cui mettere una pezza.
Le pagine ripresero a scorrere sotto le sue dita, senza voler accennare
a giungere a quelle finali di quel volume.
Si bloccarono ancora.
Elise Barran.
Gli occhi dell’elfo saettarono sulle righe tracciate su quel
foglio, in cerca di una risposta al dubbio che lo aveva colto.
La sua fronte piatta si corrugò.
È la
ragazzina che è stata salvata da Noir.
Quella che, diventando
un Buco nella Trama senza un apparente motivo mi ha permesso di
ritrovarlo mentre scappava.
Con quale dannata logica
mi stai proponendo su chi devo concentrarmi, maledetto libro?
Le pagine tornarono a scorrere, libere da vincoli.
La mano magra della fanciulla si frappose sulla loro via, arrestando
quella corsa.
Là dove le pagine erano riuscite a completare la loro corsa
riposava una pagina miracolosamente intatta, dall’altra parte
si poteva vedere solo l’interno della copertina rilegata del
tomo.
Cosa ci sta cercando di
dire…?
La creatura dal volto femminile alzò delicatamente la mano,
rivelando un foglietto che non sembrava far parte di quel volume che si
era nascosto sotto il suo palmo.
L’elfo lo raccolse con attenzione tra i polpastrelli,
studiandolo con le iridi color smeraldo.
La sua mano cominciò a tremare mentre lo ruotava leggermente
per permettere alla creatura al suo fianco di leggerne il contenuto.
Storia
Epistola
Melodia
Epica
Terrore
Passione
Commedia
Tragedia
Danza
Mistero
Mito
Profezia
Non era altro che una lista di parole, o nomi, appuntati malamente,
frettolosamente, con una grafia che a stento ricordava quella curata
delle pagine che riempivano quel libro.
Molte di queste erano state barrate da una mano che non sembrava la
stessa che le aveva scritte.
Tu credi che…
Il libro sceglie sempre
quali pagine mostrare al suo lettore, no?
Ma questo è
troppo!
Noi non abbiamo una
pagina dedicata in questo libro, noi siamo al di
sopra di ogni fato, siamo liberi dal filo che conduce alla meta
successiva!
Ho mio malgrado scoperto
che non siamo così al dì
sopra dei destini, purtroppo. O per fortuna, visto che
quest’informazione mi è valsa la più
importante delle vittorie.
E se fosse?
E se nostro padre ci
avesse voluto dare
quest’opportunità, alla fine di tutto?
Ma come poteva sapere?
Lui non ha controllo su
cosa facciamo!
Epica, non lasciarti
sopraffare.
Nostro padre
è sicuramente il primo delle persone rimaste in
grado di parlarmi che detesto, ma devo ammettere che ci è
sempre stato centinaia di passi avanti.
Cosa intendi dire?
Ho passato alcune
fasi… complicate, nell’ultimo
secolo. Mi sono dovuto ridurre alla mia materia elementare per salvarmi
da morte certa, sono sceso sul campo di battaglia più volte
contro nemici che mi erano superiori…
E lui era sempre
lì, al momento giusto. Per quanto facessi
quello che ritenevo corretto, avevo sempre l’impressione che
fosse esattamente quello che lui voleva da me.
Poteva lasciarmi
ribollire in una pozza ai piedi di un vulcano per
qualche decade, ma ha voluto donarmi il suo sangue perché io
fossi presente nel combattimento finale e non ho mai capito
perché avesse riposto così tanta fiducia in me.
Ora mi viene da
chiedermi se ogni sua azione fosse stata pianificata
perché io compiessi i suoi piani…
Ed ora? Cosa facciamo?
Non so cosa faremo.
So cosa
sceglierò di fare io, come ho sempre fatto.
E poi, finalmente,
sarà finita.
E andrai a vedere come
stanno i pinguini?
Si, ma non solo. Ho un
po’ di esplorazione di questo mondo in
arretrato.
Hai ancora intenzione di
esplorarlo con me? Come ai vecchi tempi?
L’elfo sorrise sommessamente.
Allora le mie visite non
erano solo tempo perso…
La punta della penna nera si andò ad appoggiare sul
foglietto appoggiato alla copertina, pronta a fare ciò per
cui era stata creata, pronta a lasciare alle sue spalle un solco pregno
di inchiostro.
Angolo dell'Autore:
Siamo dunque arrivati a quel
momento.
Ho finito.
Ho finito un lavoro che mi porto dietro da anni.
MI mancherà tutto questo. Mi mancherà questo
mondo, con le sue guerre e i suoi abitati. Mi mancheranno i miei
prescelti, ognuno di loro, dalla prima all'ultima era. Mi
mancherà il mio Commedia, il mio Viandante, il mio Vander,
il mio Comvia, il mio commissario biondo e il mio Servitore del Fato.
Mi mancherà questo pantheon. Mi mancherà tutto
quello che ho costruito in questi anni, appoggiando strato su strato i
fogli con cui ho scritto questa storia.
Non mi sentivo così da quando ho concluso Corsa contro la
fine. Fa male al cuore sapere che tutto questo è finito.
Mentre sospiro e ricaccio le lacrime da dove sono arrivate,
permettetemi di fare i dovuti ringraziamenti.
Innanzi tutto, quelli tra di voi che posso dire di aver "conosciuto"
meglio.
OldKey, o come si è
più volte definita la mia prima follower. In parte
è colpa sua se sono arrivato fin qui.
la ragazza imperfetta, che mi ha
sopportato negli ultimi mesi leggendo e correggendo ogni capitolo che
vi è arrivato.
whitesky, che mi ha accompagnato per una
lunghissima tratta di questo viaggio.
EragonForever, che mi ha aiutato a
diventare un autore migliore e che, so, presto si rimetterà
in pari con questa storia.
Ma non meno importanti sono tutti gli altri che mi hanno dato un segno
tangibile del loro passaggio e del loro apprezzamento. Grazie a ognuno
di voi, perchè mi avete dato un valido motivo per coltivare
questa mia passione, che ogni settimana eravate a leggermi, in silenzio
o meno, che mi avete sopportato nei miei deliri e nelle mie
elucubrazioni.
Vorrei potervi nominare tutti per nome, ringraziarvi uno a noi,
nonostante siate centinaia,
se non migliaia,
ad aver visitato alcuni miei capitoli, vorrei poter dedicare del tempo
ad ognuno di voi.
Ma non posso farlo, non ho il nome di tutti voi sotto mano.
Farò quello che posso, ma, se il tuo nome non compare sotto,
sappi che lo vorrei poter aggiungere, perchè è
anche grazie a te che tutto questo è avvenuto e che ha
raggiunto la sua meta.
God of Lies
Laurelindorean
Laly of the Moonlight
Lion_Shamsi
Onyx Crysus
TotalEclipseOfTheHeart
dany the writer
Shegar
Kira Diana
ladyathena
hola1994
TaliaMorrissey
Tu. Proprio tu, che mi stai leggendo
ora, anche se il tuo nome è già stato scritto.
Ripetere ogni tanto non fa poi così male.
181 capitoli. Cento-ottantuno capitoli. Tre anni. Un lungo viaggio,
è stato questo, non c'è che dire.
Ora, però, mi tocca mettere per un attimo la maschera di
quello rompiballe.
Ho davvero bisogno che voi facciate qualcosa per me, ora.
Ho scritto tutto questo tempo sia per me che per voi, ho tirato dritto
come un treno in corsa, ed ora che sono arrivato nell'ultima stazione
ho BISOGNO di sapere cosa ne avete pensato voi del viaggio.
Vi prego, dunque, di lasciarmi scritto, anche in poche righe o parole,
cosa nel pensate di tutto questo. Ho bisogno di sapere cosa ne pensate
voi della storia, della trilogia, di tutto quello che ho prodotto.
Voglio migliorarmi e, per farlo, ho bisogno di voi.
Qualcosa non andava? Fatemelo presente.
Qualcosa vi è piaciuto più del resto? Ditemelo.
Ho necessità di avere un feedback, ora, da parte vostra.
Qualunque sia il momento in cui arriverete qui, vi prego, lasciatemi
una traccia dei vostri pensieri. Anche a distanza di mesi o anni.
Non ho più nulla da dire.
Mi sento vuoto e avrò bisogno di un po' di tempo prima di
smettere di aspettare la mezzanotte che separa il venerdì
dal giovedì per pubblicare.
Grazie ancora a tutti voi, per tutto.
Per l'ultima volta tra le pagine di questa trilogia.
Vago.
Spero ci rivedremo presto da qualche altra parte. |
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